Come in un Sogno di IoNarrante (/viewuser.php?uid=122990)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 5: *** EPILOGO ***
Capitolo 1 *** Capitolo 16 ***
CAPITOLO 16
Viene un
giorno nella vita di un uomo in cui è costretto a mettere da parte
tutte le sue
angosce, i suoi pensieri, i problemi che gli opprimono il cuore
soffocandolo
lentamente e dolorosamente per un fine più grande, un obiettivo che si
è prefissato
fin da quando gli è stato messo un pallone tra i piedi.
Ecco. Quello
era il mio momento.
Mi ero alzato
dal letto quella mattina, dopo aver passato la notte completamente in
bianco,
con l’unico pensiero della partita. Celeste era stata spinta a forza e
relegata
in un angolo lontano della mia mente, lasciando spazio solamente agli
schemi di
gioco e alla concentrazione. Non c’erano parole d’incoraggiamento, non
c’erano
speranze, ma soltanto un obiettivo: la vittoria.
I quarti di
finale erano a pochi passi da me, avrei potuto sfiorarli con le dita e
sentire
la consistenza del successo tornare ad essere tangibile dopo quelli che
sembravano secoli. Era vero, in quel periodo la mia carriera mi era un
po’
sfuggita di mano, ma ora dovevo riprendere tutto e concentrarmi. Anche
se
dentro sentivo un vuoto enorme, come se una voragine si stesse
lentamente
aprendo dall’epicentro del mio cuore, lasciando assorbire tutto ciò che
di più
umano avessi al mondo, dovevo farmi scivolare le preoccupazioni di
dosso.
Ora che ero
abbandonato di peso su una panchina negli spogliatoi, con i gomiti
poggiati
sulle cosce e la testa racchiusa tra le mani. Avevo infossato le dita
tra i
capelli. I corti riccioli scuri scivolavano tra i polpastrelli ruvidi,
rovinati
da anni e anni di allenamenti e corse sotto la pioggia battente. Me ne
stavo a
pensare, da solo, come altri miei compagni più emotivi del
sottoscritto, che a
pochi minuti dalla partita più importante della nostra vita si
ritagliavano un
angoletto, magari per pregare qualcuno lassù che ci potesse aiutare.
Vuoi che reciti il Padre
Nostro?
Inspirai
profondamente ignorando quel pungente pensiero del mio Ego. Non ero mai
stato
un tipo religioso. Da piccolo ricordavo che mia madre mi obbligava ad
andare in
chiesa, ma non appena avevo cominciato a giocare, le Domeniche erano
state
riempite unicamente dagli allenamenti, dalle partitelle o dalle gite
allo
stadio per vedermi giocare. Non c’era mai stato nella mia vita lo
spazio per
qualcun altro che non fosse Leonardo stesso. In quel momento mi sentii
profondamente solo, quasi smarrito.
Strinsi le
mani a pugno, conficcandomi le unghie nel palmo per poi riaprire la
mano e
vedere delle piccole mezze-lune impresse sulla carne. C’era così tanto
di me
scritto su quel lembo di pelle, una volta mi feci leggere la mano da
una
indovina.
Tutte stronzate.
Era difficile
ignorare ciò che stavo tentando inutilmente di impormi, focalizzando i
pensieri
unicamente sulla partita. Non c’era in gioco soltanto il destino della
società,
ma anche il mio futuro. Se la Roma fosse arrivata alla semifinale,
sicuramente
ci sarebbe stata più visibilità per tutta la rosa, soprattutto per il
sottoscritto. Se il mio desiderio di giocare in un club inglese si
fosse
finalmente avverato, almeno avrei potuto allontanarmi definitivamente
da Roma e
magari iniziare una nuova vita, senza più pensieri per la testa.
Nessuno più
ad intralciare il mio percorso verso la carriera perfetta.
Verso il
pallone d’oro.
Verso una
vita che mi avrebbe permesso al mio nome di riecheggiare in eterno…
…tra la solitudine dei
ricordi.
Scacciai via
quel pensiero, insieme ad un lungo brivido di freddo. C’erano degli
spifferi in
quello spogliatoio, forse l’aria densa e umida di Londra non mi avrebbe
fatto
bene. Alzai di poco lo sguardo sul muro e vidi l’orologio che segnava
mezz’ora
all’inizio del big match.
Mi tesi come
una corda di violino.
Solitamente
affrontavo le sfide di petto, fregandomene altamente dei risultati
perché ero
più che sicuro di spaccare in qualsiasi cosa facessi, che si trattasse
di
calcio, di donne o altro. Questa volta mi sentii improvvisamente debole.
Non è che ti stai ammalando?
«Bella
Leona’, nervoso?» mi domandò d’improvviso Marco, sedendosi di peso
accanto al
sottoscritto.
Lo fissai di
sottecchi e sbuffai. Certo che ero nervoso, cazzo. Ero teso come una
fottuta
corda di violino!
«No. Sto
sciallo,» mentii tranquillamente, ormai mi riusciva così bene.
C’era ancora quel
pensiero che tornò preponderante
nella mia testa, come un tarlo che scavava lentamente nel legno
guadagnando centimetri
nella mia materia grigia.
Quella poca che ti è rimasta…
Borriello mi
fissò sospettoso. «Non me la racconti giusta, ma farò finta di
crederti,»
sorrise sbieco.
Più passavo
del tempo insieme a Marco e più realizzavo che magari in un’altra vita
aveva
fatto lo psicologo, o qualcosa che andasse di gran lunga vicino a
quella
professione. Era come se dietro quello sguardo si nascondesse un
pensiero ben
più profondo, come se riuscisse a capirmi quasi meglio di me stesso.
«Te, invece?»
gli domandai, riferendomi sempre all’ansia prepartita.
Marco scrollò
le spalle, poi alzò lo sguardo verso gli altri che nel frattempo si
stringevano
le stringhe degli scarpini o si aggiustavano i parastinchi. «Sai come
la penso.
O la va o la spacca stasera. Non importa se vinciamo o perdiamo,
l’importante è
fare il culo a quel cazzone di tuo cugino,» sghignazzò, tirandomi di
gran lunga
su il morale.
Se c’era una
cosa con cui mi sarei trovato d’accordo persino con un laziale, sarebbe
stato
Simone. Odiavo profondamente il suo comportamento strafottente e quella
presunzione che mi sbatteva in faccia ogni volta che ci vedevamo.
«Puoi dirlo
forte. A costo di consumarmi i polmoni, questa sera farò avanti e
indietro pur
di fargli sparire quel sorrisetto dalla faccia,» promisi, con
l’adrenalina che
scorreva nelle vene.
«Bene,»
sorrise Marco. «È così che ti vogliamo, Sogno. Carico!»
Sorrisi a
Borriello e dimenticai completamente quegli asti che c’erano stati tra
di noi
in tutti quegli anni che avevamo giocato l’uno affianco all’altro. Alla
fine
grazie a Marco avevo capito molte cose di me stesso e mi costava molto
ammetterlo, ma Borriello era quanto più vicino ad un amico avessi nella
mia
vita.
Prima che la
situazione potesse calare in un silenzio imbarazzante, il Mister
Montella fece
il suo ingresso nello spogliatoio e il brusio calò immediatamente,
riducendo il
tutto ad un silenzio ovattato.
La tensione
in quella stanza si poteva tagliare con un coltello.
Il Mister si
posizionò proprio al centro della sala, con tutti gli occhi puntati su
di lui.
Sapevo che era venuto il momento del “discorso” d’incoraggiamento, uno
di quei
memorabili dialoghi da film epici come Ogni
maledetta Domenica.
Quella che
stavamo per affrontare sarebbe stata la partita del secolo. Non era
certo la
finale, per quella c’era ancora tempo, ma di sicuro era un passo
importante per
tutti, in particolar modo per il sottoscritto.
«Ragazzi
miei, questa sera affronteremo una delle sfide più ardue ma non per
questo
impossibili da superare,» iniziò, con la voce calma e rilassata. Era
entusiasmante con quanta passione affermasse quel “noi” in tutti i
discorsi che
iniziava, quasi come se il Mister giocasse ancora con noi, fianco a
fianco,
senza mai lasciarci. Tutti pendevano dalle sue labbra, compreso il
Capitano che
annuiva convinto. «Siamo stati molto bravi ad arrivare fin qui, sono
anni che
la società non raggiunge un risultato così ampio, ed è proprio per
questo che
non possiamo gettare la spugna. Almeno non ora. Dobbiamo insistere,
combattere
come gladiatori, quasi ne valesse la nostra vita.»
Lasciò calare
il silenzio, in modo che ognuno di noi potesse riflettere su quelle
parole.
Inspirai
forte tutta l’aria che riuscii a trattenere nei polmoni, cercando di
scacciare
via una strana sensazione alla bocca dello stomaco. Avevo tutte le
carte in
regola per sfondare, avrei potuto facilmente vincere tutto, eppure era
come se
non mi sentissi sicuro.
Come se non
fossi completo.
Almeno non più.
«Oggi non vi
chiedo di fare miracoli, perché non pretendo nulla da voi, ma so che
avete le
possibilità e le qualità di vincerla questa partita. Io credo in voi e
nel
vostro talento, quindi non deludetemi,» soffiò infine, con la voce
lievemente
incrinata dall’emozione.
Nessuno
rimaneva impassibile di fronte ad una delle sfide più importanti della
stagione.
Avevamo fatto
tanto per arrivare sino a lì e forse era la prima volta che cominciavo
a
pensare al “noi” come squadra e non solo a Leonardo Sogno. Forse
davvero mi
sentivo diverso dal me stesso di un mese prima.
Chissà per quale arcana
ragione…
Tentai di
sforzarmi per non pensare a quello, a quel
pensiero che cercava di incunearsi nella mia mente e spingere per poter
entrare, ma io lo respingevo fuori. Dovevo concentrarmi, non potevo
permettermi
altri errori.
Già avevo
mandato a puttane una parte della mia vita, ci mancava anche
quell’altra. Alla
fine non mi sarebbe rimasto più nulla e sarei lentamente sprofondato.
«Forza
ragazzi, dobbiamo andare,» ci disse il Mister, battendo le mani con la
cartelletta degli schemi ferma sotto il braccio.
Il fatidico
momento era arrivato e nel momento stesso in cui mi alzai dalla
panchina, per
la prima volta sentii le gambe tremare leggermente. Non ero mai stato
un tipo
emotivo. Sin da piccolo ridevo in faccia al pericolo, come qualsiasi
adolescente
sprovveduto, ma una prima volta arrivava per tutti.
«Te senti
bene, bello?» mi chiese Daniele, vedendomi barcollante.
«Ovvio!»
rassicurai subito Capitan futuro.
La
sostituzione doveva essere l’ultimo dei miei pensieri. Quella partita
l’avrei
giocata, a qualunque costo, con quaranta di febbre oppure la nausea.
Ci avviammo
lungo il tunnel che conduceva al campo dell’Emirates Stadium, mentre i
miei
compagni cominciavano a scambiarsi battute e a sorridere per alleviare
la
tensione. C’era paura nell’aria, qualcosa d’intangibile che soltanto
poche
volte si era percepita.
Vidi capitan
Totti sfilarmi di fianco. Il suo sguardo azzurro come una falce
d’argento mi
inquadrò per un nano secondo, poi un lieve sorriso appena accennato fu
indirizzato al sottoscritto, prima di tornare ad ignorarmi.
Nonostante le
cose che gli avevo detto dietro, nonostante il mio desiderio di
prendere il suo
posto un giorno, oppure andarmene da quella squadra perché troppo in
ombra
rispetto ad un uomo ormai troppo vecchio per quel gioco, Francesco
Totti riuscì
in qualche modo a tranquillizzarmi senza nemmeno dire una parola.
«Nervoso,
cuginetto?»
Una voce
fastidiosa e pungente come mille aghi mi perforò un timpano proprio
quando
pensai di aver finalmente riacquistato un po’ di calma interiore. Mi
voltai
solo per incrociare gli occhi castano scuro dell’unico Sogno che avrei
odiato
ogni giorno della mia vita.
«Fottiti,
Simone,» gli ringhiai contro, mentre lo vidi fissarsi le unghie
ignorando
palesemente la mia minaccia.
Solo alla
fine rialzò gli occhi. «Sorry, hai detto qualcosa?» pronunciò,
lasciando
quel lieve accento britannico anche nella pronuncia italiana delle
parole. Di
sicuro una cosa dagli inglesi l’aveva ereditata alla perfezione, ed era
l’aria
snob.
Lo ignorai
fissando avanti il tunnel che si apriva sotto i miei occhi, così
cominciai a
saltellare sul posto per riscaldare i muscoli. Sentivo che Simone mi
stava
ancora fissando. Quel suo sguardo bruciava come fuoco sulla mia pelle
ma tentai
di farmi forza. Parlando con lui avrei finito unicamente per
innervosirmi ed
era quello che avevo tentato di evitare sin dall’inizio.
Rimani concentrato.
«Sei conscio
che la perderai questa partita,» insistette Simone, sicuro di sé. «Tu e
la tua
squadretta di pezzenti non potete competere contro i Gunners, contro
una
squadra della Premier, contro un modulo di gioco che esula
completamente dal torello a cui siete abituati voi
montanari.»
Strinsi le
mani a pugno, facendomi forza. Avrei voluto urlargli contro che era
inutile che
si comportava in quel modo, come se lui fosse nato in Inghilterra e noi
non
condividessimo almeno un quarto dei geni. Certe volte gli avrei sputato
in
faccia la verità, perché per quanto si sforzasse a marcare quel
fastidioso
accento anglosassone, rimaneva sempre mio cugino, romano, italiano e montanaro come il sottoscritto.
«Faremo i
conti,» sputai a denti stretti, fulminandolo. «Alla fine, Simone.
Soltanto alla
fine.»
Quelle parole
suonarono come una vera e propria minaccia, ma sperai con tutto me
stesso che
la finisse di dare aria alla bocca. Nessuno della mia famiglia mi aveva
mai
ostacolato, ma Simo era stato l’unico che ce l’aveva sempre avuta col
sottoscritto. Sin da piccoli avevamo gareggiato su tutto, che si
trattasse di
finire per primo la pasta al sugo o di arrivare a livello sedici a
metal gear
solid.
Una vita di
eterna rivalità che forse sarebbe finita quella stessa sera.
Forse.
«Le tue
minacce sono inutili, cuginetto,» ridacchiò Simone, senza dar il minimo
peso
alle mie parole. Nel frattempo vidi arrivare a passo sostenuto l’ormai
famoso
allenatore dell’Arsenal, uno dei più forti a mio parere.
Mr. Arsene
Wenger camminò velocemente lungo il corridoio, dritto come un fuso, con
i
capelli bianchi che ondeggiavano ai lati del viso spigoloso. Simone si
ammutolì
al suo passaggio, quasi come quando mio padre passava a controllarci
per vedere
se ci scannavamo a vicenda o meno.
Era un
fottuto codardo, nient’altro che questo.
Vedemmo gli
arbitri in cima alla fila, vicino all’uscita del tunnel. Da quella
posizione
potevo intravedere il verde del campo e i cori già riempivano il
silenzio dello
stadio. Dalla televisione avevo appreso che molti tifosi avevano
lasciato la
Capitale per dirigersi a Londra con il primo aereo, solamente per
seguire la
squadra.
Magari
qualche tempo fa non me ne sarebbe fregato nulla, ma adesso era motivo
d’orgoglio per me.
Il via libera
ci fu dato qualche secondo dopo, quando sentivo ormai lo stomaco
rivoltato e
annodato su sé stesso. Forse non mi era mai importato nulla del futuro
come in
quel momento, adesso che mi rimaneva soltanto quella parte di vita a
cui
aggrapparmi con tutte le forze.
«Ci vediamo
al novantesimo minuto, non piangere mi raccomando,» mi avvertì Simone
col
solito ghigno elfico stampato in faccia.
Non gli
risposi nemmeno. Mi limitai a rifilargli un’occhiata mista tra il “Ti
incenerisco” e il “Prova a ripeterlo e ti incenerisco”.
Inspirai
forte, scacciando via la tensione che si stava accumulando, poi avanzai
lentamente verso le luci artificiali montate sopra la volta
dell’Emirates Stadium.
Per un momento quel tunnel mi parve infinito, quasi come se si
trasformasse a
poco a poco nella metafora della mia vita.
Ne avevo
attraversati tanti di tunnel così, a partire dall’indimenticabile
esordio in
serie A all’Olimpico, applaudito da tutto il popolo di Roma. Alla fine
la mia
intera esistenza, tutti i ventitré anni di Leonardo Sogno si riducevano
ad un
chilometro, forse meno, di pavimento in linoleum maleodorante e umido,
alla cui
fine si celava la vittoria o la sconfitta.
O bianco o
nero.
Il cinquanta
percento delle possibilità, perché non era quasi mai contemplato il
pareggio.
Nella mia vita non esistevano le sfumature, non c’era il grigio, forse
perché
troppo spento e triste per uno come me.
Avrei
preferito di gran lunga l’azzurro. Anzi no, il celeste.
Non ebbi
altro tempo per pensare. La luce stava diventando sempre più intensa,
passo
dopo passo, inghiottendo ogni fibra del mio corpo e costringendomi a
deviare lo
sguardo. Socchiusi le palpebre, ignorando il senso di solitudine, e
lasciai che
i migliaia di tifosi seduti sugli spalti fossero le uniche cose di cui
avessi
bisogno.
***
Londra era
una città ferma nel tempo, o almeno questa fu l’impressione che ebbi
appena
messo piede a King’s Cross.
Eravamo
atterrati ad Heatrow in orario e avevo passato la maggior parte del
tempo a
sentirmi stritolare la mano da un Robbeo frignante in piena crisi
isterica. Non
sapevo cosa lo avesse spinto a salire su un aereo, quando aveva paura
perfino
di affacciarsi fuori al balcone.
«Siamo
atterrati?» squittì.
«No.»
«Ora?»
«No.»
Lasciò
passare altri tre minuti, aumentando l’intensità della stretta e poi mi
cercò
con la coda dell’occhio.
«Manca poco!»
sbottai e Ven mi fissò incredula. Così come tutto il resto dei
passeggeri.
Ennesima
gaffe per colpa di quel fifone del mio migliore amico, ma c’ero
abituata.
Eravamo sulla
linea 97, quella che collegava King’s Cross al lato nord di Hyde Park,
dove
avevamo l’albergo. Cercai la testa fulva di Romeo, due sedili più
avanti,
intento in un’animata conversazione con un vecchietto.
Per lo più
era lui che parlava, rigorosamente in inglese, mentre il mio migliore
amico si
limitava ad annuire, seguendo qualche parola. Era buffo vederlo così e
dovevo
ammettere che mi era mancato in quei giorni.
«Insomma, non
è male evadere dalla realtà di tanto in tanto, no?» mi domandò la mia
migliore
amica, seduta al mio fianco.
Le sorrisi. «Per
ora sono felice,» le dissi.
Soffocai
mentalmente il ricordo di ciò che era successo in quei giorni,
seppellendolo da
qualche parte della mia mente. Ero venuta lì per rilassarmi, per non
pensare e
per dimenticare.
Venera mise
da parte la piantina della Tube che stava consultando e sospirò.
«Celeste,»
disse cauta. «Sei qui, nella capitale inglese, con i tuoi amici, in
vacanza.
Possiamo pensare esclusivamente a divertirci?»
Annuii
riconoscente.
Aveva
ragione. Per quanto ancora mi torturassi con tutta quella storia, mi
auto-distruggessi sino a soffocare, avrei rischiato col perdere quello
che
avevo.
Non ora che
finalmente io e Romeo avevamo ricucito la
nostra amicizia.
Arrivammo in
hotel e lasciammo subito le valigie in stanza. Scoprii che Romeo
avrebbe
condiviso la nostra stessa camera, essendo una matrimoniale con letto
aggiunto.
Ovviamente
Ven svenne di colpo.
Mentre le
sventolavo la piantina della Tube energicamente sul viso, sperando
riprendesse
i sensi in fretta, notai quanto quell’albergo fosse costoso. Mi stupii
che se
lo fosse potuto permettere, soprattutto per uno che andava in giro con
quel
pandino-killer.
Il mio lato
detective entrò subito in azione.
«Dev’esserti
costato un patrimonio portarci qui,» osservai.
Lo vidi
sgranare quei suoi limpidi occhi azzurri e annaspare in cerca d’aria.
Aveva
capito che non poteva avere scampo con me.
Basta bugie.
Si grattò la
nuca fulva nervoso. Era evidente che stesse prendendo tempo per poter
accampare
qualche tipo di scusa. Come poteva permettersi un viaggio a Londra per
tre
persone se nemmeno lavorava? Inoltre, come aveva fatto a prenotare quel
lussuoso hotel?
Mi diedi
della sciocca per non averci riflettuto prima.
«Senti Romeo,»
sbuffai stufa. Ero a tanto così dal mandare tutto all’aria e tornarmene
a Roma
col primo volo disponibile. C’era un limite alle bugie ed io lo avevo
oltrepassato.
«Sono davvero
stufa di tutti questi giochetti. Lo sento
che mi stai mentendo. Sputa fuori la verità!» gli intimai.
Romeo deglutì
a fatica, poi abbassò lo sguardo mortificato. «Non lo so.»
Ven scelse
proprio quel momento per rinvenire miracolosamente. Sospettai che non
avesse
avuto alcun tipo di malore e che stesse aspettando solo l’attimo adatto
per
intervenire.
«Ha trovato
tutto nella cassetta delle lettere,» spiegò lei. «Era una busta senza
mittente.»
Guardai i
miei due migliori amici sconvolta. «Mi avete mentito ancora? Dopo tutto
quello
che è successo?» sbottai.
Romeo si sentì
in dovere di intervenire. «Io non volevo! È stata la puffa!»
Ven lo zittì
subito con un gesto della mano, annoiata.
«Una piccola
bugia a fin di bene. Non sempre si mente per fare del male, Cel. Sai
che
esistono anche le bugie bianche,»
sospirò.
«Bianche?»
chiese Romeo confuso.
Venera roteò
gli occhi e sbuffò. «Davvero l’hai perdonato? Non possiamo
sbarazzarcene?»
«Ehi!»
protestò lui.
Bugie bianche. Bugie dette
a fin di bene. Menzogne che servivano unicamente a far star meno male
le
persone a cui si teneva.
Sapevo bene
il significato di quelle parole.
«Ciò non
toglie che mi avete mentito,» precisai. «Entrambi.»
Era passato
troppo poco tempo da Leonardo e dalla storia piena di menzogne che mi
aveva
propinato. Era stata dunque finzione sin dall’inizio?
Quel dubbio
atroce non faceva altro che logorarmi l’anima.
Stavi
aspettando pazientemente le scuse di uno dei miei due presunti
migliori amici, quando una chioma rosso fiamma attirò la
mia attenzione.
Era
impossibile scambiarla per qualcun altro.
«Annalisa…»
soffiai.
No. Non
poteva essere vero. C’era una spiegazione a tutto quello, ai misteriosi
“biglietti” apparsi nella cassetta della posta di Robbeo e alla
stranissima
coincidenza di quell’incontro.
Romeo fu più
veloce di me nell’alzarsi e nel raggiungere la ragazza coi tacchi a
spillo. Io
e Ven gli fummo dietro quando lui le strinse energicamente il polso,
bloccandole l’avanzata verso l’uscita dalla Hall.
I grandi
occhi verdi di Annalisa si spalancarono dalla sorpresa, così come la
sua bocca
carnosa che prese una deliziosa forma a cuore.
«C-Cos…»
balbettò incredula.
L’espressione
di sorpresa che aveva in volto sembrava sincera, come se non si
aspettasse di
vederci lì. Anzi, di vederlo lì.
Magari non
era stata lei a spedirci i biglietti.
E perché avrebbe dovuto
farlo, poi?
Già, non
aveva alcun movente. Non ci eravamo state simpatiche sin dall’inizio,
perché
avrebbe dovuto “farmi un favore”?
A meno che
non ci fosse sotto dell’altro…
«Cosa ci fate
voi qui?» chiese lei, abbandonando immediatamente quell’aria spaesata
che non
si addiceva al suo carattere viziato e arrogante.
Romeo
assottigliò lo sguardo. Non sapevo bene il perché, ma sembrava proprio
che ci
fosse del risentimento tra quei due, quasi come se avessero litigato.
«Dovresti
dircelo tu,» insinuai, magari avrebbe abboccato alla storia del viaggio.
«Non far
finta di non sapere dei biglietti,»
si aggiunse Robbeo.
Annalisa
spostò lo sguardo prima su di me, poi sul mio migliore amico. Sembrava
davvero
confusa e per quanto potesse essere falsa, quella non era finzione.
«Davvero,
siete fuori,» disse alzando le mani. «Io me ne vado.»
Venera la
bloccò parandosi davanti. «Quindi non sei stata tu a spedire i
biglietti aerei
con la prenotazione al tuo stesso
hotel a questo babbeo qui?»
Annalisa le
lanciò uno sguardo di fuoco. «Non chiamarlo così,» sibilò.
«Non so nulla
di questi biglietti,» aggiunse poi. «Questo non è solo il mio hotel, ci
alloggia tutta la squadra e lo staff.» Si spostò una ciocca di fulvi
capelli
dietro l’orecchio. «Ora devo proprio andare, c’è qualcuno che mi
aspetta e devo
prendere una macchina.»
Rimasi a
fissare il vuoto, metabolizzando ancora il fatto di poter incontrare
Leonardo
in qualsiasi momento. Anche ora che non ero affatto pronta.
Annalisa era
scagionata e per quanto facessi ormai fatica a riconoscere i bugiardi,
lei mi
sembrò sincera. Io però ancora non sapevo l’identità del misterioso
benefattore.
Romeo però mi
distrasse, perché scattò nella direzione della rossa e le si mise
davanti,
impedendole di uscire e raggiungere la berlina nera che attendeva in
strada.
«Aspetta un
attimo,» disse.
Sembrava
quasi una scena di un film d’altri tempi, proprio quando i due
protagonisti
raggiungono il climax.
Annalisa lo
fissò in tralice. «Cosa vuoi da me, eh? Ti sei spiegato benissimo
l’ultima
volta che ci siamo visti, so che razza di persona pensi che io sia.»
C’era
qualcosa che mi sfuggiva. Avevo come la sensazione che tra quei due
fosse nata
una specie di relazione che andava ben oltre il “reciproco sopportarsi”
che
fino ad ora ci avevano fatto credere.
«Forse
dovremmo…» tentai di dire a Ven, ma lei mi zittì.
«Fai silenzio
e goditi la scena madre,» mormorò risoluta. «Peccato non ci siano i
popcorn.»
«Non ho mai
detto questo,» ringhiò lui, serio.
Era raro
vedere Romeo con quell’espressione in volto. Con Anna, sembrava
un’altra
persona e lei era forse l’unica ragazza – tranne me e Ven ovviamente –
con cui
si comportava da persona normale, senza la necessità di fare in buffone
e di
farsi etichettare come un cretino.
«Ah no?» rise
lei, isterica. «Senza riserve, hai subito pensato che fossi stata io a
spifferare tutto, che avessi tradito la tua fiducia e quella di Sogno.»
Una lacrima
le sfuggì dall’occhio. Un lungo brivido mi fece accapponare la pelle.
Annalisa era
la dimostrazione vivente che anche la persona più stronza di tutto
l’universo
qualche volta veniva ferita. E che a farlo fosse stato Robbeo, mi
lasciava
allibita.
Si asciugò in
fretta il viso con il dorso della mano. «Non credevo di meritarmi
questo.
Pensavo fossimo amici.»
Lei e Romeo?
Amici?
«Siamo… amici,» disse
Romeo,
avvicinandosi.
In quel
momento mi sentii davvero di troppo, così cercai Ven per dirle di
lasciar loro
un po’ d’intimità – sembrava ancora strano, pensarlo – ma lei non
voleva
saperne di perdersi quella scena.
Annalisa era
ancora restia a lasciarsi toccare, soprattutto perché sembrava che il
mio
migliore amico l’avesse davvero trattata malissimo. Ed era incredibile
pensarlo
di uno come Robbeo.
«Mi dispiace,»
insistette lui, sfiorandole appena le dita. «Mi dispiace per tutto
quanto, per
come ti ho trattata, per quello che ho detto di te. Vorrei solo poter
tornare
indietro, sono stato uno stupido.»
Indietreggiai
lentamente, lasciando loro un po’ di spazio e mi trascinai dietro
Venera che
continuava a scalciare.
«Smettila.»
Anna stava
cedendo. Potevo vederlo riflesso nei suoi occhi lucidi e sentirlo nella
sua
voce incrinata dal pianto.
Allora mi
sovvenne il ricordo di Leonardo, il modo in cui mi aveva guardata
implorante
alla festa di J. e ai suoi tentativi di scusarsi. La scena mi parve
molto
simile, quasi sovrapponibile e mi fece star male.
Se ci fosse
stato un modo per quantificare il dolore, mi sarei trovata in bilico
tra due
orizzonti: da una parte c’era il perdono, la possibilità di passare
sopra tutto
e darmi un’altra chance; dall’altra ricordavo l’umiliazione della
menzogna e
del tradimento.
«Guarda che
per me non è stato facile credere che tu potessi davvero tenere ad uno
come me,»
continuò Romeo, stupendomi. «Ad una persona normale.»
Amare una
persona normale, comune. Uno come Romeo o come me… persone che non
avevano una
bellezza o un talento straordinari, che non avevano né soldi né fama.
Persone che
potevano dare soltanto loro stesse.
«Nemmeno io
credevo fosse possibile,» ripeté lei. «E questo fa ancora più male!»
Era ovvio che
fosse così. Quando si possedeva tutto, ogni cosa si desiderasse, come
si poteva
distinguere tra amicizia per interesse o per sentimento?
Annalisa era
la figlia del presidente della squadra di Leonardo e chiunque avrebbe
potuto
sfruttare la notorietà che sarebbe derivata dal frequentarla.
Compresa me
stessa.
Anche tu avresti potuto
approfittarti di Leonardo, della sua
fama se lui ti avesse subito rivelato la sua identità. Magari è stato
per
questo che ha mentito. Per proteggere sé stesso da quel mondo falso.
«Lo so, che
fa male,» continuò Robbeo. «Ma io ti
giuro che per me è stato tutto reale. Tutto quanto. Ogni pomeriggio
passato
a fare shopping con te, a reggerti le buste, a fare finta di essere il
tuo
amico gay o ad ascoltare i tuoi problemi. Tutto.»
Fu dopo
quelle parole che vidi il cuore di Annalisa sbocciare come un fiore a
primavera.
Lei si aprì
in un sorriso sincero e gli corse incontro, gettandogli le braccia al
collo.
«Che scena
disgustosa,» commentò Ven acida. «Sto per vomitare.»
Quando le
loro labbra si sfiorarono in un bacio appena accennato, mi ritrovai a
sorridere. Mi sentii stranamente leggera e d’improvviso percepii uno
strano
senso di vuoto dentro, come se mi mancasse qualcosa.
O qualcuno.
Ricordai le
giornate sulla vespa, i pomeriggi passati a ridere davanti alla TV.
Ricordai
nonna Annunziata, le feste e le bugie che mi aveva detto ma che ci
avevano
permesso di andare avanti.
Per quanto
potessi essere arrabbiata con Leonardo, per quanto lo odiassi per
avermi resa
debole e cieca, lui rimaneva comunque un punto fermo nella mia vita.
Venera mi
guardò pensierosa. «Ti è sovvenuto all’improvviso un posto che vorresti
assolutamente visitare per primo?» chiese con un sorrisetto.
La rabbia di
essere stata raggirata mi aveva reso cieca, aveva fatto sì che perdessi
di
vista l’altra faccia della medaglia. Non mi ero fermata un momento a
riflettere
sul perché Leonardo si fosse
comportato così, il motivo che lo aveva portato a mentirmi anche dopo
che
l’amore aveva fatto tutto il resto.
La ragione
ero stata sempre io.
Ero la sola
che aveva scatenato tutto questo, col mio odio per il calcio e il fatto
che non
mancassi mai di sbandierarlo ai quattro venti. Lui si era soltanto
comportato
di conseguenza.
«Dovrebbe
esserci una partita di calcio, stasera,» dissi seria.
Annalisa e
Romeo mi guardarono all’unisono, mano nella mano. «Vuoi provare
davvero?»
chiese il rosso.
Annuii
convinta.
«Anche se
sarà impossibile trovare i biglietti?» suggerì Venera.
Annuii con
meno convinzione.
Annalisa
allora ridacchiò. «A noi non serve alcun biglietto.»
Tutti la
fissammo sconvolti e solo all’ultimo ricordai chi fosse davvero la
Cavalli.
Venera si mise subito in testa al gruppo e uscimmo in strada, montando
sulla
berlina mentre il sole calava all’orizzonte.
«Di qua!»
urlò all’autista, ma Romeo la corresse.
«Veramente
l’Emirates è dall’altra parte.»
Proseguimmo
il resto del viaggio in macchina con le urla e gli schiamazzi dei miei
due
migliori amici che non la finivano di prendersi a parolacce.
Davanti ai
miei occhi, le immagini di Londra al crepuscolo scorrevano ad alta
velocità
facendomi riflettere. Forse ero ancora in tempo per rinunciare. Non
sapevo se
fosse o meno la scelta giusta, se avevo ceduto troppo presto o se fossi
ancora
in tempo per rimediare.
Purtroppo non
ero sicura di niente, però mi sentii in dovere di tentare.
Il solo
vederlo mi avrebbe fatto male, ne ero conscia, ma per me stessa dovevo
farlo
perché quello che c’era stato tra noi – se autentico – meritava almeno
un
chiarimento.
Un’altra
opportunità.
***
Ventitreesimo minuto…
L’aria si fa
sempre più rarefatta nei miei polmoni, mentre corro in lungo e in largo
per
tutto il campo, tentando di sfondare il muro della difesa. Simone è
sempre lì,
lo vedo, mi sta col fiato sul collo e non mi molla.
Ha sempre
quel sorriso stampato in volto, quel ghigno che mi ricorda secondo dopo
secondo
tutti i miei fallimenti, sia nella carriera che nella vita. Tento di
dribblare
un difensore, non ricordo nemmeno più il suo nome, ma quello si staglia
come un
muro di fronte a me e m’impedisce di passare.
Marco corre
vicino a me, mi sorpassa e mi offre l’occasione di liberarmi del
pallone ed io
capisco al volo le sue intenzioni, peccato che anche Ramsey intuisce il
nostro
gioco e si frammette rubando il pallone e puntando in direzione della
porta.
Mr. Montella
si infuria dalla panchina, urlando indicazioni a destra e a manca
mentre
attorno a noi si è scatenata una vera e propria tempesta di grida,
bandiere e
il frastuono dei petardi lanciati al bordo del campo.
Come se una
vera e propria guerra infuriasse in quell’arena.
Gladiatore. Io sono un
gladiatore.
Prima di
ritornare a dare man forte alla difesa, vedo Simone sfrecciare verso
l’area
della Magica e sorridermi soddisfatto di quello che la sua squadra è
riuscita a
fare. Non era ancora detta l’ultima parola.
Venticinquesimo minuto…
Simon ha
appena sventato un possibile contropiede dell’Arsenal, rubando palla a
Van
Persie ed ora la Magica può volare all’attacco, perché si è aperto un
varco
nell’insormontabile difesa.
La vedo. Vedo
i pali bianchi della porta difesa da Almunia e vedo anche la
possibilità di
segnare, sento un brivido corrermi lungo la schiena, come monito di
quello che
potrebbe accadere di lì a poco. Il bagno di folla, l’abbraccio dei
compagni ed
un passo sempre più vicino a quella che sarà la semifinale della
competizione
più importante d’Europa.
Due secondi dopo…
L’intervento
di Simone in scivolata per poco non aveva rischiato di rompermi una
caviglia e
mentre mi rotolavo per terra dal dolore della lussazione, lo vedevo
ghignare.
L’arbitro
Webb accorse per sincerarsi delle condizioni di entrambi, poi Simone
venne a
tendermi la mano con fair play.
«Ancora deve
venire il bello, cuginetto,» sorrise e finse di abbracciarmi. In
seguito mi
guardò negli occhi, quegli occhi scuri e malvagi. «Attento, la prossima
volta
potrei anche puntare alle articolazioni.»
Lo fissai
sorpreso e sperai che scherzasse.
Era ovvio che Simone
Sogno non giocasse
pulito. Mai.
Tornai verso
il pallone, pronto a battere la punizione che ci avevano assegnato per
colpa
del fallo di quel cretino di mio cugino.
Daniele mi si
affiancò. «Vai verso l’area. Provo a crossare il pallone e tu colpisci
di
testa. Cerca di aggirare tu cugino, altrimenti semo fottuti,» mi
sussurrò.
Come idea non
era male, il difficile era metterla in atto.
Per quanto
non sopportassi Simone, dovevo ammettere che l’Arsenal era una squadra
ben
assortita. Già l’allenatore era metà rosa.
Corsi
nell’area protetta da Almunia, dopodiché attesi il fischio dell’arbitro
che non
tardò ad arrivare. Simone mi fu addosso, spintonandomi, così come altri
suoi
compagni. Era chiaro che fossi io l’obiettivo da marcare con
insistenza, ma
avrei preferito di no.
Daniele
calciò la punizione, arcuando la palla verso l’area di rigore, ma ero
troppo
pressato per riuscire a saltare.
In ultimo,
vidi Rosi che correva nel bel mezzo dell’area, indisturbato. La difesa
era
troppo impegnata a marcare me e il Capitano, senza curarsi di “pesci
più
piccoli” come l’ala destra della Magica. A quel punto, sapevo cosa fare.
Attirai
l’attenzione della difesa dell’Arsenal su di me, imitando una specie di
colpo
di testa e quando furono abbastanza lontani da Rosi, lui cominciò a
correre
velocemente verso il portiere che urlava.
Ormai era
troppo tardi perché se ne accorgessero.
Te l’ho fatta, stavolta,
Simo.
Non avevo
messo in conto l’intervento di Van Persie che, come un’aquila nel
cielo, piombò
direttamente sul povero Alejandro togliendogli la palla e consegnandola
direttamente in mano al portiere.
«Cazzo!»
sibilai col fiatone.
Simone mi
passò di fianco e sorrise. «Tic toc.»
Trentottesimo minuto…
La partita
non voleva saperne, di cambiare le sorti dello zero a zero e i tifosi
di ambo
le parti sembravano abbastanza scontenti. L’azione
non era ancora cominciata, perché eravamo troppo accorti per osare.
La Curva
rumoreggiava e le bandiere sventolavano con forza, così come i fumogeni
che
impregnavano l’aria rendendola quasi irrespirabile. Più di una volta
Webb era
stato costretto a fermare il gioco, per via della nebbia che gli
copriva la
visuale.
Se continui così, non
arriverai da nessuna parte.
Ne sono
consapevole.
E allora osa, per l’amor di
Dio!
Guarda, non
parliamo di amore, va’.
Per un
nanosecondo ero riuscito a cacciare fuori dalla mia mente il pensiero
di
Celeste ed ora il mio caro Ego, o Coscienza o dir si voglia, si metteva
lì a
ricordarmelo.
Mi distrassi
solo un secondo, poi tornai con la mente in campo. Il Capitano aveva
recuperato
palla ed ora spingeva il tridente d’attacco a puntare la porta di
Almunia.
Vedevo riflesso nei suoi occhi celesti la determinazione di vincere
quella
partita, di portarsi a casa il risultato e non potevo che essere
d’accordo.
Gli feci
cenno di seguire i miei movimenti, così ingannai uno dei difensori in
scivolata
e schizzai veloce verso l’area di rigore.
C’era poco
tempo per agire, e forse sarebbe stata l’unica azione valida prima
della fine
del primo tempo. Aggirai Squillaci e cercai lo sguardo di Francesco che
agganciò immediatamente il mio. Era difficile da quella posizione
crossare,
soprattutto per il modo in cui Simone e Song lo stavano pressando.
Daje Capitano, daje, pensai,
sperando udisse le mie suppliche.
In un qualche
modo davvero sorprendente, con una giravolta riuscì ad eludere la
marcatura di
quel coglione di mio cugino, tenendosi libero per il cross migliore di
sempre.
Mi arrivò
diretto sul piede, ed eseguii uno stop da manuale, facendomi rotolare
il
pallone tra le gambe ed evitando l’ultima barriera che mi divideva dai
pali
della porta.
André Santos
mi fissò deciso ed io non evitai il suo sguardo.
Fu una sfida
silenziosa e diretta tra due che facevano quel mestiere da una vita,
tra
sacrifici, rinunce e tutto il resto. Soltanto un altro calciatore
poteva sapere
cosa si provasse a non avere una vita privata, ad essere denigrato dal
pubblico
per un solo errore.
Un calcio di
rigore sbagliato, un passaggio troppo forte… qualsiasi cosa.
Dribblarlo
uno contro uno sarebbe stato impossibile, soprattutto perché si
trattava di un
armadio a due ante. L’unica soluzione era tentare una finta e provare
il tiro
dalla distanza.
Eccolo! Finalmente sei
tornato.
Leonardo
Sogno era tornato più in forma di prima, senza riserve. Sarebbe stato
la stella
della sua Magica, poi di qualche squadra di un club inglese magari…
chissà.
Avrei
conquistato le copertine di ogni rivista. La fama era l’unica cosa che
mi
rimaneva, ora.
Detto ciò,
misi in pratica ciò che avevo pensato. Sulle prime la finta mi riuscì
ma il
brasiliano era evidentemente più furbo e intuì ciò che avevo in mente.
«Leona’!»
gridò Daniele alle mie spalle, pronto per avanzare con uno dei suoi
colpi di
testa brevettati, ma lo ignorai.
Quel goal era
mio. A tutti i costi.
Quella
partita era stata il motivo per cui avevo sacrificato Celeste, per cui
mi ero
allontanato. Avevo detto addio all’unica cosa reale che mi era capitata
da una
vita, la sola che stesse con me non tanto per i soldi, né per la fama.
Soltanto per
Leo.
Ignorai il
suggerimento di Capitan futuro e tentai il tiro dalla distanza.
Fortunatamente
il pallone non fu intercettato da Santos e prese un effetto
soddisfacente.
Furono i cinque secondi più lunghi della mia vita, mentre sentivo
chiaramente
il cuore battere forte e il fiato che mancava nei polmoni.
L’occasione
di una vita a pochi minuti dallo scadere del primo tempo.
Andare in
vantaggio al 38’ significava sollevare i tifosi, rincuorare la squadra
e far si
di studiare una tattica vantaggiosa che ci consentisse di raddoppiare o
quantomeno proteggere il risultato.
Il pallone
galleggiò nell’aria come se fosse telecomandato ed io finii col
trattenere il
fiato finché non avessi sentito il tipico rumore del cuoio che
s’infrangeva
contro la rete. Un sonoro “toc” e poi il boato della folla.
«Pittore!
Pittore! Pittore!»
Leonardo Da
Vinci, un genio.
Questo è
quello che avrei dovuto udire dai cinquemila tifosi che erano lì a
Londra, solo
per vedere la loro squadra giocare. Invece ci fu un boato di delusione
e di
protesta, perché il pallone s’infranse proprio contro il palo.
SDENG!
Quello fu il
suono che si udì all’Emirates, nel silenzio dovuto alla suspense del
tiro.
Almunia,
sorpreso da quella fortuna, accorse a togliere immediatamente la sfera
dalla
testa di Daniele che era saltato per ritentare.
Rimasi
imbambolato a fissare la porta senza reagire.
Il Capitano
mi posò una mano sulla spalla ed io sussultai sorpreso, mentre lo
stadio aveva
ricominciato ad urlare. «Il calcio è un gioco di squadra,
ricordalo,» disse solamente, ma lo sguardo furioso che mi
lanciò Daniele fu abbastanza eloquente.
Suppongo che avresti dovuto
passare il pallone.
Ma non mi
dire.
Simone se la
rideva alla grande, fissandomi come se avesse ottenuto una doppia
vittoria da
quel mio sbaglio. Era insopportabile. Ancora mi chiedevo quale forza
divina mi
aveva impedito di soffocarlo con un cuscino quando eravamo piccoli.
Il portiere
rinviò la palla da fondocampo, mentre tutti ritornarono ai loro posti
in attesa
dello squadrone dell’Arsenal che avanzava minaccioso.
Simone era in
testa al gruppo, riusciva a manovrare il resto della squadra senza
nemmeno
aprire bocca. Dalla panchina, si udivano le indicazioni di Mr. Montella
di
rientrare, mentre il pallido allenatore dei gunners
fissava il campo come un’aquila.
«Forza,
rientrate!» gridò Rodrigo, riferendosi a quei pochi di noi che erano
volati in
attacco.
Cominciai a
correre, anche se il fiato mancava, ma dovevo resistere.
39’… 40’… 43’
I minuti
scorrevano come gocce di pioggia attraverso il tombino di una strada e
mi era
impossibile fermarli. Scivolavano via, così come quando il quarto uomo,
con la
lavagnetta luminosa, indicò 1’ come il tempo di recupero.
Fu in
quell’istante, dopo un corner che avevamo concesso un po’ troppo
superficialmente che dovetti assistere ai sessanta secondi più brutti
della mia
vita.
Cinquantotto,
quarantacinque, trentasei…
Cercai
immediatamente lo sguardo di Simone mentre il pallone viaggiava al di
sopra
dell’aria di rigore, percorrendo una parabola quasi perfetta. Lo vidi
smarcarsi
da Simon e gli altri, Marco cadde addirittura a terra, ed io allora lo
rincorsi
per impedirgli di saltare.
Quel metro e
novanta di muscoli e precisione non ci avrebbe perdonati.
Feci di tutto
per arrivare fin sotto di lui, rischiai anche di calpestare i miei
stessi
compagni, ma dovevo fare qualcosa. Mi aggrappai alla sua spalla,
cercando di
non commettere fallo e tentai in tutti i modi di caricare il salto e
togliergli
la palla dalla testa.
Simone se ne
accorse e allora mise più potenza.
Mi superò di
una spanna senza alcuno sforzo, arrivando in perfetto tempismo con il
pallone
che aveva iniziato a scendere. Lo colpì in pieno, con tutta la potenza
di tiro
di cui era capace e la angolò.
Cazzo se
quello era un colpo di testa!
Martin tentò
di afferrarla sbracciandosi come un puma che balzava sulla propria
preda, ma
era troppo preciso e potente quel tiro.
Il pallone
s’insaccò nella rete al 46esimo e l’arbitro Webb fischiò la fine del
primo
tempo.
Il rumore di
tacchetti riempì il silenzio che c’era nel tunnel di rientro agli
spogliatoi.
Fissavo il grigio del pavimento di linoleum senza pensare a niente.
Desideravo
solo sparire e darmi del cretino.
A quest’ora,
se avessi passato quel maledetto pallone, magari saremmo sul punteggio
pari.
Simone era
stato trattenuto da un giornalista per rilasciare un’intervista a
caldo, così
ne avevo approfittato per dileguarmi prima che mi prendesse di mira.
Erano lontani
i tempi in cui nonno Pietro ci aveva dato quei palloni per regalo,
facendoci
condividere in un modo del tutto suo la passione per il calcio. Ora tra
me e
quel demente c’era solo guerra, nient’altro.
Fotografi e
giornalisti di tv locali si sbracciavano per poter ottenere qualsiasi
commento,
ma tentai il tutto e per tutto al fine di evitarli. Non avevo voglia di
parlare, non avevo voglia di nulla. Ancora una volta mi ero dimostrato
un
cretino che non sapeva fare nemmeno l’unica cosa in cui era bravo.
«Ehi! Ehi!»
sentii una voce che mi chiamava, così accelerai il passo.
Volevo
sedermi sulla panca, ascoltare gli scleri del mister, beccarmi le
occhiatacce
dei miei compagni di squadra e magari farmi sostituire.
'Sti cazzi.
Ero stufo di
dover portare quel peso, di vivere con l’angoscia di dover dimostrare
sempre
qualcosa. Ora che Celeste era scivolata via dalla mia vita, avevo
bisogno di
fare chiarezza e ricominciare. Lei era solo una distrazione.
«Leonardo!»
Ecco. Ora
sentivo anche la sua voce nella mia testa e non era normale.
Hai cominciato a bere di
recente?
Ci mancava
soltanto la pazzia a completare quel quadretto davvero rassicurante.
Altro che
infortuni o doping, avrei chiuso la mia brillante carriera in qualche
manicomio.
«Leo! Girati!»
Sgranai gli
occhi. Quella era la sua voce, ne ero
certo.
Mi voltai
sperando che si trattasse solo di un’illusione, ma un’orda di flash
accecanti
mi costrinsero a socchiudere le palpebre e a schermarmi con un braccio.
«Mr. Sogno ha
da lasciare qualche dichiarazione?»
«È stato un
errore della difesa?»
«Si poteva
evitare?»
Tutte quelle
domande cominciarono a confondermi, tanto che pensai di essermi davvero
immaginato tutto. Possibile che Cel mi mancasse a tal punto da giocarmi
questi
brutti scherzi?
Stavo per
rinunciare e tornare negli spogliatoi, quando sentii alcuni giornalisti
protestare e spostarsi, spinti da una qualche forza soprannaturale.
Soltanto in
ultimo, quando la folla cominciava a diradarsi, mi resi conto che si
trattava
di quell’elfo dell’amica di Celeste.
Veneziana.
Veranda.
Terzo tentativo e sei out.
Ce la puoi fare.
Venerea!
Quella la conosci bene.
«Sei
irraggiungibile, porca miseria!» sbottò, aggiustandosi un ciuffo
ribelle di
capelli dalla fronte.
Dietro di
lei, come una visione, c’era Celeste.
I suoi occhi
azzurri erano spalancati, così grandi che avrei rischiato di finirci
dentro. Si
stava torturando una ciocca di capelli biondissimi tra le dita, senza
sapere
cosa dire. C’era troppo chiasso attorno a noi, troppi rumori.
Nemmeno io
riuscivo a parlare.
Cosa avrei
potuto dirle ancora? Scusarmi? Tentare di nuovo?
La sua
presenza lì mi aveva spiazzato del tutto. Non sapevo spiegarmi il
motivo per
cui mi avesse raggiunto. Alzai ancora di più lo sguardo e trovai
Annalisa, mano
nella mano con quel cazzone di Robbeo.
Forse era
merito del destino?
«Non c’è un
posto più appartato dove potete parlare?» mi domandò Ven – direi che
quel
nomignolo le stava a pennello, visto che non mi ricordavo il resto.
Come
svegliato dal coma, annuii. «Da questa parte.»
Le condussi
verso l’ufficio per lo staff, in quel momento del tutto deserto. Prima
di
aprire la porta, però, ricevemmo la gradita
visita di chi avevo tentato inutilmente di evitare fino a quel momento.
Simone.
«È off-limits
quell’area,» commentò, in un perfetto inglese da cazzone.
«Falla
finita!» ringhiai. «È una questione… privata,» dissi in un soffio,
rivolgendo
uno sguardo timido a Celeste.
Era così
strano vederla silenziosa, lei che col suo indice “pungolatore” non
mancava mai
di bacchettarmi. La mia maestrina dispettosa.
Simone
sfoderò quel ghigno bastardo. «Ci rivediamo, piccola,» mormorò
malizioso.
Lanciò anche un’occhiata distratta a Ven, facendo una smorfia.
«Come avrai
sicuramente capito, la famiglia Sogno non è famosa per i fiori,»
sghignazzò avvicinandosi.
Cercai di
frappormi, almeno per proteggere Cel da quel cretino, ma Venera fu più
veloce.
Hai azzeccato il nome!
«Oh, il circo
è tornato in città, vedo. Il gibbone è fuggito dalla gabbia,» ridacchiò.
La tipa ci
sapeva fare.
Simone
sibilò. «E questo cos’è? Ti sei portato dietro il bassotto?» sghignazzò.
Lentamente
aprii la porta dell’ufficio staff, così da lasciare Simone in dolce compagnia con Ven che sembrava
sapergli tenere testa meglio di chiunque altro conoscessi.
«Per di qua,»
sussurrai a Celeste, trascinandola dentro.
Lei annuì.
«Bassotto a
chi? Spilungone montato che non sei altro!»
Questa fu
l’ultima frase che udimmo prima che la porta si chiudesse con un sonoro
clack e ci ritrovammo da soli in quella
fredda stanza. Non avevo molto tempo prima che iniziasse di nuovo la
partita ed
ero più che sicuro che sia il Mister che i compagni mi stavano dando
per
disperso.
Però volevo
dare a Celeste il tempo necessario per riordinare le idee.
Se ne stava
sulle sue, evidentemente pensierosa. Infine cercò i miei occhi ed io
ricevetti
una stilettata dritta al cuore. Non avrei mai immaginato che stare
lontano da
una persona per tutto questo tempo fosse tanto doloroso.
Io che ero
abituato a vivere alla giornata, ad avere donne diverse ogni giorno.
Non ricordavo
nemmeno i loro nomi.
«Di preciso
non ho chiaro il perché sono qui,» sputò fuori all’improvviso. Quegli
occhi di
ghiaccio erano così seri. Lontani dalla Celeste spensierata e solare
che
ricordavo. Questa era una ragazza ferita da tutte le menzogne che avevo
detto e
che non mi ero mai pentito di dire.
«Se vuoi dare
la colpa al destino o altro, mi hanno convinto a venire a Londra e
casualmente
ho incontrato Annalisa.»
Il tono di
voce era dannatamente profondo. Per un attimo pensai che si fosse fatta
tutti
quei chilometri per bidonarmi di nuovo.
«Cel, io…»
tentai di dire, ma lei mi zittì.
«Forse ho
giudicato troppo presto le tue azioni, non mi sono fermata a riflettere
a
sufficienza. Ero troppo arrabbiata con te per quello che mi avevi
fatto, per
ciò che mi avevi nascosto. Mi sono sentita tradita perfino da me
stessa! Come
diavolo posso esser stata così cieca!» sbottò.
Avrei voluto
dirle che magari c’entrava il fatto che stesse troppo bene in mia
compagnia da
surclassare tutto il resto, ma tacqui.
«Ho googlato
il tuo nome l’altro ieri,» soffiò imbarazzata.
Le sorrisi. «Su
internet girano certe scemenze,» le risposi un po’ imbarazzato.
«No, no,»
insistette ed io la lasciai parlare. «Ho letto di quando hai iniziato
la
carriera, delle coppe che hai vinto, dei premi… il pallone…?»
«Il Pallone
D’oro, sì, sono in lizza per vincerlo,» dissi fiero, gonfiando il petto.
A Celeste
sfuggì un sorriso che sembrò illuminare la stanza intera. «Credo di
averti
giudicato troppo superficialmente. Mi dispiace. Forse avrei dovuto
ascoltarti,
anche perché penso, anzi, credo, che quello che c’è stato tra di noi
fosse
autentico.»
«Lo era!»
intervenni, forse con un po’ troppo fervore.
«Già,»
rispose lei, sedendosi.
Ci fu un
momento in cui cadde il silenzio e nessuno dei due sembrava aver voglia
di
riprendere la parola. Erano minuti delicati quelli, forse più
importanti della
partita che ci sarebbe stata di lì a poco.
C’erano due
piatti della bilancia e su di essi era posata la mia vita. Da una parte
Cel e
la sua spontaneità che mi avevano stregato, dall’altra tutto il mio
mondo.
«Leona’, ‘ndo
stai?» la voce di Alejandro mi fece sobbalzare.
«Ti stanno
cercando,» osservò Celeste.
Annuii
pensieroso. «C’è tempo. Vai avanti,» la incalzai.
Lei
giocherello con i ghirigori impressi sul tavolino in legno, poi
sospirò. «Non
vorrei essere trattata di nuovo da stupida, se è questo che vuoi
sentirti dire.
Ho sbagliato, ma anche tu hai la tua parte di responsabilità,» mi
accusò.
«Ho dovuto
mentire!» mi giustificai.
Lei mi lanciò
un’occhiata assassina. «All’inizio è stato solo un gioco, ammettilo
almeno.»
Sospirai
sconfitto. C’era poco da fare, quando Celeste annusava una traccia era
poco ma
sicuro che ti sgamava.
«Okay!» mi
arresi. «Magari è iniziata così.»
«E poi ci hai
preso gusto e hai continuato a mentire, facendoti quattro risate con
quel
maleducato di tuo cugino!»
«Ma sei
impazzita?» sbottai.
«Provami il
contrario, allora!» e si alzò in piedi, sbattendo le mani sul tavolo.
Deglutii gli
ultimi residui di saliva che si erano arrampicati sul palato. «Non c’è
un modo
semplice per spiegartelo, Cel. La verità è che non lo so nemmeno io,»
cominciai. «Sono entrati in ballo sensazioni nuove, roba che non faceva
per
me.»
Mettersi a
nudo in senso metaforico, era davvero dura.
«La verità,
ho bisogno solo di questo. Per una volta,» rincarò lei.
Annuii. «È
sempre stata solo una, Cel. È che mi sei entrata dentro e non te ne sei
più
andata via, ecco qual è.»
Lei rimase
quasi sorpresa da quella mia ammissione.
«Quindi tu…»
tentò.
«Sì, io,» le
risposi.
Sorrise ed io
mi sentii più leggero. «Ho bisogno solo di un’altra occasione, e
nient’altro.
Stavolta sul serio. Non ti mentirò più riguardo a nulla. Lo giuro,»
promisi.
Lei parve
ancora confusa, così mi avvicinai e le strinsi le mani nelle mie.
Cercai i suoi
occhi, un contatto, qualsiasi cosa le impedisse di sfuggirmi ancora.
«Non so se
riuscirò a sopportare tutto questo,» disse, sfiorandomi la maglia della
Magica
con la punta delle dita e soffermandosi sullo stemma.
Le afferrai
la mano e gliela strinsi, premendola contro il mio cuore. «Lo faremo
insieme.»
Celeste
allora si lasciò andare veramente questa volta, lasciandomi sbirciare
finalmente la sua vera persona. Mi era mancata troppo, come l’aria,
quasi come
il fischio finale dell’arbitro al novantesimo della partita più
importante del
mondo.
«Ora vai a
vincere,» soffiò infine, alzandosi sulle punte e cercando appena un
contatto
con le mie labbra.
Sorrisi
leggero come non lo ero mai stato prima. «Per te, soltanto per te,» e
corsi
via.
Verso il
campo dell’Emirates Stadium, verso quel verde che mi avvolse come una
vaporosa
coperta e verso quel profumo che sapeva finalmente di casa
Allora, innanzitutto mi scuso
profondamente anche a nome di _Shantel che non so che fine abbia fatto.
Questa storia è rimasta in stand-by per troppo tempo, ma purtroppo era
un lavoro scritto a 4 mani, perciò serviva necessariamente la
collaborazione dell'altra autrice. Ho provato più volte a contattarla,
ma mi ha detto di avere problemi in famiglia e che non poteva perder
tempo dietro a EFP.
In altre parole, mi ha dato il permesso di continuarla da sola. Ammetto
che non è la stessa cosa, che per me è stato difficile immedesimarmi in
Celeste, però ci ho provato per il bene di questi due personaggi che
meritano un bel finale, un finale come si deve.
Inoltre, devo approfondire il
rapporto degli altri personaggi.
Vi chiedo "scusa" a nome di entrambe se vi ho fatto sospirare questo
capitolo, ma prometto e giuro solennemente di portare a termine Come in
un Sogno da sola, che venga bene o meno. Ci proverò.
Mi rimetto alle vostre considerazioni e non esitate a farmi notare
qualche pecca nel carattere dei personaggi, è da tanto tempo che non mi
cimento in questa storia e devo riprenderci la mano. >.<
Detto questo, ho creato la raccolta "Se il
Sogno chiama..." dove potrete trovare tutto ciò che riguarda la
famiglia Sogno :3
Al prossimo aggiornamento - CHE SICURAMENTE ARRIVERA'-
Baci, Marty
|
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Capitolo 2 *** Capitolo 17 ***
Passeggiare
per le strade di Londra mi
rendeva piacevolmente leggera, quasi stessi fluttuando con le mie
converse su
quel marciapiede piastrellato. Vetrina dopo vetrina, sfilavo con lo
sguardo
ogni negozio della via dello shopping,
com’era chiamata Regent Street.
Venera era
come se si trovasse in un
immenso parco giochi.
Sorrisi mentre
vedevo i suoi occhi
chiarissimi illuminarsi ancora di più, rendendola in qualche modo più
bambina.
Londra per lei era sempre stato un sogno, non sapevo quante volte me lo
avesse
ripetuto e adesso che si trovava lì, in mezzo a tutta quella gente, si
sentiva
finalmente parte di quel mondo.
Avvertii
lunghe dita affusolate
stringersi attorno alle mie.
Leo mi sorrise
di sbieco, puntando quelle
immense praterie che erano i suoi occhi nei miei.
«La tua amica
si sta divertendo,»
commentò allegro.
Non potei fare
a meno di sbuffare in una
risatina. «Credo che questo viaggio abbia fatto più bene a lei che a
noi,»
asserii.
Quel “noi” mi
pesò addosso come un
macigno e nemmeno mi accorsi in principio di aver pronunciato tre
lettere così
pesanti, soprattutto in un periodo delicato come quello. Leonardo si
accorse
del mio cambio d’umore, ma si limitò solo a stringermi di più la mano.
Da una parte
c’eravamo chiariti. Durante
la partita avevo messo finalmente da parte l’orgoglio e la
testardaggine, per
far posto alla mia parte comprensiva e razionale.
Ero stata
tradita e umiliata dalle
persone a me più vicine, quella sarebbe stata una ferita che avrebbe
richiesto
molto tempo per guarire. Lentamente avrei potuto recuperare e tentare
di capire
il punto di vista di Leo.
Ci stavo
provando, realmente.
«Certo, per
comprarti una borsa del
genere ti parte tutto lo stipendio di un mese!» osservò Robbeo
infastidito,
fermandosi di fronte alla vetrina di Burberry.
Anna gli stava
vicino, sfiorandogli di
tanto in tanto la spalla con la punta delle dita bianchissime. Mi
sentivo
ancora piuttosto strana a vederli così uniti, era come se quel loro
frequentarsi fosse qualcosa di alieno e incomprensibile.
Non
si può scegliere chi amare. Si ama e basta.
Quel pensiero
mi riportò alla realtà dei
fatti. Per quanto una qualsiasi coppia potesse risultare ambigua in un
contesto
più ampio, come la figlia ricchissima del presidente di una squadra di
calcio e
uno studente con un lavoro part-time e una macchina scassata, c’era ben
poco da
analizzare.
Gli sguardi
che quei due si scambiavano
erano più che sufficienti a sopperire ogni dubbio.
Annalisa
finalmente aveva trovato
qualcuno che l’amasse per quello che era, non soltanto per la bellezza,
per
fama o per soldi. Romeo non era così superficiale, anche se il suo
quoziente
intellettivo sfiorava quello di un’ameba ripetente.
«Certo, se la
tua paga è quella di uno
che fa volantinaggio…» commentò Venera acida.
Subito i due
si fissarono come se
volessero sbranarsi ed io sospirai roteando gli occhi al cielo. Ci
sarebbero
state cose che non sarebbero mai cambiate, nonostante le nostre vite si
fossero
evolute a tal punto.
«Perché? Tu
cosa fai per guadagnarti da
vivere, Miss Saputella?» sputò il rosso, fissando la mia migliore amica
come se
volesse saltarle addosso.
Quei due
avrebbero sempre trovato punti
di disaccordo. Era stato così dalle elementari e sarebbe rimasto
identico anche
quando ognuno di noi sarebbe cresciuto.
Quando
finalmente ognuno sarebbe andato per la sua strada.
Quel pensiero
mi immobilizzò per un
attimo. Sentii una fitta al petto e vi portai una mano sopra per
regolarizzare
il battito cardiaco. Leonardo si accorse di quella mia mancanza e mi
guardò
preoccupato.
Gli sorrisi
per rassicurarlo. «Sto bene,»
dissi.
Mi sentivo
ancora piuttosto confusa su di
noi, soprattutto quando la maggioranza delle volte mi veniva da
chiamarlo Ruben
anziché Leo. Era così frustrante dover ammettere a me stessa di aver
ceduto
troppo presto, di non averlo fatto soffrire abbastanza.
Eppure, quando
mi perdevo nel suo sorriso
sincero non riuscivo a pensare ad altro.
Forse ero
stata troppo debole, troppo
accondiscendente. Magari in futuro mi sarei pentita di quella mia
debolezza, ma
per adesso ero felice così.
Ognuno aveva
diritto ad un po’ di
felicità nella propria vita.
«Il massimo
che puoi fare col tuo metro e
cinquanta, è lavorare al circo,» s'intromise il cugino di Leonardo.
Rimanemmo
tutti allibiti a fissarlo.
Si era unito a
noi per caso,
incontrandoci per strada e cominciando a punzecchiare senza sosta
Venera che
non la smetteva di rispondergli per le rime. Leonardo era teso come una
corda
di violino. Ormai avevo capito che Simone aveva la capacità di rendere
irascibile anche il Dalai Lama.
«Almeno farei
un lavoro onesto e non
rubere i soldi facendo finta di saper rincorrere un pallone,» rispose
acida la
mia migliore amica.
Non sarei mai
riuscita a spiegare veramente
il comportamento di Ven agli altri. Da un occhio esterno, poteva
sembrare una
ragazza responsabile, molto intelligente, pronta a farsi in quattro per
chiunque glielo avrebbe chiesto.
Poi però si
lasciava trasportare in
queste dispute sull’averla vinta per forza. E cadeva nella trappola di
persone
fastidiose come il cugino di Leo.
«Una delle
cose che so fare meglio. È il
mio lavoro!» rispose, infatti, sprezzante. «Oltre che muovermi con
maestria tra
le lenzuola…» e sorrise malizioso.
Pensai
immediatamente di bloccare Ven sul
nascere, perché ero più che sicura che la sua protesta sarebbe stata
esagerata.
Simone era
tutto ciò che Venera odiava in
un ragazzo: infantile, arrogante e borioso.
«Forse
dovremmo fermarli?» mi domandò
Leonardo preoccupato.
Una piccola
folla si era radunata vicino
alla vetrina del negozio, più che altro attirata dalla presenza dei due
calciatori. Dovevo ammettere che, a differenza dell’Italia, lì a Londra
non
venivi assalito da fans inferociti che ti chiedevano per forza una foto
o
l’autografo.
Erano molto
rispettosi dell’altrui
privacy.
«Non so se sia
il caso di lasciarli
sfogare…» ammisi, vedendo che persino Robbeo si stava allontanando da
Ven-il-vulcano-pronto-ad-esplodere.
Strinsi con
tenacia la mano di Leonardo e
forse, pensai, avremmo dovuto approfittare di quel momento di
distrazione, per
ritagliarci qualche momento solo tra noi.
Cercai il suo
sguardo e quelle iridi
color smeraldo s’infransero subito con le mie. «Che ne dici se…?»
proposi,
facendogli cenno con la testa di filarcela.
C’era una
folla sufficiente a nascondere
il nostro tentativo di fuga, mentre le urla di Venera e di Simone si
riuscivano
ad udire persino ad Oxford Circus.
«Se sei così
bravo, per quale motivo hai
perso contro quel babbeo di tuo cugino, eh?» gli urlò addosso, finendo
per
umiliarlo per bene.
Sorrisi.
Venera non era
capace di relazionarsi.
Tendeva sempre a vedere il peggio di una persona senza mai focalizzarsi
sui
pregi. Per entrare nelle sue grazie, avresti dovuto insistere,
spingere, senza
mai piegarti a ciò che le sue parole erano in grado di fare.
Sì, perché
spesso e volentieri ti feriva
senza che nemmeno ne avesse l’intenzione.
Era fatta così
e non sarebbe mai riuscita
a cambiare. Se volevi averla come amica, dovevi necessariamente
prenderti tutto
il pacchetto. E così avevo fatto io.
«Dove vuoi
andare?» mi domandò Leonardo,
continuando a camminare velocemente. Le voci dei nostri amici si
affievolirono
alle nostre spalle, ed io non mi voltai.
C’erano cose
che andavano chiarite,
magari col tempo. Sentivo il bisogno di stare da sola con Leonardo, di
conoscerlo come realmente era.
Dovevo
recuperare il tempo che avevo
perso dietro ad una persona che non era quella di cui mi ero
innamorata. O
almeno era quello che avevo fino ad ora creduto.
Era come se
quel nome facesse la
differenza, come se mi confondesse.
Quella
che noi chiamiamo rosa, senza il suo nome
avrebbe
pur sempre il suo dolce profumo.
Non
cambia l'essenza,
tuttavia
identifica, caratterizza, distingue.
Mi ero illusa
pensando che dietro a “Ruben” si nascondesse una persona totalmente
diversa da
Leonardo, quando invece quel nome gli era servito soltanto come
barriera dietro
cui proteggersi.
«Vieni con
me,» gli dissi, imboccando l’entrata della Tube a Piccadilly Circus.
Ci sarebbe
voluto del tempo perché facessi ordine nel mio cuore, affinché
riuscissi di
nuovo a fidarmi di lui, ma adesso la prospettiva era differente.
Cercavo sempre
più di immedesimarmi nel suo modo di pensare, nelle scelte che lo
avevano
obbligato a comportarsi così.
Cosa avrei
fatto io se i ruoli si fossero invertiti?
Comprammo due
biglietti e salimmo sul primo treno che passava. Qualunque fermata
sarebbe
andata bene, perché il mio unico obiettivo era rimanere sola con lui,
recuperare quello per cui valeva la pena lottare in quel momento.
Leonardo si
sentiva spaesato.
Lo fissai di
sottecchi e sorrisi, notando come guardava con circospezione i sedili
della
metropolitana. Lui che non era abituato a prendere i mezzi pubblici,
sembrava
un pesce fuor d’acqua. Un cucciolo impaurito abbandonato per la strada.
Cercai il suo
sguardo e lo invitai a sedermi accanto.
C’era
complicità anche nei nostri occhi, senza alcuna parola. Anche se
percepivo
ancora una barriera tra di noi, era innegabile il legame che si era
instaurato
tra di noi.
Leonardo si
sedette e mi fissò mortificato.
«Che c’è?» gli
chiesi comprensiva.
Lui alzò gli
occhi su di me e mi tolse un battito. «Mi dispiace, è che non sono
abituato a
tutto questo,» sospirò. «Questa
normalità non fa per me.»
Sorrisi
comprensiva e gli presi una mano tra le mie, stringendola forte. Era
normale
che in tutta la sua vita non avesse mai preso un autobus oppure la
metropolitana, lui che era abituato a girare sulla sua Ducati o sulle
macchine
sportive.
«Non fa
niente,» lo rassicurai.
Come lui
avrebbe
capito il mio mondo, io mi sarei abituata a comprendere il suo. Sarebbe
stato
uno scambio equo, un reciproco passo che ci avrebbe avvicinati.
Leo però sfilò
la mano gentilmente, sbuffando. «Ti capisco, sai…» soffiò.
«Cosa?» chiesi
confusa.
Prese un bel
respiro, poi tornò a guardarmi. «Capisco di non essere l’ideale per te,
di non
poter mai riuscire a comportarmi da persona normale.
Ci proverò, lo prometto, ma tutto questo è troppo.»
La gente
intorno a noi lo fissava incuriosita. Era ovvio che l’avessero
riconosciuto,
anche se non capivano ciò che stavamo dicendo. Rispettarono la nostra
privacy e
questo era già tanto per me.
Il problema
sarebbe stato una volta tornati in Italia.
«Non ti sto
chiedendo di cambiare per me, Leonardo.» dissi tranquilla, prendendogli
il
mento tra le mani e cercando i suoi occhi senza che riuscisse ad
abbassarli e
sfuggirmi. Era strano vederlo così provato, così indifeso e per nulla
arrogante.
Forse Ruben
era un modo per proteggersi dalla realtà, per schermarsi dietro una
persona che
non era nemmeno lontanamente vicino a sé stesso.
Leonardo non
era altro che un ragazzo solo, cresciuto troppo in fretta e sulle cui
spalle
erano stati posti dei pesi e delle responsabilità troppo grandi per lui.
I suoi occhi
verdi si sgranarono all’improvviso.
Rimasi
perplessa da quella sua reazione e non sapendo cosa fare, gli sorrisi.
«Che
c’è?»
Lui schiuse le
labbra e le umettò imbarazzato. «Dillo di nuovo,» soffiò.
Mi presi un
po’ di tempo per elaborare cosa intendesse dire, poi compresi. Era
forse una
delle prime volte che lo chiamavo per nome, con il suo vero
nome.
Presi il
labbro inferiore tra i denti, torturandolo. Quel momento tra di noi mi
parve
così intimo che per un attimo mi pentii di essere in mezzo a tutta
quella
gente.
Mi avvicinai
lentamente a lui e gli soffiai nell’orecchio. «Leonardo.»
Lo sentii
quasi tremare nelle mie mani e il mio cuore cominciò a battere
freneticamente
all’interno del petto, quasi a ricordarmi quali fossero le emozioni che
inevitabilmente mi avevano legata a lui.
Leonardo era
sempre stato impulsivo, genuino, una continua sorpresa per me. E così
era
rimasto, sia che si chiamasse Ruben o altro.
Si voltò quel
tanto da far avvicinare i nostri volti. Sentivo il suo respiro caldo
sulle mie
labbra e mi arresi alla forza con cui il suo sguardo mi scavava dentro.
Ben presto la
distanza fu annullata, e ci baciammo incuranti degli sguardi della
gente. Non
m’importava più del resto del mondo, non m’importava nemmeno di ciò che
sarebbe
stato il mio futuro.
In quel
momento pensai solamente a quanto potesse essere buono il suo sapore,
l’odore
della sua pelle che non riuscivo a dimenticare.
Schiusi le
labbra e lo lasciai entrare, approfondendo il bacio, mentre feci
passare le
dita tra i suoi morbidi capelli castani, saggiandone la consistenza e
inebriandomi di quelle sensazioni genuine che avevo quasi dimenticato.
Anche se era
strano ammetterlo, Leonardo riusciva a completarmi. Lui era quella metà
del mio
carattere che non sarei mai riuscita a completare. Eravamo come due
pezzi di un
puzzle che si incastravano alla perfezione e per quante scatole tu
riuscissi a
comprare, ne esistevano soltanto due ritagli che sarebbero combaciati
alla
perfezione.
Ci staccammo
per poi sorridere come dei ragazzini, fronte contro fronte.
La voce
metallica
annunciò la nostra fermata, così ci alzammo e uscimmo dal treno per poi
dirigerci verso l’insegna “exit”.
Mano nella
mano, ci sfiorammo quasi fossimo esseri inconsistenti che non
riuscivano a
raggiungersi, poi finalmente vedemmo la luce del giorno in quella
giornata
fredda d’Aprile.
***
Sentire
Celeste finalmente così vicina, mi fece dimenticare persino dove fossi.
Prima
di quel momento, c’era stato soltanto il nervosismo provocato dalla
partita e
da quel cretino di mio cugino. Adesso finalmente potevo rilassarmi e
godermi
tutto il tempo che avevo a disposizione con lei.
Ora che
finalmente avevamo vinto la partita. Ora che tutto il mondo era
orgoglioso di
noi, della squadra, della forza con cui ci eravamo rialzati e avevamo
fatto
fronte ad uno dei club più importanti d’Europa.
E tutto grazie
a Celeste.
Anche se non
lo avrei mai ammesso, nemmeno sotto tortura, lei era la fonte da cui
attingevo
tutta la mia forza e la mia tenacia. Prima ero spinto soltanto
dall’ingordigia,
dalla fama, dall’essere qualcosa di più soltanto per soddisfare il mio
ego.
Adesso sapevo
che lo stavo facendo unicamente perché me lo aveva chiesto lei.
Il sacrificio è
la forza che ci fa crescere.
Ed io
finalmente potevo dire di essere cresciuto, maturato, di aver imparato
dai miei
sbagli e di essere finalmente un’altra persona. Non avevo più bisogno
di Ruben
per stare accanto a Celeste, ora potevo essere Leonardo e non
vergognarmi di
aver scelto una sola ragazza a cui dedicarmi.
Prima c’era
stata soltanto la fama, il sesso e il divertimento.
Ora ero stufo
di lasciarmi consumare a poco a poco senza fare nulla, senza nemmeno
reagire.
«Che ne dici
di un bel caffè da Starbucks?» mi propose, sorridendo anche solo con
gli occhi.
Il suo
buonumore era contagioso e mi lasciai irradiare da quel sorriso che
riusciva
persino a scaldarmi in quella giornata gelida.
«Perfetto,»
dissi, passandole un braccio attorno alle spalle e avvicinandola a me.
C’erano cose
che non sarei mai riuscito ad esprimere a parole. Non ero bravo con
quelle,
anche perché Celeste era la scrittrice, io mi limitavo unicamente a
rincorrere
un pallone. Fortunatamente riuscivo ancora a dimostrarglielo coi gesti.
«Vieni,» mi
disse, trascinandomi dall’altro lato della strada per entrare
all’interno del
coffe-bar.
Dovevo
ammettere
che Londra era un posto piuttosto carino in cui abitare, ma non l’avrei
mai
sostituita con la mia Roma. Pensai che per Simone fosse diverso, in
fondo lui
aveva la mamma inglese e si era trasferito qui quando era piccolo.
Stai davvero
analizzando quella zucca vuota di tuo
cugino?
Scossi
visibilmente la testa per ignorare quel pensiero. Simone non si
meritava
nemmeno la mia considerazione, figuriamoci i pensieri che di rado
partoriva la
mia mente.
«What will you
have to drink?» chiesero alla cassa.
Fissai la
commessa con un’espressione vacua, anche perché ricordavo vagamente
qualche
parola dal liceo. Il resto era soltanto vuoto.
Celeste per
fortuna intervenne. «Two cappuccino with whipped cream,» sorrise, poi
tirò
fuori il portafogli ma la bloccai.
«Sono il tuo
ragazzo, fino a prova contraria,» dissi sicuro.
Gli occhi di
lei si abbassarono per una frazione di secondo e lì il mio animo si
rabbuiò.
«Va bene,»
disse, poi mi sorrise di nuovo.
Che avessi
detto qualcosa di sbagliato? Forse le dava fastidio il fatto che
guadagnassi di
più e che magari non voleva che le offrissi da bere…
O magari non si
tratta di soldi.
Quel pensiero
mi trafisse come una freccia. Cercai di rimanere impassibile e pagai,
poi ci
dirigemmo al bancone per ritirare i nostri due cappuccini.
Era davvero
buono e cremoso.
Lo assaporai
finché era caldo, in modo che il latte e la crema scendesse giù per
l’esofago,
fino allo stomaco e avvolgesse le mie membra in un caldo tepore.
Celeste mi
fissò sorridendo.
«Che c’è?» le
chiesi dubbioso.
Lei si
avvicinò titubante, allungando una mano verso il mio viso. La lasciai
fare
perché non ero ancora sicuro di ciò che avevo visto poco prima. Mi era
sembrata
confusa, ancora incerta su quello che c’era tra di noi.
La sua mano si
aprì a coppa sulla mia guancia, mentre il pollice tirava via un po’ di
schiuma
che mi era rimasta sulle labbra. «Sei proprio un bambino,» sorrise
sincera.
A quel punto
non seppi più fermarmi. Mi sporsi al di là del tavolinetto e la baciai.
Anche
se c’erano tante cose irrisolte tra di noi, troppi silenzi e gesti che
andavano
sostituiti dalle parole, in quel momento mi parve la cosa più giusta da
fare.
Celeste rimase
inizialmente sorpresa, ma non si scostò.
Fu una casta
unione di labbra, nulla a che vedere con il bacio nella metropolitana.
Era più
una dimostrazione d’affetto, una prova della mia incapacità di starle
distante
più di tre minuti.
Ci staccammo
fissandoci imbarazzati l’uno con l’altra, mentre il mormorio
all’interno del
caffè si era smorzato. Magari era vero che mi avevano riconosciuto, in
fondo
ero pur sempre Leonardo Sogno, uno dei calciatori in lizza per il
Pallone
d’Oro.
In
quell’occasione, per la prima volta in tutta la mia esistenza, mi
sentii in
imbarazzo sotto quegli sguardi. Non mi era mai successo prima, anzi.
Ero io
stesso che cercavo di mettermi al centro dell’attenzione, a creare
scandalo per
far parlare sempre più di me.
Adesso invece
era come se mi sentissi spiato, quasi come se dovessi proteggere
Celeste dagli
sguardi indiscreti del mondo che me la volevano portare via.
Che volevano
rubare quell’attimo soltanto nostro.
«Ora sei
sporca anche tu,» sorrisi, indicandole il lato del labbro che avevo
appena
baciato.
Lei sussultò
sorpresa afferrando un tovagliolo e pulendosi, poi mi guardò più
felice. Sapevo
di doverle dare ancora molte spiegazioni, di dover riparare ad errori
che non
avrei potuto farmi perdonare nemmeno dopo una vita intera.
«Andiamo?»
proposi, dopo che avevamo finito di consumare la bevanda.
Ci alzammo,
imbacuccandoci per bene a causa del freddo rigido di quel giorno, e
uscimmo in
strada, passeggiando l’uno accanto all’altra.
Il telefono di
Celeste all’improvviso squillò ed io pensai immediatamente che si
trattasse di
uno dei suoi amici che avevamo lasciato indietro.
«Pronto?»
disse. «Sì, stiamo bene. Siamo andati per conto nostro. Torniamo verso
l’ora di
cena, certo. In albergo, okay,» poi chiuse la chiamata.
Rimise il
telefono nella tasca del cappotto, poi infilò la sua mano nella mia.
Gliela
strinsi, cominciando a strusciarci il pollice sopra perché era gelata.
Lei mi
sorrise e continuammo a camminare vicino le sponde del Tamigi.
«Sai, era da
un po’ che volevo chiederti una cosa…» disse lei, facendomi scorrere un
brivido
dietro la schiena.
Pensai subito
al peggio, magari riferito proprio a quella reazione che aveva avuto
poco
prima. Era soltanto la quiete prima della tempesta. Mi irrigidii
all’istante.
«C-Certo…»
bofonchiai.
Lei mi fissò
dubbiosa. «Sembra tu sia parecchio nervoso, o sbaglio?» mi domandò
sorridendo.
«No, cosa te
lo fa credere?» dissi, fingendo indifferenza.
Celeste
abbassò lo sguardo. «Mi stai stritolando la mano, ecco cosa me lo fa
credere,»
ridacchiò.
Senza
rendermene conto, mollai la presa e mi grattai la nuca imbarazzato. Era
strano
come sudassi freddo. Celeste mi rendeva nervoso neanche fosse il nostro
primo
appuntamento.
«Mi piace,»
aggiunse poi. «Si vede che non sei più il Ruben dei primi giorni che ci
siamo
conosciuti. Adesso sei molto più normale. Un ragazzo comune,» affermò.
Sorrisi.
Leonardo Sogno
e “normale” non erano due parole che erano mai andate d’accordo,
considerando
il mio passato. C’erano stati momenti in cui avrei dato tutto pur di
mettere la
mia carriera al primo posto, sarei passato anche sul nostro stesso
Capitano.
Il mio sogno
era sfondare, diventare famoso, prendere tutto ciò che la vita aveva da
offrirmi.
Ora come ora
mi pareva così futile tutto quello.
Celeste mi
aveva insegnato che c’era dell’altro dietro, che potevo aspirare a di
meglio.
Avevo ventidue anni e la mia carriera sarebbe finita attorno ai
trentacinque,
circa. E dopo? Non mi ero mai posto il problema di quello. Non mi era
mai
minimamente passato per la testa.
Per me aveva
sempre contato il presente, vivere attimo per attimo.
Il futuro era
soltanto il domani, il giorno successivo e nient’altro. Invece Cel
aveva
progetti ben precisi, aveva organizzato la sua vita passo dopo passo,
senza
tralasciare nulla.
«Grazie a te,»
le dissi sincero.
Camminammo per
qualche altro metro, poi vidi in lontananza l’imponente ponte di ferro.
Il Millennium Bridge svettava come
un drago
d’acciaio adagiato sulle sponde del fiume, con la cresta dorsale fatta
di
persone che camminavano frettolose giungendo da una parte all’altra del
Tamigi.
«Sai, mi
chiedevo chi avesse spedito i biglietti che ci hanno permesso di venire
qui per
la partita,» mi chiese lei, spiazzandomi.
Biglietti? In
effetti, non mi ero posto il problema di come
fossero giunti a Londra con così poco preavviso.
«N-Non so di
cosa stai parlando,» ammisi guardandola. Sperai che quello fu
sufficiente a
farmi credere, visto il mio passato non proprio sincero.
Celeste mi
scrutò a fondo. Voleva vedere se realmente le stessi mentendo oppure se
fosse
unicamente l’ennesima sceneggiata che mettevo in atto.
Le presi le
mani e la guardai. «Lo giuro. Non ti avrei mai costretta a venire qui.»
Lei si spostò
una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio, poi fissò le nostre
mani
intrecciate. «Nessuno mi ha costretta a venire,» ammise. «Dentro di me
sapevo
che se fossi venuta qui, c’era un’alta probabilità di incontrarti…
eppure non
ho saputo oppormi,» confessò.
Continuammo a
camminare in silenzio, l’uno di fianco all’altra.
Avremmo dovuto
prenderci del tempo per riuscire a tornare come prima. C’era ancora
troppa
tensione che aleggiava attorno a noi, come se le bugie fossero ancora
nuvole di
fumo che ci impedivano di vedere.
Le dita mi si
strinsero contro il freddo metallo di quel ponte, così anonimo da
succhiarmi
via tutto il calore dal corpo. Il sole lentamente scendeva
all’orizzonte,
tingendo di rosa e di azzurro quel timido spruzzo di giorno che ancora
s’intravedeva attraverso l’incombere della notte.
Mi voltai
verso Celeste, incrociando il suo profilo illuminato dell’ultimo raggio
d’oro
di quella giornata d’Aprile.
Era
bellissima, quasi come se la stessi sognando. Avvolta in un’aura
confusa, in un
bagliore che di rado sembrava reale.
Forse mi
innamorai di lei ancora più di prima.
Realizzai che
ormai ero fregato e c’era ben poco da fare per riuscire a migliorare le
cose.
Che avessimo avuto occasione per chiarirci oppure no, questo non
avrebbe mai
cambiato cosa lei era stata in grado di farmi.
Mi aveva
scottato, bruciato, marchiato. Ed era rimasta la cicatrice, ora più
visibile
che mai.
***
La luce che a
poco a poco abbandonava la città mi fece sentire come io stessa fossi
andata
via. Mi lasciai andare a quel senso di abbandono, sentendomi sempre più
piccola
e confusa.
D’improvviso
mi mancò l’aria e cercai un contatto con Leonardo. Scoprii che mi stava
fissando. I suoi occhi verdi avevano assunto la tonalità dell’oro,
riempiendosi
di pagliuzze colorate che lo facevano brillare ancor più di quanto non
facesse
di solito.
La magia di
quel momento s’impresse nella mia memoria quasi come una fotografia,
stampata e
conservata in un vecchio album di ricordi.
Cercai la sua
mano e la strinsi di nuovo.
Era curioso
come cercassi sempre un contatto con lui, un modo per suggerire alla
mia mente
che fosse realmente tangibile e non un semplice sogno.
Sentivo di
dover ancora colmare quella curiosità riguardante i biglietti
dell’aereo e la
prenotazione che era stata fatta a nome nostro, ma gli occhi di
Leonardo mi
avevano parlato e ci avevo visto soltanto la sincerità.
Mi fidavo di
lui, adesso.
Pian piano mi
sarei abituata a concedergli di più, un passo alla volta. Se dovevamo
concederci una seconda occasione, allora avrei fatto le cose per bene.
Senza
risparmiarmi.
«Sai,» disse
lui, interrompendo quel silenzio surreale che si era creato su quel
ponte. «Non
avrei mai creduto di ritrovarmi di nuovo su questo ponte.»
Di nuovo?
Lo fissai
interrogativa e lui mi sorrise.
«Venivo ogni
Natale qui a Londra, in modo che potessi passarlo insieme a quel
deficiente di
mio cugino, Gabriele e Sofi,» soffiò. «Un modo per riunire la famiglia,
visto
che vivevamo così distanti durante il resto dell’anno.»
Era strano
come riuscisse a parlare così liberamente pur sapendo che mi stava
raccontando
una parte importante della sua vita. Lui che non era riuscito ad
aprirsi
nemmeno quando fingeva di essere qualcun altro.
«Venivi qui
con la tua famiglia?» gli domandai.
Lui sorrise e
scosse la testa. «Con Ruben,» disse ed io sussultai a quel nome. Era
ancora
difficile per me collegarlo al suo amico rachitico, quella specie di
talpa con
gli occhiali.
Leonardo si
accorse del mio cambio di espressione. Diede un calcio stizzito ad un
sassolino
che rotolò giù dal ponte.
Poi lo sentii
sbuffare contrariato.
«Mi dispiace,»
disse sincero, senza alzare lo sguardo. Era in quei momenti che
riuscivo a
capire quanto davvero fosse dispiaciuto di avermi mentito.
Gli posai una
mano sul braccio. «È tutto apposto,» lo incitai.
Lui mi
sorrise, poi tornò a guardare davanti a sé. «Beh, niente. Venivamo qui
io e
Ruben e facevamo i piani sul nostro futuro. Di come saremmo diventati a
vent’anni e tutte quelle robe lì da ragazzini,» sorrise.
«Non sono robe
da ragazzini,» lo ammonii, pizzicandogli un fianco. Lui si dimenò e mi
sorrise.
«Sono i sogni che formano il carattere di quando poi diventiamo
adulti,» gli
spiegai. «Spesso e volentieri sono questi desideri che ci fanno andare
avanti e
ci rendono quello che siamo.»
A quel punto
la sua mano si posò dietro la mia nuca e, senza alcuno sforzo, mi
strinse a sé.
Affondai il viso nel suo cappotto, beandomi del calore di
quell’abbraccio. Mi
era mancato tremendamente, ma ancora non riuscivo ad ammetterlo ad alta
voce.
Mi era mancato
il suo profumo, il modo in cui mi sorrideva e quei gesti impulsivi che
spesso e
volentieri mi spiazzavano.
«Il tuo sogno
è quello di scrivere un libro?» mi chiese, lasciandomi senza fiato.
«Ci vorrei
provare,» dissi, senza aggiungere “ci sto già provando”.
Da quando
avevo scoperto la verità su Leonardo, il documento Word era rimasto in
un
archivio abbandonato della memoria del PC e non ci avevo più rimesso
mano.
Eppure, nei momenti di forte trasporto emozionale, avevo cominciato ad
imprimere i miei pensieri su carta, perché era quasi impossibile
fermarli.
Scrivere era
la mia unica fonte di liberazione, oltre che Ven.
Sentii le mani
di Leonardo accarezzarmi delicatamente i capelli e lo strinsi sempre
più forte,
circondandogli la vita con le braccia.
«Credo di non
essermi mai sentito così,» soffiò lui, baciandomi il capo.
Alzai lo
sguardo e incontrai i suoi occhi, così verdi da far male. «Così?»
chiesi
confusa.
«Bene,»
aggiunse lui, poi ridacchiò. «Non
so spiegarmi bene con le parole, in fondo sono pur sempre un
“troglodita”.»
Spalancai gli
occhi, sentendo un’immensa felicità scoppiarmi nel cuore. «L’hai detto
giusto,»
mormorai.
Lui mi fissò
confuso. «Che?»
«Troglodita, è
giusto. Niente trogo-che o trogo-qualcosa. L’hai pronunciato
giusto,»
realizzai, sciogliendo l’abbraccio.
Il ricordo di
quei momenti insieme mi colpì forte, nel profondo e mi sentii
improvvisamente
persa. Non avevo mai realizzato a fondo quanto Leonardo mi fosse
mancato,
quanto avevo rischiato di sacrificare a causa del mio orgoglio.
«Alla fine sei
riuscita ad insegnarmi qualcosa,» sbuffò lui.
«Ti amo,»
dissi, senza nemmeno realizzare quello che era uscito veramente dalle
mie
labbra. Sentivo il battito del mio cuore tamburellarmi nelle orecchie,
offuscando tutti gli altri suoni e svuotandomi la testa di tutti i
pensieri.
Sentii
Leonardo irrigidirsi e subito pensai di aver fatto la cazzata più
colossale
della storia.
Brava Celeste,
complimenti. Il modo più sicuro per
farlo scappare era questo, e tu ci sei riuscita in pieno.
Deglutii a
fatica, senza riuscire a scollare delle parole di scuse dal palato.
Rimanevano
lì, incastrate, senza riuscire a districarsi. Non era mai capitato che
lo
dicessi a qualcuno. Nella mia vita avevo avuto diverse delusioni
amorose, ma
era davvero raro che dicessi quelle parole.
Fu allora che
Leonardo, allarmato, mi afferrò per le spalle, fissandomi negli occhi
con lo
sguardo sgranato. «Cosa hai detto?» mi chiese, quasi urlando.
Rimasi
allibita da quel comportamento. Che avessi fatto un errore? Che si
fosse
arrabbiato? In fondo, dopo tutto quello che gli avevo fatto me ne
uscivo con
una frase del genere.
Con LA frase.
«S-Scusa,»
bofonchiai, senza avere il coraggio di ripeterlo.
Leonardo
allora si accorse di aver esagerato, così si ricompose. Posando una
mano dietro
la nuca, si agitò. «Sei sicura di quello che hai detto?» mi chiese,
titubante.
Stavolta fu il
mio turno di guardarlo in modo confuso.
«Sei sicura di
amarmi?» continuò poi, spiegandosi meglio. «Voglio dire, so di essere
quello
che sono, ormai ti ho dimostrato in più di un’occasione il mio livello
di
immaturità.»
Era nervoso.
Lo percepivo nell’alto livello di tremolio della sua voce.
Quel suo
tentativo di spiegarsi, mi fece tremare il cuore.
«Dico solo che
sei ancora in tempo per cercarti qualcun altro, magari qualcuno che non
sia un
deficiente come il sottoscritto, che non abbia una vita incasinata come
la mia.
Possibilmente, il cui nome non sia scritto su tutti i giornali della
Domenica,»
sospirò, accasciandosi contro la ringhiera. «Qualcuno che ti dica
sempre la
verità e che non si nasconda dietro qualcun altro,» ammise infine.
Gli sfiorai
delicatamente una spalla per paura che potesse andarsene. Era così
sottile il
filo che adesso ci univa. Arrivati a quel punto, l’elastico poteva
tornare
indietro e riunirci, rafforzandosi, oppure spezzarsi definitivamente.
Eravamo
arrivati ad un bivio.
«Credo che
questa scelta l’avessi già fatta tempo fa, inconsapevolmente,» gli
confessai.
Lui si voltò
quel tanto da guardarmi con la coda dell’occhio. Bagliori di verde
attraverso
quelle ciglia scure.
«Non credo di
essere adatto a fare il fidanzato,» sputò fuori con rabbia.
«Nessuno è
nato per farlo, come nessuno nasce per essere un calciatore, un
negoziante,
oppure un genitore. Si impara a farlo, ad esserlo, col tempo,» spiegai.
Rimanemmo a
guardare l’orizzonte finché l’ultimo spicchio di sole non scomparve
dietro gli
alti palazzi della City.
«Dovrei
imparare a farmi amare da te?» mi chiese confuso.
Scossi la
testa sorridendo. «È inutile che fingi di fare l’ingenuo,» dissi
spiazzandolo.
«Per quanto tu voglia far credere agli altri di essere uno sportivo
senza
cervello, lo so che qui sotto della materia grigia è rimasta,» dissi,
picchiettandogli il capo.
«Ahi!» si
lamentò lui, massaggiandosi la cute.
«Sei proprio
un bambino!» ridacchiai, sporgendomi per baciargli una guancia.
Rimanemmo a
fissarci mentre la notte sostituiva pian piano il giorno, con la gente
che
camminava frettolosa e il mondo che continuava a girare in quell’attimo.
«Sicura che ne
valga la pena?» mi chiese di nuovo, incorniciandomi il viso con le mani.
Annuii senza
pensarci due volte.
«So che
dobbiamo chiarire ancora molti punti,» spiegai, giocando coi lacci
della sua
felpa. «Che tornare a quelli di un tempo sarà molto difficile, ma
possiamo
provarci. Sei molto cambiato da quando ti ho conosciuto, e non penso
che
c’entri qualcosa il chiamarsi Ruben o Leonardo,» dissi sicura.
Allora mi
baciò di nuovo, stavolta senza alcuna riserva.
Mi alzai in
punta di piedi e gli circondai le spalle con le braccia, affondando le
dita
fredde nei suo capelli. Lo sentii rabbrividire e sorridere contro le
mie
labbra.
«Sei fredda,»
soffiò dolcemente sulla bocca, tornando a torturarla e vezzeggiarla.
«Tu no,
invece,» gli risposi, affondando le mani nel cappotto e cercando un
pezzo di
pelle nuda per farlo contorcere dai brividi.
«Smettila!»
ridacchiò come un bambino, mentre cominciammo a correre lungo il
Millennium
Bridge come se avessimo cinque anni o giù di lì.
Leonardo si
fermò prima di scendere le scale che avrebbero condotto sull’altra
sponda del
Tamigi. Mi guardò e mi tese la mano.
Non mi tirai
indietro e la avvolsi nella mia, senza pensarci.
«Sai, io non
sono molto bravo con le parole…» soffiò imbarazzato, cominciando a
camminare.
Mi strinsi
forte a lui, cingendogli il braccio quasi fosse un enorme orso di
peluche. «Lo
so,» dissi enigmatica. «Ho capito quello che vuoi dirmi. La risposta è
“anch’io”»
Poi ci
allontanammo mentre la notte avvolgeva in una calda coperta scura la
capitale
inglese. Ci sarebbe stato altro tempo per affrontare il discorso, per
chiarirsi
ancora di più. Alla fine le parole era più che superflue ormai.
Leonardo si
era scusato, aveva persino pensato che meritassi qualcuno di meglio
perché si
sentiva inadeguato. Cos’altro potevo pretendere da lui? Quando lo avevo
conosciuto era il classico tipo egoista che pensava soltanto a sé
stesso, senza
curarsi degli altri.
Nessuno aveva
affrontato un cambiamento di questo tipo per me. Ed io non potevo che
esserne
orgogliosa.
***
Una volta
tornati in hotel, la notte era scesa completamente e trovammo il resto
del
nostro gruppo spaparanzato sui divanetti della hall.
C’era anche
gran parte della mia squadra.
«Ehi bello,
fatto la passeggiata?» ammiccò Marco, ridacchiando insieme a Daniele.
Era ovvio che
mi stessero paragonando ad un cane. Strinsi forte la mano di Celeste e
per la
prima volta me ne sbattei.
«Ho fatto
anche una bella pisciata, sulla macchina qui fuori,» ghignai.
Borriello era
solito portarsi dietro la sua Corvette un po’ ovunque, compreso lì a
Londra. Mi
pareva più che giusto prendermi una piccola vendetta.
«Spero tu stia
scherzando,» sibilò contrariato.
Sorrisi e
cercai lo sguardo di Celeste che approvò quello scherzo in silenzio.
Tra la
folla seduta su quei divanetti, fui lieto di non scorgere la fastidiosa
presenza di mio cugino Simone.
Riuscimmo a
trovare due posti a sedere, proprio accanto ai miei compagni di squadra.
Notai che
Robbeo stava tenendo banco e tutti i giocatori pendevano dalle sue
labbra.
«È importante
mantenere il possesso del pallone. Se gli avversari non riescono a
portarvi via
palla, non avranno occasione di fare goal. Il segreto è tutto nel
possesso, nel
non sprecare i palloni in inutili rimesse dal fondo.»
«Sai, ‘sto
prospero non ha cattive idee,» mormorò Daniele, indicando il Rosso.
«Ovviamente,
peccato non usi il 100% delle sue capacità intellettive,» osservò
Annalisa
piccata.
Romeo le
lanciò uno sguardo interrogativo e lei gli arruffò i capelli per
dispetto.
Era ancora
strano vedere Annalisa così spensierata. Io che la conoscevo da tempo,
mi
sentivo strano nel saperla così genuinamente felice. Non era più la
ragazza
superficiale e viziata che voleva a tutti i costi essere la mia
fidanzata, non
era la stessa Annalisa che voleva strapparmi dalle mani di Celeste per
avermi
tutto per sé. Soltanto per la popolarità.
Quella che
avevo davanti, era una ragazza reale. Un tipo di persona che avrei
preso
sicuramente in considerazione se si fosse mostrata così anche prima.
Celeste posò
il capo sulla mia spalla.
«Penso di non
riconoscerla
più,» mi soffiò nell’orecchio, attenta a non farsi udire dagli altri.
Le
sorrisi perché stavamo pensando la medesima cosa nello stesso momento.
«Sembra
proprio che anche lei si sia tolta finalmente la maschera.»
Annuì contro
il mio petto. «Credo che Jean abbia fatto un favore a tutti.»
«Non me lo
nominare…» ringhiai frustrato. «Quella specie di viscida lumaca non
merita di
vivere.»
Sentivo ancora
il brivido di quegli occhi azzurrissimi su di me e quel ricordo mi fece
accapponare la pelle. Era stato lui la causa di tutto, dei miei
problemi,
dell’allontanamento da Celeste, avevo quasi rischiato di mandare al
diavolo la
mia carriera per lui.
Ma sentii
ancora una volta la stretta di lei attorno al mio braccio.
Un’ancora che
mi riportava sempre alla realtà.
«Adesso è
finita. Jean non si è comportato bene, lo ammetto. Ma tutto ciò non
sarebbe
successo se mi avessi detto prima la verità,» sussurrò lei, guardandomi
seria.
Aveva ragione.
Potevo dare mille volte la colpa al Lumacone francese, ma alla fine
avevo fatto
tutto da solo. Era stata la mia codardia, il mio bisogno di aggrapparmi
a
qualcosa, anche ad un’identità fittizia, per sfuggire alla paura.
Sì. Perché alla
fine era stata la paura di una
relazione a farmi mentire.
«È stata colpa
mia sin dall’inizio,» ammisi, più a me stesso che a Celeste.
«Oh! Che noia
questo calcio!» borbottò subito Venera, imponendosi sulla conversazione
che
ormai stava prendendo soltanto una piega. «Possiamo cambiare argomento
o giuro
che impazzisco se sento un’altra volta di “cross” o “dribbling”!»
Tutti ci
voltammo a fissarla all’unisono, allibiti.
Celeste
scoppiò a ridere subito dopo, così come Daniele e Marco.
L’unico che
non ci trovava nulla di divertente era Robbeo. Aveva incrociato le
braccia al
petto e fissava l’amica di Cel come se volesse incenerirla.
«Buonasera,
ragazzi!»
D’improvviso
la voce di Mr. Cavalli ruppe quel clima d’ilarità e leggerezza che si
era
creato in quella hall anonima di un albergo. Il padre di Annalisa
piombò alle
nostre spalle quasi come un avvoltoio.
«Buonasera,
Mr. Cavalli.»
«’Sera.»
«Salve…»
«È un vero
piacere vederla.»
Pressoché
queste furono le frasi di rito che tutti gli rivolgemmo, quando l’uomo
canuto
si avvicinò alle poltroncine.
«Non voglio
rubarvi molto tempo, tranquilli,» iniziò, incrociando le mani davanti a
sé e
fissandoci negli occhi. Non avevamo mai avuto occasione di conoscere il
presidente così da vicino, ma quella sera sembrava ben intenzionato a
farci una
sorta di discorso alla “Ogni maledetta Domenica”.
«Volevo solo
farvi i complimenti per questa sera, per la vittoria, per aver regalato
alla
società una marcia in più in Europa. Complimenti davvero,» sorrise,
scambiando
sguardi con ognuno dei suoi giocatori. Poi i suoi occhi verdi
incrociarono i
miei e mi sembrò come di rimanere senza fiato.
Celeste mi
strinse forte la mano.
«Leonardo, c’è
una cosa di cui dovremmo discutere una volta tornati a Roma. Non ti
spaventare,
ma penso che troverai la notizia interessante,» sorrise.
Mi gelai come
una statua di ghiaccio.
Il presidente
della società si chinò a baciare la figlia, stringendole forte la mano
e
accarezzandole quei capelli così rossi da sembrare fiamme danzanti. In
seguito
notò anche Romeo e vide come il braccio di lui era attorno alla vita
della
ragazza.
D’improvviso
pensai che Celeste si sarebbe ritrovata con un migliore amico
decapitato – un
po’ fuori luogo visto che non era Halloween – ma Mr. Cavalli si limitò
a
tendergli la mano.
Il Rosso la
strinse titubante.
«Sono felice
di averti conosciuto,» disse, poi si allontanò tranquillo e silenzioso.
Ci guardammo
tutti piuttosto perplessi, mentre Annalisa tentava in tutti i modi di
scongelare Robbeo che era rimasto nell’identica posizione con cui aveva
stretto
la mano al presidente.
«Non posso
crederci… Ho stretto la mano all’uomo che stimo da una vita… non me la
laverò
mai più…» continuava a ripetere, come in trance.
«Ma smettila
di fare il cretino!» sibilò Venera, mollandogli uno scappellotto.
«Ehi! Non
toccarlo, stupida gallina!» le ringhiò contro Annalisa, portandoselo
dietro le
spalle quasi come avrebbe fatto mamma leonessa con i suoi cuccioli.
Quello fu il
segnale che fece alzare il resto della squadra.
Daniele e
Marco mi si avvicinarono. «Insomma ci sono grandi notizie in arrivo,
eh?»
«Sembra di
sì,» commentai, senza allegria nella voce.
Davvero, non
sapevo cosa aspettarmi e da quando mi ero ricongiunto con Celeste,
l’idea di
qualche sorpresa dalla società non mi allettava più di tanto.
«Non sembri
contento,» notò Daniele.
«Già, a
quest’ora avresti fatto mille supposizioni e ti saresti vantato di
lasciare
finalmente la nostra squadra di perdenti,» aggiunse Marco.
Celeste mi
fissò allibita.
«Ops!»
mormorarono in coro i miei amichevoli
compagni di squadra.
«Diciamo che
non so cosa aspettarmi,» mormorai, abbracciando la mia neo-fidanzata.
Ancora
non credevo di poterla chiamare realmente così.
Marco allora
le allungò la mano. «Finalmente ci conosciamo,» sorrise.
Daniele lo
imitò subito dopo. «Era ora che Leonardo ci presentasse colei che lo ha
fatto
finalmente scendere dal piedistallo,» ridacchiò.
«Devo
ammettere che è stato difficile,» sorrise, pizzicandomi un fianco. «Ha
davvero
un ego enorme.»
«E non solo
quello!» mi vantai, sfruttando sempre i doppi sensi.
Tutti mi
fissarono annichiliti. «Sei sempre il solito,» commentò Cel acida.
«Che ne dite
di andare in qualche pub? Finiamo la serata in bellezza visto che
domani si
parte,» propose Marco, mentre Daniele era andato ad avvertire il resto
del
gruppo.
Cercai Celeste
per una conferma. Mi sembrava poco propensa ad uscire.
«Magari vi
raggiungiamo,» proposi. «Credo che la camminata ci abbia sfiancato.»
Dopo poco
arrivò anche Venera. «Voi non venite? Devo ammettere che per quanto
possano
essere senza cervello, uscire con un’intera squadra di serie A mi farà
prendere
punti sul profilo di facebook!» disse ridacchiando.
«E se
incontrate Simone?» le dissi, sapendo quanto avessimo in comune.
L’amica di
Celeste mi stava simpatica soprattutto quando prendeva di mira quel
cretino
senza cervello.
Mi liquidò con
un gesto della mano, quasi come se stesse scacciando via una mosca
fastidiosa.
«Che si impiccasse, quello! Nessuno deve azzardarsi ad offendermi. Non
lo
permetto a quel microcefalo di Robbeo, figurarsi quel novellino col
moccio al
naso.»
BEM. Quattro
frasi e già lo aveva mandato alla gogna.
«Sono stanca,
Ven. Preferiremmo rimanere qui,» disse Cel, sfiorandole un braccio.
Fu allora che
Venera la fissò sinceramente. Era sorprendente come indossasse e
smettesse
quella maschera di sarcasmo che si era faticosamente costruita attorno.
«Okay, allora
a domani,» sorrise allontanandosi.
Ben presto,
tutto il gruppo uscì chiassosamente dalla hall per andare a conquistare
qualche
luogo pubblico londinese, mentre io e Celeste rimanemmo ancora un po’
seduti su
quei divanetti.
Aveva posato
il capo sul mio petto e pigramente passava le dita sul mio avambraccio
in una
carezza lenta e piacevole. Quasi un solletico appena accennato.
«Cosa pensi
vuole dirti il tuo capo?» soffiò, quasi impercettibilmente.
Fissai il
soffitto, pensando a come rispondere. Non era facile affrontare un
argomento
così delicato, soprattutto perché la mia carriera era una sorpresa
continua.
«Non ho idea,»
ammisi. «Potrebbe trattarsi di una semplice trattativa di prestito,
oppure di
ingaggio per un’altra società, potrebbe essere un premio, un
riconoscimento o…»
e lì mi interruppi.
Celeste alzò
il capo quel tanto da fissarmi negli occhi. «Oppure?»
Le baciai la
fronte. «Trasferimento,» ammisi.
Era
innegabile. La probabilità che qualche talent scout dell’Arsenal mi
avesse
visto giocare, erano più che buone. Inoltre, avendo ripetuto più volte
di
essere disponibile a lasciare la Magica, perché convinto di non essere
sfruttato abbastanza, avevano messo le basi per promuovermi a candidato
possibile di un trasferimento.
Magari durante
il mercato estivo.
Celeste non
aggiunse nulla. In fondo, non c’era nulla di certo e prima di costruire
castelli in aria bisognava almeno avere la certezza delle basi.
«Dovrei
parlarne con Ruben. Non c’è nulla di ufficiale, ancora,» la rassicurai.
Fu allora che
si alzò in piedi, prendendomi per mano senza dire una parola. I suoi
occhi
azzurri già parlavano da soli.
«Vieni,»
sussurrò solamente.
Ci dirigemmo
verso gli ascensori, aspettando che arrivasse al pian terreno. Entrammo
nel
lussuoso macchinario, totalmente diverso da quel trabiccolo installato
nell’appartamento di Celeste.
Quando le
porte si chiusero, ci guardammo all’unisono scoppiando a ridere.
«Stai pensando
all’ascensore nel mio appartamento, vero?» mi accusò lei.
«Anche tu lo
stavi pensando!» ridacchiai.
D’improvviso
la abbracciai, quasi avessi bisogno di un qualche contatto. «Non mi
trasferiranno, vedrai,» le dissi sicuro.
Era evidente
come fosse preoccupata di quello. Se la nostra storia rimaneva in
piedi, era
soltanto per pura casualità. Il nostro rapporto era ancora fragile,
quasi come
una piantina sotto le amorevoli cure del suo giardiniere.
Ma l’inverno
era alle porte e forse avrebbe congelato tutto.
Un conto era
affrontare una vita insieme giorno per giorno, un passo alla volta. Un
altro
era vederci solo per pochi giorni al mese, magari di sfuggita.
Era troppo da
sopportare.
«Non
fasciamoci la testa prima di romperla,» mormorò lei sicura.
«Promesso.»
L’ascensore si
aprì sul corridoio del quarto piano, mentre ci dirigevamo alla ricerca
della
stanza 453. Vagammo per un bel po’ lungo i corridoio tappezzati di
moquette e
di tanto in tanto incontravamo qualche ospite che, come noi, si era
perduto nei
meandri di quella struttura immensa.
Io ci ero
abituato, infatti mi mossi sicuro alla ricerca del numero della stanza.
Celeste,
invece, si guardava intorno come se una bambina in un negozio di
caramelle
gigantesco.
«Di qua,»
mormorai sicuro, stringendole la mano.
Arrivammo sino
alla porta con i tre numeri in ottone sospesi sopra il legno laccato di
bianco.
Inserii la chiave magnetica nella serratura e attesi il “bip” del via
libera.
Due valigie
erano adagiate con cura vicino all’armadio della stanza, mentre una era
divelta
sul pavimento. Sembrava quasi fosse esplosa una bomba al suo interno.
«Robbeo… prima
o poi lo ucciderò,» ringhiò Celeste fissando il macello che il suo
migliore
amico aveva lasciato.
«Vabbé, non è
che la mia stanza è messa in condizioni migliori…» cercai di spiegare,
ma lei
mi fulminò con lo sguardo.
Di punto in
bianco cominciò nervosamente a rassettare i panni sparsi in giro,
ficcandoli
nella valigia con rabbia. «Per fortuna che io e te non viviamo
insieme.» disse,
sovrappensiero.
«Non ancora…»
Celeste si
bloccò con un paio di boxer rossi in una mano e una T-shirt dei Dire
Straits
nell’altra. I suoi occhi erano grandi come piattini da caffè.
«Cosa hai
detto?» chiese, con voce strozzata.
A quel punto
mi avvicinai a lei. Le tolsi delicatamente quegli indumenti dalle mani
e le
posai le mani sui fianchi, avvicinandola a me. Con le dita le sfiorai i
tratti
del viso, imprimendoli nella mia mente come avrebbe fatto un non
vedente.
Poi la baciai.
«Un passo alla volta, ricordi?» soffiai, contro le sue labbra.
La bacia
ancora, ancora una volta.
«One
step closer…» canticchiò lei,
spingendomi sempre più verso il letto alle mie spalle.
Scusate per
il ritardo nell'aggiornamento, ma, come ho detto nel gruppo, ho aderito
alla Klaine!Week nel fandom di Glee e sono stata un po' impegnata, ma
adesso sono tornata più carica di prima! Yeeeeeeeeee :3
Siamo finalmente arrivati agli sgoccioli della storia, adesso manca
qualche capitolo d'assestamento e poi il gran finale *W*
La cucciolosità di Leonardo è infinita, e penso che anche se molte di
voi preferiscono suo cugino Simone, Leo è sempre rimasto nel mio tenero
Quoricino sin dall'inizio #myfirstlove.
Detto ciò, conto di rispondere alle recensioni presto, sia di questo
capitolo che di quello di ILWY.
NOTIZIA IMPORTANTE:
Il gruppo Crudelie si nasce... sta per essere cancellato e sostituito
con un nuovo gruppo in cui è "necessario" mandare un MP per spiegare le
motivazioni per cui si vuole entrare. Bisogna partecipare ed essere
attivi, altrimenti non vi segnate >.<
L'MP potete mandarlo a me o ad una delle admin:
|
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Capitolo 3 *** Capitolo 18 ***
Mi
svegliai a causa del sole che fece prepotentemente capolino al di là
delle
pesanti tende che adornavano le finestre di quella stanza d’albergo.
Sbadigliai
e cercai conforto nel calore morbido che sentivo alle mie spalle.
Sorrisi.
Leonardo
dormiva come un bambino, con tanto di rivolo di bava sul cuscino a
completare
quell’opera davvero buffa. I capelli ricci completamente spettinati e
il
respiro pesante.
La
voglia di tendere le dita per accarezzarlo era troppa, forse sarei
stata troppo
ingorda a non privarmi di quel gesto, e sicuramente lo avrei svegliato
interrompendo quella sorta di magia.
«C-Che
cosa vuoi fare?» disse,
fissandomi strana.
«One
step closer…» continuai a
canticchiare, facendolo stendere sotto di me e montandogli sopra a
cavalcioni.
Sicuramente,
quando avevo lasciato Roma, non avrei mai messo in conto tutto quello.
La
verità è che era successo tutto troppo in fretta e in qualche modo mi
ero
lasciata trasportare da un paese nuovo, da una nuova avventura, da
gente
attorno a me che si riscopriva, si amava per la prima volta oppure di
nuovo.
Come
Romeo e Anna.
Leonardo
borbottò qualcosa nel sonno e si agitò.
Le
tende si erano scostate abbastanza da far filtrare quasi per interezza
la luce
del giorno e temetti che prima o poi anche lui si sarebbe svegliato,
mettendo
fine alle mie riflessioni. Con cautela, mi alzai dal letto e in punta
di piedi
cercai di sigillare le pesanti tende scozzesi.
Lo
sguardo mi cadde su un quadernetto che avevo abbandonato sulla
scrivania di
quella stanza.
Mi
avvicinai e ne sfiorai la superficie con la punta delle dita.
Lanciai
uno sguardo a Leo che era ancora immerso nel mondo dei sogni, così
afferrai
quelle pagine con mano ferma, aprendo il quaderno e impugnando la biro
quasi
fosse stata un’arma. E lo era.
Da
sempre la scrittura si era rivelata un mezzo potente per diffondere una
notizia, come mezzo d’informazione, attraverso il giornalismo, ma
adesso mi
serviva soltanto per mettere in ordine alcune idee.
«Sei
sicura?» mormorò incerto.
La
premura con cui mi si
rivolgeva era quasi commovente, così mi ritrovai a fissare i suoi occhi
verdi
intensamente. Gli accarezzai una guancia, anche se eravamo mezzi nudi.
Mi presi
tutto il mio tempo per assaporare quello che sarebbe stato uno dei miei
più
vividi ricordi.
«No,
non sono affatto sicura,»
mormorai, con voce tremante. «Eppure sento di doverlo fare. Di fidarmi
ancora,
ancora una volta…»
I
ricordi di quella stanza erano talmente vividi che sembravano
intrappolati
nelle pareti. Era come se la carta da parati fosse impregnata dei
nostri
gemiti, delle urla e delle preghiere rivolte al cielo. La penna
scorreva su
quelle pagine di carta bianca quasi fosse guidata da una forza
invisibile e ad
ogni sospiro di Leonardo, il mio cuore faceva una capriola.
Vederlo
dormire era come vegliare su di lui, proteggendolo dal mondo esterno.
Da quel
mondo che lo aveva costretto a crescere troppo in fretta, a non godersi
affatto
le gioie di un’adolescenza che aveva forgiato i nostri caratteri.
“Nostri”,
delle persone normali.
Sentii
il bisogno improvviso di specchiarmi nei suoi occhi verdi, immensi come
praterie d’estate, ma repressi quell’egoistico desiderio per godere
ancora
della sua figura inerme e addormentata.
Avevo
indossato la sua maglietta e il profumo della sua pelle mi avvolgeva
come in un
caldo abbraccio.
Ricominciai
a scrivere e mi accorsi che le parole si materializzavano da sole, con
una
semplicità che per giorni avevo tentato di emulare. Era come se aver
ritrovato
la serenità con Leonardo, avesse permesso al mio animo di scrittrice di
liberarsi dalle catene che lo bloccavano, che mi impedivano di
esprimermi come
avrei desiderato.
Era
proprio vero quando si diceva che bisognava viverle, le emozioni, per
poi
trascriverle su carta.
«È
una cosa… mera… ah…
meravigliosa.»
La
sua voce roca e accaldata ancora risuonava nelle mie orecchie,
facendomi
rabbrividire. Era stata una notte intensa, forse una delle più
emozionanti
della mia vita. Anche se in passato avevo già donato il mio cuore a
qualcuno,
che me lo aveva ridato completamente a brandelli, questa volta c’era
stato uno
scambio equo.
Ero
sicura che se avessi scavato più a fondo, lì dentro il mio petto, avrei
visto
battere non solo la metà del mio, ma anche un pezzetto del cuore di
Leo. Di
quel ragazzo che conobbi per caso, di quella storia che sentivo ancora
di dover
raccontare.
Quando
scendemmo per fare colazione, dopo che Leonardo si era svegliato in una
piena
crisi di panico perché non mi aveva vista al suo fianco, trovammo quasi
tutta
la truppa seduta ad un immensa tavolata.
«Non
farlo mai più,» mi ammonì per la quattordicesima volta.
Lo
fissai di sbieco. «Ora non posso nemmeno andare in bagno senza il tuo
permesso?
Me la stavo facendo sotto!» sbottai.
Gli
occhi verdi di Leonardo si allargarono nel più genuino stupore. «Lo so,
ma non
capisci che trauma che è stato per me non trovarti… pensavo mi avessi
scaricato
lì.»
Certe
volte si comportava ancora come un bambino, un cucciolo che stava
appena
imparando a muovere i primi passi nella vita. Mi fece troppa tenerezza
e non
riuscii a tenergli il broncio per molto.
«Okay,
ti chiedo scusa. La prossima volta ti sveglio anche se devo andare a
pettinarmi
i capelli,» sorrisi.
Leo
fece quel suo solito sorrisetto furbo. «Quindi… a quando la prossima volta?» ridacchiò divertito.
Sbuffai
sonoramente, fingendo di essere infastidita, ma dentro di me sentivo
chiaramente il cuore che batteva forte nel petto. Era quasi umiliante,
ma
dovevo ammettere che era come se mi fossi innamorata per la seconda
volta, come
se si trattasse ancora delle prime uscite, dei primi timidi approcci,
dei baci
appena accennati.
Lo
stomaco mi faceva le stesse capriole.
Anche
perché non hai mai provato
questo genere di sensazioni con lui, ti faceva solo incazzare.
Aveva
ragione il mio subconscio.
La
nostra storia era immediatamente iniziata col piede sbagliato, con
l’orgoglio
da parte mia e il pregiudizio, sul fatto che Leonardo fosse il solito
belloccio
senza alcun briciolo di cervello e sentimento. Poi c’erano state le
menzogne, i
sotterfugi, le collaborazioni segrete con i miei migliori amici ed
infine il
mondo intero mi era crollato addosso.
Cercai
di scacciare via quei brutti pensieri, ma le cicatrici erano ancora
troppo
fresche per non far male.
«Ehi
piccioncini, siete spariti ieri sera…» ghignò uno dei compagni di
squadra di
Leonardo. Marco si chiamava?
Sinceramente non ricordavo…
Lo
vidi irrigidirsi come uno stoccafisso. «Celeste aveva sonno,» mentì
quasi… imbarazzato.
Era
troppo divertente vederlo annaspare in cerca d’aria, quando notai che
il suo
viso si stava tingendo lievemente di rosso. Aveva mentito, ma alla fine
era
piuttosto divertente vederlo tentare inutilmente di mantenere una certa
dignità.
«Sì,
e io mi chiamo Julio!» ridacchiò il biondo, quello con la barba da
Gandalf.
Il
resto della squadra si mise a ridacchiare, scambiandosi di tanto in
tanto delle
battutine poco piacevoli. Sentii la mano di Leonardo stringersi attorno
alla
mia, nervosamente.
«Scusami.
Se vuoi possiamo chiamare il servizio in camera…» mi disse, temendo che
mi
stessi offendendo a causa di tutti quei commenti.
Lasciai
la sua stretta e incrociai le braccia al petto, sfoderando un sorriso.
«A me
non da nessun fastidio, semmai quello imbarazzato mi sembri tu.»
«Boooooo!
La ragazza ha tirato fuori le palle!» e uno scroscio di applausi si
levò dalla
tavolata dove il testosterone regnava sovrano.
Leonardo,
se possibile, divenne ancora più color pomodoro.
«Io
mi vado a sedere vicino Ven, non ti dispiace, vero?» chiesi.
Lui
mi sorrise e annuì, poi si fiondò letteralmente addosso a quei suoi due
compagni che si erano presi gioco di lui sino a quel momento.
Sorrisi.
Era bello sentirsi parte di qualcosa, di nuovo.
«Buon
giorno, principessa,» ridacchiò la mia migliore amica, riferendosi
all’orario
poco mattiniero in cui avevo deciso di farmi vedere da tutti quanti.
Sbadigliai
composta. «Leonardo ci ha messo un po’ per svegliarsi, poi gli è preso
tipo il
panico quando non mi ha vista accanto a lui,» sogghignai.
«Magari
avrà pensato di aver sognato tutto…» ipotizzò Romeo.
«Chissà
tu quante volte ti sei svegliato sudato e bagnato pensando a chissà
quale corpo
femminile che ti si era miracolosamente concesso,» ironizzò Venera.
«Ehi!»
gli corse in aiuto Annalisa. «Non capisco il tuo bisogno di offenderlo
in
qualsiasi momento!»
«Calma,
è fatta così. Al posto del sangue, nelle vene le scorre l’acido
muriatico,»
ringhiò Romeo.
Presi
una fetta di pane tostato e avvicinai la marmellata, cominciando a
spalmarcela
sopra. Quelle liti mi lasciavano piuttosto indifferente perché da
quando li
conoscevo, Venera e Robbeo si erano sempre presi a parolacce.
C’era
ben poco da fare.
«Invece
a te non scorre nulla, perché sei un’ameba,» rispose la mia migliore
amica.
Non
c’era verso di farli smettere. Litigavano di continuo per qualsiasi
sciocchezza
ed io, alle volte, mi sentivo quasi di troppo.
Inoltre,
notai che Annalisa lanciava strani sguardi a Ven, quasi se stesse
sondando il
modo in cui si rivolgeva a Romeo. Dapprima non ci diedi molto peso,
poi, quando
volarono offese più pesanti, gli occhi verdi di Anna diventarono quasi
d’oro
per il fuoco che vi ardeva dentro.
«Ragazzi,
quando pensiamo di tornare?» chiesi, interrompendo la lite.
Romeo
fece spallucce.
Venera
sospirò. «Il più presto possibile, visto che devo rimettermi a studiare
se
voglio quantomeno entrare nei primi dieci del mio corso. Se ci riesco,
potrei
vincere una borsa di studio completamente spesata per andare a fare un
master a
Londra. Sarebbe un sogno.»
«Secchiona.»
«Microcefalo.»
«Se
continui di questo passo, ti sposerai uno dei tuoi libri polverosi!»
«Non
tutti sentono la necessità di scoparsi la prima cosa vivente che
incontrano.
Senza offese per la tua “ragazza”,» e mimò le virgolette con enfasi.
Non
capivo tutto quell’astio da cosa fosse scaturito, ma ben presto mi
accorsi che
Ven stava esagerando. Le diedi un colpetto al gomito e la redarguii con
uno
sguardo gelido.
«Che
c’è?» sbottò infastidita.
«Credo
che dovresti finirla di offendere. Certe volte superi il limite…» le
spiegai.
Venera
era fatta così. Il suo cinismo e la sua ironia, spesso e volentieri
abbastanza
divertente, alle volte sfiorava l’insopportabile. Le sue battute
finivano col
diventare delle pesanti offese, spesso lanciante in difesa a qualche
brutta
parola che le era stata rivolta.
Al
contrario di me, lei non riusciva mai a fidarsi completamente di una
persona.
Nel
corso degli anni, si era costruita attorno un muro così spesso e
solido, che
non sarebbe mai riuscito a crollare. Di tanto in tanto mi lasciava
scavalcare
quella parete, fatta di cinismo e acidità, ma soltanto per poco.
Quando
tentavo di scavare più a fondo, di risolvere il problema alla radice,
lei mi
ributtava fuori, cambiando discorso, respingendo anche l’ancora di
salvezza che
le avevo lanciato in più di un’occasione.
I
suoi occhi azzurri cercarono i miei, ma rimasero quasi del tutto
impassibili.
Era
come se quel mio ammonimento non l’avesse minimamente toccata e dalla
sua
espressione sembrava dire “tanto farò
comunque come mi pare”.
Venera
era così: o prendevi tutto il pacchetto in dotazione, oppure lo
rifiutavi. E se
accettavi di essere sua amica, dovevi esserlo con tutta te stessa
perché lei
non concedeva mai sconti.
Quando
finimmo di fare colazione, Leonardo andò con il resto della squadra al
ritiro
post-partita che avrebbe avuto luogo in una delle sale per le riunioni
dell’albergo, così io mi ritrovai nella hall, mentre Venera era tornata
in
camera nostra a prendere un cambio di vestiti.
Si
era arrabbiata molto per il fatto che l’avessi praticamente chiusa
fuori dalla nostra stanza.
Aveva
addirittura blaterato sul fatto che il cugino di Leonardo l’aveva quasi
invitata a casa sua per passare la notte.
Come
se questo fosse possibile.
Venera lo avrebbe sbranato a morsi.
Romeo,
invece, era stato chiamato da Mr. Cavalli e si era quasi precipitato da
lui
come un cagnolino obbediente.
Annalisa
era rimasta.
Eravamo
sedute l’una di fronte all’altra, ma sembravamo quasi delle estranee.
Come
potevo rivolgermi a lei, quando aveva tentato in più di un’occasione di
allontanarmi da Leonardo solo per un suo tornaconto?
Pensai
che, alla fine, ero circondata da persone che adesso si definivano
“amiche”, ma
che in passato mi avevano fatto più torti che un nemico giurato.
Leonardo
mi aveva mentito sulla sua identità e sulla sua carriera.
Romeo
lo aveva coperto, raccontandomi un mucchio di bugie.
Ero
più che sicura che anche Venera sapesse, ma come al solito si era
tenuto tutto
per lei.
Annalisa…
beh, lei era stata quasi sincera a dirla tutta.
«Non
capisco se la tua amica ce l’abbia o meno con me,» disse
all’improvviso,
cercando il mio sguardo.
Cercai
di riordinare le idee per capire a cosa si riferisse. «Scusami?»
Annalisa
si spostò una ciocca di capelli ramati dietro l’orecchio. «È come se
provasse
qualcosa nei confronti di Romeo, anche se lo prende sempre a male
parole,»
soffiò confusa.
Aveva
le mani raccolte in grembo e continuava a torturarsi le dita.
Per
poco non scoppiai a ridere. «Davvero, io li conosco da quando avevamo
dodici
anni e se ci fosse stata una qualche chimica tra di loro, me ne sarei
accorta…»
affermai.
«Già,
sei famosa per la tua perspicacia,» insinuò.
Evidentemente
si riferiva al fatto che non avessi capito sin da subito le bugie che
Leonardo
continuava a raccontarmi. «Scusami, non volevo,» aggiunse poi. «È che
questa
cosa mi sta torturando. Io non ho niente contro la tua amica, anche se
è
davvero odiosa, però mi infastidisce il modo in cui offende Romeo.»
«Scusami
tu, ma fino a qualche settimana fa lo sfruttavi neanche fosse il tuo
schiavo,»
le risposi.
Tanto
valeva scoprire le carte.
Sentivo
che era molto cambiata da quando c’eravamo viste l’ultima volta, ma non
poteva
permettersi di sparare sentenze quando lei era stata la prima a
comportarsi in
modo scorretto sia con me, che con il mio migliore amico.
Sorrise
e annuì. «Sono stata una vera stronza,» ammise.
«Nemmeno
poco!» ridacchiai, avvicinandomi a lei e sedendomi al suo fianco. Presi
le sue
mani nelle mie per impedirle di rovinarsi ancora.
I
suoi occhi verdi si specchiarono nei miei. «Stai tranquilla. Venera e
Romeo
hanno uno strano modo di raffrontarsi, però sono sicurissima che non si
tratta
di quello che pensi tu. Per quanto io possa essere stata ingenua con
Leonardo,
posso dire che il sentimento che provavo per lui mi ha reso cieca, però
quando
si tratta di Romeo, per cui non provo assolutamente niente,»
mi sentii in dovere di sottolineare, visto che il mio
migliore amico mi aveva confessato di aver avuto sempre una specie di
cotta per
me. «Ti direi di non crucciarti. È soltanto nella tua testa, non c’è
nulla tra
quei due.»
Annalisa
sembrò tirare un sospiro di sollievo e tranquillizzarsi, finalmente.
Strinse
anche lei le mie mani, rafforzando in qualche modo quello strano legame
di
amicizia che si era creata tra di noi.
«Non
vorrei sembrare ancora più stronza di quanto sono già, ma la tua amica
ha
qualche problema?» chiese imbarazzata. «Ne ho vista passare tanta di
gente
sotto i miei occhi, soprattutto se frequenti le feste dell’alta
società, ma
un’acidità del genere è rara da trovare. Le è successo qualcosa in
passato?
Okay, non sono affari miei…» aggiunse subito, alzando le mani.
Quella
domanda mi colse impreparata. Per quanto conoscessi Ven, non sapevo
quasi nulla
della sua vita privata perché non mi lasciava mai entrare. Snocciolava
sì
qualche particolare, di tanto in tanto, ma erano come briciole di pane
ed io mi
sentivo tanto la piccola Gretel che le seguiva obbediente sino alla
casa della
strega.
«Non
ti scusare,» le dissi come prima cosa. «Parlare di Venera non è mai
semplice.
Diciamo che per quanto tu possa conoscerla, anche se sono passati anni,
non
saprai mai nulla di lei se non è lei stessa che vuole fartelo sapere. È
abbastanza riservata su se stessa.»
E
mi ci era voluta Annalisa per capire chi la mia migliore amica fosse in
realtà.
«L’importante
è che tutto si sia risolto per il meglio, no?» mi disse sorridendo.
«Già,»
asserii.
Passò
qualche minuto di silenzio in cui non seppi cos’altro aggiungere e
sperai con
tutta me stessa che Romeo o chi per lui interrompesse quel momento
d’imbarazzo.
Annalisa si era rivelata una persona con molta più sostanza di quanto
mi sarei
mai immaginata, ma dall’odiarla a diventare amiche intime richiedeva
molto più
tempo.
Per
fortuna, la nostra vacanza poteva definirsi conclusa.
***
Eravamo
sul volo delle 18.30 che avrebbe lasciato l’aeroporto di Heatrow in
perfetto
orario, alla volta della Capitale. Non so con quale tipo di magheggio o
di arte
oscura, Annalisa era riuscita ad includere sul boeing privato 876 della
British
Airways anche Celeste e i suoi due amici.
Quella
ragazza ne sapeva una più del diavolo, dannazione.
Infatti,
non appena la squadra si era messa comoda sulle poltrone ampie della
prima
classe, lei sparì di punto in bianco, portandosi dietro quel poveraccio
di
Romeo che ormai la seguiva come un’ombra.
Sospirai
e pensai a quello che era successo la notte scorsa con Celeste. Sorrisi.
Di
certo non potevo biasimare la Cavalli, perché in fin dei conti ciò che
avevamo
desiderato più di ogni altra cosa al mondo si era avverato proprio lì,
in
Inghilterra, grazie a tre meravigliosi biglietti spediti da un anonimo
benefattore.
O benefattrice.
Accanto
a me era seduto Ruben, intento a leggere uno strano libro che parlava
di
bilancio.
Ora.
Non seppi precisamente che differenza ci fosse tra “annuale”,
“trimestrale” o
bilanciere, ma lui sembrava abbastanza assorto che non mi andava di
disturbarlo.
Anche
se avevo un certo sospetto.
Celeste
non sapeva chi avesse spedito quei biglietti, e per quanto potevo
saperne, di
sicuro non era stato Simone. Punto primo, non gliene fregava niente del
sottoscritto, anzi, se Celeste non fosse giunta all’Emirates, di sicuro
avremmo
perso la partita. Punto secondo, era troppo coglione. Punto terzo, non
ci
sarebbe stato nessun guadagno da parte sua, allora perché scomodarsi?
Mi
arrovellai il cervello tentando di capire chi avesse potuto davvero
farmi un
favore così grande, ma ogni opzione sembrava poco valida. C’erano Marco
e
Daniele, ma a loro non avevo detto nemmeno come si chiamava la ragazza
di cui
mi ero innamorato, come avrebbero potuto reperire il suo indirizzo o
quello del
Rosso?
E
poi perché far venire anche Romeo e la tappa dal nome strambo?
Posai
la testa sul bracciolo della poltrona e fissai la moquette che
rivestiva il
pavimento dell’aereo. C’era qualcosa che mi sfuggiva, qualcosa di
davvero
importante.
Innanzitutto,
il misterioso benefattore doveva quantomeno conoscere l’indirizzo di
casa di
Celeste e quindi potevo escludere tutte quelle persone a cui non avevo
mai
parlato di lei. Praticamente avevo fatto fuori l’intera squadra della
Magica.
Facendo
mente locale, contai i rimanenti. C’era ovviamente Annalisa che, anche
se aveva
giurato su tutte le lentiggini di Romeo che lei non ne sapeva
assolutamente
niente, non potevo fidarmi. In fondo, aveva i mezzi per pagare quei
biglietti,
per farli recapitare senza che nessuno sospettasse nulla…
Troppe
coincidenze.
I
miei compagni di squadra li avevo già esclusi. Nessuno mi conosceva
abbastanza
bene da fare una cosa del genere.
Ruben
mi sfiorò accidentalmente il braccio e fu in quel momento che ebbi
un’epilessia.
Epifania.
È
uguale!
«Sei
per caso a conoscenza di tre biglietti d’aereo per Londra recapitati
all’indirizzo di Celeste e Romeo?» chiesi al mio migliore amico, con il
naso
premuto all’interno del libro che stava leggendo.
Ruben
s’irrigidì e non rispose.
Almeno
non subito.
«N-No…»
balbettò, come suo solito. «N-Non cr-cre-credo d-di a-ave-avrer m-mai
p-pre-p-prenotato d-de-dei big-biglietti p-pe-per Lo-Lon-Lo-… la
capitale
I-Inglese,» concluse, senza mai staccare gli occhi dal suo volume.
Gatta
ci cova. Sentivo chiaramente il puzzo di bugia da almeno due chilometri
di
distanza, anche perché, a conti fatti, Ruben era davvero l’unico in
grado di
spedire quei biglietti. Conosceva Celeste, sapeva dove abitava, era
molto
legato al sottoscritto, tanto da rischiare un’operazione del genere pur
di
risollevare la mia storia con lei.
Sprofondai
ancor di più nella poltrona dell’aereo.
In
fondo, cosa me ne sarei fatto della sua confessione scritta? In fin dei
conti,
chiunque avesse spedito quei biglietti d’aereo, mi aveva soltanto fatto
un
immenso favore e mi aveva davvero salvato il culo, per non usare altri
termini.
«Grazie,»
mormorai solamente, senza spiegarne il motivo.
Che
fosse stato Ruben o meno, lo dovevo ringraziare. Era il mio migliore
amico da
sempre, il fratello che non avevo mai avuto, il cugino che avrei desiderato avere, al posto di quel
deficiente di Simone,
perciò gli sarei stato riconoscente in ogni caso.
Ruben
sorrise e a me bastò solo quello.
«Come
sta Sofia?» gli chiesi, cercando di prenderlo sovrappensiero.
Il
mio migliore amico sfogliò un’altra pagina aiutandosi con un po’ di
saliva e si
sistemò meglio gli occhiali sul viso. «Bene,» rispose, quasi senza
ragionarci
su.
Sorrisi.
«L’hai
salutata prima di partire, vero?» insistetti.
«Certo.»
Non
balbettava. Quando si parlava di Sofia, di lavoro o dell’AS Roma, Ruben
non
balbettava mai ed era questa la cosa più sconcertante. Avevo il
sospetto che
tra quei due ci fosse qualcosa, del tenero,
ma né Simone né Gabriele mi avevano mai detto nulla.
«Quindi,
quando conti di dirmi che voi due state assieme?» sparai.
Tanto
valeva consumare tutte le cartucce subito, senza esitare. Ruben
sembrava
abbastanza disponibile ad aprirsi in quel momento.
Lo
vidi scattare sulla poltroncina dell’aereo e finalmente abbassare quel
dannatissimo libro.
«C-Co-Co-Che?»
farfugliò rosso in volto.
In
quel preciso istante arrivò Celeste, che si sedette di malagrazia sulle
mie
ginocchia interrompendo l’interrogatorio con un profondo bacio che mi
distrasse
a sufficienza.
«Ehi…»
soffiò ridacchiando sulle mie labbra.
Le
posai le mani sui fianchi e sorrisi a mia volta. «Ehi.»
«C-Credo
che a-andrò un attimo a-alla toil-toil- al bagno,» disse Ruben,
alzandosi in
fretta e furia e inciampando sulle sue stesse scarpe.
Celeste
lo fissò impensierita. «Il tuo amico Ruben
cos’ha?» s’informò, sottolineando il nome come se facesse ancora fatica
a
distinguerci.
Per
lei eravamo sempre stati gli opposti. Io Ruben e lui Leonardo.
Questa
cosa mi faceva ancora male, ma non glielo dissi.
«Ho
il forte sospetto che abbia qualcosa in porto con mia cugina Sofia, ma
non so
il perché non vuole parlarmene,» le confessai.
Magari
Celeste avrebbe potuto darmi qualche consiglio utile.
Sorrise.
Era sempre bella quando sorrideva.
«E
ci sarebbe qualcosa di sbagliato se stessero insieme?» mi domandò.
Effettivamente
non avevo mai pensato a questo. Insomma, Sofia era la mia piccola
cuginetta,
non ancora maggiorenne ma non per questo immatura. Ruben era il mio
migliore
amico da sempre.
«No,»
scossi la testa. «Non ci sarebbe nulla di male, anzi.»
«Però…?»
incalzò lei, come se sentisse da qualche parte, forse in fondo allo
stomaco,
che c’era ancora qualcosa che non avevo chiarito.
Ci
pensai su un attimo, mentre giocherellavo con le dita di lei.
«Però
Sofia è una Sogno…» dissi, come se quel cognome, inevitabilmente,
portasse dei
guai alla nostra famiglia. «E sta scalando lentamente le classifiche
londinesi
con una sua nuova hit. La fama fa parte integrante della nostra
famiglia,» le
confessai.
Lei
mi osservò tranquilla, infilando una mano nei miei capelli e
accarezzandoli.
«Ruben questo lo sa, è amico tuo da secoli. Alla fine è anche tuo
manager, è
abituato a intrattenere rapporti con persone famose.»
«Il
fatto è che noi ci conosciamo sin da piccoli, da quando non eravamo
altro che
ragazzini impauriti dalla nostra stessa ombra,» aggiunsi. «E se per
caso
andasse male tra di loro? Se alla fine mi venisse chiesto di scegliere
tra la
mia famiglia e il mio migliore amico?»
Già,
forse la stavo buttando troppo sul tragico. Celeste mi sorrise,
rassicurandomi.
«Stai
correndo troppo. Secondo me non ti chiederebbero mai di scegliere,
soprattutto
se sono veri amici come lo è Ruben.» Stavolta il nome lo disse con più
naturalezza ed io mi sentii stranamente più leggero.
Le
cose stavano cambiando, tutto si stava lentamente aggiustando
come un vecchio carillon dimenticato.
«Hai
ragione,» asserii.
«Come
sempre!» ridacchiò lei, pungolandomi con l’indice sul petto, mentre
Ruben tornò
strascicando i piedi sulla moquette e ciondolando, indeciso se tornare
al suo
posto ed interrompere un nostro momento idilliaco oppure far finta di
niente.
«Ehi
amico, vieni qui,» gli dissi, e lui sorrise imbarazzato.
«Io
vado da Ven, ragazzi. Credo non si senta tanto bene sull’aereo,» disse
Celeste,
alzandosi e lasciandomi al famoso “discorso” che avrei dovuto fare al
mio
migliore amico.
Si
chinò leggermente per sfiorare le mie labbra in un timido bacio, poi
svanì nei
posti dietro ed io rimasi a contemplare la trama della moquette.
Ruben
nel frattempo prese di nuovo posto al mio fianco, agguantando il libro.
È
in quel momento che lo trattengo, impedendogli di aprire la pagina.
«Secondo
me, non saresti dovuto salire su questo aereo,» mi venne da dire, forse
un po’
troppo avventatamente.
Ruben,
infatti, sgranò gli occhi preoccupato e da dietro le spesse lenti le
sue iridi
castane sembrarono ancora più enormi. Quasi come quelle di un cucciolo
di
cerbiatto.
«C-Ci-Cioè?
H-Ho f-fa-fat-fatto qualcosa d-di sba-sbagliato?» s’informò, tremante.
Subito
cercai di rassicurarlo. «No, no, tranquillo. Non ti sto licenziando di
certo,»
lo calmai. «È solo che, beh, forse saresti dovuto rimanere a Londra…»
incespicai. «…rimanere da Sofia.»
Il
mio migliore amico sgranò gli occhi.
C’era
qualcosa di realmente profondo radicato in lui, lo potevo leggere
attraverso le
sue iridi così grandi. Non mi ero mai accorto di quanto tenesse a mia
cugina:
possibile che fossi stato così cieco?
Beh,
in questo periodo sei stato
piuttosto impegnato…
In
effetti.
Gli
diedi una pacca sulla spalla. «Credo che voi due sareste proprio una
bella
coppia,» conclusi, dandogli il mio benestare, anche se non ero né il
fratello
maggiore né il padre di Sofia.
Inoltre,
sapevo alla perfezione che Simone non sopportava Ruben, quindi averlo
come
quasi-cognato lo avrebbe mandato lentamente ai pazzi e quella cosa mi
faceva
sorridere parecchio.
«G-Grazie
m-ma…» tentò di aggiungere, senza trovare le parole adatte.
«Cosa?»
chiesi.
Lui
mi fissò ancor più imbarazzato. Non potevo credere che la pelle umana
potesse
raggiungere quel livello di rossore.
«N-Non
c-cre-credo d-di i-inte-interess-interessarle p-poi t-ta-tanto…»
commentò.
Fissai
il mio migliore amico intensamente. C’era qualcosa in Ruben che lo
faceva
sempre dubitare di sé stesso, anche quando le cose erano piuttosto
evidenti.
«Perché
dici questo?» gli domandai, allora.
Avrei
dovuto farlo ragionare, almeno per dargli qualche speranza in più. Con
Sofia io
non parlavo molto, diciamo che era la più piccola della famiglia ed io
l’avevo
sempre vista come una sorella minore. Non sapevo come comportarmi
riguardo a
questioni del genere.
Ruben
si sistemò meglio gli occhiali sul naso. Deglutì a fatica, imbarazzato.
«I-Io
n-non ho m-mo-mol-tanto successo co-con le r-ra-ragazze…» sussurrò.
«P-Po-Poi
S-Sofi…» e lasciò la frase sospesa, come a intendere che lei era ben
più di una
semplice ragazza.
«Ruben,
ascolta,» dissi coinciso. «Io non sono nessuno per dirti quello che mia
cugina
prova nei tuoi confronti, però, da quel poco che ho visto quella sera a
Soho…
diciamo che ho notato qualcosa effettivamente,» confessai.
Era
del tutto vero, visto che avevo avuto il sospetto.
Gli
occhi castani di Ruben si aprirono in un genuino stupore. «D-Di-Dici
davvero?»
pigolò.
Una
pacca sulla spalla e un sorriso. «Puoi starne certo, amico,» ridacchiai.
Ripensandoci,
mia cugina Sofia era stata sempre un tipo esuberante, espansivo.
Sorrideva a
tutto e a tutti, senza differenze, e capire chi o cosa le interessasse
per
davvero era dannatamente difficile. Di una cosa, però, ero certo: era
una
Sogno, e, come tale, sapeva mascherare bene i suoi sentimenti.
Ruben
sembrava molto più tranquillo adesso, come il sottoscritto.
Visto
la sua malleabilità, decisi che avrei almeno dovuto tentare di indagare
sulla
questione dei biglietti.
«Senti
ma…» iniziai, evasivo. «Ho notato sui movimenti del tuo conto, una
certa somma
che hai speso per tre biglietti Roma – Londra, o sbaglio?» buttai là.
Il
mio migliore amico s’irrigidì. «Q-Qua-Quando h-ha-hai v-vi-visto
l’e-l’estratto-conto?»
E
cadde puntualmente nella trappola.
Gli
sorrisi. Alla fine il mio sospetto era fondato, ma farlo confessare era
stato
tremendamente divertente. «Non l’ho visto,» ridacchiai.
Ruben
s’incurvò, mogio, affondando la testa nelle spalle. «M-Mi
d-di-dispiace…»
smozzicò.
Lo
tranquillizzai subito. «Altro che “mi dispiace”,» dissi sincero.
«Dovrei
esserti riconoscente per tutto il resto della mia vita.»
E
Ruben mi sorrise. Era davvero tornato tutto come prima.
***
L’aereo
atterrò all’aeroporto di Fiumicino verso le 9.00 di quella stessa sera.
L’intera squadra afferrò i propri bagagli a mano e si diresse verso
l’uscita,
mentre io aspettai che Leonardo e gli altri miei amici si preparassero.
«Allora?
È finita questa vacanza, eh?» ridacchiò Venera, che sembrava quella più
sollevata di essere finalmente tornata a casa.
Non
che odiasse Londra, anzi. Mi aveva più volte detto che, se ne avesse
avuta la
possibilità, ci si sarebbe trasferita senza alcun indugio. Diciamo che
era
allergica alle squadre di calcio e in quei tre giorni di permanenza
aveva fatto
indigestione.
«Si
torna alla vita di sempre…» piagnucolò Robbeo.
«Alla
tua vita sfigata di sempre,»
aggiunse
Ven punzecchiandolo.
«Taci,
nana!»
«Tappati
quella fogna caccolosa, prospero!»
Annalisa
si avvinghiò subito al braccio di Romeo per trascinarlo lontano da lì
il più
velocemente possibile, prima che ci fosse una strage.
Sorrisi.
Anche
se, in fin dei conti, la mia vita era totalmente cambiata, le piccole
cose
rimanevano sempre le stesse. I miei amici ci sarebbero stati sempre,
così come
i miei genitori.
Una
mano grande e ruvida strinse la mia.
E
Leonardo.
Lui,
adesso, faceva parte integrante della mia vita e ci sarebbe rimasto.
Gli
sorrisi e cominciammo a camminare lungo il corridoio dell’aereo. Le
nostre dita
intrecciate saldamente. Nessuno dei due che voleva perdere quel
contatto per
paura di dimenticare anche dell’altro.
Era
come se fossimo aggrappati a quell’aereo, come se Londra fosse stato
solo un
sogno e che prima o poi ci saremmo dovuti svegliare, di nuovo da soli.
«Ehi…»
mi disse lui.
«Ehi,»
gli sorrisi.
Salutammo
le hostess e ci dirigemmo verso il ritiro bagagli. La squadra procedeva
dritta
davanti a noi, mentre una folla di curiosi cominciava ad addensarsi
nelle
vicinanze. Quando giungemmo al rullo 9, quello corrispondente al nostro
volo,
c’era la ressa.
Rimasi
allibita vedendo la polizia tentare di lasciare lo spazio tra una folla
di
tifosi che gridava di gioia e il resto della squadra che li salutava
imbarazzati.
«Hai
paura?» mi domandò Leo, vedendomi trasalire quando uno di quegli uomini
tentava
in tutti i modi di scavalcare la sorveglianza per fiondarsi addosso a
Daniele,
credo.
Scossi
la testa, ma non ne ero poi tanto sicura.
Se
stare insieme ad un calciatore famoso, significava dove fare a pugni
con tutta
quella gente… non ero abituata a tutto quello.
Leonardo
cercò di nuovo la mia mano e la strinse.
Sapevo
di essere una sciocca, che chiunque avrebbe fatto carte false per
essere al mio
posto, eppure non riuscivo ancora a capacitarmi di tutta quella “fama”.
«Ehi
Leona’, sei un grosso!»
«A
bello, vie’ qua! N’autografo!»
«Chi
è lei, campio’? ‘A ragazza tua? Posso favve ‘na foto?»
Erano
i tifosi che urlavano al di là del muro di uomini della polizia che si
era
creato tra il corridoio e il rullo dei bagagli. Mi sentivo quasi
braccata.
Afferrammo
i bagagli, poi seguimmo uno della security che ci indicò la strada per
il
pullman della squadra che ci avrebbe ricondotti a casa dall’aeroporto.
Lanciai
un ultimo sguardo verso la folla dei tifosi e rabbrividii.
Mi
immaginai per un attimo io e Leonardo a fare una passeggiata per
negozi, a via
del Corso, o magari in un centro commerciale. Girare per le vetrine,
mano nella
mano, per poi venir assaliti da ragazzi che chiedevano una foto con
lui, o un
autografo oppure una ciocca dei suoi capelli.
«Manca
poco a casa,» mi sorrise Leonardo ed io ricambiai quel gesto un po’
stiracchiato.
Già,
mancava poco alla mia vecchia vita, al mio appartamento, alle mie
lezioni. Cosa
avrei fatto ora che frequentavo abitualmente una persona famosa?
Sarebbe
davvero cambiata la mia vita?
«Tutto
a posto, sis?» mi chiese Ven, accostandosi con il
suo trolley.
Annuii
un po’ titubante. Non la si faceva facilmente in barba alla mia
migliore amica.
Sapeva leggerti dentro in un modo che nemmeno riuscivo a fare con me
stessa.
«Sicura?»
«Forse…»
tentai.
Una
volta avvistata la porta scorrevole dell’uscita, fui invasa dal
terrore.
Appostati ai lati di un nastro che divideva la squadra dal resto del
mondo,
c’erano una marea di giornalisti con microfoni e registratori alla
mano, con
telecamere, macchine fotografiche.
Rimasi
quasi paralizzata dal terrore.
Non
ce la posso fare.
Strinsi
spasmodicamente la mano di Leonardo e lui si accorse che stavo
tremando. Mi
guardò come se fossi in pericolo di vita e dentro quegli occhi verdi
lessi
tanta tristezza.
Si
tolse il giaccone e me lo avvolse sulle spalle, tirando su bene il
cappuccio,
poi ci incamminammo verso il pullman senza dar retta a nessun
giornalista. Il
percorso che ci divideva dal mezzo non era tanto, durò pochi secondi,
ma furono
i più interminabili di tutta la mia vita.
«Ehi
campione, solo una parola?»
«Cosa
puoi dirmi sulla partita?»
«Avete
vinto, è stato un bene per la squadra averti come attaccante?»
«È
vero che hai giocato contro tuo cugino?»
Tutte
domande che rimasero senza risposta. Ci fermammo solo quando
raggiungemmo i
gradini del pullman e Leonardo mi tirò giù il cappuccio del giaccone.
Mi
sorrise di nuovo, ma era un sorriso amaro il suo.
«Mi
dispiace,» disse.
Salimmo
sul mezzo per poi accomodarci nei sedili posteriori.
Fissai
lo sguardo fuori dal finestrino, pensierosa, per poi vedere un omino
con una
macchina fotografica che cominciava a scattarmi delle fotografie.
L’insistenza
di quel flash negli occhi mi costrinse a chiuderli, riparandomi come
potevo con
le mani.
«Che
pezzo di merda!» imprecò Leonardo, tirando la tendina del pullman e
coprendomi
con un braccio. Mi strinse a sé, al suo petto, sussurrandomi ancora che
gli
dispiaceva.
Come al solito sono in
ritardo, ormai non vi chiedo più nemmeno scusa ç_ç
Ultimamente ho il tempo ridottissimo causa real!life e gli altri 13.000
impegni che ho preso e che mi tocca rispettare. Mi domando per quale
diavolo di motivo io debba segnarmi a millemila contest e poi realizzo
di non aver tempo di fare un tubo. e_e
Comunque! Tornando alla nostra storia, Leonardo e Celeste ormai
sembrano aver definitivamente superato questa "crisi" anche grazie a
LonTra e tutto il paesaggio che io amo alla follia (non si
era capito?). Un capitolo sommariamente di passaggio, tranne con
qualche risvolto verso il finale.
Aggiungo qui, nelle righe commentose, che questo sarà il penultimo
capitolo, quindi il prossimo sarà il capitolo finale - al massimo
seguito da un piccolo epilogo (devo decidere). Mi raccomando non vi
commuovete, prima o poi doveva finire T_T
Beh, spero che comunque sia stato di vostro gradimento. Tanto c'è
sempre Simo da seguire **
Detto ciò, vi saluto con tanto, tantissimo affetto e vi invito a
seguirci nel gruppo di facebook.
Bacioni, Marty
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Capitolo 4 *** Capitolo 19 ***
Continua
ciò che hai cominciato e forse arriverai alla cima,
o
almeno arriverai in alto ad un punto che tu solo
comprenderai
non essere la cima.
[Seneca]
Gli
allenamenti ripresero come ogni altro giorno e la vita,
il corso del tempo, le persone attorno a noi si muovevano come se
quella
routine non fosse mai cambiata.
E
non lo era, davvero.
Soltanto
io mi rendevo conto ogni mattina, quando scivolavo
fuori dal un letto vuoto, ma ancora caldo e mi guardavo allo specchio,
che quel
ragazzo che mi restituiva lo sguardo al di là del vetro non era più lo
stesso
di molti mesi prima.
Da
quando era iniziata tutta quella storia, ne avevamo
passate tante e davvero non avrei mai creduto di poter un giorno dire
di essere
finalmente cambiato, di aver messo da parte i bagordi e la bella vita
di un
calciatore ventenne e mettere tutto me stesso nelle mani di qualcun
altro.
Di
una persona comune.
Ne
hai fatta di strada
da quando pensavi che perfino le tue mutande sporche valessero oro, mh?
Valevano
oro! Ruben ne ha visto il prezzo su e-bay.
Sorrisi
a me stesso e vidi la mia immagine riflessa fare lo
stesso.
Persino
quelle battute squallide non mi divertivano più come
prima, si poteva quasi azzardare a dire che Leonardo Sogno, lo stesso
che in
una notte era volato a Barcellona soltanto per scoparsi una top model,
era
“maturato” finalmente.
E
tutto per merito di un’avventura nata da uno scherzo.
«C-Come
v-va?»
Ruben
bussò piano e fece capolino all’interno della mia
camera. Lo raggiunsi con un asciugamano che mi pendeva dalle spalle,
intento
ancora a frizionarmi i capelli dopo una doccia.
«Bene,
Celeste è uscita?» chiesi tranquillo.
Mi
aveva accennato che dopo la vacanza a Londra aveva delle
lezioni che avrebbe dovuto necessariamente recuperare, per non parlare
del suo
lavoro alla gelateria.
Il
mio amico annuì. «N-No-Non ho f-fa-f-fatto in t-te-tempo
nemmeno a p-pre-prepararle la c-co-col-lacolazione!»
s’impuntò.
Sorrisi.
Ovviamente
non mi stavo burlando della sua balbuzie, solo che
mi faceva sempre divertire il fatto di vederlo così
incespicante su certi argomenti, mentre su
altri riusciva a districarsi perfettamente tirando fuori vocaboli di
cui non
sapevo nemmeno il significato.
Cosa
che non mi
sorprende affatto.
Taci.
Era
da un po’ di tempo a quella parte che la voce del mio
“Ego” era stata lentamente spodestata da una qualche specie di
coscienza che
aveva il tono e le sembianze della Celeste armata di dito pungolatore.
Praticamente
un incubo!
«Non
preoccuparti, tanto c’è la mensa in facoltà,» gli
risposi tranquillamente.
Iniziai
a vestirmi, nonostante Ruben fosse ancora nella mia
stanza, forse in attesa di qualcosa. Afferrai la tuta della magica e
comincia a
infilarci una gamba.
«Vuoi
chiedermi dell’altro, Rub?»
Lui
si sfregò nervosamente le mani una con l’altra. «B-Beh…»
annaspò. «M-Mi ha t-te-telefonato la “Rolling Stones Italia”,» il nome,
ovviamente, lo pronunciò senza intoppi. «E m-mi ha ch-chi-chiesto s-se
s-se-sei
d-disponibile p-per un’intervista.»
Lo
fissai intensamente. Non capivo cosa ci fosse di tanto strano
in quello che doveva comunicarmi, in fondo non era né la prima né
l’ultima
volta che avrei rilasciato un’intervista nella mia vita.
Ero
pure sempre Leonardo Sogno, cazzo.
Sì,
ogni tanto il mio Ego tornava a fare capolino spodestando
la piccola Celeste che viveva ormai fissa dentro di me.
«Va
bene, la farò,» dissi tranquillo.
Lui
però non si mosse dalla soglia. «C’è d-dell’a-altro…»
balbettò, nervoso.
«Mh?»
Potevo
capire che fosse importante la cosa che stava per
dirmi, ma se avesse temporeggiato qualche altro minuto, avrei fatto
ritardo
agli allenamenti. Di nuovo.
Ruben
deglutì a fatica, così decisi di venirgli incontro.
«Bello,
senti,» mormorai, alzandomi e posandogli una mano sulla spalla. «Puoi
dirmi
qualunque cosa, tranquillo. Vogliono farmi delle foto nudo? Devo posare
per un
sexy-calendario? Ne parlerò con Celeste, e stai tranquillo che vorrà la
prima
foto autografata,» sghignazzai.
Lo
vidi arrossire. «M-Magari si tr-trattasse di q-quello…»
Okay.
Adesso stava davvero cominciando a spaventarmi.
Cosa
c’era di peggio di convincere Cel a vedere il mio pistolino
sui cartelloni pubblicitari e appeso ad ogni edicola
della città?
«Sputa
il rospo, Ruben.»
Lui
alzò timidamente lo sguardo su di me. «V-Vogliono
i-in-inter-intervistarvi
i-ins-insieme… t-tu e C-Ce-Celeste…»
«Cosa?»
Ora
ero davvero fottuto.
«L’a-articolo
d-dov-dovrebbe chi-chiamarsi “L’a-altra m-me-metà de-della f-fama” e
v-vo-vogliono f-fa-fare d-de-delle d-do-domande alle f-fi-fidanzate e
a-ai
fi-fidanzati d-de-delle persone f-famose.»
Guardai
il mio migliore amico come se da un momento all’altro il boia avrebbe
chiamato
il mio nome per una decapitazione in pubblico.
Scossi
la testa. «Non accetterà mai.»
«M-Ma-Magari
s-se glielo c-chie-chiedi c-con g-ge-gentilezza… p-potrebbe
p-po-portare m-molta
pub-pubblicità q-questo a-ar-art-articolo…» insistette.
Alzai
le mani in segno di resa.
A
Londra si era respirato un clima più mite per quanto riguardava i fans,
i
giornalisti e i paparazzi, ma l’esperienza di Fiumicino Celeste non
l’aveva mai
digerita.
Anche
se aveva ammesso che non era stato nulla, che l’aveva superata, per lei
quel
mondo era del tutto nuovo ed io avevo il dovere di proteggerla. Anche a
costo
di rinunciare ad un po’ di notorietà.
Ti stai sentendo? Non ti riconosco
più,
bello.
Taci tu! Fa bene, Celeste viene
prima di
tutto!
Chiudi il becco, gallina!
Chiudilo tu, ritardato!
Cercai
di spegnere le voci nella mia testa e pensare ad una soluzione
concreta.
Cercare di convincere Celeste era fuori discussione, di sicuro avrebbe
tirato
fuori argomenti come “cosa vuoi che gli dica? Che sei un demente
ritardato?”
oppure, nell’ipotesi peggiore, “E se ci fanno domande su come è
cominciata?
Dico loro che mi hai rifilato la balla di essere un fioraio e io, come
una
cretina, ci ho pure creduto?”
Okay,
di male in peggio.
«Credo
che dovremmo rinunciare, Ruben,» asserii mogio.
Lui
annuì. Evidentemente aveva fatto gli stessi miei conti. «V-Va b-bene.
Li
a-avverto.» E lasciò la stanza.
Libero
finalmente di vestirmi, mi avvicinai alla scrivania dove la mia ragazza
aveva
lasciato acceso il suo laptop. Mossi curioso il mouse, giusto per
controllare
le previsioni del tempo, ma la prima schermata che si accese fu quella
di un
foglio di scrittura.
Era
da un po’ di tempo, in effetti, che la vedevo indaffarata a
picchiettare giorno
e notte le dita sui tasti, ma avevo sempre pensato che si trattasse di
cose
universitarie. Dalle citazioni presenti nel foglio e dai discorsi
diretti
racchiusi nelle virgolette, riconobbi che quello non era un saggio
bensì
qualcosa scritto da lei.
Sembra un libro.
Eureka! Ci sei arrivato prima o
dopo aver
letto “capitolo 18”?
Dovevo
ricordare al mio Ego di liberarsi il più presto possibile di
quest’altro lato
della mia coscienza che si era insinuato nella mia mente.
Ora
avrei dovuto davvero chiudere lo schermo. Dovevo.
Il
vecchio Leonardo avrebbe curiosato tutto il resto della mattina,
arrivando pure
in ritardo agli allenamenti facendo incazzare il mister a morte e si
sarebbe
anche fatto beccare da Celeste, che magari aveva notato qualcosa di
diverso nel
suo computer.
Presi
un bel respiro e rimisi il pc in stand-by.
Da
tutta quella storia avevo imparato almeno un paio di cose: non far
incazzare
mai né Celeste, né il Mister perché la prima mi avrebbe mandato in
bianco per
il prossimo mese e mezzo, lasciandomi sfogare con Ludovica (la mano
amica), e
il secondo se la sarebbe legata al dito finendo per relegarmi in
panchina o
facendomi fare una cinquantina di giri di campo.
«Ruben,
io vado!» E detto ciò mi fiondai giù per le scale diretto a Trigoria.
***
La
lezione del professor Porelli era talmente lenta e prolissa che ero
stata
costretta a posare il mento sulla mano per non lasciar ciondolare la
testa nel
vuoto.
L’idea
di tenere le palpebre aperte con il nastro adesivo – cosa che Robbeo
aveva
fatto sul serio – non sembrava poi una cattiva idea ora come ora, dopo
che mi
ero ridotta a darmi i pizzicotti di nascosto pur di non dormire in
classe.
Il
resto del corpo studentesco era ormai nel mondo dei sogni.
Gli
studenti seduti in fondo all’aula si erano direttamente sbracati sui
sedili,
utilizzando i cappotti come cuscini e calandosi gli occhiali da sole
sul viso.
Quelli seduti nel mezzo erano ricorsi a tecniche avanzate di
camuffamento, in
modo da non destare sospetti in Maria-Ernesto Porelli, professore di
Lettere
Antiche.
«Non
ho scritto una riga da quando siamo entrati,» mi confessò Romeo.
Vederlo
con lo scotch che gli tirava le palpebre albine fino alla fronte lo
faceva
assomigliare ad una specie di orribile fenomeno da baraccone.
Per
dirla alla “Leonardo”: è un cesso a
pedali.
Posai
lo sguardo sul mio blocco degli appunti. Immacolato proprio come quando
lo
avevo acquistato dalla cartoleria lì di fronte.
Sbuffai
infastidita. Non era da me boicottare una lezione in quel modo, solo
che non
facevo altro che pensare al romanzo. Mancava poco alla conclusione ma
dovevo
trovare un finale degno di essere chiamato tale e non la solita
cavolata di due
righe, contenente una morale squallida e inverosimile.
Romeo
sbadigliò, in modo da farmi contare almeno quattro carie all’interno
della sua
bocca.
«Senti,»
mi disse dopo poco. Uno “SHHHH”
sonoro si levò da metà fila, verso la nostra direzione ed io sussultai
sulla
sedia.
Marika
Ventimiglia, la secchiona che sedeva quasi in bocca al professore, ci
fissava
entrambi come se volesse privarci della testa utilizzando uno spadone
affilato
come in uno di quei romanzi fantasy.
Romeo
le mostrò il dito medio e lei si inacidì maggiormente. Il mio migliore
amico
tornò a sorridermi tutto gongolante. «Ha una cotta per me,» disse
sicuro, ed io
ci credei davvero poco.
«Stavi
dicendo?» lo incalzai.
Odiavo
quando la gente lasciava i discorsi a metà, soprattutto quando non
avevo voglia
di ascoltare il Porelli che continuava a spiegare con una flemma che
avrebbe
fatto suicidare persino Socrate.
«Dunque.»
Romeo si accorse ben presto di non poter sbattere le palpebre a causa
del
nastro adesivo e i suoi occhi stavano diventando rossi. Sembrava come
indemoniato. Mentre parlava cominciò a staccarsi lo scotch e a sibilare
dal
dolore.
Era
proprio un babbeo.
«Annalisa
mi ha chiesto-ahi!» bofonchiò. «Se una sera di queste-porcaputtana!
Usciamo
tutti e quattro insieme, visto che ormai-cazzo! Siamo ufficialmente due
coppie…»
Premesso
che ancora stentavo a fidarmi della rossa, l’idea di andare in uno di
quei
ristoranti a cui era abituata mi metteva ancora più in agitazione della
presenza dell’ex-psicopatica del mio attuale fidanzato.
«Non
credo che Leo voglia…» mentii.
La
comodità di avere qualcuno con cui condividere la propria vita era che
finalmente potevo smollargli anche metà della colpa.
«Ha
già confermato, gli ho telefonato prima,» gongolò Robbeo.
Purtroppo
avere un fidanzato calciatore, che è l’idolo del tuo migliore
amico-nerd non
giova affatto.
Romeo
mi afferrò il braccio entusiasmato. «Eddai! Chissà quando ci ricapita
l’occasione di rimpinzarci in uno di quei ristoranti gné-gné dove ti
portano
delle mini-porzioni e te le fanno pagare cinquanta euro l’una!»
«E
tu come farai a pagare il conto?» gli chiesi, con ovvietà.
Anche
se mi reputavo una donna indipendente, sapevo che il mio stipendio da
Bombolo
non avrebbe mai coperto le spese di uno di quei ristoranti di lusso, o
almeno
sarebbe bastato per il primo piatto.
Romeo
era persino messo peggio di me.
A
quel punto lo vidi arrossire. «Il signor Cavalli mi ha fatto ottenere
un
lavoretto nella sua società,» smozzicò. «Non è un posto di rilievo, ma
guadagno
abbastanza bene e posso pagarmi anche al retta all’università.»
Rimasi
di sasso. L’idea che anche Romeo-babbeo potesse essersi finalmente
responsabilizzato mi metteva in una posizione di disagio. Era come se
io stessa
non riuscissi a migliorare, a crescere…
Forse perché eri già “grande” prima.
«Che
ne dici? E poi bisogna festeggiare!» trillò estasiato.
Lo
guardai sospettosa. «Che cosa, esattamente?»
Roteò
gli occhi al cielo, infastidito forse dalla mia ingenuità.
«L’intervista, no?
Non hai saputo?»
«Quale
intervista?»
Pensai
immediatamente che quel demente di Leonardo mi avesse tenuto nascosta
l’ennesima notizia,
come se non fossero
bastate tutte le bugie del passato.
«Cadi
proprio dalle nuvole a volte,» borbottò. «La rivista Rolling
Stones Italia sta cercando dei personaggi famosi che escono
con persone “normali”, come noi. Intervisteranno Annalisa e quindi
hanno
invitato anche me! Non trovi che sia stupendo?»
Sorrisi.
Alla fine non si era trattato di una bugia da parte di Leo, e quella
era la
cosa che mi sollevava di più in tutta quella faccenda.
Poi
però mi ritrovai a riflettere.
«Meraviglioso…»
commentai.
Strano che non lo hanno chiesto
anche al
tuo boy-friend, no?
«…ma?»
tentai di aggiungere, poi preferii tacere. Se non lo avevano chiesto a
Leonardo, un motivo c’era. Meglio così. Non ero poi tanto sicura di
riuscire ad
affrontare un’intervista a cuore aperto dopo che la nostra relazione si
teneva
in piedi su dei pioli traballanti.
Romeo,
però, fu più veloce di me. «Se ti stai chiedendo il perché non ci siete
anche
tu e Leo, ebbene lui ha rifiutato l’intervista,» gongolò.
Stranamente
non mi sentii sollevata, anzi.
Riflettendo,
avevo già messo in tavola dei pro e dei contro a tutta quella faccenda,
ma il
fatto che Leonardo avesse preso una decisione che riguardava entrambi
senza
prima consultarmi, mi lasciò di stucco.
D’accordo
che a me poco importava. Un’intervista non mi avrebbe di certo cambiato
la
vita, anzi, mi avrebbe messo al centro dell’attenzione dei riflettori,
mi
avrebbe fatta uscire allo scoperto ed io ero segretamente terrorizzata
da
questa cosa.
Seguivo
i programmi in tv e leggevo le riviste di gossip, o almeno quelle che
Anna
lasciava in giro per casa quando dormiva da Romeo.
«E
perché?» chiesi, quasi senza volerlo.
Romeo
scrollò le spalle. «Anna ha telefonato a Ruben e lui le ha solo detto
che non
ci sarete per l’intervista. Non ha detto altro.»
Sentii
la rabbia montarmi dentro.
Punto
primo, stavo perdendo un mucchio di tempo cercando di decifrare ciò che
quella
mummia del Porelli stava scrivendo sulla lavagna a ritmo di una lumaca
con
l’artrosi; punto secondo, Leonardo mi avrebbe ascoltata per bene una
volta rientrato
dagli allenamenti.
«Sembra
che i tuoi occhi sputino fuoco e fiamme…» osservò il mio migliore
amico.
«Deduco che la cena questa sera è rimandata?»
Un
ringhio basso fuoriuscì dalla mia gola e quello bastò a zittire Romeo
per il
resto della giornata.
Ero
rimasta tutto il pomeriggio nel salotto dell’appartamento di Leonardo e
Ruben,
con il televisore spento e una pila di libri da leggere. Dovevo
recuperare una
decina di letture, ma con quella frustrazione che avevo dentro mi
ritrovavo a
leggere la stessa riga una ventina di volte.
Dio, se mi sente quando torna!
Questo
era il pensiero che più o meno si materializzava ogni quarto d’ora
nella mia
mente, spodestando gli scritti De
Maupassant e Hugo.
Controllavo
con ossessione l’orologio del soggiorno, così come la porta
dell’ingresso.
Erano
le 17.15 del pomeriggio e la luce del giorno cominciava a svanire dalla
finestra, così accesi una piccola lampada vicino al divano. Rimasi
assorta nel
leggere le disavventure di Fantine e di Jean Vanjean tanto da non
accorgermi
della chiave che di punto in bianco girò nella toppa.
«Ehi!»
mi salutò Leonardo sorridente, togliendosi sciarpa e cappotto.
Anche
se lo avevo aspettato tutto il pomeriggio col solo intento di farmi una
sana
litigata, lo ignorai. Doveva capire da solo il motivo per cui mi ero
inviperita
in quel modo.
Si
avvicinò cercando i miei occhi, ma gli sfuggii.
«Si
può sapere cos’hai?» chiese, sedendosi sul bracciolo del divano in
pelle. Dopo
qualche minuto del mio eterno silenzio, sospirò. «Ho forse fatto
qualcosa di
sbagliato?»
Deo gratias, ci era arrivato!
«Tu
che dici, mh?» sibilai, acida. Lanciai il libro dei Miserabili sul
tavolinetto
da caffè, senza curarmi nemmeno di dove fosse finito.
Leonardo
assunse quell’espressione da cucciolo bastonato che non capiva affatto
cosa
avesse fatto di così erroneo. Si grattò la testa confuso.
Gli
occhi verdi spalancati e spaesati mi fecero quasi desistere dall’essere
così
stronza.
Quasi.
«Una
certa intervista non ti dice
nulla?»
gli ricordai, alzandomi in piedi e puntellando le mani sui fianchi.
Trattenevo
a stento il piede che, di sua iniziativa, cominciava a picchiettare il
pavimento.
Leonardo
sgranò gli occhi. «Da chi…?» tentò di chiedere, ma lo bloccai.
«Non
è importante da chi l’ho saputo, il punto è: per quale motivo non ne
hai
parlato con me prima di rifiutare di netto? Non conto niente?» sputai
fuori.
Okay,
forse era una reazione esagerata per una cosa tanto futile, ma dovevamo
lavorare su questa relazione ora che eravamo agli inizi. Non ci tenevo
a subire
per anni e poi esplodere come una pazza isterica chiedendo il divorzio
o chissà
cosa.
Il
calciatore si portò una mano dietro la nuca, nervoso. «Ho pensato di
fare la
cosa giusta, sai…» Gesticolò.
«Mi sono
chiesto quali domande avrebbero potuto farti, e la maggior parte erano
imbarazzanti.»
«Del
tipo?» lo esortai, sfinita.
Leonardo
sospirò, affranto. Il suo comportamento riconobbi era diverso dal
solito, come
se effettivamente avesse messo me al primo posto, piuttosto che pensare
al suo
di tornaconto.
«E
se ti domandassero dove ci siamo conosciuti? Come è iniziata la nostra
storia?
Tu cosa risponderesti?» gridò di punto in bianco, facendomi sussultare.
«So
perfettamente che è colpa mia tutto questo, il fatto che tu non possa
nemmeno
vantarti di avere un fidanzato famoso senza poter raccontare la parte
in cui io
ti ho presa in giro tutto quel tempo… mi dispiace.»
Le
braccia mi caddero lungo i fianchi, inerti.
Non
riuscivo nemmeno a parlare, a muovere le labbra, perché tutto ciò che
mi aveva
rivoltato in faccia corrispondeva all’esatta realtà dei fatti. Forse
ero stata
troppo precipitosa, magari l’idea che mi avesse data per scontata mi
aveva
accecata verso le reali motivazioni di quella decisione, e, infatti, mi
sentivo
una sciocca.
Dopo
qualche minuto cercai i suoi occhi verdi. «Mi dispiace,» dissi, e mi
fiondai
tra le sue braccia. Leonardo mi accolse senza dire nulla, mi strinse a
sé
forte, tanto che sentii il suo cuore battere attraverso la tuta.
«Scusami, hai
fatto bene. Hai ragione, sono stata una stupida ad urlarti contro solo
che…»
smozzicai, confusa e imbarazzata.
Lui
mi accarezzò i capelli. «Pensavi che ti avessi messa da parte?»
ipotizzò con un
sorriso.
Alzai
il capo e incrociai il suo meraviglioso sguardo e annuii. Si chinò a
baciarmi
ed io accolsi le sue labbra senza tirarmi indietro, cercando un maggior
contatto. Mi alzai in punta di piedi ed allacciai le braccia dietro la
sua
nuca, mentre lui mi strinse i fianchi.
Ci
separammo dopo poco, fronte contro fronte. «Non voglio più metterti in
imbarazzo,» mi confessò triste.
Mandai
giù un grosso groppo di tristezza che si era formato attorno alla gola.
«Tu non
mi metti mai in imbarazzo, non più,» affermai sicura.
Rimanemmo
a guardarci l’un l’altro, mentre il sole calava all’orizzonte e la
stanza si
faceva sempre più buia, avvolta nel mantello della notte.
«Davvero,»
disse, scostandosi lievemente. «Preferisco evitare tutte le feste
mondane e i
luoghi pubblici se questo ti da fastidio. Eviterò anche le intervis-…»
Gli
misi un dito sulle labbra, zittendolo.
Era
sufficiente, davvero. Quella sua rinuncia dimostrava una maturità che
sicuramente aveva acquisito col tempo, e magari forse era un po’ mio il
merito.
Avevo conosciuto un ragazzo egoista, pieno di sé, borioso, a cui non
importava
nulla del prossimo. La persona che avevo davanti agli occhi aveva
soltanto
l’aspetto di quel ragazzo di un tempo.
Del
Leonardo Sogno tutto calcio e successo c’era rimasto ben poco.
Inseguiva
ancora la sua fama, l’amore per quel pallone che io ancora non
condividevo
appieno, ma nel suo cuore adesso c’era spazio anche per me. Ed era una
cosa
molto dolce a cui pensare.
«Non
dirlo,» gli sussurrai e lo baciai di nuovo. «Come tu non vuoi farmi del
male o
ferirmi, io non ho alcuna intenzione di tarparti le ali, di mettere
fine alla
tua carriera obbligandoti a stare con me e alle mie regole. L’amore è
dare e
ricevere, e adesso è venuto il mio turno di dare.»
Per
un attimo il vecchio Leo fece capolino su quel viso giovane, sfoderando
un
sorriso malizioso.
Ridacchiai
a mia volta. «Non intendevo quello!»
gridai, fingendomi arrabbiata.
Dopo
poco tornai seria. «Credo che stasera io e te dovremmo farci un giretto
in uno
dei ristoranti del centro, che ne dici? Magari chiamiamo anche Annalisa
e
Robbeo.»
La
feci sembrare una mia idea, ma gli avevo solo riferito ciò che il mio
migliore
amico mi aveva proposto.
Il
calciatore arcuò un sopracciglio, sospettoso. «Sicura? Sai che il
centro è
pieno di turisti e che di sicuro assalteranno il nostro tavolo per
degli
autografi…» mi avvertì.
Un
momento di puro panico attraversò il mio corpo, ma lo ricacciai
indietro.
«Dovrò abituarmici prima o poi, giusto? Non possiamo nasconderci per
sempre.»
Leonardo
sembrò essersi tolto un enorme peso dal cuore ed io gli afferrai la
mano, per
poi dirigermi verso la sua stanza.
«E
questo sarebbe il premio per cosa?» chiese, inseguendomi.
Mi
voltai appena e gli sorrisi. «È per me il premio, caro. Visto che mi
sono
sorbita due ore del Porelli tenendo a stento gli occhi aperti.»
Lui
allora mi afferrò per i fianchi e mi sollevò come se pesassi meno di
una piuma.
Gli cinsi la vita con le gambe e affondai il viso nell’incavo del suo
collo,
inspirando il profumo del bagnoschiuma. Leonardo odorava sempre di
pulito, come
se i suoi vestiti fossero stati appena lavati, nonostante si fosse
allenato giù
a Trigoria.
Entrammo
nella sua stanza e lui si chiuse la porta alle spalle.
«Aspetta,»
dissi solo, e Leo mi fece scendere dal suo abbraccio. Mi mordicchiai
nervosamente le labbra, forse ancora indecisa su quello che stavo per
dire.
Fu
allora che Leo mi afferrò il viso e mi costrinse a guardarlo. «Niente
segreti,
ricordi?» disse ed io lo amai, forse un po’ più di prima.
Così
presi coraggio. «È troppo tardi per quell’intervista?» chiesi e gli
occhi verdi
del mio fidanzato si spalancarono.
Sorrise,
un po’ incerto. «Ne sei sicura?» indagò.
Presi
un bel respiro e annuii con convinzione. «Credo di avere delle cose da
chiarire
ed altre di cui devo assolutamente parlare,» aggiunsi.
Leonardo
allora afferrò il cellulare e digitò un numero. Al terzo squillo
qualcuno
rispose.
«Ruben?
Dì a quelli del Rolling Stones che io e Cel ci stiamo.»
Dopo
si chino a baciarmi, ancora e ancora.
***
I
giornalisti del “Rolling Stone Italia” ci accolsero in un lussuoso
attico al
centro della città, in una delle traverse di Via del Corso. Dapprima
avevo
pensato si trovasse lì anche la sede della rivista stessa, ma Ruben mi
aveva
detto che loro preferivano mettere i propri ospiti a loro agio e
cercare un
ambiente confortevole in cui parlare.
«Sono
E.M.O.Z.I.O.N.A.T.O.,» trillò per la quarta volta Romeo, lisciandosi i
capelli
fulvi tutti impomatati all’indietro.
Annalisa
non la finiva di sorridergli come un’ebete e da quando si era
riscoperta
innamorata del ragazzo, non si accorgeva neppure di come lo lasciasse
andare in
giro: camicia bianca infilata in dei pantaloni eleganti di due taglie
più
grandi della sua, tenute su da bretelle di dubbio gusto e provenienza.
Celeste
camminava al mio fianco, radiosa come un raggio di sole del primo
mattino.
«Come
ti senti?» le chiesi preoccupato.
L’idea
che qualche giornalista potesse metterla sotto pressione con delle
domande
inopportune mi terrorizzava, soprattutto perché io ci ero passato e sapevo quanto quelle persone potessero
essere invadenti.
Lei
mi afferrò la mano e la strinse. «Tutto okay,» mi rassicurò.
Entrammo
nell’edificio all’apparenza vecchissimo, uno di quei classici palazzoni
anneriti dallo smog che erano situati al centro della città, ma il suo
interno
era tutto rimodernato. All’ingresso ci attendeva il portiere, che
subito prese
i nostri cappotti e ci fece strada verso uno degli ascensori.
Celeste
aveva insistito per portare con sé un plico di documenti, che teneva
ben
riposti in un’enorme borsa.
«Che
c’è lì dentro?» le chiese subito Anna, curiosa.
Ovviamente
io non avevo osato chiedere, altrimenti le sue ire si sarebbero
abbattute su di
me e preferivo evitare.
Cel
la fulminò. «Cose,» tagliò corto.
Anna
non sembrava molto soddisfatta della risposta, ma il tintinnio del
campanello
la distrasse. L’ascensore era finalmente arrivato, così tutti e quattro
montammo in quello stretto abitacolo per digitare poi l’ultimo piano.
«Almeno
questo trabiccolo non è come l’ascensore di casa vostra,» ridacchiai.
Annalisa
si unì subito. «Credo che quell’affare sia lì dalla guerra di
secessione, o
forse prima!» gongolò.
«Ah!
Ah! Ah!» tuonò Celeste. «Scusate se non possiamo permetterci un
lussuoso
appartamento come questo, posto al centro cittadino. Purtroppo io e
Robbeo ci
manteniamo da soli, nonostante tutto.»
Passò
un attimo di silenzio nel quale pensai avessi peggiorato di gran lunga
la
situazione.
Guai in arrivo.
«Però
ammettilo, Cel. Quell’affare è un pericolo pubblico!» commentò Robbeo,
e fu
allora che anche Celeste ridacchiò.
L’ascensore
giunse all’attico e non appena scendemmo una giovane donna ci accolse
con
sorrisi e benvenuti, conducendoci verso l’interno dell’appartamento.
«Da
questa parte signori, prego, accomodatevi,» disse educatamente. «Io
sono
Rebecca e mi occupo degli appuntamento coi giornalisti. Voi siete…?» e
il suo
sguardo si posò con insistenza sull’aspetto bizzarro di Romeo.
Lui
allungò subito la sua pallida e lentigginosa mano, passandosi l’altra
tra i
capelli impomatati. «Io mi chiamo Ciuccio…» sorrise, maliziosamente.
«Romeo
Ciuccio.»
La
signorina ignorò palesemente la mano, alquanto sudaticcia.
«Leonardo
Sogno, piacere,» dissi, imitando Robbeo.
«Mr.
Sogno, lei e la signorina dovete entrare nella stanza in fondo al
corridoio,
per l’intervista. La ringraziamo anticipatamente per questo enorme
favore che
ha fatto alla rivista.»
La
interruppi subito. «È stato merito della mia ragazza,» mi sentii in
dovere di
dire, posandole una mano sul fianco.
Celeste
mi sorrise, un po’ imbarazzata.
«Da
questa parte, signori,» disse, rivoltasi ad Anna e Romeo-babbeo. Loro
furono
condotti in un’altra saletta, sempre con la porta sigillata.
Mentre
li vedevo andarsene, mi domandai quali genere di domande avrebbero
potuto fare
alla Cavalli e un po’ mi preoccupai per lei. Di certo, io sarei stato
quello
più esposto in tutta questa faccenda ma vederla così tranquilla mi
spaventava.
Visto
e considerato che fino a nemmeno un mese prima aveva tentato più volte
di
sabotare la mia storia con Celeste per i suoi secondi fini. Adesso
faceva la
fidanzata perfetta, e sinceramente era inquietante.
«Che
hai?» mi domandò Cel, vedendomi assorto.
Le
strinsi la mano. «Nulla d’importante.»
Lei
puntò quelle sue iridi cristalline e stirò le labbra. Niente
più segreti.
Sospirai
sconfitto. «Mi chiedevo cosa racconterà Anna ai giornalisti,» le
spiegai,
mentre ci incamminavamo verso la nostra sala delle interviste.
«Sei
preoccupato che possa mettere in imbarazzo Romeo?» domandò, acuta come
sempre.
Annuii.
«Lo sai, Anna non è dotata di molto tatto, soprattutto quando si parla
della
sua vita privata. Non vorrei che si lasciasse sfuggire delle cose
spiacevoli…»
Celeste
sembrò pensarci su. «Certo, dovresti considerare anche il contrario.
Hai visto
come si è vestito Robbeo, vero?»
Come
avrei potuto non notarlo?
«Dici
che quei due si completano a vicenda, mh?»
Lei
mi sorrise, poi d’impatto ci fermammo entrambi davanti alla porta di
legno
laccato bianco. Per la prima volta in tutta la mia vita, ero nervoso
per
un’intervista.
Non
mi era mai capitato, anzi. Adoravo quando i giornalisti mi facevano
domande su
me stesso, sulla mia fantastica vita da calciatore, sulle innumerevoli
love
stories e sulla mia fama. Parlare di Leonardo Sogno era il mio
argomento
preferito da un po’ di anni a quella parte.
Adesso
invece sarei volentieri fuggito da lì.
«Siamo
ancora in tempo per rinunciare,» le dissi, cercando di bloccare la voce
che mi
tremava.
Sei Leonardo Sogno, dannazione.
Ricordatelo!
Celeste
allora si passò il plico di fogli che aveva sotto braccio, nell’altra
mano. Poi
mi strinse a sé. Forte.
«Lo
voglio fare,» ripeté decisa. «Per noi.»
Annuii
e presi più coraggio. La verità era che la nostra relazione era ancora
in
bilico su una sottilissima lama di rasoio, pronta ad essere spazzata da
un lato
o dall’altro della lama. Era così fragile da essere spezzata, ed io
ormai avevo
il terrore.
Dopo
ciò che eravamo riusciti a recuperare a Londra, l’idea di perderla
ancora mi
avrebbe distrutto.
Entrammo
nel salottino arredato moderno, dove c’erano un divano e due
poltroncine al
centro di un grande tappeto di pelo bianco.
Una
donna si alzò e venne ad accoglierci, raggiante.
Aveva
l’aspetto di una ventenne intrappolata in un corpo di quaranta. A
giudicare
dalle extension e dal trucco pesante che aveva in volto, assomigliava a
una
protagonista di Desperate Housewives.
«Ma
benvenuti, mie tesovi!» trillò,
abbracciandoci come se fossimo i suoi figli dispersi.
«Salve,»
la salutò cordialmente Celeste, io mi limitai a grugnire qualcosa.
«Pvego,
accomodatevi puve!» ci disse, pronunciando quelle “evve” in un modo
talmente
fastidioso che avrei lasciato il palazzo pur di non sentirla più
parlare.
Consideralo un handicap, come la
balbuzie
di Ruben.
Il
problema che quella donna era un Ruben cinquantenne truccato malamente.
«Lui
e Paolo, vi favà delle fotogvafie duvante l’intevvista,» ci spiegò,
presentando
il fotografo che ci fissava come se anche a lui sarebbe spettato il
patibolo.
«Vi
ringrazio infinitamente per questa opportunità,» disse subito Celeste,
sorprendendomi. «Per me e per Leonardo significa molto.»
«Già…
uhm, grazie,» aggiunsi.
Non
era proprio mia abitudine ringraziare, semmai era il contrario. Essere
famosi
comportava anche il sapersi districare tra le numerose offerte
pubblicitarie
che mi venivano sottoposte, e quando più di un giornale si contendeva
una mia
esclusiva, ero sempre stato del parere che i ringraziamenti mi erano
dovuti.
Celeste,
invece, riusciva sempre a cambiare ogni mio punto di vista.
«Che
cava vagazza!» disse estasiata l’anziana giornalista. «Sei pvopvio
fovtunato,
vagazzo mio!» E mi strizzò l’occhiolino molto più maliziosamente di
quanto mi
sarei aspettato.
Vade retro, Satana!
In
risposta, stiracchiai un mezzo sorriso e cercai, scivolando sul divano,
di
incollarmi al corpo di Celeste per sopprimere le avances di quella
specie di
megera.
«Dunque,
divei di cominciave,» sospirò, tirando fuori un registratore e un
taccuino dove
si era annotata alcune domande. «Sapete che l’intevvista pavlevà delle
stovie
d’amove tra una pevsona famosa e l’altva ovdinavia, quindi, io pavtivei
divettamente dal pvincipio.»
La
mazzata stava arrivando.
«Cava
Celeste,» le sorrise come una madre orgogliosa fa con un figlio. «Come
vi siete
conosciuti?»
Cercai
gli occhi della mia ragazza per paura di leggervi dentro uno stato
d’ansia, lo
stesso che mi stava attorcigliando le budella. Era stato difficile per
lei,
nell’intimo, digerire la storia delle cazzate che avevo sparato per
piacerle, e
adesso era costretta a raccontare quell’idiozia a mezzo mondo.
Le
strinsi la mano, forte. Lei ricambiò la stretta.
«Dunque,
devo ammettere che io di calcio non ne capisco molto, anzi, devo dire
che sono
proprio ignorante in materia,» ridacchiò. «Quindi puoi immaginarti che
appena
mi sono trovata Leo davanti, nemmeno sapevo chi fosse.»
L’ironia
e le battute con cui Celeste riusciva a mantenere sul “leggero” quelle
confessioni, piacque molto alla giornalista. Lei e il fotografo
cominciarono a
ridacchiare, ed erano entusiasti di tutta la storia della motocicletta,
della
pozzanghera e del fatto che mi fossi inventato un nome fittizio per
nascondere
la mia identità.
«Quindi,
campione,» disse la signora, al sottoscritto. «La vostva stovia è nata
pev un
piccolo malinteso che poi è sfociato in qualcosa di più ingavbugliato?»
e
scrisse.
Scrisse
e annotò, tutto il tempo.
I
flash del fotografo e il “click” della macchina fotografica mi
innervosivano.
Ero
io quello che si doveva comportare con naturalezza, quello abituato
agli
autografi, alle domande e a fare i conti con la propria vita
spiattellata sulla
copertina di un giornale. Invece, in quel momento, era Celeste ad
essere
tranquilla.
«Sì,»
risposi titubante. «Diciamo che all’inizio era soltanto un gioco.»
Misurai
bene le parole. Non avevo pensato a cosa avrei potuto dire, magari
utilizzando
un termine sbagliato avrei potuto mettere fine alla mia storia con Cel.
La
giornalista annuì e scrisse.
«Sai,
era la prima volta che qualcuno non mi riconosceva. Non mi era mai
capitato
prima, così presi la palla al balzo e inventai tutta un’identità falsa
per
potermi godere un po’ di “anonimato”.»
Dal
modo in cui picchiettava la penna sul taccuino, sembrava avesse trovato
la
storia del secolo.
«E
tu, cava, non ti sei accovta di nulla?»
Celeste
scosse la testa. «Come ho detto, non conoscevo chi fosse questo
Leonardo Sogno,
ma dall'inizio capii si trattasse di un ragazzo vanitoso e pieno di sé,
uno di
quei tipi che solevo evitare da sempre. Il fatto è che giorno dopo
giorno, me
lo trovai sempre tra i piedi e in un modo o nell’altro riusciva a
sorprendermi
e a rendere le mie giornate meno noiose.» Si portò le mani al volto,
ridendo.
«Non so spiegarmi bene.»
La
donna le prese una delle mani tra le sue. «Oh no, tesovo! Ti spieghi
benissimo!»
Udire
di nuovo la versione dei fatti dalle labbra di Celeste mi fece sentire
strano.
Avevamo chiarito i nostri problemi, certo, ma non avevo mai sentito la
sua di
storia.
«Che
identità hai utilizzato, Leonavdo?» mi chiese.
LeonaRdo,
avrei voluto risponderle.
«Ho
utilizzato il nome del mio manager, Ruben. Poi mi sono inventato una
professione normale, come fioraio, nel negozio di mia nonna
Annunziata,»
spiegai.
«Oh!
Davvevo intevessante!» trillò, scrivendo come una forsennata.
Andammo
avanti a raccontare, a turno, le nostre storie, intrecciandole
opportunamente
l’una con l’altra e cercando di rispondere anche ad alcune domande
imbarazzanti.
Per
fortuna, sorvolammo su ciò che era successo alla festa di Annalisa e
tutte le
altre occasioni in cui la nostra passione era sfociata in tempi e
luoghi poco
opportuni.
Trascorsero
quasi tre ore, ma facemmo due o più pause. Per fortuna un buffet
abbondante mi
distrasse dal nervosismo di quell’intervista, che però non aveva
contribuito a
chiudermi lo stomaco.
Anzi.
«Guarda
che poi non ceni,» mi ammonì Celeste, vedendo quanto mangiavo.
La
zitti con un cenno della mano. «’O dici te!» la rassicurai.
Vidi
con la coda dell’occhio che la mia ragazza si appartava con la
giornalista,
mostrandole il plico di fogli che aveva stretto a sé tutto il tempo.
Avevo
tentato più volte di sbirciare, ma lo sguardo gelido di Celeste mi
aveva
rimesso in riga.
«Quindi,
Londva è stata un’isola di salvezza pev la vostva stovia?» chiese,
concludendo.
Celeste
annuì. «All’inizio ero restia a partire, ancora non mi fidavo di
Leonardo. Il
fatto di aver scoperto la sua menzogna alla festa di J, davanti a tutte
quelle
persone, mi aveva imbarazzato a tal punto da non trovare più il
coraggio di
uscire di casa.»
Quelle
parole mi ferirono nel profondo. Ogni lettera era un ricordo a quei
giorni
passati nell’assoluto isolamento, da tutto e da tutti, conscio d’aver
perso la
mia unica occasione per essere felice.
«Immagino
sia stata duva,» sussurrò la donna.
Celeste
annuì ed io mi allungai a stringerle la mano. Sentivo come se ci
stessimo
allontanando, anche se eravamo a pochi centimetri di distanza l’uno
dall’altra.
Quell’esperienza ci avrebbe accompagnati per sempre, ed io sapevo che
anche se
il tempo avrebbe sbiadito il ricordo, le cicatrici sarebbero rimaste.
«Sì,»
annuì Celeste, poi però sorrise. «Però è stato molto più difficile
rimanere
troppo a lungo separati. Per quando sia arduo ammetterlo, non so se
sopravvivrei senza di lui.»
E
quello mi bastò, davvero.
Tutte
le paure volarono via in un attimo, lasciando spazio a un tenero e
sincero
sorriso.
«La
stessa cosa vale per me,» aggiunsi.
La
giornalista sembrò molto soddisfatta di ciò che aveva scritto e dal
modo in cui
ci guardava, sembrava realmente felice.
«E
come la vivi, adesso, la notovietà di Leoravdo?» le chiese.
L’immagine
di noi all’aeroporto di Fiumicino apparve nitida nella mia mente. I
flash
insistenti delle macchine fotografiche, le domande assordanti, gli
strattoni.
Vedevo ancora il viso di Cel impaurito che cercava rifugio tra le mie
braccia.
Fu
lei però a rispondere. «Dovrò abituarmici, sono sincera,» sorrise.
«Credo che
in questo, Leonardo, mi aiuterà.»
«Bene,
cvedo sia tutto! Vi vingvazio molto, davvevo. L’intevvista savà pvonta
tva due
giovni, pev il numevo di Maggio.»
Ci
alzammo in piedi e salutammo sia la donna che il fotografo.
Improvvisamente
mi sentii più leggero, quasi come dopo aver fatto l’esame di maturità.
Finalmente libero.
Una
volta fuori dalla stanza, trovammo Anna e Romeo che ci aspettavano in
fondo al
corridoio.
«Com’è
andata?» domandò Cel.
Notai
che tra quei due s’era creato un silenzio che non prometteva nulla di
buono.
Era come se l’imbarazzo li avesse resi completamente muti.
«Che
è successo?» chiesi subito, intuendo che qualcosa non andava.
Annalisa
fissò Romeo, furente. «Chiedetelo a Mr. Barzelletta vivente!» ringhiò.
«Non ha
fatto altro che intrattenere il giornalista con i suoi aneddoti
scadenti, e lui
non mi ha rivolto nemmeno una domanda!»
Romeo
la sfidò. «Doveva intervistare me, non te. Tu sei già famosa. Questo
articolo è
sulle coppie formate da famosi e non famosi.»
«Okay,
calmatevi. Intanto usciamo,» sentenziò Celeste.
Una
volta in strada, la situazione andò di male in peggio.
Cominciarono
a volare malignità e cattiverie gratuite tra quei due, e non la
finivano di
punzecchiarsi a vicenda. Romeo non era affatto intimidito dalla lingua
velenosa
di Annalisa, forse troppo abituato a ricevere offese da chiunque.
Compresa
l’amica di Celeste, Veneranda.
«Oh!
Taci! Maledetto il giorno in cui mi sono innamorata di te!» ringhiò
Anna.
«Figurati
io! Annalisa di qua, Annalisa dillà, pensi sempre a te stessa!» le
rimbeccò
l’altro.
Io
e Celeste rimanemmo in silenzio, come se fossimo al cinema o a teatro.
«Perché
pagare per uno spettacolo gratuito?» le sussurrai, ridacchiando.
Lei
mi rifilò una gomitata leggera. «Zitto!» Ma la vidi sorridere.
La
verità era che Romeo e Annalisa litigavano sempre
e per qualsiasi stupidaggine. Cominciava con un semplice commento, o
una
battuta, poi finivano a mali parole. Diciamo che io e Cel avevamo fatto
un po’
l’abitudine alle loro liti.
Non
si parlavano per giorni. Staccavano tutti i loro contatti.
Dopodiché,
se non stavi attento, li ritrovavi a rotolarsi tra le lenzuola o
completamente
incollati l’uno all’altro in qualsiasi angolo dell’appartamento dei
Fiore-Ciuccio.
«Cos’hai
consegnato alla giornalista, durante la pausa?» chiesi alla mia
ragazza,
sorvolando sull’argomento del Rosso.
Celeste
sfoderò un sorriso malizioso. «Una sorpresa a cui lavoro da tempo.»
Il
mio pensiero andò subito a quello strano documento che avevo intravisto
sul suo
computer, ma su cui non avevo indagato per rispetto della sua privacy.
Cosa
poteva essere? Le sue memorie?
Le mie prigioni?
Mica
è una galeotta!
Silvio Pellico, Leona’.
«E
non mi puoi anticipare niente, niente?» chiesi, col labbro tremulo.
Lei
si aggrappò al mio braccio come un cucciolo di koala, mentre
attraversavamo le
piccole vie strette del centro di Roma.
«È
una sorpresa,» concluse.
Ed
io mi fidavo abbastanza di lei, da consegnarle tutto ciò che rimaneva
di me
stesso.
Allora!
Premetto che siete autorizzati a lanciarmi addosso
maledizioni/insulti/scarpe puzzolenti e quant'altro perché questo
aggiornamento è imperdonabilmente in ritardo. Purtroppo non avevo
ispirazione, lo ammetto. Per quanto questa storia mi abbia coinvolto
sin dall'inizio, adesso trovo un'immensa difficoltà a concluderla,
forse perché ho paura di distaccarmene, boh. Fatto sta che finalmente
mi sono messa di buona lena a scrivere, e qualcosa ne è uscito fuori!
*3*
Ammetto che Leo mi era mancato troppo. TROPPO.
Con
lui è iniziato tutto e anche se la maggior parte dei miei lettori si è
persa per strada, non fa niente.
Questa
storia MERITA di essere conclusa e ne approfitto per dirvi che mancherà
soltanto l'epilogo alla fine. Cercherò una conclusione degna e già mi
sto adoperando per lasciare avvisi anche nell'altro account (di
_Shantel) in modo che i lettori non si ''perdano'' il seguito di CIUS
sul mio profilo.
Anche
voi, se vi capita, spargete la voce ;3
Detto
ciò, mi rimetto nelle vostre mani.
Un
pensiero sarebbe gradito (anche insulti, anzi INSULTATEMI!)
Baci,
Marty.
|
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Capitolo 5 *** EPILOGO ***
EPILOGO
betato
da nes_sie
questo capitolo lo dedico
a tutti quelli che sono rimasti con me fino alla
fine,
e a chi ha amato più di
tutti questa storia.
per syl88
Avrei
voluto iniziare la mia storia con
un nostalgico “C’era una volta Celeste Fiore…” accompagnato da qualche
descrizione su di me e su quello che amavo più fare, cioè scrivere.
Invece,
tutto iniziò con un giorno di pioggia e una doccia fredda inaspettata.
Quello
fu il giorno in cui conobbi
Leonardo Sogno.
Molti
di voi, ora come ora, direbbero che
fui una ragazza fortunata. Insomma, non capita mica tutti i giorni di
incrociare per strada – o sulla sua Ducati – un calciatore famoso di
serie A.
…peccato
che non mi resi minimamente
conto di chi fosse, sulle prime.
Non
ero mai stata amante del calcio, né
degli sport in generale. Il mio unico movimento consisteva nel fare
tutti i
giorni avanti e indietro, a piedi, dalla casa che condividevo con
Robbeo fino
alla facoltà di Lettere.
Ovviamente,
anche Leonardo approfittò
subito della mia ignoranza in materia.
Nacquero
così subito delle incomprensioni
e delle bugie che ne richiamarono necessariamente delle altre, fino a
costruire
una rete ingarbugliata e infinita di menzogne. Mi ritrovai presto a
sospettare
qualcosa sulla sua identità, sul come un ragazzo così affascinante
facesse il
fiorario-barra-modello per sopravvivere.
Purtroppo,
data la mia innata capacità di
innamorarmi pure di un sassolino sul marciapiede, non mi resi
minimamente conto
di tutto il “progetto” che quel buono a nulla aveva architettato alle
mie
spalle.
Con
la partecipazione del mio migliore
amico, ovviamente.
Fu
davvero un trauma per la sottoscritta
venire a conoscenza della verità da un mio compagno di corso, J.
La
sua festa di compleanno non la
dimenticherò per nulla al mondo.
Poi
ci fu la volta della “fuga” a casa di
Vennie, la mia migliore amica e la conseguente proposta di lei di
recarmi a
Londra per una vacanza non-sospetta… o quasi.
Mi
ero isolata dal mondo intero in quei
giorni, allontanandomi soprattutto da Romeo perché mi sentivo tradita.
In
mia difesa, vorrei aggiungere che la
mia precedente relazione era finita a causa delle bugie che il tipo di
turno mi
rifilava, preferendo la compagnia di qualche altra ragazza più
disponibile.
Per
questo, la mia fidata Coscienza mi
aveva messo in guardia.
Di
conseguenza mi ero costruita attorno
un muro di mattoni gialli – perché il giallo è bello! – e spessi, così
da
proteggermi da qualsiasi cosa il mondo mi avesse messo davanti.
Purtroppo
Leonardo era stato capace di
arginare quel muro. Forse perché era uno sportivo, o magari perché era
determinato, comunque lui fu l’unico dopo tanto tempo che riuscì a
scavalcarlo,
lasciandomi nuda.
E
con Londra le cose cambiarono di molto.
Ci
fu una grande partita, in uno stadio
altrettanto enorme e spettacolare che mi fece perdere il fiato.
Riconsiderai la
mia opinione su molte persone, tra cui Annalisa Cavalli che subito
avevo
giudicato come un’arrampicatrice sociale e bambinetta viziata.
Romeo
ottenne il mio perdono, così come
Leonardo.
…
o Ruben.
Alla
fine, scoprii che quel nome non era
altro che quello del suo manager, nonché migliore amico.
Ruben-la-talpa, come
ormai lo soprannominavo per distinguerlo dalla vecchia immagine di
Ruben che
avevo.
Vi
starete chiedendo come sia finita
tutta la storia.
Dopo
diciannove capitoli, vari passaggi
di mano, viaggi e corse dell’ultimo secondo, Celeste Fiore come
trascorre la
sua vita adesso?
Ci
sarebbe tanto da raccontare e molto da
omettere. Si tratta pur sempre della vita privata di Leonardo Sogno, e
so
quanto questo sia importante per lui.
Posso
solo dirvi che abbiamo dovuto fare
dei sacrifici – entrambi – e adattarci come meglio potevamo alla vita
che in
futuro avremmo potuto condividere insieme.
Io
ho cominciato a seguire il calcio,
ahimè.
Ci
è voluto più di un mese, cinque sedute
a settimana con Robbeo e le sue urla da cavernicolo in calore e vari
manuali
che spiegavano le basilari regole del calcio… ma adesso sono più che
sicura di
saper riconoscere un fuorigioco o un fallo da ammonizione.
Leonardo
ha messo da parte la bella
vita per un po’. Diciamo che frequenta
ancora i locali più alla moda, ma finalmente ha deciso di coinvolgermi
in
queste sue serate.
Cosa
che ci porta al terzo, importante,
cambiamento.
La
privacy è un lontano e bellissimo
ricordo, visto e considerato l’intervista che rilasciai alla rivista
“Rolling
Stones” – numero di Maggio. Mi devo ancora abituare ai fan di Leonardo,
al
fatto che una semplice passeggiata in centro si trasformi in un assalto
di
persone che chiedono autografi e foto.
Anche
alla sottoscritta!
Adesso
vengo persino chiamata la
“Gioconda”, per osmosi.
Che
altro aggiungere?
L’incontro
con i miei genitori (e con i
suoi) è stato parecchio strano, ma alla fine la mamma è sempre la
mamma, che
antepone la felicità dei figli alla propria, e nonostante sapesse delle
difficoltà che avrei incontrato uscendo con un calciatore, mise da
parte il suo
pensiero.
Alla
fine mi sono trasferita da Leo.
Dapprima
non volevo, in quanto mi
sembrava troppo presto condividere un appartamento – anche se,
tecnicamente,
già coabitavo con Robbeo – ma Leonardo fu insistente. Visto che Ruben
aveva
deciso di trasferirsi a Londra, per Sofia, la casa del calciatore era
diventata
troppo “grande” e troppo “silenziosa” per i suoi gusti.
Pensai
subito fosse una scusa bella e
buona perché mi voleva al suo fianco, senza dirmelo in modo smielato.
Amavo
anche queste piccole sfumature del
suo carattere.
Ebbene,
posso annunciarvi che Venera è
partita per frequentare il master a Cambridge, mentre Romeo ha
cominciato a
lavorare per suo “suocero”, Mr. Cavalli.
Annalisa
ha una certa influenza su suo
padre, oramai mi era sembrato ovvio.
Di
recente, abbiamo ricevuto il biglietto
per una partecipazione di nozze e non appena l’ho mostrato a Leo, lui
mi ha
sorriso.
Romeo Ciuccio
Annalisa
Cavalli
annunciano
il loro matrimonio
chiesa
di S. Marco
p.zza
Venezia
Sabato
17 Dicembre 2012 – ore 16.30
Quel
giorno non lo dimenticherò mai,
perché fu la cerimonia più bella a cui assistetti e, nello stesso
tempo, fui
felice per il mio migliore amico.
L’amore
ha tanti modi per manifestarsi.
Può nascere da una menzogna, dalla poca fiducia in sé stessi, dall’odio
che
lentamente si manifesta sotto altre forme oppure dalla semplice
timidezza.
Io
mi ritengo fortunata. Al di là
dell’essere fidanzata con un calciatore, al di là delle feste e dei
soldi… ho
potuto vivere “Come in un Sogno” grazie a lui.
per
cui grazie, Leo.
Ps.
Leonardo ha firmato il contratto con
la Magica per altri cinque, fantastici anni. E adesso è diventato
pappa-e-ciccia con il Capitano.
***
«Hai
finito di picchiettare sul computer? Mi stai facendo venire il mal di
testa!»
si lamentò Leo, sbracato sul letto a fare zapping col telecomando.
Sorrisi.
«Ho quasi finito. Debbo inviare l’epilogo alla redazione entro domani,
così
potranno inserirlo prima di mandarlo in stampa,» gli spiegai.
«Ma
è proprio necessario pubblicare una cosa tanto privata?» borbottò.
Da
quando gli avevo dato la notizia del romanzo che per tutto quel tempo
avevo
portato avanti, subito aveva storto il naso. La storia aveva nomi
diversi,
d’accordo, i fatti erano più o meno romanzati, però c’eravamo noi lì
dentro ed
io tenevo a quel libro più di qualsiasi altro tesoro avessi al mondo.
«Avevi
detto che andava bene…» esitai.
L’idea
di bloccare l’uscita del libro quando già avevo firmato un contratto
quinquennale con la casa editrice e accettato i vari tour in giro per
l’Italia
per pubblicizzarlo non era delle più allettanti.
Leonardo
si sedette sul bordo del letto, poi mi sorrise. «No, dai, scherzo,»
soffiò.
«Visto e considerato che questo tuo romanzo parla di noi, dovrei essere
onorato
di poterlo leggere.»
Presi
l’occasione di correggerlo, ancora. «Tecnicamente parla anche di Romeo,
Ruben e
Ven,» precisai.
«È
una storia ingarbugliata.»
«Dovresti
leggerla,» gli suggerii.
Leonardo
ancora una volta mi sorprese, perché si alzò dal letto e mi raggiunse
alla
scrivania, sedendosi un po’ traballante sulle mie ginocchia. Non voleva
pesarmi, ma a me poco importava. Che pesasse ottanta o novanta chili,
lo avrei
sempre sostenuto.
«Da
dove comincio?» mi chiese, con l’espressione da cucciolo.
Presi
il mouse e andai al principio del foglio di Office.
«Da
qui,» dissi sicura, indicandogli il “Prologo”.
Leonardo
prese una delle mie mani e la strinse tra le sue, poi guardò lo
schermo.
«Il
boato della folla era inebriante…»
Fine.
*si asciuga la lacrimuccia*
Siamo arrivati alla fine, nemmeno ci credevo! Ho iniziato questa storia
a 4 mani, in collaborazione con un'altra ragazza di cui poi ho perso le
tracce. Alla fine si sono dimezzati anche i lettori, ma era giusto che
avesse una conclusione o almeno una ''vicina'' a quella che avevo
immaginato assieme a lei. Spero di aver reso giustizia alla storia,
così com'era iniziata.
:'3
Inizialmente scrivevo solo il pov di Leo, mi rispecchiava e adoravo
mettermi nei panni di quello sbruffone *-*
Anche impersonare Cel, in questi ultimi capitoli, è stato istruttivo.
E' sempre difficile cambiare pov e riuscire a rimanere fedele ai tratti
del personaggio, ma spero di esserci riuscita. Decidere di
portare avanti la storia da sola è stata dura, ma l'ho fatto sia per
una questione di correttezza, sia per le mie crudelie e infine per
l'altro mio "pargolo", ovvero I'm
in LAW with you.
Diciamo che senza l'input di Cius, questa storia non avrebbe senso... o
almeno ne avrebbe poco.
Beh, ora non mi resta che portare avanti qust'altra long//spin-off,
dopodiché direi proprio che mi prenderò un periodo sabbatico. Deciso.
Scrivere una long è davvero stancante, soprattutto se ti fai trascinare
dai fans e dalla real-life. :3
Grazie di tutto. Per avermi seguito e supportato anche quando è
''cambiato'' il pov di questa storia, con una brusca virata.
Ci siete sempre stati e di questo vi ringrazio. Spero proprio di aver
concluso la storia come desideravate :3
Besos,
//marty
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