Come in un Sogno

di IoNarrante
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 5: *** EPILOGO ***



Capitolo 1
*** Capitolo 16 ***



CAPITOLO 16

 
Viene un giorno nella vita di un uomo in cui è costretto a mettere da parte tutte le sue angosce, i suoi pensieri, i problemi che gli opprimono il cuore soffocandolo lentamente e dolorosamente per un fine più grande, un obiettivo che si è prefissato fin da quando gli è stato messo un pallone tra i piedi.
Ecco. Quello era il mio momento.
Mi ero alzato dal letto quella mattina, dopo aver passato la notte completamente in bianco, con l’unico pensiero della partita. Celeste era stata spinta a forza e relegata in un angolo lontano della mia mente, lasciando spazio solamente agli schemi di gioco e alla concentrazione. Non c’erano parole d’incoraggiamento, non c’erano speranze, ma soltanto un obiettivo: la vittoria.
I quarti di finale erano a pochi passi da me, avrei potuto sfiorarli con le dita e sentire la consistenza del successo tornare ad essere tangibile dopo quelli che sembravano secoli. Era vero, in quel periodo la mia carriera mi era un po’ sfuggita di mano, ma ora dovevo riprendere tutto e concentrarmi. Anche se dentro sentivo un vuoto enorme, come se una voragine si stesse lentamente aprendo dall’epicentro del mio cuore, lasciando assorbire tutto ciò che di più umano avessi al mondo, dovevo farmi scivolare le preoccupazioni di dosso.
Ora che ero abbandonato di peso su una panchina negli spogliatoi, con i gomiti poggiati sulle cosce e la testa racchiusa tra le mani. Avevo infossato le dita tra i capelli. I corti riccioli scuri scivolavano tra i polpastrelli ruvidi, rovinati da anni e anni di allenamenti e corse sotto la pioggia battente. Me ne stavo a pensare, da solo, come altri miei compagni più emotivi del sottoscritto, che a pochi minuti dalla partita più importante della nostra vita si ritagliavano un angoletto, magari per pregare qualcuno lassù che ci potesse aiutare.
Vuoi che reciti il Padre Nostro?
Inspirai profondamente ignorando quel pungente pensiero del mio Ego. Non ero mai stato un tipo religioso. Da piccolo ricordavo che mia madre mi obbligava ad andare in chiesa, ma non appena avevo cominciato a giocare, le Domeniche erano state riempite unicamente dagli allenamenti, dalle partitelle o dalle gite allo stadio per vedermi giocare. Non c’era mai stato nella mia vita lo spazio per qualcun altro che non fosse Leonardo stesso. In quel momento mi sentii profondamente solo, quasi smarrito.
Strinsi le mani a pugno, conficcandomi le unghie nel palmo per poi riaprire la mano e vedere delle piccole mezze-lune impresse sulla carne. C’era così tanto di me scritto su quel lembo di pelle, una volta mi feci leggere la mano da una indovina.
Tutte stronzate.
Era difficile ignorare ciò che stavo tentando inutilmente di impormi, focalizzando i pensieri unicamente sulla partita. Non c’era in gioco soltanto il destino della società, ma anche il mio futuro. Se la Roma fosse arrivata alla semifinale, sicuramente ci sarebbe stata più visibilità per tutta la rosa, soprattutto per il sottoscritto. Se il mio desiderio di giocare in un club inglese si fosse finalmente avverato, almeno avrei potuto allontanarmi definitivamente da Roma e magari iniziare una nuova vita, senza più pensieri per la testa.
Nessuno più ad intralciare il mio percorso verso la carriera perfetta.
Verso il pallone d’oro.
Verso una vita che mi avrebbe permesso al mio nome di riecheggiare in eterno…
…tra la solitudine dei ricordi.
Scacciai via quel pensiero, insieme ad un lungo brivido di freddo. C’erano degli spifferi in quello spogliatoio, forse l’aria densa e umida di Londra non mi avrebbe fatto bene. Alzai di poco lo sguardo sul muro e vidi l’orologio che segnava mezz’ora all’inizio del big match.
Mi tesi come una corda di violino.
Solitamente affrontavo le sfide di petto, fregandomene altamente dei risultati perché ero più che sicuro di spaccare in qualsiasi cosa facessi, che si trattasse di calcio, di donne o altro. Questa volta mi sentii improvvisamente debole.
Non è che ti stai ammalando?
«Bella Leona’, nervoso?» mi domandò d’improvviso Marco, sedendosi di peso accanto al sottoscritto.
Lo fissai di sottecchi e sbuffai. Certo che ero nervoso, cazzo. Ero teso come una fottuta corda di violino!
«No. Sto sciallo,» mentii tranquillamente, ormai mi riusciva così bene.
C’era ancora quel pensiero che tornò preponderante nella mia testa, come un tarlo che scavava lentamente nel legno guadagnando centimetri nella mia materia grigia.
Quella poca che ti è rimasta…
Borriello mi fissò sospettoso. «Non me la racconti giusta, ma farò finta di crederti,» sorrise sbieco.
Più passavo del tempo insieme a Marco e più realizzavo che magari in un’altra vita aveva fatto lo psicologo, o qualcosa che andasse di gran lunga vicino a quella professione. Era come se dietro quello sguardo si nascondesse un pensiero ben più profondo, come se riuscisse a capirmi quasi meglio di me stesso.
«Te, invece?» gli domandai, riferendomi sempre all’ansia prepartita.
Marco scrollò le spalle, poi alzò lo sguardo verso gli altri che nel frattempo si stringevano le stringhe degli scarpini o si aggiustavano i parastinchi. «Sai come la penso. O la va o la spacca stasera. Non importa se vinciamo o perdiamo, l’importante è fare il culo a quel cazzone di tuo cugino,» sghignazzò, tirandomi di gran lunga su il morale.
Se c’era una cosa con cui mi sarei trovato d’accordo persino con un laziale, sarebbe stato Simone. Odiavo profondamente il suo comportamento strafottente e quella presunzione che mi sbatteva in faccia ogni volta che ci vedevamo.
«Puoi dirlo forte. A costo di consumarmi i polmoni, questa sera farò avanti e indietro pur di fargli sparire quel sorrisetto dalla faccia,» promisi, con l’adrenalina che scorreva nelle vene.
«Bene,» sorrise Marco. «È così che ti vogliamo, Sogno. Carico!»
Sorrisi a Borriello e dimenticai completamente quegli asti che c’erano stati tra di noi in tutti quegli anni che avevamo giocato l’uno affianco all’altro. Alla fine grazie a Marco avevo capito molte cose di me stesso e mi costava molto ammetterlo, ma Borriello era quanto più vicino ad un amico avessi nella mia vita.
Prima che la situazione potesse calare in un silenzio imbarazzante, il Mister Montella fece il suo ingresso nello spogliatoio e il brusio calò immediatamente, riducendo il tutto ad un silenzio ovattato.
La tensione in quella stanza si poteva tagliare con un coltello.
Il Mister si posizionò proprio al centro della sala, con tutti gli occhi puntati su di lui. Sapevo che era venuto il momento del “discorso” d’incoraggiamento, uno di quei memorabili dialoghi da film epici come Ogni maledetta Domenica.
Quella che stavamo per affrontare sarebbe stata la partita del secolo. Non era certo la finale, per quella c’era ancora tempo, ma di sicuro era un passo importante per tutti, in particolar modo per il sottoscritto.
«Ragazzi miei, questa sera affronteremo una delle sfide più ardue ma non per questo impossibili da superare,» iniziò, con la voce calma e rilassata. Era entusiasmante con quanta passione affermasse quel “noi” in tutti i discorsi che iniziava, quasi come se il Mister giocasse ancora con noi, fianco a fianco, senza mai lasciarci. Tutti pendevano dalle sue labbra, compreso il Capitano che annuiva convinto. «Siamo stati molto bravi ad arrivare fin qui, sono anni che la società non raggiunge un risultato così ampio, ed è proprio per questo che non possiamo gettare la spugna. Almeno non ora. Dobbiamo insistere, combattere come gladiatori, quasi ne valesse la nostra vita.»
Lasciò calare il silenzio, in modo che ognuno di noi potesse riflettere su quelle parole.
Inspirai forte tutta l’aria che riuscii a trattenere nei polmoni, cercando di scacciare via una strana sensazione alla bocca dello stomaco. Avevo tutte le carte in regola per sfondare, avrei potuto facilmente vincere tutto, eppure era come se non mi sentissi sicuro.
Come se non fossi completo.
Almeno non più.
«Oggi non vi chiedo di fare miracoli, perché non pretendo nulla da voi, ma so che avete le possibilità e le qualità di vincerla questa partita. Io credo in voi e nel vostro talento, quindi non deludetemi,» soffiò infine, con la voce lievemente incrinata dall’emozione.
Nessuno rimaneva impassibile di fronte ad una delle sfide più importanti della stagione.
Avevamo fatto tanto per arrivare sino a lì e forse era la prima volta che cominciavo a pensare al “noi” come squadra e non solo a Leonardo Sogno. Forse davvero mi sentivo diverso dal me stesso di un mese prima.
Chissà per quale arcana ragione…
Tentai di sforzarmi per non pensare a quello, a quel pensiero che cercava di incunearsi nella mia mente e spingere per poter entrare, ma io lo respingevo fuori. Dovevo concentrarmi, non potevo permettermi altri errori.
Già avevo mandato a puttane una parte della mia vita, ci mancava anche quell’altra. Alla fine non mi sarebbe rimasto più nulla e sarei lentamente sprofondato.
«Forza ragazzi, dobbiamo andare,» ci disse il Mister, battendo le mani con la cartelletta degli schemi ferma sotto il braccio.
Il fatidico momento era arrivato e nel momento stesso in cui mi alzai dalla panchina, per la prima volta sentii le gambe tremare leggermente. Non ero mai stato un tipo emotivo. Sin da piccolo ridevo in faccia al pericolo, come qualsiasi adolescente sprovveduto, ma una prima volta arrivava per tutti.
«Te senti bene, bello?» mi chiese Daniele, vedendomi barcollante.
«Ovvio!» rassicurai subito Capitan futuro.
La sostituzione doveva essere l’ultimo dei miei pensieri. Quella partita l’avrei giocata, a qualunque costo, con quaranta di febbre oppure la nausea.
Ci avviammo lungo il tunnel che conduceva al campo dell’Emirates Stadium, mentre i miei compagni cominciavano a scambiarsi battute e a sorridere per alleviare la tensione. C’era paura nell’aria, qualcosa d’intangibile che soltanto poche volte si era percepita.
Vidi capitan Totti sfilarmi di fianco. Il suo sguardo azzurro come una falce d’argento mi inquadrò per un nano secondo, poi un lieve sorriso appena accennato fu indirizzato al sottoscritto, prima di tornare ad ignorarmi.
Nonostante le cose che gli avevo detto dietro, nonostante il mio desiderio di prendere il suo posto un giorno, oppure andarmene da quella squadra perché troppo in ombra rispetto ad un uomo ormai troppo vecchio per quel gioco, Francesco Totti riuscì in qualche modo a tranquillizzarmi senza nemmeno dire una parola.
«Nervoso, cuginetto?»
Una voce fastidiosa e pungente come mille aghi mi perforò un timpano proprio quando pensai di aver finalmente riacquistato un po’ di calma interiore. Mi voltai solo per incrociare gli occhi castano scuro dell’unico Sogno che avrei odiato ogni giorno della mia vita.
«Fottiti, Simone,» gli ringhiai contro, mentre lo vidi fissarsi le unghie ignorando palesemente la mia minaccia.
Solo alla fine rialzò gli occhi. «Sorry, hai detto qualcosa?» pronunciò, lasciando quel lieve accento britannico anche nella pronuncia italiana delle parole. Di sicuro una cosa dagli inglesi l’aveva ereditata alla perfezione, ed era l’aria snob.
Lo ignorai fissando avanti il tunnel che si apriva sotto i miei occhi, così cominciai a saltellare sul posto per riscaldare i muscoli. Sentivo che Simone mi stava ancora fissando. Quel suo sguardo bruciava come fuoco sulla mia pelle ma tentai di farmi forza. Parlando con lui avrei finito unicamente per innervosirmi ed era quello che avevo tentato di evitare sin dall’inizio.
Rimani concentrato.
«Sei conscio che la perderai questa partita,» insistette Simone, sicuro di sé. «Tu e la tua squadretta di pezzenti non potete competere contro i Gunners, contro una squadra della Premier, contro un modulo di gioco che esula completamente dal torello a cui siete abituati voi montanari.»
Strinsi le mani a pugno, facendomi forza. Avrei voluto urlargli contro che era inutile che si comportava in quel modo, come se lui fosse nato in Inghilterra e noi non condividessimo almeno un quarto dei geni. Certe volte gli avrei sputato in faccia la verità, perché per quanto si sforzasse a marcare quel fastidioso accento anglosassone, rimaneva sempre mio cugino, romano, italiano e montanaro come il sottoscritto.
«Faremo i conti,» sputai a denti stretti, fulminandolo. «Alla fine, Simone. Soltanto alla fine.»
Quelle parole suonarono come una vera e propria minaccia, ma sperai con tutto me stesso che la finisse di dare aria alla bocca. Nessuno della mia famiglia mi aveva mai ostacolato, ma Simo era stato l’unico che ce l’aveva sempre avuta col sottoscritto. Sin da piccoli avevamo gareggiato su tutto, che si trattasse di finire per primo la pasta al sugo o di arrivare a livello sedici a metal gear solid.
Una vita di eterna rivalità che forse sarebbe finita quella stessa sera.
Forse.
«Le tue minacce sono inutili, cuginetto,» ridacchiò Simone, senza dar il minimo peso alle mie parole. Nel frattempo vidi arrivare a passo sostenuto l’ormai famoso allenatore dell’Arsenal, uno dei più forti a mio parere.
Mr. Arsene Wenger camminò velocemente lungo il corridoio, dritto come un fuso, con i capelli bianchi che ondeggiavano ai lati del viso spigoloso. Simone si ammutolì al suo passaggio, quasi come quando mio padre passava a controllarci per vedere se ci scannavamo a vicenda o meno.
Era un fottuto codardo, nient’altro che questo.
Vedemmo gli arbitri in cima alla fila, vicino all’uscita del tunnel. Da quella posizione potevo intravedere il verde del campo e i cori già riempivano il silenzio dello stadio. Dalla televisione avevo appreso che molti tifosi avevano lasciato la Capitale per dirigersi a Londra con il primo aereo, solamente per seguire la squadra.
Magari qualche tempo fa non me ne sarebbe fregato nulla, ma adesso era motivo d’orgoglio per me.
Il via libera ci fu dato qualche secondo dopo, quando sentivo ormai lo stomaco rivoltato e annodato su sé stesso. Forse non mi era mai importato nulla del futuro come in quel momento, adesso che mi rimaneva soltanto quella parte di vita a cui aggrapparmi con tutte le forze.
«Ci vediamo al novantesimo minuto, non piangere mi raccomando,» mi avvertì Simone col solito ghigno elfico stampato in faccia.
Non gli risposi nemmeno. Mi limitai a rifilargli un’occhiata mista tra il “Ti incenerisco” e il “Prova a ripeterlo e ti incenerisco”.
Inspirai forte, scacciando via la tensione che si stava accumulando, poi avanzai lentamente verso le luci artificiali montate sopra la volta dell’Emirates Stadium. Per un momento quel tunnel mi parve infinito, quasi come se si trasformasse a poco a poco nella metafora della mia vita.
Ne avevo attraversati tanti di tunnel così, a partire dall’indimenticabile esordio in serie A all’Olimpico, applaudito da tutto il popolo di Roma. Alla fine la mia intera esistenza, tutti i ventitré anni di Leonardo Sogno si riducevano ad un chilometro, forse meno, di pavimento in linoleum maleodorante e umido, alla cui fine si celava la vittoria o la sconfitta.
O bianco o nero.
Il cinquanta percento delle possibilità, perché non era quasi mai contemplato il pareggio. Nella mia vita non esistevano le sfumature, non c’era il grigio, forse perché troppo spento e triste per uno come me.
Avrei preferito di gran lunga l’azzurro. Anzi no, il celeste.
Non ebbi altro tempo per pensare. La luce stava diventando sempre più intensa, passo dopo passo, inghiottendo ogni fibra del mio corpo e costringendomi a deviare lo sguardo. Socchiusi le palpebre, ignorando il senso di solitudine, e lasciai che i migliaia di tifosi seduti sugli spalti fossero le uniche cose di cui avessi bisogno.
 
***
 
Londra era una città ferma nel tempo, o almeno questa fu l’impressione che ebbi appena messo piede a King’s Cross.
Eravamo atterrati ad Heatrow in orario e avevo passato la maggior parte del tempo a sentirmi stritolare la mano da un Robbeo frignante in piena crisi isterica. Non sapevo cosa lo avesse spinto a salire su un aereo, quando aveva paura perfino di affacciarsi fuori al balcone.
«Siamo atterrati?» squittì.
«No.»
«Ora?»
«No.»
Lasciò passare altri tre minuti, aumentando l’intensità della stretta e poi mi cercò con la coda dell’occhio.
«Manca poco!» sbottai e Ven mi fissò incredula. Così come tutto il resto dei passeggeri.
Ennesima gaffe per colpa di quel fifone del mio migliore amico, ma c’ero abituata.
 
Eravamo sulla linea 97, quella che collegava King’s Cross al lato nord di Hyde Park, dove avevamo l’albergo. Cercai la testa fulva di Romeo, due sedili più avanti, intento in un’animata conversazione con un vecchietto.
Per lo più era lui che parlava, rigorosamente in inglese, mentre il mio migliore amico si limitava ad annuire, seguendo qualche parola. Era buffo vederlo così e dovevo ammettere che mi era mancato in quei giorni.
«Insomma, non è male evadere dalla realtà di tanto in tanto, no?» mi domandò la mia migliore amica, seduta al mio fianco.
Le sorrisi. «Per ora sono felice,» le dissi.
Soffocai mentalmente il ricordo di ciò che era successo in quei giorni, seppellendolo da qualche parte della mia mente. Ero venuta lì per rilassarmi, per non pensare e per dimenticare.
Venera mise da parte la piantina della Tube che stava consultando e sospirò. «Celeste,» disse cauta. «Sei qui, nella capitale inglese, con i tuoi amici, in vacanza. Possiamo pensare esclusivamente a divertirci?»
Annuii riconoscente.
Aveva ragione. Per quanto ancora mi torturassi con tutta quella storia, mi auto-distruggessi sino a soffocare, avrei rischiato col perdere quello che avevo.
Non ora che finalmente io e Romeo avevamo ricucito la  nostra amicizia.
Arrivammo in hotel e lasciammo subito le valigie in stanza. Scoprii che Romeo avrebbe condiviso la nostra stessa camera, essendo una matrimoniale con letto aggiunto.
Ovviamente Ven svenne di colpo.
Mentre le sventolavo la piantina della Tube energicamente sul viso, sperando riprendesse i sensi in fretta, notai quanto quell’albergo fosse costoso. Mi stupii che se lo fosse potuto permettere, soprattutto per uno che andava in giro con quel pandino-killer.
Il mio lato detective entrò subito in azione.
«Dev’esserti costato un patrimonio portarci qui,» osservai.
Lo vidi sgranare quei suoi limpidi occhi azzurri e annaspare in cerca d’aria. Aveva capito che non poteva avere scampo con me.
Basta bugie.
Si grattò la nuca fulva nervoso. Era evidente che stesse prendendo tempo per poter accampare qualche tipo di scusa. Come poteva permettersi un viaggio a Londra per tre persone se nemmeno lavorava? Inoltre, come aveva fatto a prenotare quel lussuoso hotel?
Mi diedi della sciocca per non averci riflettuto prima.
«Senti Romeo,» sbuffai stufa. Ero a tanto così dal mandare tutto all’aria e tornarmene a Roma col primo volo disponibile. C’era un limite alle bugie ed io lo avevo oltrepassato.
«Sono davvero stufa di tutti questi giochetti. Lo sento che mi stai mentendo. Sputa fuori la verità!» gli intimai.
Romeo deglutì a fatica, poi abbassò lo sguardo mortificato. «Non lo so.»
Ven scelse proprio quel momento per rinvenire miracolosamente. Sospettai che non avesse avuto alcun tipo di malore e che stesse aspettando solo l’attimo adatto per intervenire.
«Ha trovato tutto nella cassetta delle lettere,» spiegò lei. «Era una busta senza mittente.»
Guardai i miei due migliori amici sconvolta. «Mi avete mentito ancora? Dopo tutto quello che è successo?» sbottai.
Romeo si sentì in dovere di intervenire. «Io non volevo! È stata la puffa!»
Ven lo zittì subito con un gesto della mano, annoiata.
«Una piccola bugia a fin di bene. Non sempre si mente per fare del male, Cel. Sai che esistono anche le bugie bianche,» sospirò.
«Bianche?» chiese Romeo confuso.
Venera roteò gli occhi e sbuffò. «Davvero l’hai perdonato? Non possiamo sbarazzarcene?»
«Ehi!» protestò lui.
Bugie bianche. Bugie dette a fin di bene. Menzogne che servivano unicamente a far star meno male le persone a cui si teneva.
Sapevo bene il significato di quelle parole.
«Ciò non toglie che mi avete mentito,» precisai. «Entrambi.»
Era passato troppo poco tempo da Leonardo e dalla storia piena di menzogne che mi aveva propinato. Era stata dunque finzione sin dall’inizio?
Quel dubbio atroce non faceva altro che logorarmi l’anima.
Stavi aspettando pazientemente le scuse di uno dei miei due presunti migliori amici, quando una chioma rosso fiamma attirò la mia attenzione.
Era impossibile scambiarla per qualcun altro.
«Annalisa…» soffiai.
No. Non poteva essere vero. C’era una spiegazione a tutto quello, ai misteriosi “biglietti” apparsi nella cassetta della posta di Robbeo e alla stranissima coincidenza di quell’incontro.
Romeo fu più veloce di me nell’alzarsi e nel raggiungere la ragazza coi tacchi a spillo. Io e Ven gli fummo dietro quando lui le strinse energicamente il polso, bloccandole l’avanzata verso l’uscita dalla Hall.
I grandi occhi verdi di Annalisa si spalancarono dalla sorpresa, così come la sua bocca carnosa che prese una deliziosa forma a cuore.
«C-Cos…» balbettò incredula.
L’espressione di sorpresa che aveva in volto sembrava sincera, come se non si aspettasse di vederci lì. Anzi, di vederlo lì.
Magari non era stata lei a spedirci i biglietti.
E perché avrebbe dovuto farlo, poi?
Già, non aveva alcun movente. Non ci eravamo state simpatiche sin dall’inizio, perché avrebbe dovuto “farmi un favore”?
A meno che non ci fosse sotto dell’altro…
«Cosa ci fate voi qui?» chiese lei, abbandonando immediatamente quell’aria spaesata che non si addiceva al suo carattere viziato e arrogante.
Romeo assottigliò lo sguardo. Non sapevo bene il perché, ma sembrava proprio che ci fosse del risentimento tra quei due, quasi come se avessero litigato.
«Dovresti dircelo tu,» insinuai, magari avrebbe abboccato alla storia del viaggio.
«Non far finta di non sapere dei biglietti,» si aggiunse Robbeo.
Annalisa spostò lo sguardo prima su di me, poi sul mio migliore amico. Sembrava davvero confusa e per quanto potesse essere falsa, quella non era finzione.
«Davvero, siete fuori,» disse alzando le mani. «Io me ne vado.»
Venera la bloccò parandosi davanti. «Quindi non sei stata tu a spedire i biglietti aerei con la prenotazione al tuo stesso hotel a questo babbeo qui?»
Annalisa le lanciò uno sguardo di fuoco. «Non chiamarlo così,» sibilò.
«Non so nulla di questi biglietti,» aggiunse poi. «Questo non è solo il mio hotel, ci alloggia tutta la squadra e lo staff.» Si spostò una ciocca di fulvi capelli dietro l’orecchio. «Ora devo proprio andare, c’è qualcuno che mi aspetta e devo prendere una macchina.»
Rimasi a fissare il vuoto, metabolizzando ancora il fatto di poter incontrare Leonardo in qualsiasi momento. Anche ora che non ero affatto pronta.
Annalisa era scagionata e per quanto facessi ormai fatica a riconoscere i bugiardi, lei mi sembrò sincera. Io però ancora non sapevo l’identità del misterioso benefattore.
Romeo però mi distrasse, perché scattò nella direzione della rossa e le si mise davanti, impedendole di uscire e raggiungere la berlina nera che attendeva in strada.
«Aspetta un attimo,» disse.
Sembrava quasi una scena di un film d’altri tempi, proprio quando i due protagonisti raggiungono il climax.
Annalisa lo fissò in tralice. «Cosa vuoi da me, eh? Ti sei spiegato benissimo l’ultima volta che ci siamo visti, so che razza di persona pensi che io sia.»
C’era qualcosa che mi sfuggiva. Avevo come la sensazione che tra quei due fosse nata una specie di relazione che andava ben oltre il “reciproco sopportarsi” che fino ad ora ci avevano fatto credere.
«Forse dovremmo…» tentai di dire a Ven, ma lei mi zittì.
«Fai silenzio e goditi la scena madre,» mormorò risoluta. «Peccato non ci siano i popcorn.»
«Non ho mai detto questo,» ringhiò lui, serio.
Era raro vedere Romeo con quell’espressione in volto. Con Anna, sembrava un’altra persona e lei era forse l’unica ragazza – tranne me e Ven ovviamente – con cui si comportava da persona normale, senza la necessità di fare in buffone e di farsi etichettare come un cretino.
«Ah no?» rise lei, isterica. «Senza riserve, hai subito pensato che fossi stata io a spifferare tutto, che avessi tradito la tua fiducia e quella di Sogno.»
Una lacrima le sfuggì dall’occhio. Un lungo brivido mi fece accapponare la pelle.
Annalisa era la dimostrazione vivente che anche la persona più stronza di tutto l’universo qualche volta veniva ferita. E che a farlo fosse stato Robbeo, mi lasciava allibita.
Si asciugò in fretta il viso con il dorso della mano. «Non credevo di meritarmi questo. Pensavo fossimo amici.»
Lei e Romeo? Amici?
«Siamo… amici,» disse Romeo, avvicinandosi.
In quel momento mi sentii davvero di troppo, così cercai Ven per dirle di lasciar loro un po’ d’intimità – sembrava ancora strano, pensarlo – ma lei non voleva saperne di perdersi quella scena.
Annalisa era ancora restia a lasciarsi toccare, soprattutto perché sembrava che il mio migliore amico l’avesse davvero trattata malissimo. Ed era incredibile pensarlo di uno come Robbeo.
«Mi dispiace,» insistette lui, sfiorandole appena le dita. «Mi dispiace per tutto quanto, per come ti ho trattata, per quello che ho detto di te. Vorrei solo poter tornare indietro, sono stato uno stupido.»
Indietreggiai lentamente, lasciando loro un po’ di spazio e mi trascinai dietro Venera che continuava a scalciare.
«Smettila.»
Anna stava cedendo. Potevo vederlo riflesso nei suoi occhi lucidi e sentirlo nella sua voce incrinata dal pianto.
Allora mi sovvenne il ricordo di Leonardo, il modo in cui mi aveva guardata implorante alla festa di J. e ai suoi tentativi di scusarsi. La scena mi parve molto simile, quasi sovrapponibile e mi fece star male.
Se ci fosse stato un modo per quantificare il dolore, mi sarei trovata in bilico tra due orizzonti: da una parte c’era il perdono, la possibilità di passare sopra tutto e darmi un’altra chance; dall’altra ricordavo l’umiliazione della menzogna e del tradimento.
«Guarda che per me non è stato facile credere che tu potessi davvero tenere ad uno come me,» continuò Romeo, stupendomi. «Ad una persona normale
Amare una persona normale, comune. Uno come Romeo o come me… persone che non avevano una bellezza o un talento straordinari, che non avevano né soldi né fama.
Persone che potevano dare soltanto loro stesse.
«Nemmeno io credevo fosse possibile,» ripeté lei. «E questo fa ancora più male!»
Era ovvio che fosse così. Quando si possedeva tutto, ogni cosa si desiderasse, come si poteva distinguere tra amicizia per interesse o per sentimento?
Annalisa era la figlia del presidente della squadra di Leonardo e chiunque avrebbe potuto sfruttare la notorietà che sarebbe derivata dal frequentarla.
Compresa me stessa.
Anche tu avresti potuto approfittarti di Leonardo, della sua fama se lui ti avesse subito rivelato la sua identità. Magari è stato per questo che ha mentito. Per proteggere sé stesso da quel mondo falso.
«Lo so, che fa male,» continuò Robbeo. «Ma io ti giuro che per me è stato tutto reale. Tutto quanto. Ogni pomeriggio passato a fare shopping con te, a reggerti le buste, a fare finta di essere il tuo amico gay o ad ascoltare i tuoi problemi. Tutto.»
Fu dopo quelle parole che vidi il cuore di Annalisa sbocciare come un fiore a primavera.
Lei si aprì in un sorriso sincero e gli corse incontro, gettandogli le braccia al collo.
«Che scena disgustosa,» commentò Ven acida. «Sto per vomitare.»
Quando le loro labbra si sfiorarono in un bacio appena accennato, mi ritrovai a sorridere. Mi sentii stranamente leggera e d’improvviso percepii uno strano senso di vuoto dentro, come se mi mancasse qualcosa.
O qualcuno.
Ricordai le giornate sulla vespa, i pomeriggi passati a ridere davanti alla TV. Ricordai nonna Annunziata, le feste e le bugie che mi aveva detto ma che ci avevano permesso di andare avanti.
Per quanto potessi essere arrabbiata con Leonardo, per quanto lo odiassi per avermi resa debole e cieca, lui rimaneva comunque un punto fermo nella mia vita.
Venera mi guardò pensierosa. «Ti è sovvenuto all’improvviso un posto che vorresti assolutamente visitare per primo?» chiese con un sorrisetto.
La rabbia di essere stata raggirata mi aveva reso cieca, aveva fatto sì che perdessi di vista l’altra faccia della medaglia. Non mi ero fermata un momento a riflettere sul perché Leonardo si fosse comportato così, il motivo che lo aveva portato a mentirmi anche dopo che l’amore aveva fatto tutto il resto.
La ragione ero stata sempre io.
Ero la sola che aveva scatenato tutto questo, col mio odio per il calcio e il fatto che non mancassi mai di sbandierarlo ai quattro venti. Lui si era soltanto comportato di conseguenza.
«Dovrebbe esserci una partita di calcio, stasera,» dissi seria.
Annalisa e Romeo mi guardarono all’unisono, mano nella mano. «Vuoi provare davvero?» chiese il rosso.
Annuii convinta.
«Anche se sarà impossibile trovare i biglietti?» suggerì Venera.
Annuii con meno convinzione.
Annalisa allora ridacchiò. «A noi non serve alcun biglietto.»
Tutti la fissammo sconvolti e solo all’ultimo ricordai chi fosse davvero la Cavalli. Venera si mise subito in testa al gruppo e uscimmo in strada, montando sulla berlina mentre il sole calava all’orizzonte.
«Di qua!» urlò all’autista, ma Romeo la corresse.
«Veramente l’Emirates è dall’altra parte.»
Proseguimmo il resto del viaggio in macchina con le urla e gli schiamazzi dei miei due migliori amici che non la finivano di prendersi a parolacce.
Davanti ai miei occhi, le immagini di Londra al crepuscolo scorrevano ad alta velocità facendomi riflettere. Forse ero ancora in tempo per rinunciare. Non sapevo se fosse o meno la scelta giusta, se avevo ceduto troppo presto o se fossi ancora in tempo per rimediare.
Purtroppo non ero sicura di niente, però mi sentii in dovere di tentare.
Il solo vederlo mi avrebbe fatto male, ne ero conscia, ma per me stessa dovevo farlo perché quello che c’era stato tra noi – se autentico – meritava almeno un chiarimento.
Un’altra opportunità.
 
***
 
Ventitreesimo minuto…
L’aria si fa sempre più rarefatta nei miei polmoni, mentre corro in lungo e in largo per tutto il campo, tentando di sfondare il muro della difesa. Simone è sempre lì, lo vedo, mi sta col fiato sul collo e non mi molla.
Ha sempre quel sorriso stampato in volto, quel ghigno che mi ricorda secondo dopo secondo tutti i miei fallimenti, sia nella carriera che nella vita. Tento di dribblare un difensore, non ricordo nemmeno più il suo nome, ma quello si staglia come un muro di fronte a me e m’impedisce di passare.
Marco corre vicino a me, mi sorpassa e mi offre l’occasione di liberarmi del pallone ed io capisco al volo le sue intenzioni, peccato che anche Ramsey intuisce il nostro gioco e si frammette rubando il pallone e puntando in direzione della porta.
Mr. Montella si infuria dalla panchina, urlando indicazioni a destra e a manca mentre attorno a noi si è scatenata una vera e propria tempesta di grida, bandiere e il frastuono dei petardi lanciati al bordo del campo.
Come se una vera e propria guerra infuriasse in quell’arena.
Gladiatore. Io sono un gladiatore.
Prima di ritornare a dare man forte alla difesa, vedo Simone sfrecciare verso l’area della Magica e sorridermi soddisfatto di quello che la sua squadra è riuscita a fare. Non era ancora detta l’ultima parola.
 
Venticinquesimo minuto…
Simon ha appena sventato un possibile contropiede dell’Arsenal, rubando palla a Van Persie ed ora la Magica può volare all’attacco, perché si è aperto un varco nell’insormontabile difesa.
La vedo. Vedo i pali bianchi della porta difesa da Almunia e vedo anche la possibilità di segnare, sento un brivido corrermi lungo la schiena, come monito di quello che potrebbe accadere di lì a poco. Il bagno di folla, l’abbraccio dei compagni ed un passo sempre più vicino a quella che sarà la semifinale della competizione più importante d’Europa.
 
Due secondi dopo…
L’intervento di Simone in scivolata per poco non aveva rischiato di rompermi una caviglia e mentre mi rotolavo per terra dal dolore della lussazione, lo vedevo ghignare.
L’arbitro Webb accorse per sincerarsi delle condizioni di entrambi, poi Simone venne a tendermi la mano con fair play.
«Ancora deve venire il bello, cuginetto,» sorrise e finse di abbracciarmi. In seguito mi guardò negli occhi, quegli occhi scuri e malvagi. «Attento, la prossima volta potrei anche puntare alle articolazioni.»
Lo fissai sorpreso e sperai che scherzasse.
Era ovvio che Simone Sogno non giocasse pulito. Mai.
Tornai verso il pallone, pronto a battere la punizione che ci avevano assegnato per colpa del fallo di quel cretino di mio cugino.
Daniele mi si affiancò. «Vai verso l’area. Provo a crossare il pallone e tu colpisci di testa. Cerca di aggirare tu cugino, altrimenti semo fottuti,» mi sussurrò.
Come idea non era male, il difficile era metterla in atto.
Per quanto non sopportassi Simone, dovevo ammettere che l’Arsenal era una squadra ben assortita. Già l’allenatore era metà rosa.
Corsi nell’area protetta da Almunia, dopodiché attesi il fischio dell’arbitro che non tardò ad arrivare. Simone mi fu addosso, spintonandomi, così come altri suoi compagni. Era chiaro che fossi io l’obiettivo da marcare con insistenza, ma avrei preferito di no.
Daniele calciò la punizione, arcuando la palla verso l’area di rigore, ma ero troppo pressato per riuscire a saltare.
In ultimo, vidi Rosi che correva nel bel mezzo dell’area, indisturbato. La difesa era troppo impegnata a marcare me e il Capitano, senza curarsi di “pesci più piccoli” come l’ala destra della Magica. A quel punto, sapevo cosa fare.
Attirai l’attenzione della difesa dell’Arsenal su di me, imitando una specie di colpo di testa e quando furono abbastanza lontani da Rosi, lui cominciò a correre velocemente verso il portiere che urlava.
Ormai era troppo tardi perché se ne accorgessero.
Te l’ho fatta, stavolta, Simo.
Non avevo messo in conto l’intervento di Van Persie che, come un’aquila nel cielo, piombò direttamente sul povero Alejandro togliendogli la palla e consegnandola direttamente in mano al portiere.
«Cazzo!» sibilai col fiatone.
Simone mi passò di fianco e sorrise. «Tic toc.»
 
Trentottesimo minuto…
La partita non voleva saperne, di cambiare le sorti dello zero a zero e i tifosi di ambo le parti sembravano abbastanza scontenti. L’azione non era ancora cominciata, perché eravamo troppo accorti per osare.
La Curva rumoreggiava e le bandiere sventolavano con forza, così come i fumogeni che impregnavano l’aria rendendola quasi irrespirabile. Più di una volta Webb era stato costretto a fermare il gioco, per via della nebbia che gli copriva la visuale.
Se continui così, non arriverai da nessuna parte.
Ne sono consapevole.
E allora osa, per l’amor di Dio!
Guarda, non parliamo di amore, va’.
Per un nanosecondo ero riuscito a cacciare fuori dalla mia mente il pensiero di Celeste ed ora il mio caro Ego, o Coscienza o dir si voglia, si metteva lì a ricordarmelo.
Mi distrassi solo un secondo, poi tornai con la mente in campo. Il Capitano aveva recuperato palla ed ora spingeva il tridente d’attacco a puntare la porta di Almunia. Vedevo riflesso nei suoi occhi celesti la determinazione di vincere quella partita, di portarsi a casa il risultato e non potevo che essere d’accordo.
Gli feci cenno di seguire i miei movimenti, così ingannai uno dei difensori in scivolata e schizzai veloce verso l’area di rigore.
C’era poco tempo per agire, e forse sarebbe stata l’unica azione valida prima della fine del primo tempo. Aggirai Squillaci e cercai lo sguardo di Francesco che agganciò immediatamente il mio. Era difficile da quella posizione crossare, soprattutto per il modo in cui Simone e Song lo stavano pressando.
Daje Capitano, daje, pensai, sperando udisse le mie suppliche.
In un qualche modo davvero sorprendente, con una giravolta riuscì ad eludere la marcatura di quel coglione di mio cugino, tenendosi libero per il cross migliore di sempre.
Mi arrivò diretto sul piede, ed eseguii uno stop da manuale, facendomi rotolare il pallone tra le gambe ed evitando l’ultima barriera che mi divideva dai pali della porta.
André Santos mi fissò deciso ed io non evitai il suo sguardo.
Fu una sfida silenziosa e diretta tra due che facevano quel mestiere da una vita, tra sacrifici, rinunce e tutto il resto. Soltanto un altro calciatore poteva sapere cosa si provasse a non avere una vita privata, ad essere denigrato dal pubblico per un solo errore.
Un calcio di rigore sbagliato, un passaggio troppo forte… qualsiasi cosa.
Dribblarlo uno contro uno sarebbe stato impossibile, soprattutto perché si trattava di un armadio a due ante. L’unica soluzione era tentare una finta e provare il tiro dalla distanza.
Eccolo! Finalmente sei tornato.
Leonardo Sogno era tornato più in forma di prima, senza riserve. Sarebbe stato la stella della sua Magica, poi di qualche squadra di un club inglese magari… chissà.
Avrei conquistato le copertine di ogni rivista. La fama era l’unica cosa che mi rimaneva, ora.
Detto ciò, misi in pratica ciò che avevo pensato. Sulle prime la finta mi riuscì ma il brasiliano era evidentemente più furbo e intuì ciò che avevo in mente.
«Leona’!» gridò Daniele alle mie spalle, pronto per avanzare con uno dei suoi colpi di testa brevettati, ma lo ignorai.
Quel goal era mio. A tutti i costi.
Quella partita era stata il motivo per cui avevo sacrificato Celeste, per cui mi ero allontanato. Avevo detto addio all’unica cosa reale che mi era capitata da una vita, la sola che stesse con me non tanto per i soldi, né per la fama.
Soltanto per Leo.
Ignorai il suggerimento di Capitan futuro e tentai il tiro dalla distanza. Fortunatamente il pallone non fu intercettato da Santos e prese un effetto soddisfacente. Furono i cinque secondi più lunghi della mia vita, mentre sentivo chiaramente il cuore battere forte e il fiato che mancava nei polmoni.
L’occasione di una vita a pochi minuti dallo scadere del primo tempo.
Andare in vantaggio al 38’ significava sollevare i tifosi, rincuorare la squadra e far si di studiare una tattica vantaggiosa che ci consentisse di raddoppiare o quantomeno proteggere il risultato.
Il pallone galleggiò nell’aria come se fosse telecomandato ed io finii col trattenere il fiato finché non avessi sentito il tipico rumore del cuoio che s’infrangeva contro la rete. Un sonoro “toc” e poi il boato della folla.
«Pittore! Pittore! Pittore!»
Leonardo Da Vinci, un genio.
Questo è quello che avrei dovuto udire dai cinquemila tifosi che erano lì a Londra, solo per vedere la loro squadra giocare. Invece ci fu un boato di delusione e di protesta, perché il pallone s’infranse proprio contro il palo.
SDENG!
Quello fu il suono che si udì all’Emirates, nel silenzio dovuto alla suspense del tiro.
Almunia, sorpreso da quella fortuna, accorse a togliere immediatamente la sfera dalla testa di Daniele che era saltato per ritentare.
Rimasi imbambolato a fissare la porta senza reagire.
Il Capitano mi posò una mano sulla spalla ed io sussultai sorpreso, mentre lo stadio aveva ricominciato ad urlare. «Il calcio è un gioco di squadra, ricordalo,» disse solamente, ma lo sguardo furioso che mi lanciò Daniele fu abbastanza eloquente.
Suppongo che avresti dovuto passare il pallone.
Ma non mi dire.
Simone se la rideva alla grande, fissandomi come se avesse ottenuto una doppia vittoria da quel mio sbaglio. Era insopportabile. Ancora mi chiedevo quale forza divina mi aveva impedito di soffocarlo con un cuscino quando eravamo piccoli.
Il portiere rinviò la palla da fondocampo, mentre tutti ritornarono ai loro posti in attesa dello squadrone dell’Arsenal che avanzava minaccioso.
Simone era in testa al gruppo, riusciva a manovrare il resto della squadra senza nemmeno aprire bocca. Dalla panchina, si udivano le indicazioni di Mr. Montella di rientrare, mentre il pallido allenatore dei gunners fissava il campo come un’aquila.
«Forza, rientrate!» gridò Rodrigo, riferendosi a quei pochi di noi che erano volati in attacco.
Cominciai a correre, anche se il fiato mancava, ma dovevo resistere.
39’… 40’… 43’
I minuti scorrevano come gocce di pioggia attraverso il tombino di una strada e mi era impossibile fermarli. Scivolavano via, così come quando il quarto uomo, con la lavagnetta luminosa, indicò 1’ come il tempo di recupero.
Fu in quell’istante, dopo un corner che avevamo concesso un po’ troppo superficialmente che dovetti assistere ai sessanta secondi più brutti della mia vita.
Cinquantotto, quarantacinque, trentasei…
Cercai immediatamente lo sguardo di Simone mentre il pallone viaggiava al di sopra dell’aria di rigore, percorrendo una parabola quasi perfetta. Lo vidi smarcarsi da Simon e gli altri, Marco cadde addirittura a terra, ed io allora lo rincorsi per impedirgli di saltare.
Quel metro e novanta di muscoli e precisione non ci avrebbe perdonati.
Feci di tutto per arrivare fin sotto di lui, rischiai anche di calpestare i miei stessi compagni, ma dovevo fare qualcosa. Mi aggrappai alla sua spalla, cercando di non commettere fallo e tentai in tutti i modi di caricare il salto e togliergli la palla dalla testa.
Simone se ne accorse e allora mise più potenza.
Mi superò di una spanna senza alcuno sforzo, arrivando in perfetto tempismo con il pallone che aveva iniziato a scendere. Lo colpì in pieno, con tutta la potenza di tiro di cui era capace e la angolò.
Cazzo se quello era un colpo di testa!
Martin tentò di afferrarla sbracciandosi come un puma che balzava sulla propria preda, ma era troppo preciso e potente quel tiro.
Il pallone s’insaccò nella rete al 46esimo e l’arbitro Webb fischiò la fine del primo tempo.
 
Il rumore di tacchetti riempì il silenzio che c’era nel tunnel di rientro agli spogliatoi. Fissavo il grigio del pavimento di linoleum senza pensare a niente. Desideravo solo sparire e darmi del cretino.
A quest’ora, se avessi passato quel maledetto pallone, magari saremmo sul punteggio pari.
Simone era stato trattenuto da un giornalista per rilasciare un’intervista a caldo, così ne avevo approfittato per dileguarmi prima che mi prendesse di mira.
Erano lontani i tempi in cui nonno Pietro ci aveva dato quei palloni per regalo, facendoci condividere in un modo del tutto suo la passione per il calcio. Ora tra me e quel demente c’era solo guerra, nient’altro.
Fotografi e giornalisti di tv locali si sbracciavano per poter ottenere qualsiasi commento, ma tentai il tutto e per tutto al fine di evitarli. Non avevo voglia di parlare, non avevo voglia di nulla. Ancora una volta mi ero dimostrato un cretino che non sapeva fare nemmeno l’unica cosa in cui era bravo.
«Ehi! Ehi!» sentii una voce che mi chiamava, così accelerai il passo.
Volevo sedermi sulla panca, ascoltare gli scleri del mister, beccarmi le occhiatacce dei miei compagni di squadra e magari farmi sostituire.
'Sti cazzi.
Ero stufo di dover portare quel peso, di vivere con l’angoscia di dover dimostrare sempre qualcosa. Ora che Celeste era scivolata via dalla mia vita, avevo bisogno di fare chiarezza e ricominciare. Lei era solo una distrazione.
«Leonardo!»
Ecco. Ora sentivo anche la sua voce nella mia testa e non era normale.
Hai cominciato a bere di recente?
Ci mancava soltanto la pazzia a completare quel quadretto davvero rassicurante. Altro che infortuni o doping, avrei chiuso la mia brillante carriera in qualche manicomio.
«Leo! Girati!»
Sgranai gli occhi. Quella era la sua voce, ne ero certo.
Mi voltai sperando che si trattasse solo di un’illusione, ma un’orda di flash accecanti mi costrinsero a socchiudere le palpebre e a schermarmi con un braccio.
«Mr. Sogno ha da lasciare qualche dichiarazione?»
«È stato un errore della difesa?»
«Si poteva evitare?»
Tutte quelle domande cominciarono a confondermi, tanto che pensai di essermi davvero immaginato tutto. Possibile che Cel mi mancasse a tal punto da giocarmi questi brutti scherzi?
Stavo per rinunciare e tornare negli spogliatoi, quando sentii alcuni giornalisti protestare e spostarsi, spinti da una qualche forza soprannaturale. Soltanto in ultimo, quando la folla cominciava a diradarsi, mi resi conto che si trattava di quell’elfo dell’amica di Celeste.
Veneziana.
Veranda.
Terzo tentativo e sei out. Ce la puoi fare.
Venerea!
Quella la conosci bene.
«Sei irraggiungibile, porca miseria!» sbottò, aggiustandosi un ciuffo ribelle di capelli dalla fronte.
Dietro di lei, come una visione, c’era Celeste.
I suoi occhi azzurri erano spalancati, così grandi che avrei rischiato di finirci dentro. Si stava torturando una ciocca di capelli biondissimi tra le dita, senza sapere cosa dire. C’era troppo chiasso attorno a noi, troppi rumori.
Nemmeno io riuscivo a parlare.
Cosa avrei potuto dirle ancora? Scusarmi? Tentare di nuovo?
La sua presenza lì mi aveva spiazzato del tutto. Non sapevo spiegarmi il motivo per cui mi avesse raggiunto. Alzai ancora di più lo sguardo e trovai Annalisa, mano nella mano con quel cazzone di Robbeo.
Forse era merito del destino?
«Non c’è un posto più appartato dove potete parlare?» mi domandò Ven – direi che quel nomignolo le stava a pennello, visto che non mi ricordavo il resto.
Come svegliato dal coma, annuii. «Da questa parte.»
Le condussi verso l’ufficio per lo staff, in quel momento del tutto deserto. Prima di aprire la porta, però, ricevemmo la gradita visita di chi avevo tentato inutilmente di evitare fino a quel momento.
Simone.
«È off-limits quell’area,» commentò, in un perfetto inglese da cazzone.
«Falla finita!» ringhiai. «È una questione… privata,» dissi in un soffio, rivolgendo uno sguardo timido a Celeste.
Era così strano vederla silenziosa, lei che col suo indice “pungolatore” non mancava mai di bacchettarmi. La mia maestrina dispettosa.
Simone sfoderò quel ghigno bastardo. «Ci rivediamo, piccola,» mormorò malizioso. Lanciò anche un’occhiata distratta a Ven, facendo una smorfia.
«Come avrai sicuramente capito, la famiglia Sogno non è famosa per i fiori,» sghignazzò avvicinandosi.
Cercai di frappormi, almeno per proteggere Cel da quel cretino, ma Venera fu più veloce.
Hai azzeccato il nome!
«Oh, il circo è tornato in città, vedo. Il gibbone è fuggito dalla gabbia,» ridacchiò.
La tipa ci sapeva fare.
Simone sibilò. «E questo cos’è? Ti sei portato dietro il bassotto?» sghignazzò.
Lentamente aprii la porta dell’ufficio staff, così da lasciare Simone in dolce compagnia con Ven che sembrava sapergli tenere testa meglio di chiunque altro conoscessi.
«Per di qua,» sussurrai a Celeste, trascinandola dentro.
Lei annuì.
«Bassotto a chi? Spilungone montato che non sei altro!»
Questa fu l’ultima frase che udimmo prima che la porta si chiudesse con un sonoro clack e ci ritrovammo da soli in quella fredda stanza. Non avevo molto tempo prima che iniziasse di nuovo la partita ed ero più che sicuro che sia il Mister che i compagni mi stavano dando per disperso.
Però volevo dare a Celeste il tempo necessario per riordinare le idee.
Se ne stava sulle sue, evidentemente pensierosa. Infine cercò i miei occhi ed io ricevetti una stilettata dritta al cuore. Non avrei mai immaginato che stare lontano da una persona per tutto questo tempo fosse tanto doloroso.
Io che ero abituato a vivere alla giornata, ad avere donne diverse ogni giorno.
Non ricordavo nemmeno i loro nomi.
«Di preciso non ho chiaro il perché sono qui,» sputò fuori all’improvviso. Quegli occhi di ghiaccio erano così seri. Lontani dalla Celeste spensierata e solare che ricordavo. Questa era una ragazza ferita da tutte le menzogne che avevo detto e che non mi ero mai pentito di dire.
«Se vuoi dare la colpa al destino o altro, mi hanno convinto a venire a Londra e casualmente ho incontrato Annalisa.»
Il tono di voce era dannatamente profondo. Per un attimo pensai che si fosse fatta tutti quei chilometri per bidonarmi di nuovo.
«Cel, io…» tentai di dire, ma lei mi zittì.
«Forse ho giudicato troppo presto le tue azioni, non mi sono fermata a riflettere a sufficienza. Ero troppo arrabbiata con te per quello che mi avevi fatto, per ciò che mi avevi nascosto. Mi sono sentita tradita perfino da me stessa! Come diavolo posso esser stata così cieca!» sbottò.
Avrei voluto dirle che magari c’entrava il fatto che stesse troppo bene in mia compagnia da surclassare tutto il resto, ma tacqui.
«Ho googlato il tuo nome l’altro ieri,» soffiò imbarazzata.
Le sorrisi. «Su internet girano certe scemenze,» le risposi un po’ imbarazzato.
«No, no,» insistette ed io la lasciai parlare. «Ho letto di quando hai iniziato la carriera, delle coppe che hai vinto, dei premi… il pallone…?»
«Il Pallone D’oro, sì, sono in lizza per vincerlo,» dissi fiero, gonfiando il petto.
A Celeste sfuggì un sorriso che sembrò illuminare la stanza intera. «Credo di averti giudicato troppo superficialmente. Mi dispiace. Forse avrei dovuto ascoltarti, anche perché penso, anzi, credo, che quello che c’è stato tra di noi fosse autentico.»
«Lo era!» intervenni, forse con un po’ troppo fervore.
«Già,» rispose lei, sedendosi.
Ci fu un momento in cui cadde il silenzio e nessuno dei due sembrava aver voglia di riprendere la parola. Erano minuti delicati quelli, forse più importanti della partita che ci sarebbe stata di lì a poco.
C’erano due piatti della bilancia e su di essi era posata la mia vita. Da una parte Cel e la sua spontaneità che mi avevano stregato, dall’altra tutto il mio mondo.
«Leona’, ‘ndo stai?» la voce di Alejandro mi fece sobbalzare.
«Ti stanno cercando,» osservò Celeste.
Annuii pensieroso. «C’è tempo. Vai avanti,» la incalzai.
Lei giocherello con i ghirigori impressi sul tavolino in legno, poi sospirò. «Non vorrei essere trattata di nuovo da stupida, se è questo che vuoi sentirti dire. Ho sbagliato, ma anche tu hai la tua parte di responsabilità,» mi accusò.
«Ho dovuto mentire!» mi giustificai.
Lei mi lanciò un’occhiata assassina. «All’inizio è stato solo un gioco, ammettilo almeno.»
Sospirai sconfitto. C’era poco da fare, quando Celeste annusava una traccia era poco ma sicuro che ti sgamava.
«Okay!» mi arresi. «Magari è iniziata così.»
«E poi ci hai preso gusto e hai continuato a mentire, facendoti quattro risate con quel maleducato di tuo cugino!»
«Ma sei impazzita?» sbottai.
«Provami il contrario, allora!» e si alzò in piedi, sbattendo le mani sul tavolo.
Deglutii gli ultimi residui di saliva che si erano arrampicati sul palato. «Non c’è un modo semplice per spiegartelo, Cel. La verità è che non lo so nemmeno io,» cominciai. «Sono entrati in ballo sensazioni nuove, roba che non faceva per me.»
Mettersi a nudo in senso metaforico, era davvero dura.
«La verità, ho bisogno solo di questo. Per una volta,» rincarò lei.
Annuii. «È sempre stata solo una, Cel. È che mi sei entrata dentro e non te ne sei più andata via, ecco qual è.»
Lei rimase quasi sorpresa da quella mia ammissione.
«Quindi tu…» tentò.
«Sì, io,» le risposi.
Sorrise ed io mi sentii più leggero. «Ho bisogno solo di un’altra occasione, e nient’altro. Stavolta sul serio. Non ti mentirò più riguardo a nulla. Lo giuro,» promisi.
Lei parve ancora confusa, così mi avvicinai e le strinsi le mani nelle mie. Cercai i suoi occhi, un contatto, qualsiasi cosa le impedisse di sfuggirmi ancora.
«Non so se riuscirò a sopportare tutto questo,» disse, sfiorandomi la maglia della Magica con la punta delle dita e soffermandosi sullo stemma.
Le afferrai la mano e gliela strinsi, premendola contro il mio cuore. «Lo faremo insieme.»
Celeste allora si lasciò andare veramente questa volta, lasciandomi sbirciare finalmente la sua vera persona. Mi era mancata troppo, come l’aria, quasi come il fischio finale dell’arbitro al novantesimo della partita più importante del mondo.
«Ora vai a vincere,» soffiò infine, alzandosi sulle punte e cercando appena un contatto con le mie labbra.
Sorrisi leggero come non lo ero mai stato prima. «Per te, soltanto per te,» e corsi via.
Verso il campo dell’Emirates Stadium, verso quel verde che mi avvolse come una vaporosa coperta e verso quel profumo che sapeva finalmente di casa


Allora, innanzitutto mi scuso profondamente anche a nome di _Shantel che non so che fine abbia fatto. Questa storia è rimasta in stand-by per troppo tempo, ma purtroppo era un lavoro scritto a 4 mani, perciò serviva necessariamente la collaborazione dell'altra autrice. Ho provato più volte a contattarla, ma mi ha detto di avere problemi in famiglia e che non poteva perder tempo dietro a EFP.
In altre parole, mi ha dato il permesso di continuarla da sola. Ammetto che non è la stessa cosa, che per me è stato difficile immedesimarmi in Celeste, però ci ho provato per il bene di questi due personaggi che meritano un bel finale, un finale come si deve.
Inoltre, devo approfondire il rapporto degli altri personaggi.
Vi chiedo "scusa" a nome di entrambe se vi ho fatto sospirare questo capitolo, ma prometto e giuro solennemente di portare a termine Come in un Sogno da sola, che venga bene o meno. Ci proverò.
Mi rimetto alle vostre considerazioni e non esitate a farmi notare qualche pecca nel carattere dei personaggi, è da tanto tempo che non mi cimento in questa storia e devo riprenderci la mano. >.<
Detto questo, ho creato la raccolta "Se il Sogno chiama..." dove potrete trovare tutto ciò che riguarda la famiglia Sogno :3
Al prossimo aggiornamento - CHE SICURAMENTE ARRIVERA'-
Baci, Marty

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Capitolo 2
*** Capitolo 17 ***




CAPITOLO 17
betato da nes_sie

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Come in un Sogno
 
Passeggiare per le strade di Londra mi rendeva piacevolmente leggera, quasi stessi fluttuando con le mie converse su quel marciapiede piastrellato. Vetrina dopo vetrina, sfilavo con lo sguardo ogni negozio della via dello shopping, com’era chiamata Regent Street.
Venera era come se si trovasse in un immenso parco giochi.
Sorrisi mentre vedevo i suoi occhi chiarissimi illuminarsi ancora di più, rendendola in qualche modo più bambina. Londra per lei era sempre stato un sogno, non sapevo quante volte me lo avesse ripetuto e adesso che si trovava lì, in mezzo a tutta quella gente, si sentiva finalmente parte di quel mondo.
Avvertii lunghe dita affusolate stringersi attorno alle mie.
Leo mi sorrise di sbieco, puntando quelle immense praterie che erano i suoi occhi nei miei.
«La tua amica si sta divertendo,» commentò allegro.
Non potei fare a meno di sbuffare in una risatina. «Credo che questo viaggio abbia fatto più bene a lei che a noi,» asserii.
Quel “noi” mi pesò addosso come un macigno e nemmeno mi accorsi in principio di aver pronunciato tre lettere così pesanti, soprattutto in un periodo delicato come quello. Leonardo si accorse del mio cambio d’umore, ma si limitò solo a stringermi di più la mano.
Da una parte c’eravamo chiariti. Durante la partita avevo messo finalmente da parte l’orgoglio e la testardaggine, per far posto alla mia parte comprensiva e razionale.
Ero stata tradita e umiliata dalle persone a me più vicine, quella sarebbe stata una ferita che avrebbe richiesto molto tempo per guarire. Lentamente avrei potuto recuperare e tentare di capire il punto di vista di Leo.
Ci stavo provando, realmente.
«Certo, per comprarti una borsa del genere ti parte tutto lo stipendio di un mese!» osservò Robbeo infastidito, fermandosi di fronte alla vetrina di Burberry.
Anna gli stava vicino, sfiorandogli di tanto in tanto la spalla con la punta delle dita bianchissime. Mi sentivo ancora piuttosto strana a vederli così uniti, era come se quel loro frequentarsi fosse qualcosa di alieno e incomprensibile.
Non si può scegliere chi amare. Si ama e basta.
Quel pensiero mi riportò alla realtà dei fatti. Per quanto una qualsiasi coppia potesse risultare ambigua in un contesto più ampio, come la figlia ricchissima del presidente di una squadra di calcio e uno studente con un lavoro part-time e una macchina scassata, c’era ben poco da analizzare.
Gli sguardi che quei due si scambiavano erano più che sufficienti a sopperire ogni dubbio.
Annalisa finalmente aveva trovato qualcuno che l’amasse per quello che era, non soltanto per la bellezza, per fama o per soldi. Romeo non era così superficiale, anche se il suo quoziente intellettivo sfiorava quello di un’ameba ripetente.
«Certo, se la tua paga è quella di uno che fa volantinaggio…» commentò Venera acida.
Subito i due si fissarono come se volessero sbranarsi ed io sospirai roteando gli occhi al cielo. Ci sarebbero state cose che non sarebbero mai cambiate, nonostante le nostre vite si fossero evolute a tal punto.
«Perché? Tu cosa fai per guadagnarti da vivere, Miss Saputella?» sputò il rosso, fissando la mia migliore amica come se volesse saltarle addosso.
Quei due avrebbero sempre trovato punti di disaccordo. Era stato così dalle elementari e sarebbe rimasto identico anche quando ognuno di noi sarebbe cresciuto.
Quando finalmente ognuno sarebbe andato per la sua strada.
Quel pensiero mi immobilizzò per un attimo. Sentii una fitta al petto e vi portai una mano sopra per regolarizzare il battito cardiaco. Leonardo si accorse di quella mia mancanza e mi guardò preoccupato.
Gli sorrisi per rassicurarlo. «Sto bene,» dissi.
Mi sentivo ancora piuttosto confusa su di noi, soprattutto quando la maggioranza delle volte mi veniva da chiamarlo Ruben anziché Leo. Era così frustrante dover ammettere a me stessa di aver ceduto troppo presto, di non averlo fatto soffrire abbastanza.
Eppure, quando mi perdevo nel suo sorriso sincero non riuscivo a pensare ad altro.
Forse ero stata troppo debole, troppo accondiscendente. Magari in futuro mi sarei pentita di quella mia debolezza, ma per adesso ero felice così.
Ognuno aveva diritto ad un po’ di felicità nella propria vita.
«Il massimo che puoi fare col tuo metro e cinquanta, è lavorare al circo,» s'intromise il cugino di Leonardo.
Rimanemmo tutti allibiti a fissarlo.
Si era unito a noi per caso, incontrandoci per strada e cominciando a punzecchiare senza sosta Venera che non la smetteva di rispondergli per le rime. Leonardo era teso come una corda di violino. Ormai avevo capito che Simone aveva la capacità di rendere irascibile anche il Dalai Lama.
«Almeno farei un lavoro onesto e non rubere i soldi facendo finta di saper rincorrere un pallone,» rispose acida la mia migliore amica.
Non sarei mai riuscita a spiegare veramente il comportamento di Ven agli altri. Da un occhio esterno, poteva sembrare una ragazza responsabile, molto intelligente, pronta a farsi in quattro per chiunque glielo avrebbe chiesto.
Poi però si lasciava trasportare in queste dispute sull’averla vinta per forza. E cadeva nella trappola di persone fastidiose come il cugino di Leo.
«Una delle cose che so fare meglio. È il mio lavoro!» rispose, infatti, sprezzante. «Oltre che muovermi con maestria tra le lenzuola…» e sorrise malizioso.
Pensai immediatamente di bloccare Ven sul nascere, perché ero più che sicura che la sua protesta sarebbe stata esagerata.
Simone era tutto ciò che Venera odiava in un ragazzo: infantile, arrogante e borioso.
«Forse dovremmo fermarli?» mi domandò Leonardo preoccupato.
Una piccola folla si era radunata vicino alla vetrina del negozio, più che altro attirata dalla presenza dei due calciatori. Dovevo ammettere che, a differenza dell’Italia, lì a Londra non venivi assalito da fans inferociti che ti chiedevano per forza una foto o l’autografo.
Erano molto rispettosi dell’altrui privacy.
«Non so se sia il caso di lasciarli sfogare…» ammisi, vedendo che persino Robbeo si stava allontanando da Ven-il-vulcano-pronto-ad-esplodere.
Strinsi con tenacia la mano di Leonardo e forse, pensai, avremmo dovuto approfittare di quel momento di distrazione, per ritagliarci qualche momento solo tra noi.
Cercai il suo sguardo e quelle iridi color smeraldo s’infransero subito con le mie. «Che ne dici se…?» proposi, facendogli cenno con la testa di filarcela.
C’era una folla sufficiente a nascondere il nostro tentativo di fuga, mentre le urla di Venera e di Simone si riuscivano ad udire persino ad Oxford Circus.
«Se sei così bravo, per quale motivo hai perso contro quel babbeo di tuo cugino, eh?» gli urlò addosso, finendo per umiliarlo per bene.
Sorrisi.
Venera non era capace di relazionarsi. Tendeva sempre a vedere il peggio di una persona senza mai focalizzarsi sui pregi. Per entrare nelle sue grazie, avresti dovuto insistere, spingere, senza mai piegarti a ciò che le sue parole erano in grado di fare.
Sì, perché spesso e volentieri ti feriva senza che nemmeno ne avesse l’intenzione.
Era fatta così e non sarebbe mai riuscita a cambiare. Se volevi averla come amica, dovevi necessariamente prenderti tutto il pacchetto. E così avevo fatto io.
«Dove vuoi andare?» mi domandò Leonardo, continuando a camminare velocemente. Le voci dei nostri amici si affievolirono alle nostre spalle, ed io non mi voltai.
C’erano cose che andavano chiarite, magari col tempo. Sentivo il bisogno di stare da sola con Leonardo, di conoscerlo come realmente era.
Dovevo recuperare il tempo che avevo perso dietro ad una persona che non era quella di cui mi ero innamorata. O almeno era quello che avevo fino ad ora creduto.
Era come se quel nome facesse la differenza, come se mi confondesse.
 
Quella che noi chiamiamo rosa, senza il suo nome
avrebbe pur sempre il suo dolce profumo.
Non cambia l'essenza,
tuttavia identifica, caratterizza, distingue.
 
Mi ero illusa pensando che dietro a “Ruben” si nascondesse una persona totalmente diversa da Leonardo, quando invece quel nome gli era servito soltanto come barriera dietro cui proteggersi.
«Vieni con me,» gli dissi, imboccando l’entrata della Tube a Piccadilly Circus.
Ci sarebbe voluto del tempo perché facessi ordine nel mio cuore, affinché riuscissi di nuovo a fidarmi di lui, ma adesso la prospettiva era differente. Cercavo sempre più di immedesimarmi nel suo modo di pensare, nelle scelte che lo avevano obbligato a comportarsi così.
Cosa avrei fatto io se i ruoli si fossero invertiti?
Comprammo due biglietti e salimmo sul primo treno che passava. Qualunque fermata sarebbe andata bene, perché il mio unico obiettivo era rimanere sola con lui, recuperare quello per cui valeva la pena lottare in quel momento.
Leonardo si sentiva spaesato.
Lo fissai di sottecchi e sorrisi, notando come guardava con circospezione i sedili della metropolitana. Lui che non era abituato a prendere i mezzi pubblici, sembrava un pesce fuor d’acqua. Un cucciolo impaurito abbandonato per la strada.
Cercai il suo sguardo e lo invitai a sedermi accanto.
C’era complicità anche nei nostri occhi, senza alcuna parola. Anche se percepivo ancora una barriera tra di noi, era innegabile il legame che si era instaurato tra di noi.
Leonardo si sedette e mi fissò mortificato.
«Che c’è?» gli chiesi comprensiva.
Lui alzò gli occhi su di me e mi tolse un battito. «Mi dispiace, è che non sono abituato a tutto questo,» sospirò. «Questa normalità non fa per me.»
Sorrisi comprensiva e gli presi una mano tra le mie, stringendola forte. Era normale che in tutta la sua vita non avesse mai preso un autobus oppure la metropolitana, lui che era abituato a girare sulla sua Ducati o sulle macchine sportive.
«Non fa niente,» lo rassicurai.
Come lui avrebbe capito il mio mondo, io mi sarei abituata a comprendere il suo. Sarebbe stato uno scambio equo, un reciproco passo che ci avrebbe avvicinati.
Leo però sfilò la mano gentilmente, sbuffando. «Ti capisco, sai…» soffiò.
«Cosa?» chiesi confusa.
Prese un bel respiro, poi tornò a guardarmi. «Capisco di non essere l’ideale per te, di non poter mai riuscire a comportarmi da persona normale. Ci proverò, lo prometto, ma tutto questo è troppo.»
La gente intorno a noi lo fissava incuriosita. Era ovvio che l’avessero riconosciuto, anche se non capivano ciò che stavamo dicendo. Rispettarono la nostra privacy e questo era già tanto per me.
Il problema sarebbe stato una volta tornati in Italia.
«Non ti sto chiedendo di cambiare per me, Leonardo.» dissi tranquilla, prendendogli il mento tra le mani e cercando i suoi occhi senza che riuscisse ad abbassarli e sfuggirmi. Era strano vederlo così provato, così indifeso e per nulla arrogante.
Forse Ruben era un modo per proteggersi dalla realtà, per schermarsi dietro una persona che non era nemmeno lontanamente vicino a sé stesso.
Leonardo non era altro che un ragazzo solo, cresciuto troppo in fretta e sulle cui spalle erano stati posti dei pesi e delle responsabilità troppo grandi per lui.
I suoi occhi verdi si sgranarono all’improvviso.
Rimasi perplessa da quella sua reazione e non sapendo cosa fare, gli sorrisi. «Che c’è?»
Lui schiuse le labbra e le umettò imbarazzato. «Dillo di nuovo,» soffiò.
Mi presi un po’ di tempo per elaborare cosa intendesse dire, poi compresi. Era forse una delle prime volte che lo chiamavo per nome, con il suo vero nome.
Presi il labbro inferiore tra i denti, torturandolo. Quel momento tra di noi mi parve così intimo che per un attimo mi pentii di essere in mezzo a tutta quella gente.
Mi avvicinai lentamente a lui e gli soffiai nell’orecchio. «Leonardo
Lo sentii quasi tremare nelle mie mani e il mio cuore cominciò a battere freneticamente all’interno del petto, quasi a ricordarmi quali fossero le emozioni che inevitabilmente mi avevano legata a lui.
Leonardo era sempre stato impulsivo, genuino, una continua sorpresa per me. E così era rimasto, sia che si chiamasse Ruben o altro.
Si voltò quel tanto da far avvicinare i nostri volti. Sentivo il suo respiro caldo sulle mie labbra e mi arresi alla forza con cui il suo sguardo mi scavava dentro.
Ben presto la distanza fu annullata, e ci baciammo incuranti degli sguardi della gente. Non m’importava più del resto del mondo, non m’importava nemmeno di ciò che sarebbe stato il mio futuro.
In quel momento pensai solamente a quanto potesse essere buono il suo sapore, l’odore della sua pelle che non riuscivo a dimenticare.
Schiusi le labbra e lo lasciai entrare, approfondendo il bacio, mentre feci passare le dita tra i suoi morbidi capelli castani, saggiandone la consistenza e inebriandomi di quelle sensazioni genuine che avevo quasi dimenticato.
Anche se era strano ammetterlo, Leonardo riusciva a completarmi. Lui era quella metà del mio carattere che non sarei mai riuscita a completare. Eravamo come due pezzi di un puzzle che si incastravano alla perfezione e per quante scatole tu riuscissi a comprare, ne esistevano soltanto due ritagli che sarebbero combaciati alla perfezione.
Ci staccammo per poi sorridere come dei ragazzini, fronte contro fronte.
La voce metallica annunciò la nostra fermata, così ci alzammo e uscimmo dal treno per poi dirigerci verso l’insegna “exit”.
Mano nella mano, ci sfiorammo quasi fossimo esseri inconsistenti che non riuscivano a raggiungersi, poi finalmente vedemmo la luce del giorno in quella giornata fredda d’Aprile.
 
***
 
Sentire Celeste finalmente così vicina, mi fece dimenticare persino dove fossi. Prima di quel momento, c’era stato soltanto il nervosismo provocato dalla partita e da quel cretino di mio cugino. Adesso finalmente potevo rilassarmi e godermi tutto il tempo che avevo a disposizione con lei.
Ora che finalmente avevamo vinto la partita. Ora che tutto il mondo era orgoglioso di noi, della squadra, della forza con cui ci eravamo rialzati e avevamo fatto fronte ad uno dei club più importanti d’Europa.
E tutto grazie a Celeste.
Anche se non lo avrei mai ammesso, nemmeno sotto tortura, lei era la fonte da cui attingevo tutta la mia forza e la mia tenacia. Prima ero spinto soltanto dall’ingordigia, dalla fama, dall’essere qualcosa di più soltanto per soddisfare il mio ego.
Adesso sapevo che lo stavo facendo unicamente perché me lo aveva chiesto lei.
Il sacrificio è la forza che ci fa crescere.
Ed io finalmente potevo dire di essere cresciuto, maturato, di aver imparato dai miei sbagli e di essere finalmente un’altra persona. Non avevo più bisogno di Ruben per stare accanto a Celeste, ora potevo essere Leonardo e non vergognarmi di aver scelto una sola ragazza a cui dedicarmi.
Prima c’era stata soltanto la fama, il sesso e il divertimento.
Ora ero stufo di lasciarmi consumare a poco a poco senza fare nulla, senza nemmeno reagire.
«Che ne dici di un bel caffè da Starbucks?» mi propose, sorridendo anche solo con gli occhi.
Il suo buonumore era contagioso e mi lasciai irradiare da quel sorriso che riusciva persino a scaldarmi in quella giornata gelida.
«Perfetto,» dissi, passandole un braccio attorno alle spalle e avvicinandola a me.
C’erano cose che non sarei mai riuscito ad esprimere a parole. Non ero bravo con quelle, anche perché Celeste era la scrittrice, io mi limitavo unicamente a rincorrere un pallone. Fortunatamente riuscivo ancora a dimostrarglielo coi gesti.
«Vieni,» mi disse, trascinandomi dall’altro lato della strada per entrare all’interno del coffe-bar.
Dovevo ammettere che Londra era un posto piuttosto carino in cui abitare, ma non l’avrei mai sostituita con la mia Roma. Pensai che per Simone fosse diverso, in fondo lui aveva la mamma inglese e si era trasferito qui quando era piccolo.
Stai davvero analizzando quella zucca vuota di tuo cugino?
Scossi visibilmente la testa per ignorare quel pensiero. Simone non si meritava nemmeno la mia considerazione, figuriamoci i pensieri che di rado partoriva la mia mente.
«What will you have to drink?» chiesero alla cassa.
Fissai la commessa con un’espressione vacua, anche perché ricordavo vagamente qualche parola dal liceo. Il resto era soltanto vuoto.
Celeste per fortuna intervenne. «Two cappuccino with whipped cream,» sorrise, poi tirò fuori il portafogli ma la bloccai.
«Sono il tuo ragazzo, fino a prova contraria,» dissi sicuro.
Gli occhi di lei si abbassarono per una frazione di secondo e lì il mio animo si rabbuiò.
«Va bene,» disse, poi mi sorrise di nuovo.
Che avessi detto qualcosa di sbagliato? Forse le dava fastidio il fatto che guadagnassi di più e che magari non voleva che le offrissi da bere…
O magari non si tratta di soldi.
Quel pensiero mi trafisse come una freccia. Cercai di rimanere impassibile e pagai, poi ci dirigemmo al bancone per ritirare i nostri due cappuccini.
Era davvero buono e cremoso.
Lo assaporai finché era caldo, in modo che il latte e la crema scendesse giù per l’esofago, fino allo stomaco e avvolgesse le mie membra in un caldo tepore. Celeste mi fissò sorridendo.
«Che c’è?» le chiesi dubbioso.
Lei si avvicinò titubante, allungando una mano verso il mio viso. La lasciai fare perché non ero ancora sicuro di ciò che avevo visto poco prima. Mi era sembrata confusa, ancora incerta su quello che c’era tra di noi.
La sua mano si aprì a coppa sulla mia guancia, mentre il pollice tirava via un po’ di schiuma che mi era rimasta sulle labbra. «Sei proprio un bambino,» sorrise sincera.
A quel punto non seppi più fermarmi. Mi sporsi al di là del tavolinetto e la baciai. Anche se c’erano tante cose irrisolte tra di noi, troppi silenzi e gesti che andavano sostituiti dalle parole, in quel momento mi parve la cosa più giusta da fare.
Celeste rimase inizialmente sorpresa, ma non si scostò.
Fu una casta unione di labbra, nulla a che vedere con il bacio nella metropolitana. Era più una dimostrazione d’affetto, una prova della mia incapacità di starle distante più di tre minuti.
Ci staccammo fissandoci imbarazzati l’uno con l’altra, mentre il mormorio all’interno del caffè si era smorzato. Magari era vero che mi avevano riconosciuto, in fondo ero pur sempre Leonardo Sogno, uno dei calciatori in lizza per il Pallone d’Oro.
In quell’occasione, per la prima volta in tutta la mia esistenza, mi sentii in imbarazzo sotto quegli sguardi. Non mi era mai successo prima, anzi. Ero io stesso che cercavo di mettermi al centro dell’attenzione, a creare scandalo per far parlare sempre più di me.
Adesso invece era come se mi sentissi spiato, quasi come se dovessi proteggere Celeste dagli sguardi indiscreti del mondo che me la volevano portare via.
Che volevano rubare quell’attimo soltanto nostro.
«Ora sei sporca anche tu,» sorrisi, indicandole il lato del labbro che avevo appena baciato.
Lei sussultò sorpresa afferrando un tovagliolo e pulendosi, poi mi guardò più felice. Sapevo di doverle dare ancora molte spiegazioni, di dover riparare ad errori che non avrei potuto farmi perdonare nemmeno dopo una vita intera.
«Andiamo?» proposi, dopo che avevamo finito di consumare la bevanda.
Ci alzammo, imbacuccandoci per bene a causa del freddo rigido di quel giorno, e uscimmo in strada, passeggiando l’uno accanto all’altra.
Il telefono di Celeste all’improvviso squillò ed io pensai immediatamente che si trattasse di uno dei suoi amici che avevamo lasciato indietro.
«Pronto?» disse. «Sì, stiamo bene. Siamo andati per conto nostro. Torniamo verso l’ora di cena, certo. In albergo, okay,» poi chiuse la chiamata.
Rimise il telefono nella tasca del cappotto, poi infilò la sua mano nella mia.
Gliela strinsi, cominciando a strusciarci il pollice sopra perché era gelata. Lei mi sorrise e continuammo a camminare vicino le sponde del Tamigi.
«Sai, era da un po’ che volevo chiederti una cosa…» disse lei, facendomi scorrere un brivido dietro la schiena.
Pensai subito al peggio, magari riferito proprio a quella reazione che aveva avuto poco prima. Era soltanto la quiete prima della tempesta. Mi irrigidii all’istante.
«C-Certo…» bofonchiai.
Lei mi fissò dubbiosa. «Sembra tu sia parecchio nervoso, o sbaglio?» mi domandò sorridendo.
«No, cosa te lo fa credere?» dissi, fingendo indifferenza.
Celeste abbassò lo sguardo. «Mi stai stritolando la mano, ecco cosa me lo fa credere,» ridacchiò.
Senza rendermene conto, mollai la presa e mi grattai la nuca imbarazzato. Era strano come sudassi freddo. Celeste mi rendeva nervoso neanche fosse il nostro primo appuntamento.
«Mi piace,» aggiunse poi. «Si vede che non sei più il Ruben dei primi giorni che ci siamo conosciuti. Adesso sei molto più normale. Un ragazzo comune,» affermò.
Sorrisi.
Leonardo Sogno e “normale” non erano due parole che erano mai andate d’accordo, considerando il mio passato. C’erano stati momenti in cui avrei dato tutto pur di mettere la mia carriera al primo posto, sarei passato anche sul nostro stesso Capitano.
Il mio sogno era sfondare, diventare famoso, prendere tutto ciò che la vita aveva da offrirmi.
Ora come ora mi pareva così futile tutto quello.
Celeste mi aveva insegnato che c’era dell’altro dietro, che potevo aspirare a di meglio. Avevo ventidue anni e la mia carriera sarebbe finita attorno ai trentacinque, circa. E dopo? Non mi ero mai posto il problema di quello. Non mi era mai minimamente passato per la testa.
Per me aveva sempre contato il presente, vivere attimo per attimo.
Il futuro era soltanto il domani, il giorno successivo e nient’altro. Invece Cel aveva progetti ben precisi, aveva organizzato la sua vita passo dopo passo, senza tralasciare nulla.
«Grazie a te,» le dissi sincero.
Camminammo per qualche altro metro, poi vidi in lontananza l’imponente ponte di ferro. Il Millennium Bridge svettava come un drago d’acciaio adagiato sulle sponde del fiume, con la cresta dorsale fatta di persone che camminavano frettolose giungendo da una parte all’altra del Tamigi.
«Sai, mi chiedevo chi avesse spedito i biglietti che ci hanno permesso di venire qui per la partita,» mi chiese lei, spiazzandomi.
Biglietti? In effetti, non mi ero posto il problema di come fossero giunti a Londra con così poco preavviso.
«N-Non so di cosa stai parlando,» ammisi guardandola. Sperai che quello fu sufficiente a farmi credere, visto il mio passato non proprio sincero.
Celeste mi scrutò a fondo. Voleva vedere se realmente le stessi mentendo oppure se fosse unicamente l’ennesima sceneggiata che mettevo in atto.
Le presi le mani e la guardai. «Lo giuro. Non ti avrei mai costretta a venire qui.»
Lei si spostò una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio, poi fissò le nostre mani intrecciate. «Nessuno mi ha costretta a venire,» ammise. «Dentro di me sapevo che se fossi venuta qui, c’era un’alta probabilità di incontrarti… eppure non ho saputo oppormi,» confessò.
Continuammo a camminare in silenzio, l’uno di fianco all’altra.
Avremmo dovuto prenderci del tempo per riuscire a tornare come prima. C’era ancora troppa tensione che aleggiava attorno a noi, come se le bugie fossero ancora nuvole di fumo che ci impedivano di vedere.
Le dita mi si strinsero contro il freddo metallo di quel ponte, così anonimo da succhiarmi via tutto il calore dal corpo. Il sole lentamente scendeva all’orizzonte, tingendo di rosa e di azzurro quel timido spruzzo di giorno che ancora s’intravedeva attraverso l’incombere della notte.
Mi voltai verso Celeste, incrociando il suo profilo illuminato dell’ultimo raggio d’oro di quella giornata d’Aprile.
Era bellissima, quasi come se la stessi sognando. Avvolta in un’aura confusa, in un bagliore che di rado sembrava reale.
Forse mi innamorai di lei ancora più di prima.
Realizzai che ormai ero fregato e c’era ben poco da fare per riuscire a migliorare le cose. Che avessimo avuto occasione per chiarirci oppure no, questo non avrebbe mai cambiato cosa lei era stata in grado di farmi.
Mi aveva scottato, bruciato, marchiato. Ed era rimasta la cicatrice, ora più visibile che mai.
 
***
 
La luce che a poco a poco abbandonava la città mi fece sentire come io stessa fossi andata via. Mi lasciai andare a quel senso di abbandono, sentendomi sempre più piccola e confusa.
D’improvviso mi mancò l’aria e cercai un contatto con Leonardo. Scoprii che mi stava fissando. I suoi occhi verdi avevano assunto la tonalità dell’oro, riempiendosi di pagliuzze colorate che lo facevano brillare ancor più di quanto non facesse di solito.
La magia di quel momento s’impresse nella mia memoria quasi come una fotografia, stampata e conservata in un vecchio album di ricordi.
Cercai la sua mano e la strinsi di nuovo.
Era curioso come cercassi sempre un contatto con lui, un modo per suggerire alla mia mente che fosse realmente tangibile e non un semplice sogno.
Sentivo di dover ancora colmare quella curiosità riguardante i biglietti dell’aereo e la prenotazione che era stata fatta a nome nostro, ma gli occhi di Leonardo mi avevano parlato e ci avevo visto soltanto la sincerità.
Mi fidavo di lui, adesso.
Pian piano mi sarei abituata a concedergli di più, un passo alla volta. Se dovevamo concederci una seconda occasione, allora avrei fatto le cose per bene. Senza risparmiarmi.
«Sai,» disse lui, interrompendo quel silenzio surreale che si era creato su quel ponte. «Non avrei mai creduto di ritrovarmi di nuovo su questo ponte.»
Di nuovo?
Lo fissai interrogativa e lui mi sorrise.
«Venivo ogni Natale qui a Londra, in modo che potessi passarlo insieme a quel deficiente di mio cugino, Gabriele e Sofi,» soffiò. «Un modo per riunire la famiglia, visto che vivevamo così distanti durante il resto dell’anno.»
Era strano come riuscisse a parlare così liberamente pur sapendo che mi stava raccontando una parte importante della sua vita. Lui che non era riuscito ad aprirsi nemmeno quando fingeva di essere qualcun altro.
«Venivi qui con la tua famiglia?» gli domandai.
Lui sorrise e scosse la testa. «Con Ruben,» disse ed io sussultai a quel nome. Era ancora difficile per me collegarlo al suo amico rachitico, quella specie di talpa con gli occhiali.
Leonardo si accorse del mio cambio di espressione. Diede un calcio stizzito ad un sassolino che rotolò giù dal ponte.
Poi lo sentii sbuffare contrariato.
«Mi dispiace,» disse sincero, senza alzare lo sguardo. Era in quei momenti che riuscivo a capire quanto davvero fosse dispiaciuto di avermi mentito.
Gli posai una mano sul braccio. «È tutto apposto,» lo incitai.
Lui mi sorrise, poi tornò a guardare davanti a sé. «Beh, niente. Venivamo qui io e Ruben e facevamo i piani sul nostro futuro. Di come saremmo diventati a vent’anni e tutte quelle robe lì da ragazzini,» sorrise.
«Non sono robe da ragazzini,» lo ammonii, pizzicandogli un fianco. Lui si dimenò e mi sorrise. «Sono i sogni che formano il carattere di quando poi diventiamo adulti,» gli spiegai. «Spesso e volentieri sono questi desideri che ci fanno andare avanti e ci rendono quello che siamo.»
A quel punto la sua mano si posò dietro la mia nuca e, senza alcuno sforzo, mi strinse a sé. Affondai il viso nel suo cappotto, beandomi del calore di quell’abbraccio. Mi era mancato tremendamente, ma ancora non riuscivo ad ammetterlo ad alta voce.
Mi era mancato il suo profumo, il modo in cui mi sorrideva e quei gesti impulsivi che spesso e volentieri mi spiazzavano.
«Il tuo sogno è quello di scrivere un libro?» mi chiese, lasciandomi senza fiato.
«Ci vorrei provare,» dissi, senza aggiungere “ci sto già provando”.
Da quando avevo scoperto la verità su Leonardo, il documento Word era rimasto in un archivio abbandonato della memoria del PC e non ci avevo più rimesso mano. Eppure, nei momenti di forte trasporto emozionale, avevo cominciato ad imprimere i miei pensieri su carta, perché era quasi impossibile fermarli.
Scrivere era la mia unica fonte di liberazione, oltre che Ven.
Sentii le mani di Leonardo accarezzarmi delicatamente i capelli e lo strinsi sempre più forte, circondandogli la vita con le braccia.
«Credo di non essermi mai sentito così,» soffiò lui, baciandomi il capo.
Alzai lo sguardo e incontrai i suoi occhi, così verdi da far male. «Così?» chiesi confusa.
«Bene,» aggiunse lui, poi ridacchiò. «Non so spiegarmi bene con le parole, in fondo sono pur sempre un “troglodita”.»
Spalancai gli occhi, sentendo un’immensa felicità scoppiarmi nel cuore. «L’hai detto giusto,» mormorai.
Lui mi fissò confuso. «Che?»
«Troglodita, è giusto. Niente trogo-che o trogo-qualcosa. L’hai pronunciato giusto,» realizzai, sciogliendo l’abbraccio.
Il ricordo di quei momenti insieme mi colpì forte, nel profondo e mi sentii improvvisamente persa. Non avevo mai realizzato a fondo quanto Leonardo mi fosse mancato, quanto avevo rischiato di sacrificare a causa del mio orgoglio.
«Alla fine sei riuscita ad insegnarmi qualcosa,» sbuffò lui.
«Ti amo,» dissi, senza nemmeno realizzare quello che era uscito veramente dalle mie labbra. Sentivo il battito del mio cuore tamburellarmi nelle orecchie, offuscando tutti gli altri suoni e svuotandomi la testa di tutti i pensieri.
Sentii Leonardo irrigidirsi e subito pensai di aver fatto la cazzata più colossale della storia.
Brava Celeste, complimenti. Il modo più sicuro per farlo scappare era questo, e tu ci sei riuscita in pieno.
Deglutii a fatica, senza riuscire a scollare delle parole di scuse dal palato. Rimanevano lì, incastrate, senza riuscire a districarsi. Non era mai capitato che lo dicessi a qualcuno. Nella mia vita avevo avuto diverse delusioni amorose, ma era davvero raro che dicessi quelle parole.
Fu allora che Leonardo, allarmato, mi afferrò per le spalle, fissandomi negli occhi con lo sguardo sgranato. «Cosa hai detto?» mi chiese, quasi urlando.
Rimasi allibita da quel comportamento. Che avessi fatto un errore? Che si fosse arrabbiato? In fondo, dopo tutto quello che gli avevo fatto me ne uscivo con una frase del genere.
Con LA frase.
«S-Scusa,» bofonchiai, senza avere il coraggio di ripeterlo.
Leonardo allora si accorse di aver esagerato, così si ricompose. Posando una mano dietro la nuca, si agitò. «Sei sicura di quello che hai detto?» mi chiese, titubante.
Stavolta fu il mio turno di guardarlo in modo confuso.
«Sei sicura di amarmi?» continuò poi, spiegandosi meglio. «Voglio dire, so di essere quello che sono, ormai ti ho dimostrato in più di un’occasione il mio livello di immaturità.»
Era nervoso. Lo percepivo nell’alto livello di tremolio della sua voce.
Quel suo tentativo di spiegarsi, mi fece tremare il cuore.
«Dico solo che sei ancora in tempo per cercarti qualcun altro, magari qualcuno che non sia un deficiente come il sottoscritto, che non abbia una vita incasinata come la mia. Possibilmente, il cui nome non sia scritto su tutti i giornali della Domenica,» sospirò, accasciandosi contro la ringhiera. «Qualcuno che ti dica sempre la verità e che non si nasconda dietro qualcun altro,» ammise infine.
Gli sfiorai delicatamente una spalla per paura che potesse andarsene. Era così sottile il filo che adesso ci univa. Arrivati a quel punto, l’elastico poteva tornare indietro e riunirci, rafforzandosi, oppure spezzarsi definitivamente.
Eravamo arrivati ad un bivio.
«Credo che questa scelta l’avessi già fatta tempo fa, inconsapevolmente,» gli confessai.
Lui si voltò quel tanto da guardarmi con la coda dell’occhio. Bagliori di verde attraverso quelle ciglia scure.
«Non credo di essere adatto a fare il fidanzato,» sputò fuori con rabbia.
«Nessuno è nato per farlo, come nessuno nasce per essere un calciatore, un negoziante, oppure un genitore. Si impara a farlo, ad esserlo, col tempo,» spiegai.
Rimanemmo a guardare l’orizzonte finché l’ultimo spicchio di sole non scomparve dietro gli alti palazzi della City.
«Dovrei imparare a farmi amare da te?» mi chiese confuso.
Scossi la testa sorridendo. «È inutile che fingi di fare l’ingenuo,» dissi spiazzandolo. «Per quanto tu voglia far credere agli altri di essere uno sportivo senza cervello, lo so che qui sotto della materia grigia è rimasta,» dissi, picchiettandogli il capo.
«Ahi!» si lamentò lui, massaggiandosi la cute.
«Sei proprio un bambino!» ridacchiai, sporgendomi per baciargli una guancia.
Rimanemmo a fissarci mentre la notte sostituiva pian piano il giorno, con la gente che camminava frettolosa e il mondo che continuava a girare in quell’attimo.
«Sicura che ne valga la pena?» mi chiese di nuovo, incorniciandomi il viso con le mani.
Annuii senza pensarci due volte.
«So che dobbiamo chiarire ancora molti punti,» spiegai, giocando coi lacci della sua felpa. «Che tornare a quelli di un tempo sarà molto difficile, ma possiamo provarci. Sei molto cambiato da quando ti ho conosciuto, e non penso che c’entri qualcosa il chiamarsi Ruben o Leonardo,» dissi sicura.
Allora mi baciò di nuovo, stavolta senza alcuna riserva.
Mi alzai in punta di piedi e gli circondai le spalle con le braccia, affondando le dita fredde nei suo capelli. Lo sentii rabbrividire e sorridere contro le mie labbra.
«Sei fredda,» soffiò dolcemente sulla bocca, tornando a torturarla e vezzeggiarla.
«Tu no, invece,» gli risposi, affondando le mani nel cappotto e cercando un pezzo di pelle nuda per farlo contorcere dai brividi.
«Smettila!» ridacchiò come un bambino, mentre cominciammo a correre lungo il Millennium Bridge come se avessimo cinque anni o giù di lì.
Leonardo si fermò prima di scendere le scale che avrebbero condotto sull’altra sponda del Tamigi. Mi guardò e mi tese la mano.
Non mi tirai indietro e la avvolsi nella mia, senza pensarci.
«Sai, io non sono molto bravo con le parole…» soffiò imbarazzato, cominciando a camminare.
Mi strinsi forte a lui, cingendogli il braccio quasi fosse un enorme orso di peluche. «Lo so,» dissi enigmatica. «Ho capito quello che vuoi dirmi. La risposta è “anch’io”»
Poi ci allontanammo mentre la notte avvolgeva in una calda coperta scura la capitale inglese. Ci sarebbe stato altro tempo per affrontare il discorso, per chiarirsi ancora di più. Alla fine le parole era più che superflue ormai.
Leonardo si era scusato, aveva persino pensato che meritassi qualcuno di meglio perché si sentiva inadeguato. Cos’altro potevo pretendere da lui? Quando lo avevo conosciuto era il classico tipo egoista che pensava soltanto a sé stesso, senza curarsi degli altri.
Nessuno aveva affrontato un cambiamento di questo tipo per me. Ed io non potevo che esserne orgogliosa.
 
***
 
Una volta tornati in hotel, la notte era scesa completamente e trovammo il resto del nostro gruppo spaparanzato sui divanetti della hall.
C’era anche gran parte della mia squadra.
«Ehi bello, fatto la passeggiata?» ammiccò Marco, ridacchiando insieme a Daniele.
Era ovvio che mi stessero paragonando ad un cane. Strinsi forte la mano di Celeste e per la prima volta me ne sbattei.
«Ho fatto anche una bella pisciata, sulla macchina qui fuori,» ghignai.
Borriello era solito portarsi dietro la sua Corvette un po’ ovunque, compreso lì a Londra. Mi pareva più che giusto prendermi una piccola vendetta.
«Spero tu stia scherzando,» sibilò contrariato.
Sorrisi e cercai lo sguardo di Celeste che approvò quello scherzo in silenzio. Tra la folla seduta su quei divanetti, fui lieto di non scorgere la fastidiosa presenza di mio cugino Simone.
Riuscimmo a trovare due posti a sedere, proprio accanto ai miei compagni di squadra.
Notai che Robbeo stava tenendo banco e tutti i giocatori pendevano dalle sue labbra.
«È importante mantenere il possesso del pallone. Se gli avversari non riescono a portarvi via palla, non avranno occasione di fare goal. Il segreto è tutto nel possesso, nel non sprecare i palloni in inutili rimesse dal fondo.»
«Sai, ‘sto prospero non ha cattive idee,» mormorò Daniele, indicando il Rosso.
«Ovviamente, peccato non usi il 100% delle sue capacità intellettive,» osservò Annalisa piccata.
Romeo le lanciò uno sguardo interrogativo e lei gli arruffò i capelli per dispetto.
Era ancora strano vedere Annalisa così spensierata. Io che la conoscevo da tempo, mi sentivo strano nel saperla così genuinamente felice. Non era più la ragazza superficiale e viziata che voleva a tutti i costi essere la mia fidanzata, non era la stessa Annalisa che voleva strapparmi dalle mani di Celeste per avermi tutto per sé. Soltanto per la popolarità.
Quella che avevo davanti, era una ragazza reale. Un tipo di persona che avrei preso sicuramente in considerazione se si fosse mostrata così anche prima.
Celeste posò il capo sulla mia spalla.
«Penso di non riconoscerla più,» mi soffiò nell’orecchio, attenta a non farsi udire dagli altri. Le sorrisi perché stavamo pensando la medesima cosa nello stesso momento.
«Sembra proprio che anche lei si sia tolta finalmente la maschera.»
Annuì contro il mio petto. «Credo che Jean abbia fatto un favore a tutti.»
«Non me lo nominare…» ringhiai frustrato. «Quella specie di viscida lumaca non merita di vivere.»
Sentivo ancora il brivido di quegli occhi azzurrissimi su di me e quel ricordo mi fece accapponare la pelle. Era stato lui la causa di tutto, dei miei problemi, dell’allontanamento da Celeste, avevo quasi rischiato di mandare al diavolo la mia carriera per lui.
Ma sentii ancora una volta la stretta di lei attorno al mio braccio.
Un’ancora che mi riportava sempre alla realtà.
«Adesso è finita. Jean non si è comportato bene, lo ammetto. Ma tutto ciò non sarebbe successo se mi avessi detto prima la verità,» sussurrò lei, guardandomi seria.
Aveva ragione. Potevo dare mille volte la colpa al Lumacone francese, ma alla fine avevo fatto tutto da solo. Era stata la mia codardia, il mio bisogno di aggrapparmi a qualcosa, anche ad un’identità fittizia, per sfuggire alla paura.
Sì. Perché alla fine era stata la paura di una relazione a farmi mentire.
«È stata colpa mia sin dall’inizio,» ammisi, più a me stesso che a Celeste.
«Oh! Che noia questo calcio!» borbottò subito Venera, imponendosi sulla conversazione che ormai stava prendendo soltanto una piega. «Possiamo cambiare argomento o giuro che impazzisco se sento un’altra volta di “cross” o “dribbling”!»
Tutti ci voltammo a fissarla all’unisono, allibiti.
Celeste scoppiò a ridere subito dopo, così come Daniele e Marco.
L’unico che non ci trovava nulla di divertente era Robbeo. Aveva incrociato le braccia al petto e fissava l’amica di Cel come se volesse incenerirla.
«Buonasera, ragazzi!»
D’improvviso la voce di Mr. Cavalli ruppe quel clima d’ilarità e leggerezza che si era creato in quella hall anonima di un albergo. Il padre di Annalisa piombò alle nostre spalle quasi come un avvoltoio.
«Buonasera, Mr. Cavalli.»
«’Sera.»
«Salve…»
«È un vero piacere vederla.»
Pressoché queste furono le frasi di rito che tutti gli rivolgemmo, quando l’uomo canuto si avvicinò alle poltroncine.
«Non voglio rubarvi molto tempo, tranquilli,» iniziò, incrociando le mani davanti a sé e fissandoci negli occhi. Non avevamo mai avuto occasione di conoscere il presidente così da vicino, ma quella sera sembrava ben intenzionato a farci una sorta di discorso alla “Ogni maledetta Domenica”.
«Volevo solo farvi i complimenti per questa sera, per la vittoria, per aver regalato alla società una marcia in più in Europa. Complimenti davvero,» sorrise, scambiando sguardi con ognuno dei suoi giocatori. Poi i suoi occhi verdi incrociarono i miei e mi sembrò come di rimanere senza fiato.
Celeste mi strinse forte la mano.
«Leonardo, c’è una cosa di cui dovremmo discutere una volta tornati a Roma. Non ti spaventare, ma penso che troverai la notizia interessante,» sorrise.
Mi gelai come una statua di ghiaccio.
Il presidente della società si chinò a baciare la figlia, stringendole forte la mano e accarezzandole quei capelli così rossi da sembrare fiamme danzanti. In seguito notò anche Romeo e vide come il braccio di lui era attorno alla vita della ragazza.
D’improvviso pensai che Celeste si sarebbe ritrovata con un migliore amico decapitato – un po’ fuori luogo visto che non era Halloween – ma Mr. Cavalli si limitò a tendergli la mano.
Il Rosso la strinse titubante.
«Sono felice di averti conosciuto,» disse, poi si allontanò tranquillo e silenzioso.
Ci guardammo tutti piuttosto perplessi, mentre Annalisa tentava in tutti i modi di scongelare Robbeo che era rimasto nell’identica posizione con cui aveva stretto la mano al presidente.
«Non posso crederci… Ho stretto la mano all’uomo che stimo da una vita… non me la laverò mai più…» continuava a ripetere, come in trance.
«Ma smettila di fare il cretino!» sibilò Venera, mollandogli uno scappellotto.
«Ehi! Non toccarlo, stupida gallina!» le ringhiò contro Annalisa, portandoselo dietro le spalle quasi come avrebbe fatto mamma leonessa con i suoi cuccioli.
Quello fu il segnale che fece alzare il resto della squadra.
Daniele e Marco mi si avvicinarono. «Insomma ci sono grandi notizie in arrivo, eh?»
«Sembra di sì,» commentai, senza allegria nella voce.
Davvero, non sapevo cosa aspettarmi e da quando mi ero ricongiunto con Celeste, l’idea di qualche sorpresa dalla società non mi allettava più di tanto.
«Non sembri contento,» notò Daniele.
«Già, a quest’ora avresti fatto mille supposizioni e ti saresti vantato di lasciare finalmente la nostra squadra di perdenti,» aggiunse Marco.
Celeste mi fissò allibita.
«Ops!» mormorarono in coro i miei amichevoli compagni di squadra.
«Diciamo che non so cosa aspettarmi,» mormorai, abbracciando la mia neo-fidanzata. Ancora non credevo di poterla chiamare realmente così.
Marco allora le allungò la mano. «Finalmente ci conosciamo,» sorrise.
Daniele lo imitò subito dopo. «Era ora che Leonardo ci presentasse colei che lo ha fatto finalmente scendere dal piedistallo,» ridacchiò.
«Devo ammettere che è stato difficile,» sorrise, pizzicandomi un fianco. «Ha davvero un ego enorme.»
«E non solo quello!» mi vantai, sfruttando sempre i doppi sensi.
Tutti mi fissarono annichiliti. «Sei sempre il solito,» commentò Cel acida.
«Che ne dite di andare in qualche pub? Finiamo la serata in bellezza visto che domani si parte,» propose Marco, mentre Daniele era andato ad avvertire il resto del gruppo.
Cercai Celeste per una conferma. Mi sembrava poco propensa ad uscire.
«Magari vi raggiungiamo,» proposi. «Credo che la camminata ci abbia sfiancato.»
Dopo poco arrivò anche Venera. «Voi non venite? Devo ammettere che per quanto possano essere senza cervello, uscire con un’intera squadra di serie A mi farà prendere punti sul profilo di facebook!» disse ridacchiando.
«E se incontrate Simone?» le dissi, sapendo quanto avessimo in comune.
L’amica di Celeste mi stava simpatica soprattutto quando prendeva di mira quel cretino senza cervello.
Mi liquidò con un gesto della mano, quasi come se stesse scacciando via una mosca fastidiosa. «Che si impiccasse, quello! Nessuno deve azzardarsi ad offendermi. Non lo permetto a quel microcefalo di Robbeo, figurarsi quel novellino col moccio al naso.»
BEM. Quattro frasi e già lo aveva mandato alla gogna.
«Sono stanca, Ven. Preferiremmo rimanere qui,» disse Cel, sfiorandole un braccio.
Fu allora che Venera la fissò sinceramente. Era sorprendente come indossasse e smettesse quella maschera di sarcasmo che si era faticosamente costruita attorno.
«Okay, allora a domani,» sorrise allontanandosi.
Ben presto, tutto il gruppo uscì chiassosamente dalla hall per andare a conquistare qualche luogo pubblico londinese, mentre io e Celeste rimanemmo ancora un po’ seduti su quei divanetti.
Aveva posato il capo sul mio petto e pigramente passava le dita sul mio avambraccio in una carezza lenta e piacevole. Quasi un solletico appena accennato.
«Cosa pensi vuole dirti il tuo capo?» soffiò, quasi impercettibilmente.
Fissai il soffitto, pensando a come rispondere. Non era facile affrontare un argomento così delicato, soprattutto perché la mia carriera era una sorpresa continua.
«Non ho idea,» ammisi. «Potrebbe trattarsi di una semplice trattativa di prestito, oppure di ingaggio per un’altra società, potrebbe essere un premio, un riconoscimento o…» e lì mi interruppi.
Celeste alzò il capo quel tanto da fissarmi negli occhi. «Oppure?»
Le baciai la fronte. «Trasferimento,» ammisi.
Era innegabile. La probabilità che qualche talent scout dell’Arsenal mi avesse visto giocare, erano più che buone. Inoltre, avendo ripetuto più volte di essere disponibile a lasciare la Magica, perché convinto di non essere sfruttato abbastanza, avevano messo le basi per promuovermi a candidato possibile di un trasferimento.
Magari durante il mercato estivo.
Celeste non aggiunse nulla. In fondo, non c’era nulla di certo e prima di costruire castelli in aria bisognava almeno avere la certezza delle basi.
«Dovrei parlarne con Ruben. Non c’è nulla di ufficiale, ancora,» la rassicurai.
Fu allora che si alzò in piedi, prendendomi per mano senza dire una parola. I suoi occhi azzurri già parlavano da soli.
«Vieni,» sussurrò solamente.
Ci dirigemmo verso gli ascensori, aspettando che arrivasse al pian terreno. Entrammo nel lussuoso macchinario, totalmente diverso da quel trabiccolo installato nell’appartamento di Celeste.
Quando le porte si chiusero, ci guardammo all’unisono scoppiando a ridere.
«Stai pensando all’ascensore nel mio appartamento, vero?» mi accusò lei.
«Anche tu lo stavi pensando!» ridacchiai.
D’improvviso la abbracciai, quasi avessi bisogno di un qualche contatto. «Non mi trasferiranno, vedrai,» le dissi sicuro.
Era evidente come fosse preoccupata di quello. Se la nostra storia rimaneva in piedi, era soltanto per pura casualità. Il nostro rapporto era ancora fragile, quasi come una piantina sotto le amorevoli cure del suo giardiniere.
Ma l’inverno era alle porte e forse avrebbe congelato tutto.
Un conto era affrontare una vita insieme giorno per giorno, un passo alla volta. Un altro era vederci solo per pochi giorni al mese, magari di sfuggita.
Era troppo da sopportare.
«Non fasciamoci la testa prima di romperla,» mormorò lei sicura.
«Promesso.»
L’ascensore si aprì sul corridoio del quarto piano, mentre ci dirigevamo alla ricerca della stanza 453. Vagammo per un bel po’ lungo i corridoio tappezzati di moquette e di tanto in tanto incontravamo qualche ospite che, come noi, si era perduto nei meandri di quella struttura immensa.
Io ci ero abituato, infatti mi mossi sicuro alla ricerca del numero della stanza.
Celeste, invece, si guardava intorno come se una bambina in un negozio di caramelle gigantesco.
«Di qua,» mormorai sicuro, stringendole la mano.
Arrivammo sino alla porta con i tre numeri in ottone sospesi sopra il legno laccato di bianco. Inserii la chiave magnetica nella serratura e attesi il “bip” del via libera.
Due valigie erano adagiate con cura vicino all’armadio della stanza, mentre una era divelta sul pavimento. Sembrava quasi fosse esplosa una bomba al suo interno.
«Robbeo… prima o poi lo ucciderò,» ringhiò Celeste fissando il macello che il suo migliore amico aveva lasciato.
«Vabbé, non è che la mia stanza è messa in condizioni migliori…» cercai di spiegare, ma lei mi fulminò con lo sguardo.
Di punto in bianco cominciò nervosamente a rassettare i panni sparsi in giro, ficcandoli nella valigia con rabbia. «Per fortuna che io e te non viviamo insieme.» disse, sovrappensiero.
«Non ancora…»
Celeste si bloccò con un paio di boxer rossi in una mano e una T-shirt dei Dire Straits nell’altra. I suoi occhi erano grandi come piattini da caffè.
«Cosa hai detto?» chiese, con voce strozzata.
A quel punto mi avvicinai a lei. Le tolsi delicatamente quegli indumenti dalle mani e le posai le mani sui fianchi, avvicinandola a me. Con le dita le sfiorai i tratti del viso, imprimendoli nella mia mente come avrebbe fatto un non vedente.
Poi la baciai. «Un passo alla volta, ricordi?» soffiai, contro le sue labbra.
La bacia ancora, ancora una volta.
«One step closer…» canticchiò lei, spingendomi sempre più verso il letto alle mie spalle.


Scusate per il ritardo nell'aggiornamento, ma, come ho detto nel gruppo, ho aderito alla Klaine!Week nel fandom di Glee e sono stata un po' impegnata, ma adesso sono tornata più carica di prima! Yeeeeeeeeee :3
Siamo finalmente arrivati agli sgoccioli della storia, adesso manca qualche capitolo d'assestamento e poi il gran finale *W*
La cucciolosità di Leonardo è infinita, e penso che anche se molte di voi preferiscono suo cugino Simone, Leo è sempre rimasto nel mio tenero Quoricino sin dall'inizio #myfirstlove.
Detto ciò, conto di rispondere alle recensioni presto, sia di questo capitolo che di quello di ILWY.

NOTIZIA IMPORTANTE:
Il gruppo Crudelie si nasce... sta per essere cancellato e sostituito con un nuovo gruppo in cui è "necessario" mandare un MP per spiegare le motivazioni per cui si vuole entrare. Bisogna partecipare ed essere attivi, altrimenti non vi segnate >.<
L'MP potete mandarlo a me o ad una delle admin:

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 18 ***



CAPITOLO 18
betato da nes_sie
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Come in un Sogno
Mi svegliai a causa del sole che fece prepotentemente capolino al di là delle pesanti tende che adornavano le finestre di quella stanza d’albergo. Sbadigliai e cercai conforto nel calore morbido che sentivo alle mie spalle.
Sorrisi.
Leonardo dormiva come un bambino, con tanto di rivolo di bava sul cuscino a completare quell’opera davvero buffa. I capelli ricci completamente spettinati e il respiro pesante.
La voglia di tendere le dita per accarezzarlo era troppa, forse sarei stata troppo ingorda a non privarmi di quel gesto, e sicuramente lo avrei svegliato interrompendo quella sorta di magia.
 
«C-Che cosa vuoi fare?» disse, fissandomi strana.
«One step closer…» continuai a canticchiare, facendolo stendere sotto di me e montandogli sopra a cavalcioni.
 
Sicuramente, quando avevo lasciato Roma, non avrei mai messo in conto tutto quello. La verità è che era successo tutto troppo in fretta e in qualche modo mi ero lasciata trasportare da un paese nuovo, da una nuova avventura, da gente attorno a me che si riscopriva, si amava per la prima volta oppure di nuovo.
Come Romeo e Anna.
Leonardo borbottò qualcosa nel sonno e si agitò.
Le tende si erano scostate abbastanza da far filtrare quasi per interezza la luce del giorno e temetti che prima o poi anche lui si sarebbe svegliato, mettendo fine alle mie riflessioni. Con cautela, mi alzai dal letto e in punta di piedi cercai di sigillare le pesanti tende scozzesi.
Lo sguardo mi cadde su un quadernetto che avevo abbandonato sulla scrivania di quella stanza.
Mi avvicinai e ne sfiorai la superficie con la punta delle dita.
Lanciai uno sguardo a Leo che era ancora immerso nel mondo dei sogni, così afferrai quelle pagine con mano ferma, aprendo il quaderno e impugnando la biro quasi fosse stata un’arma. E lo era.
Da sempre la scrittura si era rivelata un mezzo potente per diffondere una notizia, come mezzo d’informazione, attraverso il giornalismo, ma adesso mi serviva soltanto per mettere in ordine alcune idee.
 
«Sei sicura?» mormorò incerto.
La premura con cui mi si rivolgeva era quasi commovente, così mi ritrovai a fissare i suoi occhi verdi intensamente. Gli accarezzai una guancia, anche se eravamo mezzi nudi. Mi presi tutto il mio tempo per assaporare quello che sarebbe stato uno dei miei più vividi ricordi.
«No, non sono affatto sicura,» mormorai, con voce tremante. «Eppure sento di doverlo fare. Di fidarmi ancora, ancora una volta…»
 
I ricordi di quella stanza erano talmente vividi che sembravano intrappolati nelle pareti. Era come se la carta da parati fosse impregnata dei nostri gemiti, delle urla e delle preghiere rivolte al cielo. La penna scorreva su quelle pagine di carta bianca quasi fosse guidata da una forza invisibile e ad ogni sospiro di Leonardo, il mio cuore faceva una capriola.
Vederlo dormire era come vegliare su di lui, proteggendolo dal mondo esterno. Da quel mondo che lo aveva costretto a crescere troppo in fretta, a non godersi affatto le gioie di un’adolescenza che aveva forgiato i nostri caratteri.
“Nostri”, delle persone normali.
Sentii il bisogno improvviso di specchiarmi nei suoi occhi verdi, immensi come praterie d’estate, ma repressi quell’egoistico desiderio per godere ancora della sua figura inerme e addormentata.
Avevo indossato la sua maglietta e il profumo della sua pelle mi avvolgeva come in un caldo abbraccio.
Ricominciai a scrivere e mi accorsi che le parole si materializzavano da sole, con una semplicità che per giorni avevo tentato di emulare. Era come se aver ritrovato la serenità con Leonardo, avesse permesso al mio animo di scrittrice di liberarsi dalle catene che lo bloccavano, che mi impedivano di esprimermi come avrei desiderato.
Era proprio vero quando si diceva che bisognava viverle, le emozioni, per poi trascriverle su carta.
 
«È una cosa… mera… ah… meravigliosa.»
 
La sua voce roca e accaldata ancora risuonava nelle mie orecchie, facendomi rabbrividire. Era stata una notte intensa, forse una delle più emozionanti della mia vita. Anche se in passato avevo già donato il mio cuore a qualcuno, che me lo aveva ridato completamente a brandelli, questa volta c’era stato uno scambio equo.
Ero sicura che se avessi scavato più a fondo, lì dentro il mio petto, avrei visto battere non solo la metà del mio, ma anche un pezzetto del cuore di Leo. Di quel ragazzo che conobbi per caso, di quella storia che sentivo ancora di dover raccontare.
 
Quando scendemmo per fare colazione, dopo che Leonardo si era svegliato in una piena crisi di panico perché non mi aveva vista al suo fianco, trovammo quasi tutta la truppa seduta ad un immensa tavolata.
«Non farlo mai più,» mi ammonì per la quattordicesima volta.
Lo fissai di sbieco. «Ora non posso nemmeno andare in bagno senza il tuo permesso? Me la stavo facendo sotto!» sbottai.
Gli occhi verdi di Leonardo si allargarono nel più genuino stupore. «Lo so, ma non capisci che trauma che è stato per me non trovarti… pensavo mi avessi scaricato lì.»
Certe volte si comportava ancora come un bambino, un cucciolo che stava appena imparando a muovere i primi passi nella vita. Mi fece troppa tenerezza e non riuscii a tenergli il broncio per molto.
«Okay, ti chiedo scusa. La prossima volta ti sveglio anche se devo andare a pettinarmi i capelli,» sorrisi.
Leo fece quel suo solito sorrisetto furbo. «Quindi… a quando la prossima volta?» ridacchiò divertito.
Sbuffai sonoramente, fingendo di essere infastidita, ma dentro di me sentivo chiaramente il cuore che batteva forte nel petto. Era quasi umiliante, ma dovevo ammettere che era come se mi fossi innamorata per la seconda volta, come se si trattasse ancora delle prime uscite, dei primi timidi approcci, dei baci appena accennati.
Lo stomaco mi faceva le stesse capriole.
Anche perché non hai mai provato questo genere di sensazioni con lui, ti faceva solo incazzare.
Aveva ragione il mio subconscio.
La nostra storia era immediatamente iniziata col piede sbagliato, con l’orgoglio da parte mia e il pregiudizio, sul fatto che Leonardo fosse il solito belloccio senza alcun briciolo di cervello e sentimento. Poi c’erano state le menzogne, i sotterfugi, le collaborazioni segrete con i miei migliori amici ed infine il mondo intero mi era crollato addosso.
Cercai di scacciare via quei brutti pensieri, ma le cicatrici erano ancora troppo fresche per non far male.
«Ehi piccioncini, siete spariti ieri sera…» ghignò uno dei compagni di squadra di Leonardo. Marco si chiamava? Sinceramente non ricordavo…
Lo vidi irrigidirsi come uno stoccafisso. «Celeste aveva sonno,» mentì quasi… imbarazzato.
Era troppo divertente vederlo annaspare in cerca d’aria, quando notai che il suo viso si stava tingendo lievemente di rosso. Aveva mentito, ma alla fine era piuttosto divertente vederlo tentare inutilmente di mantenere una certa dignità.
«Sì, e io mi chiamo Julio!» ridacchiò il biondo, quello con la barba da Gandalf.
Il resto della squadra si mise a ridacchiare, scambiandosi di tanto in tanto delle battutine poco piacevoli. Sentii la mano di Leonardo stringersi attorno alla mia, nervosamente.
«Scusami. Se vuoi possiamo chiamare il servizio in camera…» mi disse, temendo che mi stessi offendendo a causa di tutti quei commenti.
Lasciai la sua stretta e incrociai le braccia al petto, sfoderando un sorriso. «A me non da nessun fastidio, semmai quello imbarazzato mi sembri tu.»
«Boooooo! La ragazza ha tirato fuori le palle!» e uno scroscio di applausi si levò dalla tavolata dove il testosterone regnava sovrano.
Leonardo, se possibile, divenne ancora più color pomodoro.
«Io mi vado a sedere vicino Ven, non ti dispiace, vero?» chiesi.
Lui mi sorrise e annuì, poi si fiondò letteralmente addosso a quei suoi due compagni che si erano presi gioco di lui sino a quel momento.
Sorrisi. Era bello sentirsi parte di qualcosa, di nuovo.
«Buon giorno, principessa,» ridacchiò la mia migliore amica, riferendosi all’orario poco mattiniero in cui avevo deciso di farmi vedere da tutti quanti.
Sbadigliai composta. «Leonardo ci ha messo un po’ per svegliarsi, poi gli è preso tipo il panico quando non mi ha vista accanto a lui,» sogghignai.
«Magari avrà pensato di aver sognato tutto…» ipotizzò Romeo.
«Chissà tu quante volte ti sei svegliato sudato e bagnato pensando a chissà quale corpo femminile che ti si era miracolosamente concesso,» ironizzò Venera.
«Ehi!» gli corse in aiuto Annalisa. «Non capisco il tuo bisogno di offenderlo in qualsiasi momento!»
«Calma, è fatta così. Al posto del sangue, nelle vene le scorre l’acido muriatico,» ringhiò Romeo.
Presi una fetta di pane tostato e avvicinai la marmellata, cominciando a spalmarcela sopra. Quelle liti mi lasciavano piuttosto indifferente perché da quando li conoscevo, Venera e Robbeo si erano sempre presi a parolacce.
C’era ben poco da fare.
«Invece a te non scorre nulla, perché sei un’ameba,» rispose la mia migliore amica.
Non c’era verso di farli smettere. Litigavano di continuo per qualsiasi sciocchezza ed io, alle volte, mi sentivo quasi di troppo.
Inoltre, notai che Annalisa lanciava strani sguardi a Ven, quasi se stesse sondando il modo in cui si rivolgeva a Romeo. Dapprima non ci diedi molto peso, poi, quando volarono offese più pesanti, gli occhi verdi di Anna diventarono quasi d’oro per il fuoco che vi ardeva dentro.
«Ragazzi, quando pensiamo di tornare?» chiesi, interrompendo la lite.
Romeo fece spallucce.
Venera sospirò. «Il più presto possibile, visto che devo rimettermi a studiare se voglio quantomeno entrare nei primi dieci del mio corso. Se ci riesco, potrei vincere una borsa di studio completamente spesata per andare a fare un master a Londra. Sarebbe un sogno.»
«Secchiona.»
«Microcefalo.»
«Se continui di questo passo, ti sposerai uno dei tuoi libri polverosi!»
«Non tutti sentono la necessità di scoparsi la prima cosa vivente che incontrano. Senza offese per la tua “ragazza”,» e mimò le virgolette con enfasi.
Non capivo tutto quell’astio da cosa fosse scaturito, ma ben presto mi accorsi che Ven stava esagerando. Le diedi un colpetto al gomito e la redarguii con uno sguardo gelido.
«Che c’è?» sbottò infastidita.
«Credo che dovresti finirla di offendere. Certe volte superi il limite…» le spiegai.
Venera era fatta così. Il suo cinismo e la sua ironia, spesso e volentieri abbastanza divertente, alle volte sfiorava l’insopportabile. Le sue battute finivano col diventare delle pesanti offese, spesso lanciante in difesa a qualche brutta parola che le era stata rivolta.
Al contrario di me, lei non riusciva mai a fidarsi completamente di una persona.
Nel corso degli anni, si era costruita attorno un muro così spesso e solido, che non sarebbe mai riuscito a crollare. Di tanto in tanto mi lasciava scavalcare quella parete, fatta di cinismo e acidità, ma soltanto per poco.
Quando tentavo di scavare più a fondo, di risolvere il problema alla radice, lei mi ributtava fuori, cambiando discorso, respingendo anche l’ancora di salvezza che le avevo lanciato in più di un’occasione.
I suoi occhi azzurri cercarono i miei, ma rimasero quasi del tutto impassibili.
Era come se quel mio ammonimento non l’avesse minimamente toccata e dalla sua espressione sembrava dire “tanto farò comunque come mi pare”.
Venera era così: o prendevi tutto il pacchetto in dotazione, oppure lo rifiutavi. E se accettavi di essere sua amica, dovevi esserlo con tutta te stessa perché lei non concedeva mai sconti.
Quando finimmo di fare colazione, Leonardo andò con il resto della squadra al ritiro post-partita che avrebbe avuto luogo in una delle sale per le riunioni dell’albergo, così io mi ritrovai nella hall, mentre Venera era tornata in camera nostra a prendere un cambio di vestiti.
Si era arrabbiata molto per il fatto che l’avessi praticamente chiusa fuori dalla nostra stanza.
Aveva addirittura blaterato sul fatto che il cugino di Leonardo l’aveva quasi invitata a casa sua per passare la notte.
Come se questo fosse possibile. Venera lo avrebbe sbranato a morsi.
Romeo, invece, era stato chiamato da Mr. Cavalli e si era quasi precipitato da lui come un cagnolino obbediente.
Annalisa era rimasta.
Eravamo sedute l’una di fronte all’altra, ma sembravamo quasi delle estranee. Come potevo rivolgermi a lei, quando aveva tentato in più di un’occasione di allontanarmi da Leonardo solo per un suo tornaconto?
Pensai che, alla fine, ero circondata da persone che adesso si definivano “amiche”, ma che in passato mi avevano fatto più torti che un nemico giurato.
Leonardo mi aveva mentito sulla sua identità e sulla sua carriera.
Romeo lo aveva coperto, raccontandomi un mucchio di bugie.
Ero più che sicura che anche Venera sapesse, ma come al solito si era tenuto tutto per lei.
Annalisa… beh, lei era stata quasi sincera a dirla tutta.
«Non capisco se la tua amica ce l’abbia o meno con me,» disse all’improvviso, cercando il mio sguardo.
Cercai di riordinare le idee per capire a cosa si riferisse. «Scusami?»
Annalisa si spostò una ciocca di capelli ramati dietro l’orecchio. «È come se provasse qualcosa nei confronti di Romeo, anche se lo prende sempre a male parole,» soffiò confusa.
Aveva le mani raccolte in grembo e continuava a torturarsi le dita.
Per poco non scoppiai a ridere. «Davvero, io li conosco da quando avevamo dodici anni e se ci fosse stata una qualche chimica tra di loro, me ne sarei accorta…» affermai.
«Già, sei famosa per la tua perspicacia,» insinuò.
Evidentemente si riferiva al fatto che non avessi capito sin da subito le bugie che Leonardo continuava a raccontarmi. «Scusami, non volevo,» aggiunse poi. «È che questa cosa mi sta torturando. Io non ho niente contro la tua amica, anche se è davvero odiosa, però mi infastidisce il modo in cui offende Romeo.»
«Scusami tu, ma fino a qualche settimana fa lo sfruttavi neanche fosse il tuo schiavo,» le risposi.
Tanto valeva scoprire le carte.
Sentivo che era molto cambiata da quando c’eravamo viste l’ultima volta, ma non poteva permettersi di sparare sentenze quando lei era stata la prima a comportarsi in modo scorretto sia con me, che con il mio migliore amico.
Sorrise e annuì. «Sono stata una vera stronza,» ammise.
«Nemmeno poco!» ridacchiai, avvicinandomi a lei e sedendomi al suo fianco. Presi le sue mani nelle mie per impedirle di rovinarsi ancora.
I suoi occhi verdi si specchiarono nei miei. «Stai tranquilla. Venera e Romeo hanno uno strano modo di raffrontarsi, però sono sicurissima che non si tratta di quello che pensi tu. Per quanto io possa essere stata ingenua con Leonardo, posso dire che il sentimento che provavo per lui mi ha reso cieca, però quando si tratta di Romeo, per cui non provo assolutamente niente,» mi sentii in dovere di sottolineare, visto che il mio migliore amico mi aveva confessato di aver avuto sempre una specie di cotta per me. «Ti direi di non crucciarti. È soltanto nella tua testa, non c’è nulla tra quei due.»
Annalisa sembrò tirare un sospiro di sollievo e tranquillizzarsi, finalmente.
Strinse anche lei le mie mani, rafforzando in qualche modo quello strano legame di amicizia che si era creata tra di noi.
«Non vorrei sembrare ancora più stronza di quanto sono già, ma la tua amica ha qualche problema?» chiese imbarazzata. «Ne ho vista passare tanta di gente sotto i miei occhi, soprattutto se frequenti le feste dell’alta società, ma un’acidità del genere è rara da trovare. Le è successo qualcosa in passato? Okay, non sono affari miei…» aggiunse subito, alzando le mani.
Quella domanda mi colse impreparata. Per quanto conoscessi Ven, non sapevo quasi nulla della sua vita privata perché non mi lasciava mai entrare. Snocciolava sì qualche particolare, di tanto in tanto, ma erano come briciole di pane ed io mi sentivo tanto la piccola Gretel che le seguiva obbediente sino alla casa della strega.
«Non ti scusare,» le dissi come prima cosa. «Parlare di Venera non è mai semplice. Diciamo che per quanto tu possa conoscerla, anche se sono passati anni, non saprai mai nulla di lei se non è lei stessa che vuole fartelo sapere. È abbastanza riservata su se stessa.»
E mi ci era voluta Annalisa per capire chi la mia migliore amica fosse in realtà.
«L’importante è che tutto si sia risolto per il meglio, no?» mi disse sorridendo.
«Già,» asserii.
Passò qualche minuto di silenzio in cui non seppi cos’altro aggiungere e sperai con tutta me stessa che Romeo o chi per lui interrompesse quel momento d’imbarazzo. Annalisa si era rivelata una persona con molta più sostanza di quanto mi sarei mai immaginata, ma dall’odiarla a diventare amiche intime richiedeva molto più tempo.
Per fortuna, la nostra vacanza poteva definirsi conclusa.
 
***
 
Eravamo sul volo delle 18.30 che avrebbe lasciato l’aeroporto di Heatrow in perfetto orario, alla volta della Capitale. Non so con quale tipo di magheggio o di arte oscura, Annalisa era riuscita ad includere sul boeing privato 876 della British Airways anche Celeste e i suoi due amici.
Quella ragazza ne sapeva una più del diavolo, dannazione.
Infatti, non appena la squadra si era messa comoda sulle poltrone ampie della prima classe, lei sparì di punto in bianco, portandosi dietro quel poveraccio di Romeo che ormai la seguiva come un’ombra.
Sospirai e pensai a quello che era successo la notte scorsa con Celeste. Sorrisi.
Di certo non potevo biasimare la Cavalli, perché in fin dei conti ciò che avevamo desiderato più di ogni altra cosa al mondo si era avverato proprio lì, in Inghilterra, grazie a tre meravigliosi biglietti spediti da un anonimo benefattore. O benefattrice.
Accanto a me era seduto Ruben, intento a leggere uno strano libro che parlava di bilancio.
Ora. Non seppi precisamente che differenza ci fosse tra “annuale”, “trimestrale” o bilanciere, ma lui sembrava abbastanza assorto che non mi andava di disturbarlo.
Anche se avevo un certo sospetto.
Celeste non sapeva chi avesse spedito quei biglietti, e per quanto potevo saperne, di sicuro non era stato Simone. Punto primo, non gliene fregava niente del sottoscritto, anzi, se Celeste non fosse giunta all’Emirates, di sicuro avremmo perso la partita. Punto secondo, era troppo coglione. Punto terzo, non ci sarebbe stato nessun guadagno da parte sua, allora perché scomodarsi?
Mi arrovellai il cervello tentando di capire chi avesse potuto davvero farmi un favore così grande, ma ogni opzione sembrava poco valida. C’erano Marco e Daniele, ma a loro non avevo detto nemmeno come si chiamava la ragazza di cui mi ero innamorato, come avrebbero potuto reperire il suo indirizzo o quello del Rosso?
E poi perché far venire anche Romeo e la tappa dal nome strambo?
Posai la testa sul bracciolo della poltrona e fissai la moquette che rivestiva il pavimento dell’aereo. C’era qualcosa che mi sfuggiva, qualcosa di davvero importante.
Innanzitutto, il misterioso benefattore doveva quantomeno conoscere l’indirizzo di casa di Celeste e quindi potevo escludere tutte quelle persone a cui non avevo mai parlato di lei. Praticamente avevo fatto fuori l’intera squadra della Magica.
Facendo mente locale, contai i rimanenti. C’era ovviamente Annalisa che, anche se aveva giurato su tutte le lentiggini di Romeo che lei non ne sapeva assolutamente niente, non potevo fidarmi. In fondo, aveva i mezzi per pagare quei biglietti, per farli recapitare senza che nessuno sospettasse nulla…
Troppe coincidenze.
I miei compagni di squadra li avevo già esclusi. Nessuno mi conosceva abbastanza bene da fare una cosa del genere.
Ruben mi sfiorò accidentalmente il braccio e fu in quel momento che ebbi un’epilessia.
Epifania.
È uguale!
«Sei per caso a conoscenza di tre biglietti d’aereo per Londra recapitati all’indirizzo di Celeste e Romeo?» chiesi al mio migliore amico, con il naso premuto all’interno del libro che stava leggendo.
Ruben s’irrigidì e non rispose.
Almeno non subito.
«N-No…» balbettò, come suo solito. «N-Non cr-cre-credo d-di a-ave-avrer m-mai p-pre-p-prenotato d-de-dei big-biglietti p-pe-per Lo-Lon-Lo-… la capitale I-Inglese,» concluse, senza mai staccare gli occhi dal suo volume.
Gatta ci cova. Sentivo chiaramente il puzzo di bugia da almeno due chilometri di distanza, anche perché, a conti fatti, Ruben era davvero l’unico in grado di spedire quei biglietti. Conosceva Celeste, sapeva dove abitava, era molto legato al sottoscritto, tanto da rischiare un’operazione del genere pur di risollevare la mia storia con lei.
Sprofondai ancor di più nella poltrona dell’aereo.
In fondo, cosa me ne sarei fatto della sua confessione scritta? In fin dei conti, chiunque avesse spedito quei biglietti d’aereo, mi aveva soltanto fatto un immenso favore e mi aveva davvero salvato il culo, per non usare altri termini.
«Grazie,» mormorai solamente, senza spiegarne il motivo.
Che fosse stato Ruben o meno, lo dovevo ringraziare. Era il mio migliore amico da sempre, il fratello che non avevo mai avuto, il cugino che avrei desiderato avere, al posto di quel deficiente di Simone, perciò gli sarei stato riconoscente in ogni caso.
Ruben sorrise e a me bastò solo quello.
«Come sta Sofia?» gli chiesi, cercando di prenderlo sovrappensiero.
Il mio migliore amico sfogliò un’altra pagina aiutandosi con un po’ di saliva e si sistemò meglio gli occhiali sul viso. «Bene,» rispose, quasi senza ragionarci su.
Sorrisi.
«L’hai salutata prima di partire, vero?» insistetti.
«Certo.»
Non balbettava. Quando si parlava di Sofia, di lavoro o dell’AS Roma, Ruben non balbettava mai ed era questa la cosa più sconcertante. Avevo il sospetto che tra quei due ci fosse qualcosa, del tenero, ma né Simone né Gabriele mi avevano mai detto nulla.
«Quindi, quando conti di dirmi che voi due state assieme?» sparai.
Tanto valeva consumare tutte le cartucce subito, senza esitare. Ruben sembrava abbastanza disponibile ad aprirsi in quel momento.
Lo vidi scattare sulla poltroncina dell’aereo e finalmente abbassare quel dannatissimo libro.
«C-Co-Co-Che?» farfugliò rosso in volto.
In quel preciso istante arrivò Celeste, che si sedette di malagrazia sulle mie ginocchia interrompendo l’interrogatorio con un profondo bacio che mi distrasse a sufficienza.
«Ehi…» soffiò ridacchiando sulle mie labbra.
Le posai le mani sui fianchi e sorrisi a mia volta. «Ehi.»
«C-Credo che a-andrò un attimo a-alla toil-toil- al bagno,» disse Ruben, alzandosi in fretta e furia e inciampando sulle sue stesse scarpe.
Celeste lo fissò impensierita. «Il tuo amico Ruben cos’ha?» s’informò, sottolineando il nome come se facesse ancora fatica a distinguerci.
Per lei eravamo sempre stati gli opposti. Io Ruben e lui Leonardo.
Questa cosa mi faceva ancora male, ma non glielo dissi.
«Ho il forte sospetto che abbia qualcosa in porto con mia cugina Sofia, ma non so il perché non vuole parlarmene,» le confessai.
Magari Celeste avrebbe potuto darmi qualche consiglio utile.
Sorrise. Era sempre bella quando sorrideva.
«E ci sarebbe qualcosa di sbagliato se stessero insieme?» mi domandò.
Effettivamente non avevo mai pensato a questo. Insomma, Sofia era la mia piccola cuginetta, non ancora maggiorenne ma non per questo immatura. Ruben era il mio migliore amico da sempre.
«No,» scossi la testa. «Non ci sarebbe nulla di male, anzi.»
«Però…?» incalzò lei, come se sentisse da qualche parte, forse in fondo allo stomaco, che c’era ancora qualcosa che non avevo chiarito.
Ci pensai su un attimo, mentre giocherellavo con le dita di lei.
«Però Sofia è una Sogno…» dissi, come se quel cognome, inevitabilmente, portasse dei guai alla nostra famiglia. «E sta scalando lentamente le classifiche londinesi con una sua nuova hit. La fama fa parte integrante della nostra famiglia,» le confessai.
Lei mi osservò tranquilla, infilando una mano nei miei capelli e accarezzandoli. «Ruben questo lo sa, è amico tuo da secoli. Alla fine è anche tuo manager, è abituato a intrattenere rapporti con persone famose.»
«Il fatto è che noi ci conosciamo sin da piccoli, da quando non eravamo altro che ragazzini impauriti dalla nostra stessa ombra,» aggiunsi. «E se per caso andasse male tra di loro? Se alla fine mi venisse chiesto di scegliere tra la mia famiglia e il mio migliore amico?»
Già, forse la stavo buttando troppo sul tragico. Celeste mi sorrise, rassicurandomi.
«Stai correndo troppo. Secondo me non ti chiederebbero mai di scegliere, soprattutto se sono veri amici come lo è Ruben.» Stavolta il nome lo disse con più naturalezza ed io mi sentii stranamente più leggero.
Le cose stavano cambiando, tutto si stava lentamente aggiustando come un vecchio carillon dimenticato.
«Hai ragione,» asserii.
«Come sempre!» ridacchiò lei, pungolandomi con l’indice sul petto, mentre Ruben tornò strascicando i piedi sulla moquette e ciondolando, indeciso se tornare al suo posto ed interrompere un nostro momento idilliaco oppure far finta di niente.
«Ehi amico, vieni qui,» gli dissi, e lui sorrise imbarazzato.
«Io vado da Ven, ragazzi. Credo non si senta tanto bene sull’aereo,» disse Celeste, alzandosi e lasciandomi al famoso “discorso” che avrei dovuto fare al mio migliore amico.
Si chinò leggermente per sfiorare le mie labbra in un timido bacio, poi svanì nei posti dietro ed io rimasi a contemplare la trama della moquette.
Ruben nel frattempo prese di nuovo posto al mio fianco, agguantando il libro.
È in quel momento che lo trattengo, impedendogli di aprire la pagina.
«Secondo me, non saresti dovuto salire su questo aereo,» mi venne da dire, forse un po’ troppo avventatamente.
Ruben, infatti, sgranò gli occhi preoccupato e da dietro le spesse lenti le sue iridi castane sembrarono ancora più enormi. Quasi come quelle di un cucciolo di cerbiatto.
«C-Ci-Cioè? H-Ho f-fa-fat-fatto qualcosa d-di sba-sbagliato?» s’informò, tremante.
Subito cercai di rassicurarlo. «No, no, tranquillo. Non ti sto licenziando di certo,» lo calmai. «È solo che, beh, forse saresti dovuto rimanere a Londra…» incespicai. «…rimanere da Sofia.»
Il mio migliore amico sgranò gli occhi.
C’era qualcosa di realmente profondo radicato in lui, lo potevo leggere attraverso le sue iridi così grandi. Non mi ero mai accorto di quanto tenesse a mia cugina: possibile che fossi stato così cieco?
Beh, in questo periodo sei stato piuttosto impegnato…
In effetti.
Gli diedi una pacca sulla spalla. «Credo che voi due sareste proprio una bella coppia,» conclusi, dandogli il mio benestare, anche se non ero né il fratello maggiore né il padre di Sofia.
Inoltre, sapevo alla perfezione che Simone non sopportava Ruben, quindi averlo come quasi-cognato lo avrebbe mandato lentamente ai pazzi e quella cosa mi faceva sorridere parecchio.
«G-Grazie m-ma…» tentò di aggiungere, senza trovare le parole adatte.
«Cosa?» chiesi.
Lui mi fissò ancor più imbarazzato. Non potevo credere che la pelle umana potesse raggiungere quel livello di rossore.
«N-Non c-cre-credo d-di i-inte-interess-interessarle p-poi t-ta-tanto…» commentò.
Fissai il mio migliore amico intensamente. C’era qualcosa in Ruben che lo faceva sempre dubitare di sé stesso, anche quando le cose erano piuttosto evidenti.
«Perché dici questo?» gli domandai, allora.
Avrei dovuto farlo ragionare, almeno per dargli qualche speranza in più. Con Sofia io non parlavo molto, diciamo che era la più piccola della famiglia ed io l’avevo sempre vista come una sorella minore. Non sapevo come comportarmi riguardo a questioni del genere.
Ruben si sistemò meglio gli occhiali sul naso. Deglutì a fatica, imbarazzato.
«I-Io n-non ho m-mo-mol-tanto successo co-con le r-ra-ragazze…» sussurrò. «P-Po-Poi S-Sofi…» e lasciò la frase sospesa, come a intendere che lei era ben più di una semplice ragazza.
«Ruben, ascolta,» dissi coinciso. «Io non sono nessuno per dirti quello che mia cugina prova nei tuoi confronti, però, da quel poco che ho visto quella sera a Soho… diciamo che ho notato qualcosa effettivamente,» confessai.
Era del tutto vero, visto che avevo avuto il sospetto.
Gli occhi castani di Ruben si aprirono in un genuino stupore. «D-Di-Dici davvero?» pigolò.
Una pacca sulla spalla e un sorriso. «Puoi starne certo, amico,» ridacchiai.
Ripensandoci, mia cugina Sofia era stata sempre un tipo esuberante, espansivo. Sorrideva a tutto e a tutti, senza differenze, e capire chi o cosa le interessasse per davvero era dannatamente difficile. Di una cosa, però, ero certo: era una Sogno, e, come tale, sapeva mascherare bene i suoi sentimenti.
Ruben sembrava molto più tranquillo adesso, come il sottoscritto.
Visto la sua malleabilità, decisi che avrei almeno dovuto tentare di indagare sulla questione dei biglietti.
«Senti ma…» iniziai, evasivo. «Ho notato sui movimenti del tuo conto, una certa somma che hai speso per tre biglietti Roma – Londra, o sbaglio?» buttai là.
Il mio migliore amico s’irrigidì. «Q-Qua-Quando h-ha-hai v-vi-visto l’e-l’estratto-conto?»
E cadde puntualmente nella trappola.
Gli sorrisi. Alla fine il mio sospetto era fondato, ma farlo confessare era stato tremendamente divertente. «Non l’ho visto,» ridacchiai.
Ruben s’incurvò, mogio, affondando la testa nelle spalle. «M-Mi d-di-dispiace…» smozzicò.
Lo tranquillizzai subito. «Altro che “mi dispiace”,» dissi sincero. «Dovrei esserti riconoscente per tutto il resto della mia vita.»
E Ruben mi sorrise. Era davvero tornato tutto come prima.
 
***
 
L’aereo atterrò all’aeroporto di Fiumicino verso le 9.00 di quella stessa sera. L’intera squadra afferrò i propri bagagli a mano e si diresse verso l’uscita, mentre io aspettai che Leonardo e gli altri miei amici si preparassero.
«Allora? È finita questa vacanza, eh?» ridacchiò Venera, che sembrava quella più sollevata di essere finalmente tornata a casa.
Non che odiasse Londra, anzi. Mi aveva più volte detto che, se ne avesse avuta la possibilità, ci si sarebbe trasferita senza alcun indugio. Diciamo che era allergica alle squadre di calcio e in quei tre giorni di permanenza aveva fatto indigestione.
«Si torna alla vita di sempre…» piagnucolò Robbeo.
«Alla tua vita sfigata di sempre,» aggiunse Ven punzecchiandolo.
«Taci, nana!»
«Tappati quella fogna caccolosa, prospero
Annalisa si avvinghiò subito al braccio di Romeo per trascinarlo lontano da lì il più velocemente possibile, prima che ci fosse una strage.
Sorrisi.
Anche se, in fin dei conti, la mia vita era totalmente cambiata, le piccole cose rimanevano sempre le stesse. I miei amici ci sarebbero stati sempre, così come i miei genitori.
Una mano grande e ruvida strinse la mia.
E Leonardo.
Lui, adesso, faceva parte integrante della mia vita e ci sarebbe rimasto. Gli sorrisi e cominciammo a camminare lungo il corridoio dell’aereo. Le nostre dita intrecciate saldamente. Nessuno dei due che voleva perdere quel contatto per paura di dimenticare anche dell’altro.
Era come se fossimo aggrappati a quell’aereo, come se Londra fosse stato solo un sogno e che prima o poi ci saremmo dovuti svegliare, di nuovo da soli.
«Ehi…» mi disse lui.
«Ehi,» gli sorrisi.
Salutammo le hostess e ci dirigemmo verso il ritiro bagagli. La squadra procedeva dritta davanti a noi, mentre una folla di curiosi cominciava ad addensarsi nelle vicinanze. Quando giungemmo al rullo 9, quello corrispondente al nostro volo, c’era la ressa.
Rimasi allibita vedendo la polizia tentare di lasciare lo spazio tra una folla di tifosi che gridava di gioia e il resto della squadra che li salutava imbarazzati.
«Hai paura?» mi domandò Leo, vedendomi trasalire quando uno di quegli uomini tentava in tutti i modi di scavalcare la sorveglianza per fiondarsi addosso a Daniele, credo.
Scossi la testa, ma non ne ero poi tanto sicura.
Se stare insieme ad un calciatore famoso, significava dove fare a pugni con tutta quella gente… non ero abituata a tutto quello.
Leonardo cercò di nuovo la mia mano e la strinse.
Sapevo di essere una sciocca, che chiunque avrebbe fatto carte false per essere al mio posto, eppure non riuscivo ancora a capacitarmi di tutta quella “fama”.
«Ehi Leona’, sei un grosso!»
«A bello, vie’ qua! N’autografo!»
«Chi è lei, campio’? ‘A ragazza tua? Posso favve ‘na foto?»
Erano i tifosi che urlavano al di là del muro di uomini della polizia che si era creato tra il corridoio e il rullo dei bagagli. Mi sentivo quasi braccata.
Afferrammo i bagagli, poi seguimmo uno della security che ci indicò la strada per il pullman della squadra che ci avrebbe ricondotti a casa dall’aeroporto.
Lanciai un ultimo sguardo verso la folla dei tifosi e rabbrividii.
Mi immaginai per un attimo io e Leonardo a fare una passeggiata per negozi, a via del Corso, o magari in un centro commerciale. Girare per le vetrine, mano nella mano, per poi venir assaliti da ragazzi che chiedevano una foto con lui, o un autografo oppure una ciocca dei suoi capelli.
«Manca poco a casa,» mi sorrise Leonardo ed io ricambiai quel gesto un po’ stiracchiato.
Già, mancava poco alla mia vecchia vita, al mio appartamento, alle mie lezioni. Cosa avrei fatto ora che frequentavo abitualmente una persona famosa?
Sarebbe davvero cambiata la mia vita?
«Tutto a posto, sis?» mi chiese Ven, accostandosi con il suo trolley.
Annuii un po’ titubante. Non la si faceva facilmente in barba alla mia migliore amica. Sapeva leggerti dentro in un modo che nemmeno riuscivo a fare con me stessa.
«Sicura?»
«Forse…» tentai.
Una volta avvistata la porta scorrevole dell’uscita, fui invasa dal terrore. Appostati ai lati di un nastro che divideva la squadra dal resto del mondo, c’erano una marea di giornalisti con microfoni e registratori alla mano, con telecamere, macchine fotografiche.
Rimasi quasi paralizzata dal terrore.
Non ce la posso fare.
Strinsi spasmodicamente la mano di Leonardo e lui si accorse che stavo tremando. Mi guardò come se fossi in pericolo di vita e dentro quegli occhi verdi lessi tanta tristezza.
Si tolse il giaccone e me lo avvolse sulle spalle, tirando su bene il cappuccio, poi ci incamminammo verso il pullman senza dar retta a nessun giornalista. Il percorso che ci divideva dal mezzo non era tanto, durò pochi secondi, ma furono i più interminabili di tutta la mia vita.
«Ehi campione, solo una parola?»
«Cosa puoi dirmi sulla partita?»
«Avete vinto, è stato un bene per la squadra averti come attaccante?»
«È vero che hai giocato contro tuo cugino?»
Tutte domande che rimasero senza risposta. Ci fermammo solo quando raggiungemmo i gradini del pullman e Leonardo mi tirò giù il cappuccio del giaccone.
Mi sorrise di nuovo, ma era un sorriso amaro il suo.
«Mi dispiace,» disse.
Salimmo sul mezzo per poi accomodarci nei sedili posteriori.
Fissai lo sguardo fuori dal finestrino, pensierosa, per poi vedere un omino con una macchina fotografica che cominciava a scattarmi delle fotografie. L’insistenza di quel flash negli occhi mi costrinse a chiuderli, riparandomi come potevo con le mani.
«Che pezzo di merda!» imprecò Leonardo, tirando la tendina del pullman e coprendomi con un braccio. Mi strinse a sé, al suo petto, sussurrandomi ancora che gli dispiaceva.

Come al solito sono in ritardo, ormai non vi chiedo più nemmeno scusa ç_ç
Ultimamente ho il tempo ridottissimo causa real!life e gli altri 13.000 impegni che ho preso e che mi tocca rispettare. Mi domando per quale diavolo di motivo io debba segnarmi a millemila contest e poi realizzo di non aver tempo di fare un tubo. e_e
Comunque! Tornando alla nostra storia, Leonardo e Celeste ormai sembrano aver definitivamente superato questa "crisi" anche grazie a LonTra e tutto il paesaggio che io amo  alla follia (non si era capito?). Un capitolo sommariamente di passaggio, tranne con qualche risvolto verso il finale.
Aggiungo qui, nelle righe commentose, che questo sarà il penultimo capitolo, quindi il prossimo sarà il capitolo finale - al massimo seguito da un piccolo epilogo (devo decidere). Mi raccomando non vi commuovete, prima o poi doveva finire T_T
Beh, spero che comunque sia stato di vostro gradimento. Tanto c'è sempre Simo da seguire **
Detto ciò, vi saluto con tanto, tantissimo affetto e vi invito a seguirci nel gruppo di facebook.

Bacioni, Marty

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Capitolo 4
*** Capitolo 19 ***



Capitolo 19
betato da San nes_ssA
Continua ciò che hai cominciato e forse arriverai alla cima,
o almeno arriverai in alto ad un punto che tu solo
comprenderai non essere la cima.
[Seneca]
 
Gli allenamenti ripresero come ogni altro giorno e la vita, il corso del tempo, le persone attorno a noi si muovevano come se quella routine non fosse mai cambiata.
E non lo era, davvero.
Soltanto io mi rendevo conto ogni mattina, quando scivolavo fuori dal un letto vuoto, ma ancora caldo e mi guardavo allo specchio, che quel ragazzo che mi restituiva lo sguardo al di là del vetro non era più lo stesso di molti mesi prima.
Da quando era iniziata tutta quella storia, ne avevamo passate tante e davvero non avrei mai creduto di poter un giorno dire di essere finalmente cambiato, di aver messo da parte i bagordi e la bella vita di un calciatore ventenne e mettere tutto me stesso nelle mani di qualcun altro.
Di una persona comune.
Ne hai fatta di strada da quando pensavi che perfino le tue mutande sporche valessero oro, mh?
Valevano oro! Ruben ne ha visto il prezzo su e-bay.
Sorrisi a me stesso e vidi la mia immagine riflessa fare lo stesso.
Persino quelle battute squallide non mi divertivano più come prima, si poteva quasi azzardare a dire che Leonardo Sogno, lo stesso che in una notte era volato a Barcellona soltanto per scoparsi una top model, era “maturato” finalmente.
E tutto per merito di un’avventura nata da uno scherzo.
«C-Come v-va?»
Ruben bussò piano e fece capolino all’interno della mia camera. Lo raggiunsi con un asciugamano che mi pendeva dalle spalle, intento ancora a frizionarmi i capelli dopo una doccia.
«Bene, Celeste è uscita?» chiesi tranquillo.
Mi aveva accennato che dopo la vacanza a Londra aveva delle lezioni che avrebbe dovuto necessariamente recuperare, per non parlare del suo lavoro alla gelateria.
Il mio amico annuì. «N-No-Non ho f-fa-f-fatto in t-te-tempo nemmeno a p-pre-prepararle la c-co-col-lacolazione!» s’impuntò.
Sorrisi.
Ovviamente non mi stavo burlando della sua balbuzie, solo che mi faceva sempre divertire il fatto di vederlo così  incespicante su certi argomenti, mentre su altri riusciva a districarsi perfettamente tirando fuori vocaboli di cui non sapevo nemmeno il significato.
Cosa che non mi sorprende affatto.
Taci.
Era da un po’ di tempo a quella parte che la voce del mio “Ego” era stata lentamente spodestata da una qualche specie di coscienza che aveva il tono e le sembianze della Celeste armata di dito pungolatore.
Praticamente un incubo!
«Non preoccuparti, tanto c’è la mensa in facoltà,» gli risposi tranquillamente.
Iniziai a vestirmi, nonostante Ruben fosse ancora nella mia stanza, forse in attesa di qualcosa. Afferrai la tuta della magica e comincia a infilarci una gamba.
«Vuoi chiedermi dell’altro, Rub?»
Lui si sfregò nervosamente le mani una con l’altra. «B-Beh…» annaspò. «M-Mi ha t-te-telefonato la “Rolling Stones Italia”,» il nome, ovviamente, lo pronunciò senza intoppi. «E m-mi ha ch-chi-chiesto s-se s-se-sei d-disponibile p-per un’intervista.»
Lo fissai intensamente. Non capivo cosa ci fosse di tanto strano in quello che doveva comunicarmi, in fondo non era né la prima né l’ultima volta che avrei rilasciato un’intervista nella mia vita.
Ero pure sempre Leonardo Sogno, cazzo.
Sì, ogni tanto il mio Ego tornava a fare capolino spodestando la piccola Celeste che viveva ormai fissa dentro di me.
«Va bene, la farò,» dissi tranquillo.
Lui però non si mosse dalla soglia. «C’è d-dell’a-altro…» balbettò, nervoso.
«Mh?»
Potevo capire che fosse importante la cosa che stava per dirmi, ma se avesse temporeggiato qualche altro minuto, avrei fatto ritardo agli allenamenti. Di nuovo.
Ruben deglutì a fatica, così decisi di venirgli incontro.
«Bello, senti,» mormorai, alzandomi e posandogli una mano sulla spalla. «Puoi dirmi qualunque cosa, tranquillo. Vogliono farmi delle foto nudo? Devo posare per un sexy-calendario? Ne parlerò con Celeste, e stai tranquillo che vorrà la prima foto autografata,» sghignazzai.
Lo vidi arrossire. «M-Magari si tr-trattasse di q-quello…»
Okay. Adesso stava davvero cominciando a spaventarmi.
Cosa c’era di peggio di convincere Cel a vedere il mio pistolino sui cartelloni pubblicitari e appeso ad ogni edicola della città?
«Sputa il rospo, Ruben.»
Lui alzò timidamente lo sguardo su di me. «V-Vogliono i-in-inter-intervistarvi i-ins-insieme… t-tu e C-Ce-Celeste…»
«Cosa?»
Ora ero davvero fottuto.
«L’a-articolo d-dov-dovrebbe chi-chiamarsi “L’a-altra m-me-metà de-della f-fama” e v-vo-vogliono f-fa-fare d-de-delle d-do-domande alle f-fi-fidanzate e a-ai fi-fidanzati d-de-delle persone f-famose.»
Guardai il mio migliore amico come se da un momento all’altro il boia avrebbe chiamato il mio nome per una decapitazione in pubblico.
Scossi la testa. «Non accetterà mai.»
«M-Ma-Magari s-se glielo c-chie-chiedi c-con g-ge-gentilezza… p-potrebbe p-po-portare m-molta pub-pubblicità q-questo a-ar-art-articolo…» insistette.
Alzai le mani in segno di resa.
A Londra si era respirato un clima più mite per quanto riguardava i fans, i giornalisti e i paparazzi, ma l’esperienza di Fiumicino Celeste non l’aveva mai digerita.
Anche se aveva ammesso che non era stato nulla, che l’aveva superata, per lei quel mondo era del tutto nuovo ed io avevo il dovere di proteggerla. Anche a costo di rinunciare ad un po’ di notorietà.
Ti stai sentendo? Non ti riconosco più, bello.
Taci tu! Fa bene, Celeste viene prima di tutto!
Chiudi il becco, gallina!
Chiudilo tu, ritardato!
Cercai di spegnere le voci nella mia testa e pensare ad una soluzione concreta. Cercare di convincere Celeste era fuori discussione, di sicuro avrebbe tirato fuori argomenti come “cosa vuoi che gli dica? Che sei un demente ritardato?” oppure, nell’ipotesi peggiore, “E se ci fanno domande su come è cominciata? Dico loro che mi hai rifilato la balla di essere un fioraio e io, come una cretina, ci ho pure creduto?”
Okay, di male in peggio.
«Credo che dovremmo rinunciare, Ruben,» asserii mogio.
Lui annuì. Evidentemente aveva fatto gli stessi miei conti. «V-Va b-bene. Li a-avverto.» E lasciò la stanza.
Libero finalmente di vestirmi, mi avvicinai alla scrivania dove la mia ragazza aveva lasciato acceso il suo laptop. Mossi curioso il mouse, giusto per controllare le previsioni del tempo, ma la prima schermata che si accese fu quella di un foglio di scrittura.
Era da un po’ di tempo, in effetti, che la vedevo indaffarata a picchiettare giorno e notte le dita sui tasti, ma avevo sempre pensato che si trattasse di cose universitarie. Dalle citazioni presenti nel foglio e dai discorsi diretti racchiusi nelle virgolette, riconobbi che quello non era un saggio bensì qualcosa scritto da lei.
Sembra un libro.
Eureka! Ci sei arrivato prima o dopo aver letto “capitolo 18”?
Dovevo ricordare al mio Ego di liberarsi il più presto possibile di quest’altro lato della mia coscienza che si era insinuato nella mia mente.
Ora avrei dovuto davvero chiudere lo schermo. Dovevo.
Il vecchio Leonardo avrebbe curiosato tutto il resto della mattina, arrivando pure in ritardo agli allenamenti facendo incazzare il mister a morte e si sarebbe anche fatto beccare da Celeste, che magari aveva notato qualcosa di diverso nel suo computer.
Presi un bel respiro e rimisi il pc in stand-by.
Da tutta quella storia avevo imparato almeno un paio di cose: non far incazzare mai né Celeste, né il Mister perché la prima mi avrebbe mandato in bianco per il prossimo mese e mezzo, lasciandomi sfogare con Ludovica (la mano amica), e il secondo se la sarebbe legata al dito finendo per relegarmi in panchina o facendomi fare una cinquantina di giri di campo.
«Ruben, io vado!» E detto ciò mi fiondai giù per le scale diretto a Trigoria.
 
***
 
La lezione del professor Porelli era talmente lenta e prolissa che ero stata costretta a posare il mento sulla mano per non lasciar ciondolare la testa nel vuoto.
L’idea di tenere le palpebre aperte con il nastro adesivo – cosa che Robbeo aveva fatto sul serio – non sembrava poi una cattiva idea ora come ora, dopo che mi ero ridotta a darmi i pizzicotti di nascosto pur di non dormire in classe.
Il resto del corpo studentesco era ormai nel mondo dei sogni.
Gli studenti seduti in fondo all’aula si erano direttamente sbracati sui sedili, utilizzando i cappotti come cuscini e calandosi gli occhiali da sole sul viso. Quelli seduti nel mezzo erano ricorsi a tecniche avanzate di camuffamento, in modo da non destare sospetti in Maria-Ernesto Porelli, professore di Lettere Antiche.
«Non ho scritto una riga da quando siamo entrati,» mi confessò Romeo.
Vederlo con lo scotch che gli tirava le palpebre albine fino alla fronte lo faceva assomigliare ad una specie di orribile fenomeno da baraccone.
Per dirla alla “Leonardo”: è un cesso a pedali.
Posai lo sguardo sul mio blocco degli appunti. Immacolato proprio come quando lo avevo acquistato dalla cartoleria lì di fronte.
Sbuffai infastidita. Non era da me boicottare una lezione in quel modo, solo che non facevo altro che pensare al romanzo. Mancava poco alla conclusione ma dovevo trovare un finale degno di essere chiamato tale e non la solita cavolata di due righe, contenente una morale squallida e inverosimile.
Romeo sbadigliò, in modo da farmi contare almeno quattro carie all’interno della sua bocca.
«Senti,» mi disse dopo poco. Uno “SHHHH” sonoro si levò da metà fila, verso la nostra direzione ed io sussultai sulla sedia.
Marika Ventimiglia, la secchiona che sedeva quasi in bocca al professore, ci fissava entrambi come se volesse privarci della testa utilizzando uno spadone affilato come in uno di quei romanzi fantasy.
Romeo le mostrò il dito medio e lei si inacidì maggiormente. Il mio migliore amico tornò a sorridermi tutto gongolante. «Ha una cotta per me,» disse sicuro, ed io ci credei davvero poco.
«Stavi dicendo?» lo incalzai.
Odiavo quando la gente lasciava i discorsi a metà, soprattutto quando non avevo voglia di ascoltare il Porelli che continuava a spiegare con una flemma che avrebbe fatto suicidare persino Socrate.
«Dunque.» Romeo si accorse ben presto di non poter sbattere le palpebre a causa del nastro adesivo e i suoi occhi stavano diventando rossi. Sembrava come indemoniato. Mentre parlava cominciò a staccarsi lo scotch e a sibilare dal dolore.
Era proprio un babbeo.
«Annalisa mi ha chiesto-ahi!» bofonchiò. «Se una sera di queste-porcaputtana! Usciamo tutti e quattro insieme, visto che ormai-cazzo! Siamo ufficialmente due coppie…»
Premesso che ancora stentavo a fidarmi della rossa, l’idea di andare in uno di quei ristoranti a cui era abituata mi metteva ancora più in agitazione della presenza dell’ex-psicopatica del mio attuale fidanzato.
«Non credo che Leo voglia…» mentii.
La comodità di avere qualcuno con cui condividere la propria vita era che finalmente potevo smollargli anche metà della colpa.
«Ha già confermato, gli ho telefonato prima,» gongolò Robbeo.
Purtroppo avere un fidanzato calciatore, che è l’idolo del tuo migliore amico-nerd non giova affatto.
Romeo mi afferrò il braccio entusiasmato. «Eddai! Chissà quando ci ricapita l’occasione di rimpinzarci in uno di quei ristoranti gné-gné dove ti portano delle mini-porzioni e te le fanno pagare cinquanta euro l’una!»
«E tu come farai a pagare il conto?» gli chiesi, con ovvietà.
Anche se mi reputavo una donna indipendente, sapevo che il mio stipendio da Bombolo non avrebbe mai coperto le spese di uno di quei ristoranti di lusso, o almeno sarebbe bastato per il primo piatto.
Romeo era persino messo peggio di me.
A quel punto lo vidi arrossire. «Il signor Cavalli mi ha fatto ottenere un lavoretto nella sua società,» smozzicò. «Non è un posto di rilievo, ma guadagno abbastanza bene e posso pagarmi anche al retta all’università.»
Rimasi di sasso. L’idea che anche Romeo-babbeo potesse essersi finalmente responsabilizzato mi metteva in una posizione di disagio. Era come se io stessa non riuscissi a migliorare, a crescere…
Forse perché eri già “grande” prima.
«Che ne dici? E poi bisogna festeggiare!» trillò estasiato.
Lo guardai sospettosa. «Che cosa, esattamente?»
Roteò gli occhi al cielo, infastidito forse dalla mia ingenuità. «L’intervista, no? Non hai saputo?»
«Quale intervista?»
Pensai immediatamente che quel demente di Leonardo mi avesse tenuto nascosta l’ennesima  notizia, come se non fossero bastate tutte le bugie del passato.
«Cadi proprio dalle nuvole a volte,» borbottò. «La rivista Rolling Stones Italia sta cercando dei personaggi famosi che escono con persone “normali”, come noi. Intervisteranno Annalisa e quindi hanno invitato anche me! Non trovi che sia stupendo?»
Sorrisi. Alla fine non si era trattato di una bugia da parte di Leo, e quella era la cosa che mi sollevava di più in tutta quella faccenda.
Poi però mi ritrovai a riflettere.
«Meraviglioso…» commentai.
Strano che non lo hanno chiesto anche al tuo boy-friend, no?
«…ma?» tentai di aggiungere, poi preferii tacere. Se non lo avevano chiesto a Leonardo, un motivo c’era. Meglio così. Non ero poi tanto sicura di riuscire ad affrontare un’intervista a cuore aperto dopo che la nostra relazione si teneva in piedi su dei pioli traballanti.
Romeo, però, fu più veloce di me. «Se ti stai chiedendo il perché non ci siete anche tu e Leo, ebbene lui ha rifiutato l’intervista,» gongolò.
Stranamente non mi sentii sollevata, anzi.
Riflettendo, avevo già messo in tavola dei pro e dei contro a tutta quella faccenda, ma il fatto che Leonardo avesse preso una decisione che riguardava entrambi senza prima consultarmi, mi lasciò di stucco.
D’accordo che a me poco importava. Un’intervista non mi avrebbe di certo cambiato la vita, anzi, mi avrebbe messo al centro dell’attenzione dei riflettori, mi avrebbe fatta uscire allo scoperto ed io ero segretamente terrorizzata da questa cosa.
Seguivo i programmi in tv e leggevo le riviste di gossip, o almeno quelle che Anna lasciava in giro per casa quando dormiva da Romeo.
«E perché?» chiesi, quasi senza volerlo.
Romeo scrollò le spalle. «Anna ha telefonato a Ruben e lui le ha solo detto che non ci sarete per l’intervista. Non ha detto altro.»
Sentii la rabbia montarmi dentro.
Punto primo, stavo perdendo un mucchio di tempo cercando di decifrare ciò che quella mummia del Porelli stava scrivendo sulla lavagna a ritmo di una lumaca con l’artrosi; punto secondo, Leonardo mi avrebbe ascoltata per bene una volta rientrato dagli allenamenti.
«Sembra che i tuoi occhi sputino fuoco e fiamme…» osservò il mio migliore amico. «Deduco che la cena questa sera è rimandata?»
Un ringhio basso fuoriuscì dalla mia gola e quello bastò a zittire Romeo per il resto della giornata.
 
Ero rimasta tutto il pomeriggio nel salotto dell’appartamento di Leonardo e Ruben, con il televisore spento e una pila di libri da leggere. Dovevo recuperare una decina di letture, ma con quella frustrazione che avevo dentro mi ritrovavo a leggere la stessa riga una ventina di volte.
Dio, se mi sente quando torna!
Questo era il pensiero che più o meno si materializzava ogni quarto d’ora nella mia mente, spodestando gli scritti De Maupassant e Hugo.
Controllavo con ossessione l’orologio del soggiorno, così come la porta dell’ingresso.
Erano le 17.15 del pomeriggio e la luce del giorno cominciava a svanire dalla finestra, così accesi una piccola lampada vicino al divano. Rimasi assorta nel leggere le disavventure di Fantine e di Jean Vanjean tanto da non accorgermi della chiave che di punto in bianco girò nella toppa.
«Ehi!» mi salutò Leonardo sorridente, togliendosi sciarpa e cappotto.
Anche se lo avevo aspettato tutto il pomeriggio col solo intento di farmi una sana litigata, lo ignorai. Doveva capire da solo il motivo per cui mi ero inviperita in quel modo.
Si avvicinò cercando i miei occhi, ma gli sfuggii.
«Si può sapere cos’hai?» chiese, sedendosi sul bracciolo del divano in pelle. Dopo qualche minuto del mio eterno silenzio, sospirò. «Ho forse fatto qualcosa di sbagliato?»
Deo gratias, ci era arrivato!
«Tu che dici, mh?» sibilai, acida. Lanciai il libro dei Miserabili sul tavolinetto da caffè, senza curarmi nemmeno di dove fosse finito.
Leonardo assunse quell’espressione da cucciolo bastonato che non capiva affatto cosa avesse fatto di così erroneo. Si grattò la testa confuso.
Gli occhi verdi spalancati e spaesati mi fecero quasi desistere dall’essere così stronza.
Quasi.
«Una certa intervista non ti dice nulla?» gli ricordai, alzandomi in piedi e puntellando le mani sui fianchi. Trattenevo a stento il piede che, di sua iniziativa, cominciava a picchiettare il pavimento.
Leonardo sgranò gli occhi. «Da chi…?» tentò di chiedere, ma lo bloccai.
«Non è importante da chi l’ho saputo, il punto è: per quale motivo non ne hai parlato con me prima di rifiutare di netto? Non conto niente?» sputai fuori.
Okay, forse era una reazione esagerata per una cosa tanto futile, ma dovevamo lavorare su questa relazione ora che eravamo agli inizi. Non ci tenevo a subire per anni e poi esplodere come una pazza isterica chiedendo il divorzio o chissà cosa.
Il calciatore si portò una mano dietro la nuca, nervoso. «Ho pensato di fare la cosa giusta, sai…»  Gesticolò. «Mi sono chiesto quali domande avrebbero potuto farti, e la maggior parte erano imbarazzanti.»
«Del tipo?» lo esortai, sfinita.
Leonardo sospirò, affranto. Il suo comportamento riconobbi era diverso dal solito, come se effettivamente avesse messo me al primo posto, piuttosto che pensare al suo di tornaconto.
«E se ti domandassero dove ci siamo conosciuti? Come è iniziata la nostra storia? Tu cosa risponderesti?» gridò di punto in bianco, facendomi sussultare. «So perfettamente che è colpa mia tutto questo, il fatto che tu non possa nemmeno vantarti di avere un fidanzato famoso senza poter raccontare la parte in cui io ti ho presa in giro tutto quel tempo… mi dispiace.»
Le braccia mi caddero lungo i fianchi, inerti.
Non riuscivo nemmeno a parlare, a muovere le labbra, perché tutto ciò che mi aveva rivoltato in faccia corrispondeva all’esatta realtà dei fatti. Forse ero stata troppo precipitosa, magari l’idea che mi avesse data per scontata mi aveva accecata verso le reali motivazioni di quella decisione, e, infatti, mi sentivo una sciocca.
Dopo qualche minuto cercai i suoi occhi verdi. «Mi dispiace,» dissi, e mi fiondai tra le sue braccia. Leonardo mi accolse senza dire nulla, mi strinse a sé forte, tanto che sentii il suo cuore battere attraverso la tuta. «Scusami, hai fatto bene. Hai ragione, sono stata una stupida ad urlarti contro solo che…» smozzicai, confusa e imbarazzata.
Lui mi accarezzò i capelli. «Pensavi che ti avessi messa da parte?» ipotizzò con un sorriso.
Alzai il capo e incrociai il suo meraviglioso sguardo e annuii. Si chinò a baciarmi ed io accolsi le sue labbra senza tirarmi indietro, cercando un maggior contatto. Mi alzai in punta di piedi ed allacciai le braccia dietro la sua nuca, mentre lui mi strinse i fianchi.
Ci separammo dopo poco, fronte contro fronte. «Non voglio più metterti in imbarazzo,» mi confessò triste.
Mandai giù un grosso groppo di tristezza che si era formato attorno alla gola. «Tu non mi metti mai in imbarazzo, non più,» affermai sicura.
Rimanemmo a guardarci l’un l’altro, mentre il sole calava all’orizzonte e la stanza si faceva sempre più buia, avvolta nel mantello della notte.
«Davvero,» disse, scostandosi lievemente. «Preferisco evitare tutte le feste mondane e i luoghi pubblici se questo ti da fastidio. Eviterò anche le intervis-…»
Gli misi un dito sulle labbra, zittendolo.
Era sufficiente, davvero. Quella sua rinuncia dimostrava una maturità che sicuramente aveva acquisito col tempo, e magari forse era un po’ mio il merito. Avevo conosciuto un ragazzo egoista, pieno di sé, borioso, a cui non importava nulla del prossimo. La persona che avevo davanti agli occhi aveva soltanto l’aspetto di quel ragazzo di un tempo.
Del Leonardo Sogno tutto calcio e successo c’era rimasto ben poco.
Inseguiva ancora la sua fama, l’amore per quel pallone che io ancora non condividevo appieno, ma nel suo cuore adesso c’era spazio anche per me. Ed era una cosa molto dolce a cui pensare.
«Non dirlo,» gli sussurrai e lo baciai di nuovo. «Come tu non vuoi farmi del male o ferirmi, io non ho alcuna intenzione di tarparti le ali, di mettere fine alla tua carriera obbligandoti a stare con me e alle mie regole. L’amore è dare e ricevere, e adesso è venuto il mio turno di dare
Per un attimo il vecchio Leo fece capolino su quel viso giovane, sfoderando un sorriso malizioso.
Ridacchiai a mia volta. «Non intendevo quello!» gridai, fingendomi arrabbiata.
Dopo poco tornai seria. «Credo che stasera io e te dovremmo farci un giretto in uno dei ristoranti del centro, che ne dici? Magari chiamiamo anche Annalisa e Robbeo.»
La feci sembrare una mia idea, ma gli avevo solo riferito ciò che il mio migliore amico mi aveva proposto.
Il calciatore arcuò un sopracciglio, sospettoso. «Sicura? Sai che il centro è pieno di turisti e che di sicuro assalteranno il nostro tavolo per degli autografi…» mi avvertì.
Un momento di puro panico attraversò il mio corpo, ma lo ricacciai indietro. «Dovrò abituarmici prima o poi, giusto? Non possiamo nasconderci per sempre.»
Leonardo sembrò essersi tolto un enorme peso dal cuore ed io gli afferrai la mano, per poi dirigermi verso la sua stanza.
«E questo sarebbe il premio per cosa?» chiese, inseguendomi.
Mi voltai appena e gli sorrisi. «È per me il premio, caro. Visto che mi sono sorbita due ore del Porelli tenendo a stento gli occhi aperti.»
Lui allora mi afferrò per i fianchi e mi sollevò come se pesassi meno di una piuma. Gli cinsi la vita con le gambe e affondai il viso nell’incavo del suo collo, inspirando il profumo del bagnoschiuma. Leonardo odorava sempre di pulito, come se i suoi vestiti fossero stati appena lavati, nonostante si fosse allenato giù a Trigoria.
Entrammo nella sua stanza e lui si chiuse la porta alle spalle.
«Aspetta,» dissi solo, e Leo mi fece scendere dal suo abbraccio. Mi mordicchiai nervosamente le labbra, forse ancora indecisa su quello che stavo per dire.
Fu allora che Leo mi afferrò il viso e mi costrinse a guardarlo. «Niente segreti, ricordi?» disse ed io lo amai, forse un po’ più di prima.
Così presi coraggio. «È troppo tardi per quell’intervista?» chiesi e gli occhi verdi del mio fidanzato si spalancarono.
Sorrise, un po’ incerto. «Ne sei sicura?» indagò.
Presi un bel respiro e annuii con convinzione. «Credo di avere delle cose da chiarire ed altre di cui devo assolutamente parlare,» aggiunsi.
Leonardo allora afferrò il cellulare e digitò un numero. Al terzo squillo qualcuno rispose.
«Ruben? Dì a quelli del Rolling Stones che io e Cel ci stiamo.»
Dopo si chino a baciarmi, ancora e ancora.
 
***
 
I giornalisti del “Rolling Stone Italia” ci accolsero in un lussuoso attico al centro della città, in una delle traverse di Via del Corso. Dapprima avevo pensato si trovasse lì anche la sede della rivista stessa, ma Ruben mi aveva detto che loro preferivano mettere i propri ospiti a loro agio e cercare un ambiente confortevole in cui parlare.
«Sono E.M.O.Z.I.O.N.A.T.O.,» trillò per la quarta volta Romeo, lisciandosi i capelli fulvi tutti impomatati all’indietro.
Annalisa non la finiva di sorridergli come un’ebete e da quando si era riscoperta innamorata del ragazzo, non si accorgeva neppure di come lo lasciasse andare in giro: camicia bianca infilata in dei pantaloni eleganti di due taglie più grandi della sua, tenute su da bretelle di dubbio gusto e provenienza.
Celeste camminava al mio fianco, radiosa come un raggio di sole del primo mattino.
«Come ti senti?» le chiesi preoccupato.
L’idea che qualche giornalista potesse metterla sotto pressione con delle domande inopportune mi terrorizzava, soprattutto perché io ci ero passato e sapevo quanto quelle persone potessero essere invadenti.
Lei mi afferrò la mano e la strinse. «Tutto okay,» mi rassicurò.
Entrammo nell’edificio all’apparenza vecchissimo, uno di quei classici palazzoni anneriti dallo smog che erano situati al centro della città, ma il suo interno era tutto rimodernato. All’ingresso ci attendeva il portiere, che subito prese i nostri cappotti e ci fece strada verso uno degli ascensori.
Celeste aveva insistito per portare con sé un plico di documenti, che teneva ben riposti in un’enorme borsa.
«Che c’è lì dentro?» le chiese subito Anna, curiosa.
Ovviamente io non avevo osato chiedere, altrimenti le sue ire si sarebbero abbattute su di me e preferivo evitare.
Cel la fulminò. «Cose,» tagliò corto.
Anna non sembrava molto soddisfatta della risposta, ma il tintinnio del campanello la distrasse. L’ascensore era finalmente arrivato, così tutti e quattro montammo in quello stretto abitacolo per digitare poi l’ultimo piano.
«Almeno questo trabiccolo non è come l’ascensore di casa vostra,» ridacchiai.
Annalisa si unì subito. «Credo che quell’affare sia lì dalla guerra di secessione, o forse prima!» gongolò.
«Ah! Ah! Ah!» tuonò Celeste. «Scusate se non possiamo permetterci un lussuoso appartamento come questo, posto al centro cittadino. Purtroppo io e Robbeo ci manteniamo da soli, nonostante tutto.»
Passò un attimo di silenzio nel quale pensai avessi peggiorato di gran lunga la situazione.
Guai in arrivo.
«Però ammettilo, Cel. Quell’affare è un pericolo pubblico!» commentò Robbeo, e fu allora che anche Celeste ridacchiò.
L’ascensore giunse all’attico e non appena scendemmo una giovane donna ci accolse con sorrisi e benvenuti, conducendoci verso l’interno dell’appartamento.
«Da questa parte signori, prego, accomodatevi,» disse educatamente. «Io sono Rebecca e mi occupo degli appuntamento coi giornalisti. Voi siete…?» e il suo sguardo si posò con insistenza sull’aspetto bizzarro di Romeo.
Lui allungò subito la sua pallida e lentigginosa mano, passandosi l’altra tra i capelli impomatati. «Io mi chiamo Ciuccio…» sorrise, maliziosamente. «Romeo Ciuccio.»
La signorina ignorò palesemente la mano, alquanto sudaticcia.
«Leonardo Sogno, piacere,» dissi, imitando Robbeo.
«Mr. Sogno, lei e la signorina dovete entrare nella stanza in fondo al corridoio, per l’intervista. La ringraziamo anticipatamente per questo enorme favore che ha fatto alla rivista.»
La interruppi subito. «È stato merito della mia ragazza,» mi sentii in dovere di dire, posandole una mano sul fianco.
Celeste mi sorrise, un po’ imbarazzata.
«Da questa parte, signori,» disse, rivoltasi ad Anna e Romeo-babbeo. Loro furono condotti in un’altra saletta, sempre con la porta sigillata.
Mentre li vedevo andarsene, mi domandai quali genere di domande avrebbero potuto fare alla Cavalli e un po’ mi preoccupai per lei. Di certo, io sarei stato quello più esposto in tutta questa faccenda ma vederla così tranquilla mi spaventava.
Visto e considerato che fino a nemmeno un mese prima aveva tentato più volte di sabotare la mia storia con Celeste per i suoi secondi fini. Adesso faceva la fidanzata perfetta, e sinceramente era inquietante.
«Che hai?» mi domandò Cel, vedendomi assorto.
Le strinsi la mano. «Nulla d’importante.»
Lei puntò quelle sue iridi cristalline e stirò le labbra. Niente più segreti.
Sospirai sconfitto. «Mi chiedevo cosa racconterà Anna ai giornalisti,» le spiegai, mentre ci incamminavamo verso la nostra sala delle interviste.
«Sei preoccupato che possa mettere in imbarazzo Romeo?» domandò, acuta come sempre.
Annuii. «Lo sai, Anna non è dotata di molto tatto, soprattutto quando si parla della sua vita privata. Non vorrei che si lasciasse sfuggire delle cose spiacevoli…»
Celeste sembrò pensarci su. «Certo, dovresti considerare anche il contrario. Hai visto come si è vestito Robbeo, vero?»
Come avrei potuto non notarlo?
«Dici che quei due si completano a vicenda, mh?»
Lei mi sorrise, poi d’impatto ci fermammo entrambi davanti alla porta di legno laccato bianco. Per la prima volta in tutta la mia vita, ero nervoso per un’intervista.
Non mi era mai capitato, anzi. Adoravo quando i giornalisti mi facevano domande su me stesso, sulla mia fantastica vita da calciatore, sulle innumerevoli love stories e sulla mia fama. Parlare di Leonardo Sogno era il mio argomento preferito da un po’ di anni a quella parte.
Adesso invece sarei volentieri fuggito da lì.
«Siamo ancora in tempo per rinunciare,» le dissi, cercando di bloccare la voce che mi tremava.
Sei Leonardo Sogno, dannazione. Ricordatelo!
Celeste allora si passò il plico di fogli che aveva sotto braccio, nell’altra mano. Poi mi strinse a sé. Forte.
«Lo voglio fare,» ripeté decisa. «Per noi.»
Annuii e presi più coraggio. La verità era che la nostra relazione era ancora in bilico su una sottilissima lama di rasoio, pronta ad essere spazzata da un lato o dall’altro della lama. Era così fragile da essere spezzata, ed io ormai avevo il terrore.
Dopo ciò che eravamo riusciti a recuperare a Londra, l’idea di perderla ancora mi avrebbe distrutto.
Entrammo nel salottino arredato moderno, dove c’erano un divano e due poltroncine al centro di un grande tappeto di pelo bianco.
Una donna si alzò e venne ad accoglierci, raggiante.
Aveva l’aspetto di una ventenne intrappolata in un corpo di quaranta. A giudicare dalle extension e dal trucco pesante che aveva in volto, assomigliava a una protagonista di Desperate Housewives.
«Ma benvenuti, mie tesovi!» trillò, abbracciandoci come se fossimo i suoi figli dispersi.
«Salve,» la salutò cordialmente Celeste, io mi limitai a grugnire qualcosa.
«Pvego, accomodatevi puve!» ci disse, pronunciando quelle “evve” in un modo talmente fastidioso che avrei lasciato il palazzo pur di non sentirla più parlare.
Consideralo un handicap, come la balbuzie di Ruben.
Il problema che quella donna era un Ruben cinquantenne truccato malamente.
«Lui e Paolo, vi favà delle fotogvafie duvante l’intevvista,» ci spiegò, presentando il fotografo che ci fissava come se anche a lui sarebbe spettato il patibolo.
«Vi ringrazio infinitamente per questa opportunità,» disse subito Celeste, sorprendendomi. «Per me e per Leonardo significa molto.»
«Già… uhm, grazie,» aggiunsi.
Non era proprio mia abitudine ringraziare, semmai era il contrario. Essere famosi comportava anche il sapersi districare tra le numerose offerte pubblicitarie che mi venivano sottoposte, e quando più di un giornale si contendeva una mia esclusiva, ero sempre stato del parere che i ringraziamenti mi erano dovuti.
Celeste, invece, riusciva sempre a cambiare ogni mio punto di vista.
«Che cava vagazza!» disse estasiata l’anziana giornalista. «Sei pvopvio fovtunato, vagazzo mio!» E mi strizzò l’occhiolino molto più maliziosamente di quanto mi sarei aspettato.
Vade retro, Satana!
In risposta, stiracchiai un mezzo sorriso e cercai, scivolando sul divano, di incollarmi al corpo di Celeste per sopprimere le avances di quella specie di megera.
«Dunque, divei di cominciave,» sospirò, tirando fuori un registratore e un taccuino dove si era annotata alcune domande. «Sapete che l’intevvista pavlevà delle stovie d’amove tra una pevsona famosa e l’altva ovdinavia, quindi, io pavtivei divettamente dal pvincipio.»
La mazzata stava arrivando.
«Cava Celeste,» le sorrise come una madre orgogliosa fa con un figlio. «Come vi siete conosciuti?»
Cercai gli occhi della mia ragazza per paura di leggervi dentro uno stato d’ansia, lo stesso che mi stava attorcigliando le budella. Era stato difficile per lei, nell’intimo, digerire la storia delle cazzate che avevo sparato per piacerle, e adesso era costretta a raccontare quell’idiozia a mezzo mondo.
Le strinsi la mano, forte. Lei ricambiò la stretta.
«Dunque, devo ammettere che io di calcio non ne capisco molto, anzi, devo dire che sono proprio ignorante in materia,» ridacchiò. «Quindi puoi immaginarti che appena mi sono trovata Leo davanti, nemmeno sapevo chi fosse.»
L’ironia e le battute con cui Celeste riusciva a mantenere sul “leggero” quelle confessioni, piacque molto alla giornalista. Lei e il fotografo cominciarono a ridacchiare, ed erano entusiasti di tutta la storia della motocicletta, della pozzanghera e del fatto che mi fossi inventato un nome fittizio per nascondere la mia identità.
«Quindi, campione,» disse la signora, al sottoscritto. «La vostva stovia è nata pev un piccolo malinteso che poi è sfociato in qualcosa di più ingavbugliato?» e scrisse.
Scrisse e annotò, tutto il tempo.
I flash del fotografo e il “click” della macchina fotografica mi innervosivano.
Ero io quello che si doveva comportare con naturalezza, quello abituato agli autografi, alle domande e a fare i conti con la propria vita spiattellata sulla copertina di un giornale. Invece, in quel momento, era Celeste ad essere tranquilla.
«Sì,» risposi titubante. «Diciamo che all’inizio era soltanto un gioco.»
Misurai bene le parole. Non avevo pensato a cosa avrei potuto dire, magari utilizzando un termine sbagliato avrei potuto mettere fine alla mia storia con Cel.
La giornalista annuì e scrisse.
«Sai, era la prima volta che qualcuno non mi riconosceva. Non mi era mai capitato prima, così presi la palla al balzo e inventai tutta un’identità falsa per potermi godere un po’ di “anonimato”.»
Dal modo in cui picchiettava la penna sul taccuino, sembrava avesse trovato la storia del secolo.
«E tu, cava, non ti sei accovta di nulla?»
Celeste scosse la testa. «Come ho detto, non conoscevo chi fosse questo Leonardo Sogno, ma dall'inizio capii si trattasse di un ragazzo vanitoso e pieno di sé, uno di quei tipi che solevo evitare da sempre. Il fatto è che giorno dopo giorno, me lo trovai sempre tra i piedi e in un modo o nell’altro riusciva a sorprendermi e a rendere le mie giornate meno noiose.» Si portò le mani al volto, ridendo. «Non so spiegarmi bene.»
La donna le prese una delle mani tra le sue. «Oh no, tesovo! Ti spieghi benissimo!»
Udire di nuovo la versione dei fatti dalle labbra di Celeste mi fece sentire strano. Avevamo chiarito i nostri problemi, certo, ma non avevo mai sentito la sua di storia.
«Che identità hai utilizzato, Leonavdo?» mi chiese.
LeonaRdo, avrei voluto risponderle.
«Ho utilizzato il nome del mio manager, Ruben. Poi mi sono inventato una professione normale, come fioraio, nel negozio di mia nonna Annunziata,» spiegai.
«Oh! Davvevo intevessante!» trillò, scrivendo come una forsennata.
Andammo avanti a raccontare, a turno, le nostre storie, intrecciandole opportunamente l’una con l’altra e cercando di rispondere anche ad alcune domande imbarazzanti.
Per fortuna, sorvolammo su ciò che era successo alla festa di Annalisa e tutte le altre occasioni in cui la nostra passione era sfociata in tempi e luoghi poco opportuni.
Trascorsero quasi tre ore, ma facemmo due o più pause. Per fortuna un buffet abbondante mi distrasse dal nervosismo di quell’intervista, che però non aveva contribuito a chiudermi lo stomaco.
Anzi.
«Guarda che poi non ceni,» mi ammonì Celeste, vedendo quanto mangiavo.
La zitti con un cenno della mano. «’O dici te!» la rassicurai.
Vidi con la coda dell’occhio che la mia ragazza si appartava con la giornalista, mostrandole il plico di fogli che aveva stretto a sé tutto il tempo. Avevo tentato più volte di sbirciare, ma lo sguardo gelido di Celeste mi aveva rimesso in riga.
«Quindi, Londva è stata un’isola di salvezza pev la vostva stovia?» chiese, concludendo.
Celeste annuì. «All’inizio ero restia a partire, ancora non mi fidavo di Leonardo. Il fatto di aver scoperto la sua menzogna alla festa di J, davanti a tutte quelle persone, mi aveva imbarazzato a tal punto da non trovare più il coraggio di uscire di casa.»
Quelle parole mi ferirono nel profondo. Ogni lettera era un ricordo a quei giorni passati nell’assoluto isolamento, da tutto e da tutti, conscio d’aver perso la mia unica occasione per essere felice.
«Immagino sia stata duva,» sussurrò la donna.
Celeste annuì ed io mi allungai a stringerle la mano. Sentivo come se ci stessimo allontanando, anche se eravamo a pochi centimetri di distanza l’uno dall’altra. Quell’esperienza ci avrebbe accompagnati per sempre, ed io sapevo che anche se il tempo avrebbe sbiadito il ricordo, le cicatrici sarebbero rimaste.
«Sì,» annuì Celeste, poi però sorrise. «Però è stato molto più difficile rimanere troppo a lungo separati. Per quando sia arduo ammetterlo, non so se sopravvivrei senza di lui.»
E quello mi bastò, davvero.
Tutte le paure volarono via in un attimo, lasciando spazio a un tenero e sincero sorriso.
«La stessa cosa vale per me,» aggiunsi.
La giornalista sembrò molto soddisfatta di ciò che aveva scritto e dal modo in cui ci guardava, sembrava realmente felice.
«E come la vivi, adesso, la notovietà di Leoravdo?» le chiese.
L’immagine di noi all’aeroporto di Fiumicino apparve nitida nella mia mente. I flash insistenti delle macchine fotografiche, le domande assordanti, gli strattoni. Vedevo ancora il viso di Cel impaurito che cercava rifugio tra le mie braccia.
Fu lei però a rispondere. «Dovrò abituarmici, sono sincera,» sorrise. «Credo che in questo, Leonardo, mi aiuterà.»
«Bene, cvedo sia tutto! Vi vingvazio molto, davvevo. L’intevvista savà pvonta tva due giovni, pev il numevo di Maggio.»
Ci alzammo in piedi e salutammo sia la donna che il fotografo.
Improvvisamente mi sentii più leggero, quasi come dopo aver fatto l’esame di maturità. Finalmente libero.
Una volta fuori dalla stanza, trovammo Anna e Romeo che ci aspettavano in fondo al corridoio.
«Com’è andata?» domandò Cel.
Notai che tra quei due s’era creato un silenzio che non prometteva nulla di buono. Era come se l’imbarazzo li avesse resi completamente muti.
«Che è successo?» chiesi subito, intuendo che qualcosa non andava.
Annalisa fissò Romeo, furente. «Chiedetelo a Mr. Barzelletta vivente!» ringhiò. «Non ha fatto altro che intrattenere il giornalista con i suoi aneddoti scadenti, e lui non mi ha rivolto nemmeno una domanda!»
Romeo la sfidò. «Doveva intervistare me, non te. Tu sei già famosa. Questo articolo è sulle coppie formate da famosi e non famosi.»
«Okay, calmatevi. Intanto usciamo,» sentenziò Celeste.
 
Una volta in strada, la situazione andò di male in peggio.
Cominciarono a volare malignità e cattiverie gratuite tra quei due, e non la finivano di punzecchiarsi a vicenda. Romeo non era affatto intimidito dalla lingua velenosa di Annalisa, forse troppo abituato a ricevere offese da chiunque.
Compresa l’amica di Celeste, Veneranda.
«Oh! Taci! Maledetto il giorno in cui mi sono innamorata di te!» ringhiò Anna.
«Figurati io! Annalisa di qua, Annalisa dillà, pensi sempre a te stessa!» le rimbeccò l’altro.
Io e Celeste rimanemmo in silenzio, come se fossimo al cinema o a teatro.
«Perché pagare per uno spettacolo gratuito?» le sussurrai, ridacchiando.
Lei mi rifilò una gomitata leggera. «Zitto!» Ma la vidi sorridere.
La verità era che Romeo e Annalisa litigavano sempre e per qualsiasi stupidaggine. Cominciava con un semplice commento, o una battuta, poi finivano a mali parole. Diciamo che io e Cel avevamo fatto un po’ l’abitudine alle loro liti.
Non si parlavano per giorni. Staccavano tutti i loro contatti.
Dopodiché, se non stavi attento, li ritrovavi a rotolarsi tra le lenzuola o completamente incollati l’uno all’altro in qualsiasi angolo dell’appartamento dei Fiore-Ciuccio.
«Cos’hai consegnato alla giornalista, durante la pausa?» chiesi alla mia ragazza, sorvolando sull’argomento del Rosso.
Celeste sfoderò un sorriso malizioso. «Una sorpresa a cui lavoro da tempo.»
Il mio pensiero andò subito a quello strano documento che avevo intravisto sul suo computer, ma su cui non avevo indagato per rispetto della sua privacy.
Cosa poteva essere? Le sue memorie?
Le mie prigioni?
Mica è una galeotta!
Silvio Pellico, Leona’.
«E non mi puoi anticipare niente, niente?» chiesi, col labbro tremulo.
Lei si aggrappò al mio braccio come un cucciolo di koala, mentre attraversavamo le piccole vie strette del centro di Roma.
«È una sorpresa,» concluse.
Ed io mi fidavo abbastanza di lei, da consegnarle tutto ciò che rimaneva di me stesso.



Allora! Premetto che siete autorizzati a lanciarmi addosso maledizioni/insulti/scarpe puzzolenti e quant'altro perché questo aggiornamento è imperdonabilmente in ritardo. Purtroppo non avevo ispirazione, lo ammetto. Per quanto questa storia mi abbia coinvolto sin dall'inizio, adesso trovo un'immensa difficoltà a concluderla, forse perché ho paura di distaccarmene, boh. Fatto sta che finalmente mi sono messa di buona lena a scrivere, e qualcosa ne è uscito fuori!
*3* Ammetto che Leo mi era mancato troppo. TROPPO.
Con lui è iniziato tutto e anche se la maggior parte dei miei lettori si è persa per strada, non fa niente.
Questa storia MERITA di essere conclusa e ne approfitto per dirvi che mancherà soltanto l'epilogo alla fine. Cercherò una conclusione degna e già mi sto adoperando per lasciare avvisi anche nell'altro account (di _Shantel) in modo che i lettori non si ''perdano'' il seguito di CIUS sul mio profilo.
Anche voi, se vi capita, spargete la voce ;3

Detto ciò, mi rimetto nelle vostre mani.
Un pensiero sarebbe gradito (anche insulti, anzi INSULTATEMI!)
Baci, Marty.


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Capitolo 5
*** EPILOGO ***



EPILOGO

betato da nes_sie
questo capitolo lo dedico a tutti quelli che sono rimasti con me fino alla fine,
e a chi ha amato più di tutti questa storia.
per syl88
 
Avrei voluto iniziare la mia storia con un nostalgico “C’era una volta Celeste Fiore…” accompagnato da qualche descrizione su di me e su quello che amavo più fare, cioè scrivere. Invece, tutto iniziò con un giorno di pioggia e una doccia fredda inaspettata.
Quello fu il giorno in cui conobbi Leonardo Sogno.
Molti di voi, ora come ora, direbbero che fui una ragazza fortunata. Insomma, non capita mica tutti i giorni di incrociare per strada – o sulla sua Ducati – un calciatore famoso di serie A.
…peccato che non mi resi minimamente conto di chi fosse, sulle prime.
Non ero mai stata amante del calcio, né degli sport in generale. Il mio unico movimento consisteva nel fare tutti i giorni avanti e indietro, a piedi, dalla casa che condividevo con Robbeo fino alla facoltà di Lettere.
Ovviamente, anche Leonardo approfittò subito della mia ignoranza in materia.
Nacquero così subito delle incomprensioni e delle bugie che ne richiamarono necessariamente delle altre, fino a costruire una rete ingarbugliata e infinita di menzogne. Mi ritrovai presto a sospettare qualcosa sulla sua identità, sul come un ragazzo così affascinante facesse il fiorario-barra-modello per sopravvivere.
Purtroppo, data la mia innata capacità di innamorarmi pure di un sassolino sul marciapiede, non mi resi minimamente conto di tutto il “progetto” che quel buono a nulla aveva architettato alle mie spalle.
Con la partecipazione del mio migliore amico, ovviamente.
Fu davvero un trauma per la sottoscritta venire a conoscenza della verità da un mio compagno di corso, J.
La sua festa di compleanno non la dimenticherò per nulla al mondo.
Poi ci fu la volta della “fuga” a casa di Vennie, la mia migliore amica e la conseguente proposta di lei di recarmi a Londra per una vacanza non-sospetta… o quasi.
Mi ero isolata dal mondo intero in quei giorni, allontanandomi soprattutto da Romeo perché mi sentivo tradita.
In mia difesa, vorrei aggiungere che la mia precedente relazione era finita a causa delle bugie che il tipo di turno mi rifilava, preferendo la compagnia di qualche altra ragazza più disponibile.
Per questo, la mia fidata Coscienza mi aveva messo in guardia.
Di conseguenza mi ero costruita attorno un muro di mattoni gialli – perché il giallo è bello! – e spessi, così da proteggermi da qualsiasi cosa il mondo mi avesse messo davanti.
Purtroppo Leonardo era stato capace di arginare quel muro. Forse perché era uno sportivo, o magari perché era determinato, comunque lui fu l’unico dopo tanto tempo che riuscì a scavalcarlo, lasciandomi nuda.
E con Londra le cose cambiarono di molto.
Ci fu una grande partita, in uno stadio altrettanto enorme e spettacolare che mi fece perdere il fiato. Riconsiderai la mia opinione su molte persone, tra cui Annalisa Cavalli che subito avevo giudicato come un’arrampicatrice sociale e bambinetta viziata.
Romeo ottenne il mio perdono, così come Leonardo.
… o Ruben.
Alla fine, scoprii che quel nome non era altro che quello del suo manager, nonché migliore amico. Ruben-la-talpa, come ormai lo soprannominavo per distinguerlo dalla vecchia immagine di Ruben che avevo.
Vi starete chiedendo come sia finita tutta la storia.
Dopo diciannove capitoli, vari passaggi di mano, viaggi e corse dell’ultimo secondo, Celeste Fiore come trascorre la sua vita adesso?
Ci sarebbe tanto da raccontare e molto da omettere. Si tratta pur sempre della vita privata di Leonardo Sogno, e so quanto questo sia importante per lui.
Posso solo dirvi che abbiamo dovuto fare dei sacrifici – entrambi – e adattarci come meglio potevamo alla vita che in futuro avremmo potuto condividere insieme.
Io ho cominciato a seguire il calcio, ahimè.
Ci è voluto più di un mese, cinque sedute a settimana con Robbeo e le sue urla da cavernicolo in calore e vari manuali che spiegavano le basilari regole del calcio… ma adesso sono più che sicura di saper riconoscere un fuorigioco o un fallo da ammonizione.
Leonardo ha messo da parte la bella vita per un po’. Diciamo che frequenta ancora i locali più alla moda, ma finalmente ha deciso di coinvolgermi in queste sue serate.
Cosa che ci porta al terzo, importante, cambiamento.
La privacy è un lontano e bellissimo ricordo, visto e considerato l’intervista che rilasciai alla rivista “Rolling Stones” – numero di Maggio. Mi devo ancora abituare ai fan di Leonardo, al fatto che una semplice passeggiata in centro si trasformi in un assalto di persone che chiedono autografi e foto.
Anche alla sottoscritta!
Adesso vengo persino chiamata la “Gioconda”, per osmosi.
Che altro aggiungere?
L’incontro con i miei genitori (e con i suoi) è stato parecchio strano, ma alla fine la mamma è sempre la mamma, che antepone la felicità dei figli alla propria, e nonostante sapesse delle difficoltà che avrei incontrato uscendo con un calciatore, mise da parte il suo pensiero.
Alla fine mi sono trasferita da Leo.
Dapprima non volevo, in quanto mi sembrava troppo presto condividere un appartamento – anche se, tecnicamente, già coabitavo con Robbeo – ma Leonardo fu insistente. Visto che Ruben aveva deciso di trasferirsi a Londra, per Sofia, la casa del calciatore era diventata troppo “grande” e troppo “silenziosa” per i suoi gusti.
Pensai subito fosse una scusa bella e buona perché mi voleva al suo fianco, senza dirmelo in modo smielato.
Amavo anche queste piccole sfumature del suo carattere.
Ebbene, posso annunciarvi che Venera è partita per frequentare il master a Cambridge, mentre Romeo ha cominciato a lavorare per suo “suocero”, Mr. Cavalli.
Annalisa ha una certa influenza su suo padre, oramai mi era sembrato ovvio.
Di recente, abbiamo ricevuto il biglietto per una partecipazione di nozze e non appena l’ho mostrato a Leo, lui mi ha sorriso.
 
 
Romeo Ciuccio                               Annalisa Cavalli
 
 
 
annunciano il loro matrimonio
 
chiesa di S. Marco
p.zza Venezia
 
Sabato 17 Dicembre 2012 – ore 16.30
 
Quel giorno non lo dimenticherò mai, perché fu la cerimonia più bella a cui assistetti e, nello stesso tempo, fui felice per il mio migliore amico.
L’amore ha tanti modi per manifestarsi. Può nascere da una menzogna, dalla poca fiducia in sé stessi, dall’odio che lentamente si manifesta sotto altre forme oppure dalla semplice timidezza.
Io mi ritengo fortunata. Al di là dell’essere fidanzata con un calciatore, al di là delle feste e dei soldi… ho potuto vivere “Come in un Sogno” grazie a lui.
 
per cui grazie, Leo.
 
Ps. Leonardo ha firmato il contratto con la Magica per altri cinque, fantastici anni. E adesso è diventato pappa-e-ciccia con il Capitano.
 
***
 
«Hai finito di picchiettare sul computer? Mi stai facendo venire il mal di testa!» si lamentò Leo, sbracato sul letto a fare zapping col telecomando.
Sorrisi. «Ho quasi finito. Debbo inviare l’epilogo alla redazione entro domani, così potranno inserirlo prima di mandarlo in stampa,» gli spiegai.
«Ma è proprio necessario pubblicare una cosa tanto privata?» borbottò.
Da quando gli avevo dato la notizia del romanzo che per tutto quel tempo avevo portato avanti, subito aveva storto il naso. La storia aveva nomi diversi, d’accordo, i fatti erano più o meno romanzati, però c’eravamo noi lì dentro ed io tenevo a quel libro più di qualsiasi altro tesoro avessi al mondo.
«Avevi detto che andava bene…» esitai.
L’idea di bloccare l’uscita del libro quando già avevo firmato un contratto quinquennale con la casa editrice e accettato i vari tour in giro per l’Italia per pubblicizzarlo non era delle più allettanti.
Leonardo si sedette sul bordo del letto, poi mi sorrise. «No, dai, scherzo,» soffiò. «Visto e considerato che questo tuo romanzo parla di noi, dovrei essere onorato di poterlo leggere.»
Presi l’occasione di correggerlo, ancora. «Tecnicamente parla anche di Romeo, Ruben e Ven,» precisai.
«È una storia ingarbugliata.»
«Dovresti leggerla,» gli suggerii.
Leonardo ancora una volta mi sorprese, perché si alzò dal letto e mi raggiunse alla scrivania, sedendosi un po’ traballante sulle mie ginocchia. Non voleva pesarmi, ma a me poco importava. Che pesasse ottanta o novanta chili, lo avrei sempre sostenuto.
«Da dove comincio?» mi chiese, con l’espressione da cucciolo.
Presi il mouse e andai al principio del foglio di Office.
«Da qui,» dissi sicura, indicandogli il “Prologo”.
Leonardo prese una delle mie mani e la strinse tra le sue, poi guardò lo schermo.
«Il boato della folla era inebriante…»
 
Fine.



*si asciuga la lacrimuccia*
Siamo arrivati alla fine, nemmeno ci credevo! Ho iniziato questa storia a 4 mani, in collaborazione con un'altra ragazza di cui poi ho perso le tracce. Alla fine si sono dimezzati anche i lettori, ma era giusto che avesse una conclusione o almeno una ''vicina'' a quella che avevo immaginato assieme a lei. Spero di aver reso giustizia alla storia, così com'era iniziata.
:'3

Inizialmente scrivevo solo il pov di Leo, mi rispecchiava e adoravo mettermi nei panni di quello sbruffone *-*
Anche impersonare Cel, in questi ultimi capitoli, è stato istruttivo. E' sempre difficile cambiare pov e riuscire a rimanere fedele ai tratti del personaggio, ma spero di esserci riuscita.  Decidere di portare avanti la storia da sola è stata dura, ma l'ho fatto sia per una questione di correttezza, sia per le mie crudelie e infine per l'altro mio "pargolo", ovvero I'm in LAW with you.
Diciamo che senza l'input di Cius, questa storia non avrebbe senso... o almeno ne avrebbe poco.
Beh, ora non mi resta che portare avanti qust'altra long//spin-off, dopodiché direi proprio che mi prenderò un periodo sabbatico. Deciso. Scrivere una long è davvero stancante, soprattutto se ti fai trascinare dai fans e dalla real-life. :3


Grazie di tutto. Per avermi seguito e supportato anche quando è ''cambiato'' il pov di questa storia, con una brusca virata.
Ci siete sempre stati e di questo vi ringrazio. Spero proprio di aver concluso la storia come desideravate :3
Besos,

//marty

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