Trittico

di chi_lamed
(/viewuser.php?uid=180857)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ogni vita è un viaggio ***
Capitolo 2: *** Un altro giro di giostra ***
Capitolo 3: *** La vita che mi aspetta ***



Capitolo 1
*** Ogni vita è un viaggio ***


Disclaimer: I personaggi ed i luoghi presenti in questa storia non appartengono a me bensì, prevalentemente, a J.K. Rowling e a chi ne detiene i diritti. I luoghi non inventati da J.K. Rowling e la trama di questa storia sono invece di mia proprietà ed occorre il mio esplicito e preventivo consenso per pubblicare/tradurre altrove questa storia o una citazione da essa.
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro, ma per puro divertimento, nessuna violazione del copyright è pertanto intesa.
 
Trittico
 
 
*** Ogni vita è un viaggio ***
 
 
L’uomo camminava con tranquilla lentezza lungo il marciapiede, lasciando che la brezza di quel principio d'estate scherzasse con i suoi capelli corvini, accarezzandoli con dita invisibili. Sopra di lui il cielo all'imbrunire giocava con la tavolozza dei colori come un pittore impressionista in piena ispirazione.
Un'automobile sfrecciò veloce e rumorosa, scomparendo poco lontano, oltre l'angolo. La strada tornò nel silenzio e frequentata da qualche sporadico passante che s’affrettava a rientrare a casa. Lui non aveva alcun bisogno di nascondere la propria presenza accompagnata dal nero intenso del mantello ripiegato sul braccio: non sarebbe stato notato comunque. Il mondo Babbano aveva fretta, sempre. Correva senza sosta, guardava al futuro, ignaro dell’enorme pericolo da cui aveva rischiato di essere travolto per esserne infine schiacciato come un molesto ed inutile moscerino.
Gli ultimi negozi spensero uno ad uno le loro insegne e la luce dei lampioni iniziò a regnare sovrana, contrastando con l’indaco che da est avanzava inesorabile. La luna quella sera non sarebbe sorta, il palcoscenico della notte era tutto riservato alle stelle.
L’uomo osservò due innamorati che ciondolavano adagio lungo il marciapiede opposto, mano nella mano, parlando fitto sottovoce. Progetti di vita futura, semplice chiacchiera intrisa di romanticismo o chissà cos’altro. Una lieve fitta di doloroso rammarico lo punse in pieno petto, giusto al’altezza del cuore. Passò oltre, lasciandosi alle spalle il loro bacio appassionato.
Fermò i propri passi davanti ad una vetrina colma di oggetti Babbani in esposizione – articoli elettrici di ogni tipo – di quelli che avrebbero mandato in visibilio Arthur Weasley. Gli riuscì di vedere la propria figura riflessa, quasi giustapposta alla merce in vetrina: il suo se stesso lo osservò, squadrandolo da capo a piedi.
Si guardarono, anzi, si scrutarono, il pizzico d’incredulità che traspariva dal loro volto tramite un sopracciglio alzato. Un gesto consueto all’interno di un evento che consueto non era, non poteva essere.
Ritrovarsi vivi. Respirare, vedere, camminare. Pensare.
E non sapere il perché di tutto questo, non trovare alcuna valida ragione.
L’uomo tornò a fissare la strada, il lungo marciapiede vuoto davanti a sé. Era quasi un segno tangibile di quel che lo aspettava. E che, in una non poi così minima parte, lo lasciava spaesato.
Ma non era il nuovo cammino da intraprendere ad intimorirlo.
No, era la libertà che finalmente ed incredibilmente si ritrovava tra le mani.
Parola rara, questa libertà, parola preziosa a volte più della vita stessa. Più che preziosa e rara era per colui che per anni era stato avvinto da doppia catena, una più straziante dell’altra. Amicizia e redenzione, dovere e spionaggio, sorrisi ed inchini… in una sola parola: dolore.
Sempre.
Entrambi i suoi padroni gli avevano procurato notti insonni lavate con il pianto del rimorso. Uno odiato come nemico giurato, l’altro – l’amico paterno – amato con devozione filiale.
Adesso non c’era più nulla di entrambi.
L’uomo era solo.
Libero e completamente solo.
Dietro le sue spalle, distante qualche centinaio di metri, il San Mungo. Là il suo corpo martoriato era stato curato con unguenti, pozioni ed incantesimi.
Davanti a lui la libertà di una strada vuota che si diramava in altre vie, altri percorsi di vita. E per quelle strade avrebbe dovuto risanare ciò che le cure magiche non avevano potuto: la sua anima ancora ferita in cerca di un posto nel mondo.
Alzò gli occhi al cielo, riabbassandoli poi, lentamente, su ogni edificio di quel quartiere Babbano. Abbracciò in un unico sguardo tutto quel che lo circondava, naturale o artificiale che fosse.
Pensare. Camminare, vedere, respirare.
Vivere.
Poteva farlo ancora.
O forse, poteva farlo davvero per la prima volta.
Respirò a fondo. Una volta, poi due.
Infine una terza.
Si decise.
Un passo avanti, poi un altro ed un altro ancora. Verso un futuro che non conosceva, verso una decina di diverse possibilità di vita. Quale sarebbe stata la prescelta?
L’uomo ancora non lo sapeva.
E per quella notte si decise che non lo avrebbe saputo. Si sarebbe preso tutto il tempo necessario per comprendere, per valutare, per scegliere.
Giunto ad un incrocio si fermò, lasciando che fosse il caso a decidere la nuova direzione da prendere.
Un impiegato in completo elegante e ventiquattrore sbucò dall’angolo procedendo quasi di corsa, urtandolo appena e distogliendo l’uomo dai suoi pensieri. Attraversò la strada velocemente, borbottando qualcosa circa un lavoro tanto odiato quanto necessario. L’uomo ne osservò il cammino, fin quando in lontananza non sopraggiunse un taxi che si fermò a raccogliere quel passeggero stanco ed imbronciato.
 
Automobilisti solerti, lavoratori frustrati, coppiette innamorate e ritardatari cronici.
 
Ognuno di questi era un viaggiatore lungo il sentiero della vita.
Ognuno aveva una destinazione da raggiungere, o anche da sognare, perché no?
 
E lui?
Fermo all’incrocio, sostò a lungo sotto ad un lampione, lasciandosi avvolgere dalla luce arancione, mentre tutt’attorno calavano le tenebre stellate.
 
E lui?
 
Anche lui adesso era come gli altri.
 
Anche lui era un viaggiatore, seppur alquanto anomalo. Il suo sentiero non era mai stato né agevole, né pianeggiante. Al contrario, era costellato da discese e risalite, tutte faticose, soprattutto le ultime. E quando aveva creduto di aver raggiunto il traguardo, ecco la beffa della sorte: niente finale, quel momento era stato un nuovo inizio. La vita aveva voluto sentire ancora i suoi passi, questa volta lungo altri tipi di strade.
Il problema era che l’uomo ancora non sapeva quali fossero.
 
Ogni vita è un viaggio, pensò guardandosi attorno.
 
Cercò la strada più vuota tra le tre che gli si presentavano dinanzi. L’avrebbe colmata passo dopo passo con il lento fluire di pensieri e considerazioni che quella notte di nuova vita scaturivano senza sosta dalla sua mente. Anni ed anni impegnati a calcolare, rimuginare, rimpiangere, spesso seduto accanto al caminetto freddo e spento in un sotterraneo di un antico castello.
 
Invece ora aveva una strada tranquilla e deserta a disposizione.
 
Si lasciò andare ad un lieve sospiro, un misto tra rassegnazione e serena presa di coscienza. Non si era tirato indietro quando era stato il momento di rialzarsi, combattere e perfino uccidere. Non si sarebbe tirato indietro ora che era il momento di vivere davvero.
 
Aveva una strada tranquilla e deserta a disposizione per pensare che il suo – di viaggio – era appena cominciato.


*****

Un "grazie" a chi passa a leggere e rimane silenzioso.
Un "grazie con inchino" a chi passa a leggere, rimane silenzioso e non mi lancia pomodori e simili.
Un "grazie infinite con riconoscenza" a chi passa a leggere e mi lascia qualche parolina. Sono ben accette critiche costruttive ed anche sinceri suggerimenti di darmi all'ippica.
Chiara

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Un altro giro di giostra ***


*** Un altro giro di giostra ***

                                                      
Quella fine di giugno Londra si stava crogiolando in un principio d’estate piacevolmente mite e stranamente serena. Qualche spirito particolarmente fantasioso e romantico avrebbe anche potuto azzardarsi a definire “magico” quel clima che si respirava per la capitale inglese, così diverso dal solito, non interrotto dai ben noti scrosci di pioggia accompagnati dal grigiore di un cielo plumbeo e monotono.
I più disincantati, invece, avrebbero alzato a malapena gli occhi dal quotidiano sportivo, commentando a mezza voce che le stagioni non erano più quelle di una volta e si sarebbero immersi nuovamente in articoli che elencavano punteggi e prestazioni calcistiche.
Coloro che conoscevano la verità – e pur essendo in minoranza non erano certamente pochi – non avrebbero invece esitato a dire che anche la natura si stava concedendo il proprio meritato momento di pace dopo una guerra buia e sanguinosa che aveva falciato parecchie, troppe, vite umane.
 
La sera era giunta, ammantata d’indaco, blu, violetto e tempestata di stelle. Se solo esse fossero state visibili… ma le luci artificiali della città avevano tolto ai Babbani la possibilità di godere pienamente del baluginio di miliardi di astri lontani.
Però essi c’erano, era sufficiente cercare qualche angolo discretamente buio e puntare lo sguardo all’insù per lasciarsi abbracciare dall’infinito.
Fu anche per questo che un uomo fermo ad un incrocio da oramai qualche minuto s’incamminò lentamente verso la strada che tra quelle possibili presentava meno illuminazione. Era rimasto dapprima come in attesa, sotto ad un lampione, forse indeciso sul percorso da intraprendere. Poi, dopo un lungo pensare, aveva attraversato con calma, presenza solitaria in una zona commerciale ormai deserta.
L’uomo non era un impiegato che aveva fatto tardi al lavoro, né un senzatetto, né tantomeno un turista in cerca di angoli di città inesplorati da immortalare per poi portarne a casa almeno il loro ricordo in un riquadrino di carta lucida.
A dire la verità non era nemmeno un semplice passante.
E a dire proprio tutta la verità, nemmeno l’uomo sapeva esattamente cosa egli fosse di preciso.
Sapeva solo di aver lasciato alle spalle – qualche centinaio di metri più lontano – un ospedale magico invisibile ai Babbani, segno di un tempo andato che egli stesso desiderava far rimanere tale, nonostante fosse pienamente consapevole che non lo avrebbe mai cancellato del tutto dalla propria vita e soprattutto dai propri ricordi.
Era un reduce di guerra.
Era un eroe scomodo.
In sé aveva un passato con il quale fare pace – o meglio, stipulare almeno un patto di non belligeranza – ed un futuro da costruire quasi da zero partendo dai cocci sparsi e variegati di un presente ancora incerto.
Camminò sempre dritto, senza esitazioni, senza fermarsi ad occhieggiare quel che le vetrine dei negozi chiusi proponevano con cartellini colorati ed ammiccanti. La mente era tutta impegnata in congetture, progetti e riflessioni. Immaginò tutte le tipologie possibili di finali, passò al setaccio ogni cosa nuova che avrebbe potuto fare ed ogni occupazione vecchia che già lo aveva impegnato. Il rumore cadenzato dei propri passi sul selciato sembrava scandire una meditazione dopo l’altra, un programma dopo l’altro: era un appello tanto multiforme quanto necessario, tramite il nuovo registro che la vita gli aveva donato grazie alle lacrime di una Fenice purpurea.
Cercava un punto di svolta, l’uomo, una risposta ad una lunga sequela di interrogativi. Nonostante l’espressione tranquilla che traspariva dal volto incorniciato da lunghi capelli corvini e dall’andatura elegante, nel suo cuore si celavano confusione ed incertezza. Man mano che procedeva esse diventavano un tutt’uno, mutandosi in un’inquietudine sottile tanto simile a brace nascosta sotto un mucchietto di cenere che non aspetta altro che di essere riportata in superficie per ardere ed alimentare una nuova fiamma.
Fu così che cambiò direzione, in senso letterale.
La strada maestra non aveva nulla da offrirgli, se non una ripetizione di vetrine spente e serrande abbassate. Quel che lo circondava non lo avrebbe aiutato a fare chiarezza dentro di sé, lo sentiva. Alla sua destra invece si apriva una viuzza in cui regnava un’oscurità più diffusa, intervallata solo da qualche sporadico lampione che spandeva tutt’attorno un alone di luce biancastra e quasi malaticcia. Nonostante le apparenze, si lasciò guidare da una sorta di sesto senso e decise che quello sarebbe stato il percorso giusto.
Non aveva grandi pretese, non per quella sera almeno. Non le aveva mai avute, se per pretese s’intendeva il desiderio di essere accettato e rispettato per quel che egli era. Poi però i suoi sogni di ragazzino s’erano inesorabilmente infranti, spezzati in schegge impazzite di incubi. Reali o onirici che fossero, essi erano stati entrambi terrificanti allo stesso modo ed ogni sprazzo di sereno non era stato che un breve attimo di respiro prima di immergersi nuovamente in un mare di ombre chiamate rimorsi.
Chiunque altro sarebbe impazzito, ma non lui, non lui che aveva sempre posseduto un senso del dovere tenace più di duro diamante.
Non chiedeva grandi cose dal futuro, l’uomo in cammino. Già il solo pronunciare quella coniugazione che s’affaccia sul domani gli appariva come gesto incredibile, specie se paragonato ad un’intera vita che di un errore passato aveva fatto il proprio fulcro, la leva in grado non tanto di sollevare il mondo, ma di redimere totalmente un animo. Il suo animo.
 
Oltre il senso da dare a quella nuova vita, oltre la meta che prima o poi avrebbe dovuto essere scelta, l’uomo in cammino cercava qualcos’altro: se stesso.
Cercava il proprio volto dietro la maschera.
 
Storse un po’ il naso nel tornare al presente, nel mettere da parte le proprie riflessioni per osservare attentamente il luogo in cui si trovava.
La luce bianca di alcuni lampioni in ferro battuto era davvero orribile e dava alla zona un aspetto vagamente tetro e poco raccomandabile. Per quegli aggeggi Babbani non c’era alcuna speranza di competere con i caldi riverberi fiammeggianti di torce che, ad ogni anfratto di un antico castello, regalavano giochi di ombre danzanti unici ed inimitabili.
 
Hogwarts.
 
Qualcosa lo punse all’altezza del petto.
Chiamarla nostalgia era forse troppo, ma quello era il sentimento che in quel momento si avvicinava maggiormente al vero.
Hogwarts era una delle possibilità del lungo elenco che in quei metri percorsi era stato interrogato più volte da cima a fondo e viceversa.
Rallentò il passo, cercando di ignorare il cuore che aveva preso ad accelerare il proprio battito.
Hogwarts era una possibilità – certo –  ma non una qualunque, fu costretto ad ammettere.
Era la più allettante e forse anche la più ovvia, se pensava ad un’anziana strega che per giorni aveva insistito perché vi facesse ritorno.
Ma era anche la possibilità più difficile da scegliere e soprattutto la più dolorosa. Là il passato sarebbe tornato come ondate di marea che non conosce calma. Sarebbe stata una lotta continua per andare nell’unica direzione che si era prefissato: avanti. Sarebbe stata una lotta contro una corrente impetuosa che non avrebbe fatto altro che cercare di trascinarlo a fondo, indietro nel tempo e verso pensieri più amari del fiele.
 
L’uomo scosse la testa, accorgendosi di essersi fermato in mezzo al marciapiede.
Altro che avanti!
 
La tentazione c’era, vivida e pulsante più che mai.
Farsi del bene e del male allo stesso tempo, lui solo poteva pensare ad una soluzione del genere.
Chiuse gli occhi e finì per mordersi anche la lingua, le mani gli si strinsero in una morsa così serrata da conficcarsi le unghie nei palmi.
No, non era quello il momento di decidere, non ancora.
Quella era l’unica certezza che gli fosse rimasta.
 
L’aiuto gli venne alcuni passi più avanti, sotto forma di un rettangolo di calda luce gialla sul selciato, unico punto illuminato lontano dagli aloni biancastri dei lampioni. Una sommessa musica di sottofondo si spandeva nelle immediate vicinanze, interrompendo il silenzio circostante inframmezzato solo da alcuni latrati lontani e da qualche automobile nella strada principale.
La curiosità ebbe facile vittoria quella sera d’estate.
La porta in legno chiaro era chiusa certamente a chiave, ma questo non impediva al fiume di note veloci e ritmate di uscire ugualmente e vagare nell’aria.
Oltre l’ampia vetrata, incorniciata da tendine blu elettrico tempestate di rose rosse, si stendeva una singolare foresta di sedie foderate, rovesciate su piccoli tavoli rotondi coperti da tovaglie dal medesimo motivo floreale. L’uomo trovò tutto un po’ troppo eccentrico, compresa la miriade di quadri dalle varie dimensioni appesi alle pareti color panna.
Ma non fu quello a catturare la sua attenzione.
 
Una piccola radio sul bancone in legno scuro, un volteggio assieme al nulla lasciato a metà e che sfocia in un momento di giocosa improvvisazione. Una scopa poggiata velocemente ad uno dei tavoli ed in procinto di scivolare a terra, abbandonata di punto in bianco per dare vita ad un giro di valzer veloce da condividere a tutti i costi. Mani rugose intrecciate l’una all’altra, passi danzanti conditi di prudenza ed attenzione reciproca.
 
L’uomo sulla strada provò un vago senso di colpa, arrivando quasi a vergognarsi come se avesse commesso un furto e fosse stato colto sul fatto. Aveva appena assistito al fugace momento di tranquilla complicità tra due anziani gestori di una sala da tè. Erano sprazzi di felicità che non gli appartenevano e men che meno avrebbero dovuto essere condivisibili con lui, neanche per errore. Fece per allontanarsi, desiderando tornare ad essere inghiottito dall’oscurità che sentiva più affine a quel che egli era.
Ma non ne ebbe il tempo.
Prima che potesse riprendere il cammino venne raggiunto da due vaghi sorrisi incorniciati da qualche ruga e da bianchi capelli, accompagnati da un’alzata di spalle che aveva il sapore di tranquilla condivisione e noncuranza dell’opinione altrui. Solo la donna arrossì un po’, per poi tornare subito a farsi condurre dal suo cavaliere per un nuovo giro di valzer, come se l’interruzione non fosse mai avvenuta.
 
Cosa avevano visto in lui, perfetto sconosciuto, per sorridergli in quel modo?
Con quella domanda nella mente – ma soprattutto nel cuore – l’uomo si rimise a vagare senza una meta.
Un lieve cigolio si sovrappose ben presto alle note che, passo dopo passo, diventavano sempre più flebili. Era la brezza estiva, che giocava a far dondolare l’insegna dalla fumante teiera blu e portava lontano quella musica ritmata e leggiadra.
 
Due sorrisi. Due.
Non erano i sorrisi di circostanza di quel burocrati del Ministero che talvolta erano venuti a trovarlo in ospedale per mettere a rapporto la sua posizione. Non erano i sorrisi tirati di un Kingsley Primo Ministro quasi imbarazzato e desideroso di chiedergli scusa. E non assomigliavano nemmeno a quelli teneramente commossi di Minerva o della signora Weasley.
 
Erano stati solamente due sorrisi gratuiti e donati senza conoscere il destinatario, senza chiedere nulla in cambio.
Erano stati un regalo.
A lui, uomo in nero in cammino.
 
Vagò ancora ed ancora, girovagando per altre vie secondarie, in cerca di un deserto esteriore che facesse chiarezza, che dipanasse il lungo gomitolo di sensazioni e progetti che si portava dentro.
Aveva sete di capire, anelava ad una risposta come un naufrago in mare aperto desidera con tutto se stesso una goccia d’acqua dolce sulle labbra screpolate e riarse.
 
Era notte ormai fonda, quando sbocciò il primo germoglio della comprensione. Timido, palpitante, piccolo e quasi insignificante. Ma portatore di una promessa futura. Si affacciò lento sotto la luce delle stelle, dopo che l’uomo si era specchiato quasi per caso nei vetri scuri di un’elegante automobile parcheggiata sul ciglio della strada.
Così ovvio da non credere.
Così semplice da dover sbattere le palpebre più e più volte per rendersi conto della verità più disarmante che vi fosse.
 
Cos’aveva visto quella coppia per sorridergli in quel modo?
Semplice: un uomo.
Punto.
Senza un nome, senza un passato per cui rabbrividire o un presente per cui incuriosirsi con leggerezza o morbosità giornalistica.
 
Il suo se stesso riflesso – e pensare che erano passate solo poche ore da quando lo aveva intravisto l’ultima volta attraverso una vetrina – non recava nulla che potesse far capire ad altri chi egli fosse. Non aveva cucita addosso la parola “ex-Mangiamorte”, nemmeno sull’avambraccio a dire il vero, perché quell’orrido marchio era diventato sempre più sbiadito dal giorno della morte dell’Oscuro. E nemmeno portava sulla fronte la scritta “assassino di Albus Silente”. La ferita, ancora dolorante, era tutta nascosta nel cuore e là sarebbe per sempre rimasta fino al suo ultimo respiro.
E no, incredibile a dirsi, non c’era nulla che potesse far capire ad occhi esteriori quanto il suo carattere fosse difficile, scontroso, schivo, amante della solitudine e dello studio. Praticamente impossibile da sopportare a volte anche per se stesso.
 
Davanti al suo riflesso l’uomo sorrise, sentendo il proprio animo diventare una valle quieta in cui per la prima volta s’affacciava il sereno.
 
La maschera si era definitivamente infranta, dissolta con due sorrisi donati tra spensierati giri di valzer.
Il volto da cercare era stato sempre lì, visibile a tutti; il vero se stesso non aveva dovuto raggiungerlo andando troppo lontano.
Erano stati gli occhi degli altri ad aprire i suoi, a rivelargli che egli poteva essere semplicemente un uomo qualunque, senza altre aggiunte, senza altri pesi inutili.
 
Era tutto così semplice, l’uomo fu quasi stizzito per non esserci arrivato prima da solo.
Quasi.
Non aveva camminato inutilmente, questo lo sapeva benissimo. Ogni passo nel mondo di fuori era stato un passo in quel che egli si portava dentro. Il vero viaggio non lo aveva fatto attraversando alcune strade deserte di Londra, poiché non v’era nulla nel mondo esterno che già non fosse dentro di lui.
Non c’era nulla da cercare, non più. Tutto quel che gli sarebbe servito per il proprio futuro lo aveva sempre portato con sé.
 
Fu un nuovo inizio, quello sì, a tutti gli effetti.
Fu il primo vero passo di una pacata accettazione, lo sciogliere di un fiocco che racchiude nel suo velluto un pacco regalo che finalmente si desidera aprire per scoprirne il prezioso contenuto.
 
Fu la fine di un viaggio e l’inizio di un altro.
 
Fu la comprensione, mai così vivida e piacevole, che la vita gli aveva veramente concesso un altro giro di giostra.


***

Angolino autrice: il titolo del capitolo che costituisce anche la frase di chiusura è tratto dal titolo di un (meraviglioso) libro di Tiziano Terzani. Consiglio a chiunque di leggerlo.
Per quanto riguarda questa storia, sono ben accette recensioni, critiche negative e/o costruttive soprattutto per quanto riguarda stile e metodo narrativo.
Chiara

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** La vita che mi aspetta ***


Attenzione: questo capitolo, nonostante non contenga le parole della canzone come parte della trama, può di striscio definirsi una song-fic, perchè in gran parte è stato ispirato dalla musica e dal testo in questione, così come il titolo.

La vita che mi aspetta, di Renato Zero.
 

A Chiara,
con tanto affetto
e con tutto il cuore.



 

*** La vita che mi aspetta ***


 

 
Pantaloni, foulard di seta, giacca, mantello.
Neri, ovviamente. Tutti.
E camicia candida che bisognava far intravedere appena, poco sotto il mento e fuori dalle maniche della giacca.
Non mancava nulla all’appello.
Tuttavia egli indugiava, immobile al centro della camera d’ospedale riservata a lui solo – i vestiti accuratamente stesi sul bordo del letto spiccavano sulle bianche lenzuola – respirando appena percettibilmente. La mano era lì, vicina al tessuto senza toccarlo, ne percepiva la consistenza lasciando che fosse il ricordo a colmare ogni distanza.
Quei vestiti erano più che semplici trame di stoffa.
Erano parte di sé, scelti accuratamente per mostrare al mondo solo ciò che egli avrebbe voluto e per celare tutto il resto. In un certo senso si poteva dire che racchiudessero la sua essenza.
Quando infine la mano s’era poggiata sul ruvido nero della giacca aveva compreso davvero che quello non era un sogno ad occhi aperti.
Era la realtà.
Era finalmente libero di andarsene da lì.
Aveva così rotto ogni indugio con un profondo respiro, iniziando quella vestizione che per anni era stata quasi una cerimonia, un appuntamento mattutino da rispettare in ordine scrupoloso ed attento. Ogni bottone che le dita incontravano erano un pensiero ed un ricordo intrecciati saldamente insieme, erano memoria di una vita passata ed incertezza di un futuro davanti a sé. Entrambi, pensiero e ricordo, diventavano infine promessa solenne per una nuova vita sbucata inaspettata quanto una Fenice dai riflessi dorati, simbolo di una fedeltà che egli aveva saputo mantenere fino alla morte.
Lo specchio ai lati del letto, un vero e proprio lusso che Minerva gli aveva portato insieme ai propri vestiti – il tocco femminile e materno di quella strega non si smentiva mai – gli aveva restituito un’immagine che doveva ancora imparare a conoscere: quella di un uomo che non aveva più bisogno di nascondersi dietro ad una maschera. Lui di quell’uomo ne conosceva le fattezze, ne conosceva ogni ruga che lacrime di rimorso avevano scavato nel tempo, o che smorfie di puro dolore avevano tracciato durante le Cruciatus dell’Oscuro che traeva piacere dalla sofferenza altrui. Di quell’uomo lui conosceva anche le espressioni, da quelle di sarcasmo a quelle di assoluta impassibilità, le seconde più frequenti delle prime, arma necessaria per nascondere al mondo il vero se stesso.
Di quel volto però non ne conosceva, se non poco o nulla, i sorrisi, le manifestazioni di gioia disinteressata, la semplicità di un sentimento effimero quale la serenità. Forse un giorno gli sarebbe stato dato di conoscerli tutti, pian piano, senza fretta.
Era certo che, quando fosse arrivato quel momento, il riflesso che lo specchio gli avrebbe restituito si sarebbe potuto dire che davvero fosse il suo.
Ma non era ancora tempo.
Le mani intrecciavano intanto il foulard con movimenti lenti e tranquilli. Adagio, lasciando che la familiare seta scorresse tra le dita.
Ogni sensazione, ogni gesto abitudinario della sua vita passata aveva assunto un nuovo significato, come se fosse la prima volta. No, l’uomo non aveva perso il cinismo, né la disillusione, né tantomeno l’esperienza. Non era mai stato ridotto così male da pensare che, siccome era vivo per miracolo, tutto fosse improvvisamente diventato bello ed importante, anche la routine quotidiana. Lui aveva sempre saputo che la vita era cosa preziosa a prescindere, soprattutto quella altrui, da difendere a tutti i costi nel tentativo di riparare ad una colpa commessa. In quel momento, dunque, stava solamente cercando di venire a patti con una realtà in cui non aveva mai creduto, di cui inizialmente non aveva voluto far parte, tanto si era preparato al proprio necessario sacrificio. Più che rassegnato, lo aveva atteso come un intrepido amante attende impaziente l’arrivo dell’amata, ma anziché la nera morte armata di falce era arrivata la vita, nuova e senza vincoli.
Gli rimaneva solo il mantello.
Mettere anche quello?
Fuori il sole si stava avviando lentamente al tramonto, trascinando con sé verso ovest un alone rosso ed aranciato, che via via si striava di rosa e violetta. Presto sarebbe giunto il buio, accompagnato da una temperatura stranamente mite e piacevole per una città come Londra.
Aveva piegato con cura l’indumento, poggiandolo poi sul braccio sinistro, incredulo ancora una volta di come non provasse più il minimo dolore nel punto in cui prima c’era stato un Marchio Nero.
La vestizione era giunta a compimento.
Un ultimo sguardo allo specchio e poi aveva voltato per sempre le spalle a quel letto d’ospedale.
 

Il legno della panchina scricchiolò lievemente sotto il peso dell’uomo, come gemendo per l’ora insolita in cui era stato destato.
Dopo tanto camminare aveva finalmente deciso di fermarsi e non solo per riprendere le forze. La decisione andava presa, era un impegno verso se stesso ma soprattutto verso colei che attendeva con ansia una risposta.
Testarda, determinata, adorabilmente materna.
Minerva.
Che aveva implorato a mani giunte affinché lui non sparisse, supplicando quasi perché tornasse ad Hogwarts e terminasse gli ultimi giorni di convalescenza là, assistito da lei e dagli elfi domestici. Mute lacrime le erano scivolate sulle guance e lui era stato tentato più volte di alzare la mano su quel volto non più giovane e di accarezzargliele per donarle un po’ di sollievo.
Lei non aveva nulla di cui farsi perdonare, nulla.
Ma lui non aveva compiuto alcun gesto, troppo timoroso di sfiorare quel dolore che a provocare era stato lui stesso.
La brezza notturna spirò più intensa, facendo oscillare piano le finestrelle di una graziosa casetta in miniatura, mèta sicura di chissà quante bambine intente a scambiarsi giochi di sogni infantili e leggiadri come nuvole di zucchero filato. Rimase affascinato ad osservare l’anta che si spalancava pian piano, rivelando un tavolino in miniatura e alcune piccole sedie di plastica. Probabilmente il tutto era dipinto con colori sgargianti, ma ad est l’alba era solo una striscia appena più chiara del blu notte che avvolgeva ancora gran parte del cielo e che si stendeva su ogni cosa presente colorandola di toni scuri con infinite varietà di grigio.
Aveva vagato per tutta la notte, camminando nel labirinto delle strade di Londra ed al tempo stesso percorrendo gli intricati sentieri del proprio io. E alla fine aveva scoperto che tutto quello di cui aveva bisogno non andava cercato altrove.
Un lieve sorriso gli increspò le labbra.
Benedì mentalmente due anziani che certo in quel momento riposavano sereni, ignari di aver donato un aiuto tanto prezioso quanto inaspettato.
La città dormiva ancora, o almeno quella parte in cui era finito vagando a caso. Molto probabilmente altrove v’erano Babbani ancora svegli che si divertivano a scambiare la notte per il giorno.
Lasciò che il vento carezzasse i suoi capelli corvini. Si riempì le iridi delle stelle del cielo, cosicché la nera ossidiana si screziò di bagliori impalpabili, tenui e pulsanti, vibranti di luce come quegli astri lontani. Ad oriente alcuni di loro avevano già cominciato a spegnersi in silenzio, vinti dall’azzurro che, minuto dopo minuto, cedeva il passo ad un rosa sempre più acceso. Non fece alcuna fatica ad immaginare il perché nei secoli passati un’antica civiltà avesse dato il nome di dea a quel fenomeno sempre suggestivo.
Rimase così, assorto, rapito nella contemplazione dell’alba.
Fu quando il rosa si tramutò in un principio di arancio che la udì. Non ebbe bisogno di voltarsi alla sua destra per osservare lo schienale della panchina su cui si era posata, avrebbe riconosciuto quel frullare d’ali in qualsiasi tempo, luogo e momento. Era stato l’ultimo suono prima di sprofondare nel nero oblio dell’incoscienza, steso sul pavimento vecchio e sporco della Stamberga Strillante, privo di forze e quasi del tutto privo di vita. Non avrebbe mai dimenticato quel fruscio, di questo ne era certo.
Fanny pigolò piano per attirare la sua attenzione, lisciandosi poi con il becco alcune lunghe piume della coda che l’atterraggio aveva scomposto.
Quando si voltò verso di lei la sensazione di deja-vu fu talmente prepotente che per poco smise di respirare e spalancò gli occhi. Fu un attimo, ma del tutto sufficiente.
Si rilassò meglio sullo schienale, tornando a guardare fisso davanti a sé. Quando chiuse le palpebre decise di abbandonarsi a quell’insolita immaginazione nata senza preavviso. Gli sembrò d’essere di nuovo assieme ad Albus, in chissà quale momento lontano nel tempo, in uno dei rari attimi di silenzio non interrotti dalle solite bizzarre uscite del vecchio mago o dalla sue consuete battute colme di sarcasmo pungente.
Quando riaprì gli occhi il blu intenso era retrocesso fino ad una buona metà del cielo ed il primo spicchio dorato faceva capolino in lontananza, giusto nello spazio libero tra due villette di quel quartiere residenziale Babbano.
La Fenice era ancora lì, in attesa di un suo cenno. Non v’era alcun dubbio su chi l’avesse inviata. Non aveva alcuna missiva da consegnare, era piuttosto un disperato tentativo di convincimento da parte di chi – ne era sicuro – stava vegliando dall’alto di una torre per attendere il suo ritorno. Il magico uccello piegò il capo di lato, per osservare meglio il suo protetto con i suoi occhi neri e lucenti come piccole perle. L’uomo allungò una mano, carezzandone in punta di dita il purpureo e morbido piumaggio.
Deglutì, assaporando senza rimpianti la punta di amarezza che sentiva spandersi in bocca ed ovunque. La decisione lui l’aveva già presa senza quasi nemmeno rendersene conto. Ed ora che avvertiva un leggero moto di dolore mischiato a nostalgia capì dove non sarebbe andato, comprese quale luogo non sarebbe stato scelto per l’immediato futuro che aveva davanti.
Gli si strinse il cuore al pensiero di Minerva che non lo avrebbe visto arrivare, che sicuramente ne sarebbe stata addolorata e che avrebbe pianto nuove lacrime di scuse.
Ma non era per lei che aveva fatto quella scelta.
Era per lui.
C’erano altri sentieri che aveva la possibilità di percorrere ed in tutta onestà ne sentiva il desiderio, come se l’unico modo per ritrovarsi pienamente fosse quello di allontanarsi da ciò a cui era sempre stato abituato. Senza più legame alcuno, gli sarebbe stato più agevole, anche se certamente non del tutto facile. Il suo passato sarebbe rimasto sempre dietro l’angolo come ombra oscura in attesa di regalargli nuovi e vecchi incubi, come ladro nella notte pronto a rubargli scampoli di quella serenità che forse sarebbe riuscito a tessere nonostante tutto.
Avrebbe fatto nuovi passi, si sarebbe fermato ed avrebbe atteso di analizzare il proprio percorso, poi si sarebbe di nuovo rimesso in cammino. Non s’aspettava di certo un futuro tutto rose, fiori e zuccherini, non era da lui.
Un’ultima carezza alla Fenice e l’uomo si era rimesso in piedi, il sole che lentamente iniziava il proprio viaggio e dava giusto il proprio buongiorno ad un altro viandante che s’apprestava a partire anch’egli. Lui che si era sempre ritenuto creatura della notte, fece una strana smorfia quando s’accorse di essersi per un attimo paragonato all’astro diurno.
Riprese il mantello, ripiegandolo sul braccio ed osservò per un’ultima volta la Fenice che gli aveva donato nuova vita.
«Non verrò, Fanny.» sussurrò senza pentirsi. «Minerva saprà capire, un giorno.»
Chi parve capire subito fu il magico uccello, che emise un flebile pigolio di saluto, dolce e straziante a sentirsi. L’uomo la osservò librarsi in volo e dirigersi verso nord, il sole ormai sorto che si stagliava sul profilo austero e inondava di riflessi dorati i suoi lunghi capelli corvini.
Fu come se assieme alla Fenice avesse preso il volo anche uno stormo di preoccupazioni e riflessioni, come se anche l’ultimo legame fosse stato infranto, dissolto in modo definitivo.
Leggero come non s’era mai sentito, s’incamminò verso l’uscita.
Al di là del muretto di recinzione da una delle villette uscì un’anziana signora con un barboncino al guinzaglio per la sua prima passeggiata mattutina. Donna ed animale procedettero in direzione opposta a quella dell’uomo e non si avvidero di quell’insolito frequentatore del parco che s’era avvicinato alla grande vasca di pesci rossi vicino all’entrata sempre aperta.
L’uomo osservò il proprio riflesso nell’acqua tremolante, similmente a come aveva fatto più volte in quelle poche ore. Un pesciolino poco sotto il pelo dell’acqua guizzò rapido a rifugiarsi al riparo di un’alga sul fondale.
No, non era ancora il vero se stesso colui che lo guardò di rimando, tremolando nella superficie liquida e trasparente. Abbattuto ogni legame gli rimaneva da conoscere di sé la pacifica serenità, solo allora avrebbe concluso l’opera.
E solo allora sarebbe tornato da Minerva per mostrarle il proprio trionfo.
Fissò gli occhi nel sole che brillava senza la concorrenza sleale di alcuna nuvola nel cielo.
Non ebbe più alcuna paura del domani che lo aspettava, più alcun tentennamento dato dal sentirsi continuamente osservato dagli occhi indiscreti degli altri maghi che lo squadravano come fosse sempre sotto esame, come se di lui non ci fosse mai da fidarsi.
Da qualche parte là fuori v’era una parte di mondo che sapeva poco o nulla di lui.
Forse in sud America, la cui foresta rigogliosa da secoli aveva attirato maghi e pozionisti per le loro personali ricerche, ma che al tempo stesso era così vasta da lasciare ampi spazi di solitudine. Poteva permetterselo. Poteva permettersi di prendere quel che gli serviva e partire.
Come una sorta di lunga vacanza.
E non appena si fosse stabilito avrebbe potuto scrivere a Minerva, farle sapere che stava bene.
Che sarebbe stato bene.
Perché la vita che aspettava Severus Piton non gli avrebbe mai più fatto paura.


***

Angolino autrice: ebbene sì, finita.
Senza pretese, come potete vedere e leggere.
Questo è il finale che avevo deciso fin dal principio, mi spiace se qualcuno sarà rimasto deluso, ma tant'è.
Ma non era questa la modalità in cui avrei voluto scrivere, invece una solenne delusione mi ha talmente tanto scombussolata che ho dovuto cercare sfogo nel mettere qualcosa nero su bianco. Ed il capitolo è uscito così, nonostante avessi già deciso a pripri cosa gli avrei fatto o non fatto fare.
Commenti e recensioni sono graditi, anche critiche costruttive riguardo stile e metodo narrativo.
Chiara

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1748197