La storia di Ombra e Eve

di NotFadeAway
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Good times ***
Capitolo 2: *** Dark times ***



Capitolo 1
*** Good times ***


Gli occhi di una persona possono rimanere nel cuore di un’altra per sempre.
Possono fare ecclissare tutto il resto e accecare con la propria aura.
Possono essere molto potenti, e molto pericolosi.
 
La prima volta che vidi Ombra fu nel 1984, era il due luglio.
Ero appena uscita di casa, stavo infilando ancora tutto nella borsa, iniziando ad incamminarmi, quando qualcosa mi cadde. Ne avevo sentito il rumore, così feci marcia indietro e, prima ancora che riuscissi a capire che cosa fosse, Ombra mi fu davanti.
-Le è caduto questo – mi disse, chinandosi per afferrarlo – Tenga –  me lo porse.
In quel momento, quando le nostre mani si ritrovarono separate solo da quel mazzo di chiavi, ci guardammo dritto negli occhi. Ma non fu solo un’occhiata fugace, Ombra si appoggiò al mio sguardo come se lo conoscesse da una vita e rimase così, per molto tempo.
Quando non fui più capace di sostenerlo, afferrai il portachiavi e lo distolsi.
-Ehm… grazie… - dissi, rompendo il silenzio che anche io, colta di sorpresa da quella situazione, avevo contribuito a creare.
Quando parlai lui si scosse e guardò altrove.
-Prego – mormorò, sembrava imbarazzato, ma soprattutto improvvisamente molto triste.
Per un attimo, esitò ad andare via, attimo che mi fece sfuggire il mio nome.
-Io sono Eve – dissi.
Ombra rispose con il suo nome, ma sembrava proiettato con la testa altrove. Se ne andò senza dire altro.
Trascorsi il resto della giornata senza pensare alla stranezza di quell’episodio, e l’immagine di Ombra mi sfrecciò per la testa, solo quella sera, mentre affogavo i miei stress in un bagno caldo. Mi concessi qualche minuto di congetture, poi la mia età intervenne e accantonai tutto da parte.
 
Fu due giorni più tardi che me lo ritrovai di nuovo sul cammino.
 Era all’ingresso del palazzo, dove c’era il mio ufficio e quando mi vide arrivare, si avvicinò alla porta e me la aprì. Lasciò che entrassi, ma non mi seguì. Anche questa volta, non c’era niente sul suo viso, se non uno sguardo profondo agganciato al mio.
Mi chiesi se quella non fosse una coincidenza. Ma data la scarsa probabilità che fosse effettivamente così, iniziai a domandarmi chi fosse e che intenzioni avesse.
 Che cosa poteva volere da una come me? Mi guardai allo specchio, mentre salivo con l’ascensore al settimo piano: avevo i capelli bruni, che non arrivavano alle spalle, e la matita mi era colata sotto gli occhi, accentuando le mie occhiaie, in più il vestito assumeva una forma orrenda schiacciato in quella sedia a rotelle (o forse questa era solo  una scusa per non ammettere che dovevo seriamente cominciare una dieta). Non trovai risposta alle mie domande, perché l’ascensore tintinnò ed io fui sommersa da ben altri problemi.
Quando uscii, lui non c’era, ma comunque fosse, avevo una scadenza imprevista per il giorno seguente e avevo altri pensieri per la testa. Il giorno dopo, però, era di nuovo lì, e come quello prima, mi aprì la porta, mi guardò, ma non mi sorrise. E poi ancora, nuovo giorno, stessa storia, e andò avanti così per due giorni ancora, fino a quando, al terzo, non lo incrociai al bar lì vicino.
Avevo mezz’ora di pausa prima di iniziare una riunione, così ero scesa per prendere qualcosa da bere e me lo ritrovai lì, seduto ad un tavolino, il bicchiere vuoto e la schiena curva, a formare una “C”. Gli passai accanto, e avvicinandomi, notai che aveva gli occhi arrossati. O quello era il risultato di un’intensa seduta di canne con i ragazzi di Finnick Street, oppure aveva pianto.
Senza pensarci troppo mi accostai al suo tavolo, chiamai il suo nome, per attirare la sua attenzione, e questi alzò la testa di scatto, quasi sorpreso di vedermi lì.
-Sono Eve. Ti ricordi? – aggiunsi, mentre attuavo un’accurata manovra di soffocamento della mia voce interiore, che continuava a ripetermi quanto stupida dovevo sembrare in quel momento.
Lui annuì,  senza liberarsi della sua espressione stravolta.
-Tutto bene? – chiesi.
Lui fece un altro cenno di assenso, poi aggiunse un “Sì” molto a bassa voce.
-Perfetto. Allora posso offrirti qualcosa! Ti va un caffè? – proposi, impertinente come di mio solito. Ignorai la sua faccia, che pareva tanto sperare che me ne andassi (se voleva cacciarmi doveva tirare fuori le palle e farlo come si deve!), - Aspettami qui – dissi e andai al banco per ordinare due caffè.
Quando tornai, Ombra era ancora lì e cercai di attaccare bottone.
-Non ti avevo mai visto in giro. Non sei di queste parti, vero? –
-No. Sono arrivato da poco – aveva risposto, vago. Sembrava a disagio, non tanto nei miei confronti, quanto più di se stesso.
Decisi di non essere troppo crudele e di non insistere. Lasciai che se ne andasse, con una scusa accampata, appena ebbe finito il suo caffè.
Probabilmente avevo esagerato, perché Ombra non si fece vivo il giorno seguente, né tutta la settimana che venne. Forse lo vidi solo una volta, per strada, ma poteva benissimo non essere lui.
 
Non lo notai subito, perché, quando entrai in ascensore avevo un blocco di fogli tra le mani,  stavo sfogliando l’ultima relazione che presto avrei dovuto consegnare. Mi prese quasi un colpo, quando qualcuno parlò all’improvviso.
-Eve – aveva detto Ombra, nel tentativo di attirare la mia attenzione. Io alzai la testa e lui cercò come sempre il mio sguardo.
-Oh, sei tu! Ciao! – risposi – Come stai? È da parecchio che non ti vedo! – aggiunsi: odio i silenzi in ascensore.
Ombra mi sembrava leggermente arrossito e dovette schiarirsi la voce, prima di riuscire a rispondermi.
-Sono… sono stato via. Tu come stai? – mi parlava senza mai smettere di guardarmi negli occhi, era come se per lui esistesse solo il mio sguardo.
-Bene. Che fai? Mi segui? -
La domanda schietta, lo mise più a disagio, infatti distolse per la prima volta lo sguardo.
-Io… ehm… no… -
-Se mi dai una prova convincente che non sei un sicario, venuto qui per uccidermi, potrei anche invitarti a cena… -
La mia proposta spiazzò Ombra, che esitando un attimo di troppo, perse l’occasione. L’ascensore,infatti,  raggiunse il piano terra e le porte si aprirono.
-Peccato. Sarà per un’altra volta – dissi, mentre uscivo dal cassone di ferro. Una parte di me (anche abbastanza imponente) sperava che mi seguisse. Ma naturalmente, quell’idiota non lo fece.
 
-Allora, hai riflettuto sulla mia proposta?-
Il mattino dopo, Ombra era di nuovo lì, più al disagio del solito, ma per qualche motivo era venuto.
Che strano uomo, pensai tra me.
-Eve … - iniziò a dire, ma io l’interruppi.
-Lo prenderò come un sì. Ci vediamo stasera da Paul’s. Lo conosci? Sta a Rose Street. Alle otto – feci io, sgommando dentro al palazzo, - Ci conto, eh! –
 
Il ristorante di Rose Street era piuttosto affollato quella sera, ma in un paese piccolo come il mio non c’è mai bisogno di prenotare: Paul, il proprietario, era un vecchio amico di famiglia, che si era largamente arricchito sulla vastità dei nostri stomaci, in quegli ultimi vent’anni; ci avrebbe fatto saltare la fila.
In più era vicino casa, quindi potei arrivare a piedi, nonché in anticipo, ma lui era già lì.
Non indossava vestiti diversi dal solito, aveva una maglietta nera a maniche lunghe, nonostante facesse molto caldo, e un paio di pantaloni, neri anch’essi.
Gli andai incontro e gli sorrisi.
-Ehi, ciao! Allora non mi hai dato buca! –
Lui arrossì e scosse leggermente la testa.
-Be’, entriamo, no? –
-E la fila? –
-Oh, non preoccuparti di quella. E se qualcuno protesta, poi, potrò sempre investirlo – e sottolineai la cosa dando due colpetti ad una delle ruote. Questo gli strappò per la prima volta un sorriso.
 
Ombra non era di molte parole, né di grande appetito: mangiai quasi il doppio di lui, nonostante il mio status attuale fosse di dieta forzata. Questo, però, non significa che mi fece sentire sola.
Innanzitutto, ascoltava molto e lo sapeva fare molto bene, e poi, quando parlava, non diceva mai cose inutili, non ti aspetteresti da lui un commento come “Ahi, scotta!” oppure un “Davvero squisito!”. Doveva essere una persona che, essendo sempre vissuta da sola, aveva imparato a ridurre le chiacchiere al minimo. Era una cosa così lontana da me, che mi affascinava! E poi, c’ero già io a contribuire ai tre quarti dell’inquinamento acustico del locale.
E mi piaceva la sua voce, era grave e sempre molto moderata nel tono, sembrava quasi sussurrasse. Quando parlava, le sue parole lente  e strascicate, si appoggiavano ai timpani come vecchie foglie ingiallite sull’asfalto.
Tra una portata e l’altra, gli raccontai mezza storia della mia vita, gli dissi perché ero su quella sedia a rotelle, che fine avevano fatto i miei genitori e che lavoro facevo.
Uscimmo dal ristorante quasi due ore più tardi, io quasi non avevo più voce, mentre lui non mi aveva raccontato praticamente nulla di sé. Il vino, per giunta, aveva aizzato la mia parlantina, e finito di atterrare la sua.
-La mia casa è di là! – dissi, - Ehi! Tu non mi hai neanche detto dove abiti! –
-Perché non è importante – rispose.
-Su questo ne dobbiamo discutere … -
Lui fece un mezzo sorriso.
-Beh, allora io vado –
-No, aspetta. Ti accompagno. – fece lui, non sembrava convinto al cento per cento delle sue parole, probabilmente si era morso la lingua subito dopo aver pronunciato quella frase, ma non si tirò indietro.
Ci incamminammo. Stavo valutando l’idea di afferrargli la mano, ma mi pareva un po’ un nuovo azzardo, per fortuna fui distolta, quando lui mi chiese:
-Mi dai il tuo numero di telefono? –
Io sorrisi.
-Certo. Ce l’hai un foglio e una penna? –
-Ho una buona memoria – rispose.
Gli dettai il numero, mentre lui ripeteva ogni cifra col labiale e mi guardava dritta negli occhi.
-Io dovrei avere un’agenda nella borsa. Ho una pessima memoria con i numeri, a stento mi ricordo quello di mio padre!  Se me la prendi, mi segno il tuo – dissi, porgendogli una borsa di pelle, nera e celeste.
-Io non ho un telefono, Eve –
-Oh –
E in quell’ “oh” andarono in fumo tutte le mie speranze di prendere il controllo della situazione, sarebbe stato lui a mantenere il coltello dalla parte del manico, decidendo quando vederci e quando telefonare.
-Ma ti chiamo presto – disse, sempre senza interrompere il contatto visivo.
Nel frattempo eravamo arrivati di fronte alla mia casa, eravamo esattamente nel punto dove ci eravamo visti la prima volta.
-Sono stata bene, stasera –
Ombra sorrise.
-Avvicinati, dai – dissi, tirandolo giù. Adesso era davanti a me, con il viso paonazzo – Grazie, davvero – aggiunsi, poi mi protesi verso di lui, chiusi gli occhi e cercai di baciarlo, ma Ombra si scostò.
-Scusami…. – fece lui – Non posso…  non… - si rialzò – Domani… domani ti chiamo… - e in un attimo era già sparito lungo il viale.
Rientrai in casa cercando epiteti per la mia stupidità. Non avevo voluto tenergli la mano, ma avevo cercato di baciarlo?! Di certo non era un donnaiolo che faceva la parte del misterioso per portasi le donne a letto. Ma se non era interessato a me, perché tutte quelle attenzioni? Perché seguirmi?
La mia mente era ora frustrata da altri mille dubbi, poteva anche essere una persona timida, ma se fosse stato un uomo pericoloso? C’erano troppe cose che non sapevo di Ombra.
 
Aveva detto che l’indomani mi avrebbe chiamato, e invece non lo fece. Rimasi delusa e le congetture su di lui triplicarono.
Quel week-end lo passai lontana da tutta quella storia, ero andata a Liverpool a trovare mio padre. Una volta in città, iniziai a guardarmi intorno, pensando che se mi avesse seguito fin lì, era decisamente uno stalker, un sicario o un maniaco. Con mio grande sollievo non c’era.
Ma era a casa al mio ritorno.
Non era Ombra in carne e sangue, ma sotto forma di inchiostro e cellulosa. Era una lettera.
 
Eve,
mi dispiace se l’altra sera sono andato via così. È complicato. Venerdì non sono proprio riuscito a  trovare il tempo per chiamarti, ero via.
Spero che possiamo vederci di nuovo.
Un saluto.
 
Aveva una scrittura sottile e spigolosa, la lettera era scritti su una carta grezza  e non c’era alcun timbro postale, né l’indirizzo del mittente.
Rimisi la lettera nella busta e la andai a riporre da parte. Era dolce, a suo modo; era tipica di Ombra.
Il giorno seguente mi chiamò, ma non mi è mai piaciuto molto parlare per telefono, soprattutto in questi ultimi anni, ho brutti ricordi al riguardo. Sia lui che io fummo di poche parole ed io strinsi al succo: ci demmo un nuovo appuntamento e riagganciammo.
 
-Ti piace viaggiare? – chiesi io.
Eravamo al parco, che eccezionalmente, essendo agosto, era aperto anche fino a sera tardi. C’era un laghetto e un viale puntellato di albero, dove noi passeggiavamo piano; si sentiva solo il rumore delle nostre voci e il motorino elettrico della mia sedia a rotelle. Era passato un mese.
Lo vidi scrollare le spalle.
-Ho perso gusto per molte cose di recente – rispose lui, ma ormai mi ero abituata alle sue sentenze di morte, così non gli diedi peso.
-A me piacerebbe. Sono stata in Irlanda, una volta, e sulla costa settentrionale della Francia, ma non è facile andare lontano con questa – e diedi due schiaffetti al bracciolo della carrozzella. – Tu hai viaggiato molto? –
-No, non sono mai andato oltre il canale d’Irlanda. –
-Dici sul serio? E c’è un posto dove ti piacerebbe andare? – domandai ancora.
-Non lo so. Non m’importa. –
-Mai un pensiero positivo, eh, Ombra? Devo farti ubriacare una di queste sere! – mi feci più vicina, avendo ben cura di non arrotargli un piede – Io vorrei andare a Barcellona, oppure a Parigi. Ma se proprio potessi, volerei dritto in posti lontani, il Perù mi ha sempre affascinato… -  dissi, facendomi prendere dall’entusiasmo – E tu? Proprio da nessuna parte? –
Sembrò pensarci su, stavolta.
-Praga – disse, senza aggiungere altro o dare spiegazioni.
-Praga? Posso chiederti perché? –
-Dicono che sia un posto magico… - rispose, vago, anche se quella non sembrava una risposta “alla Ombra”.
-Hai mai volato? –
-Diciamo di sì… -
-Wow, dev’essere stato eccitante! –
Ancora una volta, scosse semplicemente le spalle, invece di rispondere.
-Basta così. Adesso andiamo a comprare un po’ di alcol! – e detto questo gli afferrai una mano e diedi un’accelerata, trascinandomelo dietro.
-No, dai, Eve. Aspetta! – mi gridò dietro, ma non riuscì a fermarmi, prima che gli si mozzasse il fiato.
-Avanti, siediti. Sei un po’ fuori allenamento, da domani sei convocato davanti casa mia alle sei e mezza, verrai un po’ a correre con me nel parco. – e mentre stavo dicendo questo, lo accompagnai ad una panchina, sotto un albero ricurvo, che formava un ombrello con la sua chioma.
Ci fu un attimo di silenzio, c’erano spesso se non ero io ad intavolare un argomento, ma la cosa mi piaceva, perché nessuno di noi due si sentiva a disagio, quando capitava. Ne approfittai per soffermarmi a guardare il lago, c’era una sorta di fenicottero, o comunque un uccello che si era appollaiato su una sola zampa, sulla riva, circondato da una manciata di anatre e una foresta di piante acquatiche. Era molto suggestivo.  Poi mi accorsi che Ombra mi stava fissando,  ma quando mi volsi verso di lui, questi velocemente distolse lo sguardo altrove. Fu il mio turno di guardarlo sottecchi, mi capitava spesso di indugiare sul suo profilo affilato, il cui colore pallido della pelle veniva interrotto solo dal pizzetto che gli avevo fatto crescere sul mento. Mentre lo osservavo, fui colta da un impeto di affetto nei suoi confronti.
-Sei mai stato innamorato? – la domanda uscì spontanea, come mi fosse scivolata sulla lingua, senza passare per il cervello.
-No – rispose, senza esitare nemmeno un secondo.
-Io forse sì, una volta. Ero solo una ragazzina allora, avevo diciassette anni, e lui era il mio compagno di banco … - dissi, non senza velare di un pizzico di malinconia la voce.
-Siete stati assieme? – mi chiese, senza smettere di fissare il lago.
-Per un mese. Mi lasciò lui, perché non ero il suo tipo – risposi, sbrigativa, ricordando che era tutto dominio del passato ormai – E tu? Quali sono le tue storie più scottanti? – domandai, caricando la voce di un tono malizioso.
-Mi hai guardato bene in faccia? – rispose, facendo leva sulla sua alta concezione di sé.
-Sì, Ombra. E non ha nulla che non va! – la sua espressoone scettica mi fece capire che non l’avevo convinto – E’ sicuramente perché non avevi il pizzetto! – e detto questo mi sporsi verso di lui e gli appoggiai un bacio sulla guancia.
Ombra sobbalzò e arrossì.
-Non mi starai dicendo che non hai mai avuto una ragazza? – era una domanda un po’ cattiva, ma doveva abituarsi anche a quelle.
Per tutta risposta, Ombra diventò ancora più rosso e abbassò lo sguardo. Mi venne da sorridere, sembrava così diverso, ora.
-Comunque non c’è problema… rimediamo subito… - mi feci ancora più vicina e gli appoggiai una mano sulla guancia, questi cercò di svincolare nella direzione opposta, ma con l’altra mano lo ebbi in pugno e lo baciai, ma fu solo un tocco, poi mi separai, volevo che sapesse una cosa.
-Volevo solo dirti che, forse, mi sto innamorando di te –
Lui non mi rispose, né io aspettai che lo facesse, lo baciai di nuovo, stavolta a lungo. Gli passai le mani dietro al collo e tra i capelli, mentre avrei tanto voluto abbracciarlo.
 
Una decina di giorni dopo stavamo passeggiando per quello stesso parco, ma adesso ero riuscita ad ottenere che ci stringessimo le mani.
-In Scozia, almeno lì ci sei stato? –
Annuì.
-Sono… andato a scuola lì – rispose.
-Davvero? Che cosa fantastica! Come mai così lontano? –
Ombra scollò le spalle e borbottò qualcosa tipo “I miei genitori… “.
-In che parte della Scozia? –
-Ehm… nelle Highlands… tra un lago e l’altro… -
-Caspita, è proprio dove speravo di andare tra qualche giorno! – esclamai, entusiasta – Venerdì mi danno le ferie: due settimane. Stavo pensando di andare nella terra dei laghi… - lasciai sapientemente la frase in sospeso, di modo che Ombra potesse intuire le mie intenzioni. Lo guardai: - Ci verresti con me? –
Lui si strinse nelle spalle.
-Va bene .-
-Ehi, frena l’entusiasmo, Ombra. Non vorrai farti salire la pressione – lo punzecchiai e lui si scusò, dicendo che ci teneva sul serio a venire, ma questo l’avevo già capito.
 
Partimmo alla volta delle Highlands il 18 agosto e saremmo tornati dieci giorni più tardi, perché Ombra sarebbe dovuto andare di nuovo a lavorare.
Poiché nessuno di noi due sapeva/poteva guidare, abbracciammo l’idea del treno e una volta giunti a destinazione, avremmo incontrato la nostra guida, che ci avrebbe scortato per il paese.
Il viaggio in treno non fu molto piacevole, Ombra sembrava più di malumore del solito (il che dice già tutto), quindi vennero meno anche le sue tanto amate risposte a monosillabi. Fortunatamente la situazione migliorò nettamente al nostro arrivo, l’aria della Scozia sortì un ottimo effetto su di lui, che riprese ad intrattenere relazioni con altri esseri umani.
Avevamo prenotato il nostro albergo vicino a Loch Katrine: dava proprio sul lago, dal qualche era separato solo da una piccola stradina. Era molto carino, come l’avevamo visto in foto: in legno, con i fiori su ogni balconcino e ampie finestre.
Era quasi sera, ma nessuno di noi aveva voglia di chiudersi già in hotel, così decidemmo di andare a fare un giro prima di cena. Camminammo fino ad arrivare ad uno spiazzo mozzafiato: la riva del lago aveva l’aspetto paludoso, il fondo era basso e la sabbia biancastra si confondeva con la ghiaia e traspariva da sotto l’acqua, macchiata a sprazzi da canne e piante acquatiche. Era una di quegli spettacoli che avrei potuto guardare per sempre, senza mai essere capace di stancarmene o di trovare un difetto. (Okay, non mi fissate così, ci ha già pensato Ombra a farmi notare la stranezza delle mie parole!).
-Ecco vedi, questo è il motivo per cui sono voluta venire qui! – esclamai, letteralmente estasiata dal paesaggio.
-Una palude? – chiese lui, seriamente perplesso.
-Ah, a proposito, domani ti devo presentare ad un mio amico, si chiama Romanticismo. Sto iniziando a considerare l’idea di chiudervi in una stanza assieme per un paio d’ore. – ribattei, sarcastica, prima di lasciarmi rapire di nuovo dal lago. – Vorrei tanto toccare l’acqua – era un pensiero riservato solo a me, ma quando mi accorsi che l’avevo detto a voce alta, era troppo tardi, così aggiunsi – Passami le stampelle –
Ombra guardò prima me, poi le stampelle e infine la mia meta, mentre sulla sua faccia si delineava un’espressione che sembrava voler mettere in serio dubbio le mie capacità mentali.
-E come pensi di arrivare lì? –
-Con due gambe inutili e un paio di stampelle, quelle che se non mi passerai, mi prenderò da sola –risposi, mettendomi sulla difensiva.
-E’ pericoloso e stupido, Eve –
-Va bene, me le prendo da sola, ho capito – la sua osservazione, per quando giusta, stava sottolineando  il mio più grande limite e non potevo sopportarlo. Mi torsi e cercai di afferrare le stampelle, ma Ombra fu più veloce: sia avventò su di me e mi sollevò di peso tra le sua braccia.
Iniziò ad avviarsi verso il lago ed io fallii ogni tentativo di guardarlo accigliata, la mia espressione di disappunto era più che altro una smorfia, che presto si tramutò in una risata.
-Per questa volta te lo concedo, Ombra –
Si fermò solo quando la ghiaia lasciava il posto ad una sabbia così fine che vi sarebbe sprofondata anche una zanzara. Ma quando si chinò, per cercare di farmi toccare il pelo dell’acqua, si sbilanciò e perse l’equilibrio, facendo finire entrambi con il didietro nel lago. Ci fu un attimo di silenzio, in cui ci riprendemmo dalla botta e ci assicurammo l’uno delle condizioni dell’altro, poi io scoppiai  un’altra volta a ridere e Ombra, incredibilmente, mi seguì. Anche la sua risata era silenziosa e discreta, non era affatto la droga contagiosa che fa scoppiare a ridere chiunque nel raggio di un miglio, ma c’era comunque qualcosa di affascinante nel vederlo ridere così.
-E tu che dicevi che le stampelle erano una cattiva idea! – lo provocai, strizzandomi le punte dei capelli – Sono tutta, completamente, inzuppata! –
-Perché come pensi che saresti finita con quelle? Però, forse era davvero un’idea migliore, almeno io sarei rimasto asciutto! – scherzò. Ombra stava scherzando!
Lo schizzai – Grazie di avermi trovato il lato positivo della faccenda! –
L’acqua era quasi calda, come il mare di sera, o almeno così volevano farci credere le nostre membra tremanti, pur di rimanere ancora un po’ così. Strisciando sulla ghiaia, riuscii a raggiungere Ombra, gli presi il un braccio e me lo feci passare attorno alle spalle, poi mi appoggiai al suo petto.
Il sole era già tramontato, ma c’era ancora tanta luce che si era lasciato dietro; il cielo grigio e bianco era ancora quasi del tutto irradiato. L’aria era umida e senza vento, c’era quel tipico odore di lago, mescolato ad un sapore di pioggia e al profumo caratteristico di Ombra.
 
Quando stavano per calare le tenebre, infreddoliti e zuppi d’acqua, prendemmo finalmente la saggia decisione di incamminarci verso l’alloggio, che per fortuna, non era lontano.
Appena arrivammo, una volta attuata la manovra di defilamento dell’ispezione della  portinaia, ci sfilammo i vestiti bagnati, prendendone di nuovi, ed io filai in bagno, per asciugarmi i capelli, prima di presentarmi a cena. Avevo lasciato la porta aperta, e mentre mi spazzolavo, avevo discusso  con Ombra dei posti che intendevamo visitare per primi, l’indomani. Poi io avevo acceso l’asciugacapelli e mi ero dovuta accontentare di osservarlo nel riflesso.
Lui non se n’era accorto, si era seduto sul letto e mi dava le spalle. Non riuscivo a capire esattamente cosa stesse facendo, ma vidi che stava armeggiando con una fasciatura. Poi, quand’ebbe finito, andò a sedersi su una delle sedie, a guardare fuori dalla finestra. Era una cosa che Ombra faceva molto spesso.
Il rumore del phon riempiva la stanza e le dava una dimensione di protezione e intimità che faceva sembrare che stessimo a casa. Sentivo i brividi di freddo scivolare giù la mia spina dorsale e abbandonarmi, mentre la mia faccia si faceva paonazza per il getto di calore. Era bello guardare Ombra con lo sfondo freddo della finestra sul lago: fuori aveva iniziato a piovere ed era calata la notte, dentro c’era una luce soffusa che diventava calda e accogliente, grazie al colore rosso e arancione della tappezzeria.
Poi Ombra voltò la testa e finalmente si accorse di me nello specchio, e mi sorrise con gli occhi, ed era  una cosa così rara vedere i suoi occhi illuminarsi…
Distolse subito lo sguardo, ed io senza indugiare, abbandonai l’asciugacapelli e afferrai le stampelle, mi sistemai sulle mie gambe malferme e uscii dal bagno. L’attenzione di Ombra fu catturata da una donna claudicante che si muoveva nella sua direzione. Gli sorrisi subito, perché un sorriso ammaliante era l’unica cosa eccitante che gli potessi offrire. Zoppicando, in un contorcersi di spalle e braccia, arrivai davanti a lui; mi guardai dall’alto in basso e mi strinsi nelle spalli, con un’espressione un po’ dispiaciuta, poi, molto cautamente, mi misi a cavalcioni sulle sue gambe e abbandonai le stampelle.
Ombra ovviamente arrossì e s’irrigidì. Iniziai a baciarlo, prima sulle labbra, poi feci scendere le mani sul suo petto e presi a baciargli il collo, mentre lo sentivo trattenere il respiro ed il suo odore m’inebriava. Feci saltare via un bottone e poi un altro, le mie mani passarono sulla sua pelle nuda.
E a quel punto mi fermò.
-Eve, no. Basta – mi disse, con la voce rauca.
Io mi arrestai a metà di un bacio e stavolta anche le mie guance si colorarono di rosso.  Tutta la mia sicurezza salì a galla come una bolla e scoppiò.
-Scusami, Ombra. Scusami – dissi, riallacciandogli la maglietta, litigando con le asole per la fretta - …è che io credevo… no, ma hai ragione… una come me… vado… vado a finirmi di preparare per la cena … - avevo il viso in fiamme, le orecchie avrebbero potuto prendermi fuoco, volevo togliermi il più presto possibile da dosso a lui, ma le stampelle erano a terra, irraggiungibili e mi sentii ancora più stupida, mentre invano cercavo di afferrarle.
Mi aveva rifiutato. Di nuovo. Come spesso rifiutava i miei baci, e non era mai lui a cercarli, ero sempre io a prendere l’iniziativa. Mi domandai se non avessi forzato troppo le cose, portandolo al punto in cui si era sentito costretto di intraprendere quella relazione.
Le cose che mi frullarono per la testa in quei pochi secondi e il suo silenzio mi stavano facendo impazzire, e non riuscivo a scendere! Mi chinai quanto più potei, ma, proprio quando persi l’equilibrio, lui scattò e mi afferrò. Usò quella stessa presa per farmi fermare un minuto a guardarlo. Ebbi solo un attimo di tempo, prima che lui mi baciasse. Lo fece  con un impeto incredibile, travolgendomi di nuovo nel suo odore.
Questa volta le mie mani si mossero veloci a togliergli la maglia, lasciando scoperto il suo petto pallido e villoso e un braccio completamente avvolto in delle bende. A quel punto fui io a fermarmi e lo guardai, spaventata.
-Che cosa ti sei fatto? –
Lui scosse le spalle – Spegniamo la luce – rispose, evitando la domanda. E detto questo mi prese in braccio e, fatto scendere il buio nella stanza, mi stese sul letto. Lo intravidi nella penombra fissare, imbarazzato, la scena e poi seguirmi tra le coperte. Mi sfilai di dosso i vestiti, mentre lui quasi non osava toccarmi, poi lo tirai a me, gli slacciai i pantaloni e ripresi a baciarlo.
Finalmente sentii il tocco delle sua mani sul mio corpo, mentre i suoi capelli mi solleticavano la faccia e la garza ruvida mi graffiava la pelle. Vedevo alla luce sottile che proveniva da fuori suoi lineamenti così normali, così poco perfetti, ondeggiare tra le lenzuola, gli occhi chiusi, che non mi guardavano, e il cuore che pulsava forte contro il mio petto.
 
Il mattino dopo ci svegliammo affamatissimi e cominciammo le nostre escursioni. Dopo quella notte, tra noi ci fu tutt’un’altra complicità. Sentivo il mio battito accelerare appena mi spuntava davanti e provavo l’istinto di sorridere appena gli ci stringevamo la mano, mi sembrava di essere tornata ad avere quattordici anni. Ombra, ovviamente, non mostrava nessuno di questi sintomi, ma prese a cercarmi più spesso e, se lo abbracciavo, si stringeva a me per molto tempo, s’infilava nell’incavo del mio collo e lo potevo sentire respirare contro la mia pelle. Era quello il suo modo per esprimere ciò che provava per me.
Per dieci giorni girammo per ogni angolo più remoto della Scozia, nessuno di noi due amava particolarmente le grandi città, così non fu difficile trovare un accordo sulle mete. C’erano molte foreste, riserve naturali e cascate lì, nonché più laghi che terra emersa, e noi ci spingevamo ogni volta più a Nord.
L’ultimo giorno fu il turno  dell’isola. Avevamo prenotato un traghetto per una delle isole più sperdute e spopolate del paese e decidemmo di inerpicarci lì, nonostante le avvertenze di Dave, la nostra guida, che ci aveva sconsigliato di andare, poiché era prevista una forte tempesta nel pomeriggio-sera.
L’isola era davvero piccola come ci era stata descritta, quindi era visitabile benissimo anche a piedi e la giornata era ancora luminosa e calda.
Quando sbarcammo nel porticciolo, ci fu subito chiaro che quello non era un posto per turisti ed io ne fui entusiasta (inutile dire lo stesso di Ombra, per lui “poche persone” equivale, più che altro, ad una grazia calata dal cielo). Non c’erano assordanti insegne che indicavano questa o quella taverna, né tutti i negozi di souvenirs che ci avevano perseguitato lungo il viaggio. Le uniche barche ormeggiate erano quelle dei pescatori locali, alle quali si aggiungevano solo un paio di traghetti sgangherati che facevano la tratta con la terra ferma.
-Ombra, ho avuto un’idea! – esclamai, non appena la mia scansione del luogo ebbe successo.
Lui mi guardò con un’occhiata interrogativa (non dirò “preoccupata”, perché suona così male ) ed io, per tutta risposta, gli indicai un cartello a forma di freccia.
-C’è un percorso ciclabile attorno all’isola! – mi guardò storta – Potresti affittare una bicicletta, così ci facciamo il giro – e qui lessi – “più mozzafiato di sempre!”, non particolarmente sagacie come slogan, ma efficacie –
-C’è un problema, Eve – disse, mentre approdavamo dal molo di legno sulla banchina di cemento – Io non so andare in bicicletta –
-Intendi dire che sei una schiappa o che non ci hai mai provato? – chiesi io, sorpresa e divertita allo stesso tempo.
-Ci sarò andato un paio di volte quando avevo dieci anni … ma non ho mai imparato… -
Io scoppiai a ridere.
-Non sai guidare! Non sai andare in bicicletta! Penso che a questo punto debba abbandonare le mie aspettative sugli sci! – lo schernii e qui lui mise in atto la numero una della top ten delle sue risposte preferite: scrollò le spalle. – Va bene, non m’interessa. Oggi è la volta buona che impari! –
Il noleggio di vecchie biciclette scrostate dalla salsedine era poco fuori dal paese, il che equivaleva a dire a due minuti di cammino, e fortunatamente riuscii a trascinarvi Ombra senza troppi battibecchi. Feci irruzione nel negozio, prima che potesse dissuadermi, e affittai una bicicletta color pervinca (che rendeva il tutto più… gradevole agli occhi) e la consegnai ad un Ombra molto riluttante.
-E beh? Non Sali? –
-E’ rosa – sottolineo, con un cipiglio nero sul viso.
-No, è pervinca. Adesso dammi lo zaino e sali, non fare storie, Ombra. –
Da qui comincio il mio (crudele) divertimento. Mi misi la sua sacca sulle gambe e lo guardai mentre si arrovellava per riuscire a raggiungere il sellino, solo dopo cinque spassosi minuti, i miei sbuffi di risate lo insospettirono e si risolse ad abbassarlo. Riuscì finalmente a mettersi in sella.
-E adesso? –
-L’hai voluta la bicicletta? E adesso pedala! – fu più forte di me, non potei non rispondergli così.
-Più tardi faremo una ripassatina su come coniugare i verbi e sulla natura dei pronomi personali, Eve – minacciò, accigliato.
Da quel momento in poi, i tentativi di fare più di quattro centimetri in equilibrio si susseguirono e Ombra iniziò a salutare più volte il terreno con la faccia, nonché a dare sfoggio del suo più raffinato vocabolario di imprecazioni.
Due ore e mezzadopo  tornammo a destinazione, con lui che si era risolto a pedalare appoggiandosi alla mia carrozzella.
-Però è stato bello. Era veramente fantastico il panorama! – dissi, dopo che avemmo riconsegnato la bici (ormai più color fango che pervinca).
-Io al massimo ti posso descrivere quanto era stato bello l’asfalto! – borbottò Ombra.
Per distrarlo dal disastroso tentativo della pista ciclabile, andammo a cercare qualcosa da mangiare e passammo il pomeriggio tra i vicoli, nel microscopico museo pseudo-vichingo e, sul fare della sera, tornammo al molo. Ma, quando ci riaffacciamo sul mare, fummo investiti da un vento costante e carico di aria salmastra: la guida, ovviamente, aveva ragione, tutti i collegamenti erano stati interrotti per la notte.
Rimanemmo lì per un po’, Ombra mi aveva preso in braccio ed ora era seduto con i piedi penzoloni sul molo, con me tra le gambe, tenendomi stretta in vita.
-Non mi hai mai detto che lavoro fai! – feci io, come colta da un’illuminazione.
Non potevo vederne la faccia, ma, a giudicare dal tempo che impiegò a rispondermi, capii di aver toccato un punto delicato.
-Non posso dirtelo, Eve – asserì, in tono serio.
-Perché? –
-E’ complicato. Un giorno ti dirò tutto  rispose.
Si avvicinò col viso al mio, eravamo così vicini che i nostri occhi vedevano le stesse cose.
Mi lasciai trasportare dalla brezza marina e dall’eterna vista del mare, sperando che il soffio rumoroso del vento smorzasse i miei pensieri: tutti quei segreti, tutti le cose che non sapevo di Ombra, continuavano a frullare nella mia testa.
-Fa freddo. – dissi a un certo punto, non riuscendo più a sostenere la cosa – Vieni con me, ho un’idea! –
Lui sbarrò gli occhi – Un’altra? – mugolò.
-Avanti, questa ti piacerà! – tagliai corto.
Ovviamente mentii.
La mia idea, che era indiscutibilmente fantastica, non piacque per niente ad Ombra. In fondo avevo solo trascinato la persona più misantropa che conoscessi in un locale affollato di corpi sudaticci e schiacciati l’uno contro l’altro, altresì noto con il sostantivo di “discoteca”.
Una volta entrati, il rumore assordante ci avvolse e già vedevo la faccia di Ombra caricarsi d’odio, così me lo tirai verso il bar e prendemmo qualcosa da bere, mentre in tutti i modi cercavo di trascinarlo in pista.
-Non credo che un’idea sia mai stata tanto lontana dal passarmi per la testa. Non grazie, Eve – adesso non pronunciava più il mio nome leggendo la “e” finale come “i”, diceva soltanto “Ev”.
-Andiamo assieme allora! Avanti, perché sei così restio? È divertente!-
Lui lanciò uno sguardo obliquo a i tizi che si agitavano, braccia e gambe, tra le luci psichedeliche e il fumo artificiale.
-Abbiamo due concetti diversi di “divertente” -
E in quel momento partì un pezzo di Stevie Wonder, dandomi il pretesto finale.
-Oh, adoro questa canzone! Ti prego… solo questa! – e misi in pratica le tre S del codice internazionale donne-figlie-fidanzate: Sguardo, Sorriso, Sopracciglia.
Il risultato è assicurato. Infatti…
-E va bene. Solo una. –
Ci lanciammo in pista, o meglio io feci una sgommata e Ombra credo abbia raggiunto la velocità minima consentita per essere dotati della definizione “in movimento”. Non che si possa dire che Ombra ballò, più che altro occupò una parte della pista da ballo con la propria massa corporea, ma almeno ero riuscita a portarlo fin lì.
Il pezzo si estinse e il falsetto di Stevie Wonder lasciò posto ad una fisarmonica ed un piano. Era partito il lento.

The screen door slams
Mary’s dress waves
like a vision she dances across the porch
as the radio plays

 
Gli presi una mano e poi l’altra ed iniziammo ad ondeggiare sulle note di Thunder Road.

Roy Orbison singing for the lonely
hey that’s me and I want you only
don’t turn me home again

I just can’t face myself alone again
 
Ombra si faceva trasportare dai miei movimenti, quasi senza opporre resistenza. Lo vidi molto concentrato sulla canzone.
 
don’t run back inside
darling you know just what I’m here for
so you’re scared and you’re thinking
that maybe we ain’t that young anymore
show a little faith
there’s magic in the night
 
Dopo un po’, mi lanciò un’occhiata, si chinò e mi prese in braccio. Abbandonammo la sedia a rotelle al lato della pista e danzammo sulla voce ruvida di Springsteen, vicini, mentre lui cantava le parole che Ombra sembrava dirmi ogni giorno e che per me erano le più preziose:

you ain’t a beauty
but hey you’re alright
and that’s alright with me
 
Presto la gente vicina iniziò a notare la scena e a stringersi a cerchio attorno a noi, come fossimo artisti di strada. Ombra aveva gli occhi chiusi e non lo notò, era completamente perso nella dimensione della musica.
 
You can hide `neath your covers
and study your pain
make crosses from your lovers
throw roses in the rain
waste your summer praying in vain
for a savior to rise from these streets

E, senza pensare che alter venti persone ci stavano fissando, lo baciai. Lui non uscì dalla sua condizione ascetica, fui più che altro io ad entrare nella sua, e a dimenticarmi del resto.
 
Well now I’m no hero, that’s understood
all the redemption I can offer, girl
is beneath this dirty hood
with a chance to make it good somehow
 
Quando la canzone finì, fortunatamente la folla si era diradata e Ombra non si accorse di nulla. Accettai finalmente di uscire di lì.
-Dove andiamo adesso? – mi chiese, la porta della discoteca si era richiusa alle nostre spalle, risucchiando il rumore all’interno.
-Vuoi davvero che tiri fuori un’altra delle mie idee? Ti conviene? –
-Tanto peggio della mia non può essere, Eve –
-Che hai in mente? –
Ombra sembrò ponderare per un attimo l’ipotesi di stare zitto e lasciare perdere, ma poi disse: - E se andassimo in spiaggia? –
-Aah, hai colto il mio punto debole, la spiaggia di notte. Grandioso! Facciamo un falò! Peccato solo che ci manca la chitarra –
In breve tempo raggiungemmo la spiaggia più vicina e, raccattata un po’ di legna, Ombra accese il fuoco; quindi mi distese sulla sabbia fredda e pallida, accanto a lui.
Il mare e il cielo, davanti a noi, si confondevano e mescolavano sull’orizzonte, era così buio lì, che era difficile capire se si stesse con gli occhi aperti oppure chiusi.
-Perché mi nascondi tutte queste cose, Ombra? – gli chiesi, sussurrando per non spezzare la quiete di quell’oasi naturale.
Lui assunse un’espressione sinceramente contrita.
-Eve, devi scusarmi, ma non può essere altrimenti. Un giorno capirai –
-Sempre con queste frasi vaghe… perché tanto mistero? Sei una spia, un latitante , un evaso? – dissi, un po’ scherzando, un po’ sul serio.
Lui rise.
-No, non ho mai avuto il piacere… -
-E che cosa nascondi sotto quella fasciatura? –
-Quale? –
-Non ci provare – gli presi la mano sinistra e gli alzai la manica, a scoprire l’avambraccio – Questa! –
-E’ solo… un brutto ricordo… meglio che resti così… -
-Cos’è? Un tatuaggio di cui ti sei pentito? –
-Sì… è così… - aveva un tono quasi affranto, quando disse tali parole.
-Voglio vedere – e, scacciandogli le mani, gli svolsi la garza: nella parte più interna dell’avambraccio aveva tatuato un teschio e un serpente, anche se si vedevano appena, non erano certamente realizzati in inchiostro.
-Ma è…? –
-Sì, è un marchio a fuoco – disse, tirandosi giù la manica più in fretta che poté, sembrava che quella vista gli fosse repellente.
-Posso chiederti perché l’hai fatto? –
-Tutti sono stupidi da giovani. C’è chi lo è un po’ di più – fu la sua risposta.
Decisi di non insistere, perché l’argomento aveva fatto scendere le tenebre sul suo viso. Così gli dissi:- Aiutami a togliermi le scarpe –
Se lui la trovò una proposta strana, non lo diede a vedere. Lo fece e mi diede una mano anche a sfilarmi i calzini, quindi mi afferrai le caviglie e ,con un grande sforzo, le sollevai per aria.
-Questo, invece, è il mio –
Quando avevo diciannove anni, mi ero fatta tatuare sotto le piante dei piedi due piccole orme di bambino con la scritta “I can – walk”. –Quando un giorno potrò camminare, lo farò scalza per tutto il paese e lo mostrerò a chiunque incontrerò per la via! – era uno dei miei progetti folli, ne avevo tanti per quel “dopo”.
-C’è qualche possibilità che tu possa guarire? – fece lui, ritornando a sorridere.
-Magari non in questa vita, ma in un’altra, perché no? –
-Capisco –
Un brivido mi fulminò la schiena.
-Senti freddo? – chiese subito lui.
Anche se il vento era calato, l’aria era umida e gelida. Riavvivò il fuoco e si fece più vicino, era dietro di me e riuscivo a vedere la sua ombra danzare sulla sabbia. Stava giocherellando con le punte dei miei capelli.
-Ombra – lo chiamai, lui chinò la testa in avanti, oltre le mie spalle. – Quanto starai via? –
-Devo solo sistemare un paio di cose. Non più di tre giorni –
-Tre giorni… - ripetei – Si può fare! Però non perdere tempo solo per stare alla larga da me –
-Non avevo intenzione di farlo –
Mi contorsi per incontrare per un attimo il suo sguardo, poi mi abbandonai di nuovo all’immensità del mare.
-Credo di essermi innamorata di te –
Lui rimase paralizzato, lasciò perdere i miei capelli e si alzò. Lo vidi sparire dalla pozza di luce lasciata dal fuoco, verso il bagnasciuga, ne distinguevo solo i contorni, confusi, nell’oscurità. Quando tornò da me, stava sorridendo.
-Anche io – disse.

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Capitolo 2
*** Dark times ***


Erano passati due anni dal nostro primo incontro e parecchie cose erano cambiate: adesso io ed Ombra vivevamo assieme, avevamo comprato una nuova casa, dopo esserci trasferiti più a Nord, in Scozia. Adesso avevamo un bambino, aveva pochi mesi e si chiamava Jules. Adesso io non ero più su una sedia a rotelle e Ombra era un mago.
Non potrò mai dimenticare la volta in cui mi rivelò la verità su di lui, fu la notte più folle della mia vita.
 
Era il maggio dell’85 e noi avevamo scoperto da pochi giorni di aspettare un bambino. Io ero felice, e lo era anche Ombra, ma quella sera avevo iniziato a rimuginare su una serie di cose e non riuscivo a prendere sonno.
Eravamo stesi tra le coperte del nostro letto ( abitavamo ancora a casa mia, allora), lui stava leggendo un libro scritto in strani caratteri e, al posto di sfogliare la mia solita rivista, io guardavo il soffitto su cui si proiettavano tutte le ombre della stanza.
-Ombra. C’è una cosa che non ti ho mai detto – esordii. Il cuore iniziò a pompare più forte il sangue.
Lui chiuse il libro, lasciando un dito tra le pagine, per tenere il segno, e si girò a guardarmi.
-Che cosa? –
-Un tempo, prima che ti conoscessi, io ero cieca – dissi, senza avere il coraggio di guardarlo, - Poi, quattro anni fa, il 5 novembre del 1981, mi è arrivata una chiamata, dall’ospedale: c’era un donatore. Fui portata lì d’urgenza e il giorno dopo ebbi il trapianto. Il mio corpo accettò i nuovi organi e iniziai a vedere. – continuai, senza dargli la possibilità di potermi interrompere – Non te l’ho mai detto perché prima di quel 5 novembre è stato il periodo più buio della mia vita, in tutti i sensi che si possono attribuire alla parola “buio”. Non ero mai riuscita ad accettare di essere cieca, nonostante alla fine mi fossi rassegnata a essere costretta su quella cosa – indicai la sedia a rotelle.
Sentii un frusciare i lenzuola: era Ombra che si era fatto più vicino.
-Non importa, Eve. Non più . – mormorò.
-Non capisci? Io ero cieca dalla nascita. E se nostro figlio dovesse essere come me? –e senza accorgermene scoppiai a piangere, sentivo tutto il peso del senso di colpa: il mio egoismo mi avrebbe portato a far nascere un’altra creatura condannata a quella vita, come me. – Io non voglio questo per lui!  Non voglio che sia costretto su una carrozzella tutta la vita, come la madre! Non voglio che, ad accoglierlo in questo mondo, ci sia il buio! –
Le lacrime mi scivolavano giù tra gli occhi e mi bagnavano i capelli, sentii la sua mano ruvida intervenire e arrestarne una.
-E’ giunto il momento che anche io ti dica una cosa, Eve – c’era qualcosa di solenne in quelle parole – La verità su di me –
Tutta la mia attenzione fu catturata dalle sue parole. I misteri su di lui erano solo aumentati negli anni.
-Non sarà facile da accettare, Eve. Probabilmente crederai che sono diventato pazzo o che ti sto prendendo in giro, ma ti posso assicurare che nessuna delle parole che ti dirò si discosterà dalla realtà – aggiunse, toccandomi una mano tra le lenzuola.
-Falla finita. Voglio sapere! – dissi, sbranata dalla curiosità.
-Va bene – fece lui – Sono un mago – e detto questo mi guardo, grave.
La mia reazione non fu difficile da interpretare: molto semplicemente gli risi in faccia.
-Eve, per favore, sono serio –
Io cercai di arrestare il mio attacco di risa, con cui stavo sfogando tutti i miei nervi.
-Intendi … intendi che sei un prestigiatore? –
-No, un mago – e senza che neanche finisse di parlare, fece spuntare una sorta di bacchetta magica da non so dove e la luce si accese.
La sorpresa, per un attimo m’impedì di continuare a ridere, poi mi resi conto che doveva essere solo un trucco e glielo dissi.
-Ah sì? E questo … - si alzò in piedi sul letto, fece un mezzo giro su se stesso e… scomparve. Riapparve due metri più in là, vicino alla porta - … è un trucco? –
Io mi ero portata le mani alla bocca e avevo gridato per lo spavento. Lo guardai preoccupata che si inerpicava di nuovo sul nostro letto.
-Oh mio dio! Non è possibile. Ci deve essere sotto qualcosa! – stavo farfugliando.
-Perché i Babbani sono sempre così restii a credere alla magia? – rispose lui, anche se non afferrai il senso di tutte le sue parole.
Ci volle un’ora perché riuscisse a convincermi che quello che diceva era vero: Ombra non era un prestigiatore, era proprio un mago! Mi mostrò che poteva muovere, duplicare e far scomparire gli oggetti senza neanche toccarli, mi diede la prova che poteva leggermi la mente (anche se quando definii così la sua abilità mi fece uno sproloquio di mezz’ora sul perché non si doveva parlare di “lettura della mente”. Ma ovviamente avevo ragione io); mi fece vedere che poteva creare uno scudo, fare esplodere qualcosa e riaggiustarlo all’istante, e mi mostrò persino alcuni incantesimi inventati da lui stesso.
Era notte fonda ormai, e noi eravamo ancora tutti presi da quella situazione, io avevo colto il lato sensazionale della cosa e continuavo a chiedergli cosa potesse o non potesse fare. Quando ebbi esaurito le richieste, lui prese a spiegarmi dove lavorava e mi raccontò ogni cosa del mondo magico che viveva proprio sotto gli occhi di tutti, ma che nessun Babbano (le persone senza poteri magici le chiamava così) mai notava.
Alla fine sentimmo l’orologio chiamare le quattro del mattino.
-Cavolo, è tardissimo! E chi dorme ora? – esclamai io.
-Adesso te lo do io il vero motivo per non dormire, Eve – rispose lui.
Attimo di pausa.
– Io posso guarirti –
Sentii il cuore mancarmi un colpo e tutta l’aria, all’improvviso , uscirmi dai polmoni. Mi girai lentamente verso di lui, con i battiti così profondi e forti che facevano eco in tutta la stanza.
-Che vuoi dire?-
-Che quella – e indicò la sedia a rotelle, – presto  non ti servirà più. – e mi fece il sorriso più bello che mi avesse mai fatto prima.
Le lacrime tornarono a irrorare i solchi che avevano lasciato prima, e mentre piangevo, cercai il suo abbraccio.
Si dice spesso che un uomo ti può stravolgere la vita, nel mio caso non c’era niente di più vero.
 
Aveva passato gli ultimi mesi a studiare il mio caso e alla fine aveva imparato come trattarlo.
Il mattino seguente, fece apparire nella stanza una sorta di barella, mi fece spogliare e mi stese su di essa. Poi prese una boccetta di vetro, mi versò qualche goccia sulla lingua e mi bagnò i polsi. Non era un’operazione vera e propria, ma era lunga e dolorosa lo stesso, quella pozione (l’aveva chiamata così) mi avrebbe conciliato un sonno profondo e assicurato l’insensibilità.
Non so quanto tempo dopo, mi risvegliai; avevo una nausea fortissima, la testa che mi pulsava dolorosamente e uno strano sapore pungente sulla lingua. Ombra era appoggiato con le mani al lettino da un lato e l’altro delle mie spalle e mi fissava: aveva occhiaie così marchiate, che sembrava avere gli occhi pesti, ma per il resto era bellissimo come sempre.
-Ben svegliata, Eve. Come ti senti? – mi chiese.
Io per tutta risposta feci leva su un gomito e vomitai per terra. Ombra mi tenne i capelli lontano dal viso, poi ripulì tutto agitando la sua bacchetta e mi porse un cucchiaio.
-Tieni, questo ti farà stare meglio  - disse – Allora, non mi chiedi com’è andata? –
Io tirai fuori una voce flebile e tremolante.
-Com’è andata? –
-Guarda tu stessa – mi sorrise.
Io mi fissai i piedi e, come avevo tentato centinaia di volte, mi concentrai sulle dita e provai a muoverle: stavolta, senza alcuno sforzo, le mie dieci dita obbedirono al mio comando, salutandomi da laggiù.
-Oh mio dio! –
-Avanti, puoi fare di meglio, Eve. Andiamo – fece lui e mi porse il braccio e una vestaglia.
Io lo afferrai e mi coprii e, prima una gamba, poi l’altra, le spostai giù dalla barella e sfiorai il pavimento con le punte: sentii il tocco ruvido della moquette. Strinsi le labbra e gli occhi mi brillarono per l’emozione.
-Piano adesso – disse Ombra.
Al suo tre, mi drizzai sulle mie gambe e, dopo un primo attimo di sorpresa in cui mi cedettero, assieme a lui mossi i miei primi passi.
Erano due giorni che Ombra non chiudeva occhio, perché tanto era durato l’intervento, ma non si tirò indietro e trascorse tutta la mattinata a insegnarmi a camminare, e poi, non contento, accettò di fare l’amore con me, che finalmente potevo muovermi, una cosa sola, assieme a lui.
 
Decidemmo per questo di cambiare casa, tutti quegli appoggi, i mobili su misura e i sostegni non volevo vederli mai più, erano la memoria di un passato che ora apparteneva solo alla morte.
 
Quel giorno, invece, quel maledetto giorno, iniziò come tutti gli altri.
Era l’alba e la luce filtrava a malapena tra le veneziane, disegnando un chiaroscuro di strisce sul nostro letto. Jules non ci concesse nemmeno quella mattina il beneficio di arrivare alle sette, così alle cinque Ombra era già filato verso la culla.
-Ci penso io – aveva detto, assonnato.
Io avevo mormorato un flebile “grazie”, prima di risprofondare nel sonno più profondo. Quando la sveglia suonò, due ore più tardi, schioccando la lingua nella bocca secca, mi alzai e scesi finalmente in cucina, per dare il cambio ad Ombra.
Li trovai vicino al tavolo, Ombra era seduto e teneva Jules per una mano, che, tutto fiero, era riuscito a mettersi in piedi e a sedersi nel portafrutta.
-Buongiorno – esordii, annunciando la mia presenza.
-Hai visto, Jules, è arrivata mamma! – esclamò Ombra, voltandosi nella mia direzione.
-Amore, vuoi venire da me? – dissi, porgendogli le braccia, ma il piccolo fedifrago fece un mugolio di protesta e si allungò verso il padre.
-Ah, è così? Va bene, vorrà dire che dovrò prepararla io la colazione –
Misi a fare il caffè e a riscaldare il latte, poi iniziai a darmi da fare per ripristinare un senso di ordine (almeno apparente) nella stanza.
-Lascia, faccio io – fece Ombra e con solo un lieve piegamento del polso (e la sua maledetta bacchetta), ripose tutte le costruzioni di Jules nella scatola.
-Lo sai che ti odio per questo, vero? – scherzai io, guardandolo in cagnesco. – Che cosa fai oggi? –
-E’ l’ultimo giorno di esami, non dovrei fare tardi – disse, mentre Jules faceva  spiattellare con soddisfazione una prugna sul tavolo.
-Finalmente, non vedevo l’ora! Tra poco si parte! – feci io, andandogli a schioccare un bacio sulla bocca, mentre la barba mi pungeva piacevolmente la faccia.
Saremmo andati in Francia, in Costa Azzurra per la precisione, per prendere un po’ di sole che fosse degno di questo nome. Ma quello sarebbe stato solo il primo di una serie di viaggi: non appena Jules si fosse fatto più grande, saremmo volati oltre oceano e avremmo visitato ogni continente.
-Amore, perché non vieni da mamma, che ti dà il lattuccio! – dissi, poco più tardi, agitando un biberon. Jules, quel ruffiano, si lanciò verso di me, stavolta, e lasciò libero il padre di prepararsi. Questi scese di nuovo di sotto dieci minuti più tardi, in uno di quei suoi strani vestiti tutti tunica-e- mantello e sparì, come tutte le mattine, in un groviglio di stoffa nera.
Scoprii tutto per puro caso, molte ore più tardi: avevo, clandestinamente, portato Jules a giocare nello studio del padre e, in un attimo di distrazione, lui per poco non si era tirato un cassetto in testa, lasciando che si sfracellasse per terra. Allarmata per Jules, non pensai a mettere a posto, ma me lo portai alla luce per assicurarmi che stesse bene. Solo nel pomeriggio, quando il piccolo si era appisolato nella sua culla, tornai nella stanza per occultare il danno prima che Ombra tornasse.
Il cassetto che Jules aveva fatto cadere aveva rovesciato fogli dappertutto, era urtato su uno spigolo e si era distrutto, rivelando un doppio fondo. Mi chinai per rassettare e notai che le foto che sparse per il tappeto ritraevano tutte la stessa donna.
Lessi un nome e tutto fu così dolorosamente chiaro.
“Lily Evans Potter”.
 
Severus aveva appena terminato l’ultima seduta di esami e stava tornando nel suo ufficio per riporre le scartoffie, nel frattempo aveva ben chiara, nella mente, la sua prossima mossa. Contro il petto gli sbatacchiava la svolta che avrebbe condizionato il resto della sua vita. Era un anello.
Raggiunse i sotterranei ed entrò nella stanza buia, mentre pensava ad Eve e a quanto aveva imparato ad amarla. Ripose le carte e sfilò l’astuccio per controllare che l’anello fosse al suo posto. E c’era. Era lì che brillava più della candela che sgocciolava sulla scrivania: era puro estratto di luce lunare; i Babbani non ne facevano così. Sfilò la bacchetta e gli diede un ultima pulita, quindi lo richiuse e lo strinse forte in mano. Uscì dal castello,  inspirò profondamente e si Smaterializzò.
 
Apparve nell’ingresso di casa e fece subito comparire un mazzo di fiori, perché ad Eve piacevano quelle cose, poi chiamò il suo nome a gran voce. Ma, quando la individuò, seduta al tavolo della cucina, si accorse che stava piangendo.
Appoggiò i fiori sulla panchetta del vestibolo e si precipitò incontro a lei.
-Eve, che è succes …- ma s’interruppe, perché  per tutto il tavolo erano sparse le sue foto di Lily e perché l’aveva capito da solo. Lo scatolino con l’anello rotolò a terra.
Lei alzò lo sguardo verso di lui, i suoi occhi erano arrossati e pieni di lacrime
-Perché? – fu l’unica cosa che riuscì a dire, la voce era affranta e ferita e delusa.
Severus, con un groppo alla gola, si rassegnò a raccontarle una nuova verità.
-Si chiamava Lily Evans e l’ho conosciuta quando avevo nove anni, allora anche la mia vita era buia, non avevo nessun posto che potessi chiamare casa. Poi la vidi nel parco e le cose iniziarono a cambiare. Le rivelai che era una strega e diventammo presto migliori amici. Siamo andati ad Hogwarts assieme. Poi, col tempo iniziai a perderla e, all’ultimo anno, lei si fidanzò con la persona che più detestassi sulla faccia della terra, e le nostre strade si divisero.
- Questo – si era alzato la manica e ora si era puntato la bacchetta sull’avambraccio sinistro: il teschio e il serpente passarono da un pallido rosso ad un fervido nero, - non è un tatuaggio. È il Marchio Nero. A diciannove anni entrai a far parte dei seguaci di un Mago Oscuro e un anno più tardi origliai una conversazione che mise il capo dell’organizzazione sulle tracce di lei – e qui sfiorò una delle foto con due dita – e della sua famiglia. Terrorizzato che potesse succederle qualcosa, provai a tornare sui miei passi, chiesi aiuto e passai dalla parte giusta… Ma fu tutto inutile. La persi il 31 ottobre di cinque anni fa; fu uccisa anche e soprattutto per colpa mia – deglutì, quel pensiero gli provocava ogni volta una fitta al petto – Due anni fa, ho scoperto che nel suo testamento aveva lasciato detto che era favorevole alla donazione degli organi. E così… ho trovato te – e il suo sguardo si spostò dalle vecchie foto agli occhi verdi di Eve, che non smise di guardarlo, o di piangere. – Io non volevo fare niente, solo vederti. Ma dopo la prima volta, volevo farlo ancora. Ma solo all’inizio è stato così – si affrettò a dire - poi, da quando tu mi hai chiesto di uscire, le cose hanno incominciato a cambiare. E se in passato sono mai stato confuso sui miei sentimenti nei tuoi confronti, adesso ti posso giurare che non è più così. Sono qui per te, Eve, non per Lily.- concluse, lasciando che il silenzio strisciasse dietro alle sue parole.
Eve al suono dell’ultima frase si chinò in avanti sul tavolo, portandosi le mani alle orecchie.
-Smettila, ti prego – sembrava che qualcuno la stesse bastonando e ci mise un po’ a riprendere il controllo di sé. –Non riesco neanche a pensare come tu abbia potuto fare una cosa del genere! Come tu abbia potuto ingannarmi così! Io mi ero fidata di te – ora si era alzata in piedi e aveva preso a gesticolare –Avevo imparato a farlo, nonostante tutti i tuoi segreti, ma mai avrei immaginato che tu fossi arrivato a tanto… Perché poi?! Perché tengo i cazzo di occhi di questa cazzo di donna?! – gridò, agitando alcune delle foto e scaraventandole all’aria. Lacrime di rabbia colavano a picco sul pavimento – Tu ti rendi conto?! Questa è solo carne!  Che cos’hanno a che fare questi due pezzi di carne con quella donna? Che cos’hanno veramente a che fare con me? Non è così che funziona l’amore, Ombra, non è così! –
Severus aveva assistito alla scenata di Eve senza interromperla e dire una parola.
-Eve –fece, quando lei si fermò per riprendere fiato – Io non sono venuto in cerca di una relazione con te. Non ho mai cercato di rimpiazzare Lily con te. Io volevo solo vederti, scusami se poi mi sono affezionato a te, la prossima volta starò più attento! –
-Invece è proprio quello che hai fatto! Io sono diventata solo il macabro sostituto di quella donna!- strillò.
-No, Eve, non è così! Me lo sono chiesto, credimi, me lo sono chiesto, ma non è come … -
-E allora stai mentendo anche a te stesso, Ombra!  - sentenziò la donna, in tono secco.
L’uomo fu per un attimo paralizzato dalla risposta di Eve, poi sembrò ricomporre i propri pensieri e riprese.
-No, aspetta. Ti giuro che non è vero. Guarda! – fece e, chinandosi, riemerse con uno scatolino celeste tra le mani, aperto a mostrare un anello. Eve oscillò sulle sue gambe, coprendosi l’intero viso con il palmo delle mani. – Io ti amo, per davvero – disse, finalmente uscendo dal suo imbarazzo e pronunciando quelle tre parole.
Eve gli si fece incontro ed andò ad abbracciarlo.
-Anche io ti amo ancora, Ombra, questo è il problema. –disse, sprofondando nel suo petto.  – Ma non potrò mai più fidarmi di te –
-Ma adesso sai tutta la verità, Eve. Niente più segreti! – provò a dire lui.
-E’ un po’ tardi, Ombra, non credi? – fece, staccandosi – Prendi le tue cose, vai via – disse, quasi contro se stessa.
L’uomo la guardava, sconvolto.
-Eve … -
-Non tornare – concluse e uscì dalla stanza.
 
 
L’aria fredda della notte scozzese lo accolse, gelandogli i polmoni. Era riapparso davanti ai cancelli di Hogwarts e ora fissava, perduto, la via che lo separava dal castello. Fece un passo, ma la gambe, stanche, crollarono sotto il peso del suo corpo e lui si abbandonò a terra.
Da lì poteva benissimo distinguere tutta la siloutte di Hogwarts, che si stagliava in contrasto con lo specchio di luce argentea alle sue spalle.
Severus sentiva dentro di lui un grande vuoto e un vastissimo senso di colpa e amarezza. Tutte le parole che aveva detto Eve… e se fossero state vere? Aveva veramente trovato in lei una sostituta di Lily, che avesse quanto più possibile in comune con lei? No, non poteva essere. Lui amava Eve, voleva dividere con lei il resto dei loro giorni, Lily apparteneva al passato!
 Ma quel pensiero gli fece male.
Come aveva potuto anche solo formularlo?
Si abbandonò steso sul prato, divorato dal dubbio che Eve aveva insinuato in lui, poi trovò un modo per rispondervi.
Per la prima volta, dopo anni, Severus appellò il suo Patronus. La luce argentea si sprigionò dalla sua bacchetta e rapidamente prese forma. Era una cerva.
Sentì il cuore stringersi e pianse amaramente: Eve aveva avuto ragione. Lily era sempre lì.
 
Dopo quella notte, per undici anni Severus non ebbe notizie di Eve, né di suo figlio Jules, perché non lo meritava. Adesso erano solo un’altra manciata di foto, aggiunte al suo album “fotografie che ti farà male riguardare”, e altro dolore da smaltire. Era il suo modo per punirsi, per aver deluso anche l’unica altra donna a cui avesse mai tenuto.
Un altro anno stava per iniziare ad Hogwarts, era tutto come sempre, tranne che, stavolta, era lui il Preside: al centro del tavolo non ci sarebbe stato più il vecchio con la barba argentea ed i suoi caldi discorsi d’accoglienza.
Presto ebbe inizio la sfilata degli alunni del primo anno che, sotto gli occhi di tutta la sala, si arrestò a pochi metri dal tavolo degli insegnanti, davanti al Cappello Parlante. La McGranitt spiegò loro cosa avrebbero dovuto fare e diede inizio allo Smistamento. Ragazzi e ragazze anonimi si susseguirono su quello sgabello traballante dov’erano passate generazioni di studenti e furono distribuiti per le quattro Case, poi Minerva arrivò alla “P” e chiamò il nome di “Prevert Jules”.
 
Durante tutto l’anno, Severus ebbe modo di osservare suoi figlio più volte. Si era fatto così grande, che non l’avrebbe mai potuto riconoscere… Aveva i capelli neri, come i suoi, e gli occhi chiari, che dovevano essere quelli di sua madre. Tuttavia non osò mai parlargli, perché i motivi che glielo sconsigliavano erano troppi e più efficaci del suo desiderio di farsi riconoscere dal figlio: per prima cosa, erano in guerra e Severus era in una posizione talmente delicata, che al minimo errore, avrebbe potuto saltare tutto per aria; non poteva trascinare Eve e Jules in questo, aveva già  avuto abbastanza sangue per le mani. E poi, per il ragazzo sarebbe potuto essere uno shock, magari non sapeva nemmeno della sua esistenza, magari Eve aveva trovato un altro uomo e Jules credeva di essere figlio di quest’ultimo. Infine, la sua reputazione, al momento, era pessima a tal punto, che, se si fosse rivelato in quel momento, Jules lo avrebbe sicuramente odiato. Eppure un tempo gli voleva bene.
Poi, però, quando la guerra proiettò la propria ombra su Hogwarts, le priorità cambiarono.
Era la notte del primo maggio, aveva sentito il Marchio Nero bruciare secondo il segnale prestabilito: Potter era nel castello, il Signore Oscuro era in volo e Minerva lo aveva costretto ad abbandonare la scuola. Per sfuggire all’attacco congiunto di quest’ultima, di Vitious e di Lumacorno, infatti, si era catapultato giù dalla finestra e ora volava per i terreni, in attesa di potersi Smaterializzare.
“Mi prometti che farai tutto il possibile per proteggere gli studenti di Hogwarts?”
Le parole di Silente non lo abbandonavano. Stava fallendo: non aveva possibilità di essere creduto dal resto dell’Ordine, la scuola presto si sarebbe chiusa in assedio e l’Oscuro Sicnore era pronto a sbaragliare le loro difese e dare alle fiamme il castello, pur di ottenere ciò che desiderava. Doveva assolutamente trovare Potter prima di lui, doveva fargli sapere a cosa andava in contro, era in pericolo…
Poi fu folgorato da un altro pensiero: Jules! Anche lui era ancora dentro.
Agì senza pensare, fece inversione e volò verso la Torre di Corvonero, più veloce che poteva. In pochi secondi fu davanti alla finestra della Sala Comune, che pullulava di studenti. Frantumò il vetro, provocando un grido di spavento generale, ed entrò.
-Dov’è Jules Prevert? – disse, perentorio.
Seguì un vociare confuso dal quale si distinse la voce di una ragazza in prima fila.
-Perché lo vuole sapere? –
-Deve venire con me –
-Be’, allora, con tutto il rispetto, vada a farsi fottere, Preside –rispose quella.
Severus s’irrigidì e solo ricordando quanto stretti fossero i suoi tempi, mantenne la lucidità. Notò che un gruppo di ragazzini si stavano agglomerando attorno a qualcosa o, più probabilmente, a qualcuno. Cercò di farsi spazio, ma la ragazza sfoderò la bacchetta e gli lanciò contro una fattura. Severus la parò senza alcuno sforzo e ritentò la sua manovra di avvicinamento, ma il groviglio si era infittito e, in più, altri studenti stavano iniziando a tirar fuori le bacchette.
Perdendo la pazienza, spiccò un volo e con un incantesimo d’Appello riuscì a strappare Jules dalle mani dei suoi compagni e a proiettarsi, di filata, oltre le mura.
Il ragazzino si divincolò per tutto il volo, piangendo e inveendo con quello che credeva essere il suo rapitore. Poi abbandonarono il parco di Hogwarts e entrambi furono risucchiati dalla Materializzazione.
Il numero 16 di Cedarwood Road comparve davanti agli occhi di padre e figlio.
-Vai – disse Severus, spingendolo verso il vialetto di ghiaia.
-Che cosa vuoi farci? – chiese lui, con lo sguardo sbarrato.
-Niente. Adesso vai da tua madre – rispose l’uomo, in tono calmo.
Il bambino sembrava perplesso, ma anche troppo spaventato per non correre incontro alla porta di casa e chiamare subito il nome di Eve.
Dopo qualche minuto di forsennati scampanellii, la donna aprì la porta, con un verso di sorpresa.
-Jules?! Che cosa ci fai qua? -  e si lanciò in un abbraccio cieco del figlio, che ancora singhiozzava.
Quando riuscì a calmarlo, provò nuovamente a ottenere delle risposte: - Come sei arrivato qui? È successo qualcosa? –
Il bambino, tirando su con il naso, si girò e indicò il viale alle sue spalle.
-Ombra…-
Severus sentì il cuore sobbalzare: erano anni che nessuno usava più quel nome. Eve gliel’aveva dato perché diceva che quando stava sulla sedia a rotelle, lui era stato la sua ombra, che spesso era l’unica cosa che vedeva a quel tempo.
-Mamma, che succede? – il ragazzino guardava ora con preoccupazione le lacrime che rigavano la faccia di lei.
-Niente, amore. Vai dentro, che devo un attimo parlare con questo signore –
-Mamma, stai attenta. È pericoloso…–
-Può darsi …  Ora vai – e lo spedì dentro con uno scalpellotto.
Si avviò a percorrere il vialetto e, se prima aveva un’espressione dura, questa si sciolse appena fu davanti all’uomo in nero, che subito abbracciò.
-Mi sei mancato così tanto! – disse, senza preamboli, riempendosi le narici di una delle poche cose che di lui non erano cambiate: l’odore.
Severus fu spiazzato dalla sua reazione, ma non esitò ad accogliere l’abbraccio.
-Non sei più arrabbiata con me? – chiese, stupito.
-Certo che sono ancorafuriosa con te. Ma sono anche ancora innamorata di te – disse, dandogli una stretta al petto. – Sapessi quanto ti ho cercato in tutti questi anni. Non ti ho mai trovato… dov’eri, Ombra? –
-Sono tornato a vivere ad Hogwarts. Avevi detto di non tornare più… –
-E non hai mai imparato che non bisogna mai dare ascolto ad una donna, quando spara queste sentenze? –
-Non era giusto, Eve. Non dopo quello che ti ho fatto. Con che faccia potevo ripresentarmi da te? –
-Con la solita, con questa – gli accarezzai una guancia – magari con il pizzetto sarebbe stato ancora meglio – scherzò. Severus si era tagliato quel pizzetto a cui si riferiva lei non appena era ritornato ad Hogwarts, aveva cercato un modo per dimenticare. – Però, adesso che sei qui, non andare via – mormorò Eve – Vieni dentro –
La donna lo prese per mano e lo trascinò dentro casa.
-Jules non sa di me, vero? – chiese Severus, mentre i dettagli della sua vecchia abitazione riaffioravano nella memoria.
-No, non gli ho mai raccontato di noi. Ho pensato che fosse meglio così… - rispose, mentre raggiungevano la cucina – Ma ora che tu sei di nuovo qui… un momento! Non mi hai ancora detto perché sei qui! È successo qualcosa? Perché hai portato Jules da me? –
Severus la guardò, con lo sguardo grave.
-Stava per scoppiare una battaglia nella scuola, Eve. Di certo avrai sentito che siamo in guerra … -
-Sì, so qualcosa… - fece quella, appoggiandosi al piano cottura.
-Il Signore Oscuro sarebbe arrivato a momenti e presto il castello sarebbe stato assediato. Non potevo lasciarlo lì. –
-E gli altri? -  chiese, seriamente preoccupata.
-Me ne devo ancora occupare. Sono in buone mani, comunque.-
-Grazie, Ombra – e andò ad abbracciarlo di nuovo, sentiva il bisogno del suo contatto fisico. –Aspetta, mi stai dicendo che te ne stai andando? –
Severus la guardò.
-Solo per un poco, devo sistemare questa faccenda, Eve. Non posso abbandonare la battaglia: ho un compito da portare a termine. – ribatté, preso – Se tutto andrà  bene, prestò sarò libero – abbozzò un sorriso, sentendosi come se si fosse disabituato a quelle cose.
-Sì, ma torna, Ombra, e poi, ti prego, non te ne andare mai più – fece lei.
-Come puoi avermi perdonato? – chiese Severus, confuso.
-Perché io ti amo. E non m’importa più per quale motivo, ma so che anche tu ci tieni a me –
L’uomo la guardò di ritorno, era uno sguardo che significava “Anche io ti amo”, ma era passato troppo tempo, non le sapeva più dire quelle parole. Ma quando  si baciarono, dopo tanti e tanti anni e, per pochi secondi, fu come se quel tempo non fosse mai passato.
E poi, quando ormai erano senza fiato, si senti un suono di protesta.
-Mamma! –
Era Jules che, sceso di sotto, si era trovato di fronte alla visione di Eve e Severus stretti l’una all’altro. I due si separarono subito, imbarazzati.
-Che …che stavi facendo? – c’era quasi orrore nelle sue parole.
-Amore – fece quella, cercando di ridare un senso ai propri capelli. Si avvicinò al figlio  - È arrivato il momento che tu lo sappia. Permettimi di presentarti tuo padre –
Severus fece un passo avanti, ma  il bambino sembrava sconvolto.
-Che cosa?! – gridò -Mamma, quell’uomo è un Mangiamorte e un assassino! Ha ucciso il vecchio Preside della Scuola, Silente. Non può essere mio padre! –
Eve guardò incredula l’uomo in nero, che, proprio in quel momento si era afferrato il braccio sinistro. Se lo scoprì, il Marchio si era acceso e lampeggiava a scatti, una, due, tre volte, poi pausa, e di nuovo tre volte. Era il suo segnale: quella chiamata era per lui.
-Devo andare – disse, quasi tra sé, ma Eve lo sentì e gli andò incontro.
-Ombra, aspetta. È vero quello che ha detto Jules? Hai ucciso un uomo? –
-Sì, Eve, ma non è come sembra… devi credermi! È complicato – disse stringendo i denti per le fitte provocatigli dal Marchio Nero. Prese la bacchetta e diede il segnale di risposta, ottenendo così un sollievo dal dolore.
-Che cosa significa tutto questo? Quello che hai detto non ha alcun senso, Ombra – gli occhi di Eve lo guardavano supplichevoli che gli dicessero che Jules stava mentendo.
-Non ho tempo per spiegartelo adesso. Ti dirò tutto più tardi –
Eve si avvicinò, fino ad abbracciarlo per la terza volta.
-Però torna –
-Sì. Devo veramente andare ora. Ciao, Jules – il figlio lo salutò, guardandolo storto, con un cenno della mano poco convinto – Ciao, Eve –
Un ultimo bacio.
-Ciao, Ombra –
 
Ma Ombra non torno più. Perché Ombra morì quella stessa notte.
Lo venni a sapere quando, nella tarda mattinata del giorno dopo, alla porta non venne a bussare lui, ma una lettera, che invitava tutti gli studenti a tornare ad Hogwarts per l’indomani, giorno in cui si sarebbero tenuti i funerali delle vittime. C’era un elenco di nomi, subito sotto il testo della lettera, nel panico i miei occhi scesero alla “O”, ma non trovarono nulla, un crudele attimo di sollievo lasciò che nel mio cuore si liberasse la speranza, poi la memoria mi suggerì il vero nome di Ombra. E quello, quello c’era.
Rimasi con quella lettera in mano per molto tempo, senza piangere o dire niente, poi, senza smettere di guardarla, i miei piedi mi portarono alla stanza che avevo tenuto chiusa per ormai  undici anni. Girai la chiave e con una spallata, entrai nel vecchio studio di Ombra.
La polvere mi solleticò i polmoni ed io tossii, in cerca dell’interruttore, ma illuminare la stanza fu una pessima idea, perché mi fece vedere le disastrose condizioni in cui essa versava. Il mio istinto mi portò, senza che me ne accorgessi, alla scopa e al secchio dell’acqua, così mi rimboccai le maniche ed iniziai a dare una profonda pulita a quel posto. Impiegai un’ora per darle l’aspetto che desideravo, faceva un caldo tremendo, e mentre tante piccole goccioline di sudore mi colavano dalla fronte, queste presero a mescolarsi con le lacrime. Ma non smisi di lavorare freneticamente. Solo quando fui sfinita, mi sedetti a terra, con le spalle contro il muro, per riprendere fiato.
Avevo pianto senza accorgermene e adesso sentivo le guance incrostate di sale. Mi guardai attorno, riesplorando quella stanza perduta: c’erano ancora alcuni degli strumenti di Ombra, un paio di libri, alcuni fogli di pergamena e su uno scaffale tutti gli album di foto che avevo riposto lì, appena se n’era andato di casa.
C’è sempre un momento in cui, liberamente, consapevolmente, ti dai al masochismo, perché senti di averne bisogno. Ebbene, quello fu il mio.
Prolungai le braccia, tirai giù i raccoglitori polverosi e riguardai tutte le nostre foto, dalla prima all’ultima. Non erano molte, Ombra odiava farsi ritrarre, quindi c’erano solo alcune foto con noi due, e altri scatti rubati da me di lui. Quelle più vecchie, poi, erano in bianco e nero, ma le più recenti erano a colori e si muovevano. Ci aveva messo mano Ombra, che diceva che si facevano così le foto nel mondo dei maghi. Ce n’era una così di quando mi insegnò ad andare in bicicletta, si vedeva la mia figura impacciata traballare sulla due ruote, e se la guardavo intensamente, riuscivo ancora a sentire Ombra ridere (quel giorno ebbe la sua rivincita su tutte le mie risate della sua prima volta in bicicletta). Un’ altra ritraeva noi tre, c’era anche Jules, all’ospedale. La foto era stata scattata da una delle ostetriche, subito dopo il parto, e mostrava me bianca e con le labbra frementi che sorridevo come una scema, Jules che guardava con gli occhi sgranati il soffitto e Ombra che invece di fissare l’obiettivo, guardava me e il bambino. E poi c’era una delle mie preferite, l’avevo consumata quella foto a furia di riderci su, in passato. Ritraeva solo me ed lui, ma la scena era andata così: Ombra era appena uscito dalla doccia (e già questa era di per sé una cosa sorprendente) ed io, che mi ero appostata fuori la porta con la macchina fotografica pronta, avevo avviato immediatamente l’autoscatto e gli ero corsa incontro, lui colto alla sprovvista mi prese in braccio (perché forse sarebbe più corretto dire che gli ero saltata addosso… ) e in quel momento la fotocamera scattò. Ombra, alla vista del flash, si era indispettito, quindi aveva una faccia imbronciata e ridicola, mentre io, con un sorriso idiota sulla faccia,  troneggiavo tra le sue braccia. Detestava a tal punto quella foto che non volle trattarla, quindi non si muoveva, ma faceva così ridere… erano i bei vecchi tempi.
Ormai ridevo e singhiozzavo allo stesso tempo, le due cose si erano piacevolmente confuse, dandomi una sensazione di essere estremamente felice ed estremamente triste contemporaneamente. Jules fu presto attirato da tutto il casino che stavo facendo, lo vidi oscurare il filo di luce che proveniva dalla porta socchiusa.
-Mamma… sei qui dentro? Tutto bene? –
-Ti sei svegliato, Jules? – dissi io, sottolineando una cosa palesemente ovvia. – Vieni dentro – Jules non era mai stato in quella stanza, o almeno non vi era mai rientrato dopo quel giorno.
La porta cigolante annunciò la sua entrata.
-Che è successo, mamma? – chiese, preoccupato.
Con il mento, gli indicai la lettera che avevo poggiato sulla scrivania, lui la lesse, ma ci mise più tempo di me, perché scorse tutti i nomi.
-Oh – fece, inciampando anche sul quello di Ombra – Mi dispiace – disse poi, abbassando il foglio.
-Anche a me – mi asciugai con il dorso della mano gli occhi bagnati – Avanti, vieni qui – e gli indicai il lembo di pavimento accanto al mio. – Devo mostrarti una cosa… -
Con due dita, scorsi velocemente tra le foto (quelle disordinate, che non erano state messe in nessun album), poi ne tirai fuori una: c’ero solo io, io e la mia sedia a rotelle.
-Questa ero io –
Jules fissò stravolto quell’immagine, quasi senza capire.
-Ma… come? –
-Tuo padre – risposi, orgogliosa fin nelle viscere. - È stato lui a guarirmi, così come ha guarito te – dissi, cauta, appoggiandogli una seconda foto sulle ginocchia, che stavolta mostrava un piccolissimo Jules con le gambine rigide e debolucce.
-Qui, invece, ci siamo tutti e tre – e gliene porsi un’altra, sottraendogli alla vista il prima possibile, le foto di prima.
Jules prese quest’ultima con attenzione tra le mani e fissò avido il viso dell’uomo che gli aveva salvato la vita. Due volte.
 
Dopo la battaglia di Hogwarts, era nato un nuovo, fin troppo vasto, cimitero. Un prato di lapidi si estendeva poco oltre i confini della scuola, di modo che anche i Babbani potessero venire a visitarlo.
Era estate, ma l’erba in Scozia non seccava mai, quindi era ancora verde e silenziosa sotto i passi di Eve.
Nessuno portava mai i fiori ad Ombra, e sulla sua lapide, allora, c’erano solo la carcassa di vecchi crisantemi. Era il due luglio, l’anniversario del loro primo incontro; erano passati quattordici anni da quel giorno.
La donna si fermò davanti alla tomba e sostituì i fiori ischeletriti con dei nuovi, forti, dal gambo verde. Poi si sedette tra l’erba che le solleticava le gambe scoperte, a guardare la foto, nel frattempo si rigirava qualcosa tra le mani: era un anello.
Lo prese tra due dita, stirando il sorriso solo da un lato della faccia.
-L’ho trovato ieri – disse – E comunque la risposta sarebbe sì –.
 
Sembrava strano e folle morire in quel momento. Eve, Severus lo sapeva, sarebbe stata furiosa con lui, non appena l’avesse  scoperto, ma ora lui non ci poteva fare più niente. Era per terra, su un duro pavimento, che lentamente stava irrorando con il proprio sangue, le mani alla gola che non erano servite a impedirne la fuoriuscita. Sentiva il resto del proprio corpo lontano, la soglia della coscienza gli stava lentamente sfuggendo di mano. E lui aveva ancora tante cose da fare, prima tra tutte avvisare Potter, ma sembrava che le sue forze non gli consentissero nemmeno di elencarle.
In quel momento, come un miracolo, Potter apparve dal nulla e si chinò su di lui. In un ultimo sprizzo di lucidità, Severus gli diede i suoi ricordi, ma ora faceva anche fatica a rialzare il petto per respirare, quindi non seppe come fece a parlare, un attimo più tardi.
–Guar… da… mi… - mormorò.
Il ragazzo, perplesso, ma fortunatamente senza esitare, lo fece. Ombra ebbe solo una frazione di secondo per guardare gli occhi di Eve, poi Severus si concesse il suo ultimo attimo per guardare quelli di Lily, e, così, scivolò tra le mani della morte.
Sì, Eve sarebbe stata davvero furiosa.

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