Mind Palace

di Padmini
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'isola in mezzo al lago ***
Capitolo 2: *** Ingresso ***
Capitolo 3: *** La Stanza del sapere ***
Capitolo 4: *** Ombre dal passato e luci dal presente ***
Capitolo 5: *** Danger room ***
Capitolo 6: *** Clandestino ***
Capitolo 7: *** Prigioniero ***
Capitolo 8: *** Il labirinto ***
Capitolo 9: *** Essere Sherlock Holmes ***



Capitolo 1
*** L'isola in mezzo al lago ***


Bene, miei cari.

Sono appena tornata da un bellissimo viaggio a Londra (durante il qualche ho anche potuto ammirare Ben e Martin in tutta la loro bellezza) ed ora sono anche tornata qui, con una nuova storia, la cui idea è nata proprio nella città sul Tamigi.

Non mi resta che augurarvi buona lettura e chiedervi gentilmente, una volta arrivati al termine di queste righe, di dedicare qualche minuto del vostro tempo per dirmi cosa ne pensate.

Ringrazio fin da subito chi deciderà di leggerla.

Kiss

Mini

 

 

 

 

 

 

 

L'isola in mezzo al lago

 

 

 

 

 

 

 

La mia è sempre stata una vita banale, piatta, senza eventi di particolare rilevanza. Fintanto che la vivevo non me ne rendevo conto. Ogni giorno scorreva uguale all'altro. Una processione interminabile di albe e tramonti, distinguibili soltanto dall'alternarsi degli avvenimenti, sempre prevedibili e scontati.

Prima la scuola, l'università, il corso di preparazione per medici militari e infine l'Afghanistan.

Certo, dire che i miei giorni di medico militare erano noiosi può sembrare strano, ma era così.

Non c'era nulla che destasse la mia immaginazione, che stuzzicasse la mia curiosità. Solo un mare di orrore e morte … poi era arrivato lui.

Non avrei mai immaginato che la mia esistenza avrebbe potuto prendere una piega del genere. Non quando risiedevo da parassita in quella triste e vuota stanza nello Strand. Sicuramente vivevo molto meglio di tanta altra gente, costretta a condividere le notti in affollati ostelli o peggio, sotto i ponti di questa città caotica che non trova pace nemmeno dopo il tramontare del sole, ma il silenzio di quelle quattro mura era forse più assordante di ciò che mi circondava.

 

Fu grazie ad un mio vecchio collega che conobbi Sherlock.

Appena lo vidi capii subito che sarebbe nato tra di noi qualcosa di speciale. Non si tratta di amore, questo no. Molti guardandoci fraintendono. Vedono quanto siamo affiatati e pensano che tra di noi ci sia della passione reciproca.

Sì, in effetti quando siamo insieme il mio corpo freme e posso percepire in lui lo stesso tremito di eccitazione, ma non è un sentimento che si rivolge all'altro. La vicinanza alimenta in noi un sentimento diverso. L'amore cresce e si manifesta, ma è amore per l'avventura, per l'insolito e il fuori dall'ordinario.

Ciò che Sherlock ha portato nella mia vita è stato l'assurdo, l'abitudine a vivere fuori dagli schemi. Se prima, svegliandomi, sapevo esattamente cosa avrei fatto a qualsiasi ora del giorno, ora non posso più esserne così sicuro. Apro gli occhi e non mi chiedo cosa preparerò per pranzo o se litigherò con una cassa automatica del supermercato. Non posso essere sicuro di ciò che accadrà.

Sono certo dell'incertezza. Può sembrare un ossimoro, una contraddizione in termini, ma è così. Con Sherlock la veglia è pregna di sorprese e cose inaspettate, che cervello umano non può concepire né prevedere.

Inseguiremo un assassino? Ci faremo quasi uccidere da un pazzo dinamitardo? Prenderemo in giro Anderson fingendo che Sherlock sia un vampiro? Nessun agente di Scotland Yard può vantare la quantità di avventure strane che ci capitano. Nessun detective privato. Nessuno.

Tutti conoscono Sherlock e sanno che ama l'insolito, lo stravagante. Per questo tutti gli svitati e i pazzi passano da noi. Spesso si tratta di montati con storie assurde, ma altrettante volte ospitiamo persone con esperienze vere che ci permettono di vivere avventure fuori dal comune.

Ormai non so più nemmeno dare un significato alla parola 'strano'. Cosa vuol dire? Per me è più strana una signora che va a fare la spesa con un carrellino piuttosto che un vecchio che viene a raccontarci delle sue vicissitudini con una fantomatica 'Lega dei capelli rossi'.

Normale è ciò che riempie la nostra vita. Per me la normalità è la non normalità.

Sherlock è strano e rende uguale a lui la vita di chi lo circonda. Un turbine di colori bizzarri che accompagnano le mie giornate

Sono sempre stato certo di ciò. Eppure il mio straordinario coinquilino ha trovato il modo di sorprendermi ancora una volta. Se fino a qualche tempo fa ero sicuro che la mia vita fosse strana solo durante il giorno, lui mi ha fatto ricredere anche su questa minima certezza.

Ha fatto crollare anche l'ultima barriera che mi proteggeva da lui e dalla sua travolgente personalità. Ha invaso anche l'angolo più intimo e nascosto della mia anima, riempiendolo di sé.

Se devo essere onesto non so quanto di ciò che mi è accaduto e che continua a succedermi sia da attribuire a lui. No, non è possibile. Per quanto si sia dimostrato sveglio e intelligente sopra la media, dubito che possieda poteri tali da influenzarmi a tal punto.

Molto più probabilmente sono io che creo tutto questo. È la mia suggestione e niente di più. Eppure, credo che ci sia molto del suo.

Può essere che dipenda dal mio viscerale desiderio di comprenderlo, di capire cosa ci sia in quella mente geniale che lo contraddistingue perché, nonostante l'intimità che mi lega a lui, percepisco tra di noi una certa distanza, una barriera che lui erige per difendersi dal mondo esterno. Con gli altri si tratta sicuramente di un muro di mattoni, che impedisce la visuale. Ciò che io vedo è un sottile strato di carta velina che, pur facendomi vedere qualcosa, mantiene tutto sfocato e indecifrabile.

Posso intuire delle ombre, posso farmi delle idee in merito alla sua personalità e ai suoi pensieri e sentimenti, ma subito dopo vengo smentito. Sarà il desiderio di sfondare quest'ultima barriera a farmi creare queste immagini?

Man mano che passano i giorni mi rendo conto di aver pensato di lui una marea di assurdità. Non l'ho mai veramente compreso e le sue verità vengono a galla man mano, come stelle che appaiono lentamente da dietro le nubi di un cielo prima tempestoso, che si apre pian piano a illuminare la terra. Piccole intuizioni, indizi che mi vengono dati e che, nell'insieme, disegnano un quadro completo. Mi chiedo se riuscirò mai a vederlo.

Chiaramente tutto questo non avviene in maniera conscia. Le informazioni che raccolgo di giorno, direttamente o indirettamente, vengono elaborate dalla mia mente e trasformate in qualcosa di diverso, di … poetico.

Forse la mia vena di scrittore, che ignoravo di possedere da quando ho iniziato a raccontare le avventure che vivo con Sherlock, mi aiuta a inventarmi scenari impossibili, metafore della sua vita che, puntualmente, vengono a trovarmi in sogno.

 

 

Tutto cominciò una sera. Eravamo appena tornati da Dartmoore e risentivo ancora di quelle misteriose droghe che ci avevano offuscato la vista. Sherlock, contrariamente al solito, era attivo e vigile. Andava avanti e indietro per la stanza come se stesse sui carboni ardenti e non si dava pace.

Mi veniva da ridere a vederlo così. Era estremamente buffo con quella sua veste da camera svolazzante e si mordicchiava le unghie, come se fosse in attesa di qualcosa o fosse ancora sotto l'effetto di quegli strani gas e volesse smaltirli, scacciando chissà quali immagini spaventose.

Io cercavo di rilassarmi, leggendo un articolo di medicina, ma la sua vitalità era snervante. Dovevo trovargli un'occupazione o mi sarebbe venuto il mal di mare vedendolo passarmi davanti in continuazione mentre faceva la spola dalla porta alla finestra e dal divano al caminetto.

“Sherlock, ora basta per favore” gli dissi infine, esasperato “Non puoi stare tranquillo?”

“Tranquillo?” mi domandò lui “Tranquillo?! Come potrei stare tranquillo? Mi annoio!”

Risi di lui. Sembrava un bambino capriccioso.

“Perché non suoni un po' il violino?” gli proposi “Mi farebbe piacere sentirti suonare. Qualsiasi cosa tu voglia. Ti prego ...”

Lo guardai con la stessa espressione che lui stesso usa con me quando vuole qualcosa, così dovette cedere. Sospirò e andò verso la sua poltrona dove, adagiato nella nera custodia, stava il suo Stradivari. Lo prese e con un elegante gesto lo posizionò sotto il mento. Aggiustò la posizione e afferrò alla cieca l'archetto, poi fece qualche passo verso la finestra e iniziò a suonare.

Inizialmente accordò lo strumento e ci volle qualche minuto prima che suonasse qualcosa di comprensibile, ma quando si rilassò e trovò la sua melodia, la stanza fu invasa dalle note di un dolce brano ipnotico.

Non avevo mai sentito nulla del genere. Era una musica dolce ma non smielata. Soave ma allo stesso tempo decisa e vibrante. Lo guardai. Aveva gli occhi chiusi e il suo corpo vibrava come le corde del violino che stava sfiorando con il crine lucido dell'archetto. Sembrava turbato o, in ogni caso, molto emozionato. La sua figura era tesa verso vette di inimmaginabili piaceri o terrificanti incubi. Non avrei saputo dirlo.

Ciò che sapevo era che mi stava coinvolgendo in tutto quello. Mi sentivo stranamente empatico nei suoi confronti come se la musica, prendendo vita e diventando solida davanti ai miei occhi, desse forma ai suoi pensieri e alle sue sensazioni. L'aria ne era pregna. Chiusi gli occhi, sopraffatto. Mi lasciai cullare da quelle note e ben presto caddi addormentato.

 

L'oblio del sonno mi avvolse in pochi istanti, come una nebbia densa e soffocante, ma ben presto si diradò, introducendomi al sogno.

Confesso che in quel momento ebbi paura. Gli unici sogni di cui ero pienamente cosciente riguardavano l'Afghanistan, perciò ebbi terrore che nuove terrificanti immagini potessero prendere vita nella mia mente.

Ero ancora seduto in poltrona, ma non mi trovavo più nel salotto del 221 B.

Mi guardai attorno. Ero in un boschetto. La luce color albicocca del sole al tramonto filtrava appena dalle foglie dei noccioli. Mi alzai e decisi di cercare di uscire dal bosco prima che fosse troppo tardi. Dopo qualche minuto sentii lo sciabordio delle onde sulla costa.

Mi avvicinai.

Le ombre erano ormai lunghe e le ultime scintille di luce stavano smettendo di brillare sulla superficie liscia di un lago, la cui acqua lambiva una costa acciottolata. Il rumore della risacca mi rilassò a tal punto che non mi accorsi che accanto a me erano comparse due persone.

Mi resi conto della loro presenza quando i loro passi smossero i sassi della riva, producendo un suono ruvido e umido d'acqua.

Mi volsi e riconobbi Anderson, raggiunto subito da Sally Donovan. Mi spaventai. Cosa ci facevano loro due lì? Non tentai nemmeno di indovinare. Semplicemente glielo chiesi.

“Cosa diavolo ci fate voi due qui? Perché vi sto sognando?”

Non risposero subito. Si avvicinarono all'acqua e Sally alzò un braccio e mi indicò l'orizzonte, così vidi ciò che prima non avevo notato.

Non molto lontano da noi sorgeva un'isola, completamente avvolta dalla foresta. Tra gli alberi, fitti e apparentemente impenetrabili, sorgevano le guglie di un enorme castello. Non feci in tempo a fare altre domande, che Anderson fece qualche passo nel bagnasciuga, immergendosi fino alle caviglie. Stava cercando di raggiungere una piccola imbarcazione che galleggiava a pochi metri da lui. La corda alla quale era fissata ondeggiava in superficie, mossa da lievi onde. Lo vidi allungare il braccio per raccoglierla. Accanto a me Sally fremeva per l'emozione.

Fu un istante.

Un tentacolo gigantesco emerse dai flutti e afferrò Anderson per la vita. L'uomo non fece in tempo né ad urlare né ad afferrare la corda né per attirare a sé la barca né per salvarsi. La creatura che l'aveva afferrato lo sollevò ancora di più e lo fece cadere bruscamente tra i sassi della riva.

Donovan si affiancò a lui per soccorrerlo, ma a quanto pareva non si era fatto nulla di male. Si alzò a fatica e si avvicinò nuovamente al lago, guardando il tentacolo che, nel frattempo, si stava ritirando nelle acque che si stavano facendo sempre più scure, come il cielo sopra di noi.

Si mise una mano in tasca e tese l'altro braccio per attirare a sé Donovan che lo aveva raggiunto. Improvvisamente parlò.

“Da anni cerchiamo di raggiungere quell'isola” disse tristemente “Ne siamo attirati e lì c'è la barca” aggiunse indicando nuovamente la piccola imbarcazione “Ma ad ogni nostro tentativo di attraversare il lago, veniamo scaraventati via da quel mostro ...”

Non sapevo perché ma anch'io, come loro, ero attratto da quel luogo. Feci qualche passo verso la barca, ma Sally mi fermò, tenendomi per un braccio.

“Non lo faccia, dottore” mi disse “Verrà respinto come noi … non sembra ma è doloroso”

La osservai. Stringeva convulsamente il mio braccio e sul suo viso intuii rabbia, frustrazione e intenso dolore. Sembrava triste di non poter andar oltre quella ruvida spiaggia ma al tempo stesso provava rancore. Anche Anderson, al suo fianco, era animato da sentimenti negativi che percepivo chiaramente.

La ignorai. Il mio istinto mi diceva che non avrei sofferto come loro, che ce l'avrei fatta. Mi liberai bruscamente dalla presa di lei e mi avviai verso il lago. Avevo mosso pochi passi, quando la corda uscì completamente dall'acqua e si palesò in tutta la sua lunghezza. Non dovetti fare altro che afferrarla e attirare la barca verso di me.

Nessun tentacolo di levò dai flutti. Nessun mostro mi respinse. Tirai la corda e avvicinai la barca alla riva. Quando fui sicuro di poter salire senza problemi, mi volsi verso i due che stavano alle mie spalle. Salii a bordo e gli feci cenno di fare altrettanto, ma quando Sally accennò un passo, si levò una colonna di fiamme, che ci divise per qualche istante. Quando il fuoco sparì, vidi il terrore negli occhi dei due. Li osservai per qualche istante, poi mi voltai verso l'isola e decisi di proseguire il viaggio. Cercai i remi a bordo e, una volta fissati, iniziai a remare. Era più facile del previsto e dopo poco raggiunsi un'altra costa, quella dell'isoletta in mezzo al lago.

Non era tanto diversa da quella che avevo abbandonato dalla quale, ancora irosi e risentiti, mi osservavano Donovan e Anderson. Li ignorai e mi addentrai nel bosco.

Ormai era scesa la notte e avevo un po' di paura ad attraversare quella distesa fitta di alberi, ma al mio passaggio si levarono, come apparse dal nulla, centinaia di lucciole, che mi fecero strada attraverso quel groviglio di tronchi e rami, dai quali si levavano di tanto in tanto rumori sconosciuti, versi di animali nascosti nell'oscurità.

Non so per quanto tempo camminai. Di tanto in tanto, attraverso le fronde, potevo scorgere parti lontane del castello che avevo già visto. Più mi avvicinavo e più questo sembrava allontanarsi ma, nonostante la fatica, decisi di proseguire.

Quando finalmente gli alberi si diradarono giunsi in una radura illuminata da alcune torce. Era uno spazio abbastanza ampio e respirai profondamente l'aria libera di quel luogo, non più ostacolata dall'oppressione della foresta. In quel momento le lucciole si dispersero e ritornarono al loro luogo d'origine. Mi voltai per osservarle mentre tornavano a nascondersi tra le foglie, poi proseguii il mio cammino.

La radura era ampia e piatta. Mi rammentai in quel momento del castello e sollevai lo sguardo.

Lo vidi.

Era lì, di fronte a me.

Alte mura si stagliavano davanti ai miei occhi, spesse e solenni. Erano le mura di un gigantesco palazzo. Anche da lì potevo intuirne la maestosità. Era un castello antico e gelosamente custodito da quegli ostacoli che io, con estrema sorpresa, ero riuscito a superare con tanta facilità.

Percepii sensibilmente la sacralità di quel luogo e ciò mi fece rabbrividire. Sussurri, come echi lontani, mi circondarono. Erano voci inconsistenti e incoerenti, ma sentivo che mi stavano invitando ad entrare.

Esitai. Avevo superato la prova del lago e anche la foresta mi aveva guidato verso quel luogo e anche ora sentivo che qualcosa o qualcuno mi stava chiamando. In quel momento vissi un dejà vu. Avevo già sperimentato quella sensazione, la paura di compiere un passo che, lo sapevo, avrebbe cambiato per sempre la mia vita.

Come quella volta, quando Sherlock Holmes mi invitò a seguirlo nel caso dei suicidi, mi sentivo in bilico tra la stabilità e il desiderio d'avventura.

L'esitazione non durò che qualche istante. Con passi decisi mi diressi verso l'imponente portone di legno scuro, sul quale rilucevano due battenti. Non erano semplici anelli di metallo. Erano grandi lettere d'oro che, rincorrendosi in un circolo, formavano le parole MIND PALACE.

Ne presi uno con mano tremante e lo sollevai lentamente. Era spesso e pesante. Lo alzai quanto bastò, poi mi scivolò dalle dita e andò ad abbattersi sull'ebano del portone con un rumore sordo che riecheggiò attorno a me, facendomi sobbalzare.

Indietreggiai di qualche passo e rimasi in ascolto. L'eco di quel suono si stava già spegnendo all'orizzonte, quando percepii il rumore discreto di passi che si avvicinavano dall'interno del palazzo.

Il portone si aprì lentamente gemendo sui cardini e la luce di una lampada illuminò il viso di chi mi stava accogliendo. Con mia somma sorpresa riconobbi la signora Hudson.

“Benvenuto, dottor Watson. La stavo aspettando”

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Capitolo 2
*** Ingresso ***


Eccoci al secondo capitolo. Ho apprezzato molto le vostre recensioni e spero che anche questo sia all'altezza delle vostre aspettative.

Buona lettura.

Mini

 

 

 

 

 

 

Ingresso

 

 

 

 

 

La signora Hudson mi sorrideva, al di là della porta, invitandomi con lo sguardo ad entrare. Era elegantissima e indossava un abito che la faceva assomigliare alla custode di un maniero. Reggeva un candelabro a tre braccia che illuminava buona parte della stanza. Fece due passi indietro, scostandosi dall'uscio per permettermi di passare.

Esitai. Il buio dietro di lei mi inquietava ma, dopo aver affrontato la foresta, decisi che non mi sarei potuto fermare proprio in quel momento. Tanto più che ormai avevo capito di trovarmi in un sogno. Cosa mi sarebbe potuto accadere? Entrai timidamente, quasi come mi trovassi in un tempio.

La seguii mentre mi faceva strada attraverso l'ingresso.

Era un ambiente ampio, dentro il quale l'eco dei nostri passi rimbombava, disperdendosi nella profondità del soffitto, di cui non riuscivo ad intuire la fine.

Mi attardai guardandomi attorno. Le pareti erano alte e spoglie, formate da ampie pietre squadrate, nere e lucide. Mi avvicinai per guardarle meglio e sfiorai il mio riflesso. Era ossidiana * Riluceva misteriosa sotto le mie dita. All'apparenza sembrava fredda come il ghiaccio, ma al tocco risultò calda, come la lava che l'aveva generata. Guardai con maggiore attenzione e scorsi un grande portone, verso il quale ci stavano dirigendo.

“Dove siamo, signora Hudson?” chiesi raggiungendola e camminando al suo fianco “Che posto è? Cos'è quel lago? E la foresta? Mi può spiegare?”

Lei mi guardò teneramente, come una mamma amorevole.

“Non lo so, John. Proprio non lo so”

La osservai a lungo, incredulo. Com'è possibile che non lo sappia? Sembra così assurdo!

La presi per un braccio e la costrinsi a fermarsi, per guardarmi negli occhi.

“Davvero non sa dove siamo? Mi dica la verità! Lei cosa ci fa qui? Fuori ho incontrato i due poliziotti di Scotland Yard … non riuscivano a passare, ma lei … lei è qui.

Lei mi sorrise più radiosamente, ma notai un velo di tristezza sui suoi occhi sempre così gentili.

“Tanti anni fa fui chiamata da questo luogo. Non so come ci giunsi né perché mi attirava tanto. Superai il lago e la foresta ed entrai qui. Il castello mi voleva ... voleva che restassi qui. Mi ritrovai una chiave in tasca. Fino a quel momento non c'era. Era comparsa all'improvviso. La usai per aprire il portone che hai appena attraversato ed entrai. Da allora veglio su queste stanze silenziose. Da quando sono qui, altre persone sono arrivate e sono andate oltre ma io …”

Si avvicinò lentamente al portone e sfiorò la toppa con dita tremanti.

“ … non sono mai riuscita ad andare oltre questa porta. Non posseggo la chiave. Il mio posto è qui”

Annuì sempre sorridendo, come per convincere sé stessa di quello che stava dicendo, poi tornò sui suoi passi. La luce del candelabro si affievoliva man mano che lei si allontanava e presto rimasi nel buio e nel silenzio più assoluto. Mi volsi e vidi una strana luce irradiarsi dalla toppa. Sembrava invitarmi ad inserire la chiave … che non avevo.

Mi venne naturale infilare le mani in tasca e, sulla sinistra, vi trovai un oggetto che le mie dita identificarono come una chiave.

La estrassi e la osservai, sfruttando la luce fioca della porta. Non aveva nulla di speciale. Era una semplice chiave, ma senza esitare la infilai nella serratura e la feci girare.

Nello stesso istante in cui sentii il meccanismo scattare, il metallo si sbriciolò tra le mie dita. Diedi una piccola spinta alla porta e questa si aprì cigolando. Con passi svelti entrai e la porta si richiuse dietro di me con un colpo secco e sonoro, lasciandomi nuovamente nell'oscurità.

Sospirai, chiedendomi quando tutto questo sarebbe finito, poi sentii dei rumori strani, farsi sempre più vicini. Cercai di aguzzare la vista, nonostante il buio e infine vidi una lucetta che saltellava nella mia direzione. Sbattei le palpebre, incredulo. Una luce che … saltellava? Quando si avvicinò lo vidi meglio.

Era un coniglietto. Un coniglietto bianco luminescente che mi veniva incontro. Lo riconobbi all'istante.

“Bluebell?” **

L'animale si fermò e annusò l'aria, facendo fremere i baffi candidi, come a volermi rispondere affermativamente. Mi chinai per prenderlo tra le braccia, ma saltellò via prima che potessi anche solo sfiorarlo.

La luce del suo manto mi fece strada lungo il corridoio, sul quale intravidi diverse porte chiuse.

C'erano delle targhe color bronzo attaccate al legno, ma con quella poca luce non riuscivo a leggere bene cosa ci fosse scritto. Cercai di avvicinarmi, incuriosito, ma il coniglietto continuò ad avanzare.

Mi sentii un po' come Alice che insegue il Bianconiglio e, in effetti, quello era un luogo di sogno, solo che non avevo idea di dove mi avrebbe condotto quello strano cammino.

Una voce dentro di me, quella che ogni tanto si fa strada nella mia coscienza quando io e Sherlock siamo in pericolo, mi diceva di tornare indietro, di sottrarmi a quell'avventura che potrebbe essermi fatale.

La ignorai, come sempre. Non mi tiravo indietro quando si trattava di un serial killer impazzito, perché avrei dovuto rinunciare a quello strano inseguimento? Inoltre ero in un sogno … cosa mi sarebbe potuto succedere di male?

Camminavo e camminavo, eppure sembrava che andassi sempre più piano rispetto al coniglietto. Inoltre sembrava che il corridoio si allungasse all'infinito, come se fosse teso da mani invisibili. Continuai a camminare, determinato a raggiungere la mia meta, quando finalmente vidi all'orizzonte una porta. Era più grande di tutte le altre, sembrava il portone d'ingresso di una chiesa o di un tempio antico. Cercai di avvicinarmi più che potei, ma in quel momento avvenne qualcosa che mi spaventò.

Sentii un lieve rumore sotto i miei piedi e percepii il vibrare del pavimento. Le piastrelle stavano tremando come se ci fosse stato un terremoto. Scostai il piede dalla piastrella sotto di me e questa si sbriciolò. Fu un istante. Anche tutte le altre e così pure i mattoni delle pareti, si dissolsero davanti ai miei occhi. Il corridoio stava svanendo, sgretolandosi velocemente, in un turbinio di ceramica, legno e mattoni, che diventarono un turbine di sabbia che mi oscura la vista. La luce di Bluebell invece di sparire in mezzo a quella tempesta si fece più intensa. Il vento fischiava nelle mie orecchie con un suono stranamente familiare. All'inizio pensavo che fosse il suono tipico del vento, poi capii che si trattava del trillo acuto e fastidioso della sveglia del mio cellulare.

“No! Non è possibile! Nooo!”

Se quello era un sogno e il suono che stavo sentendo era la sveglia, significava che il sogno si stava spezzando … ma non poteva finire così! Cercai invano di afferrare qualcosa di solido, ma era polvere che si disperdeva tra le mie dita, inoltre la luce del coniglietto si stava facendo sempre più intesa e preso dovetti chiudere gli occhi per non esserne accecato.

 

Mi svegliai.

Sherlock vegliava davanti a me con una tazza di tè in mano. Mi guardava stupito e in quel momento mi resi conto che stavo ancora agitando le braccia. Posai le mani sui braccioli della poltrona e mi schiarii la voce. Lui non mi chiese niente e io non parlai, ma era chiaro che era preoccupato.

Presi la tazza che mi offriva e sorseggiai lentamente. Nonostante stessi quasi per ustionarmi feci finta di nulla e gli sorrisi. Forse pensava che fosse qualche incubo sull'Afghanistan e decisi di non contraddirlo.

“Che programmi hai per oggi? Non penso ci sia bisogno di me in ambulatorio, perciò se hai qualche caso per il quale ti serve il mio aiuto ...”

Non feci in tempo a finire la frase che sentii il rumore della suoneria dei suoi messaggi. Probabilmente era Lestrade che aveva bisogno di lui. Il sorriso che si allargò sul suo viso mi fece capire che non avevo sbagliato.

“Allora, cosa dice?”

“Dobbiamo andare in una scena del crimine, immediatamente!” rispose lui poggiando la sua tazza ancora piena sul tavolino e andando a vestirsi al volo.

Finii di bere il mio tè e lo seguii giù per le scale. Chiaramente aveva già chiamato un taxi e stava salendo quando lo raggiunsi.

“Sempre di poche parole, eh?” chiesi ridendo e sedendomi al suo fianco “Ti ricordo che mi sono appena svegliato”

Lui sorrise appena ma non mi rispose. La sua mente era ormai oltre me, oltre il presente. Mi chiesi quali pensieri lo animassero in quel momento. Mi aveva sempre detto che è sbagliato fare congetture prima di avere in mano dei dati perciò mi chiesi a cosa stesse pensando. Lo osservai con attenzione.

Non c'era più traccia dell'uomo stanco e annoiato di quegli ultimi giorni. In lui vidi il violinista della sera precedente. Tutto il suo corpo vibrava ed emanava energia. Era quasi stancante osservarlo. I muscoli del collo erano tesi, come quelli di un cane da caccia che ha fiutato la pista, mentre il viso risplendeva di luce propria. Non sapeva ancora a cosa sarebbe andato incontro, ma la sola idea dell'avventura lo riempiva di entusiasmo. Erano stati troppi i giorni in cui la sua mente straordinaria era stata messa a riposo. Meglio, quello che le persone normali chiamano riposo e per lui era una specie di tortura e che io condividevo mio malgrado.

Quando si trovava in un momento di stallo diventava intrattabile e io ne pagavo le conseguenze. Nei momenti di attività invece si trasformava e sembrava diventare addirittura un essere umano capace di provare sentimenti.

 

Quando infine giungemmo a destinazione un brivido di dubbio mi percorse la schiena. Se per caso Lestrade lo ha chiamato per un caso banale lui si arrabbierà molto e sarà peggio.

Scendemmo dal taxi che pagò con un gesto distratto e ci avviammo verso la scena del crimine. Con le sue gambe lunghe ci mise poco a superarmi, ma correndo riuscii ugualmente a raggiungerlo.

Lo vidi già battibeccare con Sally Donovan. Tipico.

Mi passai una mano sul viso per non dover vedere quella scena, ma fui costretto a fare da paciere. Non potevo tirarmi indietro, ma prima volevo sentire cosa dicessero. Mi avvicinai con le mani dietro la schiena come se mi facessi gli affari miei. Sherlock era davanti a lei, con le mani in tasca. Lei ridacchiò, probabilmente stava dicendo qualcosa di molto carino. Arrivai giusto in tempo per sentire l'ultima frase.

“ … non è detto che tu lo sia!”

Lei sorrise. Non è detto che tu sia … cosa? Mi avvicinai e cercai di inserirmi nella discussione. Con un tono ironico che sapevo solo Sherlock avrebbe capito, cercai di fingere di essere suo alleato.

“Salve Sally. Come al solito Sherlock ti infastidisce?”

Le feci l'occhiolino e lei si rilassò.

“Sì, Dottore” Esitò e guardò Sherlock senza sapere bene cosa dire “In realtà non ha detto nulla di male, viene qui con quel suo fare da sbruffone, come se fosse un nostro collega. Non fa parte di Scotland Yard ma si atteggia come se fosse un nostro superiore!”

Sherlock scosse la testa piano e le regalò un'occhiata carica di finta compassione.

“Io vi sono superiore, in molti sensi. Prima di tutto sono molto più intelligente di voi e inoltre, in veste di detective consulente posso considerarmi al pari dell'Ispettore Lestrade, quindi un vostro superiore”

Lo sguardo cambiò da compassionevole a trionfante, ma in quel momento arrivò Anderson.

“Superiore? Tu saresti un nostro superiore? Dovresti esserci grato solo perché ti permettiamo di sbirciare le scene del crimine e ti lasciamo esporre le tue stravaganti teorie in merito ...”

Fece roteare la mano in aria, in un gesto di sufficienza.

“Non nego che qualche volta risultino esatte, ma si tratta di fortuna. Pura fortuna. Noi lo facciamo per lavoro, tu sei solo un dilettante”

Rise malignamente, seguito a ruota da Sally, che ebbe almeno il buon gusto di coprirsi la bocca con la mano. Sherlock lo guardò apparentemente impassibile. Loro erano così impegnati a ridere che non si accorsero di un lieve movimento del suo viso. Osservandolo notai le sue narici vibrare. Fu solo per un istante perché subito dopo riacquistò il totale controllo di sé e li guardò freddamente.

“Sì, hai ragione Anderson, però non dimenticate che l'arca di Noè fu costruita da un dilettante e il Titanic da professionisti” ***

In quel momento vidi qualcosa di straordinario. Non sapevo se fossi ancora addormentato o se fu semplicemente la mia immaginazione a farmi brutti scherzi.

Anderson, sorpreso dall'uscita di Sherlock, inciampò e cadde a faccia in giù sull'asfalto bagnato. Cercò di rialzarsi ma la rabbia e l'imbarazzo lo fecero scivolare di nuovo un paio di volte. Niente di strano, direte voi. Il fatto è che, per un istante, mi sembrò che da Sherlock partisse un tentacolo, lo stesso che avevo visto emergere dal lago del sogno, che lo fece inciampare.

Mi sfregai gli occhi più volte, incredulo. D'accordo, mi ero appena svegliato dopo una notte non proprio ristoratrice, ma quell'allucinazione era troppo. Doveva per forza trattarsi di una mia fantasia, residuo di quel sogno, ma capii che potevo trarne qualche intuizione in più su Sherlock, sul suo modo di relazionarsi con gli altri.

Mentre Sally aiutava Anderson a rialzarsi notai un sorriso tirato nel viso del mio amico. Sembrava che lo stesse deridendo silenziosamente, in realtà capii che soffriva. Gli attacchi di quei due stupidi lo facevano mettere sulla difensiva e, invece di aprirsi, si chiudeva sempre più in sé stesso, ricorrendo a quelle battute e alle deduzioni non per attaccare ma per innalzare un muro tra sé e chi voleva ferirlo.

Lo raggiunsi mentre entrava nell'edificio dove era stato perpetrato il delitto. Lo presi per un braccio e gli sorrisi. Solitamente lo avrei rimproverato per il suo comportamento, ma stavolta non me la sentii. Lui ricambiò il sorriso con espressione incredula e stavo per parlare, quando arrivò Lestrade.

Ci salutò con la solita cordialità, ma l'espressione di Sherlock gli fece capire che non era il caso di dilungarsi in inutili saluti. In breve ci spiegò cosa era successo.

La vittima era una giovane prostituta, già conosciuta dalla polizia per i suoi trascorsi, barbaramente uccisa con l'ausilio di un coltello. I segni sul collo erano evidenti ma non aveva perso molto sangue, segno che era già morta quando le era stata tagliata la gola. Sul viso c'erano diversi ematomi, lasciti dalla mano che, premendo forte sulla sua bocca, le aveva tolto il respiro.

Ciò che mi agghiacciò di più fu il suo corpo. Se dal collo in su poteva sembrare abbastanza normale, la stessa cosa non si poteva dire del ventre.

L'assassino non solo l'aveva soffocata e per maggior sicurezza le aveva tagliato la gola, l'aveva sventrata. Non voglio dilungarmi a descrivere l'orrendo spettacolo di sangue che vidi in quel pavimento. Guardai Sherlock. Nel mio viso doveva essere chiaro lo sgomento, il disgusto e la pietà per quella donna, ma in lui non scorsi nessun mutamento. Era freddo e lontano come una statua di marmo.

“A quanto pare ti sei trovato di fronte un caso irrisolvibile” lo apostrofò Anderson entrando “Non serve che tu ci dica quello che già sappiamo. Lo stile e la scelta della vittima corrispondono perfettamente con il profilo di quel serial killer che tanti anni fa fu chiamato 'Jack lo Squartatore'. Nessuno è riuscito a scoprire l'identità di quell'uomo in passato e sono più che sicuro che nemmeno tu ci riuscirai”

L'uomo rise sguaiatamente. Guardai prima Sherlock, che rimase impassibile, poi Lestrade, che si massaggiava piano la fronte e scuoteva la testa, imbarazzato dal comportamento del suo dipendente.

Sherlock si strinse nelle spalle e, ottenuto un gesto d'assenso da parte dell'Ispettore, iniziò il suo giro di perlustrazione. Estrasse la sua immancabile lente a scorrimento e osservò minuziosamente ogni centimetro della stanza, soffermandosi specialmente attorno alla vittima.

“Immagino che tu abbia già fatto il tuo lavoro, inviando dei campioni sia al laboratorio di Scotland Yard che al Barts, vero Anderson?” gli domandò senza guardarlo, troppo impegnato ad osservare uno dei segni sul viso della donna

“Te l'ho detto che è il mio lavoro, Strambo. È ovvio che l'ho fatto”

“Ottimo. Visto che è il tuo lavoro, sarà doppiamente deplorevole se non riuscirete a trovare l'assassino. Per me non ci sarà nessun problema se non dovessi riuscirci … visto che sono solo un dilettante, no?”

Gli regalò un falso sorriso e richiuse la lente tra le lunghe dita sottili.

“Lestrade, io qui ho finito. Se i campioni saranno già arrivati andrò subito ad analizzarli”

Greg annuì e con un gesto chiamò un paio di agenti, che si occuparono di trasportare il cadavere di quella povera infelice per l'autopsia.

Ebbi un'ultima visione del corpo, poi seguii velocemente Sherlock all'aria aperta. Avevo bisogno di ossigeno. L'atmosfera in quella stanza era soffocante. Camminammo l'uno affianco all'altro per un po', in silenzio. Mi domandai perché non chiamasse un taxi.

“Sherlock?” lo chiamai, preoccupato “Tutto bene?”

Lui annuì piano, poi alzò una mano e pochi istanti dopo un taxi accostò in fianco a noi. Lui salì a bordo e stavo per fare altrettanto, ma mi vidi chiudere la portiera davanti al naso. L'auto ripartì prima che potessi dire qualcosa, lasciandomi lì come un fesso.

Stavo per arrabbiarmi, poi capii. Voleva rimanere solo. Forse quella visione orrenda aveva colpito anche lui e voleva tenermelo nascosto?

Sospirai e mi avviai verso la fermata della metropolitana, che si trovava poco distante, per andare in ambulatorio e vedere se almeno Sarah avesse avuto bisogno d'aiuto.

 

Rientrai a Baker Street a sera fatta. Il lavoro era anche più del previsto e dovetti rimanere lì anche oltre il solito orario. Speravo che Sherlock fosse già tornato ma il nostro appartamento era vuoto e silenzioso. Mi preparai una cena veloce e mi feci una doccia ma quando entrai in salotto, comodamente vestito con il pigiama, capii che ero ancora solo. Mi sedetti nella mia poltrona e osservai quella di Sherlock. Adagiato sulla pelle nera c'era ancora il suo violino.

Il ricordo della musica meravigliosa che mi aveva guidato in quel sogno così strano si fece vivo nella mia mente e provai un'improvvisa e fortissima nostalgia per il mio coinquilino. Mi chiesi dove potesse essere, poi mi diedi subito dell'idiota. Chiaramente sarebbe stato al Barts, esaminando chissà quali campioni e aiutando Molly con l'autopsia della donna. Sospirai perché sapevo che non sarebbe rientrato prima del giorno dopo, ma avrei tanto voluto sentirlo suonare di nuovo.

Il sogno, la strana visione del tentacolo e poi quella sua fuga in taxi, il lasciarmi solo o meglio, il voler stare solo, mi avevano messo una strana sensazione addosso che non sapevo spiegarmi.

Senza sapere cosa stessi facendo presi il suo violino e lo posai tra le mie gambe poi, come lo avevo visto fare tante volte nei momenti di noia più nera, iniziai a pizzicare distrattamente le corde, producendo un suono basso e monotono.

La stanchezza accumulata durante il giorno e quel continuo rumore che io stesso stavo producendo mi accompagnarono nuovamente nel sonno e, prima che me ne rendessi conto, mi ritrovai nuovamente nel corridoio del Mind Palace.

 

 

 

 

 

 

Note:

 

* Ossidiana - La pietra psichica
L'Ossidiana era lava di eruzione vulcanica. È una pietra che sta in relazione con la purificazione dell'ego, bruciandolo e lasciandolo in un mucchietto di ceneri.
Essa sa che l'ego è un ostacolo per la manifestazione dello spirito e per questo lo considera suo nemico. Nella sua azione è molto dura con esso, lo detesta e intraprende una guerra feroce contro l'ego. E' astuta quanto lui.
La sua tattica è quella di annullarlo facendolo apparire ai nostri occhi così com'è. E' una pietra di auto-conoscenza e le sue macchie bianche simboleggiano il "guardarci dentro" che ci aiuta a fare.
L'Ossidiana è collegata con il subconscio e il suo principale obiettivo è quello di portare alla nostra coscienza la realtà della nostra psiche e della nostra memoria. Le realtà dalle quali cerchiamo di fuggire, nascondendole nella profondità del subconscio, attraverso l'oblio.
Il colore nero è un colore sacro perché rappresenta il riposo eterno e l'anima pacificata.

 

** Devo dirlo? Blubell! Suvvia! Blubell! Il Mastino di Baskerville! (non 'dei Baskerville, mi raccomando)

 

*** Non ricordo dove lessi questa battuta o chi la pronunciò, ma mi sembrava carino inserirla.

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Capitolo 3
*** La Stanza del sapere ***


Eccomi con un nuovo capitolo! Non so che altro dire … se non recensite! Recensite!! è una storia particolare e vorrei proprio conoscere la vostra opinione in merito!

Intanto … Buona lettura!

 

Mini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La Stanza del Sapere

 

 

 

 

 

 

 

Il corridoio era lo stesso del sogno precedente, solo che stavolta non era buio. Non avevo bisogno della guida del coniglietto geneticamente modificato per orientarmi tra quelle mura nere e lucide.

Grosse torce, incastonate tra i mattoni, illuminavano il mio cammino e ancora una volta vidi le porte contrassegnate dai cartellini di bronzo.

Non sapevo cosa mi sarebbe aspettato una volta varcata una di queste soglie, ma ero consapevole che era mio dovere farlo. Perché sarei stato lì, altrimenti? Non potevo sprecare quell'occasione, dovevo andare fino in fondo.

Mi guardai attorno. Non sapevo scegliere da dove iniziare. C'erano così tante porte! Camminai lentamente, come guidato da uno strano istinto e mi avvicinai ad una luce. Una delle porte era socchiusa e dall'interno provenivano degli strani rumori. Mi avvicinai e lessi la targhetta. C'era scritto:

 

Stanza del sapere

 

Mi affacciai ed entrai in un ambiente immenso. Mi protessi gli occhi per difenderli dalla luce intensa che proveniva da quel luogo. Quando finalmente vidi meglio, mi accorsi di essere dentro una maestosa biblioteca. Vedendola mi ricordò molto quella del British Museum. Le pareti erano completamente foderate di scaffali stracolmi di libri, raggiungibili grazie a numerose passerelle sospese alle quali si poteva accedere tramite delle scale. Anche il piano terra era un labirinto di scaffali più o meno alti, sempre pieni di tomi.

Mi aggirai tra i mobili, guardando le etichette. Tutto era sapientemente catalogato. Osservai incuriosito. Quindi quello era il luogo in cui Sherlock conservava tutta la sua conoscenza. Fischiai ammirato. Era davvero enorme! Passando davanti alle mensole lessi gli argomenti.

Un'ampia zona era riservata alla cronaca nera. Pile e pile di giornali, divisi per anno e per importanza, erano accatastati ordinatamente negli scaffali. Vidi moltissime copie del Times, ma c'erano anche giornali scandalistici. Evidentemente le informazioni potevano essere trovate nei luoghi più impensabili.

Proseguii. Più avanti trovai le sezioni dedicate alla botanica. Presi a caso qualche libro e lo sfogliai. Non erano molto vari. Non c'era nulla che riguardasse l'orticoltura o l'agricoltura. Si trattava di libri di fiori e piante velenose o tossiche.

Oltre quegli scaffali c'erano i libri di geologia. Un numero notevole, ma rimasi impressionato di fronte ai libri di chimica. Occupavano decine di scaffali sia al piano terra che sulle pareti e si confondevano con quelli di anatomia e, con mia sorpresa, con quelli riguardanti le arti marziali e la cultura giapponese.

Su alcune vetrine, che prima non avevo notato, erano conservati diversi strumenti musicali. Violini, chitarre e alcuni che non avevo mai visto. Gli scaffali erano pieni spartiti. Alcuni erano nuovi, altri vecchi e rovinati dall'usura. Alcuni erano brani famosi e li riconobbi, altri erano scritti a mano. Probabilmente si trattava delle fantasie musicali di Sherlock.

Ero affascinato dalla quantità di informazioni e conoscenze che aveva saputo accumulare negli anni.

Continuai a camminare e mi scontrai in una sezione piuttosto strana.

Se gli altri erano evidentemente stampati, questi erano scritti a mano. Riconobbi la grafia acuta e sgraziata di Sherlock. Ciò che stavo leggendo non era ciò che il mio amico aveva imparato dall'esterno, studiando le varie materie. Erano osservazioni e appunti che lui aveva preso sulla realtà che lo circondava. Lessi i titoli più stravaganti, che nemmeno in cento anni di sogni sarebbero mai potuti venirmi in mente.

Forma e callosità delle mani e rispettive professioni.

Segni e logoramento degli abiti.

243 tipi di cenere di tabacco da pipa, sigari e sigarette.

Tatuaggi e segni identificativi.

Guida all'identificazione delle impronte nel fango, nella polvere e nell'erba.

Suole di scarpe, stivali e 24 tipi diversi di scarpe.

Copertoni di bicicletta, moto, automobili, camion e aerei.

Orologi, gioielli e oggetti di lusso.

Cellulari, marche e segni identificativi.

Camicie e gemelli.

Festività internazionali, usi e costumi.

Risi, leggendo quei titoli. Ce n'erano altri ancora più strani, tutti scritti a mano e arricchiti da fotografie e disegni. Una ricerca meticolosa, frutto dell'impegno di anni e anni di dedizione.

Sembrava impossibile che avesse potuto memorizzare tutti quei dati. Più probabilmente sapeva che erano nella sua testa e andava a cercarli solo quando era necessario. In quel momento capii cosa provava quando diceva di recarsi nel suo 'mind palace' per cercare le informazioni necessarie a casi.

Continuai ad aggirarmi tra quei tomi, prendendone alcuni distrattamente e sfogliandoli ammirato per la cura con cui erano stati redatti, quando mi giunse all'orecchio il tintinnio di alcuni vetri.

Andai verso quel rumore e vidi, chino su un tavolo da lavoro, un uomo. Era alto e magro, ma di lui in quel momento potevo vedere solo le laboriose mani, intente a trafficare con provette e alambicchi. Mi avvicinai cauto.

“Benvenuto, dottor Watson”

Sussultai, preso alla sprovvista. L'uomo si voltò. Aveva un viso magrissimo. Il mento era squadrato e pronunciato e il naso era affilato e leggermente aquilino. Somigliava in qualche modo a Sherlock ma non potevo esserne sicuro. Mi sentivo così confuso che non capivo più cosa era reale e cosa no.

L'uomo posò una provetta che teneva tra le mani, se le pulì su uno straccio bianco e me ne tese una. Era magra e le dita sottili e affusolate erano segnate dall'azione corrosiva degli acidi.

“Sono il dottor Joseph Bell *” mi disse e la sua stretta mi strappò un gemito di dolore. La sua presa, contrariamente da quello che mi sarei potuto aspettare, era salda e decisa.

“Joseph Bell?” domandai incuriosito “Sherlock non mi ha mai parlato di lei”

Il dottor Bell sorrise e si alzò.

“Mi ricordo di Sherlock. Era uno dei miei allievi più promettenti. È un vero peccato che non sia riuscito a laurearsi, ma d'altra parte devo ammettere che è riuscito a raccogliere una quantità strabiliante di informazioni. Cos'è una laurea se non un pezzo di carta?”

Non sapevo nulla degli studi di Sherlock e tanto meno che non li avesse terminati. Quell'uomo sapeva qualcosa del passato del mio amico e volevo indagare, anche a costo di sembrare sfacciato.

“Cosa ci fa lei qui?” mi guardai attorno “Nel Mind Palace di Sherlock?”

Lui sorrise dolcemente.

“Non pensi che mi trovi qui per motivi sentimentali, dottor Watson. Per Sherlock rappresento tutto ciò che riguarda la cultura, l'apprendimento e la scienza. Sono stato per lui un grande maestro, uno dei pochi o addirittura l'unico che sia riuscito a vedere tutto il suo potenziale. Ho visto al di là dei suoi problemi, delle sue idiosincrasie e della sua dipendenza dalla cocaina. Ho visto la sua intelligenza, la sua curiosità. Arrivai qui parecchi anni fa, quando Sherlock iniziò a maturare il desiderio di diventare detective, quando decise che avrebbe avuto bisogno di un metodo per tenere a mente tutte le informazioni necessarie per i suoi scopi. Io sono un custode, proteggo tutto ciò che è importante per il suo lavoro”

Mi guardai attorno. Ciò che era importante per il suo lavoro occupava uno spazio considerevole nel suo Mind Palace. Non sapevo se esserne contento o desolato. In fin dei conti lui era sempre stato chiaro con me. Per lui non contava altro che il lavoro. Le informazioni che riteneva inutili e addirittura i sentimenti non trovavano posto nella sua mente strabiliante. Evidentemente il dottor Bell, come Sherlock, aveva la straordinaria capacità di intuire i pensieri altrui perché, sorridendo e senza dire una parola mi indicò con un moto eloquente del viso una porticina che prima non avevo notato.

Ciò che mi balzò subito all'occhio era che apparentemente non c'entra nulla con l'ambiente in cui mi trovato. Se l'ampia stanza che conteneva la conoscenza di Sherlock Holmes era elegante, ariosa e rifinita di legni e marmi pregiati, quella porta sembrava provenire da una vecchia soffitta abbandonata. Era di un legno chiaro, rovinato dal tempo e dai tarli. Guardai Bell ma lui era già ritornato al lavoro. Sembrava essersi ormai dimenticato di me, così mi avvicinai a quella porticina.

Dovetti chinarmi per aprirla e dovetti poi inginocchiarmi per entrare. Varcato l'uscio mi trovai di fronte ad una stretta e buia scala a chiocciola, illuminata malamente da alcune feritoie. Sembrava di trovarsi nella torre si un castello. A me ricordò in modo impressionante l'interno del Monument **. Mi chiesi dove portasse, ma la domanda trovò poco spazio nella mia mente. L'istinto prese il sopravvento e mosse le mie gambe prima che potessi pensare razionalmente.

La salita fu faticosa. La scala era ripida e sembrava non finire mai. Mi fermai un paio di volte per riposare, ma la curiosità era tale che non avrei rinunciato per nulla al mondo a quella scalata.

Quando stavo per esaurire le forze, scorsi un'altra porticina, simile a quella trovata al pian terreno. Mi avvicinai cauto e l'aprii.

Mozziconi di vecchie candele impolverate illuminavano un'ampia soffitta. L'ambiente era buio e non riuscii a vederne la fine, ma sembrava ampio quanto la biblioteca dalla quale ero appena uscito.

Mi parve strano che una così stretta scala conducesse in un luogo tanto grande. Mi aggirai tra pile e pile di libri muffiti, buttati lì a casaccio. Lessi distrattamente i titoli. C'erano trattati di astronomia, romanzi d'amore, d'avventura. Tutta la letteratura d'evasione stava lì, brutalmente accantonata.

Risi pensando a quante informazioni aveva deciso di buttare. La quantità di libri era paragonabile a quella della biblioteca sottostante ma questi erano impolverati e ovviamente ignorati da anni.

Il modo in cui aveva rimosso tutte quelle informazioni mi fece rimanere male, ma mi sentii stringere il cuore quando qualcosa che mai mi sarei aspettato di vedere lì.

C'era un mobile sgangherato. Le ante pendevano con i vetri sporchi e rotti. All'interno c'erano delle cornici che racchiudevano le fotografie di quelli che erano inequivocabilmente i suoi parenti.

Mi avvicinai. Sotto ogni viso c'era una traghetta con un nome.

Violet Holmes (mamma)

Siger Holmes (papà)

Basil Holmes (zio)

Scorsi i visi di altri parenti. Zie, zii, nonne, nonni. Mycroft non c'era. Probabilmente la sua presenza fin troppo soffocante gli impediva di dimenticarsi di lui.

Scossi la testa, deluso. Non avrei mai pensato che sarebbe stato capace di dimenticare la sua famiglia. Perché l'aveva fatto? Cosa gli era successo per spingerlo a voler dimenticare per sempre quelle persone? Un conto era l'astronomia o qualche romanzo d'appendice, ma vedere lì i volti della sua famiglia mi raggelò. Sentii che dovevo fare qualcosa e in quel momento mi venne in mente un'idea.

Se avevo il potere di esplorare quei luoghi, potevo anche condizionare la sua mente? Sapevo che era una cosa non del tutto corretta, ma non potevo lasciare che quei ricordi fossero dimenticati in quell'angolo remoto della sua memoria. Intuii che dietro alcune spesse e impolverate tende si celassero delle finestre. Ne strappai una con decisione e vidi che avevo ragione.

La luce del sole filtrò tra i vetri sporchi. Mi affrettai ad aprire per far entrare un po' d'ossigeno e infatti un venticello frizzante mi scompigliò dolcemente i capelli e spense le vecchie candele. Chiusi gli occhi, godendomi l'aria fresca perché, in effetti, quella soffitta era soffocante. Riordinare quel posto non sarebbe stato facile, ma ce l'avrei messa tutta per metterlo a posto. Strappai altre logore e pesanti tende dalle finestre e feci entrare luce e aria. Già sembrava diverso. Notai alcuni stracci e una scopa e iniziai a raccogliere i libri, sistemandoli negli scaffali.

Lavorai ore, o almeno a me sembrò molto tempo, fino a quando mi sentii stremato. Dovevo tornare alla realtà, sentivo che era ora. C'era ancora tanto lavoro da fare, ma avrei continuato un'altra volta. Prima, però, volevo fare qualcosa di più concreto. Guardai il vecchio mobile con le conici e sorrisi, felice dell'idea che avevo appena avuto.

Mi avvicinai e presi la foto di sua madre. Era una donna bellissima. Aveva lunghi capelli neri e gli stessi occhi chiari di Sherlock, il medesimo sguardo indagatore. Vidi in un angolo una borsa lacera. La raccolsi e vi misi dentro il ritratto e feci lo stesso con quelli degli altri suoi familiari e, vedendo che ci stava ancora un po' di spazio, presi al volo anche un trattato di astronomia.

Ridendo ridiscesi la spirale della scala e tornai nella biblioteca del sapere. Il dottor Bell mi sorrise quando mi vide arrivare con quel fardello e mi indicò un luogo dove poter sistemare il tesoro che avevo trafugato. Strappai un lembo della mia giacca e lo usai per lucidare i vetri e le cornici che, dopo poco, tornarono a risplendere.

Le posai una ad una negli scaffali, facendo attenzione che fossero ben sistemate e posai il trattato di astronomia insieme ad altri libri lì vicino. Annuii di fronte a quel lavoro così ben fatto, ma mi resi conto di essere estremamente stanco. Mi stiracchiai sbadigliando e, dopo aver salutato il dottor Bell con un cenno della testa, uscii dalla biblioteca.

Non sapevo come si sarebbe sciolto il sogno, stavolta. Ero certo che in qualche modo si sarebbe concluso, solo non sapevo come.

Forse l'edificio si sarebbe dissolto come l'ultima volta? Quella era un'eventualità che mi spaventava un po', in effetti. Mi aggirai per il lungo corridoio e vidi un'altra luce, calda e invitante, provenire da una stanza che non avevo visto prima.

Sulla targhetta c'era scritto:

 

Dr. Watson's Room

 

Trattenni il respiro. Nel suo Mind Palace c'era una stanza per me? Entrai timidamente e mi trovai di fronte ad un enorme letto a baldacchino che sembrava estremamente comodo. Non riuscii a vedere altro perché il sonno era tale che mi sentivo attirato da quel materasso come dal canto ipnotico di una sirena.

Mi spogliai e mi coricai sotto le soffici coperte. Odoravano di fiori. Annusai a lungo e riconobbi il dolce e soave profumo dei gerani ***. Chiusi gli occhi e mi rilassai, sprofondando nel sonno.

 

 

 

 

 

Mi risvegliai sereno questa volta. Avevo ormai imparato ad entrare ed uscire da quel luogo e ciò mi rendeva orgoglioso. Mi alzai e mi stiracchiai. Nonostante il lavoro durante il sonno, mi sentivo fresco e riposato. Mi avviai verso la cucina per prepararmi un tè, perché ormai il sole era sorto, ma ciò che vidi mi agghiacciò.

Sherlock era steso a terra, svenuto. Tremava come una foglia e teneva gli occhi serrati, come se stesse soffrendo le pene dell'inferno. Mi avvicinai e gli posai una mano sulla fronte. Scottava. Non ci voleva un genio per capire che aveva la febbre.

Lo presi di peso e lo trascinai a letto. Non fu difficile perché pesava pochissimo. Sembrava fatto di sole ossa.

Lo adagiai sul letto e lo coprii, poi andai a prendere qualcosa per fargli abbassare la temperatura. Un blando antibiotico e un fazzoletto imbevuto d'acqua. Glielo posai sulla fronte e lui sembrò destarsi. Mi guardò con occhi spiritati.

“John! John! Ero appena tornato, stanotte … quando mi sono sentito male … devo essere svenuto ...” disse ansimando e interrompendosi di tanto in tanto per un improvviso attacco di dolore “Ho avuto un incubo … un tremendo incubo … ma ora non … non ricordo ...”

Sembrava sconvolto. Mi chiesi se per caso le mie azioni all'interno del Mind Palace avessero a che fare con quel suo malessere. Sembrava tutto così assurdo, eppure avevo l'evidenza davanti ai miei occhi. Lo strinsi dolcemente finché la medicina non fece effetto e lui si riaddormentò o risvenne. Non lo sapevo. L'importante era che non sentisse dolore. Le mie cure o il tempo l'avrebbero ristabilito, di quello ero certo.

Mi sentivo in colpa, ma sapevo che quella febbre era sintomo di un cambiamento interno che al momento l'aveva sconvolto ma che presto avrebbe avuto effetti positivi su di lui e su chi gli stava attorno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

*

(fonte: wikipedia)

Joseph Bell nacque ad Edimburgo il 2 dicembre 1837. egli fu l'ultimo rappresentante di una dinastia che praticava la chirurgia ad Edimburgo da oltre 150 anni, il cui fondatore fu un certo Benjamin Bell. Come il padre studiò alla locale università di medicina e vi si laureò nel 1858, a soli 21 anni con una tesi sul cancro epiteliale. Da testimonianze di suoi contemporanei è accertato che fu un ottimo chirurgo e una statistica relativa al maggio 1883 rileva che egli perse solo 3 pazienti su 67 interventi effettuati. Bell è noto poiché ebbe come allievo Arthur Conan Doyle, al quale ispirò il personaggio di Sherlock Holmes. Infatti nelle sue lezioni era solito sottolineare l'importanza dell'osservazione nell'esprimere una diagnosi e lo dimostrava esaminando uno sconosciuto ed indovinandone, in base all'aspetto, l'occupazione e le recenti attività.

Un celeberrimo caso narrato da Sir Arthur Conan Doyle nella sua autobiografia dimostra come Bell insegnasse ai propri studenti l'arte della deduzione:

« "Certo, voi siete un militare, e più precisamente un sottufficiale", disse il dottor Bell ad un suo paziente, "ed avete prestato servizio alle Bermude. Ora, Signori, come faccio a saperlo? È entrato nella stanza senza togliersi il cappello, come se entrasse in fureria, da cui ne ho dedotto che era un militare. L'aria leggermente autoritaria, abbinata all'età, mi ha fatto supporre che fosse un sottufficiale. Per finire, l'eruzione cutanea sulla fronte mi ha indicato che era stato alle Bermude, in quanto quel tipo di infezione della pelle colpisce solo in quel luogo". »

Un'altra, sempre contenuta nell'autobiografia, recita così:

« Il dottor Bell fece entrare un paziente. Appena lo vide, disse: "Ve la siete goduta la passeggiata a West Rings? come faccio a saperlo? Semplice. C'è della terra rossa sulle vostre scarpe e quella è l'unica zona dei dintorni in cui c'è quel tipo di suolo". »

Conan Doyle usò poi questa deduzione in uno dei suoi racconti, Cinque semi d'arancio, incluso nella raccolta Le avventure di Sherlock Holmes.

Morì il4 ottobre 1911. Dalla lunga epigrafe pubblicata dall'Edimburgh Medical Journal emerge che Bell era un uomo molto religioso, conservatore, illuminato in politica e gentiluomo colto e brillante che parlava in epigrammi, che sapeva usare il bisturi e le parole in modo abile ed efficace.


 

**

Il Monumento al grande incendio di Londra (in inglese, Monument to the Great Fire of London), più comunemente chiamato The Monument (Il monumento), è stato costruito tra il 1671 ed il 1677 a ricordo del grande incendio di Londra del 1666, su disegno dell'architetto Christopher Wren.


 

***

Geranio: è il simbolo della socievolezza, dell’amicizia e della stima.
E’ una pianta molto diffusa che si regala in ogni occasione in cui si desidera manifestare la propria amicizia.

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Capitolo 4
*** Ombre dal passato e luci dal presente ***


Buon .. giorno, pomeriggio, sera, notte? Non lo so. Sono rimasta alzata fino alle tre per finire questo capitolo che dedico con tutto il cuore a Lady Morgana Ascot, a cui va tutto il mio ringraziamento. Lei sola sa perché, ma mi ha regalato l'ispirazione che mi ha permesso di scrivere questo meraviglioso capitolo. Non mi sono mai divertita così tanto scrivendo e spero si rispecchi anche in ciò che andrete a leggere.

Che altro dire? Leggete e, per favore, recensite.

Buona lettura.

Padmini

 

 

 

 

 

 

 

 

Ombre dal passato e luci dal presente

 

 

 

 

 

 

 

Quel giorno rimasi a casa. Chiamai Sarah per dirle che non mi sarei recato al lavoro. Lei intuì immediatamente che la causa della mia assenza era Sherlock ma non indagò.

Non poteva sapere quale trambusto avevo provocato nella sua mente.

Per tutta la mattina restò a letto, immerso in un sonno febbricitante. Ogni tanto parlava o meglio, chiamava qualcuno. Mi sembrava che invocasse la madre o il padre, ma non potevo esserne sicuro.

L'unica cosa certa era che soffriva tremendamente. Non potevo sapere quali ricordi avessi destato con le mie azioni, ma certamente doveva essere qualcosa di devastante.

Avevo mosso le fondamenta della sua vita, messo in discussione le sue certezze, questo mi appariva ovvio. Gli restai accanto come potei, sostituendo la pezza bagnata sulla sua fronte.

Verso l'una mi scostai da lui per prepararmi un pranzo veloce, giusto un panino. Stavo per tornare in camera per mangiarlo standogli sempre vicino ma quando mi voltai lanciai un grido e il piatto mi scivolò dalle mani, infrangendosi a terra in un fastidioso rumore di ceramica spezzata.

Di fronte a me, pallido come uno spettro, stava Sherlock.

“Cosa ci fai alzato?” gli domandai “Hai la febbre! Devi stare a letto!”

Lui mi guardò senza tentare di celare il panico nei suoi occhi.

“Non voglio stare a letto, John. Non voglio dormire”

Lo guardai senza capire. Scavalcai i cocci del piatto e il ciò che rimaneva del mio panino e lo presi per le spalle.

“Che stai dicendo, Sherlock? Devi dormire!”

Lui scosse la testa.

“No, non voglio … se dormo mi vengono gli incubi … non voglio .. non voglio ...”

Mi straziava il cuore vederlo così. Senza pensarci lo abbracciai. Sapevo che era esclusivamente colpa mia. Sciolsi l'abbraccio e lo presi per mano per condurlo davanti al camino e farlo sedere in poltrona. Lui, stranamente, non protestò. Si raggomitolò e fissò un punto imprecisato davanti a lui. Mi sedetti di fronte a lui e lo osservai. Restammo in silenzio per qualche minuto. Non sapevo se incoraggiarlo a parlare o no, ma quando aprii la bocca per parlare, lui mi precedette.

“Non ti ho mai parlato della mia famiglia, John …”

La sua voce era appena percettibile, un sussurro. Mi sporsi per sentire meglio. Lui chiuse gli occhi. Tremava impercettibilmente.

“Quando avevo diciassette anni cominciai la mia carriera di detective. Risolsi in pochi anni diversi crimini che la polizia aveva archiviato, ma presto desiderai qualcosa di più eccitante. Ciò che volevo era l'azione, il brivido di un crimine fresco, appena commesso. Dovetti chiedere aiuto a Mycroft per avere il permesso di accedere alla scena del crimine. In fin dei conti avevo solo ventun anni”

Fece una pausa per prendere fiato o, semplicemente, per trovare la forza di raccontarmi il seguito.

“Non solo esaminai la scena del crimine subito dopo la polizia scientifica, trovando tutti gli indizi ancora intatti, ma mi misi da solo alla caccia dell'assassino. Ciò che non potevo sapere era che il crimine su cui stavo indagando era più grande di me … era un regolamento di conti di mafia.

Quando mi videro ficcanasare tra i loro affari mi mandarono un messaggio d'avvertimento ma io, naturalmente, non ci badai. Fu quello il mio errore. Gli uomini di quel mafioso non se la presero con me … andarono da mia madre. La rapirono e … la torturarono ...”

A quel punto si nascose il viso tra le mani, ma continuò a parlare.

“Fu Mycroft a intercedere per lei … ancora oggi non so come fece, che contatti usò per liberarla … ma ci riuscì. Una settimana dopo il rapimento mia madre tornò a casa, ma ormai era diversa … era spaventata e mi guardava con occhi nuovi … non mi vedeva più come suo figlio, ma come una minaccia per lei e per la sua famiglia. Sapeva che era a causa mia che le avevano fatto del male … Pian piano iniziai ad allontanarmi dalla mia famiglia, gradualmente ma definitivamente … e li dimenticai. Scordai perfino questo episodio finché …”

“Lo hai sognato?” gli chiesi interrompendolo.

“Non avrei dovuto dirti tutto questo” disse lui, pentendosi immediatamente di quella confidenza. Scossi la testa.

“No, Sherlock. Hai fatto bene. Hai fatto benissimo a raccontarmi questo. È un bene che tu abbia ricominciato a ricordare ...”

“Non so come sia successo, davvero non lo so!” mi interruppe lui “Pensavo di aver dimenticato … rimosso per sempre … eppure ora ricordo tutto! Tutto! Tante cose che avevo scordato … so perfino tutti i nomi dei satelliti di Giove! Eppure non ricordo di averli studiati!”

Risi a quell'affermazione. Evidentemente l'aver spostato il libro di astronomia aveva ottenuto il suo effetto. Tornai subito serio e lo guardai negli occhi.

“Davvero, Sherlock … se sei arrivato a … rimuovere dalla tua memoria perfino la tua famiglia devi aver passato dei brutti momenti, pieni di sensi di colpa, ma non è stata colpa tua. Non lo è stata e anche se lo fosse stata non devi comunque punirti così. Anche i familiari dei poliziotti sono in costante pericolo, eppure abbiamo dei validi elementi a Scotland Yard, che continuano a combattere i criminali anche a costo della loro vita”

Lui rise sentendo quelle parole altisonanti e forse anche per il fatto che credessi che a Scotland Yard ci fossero dei validi elementi, ma non mi interruppe con una delle sue battute ad effetto. Aveva bisogno di sentirsi dire quelle cose e mi lasciò proseguire.

“Ora stai ricordando, non so per quale motivo ...”

Esitai, in realtà sapevo benissimo cosa gli stava succedendo, ma l'avrei tenuto per me.

“... e questo è un bene. Sono sicuro che anche i tuoi familiari vorrebbero riabbracciarti e farti sapere quanto ti amano. In questi anni ti sei fatto un nome, una reputazione. Tutti ti stimano e ti rispettano anche se non te ne rendi conto. Anche i tuoi genitori, ne sono più che certo”

Lo guardai negli occhi. Non ero mai stato più sicuro di una cosa in vita mia. Lui mi restituì uno sguardo incerto. Era la prima volta che lo vedevo così. Lo vidi esitare e tormentarsi e mi chiesi quali strani pensieri gli girassero nella testa.

“Non ne sono sicuro” mi rispose lui “Non so se mia madre voglia vedermi … dopo tutti questi anni ...”

Non l'avevo mai visto in ansia, soprattutto per questioni che riguardassero qualcuno che non fosse lui. Solitamente non dava peso ai commenti o ai giudizi che gli altri gli buttavano addosso, ma in quel caso lo vidi in una pozza di panico nella quale mai mi sarei aspettato di vederlo. Il suo respiro si era fatto appena irregolare e leggermente accelerato, era in preda al panico.

Non doveva essere facile per lui dover affrontare quella paura, in particolar modo dopo tutti quegli anni in cui l'aveva rimossa. Sì, ormai ne ero certo. Aveva cancellato dalla sua vita tutti i sentimenti. Esistevano ancora dentro di lui e una parte inconscia del suo essere premeva perché tornassero a galla, ma ora per lui era come ricominciare da capo.

Dovevo capire che di fronte a me c'era un bambino spaventato e insicuro, ancora inesperto delle emozioni, che non sapeva come gestirle. Tutti quegli anni passati ignorandole lo avevano disabituato alla loro presenza, ma ora stavano tornando prepotentemente trovandolo impreparato di fronte a quella strana marea emotiva.

Mi alzai e andai da lui. Gli posai una mano sulla spalla per fargli da ancora, un peso che lo tenesse legato alla terra, che gli facesse capire che ci sarei stato per lui, sempre.

Quando sentì il contatto con la mia mano pian piano si calmò e anche il respiro si fece più regolare. Abbassò lo sguardo, cercando di elaborare ciò che gli stava succedendo. Restammo così, immobili, per un tempo che mi parve infinito, poi lui rialzò timidamente il viso e mi guardò.

“John … verresti con me?” mi domandò con un filo di voce.

“Dove?” domandai, pur potendo immaginare la risposta.

“Dai miei genitori” mi rispose lui arrossendo leggermente.

Lo guardai con attenzione. Le sue guance pallide si erano tinte di una lieve sfumatura di rosa. Mai, da quando lo conoscevo, l'avevo visto in un tale stato emotivo e il tutto si era verificato grazie al mio intervento. Mi sentivo orgoglioso di me stesso, anche se l'eco di un senso di colpa veniva ogni tanto a farmi visita, come in quel momento. Lo scacciai e sorrisi al mio amico.

“Molto volentieri, Sherlock, ma prima aspetterei che ti passi la febbre. Non me la sento di farti uscire in queste condizioni”

Lui scosse la testa, deciso.

“Non ho più febbre” mi disse andando a recuperare il termometro in camera da letto.

Tornò qualche istante dopo e si mise nuovamente in poltrona per misurarsi la temperatura. Attendemmo qualche minuto e infine lo strumento decretò che era in piena salute. La febbre, così come era comparsa, se n'era andata. Mi sventolò il termometro davanti agli occhi con un sorriso soddisfatto in volto, che ricambiai.

“Vado a preparare le valige? Resteremo via qualche giorno?” domandai, muovendo già qualche passo verso camera mia.

Lui non rispose subito. Si voltò e andò lentamente verso la finestra. Scostò una tenda e osservò Baker Street, forse cercando la risposta, poi annuì. Non mi serviva altro. Andai in camera mia e preparai la valigia per me, poi andai in camera sua e feci altrettanto per lui. Passando dalla cucina per andare in camera sua lo sentii parlare al telefono, molto probabilmente con la madre. Parlava a bassa voce, imbarazzato. Non volevo invadere la sua privacy, ma non resistetti e aprii appena la porta scorrevole che divideva la cucina dal salotto. Lo vidi sorridere mentre parlava e la cosa mi rassicurò.

 

 

Poche ore dopo viaggiavamo su un auto a noleggio in direzione di Farnham, dove vivevano i suoi genitori. Guidavo io perché lui era ancora un po' debole dopo quell'attacco di febbre. Si guardava attorno con trepidazione, come se non vedesse quei luoghi da tanto tempo e cercasse eventuali cambiamenti o semplicemente qualcosa che non fosse mutato e che lo riportasse, rassicurandolo, alla sua infanzia.

Il suo viso era illuminato da una gioia nuova. Non era l'eccitazione per un nuovo caso. Il suo collo non era teso come quando fiutava una nuova pista, era rilassato, come tutto il suo corpo, anche se potevo scorgere un lieve tremito, dovuto alla paura. Nonostante quel piccolo dettagli ci godemmo il viaggio come se fosse il preludio di una nuova avventura. La strada sfilava tra radi boschetti e ampie aree coltivate. Era un piacere respirare aria pulita e osservare l'orizzonte non sbarrato dai profili dei grattacieli di Londra.

 

 

Giungemmo a destinazione nel tardo pomeriggio. Ci inoltrammo tra le case del paese ma proseguimmo oltre, verso la casa della famiglia Holmes, che ci attendeva alla fine di un lungo viale alberato appena fuori la città. Era una vecchia casa nobiliare, che apparteneva alla sua famiglia da generazioni. L'unica differenza era che da proprietari terrieri gli Holmes erano diventati diplomatici, preferendo le fredde stanze degli edifici della C.I.A. ai campi.

Venimmo accolti dalla signora Holmes che non diede tempo a nessuno di noi di parlare. Sommerse il figlio con un caloroso abbraccio senza parole. Li osservai a debita distanza. Sherlock si lasciava abbracciare come mai aveva fatto. Lo vidi rilassarsi tra le braccia di quella donna. La stringeva come lo avevo visto fare solo con la signora Hudson. Quella visione mi intenerì. Erano rari i momenti in cui Sherlock si lasciava andare e mostrava la sua umanità, ma quando si manifestava era capace di farmi venire le lacrime agli occhi. Ricordai quel giorno con la signora Hudson, nel quale la povera donna era stata minacciata e ferita da degli agenti governativi statunitensi. Sherlock non si era arrabbiato, non aveva urlato, ma il suo affetto per la loro padrona di casa era stato sottolineato dai suoi gesti e dalle sue parole. Quella volta era ancora diverso e non mi avvicinai subito per non disturbarli. Non so quanto attesi, forse una decina di minuti, durante i quali Sherlock e sua madre restarono semplicemente abbracciati, ponendo rimedio ad anni di distacco.

Non si parlarono subito, lasciarono che il tepore del contatto trasmettesse quello che mille parole avrebbero reso banale e ci riuscirono perché quando si staccarono vidi negli occhi di Sherlock una luce nuova, una ritrovata serenità. Non lo avevo mai visto così rilassato e in pace con sé stesso. I nodi del passato erano sciolti, le paure esorcizzate, anni e anni di silenzio riempiti da un semplice abbraccio.

Sherlock una volta mi disse che 'Nulla è più sfuggevole dell'ovvio' e in quel momento mi resi conto di quanto quella frase fosse vera. Se fossi stato al suo posto avrei preparato un lungo discorso, provandolo decine di volte davanti allo specchio per poi impappinarmi al momento clou. Lui no, non avrebbe mai fatto nulla del genere. La semplicità con cui aveva affrontato la situazione mi ricordò l'atteggiamento disinvolto con il quale gestiva le sue indagini. Non faceva nulla di inutile, non sprecava energie in gesti superflui, tutte le sue azioni erano finalizzate ad uno scopo ben preciso. Quell'abbraccio riassumeva perfettamente quell'assioma. Era semplice eppure ricco di significati; essenziale, ma nascondeva una passione e un affetto intraducibile se non grazie all'unione di due corpi, due menti e due cuori che da tanti, troppi anni, erano rimasti divisi.

Non sarebbe stato semplice sanare quelle ferite ma, pur essendo estraneo a quella vicenda, risentii positivamente di quel balsamo benefico che sembrava irradiarsi dalle loro anime.

 

 

Il silenzio di quel momento fu presto dimenticato. Quando Violet Holmes mi vide esplose in un riso di gioia. Aveva intuito, senza parole, cosa io fossi per Sherlock. Quando mi accostai a lei mi abbracciò con trasporto e mi ringraziò per essere lì. Mi invitò ad entrare, dicendomi di lasciar perdere le valige, a quelle avremmo pensato più tardi. In soggiorno ci aspettava una teiera piena di cioccolata calda. * La bevemmo stando comodamente seduti in poltrona e mangiando degli ottimi biscotti secchi che si scioglievano nelle nostre bocche con delicatezza. Tutto, in quella stanza, induceva alla pace. Mi chiesi perché Sherlock avesse desiderato, nella sua gioventù, un'evasione da quell'oasi di tranquillità, poi mi resi conto del mio errore di valutazione.

Non era il luogo ad essere sereno. Era lui a emanare placide onde di armonia. Qualcosa in lui era cambiato, era più limpido. Anche il suo sguardo era diverso, me ne accorsi in quel momento. Non erano più gli occhi di ghiaccio impenetrabili e spessi che conoscevo. Erano ariosi e limpidi come un cielo primaverile che, destandosi dal freddo inverno, si sarebbe avviato verso una calda estate.

Risi di cuore, attirandomi il loro sguardo.

“Sembra che si stia divertendo, dottor Watson” mi disse la signora Holmes versandomi altra cioccolata, che accolsi con gioia.

“Sì, Violet” le risposi chiamandola per nome, dopo che lei mi aveva espressamente chiesto di farlo “Non avevo mai visto Sherlock così rilassato e felice”

Lei ricambiò il sorriso ed entrambi osservammo l'interessato arrossire un po' per l'imbarazzo di essere al centro della nostra attenzione, un po' per il piacere perché, in effetti, era tutto vero. Anche Violet capì il significato nascosto di quelle parole che intendevano più di quello che esprimevano.

Il fatto che la mia felicità derivasse da quella di Sherlock dimostrava quanto tenessi a lui e che non lo avessi mai visto in quello stato di benessere poteva farle capire quanto il loro distacco lo aveva fatto soffrire durante la sua vita anche se potevo immaginare che anche lei provasse le stesse emozioni nei suoi confronti.

Non mi sentivo un intruso tra loro due, mi sentivo a casa. Fu quella sensazione a farmi ripensare agli ultimi istanti del sogno. Nel suo palazzo mentale Sherlock aveva una stanza per me. Non avevo fatto in tempo ad ammirarla perché la stanchezza era tale da impedirmi di notare altro, ma ora la consapevolezza che esisteva un luogo solo per me in quello che era il suo mondo mi riempì d'orgoglio ma fece anche destare in me nuove domande. Perché io? Perché avevo suscitato in lui reazioni tali da fargli desiderare che lo esplorassi così intimamente?

Non ero certo di questo fatto né di quanto Sherlock fosse consapevole del processo che, lentamente, si stava verificando nella sua mente. Quel giorno, nel giro di poche ore, avevamo superato un ostacolo importante e mi venne spontaneo domandarmi quanti altri problemi sarebbero sorti durante l'esplorazione del Mind Palace, ma mi rasserenai quasi subito. Qualsiasi cosa fosse uscita fuori da quelle stanze l'avremmo affrontata insieme.

 

 

Quando andammo andammo a recuperare le valige sorse un problema relativo alla nostra sistemazione per la notte. Violet si scusò perché non si aspettava la mia presenza. Sherlock, stranamente, non l'aveva avvertita, perciò era pronta e riscaldata solo una camera da letto.

“Non importa mamma” disse lui stringendosi nelle spalle “Nella mia camera c'è un letto a due piazze. Dormiremo insieme stanotte”

Si girò verso di me e mi fece un veloce occhiolino. Fu allora che capii. Non voleva stare lontano da me. Il fatto di non averla avvertita della mia presenza era solo un espediente per costringermi a dormire con lui. Normalmente avrei rifiutato ma quel giorno mi sentivo in pace con me stesso e con lui e lo sguardo totalmente privo di giudizio di sua madre mi indusse a sorridere.

“Le va bene John?” mi chiese Violet e io annuii deciso.

Portammo le valige al piano superiore e scendemmo per cena, durante la quale ebbi modo di conoscere anche suo padre.

Siger Holmes era un uomo alto e robusto e trattò Sherlock con gentilezza, amore e grande rispetto. Nemmeno con lui erano servite parole. Si erano stretti vigorosamente la mano e si erano guardati negli occhi. Le nubi del passato si erano diradate, la polvere che aveva sotterrato i ricordi era scomparsa. Ammirai il risultato del mio intervento con somma soddisfazione perché sapevo che era anche la mia presenza lì a dargli quel coraggio che gli era servito per affrontare i genitori dopo tutti quegli anni.

 

 

Dopo cena ci congedammo dai suoi genitori e salimmo al piano superiore. La sua stanza da letto era enorme e riccamente ammobiliata. Notai i segni del suo passaggio. Vecchi libri ancora riposti negli scaffali, oggetti che senza dubbio gli erano appartenuti ma che, per chissà quale motivo, aveva deciso di lasciare lì. Ci spogliammo e indossammo il pigiama senza imbarazzo. Lui era evidentemente stanco. La febbre recente e le tante emozioni di quel giorno l'avevano sfiancato e ora necessitava solo di un sano riposo. Si infilò sotto le coperte e chiuse gli occhi, poi li riaprì e mi osservò in silenzio. Stava aspettando che lo raggiungessi. Mi infilai la maglia e risi di me stesso e dei problemi che spesso mi facevo nei suoi confronti. Non c'era malizia in lui. Tutto ciò di cui aveva bisogno era la presenza un amico e il sentirlo fisicamente vicino. Non c'erano secondi fini di natura sensuale. Quando posai la testa sul cuscino lui chiuse gli occhi e poco dopo si addormentò. Feci lo stesso e mi resi conto in quel momento di quanto fossi anch'io stanco. Respirando profondamente mi rilassai e mi lasciai andare, sperando di risvegliarmi nel Mind Palace.

 

 

 

 

 

 

 

 

* Proprio così, Violet (sto parlando proprio con la mia Principessa) Cioccolata calda. Il tè è troppo banale.

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Capitolo 5
*** Danger room ***


Chiedo umilmente perdono per la lunga assenza, ma è stato un periodo un po' brutto e non avevo voglia di scrivere. Ora sono tornata, più creativa che mai! Come al solito spero che ciò che ho scritto vi piaccia e vi chiedo umilmente di recensire per farmi sapere cosa ne pensate.

Un grosso beso!

PADMINI

 

 

 

 

 

Danger room

 

 

 

 

 

Mi addormentai quasi subito. Il lungo viaggio e tutte quelle emozioni mi avevano sfinito. Mi rilassai accanto a Sherlock, anche se nei primi minuti mi fu impossibile chiudere gli occhi.

Un tenue raggio di luna illuminava discretamente la stanza e il suo viso pallido si stagliava tra le coperte come una perla. Aveva gli occhi chiusi e il respiro si era fatto regolare. Stava dormendo.

Mi resi conto in quel momento che non lo avevo mai visto dormire, in parte perché di solito lui andava a coricarsi più tardi di me o addirittura non lo faceva, ma soprattutto perché non mi interessava. Mi ritrovai a chiedermi il perché di questo mio disinteressamento. Forse avevo di lui una visione distorta, non esatta. Per me lui era una macchina fredda e priva di sentimenti che non aveva bisogni organici, ne era la prova che non mangiava quasi mai e sembrava apparentemente incapace di provare empatia per chiunque.

In quei giorni, e in particolar modo quel pomeriggio, avevo scoperto che non era così. Sherlock aveva dei sentimenti molto profondi che albergavano nel suo cuore, solo si era dimenticato di possederli. Mi lusingava l'idea di essere l'unico ad essere in grado di riuscire ad influenzarlo, non solo direttamente ma anche indirettamente, andando a scavare parti del suo subconscio che probabilmente aveva rimosso.

 

 

Questi pensieri mi cullarono, finché non mi risvegliai in un altro letto. Aprii gli occhi e mi ritrovai nel luogo in cui mi ero addormentato nel sogno precedente. Non avevo sonno, tutta la stanchezza del giorno precedente sembrò essere svanita, non mi ero mai sentito tanto in forma.

Mi alzai e mi guardai attorno per osservare ciò che non ero riuscito a vedere prima di crollare dalla fatica.

La stanza era ampia, illuminata da due grandi finestre e la luce filtrava ovattata dal cotone delle tende e accarezzava con grazia le superfici dei mobili, scuri e lucidi.

Mi aggirai per quell'ambiente così rassicurante. Non c'erano soprammobili o altri oggetti inutili. Ogni cosa era al suo posto, esattamente dove l'avrei sistemata io e anche in bagno tutto era in ordine e pulito.

Poggiata su uno sgabello c'era una borsa di pelle così, incuriosito, mi avvicinai e l'aprii. Al suo interno c'erano gli strumenti che solitamente usavo nel mio studio: uno stetoscopio, un manometro, un abbassalingua, del disinfettante, dei cerotti, un otoscopio e un martelletto. Tutto era nuovo e in ordine e sembrava fatto apposta per essere utilizzato da me, anche se sapevo di non averne bisogno in quel luogo che era la mente di Sherlock il quale, chissà per quale oscuro motivo, aveva ritagliato quello spazio che si distaccava così tanto dal suo modo di essere e invece era così vicino al mio.

Capii cosa voleva dire. Sherlock aveva messo da parte un angolino del suo ego per cercare di capire me, di comprendere le mie esigenze e adattarsi ad esse.

Mi ritrovai a ridere, intenerito da quella inaspettata cortesia da parte sua. Il pensiero che Sherlock Holmes, il grande consulente detective che preferisce lavorare da solo perché è troppo intelligente per gli altri, che si annoia se non c'è un serial killer in circolazione e che distrugge le pareti con i proiettili e il mio olfatto con i suoi maleodoranti esperimenti chimici, avesse progettato nella sua misteriosa testa quell'angolo per me, solo per me, mi riempì di felicità.

Mi avviai verso la porta e scoprii, ma ormai avrei dovuto saperlo, che Sherlock aveva un'altra sorpresa per me. Su di un tavolino c'era una ricca colazione. Porridge, caldo e denso al punto giusto, come piaceva a me, pane con burro e marmellata di fragole, caffè e un bicchiere di succo d'ananas. Di fronte c'era la mia sedia preferita, quella che dondolava leggermente. Mi accomodai e provai il dondolio, era perfetto. Non mi ero accorto di quanta fame avessi fino a quando non presi il primo boccone di porridge. Lo mangiai con molto piacere, gustandolo con il caffè e il succo, ma ero troppo eccitato e curioso per continuare a mangiare lì seduto. Presi il toast con la marmellata e il burro, mi alzai e uscii dalla stanza per esplorare il resto della casa.

La luce del giorno strisciava sui tappeti vermigli che decoravano i pavimenti di legno lucido, dove si infrangeva, creando meravigliosi riflessi color mogano.

Mi piaceva muovermi in quella casa così silenziosa e rilassante. Mangiai anche l'ultimo boccone del toast e mi guardai attorno, cercando di leggere le targhette nelle stanze che si aprivano ai lati del corridoio. Stavo per avvicinarmi ad una di esse, quando un rumore mi spaventò, non tanto per la natura del suono – era in effetti solo un uomo che russava – ma per il fatto che un rumore del genere non avrebbe dovuto esserci lì.

Lasciai perdere le porte e mi diressi verso quel suono insolito. Non ero spaventato, solo incuriosito e, lo ammetto, leggermente preoccupato. Istintivamente cercai la pistola che di solito portavo con me ma ovviamente lì ero disarmato. Sospirai e, cercando di muovermi il più silenziosamente possibile, mi avvicinai sempre di più al misterioso ospite.

Quando finalmente svoltai l'angolo e lo vidi rimasi per un attimo interdetto. Di fronte a me, raggomitolato a terra, stava Lestrade. Mi accostai cautamente a lui e mi inginocchiai per osservarlo meglio. Sembrava che stesse facendo la guardia a qualcosa, ma non capivo di cosa si trattasse.

Mi schiarii la voce per attirare la sua attenzione e Gregory si svegliò di soprassalto.

“Non ti permetterò di entrare! Puoi scordartelo signorino!!” grido balzando in piedi e mettendosi in posizione d'attacco, con i pugni tesi e pronti a colpire.

Lo guardai e non potei trattenere una risata, sia perché era troppo buffo vederlo così, sia perché quel su atteggiamento mi turbava un poco e speravo di allentare la tensione ridendo. Lui si accorse della mia presenza e, una volta che mi ebbe riconosciuto, si rilassò.

“Scusa, John … credevo fosse Sherlock”

Si appoggiò alla parete e sospirò di sollievo, chiudendo gli occhi.

“Mi ero appisolato perché sono anni che non si fa più vivo qui, ma non si sa mai, con lui … non posso mai rilassarmi totalmente!”

Si stiracchiò e sbadigliò rumorosamente. La curiosità ormai aveva raggiunto livelli intollerabili, così mi sporsi per tentare di aprire la porta dietro di lui.

“Cosa credi di fare, John?” mi chiese, guardandomi un po' male.

Arretrai di un passo e lo guardai stupito.

“Volevo solo vedere ...” iniziai a spiegare, ma lui mi interruppe.

“Cosa c'è dietro questa porta, vero? Niente da fare, John. Non permetterò a nessuno l'ingresso in questa stanza. A nessuno!” aggiunse poi, guardandomi dritto negli occhi “Se dovessi anche solo socchiudere questa soglia le conseguenze sarebbero tremende!” concluse agitando le braccia in aria.

“Posso almeno sapere cosa c'è dentro?” chiesi timidamente, indicandola.

Lui si voltò e la osservò con malcelato disgusto.

“Non mi piace ciò che contiene questa stanza, ma sono fiero di fare da guardia per impedirgli di riaprirla” disse tornando a guardare me.

Lo guardai senza capire e lui si appoggiò alla parete incrociando le braccia al petto.

“Qui dentro c'è la sua riserva di cocaina” mi spiegò con una smorfia “Siringe, fialette già pronte con la sua solita soluzione al sette per cento ...”

Agitò in aria la mano come per dire che c'era anche altro ma che lui non aveva la forza per parlarne. Io, nel frattempo, ero rimasto a bocca spalancata per lo stupore. Mi riebbi dopo qualche istante e ripensai a quello che era successo il giorno in cui ci eravamo conosciuti per la prima volta.

“Dunque quello che disse quel giorno … quando venne da noi per la finta perquisizione ...”

Esitai, non sapevo bene come porre la domanda e forse ne temevo la risposta, ma Lestrade rispose prima che potessi anche solo pensarla.

“Sì, John. La finta perquisizione non era poi così finta. Era una scusa, lo ammetto, ma non mi sarei stupito di trovare veramente della droga in casa sua. Fino a qualche anno fa l'assumeva regolarmente e arrivai a minacciarlo per farlo smettere. O lui rinunciava alla cocaina o gli avrei impedito di seguire con me le indagini. All'inizio fu difficile, ma poi accettò. Da allora sono qui, guardiano di una stanza che mai più dovrà essere aperta”

Annuì deciso e mi fissò con orgoglio.

“I primi tempi cercava in continuazione di entrare e spesso non nego di aver dovuto usare la forza per impedirgli di farlo ma ...”

Mi osservò e un sorriso gli illuminò il viso. Mi ritrovai ad arrossire perché nel suo sguardo c'era qualcosa di stranamente malizioso.

“ ...da quando conosce te non si è più fatto vivo. È successo all'improvviso, da un giorno all'altro. Gli avevo appena rotto il setto nasale perché voleva entrare a tutti i costi. Quella settimana ci aveva provato almeno tre volte al giorno e poi, di punto in bianco, non è più tornato. Io sono sempre di guardia, sia chiaro, ma ormai credo di essere inutile qui. C'è qualcuno che può sopperire a questo compito molto meglio di me. Io mi limito ad impedirgli di entrare, tu gli fai dimenticare di farlo ...”

Mi guardò ancora e il suo sguardo era carico di significato e mi accorsi che nemmeno io potevo più fare finta di nulla. La nostra amicizia, che si era consolidata giorno dopo giorno durante le nostre folli avventure, era diventata per lui qualcosa di prezioso.

 

 

Sorrisi e sentii dentro qualcosa di caldo che mi avvolse il cuore in un tenero abbraccio. Era un sentimento che non avevo mai provato prima o almeno non così intensamente.

Durante gli anni scolastici avevo avuto numerosi amici, o meglio, persone che io consideravo tali.

Al liceo giocavo a rugby e avevo legato molto con i miei compagni di squadra ed era uno sport che attirava anche molte ragazze. Non ne frequentavo più di una alla volta ma ne cambiavo con una regolarità impressionante. Non mi preoccupavo di poter rimanere solo perché appena ne mollavo una ne spuntava subito un'altra che mi chiedeva di uscire.

Lo stesso valeva per gli amici. La mia rubrica era sempre piena di numeri di telefono e ogni sera mi chiedevano di accompagnarli da qualche parte per bere insieme o anche solo per chiacchierare. Allora non ero mai solo, o almeno pensavo di non esserlo.

Solo nell'istante in cui mi resi conto cosa significasse la vera amicizia mi resi conto che non l'avevo mai conosciuta.

Ogni tanto, anzi, molto spesso, me la prendevo con Sherlock perché con le sue stramberie allontanava, volontariamente o no, tutte le persone che mi giravano attorno, che fossero fidanzate o potenziali amici. Lui lo faceva, lo capii in quell'istante, per gelosia, ma senza saperlo mi stava facendo in realtà un grande favore.

Quando ero giunto a Londra dopo le mie disavventure in Afghanistan nessuno dei miei vecchi amici si era fatto vivo. Solo Stamford, al quale non sarò mai abbastanza riconoscente, mi aiutò.

Quando iniziai a scrivere di Sherlock però tutto cambiò e improvvisamente divenni di nuovo interessante. Fintanto che ero un soldato in congedo malaticcio e inutile nessuno mi prendeva in considerazione, quando diventai il blogger del miglior consulente detective di Londra e, a mio parere, del mondo, la gente mi ritrovò interessante.

Allora non me ne rendevo conto, ma la mia popolarità era dovuta proprio al blog. La cosa mi piaceva perché mi divertivo con Sherlock durante le indagini e lo abbandonavo alla sua noia quando non aveva nulla tra le mani di abbastanza interessante, per spassarmela con la fidanzata di turno o qualche amico tra i tanti che mi chiamavano per chiedermi di bere una birra insieme.

Non mi ero mai fermato a considerare che forse tutte quelle erano esperienze vuote, prive di significato reale. Tutta quella gente stava con me solo perché ero famoso, perché facevo qualcosa di interessante e potevo raccontare tanti aneddoti fuori dall'ordinario, niente di più.

Quando stavo con Sherlock mi sentivo felice e a mio agio, ma quando uscivo non mi fermavo mai ad osservarlo, a capire cosa realmente provasse in quei momenti. Pensavo che fosse indifferente, che non gli interessasse nulla al di fuori dei suoi casi, ma forse mi sbagliavo. Forse ero io che volevo credere ciò per poter fuggire con meno sensi di colpa dalla sua solitudine, per non farmi risucchiare dal vortice della sua noia. Non capivo che erano le mie fughe a farlo stare sempre più male, che il mio allontanarmi da lui lo faceva soffrire.

Non potevo essere certo di ciò, ma ero sicuro che la mia presenza era stata benefica per lui, tanto da fargli dimenticare antichi bisogni che lo stavano distruggendo.

Lestrade ci aveva provato con la violenza e io ci ero riuscito, senza nemmeno rendermene conto, con la mia sola presenza. Forse c'era qualcosa tra di noi, un legame antico che andava oltre i confini delle nostre vite. Mi ritrovai a pensare che probabilmente in una vita precedente avremmo potuto essere amici, amanti, padre e figlio. Sicuramente avevamo avuto un rapporto molto stretto che era rimasto intatto nonostante tutto. Mi meravigliai, ritrovandomi a pensare a quelle cose, ma se potevo credere di trovarmi in un luogo che rappresentava la mente del mio amico, perché non avrei dovuto credere anche a quello?

Mi sentii orgoglioso di me stesso e anche tanto felice perché ciò che io avevo fatto a Sherlock lui l'aveva fatto a me. Mi aveva reso più felice, più completo, più vivo. Non avevo mai capito quanto in realtà gli dovessi e quanto lui dovesse a me. Capii che ci eravamo salvati a vicenda e ci tenevamo a galla reciprocamente in quel mare tempestoso che era la vita.

 

 

Mi avvicinai alla porta e la sfiorai con le dita. Dietro a quell'uscio c'era l'inferno personale di Sherlock, qualcosa dal quale stava fuggendo, che non avrebbe più dovuto affrontare da solo però. Ora c'ero io ad aiutarlo. Avrei fatto pulizia anche lì, anche se Lestrade me lo avesse impedito. Sapevo che ci sarebbe voluto tanto impegno e forza di volontà, ma decisi di raccogliere anche quella sfida.

Se ero riuscito a riconciliarlo con i suo familiari, sarei riuscito anche a liberarlo per sempre e in modo definitivo dall'incubo della droga.

“Si sposti, Lestrade, devo entrare” dissi semplicemente, ma lui scosse la testa.

“Te l'ho già detto, John. Nessuno passerà. Non te lo permetterò”

Il suo sguardo diceva ben più delle parole ma non mi demoralizzai. La voglia di aiutare Sherlock era fortissima, così lo scansai con una spallata e, ignorando le sue imprecazioni, aprii la porta.

Restai di sasso.

Dietro lo spesso legno non c'era altro che la parete liscia. Indietreggiai di un passo per la sorpresa e mi voltai verso Lestrade. Anche lui fissava sconcertato la parete senza capire. Avvicinai le dita alla superficie dove avrebbe dovuto trovarsi l'entrata della stanza. La parete sotto i miei polpastrelli era consistente ma osai con un po' più di pressione per accertarmene.

Non c'era dubbio. La stanza della droga era scomparsa e di lei rimaneva solo quella porta, testimonianza perenne di un periodo della sua vita, che avrebbe continuato per sempre a far parte di lui, pur non condizionandolo anzi, ammonendolo per il futuro di non ripetere più simili errori.

Richiusi la porta e mi allontanai indietreggiando, soddisfatto e sorridente. Lestrade, alle mie spalle, era positivamente sconvolto da ciò che vedeva. Sorrideva e rideva insieme, poi all'improvviso mi abbracciò.

“È tutto merito tuo, John. Tutto merito tuo. Sapevo che aveva solo bisogno di un amico, un amico vero!”

Ricambiai l'abbraccio, poi lo sciolsi lentamente.

“Cosa le succederà ora?” chiesi, rendendomi conto che la sua funzione lì dentro non aveva più significato.

“Non lo so” rispose lui, stringendosi nelle spalle “Credo che resterò qui … ci sto bene, sai? So che Sherlock può sempre contare su di me e io su di lui. Certo, non ho una stanza tutta per me, ma …” mi guardò e mi fece l'occhiolino “Questa è la sua mente e se lui mi vorrà ancora qui sarò lieto di rimanerci. Continuerò a difenderlo, come potrò. Non sarà più dalla droga, ma sono sicuro che troverò qualcosa da fare per aiutarlo”

Mi fece un breve inchino e si allontanò. Dopo poco era sparito dietro l'angolo di un corridoio.

 

 

Rimasi solo, anche se non mi sentivo così. La presenza di Sherlock aleggiava ovunque e ora che ne ero più consapevole la sentivo con più forza. Continuai a camminare sentendomi più sereno, ma anche leggermente inquieto.

Se non mi ero reso conto di tutto quel bene che gli avevo fatto, probabilmente non mi ero reso conto nemmeno del male, ma indubbiamente avevo fatto anche quello. Mi ripromisi di osservarlo di più, di capire cosa realmente pensasse, cosa provasse quando stavamo insieme ma anche quando mi allontanavo da lui.

Camminando raggiunsi la cucina. Era una cucina calda e accogliente, con i mobili di legno e un vago profumo di caffè nell'aria.

Piccole lampade di ceramica pendevano dal soffitto, illuminando un ampio tavolo di mogano, scuro e liscio, sul quale faceva bella mostra di sé un grazioso centro tavola fatto di fiori secchi.

Mi avvicinai per guardarlo meglio e annusai il profumo intenso di quel pout pourrì, quando una voce alle mie spalle mi fece sobbalzare.

“Dottor Watson, finalmente! Pensavo che non l'avrei più vista qui dentro!”

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Capitolo 6
*** Clandestino ***


Nuovo capitolo, nuova suspance. Non vi dico altro. Leggete e rencensite! A presto, MINI



 


L'intruso



 

 

Era una sensazione non nuova per me, ma ugualmente mi sentii preso in fallo, come un bambino con le dita nella marmellata. La sensazione di essere scoperti a fare qualcosa di illegale o proibito anche se non si sta facendo nulla. La stessa sensazione che provavo quando Sherlock compariva all'improvviso, dietro di me, quando pensavo di essere solo in una stanza.

Non mi servì voltarmi per riconoscere la voce dell'uomo che mi aveva fatto sobbalzare. Sorrisi e mi girai lentamente.

“Mycroft Holmes” dissi ghignando “Avrei dovuto aspettarmi di trovarla qui, mi stavo giusto chiedendo quando l'avrei incontrata”

Il signor 'Governo Inglese' sorrise brevemente e fece un passo verso di lui.

“Questa è la mente di mio fratello, Dottor Watson, è ovvio che ci sia anch'io”

“Non credo” risposi girandomi completamente per guardarlo in faccia e incrociando le braccia sul petto “Non è così ovvio. Sherlock non prova molto affetto per lei, o sbaglio?”

Mycroft sospirò ma non distolse lo sguardo.

“In effetti ha ragione, dottore. Io non dovrei essere qui. Diciamo che sono un … clandestino?” rise a quella parola, ma solo per pochi istanti “Mio fratello non sa ciò che è bene per lui, perciò devo aiutarlo, anche contro la sua volontà”

Sbuffai a quella fanfaronata. Evidentemente il pensare di sapere più degli altri era una caratteristica di tutti i membri della famiglia Holmes. Scossi la testa, indeciso se ridere o meno a quell'affermazione.

“Così lei sarebbe qui per fare del bene a suo fratello?” chiesi sarcastico.

Lui non colse, o fece finta di non cogliere l'ironia nella mia voce e rispose, come se quella fosse stata una domanda seria.

“Esattamente” disse infine, con tono solenne “Sono suo fratello maggiore, tengo a lui ...”

“Certo! Ci credo!” sbottai, interrompendolo “Allora perché le foto di famiglia erano nella soffitta delle cose dimenticate? Perché ho dovuto sgobbare come un dannato per risistemare quella parte della sua mente? Perché Lestrade doveva fare da guardia alla stanza della droga? Sherlock ha iniziato a stare bene da quando mi conosce. Lei lo ha sempre e solo soffocato, signor Holmes! Non lo neghi, è così!”

Ero fuori di me. Quell'uomo era così presuntuoso da ritenere la sua presenza indispensabile ovunque. Sapevo che aveva un qualche controllo sul governo inglese e che il suo solo nome poteva far aprire porte apparentemente inaccessibili, ma quell'abuso di potere mi sembrava eccessivo e prepotente. Ora cominciavo a capire perché Sherlock lo evitava così tanto, perché ogni volta che sentiva anche solo nominare il suo nome si rabbuiava e faceva di tutto pur di contrariarlo.

Dentro la sua mente c'era un elemento di disturbo e sapevo esattamente cosa fare per eliminarlo, o almeno ci avrei provato.

“Sherlock non ha bisogno che lei stia qui” dissi guardandolo severamente.

Non pensavo di avere molte possibilità, anche con il mio sguardo che aveva messo a tacere i più grandi criminali di Londra, infatti Mycroft non si smosse di un millimetro. Continuò ad osservarmi placido, come se stessimo conversando amabilmente sul tempo.

“Le ho già detto che Sherlock non sa cosa è giusto per lui … e nemmeno lei, mio caro dottore” mi disse lui, con un tono di voce fin troppo rilassato per i miei gusti.

“Perché lei lo sa, vero?” chiesi furente “È lei che non sa nulla di suo fratello! Ha detto lei stesso di essere un clandestino, qui dentro! Mi dica come potrebbe essergli utile se lui nemmeno la vuole! Me lo dica! Mi dica anche solo una buona ragione!”

“Le ho spiegato che ...” iniziò lui, ma lo interruppi subito.

“Sì, me l'ha detto. Lui non sa cosa è meglio per lui … bla bla bla … sì, l'ha detto due volte, non sia ripetitivo, la prego. Sherlock è adulto e sa benissimo cosa è bene per lui e anche se così non fosse non è con la forza che lo aiuterà. Sherlock potrà essere infantile a volte e molto spesso si caccia in guai più grandi di lui, ma è pur sempre un uomo e ha il diritto di decidere della sua vita, anche se probabilmente sbaglierà. Tenendolo al guinzaglio come fa lei ora non riuscirà mai a crescere!”

Mycroft lo guardò aggrottando la fronte e, per la prima volta, senza capire. Appariva disorientato.

“Di cosa sta parlando?” chiese sbattendo gli occhi, più sorpreso che mai “Mio fratello ha appena dieci anni, non è un uomo ...”

Questa volta fu il mio turno di essere stupito. Lo guardai con gli occhi sgranati e la bocca spalancata.

“Sta scherzando” dissi. Non era una domanda. Era un'affermazione. Sicuramente stava scherzando, non potevano esserci alternative.

“No, non sto scherzando. Mio fratello ha dieci anni e spetta a me badare a lui”

“Stiamo parlando di Sherlock, vero?” chiesi, a quel punto certo che stessimo parlando di un'altra persona”

“Certo, di chi pensava stessimo parlando?”

A quel punto ero completamente confuso. Scossi la testa e feci qualche passo, avanti e indietro, per riordinare le idee.

“Sherlock ha ventinove anni” dissi, convinto di quel che dicevo “A gennaio abbiamo festeggiato. La signora Hudson gli ha tirato l'orecchio ventinove volte. Ne sono certo. Lui non ...”

“Sta sbagliando, dottore. Deve esserselo immaginato. Sherlock ha sempre dieci anni”

Mi allontanai di un passo per guardarlo meglio. Non sembrava che mi stesse prendendo in giro, era serio e sicuro di ciò che stava dicendo. Mi appoggiai con tutto il peso del corpo sul tavolo alle mie spalle e cercai una risposta a quella situazione. Perché Mycroft credeva che Sherlock avesse solo dieci anni? Chiuse gli occhi per qualche istante, cercando di riflettere e all'improvviso la risposta apparve chiara, di fronte a lui.

Quella era la mente di Sherlock e non per forza doveva corrispondere alla realtà. La vera signora Hudson, il vero Lestrade e i veri Donovan e Anderson non sapevano di trovarsi lì. Erano le proiezioni mentali di ciò che Sherlock provava nei loro confronti, ciò che loro significavano per lui.

Se Donovan e Anderson non potevano nemmeno avvicinarsi al suo essere, la signora Hudson e Lestrade erano coloro che lo aiutavano, che lo proteggevano e lo guidavano.

Mycroft era un intruso, un clandestino, appunto. Sherlock si sentiva soffocare dalle sue attenzioni e così, nella vita così come nella sua mente, suo fratello appariva come una presenza indesiderata. Si sentiva trattato come un bambino di dieci anni e, dovevo dargliene atto, Mycroft molte volte lo trattava così, quindi il Mycroft nella mente di Sherlock non poteva che pensarla in quel modo. Risi, sempre ad occhi chiusi, pronto a dimostrargli quanto avessi capito, ma quando li riaprii lui era scomparso. Mi voltai e guardai ovunque, ma non c'era più. Non avevo sentito rumore di passi che si allontanavano, ma pensai che non l'avevo sentito neppure quando si era avvicinato. Dovevo ancora prendere la mano con i misteri della mente di Sherlock, così semplicemente decisi di lasciar correre.

Non avrei lasciato correre invece la sua presenza nella mente del mio amico. In qualche modo lo avrei cacciato da lì, di quello ero certo.

Mi guardai attorno ma non trovai altro da fare, così decisi che era meglio, per quella notte, interrompere la visita al palazzo. Mi chiesi se prima o poi sarei riuscito a incontrare Sherlock, lì dentro, ma avevo fiducia in lui.

Mi avviai lentamente verso la camera e mi stesi nuovamente nel lettone fatto apposta per me. Solitamente facevo fatica ad addormentarmi in letti nuovi, nonostante l'addestramento militare, ma quel letto era perfetto. La piega era fatta come piaceva a me, ordinata come solo un soldato sarebbe stato capace di farla e mi faceva sentire sicuro e protetto. Chiusi gli occhi e tornai alla realtà.

 

 

 

Restammo a casa dei genitori di Sherlock qualche giorno. Durante quel tempo non ebbi più l'occasione di rientrare nel suo mind palace, ma in quel momento non mi importava, anche se tentavo di trovare un modo per cacciare Mycroft.

Una settimana dopo eravamo di nuovo a Baker Street, ognuno preso dai suoi impegni e dalle sue routine. Sherlock era particolarmente impegnato in un caso, che lo teneva fuori casa per la maggior parte del giorno. Quando usciva si travestiva da barbone per non essere riconosciuto mentre procedeva con le indagini. A suo favore devo dire che era irriconoscibile, anch'io facevo fatica a capire che era lui, anche se lo vedevo entrare e poi uscire dalla sua stanza.

Non ero troppo preoccupato per lui. Sapevo che era consapevole dei rischi che correva e anche se facevo fatica a dormire quando tornava a ore improponibili, sia di notte che di giorno.

Non sono mai stato una persona superstiziosa, ma quel mercoledì ero particolarmente teso. Non mi aveva detto nulla riguardo quel caso sia perché non lo riteneva importante, sia perché anch'io ero troppo occupato con il mio lavoro per aiutarlo. Non posso nascondere che speravo che in un angolino della sua mente ci fosse anche un po' di sana preoccupazione per la mia salute, che non volesse coinvolgermi in situazioni troppo pericolose, ma in quel caso mi sarei ribellato e l'avrei aiutato, anche perché ero più che convinto che avrebbe chiesto il mio aiuto se gli fosse stato necessario.

Così, cercando di tranquillizzarmi e scacciare le paranoie che mi tormentavano, ero andato al lavoro. Niente di che, una giornata uguale a tutte le altre.

Raffreddori, dolori reumatici, infortuni sul lavoro, cefalee. Ormai era tutto così banale e scontato che quasi odiavo il mio mestiere. L'unica cosa che lo rendeva interessante era che mi permetteva di assistere Sherlock nelle sue avventure, sia come consulente che come soccorritore. Quante volte lo avevo medicato, anche ponendo dei punti quando si faceva particolarmente male! Mi ritrovai a sorridere pensando che era un'ingiustizia dover prescrivere antidolorifici o sciroppi per la tosse a gente banale come quella che mi passava davanti tutti i giorni mentre potevo aiutare il più grande detective della storia. Sentivo di avere una doppia vita. Clark Kent nell'ambulatorio e Superman con Sherlock. Senza vantarmi inutilmente sapevo di essere indispensabile per lui, come lui lo era ormai per me. Dava un senso alla mia vita e questa consapevolezza mi aiutava ad andare oltre le banalità di tutti i giorni e agli incubi del passato.

L'uomo a cui avevo appena prescritto un analgesico mi guardò stranamente ma non gli badai. Mi alzai per congedarlo e per mettere via le mie cose prima di andare a casa. Indossando la giacca guardai il cellulare. Nessuna chiamata. Nessun messaggio. Mi strinsi nelle spalle e risi, pensando a Sherlock, ma tornai a casa relativamente tranquillo.

 

 

Preparai una cena per due. Un buon piatto di fagioli e carote e, versata la mia porzione su un piatto, andai a sedermi in poltrona per mangiare guardando la televisione. Era così tranquillo e silenzioso il nostro appartamento in quel momento, ma sarebbe stato ugualmente bello con Sherlock che insultava il giornalista o imprecava tra sé e sé perché qualche suo esperimento non era andato a buon termine. Finii la mia parte e portai il piatto in cucina. Avevo mangiato lentamente e ormai erano le dieci passate, ma lui non era ancora tornato a casa.

Tornai in salotto, stiracchiando le braccia sopra la testa, e mi abbandonai di nuovo davanti alla poltrona. Presi il telecomando e iniziai a fare zapping tra i vari canali, senza trovare nulla di interessante. Nella mia mente risuonava la voce di Sherlock. Anche se non era lì potevo facilmente intuire cosa avrebbe detto sui programmi che man mano passavano davanti ai miei occhi.

Banale, si capisce subito che lei è la narratrice, non può smetterla di fingere di essere depresso? Chissà quanto li pagano per dire queste idiozie? Perfino Anderson avrebbe saputo rispondere! È logico che l'assassino è lui! Perché ha pensato di mettere in pratica il suo piano sapendo che Jessica Flatcher era in città? Nessuno comprerebbe mai quella roba!

Mi resi conto di fare un po' troppa confusione con la mia risata così cercai di controllarmi. Non volevo che la signora Hudson venisse a controllare che tutto andasse bene. Volevo stare solo con i miei pensieri, era tanto tempo che non entravo nel Mind Palace di Sherlock, così spensi la televisione e cercai di rilassarmi, pensando a lui, cosa che quella sera sembrava estremamente facile da fare. Ogni cosa mi ricordava lui, mio malgrado. Non potevo non pensare a quel sociopatico che mi trovavo per coinquilino. Non volevo addormentarmi in poltrona, così mi alzai e faticosamente raggiunsi la mia stanza. Mi abbandonai sul letto, rendendomi conto solo in quel momento quanto stanco fossi in realtà. Pensare a Sherlock mi dava energia, non mi faceva sentire la stanchezza.

Mi rilassai totalmente e chiusi gli occhi. Pochi istanti dopo, mentre la pioggia che cominciava a ticchettare sui vetri mi cantava una dolce ninna nanna, mi addormentai. Ero di nuovo nel mind palace.

 

 

Mi alzai dal letto, rifeci la piega e uscii dalla stanza. Questa volta non c'era nessuna colazione ad attendermi, anche perché non avevo fame, ma la cosa mi insospettì. Anche nel palazzo mentale di Sherlock era notte e pioveva violentemente e ogni tanto un fulmine illuminava gli ambienti, seguito poi da un rumoroso tuono che mi faceva sobbalzare.

Sentivo che c'era qualcosa che dovevo raggiungere ma non capivo cosa. Vagai per i corridoi bui, privi di qualsiasi tipo di illuminazione. Procedevo quindi a tentoni, aiutato dai lampi che di tanto in tanto rischiaravano la visuale. Durante uno di questi flash vidi un candelabro, posato sopra un tavolo e dei fiammiferi. Con mano tremante accesi le candele e continuai l'esplorazione, portando con me la scatola di cerini, per pura precauzione.

Mi misi in ascolto di qualche possibile rumore in sottofondo ma la pioggia e il temporale coprivano qualsiasi suono. Non potendo affidarmi all'udito e pochissimo alla vista decisi di lasciarmi andare all'intuito. Non aveva mai sbagliato fino a quel momento. Sembrava che in quel palazzo sapessi sempre cosa fare. Mi lasciai dunque guidare dall'istinto, svoltando gli angoli dei corridoi come se fosse stato giorno. Qualcosa o qualcuno mi stava attirando prepotentemente verso di lui.

Mi ritrovai in un lungo e ampio corridoio che si apriva sul cortile interno della villa. Da ampi finestroni si vedevano le piante del giardino interno, verdi e rigogliose. Sarebbero sembrate belle e rassicuranti ma in quel momento, illuminate dal temporale, apparivano come mostri famelici e pronti all'attacco.

Mi feci coraggio e mi addentrai in quel lungo corridoio, nonostante sembrasse più spaventoso ad ogni passo poi, all'improvviso, sentii qualcosa. Erano passi. Passi che riuscivano a farsi sentire oltre il suono del temporale. Accelerai il passo e finalmente lo vidi. Era ancora una sagoma indistinta, mal illuminata dalla luce che a stento penetrava dalle vetrate, ma era lui, non avevo dubbi.

Avanzava faticosamente, appoggiandosi al muro per non cadere e sembrava sofferente. Quando un lampo eccezionalmente luminoso rischiarò il corridoio mi riconobbe e io riconobbi lui, anche se vederlo così mi fece gelare il sangue nelle vene.

“John ...” mi chiamò, con voce roca e tremante “Ti prego … aiutami ...”

Mi chiamava come un uccellino bisognoso di cure ed era proprio quello che era in quel momento. Con una breve corsa annullai la distanza che ci separava e lo raggiunsi giusto in tempo, prima che collassasse a terra, privo di forze.

Era completamente bagnato, aveva gli occhi chiusi e tremava per il freddo. Mi inginocchiai al suo fianco e lo abbracciai ma mi irrigidii quando vidi che non era bagnato solo di pioggia. Gli tastai il ventre e quando mi guardai la mano la scoprii macchiata di sangue. Respirava a fatica e ogni tanto singhiozzava, sopraffatto da fitte di dolore più intense.

“A-aiutami … John … mi … mi sono perso ...”

Invocava il mio aiuto ma io ero paralizzato dalla paura e, sebbene fossi un medico, in quell'istante dimenticai ogni cosa. Non sapevo cosa fare. Aveva il ventre squarciato da quella che sembrava una coltellata, mi fissava con occhi spiritati e sembrava sul punto di svenire.

“Sherlock, non dormire, non devi dormire, va bene? Resta sveglio!”

Mi guardai attorno, disperato, come se potesse magicamente comparire qualcuno ad aiutarmi, magari Mycroft, ma tutto ciò che mi circondava non era altro che buio e il rumore ormai assordante del temporale.

Sherlock chiuse gli occhi e abbandonò la testa sul braccio con il quale lo stavo sorreggendo.

“NO! Non puoi lasciarmi Sherlock! Svegliati!”

Il mio grido fu sovrastato dal rumore dei vetri infranti. Un ramo si era spezzato e aveva rotto una finestra. Una folata d'aria gelida ci investì in pieno e spense le candele. Mi ritrovai al buio.

 

 

Mi risvegliai, nel mondo reale stavolta e mi resi conto di essere completamente madido di sudore. Cercai a tastoni il cellulare nel comodino e dopo qualche tentativo lo trovai.

Cerano diverse chiamate perse e un messaggio, tutti da parte di Lestrade.

Il messaggio diceva semplicemente

 

 

Greg

00.14

Vieni al Barts. È Sherlock. Corri.

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Capitolo 7
*** Prigioniero ***


Eccomi di nuovo qui. Non vi toglierò tutte le preoccupazioni, ma almeno saprete che fine ha fatto il nostro adorato consulente detective! Perciò leggete e piangete!
Alla prossima, MINI








Prigioniero





 

 

Sono qui, nella sala d'aspetto della chirurgia. La tensione è palpabile nell'aria umida di questa notte piovosa. Mi tormento le mani e intanto mi guardo attorno, spaesato.

Non sono solo, anche se mi sembra di esserlo. Accanto a me c'è Mycroft, quello reale stavolta. Sembra calmo, anche se forse non lo è. Ad un osservatore superficiale apparirebbe sereno, tranquillo, in realtà guardandolo bene mi accorgo delle piccole rughe che solcano la sua fronte leggermente corrugata, il bianco delle nocche, rese così dal pugno stretto sul manico del suo ombrello, la tensione dei muscoli delle braccia, appena percettibile sotto il tessuto del suo completo firmato, le pupille frementi sotto le palpebre serrate.

Conosco Sherlock da pochi anni, nulla se paragonato al tempo che lui ha passato con il fratello. Mi rendo conto in queste ore cosa deve passare, quanto Sherlock lo faccia preoccupare.

In piedi, accanto alla finestra, c'è Lestrade. In questo tempo, restando al chiuso, la sua giacca si è asciugata, ma rimane stropicciata e ancora leggermente umida ma lui non si muove di un millimetro. È stato lui a trovare Sherlock, poche ore fa.

 

 

Si erano dati appuntamento sulla rampa del Millennium Bridge alle dieci e mezza per confrontare le informazioni raccolte, ma Sherlock non si era presentato.

Aveva aspettato invano per una decina di minuti, poi si era deciso a contattarlo. Lo aveva chiamato al cellulare ma era risultato spento o non raggiungibile e ciò lo aveva subito messo in allarme.

Conosceva l'area entro la quale si sarebbe mosso e si diresse lì quasi correndo. Gli spacciatori si sarebbero trovati in un piccolo ristorante giapponese situato di fronte al mercato di Borough e lui avrebbe finto di suonare il violino chiedendo l'elemosina proprio in lì davanti.

Anche se il mercato era ormai chiuso si trattava comunque di un luogo di passaggio perché le coppiette vi passavano davanti per raggiungere i locali lungo il Tamigi, quindi un violinista non sarebbe stato del tutto fuori luogo.

Ciò nonostante lo avevano scoperto. Erano già in allerta perché qualcuno lo aveva visto gironzolare in quegli ultimi giorni e avevano sollevato dei sospetti nei suoi confronti. Una guardia del corpo troppo coscienziosa aveva fatto il resto. In realtà, secondo un testimone interrogato da Lestrade, il gorilla scozzese si era diretto prima verso un altro mendicante, ma questo per non essere ferito o ucciso aveva indicato Sherlock, giurando di non averlo mai visto da quelle parti e che per forza di cose doveva essere lui la spia. Sherlock aveva dunque provato a scappare, ma il terreno bagnato dalla pioggia recente lo aveva fatto scivolare, permettendo al suo inseguitore di raggiungerlo in un piccolo vicolo poco distante. Lo aveva accoltellato e aveva calpestato il suo cellulare a terra, per impedire a qualcuno di trovarlo., mentre il cielo riapriva i rubinetti ad uno scrosciante temporale.

Lestrade aveva dunque provato a chiamarlo al cellulare ma, non ricevendo risposta, aveva tentato con il cerca persone e vagò per quei vicoli tendendo l'orecchio in cerca del suono che lo avrebbe condotto da lui.

Per sua fortuna non fu costretto ad andare troppo lontano.

Il corpo di Sherlock giaceva inerte accanto ad un muricciolo. Il suo giaccone lo proteggeva un poco dalla pioggia, ma era bagnato di acqua e sangue.

Nel giro di una decina di minuti fece arrivare un'ambulanza, che lo portò Barts squarciando l'aria con la sua sirena assordante.

 

 

Mi aveva chiamato tante volte, ma io dormivo. Forse avevo sentito un'ambulanza, ma non era un suono inusuale a Londra, così non le avevo dato peso. Erano ormai le due quando avevo richiamato Greg per capire cosa fosse successo. La sua voce era ferma ma lontana, persa in chissà quali pensieri brutali. Un quarto d'ora dopo ero davanti alla porta del Barts, senza fiato per la corsa e per la paura, ma ormai Sherlock era sotto i ferri.

Aveva perso molto sangue a quanto pareva, ma non era grave. Il gorilla del boss lo aveva semplicemente ferito senza preoccuparsi di controllare che fosse morto. Ciò di cui aveva bisogno era levarselo dai piedi per quella mezz'ora utile al suo capo per concludere l'affare. Il fatto che sarebbe morto dissanguato o meno non rientrava tra i suoi interessi.

 

 

Sono passate cinque ore da quando è entrato in sala operatoria e tre da quando sono arrivato qui. Da allora non mi sono mai mosso dalla sedia sulla quale mi sono accasciato senza forze e senza lacrime. Non ho nemmeno l'energia sufficiente a piangere, in questa situazione. Sembra tutto così inverosimile. Non è la prima volta che Sherlock mi fa preoccupare, ma stavolta è diverso. Sento che qualcosa è successo tra di noi. Il nostro legame si è fatto più forte e lo sento.

Non so cosa sia scattato nella mia o nella sua mente, ma di certo qualcosa è cambiato. Ora riesco quasi a comprenderlo, anche se so che la strada è ancora lunga, ma mi sembra di avvicinarmi a quello che è il suo cuore un passo alla volta, ogni giorno scoprendo qualcosa di nuovo, ogni sogno più vicino alla sua vera e sincera essenza.

Un medico esce dalla sala operatoria. È esausto. In questa notte di pioggia e temporale ci sono stati parecchi incidenti, soprattutto in auto. L'intervento di Sherlock deve essere stato lungo e faticoso, glielo leggo negli occhi. Si avvicina a noi lentamente. Non sa quanto ogni suo passo rimbombi nei nostri cuori, stringendoli pian piano in una morsa sempre più stretta. Per lui è ordinaria amministrazione. Noi siamo i parenti preoccupati, niente di più e niente di meno. A lui interessa chi ha operato, chi è passato sotto le sue mani guantate. Se è sopravvissuto verrà da noi e ci dirà la buona notizia, se non ce l'ha fatta si avvicinerà ugualmente a noi e cercherà un modo gentile per dirci …

“Aveva perso molto sangue, il taglio era profondo e aveva già cominciato ad infettarsi ...”

Si interrompe per riprendere fiato e per asciugarsi il sudore dalla fronte. Vedendolo da vicino mi rendo conto quanto deve essere stata dura. Anch'io sono un chirurgo, un medico militare. So cosa si prova passando ore ed ore con una vita sotto le dita, cercando spesso inutilmente di strapparla alla morte, tenerla ancorata alla terra, impedirle di fuggire via. La stanchezza è evidente nel suo volto, anche perché Sherlock non è il primo che ha operato stanotte.

Mycroft e io ci siamo alzati e Lestrade ci ha raggiunti con passi lenti e meditati, quasi temesse ciò che può dirci il medico.

Siamo tesi come corde di violino, ma il chirurgo sembra non percepirlo. Vorrebbe sbadigliare, lo vedo dai suoi occhi, ma tiene duro e ci sorride.

“Siamo riusciti a ricucire lo stomaco e a restituirgli tutto il sangue perso ...”

Sospira di sollievo e si butta su una sedia della sala d'aspetto. Si prende i capelli tra le mani, pettinandoseli con le dita umide di sudore, bianche per aver indossato troppo a lungo i guanti di lattice. Sento che Lestrade, alle mie spalle, tira un sospiro di sollievo e si abbandona finalmente in una sedia.

“Ora come sta?”

La domanda proviene da Mycroft. La voce gli trema appena, ma forse sono solo io a sentire quel tremore. Il medico alza appena lo sguardo e si stringe nelle spalle.

“Ora lo stanno portando in rianimazione”

Ci dice e proprio in quel momento ci passa davanti il letto di Sherlock. Lo intravedo tra i macchinari che si muovono con lui, monitorandone ogni respiro, ogni battito. Faccio un passo verso di lui ma il medico mi prende per un braccio.

“Per ora non può ricevere visite”

La sua voce suona sempre stanca ma stavolta è anche dura e apparentemente irremovibile. Mi libero dalla sua presa e faccio qualche passo senza sapere dove andare, anche se in realtà c'è un unico posto dove vorrei, dove dovrei essere.

Accanto a Sherlock.

Mi passo la mano sulla bocca, cercando di pulire le parole cattive che mi stanno salendo dal profondo dello stomaco, ma qualcuno mi trattiene nuovamente per il braccio. Mi volto di scatto pensando che sia il dottore che, conoscendomi per fama e sapendo che sono un medico, tenti di farmi capire con paroloni che posso comprendere perché non posso andare da lui. Sto per insultarlo quando mi rendo conto che è Mycroft. Tiene il mio braccio ma non guarda me. Il suo sguardo è rivolto verso il mio collega.

“So perfettamente che ora mio fratello non è cosciente e che dovete tenerlo sotto osservazione per parecchie ore, dopo un intervento simile, ma sono sicuro che la presenza del dottor Watson non potrà che fargli bene”

Il chirurgo si stropiccia la faccia cercando di portare pazienza, poi sbotta.

“Lei non è un medico, cosa può saperne?! Inoltre non è nessuno per impormi una cosa del genere e il dottor Watson” aggiunge lanciandomi un'occhiataccia “Non è nemmeno un parente!”

Sento la stretta di Mycroft farsi più presente sul mio braccio. È arrabbiato e nervoso ma solo io posso sentirlo, nel suo viso non si scorgono mutamenti. Mi lascia lentamente, sfiorandomi con le dita mentre si allontana con la mano.

“Non è mio costume far pesare la mia posizione” dice voltandosi definitivamente verso il medico “Ma in questo caso farò un'eccezione. Possiamo parlare in privato?”

Il medico lo scruta dal basso in alto, vista la diversa posizione e l'elevata statura di Mycroft, poi si alza svogliatamente e lo segue poco distante. Io e Lestrade ci guardiamo senza capire, ma io mi avvicino a lui e gli poso una mano sulla spalla.

“Vai a casa, Greg. Starà bene. Ci saremo io e Mycroft con lui”

Gli sorrido, incoraggiante e lui annuisce, poi si alza, ricambia posando anche la sua mano sulla mia spalla e stringe forte. Quella stretta mi fa sentire la sua presenza, la sua preoccupazione per Sherlock e mi fa sentire meglio. Si allontana lentamente, stiracchiandosi, finalmente rilassato.

Anch'io dovrei essere così, rilassato, invece non faccio altro che muovermi avanti e indietro per la sala d'aspetto. Mycroft e il chirurgo sono spariti mentre salutavo Lestrade. Mi chiedo cosa stia facendo il signor 'governo britannico, ma non posso non sorridere pensando che sta agendo per me, per noi, perché mi permettano di stargli vicino stanotte..

 

 

Minuti? Ore? Non so quanto tempo è passato da quando Lestrade si è chiuso la porta della sala d'attesa alle spalle, ma mi è sembrato un'eternità. Ogni secondo lontano da Sherlock risuona nella mia testa con il suono incessante e ripetitivo delle lancette dell'orologio anonimo appeso alla parete.

Quando finalmente torna indietro, mi passa accanto senza parlare, ma sul suo viso vedo un lieve sorriso di trionfo.

Pochi minuti dopo la porta si riapre e ne esce il chirurgo. Si è lavato il viso, sembra meno stanco ora, ma la sua fronte è corrugata per il disappunto.

“Può venire con me, se vuole, ma dovrà indossare la tuta protettiva per entrare nella stanza.

Non rispondo a voce, annuisco semplicemente e lo oltrepasso. Conosco la struttura dell'ospedale e so dove trovare ciò che mi serve. Vado a pescare una tuta dal cassetto giusto e la indosso correndo verso la stanza di Sherlock.

Davanti alla porta lo vedo attraverso il vetro e le tapparelle socchiuse e sento una morsa al cuore, ma mi faccio coraggio e prendo la maniglia per entrare. Lentamente, faticosamente, apro la porta.

Sherlock giace in un letto che è così grande per lui. Il suo corpo pallido appena si distingue dalle lenzuola dell'ospedale e dalle bende, ma capisco che è vivo sentendo il suono regolare dei macchinari attorno a lui e l'impercettibile movimento del suo petto, mentre respira. È ancora intubato, ma già domani mattina lo faranno respirare da solo. Per il momento è totalmente incosciente, rilassato nella sua momentanea inconsapevolezza e ignaro di ciò che stiamo passando noi che gli vogliamo bene.

Mi guardo attorno e, una volta assicuratomi di essere soli, prendo una sedia e mi posiziono di fianco a lui. Gli prendo la mano magra, trafitta dall'ago della flebo, e la bacio delicatamente. Sembra fatto di cristallo tanto è sottile e la pelle diafana è quasi trasparente tra le mie mani abbronzate e massicce. Sentirlo pulsare e respirare sotto di me mi fa finalmente riconnettere con la realtà. Lui è lì, ancora sedato dopo l'intervento, ferito gravemente ma salvato dalle mani dei chirurghi. Mi chiedo se riuscirei mai a fare qualcosa per lui, a salvarlo veramente come medico. No, non ce la farei mai. Le mie mani tremerebbero sopra il suo corpo inerme, non ragionerei, non sarei capace di riportare su di lui le mie conoscenze mediche. L'affetto che ci lega mi impedisce di ragionare e mi rendo conto che ha ragione lui. I sentimenti sono un ostacolo alla razionalità.

Se dovessi operare per gli stessi motivi un altra persona, a caso nel mondo, non tremerei, non avrei dubbi, saprei esattamente cosa fare.

Sherlock però non è una persona a caso nel mondo. È Sherlock. Il mio amico.

Quindi al diavolo la ragione. Un medico non è tutto ciò che voglio essere per lui. Voglio essere suo amico, voglio capire il suo animo e donargli tutto il mio amore perché è ciò che posso fare, ciò che mi riesce meglio e ciò che lui si merita da me. Nient'altro. Dimentico la laurea appesa nel mio studio, dimentico le ore passate in sala operatoria. Non sono un chirurgo, non sono un medico.

Sono John Watson, l'amico di Sherlock Holmes e lui è Sherlock Holmes, il più sincero e devoto amico che abbia mai potuto desiderare di incontrare nella mia vita.

La consapevolezza di tutto questo mi travolge come una valanga e già sento il mi corpo scosso da tremiti incontrollati e gocce salate scendere copiose dai miei occhi stanchi. Scoppio in lacrime prima di rendermene pienamente conto. Ora che la tensione è passata, ora che so che si salverà, posso finalmente sfogare l'ansia e la preoccupazione accumulate in queste poche ore, in cui mi è sembrato di attraversare l'inferno.

Poso la testa accanto alla sua, sul cuscino, bagnandolo della mia disperazione, della mia angoscia finalmente sfogata e, pian piano, mi calmo, lasciandomi andare al sonno. Non combatto questa sensazione. So che Sherlock avrà bisogno di me domani perciò voglio essere riposato, inoltre voglio rientrare nel palazzo mentale, dove lui ha più bisogno di me.

 

 

Riapro gli occhi e sono di nuovo lì, nella sua mente. Un'alba rosata illumina il corridoio sul quale l'ho trovato moribondo durante il temporale. Le nuvole dorate si diradano pian piano nel cielo che si fa sempre più azzurro e terso, come i miei occhi. Non avverto la stanchezza provata durante la notte, mi sento sveglio e perfettamente riposato. Anche la casa sembra più pulita, più limpida. Manca solo qualcosa anzi, qualcuno. Non perdo un solo istante e subito inizio a cercarle e i corridoi. Le stanze che non ho ancora visitato, ma delle quali stranamente sento di conoscere il contenuto.

Correndo lancio distrattamente delle occhiate alle targhette di metallo che le contraddistinguono.

 

Caso nr. 1 (Carl Powers annegato in piscina)

 

Caso nr. 2 (Lo strano riguale dei Musgrave)

 

Caso nr. 3 (Victor Trevor e suo padre, James Armitage)

 

Altre porte con altri casi, tutti catalogati con numeri e brevi descrizioni. Corro e man mano i numeri salgono, poi finalmente giungo al numero 243.

 

Caso nr. 243 (Suicidi indotti dal taxista – Mandante: Moriarty (?) )

 

Stavolta però c'è qualcosa di diverso. Sopra la targhetta c'è un post-it giallo con la scrittura sghemba e sottile di Sherlock. C'è scritto 'Uno studio in rosa'. Aveva reputato infantile e inutilmente drammatico quel titolo che avevo dato alla nostra avventura ma ugualmente lo ha tenuto, nella sua memoria, in omaggio a me. Mi sento pervaso da orgoglio ed eccitazione al pensiero che, nonostante tutte le parole denigratorie, abbia tenuto da conto ciò che gli ho detto, ciò che ho scritto su di lui.

Continuo a scorrere le porte, sorridendo e il desiderio di varcare quelle soglie si fa più prepotente nel mio cuore, che mi dice di farlo, di buttarmi anche in quell'avventura.

Prendo un profondo respiro, come poco prima di tuffarmi nel mare, come quella volta in cui passai con un balzo da un palazzo all'altro, per stare dietro a Sherlock nell'improbabile inseguimento di un presunto assassino. Poso la mano sulla maniglia, teso ed eccitato per questo passo che sto per compiere. Lentamente l'abbasso e succede qualcosa che non mi aspettavo. La maniglia si muove a vuoto, la porta è chiusa a chiave.

 

Nel momento stesso in cui realizzo ciò, tutto intorno a me scompare.

Sento il rumore umido di una goccia d'acqua che cade ritmicamente in una pozzanghera. Sono raggomitolato a terra, mi proteggo la testa con le braccia per proteggermi, non riesco a smettere di tremare e piango per il dolore e per la solitudine. Il luogo in cui mi trovo è stretto e freddissimo. Forse sono sottoterra, nascosto alla vista. Se guardo di fronte a me vedo le sbarre di una prigione, fiocamente illuminate dalla luce solare che riesce a malapena a entrare da una minuscola feritoia che penetra le spesse mura che mi circondano. Dove mi trovo? Il panico mi pervade. Devo scappare! Devo uscire da questa prigione! Ansimo, in cerca d'aria, ma mi sembra di essere sul punto di scoppiare ...

 

Lascio andare la maniglia e, così com'è comparsa, la visione scompare, ma il tremito che mi scuote il corpo permane ancora per qualche istante, finché il calore del sole mi riporta alla realtà.

Cosa ho visto? Quali fantasmi hanno attraversato la mia mente? Rimango per un momento interdetto di fronte a quell'ostacolo inaspettato e, sinceramente, indesiderato. Mi chiedo come mai Sherlock non mi permetta di entrare nei suoi ricordi e mi domando quale sia il significato di quel luogo buio e umido, poi capisco e mi torna alla mente cosa mi ha detto stanotte.

'Mi sono perso'

Quelle parole mi rimbombano ora come i rintocchi di una campana e mi rendo conto che effettivamente una campana sta suonando. Il pendolo del salone sta battendo le ore. Solo le sei. Mi allontano di qualche passo, conscio finalmente di qual'è il mio compito oggi.

Il sole ormai si sta alzando, così mi rendo conto che non ho mai veramente esplorato i luoghi che si trovano al di fuori della casa. Seguendo il suono della pendola arrivo in un ampio salone. Nel caminetto giacciono ancora le ceneri di quello che doveva essere stato un bel fuocherello, del quale ora non rimane che polvere nerastra e qualche pezzetto di legno carbonizzato, non del tutto distrutto dalle fiamme. Oltrepasso il ferro di cavallo formato dai divani e vado verso la porta finestra che dà nel giardino esterno. La luce del sole entra scivolando tra le foglie degli alberi fuori, donando alla stanza un'atmosfera di rilassatezza. Apro la porta finestra ed esco in giardino.

 

 

L'aria frizzante del primo mattino mi colpisce in viso. Chiudo gli occhi e mi stiracchio, beandomi di quel momento così felice, poi mi ricordo di Sherlock. Corro fuori, come attirato da una specie di istinto primordiale, che mi unisce a lui, facendomi sentire, sì la parola giusta è proprio sentire, dove sia.

Il giardino è rigoglioso e ordinato. Il verde delle piante è chiazzato qua e là da aiuole di fiori scarlatti e azzurri. Gli uccellini già avevano iniziato a cantare tra i rami degli alti alberi, creando un coro piacevole da ascoltare.

Poco distante vedo delle alte siepi. Se l'intuito non mi ha abbandonato del tutto deve trattarsi di un labirinto. Senza pensarci due volte mi precipito verso quella direzione, cercando l'entrata. La trovo, tra due siepi altissime. È impossibile da lì intuire il sentiero, ma sento che ce la farò. Anche a costo di perdermi ce la farò. Ce la devo fare.

Per Sherlock.

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Capitolo 8
*** Il labirinto ***


Eccomi di ritorno, ragazzuoli. Sono stata assente per un po', mi mancava l'ispirazione, ma per mia fortuna la mia Musa Ispiratrice Lady Morgana è tornata e ha compiuto il miracolo, perciò eccovi questo capitolo. Per il prossimo dovrete aspettare un altro po' immagino, ma spero ne valga la pena!

 

Buona lettura … e recensite!!

 

MINI

 

 

 

 

 

 

 

Il Labirinto

 

 

 

 

 

 

 

I corridoi tra le alte siepi sembrano infiniti. Cammino lentamente per cercare di orientarmi ma sembra che si allunghino man mano che mi avvicino. A destra e a sinistra si aprono nuovi percorsi e ho l'impressione di essermi ormai perso in mezzo a queste foglie. Solitamente il verde e le fronde degli alberi mi rilassano, ma ora mi sento risucchiato da un vortice color smeraldo, che mi disorienta. Verde a destra, verde a sinistra. Solo il cielo rimane del suo colore, ma ormai è solo un sottile nastro ceruleo sopra la mia testa che non mi dà nessun punto di riferimento.

Ciò nonostante continuo a proseguire. So che, da qualche parte disperso, c'è Sherlock. Devo solo trovarlo e liberarlo da quella prigione. Ormai la consapevolezza che quella visione mi stesse mostrando ciò che lui vedeva è sempre più presente. Corro a destra e a sinistra, apparentemente senza meta, perché in effetti credo di essermi perso, ma sento che c'è qualcosa che mi attira verso di lui, un'energia misteriosa, la stessa che mi permette di essere qui, ora, per aiutarlo a ritrovarsi.

Cammino, cammino, cammino … Mi sembra di essere in una fiaba, ma qui non ci sono oggetti magici, non c'è una fata che mi possa aiutare a trovare la via, tutto sembra andare contro di me e faccio sempre più fatica a contrastare la corrente. Cammino velocemente ma cerco di non correre, per non perdere di vista eventuali dettagli nel percorso ed evitare di perdermi o di fare di nuovo la stessa strada, ma ogni volta non sono sicuro di aver già visto quel bivio o no, se sono già passato per quella via.

Mi passo le mani sui capelli, impotente. Sembra impossibile riuscire a raggiungerlo, ma quando mi sembra di aver perso tutte le speranze, lo sento chiamare da lontano. In realtà non è lui che chiama, è la sua energia che mi attira a sé. Infischiandomene delle siepi cammino deciso in linea retta, verso il centro del labirinto, sfondando quei muri verdi. I rami di alloro mi graffiano il viso e ogni tanto sento qualche insetto arrampicarsi sulle mie braccia, ma non ci faccio caso. Continuo a camminare e a farmi strada tra le siepi, fino a quando arrivo in una radura. Mi tolgo le foglie dai capelli e anche qualche rametto, conficcato sul mio maglione e intanto mi guardo in giro, in cerca di un indizio, di qualcosa che mi possa condurre dove sta Sherlock.

Cammino guardando in alto, in cerca di un passaggio, quando inciampo in qualcosa di duro ai miei piedi. Mi rialzo imprecando e vedo una botola. Mi avvicino per pulirla dalle foglie e dai rami che la ricoprono e scopro che non è chiusa a chiave, ma pesa molto perché solo dopo molti sforzi riesco ad aprirla. Mi siedo qualche istante, stremato, davanti all'apertura poi, recuperate le forze, mi addentro lì sotto. Una ventina di gradini mi porta ad un livello sotterraneo e subito capisco di trovarmi in una prigione. Raggiungo immediatamente la guardiola, ancora tenuemente illuminata dalla luce che proviene dalla botola e trovo subito una torcia elettrica, con la quale illumino il corridoio di fronte a me. È un luogo tetro e sento le gocce di umidità cadere in piccole pozzanghere. Posso solo immaginare quale inferno deve patire Sherlock qui dentro. Non ho alternative, il corridoio davanti a me è unico, perciò non posso fare altro che seguirlo, illuminando i miei passi con la torca. A destra e a sinistra si aprono altre porte, ma per istinto so che non è in nessuna di quelle. Le oltrepasso con indifferenza e corro verso il centro della prigione, deciso. Questa sicurezza mi spaventa un po', ma non posso fare a meno di seguire l'istinto.

Dopo un centinaio di metri finalmente giungo ad un atrio circolare. Altre soglie si aprono lungo la circonferenza ma ciò che attira la mia attenzione è una cella situata in fondo alla sala. Mi avvicino lentamente, quasi timoroso di quello che potrei trovarci dentro. Ho paura che sia troppo tardi, di essere stato troppo lento a capire. Mi affaccio, posandomi con tutto il peso alle sbarre e riconosco il luogo della visione, non poteva essere altro che quello. Da alcune finestrelle poste sul soffitto entra debolmente la luce del giorno, ma sono solo piccoli raggi di luce che non rendono l'ambiente più confortevole. Sento tossire e, attirato da quel suono, volgo lo sguardo e lo vedo.

 

 

È accucciato a terra, poco di stante, così vicino che quasi potrei toccarlo. Trema per il freddo ma non sembra ferito. Ora devo solo liberarlo dalla prigione che lui stesso ha creato. Mi siedo e con una mano gli sfioro la gamba.

“Sherlock … Sherlock ...” lo chiamo a bassa voce, intimorito da quel luogo.

Lui sembra svenuto o molto debole, ma lentamente alza il viso verso di me e mi sorride, mormorando il mio nome.

“John …” allunga la mano verso la mia e la sfiora “Mi dispiace … Non volevo farti preoccupare così tanto ...”

Trattengo un singhiozzo sentendolo dire così. Non sembra nemmeno lui così debole e indifeso, raggomitolato su sé stesso, tremante e impaurito. Mio malgrado sorrido a quella visione e gli stringo appena il ginocchio.

“Non fa nulla, mi sono preoccupato ma ora sto bene perché anche tu sei vivo e stai bene, hai capito?”

Lui annuisce, ma sembra confuso, cosa ancora più strana per lui. Massaggio piano la sua gamba, senza distogliere lo sguardo dal suo.

“Hai avuto un incidente durante un caso e sei stato ricoverato. Ora stai dormendo, ti hanno appena operato e devi recuperare le forze … io sono con te, ti sto vicino ...”

Sherlock annuisce e forse ricorda qualcosa. Abbassa lo sguardo, immerso nei suoi pensieri, in cerca di riordinare le idee, poi lo rialza e mi guarda.

“Possiamo tornare a casa, ora?” mi chiede, ingenuamente.

“Non ancora, Sherlock. Prima devi guarire, ma presto tornerai a casa con me, te lo prometto”

Gli sorrido per fargli capire che non sto mentendo e lui ricambia, sorridendo a sua volta poi stringe la mia mano, pian piano con più decisione. Quando lo fa, quando capisco che sta riacquistando le forze, accade qualcosa di inaspettato. Le pareti della stanza si illuminano e in un lampo svaniscono.

La luce ci acceca, perciò ci vuole qualche istante per capire che ci troviamo in casa, seduti comodamente nei divani del salotto. La posizione è la stessa, ma noi siamo cambiati. Ora siamo vestiti elegantemente e anche Sherlock sembra aver ripreso colore. Le sue guance sono più piene, la sua pelle meno tirata e sorride felice.

“Era da tanto tempo che aspettavo” mi dice, alzandosi e venendo a sedersi accanto a me “Speravo che prima o poi saresti riuscito ad arrivare qui ...”

Sorrido a mia volta e lo fisso, senza sapere se essere sorpreso o spaventato.

“Sei … sei Sherlock, giusto?”

Lui scosse la testa, ridendo sommessamente.

“Sono il suo inconscio” mi risponde lui “Non sono lui, eppure lo sono. Immagino che tu abbia già esplorato questo luogo”

Mi dice, sicuro di sé e sicuramente sa già che è così, così mi limito ad annuire.

“Questo luogo non esiste in realtà, è tutto nella mia mente, ma è forse più reale di ciò che si può vedere e toccare. Racchiude il mio essere, i miei desideri, i miei ricordi, tutto ciò che è importante per me, ciò che temo e ciò che amo ...”

Lascia la frase in sospeso e guarda me. Mi sento avvampare per l'imbarazzo. Non avrei mai pensato che potesse farmi una dichiarazione d'amore. In effetti avevo sempre sospettato che fosse omosessuale ma sinceramente, nonostante mi lusinghi, non mi sento pronto per un simile rapporto. Lui intuisce i miei pensieri e si fa triste, così prima che possa farsi strane idee o rimanerci eccessivamente male cerco di rassicurarlo.

“Non …” inizio maldestramente “Non pensare che non ti voglia bene, Sherlock … solo … sai bene che io non sono … be' ...” Annaspo come un pesce fuor d'acqua, ma la sua reazione mi lascia ancora più stupito. Ride. Ride di me. Aggrotto le sopracciglia, non capisco cosa gli sia preso tutto d'un tratto, ma lui non intende farmi rimanere nel dubbio a lungo.

“Non intendo amore passionale, John” mi spiega, sistemandosi più comodamente nella poltrona e congiungendo le mani sotto il mento. Ecco lo Sherlock che conosco, ma parla di cose inusuali per lui, attirando tutta la mia attenzione.

“Ciò di cui parlo è amicizia, un sentimento puro e sincero, che mai in vita mia avevo provato. Ho avuto dei conoscenti, gente che mi sopportava, gente che non mi sopportava, ma nessuno come te è mai riuscito a farmi sentire così … bene ...”

Inspira profondamente e chiude gli occhi, poi si lascia andare espirando lentamente, completamente rilassato, coinvolgendomi nella sua tranquillità, poi riapre gli occhi e mi guarda, più serio stavolta, ma sempre sereno.

“Ciò a cui mi riferisco è il poter mettere da parte, il voler mettere da parte il proprio ego per qualcun altro, per te ...”

Sorride più radiosamente e il mio pensiero va subito alla stanza che ha preparato per me, così annuisco piano e mi rendo conto che io non ho fatto nulla di simile per lui. Non avrò un mind palace dove racchiudere i miei pensieri e i miei ricordi, ma ora mi rendo conto di averlo in qualche modo sopportato, di averlo manipolato per i miei scopi, per renderlo come io lo volevo e, forse, non è stato un bel gesto da parte mia. Certo, l'ho fatto riconciliare con i suoi genitori e ora sa quali pianeti ci sono nel sistema solare, ma ho voluto plasmarlo, cambiarlo. Mi rendo conto che non l'ho accettato fino in fondo. Ho biasimato Mycroft per il suo desiderio di controllo ma la verità è che per primo sono stato egoista, per renderlo più simile al mio ideale. Abbasso lo sguardo, imbarazzato, ma lui ancora una volta mi sorprende.

“Non pensare questo, John” mi dice, come se avesse letto i miei pensieri e credo fermamente che lo abbia fatto “Tu mi hai aiutato. Hai tirato fuori quella parte di me che avevo dimenticato di possedere e non parlo dei miei ricordi, della mia famiglia o di altro, parlo di te, di ciò che provo per te. Quella stanza, quella dedicata a te, è nata prima che tu venissi qui, c'è da quando ho capito che la tua amicizia mi è indispensabile, vitale. Non mi hai cambiato … mi hai permesso di cambiare, è diverso. Il cambiamento è nato da me, ma sei tu che lo hai permesso, senza sforzo, semplicemente accettandomi per quello che sono ...”

Sento gli occhi pizzicare. Le sue parole mi commuovono e sento che presto piangerò.

“Mi sento bene con te, perché posso essere totalmente me stesso e migliorare, provare ad essere migliore … tu hai fatto tutto questo, John ...”

Ormai non riesco più a trattenermi. In pochi istanti colmo lo spazio tra di noi e mi inginocchio ai suoi piedi, circondandogli le gambe magre con un abbraccio colmo di gratitudine e, senza quasi rendermene conto,scoppio in lacrime. Tutto si fa indefinito, sfocato ai miei occhi e pian piano cedo al sonno, mentre svanisce l'eco delle sue ultime parole …

“Sarei perduto, senza di te ...”

 

 

 

Mi risveglio subito dopo. È Sherlock che mi desta, stringendomi la mano. Alzò il viso e vedo che mi guarda, sorridente e, anche se ancora spossato per la recente anestesia, vitale. I suoi occhi mi scrutano con avidità, quasi avesse avuto paura di non potermi vedere più, di finire la sua vita lontano da me. Non permetterò che accada, non lascerò che gli succeda niente di male.

“John … mi dispiace … non volevo farti preoccupare ...” mi dice, leggermente a disagio, ma io lo zittisco posandogli un dito sulle labbra.

“Non lo hai fatto” dico ridendo “So che hai la pelle dura … e nessuno può permettersi di ucciderti, solo io posso!” aggiungo, scoppiando a ridere, seguito subito dopo da lui.

Lo abbraccio delicatamente per non fargli male ma ho l'assoluto bisogno di fargli capire quanto tengo a lui, quanto lui sia importante per me. Lui ricambia l'abbraccio e sento una goccia salata scendere sul mio collo.

 

 

 

 

 

Sono passate cinque settimane da quel giorno. Sherlock è tornato a casa e sta meglio, visto che gli hanno anche tolto i punti. Qualcosa però è cambiato, sia in me che in lui, ne sono consapevole di più ogni giorno che passa. Esteriormente è sempre lo stesso Sherlock, sociopatico e arrogante, ma so che ormai è tutta una recita, una posa che assume con gli altri per difendersi, sono pochi i privilegiati che possono vederlo per come è in realtà. Nel suo cuore si cela un tesoro, che nemmeno io sono ancora riuscito a vedere, ma che illumina con il suo bagliore chi gli sta accanto. Io gli sono vicino più degli altri e ogni giorno vengo irradiato da quei riflessi di luce, quei momenti di intimità in cui sento che la nostra amicizia va al di là dello spazio e del tempo, è un sentimento profondo, radicato nei nostri cuori, immortale.

Ciò che non posso ignorare, che entra sempre più prepotentemente nella mia coscienza, è che entrambi siamo cambiati. Questa esperienza è servita soprattutto a me, per capire lui ma soprattutto per capire me stesso e il mio rapporto con lui.

Dal giorno del suo incidente non sono più rientrato nel mind palace. Troppe cose sono successe e troppe ne dovevo chiarire con lui. Non ci siamo parlati, non avrei nemmeno sputo cosa dire, ma sento che ora il nostro rapporto è più completo, più stretto, eppure sento che ancora manca qualcosa. Per me Sherlock continua ad essere un'isola avvolta nella nebbia. L'ho vista, ho capito più o meno che forma ha, ma non riesco tutt'ora a definirne i dettagli. Non capisco se quelli che vedo sono alberi o le braccia di qualche strano mostro. Il suo inconscio ancora mi spaventa perché so che può racchiudere posti bellissimi come il giardino, ma anche luoghi terrificanti, desolati e solitari, come la prigione in cui era intrappolato. Lui è tutto questo e non voglio cambiarlo.

 

 

Ormai è sera. Abbiamo passato il giorno ad inseguire un suo informatore, che recentemente ci ha traditi, mettendomi in grave pericolo. A causa sua ho rischiato di essere ucciso e questo a Sherlock non è andato giù. Quando ha capito che il cecchino era stato informato proprio da lui è diventato una belva. Raramente l'ho visto così, anzi mai. È partito all'inseguimento come un cane da caccia, teso e deciso a catturare la sua preda. Io gli sono stato dietro come ho potuto, ma lui era più veloce di me e quando finalmente l'ho raggiunto ho dovuto fermarlo. Era tanta la sua rabbia che ho dovuto strapparlo via dal povero Wiggins perché la smettesse di picchiarlo, ma ormai il ragazzo era una maschera di sangue tremante e implorante pietà. In qualche modo sono riuscito a convincerlo e il ragazzo è finito prima in pronto soccorso e poi in prigione, dove resterà per qualche mese.

Ho preso paura, stasera. Non avevo mai pensato a lui in questi termini e scoprire che sotto la fredda pietra si cela un fiume di lava incandescente mi ha sconvolto. Sento che dentro di lui c'è un abisso del quale io ho solo intravisto la superficie. Il resto è ancora nascosto e mi spaventa più di quanto non sia disposto ad ammettere.

Sherlock ora è in salotto e non riesce a dormire. La tensione è ancora troppo alta per lui, per questo suona una melodia indiavolata. Suona senza posa, apparentemente instancabile, quasi ferendo il violino. Soffro sentendolo ma contrariamente alle mie aspettative, questa musica mi avvolge, mi trascina in un vortice impetuoso, come un gorgo oceanico. Non è una sensazione piacevole e non posso fare nulla per lottare, ma dopo poco cado, precipito e finalmente mi ritrovo nel mind palace.

 

Mi rialzo a fatica. È buio e fuori piove. Il mind palace rispecchia esattamente lo stato d'animo di Sherlock e mi fa ancora più paura stasera, ma so che se sono qui c'è un motivo ben preciso. Non ho il tempo di fare molta strada che vengo attirato da una porta.

Un lampo la illumina per un istante e riesco a vedere la targhetta.

 

Caso nr. 243 (Suicidi indotti dal taxista – Mandante: Moriarty (?) )

 

Sopra c'è il solito post-it con scritto 'Uno studio in rosa'. Un altro lampo, seguito dal tuono, mi fa sobbalzare e, senza pensarci, afferro la maniglia, che si abbassa facilmente. La porta è aperta e io posso entrare. Mentre alle mie spalle si scatena l'inferno io, senza riuscire a trattenere un tremito, varco la porta.

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Capitolo 9
*** Essere Sherlock Holmes ***


Eccoci alla fine di questa storia, ragassuoli. Avrei potuto farla continuare ancora un pochino, ma a parte il fatto che non avrei fisicamente potuto (tra pochi giorni partirò per la stagione al mare) sarebbe stata troppo ridondante e noiosa. Ho preferito perciò concludere in bellezza e lasciare un finale socchiuso (non del tutto aperto, ma nemmeno completamente chiuso, perché c'è ancora lo spiraglio della vita di Sherlock e di John insieme).

Non mi resta che ringraziarvi per avermi seguita fin qui e salutarvi, quando tornerò in autunno con nuove storie che spero mi verranno in mente mentre mi arrostirò al sole (Come pasticcera lavorerò solo la mattina, quindi avrò tutto il pomeriggio libero per pensare …)

 

HASTA LUEGO!!

PADMINI

 

 

 

 

 

 

 

Essere Sherlock Holmes*

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mi chiudo la porta alle spalle mentre imperversa la tempesta e quando rimango solo, al buio, tutto il rumore resta fuori. Provo una strana sensazione e pian piano il buio si dirada e mi ritrovo al laboratorio del Barts. Davanti a me c'è un tavolo ingombro di provette, microscopi e strumenti di analisi. Il mio cervello lavora rapidamente, dati e idee si accavallano freneticamente ma riesco a seguirle senza problemi. Prendo il reagente e lo aggiungo al campione ritrovato sul luogo del delitto e … mi guardo le mani … non sono mie! Si può sapere cosa sto facendo? A cosa sto pensando? Questi quesiti sembrano essere messi in secondo piano da altri più urgenti. Devo scoprire di cosa si tratta e, ovviamente, ci riesco. È vernice, del tipo usato per dipingere le scale da giardinaggio, pieghevoli e facilmente trasportabili. Il problema è che la vittima non aveva una scala simile, perciò dovrò cercarla altrove, per esempio …

Mi blocco. Cosa sta succedendo? La mia mente sembra viaggiare su due binari ma io mi ritrovo ad essere umile testimone di ciò che accade, come in un film molto coinvolgente. Ancora una volta Sherlock è riuscito a sorprendermi, a portarmi in luoghi che mai avrei pensato di vedere, eppure sono qui, così mi lascio andare alla fiducia e osservo ciò che accade, ciò che faccio accadere, cercando di non interferire con i miei pensieri, anche se non sembrano particolarmente rilevanti in quel momento.

 

Sorrido, come al solito ho ragione, ma non faccio in tempo a complimentarmi con me stesso che vengo distratto da qualcuno che bussa alla porta. È Stamford, ma stavolta sembra avere qualcosa di interessante per me. Sorrido quando vedo che ha portato un amico. Un medico militare da poco congedato per un incidente durante una missione … mi chiedo se si sia ferito in Afghanistan o in Iraq. Ha uno sguardo deciso e mi ispira fiducia, potrebbe essere un ottimo coinquilino, sicuramente Mike l'ha portato qui per presentarmelo proprio per questo.

 

Sobbalzo leggermente quando scopro che l'uomo dietro Stamford sono io. Mi guardo come se fossi un estraneo ma ugualmente riesco a capire tutto di me. È incredibile come da pochi dettagli riesca a farmi un quadro completo della situazione.

 

Lancio un'occhiata veloce al mio cellulare. Purtroppo non ha segnale, ma devo mandare immediatamente un messaggio a Lestrade. Non ho tempo per spiegargli le cose a voce, un SMS sarebbe più veloce.

Mike, mi presti il telefono? Il mio non ha segnale”

Scusa, perché non usi il fisso?” mi chiede lui. Irritante.

Preferisco gli SMS ...” odio dare spiegazioni inutili.

Scusa …” si giustifica lui “È nel cappotto”

 

“Usi il mio” mi intrometto e Mike non perde tempo per presentarmi.

“Un mio vecchio amico, John Watson”

Mi guardo incuriosito, sorpreso da tanta disponibilità, e mi alzo per prendere il cellulare.

“Grazie”

 

Prendo il cellulare dalle sue mani e al contatto con la sua pelle rabbrividisco appena, ma riesco a non darlo a vedere, ma subito mi concentro su quello che devo fare, senza dimenticare di osservare questo oggetto così personale per ottenere qualche informazione in più su di lui. Invio il messaggio a Lestrade, del quale conosco il numero a memoria e gli restituisco il telefono.

Ho scoperto tante cose, ma per ora mi limiterò a sorprenderlo con una semplice domanda.

“Afghanistan o Iraq?”

 

Anche se sono io … o non sono io … be', anche ora questa domanda mi lascia a bocca aperta per la sorpresa. Non me la sarei mai aspettata da nessuno. Vedo nei miei occhi che non ho compreso appieno cosa mi ha domandato, cosa mi sono domandato … be' … non è chiaro. È solo la punta dell'iceberg dei ragionamenti che la mente di Sherlock ha elaborato in pochi secondi.

“Come, scusi?”

 

Sorrido a quella domanda stupita.

Dov'è successo, in Afghanistan o in Iraq?”

Afghanistan …” risponde, sempre più confuso “Ma come ...”

Subito la mia attenzione viene attratta da Molly, appena entrata.

Oh, Molly! Il caffè! Grazie ...” dico osservandola “Che fine ha fatto il rossetto?”

Non mi stava bene ...” si giustifica lei, ma sono spietato.

Davvero? Invece stavi meglio ... Hai la bocca troppo ... piccola ora”

 

Ascolto le parole che escono dalla sua … o dalla mia bocca con la stessa disapprovazione, ma in fondo sento che c'è qualcosa di più. Irritazione? È questo che provava Sherlock? Sì, mi sembra di avvertirla. Non mi piace che Molly sia così sdolcinata nei miei confronti, anche se è sempre molto disponibile, non voglio che pensi che in qualche modo potrei ricambiare i suoi sentimenti.

 

Le piace il violino?” un'altra domanda ad effetto, che apparentemente non c'entra nulla, tanto per stupire nuovamente l'interlocutore. Non devo lasciargli pensare nemmeno per un momento che io sia una persona noiosa o sciocca. Vedo me stesso aprire la bocca e rimanere interdetto a quel quesito così strano e, nuovamente, esporre il mio dubbio.

 

“Come, scusi?”

Sono chiaramente disorientato. Prima la storia dell'Afghanistan, per la quale non ho ancora ricevuto risposta, poi questo. Mi sento catapultato in un mondo strano. Forse sono stato in Afghanistan troppo tempo e intanto il resto del mondo è cambiato? Mi vedo lanciare un'occhiata a Stamford ma lui non fa altro che sorridere. Ride da quando siamo entrati, come se sapesse qualcosa che io non so.

Tutto questo però sta cominciando ad irritarmi, lo vedo da come mi muovo, ma percepisco anche il divertimento di Sherlock a quella reazione”

 

Io suono il violino quando penso e a volte non parlo per giorni interi. Due potenziali coinquilini dovrebbero conoscere i difetti reciproci”

Le mie labbra si increspano in un inequivocabile sorriso che palesa la mia soddisfazione interna, alla vista del disorientamento del mio interlocutore, che non sa bene a chi rivolgersi per capire qualcosa, prima a me, poi a Mike.

Gli hai parlato di me?” chiede poi a quest'ultimo e lui, divertito, scuote la testa “Allora chi ha parlato di coinquilini?”

Io. Stamattina Mike mi ha detto che sarà difficile per me trovare un coinquilino e dopo pranzo si presenta con un vecchio amico chiaramente appena rientrato da una missione militare in Afghanistan. Non è stato difficile”

Mentre parlo indosso giacca e sciarpa. Ora le informazioni iniziano ad essere più numerose, ma lo stesso vedo dalla mia espressione che ancora non capisco. Sono troppo lento per stare dietro ai ragionamenti di questo cervello.

 

Meglio fare un passo indietro. Prima di capire come abbia saputo che cerco un coinquilino voglio che mi dica come ha intuito che provengo dall'Afghanistan. Vedo la decisione nei miei occhi, quella che uso quando voglio qualcosa ma evidentemente con Sherlock non funziona, è abituato a sorvolare su come lo trattano le persone e pensa solo a sé stesso, ma io non posso saperlo, non ancora.

“Come sapeva dell'Afghanistan?”

Lui, ovviamente, mi ignora. Vedo le mie braccia irrigidirsi appena per la tensione.

“Ho adocchiato un piccolo appartamento al centro di Londra, insieme potremmo premettercelo. Ci vediamo lì domani sera alle sette. Scusate, devo scappare. Ho lasciato il mio frustino all'obitorio”

Ora la misura è colma. Vedo che sto per perdere la pazienza, infatti sbotto.

“Tutto qui? Vuole condividere un appartamento con me? Noi due non ci conosciamo, non so il suo nome, non conosco questo posto...”

 

Anche se non lo esterno troppo, sto intimamente ridendo per quella reazione così decisa. La persona che ho davanti è decisa, sicura di sé e di ciò che vuole. Non ci sono dubbi, mi troverò bene con lui … o con me … I ricordi si fanno sempre più offuscati e anche se la mente di Sherlock prevale sulla mia, faccio fatica a capire che sono veramente.

Io so che lei è un medico militare e che è stato ferito in Afghanistan. So che ha un fratello che si preoccupa per lei ma non gli chiederà aiuto perché non lo approva, probabilmente perché è un alcolista o meglio perché di recente ha lasciato la moglie … e so che la sua analista pensa che il suo zoppicare sia psicosomatico. Diagnosi corretta, temo. È sufficiente per frequentarci, non crede?”

Nuovo stupore, nuova soddisfazione per me, ora manca solo un'uscita ad effetto.

Il mio nome è Sherlock Holmes e l'indirizzo è il 221 B di Baker Street. Buonasera”

Non mi sono fermato a guardare, ma sicuramente devo essere rimasto a bocca spalancata, incapace di proferir parola e forse Mike mi avrà detto che è un comportamento normale per me … per … lui?

 

 

 

Uscendo dal laboratorio comincia a girarmi la testa. Non so più chi sono e, sinceramente, parlare con me stesso dalla bocca di Sherlock è stata un'esperienza che sarebbe riduttivo definire strana.

Faccio qualche passo in un corridoio nero, dai contorni indistinti, apparentemente senza meta.

Ricordo quel giorno. Allora ero ancora dubbioso, non riuscivo a fidarmi degli altri, ma Sherlock aveva destato qualcosa in me. Interesse? Sì, in effetti quel suo comportamento sfuggente e le sue frasi misteriose mi avevano incuriosito. Non c'era nulla di banale in lui eppure c'era qualcosa di più, il bisogno di stupire, di essere al di sopra degli altri, in un luogo sicuro, dove nessuno avrebbe potuto ferirlo. Avevo provato io stesso quei sentimenti, mi ero immedesimato in lui, riuscendo a comprendere una minima parte della sua vita, della sua continua lotta contro la banalità.

Continuo a vagare, entrando ed uscendo dai suoi ricordi.

La scoperta del messaggio lasciato da Jennifer Wilson; la ricerca della valigia in mezzo ai cassonetti e la gioia di averla ritrovata, confermando così la sua teoria; il disagio provato parlando di sesso e di relazioni amorose; l'eccitazione per l'inseguimento del taxi; il lavoro febbrile del cervello nel tentativo di mettere al loro posto ogni tassello del puzzle; la paura mista a euforia per il rapimento del taxista e il successivo colloquio e infine … tranquillità.

Quando i suoi occhi si sono posati sui miei ho provato un sentimento bello, caldo, avvolgente come una coperta. Non la coperta arancione, che con invadenza i paramedici gli hanno posato sulle spalle, è qualcosa di diverso, di migliore, un dolce invito a lasciarsi andare, ad essere semplicemente sé stesso, in qualunque situazione, senza inutili pose o atteggiamenti di difesa. Non se l'era presa sentendosi chiamare idiota perché sapeva che dietro a quella parola c'era un grande affetto, lo sentiva. Nemmeno io ero consapevole di ciò che gli stavo trasmettendo, eppure essendo lui ho sentito che il mio cuore reagiva a quella voce, a quella risata.

Ero troppo preso da me stesso allora, troppo occupato a capire cosa volevo veramente, per potermi concentrare su di lui ed entrare in empatia, eppure lui l'aveva fatto. Si era fidato di me subito, obbedendo a qualcosa di diverso dalla sua intelligenza.

 

 

Esco dalla stanza di quel ricordo e mi ritrovo nel corridoio rassicurante del mind palace. È sempre notte, ma il cielo ora è sereno e una luna splendente è incastonata tra le ultime nuvole leggere. Sospirando di piacere mi volto, pensando di distendermi nel mio bel lettone, ma mi trovo di fronte Sherlock.

“Ciao, John”

Lo osservo per qualche istante senza sapere cosa dire. Il ricordo della tempesta che poco prima aveva imperversato sul castello. Tremo al pensiero di quanto i suoi sentimenti possano essere impetuosi e mi rendo conto che lo sono soprattutto quando reagiscono per me. Mi guarda dolcezza e un velo di malinconia. Mi avvicino e lo abbraccio di slancio, prima che la parte più rigida della mia mente mi impedisca di farlo. Mi immagino che lui si irrigidisca, invece risponde al mio abbraccio con più entusiasmo di me.

“Non so cosa farei senza di te, John” mi dice abbassandosi per nascondere il viso nella mia spalla “Sei il mio migliore amico, non potrei sopportare di perderti!”

Lo stringo forte. Queste parole hanno un che di egoistico e d'altra parte non posso pretendere di sopprimere questa parte di lui, anche perché sarebbe ipocrita da parte mia perché anch'io sarei perduto senza di lui e questa cosa mi spaventa, così come mi ha turbato l'esperienza del suo ricordo. Volto appena il viso per indicare la soglia dietro di me.

“Questo posto ...”

Lui ride appena, ma quando torno a guardarlo vedo che è teso.

“Non dovrai più entrare qui” mi dice lui, con un tono stranamente severo e, prima di lasciarmi rispondere, scioglie l'abbraccio, mi oltrepassa ed estrae un mazzo di chiavi. Scelta quella giusta la infila nella toppa e chiude a chiave, a doppia mandata e il suono secco del chiavistello che si muove si sente anche nelle altre porte, lungo tutto il corridoio.

Boccheggio, incredulo, e mi sento rifiutato. Lui ovviamente capisce e mi sorride di nuovo.

“Non prenderla a male, John” mi dice “Non voglio che tu entri nei miei ricordi, ma ciò non ti impedirà di entrare nella mia mente, se lo vorrai”

“Perché?” ho la forza di domandare.

“Questi” dice sfiorando il legno della porta “Sono miei e di nessun altro. Non c'è bisogno che tu viva questi ricordi, non ho bisogno che tu mi capisca totalmente anche perché nemmeno io mi capisco del tutto ...”

Esita e arrossisce appena. Vorrei chiedergli perché, ma lui si limita ad abbracciarmi, stringendomi forte.

“Ho bisogno che tu sia qui, ho bisogno di sapere che tu non mi lascerai mai solo”

C'è una nota di urgenza nella sua voce, è una preghiera che mi porge e io non posso fare altro che rispondergli.

“È ovvio che starò sempre con te” lo rassicuro, carezzandolo piano sulla schiena “Non dubitarne mai”

Lui si stacca da me per guardarmi negli occhi. Uno sguardo deciso, pienamente convinto e sincero.

“Anch'io ci sarò sempre per te, John. Sempre”

Lentamente, come per magia, qualcosa accade nei suoi occhi. Si fanno lucidi e una lacrima evade da una delle sue acquamarine, scivolando brillante e ipnotica come un diamante sulla sua guancia di latte. La osservo incantato e tutto all'improvviso si fa bianco.

 

 

Riapro gli occhi lentamente, per abituarmi alla luce. Un raggio di sole entra prepotentemente dalla finestra, sfondando le tende. Mi alzo di slancio e vado ad osservare il cielo. Raramente un azzurro così intenso copre i tetti di Londra e ora sta avvolgendo la mia anima, rinfrescandola e curandola da tutte le preoccupazioni.

Come sempre ha ragione lui. Non è necessario che lo comprenda fin nel profondo anche perché mi piace così com'è, con quell'aura di mistero che lo rende speciale ai miei occhi.

Scendo le scale canticchiando e lo trovo raggomitolato su un angolino del divano stretto alla sua veste da camera, mentre il violino giace abbandonato sulla poltrona, affianco al suo archetto ma quando lo tocco lo sento freddo. Deve aver smesso di suonare da un bel po', infatti sembra profondamente addormentato.

Mi siedo accanto a lui per svegliarlo ma mi fermo. Tracce di lacrime sono ancora ben visibili sulle sue guance. La preoccupazione deve essere stata tanta e mi commuovo pensando che sono io la causa di quelle gocce salate che così raramente varcano la soglia del suo sguardo.

Sento di voler fare qualcosa di speciale per lui.

Quando è così non lo sveglia nemmeno un terremoto perciò vado in cucina e inizio a preparare la colazione, come piace a lui. Pane tostato, uova, pancetta e caffè nero con due zollette di zucchero. Sono costretto a rompere nuove uova perché, distratto da tutti quei pensieri, le ho fatte bruciare, ma va bene così. Non sono perfetto e mai lo sarò e nemmeno Sherlock lo sarà, ma siamo perfetti insieme, ci completiamo e tanto basta.

Metto tutto su un vassoio, che porto poi in salotto e poso sul tavolino davanti al divano. Mi sporgo e lo bacio delicatamente sulla tempia e lui si ridesta.

Mi guarda spaesato e si rende conto che è ancora evidente che ha pianto. Una sfumatura di intenso rosa si diffonde lentamente sulle sue guance e schiude le labbra per scusarsi per quella sua debolezza, ma io non ci faccio caso, come sempre. Non c'è bisogno di parlare e lui lo sa, perciò rilassa la bocca in un tenue sorriso di gratitudine e osserva la colazione sul tavolo, incredulo, si ricompone e mi sfoggia quel suo sorriso beffardo che tanto mi fa ridere.

“Hai fatto bruciare le uova, John” mi dice, con finto rimprovero e io, mio malgrado, scoppio a ridere.

“Non ti si può nascondere nulla!” dico, fingendomi offeso, ma lui ha già cominciato a mangiare di gusto, così anch'io prendo il mio piatto e lo imito poi, ingoiato il primo boccone, prendo la tazza di caffè e la sollevo in uno strano brindisi mattutino.

“A John Watson e a Sherlock Holmes” dico, solennemente.

Sembra una posa, un'esagerazione, ma è ciò che penso realmente. Lui sorride e alza a sua volta la tazza, facendola scontrare con la mia con la sua voce più sincera, più vera.

 

 

 

Sono passati due mesi. Ovviamente abbiamo vissuto molte altre avventure, una più incredibile dell'altra. Come dicevo, Sherlock sembra capace di trovare cose sempre più assurde da fare e quando penso di aver toccato il massimo della follia lui mi stupisce ancora e ancora e ancora.

Il mind palace e vasto e profondo, ma ormai non ci entro più. Mi basta guardarlo negli occhi per sentire la sintonia che ci unisce. I giornalisti insistono a millantare una qualche relazione omosessuale tra di noi, ma non c'è nulla di strano. Nessuno può capire l'alchimia che c'è tra di noi. È qualcosa che va al di là del tempo, dello spazio e della mente. Noi ridiamo a queste cose e spesso fingiamo di confermarle.

Un mese fa eravamo su una scena del crimine. Sherlock aveva appena fatto arrestare il colpevole, quando arrivarono i giornalisti. Andarono subito da Lestrade e poi vennero da noi. Sherlock rispose in modo professionale, guardandoli seriamente mentre io, che ero al suo fianco, ridevo sotto i baffi sapendo che era tutta una messa in scena.

“ … quindi era ovvio che si trovasse nel retrobottega. Ora, se volete scusarmi, ho di meglio da fare”

Detto questo mi aveva preso per le spalle e mi aveva baciato sulle labbra e io avevo finto di ricambiare, poi mi aveva preso a braccetto e se ce n'eravamo andati, sotto lo sguardo sbalordito dei presenti. Il giorno dopo erano usciti articoli scandalosi su di noi e tutti sembravano essersi dimenticati il serial killer che per due settimane aveva terrorizzato le vie di Clapton. Abbiamo riso alle loro spalle e, chiaramente, pochi giorni dopo era arrivato un nuovo scandalo a oscurare il nostro.

 

 

Ogni giorno mi propone nuovi stimoli, nuove possibilità e gioisco al solo pensiero che posso viverli con lui. Se prima in sua compagnia mi sentivo bene, più vivo, ora ne sono anche più consapevole. Il viaggio nel suo inconscio mi ha permesso di prendere coscienza del nostro legame e di goderne di più, sia quando ridiamo che quando mi arrabbio. Va tutto bene finché siamo insieme.

 

 

 

 

 

 

 

 

Sherlock, comodamente seduto nella poltrona di una piccola ma confortevole casetta – minuscola se paragonata al suo mind palace, ma incredibilmente confortevole, sorrise a quelle parole. Una lacrima di gioia gli attraversò il volto. Aveva visto ogni cosa, ogni pensiero, ogni sforzo di John per cercare di comprenderlo meglio perché, mentre il dottore era entrato nel suo mind palace, anche lui aveva trovato un accesso per il suo.

Si alzò e lentamente raggiunse la porta. Anche lui, che seppur inconsciamente sapeva di quel legame, ora lo vedeva in modo più chiaro, più definito. Se lo tenne nel cuore e lo cullò, voltandosi per osservare per l'ultima volta, non senza una certa malinconia, quel luogo che lo aveva protetto e amato, l'anima di John, sapendo che non lo stava veramente abbandonando.

“Ci vediamo nella realtà”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

* Non ho visto il film 'Essere John Malcovich, ma questo capitolo è più o meno ispirato a quello. John entra nelle memorie di Sherlock e vive la realtà come se fosse lui ...

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