Angelo Strano

di Dzoro
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Quattro giugno ***
Capitolo 2: *** La Fossa ***
Capitolo 3: *** Ed ***
Capitolo 4: *** Charlie ***
Capitolo 5: *** La Mano di Joshua ***
Capitolo 6: *** In Bagno ***
Capitolo 7: *** Il Cadavere ***
Capitolo 8: *** Spezzare la paralasi ***
Capitolo 9: *** In Taxi ***
Capitolo 10: *** Camerata ***
Capitolo 11: *** Festa di matrimonio ***
Capitolo 12: *** Un completo nuovo ***
Capitolo 13: *** People ***
Capitolo 14: *** La macchia sul muro ***
Capitolo 15: *** Stasi ***
Capitolo 16: *** Marie ***
Capitolo 17: *** Sorprese ***
Capitolo 18: *** Tre giugno ***
Capitolo 19: *** Postfazione ***



Capitolo 1
*** Quattro giugno ***


Il ronzio della zanzara si fece largo tra i rumori della superstrada. Si appoggiò tra il collo e il seno nudo di Angie. La ragazza sentì il pungiglione infilarsi sotto la pelle. Angie la colpì con uno schiaffo, e si alzò dalle lenzuola di scatto. Aveva del sangue sul palmo della mano, con in mezzo i pezzetti neri della zanzara. Passò una mano sul letto umido di sudore, mentre i suoi occhi si abituavano al sole intenso che già filtrava dalla finestra della camera. Era morta di caldo quella notte, non avrebbe dovuto accendere il forno la sera prima. Eppure ora sentiva la sensazione opprimente del freddo invadergli il petto e la gola. Ritrovò la canottiera sullo sgabello vicino al bancone della cucina, se la infilò, si versò una tazza dalla caffettiera fredda del giorno prima. Sedette così, mezza nuda, davanti alla finestra, fissando la sagoma del bungalow quattro, confusa nella polvere che ricopriva il vetro.

- Cosa ti ha portato qui?- mormorò nella tazza. Sorseggiò il caffè. Quando nella tazza rimase solo un fondo nerastro e pieno di polvere, la mise nel lavandino. Si portò davanti al forno, rimasto aperto dalla sera prima. La sagoma gialla a puntini neri dei biscotti le ridiede il buonumore. Erano una cosa che non poteva non mettere di buon umore, lo erano stati fin da quando era bambina. Il suo sguardo si spostò di nuovo sulla finestra, poi di nuovo sui biscotti. Levò la teglia sulla quale erano appoggiati dal forno, e ne spezzò uno. Morbido dentro, croccante fuori.

- Sei bello.- disse, mentre gli zigomi le si alzavano in un sorriso. Si mise metà biscotto in bocca, e spostò i restanti su un piatto. Lo lasciò sul bancone, mentre scompariva in direzione della doccia.

***

Entrò in reception mezz’ora dopo, e vide la lancetta corta dell’orologio a muro accarezzare l’otto, poco distante da quella dei minuti. La lancetta dei secondi si era rotta, ma si potevano ancora sentire i suoi ticchettii secchi, perpetrati dagli ingranaggi dietro al quadrante nero e i numeri in rilievo bianchi. Ted se ne era andato un ora prima, un motel come quello poteva concedersi il lusso di lasciare la reception vuota per un ora. O forse no.

Dietro ai vetri della finestra vicino all’ingresso, era stata parcheggiata una oldmobile nera. Sul suo cofano era seduto un uomo. Bianco, senza un capello in testa, secco, vestito con un completo grigio. Davanti a lui, si trovava un altro uomo, di spalle, vestito con una tuta da meccanico. Sul cofano si trovava anche una borsa da palestra aperta. L’uomo calvo ci stava frugando dentro. Poi alzò lo sguardo. Angie lo stava guardando negli occhi. Sorrise. Lui non ricambiò, e disse qualche parola all’altro. Da dietro il vetro giunse solo un suono ovattato. L’uomo in tuta aprì la porta, il campanello attaccato al soffitto trillò. Era un asiatico, con la faccia larga e schiacciata, come quella di un qualche animale predatore visto alla televisione, di cui Angie si era dimenticata il nome. Il bianco dei suoi occhi era più che altro di una tinta giallastra, screziata di venuzze rosate, e sembrava dover inghiottire da un momento all’altro due pupille nere e minuscole.

- Buongiorno.-

- Un uomo e una ragazzina.- disse l'asiatico, con una voce metallica, confusa in un forte accento straniero. La sua bocca, quando si aprì, sembrò tagliata con un coltello in mezzo alla faccia. Angie impietrì. Le sue mani appoggiate al bancone si ritrovarono a sostenere tutto il peso del suo corpo.

-No.- disse subito, accorgendosi solo un attimo dopo che le parole dette dall’uomo e la sua risposta non avevano nessuna connessione logica. “No” cosa? No non ci sono? Oppure no, non voglio che succeda? L’asiatico strinse gli occhi in due fessure gialle.

- Un uomo e una ragazzina.- ripeté. Angie non rispose. Se non rispondeva avrebbe guadagnato tempo. Si guardò intorno. Fuori dalla finestra, l’uomo in completo teneva in mano un oggetto nero e lungo. Un tubo di metallo, un calcio di legno bianco. Nell’altra mano teneva dei cilindri color ocra, che faceva scivolare uno a uno nel fucile. Angie sentì il cuore fermarsi.

- Un uomo e una ragazzina. Qui? Dire!- l’asiatico alzò la voce. Gli occhi di Angie guardarono verso il basso. Verso la copertina di cartoncino colorato del registro degli ospiti, appoggiato sotto le sue mani. L’asiatico se ne accorse. Strappò il libro dal bancone, e lo sfogliò rapidamente. Sorrise, fermandosi su di una pagina. Senza dire una parola, uscì dalla stanza con il registro. Parlò al suo amico, altri suoni ovattati oltre il vetro. L’uomo in completo si alzò, ed entrambi presero a muoversi verso il bungalow quattro. Angie era ancora immobile, dietro il bancone. Aspettò che fossero scomparsi dalla sua vista. Il telefono era su un tavolino ai suoi piedi. Vi si gettò sopra, premette l’asterisco e poi il quattro. Dall’altra parte, la cornetta si mise a squillare. Le orecchie di Angie si riempirono del “tuut tuut” smorto, che andava e veniva, mischiandosi al ticchettio dell’orologio a muro.

- Rispondi.- disse, stringendo i denti. Il campanello della porta suonò di nuovo. Angie alzò lo sguardo. L’asiatico era la dietro, e stava venendo verso di lei. In mano teneva una tenaglia da meccanico annerita dalla ruggine. No, non era ruggine.

- Pronto?- si sentì dall’altra parte. L’asiatico si lanciò sul bancone, scavalcandolo.

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Capitolo 2
*** La Fossa ***


- Chi vuole seppellire in quella fossa?- chiese il vecchio Carter, accompagnando la frase con un risolino nervoso, tentando di buttarla sul ridere.

L’uomo si trovava davanti a lui, in mezzo alla radura. In mano teneva una vanga.

- Chi vuole seppellire in quella fossa?- rise, figurarsi se voleva seppellire qualcuno.

- Oh, purtroppo, mentre stavo andando con l’auto per la strada qua vicino, un cerbiatto mi ha tagliato la strada. L’ho tirato sotto.- Rispose l’uomo. Il suo tono era pacato, forse leggermente impregnato della stessa ironia che si leggeva nei suoi occhi.

- Mio Dio! È morto?- domandò Carter, con sincera preoccupazione.

- Stecchito.-

- E lei sta bene?-

- Certo, solo un po’ di sangue sul cofano.- rispose lui con una risata nervosa quanto fuori luogo. Poi continuò:

- Sono pericolose, queste bestie. Da quando non ci sono più predatori si moltiplicano come conigli. E quando meno te lo aspetti, te ne ritrovi uno spiaccicato sul cofano.- Mentre parlava, l’uomo affondò qualche altra volta la sua vanga nel terreno, con rinnovato vigore. Carter, si grattò la testa, rifletté, rispose:

- Ma in fondo cosa vuole farci? Sono solo delle povere bestie.-

- Ucciderle. È una buona soluzione, e anche facile da farsi.-

Carter si scandalizzò:

- Ma che dice! Non si può fare una strage di animali solo perché causano di tanto in tanto qualche incidente!-

L’uomo sembrava aver finito di scavare. Buttò la pala fuori dalla fossa, e si issò lentamente in superficie. Rispose, come al solito, con un mezzo sorriso stampato in volto:

- Alcuni incidenti sono mortali. Vuole dire che alla fine è meglio un uomo morto che cento cerbiatti stecchiti?-

La domanda lasciò il vecchio Carter in imbarazzo. Balbettò qualche parola di risposta:

- No, non intendevo quello. Dicevo soltanto che ucciderli non è la cosa migliore. In fondo sono anche loro esseri viventi. O no?-

L’uomo si frugò nella tasca sinistra, estraendo dopo una calma ricerca un pacchetto di Pall Mall. E, dopo aver tratto un lungo sospiro, disse infine:

- Voglio dirle una cosa. Conosco uomini che vivono come animali.- si frugò nella tasca destra, ed estrasse un accendino, con cui subito diede fuoco alla sigaretta - ma animali che vivono come un essere umano, non li ho mai visti. Se mi vuole scusare, ora lo seppellisco. Con permesso.- detto ciò, si incamminò verso la macchina. Il vecchio, dopo un attimo di indecisione, chiese:

- Ah. Signore! Posso vederlo? Il cerbiatto, intendo.- pronunciò la domanda timidamente, a bassa voce, quasi vergognandosene. L’uomo aspirò una boccata di fumo, quindi la soffiò fuori lentamente. Carter si chiese se non stesse prendendo tempo, se non si stesse inventando una qualche scusa. Ma alla fine, l’uomo rispose:

- E perché? Le piacciono i cadaveri?-

Ancora ironia fuori luogo. Carter provo quasi schifo.

- No, ma cosa dice? È solo per curiosità.- Farfugliò il vecchio, imbarazzato.

- Se le fa piacere vederlo, si accomodi. Ma non è un bello spettacolo, sa? Gli ho schiacciato il cranio con una ruota. Le ossa del cranio hanno lacerato il cervello, c’è tutta la roba grigia che esce fuori come un tubetto di dentifricio strizzato.-

- Ho capito, lasci stare. Fa niente. Arrivederci.- Carter si morse la lingua: stava balbettando. L’uomo si limitò a salutarlo con un cenno, e poi sparì oltre la boscaglia.

Pochi minuti più tardi, Carter era di nuovo sulla via di casa. Incontrare quell'uomo gli era sembrato strano, sgradevole: era stato come aver guardato dentro un pozzo troppo profondo. Un abisso di cui non si riesce a vedere il fondo.

“Fantastichi troppo, vecchio scemo. Era un uomo, non il diavolo. Era solo un uomo.”

***

L’ultima palata di terra, intanto, si era appena posata sulla buca, ormai interamente ricoperta. L’uomo vi pestò sopra con i piedi, e constatò con piacere che era bella compatta: aveva fatto un buon lavoro. Lasciò cadere a terra il mozzicone della sigaretta, quindi si lasciò alle spalle la fossa appena riempita.

- Un altro cerbiatto morto.- borbottò tra se, mentre ritornava alla sua macchina. Pochi minuti dopo, la portiera della sua auto si chiudeva, la chiave si girava nella toppa d’accensione, il motore riprendeva a funzionare, e la Desoto abbandonava quel luogo.

***

La macchina della polizia parcheggiò esattamente nel posto dal quale la Desoto se ne era andata due giorni prima. La chiave venne girata, il motore si spense, le portiere si aprirono, e uscirono due rappresentanti della polizia dello stato. Erano due bianchi, sudaticci, con la divisa in disordine: stavano continuando una discussione già iniziata da tempo:

- Quindi eravamo d’accordo. Io stavo in auto, e lo aspettavo, mentre lui entrava nel bar e parlava al colombiano. Io gli dico dieci minuti, non di più, e lui okay. Se non fosse uscito entro il tempo stabilito, allora davo il segnale e facevo irruzione insieme all’altra pattuglia.- Diceva il primo, alto, occhiali scuri.

- Ah, non eravate solo voi allora.- il secondo era più basso, più grasso, più sudato. Quando non parlava continuava a lisciarsi i suoi due scarni baffi castani.

- No, no, non te l’avevo detto? C’erano anche quegli altri due, quegli altri due nuovi. MacCall e… come si chiamava l’altro?-

- Parson, mi pare che fosse Par…- la frase dell’altro agente venne troncata dal collega:

- Smith! Era Smith, e dire che è pure facile da ricordare.-

- Ma no, che dici? Con MacCall c’era Parson, erano amici quei due.-

- MacCall stava con Smith, non dire cazzate!-

- Guarda che ti sbagli.-

- Cazzate.-

Quello coi baffi sospirò. Sembrava l’ultimo sospiro di una lunga serie.

- Fa niente, lascia stare. Dove?-

- Il sentiero per la casa del vecchio dovrebbe essere quello. Andiamo.-

I due imboccarono la stradina sterrata, mentre il poliziotto con gli occhiali continuò a raccontare:

- Allora, dicevo, lui entra, e io sono calmo. Mi accendo una sigaretta e aspetto. Passano cinque minuti, e me ne accendo un’altra. Inizio a preoccuparmi: a quell’ora avrebbe dovuto già essere di ritorno.-

- Oddio, lo avevano ammazzato?-

- Cosa? No, no, magari. Ma fammi andare avanti.-

- “Magari”?-

- Come?-

- Hai detto “magari”, che intendevi?-

- Aspetta, ora ci arrivo! Dicevo, lui non si vede più. Io ho finito le sigarette, e inizio davvero a diventare nervoso. Undici minuti. Porca vacca, dico io, ora mi tocca davvero fare irruzione in un bar in cui un intero cartello colombiano si sta facendo il bicchierino della staffa. E lo sto per fare, quando lui, il coglione, esce, tutto tranquillo. Io con lui non ci avevo mai lavorato, pensavo sapesse il fatto suo, no?-

- Certo, lo pensavo anch’io. E invece?-

- E Invece, quel cazzone, mi dice: Martinez non c’era. Sono andato un attimo in bagno. Ti eri preoccupato?-

L’agente con i baffetti emise una sonora risata:

- Ma dai, dici sul serio? Non ci credo!-

- Credici, amico, gli era scappato da cagare. Non mi ci far pensare, mi viene voglia di ucciderlo ogni volta che ci penso.- Il poliziotto con i baffi continuò a ridere di gusto, finché i due non arrivarono a destinazione: la baita si trovava davanti a loro.

- Chi bussa?-

- Lascia, faccio io.- Quello con gli occhiali si avvicinò all’uscio, e vi bussò sopra tre volte, in rapida successione. Gli agenti sentirono dei passetti concitati dall’altra parte, di qualcuno che si avvicinava per aprirgli. Il signor Carter si affacciò alla soglia:

- Agente?- lo chiese come a dire “desidera?” Ma risultò più simile a un “cosa ci fa qua?”

- Lei è il signor Theodore Carter?- chiese quello con gli occhiali.

- Si sono io. Cosa succede?- disse il vecchio, irrigidendosi.

- Stia tranquillo, non siamo qui mica per arrestarla!- disse con una delle sue solite risate quello con i baffi. – Dobbiamo solo farle alcune domande. Nei dintorni, ha notato qualche movimento sospetto, negli ultimi giorni?-

Il vecchio si grattò la testa:

- Dunque, lasciatemi pensare. Qui non passa molta gente... Eh, che stupido sono, l’altro ieri! È arrivato un uomo che non avevo mai visto prima in vita mia.-

- Può dirci di chi si trattava, per favore?-

- Certamente, non ho… non ho nulla da nascondere.- Carter ridacchiò mentre pronunciava quelle parole.

Il signor Carter quella mattina stava trascinandosi per il bosco intorno alla sua baita, impegnato nella sua passeggiata di routine consigliatagli dal medico. Sua moglie aveva scelto quel luogo come meta delle loro vacanze per la sua quiete e per il suo isolamento. E, in effetti, quel posto era rimasto isolato almeno fino a vent’anni prima: poi il governatore aveva ben pensato di violentare quell’eden con un po’ del buon vecchio progresso. Ora, la grigia colonna vertebrale della strada statale si snodava lungo le colline, raramente interrompendo il cinguettio degli uccelli con il rombo di un motore. Nonostante la statale fosse lì, sembrava che le auto la snobbassero per altre strade, dirette verso altre destinazioni, lasciando il suo asfalto ad una lentissima agonia sotto le ruote di camioncini fatiscenti in transito verso il paese più vicino, che per inciso distava almeno trenta miglia.

Durante il periodo estivo, il signor Carter non riusciva più a chiamarle vacanze da quando era iniziata la pensione, rimaneva la maggior parte del tempo da solo, con un qualche libro aperto davanti, più spesso dormendo che leggendo, e sperando che qualche faccia nuova si facesse viva per rompere la fastidiosa quiete tutt’intorno a lui: esattamente il contrario di quello che desiderava la signora Carter, che borbottava ogni volta che qualcosa di soltanto vagamente umano proiettava la sua ombra all’orizzonte.

Quella giorno il signor Carter aveva visto una vecchia Desoto parcheggiata al limitare della strada, e aveva sorriso. Pochi si fermavano da quelle parti: l’ultima volta erano stati una giovane coppia, con il figlio che doveva fare pipì. Il vecchio si era avvicinato all’auto e aveva a lungo rimirato l’imbottitura dei sedili e i cerchioni, e guardando il cofano si era immaginato il motore. Sembrava ferma già da un po’ di tempo, era del tutto fredda. I suoi occupanti non sembravano nei paraggi. Dovevano essersi inoltrati nel bosco, e dato che c’erano solo due sentieri che conducevano in quello spiazzo, e Carter non aveva visto nessuno mentre veniva lì, imboccò subito il secondo, speranzoso di potersi fare una bella chiacchierata prima di pranzo.

Non ci era voluto molto tempo prima di poter chiaramente distinguere, poco distante dal sentiero che stava percorrendo, il rumore di un attrezzo metallico che affondava ritmicamente nel terreno. Incuriosito, Carter si era addentrato nella boscaglia seguendo il rumore che si faceva sempre più vicino, fino a che non era riuscito a vedere di cosa si trattava.

L’uomo stava scavando una fossa, abbastanza larga perché qualcuno potesse sdraiarcisi dentro.

Carter si era domandato in cosa fosse incappato, e stava giusto per iniziare a formulare qualche congettura a proposito quando si accorse che l’uomo aveva posato la vanga, e lo stava fissando. I suoi occhi erano spenti, privi di gioia. E questo era strano, dato che le sue labbra erano contratte in un sorriso storto. Improvvisamente Carter si era sentito a disagio. Aveva farfugliato un saluto, per spezzare l’imbarazzo, e poco dopo la curiosità gli aveva tirato fuori di bocca quella domanda. Chi vuole seppellire?

-Era un tipo. strano, il modo in cui parlava...- si bloccò. L’immagine dell’abisso gli si ripresentò davanti. - No. Lasciate stare. Guidava una Desoto bianca, una bella macchina. Però aveva appena investito un cerbiatto, sulla strada. Io l’ho incontrato mentre lo seppelliva.- disse Carter agli agenti.

- Un cerbiatto?- i due agenti si guardarono l’un l’altro, con un’espressione che quasi poteva dirsi soddisfatta. Quello con gli occhiali riprese a parlare:

- E l’ha visto, il corpo di questo cerbiatto?-

- No, non l’ho visto. perché, è importante?- chiese incuriosito Carter. Subito vide sul volto dei poliziotti apparire un sorriso strano, compiaciuto e infelice allo stesso tempo.

- Bingo.- fece quello coi baffi.

***

Carter sentì di nuovo la pala affondare nel terreno, come due giorni prima. La buca scavata da quell’uomo misterioso, stava venendo riaperta, mentre ai sui lati si ammonticchiava lentamente la terra soffice della radura.

- Sigaretta?- gli chiese l’agente con gli occhiali, tendendogliene una. Era seduto su di una sasso, lasciando il collega scavare con l’unica pala che erano riusciti a procurarsi. Il vecchio scosse la testa, senza distogliere un attimo lo sguardo dalla buca che, una vangata dopo l’altra, si svuotava lentamente. E più si svuotava, più Carter capiva che non avrebbero trovato un cerbiatto la sotto. Il suo contenuto era incomprensibile, come i pensieri dell’uomo che l’aveva scavata.

La pala si fermò. Si immobilizzò con un rumore strano, mai sentito, eppure subito riconosciuto per quello che era. Il poliziotto emise un gemito, e alzò con un rapido gesto la vanga: la punta era tinta di un rosso vivo, mischiato alla terra fresca.

- Ralph! Credo che ci siamo.- balbettò.

L’agente con gli occhiali buttò a terra la sigaretta, e la calpestò con forza. Con due rapidi, larghi passi si buttò nella buca. Iniziò subito a raspare con le mani sul fondo, spostando il terriccio dal cadavere. Era di qualche giorno, sembrava. I primi vermi lo stavano giusto iniziando ad intaccare. Carter si avvicinò timidamente alla fossa, per osservare meglio.

- Cazzo!- esclamò poi improvvisamente Ralph. Ora il cadavere era chiaramente visibile, agli occhi di tutti i presenti. Ed era il corpo senza vita di un cerbiatto, con la scatola cranica sfondata.

- Che razza di granchio!- disse il poliziotto con i baffi, grattandosi la testa con un’espressione a metà strada tra il deluso e l’imbarazzato. Ralph si alzò da terra, afferrò la pala e la buttò contro il suo collega:

- Ricoprilo. Inizia a puzzare.- Issatosi al di fuori della fossa, si rivolse a Carter, mentre si infilava di nuovo gli occhiali da sole:

- Sembra che la fortuna non sia dalla nostra parte. Comunque avrebbe dovuto avvertire un’autorità forestale, riguardo al cerbiatto, lo sa?- disse poi, come per ostentare che sapeva fare il suo lavoro.

- Sì. Mi scusi. Non ci avevo pensato.- balbettò Carter. – Davvero.-

***

Il ristorante non spiccava particolarmente, era un locale come tanti, l’ennesimo locale lungo l’autostrada, in cui la gente entrava e usciva una sola volta nella vita. Il suo interno era illuminato abbondantemente, nonostante vi fosse davvero ben poco su cui valesse la pena far luce. Solo qualche tavolo sporco, con qualche avventore ritardatario che raccoglieva gli ultimi rimasugli di bistecca e patate dal proprio piatto.

Angelo era appena arrivato: dopo aver parcheggiato la Desoto lì vicino, era entrato, e quindi aveva ordinato una bistecca e una birra. E la suo ordinazione era appena arrivata, quando sentì il cellulare squillargli nella tasca della giacca. Lo afferrò pigramente, quasi nella speranza che se lo avesse lasciato squillare abbastanza a lungo alla fine avrebbe smesso, lasciandolo in pace. Ma quando lo ebbe portato all’orecchio, il telefono continuava imperterrito a trillare. Rispose:

- Pronto?-

- Ciao bello, sono io, Steve.-

- Ehi, Steve, è un piacere sentirti. Lavoro?- Angelo non aveva voglia di chiacchierare, e nessuno lo avrebbe chiamato solo per fare due chiacchiere.

- Sì. Dove ti trovi ora?-

- Un ristorante, sulla strada per tornare a casa. Ero in campagna per un altro impiego, ma ho appena finito.-

- Ottimo, torna in città appena puoi. Ti va se ti spiego tutto nei dettagli domani a pranzo, che ne so, al “Golden Tower”?-

- Mi sta bene. Riguardati, vecchio.-

- Stammi bene, figliolo.- e riattaccò. Angelo riprese in mano le sue posate, intenzionato a finire la cena il prima possibile. “Torna in città”, gli aveva detto. Angelo sorrise, come aveva sorriso a Carter molte ore prima. Si tornava in città. Tagliò la bistecca a metà, con un movimento veloce e nervoso.

***

Carter era a letto, ma non riusciva a dormire. L’immagine della fossa era continuamente davanti ai suoi occhi. La vedeva piena, vuota, poi di nuovo riempita, poi ancora svuotata. Era un po’ come il passare delle stagioni, un albero che perde le foglie e poi le riacquista a primavera.

Pensava al suo fondo incomprensibile, al suo contenuto. Un cerbiatto investito da un’auto: un errore, una distrazione umana, un animale morto. Eppure, era inquieto. Era come la paura di un buio diffuso, spezzato da non abbastanza luce. Una realtà parziale.

Carter sentì le palpebre farsi pesanti: era tardi, era stanco. Chiuse gli occhi, e i pensieri iniziarono a confondersi. E tra la veglia e il sonno un’immagine sfuocata occupò la sua mente. Era come guardare al cinema una vecchia pellicola graffiata. Vedeva se stesso, che si allontanava dalla radura. E poi quell’uomo, che tornava dentro la fossa, e che ricominciava a scavare, a scavare una buca più profonda. Una buca in cui un uomo potesse giacere insieme ad un cerbiatto.


 

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Capitolo 3
*** Ed ***


Buck, articoli sportivi.

L’insegna era scrostata e ammaccata, troppo perché il negozio fosse gestito ancora da Buck, chiunque egli fosse stato. Aveva perlomeno la stessa età dell’edificio, un grumo di cemento intonaco, incastrato in una delle strade meno trafficate della città. La luce del sole non poteva nemmeno entrarci, se non scomposta in una patina biancastra e frammentata dai vetri della porta e dell’unica vetrina, che non avevano ragion d’esistere se non un valore affettivo o la mancanza di denaro per comprarne di nuovi. Erano quei vetri spessi e irregolari, dall’aria antica, erano talmente opachi che era difficile dire se erano sporchi o meno. Nella penombra del negozio, sedeva un uomo in una canottiera arancione, che lasciava intravedere sopra un ciuffo di pelo nerastro, sotto un mezzo ombelico grassoccio. Sedeva con le gambe appollaiate sul bancone, lanciando di tanto in tanto un “ma che cazzo” contro la radio lì vicino, che sbraitava una telecronaca di corse di cavalli, mentre si faceva aria con ventaglio ricavato da un cartone della pizza. Era ormai più di un ora che passava il tempo in quel modo, quando le campanelle che aveva appeso sopra la porta, e che trillavano tutte le rare volte che un cliente entrava nel suo negozio emisero il loro suono di latta, dandogli il segnale di sedersi composto, abbassare il volume, e incollarsi in faccia il sorriso delle grandi occasioni:

- Buongiorno.- Fece quindi.

- Buongiorno.- rispose Angelo. Il sorriso scivolò via dalla faccia del commesso, non appena il nuovo arrivato, dopo essersi dato un’occhiata intorno, riaprì la porta e girò il cartellino con scritto “Aperto” sull’altro lato. Fatto ciò, Angelo si avvicinò al bancone, lanciando intanto qualche occhiata agli scaffali. Arrivato, vi si appoggiò sopra con i gomiti, e fissò negli occhi l’uomo davanti a lui:

- Ehi, sei tu Buck?-

L’uomo rimase in silenzio per un po’, prima di rispondere, con una voce scossa da uno di quei timori irrazionali, che l’istinto ci fa soffrire di tanto in tanto.

- No.-

- Infatti. Tu sei Dave, giusto?-

- Sì.-

- Bene, Dave. Hai un bel negozietto, qui.-

Dave stava per rispondere “grazie”, ma improvvisamente si sentì un po’ un idiota a continuare il dialogo. Si domandò nuovamente cosa volesse quell’uomo. Se era un rapinatore, sarebbe stato un problema. Aveva una pistola sotto al bancone, ma era scarica. Poi, sapeva per esperienza che la gente minacciata con una pistola tende, se in possesso a sua volta di una pistola, a sparare. Fece scivolare la sua mano vicino al cassetto in cui teneva gli incassi: c’erano dentro cento dollari e qualcosa. Gli sarebbe dispiaciuto separarsene, ma mai quanto gli sarebbe dispiaciuto ritrovarsi in corpo un gallone di sangue in meno e nove millimetri di piombo in più. Rimase in silenzio. Angelo aspettò la risposta, ma accorgendosi che essa non voleva arrivare, continuò:

- Senti, un ragazzo, giù al porto, mi ha detto che sei amico di un tizio, tale Edward Turner.- pronunciò quel nome come se l’avesse appena letto da qualche parte. – Dimmi, diceva la verità?-

Dave restò un attimo in silenzio prima di rispondere.

- No.-

- No non lo conosci?- incalzò Angelo, continuando a fissarlo negli occhi, nonostante Dave avesse già rivolto da tempo lo sguardo al pavimento.

- N…no.- Fece ancora lui. Ma Angelo sentì un balbettio di troppo per convincersi che fosse vero. Si alzò dal bancone, fischiettando una melodia indefinibile, e guardando di nuovo tutta la merce esposta, dando le spalle a Dave.

- È un peccato, sai? Io ci tenevo molto a conoscerlo, il vecchio Edward. Ma se dici che non lo conosci.- sospirò -.vuol dire che non lo conosci. Giusto Dave?- si voltò di scatto verso Dave.

- Sì!- esclamò lui, colto alla sprovvista.

- Allora non me lo puoi davvero dire.- Angelo scosse la testa. Poi rialzatola, disse:

- Beh, lasciamo stare. Dimmi, piuttosto, non è che per caso hai una di quelle mazze della Nike. Sai, quelle della pubblicità. Dorata, con le scritte nere. Mio figlio l’adora.-

Dave, esitante come al solito, si abbassò sotto il bancone. Tornò in superficie con una mazza cinese color platino, pregando che andasse bene lo stesso. Angelo fece un sorriso soddisfatto, e la prese in mano. La soppesò, la osservò alzandola sopra la testa. Borbottò un “non male”, quindi, rivolgendosi nuovamente a Dave, chiese:

- Bella. Posso provarla?-

- P…prego.-

Angelo la portò dietro la schiena, pronto a sferrare il colpo. Sembrava davvero concentrato, come se fosse allo stadio, nel bel mezzo di una partita. Ma di tanto in tanto, trafiggeva Dave con uno sguardo, lanciato con la coda dell’occhio. Quindi sferrò un colpo a vuoto, facendo gemere l’aria circostante con un sibilo. Lo fece una seconda volta, e una terza. E ogni volta che lo faceva, Dave stringeva i denti. E rimaneva fermo, senza il coraggio di sbattere le palpebre. Quando Angelo parve aver finito, abbassò la mazza:

- Grandiosa, la amo già. Senti Dave, a quanto me la fai?-

- Sono venti.- Angelo assunse un’espressione stupita e fasulla.

- Dave. Non sono ne un morto di fame ne un…- rise -…ne un rapinatore, eh? Avanti, quanto?-

- Cento… centotrentotto.- farfugliò Dave – E novantanove centesimi.- quindi inghiottì un groppo di saliva.

Angelo prese il portafoglio di tasca, e ne tirò fuori centocinquanta dollari.

- A te, Dave.- appoggiò le banconote sul bancone. Dave appoggiò la sua mano sudaticcia sulla superficie levigata del bancone. La fece strisciare lentamente, e raggiunte le banconote, vi appoggiò timidamente sopra le dita.

- Bene. E ora, dato che abbiamo capito che siamo entrambi due adulti onesti e responsabili, cominciamo da capo. Dov’è Turner?- fece Angelo.

- Cosa?-

La mazza si abbatté sulla sua mano.

***

- Diosanto Henry, stiamo parlando della fottuta Corea! Io non sono stato fortunato come te, che ti sei beccato una pallottola nel culo il primo giorno dopo lo sbarco in Francia! Tu te ne sei tornato a casa, e tanti saluti all’esercito. Io mi sono fatto anche la maledetta Corea!-

- Smettila con le parolacce, Ed! Lo sai che a Molly non piace.-

- Mi hai chiamato, Henry?-

- No Molly, tranquilla, va tutto bene.-

I tre anziani sedevano ormai da una buona ora al tavolo di quel piccolo ristorante, dopo aver cenato insieme. C’erano Henry, sua moglie Molly, ed infine il pluridecorato Ed.

- Ma andiamo, Henry, Molly non sente più un cazzo da almeno tre anni!- sbottò Ed, irritato dal rimprovero dell’amico.

- Oh, grazie Ed, magari più tardi.- gli rispose Molly mentre sorrideva ad un vaso di orchidee davanti al loro tavolo.

- Lo so, accidenti a te, ma puoi soltanto tentare di fingere un minimo di gentilezza nei suoi confronti? E poi mi hai davvero martoriato le palle con questa cantilena della Corea, non possiamo parlare d’altro, perdio? Del Superbowl, di quello che hanno dato in televisione ieri, di come va la tua artrite.- Gli disse allora Henry, con voce sconsolata.

- Certo che no! Che cazzo, Pensi a me faccia piacere ricordarmi di quell’inferno?-

- E pensi che a me faccia piacere sentirmelo descrivere a cena?-

- Ma ascolta, maledizione, quello che volevo dire e che io vorrei dimenticarmene, ma non ci riesco! Sono cinquant’anni che mi sogno di notte i fottuti comunisti che ci sparano addosso. Quelli ci volevano…- la frase di Ed venne interrotta dall’amico:

- Stammi a sentire vecchio, non intendo stare ad ascoltare l’ennesima volta i tuoi racconti sulla guerra! Ma porca miseria, la vuoi finire di vivere nel passato? Siamo nel duemila, Ed! Piantiamola con questa caz…- Henry si morse la lingua prima che l’ultima sillaba della parola fosse pronunciata. Per fortuna la moglie non stava ascoltando, fissava assorta il ritratto di una donna grottescamente grassa, appeso sul muro lì vicino.

- Senti.- continuò allora Henry – Ti prego, non farti dire certe cosa da un rudere come me! Anch’io ho la mia età, e so che da vivere non mi resta poi molto, ma almeno quel poco che mi rimane della mia vita tento di godermelo. E dovresti farlo anche te, Cristosanto!-

- Non bestemmiare, Henry!- lo rimproverò Molly, con uno strillo acuto.

- Scusa.- Mugolò il vecchio, come un cane rimproverato dal padrone. Poi tornò a fissare negli occhi il suo amico: ed stava guardando nel vuoto.

- Ed? Ci sei?- Gli domandò.

- Senti, io una storia però te la devo raccontare.- rispose lui, con un filo di voce.

- Ah, ottimo. Quale?- sospirò, ormai rassegnato, Henry.

- No, no, non è una delle solite! Io. beh, lo ammetto, con i mie racconti ho rotto più coglioni io che tutti i fottuti testimoni di Jeovha della città.- l’ammissione di colpa del vecchio strappò un sorriso all’amico -.ma questa… questa non l’ho mai raccontata a nessuno, te lo giuro. Tu sei il primo, e spero tu la capisca.- Ed si appoggiò sul tavolo con i gomiti, leggermente assorto. Iniziò quindi a raccontare:

- Al tempo ero sergente, mi avevano affidato un gruppo di cinque soldati, freschi d’addestramento. Me li ricordo bene, quei ragazzi. Uno di loro non aveva ancora compiuto i diciassette. Quel giorno ci trovavamo circa a venti miglia dal confine tra Corea del nord e del sud. Persi. E circondati dai maledetti cinesi.-

- Vorrai dire coreani. In Corea.-

- Non trattarmi come uno stupido, so quello che ho detto. Cinesi, volontari. O almeno così diceva quello stronzo di Mao. Volontari il mio cazzo, ti dico, sperò stia bruciando all’inferno quel maledetto macellaio. Comunque, dicevo, stavamo proseguendo per una strada sterrata. Aveva appena piovuto, affondavamo tutti nel fango fino alle caviglie. I ragazzi avevano i nervi a fior di pelle, e in fondo come potevo biasimarli? Sentivamo l’alito freddo della morte proprio qui- si diede due colpi sul collo -Era come se avessimo la consapevolezza, che la nostra vita sarebbe terminata da un momento all’altro, al suono di una scarica di mitra. E non ci stupimmo troppo, quando quella raffica si fece sentire davvero. Il bastardo era appostato sul tetto di un edificio, poco distante dalla strada. Aveva un mitragliatore. Io faccio solo in tempo a urlare “Al riparo!”, e a buttarmi dietro un vecchio muro, quello che restava di una casa dilaniata da una bomba, mentre sentivo i proiettili fischiarmi a una spanna dalla testa, come uno sciame di calabroni. Fu solo quando riuscì a raggiungere il riparo, che mi accorsi di essere rimasto solo. Stringevo il Thompson così forte che pensavo non sarei più riuscito a staccare le dita dal manico. Volevo saltare fuori di lì, e svuotare tutto il fottuto caricatore addosso a quel maledetto muso giallo. Ma sapevo che era una stupidaggine dettata dalla rabbia. Dovevo aspettare. Appoggiai a terra il mio orologio, e gli buttavo addosso un’occhiata, ogni tanto. Eppure non mi ricordo quanto tempo passò effettivamente. Pochi minuti, o qualche ora. Intanto il mitragliatore non sparava più. Continuai ad aspettare, fino a quando non sentii le loro voci. Erano dietro il muro. Non ho mai capito cosa fosse successo, perché non si fossero accorti di me. Forse uno dei mie uomini aveva colpito il mitragliere, e la ferita lo aveva ucciso in seguito allo scontro. Non lo so. Ma loro erano lì, e non sapevano che io mi trovavo proprio dietro la loro schiena. Saltai fuori dal mio nascondiglio, e svuotai tutto, te lo giuro, ogni singolo proiettile nel caricatore addosso al più vicino. Ce n’era un altro: io avevo la mia pistola a portata di mano, e un colpo in testa mandò all’inferno pure lui. Morirono tutti e due senza un gemito: ero stato veloce. Ne rimaneva uno: Dio, era solo un ragazzino, tremava tanto per la paura che non riusciva a far stare fermo il fucile. Io mirai alla testa: mi presi tutto il tempo necessario affinché il proiettile gli trapassasse il cranio. Premetti quindi il grilletto e merda! Quella stronza della mia colt si era inceppata. Imprecai contro me stesso, e… e cosa potevo fare? Quello lì era proprio davanti a me, e poteva spararmi, poteva perfino prendere per bene la mira. E diamine, lo avrebbe fatto. Ero sicuro lo avrebbe fatto! Alzò il fucile.-

Un colpo di tosse, uno di quelli che si emettono per attirare l’attenzione, fece voltare entrambi i vecchi: non avevano notato l’uomo che si trovavano davanti entrare nel locale. Sembrava comparso dal nulla.

- Desidera?- chiese Henry.

- Lei è Ed? Edward Turner?- domandò Angelo, in direzione del reduce. Il vecchio Ed lo fissò incuriosito, togliendosi gli occhiali, come se volesse fissarlo direttamente negli occhi. Sentì una strana sensazione, come d’inquietudine. Cosa mai poteva volere da lui quell’uomo? Si impastò la bocca di saliva, come per dover fare un lungo discorso. Ma dalla sua bocca non uscirono che poche parole:

- Io sono Edmund. Edward è il cuoco, è. in cucina.-

- Ah, allora mi scusi. Anche per aver interrotto il suo racconto, scusi davvero. Buona serata.- Dopo queste poche, frettolose parole di scusa, Angelo si allontanò da loro, scomparendo dietro la porta della cucina. Contento di aver chiarito l’equivoco, Ed si voltò di nuovo verso Henry, con tutta l’intenzione di finire il racconto.

- Dove. dove ero arrivato? Ah, certo, che stupido, il cinese.-

- Henry, sono stanca. Torniamo a casa?- disse sommessamente la vecchia al marito, tirandolo un po’ per la manica della camicia.

- Cosa? Oh, certo, subito Molly. Un attimo, che vado a prendere i cappotti.- Henry si alzò da tavola, sotto lo sguardo attonito di Ed.

- Ma… ma porca… Henry, Diosanto, stavo finendo! Era importante!-

- Domani Ed, domani. Molly è stanca, e se devo dire il vero, lo sono anch’io. Avanti, non prendertela.-

Ed inspirò, si irrigidì e stette zitto. Mille insulti, imprecazioni, bestemmie gli volevano uscire dalla bocca: tutto quello che aveva provato, tutto quello che aveva vissuto, tutto quello che era. Ingoiò tutto, e non proferì una sola delle parole che voleva dire. Non sarebbe servito a niente in fondo.

- È stata una bella serata, Edmund!- gli disse Molly, con un sorriso stampato da una parte all’altra della faccia. Lei non si ricordava nemmeno quello che gli era successo il giorno prima. “ Possibile che sia più felice di me?” si domandò Ed. Sorrise anche lui, di risposta, e chiunque, se non una vecchia svampita, si sarebbe accorto di tutta la tristezza di quel sorriso.


 

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Capitolo 4
*** Charlie ***


Charlie

 

Il vecchio zittì la sveglia con una manata, ponendo fine al suo trillo metallico, che, fastidioso e puntuale, lo svegliava ogni mattina alle sei. E nonostante fosse lui a impostare la sveglia, ogni mattina si esibiva in una lunga sequela di scurrilità contro di essa, mentre si alzava dal letto, si vestiva, e iniziava il suo complesso rituale di toilettatura, verso la cui fine, solitamente il lavaggio dei denti, tutte le sue imprecazioni si erano tramutate in un sommesso brontolio. Quel giorno non fu da meno. Appena fu pronto, scese le scale che lo avrebbero condotto al locale sottostante della palazzina, dove da ormai decenni gestiva un bar, quattro tavoli e un bancone che si riempiva soprattutto la sera, soprattutto dei lavoratori di una raffineria lì vicino. Quindi la mattina se la prendeva con comodo, puliva il pavimento, il bancone, i bicchieri sporchi della sera prima; poi riempiva il refrigeratore di birra e la macchina del caffè di caffè. Ed eccolo pronto ad aprire la saracinesca che divideva il bar dalla Barnaby Avenue. Era una vecchia, arrugginita saracinesca, che si apriva solo con una bella spinta verso l’alto a forza di braccia, cosa che faceva gemere la schiena del vecchio sei giorni la settimana. E anche quella mattina, svolte tutte questa attività, si avvicinò ad essa.

- Si apre!- esclamò a bassa voce, come per incoraggiarsi, quindi, rimosso il lucchetto che assicurava la saracinesca al pavimento, la alzò facendola stridere. E per poco non ci rimase dallo spavento, quando immediatamente, a due spanne dalla sua faccia, vide che c’era qualcuno.

- Oh.Cristosanto! Brutto figlio di… ma ti sembrano questi gli scherzi da fare a questo vecchio negro?-

- Ti meriteresti di peggio, Cab. Mi fai entrare?- rispose Angelo, facendosi una grassa risata.

- Sicuro, vieni, vieni! Ma da quanto è che sei appostato là fuori? Dio, che colpo mi hai fatto prendere.- fece Cab, scostandosi per lasciare spazio ad Angelo per entrare.

- Un cittadino onesto non dovrebbe avere i nervi a fior di pelle come te.- detto ciò, Angelo si accomodò ad uno dei tavoli più vicini.

- Ma che cazzo dici? Io sono un cittadino onesto!- sbottò Cab, accompagnando l’esclamazione con una sonora risata.

- E dimmi, che ti porto? Vuoi fare colazione? Ho appena scongelato i croissant, sono decenti, sai?- fece poi.

- Beh, se mi porti una tazza di caffè, potrei provare a ignorarne il sapore. Vada per il croissant, poi.-

Cab trotterellò dietro al bancone, e preparò tutto su un vassoietto pieno di graffi, mentre Angelo sfogliava una rivista di sport appoggiata su un tavolo vicino a lui. Quando ebbe riempito la tazza di caffè, la appoggiò vicino alla brioche, e le porto al cliente.

- Allora ragazzo, dimmi, cosa ti riporta in città?- chiese quindi, appoggiata l’ordinazione sul tavolo e sedutosi vicino all’amico.

- Lavoro. Come al solito.-

- Hai qualcosa di buono tra le mani?-

- No, ma ho appena finito un incarico abbastanza redditizio.-

- Ho sentito, lo sapevo che sarebbe finita male per il vecchio Ed Turner.-

Angelo sgranò gli occhi:

- Che? Sai già tutto? Sapevi chi era?-

- Se lo sapevo? Ma non è il tizio che lavorava in cucina da Salvo?-

- Cazzo Cab, ho rotto lo scafoide ad un tizio per risalire a lui!-

Cab scoppiò a ridere:

- E guarda un po’, bastava che un certo stronzo di nostra conoscenza fosse venuto a far visita al vecchio Cab un po’ prima! Pensa, ero pure stato di recente nel suo ristorante.-

- Mi dispiace.-

- A me no, era un pessimo cuoco. Quindi, ora sei sfaccendato, giusto?-

- Di certo non sono venuto soltanto per bermi il tuo caffè. Avanti, raccontami, che succede in questo stato che io non so?-

Improvvisamente entrambi si fecero seri. Cab si guardò attorno, come per controllare che non ci fosse nessuno a spiare la loro conversazione. Poi disse sottovoce:

- Si tratta di Jason Foster. Tempo due settimane e sarà libero come lo sei te adesso.-

- Ehi, aspetta un secondo, erano vent’anni! Me lo ricordo, traffico di stupefacenti, si era beccato una vacanza di vent’anni, e ne sono passati solo…-

- Quindici. Buona condotta.-

- Cazzo!-

- Puoi dirlo forte. E ora in città ci sono almeno una decina di facoltosi figli di puttana che stanno per farsi nelle mutande la più spaventatosa cagata della loro vita. Lo sai perché era finito dentro, no?-

- Si lo so. Si vorrà vendicare, ora.-

- Vendicare? Andiamo, lo sai meglio di me chi è Jason Foster. Sul dizionario alla voce “fottuto psicopatico” c’è la sua foto. Quello farà scoppiare una maledetta guerra, non oso nemmeno immaginare quanta gente potrebbe rimanerci in mezzo.-

- Se me ne parli così mi sembra quasi di compiere un’opera pia. Chi potrebbe pagare?-

- Mi vengono in mente almeno otto nomi, te l’ho già detto. Se non ti hanno ancora contattato, è solo questione di tempo. Approfitta dell’attesa per elaborare un piano d’attacco, eh? Hai già qualche idea?-

- Mmm. - Angelo si massaggiò il mento, riflettendo. – Solo mezza.-

- Attento, Foster non si lascerà mai trovare da solo, ne lascerà farsi cogliere alla sprovvista. È uno degli ultimi duri rimasti in città, un po’ mi dispiace che sia già stata decisa la sua fine. A te no?-

Angelo si alzò dal tavolo, stiracchiandosi la schiena, e lanciando un lungo sbadiglio.

- Non sono mai stato un sentimentale, Cab. Grazie per le informazioni, e questa mettila sul mio conto.- Angelo spinse la sua tazza verso il vecchio. Si alzò, e quindi uscì dal locale.

 

Il sicario era un uomo di mezz’età, più grasso che magro, che si cambiava la camicia una volta al mese, e l’impermeabile neanche una volta in tutta la vita. Uccideva per vivere. Un uomo dotato di una certa sensibilità avrebbe trovato questo contrasto affascinante, ma il sicario aveva la sensibilità di blocco di cemento, e quando uccideva tentava di dimenticarsene subito, spendendo parte del compenso per il lavoro in Chivas e prostitute. Questo non deve trarre in inganno: il sicario non era un balordo, ne un accattone, ne un disadattato. Era il sicario: era un professionista.

Quella mattina il capo gli aveva indicato un bersaglio ostico: nientemeno che Jason Foster, l’assassino, l’ex re degli spacciatori, lì in città, l’uomo che tutti volevano morto ma che ancora, per qualche strano e inquietante motivo, camminava. E a lui toccava ovviare al problema. Il sicario si era appostato da ormai due ore sul tetto di un vecchio motel di fronte all’edificio nel quale, secondo le sue fonti, Foster sarebbe entrato di lì a pochi minuti. Si era portato dietro qualche bottiglia di birra, una radiolina a transistor per passare il tempo, e un buon vecchio Carcano, modello JFK, assicuratogli come non rintracciabile dall’esame balistico. La strada che divideva i due edifici, quello sul quale il sicario si trovava e quello in cui la sua vittima sarebbe dovuto entrare, era solcata di tanto in tanto da una macchina, che però non si azzardava mai a fermarsi in mezzo a quella periferia degradata, e tirava dritta per la sua strada. Quindi, quando il sicario vide un’auto fermarsi, fu sicuro che si trattava del suo obbiettivo. Spense la radio, tracannò un ultimo sorso di birra, e si appostò presso il parapetto della terrazza su cui si trovava, facendo scorrere delicatamente la sua mano sulla canna argentata del fucile.

Non si era sbagliato: L’uomo che uscì dalla macchina era davvero Foster. Secco, fasciato da un completo nero strettissimo. Sembrava sicuro di sé, il figlio di puttana. Il sicario prese la mira, e non gli ci volle molto perché la testa dell’uomo si posizionasse tra le due bande nere del mirino. Ma qualcosa gli impedì di tirare il grilletto. Fu uno sguardo, Foster che alzava gli occhi verso di lui, e lo fissava. L’uomo gemette, buttandosi all’indietro. Possibile, possibile che l’avesse visto? Eppure era lontano, nascosto. No, non poteva essere successo davvero, doveva esserselo immaginato. Rincuorato da questo ultimo pensiero, il sicario si rialzò da terra, sperando di poter finire il suo lavoro: e invece Foster era sparito, entrato nell’edificio davanti a lui. Il sicario digrignò i denti:

- Merda!-

L’ultima cosa che il sicario sentì, fu lo sparo. La pallottola lo uccise sul colpo, facendogli saltare in aria la testa.

 

Il negozio era conosciuto da tutti come “Old Ash”. Vecchia cenere. Un nome senza senso, ma che aveva un non so che di affascinante, esotico. Quelle sei lettere erano tutto ciò che rimaneva del vecchio “Gold Cash”, almeno sulla balbuziente insegna al neon fuori dal negozio. La porta di vetro dell’“Old ash” Si affacciava su un vicolo stretto, buio e soprattutto sporco, sicuramente uno dei più sporchi della città, forse anche della contea. Roy, il proprietario, avrebbe potuto dare un colpo di ramazza all’ingresso, ma non avrebbe mai potuto rinunciare all’atmosfera decadente che quel luogo era capace di evocare. Da anni ormai, l’oro non era che una sottilissima fetta dei proventi della sua attività. “Vendo tutto tranne che la felicità!” aveva detto una volta. Ed era verissimo.

Roy era un sessantenne ingobbito e rugoso, secco da far paura. Sfoggiava sempre camice scolorite, aperte davanti su di una canottiera consunta, chiazzata in più punti dal caffè, e da una miriade di altre macchie la quale natura era incomprensibile all’osservatore superficiale, e a chiunque quindi, dato che nessuno avrebbe voluto analizzare da vicino una della canottiere di Roy. Sopra di essa spiccava una catenina dorata, che terminava in una croce con una delle braccia piegata verso l’alto.

Quella sera Roy stava sfogliando annoiato un almanacco sportivo di due anni prima, quando sentì la porta del negozio aprirsi, annunciata dai suoi vecchi cardini arrugginiti, che, girando su loro stessi, emisero uno straziante cigolio. Appena il vecchio si accorse di chi era entrato, lasciò un lungo sorriso allargarglisi sulla faccia, mettendo bene in mostra tutte le sue otturazioni.

- Tu! Non ci credo Diosanto, è un secolo! Bentornato in città. Dimmi, che ti porta nel mio negozio? Cerchi qualcosa in particolare, guardi soltanto, o volevi salutare il vecchio Roy? È da un pezzo che non ci si vede, eh?-

Angelo non rispose a nessuna delle domande, invece scosse la testa con quel sorriso indecifrabile, che lui era tanto abile a fare, stampato in volto.

- Oh, no, non compro niente.- disse quindi. – Ho solo bisogno di uno dei tuoi nipotini per un lavoretto.-

Il vecchio sembrò rallegrarsi sempre di più:

- Oh, non sai quanto ti sono grato, si divertono sempre come dei pazzi a giocare con te. E dimmi, quale ti mando?-

- Beh, sai, mi piacerebbe davvero se portassi qui Charlie. Sai, no?-

In un primo momento il sorriso si cancellò dalla faccia del vecchio, che anzi assunse un’espressione quasi terrorizzata. Poi, nel tempo di un battito di ciglia, ritornò, anche se offuscato da un velo di timore:

- Ah, sì, ora ho capito, tu ti riferisci al piccolino, giusto?-

Angelo lanciò una breve risata, poi scosse la testa:

- No Roy, quello grande. Non mi dirai che è occupato?-

- Ehm.- il terrore ritornò.- No. cioè sì, è occupato. Non c’è. È in vacanza. Scusami ora ma. devo chiudere.- Roy distolse lo sguardo da Angelo, e iniziò a spegnere le luci del negozio. Angelo, parve divertito dalla reazione del vecchio, e dopo una risata meccanica disse:

- Avanti Roy, che ti costa? Poi te lo riporto.-

Il vecchio, indossando una faccia di quelle arrabbiate e spaventate al tempo stesso, si avvicinò di scatto ad Angelo, e gli sibilò contro:

- Cazzo, no! Quello non lo do via più a nessuno! Cristo di un Dio, l’ultima volta che l’ho noleggiato è scoppiata la fottuta terza guerra mondiale! Mai più!-

Man mano che parlava, Roy diventava sempre più paonazzo. Angelo invece, senza perdere la calma (ma anche lui sottovoce) rispose:

- Beh, però e stata anche colpa tua, a darlo a Tony Capuzzi. Lo avrebbe visto anche Stevie Wonder che quello era imbottito di eroina fino al buco del culo.-

- Sì, okay, me ne ero accorto, non è che sono rincoglionito fino a quel punto! Il fatto e che… oh, insomma, diglielo tu di no, a Tony!-

- Lascia stare, capisco. Quindi a Tony sì, e a me niente. E io che pensavo fossimo amici.- Angelo sorrideva, in fondo sorrideva sempre. Non fu la sua faccia infatti a far gelare il sangue nelle vene a Roy. Fu la sua voce, che divenne in un attimo gelida. Il vecchio sentì la sua mascella, improvvisamente, scossa da un tremito, che si tradusse nella sua voce in un balbettio nervoso.

- Dio, no, scusa. Ma. non mettermi in certe situazioni. Abbi un minimo di pietà, cazzo!-

- Roy, dovresti saperlo che io sono l’ultima persona a cui dovresti chiedere pietà. Ora mi porterai tuo “nipote”, e me lo porterai subito.- Ora Angelo aveva pure smesso di sorridere. Roy non riusciva più nemmeno a spiccicare una parola: scosso continuamente da tremiti, si abbassò, e raccolse una scatola da scarpe. La aprì sul bancone, rivelando al suo interno una pistola, elastici e nastri si scotch, e molte chiavi. Ne prese una, attaccata ad una targhetta verde.

- L’indirizzo è sulla targhetta.- Disse.

- Grandioso.- commentò Angelo, intascandosela. – Ha già con se le sue caramelle?-

Roy rispose guardando il pavimento, con un filo di voce:

- Sì. Almeno due nastri.-

 

L’appartamento era rimasto come l’aveva lasciato. Angelo andava sempre lì, ogni volta che tornava in città. Non era suo, ma era stato lui a metterci il mobilio, e l’affitto era accettabile. E Angelo, anche se non lo dava a vedere, era abbastanza ricco da permettersi un appartamento in centro, e di non abitarci se non pochi giorni all’anno. L’ingresso dava sul soggiorno, ma lui si diresse subito in cucina, appena fu entrato. Portava sotto il braccio un lungo pacco, avvolto da vecchi numeri del “Daily” e in mano un sacchetto di plastica, che emetteva un tintinnio metallico ad ogni passo fatto. Li appoggiò entrambi sul tavolo, poi attaccò alla spina della corrente un vecchio tostapane. Aprì la credenza dove teneva il pane, ma prima di prenderlo, lanciò un’occhiata in direzione della porta che separava la cucina dal soggiorno. Era aperta, e lasciava intravedere in lontananza, appoggiato su una mensola, un vecchio telefono nero laccato. La sua linea privata: comoda e sicura. Sembrava però che non volesse nemmeno accennare a squillare. Angelo infilò due fette nel tostapane, e si diresse in soggiorno. Si accasciò sul divano, buttando i piedi sul tavolino davanti a lui, e accese il televisore. Fece zapping per un po’, lanciando continue occhiate al telefono, che insisteva a rimanere in silenzio. Alla fine Angelo si decise per spegnere la tivù. Iniziò invece a fissare intensamente il telefono, e lo fece per almeno dieci minuti.

- Squilla.- ordinò infine. E il telefono sembrò obbedirgli. Il suo lungo trillo gli fece tornare il sorriso: si alzò, e subito dopo alzò la cornetta.

- Pronto?-

- Sant’Iddio, ma dov’eri finito? Hanno rilasciato Jason Foster!- strillò l’uomo dall’altra parte, palesemente fuori di sé dalla paura.

- Quanto?- Angelo non disse nient’altro, perché in fondo nient’altro gli importava.

- Dieci adesso e altrettanto a lavoro finito.-

- Ma va a farti fottere, con chi cazzo credi di parlare? Venti te li puoi infilare nel culo, anzi, comprati una bella bara, perché scommetto che Foster non vede l’ora di crocifiggerti. E te lo meriti, stronzo taccagno!-

- Su, ti prego, ha già ucciso due sicari in prigione, e uno oggi.-

- Appunto. Buona giornata.- detto questo, riattaccò.

“Quindi la base è venti? Bene, vediamo a quanto si può arrivare.”

Angelo non dovette aspettare poi molto altro tempo, prima che il telefono squillasse nuovamente.

- Ehi.- disse, alzando la cornetta.

- Ascoltami, si tratta di Foster. È…-

- Ciao Sid. Sì, sì, lo so. Trenta.-

- Qualunque cifra, basta che…-

- Quaranta, allora.-

- Eh?-

- Quando hai detto “qualunque cifra” ho forse capito male?-

- No, ma…- un attimo di esitazione - …quaranta, non un dollaro in più.-

- Sei tu il capo. Consideralo già fatto.- il telefono venne di nuovo riattaccato. Il tostapane fece saltare fuori le due fette di pane, leggermente bruciate. Angelo, arrivato in cucina, ne prese una, e la esaminò da vicino. La buttò subito via. Afferrato di nuovo il pacco, uscì di casa.

 

La stanza, un vecchio ufficio di un’azienda fallita da tempi immemori, era avvolta dalla penombra. Se fosse stata sera, il buio sarebbe stato totale, ma invece era mezzogiorno, e il sole picchiava alla grande sulla città, anche se l’estate stava ormai giungendo al termine, quindi uno spiraglio luminoso filtrava dalle tapparelle calate, illuminando fiocamente l’interno del locale. Sei uomini in tutto, e una fetta di pizza, abbandonata a se stessa in mezzo ad una scatola di cartone, erano i suoi occupanti. L’arredamento della stanza era ridotto ad alcune casse vuote, usate come sedie, una scrivania divorata dai tarli e una poltrona da ufficio. Su di essa sedeva un uomo alto e secco, completamente calvo. I suoi occhi erano infossati, circondati da delle profonde occhiaie. Sulla scrivania si trovava una pistola argentata, smontata in tutti i suoi pezzi, tranne l’otturatore, che l’uomo teneva in mano, lucidandolo con un fazzoletto di stoffa grigia. Teneva stratta tra i denti una sigaretta. Il fumo gli usciva in due sottili colonne dal naso e dalla bocca.

Dei passi, provenienti dal corridoio, interruppero il silenzio, fino a quel momento imperante, nella stanza. Tutti gli occupanti dell’ufficio, alzarono il loro sguardo da terra, e tirarono chi fuori di tasca, chi dalla giacca, chi da per terra un’arma da fuoco. Foster rimontò con velocità impressionante la sua semiautomatica, fece scattare la sicura slittando l’otturatore all’indietro, e mirò in direzione dell’ingresso.

- Chi è?- chiese uno di loro, mentre tutti imitavano Foster nel mirare alla porta.

- Sono io, Jason, sono Sam. Ho appena fatto quel giro che…-

- Taci, coglione.- gli sibilarono da dentro la stanza. – Sottovoce. E dentro.-

La porta si aprì davanti a Sam: era un ragazzo di colore, vestito con una giacca smessa. Tentò di sorridere, nonostante le sei pistole, cariche e senza sicura, che la gente dentro gli stava puntando contro.

- Ehm, ciao, ragazzi.-

- Sam.- gli fece uno di loro, un altro nero a mo’ di saluto. Il nuovo arrivato si accomodò su di uno sgabello traballante vicino alla scrivania, mentre le armi venivano lentamente abbassate. Respirò a fondo, tentando di farsi vedere a sua agio, poi adocchiò la pizza.

- Wow, ho una fame…- fece per afferrarla, ma uno degli altri la prese per primo, e se la calò in bocca senza probabilmente aver nemmeno sentito le parole di Sam. Questi rimase per un po’ fermo, con la mano protesa verso la scatola della pizza vuota, e un’espressione da scemo sulla faccia. Poi emise un colpetto di tosse, come per dire “vabbè, non importa”, e iniziò quindi a parlare:

- Oh. beh. insomma, ho parlato con Johnny Long, giù a Chinatown, e pare ci sia questa nuova triade, in città, che sarebbe disposta a darci una mano, in cambio di una fetta del territorio. Io non gli ho promesso niente, aspettavo di sentire il vostro parere, anche perché fino a che non isoliamo Santo da…-

- Santo è già solo.- fece un altro dei presenti. – E lo rimarrà ancora per qualche giorno, almeno finché le famiglie non avranno tempo di riorganizzarsi. Quindi se vogliamo agire, dobbiamo farlo ora. I Capuzzi non saranno mai deboli come lo sono adesso.-

- Santo Capuzzi.- la voce di Foster attraversò la stanza, profonda e tagliente. Tutti lo fissarono, aspettando che finisse il discorso, senza osare nemmeno respirare. Foster buttò via il mozzicone della sigaretta, e se ne accese un'altra.

- Ero io che procuravo tutta l’eroina a suo figlio.- digrignò i denti. – Fottuto traditore. Ha lasciato che gli sbirri ci fottessero tutti. Sapete, dovevo avere una faccia buffa quando mi dissero di mettere la mani dietro la testa, e io che stavo nascondendo la roba in mezzo ai sacchi di caffè.- Foster ridacchiò, forse di se stesso.- Ma lui non è l’unico, no, poi ci sono gli altri! Il colonnello Stevenson, per esempio, sarebbe stato un gran bello scandalo se qualcuna avesse scoperto i suoi passatempi. Poi Rich, ah, io lo adoravo quel ragazzo, era un piacere veder svolgere bene il lavoro anche da qualche americano, e non dai fottuti italiani, o dai cinesi. E ha fatto strada in questi quindici anni, il piccolo Richard.-

Sembrava che la lista sarebbe andata avanti a lungo, se non che, in quell’istante, un nuovo rumore risuonò nella stanza. Qualcuno aveva bussato alla porta, ed era stato silenzioso nell’avvicinarvisi, nessuno aveva sentito i suoi passi nel corridoio. La scena di poco prima si ripeté identica, se non che questa volta le armi alzatesi contro l’ingresso erano sette.

- Chi è?- chiese lo stesso di prima.

- Ho un pacco per il signor Foster.- rispose qualcuno da dietro la porta, e non era la voce di uno dei ragazzi che Foster aveva messo a sorvegliare l’ingresso.

- Il signor Foster non aspetta nessun pacco; e ora sparisci, testa di cazzo.- sghignazzò Sam. Subito tutti gli altri presenti lo squadrarono con uno sguardo che uccide. Sam stava per domandare: “Ho detto qualcosa di sbagliato?” quando l’uomo dietro alla porta disse:

- Però si trova comunque la dentro, non è vero?-

- Sparate.- l’ordine di Foster giunse immediato, freddo, ma non certo inaspettato. I sette grilletti vennero premuti, e prima che qualcuno là dentro avesse solo il tempo di respirare, una tempesta di metallo incandescente crivellò la porta. Gli spari provenivano prevalentemente da delle pistole, ma c’era anche un mitragliatore leggero, e un fucile da caccia. Abbastanza per ridurre in un istante un pannello di legno ad un informe pezzo di legno, ma non per abbatterla. Rimase in piedi, come sostenuta dalla volontà divina. Quando Foster fece segno di smettere di sparare, venne obbedito all’istante. Alcuni dei presenti avevano addirittura svuotato l’intero caricatore, e si prodigarono subito a sostituirlo.

- Va a vedere se è morto.- ingiunse quindi Foster. Tutti lo guardarono, per capire a chi si stesse rivolgendo.

- Sam.- sibilò quindi. Il nero deglutì, e, dopo aver cercato invano un po’ di solidarietà nei volti dei compagni, si avvicinò tremante ai poveri resti della porta. Avvicinò la mano alla maniglia, un vecchio pomello ammaccato, in cui la ruggine si confondeva con la patina dorata che in origine lo ricopriva. Lo girò, e lo tirò verso di sé. Subito la maniglia si staccò, rimanendogli in mano. Sam si voltò verso gli altri, sorridendo ebete. Ricevette solo sguardi omicidi. Tentando di sorridere ancora di più, Sam disse:

- Che sfiga, eh? – ridacchiò.

La porta alle sue spalle venne abbattuta con un calcio, facendo cadere il nero a terra, sotto il suo peso. Angelo era lì dietro: stringeva in braccio qualcosa, e bastò un’occhiata superficiale per poter scorgere in quel qualcosa la sensuale silhouette che solo i più raffinati strumenti di morte hanno.

- Oh no.- fece qualcuno dentro. Qualcuno alzò di nuovo l’arma, ma non riuscì a premere il grilletto, perché Angelo premette il suo prima.

Il mitragliatore urlò la prima esplosione, e poi una seconda, e poi molte altre ancora. E per ognuna di esse 7 e 62 millimetri di morte sfrecciarono per la stanza, inondando l’aria di piombo e fuoco. Angelo lo reggeva tra le braccia, domando il rinculo come un animale selvaggio. Nessuna pietà, né pena, né odio. Mai provati, quando lavorava.

Quando il nastro di munizioni sparì del tutto, consumato dalle fauci del mitragliatore, e il grilletto venne rilasciato, nella stanza erano rimasti solo cinque cadaveri, novantanove bossoli fumanti, e tanto sangue da tinteggiarci le pareti. Già, i cadaveri erano solo cinque: Angelo non si era illuso per un secondo di aver ucciso Foster. Aveva visto un proiettile disarmarlo, e molti altri affondarglisi nel ventre. Poi l’uomo era scomparso dietro la scrivania. Ma non era morto, la gente come lui è protetta da un angelo custode molto premuroso, o da un diavolo maledettamente caparbio.

- Sai, Jason, forse mi crederai un sentimentale.- Angelo appoggiò la sua arma al muro – Insomma, piombare in una stanza con un mitragliatore come questo, è un po’ eccessivo. Il fatto è che questo è un pezzo di storia americana, non immagini nemmeno quanti vietcong siano passati a miglior vita dopo una scarica del buon vecchio M60. È un peccato non usarlo mai. Certo, avrei potuto usare una granata, ma sai, sono così inaffidabili. Una volta ne ho tirata una, e il mio bersaglio si è salvato, solo perché si trovava dietro ad un altro tizio che… beh, ma forse non ti interessa.- si avvicinò alla scrivania: come previsto Foster era lì. Ansimava freneticamente, per quanto i suoi polmoni consumati dalle sigarette glielo permettessero, e si tamponava il ventre con una mano. I proiettili gli avevano aperto un gran brutto squarcio, all’altezza dell’intestino. Non tutti lo sanno, ma un essere umano ha nella pancia la bellezza di tredici metri di intestino, che sembrano quasi morire dalla voglia di schizzare fuori dalla loro flaccida dimora, appena se ne presenta l’occasione; certamente Foster non voleva che succedesse. Angelo si chinò su di lui, sorridendo.

- Tu?- balbettò Foster. La sua voce uscì deformata dal dolore.

- Ehi, JF, che pensavi di fare? Vendicarti?- chiese Angelo, con lo stesso tono con cui si rimprovera un bambino.

- Fottiti!- gli sbraitò in faccia l’altro – Cristo di un Dio. Ero… ero così vicino.-

Angelo interruppe il suo discorso sconnesso, mentre gli afferrava la mano che tamponava la ferita:

- Mi dispiace Jason.- iniziò ad alzare la mano. Foster tentò di fare resistenza, ma si accorse all’improvviso di essere diventato troppo debole. La mano si alzò dallo squarcio, lasciando uscire un rivolo di sangue e interiora. Il corpo dell’uomo iniziò a contrarsi, e quindi a tremare convulsamente. Poi, si immobilizzò.

- Mors tua, vita mea.- mormorò Angelo. Poi lo osservò in viso, finché non fu certo che ogni singola stilla di vita fosse uscita dal suo corpo. “Andato” pensò quindi. Gli chiuse delicatamente le palpebre, e andò a raccattare il mitra.

- Qui ho finito.- Stava per uscire, quando si bloccò, come se qualcosa di importante gli fosse appena tornata in mente.

- Tu, sotto la porta. Sei vivo?-

- Non spararmi.- mugolò Sam, senza muoversi di un solo millimetro dalla sua posizione. Angelo estrasse una pistola dalla giacca, e piantò un paio di pallottole nella porta abbattuta. Uscì dalla stanza, pensando a che fare una volta messosi al sicuro. Birra. Si sarebbe preso una birra.


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Capitolo 5
*** La Mano di Joshua ***


La mano di Joshua

 

Joshua Clay viveva in un minuscolo appartamento di un condominio di periferia, un casermone di cemento armato con vernice color piscio che si staccava dai mattoni grigi. Era attaccato ad un pilone della sopraelevata, che ogni otto minuti dava di che lamentarsi alla vecchia del piano di sotto. Il rumore del treno era una costante per lui ormai. Si era abituato a sentire il gracchiare della sua radio, sintonizzata ventiquattrore su ventiquattro su Super Hit 80, venire gradualmente soppiantato dal vibrante fragore del treno, che viaggiava a tutta velocità venti metri più in alto. Il rumore non era un fastidio, anzi, era una certezza. Lo tranquillizzava, lo faceva sentire al sicuro, a casa; e poi lui non dormiva mai, la notte era sempre fuori. Utilizzava casa sua solo per portarci la puttana di turno, per bersi una bottiglia di Jack o semplicemente per isolarsi dal mondo.

Joshua non aveva mai avuto una vera e propria casa: i suoi genitori erano stati due hippy. Aveva passato l’infanzia a correre in giro nudo per il prato in cui gli capitava di parcheggiare il loro camper e ora che una casa ce l’aveva, non sapeva bene che farsene. Le idee dei genitori non l’avevano mai influenzato, l’unica cosa che aveva ereditato da loro era il lavarsi poco e la caparbia ostinazione nel non volersi tagliare i capelli. Così Joshua viveva. Ora parliamo invece di come sarebbe dovuto morire.

Quel giorno Joshua se ne stava sul suo divano rattoppato, a leggere il numero di Mad del mese prima. L’aveva già letto almeno un centinaio di volte, però rideva sempre, con una risata roca e ottusa, ogni volta che arrivava alle sue battute preferite. Erano anche quelle una certezza, e a lui piacevano le certezze. Stava giusto lanciando una di quelle risate di cui ho parlato poco fa, quando qualcuno bussò alla porta.

- Signor Clay! Signor Clay! Mi apre per favore?- era Mrs. Birkin, la portinaia. Di sicuro intenzionata a lamentarsi con lui di qualcosa. Joshua distolse lo sguardo dalla rivista, e fissò con occhi vacui l’ingresso.

- Signor Clay, benedetto ragazzo, mi vuole aprire? Devo parlarle!-

Joshua si portò le mani sulle orecchie, e iniziò a fissare il soffitto, cantando ad altissima voce Like a Virgin insieme a Madonna.

“ Che palle, ma cosa vuole quella? Manco non la pagassi.” Pensò tra se, senza smettere di cantare.

- Signor Clay! So che è li dentro! Mi apra subito!-

“Spero non sia ancora incazzata per il suo gatto. Mah, in fondo lei non lo sa che sono stato io, no?”

- Insomma, inizio davvero ad arrabbiarmi. Non mi può trattare così!-

“ E poi quello continuava a pisciare sul mio zerbino, quando ci vuole ci vuole, no? Dio, giuro che un giorno la ammazzo quella stronza.”

- Oh, basta, se non vuole aprire a me non importa. Rimanga la dentro, e ci crepi, anche!-

“Ma non può lasciarmi in pace? Ho una vita già abbastanza difficile io, senza dover venire torturato da una vecchia lunatica, no? Ma se ne va? Se ne va?” Si tolse le mani dalle orecchie. Sembrava che non ci fosse più nessuno. Con un sospiro di sollievo, tornò a leggere la sua rivista. La osservò per un po’, quasi con un’espressione seria. Poi proruppe in un’altra risata:

- Ah, ma come se le inventano?- e continuò a sghignazzare. In quel momento il treno di mezzogiorno e quindici sfrecciò accanto alla palazzina, ovattando con il suo fragore qualsiasi rumore nel raggio di cento metri.

Quando il rumore delle ruote che correvano sulla rotaia fu solo un mormorio in lontananza, e la radio poté tornare a farsi sentire, qualcuno bussò di nuovo alla porta. Joshua si sentì traboccare di irritazione, e scagliata a terra la rivista sbraitò:

- Ma allora, l’abbiamo finita di rompere il cazzo? Pago l’affitto e le bollette, e vorrei essere lasciato in pace quando sono a casa mia! Quindi mi faccia il piacere di piantarla di bussare e di andare un po’ a fare in…- la porta si aprì di colpo, sbattendo contro la parete, così forte che avrebbe staccato l’intonaco, se i muri non fossero stati coperti da una carta da parati a fiori gialli e fucsia. Angelo, nel momento in cui entrò nella stanza, impugnava una pistola di piccolo calibro, con al termine della canna un lungo silenziatore. Non sparò subito: Joshua ebbe il tempo di impallidire, alzarsi allarmato dalla sedia, lasciar cadere a terra la rivista, e quindi allungare una mano verso il comodino vicino alla poltrona, sul quale erano appoggiati una bottiglia vuota, un bicchiere mezzo pieno e un revolver carico. Non ebbe tempo di fare altro: Angelo gli perforò la mano con un solo colpo, mirato al millimetro. La mano ferita si sfracellò sul comodino, il bicchiere si rovesciò e la pistola finì sul pavimento.

- Aah, figlio di…- Joshua cadde a terra, più per lo spavento che per il dolore, tenendosi la mano sanguinante. Poi, stringendo i denti, si rivolse ad Angelo:

- Stronzo!- sbraitò – Che cazzo ci fai in casa mia? Chiamo la polizia!-

- Joshua, Joshua, Joshua- gli fece Angelo, scuotendo la testa, rigata in volto da una smorfia condiscendente. Angelo aveva già posizionato la fronte di Jashua tra le due stanghette di metallo del mirino, ma qualcosa lo fermò: qualcosa che gli vibrava in tasca. Angelo alzò gli occhi al cielo, accennando un sospiro.

- Scusa un attimo.- fece poi, mentre estraeva di tasca il cellulare.- Pronto?- Qualcuno iniziò a parlare dall’altra parte. Joshua iniziò a fissare la sua pistola, per terra a un metro da lui.

- Si, sì sono io, chi cazzo dovrei essere? Cosa vuoi?-

“Se solo riuscissi a raggiungerla…” pensò Joshua, mentre fissava con la coda dell’occhio il revolver. Iniziò ad allungare timidamente le dita verso di esso, mentre il cuore gli batteva contro la cassa toracica come un martello pneumatico. Il suo dito medio stava già accarezzando il calcio.

- Ehi, Clay, sta un po’ fermo o ti faccio saltare via l’uccello! Scusa, dicevi?- la minaccia di Angelo riuscì a immobilizzare l’uomo seduta stante, oltre che a farlo sudare dannatamente freddo. Joshua ritirò la mano dal comodino, e si rannicchiò tremante sul pavimento ai piedi della sua poltrona. Angelo continuò per un po’ ad ascoltare il suo interlocutore. – Sì. Sì.- annuiva, lo assecondava, ma un frequente nervoso movimento delle labbra faceva capire chiaramente che gli stavano iniziando a girare:

- Cosa? Ma che cazzo vuol dire “ho sbagliato”, ero qui che stavo per ammazzarlo! Diosanto, gli ho già bucato una mano. “Sadico”? Ma vaffanculo, mi voleva sparare, eh, “sadico” il mio cazzo. Sì, okay, ho capito, ma qui ci passo da coglione. Sono un professionista, dico, io non lavoro così, io. Che? Cosa? No, no, ascolta tu, io non sono un fottuto… che? Ma vaffanculo, vaffanculo ti dico, puoi pagarmi quanto… ah. Così, dici? Va bene, allora. Ma accidenti, fammi un altro di questi scherzi del cazzo e… e smettila di scusarti, porca troia, sono già abbastanza incazzato! Sì, ci si vede, vaffanculo!- Angelo riattaccò. – Ah, ma tu guarda che razza di… Bah!- adagiò la pistola in una fondina nascosta sotto la giacca. Quindi si avvicinò alla sua vittima, e gli porse una mano, forzando un sorriso:

- Buone notizie, pare che alla fin fine non debba ammazzarti. Dai, vieni, ti accompagno in ospedale.-

 

Joshua lanciava ad Angelo continue occhiate colme di disagio. Stavano procedendo con tutta calma in mezzo al traffico cittadino, che scorreva a scatti al ritmo delle luci smorte dei semafori, su di una vecchia auto colore verde scuro. Aveva un bagagliaio molto capiente, Angelo la aveva scelta apposta per portare via il cadavere di quella che sarebbe stata la sua vittima. Ma Joshua per fortuna non lo sapeva, la cosa non lo avrebbe certo messo a suo agio. Mentre la macchina si bloccava davanti ad un giallo di un semaforo, Angelo si rivolse verso Joshua:

- Dispiace se accendo la radio?-

- Prego.- balbettò lui di risposta. Angelo girò una manopola, facendo diffondere per tutta l’auto la note di una canzone di Elton John. Non tentò nemmeno di dissimulare un profondo moto di irritazione, che subito divenne chiaramente visibile sul suo volto:

- Oh Gesù, questa no, per carità. Dispiace se cambio?- Joshua rispose con un cenno d’assenso: a lui in verità la canzone non dispiaceva, ma non aveva intenzione di mettersi a parlare di musica con l’uomo che aveva appena tentato di ucciderlo.

- Non riesco più ad ascoltarla da quando ho scoperto che è dedicata ad un uomo.- borbottò quindi Angelo, girando ancora un po’ la manopola. La stazione cambiò gradualmente, sintonizzandosi alla fine su una qualche canzone di musica leggera, del genere che la radio di Joshua trasmetteva quotidianamente. Angelo sembrò nuovamente contrariato.

- Mio Dio, ma come cazzo fanno i giovani ad ascoltare certa merda?- cambiò di nuovo stazione, questa volta senza nemmeno chiedere il parere di Joshua a proposito, che anche questa volta sarebbe stato contrario, ma che in ogni caso non avrebbe mai espresso. Dagli altoparlanti sulle portiere uscì la voce metallica di una telecronaca:

- Gli Eagles si sono aggiudicati la vittoria a pochi secondi dalla fine, grazie ad una sorprendente azione del nuovo acquisto della squadra, Chris Blanchette, che è riuscito a portare a canestro la palla passatagli da metà campo dal compagno di squadra Henry Barrymore. La palla…- a questo punto, Angelo lanciò una sonora risata, attirando tutta l’attenzione di Joshua.

- Ah, quel negretto, che forza! Da quanto tempo è in squadra? Un mese?- chiese alla “vittima”, guardandolo fisso negli occhi. Joshua formulò mentalmente la frase che contenesse meno parole possibili. Poi la pronunciò:

- Due mesi. mi pare.-

- Già, che fenomeno! È molto giovane, vero? Quanto avrà, vent’anni, diciannove forse. incredibile. No?-

- Io…- è vero, la penso come te, ti prego non uccidermi. Joshua sapeva quello che avrebbe dovuto dire.

- No.- esclamò invece, e (si accorse dopo averlo fatto) con un tono di voce troppo convinto. Angelo lo fissò storto:

- No cosa?- gli chiese. Joshua si morse la lingua e deglutì contemporaneamente, quasi volesse ingoiarla. Le parole gli uscirono di bocca a fatica.

- Non penso sia un grande giocatore. Non ti sembra che sia gonfiato?-

- Nel senso che si fa?- Gli chiese allora Angelo, questa volta con un tono più tranquillo, come se la conversazione lo interessasse. Mentre faceva la domanda si diede due colpetti con l’indice e il medio sul braccio.

- No, niente droga, non che io sappia almeno. Intendevo il modo in cui lo presentano i media, no? È un fighetto qualsiasi, uno di quelli che le ragazze nere si appendono il poster in camera, ma come giocatore vale poco, no? Per non parlare poi di quelle stronzate sull’Hip-Hop.- Più parlava, più Joshua prendeva sicurezza.

- Hip-Hop? Questa non l’avevo sentita, che intendi?-

- Ma sì, nel tempo libero fa il rapper, dice che vuole anche pubblicare un suo cd, e probabilmente ci sarà pure un fottio di gente che andrà a comprarlo, no? Insomma, è un’icona, un idiota qualsiasi, non un bravo giocatore, no?-

- Ma va via, sei solo invidioso.- Angelo smise di guardarlo negli occhi, tant’è che il semaforo era tornato verde, e scosse la testa, esibendosi intanto in una risatina a denti stretti.

- Invidioso di quel negro del cazzo? Ma fammi il piacere, è solo un idiota.- incalzò Joshua.

- No che non lo è, e tu sei invidioso. Si capisce, sai?-

- Non lo sono, ti ho solo detto quello che pensavo, accidenti! È un montato, punto.-

- Non è vero, cazzo! Stattene zitto.-

- Si che è vero!-

- Oh, testa di cazzo, tappati quella bocca di merda o questa volta il fottuto buco te lo apro in testa!- l’urlo di Angelo fu così forte che sembrò che i finestrini dell’auto tremassero. L’auto si fermò in quel momento davanti ad un altro semaforo rosso. Angelo squadrò l’uomo che gli stava accanto per alcuni interminabili secondi, come volesse trafiggerlo con lo sguardo. Joshua si ritirò contro una delle portiere dell’auto, cercando disperatamente di scomparire. Improvvisamente iniziò a tremare, e a desiderare di non essersi davvero ingoiato la lingua. Il semaforo tornò verde. Angelo smise di fissarlo, e iniziò di nuovo a guidare. I due rimasero per un po’ nel più completo silenzio, riempito solo dal ronzante sottofondo della radio, ancora accesa sul notiziario. Joshua fu fortemente tentato di aprire la portiera e buttarsi fuori dalla macchina, ma aveva paura che il tremito sconnesso che lo agitava da fin subito dopo l’urlo di Angelo non gli avrebbe permesso di tirare la maniglia. Cercò di convincersi che la sua paura era totalmente irrazionale, che in fondo Angelo non doveva ucciderlo, e che nonostante tutto non lo avrebbe fatto. Ma in fondo lui era un assassino, cosa gli cambiava un morto in più o in meno? Morire per una discussione sul basket, poi, era del tutto ridicolo, eppure qualcosa nel volto del killer lo faceva sembrare terribilmente plausibile. Joshua non riuscì a trattenere un gemito quando Angelo si voltò di nuovo verso di lui. Sembrava ancora incazzato, e parecchio. Joshua tentò di balbettare un’infinità di scuse, non riuscendo però a pronunciarne una sola. Poi, d’improvviso, Angelo iniziò a sorridere.

- Dai, ragazzo, non fare così, non ti ammazzo mica. Eddai, era solo una cazzata, non ci davo peso. Rilassati! Ma davvero ti ho spaventato così tanto?-

- Io… io…- balbettò Joshua.

- Così tanto?-

- Me. me la stavo per fare addosso.- Rispose Joshua, abbozzando anche lui un sorriso. Angelo proruppe ancora una volta in una grassa risata.

- Ah, scusa, scusa Jo. Certo che sei un tipo emotivo, eh?- rise, e Joshua tentò di ridere con lui, anche se con scarsi risultati. - Toh, eccoci, siamo arrivati.- L’auto frenò dolcemente fino ad adagiarsi entro le linee di vernice scrostata di uno dei parcheggi dell’ospedale, un vecchio edificio bianco che si ergeva lì vicino. Entrambi gli occupanti dell’auto scesero, e Joshua lo fece con seicento libbre di tensione che gli si levavano dalla schiena.

- Grazie per lo strappo.- farfugliò Joshua.

- Ehi, e di che ringrazi? È stato un piacere, amico. Sei stato fortunato, sai? Se davvero te la facevi addosso nella mia auto, finiva che ti ammazzavo sul serio!- rise di nuovo -Beh, si è fatto tardi, ti saluto. Ah, non una parola del nostro incontro con nessuno, ma immagino tu lo abbia già intuito. E riguardati quella mano, è una brutta ferita.-

- Senz’altro.- mormorò infine Joshua. Angelo salì di nuovo sulla macchina, e appena l’ebbe messa in moto, sparì di nuovo nel traffico. Joshua lo osservò fino a che fu scomparso all’orizzonte.

- Ma tu guarda che razza di stronzo.- disse quindi, massaggiandosi la mano.


 

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Capitolo 6
*** In Bagno ***


In Bagno

 

Angelo premette il grilletto. L’otturatore slittò, la polvere da sparo si incendiò e esplose, il proiettile frantumò le ossa del cranio, perforò il cervello ed uscì dall’altra parte, avvolto da una fontana di sangue.

La vita è una troia orrenda: un attimo prima stai versando il bagnoschiuma nella tua vasca da bagno, un attimo dopo ci stai versando il tuo cervello. Questo il signor River lo sapeva bene, perché era sua la testa che era stata appena perforata dal proiettile di Angelo.

Era stato tutto molto veloce: Angelo aveva scassinato la porta dell’appartamento, si era mosso furtivamente fino al bagno, e aveva sfondato la porta con un calcio. Il signor River era la dietro, ammollato nella sua piccola vasca da bagno. Un proiettile in testa, un altro figlio di puttana in meno a sottrarre ossigeno all’atmosfera. L’acqua calda che lambiva i flaccidi fianchi del cadavere iniziò gradualmente a tinteggiarsi di rosso. Angelo girò la manopola del rubinetto, ancora aperto: non voleva certo sporcare il bel bagno del signor River.

“Beh, direi che ho finito. Magari tutti i lavori fossero così.” Si disse tra se, dando un’ultima occhiata all’ultimo cadavere della sua collezione: lo stava fissando con i suoi occhi vitrei da morto. Angelo rinfoderò la quarantacinque, e se ne sarebbe andato per sempre da quella casa, a meno che qualcosa non lo avesse fermato. I qualcosa furono due: un’ombra che si allungava dal corridoio e una voce.

- Ehi, Bud, sei in casa? Hai lasciato la porta aperta.- sembrava un uomo giovane, preoccupato per il suo amico Bud. Un’imprecazione nacque e morì, senza assomigliare a niente di più che un sussurro, sulle labbra di Salerni. Rientrò nel bagno, e chiuse la porta. Non poteva chiuderla a chiave, aveva rotto lui stesso la serratura nemmeno un minuto prima. Quindi puntò la sua pistola contro di essa, nel caso il nuovo arrivato avesse avuto l’infelice idea di aprirla. I testimoni erano uno dei problemi peggiori del suo mestiere. Finché era gente del giro, spacciatori, tirapiedi, mafiosi e feccia del genere, bastava dirgli di stare zitti: che Angelo rimanesse un ombra priva di identità era nel loro interesse, dato che di solito le persone che ammazzava e quelle che gli dicevano di ammazzare appartenevano alla stessa classe sociale. Ma nel caso di civili, non si poteva mai essere sicuri. Certe volte bastava allungargli cento dollari, altre volte mille, ma corrompere non era mai una buona scappatoia. Con i soldi puoi zittire qualcuno per un po’, ma non fargli dimenticare cosa ha visto.

- Bud? Ehi, Bud, sei lì? Sono io, Thomas. Che fai, ti nascondi?- i passi di Thomas si avvicinarono sempre di più, così come la sua voce si fece sempre più distinta.

- Sei al cesso?- la maniglia del bagno iniziò ad abbassarsi. Angelo era già pronto a premere il grilletto. Però quel coglione non doveva morire: o meglio, Angelo non aveva intenzione di ammazzarlo. Nessuno lo avrebbe pagato. Quando sei abituato a fare una qualche cosa per lavoro, non la fai mai volentieri per te stesso. Quindi, prima che la porta potesse aprirsi, disse:

- Se la apri, sei morto.- gli sembrò di essere stato abbastanza convincente. Aveva pronunciato le parole chiaramente ed ad alta voce, perfino l’ultimo degli imbecilli le avrebbe capite. Infatti la porta non si aprì.

- Ehi, okay, scusa, scusa. Avevi la porta dell’ingresso aperta, Bud. Sicuro che non ti è entrato nessuno in casa?- disse ridacchiando Thomas, dall’altra parte.

- No.- rispose Angelo, che si ricordava chiaramente di averla chiusa. Serratura rotta, forse.

- Sicuro? Ehi, ma che è questa voce? Cazzo, tu non sei Bud!- A quanto sembrava Tommy era più sveglio di quanto sembrasse. Peccato.

- Effettivamente non lo sono. E tu?-

- Chi cazzo sei? Guarda che chiamo gli sbirri!- ora il ragazzo si fece addirittura risoluto. Angelo iniziò a trovarlo seriamente un gran bel dito nel culo.

- Senti, ora ti spiego come stanno le cose. Bud si trova qui con me, sta benone, ci stiamo prendendo una birra. Ho una pistola, quindi siediti a terra, conta fino a cinquecento e non rompere il cazzo. Capito?-

- Diosanto, ma cosa vuoi? Gli hai fatto qualcosa?- Balbettò Thomas, dall’altra parte della porta.

- Senti buon samaritano, Bud è già bello che andato. Ora che non hai più motivo di preoccuparti, inizia a contare.-

- L’hai ucciso?-

- Vuoi raggiungerlo?-

- Ehi, calmo, calmo, okay, lo faccio. Però, chi mi dice che non stai bluffando?-

- Vuoi che spari un paio di colpi attraverso la porta?- Thomas rimase un attimo zitto. Poi iniziò a contare.

- Bravo ragazzo. Continua così.- Angelo rinfoderò con un movimento lento e accurato la pistola nella fondina. C’era una finestra, in quel bagno. Poteva fuggire da lì. La aprì, facendo cadere pezzettini di intonaco bianco sul pavimento. Diede un’occhiata di fuori: c’era una grondaia a circa due piedi dal davanzale, l’ideale per scivolare non visto fino in strada. Angelo era pronto a calarsi, quando si accorse che Thomas aveva smesso di contare. Per un attimo temette se la fosse filata. Ma fu presto tranquillizzato.

- Vuoi scappare dalla finestra?- domandò il ragazzo. Doveva aver sentito il rumore.

- Avevo detto fino a cinquecento. Spero che tu sia veloce a correre come a contare.- Ad Angelo parve di essere stato abbastanza minaccioso, ma forse non era stato così, poiché Thomas continuò a parlare come se non avesse sentito alcunché:

- Non puoi scendere da lì. La grondaia passa davanti al terrazzo del primo piano, e ci stanno facendo una festa. Se scendi ora, ti vedranno tutti quanti, e non ti posso assicurare che non chiamino loro gli sbirri.-

- Non dire cazzate, ragazzo, mi vuoi tenere qui per chiamare la polizia, giusto?-

- Ma che dici, no! Prova ad ascoltare, non senti la musica?- Angelo aguzzò l’udito: effettivamente da lì sotto si udiva, anche se molto debole, una melodia classica. Mozart forse.

- Ma che cazzo di musica ascoltano?- chiese al ragazzo.

- Bah, che ne so, è il compleanno della signora Rochester, avrà invitato i suoi amici, tutti insieme faranno almeno mille anni. Ascoltano soltanto classica, a volume moderato. Personalmente preferirei gli Slipknot, ma almeno non danno fastidio a nessuno.-

- Bah, bella merda.-

- Ognuno ha i suoi gusti.-

- No, intendevo il fatto che non posso scendere. Hai qualche suggerimento?-

- Beh, aspetta! Al massimo tra un’ora la sotto non ci sarà più nessuno, e tu potrai scendere giù senza problemi.-

- Ehi, un attimo, perché cazzo mi stai aiutando?-

- Bud era un vero stronzo, era ora che qualcuno lo facesse fuori. Sai, non mi pagava l’affitto da due mesi. E ogni volta che tentavo di ricordarglielo mi minacciava con quel suo fottuto coltello a serramanico. Quando poco fa ho visto la porta aperta, pensavo fosse di nuovo ubriaco, comunque avevo intuito che qualcosa non andasse. Non sarebbe stata la prima volta che quel bastardo ci dava di che preoccuparci.- Era plausibile. Angelo interruppe il monologo del ragazzo:

- Buono a sapersi. Va bene, aspetterò. Tu rimani lì, e continua a parlare. La pistola di cui ti parlavo prima ce l’ho ancora qui.-

- Ehi, rilassati, non voglio fregarti. Mi hai fatto davvero un favore a farlo fuori. Magari diventiamo addirittura amici! Sai, da quando Bud è arrivato in questo condominio, ha solo dato problemi. Voglio dire, girava sempre con gente strana, messicani.-

- Colombiani.-

- Come?-

- Erano colombiani, gli fornivano la droga. Lui la tagliava e la smerciava.-

- Ah, che stronzo. Lo sapevo che era un poco di buono. Lo si vedeva dalla faccia.-

- Sì, posso immaginarlo.- Angelo si sedette sul pavimento del bagno, tenendo sempre la pistola puntata contro la porta chiusa.

- Sai, una volta uno dei suoi amici sudamericani mi stava per ammazzare di botte, senza motivo. Continuava a gridare in spagnolo, a dirmi che ero un figlio di puttana, e a prendermi a calci.-

- Sono trafficanti di coca, non maestre dell’asilo. Sono su di giri persino quando siedono al cesso.-

- Immagino, ma vorrei starmene alla larga da simili schifezze. Sono solo il fottuto portinaio di questo fottuto condominio, e vorrei solo un po’ di calma. Beh, ora che Bud è morto, direi che posso dormire sonni tranquilli.-

- Sono contento per te.- Angelo iniziò a giocherellare con la sua pistola, per nulla interessato ai discorsi del suo interlocutore dall’altra parte della porta. Calò il silenzio: probabilmente gli argomenti di conversazione erano finiti. Oppure Thomas stava tentando di tagliare la corda.

- Sei ancora lì?- chiese Angelo.

- Sì, sì, tranquillo!- rispose velocemente Thomas, che non aveva nessuna voglia di beccarsi una pallottola. Rimasero ancora per un po’ in silenzio. Poi il ragazzo riprese a parlare, prima che Angelo cominciasse di nuovo a dubitare della sua presenza.

- Cosa si prova?-

- Cosa si prova a fare che?- la domanda giunse troppo indefinita per piacere ad Angelo. E il suo intuito gli fece capire che, una volta completata gli sarebbe piaciuta ancor meno.

- Intendevo… tu uccidi spesso?-

- Non ti deve interessare.- rispose Angelo stizzito.

- Però lo fai.-

- Ne vuoi una prova?-

- No, no, stai calmo! Non scaldarti!-

- Freddo come il ghiaccio.-

- Bene. beh, allora hai ucciso, e credo anche più di una volta. Cosa si prova? Cazzo, io non ci dormirei la notte, non è una cosa… normale. Cosa si prova a togliere la vita ad un essere vivente?- La domanda era strana: Angelo non capì dove il ragazzo volesse arrivare.

- Perché, si dovrebbe provare qualcosa?-

- Non lo so, magari ti ecciti, provi paura, rabbia, che ne so io.-

- Eccitarsi? Per chi cazzo mi hai preso, per uno psicopatico che gli viene duro ogni volta che ammazza qualcuno?-

- No! Non intendevo quello. Perché, ti succede così?-

- Cristoiddio, certo che no! Ma che cazzo ti viene in mente! E poi le tue domande iniziano a farmi davvero incazzare!- Ma che diavolo voleva sapere quel tipo? Era il suo lavoro, mica un passatempo. Provare qualcosa. E che cazzo avrebbe dovuto provare?

- Scusa, scusa! Sto zitto!- si affrettò a dire Thomas, temendo che il killer desse in escandescenze.

- No che non stai zitto! Parla, o io sparo.-

- Ah, certo okay.- Thomas parve riflettere. - Hai visto che forza l’ultima partita degli Eagles? Che forza Blanchette, come fai a non volergli bene?-

- Lascia perdere Blanchette, che finisce che mi incazzo di nuovo.-

- Ah. okay.- il ragazzo si prese un’altra pausa di riflessione. - Che musica ascolti?-

- Diosanto, che schifo!-

- Eh? Che dici?-

- Qui dentro c’è un odore da vomitare. Dio, sto morendo.-

- Odore? Beh, ci credo, c’è un cadavere lì dentro, no?-

- Ma non è quello, mica iniziano a decomporsi dieci minuti dopo la morte. Mi riferivo a quello che sta galleggiando in questo momento nella vasca.-

- Cosa? Se l’è fatta addosso? Nella vasca da bagno?-

- Ehi, te la fai addosso dovunque quando vedi uno che ti sta per sparare contro! Poi quando muori, dentro il tuo corpo è come se si rilassasse tutto, e quindi lasci uscire ogni cosa. Ma che cazzo avrà mangiato a cena?- Angelo emise un altro sospiro di schifo, portandosi una mano davanti al naso.

- Puzza forte?- Gli fece Thomas.

- Non ne hai idea. Fanculo, e dire che stava andando tutto così bene.-

- Aspetta un attimo.- Angelo udì qualche passo dall’altra parte. Poi il rumore di un interruttore che veniva premuto. Subito una ventola, posizionata sopra il water, iniziò a girare.

- Fatto. Dovrebbe aspirare gli odori. Sai, le ho messe io in tutti gli appartamenti. All’inizio ero un po’ indeciso se comprarle o no, sai, le spese, l’installazione. Ma un mio amico mi ha detto che sono fenomenali. Che dici, funziona?- Chiese Thomas. Ed in effetti il puzzo iniziava gradualmente a svanire, lasciando il posto ad un aroma artificiale di lavanda.

- Oh… sì. Grazie.- fece Angelo di risposta.


 

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Capitolo 7
*** Il Cadavere ***


Il cadavere

 

Angelo ritrovò il suo appartamento nel buio più completo. Si slacciò la camicia, e gettò la cravatta su una sedia. Andò in bagno, e accese il rubinetto della doccia. Poi si buttò sul divano, e gli sembrò che la fodera spelacchiata lo avesse afferrato per non farlo più alzare, e che ci stesse sprofondando dentro come in un pantano. Era stata una giornata pesante, un lavoro lo aveva tenuto impegnato a lungo, pur non essendo risultato alla fin fine troppo difficile. In pratica non aveva fatto altro che aspettare seduto al tavolino di un bar per tutto il pomeriggio, ordinando un caffè dopo l’altro, che la sua vittima finisse il lavoro. E talvolta aspettare ti metta più stanchezza addosso che spaccare pietre. Le palpebre gli si stavano serrando gradualmente. Il momento in cui si chiusero del tutto coincise esattamente con quello in cui il telefono iniziò a squillare. Angelo lo afferrò senza nessuna voglia di rispondere. Nella sua bocca una schiera di insulti spintonavano per andare a sommergere l’uomo dall’altra parte, ma le labbra appesantite dalla stanchezza fecero uscire solo un:

- Pronto?-

-Sono Vi…Vincent. Vincent Vergara, ti ricordi di me?- balbettò un uomo dall’altra parte. Il nome non risultò nuovo alle orecchie di Angelo: aveva dato una mano a Vincent per liberarsi di alcuni sue conoscenze inopportune almeno un paio di volte, era un suo affezionato cliente. Almeno lo era stato fino a quel momento.

- Ciao, Vinnie, immagino tu abbia qualcosa di importante da dirmi per svegliarmi alle…- Angelo si guardò l’orologio al polso: le tre? “Cazzo.” Era anche più tardi di quanto immaginasse. Sia chiaro, quando il lavoro lo chiedeva Angelo passava più di una notte in bianco. Ma quando aveva l’occasione di dormire, lo faceva volentieri, e nonostante la sua particolare attività lavorativa, dormiva sempre di un sonno tranquillo e profondo. Vergara, dall’altra parte della cornetta, tornò a balbettare, non permettendo ad Angelo di finire la frase:

- Angelo, ti prego, ho un problema. Un problema enorme.- parlava a fatica, come se stesse tentando di continuo di soffocare un conato di vomito.

- Ehi, Vinnie, che succede? E perché parli come se qualcuno te lo stesse infilando in culo?- lo canzonò Angelo.

- Ti prego, sono a casa mia, quella vicino a Lincoln Park. Sei già stato qui, no? Bene, devi… devi venire subito. Ho bisogno d’aiuto, è… è successa una cosa.- Vergara stava divagando. Quindi la “cosa” che era successa non era una cosa da dire al telefono. Un lavoro, probabilmente.

- Senti ragazzo, ho avuto una giornataccia, e ora vorrei dormire. Se è un lavoro, ti costerà parecchio.- sbuffò infine, con un desiderio sempre più forte di riattaccare in faccia a Vergara, non prima di averlo mandato a farsi fottere.

- Va bene! Va bene! Ti pago quello che vuoi, ma vieni, presto!- piagnucolò di risposta Vinnie. La cosa non era soltanto un lavoro, a giudicare dall’angoscia nella voce di Vergara, doveva anche essere qualcosa di urgente. Angelo scosse la testa. Poi rispose:

- Va bene, va bene. Arrivo tra un attimo, tu stai lì fermo.- e riattaccò. Non lo avrebbe ammesso nemmeno davanti a se stesso, ma quella faccenda lo incuriosiva.

 

Vergara abitava in una casa dall’affitto stratosferico, una villetta bianca di due piani con un terrazzo bello largo, proprio a due passi dai salici di Lincoln Park.

Certe sere d’estate, quando fa caldo anche alle due di notte, su quel terrazzo di cui parlavo poco fa a Vergara piaceva fare una qualche festa, senza niente di particolare da festeggiare, giusto un pretesto per unire coca, donne e alcool nello stesso posto. Angelo vi era anche stato invitato un paio di volte, senza mai divertirsi particolarmente: Angelo non beveva, non si drogava, e aveva smesso con le donne dopo una brutta storia di qualche anno prima. Quando si trovava a una festa, finiva per mettere a disagio chi si trovava intorno a lui. Era strana quella cosa, come se a uccidere finisci con l’attaccarti addosso un odore fastidioso per le altre persone. Percorso il breve tragitto tra la sua portiera e la porta di casa di Vergara, suonò il campanello. Ma non fu Vergara ad aprirgli: davanti a lui si trovava la caricatura sudaticcia, tremante e pallida di Vincent, che lo fissava con due occhi rossi dal sonno, l’alcool e da qualsiasi altra sostanza assunta dal suo inopportuno cliente quella sera.

- Hai una brutta cera, Vinnie.- gli fece Angelo, osservandolo senza dissimulare un moto di disgusto verso quel sacco di spazzatura che respirava davanti a lui.

- Angelo, mio Dio, entra subito!- strillò lui, afferrandolo per una manica.

 

Il cadavere si trovava disteso di traverso sulle lenzuola di lino del letto a due piazze di Vergara. Era una donna giovane, trucco pesante e vestiti succinti, non c’erano dubbi riguardo alla sua professione. La prima cosa che era saltata all’occhio di Angelo, entrando nella stanza da letto, era il collo di lei: ricoperto da dei grossi lividi scuri. Gli occhi erano spalancati sul vuoto e la bocca divaricata, nell’estremo tentativo di respirare.

- Opera tua?- chiese a Vergara, che si trovava al suo fianco, ancora scosso dai tremiti.

- Io…Io… non volevo.- Tartagliò lui, scompigliandosi con una mano il cespuglio sporco e disordinato che aveva in testa.

- Sì, sì, ne sono certo, ora però risparmiami le stronzate e parlami chiaro: che diavolo è successo?-

- Io… io la pago, la tiro su, la porto in casa, e… e sono qui, proprio dove ci troviamo ora noi due. Io mi… mi tolgo i pantaloni, le mutande… insomma, capisci?-

- Che cazzo è, un fottuto corso d’educazione sessuale? Ti stavi per scopare la puttana, insomma, e che cazzo è successo? Ti piace farlo violento e ti è scappata la mano?-

- No, è che… che… quella lì si è messa a ridere! E io gli faccio, “che cazzo hai da ridere?” ma lei continua, continua, e io glielo domando di nuovo, e lei continua e… e… e dopo un po’, non mi ricordo cosa sia successo nel frattempo, mi sono ritrovato che le stavo stringendo il collo. Era… era…- Vergara si porto velocemente una mano davanti alla bocca, quasi dandosi uno schiaffo in faccia. La sua mano sudaticcia, mentre si colpiva la bocca, emise uno schiocco liquido. Angelo si avvicinò al cadavere: scostò una ciocca di capelli dal suo volto contratto nel rigor mortis, svelando un viso dai lineamenti rotondi, dolci e infantili. “Merda.” si disse tra se, mandando per una attimo tutto il mondo a fare in culo, e desiderando ardentemente di tornare a letto. La ragazza doveva essere assai inesperta per essersi messa a ridere davanti ad un uomo con le braghe calate. La gente che va a puttane le considera il gradino più basso della scala sociale. Essere umiliato da una di loro è una ferita insopportabile per il loro patetico ego.

Angelo si rivolse di nuovo al suo cliente:

- E io qui che c’entro, hai già fatto tutto te.- disse con sarcasmo, godendo nel vedere come le sue battute facessero stare ancor più male Vergara.

- Cazzo Angelo, tu sei un esperto in… in cadaveri. In cose del genere.-

- Sì, diciamo che è una buona definizione del mio lavoro. E allora?-

- Nascondila, portala via e fai in modo che non la ritrovino. Io non saprei nemmeno da dove cominciare, e poi… poi mi fa impressione toccarla.- Vergara concluse la frase con voce rota dal pianto.

- Povero piccolo.- mormorò Angelo, distogliendo lo sguardo da quell’uomo tremante e sudato, e rivolgendolo di nuovo verso la donna.

“Che morte del cazzo che hai fatto, piccola. Ci sono un migliaio di modi schifosi per togliere la terra sotto i piedi a un qualsiasi figlio di puttana, più uno ogni secondo che passa; ma morire così, senza nemmeno un perché, li batte tutti.” Squadrò il cadavere da capo a piedi, riflettendo sul da farsi. L’avrebbe portato fuori città, e sepolta da qualche parte. Sì, l’aveva fatto un paio di altre volte, non avrebbe avuto problemi.

- Vinnie.- Vergara scattò sull’attenti - portami subito una borsa bella capiente, e degli asciugamani. Sporchi se ce li hai. Poi un martello, il più grosso che trovi in casa.-

Vergara impallidì all’ultima indicazione, e, deglutendo, domandò:

- A cosa serve il martello?-

- Per farcela stare nella borsa.-

 

Una volta in città c’era un uomo chiamato Victor Kane, ed era uno dei migliori killer a pagamento sul mercato. Quando doveva portare via un cadavere, usava sempre una borsa, una di quelle che si usano di solito per metterci dentro i vestiti per andare in palestra. Era un vero genio, capace di frantumare con un martello tutte le giunture del corpo, in modo da poterlo ripiegare su se stesso, e tutto questo senza far uscire una sola goccia di sangue. Poi bastava infilare il corpo nella borsa, ci mettevi un po’ di asciugamani sopra, e la lasciavi aperta, sul sedile dell’auto. Così se uno sbirro ti fermava e gli capitava sotto gli occhi, non ci faceva caso: a nessuno interessano degli asciugamani fradici di sudore. Angelo aveva imparato da lui. Sistemato il cadavere, dovevi solo trovare un luogo sicuro dove nasconderlo. E Angelo in quei casi aveva un posto di fiducia: un campo di grano, rimasto incolto ormai da anni. Apparteneva ad un vecchio, che non si era mai interessato agli affari del killer. Era un alcolizzato, che aveva perso la moglie e i figli in un frontale con un tir. Lui era miracolosamente sopravvissuto, ma non sembrava che gliene fregasse poi molto: dopo l’incidente aveva smesso di curare i suoi campi, licenziato tutti i suoi lavoranti e si era chiuso in casa insieme ad una cattiva bottiglia di whisky. In quel campo ci si sarebbe potuta disputare la finale del Superbowl, ci si sarebbe potuto tenere il concerto di Woodstock, a lui non sarebbe importato. In effetti se ne sarebbe sempre e comunque rimasto in casa, a bere. Insomma, quel campo era un vero paradiso per chiunque avesse voluto seppellire qualcosa, o qualcuno, senza essere visto; e la sua proprietà era abbastanza lontana da qualsiasi cosa perché la polizia potesse anche solo lontanamente sospettare quello che vi era sepolto sotto.

Quella sera Angelo scavò una buca molto profonda. Ogni volta che pesava di averla fatta abbastanza fonda, appoggiava a terra la pala e buttava un occhiata alla borsa: se l’era tenuta vicina per tutto il viaggio, sul posto vicino al suo, e conoscerne il contenuto era come se la rendesse ai suoi occhi un po’ più viva. Quando quel pensiero strano riaffiorava alla sua mente, Angelo riafferrava la pala e tornava a scavare, per aspettare un altro po’. Ancora qualche istante, prima di doverle celebrare quel funerale segreto.

 

Quando Angelo ritornò in città, stava albeggiando. Era stato molto veloce, e questa cosa lo faceva sentire un po’ meglio. Vergara gli aveva detto di tornare, una volta nascosto il corpo: era probabilmente preoccupato che non ci fossero stati problemi, che nessuno avesse scoperto che lui aveva strangolato una prostituta solo perché quella si era messa a ridere delle dimensioni del suo uccello.

Angelo parcheggiò poco lontano dalla casa di Vergara, e vi si diresse di buon passo, intenzionato a finire quella storia il prima possibile. Non sembrava esserci nessuno lì intorno, solo il vento che muoveva la polvere sui viali del parco. E invece, con la coda dell’occhio, Angelo scorse qualcuno seduto su di una panchina, a pochi metri dalla casa. Una ragazza, con una minigonna nera, e la faccia coperta da una pesante mano di mascara, e del rossetto dalla tinta accesa. In mezzo al trucco spuntavano due occhi spenti dalla stanchezza. Angelo l’avrebbe ignorata, l’avrebbe oltrepassata senza rivolgerle uno sguardo. Ma quando le fu vicino, lei si alzò:

- Mi scusi.- chiese a voce bassissima. Angelo si fermò, e le diede uno sguardo di sbieco. Era una ragazza giovane, piccola di statura. I suoi capelli neri le ricadevano spettinati lungo le spalle, gli occhi erano arrossati sotto il trucco.

- Una mia amica è entrata in quella casa, qualche ora fa. Mi aveva detto di aspettarla qua fuori ci… ci eravamo date appuntamento mezz’ora fa. Quindi, dato che mi sembra che anche lei stia andando la dentro… mi scusi, la sto solo disturbando magari. Ma mi sa dire qualcosa? Se l’ha vista.- La ragazza abbassò lo sguardo.

“Sì, lo so dove si trova. Ma questo non deve interessarti. Invece la sai una cosa davvero interessante? Lo sai a chi appartiene il mondo? Ai potenti. Sono loro a decidere per i poveracci come te e la tua amica. E la sai la cosa buffa? I potenti in verità sono dei deboli. Che cazzo di forza c’è nel pagare una ragazzina per una scopata, nell’ucciderla? Che potere? E c’è solo una differenza tra un potente e un poveraccio come te. E sono io. Sono io, che combatto guerre che non mi appartengono, e uccido nemici non miei. E fai meglio metterti il cuore in pace, perché così va il mondo, e nessuno sembra avere intenzione di cambiarlo. Perché la giustizia è una splendida parola, ma buona giusto per decorarci i distintivi degli sbirri. Il bianco è nero, il sopra è sotto. Tutto è sbagliato, ma a chi cazzo importa? Non certo a me. Io, da un mondo alla rovescia come questo ho solo da guadagnarci.”

- No, non saprei.- Rispose Angelo, assolutamente impassibile.

- Mi scusi.- rispose la ragazza, senza alzare più lo sguardo. Angelo se ne andò, senza guardarla più. Ma sapeva che gli occhi di lei, dal momento in cui le aveva dato le spalle, non gli si erano staccati di dosso. Arrivato ancora una volta alla porta, bussò. Vergara gli aprì, nello stesso identico stato in cui lo aveva lasciato. Ma vedere Angelo di ritorno, sembrò farlo star meglio.

- Ah. Angelo! Tutto bene?-

- A parte il cadavere della puttana che tu hai appena strangolato e che io ho appena seppellito, direi che sto discretamente. Dammi i soldi ora.- Dapprima lo sfogo dell’assassino lasciò Vergara ammutolito. Ma subito anche lui fu sollevato dall’idea che quella faccenda sarebbe finita nell’esatto momento in cui avrebbe pagato Angelo per il suo lavoro. Tirò il portafogli fuori di tasca:

- Qu… quanto?-

- Diecimila.- una somma semplicemente esagerata. Ma Angelo sapeva che Vergara avrebbe sborsato qualsiasi cifra, e lo fece. Aprì una piccola cassaforte nascosta dietro l’acquario che teneva in soggiorno, e tirò fuori alcune mazzette di biglietti da cento, e una busta di cartoncino gialla con dentro dei documenti. Infilò i soldi nella busta, e gliela porse con sopra una grossa chiazza di sudore.

- Grazie.- disse Angelo, ficcandosela in tasca. –Buonanotte.-

- Buonanotte. E… grazie. Sai… io non avevo mai ucciso nessuno, prima.- balbettò infine Vergara, guardando per terra.

- Benvenuto nel club, allora.- Angelo gli diede le spalle, e se ne andò. Sapeva cosa prova la gente qualunque dopo aver ucciso la prima volta: una voglia fottuta di parlarne con qualcuno, di dire tutto quello che hai provato, tutto quello che hai sentito attraversarti il cervello. È una scarica di adrenalina pazzesca, roba che se te la tieni dentro rischi di impazzire. Angelo non aveva provato un cazzo, la prima volta. E non glie ne fregava un cazzo di Vergara, che impazzisse, che si sparasse un colpo in testa. Non aveva voglia di parlare, non aveva voglia di parlare con nessuno.

Mentre tornava alla macchina, passò di nuovo accanto alla panchina. Lei era ancora lì, che lo guardava. Lui si fermò, e la fissò negli occhi. Prese di tasca i soldi, e glieli porse. Lei non capì. Angelo gli afferrò il braccio e glieli ficcò in mano di forza.

- Dimenticala. Dimentica tutto.- Disse poi, guardandola negli occhi. Erano umidi, dilatati.

Si ficcò le mani in tasca, e quindi si chiuse nell’auto il prima possibile, come se la portiera potesse isolarlo dal resto del mondo. Non sapeva il perché di quello che aveva appena fatto. Forse voleva semplicemente dimenticarsi di quella notte, voleva svegliarsi la mattina dopo come se tutto quello che era successo fosse stato soltanto un sogno. Non voleva nemmeno pensare a quello che aveva fatto quella notte: dormiva bene quando non pensava. Quando fu seduto al posto di guida, diede un’occhiata al retrovisore: la ragazza era ancora lì. E si capiva che stava piangendo.


 

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Capitolo 8
*** Spezzare la paralasi ***


Quando ho iniziato a pubblicare questa storia, mi ero ripromesso di pubblicarne un capitolo ogni venerdì. Però domani sarò via, e quindi, eccovi in anticipo un capitolo extra large, con perfino un piccolo omaggio in fondo. Ho iniziato a scrivere Angelo Strano al liceo, e crescere mi ha portato a correggerlo migliaia di volte. Per qualche strano motivo, questo capitolo è rimasto praticamente intonso. E per qualche strano motivo, è sempre stato uno dei miei preferiti.

Grazie mille a tutti voi lettori, siete tantissimi e vi adoro!

Dzoro

Spezzare la paralisi

 

Paul Brady si sedette sulla tavoletta del cesso, e tirò fuori il pacchetto di tasca. Le sue dita iniziarono a muoversi strisciando sulla superfice di cellophane, lisciando con i polpastrelli le pieghe che venivano a formarsi. Era un sacchettino più piccolo del palmo della sua mano, tenuto chiuso da un pezzo di scotch da imballaggio e ricoperto da uno spesso strato di polvere e sporcizia, che sembrava non volersene andare in nessun modo. Continuò a tenerlo tra le mani, e a tastarlo, fissandolo con sguardo perso. Passarono lunghi minuti, prima che avesse il coraggio di aprirlo. Dentro lo aspettava la solita sorpresa: quel mucchietto di cristalli biancastri, che sembravano guardarlo e chiedergli: “ma noi qui che ci facciamo”? Ed era fin troppo semplice rispondere che lì quella roba non doveva trovarsi. Non lì, non in casa sua. Ma quel sacchetto, e il suo contenuto, non sarebbero certo finiti in mano a Paul, se fosse stato lui a decidere. Eppure, almeno una volta al mese, Paul si sedeva sul cesso, e apriva uno di quei luridi involucri, con gli stessi movimenti, lo stesso disgusto, la stessa paura di venir scoperto. La gente la chiamava crack, cocaina trattata chimicamente fino ad assumere la forma di cristalli. E si chiamava così per la sua tendenza a scoppiettare, a fare “crack”, mentre lo si fuma. Una volta Paul se lo era immaginato, l’inventore del nome, con in mano una pipa piena di quella merda, e che rideva, rideva come uno scemo per il rumore buffo che faceva.

“Vaffanculo.” Brady chiuse gli occhi, scosse la testa: sempre identica a se stessa, quella situazione si era già perpetuata decine di volte, ed ancora una volta avrebbe avuto luogo.

Si alzò di scatto, aprì il water e vi rovesciò dentro tutti i cristalli, facendoli scivolare quasi uno alla volta dall’involucro. Quando sopra il cellophane non ne rimase più nemmeno uno, lo appallottolò e buttò anch’esso insieme al resto. Subito dopo tirò l’acqua.

 

Paul era figlio unico, i suoi genitori erano irlandesi di terza generazione, anche se, ciononostante, lui riusciva appena a sentirsi americano. Il padre, così come il nonno, era sempre stato un operaio oltre che un attivo sindacalista. Invece Paul se ne era sempre fregato della politica, e una volta diventato abbastanza grande per poterne parlare aveva sempre preferito tacere. E ciò succedeva ogni qual volta, a tavola, il signor Brady iniziava a parlare di lotta sociale, a inveire contro il suo datore di lavoro, a predicare un credo fatto di rivolta; era una fede che Paul non era mai riuscito a capire, ne forse aveva mai tentato di farlo: cercava di guardare il padre con uno sguardo intelligente, annuendo condiscendente ogni qual volta il signor Brady cercava conferma nel figlio con un “o no?” oppure un “Non pensi?”. Paul cercava di finire la sua zuppa più in fretta che poteva, ad andarsene via il prima possibile da quell’uomo a cui sapeva di dovere del rispetto, anche se niente di quello che faceva sembrava ai suoi occhi degno di guadagnarselo. Se per caso il padre gli domandava qualcosa nello specifico, Paul masticava lentamente il boccone che aveva ancora in bocca, poi rispondeva con un sì, oppure un “non so”. Il signor Brady in quelle occasioni mugugnava, lo guardava storto, poi se ne stava per un po’ in silenzio, come se avesse intuito che l’argomento non interessava, e non volesse più distribuire perle ai porci. Invece sua madre non parlava mai, sorrideva soltanto: cercava di essere serena, anche quando l’atmosfera diventava pesante come piombo.

Il signor Brady aveva sempre mal sopportato il menefreghismo del figlio, ma il culmine era stato quando Paul gli aveva parlato del suo desiderio di andare al college. Non che il signor Brady volesse obbligarlo a lavorare in fabbrica come lui, pensava semplicemente che il figlio lo avrebbe fatto.

Fu quella la prima volta che litigarono davvero. Paul se lo ricordava ancora, erano quasi venuti alle mani, e avevano urlato come dei pazzi, gridato l’uno contro l’altro fino a perdere il fiato, lasciando che fosse la rabbia a decidere per loro le parole da dire. Quando non ce l’aveva fatta più, aveva voltato le spalle al padre e se ne era andato, lasciando che gli insulti e le bestemmie del genitore si infrangessero contro la sua schiena. Prima di uscire di casa il suo sguardo si posò sulla madre, seduta su una sedia dietro la porta socchiusa della sua camera. Non sorrideva, quella volta. In mano aveva un rosario, e lo sgranava mormorando intanto chissà quale preghiera. Ma a Paul non interessava, non gliene fregava più niente di Dio, del diavolo e di quella topaia che una volta aveva considerato casa sua: uscì sbattendo la porta.

Però al college lui ci era andato, e aveva dovuto spaccarsi la schiena sotto decine di lavori per poterselo permettere. Il padre andò a trovarlo, tre settimane dopo la sua fuga da casa. Si scusò per aver litigato, e gli propose prima di far pace, poi di andare a lavorare con lui in fabbrica, almeno per pagarsi gli studi: il signor Brady lavorava laggiù da più di quaranta anni, gli avrebbe trovato un posto senza difficoltà, e Paul non era certo obbligato a rimanere lì tutta la vita, giusto il tempo necessario per pagare l’iscrizione e le tasse per il college. Ma il rifiuto di Paul giunse così secco da sembrare uno schiaffo: lui la conosceva bene la fottuta fabbrica, da piccolo andava a giocare in un campetto di basket distante appena due isolati da essa, e quella puttana sembrava fissarlo, e sorridere, divertita dalla certezza che un giorno avrebbe reso schiavo anche lui. Paul non voleva finire come il padre, per questo rifiutò. Brady senior, di tutta risposta, alzò le spalle rassegnato, e la sua rassegnazione era di quella che fa male: un padre che smette di dire al figlio ciò che deve fare, è un uomo che scopre all’improvviso di non avere mai avuto un figlio.

Quella fu l’ultima volta che Paul lo vide, prima di gettargli addosso una manciata di terra e un mazzo di fiori. Quando la tomba fu sepolta del tutto, ebbe l’impressione di avergli dovuto sempre dire qualcosa, ma non sapeva davvero cosa. E ormai, non poteva più farlo.

Dopo l’università fu l’età della grande disillusione: Paul vide i suoi sogni svanire uno ad uno davanti agli occhi, mentre la società li calpestava e ci cagava sopra. Cinque anni di giurisprudenza non bastarono per fargli passare il concorso per diventare avvocato. E la cosa peggiore era che ogni volta che riprovava a rifarlo, finiva per sentirsi ancora più inadeguato. Desistette dopo il terzo tentativo.

Paul aveva ventisei anni, e lavorava come ragioniere per una società che produceva ricambi per automobili. Era oltretutto tornato a vivere in casa con sua madre; aveva maturato quella decisione dopo una lunga riflessione, ma essenzialmente se ne era andato via dal suo appartamento (l’unico in città che riuscisse a permettersi con il suo misero stipendio) dopo la terza volta che un topo era uscito dal cesso. La volta che ci era seduto sopra.

La mamma cercava di sorridere ancora, ma la morte del marito aveva inciso sul suo volto una tristezza che era impossibile da cancellare, e che traspariva da ogni suo sorriso.

Le cose andavano da schifo, certo, ma non era questo a far star male Paul, quanto il fatto che da ormai quasi un anno le cose erano iniziate ad andare, se possibile, peggio. E il suo problema non era uno di quelli facili da risolvere. Era quel tipo di problema che ha un volto, due gambe, due braccia e un coltello a serramanico infilato in tasca. Il suo problema aveva un nome: Scott.

 

Scott era figlio di irlandesi, così come lo era lui. Suo padre aveva lavorato nella stessa fabbrica del padre di Paul, ma ne era stato licenziato da quando non aveva iniziato a non presentarsi più al lavoro, o a presentarsi solo dopo aver lasciato una o due bottiglie di Paddy vuote sul tavolo della cucina. Morì appena due mesi dopo il licenziamento, e nessuno se ne stupì, con la poltiglia che si ritrovava al posto del fegato. Scott crebbe senza un soldo, se non quelli che la madre, che si era ritrovata una gamba spezzata in tre parti in seguito ad un incidente sul lavoro, riceveva di tanto in tanto da alcuni parenti in Europa. Il ragazzo divenne cattivo, tirò avanti fino ai quindici anni taccheggiando nei minimarket ed estorcendo soldi a tutti quelli che considerava più deboli di lui, ma soprattutto picchiando gli appartenenti a quest’ultima categoria. La violenza sembrava addirittura piacergli: un paio di volte aveva anche preso a calci dei barboni abbastanza ubriachi da non poter reagire, e quando nel quartiere vennero trovati alcuni gatti e cani morti, nessuno dubitò di chi fosse opera. Ma la maggior parte delle volte erano suoi coetanei ad essere vittima dei suoi pestaggi, e Paul era stato tra questi più di una volta. Scott era davvero uno stronzetto furbo, lo picchiava solo in pancia, così non lasciava lividi; lo faceva quando aveva bisogno di soldi e Paul non ne aveva, quando semplicemente gli girava, e poi tutte le volte che gli capitava di bere dell’alcool o di sniffare metanfetamine. Paul aveva perso il conto di tutte le volte che si era ritrovato a terra, con la pancia che gli faceva male, e il respiro che sembrava non voler tornare più, tanto che aveva sempre paura di morire soffocato.

Quando a quindici anni Scott finì in riformatorio, c’era gente che avrebbe dato una festa. Alcune sere prima che la polizia venisse a prenderlo, Paul stava tornando a casa da scuola. E mentre camminava, sentì una voce, come il grido spaventato di una ragazzina. Ma quel suono si spense all’improvviso, come se, nel caso si fosse davvero trattato di una ragazza, qualcuno le avesse tappato la bocca con uno straccio. Veniva da un vicolo, e in fondo ad esso c’era Scott, insieme con gli altri ragazzi con cui era solito spadroneggiare nei dintorni. Paul si chiese subito cosa stessero facendo, ma non passò nemmeno un secondo e si accorse di non volerlo davvero sapere. Corse via, corse fino a casa, e passò il resto della giornata senza dire una parola. Quel grido continuava a risuonargli in testa, come una condanna.

Gli anni passarono. Scott ritornò nel quartiere, circa sei anni dopo, però Paul lo poté incontrare di nuovo solo una volta finito il college. Non sembrava essere cambiato, ma se era cambiato era sicuramente stato in peggio. Sembrava essersi calmato in un certo senso, Paul non l’aveva visto picchiare più nessuno, ma in compenso aveva iniziato a spacciare crack e LSD. Ma Paul non intendeva più avere a che far con lui: bastava non guardarlo negli occhi quando camminavi per strada, e accelerare il passo se per caso lo incontravi la sera mentre stava spacciando la sua roba. Certo, era rimasto uno stronzo di prima categoria, ma Scott non aveva mai avuto problemi nel trovarsi una ragazza con cui passare un mese, una giornata o soltanto una notte. Paul invece era sovrappeso, col labbro leporino e ogni volta che una donna gli rivolgeva la parola iniziava a balbettare come un idiota. E quando vedeva Scott, il disprezzo che provava per lui era sempre mischiato ad una involontaria ammirazione, se non addirittura invidia.

Nonostante tutto, la sua vita era trascorsa serenamente, fino a che non arrivò quella mattina di novembre, un anno prima. Paul stava aspettando l’autobus che prendeva ogni giorno per andare in ufficio, ed era seduto sulla panchina della fermata. Aveva sonno quella mattina, si guardava le scarpe tentando di tenere le palpebre aperte. Se quella mattina, nei pochi minuti che mancavano all’arrivo dell’autobus, avesse continuato a guardare per terra, forse la sua vita sarebbe continuata serenamente. E invece, accorgendosi che qualcuno gli si era seduto accanto, alzò lo sguardo su di lui. E Scott si accorse subito di essere guardato: gli occhi dei due si incontrarono. Scott gli rivolse la parola, sorridendo:

- Ciao Paul.- Si ricordava il suo nome. E non se lo sarebbe più scordato. Iniziò quindi, con tono amichevole, a chiedergli come andava, cosa faceva nella vita. Paul rispondeva con ottuso imbarazzo a tutte le domande, anche se sapeva che a Scott non doveva fregargliene proprio un cazzo di lui e della sua miserabile esistenza. Fu in quell’occasione che Scott gli diede il primo pacchetto di Crack. Gli disse che lo avrebbe tirato su, che era fenomenale. Paul non ebbe il coraggio di rifiutare. Lo pagò “un prezzo di favore” (Scott continuava a ripeterlo) e arrivato a casa lo verso dritto dentro alla pattumiera. Mentre lo faceva, continuava a ripetersi che era un uomo onesto, pulito, che non avrebbe mai fumato quella roba, ma forse non ne aveva semplicemente il coraggio.

Pensava che la faccenda sarebbe finita lì, pensava che Scott si sarebbe dimenticato di lui il giorno dopo. E invece, era da un anno che il figlio di puttana lo obbligava a comprare la sua merda. Una volta aveva provato a rifiutare, e lui subito aveva cessato di fingersi gentile. Non lo aveva preso a botte però, Scott non era più il bullo di quartiere di un tempo.

- Se vuoi puoi non comprarlo. E forse fai bene. Sai, non so come la prenderebbe tua mamma se scoprisse che il figlio si droga. A proposito, come sta? Bene spero. Già, sarebbe davvero un duro colpo per lei se qualcuno gli dicesse che suo figlio è un drogato.-

Anche quella volta Paul finì per comprare la droga. Scott aveva ragione, se la madre fosse venuta a conoscenza di quella faccenda, chi glielo spiegava che lui comprava la roba solo per scaricarla nel cesso? E purtroppo, il modo più sicuro perché ne venisse a conoscenza, non era di continuare a prenderla, ma di smettere, e lasciare che Scott glielo dicesse.

Da quella volta Scott finì definitivamente di essere gentile: non lo chiamò più nemmeno per nome, preferì invece ribattezzarlo in decine di modi diversi (tra i quali i suoi preferiti erano cazzone e mangiamerda).

Paul non poteva nemmeno avvertire la polizia, Scott stesso gliene aveva spiegato il perché la volta che aveva minacciato di farlo:

- Oh, tu chiami la polizia? Bene, e sai io che cosa gli dico? Che io non ti ho mai obbligato a comprarla, e che tu mi hai denunciato solo perché non avevi abbastanza soldi per comprarla e volevi vendicarti di me. Insomma, io finisco nella merda, e tu pure. Io in prigione ci sono stato già, ma tu? Quel tuo bel culetto da scolaretta diventerebbe subito il preferito di tutti i cuori solitari del tuo blocco.-

Paul aveva studiato per diventare avvocato, capiva che tutte quelle minacce erano più fumo che altro. Eppure una paura irrazionale, la paura per tutte le imprevedibili conseguenze che un suo gesto di coraggio poteva causare, gli impediva di prendere qualsiasi iniziativa, e lo inchiodava irrimediabilmente in quella situazione. Ma le cose sarebbero cambiate, e lui sapeva anche come sarebbero cambiate. Perché sarebbe stato lui, a cambiarle.

 

Paul osservò i cristalli di Crack scomparire nello scarico. Sentì qualcosa che gli stringeva il cuore, come se dovesse scoppiare a piangere da un momento all’altro. Strinse i denti, e cercò di non farci caso. Non era davvero il caso di piangere, perché quella sera stessa di Scott sarebbe rimasto solo il ricordo. In casa di Paul c’era uno stanzino, che la madre aveva sempre tenuto chiuso a chiave. Paul, da piccolo si era sempre chiesto che cosa contenesse, e ora lo aveva scoperto. Foto ingiallite solcate da graffi e pieghe, vestiti impolverati e pieni di buchi, scope rotte. Una scatola. Un revolver, e tredici cartucce. Tutto quello di cui aveva bisogno. Probabilmente la pistola era appartenuta al padre, anche se il vecchio non gliene aveva mai parlato. Il metallo era opaco, l’impugnatura consumata, il tamburo strideva mentre girava. Ma l’arma funzionava ancora. Paul lo sapeva, perché l’aveva provata: un giorno, dopo aver avvolto la pistola in un fazzoletto, e averla messa nella tasca della giacca, aveva preso un pullman che lo aveva condotto senza problemi fino fuori dalla città. Poi era sceso, ed era proseguito a piedi fino a sotto un viadotto della ferrovia. Aveva cercato a lungo qualcosa che potesse servire da bersaglio, e aveva scelto dopo lunghi interrogativi una lattina vuota. L’aveva appoggiata su di uno scatolone, e poi aveva caricato un colpo nel tamburo. Poi Paul aveva aspettato, fino a quando non era passato un treno. Solo allora aveva preso la mira, e aveva premuto il grilletto. Mentre lo faceva, un moto di paura gli aveva fatto chiudere gli occhi. Riuscì a riaprirli solo quando il treno era passato: la lattina era ancora intera. Ma dietro di essa, su una delle colonne che sostenevano il viadotto, spiccava un foro fumante, come uno splendido fiore nero in un prato di cemento armato. Paul lo aveva ammirato per lunghi minuti, come se fosse ipnotizzato, inebriato dal potere che aveva appena scoperto di possedere. Poi era scoppiato a ridere, a ridere fino alle lacrime.

 

Aveva calcolato tutto. Sarebbe entrato in casa di Scott, con la scusa di voler comprare della roba. Forse lo spacciatore sarebbe stato insieme a qualche amico, ma Paul non se ne preoccupava: gli aveva sempre visti armati di coltelli, ma non avevano pistole. In fondo erano solo quattro ragazzi che si atteggiavano da gangster, niente di più, niente di cui doveva preoccuparsi. E quando se lo sarebbe trovato davanti gli avrebbe detto:“Non voglio la tua droga. Voglio il tuo sangue, stronzo!”

Aveva pensato a lungo alla frase che avrebbe detto una volta entrato, e ne aveva formulate un’infinità prima di decidere, ma era quest’ultima ad essere la migliore a suo avviso: sobria, aggressiva, drammatica. Continuava a ripeterla tra se e se, per evitare di dimenticarsela, di dirla sbagliata una volta si fosse trovato davanti al suo nemico. Una volta ucciso Scott, e chiunque si fosse trovato nella stanza, sarebbe scappato. Poi avrebbe buttato la pistola alla discarica per auto di Lassater. Era stato anche li, e aveva visto in funzione il compressore per le carcasse delle auto: lì nessuno l’avrebbe potuta ritrovare, e lui sarebbe stato libero di vivere la sua vita. Provava addirittura una strana euforia, come se una volta ucciso Scott, anche lui sarebbe diventato una persona completa, un avvocato affermato, con una fidanzata e il rispetto di tutte le persone che lo avevano sempre trattato come uno straccio per pavimenti. Come se ucciderlo fosse un rito di passaggio, come quello di una popolazione primitiva.

Uscì di casa verso le dieci di sera, dicendo alla madre che aveva bisogno di una boccata d’aria.

La pistola si trovava nella tasca della sua giacca, e lui la stringeva come se fosse la mano del suo amico più caro, che lo stava conducendo verso un mondo migliore. Camminava per strada come un sonnambulo, come un ubriaco, e la consapevolezza che entro breve avrebbe ucciso, sembrava avvolgere tutto di un alone di follia. Lui sapeva ciò che stava per fare, era il non averlo mai fatto a renderlo totalmente irreale. Ma doveva succedere. Doveva farlo. Per se stesso, per dimostrare di non essere un perdente, per far vedere che anche un uomo che ha sempre vissuto come un codardo può cambiare.

“Non voglio la tua droga. Voglio il tuo sangue, stronzo!” Proprio così, gliel’avrebbe detto dritto in faccia, a quel figlio di puttana. Gliel’avrebbe fatta vedere, l’avrebbe fatta vedere a lui e tutti quei bastardi dei suoi amici, gli avrebbe fatto saltare in aria la testa e poi avrebbe pisciato sul loro cadavere.

Paul si fermò improvvisamente. Era davanti alla casa di Scott. Gli sembrava di averci messo solo pochi minuti, o forse un eternità per arrivarci. Sembrava che improvvisamente anche il tempo fosse impazzito. Ma lui non doveva pensarci, non doveva pensare a niente oltre che alla frase che doveva dire, e a premere il grilletto al momento giusto. Avvicinò la mano al campanello, ma prima di avere il tempo per appoggiare il dito su di esso, un dubbio lo attraversò: la pistola era carica? Si guardò attorno, per cercare un posto in cui potersi appartare per controllarla. Lo trovò in un angolo tra un cassonetto dell’immondizia ed il muro di un edificio, all’apparenza abbandonato. La pistola era carica, si ricordò solo in quel momento di averla già controllata a casa almeno un centinaio di volte. Era tutto a posto: ora doveva andare. Nel giro di un paio di secondi, era di nuovo davanti alla porta, e questa volta il campanello venne suonato. Nel momento esatto in cui iniziò a trillare, Paul sentì i battiti del cuore accelerare all’impazzata. Si accorse che il suo respiro stava divenendo affannoso. Cercò di calmarsi, ripetendo tra se la frase come una preghiera:

“Non voglio la tua droga. Voglio il tuo sangue, stronzo!”

La porta si aprì, e nello stesso istante il cuore di Paul cessò per un lunghissimo attimo di battere. Qualcuno si affacciò sull’uscio:

- Ah, Paul. Che ci fai qui, eh?- era Sharky, uno degli amici di Scott. Aveva addosso solo dei jeans, il che faceva vedere per intero un grosso tatuaggio di un drago che aveva sul torso. Paul, timoroso, abbassò lo sguardo, e si ritrovò a guardare dritto negli occhi del tatuaggio. Rimase così, muto, per qualche secondo, abbastanza per far perdere la pazienza a Sharky:

- Ehi, che cazzo hai da guardare, coglione? Parla!- gli urlò contro Sharky.

- Vorrei… vorrei comprare del crack da Scott. Posso comprarlo?- balbettò Paul, trasalendo. Gli sembrò che il drago disegnato lo stesse guardando con sufficienza. Sharky lo afferrò per il bavero della giacca, e gli sibilò contro:

- Parla piano, testa di cazzo! Se lo vuoi far sapere a tutti chi è che ti vende la roba, perché non metti direttamente un fottuto annuncio sul giornale? Ora tieniti tappata quella cazzo di bocca, e aspetta: vado a chiedere a Scott.- Sharky, sibilate queste parole, sbatté la porta.

“Bene, ora chiama Scott, mi fa entrare, dico quello che penso di lui, poi gli sparo. Andrà così, deve andare così.” Paul ripeteva ossessivamente quelle parole tra se, ma sembrava che il suo battito cardiaco non accennasse a calmarsi. La porta si riaprì qualche minuto dopo. Era ancora Sharky, e aveva qualcosa in mano:

- Tieni, perdente. Sono cinquanta dollari.- detto ciò, Sharky gli gettò addosso un pacchetto di droga. Paul lo afferrò senza quasi pensarci, e subito l’idea che stava andando tutto a monte lo gettò nel panico. Rimase immobile e silenzioso a guardare il pacchetto, senza sapere che fare.

- E ora che cazzo c’è? Fuori i soldi, stronzo.- gli tuonò contro Sharky.

- Io… io…- Paul non sapeva cosa rispondere. - Io devo… beh…. ecco.-

- Ma mi dici che succede? Senti, ritardato di merda, te l’ho dato quello che volevi, no? Dammi i soldi e sparisci, prima che inizi a prendere seriamente in considerazione l’idea di romperti il culo.-

- Io devo parlare con Scott. Prima… devo parlargli.- Paul riuscì a pronunciare la frase quasi senza balbettare. Sharky iniziò a guardarlo incuriosito, come si guarda una scimmia allo zoo. Paul sentì il sudore divenirgli freddo:

“Oddio, forse sospetta qualcosa. Forse faccio meglio a chiedere scusa, pagare, poi andare a casa. Non voglio morire, non devo farmi ammazzare. Chi penserà alla mamma dopo? Ora mi scuso, pago la droga e…

- Ah, potevi dirlo prima. Entra, coglione.- Sharky lo afferrò per la giacca, e lo trascinò dentro. Nel giro di pochi secondi, lo portò davanti a Scott. Si trovavano nella sua cucina, un locale sudicio con in mezzo un tavolo ricoperto da una tovaglia di plastica a scacchi, confezioni di cibo d’asporto gocciolanti unto, e una decina di lattine di birra vuote. Scott sedeva di traverso su di una sedia, contando delle banconote, e dividendole a seconda del taglio. Appena Sharky e Paul furono entrati, Sharky sbatté la porta dalla qual erano appena passati, facendo trasalire Paul, e attirando l’attenzione di Scott. Egli alzò lentamente la testa dal suo lavoro, e fissò Paul con aria di sufficienza.

- Ehi, si può sapere che cazzo succede ora? Che ci fa questo pisciasotto in casa mia?-

Nella stanza c’era anche un altro degli amici di Scott, ma Paul non si ricordava il suo nome. Sedeva in un angolo, con la schiena appoggiata ad un frigorifero, e con una bottiglia vuota di Bacardi ai suoi piedi. Quando Paul era entrato là dentro, stava ridacchiando sommessamente, ma quando Scott fece quell’ultima domanda, scoppiò in una risata fragorosa. Paul riusciva quasi a sentire il fetore di alcol e cibo thailandese che usciva dalla sua bocca.

- Voleva parlarti, Scott.- fece Sharky – Avanti, sfigato, di quello che hai da dire e levati dai coglioni. Avanti!- Sharky mollò una violenta sberla sulla testa di Paul, suscitando una nuova risata nell’ubriaco a terra. Però Paul quasi non se ne accorse, stava pensando ad altro:

“Non voglio la tua droga. Voglio il tuo sangue, stronzo!” la ripeté un’infinità di volte nella sua testa, restando però, nella realtà, completamente in silenzio.

- Beh? Che succede, sei fatto? Cazzo, non ho tempo da perdere io. Parla, figlio di troia!- Scott urlò le ultime parole, tanto che Paul sussultò di nuovo. Era il momento. Lì dentro c’erano solo loro quattro, sarebbe stato ancora più facile del previsto. Deglutì, quindi mormorò:

- S…Scott…- “Non voglio la tua droga. Voglio il tuo sangue, stronzo!”

- Si? Ma cosa vuoi? Sharky te l’ha dato il Crack, no?-

- N… non voglio la tua. droga.- riuscì in fine a dire Paul. La sua voce usciva flebile e tremula, come la fiamma di un accendino scarico.

- Non vuoi la mia..? Ma allora che cazzo vuoi? Vuoi farmi una sega? Vuoi baciarmi il cazzo? Avanti faccia di merda. Dimmi che cazzo vuoi!- le urla di Scott fecero scoppiare l’ubriaco nell’ennesima, fragorosa risata. Paul estrasse la pistola in quel momento. Subito il silenzio calò nella stanza, perfino l’ubriaco, appena i sensi diluiti dall’alcool glielo permisero, smise di ridere. Sharky indietreggiò, inciampando e rovinando a terra. Scott sembrò sbiancare: i soldi che teneva in mano gli scivolarono tra le dita, cadendo sul tavolo. Paul prese la mira, puntò al cuore. Era il momento.

- Paul? Non…- Scott fece in tempo solo a pronunciare quelle parole. Poi il grilletto venne premuto. A Paul sembrò come bere da una lattina di birra e trovarci dentro del piscio: l’unica cosa che uscì dalla canna del revolver fu un sordo suono metallico. Si era inceppato. Un tremito incontrollabile iniziò a propagarsi per il corpo di Paul: la pistola gli scivolò di mano, e le gambe, all’improvviso, non riuscirono più a reggerlo. Cadde per terra in ginocchio. E poi vide la faccia di Scott: era il volto di chi ha temuto per un attimo di aver perso tutto il suo potere, e che subito scopre invece di essere più potente che mai. Iniziò a sorridere. L’ubriaco invece scoppiò a sghignazzare sguaiatamente, più forte che mai, perfino Sharky sembrò dover scoppiare a ridere da un momento all’altro. Invece Paul si accorse di star piangendo. Imprecò mille volte contro se stesso, senza riuscire a credere che stesse succedendo davvero. Ma non doveva piangere. Doveva tentare di spiegare. Doveva dire qualcosa. Aprì la bocca:

- Io…-

La porta che dava sul corridoio, la stessa che Sharky aveva sbattuto qualche minuto prima, venne sfondata in quello stesso momento. Dietro c’era un uomo, con un passamontagna in testa, e una semiautomatica silenziata in mano. Il primo proiettile ad uscire dalla canna finì dritto in mezzo alla pancia di Scott, che cadde a terra urlando come un maiale. Fu Sharky il secondo: due colpi gli si conficcarono all’altezza del petto, e un ultimo in mezzo alla fronte. Si accasciò a terra, mentre dal foro sulla testa usciva uno spruzzo di sangue grumoso. Scott era a terra, e mugolava, come se volesse ancora urlare ma non ne avesse più la forza. Angelo abbassò la pistola, e tirò fuori di tasca un rotolo di scotch grigio: Si chinò su Scott, gli legò gli arti e gli chiuse la bocca. Lui non riuscì quasi ad opporre resistenza: aveva una costola spezzata, ogni movimento la faceva muovere tra le sue viscere come un coltello. Paul fissò tutto come se fosse un film, incapace di credere che stesse succedendo davvero. Angelo sollevò Scott di peso, e lo sbatté sul tavolo. Si guardò attorno.

- Mmm. qui sembra che abbia finito. Tu non lavori con Scott, vero? No, decisamente no: non ti ho mai visto, e poi non hai la faccia. Che ci facevi qui, compravi la tua dose?- domandò quindi a Paul. Lui non rispose, non ci riusciva.

- Per favore non uccidermi. Per favore…- iniziò a mormorare l’ubriaco, ancora a terra: era così bruciato che non riusciva a muoversi. Alla fine Paul riuscì a comporre qualche parola:

- Volevo… grazie… io stavo… volevo…- Angelo notò il revolver a terra. Lo raccolse, e prese ad esaminarlo:

- Mmmm. bel pezzo, non vedevo una Vaquero da anni. Però è un po’ vecchia, il cane è tutto consumato. Non mi stupisco che non sia riuscita a sparare. Fattelo cambiare se puoi, anche se non so se la Luger fornisca ancora i pezzi di ricambio. Beh, pazienza.-

- Per favore… non uccidermi… per….- un proiettile si pianto nella tempia dell’ubriaco, dipingendo con il suo cervello il muro dietro di lui. Paul emise un grido strozzato di spavento. Angelo rinfoderò definitivamente la sua arma, e si mise un dito davanti alle labbra, per dirgli di stare zitto. Quindi gli ridiede la pistola:

- Attento la prossima volta, se devi uccidere qualcuno chiama un professionista, piuttosto. Buona notte.- Angelo prese Scott, ormai svenuto, per una gamba, e lo trascinò fuori dalla stanza, lasciando Paul da solo. Questi non gli staccò per un attimo gli occhi di dosso, fino a quando non fu del tutto sparito dalla vista. Poi iniziò a guardarsi intorno. Il suo sguardo si fermò sul cadavere di Sharky: i suoi occhi erano diventati completamente bianchi. La fronte, in mezzo alla quale spiccava il foro del proiettile, si era colorita tutta di un rosso scuro, e grondava di un sottile, denso rivolo di sangue. Improvvisamente, Paul sentì il bisogno di vomitare.


Secondo intermezzo

 

- Com’è il caffè?- chiese Cab, sedendosi al tavolo di Angelo.

- Il migliore che beva da anni, sapere che lo hai fatto te è perfino inquietante. Che succede?-

- Il grossista deve promuovere questa nuova qualità, e mi ha fatto un bello sconto! Però non abituartici, da settimana prossima si torna alla normalità.-

- È stato bello finché è durato. L’ho pure già finito.-

- Dai, te ne porto dell’altro se ti piace tanto. Vuoi mangiarci qualcosa assieme?- Cab si diresse verso il bancone, per prendere la caraffa con dentro il caffé. Angelo intanto rispose:

- Non so, solo se anche il fornitore di ciambelle aveva uno nuova marca da proporre, altrimenti solo caffé.-

- Sei proprio un viziatello del cazzo, eh? Aspetta qui.-

Era un tranquillo giovedì mattina, e come al solito il locale era deserto. In effetti Cab non preparava molto caffé, una caraffa appena, e di solito lo serviva solo ad Angelo. Certo non si trattava di un cliente che dava molta soddisfazione, ma almeno era fedele, e Cab se lo vedeva arrivare quasi ogni mattina.

Una volta tornato al tavolo di Angelo, trovò l’amico intento a leggere un giornale, come faceva di solito.

- Succede niente di interessante, in città?-

- Niente di particolare, è morta Elena Ivchenkova, hai presente?-

- Mai sentita. È per caso imparentata con Boris Ivchenkov?-

- Si, in effetti era sua figlia. La piccola Elena, saranno due giorni fa, se la stava spassando con degli amici, probabilmente un rave. Verso le tre di mattina raggiunge la casa di un certo Ivan Daineko, e passa la notte li. La mattina dopo, sul tardi, si sveglia, si fa una doccia, quindi esce di casa senza salutare. Si dirige verso una tavola calda: è mezzogiorno, lei deve aver fame, quindi decide di pranzare. Ordina una bistecca, dell’insalata e una lattina di pepsi light. Morirà dieci minuti dopo.-

- Dicono tutto questo sul giornale?-

- No, lo dico io.-

- E perché lo dici a me?-

- Beh, perché è una storia interessante, e tu con le storie interessanti ci vai a nozze, poi ci sarebbe anche una certa questione che vorrei sottoporti, ma andiamo con ordine. Insomma, verso le sette di sera avviene la sua autopsia, e quindi viene decretata la causa della sua morte: intossicazione chimica. Il veleno che l’ha uccisa è un solvente, uno di quelli che possono finire dentro della cocaina tagliata male, o, ancora più facilmente, nel crack.-

- Quindi Elena aveva fumato del crack. Ce ne ha messo di tempo quel veleno prima di fare effetto.-

- È proprio questo il punto! Insomma, tu mi conosci, di veleni ne so qualcosa.-

- Beh, suppongo si possa dire così. Quindi?-

- Quindi, mi sembra strano che una sostanza velenosa finita per caso, e non per intenzione, nel crack di Elena, possa provocarne la morte a distanza di quasi dieci ore. Era più facile che accusasse dei dolori subito dopo averlo fumato, o che morisse durante il sonno. Ora, supponiamo per caso che nella sua dose di crack sia finito del solvente, che da solo è del tutto innocuo, ma che se unito ad una determinata sostanza provoca la morte istantanea.-

- Cazzo, mi sembra la trama di un fottuto giallo. E di che sostanza stai parlando?- Cab, man mano che si proseguiva nel discorso, era sempre più curioso di sapere dove Angelo sarebbe andato a finire. Lui, dal canto suo, rimase in silenzio a giocherellare con la tazza del caffé. Poi disse:

- Una sostanza contenuta nella bibita che ha bevuto. Facile, no?-

- Quindi qualcuno aveva avvelenato la bibita?-

- Cosa? No, no, hai capito male! Intendevo una sostanza contenuta in tutte le lattine di quella bibita.-

Cab fissò Angelo aggrottando le sopracciglia, accorgendosi che quello che aveva appena capito era esattamente quello che l’amico aveva voluto dirgli.

- Un attimo, aspetta un secondo: vuoi dirmi che puoi morire bevendo una pepsi?-

- Solo se prima hai fumato del crack.-

- Ma fammi quel cazzo di piacere! Ecco, lo sapevo, io sto ad ascoltarti e tu spari solo cazzate! Bah!- Cab si allontanò stizzito dall’amico, brontolando qualcosa. Angelo lo guardò con una faccia divertita. Poi tornò a bere il suo caffé:

- Beh, poteva essere un’idea.-

- Ma sta zitto! Comunque non vorrei essere nei panni dello spacciatore che ha dato del crack tagliato male all’unica figlia di un boss della mafia russa.- disse intanto Cab, mentre attaccava un nuovo fusto di birra alla spina.

- Su questo hai ragione: non vorresti esserlo.- disse Angelo.


 

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Capitolo 9
*** In Taxi ***


Non tutti i capitoli di Angelo Strano mi soddisfano del tutto. Questo, per esempio, è un po’ troppo sopra le righe. Però mi fa ridere, e ci sono troppe persone che ancora ignorano la vera storia di Elvis. Grazie a tutti voi che leggete!

Dzoro

 

In Taxi

 

Il luogo stabilito per l’incontro era una lavanderia a gettoni, ai piedi di un condominio di venti piani, abitato prevalentemente da single. Il committente aspettava Angelo seduto vicino all’unica lavatrice accesa, mentre leggeva il giornale. Era un uomo di mezza età, vestito con una polo sbiadita, e con cappello da pescatore che, in una giornata nuvolosa come quella, doveva avere il solo scopo di nascondere una calvizie incipiente. I suoi occhi erano nascosti dalle lenti giallastre di due brutti occhiali da sole, fuori luogo almeno quanto il cappello. Non lo guardò nemmeno negli occhi, quando entrò.

- Buongiorno.-

- Buongiorno.- gli rispose Angelo, avvicinandosi, accennando un saluto con una mano.

L’uomo estrasse di tasca una busta marrone, e gliela pose senza dire una parola. E senza dire una parola, Angelo la aprì e prese ad esaminarne il contenuto. Foto, un uomo asiatico dalla pelle olivastra e gli occhi sottili, sulla trentina, vestito con un impeccabile completo. Era un ingrandimento di quella che sembrava una foto di gruppo, consunta e dai colori sbiaditi, ma Angelo era un buon fisionomista: avrebbe di certo riconosciuto l’uomo, una volta trovatoselo davanti.

- Chi è questo cinese?- chiese al committente.

- Giapponese. Si chiama Kensuke Takeguchi. È il figlio di Hiroito Takeguchi, un pezzo grosso della yakuza da queste parti.-

- Ah, Takeguchi-san. Non sapevo avesse un figlio.-

- Kensuke è sempre vissuto in Giappone, è arrivato ieri mattina in città. Viaggio di piacere si dice, il che non è poi troppo improbabile, ma nemmeno rilevante per quello che ci interessa. In effetti non ha fatto niente che gli faccia meritare quello che gli deve succedere, ma…-

- Ehi, frena un attimo. Lo stavi per fare!- Angelo esclamò questa frase, apparentemente senza senso, all’improvviso, interrompendo bruscamente il discorso dell’uomo. Questi, si bloccò, si tolse gli occhiali, e chiese con tutta calma:

- Che cosa stavo per fare?-

- Stavi per dirmi il perché devo fare questo lavoro, e a me quel genere di cose non mi interessa. Se devo lavorare lo voglio fare con la testa libera, niente scrupoli o cazzate simili. Non voglio sapere se il povero stronzo deve fare la fine che devo fargli fare per aver violentato due bambine piuttosto che per aver pisciato fuori dalla tazza del cesso, per me deve essere sempre la stessa, identica, fottutissima cosa. Ora, sai dirmi dove lo posso trovare, oppure devo fare da me?- La valanga di parole che era appena uscita dalla bocca dell’assassino lasciò il committente nel più completo mutismo. Ma subito questi strinse gli occhi, e sbuffò stizzito.

- Ottimo allora. Domani notte, all’una ci sarà tutta la banda di Takeguchi all’Easy ride, un locale sulla statale 48.- allungò una carta stradale con un segno rosso tracciato nel mezzo, che ovviamente indicava il luogo in cui doveva avvenire il lavoro

- Ci sarà anche suo figlio. Ci sarebbero momenti più tranquilli per concludere l’incarico, ma la banda si trova lì per concludere un’importante trattativa con i coreani. Un morto è l’ideale per mandare tutto a monte, e davanti agli occhi di Takeguchi senior, per giunta.-

- Semplice. In questo posto all’una.- Non era difficile.- In quanti saranno?-

- Venti, in linea di massima.- No, era difficile. - Altre domande?-

Angelo prese a ragionare, organizzò le idee su come avrebbe potuto finire il lavoro nel modo più sicuro.

- Solo Kensuke, oppure anche gli altri possono…- non concluse la frase, ma il verbo morire non ha bisogno di essere pronunciato in alcuni discorsi. Il committente aggrotò un sopracciglio.

- Io non volevo dirlo, ma se un morto può rovinare la trattativa, dieci morti possono fare, come dire, un bel casino. Faccia un po’ come più la aggrada, ma tenga a mente questa piccola, insignificante costrizione: Takeguchi senior deve vivere. E vedergli il figlio morirgli davanti agli occhi.-

- Capisco.- Fece Angelo.

 

La sera dopo, alle undici e trenta precise, Angelo stava entrando in un taxi.

- Dove si va?- gli chiese il taxista. Era un uomo che doveva aver superato ormai da parecchio la trentina, se non addirittura raggiunto la quarantina. Una folta chioma di capelli lanosi di una tonalità tendente al grigio, confusi con una altrettanto lunga barba, gli ricadevano sulle spalle e sul petto, coperti da una camicia dai colori sgargianti.

- Imbocca la 48, ti dico io quando fermarti.- rispose pacatamente Angelo, distendendosi sul sedile di dietro, dopo avervi buttato sopra una borsa, che cadendo emise un cupo tintinnio.

- Subito, ma ti costerà un po’. È lunghetta da qua fino alla statale.- rispose il Taxista, mentre ingranava la prima, facendo partire la macchina con una leggera sgommata.

- Non mi mancano i soldi per pagarti, e nemmeno il tempo per arrivare. Però tu tenta di fare veloce… Carl.- Concluse, leggendo il tesserino appeso vicino allo specchietto retrovisore, con sopra una foto di un ragazzo con molti anni, e capelli, in meno della persona che stava in quel momento al volante dell’auto. Il cognome era nascosto da una foresta di Abre Magique biancastri.

- Okay, amico.- Il taxi procedette per una ventina di minuti prima di poter raggiungere la periferia, altri venti per abbandonare la zona abitata. Dopo circa un’ora, la macchina procedeva a velocità sostenuta lungo la statale. Carl aveva già provato tre volte ad attaccare discorso con il suo cliente, fallendo miseramente ad ogni tentativo. Angelo si era addirittura illuso di aver convinto il taxista a tenere la bocca chiusa, quando questi, improvvisamente, gli fece:

- Ehi, guarda là, a destra!- Angelo volse lo sguardo dove gli era stato indicato, ma non vide che alcuni irregolari cubi di cemento armato con il tetto di lamiera, circondati da un muro di cinta fatto di rete metallica.

- Di che si tratta?- domandò, giusto per non deludere il suo interlocutore.

- Era una base dell’esercito, in giro si diceva che dentro durante la guerra fredda ci facessero qualche strano esperimento, tutta roba top secret. E non facevano entrare nessuno, giuro! Pensa, c’era lo zio di un collega di questo mio amico che portava i rifornimenti alimentari per i soldati che stavano di guardia alla struttura, e più di una volta ha giurato di sentire provenire dall’interno dei suoni stranissimi, come di animali che si lamentano. Ma quando domandava ai soldati di cosa si trattasse, lo cacciavano sempre via in malo modo, dicendogli che non doveva interessargli.-

- Ma non mi dire.- Angelo pronunciò distrattamente la frase, mentre osservava gli edifici scomparire in lontananza. E più li guardava, più gli pareva di ricordare che in quel posto una volta c’era un mobilificio.

- Bah, ormai l’hanno chiusa. Ora è solo l’ennesima leggenda metropolitana. Mi piace pensare a lei come alla nostra Area 51. Hai presente, no?-

- Certo. Quella degli alieni, no?-

Carl emise un suono a meta strada tra uno sbuffo e una risata:

- Alieni? Ma fammi il piacere, non dirmi che grande e grosso come sei credi ancora in simili stronzate! Nell’area 51 ci tengono Elvis!-

- Quell’Elvis?-

- Certo, e chi sennò? -

- E io che pensavo fosse morto.- disse Angelo, pensando che il sarcasmo fosse evidente.

- Ma no che non è morto! Ce l’hanno fatto credere, è dalla dichiarazione di indipendenza che quelli stronzi giù a Washington la mettono nel culo a tutti con le loro balle! Stammi ad ascoltare, la storia è molto semplice: Elvis è un bravo ragazzo, e un drago con una chitarra in mano e un microfono davanti. Ma un brutto giorno, quando ha ancora davanti a se tutta una sfavillante carriera ad attenderlo il medico gli fa: “Mi dispiace figliolo. Cirrosi epatica.” Bella merda, eh?-

- Cirrosi. beh, non è mica una tragedia.-

- Ma se è incurabile!- esclamò scandalizzato Carl, e smise perfino di osservare la strada, per poter lanciare un’occhiata di aspro rimprovero al suo insensibile cliente.

- Incurabile? Oddio, non sarò un medico ma mi pare che nel peggiore dei casi te la cavi con un trapianto.- la calma e la sicurezza con cui Angelo pronunciò quella frase lasciarono Carl senza parole. Per un po’ balbettò qualche parola senza senso, poi sbottò:

- Beh, non mi ricordo che malattia fosse esattamente, ma so per certo che era terminale. Allora lo zio Sam prese una solenne decisione: Elvis non doveva morire. E così venne rapito nottetempo e congelato in una cella di ibernazione nei sotterranei dell’Area 51, in attesa che venisse trovata una cura alla malattia.-

- Capisco. Il governo degli Stati Uniti ha ibernato Elvis Presley. E a che diavolo gli serviva?-

- Cazzo amico, ma non ci arrivi? Elvis non era un uomo, era un dio! Oggi c’è ancora una manica di invasati che lo venera come Gesù Cristo. Avere Elvis significa avere il controllo delle masse, ed è quello che i maiali della casa bianca vogliono!-

- Ah, tutto fila. Se non fosse che Elvis non è mai sparito dalla circolazione. Chi era sennò il grassone che è morto giù a Memphis nel 77 e che conosciamo tutti? Il gemello malvagio?- qualcosa fece intuire ad Angelo che anche un’obbiezione assolutamente ragionevole come quella che aveva fatto, sarebbe stata confutata dal taxista. E infatti la risposta non tardò ad arrivare:

- Ma no, quello era il sosia!-

- Il che?-

- Ma certo, pensi che quei figli di puttana a Washington non ci avessero pensato? Per fare in modo che nessuno si accorgesse del rapimento, sostituirono il vero Elvis con un sosia. Beh, bel sosia del cazzo, non ci assomigliava nemmeno un po’. Il vero Elvis era un bravo ragazzo, non avrebbe toccato tutta quella merda, la droga intendo, sai? E non si sarebbe trasformato in quel mostro obeso che il sosia è diventato! Che stronzo, si prese tutto il successo. Poi, dire tutte quelle cattiverie razziste. No, il vero Elvis non l’avrebbe mai fatto. Mai!-

- Ehi, fermati qui. Siamo arrivati.- Angelo aveva smesso già da un po’ di tempo di ascoltare l’appassionata narrazione del taxista, per la precisione aveva smesso nell’esatto momento in cui avevano oltrepassato l’Easy ride. Il taxi si bloccò, e accostò al margine della carreggiata. Angelo scese, prese qualche banconota dal portafoglio, e quindi la gettò sulle ginocchia del taxista.

- Ecco, questi dovrebbero bastare, e tieni il resto. Puoi aspettarmi qui, ora? Torno tra un paio di minuti.-

- Ehi, certo, certo. Ti aspetto!- I cento dollari che erano appena caduti sulle ginocchia di Carl lo avevano reso improvvisamente più cordiale, oltre che avergli fatto dimenticare Elvis, l’area 51 e gli stronzi di Washington. Iniziò a controllare contro la luce sopra lo specchietto retrovisore le banconote. Angelo iniziò a frugare nella borsa che si era portato appresso, estraendo un passamontagna, dei piccoli oggetti ovali, e una beretta da nove millimetri, con silenziatore e caricatore espanso da trentadue colpi. Passando oltre l’ “Easy Ride” aveva visto almeno sei uomini di guardia, più due che facevano cenno alle macchine che mostravano l’intenzione di fermarsi presso il locale di proseguire per la loro strada. Quindi dentro ne rimanevano una trentina. Poteva andare.

- Allora aspettami, mi raccomando, e tieniti pronto a partire immediatamente. Ah, e se senti qualche rumore, come dire, sospetto, ignoralo. Chiaro? -

- Come il sole, amico!- rispose Carl, mentre infilava le banconote dentro il parasole insieme al santino di una Madonna messicana, sorridendo soddisfatto. Angelo si allontanò dall’auto, lasciando la borsa, vuota, sul sedile di dietro. Carl, finalmente convintosi di aver appena guadagnato più del doppio di quanto avesse di fatto avuto diritto a reclamare, iniziò a fischiettare. Quindi si distese sul sedile, e accese la radio, lasciando diffondere dai gracchianti altoparlanti nelle portiere la melodia di una canzone country. Rimase per un po’ così, rilassato, mentre guardava il cielo stellato fuori dal finestrino. Non riuscì a sentire gli spari, il tonfo emesso dal silenziatore si perse dietro ai gorgheggi di Liz Anderson. Discorso a parte furono le esplosioni, che seguirono di lì a poco. La prima fece saltare subito Carl sul chi vive, le seconda riuscì addirittura a fargli dimenticare di aver ricevuto l’ordine di ignorare qualsiasi tipo di rumore. Ma, con la coda dell’occhio, notò nello specchietto retrovisore la figura del suo cliente che si avvicinava di corsa, con in mano qualcosa che assomigliava terribilmente ad una pistola. Angelo si buttò rapidamente al suo posto, e urlò:

- Sei ancora qui? Andiamocene!-

- Ma che cazzo?- iniziò Carl, quando si accorse che altra gente si stava avvicinando al suo taxi. E anche loro erano armati. Il primo proiettile andò a perforare il lunotto posteriore, fracassando subito dopo la povera autoradio. E Carl intuì che non sarebbe stato l’ultimo.

- Chi sono quei cinesi?- gridò, mentre girava la chiave.

- Non sono cinesi, sono giapponesi.- rispose Angelo, sparando qualche colpo in loro direzione dal lunotto infranto, e probabilmente facendo anche centro qualche volta.

- Perché ci sparano? Che cazzo erano quelle esplosioni?- la macchina finalmente ripartì, con una sonora sgommata. Fatti duecento metri, anche gli Yakuza che li stavano inseguendo si fermarono, e smisero di sparare.

- Fregatene delle esplosioni, e tranquillizzati. Gli ho sabotato le auto, non possono inseguirci.-

Il pericolo era effettivamente cessato, ma Carl non dava segno di voler calmarsi:

- Ma chi cazzo sei tu? E cosa… cosa…- iniziò a balbettare. Angelo gli puntò la pistola contro la tempia:

- Ora sta un po’ zitto. E riportami in centro.-

 

Carl rimase in silenzio per tutto il resto del tragitto. Quando finalmente furono arrivati a destinazione, Angelo tirò di nuovo fuori il portafogli. Prese tre banconote da cento dollari, e le infilò nel taschino della camicia dell’autista:

- Per il ritorno, per tappare i buchi, e per dimenticarti tutto quello che è successo. Chiaro?-

Di tutta risposta, Carl annuì con stampato sulla faccia un sorriso forzato.

- Buonanotte, allora.- Gli disse allora il killer, e fece per andarsene. Ma proprio in quel momento Carl sembrò ritrovare un po’ di coraggio. Abbassò il finestrino, e urlò:

- E cosa cazzo gli dico domani in officina, quando capiranno che qualcuno mi ha sparato addosso?-

- Dì che è stata la CIA: sapevi troppo su Elvis.- rispose Angelo senza voltarsi, e allontanandosi, un passo dopo l’altro, nella notte.

 

Terzo intermezzo

 

- Pensavo non ti piacessero le bombe a mano.- L’affermazione di Cab fece sussultare leggermente Angelo, facendogli mandare di traverso il sorso di caffé bollente che aveva appena bevuto.

- Come scusa?- chiese al barista, staccando le labbra dalla sua tazza, e appoggiandola sul tavolo.

- Ma sì, sarò pure vecchio, ma non ancora rincoglionito. Lo ho capito subito che sei stato te, sai?- detto ciò, il vecchio nero buttò sul tavolo di Angelo un giornale, aperto su una delle pagine centrali. Il titolo, urlato a grandi caratteri, era estremamente esplicito: otto cadaveri in una sparatoria avvenuta su un locale affacciato sulla statale. Secondo gli inquirenti la maggior parte delle vittime era stata causata dall’esplosione di due bombe a mano, il decesso delle restanti era stato causato da dei proiettili di piccolo calibro. La maggior parte dei colpi era stata esplosa al di fuori del locale, da più di un arma. I cadaveri erano tutti di rappresentanti della malavita coreana e giapponese, si pensava a un regolamento di conti.

- Otto? Diavolo, un bel macello, non trovi?- disse Angelo, poi emise una breve risata, e quindi vuotò il caffé.

- Allora sei stato davvero tu. Porco Giuda.- Cab fissò la pagina del giornale scuotendo la testa. Nonostante Angelo fosse cliente del suo bar da anni, parlargli li faceva sempre uno strano effetto, sapendo in che razza di modo si procurava il pane.

- Per quanto riguarda le bombe a mano, un conto e non apprezzarle, un conto è non capire quando potrebbero risultare utili. Insomma, se c’è troppa gente in una stanza, una bomba a mano è l’ideale per dare una sfoltita. Me ne riempi un’altra tazza?-


 

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Capitolo 10
*** Camerata ***


Questo è l’ultimo capitolo di quella che considero la prima parte del romanzo. Un romanzo che al momento non esiste, dato che finora sono stati solo racconti accomunati da un personaggio. Anzi, nemmeno da quello. Perché chiedete? Avete ragione, immagino di essermi semplicemente confuso. Comunque, dal prossimo inizia la parte più interessante della vita di Angelo, non perdetevela!

Grazie a tutte le persone che mi leggono. Vedo che siete davvero tanti, se siete arrivati fin qui, potreste mettere tra le vostre storie seguite anche questa, e rendermi il biografo di assassini a pagamento più felice del mondo. Gracias, ve quiero mucho!

Dzoro

Camerata

 

Nichols aveva un sogno. Nel suo sogno c’era una casa, circondata da un giardino, circondato dai rassicuranti confini di una staccionata bianca alta tre piedi. E nel giardino avrebbe invitato i suoi amici a mangiare carne grigliata sul suo barbecue, il suo barbecue grande come auto. E avrebbe regalato dei guantoni da baseball ai suoi figli, e gli avrebbe lanciato la palla, mentre sua moglie avrebbe sorriso da dietro la porta a vetri della cucina, preparando la cena. E lo sapeva che era solo un sogno: Nichols non aveva amici, e non aveva una famiglia. Odiava troppo gli uomini per averne.

Il suo posto nel mondo era esattamente quello in cui si trovava, dove si trovava il suo lavoro. Al tredicesimo piano di un palazzo color polvere, incastrato tra i monoliti di cemento di un quartiere in mano agli spacciatori e gli scarafaggi. Il più vicino possibile al pulsante cuore nero della città, il più nascosto possibile dal fastidioso giudizio di Dio.

Alcune sere, quando alla tivù non davano niente di interessante, o non aveva nessun lavoro da sbrigare, a Nichols piaceva mettersi davanti a un giornale di enigmistica e a una tazza di tè caldo, seduto sul tavolo foderato da tovaglia di plastica color linoleum della cucina. Passava il suo tempo così, fino al momento in cui la sua stanchezza non era un pretesto sufficiente per nascondersi sotto le coperte. Solitamente sfogliava il giornale distrattamente, soffermandosi di tanto in tanto sulle vignette umoristiche, fino a che non trovava le pagine delle parole crociate. Iniziava quindi a farle, bevendo un sorso dalla sua tazza ogni tre o quattro definizioni azzeccate. Sulla tazza c’era scritto “Alla migliore mamma del mondo.”

Quella sera era una di quelle sere: Nichols aveva appena finito il suo the, subito dopo essersi ricordato che le iniziali del terzo presidente degli stati uniti erano la T e la J. Mancava poco al completamento del quadro, solo poche linee bianche ancora.

“La capitale della Corea del Nord.” Questa era facile, Seoul. Stava per scriverla, ma vide che c’erano più di una casella che sarebbero rimaste bianche. Come era possibile? Ah, vero, che imbecille, Seoul era la capitale della Corea del sud. La Corea del Nord aveva come capitale…

- La capitale della Corea… della Corea del nord.- disse tra se, ad alta voce, sbuffando frustrato. Iniziò a tamburellare con la punta della matita sulla superficie del tavolo, cercando di ricordare. Sembrava proprio non venirgli in mente, ed era strano: lui era sicuro di conoscere la risposta. Beh, ci avrebbe pensato dopo, sotto con un'altra definizione.

“Il campo della boxe.” Questa era facile, e Nichols stava per scrivere la risposta, quando qualcuno suonò alla porta. Il suono elettrico del campanello fece voltare Nichols di scatto, e anche un po’ trasalire:

- Chi è?- Fece, alzandosi dalla sedia. Mentre si avvicinava alla porta, il campanello continuò a emettere il suo suono fastidioso, con brevi pause tra una scampanellata e l’altra.

- Arrivo, arrivo accidenti! Ma lo sai che ore sono? Stai calmo!- appena Nichols ebbe tolto il fermo della porta, essa si aprì violentemente. Un uomo entrò nella casa barcollando, quasi travolgendo il dottore dall’altra parte. Fece pochi passi, prima di piombare a terra. Ansimava come qualcuno che ha appena terminato una lunga corsa. O a cui hanno appena sparato: tutto il sangue che aveva addosso tolse subito al dottore il dubbio.

- E adesso che cazzo succede?- si disse tra se, come di suo solito ad alta voce. Mise il corpo dell’uomo supino, e come volevasi dimostrare una ferita d’arma da fuoco spiccò come un bel fiore rosso in mezzo alla camicia azzurrina dell’uomo. Niente di grave probabilmente, al massimo un polmone perforato. Comunque richiedeva cure mediche al più presto. Nichols guadò la moquette verde: si era sporcata. Scosse la testa:

- Senti amico, io non ti conosco, e sono anche stanco. Non ti costerà poco.-

 

Il ferito, cinque minuti dopo, si trovava sdraiato sul divano del soggiorno di Nichols, ricoperto di giornali e fogli di carta assorbente. Nichols stava pulendo in cucina i ferri, rimasti incrostati di sangue dopo l’ultima operazione. Era stata due sere prima, e l’aveva tenuto in piedi dalle cinque di pomeriggio fino a mezzanotte: un ragazzo, figlio di un nome importante nel campo della prostituzione, era arrivato con nel petto otto pallini di fucile a pompa, uno dei quali per poco non gli era entrato nel cuore. Era sopravvissuto, Nichols sapeva il fatto suo. Solo pochi nel giro della mala conoscevano il suo nome, e a lui andava bene così: la polizia non si era mai accorta della sua piccola attività, e lui guadagnava di più di quando lavorava come chirurgo al St Agnes. Passò uno straccio imbevuto di disinfettante sull’ultimo bisturi, e lo buttò in una bacinella di metallo insieme agli altri. Prese da sotto il lavandino la scatola con i guanti di lattice, e da un appendiabiti vicino al frigo un grembiule da cucina bianco, appeso accanto ad almeno altri cinque grembiuli puliti.

- Ehi, dottore, ce l’hai da bere?- gli urlò il ferito, dal soggiorno. Era un uomo dalla faccia pulita, senza un filo di barba, con dei bei vestiti e un corpo atletico. Doveva avere poco più di trent’anni. Aveva una anello al dito. Il dottore provò fastidio al pensare che avesse una fede. Per quanto cercasse di fregarsene, sapere che l’uomo a cui doveva salvare la vita aveva dei legami gli faceva sentire come se gli avessero affidato una responsabilità più grande di quella che avrebbe voluto assumersi. Certo, tutti gli esseri umani ha dei legami, delle persone che piangono la loro morte. Le fedi glielo ricordavano soltanto.

Chissà chi era, che gli aveva sparato, perché l’aveva fatto. La professionalità del dottor Nichols gli impediva sempre di chiedere qualsiasi cosa ai suoi clienti, ma ciò non impediva che in lui ogni volta nascessero un’infinità di domande. Nichols prese la bacinella di alluminio con i ferri. Si avvicinò al frigorifero, e ne estrasse una bottiglia di vodka mezza vuota, adagiata vicino ad un mezzo limone raggrinzito e ad un barattolo aperto di burro d’arachidi. Poi prese una siringa, sigillata in un pacchetto di plastica ermetico, che si trovava in una vaschetta di plastica insieme a molte altre siringhe. In soggiorno, buttò la vodka al suo paziente, poi si mise il grembiule. Il ferito si attaccò subito alla bottiglia, e ne bevve quasi un terzo senza staccarsi un attimo. La staccò dalle labbra facendo una smorfia:

- Bah, che schifo. I russi hanno poco da andare fieri di questa merda, è quasi meglio l’alcool etilico. Non ce l’ha del Jack Daniels, per caso?-

Nichols si infilò i guanti di lattice, facendoli schioccare contro il braccio.

- Posso andare a comprarlo, ma non è compresa nel prezzo, e più il tempo passa più la ferita si infetta, sempre che tu sappia cosa voglia dire. Stattene zitto quando opero, oppure potrei finire per aprirti un buco ancora più grosso.- detto ciò, prese un bisturi dalla bacinella, e iniziò ad esaminare la ferita. Il ferito abbozzò un sorriso:

- Okay, lasci stare. Lei non ne vuole?-

- Ho smesso di bere da dieci anni. Ero alcolizzato una volta.-

- Non sapevo che un medico potesse essere anche un alcolizzato.-

- Un medico può fumare e bere come chiunque. Può anche bere abbastanza per andare al lavoro ubriaco, e trasformare un povero stronzo in paraplegico, dopo avergli segato la spina dorsale un po’ di più del dovuto. Zitto ora.- Nichols prese la siringa, e la iniettò nel braccio del suo paziente.

- Non si dovrebbe… non mischiare medicine e alcool?- chiese il paziente, mentre la voce gli si impastava.

- No, certo che no. Stai fermo.-

Aspettò solo qualche minuto, il tempo che il pentothal facesse effetto, poi infilò il bisturi nella ferita.

- Erano brutti tempi, quelli.- continuò, anche se sapeva fin troppo bene che l’uomo al quale stava salvando la vita poteva capire ben poco in quel momento. Ma a lui piaceva parlare. Lo trovava catartico.

- Ma non tutto il male viene per nuocere. In prigione conobbi un tizio che mi propose di aprire uno studio con lui, una volta uscito. In carcere era famoso, un associazione umanitaria al tempo aveva fatto un gran casino per concedergli l’infermità mentale, e cazzo se la meritava tutta quel perverso. Aveva tagliato le gambe di sua moglie con una segatrice da granito perché diceva che dentro ci abitassero dei diavoli. Capito il tipo, no? Credeva di avere una non so che cazzo di missione, di dover guarire tutti i mali del mondo. Credo che una volta uscito abbia ammazzato qualcun altro. Forse ora gli hanno già cotto il cervello sulla sedia elettrica. Che ne parlo a fare, come se me ne fregasse qualcosa. Però l’idea che mi aveva dato era buona, e riuscì anche a mettermi in contatto con gente che mi avrebbe protetto e permesso di lavorare. Così eccomi qui, a estrarre piombo e ricucire ferite. Non male, eh? Ecco, ci siamo quasi.- Nichols aveva in quel momento afferrato il proiettile con le pinze, e lo stava facendo lentamente scivolare tra le pieghe della ferita.

- Ci siamo. Ci siamo… ecco!- era fuori. Nichols lo fece cadere in un posacenere, dove poté adagiarsi insieme ad almeno un'altra decina di proiettili incrostati di sangue. Nichols pensò per l’ennesima volta quella settimana che avrebbe dovuto farli sparire.

 

L’operazione si era conclusa in tempi relativamente brevi. Nichols aveva già ricucito la ferita, e bendato il torace al suo paziente.

- Ehi, bel lavoro doc. Grazie.-

- Risparmia i ringraziamenti per qualcun altro, sono cinquecento dollari. Ora sei a posto, ma hai perso troppo sangue. Non devi fare movimenti bruschi, ed devi anche evitare di muoverti, se possibile. Ora non è possibile per esempio, caccia i soldi, e poi levati dai coglioni.- sbottò Nichols, mentre si spogliava dai suoi abiti da lavoro.

- I soldi sono nella mia giacca. Non prenderne di più di quanto ti devo, mi raccomando. Uh, che sonno.- l’uomo si sdraiò di nuovo sul divano.

- Ehi, che cazzo fai, dormi? Dai, devi andartene. Ehi!- Nichols diede un paio di colpi sulla testa del paziente, ma era troppo tardi: era già caduto in un sonno profondissimo, di quelli che terminano solo a mezzogiorno del giorno dopo. Nichols sospirò, e se ne andò un attimo in camera sua. Tornò di lì a poco, e buttò una coperta addosso all’addormentato sul suo divano.

- Sappi però che ti verrà a costare un supplemento.- borbottò, dirigendosi verso la giacca con i soldi, appesa sull’attaccapanni vicino all’ingresso. Trovò un portafogli in una delle tasche interne, e subito ne rovesciò il contenuto sul tavolo della cucina. Tra i soldi cadde anche una carta d’identità, sulla quale il dottore intravide un nome: Sidney Russel. Un indizio in più sull’identità dell’uomo che aveva appena operato, ma non doveva importargli. Iniziò a contare le banconote, lanciando di tanto in tanto un’occhiata sul paziente che dormiva alle sue spalle. Nichols temette per un attimo che stesse fingendo soltanto di dormire, ma subito un russare gorgogliante e profondo cancellò ogni preoccupazione: dormiva di sicuro, e anche se fosse stato vero il contrario non c’era da temere. Ridotto com’era, era inoffensivo, non c’era pericolo che lo strangolasse durante la notte e scappasse senza pagare. A proposito di pagare, Nichols aveva appena finito di contare i soldi:

- Quattrocentoottanta e trenta centesimi. Pezzo di merda.-

 

Nichols quella notte si gettò di traverso sul suo letto, e si addormentò nel giro di pochi minuti. L’operazione lo aveva sfiancato definitivamente, non aveva nemmeno messo a posto il tavolo della cucina: capì che avrebbe ignorato quale fosse la capitale della Corea del nord per l’eternità. Anzi, i suoi ultimi pensieri furono di colossali parate militari con bandiere rosse e gigantografie di Kim Jong-Il, prima di venire sopraffatto dall’incoscienza. Si addormentò tranquillamente, disturbato soltanto da un rumore lontano, che se fosse stato più sveglio avrebbe identificato come un telefono che veniva alzato e un numero che veniva composto.

 

Il sonno del dottor Nichols si infranse contro il trillare incessante del suo campanello, tre ore dopo. Erano le tre e mezzo di mattina. Il primo pensiero della giornata fu quindi un “Chi cazzo è?”, al quale seguì un frettoloso vestirsi e correre alla porta. Una volta aperta, non sommerse di insulti quell’inopportuno visitatore solo per due motivi: era troppo stanco, e davanti a se si trovava una donna. Doveva avere la stessa età del suo paziente, e un veloce occhiata del dottore riuscì a trovare una fede sulla sua mano sinistra. Capì subito.

- Cosa desidera?- chiese comunque Nichols, squadrandola da capo a piedi nel frattempo. Non era neppure male.

- Io… credo che mio marito sia in casa sua. Posso entrare?-

“ E no, cazzo, sono le quattro di mattina, io non sono stato ancora pagato e il mio paziente usa la mia casa come una fottuto albergo! Ma ora basta, ora quello stronzo se ne va insieme alla sua troia, se ne va via!”

- Prego.- rispose il dottore, aprendogli del tutto la porta e invitandola ad entrare. Subito dopo gli indicò dove si trovava il marito, quindi se ne andò in cucina. Dato che aveva la netta sensazione che il sonno l’avrebbe colto di nuovo da un momento all’altro, decise di prepararsi un caffé. Riuscì non solo a prepararlo, ma pure a finirlo, e quei due erano ancora nel suo soggiorno, che continuavano a parlare. Adocchiò in quel momento la sua enigmistica, ancora aperta sul cruciverba della sera prima. Ma proprio non riusciva a ricordarsi quale fosse la capitale della Corea del nord. Guardò l’ennesima volta in direzione dell’uomo e la donna nella sua cucina: ore i due erano abbracciati, e rimasero così per lungo tempo. Quando si staccarono l’uno dall’altro, Nichols tirò un sospiro di sollievo. La donna si alzò dal divano, e si diresse verso l’uscita: il dottore le si avvicinò.

- Grazie per avermi fatto entrare. E mi scusi.- mormorò lei. Nichols notò con fastidio che la sua voce era strozzata, come se dovesse scoppiare a piangere da un istante all’altro. E l’ultima cosa che voleva dover fare quella notte era tentare di consolare una donna in lacrime sull’ingresso di casa sua.

- Di niente, di niente.- Nichols disse solo quello, prima che lei uscisse. Avrebbe voluto chiedere perché non si portava dietro anche il marito, ma sapeva che la sua reazione non gli sarebbe piaciuta.

Tornando in soggiorno, vide il suo paziente raggomitolato sul divano, che fingeva di essersi riaddormentato. La carta assorbente e i giornali erano stati appallottolati in un gomitolo sanguinolento sulla moquette. Nichols lasciò stare, voleva soltanto tornare a letto. Notò però, prima di andarsene, che sul tavolo vicino al divano era comparso un quaderno di cartone color carta da pacchi, con la copertina rigida, come di quelli che si usano per tenere le fotografie. Ma cosa poteva importergliene a lui?

 

Angelo accese l’autoradio.

“Ancora latitante l’assassino dell’imprenditore ucciso ieri sera nei pressi della sede del consiglio municipale. La vittima, Martin Krieger, era proprietario di una catena di concessionarie d’auto e diverse attività nel campo della ristorazione, ma era famoso soprattutto per la sua grande attività di filantropo. Opera sua è stata la fondazione Krieger, che dal 1992 ha permesso a più di centomila senzatetto di costruirsi una vita e trovare un lavoro e una casa. Krieger è stato colpito da due proiettili di una pistola semiautomatica dotata di ottica, il che fa pensare al lavoro di un assassino professionista. Il killer ha esploso i colpi dal tetto di un palazzo vicino. La vittima è stata subito trasportata in ospedale, ma è deceduta prima di poter raggiungere la sala operatoria. L’assassino è stato avvistato dalle guardie del corpo del signor Krieger, che hanno subito aperto il fuoco contro di lui. Alcuni testimoni hanno visto un uomo ferito allontanarsi a bordo di una Chevrolet El-Camino rosso scuro. Sono questi al momento i principali indizi a disposizione degli inquirenti per ritrovare questo spietato killer. I funerali del signor Krieger si terranno…” Angelo spense l’autoradio. Parcheggiò vicino ad una Chevrolet El-Camino, e scese sul marciapiede: conosceva bene il posto, e sapeva che avrebbe trovato Sid laggiù.

 

Era già la seconda volta in ventiquattrore che Nichols veniva svegliato dal suo campanello. Questa volta erano le otto e mezzo di mattina. Questa volta, Nichols giurò a se stesso di incenerire d’insulti chiunque, donna, uomo o bambino, si fosse trovato in quel momento dietro la sua porta, di sbattergli la suddetta in faccia e tornarsene a dormire, anche se sapeva che riprendere sonno era ormai una speranza assai remota. La sua marcia furente in direzione della porta però si bloccò di colpo, appena uscito dalla camera da letto: l’uomo non era più sul divano, ne in un qualsiasi altro posto in cui Nichols l’avrebbe potuto vedere.

“Eh no, cazzo, quel tizio mi deve ancora venti dollari.” subito iniziò ad aprire tutte le porte che davano sul soggiorno, sapendo che il paziente non poteva essersene andato lontano, con quella ferita. Il campanello, intanto, riprese a suonare.

- Un attimo, porca puttana, smettila di suonare il fottuto campanello, un attimo e ti apro!- urlò Nichols in direzione della porta, e in quell’esatto momento il campanello smise di suonare. Il dottore non aveva ancora trovato il fuggitivo: stava per rassegnarsi, quando vide la porta che dava sulla scala antincendio aperta. Vi si fiondò subito:

- Ehi, Russel! Ehi, sei qui?- gridò, guardandosi tutt’intorno.

- Sono qui, sono qui, tranquillo. Pensavi fossi scappato?- gli fece il paziente, dall’alto. Nichols non sapeva dove avesse trovato la forza, ma era riuscito a salire la scala antincendio fino al tetto della palazzina (non troppo distante, sia chiaro: l’appartamento di Nichols era all’ultimo piano).

- Ricordati che mi devi dei soldi, perché io non me lo dimentico. Ora c’è qualcuno alla porta, tu stai fermo dove ti trovi!- gli gridò contro Nichols, prima di tornare nel suo appartamento. Raggiunse la porta d’ingresso alternando i passi alle imprecazioni. La aprì con violenza, già pronto a vomitare tutti gli insulti che aveva elaborato fin dalla sera prima, quando quella scocciatura era iniziata. Doverli ingoiare tutti insieme, fu per lui un vero colpo. L’uomo dietro la porta lo conosceva, e chi nel giro non lo conosceva?

- Cosa ci fa qui?- una domanda stupida, detta con una voce da stupido. Angelo non rispose nemmeno. Con un braccio fece scostare verso una parete del corridoio il dottore, ed entrò guardandosi intorno con circospezione. Nichols rimase immobile nel posto in cui Angelo l’aveva spinto, a fissarlo, mentre il respiro gli si faceva sempre più affannoso.

- Dimmi un po’, doc, per caso stanotte hai operato?- la domanda di Angelo giunse improvvisa, e Nichols rispose subito:

- Senta, io li opero soltanto, non me ne frega niente di cosa hanno fatto o per chi lavorano. Mi basta ricevere i miei soldi, e non chiedo…-

- Lo so doc, lo so. Capisco perfettamente la tua preoccupazione, ma ti assicuro che non hai nulla da temere. Tu hai fatto il tuo lavoro, io sto per fare il mio. E ora dimmelo: dove si trova?-

 

- Ottantasei. No, era l’ottantacinque. Dio, quelli sì che erano tempi. Il mondo era nostro, eravamo noi al comando. Ma anche questa non tornerà più.- Russel si trovava sul tetto della palazzina, uno spiazzo rettangolare occupato da qualche condizionatore, materiale edile abbandonato e dalla sporcizia dei piccioni che vi abitavano. Sidney era seduto, appoggiato con la schiena ad una pila di sacchi di cemento. Tra le ginocchia teneva l’album delle fotografie, e lo sfogliava pigramente, come se dovesse trovarne una in particolare, ma avesse tutto il tempo del mondo per cercarla. Non smise di sfogliarlo nemmeno quando i passi di Angelo fecero gemere e scricchiolare il metallo arrugginito della scala antincendio. Prima di degnarlo di attenzione, Russel aspettò che gli si fosse avvicinato. Alzò lo sguardo solo quando Angelo gli fu a meno di un paio di metri di distanza, abbozzando, riconosciuto di chi si trattava, un sorriso.

- Cosa? Tu? Oh, Dio mio..- tentò di ridere - Dio, ma da quanto..?-

- Non ricordo di preciso, Sidney. Dalla guerra mi pare.- Rispose Angelo. Si piegò sulle ginocchia, avvicinandosi di più a Russel.

- Quindi ora lavori per Krieger? Sapevo che eri entrato in un brutto giro, sai, le voci. Ma lavorare per Krieger… sono deluso.- sospirò Sidney, scuotendo la testa.

- Non per lui. Non solo, almeno.- rispose Angelo, ridestando l’attenzione del suo interlocutore.

- Sei un assassino a pagamento?-

- Si dice così, no? Dovresti saperne qualcosa, hai organizzato una bella festa al vecchio Martin, e se te lo dico io, ti puoi fidare. Inoltre ho una buona notizia per te: ha tirato le cuoia prima che lo potessero operare.-

- Davvero?- Sidney sorrise di nuovo, piacevolmente stupito. – Allora non è stato del tutto inutile. Grazie vecchio mio, sei ancora un amico dopo tutto.-

Anche Angelo sorrise, ma lo fece mentre estraeva la sua Glock silenziata.

- Le ultime parole famose, eh?- mormorò Sidney. Tornò a sfogliare l’album, finché non sembrò aver trovato qualcosa che gli interessava. Estrasse la foto, e la mostrò all’assassino:

- Ehi, guarda questa. Ci sei anche te.- Angelo la riconobbe: uomini sudati, ricoperti della polvere del Kuwait, che tentavano di sorridere. Desert Storm.

- Perché hai preso l’album?- chiese.

- Beh, la sai quella storia, che quando stai per morire rivedi tutta la tua vita passarti davanti? Diciamo che non mi andava di aspettare, così ho chiesto a Grace di portarmelo.-

- Grace?-

- Mia moglie. Scusa se non ti ho mai invitato a pranzo, mi sarebbe piaciuto fartela conoscere.-

- Ti sei pure sposato. Cazzo se ne è passato di tempo. Ne è passato.- Angelo puntò la pistola contro la testa di Sidney, premendo l’acciaio del silenziatore contro la pelle della fronte. L’altro, dal canto suo, riprese a sfogliare l’album più velocemente. Sapeva che non c’era più tempo.

- Ehi, la vuoi vedere questa?- la porse ad Angelo, che la afferrò impassibile. Era una bambina, doveva avere sei anni al massimo.

- Lei chi è?-

- Mia figlia. Mary.- Angelo la osservò, chiedendosi dove Sidney volesse arrivare.

- È carina. Stai tentando di commuovermi?- Lo disse con un tono cinico, quasi una risata sarcastica. Ma Sid non era altrettanto allegro, non sorrideva nemmeno. Aveva un funerale dipinto in faccia.

- È morta.- un lungo silenzio seguì la sua affermazione. Angelo sembrò quasi sussultare, quando sentì quella parola: morte. Non era una parola strana per lui, la conosceva come se fosse sua madre. Eppure, in quel momento, quando la sentì, provò qualcosa che non aveva mai provato, come se si trovasse nel posto sbagliato. Sgradevole, inaspettato, un brivido gli corse lungo la schiena.

- Chi è stato?- domandò subito. Perché quando Sidney aveva detto morta, chiunque avrebbe capito che intendeva uccisa.

- E me lo chiedi?-

- Krieger?-

- Ti racconto una storia. Un ragazzo ha passato gli anni migliori della sua vita con un fucile in mano, a mangiare sabbia in un deserto miglia e miglia lontano da casa. Decide di cambiare vita: si sposa, ha una figlia, apre un ristorante. Ma i soldi non bastano, ha bisogno di un prestito. Una grossa somma.-

- Te li ha dati Krieger, quei soldi?-

 

Sid non rispose.

- Stavo camminando per strada, insieme a mia figlia, e questa macchina si ferma vicino a noi. Krieger, ovviamente, insieme ad alcuni uomini. Dio, tu non l’hai visto. Non hai visto come l’ha guardata.-

- So dei passatempi di Krieger.- disse Angelo. - Mi dispiace per tua figlia.-

Sidney scoppiò in una risata isterica che, come quella di un pazzo, nacque e morì nel giro di un respiro.

- Vaffanculo!- L’insulto scivolò fuori dalle labbra di Sidney improvvisamente, dapprima strozzato, poi allargandosi in un urlo rabbioso - A te non è mai dispiaciuto nemmeno di te stesso, sei un fottuto animale! Ma come cazzo fai? Speravo che tornare a casa ti avrebbe reso normale, che la guerra sarebbe davvero finita per te. E invece... Ma ti rendi conto? Di cosa sei? Di quello che fai? Come fai a vivere? Come fai a dormire, la notte? Sai, in guerra, tra i ragazzi, correva una voce: che a te, in fondo, piacesse quel merdaio. Che ti piacesse uccidere.-

- Basta, Sid.- l’ordine di Angelo giunse calmo, deciso. Forse sofferente, ma solo un vecchio amico se ne sarebbe potuto accorgere.

- Basta.- Angelo puntò di nuovo la pistola. Sidney lo guardò negli occhi, lasciando sbollire la rabbia che era esplosa in lui un momento prima. Si accasciò sul muro dietro di lui, tenendo l’album stretto sul suo petto.

- Senti… Okay. Va bene così.- Chiudendo gli occhi, Sid si raggomitolò su se stesso. Aveva capito che quella era la fine.

- Okay. Dove vuoi che lo faccia?- Sidney ci mise un attimo per capire cosa Angelo gli stesse chiedendo. Poi ci arrivò:

- Al cuore. Non mi va la testa, Grace non lo sopporterebbe.-

- Va bene. Addio, Sidney.-

- Addio.- I loro sguardi si incrociarono. Sidney portò l’album di fotografie sul cuore, e chiuse di nuovo gli occhi. Angelo prese la mira.

L’esplosione lacerò il mattino, frantumando il silenzio in mille pezzi. Il proiettile sfrecciò in aria sibilando, e quando Angelo sentì il suo fischio pensò che fosse la voce del mondo, impazzito, che urlava. Non era stato lui a sparare. L’album di fotografie si era aperto, in una nuvola di frammenti di cartone, lasciando uscire il proiettile. Sidney doveva aver nascosto la pistola nella giacca. Angelo maledisse la sua ingenuità, quando il colpo gli raschiò la pelle sulla guancia. Aveva mancato la morte di una spanna. Il secondo colpo fu lui, però, a spararlo. E le sue mani erano troppo esperte per poter sbagliare mira. Colpì Sideny in pieno, il proiettile affondò nella tenera pelle che ricopriva la gola, incidendo uno squarcio che esplose nel giro di un respiro in un fiotto di sangue rosso e denso. Sidney tentò di tappare la ferita, mosso da un primordiale istinto di sopravvivenza, mentre la sua voce si tramutava in un rantolo liquido. Il suo ultimo sguardo, lanciato da due occhi spalancati sull’abisso, si fermò negli occhi di Angelo. Dall’album era scivolata fuori una foto: Sidney, sua moglie, la bambina. Una famiglia. Cadde in mezzo al sangue, e ne venne ricoperta. Angelo guardò quel povero cadavere per minuti lunghi un eternità, senza mai abbassare la pistola, ne cambiare espressione. Il fondo dei suoi occhi era rimasto impiastrato di un sentimento a lungo dimenticato, che la ferita sulla guancia aveva ripescato, grattando sul fondo di qualche remoto, dimenticato angolo del suo cuore.

 

“Dio mio, ma perché è successo? Perché è successo a me, poi? Ora gli spara, gli spara e lascerà pure il cadavere sul tetto! Mio Dio, sono nella merda. Arriverà la polizia, e perquisirà l’appartamento, e io devo far sparire tutto, e dovrò cambiare appartamento, e non avrò più un solo cliente. Cazzo, ma quello stronzo doveva proprio venire qui? Che giornata di merda, che giornata di merda, che gi…” Lo sparo interruppe il flusso dei pensieri del dottore, facendolo sobbalzare.

“L’ha fatto! Dio onnipotente, l’ha fatto! Ma non ne ha usato una silenziata? L’avranno sentito tutti! Ora arrivano gli sbirri e… no, no cazzo! Non voglio finire di nuovo in prigione! Ma io non c’entro niente! E poi i miei clienti non lo permetteranno! Chi posso chiamare? Green? Trevor? Si, chiamerò Trevor. Vaffanculo, gli ho salvato la sua vita del cazzo, non può lasciarmi nella merda. Sì, ora lo chiamo, può risolvere tutto, può…

- Ehi, dottore. Non è che hai del caffé?- Angelo era tornato. Doveva essere appena sceso dal tetto. Nichols aveva atteso il suo ritorno raggomitolato nella sua vestaglia, quasi in posizione fetale, seduto sul divano. Vedere Angelo lo rassicurò, in un qualche modo. Ora se ne sarebbe andato, e forse sarebbe stato ragionevole, e l’avrebbe aiutato a sbarazzarsi del cadavere. Ma un attimo, la polizia sarebbe arrivata da un momento all’altro, e se trovava il cadavere…

- Rilassati, e tutto finito. La polizia non arriverà prima di un ora, me ne sono occupato prima.- continuò Angelo, come se gli avesse letto nel pensiero. Non doveva essere difficile per un professionista come lui corrompere un paio di sbirri. Nichols tirò definitivamente un sospiro di sollievo: la notte era andata troppo male perché la mattina potesse andare allo stesso modo. Ora gli avrebbe preparato il suo maledetto caffè, e poi se ne sarebbe andato. Passarono pochi minuti ed entrambi si trovarono in cucina. Angelo era rimasto silenzioso, dopo la sua ultima domanda. Il suo sguardo era basso, e si perdeva nel vuoto. Nichols, mescolando una tazza di caffé solubile, si chiese se stesse bene: sembrava strano. Gli posò la tazza davanti, suscitando una minima reazione:

- Grazie.-

- Prego.- Nichols lasciò Angelo bere un paio di sorsi, poi si fece coraggio e chiese – Mi scusi, ma ora, quel cadavere, sul tetto. Non… potrebbe…- la richiesta di Nichols sembrò riscuotere Angelo da un qualche strano sonno.

- Cosa? Oh. Sì. Certo. PyongYang.-

- Cosa?-

- La capitale della corea. PyongYang.- disse Angelo, facendo un cenno verso la rivista di enigmistica ancora aperta sul tavolo.

- Oh, grazie.- rispose Nichols.

- Di niente.- Rispose Angelo. - Di niente.-


 

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Capitolo 11
*** Festa di matrimonio ***


Eccoci, si inizia. Da questo punto in poi, non si torna più indietro. Inizia la storia vera, quella che cambierà tutto per sempre. Questo capitolo è un po’ un collegamento, ma spero vi piaccia lo stesso. Seguite e recensite, siete grandi!

Dzoro

 

Festa di Matrimonio

 

La prima cosa che Angelo fece una volta sceso dal taxi fu lasciar vagare un’occhiata circospetta su tutto ciò che si trovava lì attorno. Non era mai stato in quel posto, e avrebbe preferito non doverci andare, ma ogni tanto il lavoro ti fa fare cose che non faresti di solito. Uccidere, per esempio. Appena fu certo che lì intorno non ci fosse niente di potenzialmente pericoloso, allungo venti dollari al messicano che l’aveva condotto fin lì.

- Tieni il resto.- disse senza guardarlo.

- Muchas gracias, mister. Buona giornata.- gli rispose quello. Subito il finestrino si alzò, e la macchina ripartì, lasciando Angelo avvolto da una nuvola di polvere, da solo, in mezzo a un viale sterrato bruciato da un sole di mezzogiorno così caldo che nessuno avrebbe detto che l’estate fosse appena iniziata. Poco distante da lui svettava un muro di cinta tappezzato da uno spesso, selvaggio strato d’edera; la recinzione correva tutt’intorno ad una collina, ricoperta da un soffice prato inglese, e dominata dalla sua sommità da una villa neogotica, sorvegliata da statue scrostate, e ricoperta da fregi e decorazioni di pietra consumati dal tempo e dalle intemperie. La strada sterrata conduceva fino ad un cancello di ferro battuto nero, l’ultima barriera tra gli onesti abitanti della città e quella che negli ultimi anni, scalando un’altissima pila di cadaveri, era ascesa sul gradino più alto nel podio delle famiglie mafiose della città. Una “S” e una “C” dorate troneggiavano in cima al cancello, sancendo da quel punto in poi il dominio di Santo Capuzzi. Forse l’unico uomo in città ad avere sulla coscienza più morti di Angelo, anche se tra loro due c’erano almeno un paio di sostanziali differenze: Santo non si era mai sporcato le mani per far fuori qualcuno, ne era mai stato pagato per farlo. In effetti era lui di solito quello che pagava.

Davanti al cancello si trovavano due uomini in completo. Uno era armato con un fucile da caccia. Angelo si avvicinò mormorando una canzone, sorridendo. Riuscì a sentire, man mano che si avvicinava, una musica allegra e il fragore di un concitato vociare provenire dalla villa. Una festa probabilmente, anche se Angelo ignorava cosa ci fosse da festeggiare, o perché fosse stato convocato proprio in un occasione del genere. Le guardie del cancello erano coperti da una patina di sudore e polvere, e stringevano i denti sotto il sole cocente. Gli vennero incontro non appena lo videro. Uno era un tizio scheletrico, con la faccia che si contraeva continuamente in un tripudio di tic nervosi, era chiaro che stare sotto il sole non gli stava piacendo. L’altro aveva una faccia rugosa e abbronzata, e dei capelli nero lucido, impastati con una quantità indecente di gel. Faceva ritmicamente cadere il fucile da caccia che stringevano con la mano destra sul palmo della sinistra.

- Chi va la?- fece quello con il gel, appena si trovarono abbastanza vicini.

- Ha un invito?- chiese l’altro, scostando leggermente la giacca, e facendo intravedere gli spigoli della pistola che teneva infilata nella cinta. Un gesto che denotava più arroganza che competenza, Angelo gli si sarebbe potuto avvicinare ed estrarla, oppure sparargli direttamente nelle palle prima che lui avesse il tempo di dire “ehi”. Gli succedeva spesso, ad Angelo, di pensare a come uccidere la persona davanti a se. Una deformazione professionale fastidiosa, ma anche piuttosto salutare: aveva perso il conto di quante volte gli aveva salvato la vita.

Angelo si frugò nella tasca, estraendo una busta tutta coperta da pieghe, e sgualcita sui bordi. Porgendola poi alle guardie, disse:

- Ho un invito. Per la precisione, è un invito del signor…- lesse un attimo un nome segnato sulla busta - Spencer. È abbastanza per aprire il vostro bel cancello?- la guardia abbronzata passò il fucile al compagno, afferrò la busta e, dopo averla aperta, iniziò a leggerne il contenuto. Angelo iniziò a battere per terra la punta del piede, aspettando che l’uomo avesse finito di leggere. E invece la guardia continuava a fissare il foglio, con un espressione ebete stampata in faccia.

- Cosa succede, ci sono parole troppo difficili?- chiese ad un punto Angelo.

- Sta zitto, cazzone. Ho un proiettile in canna.- gli rispose l’altro uomo, puntandogli contro il fucile.

- Ehi, scusa, non volevo offendere. È il tuo ragazzo?- Angelo sorrise. La guardia digrignò i denti.

- È in regola.- disse in quel momento l’altra guardia, riconsegnando la busta. – Perquisiscilo, poi fallo entrare.-

- Niente armi, eh?- Domandò Angelo.

- No.- rispose seccamente il magro.

- Beh, allora questa ve la do direttamente io. Trattala come una signora, mi raccomando.- Angelo scostò la giacca, rivelando una fondina all’altezza della sua ascella. Estrasse la sua quarantacinque, e la consegnò senza dire un’altra parola. Poi quello abbronzato, fattogli alzare le braccia, iniziò a perquisirlo.

- Ditemi un po’, sembra che la dietro ci si stia dando alla pazza gioia. Che si festeggia?- domandò Angelo, mentre la guardia gli stava perquisendo la giacca.

- È la festa di matrimonio del signor Capuzzi.-

- Santo?-

- No, Antonio, il figlio.-

- Pensavo che Tony fosse già sposato.-

- Si tratta del secondo matrimonio. La prima moglie del signor Capuzzi è deceduta recentemente.-

- Oh, mi dispiace. Di che si è trattato?-

- Un incidente.-

- Capisco.- La guardia finì proprio in quell’istante di perlustrare le scarpe di Angelo, senza aver trovato nessun altra arma. Con un espressione che avrebbe potuto benissimo essere delusa, si alzò da terra, si spolverò la giacca con due manate, e disse:

- È a posto, possiamo farlo passare.-

- Sparisci, allora.- fece l’altra guardia, sputando per terra.

- Grazie e arrivederci.- rispose Angelo. Il magro azionò il pulsante di un telecomando, e lo fece come se fosse quel pulsante il grilletto del suo fucile, che per tutta quella lunga e calda mattinata non aveva potuto premere. Il cancello iniziò ad aprirsi, cigolando. Angelo lo oltrepassò, riprendendo a canticchiare.

 

La festa era nel bel mezzo del suo svolgimento, quando Angelo vi passò vicino. Accanto ad una piscina, ornata da una schiera di statue di marmo, un complessino ammassato sopra di un palco pericolante si affannava a suonare una canzone pop anni ottanta, mentre la rumorosa folla degli invitati si affannava a ballarla. Tony Capuzzi invece se ne stava seduto, ridendo sguaiatamente di tanto in tanto, con un braccio avvinghiato alla vita della sua novella sposa, come un tentacolo si avvolge intorno alla preda. Le analogie tra Tony e una piovra erano in effetti più d’una. Era un uomo grasso, di quel grasso tremolante e gonfio, sempre ricoperto da un velo di sudore, il che conferiva al suo aspetto un che di viscido. Il tipo d’uomo che mangia male, beve troppo, e si fa più iniezioni di quante il medico prescriva di solito. Sua moglie invece aveva semplicemente l’aria della puttana: Angelo si domandò da quale Topless Bar il marito l’avesse pescata.

Tony Capuzzi, negli ultimi tempi era diventato una vera celebrità in città, nel bene e nel male, soprattutto nel male. Mezzo italiano, mezzo portoricano, tutto un gran figlio di puttana. Papà Santo lo aveva avuto da una sveltina con una delle sue cameriere, e per un qualche strano slancio di generosità, o forse per avere un erede al quale consegnare il suo impero, non solo lo aveva fatto nascere, ma lo aveva pure riconosciuto. La signora Capuzzi lo detestava: lei aveva vent’anni in meno del pater familiae, e forse sperava lei di ottenere il controllo del dominio dei Capuzzi, una volta che il marito avesse tirato le cuoia. Non aveva mai potuto dare un figlio a Santo: era sterile. Almeno queste erano le voci che Angelo aveva sempre sentito.

Angelo oltrepassò un gruppo di ragazzini, che stavano giocando a nascondersi tra le statue del giardino. Raggiunse con pochi rapidi passi l’entrata della villa, dove lo attendeva un secondo posto di blocco, sei uomini, in completo con le pistole che si scorgevano sotto la giacca, e le cravatte slacciate dal troppo caldo.

- Ehi, Fermo!- lo bloccò uno di loro –da qui in poi non si passa.-

- L’invito del signor Spencer che ho qui con me dice il contrario.-

- Lei è il signor Salerni?-

- Così dicono.-

- Entri, la stavamo aspettando.-

 

Cinque minuti dopo, Angelo si trovava seduto su di una poltrona, nel mezzo di un salotto, pavimento di marmo e pareti tappezzate da un gran numero di quadri, perlopiù imitazioni di classici dell’arte italiana, dipinti con un tratto troppo spesso e colori troppo vivi, come se li avessero commissionati ad un disegnatore di fumetti. Vicino ad un caminetto, che il caldo di quelle ultime giornate d’estate condannava alla perenne inattività, si trovava un mobile ricolmo di alcolici con frigobar annesso; qualche metro sopra di esso era appesa la riproduzione di un quadro del Botticelli. Angelo si trovò a fissare gli occhi strabici di Venere.

- Le piace?- la domanda, pronunciata con tono cordiale, fece intuire ad Angelo l’arrivo del signor Spencer: infatti qualcuno si era appena materializzato all’interno della stanza. Era un uomo di media statura, abbastanza magro, con una faccia amichevole incorniciata da capelli biondo cenere. Portava un elegante gessato grigio, e sembrava perfettamente a suo agio nell’indossarlo, come se si trattasse di una seconda pelle. Angelo si alzò dalla poltrona, e strinse la mano che l’uomo gli stava porgendo. Poi, buttando un’altra occhiata al quadro, rispose:

- Apprezzo le donne nude, ma le preferisco con qualche chilo di meno.- Spencer rise.

- Al tempo le preferivano un po’ in carne. Archie Spencer, segretario personale di Santo Capuzzi. È un vero piacere conoscerla, signor Salerni.- si strinsero le mani. – Scusi se la convochiamo in una situazione così anomala, ma una festa di matrimonio è un ottima occasione per tenere una conversazione di lavoro come quella che stiamo avendo ora.-

- Certo Archie, capisco, ho visto il film. Avanti, cosa desidera la famiglia dal sottoscritto?-

Spencer assunse una faccia a metà tra lo stupito e l’imbarazzato:

- Oh, vuole subito parlare del lavoro? Speravo di poterle offrire qualcosa da bere.- Con un cenno, indicò ad Angelo il bar.

- Mi dispiace, sono come gli sbirri: mai sul lavoro. Cosa posso fare per voi?- Angelo provava sempre un forte fastidio quando la discussione iniziava a diventare inutile.

- Non si domandi cosa può fare per noi: piuttosto, pensi a quello che potremmo offrirle.- lo disse con un tono solenne, doveva essere la citazione di una frase celebre. Ma ad Angelo non interessava.

- Cosa potreste offrirmi?-

Spencer estrasse dalla tasca un bloc notes e una penna nero lucido e scrisse qualcosa sul primo foglio di carta del blocco. Lo strappò, e lo porse ad Angelo.

- Questo è l’anticipo. Ne avrà altrettanti a lavoro svolto.- Angelo lo prese e subito lo lesse con un’unica rapida occhiata. Si accorse con piacere che era decisamente abbastanza.

- Allettante. Decisamente un’offerta degna di considerazione. Ma ancora non si è detto in che cosa consiste il lavoro.-

- Mi conceda un attimo, e lo saprà.- Spencer si diresse con un passo leggero fino ad uno scaffale, ed estrasse da un cassetto una grossa busta di cartone. Nel giro di un minuto, Angelo stringeva in mano il suo contenuto: un foglio, con quattro nomi scritti sopra, in un’ordinata colonna nera.

- Devono morire tutti?- domandò con freddezza, una volta finito di leggere. Spencer rimase un attimo in silenzio, come per assimilare quella parola tanto insolita, e tanto indigesta per chi non ci aveva mai a che fare. Morire. Poi disse:

- È una faccenda molto delicata.- Il sorriso cordiale di Spencer era stato sostituito da un volto serio e austero. Angelo rilesse un’altra volta la lista.

- Quanto delicata, Archie?-

- Abbastanza da richiedere le attenzioni dell’FBI.-

- Mi sembra decisamente delicata, allora. Inizio a capire il perché di tutti quelli zeri che hai scritto.-

- Sono testimoni, signor Salerni.- fece Spencer, sempre più serio - Testimoni di un processo contro uno dei nostri uomini, non le dispiace se non faccio nomi, vero? La faccenda è riservata.-

- I nomi non mi interessano, quando lavoro.- rispose Angelo, continuando a fissare la lista, a rileggerla.

- Ne sono contento. Dicevo, al momento queste persone sono sotto la protezione di alcuni agenti dell’FBI, in attesa del processo che si terrà lunedì prossimo. So che forse è superfluo dirlo, ma non devono prendervi parte.- Spencer rivolse il suo sguardo al quadro sopra di loro. - Al momento fanno parte di un programma di protezione dei testimoni dei federali, non sappiamo dove si trovano. Lei lo scopre, aspetta la notte prima del processo, e se ne occupa. Può andar bene?- Spencer, concluso il discorso, tornò a sorridere. Un sorriso amichevole, che chiedeva (forse esigeva) un sì. Angelo rispose con un altro sorriso. Riconsegnò la lista nelle mani dell’uomo.

- Per me può andare.- fece infine.

- Ero sicuro che avrebbe fatto questa scelta! Benvenuto in famiglia!-

- Grazie.- rispose Angelo digrignando un sorriso: di sicuro quella non era la famiglia ideale dalla quale essere adottato. Porse di nuovo la mano all’ospite, che di nuovo la strinse con vigore. Angelo aveva una lametta per rasoio nascosta nella manica della camicia: era la sua ultima carta da giocare, quando la situazione si faceva difficile. Avrebbe voluto estrarla, infilarla nell’attaccatura del gomito e tagliare fino al polso il bastardo ipocrita che aveva davanti, lasciando che il dissanguamento finisse il lavoro. Lo avevano incastrato. Dallo stesso momento in cui aveva letto per la prima volta la lista, era già stato considerato assunto. Un processo con coinvolti i federali era un cazzo amarissimo da succhiare, e i Capuzzi se lo sarebbero dovuti ingoiare tutto. Per uscirne, avevano bisogno del meglio, e Angelo sapeva di esserlo. E sapeva che se non avesse accettato, sarebbe finito per concimare le aiuole di quella villa. Poco male, d'altronde: il lavoro era troppo redditizio per essere rifiutato, e ad occhio e croce non avrebbe dato problemi nel suo svolgimento.

- Quando si inizia?- chiese Angelo.

 

Angelo, nel corso della sua vita, aveva lavorato per persone di ogni tipo. Questo gli era stato utile non solo per tutti i soldi che gli aveva portato, ma anche per tutte le persone che gli aveva fatto conoscere. Quando si parlava di servizi segreti poi, aveva l’imbarazzo della scelta. Una non esagerata somma di denaro gli fece avere nel giro di alcune settimane un lungo elenco di case e appartamenti affittati da società fittizie, dietro le quali operava l’FBI. Ne poté escludere la maggior parte, con un po’ di ricerche e un po’ di buon senso. Visitò personalmente i rimanenti, e non ci mise molto prima di trovare quello che ospitava i suoi obbiettivi. Lo sorvegliò per quarantottore circa, prima che i suoi inquilini facessero i bagagli, e si spostassero verso una casa in periferia, che Angelo aveva già perlustrato qualche giorno prima. Dopo una settimana circa, si sentì abbastanza sicuro nel poter prevedere i loro spostamenti. Studiò planimetrie, elaborò piani d’azione. Quando ebbe finito, cominciò ad aspettare.


 

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Capitolo 12
*** Un completo nuovo ***


Eccomi qua, alla fine ieri sera mi sono dimenticato di pubblicare il capitolo. Quindi eccovene due, o uno e mezzo se preferite, sono sette pagine in fondo. Grazie per essere arrivati fino a questo punto della storia di Angelo: siamo vicini alla conclusione. Prossima settimana pubblicherò un capitolo bonus prima di venerdì, assicuratevi di seguire la storia per non perdervelo. Ciao!

Dzoro

Ultimo Intermezzo

 

- Ehi, Cab. Cab! Non sapevo che oggi fosse giorno di chiusura.- Angelo bussò sulla saracinesca di metallo, ottenendo come risposta solo un cigolio arrugginito, che risuonò come un invocazione di pietà. Non moriva dalla voglia di bere uno dei caffè di Cab, ma l’orario d’apertura era già passato da mezzora, e il vecchio era sempre stato puntuale come l’ufficio del fisco ad aprire le serrande. Angelo si chiese l’ennesima volta che cosa fosse successo.

- Ehi, Cab, ti si è rotta la sveglia? Avanti, devo festeggiare, ho una roba grossa tra le mani. Certo, sarebbe meglio festeggiarla con una birra piuttosto che con il tuo brodo, ma ci tenevo a dirtela. Insomma, siamo amici, no? Cazzo, Cab, apri, mi sento un idiota ad aspettare qua davanti. Senza tenere conto del fatto che sto parlando con una fottuta saracinesca… Cab!-

Ancora niente, silenzio. Per quella dimenticata strada di periferia non passavano macchine, nemmeno persone, nemmeno un maledetto gatto. Angelo stava da solo, insieme al vento, e ad una saracinesca arrugginita. Si grattò la testa, indeciso sul da farsi. Che poteva fare, poi, tornare a casa? Non aveva un cazzo da fare, in casa, il lavoro non sarebbe iniziato prima di qualche giorno, Spencer aveva detto che lo avrebbe chiamato lui. E intanto l’unica cosa che gli era venuta in mente da fare era prendersi un caffè. No, non aveva voglia di tornarsene a casa. Girò dietro la palazzina nella quale si trovava il bar, è trovo un cortile invaso da bidoni della spazzatura straripanti e bottiglie rotte, oltre che una porta ed un citofono. Non vivevano molte persone, lì dentro. Una rapida occhiata vagò sulle poche targhette dei nomi, e trovò subito quello che gli interessava:

- “Cabell Sanders”? Ma che cazzo di nome è Cabell?- mentre mormorava tra se queste parole, suonò il campanello. Fu come bussare alla saracinesca, non accadde un bel niente. Lo suonò di nuovo, lo suonò fino a domandarsi se non fosse rotto. Forse Cab non era in casa, ma era troppo strano per crederci, quello era capace di non uscire di casa nemmeno per il ringraziamento. Diede un paio di colpetti alla porta, e notò che era abbastanza vecchia. Si frugò in tasca, e trovò il pezzetto di metallo ricurvo che usava in quelle situazioni. Chinatosi a terra, alzò i pantaloni, ed estrasse dalla calza un coltello a farfalla. Lo inserì nella serratura seguito dal grimaldello, e non ci volle molto prima che riuscisse a farla scattare.

La porta si aprì gemendo, su di un corridoio di piastrelle bianche e nere, popolato da sacchi della spazzatura, carta da parati lacera e un paio di gatti, che leccavano il fondo di un piattino di latte in un angolo verso il fondo. Angelo prese a controllare i nomi sulle porte, ma si ricordò subito che Cab abitava al primo piano. Le scale erano in fondo al corridoio, dietro ai due gatti. Quando gli fu vicino, alzarono la testa dal piattino, e lo fissarono. Uno di loro miagolò, e Angelo ebbe l’impressione che stesse tentando di dirgli qualcosa. Gli piacevano i gatti, erano dei simpatici furbetti del cazzo, non erano servili come i cani, o puzzolenti come i criceti, o stupidi come i pesci rossi. Sapevano cavarsela senza problemi, e allo stesso tempo mantenere una certa dignità. Pensò che in fondo erano meglio degli uomini. Gli superò, e loro continuarono a fissarlo, mentre saliva i gradini di legno rigati dalle tarme, sollevando ad ogni passo polvere e scricchiolii. Al piano di sopra non c’era nemmeno il corridoio, le scale sbattevano dritto contro una porta di legno laccato, straripante di serrature, con sopra una targhetta di ottone: “Cab Sanders”.

Angelo iniziò subito a bussare:

- Ehi, vecchio, che ti succede, non rispondi?- prese a pugni la porta come se fosse il suo peggior nemico, ma sembrava proprio che quella mattina non avrebbe ricevuto risposte. Si avvicinò con un orecchio alla porta. La dietro doveva essere accesa la radio: sentiva una canzone.

“You got to tell me, brave captain.”

-Ma che cazzo succede? È diventato sordo?- Angelo riprese di tasca grimaldello e coltello, e si diede da fare su una delle serrature: con sua somma sorpresa, risultò essere l’unica chiusa. La porta si aprì subito, Cab non aveva nemmeno tirato il catenaccio, che penzolava molle dall’altra parte.

“Why are the wicked so strong.” Continuava la canzone in sottofondo, mentre Angelo entrava in un anticamera piena di scarpe consunte, e di foto appese alle pareti. C’era una porta socchiusa davanti a lui. La musica veniva da lì. Angelo la raggiunse con il passo lento di chi entra in una casa non sua senza un invito. La aprì:

- Cab?-

“ How do the angels get to sleep.”

Il soggiorno era spoglio, se non per uno scaffale ricolmo di ogni genere di cianfrusaglia: pietre colorate, foto, libri, vasi pieni di conchiglie, navi in bottiglia. Poi c’era solo un comodino, con sopra appoggiato uno stereo risalente agli anni ottanta, e una poltrona che dava le spalle all’ingresso, in mezzo alla sala. Angelo vi si avvicinò. Cab era lì, seduto, con gli occhi chiusi, e con un gatto nero acciambellatogli sulle gambe. I suoi occhi gialli incontrarono quelli di Angelo. Miagolò anche lui.

-Cab?-

“When the devil leaves the porchlight on?”

Cab era morto così, di sera, con gli occhi già chiusi dal sonno, sulla poltrona di casa sua, con un disco di Tom Waits come marcia funebre, e un gatto nero a dargli l’estrema unzione.

 

Un completo nuovo

 

Cab era morto. Angelo non era triste, non pensava di esserlo, almeno. Più che altro era stordito: era come rendersi all’improvviso conto che le persone non vengono solo uccise, ma muoiono anche da sole. Ed era strano, era come un effetto senza la causa, un vaso che cade dalla credenza senza nessuno che lo spinge giù. Cab era morto.

Angelo passò un giorno intero in casa sua. Non era triste, lui pensava di non esserlo, aveva trascorso altre giornate così. Ma questa era diversa, perché Cab era morto. Il funerale sarebbe stato il giorno dopo, in una chiesa lì vicino (per chissà quale ragione Cab era amico del pastore), alcuni suoi avventori abituali, gli operai che andavano al locale la sera, avevano sbrigato tutte le formalità della situazione. Era strano, Cab aveva più amici di quanti se ne attribuirebbero ad un vecchio scorbutico.

Angelo non era mai stato ad un funerale, non che lui se ne ricordasse almeno, sapeva che di solito ci si vestiva di nero. Fu un pensiero improvviso, natogli in testa da un momento all’altro, senza motivo. Lui non ce l’aveva un completo nero. Andò perfino a controllare nel suo armadio, ma non si era sbagliato. Pensò a dove potesse andare per comprarne uno, e gli venne subito in mente. Poco dopo scese in strada, e salì sul primo taxi.

- Buongiorno.- gli fece il taxista, bianco sulla trentina, vestiti puliti, sorridente, cordiale. Angelo rispose con un mezzo grugnito. Poi disse indirizzo e nome del negozio di vestiti.

- Dispiace se accendo la radio?- chiese ad un punto il taxista.

- Sì.- rispose Angelo. Seguì il silenzio, per un po’.

- È una bella giornata, non pensa?-

- Ne ho viste di migliori.-

Ancora silenzio.

- Ha visto ieri Oprah? Da non credere, io stavo per…-

- Non guardo la Tv.-

Silenzio.

-Va. va a comprare un vestito, vero?- evidentemente l’indirizzo era già noto al Taxista.

- Sì.-

- Vendono ottima roba da Claretti, non pensa?-

- Sì.-

- Un’occasione importante?-

- Un funerale.-

Il viaggio proseguì, silenzioso, fino al negozio.

 

Il risveglio arrivò accompagnato da molteplici sensazioni, confuse dal torpore. Un brivido freddo si propagò dalla punta dei piedi al resto del corpo, scuotendo Angelo dal sonno. Stava dormendo? No, non era così, doveva essere svenuto. Un forte dolore alle braccia gli fece capire che qualcosa gli stava tirando gli arti superiori, stretto attorno ai suoi polsi. Si accorse solo in quel momento di non essere sdraiato, ma tenuto in piedi da una corda appesa al soffitto. Le palpebre iniziarono a sbattere, aprendosi lentamente sul buio della stanza: anche quando furono del tutto aperte, Angelo non riuscì a vedere nulla: tutto era avvolto dalla più completa oscurità. Il respiro di Angelo si fece più affannoso, mentre l’adrenalina iniziava a scorrergli in corpo. Iniziarono allora a succedersi gli odori: sangue rappreso, quello era famigliare. L’odore dolciastro della carne morta.

Il freddo continuava a farsi sentire: capì esattamente dove si trovava. Il magazzino del macello Dunham, per l’esattezza la cella frigorifera. Ci era già stato, un anno prima lo aveva addirittura usato per tenere nascosto il corpo di una vittima. Quella sì che era stata una storia pazzesca. Cosa ci faceva lì? Cercò di ricordare, man mano che la sua mente riacquistava lucidità. Aveva appena messo il vestito, stava andando al funerale di Cab. Ricordava due odori, un acqua di colonia straniera, nauseante, prima, poi l’aroma dolce e pericoloso del cloroformio. Ricordava una macchina che si fermava, poi basta. Diavolo se si sentiva male. Non era nemmeno tanto sicuro si fosse trattato di cloroformio, forse era qualcosa di ancora più potente. Qualche altra immagine gli attraversò la mente: uomini, vestiti di nero. Urla in una lingua che non conosceva, mani e braccia che lo immobilizzavano. Due occhi che lo guardavano, da uno spiraglio del finestrino oscurato della macchina. C’era qualcosa di strano in quegli occhi, l’ultima immagine che ricordava. Sottili, freddi. A mandorla. Ecco, erano stati giapponesi, ora ricordava. Non gli ci volle troppo tempo per trovare un motivo per il quale lo avessero rapito: Taneguchi. Non poteva biasimarlo se ce l’aveva con lui, gli aveva ammazzato il figlio in fondo. Però, per qualche motivo, Angelo era ancora vivo. E si mise a sorridere, capendo esattamente quello che stava succedendo.

La porta del magazzino si aprì, lasciando entrare una luce fioca e soffusa, illuminando lunghe file di maiali scotennati e appesi ai ganci del soffitto. Angelo era in uno degli angoli della stanza, di spalle rispetto alla porta. Tentò di voltarsi, ma il nodo attorno ai suoi polsi era troppo stretto. Rimase fermo, ascoltando un rumore di passi che si faceva sempre più vicino.

- Immagino che slegarmi e riportarmi a casa sia fuori discussione, eh?- fece Angelo, senza però riuscire a parlare abbastanza forte da farsi sentire. I passi si bloccarono. Sentì dietro di se la voce di un vecchio, che parlava in una lingua che non conosceva. Poi quella di una persona più giovane, che invece si esprimeva in un inglese quasi buono:

- Sei tu l’uomo dell’easy ride?- la domanda fece sorridere Angelo:

- No, e tu?- passarono alcuni secondi, il tempo necessario per far capire ad un giapponese un affermazione ironica, prima che una feroce bastonata gli si sfracellasse sulla schiena. Una mazza da baseball, o una spada di legno. Lui strinse i denti, ma dentro di se rideva al pensiero di quanto gli avesse fatti incazzare.

- Sai perché sei qui?- gli domando di nuovo quella voce.

“Per fottermi tua sorella, sfigato.”

-Spiegamelo tu, Hiroito.-

-Hai fatto qualcosa che non dovevi fare. Sappiamo tutto.-

-Cosa sapete voi? Mio Dio, siete dei cazzoni. - aspettò un attimo prima di continuare il discorso. - Beh, che ti prende, non mi colpisci con la tua mazza? Lasciami dire altre due cose, allora. Avete perso, ora i coreani sono contro di voi, tutta la cazzo di città è contro di voi. Lo so perfettamente, io so tutto. Ora potete uccidermi, e cosa otterrete? Vendetta? Andiamo, la vendetta è buona per i film. La verità e che non potete uccidermi, perché sono una pedina troppo importante, in scacchiere più grandi della vostra. E se mi fate fuori, sarete davvero fottuti. E voi lo sapete, vero? Certo che lo sapete. Per questo avete montato tutta questa stronzata, il macello, il rapimento. Pensate di farmi paura? Ma lo sapete chi cazzo sono? Avanti, ve lo chiedo un’altra volta, non è una domanda retorica. Pensate davvero di farmi paura?- Non giunse nessuna risposta. Angelo si chiese se non fosse lì addirittura Taneguchi in persona. Se lo immaginò, immobile come una soldato di terracotta, in piedi dietro di lui. Aveva ucciso suo figlio. E lui stava dietro di lui, in silenzio, e lo guardava con odio, senza fare nulla.

- Avanti.- continuò Angelo, quando ancora nessuna risposta era arrivata.

-Avanti. Uccidetemi. Fatelo, se avete le palle. Io so cos’è la morte. Non ne ho paura.-

 

Angelo venne bendato, ammanettato. Prese anche un bel po’ di calci. Doveva averli fatti davvero incazzare. Lo caricarono di nuovo su una macchina, e lo mollarono più o meno dove lo avevano rapito. Sentì qualcuno che gli toglieva le manette, e infine un ultimo calcio in mezzo alle palle. Rimase sul marciapiede per un po’, mordendosi la lingua, respirando a fatica. Quando si rialzò, si tolse la benda dagli occhi. Era un peccato, gli si era rotto tutto il vestito nuovo. La giacca era strappata, e anche sporca di sangue. Sangue? Non si era accorto che lo stava perdendo. Si tastò il corpo, e trovò un sopracciglio rotto. Il sonnifero doveva proprio averlo rincoglionito, non se ne era accorto nemmeno. Buttò la giacca in un bidone della spazzatura, insieme alla benda. Poi si diresse al cimitero.

La cerimonia era già finita, quando lui arrivò. La tomba era stata appena richiusa, c’erano molti fiori sopra. Angelo ne andò a comprare alcuni poco fuori dal camposanto (la donna che li vendeva gli lanciò una lunga serie di occhiate terrorizzate: la sua faccia non doveva essere un bello spettacolo), e ne mise anche lui.

- Ciao vecchio.- fece poi, chinandosi sulla tomba.

- Non guardarmi male, lo so che è da rincoglioniti parlare coi morti. Scusa se non sono venuto al funerale, ho avuto un contrattempo. Volevo solo dirti che il tuo caffè non faceva poi così schifo, e che mi mancherà. Penso che smetterò di berlo. Cioè, non il tuo, il caffè in generale. Capisci, no? Non ne ho mai avuto bisogno in fondo. E poi… e poi basta. È tutto in effetti. Beh. Ci vediamo.- Angelo si alzò, e tornò a casa. Quando fu davanti allo specchio, notò che in effetti era un brutto spettacolo. Si toccò i denti, uno gli rimase in mano. Ma era già finto, quindi pazienza.


 

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Capitolo 13
*** People ***


Ecco come promesso un capitolo bonus! Nonostante sia una delle ultime parti della storia che ho scritto, penso sia anche una delle più importanti. Non succede niente, alla fine tiro solo un po’ le fila di quello che è successo finora. Ma anche tirare le fila è importante.

Dzoro

 

People

 

Dave frenò di colpo il furgoncino, accorgendosi che stava sorpassando l’indirizzo al quale doveva effettuare la consegna. Una macchina dietro di lui suonò ripetutamente il clacson, inchiodando anch’essa all’ultimo istante ed evitando così il tamponamento.

- Ehi, vaffanculo, sta attento dove vai!- urlò qualcuno dal finestrino semi-abbassato della macchina, mentre superava il furgoncino.

- Attento al mio cazzo, coglione!- rispose Dave, mostrando l’indice della mano sinistra. Quella avvolta dalle fasciature.

Dopo il brutto incidente che gli era capitato qualche tempo prima, aveva rivalutato le potenzialità economiche del suo negozio di articoli sportivi, in altre parole aveva iniziato a pensare che ritrovarsi lo scafoide frantumato a colpi di mazza da baseball per aver tirato su pochi dollari spacciando crack non era quello a cui pensava quando si era stabilito in città. Ora il negozio andava avanti con le consegne a domicilio, il fatto di avere un attività piccola gli permetteva di tenere prezzi competitivi, e di vendere abbastanza da poterci campare. Insomma, tutto andava più o meno bene.

Parcheggiò in sosta vietata, tanto da quelle parti non sarebbe passato uno sbirro neanche se fosse stato avvistato Bin Laden limonare con Saddam. Aprì lo sportello posteriore del furgone ammaccando il paraurti dell’auto parcheggiata li dietro, ed estrasse il pacco. La mano gli faceva un male cane, come al solito. Il dottore gli aveva detto di riposarsi per un po’, ma doveva lavorare, cosa poteva farci?

Entrò nell’edificio lì vicino, un palazzo di poco più di dieci piani, dal colore simile ad una chiazza di vomito. L’atrio era deserto, c’era solo una pianta morta, caduta a terra da tempo immemore insieme al suo vaso, e un nastro della polizia abbandonato in un angolo. Quest’ultimo particolare attirò l’attenzione di Dave: doveva esserci stato un omicidio di recente, non era una cosa poi troppo rara in quella parte della città.

Prese l’ascensore, fino al tredicesimo piano, e bussò alla porta dell’appartamento al quale era indirizzato il pacco (stranamente non c’era il campanello, era stato asportato del tutto lasciando vicino alla posto solo un buco dal quale sporgevano due fili tronchi). Gli aprì un tizio sulla trentina, maglietta scolorita e jeans macchiati, capelli lunghi, aria da fattone.

- ‘giorno. Il signor Nichols?- chiese Dave.

- No, no, è di là, mi ha detto di aprire.- Rispose l’uomo, scuotendo la testa.

- Ah, ok. Posso entrare? Ho bisogno di una firma.- e anche di essere pagato.

- Credo di sì. Prego.- entrambi entrarono nella casa, fino ad arrivare in soggirono. Si sedettero sul divano, e iniziarono ad aspettare. Dave si guardò intorno: notò subito il posacenere sul tavolo davanti al divano, pieno di pezzettini di metallo estremamente simili a proiettili. Per terra adocchiò un bisturi arrugginito, e iniziò ad intuire dove fosse capitato. Il terzo particolare che lo colpì fu la mano del fattone accanto a lui, che era fasciata come la sua.

- Te la sei rotta pure te?- chiese a bruciapelo.

- Cosa? Oh, no, no, una cazzo di storia, giuro su Dio, mi hanno sparato!-

- Che? Ti hanno sparato alla mano?-

- Una cazzo di storia, te l’ho detto! Insomma, me ne sto tranquillo in casa mia, mi faccio i cazzi miei, no? Ed arriva all’improvviso questo gran rottinculo che mi spara! Io me la faccio addosso, penso che sta per uccidermi, no? E invece lo stronzo decide di portami all’ospedale!-

- Al… cosa? Mi prendi per il culo. -

- Te lo giuro, non ho capito nemmeno io che cazzo è successo, fatto sta che prendiamo la macchina, e arriviamo lì, no? E io che cazzo ci faccio all’ospedale con una ferita d’arma da fuoco? Sai quante cazzo di domande ti fanno? Avrei dovuto denunciarla alla polizia, dirgli come era successo, no? E figurati se vado a denunciare quel cazzo di mafioso, o gangster, o quel cazzo che era agli sbirri: altro che un buco nella mano, no? Quindi me ne vado per i cazzi miei da un dottore che opera senza fare troppe domande. Ora sono qui a farmi togliere i punti.-

- Non potevi venire direttamente qui, invece che farti portare all’ospedale prima?-

- Scherzi? Quello stronzo mi stava per ammazzare, figurati se mi mettevo a chiedergli di farmi da tassista. Per fortuna alla fine è andato tutto bene, no?-

- Immagino di sì.-

Il dottor Nichols emerse in quel momento dal bagno, accompagnato dal suono dello sciacquone. Indossava un grembiule, infilato su di un maglione e un paio di pantaloni logori.

- Ah, salve. Ha il pacco per me?- fece in direzione di Dave.

- Certo, deve solo firmare qui. Sono centonovantanove dollari e novantacinque.-

Nichols estrasse una penna di tasca, e firmò il foglio che Dave gli aveva porto.

- Ci dedichiamo alla pesca, eh?- chiese Dave, riferendosi a quello che lui sapeva essere il contenuto del pacco. Era una canna da pesca, insieme ad esche, ami e stivali di gomma.

- Sì. -

- Una vacanza?-

- Lascio la città.-

- Cosa?- sbottò il fattone all’improvviso, irrigidendosi di scatto.

- Beh, che c’è da far tanto casino? Me ne vado, tutto qui.-

- Ma… ma cosa è successo? Pensavo il lavoro non le mancasse e… e beh, non me l’aspettavo.-

- Cosa è successo? Niente, assolutamente niente. Forse mi sono soltanto stufato. Ho trovato una baita, in affitto, in montagna. Ci starò finché i soldi non finiscono.-

- Stufato?-

- Sì. Questa città non è un bel posto. Mi sono rotto. Come era quel film? “Non è un paese per vecchi”. E io mi sento vecchio, e me ne voglio andare.- finita quella frase, nessuno disse più nulla. Una volta intascati i suoi cento dollari, Dave fece un cenno con la testa, come per dire grazie, e se ne andò.

 

- Che ti succede, Joshua, ci sei rimasto male?- il dottore ruppe il silenzio poco dopo, mentre toglieva la fasciatura al suo paziente. Fece la domanda con una punta di ironia, un po’ come dire “Non ti sari mica innamorato?”

- No. Però è strano. La consideravo un… Un’ istituzione, capisce, no?-

- I tempi cambiano.- tagliò corto Nichols – si arriva sempre ad un punto, in cui qualcosa deve cambiare.-

 

- Scusate! Permesso! Scusate, eh?- l’agente, un bianco grassoccio più sulla quarantina che la trentina, e con un paio di baffi spelacchiati, barcollò in mezzo alle scrivanie della centrale, sorreggendo due bicchieri di Starbucks, attento a non farli cadere. Pestò qualche piede, chiese innumerevoli volte scusa, ma alla fine giunse quasi incolume alla scrivania alla quale voleva arrivare. Sbuffando, appoggiò i bicchieri.

- Ecco, Ralph. Ho il tuo frappuccino.- Senza ringraziare, Ralph afferrò il bicchiere, aprì il coperchio e annusò il contenuto.

- C’è la cannella.-

- Avevi detto che lo volevi con la cannella.-

- Avevo detto senza.-

- Oh.-

- Lascia stare, non importa. Cannella, bella merda.- sbottò schifato Ralph. Bevve un po’, mentre leggeva un piccolo fascicolo appoggiato sulla sua scrivania. Anche il poliziotto grasso iniziò a bere, guardando il suo collega come per controllare che non si arrabbiasse. Ralph buttava giù un sorso dopo l’altro, esibendo una faccia schifata dopo l’altra, perlopiù per far sentire in colpa il suo collega.

Ad un certo punto alzò la testa dalla sua lettura e disse:

- Questo potrebbe interessarti.-

- Di che si tratta?-

- È un rapporto stilato da… come si chiama? Dai, quello della omicidi, divorziato, calvizie incipiente.-

- Kautsky?-

- No, non sparare nomi a caso, per piacere. e chi cazzo è Kautsky? E che cazzo di nome è Kautsky, poi? Ma te li sogni di notte?-

- No. Kautsky, della omicidi, è…-

- Dickinson. Sì, è di Dickinson.-

- Ma chi è Dickinson?-

- Quello della omicidi, lui, via! C’è scritto pure qui.- Ralph agitò il rapporto sotto il naso del collega, senza che egli potesse effettivamente leggere alcunché.

- “Chi è Dickinson”, ma dove vivi? Allora, dicevo, può interessarti.-

- E perché?-

- Ti ricordi quella storia dell’omicidio di quel banchiere, Gary Dawson, mesi fa?-

- La scomparsa, non l’omicidio.-

- E chi ci crede più che è vivo? Insomma, il giorno prima della sua scomparsa, un testimone dice di aver visto nei dintorni della banca un tizio che chiedeva informazioni riguardo a Gary. Ovviamente era un sospettato. Ne abbiamo fatto un Identikit, ma i ricordi del testimone erano troppo vaghi. Insomma, potevamo pisciare su un foglio e avremmo avuto un ritratto più somigliante. E abbiamo continuato fino ad adesso, finchè Dickinson…-

- Ti ripeto che si chiama Kautsky. Dici Dickinson perché si chiama Dick.-

- Ma che cazzo vuoi dalla mia vita? Quindi non solo ha uno scioglilingua al posto del nome, ma si chiama Dick. Ma lo sai che c’è qualcosa di perverso nelle cazzate che dici?-

Il poliziotto con i baffi abbassò lo sguardo come un cane bastonato, mormorando appena “ma è la verità”, poi rimase zitto.

- Dicevo, finché Dickinson non ha messo le mani su altri identikit di possibili sospetti di altri omicidi avvenuti nello stato quest’anno, li ha confrontati e… beh, c’erano dei tratti ricorrenti. La stessa persona? Perché la stessa persona dovrebbe uccidere tanta gente senza apparente collegamento, e non solo in città, da un angolo all’altro dello stato.-

Il poliziotto coi baffi sembrò riflettere:

- Un killer a pagamento?- suggerì infine.

- Ehi, vedo che hai fatto i compiti per casa.- Ralph rise, l’altro accennò un sorriso - Stronzate.- disse infine.

- Come?- chiese l’altro, non sicuro di aver capito bene.

- Hai mai visto quel film, quello con quel tizio francese, che parla di un Killer a pagamento.-

- No, non mi pare.-

- Beh, allora ascolta. Parla di un killer che dall’inizio alla fine del film non fa altro che ammazzare su commissione. Perché la polizia non lo riesce ad arrestare? Perché è bravo, va bene, ma non basta. Non è semplicemente possibile che un uomo uccida tante persone in così poco tempo, uccidere non è mica facile come sembra. Subito partono inchieste, indagini, e se tu non sei bravo a nasconderti il giusto tempo, finisci dentro, poco ma sicuro. Poi a che servirebbe fare tanti lavori, cioè, tanti omicidi su commissione? Uno solo basta a guadagnare soldi per vivere agiatamente per un bel po’ di tempo. Perché continuare, dopo aver racimolato una fortuna? E poi di solito un malavitoso non assume un professionista per fare un lavoro, manda dei sicari, gente del giro, di cui si fida, che poi magari non uccideranno più nessuno in tutta la loro vita. L’ipotesi di Dickinson, alla fine, è affascinante, posso ammetterlo. Ma non ci credo. Non esiste un super assassino, che se ne va libero per il paese, senza che nessuno ricordi quale sia la sua faccia.-

L’agente con i baffi ascoltò rapito il ragionamento del collega, ed entrambi rimasero un attimo in silenzio, prima che lui prendesse la parola:

- E se esistesse invece?-

- Non esiste.- ribattè Ralph - Punto.-

 

- Ciao, Esther.-

Ed appoggiò un mazzo di fiori gialli sulla lapide. Sopra c’erano pochi altri fiori appassiti, e la foto di una donna sorridente: in effetti Ed non riusciva a ricordare un momento in cui sua moglie non avesse sorriso. Il cimitero era silenzioso quel pomeriggio, avvolto da una luce opaca, che sembrava illuminare soltanto la polvere. Ed si guardò intorno: era solo. Riprese a parlare:

- Te l’ho mai raccontato come finisce quella storia, in Corea? Quel ragazzo, con il fucile in mano, davanti a me. Intorno a noi c’erano solo morti: i miei uomini. I suoi. Eravamo rimasti solo noi, e il mondo. È un bastardo indifferente, il mondo. Lui avrebbe premuto quel grilletto, e il mio mondo mi sarebbe stato strappato da sotto i piedi. Era finita, capisci? Beh, lui sparò. Ma prima diresse il fucile contro la sua testa. Se lo puntò in mezzo agli occhi e… e, beh, premette il grilletto. Basta. Era… era finita.-

Ed non disse più nulla. Una brezza gelida sibilò per un attimo tutt’intorno, come per riempire quel silenzio incolmabile.

- Dio mio, Esther. Io me lo chiedo ancora.- continuò dopo qualche minuto, con voce strozzata – Me lo chiedo ancora perché l’abbia fatto. Ma io lo so bene perché lo ha fatto. Piuttosto, mi chiedo se non abbia fatto bene a farlo.-

- Esther, perché? Qualsiasi cosa che facciamo, bella, brutta, qualsiasi cosa! Provare qualcosa che sembra davvero bello, amare, o solamente fottere come animali, odiare il proprio nemico, uccidere, Diosanto Esther, è la stessa cosa! Alla fine rimaniamo soli. Che cambia? Alla fine non ci rimane nulla. Io pensavo di averti, eppure ti ho persa. Cosa mi rimane, allora? Che cosa?-

 

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Capitolo 14
*** La macchia sul muro ***


Quello che succede in questo capitolo è successo realmente. Ma grazie a Dio è soltanto un sogno che ho avuto. Non ricordo se lo ho avuto prima o dopo aver iniziato a scrivere questa storia, ne tantomeno se fossi io ad essere Angelo, o se avessi semplicemente assistito alla scena. Però ero in quella stanza, e ho visto la macchia sul muro.

Dzoro

 

La macchia sul muro

 

Era una mattina che puzzava di caffè bruciato, e aveva il sapore dell’aspirina. Angelo ci si trovò dentro non appena il suono arrugginito della sveglia lo strattonò via a forza dal torpore del sonno. Mai capito come funzionasse quella cazzo di sveglia, suonava a casaccio, ogni tanto, nel momento meno opportuno. Chiunque l’avrebbe buttata: non Angelo, lui non era mai a casa. Però ogni volta che si svegliava in quel modo la scaraventava a terra, sperando che si rompesse. Ma restava lì, perfettamente integra, ticchettando sorniona, come se volesse dirgli che non poteva dormire in eterno, che non poteva tenersi fuori dal flusso incessante del tempo. Il tempo è un assassino impacciato, armato di lancette di stagno. Ti trafigge, lentamente, e sei te a guidare la sua mano insicura.

Angelo si alzò dal letto con in bocca il sapore del vomito, e strisciò fuori dal letto, infilandosi in un’altra giornata, che lui non aveva chiesto a nessuno, ma che ogni mattina gli veniva recapitata puntualmente. Come una bolletta del gas, come una lettera di tua madre alla quale sai già che non risponderai. Infilò i piedi nelle scarpe, infilò le scarpe fuori di casa. Camminò attaccando un passo all’altro, senza pensarci, senza fermarsi. Comprò il giornale con una banconota da dieci dollari, e non chiese il resto, e lo lasciò su una panchina nel parco. Mangiò in un chiosco di hot dog. Andò a pisciare in un cesso pubblico. Prese un caffè in un bar. Sedette. Aspettò.

 

Al tramonto si trovò di nuovo davanti all’ingresso di casa sua. L’occhio gli cadde su di una macchina parcheggiata dall’altra parte della strada: un modello europeo, a cui non riuscì a dare un nome, nero lucido, così pulito che sembrava che mai la polvere ci si sarebbe potuta posare sopra.

Sullo zerbino di casa sua lo aspettava ad Spencer in persona: indossava un completo grigio, una cravatta color crema e un sorriso troppo raggiante per essere sincero.

- Buonasera signor Salerni, la posso disturbare?-

- Archie. Dimmi pure, che succede?- Angelo gli strinse la mano. Aveva una stretta da politico Spencer, calda e sufficientemente robusta. Una stretta per tutte le occasioni.

- Dovrei un attimo parlarle di lavoro.-

- Allora, si inizia?-

- La vedo impaziente.- disse l’altro, con una risata compiacente. Angelo sentì un profondo senso di fastidio invaderlo. Non tanto perché Spencer non avesse risposto alla sua domanda, quanto per quella parola che aveva appena pronunciato. Impaziente? E di che cazzo doveva essere impaziente? Di uccidere ancora, di far fuori altre persone? Ma che cazzo gli passava per la testa, chi cazzo pensava che fosse? Pensava che era uno stronzo che uccide per piacere, pensava che uno come lui non vedesse l’ora di tornare ad uccidere? Impaziente.

Angelo provò quasi spavento, rendendosi conto che l’irritazione si era appena trasformata in rabbia. Quel figlio di puttana stava solo scherzando, non c’era un motivo per perdere la pazianza. Scosse la testa, tentando di scacciar via l’irritazione come si scaccia una zanzara. Diavolo, forse impaziente lo era davvero, in fondo. Forse era stufo di aspettare, forse si era accorto di quanto quella sua vita fosse vuota, quando non la riempiva con un po’ di morte.

- Signor Salerni?- Chiese Spencer, con un sorriso appiccicato a fatica su di una faccia imbarazzata.

Angelo si accorse che quel violento flusso di pensieri doveva averlo addirittura tenuto impalato per qualche secondo, come un ubriaco. Si sentì un idiota.

- Scusi. sono solo stanco. Sì, stanco, tutto qui.-

- Capisco. forse allora è meglio se torno in un altro momento. Vede, avevo un affare da proporle.-

Un affare. Un lavoro.

- No, non si preoccupi. Mi dica.-

Spencer prese un biglietto di tasca: sopra c’era un indirizzo.

- Vive da sola, a questo indirizzo. Non è un lavoro che affiderei a lei, in situazioni normali, ma al momento tutti i ragazzi sono impegnati, e la famiglia non può certo fare tutto quello che gli passa per la testa. Sono tempi difficili, la polizia ci tiene il fiato sul collo. Se lei potesse occuparsene…- lasciò la frase in sospeso, tendendo il foglio. Angelo lo prese. Non sembrava una cosa difficile, e certo non lo era. Capì solo a metà il giro di parole di Spencer, ma che glie ne fregava a lui di sapere perché gli avessero affidato quel lavoro? Lo accettò, disse a Spencer di non preoccuparsi.

 

L’appartamento era vuoto, quando Angelo ci entrò. Era un monolocale, da una parte angolo cottura e un frigo ricoperto da un mosaico di calamite colorate, dall’altra un letto e un televisore. Non era stato difficile entrare, la porta non aveva un chiavistello, non era nemmeno chiusa a doppia mandata. Chiunque abitasse lì era un ottimista, non temeva nessun ladro. Nessun assassino. Accendere la luce rivelò numerosi poster sulle pareti, cantanti e attori, perlopiù giovani. Ogni secondo che passava dava sempre più ad Angelo l’impressione di trovarsi nella stanza di una ragazzina. Controllò più volte che l’indirizzo fosse quello giusto, e lo era, ed ogni volta si chiedeva chi ci fosse in quell’appartamento che meritasse di morire. Si sedette sul letto, sbuffò, aspettò che il suo obiettivo facesse ritorno a casa. C’era una trapunta di Hello Kitty.

Vicino al letto si trovava un armadio. Angelo si accorse di essere davvero curioso. Lo aprì. Vestiti da donna, giovane. Tutto in quella stanza raccontava di una ragazza. Una prostituta forse. Una donna del genere potrebbe meritare di morire per un infinità di motivi diversi.

Passi nel corridoio. Angelo spense la luce, e si mise dietro l’anta aperta dell’armadio, così che chiunque fosse entrato non avrebbe potuto vederlo. Erano passi leggeri, quelli che giunsero dal corridoio dietro l’ingresso. La porta si aprì, la luce si accese. Angelo si sporse leggermente, per vedere chi fosse: vide una busta della spesa, da cui spuntava il ciuffo verde di un gambo di sedano. Una figura indistinta e colorata passò davanti alla sua linea di visuale, e poi sentì la porta di ingresso chiudersi. Di nuovo qualcosa passò per lo spiraglio dal quale Angelo sbirciava, ma non era uno spiraglio abbastanza grande. Uscì dal suo nascondiglio. Girata di spalle, china sul frigo, c’era una ragazza. Minuta, vestita in modo trasandato. Prese da uno dei ripiani del frigo un cartone di succo di frutta, lo svitò e ne bevve. Angelo trasse da sotto la giacca la sua silenziata. Lei si voltò. Non l’aveva sentito, si era voltata e basta. Teneva lo sguardo basso, mentre ri-avvitava il tappo del cartone. Dei capelli biondo chiaro ricadevano a ciocche disordinate intorno alla faccia di una ragazza giovanissima, con gli occhi grandi e tondi, le labbra sottili. Angelo se lo domandò di nuovo.

“Perché?”

Lei lo notò in quel momento. Un grido strozzato, ed il cartone cadde per terra, emettendo un tonfo sordo e lasciando uscire uno schizzo appiccicoso. Era terrorizzata, e come avrebbe dovuto sentirsi altrimenti? Angelo imprecò tra se: avrebbe potuto sparargli alle spalle, aveva avuto tutto il tempo del mondo.

- Vuoi i soldi?- domandò lei, confusa.

La ferita le si aprì nell’orbita dell’occhio destro, il proiettile uscì dalla sua testa perforandole la nuca. Si piantò nel muro, che subito si ricoprì di una macchia rosso scuro. In mezzo ad essa c’erano alcuni grossi grumi, pezzi di cervello,e di scatola cranica. Iniziarono a scivolare con lentezza lungo la parete, dipingendo lucide scie di sangue. Fecero un rumore starno quando si staccarono, e caddero sul pavimento, come di una ventosa. Ad angelo parve di non averlo mai sentito. Il cadavere era già a terra, con la bocca leggermente aperta, come se anche lei chiedesse “perché?” Angelo non la sapeva la risposta. Camminò per un po’ avanti e indietro per la stanza, nervosamente.

“Merda.” Guardò il cadavere. Poi si girò, camminò avanti e indietro per la stanza, lo guardò di nuovo. Lo guardò più volte, prima di uscire.

“Merda.”

Dal momento in cui tornò in macchina iniziò a girare per la città, senza metà, come un pazzo. Non l’avrebbe mai ammesso, ma l’idea di aver sbagliato obbiettivo lo tormentava. Si fermò ad un distributore, e prese il cellulare. Cercò il numero di Spencer.

- Buonasera signor…- la voce di Spencer era stupita, quando rispose.

- Spencer, devo parlarle.- lo interruppe subito Angelo. Spencer indugiò un attimo, prima di rispondere.

-Ora? Mi scusi, sono al ristorante, con la mia famiglia, eviterei se si può. Non può aspettare un paio d’ore, soltanto?-

- Ora ho detto. Ora.-

- Mi scusi, non…-

- Ora, ora, vaffanculo, ora! Mi capisci, frocio? Ora, adesso!- qualcuno, la intorno, si voltò allarmato verso di lui, ma Angelo non ci fece caso. Spencer rimase un attimo in silenzio.

- Ma è successo qualcosa?-

- No, tutto a posto, una favola, ma devo parlarle. Ora.-

 

Golden Tower. Angelo conosceva il posto. Tende dorate alle pareti, pavimento bianco, camerieri impeccabili, pieno della gente giusta della città, e di una magnifica luce dorata. Angelo incedette fino al tavolo di Spencer, ignorando le domande dei camerieri, che fin dal momento in cui era entrato lo avevano guardato allarmati. Spencer era in compagnia di una donna bionda, dal volto allungato e severo, vestita con un completo di giacca e pantaloni dall’aria costosa e austera, e due bambini, maschio e femmina, più o meno della stessa età, agghindati come due bambolotti. I ragazzi fissavano quell’uomo, tanto fuori luogo, con una serietà che non sembrava quella di un bambino. Spencer fece per un po’ vagare uno sguardo imbarazzato tra Angelo e la sua famiglia, pensando a come risolvere la situazione.

- Ehm… Kat, questo è il signor Manson, lavora con me. porta i bambini a scegliere il dolce, al carrello, io parlo un po’ con lui.-

La moglie lo guardò con disprezzo, senza dire una parola. Prese i bambini per mano, e si allontanò dal tavolo. Spencer li fissò allontanarsi, poi guardò Angelo negli occhi, sospirando:

- Signor Salerni, spero capisca che non era il momento migliore.-

- Mi scusi tanto se non me ne frega un cazzo. Chi è che ho ucciso?-

-Signor Salerni! Ma cosa..?- Spencer si guardò attorno, come per far notare che c’era gente.

- Non sto urlando, non ci sente nessuno. Chi?-

Spencer sospirò, e fissò Angelo con aria molto grave. Angelo si chiese perfino se non avesse tirato troppo la corda. E perché l’avesse tirata.

- Signor Salerni- iniziò Spencer –non faccio un lavoro meno sporco del suo. Vedo tutta la merda che vede anche lei, forse anche di più.-

- Ma non ci ficca le mani dentro.-

- La pianti. A cosa serve tutto questo? Avevo sentito che a lei non interessava chi fosse la sua vittima.-

- Era una ragazzina, porca puttana, aveva quindici… sedici anni. Perché?-

In quel momento, il dubbio di aver sbagliato obbiettivo lo attraversò di nuovo. E da una parte, se avesse davvero sbagliato, la terra sarebbe tornata a girare nel verso giusto: avrebbe potuto tornare a stare calmo, perché non ci sarebbe stato nessuno al mondo a desiderare la morte di una ragazzina di sedici anni. Dall’altra, avrebbe significato che quella ragazza era morta per nulla.

Spencer rimase serio.

- Ci tiene davvero così tanto a saperlo?-

- Faccio un lavoro del cazzo, e ho i miei capricci. Chi?-

- Non era nessuno. Un’attricetta porno, faceva la lesbica in filmati da due soldi che poi sarebbero finiti su internet. Aveva diciannove anni. Tony ci aveva provato con lei, lei lo aveva mandato a cagare, lui non aveva digerito la cosa.- Detto ciò, Spencer tacque.

- Tony Capuzzi.- mormorò Angelo.

- Sì.- confermò Spencer.

- Tutto qui?-

- Sì.-

- Fanculo.- Angelo si gettò sullo schienale della sedia. Spencer lo fissò, mentre la sua espressione andava ad addolcirsi:

- Il male è più banale di quello che si pensa, signor Salerni.-

- E che cazzo vuol dire?-

- È filosofia.-

- Sono stronzate. Che cazzo è il male?-

- Signor…-

- Sono io? Sono io, forse?-

- La smetta!- gli ingiunse Spencer, sibilando tra i denti. La gente, la attorno, li stava guardando. Angelo si rese conto di aver alzato al voce: si calmò.

- Era solo il suo lavoro. Sarà pagato, per questo.- Disse Spencer. Tentava di consolarlo. Patetico.

- Non importa. E scusa per la scenata. Ma lei…- “sembrava una bambina. Sembrava innocente. Poteva essere tua figlia. Era piccola, bella. E tu le hai fatto esplodere la testa.”

Spencer scosse il capo:

- Signor Salerni, stia tranquillo. Abbiamo tutti i nostri momenti difficili. Passerà. Però ci pensi due volte, la prossima volta.- il suo tono di voce si inasprì – Non voglio che la mia famiglia finisca in mezzo al mio lavoro. Capisce?-

- Sì.- angelo era chino in avanti, con la testa tra le mani.

- Non la mia famiglia.-

- Sì. Mi dispiace.-

- Non loro.-

- No.-

- No.-

- No.- ripetè Angelo, ancora una volta, meccanicamente.

- Allora, ci siamo capiti. Ora vado via, li porto a prendere un gelato. Ha già mangiato, lei?-

- No.-

- Fanno un aragosta fenomenale qui. Glie ne faccio portare una, va bene? Offro io, eh?-

- Okay.-

- Okay.- Spencer se ne andò. Diede addirittura una pacca sulla schiena ad Angelo. E lui si sentì un perfetto sfigato. C’era mancato poco che non si fosse messo a piagnucolare, come un cazzone. E ancora non riusciva a capire: cosa era per lui quella ragazzina? Nulla, un bel cazzo di niente. Nulla.

L’aragosta arrivò di lì a poco, in mezzo a delle foglie lucide d’insalta. Quando angelo la tagliò, uscì un acquetta bianca e schiumosa. Non aveva fame. La lasciò lì, e tornò a casa.

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Capitolo 15
*** Stasi ***


Non ho nulla di particolare da dire, se non di chiedervi di assicurarvi di aver letto il capitolo precedente, sennò capirete ben poco di questo. Spero vi piaccia.

Dzoro

 

Stasi

 

Si svegliò a mezzogiorno, e si chiese quanti giorni fossero passati. Si chiese come li avesse passati, poi. Che aveva fatto, cosa aveva mangiato, dove? Angelo non beveva, non si drogava, ma aveva passato quegli ultimi giorni completamente fuori di se, come un animale, come se ogni sua azione fosse stata completamente dettata dall’istinto, come un riflesso abituale. Come una rana con un cavo elettrico ficcato nel culo, aveva ballato il suo inutile valzer, aspettando. E, ogni tanto, ricordandosi di quella macchia sul muro, e dei pezzi di cervello che scivolavano, e del loro rumore, mentre toccavano terra.

“Quante persone hai ucciso? Te lo ricordi il primo?

Quell’afghano, armato di kalashnikov, sorpreso in una casa che puzzava di piscio acido, miracolosamente rimasta in piedi a Khafji dopo i bombardamenti. L’avevi guardato negli occhi, prima di far scattare il grilletto del M-16. E avevi visto quell’espressione stupida, volgare, quasi ridicola, come se non se lo aspettasse. Davvero niente di tragico, in fin dei conti. Non ti eri sentito diverso, subito dopo, quando il sangue si era mischiato con la sabbia, diventando solo del fango con un colore strano. Non ti eri sentito peggiore. Non più malvagio.”

Forse il male era davvero banale, come diceva Spencer.

“Il secondo, poi, te lo ricordi? Forse è stata una bomba a mano, come potresti ricordarlo? Quando il fumo si era diradato, anche lui non era che una macchia sul muro. E così, molti cadaveri dopo, te ne sei convinto. Che avresti potuto continuare ad uccidere all’infinito, fino al momento in cui saresti diventato te la macchia sul muro.”

E invece, qualcosa, in quell’appartamento miserabile, davanti al cadavere di quella ragazza, qualcosa si era rotto. Perché non lei?

“Sei stato te a deciderlo, ricordi? Hai scelto te questo mestiere. Uccidere, solo per soldi, con freddezza. Non ti sei mai creato codici morali, o stronzate simili. Dovevi uccidere e basta. Uno spacciatore, uno stupratore, un mafioso, non meritavano di morire più di quanto lo meritasse quella ragazza. Nessuno meritava di morire, e così era come se tutti lo meritassero. Se nessuno ti scopre, nessuno ti giudica. E se qualcuno ti giudica, che cazzo te ne frega a te? Sei libero. Libero cazzo, fino alla fine, fino a quando diventerai anche te una macchia sul muro.”

Eppure, ogni volta che pensava a lei, sentiva la nausea, calda e viscida, annodarglisi intorno allo stomaco. E capiva, che era successo qualcosa. Ma non capiva cosa.

 

Si trovava per strada. Il sole era alto. Mezzogiorno? Forse. Dove si trovava? Era uno dei suoi itinerari preferiti, o almeno lo era stato fino a qualche tempo prima. Prima che Cab morisse. La strada che portava al suo bar. La percorse come di suo solito, trascinandosi sul marciapiede deserto. Quella strada era sempre stata vuota di giorno. Quando vide il camion, e la gente che vi si affaccendava attorno, affrettò il passo, incuriosito. Era un camion dei traslochi, ed era parcheggiato esattamente davanti al vecchio bar. Quando poté sbirciarci dentro, vide dentro molte cose, mobili, scatoloni di cianfrusaglie, prelevati sia del bar che dell’appartamento di Cab.

- Mi scusi, può spostarsi?- uno degli addetti al trasloco spinse da parte Angelo, mentre caricava uno scatolone. Angelo arretrò, e così facendo sbatté contro qualcuno.

- Oh, mi dispiace.- fece questi, anche se la situazione avrebbe richiesto le scuse di Angelo, non certo le sue.

- No. niente.- farfugliò Angelo. Era una donna, di colore, sulla trentina. La felpa e i jeans stretti fasciavano un corpo magro e minuto, ma il suo volto era florido, in carne, e i suoi occhi erano familiari.

- Portate via le… cose?- chiese quindi Angelo, non trovando una parola migliore con cui concludere la frase.

- Sì, le cose.- la donna sorrise. Quando sorrideva le guance le si alzavano, e il suo viso diventava molto dolce. C’era un che di malinconico, e di rassicurante in quel sorriso.- Conosceva il locale?-

- Ero un amico di Cab. Ci andavo spesso.-

- Suo amico, eh? Pensavo che con il suo carattere non se ne fosse mai fatti.-

- Eh, sì, aveva proprio un carattere di merda.- Angelo si bloccò: qualcosa, nella voce della donna, lo metteva a suo agio, toglieva i suoi consueti freni inibitori, che in altre situazioni non gli avrebbero fatto dire una parolaccia davanti ad un estraneo. Ci fu un attimo di silenzio imbarazzato, tra loro. Poi lei rise:

- Beh, cavolo se è vero! Di merda, sì.- aveva dei bei denti. Bianchi. Anche Angelo sorrise.

- Sei sua parente? Sua figlia?-

- Sono Angie. Era mio papà.- gli porse la mano. Lui la strinse.

- Angelo.- rispose, ripetendo il nome che aveva detto centinaia di volte a centinaia di sconosciuti, e che qui gli sembrò tanto fuori luogo.

- Angie e Angelo. Carino!- rise lei.

- Sì.- rimase zitto un attimo - La figlia di Cab. Non sapevo fosse sposato.-

- Separato. La mamma aveva scoperto che lui, beh, la tradiva. Non lo vedo da quando avevo dieci anni. Ho saputo che era morto solo qualche giorno fa.-

- Mi dispiace.- Che altro dire? Lei sorrise ancora, e fece un gesto con la mano, come per dire che era tutto a posto:

- Tranquillo, Angelo. Lo conoscevo appena, e mia madre me l’ha sempre fatto odiare. Ne parlava sempre così male.- abbassò lo sguardo. Le dispiaceva, era chiaro.

- Insomma. ho appena scoperto che, non essendoci nessun testamento, sono l'unica erede di tutte le sue ricchezze. Ed eccomi qui.-

- Ti ha lasciato il locale?-

- Sì. Qualcosa di utile c’era. Ma perlopiù è roba vecchia. Un po’ di cose le lascerò qua fuori, se vedi qualcosa che ti piace, serviti!-

Angelo adocchiò una cassa piena di dischi in vinile, abbandonata sul marciapiede. Vi si chinò sopra:

- Non ti piace Tom Waits?-

- Non ascolto molta musica. prendili se vuoi.-

- Cab ne andava pazzo. I suoi lo avevano chiamato così in onore di Cab Calloway, ma niente, sapeva appena chi era. Invece Tom Waits poteva ascoltarlo per ore. Mai sentito di un negro che ascolta Tom Waits. Oh, scusa!- Angelo si morse la lingua: Angie non sembrava molto più bianca di quanto lo fosse il padre. Come prima, era stato sopraffatto dalla confidenza che quella donna sapeva infondere in lui.

- Tranquillo, anche la mamma lo chiamava così. “Quel negro di merda”!- lo disse con una voce bassa e caricaturale, entrambi non poterono che ridere di nuovo. Quando smisero, Angie abbassò lo sguardo. Angelo riprese a spulciare i dischi.

- Lo conoscevi bene?- domandò lei.

- Non poi troppo. Mi preparava solo il caffè, in fondo. Era un tipo che ti mandava a cagare piuttosto che salutarti, ma immagino fosse il suo modo per dimostrare affetto. Era un mio buon amico, non era una persona cattiva.- “Era il tuo unico amico. Non era una persona cattiva? E come cazzo fai a dirlo, era un informatore, vedeva tutta la merda che vedevi te. Stai mentendo, le stai mentendo. Che cazzo ne sapevi tu, di quel vecchio?” Angelo si sentì attraversare da un fastidioso rimorso. Stette qualche secondo in silenzio, a guardare i dischi. Resosi poi conto di come quel suo improvviso tacere fosse strano, alzò la testa e concluse il discorso:

- Tu sei sua figlia, forse ne sai molto di più.-

- Te l’ho detto, ricordo poco di lui.-

- Poco?-

- Una volta, al mare, abbiamo costruito insieme un castello di sabbia.-

- Beh, è un bel ricordo.-

- Già.- lei, rimase di nuovo zitta. Angelo si chiese a cosa stesse pensando. Vide che sulle sue labbra, c’era ancora quel sorriso malinconico.

Continuò a spulciare i dischi, non sapendo cosa altro dire.

- Ti interessano?- domandò lei, all’improvviso.

- Posso prenderli?-

- Vai pure.-

Angelo sollevò lo scatolone, era pronto ad andarsene.

- Beh, mi ha fatto piacere conoscerti. Arrivederci.-

- Ciao.- rispose lei. Lui si voltò, e fece diversi passi.

- Aspetta!- Angelo non pensava già più che avrebbe sentito di nuovo la sua voce. Si voltò. Angie gli si stava avvicinando, con in mano una penna ed un pezzetto di carta. Appoggiò il foglietto sullo scatolone tra le braccia di Angelo, e scrisse qualcosa.

- Lavoro in un ristorante. È anche un Motel, siamo abbastanza lontano dalla città, ma passa se vuoi. Mi ha fatto piacere parlare con te.-

Sul biglietto c’erano un numero di telefono e un indirizzo. Lo appoggiò nello scatolone, tra i dischi.

- Così se ti viene in mente altro su di lui… beh, possiamo parlarne.- finì lei. Angelo non sapeva cosa rispondere. Sorrise.

 

Quando tornò a casa, Angelo frugò nello scatolone: ci mise un po’ a ritrovare il biglietto. Temette anche di averlo perso. Appoggiò il biglietto vicino al telefono.

La mattina dopo, si svegliò intorno alle nove. Non appena tornò in salotto, il suo sguardo si posò sul biglietto accanto al telefono. Era ancora troppo presto. Preparò il caffè, tostò un paio di fette di pane e ne masticò solo metà di una. Nove e venti. Iniziò a camminare per la stanza, trafiggendo l’orologio con occhiate gelide e spazientite. Dieci. Prese il biglietto, e compose il numero. Mentre dall’altra parte il telefono squillava, Angelo si chiese cosa avrebbe detto una volta che lei avesse alzato. Aspettò. Uno squillo. Due. Quattro. Nove.

“Merda.” Riattaccò. Si sdraiò sulla poltrona, e guardò il soffitto. C’era una macchia d’umidità sopra la sua testa. Pensò a come avrebbe potuto toglierla, quando il telefono squillò.

Angelo si alzò di scatto: scese dal divano, e corse fino alla cornetta. La alzò:

- Pronto?-

- Signor Salerni?-

Spencer.

- Sì.- Angelo sospirò.

- Sono io. Deve iniziare domani notte.-


 

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Capitolo 16
*** Marie ***


Un altro capitolo in ritardo, non vogliatemene. Sicuramente uno dei miei preferiti, credo di averlo avuto in testa fin da quando scrivevo le primissime pagine di questa storia. Scriverlo è stato liberante, bello. Mi rendo conto che questi ultimi capitoli sono molto drammatici, e non c’è più traccia dell’humor dei primi. Ma che vi volete fare, la vita è drammatica. È dai drammi che si cresce, ed Angelo questo lo sa bene, ora.

Una scena del capitolo, mi accorsi anni dopo che l’avevo scritta, è presa pari pari da quella di un film. Ma ha un tono e un atmosfera totalmente diversi da quelli del film, quindi l’ho lasciata. Buona lettura, love

Dzoro

 

Marie

 

-Marie, apri!- esclamò Jake sospirando, mentre bussava sulla porta chiusa del bagno. Ancora una volta non giunse riposta.

- Marie, non fare così, che cosa ho fatto di male? Apri, cazzo!-

Ancora nulla. Jake sospirò ancora, poi sbottò:

- Senti, mi sono rotto di aspettarti! Ora torno di là. Ma tu resta lì, mi raccomando, anzi, puoi anche creparci la dentro? Chiaro? Chiaro?!-

Ma anche le sue urla, non suscitarono nessuna risposta.

-Ah, ‘fanculo.- sibilò Jake, uscendo dal bagno.

Marie era rannicchiata al buio, seduta sul water chiuso, con la testa tra le braccia.

 

Come previsto, l’appartamento in cui i testimoni avrebbero passato l’ultima notte prima del processo era in una palazzina di mattoni rossi, al quarto piano, un appartamento con cinque stanze e un bagno. Di fronte alla palazzina se ne trovava un'altra, e al suo interno c’erano altri cinque appartamenti posseduti rispettivamente da una società di medicinali per bestiame ed una di prodotti per il bagno, entrambe inesistenti. In uno di questi appartamenti si trovava una stanza, con otto computer portatili, collegati ad una rete locale wireless, collegata a sua volta ad un sistema a circuito chiuso di telecamere. Per terra si trovavano quattro cadaveri di uomini bianchi di corporatura robusta, con la barba incolta e le camicie sporche. Angelo stava cambiando il caricatore dell’mp5. Era tornato al lavoro.

Scese le scale con passo sostenuto, sapeva che nell’altro palazzo dovevano trovarsi almeno altrettanti agenti, che si sarebbero allarmati non appena si fossero accorti che la sala di controllo era popolata solo da quattrocento chili di carne morta e dozzine di bicchieri di Starbucks vuoti. Passò dalla macchina, e prese dal bagagliaio un secondo mp5, e una colt 45: non voleva che la balistica pensasse ad un solo uomo, nel momento in cui avrebbe trovato i bossoli. Si diresse nell’altra palazzina. Si avvicinò all’agente che sorvegliava il corridoio fuori dall’appartamento chiedendo se aveva una sigaretta, si allontanò lasciandolo con il setto nasale spostato di una spanna in direzione del cervello. Porta sfondata a calci. Un federale, di colore, seduto sul divano, morto praticamente subito, buco in testa. Un altro agente, una donna di mezz’età, alzò una pistola prima di cadere morta. Angelo ripose la pistola quasi scarica, e iniziò a perlustrare l’appartamento: trovò Percival Thorne sul corridoio che portava alla camera da letto. Thorne, era un maschio bianco, sulla quarantina, vestito con un pigiama grigio, spettinato, e con un espressione del tipo “Dio mio, fa che non stia accadendo davvero” stampata in faccia. Thorne, era il primo nome sulla lista. Un proiettile gli recise di netto la colonna vertebrale, morì sul colpo. Una porta che dava sul corridoio si chiuse. Angelo la riaprì subito, prima che Samuel Hobes, dietro di essa, facesse in tempo a chiuderla a chiave. Cervello perforato, una manciata di secondi dopo. Katryn Thorne era la prossima sulla lista. Angelo controllò tutte le stanze, passò per una cucina, un salotto e due camere da letto vuote. Arrivò davanti al bagno: la porta era chiusa. Accostando l’orecchio alla porta, poté sentire il faticoso respiro di lei. Diede un calcio alla serratura: non abbastanza forte evidentemente, la porta rimase in piedi. Sentì un urlo, provenire da la dietro. Seguì un lungo lamento, in cui, di tanto in tanto, si udivano le parole “ti prego”. La raffica aprì una costellazione di fori dai bordi frastagliati e nerastri sulla porta color latte del bagno, e trasformò il lamento dall’altra parte in un urlo. Poi in un rantolio. Un altro calcio trovò la porta decisamente più cedevole. Katryn stava sul fondo di una vasca da bagno, imbrattato da chiazze di sangue nero e appiccicoso. Mentre Angelo puntava il mitra contro la fronte di lei, lei alzò gli occhi verso i suoi.

Seguì l’ennesimo sparo.

Angelo si portò di nuovo nel corridoio, e mentre appoggiava un passo dietro all’altro, godè un attimo del silenzio che aveva appena creato. Marie. Mancava Marie. Era rimasta solo una porta chiusa. Chiusa a chiave. Un calcio nel punto giusto, e si aprì.

Una camera da letto, pochi mobili, due letti, uno non fatto e uno occupato. Ma Angelo capì subito che la dentro non c’era nessuno. Forse qualcuno abbastanza sordo da non sentire le urla e la porta delle sua stanza che veniva sfondata. Di certo non la giovane figlia di Thorne. Ma forse, Marie era abbastanza spaventata da non riuscire a muovesi, e ora era nel suo letto, che tremava paralizzata dalla paura. Angelo scostò le coperte: vestiti. Forse allora Marie era furba, e si stava nascondendo.

Angelo capì subito che non c’era molto posto per nascondersi, laggiù. Uscì, e ispezionò un'altra volta l’appartamento, constatando soltanto che gli altri occupanti erano esattamente morti come gli aveva lasciati.

“Cazzo”. L’orologio diceva che era lì da cinque minuti, abbastanza perché altri agenti potessero raggiungere da un momento all’altro l’appartamento.

Tornò di fretta nella stanza vuota, e la ispezionò con più attenzione. C’era una finestra: Angelo vi guardò giù, chiedendosi se fosse possibile uscirne senza farsi male: concluse che doveva essere così.

“Ma che cazzo succede?”

Tornò in corridoio, e si fermò davanti al cadavere di Percival Thorne.

- Scusa Percy.- iniziò a frugarlo. Trovò quasi subito il cellulare. Lo mise in tasca, e si premurò di levare il culo da lì il prima possibile.

 

Parcheggiò la macchina a molti isolati da lì, e quando fu sicuro di essere fuori dalla zona di pericolo, tirò fuori il cellulare di Percy. Scorse i nomi della rubrica fino alla M. Marie. Chiamò.

Angelo dovette aspettare diversi squilli, tanto che iniziò a pensare che la sua unica traccia stesse per svanirgli tra le dita. Clik.

- Pronto?- Una voce maschile, giovane, una parola pronunciata in mezzo ad una risata, un alone d’ubriacatura appena accennato. Musica elettronica in sottofondo.

- Marie?- disse Angelo.

- No, Marie non c’è, è a pisciare.- seguì una risata in sottofondo. Angelo digrignò i denti.

- Devo parlare con lei.-

- Ti ho detto che non c’è, che cazzo insisti a fare, bello?- Altre risate, meno fragorose di prima. Poi una voce in sottofondo, che pronunciò qualcosa simile a “è suo padre, attacca coglione!”. E dall’altra parte, dopo qualche altro secondo di musica martellante, riattaccarono.

Angelo sospirò. Iniziò a pensare alle discoteche e i locali in cui potesse entrare anche un ragazzino, in quella parte della città. E a come una ragazzina fosse fuggita dal programma di protezione dei testimoni dell’FBI, per andarci.

 

L’entrata del locale dava su una strada periferica, con pochi lampioni e diverse macchine parcheggiate lungo i marciapiedi. Non c’era fila fuori, in fondo faceva freddo e non era sabato sera. Un buttafuori calvo, vestito con una giacca da motociclista, si annoiava davanti all’ingresso.

Angelo si avvicinò, suscitando la sua attenzione.

- Vuoi entrare?-

- Sì.-

Non fece altre storie. Angelo faceva quell’effetto alla gente dell’ambiente.

Oltrepassò il guardaroba, fregandosene della ragazza che si trovava lì dietro, e che gli ripeté un paio di volte di consegnare il cappotto, prima di capire che quello non era un cliente con il quale le sarebbe piaciuto litigare.

Vicino all’ingresso c’era una zona con dei tavoli, un bar, e le pareti nere pitturate con schizzi di vernici sgargianti. Lì la musica era abbastanza bassa da permettere una telefonata. Angelo rimase un attimo in disparte, osservando i vari gruppi di ragazzi che c’erano la dentro, studenti del college perlopiù. Tirò fuori il cellulare, e fece di nuovo il numero di Marie. Aspettò un attimo.

- Cazzo, di nuovo!- era un tavolo vicino, cinque ragazzi, una ragazza.

- E’ ancora suo padre?-

Angelo si avvicinò, tenendo il cellulare bene in vista.

- Non rispondere, spegnilo! Vuoi finire nei casini?- disse uno dei ragazzi ad un altro, che teneva in mano un cellulare colorato, da ragazzina.

- Ehi.- fece Angelo, per attirare l’attenzione.

- Aspetta, ci sono quasi.-

- Ehi!- gridò più forte Angelo, attirando l’attenzione di tutti.

E tutti alzarono lo sguardo, portandolo prima su di lui, poi sul cellulare nella sua mano. Sprofondarono subito in un silenzio a metà tra la paura e l’imbarazzo, appena scalfito da un “Oh, cazzo”, sibilato tra i denti. Angelo prolungò il silenzio qualche secondo ancora, fissando tutti i presenti con il chiaro obbiettivo di metterli ancora di più a disagio, e riuscendoci alla perfezione. Alla fine si soffermò sul ragazzo con il cellulare: uno sfigato con il ciuffo e una maglietta aderente, con la bocca aperta in una smorfia ottusa.

- Dov’è Marie?.- domandò alla fine.

- In… in bagno. Davvero.- rispose il tizio, imbarazzato.

Quando si fu allontanato abbastanza, Angelo poté sentirli confabulare tra di loro. Li lasciò fare. Li lasciò pensare di essere solo un papà incazzatissimo.

Entrò nel bagno delle donne, facendo sussultare due ragazzine vestite da troie che stavano chiacchierando davanti ai lavandini. Le zitti e le fece andare via con un occhiataccia.

Il bagno era ricoperto da piastrelle di ceramica bianche, sulle quali le orme sporche dei clienti avevano portato uno spesso strato di sporcizia umida. La porta di uno dei cessi era chiusa. Angelo vi bussò sopra. Nessuna risposta.

- Marie?-

Dentro c’era qualcuno, Angelo ne sentiva il respiro.

- Sì.- la risposta giunse da dietro la porta chiusa qualche attimo dopo, flebile, roca. Come la voce di una persona che ha pianto.

- Sono dell’FBI, Marie. Esci.-

Anche questa risposta si lasciò attendere.

Questa volta la risposta non arrivò.

- Marie, cosa è successo? Tutto bene?-

La ragazza non voleva saperne di rispondere.

- Marie, puoi dirmelo. Non siamo arrabbiati, ma i tuoi genitori sono tanto preoccupati. Avanti, su. Cosa è successo?-

La risposta si fece ancora attendere. Ma alla fine arrivò:

- Ero uscita con Jake, con gli altri.-

- Sei scappata dalla finestra?-

- Non… scusi, mi dispiace così tanto, non volevo.- la voce le si spezzò in un pianto nervoso.

- No, no, no! Va tutto bene, Marie. Dimmi solo cosa è successo.-

La risposta arrivò confusa dal pianto:

- Non ce la facevo più a stare in casa, mamma e papà erano così nervosi, non ci parlavamo quasi più. E Jake mi ha mandato un messaggio che usciva con gli altri stasera, qui. Era vicino alla casa dove eravamo e lui… lui era così gentile, mi mancava tanto… E poi quando sono arrivata, era un altro, voleva solo…- Di nuovo silenzio. Angelo sospirò. Pensò un attimo a cosa dire:

- Marie, mi dispiace, ma è stato pericoloso, te ne rendi conto? Dobbiamo tornare a casa.- non fu nemmeno sicuro che la ragazza l’avesse sentito: aveva iniziato di nuovo a piangere.

Angelo masticò un “porca puttana”, ed uscì dal bagno. Non poteva trascinarla fuori, avrebbe attirato l’attenzione di tutti. Stava già attirando l’attenzione di tutti, era nel fottuto bagno delle donne. Tornò al tavolo, trovandolo molto meno allegro di come era prima. I ragazzi stavano parlando tra loro. Angelo fece in tempo a sentire un “Ti dico che non è lui!”, detto sottovoce, prima di prendere lui stesso la parola:

- Avanti, chi di voi è Jake?-

Tutti gli sguardi si posarono su uno dei ragazzi: come aspetto era la copia di quello che aveva il cellulare in mano prima, ma sembrava più sicuro di se, a giudicare dalla faccia. Si alzò.

- Vieni con me, ragazzo.- lo intimò Angelo.

Arrivarono davanti ai bagni.

- Tu non sei suo padre.- disse Jake, improvvisamente.

- Non ho detto di esserlo.-

- Hai il cellulare di suo padre, chi sei?-

- Ora tu vai in bagno, le dici che ti dispiace, e fine della storia.-

- Scusa di cosa, di lei che mi fa fare la figura dello sfigato davanti a tutti? E poi non mi hai detto chi cazzo sei!- alzò la voce. La stessa voce irritante che aveva risposto al telefono. Angelo digrignò i denti.

- Non me ne frega niente se stasera ti ammazzerai di seghe, vai a chiederle scusa.-

- Senti, non vado da quella troia nemmeno morto! E tu dimmi chi cazzo sei, o io chiamo la fottuta polizia!-

- No, no, no, senti tu, stronzetto. È da quando hai risposto al telefono, che ho tanta voglia di ridurre quella tua faccia di cazzo ad un grumo sanguinante, ma non l’ho fatto, perché sono buono e tu potresti essere mio figlio. Quindi piantala di fare l’isterica, e chiedigli scusa. Perché giuro su Dio, che se non lo fai, la tua faccia diventerò un grumo sanguinante, e lo diventerà tra cinque secondi. Su.-

- Ehi, non provare a minacciarmi! Mio padre è nell’esercito! Sei un poliziotto? Guarda che potresti perdere il lavoro se solo.-

-Cinque, troietta.-

 

-Marie.- Jake bussò alla porta del bagno.

- Senti Marie. mi dispiace, okay? Sono stato un cretino è ho tradito la tua fiducia e… mi dispiace.- Jake lanciò un occhiata spaventata verso l’ingresso del bagno: sapeva che Angelo era là fuori che lo aspettava. Due rigagnoli di sangue gli colavano dalle narici, sporcandogli di rosso le labbra.

- Ora capisco che tu sia arrabbiata, ed è giusto così. Ora vado via, ed è okay se non vorrai parlarmi più. Beh. Ciao.-

Jake si staccò dalla porta: barcollò fino a fuori, desideroso di andarsene davvero il prima possibile. Trovò Angelo dove lo aveva lasciato.

- Fatto, campione?- disse Angelo.

- Sì. Sei contento, ora?-

- Come a un bimbo a Natale. Tieni dolcezza, pulisciti la faccia, è tutta sporca di roba rossa.- gli tese un fazzoletto.

- Ma fottiti, stronzo.-

Angelo lo prese per il bavero, e lo incollò al muro:

- Dato che ti interessava tanto, sì, sono io la fottuta polizia. Quindi torna dai tuoi amici, vai a casa, e tieni tappata quella bocca del cazzo, se non vuoi che il papà marine sappia che porti le minorenni per night. Ok?-

Jake rimase zitto, e andò via a capo chino. Angelo sperò che l’avesse bevuta: almeno avrebbe avuto tempo per lasciare la città, prima che iniziassero a cercarlo. Si assicurò che si fosse allontanato, ed entrò nel bagno.

- Marie? Va meglio ora? Pensi di poter uscire? Dai.-

Aspettò la risposta.

- Va bene.-

Senti due piedi leggeri appoggiarsi sul pavimento, facendo scricchiolare lo sporco. La serratura scattò, la porta si aprì.

Davanti a lui apparve una ragazzina, magra, una minigonna nera, capelli corti, castano chiari, e con il trucco che le colava dagli occhi arrossati.

Diciotto anni, probabilmente.

Angelo provò a sorridere.

- Andiamo?-

La accompagnò fino alla macchina. I suoi occhi guardavano per terra, umidi. Di tanto in tanto tirava su col naso, le labbra le tremavano.

Le aprì la porta e la fece salire sul sedile davanti. Appena fu seduta, alzò per la prima volta la testa verso di lui. Occhi verdi.

- Sei dell’FBI?-

- Certo. I tuoi sono preoccupati, pensavamo ti fosse successo qualcosa. Ora ti riporto a casa, okay?-

- Okay. Scusa.-

-Tranquilla.-

-No, intendo, scusa, posso…-

- Dimmi.-

- Posso vedere il tuo distintivo?-

Angelo la fissò. Era una ragazza furba. Non rispose, e chiuse la porta. Sali al posto di guida, e mise in moto. Pensò con rabbia alla nottata appena trascorsa, a quante persone l’avevano visto in faccia. Contava comunque di sparire dalla circolazione, una volta finito quel lavoro, di cambiare città.

Il suo sguardo sbandò un attimo sulla ragazza, seduta vicino a lui. Lo stava ancora guardando. Riportò gli occhi sulla guida, mentre immagini di schegge di teschio, e di grumi di materia grigia, tornarono a farsi più vive.

La ragazza era la figlia di un testimone ad un processo per crimini federali. Non era lei che meritava di morire, solo suo padre, ma un solo morto è diverso da una famiglia massacrata. Il massacro di quella notte era il segnale che i Capuzzi erano di nuovo pronti a spaccare il culo al mondo intero, che non bisognava cazzeggiare con loro.

Era solo una testa sopra un palo.

E continuava a guardarlo: si sentì i suoi occhi addosso per tutto il tempo. I suoi occhi verdi.

 

Angelo appoggiò la borsa con le armi sul tavolo della sua cucina, e si guardò le mani: uno schizzo di sangue, secco. Si chiese di chi potesse essere, e quella sera aveva l’imbarazzo della scelta. Aprì l’acqua, e ne toccò di tanto in tanto il flusso per controllare se era diventata calda. Vi mise le mani sotto, e chiuse gli occhi per un secondo. Le immagini della raffineria Cooper gli scorsero sotto le palpebre: una accozzaglia di muri carbonizzati, dopo un incendio che ne aveva decretato la chiusura. Fuori città, tranquillo come posto. Il suo posto di riserva, l’ultima carta da giocare nel caso dovesse commettere un omicidio lontano dal mondo, senza che nessuno se ne accorgesse.

Quando alzò le palpebre, vide che la macchia era quasi sparita. Sfregò ancora un attimo, e sparì del tutto. Chiuse l’acqua, e accese il tritarifiuti. Mentre le lame iniziavano a girare, smontò il cellulare di Thorne, e ve lo infilò pezzo per pezzo. Andò a d accendere la macchina del caffè. Mentre l’acqua si scaldava, si sedette, e appoggiò la testa trafitta dall’emicrania sul palmo di una mano, socchiudendo ancora un attimo gli occhi.

Aveva parcheggiato la macchina in uno spiazzo sterrato davanti alla raffineria. Erano scesi entrambi. Lei non aveva detto una parola, come se non capisse quello che stava per succedere, come se non lo volesse capire. Avevano camminato insieme per un po’, fino a essere lontani dalla strada. Angelo le aveva detto di voltarsi di schiena, e lei aveva obbedito. Era quasi sovrannaturale come non avesse fatto resistenza. A quel punto, la colt era uscita di nuovo dalla sua fondina, ed era stata alzata, finché in mezzo alle due scagliette di metallo del mirino non era comparsa la nuca bianca della ragazzina. E quella era la fine delle immagini. L’ultima sensazione che ricordava, il grilletto freddo che sfregava contro l’indice della sua mano. E di tanto in tanto l’immagine di una macchia di sangue denso, che colava dal muro di una cucina. Aveva sentito la stessa sensazione. Era stato uguale.

Angelo per un attimo si chiese se non avesse fatto la cosa sbagliata. Valeva davvero la pena di andare contro tutto quello che era stata la sua vita fino a quel giorno, contro il suo lavoro, contro le persone che forse non lo amavano, ma lo stimavano e lo proteggevano? Ne dubitava. Quella ragazzina doveva morire, era l’unico modo per dare una coerenza alla sua vita. Il suo posto era il pavimento della raffineria Cooper, inchiodata a terra da un proiettile.

Il caffè era pronto. Lo versò, e tornò in soggiorno. Appoggiò una tazza sul tavolino davanti al divano. Ne teneva un’altra in mano.

- E’ caldo. Bevilo, su.-

Marie prese la sua tazza, ma non la bevve: la teneva tra le mani, guardandone il contenuto. Era lì con lui, nel suo salotto: e a quell’ora sarebbe dovuta essere solo carne morta. Angelo si chiese ancora se non stesse sbagliando. Si chiese cosa stesse facendo. E perché lo stesse facendo.

E Marie continuava a stare in silenzio, sul suo divano, scaldandosi le mani con la tazza di caffè. E Angelo, in piedi davanti a lei, si chiese se non dovesse dirle qualcosa, spiegarle che cosa stesse succedendo, cosa era successo.

- Marie, senti.- provò ad iniziare.

Bussarono alla porta. Angelo si voltò di scatto: lo avevano trovato? Non era possibile. La polizia non si sarebbe messa a bussare, in una situazione simile.

- Vai dietro al divano.- sussurrò in direzione di Marie. Lei sembrava allarmata almeno quanto lui. Appoggiò la tazza sul tavolino, e si nascose dove gli era stato detto. Angelo si avvicinò alla porta, mise una mano sulla maniglia:

- Chi è?-

- Sono Spencer.- fece una voce allegra dall’altra parte.

Angelo sospirò. Girò la maniglia, facendo subito comparire davanti a lui il sorriso affettato di Spencer.

- Buonasera, signor Salerni. Allora, cosa mi dice?-

- Ho finito. Tutto è andato per il meglio.- disse Angelo, mentre iniziò a temere seriamente il momento in cui Spencer avrebbe trovato uno dei nomi della sua lista della spesa nascosto dietro al suo divano.

- Signor Salerni! Rivolgersi a lei è stata la scelta migliore che la famiglia abbia fatto da molto tempo a questa parte!- Spencer tese una mano ad Angelo, e gli mise l’altra sul braccio.

- Grazie, lei non si rende conto del servizio che ci ha reso.-

Angelo stava per dire di non ringraziare, che era tutto a posto, ma si accorse che lo sguardo di Spencer si era improvvisamente rivolto a qualcosa dietro alle sue spalle. Guardava qualcosa alle sue spalle.

- Signor Salerni? C’è qualcuno con lei?- Chiese Spencer. Angelo rispose immediatamente: sapeva che esitando avrebbe peggiorato la situazione all’inverosimile.

- Nessuno.- e riuscì a tenere il “perché me lo chiede?” in bocca.

- Ci sono due tazze di caffè sul suo tavolo.-

- Ne vuole una?-

Spencer rise:

- Oh, grazie! Ed io che pensavo che non avrebbe potuto fare di meglio questa notte!- si sedette sul divano. Prese la tazza di Marie, e iniziò a bere.

- Ottimo. Ma non lo bevo amaro, di solito. Non è che ha…-

Zucchero. Lo teneva in cucina.

- Sì.- Angelo non mentì, e andò a prenderlo. Nonostante sapesse che questo significava lasciare il suo datore di lavoro a meno di un metro dalla vittima di un omicidio che avrebbe dovuto commettere. In cucina, trovò il sacchetto dello zucchero al solito posto, e tornò prima che poté in salotto.

Spencer lo riaccolse sorridente.

- Grazie. Mi piace il suo appartamento: semplice, accogliente. Anch’io vorrei qualcosa del genere, ma mia moglie non ne vuole sapere. Non ha idea di quanto spendiamo in pulizie. Troppo grande, dico io.- E iniziò a guardarsi attorno. Torse leggermente il busto, come per guardare dietro di lui. Dove si trovava Marie.

- Non ho preso il cucchiaino.- disse Angelo, tutto di un fiato. Era vero, se l’era dimenticato. Spencer tornò a guardarlo:

- Oh? Ah, fa nulla, posso… aspettare.-

- Un attimo.- Angelo tornò in cucina, prese un cucchiaino e tornò subito di là. Per fortuna Marie non si era mossa di una spanna, ne aveva fatto un respiro.

- Grazie, grazie.- Spencer bevve il suo caffè.

- Allora, non c’è stato nessun problema?- domandò subito dopo.

- Tutto nella norma.- Angelo non voleva stare lì ad aspettare un'altra domanda. Pensò anche lui a qualcosa da dire, in modo che quella conversazione non mostrasse quanto fosse preoccupato in quel momento.

- Potrete stare tranquilli domani.-

- Oh, lo siamo già adesso.- Spencer finì con un sorso il suo caffè, e mise la tazza sul tavolino.

- Non è una cosa di cui andiamo fieri, ma non possiamo mostrarci deboli, o clementi, in una situazione come questa. Una prova di forza, tutto qui. Ma ne avevamo bisogno.- Questo era inaspettato. Cosa stava tentando di fare, di mostrare che aveva anche lui una coscienza? Forse temeva una scenata da parte di Angelo, come qualche giorno prima.

Angelo annuì silenzioso, fissando il suo caffè. Non voleva parlare. Non voleva rispondere. Qualsiasi parola avesse pronunciato, Spencer non sarebbe stato l’unico a sentirla.

- Non potevamo lasciarli in vita.- aggiunse Spencer.

Angelo strinse i denti.

Pochi minuti dopo, le tazze contenevano non più di un fondo tiepido di caffé, e Angelo accompagnò Spencer alla porta. Ancora una stretta di mano. Ancora altri grazie.

- Perdoni la presunzione, non voglio insegnarle il lavoro, ma ha intenzione di restare in città?-

- No. Penso che farò le valige al più presto.-

- Entro poche ore scoppierà un bel casino. Non si faccia trovare impreparato. Addio, Signor Salerni.

- Signor Spencer.-

Spencer tirò la porta dietro di se. Stava per chiuderla. Angelo la bloccò con una mano. L’ospite lo guardò perplesso:

- Cosa..?-

Angelo guardava per terra, come se ci fossero scritte lì le parole che ora, doveva assolutamente dire. Alzò lo sguardo:

- La ragazza... non era in casa. L'ho trovata in una discoteca poco lontano dall'appartamento.-

Spencer sbiancò. Stava per domandargli come mai non l'avesse detto subito. Ma si ricordò ciò che quell'uomo aveva fatto quella notte: forse perfino un professionista come Salerni poteva restare scosso.

-E?- Fece infine, sperando che il racconto finisse bene.

- L'ho portata in un posto sicuro. Ho finito il lavoro lì, non la troveranno se io non voglio che la trovino.-

Spencer rifletté se ciò avrebbe potuto causare complicazioni. Gli sembrò di no.

- Va bene. La prossima volta... me lo dica prima.- era a disagio.

- Ci sarà una prossima volta?- disse Angelo. Spencer sorrise.

- Buonanotte, signor Salerni.-

La porta si richiuse. Angelo guardò il divano. Andò a sedersi in cucina, e quando si fu appoggiato sulla sedia, mise la testa tra le mani: era tutto sbagliato. E dal salotto, soffocato dalla distanza, sentì provenire un pianto sommesso.


 

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Capitolo 17
*** Sorprese ***


Capitolo breve, ma leggermente in anticipo, enjoy! Non è mai troppo tardi per recensire e seguire. Grazie a tutti, siete grandi!

Dzoro

 

Ps:Ho l’impressione che molti di voi non abbiano letto il capitolo 14 (la macchia sul muro), che ho pubblicato la stessa settimana del 13. Vi consiglio di leggerlo, è un pezzo importante di questo ciclo conclusivo.

 

Sorprese

Gregory Statham aprì gli occhi sul soffitto bianco della sua camera. L’idea che il processo avrebbe avuto luogo entro due ore da quel momento, scacciò via immediatamente il sonno, e tenne spalancati i suoi occhi mentre si alzava. Il suo sguardo vagò sull’altra metà del letto, e le sue mani toccarono le lenzuola, il che era un gesto senza senso, ma non lo sarebbe stato un mese prima, quando quella parte del letto era occupata da sua moglie. Ogni mattina, quando controllava la cassetta della posta, aspettava una lettera dall’avvocato di lei. Non era ancora arrivata.

Si alzò, e trovò i vestiti sulla sedia dove gli aveva lasciati la sera prima. Si passò una mano sul volto, accorgendosi che la barba non era ancora lunga. La pausa in bagno che si prese prima di vestirsi fu breve, quasi del tutto priva dei rituali del risveglio con i quali gli esseri umani riempiono gli attimi subito dopo essere usciti dal letto. Badò solo a lavare bene i denti: suo padre era alcolizzato, e mentre, trent’anni prima, gli urlava contro con il suo fiato pestilenziale, si era promesso di non avere mai un alito come il suo.

Dal momento in cui il nodo della sua cravatta venne stretto, a quando girò le chiavi nella toppa della porta, non passò un minuto. Ne passarono un paio fino a quando le infilò nella toppa dell’auto.

Accese un radiogiornale a volume basso, come al solito non lo ascoltò.

Parcheggiò mezz’ora dopo in uno spazio riservato alla polizia, vicino alla piazzola grigia, con al suo centro una fontana circondata da una panchina, dove alcune impiegate in tailleur bevevano caffè e leggevano il giornale. Lapiazza era sofrastata dall’edificio bianco del tribunale.

Trovò Pelham seduto su di una panchina nell’atrio, piegato sotto la stanchezza. Un cinquantenne calvo e grassottello, che arrivava a stento al metro e sessanta. Erano ormai due mesi che lavorava fianco a fianco con lui, ma non gli riusciva proprio di considerarlo un amico, forse a causa della sua cordialità affettata. Lo raggiunse con la giacca sotto un braccio, e in mano un bicchiere di caffè preso in un bar davanti al tribunale.

- Buongiorno.-

Il piccolo uomo alzò la testa, guardandolo triste da dietro i suoi occhiali a fondo di bottiglia. Era evidente che qualcosa non andava.

- Siamo fottuti, Greg.- disse con voce sommessa.

Statham rimase impassibile, ma sentì una sensazione sgradevole attraversarlo. Era la stessa che aveva provato un mese prima, a cena insieme alla donna che aveva vissuto con lui fino a quel momento, quando lei gli aveva detto che le cose non andavano.

- Che succede?-

- I nostri testimoni. Stanotte sono stati uccisi.-

- Cosa?-

Pelham riabbassò la testa, lasciando sprofondare la conversazione nel peggiore dei silenzi. Statham appoggiò sulla panchina giacca e bicchiere. Si sedette. Aprì e chiuse la bocca diverse volte, cercando di iniziare a parlare. Non ci riusciva. Sentiva il sangue pulsargli nella fronte.

- Non so come abbiano fatto.- fece Pelham, come giustificandosi.

- Non sai come… Cristo, John!- riuscì a dire finalmente Statham - Erano sorvegliati speciali dell’Fbi! Saranno stati una decina d’agenti addestrati.-

- Sette agenti. Sorvegliavano i due testimoni, e la moglie di uno di loro. È stato un massacro da prima pagina, probabilmente un commando addestrato, hanno ritrovato bozzoli di almeno tre armi da fuoco diverse.-

- Ma chi cazzo si credono di essere i Capuzzi? John! È Chiaro come il sole che sono stati loro, a chi cazzo d’altro interessava uccidere quei due contabili? Non posso credere che ora ne usciranno tanto facilmente!-

- Probabilmente no. Ma ora, stamattina la seduta sarà chiusa al massimo dieci minuti dopo l’ingresso in aula, perché semplicemente non ci sarà niente da mostrare. Lo stato aprirà un altro processo contro Santo Capuzzi, per incriminarlo dell’omicidio di stanotte: passerà altro tempo, verranno spesi altri soldi. E non so come finirà. Mi dispiace Gregory, ci hanno fregato.-

Statham non disse nient’altro. Rimase silenzioso, composto, solo i suoi occhi lasciavano trasparire la sua rabbia.

Lavorava da quindici anni nella polizia. Da due mesi sognava di notte il momento in cui Santo e Antonio Capuzzi sarebbero stati messi a marcire in una prigione, in attesa dell’iniezione letale.

- Serve che io resti qui?- chiese alla fine.

- No.-

- Torno a casa.-

- Sì.- mormorò Pelham, a capo chino.

Statham si alzò. Uscì dal tribunale. Entrato in macchina, iniziò a guidare. Quando girò la chiave, l’autoradio si accese su una canzone. Non la spense. Guidò senza pensare a dove andava. Si fermò dopo un paio di miglia davanti ad un negozio di alimentari. Uscì dall’auto e rientrò un minuto dopo, appoggiando sul sedile davanti un sacchetto di carta, dal quale spuntava il collo di una bottiglia. Tornò al suo appartamento.

Entrato in casa, buttò la sua giacca sul divano, tirò fuori dal sacchetto una bottiglia di vodka, e la appoggiò sul tavolo accanto ad un bicchiere vuoto. Lo riempì. Si sedette, appoggiandosi sullo schienale fino ad inclinare la sedia. Da lì, allungando un braccio, poteva raggiungere il divano. Estrasse dalla tasca della giacca il suo distintivo. “Per proteggere e per servire.” Chi aveva protetto? A cosa era servito?

- Siamo patetici.- mormorò.

Lasciò cadere per terra il distintivo. Avvicinatosi al tavolo, prese il bicchiere, e ne guardò il contenuto. I sui denti si digrignarono fino a che li sentì quasi stridere, e la mano si strinse intorno al vetro. Si alzò di scatto, e gettò il bicchiere contro al muro, abbastanza forte da infrangerlo.

Si diresse di corsa nel suo studio: sopra la sua scrivania si trovavano pile di vecchie riviste, tazze di caffè vuote e fogli scarabocchiati e accartocciati, sovrastati da una lavagnetta coperta da post-it e scritte. E un telefono. Prese la cornetta, e la tenne tra l’orecchio e la spalla, mentre strappava dalla lavagna un biglietto, e leggeva il numero scritto sopra. Lo compose.

Chiunque ci fosse dall’altra parte, non lo fece attendere troppo.

- George? Sono Greg. Ho un problema.-

 

La sveglia suonò. Angelo si alzò di scatto, sebbene il suono arrivasse ovattato e distante dalla stanza da letto. Si era addormentato seduto al tavolo della cucina, non ricordava esattamente quando. Probabilmente poche ore prima. Aveva pensato molto, prima di addormentarsi. Pensieri inconcludenti, confusi, probabilmente dolorosi. Il sonno era stato leggero, ma finché era durato gli aveva dato sollievo. Ora, sveglio, si ricordò di Marie, nel suo salotto. Non se ne era andata, l’avrebbe sentita. Infatti la vide subito, sul divano: anche lei si era addormentata e la sveglia aveva fatto il suo lavoro anche con lei. Angelo si alzò, è andò a spegnere la sveglia, nella sua camera. Il letto era rifatto, come l’aveva lasciato il giorno prima. Mentre spegneva la sveglia, lo guardò. Sotto si trovava una delle sue pistole, caricata e pronta per l’uso. Era fissata alle doghe del letto con del nastro adesivo, in modo tale da poterla staccare subito in caso di bisogno. Con quella avrebbe potuto risolvere tutto. Non la prese, tornò in salotto.

Marie era seduta sul divano. Quando comparve, i loro sguardi si incrociarono. Angelo pensò di dover dirle qualcosa, per questo aprì la bocca. La richiuse subito. Aveva ucciso la sua famiglia, e lei lo sapeva. E continuava a guardarlo. Cosa poteva dirle?

- Io…- provò a iniziare una frase, senza sapere come finirla. Lei probabilmente non lo notò nemmeno.

- Grazie.- mormorò lei, così piano che Angelo pensò di aver capito male, e non rispose nulla.

- Grazie di non avermi ucciso.-


 

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Capitolo 18
*** Tre giugno ***


Tre giugno

 

Erano circa le sei di sera, quando Spencer uscì dalla sua macchina, di ritorno dal lavoro. La sua automobile andò ad occupare il suo posto riservato, nel garage sotterraneo del palazzo in cui si trovava il suo appartamento. Prese l’ascensore, e salì diretto sino al trentesimo piano. Aveva comprato casa sua circa cinque anni prima, uno splendido salotto che si affacciava su Lincoln Park grazie a un enorme vetrata: luce perfetta, dall’alba al tramonto. Era stato quello che gli aveva fatto fare il grande passo e firmare l’assegno. Il passo successivo era stato comprare un grande tappeto indiano e un divano da diecimila dollari, nonché un ripiano di marmo per il bar, poi un altro degli obbiettivi della sua vita era stato da considerarsi ottenuto.

L’ascensore si fermò, e Spencer ne uscì, specchiandosi immediatamente nel marmo pulito dell’atrio. La porta dei vicini era aperta, come al solito: si trattava di alcuni uffici di una società di informatica, che occupava cinque piani del grattacielo. Avere dei vicini del genere dava a Spencer una sensazione piacevole, sapere di poter permettersi un appartamento vicino a stanze affittate da una multinazionale gli dava l’idea di aver ottenuto molto dalla vita.

Vicino all’entrata dell’azienda, si trovava un uomo. Spencer all’inizio non ci aveva fatto molto caso, ma mentre si apprestava ad infilare le chiavi nella sua toppa, la coda del suo occhio indagò ulteriormente su di lui: dietro a quel completo scolorito, si trovava un asiatico di media statura, anche se molto largo di spalle, dagli occhi piccoli e neri nascosti da rughe giallastre, e con una bocca sottile che solcava da una parte all’altra la sua faccia piatta e larga. Vicino ai suoi piedi si trovava una borsa da palestra grigia, con la tracolla consunta. Spencer ebbe due sensazioni: la prima era la stessa che provava ogni volta che doveva incontrare uno degli uomini che avevano a che fare con i Capuzzo. La seconda, che lo stesse guardando. La porta si aprì, e subito i pensieri riguardo all’asiatico svanirono: c’era qualcuno seduto sul suo divano.

- Chi..?- provò a dire, più sorpreso che intimorito: un ospite? Strano, di solito a quell’ora sua moglie non era ancora tornata. Però, l’uomo che stava seduto sul suo divano aveva un aria familiare, e Spencer tentò addirittura per un istante di ricordare dove l’avesse già visto, Prima che qualcuno lo spingesse da dietro, facendolo entrare a forza. L’asiatico era alle sue spalle, e stava chiudendo la porta.

- Avvocato Spencer.- lo salutò Statham, alzandosi dal divano.

- Che succede? Questa è casa mia! Lo sa chi sono?- gli gridò contro Spencer, non senza prima essersi allontanato dall’orribile orientale alle sue spalle, come per paura che potesse colpirlo di nuovo. Ma questo si limitò ad aggirarlo, fino ad arrivare al divano. Teneva in mano la borsa, che fece, una volta arrivato a destinazione, cadere a terra. Si sentì un suono metallico provenire dal suo interno. Statham dandogli le spalle, si mise a guardare fuori dalla finestra. Poi disse:

- Archibald Spencer, laureato in legge a Yalta nel 1993, eredita dal padre lo studio, conduce una brillante carriera di penalista. Stimato da colleghi e opinione pubblica. Nel 2001 fonda un’associazione per dare borse di studio a studenti provenienti dalle classi meno abbienti, che, stranamente, vede tra i suoi massimi sostenitori Antonio “Tony” Capuzzo, noto “affarista”, della nostra città. Bel panorama qui, comunque.-

- La pianti. Che cosa vuole da me?- Spencer gli si avvicinò – Pensa che non l’abbia riconosciuta? Lei era al tribunale. Sergente Statham, giusto? Beh, consideri il suo lavoro come perso. Ha appena fatto il più grande errore della sua vita!-

- In questo momento sono solo il signor Statham. Sono qui in vacanza.- Statham si voltò e spinse Spencer. Dentro il corpo secco di Statham doveva esserci una forza notevole, a giudicare da come Spencer rovinò sul suo divano, mentre si lasciava scappare un gemito spaventato. – E non provi più a minacciarmi. Il mio amico George , qui, ha avuto un adolescenza difficile in Corea del Nord. Ma non si preoccupi, ora riga dritto, finché glielo dico io. Dicevo, apparentemente l’unico legame che la unisce a Tony è quello appena citato, oltre che la sua presenza ad alcune feste organizzate di tanto in tanto nella villa dei Capuzzo. Ma io dico che non è tutto. Io dico che lei è un fottuto bugiardo, e le donazioni di Capuzzo non sono altro che pagamenti per servizi resi alla famiglia. Dico che lei è la puttana dei Capuzzo, un tramite, il passaggio intermedio tra committente ed esecutore. Una specie di preservativo per delitti. Che dice, mi sto sbagliando?-

Spencer lo fissò in silenzio. Aveva riacquistato la calma, ma in fondo non l’aveva mai persa. La sfuriata di prima sarebbe servita contro uno sbirro, pensava a quella situazione come ad un goffo colpo di mano della polizia. Capì allora che si era sbagliato. Doveva misurare le sue parole.

- Senta.- iniziò a dire – Non pensi di essere il primo che mi muove contro queste accuse. So delle attività di Capuzzo, ma non posso rifiutare i suoi soldi. Se finiscono nelle tasche di chi ha bisogno, invece che in droga e morte, non me ne faccia una colpa. Non sono il suo tramite. A quelle feste ci andavo per rappresentare la società. E il resto delle sue accuse sono semplicemente infondate. Nessuno ha mai avuto prove. E anche lei non ne ha. Ora, mia moglie sta per tornare insieme ai miei bambini. La prego, non li spaventi come sta spaventando me. La prego.-

Statham riprese a guardare dalla finestra.

- Le prove, signor Spencer – disse – Servono in tribunale. A me bastano le mie certezze. E il non trascurabile dettaglio, che io ho ragione. E lei, cazzo se non ne ha.- rise, finendo la frase – Due giorni fa, c’è stato un omicidio. Un omicidio brutale, un fottuto massacro. L’unico modo che la famiglia Capuzzo poteva usare per salvarsi il culo da un processo per crimini federali. Non mi dica che non ne sa niente.-

Spencer rimase impassibile.

- Sergente, questo sarebbe il momento giusto per andarsene.- Dopo quelle parole, pianificò di restare in silenzio. Cercavano di intimorirlo, ma non ci sarebbero riusciti. Bastava tacere.

Statham gli si avvicinò, e lo prese per una spalla:

- Mi sa che lei non ha compreso questa nostra situazione. Io so, che lei sa chi ha fatto quel massacro. Lei mi darà i loro nomi. Io li troverò, e li farò sputare una confessione. E allora i suoi amici italiani saranno molto dispiaciuti. Ora, mi dica quei nomi.-

Spencer tacque. Distolse il suo sguardo dagli occhi di Statham, e fissò la porta. Il sergente sogghignò.

- Capisco.- Guardò George. L’asiatico, era rimasto fino a quel momento calmo e in silenzio seduto sul divano. Si alzò, e afferrò Spencer per la giacca, trascinandolo a forza in direzione della finestra.

- Ehi, fermo!- Spencer provò a divincolarsi, ma una mano di George gli si strinse attorno ad un braccio. Era forte, avrebbe potuto spezzarglielo se avesse voluto. Arrivati a pochi passi dalla finestra lo lasciò cadere per terra. Lo alzò di nuovo, abbastanza veloce perché Spencer non facesse resistenza. Poi lo buttò contro il vetro, di testa. Il colpo fece vibrare i pannelli. Spencer sentì il dolore propagarsi dalla testa alla spina dorsale, e poi alla schiena, togliendogli il fiato. Mentre si rialzava da terra ne ritrovò un po’ per emettere un gemito. Sentì di nuovo le mani di George su di lui. Poco dopo, sulla finestra c’era del sangue.

Statham si avvicinò:

- Bei vetri. Resistenti. Quante volte dovremo buttartici contro prima che si rompano? O si spezzerà prima il tuo collo? O la smetterai di essere uno stronzo, e ci dirai quello che vogliamo sentire? Quanto dolore dobbiamo infliggerle ancora, signor Spencer?

- Vaffanculo.- mormorò a terra Spencer, tenendosi la tempia sanguinante.

- Siamo dei veri duri, eh? George.-

George alzò Spencer da terra. Lo alzò senza fatica, come se non pesasse nulla. Lo trascinò un attimo indietro. Questa volta voleva prendere la rincorsa. Questa volta, il vetro si crepò.

- Cazzo George, è in questi momenti che sono contento di essere tuo amico.- Fece Statham, chinandosi su Spencer. Questi si voltò supino, tossendo. Piangendo.

-  E lei vuole essere nostro amico, Spencer?- Gli disse, mentre le loro facce quasi si sfioravano.

Spencer aprì la bocca, e ci vollero alcuni secondi prima che qualche suono ne potesse uscire:

- Andate via…-

Statham scosse la testa.

- George, andiamo in bagno.- George lo guardò senza capire. Statham alzò le spalle – Mi piace il suo tappeto. Non voglio sporcarlo.-

 

La macchina si fermò in mezzo ad un parcheggio deserto, accanto ad una tavola calda lungo la statale. Angelo scese, e si guardò intorno, ma non c'erano poliziotti lì.
- Scendi.- disse rivolto verso la macchina. Marie scese, Tenendo la testa bassa. Non l'aveva mai alzata, durante il viaggio. Non aveva mai nemmeno parlato. Aveva solo seguito gli ordini di Angelo, senza lamentarsi, senza obbiettare. L'aveva seguito prima in macchina, e poi fino a lì. Il perché non cercasse di scappare non era ben chiaro ad Angelo. Non gli era ben chiaro nemmeno ciò che stava facendo lui stesso, ma aveva smesso di chiederselo: sapeva solo che non l'avrebbe uccisa. Ma poi, nient'altro.
Marie non aveva più parlato. Non aveva più parlato dopo quella manciata di parole, appena svegliatasi. E Angelo non aveva risposto. Cosa poteva poi rispondere: “prego”? “Mi dispiace”? Aveva ucciso la sua famiglia, lei lo sapeva, eppure non sembrava arrabbiata, o disperata. Solo triste.
Entrarono nel locale, e aspettarono che arrivasse la cameriera.
- Hai fame?-

Lei scosse la testa.
- Prendo un po' di cose, così se ti viene... puoi mangiare.-
Una vecchia cameriera prese nota  su un foglio, una bistecca e dei pancake, e tornò in cucina, lasciando il tavolo in silenzio. Angelo si mise una mano tra i capelli, rifletté Poi disse:
- Tuo padre... era un contabile di una famiglia mafiosa. Si era venduto all' FBI per testimoniare contro i suoi ex datori di lavoro. Per questo lui… e la sua… la tua famiglia...- Angelo alzò gli occhi vero di lei. Forse incontrò per un attimo i suoi - E te...-
- Ho capito.- disse lei, subito, veloce. Come a dire che l'argomento era chiuso.
Angelo tacque. Cercò altre parole da dire, quel silenzio gli faceva male.
- Quindi... non possiamo stare in città. I Capuzzi non devono sapere che sei viva. Dobbiamo aspettare un po' che le acque si calmino.- Angelo sapeva che erano tutte balle. Sapeva cosa avrebbe dovuto fare. Prendere il primo aereo, andarsene dall'altra parte del mondo. Oppure andare con lei dalla polizia, e ridarle quello che rimaneva della sua vita. Così stava solo prolungando le cose. La stava proteggendo dai Capuzzi, certo, ma loro pensavano che lei fosse morta. Se fosse tornato in città, avrebbe avuto tutto il tempo di metterla sotto la protezione della polizia. Ma lei sapeva. Conosceva la sua faccia. Forse quella di Spencer. Sapeva tutto. Più ci pensava, più Angelo capiva di essere dentro un precario equilibrio, che non sarebbe durato in eterno.
Arrivò la bistecca. Angelo si accorse che nemmeno lui aveva fame. La tagliò. Ne mangiò un pezzo, meccanicamente. Arrivarono i pancakes.
- Perché non mi hai ucciso?- Angelo trasalì: si voltò subito verso la cameriera che si stava allontanando dal tavolo: nessuna reazione, sembrava che non avesse sentito la domanda.
Allora si voltò di nuovo verso Marie.
- Ora andiamo a prenderti dei vestiti. Non posso portarti in giro conciata così.-

- Tu non sei un uomo malvagio.-

- Eh?-

- Non lo sei. Cerchi di esserlo, per fare le cose... che hai dovuto fare.-

Angelo sogghignò.

- Non mi conosci abbastanza.-

- Come ti chiami, signor Salerni?-

Angelo non rispose immediatamente. Erano poche le persone che conoscevano il suo vero nome, e lei sicuramente non poteva essere una di quelle. Ma quando aprì la bocca per parlare, si accorse che era stufo di vivere così. Era stufo di tutte le bugie.

- Peter.- disse – Mi chiamo Peter.-

- Ora ti conosco.- gli sembrò che Marie avesse addirittura accennato un sorriso, pronunciando quelle parole. Lo prendeva in giro.

- Non fare la stupida. Pensi che quello che ho fatto ieri notte sia la cosa peggiore che ho fatto nella mia vita? Non lo è.-

- Peter, non importa cosa hai fatto. Se io ora sono viva, tu non sei malvagio.-

Peter rimase in silenzio. E, all'improvviso, iniziò a desiderare che quello che la ragazza stesse dicendo, fosse vero.

- Mangia un po'. Abbiamo ancora molte miglia davanti.-


Il cutter aprì una linea rossa sul petto di Spencer, facendolo gemere sotto il pezzo di scotch da pacchi che gli bloccava la bocca. C'erano diversi tagli su tutto il suo corpo, che gocciolavano  sulla superfice candida della vasca da bagno, mentre Spencer si dibatteva al suo interno. Gli avevano fatto togliere i vestiti, poi l'avevano buttato nella sua jacuzi. Poi George si era tolto la giacca, e aveva tirato fuori il taglierino.
L'ultimo taglio doveva essere come il finale di una serie di improvvisazioni, George sembrava addirittura soddisfatto. Prese lo scotch, e lo strappò via, sapendo che Spencer non avrebbe urlato in quel momento. Era esausto.
- Basta... Dio mio, fallo smettere.- biascicò Spencer.
- Sei te che lo devi far smettere. E bastano solo pochi nomi, per farlo.-
- Non sta succedendo davvero... Dio, non so nemmeno di quello di cui state parlando...- il dolore si stava facendosi strada nella testa di Spencer: ormai le bugie non uscivano più belle come prima, dalla sua bocca. E Statham se ne accorgeva. Erano a buon punto col lavoro.
Si chinò sulla vasca. Spencer si ritirò in un angolo, il più lontano da lui che potesse.
- Senti, ma non l'hai vista la borsa? Ti sta tagliando con un cutter. Un cazzo di taglierino. Quanta roba pensi non ci sia la dentro? Roba peggiore. Peggio di quella con cui ti sta facendo frignare ora.-
- Per favore...-
- George, continua.-
L'asiatico grugnì, e si chinò sulla borsa. Tirò fuori un paio di grosse tenaglie da meccanico. Entrò nella vasca, e cercò di afferrare Spencer per un braccio. Lui si divincolò, lanciando dei gemiti acuti. La tenaglia andò a piombare sulla sua tempia, privandolo dei sensi. George lo prese per il polso, rimise lo scotch al suo posto, e lo trascinò fino al bordo della vasca. I tagli sul suo corpo, strisciando e allargandosi contro la ceramica, ridiedero coscienza a Spencer. Appena in tempo per vedere il suo polso tenuto fisso da un piede sul bordo, mentre la tenaglia si stringeva intorno ad un unghia. Spencer chiuse forte gli occhi, come se non vedendo gli avrebbe fatto meno male. Ma non fece meno male. Lo scotch tramutò l'urlo in un muggito, mentre l'unghia strappata cadeva per terra.
- Quante storie. Un unghia. Ne hai dieci, Spencer. Hai dieci cazzo di unghie. Come farai altre nove volte? Come farai quando le avrai finite, e ci lavoreremo la tua faccia, le tue dita, il tuo uccello? E la sai la cosa buffa? Abbiamo tutto il tempo del mondo. Per curare le tue ferite, iniziare tutto da capo, e poi metterci dentro del sale.-

Spencer era a terra, rannicchiato come un feto. Singhiozzava.
- Oh, Spencer. Ci spezzi il cuore. Pensavo fossi un duro, te ne stiamo facendo passare di brutte, e non hai ancora detto un cazzo. E ora piangi?- Spencer non lo guardò nemmeno. Statham si irritò. Slacciò la cintura, ed entrò nella vasca.
- Dimmi - lo sferzò, dalla parte della cinghia - quei cazzo - un altra volta - di nomi!-  e ancora altre volte, urlando, fino a che anche a lui mancò il fiato. Rimase in piedi, ansimante,  con le gambe divaricate, e Spencer ai suoi pedi, ricoperto di sangue, scosso da continui tremiti. George lo guardava con una certa soddisfazione, come se ne apprezzasse lo sforzo creativo. Gettò un occhiata sulla borsa, e stava per aprirla di nuovo quando sentirono qualcosa provenire dal soggiorno. Una porta che si apriva. Spencer sentì una voce di donna chiamare il suo nome, e subito si sentì morire. Statham, senza riuscire a smettere di ansimare, guardò la porta:
- Ora immagina, Spencer.- iniziò - Manderò di la George. Con tua moglie. Con i tuoi bambini. Non sei curioso di cosa succederà? Di chi stuprerà per primo? Di come renderà la tua vita un cazzo di incubo, solo perché te, figlio di puttana, non hai voluto dirci quei nomi? Eh?-
Spencer piangeva. Statham gli si buttò addosso, e gli strappo il nastro adesivo dalla bocca:

- Allora?-

- No...- Spencer riusciva appena a parlare - Non puoi farmi questo... Chi sei? Chi sei per fare tutto questo?-

- Chi sono?- Spencer si alzò. George intanto uscì dal bagno - Sono la legge, Spencer. Sono quello che sa cosa è giusto e cosa non lo è. Sono quello che tortura e uccide i pezzi di merda come te, che pisciano sopra tutto ciò che c'è di bello e sacro. E non guarderò in faccia nessuno, ne te, ne la tua troia, ne i tuoi bambini, finché non avrò avuto giustizia.-

Dal soggiorno si sentì arrivare un urlo di donna.

- No!- Spencer voleva urlare, ma dalla sua gola uscì solo un suono strozzato.

- Ora. E' la tua ultima occasione, e la loro. I nomi.-

Spencer fissò i suoi occhi arrossati su quelli freddi, lontani di Statham. Aprì la bocca.

 

- Dove stiamo andando?- Chiese Marie. Indossava una giacca verde militare, dei jeans e un cappellino da baseball. Si erano fermati nel negozio più vicino all'entrata dell'interstatale, e avevano preso le uniche cose che riuscivano a stare addosso alla ragazza. Ora lei sedeva nel sedile davanti, vicino a Peter.

- Da una mia amica.-

- Quella a cui hai telefonato?-

- Sì.-

- E' la tua ragazza?-

- La conosco appena. No, non lo è.-

- Ne hai una? Una ragazza, una moglie?-

Peter non toccava una donna da due anni. Era un periodo in cui i soldi nelle sue mani erano davvero diventati troppi, e avevano iniziato a trasformarsi in eroina. I ricordi erano confusi. Era fatto, nella camera di un albergo. Forse era un albergo. Con lui c'era qualcuno, una donna. Si era spogliata davanti a lui, e gli era salita addosso. Più i ricordi si avvicinavano al coito, più diventavano dei lampi di sensazioni, sequenza brevi e sbiadite come scatti di una macchina fuori fuoco. In uno di essi, nelle mani della donna era comparso un coltello. Peter fino a quel momento aveva pensato di aver rimorchiato la ragazza da un bar, e invece si era fatto fregare. All'epoca aveva già ucciso abbastanza persone da meritare una vendetta. Il coltello era sceso, diretto contro la sua gola. Peter l'aveva riparata con una mano, e il coltello si era conficcato lì. La pistola era nella giacca, ai piedi del letto. Nel lampo di ricordi successivo, era in mano sua. La fronte della ragazza era esplosa in una pioggia di sangue. Peter era venuto in quel momento.

Quella sera, aveva smesso di desiderare.

- No.- Rispose Peter.

C'erano momenti in cui voleva che Marie lo odiasse. Quella ragazza era la grande incoerenza della sua vita. E le persone che aveva ucciso erano un incoerenza in vite di altre persone. Lui le eliminava le incoerenze, era il suo lavoro. Ma non voleva eliminare quella.

- Manca molto?- domandò Marie.

- Non troppo.-

La macchina correva sull'interstatale, verso un qualche luogo.

 

Paul entrò nella stanza spingendo la porta con la schiena, mentre le sue braccia proteggevano goffamente un mazzo di fiori già fatto appassire da un paio di forti raffiche di vento incontrate per strada. L’ospedale era abbastanza lontano dalla metropolitana, e lui non aveva una macchina, dopo essere stato bocciato per la terza volta all’esame di guida aveva rinunciato alla patente.

- Ciao mamma!- Esclamò voltandosi su se stesso, urtando con i fiori un supporto per l’endovena abbandonato in un angolo, e subito evitandone la caduta sorreggendolo con il ginocchio. Sua madre rispose silenziosamente con un sorriso sdentato, muovendo appena la testa, e subito chinandola di nuovo sul petto. Stava sdraiata sul suo letto d’ospedale, con la schiena appoggiata per metà al muro, mentre le sue mani sgranavano un rosario di plastica bianca. Il figlio sistemò i fiori su un comodino, e si sfilò di dosso il cappotto. Lei si segnò, ed appoggiò il rosario vicino ai fiori.

- Come stai mamma?-lei sorrise.

- Grazie per essere venuto.- Glielo diceva ogni volta, dal giorno dopo lo scompenso cardiaco. E lui ogni volta rispondeva:

- Di niente, di niente.- e seguiva un silenzio che Paul trovava imbarazzante, nonostante la madre sorridesse serena, guardando qualcosa in lontananza, apparentemente sulla parete davanti a lei. Poi guardò lui:

-Che bello che sei diventato!-

- Dai, mamma.-

- Che bello essere ancora qui, e vedere il mio bambino così grande!-

Paul sbuffò, e chinò il capo arrossito verso il pavimento.

- Anche il papà sarebbe contento di te.-

“Mamma, sono un perdente, ho un lavoro che non mi piacerà mai e non mi porterà da nessuna parte, e l’unica cosa che avrebbe potuto levarmi da questa situazione non sono nemmeno riuscito a portarla a termine. Scott è morto. E allora? Cosa è cambiato?”

- Papà non è mai stato contento di me.- Mormorò Paul, sperando che la madre non lo sentisse. Forse in effetti non lo sentì, ma una mamma capisce cosa passa per la testa al figlio.

- Ti voleva bene Paul.-

- Mamma, non ne voglio parlare.-

- Paul, se sei qui, è perché qualcuno desiderava che tu ci fossi. Perché qualcuno ti ha voluto bene, nonostante tutto.-

- Nonostante me?-

- Nonostante il male che facciamo.-

Paul guardò la madre, senza più sapere cosa dirle.

- Guardiamo la tivù, okay?- si decise infine, e preso il telecomando accese su un telefilm dozzinale. Lo guardarono insieme per un ora, prima che lei si addormentasse. Paul si alzò ed uscì. Tornato in strada, guardò in alto: mentre veniva lì avrebbe giurato che stesse per piovere. Invece c’era il sole.

 

Se siete arrivati fino all'ultimo capitolo, immagino la storia vi sia piaciuta. Grazie mille! Lasciate una recensione, guadagnerete un sacco di punti e mi renderete contento. So che non a tutti piacerà questo finale in sospeso, ma se siete stati attenti, noterete che la storia è davvero conclusa. Angelo non è più Angelo, la sua nuova vita può iniziare. Però mi piacerebbe raccontare la storia di Peter, quindi restate sintonizzati, forse un giorno avremo un Angelo - Seconda Parte. Grazie ancora, ciao!

Dzoro

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Capitolo 19
*** Postfazione ***


Vorrei raccontarvi cosa ho imparato scrivendo questo romanzo.
 
Lo iniziai alle superiori, avevo quindici anni e andavo matto per i film di Tarantino e i fumetti del Punitore, e volevo scrivere una cosa macha e cazzuta. Così nacque Angelo. Angelo era il protagonista di una serie di storielle, scollegate tra di loro, accomunate da un ambientazione hard boiled fatta di violenza e gente che parla in italiano come nei film americani. Avevo uno stile da latte alle ginocchia, roba tipo stese sui loro corpi un opprimente sudario intessuto di piombo e fuoco, roba che se avessi la macchina del tempo tornerei indietro e mi prenderei a schiaffi. Mentre le scrivevo sapevo che si sarebbero concluse con il ciclo di Marie, scatenato dal racconto dell’omicidio dell’attrice pornografica, scena che mi comparve in uno dei sogni più allucinati della mia vita. Ma tra me pensavo dove voglio andare a parare? Cosa significa tutto questo? Iniziai a desiderare che anche quella raccolta di storielle cariche di machismo adolescenziale portasse da qualche parte. E, dopo molti anni, ho capito dove portava.
 
Da poco ho letto un libro in cui si parla di narrazione e scrittura, in cui si dice che il protagonista di una storia, per essere tale, deve avere un obbiettivo, desiderare qualcosa, è questo che mette in moto la storia, che altrimenti sarebbe statica. La storia di Paul, l’aspirante avvocato ultra-sfigato, è il tentativo fallito di una persona che tenta di essere protagonista.
 
Mi sono reso conto da un po’ di tempo, che quello che realizza una persona, che la rende felice, non è ottenere quello che desidera. Angelo desidera soldi, desidera fare la cosa che sa fare meglio, e pensa che tutto ciò dia un senso alla sua vita. Ma inizia ad essere un uomo solo quando si rende conto di essere stato perdonato, contro ogni possibile previsione.
 
Credo che non abbiamo bisogno di realizzare i nostri desideri, i nostri sogni, le nostre ambizioni. Se non li realizziamo siamo frustrati, e quando li realizziamo non sono mai la gran figata che pensavamo. C’è un solo desiderio che vale la pena di essere realizzato: quello di essere amati, accettati anche se siamo un disastro completo. Quando Angelo lo capisce, smette di essere un personaggio, e diventa una persona. Così diventa Peter, non può più essere Angelo, il personaggio improbabile inventato da un ragazzino alle superiori (e che forse non esiste nemmeno, come suggerisce il dialogo tra i due poliziotti nel capitolo 13. Avete notato che nessuno chiama Angelo per nome?). Ed è per questo che la storia finisce con Paul, la storia di un amore che esiste nonostante il male che facciamo.
 
Tutto questo non l’ho infilato a forza nel libro, e venuto fuori da solo, scrivere mi ha aiutato a capire meglio me stesso e la mia vita. È questa la bellezza della scrittura, quello che auguro ad ognuno di voi che scrive con passione, e sa godere del proprio lavoro molto di più mentre scrive che quando controlla le recensioni.
 
E non lo dico per elogiarmi da solo, che sarebbe una cosa da vero sfigato, ma per invitarvi a fare altrettanto, a scrivere una cosa di cui possiate essere orgogliosi, che pensiate possa lasciare un segno. E, per favore, fate in modo che non sia l’ennesima scenetta in cui Draco Malfoy sodomizza di Harry Potter. Siete molto meglio di così.
 
Dzoro
 
Ps: il seguito di Angelo Strano è in (lentissima) lavorazione. Sarà una cosa diversa, molto realistica e cruda, ma anche con più personaggi femminili e il ritorno di un personaggio molto amato. Stay in touch.  

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