Carezze di luna

di chi_lamed
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lacrime e ricordi ***
Capitolo 2: *** Sguardi e sussurri ***



Capitolo 1
*** Lacrime e ricordi ***


Nota 1: questa storia era già stata pubblicata nella raccolta Un Sorriso per Severus, ora che l'ho terminata ho pensato fosse meglio che diventasse una storia a sé. Il capitolo nella raccolta per correttezza verrà cancellato.

Nota 2
: questa storia è divisa in due parti, ognuna dedicata al POV di uno dei due personaggi.
 
 
Disclaimer: I personaggi ed i luoghi presenti in questa storia non appartengono a me bensì, prevalentemente, a J.K. Rowling e a chi ne detiene i diritti. I luoghi non inventati da J.K. Rowling e la trama di questa storia sono invece di mia proprietà ed occorre il mio esplicito e preventivo consenso per pubblicare/tradurre altrove questa storia o una citazione da essa.
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro, ma per puro divertimento, nessuna violazione del copyright è pertanto intesa.
 
 
 
Nota: Storia scritta per il Gioco Creativo n. 13 “Un anno di sorrisi con Severus” del forum Il Calderone di Severus (http://severus.forumcommunity.net/?t=53428833#entry372358836)
 
 
 
 
 

 

Lacrime e ricordi

 

 
 
Penombra, profondo silenzio, fruscio di una veste color verde smeraldo e russare in lontananza di qualche ritratto. La notte fonda avvolgeva il castello e cullava nel sonno i suoi abitanti, dai sotterranei alle torri.
Tranne lei.
Si guardò attorno ancora una volta, fissando lo sguardo nel lungo corridoio, fin dove la vista riusciva ad arrivare penetrando nella semioscurità. Dalle alte finestre giungeva la luce argentata d’una falce di luna calante ed illuminava un leggero pulviscolo che volteggiava nell’aria con grazia ed armonia. Quella danza era uno spettacolo privato, solamente per lei.
E così anche il quinto piano era deserto, come i precedenti, ma in fin dei conti se lo aspettava. Quell’anno gli studenti erano proprio disciplinati, ne andava fiera.
Salì lentamente lungo la scalinata ed avvolse lo scialle un po’ più stretto, cercando di tenere saldo un nodo che non ne voleva sapere di assolvere al suo compito. Rabbrividì e trattenne a malapena uno sbuffo di disagio. L’inverno con i suoi gelidi spifferi riusciva ad infiltrarsi oltre le robuste mura di pietra di quel millenario castello, giungendo fino alle sue ossa non più giovani.
Ad una prima occhiata il sesto piano non sembrò diverso dagli altri. Avrebbe potuto anche lasciarlo inesplorato e ne fu davvero tentata, ma… no, decise di proseguire e percorrere qualche tratto di corridoio per essere del tutto certa. La vigilanza non era mai troppa: il buon vecchio Malocchio avrebbe approvato senza dubbio, pensò con un sorriso.
Il Frate Grasso sbucò da una porta, fluttuando silenzioso e leggiadro alle sue spalle. Sotto i raggi della luna la sua diafana essenza si tinse di madreperla, spiccando nel grigiore che il velo della notte aveva steso su ogni cosa. Non disse una parola. Lasciò che la strega continuasse il proprio giro e si diresse nella direzione opposta, tuffandosi poi oltre il muro e scomparendo in un batter di ciglia. Silenzio nel silenzio, lei non si accorse nemmeno di quella fugace presenza.
A corridoio inoltrato trattenne a stento uno sbadiglio, arrendendosi all’evidenza che non ci fosse anima viva nemmeno lì. Tanto meglio, il momento di andare a dormire si era fatto ancora più vicino ed avrebbe finalmente concluso quella giornata talmente funesta che sarebbe dovuta finire il prima possibile nel dimenticatoio. Cosa impossibile, purtroppo, non occorreva avere le doti di Sibilla per immaginare perfettamente le punzecchiature che sarebbero ben presto arrivate. Sospirò. Oltre l’ultima scalinata c’era una buona tazza di tè ad aspettarla ed un caldo letto che non vedeva l’ora di incontrare per un necessario sonno ristoratore. Ai dileggi avrebbe pensato l’indomani… anzi no, quel giorno stesso, visto che la mezzanotte era passata da una manciata di minuti.
Accelerò il passo, provando un senso di gioia quando si rese conto che la mèta era sempre più prossima. La stanchezza cominciava a pesarle anche sugli occhi.
Eppure non le impedì di sentire un fruscio sospetto. Era debole ma ben distinto ed avanzava sicuro verso di lei.
«Chi c’è?» domandò alzando la bacchetta, pronta a recitare una sonora ramanzina al malcapitato studente che si trovava fuori dai dormitori ben oltre il coprifuoco. E meno male che qualche attimo prima si era proclamata orgogliosa di quei ragazzi!
«Sono io.» la voce che le rispose era bassa ed inconfondibile.
Severus sbucò da dietro un’armatura, calmo e tranquillo, venendole incontro a grandi passi. Lo accompagnava l’immancabile volteggio elegante del nero mantello: lambito dai raggi di luna le sembrò ancora più sinuoso e vellutato.
Non represse un sospiro di sollievo, rilassandosi e sorridendo senza timore. Il braccio tornò lungo il fianco, lo scialle invece le scivolò lentamente dalla spalla destra, finendo per penzolarle scompostamente di lato.
Non ebbe la forza di rimetterlo a posto.
Non ci provò nemmeno.
Non in quel momento in cui un ricordo nemmeno troppo lontano la assalì senza che lei riuscisse a fermarne l’impeto, dopo che questo ebbe valicato la linea del passato per farsi nuovamente presente.
Fu come un’ondata di marea, dapprima lieve e tranquilla, piccola cosa da sembrare un nonnulla. Invece la sentì crescere e con essa il fragore, la vide avanzare spumeggiante e veloce verso gli scogli che, immobili, non poterono fare altro che subire la forza di quello schiaffo salato che s’abbatteva con violenza su di loro.
Lo scoglio era lei e magari lo fosse stata veramente quand’era il momento giusto per esserlo. Invece no, non aveva compreso. Non aveva creduto. Ed in quel frangente, quando il ricordo di una notte – di quella notte – era ritornato prepotente a ferirla e a farle sanguinare il cuore, non esitò a ripetersi ancora una volta “me lo merito”.
Aveva alzato la bacchetta contro l’uomo che le stava di fronte.
Contro l’uomo che li aveva sempre protetti tutti, insegnanti e studenti.
Contro colui che in silenzio e da solo aveva combattuto e sofferto.
Le labbra, che avrebbero dovuto offrirgli parole di conforto, si erano invece aperte all’insulto, lo avevano chiamato vigliacco, parola urlata al vento da una finestra rotta quanto il suo cuore spezzato da una fiducia calpestata.
Gli occhi, quei suoi occhi sempre severi, che avrebbero dovuto lanciargli occhiate di amicizia ed affetto, gli avevano offerto al contrario solo sguardi carichi d’odio e disgusto.
Cosa aveva saputo dargli, di buono, quando più ne aveva bisogno?
Fu riportata al presente da un tocco gentile che la fece sussultare e sgranare gli occhi.
Severus si era fatto più vicino e gentilmente le stava riavvolgendo lo scialle. La luce della luna illuminò le sue mani che, sapienti, seppero allacciare alla perfezione il nodo per tenerlo fermo.
Mani che avevano dovuto uccidere.
Mani che qualcuno avrebbe dovuto stringere per donargli affetto, calore ed amore.
«È tardi, Minerva.» La voce setosa del mago ruppe il silenzio. «Va’ a riposare, finisco io di controllare i corridoi.»
Qualche attimo prima avrebbe dato qualsiasi cosa pur di correre a dormire. Invece in quel momento non riuscì a fare altro che starsene immobile come una statua a fissare il Preside che continuava a guardarla dolcemente.
Con dolcezza, sì, non si stava sbagliando. Ogni istante in cui quell’uomo riusciva ad aprirsi al mondo senza riserve era da incorniciare.
Minerva declinò l’invito con un cenno del capo. Non voleva parlare, Severus avrebbe notato immediatamente la sua voce incrinata dal pianto.
«Lascia che ci pensi io.» Riprese pacato. « Le vecchie abitudini sono dure a morire.»
Il tono era leggero, quanto il tocco con cui la accompagnò per le scale fino al settimo piano. I raggi di luna che piovevano senza sosta dalle finestre illuminarono il cammino restante. L’imbarazzo e l’emozione non vollero andarsene, giocarono a tenerle il cuore in tumulto.
«E comunque…» la sua voce spezzò nuovamente il silenzio. C’era però qualcosa di diverso, ora, qualcosa che la strega conosceva fin troppo bene. Il sarcasmo pungente aleggiò nell’aria, rapido e guizzante. «Dubito che stanotte ci siano studenti fuori dai dormitori, Minerva. Gli unici che hanno ragione ad essere svegli sono i Serpeverde, ma poco fa erano ancora tutti nella loro Sala Comune a festeggiare. Quanto agli altri, forse dovresti consolarli per la sconfitta, non credi?»
Era a quel punto del dialogo che lei di solito si scostava con aria indignata e stizzita, vero?
Magari con una risposta a tono che avrebbe rispedito la battuta al mittente.
Aprì la bocca per ribattere, per non lasciare che il mago avesse l’ultima parola, per continuare quel motteggio scherzoso che andava avanti da anni.
Severus era giusto nel cono di luce soffusa dell’astro notturno. Aveva un’aria adorabilmente divertita e sorniona, molto più di quella di qualche ora prima, quando il Cercatore di Serpeverde aveva soffiato il Boccino da sotto il naso ai Grifondoro. Gli occhi, inondati da riflessi d’argento, gli brillavano di gioia innocente. Vividi e scuri oltre ogni immaginazione, spiccavano come nere perle lucenti sul viso dolcemente lambito dai raggi lunari.
Merlino, quell’uomo era vivo per puro miracolo e solo grazie ad una Fenice.
E quella sua frase sarcastica non era stata detta solo per irridere, no. Severus sapeva leggere l’animo umano come pochi, proprio come Albus. Aveva percepito il suo disagio, ne era certa. Le aveva offerto una consolazione, lui, a modo suo, distogliendola dagli altri pensieri che le avevano fatto piangere il cuore.
Lei non aveva saputo fare nemmeno quello, a suo tempo.
Al diavolo la sconfitta a Quidditich, al diavolo la loro abitudinaria schermaglia tra ripicche Grifondoro e sarcasmo Serpeverde.
Lui era lì, vivo e questo contava più di ogni altra cosa.
E vederne il piccolo sorriso ironico, senza alcuna nube ad offuscarlo, era un altrettanto miracolo.
Al diavolo anche il suo proverbiale spirito combattivo, almeno per quella notte.
Sorrise e pianse, Minerva, per quell’uomo a cui voleva bene come una madre, ma a cui non aveva saputo dare affetto quando era stato il momento più adatto.
Sorrise e pianse e gli argentati raggi lunari ne accarezzarono delicatamente lacrime e sorriso.
L’astro notturno proseguì il proprio giro nel cielo, osservando attraverso le finestre di un imponente castello un’anziana strega curvata dal pianto venire dolcemente abbracciata da un giovane mago dal nero mantello.

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Capitolo 2
*** Sguardi e sussurri ***


Sguardi e sussurri



 
Il raggio di luna fece capolino all’improvviso, giocando con ogni singolo anfratto del castello mentre percorreva con diligenza il suo tragitto nel cielo notturno. Come una freccia argentata attraversò l’aria nel più totale silenzio. Si tuffò attraverso il vetro della finestra della Biblioteca, percorse la sala, lambì gli imponenti scaffali e carezzò in punta di dita i libri ordinatamente riposti l’uno accanto all’altro come tanti soldatini sull’attenti.
Terminò la sua corsa poco distante, atterrando su un tavolo. Morì intrecciandosi alle eleganti dita affusolate di due mani appena uscite dal buio.
Il suo proprietario le ritrasse immediatamente, come se quell’argento delicato lo avesse scottato. Tutto tornò nero, ad eccezione della scia di luce regalata da quella falce di luna calante che sembrava desiderosa di splendere come non mai ed avvolgeva tavoli e libri con il suo diffuso chiarore.
Oscurità nel buio, Severus si sentì come un’ombra che si staglia su un cielo notturno privo di stelle. Era quello il suo posto, no?
Niente luce per lui, nemmeno la carezza della luna: era troppo per quelle mani che avevano ucciso.
Scosse la testa. Perché rimuginava ancora sul passato? A che serviva? A nulla, ma non poteva farne a meno. Il silenzio in cui era immersa l’intera Biblioteca ingigantiva i suoi pensieri, tramutandoli da semplici punti interrogativi in enormi creature svolazzanti che non ne volevano sapere di lasciarlo in pace. Sarebbe stato più facile ammutolire una Banshee urlante che far tacere ricordi, voci ed immagini.
Appoggiò i gomiti sul tavolo e si premette gli occhi con i palmi delle mani aperte, fino a vedere una miriade di piccole luci danzanti nel buio, proprio come faceva da bambino, quando si rintanava in un angolo della casa desideroso di non vedere la sofferenza di sua madre. La luna tornò ad illuminarlo, carezzandone i neri capelli che gli erano scivolati in avanti.
 
Era scappato. Come un ladro.
Come il vigliacco che non era mai stato.
Era praticamente fuggito, lasciando tutti di stucco, professore e studenti.
Un invito quasi implorato da Lumacorno, un tentennamento in risposta, l’incoraggiamento di Albus a lasciarsi andare, poiché in fondo non vi era alcun male nel festeggiare la vittoria schiacciante dei Serpeverde a Quidditch. Soprattutto se i perdenti erano i Grifondoro.
Queste erano state le premesse e lui – stolto! – si era lasciato convincere, desideroso di una briciola di normalità in più di quella che già ogni giorno la vita gli regalava.
Quello era stato l’errore madornale, ma l’aveva capito solamente qualche minuto più tardi, quando aveva messo piede nella Sala Comune di Serpeverde, giungendo via camino assieme ad Horace.
Lui, che aveva sempre pianificato ogni cosa, che anche nelle situazioni più disperate aveva sempre mantenuto sangue freddo e riflessi d’acciaio, proprio lui – Severus Piton, la fidata ex spia tra i Mangiamorte – era stato colto da un senso di disorientamento così totale da rimanerne quasi stordito.
La sala addobbata ovunque con festoni verde-argento, i cibi e le bevande, i capannelli di studenti che attorniavano i giocatori… tutto era scomparso all’improvviso in un glaciale silenzio, come se qualcuno avesse improvvisamente tolto il volume al mondo intero lanciando un incantesimo silenziante.
Occhi. Sguardi. Espressioni.
Imbarazzo diffuso, piombato come gelida coltre a fermare ogni cosa.
A nulla erano serviti gli incoraggiamenti di Horace a riprendere la festa, a nulla le caraffe di succo di zucca che fluttuavano a mezz’aria mentre la voce del professore invitava a bere qualcosa, confuso più che mai.
Imbarazzo diffuso e per giunta reciproco.
Quelli erano i suoi ragazzi, solo e semplicemente ragazzi, che girovagavano vociando nei corridoi e nel parco, che studiavano chini sui loro libri in Biblioteca, che egli vedeva quotidianamente in Sala Grande durante i pasti. E che in quel momento festeggiavano per una vittoria a Quidditch, comportandosi esattamente come i loro coetanei Babbani nel manifestare la loro gioia soddisfatta.
Nessuno di essi avrebbe mai dovuto fare i suoi stessi errori, nessuno.
In quel frangente fu come se entrambi, studenti e Preside, si vedessero per la prima volta.
Osservò e venne osservato, sentendosi sotto esame come non lo era mai stato, nemmeno al processo davanti al Winzegamot, che aveva preteso di analizzare ogni parte della sua vita privata passata e presente, passando al setaccio gesti e sentimenti come fossero ingredienti per pozioni da sezionare, catalogare e mettere in un polveroso archivio.
Cos’era lui per quei ragazzi?
Un eroe di guerra? Un traditore? Un esempio da additare o da guardare con disprezzo?
Non era certo di voler sapere la risposta, non in quel momento almeno.
Nessuno parlava e quegli istanti a Severus parvero secoli, invece erano tutti racchiusi in un minuscolo scatto della lancetta più lunga dell’orologio a pendolo appeso alla parete.
Così si era deciso lui.
Un passo.
Un altro e poi un altro ancora, fino all’entrata della Sala Comune.
Un ultimo cenno a Lumacorno in segno di saluto, un’ultima occhiata generale come a voler racchiudere tutti in un abbraccio fittizio e poi via, fuori da quella stanza che aveva visto la sua giovinezza crollare sotto il peso di un’ambizione carica di vendetta. Via, attraverso i corridoi deserti, a passo spedito. Ovunque, purché lontano da lì. Fino all’arrivo nella Biblioteca, luogo nel quale migliaia di parole si facevano silenzio riposto sugli scaffali in attesa solo di essere dipanate come filo da un gomitolo.
 
Sospirò, un vago accenno di singhiozzo verso la fine.
Si tolse le mani dagli occhi, lasciandosi illuminare dalla falce di luna. Quel candore alla fine ebbe il potere di calmarne i battiti ed il respiro.
Ci sarebbe stato un giorno in cui sarebbe riuscito a sostenere gli sguardi altrui senza correre poi a rintanarsi nel proprio angolino di dolore. Non poteva barricarsi ogni volta, nemmeno ostentando la sua consueta maschera di indifferenza e cinismo, non era vita, quella.
Con quella consapevolezza e senza una briciola di sonno uscì dalla Biblioteca ed iniziò a perlustrare i corridoi per la ronda notturna. Camminando avrebbe forse ritrovato la calma, certo che l’indomani gli avrebbe regalato una nuova battaglia come quella appena intrapresa: la strada per arrivare alla tranquillità del proprio animo era ancora molto lunga e tortuosa.
 

***

 
Con le movenze più feline di un gatto in cerca di preda c’era solamente Minerva McGranitt.
Dal suo angolo buio Severus la vide avanzare circospetta, la bacchetta in mano pronta per essere puntata addosso al malcapitato studente colto in flagrante. La luna dalle alte finestre ne illuminava lo chignon, colorandolo d’argento.
Era una grande donna, non ebbe alcuna difficoltà ad ammetterlo.
Grande, sì, come il suo cuore colmo di affetto per lui che non si riteneva ancora meritevole di un sentimento del genere.
Avrebbe potuto lasciarla procedere, lasciarla avanzare verso i suoi alloggi, rimanendo silenzioso nella sua nicchia non illuminata dalla luna.
Si era fermato udendo un fruscio lontano e, non visto, aveva deciso di rimanere in osservazione, sperando che fosse qualche studente – magari Grifondoro – da cogliere sul fatto. Almeno si sarebbe risollevato un po’ l’umore.
Beh… sul Grifondoro però aveva indovinato.
Avrebbe potuto lasciarla procedere, specialmente quando la vide fermarsi e tornare indietro da dove era venuta, probabilmente convinta che lì non vi fosse nessuno.
Avrebbe potuto, sì, ma quella notte a quanto pareva le decisioni sensate s’erano date allo sciopero completo.
Avanzò piano, i suoi passi vennero in parte celati dal sonoro russare del ritratto di un mago barbuto, ma Minerva se ne accorse ugualmente.
«Chi c’è?» chiese la donna.
Lui non era riuscito a reprimere un sorriso, cogliendo nel tono di voce della strega una nota di inflessibile determinazione. Fu anche per questo che s’affrettò a tranquillizzarla.
«Sono io.»
L’armatura che lo aveva celato non era più necessaria.
La falce di luna, alta e splendente nel cielo di nero velluto, assistette a quell’insolito incontro notturno ed illuminò entrambi gli attori in scena, come se un regista invisibile avesse deciso che loro sarebbero stati i protagonisti assoluti di quell’atto.
Severus conosceva l’animo umano, le emozioni che si fanno trasparenti e si riflettono sui volti. Era buio, le torce del corridoio ormai spente da un bel pezzo, ovunque era chiarore argentato e penombra. Eppure non faticò a comprendere. Avanzò verso la strega che s’era immobilizzata come una statua di sale, mentre il nodo dello scialle le si scioglieva e quello le scivolava scompostamente di lato, oscillando lento.
Non gli servì luce alcuna, gli bastò udire un flebile sospiro ed osservare il tremito incontrollato che aveva iniziato a pervadere la donna. Gli occhi di Minerva erano spalancati e non ebbe alcun bisogno della sua dote di Legilimens per ricordare un momento quasi identico a quello appena avvenuto.
Quella notte non poi così lontana aveva compreso di essersi sbagliato.
Aveva sempre creduto che l’assassinio del suo più grande – ed unico –  amico fosse stato il dolore più immane che era stato costretto a sopportare, enorme quanto una sofferenza antica di sedici anni che gli aveva stritolato il cuore. Invece no, s’era dovuto ricredere.
Incrociare la bacchetta con Minerva, vedere la risoluzione e la determinatezza nel suo viso, vederne l’odio ed il profondo disgusto verso di lui avere il sopravvento su ogni altra emozione… essere infine costretto a difendersi da lei e dai suoi incantesimi lanciati per fargli male
Oh, gli aveva fatto davvero male, molto più di quanto la strega avesse sperato.
Quel poco di sano che era rimasto nel suo animo s’era sbriciolato, come e peggio d’un fragile e vetusto papiro maneggiato da mani poco esperte e prive di ogni delicatezza. Infranto, spezzato, dilaniato… e tutti gli altri sinonimi non sarebbero stati mai sufficienti per descrivere ciò che gli era successo in quei momenti.
Il morso di Nagini era stato una tranquilla passeggiata al confronto.
Quell’anno aveva sopportato stoicamente occhiate di disgusto e battute cariche di disprezzo e fiducia spezzata. Era perfino riuscito quasi a farci l’abitudine, poiché in fondo quello era il modo con cui s’aspettava di essere trattato, né più né meno e poteva significare solo che egli stesse recitando alla perfezione la propria parte di Mangiamorte. In un certo senso, molto lato e quasi perverso, si poteva dire che quel dileggio era un complimento continuo a lui e alla sua capacità d’ingannare entrambe le parti in lotta.
Ma addirittura combattere contro di lei… Merlino, no, quello era stato troppo.
Il dolore di quel gesto era stato così spiazzante da andare oltre ogni previsione.
S’era difeso, s’era puramente difeso e nulla più, sentendo l’onda di odio e dolore che ad ogni incantesimo lanciato dalla strega diventava sempre più alta, sempre più gigante, fino a sovrastarlo del tutto. E la fuga da Hogwarts, attraverso il vetro infranto di una finestra, era stato il definitivo abbattersi su di lui, lo schiaffo immane che con una sola parola urlata al vento era piombato ed aveva devastato ogni cosa, riducendo tutto a brandelli.
In volo, come gli aveva un tempo insegnato il suo Padrone – no, mai lo era stato per davvero – l’ondata si era ritirata, scemando lentamente e lasciando dietro si sé una lunga scia di macerie desolate e desolanti.
Fu amara in quell’istante la constatazione che i suoi dolori più grandi erano avvenuti durante l’oscurità, come se anche la natura stessa avesse voluto partecipare alla notte della sua anima.
Sbatté le palpebre, Severus, smettendo di pensare a se stesso e riprendendo ad avanzare verso la donna che tremava visibilmente, la mente persa in un ricordo per il quale lei ancora implorava perdono.
Ferito nel peggior modo possibile, nemmeno nella notte della grande battaglia si era sentito di accusarla di qualcosa, poiché l’unico responsabile era solo lui stesso e nessun altro.
Severus provò d’impulso l’immane bisogno di tranquillizzarla, di calmare quel tremito che addolorava lei e straziava lui. Capì che quella serata iniziata nel verso sbagliato poteva non essere tutta da gettare al vento, se smetteva di concentrarsi su di sé.
Si fece vicino ad un’amica che avrebbe potuto essergli madre. Volle lenirne la sofferenza, poiché mai nessuno avrebbe dovuto provare dolore per lui, mai nessuno avrebbe dovuto continuare a tormentarsi per un passato che troppo spesso tornava ad essere presente.
Mai nessuno, tranne lui stesso.
Lo scialle continuava a penzolare scomposto.
Riannodarlo fu il primo passo e con quel gesto volle rinsaldare un’amicizia che aveva sempre considerato preziosa. Solo a metà ebbe una brevissima esitazione, percependo il sussulto della strega e per un istante egli temette che fosse disgustata nell’essere sfiorata da mani che avevano ucciso, non importava quanto per puro obbligo e non per libera scelta.
Ma Minerva non si scostò. Si limitò ad osservarne i gesti trattenendo a stento un singulto, con gli occhi sgranati.
Forse quel primo passo non era stata la scelta migliore, pensò Severus.
Nel silenzio in cui era immerso l’intero piano il suo sussurro echeggiò comunque distinto.
«È tardi, Minerva. Va’ a riposare, finisco io di controllare i corridoi.»
Le volle togliere almeno quella fatica.
L’ora era tarda, lui era certo che la maga fosse rimasta sveglia come sempre per la correzione serale dei numerosi temi di Trasfigurazione e che poi avesse approfittato per la consueta perlustrazione dopo il coprifuoco.
Lo sguardo di dolcezza con cui la fissò gli venne dal profondo.
Avrebbe ammirato quella donna finché fosse vissuto, era una certezza. Un motivo in più per non volerla vedere più soffrire per colpe non sue, per caricarsi il dolore di lei sulle proprie spalle che già tanto strazio avevano sopportato.
Era abituato al dolore, ma quello sarebbe stato un dolce peso.
Fu per quello che rinnovò l’invito di andare a riposare ed al cenno di diniego di lei lui rispose con un tocco che voleva essere gesto di accompagnamento e di consolazione. Quando si accorse che la strega si stava facendo condurre lungo la scalinata quasi appoggiandosi a lui dovette trattenere a stento un sospiro di sollievo. Lei era ancora turbata, ma Severus aveva appena trovato il modo di distrarla da un passato che non ne voleva sapere di rimanersene rintanato nel suo angolo buio e si divertiva ancora a ghermire le persone a cui egli teneva con le sue orride mani ossute. Avrebbe tanto voluto prendere a calci quel passato, affinché lui solo rimanesse il bersaglio preferito senza che altri ne facessero le spese.
La luna faceva d’in tanto in tanto capolino dalle alte finestre, illuminando la strada rimanente fino al settimo piano. La scena era ancora tutta per loro.
Severus preparò il proprio consueto ghigno di derisione, si studiò mentalmente la frase perché il suo effetto fosse totale e si lasciò conquistare da un minuscolo barlume di gioia autentica: riuscire a sollevare Minerva approfittando della vittoria di Serpeverde a Quidditch sarebbe stata una soluzione incredibilmente appagante per il duplice significato che recava con sé.
Portò la stoccata con una punta di soddisfazione che non volle minimamente nascondere, ma che anzi ingigantì con sincero sguardo beffardo. Vedere la bocca di Minerva aprirsi e chiudersi senza che riuscisse a sillabare alcun suono lo divertì non poco: forse sarebbe riuscito ad avere finalmente l’ultima parola su un tema caro ad entrambi.
Le loro schermaglie, composte da pungenti battute e sagaci risposte sul Quidditch, erano proverbialmente note ben oltre i confini di Hogwarts.
Sì, decisamente in quella notte erano accaduti risvolti positivi inaspettati e del tutto piacevoli. Accompagnò quel pensiero con un sorriso sulle labbra, lasciando che questa volta la luna lo illuminasse a dovere: non sarebbe fuggito dall’astro d’argento.
Non aveva alcun motivo di nascondere la propria piccola gioia innocente.
Per questo non fu preparato a ciò che avvenne in seguito.
Non ci furono frasi sarcastiche rispedite al mittente, né tantomeno silenzi carichi di stizza che meditavano propositi di rivincita almeno verbale. Non ci fu nulla di tutto quel che il mago si sarebbe mai immaginato.
Giunse invece un sorriso condito da lacrime, una risata in cui tristezza, sollievo e dolorosi rimpianti si mescolavano e si scioglievano, cadendo a terra in calde gocce dopo esser scivolate su guance scavate dal tempo.
Non ci pensò nemmeno un istante.
Non ragionò.
Agì d’istinto, sentendo il suo cuore schiantarsi ad ogni singhiozzo di Minerva.
E, prima ancora che se ne rendesse conto, stava stringendo tra le braccia l’anziana strega curva per un dolore non ancora sopito, curva per la felicità di averlo ancora accanto, lieta di potergli volere bene come una madre e senza più riserve.
Minerva si aggrappò al suo mantello senza pensarci, continuando a ridere e piangere senza sosta.
Per un fugace istante Severus si chiese come sarebbe stato se lui fosse sopravvissuto alla battaglia e Minerva invece avesse perso la vita. Fu dolore straziante solo quell’immagine fuggevole e per fortuna irreale. Per questo strinse l’abbraccio, posando infine, con gesto lento e pacato, una mano sulla testa della donna. Attese paziente che quell’ondata di marea si placasse, per lei ed anche per lui.
Nel chiarore soffuso dell’astro notturno Minerva McGranitt sembrò una piccola bimba indifesa tra le braccia di un alto cavaliere dal nero mantello e dagli occhi che avevano rubato alla notte stellata un pezzetto di scintillante e vellutata oscurità.
«È tutto a posto, adesso.» sussurrò il mago senza lasciarla andare, quasi cullandola con la sola voce. Le lacrime erano cessate, i singulti invece continuavano ancora, sempre più radi e distanti, ma comunque profondi.
La luna non poté fermarsi a contemplare quell’abbraccio di stima ed affetto, dovette a malincuore proseguire per il proprio tragitto nel cielo. Scivolò ancora più in alto, lasciando che solo qualche raggio leggiadro continuasse ad essere spettatore furtivo.
Era tutto a posto, davvero.
Non servirono altre parole, nemmeno per la buonanotte.
La strega si ricompose dopo qualche istante e Severus avrebbe giurato di averla vista arrossire, nonostante la penombra che li circondava. La vide raccomodarsi lo scialle ed asciugarsi gli angoli degli occhi con un bianco fazzolettino di pizzo.
L’ultimo sguardo prima che un arazzo li separasse, prima che l’ultimo raggio di luna calante fuggisse via con un guizzo argentato, fu di riconoscenza reciproca ed amicizia sincera.


***

Angolino autrice: ecco qui, finita.
Come potete notare, non succede niente di che, ma era da tanto tempo che desideravo un vero e proprio incontro chiarificatore tra un Severus vivo e Minerva. Sono certa che la strega, seguendo il filo narrativo di JKR, dopo aver saputo tutta la verità su Severus, si sia rimproverata per anni con sensi di colpa. Ma siccome a me Severus piace vivo e vegeto, ho voluto regalare un momento in cui rimorsi e rimproversi venissero dissipati in buona parte da entrambi.
Chiara

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