Little Hawk from District 9.

di AriiiC_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Hawk's accident. ***
Capitolo 2: *** Hawk's fly. ***
Capitolo 3: *** Hawk's hopes. ***



Capitolo 1
*** Hawk's accident. ***


 

 




 

  - First act -

 Hawk's accident.








 

 Il primo "atto" della mia modesta storia va a quattro persone.
A Marty, che mi sostiene e mi aiuta ad arrivare dove non potrei mai arrivare da sola.
A Leddy, che da' la giusta sfumatura alla piccola Lor senza mai dimenticare il filo conduttore che la lega agli altri.
A Martina, la mia beta preferita che, grazie a questa shot, ha rivalutato Lorelei.
 E a Franny, perchè lei e Vladi sarebbero fieri di me. (?)












«Lorelei, perché non parli?» la voce calda e profonda di Brick, spaccata da frenetici sussulti e singhiozzi, risuonò chiara nella mente della sorellina. Aveva aspettato tanto quel momento, l’istante in cui lo avrebbe riabbracciato e si sarebbe sentita di nuovo protetta tra le sue braccia. Aveva sognato come sarebbe stato ritrovarsi, alla stazione, se suo fratello fosse mai tornato. E il quattordicenne era lì, pronto a correrle incontro e stringerla a sé, prima di portarle le mani vicino alla guancia. Quelle stesse mani che sapevano sempre come metterle allegria erano lì davanti a lei. Volevano carezzarle la bionda chioma, farle capire che tutto andava bene. Ma la bambina aveva paura. Lei non si fidava. In fondo, come avrebbe potuto farlo, dopo tutto ciò che quelle mani avevano causato? Quelle palme che avevano mozzato la testa a ragazzi come loro, che s’erano bucate la sera della Cornucopia, quando l’incubo era iniziato.

 

-

 
 Da quel momento, Brick aveva cercato di rincorrerla, di entrare in quel suo mondo perverso per portarle un po’ d’amore. Aveva cercato la chiave per il cuore di Lorelei, ma non l’aveva trovata. Lui non la capiva più. Non la capiva da quando aveva quattordici anni ed era finito ai giochi. Non sapeva come comportarsi, avendo lasciato un piccolo angelo e avendo ritrovato un fantasma. Il fantasma di quella creaturina dai capelli chiari che amava scompigliargli le lunghe ciocche scure facendogliele cadere in volto. Lo spirito ormai distrutto e segnato per sempre di quella piccola principessa coi suoi stessi occhi blu. Ora, però, privi di luce.
 Neppure dopo cinque anni, la ferita s’era rimarginata. Lorelei stava nel campo, la falce in mano, del grano a terra, un po’ di sangue e la cicatrice sul sopracciglio sinistro che faceva ancora male. Si toccò rapida la fronte, prima di muovere nuovamente il braccio. Era un po’ come se fosse nata per quello. Come suo fratello, avrebbe vinto gli Hunger Games a quindici, o anche sedici anni. Ma ne aveva ancora nove, e c’era tempo per pensarci. Nessuno dei sui sette fratelli maggiori – Brick escluso – aveva mai pensato di trionfare. In fondo, la sua era una famiglia umile, e tutti avevano una dote per essere ricordati. May trovava a tutti un qualcosa di unico.
 Brick aveva vinto i giochi, in fondo.
 Vince era in grado di far ridere chiunque.
 Sasha anche. Dopotutto, non erano gemelli per niente.
 Phael aveva un’intelligenza innata.
 Sean sapeva farsi amare con un solo sguardo.
 Luke era furbo, e sapeva rigirare ogni cosa a suo favore.
 Tobias era bello, al di sopra di ogni cosa.
 E Lorelei? Cosa sapeva fare la piccola e per niente docile Lorelei? Forse, la sua unica caratteristica degna di riconoscimento sarebbe potuta essere la dolcezza, se non l’avesse persa la sera stessa in cui Stan aveva dipinto i suoi ricordi di nero e rosso. Tutto per colpa di Brick Ukai che si stava per far uccidere. Brick di qui, Brick di là… forse era per questo che Lor covava dentro sé il desiderio di potere: per essere all’altezza del suo fratellone Brick. Per riuscire, in qualche modo, a farlo diventare un’ombra. A fargli capire come ci si sentiva quando nessuno si curava di te. E allora immaginava che ogni colpo uccidesse un tributo, e che ogni tributo in meno potesse essere un passo in più verso Brick, verso quella sua splendida realtà così diversa da quella della bimba.
 «Se fai così, ti farai solo male.» sentenziò una voce inconfondibile dietro di lei, ma Lorelei non rispose. Era l’ultimo che aveva voglia di vedere in quel preciso istante. Chiuse gli occhi, mentre il sole le attraversò le palpebre attutendo quel buio che la bimba tanto temeva. Da quando aveva sviluppato quel terrore, aveva iniziato ad osservare tutto con occhi diversi. Non parlava alla gente, ma la studiava. Portava le sue pupille nelle loro, alla ricerca di ogni dettaglio che la potesse aiutare a comprendere la loro anima e a fidarsi o meno. Con June era andata pressappoco così: aveva osservato gli occhi scuri  della coetanea quando avevano cinque anni. Non ci mise poco a capirlo: June era come lei. June non parlava. June aveva paura delle parole perché, lo sapeva bene, dietro ogni parola si nascondeva una bugia. E le bugie fanno male. Dietro ad un ‘ti voglio bene’ non si celava mai nulla di buono. E Lor l’aveva sperimentato sulla propria pelle. Per questo lei e l’amica non parlavano. Perché le parole fanno male, ma gli occhi sono sinceri.
 Trasse un respiro, poi un altro più profondo, e poi mosse rapida il braccio.
 «Ti mozzerai la gamba.» ripeté la voce, quasi preoccupata.
 «Non mi sembra che la tua mano stia tanto meglio…» disse, alludendo alla protesi del fratello.
 «Non ho deciso io di perderla: – sottolineò, avvicinandosi. – ci sono cose di cui non puoi fare a meno.»
 «Tipo?» chiese la piccola, acida, scagliando un altro colpo. Lorelei lo sapeva bene, di cosa non si poteva fare a meno: non si poteva fare a meno di una spalla su cui piangere, del sorriso di qualcuno che ami, del bene di una persona, della luce, di un boccone di pane alla sera, di respirare. Lei non poteva fare a meno di essere diffidente.
 «Tipo me.» rispose tranquillo, abbracciando la sorella. Brick non era incline a dichiarazioni d’amore palesi, ma quella, evidentemente, era un’eccezione. Forse, per la prima volta dopo anni, anche la più piccola degli Ukai sentì bisogno di quel contatto così delicato da farle male. Brick era stato il suo modello, la sua strada da seguire. La sua piccola stella diventata, poi, astro principale di un sistema solare a sé stante, così lontano da lei. E non lo sopportava. Perché Brick era suo: era il suo fratello sconosciuto che non vedeva altri al di fuori di lei. Era quello che teneva a lei sul serio, e non le avrebbe mai fatto realmente male.
 Si lasciò cullare tra le sue braccia. E Lorelei pianse. Pianse perché non si può tenere tutto dentro, perché a volte le cose fanno male più di quanto sembri.
 Pianse tanto, perché quelli apparentemente più forti sono quelli che hanno più cose da piangere.

















 Adolf's corner.

 Alloraa...
 Lorelei Uk. 12 anni. Distretto 9.
 Questa è la prima delle tre shots su di lei.
 Partecipa all'interattiva "Gli animi forti s'innalzano sopra la sorte" di Leddy.
 Bèh, mi piacerebbe dire due parole sul titolo di questa prima parte: "accident" significa nascita non programmata e, in effetti, Lor non aveva mai deciso di diventare il Piccolo Falco del Distretto 9.
 Ora non so che dire.
 Vi invito a leggerli, e a sponsorizzare Lorelei!
 Se recensite in tanti, vi metto le foto dei fratelli (tutti e sette) ùù
 Un bascio♥
 Ariii, Jared, Shannon, Tomo e Marshall♥





 ps. Alla mia carissima Martichan97, grazie anche per l'intro.





pps. Se leggete Lorelei e non Lorelai, sappiate che non arriverete a domani mattina. Con ammore, ovviamente♥

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Capitolo 2
*** Hawk's fly. ***


 

 




 

  - Second act -

 Hawk's fly.








 

 Il secondo "atto" della mia piccola raccolta va a tutti i lettori:
a quelli che trovano Lor insignificanti e anche a quelli che hanno trovato un legame con lei.












«E ora veniamo ai nostri tributi!» disse cercando di apparire ammaliante dopo il filmato sui Giorni Bui. La verità era che odiava essere l’accompagnatrice di uno dei distretti più poveri. Meritava di meglio, lei.
La sua mano si immerse nei biglietti con i nomi delle ragazze e giocherellò con essi per qualche minuto, sotto gli sguardi esasperati della gente ai piedi del palco. Poi ne estrasse uno solo. «June Morick.»
Una bambina magra e dal viso un po’ pallido fece i primi passi, ma una voce sottile e vellutata si levò accanto a lei. «Mi offro volontaria! Mi offro volontaria!»
La ragazzina che aveva parlato, anche lei dodicenne, prese la mano di June e la portò di nuovo al suo posto, mentre saliva sul palco e l’altra la guardava spaesata.
June sarebbe morta subito se non si fosse offerta lei. Certo, era piccola, ma avrebbe potuto farcela. Dopotutto suo fratello Brick, che era stato uno dei tre vincitori, otto anni prima, le aveva insegnato un’infinità di trucchetti e strategie.
Prima o poi mi sarei offerta comunque, pensò in quell’istante.
«Ma abbiamo una giovane volontaria! Non è mai capitato da queste parti, giusto? – disse Dwille con un sorriso. – Come ti chiami?»
«Lorelei Uk.» rispose la ragazzina. Non era molto loquace. Al parlare preferiva osservare. Era un piccolo falco, Lorelei.
«Ti sei offerta per la tua amica?» Lei annuì, senza aggiungere altro. L’accompagnatrice le accarezzò la chioma bionda e boccolosa in un gesto misto a incoraggiamento e compassione.
Lorelei già la odiava, quasi. Cercò con lo sguardo il maggiore dei suoi sette fratelli, Brick, che ricambiava con un espressione sconcertata. Di certo non voleva che la sua sorellina si offrisse a dodici anni.
Mi dispiace, ma dovevo.

 

-

 
 
Lorelei guardò un po’ attonita Aaron – l’uomo che aveva dato loro una mano quando Stan se n’era andato, nonché padre di Kyle, migliore e unico amico di Brick – che, da dietro il casco da Pacificatore, le sorrideva amichevole prima di pungerle il dito. Una delle cose che la bimba temeva di più erano proprio gli aghi: non voleva essere punta per paura del dolore che avrebbe conseguito al tocco con quel minuscolo arnese in metallo.
 «Scusa.– le sussurrò lui, facendole segno col capo che era meglio allontanarsi. – A dopo.» disse piano mentre lei se ne andava. Perché Aaron era sicuro che Lorelei ci sarebbe stata anche dopo. D’altronde, anche lei, piccola, spericolata e irragionevole Lorelei, capiva che offrirsi a dodici anni era eccessivo. Persino per lei e per il suo desiderio di vittoria. Sapeva che, per tornare a casa sana e salva dall’arena, data la sua corporatura minuta, le sarebbero serviti almeno altri millequattrocentosessanta giorni di allenamento. Si mosse rapida andando nella fila più vicina al palco, come era consuetudine facessero i più giovani. I suoi occhi cercarono una chioma scura nella folla, fino a che non la trovò e le corse incontro, quasi a travolgerla col suo entusiasmo.
 «Lor, ch’è successo?» chiese June, lo spettro di un sorriso in volto.
 «Più che altro, questo è quello che chiedo io a te: hai una faccia da funerale!» non era la tipa da sdrammatizzare in momenti del genere. Ma, per June, questo ed altro. Quando erano insieme, sembravano cambiare entrambe: Lorelei diventava allegra, socievole; June faceva cadere ogni preoccupazione per dedicarsi in tutto e per tutto all’amica. Ma non quel giorno.
 «Diciotto.» sentenziò la mora, le iridi brune che iniziavano ad arrossarsi.
 «Diciotto cos… – s’interruppe l’altra prima di capire. – Ah, diciotto… – ripeté, come a voler assimilare meglio il senso di quel numero. – Andiamo, June! C’è gente che ha molte più tessere di te!»
 «E poi ci sei tu, che ne hai solo una.» ribatté la bimba, un senso di acuta amarezza nella voce. Lorelei pensò che la sua migliore amica sembrava ancora più piccola del solito, con quel suo vestitino rosa confetto pomposo che faceva risaltare l’eccessiva magrezza del suo corpo e la sua poca altezza. I capelli scuri le ricadevano sulle spalle in ciocche disordinate, in volto un’espressione indecifrabile, ma tutto tranne che tranquilla. Lor si rese conto che, nonostante avessero pochi mesi di differenza, lei sembrava più sviluppata, coi suoi cinque centimetri in più e il seno leggermente troppo sviluppato per la sua età. Era come se i suoi vissuti l’avessero maturata non solo caratterialmente ma anche fisicamente. Eppure, Lorelei era ancora acerba per quel mondo perverso e corrotto così tanto più grande di lei.
 «Ti prometto che nel caso ti estraessero, cosa che so per certo che non faranno, io mi offrirò.»
 «No, non lo farai.» rispose June. Non perchè non si fidava dell’amica, ma perchè non voleva che andasse a morire al suo posto: era quel tipo di persona che considerava la vita altrui più importante della propria. Proprio come Lorelei. Forse, era stato proprio questo particolare ad unirle così tanto.
 Mi dispiace, ma dovevo.
 I loro pensieri vennero spezzati da Dwille, che saliva sul palco nel suo completo rosso scarlatto.
 «Mi ricorda un po’ i rubini. Presente quelli che c’erano sul libro della lezione sul Distretto 1?» la mora abbozzò un sorriso timido e impacciato, provando a smorzare la tensione tra lei e l’altra.
 «Oppure il sangue…» sibilò Lor a denti stretti per non farsi sentire. La Capitolina, oggettivamente giovane e bella secondo gli standard della sua città natale, fece partire con un rapido gesto della mano il filmato sui Giorni Bui. Lorelei la odiava. Perché non si trovava un vero lavoro, invece di mandare i ragazzi a morire con così tanto brio? Lorelei odiava chiunque avesse a che fare con la Capitale, perché, in un modo o nell’altro, le aveva portato via Brick. Brick, ora seduto davanti a lei su quel palco, dove quella ragazza monocromatica lo mangiava con gli occhi. Il ragazzo era tornato diverse volte a Capitol City, e altrettante le aveva parlato di Dwille: diceva che era splendida, simpatica, dolce. Umana. Lorelei non capiva come il fratello avesse potuto attribuire un tale aggettivo ad una ragazza come lei. Potevano avere circa quattro, cinque anni al massimo di differenza. Forse la bimba Dwille aveva fatto il tifo per il giovane campione Brick del Distretto 9 e lo aveva accalappiato quando aveva vinto. Scosse la testa scacciando quei pensieri solo quando il mostriciattolo rosso avanzò verso la boccia con i nomi delle ragazze. Mosse la mano guantata in circolo. Era snervante aspettare che pronunciasse il nome della condannata. June avvicinò timidamente le dita alla mano di Lor, che le strinse e sussurrò, più a se stessa che a lei: «Tutto bene. Lo prometto.»
 «June Morick!»
 Evidentemente, niente doveva andare bene.
 June guardò pallida l’amica prima di muoversi.
 Ma quella era una promessa, e Lorelei Uk manteneva le promesse.
 Non mollò mai la sua mano, neppure quando la spinse dietro di sé e si lanciò sul palco, urlando: «Mi offro volontaria!»
 E le sarebbe piaciuto stringerla ancora, mentre si faceva largo tra le sue coetanee che rapide si spostarono per lasciarla andare avanti. Era un gesto così raro, nel suo Distretto, che nessuno poteva crederci. Neppure June, che, incredula e piangente, era caduta per terra senza forze, sussurrando il nome dell’amica piano, nonostante le mani davanti al volto non lo facessero sentire.
 «Ma abbiamo una giovane volontaria! – disse Dwille, facendole segno di salire accanto a lei. Brick la guardava attonito, ma non era sicura che l’accompagnatrice avesse capito chi fosse. – Non è mai capitato da queste parti, giusto? Come ti chiami?»
 «Lorelei Uk.» sussurrò lei, osservandola con odio. Forse doveva essere più loquace, ma proprio non ci riusciva. Non si rendeva conto delle conseguenze che avrebbero potuto avere le sue azioni, ma quello era ciò che sentiva e non poteva fare altrimenti. Forse fu in quel momento che Dwille capì davvero chi Lorelei fosse.
 «Ti sei offerta per la tua amica?» chiese, sbiancando sotto gli infiniti strati di fondotinta. Le accarezzò la chioma e, mentre Lorelei si voltò a cercare con lo sguardo Brick, le supposizioni della ventenne si rivelarono esatte
 Mi dispiace, ma dovevo., pensò la bimba, sapendo che Brick avrebbe capito, se avesse saputo. Ma Lorelei non era sicura al cento per cento di volergli spiegare. In fondo, oltre che essere suo fratello, sarebbe stato anche il suo mentore e, come tale, avrebbe odiato gesti così azzardati.
 I suoi pensieri vennero interrotti da Dwille, che, come a voler non pensare a chi fosse la bimba che aveva accanto, pescò il nome maschile.
 «Greg Hale.»
 Se prima aveva qualche dubbio, ora ne era sicura: Dwille portava palesemente sfiga.
 Il ragazzo sulla sedia a rotelle si avvicinò al palco, e la piccola rabbrividì. Pensava che non avrebbe avuto problemi ad uccidere il suo compagno di Distretto. Invece non sarebbe stato così, non con Greg. Lor non lo conosceva, non davvero, ma il suo orgoglio non le avrebbe mai permesso di ammazzare un ragazzo così debole e indifeso. Uno come Greg.
 Le sue guance diventarono rosse di imbarazzo e rabbia davanti all’immagine quasi comica del diciottenne che non riusciva a salire le scale. Le sarebbe piaciuto prendere a pugni Dwille, piangere, correre ad abbracciare Brick per non uscire più dalle sue braccia, non essersi mai offerta o poterlo fare due volte, in modo da salvare anche lui ed essere l’unica condannata a morte quell’anno. Ma la Capitale non lo avrebbe mai accettato. A morire dovevano essere in due. Aaron si avvicinava insieme ad un paio di colleghi alla carrozzella per aiutare Greg a salire sul palco, prima che un’altra mano si alzasse e un altro ragazzo dalla chioma scura si facesse largo tra la folle. Questa volta, Lorelei lo conosceva sul serio: era Alec. Avevano parlato una sola volta, quando lui aveva dieci anni e lei quattro. La mattina dopo che Stan l’aveva picchiata, perché Alec era il medico del grano, e aveva aiutato la dottoressa May Ukai. Le aveva stretto forte la mano, confortandola mentre la madre la ricuciva. E Alec, poi, le aveva sorriso. E Lori aveva ricambiato.
 Da allora si era instaurato tra loro un rapporto di rispetto reciproco: io non faccio male a te, e tu non fai del male a me.
 Mentre si presentava mettendosi accanto alla piccola, lei notò la differenza immensa tra i loro corpi, e capì di essere pressoché spacciata. Fino a che Alec non le strinse la mano, e la piccola lesse nei suoi occhi che anche lui la ricordava. Anche lui ricordava quel piccolo patto silenzioso che avevano instaurato in quella mattina piovosa di maggio e che nulla avrebbe spezzato.
 Neppure gli Hunger Games.
































 Adolf's corner.

 Finalmente siamo al secondo atto!
 Doveva essere più lungo, lo so, ma in realtà era in programma che fosse del tutto diverso. In più, la prima parte è presa direttamente dalla mietitura ufficiale di Lor.
 Riguardo Aaron, ho preparato uno sketch piccino picciò in cui spiego chi lui sia e chi sia anche Kyle.
 Ecco a voi:

 
 Lorelei aveva nove anni, undici mesi e una manciata di giorni.
 Lorelei era col fratello maggiore Brick in municipio, e non voleva sentire ragioni. Nonostante le avesse detto più volte che era inutile, che non avrebbe cambiato il sangue che le scorreva nelle vene. Nonostante avesse provato a dissuaderla in ogni modo conosciuto all’uomo, lei era stata irremovibile. Quel cognome pesava troppo sulle spalle della bimba, così lei aveva deciso di cacciarlo, di diventare un’altra tagliando i ponti con chiunque fosse stato suo padre. L’uomo che Lorelei tanto amava e stimava e che l’aveva picchiata a sangue in un lampo di follia. Stan, si chiamava. Stan Ukai, che le aveva dato la vita e aveva pensato di  poterla distruggere. Il giovane padre a cui tanto voleva bene, che non l’aveva mai vista più che uno sbaglio. In fondo, aveva già i suoi sette eredi maschi, Lorelei non gli “serviva” a nulla.
 Passò un polpastrello sul sopracciglio, delicatamente, a sfiorare il posto in cui esso veniva bruscamente diviso a metà dalla cicatrice. Gliel’aveva fatta Stan, con un coltello. Non aveva avuto considerazione del possibile dolore della figlia: aveva solo colpito.
 «Brick. – salutò elegantemente l’anziano pacificatore facendo un cenno col capo al diciannovenne. Lorelei si ricordava di lui: lo conoscevano anche prima che il fratello vincesse. Era stato il migliore amico della madre. Si chiamava Aaron, o qualcosa di simile. – Qual buon vento?»
 Il diciannovenne fece un cenno con la mano all’uomo, prima di rispondere: «Mia sorella. Mi sembra che tu la conosca, no?» detto ciò, portò le dita a sfiorare la coda di cavallo chiara di Lorelei, facendola avvicinare al bancone del municipio. Era un edificio semplice, di antica costruzione. C’era chi dicesse che i suoi forti mattoni a vista fossero sopravvissuti ai Giorni Bui, ma la bambina non ci credeva. Sapeva bene
che nulla era rimasto integro dopo la rivolta. Come avrebbe fatto quel fatiscente e puzzolente palazzo, allora? Le iridi scure di Aaron scrutarono la piccola in tutto il suo metro e dieci di altezza, prima di rivolgerle un sorriso così aperto e sincero da parere innaturale. Nessuno s’era mai rivolto a lei così, da quando aveva quattro anni e un po’. Nessuno tra quelli che la conoscevano avrebbe mai osato curvare le labbra in quel modo per lei. Perché Lorelei non sorrideva, mai. Non lo faceva per non essere fraintesa. E così nessuno sorrideva a lei, quasi volessero farle un dispetto.
 Ma non le importava: per lei, quella era ormai “normalità”. L’eccezione era quel cinquantenne dolce e cordiale, tanto amico di Stan che, pur sapendo tutto, le tese il palmo per farglielo stringere.
 «Lorelei, vero? – le sussurrò chinandosi per guardarla meglio negli occhi. Lorelei notò che i suoi erano marroni, di un marrone profondo e intenso, un po’ smorzato dai capelli brizzolati a causa dell’età. – Spero ricorderai Kyle, mio figlio…»
 La ragazzina si chiese se fosse umanamente possibile non ricordare uno come Kyle: simpatico, bello, magnetico, attraente ma sempre pronto ad aiutare. Era stato il migliore amico di Brick prima della vittoria, e l’unico dopo di essa. Era l’unico in grado di capire davvero le ragioni del ragazzo, senza fargliene una colpa.
 «Sì: – rispose, abbozzando un mezzo sorriso. – Lorelei.»
 «Allora, qual buon vento?» mostrò la dentatura imperfetta alla piccola che, per la prima volta dopo non ricordava neppure quanto, la trovò buffa. Di solito, il suo divertimento era lanciare coltelli, o falciare grano: mai nulla la faceva ridere sul serio. Invece quegli incisivi scuri leggermente troppo consumati, quelle labbra sottilissime che venivano solcate da leggere rughe d’espressione e quelle fossette le ispiravano fiducia davvero.
 «Ha deciso di cambiare cognome…» rispose Brick, senza dare alla sorellina il tempo per ribattere. Gli dava fastidio il fatto che volesse davvero portare avanti quella cosa. Era più forte di lui: pensava che lo facesse per allontanarsi, in qualche modo perverso, dal suo fratello vincitore. E lui odiava questa probabilità, perché sarebbe stata sempre la sua Lorelei, ma sarebbe stata più distante.
 «E che cognome vogliamo?» chiese di nuovo Aaron, voltandosi verso la giovanissima Lor in modo amichevole, come se quella situazione fosse la più normale del mondo.
 «Ukai mi pesa, ma non voglio cambiare troppo. Preferirei Uk.»
«Uk? – ribatté il fratello. – Che vuol dire Uk?»
«Non lo so. – rispose Lorelei con la massima semplicità. – Ma suona molto come Hawk.» 




 Detto ciò, vi lascio, chè domani parto e non ho manco fatto le valigie.
 ...
 ...
 ...
 ...
 Vero: quasi me lo scordavo!
 Ecco a voi il banner della mia carissimissima pandamito con Kyle e Aaron ùù





 Sciiiaooo folliH (?)
 Bascio♥
 Ariii, Jared, Shannon, Tomo e Marshall.












ps. Sì, shippo Brick/Dwille, se non si fosse capito ùù

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Capitolo 3
*** Hawk's hopes. ***


 

 




 

  - Third act -

 Hawk's hopes.








 

 Il terzo "atto" della mia modesta storia va a Potta,
senza la quale, molto probabilmente, non esisterebbe nessun terzo atto.











 

  «Lorelei.»

 Sua madre, May Frank, la chiamò piano, con quella sua voce che faceva parere ogni parola, anche la più breve, una melodia. Lorelei per la prima volta notò una somiglianza che mai aveva visto in dodici anni di vita: il colore degli occhi di sua madre era identico all’azzurro austero di quelli di Brick. E anche dei suoi. Si sentì vicina a quella donna come ormai non lo era da tempo, da quando, quella sera dei suoi quattro anni, la mamma non aveva sentito le sue urla di dolore disperate. Le aveva ricucito le ferite, certo, ma fatto ciò si era limitata a guardare la figlia che cresceva da sola, senza di lei. Perché lei per prima si era esclusa dalla vita della bimba, e Lorelei aveva semplicemente accentuato questa loro separazione.

 Lorelei iniziò a fissare il grano.

 «May.» le rispose Lorelei, continuando a tenere gli occhi puntati fuori dalla finestra, senza neppure girarsi verso la donna. Erano ormai diversi anni che Lorelei non la chiamava più “mamma”: era vero, l’aveva partorita lei, ma, secondo Brick e – quindi – secondo Lorelei, una madre è colei che cresce una bambina dall’inizio alla fine. Cosa che, di sicuro, May non aveva mai fatto.

 «Cosa guardi?» le chiese la donna, avvicinandosi e posandole una mano sulla spalla.

 «Mi mancherà il grano.» rispose candidamente la dodicenne.

 «Così ti dai già per spacciata.»

 «Ti sbagli: mi mancherà il grano per come lo vedo adesso. Brick dice che, da quando ha vinto, vede le spighe rosse, proprio come il sangue. – si girò verso la donna, scoprendola più vicina di quanto non fosse in realtà. – Ti ricordi cosa dicevi a tutti, quando ero piccola? – non aspettò una risposta. – Dicevi che i miei capelli erano bellissimi, perché…»

 «Perché erano proprio dello stesso colore del grano, ispidi come le spighe mature ma lisci come i chicchi appena raccolti.» concluse May, come fosse la cosa più naturale del mondo.

 «Non sono stati poi buttati via, quei quattro anni.» sputò quasi Lorelei, alzando gli occhi verso quelli della madre in modo accusatorio.

 «Io non butto via niente, quando si parla di te.» May non trattenne un singhiozzo, portando la mano alla bocca nel vano tentativo di soffocarlo. Lorelei si sentì colpevole: una merda per come aveva accusato la madre, per come l’aveva mandata in pezzi senza considerare che la donna potesse stare male quanto lei.

 Allora, senza dire altro, Lorelei l’abbracciò. La strinse forte al proprio petto senza pensare a nient’altro che a loro.

 Fino a che la voce spigolosa di un pacificatore non risuonò da dietro le loro spalle; non poteva essere Aaron: lui non le avrebbe mai interrotte.

 May tirò su col naso, prima di mettersi in ginocchio e aggiustare il vestito della figlia.

 «Ce la fai, Lorelei: se vuoi, tu fai tutto. Ti sei allenata: ci rivedremo presto. – le lacrime ormai le inondavano il viso. – Ti voglio bene, piccina.»

 L’uomo strappò la donna dalla vista della bimba senza neppure immaginare cosa ciò avrebbe causato nell’animo di Lorelei: un buco nero si aprì, mentre una speranza si faceva largo in lei.

 Lorelei sperò con tutto il cuore che quel riavvicinamento non fosse solo temporaneo, non fosse solo perché quello era il momento del bisogno, non fosse solo un’estrema richiesta d’aiuto.

 Con gli occhi lucidi, Lorelei sussurrò al nulla: «Anche io te ne voglio tanto, mamma

 

-

 

Lorelei ebbe appena il tempo di sedersi nella lussuosa e morbidissima poltrona in velluto rosso che sei figure maschili presero posizione in riga davanti a lei.

 La bimba prese un secondo per studiare con attenzione i volti dei suoi fratelli: dal sorriso spento dei ventenni Vince e Sasha agli azzurri occhi tristi di Raphael, all’unica lacrima di Sean; dall’espressione distrutta di Luke a Tobias, che teneva gli occhi bassi senza riuscire a reggere lo sguardo della sorellina.

 Tutti e sette nella stessa stanza, come ogni sera quando May cucinava quel poco che c’era e lo faceva diventare una cena.

 Come ogni sera, mancava Brick.

 «Come ti senti?» fu Sean, diciassette anni, il primo a parlare, avvicinandosi alla sorellina e stringendola tra le proprie braccia come fosse l’ultima volta – e, in effetti, poteva esserlo davvero.

 «Sono a posto. – disse Lor, riferendosi al suo essere in pace con se stessa per ciò che aveva fatto. – Sono tutta intera.»

 La stanza tacque sentendo la determinazione di quella dodicenne che racchiudeva in sé tutto il coraggio di Stan. Stan, l’uomo che l’aveva lasciata da sola quando aveva deciso di picchiarla, perché Brick si stava facendo uccidere.

 «È vero: sei tutta intera. – disse il quattordicenne Tobias, il fratello più vicino a Lorelei in età. – Ma potresti cadere in pezzi.»

 Alzò gli occhi dalle tegole per la prima volta dopo ch’era entrato e mostrò a tutti due iridi chiare circondate da cornee arrossate, stanche, come di chi piangeva da tempo senza interruzioni. Tobias, notò Lorelei, aveva gli occhi azzurri, ma non come lei: l’azzurro di quegli occhi era un azzurro allegro, un azzurro tranquillo che trasmetteva calore.

 «Non rompere le palle, Tobi. – sbottò Luke, appena quindicenne, avvicinandosi alla poltrona della sorella e allontanando Sean, prima di sedersi e prenderla in braccio. – Sai com’è fatta: Lorelei riesce a fare tutto.»

 «Tranne la cacca.» saltò fuori Sasha, nonostante sapesse di essere fuori luogo.

 La bambina gli lanciò un’occhiata assassina.

 «Andiamo, Lori: lo sappiamo tutti che sei stitica.» intervenne Vince, dando manforte al gemello.

 Tutti scoppiarono in una fragorosa risata.

 I restanti minuti vennero trascorsi parlando come fosse davvero sera, come se la mietitura fosse passata e ci fosse un piatto d’orzo in tavola.

 Solo il Pacificatore che scandì il tempo fece notar loro che non era così: tutti uscirono dalla stanza, salutando e baciando Lorelei, convinti che la ragazzina sarebbe tornata.

 Solo Phael aspettò che tutti uscissero per stare solo con la dodicenne: era quello con cui, da sempre, Lorelei aveva il rapporto peggiore. Il preciso Phael, infatti, non approvava la voglia di gloria della sorellina, perciò cercava di evitarla per non doverla criticare.

 Ma, quella volta, Phael era rimasto. E Lor non se lo spiegava.

 «Cosa c’è?» chiese col suo tono più acido al fratello.

 «Non cambi proprio mai, eh?» le sputò in faccia il diciottenne.

 «Fino a che non cambi tu, non vedo perché dovrei cambiare io. Sei semp-»

 «Non sono qui per litigare. – Phael si inginocchiò per essere alto come la sorella. – Voglio solo darti un paio di consigli. Hai dodici anni: ai Capitolini piacciono i bambini. – il Pacificatore riaprì la porta notando che qualcuno era rimasto. – Cerca di apparire dolce, di apparire innocente, e loro ti ameranno. – l’uomo prese il ragazzo di forza, sollevando il gracile corpo del giovane Ukai da terra. – Torna: io so che ce la fai!»

 Detto ciò, la porta si chiuse alle loro spalle.

 Lorelei aveva intenzione di seguire quel consiglio: sperava di riuscire ad essere morbida, bambina come non era mai stata.

 Sperava davvero con tutto il cuore che il fratello avesse ragione.

 

-

 

 La terza visita fu la più inaspettata per la bambina: Kyle e Aaron entrarono nella stanza a lei designata anche se, era noto a tutti, i Pacificatori non potevano andare a salutare i tributi. Ma lui non era solo un Pacificatore qualunque: era Aaron, il migliore amico di May; l’uomo che le aveva fatto da padre quando un padre non l’aveva più.

 L’uomo brizzolato si chinò su Lorelei, gli occhi scuri inondati di lacrime. Da oltre la sua spalla, Lor scorse il figlio ventiduenne: aveva i capelli marroni più lunghi di quanto ricordasse. Eppure era sempre ricoperto da quel suo fascino, così particolare e unico al tempo stesso: come se niente potesse scalfirlo, come se il mondo fosse lontano da lui e non potesse fargli male.

 «Come ti senti?» chiese Aaron allontanandosi quanto bastava per guardarla in faccia. Lorelei cercò di non mostrarsi seccata, nonostante fosse la seconda volta che gli veniva posta quella domanda. Ma Aaron non lo sapeva.

 «Sto bene, davvero. – disse, poi aggiunse: – Tu capisci, vero? Non potevo lasciarla andare: come avrebbero fatto senza di lei?»

 Aaron chinò il capo, guardando il pavimento. Poi si alzò in piedi, voltandosi verso la porta, pensieroso.

 «Sì, sì: ti capisco… June è la terzogenita dei Morick, l’unica in grado di lavorare. – Lorelei sapeva bene a cosa alludesse: Kendra e Ariana Morick avevano una salute precaria come poche, e mandarle nei campi sarebbe stato come condannarle a morte. – La sola, insomma, che porta da mangiare ai dieci fratelli minori…»

 Gli occhi della giovane Ukai si inumidirono un momento ripensando ai dieci fratelli di June: nella sua mente era chiara l’immagine di quella pagnotta che aveva deciso di portare a casa Morick, un giorno. Era stata, forse, la miglior decisione della sua vita: si era presentata nella loro umile dimora con quel pezzo di pane ancora caldo e, appena l’avevano vista, tutti i piccoli Morick le erano corsi incontro, abbracciandole le gambe e ringraziandola. Erano tutto ciò che Lorelei definiva “famiglia”.

 «Non preoccuparti: – si intromise Kyle. – staranno bene. Passeremo loro qualcosa noi e non moriranno di fame.»

 Lorelei non riuscì a trattenere il pianto: era una ragazza forte, certo, ma arriva il momento in cui essere forte non serve.

 «Grazie.» sussurrò, avvicinandosi al ragazzo ed abbracciandolo stretto. Kyle ricambiò l’abbraccio, cogliendo l’occasione per sussurrarle all’orecchio parole che Aaron non avrebbe mai dovuto sentire: «Ti aiuteremo: io e Brick siamo d’accordo.»

 Lor, in un primo momento, si chiese come avessero fatto i due ad accordarsi. Domanda che le morì in bocca una volta che l’anziano si avvicinò di nuovo per parlarle: «Lorelei, non siamo troppo poveri: troveremo il modo di lasciare qualcosa a tuo fratello per mandarti un dono o due in arena. Ti ho visto con la falce: sei forte.»

 Stava per far notare ad Aaron che non aveva mai ucciso nessuno quando un Pacificatore entrò, facendo notare che il tempo era scaduto. Aaron le baciò la fronte prima di uscire, pronto a dare al collega spiegazioni sul perché e per come si trovasse lì. Kyle si chinò sulla bambina, abbracciandola di nuovo e sussurrandole ancora: «Te lo prometto: fidati di noi.»

 Fu, poi, costretto ad uscire col padre che, altrimenti, avrebbe passato i guai.

 Lorelei ebbe appena il tempo di rendersi conto di cosa fosse accaduto che una nuova speranza fece breccia in lei: sarebbe riuscita a fidarsi della sua – loro – promessa.

 

-

 

 L’ultima ad entrare fu June. Corse incontro all’amica a metà tra il preoccupato e l’arrabbiato: l’unica cosa di cui Lorelei era certa era che le sue sopracciglia corrucciate non indicavano nulla di buono.

 «Perché?» le chiese sull’orlo di sfiorare una crisi nervosa. Lor sapeva bene che quella era la calma prima della tempesta.

 «Te l’avevo promesso.» sussurrò la ragazzina tenendo le iridi fisse in quelle scure dell’amica. Studiò il suo viso in ogni singolo particolare per non dimenticarlo. Era quasi sicura che l’avrebbe fatto: a Capitol, ai Giochi, tutto cambiava. Dimenticavi il colore degli occhi di tua madre, dimenticavi com’era toccare il grano, dimenticavi perfino com’era poter vivere senza paura di morire o vivere senza mai aver ucciso.

 Lorelei lo sapeva bene: Brick le aveva raccontato tutto. In una sera timida e calda di metà luglio, Brick le aveva confessato di avere anche dimenticato il suo viso.

 «Ma non pensavo lo avresti fatto davvero!» iniziò ad avere le cornee lucide. June era una ragazza forte, certo, ma ci sono cose che vanno ben oltre la forza del singolo individuo.

 «Mi conosci da sette anni: lo dovresti sapere che se dico una cosa, la faccio.» la voce incrinata ma decisa, piatta, quasi come se non avesse emozioni. Era ciò che faceva di solito: nascondeva ciò che provava per poter dare agli altri l’impressione di non provare nulla. Era fatta così, Lorelei: difficile, scura, sola anche in mezzo ad una piazza piena di persone.

 «Pensavo fossi più ragionevole.» sputò quasi.

 «Pensi saresti potuta sopravvivere, nell’arena? Io so cosa ti fanno là dentro, June: ti dipingono il cervello di rosso! Immagina se fossi morta: come avrebbero fatto Fred e gli altri senza di te? Dimmelo!» Lorelei non si rese conto che la sua voce, da sussurro, era passata ad un tono alto, pericolosamente vicino all’urlo.

 June non parlò, forse toccata nel vivo dei propri sentimenti, forse solo ferita.

 Lorelei la mandò via con un cenno della mano ed aria di sufficienza: le dava davvero fastidio quando faceva così. Non capiva che l’aveva fatto per lei?

 «Torna.» fu tutto ciò che sussurrò June andandosene.

 Lor attese qualche secondo dopo che lei uscì per iniziare a piangere. Corse poi ad aprire la porta, sperando di vedere l’amica, sperando di poter parlare, di chiederle scusa. Sperando che non si sarebbero lasciate così.

 Un corridoio vuoto uccise quelle speranze di Lorelei.

 

-

 

 Brick Ukai aspettava la sorella fuori dal palazzo di giustizia per accompagnarla al treno. I paparazzi facevano scattare i loro flash freneticamente, accecando i due ragazzi. Ma, in fondo, era raro che una dodicenne sorella di vincitore si offrisse volontaria. Soprattutto se quel vincitore era Brick Ukai.

 Il ventiduenne strinse la mano destra sulla spalla di Lorelei con fare rassicurante, ma la bimba rabbrividì sentendo il contatto con la protesi del fratello. Ecco cosa volevano dire gli Hunger Games.

 La paura la portò a mordersi il labbro talmente forte da farlo sanguinare.

 Chiuse gli occhi forte e, un attimo prima di salire sul treno, scappò dalla presa del fratello per mostrarsi alle telecamere.

 «Gli Ukai sono tornati!» fu tutto ciò che disse, ma i giornalisti si bearono di quel gesto.

 Lor sperò che la Capitale la prendesse bene, e non come una sfida: tutto ciò che volevano era spettacolo, e Lorelei Uk era pronta a darglielo. Il viaggio in treno fu snervante, la ramanzina di Brick sulla sua incoscienza suonò già sentita e risentita alle orecchie della bimba. I suoi occhi studiarono il viso di Alec così tante volte da farglielo risultare famigliare.

 Sperò che non l’avrebbe dovuto uccidere, sperò anche che lui non avrebbe ucciso lei. Sperò di poter vincere e, dopo la vittoria, dormire tranquilla senza la paura di chiudere gli occhi a causa degli incubi. Sperò di piacere alla capitale, sperò che l’amassero e avessero il buon cuore di aiutarla nella sua impresa inumana.

 Sperò di farcela, anche se i dodicenni non ce la facevano mai.

 Sperò di essere l’eccezione che confermava la regola.

 Le speranze di Lorelei, alla fine, si ridussero a due: morire da eroina o vivere abbastanza da diventare leggenda.

 

 

Time is running out.


































 Adolf's corner.

 

 Questo terzo atto temevo non sarebbe mai arrivato.
 Per questo motivo ringrazio di nuovo Potta che mi ha incoraggiato a scrivere di Lorelei come nessuno
 L'impaginazione fa pena, lo so, ma ho dovuto usare un editor alternativo perchè quello di efp ha deciso di lasciarmi nel momento del bisogno.

 Adesso mi sembra come se mia figlia se ne stesse andando di casa. Alla fin fine, mi sono davvero affezionata a Lor.
 E bao, spero anche voi.
 Lorelei è nelle mani di Leddy, ora, ma io vi voglio ringraziare per averne voluto sapere di più su di lei. 
 Grazie davvero, perchè a Lor ci tengo come a pochi.
 Basta con gli addii smielati.

 Bao a tutti♥
 Ariii, Jared, Shannon, Tomo e Marshall.

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