Volcano di Aelle Amazon (/viewuser.php?uid=112574)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 - Preghiere di dèi ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
Volcano 1
Volcano
1
Evangeline Smith si fece strada nella folla
a passo di marcia. Il lunedì mattina era sempre uguale: c’erano studenti che si
ammassavano davanti ai cancelli della scuola e che non si muovevano di un
millimetro, c’erano insegnanti che scendevano dalle loro utilitarie con
valanghe di libri e c’erano le immancabili bidelle con la scopa sempre tra
mani. E purtroppo c’era anche quel fastidioso chiacchiericcio che metteva
Evangeline di cattivo umore. Odiava quelle stupide ragazzine che si scambiavano
gossip come i bambini piccoli facevano con le figurine, ma aveva capito che,
anche se le disprezzava, non sarebbero scomparse di punto in bianco.
Manca
poco, dai. Pensò. Ancora un anno in questa scuola di merda e te ne vai.
Strinse i pochi libri che aveva al petto e
si fece coraggio. Varcò la soglia della St. Mitchell High School con la faccia
di un condannato a morte. La sua voglia di studiare si era rintanata chissà
dove ed Evangeline non aveva tempo da perdere a cercarla.
-Ah, eccoti, Smith- la voce della
professoressa Ferner le piombò sulle spalle come un macigno. Tuttavia si voltò
con un sorriso, uno dei più falsi che avesse mai indossato.
-Buongiorno, Mrs. Ferner. Mi cercava?-
La Ferner annuì con vigore. –Sì, alla prima
ora devo fare un compito a sorpresa nell’altra sezione. Andresti a fare le
fotocopie al posto mio?-
Ma
anche no. Questo era quello che avrebbe voluto
risponderle, ma non lo fece. Si limitò ad assentire e a tendere una mano, in
attesa che la prof le passasse i fogli da fotocopiare. Magari per rimediare
avrebbe potuto fare un salto nell’altra classe e avvertirli del compito, ma poi
rifletté bene sulla sua idea. Che senso aveva? Che andassero tutti al diavolo.
-Grazie mille, Smith. Sei sempre molto
gentile, terrò conto di questo- le disse la Ferner.
Evangeline sorrise fino a quando la
professoressa non le voltò le spalle, poi alzò il medio nella sua direzione. Si
affrettò verso la fotocopiatrice per evitare di arrivare in ritardo alla prima
ora –aveva quello strazio di donna della Johel, l’insegnante di letteratura- e
si rese conto che la Ferner non le aveva detto il numero dei compiti che doveva
fare. Nell’indecisione, preferì abbondare e stampò trenta fogli, pensando a
quanto la Ferner fosse una donna con la testa tra le nuvole.
Raccattò la sua roba e filò dritta verso la
sala professori, dove lasciò le fotocopie sulla scrivania della Ferner.
Dopodiché si recò quasi correndo nella classe della Johel, che fortunatamente
per lei non era ancora arrivata. E non erano arrivati nemmeno i suoi compagni
rompicoglioni, ma quello non poteva che essere un bene. Aveva ancora- guardò
l’orologio al polso- cinque minuti prima che la campana suonasse e le voci
stridule di quegli illetterati le trapanassero i timpani.
Quel giorno evidentemente doveva andare tutto
storto, perché la campanella suonò nel momento esatto in cui appoggiò la testa
sul banco, pronta per godersi i suoi ultimi istanti di tranquillità. Fu così
che Evangeline imprecò in tutte le lingue che conosceva.
Ed eccoli: come una mandria di bufali
inferociti della peggior specie i suoi compagni entrarono in classe. Dal suo
angolo in ultima fila, Evangeline distinse Marcus Lewis e la sua ragazza
Abigail Nelson che entravano a braccetto. Poi Adrianna Collins che intenta
com’era a sistemarsi uno sbavo invisibile del rossetto cremisi non si curava
della coda di ammiratori idioti che sostava alle sue spalle. Poi ancora Caesar
Sanchez e il suo fastidioso odore di sudore e molti altri. Evangeline non li
aveva mai considerati tanto né loro avevano provato ad avvicinarla. Solo la sua
presenza pareva metterli a disagio.
Una volta che furono tutti al proprio
posto, entrò la professoressa Johel. A prima vista era una persona carina. Con
quei capelli biondi e quegli occhi azzurri pareva un angelo sceso in terra, ma
non appena apriva bocca ci si accorgeva che non poteva essere che un diavolo
emerso dai gironi più profondi dell’Inferno.
La Johel –che di nome faceva Cassandra-
posò la borsa sulla cattedra e si sedette con una calma inaudita. Compilò il
registro, verificando con una sola occhiata i presenti e gli assenti, quindi
puntò i suoi gelidi occhi su Sanchez, che sedeva ad un banco di distanza da
Evangeline.
-Sanchez, la lezione scorsa abbiamo
spiegato il concetto di Sublime- esordì facendo sobbalzare il povero Caesar
–Spiegamelo, magari arricchendo il tuo discorso con validi esempi-.
Scena muta. Il ragazzo si torceva le mani
sudate, ma non parlava. Poi, non sopportando più lo sguardo che la Johel gli
aveva piantato addosso, scosse la testa, a conferma del fatto che non sapeva la
risposta.
La Johel non commentò, limitandosi a
cambiare il suo bersaglio. –Magari ce lo sai dire tu, Smith?-
Evangeline se lo aspettava, per questo
aveva passato tutto il pomeriggio precedente a ripassare. Con un respiro
profondo si accinse a incominciare, sapendo in cuor suo di conoscere ciò che le
era stato chiesto. Non poteva sbagliare.
-Teorizzato da Edmund Burke nel trattato
“Indagine sull’origine delle nostre idee di sublime e di bello”, il Sublime è
tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è
in un certo senso terribile o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in
modo analogo al terrore. Può essere anche definito come l’orrendo che
affascina. Infatti, si prendono in considerazione gli aspetti più violenti
della natura, come i mari burrascosi o le eruzioni vulcaniche, con la
consapevolezza che questi saranno la fonte del Sublime perché esso produce la
più forte sensazione che l’animo sia in grado di sentire e … -
-Va bene. Ho capito che hai studiato- la
interruppe la Johel –Passiamo al prossimo argomento-
Evangeline si concesse un sorriso di pura
soddisfazione. Era riuscita a rispondere bene ad una domanda della Johel. Forse
la giornata non era poi così brutta come sembrava.
All’ora di pranzo, quando Evangeline si era
tranquillamente sistemata in giardino lontana dalla presenza irritante di
tutti, scoppiò il temporale. Il cielo, da terso che era, si fece
improvvisamente scuro e il vento cominciò a soffiare violento. I tuoni
precedettero la pioggia, che cadde scrosciante e inarrestabile, infradiciando
il terreno e rendendolo fangoso in meno di dieci secondi.
Con uno strillo, Evangeline gettò il suo
panino a terra. Raccattò la sua borsa e con uno scatto degno del miglior felino
si diresse correndo verso il luogo asciutto più vicino, ovvero la palestra.
Spalancò la porta dell’edificio credendo di trovarlo occupato dai fighetti che
tanto odiava, ma si bloccò quando lo trovò vuoto e stranamente tranquillo. Si
riscosse solo nel momento in cui l’acqua le entrò nelle scarpe, gelandole i
piedi, e si decise ad entrare.
Lasciandosi alle spalle una scia di
impronte bagnate sul parquet e noncurante dei rimproveri che quelli del club di
basket avrebbero potuto farle, Evangeline si diresse verso gli spogliatoi
femminili. Vi entrò e lanciò su una delle panche la sua borsa, che vi atterrò
con un tonfo sordo. Si mise quindi a frugare negli armadietti fino a quando non
trovò quello che stava cercando: un asciugamano abbandonato lì da chissà quanto
tempo.
Si avvicinò allo specchio e vide la sua
immagine riflessa, ma cercò di ignorarla perché Evangeline non odiava solo gli
altri, odiava anche lei stessa. Disprezzava i suoi capelli, di un rosso
innaturale che riprendeva in sé tutte le sfumature del fuoco vivo. Disprezzava
i suoi occhi neri come il carbone perché sembravano non avere pupilla.
Disprezzava la linea sottile della sua bocca, quelle labbra strette e pallide
che si seccavano sempre. Disprezzava il suo naso perché era troppo piccolo se
confrontato con gli zigomi pronunciati che risaltavano sul suo volto come
semafori.
Purtroppo ignorare il suo riflesso si
dimostrò quanto mai difficile. Come non notare le scie scure che il mascara,
sciogliendosi, le aveva lasciato sulle guance? Parevano strani tatuaggi: si
attorcigliavano sulla sua pelle come serpenti e si lasciavano cadere nel
lavandino quando la goccia aveva raggiunto il limite della mascella.
Presa da un moto d’ira violento, Evangeline
tirò l’asciugamano contro lo specchio e centrò con un pugno la parete,
facendosi un male cane. Ansimando, si impose di recuperare il controllo della
situazione. Con un sospiro si chinò per raccogliere l’asciugamano da terra,
quindi provò di nuovo a tamponarsi i capelli, cercando di togliere almeno
l’acqua in eccesso, ma qualcosa la fece fermare all’improvviso.
-Oh, porca puttana- disse a bassa voce
sgranando gli occhi.
Nello specchio c’era un altro riflesso
oltre al suo. Una figura scura, imbacuccata in un mantello bianco imbrattato di
quello che non poteva che essere sangue rappreso, si ergeva fiera alle sue
spalle. Quando questa persona –poteva essere una donna- allungò un braccio
completamente sporco di sangue fin oltre il gomito verso di lei, Evangeline
fece un salto di almeno due metri e sperò con tutto il cuore di avere le
allucinazioni. Doveva per forza
essere così.
-Ti avverto- mormorò in modo malfermo –Un
altro passo e chiamo la polizia!-
La donna –dopo aver visto le forme
arrotondate spuntare da sotto il mantello aveva avuto conferma della sua
teoria- non si fece lontanamente intimidire dalle sue parole, anzi parve non averle
nemmeno sentite e avanzò fin quando non riuscì a sfiorarle il braccio con la
mano insanguinata. Mentre la mano le risaliva lungo l’arto, Evangeline tremò,
sapendo di doversene andare da lì. Eppure, dentro si sé, qualcosa le diceva che
non aveva nulla da temere, che non le sarebbe stato fatto del male, perché come
se la donna stesse accertandosi della sua presenza. Come se fosse cieca.
Fu allora che la donna iniziò a parlare.
Disse poche parole, ma quelle furono sufficienti a mettere in subbuglio i
pensieri di Evangeline.
-Io sono Ker, la dea del destino-
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Volcano 2
Eccomi con il
secondo capitolo di questa storia, perdonate il ritardo. Spero che vi possa
piacere.
Un grazie enorme va
a Acquamaryne, Tea_Zeus, AleJackson, Dafne Rheb Ariadne, Lord_Inglip. Grazie mille dell’accoglienza
nella sezione fantasy e delle recensioni fantastiche!
Volcano
Storia dedicata a Dafne
Rheb Ariadne, per la sua gentilezza.
2
La donna, pur essendo
palesemente cieca, aveva uno sguardo terrificante, capace di ispirare
soggezione a chiunque lo incontrasse. Venature bordeaux partivano dalla
pupilla e si diramavano attraverso
l’iride donando agli occhi scuri una strana sfumatura rossastra. Solo
guardandoli, Evangeline sentì brividi freddi percorrerle la schiena. La mente,
quella parte razionale di sé che ancora non era stata ipnotizzata, le suggeriva
di distogliere lo sguardo, di scappare senza voltarsi mai indietro. Eppure non ci
riusciva: i piedi erano diventati di piombo e si rifiutavano di spostarsi da
lì. Poi, la stretta insanguinata della donna sul suo braccio non aiutava molto.
Evangeline provò a
liberarsi, ma ebbe scarso successo. Quella presa sembrava fatta di acciaio. Le
dita piegate ad artiglio affondavano nella sua carne,mentre le unghie affilate
come coltelli le ferivano la pelle.. I graffi pizzicavano in modo fastidioso e
la ragazza cercò di ricacciare indietro le lacrime che tentavano di solcarle le
guance. Non avrebbe ceduto al bisogno di piangere in un momento simile. Doveva
dimostrare di essere forte.
-Chi sei?- domandò
con voce arrogante.
La donna inarcò un
sopracciglio. –Ho già detto chi sono. Non ho mai amato ripetermi, perciò
ascoltami attentamente-
Suo malgrado,
Evangeline rabbrividì ancora. Esattamente come gli occhi, quella voce bassa e
mascolina che poco si adattava ad una donna era qualcosa di spaventoso,
paragonabile solo alla morte. Allontanando il suo sguardo da quello magnetico della
donna, la ragazza tentò di riassumere il controllo di se stessa. Si ritrovò a
fissare una ragnatela di crepe nel muro dello spogliatoio, scoprendola molto
più interessante di quanto avesse mai pensato.
-Guardami quando ti
parlo!- la sgridò la donna.
Evangeline fu
costretta ad eseguire. Il cuore le saltò in gola quando si accorse del ghigno
crudele apparso sulle labbra carnose di Ker, che la guardava con la soddisfazione
tipica di chi è abituato ad essere obbedito. Senza accorgersene, Evangeline si
era inginocchiata ai suoi piedi, le gambe a contatto con il freddo pavimento
dello spogliatoio.
-Il messaggio che
ti porto è un’esplicita richiesta di aiuto da parte degli dèi Olimpi. Sono
stati catturati da forze antiche quasi quanto il mondo stesso e ora giacciono
in gabbie come se fossero la peggior specie di animali. Vai in loro soccorso, Discendente-
Evangeline spalancò
la bocca a formare una O muta. Gli dèi Olimpi –la donna aveva detto proprio dèi, non poteva aver sentito male- non
esistevano. Facevano parte della mitologia greca, popolavano opere come
l’Iliade e l’Odissea, ma erano solo frutto della mente umana che, incapace di
giustificare alcuni eventi, ricorreva a loro. Ma nella realtà non esistevano,
Evangeline ne era più che certa.
-Gli dèi non
esistono- disse con la voce più ferma che le riusciva.
Veloce come la
luce, la mano della donna calò sulla sua guancia con una violenza fuori dal
comune. Evangeline rimase scioccata da quel gesto e con dita tremanti toccò la
parte lesa, sentendo la pelle scottare.
-Blasfemia!-
strillò Ker, il volto livido per la rabbia che conteneva a malapena.
La ragazza strinse
i denti, ma non replicò. Rimase zitta e chinò la testa davanti alla furia che
stava per scatenarsi. Percepì la paura che si faceva largo nel suo cuore,
arpionandolo in una stretta famelica, e per la prima volta nella sua vita
desiderò non avere parlato. Maledetta lei e la sua arroganza.
Ker lasciò la presa
attorno al suo gomito e si avvolse le braccia attorno al busto, come se
cercasse un conforto che poteva trovare solo in se stessa. Poi, gettò in capo
all’indietro e gridò. Un urlo disumano che costrinse Evangeline a coprirsi le
orecchie doloranti, ma che non le impedì di rimanere a fissare la figura
femminile con occhi sgranati.
-Ma che cazzo … -
sussurrò appiattendosi con il muro, proprio sotto il lavandino.
All’improvviso- nel
momento stesso in cui il grido si affievolì- la donna evaporò. Davanti al suo
sguardo incredulo, divenne della stessa consistenza dell’aria e le si avvicinò
fluttuando, mentre sul viso trasparente riaffiorava lo stesso sorriso soddisfatto
di poco prima. Pur non avendo consistenza materiale, i contorni del suo corpo
erano ancora visibili perché un gioco di luci e ombre li metteva in risalto.
-Ora non hai nessun
motivo per dubitare della nostra esistenza- la voce di Ker rimbombò contro le
pareti dello spogliatoio –Spero che questa dimostrazione ti basti. Da quando
gli dèi sono stati catturati la mia forza è diminuita drasticamente. Non posso
fare altro, altrimenti mi scoprirebbero. Più libero potere, più la mia
posizione è chiara come il sole. Se non voglio essere imprigionata devo
contenermi. Sono una dea minore, la mia vita è collegata a quella degli dèi
maggiori tramite un filo sottilissimo. E in quanto tale non mi è concesso scegliere
un Discendente. Se finissi in gabbia morirei-
Evangeline deglutì.
–Cosa sono i Discendenti?-
La donna roteò gli
occhi, spazientita. –Quando tutto sembrava perduto, gli dèi non hanno
abbandonato la speranza. Su consiglio del Grande Zeus, hanno trasferito gran
parte delle loro essenze in individui mortali. Essi sono la loro unica fonte di
salvezza. Se non combatteranno per vincere, il mondo precipiterà nel caos totale-
La ragazza si
appiattì ancora di più contro il muro, il cuore che minacciava di uscirle dal
petto. Una ciocca di capelli scivolò a coprirle il volto, ma Evangeline era
troppo spaventata per preoccuparsi di spostarla. Perché la mente le diceva di
non ascoltare quelle parole assurde e l’istinto la spronava a fare tutto il contrario?
Il suo essere si era scisso in due parti contrastanti ed la ragazza non sapeva
a quale dare ascolto. Seguire la ragione o un impulso momentaneo?
Si schiarì la gola.
–Se decidessi di crederti?-
-Ti assumeresti le
responsabilità del tuo gesto. Io non posso dirti cosa esattamente accadrà in
futuro. Scorgo solo brevi sprazzi di vita, ma tutto è sempre confuso perché il
destino è imprevedibile e incontrollabile. L’unica cosa che vedo limpida è la
morte. Accumuna tutti gli uomini e persino gli dèi possono esserne soggetti. Nessuno sfugge alla sorte, ricordatelo-
Evangeline cercò di
calmare il respiro accelerato. –Io non so come si fa a salvare degli dèi-
obiettò.
La donna finalmente
sorrise. –Su questo, posso assicurarti che dentro di te c’è una parte latente
che sa già tutto. Lasciala uscire, falla emergere e vedrai che non avrai nessuna
difficoltà ad affrontare questa situazione. Non posso dirti altro, mi dispiace.
Non posso condizionare il futuro-
Prima che
Evangeline potesse dire qualcos’altro, Ker si dissolse in una nuvola di fumo,
lasciandola da sola e confusa.
-Avete qualcosa
sulla mitologia greca?-
La bibliotecaria le
gettò una rapida occhiata e annuì. Digitò il campo della ricerca sul computer e
tamburellò le dita sul piano della scrivania mentre aspettava che la macchina
finisse di lavorare. Guardò attentamente i risultati e poi si alzò, facendo
segno ad Evangeline di seguirla.
-Vieni-
Evangeline fece
come le era stato detto, l’ansia in agguato. Una volta che la scuola era
terminata, aveva camminato fino alla biblioteca senza rendersene conto. Una volta
davanti all’antico edificio, non se l’era sentita di andarsene, così era entrata.
Aveva pensato che magari lì avrebbe trovato le risposte che cercava.
-Vediamo. Sezione
antica, scaffali dall’uno al dieci. Sì, siamo arrivati- disse la bibliotecaria
con un ampio gesto della mano –Qui c’è tutto quello che abbiamo. Spero che ci
sia quello che cerchi. E’ una ricerca scolastica?- si informò.
Evangeline si
sentiva stranamente tesa, come se nessuno dovesse sapere quello che stava
facendo. Prima di rispondere con uno stentato sì, si sistemò una ciocca di capelli
dietro l’orecchio. La bibliotecaria le sorrise e finalmente se ne andò.
Con calma, la
ragazza cominciò a spulciare tra i vari scaffali che le erano stati indicati.
Fece scorrere un dito sulle varie copertine finché non incontrò un volume
particolarmente impolverato. Incuriosita, Evangeline lo sfilò dal ripiano. Era
un libro piuttosto vecchio, con le pagine ingiallite che scricchiolavano appena
venivano anche solo sfiorate. Lettere sinuose e quasi sbiadite componevano il
titolo.
Mitologia greca. Divinità ed eroi dell’antica Grecia.
(*)
Evangeline capì che
quello era il volume che stava cercando. Avvistò un tavolo e vi si sedette,
aprendo il libro ad una pagina a caso. In fondo, era estranea alla mitologia
greca. Si irrigidì sulla sedia non appena vide cosa c’era scritto.
Ker o Chere era la dea del destino, colei che nel campo
di battaglia simboleggiava la morte violenta che colpiva i guerrieri durante
duelli o azioni furtive. Omero, nell’Iliade, la descrive come una figura
bardata in un mantello bianco imbrattato del sangue degli uomini che da lei
stessa venivano portati al cancello dell’Oltretomba.
Chiuse di scatto il
libro e rimase a fissarlo finché il battito del cuore non si regolarizzò. Come
diavolo era possibile? Non poteva essere tutta una strana coincidenza. Ker –se
veramente aveva incontrato una dea- le aveva parlato dei Discendenti, dicendole
chiaramente che era una di loro. Ma quale dio o dea l’aveva scelta?
Evangeline chiuse
per un attimo gli occhi. Quando li riaprì, il suo sguardo si era fatto più
deciso. Doveva sapere. E il libro aveva le risposte. Lo spalancò ad una pagina
a caso, esattamente come aveva fatto prima.
Nel mondo greco, Efesto era il dio del fuoco, della
tecnologia, dell’ingegneria, della scultura e della metallurgia. Era adorato in
tutte le città della Grecia in cui si trovassero attività artigianali, ma
specialmente ad Atene. Nell'Iliade, Omero racconta di come Efesto fosse brutto e
di pessimo carattere, ma con una grande forza nei muscoli delle braccia e delle spalle, per cui tutto ciò che creava
era di un'impareggiabile perfezione.
Non lesse oltre. Ormai aveva capito.
(*) Mitologia
greca. Divinità ed eroi dell’antica Grecia.
Di Panaghiotis
Christou; Papastamatis Katharini
2003,
Editore Bonechi
Non conosco nello specifico i contenuti di questo
libro, perciò ciò che ho scritto non ha nulla a che vedere con il libro stesso.
Mi sono permessa di inventare.
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
volcano 3
Ciao a tutti,
scusate il ritardo nel postare. Ho avuto problemi con il mio beta-reader. Per
problemi vari non è riuscito a correggermi il capitolo, così mi sono arrangiata
da sola. Spero che possa piacervi lo stesso!
Ringrazio FallingInLove, AleJackson, La sposa di Ade,
Dafne Rheb Ariadne, Tea_Zeus, Aquamaryne e Mnemosines
per le stupende recensioni. Ringrazio anche chi l’ha messa tra le
ricordate/seguite/preferite e anche chi legge soltanto.
Alla prossima!
Baci,
Aelle
Volcano
3
Il temporale
scoppiato all’ora di pranzo sembrava non voler terminare più. Le strade erano
ormai ridotte ad un lago, ma la pioggia non smetteva di cadere. Come se questo
non bastasse, il vento aveva preso a soffiare con una forza inaudita e sotto
quella furia gli ombrelli faticavano a non rompersi.
Come molti in quel
momento, Evangeline bestemmiò. Il suo ombrello non voleva saperne di stare
aperto e quasi per provocarla continuava a ribaltarsi, con il risultato che la
ragazza era fradicia dalla testa ai piedi. Fortunatamente casa sua era vicina
alla biblioteca, altrimenti Evangeline non avrebbe avuto il coraggio di
avventurarsi sotto quell’acquazzone. Ogni minuto che passava, pareva
peggiorare.
Salì i gradini di
casa sua con visibile sollievo e un ombrello chiaramente da buttare. Lo gettò a
terra con noncuranza e cominciò a trafficare con la borsa. Trovate le chiavi,
infilò nella toppa quella che sapeva essere giusta, ma la serratura sembrava
essere rotta. Tentò con tutte le altre chiavi, ma nessuna funzionò.
Con l’ennesima
imprecazione, Evangeline si chinò all’altezza della toppa per vedere se
qualcosa non andava, ma a prima vista nulla era fuori posto. Però, guardando
meglio, si accorse che un po’ di ruggine ricopriva il cilindro della serratura.
Ah, ecco perché la chiave non gira. Pensò. Fortunatamente
è una cosa da nulla. Posso sistemarla in meno di trenta secondi.
Evangeline respirò
profondamente, gli occhi chiusi, e si concentrò. Mentre una piccola ruga le
solcava la fronte, uno strano calore iniziò a diffondersi in tutto il suo
corpo, partendo dal petto per poi diramarsi verso braccia e gambe. Quando la
punta delle sue dita parve scottare, Evangeline aprì gli occhi e soffiò dolcemente
all’interno della serratura. Con piccoli scricchiolii, la ruggine scomparve dal
cilindro, lasciandolo pulito come se fosse stato nuovo.
Per un attimo
Evangeline rimase a contemplare quello che aveva appena fatto con la bocca
spalancata per la sorpresa. Poi le parole di Ker si riversarono nella sua mente
come una secchiata di acqua gelida, ma la consapevolezza di essere diversa da
tutti gli altri suoi coetanei non la fece stare male come si poteva pensare.
Certo era che doveva ancora abituarsi ad avere poteri soprannaturali. Ancora di
più ad essere la Discendente di un dio greco, Efesto.
Ripromettendosi di
ripensarci dopo con più calma, la ragazza spalancò la porta di casa e la
richiuse alle sue spalle con una spinta molto poco gentile. Si tolse le scarpe
e i vestiti fradici, li gettò con noncuranza sul pavimento e si diresse in
reggiseno e mutande in bagno. Una doccia calda era l’ideale per togliersi di
dosso il freddo che le era entrato nelle ossa e che la faceva tremare in modo
incontrollato.
Fece prima tappa in
cucina per bere un bicchiere d’acqua e trovò appeso sul frigo un biglietto di
sua nonna che la avvisava di essere andata a trovare la sua amica Mary.
Evangeline, con un piccolo sorriso, immaginò anche che la pioggia l’avesse
colta di sorpresa e l’avesse costretta a rimanere là. Ridacchiò al pensiero di
sua nonna che, ad ottantacinque anni suonati, andava in giro con una vitalità
da far invidia ad una ventenne.
-Oh, nonna, sei
sempre la solita!- commentò, giusto un attimo prima di gettarsi sotto la
doccia.
Viveva con lei da
cinque anni, da quando i suoi genitori avevano trovato la morte in un incidente
aereo. Era stata male per tanto tempo, ma ci aveva pensato sua nonna, anche se
segnata dallo stesso dolore, a tirarle su il morale. Eppure, Evangeline sapeva
che quella ferita non si era rimarginata del tutto. A volte la sentiva prudere
ed era inevitabile che alcune lacrime le solcassero le guance. Ed era
consapevole che tutto quel dolore non sarebbe scomparso col passare degli anni,
ma sarebbe rimasto lì a tormentarla fino alla fine dei suoi giorni.
Seduta sul suo
letto con il portatile in grembo, Evangeline cercava quante più informazioni
possibili su Efesto. In biblioteca si era sentita sicura di sé e non aveva
finito di leggere il paragrafo riguardante il dio. Ora, invece, aveva mille
dubbi e Wikipedia non l’aveva aiutata molto a risolverli. Piuttosto, le stava
stravolgendo le poche idee che aveva.
-Uhm, vediamo … dio
del fuoco, della tecnologia, dell’ingegneria, della scultura e della
metallurgia- borbottò pensierosa –Merda, ma di quante cose è dio?-
Chiuse Wikipedia
con la speranza di trovare qualche altro sito, ma nessuno dava informazioni
complete. E Google più che altro proponeva immagini di un uomo piuttosto brutto
che lavorava, circondato da enormi Ciclopi, in fucine invase dal fuoco.
Fuoco.
Ecco cosa doveva
fare. Provare a richiamare le fiamme. Se prima era riuscita a sistemare una
serratura senza averlo mai fatto in vita sua, poteva benissimo superare anche
questa prova. Era solo un rito di passaggio, così le parole di Ker avrebbero
avuto conferma fino in fondo.
Gettò il portatile
da una parte del letto e si alzò in piedi con uno scatto felino, correndo in
soggiorno. A fare da sottofondo ai suoi passi c’era il ticchettio della
pioggia, che imperterrita continuava a scendere.
Frugò negli armadi
finché non trovò quello che cercava, ovvero le candele che sua nonna teneva in
caso di blackout. Ne prese alcune, domandandosi tra sé perché sua nonna avesse
comprato quelle profumate. Quando ritornò in camera aveva il naso intasato dai
più vari odori e nessuno di essi era di suo gradimento.
Appoggiò le candele
sulla scrivania in modo ordinato, tutte alla stessa distanza, e si posizionò
sul letto a gambe incrociate. Rimase immobile per qualche secondo, pensando a
come fare, perché effettivamente non aveva alcuna idea al riguardo. Qualche ora
prima si era semplicemente concentrata e
la serratura si era sistemata. Il calore che aveva provato le
solleticava ancora le dita, impaziente di essere usato. Forse era proprio la
concentrazione a far scattare l’accensione dei suoi poteri.
-Ok, proviamo-
Chiuse gli occhi e
mise le mani davanti a sé, le dita tese verso le candele. Si concentrò più che
poteva, pensando ossessivamente a quello che voleva fare. Il suo obbiettivo era
accenderle senza usare accendini o altri aiuti. Desiderava che gli stoppini
bruciassero semplicemente con la forza del pensiero. Purtroppo, il primo
tentativo andò a vuoto. Quando riaprì gli occhi, le candele erano esattamente
come le aveva lasciate. Niente era cambiato, nemmeno un piccolo particolare.
Mentre un sospiro
frustrato le usciva dalle labbra, Evangeline si chiese cosa avesse sbagliato.
Le sembrava di aver fatto tutto correttamente: si era concentrata e aveva
pensato intensamente a ciò che voleva fare, ma qualcosa era andato storto. Rifletté, accarezzandosi distrattamente il
mento, su quello che era accaduto quando aveva riparato la porta. Non era stato
un atto casuale. Lei aveva voluto che
la serratura funzionasse e così era stato. Il calore l’aveva invasa senza
troppe cerimonie e la ruggine era scomparsa. Forse il suo problema era la
troppa concentrazione. Doveva pensare poco e agire in fretta.
-Riproviamo. Non
costa nulla, no?- si incoraggiò ad alta voce.
Questa volta non
chiuse gli occhi, ma si preoccupò di tenerli ben puntati sulle candele. Prese
un profondo respiro e focalizzò nella mente la sua idea, imponendosi di essere
determinata. Pian piano il suo corpo iniziò a scottare e nel momento in cui il
caldo sembrò volerle esplodere sotto la pelle Evangeline mosse leggermente le
mani. Con un piccolo pop gli stoppini
si accesero e quattro fiammelle si alzarono verso il soffitto della sua camera.
Evangeline sorrise
e la sua concentrazione si spezzò, ma non le importò minimamente. Era riuscita
a dare conferma alle parole di Ker. Era davvero la Discendente di Efesto. E doveva
trovare gli altri. Aveva la netta sensazione che da sola non sarebbe andata da
nessuna parte.
La porta di casa
sbatté sotto la furia dell’aria. Fortunatamente aveva smesso di piovere, ma le
raffiche di vento non accennavano ad affievolirsi. Erano le sette e mezzo di
sera e il tempo sembrava peggiore di quanto non fosse mai stato.
-Evangeline,
tesoro, sei in casa?-
Sua nonna era
stanca, la ragazza lo aveva capito solamente sentendola parlare. In fondo,
aveva ottantacinque anni e certe situazioni la affaticavano, risucchiandole le
poche energie che aveva.
Si precipitò in
soggiorno e andò ad abbracciare quell’esile figura tremante. La donna anziana
rise e i suoi occhi azzurri si illuminarono per la felicità. Una ciocca di
capelli candidi le sfuggì dall’alta crocchia ed Evangeline si affrettò a
sistemarla.
-Nonna, ero
preoccupata- le disse con una vena di rimprovero nella voce –Perché sei uscita
con questo tempaccio?-
La donna si puntò
le mani sui fianchi. –Quando sono uscita non pioveva. Il diluvio è iniziato non
appena ho messo piede in casa di Mary. A proposito, ti saluta- le rispose
–Comunque, sono rimasta là fino ad ora. Poi ho approfittato del fatto che ha
smesso di piovere e sono tornata. Però, il vento rischiava di portarmi via!-
aggiunse con un’altra risata.
Evangeline alzò gli
occhi al cielo e aiutò la nonna a togliersi il cappotto, raccogliendo anche i
vestiti che prima aveva gettato a terra. Li ripiegò e li buttò nel cesto delle
cose da lavare.
-Cosa vuoi che
prepari da mangiare, tesoro?-
La ragazza rifletté
per qualche minuto. –Pasta con il sugo?- chiese, esitante.
-E vada per la
pasta con il sugo!- sorrise sua nonna.
Si mise subito ai
fornelli ed Evangeline le diede una mano apparecchiando la tavola. Ben presto
la fame ebbe il sopravvento e la ragazza prese a girare intorno a sua nonna per
avere un piccolo assaggio del sugo che tanto le piaceva. Sbuffando, la donna la
accontentò.
-Ora che ci penso,
mi hanno dato un volantino in centro. L’ho preso perché mi faceva ridere.
Aspetta, vado a prenderlo. L’ho lasciato in borsa-
Sgranocchiando un
grissino, Evangeline la seguì incuriosita. La osservò frugare finché non trovò
un foglietto tutto spiegazzato, che le porse con un sorriso trionfante.
-Ecco qui. Guarda-
Evangeline lo prese
in mano e lesse cosa diceva. Era uno spettacolo di danza, di un certo gruppo
che lei non conosceva, fissato per la sera successiva alle nove. Non capiva
cosa sua nonna trovasse divertente.
-Cosa ti fa ridere?
E’ solo uno spettacolo di danza!-
Sua nonna le indicò
un nome e scoppiò a ridere. –Questo nome!-
Evangeline guardò
ancora il foglio. Il capogruppo era una ragazza, Phoebe Carter. Ancora non
capiva che cosa quel nome avesse di strano. Lo domandò a sua nonna.
-Mi ricorda tanto
un epiteto di Apollo, Febo. Non è divertente?-
Il grissino le
cadde sul pavimento e si spezzò in due. Evangeline cercò di pensare
velocemente. Era forse un caso che quella ragazza avesse un nome simile a
quello del dio del sole? L’unico modo per scoprire la verità era andare a quello
spettacolo di danza.
Phoebe Carter, sei anche tu come me?
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
volcano 4
Ciao a tutti J
Come al solito,
perdonate il mio ritardo. Questa volta non è colpa del beta-reader, ma mia.
Cioè, in parte anche sua! C’è così caldo che è difficile mettermi seduta al pc
e scrivere.
Non ho ancora
risposto a tutti quelli che hanno recensito, ma ora lo faccio, statene certi.
Intanto, voglio ringraziare Dafne Rheb
Ariadne, Tea_Zeus, Mnemosines, Lord_Inglip (il mio fantastico beta!xD), AleJackson, La sposa di Ade,
Acquamaryne, Scandal e FallingInLove
per le fantastiche recensioni. Mi risollevate sempre la giornata!
Ringrazio inoltre
anche coloro che hanno messo la storia tra le preferite/seguite/ ricordate e
chi legge soltanto. Grazie!
La canzone che
compare nel capitolo (e quella che mi ha ispirata per scriverlo) è Party People di Fergie. Ascoltatela, se
vi va!
Bene, mi eclisso.
Al prossimo
capitolo!
Baci,
Aelle
Volcano
4
Phoebe Carter
sapeva che qualcosa sarebbe andato storto. Era stata nervosa per tutto il
giorno. Anche in quel momento –a quattro ore dallo spettacolo- si sentiva
strana. Non poteva essere la classica agitazione, quella che ti fa tremare le
gambe. Era qualcosa di più profondo, molto simile alla paura. Una voce
insistente nella sua testa le sussurrava che presto la paura sarebbe diventata
terrore e che il caos sarebbe dilagato dappertutto.
Erano pensieri
strani, ma Phoebe non riusciva a concentrarsi su altro. Faticava persino a
ricordarsi i passi dei balli che aveva provato mille volte. Non andava bene.
Doveva rilassarsi.
-Carter, ti senti
bene?-
Josephine le si
avvicinò e le mise una mano sulla spalla, tentando di essere gentile. I suoi
occhi grigi, sotto il velo di preoccupazione, erano intrisi di soddisfazione
per averla trovata incantata in qualcosa che non era la danza. Le sue unghie
laccate di rosso le stavano perforando una spalla e Phoebe sapeva che Josephine
avrebbe voluto sfoderare quei piccoli artigli per farla a pezzi, conquistandosi
così il ruolo di capogruppo.
-Grazie, Jo. Sto
bene, non preoccuparti- le rispose, togliendosi di dosso la sua mano. Era un
tocco talmente viscido che le dava fastidio.
Josephine non
voleva saperne di demordere. Quando Phoebe si allontanò, la seguì in silenzio
mentre si spostava dietro le quinte del teatro, scavalcando fili e attrezzature
di ogni genere. Sembrava la sua ombra e Phoebe non riuscì a sopportarlo per
molto tempo.
Si girò di scatto.
–Ti serve qualcosa, Jo?- cercò di non urlarle contro e mantenere un tono calmo.
Lei annuì, felice
di averle quasi fatto perdere le staffe. –La Walden mi ha detto di riferirti
che vuole discutere con te riguardo ad alcuni dettagli di stasera-
Phoebe inclinò la testa,
improvvisamente attenta. Millicent Grace Walden era la proprietaria del teatro
in cui si sarebbero esibite ed era una donna terribilmente asfissiante. Era una
maniaca del controllo, se non sapeva anche il più piccolo dei particolari
andava fuori di testa. La sua presenza metteva in agitazione qualsiasi persona
sana di mente. Anche a Phoebe sudavano le mani quando aveva l’onore di parlare
con lei.
-E quando te
l’avrebbe detto?- chiese Phoebe.
Josephine ghignò.
–Più o meno mezz’ora fa. Mi sono accidentalmente dimenticata di riferirtelo.
Che sbadata!-
Che stronza maligna, più che altro. Pensò Phoebe.
Doveva concentrarsi
su qualcos’altro, c’erano problemi più importanti di Josephine. Per esempio,
poteva occuparsi della Walden, che odiava i ritardatari con tutto il cuore. Non
che ne avesse uno, sia chiaro.
-Allora farò a
meglio a sbrigarmi- si aprì in un sorriso di circostanza –Jo, mi raccomando,
tieni d’occhio le altre. Stasera dobbiamo lasciarli tutti a bocca aperta, ok?-
Josephine spalancò
la bocca per lo stupore. Molto probabilmente si aspettava uno scoppio d’ira,
non una risposta cortese. Strinse i pugni per mascherare la rabbia e si
costrinse a ricambiare il sorriso della sua capogruppo.
-Certamente. Ci
penso io!-
Mentre le voltava
le spalle, Phoebe si concesse un ghigno vittorioso. Ancora una volta, come
sempre del resto, aveva vinto lei.
Entro qualche
minuto sarebbero scoccate le nove. Le lancette dell’orologio nella loro
lentezza parevano burlarsi delle ballerine che attendevano nervose dietro le
pesanti tende rosse. C’era chi si mangiava le unghie, chi non riusciva a stare
ferma e chi parlava a vanvera per non soffermarsi a pensare troppo alla propria
agitazione.
Phoebe era l’unica
in silenzio, ferma e rigida al suo posto. Nella testa si scontravano in una
lotta furiosa i passi veloci dei balli che aveva studiato fino allo sfinimento
e le immagini che quella voce insistente le evocava senza darle tregua.
Distruzione,
sangue, morte. Ecco tutto quello che vedeva. Non ne poteva più di vedere gente
innocente cadere sotto gli artigli di un mostro orrendo. Ne distingueva solo i
contorni, ma quelli bastavano a darle l’idea di qualcosa di spaventoso. Dalle
ampie ali che si allargavano sulla schiena pareva essere un drago. Eppure il
resto del corpo smentiva quell’idea. Dal muso alla punta della coda
assomigliava tanto ad un serpente.
-Dieci secondi!- la
avvisò uno degli uomini addetti alla regia.
Phoebe si riscosse
dai propri stupidi pensieri. Era lì
per fare una bella figura, per far vedere agli altri quanto valeva. Era la sua
grande occasione e doveva mettercela tutta. Non poteva permettersi di sbagliare
nemmeno un movimento.
Mentre il sipario
si alzava, Phoebe prese un respiro profondo e si stampò in faccia il suo
miglior sorriso. Doveva splendere e fare in modo che gli altri rimanessero
abbagliati dalla sua luce.
Suo padre glielo
aveva sempre detto e lei non dubitava mai delle sue parole, nemmeno quando
suonavano strane e incomprensibili.
Sei un animale da palcoscenico. Fai sentire a tutti il
tuo ruggito.
Cazzo.
Evangeline non
poteva credere ai propri occhi. Probabilmente il Teatro Grande non era mai
stato così affollato. Era pieno fino a scoppiare. Oltre alle persone
comodamente sprofondate nelle loro poltrone, molta gente era accampata sugli
scalini oppure era in piedi vicino ai muri. C’era talmente tanta folla, che gli
addetti alla sicurezza si erano visti costretti ad aprire la porta principale,
quella di sicurezza e tutte le finestre per far entrare solo un po’ d’aria.
Tuttavia, il caldo si faceva sempre più pesante e difficile da sopportare, ma
nessuno riusciva a distogliere lo sguardo da quella figura che si muoveva con
grinta sul palco.
Anche Evangeline
era sotto lo stesso incantesimo. A bocca aperta, seguiva i movimenti sinuosi di
Phoebe senza perdersene uno. Perché quella era
Phoebe, non ci si poteva sbagliare. Spiccava tra le altre ballerine
esattamente come il sole risaltava anche se coperto dalle nuvole. Forse era il
suo sorriso a renderla così irresistibile o più semplicemente il suo modo di fare,
perfettamente a suo agio davanti ad una folla consistente come quella. Pareva
impossibile da spegnere. Immortale.
Rannicchiata sugli
scalini, Evangeline la osservò attentamente. A differenza delle altre ragazze,
non era solo carina, ma bella nel vero senso della parola. A valorizzare quel
sorriso c’erano gli occhi castani, della stessa sfumatura del cioccolato fuso.
I capelli biondi, lunghi fino ai fianchi, ricadevano in morbidi boccoli attorno
a quello splendido viso. Era alta –forse sfiorava il metro e settantacinque- e
snella, ma non cadeva nella magrezza tipica delle modelle. Anzi, aveva delle
curve che si intravedevano anche sotto i vestiti larghi che indossava quella
sera.
In una parola,
sembrava perfetta. Eppure, assomigliava così tanto alle fighette che lei tanto
odiava, tutta apparenza e niente sostanza. Poteva davvero essere la Discendente
di Apollo? Il suo sesto senso le diceva di sì, ma non sapeva come
avvicinarla e accertarsene. Non era
brava nel relazionarsi con gli altri nelle situazioni normali, figurarsi in una
soprannaturale. Come fare? Non ne aveva la minima idea.
Forse doveva
aspettare. Il tempo l’avrebbe aiutata a decidere.
I was patiently
waitin’ and takin’ my time, now that I’m here I’m gettin’ my shine …
Meno di trenta
secondi e lo spettacolo a cui aveva lavorato duramente nei giorni precedenti
sarebbe finito. E tutta la fatica che aveva fatto cominciava a farsi sentire. I
muscoli le dolevano ad ogni minimo movimento, ma Phoebe sapeva che non poteva
arrendersi. Non doveva deludere tutte quelle persone, ma soprattutto non doveva
deludere suo padre. Era lì tra la folla che la osservava, sentiva i suoi occhi
addosso.
Fu nel preciso
istante in cui la canzone finì e ogni persona presente si alzò per applaudirle che
Phoebe udì uno strano suono. Arrivava da lontano, era indistinto, ma già la
spaventava abbastanza da far capire alla gente che qualcosa non andava. Smisero
di battere le mani e si guardarono l’un l’altro per comprendere quale fosse il
problema.
Si levò un brusio
di domande, ma con un gesto della mano Phoebe li zittì tutti. Anche le altre
ballerine non riuscivano a capire cosa stesse succedendo e Josephine le si
avvicinò per domandarglielo. Quello era il momento degli inchini e dei
ringraziamenti, non degli indovinelli.
Prima che Josephine
potesse aprire bocca, la ragazza bionda le intimò di tacere e, miracolo dei
miracoli, la sua nemica le prestò ascolto, ritirandosi in silenzio. Phoebe
scrutò attentamente le persone, cercando di capire da dove venisse quel rumore
che man mano si faceva più forte, e vide una testa rosso fuoco spiccare tra la
massa di gente. Il viso di quella ragazza non era perplesso, ma preoccupato.
Non sono l’unica. Lei lo sente.
All’improvviso la
ragazza alzò lo sguardo verso il soffitto e i suoi occhi si riempirono di
paura. Phoebe, lentamente, seguì il suo esempio e vide che il tetto del Teatro
Grande stava tremando sotto il peso consistente di qualcosa di ignoto. Poi capì
e spalancò la bocca.
Lei sapeva. Lo
aveva visto. E non andava bene. Per
niente.
-Scappate!- gridò
con quanta più voce aveva.
Il tetto cedette e
il drago-serpente che aveva invaso i suoi pensieri precipitò nella sala,
atterrando sul pavimento con uno schianto e schiacciando sotto la sua pancia la
gente che si trovava in quel punto. Le persone ancora vive si diressero alle
uscite di emergenza strillando terrorizzate. Molti vennero gettati a terra e
calpestati senza alcuna distinzione. Ognuno pensava alla propria salvezza, non
a quella degli altri.
Morte, distruzione
e caos. Tutto quello che aveva visto stava accadendo.
La creatura
mostruosa ruggì, sputando fiamme verso il cielo.
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Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
volcano 5
Ciao a tutti. Perdonate il ritardo
astronomico, ma il caldo mi uccide l’ispirazione. Se devo essere sincera,
questo capitolo è stato difficile da scrivere perché non sono brava con i
combattimenti, perciò ho deciso di prendermi il mio tempo e scriverlo con
calma. Ma state tranquilli, ho già in mente il prossimo e prestissimo inizio a
buttare giù qualcosa.
Passiamo a ringraziare. Se non ho
risposto alle recensioni, prima o poi lo faccio. Allora un grazie va a Acquamaryne, AleJackson, Dafne Rheb
Ariadne, FallingInLove, Tea_Zeus, La Sposa di Ade, Mnemosines, Scandal e Ryo13.
Ringrazio anche chi legge e basta e chi ha messo la storia tra le preferite/seguite/ricordate.
Un grazie enorme va anche a Luca e Laura, che hanno letto i precedenti
capitoli e mi hanno dato degli spunti per scrivere meglio.
Concludo dicendo un’ultima cosa: questa storia è frutto della mia fantasia, è stata scritta da
me e viene pubblicata solamente su EFP. Pertanto, se la vedete pubblicata da
qualche altra parte, avvisatemi e prenderò i giusti provvedimenti. Grazie
mille!
Baci,
Aelle
Volcano
5
Evangeline scartò
di lato un attimo prima che il drago-serpente piombasse dal cielo a peso morto.
Andò a sbattere contro il muro e per poco non venne schiacciata dalla furia
della ressa. Si rannicchiò su se stessa e attese che la massa di gente si
spostasse e le lasciasse un varco verso il palco. Doveva andare controcorrente
se voleva salvare Phoebe, ancora immobile davanti a quella creatura mostruosa.
Il cuore le
martellava nel petto, voleva uscire. Ma in qualche modo Evangeline sapeva che
se avesse osato abbandonarla al suo destino Phoebe sarebbe morta. Schiacciata
sotto la mole della bestia o, peggio, divorata. Non avrebbe permesso che
qualcosa di simile accadesse. Non quando poteva evitarlo.
-Sì, ma come?-
borbottò sottovoce.
A casa aveva acceso
delle candele, non si era certo trovata di fronte un mostro da abbattere.
L’unica cosa vagamente pericolosa che aveva fatto in tutta la sua vita era
stato provare ad accarezzare un dobermann. E quello che stava distruggendo il
teatro non era un cane.
-Più penso e meno
tempo mi rimane- disse.
Si slanciò in
avanti, incurante della folla che la spingeva verso le uscite di sicurezza. A fatica
riuscì ad arrivare al palco, ma fu in quel momento che il drago la vide. Abbassò
la testa fino a quando non fu alla stessa altezza della sua e la annusò.
Pietrificata, Evangeline osservò il fumo uscire dalle narici della bestia.
Chiaramente non era un buon segno. Poteva solo significare che di lì a poco il
mostro si sarebbe messo a sputare fiamme e la ragazza non voleva testare la sua
resistenza al fuoco. Tentando di allontanarsi dalla bocca del drago, fece una
mossa azzardata e alquanto inutile. Si girò di scatto.
Infastidita, la
bestia levò alta la coda e la calò sulla ragazza, che venne sbalzata indietro
per diversi metri fino a quando la sua schiena non incontrò il muro con uno
schianto.
Evangeline
boccheggiò, improvvisamente senza ossigeno. Tossì ripetutamente, sentendo la
gola riarsa e la schiena ardere per il dolore. Aveva le lacrime agli occhi. Con
tutta se stessa sperò di non avere nulla di rotto. Con un grugnito cercò di
spostarsi da lì, ma le gambe, bloccate sotto un cumulo di macerie, non
rispondevano alla sua volontà. In quel momento, con il drago che si avvicinava
pericolosamente, capì di essere morta.
Poi un grido
squarciò l’aria. Phoebe, in piedi sul palco, agitava le braccia per attirare
l’attenzione della bestia.
-Qui!- urlò.
Evangeline immaginò
che la ragazza non sapesse nemmeno perché si stesse comportando in quel modo.
L’istinto molto probabilmente le stava suggerendo di scappare a gambe levate,
non di fare da bersaglio ad un drago sputa fuoco. Ed era chiaro che Phoebe non
capiva per quale motivo fosse ancora lì e non al sicuro a casa sua.
Evangeline sapeva
di doverla aiutare, ma non riusciva a spostare le gambe da sotto le macerie,
troppo pesanti per essere sollevate. Per quanto si sforzasse e si dimenasse,
non si muoveva di un millimetro. Assomigliava tanto ad un animale in trappola.
-Corri!- gridò a
Phoebe.
Phoebe eseguì,
pallida come uno straccio. Saltò giù dal palco e cominciò a farsi largo tra i
blocchi di cemento e i corpi distesi nella polvere. Tremava visibilmente, ma
non demordeva, nemmeno quando il drago sembrava troppo vicino per poterlo
evitare. Schivava all’ultimo secondo quando ormai Evangeline dava per scontata
la sua morte. Era tremendamente veloce, ma non sarebbe potuta scappare per
sempre.
La bestia ringhiò e
cercò di colpire Phoebe con la zampa artigliata, fallendo miseramente. Ancora
una volta la ragazza era riuscita a scansarsi in tempo, ma la corsa ebbe fine
quando si ritrovò intrappolata contro il muro. Si fermò lì, ansimando, e si
lasciò cadere sul pavimento. Il drago aprì le fauci e si preparò a sputare
fuoco.
-No, no, no … -
mormorò Phoebe.
Evangeline sbarrò
gli occhi. –Spostati da lì!- urlò con tutta la voce che aveva.
Come se la scena
fosse ripresa al rallentatore, la rossa vide le fiamme divampare potenti dalla
gola della bestia e dirigersi verso la figura rannicchiata di Phoebe. Soffocò
lo strillo di terrore che premeva per uscire e chiuse gli occhi, aspettandosi
di sentire le grida di dolore di Phoebe. Ma non accadde nulla.
Sollevò lentamente
le palpebre e con stupore notò un muro di luce separare Phoebe dal fuoco. Si
stagliava brillando tra la ragazza e il mostro, impedendogli di avanzare anche
solo di un passo. Ogni volta che il drago tentava di procedere, orrende bruciature
ricoprivano il suo corpo di serpente e lo facevano retrocedere di alcuni passi.
-Cosa diavolo sta
succedendo?- gridò Phoebe, terrorizzata.
Evangeline non
sapeva cosa risponderle. Non era brava nei discorsi complicati, così optò per
la strada più semplice. La verità. -Sei stata scelta da Apollo come sua
Discendente! Il dio ti ha dato tutti i suoi poteri in modo tale che tu possa
salvarlo dalla prigionia in cui è costretto!-
Phoebe le lanciò
un’occhiata di traverso. –Sei completamente pazza! Gli dèi non esistono!-
La rossa strinse i
pugni. Non era semplice accettare. –E quello ti sembra finto? Un trucco del
teatro?- strillò indicando il drago che ancora cercava di sfondare il muro di
luce –Sei come me! Sei la Discendente di Apollo, dio del sole!-
Phoebe rimase in
silenzio per alcuni istanti prima di tornare a rivolgerle la parola. – Io … io
l’ho visto. Ho visto questo mostro nei miei pensieri. Non … non è un sogno,
quindi?-
Non c’era più
tempo. Il muro di luce cominciava ad assottigliarsi e presto la bestia sarebbe
stata in grado di avanzare senza problemi. Phoebe doveva reagire. E in fretta.
Evangeline scosse
la testa. –No, non lo è!-
Phoebe si alzò in
piedi e guardò con occhi decisi la bestia che tirava unghiate poderose alla
barriera, incurante delle bruciature che si diffondevano sul suo corpo. Prima
che il muro si dissolvesse in un luminoso scintillio, la bionda si era spostata
di lato e aveva aggirato il drago, trovandosi alle sue spalle.
-Cosa devo fare?-
chiese Phoebe.
-Qualcosa! Si sta
avvicinando!-
Evangeline provò
ancora una volta a liberarsi, ma non ci riuscì. Corrugò le sopracciglia e
sbuffò. A quel punto accadde ancora. La punta delle sue dita prese ad ardere e
la ragazza afferrò il bordo di un pezzo di cemento che le bloccava le gambe,
cercando di sollevarlo. Le mani le tremavano per lo sforzo, ma Evangeline non si
arrese e strinse i denti. Dopo averlo sollevato abbastanza, sfilò le gambe e lo
lasciò cadere. Con un botto toccò il suolo, sollevando una nuvoletta di
polvere.
Stranamente le
gambe non le facevano male –non quanto la schiena, perlomeno- e man mano che i
secondi passavano il dolore sembrava diminuire. Quando non rimase altro che un
leggero formicolio, Evangeline provò a muovere la schiena. Anche quella pareva
a posto.
Ora poteva
aiutarla, ma non aveva idea di come. Le dita scottavano ancora perciò si fece
guidare dal suo istinto. Si chinò sul pavimento e vi appoggiò le mani. Quello
che l’altra parte di sé le proponeva era strano, quasi pericoloso, eppure sembrava
l’unica cosa plausibile.
-Pronta a fare
fuoco!- gridò in direzione della bestia.
Una colonna di fiamme
esplose dal suolo e circondò il drago, nascondendolo alla vista. Non poteva
andare avanti per molto. Evangeline già sentiva le forze abbandonarla. Le
braccia le tremavano e il suo viso aveva perso colore. Le veniva da vomitare.
-Non resisterò
altri cinque minuti! Ti prego, concentrati!-
Phoebe la guardò. –Non
so come fare. Dammi una mano!-
Evangeline fu
costretta ad abbandonare il contatto con il terreno. Ansimava pesantemente e
aveva la vista annebbiata, ma distinse comunque la figura della bestia, ancora
intera. Avrebbe dovuto prevederlo. Era una creatura di fuoco, le fiamme non lo
avrebbero distrutto, solo rallentato. Ora tutto era nelle mani di Phoebe.
Il drago ruggì e
caricò la bionda, che questa volta non si spostò. Anzi, rimase immobile come
una statua. Attese che il mostro fosse ad una spanna da lei, poi allargò le
braccia. Una luce accecante costrinse Evangeline a chiudere gli occhi e
illuminò la notte a giorno. Una volta raggiunto il culmine, la luce si spense
pian piano e lasciò intravedere una Phoebe diversa. Non che fosse cambiata di
aspetto, solo la sua espressione era mutata. Non era decisa, era infuriata. In
più, reggeva tra le mani un arco dorato, mentre sulle spalle aveva una faretra
colma di frecce.
-Pitone!- gridò con
arroganza –Hai pagato per aver tormentato mia madre e pagherai anche per
questo! Non ti ho risparmiato la prima volta e non lo farò nemmeno questa!-
Evangeline non
aveva la minima idea di cosa Phoebe stesse dicendo, ma la osservò incoccare una
freccia e scagliarla contro il drago, che venne colpito in pieno. Seguì una
raffica di altre frecce ed inutile fu il tentativo del mostro –Pitone- di
incenerirle con il fuoco. Erano semplicemente indistruttibili: superavano le
fiamme senza riportare alcun danno e colpivano il bersaglio con una forza
inaudita.
Il drago cadde a
terra con un tonfo assordante, morto, e iniziò a dissolversi in una nuvola di
fumo scuro fino a quando non restò più nessuna traccia della sua presenza. L’unico
indizio erano i cadaveri stesi in pozze di sangue. Spostandosi per tutto il
teatro, Pitone non si era risparmiato e li aveva calpestati più e più volte,
rendendoli irriconoscibili.
Evangeline distolse
lo sguardo dal sangue e lo portò su Phoebe, che stringeva l’arco fino a farsi
diventare bianche le nocche. Era pallida all’inverosimile ed Evangeline
comprese che era sul punto di svenire. Doveva portarla via da lì prima che
arrivasse la polizia e le trovasse in mezzo a quello scempio. Spiegare ciò che
era successo non era nei suoi piani.
Si diresse a passi
veloci verso la bionda e, sussurrandole di stare sveglia ancora per un po’, la
condusse all’uscita più vicina.
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Capitolo 6 *** Capitolo 6 ***
volcano ch6
Ehilà a tutti! Questa volta mi sembra
di essere puntuale. Non capisco come ho fatto, visto che questo capitolo è il
più lungo che io abbia mai scritto. Seriamente, non so come ho fatto. Si vede
che avevano buona ispirazione. E’ un capitolo di “passaggio”. Lo definisco così
perché non succede nulla di particolare e la scena non è incentrata sulle
Discendenti. Ma dovevo pur dare una spiegazione per quello che era successo
nello scorso capitolo, no? E così eccoci alla centrale di polizia. Spero che
sia venuta fuori un’indagine decente. Non ne ho mai scritta una.
Bon, ringrazio chi ha recensito lo
scorso capitolo, ovvero Tea_Zeus, Dafne
Rheb Ariadne, AleJackson, Ryo13, faboluis_ , La sposa di Ade, Menmosines,
FallingInLove e Ahrya. Grazie anche a chi ha messo la storia tra le seguite/preferite/ricordate
e a chi legge e basta.
Mi è stato fatto notare che la mia
storia parla di Discendenti, esattamente come il libro “Starcrossed”. Lo sto leggendo ora, solo dopo aver saputo questa
cosa. Mi scuso e dico che non ha niente a che vedere con quel libro.
Concludo dicendo un’ultima cosa: questa storia è frutto della mia fantasia, è stata
scritta da me e viene pubblicata solamente su EFP. Pertanto, se la vedete
pubblicata da qualche altra parte, avvisatemi e prenderò i giusti
provvedimenti. Grazie mille!
Baci,
Aelle
Volcano
6
Edward Hamilton si
passò una mano tra i capelli brizzolati con uno sbuffo stanco e si trattenne a
stento dallo sbadigliare. Erano quasi le otto del mattino e lui era ancora alla
centrale, bloccato lì dalla sera precedente da quel caso che sembrava non avere
né capo né coda. I rapporti che continuava a leggere dicevano che il tetto del
Teatro Grande era crollato improvvisamente durante uno spettacolo e aveva
ucciso quasi tutte le persone che si trovavano in platea. Solo pochi fortunati
erano riusciti a scampare al disastro. Ed erano proprio i sopravvissuti che
raccontavano di aver visto un drago distruggere il teatro e schiacciare sotto
la sua pancia tutte quelle persone. I suoi uomini, inviati sul posto ad
indagare, tentavano inutilmente di calmare quella povera gente, cercavano di
rassicurarla dicendo che era stata solo un’allucinazione provocata dalla paura,
ma loro non credevano ad una sola parola. Insistevano con la loro teoria e
persistevano a blaterare qualcosa riguardo a un drago sputa fuoco e a due
ragazze che l’avevano abbattuto.
La polizia prendeva
nota di tutto, ma nessuno dei suoi uomini credeva a ciò che gli veniva
riferito. Gli avevano consegnato quei rapporti quasi con il sorriso in faccia e
lui, leggendoli attentamente, si era stupito di quanto la paura potesse
confondere la mente umana. In fondo, i draghi non potevano esistere. Quella che
conosceva lui era una realtà fatta di droga, alcol, rapine e incidenti d’auto,
non di regni incantati, mostri, fanciulle in pericolo e prodi cavalieri. Non
era una fiaba.
-Toc, toc- disse
una voce femminile –Si può?-
Edward sobbalzò,
preso com’era dai suoi pensieri, e alzò lo sguardo verso la porta del suo
studio, dove una donna sostava, una spalla mollemente appoggiata allo stipite.
Aveva corti capelli neri, occhi grigi e un sorriso smagliante. Anche se era
passato tutto quel tempo, era impossibile non riconoscerla.
-Amanda!-
Si affrettò verso
la porta e abbracciò stretta la donna, sentendo tutta la sua stanchezza svanire
di colpo. Gli faceva sempre lo stesso effetto: non aveva rinunciato a lei
nemmeno dopo che si era sposata. Gli piaceva ancora come la prima volta.
-Come stai?- le
chiese staccandosi lentamente dall’abbraccio –Cosa sono, due anni? Ne è passato
di tempo! Mi sembra ieri che te ne sei andata con il tuo marito nuovo di
zecca!-
Lei sorrise. –E’
una storia vecchia ormai. Io e Phil non riuscivamo più a capirci, litigavamo in
continuazione. Così mi sono stufata e l’ho lasciato-
Edward aggrottò la
fronte. –Hai divorziato?-
-Le pratiche sono a
buon punto. Quindi, sì, sto per divorziare- gli rispose.
-Oh- quasi voleva
urlare dalla gioia –Voglio dire, mi dispiace. Dev’essere stato un brutto
periodo-
Amanda alzò le
spalle con noncuranza. –Un problema come un altro- commentò.
Edward non sapeva
esattamente cosa dire, ma, del resto, Amanda l’aveva sempre lasciato senza
parole. –Uhm, ti serve qualcosa?-
Lei fece una
piccola giravolta. –Questo- disse indicando il suo ufficio con un dito –Sono
venuta qui per questo. Mi serve un lavoro, Edward-
Lui sorrise. –E
così, sei tornata con l’intenzione di restare, eh? Eri una poliziotta
eccezionale, Amanda. Quando te ne sei andata, ci si è spezzato il cuore. Perciò
saremo orgogliosi di riaverti con noi- le rispose porgendole la mano.
Amanda ignorò la
sua mano e si precipitò ad abbracciarlo. –Sei sempre il migliore, Ed!-
Edward rise. -Ehi,
ehi. Un po’ di controllo. Sono il tuo capo ora!-
-Oh, scusa. Non
volevo mettere in imbarazzo il capo!- si scusò lei con una punta di evidente
ironia.
-Ma quale
imbarazzo!- si difese Edward, ridacchiando per nascondere quello che era
veramente imbarazzo. Amanda non sbagliava mai un colpo, nemmeno quando tirava a
indovinare. Era per quel motivo che il lavoro di poliziotta le calzava a
pennello. Nessun criminale fuggiva mai lontano se era lei a condurre le
indagini.
-Accomodati. Non
stare lì in piedi- la invitò, girando attorno alla scrivania e sedendosi.
Amanda seguì il suo
esempio. –Hai già qualcosa di cui mi posso occupare?- domandò senza perdere
tempo.
Edward non sapeva
se poteva dividere con lei quel caso, ma era anche consapevole che se non lo
avesse diviso con lei non lo avrebbe fatto con nessun altro. Era stata la sua
migliore collaboratrice. Due anni di lontananza non potevano di certo averla
arrugginita.
-Sì. Sì, ho
qualcosa-
Amanda si chinò in
avanti sulla scrivania e attese che Edward continuasse con una certa
impazienza.
Con un sospiro, lui
prese in mano quei rapporti che prima che lei arrivasse non faceva altro che
leggere e rileggere e glieli passò. –Sono qui da ieri sera, bloccato, per colpa
di questo caso-
Lei alternò lo
sguardo dai fogli al viso di Edward. –Cos’è, un’altra rapina?-
-Mi piacerebbe. Ma
no-
Lei ritentò. –Droga
o alcol?-
Edward le indicò un
punto che tra i rapporti ricorreva sempre. L’elemento impossibile. –Peggio. Un
drago-
Amanda sgranò gli
occhi, poi scoppiò a ridere. –Un drago?
Stai scherzando, vero?-
-No, sono
serissimo- le rispose –Leggi-
Lei si abbandonò
sullo schienale della sedia e si immerse nella lettura. Mentre aspettava che
lei finisse, Edward si mise a tamburellare le dita sul tavolo al ritmo di un
motivetto inventato al momento. Poi fissò Amanda aggrottare le sopracciglia e
spalancare gli occhi per l’incredulità. La prima volta che aveva letto quei
fogli aveva avuto la sua stessa reazione.
Eppure, Amanda
riuscì a stupirlo ancora una volta. Riappoggiò i rapporti sul tavolo e si
accarezzò il mento con una mano. –E’ più strano di quanto pensassi- commentò
–Ma sono sicura che ci sia una spiegazione-
Edward atteggiò le
labbra in un impercettibile sorriso. –Di questo sono certo anche io. Cosa
proponi?-
Lei lo guardò con
occhi determinati. –Direi di cominciare con delle foto. Ne hai?-
Edward se ne era
completamente dimenticato. Dalla sera precedente non aveva fatto altro che
leggere quei rapporti e non aveva minimamente pensato alle foto. I suoi uomini
ne avevano scattate alcune al teatro, ma solo dopo il disastro inspiegabile.
Poi, alcune persone si erano timidamente avvicinate e avevano consegnato i
propri cellulari o le macchine fotografiche. La chiavetta con tutte le foto gli
era stata consegnata giusto un’ora dopo i rapporti, ma lui non ci aveva
prestato molta attenzione.
-Oh, giusto-
esclamò.
Amanda accavallò le
gambe con un sorriso divertito. –Ti eri dimenticato delle foto?-
-No, no. Ti pare?-
sbuffò, alzando gli occhi al cielo.
-Oh, oh. Anche il
grande capo è vittima della vecchiaia?- lo prese in giro lei.
Edward non raccolse
la provocazione. –Ho solo cinque anni più di te, Amanda- si limitò a
risponderle. Si alzò per prendere la famosa chiavetta USB, dove le foto erano
state salvate. La inserì nel computer e aspettò pazientemente che si
caricassero. Poi fece cenno ad Amanda di spostare la sedia dall’altra parte
della scrivania in modo tale da essere più comoda.
-Vediamo un po’-
disse Amanda rubandogli il mouse dalle mani. Aprì la prima foto e si mise ad
osservarla in silenzio.
Edward seguì il suo
esempio e guardò la foto con attenzione. Come prevedeva che fossero tutte, era
buia e mossa. Chi l’aveva scatta stava sicuramente correndo. Non si vedeva
esattamente un drago, ma sicuramente qualcosa di enorme. Doveva essere uno dei
primi istanti del disastro, dedusse. La gente era ancora molta e correva in
massa verso le uscite. E già si distinguevano i primi cadaveri, schiacciati
sotto quella massa gigantesca. Fece per prendere il mouse e passare alla foto
successiva, ma Amanda lo bloccò con un gesto della mano.
-Aspetta-
Edward raddrizzò la
schiena, improvvisamente più attento di quanto fosse un attimo prima. –Hai
visto qualcosa?-
-Sì. Guarda qui-
puntò il dito sullo schermo, in un punto un po’ più nascosto. –Sembra una
bocca-
Edward strizzò gli
occhi, cercando di mettere a fuoco l’immagine. Effettivamente, pareva proprio
una bocca, ma non una di quelle normali.
Amanda inclinò la
testa da un lato. –Più che una bocca, sembrano delle fauci- osservò –Che sia il
famoso drago?-
Lui si agitò sulla
sedia. –Oh, andiamo. La foto è mossa. Può essere qualsiasi cosa. Perché pensare
subito a qualcosa di così irreale?-
Amanda sbuffò. –Passiamo
alla prossima, allora-
La foto successiva
non era sfocata come la precedente perciò erano visibili molti più dettagli.
Qui non c’era tanta gente, ma solo qualche persona che tentava ancora di uscire
illesa dal teatro. La massa enorme al centro della sala aveva cambiato
posizione e ora era disposta di lato. Era piuttosto lunga e, diavolo,
assomigliava proprio ad un drago. La testa gigantesca terminava, in alto, con
due corna. E, come aveva detto Amanda, al posto di una bocca normale, quella
bestia aveva due fauci da cui spuntavano denti affilati.
-Lo vedi anche tu,
vero?- gli domandò Amanda.
-Sì- ammise Edward,
riluttante. –Mio Dio, è spaventoso-
Amanda si mise una
mano davanti alla bocca, cercando senza tanto successo di soffocare lo stupore.
–E’ davvero un drago?- si azzardò a dire, rompendo il pesante silenzio che si
era venuto a creare.
Edward non sapeva
cosa risponderle, così si limitò ad annuire. Era troppo scioccato per dire o
fare altro. Quello che stava vivendo sembrava un film dell’orrore.
-Le foto non sono
state toccate, vero? Intendo, modificate o quant’altro-
Ancora una volta
aveva centrato il punto. Per quanto ci si potesse impegnare, era impossibile
ingannarla.
-No, non penso
proprio. Posso chiedere conferma a Mike, è stato lui a consegnarmele- si alzò
in piedi e chiamò a gran voce il nome del suo collaboratore.
Mike comparve sulla
porta, leggermente trafelato, e gli domandò di che cosa avesse bisogno. Edward
gli spiegò brevemente il problema delle foto.
-No, assolutamente.
Le ho lasciate così com’erano-
-Quindi le hai
guardate tutte- si intromise Amanda, piantogli addosso i suoi occhi grigi.
Mike si agitò sotto
quello sguardo penetrante. –Sì, tutte-
Lei parve
meravigliata. –Allora complimenti. Noi ci siamo fermati alle prime due-
-Sì, signora- ripeté
Mike.
Amanda si alzò
dalla sedia con un movimento aggraziato, portandosi con un sorriso rassicurante
davanti a Mike, che deglutì.
-Credi a quello che
hai visto?- gli chiese.
Mike non ebbe
alcuna esitazione. –Sì, signora-
-E cosa ti ha
portato a pensarla in questo modo?- lo interrogò ancora.
-Una delle ultime
foto- le rispose sostenendo il suo sguardo senza paura. –Le avete viste?-
Edward scosse la
testa. Le prime due gli erano bastate e avanzate.
-Quali foto?- si
informò lo stesso, più per dovere che per piacere.
Mike si fece largo
fino al computer sotto gli sguardi stupiti di Edward e di Amanda. Scorse la
cartella con occhi concentrati finché non trovò quello che stava cercando.
-Ecco qui!- cliccò
due volte e l’immagine invase tutto lo schermo.
Amanda si avvicinò,
curiosa, ed Edward fu subito dietro di lei. Si bloccò all’istante, mentre lei
quasi si metteva a strillare. La foto rappresentava una scena strana. Nell’angolo
all’estrema sinistra c’era una ragazza rannicchiata a terra, con una mano davanti
a sé a fermare l’enorme bestia, che, al centro della scena, cercava di sfondare
un muro luminoso. A destra, invece, c’era un’altra ragazza, chinata sul
pavimento, che toccava con le mani. E dalla punta delle sue dita uscivano
fiamme.
-Oddio- si lasciò
sfuggire Edward.
Amanda gli lanciò
una breve occhiata, tornando poi a rivolgere gli occhi allo schermo. –Non si
vedono i volti-
-Già- disse Mike –Ed
è proprio un peccato. Se sono le due ragazze di cui la gente parla, allora sono
due eroine-
-Sì, sembrano
proprio due super eroine- commentò Amanda con una piccola risata.
-Ammetto che mi
sembra stranissimo essere finito in un mondo di supereroi. Non penso di poter
negare l’evidenza- sospirò Edward.
-E’ come nei
fumetti che leggevo da piccolo … - disse Mike con occhi sognanti.
Edward lo guardò e
scoppiò a ridere, subito seguito da Amanda. Il povero Mike non poté fare altro
che grattarsi la testa, imbarazzato.
Amanda spezzò l’allegria
con un gesto. Si sedette sul bordo della scrivania e accavallò le gambe. –Ho un’idea-
Edward cercò di
ignorare le sue gambe e mentre rispondeva non la guardò negli occhi. –Che genere
di idea?-
Lei alzò un dito. –Beh,
sono supereroi. Le persone devono sapere che Dio ha mandato qualcuno a proteggerle-
disse. –Noi non sappiamo affrontare queste minacce-
-Quindi?- si
informò Mike senza capire.
-Quindi diamo
questa notizia in pasto ai giornali. Noi abbiamo foto e spiegazioni adeguate
per qualcosa a cui loro stanno ancora cercando una soluzione-
Mike guardò Edward,
gli occhi indecisi. Alla fine, era lui che comandava.
-Questa è una
piccola città, Amanda- le ricordò –I nostri giornali non sono così influenti-
Lei sorrise,
afferrando con una mano il telefono e componendo con l’altra un numero. –Oh,
non c’è nessun problema. Phil Greenfield è ancora il capo del giornale più
famoso della metropoli in cui mi sono trasferita quando l’ho sposato- ghignò –E
per la legge siamo ancora marito e moglie. Dopo tutto quello che è successo tra
noi due, un favore me lo deve-
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Capitolo 7 *** Capitolo 7 ***
volcano 7
Ciao a tutti!
Non sono morta, visto? Sono riuscita a
pubblicarlo alla fine, anche se con sei giorni di ritardo. Sono imperdonabile,
ma voi perdonatemi lo stesso!
Cosa posso dire su questo capitolo?
Non è nulla di che, è molto più di passaggio di quello precedente. Ci sarà
movimento solo nel prossimo capitolo, quando le nostre Discendenti avranno sotto
gli occhi un articolo –SPOILER- che le metterà un tantino in difficoltà.
Devo ringraziare tutti quelli che
hanno letto, messo la storia tra preferite/ seguite/ ricordate e a coloro che
hanno recensito lo scorso capitolo. Ovvero: _Butterfly_ , AleJackson, Ahrya, la sposa di Ade, Dafne Rheb Ariadne,
Ryo13 e FallingInLove. Anche d’estate
riuscite a seguirmi, grazie di cuore!
Concludo dicendo un’ultima cosa: questa
storia è frutto della mia fantasia, è stata scritta da me e viene pubblicata
solamente su EFP. Pertanto se la vedete pubblicata da qualche altra parte,
avvisatemi e prenderò i giusti provvedimenti. Grazie mille!
Baci,
Aelle
Volcano
7
Phoebe si svegliò
con un gran mal di testa e con la sensazione di dover vomitare da un momento
all’altro. E anche con la consapevolezza di non trovarsi a casa sua, ma
sdraiata su un letto che non era minimamente comodo come il suo. Quando aprì
gli occhi per accertarsi di dove fosse, non trovò altro che una cameretta dalle
pareti bianche, quasi immacolate se non si contavano le foto sparse qua e là a
casaccio. Il suo occhio allenato a catturare dettagli non mancò di notare che
erano incollate al muro con del semplice scotch.
Molto spartano.
Fece scorrere lo
sguardo intorno a sé e incontrò quello scuro e profondo di un’altra persona.
Doveva averla già vista da qualche parte perché il suo volto non le era nuovo.
La sua testa era un immenso casino.
Questa fu la prima
cosa che Phoebe pensò prima che la paura prendesse il sopravvento e la facesse
balzare a sedere con una fretta che non giovò per niente al suo stomaco, che
minacciò di uscirle dalla bocca.
-Come ti senti?- le
domandò la ragazza, inarcando un sopraciglio del colore del sangue.
Phoebe si limitò a
scuotere il capo, abbracciandosi lo stomaco per cercare di calmare la nausea.
Non stava bene per nulla.
Lei annuì, quasi
con saggezza. –Sì, lo sospettavo. Tieni- le disse porgendole un secchio –Se
devi vomitare, fallo dentro lì. Poi ti passo anche una pastiglia per la testa.
Ti aiuterà-
Il suo tono era un
po’ brusco e sbrigativo, ma Phoebe seppe all’istante di non doverla temere. Non
le avrebbe fatto del male.
-Uhm, grazie-
borbottò, un attimo prima che un conato la sorprendesse, costringendola a
piegarsi in due e a rimettere l’anima. Non pensava che avrebbe avuto bisogno
del secchio così presto.
Educatamente, la
ragazza distolse lo sguardo, puntandolo fuori dalla finestra, dove il sole era
nascosto da nubi nere come il carbone, presagio di un temporale imminente. E
sarebbe stato violento.
Ansimando come se
avesse corso una maratona, Phoebe appoggiò il secchio a terra e si schiarì la
gola, arida per la mancanza d’acqua.
La ragazza andò a
lavare il secchio, poi tornò a sedersi accanto a lei. In mano teneva un
bicchiere pieno fin quasi all’orlo e una piccola pastiglia bianca. Glieli porse
con un sorriso esitante. Phoebe dedusse subito che non era abituata a
relazionarsi con altre persone e si domandò anche il perché, visto che non
sembrava così male. Con un’alzata di spalle, prese il bicchiere e ingurgitò la
pastiglia, godendosi la fresca sensazione dell’acqua che le scorreva nella gola
asciutta.
-Grazie- disse con
voce più ferma.
Lei si strinse
nelle spalle. –Di niente. Va un po’ meglio?-
Phoebe si portò
istintivamente una mano alla testa, convinta di sentirla pulsare come
impazzita, ma al contrario di quanto si aspettava avvertì solo un leggero
dolore, sopportabilissimo. La nausea, invece, era completamente scomparsa.
-Sì. Molto meglio
rispetto a due minuti fa- commentò, decisamente confusa per la rapida
guarigione. –Che strano … Non mi avrai mica imbottita di droga, eh?-
La ragazza
sobbalzò, quasi come se sapesse qualcosa che lei non sapeva, e ridacchiò,
nervosa. –No, solo un’aspirina-
-Okay, mi fido.
Faccio bene?-
Lei esitò, il
dubbio ben visibile negli occhi. –Non ne ho idea. Penso di sì. Non ho molti
rapporti con altri ragazzi della mia età- buttò lì, del tutto inaspettatamente.
Phoebe inclinò la
testa da un lato. –Abbiamo la stessa età?- domandò, curiosa.
-Immagino di sì.
Quanti anni hai?-
-Sedici- rispose
prontamente.
La ragazza scosse
la testa. –No, ho un anno in più. Ne ho diciassette-
Phoebe avvicinò il
viso al suo, sempre più curiosa. –Sei una specie di maniaca? E’ per questo che
mi hai rapita?- chiese con solo un piccolo accenno di sorriso. Se non era
abituata a rapportarsi con gli altri, allora non era abituata nemmeno agli
scherzi. Phoebe sapeva che ci sarebbe stato da divertirsi.
Esattamente come
aveva previsto, la ragazza scattò in piedi con un sobbalzo. –No, non ti ho
rapita! Ti ho portato a casa mia perché mi sei svenuta addosso!- si affrettò a
dire.
Phoebe ridacchiò.
–Lo so, lo so. Era uno scherzo, stai tranquilla!- le disse tendendole una mano.
–Phoebe Carter. Il tuo nome?-
La ragazza strinse
la sua mano con esitazione, quindi si presentò. –Evangeline Smith-
Phoebe sorrise.
Ancora non era un asso di loquacità, ma almeno era riuscita a farle fare un
passo avanti. Presto non avrebbe smesso un secondo di parlare. Se lo sentiva.
Si guardò in giro.
–C’è un bagno? Me la sto facendo addosso-
Arrossendo
leggermente, Evangeline annuì e la aiutò a mettersi in piedi.
Evangeline si
lasciò cadere sul divano, proprio accanto a sua nonna. La donna anziana stava
bevendo un tè e, pur rimanendo in silenzio, le lanciava strane occhiate.
Era come una
battaglia. Si fissavano di sottecchi, ma nessuna delle due osava aprire bocca.
Alla fine fu l’anziana a parlare per prima.
-Mi sembra una
brava ragazza- commentò tra un sorso di tè e l’altro.
Evangeline la
guardò aggrottando le sopracciglia, poi parve capire. –Phoebe? Credo di sì-
La nonna poggiò la
tazza sul piattino e la mise sul tavolo. Si portò le mani sui fianchi come se
volesse sgridarla. –Tu e questa tua diffidenza! Non devi fare così. Per una
volta nella vita prova a fidarti. Magari poi rimani scottata, ma almeno hai
tentato-
La ragazza annuì,
chiaramente poco convinta, e la donna le mise una mano sulla spalla. Evangeline
si rilassò all’istante.
-E’ inutile vivere
senza sperimentare un briciolo di rischio. Saresti un guscio vuoto, una persona
incapace di difendersi perché non capisce come va il mondo- le disse con un
caldo sorriso. –Buttati. Fidati di una vecchia signora come me-
Evangeline fece
fatica a reprimere la risata che le si era annidata in gola, così la lasciò
libera di uscire. –Nonna, tu non sei vecchia- esclamò ridendo.
L’anziana si
concesse un piccolo sorriso. –Insomma- ribatté –Non sono mica immortale-
Evangeline si
irrigidì. L’immortalità era l’ultima cosa di cui voleva sentir parlare in quel
momento. Eppure, da pochi giorni a quella parte tutto sembrava avere un
collegamento con gli dèi. E così le venivano in mente Ker e le sue parole taglienti,
la consapevolezza di non essere normale, ma di essere una Discendente di un dio
dell’Antica Grecia. Era un masso pesante da portare sulle spalle, ma sapeva di
non essere da sola. C’era Phoebe. Anche la bionda era come lei.
-Devo parlarle-
mormorò.
Sì, doveva farlo,
altrimenti Phoebe se ne sarebbe andata ed Evangeline non sapeva quando
l’avrebbe rivista. Magari mai più.
Si alzò dal divano
e disse a sua nonna che sarebbe andata a vedere come se la stava cavando Phoebe.
-Metticela tutta-
la donna le strizzò l’occhio.
Evangeline annuì e sparì
in anticamera, dove si fermò a prendere un profondo respiro. Poi fece per entrare
in camera sua, ma si bloccò non appena la sua mano toccò la maniglia della
porta. Phoebe era al telefono.
-Sto bene- disse
con voce ferma a qualcuno che la stava tempestando di domande. Forse la madre o
il padre.
Evangeline sapeva
di non dover ascoltare, ma aveva bisogno di capire quanto la bionda si
ricordasse della notte precedente. Quando si era risvegliata non l’aveva
riconosciuta. Molto probabilmente la paura aveva provveduto ad offuscarle
alcune memorie. Quella conversazione l’avrebbe aiutata a capire quanto dovesse
dirle che già non conoscesse. E anche quanto tatto usare per parlarle di quelle
cose che non sapeva.
-Sto bene- ripeté,
questa volta con un tono quasi brusco. –Sono a casa di un’amica-
Evangeline inclinò
il capo. L’aveva appena conosciuta e già la considerava una sua amica?
Che ragazza strana,
pensò stringendosi nelle spalle. O forse
sono strana io.
-Sì, non ti
preoccupare- continuò Phoebe sbuffando. –Sono in buone mani. Mi hanno trattata
benissimo-
Ci fu un attimo di
silenzio, poi la bionda riprese a parlare. –Te lo ripeto: stai tranquilla. Ci
vediamo dopo, okay? Sì, anche io. Ciao-
Evangeline spinse
in giù la maniglia ed entrò nella stanza. La bionda si girò di scatto e la
inchiodò sulla soglia con uno sguardo che non prometteva nulla di buono.
-Hai sentito,
vero?-
Evangeline annuì.
–Sì, stavo venendo a vedere come stavi e ho ascoltato. Non l’ho fatto di
proposito- si scusò.
Phoebe addolcì lo
sguardo e sorrise. –No, scusami tu. Mi hai aiutata e io ti sto trattando male-
le disse. –Ho chiamato mia madre per farle sapere che stavo bene, altrimenti si
preoccupa eccessivamente. Le ho detto che ero qui perché ero svenuta, anche se
non mi ricordavo il motivo, e lei mi ha riferito quello che è successo ieri
sera. Il Teatro Grande è stato distrutto. La causa non è stata ancora resa
nota. Ma io so- si interruppe per prendere fiato. –Nei miei ricordi ci sei
anche tu. Tutte quelle cose che mi hai detto, il … il mostro che abbiamo affrontato … è tutto vero?-
Con un sospiro
Evangeline le si avvicinò e la spinse con gentilezza verso il letto, dove
Phoebe si lasciò cadere a peso morto.
-Cosa ricordi
esattamente?-
Phoebe guardò fisso
davanti a sé con occhi vuoti e rispose con un sussurro quasi inudibile. –Hai
detto che sono una Discendente. Di Apollo. Un dio greco. E che anche tu lo sei-
Evangeline assentì.
–Sì. Sei stata scelta in seguito al rapimento degli dèi. Il nostro compito è
aiutarli. Se rifiuteremo di farlo allora sulla Terra si scatenerà il caos-
Alla bionda sfuggì
una risatina. –Stai dicendo cazzate. Non è assolutamente possibile-
-Senti- cercò di
spiegarle Evangeline –Ker è stata chiara con me. O li aiutiamo o moriamo. E io
voglio provare, anche se dopo il drago di ieri non sono poi così tanto tentata-
Non voleva essere
un guscio vuoto, una persona vulnerabile. Voleva darsi da fare, sentirsi parte
di un mondo che, sebbene non la accettasse, amava.
-Chi è Ker?- la
interrogò Phoebe.
-La dea del
destino-
Phoebe inarcò un
sopracciglio, visibilmente confusa. –Ma hai appena detto che gli dèi sono
imprigionati. Perché lei non lo è?-
-E’ una storia
lunga-
-Ho tutto il tempo
che vuoi- si intestardì Phoebe.
Con un gemito
esasperato, Evangeline cominciò a raccontare tutto quello che le era successo
prima dell’incidente al Teatro Grande. Non omise nessun dettaglio, descrisse
ciascun particolare esattamente come lo aveva visto. Parlò quasi senza prendere
fiato tra una parola e l’altra. E Phoebe ascoltava in silenzio, non osando
interromperla nemmeno per farle una domanda, per chiederle un chiarimento su
qualcosa. Non usava nessun giro di parole ed era così puntigliosa nelle
descrizioni che non ce n’era bisogno.
Quando Evangeline
finì di parlare, Phoebe rimase in silenzio ancora un po’ prima di aprire bocca.
-Ti credo- disse
con voce sicura –Sono una pazza a crederti, ma lo sarei anche se non lo
facessi-
Evangeline
ridacchiò. –E’ bello sapere che non sono da sola-
Phoebe scoppiò a
ridere e le diede una pacca sulla spalla. Sua nonna aveva ragione: bisognava
buttarsi, non tirarsi indietro ancor prima di avere iniziato. Grazie al suo
consiglio aveva guadagnato una persona con cui confidarsi. Non poteva ancora
definire Phoebe sua amica, ma il passo che l’avrebbe portata ad esserlo era
molto breve.
La suoneria del
cellulare di Phoebe interruppe i suoi pensieri. La bionda rispose con uno
sbuffo. Dal tono che usava Evangeline intuì che si trattasse di sua madre.
-Scusami- disse una
volta chiusa la telefonata. –Mia madre vuole che torni a casa subito. E’ meglio
che vada, altrimenti si arrabbia-
Evangeline si alzò
in piedi. –Nessun problema. Ti accompagno alla porta-
Mentre raccattava
le sue cose, Phoebe le propose di vedersi il giorno seguente in modo tale da
potersi conoscere meglio.
Ed Evangeline
accettò.
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Capitolo 8 *** Capitolo 8 ***
Volcano 8
Buonasera a tutti. Sono in ritardo
come al solito, ma sono sicura che mi perdonerete perché il capitolo è lungo.
Insieme al sesto è uno dei più lunghi che abbia mai scritto.
Immagino che stavate tutti aspettando
questa scena, perciò spero che vi piaccia. Per quanto riguarda Ecate: è la dea
della magia, sì, ma anche dei fantasmi. Io ho scelto di rappresentarla con il
volto che cambia. In realtà si diceva che avesse tre corpi, a simboleggiare i
tre stadi femminili della vita: fanciulla, adulta e vecchia. Il suo animale
sacro è il cane.
Per quanto riguarda Melinoe, invece: è
la dea dei fantasmi (quella vera e propria). E’ figlia di Persefone e Ade
secondo una versione, mentre secondo un’altra è figlia di Persefone e suo padre
Zeus. A causa di quest’ultimo mito, si dice che sia metà bianca e metà nera, a
simboleggiare il suo legame con il cielo (bianca) e con gli inferi (nera).
Ringrazio le persone che hanno
commentato lo scorso capitolo, ovvero: _Butterfly_,
AleJackson, Ryo13, La sposa di Ade, Ahrya, Mnemosines, Dafne Rheb Ariadne e
FallingInLove. Ringrazio inoltre chi ha messo la storia tra le preferite/
seguite/ ricordate e chi legge soltanto.
Concludo dicendo un’ultima cosa: questa storia è frutto della mia
fantasia, è stata scritta da me e viene pubblicata solamente su EFP. Pertanto
se la vedete pubblicata da qualche altra parte, avvisatemi e prenderò i giusti
provvedimenti. Grazie mille!
Ho scritto un papiro. Mi defilo.
Alla prossima!
Baci,
Aelle
Volcano
8
Avevano un
problema. Uno stramaledettissimo problema.
Phoebe passò ad
Evangeline la prima pagina del giornale, poi tornò a tormentare la gonna che
aveva addosso con le mani, divertendosi a stropicciarla e a lisciarla. Si
torturava un labbro con i denti e non riusciva a stare seduta composta. Sentiva
il bisogno di scaricare il nervosismo e muovere i piedi qua e là le sembrava
l’unico modo.
Osservò il viso di
Evangeline incupirsi man mano che procedeva con la lettura di quell’articolo
che l’aveva tormentata per tutto il tragitto da casa sua a quel piccolo bar in
cui lei e la rossa si erano rintanate. Aveva trovato il giornale aperto sul
tavolo della cucina e per poco non si era strozzata con il succo di arancia che
stava bevendo. Aveva scorso quelle righe sentendo brividi freddi scivolarle
lungo la schiena e aveva guardato la foto che immortalava lei ed Evangeline.
Non sapeva –e forse nemmeno voleva saperlo- come avessero fatto a finire sulla
prima pagina di un quotidiano, ma il fatto che i loro volti non si vedessero la
tranquillizzava.
Evangeline appoggiò
il giornale sul tavolino del bar e sospirò. Poi, in uno scatto d’ira che fece
sobbalzare Phoebe, strappò in due il quotidiano e fissò i brandelli di carta
con occhi velenosi. Quindi, prese un respiro profondo e cercò di darsi un
contegno.
-Scusa- borbottò.
Phoebe alzò un
sopracciglio color miele e sorrise, ironica. –Figurati-
La rossa si passò
una mano tra i capelli e digrignò i denti. Ora sì che erano nella merda. Altro
che draghi sputa fuoco e altri eventi paranormali. Lì si parlava di qualcosa di
più grande, che in poco tempo avrebbe fatto il giro del mondo e avrebbe reso
noto a tutti gli esseri viventi che delle persone dotate di poteri
soprannaturali combattevano mostri per difendere l’intero pianeta. Loro non
erano delle stramaledette eroine. Non lo erano per nulla.
-Siamo fottute-
disse Evangeline con un enorme sospiro.
La bionda rise,
anche se con poca energia. –A questo ci ero arrivata, genio. Cosa proponi di
fare?- la interrogò.
Evangeline si
guardò in giro, ma la gente nel piccolo bar era occupata in altre faccende e
non prestava loro la minima attenzione. Avvicinò la sedia al tavolino e scosse
la testa. –Non ne ho idea- iniziò a dire a bassa voce. –Non sono abituata a
tanta attenzione. Mi mette in agitazione. Tu hai qualche idea?-
Phoebe annuì.
–Potremmo allenarci. Dovremo essere pronte a combattere qualsiasi entità abbia
catturato gli dèi, non credi? Ora come ora, io non saprei come rievocare
quell’arco dorato e sono sicura che nemmeno tu saresti in grado di ricreare una
colonna di fuoco come quella dell’altra notte. Dico bene?-
Evangeline rimase
zitta per qualche istante. –Hai ragione. Ma dove troviamo un posto per
allenarci? Non posso certo mettermi a incendiare oggetti davanti agli occhi di
tutti.-
La bionda
tamburellò le dita sul tavolino e pensò a tutti i posti che conosceva, cercando
di trovarne uno che fosse deserto abbastanza da poter soddisfare le loro
esigenze di anonimato. Passò qualche minuto, poi Phoebe fece schioccare la
lingua contro il palato ed esultò. –Ce l’ho! La casa della vecchia Margaret!-
-Chi?-
-Margaret era come
una seconda nonna per me. Sai, mi regalava le caramelle quando andavo a
trovarla e mi ricompensava con un dolcissimo sorriso tutte le volte che la
salutavo per strada. Era una brava donna-
Evangeline iniziò a
giocherellare con i brandelli di giornale. –Era? E’ morta?-
Phoebe annuì e gli
occhi le si riempirono involontariamente di lacrime. –Già. Dieci anni fa è
stata stroncata da un infarto. Un attimo prima c’era e quello dopo era sparita.
Impiegai un po’ a superare quella tragedia. Le volevo molto bene- ammise,
asciugandosi le lacrime con una mano.
-Mi dispiace-
mormorò Evangeline.
Phoebe si ricompose
in fretta e riprese a parlare. –Vedi, casa sua è un po’ fuori città e isolata
dal resto del mondo. Spesso mi chiedevo quanta forza dovesse avere Margaret
nelle gambe per percorrere una così grande distanza. In poche parole, da quando
non c’è più, nessuno osa avvicinarsi a quella casa perché dicono che sia
infestata dai fantasmi. Nemmeno i suoi figli l’hanno voluta. Per questo motivo
non è stata né venduta né abbattuta. E’ ancora lì, fiera come lo era un tempo,
e per quanto ne so non esiste nessun fantasma-
-E non ci va
proprio nessuno?-
-Anche se uno
volesse provarci, non ce la farebbe. L’erba è cresciuta talmente tanto che
nemmeno si riesce a vedere l’entrata- sorrise debolmente –Margaret amava
l’edera-
Evangeline si
mordicchiò un labbro, indecisa. –E sei sicura che non ci sono i fantasmi?-
Phoebe non poté
evitare di scoppiare a ridere. L’espressione della rossa era così buffa che non
riuscì a contenersi. Rise talmente forte che alcune persone si girarono a
guardarle con stupore e curiosità, forse chiedendosi il motivo di tanta ilarità.
Evangeline si era coperta il viso ormai diventato bordeux con le mani e aveva
cercato di ignorare la luce dei riflettori che si era accesa su di loro. In
quel momento avrebbe voluto scavarsi la fossa da sola.
-Scusa! Non ce l’ho
fatta!- disse Phoebe una volta che si fu calmata.
Evangeline si
strinse nelle spalle, scuotendo leggermente la testa. Era sicura che
arrabbiarsi non sarebbe servito assolutamente a nulla. Perlomeno non con
Phoebe. Quindi si alzò in piedi, facendo stridere la sedia sul pavimento con un
rumore che le graffiò le orecchie. –Paghiamo e andiamo?-
Phoebe la guardò
con occhi confusi. –Andiamo dove?-
-A casa di
Margaret. Possiamo cominciare già subito. E’ inutile sprecare tempo, non
credi?-
La bionda annuì, un
mezzo sorriso ad incresparle le labbra. Raccolse la borsa che aveva appoggiato
a terra e si alzò anche lei. –Sono d’accordissimo!-
Lei ed Evangeline
dovettero farsi largo tra le piante cresciute a dismisura solo per raggiungere
la porta d’ingresso, che pareva in piedi per miracolo. Il legno ormai marcio
aveva perso la vernice brillante con cui una volta era dipinto. Lo zerbino era
incrostato di fango e foglie secche, mentre il portaombrelli era rovesciato a
terra, completamente vuoto. Sembrava veramente una casa infestata dai fantasmi.
E ancora non erano entrate.
-Una volta questo
posto non era così cupo- commentò Phoebe con nostalgia. –Era così luminoso e
ben curato che veniva voglia di ridere anche solo passandoci davanti. E il
sorriso di Margaret era la cosa più bella di tutte … -
Evangeline non
disse una parola, ma aspettò che Phoebe si tranquillizzasse. Quindi abbassò la
maniglia e la porta si aprì con un cigolio che mise i brividi ad entrambe.
Lentamente, la bionda si fece strada all’interno della casa, dove permeava un
forte odore di chiuso, così pesante che Phoebe quasi si sentì soffocare.
Mosse esitante i
primi passi, lasciando orme nella polvere che ricopriva pressoché ogni cosa.
Era sull’enorme lampadario al centro del soggiorno, sui mobili, sui tappeti e
sul pavimento. Era una patina bianca, spessa come mai si era vista, che rendeva
antico ed etereo tutto ciò che ricopriva.
Evangeline
starnutì. –Quanta polvere-
-Sei allergica?-
chiese Phoebe.
La rossa scosse la
testa e nello stesso istante la sua attenzione venne catturata da un dettaglio
anomalo. Aperto sul tavolo in mezzo alla stanza c’era un libro piuttosto
voluminoso. Inspiegabilmente attratta da esso, Evangeline si avvicinò e lo
prese tra le mani, chiudendolo per leggere il titolo sulla copertina, ma in
quel momento capì perché quel libro aveva suscitato la sua curiosità. Non un
granello di polvere aveva ricoperto le sue pagine.
Evangeline si
irrigidì, poi si voltò di scatto verso Phoebe. –Avevi detto che era una casa
abbandonata!- la accusò.
-E’ una casa abbandonata-
-Qualcuno è stato
qui. Chi altri conosce questo posto?-
-Nessuno viene qui
da dieci anni, Evangeline. Te lo ripeto, è una casa abbandonata-
Lei prese un
respiro profondo, cercando di calmarsi. –Eppure qualcuno è stato qui- affermò
col tono di chi non ammetteva repliche.
Phoebe fece per
protestare, ma alle sue spalle si levarono degli scricchiolii e lei si zittì di
colpo. I suoi occhi furono attraversati da un lampo di terrore, che subito la
bionda nascose sotto una corazza spavalda. Non era nel suo carattere
dimostrarsi debole.
-Hai sentito?-
esclamò Evangeline. –Lo sapevo io che venire in una casa infestata dai fantasmi
non era una mossa saggia. Perché mi sono lasciata convincere?- aggiunse con
voce tremante, stringendo i pugni fino a che le nocche non diventarono bianche.
-I fantasmi non
esistono- disse Phoebe.
Agli scricchiolii
si aggiunsero dei lamenti strazianti, come se in quella villetta si trovassero
delle anime in pena che premevano e grattavano contro le porte, impazienti di
uscire. Come se ci fossero veramente dei fantasmi sopra di loro.
-Saliamo- ordinò
Phoebe.
Prese la mano di
Evangeline e cominciò a trascinarla a peso morto verso le scale, che salì quasi
con rabbia, forse credendo che quell’atteggiamento all’apparenza scontroso
sarebbe stato in grado di scacciare qualunque cosa si nascondesse in quella
villetta. Gli scricchiolii accompagnarono i loro passi per tutta la salita.
-Vengono dalla
camera di Margaret- mormorò la bionda, scrutando il corridoio con occhi ridotti
a due fessure.
-Voglio tornare giù
… - si lamentò Evangeline, stritolando la mano di Phoebe.
Lei roteò gli
occhi, sospirando. –Ormai siamo qui. Si può andare solo avanti-
Evangeline annuì,
tremando come una foglia, e seguì la bionda lungo quel corridoio che pareva
essere il più lungo che avesse mai percorso in vita sua. Eppure, erano solo
pochi metri.
-Eccoci- disse
Phoebe non appena arrivarono davanti alla porta di quella che una volta era
stata la camera di Margaret. Fece per aprirla, ma non ce ne fu bisogno. Si
spalancò da sola, andando a sbattere contro il muro.
-E tu dicevi che
non c’erano i fantasmi … - sussurrò Evangeline, arpionandosi al suo braccio.
Una voce bassa e
seducente, chiaramente quella di una donna, interruppe i lamenti della rossa
con una risatina divertita, giusto un attimo prima che Phoebe potesse aprire
bocca.
–Oh, ma non ci sono
i fantasmi. Non ancora, perlomeno. Ci vorrà del tempo prima che Melinoe sorga
dagli Inferi con la sua orda di spettri- disse. –In questa casa ci siamo solo
io e voi-
Phoebe fece cadere
lo sguardo sulla sedia a dondolo, su cui una figura era sdraiata mollemente. Era
una donna dai lunghi capelli scuri che andavano ad incorniciare un viso che non
si riusciva a distinguere. Era sfocato, come una foto scattata con mano poco
ferma. E la bionda impiegò un po’ prima di capirne il motivo. Cambiava in
continuazione: fanciulla, madre e vecchia. Un volto liscio e perfetto che
veniva segnato dalle fatiche del parto e poi veniva deturpato da profonde
rughe. Gli occhi erano gli unici a non mutare. Brillavano sempre di una luce
intelligente e sinistra che era difficile ignorare.
Ed Evangeline
sorprese Phoebe. Si fece avanti, quasi senza paura, e si chinò a raggiungere la
stessa altezza della donna. –Lei è una dea. Dico bene?-
Quella gettò
indietro la testa e rise. –Perspicace. Davvero perspicace. Anche se non credo
che tu abbia idea di quale dea io sia-
Evangeline scosse
la testa. –No-
La donna si alzò, sollevandosi
in tutta la sua statura, e spalancò le braccia. –Io sono Ecate, dea della
magia- disse con voce potente, mentre un tuono faceva eco alle sue parole. –Vi
stavo aspettando, care Discendenti-
Phoebe si affiancò
ad Evangeline. –Che cosa vuole da noi?- chiese alla dea con nervosismo
palpabile.
Quella inarcò un
sopracciglio. –Cosa voglio io? Cosa desiderate voi, piuttosto. Io rispondo
sempre alle chiamate di chi mi invoca. Perciò, domandate pure liberamente-
Le due ragazze si
guardarono, indecise. Quella dea sprizzava malvagità da tutti i pori e Phoebe
temeva di conoscerne il motivo, anche se non capiva esattamente perché lo
sapesse. Era una dea che si mostrava pressoché di notte, accompagnata da cani
ringhianti e da ombre urlanti. Sebbene non fosse ben vista dagli esseri umani,
che la consideravano una strega, Ecate amava dimostrarsi caritatevole nei
confronti dei mortali, concedendo loro di evocarla e di esprimere un desiderio.
Lei avrebbe esaudito qualsiasi richiesta, beandosi della disperazione che
nasceva dai desideri cattivi e non facendo nulla per aiutare l’essere umano che
l’aveva evocata.
-Non abbiamo
nessuna domanda- rispose Phoebe, improvvisamente ansiosa di andarsene.
Ecate rise
sottovoce. –Io sento che c’è qualcosa che vuoi chiedermi-
-No, si sbaglia-
La dea digrignò i
denti, chiaramente arrabbiata. –Io non mi sbaglio mai. Farai meglio a tenerlo
in mente, ragazzina impertinente- sibilò, puntandole un dito contro.
Prima che Phoebe
potesse peggiorare la situazione con la sua lingua senza freni, Evangeline
attirò l’attenzione della donna con un colpo di tosse. –Io ho una domanda-
Ecate si voltò a
guardarla, gli occhi che luccicavano di soddisfazione. –Oh, vedo che la tua
amica è più assennata di te. Chiedi, ragazza-
-Ker mi ha detto
che dobbiamo trovare gli altri Discendenti, ma io non so dove cercare. Può
dirci dove si trovano?-
La dea si
picchiettò il mento con un dito. –Mi ricordo di Ker. Molte delle anime che
conducevo nell’Ade era lei a procurarmele- poi aggiunse con allegria -E questa
domanda è fin troppo semplice!-
Phoebe fece per
aprire la bocca e parlare, ma la donna la ignorò completamente, probabilmente
ancora irritata per come era stata trattata. Gli dèi erano facili alla collera
e lenti al perdono. Esattamente come gli esseri umani.
-Ma ti risponderò
solo in parte. Come Ker, io sono legata al destino. Posso prevedere alcune
cose, ma non posso darle per certe perché, come Ker ti avrà detto, il destino
muta in continuazione. Vedo senza interferenze che due Discendenti sono molto vicini
a voi, ma posso solo dirvi come trovarne uno. Seguite il corso dei miti e
cercate il dio che salvò la principessa abbandonata. Allora troverete il primo
Discendente-
Evangeline chinò la
testa in segno di rispetto e Phoebe la imitò, ma Ecate le mise un dito sotto il
mento e glielo sollevò.
-Io e te non
abbiamo ancora finito. So che avevi una domanda e mi dispiace che tu non me
l’abbia rivolta. Sappi solo che presto avrai bisogno dell’aiuto di un umano. Il
potere di Apollo di prevedere il futuro è molto più forte del mio e presto
inizierà a causarti problemi-
La bionda spalancò
gli occhi. –Cosa intende dire?-
-Il mio tempo qui è
finito. Non posso stare qui un secondo di più, altrimenti mi troveranno. Sono
sicura che farete le scelte giuste per salvare gli dèi- disse con un sorriso
che la faceva quasi apparire indifesa. –Addio!-
E scomparve in una
nuvola di fumo nero.
Quest' opera è distribuita con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Unported.
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Capitolo 9 *** Capitolo 9 ***
volcano 9
Questo ritardo ha un’unica spiegazione. Ero bloccata, non riuscivo a
scrivere una riga senza doverla cancellare. Solo qualche giorno fa sono
riuscita a superare questa crisi e ho scritto questo capitolo. Davvero,
scusatemi per aver aggiornato solo ora. Spero che sia ancora qualcuno che segue
questa storia.
Per Dafne
Rheb Ariadne:
spero che questa Ariadne ti piaccia!
Ringrazio tutti coloro che hanno letto, quelli che hanno recensito,
ovvero: Ahrya, AleJAckson, Dafne Rheb Ariadne, La sposa di Ade, _Sylvie,
Ryo13, Ailea Elisewin e FallingInLove. Ringrazio anche chi ha messo
la storia tra le preferite/ seguite/ ricordate.
Concludo dicendo un’ultima cosa: questa storia è frutto della mia fantasia, è stata scritta da me e viene
pubblicata solamente su EFP. Pertanto se la vedete pubblicata da qualche altra
parte, avvisatemi e prenderò i giusti provvedimenti.
Grazie mille!
Al
prossimo aggiornamento, che sarà presto lo prometto!
Baci,
Aelle
Volcano
Capitolo 9
Ariadne accettò con
piacere la birra che le veniva offerta. Ne bevve solo un sorso, però. Non era
una grande amante degli alcolici. Quel ruolo si adattava molto meglio al suo
ragazzo piuttosto che a lei.
Scandagliò la
folla, cercando Zach con lo sguardo, ma una volta che i suoi occhi lo ebbero
trovato non si alzò per andargli incontro. Sapeva che Zach odiava la gente che
gli stava troppo addosso. Era una delle poche cose che riuscivano ad irritarlo.
Perciò si limitò a seguire i contorni della sua figura, soffermandosi sui suoi
capelli neri dalle strane sfumature bluastre e sui suoi occhi viola. Non che
fossero propriamente viola, ma alla luce della luna assumevano quel colore così
raro e particolare. Ariadne li amava, soprattutto quando si posavano su di lei,
così luccicanti che parevano brillare.
Nel momento in cui
fece per alzarsi e raggiungerlo, Megan si sedette accanto a lei, accompagnata
dalla sua risata stridula e Ariadne fu costretta ad emergere dalla sua bolla
per voltarsi a guardarla. La salutò con abbraccio caloroso, immaginando che
quel gesto le avrebbe fatto piacere. Dopotutto, quella sera era la sua sera:
compiva diciotto anni ed era chiaro che si aspettasse di ricevere l’attenzione
generale.
-Ti stai divertendo?- le urlò Megan cercando di
sovrastare la musica.
Ariadne era rimasta
seduta su quella sedia per tutta la sera, ma di certo non poteva dirle che si
stava annoiando a morte. Optò così per un rapido cambio di discorso, sicura che
Megan non avrebbe notato la differenza. –Bella festa!- le gridò in risposta.
Megan sorrise,
mettendo in mostra una fila di denti bianchissimi, e accavallò le gambe,
facendo sì che il corto vestito che indossava si alzasse di almeno dieci
centimetri, lasciando intravedere anche quello che Ariadne non era interessata
a vedere. Cielo, non doveva arrivare ai livelli di Bridget Jones, ma cosa le costava
mettere delle mutande un po’ più consistenti?
-Grazie, cara-
disse Megan con tono smielato. –Non sai quanto tempo ho impiegato per preparare
tutto!-
Ariadne riusciva ad
immaginarselo molto bene invece. C’erano quantità assurde di cibo, per non
parlare poi della scorta di birra e alcolici vari. Se fosse stata costretta a
fare una stima, Ariadne era sicura che con tutto quel ben di dio un esercito
sarebbe sopravvissuto per mesi senza mai doversi lamentare. E forse c’era anche
da chiedersi come diavolo Megan avesse fatto a pagare tutta quella roba se non
aveva nemmeno i soldi per prendersi un pacchetto di gomme da masticare.
-Sai- continuò la
ragazza, sfoggiando un altro sorriso abbagliante. –I miei sono andati a fare un
piccolo viaggetto per una settimana. Così io ne ho approfittato- ridacchiò.
Ariadne accolse la
notizia senza battere ciglio perché qualcosa le aveva già suggerito che dovesse
trattarsi di una cosa del genere.
-Fortunata!- le
disse.
Megan ridacchiò
ancora. –Grazie!-
E in quel momento,
osservandole gli occhi arrossati e lucidi, Ariadne comprese per prima cosa che
la festeggiata era ubriaca fradicia. In secondo luogo, gettando uno sguardo
all’orologio che segnava mezzanotte meno dieci minuti, capì che di lì a poco
sarebbe dovuta andarsene.
Sospirò. –Devo
rientrare. Sai i miei genitori mi hanno messo un coprifuoco … -si scusò con
Megan, chinandosi a raccogliere la sua borsa e affrettandosi ad alzarsi.
La festeggiata si
lasciò di nuovo andare a quella risata stridula che la irritava tanto. –Oh, non
ti preoccupare! Del resto, hai sedici
anni … -
Disse l’ultima
parte con un tono strano, che aveva tuttavia il chiaro intento di ferirla. Ma
Ariadne non si fece per nulla intimidire.
-Sì, già- le
rispose.
Si sistemò i
vestiti stropicciati e si incamminò verso Zach, che stava ridendo sguaiatamente
con un tipo che lei non aveva mai visto. Ariadne scommise il suo piede destro
che nemmeno Megan conosceva quel ragazzo. Molto probabilmente era un imbucato.
Appena la vide,
Zach le si avvicinò, circondandole la vita con un braccio. –Devi andare?- le
chiese.
-Coprifuoco- disse
lei stringendosi nelle spalle. –Mi puoi dare un passaggio?- tentò, pur sapendo
che non avrebbe ottenuto quello che domandava. Zach amava rimanere ad una festa
dall’inizio alla fine.
E come previsto,
lui scosse la testa, affrettandosi però a scusarsi. –Mi dispiace! Sai che di
solito sto … -
Ariadne lo bloccò
prima che potesse finire la frase. –Non fa niente, non ti preoccupare! Mi
daresti le chiavi della macchina? All’andata mi hai accompagnata tu … sono
sicura che qualche anima pia dopo ti porterà a casa. Magari Meg la puttana-
disse con una punta di acidità.
Zach rise. –Sei
gelosa forse?-
Lei alzò le mani.
–Piuttosto la morte!- rispose con tono solenne.
Il ragazzo si frugò
nelle tasche, poi le consegnò le chiavi della macchina. –Ecco qui-
Ariadne gli mise le
braccia intorno al collo e gli sfiorò le labbra con le sue. –Grazie- gli
mormorò prima di girare i tacchi e dirigersi verso il parcheggio.
Si fece largo a
spintoni tra la gente ammassata in quel posto così piccolo e spuntò nella
piazzola dove Zach aveva posteggiato la macchina. Non riuscendo a vederla
subito, seguì il bip bip del
telecomando finché non la trovò.
Si gettò a peso
morto sul sedile del guidatore, depositando la borsa su quello accanto a lei.
Sospirando per la stanchezza, inserì la chiave, accese il motore, fece
retromarcia e si allontanò il più velocemente possibile da quella festa.
Non le ci voleva
molto per tornare a casa, giusto quei trenta minuti che le avrebbero consentito
di varcare la soglia un attimo prima che scattasse il coprifuoco. Già si
immaginava il suo letto, caldo e accogliente, ad aspettarla. Aveva proprio
bisogno di una bella dormita.
Quando stava per
scoccare la mezzanotte, Ariadne lo vide, in mezzo alla strada. Era ancora
lontano, ma era un uomo, o perlomeno aveva le sue fattezze. Era ritto al centro
della corsia, esattamente davanti a lei.
Infastidita,
Ariadne suonò il clacson per spronarlo a spostarsi, ma l’uomo rimase dov’era,
gli occhi scuri fissi in quelli della ragazza. Quello sguardo le metteva paura
e Ariadne rabbrividì istintivamente. Suonò di nuovo, questa volta più forte, la
paura che le faceva battere il cuore a mille, ma l’uomo non si mosse.
E in quel momento
capì che le era rimasta una sola possibilità se non voleva investirlo. Frenò
bruscamente, ma qualcosa andò storto. La macchina smise di rispondere ai suoi
comandi e sterzando ci volle poco perché slittasse e finisse nei campi fuori la
strada. Probabilmente nella manovra colpì un albero o qualcosa di simile perché
l’auto ebbe due sobbalzi che fecero venire la nausea ad Ariadne.
Quando la macchina
interruppe la sua corsa con un ultimo colpo, la ragazza constatò con piacere di
essere ancora viva. Prese tre respiri profondi per calmarsi, poi gettò
un’occhiata alla strada, pronta a scendere dal veicolo e a dirne quattro al
tizio che l’aveva quasi fatta ammazzare, ma con orrore vide che l’uomo giaceva
a terra.
Merda, doveva
averlo urtato nella manovra brusca.
Afferrò la borsa e
vi rovistò all’interno finché non trovò il cellulare. Con dita tremanti compose
il numero di emergenza e ascoltò ogni squillo con l’ansia che cresceva di
minuto in minuto.
911. Qual è la sua emergenza?, chiese una voce metallica di donna.
Ariadne si schiarì
la gola. –Sono … ho fatto un incidente … c’era un uomo in mezzo alla strada … -
balbettò nel panico.
Si calmi, per favore. Ha bisogno di un’ambulanza?
-Sì!- esclamò con
sollievo. –Sì … mi serve … - e lì si fermò.
Aveva di nuovo
guardato verso la strada, verso la figura rannicchiata a terra. Solo che adesso
non c’era nessuna figura rannicchiata a terra.
L’uomo era
scomparso.
Pronto?,
continuò la voce dall’altro capo del telefono. E’ ancora lì? Mi sa dire dove si trova?
Ariadne annuì, poi
si ricordò che la donna al telefono non poteva vederla. –Sì … sono … - ma si
bloccò ancora.
Una mano sporca di
sangue si era appoggiata al finestrino dell’auto e un volto aveva fatto
capolino davanti al suo. Quello dell’uomo che aveva investito.
Lui la studiò per
qualche attimo, poi sradicò la portiera con una mano, gettandola lontano.
Ariadne strillò,
terrorizzata, e cercò di allontanarsi, ma con l’altra mano l’uomo la afferrò e
la trascinò fuori.
Il cellulare cadde
a terra, mentre nell’aria risuonavano le grida della ragazza che provava a
dibattersi.
Pronto? Pronto?
Zach si passò una
mano tra i capelli, sospirando e agitandosi su quella piccola sedia. Era
traballante e terribilmente scomoda, ma non si sarebbe mosso da lì finché
Ariadne non si fosse destata, rassicurandolo sul fatto che stava bene.
La fissò ancora,
ammirandone i tratti delicati e la pelle morbida che in quel momento era
pallida come la luna. Poi non resistette all’impulso che lo tormentava e allungò
una mano per toccarle i capelli color caramello che tanto amava. Erano sudati e
crespi, ma Zach sapeva di non potersi aspettare nient’altro da una persona che
solo poche ore prima era stata aggredita.
Strinse i pugni e
ripensò a ciò che era successo in così poco tempo. All’incirca un quarto d’ora
dopo che Ariadne se ne era andata il telefono aveva cominciato a squillare
insistentemente. Aveva provato ad ignorarlo, voleva godersi la festa, ma alla
fine era stato costretto a rispondere.
E a quel punto gli
si era ghiacciato il sangue nelle vene.
Era la polizia che,
allertata da una centralinista del 911 che aveva ricevuto una chiamata di
emergenza interrottasi all’improvviso tra urla e strilli, aveva rintracciato il
cellulare da cui era stata effettuata e si era precipitata sul luogo, scoprendo
così una macchina in pessime condizioni e senza conducente. Grazie alla targa
del veicolo erano risaliti al proprietario, ovvero Zach, e lo avevano avvisato
per capire quanto lui sapesse dell’incidente.
Ma lui era
all’oscuro di tutto. Nel panico, aveva chiesto all’agente che lo aveva
contattato se poteva raggiungerli e alla sua risposta affermativa lo aveva ringraziato
e aveva costretto il suo migliore amico ad accompagnarlo.
Arrivato là si era
retto in piedi per miracolo. Anche se era costata, non gli importava nulla
della macchina distrutta. Lui voleva sapere dov’era la sua ragazza.
Ma Ariadne non si
trovava da nessuna parte. Se non fosse stato per le tracce di sangue sulla
portiera divelta a forza dai suoi cardini e per i chiari segni di trascinamento
nell’erba probabilmente non l’avrebbero mai trovata.
Poi, sotto i suoi
occhi, tutto era accaduto molto velocemente. Una voce aveva chiamato i
poliziotti, inducendoli a correre verso il punto indicato. Anche senza
permesso, Zach li aveva seguiti.
Ed eccola là.
Stesa a terra, gli
occhi chiusi, le labbra atteggiate in una linea severa e i vestiti lacerati.
Lacrime ormai asciutte le rigavano il viso, il fango le aveva imbrattato i
capelli, mentre i polsi erano arrossati, prova che aveva tentato di
divincolarsi dalla morsa di qualcuno molto più forte di lei. Qualcuno di
introvabile, perché non c’era traccia della presenza di altri individui.
Ariadne era stata abbandonata lì senza ritegno da una persona che era riuscita
a svanire nel nulla.
Per prima cosa, gli
agenti avevano pensato ad una violenza sessuale, ma poi si erano dovuti
smentire perché nessun indizio confermava in modo assoluto quella tesi. E Zach
si era sentito sollevato perché non sapeva come avrebbe potuto reagire se
avesse appreso che qualcuno aveva violentato la sua ragazza.
-Vuoi un caffè?-
La voce di Daniel,
il suo migliore amico, lo trascinò fuori dal baratro di quei ricordi. Si girò a
guardarlo con occhi vacui, deciso a non mostrarsi debole, a non piangere.
Scosse la testa.
–No, grazie. Sto bene così-
Daniel lo guardò
con compassione evidente. –Oh, amico, mi dispiace- gli disse avvicinandosi e
dandogli una pacca sulla spalla.
Lui non rispose,
limitandosi ad un cenno del capo per fargli capire che lo aveva sentito. Gli
faceva male il petto, il cuore gli pareva stretto in lacci fatti di spine e
faticava a respirare.
-Vuoi che ti porti
qualcos’altro?- provò ancora Daniel.
-Voglio solo che
lei apra quei suoi splendidi occhi castani e mi dica che sta bene- mormorò.
–Non mi serve altro-
-Sicuro?-
Annuì. –Sì, vai a
casa, Dan. I tuoi saranno preoccupati-
-Li ho chiamati
prima per avvisarli. Posso stare qui- ribatté lui.
-Vai a casa, Dan-
ripeté Zach con voce stanca. –Sei il mio migliore amico, ma in questo momento
voglio stare da solo con lei-
Daniel fece per
aprire bocca, ma poi ci ripensò e la richiuse. Prese le chiavi della macchina,
si avvicinò alla porta, la aprì e si fermò sulla soglia. –Chiamami quando vuoi.
Quando lei si sveglia, se vuoi parlare … per qualunque cosa, okay?-
Pur sapendo che non
lo avrebbe fatto, Zach lo accontentò. –Certo. Sarai il primo che chiamerò-
Daniel gli lanciò
un’ultima occhiata, poi si strinse nelle spalle e se ne andò senza aggiungere
un’altra parola, lasciandolo finalmente da solo.
Non appena la porta
si chiuse alle spalle del suo migliore amico, Zach spostò subito lo sguardo
sulla figura placidamente addormentata e, sebbene non fosse credente, cominciò
a pregare ogni dio che conosceva affinché lei si svegliasse.
-Per favore … -
mormorò chiudendo gli occhi. –Per favore-
Quando rialzò le
palpebre, nulla era cambiato. Ariadne era ancora stesa in quel letto bianco,
immobile. A quella vista, Zach si alzò di scatto dallo sgabello e tirò un pugno
contro il muro. E un altro. E un altro di nuovo finché non cedette al dolore e
si accasciò a terra, piangendo come un poppante e vergognandosi del suo stesso
comportamento pur non sapendo come fermare le lacrime.
Perché era successo
ad Ariadne? Conosceva la risposta. Perché lui era stato tanto egoista da
pensare solo a se stesso. Non l’aveva accompagnata a casa come invece avrebbe
dovuto fare e quello era stato il risultato. La colpa era tutta sua. Sua e del
suo stupido attaccamento alle feste.
Si asciugò le
lacrime con la manica della felpa, tirò su col naso e si rimise a sedere.
Aspettò per altre
ore interminabili prima che Ariadne si decidesse a dare segnali di vita. Erano
quasi le otto del mattino quando la ragazza iniziò a muovere debolmente le dita
e a lamentarsi nel sonno, agitando la testa da una parte all’altra come se
volesse scacciare un insetto fastidioso.
Zach saltò in
piedi. –Ariadne … ?-
Lei mugolò, ma non
aprì gli occhi e continuò quella piccola lotta. Nel momento in cui smise di
muoversi convulsamente, Ariadne prese un respiro profondo e spalancò gli occhi,
di un azzurro così chiaro da sembrare bianco.
Zach si sporse sul
letto. –Ariadne, mi senti?-
Lei voltò il capo e
lo fissò, in silenzio. Poi, come ripresasi da una trance, annuì. Il ragazzo tirò
un sospiro di sollievo e ringraziò gli dèi o qualunque entità avesse accolto le
sue preghiere. Lei era lì, era sveglia.
Le spostò una
ciocca sudata dalla fronte e lei non si mosse, continuò semplicemente a
fissarlo.
-Ac … acq … acqua-
articolò a fatica, come se non conoscesse la lingua in cui si stava esprimendo
e stesse assaporando il suono della sua stessa voce.
-Subito-
Le versò un po’
d’acqua in un bicchiere di plastica e glielo accostò alle labbra. Lei lo bevve
d’un colpo e ne chiese ancora e ancora finché la sua sete non si fu placata.
-Come stai?- osò
chiederle allora.
Lei annuì di nuovo,
ma non rispose.
Per forza,
pensò Zach, doveva essere disorientata.
-Vado a chiamare
l’infermiera- le comunicò.
Lei si agitò. –No!-
disse. –No. Voglio alzarmi-
Zach le sorrise.
–Un motivo in più per chiamarla. Torno immediatamente-
-No- si lamentò
lei. –Aiutami tu-
Il suo tono di voce
era così supplicante che Zach non seppe dirle di no. Le mise una mano alla base
della schiena e pian piano la sollevò. Quando si ritrovò seduta sul letto,
Ariadne gettò fuori le gambe e si slanciò.
-Piano, piano!- la
rimproverò lui. –O ti farai male-
Ma Ariadne non
parve udirlo. Appoggiò i piedi a terra e mosse qualche debole passo. Nel
momento in cui capì di essere in perfetto equilibrio, i suoi movimenti si
fecero più sicuri.
Poi provò a muovere
le braccia. Le spalancò, le agitò e aprì a chiuse le mani con un’espressione
esterrefatta sul viso, come se non riuscisse a credere di avere il pieno
controllo del suo corpo.
Ma quando vide
quello strano sorriso deturparle il volto altrimenti dolce e paffuto, Zach capì
che c’era qualcosa che non andava in lei. Non era la solita Ariadne.
-Ariadne, va tutto
bene?- le domandò.
La ragazza si girò
a guardarlo. –Certo- scoppiò a ridere. Una risata che aveva un retrogusto malvagio.
–Credimi, va tutto a meraviglia!-
Note:
In America la patente si prende già a sedici anni, non bisogna aspettare i
diciotto.
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Capitolo 10 *** Capitolo 10 ***
volcano 10
Ma buonasera. Quali sono state le mie
ultime parole famose? Il capitolo arriverà presto? Sì, mi pare che qualcuno ci
abbia creduto. Comunque ho una scusa plausibile: scuola e connessione. La prima
mi ha riempito di compiti, la seconda era inesistente. Perciò, anche volendo,
non potevo pubblicare.
Mi dispiace. In qualunque caso, ecco
qui il capitolo dieci, sperando che vi piaccia quanto vi è piaciuto il nono.
Chiariamo una cosa: Zach appare molto stupido, un po’ lo è, quindi non
stupitevi del suo comportamento. Non imitatelo, però. Potreste finire come il
personaggio idiota dei film horror che viene ammazzato per primo.
Comunque, passiamo a cose serie.
Questa storia mi sta prendendo molto tempo, ma va avanti a rilento. Mi fa
piacere che abbiate la pazienza di seguirmi, quindi ringrazio tutti coloro che
hanno messo la storia tra le seguite, preferite e ricordate e anche chi legge
soltanto. Ringrazio inoltre chi ha recensito, ovvero: Lien_, Dafne Rheb
Ariadne, Ailea Elisewin, AleJackson, Ryo13, la sposa di Ade, _Sylvie, Ahrya, Mnemosines,
FallingInLove, Martolina0212, FherEyala e Tea_Zeus. Siete stupenti! *-*
Fatemi notare se ci sono errori, eh!
Apprezzo le critiche, purché siano costruttive e non offensive!
Concludo dicendo un’ultima cosa: questa storia è frutto della mia fantasia, è stata
scritta da me e viene pubblicata solamente su EFP. Pertanto se la vedete
pubblicata da qualche altra parte, avvisatemi e prenderò i giusti provvedimenti.
Grazie mille!
Vi lascio al capitolo!
Alla prossima!
Baci,
Aelle
Volcano
10
Zach non riusciva a capire cosa non
andasse in Ariadne. Perché c’era
qualcosa che non andava e ne era sicuro. Quello non era il suo solito
comportamento, era una Ariadne che si era spinta ben oltre la normalità.
La osservò meglio, cercando di
afferrare anche quei dettagli che a prima vista gli parevano inutili. I piedi
nudi a contatto con il pavimento gelido, le gambe pallide che spuntavano dal
camice spiegazzato che le avevano messo addosso appena era giunta in ospedale,
i capelli sporchi e disordinati. Nulla era poi così tanto strano.
Poi la guardò bene in volto. Le labbra
incurvate in un sorriso malvagio erano il particolare meno raccapricciante.
Quando le vide gli occhi, trattenne il respiro e comprese di aver trovato l’anomalia
che stava cercando. Erano spalancati come quelli di una pazza ed erano dello
stesso colore del ghiaccio, mentre le pupille erano pressoché inesistenti, due
puntini neri praticamente invisibili.
Il ragazzo deglutì a vuoto. Sebbene
tentasse in tutti i modi di nasconderlo, quegli occhi gli facevano paura. Forse
perché davano l’idea di essere imprevedibili, o forse più semplicemente perché
erano spaventosi. Non riusciva a fissarli senza sentire il bisogno di abbassare
il proprio sguardo a terra. Digrignando i denti si impose di non cedere e di
rimanere calmo.
Si schiarì la gola. –Ariadne, sei
sicura di stare bene?- ripeté.
Lei assottigliò gli occhi, seccata.
–Sì, certo- sbottò, quasi non prestandogli attenzione.
E poi accadde. Fu questione di un
attimo, come quando si accende e si spegne una lampadina, e Ariadne traballò e ritornò
la stessa ragazza dolce che conosceva lui. Spaesata, si fissò le mani,
osservandole come se le vedesse per la prima volta, poi le ginocchia le
cedettero e lei cadde a terra con un tonfo.
Zach non riuscì a prenderla al volo,
ma fu subito al suo fianco per accertarsi che non si fosse fatta male. A prima
vista sembrava solo scossa. Tremava in modo convulso e si passava le mani sul
corpo come se cercasse di scacciare il gelo che la teneva prigioniera. Non
sapendo cosa fare, la attirò contro di sé e lei non rifiutò il suo intervento,
rannicchiandosi tra le sue braccia e sfregando la guancia contro il suo petto.
Appoggiò il mento sui suoi capelli
color caramello e sospirò, felice. Era quella la sua Ariadne. –Va tutto bene.
Sono qui- mormorò tentando di farla smettere di tremare.
Quando la ragazza si fu calmata, Zach
si sciolse da quell’abbraccio e la costrinse ad alzare lo sguardo. Nel momento
in cui quelle iridi bianche lo fissarono trasalì, ma scacciò il terrore con una
stretta di spalle. –Meglio?- le domandò con un sorriso.
Lei annuì. –Sì, grazie per esserti preso
cura di me … - gli rispose soffocando uno sbadiglio.
Il sorriso di Zach si allargò fino a
diventare una lieve risata. –Di nulla, piccola- le disse. –Vieni, hai bisogno
di riposare-
Ariadne afferrò la mano che Zach le
stava porgendo e si tirò in piedi con fatica, ansimando come se avesse corso
per chilometri e chilometri senza fermarsi. Il freddo tornò a riappropriarsi di
lei. –Mi gira la testa … - disse in un sussurro appena percettibile. –Mi fa
male … mi viene da vomitare … -
Zach perse il sorriso e si allarmò.
Cosa diavolo stava succedendo? Un secondo prima stava bene –più o meno, se non
si considerava il suo atteggiamento strano- e quello dopo era pallida come la
morte, respirava male e non riusciva a reggersi in piedi. Capendo che non
sarebbe arrivata al letto, la fece sedere sul pavimento e si precipitò fuori
dalla camera in cerca di un medico o di un’infermiera che potesse aiutarlo.
Ignorando le regole, si mise a correre
nel corridoio, gettando sguardi veloci in tutte le stanze che incontrava per
vedere se ci fosse qualcuno. Arrivò alla fine del corridoio senza trovare
nessuno. Si piegò sulle ginocchia per prendere fiato.
Quando una mano si posò sulla sua
schiena Zach si girò di scatto, incontrando gli occhi preoccupati di un
infermiere.
-Ti senti bene?- gli chiese l’uomo con
voce pacata.
Zach quasi si mise a saltare. –No.
Cioè, sì. Io sto benissimo. Quasi. Però la mia ragazza no. E’ stata qui
stanotte. Ariadne Brown. Si è svegliata prima, mi ha chiesto dell’acqua, poi
l’ho aiutata ad alzarsi e … -
L’infermiere si accigliò. –Ariadne
Brown? Ah, sì, ho capito. Aspetta, l’hai fatta alzare dopo quello che le è
successo? Perché hai fatto una cosa del genere?- lo rimproverò.
Zach fu preso in contropiede e per un
attimo rimase senza parole. –Beh, sì. Mi sembrava che ne avesse bisogno … -
L’infermiere lo guardò male. –Se il
primario non l’ha visitata e non ha detto che può alzarsi senza che questo potesse
compromettere la sua salute, avresti dovuto lasciarla a riposo-
-Sì, sì. E’ quello che le ho detto
anche io dopo averle fatto mettere i piedi per terra per due o tre minuti, ma
poi si è sentita male improvvisamente … sono venuto a chiamarla apposta dopo
averla lasciata sul pavimento … -
-L’hai lasciata sul pavimento?-
esclamò l’uomo.
-Ehm, sì. Ma non è questo il punto. Mi
vuole dare una mano, sì o no?- sbottò Zach, spazientito per
quell’interrogatorio.
L’infermiere scosse la testa con un
sospiro. –Ti seguo. Andiamo-
-Oh, alleluia!-
Ripercorrendo il corridoio in senso
contrario, Zach pensò che tutto stava per risolversi nel migliore dei modi.
Ariadne si sarebbe ripresa e presto sarebbe uscita dall’ospedale con il sorriso
stampato sul viso.
Con il fiato grosso, si fermò davanti
alla porta della camera numero 471, l’infermiere alle sue spalle. Quando entrò,
ad attenderlo c’era qualcosa di diverso. Qualcosa che non era dove avrebbe
dovuto essere.
Ariadne non era stesa sul pavimento a
lamentare giramenti di testa e nausee, ma placidamente raggomitolata sotto le
coperte, gli occhi chiusi e l’espressione pacifica.
Zach rimase spaesato. Lì c’era sul
serio qualcosa che non andava. Ariadne non poteva essere arrivata al letto da
sola, non dopo avergli detto di non sentirsi bene. Le tremavano le ginocchia.
Zach le aveva viste benissimo. Non sarebbero riuscite a reggere il suo peso,
avrebbero ceduto prima.
-Beh?- disse l’uomo inarcando un
sopracciglio. –Non stava male?-
-Sì. Era per terra … - mormorò
confuso.
-A me pare serena- disse ancora
l’infermiere. –Non si sta lamentando o altro. Piuttosto, non sei forse tu che
non ti senti bene?-
-Mi sta dando del pazzo, per caso? E’
la mia ragazza, quella, non oserei mai mentire sulla sua salute-
L’uomo –da una rapida occhiata al
cartellino appuntato sul camice apprese che si chiamava Lucas- sospirò,
mettendogli una mano sui capelli e arruffandoglieli gentilmente. –Ragazzo, non
ti sto dicendo questo. So che sei qui dalla una e che non te ne sei mai andato.
Non hai chiuso occhio e hai preferito rimanere al fianco della tua ragazza. Forse
il sonno ti ha giocato dei brutti scherzi-
Zach spalancò la bocca, ma non disse
nulla per il semplice fatto che non sapeva cosa rispondere. Che avesse ragione?
No, si disse, lui sapeva benissimo quello che aveva visto, era lì, stampato a
fuoco nella sua mente, non lo avrebbe dimenticato. Nonostante questo, decise di
dare ragione all’infermiere.
-Forse ha ragione lei- rispose.
–Magari ho solo bisogno di un po’ di sonno-
Più che vederlo, Zach lo sentì
sorridere mentre gli dava una pacca sulla schiena.
-Su, mettiti su quella poltrona lì. Di
sicuro è meglio dello sgabello- gli suggerì. –Io torno più tardi con il
primario, così può controllare come sta, okay?-
Il ragazzo annuì e aspettò che Lucas
uscisse dalla stanza. Poi, rivolse lo sguardo ad Ariadne. Lui sapeva, anche non
comprendeva, che qualcosa era cambiato e non stava andando nel verso giusto. E
si ritrovò a pensare a che cosa –non più a chi- potesse averla aggredita, ma
una volta notata la strana piega che avevano preso i suoi pensieri, lì scacciò
e chiuse gli occhi.
Che problema aveva Ariadne?
Zach si strinse addosso il cappotto
nel tentativo di allontanare il freddo che lo tormentava.
Era uscito dall’ospedale verso la una
e mezza per cercare qualcosa da mangiare, gli occhi che minacciavano di
chiudersi da un momento all’altro. Eppure, la sfuriata del padre di Ariadne gli
ronzava ancora per la testa come una mosca fastidiosa e per un po’ gli aveva
impedito di dormire. Il signor Brown lo aveva accusato di quell’incidente e
Zach non aveva aperto bocca per difendersi. Sapeva che il padre della sua
ragazza aveva ragione, ma non aveva potuto fare a meno di sentirsi ferito da
quelle parole. La signora Brown, invece, non lo aveva aggredito, anzi. Non
aveva fatto nulla se non fissarlo con occhi arrossati dal pianto. E quello
sguardo gli aveva inferto molto più dolore delle grida, tanto che era tornato a
casa con un trancio di pizza e l’aveva lasciato sul mobile della cucina a raffreddare, preferendo gettarsi a letto
ancora vestito.
Non era riuscito a dormire bene, ma
perlomeno era stato capace di riposare senza troppi sogni o incubi. Si era
svegliato alle quattro più stanco di prima e facendosi forza era uscito di
nuovo.
E ora era lì, davanti al Teatro
Grande. O meglio, davanti ai suoi resti. Osservava le macerie di quel luogo che
una volta era stato imponente come pochi e cercava di dare una spiegazione
plausibile a quel crollo improvviso. Lui non credeva ai giornali e alla
televisione e si rifiutava di pensare che un drago avesse distrutto il teatro.
Non prestava ascolto a certe sciocchezze.
Passò oltre e affrettò il passo,
dirigendosi verso l’ospedale, che da lì distava meno di trenta minuti. Entro
poco l’orario delle visite si sarebbe chiuso e lui voleva vedere un’altra volta
Ariadne.
Il suo sorriso gli mancava. Era come
un piccolo sole a cui non badava per la maggior parte del tempo perché sempre
presente, un habitué. Ma ora che non c’era più, ne sentiva terribilmente la
mancanza.
Sospirò. Com’era vero che notavi
l’importanza di una persona solo quando non ti era più accanto … .
Un urlo disturbò l’aria altrimenti
calma della sera, portando Zach ad alzare lo sguardo verso l’alto. Senza
accorgersene, preso dalle sue riflessioni, aveva superato l’ingresso
dell’ospedale ed era finito sotto la schiera di finestre del reparto dove
Ariadne era stata ricoverata. E il grido che aveva appena sentito proveniva
proprio dalla camera di Ariadne.
Temendo che fosse accaduto qualcosa,
Zach tornò indietro di corsa e si precipitò su per le scale. Faceva i gradini a
due a due tanto era agitato. Aveva una brutta sensazione e non riusciva ad
ignorarla. Stava succedendo qualcosa di brutto e Ariadne era là da sola. Per
quanto avesse paura, sapeva di non poterla abbandonare.
Al quarto piano, quando vi giunse, era
scoppiato l’inferno. I medici abbaiavano ordini alle infermiere che, con
sguardo teso, li eseguivano, conducendo via i pazienti delle camere adiacenti a
quella di Ariadne.
Ne fermò una afferrandola per un
braccio. –Cosa succede?-
-L’orario delle visite è finito. Vada
a casa. Non può stare qui- gli rispose l’infermiera guardandolo di sfuggita.
Zach allentò la presa e la donna si
allontanò velocemente. Con un nodo alla gola, il ragazzo procedette ancora,
osservando un medico entrare nella camera della sua ragazza e uscirne subito
dopo accompagnato da urla stridule, inumane. Quando lo vide, il medico si
affrettò ad andargli incontro. Guardandolo bene, Zach si accorse che aveva il
volto sudato e profonde occhiaie sotto gli occhi.
-Non può stare qui- disse il dottore
ripetendo le parole dell’infermiera.
-Come sta Ariadne? Cosa sta
succedendo?- domandò Zach senza accennare ad andarsene.
Il medico non rispose alle sue
domande. –L’orario delle visite si è concluso- insistette. –Per favore, vada a
casa-
Era qualcosa di grave. Zach se lo
sentiva. –Mi lasci passare-
-Non posso- disse l’uomo
appoggiandogli una mano sul braccio. –Torni a casa. Le faremo sapere gli
sviluppi-
Zach non comprese cosa stesse
accadendo, ma improvvisamente un calore bruciante gli colpì le tempie e lui
puntò i suoi occhi viola in quelli del dottore, che parve immobilizzarsi. Il
suo sguardo si offuscò e guance e naso gli si colorarono di un rosso acceso.
Pareva un ubriaco.
-Mi lasci passare- ordinò con voce
stentorea.
L’uomo annuì lentamente e si fece da
parte, cadendo a terra nel momento in cui i suoi occhi lasciarono quelli di
Zach.
Senza chiedersi il motivo di quella
resa improvvisa, Zach si diresse a passo di carica verso la camera 471, in cui
entrò sbattendosi la porta alle spalle. Una parte di lui sapeva che quello che
sarebbe successo lì non avrebbe dovuto essere spifferato ai quattro venti.
E quello che trovò lo fece bloccare
sulla soglia, impietrito.
Ariadne era accovacciata sul
pavimento, la schiena ricurva e le mani aperte ad artiglio. I capelli sporchi
le ricadevano tutto intorno al volto, ma non riuscivano a nascondere gli occhi
spalancati all’inverosimile e le labbra arricciate a scoprire dei denti aguzzi
e una lingua lunga e biforcuta.
Appena lo vide, Ariadne – o qualunque
cosa fosse- sorrise, gli occhi iniettati di sangue.
-Ti stavo aspettando- disse in un gorgoglio
quasi incomprensibile. –Dioniso-
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Capitolo 11 *** Capitolo 11 - Preghiere di dèi ***
volcano 11
Avevo detto che sarei tornata, vero?
Ed eccomi qui, sperando che qualcuno ancora si ricordi della mia presenza.
Vi ricordate il teaser che avevo
messo? Beh, ecco, dimenticatelo. Mi sono accorta che questa parte stava meglio
se messa in questo punto, perciò eccola qui, pronta per essere letta. Prima o
poi comunque avrei dovuto metterla, comunque.
Sono un po’ di fretta, ma ci terrei a
ringraziare tutti coloro che hanno recensito lo scordo capitolo, ovvero: Ailea Elisewin, Dafne Rheb Ariadne, Ryo13,
FherEyala, AleJackson, La sposa di Ade e Ahrya. Un grazie va anche a chi ha
messo la storia fra le preferite, seguite e ricordate. Veramente grazie!
Concludo dicendo un’ultima cosa: questa storia è frutto
della mia fantasia, è stata scritta da me e viene pubblicata solamente su EFP.
Pertanto se la vedete pubblicata da qualche altra parte, avvisatemi e prenderò
i giusti provvedimenti.
Grazie mille!
Un bacio e alla prossima!
Aelle
Volcano
11
Preghiere di dèi
Apollo lottò con la
stanchezza e si sollevò a sedere in quello spazio angusto e opprimente.
Tuttavia non osò appoggiarsi alle sbarre della gabbia in cui era rinchiuso.
Sapeva che se l’avesse fatto sarebbe stato fulminato fino a perdere i sensi.
Eppure non riusciva
ad ignorare le grida disperate di sua sorella. Dall’altra parte del muro,
Artemide lottava, scalciava e si dibatteva come un’indemoniata, pronta, se
avesse potuto farlo, anche ad uccidersi piuttosto che ad essere violentata.
Sentiva il disgusto
che quelle mani brutali le provocavano ogni volta che la toccavano, il vomito
che le attanagliava lo stomaco e la paura le faceva battere il cuore
all’impazzata. Erano le stesse emozioni che provava lui. Collegato alla sua
gemella tramite un legame indissolubile, Apollo era persino in grado di vedere
attraverso i suoi occhi. Condivideva con lei pensieri di cui altri nemmeno
conoscevano l’esistenza ed era vittima delle stesse emozioni. Erano felici insieme,
tristi insieme, arrabbiati insieme.
E il dolore che lei
pativa in quel momento si riversava nelle sue vene con la forza di un uragano.
Artemide era uno spirito libero, selvaggio, poco incline alle regole. Viveva
nella natura incontaminata, lontana dall’Olimpo, dove tutti gli altri dèi,
fatta eccezione per Demetra, Poseidone e Ade, risiedevano.
Apollo si abbracciò
e lentamente infuse quel calore alla sorella, tentando di sovrastare le
impronte sudice che quel mostro le aveva lasciato sulla pelle. Seppur
impercettibilmente, i muscoli della dea si rilassarono, ma lei non smise un
attimo di mordere e graffiare furiosa.
Artemide era una
dea vergine. Non era mai stata toccata dall’amore, tantomeno aveva mai provato
desiderio per un uomo. Era stata una delle sue prime decisioni e non era mai
venuta meno al suo voto di castità. Orione, Atteone e tutti coloro che
l’avevano anche solo guardata erano andati incontro a fini terribili. Per lei
lo stupro era una violenza malsana, ripugnante, e il fatto di poterne vivere
una in qualsiasi momento l’aveva terrorizzata a tal punto che non distingueva
più ciò che accadeva realmente da ciò che, insano, germogliava nella sua testa.
Era sull’orlo della pazzia.
Era stata l’ultima
ad essere rapita e da allora ogni giorno era stato una lotta continua. Si
ribellava al suo destino con tutta la forza che aveva, scrollandosi di dosso i
corpi che si distendevano vogliosi sul suo.
Era una gabbia
aperta, la sua. Qualsiasi depravato poteva entrarvi e attentare alla sua
verginità. Fortunatamente non ci erano ancora riusciti.
Percependo la
follia della gemella, Apollo non poteva fare altro che addolorarsi per lei. Come
dio della ragione, la pazzia era per lui insopportabile, oscura tanto quanto
luminosa era la sua luce. Non sarebbe riuscito a resisterle a lungo, era certo
che presto vi avrebbe ceduto. Tutto quello che doveva fare era ritardare quel
momento. Un mondo senza ragione sarebbe precipitato nel caos.
Uno strillo più
acuto degli altri lo fece rabbrividire. Spaventato, avvicinò la propria mente a
quella di Artemide, fondendosi con lei fin quando non riuscì a vedere con i
suoi occhi.
Un braccio circondò
la vita sottile della dea e una mano impaziente le strappò la veste, palpandole
la coscia. La sollevò senza sforzo, incurante dei suoi morsi e delle sue grida,
e la sbatté malamente sulla pietra. Le spalancò le gambe e vi si piazzò in
mezzo. Chiunque stesse tentando di violentarla, rideva, godendo del suo
terrore. Lui lo riconobbe: era il carceriere, l’umano.
Agli strilli si
unirono i singhiozzi. Apollo interruppe il contatto e preso dalla furia si
gettò sulle sbarre, cercando in tutti i modi di uscire.
Doveva salvarla.
Era un suo dovere.
-Artemide!-
Urlò quando la
prima scossa lo trafisse. L’elettricità salì vorace lungo le sue braccia, gli
bruciò il volto e arrivò alla schiena, che rischiò di spezzarsi. Ma Apollo non
lasciò andare le sbarre. Anzi, vi si aggrappò con più forza.
Fu una tortura.
L’icore sgorgava a fiotti dalle ferite, le grida gli uscivano spontanee dalla
bocca, ma ottenne quello che voleva.
Con uno sbuffo
scocciato per non essere riuscito a concludere, il mostro si alzò dal corpo di
Artemide. A passi pesanti si avvicinò alla sua gabbia, chinandosi per guardarlo
in volto.
-Taci- ringhiò, il
volto sfigurato dalla rabbia. –Taci, se non vuoi che torni di là e oltre a
violentarla la torturi anche. Per quella puttana di tua sorella lo stupro non è
una punizione adeguata.-
Fulmineo, Apollo
tese un braccio e lo agguantò alla gola con una mano. Le scosse che stava
ricevendo si trasmisero attraverso il legame che aveva creato e lo stesero.
Guardando
quell’ammasso di carne bruciata, Apollo provò soddisfazione. Sapeva che da lì a
poco sarebbe crollato, ma la consapevolezza di essere riuscito a salvare
Artemide lo rese felice.
Poi sprofondò nel
buio.
Non doveva
piangere. La Regina dei Cieli non poteva permetterselo.
Rannicchiata in un
angolo di quella gabbia soffocante, le gambe strette al petto e il mento
appoggiato sulle ginocchia, la dea Hera cercava di trattenere le lacrime che
premevano per uscire.
Un singhiozzo
sfuggì al suo controllo, ribelle. La dea alzò una mano e la premette contro la
bocca, reprimendo gli altri singhiozzi che volevano scapparle dalle labbra.
Si fece forza.
Doveva resistere, come aveva sempre fatto. Doveva persistere nel credere che
tutto sarebbe andato a finire bene. Eppure, dopo tutto quel tempo in cui era
rimasta prigioniera … .
In realtà non
sapeva quanto tempo fosse trascorso dal giorno in cui era stata strappata dalla
sua casa sull’Olimpo e trascinata fino a lì, in quell’orrido luogo così poco
consono ad una personalità importante come la sua.
Potevano essere
passati solo alcuni minuti, o poche ore, o addirittura mesi. Pregò con tutto il
cuore la madre Rea, sperando di non essere rimasta abbandonata lì per anni o,
peggio, secoli.
Non che potesse
continuare a illudersi ancora per molto. Come prigioniera non distingueva il
giorno dalla notte, mangiava solo quando vi era costretta e dormiva raramente.
I suoi carcerieri stavano bene attenti a tenere l’ambrosia lontana da lei
perché avevano visto quanto diventava aggressiva anche solo sentendone il
profumo. Ma Hera non poteva farne a meno: l’ambrosia era il nettare degli dèi,
l’unico cibo in grado di risanare qualsiasi ferita. Di certo i suoi aggressori
non potevano rischiare un pericolo del genere, così le gettavano un pezzo di
pane secco attraverso le sbarre e si divertivano a posizionare una caraffa
d’acqua putrida esattamente dove sapevano che non sarebbe riuscita ad arrivare.
E più si sforzava, più diventava debole.
Era in quei momenti
che si domandava in quali condizioni si trovasse Zeus, suo marito. Quell’uomo
che per secoli e secoli aveva odiato per i suoi continui tradimenti e di cui
ora sentiva la mancanza. Alzare la voce contro di lui, litigare e fare pace per
le cose più impensabili: persino quei piccoli aspetti di quotidianità che prima
riteneva snervanti le mancavano.
Ma non era
quell’assenza a farle più male, erano gli abusi. Non sapeva con esattezza
quanto tempo passasse tra uno e l’altro, ma periodicamente i suoi carcerieri
umani –razza ignobile- venivano a visitarla, e non per portarle del cibo. Si
infilavano in quella piccola gabbia, le sorridevano crudeli, si calavano in
fretta i pantaloni e la violentavano. E lei subiva, stringendo i denti finché
non li sentiva scricchiolare.
Hera non era una
dea vergine. No, assolutamente. Aveva sedotto così tante volte il marito che a
malapena se le ricordava tutte. Ma Hera era soprattutto la dea del matrimonio e
dal momento in cui si era sposata con Zeus ogni forma di tradimento le era
proibita, vietata nel senso più assoluto. Ogni volta che quegli uomini
spregevoli abusavano del suo corpo una mano estranea le catturava il cuore in
una morsa dalla quale non riusciva a liberarsi. E stringeva, stringeva finché
le unghie non lo perforavano, facendolo sanguinare copiosamente. Sulla pelle
altrimenti liscia e bianca spuntavano strisce dorate, profonde e terrificanti a
vedersi. Il respiro le veniva meno e cominciava a sentire freddo. Sempre più
freddo, sempre più gelo, fino a quando non le pareva di annegare in un oscuro
abisso di dolore.
Era sporca, sapeva
di esserlo.
-Maledetti-
gorgogliò mentre le lacrime prendevano il sopravvento e le bagnavano le guance.
–Maledetti dagli dèi, per l’eternità. Vi ucciderò. Avrete una morte lenta,
dolorosa, non veloce come si addice agli eroi. Finirete nelle tenebre più buie
del Tartaro.-
Il corpo pieno di
bruciature e tagli profondi, Poseidone sognava il mare, lo sciabordio delle
onde che si infrangevano sulla costa.
Non era più in
grado di controllarlo a suo piacimento, non lo sentiva più adattarsi ai suoi
stati d’animo, perlomeno non da quando aveva ceduto i suoi poteri ad un
mortale. Qualcuno in cui aveva riposto tutte le sue speranze, qualcuno che ancora
non era venuto a salvarlo.
E in certi istanti
si domandava il perché. Perché gli dèi si ostinassero tanto ad aiutare il
genere umano se quando avevano bisogno non venivano mai ricambiati. Perché
esistessero persone così malvagie da voler rapire gli dèi, loro creatori, e
torturarli.
In verità, la lista
di domande che gli vorticavano in mente era infinita. Erano pensieri confusi,
indistinti, ma Poseidone conosceva se stesso da troppo tempo e troppo bene per
non sapere cosa aveva in testa. Distingueva quelle domande, se le era poste
tutte ogni giorno da quando era stato rapito, una per una. Mai una volta era
riuscito a rispondere.
Cercò di
sgranchirsi le braccia, ma legate com’erano alle sbarre della gabbia era
impossibile. Le ossa gli dolevano, i muscoli tiravano, i tagli bruciavano e le
ustioni lo consumavano.
Era un vero e
proprio strazio. Uno che non sarebbe finito entro poco, ma sarebbe andato
avanti per l’eternità, a meno che qualcuno, il suo Discendente magari, non lo
avesse tirato fuori. Se doveva essere sincero si sentiva un po’ come Prometeo,
che incatenato alla cima del Caucaso attendeva con orrore il ritorno dell’aquila
che avrebbe divorato il suo fegato che, immortale, sarebbe ricresciuto.
Gli dèi spesso
avevano punito gli uomini, ma mai avevano provato sulla loro pelle la durezza
di quei castighi. E forse era per quel motivo che Poseidone sapeva di aver
superato la sua soglia di sopportazione del dolore. Non avrebbe retto per molto
tempo ancora.
In quel momento il
pavimento della sua prigione scricchiolò, poi, lentamente, cominciò ad aprirsi.
Con un rombo assordante, le fiamme divamparono alte, lambendogli i piedi in una
carezza bruciante. Poseidone tentò di sfuggire al fuoco, rintanandosi sul fondo
della gabbia, ma poi comprese di non aver scampo. Quando il pavimento si fosse
spalancato del tutto lui sarebbe precipitato.
Guardò quel mare di
fuoco con occhi annebbiati, deglutì per farsi coraggio e si lasciò cadere.
Aiutami, Brianna.
Icore:
fluido che si credeva che scorresse nelle vene degli dèi. Le ferite di Hera
sono tagli dorati appunto per questo motivo, perché l’icore è color oro.
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Capitolo 12 *** Capitolo 12 ***
VOLCANO12
Ce l’ho fatta, avete visto?
Sono scomparsa per un po’, ma sono tornata con un nuovo capitolo. E sapete una
cosa? Per l’altro non dovrete attendere molto perché un bel pezzo è già
scritto. Questa volta sarò puntuale, o almeno ci proverò. Scuola permettendo.
E’ sempre colpa sua.
Bene, in questo capitolo si
torna indietro. Poi, se non inverto i capitoli, si ritorna da Zach e ‘Ariadne’.
Godetevi i miei sforzi e
fatemi sapere cosa ne pensate! Leggo sempre le vostre recensioni, anche se non
rispondo.
Ah, e a questo proposito
voglio ringraziare chi ha lasciato un commento allo scorso capitolo, ovvero: AleJackson,
Ahrya, FherEyala, la sposa di Ade, Ailea Elisewin, Dafne
Rheb Ariadne e BeeMe. Ringrazio anche chi ha messo la storia
tra le preferite/ seguite/ ricordate.
Siete fantastici, grazie!
Concludo dicendo un’ultima cosa: questa storia è
frutto della mia fantasia, è stata scritta da me e viene pubblicata solamente
su EFP. Pertanto se la vedete pubblicata da qualche altra parte, avvisatemi e
prenderò i giusti provvedimenti.
Al prossimi aggiornamento!
Baci,
Aelle
Volcano
Capitolo 12
Benché fosse solo un’ombra sbiadita,
l’uomo la osservava dormire beata, una gamba stesa e l’altra piegata e le
braccia strette attorno al cuscino. Aveva la bocca leggermente aperta e il
respiro che ne usciva era lieve e frammentato, a dimostrazione di quanto fosse
innaturale trovarla già assopita alle cinque di pomeriggio. E se prima il sole
brillava, ora era scomparso, nascosto da una coltre fitta e impenetrabile di
nuvole temporalesche.
Si avvicinò lentamente e alzò una mano
spettrale, sfiorandole i lunghi capelli biondi con la punta delle dita. Non
fece in tempo ad accarezzare quelle splendide onde e a godere della loro
morbidezza, che un alone dorato si levò a proteggere quel corpo flessuoso. Ma
l’uomo non ne fu sorpreso. Anzi, sorrise. Aveva ipotizzato che la sua presenza
potesse suscitare una reazione simile, e a quanto pareva non aveva sbagliato.
-Non voglio farti del male, Apollo.-
bisbigliò chinandosi all’altezza dell’orecchio della ragazza. –Voglio
aiutarti.-
Il bagliore si affievolì, ma non si
dissolse. A quella vista, il piccolo sorriso dell’uomo si allargò. Fu una mossa
saggia, quella di Apollo, perché ancora una volta andò a dimostrare la sua intelligenza.
Ma nonostante la barriera lui doveva
tentare. Premette il palmo contro il fianco della ragazza e scosse elettriche
lo investirono, correndogli lungo tutto il braccio, su fino alla spalla.
Strinse i denti e chiuse gli occhi, tentando di accedere al corpo dormiente
della Discendente. Una volta trovato l’ingresso, si attaccò a quello spiraglio
e costrinse l’anima della ragazza ad abbandonare il corpo, a condensarsi in una
figura spettrale molto simile alla propria.
Con un sussulto lei mugolò, ma non si
svegliò. Solo la sua presenza bastava a tenerla ancorata al mondo dei sogni.
Non sarebbe riuscita a destarsi nemmeno se lo avesse voluto. In verità,
nessuno, escluso lui, avrebbe potuto farlo.
L’uomo guardò il fantasma e sospirò.
Quello era l’unico modo in cui poteva parlarle in quanto dio dei sogni. Sempre
che lei sapesse il suo nome, che lo riconoscesse e non lo cacciasse via. Era
passato molto tempo dall’ultima volta che aveva fatto visita ad Apollo e molto
probabilmente la sua Discendente non aveva in sé il ricordo di quell’incontro.
Lei sollevò lentamente le palpebre,
osservandolo con quegli occhi scuri così tanto simili a quelli del dio del
sole. La sua voce lo raggiunse soffocata, ma lui riuscì lo stesso a udirla.
–Morfeo … -
Il suo sguardo smarrito gli confermò
le sue ipotesi. La ragazza aveva pronunciato il suo nome con molta indecisione,
spinta certamente da delle memorie che non riconosceva come sue. Il dubbio era
evidente, ma lei mantenne alta la guardia. La schiena rigida e i muscoli contratti
ne erano la prova.
Il dio del sonno sorrise. –Apollo-
-Phoebe- lo corresse subito lei. –Mi
chiamo Phoebe. Non Apollo.-
La sua fermezza lo fece ridere. Forse
che ancora non avesse compreso di essere solamente una pedina nelle mani di
Apollo? Era così semplice da capire. Il dio del sole non era buono, ma del
resto nessuno degli Olimpi lo era, né mai lo sarebbe stato. La natura
misericordiosa che i mortali attribuivano loro era solo una maschera.
-Come desideri, Phoebe- si ritrovò ad
accontentarla.
Scese il silenzio. Rimasero a fissarsi
a vicenda, lui calmo, lei visibilmente agitata. Muoveva gli occhi da una parte
all’altra della stanza, come se stesse cercando una via d’uscita, ma non lo
perdeva mai di vista, tanto che Morfeo ne fu impressionato. Sapeva che nessuno
dei Discendenti era stato allenato a fronteggiare né una guerra armata né una
psicologica, ma quella ragazza pareva molto determinata, difficile a
sorprendersi e combattiva a modo suo. Sorrise, incurvando a malapena un angolo
della bocca: Apollo sceglieva sempre bene, soprattutto quando si trattava di
donne.
-A cosa … per quale motivo ti trovi
qui, Morfeo?- chiese infine.
Il dio si fece serio, aggrottò le
sopracciglia e fissò un punto indefinito davanti a sé prima di riuscire a
parlare. La domanda gli riecheggiò nella mente in una eco continua, fastidiosa
e impossibile da ignorare troppo a lungo. Cercò una risposta, ma fu una ricerca
vana. Non sapeva perché si fosse recato in quel luogo vantandosi di voler
aiutare la Discendenza di un dio maggiore. Era stato guidato dall’istinto, che
lo aveva tormentato finché non era stato costretto ad ascoltarlo.
-… Dovevo avvertirti, Phoebe- rispose.
–So cosa ti ha detto quella strega di Ecate e, per quanto io odi ammetterlo, ha
ragione. Il potere di Apollo ti causerà molte sofferenze e senza un aiuto
valido che dividerà quel peso con te morirai prima di aver compiuto il tuo
destino.-
Lo sguardo smarrito della ragazza si
fece duro a quelle parole, ma quando parlò lo fece con assoluta calma. –Io non
so cosa devo fare. Se devo trovare qualcuno che mi aiuti qualcuno mi deve dire
dove cercare. Dove trovo delle risposte?- domandò stringendo i pugni. –Ho
incontrato due dei in meno di una settimana, ho affrontato un drago scoprendo
di avere dei poteri soprannaturali, i miei problemi si stanno moltiplicando a
vista d’occhio e delle soluzioni che mi piacerebbe tanto trovare nemmeno
l’ombra.-
E in quel momento accadde
l’impensabile. In un angolo della sua stanza le ombre si concentrarono in un
unico punto, come risucchiate da un vortice invisibile a cui non potevano
resistere. Si ammucchiarono, si amalgamarono nell’oscurità più buia e
spaventosa che avesse mai visto. Era così densa che Phoebe ebbe l’impressione
di poterla stringere tra le mani. Poi le ombre si separarono di nuovo e si
alzarono fino a che non formarono una figura alta e flessuosa, indubbiamente
femminile, che Phoebe sapeva di avere già visto. Pian piano si diradarono,
ritirandosi dentro il corpo che si era appena materializzato.
-Come mai così sorpresa di vedermi,
piccola impudente?- cinguettò Ecate. Si mosse sinuosa, il volto che cambiava:
da giovane a matura, da matura a vecchia, da vecchia di nuovo a giovane. Era
esattamente come Phoebe se la ricordava, bellissima e terrificante allo stesso
tempo.
Morfeo chinò la testa e si lasciò
sfuggire un sospiro di esasperazione. –Che cosa ci fai qui, Ecate? Mostrarsi da
soli è pericoloso, in due ancora di più. Lo sai bene!- nella sua voce si poteva
udire bene il rimprovero.
Lei sbuffò, un sorriso impertinente ad incurvarle
le labbra carnose. -Correrò il rischio, Morfeo.-
Il dio del sonno digrignò i denti. -Non ho
intenzione di farmi catturare, di rinunciare alla mia immortalità, di essere ucciso, solo perché tu sei disposta a
correre il rischio!- quasi strillò.
Ecate scoppiò a ridere, poi gli si avvicinò e gli
prese il mento tra due dita, obbligandolo a fissarla negli occhi ipnotici.
-Come sei simpatico, caro Sonno. Dove avevi nascosto tutta questa allegria
negli ultimi secoli, eh? Me la stavi forse tenendo nascosta? Molto crudele da
parte tua-
-Non sto scherzando, strega. Uno di noi deve
andarsene, altrimenti saranno guai. E non ho intenzione di essere io- sibilò.
-Vattene prima che loro ci trovino.-
Lei scosse la testa. -Oh, no. Non ci penso
neppure.-
-Vuoi mettere in pericolo ... -
-Non l'ho mai detto. L'ho fatto, forse?- domandò
Ecate a Phoebe, finora rimasta in disparte a guardarli.
Presa in contropiede, la ragazza sussultò e non
rispose. Fissò la dea, smarrita, e quella distolse subito la sua attenzione da
lei, tornando a concentrarsi su Morfeo, che ancora ribolliva di rabbia.
Si studiarono a vicenda finché il dio del sonno
non perse la pazienza, alzandosi di scatto e liberandosi così dalla presa della
donna. Emise un grido a mezza voce e scomparve dalla stanza con uno schiocco.
Di lui non rimase nessuna traccia, se non una strana sensazione, quella di
quando ci sveglia la mattina con il sorriso sulle labbra dopo un sogno
bellissimo.
Ma la felicità non contagiò per nulla Phoebe, che
venne invece assalita dalla paura perché improvvisamente venne ritrascinata nel
suo corpo. Delle braccia invisibili le circondarono la vita e la tirarono verso
la se stessa dormiente stesa sul letto, costringendola a trattenere il fiato
come se si fosse trovata sott'acqua. Quando i polmoni parvero sul punto di
scoppiarle nel petto e gli occhi iniziarono a bruciarle, tutto era finito e lei
fu libera.
Con un sussulto e un respiro profondo si sollevò
a sedere sul letto, affannata come se avesse corso per chilometri e chilometri
senza mai fare una sosta. La testa le pulsava e il cuore batteva ad un ritmo
così forsennato che Phoebe temette volesse volarle via. Fu solo quando riuscì a
calmarsi che si azzardò a lanciare un'occhiata a Ecate.
La dea ricambiò l'occhiata con un sorriso. -Non
sembra un'esperienza piacevole, eh? Del resto, Morfeo ha separato l'anima dal
tuo corpo. Per un mortale deve essere straziante.- commentò.
-Cosa mi ha fatto?- chiese la ragazza, scioccata.
Gli dèi potevano davvero fare una cosa simile?
-Possiamo- confermò Ecate. -E sì, riesco a
leggerti la mente. Non sono specializzata in quest’arte, ma lei è stata una grande maestra, molto
paziente.-
-Lei chi?- domandò ancora.
La dea si lasciò andare di nuovo ad una risata.
–Questo lo scoprirai da sola, mia cara. Non posso dirtelo, interferirebbe con i
progetti del fato, che in nessuno modo posso intralciare.-
Phoebe si alzò in piedi e si avvicinò alla strega
quasi con timore. Era ancora scossa dagli ultimi avvenimenti e il sapere che
Ecate era in grado di entrarle nella mente e leggere i suoi pensieri fu niente
a confronto. Fu una rivelazione che andò ad appoggiarsi con delicatezza sulle
mille altre degli ultimi giorni, pesanti come la pietra.
Quando il suo viso fu a poca distanza da quello
della dea, la bionda si inginocchiò. Era qualcosa che sentiva di dover fare da
quando Ecate era svanita dalla casa di Margaret. Aveva il sospetto che tutta
quella sua presunzione le avrebbe fatto del male, prima o poi.
-Hai ragione- disse la donna dai tre volti. -Ma
allo stesso tempo non posso far altro che pensare a quanto tu sia simile ad
Apollo. Era presuntuoso come te, aveva un ego smisurato. Pretendeva di essere
capace di fare tutto meglio degli altri. Non lo sopportavo-
Phoebe osservò Ecate stringere i pugni, nervosa.
-Io sono diversa da Apollo- osò. -Per prima cosa, ho un nome diverso. Seconda
cosa, quei poteri che ancora non so controllare non mi rendono uguale a lui.-
-Sei molto impudente, ma accetterò le tue scuse e
dimenticherò queste tue ultime parole. Tu sei Apollo. Finché non liberete gli
dèi e avrai le capacità che lui ti ha donato, tu sarai Apollo.-
La ragazza inclinò il capo. -Sono una dea?-
-No. Sei completamente mortale- le rispose. -E
questo mi riporta alla questione fondamentale per cui mi trovo qua, la più importante
delle cose di cui abbiamo parlato finora. Ricordi ancora il mio avvertimento?-
Phoebe annuì: Morfeo lo aveva sottolineato poco
prima. -Sì, le mi ha ... –
-So cosa ho detto- la interruppe con un gesto
secco della mano. –Hai capito di che aiuto hai bisogno e perché?-
La ragazza scosse la testa. –Morfeo mi ha detto
che rischio di morire, ma non capisco perché. Per quanto mi sforzi, non trovo
una ragione possibile a tutto ciò che sta succedendo.-
-Perché lo faceva anche lui, Phoebe. Anche se
dio, Apollo utilizzava un mortale, una donna per la precisione, per far
conoscere le sue profezie agli umani che gli chiedevano continui responsi.-
Phoebe sgranò gli occhi. Quella frase le aveva
fatto venire in mente qualcosa, ma la parola le sfuggiva. Ce l’aveva sulla
punta della lingua, ma non riusciva a pronunciarla. Nella testa aveva il caos e
cercare qualcosa era impossibile. Si arrese.
Ecate sospirò. –Hai molta strada da fare,
Discendente. La parola chiave è Delfi, ti dice niente?-
Lei negò ancora.
Allora la dea della magia lo disse. E dentro di
lei qualcosa si mosse.
-Parlo dell’Oracolo di Delfi. Te ne serve uno.-
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Capitolo 13 *** Capitolo 13 ***
Com’è che mi sembra di ripetermi sempre? La scuola, poi la scuola guida mi hanno tenuta impegnata e mi sa che sarà così fino alla fine di giugno. Mi dispiace tanto, non tiratemi pomodori addosso!
Un piccolo chiarimento. Se i comportamenti di Zach vi sembrano anormali, state tranquilli. Va tutto bene. Ci sono dei momenti in cui Zach è se stesso e altri in cui non lo è. Un po’ come è accaduto con Phoebe, ricordate?
Devo ringraziare le persone che ancora mi seguono e quelle che hanno recensito lo scorso capitolo. Tornate in tanti a recensire come era con i primi capitoli? *ride*
Comunque, un grazie enorme va a: Ailea Elisewin, AleJackson, Dafne Rheb Ariadne, la sposa di Ade, FherEyala e Ryo13. Ah, di alcune di queste persone devo recuperare i capitoli da leggere e da recensire. Non mi sono dimenticata, passo presto, prometto? Amo ancora le vostre storie e non ho intenzione di abbandonarle, sappiatelo!
Concludo dicendo un’ultima cosa: questa storia è frutto della mia fantasia, è stata scritta da me e viene pubblicata solamente su EFP. Pertanto se la vedete pubblicata da qualche altra parte, avvisatemi e prenderò i giusti provvedimenti. Al prossimo aggiornamento! Spero presto!
Baci,
Aelle
Volcano
Capitolo 13
-Dioniso- sibilò ancora lei, accartocciando le labbra in un ghigno poco rassicurante.
Lentamente si alzò, avvicinandosi finché non riuscì a toccarlo. Gli appoggiò il palmo aperto sul petto, conficcandogli le unghie nella carne. Con l’altra mano gli sfiorò i capelli, facendoseli scivolare tra le dita delicatamente, come se stesse maneggiando qualcosa di estremamente pregiato.
Ridacchiò. –Sei proprio bello, Dioniso- sussurrò.
A quelle parole Zach si riscosse e fece un passo indietro, sottraendosi alla presa sudicia del mostro che aveva di fronte. Perché ormai ne era certo: quella non era Ariadne.
Deglutì. –Che cosa sei?-
Lei sorrise. –Ma come? Sono Ariadne. Non mi riconosci, tesoro?-
-No … non è vero … - bisbigliò, quasi per convincersi di quel fatto. –Chi sei?-
-Sono la tua Arianna, Dioniso. Perché non lo capisci?- mormorò il mostro, lacrime finte a rigare le guance.
-Io non so chi sia questo Dioniso!- esplose lui e un bagliore violaceo gli illuminò lo sguardo. –Smettila di chiamarmi così!-
Per un attimo lei parve ferita, poi scoppiò a ridere e si leccò le labbra, compiaciuta. Fece un passo avanti. –E così non conosci la tua vera identità, eh?- inclinò la testa da un lato. –Magnifico.-
-Cosa stai dicendo?-
-Nulla, tesoro. Nulla.- mormorò con voce dolce. –Nulla di cui tu debba preoccuparti … perché tra poco morirai!-
Si lanciò contro di lui e Zach evitò il suo attacco per un soffio. Si tirò via dalla traiettoria delle sue unghie giusto un secondo prima che si conficcassero nel muro, producendo un rumore stridulo che ricalcò lo strillo irritato che le uscì dalle labbra quando si accorse di essere bloccata.
Zach voleva andarsene. Sentiva il suo cuore battere veloce, come se anche lui desiderasse fuggire. A malapena riusciva a soffocare quell’istinto. Sapeva, però, di non poterlo fare. Il suo non era un comportamento da eroe, da cavaliere che vuole salvare la sua dama, ma semplicemente senso del dovere. Un dovere che gli era sconosciuto, ma che se avesse ignorato lo avrebbe tormentato. Già in quel momento lo percepiva rodergli lo stomaco, pezzettino per pezzettino, finché un conato di vomito non lo travolse. Non riuscì a frenare l’impulso e rigettò, piegandosi sulle ginocchia con un gemito.
-Ti ammazzerò, Dioniso!- strillava il mostro, che ancora tentava di staccare gli artigli dal muro. –Fosse l’ultima cosa che faccio, ti ammazzerò!-
Zach si appiattì contro la parete opposta, il respiro pesante e un sapore amaro in bocca. Era completamente sudato, sia per la paura sia per il malessere che ancora non lo aveva abbandonato.
Si guardò intorno, in cerca di qualcosa che potesse utilizzare come arma. Un momento. Arma? Per colpire Ariadne? Con che coraggio poteva fare del male alla sua ragazza?
Non è Ariadne. Non è Ariadne.
E una voce dentro di lui gli fece eco: Non è Arianna. Non è Arianna. E poi: Tira fuori quel coso da lei! Tiralo fuori!
-Come diavolo faccio?!- sbottò, ma non ricevette alcuna riposta. Per forza, era da solo. E, a quanto pareva, abbastanza pazzo da immaginarsi che degli spiriti gli parlassero.
-Come farò ad ucciderti, mi chiedi?- disse l’orrida creatura biforcuta, fraintendendo la sua domanda. –Ancora non lo so, piccolo dio. Seguirò l’istinto. Finora non mi ha mai tradito.-
Con un ultimo sforzo accompagnato da un grugnito, la finta Ariadne staccò gli artigli dal muro e senza nemmeno prendere fiato gli si scagliò addosso. E questa volta Zach non riuscì a schivare il colpo in tempo: uno squarcio sanguinante gli si aprì sul braccio. Gridò e si coprì la ferita con una mano, facendo oscillare lo sguardo tra il mostro e la porta.
-Non vorrai fuggire, vero?- lo derise quello. –Oh, ma certo che fuggirai. Dioniso non è mai stato un dio coraggioso.-
La rabbia si affiancò al dolore, quasi sovrastandolo. Lo avvolse e quasi lo soffocò. E Zach semplicemente esplose.
-Chi cazzo sei tu per dirmi che non ho il fegato per affrontarti, eh?- gridò, avvicinandosi al mostro. –Chi cazzo sei?-
Prese per il collo quella creatura e strinse. Il sangue aveva reso viscide le sue mani, che scivolavano sulla pelle squamata dell’essere. Ma quello non parve affatto intimidito dalle sue parole astiose. Anzi, scoppiò a ridere. –Alzi le mani su una donna, Dioniso? Non ti facevo così irrispettoso.- gracchiò.
-Non vedo nessuna donna, qui.-
E ignorando il dolore pulsante al braccio sollevò il mostro da terra e con una forza che non sapeva di possedere lo gettò dall’altro capo della stanza, godendo nel sentirlo sbattere violentemente contro il pavimento.
Rimase lì, ansimante, ad osservare quello che aveva appena fatto. Perché l’aveva fatto, poi? Lui non era mai stato così violento … lui aveva semplicemente seguito l’istinto. Quell’azione era qualcosa che gli era venuta da dentro e non era stato in grado di frenare l’impulso che l’aveva condotto a compierla.
Poi il mostro si alzò e Zach comprese, nel profondo della sua anima, che se avesse continuato a maltrattare quella bestia sudicia non avrebbe fatto altro che danneggiare il corpo di Ariadne. Sarebbe morta se lui fosse andato avanti a colpire? La risposta era sì. Non conosceva il motivo per cui lo sapeva, ma era certo, ormai, di non essere più così pazzo come pensava. Forse la voce che aveva udito non era solo frutto della sua immaginazione. Forse l’aveva sentita veramente. E forse avrebbe fatto meglio a seguire il consiglio che gli era stato dato.
Ma come? Come tirare fuori l’essere che aveva posseduto Ariadne? Perché, sì, Ariadne doveva essere vittima di una possessione.
Nel momento stesso in cui si pose quella domanda, qualcosa scattò: un ingranaggio polveroso e dimenticato da tempo riprese a funzionare.
-Guardami- gli ordinò. La sua voce era più profonda, più maschile, e produceva una strana eco. Era un suono ammaliante e il mostro girò la testa di scatto, tentando in tutti i modi di non incontrare gli occhi di Zach.
-Guardami, ho detto.- ripeté.
La creatura grugnì, artigliando il pavimento con le lunghe unghie. Teneva gli occhi chiusi, serrati. –Non cederò alla tua malia. Io … non … cederò … - disse sottovoce, più per convincere se stesso che per vera risposta.
Zach si avvicinò di qualche passo e si inginocchiò di fronte alla bestia. Sembrava non provasse alcuna paura nello stargli così vicino. –Sì, cederai. Guardami!- urlò.
L’ordine rimbombò contro le pareti della piccola camera e per il mostro non vi fu più scampo. Si girò a fissarlo, come imbambolato, e tolse le mani che precedentemente aveva portato in alto a coprire le orecchie. Emise un piccolo sospiro tremolante e attese con sguardo offuscato che Zach dicesse qualcosa.
-Esci.- comandò il ragazzo. –Esci dal corpo di Ariadne, abominio!-
Si udì un risucchio. La pelle della ragazza cominciò a tremare e un’ombra si sollevò alle sue spalle, ingrandendosi sempre di più ogni minuto che passava, fino ad assumere i contorni di un essere umano. Quando la figura rimase attaccata solo per pochi filamenti scuri, Ariadne, quella vera, si ribellò alla possessione, dimenandosi finché ad uno ad uno quei fili non si staccarono con uno schiocco simile a quello di una frusta.
Fu un momento: Ariadne lo guardò, smarrita, poi scivolò all’indietro, le palpebre che si chiudevano, svenuta. Zach tese in avanti le braccia, tentando di prenderla prima che sbattesse la testa. Riuscì a sfiorarle solo i capelli e, mentre il colpo riecheggiava nella sua mente, lui imprecò. Le si avvicinò strisciando, poco attento a ciò che gli accadeva intorno. La accolse tra le braccia e la strinse contro il petto sudato, accarezzandole dolcemente il viso pallido e provato.
-Dioniso … - sibilò una voce roca alle sue spalle.
Fece appena in tempo a girarsi e a coprire il corpo di Ariadne con il suo, che una mano artigliata gli graffiò il viso. Percepì subito il sangue: colava dall’attaccatura dei capelli e scivolava giù, fino a precipitare nel vuoto oltre il mento. Si ritrovò a sbattere le palpebre più volte per cercare di schiarirsi la vista offuscata.
Tirò su col naso. Cosa c’era davanti a lui? Una … sagoma. Sì. Una sagoma di fumo nero. Ribolliva, si contorceva e non aveva contorni definiti, ma era incredibilmente reale. Una mano umana, maschile, fornita di lunghe unghie, spuntava dalla scura foschia. Nient’altro si scorgeva, se non due cavità profonde come pozzi al posto degli occhi e un foro a sostituire la bocca.
La mano lo afferrò per il collo, sollevandolo senza sforzo all’altezza di quegli spaventosi buchi neri.
-E’ stato divertente all’inizio- alitò il mostro a pochi centimetri dal suo volto. –A proposito, grazie per avermi liberato. Quel corpo cominciava a starmi stretto.-
-Lasciami andare!- tossì Zach.
La figura di fumo rise: un suono orribile, simile al verso di mille corvi. –Hai troppe pretese, Dioniso. Inizio a stancarmi. Ti ucciderò velocemente, così le tue chiacchiere smetteranno di tormentarmi.-
La presa intorno al suo collo si strinse. Zach provò a divincolarsi, tentò di lanciare un urlo, ma non ottenne nulla se non un gorgoglio inudibile.
-Addio, piccolo dio- sorrise.
In quell’esatto istante un rumore di tacchi si intromise nel quadro di morte. Era un ticchettio veloce e nel silenzio risaltava come uno squillo di tromba in un giorno di festa.
-A .. aiuto! Aiutatemi!- riprovò ad urlare Zach.
Il mostro lo lasciò andare e il ragazzo cadde a terra di schiena. Il dolore lo avvolse simile ad una ragnatela, ma lui provò lo stesso ad allontanarsi dalle grinfie di quella cosa.
-Non finisce qui, stanne certo- lo minacciò un attimo prima di aprire la finestra e gettarsi di sotto. Al suo atterraggio seguirono urla e strilli, segno che il mostro era reale, che non era solo lui a vederlo.
Zach si trascinò fino ad Ariadne. Sentiva le palpebre pesanti, la testa gli scoppiava, ogni muscolo gli faceva un male assurdo, per non parlare poi delle ferite che pizzicavano.
La camera della stanza venne spalancata e un paio di scarpe bianche col tacco basso entrarono nel suo campo visivo. Si avvicinarono velocemente, quindi un viso giovane lo scrutò con attenzione. Ricambiò con fatica.
Rossi. Occhi rossi.
Zach utilizzò le ultime forze che gli rimanevano per portare lui e Ariadne il più lontano possibile. Ma non fece molta strada. Una mano lo frenò gentilmente.
-Shh, va tutto bene. Sono un’infermiera.- lo rassicurò una voce dolce.
Zach non trovò la forza di annuire. Era troppo stanco. Mentre cedeva al sonno, l’ultima cosa che vide fu la targhetta appuntata sul seno dell’infermiera.
C’era scritto un nome … un nome che iniziava con la C.
Cassandra.
Quest' opera è distribuita con licenza Creative Commons Attribuzione 3.0 Unported. |
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Capitolo 14 *** Capitolo 14 ***
Buongiorno! C’è nessuno? C’è ancora qualcuno che mi segue?
Mi dispiace, e questa volta sono serissima. Faccio veramente fatica a scrivere negli ultimi tempi. Devo avere un blocco o qualcosa, perché per mettere insieme un capitolo sta diventando un’impresa titanica. Spero sia una situazione passeggera, perché se non piace a voi, non piace nemmeno a me.
Ho postato oggi, tagliando in due un capitolo, perché domani parto e non volevo lasciarvi senza ancora per tanto tempo. Visto che vi voglio bene? Per favore, non abbandonatemi.
Sono di fretta, quindi passo subito a ringraziarvi. Grazie a chi ha recensito lo scorso capitolo: thunders_lightnings, AleJackson, Dafne Rheb Ariadne, FherEyala, Ailea Elisewin, La sposa di Ade e Ryo13. Grazie a chi ha messo la storia tra le preferite/ seguite/ ricordate. Siete fantastici!
Concludo dicendo un’ultima cosa: questa storia è frutto della mia fantasia, è stata scritta da me e viene pubblicata solamente su EFP. Pertanto se la vedete pubblicata da qualche altra parte, avvisatemi e prenderò i giusti provvedimenti. Al prossimo aggiornamento! Spero presto!
Baci,
Aelle
Volcano
Capitolo 14
Fu il ticchettio di un orologio a destarlo dall’incoscienza. Era un rumore di sottofondo, l’unico, oltre al suo respiro, che riusciva a udire. La sua ripetitività lo calmava, gli rendeva facile credere di essere un adolescente normale, e non un ragazzo che, vittima di pesanti allucinazioni, si immaginava di essere attaccato da mostri altrimenti inesistenti.
Provò a muoversi, ma un dolore lancinante gli attraversò la spalla, impedendogli di fare qualsiasi cosa che non fosse stare sdraiato. Così rimase disteso in quel letto che non conosceva, il fiato grosso e un’unica domanda a ronzargli in testa. Cosa diavolo era successo?
Aprì gli occhi, richiudendoli all’istante. La luce era troppo intensa perché potesse sopportarla. Decise, allora, di sollevare le palpebre un poco per volta, in modo tale da potersi abituare. Non fu semplice, ma alla fine vinse la sua lotta contro il sole, il volto rigato da alcune lacrime. E giacque lì, immobile, guardandosi intorno con curiosità.
Era in una stanza completamente bianca. Una camera d’ospedale, senza dubbio. Perché si trovasse lì, però, ancora non riusciva a capirlo. Era troppo poco lucido per potersi ricordare le cose con sicurezza.
Era come se nella sua testa ci fosse uno strato fitto di nebbia. Vedeva sprazzi confusi di avvenimenti, ma altro non scorgeva. Magari entro qualche ora la nebbia sarebbe scomparsa e lui sarebbe stato in grado di capire ogni cosa. Forse, invece, non si sarebbe mai spostata. Perché, per quanto ne sapeva lui, poteva essere accaduto di tutto.
Un incidente d’auto pareva la soluzione più probabile. Eppure Zach conosceva troppo bene i suoi difetti per poter eliminare quell’opzione. In fondo, bere tanto era un vizio che mai era stato capace di eliminare. Molto probabilmente si era spinto troppo oltre i suoi limiti e si era ridotto in quel modo prima di accorgersene e poter smettere. Neanche le allucinazioni sembravano così improbabili se si accostava a quell’idea. I mostri nella sua mente non erano più tanto strani, ma solo un effetto della sua stoltezza.
Non ci mise molto a darsi dell’idiota. Anzi, si insultò con le parole peggiori che la sua mente fu in grado di elaborare. Doveva cambiare, si disse. Non solo per lui, ma anche e soprattutto per Ariadne. Per quanto tempo ancora lo avrebbe sopportato se fosse andato avanti a comportarsi in quel modo? Molto poco, si rispose. Ariadne era troppo buona per lui.
La porta si aprì con un cigolio quasi sinistro, che lo strappò bruscamente dai propri pensieri. La figura che si stagliò sulla soglia lo allarmò e Zach si ritrovò a pregare, a sperare con tutto il cuore, che non fosse uno di quei mostri che infestavano i suoi incubi.
Era invece una donna. O meglio, una ragazza. Gracile, non altissima, tanto che pareva sul punto di doversi spezzare da un momento all’altro. Eppure, il suo sguardo era quello di una vecchia, di qualcuno che aveva visto molte cose che la loro malvagità l’avevano fatta maturare troppo velocemente, che l’avevano costretta ad abbandonare la fanciullezza prima che potesse rendersi conto che quel pezzo della sua vita non le sarebbe stato mai più restituito.
La osservò avvicinarsi al suo letto e sistemare alcuni oggetti sul tavolino lì accanto. Medicine, sicuramente. Quindi lei doveva essere un’infermiera. Sì, il camice bianco che indossava non lasciava alcun spazio a dubbi.
Era così presa dal suo lavoro che non si era accorta che lui si fosse svegliato. Allora si schiarì la gola, tentando di attirare la sua attenzione. Ci riuscì. La ragazza si voltò di scatto a guardarlo e rimase a fissarlo per qualche istante prima di rilassarsi e sorridergli.
‘Ti sei svegliato, finalmente’ disse in un cinguettio musicale. ‘Come ti senti?’
Recuperare la voce fu la parte più difficile. Gli servirono molteplici tentativi prima che gli uscisse di bocca qualcosa di più coerente di un rantolo. ‘Mi fa male la spalla. Anche il braccio. E il petto mi prude.’ Rispose, scandendo bene ogni parola. ‘Cosa è successo?’
Lei non perse il sorriso. Forse si affievolì, ma non si spense. ‘E’ normale non ricordarsi. Stai tranquillo.’ Lo rassicurò. ‘Dai tempo al tempo e vedrai che ogni cosa si sistemerà. Sei sveglio, questo è l’importante.’
‘Da quanto … quanto tempo …?’
‘Da quanto sei qui? Diciannove ore’ Rispose.
Cadde un silenzio pesante. Per qualche minuto né lui né la piccola donna dissero nulla, ma rimasero a fissarsi a vicenda. Lui pensieroso, forse spaventato. Lei paziente. Lo osservava con quegli occhi gentili, quasi aspettandosi che Zach si lasciasse andare ad una crisi di panico, ma così non fu. Gli si appannò la vista, ma nient’altro accadde.
‘Nessuno è venuto a farti visita.’ Lo informò con cautela. Era sicura che prima o poi sarebbe scattato qualcosa che lo avrebbe fatto agitare.
Zach sospirò. ‘E nessuno verrà. Sono da solo.’
‘Cosa stai dicendo?’ lo rimbeccò lei. ‘Tutti hanno qualcuno.’
‘Non io. Ariadne mi odierà, per colpa mia ha passato un sacco di guai. Ma, poi, perché glielo sto dicendo?’
‘Sì, giusto. Perché lo stai dicendo a me? In fondo, sono solo un’infermiera che non sa nulla di te, ma che nonostante questo continua a curarti.’ Gli rispose, una punta di sarcasmo ad incendiarle la voce. Con un sorriso divertito premette un dito sulla spalla ferita di Zach, facendolo sobbalzare per il dolore acuto.
‘Mi scusi. Non avrei dovuto trattarla con così poco rispetto.’ Sospirò Zach. ‘E’ che a volte non mi accorgo, sa? Sono fatto così, il mio carattere è un po’ burrascoso.’
L’infermiera scosse piano la testa. ‘Non preoccuparti. Non sei il primo paziente a dirmelo.’ Si lasciò sfuggire una risata leggera. ‘E poi io sono molto impicciona, mi piace sapere le cose. Mi è sempre piaciuto. Fai bene a rimproverarmi!’
‘E’ un’infermiera strana lei, lo sa?’
‘Me l’hanno detto spesso in passato, sì. Ma ai tempi era un insulto.’
Zach rimase spiazzato dalla risposta. Certamente quella che si trovava davanti era donna di spirito, abituata ad andare avanti sebbene la strada fosse piena di ostacoli, di pericoli. Ma che quell’infermiera riuscisse a sopportare il suo temperamento senza esserne soffocata era qualcosa di diverso. Gli teneva testa, lo punzecchiava. Fino a quel momento solo Ariadne ne era stata in grado. Senza accorgersene, arrossì fino alla punta dei capelli.
‘Che c’è? Ti sei fatto silenzioso.’ Gli domandò lei. ‘Ti ripeto che non mi sono offesa. Non ti preoccupare!’
Il ragazzo girò la testa, imbarazzato. ‘Ha ragione, scusi.’
‘Ancora con queste scuse? Guarda che me ne vado, eh!’ lo prese in giro la donna con il camice bianco. ‘Scherzi a parte, Zachary. Non sentirti dispiaciuto per una piccolezza del genere. Ho passato situazioni peggiori negli Asfodeli, quando ero … ’ si ammutolì.
‘Quando era cosa?’ Zach aggrottò la fronte, curioso di sapere. ‘E cosa sono gli Asfodeli?’
Lei parve spiazzata e al tempo stesso spaventata dalla domanda. Le mani iniziarono a tremarle, così come anche le gambe. Cadde in ginocchio in un attimo, gli occhi spalancati e il respiro accelerato. Si dondolò avanti e indietro, mormorando sottovoce quella che poteva essere solo una ninnananna. Pareva che quella semplice e piccola canzone riuscisse ad alleviare le sue pene.
‘Ehi! Ehi, ti senti bene?’ Zach abbandonò il tono formale che fino a quel momento aveva assunto. Ora non c’era altro che paura. ‘Devo chiamare qualcuno, aspetta … ’ allungò a fatica un braccio verso il telecomando di emergenza sopra il suo letto.
‘NO! FERMO!’ gridò l’infermiera, quasi istericamente. Prese un respiro profondo e lo supplicò con gli occhi inondati di lacrime. ‘Per favore, non chiamare nessuno. Va tutto bene … sì, va tutto bene.’
Zach non si lasciò convincere. ‘No, per nulla. Tu stai male e ti serve un dottore, e anche abbastanza in fretta.’ Le sue dita entrarono in contatto con la plastica del telecomando. Gli mancava poco e poi avrebbe raggiunto quel maledetto pulsante rosso.
Lei si alzò, veloce, e gli afferrò il polso con fermezza, trattenendolo anche quando lui cercò di ribellarsi. Fece lentamente scivolare il palmo nel suo e strinse la sua mano, fissandolo con quegli occhi rossi e appannati dalle lacrime che ancora le scivolavano copiose sulle guance. Il suo aspetto distrutto non riuscì, però, ad offuscare la determinazione. C’era una volontà di ferro nel suo sguardo, nel suo corpo. Zach, tramite quel contatto, la percepiva chiaramente. Ma sotto di essa si nascondeva anche qualcosa di più.
Una profonda tristezza.
‘Per favore, non farlo. Io sto bene, è solo che … ’
‘Cosa?’ Zach non riusciva a crederle. Era strano, perché desiderava tanto poterlo fare. Era come se qualcosa glielo impedisse. ‘Come faccio a esserne sicuro? Scusa se te lo dico, ma a me non sembravi per nulla in salute, eh.’
Lei distolse lo sguardo, osservando un punto indefinito sul muro, e per un momento non gli parve più così tanto sicura di sé. Era più fragile, più piccola. Finalmente sembrava avere gli anni che il suo corpo minuto dimostrava. Ma fu un attimo passeggero. Rapida come quando, poco prima, gli aveva bloccato il polso, alzò le loro mani intrecciate e se le posò sul collo bianco, rabbrividendo impercettibilmente. ‘Ecco, ascolta.’
Zach fece per togliere la mano –non gli piaceva per nulla quella vicinanza, era sbagliata- ma l’infermiera gliela riacciuffò, combattendo contro la sua resistenza e premendogli poi due dita poco sotto l’orecchio.
‘Ascolta.’ Gli ripeté.
Dapprima non udì nulla, poi, pian piano un suono ritmico e costante rimbombò contro la pelle delle sue dita. Ci mise un po’ a capire di cosa si trattasse, ma quando infine ci arrivò non poté fare altro che rimanere a bocca aperta. Stava ascoltando il battito del cuore dell’infermiera. Ma la cosa che lo stupì di più fu che il suo battito non era singhiozzante, non era veloce, non era lento. Era fin troppo regolare. Era un suono calmo e tranquillo, rassicurante come poteva esserlo quello della pioggia che sbatteva contro i vetri di una finestra. E tutto era tranne che il battito di una persona malata o distrutta. No, era certamente il battito di qualcuno in piena salute.
La guardò, allarmato. ‘Non è possibile!’
‘Come vedi, Zachary, io sto benissimo.’ Gli sorrise, asciugandosi un’ultima lacrima ribelle dalla guancia.
Il ragazzo provò a ribattere, aprì la bocca, ma poi la richiuse. Non aveva parole per descrivere quello che gli passava per la mente in quell’istante. La sua testa era un uragano di pensieri confusi, e mettere ordine in quel disordine era un’impresa pressoché impossibile. Doveva provarci, però. Perché lui voleva comprendere, voleva sapere la verità.
‘Spiegami.’ La pregò. ‘Non capisco nulla.’
Lei gli si avvicinò, sedendosi accanto a lui sul letto. Gli sorrise, timida, e gli spostò una ciocca di capelli scuri dalla fronte, sussultando quando le loro pelli entrarono in contatto, quasi come se avesse preso la scossa. Zach non la cacciò come avrebbe dovuto fare, anzi si rilassò e attese.
‘Sei sicuro di voler sapere?’ gli chiese. ‘Non potrai più fuggire, dopo.’
Annuì. ‘Sono sicuro. Non voglio essere etichettato come una persona che vede cose inesistenti. Non voglio essere un pazzo.’
‘Oh, ma tu sei pazzo. Solo, non nel modo che credi.’ Gli assicurò con una risata lei. ‘E non guardarmi in quel modo. Lo sai che è la verità.’
Sì, lo sapeva. Zach non riusciva a capacitarsi del come e del perché, ma sapeva di essere un folle. Del resto, non ci si poteva immaginare tutte quelle cose mostruose e pensare che fossero solo menzogne. Un fondo di verità doveva pur esserci.
‘Ma perché sono così?’ le domandò. ‘Quella cosa non poteva essere reale. Era orribile, pareva uscita dall’inferno!’
L’infermiera lo guardò, comprensiva. ‘Non esiste l’inferno, Zachary. Almeno, non quello che conosci tu. C’è il Tartaro, che è qualcosa di molto simile, anche se non totalmente identico.’
Zach deglutì. Ricordava qualcosa. ‘Non … non capisco, davvero. Cos’è il Tartaro? Mi sembra di averlo già sentito da qualche parte. A scuola, forse. Sì, deve essere stato lì.’
‘E’ stato prima, molto prima. Lo conosci perché lui lo conosce.’ Gli spiegò. ‘E non provare a mentire con me, non funziona.’
C’era qualcosa che gli sfuggiva, ne era sicuro. Quella donna era animata dalle più buone intenzioni, ma dava per scontato qualcosa che per lui non lo era affatto. Chi era lui? Non poteva scoprirlo da solo, non ce l’avrebbe fatta. Aveva bisogno di qualcuno che lo aiutasse.
‘Chi? Chi è questo lui?’
‘Dioniso.’ Inclinò da un lato la testa. ‘Pensavo lo sapessi, visto quello che hai fatto.’
‘Dioniso?’ esclamò, incredulo. ‘Il tizio grasso e ubriaco della mitologia greca?’
‘Non ho mai detto che fosse mitologia, Zachary Winehouse.’ Lo riprese lei, con una punta di nervosismo nella voce altrimenti dolce. ‘E non insultare gli dèi, mai.’
Zach scoppiò a ridere. Gli doleva il petto, ma non gli importò. Gli venne naturale ridere, alleviava il peso che si sentiva addosso e che lo opprimeva, schiacciandolo sotto una mole soffocante. E non riusciva a smettere di farlo. Era come uno sfogo. Gli faceva male, ma non poteva farne a meno.
‘Oh, andiamo. Adesso la pazza sei tu!’ disse tra una risata e l’altra, le parole quasi incomprensibili. ‘Non esistono gli dèi!’
Lei gli tolse la mano delicata dalla fronte, dove l’aveva lasciata fino a quel momento. ‘Sì, invece. Devi credermi … ’
‘Se gli dèi esistono sul serio, allora tu cosa sei, una ninfa?’ rise sempre più forte. Davvero, non era assolutamente possibile. Darle retta era stata la scelta peggiore che avesse mai fatto.
La ragazza prese un bel respiro e gli afferrò il mento con una mano, costringendolo a fissarla negli occhi. Zachary doveva ascoltarla, era stufa di non essere creduta. Non voleva più vivere sotto quella maledizione tremenda.
‘No, non sono una ninfa. Sono Cassandra, figlia di Priamo, re di Troia.’ Disse con quanta più convinzione possedesse. ‘E sono morta.’
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