Moments

di _Hikari
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Follia. ***
Capitolo 2: *** Mani. ***
Capitolo 3: *** Convinzione. ***
Capitolo 4: *** Ventotto. ***
Capitolo 5: *** Di sicurezze che si sgretolano come castelli di sabbia al vento. ***
Capitolo 6: *** Di parole portate dal vento. ***
Capitolo 7: *** Di luci fioche e vampate di calore (solo e soltanto a causa della cioccolata, ovvio). ***
Capitolo 8: *** Inalando l’aria di salsedine. ***
Capitolo 9: *** L’eco delle parole non dette. ***



Capitolo 1
*** Follia. ***



Follia.
#01

Lo specchietto retrovisore la riflette bene, l’immagine del signor Gold. 
L’espressione di sempre, pacata. Gli occhi scuri che dicono tutto eppure niente, quelli che non riesce mai a comprendere se non poche volte. Ed adesso lo sceriffo si chiede come, perché sia accaduto. 
Cosa lo ha spinto ad inveire contro quel uomo con tanta disperazione? No, non con disperazione, con follia, si dice Emma. Con pura follia. 
Ma per chi? Cosa c’è di così tanto importante da… scatenare una tale furia? 
Svolta l’angolo: sono quasi arrivati alla stazione di polizia. 
Per puro caso, adoperando la coda dell’occhio, nota le mani ammanettate di Gold posate sul suo grembo. Adesso che non stringe più il solito bastone paiono così sole, un po’ come lo sembra lui, e la donna prova un istintivo desiderio di accarezzargliele, di posarvi le proprie.
No. Cosa va a pensare? Che ne sa? Dovrebbe provare ribrezzo, al massimo timore invece di... scuote il capo in modo impercettibile, almeno spera. 
È colpa dell’ora tarda se le vengono questi pensieri, afferma. Assolutamente e soltanto colpa dell’ora.


Note: è la prima volta che tento una mini fashfic su una serie TV e quindi in questo fandom. 
In genere non scrivo missing moments ma questa volta non potevo fare altrimenti. Il tutto è ambientato – se memoria non mi inganna – durante l’episodio 1x12 in cui il signor Gold viene rapinato e di conseguenza accade ciò che accade, e così ho provato ad immaginare i pensieri di Emma durante il viaggio in auto fino alla stazione di polizia. 
Spero di essere riuscita a rendere tutto per il meglio mantenendo i personaggi IC, o IC più che altro Emma, anche perché non mi sento del tutto“sicura” nel caratterizzare questa coppia. 
Non penso di aver altro da aggiungere per cui vi invito a recensire. ^^ 
Un abbraccio, Dream.

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Capitolo 2
*** Mani. ***


Mani.
#02

Aveva sentito un tuffo al cuore, lo stomaco che si contorceva mentre l’agente lo guardava, in attesa.
Reggendosi per non cadere lasciò il bastone, la voce di Emma ancora in testa.
“Non permetterò che accada.”
E se invece fosse successo?
Prima Bae, poi Belle – un’altra volta –, ed infine se stesso.
Poteva sentire gli occhi della Swan puntati su di sé mentre si toglieva la sciarpa, come se si stesse preparando a fare un salto per raggiungere l’altra sponda di un fiume. Ma aveva sognato troppe volte le iridi del figlio nel momento in cui era scomparso per non farlo.
Oltrepassò il metal detector.
Il chiacchiericcio intorno sembrava irreale, lo stordiva, o forse era solo la paura.
Poi le mani della donna gli appoggiarono l’indumento sulle spalle, come ad afferrarlo per impedirgli di precipitare.


Grazie a A n o n y m o u s Rei per averla gentilmente betata. ^^
Note: ma sì, alla fine ho deciso di farne una piccola raccolta con queste due flashfic.
Be’, ovviamente non è detto che non ne aggiunga altre in seguito ma… per adesso sono accorto di idee, per cui non penso.
Stavolta credo proprio di essere finita in OOC. Ditemi voi se non è così.
Però non so che farci: l’ho scritta tempo fa ed è venuta così.
L’ambientazione, come avrete già compreso è quella della 2x13 e... niente.
Grazie di aver letto, vi invito a recensire.
Credits: “Non permetterò che accada” è una fedele (almeno spero) citazione, appunto, di quella puntata.

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Capitolo 3
*** Convinzione. ***



Convinzione.
#03

Si appoggiò allo schienale della poltrona, lasciando il proprio sguardo scorrere sui muscoli contratti di Gold; soffermandosi sugli occhi scuri e vitrei di pensieri, fissi in avanti.
Ogni volta che osservava quei globi, indugiando sulle iridi, non poteva fare a meno di chiedersi chi le ricordassero in modo tanto molesto.
“Al diavolo” si ripeté, ancora una volta.
Il chiacchiericcio intorno a loro si era fatto distante, mentre notava la mano dell’uomo stringere il bracciolo della poltrona.
Poteva quasi avvertire il nervosismo che gli cresceva nel petto, quasi stesse pulsando come il sangue vermiglio nelle sue vene.
Il ricordo di Henry che entrava dalla porta della sua casa a Boston si rifece vivo. Si rifece vivo il tuffo al cuore, la negazione e l’accettazione che si erano susseguite dopo che lui le aveva rivelato di essere suo figlio.
Ma lui sapeva, sapeva perché lei l’aveva lasciato, abbandonato. Si morse l’interno della bocca: quella parola bruciava ancora.
Non conosceva il perché, invece, l’avesse fatto Gold, non sapeva nemmeno se l’avesse fatto, né cosa fosse accaduto eppure, non poteva negarlo, comprendeva ciò che si portava dentro; le conseguenze di una tale scelta, sempre se di scelta si trattava.
Era certa della natura dei pensieri che lo stavano tormentando. Com’era certa di come ci si sentisse ad essere esclusi, essere lontani dalla vita della persona che non potremo mai dimenticare. Che non vogliamo dimenticare: la scena del metal detector le si presentava ancora chiara e limpida nella mente.
Era una guerra interna fatta di perché e come, speranze e delusioni che lei non aveva dovuto affrontare. E, Dio, avrebbe acconsentito anche a giurare che fosse più semplice affrontare un drago che sopravvivere a una tale battaglia.
Poteva sentire le ultime istruzioni delle hostess prima del decollo senza realmente comprenderle; era troppo concentrata su quella figura che aveva accanto. La solita compostezza, il sorriso, i modi pacati avevano lasciato totalmente spazio alla fragilità che stava vivendo Gold in quel momento. Fragilità… Cielo, era l’ultima parola che Emma pensava di riuscire ad associare a quell’uomo dopo tutto ciò che avevano trascorso.
“Oh, al diavolo”
«Non si preoccupi» iniziò, conscia di quanto fosse sciocca quella specie di introduzione, «ritroveremo suo figlio» disse scambiando uno sguardo con Gold.
E, se era stata sicura del fatto che non avrebbe permesso che si dimenticasse del figlio quella volta, adesso ne era più che convinta.
Avvertiva quella sicurezza arderle nel petto. In fondo, quello di trovare le persone, era il suo lavoro.


Note: sì, l’ambientazione è ancora quella della puntata 2x13, prometto che è l’ultima flash che pubblico su quel “periodo” – ma non vi fidate, alcune volte la mia mente gioca brutti scherzi anche alla sua proprietaria.
Spero di non avervi annoiati q.q anche perché di questa flash non mi convince. Be’, in verità tutto ciò che scrivo ultimamente non mi convince. xD come al solito vi invito a lasciarmi una recensione. Sì, oggi sono abbastanza breve con note.
Alla prossima, Dream.

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Capitolo 4
*** Ventotto. ***


Ventotto.
#04

È fastidioso come ancora adesso, a distanza di centinaia d’anni, la stanza inizi a sbiadire, simile ad un disegno immerso nell’acqua, mentre altre immagini affiorano nella sua mente, facendogli perdere il controllo.
Fa schioccare la lingua, insoddisfatto.
C’è solo una finestra ed una città; strana, diversa.
Sbuffa: non succede niente. Sta per scuotere il capo, ripetersi che non è reale e tornare al presente, quando la figura di una donna richiama la sua attenzione.
Ha un’espressione amara sul bel volto, un vestito fucsia scuro ed una torta poggiata su un tavolo; gli occhi sono di chi è solo. Spenti, malinconici, ravvivati solo dalla speranza che comporta l’ignoto.
L’ignoto del destino, l’ignoto di cui si è privato.
Poi scompare, lasciando unicamente una mera scritta: ventotto.
Non può vedere il proprio viso ma sa, sa che sta sorridendo; avverte i muscoli contratti in quella flessione di labbra.
Il sorriso di chi può vantarsi di possedere la conoscenza.
E sa, sa anche che ventotto non è solo un numero; ventotto è tempo, è attesa. Attesa di lei. Attesa che qualcosa cambi, che la prigione di potere e gloria in cui si è rinchiuso venga distrutta, frantumata.
«Emma». I pezzi del puzzle sono scomparsi, ma non importa.
«Chi è?» la voce di Cora arriva distante, curiosa.
Rumpelstiltskin attende per qualche attimo, assaporando quella sensazione d’orgoglio che lo pervade. Ha intuito.
Indugia per qualche attimo sulle iridi della donna, la risposta sulla punta della lingua; poi nota quella smania, quel bagliore che ha già visto, che osserva ogni giorno, che cerca di evitare ogni giorno.
«Nessuno di importante, cara» dice lasciandosi sfuggire la solita risatina stridula.
“Solo la mia libertà”.

Note: mi ero detta che dovevo aggiornare oggi, ed aggiorno oggi.
Non è esattamente un momento in cui sono presenti entrambi, ma avevo voglia di descrivere una “visione” di Emma che, poi, non è altro che una mia ipotesi.
Non sono certa del fatto che fra la vicenda di Milah e Cora ci siano cento anni di differenza, ma penso che sia plausibile perché, in questo periodo, dati i suoi poteri da Signore Oscuro, penso che Rumple sia ormai in grado di controllare il suo “essere veggente” ed – in ogni caso – presumo che la concezione temporale sia diversa.
Non ho altro da dire: spero solo che la flash sia stata di vostro gradimento.
Alla prossima. ^^

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Capitolo 5
*** Di sicurezze che si sgretolano come castelli di sabbia al vento. ***


Di sicurezze che si sgretolano come castelli di sabbia al vento.
#05

Era stato come se l’indecisione che le attagliava le membra fosse scomparsa, sgretolatasi come la roccia a causa dell’inevitabile scorrere del tempo.
Si passò una mano fra i capelli biondi.
Anche la rabbia era stata inghiottita dalla sorpresa, sbiadita come le lettere impresse sulla carta e celata dall’irritazione.
Non era la prima volta che avveniva, eppure a pervaderla era sempre la stessa sensazione, come se quei punti fermi – gli unici punti che possedesse, gli unici che le fosse stati concessi – stessero per venire rimossi.
È troppo.
L’ultima volta che aveva pronunciato quella frase Henry era quasi morto ed, adesso, si ritrovava a ripeterla, come se fosse una specie di mantra.
Aveva sconfitto un drago, era stata quasi uccisa da un orco, aveva affrontato una specie di strega e, per chiudere in bellezza, l’uomo che non avrebbe mai desiderato rivedere aveva fatto ritorno nella sua vita. Eppure sapeva, sapeva perfettamente che c’era un limite ed era anche conscia del fatto che lo stava pericolosamente sfiorando.
Un fruscio improvviso le fece alzare il capo e tornare al presente.
Restò immobile, avvertendo per la prima volta l’aria gelida che sferzava il volto dei pochi passanti e notando il complesso di edifici che la sovrastava.
«Gold» emise, titubante, inclinando il capo per distinguere meglio la sua persona, visibile solo grazie alla luce fioca di un neon.
«Oh, signorina Swan» disse lui, sussultando nell’udire quella voce.
Per la prima volta lo stratega non si era reso conto della presenza della pedina.
«Come mai qui?» domandò, titubante, indugiando sul volto dell’uomo.
Da quando aveva fatto ritorno dalla Foresta Incantata era cambiato: gli occhi erano cerchiati, come se non dormisse da qualche giorno, ed anche il sorriso sembrava diverso, quasi spossato, solo una mera ombra lasciata da ciò che era stato in precedenza.
«Problemi con la fidanzata?» ironizzò poi, notando l’identità del locale accanto a cui stavano conversando, quel genere in cui si va per dimenticare i problemi in compagnia di un bicchiere d’alcool.
Gold si lasciò sfuggire uno sbuffo, infastidito. «Dovevo immaginarlo, suo padre non è mai stato il massimo della discrezione».
Emma avvertì i globi dilatarsi per la sorpresa, mentre, senza rendersene conto aveva accennato qualche passo verso il negoziante.
Si morse l’interno della bocca, spiazzata. Proprio adesso doveva iniziare a comprenderlo? A trovare una soluzione per l’unico quesito che non era mai riuscita a risolvere?
Proprio adesso quell’unica certezza doveva vacillare ed il suo castello di sicurezze a crollare, simile a quelli di sabbia?

«No, è solo… intuizione. David non mi ha detto niente» mormorò, incerta su cos’altro aggiungere mentre la sua stessa frase le martellava la mente.
David.
Veramente aveva preso in considerazione l’idea di partire per un altro mondo, con delle persone che non riusciva nemmeno a chiamare “mamma” e “papà”?
«Mi perdoni». Nell’udire l’uomo alzò il capo, appena in tempo per rendersi conto del fatto che fosse in procinto di allontanarsi.
Delle voci avevano invaso l’aria, una sembrava famigliare.
«Aspetti» esordì, le parole che si libravano nella notte, dotate di una volontà propria. «Se n’è pentito?».
«Di cosa?».
«Di aver trascorso la sua vita in cerca di Neal… cioè, suo figlio e… Belle, si chiama così, vero?».
L’espressione dell’uomo tentennò. «Chiamava. Adesso dice di essere Lacey».
«Insomma, di loro. Crede anche lei che l’amore sia una… debolezza?», non era certa del perché lo stesse facendo, era… insensato. Era insensato ripensare alla sicurezza con cui Cora aveva pronunciato quelle parole – la stessa che per anni avevano quasi condiviso –; parole sbagliate, errate, ne aveva avuto la conferma. La sua stessa vita lo era.
Ed era insensato discuterne con lui.
«Gliel’ha detto Cora?» chiese sospirando e, per un attimo, alla donna parve che ci fosse una qualche cortina intessuta di ricordi ad annebbiare quegli occhi.
Un altro granello di sabbia che cade.
«Comunque no. A volte porta all’autodistruzione ma… no» disse, per poi tornare a voltarsi, distrattamente.
«Buonanotte, Emma».
«Buonanotte, signor Gold» mormorò lei, osservandolo allontanarsi nel buio.
E, in fondo, l’autodistruzione non faceva poi così paura.



Note: dalla flashfics alle one shots corte.
Bene, qui ce n’è per tutti i gusti: la Cora/Rumple, la Golden Swan, la Rumbelle – o meglio – la Lacey/Gold e la Emma/Neal.
Questa volta posto con qualche dubbio sulla caratterizzazione e sulla storia in generale.
Be’, in fondo è un momento abbastanza difficile per Emma; ha appena saputo dei fagioli che stanno coltivando i suoi genitori e Neal è appena rientrato nella sua vita, il muro che si era costruita intorno sta crollando, per cui spero che questa breve conversazione riesca ad inserirsi, ecco.
L’ultima frase è di libera interpretazione; credo che vada bene per… tutto.
In ogni caso il giudizio spetta a voi.
Dimenticavo; un grazie speciale a Euridice100 e Stria93 per il supporto, è un onore ricevere le vostre recensioni. ^-^
Bene, adesso la smetto di sproloquiare, spero che “questa cosa” vi sia piaciuta almeno un po’ di come a me è piaciuto immaginarla #Film mentali mode: on.
Alla prossima. :)

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Capitolo 6
*** Di parole portate dal vento. ***


Di parole portate dal vento.
#06


Giace immobile, il viso incorniciato dai capelli biondi; gli occhi fissi sul soffitto.
Questa volta non ci sono fratelli con cui condividere la stanza, sorelle che ti osservano incuriosite o con sguardo d’acrimonia; bensì solo due volti – due dei tanti – che l’hanno accettata ed accompagnata in quel locale, una volta augurata la buona notte.
Lascia dardeggiare gli occhi lungo la superficie della camera, sentendo qualcosa scricchiolare.
Non sono fantasmi, lo sa: gliel’hanno spiegato bene, quelli non esistono.
Infine lascia che i muscoli si rilassi e le pupille si perdano in quella luce argentata che penetra dalla finestra. 
È la terza notte che stenta ad addormentarsi, l’ennesima che vorrebbe fuggire. 
Per un istante si chiede cosa avverrebbe se alzasse le tapparelle, indossasse una felpa e si calasse in giardino. 
Chissà, forse, allora, la smetterebbero di portarla da un’abitazione all’altra, da delle persone alle altre, da un luogo all’altro, pretendendo che le definisse case, famiglie, amore.
Chissà, forse, allora, potrebbe incontrare le persone giuste.
Poi lo sguardo si posa su un vecchio libro, la copertina impolverata e le pagine spiegazzate; lo riconosce: la donna della scorsa volta gliel’ha letto.
Sono favole: le storie che parlano di principesse imprigionate e regni lontani. Ragazze con dei sogni, ecco come le ha definite Jennifer, la mamma dallo sguardo dolce ed il volto solcato da qualche ruga.
Pensandoci, le piaceva. Ma forse lei non piaceva a Jennifer, per questo era venuta la signora in grigio, a prenderla.
“Tutti hanno dei sogni, anche tu, scommetto”. Affonda il viso nel cuscino, le piaceva anche la sua voce: era amorevole, calorosa, non come quella della signora Hill, la padrona di quest’edificio.  
Sogni, sogni, sogni. Socchiude le palpebre, ripetendosi quella parola.
Sì, Jen aveva ragione. Anche lei ne ha.
Alza appena il capo, guardando di nuovo il volume.
Li ha, ma sa che non si realizzeranno. Sa che non potrà mai cavalcare un drago, imparare ad usare la magia, maneggiare una spada, stringersi al petto di qualcuno e chiamarlo papà.
Sa che è completamente inutile.

Emma ha sette anni, tre case alle spalle, un numero che non riuscirà a memorizzare di fronte, e sa, sa perfettamente che sognare è inutile.
Perché il sogno è illusione e l’illusione equivale all’astratto, mentre la realtà è concretezza e lei non vuole una casa d’aria, una casa che in un battito di ciglia si sgretolerà. Lei vuole i mattoni, quelli solidi, quelli che non cadono, quelli che metterà lei, uno sopra l’altro.
Emma ha solo sette anni ed ha smesso di credere.  

***


«Emma». 
Socchiude gli occhi, cercando di proteggersi dai granelli di sabbia portati dal vento.
«Cosa c’è, David?» sbuffa, continuando a camminare, l’odore della salsedine nei polmoni; le iridi fisse dinanzi a sé, che tentano di cogliere qualunque profilo, qualunque presenza che non sia solo una delle tante ombre che l’affiancano. 
«Non sono suo padre, miss Swan». Sussulta impercettibilmente nell’udire la solita punta d’ironia farsi strada nella voce dell’uomo; non è acuminata, pungente,  non riesce a trapelare d’ilarità a ferire, dilaniare la carne come una volta. Ma c’è, è presente, per quanto fioca.
Esattamente come quella persona che l’ha raggiunta, che le cammina accanto, nonostante l’andatura stanca e gli occhi spenti.
Quand’è stata l’ultima volta che un barlume li ha attraversati? Due, quattro, sei mesi fa?
«Questo lo sapevo» risponde, leggermente stizzita, mentre lascia vagare il proprio sguardo sugli alberi che li sovrastano, che si stagliano imponenti contro il cielo dell’Isola che non c’è, proseguendo la loro disperata ricerca.
Oh, al diavolo, cosa pensa di vedere? Henry che le corre incontro libero e sano?
«Sa, alcune volte mi domando perché lo chiami per nome». Volge appena il capo, i globi assottigliati che incontrano quelli di Gold.
«Suo padre, intendo».
«Non sono… affari suoi» mormora, interrompendo il contatto per poi osservare la sabbia dove sono ancora visibili le loro impronte; mentre tenta di concentrarsi solo su Henry, sul suo volto, su di lui, come se ciò potesse riportarlo indietro, fra le proprie braccia.
«Certo, mi perdoni. Lo trovo semplicemente strano, dato che ha sempre sognato di averne uno». Torna ad osservare l’uomo, mordendosi il labbro inferiore. 
Colpo basso, signor Gold.
«E lei che ne sa?», incrocia le braccia al petto; le voci di Regina e Hook che pervadono l’aria, appena udibili a causa del vento e delle parole pronunciate dall’uomo, le quali infuriano nella sua mente, simili ad una tormenta. 
«Sapevo molte cose di lei ancor prima che nascesse», sorride, e la donna non riesce a comprendere cosa significhi quell’espressione.
Non è beffarda e nemmeno commiserevole, eppure la lama è tornata a pungere, le parole a far male. 
«Penso che dovrebbe astenersi dal discutere su argomenti che non può comprendere» dice in fine, affondando il piede nella sabbia, come se ciò potesse infonderle la forza di scacciare quei ricordi composti da lacrime e notti, dolori e solitudini.

 ***


«Com’è andata la giornata, Rumpel?», la donna dinanzi a lui sorride pacatamente, lo sguardo fisso sulla ciotola di legno. 
Ha poco più che trent’anni, eppure è come se ormai avesse vissuto un’eternità. 
Il ragazzo non cerca il suo sguardo, sa che non appena sarà sul punto di allacciarlo al proprio, lei gli sfuggirà, come avviene sempre in quei momenti in cui sembra che i suoi lineamenti possano ferirla, mutilare quel corpo minuto e stanco; come se non appartenessero più a lui.
Non lo odia, sa anche questo, benché desidererebbe che ci fosse sempre la sua persona dinanzi a lei, non suo padre; quella fantomatica presenza che hanno molti suoi coetanei del villaggio, quella che gli piacerebbe provare ad avere accanto, almeno per un attimo, magari al posto dei momenti in cui, a Tessa, fa troppo male guardarlo; di quelli in cui l’unica parola che gli è permesso udire è “codardo”
Rumpel ha tredici anni, e si domanda cosa ci fosse di sbagliato in lui anche a quel tempo, in quell’istante che non può rammentare.  

***


Riprende a camminare, il passo spedito, come a mettere maggiore distanza fra lei ed il suo interlocutore.
Intanto i rami hanno iniziato a frusciare con ancor più violenza, ed Emma rallenta appena per avvertire i suoi passi dietro di lei.
Pare quasi che Peter Pan possa controllare gli eventi climatici dell’isola, e stia tentando di fermarli.
In fondo niente è impossibile, non è forse ciò che ha appreso durante la sua permanenza a Storybrooke? 
Si ripara nuovamente gli occhi con le mani; la conversazione fra Regina e Hook, ormai, è inudibile.
«Comprendo più cose di quel che pensa».
Incespica. Non è frutto della sua immaginazione, o uno dei ricordi che quel maledetto di Gold le ha fatto tornare in mente, e nemmeno una sequenza di sillabe sconnesse; sembra quasi che il vento abbia portato quelle parole fino alla sua persona di proposito e – per l’ennesima volta – capisce di essere sempre stata lei, Emma, quella a non aver mai compreso, a non aver mai colto alcun dettaglio, a essersi lasciata cullare da quell’ignoranza che aveva sempre definito fastidiosa.
E, per una volta, si ferma, restando immobile per farsi raggiungere.



Note: ammetto che scrivere di un young!Gold è stata una specie d’impresa, spero solo che sia abbastanza credibile, ma nel complesso credo che questa sia stata una delle storie che ho prediletto scrivere, per quel che riguarda questa raccolta. Spero solo che la lettura sia risultata piacevole. 
Ammetto anche che i flashback non erano previsti nella versione iniziale, ma durante la stesura mi sembrava una buona idea aggiungerli, spero che sia stato così. xD
Ormai non manca molto alla conclusione della raccolta, dipende da ciò che riuscirò a scrivere questa settimana. Comunque, la prossima sarà collocata durante la season 1, una breve OS senza pretese. Sempre che – in una crisi di “Mio Dio, cos’ho scritto?” – non la cancelli . 
Detto questo la smetto di sproloquiare e vi invito a recensire senza alcuna pietà, grazie di essere giunti fino a qui. (:

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Capitolo 7
*** Di luci fioche e vampate di calore (solo e soltanto a causa della cioccolata, ovvio). ***


Di luci fioche e vampate di calore
(solo e soltanto a causa della cioccolata, ovvio).

#07

Posa la tazza di cioccolata sul tavolo, inspirando l’odore di cannella che si è propagato per la centrale; poi abbassa lo sguardo sui polpastrelli arrossati, mentre trattiene una smorfia.
La gola continua a bruciare, ustionata dal liquido, eppure la piacevole sensazione di calore non acconsente a pervadere le membra, a penetrare fin nelle viscere e ad alleviare le pene della mente.
Si appoggia allo schienale della poltrona e torna a concentrarsi sulle luci di Natale che agghindano la stazione; Henry ha detto che sono belle, eppure a lei sembrano ancor più superflue di quando Mary Margaret le ha sparse per il locale.
Cerca distrattamente il giacchetto di pelle rossa: pare quasi che il gelo riesca a penetrare con maggior facilità che nell’appartamento della maestra, quando il riscaldamento è spento. 
O forse è solo il «buon Natale» del ragazzino mormorato velocemente mentre Regina lo tira per un braccio, e una porta che sbatte, a metterle quella fastidiosa sensazione addosso, a martellarle la mente fino a farla impazzire.
Rivolge un’occhiata all’orologio, le mani che permettono al tessuto liscio di aderirle al corpo. 
Per un momento si chiede se le orme possano essere ancora visibili sulla strada innevata, oppure siano scomparse come un ricordo troppo confuso per rimanere impresso; lasciatosi niente alle spalle se non lo spettro di una possibilità ormai svanita nel nulla, dissoltasi in un attimo come in un attimo era apparsa.
«Che sciocchezze» si dice, alzandosi, indecisa.
Mary Margaret è uscita, e la casa è fastidiosamente grande per potervici trascorrere questa giornata, mentre è Henry con Regina.
Regina, Regina, Regina.
Stringe il manico della tazza, finché non si rende conto delle nocche sbiancate.
Chissà, forse sarebbe stato meglio se non si fosse fermata ad uno schiaffo, quella sera. Alza appena il capo, al rumore della porta che si apre, e cerca di tornare al presente.  È sciocco, sciocco continuare a pensare a quei “se” ed a quei “ma”, è sciocco come siano ancora così vividi, dolenti, come una stanza d’albergo, un abitacolo di una macchina, una cella fredda ed un locale fin troppo vuoto.  «Buonasera, sceriffo». Non le occorre mettere a fuoco la sua persona per sapere che indossa uno dei suoi completi su misura, che una mano è appoggiata al bastone e che sta sorridendo, come sempre. «’Sera. Come mai qui, la Vigilia di Natale? Qualche suo cliente si rifiuta di pagare l’affitto?» domanda, tornando a portarsi la tazza fumante alle labbra.
«No».
«Uh, mi faccia indovinare, allora. Il sindaco Mills la vuole denunciare per l’incendio e lei sta cercando di precederla in qualche modo», lo osserva da sotto le ciglia, le labbra increspate, una mano che si aggrappa al tavolo.
I tremiti alle gambe non centrano niente, è solo che così è più comodo.
«Non sono prevedibile fino a questo punto» ribatte l’uomo.
«Lei non è mai prevedibile, Gold». 
O forse è solo lei, Emma, che si ostina a fidarsi, a non attendere costantemente una mossa.
Lui non risponde, si limita ad appoggiarsi al tavolo di legno; i corpi che accorciano la distanza, che si fanno eccessivamente vicini. 
«Comunque, cosa posso fare per… aiutarla?» prosegue lo sceriffo, imponendosi di non ritirare la mano, di lasciarla lì con noncuranza e di impedire alla propria voce di vibrare insicura. 
Insomma, non ne ha alcun motivo.
«Niente». I globi della donna si dilatano per la sorpresa, mentre avverte l’altro arto tremare, la tazza a mezz’aria.
«Come?».
«Trascorrere il Natale da soli non deve essere piacevole, dopo tutto ciò che è accaduto».
«Si sta… si sta proponendo per farmi compagnia?». Inarca le sopracciglia, osservando le sue iridi, come se quegli occhi possano risponderle, spiegarle che cosa stia accadendo, perché stia accadendo.
«Se la sua tolleranza può comprendere anche questo…», l’uomo torna a sorridere, lasciando la frase in sospeso, mentre gli occhi continuano a riverberare, riflessi di una qualche emozione che lei non riesce a distinguere, separare da quel turbinio.
Emma sospira, poggiando nuovamente la cioccolata sulla superficie in legno. 
Potrebbe rispondere semplicemente di no, dirgli di andarsene e ritornare nell’appartamento, anzi, sarebbe la decisione più sensata da prendere ma… Desidera veramente trascorrere la serata con un groviglio di spettri appartenenti a parole mai dette, a gesti mai compiuti, a dolore e vuoto in fondo al petto?
«Credo che si possa fare» mormora alla fine, d’altronde la prospettiva di trascorrere la serata in centrale non era piacevole.
Il sorriso di Gold si accentua e, per un momento, ha quasi l’impressione che sapesse la risposta ancor prima di entrare nella stanza.
Qualche attimo dopo i suoi passi affondano nella neve, eppure il freddo sembra quasi essere diminuito, come se una vampata di calore l’abbia sorpresa. 
In quell’arco di tempo Gold si domanda se quella visione avuta tempo prima fosse collocata al tavolo del Granny’s o in qualche altro luogo, e l’immagine di Emma Swan si contrappone al rumore dell’ennesima porcellana frantumata, dell’umidità pungente di una capanna e delle risate di un bambino. 
Non riesce a cancellare, ad eliminare; non pretende di rimuovere qualcosa, apporta solo qualche schizzo rosato ad uno scenario di oscurità e tenebra che volteggia nell’aria.    


Note: salve. :) E dopo l’angst del capitolo precedente ecco un po’ di… serenità senza pretese, più o meno, e nonsense (?). Credo sia l’OS in cui si avvicinino di più. L’ambientazione è quella dopo la 1x08, i riferimenti a Graham sono assolutamente volontari; se cercate bene ne trovate uno anche a Neal. L’accenno a French anche – seppur l’episodio, nella cronologia, non si sia ancor verificato –, un po’ come a quello alla veggenza di  Rumple.  Non ho nient’altro da dire se non che la prossima dovrebbe essere un’OS collocata sempre durante la season 1.  Spero che questo breve momento senza pretese sia stato di vostro gradimento nonostante abbia avuto qualche dubbio, anche questa volta, riguardante la pubblicazione. ^^’

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Capitolo 8
*** Inalando l’aria di salsedine. ***


Inalando l’aria di salsedine.
#08

Rabbrividisce al contatto dell’aria fredda con le sue membra, mentre il sudore che le imperla la fronte si fa gelido e il giacchetto insufficiente.
Rivolge una fugace occhiata al cartellone dell’autobus, illuminato appena dai raggi mattutini che penetrano dalla coltre di nubi, smettendo di correre; il fianco continua a dolere, l’ossigeno a mancare e il petto ad abbassarsi freneticamente, inalando l’aria di salsedine.
«Buongiorno». Sussulta appena, guardandosi intorno, i denti che affondano nell’interno della guancia.
Gold la osserva da sopra le pagine di un libro, il solito e irrisorio sorriso che gli incurva le labbra.
E fastidioso.
«’Giorno» sbuffa la donna, assottigliando gli occhi e inarcando le sopracciglia.
«Anche lei rimasto a piedi?».
«A quanto sembra…», annuisce, ritraendosi sulla panca per farle posto.
Emma si accomoda, lentamente, continuando a stringersi nel cappotto, come se possa farle da barriera, aumentare le distanze, dividere, separare, porre un limite alla vicinanza.
«Da quant’è qua?» dice, sbuffando e riavviandosi i capelli biondi. Perché devono essere sempre i fattori negativi della vita ad accumunarli?
«Uhm, una decina di minuti» risponde distrattamente l’uomo, voltando pagina.
«Cosa? Ma se dovrebbe già essere arrivato».
«Non siamo a Boston, miss Swan. Temo che dovrà attendere ancora qualche…» si interrompe, alzando il polso e guardando le lancette dell’orologio. «Una quindicina di minuti circa, teoricamente».
La donna torna a stringersi nel giacchetto, cercando rifugio da quella brezza che le scompiglia i capelli, pervade le strade e smuove le fronde degli alberi.
«Quindi… avevo ancora quindici minuti», sospira, la maglietta bagnata per la corsa, che le ricade sul corpo.
Mary Margaret avrebbe potuto anche avvisarla.
«Ho detto teoricamente», la corregge, le iridi tornate a quella sequenza di parole vergate sulla superficie immacolata.
«Arriverà prima?».
«No, se abbiamo fortuna fra venti minuti» replica lui, con voce monocorde, il proprio essere immerso in un qualche mondo che a lei non è dato conoscere – non che vorrebbe farlo, assolutamente.
“Con quella che hai giungerà fra un’ora”.
Rivolge il proprio sguardo alla strada, desiderando di avere anche lei qualcosa da fare per sfuggire a quella presenza, accomodata accanto alla sua persona.
Tenta di concentrarsi sui passi che risuonano lungo il marciapiede, i volti che si intravedono di sfuggita.
“No, decisamente oggi non è giornata”, sospira, reprimendo un brivido quando Gold la sfiora. È solo per il vento.
Infine sbuffa piano, facendo saettare gli occhi in lontananza, in cerca di un profilo famigliare. Niente.
«Ha freddo…».
«No» risponde bruscamente, tornando al volto dell’uomo che la sta osservando. «Sto benissimo».
Gold schiude la bocca, come se voglia ribattere.
«Cosa sta leggendo?» lo interrompe, cercando di controllare il proprio corpo, di non iniziare a tremare per il gelo che le risale lungo le membra, irrigidisce gli arti e raschia le gole.
Impreca mentalmente, mentre riprende a parlare, la voce arrochita, i globi che accarezzano la copertina del volume che il negoziante stringe fra le mani: «La fiera della vanità; un romanzo senza eroe».
«L’ha letto?» domanda Gold, appoggiandosi allo schienale in legno.
«Sì, tempo fa» risponde lentamente, una spiacevole sensazione che la pervade.
Il giacchetto non riesce a dividere, ma le parole avvicinano. A suo discapito.
Scuote impercettibilmente il capo. È stupido: insomma, non le importa cosa legge o fa; è solo un pretesto per cambiare argomento, nulla di più.
Eppure non può fare a meno di constatare che se mai dovesse abbinare un libro a una persona, quello che tiene in mano, sarebbe fra i primi candidati.
«È raro… trovare un eroe al giorno d’oggi», le parole dell’uomo la riportano al presente, costringendola ad osservare un’altra volta quella copertina, tentare di evitare i suoi occhi divenuti eccessivamente voraci, capaci di vedere qualcosa di cui non conosce identità.
«Vero».
«Ma esistono», scorge le sue labbra contrarsi in un sorriso, e non riesce a far a meno di pensare alla teoria di Henry.
Be’, almeno su una cosa ha ragione, il ragazzino, e forse dovrebbe iniziare a tenersi lontana sul serio.
«A me non piacerebbe» emana, il fiato che si condensa, librandosi contro il cielo.
Non sa perché l’ha detto, insomma, l’argomento nemmeno le piace. E non le interessa.
«Cosa?».
«Essere paragonata a una marionetta. Nemmeno se fossi un’eroina», si stringe nelle spalle. In fondo è la verità.
«Nessuno la confronterebbe mai a una marionetta». Il tono di Gold le fa alzare gli occhi di scatto, ritrarsi appena con un moto innaturale.
È freddo, quasi violento, acuto, pungente, come se stia cercando di proteggere qualcosa.
«Sta arrivando» riprende poi, pacatamente, accennando al rumore di ruote che risuona alle sue spalle, ed Emma si domanda perché non riesca mai a comprendere nessuna delle persone di quella maledetta città.


Il colore delle marionette sbiadisce, i vestiti e i dettagli con cui vengono agghindate corrosi, lacerati, finché il legno non viene consumato dal fuoco, mentre la consistenza delle pedine è intaccata, la superficie scostata. Eppure, dopo sessantasei anni, sono ancora lì, posizionate sulla scacchiera.



Note: chiedo venia per il ritardo. Avevo scritto questa breve OS tempo fa, ma sembrava essere scomparsa da ogni cartella. E invece oggi sono riuscita a ritrovarla.
Uhm, cosa dite a proposito di quest’incontro? Coincidenza? Destino? La sottoscritta non sapeva cosa inventarsi? No? Sì? Scegliete voi. xD
Non ho la minima idea della frequenza (ogni riferimento all’ora che avevo perso qualche settimana prima della stesura di questa cosetta è puramente casuale) con cui passino i mezzi pubblici nelle cittadine americane, e nemmeno nelle grandi metropoli.
Come qualcuno di voi avrà compreso è quasi tutto ispirato a “la fiera della vanità” di William Thackray da cui provengono i rispettivi riferimenti alle marionette. Inoltre, il sessantasei non è un numero preso a caso, diciamo che è stato ricavato da un tortuoso ragionamento – esatto, amo complicarmi la vita – che si può riassumere così: 1 (mettiamo che sia trascorso un anno dalla visione di Rumple durante cui sia terminata la relazione con Cora e tutto il resto) + 18 (se non erro dovrebbero essere gli anni che possedeva Regina quando venne costretta a sposarsi) + 19 (supponiamo che Biancaneve avesse 9 anni quando il padre si era risposato e che durante la storia di Storybrook possedesse la stessa età di Emma, proprio come afferma quest’ultima durante la 3x01) + 28 (gli anni della maledizione) = 66 (eccovi il risultato).
Detto questo non ho nient’altro da aggiungere. Spero di essere riuscita a mantenere i rispettivi personaggi IC e – soprattutto – che la lettura vi sia piaciuta almeno un po’. (:
Prima di salutarmi vorrei rivolgere un grazie immenso a: Euridice100, Stria93, Julia_Julie, chi segue/preferisce/ricorda la raccolta e anche ai lettori silenziosi. Sul serio, grazie di cuore.
Bene, adesso ho finito sul serio.
Alla prossima, Dream.

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Capitolo 9
*** L’eco delle parole non dette. ***


L’eco delle parole non dette.
#09

«Credo che lo zucchero si sia ormai sciolto», sussulta nell’udire la voce dell’uomo, alzando a malincuore lo sguardo da quel vortice quasi ipnotico, formatosi nella tazzina.
Non sarebbe male se ce ne fosse uno in grado di inghiottire tutti i suoi problemi, constata, puntando le proprie iridi in quelle di Gold, che le sorride pacato.
«Sì, direi di sì», sospira, portandosi la tazzina alle labbra e cercando di ignorare quella fastidiosa morsa in cui è stretto lo stomaco.
Dio, i suoi occhi.
Perché devono essere così simili?
Rimane per qualche attimo immobile, sorseggiando il caffè, tentando di concentrarsi sul suo sapore, sul calore che emana, che dovrebbe emanare, eppure una sgradevole sensazione sembra aver deciso di pervaderle le membra, logorarla come una fiamma letale, restia a spegnersi.
Adesso non è lei a poter osservare ogni mattina quei globi.
«Miss Swan?». La voce di Gold si fa strada attraverso i suoi pensieri, come una sciabola che fende tutto ciò che la circonda, per farsi strada.
«Sì?» emette quasi con gratitudine, tornando al presente.
Che sciocchezze, si dice, rabbrividendo, come se questo possa permetterle di scrollarsi di dosso quei pensieri.
Eppure non può far a meno di constatare che si è sbagliata.
Posseggono la stessa tonalità, ma quelli dell’uomo sembrano costantemente in cerca di qualcosa, come se siano in grado di trafiggere l’anima e carpirne ogni pensiero, come se sappiano.
«Oserei quasi ipotizzare che stia pensando a qualcuno» replica con un sorriso, ed Emma si dice che se un giorno dovesse scoprire che può leggere nel pensiero ciò non la stupirebbe.
Poi scuote impercettibilmente il capo, rimettendo a fuoco la sua persona. «A nessuno» sbotta. «Ed adesso mi spieghi che cosa vuole».
«È una bella giornata, non trova?» prosegue l’uomo, ignorandola, quell’insopportabile flessione di labbra che persiste sul volto.
«Gold, mi dica che cosa vuole da me» insiste, stizzita.
«Non posso semplicemente invitarla a prendere qualcosa?» risponde finalmente, inclinando lievemente il capo per osservarla meglio.
«Be’, sì…» ribatte Emma, stringendosi nelle spalle. E, chissà, forse sarebbe così, se ogni sua azione non debba avere uno scopo. «Ma non credo sia questo il caso».
Gold non risponde, si limita ad abbassare lo sguardo sulla propria tazzina, con un sospiro, mente la donna rivolge automaticamente un’occhiata all’orologio.
Mancano solo dieci minuti alle sette, eppure sembra che sia di ritorno da chissà quale impresa.
Indugia per qualche attimo – decisamente di troppo – sul suo profilo, gli occhi sono contornati da sfumature violacee.
A quanto pare non è l’unica ad aver trascorso la notte ad osservare il soffitto della propria stanza.
«Devo… andare, il lavoro mi attende» dice, e le parole che volteggiano nell’aria le arrivano distanti, come se non sia stata la sua bocca a pronunciarle, le proprie labbra a formulare ogni sillaba.
Senza che se ne sia resa conto sta già stringendo il tessuto della borsa e issandosi sull’arto libero per alzarsi.
«Ci sono persone che hanno bisogno di venire convinte per lasciarsi salvare, Emma».
Volta il capo di scatto, incontrando di nuovo i suoi occhi.
La ricerca è scomparsa, lasciandosi alle spalle soltanto un barlume, un luccichio che funge da muta richiesta.
Per un attimo resta immobile, confusa, tentando di comprendere questa supplica, prendendo in considerazione l’idea di voltarsi, far finta di niente.
Insomma, forse si sbaglia, forse non vogliono dire proprio un bel nulla, ed è soltanto lei che si sta immaginando tutto.
Si morde il labbro inferiore; le ultime tre parole che le martellano la mente, si susseguono come linee di quello stesso vortice che ha osservato fino a qualche minuto fa.
L’ultima volta che le ha pensate è stato dopo aver sconfitto un drago ed essere scesa da una pianta di fagioli.
Si concede ancora un attimo per osservare le iridi di Gold e comprende, comprende che capirà, e che sa esattamente di chi stanno parlando.
Infine annuisce piano e, per un attimo, ha quasi l’impressione che il sorriso dell’uomo stia tentennando.
«Buona giornata, allora» si accomiata, mettendosi in piedi.
«Buona giornata, sceriffo».
Si allontana. Le pareti del locale improvvisamente diventate opprimenti, come se in quella sequenza di minuti lo spazio sia diminuito e i muri abbiano acquisito la capacità di muoversi verso di lei. La sensazione di qualcosa a cui non sa dare un’identità che si spezza e cade, si frantuma e perde, ormai alle spalle.
Continua ad avanzare, imponendosi di non iniziare a correre e, nel momento in cui raggiunge la porta, ha quasi l’impressione che alla bocca dello stomaco sia stato creato un altro vuoto, accompagnato da una nuova e fastidiosa stretta.
Scrolla le spalle, non ha tempo per queste cose.
Infine spinge la maniglia, lasciando che la brezza mattutina le scosti i capelli dorati dal volto, mentre l’orgoglio continua a pulsare.
Eppure, da qualche parte – la sente, nonostante tutto, è lì, presente, tanto indelebile che nemmeno il fuoco del Tartaro potrebbe cancellarla –, segregata dalla negazione, c’è una parte che riesce ancora ad avvertire l’eco delle parole non dette, dei rimpianti non ancora venuti a galla. Una parte che sta soltanto iniziando a bruciare, lenita da ciò che resta del muro.

Ma non era un addio, quella parte sa anche questo.


Note: ciao a tutti. :)
Come prima cosa mi sento in dovere di chiedere perdono per il terribile ritardo; senza rendermene conto mi sono ritrovata a essere quasi completamente assente dal fandom.
Per quel che riguarda l'aggiornamento di oggi: è una OS abbastanza breve – me ne rendo conto –; scritta qualche mese fa (non mi ero resa conto che il tempo scorra così velocemente O.o) tra uno sguardo rivolto alla TV e uno allo schermo del pc.
Avevo immaginato che Gold avesse parlato con Emma, prima dell’ultimo episodio della seasion 2. Non credo che sapesse molto riguardo Tamara, ma qualcosa – magari anche riguardante Bae da un punto di vista sentimentale – l’abbia intuito.
E con questa Golden Swan/Swanfire mi trovo a concludere la raccolta. Prima di lasciarvi andare, però, desidero ringraziarvi uno per uno, così com'è giusto che faccia.
Grazie a chi ha inserito la raccolta in una delle tre categorie (Julie_Julia; ctdg; _Wingless_; coccinella75; Stria93; The_Werewolf_girl) e a chi ha recensito (Stria93; Julie_Julia ed Euridice100).
Spero che abbiate gradito la lettura. :)
Un abbraccio, Dream.

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