XII - Ling

di Dicembre
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Blu ***
Capitolo 2: *** Bianco ***
Capitolo 3: *** Rosso ***



Capitolo 1
*** Blu ***


Nuova pagina 1

Note dell'Autore: Questa storia è già conclusa e consta di 3 capitoli. E' orribile, secondo me, iniziare un racconto con la preoccupazione che questo non verrà mai concluso. Io, di principio, finisco sempre ciò che comincio...

Questo universo, da me chiamato "Dodici" per motivi coi quali non vi annoierò (magari in seguito, ora non mi sembrerebbe un bel biglietto da visita XD), altro non è che una rivisitazione in chiave personale delle sfere gerarchiche di Inferno e Paradiso e della Terra. Quando ho letto Dante mi sono entusiasmata, ma piano piano (che ci volete fare, nessuno è perfetto) ho iniziato a creare uno sfondo alle tante storie che mi vengono in mente. Si tratta del Paleozoico, ma tant'è. Sono state scritte molte storie a riguardo, poche vedranno la luce della "pubblicazione" (certe schifezze ve le risparmio ._.)

Buona lettura ^_^ Dicembre

 

 

 

 

01. Blu

 

 

“Colui che cade non sarà più degno del proprio nome, né ne porterà memoria. Non potrà essere chiamato, non potrà essere ricordato.”

“Ciò che stride con la Tua volontà ricade su me, che sono noto e ricordato. Ma unico. Ahimè nel mio regno non esisterà un nome, ma permetterò ai più forti di ricordarne una lettera o un numero. Chè solo con la forza che si sopravvive. Chè solo per la forza che si può essere ricordati.”

 

 

  

 

“Il Regno dei Cieli non è un luogo chiuso. Rigioisco e accolgo chiunque pecchi e si redime, nella Volontà Celeste. Sei mio figlio e sei caduto, risali sulla Terra e in Paradiso, se la tua anima è pura.” 

“La strada per lasciare il mio regno è irta di ostacoli, tortuosa e lunga. Abbandonare la mia volontà per calpestare la sabbia fredda mortale o per accedere all’Eden di nuovo è infinitamente pedissequo e sciocco. Fin troppo difficile. “

 

 

 

 

  

La locanda è incredibilmente piena.

Solite facce e facce nuove. Facce che non ho mai visto. Non ho molto tempo di guardarle, però, perché sono troppo occupata a portare gli ordini ai tavoli e riportare al bancone le richieste dei clienti. E sono troppo occupata a spinare la birra.

Quella scorre sempre a fiumi.

Alzo per un attimo la testa dal bicchiere che sto riempiendo, per guardare la sala principale della locanda. Il fumo dei sigari e delle pipe è penetrato così a fondo che la luce delle torce è affievolita, disciolta nella foschia che s’è venuta a creare.

Il fumo ottunde persino i suoni che sembrano arrivare alle mie orecchie più pacati e più cupi.

E’ notte di luna nuova, questa sera.

Il mio capo passa davanti al bancone e lo picchietta con le nocche per attirare la mia attenzione.

Sapevo già fosse lì davanti a me: io so sempre dove si trova il mio capo. Che sia alla locanda, nel mezzo di tutti questi forestieri che la occupano, o in qualche luogo nascosto della città. Quando sono arrivata qui per lavorare, lui c’era già e ricordo bene di essermene innamorata immediatamente.

Di essermi innamorata dei suoi occhi. Credo siano stati quelli.

Sono occhi neri, leggermente allungati, come se in lui scorresse sangue orientale. Anche il suo nome mi fa presupporre abbia origini asiatiche: Ci.

Non ho mai saputo come si scriva.

Ho provato più volte a chiederglielo, ma lui non me l’ha mai detto. Lui non mi dice mai nulla, se non cose relative alla locanda. Mi passa gli ordini, mi dice quel che devo fare, cosa manca nelle dispense della cucina e cosa dobbiamo acquistare. Per il resto il mio capo non dice una parola.

Perciò non so se il suo nome si scriva Ci, oppure Chi, o forse addirittura Qi. E non so perché abbia gli occhi a mandorla. Ma quegli occhi – di questo sono certa – nascondono così tanti segreti da rimanerne impigliati per sempre. Così è successo a me, appena li ho visti.

Sembrano occhi appartenuti ad un passato lontano. Così belli che m’hanno conquistata con uno sguardo e io me ne sono accorta quand’era ormai troppo tardi.

Non so neanche se il capo abbia qualcuno, ma non penso. Lavora sempre e dorme in una delle camere al piano di sopra. Non l’ho visto mai con nessuna.

E ormai lavoro qui da diversi anni.

Il mio capo – di nuovo – picchietta sul bancone: c’è troppa gente per distrarsi e per pensare a lui. Appena vede che ho ripreso a versare birra e a preparare bicchieri, scompare fra la folla. Nonostante la sala sia così piena da non esserci più spazio neanche per muoversi, il capo si allontana in modo fluido, come se non avesse ostacoli di fronte a sé.

E per un po’ non lo vedo più.

Ci sono molti guerrieri, alcuni mercenari… un tavolo è tutto occupato dalla delegazione straniera della città di confine. Si sentono le loro voci, ma non capisco bene la loro lingua quindi non faccio molto caso a quel che dicono. Il mio capo si occupa di loro, lui parla perfettamente la lingua di quelle terre e spesso è lui ad occuparsi degli stranieri che alloggiano qui.

Questa sera, probabilmente, avremo tutte le camere occupate.

Spero solo che l’eccesso di birra non sia causa di qualche litigio: la mattina dopo sono io quella che deve raccogliere i vetri e pulire la locanda.

Per fortuna gli avventori, siano questi forestieri o locali, devono lasciare le loro armi all’entrata. A nessuno è concesso portarle all’interno. Perciò, nonostante la birra fomenti spesso gli animi, il pericolo che succeda qualcosa di irreparabile è molto diminuito da quando il capo ha introdotto questa regola.

Noto che uno dei bracieri sul lato opposto al bancone si sta spegnendo e mi affretto ad andare a ravvivarlo: gia la luce è poca, nella sala, è importante che tutte le fiammelle danzino alte per riscaldare ed illuminare l’ambiente.

Mi pulisco le mani sul grembiule e prendo da dietro il bancone pezzetti di torba e olio per occuparmi del fuoco. Faccio un passo verso il braciere e sono troppo occupata a cercare di passare fra le persone per accorgermi subito di quello che sta succedendo.

La prima cosa che noto è l’aria gelida dell’esterno che mi investe.

Mi volto verso la porta d’entrata, verso il punto dove i fumi della stanza sembrano convergere per scappare fuori, lontano dalla figura che s’è presentata all’ingresso.

Non so se la locanda cada per un istante nel silenzio oppure se sono io che mi sono lasciata suggestionare dall’uomo fermo sulla porta. L’aria però è di nuovo incredibilmente limpida e gelida.

Nessun fumo offusca la vista, né attenua i suoni.

L’uomo all’entrata si guarda intorno e poi fa un passo all’interno della locanda, permettendomi così di avere una visuale migliore.

Ha i capelli così lisci da apparire di seta, lunghi sicuramente oltre la vita. Quelli che gli ricadono sul viso gli coprono gli occhi, tanto che mi chiedo come possa vedere.

E sono blu.

Di un blu così intenso che sembra illuminarsi, nonostante non ci sia la luna in cielo.

Indossa un cappotto dal taglio insolito, per queste terre, pare di fattura antica. E anche questo è perfettamente blu, dello stesso colore dei capelli, che si confondono col velluto della veste.

Gli arabeschi sulle maniche e sul collo corrono lungo i bordi di tutti il vestito. Sono di un blu leggermente più chiaro, ma paiono d’argento.

Colpita come sono da quello che deduco essere uno straniero, noto in ritardo la sua mano appoggiata sull’elsa della spada che gli sporge sul fianco destro.

La sua mano indossa un guanto blu e questo mi fa esitare ulteriormente.

Le persone nella locanda si spostano, quando lui passa, hanno paura.

Gli lasciano strada e mormorano.

Forse no, forse continuano a parlare, ma sicuramente non osano sfiorarlo.

Lo straniero si avvicina ad un tavolino, in un angolo della sala. Ci sono tre uomini che lo occupano, ma appena lo vedono si alzano, prendendo i loro calici e si allontanano.

Lo straniero si siede e si guarda intorno. Solo quando appoggia i gomiti sul tavolo e sospira, mi riprendo dal mio torpore e faccio un passo verso di lui: non è concesso portare armi all’interno della locanda.

Ma sento una mano afferrarmi con forza il braccio.

“Capo...?”

“Non parlargli. Prendi la sua ordinazione, ma non dire niente di più”

“Ma ha una spada…”

Il capo sorride: “E di certo non chiamare la sua arma spada, non faresti in tempo ad accorgerti dell’errore”

Aggrotto la fronte, ma non capisco. Aspetto che il capo si spieghi meglio.

“Lasciagli la sua arma, di sicuro non la userà qui. Vedi solo quello che vuole”

“Ma…” cerco di nuovo di obiettare, ma lo sguardo del capo mi mette definitivamente a tacere.

“E’ uno straniero” cambio quindi discorso “parlerà la nostra lingua?”

Di nuovo il capo sorride, senza lasciarmi capire il perché.

“Perfettamente”.

E così dicendo, il capo scompare di nuovo nella folla.

Ho ancora la torba e l’olio in mano, quindi m’affretto ad appoggiargli sul bancone e ad andare a fare il mio dovere. Lo straniero mi mette paura, c’è qualcosa in lui di remoto ed ostile, ogni mio istinto mi dice di non avvicinarmici. Eppure le mie gambe vanno avanti, imperturbabili.

Voglio guardare quell’uomo da vicino.

Arrivata al tavolo ho ancora la netta sensazione che l’aria intorno a lui sia più fredda che nel resto della locanda. La sua pelle bianchissima e quei capelli lucidi mi fanno chiedere – per un istante – se non sia fatto di neve.

Quel pensiero me lo fa apparire innocuo, ma c’è odore di sangue nell’aria, tutt’intorno a lui e sussulto.

Lo straniero alza gli occhi su di me e mi guarda, sorridendo: sa benissimo che ho sentito il suo odore e mi deride.

Col viso leggermente proteso all’insù, aspetta che io parli, ma quella posizione lascia cadere le ciocche della sua frangia lontane dagli occhi e io finalmente li vedo: blu intenso, come i suoi capelli. Come i suoi vestiti. E gelidi, come l’aria che lo circonda.

“De…Desiderate” trovo il coraggio per aprire bocca “Desiderate che vi porti  qualcosa?”

Attendo che mi risponda.

Lui aspetta un attimo, come se ci stesse pensando.

“Una birra” dice infine “ e una stanza per questa notte!”

Sto per dirgli che le stanze sono tutte occupate, ma un istinto dentro mi impone di tacere.

Il capo mi ha detto di non parlargli e di prendere solo gli ordini: l’unica cosa che mi sembra saggia fare in quel momento è annuire.

“Sarò subito da voi con la birra e le chiavi della stanza”

Mi allontano dal tavolo e cerco con lo sguardo il capo: devo parlargli.

Ma non è da nessuna parte e, stranamente, non riesco a capire dove possa essere andato.

Io so sempre dov’è il mio capo: questa sera però, non è una sera come le altre.

 

 

L’ultimo raggio di sole scomparve all’orizzonte. Il cielo notturno era completamente buio: era notte di luna nuova. Le stelle in cielo, nonostante fossero numerosissime, non illuminavano la strada di acciottolato che portava alla villa del console.

Il lampioni solo ne indicavano il percorso, ma la loro luce era fioca e le fiammelle erano basse.

Era stato dato l’ordine di non consumare troppo olio per l’illuminazione pubblica perché il giacimento nei pressi della città era esaurito e la costruzione dell’oleodotto, invece, non era ancora stata completata.

Nessuno rimaneva fuori a lungo dopo il tramonto, inoltre la città ultimamente era sicura perciò era poco importante che si potesse vedere poco.

La villa del console, però, era illuminata a giorno.

Un uomo sul viale d’acciottolato pensò fosse uno spreco. Ugualmente s’incamminò.

Non si sentivano rumori, se non i passi dello sconosciuto e i sassolini che venivano sollevati dalle sue scarpe e che ricadevano rotolando. E si sentiva il leggero tintinnio di una catena che lo sconosciuto portava al fianco destro, legata all’elsa di una spada.

Arrivato nel giardino della villa, però, non bussò alla porta. Si guardò intorno, cercando di trovare quale, fra le stanze del secondo piano, fosse la stanza del figlio del console. Una volta trovata, con un balzo, raggiunse  il cornicione del balcone adiacente.

Uno, due, tre passi ed eccolo arrivato alla porta che gli permise di entrare nella stanza. Il ragazzino – avrà avuto più o meno tredici, quindici anni non di più – era rannicchiato fra le coperte di un letto enorme, coperto fino al mento. Teneva un libro sollevato sul viso, stando bene attento a non scoprire le mani e gli occhi erano così intenti a leggere che non si accorse subito che qualcuno era entrato nella sua stanza.

“Chi sei?” chiese poi in un sussulto.

Lo sconosciuto non rispose e si avvicinò al letto. Il ragazzino, allora, si mise a sedere e osservò meglio l’uomo in piedi di fronte al suo letto.

I capelli erano blu, lisci e lunghissimi. Dello stesso colore erano i vestiti e i suoi occhi che lo osservavano, senza parlare: lo straniero aveva gli occhi completamente vuoti.

Sorrise.

“Sei solo incapace di leggerli. Non essere così presuntuoso da pensarli vuoti per questo”

Il ragazzino sussultò :”Come...?” Ma poi si corresse e chiese di nuovo “Chi sei?”

“Come, chi. Tutto ha poca importanza, ormai. Che cosa stai leggendo?” Chiese poi lo sconosciuto indicando il libro che il ragazzo aveva lasciato in disparte, fra le coperte.

“Si chiama L’altro Me” disse allegro il ragazzo. Poter rispondere lo metteva a suo agio. Quell’uomo lo incuriosiva, ma allo stesso tempo gli incuteva timore. Vederlo semplicemente seduto sul suo letto e conversare con lui, invece, dissipava quel filo d’ansia che aveva provato vedendolo. “E’ un libro che parla di un ragazzo e del suo continuo reincarnarsi, attraverso i secoli…”

Lo sconosciuto sorrise “Credi nella reincarnazione?”

“Sarebbe bello, non trovi? Continuare a vivere e vedere il mondo con occhi sempre diversi”

Lo sconosciuto rise.

“Lo trovi divertente?” chiese il ragazzino stupito da quella risata.

“Molto. Penso che sia molto divertente”

Il ragazzino aggrottò la fronte. Aveva sopracciglia molto regolari, ben curate. Erano leggermente più scure dei capelli castani che gli ricadevano sulla fronte e sulla nuca in abbondanti riccioli. Quell’espressione incerta non rendeva giustizia a quel viso  che pareva essere fatto solo per sorridere.

“Hai dei bei lineamenti” disse lo sconosciuto “ma stavi meglio quand’eri tutti intento a leggere il tuo libro, piuttosto che con quest’espressione così confusa”

“Sono confuso perché non so chi sei.”

“E questo ti fa paura?”

“Dovrebbe?” chiese il ragazzino che tradiva, col tono di voce, la consapevolezza che sì, avrebbe dovuto.

“Sì, dovrebbe” gli rispose, infatti, lo sconosciuto “ma la tua paura non cambierebbe la situazione”

“E che situazione è?”

“Ogni cosa a suo tempo, ragazzino” lo rimproverò lo sconosciuto.

Il figlio del console si strinse nelle spalle: “Entri in camera mia e mi rimproveri? Mi sembra normale che ti  faccia delle domande”

“Sarebbe più normale chiedere aiuto”

“Ma io non ho paura”

“Non sei bravo a mentire” rispose lo sconosciuto con sufficienza, poi si alzò di scatto e si guardò intorno.

“E’ una bella casa, vivi bene qui?”

“E’ casa mia, certo che ci vivo bene!” rispose il ragazzino cercando di darsi un tono, ma la leggera ansia di poco prima si stava inesorabilmente trasformando in paura. I secondi di silenzio che seguirono il suo commento, poi, la fomentarono.

Il ragazzino cercò qualcosa da dire. Poi vide l’elsa della spada dello sconosciuto.

“Che strana” disse allungando il braccio per cercare di toccarla “Non ho mai visto una spada così”

Lo straniero si scostò velocemente, con un gesto veloce allontanò l’elsa dalla mano del ragazzo.

“Non ti hanno insegnato che si deve chiedere prima di toccare cose non proprie?” Il viso dello sconosciuto era divertito. I bordi delle sue labbra si curvarono in un sorriso “ E questa di certo non è una spada” sillabò il termine, sussurrandolo.

Una spada…Che volgarità.

Le parole dello sconosciuto rimasero sospese in aria e il ragazzo, istintivamente, indietreggiò nel suo letto, fino a che la sua schiena non fu contro il muro. Non era ansia quella, non era neanche più paura. Era panico.

Lo sconosciuto rise, brevemente “Finalmente”.

Il ragazzino sgranò gli occhi.

“Che cosa vuoi da me?”

“Niente che non mi possa prendere da solo”

“Ma non…”

“No, non ti preoccupare” i capelli dello sconosciuto fluttuarono leggermente “Saprai tutto, non potrei permetterti di non sapere”

“Che cosa? Che cosa devo sapere?” Il ragazzo farfugliò, poi si mise di scatto in piedi, per fuggire verso la porta. Ma lo sconosciuto era di fronte a lui

“Shhhh” gli disse mettendogli un dito sulle labbra “ Non parlare e non fuggire” passò il dito dalle labbra al mento, poi al collo ed infine al petto del ragazzo, nudo, dove il suo cuore batteva all’impazzata.

Cercò di muoversi o di gridare, non riuscì a fare nessuna delle due cose.

“Questa” disse lo sconosciuto sfilando l’elsa al suo fianco dalla fodera “è una Ectelium, ma non mi aspetto che il nome ti chiarisca la sua natura” La lama che venne estratta era lunghissima e luminescente. Brillava di blu.

La catena legata all’elsa, sfilata anche lei dal fodero, appoggiandosi per terra, risuonò.

Il ragazzo iniziò a tremare e lo sconosciuto lo guardò con una leggera aria di scherno.

“No” disse poi prevenendo il pensiero del ragazzo “non ci sarebbe stato niente che avresti potuto fare per impedirmi di trovarti, bimbo”

“Non sono un bimbo! Io non ho fatto niente…Che cosa vuoi da me?” chiese con la voce rotta, poi gridò.

“Che cosa vuoi da me, lasciami in pace!”

Lo sconosciuto roteò gli occhi “… in pace” disse dondolando la testa “…in pace” ripeté premendo il suo indice sul petto del ragazzo.

La luminescenza che prima ricopriva solo l’Ectelium, pervase per un istante tutto il ragazzo che sgranò gli occhi e fece un passo indietro per non cadere.

Iniziò a tremare.

“Cosa?...” chiese, ma la voce gli si spezzò.

“Ora sai”

Una, due, cento lacrime. Iniziò a piangere: “Io non…”
”Tu non…” gli fece eco lo sconosciuto.

“Io non sapevo…” disse il ragazzo, deglutendo con la bocca asciutta “Io non volevo…”

“Nessuno sa. Nessuno vuole. E’ tipico di questo mondo inutile. E delle persone che lo abitano. Tu non sapevi. Tu non volevi, eppure…”

“Ma è successo tanto tempo fa…” cercò ancora di protestare il ragazzino “E’ passato, ormai…”

Questo fece scoppiare a ridere lo sconosciuto. “E’ passato” ripeté “Che strano concetto ha per voi uomini questo passato.” La parola gli sibilò sulle labbra.

“Abbi pietà!” scongiurò il ragazzo  che non si resse più sulle sue ginocchia “Per favore… abbi…”

Ma lo sconosciuto girò le spalle, per tutta risposta, mentre la lama dell’Ectelium era già penetrata nel cuore del ragazzo, che smise di battere.

Il corpo privo di vita del giovane s’accasciò a terra, in una pozza di sangue.

“Io. Pietà…” sorrise lo sconosciuto “Che controsenso” disse uscendo sul balcone.

L’aria era fredda e limpida. Tipica delle nottate invernali dove il freddo permette di vedere così tante stelle in cielo da obbligarti ad alzare lo sguardo.

Lo sconosciuto camminò lungo il viottolo che l’aveva portato alla casa del console, guardando il cielo.

Non era preoccupato che la polizia potesse trovarlo, o di essere accusato: non sarebbe mai successo. Non era preoccupato di niente, voleva solo cercare una locanda – o meglio la locanda – per passare la notte e pensare alla sua prossima vittima.

Il ragazzo mortale aveva detto qualcosa di vero, nel suo farfugliare: era passato tanto tempo.

Era passato così tanto tempo che…

Aprì la porta della locanda e la nebbia che riempiva il salone principale si dissolse subito.

Era stracolma di persone, chiassosa e poco illuminata, ma sembrava molto accogliente.

Era la locanda, la sua locanda ed era davvero passato così tanto tempo…

Una ragazza con in mano della torba e dell’olio squadrò lo straniero, fissandolo troppo a lungo.

Di nuovo, quando lo sconosciuto si sedette al tavolo, gli si presentò di fronte la stessa ragazza coi suoi occhini curiosi e terrore che traspirava da ogni poro. Lo sconosciuto sapeva di odorare di sangue, il figlio del console era morto da troppo poco perché  l’odore fosse già scomparso. Un qualunque naso un po’ fino l’avrebbe sentito.

Lo sconosciuto sorrise: del resto il cuore del ragazzo aveva battuto troppo a lungo.

La ragazza tornò poi al suo tavolo con la birra che aveva ordinato e le chiavi della stanza dodici.

“La zero?”

La cameriera guardò lo straniero confusa, poi rispose: “Non abbiamo una stanza zero, signore, mi dispiace…”

Lo sconosciuto sorrise “Lo immaginavo” disse, tornando poi a guardare fuori dalla finestra appannata e congedando così la ragazza che s’affrettò a tornare al bancone.

Nonostante lo straniero continuasse a guardare fuori dalla finestra, si accorse benissimo che la cameriera continuava a lanciare delle occhiate incuriosite nelle sua direzione.

Gli occhi blu ritornarono poi sulle persone nel salone e la cameriera fu da lui senza che questi avesse accennato a chiamarla.

La ragazza si fermò a guardare quegli occhi dal colore irreale.

“Desiderate?” chiese infine.

Lo straniero sorrise, di quei sorrisi impossibili da leggere, che vogliono dire tutto e nulla, ma che si preferisce sempre non aver visto.

La cameriera fece un passo indietro, senza accorgersene.

Lo straniero distolse lo sguardo.

“Il padrone?”

Alla ragazza fu subito ovvio che la domanda non fosse chi fosse, ma dove fosse. Buon per lei, essere così intuitiva - pensò lo sconosciuto.

“Non so dove sia” era la verità “deve avere avuto qualcosa di urgente da fare…” per lasciarmi qui con tutte queste persone. Non lo disse, ma lo lasciò bene intendere.

Il padrone non c’era.

Lo sconosciuto scosse impercettibilmente la testa: lo sapeva. Il chiederlo era stato superfluo.

Si alzò, prendendo la chiave della stanza dodici e appoggiando tre monete d’argento sul tavolo.

“Scusatemi” la ragazza si stupì del suo coraggio nel richiamare l’attenzione dello straniero “Posso…”esitò “Posso chiedervi da dove venite?”

“No” le rispose lui fissandola attraverso i ciuffi della sua frangia che di nuovo gli ricoprivano gli occhi.

La ragazza ebbe paura di quella risposta, ma ugualmente annuì: “Capisco… e il vostro nome?”

Era impazzita, dopo quella risposta, perché insistere con quello straniero? Quella semplice domanda avrebbe potuto causarle di tutto, ma non era stata in grado di resistere.

L’aria vicino allo straniero era davvero gelida.

“Cos’è questa?” le chiese lui indicando l’elsa dell’Ectelium.

Lo ragazza aggrottò la fronte “Non lo so, signore. Apparentemente l’elsa di una spada, ma penso che in realtà sia ben altro”

Lo straniero la guardò di nuovo, questa volta senza minacciarla

“Sei stata istruita bene” disse voltandole definitivamente le spalle. “Zero” disse poi dirigendosi verso lo scalone che portava alle stanze.

La ragazza lo guardò allontanarsi, inebetita ed incurante delle voci intorno a lei che la chiamavano perché prendesse i loro ordini.

Il nome dello straniero era Zero.

 

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Capitolo 2
*** Bianco ***


Nuova pagina 1

(La risposta alle vostre recensioni è in fondo alla pagina ^_^)

 

 

02. Bianco

 

La donna scese lentamente le scale, lasciando che la sua veste di scena strisciasse languidamente sugli scalini. Aveva un portamento altezzoso, lo sguardo alto e il mento sollevato. La sua alterigia strideva però con il suo viso ed il suo corpo, così vecchio e raggrinzito da apparire troppo fragile per tanto orgoglio. Ma il pubblico ancora l’applaudiva e lei, l’attrice, viveva per quel suono. Nel suo camerino si permise di sospirare e lasciare cadere leggermente le spalle. Osservandosi poi allo specchio, sorrise: una vecchietta ricurva, con troppo trucco sulle guance e troppo rossetto sulle labbra. Quel vestito di raso non le stava così bene lì, nel camerino, rispetto a come le stava sul palco.

Le luci della scena le volevano bene e nascondevano tutta la sua vecchiaia.

Si tolse una forcina dai capelli, poi notò un’ombra allo specchio.

“Sei arrivato, dunque”

“Mi aspettavi?”

La vecchia annuì osservando lo sconosciuto che fece un passo avanti. I suoi capelli riccioli erano candidi come la neve. Sembravano così leggeri e morbidi che, toccati, sarebbero spariti. Erano raccolti in una coda folta e lunga, per la quale la vecchia sospirò: “Vorrei anch’io dei capelli così” disse fra sé e sé e lo sconosciuto non rispose.

La donna continuò a squadrarlo. Alto, avvolto in un cappotto dello stesso colore dei capelli, perfettamente latteo, l’uomo non sembrava appartenere a quella città.

“Sì, ti aspettavo” rispose infine la vecchia. “Sai” aggiunse “Per noi umani ottant’anni equivalgono alla vecchiaia e questa vecchiaia ti porta un po’ di saggezza. E di memoria. Io ricordo tutto”

Lo sconosciuto sorrise, sinceramente compiaciuto.

“Quindi non ci saranno non volevo o non sapevo da parte tua…”

La vecchia si guardò nello specchio.

“La tua vittima precedente ti ha detto così?” ma non aspettò una risposta che sapeva non sarebbe arrivata e prese una sigaretta dalla sua borsa “Non so perché ricordo quel che ho fatto e non so se la tua precedente vittima davvero non se lo ricordasse, toglimi una curiosità però, una sola, te ne prego…”

Lo straniero fece qualche passo in avanti verso la donna. Il soprabito non copriva bene l’elsa di una spada che sporgeva sul fianco destro dell’uomo, legata ad una catena argentea.

Si fermò di fronte a lei ma non fece niente. La vecchia interpretò quel gesto come un permesso per parlare.

“Non ti chiederò perché lo fai, quello lo so già. Ciò che vorrei sapere è se lui si ricorda ancora di te”
La vecchia guardò nelle iridi dello sconosciuto, grigie, così chiare da sembrare bianche. Ma nonostante quel colore algido, le parve di intravedere tristezza, per un istante.

Lui le aveva dato il permesso di porgergli quella domanda e probabilmente non s’era curato di nascondere la risposta, che comunque mise anche in parole.

“In tutti questi secoli non mi ha mai cercato e ora che sono qui, non è venuto da me. Lui m’ha già dimenticato. Mi ha dimenticato da subito.”

La vecchia fece un ultimo tiro della sua sigaretta annuendo.

Si guardò di nuovo nello specchio: non era importante l’origine, alcune cose capitavano sia all’Inferno che sulla Terra. E sospirò, lasciando andare il ricordo lontano di un uomo che l’aveva dimenticata.

Guardò un’ultima volta lo straniero negli occhi e annuì: era pronta.

L’Ectelium le penetrò il cuore silenziosamente e lei, non emise un suono. Si accasciò sulla poltrona con l’aria serena.

Una piccola goccia del suo sangue macchiò il soprabito candido dello straniero.

La domanda della donna l’aveva distratto, e quella macchiolina rossa ne era la prova.

Ma come avrebbe potuto rimanere indifferente a quella domanda? Per anni, per secoli aveva aspettato. Aveva sperato. E non era accaduto nulla.

Ora aveva attraversato l’Inferno intero, risalendo lungo la Strada della Redenzione perché gli fosse permesso di mettere piede sulla Terra, e l’altro non l’aveva neanche riconosciuto.

Legandosi l’Ectelium alla vita cercò di liberarsi dalla sensazione di non essere più voluto.

Ciononostante si diresse ugualmente verso la locanda, dove avrebbe passato la seconda notte.

La luna, quella sera era piena. Enorme. E lo illuminava, nei suoi vestiti bianchi.

 

La locanda, anche quella sera, era stracolma di gente e straripante di parole e fumo. Tuttavia tutti si scostarono per far passare lo straniero che si diresse verso le scale e poi al piano di sopra, prima di prendere posto ad uno dei tavoli che qualcuno gli avrebbe nuovamente lasciato.

Voleva pulirsi la manica da quella macchiolina rossa.

Al primo piano, al contrario che al pian terreno, regnava la calma. Le voci degli avventori della locanda erano ovattate. Tutto sembrava lontano. Lo stranierò sospirò, ma non fece in tempo a fare altro perché qualcuno lo spinse contro la parete, afferrandogli la manica macchiata con forza e costringendolo ad  alzare il braccio sopra la testa.

“Che cattivo gusto!”

Lo straniero sorrise: “E’ proprio tipico di te esordire con una frase così”

Il padrone della locanda guardò il suo interlocutore.

“Non è da te macchiarsi, né per altro farsi sorprendere come ho appena fatto io”

L’altro  spinse via l’uomo che lo teneva fermo al muro: “Non è da me… è buffo che tu lo dica. Comunque” aggiunse poi scrollando le spalle “Non c’è niente che mi possa minacciare qui”

“Ti sbagli, Zero”

“Non posso permetterti di uccidermi. Non adesso comunque”

“Quindi hai intenzione di uccidere anche il terzo?”

“E’ una domanda sciocca da parte tua, Ci. Dopo che avrò ucciso il terzo, allora sarò io stesso a chiederti di uccidermi”

Ci aprì la bocca, ma esitò per un istante: “Perché sei qui, Zero?”

“Fai domande sciocche, oggi” rispose Zero voltandosi, ma non distogliendo completamente lo sguardo dal padrone della locanda.

Rimasero in silenzio per un po’. C’era un vuoto creato dagli anni trascorsi che non poteva essere colmato.

Poi Zero sospirò e diede definitivamente le spalle a Ci, allontanandosi. Avrebbero parlato dopo la sua terza vittima, un altro giorno. Quella sera non aveva più niente da dire.

 

 

 

In questi giorni non c’è davvero tregua. Gli avventori della locanda sembrano essersi moltiplicati d’improvviso. Anche questa sera, così come le precedenti, devo correre fra un tavolo e l’altro per cercare di soddisfare le loro richieste il più celermente possibile. Gli altri camerieri del locale sono indaffarati come me, sembra non ci sia un attimo per respirare.

Il capo non s’è fatto vedere per tutta la serata. E’ nel retrobottega, l’ho visto prima quando sono andata a prendere un nuovo fustone di birra, ma non s’è mosso neanche quando l’ho salutato. M’ha risposto con un mugugno, un suono breve della voce che forse doveva sostituire un normale ciao. Che strano, mi sarei aspettata chiedesse com’era la situazione al bar, se le provviste, la birra e il vino fossero sufficienti…Mi sarei aspettata qualche commento, ed invece è rimasto in silenzio.

Il capo ultimamente era molto strano. Non saprei dire da quando sia cambiato, ma sono certa che qualcosa turbi il suo animo. Io ho sempre capito il capo e ora invece non ci riesco più. E’ come se ci fosse un muro fra noi, un muro tanto invisibile quanto invalicabile. E io me ne sto qui, ad ammirare i suoi occhi a mandorla e a chiedermi che cosa hanno visto e ad ammirare le sue mani, che lentamente si portano una sigaretta alle labbra.

Anche quando sono ripassata di fronte al suo ufficio, portando il fustone di birra, ho dato un’occhiata a cosa stesse facendo, ma non s’era mosso dalla posizione in cui l’avevo visto qualche minuto prima.

E’ successo qualcosa, qualcosa che mi sfugge. Sospiro, augurandomi sia solo qualcosa di passeggero.

Sono distratta dal grido di un forestiero che mi chiede più birra e comincio a spinargliela. Qualcun altro mi chiede qualcosa, ma ci sono troppe voci e troppo fumo nella locanda quella sera: non riesco bene a distinguere cosa dica.

La nebbia creata dai sigari e dalle pipe si dissolve in un attimo e io ho una chiara sensazione di deja-vu. Istintivamente, alzo lo sguardo per vedere chi sia entrato nel locale.

Un uomo, uno straniero sicuramente, è in piedi alla porta. I suoi riccioli candidi cadono sul viso coprendogli leggermente gli occhi. Il resto dei capelli è racconto in una coda lunghissima. Anche i suoi vestiti sono bianchi come la neve. E ancora una volta, noto un’elsa spuntare dal lato destro del suo fianco.

Nonostante i lineamenti siano diversi, nonostante i capelli siano l’opposto, nonostante quest’uomo non rassomigli per niente allo Zero che è venuto durante l’ultima luna nuova, ho la certezza che si tratti della stessa persona. Non sono in grado di dire come possa cambiare le sue fattezze così tanto, né perché sia così sicura si tratti di Zero. Eppure qualcosa in me ne ha la certezza.

Mi chiedo come mai sia di nuovo venuto alla nostra locanda.

La sera di luna nuova, la prima volta in cui Zero era entrato da quella porta, quel giorno hanno dato notizia della morte del figlio del console. Ne ho letto dettagliatamente i giorni dopo, di come l’assassino non abbia lasciato nessuna traccia di sé, di come nessuno nella casa si fosse accorto dell’intruso, di come il ragazzino non avesse neanche gridato o cercato di difendersi. I giornali hanno scritto che il suo cuore era stato trafitto da una lama molto affilata e da una mano molto precisa che non aveva lottato, né cercato di colpire il bambino più volte. Era andata subito a segno, formando il cuore della sua vittima. Non ho pensato che ci fosse alcuna relazione fra l’assassinio e Zero, anche se uno straniero dalle fattezze così insolite ed un omicidio così efferato avrebbero dovuto forse farmi sospettare.

Del resto la criminalità in città s’è così abbassata ultimamente che nessun cittadino avrebbe mai compiuto un atto talmente crudele.

Per la seconda volta vedo Zero, sotto vesti diverse, ma pur sempre lui. E proprio in quel momento il telegiornale dà la notizia della morte di una delle più famose attrici di teatro dello stato.

Anche lei è morta trafitta al cuore da una lama affilatissima, anche in questo caso nessuno l’ha sentita gridare.

La polizia non dà notizie sulle eventuali tracce che l’assassino ha lasciato…e se anche in questo caso non fossero in grado di scoprire il colpevole?

Trovo che sia una strana coincidenza il fatto che i due omicidi siano capitati entrambi nelle sere in cui Zero ha varcato la soglia della nostra locanda.

Il capo mi ha detto di non fare domande e di non parlare, di lasciare l’arma allo straniero e di prendere solo le ordinazioni. Me l’ha detto con un tono talmente serio che per me è impossibile disobbedirgli. Mi guardo bene quindi dall’indagare se davvero sia Zero l’assassino che la polizia cerca.

C’è un sottile filo d’ansia e di terrore che mi pervade, tenermi lontana da quell’uomo sembra l’unica cura per non gridare di paura.

Zero non si siede, come mi sarei aspettata, ma sale le scale per raggiungere il piano di sopra. Lo guardo scomparire oltre la porta, e non mi accorgo che anche il capo è uscito dal retrobottega e guarda lo straniero sulle scale.

Lo vedo però corrergli dietro, fare gli scalini velocemente per raggiungerlo.

Il mio capo non rincorre mai nessuno: è pacato e sempre calmo. Non alza la voce, non si arrabbia, non s’infervora mai. E’ sempre in perfetto controllo del mondo che lo circondava: il mio capo non ha mai salito gli scalini così velocemente.

Mi chiedo il perché e mi chiedo come Zero e Ci si conoscano.

E mi chiedo se la stranezza del capo in questi ultimi giorni sia in qualche modo legata allo straniero.

Qualcuno mi chiama e io devo ritornare ai miei doveri.

Sospiro. Forse si tratta solo di un momento passeggero.

Dopo un po’ Zero scende le scale, da solo. Del capo non c’è traccia. Che mi sia sbagliata? Che Ci non sia corso dietro a Zero, ma semplicemente abbia avuto fretta per un altro motivo?

Zero si siede ad un tavolo che altri avventori lasciano immediatamente libero.

Faccio un respiro profondo: per quanto non voglia, devo andare da lui e prendere l’ordinazione.

“Buonasera, vuole ordinare?” Mi guarda con quelle iridi quasi bianche. Ricordo che nelle sue vesti blu quegli stessi occhi avevano raggelato l’aria. Ora, vestiti di bianco, avevano uno sguardo più pacato, forse malinconico.

Guardandoli e aspettando una risposta, ho una sensazione d’abbandono.

“Da quanto tempo lavori qui?”

Non m’aspetto quella domanda, perciò devo pensare alla risposta.

“Circa quattro anni…” dico infine.

“E ti ha assunto Ci?”

Mi stupisco della confidenza con cui lo straniero pronuncia il nome del mio capo. Annuisco.

“Sì, anche se non credo abbia neanche letto il mio curriculum…”

“Questo perché capisce sempre se chi gli è davanti è intelligente…” dice fra sé e sé.

Lo prendo come un complimento nei miei riguardi, senza per altro capire dove voglia andare a parare.

“Questo posto è suo?”

“Sì. Lo gestisce lui, ma penso anche gli appartenga”

Zero sorride, come se questo gli dicesse qualcosa che a me sfugge. Difatti subito dopo aggiunge:

“Tipico comportamento di un Notturno, volersi confondere fra la folla…”

E questa frase mi confonde ancora di più.

Un Notturno? Non ho idea di che cosa parli e lui lo sa benissimo, perché mi guarda e ride.

“Non pensare troppo. Non c’è una risposta alle tue domande fra le mie parole”.

Corrugo la fronte: si sta prendendo gioco di me?

Lui scuote la testa: “Volevo solo sapere da quanto tempo Ci era qui… Tu lo sai?”

“Da quando la locanda è stata aperta, credo” gli rispondo incerta e a disagio. Avevo paura di quell’uomo, ma ancora di più avevo paura della sua capacità di avere da me notizie che non capivo e che, apparentemente, per lui avevano invece senso. Che cosa voleva?

“Un birra e la chiave della stanza dodici” dice infine.

La stessa stanza della volta precedente. Non è libera, questa sera, ma non glielo dico: farò in modo di liberarla. Zero non può essere contraddetto.

Mi allontano velocemente per preparargli la birra, ma non posso fare a meno di guardarlo.

E’ diverso dalla prima sera in cui l’ho visto. E non mi riferisco solo alle vesti e ai lineamenti. L’aria che lo circonda non è intrisa di sangue come l’altra volta e la sua pelle non trasuda cattiveria. Come invece faceva l’altra volta.

Se mi fosse possibile un azzardo, pare quasi che sia avvolto da un senso di abbandono. In quel candido manto bianco, sembra inavvicinabile e lontano da tutto.

Sembra una condizione che gli è stata imposta…

Non mi soffermo troppo a pensare perché mi do della sciocca. Il terrore che genera in me l’idea di tornare da lui e portargli la birra mi ricorda immediatamente la prima sera che l’ho incontrato.

Alla fine, forse, non è vero che è così diverso.

 

***

Dolceamara: Grazie *_* Davvero. In effetti, la fase del "piacerà/non piacerà" è una fase che temo sempre mi colpisca e che, in qualche modo, mi depisti XD. Ovviamente, pubblicando un lavoro, tengo molto a vedere cosa ne pensano gli altri, ma cerco sempre di non compiacere nessuno. A volte la linea di distinzione però, è sottile
Amore passionale per i capelli lungi ... Nella realtà direi che non fa grossa differenza la capigliatura di qualcuno. Però, quando scrivo, mi ritrovo spesso con personaggi capelloni. Forse è un messaggio subliminare del mio subconscio
. eh eh eh  
Ti ringrazio tanto per le tue parole e il tuo sostegno, spero di risentirti. Baci anche a te.

BarbaraG: Wow, non dire ed incuriosire... E' esattamente quello che volevo fare ^_^ Raggiungere lo scopo dà un certa soddisfazione (/me tronfia ahah). A dire il vero, Ling è appoggiato su un substrato molto complesso e lungo (maturato da me nel corso di anni), che penso dia un'aura molto ampia al racconto. Ling di per sè è uno scorcio, ma forse, proprio perchè è ambientato in un mondo in cui io so che è successo "quello, quello e quell'altro (in tante altre storie che ho scritto), mi riesce di dare una certa tridimensionalità agli eventi, anche in soli 3 capitoli. Baci baci

 

 

 

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Capitolo 3
*** Rosso ***


Nuova pagina 1

03. Rosso

 

 

Se qualcuno avesse alzato lo sguardo, quella sera, avrebbe visto Zero seduto sul cornicione del campanile. Aveva la schiena appoggiata all’indietro, ma una delle gambe era lasciata libera di ondeggiare – avanti e indietro – nel vuoto.

Anche i capelli ondeggiavano al vento, ma lui non si muoveva. Lassù non si sentivano bene i rumori della città, ma non era importante. Quella città, i suoi rumori e le sue vittime…Niente era importante.

Lo era solo la sua vendetta, ormai, perché non gli era rimasto nient’altro.

Davvero, sulla Strada della Redenzione aveva pensato che avrebbe potuto portare Ci con sé? Che avrebbe potuto riprenderselo?

Forse. Nei quattrocento anni che gli erano stati necessari per purificare a sufficienza la sua anima per calcare il suolo terrestre e non essere ricacciato all’Inferno, probabilmente per un pochino, aveva sperato che Ci sarebbe tornato con lui.

Aveva sperato che ci fosse una spiegazione al fatto che Ci non avesse dato più notizie di sé, che non avesse cercato di contattarlo. Zero sapeva che Ci non sarebbe potuto tornare all’inferno da solo, ciononostante aveva sperato – forse – in un qualche contatto.

Zero sapeva che l’anima di Ci era stata sigillata per qualche motivo: aveva fatto qualcosa di così grave per cui la sua anima era stata sigillata e punita, impedendole di tornare a casa propria.

I sigilli posti sulla sua anima l’avevano tenuto in carcere. Anche se Ci non era mai stato davvero dietro a delle sbarre, la sostanza non era molto diversa. Non poteva andare da nessuna parte.

Ci era stato obbligato a rimanere sulla Terra, soggiogato dalla volontà di Dio. Non era forse uguale all’essere imprigionato?

Ma avrebbe potuto trovare il modo di comunicare con Zero, di dirgli dove fosse…di dire qualcosa.

E invece non aveva fatto nulla, era semplicemente scomparso.

Con quanta difficoltà Zero era riuscito a scoprire cosa fosse successo a Ci! E con quanta difficoltà aveva abbandonato la parte più profonda dell’Inferno, aveva abbandonato i Vendicatori suoi simili ed era risalito.

Probabilmente quindi, sì, aveva sperato di poter portare Ci a casa.

Ma l’altra sera era stato evidente che Zero era solo un illuso.

Ormai non gli rimaneva nient’altro che il suo istinto, che doveva assecondare: doveva vendicarsi. Poi sarebbe tornato lui solo, a casa.

Sospirò e si alzò in piedi. La veste cremisi venne scossa dal vento che s’era alzato, così come i suoi capelli scarlatti: quella sera ci sarebbe stato un bagno di sangue.

 

 

Avevano tutti fra i venti e i trent’anni e ballavano come dei forsennati. La musica era alta e loro ballavano, strusciando i loro corpi sudati, l’uno contro l’altro. C’era un che di orgiastico nella scena che Zero si fermò a guardare, un misto di ingenuo e libidinoso che lo fece sorridere. La terra era stracolma di residui e surrogati di scene e ambienti presenti in Paradiso o all’Inferno, e questa era una. Zero arricciò il naso, infastidito.

Non aveva voglia di perdere tempo: voleva andarsene via.

Non c’era motivo per rimanere lì, fra cose e persone che l’annoiavano. Quattrocento anni per raggiungere questo posto e un attimo per andarsene.

Non prima di aver portato a termine quello che s’era prefissato di fare.

I suoi capelli rosso fuoco e la sua veste catturano gli sguardi curiosi di molte ragazze. Ha una bellezza così ultraterrena, che molte gli si avvicinarono, incuriosite.

“Andatevene subito” l’ordine di Zero fu perentorio. Non erano certo loro il suo obiettivo, ma non si sarebbe fatto nessuna remora a schiacciare chiunque lo avesse anche solo infastidito. Non parliamo poi di chiunque l’avesse rallentato.

C’era un ragazzo, in mezzo alla sala, avvinghiato mani e bocca alla sua fidanzata, che non si era accorto che Zero era entrato in discoteca. Se n’erano accorti tutti, tranne loro due. La musica aveva rallentato, era diventata più fioca, le luci s’erano spente, se non quelle rosse, che riverberavano sugli occhi scarlatti del nuovo arrivato.

La stanza era pregna di un forte odore di sangue, ma nessuno era ancora morto. La musica s’interruppe del tutto, e solo quando fu completamente spenta, il ragazzo e la ragazza se ne accorsero.

“Ehi…” disse, ma poi non disse altro, scioccato dalla scena che gli si presentò davanti agli occhi. Tutti i ragazzi all’interno della discoteca lo stavano guardando, catatonici e immobili, sotto le luci rosse dei fari. E un uomo era così vicino a loro che il ragazzo fu costretto a fare un passo indietro.

La ragazza, però, non accettò nessun buon consiglio suggeritogli dalla ragione e cercò di spingere via Zero.

“Ehi, qui sto ballando col mio ragazzo…”

Che tono petulante e che mani sudice addosso. Perché farsi coinvolgere, quando non era lei che Zero cercava?

Ma il rosso non  era certo in vena di suggerimenti.

Lui odiava quella ragazza, odiava quel posto e quel mondo.

Lui odiava tutto quello che questo rappresentava e quello che gli aveva rubato!

Afferrò la ragazza per la faccia, con una mano, e la scaraventò lontano, contro la parente. Nella stanza silenziosa, si sentirono le sue ossa spezzarsi e il gemito di lei, quando ricadde per terra, immobile. Nessuno si curò di andare a vedere se fosse ancora viva, rimasero tutti immobili.

Uscì sangue dal suo corpo, rosso intenso.

“Che cosa vuoi?” gli chiese il ragazzo e Zero rivolse la sua attenzione verso di lui.

Sorrise prima, poi rise, non riuscendo a fermarsi.

Che cosa voleva…

“Voglio qualcuno che mi ha lasciato” gli disse sinceramente “e voglio ucciderti”.

Il ragazzo non fece in tempo a muoversi, perché un pugno lo colpì in pieno viso. Cadde a terra,  con la mandibola rotta e il sangue che gli usciva dalle labbra.

“Che cosa voglio?” Zero chiese gelido “Innanzitutto ridammi quello che m’hai preso!” Calpestò la pancia dell’uomo con tale violenza da lacerargli l’addome.

“Come siete poco furbi…” disse Zero mentre l’altro gridava dal dolore “Siete così stupidi…”

L’Ectelium s’illuminò di rosso, così come il corpo lacerato del ragazzo, che sgranò gli occhi e smise di gridare.

“Prendere qualcosa che non vi appartiene, vostra madre non vi ha insegnato che non si fa?”

Zero si chinò sul ragazzo immobile, inzuppando la mano nel sangue che usciva copioso dall’ addome. “E prendere qualcosa ad un demone, poi, è così stupido…Perché davvero…Come potete pensare che rimarrà a guardare? Ma ancora di più…” fece una breve pausa per leccarsi la mano insanguinata “Ancora più stupido è rubare qualcosa che appartiene ad un Vendicatore. Come speravi di cavartela?”

Il ragazzo cominciò a piangere.

“Sei ributtante”

Zero trafisse con l’Ectelium il cuore del ragazzo, che rantolò, ma non sfilò subito la lama, nonostante il cuore avesse smesso di battere. Lo squarciò, per esporlo alla luce rossa dei fari che ancora illuminavano la discoteca.

Ci non lo voleva e lui era costretto a vivere col rifiuto dell’unica persona che voleva vicino. Perché questi umani piangevano per così poco?

Da solo, in eterno. Abbandonato. Con solo la Vendetta come compagna e amica e quell’odore di sangue che lo illudeva di avere ancora senso, ora che Ci non sarebbe più tornato da lui.

Per cosa piangevano, questi umani, per cosa gridavano? Per cosa brillava di rosso il loro sangue, quando potevano morire e smettere di pensare. E smettere di soffrire.

Cosa esistevano a fare, nella loro stupidità?

Decapitò il ragazzo, per cercare di non gridare d’ira.

Uscì dalla discoteca e non riuscì a trattenersi, gridò. Gridò stringendosi il capo con le mani. Accovacciandosi a terra. Aveva il fiato corto e rivoli di sangue non suo che gli scorrevano sulle guance.

Ora il suo compito sulla terra era finito, poteva tornare a casa.

 

 

 

Entra nuovamente nella locanda come fosse la prima volta che ci mette piede. E invece io lo riconosco, nonostante sia ancora diverso, coi capelli fulvi e gli abiti color del sangue: io so che è Zero.

Sono sempre più confusa perché non capisco chi sia. E’ Zero, ma di più non posso dire. Le iridi rosse trasudano ira e disperazione. Si avvicina al bancone e nessuno osa toccarlo, le persone nella locanda si scostano in fretta per lasciargli libero il passaggio. Io sono lì, che sciacquo un bicchiere, ma non stacco gli occhi da lui. Temo per la mia vita.

“Le chiavi della mia stanza” mi dice, gelido. Sa bene che l’ho riconosciuto e sa bene che ho paura di lui come non ne ho mai avuta prima. Se blu m’aveva spaventata e derisa, se in bianco quasi avevo frainteso la sua distanza per tenerezza, col rosso non ho dubbi: è sangue. E’ il sangue che lo nutre ed è il sangue che vuole. Di chi sia il sangue, poco importa.
Mi affretto a dargli la chiave numero dodici.

Lui non ordina nient’altro, se ne va e solo in quel preciso istante mi lascia intravedere che non gli interessa nulla, né di me né degli avventori del locale. Non è il mio sangue che vuole, né devo temere per gli altri. Vuole qualcosa che non può ottenere, né che io posso dargli. Lo guardo salire le scale che portano al primo piano e poi scompare. La locanda ritorna ad essere chiassosa come pochi minuti prima, finché m’accorgo che il bicchiere che stavo asciugando è in frantumi sul pavimento.

Devo averlo lasciato cadere, il capo mi sgriderà.

 

 

“Ora uccidimi” il buio della stanza era smerigliato solo da un piccolo lumicino appoggiato sul comodino, ma per Zero non faceva alcuna differenza, perché i suoi occhi erano abituati ad oscurità ben più cupe.

“Uccidimi” ripeté.

La stanza dodici, la sua stanza, non era vuota come l’aveva sempre trovata.

Ci era seduto sulla poltrona nell’angolo, ma Zero non si era girato a guardarlo, si era tolto il cappotto rosso, che aveva appoggiato sulla sedia vicino alla finestra, e aveva disfatto i lacci che tenevano legata la sua Ectelium alla cintura. E poi s’era messo a guardare fuori dalla finestra, dando le spalle all’ospite nella sua stanza.

“Non posso farlo” rispose Ci e Zero sorrise amaro.

“Mi vuoi condannare di nuovo… Mi vuoi punire perché non condividi ciò che ho fatto, obbligandomi a vivere in un mondo che detesto”

“Puoi toglierti la vita tu stesso”

“Per rientrare all’Inferno dall’Antro dei Suicidi? Davvero mi odi così tanto?” Zero non cercò di nascondere l’amarezza nella sua voce “Quando morirò, ritornerò all’Inferno, ma vi ritornerò come l’anima appartenuta ad un mortale, non come Vendicatore”

“Non ti ci vorrà molto per ritrovare la tua forza, un Vendicatore rimane un Vendicatore, anche se è diventato mortale per un po’”

“Quanto ci metterò? Dimmelo tu Ci. E per quel lasso di tempo mi vuoi obbligare a stare con quelle anime insulse dei suicidi che, senza capire dove si trovano, gridano e corrono alla rinfusa?”

“Non posso ucciderti, Zero…”

Zero sospirò.

“Ho impiegato quattrocento anni per purificare la mia anima a sufficienza per mettere piede sulla terra. Per ritrovarti… Uccidimi, è l’unico favore che ti chiedo. Nessun altro può farlo”

Nessuno dei due parlò, per un po’.

“Hai liberato la mia anima dai tre sigilli” Ci riprese a parlare “Ma nessuno è ancora venuto per legarmi e ricacciarmi all’Inferno”

“Questo perché in questi quattrocento anni la tua anima s’è abituata alla terra e non è più così nera…” Zero sorrise “Che ironia!” disse stringendo i pugni “Non lo trovi anche tu ironico? Un demone, dal più profondo Inferno scompare senza lasciare traccia di sé. Lascia la sua casa senza dirmi niente e solo dopo ricerche affannose, scopro che ha fatto qualcosa di tanto grave da meritarsi una delle punizioni peggiori: avere l’anima sigillata ed essere obbligato a seguire i dettami di Dio. Obbligato a comportarsi come gli viene imposto e obbligato a vivere sulla terra, senza far male a nessuno. Questo stesso demone ora, libero dai sigilli che gli erano stati imposti, non sa neanche più quale sia casa sua e ritiene la Terra un luogo degno dove vivere…”

Ci si alzò in piedi.

“Cosa trovi di ironico in tutto questo” chiese poi spazientito “Che cosa…?
Ma Zero lo interruppe.

“Hai idea di cos’ho dovuto fare per sapere che cosa ti fosse accaduto? Hai idea di come e quanto ti ho cercato? Della mia preoccupazione e della mia paura?”

“Un Vendicatore che ha paura?” chiese Ci sarcastico.

“Risparmiami il tuo scherno, Ci, perché sai bene che vederti scomparire voleva poter dire solo due cose: o eri stato obbligato ad andartene, o te n’eri andato volontariamente. E stupidamente ho subito scartato quest’ultima ipotesi… Stupidamente pensavo che non m’avresti mai lasciato so…”

“Non parlare di ciò che non sai!”

“Di ciò che non so?” il lumicino si spense, sotto l’ira di Zero e il cielo divenne più cupo “Di ciò che non so, dici? Ti ho cercato, Ci. Ero disperato! Ti ho cercato, e tu non eri da nessuna parte”

Ci non rispose.

“Sono risalito fino al confine esterno dell’Inferno, ma nessuno sembrava averti visto, nessuno sapeva di te. Più probabilmente, stupidi come sono, quei demoni inferiori non sanno come si entra nelle grazie di uno più potente di loro”

“E come hai saputo dove fossi?”

“Me l’ha detto Esse”

“Esse?”

Zero annuì “M’ha detto che avevano posto tre sigilli sulla tua anima, perché eri stato giudicato colpevole per qualcosa che lui non sapeva”

“Solo Lucifero sapeva” Ci scosse la testa “Ma tu hai creduto ad Esse?” c’era un’inflessione, nella sua voce, che tradiva un certo stupore. Sebbene non nemici dichiarati, nessun demone avrebbe mai dato fiducia ad un altro.

“Non aveva motivo di mentirmi” spiegò Zero.

“Esse è un Sobillatore”

“E’ troppo intelligente per mentire senza motivo. E fra noi non ce n’era alcuno. L’informazione è stata debitamente pagata e, come vedi, non era errata”

“Esse ha visto il processo” Ci sorrise amaro “Se così possiamo chiamarlo… Dovevi vedere quanti mortali sono accorsi per accaparrarsi la cura dei tre sigilli che mi erano stato apposti sull’anima. Migliaia. E di loro ne sono stati scelti solo tre. I mortali che hai ucciso non ne avevano colpa, Zero. Se i sigilli non fossero stati dati a loro, qualcun altro li avrebbe presi”

“Non m’interessa!” Zero soffocò a malapena lo sdegno “Non m’interessa! Non doveva presentarsi nessuno. Nessuno può appropriarsi di ciò che è mio. Avrebbero dovuto temere le conseguenze delle loro azioni”

“Conservare un sigillo di un demone rende immortali Zero. Sai come gli umani sono ossessionati dalla morte, quanta paura ne hanno. La possibilità della vita eterna è un aspettativa troppo succulenta per lasciarsela sfuggire”

Zero sorrise “Da quand’è che sei diventato così ragionevole?” Poi gli andò vicino, puntandogli la mano contro il petto “Da quando sei così buono, Ci? Se questo mondo umano ti piace così tanto, rimanici. Vivi e muori come uno di quei dannati umani! Ammazzami. Solo questo” La sua voce si spezzò “Ammazzami e poi ti lascerò solo, come tu hai fatto con me, se è questo ciò che vuoi”

Zero si ritrovò scaraventato contro la parete, con Ci addosso, le braccia imprigionate nei pugni di Ci e gli occhi infuriati dell’altro davanti ai propri.

Non fece nulla per liberarsi da quella stretta piena di rancore, guardò semplicemente l’altro demone in attesa.

Ma Ci non fece niente, combattuto fra troppi desideri e volontà, rimase immobile.

La stanza fu invasa dal silenzio.

Poi Ci prese fra le dita una ciocca di capelli di Zero

“Rossi come il sangue… Ho sempre amato i tuoi capelli e quando ti ho visto entrare per la prima volta, ammantato di blu, ho pensato avessi già vinto, solo grazie a quel colore”

“E’ una guerra quella che stiamo combattendo, Ci?”

“E’ una guerra che io ho perso in partenza”
Zero aggrottò la fronte senza capire.

Ci sospirò “Vuoi sapere perché sono stato condannato?” dovette interrompersi, per riprendere fiato “Vuoi sapere che cos’ho fatto di così terribile da non meritare un processo? Sono stato condannato immediatamente, senza la possibilità di fare nulla. Devo avere davvero fatto qualcosa di terribile…”

Zero annuì.

“Ricordi di cosa parlavamo, il giorno prima che io scomparissi?” Zero annuì, si ricordava ogni parola, ogni gesto. Si ricordava tutto, perfettamente.

“Parlavamo del Ling, la pianta eterna. Delle sue radici, che affondano fin nel centro dell’Inferno, del suo fusto che percorre tutta la Terra, e dei suoi rami che attraversano tutto il cielo”

Ci annuì, allontanandosi da Zero e perdendosi un attimo con lo sguardo alla finestra.

“E ti ricordi che cosa mi hai detto?”

“Che mi sarebbe piaciuto rivederne i fior…” poi Zero s’interruppe di colpo, sgranando gli occhi.

Ci rise, sommessamente “Io sono un Notturno, Zero, e la mia irrazionalità mi guida. E’ un fardello, oltre che una forza e…” fece una pausa, quasi quelle parole gli provocassero dolore “Tu non facevi che aggravarla. Quando io ero con te…” di nuovo, s’interruppe, appoggiandosi una mano sulla fronte.

“Quando tu eri con me, cosa?”

“Io ho invaso il Paradiso” l’amarezza di quelle parole permeò l’aria. Zero s’irrigidì “Perché mi avevi detto che ti sarebbe piaciuto rivedere i fiori di Ling. Io, per te, ho invaso il Paradiso.” Ci si guardò le mani e poi i polsi, dove ancora potevano vedersi i segni delle catene.

“Volevo solo prendere un fiore dall’Eden. Non volevo certo iniziare una guerra… Nella totale irrazionalità di quel pensiero, non m’importava sapere che fosse proibito. Me ne sarei andato subito, non se ne sarebbero neanche accorti…” Ci rise “Avranno sentito la mia aura ben prima che entrassi l’Eden. Non l’avevo certo purificata, né avevo camminato lungo la Strada della Redenzione. Nulla. E mi hanno schiacciato. In Paradiso si è così deboli…”

Ci si girò verso Zero, guardandolo in quegli occhi rossi che non dicevano una parola. “Per rubarti un fiore sono stato condannato. E ora, dopo quattrocento anni, ho imparato a convivere con questo mondo. Ma all’inizio, il supplizio che ho dovuto subire non ha eguali. Mai ho pensato si sarebbe potuto soffrire tanto. Non solo le catene, il dolore, ma la volontà di Dio imposta su di me mi schiacciava ogni giorno. Mi accecava e mi uccideva, per poi farmi rinascere.” Fece una pausa, intrecciando le dita fra i capelli di Zero, ancora. “Dici che la mia anima non è più così nera…E’ stato un obbligo che m’è stato imposto.”

Zero fece per dire qualcosa, ma Ci gli mise un dito sulle labbra “Come potevo, quindi, farti sapere dov’ero? Io non volevo più vederti. Io volevo che tu scomparissi per sempre dalla mia mente. Per te ho fatto una cosa così stupida, così irragionevole. Ho passato gli scorsi quattrocento anni nel tentativo di dimenticarti. Per quattrocento anni ho sperato che scomparissi dalla mia testa e dalla mia pelle” disegnò con il dito la forma delle sue labbra “E ora, invece, ti presenti qui, a casa mia, più bello e atroce di quanto volessi ricordarti, e mi chiedi di ucciderti?”

Zero appoggiò la propria mano su quella di Ci.

“Devi ammazzarmi. Per favore”

“E ora so” continuò Ci come se non avesse sentito le parole di Zero “Ora so che per quattrocento anni hai camminato sulla Via della Redenzione per nessun altro motivo se non quello di ritrovarmi. Proprio tu, che eri felice di respirare nell’oscurità dell’Inferno, sei salito fin quassù…”

Lo baciò. Dovette baciarlo, come fosse l’ultimo bacio di una vita e il primo di quella nuova. E Zero lo lasciò fare, sopraffatto da quattrocento anni che per un istante sembrarono nulli.

Poi si scostò leggermente: “Io non rimarrò qui, Ci, io non posso perdonare”

L’altro lo guardò negli occhi, lasciando che l’oscurità ritornasse, lentamente, in lui.

“Fra un po’ non potrò neanch’io stare più qui”
”A meno che tu non lo voglia”

“Mi serberai rancore, Zero?”

“Non è nella mia natura perdonare. Sono un Vendicatore. Qualunque atto, qualunque cosa…”gli si fermarono le parole in gola “Perché sei stato così stupido da…?”

“Perché ero pazzo, ero irragionevole. Perché sono un Notturno. E portarti un Ling sembrava essere l’unica cosa davvero importante…”

“Mi avessi chiesto aiuto, avrei spezzato prima i sigilli di chi ti tenevano prigioniero”

Ci sorrise, i Notturni non chiedono mai aiuto.

“Avresti dovuto…”

“Non potevo fare niente… Questa è la mia punizione, Dio è troppo furbo” disse appoggiando le labbra sulla guancia di Zero. “Fare scomparire i quattrocento anni in un istante. Farmi dimenticare i miei propositi. Permettermi di rivederti e capire che non basteranno quattrocento anni, non basterà un’eternità…Farmi…”
Non c’erano più parole, Zero gliele spense una ad una. Questa volta il suo bacio fu un bacio lungo, di desiderio negato da troppo tempo.

Fu un bacio tremendamente irragionevole, per quanto fosse stato bramato.

E fu un bacio di perdono, se solo un Vendicatore potesse perdonare.

Ci sapeva che aveva già perso in partenza, già prima della punizione, già il giorno in cui aveva incontrato Zero. Perché non aveva avuto scelta e quattrocento anni sulla Terra, sotto la morsa della volontà di Dio non avevano cambiato niente.

Gli slacciò la giacca rossa, che, sotto quei sensi umani, era morbida, ma troppo ingombrante. Poi si fermò di colpo, di fronte ad un nastro carminio, intorno al collo di Zero

Lo prese fra le dita.

“Questo…”

“E’ il mio e il tuo sangue, sì…”

“Pensavo fosse andato perduto”

“Non avevamo detto che finché qualcuno l’avesse indossato, noi saremmo esistiti?”

Ci sorrise “Sei uno stupido sentimentale”

Zero gli passò le mani sul viso, su quegli occhi a mandorla troppo lontani per tutto quel tempo, fra i capelli neri che più volte aveva stretto.

“Ammazzami” gli bisbigliò prima di riportare la sua bocca su quello dell’altro e le sue mani sulla sua pelle “Amm…” Ci era ovunque, un bacio dopo l’altro. L’alito nelle orecchie, il respiro sul collo.

“Am…”

Amami.

 

 

Il vento è cambiato. Non solo il suo soffio, ma il suo odore. E’ acre, in questi giorni. E’ malinconico.

Pulisco i tavoli della locanda ad uno ad uno, accuratamente, è l’alba. Zero non s’è fatto più vedere, dopo quella sera e ormai – da quella sera – è passato molto tempo. Non so chi fosse, né dove sia andato, ma so che non tornerà mai più.

Il mio capo è appoggiato allo stipite della porta d’entrata, con le braccia conserte e guarda lontano. Io so sempre dov’è il mio capo, e anche adesso so che ormai, non è più qui. Lo è il suo corpo, forse, ma i suoi occhi e i suoi pensieri se ne sono andati, lontano. Segue qualcosa – forse…O forse qualcuno. Troppo lontano perché io possa seguirli.

Forse partirà – così ha detto – ma ormai non è più importante perché mi ha già lasciata. Nella brezza che ondeggia fra i suoi capelli cerco di trovare la ragione per cui lui, ormai, non c’è più. Ma non mi è possibile vederla e la nostalgia che provo per una persona che è di fronte a me è così intensa da farmi scendere qualche lacrima. Lui è già lontano.

Si solleva dalla porta e guarda all’interno della locanda, dove ci sono solo io che ormai ho finito di pulire i tavoli. Non mi dice niente, ma cammina verso le scale per andare in camera sua. Io lo guardo perché è l’ultima volta che lo vedo. Lo guardo bene.

Noto al suo polso un nastro. Il capo non ha mai portato bracciali. E’ rosso intenso, pare rosso sangue. Il capo nota che i miei occhi sono fissi su quel nastro, ma non dice nulla, né si ferma.

Il capo se n’è andato.

Sale scale silenziosamente e, nonostante le lacrime, cerco di imprimermi la sua immagine nella mente, per sempre.

Il capo, ormai, è davvero lontano.

 

Fine

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