Caleidoscopio di HamletRedDiablo (/viewuser.php?uid=56405)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Uno Scettro in mezzo al Cielo ***
Capitolo 2: *** Sangue sull'Argento ***
Capitolo 3: *** L'Auspicio ***
Capitolo 4: *** Il Custode dei Cancelli ***
Capitolo 5: *** Cuore d'Inverno ***
Capitolo 6: *** Prigione Caina ***
Capitolo 7: *** Hellsing ***
Capitolo 8: *** Belial ***
Capitolo 9: *** Il Confine del Mondo ***
Capitolo 10: *** Hispaňa ***
Capitolo 11: *** L'Accordatore ***
Capitolo 12: *** Il Mago dell'Ovest ***
Capitolo 13: *** Gunsmith ***
Capitolo 14: *** Le Mani del Diavolo ***
Capitolo 15: *** Il Portavoce del Sole ***
Capitolo 16: *** L'orfano ***
Capitolo 17: *** Heracles ***
Capitolo 18: *** L'Aquila ***
Capitolo 19: *** Rancori Passati ***
Capitolo 20: *** Il Demone ***
Capitolo 21: *** Le Stelle di Chugoku ***
Capitolo 22: *** L'ultima settimana del Vaticano ***
Capitolo 23: *** Ludwig ***
Capitolo 24: *** Guerra ***
Capitolo 25: *** La fine del Vaticano ***
Capitolo 26: *** Veglia ***
Capitolo 27: *** La Grande Partenza ***
Capitolo 28: *** La Nuova Confederazione ***
Capitolo 1 *** Uno Scettro in mezzo al Cielo ***
Prologo: A un
passo dalla fine
«Un
caleidoscopio è magico!»
«Per
quale motivo?»
«La
realtà è solo una, ma attraverso il
caleidoscopio si fraziona in mille realtà diverse!»
Il
fratello lo aveva guardato con un
sopracciglio alzato.
Aveva
passato una mano tra i capelli,
scompigliandoli svogliato.
«Non
è magia. È solo un’illusione.»
«Perché?»
«Perché…»
Le
mura erano bianche, le mattonelle erano bianche, i tappeti erano
bianchi.
Perfino
la pelle del ragazzo era bianca, tanto da essere quasi impossibile
distinguere
tra il bordo inamidato della mantella candida e il collo niveo.
Ludwig
osservò impassibile il ragazzo che terminava di infilare i
guanti color neve.
Sfregò distrattamente il braccio sinistro, dove i fori delle
iniezioni prudevano
ancora: proteggere l’Asse era un lavoro a tempo pieno, per
cui assumeva
giornalmente un farmaco che annullava il suo bisogno di riposo, in modo
da
poter vegliare su quel giovane anche durante la notte.
Sospirò
mentalmente, ma le labbra rimasero sigillate. Il compito di Guardiano
non era
semplice: doveva sorvegliare quel ragazzo ogni giorno, ogni minuto,
senza mai
distrarsi e senza mai stancarsi. Ma il ruolo dell’Asse era
certamente peggiore:
Feliciano era condannato a una vita di solitudine, isolato nella torre
più alta
del Palazzo di Quarzo. Il ritiro più estremo era
l’unico modo per mantenere
quel giovane immacolato e incontaminato da qualunque sporcizia del
mondo
comune, poiché solo la purezza dell’Asse garantiva
la stabilità della
Confederazione.
Nonostante
l’isolamento, un Guardiano era necessario: alcuni malavitosi
particolarmente
audaci avrebbero potuto cercare di rapire l’Asse per ottenere
i suoi poteri e
la sua funzione di controllo.
Ludwig
posò i suoi occhi azzurri e freddi sul giovane di fronte a
lui, che aveva
appena terminato di calcarsi sulla testa il berretto latteo. Era
ridicolo pensare
che il destino della Confederazione gravasse su spalle così
fragili: erano
quasi più sottili della mantella che le ricopriva.
Feliciano
terminò la vestizione e si girò con una piroetta
su se stesso.
«Ho
finito» trillò, prima di dirigersi verso
l’inginocchiatoio di perla.
Ludwig
si sistemò alle sue spalle, e lo spadone che portava appeso
al fianco graffiò
lievemente il pavimento iridescente. Un’altra mattinata di
preghiere e solitudine.
Come sempre.
Feliciano
congiunse le mani guantate e, prima di salmodiare gli inni rituali,
espresse un
piccolo desiderio personale:
«Spero
che mio fratello stia bene, ovunque egli sia.»
***
In
un altro luogo, un altro biancore aveva preso vita.
Era
il pallore spettrale sulle guance del capo delle guardie, che guardava
sconvolto i suoi sottoposti.
«Avete
imprigionato Lovino Belial?» tartagliò, sconvolto.
«È
un pericoloso criminale, signore. Un pirata della peggior
specie…»
«Siete
completamente impazziti?» sberciò il capitano, di
colpo paonazzo. «Un
delinquente del suo calibro non può essere tenuto in una
prigione modesta come
la nostra!»
«Per
quanto sia forte, non può fare molto se è legato
dai ceppi…» notò una
sentinella, subito zittita dal capo, ormai sull’orlo di una
crisi di nervi e di
coronarie:
«Quel
ragazzo è la Mano Sinistra del Diavolo! Non vi dice
niente?»
Quasi
strappò a unghiate l’espressione ebete dei suoi
uomini, e proseguì,
sputacchiando saliva e isteria:
«Chiamate
rinforzi o fatelo uscire! Non voglio che la mia prigione venga rasa al
suolo
per-»
«Temo
che sia un po’ tardi per i ripensamenti».
Il
capo toccò quasi il soffitto per lo spavento. Alle sue
spalle era comparso
improvvisamente il motivo della sua agitazione: un ragazzetto che
pareva lo
spettro di un essere umano, con i capelli ramati e la pelle smunta. I
tanto
declamati ceppi non erano riusciti a frenare quel giovane, che si
sfregava i
polsi arrossati con aria seccata.
«Che
l’Asse ci protegga» si lasciò sfuggire
una guardia.
Il
cipiglio del ragazzo si accentuò, e ogni speranza residua di
salvezza venne
frantumata dalle parole del giovane:
«Non
nominate l’Asse. Non dovrebbe nemmeno esistere.»
Non
ebbero tempo di pensare ad altro: un boato fragoroso scosse le
fondamenta della
prigione e ne sbriciolò le mura: uno stormo di mattoni e
frammenti di cemento
sfrecciò nell’aria, riempiendola di una polvere
densa e pruriginosa. Le urla
delle guardie si spensero mentre si accasciavano a terra svenute, chi
colpito
da un brandello di muro e chi soffocato dal pulviscolo urticante.
Quando
quel putiferio terminò, Lovino si ergeva nel cerchio formato
dalle sentinelle
prive di sensi, una mano impegnata a tenere premuta una piccola
mascherina sul
viso. Il capo delle guardie sentì i polsi tremare, poco
prima che i suoi occhi
si rabbuiassero su quella figura immobile: vedere un ragazzino
così smilzo
predominare su una folla di uomini armati e uscire illeso da un simile
caos,
come se un’entità maligna avesse steso il suo
mantello protettivo su di lui,
era qualcosa di spaventoso. Capiva perfettamente perché lo
chiamassero la Mano
Sinistra del Diavolo.
Il
capo non riuscì a mantenere i suoi sensi vividi abbastanza a
lungo da scorgere
la persona che era venuta a riprendersi Lovino: non poté
così vedere la Mano
Destra del Diavolo scendere dalla passerella della sua Aeronave per
atterrare
con un balzo felino accanto al ragazzo.
Lovino
osservò critico l’Aeronave – che era
atterrata su quella prigione
disintegrandone le mura – e il suo Capitano prima di
sentenziare:
«Sei
in ritardo. E sei un casinista, come sempre.»
«Sono
arrivato al momento giusto, invece» lo contraddisse
l’uomo, con un sorriso
affabile sul volto. «Ti sei appena liberato dalle
catene.»
«Credevo
che avresti mosso quel tuo pesante sedere molto prima per liberarmi
dalla cella»
obiettò aspro Lovino.
Il
sorriso dell’uomo migrò negli occhi verdi mentre
si chinava per mormorare:
«Anche
se sei il mio amante, Lovino, non significa che debba proteggerti come
farei
con una fanciulla indifesa.»
Il
ragazzo lo raggiunse sul mento con una testata, e
guadagnò la passerella mentre l’uomo
premeva
le mani sull’osso dolorante.
«Andiamocene»
decise, dispotico.
Antonio
lo raggiunse con uno svolazzo, incurante del pessimo temperamento del
suo
compagno. I marinai salutarono entusiasti le Mani del Diavolo, e si
mossero
veloci per seguire gli ordini del loro capitano.
L’Aeronave
mugghiò come il mare in tempesta mentre i suoi razzi
azzurrognoli sfiatavano
per farla sollevare. Ma il suo lamento venne coperto dal ruggito di
guerra di
una seconda Aeronave, che scese in picchiata verso di loro.
Antonio
e Lovino sospirarono in sincronia, notando la bandiera che garriva al
vento.
«Di
nuovo Arthur» notò l’Ispanico. Lovino
annuì, masticando le guance come per un
boccone amaro.
L’Aeronave
di Antonio si lanciò nello spazio, dando inizio a una
turbolenta gara di
velocità tra meteore e nebulose per sfuggire alla caccia del
Britannico.
Nonostante
la velocità supersonica, Lovino riuscì a lanciare
un’occhiata feroce al Palazzo
di Quarzo, nitido e perfetto contro lo spazio scuro.
Digrignò i denti come un
animale in gabbia e ringhiò:
«Ti
farò sputare fuori mio fratello, bastardo.»
***
Un
fruscio di seta accompagnò il movimento del cinese sul letto.
Raccolse
la vestaglia rossa in modo che coprisse le sue nudità e si
rialzò sul letto. Il
suo sguardo onice venne catturato istantaneamente dalla spada che
riposava poco
lontano dal giaciglio.
Strinse
le dita sull’elsa, e assorbì con
avidità il celestiale sibilo della lama che
abbandonava il fodero.
Era
giunto il momento per Ivan di rispettare la parola data.
Insieme,
avrebbero ucciso Kiku.
***
Il
Fiammingo sorrise sopra il calice di vino, osservando
l’espressione afflitta
negli occhi sanguigni del suo compare.
«Dove
pensi che ci condurrà tutto questo?»
domandò istrionico.
L’uomo
scosse la testa dai capelli argentati, e la sua risposta
uscì con uno sbuffo
irritato:
«Non
lo so. Non lo so, maledizione! L’Universo potrebbe anche
finire per colpa di
questi stupidi battibecchi!»
Francis
si bagnò le labbra nel sapore delizioso del nettare
d’uva: i nati in terra
Fiamminga come lui sapevano sempre apprezzare il buon vino, i piaceri
dell’amore e le poesie ben narrate. Perfino quando la morte
si trovava a non
più di un passo di distanza.
«Ti
ricordi come è iniziato tutto questo, Gilbert?»
«Che
senso ha parlarne adesso?»
«Forse
non cambierà il corso della storia, ma è sempre
utile voltarsi indietro, quando
si è a un passo dalla fine.»
«Per
quale motivo?»
«Perché
a volte il cammino è così lungo che ci si
dimentica il motivo per cui ci si era
messi in viaggio.»
Gilbert
emise un suono a metà tra un ringhio e un conato, e
sbottò:
«Non
parlare in poesia con me. Se hai qualcosa da dire, dillo e
basta.»
Francis
sorrise, sorbì un sorso di vino e flautò:
«Non
è nulla di importante. Avevo solo un po’ di
nostalgia di tutte le persone che
ci hanno abbandonato lungo il cammino.»
«Rimpianti»
esacerbò Gilbert. «Ecco il motivo per cui non
bisogna voltarsi indietro.»
«Hai
la voce ferma, ma ti tremano le spalle.»
«Chiudi
quel buco rumoroso che hai sotto il naso!»
Francis
si zittì vuotando il calice.
E
lasciò la memoria libera di galoppare ai primordi di quella
storia.
Capitolo
Uno: Uno Scettro in mezzo al Cielo
Nessuno
sapeva cosa avesse pensato il signor Vargas quando
l’ostetrica gli aveva
comunicato che sua moglie aveva partorito due gemelli. Il suo viso era
rimasto
irrigidito come quello delle statue che affollavano la Villa Topazio.
Ma tutti
ricordavano le sue prime parole riguardo i figli appena nati:
«Solo
uno diventerà l’Asse. L’altro
è inutile.»
Da
quando l’Universo aveva dato luce alla prima generazione di
umani, la famiglia
Vargas aveva sempre inviato i suoi primogeniti al Palazzo di Quarzo
perché
ricoprissero il ruolo di Asse. Ai secondogeniti era affidato il compito
di dare
una discendenza alla famiglia.
L’Asse
di allora, lo zio del signor Vargas, era ormai prossimo alla tomba, e
vi era
urgenza di trovare un degno sostituto. E in quel momento sua moglie
aveva dato
alla luce i suoi primogeniti.
Ma
i gemelli erano considerati qualcosa di malvagio, all’interno
delle famiglie
Vaticane, addette alla sovrintendenza degli affari religiosi della
Confederazione; un’anima sola scissa in due corpi era
qualcosa di maligno e
innaturale, che avrebbe certamente portato disgrazie su tutti loro.
Avrebbe
atteso di capire quale dei due figli fosse il più adatto a
diventare il futuro
Asse, e avrebbe eliminato l’altro per restituire al prescelto
la sua metà
mancante di anima.
In
quell’esatto momento, i due gemelli avevano cominciato a
piangere. E
l’ostetrica non era riuscita a spiegarsi perché,
all’improvviso, i due neonati
avessero cominciato a disperarsi e a cercare il fratello come se
temessero che
gli fosse strappato via.
Il
signor Vargas li aveva osservati con un cipiglio fosco in volto.
«Maleficio»
aveva sibilato, abbandonando la stanza.
***
Dieci
anni dopo, due fratelli si tenevano per mano, nell’oceano di
lenzuola bianche
che era il loro letto.
«Guarda!»
aveva esclamato Feliciano, indicando fuori dal soffitto di vetro. Nella
cupola
nera della notte, il Palazzo di Quarzo emanava il suo placido candore.
La magia
delle famiglie Vaticane garantiva impeccabile stabilità a
quella costruzione
dalla forma simile a quella di un cristallo, che galleggiava serena nel
bel
mezzo del nulla, rischiarano i Mondi della Confederazione con la sua
aura
angelica.
Lovino
aveva inclinato la testa, perplesso.
«Sembra
uno scettro in mezzo al cielo» aveva commentato.
«Vorrei
tanto vederlo» aveva cinguettato Feliciano.
«Io
no» aveva brontolato Lovino.
«Perché?»
Lovino
aveva storto la bocca, contrariato.
«Mi
sembra… solo. Lì fermo in mezzo al nulla.
È un cristallo che piange.»
La
mano di Feliciano aveva stretto con più forza la sua.
«Tu
non mi lascerai da solo, vero?» aveva quasi piagnucolato,
rannicchiandosi
contro di lui.
Lovino
gli aveva scompigliato con forza i capelli e aveva sbottato:
«Siamo
fratelli. È ovvio che non saremo mai soli.»
«E
se dovessero dividerci?»
«Anche
se dovessero dividerci, io sarei nel tuo sangue, nei tuoi sogni e nei
tuoi
ricordi. Siamo gemelli.»
Non
era certo di essere risultato convincente, ma aveva sentito il sorriso
di
Feliciano disegnarsi sulla sua spalla. Anche se il Palazzo di Quarzo
gravava su
di loro con la sua luce, Feliciano sorrideva. Era sufficiente.
***
Il
signor Vargas aveva avuto prova che i gemelli fossero qualcosa di
demoniaco man
mano che i suoi figli avanzavano nella crescita.
Era
capitato più di una volta che uno dei due si ferisse, e
l’altro avvertisse il
dolore nel medesimo punto e nel medesimo istante. O che i due bambini
si
svegliassero di mattina e parlassero dello stesso sogno, come se
avessero
viaggiato insieme durante la notte. Episodi innocenti che riempivano i
bambini
di gioia e il padre di sospetto.
Poi,
un giorno il Cielo aveva inviato un messaggio su chi dei due fosse il
predestinato alla carica di Asse. Accadde, un giorno di primavera, che
i due
bambini si trovassero nei pressi di un bosco per giocare. Un lupo
selvatico era
uscito dalla foresta, e Feliciano aveva giunto le mani e mormorato una
preghiera. Il suo piccolo corpo si era illuminato come una stella,
mettendo in
fuga la belva.
A
quel punto, il signor Vargas non aveva più avuto dubbi.
L’ordine
fu preciso e spietato: separare i due gemelli e portare Feliciano al
Palazzo di
Quarzo. E abbandonare Lovino sul pianeta più desolato della
Confederazione.
***
«Non
vuole mangiare?»
Il
signor Vargas passò una mano tra i capelli, risentito.
Avevano
trascinato Feliciano al Palazzo di Quarzo, e il bambino aveva inscenato
uno
spettacolo assai poco decoroso per un futuro Asse: aveva scalciato e si
era
ribellato con tutte le sue forze, mentre si tendeva disperatamente
verso il
fratello, trascinato via da spaventosi omaccioni in divisa. Ed era
un’intera
settimana, da quando aveva varcato il cancello del Palazzo, che
rifiutava
ostinatamente il cibo. Si limitava a respirare in un angolo della sua
stanza,
senza mangiare e senza parlare.
La
sentinella gli suggerì di entrare e rincuorare il figlio,
cosa che il signor
Vargas fece con estrema riluttanza. Non capiva perché quel
bambino si agitasse
tanto: essere l’Asse era la massima onorificenza ottenibile
all’interno della
Confederazione.
Una
vocetta essiccata si arrampicò a fatica nella gola riarsa
del piccolo in uno
strano saluto:
«Aspettavo
che tu arrivassi.»
La
bocca del signor Vargas si contorse in una smorfia risentita. Avrebbero
dovuto
cancellare quelle occhiaia, e fare qualcosa per le screpolature che
spaccavano
le labbra del piccolo. Non potevano permettere che l’immagine
delle famiglie
Vaticane venisse intaccata da quella grottesca caricatura di bambino.
«Dov’è
mio fratello?»
Il
padre incrociò le braccia al petto e mitragliò,
secco:
«Tuo
fratello non è più a questo mondo. Doveva
restituirti la tua parte di anima, e
l’ha fatto.»
Feliciano
rovesciò la testa all’indietro, e nello sguardo
che indirizzò al padre
scintillò un bagliore raggelante.
«No.
Non lo avete ucciso» si era rannicchiato nelle sue ginocchia
spigolose e aveva
proseguito: «Quando si feriva al gomito, sentivo male anche
io. Quando cadeva,
nemmeno io riuscivo a camminare. Se fosse morto, sarei morto anche io.
Per
questo so che è ancora vivo.»
«Non
possiamo tollerare un Asse con solo metà spirito. Per questo
è stato… epurato»
replicò asciutto il signor Vargas. «E poi, i
poteri che aveva mostrato erano
immorali. Al contrario dei tuoi.»
Feliciano
fece ciondolare la testa in un cenno di diniego, e allungò
una mano verso il
pranzo, ancora intoccato sul suo comodino bianco.
«Tornerà
a prendermi. Me l’ha promesso. Non mi farà stare
da solo nello scettro del
Cielo. Non mi farà piangere con il cristallo»
affondò il cucchiaio nella
minestra, ma, prima di inghiottire il boccone, dichiarò:
«Non mangio perché
voglio diventare Asse. Mangio solo perché voglio rivedere
mio fratello.»
Il
signor Vargas uscì dalla camera, esasperato. I gemelli erano
certamente le creature
più problematiche del mondo: erano attaccate così
morbosamente al proprio
fratello da non comprendere quale fosse la giusta strada da percorrere,
e
quanto misericordiosi fossero gli adulti intorno a loro.
Lo
avrebbe aspramente rimproverato, se lo stesso Feliciano testardo fosse
uscito
da quella stanza, il giorno dopo. Ma l’undicenne che venne
rigurgitato dalla
camera fu uno sconosciuto.
Un
bambino impeccabilmente vestito con la complicata tunica da Asse
Novizio si
inchinò di fronte al signor Vargas, senza mai smettere di
sorridere.
«Sono
pronto a iniziare gli addestramenti, padre»
gorgheggiò melodioso.
Il
padre accettò di buon grado quella sua inspiegabile
accondiscendenza, mentre le
sentinelle che assistettero alla scena si sentirono gelare il sangue
nelle
vene: in quella settimana di digiuno, il piccolo Feliciano aveva cucito
su di
sé un travestimento con pazienza e metodo. Aveva rifinito i
bordi e limato le
smussature, ed eccolo emergere in un tripudio di luce e buoni
sentimenti quando
solo il giorno prima aveva rivolto la propria sfida al genitore.
Non
si riusciva più a scorgere l’anima nascosta da
quel sorriso fasullo, non si
riuscivano a intuire i pensieri celati dietro quel galateo
irreprensibile.
Deglutirono
sonoramente, inquietati dalla facilità con cui quel bambino
era riuscito a
camuffare la sua anima. I gemelli erano davvero delle creature
spaventose.
«Vieni,
Feliciano» lo invitò il padre. «Dobbiamo
presentarti il tuo Guardiano.»
Il
sorriso con cui il bambino accettò la proposta del padre
spaventò ulteriormente
le sentinelle: non era l’espressione infantile di un
innocente, era la recita
di un giovane costretto a crescere in una sola settimana.
Cercarono
di avvisare il signor Vargas, e come premio i loro corpi vennero
bruciati in
uno dei mondi meno controllati della Confederazione.
Messe
a tacere quelle voci dissenzienti, il signor Vargas poté
finalmente bearsi in
un coro di lodi e incensamenti su Feliciano, i cui poteri superavano
quelli
degli Assi degli ultimi trecento anni.
***
La
sabbia era rovente e ruvida, ma non quanto la sua gola desiderosa di
acqua.
Lovino
arrancò nella polvere del pianeta desertico su cui era stato
abbandonato,
ostinato a sopravvivere a quella calura e a quella desolazione.
Doveva
essere eliminato, ma nessuno avrebbe mai osato sollevare la spada
contro un
sacro frutto delle famiglie Vaticane: avrebbe portato cento anni di
sventure su
tutta la discendenza dello sciagurato. Così lo avevano
abbandonato sul pianeta
Sahariano, in attesa che quell’impietoso deserto giustiziasse
l’indesiderato
Vargas.
Lovino
si accasciò a terra, respirando polvere e aria arroventata.
Non voleva morire
in un modo così insensato, lasciando suo fratello solo nello
scettro in mezzo
al Cielo.
Batté
le palpebre sugli occhi secchi, temendo che i suoi sensi abbrustoliti
dal sole
implacabile si stessero prendendo gioco di lui: nell’aria
distorta dal caldo,
gli parve di scorgere le figure tremolanti di alcuni uomini.
Mosse
le labbra a vuoto alcune volte prima di raccogliere la saliva
necessaria per sputare:
«C’è
qualcuno?»
Le
ombre indistinte barcollarono nella sua direzione, mentre stralci di
conversazione raggiungevano le sue orecchie bollite.
«Che
ci fa qui un bambino?»
«Da
dove è venuto?»
Una
mano callosa lo afferrò per il colletto, sollevandolo da
terra come un gatto, e
delle dita prive di gentilezza gli districarono i capelli sulla nuca.
Il suo
lignaggio splendette sotto i raggi cocenti del sole: il blasone delle
famiglie
Vaticane, un tatuaggio argenteo a forma di croce, lanciò
barbigli sprezzanti
alla plebe che lo circondava.
Una
bestemmia come non ne aveva mai sentite pronunciare gli
scartavetrò il collo:
simili parole non erano nemmeno pensate, alla Villa Topazio.
«È
un Vaticano!» rumoreggiò una voce aspra sopra di
lui.
«Ammazziamolo
prima che ci denunci!» abbaiò un altro.
«Non…»
Lovino tossì e annaspò prima di riuscire ad
articolare: «Non uccidete
Feliciano. Ammazzate tutti gli altri, ma non Feliciano!»
Un’ombra
imponente si distese su di lui, e una voce calda e beffarda si sorprese:
«Un
Vaticano che incita dei pirati a uccidere la sua stessa famiglia? E
lascialo
andare, Garcia! Con quei badili che hai al posto delle mani potresti
spezzargli
quelle ossa da merlo.»
Lovino
precipitò verso il suolo nel momento in cui
l’energumeno rilasciò la presa, e
fu salvato all’ultimo secondo dal possessore della voce
ironica.
«Intendevo
con un minimo di delicatezza, Garcia.»
«Dovete
essere più specifico, Capitano.»
La
testa del piccolo penzolò senza forze, mentre due braccia
muscolose lo
sollevavano da terra. Lovino colse solo un baluginio di iridi verdi con
le sue
pupille essiccate.
«Ti
daremo da bere. E sentiremo che altro hai da dire sui
Vaticani.»
Poi
il mondo diventò troppo vorticoso e colorato per essere
seguito dai suoi sensi
disidratati.
***
Un
ringhio gli fece vibrare i denti quando il boccale venne allontanato
dalle sue
mani.
«Devi
bere con calma, o ti sentirai male.»
«Sono
quasi morto. Non posso stare peggio.»
Lovino
osservò con astio il suo salvatore mentre
quest’ultimo gli restituiva il
bicchiere.
Doveva
la vita al capo dei pirati della Reina de
la Oscuridad, Antonio Fernandez Carriedo, un Ispanico dagli
occhi
smeraldini e il sorriso derisorio. Un codino di riccioli scuri spuntava
dal
cappello a tre punte e si adagiava sul cappotto scarlatto da capitano.
Su
quell’ultimo dettaglio del suo abbigliamento si
appuntò l’attenzione di Lovino:
a sinistra della fila di bottoni dorati spiccava la decorazione con il
simbolo
della sua nave, mentre sulla destra erano allineate tutte le medaglie
dei
capitani sconfitti. Ed erano numerose quanto le stelle in cielo.
«Sei
troppo piccolo per aver sconfitto tutta quella gente» lo
accusò Lovino, prima
di affondare le labbra nella tanto desiderata acqua.
«Sono
comunque più grande di te» replicò
Antonio. Passò un dito sulle placche
metalliche, facendole tintinnare con orgoglio. «Voi Vaticani
nascete con i
poteri necessari a diventare uomini di Chiesa. Noi Carriedo nasciamo
con… altri
poteri. Per questo riesco a primeggiare anche su persone con
più esperienza di
me.»
Il
piccoletto lo osservò dubbioso dal bordo del boccale.
Antonio incrociò le dita
sul ventre, e insinuò:
«Saresti
davvero disposto a tradire la tua famiglia?»
Il
boccale venne appoggiato con un tonfo secco sul tavolo.
«Voglio
liberare mio fratello dal Palazzo. Non mi importa del resto.»
«E
faresti qualunque cosa?»
«Qualunque
cosa.»
Una
punta del cappello sfiorò la spalla del capitano quando
questo osservò il
piccoletto da un’angolazione diversa.
«È
un’affermazione molto crudele» Antonio
marcò ogni singola parola, per far
avvertire il loro peso al piccolo. «E poi, i tuoi poteri da
chierico…»
I
dubbi del capitano si dispersero assieme ai suoi libri: Lovino chiuse
gli occhi
per un attimo, e all’improvviso ogni oggetto
all’interno della cabina, ad
eccezione delle sedie da loro occupate, cominciò a vorticare
per la stanza.
Antonio
osservò con disarmante calma il delirio intorno a lui,
finché il piccolo non vi
pose fine aprendo gli occhi.
«Questi
sono i miei poteri. Ma so fare di peggio»
confessò Lovino. «Ed è anche per questo
che mio padre mi odia.»
«Anche?»
Il
ragazzino morse le labbra fino a farle sanguinare, e Antonio
accettò il suo
silenzio.
«Avremo
modo di parlare ancora durante la navigazione.»
Una
mano abbronzata sventolò sotto il suo naso, in una precisa
offerta.
«Sei
pronto a unirti alla mia ciurma?»
Lovino
squadrò con sospetto quelle dita protese verso di lui. Non
era sicuro di essere
pronto a una vita di fughe, combattimenti e lavoro incessante. Ma, a
parte il
fuorilegge a capo della Reina de la
Oscuridad, nessun altro in tutta la Confederazione sarebbe
stato abbastanza
pazzo da accompagnarlo in una crociata contro il Palazzo di Quarzo.
Strinse
quella mano con decisione, e un sorriso sardonico spuntò sul
volto bronzeo di
Antonio.
Insieme,
avrebbero fatto precipitare il cristallo dal Cielo.
«Non
è magia. È solo un’illusione.»
«Perché?»
«Perché
in realtà è sempre la stessa
immagine ripetuta. Non cambia mai niente. È questa la cosa
triste.»
Ed
eccomi qui, in una nuova, travolgente avventura XD
Scherzi
a parte, temo che questa longfic sarà MOLTO long. Il
motivo è molto semplice: per ora i personaggi sono pochi, ma
tra poco si
aggiungeranno Francis, Arthur, Alfred, Kiku, Ivan, Yao, Gilbert,
Matthew...
insomma, tutto il circo al completo XD e le coppie... eh 8D leggere per
scoprire<3
Grazie
a tutti voi che avete letto fin qui e a tutti coloro
che decideranno di imbarcarsi in quest'ennesima pazzia di una fanwriter
iperattiva XD
Alla
prossima<3
Red
Le immagini utilizzate nei banner non mi appartengono; tuttavia, avendole prese dai miei archivi, non ricordo gli autori ç_ç Se qualcuno dovesse riconoscere la fonte di qualche immagine, me lo faccia sapere e provvederò a metterei credits<3 |
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Capitolo 2 *** Sangue sull'Argento ***
Capitolo Due: Sangue
sull’Argento
Le
iridi verdi si specchiarono sulla lama lucida dello stiletto, per poi
appuntarsi sul viso corrucciato del ragazzino.
«Dove
hai preso questo pugnale?» volle sapere.
«In
giro» borbogliò Lovino.
Antonio
puntò i gomiti alle ginocchia e intrecciò le mani
davanti alle labbra, strette
in un’espressione grave.
«L’hai
rubato sulla nave?»
«Me
l’hanno dato gli uomini di mio padre» Lovino storse
un angolo della bocca,
disgustato dal sapore amarognolo dell’arrendevolezza. Lo
stemma del Vaticano
era visibile nelle intarsiature pompose dell’elsa, e
l’affilatura impeccabile
della lama rivelava l’arte di un fabbro di prima scelta.
Le
sopracciglia scure del capitano si curvarono dubbiose.
«Non
dovevano giustiziarti?»
«La
Gehena reclamerebbe la loro anima, se permettessero a un Vaticano di
morire
senza avergli dato una minima possibilità di
difendersi» salmodiò Lovino.
Antonio
chiuse le palpebre e le massaggiò brevemente, esalando un
sospiro esasperato.
Dovevano ucciderlo, ma non potevano sporcarsi le mani; dovevano
assicurarsi che
morisse, ma non potevano lasciarlo totalmente inerme.
«Ecco
perché mi sono fatto scomunicare» esalò
tra i denti, prima di aprire nuovamente
gli occhi. «Per quale motivo sei venuto nella mia stanza con
un pugnale?»
Lovino
girò su se stesso, sollevando i capelli per scoprire la base
del collo. La
lampada a olio della cabina del capitano ricamò baluginii
zafferano
sull’argento del tatuaggio.
«Voglio
toglierlo» le dita si strinsero in un moto di rabbia sui
capelli. «Non voglio
più avere niente a che fare con il Vaticano. Ma da solo non
ci riesco» una
punta di risentimento inasprì la sua voce: avrebbe voluto
chiudere il capitolo
della sua vita come Vaticano con le sue stesse mani, ma quel maledetto
stemma
era troppo difficile da raggiungere.
Antonio
esaminò i risultati dei feroci tentativi del giovane: le
unghie avevano scavato
la pelle ai lati del tatuaggio, e i bracci della croce erano annegati
in una
laguna di rivoli sanguigni. Tuttavia, per quanto il ragazzo si fosse
scorticato
il collo, il tatuaggio era ancora tremendamente visibile.
Il
pugnale emise uno stridio argenteo, e il suono più delicato
di un fazzoletto di
stoffa frusciò nelle orecchie del giovane.
«Mordilo»
ordinò Antonio, consegnandogli il quadrato di tessuto.
«Nessuno riesce a
rimanere in silenzio, mentre la sua carne viene tagliata.»
Lovino
obbedì con insospettabile prontezza, ficcandosi la stoffa in
bocca.
Il
tremore che non aveva scosso la voce acerba del ragazzino scorreva
sotterraneo
nelle spalle, che il giovane manteneva ferme a fatica. Doveva essere
spaventato
a morte all’idea di un pugnale così vicino al suo
collo. A dispetto del suo
temperamento abrasivo, restava un rampollo di estrazione nobiliare: era
stato
cresciuto in un ambiente ovattato, in cui le noiose lezioni del
precettore e le
interminabili funzioni alla Abbazia erano i mali peggiori.
Antonio
passò un dito sul dorso del pugnale.
Si
chiedeva cosa potesse provare un ragazzino abituato agli agi
dell’aristocrazia
nell’essere scaraventato nello strato più basso
del mondo comune, quello dei
malviventi. Probabilmente, per la sua anima di vetro la vita di bordo
era un
inferno e loro una masnada di diavoli privi di controllo o decoro.
Accostò
il filo della lama al collo del ragazzo, e vide la sua pelle
accapponarsi per
il timore. Avrebbe potuto offrirgli di sedersi sul letto, ma non lo
aveva
fatto: comprendeva quanto quel brusco cambio di vita potesse essere
orribile
per il piccoletto, ma non poteva dimenticare del tutto il suo
risentimento per
i nobili. Voleva vedere fino a che punto quel giovane avrebbe resistito
prima
di crollare a pezzi.
La
filatura si inabissò senza alcuno sforzo nella carne tenera
del giovane, e
scavò con facilità sotto la pelle. Il fazzoletto
smorzò un’esclamazione di
dolore, e i pugni si strinsero fino a sbiancare le nocche per evitare
che le
mani corressero ad allontanare quello strumento di tortura.
Antonio
apprezzò quegli sforzi di contenimento e seguitò
a scavare. Con sua grande
sorpresa, quello che credeva un tatuaggio non era una semplice pittura
sulla
pelle: era una sottilissima placchetta di metallo, arpionata al collo
del
giovane mediante un sistema di microscopici ganci. Questo lo costrinse
a
incidere più a fondo nei punti in cui il simbolo dei
Vaticani si aggrappava
alla pelle del giovane, e ogni volta una contrazione nervosa si
scaricò lungo
la schiena del piccoletto.
Furono
i dieci minuti più lunghi della vita di Lovino, prima che il
capitano vi
mettesse termine annunciando:
«Ho
finito.»
Le
ginocchia del ragazzo cedettero per un istante, ma la sua testardaggine
gli
impedì di crollare al suolo proprio davanti
all’Ispanico. Antonio scacciò il sorriso
dalle proprie labbra quando Lovino si rialzò con
l’equilibrio barcollante di un
ubriaco.
«È
una specie di targhetta di riconoscimento?»
s’informò Antonio, facendo sfilare
un’unghia sulla sottile scia di rune che correvano sul
braccio più lungo della
croce.
Lovino
premette il fazzoletto che aveva morso fino a quel momento sulla ferita
e
rispose, seccato:
«È
un lasciapassare per le Ville Vaticane.»
«E
ti hanno lasciato scappare con una cosa così
importante?»
«Nessuno
mutilerebbe mai un Vaticano.»
Il
rancore nel tono di Lovino era paragonabile allo scetticismo negli
occhi di
Antonio. L’ipocrisia che si nascondeva sotto l’oro
e il bianco delle divise
Vaticane avrebbe potuto tappezzare l’intero Palazzo di Quarzo.
«Qualcuno
avrebbe potuto strapparlo al tuo cadavere» Antonio
proferì quell’ipotesi con la
brutale schiettezza di un uomo avvezzo alla morte. «Non hanno
pensato a questa
eventualità?»
«Probabilmente
hanno disattivato il mio codice. Sono falsi, ma non sono
stupidi» Lovino si
gettò a sedere sulla poltrona del capitano, la mano ancora
premuta sulla
ferita.
Antoniò
fissò la croce insanguinata adagiata sul suo palmo e il
ragazzino spossato
accasciato sul suo scranno.
«Perché
hai voluto toglierlo?» domandò, mostrandogli la
piastrina ancora gocciolante.
Lovino
scostò il fazzoletto per esaminarlo: una stella irregolare
di sangue sporcava
il tessuto, e il giovane lo rimise a posto con un sospiro irritato.
«Non
voglio un marchio di appartenenza. D’ora in poi, voglio
essere libero»
dichiarò. «Così potrò
insegnare a mio fratello come si vive senza catene,
quando lo incontrerò di nuovo.»
La
croce roteò nell’aria, e venne afferrata al volo
dal capitano, che la appoggiò
sulla scrivania, esattamente a metà tra lui e il ragazzo.
«Fai
attenzione, Lovino» lo redarguì. «Vivere
senza legami non significa essere
liberi. Significa essere soli.»
Il
fazzoletto fu schiaffato sulla croce, e Lovino lo stese con un gesto
secco, in
modo che la macchia di sangue fosse bene in esposizione.
«Questo
è il mio legame» sbottò Lovino,
l’eco delle parole scambiate con il fratello
che gli rimbombava nella mente.
Se
anche dovessero dividerci, io sarei
nel tuo sangue, nei tuoi sogni e nei tuoi ricordi. Siamo gemelli.
Antonio
afferrò il fazzoletto usando solo l’indice e il
medio, e lo sventolò con
eleganza derisoria davanti al naso del giovane.
«E
ti basta un unico legame per tutta la vita?»
Lovino
raddrizzò la testa con orgoglio adamantino, e una goccia di
sangue rotolò lungo
il collo prima di morire sulla camicia in un fiore scarlatto.
«Fino
alla morte» asserì, gli occhi e la voce di ferro.
Il
capitano drappeggiò il fazzoletto sporco sulla croce,
vagamente compiaciuto
dalle reazioni del giovane. Non si era opposto al dolore del pugnale, e
non
lasciava impallidire le sue certezze.
Le
mani erano troppo perfette per essere mai state impiegate in un qualche
lavoro
di fatica, e le spalle magre non avevano sopportato altri pesi al di
fuori
delle sfarzose vesti Vaticane; tuttavia doveva riconoscere al ragazzo
una
tenacia abbastanza lodevole. Pensava che i nobili nascessero con un
pugno di
piume al posto del fegato, ma il piccoletto stava dimostrando una
discreta
tempra, a dispetto delle ginocchia tremanti.
Antonio
gli indicò la porta, serafico e inflessibile.
«Vai
dal medico di bordo a farti bendare. Domani mattina devi essere pronto
per
lavorare.»
***
Era
passata una settimana da quando il signor Vargas gli aveva presentato
il
protetto cui avrebbe dedicato la vita.
Era
un onore difendere l’Asse e, con esso, l’equilibrio
della Confederazione. Ma,
qualche volta, Ludwig si sorprendeva a sperare che quel giovane
smettesse di
sorridere.
Il
precedente Asse non scostava mai la sua espressione dalla distaccata
serenità
propria dei santi, e il suo sorriso pacifico avrebbe rasserenato
all’istante
perfino un toro inferocito. Il viso del suo successore, per contrasto,
era artificiale
come il ghigno delle maschere grottesche del Carnevale pagano; era
perennemente
spianato in un sorriso fittizio, ben cementato sulle labbra e sugli
occhi.
Il
precedente Asse sorrideva con il cuore di un angelo, il suo successore
con l’abilità
di un falsario. Non riusciva nemmeno a intuire quali pensieri
affollassero la
mente del giovane mentre stava chino sull’altare a pregare, o
quando gli si
rivolgeva con esagerata gentilezza. Perfino quando mangiava pareva che
la sua
mente non fosse rivolta al cibo ma a qualche luogo lontano migliaia di
chilometri, la cui esatta ubicazione era ben nascosta da quel sorriso
fasullo.
Ludwig
sistemò distrattamente la cinghia dello spadone sulla
spalla. Il suo lavoro era
proteggere l’Asse, non di spremergli le meningi.
Nel
momento esatto in cui prese questa solenne decisione con se stesso,
qualcosa
cambiò.
All’improvviso,
l’imperituro sorriso si incrinò, e dalle sue crepe
sgorgarono incredulità e
gioia mentre una mano guantata di bianco correva a tastare lo stemma
Vaticano
sul collo.
Le
labbra e le ciglia del giovane tremarono, così come le mani
che percorrevano
frenetiche la piccola placca d’argento.
«Mi
fa male…» mugolò l’Asse.
Ludwig
fu più veloce del lampo nel portarsi al suo fianco, ma
Feliciano lo allontanò
con garbo.
«È
una cosa buona. Significa che mio fratello è vivo»
il guanto di pelle bianca
attutì l’applauso di gioia dell’Asse.
«Non è successo niente per cui il mio
stemma dovrebbe farmi male, giusto? Questo significa che fa male a mio
fratello. E se gli fa male, significa che è vivo!»
«Non
sapevo che voi aveste un fratello.»
Una
nuova emozione ancora scorse sul volto del giovane, quella
dell’incredulità
indignata.
«Come
è possibile?» pretese di sapere Feliciano,
rialzandosi dall’inginocchiatoio.
«Vostro
padre ha sempre detto di aver avuto un solo figlio. Non ne ha mai
menzionato un
secondo» notando l’espressione ferita sul volto del
giovane, Ludwig si sentì in
dovere di aggiungere: «Per qualche motivo, vostro padre non
ha ritenuto
necessario divulgare questa informazione…»
«È
da così tanto tempo che desidera liberarsi di
Lovino?»
Le
parole di Feliciano non fecero più rumore del fruscio della
sua veste mentre
muoveva un passo verso la parete, ma Ludwig le udì
ugualmente.
«È
il nome di vostro fratello?» s’informò
con garbo.
«È
il nome del mio gemello» precisò Feliciano.
A
Ludwig non furono necessarie ulteriori spiegazioni per comprendere. Le
superstizioni narravano che i gemelli fossero di pessimo auspicio,
poiché erano
due corpi che condividevano un’unica anima. E un Asse,
dominatore del destino
della Confederazione, non poteva di certo sostenere una simile
responsabilità
con una sola metà del proprio spirito.
Feliciano
sollevò il berretto, passò una mano tra i capelli
ramati e trasse un profondo
respiro prima di esordire:
«C’è
qualcosa che vuoi proteggere, Ludwig?»
Il
Guardiano sussultò interiormente. Non sapeva che
l’Asse fosse a conoscenza del
suo nome. Nell’ultima settimana avevano scambiato a malapena
qualche parola, ed
era convinto che quel giovane fosse talmente disinteressato a
ciò che non
riguardava lui stesso da rimuovere istantaneamente qualunque
informazione a
riguardo.
«Proteggo
voi» rispose, marziale.
Una
risata sgorgò dalle labbra di Feliciano e, quando questo si
voltò, una
curvatura del tutto inedita gli addolcì le labbra.
«Sei
obbligato a proteggermi, è il tuo compito. Voglio sapere se
c’è qualcosa che
vuoi proteggere al di là del dovere» il ragazzo si
avvicinò di nuovo
all’inginocchiatoio e si sedette sul basso legno imbottito,
passando un
polpastrello foderato sul pavimento lindo. «Io devo
preservare tutta la
Confederazione, ma ciò che vorrei davvero difendere ha lo
spirito di un leone e
la lingua di un serpente» il giovane appoggiò il
capo adornato dal cappello
bianco sul bracciolo dell’inginocchiatoio, e lo
guardò con una luce incuriosita
negli occhi: «Non hai niente di simile?»
Il
Guardiano dirottò lo sguardo verso il pavimento, alla
ricerca di una risposta
che potesse soddisfare l’Asse senza rivelare quella parte del
suo passato che
aveva giurato di mantenere segreta.
«Anche
io ho un fratello fuori di qui» telegrafò infine.
Feliciano
chinò piano la testa, compiaciuto.
«Ti
manca?»
«Non
vedo mio fratello da molto tempo.»
«E
la cosa ti rattrista?»
«Voi
siete rattristato dalla lontananza di vostro fratello?»
Ludwig gli ritorse
contro la sua stessa domanda, per evitare di dovervi rispondere.
Felicianò
dondolò placidamente il capo un paio di volte prima di
rispondere:
«Mi
manca tantissimo. Ma spero che là fuori abbia trovato tanti
motivi per
sorridere. Così un riflesso dei suoi sorrisi
arriverà fino a me, e ne sarò
felice anche io» il mento affusolato del ragazzo venne
appoggiato sulle
ginocchia, raccolte al petto. «E nutro anche la speranza
più egoista che non si
sia scordato di me. Anche se il mio ricordo dovesse inquinare la sua
gioia» Feliciano
reclinò nuovamente il capo su una spalla e concluse:
«Provi anche tu lo stesso?»
Trascorse
qualche istante di immobilità prima che l’aria
venisse scossa dalla replica
seriosa del Guardiano:
«Io
spero che mio fratello riesca a dormire bene.»
Una
domanda incuriosita si affacciò dal sorriso del giovane, ma
fu scacciata quando
il ragazzo scosse la testa. L’Asse si ricompose nella posa
cerimoniale e
riprese a pregare.
Ludwig
non distolse lo sguardo dalla sua figura inginocchiata. Non lo avrebbe
mai
ammesso, perché ogni buon Guardiano deve amare il proprio
lavoro, ma detestava
essere stato assegnato al Palazzo di Quarzo e all’Asse, per
quanto quel compito
fosse onorevole. Tuttavia, dopo quelle poche parole, sentiva di trovare
meno
insopportabile l’essere costretto al fianco di quel ragazzo.
Era
riuscito a intravedere un’anima dietro la pantomima
dell’Asse. Ed era uno
spirito affamato di affetto che nutriva se stesso con
l’illusione di rivedere
il gemello, un giorno. Una povera anima sola, abbandonata negli immensi
corridoi del Palazzo di Quarzo, che cercava di proteggersi da ulteriori
ferite
camuffandosi con un sorriso artificiale.
Sfiorò
la custodia dello spadone, assorto.
Separato
da un fratello scomodo e costretto a imparare un modo per difendersi da
tutto e
tutti. Le strade che avevano percorso lui e l’Asse erano
parallele. Per questo
poteva comprendere il suo dolore talmente a fondo da avvertire una
spina
conficcarsi nel suo cuore.
Batté
le palpebre un’unica volta prima di appuntare di nuovo le sue
iridi di ghiaccio
sul ragazzo in preghiera.
Non
esistono lupi cattivi, Ludwig. Solo
lupi molto infelici.
La
lezione di tanto tempo prima gli affiorò nella mente.
Come
sempre, suo fratello aveva ragione.
***
«Se
permettete una parola, Capitano, il nuovo mozzo non mi
convince.»
Antonio
fece stridere la pietra affilatrice sull’ascia con
particolare veemenza, in
modo che quell’ululato metallico sopperisse alla sua mancata
risposta.
Poteva
capire perché il tenente di vascello nutrisse dei dubbi
riguardo l’utilità del
trovatello che proprio in quel momento stava imprecando contro le corde
che gli
si erano aggrovigliate attorno alle caviglie, facendogli quasi
rovesciare il
barile che stava portando in braccio. Lo osservarono zampettare fuori
dal
roveto di cordame e traballare sotto il peso della botte.
«Potrebbe
rivelarsi utile. È pur sempre un Vaticano»
minimizzò Antonio.
«Un
Vaticano ripudiato.»
«Potrebbe
avere qualche potere» ipotizzò, in tono neutrale.
Il discorso avuto con Lovino
una settimana prima nella sua cabina lo aveva incuriosito enormemente:
si
chiedeva quali capacità avessero potuto bollarlo come
gemello malefico, ma non
aveva intenzione di lasciar intuire il suo interesse a tutto
l’equipaggio.
Inoltre, non aveva ancora visto quale fosse il limite ultimo cui quel
ragazzino
fosse disposto a spingersi pur di incontrare di nuovo il fratello.
«Ma
non è mai stato in battaglia, è chiaro come il
sole!» protestò il tenente. «In
che modo…»
L’ascia
tagliò l’aria e le obiezioni del subordinato,
quando il capitano la fece
scattare verso il suo volto. Il tenente deglutì lentamente,
vedendo il suo
stesso mento riflettersi sulla lama lucida. Il colore livido sulle sue
guance
rivelò la precipitosa ritirata del suo sangue nei piedi, il
più lontano possibile
dalla Aguja Paladar,
la temutissima ascia del capitano Antonio Fernandez
Carriedo.
«Apprezzo
i consigli» scandì lento l’Ispanico, gli
occhi aguzzi e freddi come il metallo
dell’ascia. «Ma non dimenticarti chi è
il capitano, tenente.»
«Chiedo
scusa, signore.»
Il
sangue osò affacciarsi di nuovo sulle gote smunte solo
quando l’ascia tornò a
essere appesa alla schiena del capitano.
«Avremo
modo di testare la sua utilità tra poco»
sancì Antonio. Calcò il cappello sulla
testa prima di lanciare uno sguardo concentrato
all’orizzonte. «Esistono ancora
degli sprovveduti disposti ad attaccarci.»
Il
tenente estrasse veloce il binocolo e scrutò a sua volta il
cielo piatto
intorno a loro: una nave puntava nella loro direzione, i razzi
propulsori che fiammeggiavano
alla massima potenza; avrebbero subito un arrembaggio entro pochi
minuti.
Ripose il binocolo, un brivido di ammirazione mista a timore per la
capacità
del capitano di prevedere l’arrivo dei nemici: una dote
compresa nel forziere
delle qualità dei Carriedo, che Antonio aveva accennato ma
mai spiegato. Il
capitano, da buon combattente, non rivelava mai la piena portata delle
sue
capacità.
«Tra
pochi minuti, una nave nemica ci assalirà»
comunicò autoritario, esaminando i
suoi uomini. «Chi non vuole combattere è libero di
ritirarsi sottocoperta. Non
voglio codardi o incompetenti sul ponte» si fermò
esattamente davanti a Lovino,
e gettò un’occhiata al suo viso incupito. Il
ragazzo rispose con un silenzio
burrascoso e un’occhiata in cui si rimescolavano
testardaggine, paura e
orgoglio. Il capitano distolse lo sguardo dopo qualche secondo: non
aveva tempo
da sprecare con i novellini desiderosi di gettare al vento la loro vita.
«Sono
visibili dieci uomini sul ponte, capitano» avvertì
il tenente. «La nave è
abbastanza grande da contenerne altri dieci sottocoperta.»
«Un
gioco da ragazzi!» abbaiò un bucaniere con la gola
essiccata dal tabacco.
«Posso
farcela da solo.»
L’annunciò
colò come una cascata di ghiaccio sui marinai,
paralizzandoli nell’incredulità.
Una
frase così prepotente, pronunciata dal membro
dell’equipaggio che più di tutti
avrebbe dovuto essere spaventato dalla prospettiva della battaglia,
congelò gli
animi dei presenti prima di farli esplodere in un poderoso coro di
risate.
Gli
angoli della bocca di Lovino tremarono per l’indignazione, ma
non abbassò lo
sguardo mentre i marinai deridevano con parole rudi la sua
dichiarazione.
Il
capitano fu l’unico a rimanere estraneo a quella
deflagrazione di ilarità. Si
avvicinò invece a Lovino e domandò:
«Come
vorresti risolvere questa faccenda?»
Lovino
sbocconcellò la risposta con rabbia, mentre arrotolava le
maniche troppo lunghe
della camicia che i mozzi gli avevano prestato:
«Sono
un Vaticano. Vedrete» e aggiunse, a voce più alta:
«Non vi costa nulla farmi
andare per primo. Se avrò ragione io, vi avrò
risparmiato uno scontro. Se avete
ragione voi, vi libererete di me.»
Sapeva
che non lo consideravano parte del loro gruppo. Lavorava sempre da
solo, al
contrario degli altri marinai, che venivano sempre raggiunti dai
chiassosi
compagni; nessuno gli aveva mai offerto di scambiare il cibo dal
piatto, cosa
che gli altri facevano con rumorosa allegria. Riservavano per lui gli
interrogativi venati di disgusto, come se si chiedessero costantemente
perché a
un simile rospetto fosse stato permesso di mettere piede sulla Reina de la Oscuridad,
l’Aeronave della
temibile famiglia Carriedo. Era stanco di farsi invischiare nel loro
disprezzo:
si sarebbe scrollato di dosso quella fanghiglia umiliante una volta per
tutte.
Nessuno
mosse un dito per fermarlo mentre si avvicinava al parapetto. Stavano
certamente pregando perché lui “tirasse le
cuoia”, secondo il colorito
vocabolario dei lupi di mare: sentiva le loro speranze premergli sulla
schiena
quasi cercassero di buttarlo giù dalla nave. Solo il
capitano si limitava a
fissarlo senza alcuna emozione apparente sul viso, semplicemente in
attesa.
Lovino
si riempì i polmoni con l’aria creata
dall’atmosfera artificiale che inglobava
l’Aereonave per permettere all’equipaggio di
respirare anche nello spazio
aperto. Antonio doveva amare molto il vero mare: aveva fatto in modo
che il
pungente odore salmastro dell’oceano scorresse libero
all’interno
dell’atmosfera artificiale.
I
ciuffi ramati disegnarono una buffa ruota quando Lovino scosse la
testa: non
era il momento di pensare al capitano e ai suoi profumi preferiti.
Osservò
la Aeronave nemica dirigersi in picchiata verso di loro. Chiuse gli
occhi e
congiunse le mani in preghiera. Morse appena le nocche intrecciate,
mentre il
ricordo delle parole del padre gli azzannava le viscere.
Speriamo
che il suo potere blasfemo
muoia con lui. Una simile propensione può portare solo
disgrazie.
Torse
la bocca in un ghigno amaro. Avrebbe usato le sue capacità
per aiutare un
branco di pirati a uccidere dei loro pari. Non poteva dare torto al
padre, in
fondo.
Perfino
i marinai più consumati indietreggiarono alla vista della
bestia richiamata da
Lovino. Solo Antonio rimase fisso nella sua posizione: gli spettacoli
di
Gilbert e Francis in passato lo avevano immunizzato alla sorpresa per
la magia.
Tuttavia non riuscì a mascherare il suo stupore nel vedere
un simile potere in
un corpo così mingherlino.
La
schiena di Lovino si aguzzò in una foresta di minuscole
creste di oscurità, che
poi si gonfiarono formando un torso animalesco, incurvato in una
posizione di
attacco. Dalla bocca del giovane si allungarono delle fauci tenebrose,
e due
occhi rossi si aprirono sulle sue palpebre chiuse. L’intero
corpo della bestia
d’ombra pulsò e si contorse, fino a che, con un
guizzo delle zampe mostruose, un
enorme lupo si distaccò dal corpo esile del giovane.
Lovino
stese una mano, accarezzando per la prima volta il suo famiglio. Nella
Villa
non gli avevano mai concesso di sviluppare il suo dono, e non gli
avevano mai
permesso di evocare la bestia che il piccolo sentiva ringhiare nella
sua testa.
Era qualcosa di sacrilego, e andava soppresso. Ma Lovino aveva
continuato a
sentire l’uggiolio di quell’animale dentro di lui,
per cui a volte aveva fatto
emergere dalla sua pelle una zampa nera o una coda ispida per
acquietarlo.
Alcune volte, invece, gli parlava mentre il fratello dormiva e, durante
una di
quelle chiacchierate unilaterali notturne, aveva dato un nome a quella
povera
creatura intrappolata dentro di lui: Roma. Non aveva mai potuto
lasciarlo in
libertà, poiché non era sicuro di poterlo
controllare, e non voleva che
seminasse il panico nei sacrosanti corridoi della Villa; al contrario,
il ponte
di quell’Aeronave era lo scenario perfetto per permettergli
finalmente di
uscire all’esterno.
Roma
si rivelò sorprendentemente docile al suo tocco: Lovino
avvertì le creste
d’ombra guizzanti appiattirsi sotto la sua mano, come se
l’animale abbassasse
le orecchie per essere accarezzato. Si chiedeva cosa avrebbe detto il
signor
Vargas, vedendolo accudire un lupo spettrale, composto di sole tenebre
e
fiamme. Forse lo avrebbe schedato come ulteriore conferma della
malignità dei
gemelli.
Lovino
si chinò appena per bisbigliare sul capo chino del lupo:
«Sai
cosa fare, Roma.»
La
bestia fletté le zampe e partì
all’attacco con un ululato infernale.
L’intero
equipaggio osservò il lupo procedere a rapide falcate verso
i nemici e
avventarsi sul loro ponte spalancando le fauci diaboliche. Ma prima di
toccare
il legno dell’Aereonave, il corpo del lupo si disperse in una
rete di rivoli di
fumo plumbeo: prima le zampe, poi il torace muscoloso, quindi il collo,
fino a
che non rimasero solo due scintillanti occhi rubino sospesi nel vuoto.
E
fu in quel momento che ebbe inizio il panico: bastò un solo
tocco di quella
foschia nefanda perché l’intera ciurma nemica
impazzisse. I marinai
strabuzzarono gli occhi e cominciarono a correre per il ponte creando
un caos
totale: alcuni si gettarono dal parapetto, spaventati a morte da
allucinazioni
infernali; altri, alla ricerca di una via di uscita inesistente dal
sortilegio
mentale, chiazzarono di sangue e liquidi cerebrali i muri di legno
della nave
fino ad accasciarsi al suolo con la testa fracassata; altri ancora
imbracciarono le armi e cominciarono a falciare i loro compagni,
urlando come
ossessi fino a gettarsi loro stessi sulle proprie lame.
L’equipaggio
di Antonio assistette ammutolito al suicidio violento dei rivali, e un
silenzio
tombale accolse la nave avversaria quando il suo pennone
accarezzò quello della
Reina dell’Oscuridad. Il
ponte rivale
era un cimitero di armi abbandonate, pozze di sangue e cadaveri che
ancora
fissavano con occhi allucinati la visione che li aveva portati alla
morte.
Nessuno
emise un fiato quando i tentacoli di nebbia di carbone avvolsero la
piccola
figura di Lovino, che li assorbì fino a farli scomparire di
nuovo all’interno
del suo corpo. E nessuno dimenticò la ferocia nelle pupille
rosse che li
fulminarono poco prima di sprofondare nelle palpebre chiuse.
Il
giovane aprì lentamente gli occhi, e lo spettacolo della
devastazione dei
nemici gli accoltellò le pupille. Non era sufficiente
conoscere il proprio
potere per accettare le sue conseguenze: una scossa elettrica gli
polverizzò le
ginocchia, facendolo cadere sul ponte, e premette entrambe le mani
sulla bocca
nell’inutile tentativo di trattenere i conati di vomito.
Una
mano forte gli si appoggiò sulla spalla tremante, mentre un
mozzo gli
posizionava un catino sotto il mento un secondo prima che gli argini di
Lovino
cedessero. Le dita sulla sua spalla si strinsero mentre il suo stomaco
si
rovesciava nel bacile.
«Uccidere
una persona nella propria testa e ucciderla davvero non sono la stessa
cosa»
tuonò gentilmente una voce vicino al suo orecchio.
«Anche
i Carriedo…» barbugliò Lovino,
respirando con fatica tra gli spasmi. «Sono
capaci di questo?»
La
mano abbandonò la sua spalla e la risposta del capitano non
sciolse i suoi
dubbi:
«No.
Sappiamo fare altre cose.»
La
giacca dell’uomo gli schiaffeggiò la schiena
quando Antonio si rialzò e
declamò:
«Qualcuno
ha ancora obiezioni sulla presenza di questo ragazzo nella
ciurma?»
Non
si sollevò nemmeno una contestazione, e Antonio
annuì soddisfatto.
«Dagli
qualche giorno per abituarsi ai tuoi poteri, e dopo ti
adoreranno» bisbigliò,
abbassandosi nuovamente sul ragazzino debilitato.
Lovino
deglutì con fatica e annaspò:
«Ogni
anima completa ha luce e ombra, ma i gemelli ne dividono una in due,
per questo
un gemello nasce ombra e uno nasce luce. E per questo mio fratello ha i
poteri
dell’Asse e dell’equilibrio mentre io ho quelli del
Caos.»
La
mano del capitano scese sulla sua testa, nell’imitazione
ruvida di una carezza.
«Vai
dal medico a farti dare un antiemetico prima di buttare fuori anche il
fegato»
consigliò.
Antonio
comandò a due marinari di sorreggerlo fino alla cabina del
dottore, e ordinò ad
altri sette di saccheggiare la nave nemica. Dopodiché si
godette lo spettacolo
del ragazzino che arrancava a fatica sottocoperta con le sue stampelle
umane, e
il suo sguardo venne calamitato dalla benda che copriva la ferita con
cui il
ragazzo si era liberato della sua targhetta di riconoscimento.
Quel
giovane era un’erbaccia cresciuta tra i gigli: conosceva i
loro ritmi di vita,
ma restava più forte e più tenace di tutti loro.
Appoggiò
i gomiti al parapetto, osservando l’ostinata testa ramata del
piccoletto
sparire nel rettangolo della porta.
Sarebbe
stato interessante vedere come la vita sull’Aereonave avrebbe
cambiato quel
rospetto.
E,
se fosse cresciuto bene, non gli sarebbe dispiaciuto mettere il suo
simbolo nel
posto vuoto lasciato dalla croce d’argento.
«Estaremo a vedere»
sospirò allo spazio
intorno a lui.
Un
buon capitano sapeva quando occorreva aspettare.
***
«Non
riuscite a dormire?»
L’unico
colore nella stanza era la chioma ramata del futuro Asse, strappata a
malapena
dalla notte grazie alla luce timida della luna. Tutto il resto
soffocava in un
preponderante bianco.
Feliciano
si alzò sul letto, raccogliendo le lenzuola in grembo.
«Occorrono
sette anni perché il potere del precedente Asse riesca a
migrare nell’Asse
successivo» appoggiò il capo sulla nuvola di
lenzuola e considerò: «Le funzioni
che svolgo ora sono un infinitesimo di quelle che mi spetteranno una
volta
assunto il ruolo di Asse.»
«E
questo vi spaventa?» domandò Ludwig.
«Sarò
incatenato a questo Palazzo» sprofondò il viso
nelle coltri, come volesse
nascondere la sua angoscia in quel tessuto soffice. «Non
potrò più uscire.»
Ludwig
preferì non scoraggiarlo ulteriormente facendogli notare che
nemmeno durante
quei sette anni avrebbe avuto la possibilità di allontanarsi
da quelle mura: il
Palazzo era sorvegliato giorno e notte, e solo il signor Vargas e pochi
altri
avevano il permesso di attraversare liberamente la soglia di entrata. E
loro
due non rientravano in quel gruppo elitario.
«Come
era il posto in cui sei nato, Ludwig?»
Il
Guardiano batté le palpebre due volte, confuso.
«Come
mai questa domanda?» chiese in risposta.
Feliciano
si lasciò cadere all’indietro, e le vaporose
maniche della tunica da camera
svolazzarono tutto intorno mentre precipitava dolcemente sul materasso.
«Ho
visto solo l’interno della Villa, e qualche volta il suo
boschetto, e questa
stanza. Mi piacerebbe sapere come è il resto del
mondo.»
Un
silenzio lungo qualche secondo si estese tra di loro, mentre il
Guardiano
cercava le parole.
«Sono
nato su un pianeta molto lontano da qui» cominciò
a raccontare.
Feliciano
chiuse gli occhi, e la terra descritta dal Ludwig prese gradualmente
forma
sotto il sipario delle palpebre: vide srotolarsi davanti a
sé una landa di
terra dura e ghiacciata fin dove l’occhio poteva arrivare, e
sullo sfondo il
fantasma delle montagne acuminate avvolte da una nebbia glaciale; sul
cielo si
stemperò una tinta argento, la stessa che si riflesse sul
grande lago scuro al
centro della valle. Sentì il richiamo dei rapaci delle
montagne, e vide le loro
ombre sfrecciare in cielo mentre cacciavano la preda.
Avvertì il vento
invernale accapponargli la pelle, e cercare inutilmente di abbattere le
mura di
una solida baita di legno, costruita vicino al lago.
Aprì
le labbra in un sorriso prima di schiudere gli occhi.
«Mi
piace il posto che mi hai descritto. Sembra molto bello.»
«Magari
riuscirete a visitarlo, un giorno» cercò di
rincuorarlo Ludwig.
Il
giovane si girò su un fianco, il viso coperto dalla frangia
rossiccia.
«Sì.
Ora che me ne hai parlato, potrò vederlo nei
sogni» sussurrò.
Trascorse
una mezz’ora di immobilità prima che il giovane si
assopisse.
Ludwig
aveva sempre avuto l’assurda convinzione che i sogni
dell’Asse fossero come il
Palazzo: bianchi e privi di vita. Si chiese quali immagini popolassero
il sonno
dl ragazzo, quali voci si rincorressero nel suo riposo notturno.
Le
ciglia del giovane tremarono, e tra di esse nacque una lacrima, che
andò a
morire gettandosi dalla punta del naso. Ludwig si avvicinò
al letto quando la
prima venne seguita da una seconda e una terza, e fu abbastanza
delicato da
asciugare la quarta senza che l’Asse si svegliasse. Feliciano
sembrò
tranquillizzarsi grazie al suo tocco, e la quinta lacrima,
più piccola e debole
delle altre, fu l’ultima che versò, quella notte.
Ludwig
si sedette sul bordo del gigantesco letto per vegliarlo:
così sarebbe potuto
intervenire con più facilità se l’Asse
avesse dovuto piangere ancora.
Osservò
fuori dall’unica finestra di tutta la stanza, un piccolo
lucernario posto al
limitare del tetto.
Tutto
lo spazio al di fuori di quelle mura si sarebbe appoggiato sulle spalle
di quel
giovane, una volta che i sette anni di apprendistato fossero terminati.
Credi
davvero che un equilibrio basato
sulla solitudine e l’infelicità di una persona sia
un buon equilibrio?
Ancora
una volta, suo fratello aveva ragione.
Ed
eccoci qui con il secondo capitolo *w*
Solo
una precisazione: la frase “Non esistono lupi cattivi, solo
lupi molto
infelici”, è tratta dal libro
“L’importante è la rosa –
piccole storie per
l’anima”, un libro che straconsiglio a chiunque
abbia la fortuna di trovarlo
(purtroppo è abbastanza sconosciuto
ç_ç). È una raccolta di aforismi e
storie
brevi con un potere mozzafiato.<3
Tornando
alla storia, devo fare una seconda precisazione: i banner sono opera di
Cla,
l’infaticabile bannerista di questa fanfic<3 nello
scorso capitolo mi sono
scordata di specificarlo çAç<3
E
tornando di nuovo alla storia… vi informo che sono
ufficialmente in delirio
creativo xD perché lo dico?... perché sono
arrivata a finire il capitolo cinque
xD e ho quasi finito il sette (sì, ho saltato il sei
perché sarà abbastanza
impegnativo, e ieri sera mi sono messa a scrivere tardi quindi non
avevo la
testa per farlo @_@), ergo, connessione permettendo,
cercherò di aggiornare
settimanalmente *w* anche perché questa storia si
preannuncia davvero lunga,
quindi non è il caso di farvi attendere degli anni XD
insomma, ho scritto sette
capitoli e mi sono accorta di aver scritto circa un quarto scarso della
storia…
circa. Scarso. *nods*
E,
come sempre, un enorme grazie e uno spiedino di dango
a tutti voi che siete arrivati a leggere fin qui e avete
ancora voglia di proseguire questa strampalata avventura tra pianeti e
pirati
XD
A
presto!
Red
Banner a opera di Claudia ^^
Le immagini utilizzate nei banner non mi appartengono; tuttavia, avendole prese dai miei archivi, non ricordo gli autori ç_ç Se qualcuno dovesse riconoscere la fonte di qualche immagine, me lo faccia sapere e provvederò a metterei credits<3 |
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Capitolo 3 *** L'Auspicio ***
Capitolo Tre: l’Auspicio
Le
ossa del precedente Asse scricchiolarono come rami secchi in autunno
mentre
prendeva posto sull’inginocchiatoio imbottito, assistito
dall’instancabile
Guardiano.
Mancava
esattamente un anno all’ufficiale successione di Feliciano,
ed era giunto il
momento dell’Auspicio: come da tradizione millenaria, il
vecchio Asse avrebbe
incontrato quello nuovo per profetizzare gli avvenimenti che avrebbero
segnato
la sua reggenza futura. Ma nessuno degli Assi precedenti aveva mai
dovuto
vaticinare su un gemello. Si augurava che la superstizione su di loro
fosse
solo una voce infondata.
I
suoi pensieri furono interrotti dall’apertura del maestoso
portone intarsiato.
Il
futuro della Confederazione gli sorrise dalla soglia dorata.
Il
vecchio Asse si concesse qualche lungo secondo di analisi critica della
coppia
apparsa nella suntuosa sala.
Il
Guardiano svettava sulla modesta statura del nuovo Asse di almeno una
ventina
di centimetri, solenne nella sua divisa scura. A un Guardiano degno del
proprio
titolo non occorrevano pesanti armature per essere protetto: erano
sufficienti
la sua destrezza e la sua resistenza fisica, superiori a quelle di
qualunque
essere umano e ottenute tramite sanguinosi allenamenti. Nemmeno
l’uomo più
robusto della galassia sarebbe mai riuscito a sollevare la pesante
spada che
Ludwig portava sulla schiena, e certamente nessuno, a parte il giovane
dagli
occhi di ghiaccio, sarebbe riuscito a sfruttare il potenziale delle tre
Gemme
Mistiche incastonate nell’elsa.
Spostò
le pupille invecchiate sul suo successore. La tunica bianca
drappeggiava
attorno al suo corpo esile come una nuvola poteva coronare il sole, e
il fine
velo appeso al cappello immacolato nascondeva parzialmente il volto,
steso in
un sorriso amabile.
Nemmeno
Feliciano aveva il diritto di guardare il vecchio Asse negli occhi,
almeno
finché non sarebbe diventato un suo pari.
L’anziano
lo invitò a inginocchiarsi davanti a lui con un gesto della
mano decrepita, e
Feliciano prese posto con grazia, seguito dal Guardiano.
Il
passato e il futuro della Confederazione intrecciarono le mani e
salmodiarono
con precisione le preghiere di inizio cerimonia.
I
Guardiani assistettero in perfetto silenzio mentre Feliciano scostava
il velo
per permettere al vecchio Asse di appoggiare la fronte sulla sua
esattamente
dove si supponeva si trovasse il Terzo Occhio, l’organo
destinato alla
preveggenza.
Il
vecchio Asse non avrebbe mai dimenticato gli avvenimenti di quel giorno.
Quando
il Terzo Occhio si spalancò, la sua pupilla invisibile
abbracciò l’orizzonte
placido di un planetario in cui i vari mondi ruotavano attorno al
Palazzo di
Cristallo in perfetta armonia. Non vi era modo di travisare quella
visione: i
poteri del suo successore erano stati acclamati in passato, e
chiaramente
avrebbero garantito un impeccabile equilibrio in futuro.
Lo
scenario della visione cambiò improvvisamente: nello spazio
buio in cui
galleggiavano i pianeti si aprirono due occhi brucianti, rossi come la
lava
della Fortezza di Efesto. Poi, una dopo l’altra, comparvero
le zanne affilate
di un muso ferino, che ringhiò facendo tremare tutti i mondi.
L’Asse
sentì i polsi trasformarsi in acqua quando la bestia
lanciò un cupo ululato che
arrestò improvvisamente il moto di tutti i pianeti.
Richiamate dal suo urlo
animalesco, altre tre fiere emersero dallo spazio buio: un corvo
gracchiò
sepolcrale, un falco si librò in volo, e un’aquila
sfrecciò verso il muso
tenebroso del lupo.
Alla
comparsa delle belve, i pianeti stessi parvero impazzire: il Chugoku
perse la
stella più splendente, e una spada di foggia orientale si
conficcò nel cuore
del pianeta, facendogli stillare sangue denso e brillante; da Britannia
partirono dei fulmini crepitanti, che mandarono in frantumi mille
pianeti
circostanti; le sei Fortezze si sciolsero, liquefatte come una palla di
cera
gettata nel fuoco, e le loro lacrime viscose si persero nel vuoto della
Galassia. Un’enorme onda dello stesso colore degli occhi
scarlatti del lupo si
gonfiò poco sopra il contorno frastagliato delle sue zanne,
e si riversò feroce
sulla Confederazione, tingendo ogni pianeta rimasto con il suo colore
sanguigno
e spezzando il Palazzo di Quarzo in un caos di frammenti vermigli.
Il
vecchio Asse sbarrò gli occhi, chiudendo bruscamente il
Terzo.
Gli
occhi ramati del ragazzo lo fissarono in attesa, a una misera distanza
dai
suoi.
«La
pace e la prosperità segneranno la tua reggenza»
predicò il vecchio Asse. «Non
ho mai avuto visione più felice: non vi sarà
nulla che turberà il tuo
equilibrio.»
Feliciano
sistemò di nuovo il velo, bisbigliò la preghiera
conclusiva e si rialzò con
eleganza, inchinandosi al suo predecessore come da cerimoniale. Il
Guardiano si
genuflesse più profondamente di quanto non avesse fatto
Feliciano, poiché la
rigida gerarchia Vaticana lo prevedeva. Dopodiché si fece da
parte per
permettere al futuro Asse di calpestare per primo la soglia di uscita,
e lo
seguì subito dopo.
Il
vecchio Asse attese che i due fossero spariti lungo i corridoi perlacei
prima
di impartire l’ordine al suo Guardiano:
«Porta
questo messaggio all’attuale Capofamiglia Vargas il prima
possibile.»
Il
Guardiano non si chiese il significato del criptico messaggio di cui
sarebbe
stato ambasciatore: si limitò ad ascoltare e memorizzare.
Il
Caos era stato scatenato dal lupo nero, per cui, una volta eliminata la
bestia,
il Caos non si sarebbe risvegliato. Doveva trovare quanto prima
l’altro
gemello, sfuggito alla morte con chissà quale trucco
diabolico, e ucciderlo;
solo così la Confederazione non sarebbe crollata.
La
superstizione sui gemelli si stava rivelando esatta.
Erano
davvero un presagio di malaugurio.
***
«Non
possiamo andare più veloci?»
I
capillari del capitano dell’Aereonave quasi esplosero per
quell’urlo esagitato.
«I
razzi sono al massimo» gridarono in risposta dalla sala
comandi. «Non possiamo
fare di meglio!»
Non
gli fu dato modo di tentare ulteriori vie di fuga: il rumore di una
scialuppa
li fece voltare tutti con mortale lentezza.
La
piccola imbarcazione cilindrica fluttuava serena sul ponte di prua, i
propulsori che emettevano una ghirlanda di fiamme azzurrognole. Il suo
carico
era costituito da due sole persone, ma fu sufficiente
un’occhiata ai loro volti
perché ogni uomo sull’Aereonave sentisse
l’anima fuggire dal corpo.
Il
cappotto rosso del capitano della Reina
de la Oscuridad assomigliava a una cascata di sangue, e il
cimitero di
medaglie strappate ai condottieri sconfitti scintillava su quel fiume
vermiglio. La pesante ascia, più alta dello stesso capitano,
stava appoggiata
sulla spalla destra con la tesa aspettativa di un predatore pronto a
sbranare
la sua vittima.
Al
suo fianco, più piccolo ma non meno spaventoso, un giovane
li fissava torvo, un
piede appoggiato sul bordo della barca.
Il
comandante dell’Aereonave inghiottì un amaro
boccone di saliva. Conosceva le
leggende su quel ragazzino, apparso come per un sortilegio nella ciurma
dalla Reina de la Oscuridad. Si
diceva che da
solo potesse indurre un intero equipaggio al suicidio, e che la belva
che era
in grado di evocare si cibasse unicamente di carne e sangue umani. Il
sacrificio
delle sue vittime era ricordato nella tinta scarlatta della sua giubba,
meno
decorata e più corta rispetto al cappotto del capitano.
Antonio
Fernandez Carriedo era universalmente conosciuto come la Mano Destra
del
Diavolo, e quel ragazzino si era presto guadagnato il titolo di Mano
Sinistra
del Diavolo.
Gli
occhi smeraldini lampeggiarono nell’ombra del cappello, e la
voce di Antonio
Fernandez Carriedo si modulò in un saluto:
«Perdonate
l’intromissione. Abbiamo bisogno di alcune informazioni. Se
ce le fornirete,
sarete tutti in grado di vedere l’alba di domani.»
Il
comandante cercò di mantenere le gambe ferme mentre annuiva
grave.
«Siete
parte della flotta Britannica, non è
così?»
L’uomo
annuì di nuovo, paralizzato. L’enorme stemma del
Leone sulla vela maestra era
più che esplicativo.
«Avete
contatti con la Capitaneria Britannica?» insistette Antonio.
«Come
è ovvio…» tartagliò il
comandante.
«State
andando splendidamente. Vi prego di non cadere proprio sul mio ultimo
quesito»
si complimentò il capitano impaludato di rosso, prima di
incupire il viso in
un’espressione di assoluta serietà:
«Dove si trova l’ultimo Hellsing?»
Gli
occhi dell’uomo si strabuzzarono fino al punto di esplodere.
Le gambe, che fino
a quel momento avevano mantenuto stoicamente una posizione eretta,
fuggirono
all’indietro, facendolo arretrare di qualche passo.
Ricordava
spaventosamente bene i giorni in cui l’Hellsing era stato
libero di scorrazzare
per la Confederazione con la sua coorte mostruosa. E il ricordo di quei
giorni
lo spaventava ancora di più della coppia davanti a lui.
«Non
siamo autorizzati a rivelarlo.»
Le
dita del capitano tamburellarono sull’impugnatura
dell’ascia.
«Sono
sicuro che siete un uomo ragionevole. E capirete che
un’informazione vale meno
di una vita.»
«Non
questa informazione. Se
l’Hellsing
dovesse svegliarsi, quei demoni mostruosi tornerebbero a infestare la
Confederazione, e migliaia di persone potrebbero
morire…»
L’ascia
si fermò a un millimetro dalla sua giugulare, ma sarebbe
bastato lo sguardo
furibondo del capitano a ucciderlo: le iridi verdi ardevano con una
rabbia così
totale che avrebbe potuto polverizzargli il cuore.
«Stai
dicendo che l’Hellsing è un assassino?»
sibilò.
«Quante
persone sono morte, per colpa dei suoi famigli demoniaci?»
esalò il comandante,
preoccupato che una parola pronunciata troppo forte potesse spingere la
sua
gola verso la lama affilata dell’ascia.
«È stato scomunicato dalle famiglie
Vaticane al completo in quanto eretico!»
«Le
famiglie Vaticane hanno il brutto vizio di distorcere la
realtà a loro piacimento»
intervenne il giovane, scendendo dalla barca con un balzo felino.
«Secondo
loro, io sono morto sei anni fa.»
«Lovino»
chiese Antonio, impietoso del terrore che leggeva negli occhi iniettati
di
sangue del suo avversario. «Pensi di riuscire a estrarre
qualcosa dalla sua
testa?»
Il
ragazzo inclinò il capo meditabondo, e i capelli ramati
solleticarono le spalle
cremisi della giubba.
«Posso
fare un tentativo» concesse. «Non permettere a
nessuno di avvicinarsi.»
L’ascia
del comandante si scostò dalla sua gola solo per essere
sostituita dalle mani
del ragazzo; la gamba del giovane lo colpì dietro le
ginocchia, facendolo
rovinare a terra. Il comandate si ritrovò con la schiena
schiacciata sul ponte
dal peso del ragazzo a cavalcioni su di lui, le sue dita serrate contro
la
gola, e una voce di pece che gli colava nelle orecchie:
«Devi
dormire per un po’, o non riuscirò a fare il mio
lavoro.»
Antonio
analizzò la scena, appagato dei progressi del ragazzo. Non
era più un bambino
pronto a dare di stomaco al primo sentore di sangue: ormai si era
assuefatto
alla battaglia, e il suo cipiglio scontroso non mutava nemmeno quando
la sua
vittima guerreggiava per l’ossigeno, come in quel momento.
Vide i muscoli del
ragazzo tendersi sotto la giacca per resistere all’ultima e
più disperata lotta
del comandante, prima che quest’ultimo si accasciasse privo
di sensi. La mano
del giovane scese ad artiglio sulla sua faccia: indice e anulare
andarono a
puntarsi sugli occhi, il medio raggiunse la fronte, e pollice e mignolo
fecero
presa sulle guance mentre il giovane chiudeva gli occhi per
concentrarsi.
Antonio
fu distolto dalla sua osservazione da un sibilo alla sua sinistra: un
membro
dell’equipaggio aveva tentato di sparargli con il
silenziatore. Vide lo
sgomento e l’orrore spandersi sul volto dell’uomo
come una macchia di petrolio
nel mare quando il proiettile si fermò a pochi centimetri
dalla sua tempia, quasi
fosse sospeso in una soluzione acquosa, senza nemmeno sfiorare la pelle
abbronzata del capitano.
«Bel
tentativo» si congratulò Antonio.
Appoggiò la lunga ascia alla spalla in modo
da poter imbracciare il fucile a canne mozze che teneva appeso sul
fianco
sinistro. Staccò con tranquillità il proiettile
che ancora fluttuava nell’aria
e lo caricò nella sua arma, per poi puntarla verso il cielo.
Il
colpo partì diretto alle stelle sopra di loro, ogni mozzo
poté vederlo. Così
come lo videro scendere in picchiata verso il ponte, e schivarli uno
per uno
alla velocità della luce fino a conficcarsi nella fronte
dello sventato che
aveva tentato di sparargli. Uno schizzo di sangue investì le
facce dei suoi
colleghi mentre lo sciagurato cadeva a terra con un tonfo sordo.
«Sono
questi i poteri… della Mano Destra dl Diavolo?»
farfugliò un bucaniere, il viso
imbrattato di sangue.
Antoniò
sistemò di nuovo il fucile al suo posto e
dichiarò, scuotendo lievemente
l’ascia che gli stava facendo indolenzire una spalla:
«Impedire
ai proiettili di colpirci e decidere la traiettoria dei nostri
colpi… ogni
Carriedo lo sa fare. Ma non è l’unica cosa
che…»
La
sua arringa fu interrotta dai mugolii sofferenti di Lovino, che lo
portarono a
dirigere di nuovo l’attenzione sul giovane.
Un
groviglio di piccole saette verdi si propagava dalla testa del capitano
e
percorreva tutto il corpo del giovane, effondendo un odore nauseante di
stoffa
e carne bruciata. Lovino aveva bloccato il proprio polso con la mano
libera,
per impedire a se stesso di lasciare andare la presa proprio ora che
era così
vicino alla sua meta. La guerra del ragazzo contro l’incanto
che proteggeva le
memorie del comandante durò qualche secondo ancora, prima
che Lovino venisse
sbalzato via dal corpo supino dell’uomo.
Nonostante
le pesanti armi, Antonio fu lesto ad afferrare il ragazzo prima che
precipitasse al suolo.
«Il
Mago dell’Ovest è davvero potente»
imprecò Lovino, scuotendo la mano bruciata. «I
suoi incantesimi di protezione sui ricordi dei suoi uomini sono
difficili da
ingannare.»
«Non
sei riuscito a ottenere informazioni neanche questa volta?»
lo interrogò
Antonio.
Lovino
lo scalciò con rabbia, offeso da quella mancanza di fiducia
nelle sue capacità.
«Ho
ottenuto qualcosa, invece! Il Mago dell’Ovest è
potente, ma non infallibile!»
sbottò.
Antonio
posò gli occhi sull’uomo svenuto e sulla sua
ciurma atterrita.
«Possiamo
andarcene, allora.»
«Ci
rimane solo una cosa da fare» gli ricordò Lovino.
Antonio
annuì, e afferrò con entrambe le mani la sua
ascia.
L’equipaggio
osservò terrificato la lama che aumentava di dimensioni,
fino a diventare
grande come la scialuppa che ancora attendeva i suoi passeggeri. Ad
Antonio
bastò un gioco di polsi e braccia per far roteare la
gigantesca arma, che
divelse il tetto delle cabine della ciurma in un sol colpo.
«Dobbiamo
ripulirvi la memoria» Lovino congiunse le mani, e una
caligine scura sfiatò
dalle sue spalle, formando due cupe palpebre che si aprirono in un paio
di
occhi sanguigni.
«Non
possiamo permetterci il rischio che qualcuno riveli informazioni sul
nostro
conto» confermò Antonio.
«Purtroppo
per voi, l’unico modo che conosco per impedirvi di
parlare…» gli occhi rossi
baluginarono di una follia animalesca, che fece piombare al suolo anche
i più
coraggiosi dell’equipaggio. «…
è sprofondare le vostre menti nel Caos. Spero
che il vostro soggiorno nella sanità mentale sia stato
piacevole.»
L’ultima
immagine che ebbero del mondo normale furono un paio di pupille rubino
che si
abbattevano su di loro. Poi la loro mente si lacerò, e
l’universo vorticò
intorno a loro, scomponendosi in mille pezzi che non si sarebbero mai
più
ricompattati.
La
scialuppa abbandonò velocemente la nave su cui ormai regnava
la pazzia.
***
«Dunque
Lovino è ancora vivo.»
Il
vecchio Guardiano chinò il capo imbiancato in un cenno di
assenso.
«Ma
non è l’unica raccomandazione che l’Asse
intende rivolgervi riguardo ai vostri
figli. Sono stato incaricato di riportarvi un secondo
messaggio.»
Un
sopracciglio del signor Vargas si incurvò a esternare un
irritato
interrogativo, e il Guardiano proseguì:
«Il
bianco è stato scelto come colore rappresentativo
dell’Asse, poiché riflette
tutti i colori senza assorbirne nemmeno uno. Così deve
essere anche per l’Asse:
riflettere il mondo senza restarne toccato. Ma il bianco è
anche il colore più
facile da sporcare, per questo l’Asse deve restare lontano
dalla lordura.
Dunque, fate attenzione a colui che è stato scelto per
ricoprire questo ruolo.»
«Per
quale motivo?» il signor Vargas quasi ringhiò.
Il
Guardiano rafforzò ulteriormente la sua posa marziale e
scandì:
«Perché
il suo bianco pare ansioso di essere sporcato. E la Confederazione non
può
ruotare su un cardine immondo.»
Ciò
riferito, il Guardiano si inchinò e sparì a
larghe falcate lungo il corridoio,
lasciando il signor Vargas solo con le sue meditazioni.
Avrebbe
inviato le sue milizie seduta stante per stanare Lovino e giustiziarlo.
Per
quanto riguardava Feliciano, non doveva preoccuparsi: ormai era
totalmente
sottomesso, e probabilmente si era perfino scordato di aver mai avuto
un
fratello.
L’unico
problema era Lovino, come sempre.
Intinse
il pennino nella boccetta di inchiostro e si preparò a
stilare un mandato di
cattura.
Non
avrebbe permesso a quel gemello indesiderato di sbriciolare il loro
Universo.
***
«C’è
qualcosa che vi turba?»
Feliciano
non aveva proferito verbo da quando se ne erano andati dalla sala
dell’Auspicio: si era tolto il cappello e il velo, li aveva
appoggiati su un
angolo del letto e si era seduto sulla poltrona, rigorosamente lattea.
«Oh…
te ne sei accorto?»
Le
labbra si tirarono in un sorriso stanco, e Feliciano
sprofondò nella poltrona
con aria esausta.
«Non
è stato onesto con me» rivelò.
«Come
fate a saperlo?» domandò austero Ludwig.
Feliciano
si coprì con una mano gli occhi, come se volesse nascondere
il suo peccato
sotto le dita.
«Perché
i miei poteri sono più forti dei suoi. “Il
migliore Asse degli ultimi trecento
anni”. È così che vengo vantato,
no?» di nuovo, quel sorriso figlio
dell’amarezza affiorò sulle sue labbra.
«Pare che i miei poteri siano davvero
smisurati. Nemmeno io me ne ero reso pienamente conto fino…
fino ad oggi. Ho
visto quello che lui ha visto.»
«E
cosa avete visto?»
Feliciano
ritrasse le gambe sulla poltrona, appallottolandosi su se stesso.
Quando la
testa fu nascosta dalle ginocchia, fu quasi impossibile distinguere tra
il
candore delle sue vesti e la tinta nivea della poltrona.
«Se
Lovino sopravvive, la Confederazione verrà stravolta. E, se
ci riuniremo,
l’Universo potrebbe smettere di esistere.»
Le
spalle del giovane sobbalzarono per i brividi che cercavano
disperatamente di
trattenere, e Ludwig si avvicinò alla poltrona, preoccupato
per le condizioni
dell’Asse.
«So
che un’Asse dovrebbe avere a cuore il bene della
Confederazione» dalla gola
otturata di lacrime uscì qualcosa di simile ad un miagolio,
più che ad una voce
umana. «Quindi dovrei lasciare che Lovino muoia e accettare
il mio destino di
solitudine…» la testa si infossò
ulteriormente nelle gambe contratte, tanto che
rimasero visibili solo alcuni ciuffi ramati. «Ma non
voglio.»
Feliciano
sollevò bruscamente il capo: il rosso delle guance
infiammate, il colore
trasparente delle lacrime e il castano infuocato degli occhi erano
quasi
violenti in confronto al predominante bianco.
«I
miei poteri saranno superiori a quelli degli altri Assi, ma il mio
spirito non
è altrettanto forte! Non possono chiedermi di gettare i miei
sentimenti fuori
da questo Palazzo e diventare una bambola senza cuore! Non possono
chiedermi di
uccidere mio fratello!»
«Forse
la vostra interpretazione è sbagliata…»
«Non
è sbagliata! Quello era Roma!»
Vi
fu un attimo di immobilità innaturale prima che Feliciano
portasse una mano a
coprire la sua bocca sfrontata.
«Scusami…
ho urlato…» mormorò, mordendo le parole
per non scoppiare in lacrime. «Ma per
me mio fratello è più importante della
Confederazione… proteggere un Universo
in cui lui non c’è, per me non ha
senso…» alzò sul Guardiano un paio di
occhi
imploranti e traballò: «Ludwig, se ti chiedessero
di scegliere tra tuo fratello
e la Confederazione, chi sceglieresti?»
Per
un attimo, le spalle del Guardiano si contrassero. Poi si rilassarono
di nuovo
nella posizione di riposo militare mentre il giovane rispondeva:
«Mi
è capitata una cosa simile, in passato. E non ho potuto fare
nulla perché ero
troppo debole.»
Feliciano
si appoggiò a un bracciolo paffuto, completamente
ammutolito. Ludwig si mise in
ginocchio di fronte a lui, in modo da poterlo fissare negli occhi
mentre
affermava:
«Al
contrario del me stesso di allora, voi siete forte, e anche io lo sono.
Se
combiniamo le nostre forze, potremmo fare in modo di rivedere i nostri
cari
senza che per questo la Confederazione debba cessare di
esistere.»
Le
ciglia del giovane, imperlate di lacrime, fremettero di speranza a
quella
prospettiva.
«Ne
sei certo?» azzardò Feliciano.
«Non
posso esserne sicuro. Ma possiamo cercare una via di uscita.»
Feliciano
asciugò gli occhi sull’ampia manica, annuendo
soddisfatto.
«Devo
chiederti due favori» annunciò l’Asse.
«Il primo è di non usare il
“voi”,
quando siamo da soli. Sembra che tu voglia tenermi a distanza, e non mi
piace.»
«È
per mostrarvi rispetto.»
«Me
lo dimostri standomi al fianco ogni giorno e ogni ora. Non
c’è bisogno di
questa formalità.»
«Come…
preferisci» Ludwig inciampò un attimo nello
spezzare il muro della ritualità.
Il
sorriso di Feliciano diventò finalmente più
genuino, ma si infranse per
l’incertezza nel pronunciare la seconda richiesta:
«Potresti…
abbracciarmi?»
Il
ragazzo dirottò gli occhi sul bracciolo della poltrona, e si
giustificò,
imbarazzato:
«Quando
c’era mio fratello… ero abituato ad abbracciarlo
in continuazione, anche se
ogni tanto mi spingeva via. Invece adesso…»
strinse il pugno su alcune ciocche
ramate, stringendo gli occhi per la nostalgia. «Sono sei anni
che non abbraccio
nessuno… o che nessuno mi tocca. Ed è
così… triste… sembra che a nessuno
importi che io sia vivo o meno, basta che stia al mio posto come una
statua…»
Udì
il fruscio della divisa, ma fu comunque sorpreso quando le braccia del
suo
Guardiano gli circondarono il capo.
«Non
sei solo» furono le uniche cose che Ludwig disse, mentre lo
teneva stretto a
sé.
Feliciano
morse le labbra e serrò gli occhi, ricambiando
l’abbraccio del giovane. Pensava
che Ludwig fosse gelido come la sua terra natale, o come i suoi occhi
glaciali;
invece sentiva il cuore del Guardiano battere nel petto su cui poggiava
la sua
guancia, e avvertiva il calore del giovane trapelare dalla divisa scura
e
avvolgerlo assieme alle sue braccia.
Strinse
più forte la presa sulle spalle massicce, nascondendo il
viso nel torace del
giovane.
Aveva
dimenticato che esisteva del tepore nel mondo, al di là del
caminetto che
riscaldava la sua stanza in inverno. E riscoprirlo gli diede una gioia
che non
sapeva di poter ancora provare.
***
Lovino
esaminò corrucciato il disegno schizzato dal loro navigatore.
«Era
qualcosa di simile» asserì infine, appoggiando il
foglio sul tavolo in modo che
tutti potessero vederlo.
«Sei
assolutamente sicuro di aver visto questo, nella mente del
comandante?» si
sincerò Antonio, per l’ennesima volta.
Lovino
picchiettò l’unghia sul paesaggio abbozzato.
«Ne
sono certo. Qui c’era l’Hellsing,
incatenato» spiegò, indicando un ponte
sottile ricoperto di ghiaccio. «E lo stavano conducendo
qui» concluse,
indicando un nugolo di torri simili a una piantagione di stalattiti.
Un
brusio preoccupato si levò dalla ciurma. Antonio sciolse il
laccio che
tratteneva la coda di riccioli sulla nuca, e legò nuovamente
i capelli prima di
pronosticare:
«Allora
è stato portato alla Prigione Caina.»
Non
vi fu bisogno di aggiungere altro.
La
Prigione Caina era una delle Sei Fortezze e, in quanto tale, godeva
della
protezione di alcuni tra i migliori guerrieri di tutta la
Confederazione:
nessuno era vissuto abbastanza a lungo da raccontare il suo incontro
con i
Golem di Ghiaccio. Inoltre, il clima stesso del mondo in cui era stata
edificata la Prigione scoraggiava qualunque avventuriero: nessuno
poteva
sopravvivere alla temperatura polare o alle asperità del
terreno. In tutto il
pianeta, l’unico edificio esistente era, per
l’appunto, la Fortezza.
«Non
c’è modo di coglierli di sorpresa»
valutò ad alta voce un consumato bucaniere. «In
quella maledetta terra non c’è nemmeno una
montagna per nascondersi. Solo una
schifosa lastra di ghiaccio.»
«Lovino,
tu non potresti renderci invisibili?» tentò
Antonio, ma il giovane scosse la
testa.
«Potrebbe
fare impazzire i prigionieri. Questo occuperebbe i Golem per un
po’» propose un
altro marinaio, ma questa volta fu Antonio a dissentire:
«Anche
se li facesse impazzire, i prigionieri della Caina sono tutti
addormentati e
intrappolati nel ghiaccio. Non potrebbero fare scompiglio nemmeno
volendo.»
Nessuno
aggiunse altro, notando la tensione spasmodica con cui il capitano
stava
stringendo i pugni. La Prigione Caina era famosa non solo per la sua
ubicazione
impervia, ma anche per la pena riservata ai criminali chiusi nelle sue
celle. I
carcerati venivano immersi in un globo di ghiaccio e in un sonno
profondo, in
cui avrebbero rivissuto tutte le loro peggiori paure fino alla fine dei
tempi.
La sola immagine di Gilbert immobile in una bara congelata e tormentato
da
visioni fasulle gli faceva ruggire il sangue nel cervello.
«Esiste
una persona che può avvicinarsi alle Fortezze senza essere
fermato» rischiò un
mozzo con la pezza sull’occhio. «Il Custode dei
Cancelli.»
«Ma
certo. Vuoi essere tu la prima testa che si fracasserà
contro la sua mazza
ferrata?» lo riprese aspramente un altro marinaio.
«Per lui siamo nemici.»
«È
l’unico modo per raggiungere l’Hellsing! Una volta
in prigione potremo
cavarcela in qualche modo, grazie ai poteri del capitano e del suo
vice, ma
dobbiamo arrivare interi!» protestò vivacemente il
primo.
«E
come pensi di…»
«È
davvero l’unico modo?»
La
domanda di Lovino sferzò la conversazione, spezzandola a
metà. Tutti volsero lo
sguardo verso il ragazzo che a sua volta fissava Antonio, in attesa di
risposta.
«Il
Mago dell’Ovest potrebbe fare qualcosa, ma dopo che gli
abbiamo fatto impazzire
un intero equipaggio dubito che avrà voglia di
ascoltarci… no, potremo contare
su di lui solo per ritrovare il Marauder. Forse»
specificò Antonio. «Per quanto impossibile, il
Custode è l’unica opzione.»
«Così
sia. Se avete troppa paura, non preoccupatevi: andrò da
solo.»
Lovino
non lasciò tempo a nessuno di contestare la sua decisione:
si alzò dal tavolo e
si diresse veloce verso la sua cabina.
Si
tolse la giacca amaranto e la dispiegò sulla gruccia. Un
barbiglio di luce
venne catturato dalla nuova medaglia: aveva raccolto lo stemma del
capitano
della nave di Britannia e lo aveva appuntato sul petto, assieme alle
medaglie
degli altri capitani che aveva sconfitto. Ma erano ancora insufficienti
per
rivaleggiare con Antonio.
Cominciò
a slacciare i bottoni della camicia, ed era a metà strada
quando la porta della
sua cabina si spalancò.
«Dovresti
ascoltare i discorsi altrui fino in fondo-» un cuscino
lanciato con una permalosità
scarlatta si abbatté sul viso del capitano, zittendolo.
«Dovresti
imparare a bussare, dannazione!» esacerbò Lovino,
riallacciando rapido la
camicia.
«Non
puoi biasimarli, se hanno paura del Custode dei Cancelli. Tu non hai
visto cosa
è capace di fare, ma loro sì»
continuò imperterrito Antonio, scavalcando il
guanciale che era rovinato al suolo.
«Infatti
ho detto che andrò da solo. Così nessuno
verrà ferito» replicò asciutto Lovino.
Si
girò bruscamente quando Antonio lo afferrò per il
polso con tanta forza da
fargli quasi male.
«Questo»
sillabò Antonio, sollevando la mano fasciata di Lovino.
«Ustioni di secondo
grado, e non era nemmeno uno scontro diretto con il Mago
dell’Ovest. Pensi
davvero che sopravvivresti a una lotta con il Custode dei
Cancelli?»
«Me
la caverò in qualche modo» contestò
Lovino, cercando di liberare il polso.
Per tutta risposta, Antonio accentuò la presa
e l’enfasi del rimprovero:
«Queste
parole circolano solo nelle bocche degli stupidi. E tutti gli stupidi
finiscono
uccisi in qualche modo assurdo. Vuoi essere ammazzato anche tu, e
lasciare tuo
fratello a piangere col Cristallo?»
La
pupilla di Lovino si dilatò, colpita a morte da quella
previsione nefanda.
L’ira di Antonio si acquietò un poco, vedendo la
testardaggine del giovane
ritirarsi dal suo viso per lasciare spazio all’ansia.
Allentò la stretta sul
suo polso, senza però lasciarlo andare, e
consigliò, adamantino:
«Se
vuoi rivedere tuo fratello, abbi più cura della tua
vita.»
Approfittò
della momentanea sottomissione di Lovino per aggiungere:
«Caleremo
una scialuppa di sei persone per raggiungere la Fortezza Errante del
Custode.
Cercheremo di negoziare, non di combattere. Chiaro?»
«E
se loro ci attaccassero?»
«Allora
ci ritireremo. E cercheremo un altro modo per liberare
l’Hellsing.»
Lovino
portò le iridi, di nuovo ferme nella consueta espressione
guardinga, sul volto
del capitano e indagò:
«Sei
davvero sicuro che, se risvegliamo l’Hellsing e il Marauder,
potremo aprire una
breccia nel Palazzo di Quarzo?»
«Loro
sono le uniche persone che conosco in grado di accompagnarci in questa
pazzia.
Nonché le più potenti»
confermò Antonio.
Lovino
lasciò passare qualche secondo prima di porre la seconda
domanda:
«Perché
vuoi distruggere il Palazzo di Quarzo? Io lo faccio per mio fratello,
ma tu…»
«Ho
visto cosa si cela dietro la giustizia propagandata dalle famiglie
Vaticane. E
non credo che una simile ipocrisia possa mantenere questa
Confederazione
stabile ancora a lungo.»
La
replica fu talmente immediata da lasciarlo quasi stordito. Antonio lo
confuse
ulteriormente estraendo un sorriso sornione del tutto inadatto
all’argomento
trattato.
«Un
giorno te ne parlerò» promise.
«Mi
basta che tu mi aiuti a liberare mio fratello. Non mi importa delle tue
motivazioni» scalpitò Lovino, facendo un ulteriore
tentativo per liberare il
polso.
Le
dita del capitano non gli permisero di fuggire, anzi, avvicinarono la
mano
bendata al viso dell’uomo. Il palmo venne accarezzato dalle
iridi verdi di
Antonio, calamitate da esso come se cercassero di scorgervi un percorso
invisibile, prima che le labbra scendessero a lambire le fasciature.
Lovino
si agitò come un luccio appena pescato, e le sue proteste
verbali aumentarono
di tono quando la mano libera del capitano fece pressione sulla sua
schiena. Le
esclamazioni di Lovino si strozzarono contro il cappotto del
comandante. Le
insinuazioni di Antonio si infiltrarono nelle sue ciocche ramate,
accapponandogli i capelli sulla nuca.
«È
ammirevole che tu desideri rivedere tuo fratello con tanta
intensità. Ma ogni
tanto dovresti renderti conto che lui non sarà
l’unica persona che incontrerai
nel tuo cammino. E perderai moltissime occasioni lungo il viaggio, se
concentrerai tutto te stesso solo sulla meta.»
Antonio
lo rilasciò all’improvviso, evitando di un soffio
il calcio diretto ai suoi
stinchi.
«Ci
metteremo sulle tracce della Fortezza Errante da questo preciso
momento. Se
vuoi unirti a noi, sai dove trovarci» si accomiatò.
Lovino
si gettò la giacca sulle spalle e infilò le
maniche con una collera imbarazzata
che gli colorava le guance.
Era
sbagliato pensare solo al fratello? Doveva prestare attenzione anche
alle altre
occasioni?
«E
quali sarebbero queste occasioni? Tu?»
sberciò, abbassando la maniglia con veemenza. «Non
farmi ridere, bastardo!»
E
chiuse le sciocchezze del capitano dietro quella porta prima di recarsi
di
nuovo nella sala comune.
Ed
eccomi qui
con il terzo capitolo<3
Uhm,
non ho
molto da dichiarare/annunciare, questa volta XD
Solo,
per le fan
di Ivan: il fanciullo è in direttura di arrivo 8D
E,
beh, non ho
altri da aggiungere *che tristezza di postille finali XD*
Un
bacione da
questa scrittrice derelitta<3
A
presto!
Red
Banner a opera di Claudia ^^
Le immagini utilizzate nei banner non mi appartengono; tuttavia, avendole prese dai miei archivi, non ricordo gli autori ç_ç Se qualcuno dovesse riconoscere la fonte di qualche immagine, me lo faccia sapere e provvederò a metterei credits<3 |
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Capitolo 4 *** Il Custode dei Cancelli ***
Capitolo Quattro: il Custode
dei Cancelli
La
vedetta sentì la gola attorcigliarsi quando avvistarono la
sagoma della dimora
del Custode.
Un’enorme
piattaforma reggeva un castello le cui pareti erano formate da
meccanismi
dall’aria estremamente complessa, e le cui torrette
sbuffavano fumo a
intervalli precisi. Ogni cosa nel castello era regolata in modo da
perpetrare
il moto della Fortezza: non vi era porta, finestra o parete che non
fosse
ricoperta da ingranaggi in movimento; il castello era un unico muscolo
pulsante.
Quattro
enormi pinne si allungavano e si muovevano pigre come quelle delle
testuggini
marine, orientando la direzione della Fortezza.
«Obiettivo
avvistato» avvisò con un urlo. «Siete
pronti?»
Dalla
scialuppa, sei teste risposero con un cenno affermativo.
«In
bocca al lupo, capitano» augurò il marinaio.
«Vice» aggiunse, chinando la testa
con umiltà. «Tornate vittoriosi.»
Lovino,
Antonio e i quattro mozzi armeggiarono con le corde per calare la
scialuppa; i
razzi rombarono potenti, facendo librare l’imbarcazione verso
la Fortezza.
«Chiediamo
il permesso di atterrare» gridò un mozzo,
sporgendosi dal parapetto ma senza
uscire dall’atmosfera artificiale. «Non veniamo con
intenzioni bellicose.»
Lo
spazio rimase silenzioso e fermo attorno a loro.
«Dite
che non mi hanno sentito?» balbettò, impaurito da
quella stasi innaturale.
«Torniamo»
decise Antonio. «Adesso.»
Lovino
avrebbe voluto fermarlo, ma l’espressione livida del capitano
lo ammutolì. Se Antonio
aveva motivo di temere quel castello fluttuante, lo avrebbero seguito
nella sua
ritirata.
Il
marinaio addetto si piazzò nella postazione di controllo per
girare la
scialuppa, ma fu interrotto dal grido terrorizzato di un suo collega.
«Che
diavolo è quello?»
Lovino
si sporse dalla barca, e il sangue gli si raggelò nelle vene.
Un
uomo, circondato da una sfera di atmosfera artificiale, avanzava verso
di loro
con la spietatezza di un lupo siberiano. Il pesante cappotto e la
sciarpa
volteggiavano intorno a lui come drappi funebri, e le mani guantate
erano
strattonate all’indietro dalla pesante mazza ferrata che
reggevano.
«I
comandi non rispondono, capitano!» sberciò il
marinaio, preda del panico.
Antonio
impugnò l’ascia e Lovino congiunse le mani per
richiamare Roma, mentre il
gigante d’uomo divorava lo spazio con la sua corsa animalesca.
La
scialuppa quasi si rovesciò quando il Custode
atterrò al suo interno con un
pesante balzo; Antonio si parò davanti a Lovino e
intercettò il primo colpo di
mazza ferrata con la sua ascia.
Uno
strano ghigno si dipinse negli occhi dell’uomo, semi nascosti
dalla sciarpa.
«Antonio
Fernandez Carriedo» lo riconobbe il gigante. Fece pressione
sull’arma,
costringendo il capitano a piegarsi sulle ginocchia. «La Mano
Destra del
Diavolo. E dite venire in pace?»
Un
marinaio estrasse il pugnale dallo stivale e tentò di
colpire il Custode. Il
gigante risolse la questione con due movimenti di polso: la mazza
ferrata
precipitò sulla testa del mozzo, facendola esplodere come un
melograno maturo,
per poi tornare a bloccare l’ascia del capitano. Lo stomaco
di Antonio si
rivoltò quando il sangue misto a materia cerebrale del suo
sottoposto gli colò
sul viso dagli spuntoni dell’arma dell’uomo.
«Non
mi sembrate pacifici» notò il gigante.
«Non
muovetevi!» comandò Antonio, bloccando i suoi
uomini pronti ad aiutarlo: non
avrebbero fatto che suicidarsi contro quella mazza ferrata implacabile.
Roma
si sollevò dalle spalle di Lovino e si lanciò
contro il Custode con un ringhio.
L’uomo evitò la fiera spostandosi di lato di un
passo, e abbatté la sua arma anche
su di lei. Roma si dissolse sotto l’impatto con la mazza
ferrata, e si riformò
di fianco al suo padrone.
«Sei
un mago?» si sorprese con calma il gigante, avvicinandosi al
ragazzo.
Lovino
poggiò una mano sul collo di Roma, pronto a incitarlo
all’attacco, ma uno scudo
migliore del lupo si parò davanti a lui: la figura del
capitano si stagliò
davanti ai suoi occhi, l’ascia spianata contro il Custode.
Il
gigante non si fece scoraggiare da quell’imprevisto:
roteò la mazza,
costringendo il capitano a pararla con l’ascia, e lo
colpì crudelmente alla
caviglia con il pesante stivale. Il rumore dell’osso spezzato
schioccò tremendo
all’interno dell’atmosfera artificiale, e Antonio
cadde a terra con un grido di
dolore, aggrappato alla sua arma.
«Prima
ordinate ai vostri uomini di stare fermi e poi mi attaccate»
lo biasimò l’uomo,
dall’alto della sua statura imponente. La reazione del
capitano lo colse di
sprovvista: il manico dell’ascia si allungò
improvvisamente, e la lama si
espanse fino a tagliargli la sciarpa e la guancia. L’uomo si
abbassò un secondo
prima che quell’arma potesse dividergli la testa a
metà.
«Non
voglio che i miei uomini muoiano inutilmente»
decretò Antonio, un velo di
lacrime nell’angolo degli occhi per la caviglia spezzata.
«Ma anche io ho delle
cose che voglio proteggere.»
La
mazza ferrata dell’uomo svettò nel cielo, e gli
astri circostanti gettarono una
luce macabra sulle chiazze scure incrostate su quell’arma.
«Dunque
sarete disposto a morire, per difenderle.»
L’uomo
caricò il braccio all’indietro; Antonio si
preparò a parare il colpo con
l’ascia; Lovino si gettò in avanti, cercando
inutilmente di frenare quella
degenerazione di eventi.
Il
tempo sembrò cristallizzarsi in quell’unico
istante in cui il gigante si fermò
come se lo avessero ibernato, e inclinò il capo di lato per
ascoltare un
sussurro udibile solo a lui.
L’uomo
depose la mazza sulla propria spalla e proclamò, rivolto a
Lovino:
«Pare
che tu sia prezioso. Sei autorizzato a scendere nella Fortezza Errante.
Ma tu
solamente.»
Lo
sgomento atrofizzò l’anima dei marinai, e
lasciò Lovino completamente attonito.
Con chi aveva parlato il gigante, per cambiare idea in modo
così repentino?
«Vuoi
scendere?» lo incalzò l’uomo.
Lovino
si riscosse con un tremito. Era terrorizzato dalla forza spaventosa di
quell’uomo, e non osava pensare cosa sarebbe stato capace di
fare una volta
raggiunto il suo castello. Ma era l’unico modo per liberare
l’Hellsing, e per
avvicinarsi di un passo alla liberazione del fratello.
Antonio
non gli permise di scendere dalla barca da solo: lo afferrò
in vita con un
braccio e lo strattonò violentemente contro di sé.
«Che
accidenti fai?» si ribellò Lovino, prima che il
capitano contrattasse:
«Questo
ragazzo è prezioso anche per noi. Non possiamo lasciarlo
andare da solo.
Capisco che tu non voglia intrusi nel tuo castello, ma dovrai accettare
perlomeno la mia presenza, se vuoi che lui ti segua.»
Gli
occhi del gigante lo fissarono dall’alto, con una sicurezza
venata di
disprezzo.
«Come
preferite. Vi avrei sconfitto mentre eravate al pieno delle forze.
Dubito che
possiate infastidirmi, ora che siete azzoppato.»
«Capitano…»
cercarono di dissuaderlo i suoi uomini, ma Antonio fu irremovibile:
«Aspettateci
sull’Aereonave. Torneremo sicuramente. Entrambi.»
E
i quattro marinai non poterono fare altro che osservare impotenti,
mentre
Lovino si autopromuoveva a stampella di Antonio e insieme seguivano il
gigante
nella sua tana.
***
Feliciano
osservò annoiato il disegno sulla lavagna di fronte a lui.
I
vertici di due triangoli stesi in orizzontale si toccavano al centro di
una
forma a cristallo, il tutto inscritto in un cerchio. Era il simbolo
della
Confederazione Siderale, e un buon Asse doveva conoscerne
l’esatta simbologia.
«Cosa
rappresenta questo triangolo?» lo interrogò
Ludwig, puntando il dito sulla
figura di sinistra.
«Sono
le Tre Spade» recitò Feliciano e procedette a
elencare: «Il Mago dell’Ovest, il
Samurai e il Guardiano. L’altro triangolo, invece,
rappresenta i Tre Scudi: il
Custode dei Cancelli, il Figlio del Cielo e l’Asse»
indicò il punto in cui le
due figure si congiungevano al centro del cristallo e
terminò: «In questo punto
i due triangoli si incontrano poiché il Guardiano e
l’Asse sono indivisibili
all’interno del Palazzo di Quarzo.»
«Molto
bene» si complimentò Ludwig. «E ti
ricordi la provenienza di queste persone?»
«Il
Mago dell’Ovest protegge la Compagnia di Britannia, il
Samurai difende il
Sistema Asean assieme al Figlio del Cielo, e il Custode dei Cancelli
vaga per
la Confederazione sulla sua Fortezza Errante»
salmodiò flemmatico Feliciano.
«E
i sei punti in cui i triangoli e i vertici del cristallo toccano il
cerchio?»
«Rappresentano
le sei Fortezze. Tre prigioni, un tribunale e due avamposti di
polizia.»
Il
volto di Feliciano cambiò bruscamente espressione quando
Ludwig pose la domanda
finale:
«Quali
sono le forze non presenti in questo schema?»
Anche
suo fratello era tra i ripudiati da una gerarchia che non aveva
pietà per i
diversi. Feliciano pettinò all’indietro la frangia
ramata e mormorò, il ricordo
del gemello conficcato come una spina nel cuore:
«Sono
i Tre Sparvieri. La Mano Destra del Diavolo, il Marauder e
l’Hellsing. La Mano
Destra del Diavolo è ancora in circolazione, il Marauder
è scomparso
misteriosamente e l’Hellsing è rinchiuso nella
Prigione Caina…» l’Asse si
fermò, sbigottito dall’espressione di Ludwig: non
aveva mosso un muscolo ma
all’improvviso tutto, in lui, era diventato
l’emblema della sofferenza.
«Ludwig?»
lo chiamò Feliciano, e il Guardiano si
riappropriò in un secondo della sua
compostezza.
«Non
è nulla» cercò di sorvolare, ma
Feliciano non gli permise di fuggire:
«Conoscevi
l’Hellsing?»
Ludwig
si asserragliò in un mutismo cupo. Feliciano si
sentì quasi ferito dal riserbo
del giovane e protestò:
«Sai
che non lo dirò a nessuno. Abbiamo stretto un patto: uscire
da qui insieme. E
sai che non lo tradirò. Però tu conosci i miei
motivi, ma io non conosco i
tuoi. Non è giusto.»
Gli
occhi azzurri si posarono su di lui e Feliciano vi lesse tutta la
spietata
bellezza delle lande gelide in cui era cresciuto il giovane.
«Non
lo dico perché non mi fido di te. Ma è qualcosa
che… brucia, ancora» Ludwig
aggrottò le sopracciglia e ammise in un ruggito stanco:
«Gli devo la vita. Gli
devo tutto. E non l’ho mai ricambiato.»
«È
tuo fratello?»
Prima
delle parole lo raggiunse il tocco gentile della mano
dell’Asse, che si adagiò
delicata sul suo bicipite. Ludwig fissò quelle dita,
così piccole in confronto
al suo braccio. Un tempo, quella mano era stata la sua, e il braccio
quello
dell’Hellsing. Si chiedeva se anche allo sterminatore di
demoni quelle dita
fossero sembrate così minuscole e fragili.
«Era
tutto quello che avevo» rispose Ludwig, con una tetra
malinconia ad
appesantirgli la voce.
Feliciano
abbassò gli occhi, troppo vergognoso per pronunciare
quell’invito fissando il
volto del suo Guardiano.
«Puoi
abbracciarmi, se vuoi.»
La
pendola scandì qualche rintocco prima che Ludwig spezzasse
quella stasi
avvolgendo con le braccia muscolose il corpo minuto di Feliciano. Non
era un
fisico adatto a sostenere un intero Universo: quella schiena esile si
sarebbe
spezzata, e le spalle strette sarebbero state polverizzate dal peso
della
Confederazione.
L’affermazione
dell’Asse scivolò sulla divisa e lo
accarezzò sulla guancia con la dolcezza di
una carezza materna.
«Non
sei solo, Ludwig.»
Il
Guardiano cinse più forte quel fisico di giunco, e le
vaporose maniche
dell’Asse calarono sulla sua schiena quando il giovane
alzò le braccia per
ricambiare la stretta. Lo tenne avvinto a sé nel ricordargli
la loro promessa:
«Nemmeno
tu sei solo.»
E
le braccia sottili dell’Asse si strinsero con più
forza attorno al suo dorso.
***
Antonio
era seduto su una poltrona ricavata dall’incastro di
complessi marchingegni, e
Lovino stava appollaiato sul bracciolo, le braccia che circondavano il
capo di
Antonio. Quello stupido si era fatto azzoppare, quindi era suo compito
proteggerlo.
Lanciò
un’occhiata in tralice al gigante in piedi in fondo alla sala
dalle pareti
meccaniche piene di stantuffi, pompe e ingranaggi in movimento.
Il
cappotto che indossava scendeva dritto e pesante fino a scoprire gli
stivali
rinforzati di metallo, e i guanti sembravano ricavati da pelle di drago
tanto
il loro tessuto era spesso. L’unico dettaglio leggero del suo
abbigliamento era
la sciarpa color crema, su cui spiccavano i grandi occhi violacei
dell’omone.
Le ciglia che contornavano quelle iridi distaccate erano color paglia
delle
steppe, come la corta chioma dell’uomo. Non aveva abbandonato
la mazza ferrata,
che pendeva leziosa dalla sua spalla, con il sangue del loro compagno
che pian
piano si raggrumava sulla sua superficie.
«Qual
è il tuo nome, ragazzo?» domandò il
gigante, con la placidità di chi sa di
essere obbedito.
«Lovino»
rispose l’interpellato, con voce ferma.
«Il
tuo nome completo» esigette l’uomo.
Antonio
sentì le mani del giovane fremere per uno scatto nervoso nel
pronunciare il suo
odiato cognome.
«Lovino
Vargas.»
Le
sopracciglia del gigante si alzarono appena, esprimendo una moderata
meraviglia.
«Vargas
è il nome della famiglia Vaticana che offre i suoi
primogeniti al Palazzo di
Quarzo» recitò l’uomo. «Come
mai un Vaticano fa parte della ciurma di Carriedo?»
«Non
sono più un Vaticano» eruppe Lovino, e
sollevò i capelli mostrando la nuca al
gigante. La ferita si era rimarginata, ma la cicatrice a forma di croce
era
ancora ben visibile sul suo collo. «I miei poteri erano
immorali, e dovevo
restituire la mia metà di anima a mio fratello. Per questo
mi hanno gettato su
un pianeta desertico a morire.»
«Non
sapevo che il ragazzo destinato a diventare Asse avesse un
fratello.»
«Non
siete il primo a dirmelo.»
Il
gigante appoggiò la mazza ferrata al muro, abbastanza vicino
da poterla
recuperare semplicemente stendendo il braccio, e seguitò:
«Perché
siete venuti qui?»
«Abbiamo
bisogno del vostro aiuto per arrivare alla Prigione Caina. Solo per
arrivare.
Il resto spetta a noi» affermò Antonio,
trattenendo a stento un gemito per la
caviglia sconquassata.
Gli
occhi dell’uomo rimasero freddi come gli inverni del pianeta
Siberia mentre li
interrogava:
«Avete
intenzione di risvegliare lo Sparviero vostro compare?»
«Esattamente»
avvalorò Antonio.
«A
quale scopo?»
«È
necessario per infrangere le barriere del Palazzo di Quarzo e liberare
mio
fratello» s’infervorò Lovino.
«Avete
intenzione di attaccare il Vaticano e lo ammettete con tanta
leggerezza?»
«Non
ci servirebbero a molto le menzogne, contro di voi»
sogghignò amaro Antonio.
Ivan
annuì, tuffando il viso nella sciarpa.
«Cosa
ne pensi?» chiese, rivolto apparentemente al nulla.
Due
grosse ruote dentate emisero un rantolo metallico, permettendo a una
porta
nascosta di aprirsi.
Antonio
sentì Lovino trasalire per lo stupore, e la cosa non lo
sorprese: perfino lui
aveva sentito il sangue gridare per la sorpresa, alla vista del nuovo
arrivato.
La
nascita nella parte orientale della Confederazione aveva modellato i
suoi occhi
scuri nella particolare forma a mandorla delle popolazioni del Sistema
Asean,
allo stesso modo in cui anche il fisico e i lineamenti del viso
ricalcavano
l’ideale asiatico. Una lunga coda di capelli mogano scendeva
sinuosa sulla
tunica orientale dalle tinte infuocate, stretta in vita da una fascia
dorata e
completata da un paio di larghi pantaloni bianchi.
Ma
non furono tutti quei dettagli esotici a far sussultare i due pirati:
entrambi
riconobbero il medaglione di rubino a forma di drago che pendeva dal
collo del
giovane.
«Yao
Wang, il Figlio del Cielo!» esclamò Lovino.
«Cosa ci fate qui?»
«È
una storia lunga quanto la vostra. E temo che dovrà
aspettare» l’orientale
nascose i polsi nelle ampie maniche della tunica e si rivolse al
gigante: «È
come ti ho detto, Ivan: noi siamo il terremoto che scuoterà
la Confederazione.»
«Siete
stato voi a fermarlo, prima?» indagò Antonio.
L’orientale
chinò il capo in un assenso, portando i suoi occhi dal
taglio obliquo su di
lui.
«Perché?
Non potevate lasciare che ci ammazzasse, come ha fatto con il nostro
collega?»
il ricordo dell’esplosione della testa del suo sottoposto gli
incendiò le
parole sulla lingua, che si conficcarono come dardi di fuoco nel petto
del
Figlio del Cielo.
«Sono
spiacente per la vostra perdita» si rammaricò Yao.
«Ma è il nostro modo di
difenderci, per quanto brutale. Anche voi avete ucciso numerose persone
sul
vostro cammino, ed eravate disposto ad attaccare Ivan, se avesse
cercato di
rubarvi quel ragazzo.»
Antonio
conosceva la dura legge del più forte, così a
fondo che non poté replicare. E
nel suo silenzio si inserì Ivan:
«La
Confederazione sta andando incontro alla sua distruzione. Il Figlio del
Cielo è
stato detronizzato, gli Sparvieri sono prossimi al risveglio, e nella
famiglia
Vargas sono nati dei gemelli.»
«Come
potete sapere che gli Sparvieri sono prossimi al risveglio?»
«Come
sapevate che sono un Vaticano?» domandarono in sincrono
Antonio e Lovino.
Yao
rispose ai loro quesiti con eleganza e tranquillità:
«Se
anche voi non risvegliaste l’Hellsing, il Mago
dell’Ovest cercherà il Marauder,
prima o poi. L’ho visto nella sua aura, durante
l’ultimo incontro ufficiale. E
non sapevo che voi foste un Vaticano: ho semplicemente avvertito
l’energia Yang
particolarmente forte dentro di voi.»
«Yang?»
gli fece eco Lovino.
«
La forza dell’opposto» Yao optò per una
spiegazione più elementare: «In questo
mondo esistono varie forze: la luce, la gentilezza, il fuoco e
così via. Ognuna
di queste cose ha il suo contrario e, senza di esso, nulla esisterebbe.
Non si
può conoscere il caldo se prima non si sperimenta il
freddo.»
«In
altre parole, io sono qualcosa di malvagio.»
L’orientale
gli si accostò lentamente, in modo che le sue parole
potessero raggiungerlo
meglio:
«Voi
avete semplicemente il potere del contrario. E non sottovalutatelo,
è una
risorsa enorme. Se ben sfruttato, potreste annullare i poteri dei
vostri nemici
attaccandoli con il loro opposto. Se un nemico vi attaccasse con il
fuoco,
potreste subito opporvi l’acqua e così
via.»
Il
corpo di Lovino si irrigidì per la sorpresa, e la replica si
trascinò a fatica
sulla sua lingua intorpidita:
«Mi
hanno sempre detto che il mio potere era
l’ombra…»
«Questo
unicamente perché il vostro gemello ha ereditato i poteri di
luce, e voi, per
riflesso, avete ereditato l’opposto. Ma in realtà,
il vostro potenziale è molto
più vasto, così come lo è quello del
vostro gemello. E vi rivelerò un altro
segreto: nella massima ombra, esiste sempre una punta di luce
così come nella
massima luce sopravvive uno spicchio d’ombra.»
Lasciò
il ragazzo a squagliarsi in quella rivelazione sconvolgente e
raccontò, rivolto
al capitano:
«Vi
è anche un altro motivo per cui riteniamo che la
Confederazione sia prossima
allo sfacelo. Sono nato sotto la benedizione dell’astro del
Fuoco. E un
regnante sotto questo segno compare solo quando è necessario
bruciare il mondo
e farne partire uno nuovo dalle ceneri.»
«E
voi basate le vostre azioni su auspici e predizioni?» li
screditò Antonio.
Gli
occhi dell’orientale si assottigliarono in una calma che
affondava le sue
radici nella spietatezza, e non nella seraficità mostrata
fino a quel momento
dal giovane.
«È
bastata una superstizione perché un padre abbandonasse un
figlio, una diceria
per imprigionare l’Hellsing e una maledizione per scagliarmi
lontano dal mio
trono» Yao ricostruì velocemente la sua facciata
aristocratica e terminò: «Se
preferite una motivazione più razionale, posso fornirvela:
il marcio che la
Confederazione si è sforzata di nascondere la sta corrodendo
nelle fondamenta. È
questione di tempo prima che tracolli. Per cui, è meglio
rinnovarla con le
nostre stesse mani prima che si corrompa del tutto.»
Il
gigante si portò alle spalle di Yao e tuonò:
«Vi
accompagneremo alla Prigione Caina. Partiremo domani mattina. Potete
tornare
dal vostro equipaggio.»
I
due pirati restarono mineralizzati
dall’incredulità, e non si mossero
finché
Ivan non ripeté il suo invito.
Lovino
si appostò di nuovo al fianco di Antonio per aiutarlo a
camminare con la sua
caviglia fracassata, e uscirono prima che quel gigante capriccioso
cambiasse di
nuovo opinione.
«Perché
ti sei messo in mezzo?» lo incalzò Lovino, quando
furono soli.
«Potevi
morire. È normale» limitò Antonio.
«Perché
hai insistito per venire fin qui?» il giovane gli
pizzicò il fianco, come
sostituto della testata che non poteva dargli per pietà dal
suo claudicare.
«Non
volevo lasciarti da solo.»
«Ma
perché?»
Le
dita del capitano lo solleticarono sotto il mento, e Antonio ammise:
«Perché
continuo a sperare di riuscire a distrarti dalla tua unica meta,
Lovino. Non
voglio distoglierti totalmente. Ma una deviazione momentanea sarebbe
gradita.»
Le
guance del ragazzo diventarono rosse, ma il suo tono di voce fu
scarlatto:
«E
ti saresti quasi fatto ammazzare per…»
«Per
proteggerti. Ti sembra un motivo così deprecabile?»
Lovino
capì di aver perso vedendo l’espressione deliziata
del capitano e cambiò
argomento, rimbrottando:
«Il
Figlio del Cielo ha detto che anche in me…
c’è un po’ di luce.»
«Onestamente,
Lovino… credo che tu sia l’unico a non aver visto
la luce dentro di te.»
«Come
fai a dirlo?»
Antonio
lasciò che fossero i fatti a parlare: raggiunsero la porta,
e un boato di
esclamazioni gioiose li investì.
«Guardali»
lo incitò il capitano. «Credi che sarebbero
così contenti di rivederti, se non
avessero scorto qualcosa di buono in te?»
«Sono
contenti perché ci sei tu con me…»
«Lovino»
si impose Antonio. «Cerca di fidarti delle persone, qualche
volta.»
La
scialuppa si accostò al bordo della Fortezza Errante, e i
mozzi aiutarono
Lovino a caricare il capitano ferito a bordo.
Il
ragazzo si sedette di fianco al capitano e lo fissò di
sottecchi, mentre i
marinai cominciavano le manovre per risalire sull’Aereonave.
Fidarsi
degli altri. Erano anni che non lo faceva.
Forse,
una persona pronta a rischiare la vita per proteggerlo meritava
un’opportunità.
Anche se trovava tremendamente irritante che il primo individuo a
meritarsi la
possibilità di ottenere la sua fiducia fosse quel
capitano.
***
Yao
si alzò sulle punte dei piedi e Ivan fletté
lievemente le ginocchia per
permettergli di controllare le condizioni della sua sciarpa.
«È
solo un taglietto. Si può ricucire facilmente»
decretò, stendendo la striscia
di tessuto sul letto con la cura con cui avrebbe fatto adagiare un
malato. Fu
così che la frecciata di Ivan lo colpì alle
spalle:
«Loro
si occuperanno di far crollare il Vaticano. Sarai davvero pronto a
uccidere
Kiku, quando verrà il momento?»
«Hai
promesso di aiutarmi» minimizzò Yao,
concentrandosi con fin troppa convinzione
sullo sfregio della sciarpa.
Il
corpo dell’uomo calò con delicatezza sul suo,
piegato sul materasso a valutare
i danni della stoffa, e la domanda successiva di Ivan gli
pugnalò direttamente
l’orecchio:
«Sei
ancora affezionato a Kiku, nonostante tutto quello che ti ha
fatto?»
Lo
schiaffo fu tremendamente veloce e centrò la sua guancia con
tanta forza da
fargli voltare la faccia.
«Non
pronunciare il suo nome davanti a me» impose Yao, con il tono
che usava per
farsi obbedire nel Tempio del Cielo. Tuttavia, Ivan non era uno dei
suoi
servitori di allora: lo scaraventò senza troppa gentilezza
sul letto, e lo
bloccò sul materasso premendogli una mano di acciaio sulla
spalla.
«Se
provi ancora dei sentimenti, devi reprimerli prima di trovarti di
fronte a lui,
o esiterai nel momento meno opportuno, e tutti i nostri sforzi saranno
vani»
gli ricordò brutale, accentuando la presa fino a che non
divenne dolorosa. «Se
vuoi rovesciare la Confederazione, è l’unica
via.»
Anche
se la sua forza fisica era inutile contro Ivan, come un gatto che cerca
di
vincere contro un orso, Yao conficcò le unghie nella giacca
spessa del
compagno, e sbottò:
«Non
mi sottovalutare! Ho vissuto molti più anni di te, so su
quali regole gira
questo Universo malato! Solo…»
l’orientale prese fiato per gettare contro
l’uomo la sua invettiva: «Ho visto crescere quel
ragazzo dal giorno in cui è
venuto al mondo. Per cui non ho intenzione di ucciderlo come farei con
un estraneo.»
Yao
tolse le dita dal polso dell’uomo e concluse, voltando la
testa:
«Il
risultato non cambia, è questo
l’importante.»
La
mano di Ivan smise di inchiodarlo al materasso, e la voce stessa
dell’uomo
suonò indistintamente più delicata
nell’avvertirlo:
«Io
non ricordo come sia uccidere provando dei sentimenti. Ma immagino che
sia come
attraversare l’Inferno mille volte.»
Yao
non aveva intenzione di protrarre quella discussione, lo comprese nel
momento
in cui le iridi dell’orientale dirottarono sulla sua gota
gonfia, visibile
nonostante il collo alto del cappotto.
«Non
farmi arrabbiare di nuovo. Non mi piace schiaffeggiarti» lo
redarguì Yao.
La
mano affusolata del cinese salì cauta a slacciare la
cerniera del cappotto,
quel tanto che bastava per vedere la bocca di Ivan emergere dai bordi
rialzati
del colletto.
A
volte, Ivan era sorprendentemente facile da prevedere, come un bambino
troppo
cresciuto e troppo viziato. Anche allora, non indugiò
ulteriormente per
congiungere le labbra a quelle dell’orientale disteso sotto
di lui. La lingua
di Yao era calda, al contrario della sua, e il corpo
dell’Asean rabbrividì
sotto le sue dita gelide, spogliate dei guanti.
«Sei
ancora freddo…» soffiò Yao nella sua
bocca.
Non
si ribellò quando il petto artico dell’uomo si
appoggiò sul suo; allargò le
braccia e lo strinse a sé finché parte del suo
calore non trasmigrò sulla pelle
del compagno.
Ivan
poggiò una guancia sullo sterno bollente
dell’orientale, una mano appoggiata al
suo petto e gli occhi chiusi come un bambino per gustare interamente il
tepore
dell’amante.
Erano
passati tanti anni dalla prima volta in cui aveva visto il Figlio del
Cielo. E,
ancora più degli anni, mille avvenimenti avevano diviso quel
lontano passato
dal presente.
Accarezzò
la pelle morbida di Yao, respirando il suo profumo esotico.
Quando
lo aveva visto la prima volta, era rimasto stregato dal Figlio del
Cielo. E non
avrebbe mai immaginato che gli eventi lo avrebbero portato a
precipitare nella
sua Fortezza.
Ed eccoci qui con il quarto
capitolo XD
Solo una precisazione:
“ASEAN” è l’acronimo di Association of South East Asian Nations. Ah,
a
cosa non servono le lezioni di storia delle relazioni internazionali XD
Il prossimo capitolo
sarà interamente incentrato su Ivan,
e dal sesto riprenderà la spedizione a Caina<3
E, beh, sto gongolando non poco
per la RoChu poiché,
assieme alla Spamano, è la mia OTP XD
Tralasciando la tristezza di una
scrittrice che fangirla
le sue stesse creazioni, vi saluto e vi do appuntamento alla prossima
settimana<3
A presto!
Red
Banner a opera di Claudia ^^
Le immagini utilizzate nei banner non mi appartengono; tuttavia, avendole prese dai miei archivi, non ricordo gli autori ç_ç Se qualcuno dovesse riconoscere la fonte di qualche immagine, me lo faccia sapere e provvederò a metterei credits<3 |
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Capitolo 5 *** Cuore d'Inverno ***
Capitolo
Cinque: Cuore
d’Inverno
Era
nato il giorno più freddo del mese più gelido sul
pianeta più artico.
Del
suo pianeta natale ricordava lo spesso tappeto di neve e
il pungente mantello dell’inverno perenne. Ivan Braginski
aveva visto la luce
su Siberia, uno dei mondi all’estrema periferia della
Confederazione, quindi
uno dei più lontani dalla calda luce del Palazzo di Quarzo.
Aveva
trascorso l’infanzia lavorando nelle steppe di
ghiaccio assieme alle due sorelle. Avrebbe dimenticato quel periodo, se
non
fosse stato per i calli scolpiti dal lavoro sulle sue dita. Avrebbe
scordato
anche le sorelle, se non gli avessero regalato la sciarpa che ancora
gli
riscaldava il collo. La maggiore l’aveva sferruzzata, e la
minore l’aveva
ricamata con un motivo a forma di cristalli di neve.
Tuttavia,
ad eccezione dei rari ricordi che spuntavano
fragili come i primi bucaneve dalla coltre dicembrina, il suo passato
era un
lago ghiacciato: freddo e cupo, senza possibilità di
scorgerne il fondo.
L’ultima
memoria che conservava della sua famiglia, era il
nonno che si chinava su di lui, porgendogli una mazza ferrata grande
quattro
volte il nipote ormai adolescente. Rammentava la mano ruvida che gli
premeva
uno strano marchingegno sul petto, e le ultime parole del nonno:
“Diventa di
ghiaccio, Ivan. E uccidi il tuo passato”.
Poi
la puntura di mille aghi che si infiggevano nel suo
cuore, e subito dopo un gelo doloroso gli aveva azzannato il petto con
la
brutalità di un orso delle montagne; aveva sentito il
muscolo cedere, spaccarsi
in un diluvio di sangue, e lo aveva sentito battere qualche secondo
dopo,
ottenebrato dal gelo incastrato nel suo petto.
Era
caduto in ginocchio, le mani tremanti appoggiate sulla
mazza ferrata. Aveva stretto le dita sull’impugnatura e, con
una forza che non
sapeva di possedere, l’aveva fatta roteare sulla testa.
Poi,
solo una sensazione viscosa sulle dita. Tra le onde
scure del lago che era la sua memoria, alcune erano sporcate di rosso.
Aveva
ucciso qualcuno, quel giorno. Era una sensazione indelebile nella sua
anima,
anche se non ricordava chi. Ma non aveva più visto
né il nonno e né le sorelle
da allora.
Era
salito sulla Fortezza Errante e aveva cominciato il suo
viaggio come Custode dei Cancelli. Forse glielo aveva detto il nonno,
forse era
predestinato a quella carica, ma, anche se non ricordava chi gli avesse
dato il
permesso di salire su quel palazzo sbuffante, sapeva di essere nel
giusto.
Conosceva l’esatta ubicazione delle stanze, anche se nessuno
gliela aveva mai
spiegata. E sapeva di essere solo. Non si era sorpreso
dell’eco tombale dei
suoi passi su quelle pareti di metallo in movimento. Si era recato in
bagno e
lì aveva aperto il cappotto, orrendamente macchiato di
sangue. E lo aveva
visto. Immobile, aggrappato al suo petto come un ragno di zaffiro e
ferro, il
misterioso marchingegno spandeva le sue zampette metalliche sulle sue
costole,
facendo riposare il suo ventre di vetro sullo sterno del giovane. Ivan
aveva
fissato quella pietra luminescente e l’aveva sfiorata,
ritraendo le dita subito
dopo: era così gelata da far male, e aveva sentito scorrere
sotto i suoi
polpastrelli l’ululato del vento di Siberia.
Aveva
battuto le palpebre, perplesso, e si era stupito del
colore dei suoi occhi. Fino a quella mattina erano azzurri,
eredità e vanto della
famiglia Braginski. Ma quelle che lo fissavano immote erano due iridi
violacee
come le punte terminali dell’aurora boreale.
Ivan
aveva lavato velocemente il cappotto e, con molta più
cura, la sciarpa: riusciva ancora a vedere le dita delle sorelle
graffiate dal
lungo lavoro di cucito e i loro volti incavati dalla gioia, ed erano
l’unico
barlume di calore in quella fortezza fredda come il cristallo sul suo
cuore.
Si
era gettato sulle spalle il cappotto ancora bagnato, e si
era avvolto il viso con la sciarpa per poi accomodarsi su una strana
poltrona
frutto del lavoro di un ingegnere e non di un arredatore.
Aveva
squadrato il soffitto alto, le finestre in movimento,
la porta chiusa e il camino spento.
Non
c’erano voci a riempire la stanza, non c’era
nessuno da
salutare dalla balaustra, e non vi era essere che potesse aprire la
porta e
chiedergli se era triste.
Si
era rintanato nei suoi stessi vestiti, fissando il camino
che non si sarebbe acceso da solo.
«Fa
freddo…» si era lamentato.
***
Lo
vide durante il suo terzo mese di viaggio.
Aveva
smesso di chiedersi perché certe azioni gli venissero
spontanee, o perché avesse sempre freddo nonostante il
vestiario pesante, o,
ancora, perché ogni giorno fosse sempre più
difficile ricordare i volti dei
suoi familiari.
Il
ragno che succhiava avido il tepore dal suo corpo aveva
tutte le risposte, ma non le avrebbe condivise con lui.
Dopo
qualche settimana, Ivan si era stancato di quello
stillicidio: il marchingegno non avrebbe parlato, e nessuno poteva
fornirgli le
risposte che cercava. Con il passare dei giorni, era diventato sempre
più
accondiscendente verso gli impulsi che improvvisamente muovevano il suo
corpo e
sempre più distaccato nei confronti del mondo esterno.
Perfino i banditi che
uccideva per impedire di portare scompiglio nella Confederazione non
gli
apparivano più come esseri umani. Ai suoi occhi, erano solo
bambole incapaci di
scalfirlo: non provava il minimo rimorso o pietà quando
calava la mazza ferrata
su di loro. Al contrario, avvertiva una punta di soddisfazione,
perché il
marchingegno sapeva che quello era il suo compito, per il bene della
Confederazione.
Accadde
il giorno in cui i serbatoi della fortezza si
svuotarono completamente, e costrinsero Ivan a fare scalo a Chugoku, il
pianeta
dominante del Sistema Asean. Era un mondo piuttosto florido, grazie
all’ottimo
clima e alle abbondanti risorse naturali, per cui non sarebbe stato un
problema
trovare del carburante.
Manovrò
la Fortezza in modo da attraccare a Beijin, la
capitale, dove sicuramente avrebbe trovato più fornitori.
Il
destino, o semplicemente la casualità, volle che in
quell’esatto momento per la via principale sfilasse la
processione imperiale.
Ivan non aveva mai visto nulla di simile, quindi non capì
perché la gente si
fosse improvvisamente divisa ai due lati della strada, o per quale
motivo tutti
i negozianti si fossero precipitati sui marciapiedi già
gremiti, ritardando la
sua partenza: non poteva chiedere rifornimenti a un negozio vuoto.
Si
abbassò dunque su un nativo e gli domandò cosa
stesse
succedendo. La sua notevole altezza e l’imponente mazza
ferrata appoggiata
sulla sua spalla sciolsero la lingua dell’uomo a una
velocità pazzesca.
«Il
Figlio del Cielo scende a fare visita alla città,
signore. Accade solo una volta all’anno»
farfugliò l’Asean.
Ivan
tamburellò le dita sull’impugnatura della mazza,
contrariato. Il marchingegno sapeva che il Figlio del Cielo
rappresentava per
il Sistema Asean ciò che l’Asse era per la
Confederazione: il portatore di
equilibrio, nonché la persona più dotata in
quanto a magia. Tuttavia, l’Asse si
limitava a pregare e vivere da eremita, mentre il Figlio del Cielo
svolgeva
anche le funzioni di un regnante, occupandosi del suo popolo e del suo
impero.
I
suoi occhi viola si dirottarono verso la volta celeste.
Non era del tutto impari: in fondo, il Figlio del Cielo doveva
occuparsi di una
rete di pianeti, mentre l’Asse era responsabile
dell’intera Confederazione. Era
giusto che il primo svolgesse qualche altro ruolo.
Riappoggiò
le sue iridi ametista sulla strada quando avvertì
la gente inchinarsi in tutta fretta come se la testa fosse diventata un
peso
troppo grande da sostenere.
Il
ragno sul suo petto inviò una seconda informazione al suo
cervello: il Figlio del Cielo era considerato il Sole del Sistema Asean
e, allo
stesso modo con cui un uomo non poteva fissare l’astro diurno
a occhi nudi,
così ai civili non era concesso ammirare il volto del Figlio
del Cielo. Ma lui
non era atterrato a Chugoku per inchinarsi: era venuto solo per
ottenere
benzina, e non aveva intenzione di umiliarsi per un regnante straniero.
Fu
così che vide da una prospettiva agevolata la portantina
di legno di ciliegio rosso avanzare maestosa lungo la via. Man mano che
la
processione avanzava, i dettagli della parata diventavano sempre
più nitidi: i
draghi scarlatti che si attorcigliavano in ricami preziosi sulle
tuniche dei
ragazzi che reggevano sulle spalle il peso esiguo del sovrano; le
insegne
militari sulla divisa del Samurai che marciava a lato della portantina,
e
l’occhio di rubino incastonato
sull’estremità dell’elsa della sua
spada; i
fiori amaranto sparsi sui cuscini vermigli che costituivano il
giaciglio del
sovrano.
Poi,
Ivan aveva alzato lo sguardo sull’uomo colpevole del
suo ritardo. Aveva immaginato un vecchio saggio ricurvo e nodoso,
piegato dagli
anni e deformato dal tempo. Invece la realtà gli aveva
regalato un viso privo
di rughe, appartenente a un ragazzo della sua stessa età. Un
giovane estremamente
bello, sebbene non avesse metri di paragone attendibili a causa della
sua
memoria inesistente.
La
stoffa rossa dell’elaborata veste imperiale sembrava nata
per fasciare quel corpo minuto, le cui forme erano distinguibili a
malapena nel
mare di tessuto vermiglio, e per arrampicarsi sulla gola snella nella
forma
rigida dei vestiti cerimoniali di Asean. Perfino quel buffo copricapo,
che
avrebbe ridicolizzato qualunque altra persona, non riusciva a sminuire
il viso
ben modellato del Figlio del Cielo. Ma non era solo la bellezza delle
forme a
incantarlo: il sovrano era permeato da un’aura ancestrale,
come se migliaia di
anni di storia giudicassero il presente guardandolo attraverso quegli
occhi
scuri. Di nuovo, il marchingegno lo soccorse: il corpo del regnante
aveva più o
meno la sua stessa età, ma la sua anima era millenaria.
Quando il futuro
sovrano nasceva, nel suo corpo veniva impiantata la cosiddetta
“anima
generazionale”, costituita dai ricordi dei precedenti Figli
del Cielo, in modo
che il fanciullo possedesse una saggezza e una padronanza dei sistemi
di
governo ineccepibile nonostante la giovane età. Avrebbe
potuto raccontare
avvenimenti di secoli addietro vedendoli scorrere davanti ai propri
occhi.
L’esatto opposto di lui, che faticava a ricordare il nome
delle sorelle.
Non
prestò attenzione al primo richiamo delle guardie, e
nemmeno al secondo, finché non furono tanto rumorose da
destare lo sconcerto
del Figlio del Cielo. I loro sguardi si incrociarono a metà
di quella strada
affollata, e, per un attimo, Ivan non sentì freddo.
Avvertì
in lontananza una guardia che gli intimava di
inchinarsi, e vide il Samurai poggiare la mano sull’elsa
della spada, ma un
gesto del Figlio del Cielo bloccò tutti. Un secondo cenno
convinse la
processione a proseguire, nonostante l’enorme Siberiano che
svettava in mezzo
alla calca prostrata.
Rimase
immobile finché la portantina non fu sparita, e anche
dopo, mentre la gente tornava alle proprie mansioni.
Un’altra
informazione gli fu concessa dal ragno.
Il
Figlio del Cielo era nato sotto la benedizione del Fuoco.
Ecco perché, per un momento, non aveva sofferto il gelo.
***
Marchiato
nella mente dalle fiamme che avevano segnato la
sua nascita, il viso del Figlio del Cielo non scompariva.
I
mentecatti che era costretto a polverizzare non
resistevano al potere dell’oblio del ragno, ma il volto di
quell’Asean era
intagliato nella sua mente.
Avrebbe
voluto rivedere quell’orientale, avrebbe voluto
parlare con lui. Avrebbe voluto qualcuno con cui condividere la
solitudine
estrema di quella fortezza in perenne movimento. Avrebbe voluto capire
cosa si
provava a essere dominati dalle fiamme e non dal ghiaccio, ad avere una
memoria
millenaria e non dei fossili sbiaditi di ricordi. Ma sapeva anche che
quel
desiderio non poteva diventare realtà: il Figlio del Cielo
era vincolato al suo
mondo, mentre lui doveva sopportare una vita senza legami.
Si
rassegnò quindi a pensare all’Asean nei suoi
momenti
liberi, immaginando come sarebbe stato passare del tempo con lui. Fino
alla
sera in cui il cielo fece cadere suo figlio.
Era
passato circa un anno dal loro primo incontro a Beijin.
Ivan stava manovrando la fortezza in modo da uscire dal Sistema Asean
senza
urtare la costellazione di asteroidi dell’arcipelago Nihon,
quando
all’improvviso il sensore della sala macchine
lanciò il suo allarme: un corpo
estraneo stava per entrare in collisione con il palazzo.
Ivan
attivò il sistema di telecamere piazzato sul tetto, e
lo puntò in direzione della fonte del movimento. Lo schermo
fu invaso da un
fascio di luce così violento da accecarlo per qualche
istante. Quando
finalmente le sue pupille incendiate si furono abituate a quella
luminescenza
esagerata, riuscì a scorgere qualcosa: immerso in un vortice
di fiamme
ruggenti, una persona teneva le braccia spalancate come una fenice in
volo.
Lo
avrebbe schivato se, in quel momento, lo sconosciuto non
avesse alzato il volto, quello stesso volto che lo aveva accompagnato
durante
tanti pomeriggi di solitudine. Aveva quindi virato in modo che la
fortezza
divenisse lo scomodo materasso di atterraggio del giovane.
Ivan
si affrettò a raggiungere il lato destro del palazzo,
cui il regnante si era aggrappato dopo un impatto brutale. Le fiamme
irradiate
dal suo corpo frustavano furiosamente l’aria, gonfiate dal
vento dell’atmosfera
artificiale e dallo spavento del Figlio del Cielo. Il Custode dei
Cancelli
quasi sfondò la finestra per sporsi fuori e porgere la mano
al ragazzo. L’Asean
allungò le dita tremanti verso di lui, e Ivan
sentì quelle membra affusolate
scricchiolare nella sua presa mentre lo attirava a sé. Gli
bastò un braccio
solo per trascinare quel giovane dal fisico di seta
all’intero della fortezza e
a chiudere la finestra.
Gli
occhi di ebano del sovrano, ancora frementi per il
terrore, cercarono i suoi e un ringraziamento vibrò in
quelle iridi sfinite
prima che il Figlio del Cielo perdesse i sensi tra le sue braccia.
Ivan
non ebbe alcuna difficoltà nel trasportare il peso
irrisorio dell’Asean nella stanza padronale, e lo
adagiò sul letto.
Il
fisico del giovane appariva magro e delicato perfino
quando era affogato nelle ali pompose dell’abito cerimoniale;
la semplice
tunica bianca non possedeva strati di seta con cui dissimulare la
finezza degli
arti, e i pantaloni largi non erano lunghi abbastanza per nascondere la
caviglia, sottile come quella di una donna. Alcune ciocche mogano erano
evase
dal nastro di seta durante la fuga precipitosa, ed erano svenute in un
groviglio disordinato sulla pelle eburnea. I ciuffi sparsi non erano
l’unico
dettaglio fuori posto nel vestiario del giovane: gli squarci sulla
pelle e
sulla tunica del regnante rivelavano il trascorso di un’aspra
lotta, aggravato
da una selva di orribili ecchimosi.
Dai
bordi martoriati della divisa trapelò una luce calda,
dello stesso colore delle stoffe imperiali. Ivan scostò
appena i lembi
dell’apertura sul tessuto con le dita guantate, e la stoffa
lacerata gli rivelò
la fonte di quel bagliore: nel petto del giovane ardeva una sorta di
piccolo
sole. Dallo sterno era visibile una forma vagamente sferica dal cuore
incandescente, come se un astro di fuoco avesse trovato il suo centro
gravitazionale tra le costole del giovane.
Il
Custode dei Cancelli portò istintivamente una mano al suo
petto, e sfiorò il profilo duro del metallo. Erano opposti
in moltissime cose,
loro due: nella memoria infinita contrapposta ai ricordi di cenere, nel
potere
del fuoco che trovava il suo avversario nella forza del ghiaccio, in un
bulbo
artificiale che divampava dentro il petto dell’Asean e in un
marchingegno
meccanico che pasteggiava sullo sterno del Siberiano.
Non
poté trattenere la curiosità e sfiorò
quel fuoco sotto
pelle: un calore piacevole gli riscaldò i guanti e, per
conseguenza, le mani.
Era un fuoco che bruciava senza scottare.
Ritirò
la mano, che divenne gelida l’istante successivo, e
rimosse il guanto per poter sfiorare la guancia liscia
dell’Asean. Le palpebre
del giovane sussultarono per il freddo improvviso, e il Figlio del
Cielo si
rannicchiò sul fianco in cerca di calore.
Ivan
continuò a sfiorarlo piano sul viso, sebbene le sue
carezze facessero agitare il giovane nel suo sonno tormentato.
Si
chiedeva se il sole del Figlio del Cielo sarebbe riuscito
a sciogliere il ghiaccio che lo opprimeva, o se sarebbe stato il suo
gelo a
spegnere il fuoco dell’Asean.
***
«Ti
ringrazio per avermi salvato, Ivan Braginski.»
Il
Custode dei Cancelli si sorprese internamente delle prime
parole del Figlio del Cielo. Credeva che si sarebbe spaventato,
trovandosi
all’improvviso in un posto estraneo; al contrario,
l’Asean si era seduto
composto sul materasso e gli aveva offerto i suoi ringraziamenti
formali. Poi
si ricordò della memoria ancestrale del giovane: anche se il
suo corpo non
aveva mai messo piede in quella fortezza, i suoi antenati lo avevano
fatto. Per
quel motivo il ragazzo non si era spaventato.
«Come
sai il mio nome?» lo interrogò Ivan.
«Sei
uno dei Tre Scudi, come me e l’Asse. È normale che
io
sappia il tuo nome» replicò educato
l’Asean.
Yao
Wang. Il suggerimento del ragno giunse repentino e
perentorio; anche loro erano a conoscenza del nome del Figlio del Cielo.
Ivan
si sedette sul bordo del letto e si prese qualche
secondo prima di porre la successiva domanda. Le luci dello spazio
disegnarono
un reticolato di riflessi iridescenti sulla chioma scura del giovane, e
bagnarono di luce argentea il profilo alto degli zigomi. Era stato solo
così a
lungo che ogni cosa, in quel ragazzo, gli appariva esotica e
misteriosa, perfino
il sottile profumo di spezie che emanavano i suoi vestiti, totalmente
diverso
dall’odore ferroso della fortezza.
«Cosa
è successo, ieri notte?»
La
bocca di Yao si contrasse per un attimo, e le ciglia
tremarono; tuttavia, la voce risuonò neutra quando
parlò:
«Sono
stato tradito e il mio trono è stato usurpato.»
L’Asean
alzò su di lui gli occhi taglienti come le
scimitarre prodotte nel suo paese.
«Non
posso riprendere il mio posto da solo. Saresti disposto
ad aiutarmi?»
Ivan
sollevò la sciarpa per coprirsi fino al naso. Non
riusciva a capire del tutto quell’orientale: gli sembrava
troppo composto,
troppo altero… troppo freddo, per essere una persona con il
fuoco nelle vene.
«Perché
lo chiedi a me?»
«Perché
sei l’unico essere umano presente in questo posto. E
perché so quanto siano straordinarie le tue
abilità in combattimento.»
«Vuoi
scatenare una guerra?»
«Solo
l’omicidio del mio usurpatore e del traditore. E di
chiunque si metterà sulla mia strada.»
Troppo
rigido. Troppo gelido per essere davvero l’erede del
sole.
Il
Custode dei Cancelli lasciò intercorrere qualche secondo
tra quella proposta e la sua controfferta.
«Dovrai
rimanere qui, fino all’omicidio. Senza uscire.»
Yao
accettò con un cenno del capo, che fece scivolare i
capelli lucidi sul petto.
«E
dovrai toglierti quella maschera.»
«Quale
maschera?»
«Come
è possibile che il fuoco sia così
quieto?»
L’Asean
sbarrò i suoi occhi a mandorla, portando una mano a
scudo del petto. Le dita gli trasmisero la sensazione della stoffa
sbrindellata,
e realizzò in un istante come il Custode dei Cancelli avesse
potuto vedere cosa
avvampava nel suo sterno.
«Questa
non è una maschera» asserì Yao, con un
ghigno furbo
sulle labbra pallide. «È una protezione. Dovrai
convincermi a toglierla, se
vuoi vedere cosa si nasconde sotto di essa.»
Ivan
accettò il rilancio dell’Asean, e
risistemò la sciarpa
attorno al viso.
Aveva
tutto il tempo necessario per scardinare gli scudi del
giovane.
***
Nella
Fortezza Errante, il tempo scorreva più denso rispetto
al resto della Confederazione.
Non
avrebbe saputo contare le settimane e i mesi che avevano
passato da soli nel palazzo, ma i ricordi di quel periodo erano
incredibilmente
vividi nella sua mente. Rispetto al solito, perlomeno.
Aveva
reminescenze del giorno in cui avevano comprato dei
vestiti di ricambio per Yao, e dello stesso pomeriggio in cui
l’Asean aveva
cercato di cucirli secondo la moda del suo paese di origine. Riusciva
ancora a
raschiare dalla memoria il momento in cui Yao si era punto con
l’ago per l’ennesima
volta, e aveva cominciato a imprecare nella sua lingua madre.
L’orientale
non lo aiutava mai, quando Ivan usciva per
punire i criminali. L’Asean aveva insistito, adducendo
l’utilità dei suoi
poteri di fuoco, ma il Custode era stato categorico, e non gli aveva
mai permesso
di mettere piede fuori dal palazzo. Yao era l’unica persona
che avesse
incontrato negli ultimi anni, e non aveva intenzione di condividerlo
con
nessuno. Non voleva che quei malfattori potessero anche solo poggiare
gli occhi
su di lui: lo avrebbero sporcato. E lui aveva desiderato quel
bellissimo
giovane per troppo tempo per permettere a un criminale qualunque di
infangarlo.
Inoltre,
l’orientale pareva essersi abituato alla sua
ingombrante presenza. Yao si adattava alle sue regole, e non aveva mai
avanzato
pretese esagerate: accettava tutto con un garbo regale che Ivan
talvolta
ammirava e talvolta detestava.
Rispetto
ai primi giorni, il Siberiano riusciva a discernere
tra il costume da Figlio del Cielo e la naturalezza di Yao. Non era
sempre facile
distinguere le due facce dell’orientale: alcune volte la
differenza stava in
una curvatura più spontanea delle labbra, o in un gesto di
scherno della mano.
La
parte più contorta di lui avrebbe voluto vedere un
pizzico di sconvolgimento su quel volto elegante, come la sera in cui
lo aveva
salvato: il ricordo del panico che guizzava negli occhi e nelle membra
del
giovane era terribile e nostalgico al contempo. Non pretendeva
un’emozione così
violenta, ma avrebbe voluto vedere Yao perdere la sua compostezza
aristocratica.
Forse
fu per soddisfare quella sua brama che, una sera, aveva
fatto la confessione più strana che si fosse mai udita in
tutta la
Confederazione.
Entrò
nella stanza dell’orientale quando quest’ultimo
aveva
appena finito di cambiarsi per la notte: la camicia che gli aveva
prestato il
Custode scendeva in pieghe sconnesse attorno al suo corpo troppo esile,
e i
capelli scuri, lasciati liberi di ricadere sul petto, si intrecciavano
ai
bottoni di madreperla.
«Di
cosa hai bisogno?» si sorprese l’Asean, pettinando
la
chioma su una spalla.
Yao
si sedette sul letto lasciando spazio accanto a sé,
immaginando
che l’uomo avrebbe voluto accomodarsi a sua volta sul
materasso. A dispetto
delle sue previsioni, Ivan si inginocchiò a terra,
esattamente di fronte a lui.
Il
Custode si sporse nella sua direzione e gli cinse la vita
sottile con le braccia, poggiando il viso sull’unica fonte di
calore di tutta
la fortezza, il petto dell’orientale. L’Asean si
irrigidì quando le sue gambe
furono costrette ad aprirsi per accogliere il torace massiccio
dell’uomo,
premuto sul suo bacino.
Ivan
sentì il cuore del sovrano agitarsi come i fusibili del
castello quando si surriscaldavano, e sussurrò su quel cuore
ribollente le sue
parole artiche:
«Ho
ucciso.»
Un
sospiro ingorgò il petto dell’orientale, e venne
rilasciato nel momento in cui le dita del giovane sfiorarono i capelli
di brina
del Siberiano.
«Quante
volte hai ucciso?» domandò calmo Yao.
Ivan
strinse più forte la presa sulla schiena filiforme del
Figlio del Cielo, fino a fargli male. L’orientale strinse i
denti, mordendo un singulto
di dolore. Senza ricordi e senza legami, l’uomo ancorato al
suo ventre era al
livello emotivo di un bambino: una possessività totale, con
cui gli impediva di
lasciare la fortezza anche solo per un istante, e un’empatia
in stato
embrionale. Ivan non riusciva ancora a capire quale fosse il limite
oltre il
quale l’altro provava dolore.
Yao
immerse una mano nella chioma color paglia dell’uomo, e
con l’altra accarezzò piano la sua schiena
colossale: come un bambino,
quell’omone aveva bisogno di essere rincuorato.
«Non
me lo ricordo. Forse ho ucciso anche i miei familiari.»
Le
parole franarono come una slavina su di loro. Le dita di
Yao si immobilizzarono per un attimo prima di ricominciare a
vezzeggiare la zazzera
e il pesante cappotto dell’uomo.
«Non
ricordi nemmeno questo?» flautò delicato.
«Ricordo
solo che le mie sorelle mi hanno regalato questa
sciarpa. E che mio nonno è stato l’ultima persona
con cui ho parlato. Il resto è
come questa fortezza. Vuoto.»
Yao
scostò la mano dalla sua schiena per sistemare un ciuffo
di capelli lucenti dietro l’orecchio, e confidò:
«La
prima volta che ti ho visto, durante la processione, mi
sono stupito di molte cose. E una di queste è stata che,
mentre sul tuo
cappotto erano chiaramente visibili i segni dei tuoi scontri, la tua
sciarpa
era in perfette condizioni. E anche adesso, è la prima cosa
che lavi non appena
rientri nella fortezza» il dorso della mano di Yao scese a
lambirgli una
guancia, mentre le parole gli accarezzavano la testa: «Anche
se non hai
ricordi, tieni a quel regalo sopra ogni altra cosa. Forse, anche se la
tua
mente l’ha rimosso, da qualche parte sai di aver avuto una
buona famiglia. Per
questo fai in modo di non sporcare mai la sciarpa: per non lordare
anche la
loro memoria.»
Un
paio di occhi ametista lo fissarono dalle pieghe della
camicia.
«Non
ricordo nemmeno le loro facce» lo contraddisse Ivan.
«E
allora perché non butti questa sciarpa?»
Ivan
lanciò un’occhiata alla lana che si srotolava
lungo la
sua spalla. Quella striscia color crema era l’unica cosa che
lo collegava al
suo passato: ogni volta che la sfiorava, il ghiaccio sul suo cuore si
scioglieva per un istante, ricordandogli la gioia del giorno in cui
l’aveva
ricevuta. Poi, tutto tornava arido e gelido. La sciarpa era
l’unica cosa che
gli ricordasse che anche lui, un tempo, era stato umano.
«Tu
sai perché non riesco a ricordare nulla?»
indagò Ivan.
Yao
fece per scostarsi, ma l’uomo strinse ostinatamente la
presa sulla sua vita di giunco. Si rassegnò quindi a restare
nell’abbraccio del
gigante mentre narrava:
«So
che il Custode dei Cancelli deve essere una macchina da
guerra, e, per esserlo, deve disfarsi di ogni suppellettile umano, come
i
sentimenti e i ricordi. Deve essere l’arma inanimata della
Fortezza Errante.
Per questo gli viene applicato il “Cuore
d’Inverno”.»
Il
respiro di Yao ebbe un brusco sobbalzo quando la mano
guantata dell’uomo si fece largo tra i bottoni della camicia
per toccare il
sole nel suo sterno.
«Anche
a te hanno installato un marchingegno?» chiese Ivan.
«Questo
è il nucleo del mio potere di fuoco»
smentì l’Asean.
«E il luogo in cui mi è stata impiantata
l’anima dei miei antenati.»
Ivan
slacciò i bottoni che gli impedivano di vedere il cuore
di fiamme, e l’orientale non poté sottrarsi per
via dell’abbraccio di ferro che
lo imprigionava. Appoggiò la guancia sulla pelle
incandescente del Figlio del
Cielo, e un sorriso beato si dipinse sul suo viso: gli piaceva quel
calore che
non ustionava.
«Cosa
si prova ad avere una memoria generazionale?»
sospirò
Ivan sul suo petto.
Yao
poggiò la mani sulle spalle dell’uomo, come
volesse
spingerlo via, ma non fece la minima pressione su di esse.
«Non
è bello come molta gente può pensare. Mille vite
di
gente che non hai mai conosciuto interferiscono continuamente con il
tuo
percorso e la tua memoria. Non sempre è piacevole. A volte,
si ha la sensazione
di essere solo un vaso vuoto riempito per
l’occasione.»
«Anche
il Cuore d’Inverno» notificò Ivan, lieto
di sapere
quale fosse il nome del ragno di zaffiro. «Cancella la
memoria, e
saltuariamente invia qualche informazione utile. È
così che ho saputo che eri
il Figlio del Cielo.»
Le
braccia dell’Asean, dopo un istante si esitazione,
scivolarono attorno alle spalle dell’uomo, e il mento
affilato si appuntò sulla
sua testa.
«Hai
detto di non riuscire a mantenere vive le tue memorie…
eppure ti ricordavi del nostro primo incontro, perché non ti
sei stupito,
quando te ne ho parlato.»
Gli
occhi di Ivan abbandonarono la sua camicia per
appuntarsi sul viso liscio dell’orientale.
«Quello
è un ricordo che non svanisce» comunicò
il Custode.
Non
capì il motivo della successiva azione del Figlio del
Cielo: vide le sue pupille tremare come i laghi di montagna al disgelo,
e non
staccò gli occhi dal volto del giovane mentre questo si
avvicinava.
Le
labbra roventi di Yao quasi incenerirono le sue, ma il
contatto durò solo qualche istante: l’orientale si
allontanò bruscamente,
premendo una mano sulla bocca.
«Sei…
freddissimo» ansò.
Ivan
ritrasse le labbra per gustare il tepore che ancora
aleggiava su esse. Il calore del Figlio del Cielo aveva un buon sapore.
«È
per colpa del Cuore d’Inverno?»
s’informò Yao.
«È
sempre colpa sua.»
L’Asean
avvicinò la mano alla sua sciarpa, con la lentezza
di chi domanda il permesso a ogni centimetro guadagnato. Il Custode non
si
adirò quando Yao toccò la stoffa preziosa e la
arrotolò sulla sua spalla
robusta, in modo da poter accedere ai bottoni del cappotto.
Liberò
le asole necessarie per aprire anche la camicia
sottostante, e liberare finalmente il livido bagliore del Cuore
d’Inverno.
I
polpastrelli di Yao non sostennero più di qualche secondo
il contatto con quella massa glaciale, e si ritrassero dolenti.
La
successiva concatenazione di eventi fu improvvisa ed
energica come i capricci di un bambino. Ivan sollevò il
corpo magro di Yao, si
sedette sul letto e fece adagiare l’Asean sulle proprie
ginocchia. Non gli
permise di protestare, e lo strinse a sé in modo che il
Cuore d’Inverno e il
suo nucleo di fiamme collidessero, amalgamando le loro emanazioni in un
intreccio di raggi di sole e brividi di ghiaccio.
Sentì
l’orientale tremare per il freddo, tra le sue braccia,
e avvertì la stretta di quelle mani sottili sulle spalle. La
sciarpa scivolò
quasi spontaneamente ad avvolgere il collo dell’Asean,
legandolo a quello del
Siberiano.
«Fallo
di nuovo» ordinò bisognoso Ivan, abbracciando
stretto
quel fisico d’erba. «Quello che hai fatto prima.
Era bello.»
Le
dita di Yao, ancora intirizzite per il gelo, lo
attirarono verso di lui con una presa instabile, fino a che le loro
bocche si
congiunsero nuovamente. L’orientale deglutì e fece
un profondo sforzo per
abituarsi a quelle labbra artiche; aspettò, rabbrividendo,
che un poco del suo
calore migrasse in quella bocca ferma sulla sua. Solo quando i tremori
nel suo
corpo si furono placati osò dischiudere le labbra.
Ivan
si sorprese di come l’Asean tenesse gli occhi chiusi, e
del modo in cui muoveva la lingua nella sua bocca. Non aveva mai visto
due
persone fare la stessa cosa, per cui non capiva quale fosse il
significato di
quel gesto. L’unica cosa che comprendeva era che quelle
movenze erano
piacevoli, e sembravano scaldarlo come il nucleo che palpitava contro
il suo
petto.
Cercò
di imitare Yao, esplorando a sua volta la bocca del
compagno con la lingua. L’Asean emise un respiro strozzato, e
Ivan capì di
essersi spinto troppo a fondo. Riprovò una seconda volta, e
una terza, mentre
chiudeva gli occhi.
Con
le palpebre abbassate, il mondo si limitava
improvvisamente ai loro corpi avvinghiati in un bacio. E Ivan comprese
perché
il Figlio del Cielo tenesse gli occhi serrati: ogni profumo, ogni
sensazione
erano amplificate e rafforzate, dietro il sipario buio delle palpebre.
Le
loro labbra si staccarono con uno schiocco acquoso, e
Ivan provò la subitanea urgenza di cibarsi di nuovo della
bocca dell’orientale,
resa rossa e tumida dal bacio prolungato.
«Sei
diventato… più caldo…»
biascicò l’Asean, su quelle
labbra che cercavano le sue.
Ivan
non rispose, esigendo di nuovo le effusioni
dell’orientale.
Era
ancora freddo, troppo freddo.
Aveva
bisogno che Yao continuasse a scaldarlo.
***
Erano
passati due anni da quel giorno.
Ivan
fissò le spalle nude dell’amante, che spuntavano
dalle
lenzuola. I capelli aggrovigliati scompostamente sul cuscino lasciavano
scoperto il collo levigato.
Il
custode si avvicinò per poggiare un bacio sulle spalle
morbide e un secondo sulla gola scoperta.
Non
voleva che Yao li seguisse alla Prigione Caina, e non
voleva che degli estranei potessero rubare anche solo una molecola
della sua
bellezza. Tuttavia, aveva capito che non avrebbe potuto fermarlo in
nessun modo:
per qualche motivo, Yao era fermamente determinato a liberare
l’Hellsing. Si
chiedeva se avesse a che fare con la predizione del Caos nella
Confederazione,
o se ci fossero altre ragioni.
«Ivan?»
il sonno impastò il richiamo dell’Asean, che si
girò
per osservarlo. «Che cos’hai?»
Il
Custode tuffò il visto nell’incavo del suo collo,
stringendo con tutte le proprie forze le spalle tenere
dell’amante.
Yao
accarezzò la sua schiena svestita, senza porgli
ulteriori domande.
Non
era solo per gelosia che Ivan voleva tenerlo rinchiuso
nel castello. Temeva che, se avesse visto di nuovo il mondo esterno,
Yao
avrebbe abbandonato immediatamente quella fortezza di spettri e ombre.
E non
voleva affogare di nuovo in quella solitudine gelida.
«Fino
a che non uccideremo Kiku, devi restare qui» gli
ricordò.
«Lo
so» confermò ovvio Yao. «È la
nostra promessa.»
Ivan
sigillò quel giuramento sulle labbra
dell’orientale.
In
quel castello, l’Asean era solo suo. Sperava che il mondo
esterno non allungasse i suoi tentacoli malefici anche su quel suo
unico
possedimento. Sul suo solo ricordo.
Capitolo
in
ritardo >_> Chiedo scusa, ma il ritorno per il Giappone e
la stesura
della tesi di laurea hanno tenuto le mie mani ben lontane dalla
tastiera, anche
solo per aggiornare >_>
Comunque,
eccoci
qui<3
E
vorrei tornare
a postare un capitolo alla settimana, come all’inizio<3
Mi
impegnerò al
massimo<3
Nel
prossimo
capitolo si ritorna al presente… e alla Prigione Caina 8D
A
presto<3
Red
|
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Capitolo 6 *** Prigione Caina ***
Capitolo Sei:
Prigione Caina
Udiva
il sottilissimo strascico del sangue lungo le vene,
rallentato e affaticato.
Era
ancora vivo. Ma non riusciva a muovere le braccia o le
gambe. Non poteva nemmeno aprire le palpebre.
Si
chiedeva perché quella cosa non lo sconvolgesse. Una
parte della sua coscienza sapeva che ogni persona normale sarebbe
andata nel
panico, in una simile situazione. Ma lui si sentiva totalmente estraneo
a
qualunque senso di ansietà o timore. Sapeva di aver portato
a termine il suo
compito, per questo voleva riposare. E sapeva di aver fatto qualcosa di
tremendamente ingiusto, per questo non voleva aprire gli occhi.
Non
vi era motivo di aprire le palpebre. Il mondo non aveva
più sorprese per lui.
Una
lacrima si ghiacciò all’interno dei suoi occhi
chiusi.
E
l’Hellsing continuò a dormire.
***
La
Prigione Caina era imponente e devastante.
Sorgeva
nel punto più a nord di tutto il pianeta, in cui la
spietatezza del vento e del gelo raggiungeva il suo picco.
Un
ponte lastricato di ghiaccio costituiva l’ultimo miglio
di libertà dei carcerati, prima di essere inglobati nei
tormenti della
Prigione.
Le
celle erano interrate nei sotterranei dell’enorme grotta
che costituiva il corpo centrale dell’edificio. Ivan si
sarebbe sentito in
soggezione di fronte alle maestose stalagmiti di ghiaccio o alla
possente
entrata sbarrata da scheletri di ferro e brina, ma il suo cuore freddo
non ebbe
nemmeno un tremito. Le cose che lo spaventavano di più - i
fantasmi che non
riusciva ad afferrare di un passato che non ricordava - non erano
visibili. Una
fortezza di tristezza e gelo non poteva impaurirlo: non era che la
riproduzione
gigante del Cuore d’Inverno.
Sollevò
la sciarpa e si voltò verso il gruppetto alle sue
spalle.
«Pare
che non si siano accorti di noi» notificò.
La
previsione di Yao si era rivelata corretta: i Golem si
risvegliavano solo quando percepivano una fonte di calore su quel
pianeta privo
di vita. La temperatura corporea di Ivan era mantenuta vicino allo zero
grazie
al Cuore d’Inverno, e gli altri si erano serviti della
strategia dell’Asean per
camuffare il loro calore.
L’orientale
aveva trascorso tutta la mattina ad allenarsi
con Lovino per sincronizzare i loro poteri. Yao possedeva
l’energia delle
fiamme, che sarebbe stata essenziale per liberare l’Hellsing,
ma che non li
avrebbe aiutati a infiltrarsi nella Prigione. Fortunatamente, Lovino
era
permeato dal potere dell’opposto: nel momento in cui
l’orientale aveva creato
una barriera di fiamme intorno a loro, il ragazzo ne aveva invertito la
natura:
il fuoco era improvvisamente diventato gelido e azzurro, come una
lingua di
ghiaccio danzante.
Ivan
osservò i componenti della spedizione: Yao, Lovino, e
il capitano Antonio, ancora zoppicante con la sua gamba fasciata.
Sperava che
sarebbe arrivato presto il giorno in cui avrebbe potuto provare di
nuovo ad
aprirgli la testa con la mazza ferrata: sarebbe stato molto
interessante.
Antonio
manteneva una mano sull’impugnatura dell’ascia,
pronto all’azione; Yao aveva portato l’indice e il
medio, perfettamente stesi,
davanti alle labbra, e salmodiava a mezza voce la litania che manteneva
lo
scudo di fuoco vivo; Lovino aveva le mani congiunte
all’altezza del viso,
un’espressione quasi arrabbiata che gli corrugava la fronte.
Tra
di loro, era certamente il ragazzo a soffrire di più:
aveva avuto pochissimo tempo per gestire quel lato dei suoi poteri che
non
aveva mai scoperto, e lo sforzo di concentrazione doveva essere enorme.
Ivan
distolse lo sguardo dai tre: i patimenti del Vaticano
non erano un suo problema. La sua unica preoccupazione era ritornare
alla
Fortezza Errante con Yao il prima possibile.
«Entriamo»
comandò Ivan, prima di spalancare la porta con un
solo calcio.
«Non
potevamo essere più discreti?» protestò
Antonio.
«So
che non succederà nulla, anche se facciamo rumore.
L’importante è non emettere calore»
minimizzò Ivan, privo di particolari
inflessioni nella voce. Il Cuore d’Inverno lo aveva
rassicurato: anche se non
aveva memoria di quel posto, sapeva quali azioni fossero permesse e
quali proibite.
«Continuate
a camminare al centro del corridoio. Non toccate
in alcun modo le pareti o le celle» li istruì
perentorio il Custode dei
Cancelli. «Non toccate nulla finché non arriveremo
di fronte all’Hellsing.»
Lovino
schiuse gli occhi che aveva tenuto serrati fino a
quel momento - la mano di Antonio sulla schiena lo aveva condotto lungo
il
cammino – e analizzò la prigione.
Era
più spoglia e vuota di quanto pensasse, e proprio
l’assenza di qualunque attrezzo umano era così
desolante da dare uno spasmo al
cuore.
Non
vi era nulla, a parte il corridoio serpentino che si
snodava attraverso una foresta di massicci blocchi di ghiaccio e la
sottile
foschia di brina che rendeva l’aria difficile da respirare.
Lovino trattenne un
conato alla vista di quelle tombe artiche: i prigionieri
all’interno erano
rimasti congelati con espressioni di puro orrore sul viso, peggiori
perfino di
quelle indotte da Roma. Di altri era visibile solo la posa ritorta,
poiché non
rimaneva altro che lo scheletro: dovevano essere i primi ospiti di
Caina,
inglobati nel ghiaccio da più di due secoli.
La
descrizione fornita da Yao dei patimenti di Caina non era
fallace: un sonno eterno nella morsa ferrea del ghiaccio, in balia dei
propri
incubi peggiori.
«La
barriera sta per cedere» lo avvertì
l’Asean, una vena di
urgenza nella voce.
Lovino
chiuse nuovamente gli occhi e si concentrò
sull’inversione dell’energia irradiata
dall’orientale: le lingue di fuoco, che
avevano riacquistato una sottile corona dorata, tornarono ad
appiattirsi in uno
sterile azzurro.
«Dovresti
prendere più seriamente questo compito» lo
rimproverò istantaneamente Ivan.
Lovino
sentì una risposta sbocciargli sulla punta più
acida
della lingua, ma Antonio lo prevenne:
«Invertire
costantemente la natura di un’energia, specie se
potente come quella del Figlio del Cielo, non è semplice. E
ha avuto solo una
mattina per prepararsi.»
«Se
l’inversione si interrompe, i Golem si sveglieranno, e
voi sarete morti. Se non vi interessa uscire vivi da qui, potete
continuare a
fare errori di questo genere» replicò Ivan, con la
forza dell’inverno Siberiano
nelle sue parole.
«Non
abbiamo tempo di fermarci per discutere» ricordò
loro
con regale pacatezza Yao.
Il
ragazzo sentì la mano del capitano premergli in mezzo
alle scapole nel momento in cui ricominciarono a muoversi.
«Non
preoccuparti» bisbigliò Antonio nel suo orecchio.
«Se i
Golem dovessero svegliarsi, lotteremo insieme fino a uscire da qui.
Anche se
quel gigante non dovesse aiutarci» i denti del capitano
sfregarono tra di loro
mentre l’uomo parlava: il Custode aveva chiarito con fin
troppa brutalità che
non nutriva il minimo interesse nei loro confronti. L’unica
persona di cui
davvero aveva cura era l’Asean. Ma il Siberiano era libero di
comportarsi come
riteneva più opportuno: ci sarebbe stato sempre lui a
difendere il ragazzo con
la cicatrice a forma di croce sul collo.
Lovino
scrollò le spalle, troppo preso dal suo incantesimo
per rispondergli.
Antonio
si portò al suo fianco, protettivo. Le nocche del
giovane erano sbiancate, e sulla sua pelle sbocciavano perle di sudore;
il suo
sforzo doveva essere immane. Dovevano sbrigarsi a raggiungere
l’Hellsing, o
Lovino non avrebbe sostenuto quella pressione. Antonio fece quindi
scivolare un
braccio attorno alla vita del giovane; probabilmente, una volta tornati
sulla
nave, il ragazzo avrebbe esternato tutto il suo disappunto per quella
confidenza non richiesta, ma gli avrebbe spiegato con calma e
razionalità che
quello era il modo più semplice per guidarlo mentre teneva
gli occhi chiusi. E avrebbe
occultato il fatto che toccare i fianchi spigolosi del giovane era
insospettabilmente piacevole.
«L’Hellsing
è imprigionato nel Terzo Girone»
mormorò Yao,
dietro le dita poggiate sulle sue labbra. «Dobbiamo trovare
due rampe di scale
e scenderle, per arrivare a lui.»
Impiegarono
qualche minuto a trovare la prima discesa, e
poco meno per scorgere la seconda.
Antonio
avvertì il tremore del giovane aumentare di
intensità con il trascorrere del tempo: il respiro del
ragazzo usciva in ansiti
affaticati dalla sua bocca, le mani tremavano, ormai esauste in quella
posizione contratta, e tutta la sua figura pareva scheggiata da una
ragnatela
di crepe e pronta ad andare in pezzi da un momento all’altro.
Il capitano
strinse la presa sul corpo del giovane, tentando di trasmettergli un
po’ della
sua forza.
Lovino
squittì indispettito quando le dita dell’uomo si
arpionarono nervosamente al suo bacino.
«Gilbert…»
la voce di Antonio oscillò a tal punto sotto il
peso dell’emozione che il ragazzo aprì timidamente
un occhio.
Fiero
nella sua divisa di notte e sangue, l’Hellsing
riposava in un blocco di ghiaccio a parte, più spesso e
più maestoso rispetto a
quelli degli altri carcerati.
La
sua posa e il suo viso non erano contorti come quelli dei
suoi compagni di sventura: l’uomo che era stato il
più temuto sterminatore di
demoni di tutta la Confederazione attendeva il proprio risveglio con la
schiena
impeccabilmente dritta e il collo steso, le braccia conserte e un
ghigno
indelebile sul volto, come se stesse attendendo un vecchio compagno di
avventure meditando uno scherzo. Non appariva sofferente o terrorizzato
come
gli altri: era semplicemente immobilizzato nel ghiaccio, in un sonno
apparentemente quieto.
Yao
si avvicinò e picchiò delicatamente con il pugno
sulla
parete polare.
«Impiegherò
circa mezzo minuto a scioglierlo» quantificò.
«Potrebbe
essere sufficiente ai Golem per raggiungerci.»
«Ma
dove si trovano questi Golem, esattamente?» lo
sfidò
Antonio. «Non li abbiamo visti da nessuna parte, in questa
prigione!»
«Solo
i Golem lo sanno» la gravità nelle parole
dell’Asean
fu tale che avrebbe potuto uccidere una persona, con quel tono di voce.
«È uno
dei segreti meglio custoditi all’interno della
Confederazione. Non sapendo
l’ubicazione del nemico, nemmeno le persone più
potenti della Galassia
oserebbero entrare qui dentro.»
«A
meno che non siano abbastanza sconsiderate» lo corresse
Antonio con un sogghigno.
«O
abbastanza disperate» sorrise amaramente Yao.
L’Asean
raccolse le ampie maniche della veste sui polsi
efebi, e avvertì:
«Nel
momento in cui appoggerò le dita alla parete,
l’incantesimo di protezione si scioglierà. Fate
molta attenzione.»
Non
passò più di un secondo tra il suo avviso e la
successiva azione: posò i polpastrelli sul ghiaccio,
aprendoli a raggiera, e
richiamò il potere di fuoco racchiuso nel suo petto; il sole
interno del Figlio
del Cielo raddoppiò la sua energia, squarciandogli quasi lo
sterno con una
scarica di luce bollente.
Antonio
sorresse Lovino quando le ginocchia del giovane
traballarono: lo sforzo protratto lo aveva prosciugato, lasciandolo
debilitato
come il giorno in cui lo avevano trovato nel deserto.
Ivan,
del tutto estraneo alla stanchezza del giovane e alla
preoccupazione del capitano, fu il primo ad accorgersi della sottile
crepa
sulla superficie della cella artica. La vide allungarsi e dividersi in
diramazioni più modeste, sbriciolando finissimi cristalli di
ghiaccio. Capì che
quel fenomeno non era dovuto all’incantesimo di Yao nel
momento in cui vide un
occhio inumano spalancarsi e fissarli con odio dal centro del roveto di
crepe.
«Sono
qui!» gridò, impugnando la mazza ferrata.
Antonio
e Lovino ebbero appena il tempo di alzare lo sguardo
prima che un enorme pugno polare infrangesse la parete di ghiaccio
dall’interno. Ripararono gli occhi dietro il braccio, per
evitare che i
frammenti affilati come rasoi li accecassero.
«Dobbiamo
proteggere il Figlio del Cielo, o non riuscirà a
risvegliare Gilbert!» vociò Antonio, preparandosi
a sua volta a combattere.
Accasciato
a terra e privo di forze, Lovino esaminò la
situazione con occhi vibranti di paura. Il Golem emerso dalla fenditura
nel
ghiaccio era alto due volte il Custode dei Cancelli, e quattro volte
più
grosso; la spietatezza nei suoi occhi avrebbe fatto impallidire quelli
di Roma,
e non aveva la minima idea di come si potesse affrontare un mostro del
genere.
Morirò
qui?
pensò Lovino. Lontano
da mio fratello, e senza aver potuto fare niente per aiutarlo?
Alla
sua destra, un sinistro scricchiolio lo avvisò che un
altro nido di crepe si stava formando, e presto ne sarebbe emerso un
secondo
Golem. Nessuno sapeva dove essi si nascondessero perché
potevano apparire in
qualunque punto della Fortezza, anzi, erano
la Fortezza. Si erano gettati nello stomaco del nemico senza nemmeno
saperlo.
Un
secondo crepitio si aggiunse al primo, e un altro ancora.
Lovino
cercò di ricongiungere le mani, tremanti di freddo e
di terrore, per richiamare Roma.
Non
aveva mai visto esseri così spaventosi, ma aveva
attraversato mille battaglie sulla Reina
de la Oscuridad, e aveva imparato che anche il nemico
più forte possedeva
un punto debole.
Il
tuono di un castello che si infrange fece vibrare l’aria
quando il pugno del primo Golem si sfasciò contro la mazza
ferrata di Ivan. La
testa del secondo Golem rotolò a terra non appena
fuoriuscita dal ghiaccio,
falciata dall’ascia di Antonio. In quei secondi, Roma si
materializzò al fianco
di Lovino.
«Ho
bisogno che tu faccia una cosa per me» ansimò il
giovane, premendo una mano sul petto in cui il cuore affaticato
tambureggiava a
un ritmo folle. «Ho bisogno che tu diventi una creatura di
ghiaccio. In questo
modo, potrò convertirti in un essere di fuoco. Riesci a
farlo?»
Il
muso umbratile del lupo gli sfiorò il dorso della mano, e
la bestia si lanciò a capofitto in un blocco di gelo.
Una
pozza di acqua calda si allargava sotto i piedi
dell’Asean, man mano che le sue mani incandescenti
affondavano nella cella
artica; il primo Golem aveva ripristinato il pugno frantumato dal
Custode
semplicemente immergendolo nel ghiaccio circostante, e aveva tentato
nuovamente
di abbatterlo sull’uomo; allo stesso modo, la testa del
secondo Golem si era
riformata sul suo torso mostruoso, e Antonio aveva avvertito un fulmine
di
dolore alla caviglia infortunata quando la sua ascia aveva parato
l’attacco del
Golem.
Troppo
impegnati nella battaglia, nessuno si accorse che il
lupo riemerso dal ghiaccio aveva il pelo lucido e iridescente come
l’aurora
boreale, e che i suoi occhi diabolici si erano cristallizzati in un
azzurro
vetroso. Nessuno vide le mani del giovane congiungersi e la sua fronte
imperlarsi mentre si stremava di nuovo nell’inversione di
energia, ma tutti si
voltarono quando il manto del lupo si infiammò in una selva
di creste ardenti.
Roma
si lanciò contro i Golem ululando, e strappò un
braccio
al mostro che combatteva contro Antonio. L’arto del custode
della prigione si
liquefece all’istante, e il mostro parve perplesso e tradito
quando si accorse
di non poter richiamare un nuovo braccio. Il lupo danzò tra
i guardiani,
attaccando, schivando e colpendo ancora, instancabile nonostante nuovi
Golem
accorressero a sostituire quelli sciolti da Roma e feriti da Ivan e
Antonio.
Lovino
era troppo assorbito dall’incantesimo, e non si
accorse della mano mostruosa che, lenta e silenziosa, si stava formando
sopra
la sua testa. Antonio vide quella scena da incubo riflessa sulla sua
ascia, e
si voltò all’istante per correre in aiuto del
giovane, ma poté solo vedere con
brutale nitidezza il pugno che si schiantava sul ragazzo in uno spruzzo
di
sangue.
All’improvviso,
la prigione diventò rossa e puzzolente di
sale e metallo. Roma uggiolò e si appallottolò su
se stesso, come se gli
avessero sparato al cuore, mentre le sue fiamme scemavano fino a
ritornare al
solito colore nebuloso, che si ritirò funereo nel corpo
fracassato del ragazzo.
Antonio
non si rese conto dei Golem che mutilò per
raggiungere il suo vice: il suo mondo grondava sangue, e giaceva al
suolo
ritorto come una bambola spezzata.
Si
inginocchiò di fianco a Lovino, le mani irrigidite
dall’urgenza di aiutarlo e dalla consapevolezza di non
conoscere la corretta
procedura. Su di lui, immensa e terribile, incombeva
l’assoluta certezza che il
ragazzo sarebbe morto: il cranio era irrimediabilmente fratturato, e
solo il
potere enorme del giovane o la sua altrettanto sconfinata testardaggine
gli
permettevano di tenere ancora gli occhi aperti.
Inasprite
come se dovessero farsi strada in un lago di acido
solforico, le parole di Lovino grattarono le labbra esauste:
«Non
posso… morire qui…»
Ebbe
la sensazione di un lampo azzurro su di lui,
intercettato da uno scudo argentato. Antonio aveva deviato con
l’ascia
l’attacco di un altro Golem.
Perché
quello stupido capitano era sempre pronto a gettarsi
nella burrasca pur di aiutarlo? Anche quando era inutile come in quel
momento,
quando la morte aveva già steso il sudario su di lui.
Udì
il cappotto del pirata frusciare nella pazza coreografia
della lotta, e la sua ascia stridere contro la pelle adamantina dei
Golem.
Avvertì
una sottile fitta al petto, e il dolore di una
lacrima infissa nella pupilla. Gli sarebbe dispiaciuto non vederlo
più, nel
posto in cui stava per dirigersi.
Voleva
aiutarli. Voleva dimostrare che anche lui poteva
essere al loro livello. Ma sentiva la testa svuotarsi, e le forze
evaporare, ed
era così buio…
Avrebbe
voluto incontrare di nuovo il fratello, prima di
morire.
***
Ludwig
si spaventò a morte quando all’improvviso, nel bel
mezzo della vestizione, Feliciano cominciò a urlare
ossessivamente,
graffiandosi la testa come se il cuoio capelluto stesse andando a fuoco.
«Mio
fratello!» strillò acuto, contorcendo tutto il
corpo in
un dolore atroce e immotivato. «Mio fratello!»
«Cosa
è successo?» il Guardiano cercò di
calmarlo, ma
Feliciano sfuggì alla sua presa e continuò a
gridare:
«Mio
fratello!»
La
schiena si incurvò a tal punto che Ludwig temette si sarebbe
spezzata come un ramoscello in autunno quando il giovane
esacerbò:
«Sta
morendo!»
Di
nuovo, Ludwig cercò di acquietarlo e di nuovo Feliciano
gli sfuggì, urlando e agitandosi come se lo avessero gettato
su una graticola.
«Devo
aiutarlo!» fu l’ultima cosa che strillò,
prima di
perdere i sensi.
Il
Guardiano si affrettò ad afferrarlo prima che si ferisse
cadendo al suolo, e lo sollevò tra le braccia per
appoggiarlo sul letto.
Nel
momento in cui lo sollevò, tuttavia, si accorse che il
giovane non era semplicemente svenuto: il suo spirito aveva abbandonato
il
corpo per volare in soccorso del fratello.
«Un
viaggio astrale, dunque…» rifletté
tranquillo, adagiando
il ragazzo sulle lenzuola.
Non
poteva biasimarlo. Se avesse avuto i suoi stessi poteri,
anche lui sarebbe corso in aiuto del proprio consanguineo.
Si
posizionò a lato del letto, pronto a vegliare
sull’Asse,
come sempre.
Un
buon Guardiano poteva fare solo quello.
***
Una
luce celestiale trapelò dalla fessura tra le sue palpebre.
Sono
in
Paradiso?
si stupì Lovino. Con tutto il vociare
che si era fatto su di lui, era convinto che sarebbe stato spedito
all’Inferno.
Poi,
un ruggito orgoglioso si insinuò nelle sue orecchie
agonizzanti, e il giovane si costrinse a sollevare una palpebra per
capire cosa
stesse succedendo.
Attoniti
quanto lui, Antonio e Ivan fissavano l’enorme
leone, irradiante una luce ineffabile, che ruggiva fiero ai Golem,
inginocchiati e con i palmi tesi verso di lui, come servi che si
umiliano per
chiedere scusa al loro re.
«Ve…»
raschiarono i denti di Lovino. «Venezia?»
Nonostante
la patina torbida che appannava i suoi occhi, non
faticò a riconoscere il tanto lodato famiglio di Feliciano:
al contrario suo,
il fratello aveva potuto addestrare liberamente il suo gregario,
elogiato da
tutti per la sua nobiltà e la sua purezza.
Venezia
voltò il capo, la criniera che garriva al vento.
Un’ondata di compassione inondò gli occhi
dell’animale, che si diresse con
passo felpato verso di lui.
Il
contorno del leone apparve indistinto e acquoso ai suoi
occhi, e un incombente buio gravava tutto intorno, rischiarato a
malapena dalla
luminescenza della criniera regale.
Il
leone accostò il muso al suo viso e leccò la
testa ferita
con delicatezza. Quel gesto parve portare via con sé parte
della confusione e
del dolore del giovane: il mondo riacquistò parzialmente i
suoi colori, e i
suoi sensi parvero riconquistare la propria precisione. Forse era solo
un
attimo di lucidità estrema prima della fine.
Fratello.
Il
corpo del ragazzo, anche se ancorato al suolo dalla
stanchezza, ebbe un guizzo interno nel sentirsi chiamare a quel modo.
Hai
promesso che
saresti venuto a prendermi, fratello.
Lovino
riaprì con fatica un occhio, che venne sommerso di
lacrime non appena mise a fuoco la creatura di luce davanti a lui. Non
era più
Venezia a osservarlo con dignità: era un volto speculare al
suo, che lo fissava
con un oceano di lacrime trattenuto negli occhi disperati.
Antonio
era rimasto basito alla comparsa del leone,
annichilito dalla sua trasformazione in essere umano e trasecolato
dalla
somiglianza di quel fantasma di luce con il suo vice. Non avrebbe mai
immaginato che il legame tra i gemelli potesse essere forte al punto da
portare
lo spirito di uno dei due in soccorso dell’altro.
«Lo
farò…» spinse fuori a forza Lovino,
tentando di
avvicinare una mano al profilo del fratello.
Le
lacrime presero a scorrere irrefrenabili sulle guance di
Feliciano, che scosse la testa piangendo:
Stai
morendo.
Come puoi venire a prendermi, se muori?
Lovino
non riuscì a replicare, schiacciato dalla verità
di
quelle parole.
La
luce si fece quasi insostenibile quando l’Asse si
chinò
su di lui per avvolgerlo con il suo corpo evanescente.
Sono
egoista, fratello,
singhiozzò Feliciano.
Non mi importa del futuro della Confederazione. Non voglio che tu
muoia. Non
adesso. Non prima di averti riabbracciato.
La
luce irradiata dal corpo del giovane fu così accecante
che nessuno riuscì a vedere quale incanto avesse utilizzato
il futuro Asse per
salvare il suo gemello. Quando i raggi abbaglianti si diradarono e le
loro
pupille furono di nuovo in grado di scorgere la realtà,
Lovino era seduto, il
cranio intatto e il sangue sparito. E gli occhi colmi di emozione che
assorbivano assetati l’immagine agognata del fratello.
Le
mani insicure di Lovino cercarono di raggiungere
Feliciano, ma strinsero solo aria, distorcendo per un attimo la figura
del
gemello. I due fratelli si guardarono con una tristezza infinita: anche
se
potevano vedersi, non erano ancora insieme.
Ti
ricordi
quando abbiamo visto il Palazzo di Quarzo?
La
manica della tunica di Feliciano salì ad asciugare le
gote mentre questo continuava, la voce scossa dai singhiozzi e
dall’emozione
troppo forte. Avevi ragione tu, fratello,
il cristallo piange. Ma non piange per se stesso. Sono le lacrime che
tutti gli
Assi non hanno potuto versare, mentre erano prigionieri. E il cristallo
le ha
piante per loro. È un cristallo generoso, fratello, ma
è anche tremendamente
triste.
«Allora
ti assomiglia» mormorò Lovino, circondando la
figura
del gemello con uno sguardo colmo di affetto.
No,
lo smentì l’altro, illuminandosi con un sorriso a
cuore
aperto. Io non sono triste. Non adesso.
Feliciano
tese le mani verso di lui, e Lovino posizionò le
proprie sotto quelle del fratello. Non potevano abbracciarsi, ma il
cuore
minacciò comunque di esplodere per la gioia
nell’aver finalmente rivisto il
gemello.
«Siamo
venuti fin qui per aiutarti. Faremo tremare l’intero
Vaticano pur di salvarti, fratello» giurò il
giovane pirata.
Feliciano
sorrise, incommensurabilmente contento, e la luce
da lui sprigionata aumentò ulteriormente.
E
io cercherò di
proteggervi nel vostro percorso. Infrangerò il Palazzo di
Quarzo, se sarà
necessario.
Improvvisamente,
Feliciano si piegò su se stesso, guaendo
ferito. Lovino si alzò bruscamente in piedi, spinto da un
irrazionale desiderio
di aiutare il gemello.
I
viaggi astrali
sono molto faticosi, fratello,
boccheggiò
Feliciano, con un sorriso amaro sul viso dolce. Pare
che io abbia raggiunto il mio limite.
«Aspetta!»
proruppe Lovino, stringendo inutilmente il vuoto
luminescente di cui era composto il gemello. Era crudele, era troppo
crudele:
si erano visti alcuni istanti, solo per rendere ancora più
intollerabile la
loro separazione.
Feliciano
lo avvolse con la sua aura calda e luminosa, e gli
bisbigliò amorevole:
Ti
sto già
aspettando, fratello. Non smetterò mai di aspettarti.
Lovino
tenne gli occhi ben aperti, senza nemmeno battere le
palpebre per cibarsi fino all’ultimo istante
dell’immagine del consanguineo:
Feliciano continuò a sorridergli, sempre più
triste man mano che il suo corpo
si dissolveva in minuscole briciole di luce. Un’ultima
lacrima, fulgente come
le particelle dell’Asse, si dissolse nell’aria
prima che Feliciano sparisse
completamente.
E
solo quando fu sicuro che il fratello non potesse più
vederlo
né sentirlo, Lovino lasciò i singhiozzi liberi di
fracassargli il petto e le
lacrime di inondargli il viso.
«Quello
era l’Asse?» domandò atono Ivan.
Antonio
non rispose, accostandosi al giovane per sincerarsi
del miracolo avvenuto. Affogato in un mare di lacrime, Lovino era
lì, disperato
e singhiozzante, ma vivo. E il capitano non si accorse quasi delle sue
braccia
che correvano a stringere il corpo del ragazzo, sobbalzante nel pianto.
L’idea
di averlo perso lo aveva annichilito, lasciando solo un rametto
essiccato
dell’albero che era la sua anima, e la gioia di averlo di
nuovo vivo grazie ai
poteri del gemello lo aveva sopraffatto completamente.
Si
riscossero da quella strana stasi emotiva solo quando
Ivan annunciò, neutro:
«L’Hellsing…»
***
Ludwig
appoggiò una mano sugli occhi di Feliciano, e
consigliò:
«Non
hai bisogno di alzarti adesso. Devi essere stremato.»
L’Asse
mosse a malapena la testa, i muscoli ruggenti di
dolore per la fatica.
«Sei
riuscito a vederlo? Muovi il dito una volta per
confermare, altrimenti resta fermo» patteggiò
Ludwig.
L’indice
di Feliciano raspò con enorme sacrificio il
lenzuolo. Il Guardiano registrò l’informazione e
proseguì:
«Sei
riuscito a salvarlo?»
Se
anche non avesse mosso il dito, Ludwig avrebbe comunque
capito la risposta dalla luce che improvvisamente si propagò
da tutto il corpo
sfiancato del giovane.
«Ne
sono lieto. Ora riposati. Elaborerò una scusa per
giustificare la tua assenza alle funzioni» fece per alzarsi,
ma un cinguettio strozzato
lo trattenne.
«As…
aspet…»
Ludwig
afferrò la mano che si agitava con la forza sfinita
di un animale nella tagliola e la portò al cuore.
«Non
sei solo. Non lo sei mai stato» gli ricordò,
garbato. «Tuo
fratello è sempre stato con te, non è forse
così?»
Gli
occhi di Feliciano si schiusero appena, una fessura di
gioia e lacrime sul volto spossato.
«Nel
mio sangue…» esalò, prima di far
crollare il capo sul
cuscino e le palpebre sugli occhi.
Ludwig
appoggiò la piccola mano del giovane sul materasso, e
coprì il suo corpo minuto con il lenzuolo.
Non
aveva mai visto Feliciano usare i suoi poteri. Dovevano
essere strabilianti per permettergli di salvare una persona con il solo
spirito. In quel fisico così esile abitava
un’anima più grande della
Confederazione stessa.
Fissò
la sua mano, poggiata su quella del futuro Asse. Era
così grande che riusciva a coprirgli perfino il polso. Lo
sguardo gli cadde
sulle vene visibili sotto la pelle eburnea; il sangue che lì
scorreva li legava
ai loro familiari.
Ludwig
scrutò il suo polso, assorto.
Anche
il suo sangue lo legava al fratello?
Scosse
il capo, sospirando. Lui e Gilbert avevano un
rapporto molto più complicato. Non era propriamente il
sangue a legarli. Ma l’Hellsing
era stato tutto il suo mondo, e lui gli aveva voluto bene con tutto il
cuore e
tutta l’anima.
Stava
rievocando con la mente i ricordi del passato quando
all’improvviso un tuono scosse il suo petto. Ludwig
portò una mano al cuore,
paralizzato dallo stupore. Il tuono si ripeté, seguito da un
fulmine.
Istintivamente,
puntò lo sguardo verso il lucernario,
spiazzato.
«Gilbert…?»
balbettò.
Ma
il cielo restò muto.
Sesto capitolo, Prigione Caina e
ricongiungimento
fraterno<3
Spero vi sia piaciuto (^O^)
E il protagonista del prossimo
sarà
Gilbert-Ore-sama!-Hellsing<3
E i banner sono sempre opera di
Clau-tan<3 se
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Capitolo 7 *** Hellsing ***
Capitolo
Sette: Hellsing
Assassino!
Il
sangue del demone disegnò un cerchio nero
nell’aria
pesante di fumo.
Gilbert
ricaricò velocemente l’archibugio, prima di
conficcarlo nelle fauci spalancate di un altro diavolo e fargli saltare
il
cervello con un colpo.
Assassino!
Estrasse
le sciabole il più rumorosamente possibile, per
soffocare la voce del suo incubo che ancora gli attraversava la memoria.
Assassino!
Era
stato quello strillo nei suoi sogni a farlo svegliare di
soprassalto, quella mattina. Aveva passato una mano sulla fronte
sudata, e
delle dita più piccole e paffute delle sue si erano
appoggiate sul suo braccio.
«Hai
dormito male?» aveva chiesto una vocina infantile.
Gilbert
aveva sorriso, accarezzando i capelli soffici del
bambino rannicchiato al suo fianco.
«Il
tuo meraviglioso fratellone stava solo pensando alla
pesante giornata di lavoro che gli si para davanti» lo aveva
rassicurato, per
poi alzarsi dal letto.
«Ucciderai
i demoni anche oggi?» aveva gorgheggiato il
bambino, sporgendosi dal letto.
«Come
sempre» aveva confermato Gilbert. Aveva afferrato le
sue armi e aveva cominciato la consueta ispezione: sarebbe stato un
vero
problema se si fossero inceppate durante il lavoro.
«Sei
considerato un eroe, per quello che fai?»
L’Hellsing
si era voltato, e non era riuscito a dire la
verità a quegli occhi azzurri che lo guardavano adoranti.
Per il piccolo Ludwig,
il fratellone rappresentava la meta irraggiungibile di perfezione, il
modello
ideale cui ispirarsi. E non poteva far crollare il sogno meraviglioso
che
vedeva nelle iridi cerulee del piccolo.
«Ovviamente!»
aveva riso Gilbert, gonfiando il petto. «Il
tuo fantastico fratello è ammirato, adorato e imitato in
tutta la
Confederazione!»
Il
viso raggiante di Ludwig era stato una ricompensa più che
onorevole per quella bugia. Aveva appoggiato la mano sulla testa del
piccino e
aveva accarezzato la sua chioma soffice.
«Mi
raccomando, chiudi a chiave la porta e non aprire a
nessuno fino a che il tuo meraviglioso fratello non sarà
tornato, d’accordo?»
Assassino!
Si
lodava in quel modo per convincere il piccolo Ludwig che
lui era davvero l’eroe della Galassia. E per ricordare a se
stesso che non
doveva ascoltare le grida di tutte le donnette fuorviate dalle fandonie
delle
famiglie Vaticane.
Un
movimento alla sua destra risvegliò la sua attenzione.
Raggiunse la fonte dello spostamento con un balzo felino, e
ciò che trovò lo
lasciò quasi trasecolato.
Era
convinto che gli abitanti di quel villaggio fossero
tutti morti o fuggiti; invece un giovane tremante e tramortito dal
terrore lo
fissava con occhi allucinati da dietro lo scudo di una porta crollata.
«Tutto
bene, laggiù?» s’informò
Gilbert, sporgendosi verso
di lui.
Il
giovane arretrò strozzandosi con il suo stesso fiato.
L’Hellsing intuì il motivo della sua paura: vedere
il proprio villaggio
distrutto dai demoni per poi trovarsi davanti uno sconosciuto armato e
coperto
di sangue nero doveva essere troppo per la psiche di una persona
normale.
Un’ombra
gigantesca oscurò il sole, e i due si trovarono
immersi in una notte innaturale.
L’Hellsing
torse il collo per scrutare il mostro alle
proprie spalle: un gigantesco Ciclope lo fissava dall’alto,
con un filo di bava
che pendeva dalla bocca disgustosa.
«Per
un ammasso di sporcizia della tua portata una
pallottola non sarebbe sufficiente» calcolò.
«E nemmeno un colpo di sciabola.»
Il
giovane lo fissò sbigottito mentre lo sterminatore
afferrava con la mano sinistra il fermaglio a forma di corvo sul suo
petto.
Punse il pollice con il becco del volatile di metallo, e
lasciò che alcune
gocce stillassero sul suo capo nero.
«Coraggio
Gilbird. È ora di svegliarsi!» chiamò,
lanciando
la spilla in aria.
Il
ghigno dell’Helsing si ampliò a dismisura quando
la
metamorfosi del suo orpello si completò: il ferro da cui era
stato plasmato il
fermaglio si sciolse di sua spontanea volontà, andando a
delineare un’iride di
ebano. Dall’occhio tenebroso si aprì un ventaglio
di piume, che si
moltiplicarono e ingrossarono fino a ricoprire tutto il corpo di un
corvo
mastodontico.
Il
volatile si gettò in picchiata sul Ciclope,
conficcandogli il becco nell’occhio deforme. Il mostro
portò entrambe le mani
al bulbo oculare zampillante sangue, e il corvo sfruttò
quell’occasione per
tempestargli il petto di beccate.
«Distrailo
ancora un po’, Gilbird» lo incitò
Gilbert,
ricaricando l’archibugio. Tracciò uno strano
simbolo con le dita sulla
pallottola, prima di chiudere l’arma e puntarla al cuore del
Ciclope.
Premette
il grilletto, e, come previsto, la magia infusa nel
bossolo funzionò: il proiettile si ingrandì
durante la sua corsa, e si rivestì
di un manto di fiamme violacee prima di infiggersi nello sterno
dell’abominio.
Il Ciclope lanciò un grido aberrante, il petto squarciato da
un enorme foro, le
fiamme di ametista che ancora bruciavano i bordi.
L’Hellsing
non si preoccupò nemmeno di assistere alla caduta
del mostro: aveva visto quello spettacolo così tante volte
che ormai era
diventato noioso. Voltò le spalle al Ciclope morente e si
rivolse al giovane
ancora paralizzato:
«Riesci
a muoverti?»
Il
ragazzo scosse la testa, e indicò con un indice
traballante la porta. Dunque non l’aveva usata come scudo
volontariamente:
l’uscio gli era semplicemente crollato addosso, bloccandogli
una gamba al
terreno.
«Gilbird,
puoi fare qualcosa per questo?» lo interpellò
l’Hellsing.
Il
corvo planò sulla porta e la sbriciolò senza
fatica con
il suo becco d’acciaio, facendo mancare non pochi battiti del
cuore al giovane,
che minacciò di scoppiare di paura quando
l’Hellsing si chinò su di lui e se lo
caricò in spalla come se quasi non avesse peso.
«Sei
originario di questo paese?» domandò Gilbert.
Al
ragazzo occorsero alcuni secondi per recuperare le
parole, sprofondate in fondo ai piedi.
«…no»
sussurrò, flebile.
«Eri
qui in viaggio?» proseguì Gilbert.
«…
non lo so» esalò l’altro.
«Come
fai a non saperlo?» lo incalzò
l’Hellsing.
Il
corpo del ragazzo tremò contro di lui come per un
terremoto interno, e infine il giovane cedette:
«Non
ricordo nulla prima dell’attacco dei demoni.»
«Quindi
non ti ricordi nemmeno da dove vieni. Ah, questo è
un problema.» valutò velocemente le opzioni che si
aprivano sul destino di quel
giovane: sarebbe sicuramente morto, se lo avesse lasciato solo e ferito
su quel
pianeta carbonizzato. Ma non poteva nemmeno riportarlo alla sua
famiglia, poiché
il ragazzo non ricordava dove fosse.
«Gilbird,
riesci a portarci entrambi?»
Il
corvo volò a pochi centimetri dal suolo, permettendo al
padrone di raggiungere la sua schiena con un salto.
«Tra
poco saremo a casa!» manifestò spavaldo
l’Hellsing.
Per
tutto il tempo del volo, il giovane si domandò
angosciato cosa intendesse quell’uomo assurdo per
“casa”: sicuramente si
riferiva a un castello gotico in marmo nero, circondato da lava e
protetto da
draghi sputa fiamme.
La
realtà lo colpì con un’immagine quasi
banale: una
tranquilla baita nel mezzo di una pianura completamente brulla, vicino
all’unico lago rintracciabile nel raggio di chilometri.
Gilbert
smontò dalla cavalcatura alata senza perdere la
presa sul ragazzo arpionato alle sue spalle, e, a un suo fischio, il
gigantesco
corvo ripiegò le piume e chinò la testa,
iniziando il processo di
rimpicciolimento che lo portò in pochi secondi ad assumere
nuovamente la forma
di una spilla di metallo.
Gilbert
la raccolse da terra e, trovandosi con entrambe le
mani occupate, bussò alla porta di casa con la punta di
metallo dello stivale.
Quello
che fece capolino dallo stipite non fu un servo
demoniaco rigurgitato dalle fosse tartaree, ma un bambino biondo
incredibilmente grazioso.
«Questo
signore è Matthew, e sarà nostro ospite per un
po’.
Salutalo, Ludwig» lo presentò Gilbert.
«Salve
signor Matthew» gorgheggiò il piccolo, studiandolo
con gli occhioni cerulei. «È ferito.»
«Ha
una frattura alla tibia e al perone. Mi servono delle
stecche e delle bende» diagnosticò
l’Hellsing.
Il
bambino annuì e trotterellò sul pavimento di
legno fino a
raggiungere una sedia, che posizionò sotto una smisurata
credenza di legno di
ciliegio. Gilbert vigilò su di lui finché non lo
vide scendere dallo scranno
sano e salvo, e barcollare verso i loro con le medicazioni richieste.
«È
sempre così ubbidiente?» si sorprese pacato
Matthew.
«L’ho
cresciuto bene. È un bravo bambino» si
vantò Gilbert,
carezzando la zazzera morbida del piccolo, che arrossì
contento per i
complimenti del fratello maggiore.
Il
giovane si sarebbe potuto commuovere per quel quadretto
familiare, se solo l’Hellsing non fosse stato coperto di
sangue nero e non
avesse tenuto in mano un’inquietante stecca che aveva
intenzione di
conficcargli nella gamba.
«Abbiamo
finito l’anestetico» si rammaricò
Ludwig. «Però
abbiamo della grappa.»
«Bravo.
Vai a prenderla» lo lusingò Gilbert, prima che il
piccolo scalpicciasse in direzione della cantina.
«Siete…
attrezzati» notò con un filo di voce Matthew.
«Siamo
gli unici esseri viventi su questo pianeta, dobbiamo
essere attrezzati» sminuì
l’Hellsing.
«Perché
mi avete presentato come Matthew?»
La
spiegazione di Gilbert fu semplice e pratica.
«Non
hai ricordi precedenti all’attacco dei demoni, quindi
suppongo che tu non ricordi nemmeno il tuo nome. Matthew ti si addice,
hai la
faccia da Matthew.»
Il
giovane non indagò su quali fossero gli attributi di una
“faccia da Matthew”, e permise allo stravagante
uomo di adagiarlo sul letto in
mezzo alla stanza.
Il
bambino ritornò portando con aria trionfale la bottiglia
di alcolico.
Una
mano imbrattata di sangue gli schiaffò
l’imboccatura
sotto il naso, e l’Hellsing consigliò:
«Bevi
più che puoi. E spero che tu non sia uno di quelli che
danno di stomaco durante la sbornia.»
«Lo
spero anche io» si augurò spaventato Matthew,
prima di
accostare le labbra al collo della bottiglia.
Si
era svegliato in mezzo a un parapiglia di demoni e fuoco,
aveva volato su un corvo gigantesco e un bizzarro individuo coperto di
sangue
nero lo esortava a bere fino a perdere i sensi.
Pregò
che, al suo risveglio, il mondo fosse tornato normale
e tutto quello che era successo fino a quel momento si rivelasse essere
un
incoerente incubo.
***
Non
volevo che
lo scoprissi così.
Ma
non volevo
darti ulteriori fastidi.
So
che sei un
uomo generoso, so che ti preoccupi per gli altri.
So
che avresti
sofferto troppo. Per questo ho agito in prima persona.
La
luce del sole mattutino scivolò nella fenditura tra le
palpebre e gli ferì la pupilla, facendolo svegliare con un
mugolio.
La
prima cosa a dolere fu la testa, ancora impantanata nei
fumi dell’alcol. La seconda fu la gamba immobilizzata da
un’intelaiatura di
stecche e bendaggi.
Confuso
dal sonno e dai postumi della sbornia, Matthew si
guardò intorno, e riconobbe con fatica la casa
dell’Hellsing. Quando era
entrato non vi aveva fatto caso, ma l’abitazione era
concentrata in un’unica
grande stanza: nell’angolo a sud era stato incastrato un
esercito di credenze e
un fornello a gas per cucinare, il tutto completato da tavolo e sedie
di legno;
al limitare della cucina si apriva la porta che dava accesso alla
cantina, e
sulla parete limitrofa l’arredamento comprendeva una
libreria, un angolo giochi
per il piccolo Ludwig e il mobile da cui il bambino aveva estratto le
medicazioni. Lungo la parete di fronte alla cucina erano stati
allineati il
letto dell’Hellsing, su cui adesso di trovava, e il giaciglio
più piccolo del
bambino. Poco distante da quest’ultimo, una scala a pioli si
arrampicava allo
sconosciuto piano superiore.
«Ben
svegliato, signor Matthew.»
Il
giovane fece quasi saltare la steccatura alla gamba per lo
spavento: non aveva minimamente notato il piccolo abbarbicato a lato
del letto.
«Bu-buongiorno»
balbettò senza voce.
«Avete
riposato bene?» domandarono i due occhi zaffiro,
l’unica cosa visibile dal bordo del materasso, assieme a una
manina paffuta che
reggeva i suoi occhiali, malamente accomodati dopo lo schianto che li
aveva
scheggiati.
«Sì…
ho dormito bene…» Matthew attorcigliò
il lenzuolo tra
le dita, imbarazzato per la sua richiesta. «Dove…
dove è il bagno?»
«La
latrina è qui fuori» il piccolo indicò
la porta di casa,
esplicativo.
«No,
dovrei lavarmi…»
«Usiamo
il lago.»
Matthew
si convinse che l’alcol che ancora gli circolava in
corpo avesse distorto la reale risposta del piccolo: i flutti di quella
distesa
d’acqua dovevano essere ghiacciati, vista la temperatura
esterna.
«Il
lago» ripeté Ludwig, notando la reticenza del
giovane.
«Il…
lago…»
Le
mani tenere del bambino afferrarono la sua, e lo
strattonarono ostinate finché il giovane non scese dal
letto, pur con le
difficoltà arrecate dalla gamba immobilizzata.
Avanzò
zoppicando e saltellando, appoggiandosi come meglio
poteva al marmocchio, fino a raggiungere la sponda del lago.
Matthew
non riconobbe subito l’uomo seduto sulla sponda,
impegnato a rimuovere l’amo dalla sua preda. Senza
l’uniforme degli Hellsing e
il sangue di demone colato addosso, Gilbert sembrava un uomo normale,
perfino
bello. Le sfumature rosse dei suoi occhi apparivano affascinanti e non
inquietanti, e i capelli d’argento, se baciati dal sole di
ghiaccio di quel
luogo e non dalle fiamme della battaglia, assomigliavano a pacifici
raggi
lunari. La camicia di tessuto pesante e i pantaloni di fustagno
conferivano
un’aria di casalinga rilassatezza al tutto, diradando
l’immagine fosca di
sterminatore. Ma era destino che l’Hellsing non potesse farsi
vedere in
condizioni del tutto comuni: il pesce che aveva appena pescato aveva le
dimensioni di un cucciolo di viverna.
«Guarda
cosa si è procurato il tuo meraviglioso fratello!»
proclamò soddisfatto. «Ci basterà per
almeno tre giorni!»
Matthew
arretrò con il cuore, non potendolo fare con la
gamba malata: l’occhio morto di quel pesce abnorme che lo
fissava gli metteva i
brividi.
«Come
mai siete venuti al lago, voi due?» Gilbert estrasse
finalmente l’amo dalla bocca del dinosauro, lo
ripulì e lo infilò nel tascapane
appeso in vita.
«Dovrei
lavarmi» tentennò Matthew.
«Spogliati,
allora.»
Il
giovane rimase spiazzato e imbarazzato da quell’ordine.
«Spogliarmi?»
«È
il primo passo, se ci si vuole lavare» sottolineò
ovvio
l’Hellsing, per poi rivolgersi al piccolo: «Ludwig,
ti dispiace mettere questo
animale sotto sale?»
Il
bimbo tese le braccia tozze e si caricò il pesce sulla
testa, per poi ondeggiare verso casa.
«Nel
lago vivono… pesci di quelle dimensioni?»
«Sì»
mitragliò Gilbert, senza la minima premura per lo
spavento dell’altro. «Ma non preoccuparti: basta
stare dove l’acqua è bassa, e
non si avvicineranno» portò di nuovo lo sguardo
sul ragazzo e commentò: «Hai
intenzione di farti il bagno con i vestiti?»
Matthew
torse il bordo della camicia con le mani e le parole
con la lingua nel patteggiare:
«Posso…
avere un secchio?»
L’Hellsing
non sbuffò e non protestò, e gli porse il catino
con relativa gentilezza. Matthew fu piacevolmente sorpreso dal trovarvi
dentro
anche il sapone e un panno con cui strofinarsi. Procedette a
spogliarsi,
sebbene rallentato dalla steccatura nel togliersi i pantaloni, ma non
rimosse
la biancheria: anche se voltato di spalle, l’Hellsing non lo
aveva lasciato
solo.
Aveva
appena cominciato a insaponarsi un braccio quando
l’uomo gli chiese a bruciapelo:
«Sai
qual è il mio ruolo?»
«Siete…
l’Hellsing» incespicò Matthew.
«Non ricordi
niente
di te, eppure sai quale sia la mia carica» notò
Gilbert. «Davvero inconsueto.»
«Non
so perché mi ricordi questa…» la lingua
del ragazzo si
pietrificò: l’Hellsing aveva tirato fuori da
chissà quale luogo nascosto un
coltellaccio a serramanico lungo quanto il suo avambraccio.
Gilbert
fece roteare il pugnale nell’aria come un bambino
avrebbe giocato con un areoplanino di carta, e chiese:
«Sai
anche quali voci girino su di me?»
Matthew
si coprì il cuore con l’asciugamano, la sua unica
ed
esigua difesa contro quella lama assassina.
«So
che siete… ricercato…»
Il
giovane si ritrasse sul sasso viscoso, il più lontano
possibile da quel coltello vorticante.
«E
sai anche il motivo?»
«Si
dice che sia la vostra famiglia a richiamare i demoni.»
Matthew
quasi si rovesciò sulla schiena come una tartaruga
quando l’Hellsing arrestò improvvisamente il
pugnale, con un’espressione
furibonda sul viso. Mille scenari raccapriccianti di quel coltellaccio
conficcato nel suo corpo gli si pararono davanti agli occhi, prima che
Gilbert
riprendesse a giocarci, facendolo dondolare sull’indice.
«Una
bugia del Vaticano» decretò infine, tetro.
«Vuoi sapere
la verità?» non attese risposta e
continuò, spedito come una slavina di
montagna: «La mia famiglia ha sempre sterminato i demoni che
minacciavano gli
esseri umani, ma per farlo avevano bisogno di un aiuto. Per questo ci
siamo
specializzati nel combattimento magico e nel richiamo dei famigli, come
Gilbird. Un uomo con armi comuni avrebbe poche speranze contro i mostri
di
ieri, non trovi?»
Matthew
annuì, deglutendo a fatica.
«E
il Vaticano deve aver avuto paura che potessimo rubare i
loro fedeli, o qualcosa del genere. Hanno distrutto il nostro nome e
plagiato
l’opinione pubblica. Hanno fatto credere a tutti che fossimo
noi stessi a
richiamare i demoni e, poiché molte persone ci avevano visto
evocare i nostri
famigli… la paura fa credere a molte idiozie.»
«Ma
vi avranno visto combattere contro i demoni…»
Gilbert
gli indirizzò uno sguardo più tagliente della
lama
che faceva penzolare tra le dita.
«Se
ieri, prima che io ti portassi a casa mia e ti curassi,
ti avessero detto che ero stato io a evocare i diavoli… ci
avresti creduto?»
Matthew
avrebbe voluto rispondere che no, non avrebbe mai
prestato fede a una simile menzogna, ma l’ipocrisia di
quell’affermazione gli
legò la lingua. Lo aveva visto apparire con la divisa nera e
gli occhi
fiammeggianti, i capelli argentei raggrumati di sangue, e lo aveva
visto
evocare una bestia spaventosa come i demoni che lo circondavano. Capiva
perché
la gente spaventata avesse potuto credere a quella versione.
Gilbert
accettò il suo silenzio colpevole senza nemmeno
battere le palpebre, e seguitò, rivolto al coltello:
«Non
mi sorprenderebbe scoprire che sono stati loro ad aprire
i cancelli ai demoni, diciassette anni fa.»
«Ai
demoni…?»
Il
pugnale scivolò tra le dita dell’Helsing, e gli
tracciò i
polpastrelli con una sottile riga scarlatta. Gilbert sfregò
il pollice sulle
ferite, seccato. Quella puntura non era nulla, in confronto ai ricordi
di tanto
tempo prima.
«Potrai
non crederci, ma questo posto, una volta, era un
giardino. Era tutto coperto di erba e boschi, ed era una gioia vederli
cambiare
con il ritmo delle stagioni. E c’erano case,
animali… c’era vita» le iridi
rosse divennero torbide come il lago poco distante, e
l’Hellsing proseguì: «Poi,
diciassette anni fa, un portale si è aperto inspiegabilmente
su questo pianeta.
Orde e orde di demoni si sono rovesciate su di noi. E anche il migliore
sterminatore non può resistere a un attacco di
massa.»
La
punta del pugnale pizzicò l’unghia
dell’Hellsing, e il
suo tono fu marmoreo nel terminare:
«Misteriosamente,
la maggior parte dei demoni non si sono
mai mossi da questo pianeta. Proprio come se fossero stati evocati esattamente per la distruzione di questo
mondo» un sorriso di amaro sarcasmo contorse le labbra
pallide dell’uomo. «Sono
fuggiti solo alcuni gruppi sporadici, come quello di ieri.»
Matthew
inforcò gli occhiali, malamente storti e con una
fastidiosa crepa su tutta la lente destra, e indossò la sua
espressione più
seria nel chiedere:
«Non
avete mai provato a smentire le menzogne del Vaticano?»
«Da
soli non si può fare tanta strada.»
«Da…
soli?»
Le
labbra ruvide di Gilbert si appoggiarono sull’elsa di
legno del pugnale, e le allontanò per rispondere:
«Quel
giorno, ero l’unico a non trovarsi su questo pianeta.
Ero in giro con due miei vecchi amici. E al ritorno, ho scoperto di
essere
l’unico Hellsing rimasto» strinse le nocche sul
pugnale e digrignò i denti nel
dichiarare: «Per cinque anni ho vissuto su un asteroide qui
vicino, e sono
sceso sistematicamente a distruggere i demoni, finché non ho
riconquistato il
pianeta. I miei due amici di cui sopra mi hanno molto
aiutato» un sorriso
appena stemperato di affetto sorse sulle labbra dell’uomo,
per tramontare
subito dopo: «Poi ho costruito questa casa. E dopo ho
cominciato a cacciare i
demoni fuggiti, anche se sapevo che questo avrebbe aggravato
l’immagine pessima
degli Hellsing.»
«Perché
lo avete fatto, allora?»
Il
pugnale ciondolò pigro tra le mani di Gilbert, che
sbottò, malinconico e petulante al contempo:
«Se
non lo faccio io, chi è in grado di farlo? Sono
l’unica
persona all’interno della Confederazione capace di
fronteggiare quei demoni
senza bagnarsi i pantaloni. E poi, non voglio che altra gente torni a
casa sua
e trovi solo macerie fumanti. O che veda il suo pianeta ridotto a una
distesa
brulla. Quindi, anche se mi attirerò le ire del Vaticano,
continuerò a
combattere finché non avrò eliminato anche
l’ultimo demone.»
La
schiuma sul corpo di Matthew si era seccata in una strana
fantasia di mezzelune bianche sulla sua pelle, che il ragazzo rimosse
distrattamente mentre bofonchiava:
«Avete
detto di essere il solo rimasto… quindi Ludwig è
stato adottato?»
«L’ho
creato io.»
L’espressione
vacua di Matthew esigeva spiegazioni, per cui
Gilbert specificò:
«Non
è un essere umano. È un costrutto. La mia magia
è
abbastanza potente da permettermi simili giochetti, una volta nella
vita.
Adesso ha circa sedici anni.»
«Sedici…?»
«Per
una qualche strana ragione, non vuole saperne di
crescere. Ma credo che sia colpa mia: lo vizio così tanto
che si trova più che
bene a fare la parte del bambino.»
La
mente ripescò le immagini del piccolo che si arrampicava
alla ricerca dei medicinali, che accorreva al capezzale con una
bottiglia di
grappa e che barcollava sotto il peso del mastodontico pesce. Non era
sicuro
che l’Hellsing fosse del tutto consapevole del significato
della parola
“viziare”.
Il
pugnale compì un’ultima rotazione
nell’aria, prima di
essere afferrato al volo e riposto in tasca.
«Vado
a tagliare il girino» annunciò, avviandosi verso
casa.
Non
si aspettava che, circa dieci minuti dopo, la porta di
legno sarebbe stata aperta da un’apparizione con gli occhiali
storti e i
capelli fradici, che gonfiò il petto mingherlino in
un’altisonante
dichiarazione d’intenti:
«Qualunque
cosa accada, crederò sempre in voi.»
L’assurdità
di quella situazione raggelò entrambi nelle
rispettive posizioni: Gilbert osservava Matthew, ritenendo che simili
annunci
non avrebbero dovuto essere fatti da persone bagnate, parzialmente
insaponate e
con un paio di lenti pendule che si reggevano sul naso per miracolo
divino;
Matthew fissava Gilbert, in particolare le sue mani ricoperte di
interiora di
pesce e la carcassa sventrata della bestia sul tavolo, chiedendosi
perché
quell’uomo fosse sempre circondato da un alone di
anormalità.
«Se
non ti asciughi in fretta, ti prenderai un malanno» lo
redarguì Gilbert.
«Dico
sul serio. Se anche tutta la Confederazione dovesse
esservi contro, io continuerò a credervi.»
Gilert
appoggiò le budella del cucciolo di viverna sul
tavolo, e si avvicinò al ragazzo con le mani ancora
grondanti di sangue e
liquidi intestinali.
«Ti
ingrazio, Matthew» esclamò, porgendogli una mano
lorda.
Il
giovane cercò di convincersi che le cose viscide e
flaccide che sentiva sotto le sue dita fossero bacche di bosco mentre
ricambiava il gesto dell’Helsing.
«Smettila
di darmi del voi» lo avvertì Gilbert, tornando al
suo posto sul tavolo. «E dobbiamo trovare un rimedio per i
tuoi occhiali.»
Matthew
annuì vigorosamente e corse ad asciugarsi, come
precedentemente consigliato dall’Hellsing.
Non
sarebbe stato d’aiuto durante una battaglia, e sicuramente
il Vaticano non avrebbe ascoltato la difesa di un giovane che non
ricordava
nemmeno la sua provenienza esatta. Ma l’Hellsing sembrava
rincuorato; aveva
scorto il barlume di un sorriso, nei recessi amaranto dei suoi occhi da
sterminatore.
***
Sei
uno
sterminatore di demoni, ma credo che sia giunto il momento in cui le
tue armi
rimangano silenziose.
Ludwig
ti
aiuterà ad accettare il mio tradimento. E spero che un
giorno troverai la forza
di perdonarmi e di guardare di nuovo al domani.
Sono
sicuro che
ce la farai.
Perché,
a questo
mondo, non esiste nessuno più meraviglioso di te.
Da
quel giorno in poi, i ricordi si erano accumulati come
tante fotografie nella memoria dell’Hellsing, avvezza solo
alle lotte da tempo
immemore.
Il
pomeriggio stesso di quel giorno, quando tutti e tre
insieme avevano costruito una buffa imbragatura di stecchi e pelle per
raddrizzare gli occhiali di Matthew, ma nessuno era riuscito a fare
nulla per
la crepa che spaccava la lente destra, e il ragazzo si era rassegnato a
vedere
il mondo diviso a metà.
A
marzo, quando era tornato da una spedizione contro i
demoni, e aveva trovato Matthew e Ludwig affaccendati con il bulbo di
una
pianta ignota; il piccolino era corso da lui agitando le braccia come
un
gabbiano impazzito, strepitando qualcosa su come volessero restituire
al
fratellone il pianeta dei suoi ricordi.
Ad
aprile, quando era tornato con una ferita al braccio, e
Matthew si era occupato di lui insieme a Ludwig. E, durante la
convalescenza,
gli aveva parlato delle ultime due persone che lo avevano visitato,
tanti anni
prima. Uno dei due aveva i capelli più lunghi e il seno
più pronunciato di
quello di Matthew, e quando lui gli aveva chiesto se si trattasse di
una donna,
gli aveva risposto che no, si trattava di un uomo molto grasso. Si era
guadagnato un’occhiata molto peculiare dal giovane e la
risata irrefrenabile
del fratellino minore.
A
maggio, quando avevano approfittato del disgelo per
nuotare nel lago, e Matthew si era spaventato a morte quando
un’alga gli aveva
afferrato la caviglia, credendo che fosse chissà quale
mostro inenarrabile.
A
giugno, quando si era accorto di includere spontaneamente
anche quel ragazzo con gli occhiali sbilenchi nella ristretta cornice
della sua
famiglia. Lo aveva capito una sera, quando aveva visto Matthew dormire
con il
piccolo Ludwig adagiato sulla pancia. Gli era sembrata una scena
tremendamente
perfetta, qualcosa di così innocente da fare quasi male.
Allo
stesso tempo, il giovane si era abituato alla sua
divisa oscura da sterminatore, al colore improbabile dei suoi occhi e
dei suoi
capelli, e al suo carattere che oscillava paurosamente tra il vanesio e
il
magnetico.
Ogni
passo compiuto in direzione dell’altro li aveva portati
a incontrarsi nel discorso di luglio.
«Ho
pensato… che anche se non recupero la memoria… va
bene
lo stesso.»
Gilbert
aveva alzato lo sguardo dal fucile che stava pulendo
per indirizzarlo a Matthew.
«E
se tu avessi una famiglia che ti aspetta?» lo aveva
contraddetto l’uomo.
«Potrebbe
essere morta nell’attacco al villaggio. Non posso
esserne certo. E poi ora… siete voi la mia
famiglia.»
Quell’ultima
frase gli costò un enorme sforzo e tutto il suo
coraggio, per essere pronunciata.
L’archibugio
incontrò il pavimento con un suono legnoso, e
le gambe della sedia stridettero sulle assi quando l’Hellsing
si alzò.
«Hai
scelto una famiglia piuttosto bizzarra… due fratelli e
nessuna donna» considerò Gilbert.
Matthew
aveva scosso la chioma bionda, e perfino i denti
avevano tremato quando aveva buttato fuori a forza:
«Mi
piace stare qui. Adoro Ludwig e... sono innamorato di te»
pronunciò l’ultima frase al doppio della
velocità normale, e rallentò di nuovo
stridendo: «E non mi viene in mente nessun mondo che possa
valere la vostra
perdita.»
Le
braccia dell’Helsing, dure come l’acciaio, gli
strinsero
lo stomaco, e la voce dell’uomo gli lambì i
capelli:
«Resta
con noi, allora.»
Matthew
poggiò una mano sui polsi di Gibert, le cui ossa
ispessite dalle lotte quasi foravano la pelle.
Aveva
capito perché l’Hellsing avesse creato Ludwig.
Completamente solo su un asteroide, a contemplare pieno di rancore il
suo
pianeta mentre veniva fagocitato dai demoni. Lo aveva fatto nascere per
non
soccombere alla solitudine e all’odio: l’affetto di
Ludwig aveva stemperato
quell’isolamento pieno di ombre. Ma ora non c’erano
più demoni su quel pianeta,
e ne erano rimasti pochissimi in giro per la Galassia. Era giusto che
anche
l’Hellsing potesse godersi una vita tranquilla.
«Ehm…
hai capito… quello che ti ho detto prima?»
azzardò Matthew,
quando non poté più sostenere quel silenzio teso.
«Certo
che ho sentito» confermò tranquillo Gilbert,
accentuando l’abbraccio. «E la mia risposta
è stata: “resta con noi”.»
Matthew
si voltò verso di lui, e si scontrò con
l’espressione irrigidita dall’imbarazzo
dell’Helsing. Per quanto fosse forte in
battaglia e spavaldo nella vita quotidiana, si era quasi disabituato ai
rapporti umani: per anni, l’unica persona con cui aveva
parlato era stato il
fratellino minore.
Il
giovane sorrise, appoggiandosi al petto dell’uomo.
Nemmeno
lui ricordava bene come funzionassero i rapporti tra
le persone, ma non c’era fretta. Avevano una vita per
riscoprirlo insieme.
***
Arriva
per tutti
il tempo di svegliarsi, Gilbert.
Il
mio è
arrivato qualche mese fa. Perdonami se ho taciuto.
Ma
anche io
volevo viaggiare insieme a te, volevo vivere insieme a te. E ho voluto,
egoisticamente, che questo sogno durasse il più possibile.
Ho esteso la notte
per non fare mai arrivare il mattino.
Non
odiare i
raggi del sole, quando arriveranno: la colpa è solo mia, che
ti ho tenuto
nell’ombra più del dovuto e ora i tuoi occhi si
sono disabituati alla luce.
Erano
passati altri mesi, e altri ricordi si erano
accumulati.
Gli
abbracci di Gilbert erano come il ferro e i suoi baci
ricordavano una guerra. Avevano impiegato un po’ di tempo a
trovare una
sintonia in modo che le ossa di Matthew non scricchiolassero per le sue
strette
e che la sua bocca potesse muoversi nel bacio senza essere
monopolizzata.
Il
piccolo Ludwig aveva intuito che qualcosa stava
cambiando, ma non dava segno di gelosia infantile; al contrario,
sembrava
contento di aver trovato una persona cui affidare il ruolo di madre,
anche se
era meno femminile di come se l’era immaginata.
Per
fortuna non si era accorto di nulla, la sera in cui
Matthew e Gilbert avevano diviso il letto per la prima volta.
«Aspetta»
bisbigliò Matthew sotto la caverna delle coltri,
preoccupato. «Ludwig…»
«Oh,
quando dorme non lo svegliano nemmeno le cannonate» e
ne diede la prova pratica uscendo con la testa dalle coperte e urlando:
«Ehi,
Ludwig, sei sveglio?»
In
risposta, un ronfare associabile a un orso e non a un
bambino di un metro e venti si levò dal giaciglio del
piccolo.
«L’unico
problema è che non potremo accendere neanche una
candela» mormorò Gilbert, tirando di nuovo le
coperte sopra la testa. «Mi
sarebbe piaciuto vederti meglio.»
Matthew
trattenne il respiro e i battiti del cuore quando le
labbra ruvide dell’Helsing calarono a violare le sue. Si
erano già baciati
altre volte, ma in quel frangente il contatto delle loro bocche
sembrava ancora
più intimo, e Matthew rabbrividì per ogni singolo
sfioramento della lingua del
compagno.
Gilbert
masticò in silenzio qualche imprecazione quando le
sue dita inciamparono sui bottoni della camicia e sulla fibbia della
cintura
del giovane per via di quel maledetto buio. Sopperì alle
momentanee lacune
della vista con il tatto; gli occhi gli permettevano di vedere solo un
bordo
grigio cupo in un oceano nero, mentre la pelle gli restituì
sensazioni molto
più appaganti: appoggiò la guancia a quella del
giovane per poter sentire i
suoi ansiti soffocati mentre le sue dita esploravano il corpo timido
sotto di
lui. I pettorali magri sussultarono e gli addominali si contrassero
quando ne
ripassò i contorni, e il bacino si alzò
istintivamente contro di lui mentre lo
attraversava per arrivare alle natiche del ragazzo.
Una
mano tremante si insinuò nei bordi allargati della sua
camicia, e si interruppe basita non appena venne a contatto con la sua
pelle
frastagliata.
«Non
si esce illesi da una vita di scontri contro i demoni»
sussurrò Gilbert.
Matthew
toccò quel corpo sfregiato senza proferire verbo.
Anche senza l’ausilio delle pupille, le dita furono
più che sufficienti per
fargli comprendere l’entità di quelle cicatrici:
la pelle che lambiva era
increspata così vistosamente che lo spirito di raggrinziva
al pensiero di quali
battaglie avessero portato quelle deturpazioni.
«Non
è proprio… quel che si dice
meraviglioso» screditò
Gilbert, e il suo ghigno amareggiato scintillò pallido nelle
tenebre.
Fu
il turno dell’Hellsing per trasalire quando le labbra del
giovane baciarono quelle cicatrici raggrinzite. Non si limitarono a
sfiorarne
una, ma percorsero tutta la ragnatela di sfregi tratteggiata sul petto
dell’uomo da mille guerre consecutive.
Anche
nell’oscurità, gli fu possibile capire quanto le
gote
del giovane fossero diventate rosse dal calore che emanavano.
Gilbert
gli sollevò il mento per strappargli un altro bacio
prima di farlo stendere sul materasso. Matthew contenne i primi gemiti
premendosi le mani sulla bocca prima che l’Hellsing le
sostituisse con le
proprie labbra. Gilbert sentì le sue guance bagnarsi con le
lacrime del
compagno quando cominciò a spingere in lui, ma le braccia di
Matthew si
strinsero con forza sulla sua schiena quando cercò di
allontanarsi.
Lo
aveva abbracciato a quel modo, quasi avesse paura che
sparisse, ogni volta che avevano condiviso
l’intimità del letto insieme.
Gilbert lo accarezzava sulla schiena, come per rincuorarlo con la sua
presenza:
era lì, era con lui, e non sarebbe fuggito.
Lo
attendeva assieme a Ludwig quando partiva per le sue
crociate contro i demoni, e lo rinfrancava la notte.
«Sei
più agitato, ultimamente» notò una sera
Gilbert, il suo
amante steso su di lui, ancora sudato per l’amplesso.
Matthew
aveva stretto i pugni contro il suo petto,
rannicchiandosi su di lui. Una vocina flebile era risalita fino alle
sue
orecchie:
«Ti
manca solo un demone. Cosa farai, dopo averlo ucciso?»
Gilbert
rovesciò le loro posizioni per trovarsi sopra di lui
nel dichiarare, sicuro di sé:
«Tornerò
qui per vivere con te e Ludwig. Potremo piantare
altri alberi, oltre al bulbo dietro la casa. Magari i prossimi che
coltiveremo
daranno anche frutti» aggiunse, acido, poiché il
seme piantato mesi e mesi
prima non aveva ancora fatto sbocciare nemmeno una foglia.
«Potremo girare per
la Galassia. Antonio potrebbe farci fare qualche viaggio sulla sua
Aereonave,
se glielo chiediamo, e quel perdigiorno di Francis non aspetta altro
che
l’occasione di fare festa…»
Il
buio coprì le lacrime, ma non il suono strangolato del
singhiozzo. Gilbert passò una mano sulla guancia del suo
compagno e la ritirò
bagnata.
«Anche
io vorrei che tutte queste cose si realizzassero»
Matthew si aggrappò a lui, più disperatamente di
quanto non avesse fatto tutte
le volte precedenti. «Ma non è più
possibile, Gilbert.»
«Che
intendi dire? Finché siamo vivi, è ovvio che
è
possibile…»
Un
ricordo improvviso gli sbranò la memoria. E il suo cumulo
di immagini felici ne fu carbonizzato.
«Non
è più possibile…»
ripeté Gilnbert, scostandosi da
Matthew. «Perché tu sei morto, dieci anni
fa.»
Il
ragazzo accese la candela appoggiata sul comodino, e
rischiarò il suo corpo nudo. La luce si incuneò
crudelmente nel buco aperto sul
suo polmone.
«Adesso
ricordi, Gilbert?» la voce tremò come la luce
della
candela, e gli occhi fremettero a loro volta per le lacrime bloccate.
L’Hellsing
portò una mano alla fronte, mentre i ricordi si
accavallavano impietosi.
Quel
giorno in cui era arrivato a casa e non aveva trovato
Matthew, ed era corso a cercarlo, preda di un’inspiegabile
agitazione.
E
lo aveva trovato, ore e ore dopo, un corpo lordato di
sangue abbandonato vicino a un fucile, il suo
fucile, quello con cui aveva ucciso tanti diavoli.
Io
sono l’ultimo
demone rimasto.
Quel
giorno un
diavolo, per sfuggirti, si è incarnato nel corpo di un umano
morente. Per
questo non avevo ricordi del mio passato, ma sapevo esattamente chi
eri.
Possedevo solo i ricordi del demone.
Ma
penso che
nemmeno il diavolo avesse previsto che l’umano si sarebbe
svegliato con una
coscienza nuova, né che si sarebbe innamorato di te.
So
che non
controllerò questo demone per sempre: un giorno si
disfarà di questo corpo e
verrà a tormentarti. Già allo stato attuale delle
cose, a volte faccio fatica a
controllarlo. Non voglio che tu sia costretto a uccidermi, e non voglio
correre
il rischio di ucciderti io. Per questo vado per primo.
Incurante
del sangue, Gilbert aveva sollevato quel cadavere
da terra. La testa del ragazzo aveva ciondolato all’indietro,
priva di forze e
di vita, e gli occhiali, ancora malamente accomodati, erano caduti sul
suolo
duro di gelo.
Ma
sappi
comunque che non dimenticherò mai, nemmeno nella prossima
vita, il tempo che
abbiamo passato insieme. Matthew ha vissuto poco, ma è stato
più felice di
quanto tante persone non lo siano state durante una vita centenaria.
Per
questo ti
saluto con un sorriso, Gilbert.
L’Hellsing
aveva scrollato quelle membra frigide, lo aveva
chiamato, aveva pianto sul suo petto squarciato come se le sue lacrime
potessero sanarlo. Lo aveva stretto finché la sua stessa
camicia non era
diventata rossa, finché il suo cuore non si era prosciugato.
Solo
quando il dolore era deflagrato dentro di lui,
polverizzandogli mente e spirito, Gilbert era riuscito a ruotare gli
occhi
spiritati verso il foglio che giaceva poco lontano, infilato sotto una
pietra.
L’ultima
lettera di Matthew terminava così:
Ti
aspetterò nel
Walhalla, il paradiso degli eroi di cui mi hai tanto parlato. Spero che
mi
faranno entrare, anche se non ho fatto nulla di particolarmente audace
nella
mia breve vita.
Ma
è la mia
unica speranza di incontrarti ancora.
Perché
non
importa quello che diranno gli altri, Gilbert.
Tu
sei, e sarai
per sempre…
«…
il più grande eroe della Galassia.»
La
frase conclusiva fu salata da una lacrima, che rotolò
furtiva sulla guancia dell’Hellsing per poi infrangersi sulle
sue labbra.
La
tristezza avvelenò il sorriso sforzato del giovane, quando
asserì:
«Hai
ricordato.»
Gilbert
non si mosse mentre la realtà intorno a loro
assumeva gradualmente una consistenza nebbiosa fino a svanire
nell’etere. Quasi
non si accorse di essere sospeso nel bel mezzo del bianco assieme al
giovane,
entrambi vestiti come l’ultimo giorno in cui si erano visti.
«Sono
morto anche io?»
Matthew
scosse il capo, sistemandosi sul naso un paio di
occhiali finalmente integri.
«Sei
addormentato. Poco dopo la mia morte, sei stato
catturato dalle forze di Britannia, e sei stato condannato alla
Prigione Caina.»
Le
sopracciglia argentate dell’uomo si incontrarono in un
interrogativo.
«Ma
so che a Caina i prigionieri sono tormentati dagli
incubi…» protestò.
Il
sorriso di Matthew si addolcì in una nuova
luminosità, e
il giovane spiegò:
«Non
gli avrei permesso di farti questo. Non dopo l’inferno
che ti hanno costretto a subire per tanti anni. Pare che il mio
desiderio di
aspettarti e di proteggerti mi abbia in qualche modo legato alla
terra…»
«Non
sei riuscito a raggiungere l’aldilà?»
Matthew
cercò di addobbarsi il viso con l’espressione
più
rassicurante che conosceva, per placare lo sconforto che leggeva negli
occhi
dell’uomo.
«Non
potevo lasciarti solo. Mi sono sostituito ai loro
incubi fasulli, e ti ho fatto rivivere i nostri giorni insieme fino ad
ora» il
giovane mosse la mano come per scostare una tenda e,
all’improvviso, un volto
conosciuto apparve dal nulla.
«Antonio?»
si sbigottì Gilbert.
«È
venuto a salvarti. Insieme ad altre persone che avrai il
piacere di conoscere non appena ti sveglierai» espose Matthew.
«E
quando mi sveglierò?»
«Non
appena lo desidererai per davvero. I tuoi poteri da
Hellsing possono sconfiggere la stregoneria di Caina, con
l’aiuto degli altri.»
Un
silenzio denso come piombo colò tra di loro.
«Quando
mi risveglierò, non potrò vederti mai
più» il tono
di Gilbert ricalcò quello dei Vaticani durante le funzioni
funebri.
Matthew
nascose le lacrime battendo le palpebre e confermò:
«Io
non appartengo più a questo mondo. È tempo che
vada nel
posto che è stato preparato per me.»
Il
giovane allargò le braccia e liberò le lacrime
quando
l’Hellsing lo strinse in un abbraccio poderoso.
«Non
importa se non sarà il paradiso degli eroi» la
voce di
Gilbert risuonò dura come l’acciaio: era la sua
ultima difesa contro il pianto.
«In qualunque posto ti troverai, aspettami. Quando la mia
vita avrà termine, ti
raggiungerò.»
Le
mani di Matthew si strinsero sulle sue spalle, mentre la
fronte sfregava sulla sua divisa in un assenso disperato.
«Nel
frattempo, non invaghirti di altri uomini. Anche se è
impossibile che tu possa trovare qualcuno meraviglioso come
me.»
Una
risata gli solleticò il petto. La baldanza di Gilbert
era un punto fermo come la Stella Polare per i marinai. E Matthew fu
grato di
avere un elemento fisso che gli ricordasse quella che era stata la sua
casa.
L’Hellsing
sentì il corpo del suo amante scomporsi tra le
sue braccia, avvertì una corda legarsi al suo cuore e
strattonarlo verso la
terra. Sollevò velocemente il viso del suo compagno per
unire le loro labbra
un’ultima volta, prima dell’estremo saluto.
E
in quel bacio entrambi rividero una tundra inospitale, un
lago la cui acqua era così ghiacciata da essere quasi
tagliente, e una casa in
cui una strana famiglia aveva trascorso un tempo bizzarro e felice come
il
sogno di un ubriaco…
Ti
aspetterò,
Gilbert.
Ti
aspetterò per
sempre
***
Si
risvegliò con le spalle ancora incastrate nel ghiaccio e una
fortissima emanazione di calore di fronte a sé. I suoi
capelli e i suoi vestiti
erano incollati al viso e al corpo dalla cascata di ghiaccio sciolto
che si era
riversata su di lui.
Non
sapeva a chi dovesse la sua parziale libertà, ma lo
avrebbe ringraziato in seguito.
Strinse
le mani un paio di volte a vuoto, prima di
concentrare la sua energia in esse e fare forza per uscire da quel
globo
gelido.
Il
ghiaccio intorno a lui scricchiolò e crepitò
orribilmente, mentre il potere dell’Hellsing lo faceva a
pezzi senza alcuna
pietà.
Si
scrollò le gocce artiche dagli occhi appena in tempo per
valutare la distanza dal suolo, e ammortizzare con le ginocchia
l’impatto con
il pavimento.
Udì
il proprio respiro grattare l’immobilità attonita
calata
tutto intorno. La cascata polare continuava imperterrita dai suoi
capelli
fradici. Gilbert fu grato a quei rivoli gelidi: le sue lacrime, anche
se più
salate, più calde e più sofferenti, si sarebbero
ben amalgamante a quelle gocce
indifferenti.
Scostò
la frangia grondante dal viso, e i suoi occhi
scarlatti si aprirono di nuovo sul mondo reale, dopo tanti anni di
sopore.
Il
ghigno che la Confederazione considerava maligno e che i
suoi amici ritenevano semplicemente tipico di quell’uomo
stravagante solcò le
labbra dell’Hellsing, ancora violacee per il freddo.
La
voce, raschiata dal gelo di quel luogo, risuonò comunque
forte e chiara nell’annuncio di Gilbert:
«Ehilà,
gentaglia. Il più grande eroe della Galassia è
tornato.»
E bentornato, eroe della
Galassia<3
Ho aggiornato con un giorno di
ritardo ç_ç Chiedo scusa,
ma alcuni impegni mi hanno impedito di aggiornare ieri .-.
Piccola comunicazione: causa Lucca
Comics e laurea in
spaventosa concomitanza, temo che dovrò saltare
l’aggiornamento della settimana
prossima, e posticipare quello della successiva al 13 novembre
ç_ç
Vi chiedo scusa .-.
Per farmi perdonare, vi do un
piccolo anticipo: nel
prossimo capitolo… Spamano. Spamano senza pietà 8D
Al 13 novembre<3
Red
P.S. Come sempre, il banner
è di Cla<3 Se riconoscete le immagini, avvisatemi e
metterò i credits<3
|
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Capitolo 8 *** Belial ***
Capitolo
Otto: Belial
Il
messaggero sussultò da capo a piedi, il viso imperlato da
vistose gocce di sudore.
Il
signor Vargas gli lanciò uno sguardo che avrebbe ucciso
perfino un drago.
«Cosa
hai appena detto?»
L’ambasciatore
passò la lingua secca sulle labbra
disidratate e pronunciò nuovamente:
«La
Prigione Caina necessita di ristrutturazione. Vi è
un’enorme breccia aperta sul lato nord
dell’edificio, come se un gigantesco
fuoco l’avesse sciolta. E molti Golem sono stati
uccisi…»
«Da
chi? Chi può
uccidere dei Golem in quel modo?»
«Abbiamo
ragione di ritenere, signore…» la voce
tremò
assieme al cuore, mentre l’uomo comunicava l’ultima
e peggiore notizia: «Che
sia stato l’Hellsing. La sua cella è
l’unica a essere stata aperta, e non
abbiamo ancora trovato il suo corpo…»
«Chi ha liberato
l’Hellsing?»
«C’era
del sangue sul luogo, signore!» esacerbò il
messaggero, impazzito di paura: «Lo abbiamo analizzato, e
appartiene a vostro
figlio!»
Avvertì
l’aria spezzarsi come un ramo secco in autunno. Il
signor Vargas lo fissò con occhi ribollenti e
proferì, con voce di fuoco:
«La
tua testa sarà su una picca, domani mattina.»
L’uomo
tentò inutilmente di liberarsi dalla presa erculea
delle guardie che si materializzarono alle sue spalle.
«Ho
solo riferito un messaggio!» si discolpò, gridando
mentre veniva trascinato fuori dalla stanza.
«Hai
detto una bestemmia» sibilò il signor Vargas alle
porte
chiuse. «Quell’abominio non è mai stato
mio figlio.»
Si
lasciò cadere sullo scranno imbottito, congiungendo le
dita a ponte davanti al volto.
Lovino
era ancora vivo, e chiaramente invischiato in affari
illegali. Sapeva che quel bambino non desiderato avrebbe portato solo
sciagure.
Ma era giunto il momento di porre fine alla sua esistenza blasfema.
Avrebbe
chiamato l’Accordatore. Era il solo in grado di
correggere Lovino, l’unica nota stonata nella sinfonia
perfetta della
Confederazione.
***
«Vorrei
vedere di nuovo la mia casa.»
Era
stata la prima cosa che Gilbert aveva chiesto, una volta
che gli entusiasmi della truppa di Antonio si erano parzialmente
placati: erano
bucanieri, e il modo più diretto per dimostrare la loro
gioia per il ritorno
dell’Hellsing era brindare alla sua salute il più
rumorosamente possibile.
«Mi
accompagnerai?» aveva poi domandato, rivolto al suo
vecchio compagno d’armi.
E
Antonio aveva annuito, come sempre.
Così
si erano ritrovati su quel pianeta brullo e inospitale,
a fissare un orizzonte di nebbia e desolazione. Gilbet li aveva guidati
fino
alla sua casa, ma era entrato da solo, forzando il legno logorato da
anni di
incuria. Nessuno si era affacciato per sbirciare all’interno,
rispettando
l’intimità dell’Hellsing. In quel modo,
solo Gilbert aveva contato quante
lacrime si erano infrante sul pavimento mentre guardava il giaciglio di
Ludwig
con la paglia marcita, o mentre ricordava i momenti passati con Matthew
su quel
letto che ormai era un cadavere di molle arrugginite. Un denso strato
di
polvere copriva ogni cosa come un triste sipario, e Gilbert non era
riuscito a
scendere in cantina: non era sicuro che avrebbe tollerato
l’assenza di due
enormi occhi azzurri che lo fissavano e gli chiedevano cosa occorreva
portare
di sopra. Era salito invece per la piccola scala a pioli che portava
alla
soffitta. Le armi che aveva lasciato riposavano sotto una spessa
coperta di
polvere e sporcizia, e Gilbert sollevò un nuvolone
irrespirabile quando soffiò
su una di esse. Recuperò un fucile arrugginito e una
sciabola bisognosa di
affilatura, e lasciò i loro compagni di metallo a giacere
nei detriti del
passato.
Si
affacciò di nuovo alla porta di casa con il volto e la
divisa appannati dai sedimenti.
«Credo
di aver bisogno di un bagno» notò, scrollandosi
dai
capelli un intero deserto di polvere.
«Potrai
farlo nella Fortezza Errante» consigliò Yao.
L’Hellsing
abbracciò con lo sguardo quel posto impervio,
quasi volesse cullarlo.
«No,
grazie. Non sono il tipo da rilassarsi in una vasca.
Preferisco il mio lago» declinò
l’invito, senza smettere di lambire la sua casa
con gli occhi.
«Allora
credo che vi precederemo nella Fortezza» annunciò
l’Asean, afferrando Lovino a tradimento e conducendolo
all’interno del palazzo
prima che avesse il tempo di replicare.
Gilbert
attese che il portellone della Fortezza Errante si
fosse chiuso dietro di loro prima di asserire, dando una gomitata ad
Antonio:
«Secondo
te, quanto scompiglio abbiamo creato ai piani alti?»
«Con
l’Hellsing in libertà e la Prigione Caina violata?
Sarà
venuto un infarto a tutti» decretò Antonio,
baldanzoso.
«Scuotiamo
le sottane di quei benpensanti come ai vecchi tempi!»
esclamò Gilbert.
Poi,
entrambi divennero seri. Il passato era un peso troppo
grande da sopportare, anche per due paia di spalle robuste come le
loro:
avevano troppe tombe da portare sulla schiena.
«Come
ai vecchi tempi…» ripeté Gilbert al
lago che occhieggiava
muto. «Ma questi non sono più i “vecchi
tempi”.»
Antonio
non replicò. Non vi era nulla da aggiungere a quella
verità.
Gilbert
tamburellò le dita sul calcio del fucile e
sospirò:
«Ho
dormito nove anni. Per un attimo ho sperato che,
svegliandomi, avrei scoperto che era stato tutto un incubo.»
«Invece
è la realtà.»
«Incredibile
come quella meretrice riesca sempre a essere peggio
delle peggiori fantasie,
vero?» scherzò amaramente Gilbert, acredine e
risentimento mescolati in una risata senza gioia. «Mi sono
risvegliato in un
mondo in cui la nostra battaglia con il Vaticano non è
ancora finita. Pare che
quel vampiro pasteggi sul sangue dei nostri compagni, per mantenersi
così in
forma nonostante la sua età secolare.»
L’Hellsing
mosse qualche passo verso il retro della casa, e
si chinò a scavare con le mani in un punto preciso. Dopo
qualche secondo,
sollevò il suo misero bottino: lo scheletro raggrinzito di
un bulbo.
«Lo
avevano piantato Ludwig e Matthew, per ridare un po’ di
verde a questo posto» Gilbert lasciò le armi
appoggiate alla parete, e si
inginocchiò sulla riva del lago. Portò le mani a
coppa sulla sua superficie
gelida, in modo che le onde glaciali potessero bagnare quel seme
rinsecchito.
«Non
basta piantare i semi» salmodiò
l’Hellsing, la voce
appesantita dai ricordi del passato: davanti ai suoi occhi, continuava
a vedere
Ludwig e Matthew che lo salutavano festosi, mostrandogli il risultato
del loro
duro lavoro. Dovette pugnalarsi gli occhi con la realtà per
scacciare quel
frammento di passato: il bulbo che avevano piantato era morto, come il
tempo
che avevano passato insieme. «Non basta. Bisogna prendersene
cura perché cresca
davvero qualcosa» Gilbert allargò le mani: le onde
si impadronirono gentilmente
del bulbo, portandolo a riposare nelle loro profondità senza
luce. «Per questo,
se vogliamo cambiare la Confederazione, non possiamo aspettare che
qualcuno lo
faccia per noi» l’Hellsing si rialzò,
afferrò la sciabola e la puntò verso
l’amico: «E per questo il vostro gruppo ha appena
guadagnato il più
meraviglioso combattente di tutta la Galassia.»
«Per
il momento, sei solo il più impolverato» lo
smontò
Antonio.
Un
ghigno sardonico si allargò sul volto di Gilbert quando
questo infierì:
«Non
sono di certo un virgulto tenero come il tuo vice. Da
quando ti piacciono i ragazzini pelle e ossa?»
L’Hellsing
si godette l’espressione impagabile di Antonio e
peggiorò, scuotendo la sciabola:
«Anche
se ho dormito per tanto tempo, non mi sono svegliato
rimbecillito. Ho visto come lo guardavi, ieri sera. E ho visto anche
come lo
tenevi stretto a te quando siamo usciti da Caina.»
«Lovino
è un aiuto prezioso. È il gemello
dell’Asse, e ha
dei poteri forti quanto i suoi» razionalizzò
Antonio.
Gilbert
conficcò la scimitarra a terra, appoggiandosi
sull’elsa come a un bastone.
«So
che sei un capitano che si preoccupa dei suoi uomini,
per quanto le dicerie di popolo possano dire il contrario. Ma non ti ho
mai
visto condividere la loro pena. Ed è giusto che un capitano
non empatizzi con
tutto il suo equipaggio, o impazzirebbe: soffrire per ognuno di loro
è
inconcepibile» l’Hellsing gli assegnò
uno sguardo a metà tra lo speculativo e
il derisorio:
«Come
mai con lui non riesci a mantenerti neutrale?»
«Dovevi
essere proprio a digiuno di pettegolezzi per
metterti a fare la comare appena uscito dal ghiaccio» lo
rimproverò Antonio.
«Nove
anni di mutismo creano scompensi» concesse con
eleganza beffarda Gilbert. «Ho anche notato come ti guardava
lui.»
La
replica si ritirò tempestivamente nella gola del
capitano, improvvisamente curioso di conoscere il resto.
«Aveva
un sacco di parole che gli ribollivano tra le labbra.
Sembrava un vulcano sul punto di esplodere. Peccato che non gliene sia
sfuggita
nemmeno una.»
Gilbert
calciò la scimitarra tenendola per l’elsa, in modo
che si appoggiasse sulla sua spalla dopo aver disegnato un semicerchio
nell’aria.
«Hai
detto che è il gemello dell’Asse, quindi
è un Vargas»
constatò l’Hellsing.
«Lo
era. Ha rimosso il loro stemma molto tempo fa. E, da
allora, si fa chiamare solo Lovino» spiegò Antonio.
La
sciabola picchiettò pigramente la spalla
dell’Hellsing
prima che questo decretasse:
«Belial»
e aggiunse, per sciogliere il quesito sul viso di
Antonio: «È il nome di un diavolo di cui mi
ricordo in modo particolare. Con i
demoni era sempre una lotta in mischia; con lui, invece, ho quasi
duellato. Ha
atteso che i suoi simili fossero stati uccisi, e solo dopo è
sceso sul campo di
battaglia. Abbiamo lottato per un’intera notte e non ha
chiuso gli occhi,
quando l’ho infilzato la mattina seguente. La sua
testardaggine mi ricorda
quella del tuo amato vice.»
Antonio
sorvolò sulla frecciatina finale e commentò:
«Belial.
Suona bene. Credo che gli piacerà.»
«Ne
sono certo» Gilbert soffocò le lacrime nella sua
voce,
mentre le immagini di un ragazzo senza ricordi e di un bambino che non
cresceva
emergevano nel suo cuore. «Sono molto bravo nel dare i nomi
alla gente.»
Antonio
restò in silenzio, non osando introdursi nel dolore
che aveva improvvisamente incupito i lineamenti dell’amico.
«Sei
sicuro che sia stata una buona idea venire qui?» si
preoccupò, quando il mutismo del collega si fece
insostenibile.
Gilbert
chinò la testa, una luce mesta negli occhi rossi.
«Ogni
sterminatore lo sa: devi affrontare il diavolo più
grande, per non aver più paura dei demoni»
gettò il suo sguardo oltre il lago,
fino ai rimasugli di bosco in cui aveva seppellito il corpo senza vita
di
Matthew. «Allo stesso modo, se vuoi superare un lutto non lo
devi scansare:
devi immergerti dentro di esso fino a quando non ti sembra che la tua
sanità
mentale stia per sbriciolarsi. Solo dopo puoi tornare in
superficie» Gilbert
permise al sole di ferirgli le pupille mentre concludeva:
«Solo dopo averlo
conosciuto fino in fondo puoi lasciartelo alle spalle.»
«Sei
voluto venire qui per soffrire fino al punto estremo?»
domandò Antonio.
«Sarebbe
un bel problema se mi facessi prendere dallo
sconforto nel bel mezzo di una battaglia, non credi?»
controbatté pratico
Gilbert. Inspirò a fondo l’aria gelida di quel
luogo, sentendola conficcarsi
come una tempesta di aghi di ghiaccio nei suoi polmoni. «Oggi
terminerò quello
che non sono riuscito a concludere nove anni fa. E poi dirò
addio a questo
posto.»
L’indice
dell’Hellsing andò a puntare gli alberi
striminziti
oltre il lago.
«Devo
andare là» annunciò. «Poi
tornerò indietro, mi farò il
bagno e ce ne andremo da questo posto. E cominceremo di nuovo la nostra
guerra.»
«Sarò
qui, se avrai bisogno di me» lo rincuorò Antonio,
guadagnandosi un sorriso grato.
«So
che ci sarai.»
L’Hellsing
gli diede le spalle, e assunse la posa più
pomposa che riuscì a inventarsi per coprire
l’incertezza della sua voce:
«Ludwig…
mi chiedo dove sia.»
Fu
come se i raggi del sole avessero veicolato fino a lui il
disagio nell’animo del compare: nonostante fosse rigido nella
sua postura da
grande uomo, percepì sulla propria pelle il suo timore. E si
sentì in dovere di
alleviarlo:
«Lo
hai istruito bene. Sicuramente, avrà trovato un modo per
sopravvivere. Possiamo chiedere al Figlio del Cielo di
localizzarlo.»
Gilbert
rovesciò il viso verso l’alto, nella speranza che
il
sole di ghiaccio bruciasse le sue incertezze. Chissà come
era cambiato Ludwig,
durante quei nove anni. Era cresciuto, almeno un poco, o era rimasto il
bambino
goffo dei suoi ricordi? Lo aveva odiato per averlo lasciato solo, o
aveva
pensato a lui con l’affetto che gli aveva sempre dimostrato?
Gilbert
inghiottì una boccata di aria invernale: era inutile
e dannoso arrostire in domande che non potevano trovare una risposta,
almeno
finché non si fosse ricongiunto con il fratello.
Scacciò quegli interrogativi
con un’altra domanda, che pose al capitano:
«E
tu, Antonio? Sei riuscito a tornare a casa?»
«Mai.»
«E
non desideri tornare?»
«Sempre.»
Gilbert
si voltò e vide un’ombra scura protendersi sul
viso
contratto del suo amico. Le vecchie ferite non guarivano mai:
lasciavano sempre
una cicatrice dietro di sé.
«Un
giorno riuscirai a fare ritorno.»
«Ma
quel giorno non è oggi» Antonio rialzò
verso di lui un
viso inamidato da un ottimismo forzato: «Oggi tocca a te
esorcizzare i tuoi
fantasmi.»
«Esorcizzare?»
sogghignò sarcastico Gilbert, avviandosi per
la sua strada. «Per una cosa del genere, servirebbe quel
beone di Francis…»
Antonio
osservò l’amico sparire nella sparuta boscaglia, e
ripensò a quanto appena detto.
Sarebbe
tornato sul suo pianeta, un giorno. Avrebbe parlato
a Lovino del suo passato, un giorno.
E
tremava all’idea che quel giorno sarebbe arrivato davvero.
«Madre de Dios» si
rinfacciò, critico. «Questo capitano è
vergognosamente debole.»
***
Aveva
accettato volentieri la proposta del Figlio del Cielo
di fare un bagno: sulla nave di Antonio, le possibilità di
avere acqua calda
erano minime, e di vedere una vasca praticamente nulle.
Ma
non aveva capito che l’Asean intendeva immergersi insieme
a lui.
Si
spogliò con rapidità quasi militaresca e si
tuffò nella
vasca il prima possibile, ringraziando l’acqua scura che
celava le sue nudità.
Yao,
al contrario, non provò il minimo imbarazzo nello
spogliarsi e nell’entrare assieme a lui. Lovino ricordava
che, durante una
lezione di storia e società, il maestro aveva detto qualcosa
riguardo al fatto
che nel Sistema Asean era piuttosto comune farsi il bagno tutti
insieme, e che
esistevano addirittura bagni pubblici in cui la gente di
un’intera città poteva
ristorarsi in contemporanea.
Trascorse
qualche secondo di imbarazzo totale prima che
Lovino trovasse la forza di alzare lo sguardo sull’orientale.
Non
aveva mai visto un uomo come lui nella ciurma di
Antonio. I bucanieri, di solito, erano uomini cui lo scorbuto aveva
annerito
qualche dente, e che la dura vita sulla nave aveva forgiato in fasci di
muscoli
e nervi d’acciaio. Lui e Antonio erano tra le poche persone,
all’interno
dell’equipaggio, a possedere fisici più gentili.
Tuttavia,
nessun uomo visto fino a quel momento aveva la
benché minima caratteristica in comune con
l’Asean. Il profilo del viso e i
lineamenti del corpo erano chiaramente maschili, ma possedevano una
delicatezza
che li rendeva quasi fluenti, come se scivolassero nello spazio
anziché
occuparlo. La pelle stessa sembrava liscia al pari della seta che
indossava di
solito, e non riusciva a scorgere nemmeno la più piccola
ombra di un pelo.
C’erano poi gli occhi, di quella forma così
stravagante, e i capelli, lunghi e
lucidi come non li aveva mai visti su di un uomo.
Non
possedeva una bellezza scultorea e perfetta, ma un
carisma sconosciuto permeava la sua figura aristocratica. Si chiedeva
se
fossero i suoi poteri ancestrali a conferirgli quell’aura di
irraggiungibilità
o se semplicemente l’orientale fosse nato con il dono di
affascinare le
persone.
Yao
si voltò nella sua direzione, e Lovino distolse
frettolosamente lo sguardo.
«Non
avevi mai visto un’orientale, prima?»
s’informò garbato
l’Asean.
«Non
sono mai uscito dalla Villa Topazio» liquidò
Lovino,
nuotando un po’ più lontano nella vasca.
Yao
inclinò la testa, e i capelli tracciarono un disegno
ondulato sulla superficie dell’acqua.
«Nemmeno
io avevo mai visto un uomo nudo, prima di Ivan»
rivelò placido l’Asean.
Lovino
quasi annegò per la sorpresa. Sputacchiò acqua e
incredulità, domandandosi come fosse possibile che un uomo
aggraziato come Yao
potesse trovare attraente un gigante malvagio come Ivan.
«La
notizia di stupisce così tanto?» l’Asean
stese la
schiena nell’acqua tiepida, perfettamente a proprio agio.
Lovino
faticò a racimolare le parole nella sua gola
traumatizzata.
«Pensavo
che voi foste… alleati.»
Yao
percorse con le dita tutta la lunghezza dei suoi capelli
prima di proferire:
«Siamo
alleati, ma prima di tutto siamo amanti» l’Asean si
divertì a vedere l’imbarazzo fiorire sulle guance
del giovane. «Pensi che Ivan
non sia capace di provare sentimenti?»
Il
ragazzo si strinse nelle spalle, pensando che fosse
troppo crudele confermare brutalmente.
L’Asean
reclinò la testa in modo che l’acqua calda potesse
accarezzargli la nuca. Ivan era come un forziere nascosto nel ghiaccio:
occorreva sciogliere la coltre gelida per poter finalmente scoprire
quanto
fosse meraviglioso il tesoro lì nascosto.
Nascose
il suo sorriso nell’acqua. Quel lato di Ivan non gli
dispiaceva: in quel modo, solo lui sapeva cosa l’uomo
serbasse nel suo Cuore
d’Inverno.
«Cerchiamo
di goderci il tempo che abbiamo insieme» disse
invece Yao, riaffiorando dall’acqua con il viso.
«Questi giorni non dureranno
per sempre.»
Lasciò
che una domanda inespressa circolasse per la mente di
Lovino per qualche secondo prima di spiegare:
«Io
sono il Figlio del Cielo, lui è il Custode dei Cancelli.
Se riuscirò a tornare sul mio trono, il mio ruolo mi
impedirà di vederlo
ancora. E, se non riuscissi a riottenere il mio posto…
sarebbe solo perché
sarei morto prima in battaglia» Yao portò le mani
a coppa sulla fronte, e
riversò sul viso la piccola cascata contenuta nei palmi.
«Per noi che nuotiamo
contro la corrente della Confederazione, il futuro ha solo due vie di
uscita:
il successo, o la morte. E, in ogni caso, dovrei separarmi da
Ivan.»
Le
spalle del giovane si incurvarono, e all’Asean
bastò quel
movimento per intuire i pensieri del giovane.
«Non
ci avevi ancora pensato, vero?»
Lovino
scosse il capo, gli occhi sbarrati a cercare di
afferrare le immagini di un futuro che non riusciva a figurarsi: era
inconcepibile l’idea di morire durante una missione, ma non
sapeva nemmeno cosa
aspettarsi in caso di successo. Passò un po’ di
acqua calda sulle spalle quando
queste rabbrividirono, ricordando le orride sensazioni provate a Caina:
la
testa che si apriva e il sangue che colava, le forze che svanivano e il
buio
che incombeva… non aveva intenzione di lasciare il mondo in
un modo così
orribile. E se si fosse ricongiunto al fratello, cosa sarebbe successo?
Sarebbero
fuggiti dal Palazzo e dalle Ville Vaticane. Ma Antonio sarebbe stato
disposto
ad accoglierli entrambi nella sua ciurma?
«Cosa
hai intenzione di fare, riguardo al capitano?»
La
domanda dell’orientale si conficcò come una
freccia nel
suo collo, facendolo trasalire.
«Cosa?»
Lovino si appiattì contro una parete della vasca
quasi volesse sfuggire agli occhi indagatori del Figlio del Cielo.
«Nella
Prigione Caina, non si è comportato come un capitano
si comporterebbe con un suo subalterno»
esemplificò Yao. «Pareva piuttosto un
uomo che proteggeva il suo amante.»
«Io
e lui non abbiamo quel tipo di rapporto» sbottò
Lovino,
arrampicandosi sulla vasca per uscire. La successiva annotazione
dell’Asean gli
fece scivolare la mano per la sorpresa:
«Perché
no? È così palese che siete innamorati. Per quale
motivo sprecate del tempo prezioso?»
«Mi
strozzerei con le mie stesse mani piuttosto che
innamorarmi di quel…»
«Ti
ha mai fatto del male?»
La
domanda di Yao interruppe il flusso della sua invettiva,
lasciandolo spiazzato.
«Non
ti ha mai fatto del male. Altrimenti avresti risposto
subito» si compiacque raffinatamente l’Asean.
«Ma ti ha protetto. Ha
sacrificato una caviglia per te, e ha affrontato i Golem pur di
difenderti. E
questo solo negli ultimi due giorni.»
«Non
è niente di eccezionale.»
«Non
dovresti essere così testardo. L’ostinazione fa
guardare in una sola direzione, perdendo i frutti che crescono ai lati
della
strada.»
Lovino
passò una mano nei capelli fradici come un animale
selvatico.
«Una
persona mi ha detto la stessa cosa, in passato.»
Yao
attese che il giovane fosse uscito dalla vasca e si
fosse avvolto nell’asciugamano prima di richiamarlo. Si
assicurò di avere la
sua completa attenzione prima di passarsi un dito sulle labbra con
dissimulata
lascivia e sussurrare:
«Baciare
ed essere baciati dalla persona di cui si è
innamorati è molto piacevole, lo sai?»
Lovino
si affrettò a uscire, le orecchie infuocate.
Al
contrario, Yao incrociò le braccia sul bordo della vasca
e vi appoggiò la guancia, in attesa che i passi a lui
familiari facessero
tremare il pavimento. Dovette attendere solo qualche secondo prima che
quel
suono si fermasse sulla soglia del bagno.
Il
Figlio del Cielo sollevò i suoi occhi scuri
sull’uomo che
lo attendeva sulla porta, avvolto nel cappotto e nascosto dalla sciarpa.
Yao
risalì il bordo lentamente e afferrò la vestaglia
con
calma. Come aveva previsto, due mani guantate si appoggiarono sulle
sue,
impedendogli di rivestirsi.
«Non
fare più il bagno insieme ad altre persone» lo
redarguì. Le braccia si strinsero sulla sua vita sottile, e
alcune gocce si
lanciarono dai suoi capelli per finire sul pesante cappotto.
L’Asean
accarezzò quei muscoli d’acciaio che lo
stringevano.
Ivan non tollerava l’acqua calda: il Cuore
d’Inverno sembrava impazzire, a
contatto con il calore. L’unico tepore che riusciva a
sopportare era quello
emanato dal Figlio del Cielo.
«Non
preoccuparti» lo tranquillizzò Yao, voltandosi nel
suo
abbraccio per poterlo vedere in viso. «È
innamorato del capitano. Ed era
talmente imbarazzato che non è riuscito nemmeno a sollevare
lo sguardo.»
Ivan
lo strinse ulteriormente, e sentenziò:
«Non
voglio che gli altri ti vedano.»
Yao
si arrampicò su di lui per potergli abbassare la sciarpa
e baciarlo. C’erano momenti in cui Ivan pareva non
comprendere le parole degli
altri, e aveva bisogno di altre vie per essere rassicurato, come un
bambino che
chiede costantemente una prova tangibile dell’affetto altrui.
Si
sentì sollevare dalle braccia dell’uomo, e la
porta dentata
a lato del bagno si aprì. Non si sorprese nel sentire il
materasso dare
ospitalità alla sua schiena, e il corpo dell’uomo
coprire il suo.
Dischiuse
le braccia e le gambe per accogliere il suo
amante.
Anche
quello era del tempo prezioso che non doveva essere
sprecato.
***
Era
ombroso come la via di cipressi prima del cimitero di
Villa Topazio.
Qualunque
possibile invettiva si rintanò nel punto più
lontano della sua gola quando i suoi occhi scorsero Antonio.
Stava
appoggiato alla balaustra semovente della Fortezza, lo
sguardo perso su un minuscolo punto che pian piano si rimpiccioliva nel
cosmo.
La serietà degli occhi aveva raddrizzato le labbra in una
riga rigida, e le
spalle erano tese a contenere le emozioni che si agitavano nel petto
del
capitano.
«Non
sapevo foste già tornati» si annunciò
Lovino, entrando
sul balcone.
Antonio
non riuscì a ricomporre totalmente una maschera di
affabile disinteresse; il suo camuffamento presentava qualche crepa, da
cui
strisciava fuori la tristezza inscritta nelle iridi.
«Siamo
arrivati qualche minuto fa. Gilbert doveva trovare
una persona.»
«E
questa persona sta bene?»
«Auspicalmente
sì.»
Antonio
gli lanciò un’occhiata vagamente sorpresa quando
Lovino si accostò a lui, appoggiandosi alla balaustra.
Riportò gli occhi sul
pianeta, ormai uno spillo di luce in lontananza.
«Gilbert
ha scelto un cognome per te. Belial» annunciò.
«È
il nome di un demone particolarmente tenace con cui ha combattuto una
volta.»
«Belial»
annuì Lovino. «Suona meglio di Vargas.»
Antonio
si piegò sulle sue stesse braccia, per osservare il
giovane da un’angolatura insolita.
«Lovino,
cosa c’è che non va?»
«Te
lo dico solo se tu prima mi dirai perché sei così
depresso»
contrattò spicciolo il ragazzo.
Se
fu stupito dal suo improvviso slancio, Antonio non lo
diede a vedere; raddrizzò la schiena, appoggiò i
gomiti alla balaustra e
raccontò:
«Rivedere
Gilbert e il suo pianeta dopo tanto tempo… mi ha
fatto pensare a molte cose» Antonio passò una mano
tra i capelli, disfacendo il
codino. Le ciocche ondulate ricaddero scomposte sul viso abbronzato.
«E mi sono
chiesto: quando tutto questo sarà finito, cosa
succederà? Gilbert, ad esempio…
non ha più un posto cui tornare. Il suo pianeta, che si
è sforzato tanto di
liberare dai demoni, ormai è un sepolcro freddo. Non
c’è più nessuno ad
aspettarlo, se non brutti ricordi.»
Il
capitano ristette un secondo, reimpostando la voce per
assicurarsi che non tremasse.
«Mi
sono chiesto se anche io accumulerò ricordi così
spiacevoli da non permettermi di risalire sulla Reina
de la Oscuridad.»
«Consideri
la nave la tua casa?» si lasciò sfuggire Lovino.
Un’espressione dolorosa come una pugnalata al fianco
trapassò il viso di
Antonio, che fu costretto a reimpostare la voce per farle assumere un
tono
normale:
«La
mia vera casa è un inferno, Lovino. Se mai ci
tornerò,
sarà solo per tagliare i ponti con il passato»
alzò il viso verso il cielo,
quasi cercasse una brezza che potesse spazzare via quella tristezza dal
suo
volto. «Così non avrò più
catene.»
Sorrise
amaro, mentre chinava la testa, gli occhi
dardeggianti attraverso le ciocche ondulate:
«Ci
vuole una grande forza per sopportare questa immensa
libertà, vero, Lovino?»
Il
giovane non rispose subito: il suo cuore aveva bisogno di
tempo per intrecciare i fili dell’arazzo sempre
più complicato che stava
diventando la loro vita. Lui e il capitano erano mostruosamente simili:
nessuno
di loro poteva tornare a casa, e lo avrebbero fatto solo per
ghigliottinare i
loro ultimi legami. E nessuno di loro sapeva cosa aspettarsi dal
futuro, ma
entrambi lo temevano: temevano che il domani potesse portargli via
anche le
briciole cui si stavano aggrappando per sopravvivere.
Lovino
voltò la testa, quasi a discolparsi dei movimenti
della sua mano, che scivolò ad appoggiarsi sul braccio
dell’uomo.
«Il
Figlio del Cielo mi ha chiesto cosa conto di fare in
futuro, quando tutto sarà finito. E mi sono accorto che non
ne ho la più
pallida idea.»
Antonio
fissò quella mano imbarazzata, arpionata al suo
braccio, e un sorrisetto divertito solcò le sue labbra.
«E
vuoi che io sia il tuo punto fermo?» insinuò,
mellifluo.
«Non
inventarti cose che non ho detto!» scalciò Lovino,
ma
Antonio gli impedì di ritrarre la mano imprigionandola tra
le proprie dita.
«Voltati»
lo invitò dolcemente.
«Non
voglio!» Lovino quasi si slogò
l’articolazione della
spalla per evitare di fissare l’uomo in viso.
Antonio
lo chiamò un altro paio di volte, prima di optare
per un metodo più diretto.
Lo
trascinò a sé tirandolo per il braccio, incurante
delle
sue proteste fasulle, e, non appena fu abbastanza vicino, lo costrinse
ad
alzare il volto afferrandogli il mento con le dita.
Lo
spettacolo offerto dalle guance in fiamme di Lovino
andava oltre ogni sua previsione, e il capitano rimase senza parole per
qualche
istante. Una lacrima di umiliazione spuntò
all’angolo dell’occhio del giovane,
e i suoi denti stridettero in un ringhio:
«È
colpa del Figlio del Cielo. Ha continuato a dire cose
strane per tutto il tempo.»
«Che
tipo di cose strane?» investigò gentile Antonio.
Le
gote del giovane quasi esplosero, ricordando l’ultima
frecciatina di Yao riguardo ai baci.
«Sei
troppo protettivo nei miei confronti!» deflagrò
Lovino.
Il
giovane approfittò dello spiazzamento del capitano per
sottrarre il mento alla sua presa e ricominciare a guardare in basso.
«Non
è normale che un capitano si preoccupi così tanto
per
un suo sottoposto» rimbrottò.
«È
quello che dice il Figlio del Cielo o è quello che pensi
tu?»
«Me
l’ha detto il Figlio del Cielo, ma, effettivamente, ha
ragione!» proruppe Lovino. «Non hai mai protetto
gli altri marinai nel modo in
cui proteggi me!»
«Perché
non penso a loro nel modo in cui penso a te.»
La
presa del capitano sul suo polso divenne quasi rovente,
così come il suo sguardo. Il giovane cercò di
sottrarsi a entrambi, senza
successo.
«Ieri,
nella Prigione Caina, sei quasi morto» gli ricordò
il
capitano, con un tono greve come il piombo. «Mentre ero sul
pianeta di Gilbert
ho pensato a quanto debba soffrire, non potendo più vedere
la persona di cui
era innamorato. E, subito dopo, ho pensato a quanto sarei stato stupido
io, se
avessi sprecato altro tempo.»
«Anche
il Figlio del Ciel ha parlato di tempo sprecato…»
barbugliò Lovino, completamente confuso
dall’atteggiamento del capitano.
«Il
Figlio del Cielo è davvero saggio come dicono» le
sue
labbra si piegarono in un ghigno furfante, prima di appiattirsi di
nuovo nella
serietà: «Lovino, non voglio più che il
tempo passi mentre io sto a osservare
le occasioni che sfumano. Voglio viverle insieme a te.»
Lovino
sentì i muscoli diventare nebbia. Aveva intuito dove
il ragionamento del capitano sarebbe terminato, ma non credeva che
avrebbe
davvero avuto il coraggio di confessarsi.
«Che
razza di discorsi sono… nel bel mezzo di una
guerra» si
risentì, ma Antonio replicò all’istante:
«Proprio
perché siamo nel bel mezzo di una guerra. Non sono
certo nemmeno del mio prossimo respiro, Lovino, ma so che voglio
esalare
insieme a te tutti i respiri che il Cielo ha calcolato per
me.»
Il
giovane non staccò gli occhi dal pavimento,
controbattendo:
«Non
è strano che tu preferisca un uomo a una donna?»
Antonio
non rispose con le parole: lo avvolse con le sue
braccia, comunicandogli la solidità della sua scelta con la
stretta attorno
alla sua vita.
«Se
non vuoi, Lovino, respingimi ora» lo consigliò
Antonio.
Lovino si ritrasse, sentendo il respiro dell’uomo
solleticargli l’orecchio, e
si ostinò a fissare in basso mentre masticava:
«Non
credo di odiarti.»
«Quindi?»
lo incalzò dolcemente Antonio. Il giovane restò
muto, e il capitano lo soccorse: «Non sei sicuro dei tuoi
sentimenti verso di
me?»
Lovino
fece un cenno vago con la testa. La mano dell’uomo
gli accarezzò il collo, prima di adagiarsi sulla mascella e
guidarlo verso
l’alto. L’imbarazzo aveva dipinto sul volto di
Lovino un bel colore purpureo, e
Antonio concluse il discorso su quelle gote rosse:
«Mi
farò bastare il dubbio, per ora.»
Il
giovane rimase completamente paralizzato dalla successiva
azione del capitano; le parole dell’Asean gli rimbombarono
nelle orecchie
assieme al sangue mentre il viso dell’uomo si avvicinava
tanto da permettergli
di vedere il proprio riflesso irrigidito nelle iridi di Antonio.
«Devi
chiudere gli occhi» il mormorio dell’uomo si
riverberò
sul suo viso, e le membra di Lovino divennero ancora più
simili a sassi per il
timore imbarazzato.
Antonio
avrebbe voluto essere un gentiluomo e lasciarlo
andare: Lovino aveva appena realizzato di provare qualcosa per lui, ed
era
chiaramente confuso e spaventato sia dai suoi sentimenti sia da quello
che
potevano implicare. Ma aveva aspettato per un tempo incalcolabile il
giorno in
cui finalmente il giovane avrebbe accettato, anche se solo
parzialmente, le sue
attenzioni. E poi, lui non era un gentiluomo: era un pirata, la Mano
Destra del
Diavolo.
Lovino
non comprese subito il motivo per cui il mondo
divenne buio all’improvviso: Antonio gli coprì gli
occhi con la propria mano,
prima di premere le labbra sulle sue.
Il
corpo del ragazzo guizzò e si intirizzì a quel
contatto,
le dita che affondavano nelle sue spalle in un misto di stupore e
rifiuto.
Antonio spostò con garbo la mano solo quando
sentì il fisico di Lovino
rilassarsi impercettibilmente tra le sue braccia. Le ciglia del giovane
fremettero sullo zigomo del capitano, e le sue labbra mugolarono un
verso di
disapprovazione quando la sua schiena sbatté contro il
parapetto.
Antonio
infilò le dita tra i capelli di Lovino, irrequieti
come il loro padrone, premendo il suo viso con ulteriore forza mentre
dischiudeva
la sua bocca. Il ragazzo trasalì quando la lingua del
compagno si fece strada
tra le sue labbra: la sensazione di un corpo estraneo che si muoveva
nella sua
bocca fu così strana che tentò immediatamente di
fuggire, ma fu bloccato dalla
balaustra che pressava sulla sua schiena e dalle mani
dell’uomo che
imprigionavano il suo viso.
Inghiottì
a stento la saliva, sforzandosi di adattarsi a
quello strano ritmo dettato da un’altra persona. Il tocco di
Antonio era
gentile, per quanto energico, e Lovino cercò di rispondere a
quei movimenti
sconosciuti. Il capitano lo strinse con ulteriore passione quando
sentì le mani
del compagno aggrapparsi alle sue spalle per trattenerlo, e non per
respingerlo, e quando la lingua del giovane rispose ai suoi stimoli,
tremolando
goffamente.
La
manica di Lovino fu strofinata senza alcun riguardo sulla
saliva appiccicata alle sue labbra.
«Mi
hai quasi soffocato» lo rimproverò il ragazzo.
«Perdonami»
soffiò Antonio sulla sua chioma ramata.
Il
suo stomaco dovette incassare un pugno prima che le
orecchie potessero deliziarsi del bubbolio del giovane:
«La
prossima volta cerca di essere più delicato,
idiota!»
Antonio
si chinò su di lui, le mani a circondargli il viso e
un ghigno inequivocabile a incurvargli le labbra.
«Sarò
più delicato, allora» patteggiò,
abbassandosi su di
lui. Ma fu preceduto dal giovane che lo avvertì:
«Sarà
meglio che tu lo sia davvero, bastardo!» prima di
schiantare le sue labbra su quelle del capitano, in quello che fu
più simile a
uno scontro di denti che a un bacio.
Antonio
abbracciò quel corpo magro allungato su di lui, e
viziò con calma la bocca del compagno, che diventava
più rossa e calda a ogni
nuovo bacio. E Lovino pensò che, forse, il Figlio del Cielo
dava davvero dei
buoni consigli.
***
Gilbert
si allontanò dal balcone con un sorriso contento e
un aculeo nel cuore.
Era
felice che finalmente Antonio avesse trovato qualcuno
disposto a stare al suo fianco, ma non poteva fare a meno di pensare a
quel
rettangolo di terra brulla sul suo pianeta.
Aveva
parlato a lungo con quei sassi pigiati insieme per
dare una sepoltura a Matthew: aveva riversato su di loro tutta la sua
rabbia,
tutto il suo dolore e tutte le sue lacrime. Nessuno lo aveva visto,
nessuno
avrebbe mai saputo quante cose disgustose fossero sgorgate dalle sue
labbra e
dai suoi occhi; Antonio avrebbe immaginato, ma non ne avrebbe fatto
parola.
Sfregò
la spilla a forma di corvo, rimuovendo un’invisibile
macchia. Avrebbe voluto vedere Matthew una volta ancora, prima di
raggiungerlo
nel regno dell’aldilà.
«Siete
inquieto, Hellsing?»
Anche
se improvvisa, la voce dell’Asean si srotolò come
seta
nel corridoio semibuio; per questo Gilbert non sobbalzò
nell’udirla.
L’orientale
era avvolto in una veste da camera di foggia
orientale, la spalla sinistra e il petto impreziositi dai capelli
lucidi,
lasciati liberi da qualunque laccio. La luce che trapelava dal tessuto
ricamato
e gli occhi pregni di secoli di storia conferivano all’uomo
un magnetismo non
comune. Gilbert dovette ammettere che la diceria secondo cui al
passaggio del
Figlio del Cielo perfino le montagne si sarebbero inchinate gli
sembrò
vagamente verosimile.
«Sono
stato rinchiuso nel ghiaccio per nove anni. Ho bisogno
di sgranchirmi un po’ le ossa. E suggerisco di evitare quella
balconata» aggiunse,
indicando alle sue spalle.
Yao
non ebbe reazioni visibili, se non un angolo della bocca
sollevato a esprimere la sua approvazione. Le sue parole non erano
state usate
invano, dopotutto.
«Vi
stavo cercando per chiedervi un parere» rivelò
l’Asean.
Gilbert
incrociò le braccia al petto, pronto a ricevere la
richiesta dell’uomo.
«Antonio
è venuto a salvarmi per amicizia, Lovino perché
vuole che lo aiuti a entrare nel Palazzo di Quarzo. Mi stavo appunto
chiedendo
cosa avesse spinto il Figlio del Cielo e il Custode dei Cancelli a
scendere
fino alla Prigione Caina.»
«Ivan
ha assecondato un mio desiderio» spiegò Yao.
«Mentre
io ho una motivazione personale.»
Gilbert
gli fece cenno di andare avanti, e l’Asean
proferì,
con tono e sguardo fermi:
«Siete
in grado di sradicare un demone da una persona?»
L’Hellsing
vide per un attimo il mondo perdere nitidezza,
mentre le immagini del passato si rovesciavano a cascata su di lui: gli
occhiali rotti, l’ultima lettera, il bagno al lago, il corpo
insanguinato, le
sere passate insieme e quel rettangolo di terra pressata.
«Perché
me lo chiedete?» domandò.
Una
vena di malinconia attraversò il corpo
dell’orientale
quando espresse i suoi intenti:
«Una
persona che ho cresciuto come un figlio è stata
posseduta da un demone. Voglio sapere se esiste un modo per separarli e
riavere
indietro il giovane che conoscevo. In caso contrario, porrò
fine alla sua vita
con le mie stesse mani.»
Perdonate il ritardo
ç_ç
Avevo detto che avrei aggiornato
il 13, poi, a causa di
alcuni inconvenienti, sono riuscita ad aggiornare solo oggi .-.
Comunque… ecco a voi un
po’ di Spamano, dopo un’attesa
lunga otto capitoli 8D Proseguirà nel prossimo capitolo,
ovviamente 8D Ormai
che hanno preso il ritmo… <3
E per i sostenitori di Arthur in
ascolto: il burbero
inglese farà la sua apparizione nel capitolo dieci,
attualmente in fase di
scrittura<3
Il capitolo nove uscirà
lunedì<3
Grazie per la vostra pazienza e la
vostra costanza<3
A presto!
Red
P.S.
Il
banner, come sempre, è opera di Clau-tan ^^ Se qualcuno di
voi dovesse
riconoscere le immagini utilizzate, mi avvisi e procederò a
mettere i
credits<3
|
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Capitolo 9 *** Il Confine del Mondo ***
Capitolo
Nove: il Confine del
Mondo
La
canna del fucile annaspò in un attacco di tosse pieno di
polvere e di ruggine, prima di spirare con un crepitio patetico.
L’espressione
di Gilbert rimase orgogliosamente statuaria,
mentre si appoggiava il rottame alla spalla.
«Credo
che sia meglio fargli dare una revisionata»
sentenziò, un angolo della bocca che tremava per
l’umiliazione. «Nove anni di
inedie non sono pochi…»
«Hai
intenzione di andare dai Gunsmith?»
s’informò Antonio,
quasi glorioso dietro la sua scrivania. Da quando erano tornati su la Reina de la Oscuridad, una nuova pace
era discesa su tutti loro. Ivan e Yao li avevano trattati con riguardo
durante
la loro permanenza nella Fortezza Errante, ma respirare di nuovo il
legno e la
salsedine dell’Aereonave li aveva fatti rinascere, come una
crisalide che
emerge dal bozzolo: si erano liberati del guscio di ansia e sangue di
quei
giorni, finalmente liberi di tornare ai loro soliti ruoli.
Lovino
si sistemò inquieto sul ripiano della scrivania.
Avrebbe voluto godersi appieno quei momenti, ma erano troppo effimeri
per
caricarli con le sue speranze. Procedeva guardingo come chi si siede a
un
banchetto sapendo che c’è un piatto guasto:
riusciva comunque a godere il
sapore delle pietanze, ma era sempre in allarme per la minaccia del
boccone
infetto.
«Chi
meglio di loro?» enfatizzò Gilbert, apparentemente
incosciente
dell’irrequietezza di Lovino. «Hanno sistemato
tutto il mio equipaggiamento. E
poi, sono in debito con me.»
«In
debito? Per cosa?»
«Questo
è un segreto» replicò Gilbert, con uno
sguardo
malizioso spolverato di cattiveria amichevole.
Antonio
preferì stendere la mappa sul piano della scrivania,
ignorando il collega.
«I
Gunsmith si trovano qui, tra Siberia e Britannia»
notificò, puntando il dito su un punto viola nella mappa.
«Possiamo
accompagnarti, ma non possiamo scortarti fino al pianeta.»
«Non
c’è problema» Gilbert
accarezzò la spilla sul petto,
tronfio. «Gilbird non vede l’ora di sgranchirsi un
po’ le ali.»
«Te
lo sconsiglio» lo freddò Antonio. «La
Confederazione è
in allerta per la tua fuga. E una tua traversata su Gilbird sarebbe un
tantino…
appariscente.»
L’Hellsing
si dondolò sulla sedia di frassino, incrociando i
piedi sul bordo della scrivania.
«In
altre parole, firmerei il mio biglietto di ritorno per
Caina» sintetizzò.
«Potresti
firmare il tuo biglietto per il patibolo. Sei
evaso una volta. Se ti catturassero di nuovo, potrebbero decidere di
essere più
drastici» recise Antonio.
Gilbert
incrociò le braccia al petto e strinse la testa
nelle spalle. Quando l’ombra scura del comando scendeva sul
viso di Antonio,
nessuna ribellione sarebbe stata tollerata, nemmeno quella di un
vecchio amico;
degno del capitano del tanto temuto vascello pirata. Gilbert sciolse le
braccia, alzandole in segno di resa.
«D’accordo.
Mi farò accompagnare dal Custode dei Cancelli e
dal Figlio del Cielo. La Fortezza Errante dovrebbe sollevare meno
curiosità di
Gilbird» patteggiò.
Antonio
annuì velocemente, e puntò di nuovo il dito sulla
mappa.
«Noi,
invece, ci dirigeremo a Britannia.»
Il
boccone marcio era appena giunto. Lovino trasalì sulla
scrivania, e Gilbert quasi si rovesciò sulla sedia.
«Britannia?»
esclamarono all’unisono.
«Vuoi
suicidarti, idiota?»
«Sei
impazzito del tutto, Antonio?» rimbombarono poi
separatamente.
Il
capitano non si scompose. Intrecciò le dita davanti al
viso, come era solito fare quando doveva fornire una spiegazione che
non
sarebbe stata accettata di buon grado dai suoi sottoposti.
«Le
nostre forze sono insufficienti per far cadere il
Vaticano. Abbiamo bisogno di Francis. E l’unico modo per
trovarlo e liberarlo è
chiedere aiuto al Mago dell’Ovest» volse i suoi
occhi verdi verso Gilbert e
pronunciò, conciso e brutale: «Hai detto anche tu
che hai bisogno di Francis
per soddisfare la richiesta del Figlio del Cielo, giusto?»
«Che
c’entra il Figlio del Cielo, adesso?» esplose
Lovino.
La sua impulsività aumentava esponenzialmente quando non
capiva cosa stesse
accadendo intorno a lui.
L’Hellsing
staccò la spilla dal suo petto e prese a
giocherellare nervosamente con le punte delle piume ferrose di Gilbird.
«Mi
ha chiesto se è possibile sradicare un demone
dall’anima
di una persona» raccontò Gilbert, gli occhi e le
labbra guizzanti per la
tensione. «Tuttavia, io mi occupo dell’eliminazione
di demoni fisici. Non so
come si possa far uscire uno spirito da un corpo umano. Avrei bisogno
di
Francis, per un’operazione del genere» le dita
arrestarono bruscamente i loro
movimenti, e due occhi duri come la tundra del suo pianeta fulminarono
Antonio:
«Ma possiamo trovare un altro modo per recuperare Francis!
Quello che stai
proponendo tu è un suicidio!»
«È
la via più diretta.»
«Certo.
Per il camposanto» il capitano non sobbalzò quando
Gilbert salì con un piede sulla scrivania e si sporse verso
di lui. «Lascia che
ti faccia una breve previsione sul tuo incontro con il Mago
dell’Ovest: tu
metterai piede su Britannia, lui ti staccherà la testa, la
userà come
sputacchiera e poi ti userà per concimare i campi. E tanti
saluti al più grande
capitano della Confederazione. Non è necessario avere i
poteri dell’Asse per
prevedere qualcosa di così ovvio.»
«Ho
i miei motivi per credere che il Mago dell’Ovest mi
ascolterà» replicò adamantino Antonio.
«Gli
abbiamo fatto impazzire un intero equipaggio, non molto
tempo fa» gli ricordò acido Lovino.
«Oh,
questo è davvero un ottimo
biglietto da visita» Gilbert si schiaffò una mano
sulla testa per sottolineare
il concetto.
Antonio
stese la spina dorsale contro lo schienale della
sedia e contestò, semplice e inamovibile:
«Possiamo
discutere per il prossimo anno, se volete. Ma non
cambierò la mia decisione.»
Lovino
fu bloccato dalla mano di Gilbert, che gli picchiettò
appena il ginocchio per convincerlo a stare fermo. Il giovane si morse
le
labbra, notando il velo di ombra calato sul volto dell’uomo,
lo stesso che
avvolgeva quello del suo compagno. Una bestia oscura li stava divorando
entrambi, e lui non sapeva nemmeno quale fosse la sua forma.
«Non
è detto che il Mago dell’Ovest ti risparmi solo
per via
di quella vecchia storia…» tentò ancora
Gilbert, ma Antonio scosse la testa.
«Non
preoccuparti. Se non dovesse ascoltarmi, troverò il
modo di scappare. Non sono così stupido da farmi
catturare.»
«Lo
pensavo anche io» lo pugnalò Gilbert, con una lama
di
acredine.
Il
silenzio durò qualche istante, prima che il capitano lo
lacerasse con decisione.
«Questa
sera raggiungeremo i Gunsmith, e domani approderemo
a Britannia. Farò preparare una scialuppa per portarti alla
Fortezza Errante.»
L’Hellsing
non riuscì nemmeno a muovere le labbra: lo stesso
ghiaccio che lo aveva imprigionato per nove anni stava ora indurendo la
voce
del suo amico.
Scrollò
le spalle e sbuffò: «Cerca solo di non farti
ammazzare. Vi raggiungerò il prima possibile con le nuove
armi». Prima di
uscire dalla porta, si accostò a Lovino e gli
bisbigliò: «Cerca di ficcargli un
po’ di buon senso in quella testaccia dura!»
«Non
è dura, è di granito»
ringhiò Lovino, voltandosi verso
il capitano. Antonio lo ignorò con snervante scioltezza
prima di degnarlo di
uno sguardo serio.
«Abbiamo
bisogno di Francis. E non possiamo passare altri
anni a girovagare a caso in cerca di informazioni»
sintetizzò Antonio. «Il
risveglio dell’Hellsing ha messo il Vaticano in allarme, e
non dimentichiamoci
che il Figlio del Cielo è stato spodestato. Inoltre, ormai
sapranno anche che
tu sei vivo. Il che è un miracolo, considerando gli
avvenimenti di Caina…» le
dita del capitano sfiorarono la frangia ribelle del giovane con una
gentilezza
che lo fece imbestialire.
«Possiamo
trovare un altro modo, che non preveda che tu ti
consegni al Mago dell’Ovest» sbuffò,
scendendo bruscamente dalla scrivania per
sottrarsi al tocco dell’uomo.
«Non
mi sto consegnando. Sto andando a trattare…»
Antonio
emise un sospiro, scoraggiato dal cipiglio di ferro con cui il giovane
lo stava
trafiggendo. «Non mi credi, vero?»
«Dammi
una singola ragione per non credere che stai andando
a suicidarti» lo sfidò Lovino.
Il
capitano fece slittare la sedia all’indietro, e
batté le
mani sulle proprie cosce per invitare il giovane a sedersi. Testardo
come sempre,
Lovino si avvicinò, ma tornò ad appollaiarsi
sulla scrivania, declinando
crudelmente l’offerta del capitano.
Antonio
si limitò a spostare nuovamente lo scranno prima di
iniziare.
«Forse
tu non eri ancora nato» rifletté, lanciandogli uno
sguardo carico di delicata nostalgia. Lovino scrollò le
spalle, come per
togliersi di dosso quel sentimento appiccicoso. Il capitano
proseguì: «Un
tempo, i Carriedo erano mercenari al servizio delle Famiglie Vaticane.
Così
come gli Hellsing erano sterminatori di demoni approvati
dall’Asse.»
Lovino
attese che l’ombra di amaro disgusto sparisse dal
volto dell’uomo; quando quest’ultimo riprese a
parlare, le sue parole
trasudavano acido:
«Poi,
un giorno, il Vaticano decise che non poteva tollerare
forze potenzialmente insidiose. Cosa sarebbe accaduto se la gente
avesse
cominciato ad adorare gli Hellsing come salvatori, o ad affidarsi
all’abilità
guerresca dei Carriedo?» l’angolo della bocca si
contrasse nell’aborto di un
sorriso quando l’uomo sputò fuori: «Cosa
è successo agli Hellsing lo sai, lo
hai visto sul pianeta di Gilbert.»
Antonio
rovesciò la testa e mitragliò, senza nemmeno una
pausa per respirare:
«Siamo
stati ricompensati per la nostra lealtà. Ci hanno
offerto un funerale degno di un re: tutto il mio pianeta è
diventato una palla
di fuoco. Come gli Hellsing, siamo spariti nel giro di una notte. Come
Gilbert,
io sono l’ultimo rimasto.»
Gli
occhi del capitano fissavano indistintamente il
soffitto, coperti dalla foschia del passato. Lovino afferrò
il volto dell’uomo
tra le mani e lo costrinse a voltarsi verso di lui per scacciare quella
nebbia
infame: le correnti del passato non sarebbero riuscite a risucchiare il
suo
compagno.
Avrebbe
voluto sapere altri dettagli sui trascorsi del
capitano – come si era salvato, come era il suo pianeta prima
di bruciare, che
aspetto avevano i suoi genitori – ma preferì non
inferire: non voleva vedere
Antonio sprofondare di nuovo nelle sabbie mobili della memoria.
«Questo
cosa ha a che fare con il Mago dell’Ovest?»
domandò
tra i denti.
Antonio
avvolse le mani del ragazzo con le sue, come ad
assicurarsi che fosse davvero presente; respirò il profumo
della pelle dura sui
suoi palmi, e respirò sul suo polso:
«Nessun
mago comune sarebbe stato in grado di fare una cosa
del genere. Nessuno, a parte il Mago dell’Ovest» le
dita dell’uomo si strinsero
attorno al suo polso e le parole si fecero mortalmente dure:
«L’ho visto. Non
potrà mai espiare abbastanza, per quello che ha fatto.
Un’informazione mi
sembra un prezzo accettabile.»
Il
capitano fu piacevolmente sorpreso dalla reazione del
giovane: Lovino slittò dalla scrivania alle sue ginocchia,
gli perforò la
spalla con il mento e gli gettò scompostamente le braccia
attorno alle spalle.
«A
cosa devo questa manifestazione di affetto?»
flautò, carezzando
la schiena imbufalita del giovane.
«Stai
zitto» sibilò il ragazzo.
Le
braccia di Lovino scesero lentamente, un centimetro per
volta, per stringersi attorno alla schiena dell’uomo in un
abbraccio più
consono. Antonio carezzò quella testa turbolenta appoggiata
alla sua clavicola
finché dalle labbra del giovane non ruzzolò fuori
una replica:
«Sei
sicuro di riuscire ad affrontare il Mago
dell’Ovest?»
«Non
ho intenzione di battermi con lui…»
«Riuscirai
a parlargli senza perdere la testa?»
Lovino
incavò ancora di più il capo nella sua spalla, e
per
l’uomo fu impossibile vederlo in volto mentre lo rassicurava:
«Non
lo perdonerò mai per quello che ha fatto. Ma
riuscirò a
contrattare con lui. Non sono più un bambino spaventato a
morte.»
«Sei
un adulto assetato di vendetta» Lovino inghiottì
orgoglio e amarezza nel bofonchiare: «Io non riuscirei a
stare calmo in
presenza di mio padre.»
Erano
tremendamente simili, loro due. Avevano perso entrambi
la famiglia per colpa di un unico aguzzino. E non passava giorno in cui
non
perfezionassero il loro piano di rivalsa.
Antonio
strinse a sé quel corpo improvvisamente fragile e
mormorò sulla sua nuca:
«Non
preoccuparti per me, Lovino. Saprò gestire la
situazione. E avrò bisogno che tu resti sulla
nave» trattenne la testa del
giovane sul suo petto per evitare che si inalberasse in una protesta
mentre
concludeva: «Non posso attraccare a Britannia con tutta la Reina de la Oscuridad, e non posso
nemmeno lasciare la nave senza
una guida. Ho bisogno che tu controlli la situazione finché
non sarò tornato.
Puoi farlo?»
Interpretò
il successivo mugugno adirato e incomprensibile
come un assenso.
Posò
un bacio poco sopra l’orecchio del giovane, dove i suoi
capelli erano più corti, e sussurrò:
«Non
sono accadute solo cose spiacevoli, in passato. Prima
di quel giorno, la mia infanzia era piena di bei ricordi.»
Lovino
alzò finalmente gli occhi ramati e contrattò:
«Quando
tornerai, mi racconterai tutte le cose belle che ti sono successe
quando eri
piccolo. E lo stesso farò io.»
«Perché?»
sorrise Antonio.
«Perché
non siamo solo la Mano Destra e la Mano Sinistra del
Diavolo.»
Il
sorriso di Antonio si punteggiò di malinconia mentre
accarezzava la testa incassata sul suo petto.
Si
chinò sul viso del giovane e lo sollevò per
mordicchiare
le sue labbra indispettite. La lingua del ragazzo entrò
veloce nella sua bocca,
come se non potesse tollerare la lontananza dalla compagna. Antonio non
esitò a
rispondere all’inaspettata passionalità del
ragazzo: non dovette lottare a
lungo per estrarre la camicia dalla stretta tirannica della cintura, e
poté
finalmente lambire con le dita la pelle nuda del suo amante. Il
contatto durò
solo pochi secondi: Lovino si rialzò di scatto, sottraendosi
al suo abbraccio.
Sul
suo volto non passarono né rabbia né scandalo,
mentre
sistemava nuovamente la camicia al suo posto. Antonio capì
il motivo di quel
rifiuto solo quando Lovino, le guance rosse quanto i capelli, lo
ricattò
goffamente.
«Anche
questo è da rimandare a quando tornerai da
Britannia.»
Il
capitano soffocò a forza una risata, temendo che il suo
vice l’avrebbe male interpretata. Quel ragazzo era veramente
una benedizione
dal Cielo, con il suo carattere scarlatto e la sua gentilezza spinosa.
Allargò
le braccia, esortandolo a prendere nuovamente posto nella loro stretta.
«Dovrò
aspettare fino al mio ritorno per avere un bacio?» la
testa si reclinò di lato, nel porgere
quell’invito: i riccioli increspati dalla
salsedine dell’atmosfera artificiale rimbalzarono sul
cappotto cremisi, e la
lampada a olio incastonò un riflesso ambrato negli occhi
verdi che attendevano
la sua risposta.
Lovino
ciondolò imbronciato verso di lui, e gli scaricò
il
suo peso sulle ginocchia senza alcun riguardo.
Antonio
chiuse gli occhi mentre il respiro del giovane
tornava a intrecciarsi al suo, e abbracciò stretto quel
corpo asciutto, mai
cresciuto in robustezza.
«Non
ti preoccupare, Lovino» lo rassicurò sulle labbra
umide, intuendo il motivo per cui le spalle strette del giovane non
riuscivano
a rilasciare la loro postura contratta. «Non ti
abbandonerò.»
Il
ragazzo non volle proseguire quella discussione, e tornò
a impegnare la bocca del capitano con la propria.
C’era
un solo fuoco che poteva ardere dentro Antonio, ed era
quello del suo stesso orgoglio da pirata. E non si sarebbe fatto
inglobare
dalle fiamme di Britannia.
Era
quello che il bacio del capitano gli suggeriva. Lovino
ci credette con tutto se stesso.
***
La
mano forte di Ludwig lo sostenne, quando le sue gambe
vacillarono.
Feliciano
lo ringraziò con un impercettibile cenno del capo,
appuntando di nuovo la sua attenzione sull’uomo al centro
dell’enorme atrio.
Gli occhi gli trasmettevano la sensazione di un minuscolo essere umano
in uno
spazio troppo grande, mentre il cuore tremava per l’aura di
quello stesso uomo,
che pareva riempire la stanza fino a far esplodere i muri.
«Vi
sentite in forze, Feliciano Vargas?» esordì lo
sconosciuto. «Mi è stato riferito che avete avuto
una sorta di collasso,
qualche giorno fa.»
Ludwig
apprezzò la maestria con cui il futuro Asse
dissimulò
il proprio stupore: il suo viso rimase immobile come l’aria
del Palazzo di
Quarzo.
«Mi
sono ripreso completamente. Vi ringrazio per la vostra
premura» assicurò dolcemente Feliciano.
Lo
sconosciuto non parve minimamente toccato dalla sua
simulata gentilezza.
Il
Guardiano strinse i denti, sicuro di aver già visto
quell’uomo, in passato. Conosceva il ricamo nobiliare di
quella divisa color
malva, e le iridi violacee che esaminavano il mondo dietro la cornice
scura
degli occhiali. Perfino la pettinatura, curata fino alla minima
curvatura delle
ciocche mogano, aveva un sentore familiare.
L’uomo
estrasse le mani dalle tasche di velluto viola, e,
finalmente, Ludwig lo riconobbe. C’era un solo individuo in
tutta la Galassia
con i palmi martoriati da stigmate simili: un artista a metà
tra lo scultore e
il chirurgo aveva fatto colare dell’argento purissimo in
quelle ferite,
intarsiando per sempre una chiave di violino e una chiave di basso
rispettivamente sulla mano destra e sinistra dell’uomo.
«L’Accordatore»
lo presentò Ludwig.
Lo
sconosciuto spostò appena gli occhiali sul naso,
fissandolo sconcertato. Mosse con grazia le dita della mano sinistra,
come se
stesse carezzando le corde di un liuto invisibile, senza staccare i
suoi occhi
inquisitori dal Guardiano.
«La
vostra struttura molecolare risponde in un modo assai
curioso» stabilì al termine della sua bizzarra
analisi. «Come se voi non foste
un essere umano.»
«Non
sono un essere umano comune»
convalidò Ludwig, portandosi al fianco di Feliciano.
«Altrimenti non sarei stato scelto per difendere il futuro
Asse.»
«Ovviamente»
concesse l’Accordatore. «Il signor Vargas mi ha
affidato due missioni piuttosto complicate quest’oggi, quindi
permettetemi di
svolgere la prima.»
Una
vena di sospetto attraversò il sorriso impeccabile
dell’Asse, ma non fermò l’Accordatore:
dispose le mani nell’aria come se sotto
di esse si trovasse la tastiera di un pianoforte e mosse le dita in una
melodia
udibile al solo esecutore.
Feliciano
si avvicinò istintivamente a Ludwig quando le
pareti della stanza cominciarono a raggrinzirsi in pieghe flaccide,
come cera
esposta al fuoco.
«Non
abbiate timore» li avvertì neutro
l’Accordatore. «Non
si tratta di un viaggio astrale.»
Il
Guardiano impietrì il viso, impedendo alla sorpresa di
trapelare. Sperava che l’allusione al viaggio dello spirito
fuori dal corpo
fosse solo un’infelice coincidenza. Feliciano aveva agito
impulsivamente, ma il
suo potere superava quello di qualunque altro incantatore, nella
Galassia:
nessuno avrebbe dovuto scoprirlo. Era quello che si augurava, perlomeno.
Le
bianche pareti appassirono in un nero cupo, che pian
piano stillò un intreccio di stelle. L’Accordatore
stava ricreando con la magia
lo spazio esterno al Palazzo.
«Vi
invito a prestare particolare attenzione» li
esortò
atono l’Accordatore, senza smettere di muovere le dita. Le
stigmate argentate
sui dorsi delle sue mani mandarono sinistri bagliori mentre
l’inudibile
sinfonia arrivava al suo crescendo.
Feliciano
nascose le mani sotto le larghe maniche della
tunica, stringendole convulsamente: non voleva che il suo sgomento
fosse
visibile a quell’uomo.
«Dove
siamo?» domandò, una volta che fu certo che la sua
voce non l’avrebbe tradito.
Anche
se era conscio di trovarsi nel mezzo di un’illusione,
Ludwig non poté fare a meno di portare una mano
all’elsa dello spadone.
Lo
spazio intorno a loro si popolò improvvisamente di tutti
i peggiori aborti degli incubi umani: esseri con la mandibola
orribilmente
penzolante dal cranio e gli occhi appesi alle orbite da una vena
sanguinolenta;
creature per metà serpenti e per metà a pantere;
abomini simili a esseri umani
crudelmente distorti, con gli arti disposti in ordine casuale ed
espressioni
animalesche. Quelli e mille altri orrori si accalcarono attorno al
cerchio di
pace sorretto dall’Accordatore.
«Questo
è il Confine del Mondo» scandì
l’uomo.
«Perché
siamo qui?» chiese ancora Feliciano, trattenendo
qualunque esternazione di disgusto o paura.
«Per
rendervi chiaro il vostro ruolo futuro» spiegò con
freddezza l’Accordatore. «Questo ammasso di
degenerazioni si affolla tutto
intorno ai confini della Confederazione. E i confini sono sorretti
dall’Asse.
Se l’Asse non dovesse adempire il proprio compito…
la barriera che li trattiene
al di fuori della nostra Galassia crollerebbe, e questi esseri
sarebbero liberi
di divorare il nostro universo.»
«Divorare?»
gli fece eco Feliciano, ipnotizzato dalle fauci
spropositate di un essere alla sua sinistra, talmente lunghe da
perforargli le
guance.
«Queste
creature paiono avere una predilezione per la carne
umana» specificò l’Accordatore.
«In passato, alcuni di loro sono riusciti a
perforare la protezione. Interi pianeti sono andati distrutti, a quel
tempo.»
L’uomo
sollevò con grazia le mani dal suo pianoforte
invisibile e, all’improvviso, il Palazzo tornò a
circondarli. Il ritorno del
candore delle sue mura fu così repentino che quasi
ferì i loro occhi.
«Ho
una seconda melodia da correggere» si congedò
l’Accordatore, per poi sparire con andatura nobiliare lungo i
corridoi.
Nonostante
i pomposi drappeggi della tunica, il Guardiano
riuscì a intravedere il tremore delle sottili membra
dell’Asse.
«Feliciano…»
cercò di riscuoterlo Ludwig, ma il ragazzo era
ancora stregato dalla visione da incubo di poco prima:
un’intera bolgia di
orrori, pressati contro i Confini che lui era stato chiamato a
proteggere.
«Feliciano»
lo chiamò con più forza Ludwig, scuotendolo per
un braccio.
Il
giovane lo fissò con occhi sbarrati dai residui
dell’illusione dell’Accordatore.
«Se
non divento Asse verranno tutti divorati…»
mormorò,
flebile. Aveva ribadito più volte di essere pronto a gettare
la Confederazione
nel Caos, pur di rivedere il fratello, ma non avrebbe mai immaginato
uno
scempio simile.
«Non
sei ancora Asse. Abbiamo tempo» Ludwig si
inginocchiò
di fronte a lui, gli occhi azzurri che scintillavano a ogni palpito di
cuore.
«Ascoltami, Feliciano. Non sei ancora Asse, non hai ancora
tutto il peso della
Galassia sulle spalle. Abbiamo ancora un po’ di tempo per
pensare a una via
alternativa.»
«Una
via… alternativa?» tentennò Feliciano.
«Ci
deve essere un modo per impedire a quei mostri di
fagocitare la Confederazione, e impedire a tuo padre di incatenarti per
sempre
a questo posto» continuò Ludwig. «Mio
fratello mi ha insegnato che i demoni
sono invincibili solo quando pensi che lo siano. Possiamo combatterli,
possiamo
trovare un altro modo.»
«Tuo
fratello era così forte?»
«Mio
fratello era l’ultimo Hellsing.»
Feliciano
non mosse un muscolo del viso, a quella
rivelazione: rimase immobile, un mezzo sorriso incollato alle labbra.
«Tuo
fratello è
l’ultimo Hellsing. Quando ho aiutato il mio
gemello… lo stavano liberando»
rivelò Feliciano.
Non
aveva mai visto un’espressione così sorpresa,
quasi
innocente, sul volto del Guardiano: per un attimo, era tornato il
bambino che
oscillava sotto il peso delle cassette mediche.
«Gilbert…
è libero?» balbettò, attonito.
Feliciano annuì.
«Non
c’è solo lui. C’è anche il
Figlio del Cielo, con loro.
E il Custode dei Cancelli. E la Mano Destra del Diavolo»
elencò, con sempre
maggiore entusiasmo. Si rabbuiò subito dopo, concentrato
nella stesura di un
piano: «Se riuscissi a parlare con gli altri due
Scudi… potremmo decidere quale
sia il metodo migliore per difendere la Confederazione.»
Feliciano
rialzò la testa, sfavillando nell’ardore
dimostrato durante la prima settimana di ribellione nei confronti del
padre.
«Devo
mettermi in contatto con loro. Ma non posso fare come
la scorsa volta… è troppo faticoso, e mio padre
potrebbe insospettirsi, se
fossi di nuovo così debilitato…»
Ludwig
chinò la testa, nella genuflessione rituale davanti
all’Asse.
«Usami
come messaggero. Se mio fratello è libero, so come
contattarlo» sorrise, una spina di furbizia a lampeggiare
nell’angolo della
bocca. «Sono certo che abbia ancora Gilbird appuntato al
petto.»
Feliciano
cadde sulle ginocchia per abbracciare il suo
Guardiano, in quello che per loro ormai era diventato un contatto
normale.
Ludwig
strinse quelle spalle fragili, il naso immerso nei
capelli profumati del giovane.
Il
suo ruolo di Guardiano non avrebbe potuto essere più
azzeccato.
Voleva
proteggere quel ragazzo, voleva difendere la sua
felicità.
Avrebbe
lottato contro i suoi stessi voti, per garantire la
serenità di Feliciano.
***
Le
dita anchilosate del vecchio Asse scricchiolarono, quando
l’anziano le intrecciò sul ventre scavato.
Quei
gemelli erano troppo pericolosi. Non potevano affidare
il futuro dell’Asse a una mina vagante e a una bomba a
orologeria, entrambe
pronte a esplodere da un momento all’altro.
Tuttavia,
il potere di Feliciano era innegabilmente
smisurato, ed era ciò di cui la Confederazione aveva bisogno.
«Se
ci fosse modo di staccare il suo potere dal
corpo…»
mormorò.
Richiamò
il proprio Guardiano, imperioso.
«Chiama
il capofamiglia Vargas. Devo proporgli un’idea.»
E
nel prossimo
capitolo, signore e signori… arriva Arthur 8D
A
lunedì<3
Red
|
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Capitolo 10 *** Hispaňa ***
Capitolo
Dieci: Hispaňa
Lovino
si staccò dalla balaustra, tetro.
Antonio
era sceso su Britannia qualche minuto prima. Gilbert
era sparito assieme alla Fortezza Errante per approdare sul pianeta dei
Gunsmith.
Anche
se era circondato dalla ciurma si sentiva solo, su
quel galeone tenebroso. Scrollò le spalle, irrigidite dal
peso della
responsabilità.
Doveva
solo aspettare un altro poco. Presto Antonio sarebbe
tornato. E lui avrebbe dovuto comportarsi come se non avesse sentito
minimamente la sua mancanza.
Le
medaglie appuntate sul suo petto tintinnarono, come a
canzonarlo: erano ancora poche per gareggiare con l’altra
Mano del Diavolo.
Artigliò
la balaustra, osservando la Compagnia di Britannia,
il pianeta principale e i satelliti minori, opacizzati
dall’atmosfera
artificiale dell’Aeronave. Trasse un respiro profondo: i suoi
polmoni
sembravano aver disimparato il loro mestiere. Antonio era la vera anima
di quel
vascello, che aveva costruito e condotto alla gloria contraddittoria
dei pirati
con le sue stesse mani: senza, l’aria stessa pareva una
fanghiglia
irrespirabile.
«Bastardo»
ringhiò. «Sbrigati a tornare.»
«Vicecomandante!»
latrò improvvisamente la vedetta. «Un
corpo sconosciuto si dirige verso di noi!»
Lovino
non perse più di un secondo per localizzare la
meteora viola che mirava ad abbattersi sul loro ponte.
«Innalzate
le barriere e preparate i cannoni!» ordinò,
piazzandosi sul ponte, pronto a richiamare Roma. «Lo
accoglieremo con la
polvere da sparo!»
La
ciurma ragliò un boato di approvazione, e,
fortunatamente, nessuno notò il tremore che scuoteva le
ginocchia del giovane.
«Torna
presto, bastardo!» sibilò di nuovo, prima di
evocare
Roma.
***
Un
branco di gattini impauriti che mostravano le zanne da
latte per sembrare minacciosi.
Quella
fu l’impressione che ebbe della ciurma Britannica che
lo accolse.
Fucili
e sciabole erano spianate come una parata di metallo
tutto intorno a lui, ma il pallore sui volti dei marinai cantava un
ritornello
differente: avrebbero preferito morire piuttosto che attaccarlo.
I
rapporti su quanto avvenuto nelle navi che avevano
incrociato la Reina de la Oscuridad
si erano sparsi velocemente: tutti sapevano che i gloriosi marinai di
Britannia
erano stati rinchiusi nei manicomi di massima sicurezza, preda di
incubi
violenti e rabbiosi. Quelli che non si erano uccisi lacerando la
carotide con
le unghie, o fracassando la testa contro le pareti, perlomeno.
Un
marinaio deglutì rumorosamente, il fucile che ballava tra
le mani. Un suo conoscente aveva prestato servizio su una di quelle
navi: si
era cavato gli occhi da solo, gridando che stavano diventando due
tizzoni
ardenti e che presto gli avrebbero incenerito il cervello.
La
ciurma trasalì quando Antonio sollevò le mani.
«Non
sono qui per battermi» annunciò, solenne.
«Voglio solo
parlare con il Mago dell’Ovest. So che si trova
qui.»
Una
lucerna imbullonata all’entrata che dava accesso alle
cabine degli ufficiali si accese improvvisamente, con una fiammata
così potente
che debordò dal vetro. Le lingue di fuoco si ingrossarono
ruggendo e
attorcigliandosi tra di loro come un nido di serpenti. La ciurma si
aprì a quel
fenomeno sovrannaturale, permettendo il passaggio delle fiamme, che si
fermarono esattamente di fronte al capitano. Come per una burla male
architettata, il globo di fuoco prese pian piano forma umanoide
imitando quella
del pirata.
Antonio
batté le palpebre, illuminate dalla luce delle
fiamme e abbrustolite dal loro calore.
«Voi
maghi siete proprio degli esibizionisti» commentò,
asciutto.
«Era
solo un ammonimento. Per ricordarti con chi hai a che
fare, Antonio Fernandez Carriedo» rimbombò la voce
gutturale del fuoco. L’umano
di fiamme fece un passo indietro, mentre la sua figura si spegneva
nella forma
più tranquilla della carne umana.
Le
lingue di fuoco sulla sommità della corporatura si
curvarono in una miriade di ciocche color paglia, e due fiamme
più sottili
delinearono la forma del viso squadrato. Un suono simile allo sfiato
della
legna quando viene spenta con l’acqua accompagnò
la formazione del fisico
robusto dell’uomo, e la sua vestizione con i pantaloni e la
giacca blu, simboli
dei nobili di Britannia. Il fuoco rimase acceso nelle iridi verdi del
Mago
dell’Ovest, e il suo colore restò immutato nel
lungo cappotto scarlatto che
contraddistingueva i capitani di galeone. Altro segno distintivo dei
comandanti
era il cappello tricorno, dalle punte più morbide rispetto a
quello del pirata,
e ornato con un assurdo esubero di piume.
Antonio
abbassò le mani, incrociando le braccia al petto.
Lo
sguardo inflessibile, l’espressione dura, il vestiario
che seguiva impeccabilmente ogni dettame di Britannia, sia nei colori
che nelle
forme: il Mago dell’Ovest era esattamente come lo ricordava.
«So
bene con chi ho a che fare, Arthur Kirkland»
replicò
freddo il pirata.
La
scimitarra che dondolava al fianco del Mago venne
estratta con una rapidità serpentina, e puntata alla gola
del rivale.
«Allora
saprai che su di te gravano accuse abbastanza
pesanti da permettermi di giustiziarti qui, seduta stante»
decretò Arthur,
solleticandogli la giugulare con la punta della spada.
«Tradimento nei
confronti della Confederazione, pirateria, omicidio. Ed è
solo una piccola
parte della tua fedina penale, Carriedo. Perfino il diavolo si
scandalizzerebbe, leggendola.»
La
ciurma quasi svenne al completo quando Antonio impugnò la
sua ascia e vibrò un colpo micidiale in direzione del Mago:
l’arma fendette
l’aria e la carne dell’uomo, dividendolo in due
parti esatte.
«Detesto
avere una lama puntata alla gola» si giustificò,
rimettendo a posto l’ascia.
«Omicidio
del Mago dell’Ovest. Questo ti costerà molto
caro»
le due metà della bocca del corsaro crearono
un’eco bizzarra prima che l’uomo
facesse pressione sui propri fianchi e ricongiungesse il suo corpo come
se
nulla fosse successo; un suono colloso accompagnò il
processo. «O meglio, ti costerebbe
caro. Prima devi riuscire a
uccidermi. Ma penso che un tentato omicidio sia ugualmente
grave.»
«E
il genocidio di un’intera popolazione? Questo quanto
è grave?»
Satana
in persona doveva aver prestato una delle sue
espressioni più spaventose al capitano: il suo viso era
diventato cupo e
spietato come le paludi dell’ultimo girone infernale.
La
voce del Mago dell’Ovest fu affilata come lo stridio della
scimitarra mentre veniva riposta.
«Ritiratevi
sottocoperta» ordinò.
La
ciurma non osò protestare, anzi, eseguì
l’ordine quasi
con gioia: nessuno sapeva quando la Mano Sinistra del Diavolo sarebbe
arrivata
per farli impazzire tutti.
I
due uomini restarono a squadrarsi in silenzio, come due
leoni che cercano il punto debole dell’avversario.
«I
disgraziati che hanno incrociato il tuo cammino si stanno
consumando nelle celle dei manicomi» lo informò
Arthur, voce e sguardo gelidi. «Con
che coraggio ti presenti su questa nave?»
«Con
che coraggio ti presenti al mondo?» lo sferzò
crudelmente Antonio. «Un intero pianeta ha versato il suo
sangue su di te.»
Nessuno
dei due indietreggiò, nonostante le parole
dell’avversario fossero pesanti come macigni. Mossero
entrambi un passo come se
stessero danzando in cerchio, i cappotti vermigli che frusciavano
contro i loro
stivali.
«Erano
ordini superiori. Non potevo ignorarli» si
discolpò
Arthur.
«Riesci
a dormire la notte ripetendoti questo? Che non è
stata colpa tua?» infierì Antonio.
«E
tu come riesci a dormire, mentre le tue vittime strillano
dall’Acheronte?»
«Non
ascolto le loro grida. Come tu non hai ascoltato le
nostre, mentre Hispaňa bruciava.»
Gli
stivali del Mago stridettero sul legno del ponte,
frenando, e lo stesso fecero quelli del pirata.
«Britannia
sarebbe stata distrutta, se non avessi accettato
di portare a termine quel compito. E non provare a dire che avrei
dovuto
sacrificare il mio paese per il tuo: se tu ti fossi trovato nella mia
posizione, avresti fatto lo stesso» lo incenerì
Arthur.
Antonio
batté le palpebre solo una volta, prima di
rincarare:
«Avrei
fatto lo stesso, come chiunque altro. Non ti sto
chiedendo perché non ci hai risparmiati tutti. Ti sto
chiedendo perché non hai
salvato nessuno.»
Arthur
tolse il cappello tricorno, per evitare che una
qualunque ombra potesse allungarsi sul suo viso mentre dichiarava:
«L’ho
fatto per il bene di Britannia e della Confederazione.
Voi Carriedo eravate una minaccia. E tu, Mano Destra del Diavolo, non
smentisci
questa voce.»
Anche
Antonio si tolse il cappello, e sussurrò la seguente
frase fissando il suo interno bombato, come se fosse un interlocutore
più
ragionevole del capitano.
«Lo
sai, Kirkland? Sono proprio questi pregiudizi che mi hanno
reso un criminale. Credi che io sia nato con l’intento di
diventare un pirata?»
Antonio sollevò uno sguardo cremisi come il suo cappotto e
sillabò, la voce
assottigliata dal rancore: «Oh, no! Volevo rendere orgogliosi
i miei genitori
combattendo per il Vaticano, quello stesso Vaticano che ci ha fatti
bruciare
come non si farebbe nemmeno con delle bestie! Il mio sogno altruista
è stato
ridotto in cenere assieme alla mia famiglia» il pirata rimise
il cappello al
suo posto: perfino nell’ombra triangolare del copricapo i
suoi occhi
scintillarono feroci come quelli di un felino: «E anche
dopo… credi che non
abbia cercato un altro mestiere? Ho bussato a tante botteghe quante
sono le
stelle in cielo. Ma ti rivelerò un segreto: la gente crede
sempre di sapere chi
tu sia perfino meglio di te. Ero un Carriedo, quindi ero un criminale:
vedevano
solo il mio cognome, e non la fame che mi aveva reso uno scheletro
vivente. Che
senso aveva continuare a lottare per la compassione, se tutti erano
convinti di
conoscere meglio di me la mia vera natura?» si concesse un
istante di silenzio,
in cui scrollò dell’inesistente polvere dal
cappotto. «Credo di aver superato
le loro aspettative, comunque. Nessuno aveva previsto che sarei
diventato la
Mano Destra del Diavolo, il primo dei Tre Sparvieri.»
«Non
dovresti andare fiero del tuo titolo.»
«Perché
no? È tutto quello che mi è rimasto, oltre al mio
vascello» seguitò imperterrito Antonio, gli occhi
divenuti duri come sassi. «Voglio
farti un altro esempio ancora. Lovino. Un bambino di dieci anni che
chiedeva
solo di poter rimanere con il fratello. Ma il Vaticano, dopo averlo
bollato
come satanico, lo ha abbandonato a morire di stenti su un pianeta
desertico.»
«Ma
la tua ciurma lo ha raccolto.»
Un
sorriso figlio del dolore sorse sul viso di Antonio.
«Credi
che sia sufficiente? Non basta un piatto caldo e
dell’acqua per salvare una vita. Puoi ristorare il suo corpo,
ma per salvarle
l’anima ci vuole molto più tempo. Non hai idea
degli incubi che l’hanno
tormentato per mesi, o degli attacchi di panico improvvisi, o di quanto
piangesse durante la notte, quando pensava che tutti dormissero. E
perfino
adesso, ha uno sguardo che non dovrebbe mai stare negli occhi di un
ragazzo
così giovane: ha lo sguardo di chi ormai non pretende nulla
dal mondo, se non
continue guerriglie con la malvagità della gente. E tutto
quello che chiedeva
era restare con il suo gemello. Era davvero una richiesta
così insensata? E
anche Gilbert ha assaporato la vostra giustizia!» Antonio si
bloccò per un
attimo, ripensando al ghigno irriverente dell’amico.
«Forse lui è l’unico che è
riuscito a resistere alla vostra cupidigia. Anche se gli avete
distrutto la
casa e la famiglia, non ha mai smesso di fare il suo lavoro: ha
ripulito la
Confederazione da tutti i demoni. Non ha mai ferito un essere umano,
nonostante
voi abbiate provato in ogni modo a farlo diventare un assassino. Lui
è davvero…
una persona meravigliosa.»
Arthur
si fermò davanti a lui, alzando il mento.
«Cosa
pretendi da me? Delle scuse? O un duello per staccarmi
la testa dal busto?»
«No.
Voglio che tu mi riveli dove è stato rinchiuso il
Marauder. Una singola informazione per rimediare a tutte le colpe che
ti ho
elencato prima. Mi sembra piuttosto vantaggioso, non trovi?»
L’espressione
di Arthur non concordò.
«Non
posso darti questa informazione. Metterebbe a rischio
tutta la Confederazione» sentenziò.
«Le
voci su Francis sono false, come lo erano quelle su di
me, su Lovino e su Gilbert!» s’infuocò
Antonio. «Ancora non hai capito cosa sta
facendo il Vaticano? Si sta servendo di voi per eliminare le
personalità
scomode!»
«Credi
che non l’abbia capito?» lo freddò il
Mago
dell’Ovest. «Credi di essere l’unico con
un cervello, Antonio? Ho capito da
tempo cosa sta facendo il Vaticano. Ma è vero che la
Confederazione ha bisogno
dell’Asse, ed è vero che il Vaticano è
l’unico in grado di garantire la sua
presenza.»
«Ed
è abbastanza forte da spazzar via Britannia con un solo
ordine» completò Antonio.
«Il
mio compito è difendere Britannia e il suo sovrano.
Anche se questo implica doversi sporcare le mani, non posso tradire il
mio
popolo.»
«E
per la somma Britannia è giusto sacrificare ben tre popoli…»
«Non
puoi capire cosa significhi prendere decisioni per
tutta la Compagnia. Quando milioni di vite sono nelle tue mani,
pochissime
scelte sono semplici» si difese velenoso Arthur.
«Ma
non hai avuto problemi a schiacciarne altrettante con quelle
stesse mani.»
«Come
tu non hai avuto problemi a sacrificare migliaia dei
miei uomini per il bene del tuo pupillo» lo
pugnalò il Britanno.
Antonio
congiunse le mani, apparentemente tranquillo
nonostante la stoccata.
«Aggiungerò
un’ulteriore condizione al nostro patto: Lovino
riporterà alla sanità mentale tutti i tuoi
uomini. Ovviamente non possiamo fare
niente per i morti… ma questo lo sai meglio di me, non
è vero, Arthur?»
«Non
posso comunque rivelarvi dove si trova il Marauder.»
Le
pupille di Antonio si restrinsero per la sorpresa. Non
pensava che il Mago dell’Ovest avrebbe rifiutato perfino
quell’offerta.
«Stai
dicendo che non hai la minima intenzione di fare
ammenda per le tue colpe? Nemmeno se questo dovesse portare un
beneficio per la
stessa Britannia?»
«Tu
non sai cosa stai chiedendo, Antonio» lo redarguì
freddamente Arthur.
Il
pirata calcò di nuovo il tricorno sul viso. Aveva
un’ultima carta da giocare, dopodiché la partita
sarebbe stata conclusa con un
insuccesso.
«Tu
sei uno dei discendenti di Avalon, e per questo tutti ti
rispettano. Ma non puoi mai pensare ai tuoi reali affetti, e per questo
tutti
ti abbandonano» Antonio non distolse lo sguardo dalle iridi
di pietra del
capitano mentre elencava: «Quante persone hai perso, sotto la
tirannia del
Vaticano?»
Arthur
rimase in silenzio, e in quel silenzio Antonio lesse
la propria sconfitta.
Risistemò
il tricorno e il cappotto con un sospiro, e si
preparò ad abbandonare la nave.
«Prima
riporta i miei uomini alla normalità. Solo dopo
parleremo ancora» concesse in un sibilo irato Arthur.
Il
pirata accettò quella decisione con un cenno del capo:
non avevano ancora la collaborazione del Mago dell’Ovest, ma
era un inizio.
Stava per lasciare il vascello, ma fu di nuovo interrotto dal Britanno.
«Carriedo…
non è stato facile accettare la morte del tuo
popolo.»
«Lo
so» recise il pirata. «Non lo è stato
per nessuno.»
E
abbandonò anche lui il Mago dell’Ovest, risalendo
sulla
scialuppa che lo aveva portato fin lì.
Antonio
batté le palpebre, combattendo l’imbarazzante
urgenza di piangere.
Credeva
di aver versato tutte le sue lacrime quel giorno,
tanti anni prima.
Lui,
Gilbert e Francis erano ancora dei bambini a quel
tempo.
***
I
Carriedo, gli Hellsing e i Marauder ritennero opportuno
che i tre bambini destinati a divenire le successive guide dei
rispettivi
popoli stringessero amicizia fin dalla più tenera
età. Nessuno aveva però
previsto una simile sintonia tra i tre, specie dopo il loro disastroso
incontro
iniziale.
Avevano
dei poteri enormi, ma, essendo ancora infanti, non
erano per nulla in grado di controllarli; quella fu la causa principale
dei
disordini di quel giorno.
Antonio
si stupì enormemente degli occhi rossi e dei capelli
d’argento di Gilbert, e gli chiese se fossero diventati
così per il sortilegio
di un demone. Al solo udire la parola “demone”, il
piccolo Hellsing richiamò
istintivamente Gilbird; un enorme pennuto cominciò
così a scorrazzare per il
giardino dei Carriedo, con un bambino attaccato alle piume che gli
intimava di
fermarsi e tornare nella spilla. In risposta, Francis evocò
Jeanne, il suo
spirito guida che, vedendolo così atterrito,
richiamò a sua volta un nugolo di
spettri protettori, e al volatile mastodontico si aggiunse uno sciame
di
spiriti che saettarono da una parte all’altra alla ricerca
del nemico. Aizzato
da quella confusione, Antonio usò i suoi poteri;
sfortunatamente, focalizzò
l’albero di mele come sua arma e non il bastone di legno ai
suoi piedi:
l’albero si ingigantì improvvisamente, tramortendo
Gilbird, che stava
trotterellando in quella direzione. Privo di sensi, il famiglio
dell’Hellsing
diventò nuovamente una spilla, facendo precipitare il
bambino al suolo. Mentre
Gilbert si massaggiava il coccige dolente, Francis riuscì a
imporre la calma
sul gregge di spiriti, dissolvendoli. Ad Antonio occorse qualche
secondo ancora
per far tornare l’albero di mele a dimensioni normali.
Gli
adulti presenti temettero che quell’incidente potesse
compromettere per sempre i buoni rapporti tra i tre popoli, ma tutto si
risolse
con la semplicità innocente dell’infanzia: Antonio
recuperò le mele cadute per
l’impatto con Gilbird, e le offrì ai due bambini
che lo osservavano.
«Sono
Antonio Fernandez Carriedo» si presentò il
piccolo. «E
voi?»
«Francis
Bonnefoy» il Fiammingo si rialzò, prima di
afferrare la mela che gli veniva tesa.
«Gilbert
Beilschmidt»
contraccambiò
l’Hellsing, senza alzarsi per ricevere il frutto: il
fondoschiena gli faceva
ancora un male tremendo.
«Beescmit?»
storpiò Francis; la sua dizione fu compromessa
ulteriormente dal boccone di mela che stava masticando.
«Beilschmidt»
sillabò Gilbert.
«Che
cognome strano» commentò il Fiammingo.
«Ma
se tu ti chiami Bunefà!» protestò
l’Hellsing.
«Bonnefoy»
lo riprese con eleganza Francis.
«Il
mio cognome riuscite a pronunciarlo?»
si intromise Antonio.
Entrambi
si sforzarono di scandirlo
correttamente; in bocca all’Hellsing la
“c” assumeva un suono assai più duro, e
la “d” veniva inquinata da una punta di
“t”. Il Fiammingo, invece, lo
pronunciava come se il suo cognome fosse una grossa caramella rotonda,
ammorbidendo tutte le lettere. Antonio non speculò su quelle
differenze.
«Come
hai fatto?» chiese Francis, additando
con la mela l’albero.
Antonio
si strinse nelle spalle.
«Tutti
ci riescono, nella mia famiglia.
Anche se di solito lo facciamo con le armi.»
Francis
era ancora troppo piccolo per
insinuare quale particolare spada
avrebbe potuto ingrandire – cosa che fece profusamente negli
anni a venire,
quando la malizia divenne la sua caratteristica distintiva. Si
limitò ad
accogliere con sincera ammirazione quella verità.
«A
cosa vi serve?» insistette Francis,
curioso.
«In
battaglia è piuttosto utile» spiegò
Antonio.
Il
Fiammingo annuì, accondiscendente.
«La
mia famiglia scende in campo in modo
diverso» considerò, pulendosi con la mano un
rivolo di succo di mela sul mento
paffuto. «Noi siamo medium. Le lotte con gli spiriti sono un
po’ diverse da
quelle con gli umani» si voltò verso Gilbert, lo
sguardo scintillante: «E tu?»
«Ammazzo
demoni» telegrafò lui.
«Sembra
interessante» gorgheggiò Francis.
«Non
lo è. Fa una paura del diavolo.»
«Quindi
hai paura quando combatti?»
«Non
ho detto che ho paura. Ho detto che fa
paura.»
«Quanti
demoni hai ammazzato, finora?»
«Che
t’importa?» si ribellò Gilbert, che
non era bravo a sostenere interrogatori serrati.
Antonio
ricordava gli anni a seguire come
tra i più divertenti della sua vita: imparava a diventare un
combattente capace
sotto la guida dei genitori, e giocava spesso con Gilbert e Francis.
I
tre ragazzi si raccontavano i loro
progressi e si mostravano le nuove magie apprese. Era una
rivalità scherzosa a
chi riusciva a stupire di più gli altri. Ma, per la sua
indole teatrale, era
sempre Francis a emozionarli più di tutti, con i suoi numeri
sui fantasmi e
sugli spiriti.
Un
giorno, suo padre lo prese sulle
ginocchia e commentò:
«Voi
tre sembrate proprio tre sparvieri.»
«Perché?»
domandò Antonio, senza capire.
«Perché
gli sparvieri, anche se sono più
piccoli degli altri rapaci, non sono secondi a nessuno per le
abilità di
caccia. Inoltre, sono in grado di cambiare direzione di volo in maniera
imprevedibile e repentina. Voi siete proprio così: anche se
siete dei bambini,
siete potenti quasi quanto i vostri vecchi genitori» Antonio
aveva brontolato
che il padre non era affatto vecchio, e il genitore
proseguì, compiaciuto
dell’affetto del figlio: «E riuscite a cambiare
direzione in maniera
inaspettata. Come al vostro primo incontro: tutti credevano che vi
sareste
odiati, invece siete diventati amici come poche persone che
conosco.»
Antonio
aveva riferito quel pensiero
paterno ai suoi compari e, da quel momento, avevano adottato
quell’epiteto: i
Tre Sparvieri. O il Trio Malefico, come correggeva ogni tanto Francis,
con una
vena canzonatoria.
Era
stato proprio un bel periodo: il
giardino della sua casa era animato continuamente dai suoi allenamenti
o dai
giochi con i suoi amici.
Anche
l’inferno era partito dal giardino.
Stava
aiutando sua madre ad apparecchiare
la tavola, mentre il padre controllava che il pranzo non bruciasse. Non
si
resero subito conto di cosa stava accadendo: all’inizio, fu
solo una piccola
scossa del terreno, e tutti pensarono che fosse un lieve terremoto di
assestamento. Ma al primo tremito se ne succedette un secondo: tutte le
ceramiche della casa vibrarono, e tutti e tre alzarono il volto come i
segugi
che fiutano un pericolo.
Per
qualche secondo, nulla si mosse. Erano
quasi tornati alle loro mansioni – mancavano ancora le
forchette e un pizzico
di sale nella zuppa – quando tutto il mondo ballò.
Antonio
ricordava solo un vorticare
frenetico in cui pavimento e soffitto continuavano a susseguirsi, la
danza
selvaggia dei mobili e la nevicata di piatti e bicchieri, che sparsero
un delirio
di schegge appuntite tutto intorno. Strisciò a quattro zampe
fino ad
aggrapparsi allo stipite della porta, e, così arpionato,
portò uno sguardo
febbricitante sul mondo impazzito.
I
mobili della cucina erano completamente
stravolti: il tavolo si era rovesciato, le sedie assomigliavano a dei
reduci di
guerra con le gambe spezzate e la pesante credenza era franata a terra.
Ad
Antonio occorse qualche istante per identificare la ciocca di capelli
scuri che
spuntava sotto l’angolo del mobile di faggio. Suo padre lo
raggiunse e gli
coprì gli occhi prima che il piccolo potesse vedere la pozza
di sangue e
liquido cerebrale che si allargava sul pavimento.
«Dobbiamo
uscire» gridò, sentendo il figlio
tremare tra le sue braccia come se tutte le sue ossa avessero deciso di
uscire
dal corpo. Non era stato abbastanza veloce: aveva riconosciuto quella
chioma.
Era il castano fondente che aveva ereditato da sua madre. Erano i
capelli di sua madre quelli che si
stavano
raggrumando in un miscuglio di sangue e cervella.
In
seguito, le sue memorie si limitavano al
buio del palmo di suo padre e agli scossoni dovuti alla frenetica
conquista del
tetto. E il caldo, quel caldo infernale.
Quando
suo padre gli tolse la mano dagli
occhi, Antonio si rifugiò con la testa sul suo petto: era
troppo piccolo per
sopportare quello spettacolo. Il suo mondo non esisteva più:
le strade erano
diventate lunghissimi serpenti di lava ruggente, le case delle pire di
fuoco e
le persone delle lingue di fiamma che guizzavano per un attimo, con un
urlo
tremendo, prima di sprofondare in quell’abisso di calore
letale.
Antonio
si rintanò contro il padre,
terrorizzato. Sentiva i mattoni della loro casa cedere sotto la presa
della
lava, e il caldo micidiale avvicinarsi sempre di più. Ben
presto la morte
avrebbe toccato anche loro con la sua falce ardente.
«Una
cosa del genere non è normale…»
balbettò suo padre. Lo strinse a sé, pur sapendo
di non essere una protezione
efficace contro quel marasma. «Questo è un
incantesimo che solo un mago esperto
potrebbe fare… solo il Mago dell’Ovest…
ma perché… siamo alleati…»
«Stiamo
per morire qui?»
Il
miagolio del bambino risalì il collo e
bussò spaventato all’orecchio del genitore.
Sentì
quelle braccia tanto più grandi delle
sue stringersi sulla sua schiena.
«Non
so come salvarti, piccolo mio. Le
Aeronavi sono andate distrutte. E, anche se non lo fossero, non
c’è modo di
raggiungerle da qui. Mi dispiace.»
Antonio
protese le sue braccia minute verso
l’alto, cingendo il collo del papà. Non avendo il
coraggio di alzare gli occhi
sull’inferno intorno a loro, mormorò la sua
preghiera contro la clavicola del
genitore:
«Andiamo
dalla mamma, papà.»
Fu
in quel momento che lo udirono: un
frullio d’ali gigantesco, e delle urla accorate.
«Antonio!
Cos’è successo?»
La
voce di Gilbert superò il ruggito delle
fiamme, e il piccolo Carriedo sollevò il viso annerito dal
fumo sui suoi amici.
Erano venuti per giocare con lui, come sempre; non si aspettavano di
trovare un
tale rogo di distruzione, al loro arrivo.
Gilbird
compì svariati giri su di loro,
cercando il modo per avvicinarsi senza essere trascinato in quello che
sembrava
il ventre squarciato di un vulcano.
I
polsi del padre fremettero su di lui.
Antonio pensò che fosse per disperazione, perché
avevano la salvezza a un passo
e non potevano aggrapparvisi: Gilbird non riusciva a trovare modo di
avvicinarsi senza compromettere l’incolumità di
Gilbert e Francis. Non fu
disperazione. O meglio, non era la disperazione di un padre che sta per
morire
con il figlio.
«Antonio»
annaspò sui suoi capelli,
accarezzandoli con un bacio ruvido. «Tu sei forte,
più forte di tutti noi. Ce
la farai. So che ce la farai.»
«Papà?»
lo aveva chiamato, senza capire.
Le
lacrime del padre caddero sul suo viso
sollevato, più bollenti della lava che rombava intorno a
loro. Non lo aveva mai
visto piangere, prima di allora.
«Non
sarò con te quando diventerai grande,
non potrò essere con te
se avrai
bisogno di me. Ma posso fare
qualcosa
per te.»
Prima
ancora di poter capire il significato
delle parole del padre, il mondo di Antonio venne sconvolto di nuovo:
d’improvviso non ci furono più le braccia del
genitore a stringerlo, ma solo
mille dita di vento che lo spingevano verso l’alto. Il
genitore lo aveva
lanciato in aria, in modo che fosse finalmente alla portata di Gilbird.
Il
volatile lo afferrò con le possenti
zampe, e batté veloce le ali per allontanarsi da quella lava
ribollente.
Antonio
si protese in direzione del padre
con tutte le sue forze, sfuggendo quasi alla presa del famiglio
dell’Hellsing.
Urlò così tanto che avvertì quel fuoco
assassino carbonizzargli la gola, e non
si fermò nemmeno quando alle sua grida si mescolò
il sale delle lacrime.
Era
la disperazione di un padre che sa di
morire lasciando solo il proprio figlio, quella che aleggiò
sul volto del genitore
per un secondo. Sostituita prontamente con un sorriso e un cenno della
mano,
come faceva quando tornava a casa la sera. Ma la farsa non gli
riuscì
completamente: le lacrime che bagnarono copiose quel sorriso finto e
che gli
contrassero le labbra in spasmi contriti rovinarono la sua messinscena.
Gilbird
non volò abbastanza veloce da
impedirgli di sentire l’urlo del padre, quando la lava lo
trascinò a fondo. E
Antonio svuotò i polmoni, come se potesse alleviare il
patimento del genitore
gridando forte quanto lui.
In
seguito, gli avevano detto di essere
volati nel pianeta Fiammingo, a casa di Francis. Non aveva memorie
precise di
quel periodo, solo alcune immagini sconnesse a cui non avrebbe saputo
dare un
ordine temporale.
Francis
lo aveva ospitato per qualche tempo.
Ricordava una successione di giorni tutti uguali per colori, sapori,
emozioni.
Era sprofondato nella più totale apatia, senza parlare e
senza mangiare.
Si
rendeva conto di far preoccupare
enormemente i suoi amici con il suo comportamento – Gilbert
passava ogni
singolo giorno per sincerarsi che il piccolo Carriedo stesse bene
– ma non
riusciva a uscire da quel circolo: bastava un granello di cibo, e
sentiva
l’impulso di vomitare; perfino bere un bicchiere
d’acqua era un’agonia. Aveva
cercato di aprire le labbra per parlare con i suoi amici, ma ne aveva
ricavato
solo un singulto secco e l’orrenda sensazione che i suoi
polmoni stessero
cercando di uscire tramite l’esofago. E non riusciva a
liberarsi dall’eco del
grido del padre che risuonava macabro nelle sue orecchie.
Non
ricordava il giorno, ma ricordava
l’attimo: Francis gli aveva appoggiato una mano sulla spalla
e aveva detto,
fissandolo con il cuore negli occhi blu:
«Le
lacrime non sono un disonore, Antonio.
Sono il simbolo di un’anima che soffre. E se
un’anima soffre, ha dei
sentimenti. E avere dei sentimenti è la cosa più
nobile che esista.»
Fu
come se l’amico avesse girato la chiave
della serratura che tratteneva le sue emozioni:
all’improvviso, sentì il dolore
agguantarlo per la gola, e sgorgare in un torrente di lacrime, che
sfogò sulla
spalla dell’amico. Avrebbe voluto dire tantissime cose, ma la
sua gola espulse
solo singhiozzi inarticolati e suoni strozzati. Francis lo trattenne
gentilmente contro di sé, mentre Gilbert gli appoggiava una
mano in mezzo alle
scapole.
Nei
primi giorni, il ricordo della morte
dei genitori era stato costante: qualunque cosa facesse, o non facesse,
sentiva
una vocina maligna bisbigliare nella sua testa che lui non meritava
nulla; era
un figlio deprecabile che sopravviveva nonostante sua madre e suo padre
fossero
morti. Poi, era subentrata una seconda fase di elaborazione del lutto,
assai
più spaventosa: il distacco. Si era accorto di non ricordare
più con chiarezza
il volto della madre o del padre, o il suono esatto della loro voce; si
era
reso conto di non sapere più cosa si provava ad avere una
famiglia, ad avere
una casa con dei genitori in attesa. Aveva ancora una vaga memoria di
quelle
cose, ma non riusciva a viverle sulla sua pelle, come se qualcuno gli
avesse
raccontato una favola: ne era stato deliziato, ma non riusciva a
immergersi
fino in fondo in quel mondo fantastico. La sua famiglia era diventata
lo
spettro di un ricordo che non riusciva più a comprendere; e
soffriva ogni volta
che le sue dita cercavano di afferrare quel vuoto incolmabile. In quel
momento
aveva davvero capito di essere rimasto orfano: avere una famiglia gli
sembrava
qualcosa di alieno come un’utopia irrealizzabile.
Non
era riuscito ad articolare nemmeno uno
di quei pensieri; aveva atteso che le lacrime trovassero un
po’ di quiete, e si
era staccato piano dai suoi amici.
«Scusa
per la camicia» aveva bofonchiato.
Francis gli aveva dato uno scappellotto.
«Bentornato»
lo avevano accolto gli
Sparvieri.
***
Antonio
sorrise di un ghigno amato.
Il
suo mondo puzzava di polvere da sparo,
ed era pregno di sangue. Chissà se era quello che suo padre
aveva immaginato
per lui, nel suo ultimo istante di vita.
Avrebbe
voluto chiederglielo. Tuttavia, non
aveva mai domandato a Francis di usare i suoi poteri da medium per
parlare con
i defunti. Aveva vissuto il lutto in maniera così atroce, da
piccolo, che non
desiderava passarvi attraverso un’altra volta: temeva che,
rivedendo il padre e
la madre, si sarebbe legato nuovamente a loro, e non sarebbe
più riuscito a
lasciarli andare.
Non
ricordava più con precisione le loro
facce, o i loro modi di dire, ma non aveva importanza. Loro erano
comunque con
lui. Sua madre gli aveva insegnato a camminare, a mangiare, a vestirsi:
era con
lui in ogni passo, ogni cucchiaiata, ogni bottone allacciato. E il
padre, che
gli aveva insegnato a combattere, guerreggiava insieme a lui sul ponte
della Reina de la Oscuridad; e gli
aveva
donato due volte la vita, la prima volta facendolo nascere e la seconda
lanciandolo verso la salvezza. Era con lui a ogni respiro e battito di
cuore.
Quella
conclusione non era sorta spontanea:
erano occorsi anni di lotte con se stesso e di sofferenze indicibili
per
accettare fino in fondo la morte dei genitori ed elaborare un nuovo
stile di
vita.
E
poi, qualche anno dopo, aveva incontrato
Lovino: un bambino indesiderato che era stato rifiutato dal suo stesso
padre.
In quel momento, si era sentito estremamente fortunato: li aveva persi
entrambi, ma i suoi erano stati genitori degni della loro carica.
All’inizio,
aveva solo intenzione di
raccogliere quel mucchio d’ossa per indispettire il Vaticano,
l’orco che aveva
trangugiato il suo pianeta. Il ghigno si addolcì in un
sorriso. Ora non lo
avrebbe lasciato andare nemmeno se si fosse scatenata
l’Apocalisse.
Accelerò
il ritmo della scialuppa,
desideroso di tornare sulla sua nave al più presto.
Voleva
abbracciare il suo Lovino. Sperava
che l’attesa non lo avesse fatto imbestialire troppo.
Scusate
per il ritardo .-.
Ieri
ho avuto alcuni problemi, e non sono riuscita ad aggiornare .-.
Anyway,
Arthur fece infine la sua comparsa<3 Assieme al sanguinoso
passato di
Antonio u.u
Nel
prossimo capitolo… si parlerà
dell’Accordatore. E del Marauder 8D
A
lunedì<3
Red
|
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Capitolo 11 *** L'Accordatore ***
Capitolo
Undici: l’Accordatore
Feliciano
sapeva di trovarsi in un sogno.
L’atmosfera
quasi nebulosa e lo scorrere irregolare del
tempo erano inconfondibili: era entrato nel reame onirico. Ed era
altrettanto
sicuro che quel sogno non fosse suo: non riconosceva il posto in cui si
trovava, e non gli erano familiari nemmeno i vestiti che indossava.
Osservò
con più calma l’ambiente caldo della taverna
intorno
a lui: era un locale di classe medio-alta, abbastanza elegante da
scoraggiare
gli accattoni ma non sufficientemente altolocato da evitare gli
ubriachi, che
cantavano a squarciagola in un angolo. I tavoli, circondati da gente
abbigliata
con strane divise scure, erano affollati da grossi boccali pieni di
liquido
giallo paglierino.
«Non
hai mai assaggiato la birra?»
La
proposta venne dalla sua sinistra, dove una giovane donna
si era appena materializzata. Feliciano inclinò la testa,
valutando la sua età:
l’adolescenza era fiorita pienamente sul corpo, nascosto
dalla divisa maschile,
e sul viso svezzato dalle battaglie. Doveva essere un po’
più grande di lui.
«No.
E temo che dovrò aspettare ancora. Non posso assaggiare
la vera… birra» tentennò appena su
quella nuova parola. «… in un sogno,
giusto?»
La
ragazza sfoggiò un gran sorriso, e fece la cosa meno
femminile che Feliciano avesse mai visto fare da una donna:
reclinò la sedia
all’indietro e piazzò gli stivali sul tavolo.
«L’hai
capito subito. Sei sveglio. Come un bravo Asse
dovrebbe essere» lo lusingò.
«Sai
chi sono, ma io non so nulla di te» contraccambiò
gentile il ragazzo.
La
giovane raddrizzò di colpo la sua posa, fissandolo
sconcertata.
«Ma
come?» si stupì. «La birra, le
divise… non ti ricordano
nulla?»
I
lunghi capelli nocciola della ragazza presentavano una
specie di solco appena sotto la nuca, segno che erano stati legati
strettamente
fino a poco prima; i grandi occhi verdi erano appena adombrati da un
alone di
occhiaie, e le mani non erano morbide e perfette come quelle di una
nobile: le
unghie erano scheggiate, e la porzione di pelle tra le nocche era
arrossata e
screpolata. Era una donna d’azione e non di moine, come
testimoniava la divisa
guerresca che indossava. Su quel dettaglio si focalizzò
Feliciano: era sicuro
di aver già visto quell’uniforme. La spilla a
forma di falco, con due smeraldi
al posto degli occhi, la spada dall’elsa rifinita a guisa di
drago e la divisa
nera con i bottoni d’argento. Su di essi si
focalizzò Feliciano, finché non
riuscì a distinguere il fine intarsio che li decorava: un
corvo, simbolo della
casata più potente di quel pianeta.
«Sei
un’Hellsing» concluse l’Asse.
Aveva
trovato molte immagini sui libri di storia, e
ricordava che la caratteristica distintiva del vestiario di quel popolo
erano
la spilla a forma di volatile, che variava in base al gregario del
guerriero, e
i bottoni su cui era inciso il corvo della famiglia Belschmidt. Avevano
libertà
di scegliere la pietra da incastonare negli occhi della spilla e di
decidere il
colore della propria uniforme. Quella della giovane donna era di un
verde
opacizzato dal campo di battaglia, quasi sporco in confronto allo
smeraldo degli
occhi.
«Esatto.
O meglio, lo ero» la ragazza stese la spina dorsale
contro lo schienale, sospirando a labbra chiuse. «Questo
è il pianeta degli
Hellsing come era ventisei anni fa. Prima che il nostro mondo fosse
mangiato
dai demoni» la giovane girò la sedia verso di lui
e gli tese la mano: «Non mi
sono ancora presentata. Elizabeta
Hédervàry.»
Feliciano
strinse quella mano, e quasi si vergognò di quanto
i suoi palmi fossero teneri in confronto a quelli duri e callosi della
giovane:
era una creatura assuefatta alla battaglia e al duro lavoro, al
contrario di
lui.
«Perché
mi hai portato qui, Elizabeta?» domandò Feliciano.
«Volevo
a raccontare al futuro Asse una favola della
buonanotte» il suo sguardo si illanguidì
nell’affetto, e il ragazzo si permise
di farle un appunto gentile:
«Non
è una favola. È un ricordo, vero?»
L’indice
della donna lo picchiettò in mezzo agli occhi,
spostandogli la testa all’indietro.
«Sei
un po’ troppo furbo, Asse.»
«Mi
chiamo Feliciano» la corresse con un sorriso stanco:
preferiva il suo nome alla sua carica. Lo faceva sentire umano, e non
un pezzo
innominato di un’enorme scacchiera.
«D’accordo,
Feliciano» concesse la giovane, e bevve un
generoso sorso di birra prima di continuare: «Ti ho chiamato
qui per
raccontarti la storia del più strano degli Hellsing che sia
mai nato. Si pensò
addirittura che fosse un bambino proveniente da un altro pianeta: non
dimostrava la minima propensione al combattimento, ed era del tutto
inetto
nella lotta contro i demoni» le onde dei capelli saltellarono
quando Elizabeta
scosse la testa: «Poverino, lo hanno bulleggiato in tutti i
modi… finché non ha
preso in mano un violino. Oh, allora le cose sono cambiate.»
«Un
violino?» ripeté Feliciano, senza capire.
«Strano,
vero?» una risata zampillò sulle labbra della
giovane, rischiarandole tutto il volto. «Non doveva
combattere con le armi, ma
con la musica: le sue note non erano in grado di uccidere i demoni, ma
potevano
bloccarli, potevano stordirli. E dare così modo a noi
sterminatori di
eliminarli. Ma non era quella la cosa più straordinaria che
sapeva fare con il
violino» Elizabeta annuì alle sue stesse parole, e
accarezzò con gli occhi
l’aria davanti a sé. «Era un ragazzo
molto schivo. Probabilmente, è diventato
così per via degli anni in cui è stato preso in
giro da tutti quanti. Non l’ho
mai visto sprecare una parola o un sorriso più del dovuto;
li centellinava come
un avaro farebbe con le sue monete. Ma quando sfiorava le corde del
violino…»
Elizabeta chiuse gli occhi e un’espressione deliziata si
dipinse sul suo volto.
«Il mondo assumeva i suoi colori: ed erano colori
così brillanti, così intensi
che ti lasciavano senza fiato. Era la musica il canale della sua anima,
non le
parole.»
«Era
così bravo?» in risposta alla sua domanda, la
giovane
gli indicò il palco improvvisato.
«Lo
sentirai tu stesso. Sta per suonare.»
Feliciano
quasi si rovesciò dalla sedia quando il misterioso
Hellsing poggiò i suoi stivali sul legno del proscenio.
«L’Accordatore!»
sibilò.
«Già,
quello è il titolo con cui è famoso
adesso» ruminò
amara Elizabeta.
Feliciano
si domandava quale musica potesse mai produrre
quell’uomo senza pietà, quando
l’archetto strofinò le corde. Fu come se il suo
potere di creare visioni mediante la musica non fosse cambiato, ma la
metamorfosi fu molto più dolce: la melodia era udibile a
tutti gli ascoltatori,
non solo all’esecutore, e le note sembravano trascendere la
dimensione del
pentagramma per dipingere pennellate di nuove emozioni. Il mondo stesso
sembrava acquistare una luce nuova e più vivida, come aveva
detto Elizabeta.
Feliciano
sentì il lamento del violino usare non l’aria, ma
il suo sterno come conduttore: le note gli punsero il cuore, una dopo
l’altra,
con una trafittura che non portava dolore. La melodia
risvegliò una miriade di
ricordi sopiti in lui, come se l’archetto stesse sfiorando le
corde della sua
anima e non quelle dello strumento: rivide il volto del fratello,
quello del
suo Guardiano, il cuore pompò l’affetto per il suo
custode dagli occhi di
ghiaccio, e le narici respirarono la nostalgia del tempo trascorso con
Lovino.
La
musica gli invase tutto il corpo: gli riempì i polmoni,
diventando la sua aria, risalì sugli occhi, velandoli di
lacrime, e scese ad
occupare ogni centimetro di lui, dalla punta delle dita a quelle dei
piedi,
rendendolo parte di quella sinfonia evocativa.
Si
riscosse lentamente da quella catarsi quando il violino
ammutolì: all’improvviso, il mondo
tornò scialbo e arido come sempre.
«È
quasi magico, non trovi?» lo punzecchiò Elizabeta,
riconoscendo nello stupore del giovane la sua stessa sorpresa, quando
aveva
udito il violinista suonare per la prima volta.
Feliciano
annuì, incapace di articolare verbo nel fragore
degli applausi che scrosciavano da ogni parte. Non era possibile che la
persona
che stava scendendo dal palco con l’aria soddisfatta di chi
vive per suonare
fosse lo stesso uomo che lo aveva trascinato ai Confini del Mondo
qualche ora
prima. Ma non aveva ancora visto la cosa più sconvolgente:
un piccoletto con i
capelli argentati e gli occhi rossi si schiantò contro la
tibia del musico,
reclamando attenzione. E l’uomo lo sollevò con un
sorriso che non avrebbe mai
immaginato possibile per quelle labbra tetre.
«Chi
è quel bambino?» immaginava già la
risposta, per cui
l’affermazione della donna non lo sorprese:
«Gilbert
Belschmidt. Attualmente, l’ultimo Hellsing rimasto
in vita.»
«Sembra
molto amico dell’Accordatore» notò,
neutro.
Elizabeta
sbuffò un sorriso amaro e mormorò:
«Gilbert
ha perso i genitori poco dopo la nascita. Essere i
più potenti tra gli Hellsing significa essere sempre in
prima linea. Quel
giorno… ci fu un terribile incidente» la ragazza
strinse le mani come per un
improvviso brivido di freddo. «Gilbert aveva forse un anno o
due. Non ha nessun
ricordo dei suoi genitori» tamburellò il tavolo
con le dita, cercando di
afferrare di nuovo le redini della conversazione: «Fu deciso
che sarebbe stato
affidato a qualcuno che potesse prendersi cura di lui per tutta la
vita. E chi,
meglio del più incapace tra tutti gli Hellsing, avrebbe
potuto rivestire quel
ruolo?»
«È
stato il suo padre adottivo?»
Elizabeta
annuì con la testa alla sua domanda.
«Guardali»
la voce le si incrinò, e la giovane la affogò con
un sorso di birra. «Guardali» ripeté,
con tono più fermo.
Feliciano
li osservò, e vide esattamente ciò che un padre e
un figlio avrebbero dovuto essere, anche se il genitore era un
po’ troppo
giovane per risultare credibile: l’Accordatore che ascoltava
con espressione
seria i discorsi megalomani del piccoletto, e gli occhi di Gilbert che
scintillavano come se stessero osservando una stella. L’Asse
spostò lo sguardo
sul tavolo di legno grezzo: lui e suo padre non avevano mai avuto
quella
complicità.
«Non
aveva anche una madre adottiva?» cambiò discorso
Felciano.
«Ce
l’hai davanti agli occhi» mitragliò
Elizabeta.
L’Asse
preferì serbare per sé le perplessità
che avrebbero
potuto risultare scortesi, e ascoltò il seguito.
«Eravamo
una famiglia piuttosto scalcinata, non lo nego. Ma
stavamo bene insieme, eravamo felici. Poi sono arrivati i messi del
Vaticano.»
I
sensi di Feliciano scattarono a quel nome, come quelli di
una preda che riconosce i passi del cacciatore.
«Non
avevano mai visto prima un potere come quello di
Roderich. E hanno pensato di usarlo per loro. Hanno sradicato
e deviato la
sua anima» quasi sputò, nel pronunciare
l’ultima frase.
«Cosa
è successo?» domandò Feliciano.
Elizabeta
lo guardò con gli occhi sanguinanti dolore:
«Tu
hai un potere enorme, Feliciano. Ma per te è
relativamente facile controllarlo: sei nato con quel potere, fa parte
di te. È
come muovere una gamba o una mano. Ma Roderich… lui era nato
con un potenziale
modesto, per quanto particolare. E la sua portata non era sufficiente
per
quegli avvoltoi: gli hanno impiantato a forza altro potere, in quelle
maledette
stigmate che gli hanno scavato sulle mani. E quando una forza
così grande non
nasce con te ma ti viene imposta, ti consuma come un parassita. Anche
per il
Custode dei Cancelli è così: in cambio del
potere, deve cedere la sua memoria,
ogni singola goccia. Roderich ha dovuto cedere i suoi ricordi e le sue
emozioni. Non ricorda più nulla, a parte un tedio infinito e
un’apatia totale»
le palpebre scacciarono le lacrime con un battito, ed Elizabeta
concluse: «Non
è triste che il suo violino non possa più
cantare?»
Feliciano
deglutì, cercando di far combaciare l’immagine
inflessibile dell’Accordatore con quella dell’uomo
di fronte a lui: per quanto
serio, era palese l’affetto che provava per quel fagotto che
si arpionava
costantemente alle sue caviglie per farlo cadere.
«È
identico a come l’ho visto io. Per lui, non è
passato un
giorno…» notò.
«Perché
non è più un essere umano. È preda del
potere. E il
potere ha bisogno che lui sia in perfetta forma fisica, quindi lo
conserva al
pieno delle sue forze. Quando avrà finito di sfruttarlo, lo
abbandonerà, e lui
diventerà un mucchio di cenere in pochi secondi.
Recupererà i ricordi solo
all’ultimo istante… non avrà nemmeno
tempo per chiedere perdono per tutti i
suoi peccati.»
«A
quali peccati ti riferisci?»
Un’ombra
scura calò sul volto della giovane donna.
«Volevano
essere sicuri che eseguisse i loro ordini alla
lettera. Volevano essere sicuri che fosse diventato davvero una
macchina. Ero
con lui, il giorno in cui l’hanno trasformato» i
denti di Elizabeta affondarono
nelle labbra. «Un Hellsing non attacca mai un altro essere
umano: le nostre
armi devono essere rivolte solo ai demoni. Quindi non ci ha neppure
sfiorato
l’idea di difenderci, quando abbiamo visto quegli
sconosciuti: erano uomini
come noi, e, per di più, messaggeri del Vaticano.
Chissà quanto hanno sbeffeggiato
la potenza degli Hellsing, mentre ci rendevano inoffensivi»
le mani sciupate
della donna corsero alle orecchie, tappandole.
«L’ho sentito mentre gli
perforavano la carne e gli colavano l’argento bollente nelle
mani. Ha urlato,
Feliciano, ha urlato così tanto che credevo che
l’anima stessa gli sarebbe
uscita dai polmoni. Poi le grida si sono spente. Tutto si è
spento: ho fissato
una marionetta, quando lui ha voltato lo sguardo verso di me. Quando
gli hanno
ordinato di ammazzarmi, l’ha fatto senza battere
ciglio.»
Feliciano
trasalì a quella confessione, e non riuscì a
proferire verbo mentre la giovane continuava:
«E
poi gli hanno ordinato di sterminare tutto il suo popolo.
Con la musica senza strumento che hai visto anche tu, ha aperto il
portale per
i demoni. Solo Gilbert è sopravvissuto.»
«Perché
mi hai raccontato questa storia?» annaspò
Feliciano.
Più la donna parlava, più le sue parole
stillavano sangue, più lui si sentiva
soffocare, come se la sofferenza degli Hellsing lo stesse affogando.
I
calli della giovane sfregarono il dorso delicato delle sue
mani: Elizabeta lo trattenne così, mentre lo pregava:
«Tu
sei il futuro Asse, sei stato eletto per salvare le
persone. E ti chiedo di salvare lui.»
«Perché?
Ti ha uccisa, e ha ucciso il suo popolo.»
«Perché
è troppo crudele che i suoi occhi restino freddi e
il suo violino muto. E poi… sono convinta che
l’Accordatore non abbia ancora
sopraffatto Roderich. Non del tutto» la donna prese fiato e
buttò fuori un
fiume di parole assieme al respiro: «Quando ha suonato per
uccidermi… non stava
suonando il violino, ma io l’ho sentita comunque: anche se
stava pizzicando
corde d’aria, ho sentito la melodia che aveva composto in
onore della mia prima
battaglia. “Il diamante della guerra”,
così l’aveva chiamata. Un titolo
piuttosto pomposo, non trovi?» la donna si riscosse,
riallacciando il discorso:
«Lo hai sentito anche tu: adesso non usa più la
musica. Ma con me lo fece. E
usò proprio quella canzone. E poi… ha visto
Gilbert che faceva ritorno al
pianeta, ma non ha ordinato ai demoni di sbranarlo. Gli ha permesso di
fuggire.
È per quella canzone, per quell’esitazione che io
credo ancora in lui»
Elizabeta allontanò il boccale di birra, e si stese con il
busto e le braccia
sul tavolo: «È disumano che una vita debba
soccombere al potere. Tu dovresti
capirlo meglio di chiunque altro.»
Feliciano
si sentì trafiggere al petto. Lui sapeva più che
bene cosa significava vedere tutta la propria esistenza scorrere su un
binario
predefinito dai potenti.
«Come
dovrei salvarlo?» chiese.
«Fagli
recuperare la memoria.»
«Per
quale motivo?» obiettò Feliciano.
«Ricorderebbe tutte
le cose atroci che ha fatto.»
«Non
puoi annullare i suoi poteri senza annullare anche il
sortilegio che blocca le sue memorie» rivelò
Elizabeta. Un sorriso creato per
metà dalla speranza e per metà dalla disperazione
fiorì sulle labbra pallide
della giovane. «Ricordando, potrà chiedere perdono
per quello che ha fatto. E
noi Hellsing lo perdoneremo: si odia l’assassino, non il suo
pugnale. Così
potrà unirsi a noi nei banchetti del Walhalla, un
giorno» sprimacciò il volto e
forzò un’espressione allegra mentre gorgheggiava:
«E poi, non posso più essere
lì a dirgli quanto la sua musica sia bella, quanto lui sia
importante… ma, se
si ricorderà di me, potrò continuare a dirglielo
attraverso la memoria. Si
ricorderà delle volte in cui gli ho messo il violino in mano
a forza,
spronandolo a suonare. Si ricorderà delle volte in cui gli
ho detto di amarlo.
E spero che, quando lo farà, tra le lacrime gli
spunterà un sorriso» gli indicò
il duetto poco più avanti, dove Gilbert era finalmente
riuscito a far sorgere
un incurvamento di labbra sul volto del padre adottivo. «Mi
piacevano tanto,
quei suoi sorriso così rari…»
Feliciano
abbassò la testa, schiacciato dal peso dei sentimenti
della donna.
«Non
posso più essere vicino a lui, anche se lo desidero. Ma
vorrei almeno essere la voce che lo consola dalle nebbie del ricordo.
Non
voglio che sia solo, Feliciano. Un’eco è sempre
meglio della solitudine.»
«Lo
farò» bisbigliò il ragazzo.
La
mano della donna gli sfiorò una guancia, e le sue braccia
scivolarono a circondarlo con affetto.
«Non
lo dimenticherò, Feliciano» lo coccolò
materna.
Lo
lasciò andare qualche secondo dopo, quando il legno del
palco scricchiolò di nuovo sotto il peso del musicista.
«Ascolta»
lo incitò. «Roderich sta per suonare il pezzo di
chiusura.»
Feliciano
pianse con il cuore, mentre le note dell’ultima
sinfonia del suonatore si libravano nell’aria.
“Il
diamante della battaglia” risuonò chiaro e nitido
nell’aria
improvvisamente immobile.
***
I
tacchi degli stivali ametista schioccarono perentori sul
ponte della Reina.
Lovino
poté udire chiaramente quel suono derisorio: attorno
a lui, tutto era immoto. I marinai si erano cristallizzati nelle loro
posizioni: perfino le fiamme sulle fiaccole erano fossilizzate. Non un
suono,
un movimento o un respiro: tutto era immobile come se il tempo si fosse
fermato.
Lovino
fissò con odio l’uomo di fronte a lui, che
ricambiò
lo sguardo con disprezzo altero. Reggeva in una mano un metronomo, uno
strumento dal ticchettio insopportabile, usato dai musicisti per
scandire il
tempo durante gli esercizi stilistici; la lancetta di quel metronomo
era
rigida, muta, come tutta la nave. Con l’altra mano innalzava
un diapason, la
forcella di metallo impostata in “la” per aiutare
durante l’accordatura di uno
strumento.
Bastarono
quei due elementi, sommati alle stigmate argentee
e all’aria inflessibile, per permettere a Lovino di
riconoscerlo.
«Ho
fermato la vostra ciurma» annunciò
l’Accordatore,
appoggiando metronomo e diapason a terra; quest’ultimo,
inspiegabilmente,
riuscì a mantenersi dritto sulla sua estremità
tondeggiante, continuando a
vibrare. «E bloccato il vostro famiglio diabolico.»
Il
giovane si allontanò di un passo; le medaglie sulla sua
giubba tintinnarono nell’aria sepolcrale, fissata dal
metronomo, e sentì Roma
dimenarsi all’interno delle sue scapole, quasi impazzito per
l’impossibilità di
uscire. Ruotò le spalle, intirizzite dagli sforzi del suo
gregario, e rifletté:
se il tempo era immobile per qualunque cosa al di fuori di se stesso e
dell’Accordatore, probabilmente anche i proiettili si
sarebbero fermati a metà
strada. Non avrebbe avuto alcun senso tentare di sparare a
quell’uomo.
Senza
staccare gli occhi da quel militare in viola, portò
una mano al fianco: Gilbert e Antonio lo avevano praticamente forzato
ad
accettare quella scimitarra, come estrema misura di sicurezza. Si
chiedeva
perché il destino fosse così accanito contro di
loro da trasformare ogni
ipotetica situazione di emergenza in realtà.
L’Accordatore
non fece attendere la sua mossa: mosse le dita
come per pizzicare un’arpa e, sotto il suo tocco, il nulla
assunse gradualmente
la forma e la consistenza di un lungo fioretto.
Lovino
lo scrutò guardingo. Era diverso dagli strumenti che
aveva visto in mano ai maestri di scherma: quell’arma
assomigliava al fioretto
per forma, ma non sembrava studiata per una competizione sportiva. La
sua forma
affusolata rivelava una lama più dura del diamante, venata
di diramazioni violacee;
l’elsa che avvolgeva la mano dell’uomo era un
intreccio artistico di argento e
ametista e, in qualche modo, appariva più pericolosa della
lama stessa.
Quell’arma emanava un’aura implacabile, la stessa
che permeava le asce dei
boia.
«Spero
non vi offenderete se ho utilizzato questo
stratagemma» salmodiò l’uomo, vibrando
un colpo nell’aria: la lama guizzò come
un airone sul fiume, e tornò fissa e terribile
l’istante successivo. «Volevo
sfidarvi in duello. Ma sarebbe stato impossibile, con tutta la vostra
ciurma
intorno.»
Lovino
inalberò la spada nello spazio vuoto tra di loro, e
accusò:
«Ti
manda mio padre, vero?»
«Ciò
è irrilevante» dichiarò
l’uomo, stendendo il fioretto
in direzione del giovane. «In quanto Accordatore, devo
sistemare le note
stonate della Confederazione. E voi, Lovino Vargas, siete una delle
peggiori
deviazioni che siano mai esistite». Poi, fu il turno delle
spade per
fraseggiare.
Lovino
ringraziò quei pomeriggi di bonaccia in cui i marinai
gli avevano insegnato a impugnare un’arma, e quelle lunghe
serate in cui
Antonio lo aveva addestrato al lume di candela. Aveva lottato
tantissime volte
con il capitano, ma erano stai scontri fittizi, al solo scopo di
allenarsi; in
battaglia, era abituato ad affidarsi a Roma, ai suoi poteri e alle
pistole.
Tutte cose ridotte a un’inutile inedia dai marchingegni
dell’Accordatore.
Parò
il primo colpo di fioretto mettendo la spada in
orizzontale. Le due lame si scontrarono, e un’onda
d’urto sonica si propagò
nelle sue ossa, facendole vibrare come la cassa armonica di un organo.
Lovino
allontanò il suo avversario con furia per poi
afferrarsi il braccio destro con una mano: la carne era quasi lacerata
dalle
ossa stesse, che si scuotevano come se volessero perforargli la pelle.
«L’ennesima
prova che siete una nota stonata, Lovino Vargas»
lo riprese con fredda eleganza l’uomo, carezzando con cautela
la stigmate a
forma di chiave di violino con il dorso dello stiletto. «Non
risuonate come un
corpo puro.»
Il
pirata arretrò, le dita che quasi affondavano nella carne
per fermare l’osso danzante. Doveva evitare il contatto
diretto con quella
lama: era incantata in modo da far riportare danni al nemico anche
quando
veniva bloccata.
Fece
passare la spada nell’altra mano, e le sopracciglia
dell’Accordatore si sollevarono, emanando una gelida
disapprovazione.
«Mancino.
La mano dei malvagi» biasimò.
«Ambidestro»
una luce sinistra brillò nel ghigno di Lovino. «Il
male dilaga.»
Scartò
di lato per evitare l’affondo aggraziato dell’uomo,
e
si piegò per schivarlo quando ruotò il torso
nella sua direzione con la spada
spianata. Si mosse a sua volta per cercare di colpire il rivale sul
fianco
scoperto, ma non fu in grado di prevedere la sua difesa:
l’Accordatore piegò le
dita davanti alla bocca come se stesse suonando un’ocarina, e
fischiò una nota
diretta alle sue gambe.
All’improvviso,
le tibie del pirata furono percosse da una
scarica sonica che minacciò di spezzarle, e Lovino
crollò al suolo. Fu
abbastanza pronto di riflessi da girare sul dorso e parare davanti a
sé la
sciabola prima che l’Accordatore affondasse il fioretto nel
suo corpo.
Le
sue ossa parvero impazzire, dalle falangi alla spalla,
sbatacchiando tra di loro come se un tornado le stesse facendo mulinare
all’interno dei muscoli. Morse le labbra, mentre un paio di
lacrime
scintillavano nei suoi occhi e le braccia tremavano per lo sforzo di
mantenere
la lama salda di fronte a sé.
L’Accordatore
aggrottò le sopracciglia, perplesso: un corpo
così piccolo non avrebbe dovuto contenere tutta quella
rabbia e quella forza.
Non dopo che il suo famiglio diabolico era stato bloccato. Premette
ulteriormente il fioretto contro la sua sciabola, e lo vide
rabbrividire mentre
le ossa gli trafiggevano il cervello con fulmini di dolore, ma la sua
resistenza non vacillò: il fioretto restò lontano
dal suo corpo.
«Per
il bene della Confederazione, Lovino Vargas, dovete
sparire» ingiunse l’Accordatore.
Gli
occhi del ragazzo s’infiammarono di dolore e collera,
poco prima che il giovane lo scaraventasse lontano da sé con
la forza di una
bestia selvatica. L’Accordatore si rialzò con
leggiadria, fissando disgustato
quel rifiuto di galeone che si sollevava scalcinato, gambe e braccia
tremanti,
le mani che ancora si aggrappavano all’elsa della spada.
«Allora
siamo fortunati» ansò il pirata. «Lovino
Vargas è
morto, sei anni fa.»
Il
ragazzo mosse un passo da ubriaco, rialzando con fatica
le spalle e ondeggiando la sciabola davanti a sé.
«Mi
dispiace che tu non l’abbia conosciuto. Era un bambino
che covava l’assurdo sogno di essere l’orgoglio del
Vaticano assieme al
fratello» il rancore gli graffiò un ghigno sul
viso. «Poi fu abbandonato in un
deserto, e quella speranza avvizzì. Lovino Vargas
morì qualche giorno dopo,
strappandosi con le sue stesse mani il simbolo della famiglia che lo
aveva
ucciso» dicendo questo, toccò la base del collo:
le creste irregolari della
cicatrice bianchissima gli sfregarono contro le dita. Il pirata
scostò la
frangia dagli occhi: due iridi in cui ribolliva una tenacia infernale
dardeggiarono turbolente. Il loro fuoco si rinvigorì a ogni
frase che il giovane
pronunciò:
«Quello
che hai davanti è un ragazzo cresciuto senza
genitori, allevato dalle battaglie secondo il credo dei pirati, alleato
fino
alla morte di Antonio Fernandez Carriedo e unico vice comandante della Reina de la Oscuridad» il
giovane
sollevò di nuovo spada e sguardo contro di lui, uno
più affilato dell’altro, e
proclamò: «Io sono Lovino Belial, la Mano Sinistra
del Diavolo!»
Il
giovane innalzò la sciabola verso il cielo, come gli
angeli esecutori del giudizio divino nei dipinti
sull’Apocalisse; i suoi occhi
e la sua voce infuocarono l’aria circostante, gridando:
«E
sarò la rivoluzione che scuoterà la
Confederazione!»
L’Accordatore
gli lanciò uno sguardo impassibile ombreggiato
di disprezzo, e pronunciò:
«E
per questo dovete essere eliminato.»
Lovino
non lo vide arrivare: ebbe solo l’impressione di un
bagliore viola alla sua destra, prima che la lama ametista
dell’uomo gli
trapassasse il fianco. L’Accordatore mosse un passo di lato,
estraendo il
fioretto ed evitando la spada dell’avversario. Il pirata
cadde rumorosamente
sulle ginocchia, una mano premuta sulla ferita che stava facendo
impazzire i
suoi organi interni: i polmoni in spasmo gli impedivano di respirare
correttamente, e il cuore in fibrillazione rendeva ombroso e distorto
il mondo
intorno a lui. Il rombo del sangue gli occupò le orecchie, e
la sentenza
dell’Accordatore strisciò a fatica attraverso quel
frastuono.
«Siete
piuttosto arrogante, a dispetto delle vostre
discutibili abilità» lo riprese gelido. Il
fioretto salì in cielo, pronto a
infilzare il collo sussultante del giovane.
La
sciabola intercettò il colpo mortale, fermandolo a
metà
strada: con gli occhi annebbiati da una cupa foschia, le orecchie
otturate
dalla risacca del sangue e il cuore impegnato a non collassare, Lovino
sollevò
la sua ultima difesa. L’Accordatore vide quel braccio esausto
trasalire sotto
la sua forza, ma non lo vide cedere: testardo come il suo padrone.
«Dove…
sei… bastardo» ringhiò Lovino, la lama
dell’uomo che
si avvicinava sempre più alla sua gola.
Ebbero
solo il tempo di udire il grido di un rapace, prima
che la loro visuale fosse occupata da un turbinio di piume nere.
L’Accordatore
fu costretto ad abbandonare Lovino, scacciato dalle furiose beccate di
un
gigantesco corvo.
«E
poi dicono che non sono il più grande eroe della
Galassia»
ghignò una voce poco distante. «Salvato
all’ultimo secondo. Pretenderò un
premio.»
Lovino
riuscì a scacciare la caligine dagli occhi abbastanza
da riconoscere una figura dai capelli argentati al suo fianco.
«Gilbert!»
lo salutò, felice come non mai di vedere il
sogghigno dell’uomo.
«Hellsing»
lo riconobbe con tremenda freddezza
l’Accordatore. «Dovresti essere a Caina.»
«Golem,
ghiaccio e solitudine: quel posto diventa noioso,
dopo il primo anno e mezzo» Gilbert accarezzò
lentamente l’ala lucida del suo
famiglio, mentre sdrammatizzava. «Ho deciso di fare un giro
qui intorno.»
Il
ghigno gli morì sulle labbra alle parole
dell’Accordatore.
«La
tua decisione ha avuto forti ripercussioni sull’ultimo
Sparviero imprigionato.»
Lovino
batté le palpebre, riuscendo finalmente a mettere di
nuovo a fuoco il mondo. E la prima cosa che vide fu il volto tirato e
livido di
Gilbert, come se l’anima fosse evaporata dal corpo.
«Cosa
avete fatto a Francis?» sillabò minaccioso,
più cupo
del suo famiglio.
«Ti
interessa questa informazione?»
«Ovviamente.»
«Allora
fatti da parte, Hellsing. Devo concludere il mio
compito per quanto concerne Lovino Vargas. Se non creerai ulteriori
fastidi, ti
rivelerò l’informazione che desideri.»
Le
parole di Gilbert commossero l’irritabile pirata e
scatenarono il ribrezzo dell’altero Accordatore.
«Non
ho avuto il piacere di conoscere Lovino Vargas, ma sai
una cosa?» l’Hellsing si voltò,
spavaldo, e porse una mano al giovane per
aiutarlo ad alzarsi. «Anche se fosse stato il miglior ragazzo
del mondo,
preferisco Lovino Belial. È più adatto a stare
con gli Sparvieri.»
Il
giovane non fece in tempo a fingere di non essere toccato
da quelle parole che Gilbert gli si accostò
all’orecchio, bisbigliando:
«Cerca
di rompere il diapason, e poi evoca Roma. Quel
damerino in viola non è un avversario semplice.»
Si
voltò di nuovo, gonfiando il petto nella sua divisa
oscura in una posa pomposa.
«Dovari
sconfiggermi, prima di poter attaccare questo
ragazzo.»
L’Accordatore
sospirò, annoiato come chi deve sopportare una
vespa fastidiosa.
«Da
solo e disarmato non rappresenti nemmeno una sfida degna»
si rammaricò.
«Oh.
Davvero sembravo solo e disarmato?»
Il
ghigno dell’uomo si allargò a dismisura mentre
l’ombra di
Gilbird si stendeva su di lui; la scimitarra appena forgiata quasi
cantò di
gioia, uscendo dal fodero.
«Certo,
il mio archibugio è ancora sotto i ferri. Ma questa
spada è meravigliosa, come me» le fece compiere
qualche giro nell’aria per
godersi il suono netto della lama affilata. La appoggiò alla
spalla con
espressione arrogante, e invitò a sé
l’Accordatore con il dito indice,
flautando: «Vuoi essere il primo a provarla?»
«Quanto
tempo sprecato…» soffiò
l’uomo, prima di scagliarsi
aggraziatamente contro di lui.
Lovino
restò per qualche istante immobile, incantato da quel
combattimento. Aveva visto molte battaglie, ma nessuna era paragonabile
a quella
davanti ai suoi occhi: l’Accordatore affondava e schivava
come se stesse
danzando, quasi annoiato da quel duello; Gilbert, al contrario,
attaccava come
se in ogni colpo vibrasse la sua stessa vita, lasciando spazio al suo
famiglio
con una coordinazione spaventosa. Ma ancor di più lo
sorprese la tranquillità
con cui l’Hellsing parava i colpi del rivale: pareva quasi
che le onde soniche
non avessero effetto su di lui, che respingeva ogni affondo senza
perdere il
suo ghigno sardonico. Così come l’Accordatore non
scomponeva la sua espressione
marmorea mentre ballava su quella musica bellicosa.
Si
riscosse quando le due lame si incontrarono in un
clangore di metallo, sprizzando scintille. Lovino corse veloce verso il
diapason, e afferrò lo strumento. Vide un interrogativo
baluginare nelle iridi
fredde dell’uomo, quando percepì che il suo
strumento era stato infranto da una
volgare spada piratesca.
Lovino
evocò Roma l’istante successivo, e lo
aizzò contro
l’Accordatore.
Gilbert
si scostò per evitare la belva, e si voltò verso
Lovino con un grido di vittoria sulle labbra, ma il pallore del giovane
gli
strangolò l’entusiasmo in gola. Roma
balzò nuovamente al fianco del suo
padrone, mentre un regalmente indispettito Accordatore sistemava il suo
cappotto violaceo.
Lovino,
smarrito e spaventato, indicò l’uomo di fronte a
lui, sibilando a Gilbert:
«Non
ha ricordi. Non ha emozioni. Non ha nemmeno pensieri. È
come se fosse morto!»
L’Hellsing
si parò davanti a lui, proteggendolo
dall’Accordatore. Lovino inalberò la spada a sua
volta, pronto a combattere,
Roma che ringhiava al suo fianco e Gilbird che strideva alle sue
spalle. I poteri
psichici del lupo erano inutili, se quell’uomo non aveva
un’anima.
«Mira
alle mani, Lovino» bisbigliò Gilbert; le suole dei
suoi stivali stridettero sul legno della nave, preparandosi
all’assalto. «È
l’unico modo per farlo tornare uomo.»
Il
giovane non comprese fino in fondo il senso delle parole
dell’Hellsing, ma ubbidì comunque: quando
l’Accordatore mosse un nuovo affondo
verso di loro, scartò di lato e mirò alle sue
stigmate. L’uomo ruotò verso di
lui, parando il suo colpo; ma quella mossa non gli permise di vedere
l’attacco
di Gilbert. Preciso e implacabile come era sempre stato con i demoni,
l’Hellsing vibrò un tremendo colpo al suo polso:
la lama forgiata per
trapassare le squame dei diavoli recise pelle, carne e ossa, e la mano
mozzata
cadde a terra con un rumore flaccido e un violento spruzzo scarlatto.
L’Accordatore
si schiantò sulle ginocchia con un urlo
disumano, contorcendosi sul moncherino che vomitava sangue. Gilbert
scostò
Lovino per sottrarlo a quella vista raccapricciante: mille sfumature di
dolore
e sofferenza distorsero il volto dell’uomo, rendendolo quasi
irriconoscibile;
gli occhi si strabuzzarono dietro le lenti, e gli occhiali vennero
scaraventati
lontano dalla violenza con cui l’Accordatore scosse la testa,
preda di atroci
tormenti.
Il
metronomo ricominciò a scandire il tempo, e i marinai,
sciolti dall’incantesimo, si trovarono circondati dallo
strazio del loro nemico.
Alcuni di loro indietreggiarono, altri si sporsero incuriositi, altri
ancora si
portarono alle spalle del vice comandante, in attesa di ordini.
Quel
supplizio durò per il minuto più lungo della loro
vita.
Quando finalmente il grido dell’uomo si spense in un rantolo
svociato e il suo
corpo smise di ritorcersi, Gilbert recuperò i suoi occhiali
e si chinò su di
lui, porgendoglieli.
«Roderich»
quando fu chiaro che l’Accordatore non era
sufficientemente in sé da rimettere le lenti al loro posto,
l’Hellsing stese le
stecche e gliele appoggiò delicatamente sulle orecchie.
«Roderich» ripeté. «Ricordi
a chi appartiene questo nome?»
Gli
occhi ametista lo fissarono senza capire, dilatati,
terrorizzati; poi, gradualmente, riacquistarono una dimensione normale
e una
lucidità umana.
«Sono
io. È il mio nome» gli chiese aiuto con le iridi
vibranti di sconcerto e paura, ed esalò:
«Gilbert… dimmi che non l’ho
fatto…»
La
mano dell’Hellsing si appoggiò sulla sua testa,
senza
giudicarlo, senza criticarlo.
«Non
eri in te. Non è stata colpa tua»
mormorò, carezzevole.
Roderich
trasalì quando un ruggito di razzi propulsori si
gonfiò a lato della nave; Antonio scavalcò il
bordo del vascello, e un silenzio
teso ed elettrico fu il suo benvenuto.
«Che
succede?» tentennò, osservando perplesso Gilbert,
Lovino e l’uomo sanguinante ai loro piedi.
Il
giovane pirata fu il primo ad avere la forza di muoversi:
raggiunse il capitano e gli assestò un poderoso pugno allo
stomaco; quando fu
piegato in due per il dolore, gli stritolò la testa in un
abbraccio rude e
ringhiò, i denti che tremavano per trattenere le lacrime:
«Dove
diavolo eri, bastardo…»
Antonio
poggiò amorevolmente una mano tra le scapole
frementi di Lovino, e, in quell’istante, Gilbert
sussurrò a Roderich:
«Ricordi
cosa stavi dicendo prima su Francis?»
Il
volto dell’uomo sbiancò, e non solo per il sangue
che
continuava a scorrere a fiumi fuori dal suo polso tranciato. La
risposta
dell’Accordatore non fu più forte di un soffio di
vento, ma risuonò comunque
chiara e terribile sul ponte dell’Aereonave.
«Quando
sei evaso da Caina, è stato deciso che la
Confederazione non poteva lasciar scappare un altro Sparviero. Francis
Bonnefoy, l’ultimo Marauder, è stato giustiziato
il giorno seguente.»
Solo
il suono del corpo di Roderich che sveniva sul
pavimento insanguinato echeggiò in quel silenzio irreale che
aveva ucciso
l’animo della Reina de la Oscuridad.
Buonasera<3
E
in questo
capitolo abbiamo parlato dell’Accordatore… nel
prossimo, si parlerà del Mago
dell’Ovest e del suo passato. E del Marauder 8D
A
lunedì<3
Red
|
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Capitolo 12 *** Il Mago dell'Ovest ***
Capitolo
Dodici: il Mago
dell’Ovest
Arthur
si appoggiò alla poltrona come se le sue ossa fossero
diventate d’acqua.
Carriedo
aveva portato Lovino Belial, quella mattina, perché
rispettasse gli accordi: aveva ricondotto alla sanità
mentale tutti i marinai
che si trovavano internati a causa sua. Poi, la notizia: Francis era
stato
giustiziato.
Arthur
premette le dita sulle tempie, accigliato. Perché il
Vaticano non gli aveva parlato di quell’esecuzione? Temeva
che avrebbe fatto
qualcosa per sabotarli?
Il
Mago dell’Ovest strinse un pugno e lo abbatté sul
bracciolo della poltrona.
Avevano
sempre usato i suoi poteri ricattandolo con la
salvezza della sua patria. E lo avevano ingannato, facendogli credere
che il
Marauder fosse ancora in vita.
Non
poteva mettere in pericolo Britannia, ma poteva restituire
il tradimento al Vaticano. Aiutando l’ultimo Carriedo,
avrebbe fatto in qualche
modo ammenda per l’eccidio del suo popolo.
Si
diresse verso la cassaforte, nascosta dietro il quadro
del Leone Incoronato. Vi passò sopra la mano in modo che le
pietre incastonate
riconoscessero la sua aura, e, quando la porta d’acciaio si
schiuse, afferrò
con cura l’unico monile lì conservato: un non ti
scordar di me di cristallo,
sottile come un fiocco di neve. Lo avvolse in un panno, badando di non
incrinare nemmeno un petalo, e si preparò al successivo
incantesimo. Pronunciò
una litania secca, e si portò esattamente davanti allo
specchio; allungò la
mano verso il suo riflesso, che fece lo stesso. Strattonò le
dita della
creatura al di là dello specchio, e un secondo se stesso
ruzzolò fuori dalla
superficie riflettente.
«Che
maniere!» si lamentò il secondo Arthur,
rialzandosi
stizzito.
«Non
abbiamo tempo da perdere. Cambiati» lo spronò
bruscamente l’originale, e gli indicò un paravento
spartano in un angolo della
camera. La sua copia si avviò fumando indignazione, e
obiettò:
«Cos’è
questa palandrana antidiluviana?»
«Una
palandrana antidiluviana» confermò Arthur.
«È l’unico
indumento di Avalon che mi resta.»
«Un
magnifico esemplare di muffa su tessuto» commentò
l’altro, spostando il mantello grezzo con la punta del piede.
«Non
è ammuffito» il Mago dell’Ovest gli
gettò addosso una
casacca e un paio di pantaloni. «Non puoi stare con
l’uniforme da capitano.»
«Creerebbe
confusione negli uomini?» la copia si tolse
bruscamente i vestiti dalla testa e si nascose dietro il paravento per
infilarseli.
«No.
Ti renderebbe troppo riconoscibile. Stai per salpare
con la Reina de la Oscuridad.»
Una
testa color paglia sbucò dal paravento, inviperita.
«Come
sarebbe a dire?»
«Non
posso abbandonare Britannia, ma non sopporto di essere
in debito con un pirata: andrai con lui e lo aiuterai a ritrovare il
Marauder.»
La
copia stava per reclamare, ma la sua bocca rimase aperta
a metà.
«Il
Marauder non può morire» recitò in un
soffio.
«Oh,
finalmente la condivisione di pensiero si sta
completando» si complimentò Arthur.
«Saresti stato un doppio molto scarso se
fossi rimasto con la testa vuota.»
«Questo
mi avrebbe reso solo più simile
all’originale»
replicò piccato l’altro, stringendo la cintura dei
calzoni.
«Riconosco
il mio sarcasmo spietato» notò il Mago
dell’Ovest. «Sei una copia ben riuscita, se non
altro.»
Il
secondo Arthur uscì dal paravento, completamente vestito.
L’originale approvò con un cenno del capo: gli
abiti da boscaiolo nascondevano
a dovere le loro somiglianze, e il largo cappuccio della palandrana di
Avalon
celava il viso identico a quello del Britanno.
«Vai»
comandò Arthur, e gli porse il minuscolo orpello, ben
fasciato nel panno soffice. «Non voglio che quel pirata
avanzi altre pretese
assurde, in futuro.»
La
sua copia sollevò il cappuccio ombroso, e due occhi
uguali ai suoi lo scandagliarono mentre l’altro lo accusava
amaramente:
«La
condivisione di pensieri si è completata. Non è
per non
avere un debito con il pirata che mi stai mandando»
soppesò il fiore di
cristallo e intonò: «“Mi riconoscerai in
qualunque forma?”»
«Vai»
tagliò corto Arthur. La sua copia non aggiunse altro,
e lasciò la stanza.
Nelle
menti di due maghi si affollarono le stesse memorie.
Il
dolore e la dolcezza non furono dimezzati, anche se
passarono per due cuori diversi.
***
Arthur
aveva appena compiuto la maggiore età, a
quell’epoca.
Merlino,
suo nonno, lo prendeva in giro dicendo che gli
erano cresciute solo le ossa, e non il resto: non aveva un grammo di
carne su
quelle membra rachitiche. Ma la sua gracile forma fisica non aveva
compromesso
i suoi poteri: accorrevano da tutta Faerie per acclamare i successi
dell’ultimo
rampollo degli Avalon. Era il gran cerimoniere nelle feste di paese,
dove
faceva comparire dal nulla suntuosi banchetti e strumenti musicali che
suonavano da soli. La gente si divertiva, e Arthur rideva con loro.
Avrebbe
dovuto essere così anche Beltaine.
Il
nonno Merlino lo prese sulle gambe, e gli comunicò il
loro progetto: erano convinti che esistessero altri mondi, oltre a
Faerie, e
avevano intenzione di inviare lui, Arthur, ad esplorarli. Sarebbe stato
un
enorme passo avanti per il loro mondo: avrebbero potuto studiare nuovi
popoli,
forse nuove razze, e avrebbero potuto intrattenere proficui scambi
commerciali.
Arthur
aveva accettato: essere il primo Avalon esploratore
era un onore come non avrebbe mai sperato di riceverne. Avevano poi
deciso il
giorno della sua partenza: Beltaine, quando l’ultimo fuoco si
fosse spento.
Avevano
festeggiato e banchettato, come sempre: il Mago
dell’Ovest ricordava ancora il calore del fuoco scoppiettante
nei falò e quello
del sidro giù per la gola, le musiche celtiche e le danze,
il tappeto di fiori
caduti dalle ghirlande con cui le giovani si erano addobbate i capelli
e
l’odore turbinante di dozzine di portate servite sullo stesso
tavolo.
Merlino
gli aveva drappeggiato quella vecchia palandrana
addosso, cimelio del capostipite degli Avalon; l’unico decoro
di quella
mantella era il simbolo del melo, l’albero sacro per la loro
famiglia, ricamato
in oro all’interno del tessuto, in modo che non fosse
visibile all’esterno.
Arthur
aveva salutato tutti con un plateale gesto della
mano, ed era saltato nel portale aperto per lui dal nonno.
Se
avesse saputo cosa lo aspettava, non avrebbe mai
intrapreso quel viaggio.
Si
era trovato in un mondo folle e tenebroso, pieno di gente
troppo indaffarata per parlare con il ragazzino straniero, un pianeta
pieno di
odori strani e pungenti, di rumori striduli e di cieli carichi di
nuvole. Su
Faerie non era così: il cielo non era mai sprovvisto di un
raggio di sole, e
sul volto della gente non mancava mai il sorriso.
Arthur
girò per le strade per giorni e giorni, in cerca di
una minima cosa che potesse piacergli in quel posto, ma non riusciva a
trovare
un solo dettaglio gradevole: gli pareva di vivere in un mondo soffocato
da un
manto di polvere. I cibi gli parevano insipidi se non disgustosi, i
rumori
troppo forti, gli odori troppo penetranti, la gente troppo gretta e il
cielo
troppo triste.
Estrasse
dunque dalla tasca la verga che il nonno gli aveva
dato, e la spezzò come era stato istruito. Non
c’era nulla che quel pianeta
potesse insegnare o offrire a Faerie.
Ma
le estremità della verga rimasero immobili nelle sue
mani: niente fumo, niente scintille. Niente casa.
In
quel giorno, gli Avalon scoprirono che si poteva approdare
in un mondo parallelo, ma non si poteva fare ritorno.
***
Lo
incontrò cinquant’anni dopo, quando si era
abituato a
quel mondo come ci si abitua al dolore di un dente guasto.
La
sua divisa sfarzosa fendeva l’aria grigia come un faro,
con il blu intenso della giacca di sartoria e il rosso infuocato dei
pantaloni
alla zuava. Procedeva con un’andatura indolente ed elegante,
come se non
volesse affaticare gli stivali scuri. Esaminava lentamente il mondo con
gli
astuti occhi azzurri, e un accenno di sorriso aleggiava sulle sue
labbra. Di
tanto in tanto portava dietro le orecchie i capelli biondi, lievemente
ondulati, e accarezzava la barba curata.
Arthur
non si sentì intimorito quando quelle iridi furbe si
posarono su di lui.
Agli
occhi dell’umano, doveva apparire come un normale
ragazzo prossimo a uscire dall’adolescenza. Aveva scoperto,
tempo addietro, che
i suoi ritmi di crescita erano molto diversi rispetto a quelli degli
abitanti
di quel mondo: occorrevano tre generazioni umane perché il
suo viso apparisse
invecchiato di un paio di anni. Era stato costretto a trasferirsi ogni
volta in
cui la sua età immobile avrebbe potuto tradire le sue
origini aliene.
«Non
sei di qui, vero, ragazzo?» domandò
l’uomo, con un
accento arrotondato.
«No
signore» confermò neutro Arthur. «Abito
qui solo da
qualche anno.»
Lo
sconosciuto puntò una mano sul muro alle sue spalle, e
insinuò con un ghigno malizioso:
«E
da quanto hai abbandonato il tuo mondo?»
Rise
dello sguardo spinoso che gli lanciarono quegli occhi
verdi, e si pizzicò la barba bionda mentre lo rassicurava:
«Non
agitarti, piccolo. Sono un Marauder: sono abituato a
vedere cose che gli altri non vedono. In particolare, sono bravo a
riconoscere
le creature che non sono di questo mondo.»
Il
viso dell’uomo si avvicinò al suo a tal punto che
Arthur
lo respinse schiaffandogli una mano in faccia.
«Non
sei di questo mondo, ma sei troppo materiale per essere
un fantasma» lo sconosciuto si allontanò
sorridendo. «Sei un alieno?»
«Bada
ai tuoi affari» replicò secco lui, voltandosi.
«Oh,
posso anche farlo» l’uomo gli appoggiò
una mano sulla
spalla, che il giovane si scrollò di dosso bruscamente.
«Ma dopo tu rimarresti
da solo. Di nuovo» c’era il veleno di chi sa di
pungolare un tasto dolente
nelle sue parole. «Non credo che molte persone ti abbiano
rivolto la parola,
negli ultimi cinquant’anni.»
Prima
che il ragazzo potesse chiedergli come faceva a sapere
che era lì da cinque decadi, l’uomo stese il
braccio con gesto teatrale e
indicò l’acciottolato.
«In
fondo a questa strada c’è un albero di melo. Mi
troverai
lì nei prossimi giorni. Nel caso avessi voglia di parlare
con qualcuno. Sempre
che la tua lingua non si sia atrofizzata, in tutto questo
tempo» aggiunse, con
un ghigno che il giovane trovò semplicemente insopportabile.
«Puoi
anche mummificarti, sotto quell’albero di mele»
tranciò la conversazione Arthur, voltandogli le spalle.
L’uomo
lo osservò placido mentre spariva lungo la strada.
Voltò il viso come se stesse parlando con una persona alle
sue spalle e
mormorò, raffinato:
«Lo
so, Jeanne. Verrà. Nemmeno un alieno è fatto per
vivere
da solo per sempre.»
***
La
previsione dell’uomo si rivelò corretta: occorse
una
settimana intera perché Arthur vincesse la lotta contro il
suo orgoglio e
riuscisse a trascinarsi sotto l’albero di mele.
Lo
sconosciuto lo aveva invitato a prendere posto vicino a
lui; Arthur si era seduto a tre metri di distanza.
E
avevano cominciato a parlare.
Dopo
molti giorni e un’incalcolabile dose di pazienza da
parte dell’uomo, l’Avalon aveva rivelato le sue
origini e descritto il suo
mondo.
Lo
sconosciuto aveva così scoperto un luogo chiamato Faerie,
che corrispondeva ai racconti mitologici dell’età
dell’oro: un paese che non
conosceva carestia o grigiore, che non sapeva cosa fossero malattia e
morte.
Arthur
strappò un filo d’erba quando gli fece quella
confessione.
«Non
sapevo che gli umani potessero morire.»
«Nel
tuo mondo le persone non muoiono?» si sorprese
l’uomo.
Il
giovane chiuse gli occhi, cercando di isolarsi dalle
brutture che aveva visto nella dimensione degli uomini. Li
riaprì con un
sospiro sconfortato, e paragonò:
«Quando
un abitante di Faerie sente che il suo tempo sta per
finire, si avvicina al lago di Vivien… e le onde lo
conducono alla sua nuova
dimora. È un abbandono dolce, è come…
tornare a casa» le dita del ragazzo
corsero a intrecciarsi con l’erba sotto di lui, senza pace.
«Qui invece ho
visto gente morire urlando… soffrendo… non
pensavo che la morte potesse essere
così orribile.»
L’uomo
gli lasciò il tempo per riassorbire il colpo che
quelle orribili memorie avevano assestato al suo animo delicato. Quando
Arthur
parlò di nuovo, il suo tono trasudava
l’ostinazione di chi non vuole cedere al
male.
«E
poi… qui ho imparato cosa vuol dire
“ammalarsi”. A Faerie
nessuno si ammala. Invece qui… ho visto cose atroci
annidarsi nei corpi delle
persone e portarle alla morte.»
«Non
è un mondo in cui è facile vivere, il
nostro» il tono
dolce dell’uomo sembrò in qualche modo rendere le
sue affermazioni vellutate. «Ti
offre mille motivi, mille ostacoli per tirarti a fondo. Devi avere una
ragione
per vivere e aggrapparti a quella con tutte le tue forze, se non vuoi
soccombere» gli occhi dal colore dei fiordalisi si
appuntarono sfacciati sul
suo viso, e lo interrogarono assieme alle parole:
«Sembra
un bel posto, la tua Faerie. Niente malattie, un
addio gentile… perché l’hai
abbandonata?»
«Volevamo
conoscere altri mondi» le labbra di Arthur si
contrassero, rimpiangendo la sua terra natia. «Ma non
sapevamo che non si
potesse fare ritorno.»
L’uomo
colmò la distanza tra loro e gli appoggiò una
mano
sui capelli stopposi. Il giovane, annegato nei suoi ricordi,
impiegò qualche
secondo per accorgersi che l’altro lo stava toccando.
«I
viaggi interdimensionali funzionano in una sola direzione»
ritrasse la mano prima che Arthur lo graffiasse come un gatto
selvatico. «Questo
vale per tutti i mondi. Morendo, si entra in un’altra
dimensione, e non è
possibile fare ritorno. Per questo esistiamo noi Marauder: traghettiamo
le
anime che non hanno trovato la strada dopo il grande salto. Ma,
purtroppo, non
posso fare nulla per te» l’uomo avvertì
una stretta al cuore, quando lo
sfavillio speranzoso appena acceso negli occhi del giovane si spense
miseramente. «Tu non sei uno spirito. Non posso traghettare
un essere vivente.
E poi, come ti ho già detto, i viaggi di questo tipo
funzionano in una sola
direzione.»
«Quindi
non c’è nulla che io possa fare?»
Quella
domanda che sapeva di preghiera doveva essere costata
un enorme sforzo a quella bocca orgogliosa. L’uomo gli
circondò le spalle con
un braccio, incurante della sua ritrosia, ed espose:
«Non
puoi fare nulla per tornare a casa, ma puoi fare
qualcosa per rendere questo posto la tua nuova
casa.»
Arthur
lo spinse via con poca grazia, e si alzò in piedi
irritato.
«Non
vedo come.»
«Per
la via più semplice: trova qualcosa da proteggere»
l’altro si alzò a sua volta, adombrandolo con i
suoi centimetri in più. «Hai
visto la morte, hai visto la malattia… ma tutto questo non
ti ha provocato solo
paura e delusione, giusto? Non hai sentito qualcosa di diverso,
più o meno qui?»
si appoggiò una mano sulla pancia, e l’espressione
del giovane fu una conferma
sufficiente. «Quella è empatia. Hai visto il loro
dolore, e ti è sembrato di
sentirlo sulla pelle. Per questo hai odiato la morte e la malattia di
questo
mondo: non portano sofferenza solo al malato o al defunto, ma la
estendono a
tutti i presenti. Non vorresti fare qualcosa per fermare questa
epidemia?»
Arthur
si morse le labbra: non capiva in che modo lui potesse
operare una simile trasformazione, ma non voleva abbassarsi a
elemosinare
spiegazioni dal Fiammingo.
L’uomo
lo liberò da quel conflitto, annunciando:
«Per
aver affrontato un viaggio del genere, devi avere dei
poteri eccezionali. Usali per il bene della gente e presto il tuo
talento verrà
riconosciuto.»
L’uomo
gli scompigliò i capelli, e saltellò via prima
che il
ragazzo potesse colpirlo.
«Non
ti lascerò solo. Questo mondo è troppo efferato
per
affrontarlo senza un po’ di compagnia.»
«Non
so nemmeno il tuo nome» gli fece notare Arthur. Quel
ragazzo aveva un modo davvero grazioso di ottenere le informazioni
evitando il
fastidio di domandare e mostrare interesse.
«Francis
Bonnefoy» si presentò, con un inchino
aristocratico. «Finalmente me l’hai
chiesto.»
«Sei
tu ad avermelo detto.»
«Ma
certo» concedette il Fiammingo, prima di voltarsi verso
la strada che conduceva al cuore della città. «Ora
andiamo: abbiamo del lavoro
da fare.»
«Ma
tu non sai il mio nome!»
Il
sorriso dell’uomo mutò la sua fonte:
dall’astuzia migrò alla
saggezza.
«Lo
so già, Arthur Kirkland, della dinastia degli Avalon.
Così come sapevo che saresti venuto sotto il melo,
perché è il simbolo della
tua famiglia, ricamato nel tuo mantello.»
Il
giovane indietreggiò, fissando guardingo
quell’uomo.
«Come
sai tutte queste cose?» un globo di fuoco si
gonfiò
rombando nel palmo di Arthur. Provò quasi una punta di
nostalgia nel sentire le
fiamme vorticare contro le sue dita: erano decenni che non utilizzava
la magia,
temendo le ire e i giudizi degli umani.
Francis
si inginocchiò, quasi volesse annullare il suo
vantaggio di altezza sul giovane.
«Essere
un Marauder non significa solo essere un
traghettatore. Come ti ho detto, noi vediamo cose che gli altri non
vedono,
sentiamo cose che gli altri non sentono.»
«Sei
un sensitivo?»
«In
un certo senso.»
«E
grazie ai tuoi poteri riesci a leggere il passato altrui?»
«Oh,
no, quello è merito di Jeanne. Lei vede molto più
lontano di me.»
«Jeanne?»
L’uomo
gli porse una mano senza reali speranze, sorridendo.
«Ci
sono molte cose di me che non sai. Ma sarò felice di
rivelartele, se vorrai camminare sulla mia stessa strada.»
Nemmeno
Francis lo aveva previsto: Arthur afferrò quella
mano.
***
Aveva
trovato la sua strada.
Lo
capì quando il sole di Faerie sorse sui volti dei familiari
dell’ammalato, che si rialzò dal letto sulle
proprie gambe. Gli avevano dato
pochi giorni di vita, ed era bastato il tocco di quel ragazzo dagli
insondabili
occhi verdi per riportarlo in perfetta salute.
Quel
mondo gli parve meno ostile, mentre tutta la famiglia
si accalcava intorno a lui in lacrime. Erano delle lacrime belle da
vedere:
erano scaldate dai raggi della gioia, e scorrevano negli argini dei
sorrisi.
Continuò
a seminare lacrime tiepide e felicità in ogni
provincia del paese. Poiché se ne andava sempre al tramonto,
la gente prese a
chiamarlo “Il Mago che va dove il sole muore”,
presto abbreviato in “Il Mago
dell’Ovest”. Arthur sobbalzò la prima
volta che sentì un bambino appiccicargli
addosso quel nomignolo; con il tempo, cominciò a trovarlo
piacevole: la gente
lo pronunciava sempre con la speranza negli occhi. Era una specie di
mantra
della gioia, ed era stato lui ad averlo portato.
«Hai
ottenuto una popolarità enorme in soli due anni»
lo
lodò una sera Francis. «Il tuo nome è
conosciuto in tutta la Compagnia di
Britannia, ormai.»
«Il
mio appellativo, non il mio vero nome.»
«Come
sei pignolo.»
Arthur
studiò l’uomo seduto sul suo letto con le gambe
accavallate. Lui non aveva più una casa, quindi non soffriva
particolarmente
nel cambiare continuamente città; ma si chiedeva per quale
motivo il Marauder lo
seguisse costantemente, senza mai esprimere il desiderio di tornare a
casa.
«È
strano» sbuffò, girando la poltrona in modo da
poter
fronteggiare direttamente il Fiammingo.
«Cosa
è strano?»
«Non
hai una famiglia? Una casa a cui fare ritorno? Ormai
sono due anni che viaggi con me» storse il naso, e aggiunse:
«E hai anche una
camera tua, in questo albergo, eppure continui a invadere la
mia.»
Francis
incrociò le braccia dietro la testa e si lasciò
cadere di schiena sul materasso.
«Invado
la tua camera perché mi piace la tua compagnia. Mi
piace quando mi racconti di Faerie, e trovo interessanti i discorsi che
imbastiamo su questo mondo» fissò il soffitto con
quel suo sguardo speculativo,
come se vedesse molto più di una semplice parete imbiancata.
«Ma non è tempo di
tornare a casa. Non in questa vita.»
«Spiegati
meglio» lo spronò Arthur.
Le
dita del Marauder si mossero nell’aria come se stessero
salendo una piccolissima scala a pioli, e l’uomo
raccontò:
«Non
sono l’unico Marauder. Anzi, per essere precisi,
“Marauder” è il nome di tutti i nati in
terra Fiamminga che dimostrino poteri
paranormali diretti alla comunicazione e al traghettamento degli
spiriti.
Tuttavia, io sono il Marauder. Sono
stato il primo Fiammingo in cui si siano manifestati i poteri che ci
hanno resi
famosi. Circa trecento anni fa.»
Le
sopracciglia dell’alieno si incontrarono con sospetto, e
l’uomo sciolse la loro tensione proseguendo:
«Sono
un umano, come ogni altro abitante della
Confederazione. Ma, forse per via dei miei poteri, sono immortale. Al
tuo
contrario, però, non riesco a mantenere lo stesso corpo per
sempre: quando le
mie vesti materiali sono troppo sciupate, devo cambiarle.
Così fingo di morire:
la mia anima trasmigra in un altro corpo, e io continuo a vivere con le
mie
memorie e il mio spirito inalterati.»
«Io
non sono immortale. Vivo solo molto più a lungo degli
esseri umani.»
«Nemmeno
io sono sicuro di essere immortale. So solo che,
fino a questo momento, la mia anima ha scelto volontariamente quando
abbandonare un corpo e quando possederne un altro» sorrise
bonario, e
teatralizzò: «Il Marauder non muore mai. Si prende
solo una breve vacanza.»
«Funziona
così per tutti i Marauder?»
«No,
solo per me. Con il mio popolo condivido i poteri, non
il destino.»
«E
perché adesso non sei a guidare il tuo popolo?»
Francis
sospirò, scuotendo la testa.
«È
difficile, per gli esterni, comprendere lo stile di vita
dei Marauder: noi vediamo il mondo e lo scorrere del tempo in modo
totalmente
differente rispetto agli altri. Non sempre il ruolo di un comandante
è quello
di guidare il suo popolo tramite la politica. Ogni tanto, deve
allontanarsi per
accendere la miccia di cambiamenti epocali.»
«Io
sarei un cambiamento epocale?»
Francis
si rimise a sedere con uno scatto, e si voltò verso
di lui con l’espressione del gatto che caccia il topo.
«Sei
un alieno proveniente da una terra incantata, sei quasi
immortale e i tuoi poteri hanno salvato in due anni metà
delle persone presenti
nella Compagnia di Britannia. Sei uno sconvolgimento abbastanza
vistoso,
Arthur.»
Il
ragazzo si alzò dalla poltrona, e si drappeggiò
sul viso
la sua espressione più seria mentre proclamava:
«Non
sono un fenomeno da studiare.»
«Lo
so. È per questo che ti sto accompagnando.»
«Se
è solo per divertirti, puoi fare ritorno a casa»
replicò
asciutto il giovane, voltandogli le spalle. La premessa addolorata
dell’uomo lo
accarezzò tra le scapole.
«Non
sono qui per divertirmi, ma per aiutarti.»
Francis
sapeva che quelle spalle orgogliose non si sarebbero
voltate, quindi si rassegnò alla prospettiva di parlare con
la sua nuca.
«Non
ci siamo incontrati per caso, due anni fa. Ti stavo
cercando, Arthur degli Avalon. Jeanne mi aveva parlato di te, mi aveva
detto
dove trovarti.»
«Chi
sarebbe questa Jeanne che nomini sempre?» lo interruppe
bruscamente il giovane.
Francis
si portò una mano al cuore e accostò
l’altra alle
labbra, come per un baciamano cavalleresco.
«È
la coraggiosa pulzella che ha deciso di essere il mio
spirito guida. Lei non ha limiti fisici, capisci? È per
questo che può vedere
nel futuro, che può rivelarmi ciò che si trova
nel passato o nella mente degli
altri.»
«Perché
Jeanne ti avrebbe parlato di me?»
Il
Marauder prese fiato, grave. Sperava di affrontare quel
discorso con uno spirito più sereno. Ma era colpa sua e del
suo continuo
temporeggiare se quell’alieno era tanto infuriato con lui:
aveva promesso due
anni prima di rivelargli ogni cosa e non lo aveva mai fatto. Era tempo
di mantenere
quel giuramento.
«Verranno
tempi molto duri. Arthur, tutto quello che hai
sempre detestato in questo mondo... l’odio, il sangue, la
morte… ti
avvolgeranno, un giorno. Io sono qui… per guidarti lungo
quella strada di
oscurità.»
Arthur
si voltò come se fosse stato morso da una vipera, e
Francis alzò il tono di voce per impedirgli di
interromperlo: doveva finire il
discorso prima che il ragazzo si arrabbiasse ancora di più
con lui.
«È
inevitabile. Lo hai detto anche tu: questo mondo è
diversissimo dalla bellezza di Faerie. Questo mondo è marcio. Jeanne ha visto nel futuro, e
avrà luogo un’enorme
rivoluzione: ci sarà un’epoca nuova,
più luminosa e pacifica. Ma, per ottenere
quella beatitudine, dobbiamo prima sporcarci le mani con il fango di
questo
mondo ed eliminare il marciume» mille interrogativi si
agitavano dietro le
iridi acquamarina dell’alieno, e Francis continuò,
senza sosta: «Il Vaticano
creerà da solo i demoni che lo annienteranno. E tu, Arthur,
contribuirai alla
creazione di uno di essi. Ma non lo farai per malvagità: lo
farai per il popolo
che giurerai di proteggere.»
«Jeanne
potrebbe sbagliarsi!» esplose Arthur.
«No.
Jeanne non può rivelarmi i nomi di coloro che
sopravvivranno, e non può dirmi in che modo il Vaticano
verrà annientato, se
con la distruzione fisica o se con una riforma dall’interno.
L’unica cosa che
so, è che molto sangue verrà versato. E parte di
quel sangue colerà sulle tue
mani» si inginocchiò, come aveva fatto due anni
prima quando gli aveva rivelato
di essere un sensitivo: «Io non ti giudicherò.
Mai. Ma altri lo faranno. Dovrai
essere molto forte per affrontare tutto questo.»
«O
molto insensibile, come la maggior parte degli umani»
Arthur trasse un profondo respiro, e lo accusò:
«Perché non me lo hai detto
prima?»
«Non
volevo caricarti di questo fardello.»
«E
perché me lo dici ora?»
«Perché
ho visto la tua espressione, la prima volta che mi
hai parlato della malattia e della morte in questo mondo, e ho visto
come si
illumina il tuo viso ogni volta che riesci a salvare qualcuno. So che
ami la
vita e non la distruzione. Ma queste cose devono
succedere. E voglio che, quando accadranno, tu sappia che non
è colpa tua: sono
eventi necessari al rinnovamento» l’uomo
afferrò delicatamente la mano del
giovane, e la portò vicino al suo viso. «Io
sarò con te, Arthur. Ma, forse, non
in questa forma.»
«Che
intendi dire?»
«Come
ti ho detto, questo corpo si usura: probabilmente sarò
costretto a cambiarlo, prima che tutto ciò accada»
sollevò gli occhi dal colore
dei fiordalisi su di lui e mormorò: «Ma non
scomparirò; cambierò solo forma. Mi
riconoscerai, Arthur? Anche nelle mie prossime incarnazioni?»
«Non
vedo come» il giovane si riappropriò della sua
mano con
uno scrollone, e tornò a sprofondarsi in poltrona, immerso
in una caligine di
rabbia e depressione. Aveva trovato finalmente un motivo per vivere in
quel
mondo, e Francis, con le sue previsioni, lo aveva appena disintegrato.
Un
giorno, avrebbe infranto quegli stessi sorrisi che stava facendo
sorgere. Che senso
aveva continuare quel cammino, se poi avrebbe annientato ciò
che lui stesso
aveva creato?
La
mano del Marauder si librò di fronte al suo viso,
reggendo un delicato fiore di cristallo.
«Utilizzerò
di nuovo questo nome, quando verrà il tempo di
incontrarsi ancora. “Francis Bonnefoy”. E, se non
sapessi dove trovarmi, usa
questo fiore: ti indicherà la strada.»
«Che
razza di fiore è?» sbuffò Arthur, senza
afferrare il
monile.
«È
un non ti scordar di me» lo presentò Francis, con
un
sorrisetto enigmatico.
L’alieno
fissò quell’orpello di cristallo incantato e gli
occhi blu che lo osservavano dal bracciolo della poltrona.
Artigliò con le dita
il tessuto imbottito, e digrignò i denti, sibilando:
«Non
c’è alternativa? Tutte queste cose…
devono succedere
per forza?»
La
mano del Marauder salì delicata a lambirgli il viso. Era
calda e gentile, e Arthur non la respinse: anche se il suo orgoglio
ruggiva, in
quel momento aveva bisogno di essere consolato. Non aveva mai
desiderato un
mondo simile. La sua Faerie, la sua amata Faerie non conosceva tutte
quelle
sofferenze; si era trovato circondato da quelle brutture sconosciute, e
un
giorno sarebbe diventato la forza motrice di una di esse. Non era
giusto: lui
era venuto in quel mondo per amore di conoscenza, non per sete di
sangue.
«Mi
dispiace» la voce del Marauder lo accarezzò
insieme alle
sue dita gentili. «So quanto odi la corruzione di questo
mondo. So quanto vuoi
tornare a Faerie. Ma purtroppo sei qui, e non puoi tornare indietro.
Devi
imparare a ballare sulla melodia stonata di questo mondo.»
«Odio
quella melodia» ringhiò Arthur.
Il
fiore emise un tintinnio fragile quando venne appoggiato
sul cassettone, e le braccia del Marauder lo avvolsero dolcemente con
un
fruscio caldo.
«Lo
so. Tutti noi la odiamo. Per questo ognuno di noi urla
per sovrastarla.»
«Anche
io dovrò urlare.»
«Purtroppo
sì.»
Arthur
sciolse il suo abbraccio con decisione, ma senza
scortesia. Puntò gli occhi acquamarina sul viso del Marauder
e la sua voce
devastata vibrò:
«Così
sia.»
La
ricompensa per la sua fermezza fu il sorriso serafico che
sbocciò sul viso del Marauder.
«Sei
davvero coraggioso. Molto più di noi umani. Forse tu
riuscirai davvero a cambiare questo mondo.»
«Non
da solo» patteggiò brusco Arthur.
«Ovviamente»
confermò Francis, facendo tintinnare un petalo
del fiore. «Né in questa, né nelle
prossime reincarnazioni.»
«Sarà
meglio per te. Sei tu ad avermi trascinato in questo
uragano» lo rimproverò Arthur.
«E
sarò io ad accompagnarti fino alla fine.»
Non
poteva fare molto per alleviare il destino truculento
che aspettava quel giovane. Ma anche l’Inferno poteva
sembrare una taverna
troppo riscaldata, se la compagnia era buona.
***
Cinque
anni dopo, il Leone Incoronato lo aveva chiamato al
suo cospetto.
Arthur
si era sentito improvvisamente fuori posto, con la
sua palandrana sdrucita in mezzo ad una profusione di vestiti di
broccato,
titoli altisonanti e gioielli preziosi.
Si
era inchinato di fronte al re mentre la gente bisbigliava
sulle sue origini misteriose. Il Leone Incoronato, quello era
l’appellativo
formale per il sovrano, aveva storto il naso di fronte alla modestia
del suo
vestiario, ma l’eccezionale portata dei suoi poteri aveva
sopperito a quella
lieve pecca stilistica.
Gli
eventi si erano succeduti con una rapidità da capogiro,
come nelle fantasie di un ubriaco: la Compagnia di Britannia
necessitava di un
incantatore che fosse paragonabile all’Asse e al Figlio del
Cielo per competere
con il Vaticano e il Sistema Asean; per questo lo avevano velocemente
investito
della carica di Mago di Corte, presto cambiata in Mago
dell’Ovest poiché il
popolo sembrava reagire con più passione a
quell’epiteto nato nei sobborghi.
Arthur
era presto diventato la stella guida della
stregoneria nella Compagnia di Britannia e non solo: i corsari reali
avevano
richiesto la sua presenza durante i trasporti più importanti
per scongiurare il
pericolo della pirateria spaziale.
La
notorietà del Mago dell’Ovest si era
così sparsa nei
pianeti della Confederazione, portando, nella primavera di sette anni
dopo, alla
firma del trattato siglato dall’Asse e dal Figlio del Cielo,
in cui il Mago
dell’Ovest veniva riconosciuto come incantatore di livello
superiore; durante
quello stesso inverno fu stipulato un ulteriore riconoscimento da parte
del
Samurai e del Guardiano, che accettavano ufficialmente il Mago
dell’Ovest come
Terza Spada.
Arthur
aveva rivelato al sovrano la sua peculiarità: era un
alieno in grado di vivere molto più a lungo degli esseri
umani. Il Leone
Incoronato aveva così tenuto un discorso in cui, omettendo
la sua nascita
aliena, aveva annunciato al popolo che i grandiosi poteri del loro
incantatore
gli avrebbero consentito di vivere per secoli e di proteggere la loro
amata
Britannia. La folla era esplosa in un boato di felicità.
E,
a ogni suo successo, Francis era con lui.
Lo
accompagnò in tutti quegli anni irrefrenabili,
finché nei
suoi capelli non cominciarono a scorrere alcune ciocche argentate.
«Sei
invecchiato» Arthur sottolineò con lo sguardo le
lievi
rughe a lato degli occhi blu e la chioma ingrigita.
«Quando
rinascerò, sarò molto più giovane di
te» il Marauder
trasse un profondo respiro, passando una mano sul volto non
più perfettamente
liscio. Aspettò qualche secondo prima di racimolare la forza
necessaria ad
annunciare: «Temo che sia arrivato il momento di
salutarci.»
Arthur
aveva contenuto lo spavento tra le spalle irrigidite.
Temeva la solitudine, ed era colpa del Fiammingo: se non avesse
riscoperto
quanto era bello avere qualcuno su cui contare, non avrebbe risentito
così
tanto della sua perdita.
«Chiedi
al fiore. E ricordati: quando sarà tempo di
incontrarsi di nuovo, avrò questo nome.»
«Francis
Bonnefoy.»
Il
Marauder annuì.
«Al
prossimo incontro, Arthur degli Avalon» ghignò,
malizioso. «O dovrei chiamarti con il cognome che ti ha
donato il re?»
«Kirkland
è un bel cognome» si difese il Mago
dell’Ovest.
«Ma
è il tuo vero cognome a ricordarti le tue radici.»
Il
sorriso di Francis si accentuò ulteriormente mentre gli
scoccava la sua ultima frecciatina:
«Jeanne
dice che, forse, quando ci incontreremo di nuovo,
sarai abbastanza maturo da dirmi ciò che ora ti vergogni di
confessare.»
«Non
ho proprio niente da confessare!»
«Hai
negato troppo velocemente per essere credibile.»
«Non
te ne stavi andando?»
«Hai
ragione.»
Le
labbra del Marauder si appoggiarono alla sua nuca, e le
parole gli scorsero sul collo.
«Sii
forte, Arthur degli Avalon.»
Il
Mago dell’Ovest si voltò di scatto, ma non vi era
più
nulla, in quella stanza svuotata dalla presenza del Fiammingo.
Strinse
i denti e raddrizzò lo sguardo.
I
tempi duri non erano nemmeno cominciati.
***
Passarono
cento anni prima che dalle terre Fiamminghe
giungesse la notizia: era nato un bambino con gli occhi color
fiordaliso e i
capelli biondi. Era destinato a diventare la guida di Marauder. Il suo
nome era
Francis Bonnefoy.
Trascorsero
nove anni prima che potessero incontrarsi di
nuovo.
Lo
trovò nel suo studio, beatamente adagiato sulla poltrona
dietro la scrivania; l’espressione dispettosa di un bambino
pronto a vendicarsi
si dipinse su quel volto paffuto.
«Sei
invecchiato» Francis gli restituì le parole di
più di
cento anni prima.
«E
tu sei un marmocchio» replicò Arthur.
«Touché» ammise il
Fiammingo.
«Come
sei arrivato qui?» lo interrogò il Mago
dell’Ovest,
con tono stanco.
«Non
hai cambiato la serratura, in tutti questi anni» fu la
risposta evasiva di Francis.
Arthur
lo fece scendere dalla poltrona e occupò il suo posto
con uno sbuffo esausto. Voltò il viso, perché il
Marauder non leggesse nella
curvatura amara delle sue labbra ciò che stava cercando di
dimenticare. Francis
lesse comunque il suo segreto nella linea rigida delle spalle.
Le
mani morbide del bambino si poggiarono sul suo braccio, e
vi rimasero anche quando lui provò a scrollarlo senza troppa
convinzione.
«“Sarò
lì per tamponare le ferite”. Te l’ho
promesso. Per
questo sono qui: tu stai sanguinando, Arthur.»
Il
Mago dell’Ovest non rispose.
Gli
eventi terribili che il Marauder aveva annunciato un
secolo prima erano avvenuti: per salvare Britannia e tutta la sua
gente, aveva
dato alle fiamme un intero pianeta.
Arthur
aveva appoggiato il mento sul pugno chiuso, e Francis
li vide tremare entrambi; lo stesso terremoto scuoteva le iridi del
mago, che
parevano sul punto di spezzarsi come una diga troppo colma.
Il
Marauder provò un’enorme compassione per quel
povero
uomo. Era un alieno che non avrebbe mai dovuto vedere simili orrori,
nella sua
Faerie incantata; invece era stato trascinato nel loro mondo di fango e
sangue,
ed era stato costretto ad affondarvi fino ad annegare. Ed era stato lui
a
spingerlo nella palude che lo avrebbe affogato. Per un bene superiore,
per
rispettare i dettami del destino che Jeanne aveva predetto, ma nessuna
di
queste giustificazioni sarebbe servita a farlo sentire meno in colpa:
aveva
contribuito a spegnere la fiamma della gentilezza in
quell’uomo che non
comprendeva il senso della malattia e della morte. Niente avrebbe
cancellato la
sua colpa.
Si
arrampicò sulla poltrona, maledicendo il suo corpo troppo
piccolo, e si lanciò contro il petto del Mago
dell’Ovest. Strinse con le
braccia tozze quel busto tanto più largo del suo e
singhiozzò:
«Non
è colpa tua, Arthur. Non sei stato tu a volerlo, non
l’hai mai voluto. Non è colpa tua.»
Uno
scappellotto gli fece rimbalzare la testa dentro le
spalle.
«Sciocco,
sono io che dovrei piangere» la stessa mano che lo
aveva colpito si appoggiò sulla sua testa, e gli
accarezzò i capelli soffici
come lui aveva fatto con il Mago dell’Ovest un secolo
addietro. A quel tempo,
era lui il più grande dei due. «Assumi i
comportamenti di un bambino, quando
rinasci» la voce era dura, ma le dita che lo rassicuravano
erano gentili. «Ma
non è male. È meglio quando piagnucoli di quando
molesti gli altri.»
«Parlo
sul serio» aveva raddrizzato il viso tondeggiante,
asciugandosi rapidamente gli occhi sulla manica della giacchetta blu.
«Arthur,
non è colpa tua.»
«E
il tuo amico cosa ne pensa?» la bocca del Mago
dell’Ovest
si contrasse in un ghigno pregno di acredine. Lo aveva visto arrivare a
cavallo
di un enorme corvo con il suo amico Hellsing, e li aveva visti mentre
salvavano
il piccolo Carriedo. Aveva immaginato che fosse lui il demone che
doveva far
nascere: i suoi occhi pieni di tristezza, fuoco e odio suggerivano
così.
Francis
non riuscì a rincuorarlo, e Arthur si fece bastare
quel silenzio. L’ultimo Carriedo lo avrebbe odiato fino alla
tomba, e lui non
avrebbe potuto biasimarlo in alcun modo.
«Jeanne
ti ha rivelato altro, sul nostro futuro?» domandò
in
un sospiro.
Il
Marauder si sedette sulle sue ginocchia, e rovesciò la
testa all’indietro per fissarlo negli occhi.
«Contribuirai
all’incarcerazione dell’Hellsing. E alla mia.
Ma è giusto così» lo bloccò,
prima che Arthur potesse ribellarsi. «Ci
libereremo. Entrambi. E lotteremo al tuo fianco fino alla fine. Anche
tu
prenderai parte al grande sconvolgimento finale.»
«Cosa
ti fa pensare che sia pronto a gettarmi nella fucina
della guerra?»
Il
sorriso di Francis gli trapassò il cuore quando il bimbo
gorgheggiò:
«Lo
farai affinché ci si possa vedere ancora. Con il mio
popolo condivido i poteri, non il destino. Con te, invece, condivido il
destino, e non i poteri.»
Arthur
lo fece rigirare bruscamente sulle sue gambe, in modo
che il Marauder non fosse costretto a storcersi il collo per parlare
con lui.
«Che
intendi dire?» pretese di sapere.
E
Francis gli rivelò tutto. Lo stupore aumentò
nelle iridi
acquamarina del Mago dell’Ovest fino a quando gli occhi non
minacciarono di
uscirgli dalle orbite.
«Ora
comprendi?» domandò il Fiammingo, alla fine.
Arthur
annuì, stordito dalla notizia. Francis si alzò in
piedi sulla poltrona, e poggiò le labbra morbide come un
petalo di rosa sulla
fronte corrugata del Britanno.
«Sei
un grande uomo. Non dubitare mai di questo.»
Il
Fiammingo sorrise triste e rispose dolcemente alla
stretta del Mago dell’Ovest: le braccia dell’uomo
lo strinsero con urgenza,
aggrappandosi a lui come alla sua ultima speranza.
Francis
non ebbe bisogno di ricorrere ai suoi poteri da
sensitivo per capire quali pensieri si agitassero in quella testa dai
capelli
crespi. Il fuoco di Hispaňa aveva marchiato i suoi occhi con immagini
indelebili: non sarebbe mai riuscito a scacciarle, come le sue orecchie
non
avrebbero mai dimenticato le urla dei feriti.
Arthur
non pianse: su Faerie non esisteva la tristezza, per
cui non sapeva come si facesse a sfogarla nelle lacrime. Francis
accarezzò
quella chioma ispida, posando dei baci sulle ciocche pungenti.
«Quando
avrai bisogno di me, Arthur, chiedi al fiore che ti
ho lasciato. Lui saprà dove trovarmi.»
***
Era
quello stesso fiore che la copia del Mago dell’Ovest
stava mostrando al capitano della Reina
de la Oscuridad e a tutto l’equipaggio riunito sul
ponte.
«Francis
è vivo?» fu Gilbert a spezzare quel silenzio
ultraterreno, esprimendo la speranza che nessun osava pronunciare.
«Non
esattamente» confutò Arthur. «Di solito,
sceglieva
volontariamente quando abbandonare il corpo e quando reincarnarsi.
L’esecuzione
improvvisa potrebbe avere sconvolto i suoi piani: potrebbe non
ricordarsi più
chi è, anche se il suo spirito ha assunto una nuova forma
materiale. E potrebbe
non assomigliare per nulla al Marauder che conosciamo. Ma questo fiore
ci
porterà da lui, qualunque sia la sua condizione
attuale.»
Antonio
fissò quei petali di cristallo, fragili come le loro
possibilità di successo.
«Non
abbiamo alternative» sentenziò.
«Mostraci la strada.»
Arthur
avvicinò il fiore alle labbra, e bisbigliò
qualcosa
sui suoi petali di brina.
Un
cuore di luce blu tinse la corolla del non ti scordar di
me, che scoccò una freccia color lapislazzulo nel cielo.
Tutti i marinai
sollevarono il viso per osservare quella sottile riga blu che divideva
lo
spazio a metà.
«Avvisate
il Custode dei Cancelli e il Figlio del Cielo che
stiamo per fare rotta verso Chugoku» ordinò
Antonio, dopo aver valutato la
direzione della minuscola via incantata. «E faremo una breve
sosta sul pianeta
dei Gunsmith: Gilbert deve ancora recuperare le sue armi. Ed
è il caso che
anche noi facciamo dare una revisionata ai nostri ferri
vecchi.»
«Ma
la situazione di Chugoku non è turbolenta, non dovremmo
avere bisogno di combattere…» obiettò
un marinaio, immediatamente zittito dal
capitano.
«Il
Figlio del Cielo è stato detronizzato. Non so cosa stia
accadendo su quel pianeta, ma dubito che sia pacifico come fa
credere.»
I
pirati non discussero ulteriormente i comandi della Mano
Destra del Diavolo e corsero ad accendere i motori.
Il
Mago dell’Ovest non prese parte ai loro preparativi.
Strinse
delicatamente il fiore. Aveva parlato abbastanza
piano; nessuno aveva sentito la frase che aveva utilizzato per azionare
l’incanto
del non ti scordar di me.
Sono
pronto a
gettarmi nella fucina della guerra, affinché ci si possa
incontrare ancora.
E
il dodicesimo
capitolo è giunto, insieme ad Arthur<3
Solo
alcune
note: per scrivere questo capitolo, mi sono ispirata alla cultura
celtica e al
ciclo arturiano (Avalon, Vivien e Merlino). Il simbolo della casata di
Arthur è
un melo: questo perché, nella cultura druidica, il melo era
l’albero sacro, come
per il cristianesimo può esserlo l’uva (da cui si
ricava il vino usato durante
la messa). Si ritiene (ma questa è solo una delle tante
teorie) che la mela sia
stata scelta in epoca romana come “frutto
demoniaco” proprio per screditare le
culture “estere”, che invece la adoravano.
Breve
parentesi
storica conclusa<3
E
con questo… vi
do appuntamento a lunedì<3 Un capitolo sui Gunsmith e
sul perché sono in
debito con Gilbert 8D
A
presto<3
Red
|
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Capitolo 13 *** Gunsmith ***
Capitolo
Tredici: Gunsmith
Ogni
Hellsing
deve avere un famiglio.
Per
essere più precisi, ogni Hellsing creava
il suo famiglio. Il primo degli sterminatori aveva
tramandato quella tecnica, che richiedeva concentrazione, pazienza e,
soprattutto,
costanza: occorreva un mese intero per dare vita a un gregario degno.
Quando un
Hellsing riusciva a plasmare il proprio compagno di battaglia, passava
dal
grado di semplice cadetto a quello di sterminatore effettivo:
dimostrando di
essere in grado di padroneggiare la propria creatura, un combattente
guadagnava
il diritto di scendere sul campo di battaglia.
Lui
era nato dalle mani di un Hellsing piuttosto bizzarro:
usava uno strano strumento a forma di otto, per combattere.
Quell’arma sembrava
difettosa: era fatta di legno, e si lamentava ogni volta che
l’archetto
scivolava sulle sue corde. Tuttavia, il suo padrone era buono e
gentile: aveva
creato una superba spilla con la sua immagine, in cui lui riposava e da
cui poteva
sentire il suono di quella bizzarria di legno che chiamavano violino.
Un
famiglio
esiste per servire l’Hellsing che l’ha creato; nel
momento in cui un Hellsing
muore, muore anche il suo famiglio.
Il
suo padrone non era propriamente morto, ma aveva tradito
tutto il suo popolo: pur continuando a respirare, lo sterminatore
gentile si
era estinto. E lui non aveva più senso di esistere, senza un
padrone.
Avevano
cominciato a cadergli le piume, delle spesse
graffiature gli facevano sanguinare il becco, e non riusciva
più a mantenere dritto
l’assetto di volo. Era atterrato malamente su un asteroide
poco distante dal
pianeta, in attesa della morte. E lì li aveva incontrati:
altri cinque famigli
che, come lui, avevano perso il loro Hellsing. Avevano combattuto a
fianco del
loro sterminatore finché i demoni non li avevano divorati
tutti; poi, presi dal
panico, erano fuggiti anziché seguire i loro padroni nel
loro destino. Avevano
solo posticipato l’inevitabile: senza un Hellsing da seguire,
sarebbero
avvizziti come una pianta senza nutrimento.
Non
aveva intenzione di giudicarli per aver abbandonato il
pianeta anziché farsi mangiare dai diavoli; si
spostò in modo che i suoi cinque
colleghi potessero accostarsi a lui, e si accovacciarono tutti insieme
in
silenzio, aspettando che la nera signora li falciasse uno per uno.
Passarono
tre giorni prima che la speranza bussasse di nuovo
alla loro porta.
Le
piume erano cadute quasi completamente, lasciando
scoperta la pelle desquamata; il becco era ingrigito e indebolito, come
se un
batterio sconosciuto lo avesse spolpato. Non avevano più la
forza di alzarsi
sulle zampe o di stendere le ali: ormai non mancava molto.
Un
improperio troppo colorito per una bocca troppo giovane
li scrollò dal loro torpore.
Il
piccolo Hellsing, che un giorno sarebbe diventato la
guida del loro popolo, stava prendendo a calci i sassi di quel pianeta,
imprecando a gola spiegata. Un torrente di lacrime scorreva sulle sue
guance da
bambino, mentre malediceva tutti i demoni che si erano mangiati la sua
gente.
Aprì
il becco, e il suo gracchiare rauco fece voltare il
bimbo che, in un moto di orgoglio infantile, sfregò la
manica impolverata della
camicia sulle lacrime; la polvere portata dal tessuto e il lungo pianto
resero
la cornea rossa quanto le sue iridi.
«Siete
rimasti senza padrone?» si avvicinò fino a
raggiungere la sua testa esausta, riversa a terra. Il famiglio
annuì anche a
nome degli altri.
Sul
volto del bambino si lesse una rassegnazione terribile.
Aveva assistito al massacro della sua gente, per questo non si era
preso nemmeno
il disturbo di chiedere se i loro padroni fossero da qualche parte. Il
luogo in
cui riposavano gli Hellsing erano gli stomaci dei demoni che li avevano
divorati. Gilbert strinse i piccoli pugni, a quel pensiero.
Inoltre,
le condizioni di quel sestetto di gregari erano
troppo scalcinate per lasciare spazio ai dubbi: erano rimasti senza
padrone,
pronti a intraprendere una lenta discesa verso la morte.
Gilbert
stese la mano e la appoggiò sul capo spiumato del
più vicino dei famigli, un enorme gufo delle vette; dedusse
la sua provenienza
dalle poche piume ancora attaccate, candide come la neve.
«Voi
siete gli unici sopravvissuti, insieme a me»
rifletté,
passando ad accarezzare la gigantesca civetta poco distante.
«Ma non avete più
un padrone…»
Il
piccolo si rialzò, con una decisione ferrea a
illuminargli il viso paffuto.
«So
come si creano le spille. Mio padre me l’ha insegnato.
Ma non posso lasciarvi in questa forma… senza padrone, siete
destinati a morire»
Gilbert passeggiò in cerchio, rimuginando elucubrazioni e
teorie, finché la
scintilla di un’idea non gli rischiarò la mente.
«Aspettatemi
qui» si raccomandò, inutilmente: in quelle
condizioni, non potevano muoversi in alcun modo.
«Sarò di ritorno tra due
giorni. Ve lo prometto.»
Richiamò
Gilbird, gli montò in groppa e sparì nel cielo.
Come promesso, due giorni dopo si ripresentò
sull’asteroide, con uno zaino più
grande di lui sulle spalle. Le sue gambette traballarono paurosamente,
quando
oscillò verso di loro sotto il peso del suo bagaglio.
«Sono
stato dal fabbro del pianeta più vicino. Avevo bisogno
della sua officina. E poi sono stato dal sarto» i famigli non
compresero il
senso delle sue parole finché non lo videro estrarre il
contenuto dello zaino:
stoffe, stoffe e ancora stoffe, tagliate e cucite in modo piuttosto
spartano, e
sei spille a forma di essere umano. Si vedeva la mano infantile, in
quelle
forme troppo tonde e con la testa sproporzionata rispetto al corpo.
Non
si mosse, quando il piccolo gli avvicinò la punta della
spilla al collo rinsecchito; emise appena un gracidio, quando lo punse.
Poi,
all’improvviso, tutto cambiò: dal collo
partì una scarica elettrica che lo fece
tremare in tutto il corpo; le membra si allungarono in forme a lui del
tutto
sconosciute, il becco si ritirò nella faccia, il piumaggio
migrò tutto in cima
alla testa.
La
prima cosa che i suoi occhi nuovi misero a fuoco furono
un paio di strane appendici dotate di dieci diramazioni secondarie.
«Ha
funzionato!» festeggiò il bambino, lanciandogli
addosso
uno dei vestiti più grandi. «Sei diventato un
essere umano!»
Aveva
vissuto in mezzo agli Hellsing abbastanza a lungo da
sapere come si infilavano quegli abiti, per cui riuscì a
fare uscire testa,
braccia e gambe dai buchi giusti. Gilbert osservò quel
gigante d’uomo fasciato
dai vestiti lievemente troppo stretti per lui: era alto e grosso come
un orso,
con un paio di spaesati occhi azzurri e un’irsuta chioma
bionda.
«Ti
ricordi il tuo nome?» domandò Gilbert, mentre si
chinava
sulla civetta per pungerla con la seconda spilla.
L’omone
batté le palpebre sugli occhi sgranati, due volte, e
boccheggiò, tre volte, prima di raspare, con voce cavernosa:
«Mi
chiamo…»
***
«Mathias!»
L’uomo
si alzò di soprassalto dal divanetto su cui non si
era accorto di essersi appisolato.
Norge
lo stava chiamando, con un’impazienza collerica negli
occhi violacei.
«Che
succede?» sbadigliò l’omone.
Il
ragazzo gli assestò uno scappellotto sulla testa dura, e
sparò:
«Oggi
torna Gilbert! Hai finito di preparare le sue armi?»
Norge
sistemò nervosamente la zazzera platino sotto il
cappellino blu che indossava ogni giorno: era stata l’ultima
cosa che Gilbert
gli aveva messo addosso, quando si era trasformato in essere umano.
Mathias
annuì mollemente con il testone, slogandosi la
mascella in uno sbadiglio.
«Ho
finito ieri, non appena Vash mi ha passato il fucile» si
stiracchiò, mentre tranquillizzava il suo compagno.
Tra
i Gunsmith, loro due erano la coppia addetta
all’incantamento delle armi; Vash e Lily erano i fabbri,
mentre Berwald e Tino
si occupavano delle protesti.
L’Hellsing
li aveva trasformati e vestiti, e li aveva
accompagnati durante i primi mesi, in cui avevano faticato di
più ad abituarsi
a quel nuovo corpo: si muovevano come burattini cui erano stati
tagliati i
fili, tremendamente goffi, con le estremità che sfuggivano
al loro controllo
quasi avessero volontà propria. Gilbert li aveva aiutati ad
acquistare
confidenza con il loro nuovo corpo. La cosa che aveva loro creato
più problemi
era stato adattarsi ai nuovi occhi umani: le pupille riflettevano il
mondo in
un modo del tutto diverso, con una gamma di colori mai vista prima.
Faticarono
ad abituarsi ai nuovi colori del mondo, così come
trasalirono tutti insieme
nell’assaggiare il cibo umano: nella loro forma di famigli
non avvertivano mai
i morsi della fame. Avevano creduto che quel nuovo corpo fosse
difettoso,
quando avevano sentito i gorgoglii dello stomaco: poi Gilbert aveva
portato un
canestro pieno di leccornie, e avevano scoperto quanto appagare la fame
potesse
essere soddisfacente.
Ma
nemmeno Gilbert era riuscito a consigliarli quando
avevano avvertito una pulsione sconosciuta fargli tremare il cuore. E
un’altra
parte del corpo, aveva ammesso vergognosamente Mathias con se stesso.
L’Hellsing era troppo piccolo per sapere cosa volesse dire
innamorarsi, ma i
sei famigli erano nell’età giusta; tuttavia, non
avevano idea di cosa quei batticuori
potessero significare: Tino aveva disseminato involontariamente il
panico,
quando aveva candidamente suggerito che forse erano
l’anticamera dell’infarto.
Erano state creature asessuate fino a poco tempo prima, e pensavano che
le cose
che avevano in mezzo alle gambe servissero solo come canale di scolo
per le
scorie.
Berwald
aveva preso la questione di petto: un bel giorno,
aveva afferrato Tino per le spalle e, dopo averlo mostrato a tutti,
aveva
dichiarato che, da quel momento, quel dolce ragazzo sarebbe stato sua
moglie.
La pelle bianca di Tino era esplosa in un rosso congestionato e, nei
primi
tempi, aveva protestato, pur mantenendo il suo atteggiamento docile -
venato di
timore per quel colosso con gli occhiali. Poi le lamentele cortesi si
erano
smorzate fino a spegnersi del tutto. Nessuno aveva indagato sul motivo,
così
come nessuno aveva chiesto perché alcune volte i due
sparissero fino alla
mattina.
Dopo
era venuto il turno di Vash e Lily: l’unica femmina del
gruppo aveva sempre avuto un debole per quel ragazzo con la fronte
perennemente
corrugata che chiamava “fratellone”. Non avevano
dichiarato nulla di plateale
come Berwald, ma Vash aveva cominciato a dormire vicino a Lily, e a
cacciare
furiosamente chiunque si avvicinasse a loro. Infine, Mathias aveva
iniziato a
interessarsi a Norge; era stato un corteggiamento lungo e sofferto,
specie
perché il colosso, con il suo modo di fare da sempliciotto
burlone, riusciva
sempre a rovinare ogni momento potenzialmente romantico.
Gilbert
aveva assistito con serenità alla realizzazione di
quelle coppie; e quando anche Mathias e Norge erano diventati
ufficiali,
Gilbert gli aveva fatto un ultimo dono.
Li
aveva portati su un pianeta inabitato, e lì li aveva
aiutati, insieme a Gilbird, a costruire una casa. Poi, aveva annunciato
il suo
progetto: sarebbe tornato nel suo mondo per liberarlo da tutti i demoni.
Mathias
lo aveva placcato, impedendogli fisicamente di
muoversi, e gli aveva strappato un accordo: non avrebbe lasciato quel
pianeta
finché non avessero trovato un modo per ripagarlo, almeno un
poco. Aveva dato
loro la vita, li aveva assistiti nella crescita, e gli aveva trovato un
nuovo
posto in cui abitare.
Gilbert
aveva così atteso, coccolato da Lily – entusiasta
per la scoperta dell’istinto materno, sentimento sconosciuto
a un famiglio
creato artificialmente – e assistito dai maschietti. Non
avevano impiegato
molto tempo per imparare il loro nuovo mestiere: erano creature nate
due volte
dalla magia, i loro ritmi di apprendimento per le arti erano accelerati
rispetto agli esseri umani. In pochi anni Vash e Lily avevano imparato
a
forgiare armi, Berwald e Tino a creare protesi, e Mathias e Norge a
incantare i
prodotti delle altre coppie. Avevano creato armi magiche per proteggere
il loro
angelo salvatore, e avevano salutato un Gilbert quattordicenne mentre
partiva
per la liberazione del suo pianeta.
«Un
giorno ripagheremo il nostro debito» aveva proclamato
Mathias.
«Questo
è sicuro» aveva avvalorato Berwald, con la sua
voce
da lupo delle montagne.
«Fai
attenzione, Gilbert» si raccomandò Lily,
tormentando un
fazzoletto.
L’Hellsing
era sparito con il suo ghigno caratteristico, ed
era ricomparso solo qualche giorno prima. Gli occhi erano
più stanchi e il
corpo era maturato in quello di un uomo, ma la furbizia che si annidava
dietro
il suo sorrisetto era rimasta immutata.
Mathias
sentì Lily trafficare nella cucina, in balia del suo
istinto materno che le imponeva di cucinare qualcosa per il loro
pupillo. Tino
stava spazzando per terra, Berwald e Vash osservavano quel delirio
domestico a
metà tra lo sconcertato e il timoroso, Norge aspettava
ancora che lui
schiodasse il coccige dal divano.
Mathias
si alzò per accontentare il compagno, e batté le
mani quando sentì bussare alla porta.
«Gilbert
è arrivato!»
Lily
arrotolò il grembiule e lo gettò su una sedia in
cucina, Tino nascose la scopa e si mise in posizione vicino alla porta;
gli
altri quattro li raggiunsero e si prepararono ad accogliere il loro
salvatore.
Il
saluto si atrofizzò nell’aria, quando lo videro
varcare
la soglia assieme all’uomo responsabile della distruzione
degli Hellsing. Tutti
fecero un passo indietro, istintivamente, nel riconoscere
l’assassino della
loro specie; solo Mathias non si mosse, e fissò il
compositore che avanzava
faticosamente, sorretto da Gilbert.
«Roderich?»
lo identificò.
L’uomo
sollevò lentamente il volto su di lui, e una
confusione totale vagò nelle iridi ametista.
«Ero
il tuo famiglio. Mathias» svelò.
Il
disorientamento tinse per qualche altro secondo gli occhi
del violinista, prima che questi si spalancassero in una sorpresa
morigerata.
«Mathias?
Come è possibile? Un famiglio non sopravvive senza
il suo Hellsing…» obiettò, garbato ed
esausto.
«Gilbert
l’ha salvato» telegrafò Vash.
«Ci
ha salvati tutti» sottolineò Lily.
Gilbert
mordicchiò il labbro inferiore. Stava per chiedere
un favore enorme ai suoi vecchi amici: guardando Roderich, loro
vedevano solo
l’uomo responsabile dell’eccidio degli Hellsing. Ma
sperava di cuore che
accettassero comunque la sua richiesta: non aveva tempo di spiegare
loro la
situazione, la ferita di Roderich era troppo grave.
«Potete
aiutarlo?» domandò, indicando con gli occhi il
moncherino dell’uomo, malamente fasciato dai pirati.
I
due Gunsmith responsabili delle protesi si fissarono per
un attimo in silenzio – Berwald con gelida
ostilità e Tino con allarme – prima
di chinare entrambi il capo in un assenso: odiavano
quell’uomo, ma la stima che
nutrivano per Gilbert era troppo profonda. Doveva esserci una
spiegazione a
quella situazione, ed erano sicuri che l’Hellsing
gliel’avrebbe fornita. Per il
momento, dovevano solo fare il loro dovere.
***
Berwald
e Tino si dimostrarono professionali e precisi come
sempre, sebbene il loro paziente fosse una persona sgradita: il
più piccolo dei
due analizzò la lesione dell’Accordatore, e
spiegò al collega che tipo di
protesi occorresse. Berwald si ritirò in uno stanzino
– la cui entrata era
coperta da una pesante tenda di velluto blu – per alcuni
minuti, durante i
quali i presenti furono allietati dai suoni di seghe elettriche, tonfi
e allacciature
meccaniche.
L’omone
riemerse esibendo un’impeccabile riproduzione di una
mano umana: le giunture erano state ricreate con molle avvolte da una
pasta di
gomma morbida, le ossa di metallo e gli ingranaggi installati per
permettere
alle dita artificiali di muoversi correvano sotto il rivestimento di
pelle
sintetica, per evitare che i meccanismi prendessero polvere o ruggine.
«L’allacciamento
farà male» avvertì Berwald con la sua
voce
baritonale, e sistemò gli occhiali prima di procedere alla
congiunzione.
Roderich contrasse tutto il volto quando gli aghi della protesi gli
penetrarono
la carne per allacciarsi ai muscoli e alle ossa.
Il
Gunsmith lanciò un’occhiata eloquente al binomio
addetto
ai traffici magici: la protesi non era nulla, senza i loro pasticci
sovrannaturali. Mathias accettò quell’onere: la
nuvola scura scesa sul volto di
Norge non prometteva nulla di buono, e non avrebbe costretto il suo
compagno a
lavorare controvoglia.
Si
inginocchiò di fianco al suo ex-padrone, estrasse una
fiala di liquido iridescente dal tascapane e la versò con
dovizia sul punto di
congiunzione: un sottile sfrigolio si propagò
nell’aria, mentre la carne di
fondeva completamente alla nuova appendice meccanica.
Roderich
non emise un suono per tutto il tempo. Nel lungo
svenimento seguito alla sua mutilazione, aveva rivissuto tutti i
crimini
perpetrati nel nome del Vaticano: l’Accordatore lo aveva
fatto senza scrupolo e
senza rimorso, ma l’Hellsing aveva sofferto per ogni singola
goccia di sangue.
Il ricordo che più lo tormentava, era quello della sua gente
che si dibatteva
nelle bocche dei demoni. E il viso di Elizabeta, che lo guardava con
l’ombra di
un sorriso nonostante lui le avesse appena squarciato il petto con la
sua
musica, come se fosse sicura che un giorno Roderich sarebbe tornato.
Quel
giorno era venuto. Ma non c’era più nessuno ad
aspettarlo.
«Come
stai?»
Roderich
testò la mobilità del nuovo arto per dissimulare
un
sorriso. No, qualcuno c’era. Il più tenace e
testardo di tutti gli Hellsing.
«Mi
occorrerà qualche giorno per imparare a muoverla
correttamente» valutò, atono.
Gli
occhi dei Gunsmith saettavano dall’Accordatore a Gilbert
ai loro colleghi, incerti sul da farsi. Avevano compiuto il loro
dovere, ma
erano restii all’idea di permettere a
quell’individuo di lasciare la loro casa.
Caina era il giusto posto per quell’essere, o una delle altre
due Prigioni.
La
stigmate di argento, che si stava ossidando man mano che
il potere dell’Accordatore scemava, bruciava sulla sua mano
sinistra. Roderich
la nascose con il nuovo arto, e pronunciò il duo discorso
con enorme fatica.
«Anche
se mi rendo conto che le scuse non sono sufficienti
per rimediare a quanto ho fatto… mi dispiace profondamente
di avervi arrecato
tanto dolore» ogni vita che aveva strappato sembrava
gravargli come uno spettro
sulle spalle, opprimendogli il respiro. Prese un lungo fiato prima di
proseguire: «Sono stato manipolato dal Vaticano. Mi hanno
impiantato un potere
che non era mio e che… non sono riuscito a
controllare.»
I
Gunsmith dirottarono la loro attenzione verso Gilbert, che
confermò:
«Non
era in lui quando ha liberato i demoni sul nostro
pianeta. È tornato cosciente solo quando gli ho tagliato la
mano, sul ponte
della Reina de la Oscuridad.»
I
Gunsmith annuirono all’unisono, e si fissarono
un’ultima
volta prima di emettere il loro verdetto.
«Il
peso di ciò che hai fatto ti perseguiterà per
tutta la
vita» sentenziò Norge.
«E
questa sarà la tua punizione» avvalorò
Berwald.
«Non
c’è bisogno di infleggertene
un’altra» placò Mathias.
«Hai
il nostro perdono» lo rincuorò Lily.
«Ma
vedi di rigare dritto» ringhiò Vash.
Gilbert
sembrò sollevato quanto Roderich nell’udire quella
dichiarazione di clemenza. Era certo che fosse dovuta più
alla venerazione che
i Gunsmith nutrivano per lui che alla sincera volontà di
perdonare il
colpevole, ma non aveva importanza.
L’Hellsing
si grattò la nuca e domandò all’unica
donna
presente:
«Lily…
hai ancora quella cosa
che ti avevo lasciato?»
Lei
annuì, e sparì dietro una tenda di colore rosa. I
Gunsmith attesero in silenzio che la donna facesse ritorno; Roderich
non
articolò una parola, anche se la sua bocca si
spalancò per la sorpresa.
Lily
aprì la custodia dalla forma inconfondibile, e
l’uomo ringraziò
di essere già seduto, altrimenti le sue ginocchia sarebbero
venute meno.
Le
dita della mano sana tremarono visibilmente
nell’accarezzare le corde e il legno dello strumento. Le sue
forme erano ancora
levigate, e le corde perfettamente tese: quella donna si era presa cura
del suo
violino come si conveniva.
«Dove
lo hai trovato?» riuscì a buttare fuori, quando
ottenne di nuovo il controllo delle parole.
«Dove
lo avevi lasciato» Gilbert evitò di specificare
che lo
aveva trovato vicino al corpo di Elizabeta, dove
l’Accordatore lo aveva fatto
cadere quasi si trattasse di pattume.
Roderich
accarezzò lo strumento con devozione, prima di
sollevarlo dalla custodia imbottita. Lo girò delicatamente,
ed ebbe conferma
che si trattava proprio del suo violino; in caratteri arabescati, era
stato
inciso un titolo: “Il diamante della battaglia”.
«Cosa
hai fatto, in tutti questi anni?» chiese Lily a
Gilbert, cercando di distogliere l’attenzione generale dal
musicista troppo
commosso per parlare.
L’Hellsing
prese fiato e coraggio prima di rispondere:
«Mi
sono ripreso il pianeta, anche se adesso è solo una
landa gelata. Ho creato il mio fratellino minore. Sono stato rinchiuso
a Caina
nove anni. E…» Gilbert esitò prima di
aggiungere l’ultima parte. «Ho incontrato
una persona.»
Roderich
ingoiò le lacrime per prestare attenzione al
racconto del suo figlio adottivo, e i Gunsmith si sistemarono a
semicerchio
intorno a lui.
«E
questa persona dov’è, adesso?» lo
spronò dolcemente Lily.
Una
saetta di dolore trafisse il volto spavaldo
dell’Hellsing, che annunciò:
«Non
so dove sia.»
I
presenti lessero nell’espressione contrita
dell’uomo il
significato sottinteso di quelle parole: la persona da lui amata era
morta.
Prima
che Lily o chiunque altro potesse provare a consolarlo
in qualche modo, Gilbert sfoderò il suo ghigno
più plateale e proclamò:
«Ma
so cosa sta facendo. Mi aspetta. Non è ovvio? Quando gli
ricapita di trovare una persona meravigliosa come me?» il suo
sorriso assunse
una sfumatura più seria mentre concludeva: «Mi
aspetta sempre. E un giorno lo
ritroverò. Ma prima… devo fare il mio
mestiere.»
«Ma
i demoni si sono estinti. Tu li hai
fatti estinguere» gli ricordò Norge.
«Sono
rimasti i peggiori: uomini con il cuore da diavolo»
Gilbert fece scivolare appena la scimitarra fuori dal fodero, in modo
che
emettesse un sottilissimo stridio metallico. «Solo dopo
averli estirpati potrò
andare da lui.»
Il
suo discorso sarebbe stato commovente, se solo non fosse
stato troncato sul finale da un tremendo frastuono di fronte al portone.
«Oh,
ho dimenticato di avvisarvi» si ricordò Gilbert.
«Anche
Antonio e la sua ciurma hanno bisogno di farsi dare una revisionata
alle armi.»
Vash
chiuse gli occhi per evitare di rotearli al cielo:
avrebbero passato la notte in officina per sistemare
l’equipaggiamento di tutta
la Reina.
I
Gunsmith si diressero velocemente all’entrata per
accogliere i nuovi visitatori; solo Norge rimase, e si
accostò all’Hellsing,
bisbigliandogli:
«Quando
attaccherete il Vaticano, avvisateci. Combatteremo
insieme a voi.»
«Non
siete guerrieri.»
«No,
ma siamo armaioli. E credimi, Gilbert, quando
sferrerete il vostro attacco, vorrete avere l’Elfo al vostro
fianco.»
«L’Elfo?»
«È
il nome in codice» Norge se ne andò senza
ulteriori
spiegazioni.
Gilbert
scosse la testa: quel giovane con i capelli di
platino era sempre stato enigmatico. Solo Mathias riusciva a
strappargli
qualche parola in più.
Si
mise a sedere di fianco al padre adottivo, che esordì
pacato:
«Non
ho molto da raccontare di questi anni in cui siamo
stati separati. Ma sembra che tu abbia molto da narrare,
invece.»
Roderich
si appoggiò il violino sulle gambe e lo invitò,
con
la riservatezza cortese che lo aveva sempre distinto.
«Ti
ascolto.»
Gilbert
nascose un sorriso dietro uno sbuffo irriverente. La
gentilezza di suo padre, a distanza di tanto tempo, era talmente bella
da far
male.
«C’era
questo ragazzo…» cominciò.
«Come
si chiamava?»
«Matthew.
O, almeno, io lo chiamavo così…»
E
decenni di lontananza si srotolarono nel lunghissimo
racconto di Gilbert.
***
Ivan
fissò con odio l’angolo del corridoio.
L’Hellsing
era sceso nella Fortezza Errante quella mattina,
per avvisarli che si sarebbero fermati sul pianeta dei Gunsmith. Il
Custode
aveva accettato la cosa con un silenzio tombale: la sua mazza ferrata
non aveva
bisogno di essere revisionata, e lui non sentiva la mancanza dei suoi
ospiti.
Gilbert
gli aveva indirizzato un’occhiata critica, e aveva
commentato:
«Non
permetti mai a Yao di uscire?»
Gli
occhi ametista si erano abbattuti sull’Hellsing, mentre
il gigante tuonava:
«Non
ha bisogno di uscire.»
Le
sopracciglia argentate di Gilbert si erano curvate nel
biasimo, mentre la bocca arrogante lo accusava:
«Sembra
più un tuo prigioniero che un tuo ospite.»
«Non
preoccuparti di cose che non ti competono, Hellsing.»
L’ammonimento
di Ivan risuonò cupo tra le mura mobili della
Fortezza, e Gilbert alzò le braccia in segno di resa.
«Come
vuoi. Ricordati solo che i prigionieri, prima o poi,
scappano. Io sono la prova vivente.»
Non
sapeva cosa avesse spinto l’Hellsing a fargli quel
discorso. Forse era convinto che tutti dovessero vivere un amore come
il suo,
fatto di libertà e fiducia. Non gli pareva che lo
sterminatore avesse ottenuto
un gran risultato: il suo amato era morto suicida.
Preferiva
tenere Yao segregato anziché perderlo. Inoltre,
aveva fiducia nell’Asean, ma non nel resto del mondo: ci
sarebbe stato
sicuramente qualcuno pronto a rubarglielo o a sporcarlo, là
fuori. Non lo
avrebbe permesso: Yao era il suo sole personale. Suo soltanto.
Come
evocato dai suoi pensieri, il Figlio del Cielo emerse
dalla sua camera, e lo chiamò:
«Ivan.
C’è qualcosa che ti turba?»
Il
Custode non aveva ancora capito come Yao riuscisse a
indovinare le sue espressioni anche quando erano impaludate dalla
sciarpa. Non
rispose alla sua domanda: si avvicinò a lui e strinse quel
corpo tanto più
piccolo del suo con le braccia forti.
L’Asean
rimase qualche istante fermo, prima di circondargli
il collo con le braccia.
«Va
tutto bene?» domandò, allarmato dal gelo
insolitamente
pungente che trapelava dal cappotto dell’uomo.
«Tra
pochi giorni approderemo a Chugoku» gli ricordò
Ivan. «Come
ti fa sentire? Tornare a casa, intendo.»
Sentì
le braccia di Yao scivolare lungo le sue finché le
mani affusolate gli circondarono i gomiti.
«C’è
una cosa che devo raccontarti, Ivan» ammise il Figlio
del Cielo. «Voglio che tu sappia esattamente chi dovremo
affrontare.»
Il
Custode dei Cancelli gli fece cenno di proseguire. Il
racconto di Yao cominciò così:
«C’è
stato un ragazzo, un tempo, che consideravo come un
figlio…»
***
Il
signor Vargas tamburellò le dita sulla scrivania,
indeciso.
Era
orgoglioso di Feliciano, il suo figlio perfetto che a
breve sarebbe diventato il perno della Confederazione. Tuttavia, non
poteva
ignorare le ansietà del precedente Asse riguardo al suo
successore.
Fissò
di nuovo il biglietto su cui il vecchio aveva scritto
la sua proposta.
Gli
occhi si appuntarono sulla frase terminale.
E
se il suo
potere potesse essere staccato dal corpo?
Buonsalve
a
tutti<3
Ed
eccoci
arrivati ai Gunsmith… dovevo inserire i Nordici&Co.,
in qualche modo XD
E
il prossimo
capitolo… Spamano 8D Prima di tuffarsi nell’arco
asiatico<3
Il
prossimo
capitolo sarà aggiornato di domenica, anziché
lunedì, poi si tornerà
all’aggiornamento
canonico nel giorno della luna<3
A
presto<3
Red
|
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Capitolo 14 *** Le Mani del Diavolo ***
Capitolo
Quattordici: le Mani
del Diavolo
La
candela aveva quasi esaurito la cera.
Antonio
la spense definitivamente, smorzando la fiamma con
due dita, e continuò le sue riflessioni nel buio.
Il
Figlio del Cielo li aveva riuniti sul ponte di comando,
non appena erano rientrati dal pianeta dei Gunsmith. Se volevano
approdare a
Chugoku e tornarne vivi, avrebbero dovuto ascoltare i suoi
avvertimenti.
Yao
aveva sconsigliato a chiunque fosse sprovvisto di magia
di mettere piede nel suo mondo. Gli incantatori orientali avevano una
caratteristica non comune agli stregoni occidentali. I maghi nati al di
fuori
del Sistema Asean tendevano a plasmare il mondo con la propria magia,
modificando cose esterne; al contrario, gli incantatori orientali
preferivano
agire all’interno della persona, sfruttando i suoi punti
deboli per
annientarla. Era una specie di ipnotismo, aveva semplificato Yao.
Solo
chi possedeva a sua volta la magia era in grado di
erigere uno scudo mentale sufficiente per difendersi dagli attacchi
psichici
degli stregoni Asean; per questo i normali marinai sarebbero rimasti
sul
vascello.
Il
Figlio del Cielo aveva poi aggiunto una postilla al suo
discorso:
«Se
doveste incontrare il Samurai… non toccatelo. Devo
affrontarlo io.»
«Perché?»
aveva chiesto Gilbert.
«Non
è un avversario semplice. È stato molto ben
addestrato
e non so se riuscireste a tenergli testa» aveva stimato con
elegante
spietatezza l’orientale. E aveva aggiunto, con una punta di
rancore: «E poi,
devo essere io a porre fine a questa faccenda.»
Nessuno
aveva obiettato: ognuno di loro aveva un obiettivo
simile. Lovino voleva essere la persona che avrebbe posto fine al
delirio del
padre, Antonio desiderava vendicare la sua gente e Gilbert il suo
popolo
divorato, Roderich chiedeva al Cielo la possibilità di
disfare ciò che aveva
fatto.
«Ognuno
di noi ha un obiettivo in cui non sono previste
interferenze» l’Accordatore esordì con
garbo raffinato, in sintonia con il
contegno regale dell’Asean. «E noi non ci
intrometteremo nel vostro piano. Ma
dovete metterci al corrente della vostra strategia, o non vi saremo di
alcun
aiuto.»
Il
Figlio del Cielo aveva annuito e gli aveva esposto la sua
tattica. I punti essenziali erano pochi: trovare il Marauder, chiedere
il suo
parere sull’estrazione e l’eliminazione di un
demone da un corpo vivo, trovare
il Samurai e sistemare i conti del passato; i dettagli da tenere a
mente, in
compenso, erano moltissimi. Fu tremendamente chiaro perché
Chugoku fosse il
caposaldo del sistema Asean: grazie alla memoria generazionale, il
Figlio del
Cielo aveva velocemente ripercorso tutti gli sbagli degli strateghi
precedenti,
ed elaborato nuove tattiche per evitare i loro errori. Era come sentir
parlare
un arsenale di generali militari nello stesso istante.
Antonio
si stropicciò le palpebre chiuse con le dita ruvide,
sminuzzando un sospiro con i denti. Non era sicuro di essere adatto
alle Terre
d’Oriente; sperava solo che la loro permanenza fosse breve e
il meno dolorosa
possibile. E poi…
La
mente del capitano si paralizzò per un istante. Aveva
passato tantissimi anni inseguendo il suo sogno di vendetta, e ora che
era a un
passo da lui gli sembrava quasi di essersi immerso in una fantasia
troppo
reale. Eppure, una volta conclusasi quella campagna a Chugoku, che li
avrebbe
portati – auspicabilmente – a riunirsi con Francis,
gli Sparvieri avrebbero
spiccato il volo per distruggere il Vaticano. E per liberare il
fratello di
Lovino.
La
sua memoria si accoccolò sul volto del suo vice. Aveva
osservato Lovino, durante tutti quegli anni: aveva visto il bambino
spaurito
diventare un adolescente fiero, e aveva aspettato che il ragazzo ignaro
diventasse pian piano consapevole dei propri sentimenti per lui.
Lo
aveva visto sbocciare e mutare, ma si chiedeva se sarebbe
rimasto ancora con lui, una volta riunito al fratello. Non sarebbero
tornati al
Vaticano, questo era certo: un Asse fuggitivo e la Mano Sinistra del
Diavolo non
erano le persone più adatte per svolgere le funzioni
clericali. Tuttavia,
avrebbero potuto scegliere di ritirarsi su un pianeta remoto della
Confederazione,
dove nessuno li avrebbe cercati, e lì recuperare gli anni
perduti. Lovino non
aveva mai nascosto come ricongiungersi al fratello fosse il suo unico
obiettivo.
Proprio
in quel momento, la porta della sua stanza si aprì.
Antonio
non ebbe bisogno di voltarsi: avrebbe riconosciuto
quel passo tra mille, anche se quella sera era più cadenzato
del solito.
«Lovi…»
lo chiamò, ma il nome del giovane si ritorse sulla
sua lingua e gli otturò la gola. Il passo del ragazzo era
risuonato più
ovattato perché era senza scarpe. E senza pantaloni: dalla
camicia sporgevano
solo un paio di gambe magre, rese ben visibili dalla luce della luna
che le
lambiva. O forse era solo la sua mente esagitata a focalizzarsi con
troppa
frenesia sulle cosce scoperte del giovane.
«Avevamo
detto che avremmo parlato» annunciò brusco Lovino,
togliendosi dalla traiettoria del suo sguardo allibito. Si
arrampicò sul letto
del capitano, e arruffò le lenzuola in modo che gli
coprissero le gambe nude.
“Parlare”.
Antonio sentì il suo autocontrollo ridere
fragorosamente a quella prospettiva. “Parlare”;
sarebbe stata sicuramente la
sua prima intenzione con il ragazzo
amato nella sua stanza. Nel suo letto. Seminudo.
«Ti
ha visto qualcuno?» quella domanda gli costò un
cuscino,
implacabilmente diretto alla sua faccia.
«Ovviamente
no. La mia cabina è qui di fianco»
protestò
Lovino, ritraendosi con la schiena al muro.
Antonio
si avvicinò al letto - per risistemare il guanciale,
solo per risistemare il guanciale
– e
si sedette sul materasso, di fianco al giovane.
«Di
cosa volevi parlare?» domandò il capitano,
inghiottendo
saliva tra una parola e l’altra.
Lovino
si abbracciò le gambe, stringendo le coperte su di
esse, e ciondolò la testa prima di esordire:
«Volevo
chiederti una cosa. Per quando torneremo da
Chugoku.»
Antonio
avvertì le sue previsioni di poco prima graffiargli
il cervello. Si impose la calma e concesse, con voce ferma:
«Chiedi
pure.»
Lovino
tamburellò le dita sulle ginocchia, incerto, poi
rovesciò fuori in un sol fiato:
«Quando
il Marauder sarà con noi e sferreremo l’attacco al
Vaticano e libereremo mio fratello… potrebbe rimanere anche
lui sulla Reina?»
Lovino
interpretò male il silenzio sbalordito del capitano,
e fece piovere una cascata di giustificazioni:
«Non
te lo sto chiedendo solo perché è mio fratello.
È
destinato a diventare Asse, i suoi poteri sono eccezionali. Non
farebbero di
certo male a questa ciurma. E poi, a Caina hai visto anche tu quanto
sia bravo
come guaritore, e…» le dita del capitano si
appoggiarono sulle sue labbra,
zittendolo.
«Perfetto»
si congratulò Antonio. Il suo sorriso fendette la
penombra della camera. «Ci sarà sempre spazio per
il tuo gemello.»
«Cerca
di non confonderci quando sarà qui, bastardo»
Lovino
schiaffò via la sua mano e si ritirò con la testa
tra le spalle, come una
tartaruga arrabbiata.
Antonio
fece migrare le dita sulla testa del giovane, e gli
accarezzò i capelli crespi. Non lo avrebbe mai scambiato per
nessun altro: la
sua scontrosità, e il suo modo bellicoso di arrendersi,
erano inconfondibili.
Il suo Lovino era unico.
«E
poi» sbuffò il ragazzo. «Avevi promesso
che mi avresti
parlato della tua infanzia.»
«Era
una promessa reciproca» gli ricordò il capitano.
Se le
gambe del giovane fossero rimaste coperte dalle lenzuola, sarebbe stato
in
grado di conversare normalmente. «Coraggio.»
Lovino
attorcigliò quel suo unico ciuffo ribelle con le
dita, ripescando nella memoria i ricordi più belli.
«Quando
avevamo quattro anni» cominciò. «Ero
contento perché
avevo fatto un bel sogno. Non ti dirò di che sogno si
trattava!» inveì
improvvisamente, diventando paonazzo. Per un bambino era la
quintessenza del
Paradiso, ma la Mano Sinistra del Diavolo non poteva ammettere di aver
sognato
un paese di cioccolato e biscotti. «Sappi che c’era
mio fratello e che eravamo
contenti. Comunque, la mattina mi sono subito girato verso Feliciano e
gliel’ho
raccontato… e abbiamo scoperto di aver fatto lo stesso
sogno. E da allora ne abbiamo
fatti tantissimi insieme.»
«Ti
piaceva fare questi sogni condivisi?»
Lovino
annuì e avvalorò:
«Era
confortante. Era come… non essere mai soli.»
«E
non li hai più fatti?»
Il
ragazzo si rabbuiò, sparendo quasi nella penombra.
«Il
Palazzo di Quarzo lo isola totalmente» si voltò
verso di
lui e cambiò discorso: «Tu non avevi fratelli o
sorelle?»
«Ero
figlio unico» raccontò Antonio. «Ma non
mi sono mai
sentito incompleto, per questo. La casa era riempita da mio padre e da
mia
madre, e il giardino da Gilbert e Francis.»
«Siete
amici da così tanto tempo?»
«Da
quando Gilbird si è schiantato contro il nostro
melo» un
punto interrogativo galleggiò nelle iridi di Lovino, e
Antonio fu costretto a
raccontargli del loro primo, disastroso incontro.
«E
voi dovevate essere le guide del vostro popolo?» fu il
commento sarcastico di Lovino al termine.
«Siamo
migliorati molto, negli anni a venire» si difese
Antonio e deviò: «Non hai altri ricordi con tuo
fratello?»
«Tantissimi»
calcolò Lovino. «Passavamo insieme ogni
giorno…
abbiamo anche litigato, alcune volte. Non eravamo sempre gli angelici pueri del Vaticano.
Però, anche
litigare con Feliciano non era brutto: se litighi con una persona, vuol
dire
che ci tieni a lei. E se dopo le chiedi scusa, significa che la
consideri più
importante del tuo orgoglio. E se lei ti perdona, vuol dire che la cosa
è
reciproca.»
«Vuoi
davvero un mondo di bene a tuo fratello» un pugno lo
raggiunse alla spalla, e Lovino inabissò la faccia nelle
ginocchia.
«Non
dirlo in questo modo melenso! Che schifo!»
Lovino
rimase immobile per qualche secondo, poi una domanda
si fece strada oltre le sue ginocchia.
«Com’è…
avere dei genitori che tengono a te sul serio?»
Antonio
sentì una spina di tristezza pungergli il cuore.
Nessuna sorpresa che Lovino avesse così caro il suo gemello:
la madre era stata
per lo più assente, e il padre non faceva che giudicarli per
capire quale dei
due fosse adatto a divenire Asse. Erano stati un tribunale,
più che una famiglia.
E Lovino aveva riversato sul fratello l’affetto che avrebbe
provato anche per i
genitori, se fossero stati più presenti: il suo gemello era
tutta la sua
famiglia.
«Era
come non essere mai soli» Antonio riutilizzò le
parole
del giovane per fargli comprendere cosa si provasse. «E anche
quando mi sono
ritrovato senza di loro… non ero solo. Loro mi avevano
insegnato a vivere e,
vivendo, sarebbero stati con me. E poi c’erano Gilbert e
Francis; con due
casinisti come loro, è impossibile sentirsi
abbandonati.»
Lovino
distese le gambe e il lenzuolo si mosse con esse,
scoprendogli le cosce. Antonio dirottò lo sguardo verso il
pavimento.
«Ho
avuto una seconda famiglia piuttosto bizzarra, non
trovi? Un acchiappa fantasmi e uno sterminatore di
demoni…» sciorinò il
capitano, tentando di focalizzarsi sulla conversazione.
«Siamo andati fino a
Caina per recuperare Gilbert, e adesso ci stiamo dirigendo a Chugoku
per
ritrovare Francis… non ci risparmieremo nemmeno per tuo
fratello.»
«Voglio
vedere il Vaticano tremare» asserì Lovino.
Antonio
giocherellò per un po’ con le proprie dita, poi,
con
un sospiro che sapeva di sconfitta, confessò:
«Lovino…
temo di non essere nelle condizioni ideali per
parlare.»
«Perché
no? Stai facendo dei discorsi più sensati del
solito.»
Antonio
scartò immediatamente l’ipotesi del candore:
Lovino
sapeva benissimo di mettere a dura prova il suo autocontrollo, con
quell’abbigliamento succinto. Era una tortura intenzionale e
premeditata.
Il
capitano decise di essere ancora più chiaro:
«Tu
sei mezzo nudo, nel mio letto, a un passo da me. E, per
quanto mi piaccia parlare con te, ti assicuro che la conversazione
è l’ultimo
dei miei pensieri, adesso.»
Il
ragazzo non si ritirò a riccio nelle coperte, gridandogli
improperi come “maniaco” e sinonimi. Fece uscire le
gambe dalle lenzuola, le
incrociò e puntò le mani sulle caviglie. A
dispetto della sua apparente
arroganza, le parole incespicarono un poco mentre dichiarava:
«Te
lo avevo promesso. Dopo il tuo ritorno da Britannia.»
La
bocca si corrucciò nella solita smorfia indispettita,
mentre le guance si coloravano di rosso.
Dovevano
riconquistare il trono del Figlio del Cielo,
trovare lo spirito reincarnato del Marauder e sconfiggere il Vaticano;
gli
pareva assurdo che, con una lista così altisonante di
impegni, lui avesse
trovato il tempo per interessarsi al sesso. Eppure, più
diventava cosciente dei
suoi sentimenti per Antonio, più si incuriosiva
all’arte amatoria. All’inizio
aveva scacciato a suon di scappellotti quei pensieri poco consoni; poi
li aveva
gradualmente accettati, notando che il pensiero
dell’intimità lo ripugnava, se
non era contemplato il capitano.
Era
testardo, ma non era stupido. Aveva dovuto accettare
quel desiderio di unirsi al suo compagno, per quanto la cosa lo facesse
sentire
umiliato: l’idea di essere la parte passiva non lo riempiva
d’orgoglio.
Il
capitano dovette aspettare qualche secondo prima che
quelle parole fossero scomposte, analizzate e accettate dalle sue
orecchie
sorprese.
«Lovino…
sei sicuro?» Antonio preferì sondare il terreno,
prima di avvicinarsi al giovane. «Perché dubito
che riuscirò a fermarmi, dopo…»
«Perché
sei un animale» Lovino raccolse le ginocchia al
petto, coprendole con le braccia.
«Perché
sono innamorato di te. E ti ho aspettato così a
lungo…» lo corresse con dolcezza l’altro.
Il
ragazzo gli lanciò un’occhiata furiosa. Non capiva
come
quelle labbra che gridavano ordini e respiravano la polvere da sparo
fossero in
grado di srotolare discorsi simili. Pronunciati da chiunque altro lo
avrebbero
fatto ridere, ma non riusciva a ironizzare su quegli occhi verdi che lo
fissavano come se fosse il tesoro più prezioso esistente al
mondo.
Le
mani dell’uomo scivolarono gentili a sciogliere la
muraglia di braccia intorno alle sue ginocchia. Lovino
guardò verso il
materasso mentre i suoi polsi venivano portati ai lati dal viso e il
corpo
dell’uomo si avvicinava alle sue gambe, costringendolo ad
aprirle per
accoglierlo sul suo ventre.
Il
giovane si morse il labbro inferiore. Non avrebbe mai
immaginato che avere l’uomo così vicino a lui,
petto contro petto e bacino
contro bacino, sarebbe stato tanto imbarazzante. Strinse istintivamente
i pugni
quando sentì le labbra del compagno lambirgli la mascella,
nel punto più vicino
all’orecchio.
La
bocca di Antonio percorse la linea del viso, risalendo il
mento e fermandosi a pochi millimetri dalle sue labbra serrate.
La
fronte dell’amante toccò la sua, e Lovino
riaprì gli
occhi che aveva chiuso quasi senza rendersene conto. C’era
qualcosa, in quelle
iridi verdi, che lo pungolava dritto al cuore: non aveva capito se
fosse il
loro vissuto comune – l’assenza di una famiglia, la
solitudine, la vita da
reietti – a farlo sentire così partecipe delle
emozioni del compagno. O se
fosse semplicemente lo smisurato affetto che permeava quegli occhi a
far
breccia nelle sue barriere.
Strinse
le ginocchia contro il bacino del compagno, in un
tentativo inutile di chiudere le gambe, quando la bocca del capitano si
appoggiò sulla sua. Antonio attese che il giovane smettesse
di mordersi le
labbra, che deglutisse nervosamente un paio di volte e che chiudesse
gli occhi
prima di schiudere la sua bocca.
Lovino
interruppe il bacio per strattonare i suoi polsi
fuori dalla presa dell’uomo, e cingere il collo del compagno
con le braccia.
Ringhiò un “non sono un prigioniero,
idiota” prima di ricominciare a baciarlo.
Sussultò
così vistosamente da bloccare le mani che si
stavano intrufolando sotto la sua camicia, accarezzandogli le cosce.
Aveva
immaginato quello che sarebbe successo assieme al capitano, ma sentire
le dita
dell’amante esplorarlo dove nessuno lo aveva mai toccato
prima gli aveva
iniettato una scarica elettrica nelle vene, facendolo trasalire.
«Hai
le mani fredde» protestò, come scusa.
«Non
sarà per molto» lo tranquillizzò
Antonio, posandogli un
bacio sullo zigomo.
Le
unghie del ragazzo artigliarono le spalle del capitano
quando le mani del compagno salirono, accorciando la camicia in un
accatastamento di pieghe sui suoi polsi. Lovino si lasciò
sfuggire un singulto
di sorpresa, quando le dita del capitano lo pizzicarono dove il petto
era più
sensibile. Antonio sorrise della spontaneità del giovane,
che cercò di
spintonarlo via per l’imbarazzo.
L’uomo
non si lasciò spostare, e intensificò quello
strano
attacco. Lovino si appiattì contro il muro quasi volesse
fondersi con esso
quando Antonio slacciò la sua camicia per viziare con le
labbra quegli stessi
punti che poco prima erano stati stimolati dalle sue dita. Il giovane
si agitò senza
sosta sotto quella dolce tortura: si sentiva un essere osceno a godere
dei
movimenti della lingua del capitano. Si tappò la bocca
mordendosi il dorso
della mano, cercando di contenere i versi vergognosi che zampillavano
nella sua
gola. Sapeva come funzionava il sesso tra uomini: i marinai glielo
avevano spiegato
tempo addietro, in modo piuttosto volgare, utilizzando anche la verdura
in
stiva per esemplificare. Ma nessuno gli aveva mai detto che ci fossero
altri
modi di appagare il compagno, oltre alla penetrazione.
Il
segno dei denti rimase, rosso e visibile, quando rilasciò
la morsa sulla sua mano. Antonio si staccò da lui, gli
afferrò il polso e
contemplò il danno.
«Non
devi contenerti così tanto» lo
rimproverò carezzevole.
«Devo!»
obiettò inviperito Lovino. «Vuoi che senta tutto
l’equipaggio?»
La
bocca di Antonio si poggiò sul marchio dei denti,
lambendo la pelle lesa. Lovino avvertì un brivido, e
portò un lembo della
camicia a coprire il petto ancora umido di saliva.
«Hai
avuto… molte esperienze, prima?» volle sapere,
serrando
le dita sul tessuto. Circolavano innumerevoli voci sulle amanti
– o gli amanti
– che la Mano Destra del Diavolo aveva avuto. Il giovane le
aveva sempre
ascoltate senza troppa attenzione, consapevole che molte dicerie erano
state
gonfiate volando di bocca in bocca. Tuttavia, vedere Antonio
così sicuro di sé
mentre lui era sul punto di morire dall’imbarazzo gli aveva
fatto ribollire la
mente con mille interrogativi, uno più sgradevole
dell’altro. Quali altre
persone aveva preso allo stesso modo? Su quale corpo sconosciuto aveva
già praticato
le stesse cose che stava per fare a lui?
La
risposta dell’uomo non lo tranquillizzò del tutto.
«C’è
stata molta gente disposta a tenermi compagnia durante
la notte.»
La
stoffa si spiegazzò ulteriormente sotto la sua presa.
Anche lui sarebbe stato un amante da dimenticare al mattino?
«Ma
non ho mai aspettato una “compagnia” per quattro
anni.
Né ho sfidato il Custode dei Cancelli per lei. Né
le ho mai chiesto di
condividere le occasioni future. Né gli ho mai detto di
essere innamorato di
lei» posò un nuovo bacio sul dorso martoriato del
giovane, quasi cavalleresco.
«L’ho fatto solo per te.»
Lovino
si aggrappò all’unica parte criticabile di quel
discorso: non poteva permettersi di dare troppa soddisfazione a quel
pirata
lasciandogli intendere quanto quelle parole lo avessero lusingato.
«Quattro
anni fa ero un bambino! Pervertito!»
«Eri
meno bambino
di quando sei arrivato.»
«Tu
sei malato!»
«Ovvio.
Altrimenti non potrei essere una delle due Mani del
Diavolo, no?»
«Non…»
Lovino brontolò, corrucciato. «Non siamo solo
quello…
siamo uomini, prima di tutto.»
Il
sorriso di Antonio gli accarezzò il viso, e il capitano
articolò sulla sua tempia:
«Hai
ragione, Lovino…» si allontanò, come
colpito da un
pensiero improvviso: «Non sei scomodo, contro la
paratia?»
«È
colpa tua! Mi sei saltato addosso come una bestia!»
«Hai
ragione…» concesse il capitano, senza perdere
altro
tempo. Abbracciò stretto il giovane, in modo che cadessero
in sincrono sul
materasso.
Lovino
aprì le labbra per innalzare una protesta, ma le richiuse
presto, fingendosi offeso. I suoi dubbi non erano spariti del tutto:
avrebbe
continuato a chiedersi quanti amanti avesse avuto il capitano, quanto
lo
avessero appagato, se pensasse ancora a loro. Ma non poteva farlo
mentre quegli
occhi verdi lo fissavano così da vicino: Antonio gli stava
riversando addosso
così tanto amore, con il solo sguardo, che il giovane
avrebbe potuto affogarci
dentro.
Gettò
da un lato il lembo della camicia trattenuto fino a
quel momento, per dichiarare la propria resa momentanea. Morse il
polsino
anziché la mano, quando la bocca dell’uomo scese
di nuovo su di lui. Sobbalzò
quando i denti si strinsero sul suo petto, e fremette quando il
compagno gli
segnò la pelle chiara con i marchi rossi dei succhiotti.
Antonio
si adagiò sul suo ventre nudo, le mani infilate nei
suoi capelli e la guancia contro la sua.
«Lovino…»
c’era una nota di vergogna nella sua voce. «Volevo
darti più tempo, ma… temo di aver raggiunto il
mio limite.»
Il
giovane appoggiò le mani sulla schiena dell’uomo,
infilandole
sotto la camicia aperta, e sentì i muscoli del compagno
tremare sotto i suoi
polpastrelli. Lo strinse a sé, guardando altrove per la
vergogna. Si stava
trattenendo con enorme sforzo, tanto da fremere come se fosse sul
punto di
spezzarsi, solo per non spaventarlo. Per fargli capire che lui non era
la
compagnia di una notte.
«Se
mi fai male, ti ammazzo» fu il modo rude di Lovino per
dargli il permesso di proseguire.
Antonio
lo baciò di nuovo sulle labbra, lentamente, premendo
con più forza nell’ultimo bacio prima che la sua
mano scendesse verso il basso.
Lovino
gli artigliò la schiena e serrò le ginocchia
quando
l’uomo lo sfiorò in mezzo alle natiche. Si
contrasse su se stesso sentendo il
suo interno violato dal dito del compagno. Antonio gli
accarezzò le spalle, la
schiena, la nuca e lo strinse forte a sé mentre aggiungeva
un secondo dito, e
lo baciò sul tutto il viso inserendo il terzo.
Si
sollevò su di lui, lasciandogli un attimo per riprendere
fiato. Lovino lo fissò dal basso, gli occhi liquidi e le
labbra rosse per i
morsi usati per contenersi, il corpo scomposto sul materasso. Il suo
autocontrollo fu pugnalato al cuore dall’immagine intimorita
e lasciva del
giovane. Aveva desiderato per così tanto tempo di
accarezzarlo in quel modo,
prima che chiunque altro potesse farlo… ma la
realtà non era paragonabile alla
fantasia. Lambì con le mani quel corpo tanto bramato,
sentendolo reagire al suo
tocco ogni volta che sfiorava le zone più sensibili.
Gli
solleticò l’interno coscia prima di divaricargli
le
gambe in modo da poter entrare in lui.
Lovino
non riuscì a trattenere il gemito di dolore quando
sentì il capitano farsi strada dentro il suo corpo.
L’ansito gli scoppiò sulle
labbra, che il giovane premette contro la spalla del capitano per
evitare
ulteriori fughe. L’uomo si fermò e gli
baciò il viso: il petto di Lovino si
sollevava contro il suo con un ritmo troppo frenetico.
«Respira
a fondo» lo consigliò Antonio, quando
assaporò il
sale di una lacrima sulla guancia del giovane.
«Non
sei tu ad avere…» quelle poche parole si
trascinarono
faticosamente nella gola ingolfata dal respiro spasmodico, e si
acutizzarono
improvvisamente in un insulto: «Idiota!»
Il
capitano gli diede tempo per regolarizzare il respiro, e
per guardarlo male dal basso.
«Dopo
ti ammazzo» lo minacciò, prima di schiudere la
bocca
al bacio dell’amante.
Antonio
fu delicato, per quanto il suo desiderio gli
permise: cercò di rallentare le spinte, di tranquillizzare
quel corpo vergine
sotto di lui, di non essere troppo violento nel prenderlo fino in fondo.
Lovino
morsicò tutti i gemiti, e si maledisse quando gliene
sfuggì qualcuno. Razionalmente sapeva che quegli ansiti
erano normali, in una
situazione del genere, come gli scatti del suo bacino verso quello del
capitano, quasi volessero spronarlo a continuare. Tuttavia, trovava
vergognosa
la distorsione della sua voce sotto il piacere, così come lo
imbarazzavano i
movimenti incontrollabili del suo corpo in risposta alle stimolazioni
dell’amante.
Strinse
gli occhi con tutte le sue forze, e un suono
inarticolato trapelò dalle labbra contratte quando il
proprio seme gli macchiò
il ventre. Antonio chiamò il suo nome con voce rovente prima
di liberarsi
dentro di lui.
L’aria
fu riempita solo dal loro ansimare, mentre i corpi
sudati si adagiavano sulle lenzuola, ancora allacciati tra di loro.
Antonio
scostò alcuni riccioli dalla fronte imperlata, per
osservare meglio il suo amante: l’imbarazzo e il piacere
avevano spruzzato di
rosso le sue guance ansimanti, e le labbra vermiglie ancora tremavano
per il
loro primo orgasmo.
«Stai
bene?» domandò, accostando le dita alla sua gota
per
accarezzarlo.
Lovino
affossò la faccia nel cuscino e bofonchiò:
«Mi
fa malissimo dall’ombelico in giù,
imbecille» rialzò di
scatto la testa, ordinando: «Dammi un asciugamano o qualcosa
di simile. Ho
bisogno di pulirmi. E non posso alzarmi per andare a prenderlo da
solo.»
Antonio
si risistemò i pantaloni prima di sedersi sul letto
e allungarsi per raggiungere la brocca, il catino e il panno grezzo che
usava
per lavarsi alla mattina. Strizzò per bene
l’asciugamano rudimentale prima di
passarlo sull’addome del suo amante. Lovino provò
a obiettare che poteva farlo da
solo, i problemi motori interessavano solo la parte inferiore del suo
corpo, ma
Antonio non lo ascoltò nemmeno: lo ripulì con
cura, bagnando e strizzando il
panno più volte, finché non fu certo che il
giovane non avrebbe avuto di che
lamentarsi.
Lovino
perforò con lo sguardo la paratia. Trovava quelle
effusioni quasi più imbarazzanti di quello che avevano fatto
prima. Vedere
quanto il capitano si preoccupasse per lui lo faceva sentire quasi a
disagio: era
abituato a essere il gemello deludente, il figlio maledetto e la mano
più
debole del Diavolo. Essere la priorità assoluta del suo
amante lo inorgogliva
in un modo vergognoso.
Antonio
si stese di fianco a lui, e lo trascinò
amorevolmente contro di sé.
«Lovino»
lo avvolse completamente con il suo abbraccio, e
mormorò: «Sono felice di essermi innamorato di
te.»
Il
fronte del giovane si abbatté sulle sue clavicole, e ci
fu un istante di immobilità prima che il ragazzo ringhiasse:
«Io
invece detesto questa cosa» le spalle salirono fino alle
orecchie, mentre il ragazzo inveiva a bassa voce: «Con tutte
le persone che ci
sono nella Confederazione… la più stupida, la
più scellerata, la più
sconsiderata…» Lovino si rannicchiò
ulteriormente, masticando: «Perché dovevi
essere proprio tu…»
Antonio
non resistette all’impellenza di baciarlo; il giovane
mugugnò qualcosa di adirato, ma il capitano
continuò a vezzeggiare la sua bocca
finché non sentì quella del compagno arrendersi
alla sua insistenza.
Era
una dichiarazione. Per quando scontrosa e irriverente,
il ragazzo aveva appena ammesso di essere innamorato di lui. A modo
suo, certo,
e senza dirlo direttamente, ma lo aveva fatto. E gli aveva perfino
donato la
sua verginità, per farglielo capire.
Antonio
sigillò quella felicità schioccandogli un ultimo
bacio sulle labbra.
Rimase
sveglio il più possibile, per osservare il viso del
suo amato mentre le palpebre cedevano pian piano al sonno fino a
chiudersi
completamente, il respiro si appesantiva e le labbra si dischiudevano
con una
piega deliziosa.
Posò
le labbra alla radice dei capelli del giovane,
inspirando l’odore selvatico di quella chioma ramata. Aveva
aspettato per così
tanto tempo che arrivasse una persona capace di cancellare la sua
solitudine,
che vedesse Antonio al di là della Mano Destra del
Diavolo…
«Non
andartene mai più, Lovino.»
Innanzitutto…
spero che abbiate passato un buon Natale<3<3<3 E
che il signor Babbo
Natale vi abbia portato un sacco di cose belle<3
E
poi… wow…
penso che questa sia una delle lemon più lunghe e
più dettagliate che abbia mai
scritto XD
E
con questa
scena d’amore Spamano si conclude quest’arco
narrativo. Dal prossimo si va nel
Sistema Asean<3
Ci
rivediamo il
prossimo anno, precisamente lunedì 6 gennaio<3
Passate
delle
buone feste e sbancate il cenone di Capodanno<3
Red
|
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Capitolo 15 *** Il Portavoce del Sole ***
Capitolo
Quindici: Il Portavoce
del Sole
Una
persona sa di essere a casa quando ogni ciottolo è
ricollegabile a un ricordo.
Così
si sentì Yao, quando calpestò il suolo di Chugoku
per
la prima volta dopo un intero anno di esilio.
Erano
scesi sul pianeta solo lui e il Mago dell’Ovest,
entrambi camuffati grazie alla magia di quest’ultimo. Non
sapevano quale fosse
la situazione politica su Chugoku, e avevano ritenuto più
prudente scendere in pochi
per ottenere informazioni: un gruppo troppo numeroso di stranieri,
anche se un
incantesimo avesse loro donato fattezze orientali, avrebbe potuto
destare
sospetti. Così erano scesi solo loro due, l’unico
a conoscere a fondo quel
pianeta esotico e l’unico a sapere dove poter trovare il
Marauder. Arthur
teneva il non ti scordar di me in un borsello da polso che nascondeva
con le
maniche larghe tipiche dell’abbigliamento Asean.
Il
Mago dell’Ovest rispettò i secondi di
immobilità del
Figlio del Cielo: poteva capire cose significasse essere stato separato
dalla
propria casa.
Yao
chiuse gli occhi per sentirsi sommergere dall’ambiente a
lui tanto caro: le strade erano riempite dal suono musicale della
lingua asiatica
e dalle spezie della cucina locale; nel paesaggio si spandeva il colore
delle
risaie e quello delle case di legno, e nell’aria si libravano
le volute
serpentine degli incensi, lasciati a bruciare sulle finestre per
scacciare gli
spiriti malevoli.
Il
giovane orientale strinse una mano sul petto, dove il
nucleo di fuoco bruciava: quel sapore familiare che aleggiava
nell’aria
sembrava rinvigorirlo ad ogni passo. Aveva scelto una tunica di tessuto
pesante
e nero affinché trattenesse al meglio i raggi del suo cuore
di fiamme, ma
temeva che la luce sarebbe trapelata ugualmente, se non fosse riuscito
a
calmarsi.
Inspirò
a fondo prima di addentrarsi in una stretta via.
«Dove
stiamo andando?» domandò il Mago
dell’Ovest alle sue
spalle. Il Figlio del Cielo si complimentò interiormente per
le capacità
magiche del Britanno: i capelli neri, gli occhi a mandorla, i
lineamenti e
l’accento erano perfetti. Sembrava originario delle terre
Asean.
«C’è
una locanda frequentata dai militari, in fondo a questa
strada. È la più lontana dal palazzo»
semplificò Yao, continuando a camminare.
«I soldati hanno sempre voglia di chiacchierare, quando
terminano le loro
mansioni al castello. Chiederemo a loro.»
Fu
grato ad Arthur per non addentrarsi oltre in quella
conversazione.
La
mole del Palazzo Imperiale incombeva su tutta la capitale,
e la sua presenza maestosa soffocava il Figlio del Cielo: troppi
ricordi in
quei corridoi, troppi dolori in quelle stanze.
Il
castello era situato sulla collina più alta, in modo da
sovrastare la gente comune ed essere più vicino al Cielo,
considerato il padre
di tutti i regnanti. Il Mago dell’Ovest aveva sentito parlare
molte volte della
bellezza di quella costruzione, ma le parole non rendevano giustizia
alla
splendida laccatura cremisi delle pareti, al legno intarsiato in un
connubio di
architettura e arte, all’attenzione maniacale per ogni
dettaglio e decorazione.
Sapeva che il castello contava oltre un centinaio di statue di dragoni,
sparsi
su tutte le mura, e ognuno di essi aveva due enormi gemme per occhi,
che a loro
volta portavano il marchio della dinastia scolpito in oro al loro
interno. Yao
gli aveva spiegato che la tecnica dell’incisione aurea
all’interno di una pietra
preziosa era un’arte che prevedeva il lavoro in simultanea di
un orafo e di un
mago, entrambi di altissimo livello. Quei dragoni erano ritenuti i
protettori
del Figlio del Cielo e della sua famiglia, per cui dovevano essere
semplicemente impeccabili.
Yao
gli aveva anche raccontato che il colore del palazzo
variava al variare del sovrano. Poiché lui era nato sotto la
benedizione del
fuoco, le mura, le piume dei draghi e l’arredamento interno
erano stati
convertiti in un nobile cremisi. Perfino i vestiti dei servitori, i
gioielli e
le sete dei nobili e le armi dei militari seguivano quella moda, e tra
i
popolani era considerato di buon auspicio portare almeno un orpello del
colore
del sovrano.
Arthur
fece una valutazione molto più pratica e meno
culturale: se il colore di Yao addobbava ancora il Palazzo Imperiale,
significava che il suo potere non era stato del tutto spodestato.
Oppure il suo
successore era nato sotto lo stesso astro.
Yao
osservò di sfuggita il castello, prima di concentrarsi
di nuovo sulla strada. Era bastata un’occhiata, ma
l’aveva riconosciuta subito.
L’Ala Est, quella dell’alba. Quella in cui era
cresciuto e in cui era stato
detronizzato.
***
Era
nato nel giorno più caldo del mese più torrido
nella
regione più assolata.
Sua
madre era considerata la moglie più bella tra tutte
quelle che il precedente Figlio del Cielo avesse mai avuto. Si diceva
che, al
suo passaggio, i pesci affogassero poiché si dimenticavano
di nuotare, troppo
rapiti dal suo fascino.
Quel
giorno era stata chiamata per benedire con la sua voce
argentina i campi a sud del paese, che mal tolleravano
l’estate tremendamente
afosa di quel periodo.
Le
doglie l’avevano colta a metà del viaggio, e aveva
passato un pomeriggio in travaglio per darlo alla luce nella casa di un
coltivatore locale. Il piccolo sole che palpitava nel petto del neonato
non
aveva lasciato spazio a dubbi: lui sarebbe diventato il Figlio del
Cielo, un
giorno.
Il
padre era morto quando lui aveva dodici anni, lasciandogli
in eredità il peso di un trono troppo vasto per un bambino
così piccolo.
Non
appena il padre era passato a miglior vita, i
consiglieri gli avevano impiantato la memoria generazionale. Yao
ricordava di
aver creduto di impazzire, in quel periodo: sentiva mille voci
risuonargli
nelle orecchie, e mille ricordi che non conosceva gli affollavano la
testa.
Aveva passato una settimana intera a letto, febbricitante,
finché non era
riuscito a zittire quel caos e a discernere tra i suoi pensieri e
quelli dei
suoi predecessori. I consiglieri si erano congratulati a lungo con lui,
quando
era uscito dalla camera dopo soli sette giorni: gli altri regnanti ne
avevano
impiegati almeno una dozzina, per sopportare quel fardello.
In
seguito, tutto il palazzo era stato rivoluzionato: suo
padre aveva regnato sotto il segno della Terra, e occorreva sostituire
tutti i
paramenti gialli del palazzo. Il Figlio del Cielo aveva dato prova dei
suoi
poteri cambiando con la magia ogni ornamento del castello. I
consiglieri e i
servitori avevano applaudito a ogni trasformazione, più
suntuosa e maestosa di
quelle del precedente sovrano; erano orgogliosi di quel potere
debordante che
avrebbe certamente portato una grande prosperità al Sistema
Asean.
Il
ricordo più vivido che Yao aveva di quel giorno, era
stato quando si era voltato per chiedere dove fossero sua madre, i suoi
fratelli e le sue sorelle. Uno dei consiglieri si era inchinato
profondamente,
in modo che il bambino fosse più alto di lui, mentre gli
comunicava la triste
verità: la sua famiglia era stata esiliata dal castello.
Avrebbero mantenuto il
loro status di reali e avrebbero condotto una vita adeguata al loro
rango, ma
non avrebbero mai più potuto mettere piede nel Palazzo,
salvo in occasioni del
tutto eccezionali. Il castello era riservato al Figlio del Cielo
attuale, e
alla sua futura famiglia. Ogni vestigia del passato doveva essere
allontanata,
familiari compresi.
Quella
sera, mentre il sole pugnalava l’orizzonte con una
violenta tinta carminio, Yao aveva fissato l’acciottolato che
conduceva fuori
dalla capitale. Sua madre era solita prenderlo sulle ginocchia, di
fronte a
quella stessa finestra, per raccontargli del luogo in cui era nato, un
posto
dove il sole bruciava ogni cosa, tranne la gentilezza delle persone.
Il
bambino si era toccato le guance, perplesso.
«Dovrei
piangere…» aveva convenuto, tastando le gote alla
ricerca delle lacrime. «Perché non
piango?»
Poi,
comprese: la saggezza di tutti i suoi predecessori gli
permetteva di accettare quel distacco come avrebbe fatto un uomo di
profonda
sapienza, e non come un bambino di dodici anni.
Per
la prima volta, Yao si sentì estremamente vecchio. E
tremendamente solo.
***
Esistevano
molti modi per conoscere una persona.
Yao
aveva incontrato Im Young Soo quando quest’ultimo gli
aveva rovesciato l’intera ciotola di zuppa addosso.
Il
Figlio del Cielo aveva osservato quel servitore, forse di
qualche anno più piccolo di lui, mentre barcollava
fissandosi le mani come se
temesse che potessero diventare due serpenti velenosi. Aveva prestato
troppa
attenzione alle sue dita, coperte da alcuni panni per evitare di
bruciarsi con
la pentola bollente, e troppa poca ai suoi piedi.
I
consiglieri scattarono all’istante e lo stesso fecero le
guardie, che afferrarono quel servitore imprudente e lo costrinsero a
mettersi
in ginocchio. Yao si fece largo tra di loro come una falce in mezzo al
grano, e
osservò il bambino rannicchiato a terra, con le mani chiuse
a pugno contro il
petto.
Ordinò
alla sua corte di abbandonare la stanza e lasciarlo
da solo con il piccolo. Si inginocchiò davanti a lui
– le vesti di seta
inzuppata fecero un buffo rumore quando si chinò –
e scostò gentilmente quei
pugni contratti dal petto sussultante di paura del bimbo.
Yao
non mutò espressione, quando portò alla luce le
dita del
piccolo: a volte, pareva più la porcellana di un bambino che
la sua copia
originale in carne ed ossa.
Tra
le sue mani, lisce e bianche, la deformità di quelle
dell’altro risaltava con una chiarezza crudele: le dita erano
ritorte e gonfie
come i rami tumorali degli alberi, e le unghie erano talmente scure,
scheggiate
e ruvide da sembrare corteccia.
Il
servitore ritrasse le mani quasi temesse di poter
scottare il regnante, e biascicò una scusa a occhi bassi:
«Non
sono degne di essere viste da un reale.»
La
memoria generazionale gli permise di identificare
immediatamente quella malformazione: era la caratteristica distintiva
dei maghi
neri del Sistema Asean. La deformità degli arti era il
prezzo da pagare per
esercitare le arti oscure.
«Qual
è il tuo nome?» pretese di sapere Yao.
«Im
Young Soo» rispose il piccolo, rattrappendosi ancora di
più su se stesso.
Il
Figlio del Cielo gli impose di rialzare la testa
afferrandogli il mento e tirandolo verso l’alto. I capelli
erano corvini e gli
occhi castani, ma le fattezze differivano lievemente da quelle degli
abitanti
di Chugoku e il nome non era associabile a nessuna famiglia di quel
pianeta;
quel bambino doveva essere originario di Kankoku, uno dei loro
satelliti
vassalli.
«Come
sei arrivato qui?» lo interrogò, altero.
Young
Soo si torturò le mani deformi, e masticò con
vergogna:
«Sono
stato venduto dalla mia famiglia. Avevano… paura di
me.»
«Che
motivano avevano, per temerti?»
Il
bambino occhieggiò timoroso dalla lunga frangia che gli
copriva gli occhi e tormentò un ciuffo di capelli tra le
dita mentre mormorava:
«Avete
visto le mie mani. Sapete cosa significano.»
«Hai
mai fatto del male a qualcuno?»
Young
Soo saltò a quattro zampe come se gli avessero
marchiato a fuoco le ginocchia; quasi rotolò su se stesso,
annaspando:
«Mai,
signore! Glielo posso giurare, non ho mai, mai, mai, mai
ferito nessuno!»
«Non
sprecare giuramenti» lo redarguì Yao. «E
cosa li ha
spaventati tanto, allora?»
«Queste!»
esclamò il piccolo, mostrando le sue mani ritorte.
Le richiuse subito dopo, pentendosi di aver mostrato una cosa tanto
orribile.
«Questo… morbo?» non vedendo
disapprovazione sul volto del sovrano, Young Soo
continuò: «Questo morbo non colpisce solo chi
pratica la magia oscura. Colpisce
anche chi usa la magia senza sapere come utilizzarla.»
«Continua»
ordinò il Figlio del Cielo.
Young
Soo inghiottì un boccone di saliva e si mise a sedere
sui talloni, in un buffo tentativo di darsi un contegno.
«Le
arti oscure vanno contro le regole della magia, per
questo gli stregoni sono deformi. A meno che non trovino degli
espedienti per
dirottare su qualcun altro gli effetti negativi degli
incantesimi.»
Yao
annuì; uno dei suoi predecessori aveva visto uno
stregone veicolare su una bambina il prezzo di un suo incanto. La
piccola era
letteralmente esplosa.
«Ma
vale anche per chi infrange le regole senza volerlo. Chi
usa la magia senza sapere come fare…» Young Soo
sospirò, e proseguì: «Non so se
mi crederete, ma io non sapevo di essere un mago. Stavo giocando con i
miei
fratelli in riva al fiume, quando la mia sorellina più
piccola ci è caduta
dentro. In quel momento ho pensato solo che volevo salvarla, non
importava
come. Le acque si sono divise, e lei è uscita di corsa dal
fiume. Non appena è
arrivata da me, l’acqua si è richiusa e ho sentito
un dolore fortissimo alle
mani. I miei genitori si sono spaventati a morte, e mi hanno venduto.
Credevano
che fossi stato io a spingere mia sorella nel fiume» il
piccolo sorrise
debolmente, appiattendosi la frangia sul viso con le mani nodose.
«Erano
contadini, non sapevano che anche un mago normale può avere
questo morbo, se
non sa come usare la magia. Io stesso l’ho saputo solo quando
sono arrivato
qui, e una signora gentile me lo ha spiegato» le dita dal
colore ligneo
aprirono la frangia come una tenda, e la richiusero un secondo dopo.
«Voi le
assomigliate molto.»
Yao
cercò di non mostrare il suo stupore per quelle parole.
C’era solo una donna che poteva assomigliargli, in tutto il
pianeta.
«Questa
signora ti ha detto perché ti ha fatto entrare nel
palazzo, anche se eri sospettato di praticare le arti oscure?»
Il
servitore piegò la testa in strane angolazioni, come se
dovesse far rotolare i pensieri da una parte all’altra del
cranio per poter
rispondere.
«Ha
detto che avrei fatto compagnia a suo figlio, quando lei
fosse andata via» le labbra del bambino si corrucciarono in
una piega comica,
esprimendo disappunto. «Non ne sono sicuro. Ero appena
arrivato e non capivo
bene la lingua di qui… lei mi ha insegnato alcune cose,
prima di sparire. Stavo
imparando a leggere e scrivere... Mi chiedo dove sia adesso.»
Il
piccolo non vide gli occhi scuri del regnante arenarsi
sulle pieghe del suo abito imperiale per dissimulare
l’emozione. Capiva cosa
sua madre avesse visto, in quello straniero goffo e impacciato: una
persona
libera dalle convenzioni e dell’etichetta soffocante del
Palazzo Imperiale. Una
persona sola come lui, privata della propria famiglia.
Gli
aveva donato un amico che potesse capire il suo
isolamento e che fosse slegato dalle catene della formalità.
«Hai
mai praticato la magia, da allora?» domandò,
quando fu
certo che la sua voce sarebbe risuonata ferma e nobile.
La
frangia troppo lunga si aprì come un ventaglio scomposto
in un cenno di diniego.
«Mai.»
«Penso
che dovresti ricominciare.»
Gli
occhi gli lanciarono un’occhiata sconcertata, da sotto
la cortina di capelli.
«Cosa
avete detto?»
«Hai
detto tu stesso di non essere mai stato un mago oscuro.
È stato un incidente. Penso che sia un peccato sprecare il
tuo talento.»
Young
Soo si raddrizzò carponi e si allontanò da lui di
qualche passo.
«E
voi dareste lezioni di magia a un completo sconosciuto
che potrebbe diventare uno stregone nero?»
Il
Figlio del Cielo si rialzò in piedi, e millenni si storia
scintillarono nel suo viso e nelle sue parole mentre annunciava:
«Non
sopravvalutarti troppo, Im Young Soo. Anche se tu ricevessi
nozioni magiche, non diventerai mai più potente di me. Se tu
dovessi diventare
una minaccia, ti ucciderei senza troppo sforzo.»
Sentì
il piccolo deglutire rumorosamente a quella
prospettiva.
«E
poi, la persona che per prima ti ha dato fiducia
è… la
persona di cui mi fido di più in tutto il mondo. Non posso
mettere in
discussione il suo giudizio.»
«Cosa
dovrei fare?»
Una
debole stretta di dolore strizzò il cuore di Yao. Quel
ragazzo era stato abituato a servire, obbedire e umiliarsi fin dalla
più tenera
età: c’era la paura di chi non può
abbandonarsi alle illusioni in quegli occhi
sgranati che lo fissavano, il panico di sperare in qualcosa e il
terrore di
vedere quella stessa speranza frantumata.
Il
Figlio del Cielo inspirò a fondo, e proclamò:
«Sarai
istruito come si conviene. Imparerai a leggere e a
scrivere. E imparerai a usare la magia per proteggere il
regno.»
«Ma
ho il mio lavoro nelle cucine…»
«Non
sarai più uno sguattero. Sarai un mago.»
Il
terrore della speranza raggiunse i massimi livelli in
quelle iridi castane.
«Ma
io non merito tanto…»
«Allora
dovrai fare del tuo meglio per meritarlo. Studia.
Diventa il miglior mago che si sia mai visto. E metti la tua magia al
mio
servizio, al servizio di tutto il Sistema Asean.»
Young
Soo gattonò fino a lui, e afferrò un lembo della
sua
veste rubino con le dita tremanti. Portò il tessuto
vermiglio alle labbra per
baciarlo, e si rialzò di scatto per non bagnarlo con le
lacrime che avevano
improvvisamente cominciato a scorrere sul suo viso.
Cercò
di fermarle contro le maniche ruvide della tunica
servile, ma sembravano aumentare a ogni sfregamento.
«Scusatemi…»
singhiozzò. «Non è questo il modo
giusto… di
rispondere alla vostra proposta…»
Yao
si chinò per vedere le sue lacrime più da vicino.
Quella
era la reazione normale di un bambino: piangere come se i condotti
lacrimali si
fossero rotti. Non la gelida accettazione che gli aveva asciugato gli
occhi,
mesi prima.
«Scusate…»
«A
volte è bello saper ancora piangere» il suo
mormorio non
fu più forte del fruscio della seta, quando si sporse per
abbracciare il suo
coetaneo singhiozzante.
Young
Soo aprì le braccia per ricambiare, ma rimase in
quella posa senza avvicinare le sue dita indegne alla schiena del
sovrano.
«Farò
del mio meglio» garantì, le mani che ciondolavano
nel
vuoto come quelle degli spaventapasseri. «Non vi pentirete di
aver scelto me!
Ve lo giuro!»
Quella
volta, Yao non lo rimproverò di non sprecare
giuramenti.
***
Young
Soo mantenne la parola.
Nei
mesi successivi si dedicò allo studio con tanto zelo che
i servi cominciarono a sospettare che si nutrisse di libri e non di
cibo.
Yao
osservò la sua metamorfosi con un sorrisetto
compiaciuto.
Il
servo goffo diventò uno studente brillante, anche se il
precettore si lamentava spesso del suo carattere troppo vivace e
chiassoso per
un uomo di cultura. E lo studente mutò in mago principiante,
che saettava dal
Figlio del Cielo per mostrargli i suoi progressi, scatenando un coro di
proteste da tutti i servitori che rischiava di investire con la sua
corsa folle
per i corridoi.
Yao
aveva dovuto sopportare lunghe riunioni e interminabili
discussioni con i consiglieri perché accettassero la sua
decisione di far
diventare quel campagnolo un mago reale. E, nonostante fossero passati
mesi
dalla formalizzazione della sua scelta, alcuni consiglieri ancora
borbottavano.
«Dovreste
istituire una carica solo per lui. In questo modo,
nessuno potrà più contestare
alcunché» gli suggerì un giorno il
più anziano.
Yao,
a quell’epoca tredicenne, si era voltato verso di lui
con un sopracciglio arcuato dalla sorpresa.
«Credevo
che fosse poco etico, fare una cosa del genere. È
come calpestare la volontà di tutto il consiglio.»
«Siete
il sovrano, siete nato per far finta di ascoltare le
opinioni altrui e poi procedere per la vostra strada. È il
vostro lavoro» il
vecchio gli aveva sorriso in un delinearsi di rughe ai lati degli occhi
e della
bocca. «Ma, per la giusta decisione, vale la pena calpestare
l’opinione di
qualche brontolone.»
Yao
lo aveva fissato socchiudendo gli occhi e inclinando la
testa, esattamente come la madre era solita fare.
«Mi
stupisce che approviate Im Young Soo.»
«Oh,
io non approvo che un servo possa scalare in questo
modo la piramide sociale. Per questo, sono conservatore» lo
smentì il vecchio. «Ma
quel giovane sta dimostrando un talento non comune per la magia, e una
dedizione che oserei definire famelica per lo studio. Penso che Chugoku
trarrebbe giovamento dai suoi servigi, se guidati dalla vostra
saggezza. E ammetto
di trovare piacevole la distensione sul vostro volto, da quando avete
quel
piccolo straniero intorno.»
Il
Figlio del Cielo sorrise, scendendo dal trono tramite la
scaletta d’oro. Non vedeva l’ora di crescere
abbastanza da rimuovere
quell’aggeggio avvilente.
«Eri
il consigliere cui mia madre era più affezionata»
rifletté Yao, passandogli vicino.
«E
lei era la sovrana cui ero più devoto»
contraccambiò
l’uomo.
La
calma della sala fu sgretolata dall’entrata del tifone di
Kankoku; Young Soo irruppe all’interno e si fiondò
contro Yao.
«Fratellone!
Guarda cosa ho imparato a fare!» esultò, prima
di battere le mani per richiamare un minuscolo drago di fuoco sul
palmo. La
bestiola compì qualche spirale nell’aria, prima di
sparire in una piccola
nuvola di fumo contro le dita ricurve del piccolo.
«“Fratellone”?»
disapprovò il consigliere.
Solo
in quel momento Young Soo registrò la presenza di
un’altra persona nella stanza. Si voltò di scatto,
raddrizzò la schiena e
recitò come un automa:
«Consigliere,
giungo qui per mostrare al Figlio del Cielo i
miei progressi negli studi…»
«Non
serve recuperare adesso» lo smontò severamente
l’uomo. «Cerca
di tenere a mente il galateo, e non solo le formule magiche.»
Young
Soo si girò verso Yao con espressione colpevole, non
appena rimasero soli nella sala.
«L’ho
fatto arrabbiare?»
«No.
Ma dovresti davvero prestare più attenzione al luogo e
al momento.»
Il
piccolo infossò la testa tra le spalle, depresso.
«Allora
non posso più chiamarti “fratellone” e
darti del tu?»
«Puoi
farlo, ma solo quando siamo da soli.»
«Quando
ci sono altri servi?»
«No.»
«Quando
ci sono i consiglieri?»
«Assolutamente
no.»
«E
davanti a un kappa?»
«Per
quale motivo dovremmo mai trovarci davanti a un kappa?»
«Se
dovesse farci visita.»
«I
kappa vivono
solo negli stagni, per ricaricare di acqua la pozza che hanno sulla
fronte.»
«Ma
se ci fosse un
kappa?»
«Forse.»
Young
Soo emise un gridolino felice, e saltellò di fronte al
sovrano.
«Fratellone,
quanti anni hai, esattamente?»
Yao
chiuse gli occhi, rassegnato. L’ingenuità di quel
bambino non conosceva confini: non sapeva neppure che il Figlio del
Cielo era
venuto alla luce tredici anni prima.
«Tredici»
rispose infatti.
«Sei
più grande di me di due anni» meditò ad
alta voce Young
Soo. «Però hai gli occhi degli adulti.»
«Gli
occhi degli adulti?» gli fece eco Yao.
«Sì.
Gli occhi annoiati, come se avessero già visto
tutto… e
come se quel tutto non gli fosse piaciuto.»
Il
nucleo di fuoco pulsò nel suo petto. Era colpa sua se
aveva già sperimentato tutte le brutture del mondo, a soli
tredici anni: aveva
visto il tradimento, l’invidia e l’ipocrisia. Aveva
visto battaglie, sangue e
guerre, colpi di stato e rivoluzioni. L’infanzia non era solo
una questione di
anni: era una condizione mentale, e la sua era stata spazzata via dalla
memoria
generazionale. Invidiava quasi i bambini i cui massimi problemi erano
mangiare
le verdure troppo amare e finire i compiti per la scuola pubblica.
«Ti
fa male il cuore, fratellone?»
Young
Soo dovette ripetere la domanda prima che Yao potesse
evadere la risposta.
«Un
po’. Nulla di grave.»
Il
mago non si lasciò scoraggiare da quel bubbolio; si
piazzò davanti al coetaneo e mosse le dita come per
accarezzargli il petto,
salmodiando:
«Non
fa male, non fa male… non fa più male!»
e batté le mani
per concludere l’incanto.
«Ti
hanno insegnato anche questo, a lezione di magia?»
domandò pacato Yao.
«No»
Young Soo sfregò il naso con un dito, confessando:
«Me
lo faceva mia sorella minore, quando mi facevo male. Non sapeva come
fare per
curarmi, così “mandava via il male”,
diceva lei» scostò appena la frangia per
sbatacchiare le ciglia, mentre chiedeva: «Ha
funzionato?»
«Temo
che la tua formula debba essere revisionata» il Figlio
del Cielo cominciò con una lamentela, ma terminò
con un complimento: «Ma
apprezzo lo sforzo.»
Yao
tossì con eleganza prima di noare:
«I
miei occhi sono antichi, ma per quanto riguarda i tuoi…
sarebbe bello vederli, ogni tanto.»
«A
che scopo? Non hanno nulla di particolare.»
«Come
puoi dirlo, se li tieni sempre sotto la frangia?»
«Lo
so…?»
Incurante
della recalcitranza dell’amico, Yao scostò i
capelli dal viso di Young Soo pettinandoglieli all’indietro
con una mano. Le
ciglia erano corte e scurissime, spalancate su un paio di iridi che
avevano il
colore del legno a dicembre, quando l’umidità lo
rende più spesso e scuro.
«Hai
dei begli occhi. Dovresti scoprirli.»
«Ma
io…»
«Scoprili.
È un ordine.»
E
Yao aggiunse un secondo comando: si sarebbe dovuto recare
in camera sua la mattina seguente, affinché il regnante
potesse assicurarsi che
il nuovo taglio fosse di suo gusto. Quando Young Soo gli chiese a quale
taglio
di riferisse, il Figlio del Cielo rispose con sicurezza:
«Quello che andrai a
fare questa sera stessa per non contrariare il tuo sovrano.»
Gli
appartenenti alla razza reale si distinguevano
soprattutto per quella particolare abilità di imporre con
estrema naturalezza
il proprio volere agli altri, dando l’obbedienza per scontata.
Young
Soo si presentò puntuale all’appuntamento con
l’amico,
tastandosi continuamente la fronte scoperta. Il barbiere di corte gli
aveva
pettinato i capelli ai lati del viso senza alcuna pietà,
dopo averli accorciati
abbastanza da assicurargli una fronte nuda per almeno due mesi.
Yao
lo fece entrare, e si congratulò per il risultato. Young
Soo avrebbe voluto che il palazzo si sollevasse e lo schiacciasse con
la sua
mole: non aveva una grande opinione del suo viso, specie se paragonato
a quello
del regnante, che aveva ereditato la fine bellezza della madre.
«Ho
fatto preparare una cosa per te» lo informò
aristocratico Yao, indicandogli un manichino piazzato in mezzo alla
stanza.
Young
Soo lo circumnavigò lentamente, gli occhi fissi sul
vestito in esposizione. Non ricordava di aver mai visto un abito simile
a
corte: un paio di calzini bianchi contenevano la parte terminale dei
pantaloni
candidi, su cui ricadeva una lunga tunica color neve. Lo scollo
ricalcava la
moda di Chugoku, incrociato sul petto, così come le maniche,
lievemente più
lunghe di quanto fosse necessario. Un bizzarro gilet blu, fermato sul
petto da
una spilla carminio, completava il tutto.
«È
un abito piuttosto strano» commentò alla fine.
«Però è
bello.»
«Sono
lieto che ti piaccia. Perché, d’ora in poi,
sarà la
tua divisa ufficiale» Yao aggiunse, per essere ulteriormente
chiaro: «Il
Portavoce del Sole deve avere un’uniforme
distintiva.»
«Non
ho mai sentito nominare questa carica» notò
serafico
Young Soo.
Non
c’era limite alla semplicità di quel ragazzo. Non
sapeva
se invidiare o maledire tanta ingenuità.
«Tu sarai il
Portavoce del Sole. È una carica nuova, che ho creato io, e
designa il mago di
corte» preferì essere elementare, nella successiva
spiegazione. «I consiglieri
non approvano la nostra differenza di status, non approvano
l’opportunità che
ti ho dato. Ma, se accetti questa carica, non potranno più
ribattere nulla. E
tu sarai libero di continuare a studiare.»
Young
Soo non si voltò; le mani rimasero sospese di fianco
al vestito, come se anelasse di toccarlo ma temessero di sporcarlo. Non
aveva
perso il suo terrore per la speranza.
«Stai
andando contro il volere dei consiglieri per me?»
«Solo
alcuni di loro.»
«Perché?»
«Ritengo
che sia la cosa giusta da fare. In pochi mesi hai
fatto progressi che normalmente richiedono anni. Sarebbe sciocco non
concederti
l’occasione di servire il Sistema Asean solo
perché sei nato da una famiglia di
contadini.»
«Non
ti creerà dei problemi, aver scelto me?»
«Mi
creerebbe più problemi non avere un mago capace al mio
fianco.»
Young
Soo rimase in silenzio, e Yao lo incalzò gentilmente:
«Accetterai?»
Vide
le mani deformi del giovane stringersi fino a tremare,
e sentì la voce strisciare a fatica attraverso una gola
otturata di lacrime.
«Fratellone,
devi smettere di decidere le cose alle mie
spalle. E, soprattutto…» un singhiozzo lo fece
interrompere, e la manica corse
a sfregarsi contro gli occhi come un anno prima. «Devi
smettere di farmi
piangere perché decidi troppo bene.»
Come
un anno prima, Yao lo raggiunse per abbracciarlo.
«E
se non fossi capace?» pianse Young Soo, premendo
inutilmente gli occhi con le mani.
«Hai
dimostrato di avere una volontà di ferro, e delle
ottime capacità magiche. Saprai fare il tuo
dovere.»
«E
se ti dovessi deludere?»
«Mi
deluderesti solo se mi abbandonassi.»
Le
dita contorte si appoggiarono su quelle affusolate di
Yao. Un anno prima, non era degno di toccare un reale: adesso era il
Portavoce
del Sole.
«Non
abbandonerò mai il fratellone» giurò.
«E troverò un
modo per ripagare la tua gentilezza, un giorno.»
«Sarà
sufficiente che tu protegga il nostro Sistema»
minimizzò Yao, lasciandolo andare.
Young
Soo sfiorò la stoffa bianca delle maniche. Erano
più
lunghe del normale, e adesso aveva capito il motivo: avrebbe potuto
nascondere
le sue mani sotto quel tessuto, così non avrebbe
più dovuto vergognarsi della
sua deformità.
Portò
la stoffa al viso, annusandola per rapire il sentore
di bucato.
Era
uno dei più giovani, tra i suoi fratelli, e
l’unico che
contava davvero all’interno della famiglia era il figlio
primogenito; non aveva
mai sperato di ricoprire un ruolo importante all’interno del
nucleo domestico.
Poi era stato spedito tra i servi, dove i sogni erano banditi. Nella
sua breve
vita, era stato rassegnato fin dalla nascita a vivere nella
mediocrità.
Aveva
ottenuto la benedizione del Figlio del Cielo, aveva
ricevuto un’istruzione più che adeguata e stava
per diventare una figura
portante della nobiltà di Chugoku.
Yao
non aveva idea di quanto profondamente lo avesse
salvato: la miseria materiale era un cancro che si diffondeva anche
nell’anima,
lasciando lo spirito spoglio e affamato. Sarebbe diventato uno dei
tanti
servitori con gli occhi spenti. Il Figlio del Cielo lo aveva sottratto
a quel
destino e stava stendendo una strada lastricata d’oro davanti
a lui.
Aveva
quasi paura di quella fortuna insperata: temeva che
qualcuno potesse strappargliela via da un momento all’altro.
Soprattutto,
temeva che potessero strappargli Yao.
«Diventerò
forte» promise al vestito che lo fissava.
«Così
forte che il fratellone non avrà nulla da temere»
accarezzò il gilet blu, e
avvalorò: «Prima di Chugoku, servirò il
fratellone. Finché non avrò ripagato il
mio debito.»
Si
voltò, e sorrise alla stanza vuota: Yao si era dovuto
recare alla consueta riunione mattutina.
«E
anche dopo, quando non ci saranno più debiti a legarmi.
Perché ho giurato di non abbandonare mai il fratellone. E
non era un giuramento
sprecato.»
Portò
quel vestito in camera sua e lo ammirò come un trofeo
per tutto il giorno prima di decidersi a indossarlo.
Fu
rivestito della carica di Portavoce del Sole tre mesi
dopo.
Fu
in quel periodo che conobbero Kiku.
Buonasera
a
tutti<3
All’inizio
la
storia di Im Young Soo e quella di Kiku dovevano essere
insieme… poi ho deciso
di spezzarle, altrimenti non sarei mai riuscita ad aggiornare in tempo,
e il
capitolo sarebbe stato un papiro egizio XD
Nel
prossimo
capitolo comparirà Kiku<3 E si spiegherà
un po’ come, quando e perché è
entrato in contatto con il Figlio del Cielo<3
Dunque…
ci
rivediamo il 13!
Red
P.S.
Per la
metafora sui pesci che affogano per la troppa bellezza della
sovrana… è una
metafora realmente esistente, utilizzata per descrivere la bellezza di
Da Chao,
una delle donne più belle di tutta la Cina dei Tre Regni.
P.P.S.
Per chi
fosse interessato: “Chugoku” è
“Cina” in giapponese, e
“Kankoku” è “Corea”,
sempre in giapponese. Visto che conosco poco di cinese e niente di
coreano, ho
preferito usare una lingua in cui sono cosciente di quello che scrivo,
per
evitare di buttar giù delle fesserie XD
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Capitolo 16 *** L'orfano ***
Capitolo
Sedici: l’orfano
Il
sole era infagottato in un
banco di nubi, e l’aria era più fredda del
previsto.
La
giornata ideale per
un’esecuzione.
Kiku,
che a quel tempo aveva
tredici anni, lottò inutilmente contro le corde grezze che
gli stringevano i
polsi. Prese un profondo respiro e stese la schiena contro il palo cui
era
stato legato. Non aveva davvero intenzione di liberarsi, ma
l’istinto di
sopravvivenza era difficile da sopprimere.
Stava
facendo la cosa giusta, lo
sapeva.
Chiuse
le palpebre sugli occhi
di pece, immaginando come gli Shinigami
avrebbero potuto giudicarlo, una volta attraversato lo Stige.
Era
stato abbandonato, quando
era piccolo. Forse proveniva da una famiglia troppo povera, che non
poteva
permettersi una nuova bocca da sfamare, oppure era un figlio
indesiderato,
magari nato da una relazione clandestina. Non lo aveva mai saputo: non
avevano lasciato
niente su di lui, a parte uno straccio raffazzonato.
Era
stato accolto
dall’orfanotrofio della zona, che aveva fatto in modo che i
ricordi più vividi
della sua infanzia fossero il lavoro nei campi e nelle risaie. Non
c’erano
molti altri impieghi, per i bambini non desiderati. Molti di loro
morivano,
sfiancati dalla fatica o dalla malnutrizione, e non c’era
nessuno che sprecasse
una lacrima in loro ricordo: i figli scordati dai genitori perdevano il
loro
diritto di essere persone e diventavano oggetti da sfruttare
finché non
andavano in pezzi.
Non
si era mai lamentato delle
lunghe giornate passate a raccogliere riso e zappare la terra: alcuni
di loro
erano stati venduti alle miniere, dove erano richiesti dei
“piccoli animali da
sguinzagliare nei cunicoli più stretti”. Aveva
sentito delle storie da brivido
sugli spettri dei bambini morti in quegli anfratti, e ogni sera
ringraziava gli
dei per averlo assegnato ai campi.
Tuttavia,
nemmeno la vita dei
piccoli agricoltori era facile: dovevano svegliarsi quando il sole
ancora
dormiva per recarsi nei poderi, trascinandosi dietro gli attrezzi
più grandi di
loro. Seguiva una giornata all’insegna del sudore e della
fame, perché le
razioni del pasto erano molto scarse: il raccolto veniva venduto al
mercato dai
loro tutori, che non avevano alcuna intenzione di spendere una moneta
di troppo
per la loro nutrizione. In fondo, in pochi anni il lavoro massacrante
li
avrebbe condotti alla fossa comune, e sarebbe stato uno spreco farli
ingrassare
nel frattempo.
Non
si era mai lamentato, nemmeno
una volta, non aveva mai pianto, anche se avrebbe avuto tanti motivi
quante
erano le stelle in cielo; sperava che il suo spirito di sopportazione
avrebbe
avuto qualche valore, agli occhi degli dei.
Aveva
trovato modo di svagarsi,
perfino all’orfanotrofio. Gli bastava trovare un ramoscello
nel giardino e
poteva immaginare di avere in mano una katana
raffinata e di essere uno dei soldati imperiali; muoveva
quell’arma
improvvisata come se volesse tagliare l’aria in piccoli
coriandoli,
guadagnandosi le lodi dei suoi più sgraziati compagni.
Heracles
era quello che lo
incoraggiava più di tutti, affascinato dai suoi movimenti.
Quel
bambino era stato abbandonato
perché frutto di uno stupro. Gli occhi olivastri e i capelli
castani erano
troppo simili a quelli dell’uomo che la madre cercava di
dimenticare, e il
piccolo era stato abbandonato insieme alle memorie sgradevoli.
Kiku
era stato attirato dalla
sua aria serena, che spiccava tra le espressioni infossate degli altri
bambini
come un diamante in mezzo al carbone. Avevano stretto amicizia quando
il gatto
randagio con cui Heracles giocava era schizzato improvvisamente in
braccio a
Kiku, che si era quasi rovesciato per la sorpresa.
Heracles
trovava incantevole la
fierezza di Kiku, che a sua volta pensava che la calma
dell’amico fosse
rincuorante. Andavano d’accordo, anche se ogni tanto Heracles
faceva battute
piuttosto strane su quanto Kiku dovesse essere bello senza vestiti;
l’amico
aveva sempre fatto finta di non sentire, oppure aveva negato con
decisione.
Avevano
passato anni a
rincorrere i gatti randagi, a fingere che i bastoncelli striminziti
trovati in
giardino fossero spade aristocratiche e ad aiutare l’altro a
rialzarsi in
piedi, quando il lavoro fiaccava loro le ginocchia.
Era
crollato tutto quando il
proprietario dell’orfanotrofio aveva cercato di spegnere il
suo unico raggio di
sole. Erano in giardino quando l’uomo li aveva raggiunti,
infuriato come non
mai: il gatto di Heracles era entrato nei magazzini, e aveva rovinato
un’intera
partita di verdure.
Il
bambino aveva provato a dire
qualcosa in sua difesa, ma lo schiaffo che lo aveva raggiunto sulle
labbra lo aveva
zittito all’istante. Gli occhi di Kiku si erano sbarrati di
fronte alla
violenza del proprietario di quel posto: al primo schiaffo ne era
seguito un
secondo, e un altro, e un altro ancora. Heracles aveva cercato di
proteggersi
con le braccia, e quella sua resistenza aveva infiammato ulteriormente
l’uomo:
i calci avevano arginato lo scudo degli avambracci, e avevano raggiunto
il
piccolo al ventre. Kiku scoprì di essere caduto quando
toccò l’erba con le
mani: quello spettacolo gli aveva mozzato fiato e ginocchia.
«Così
lo ammazza!» aveva gridato
un bambino.
Quell’urlo
aveva fatto scattare
qualcosa, dentro di lui: aveva sentito una marea rossa risalire dalle
viscere
fino a stendere un velo carminio sulla realtà.
La
sua mano si era stretta attorno
a una pietra, e le gambe erano scattate in un balzo. Aveva calato quel
ciottolo
mille volte, senza sentire i rantoli dell’uomo e nemmeno gli
strilli dei
bambini, finché non era più riuscito a tenere il
sasso in mano: il sangue lo
aveva reso troppo scivoloso per essere trattenuto.
Tutto
era diventato rosso.
Le
guardie erano arrivate poco
dopo, e lui aveva dichiarato immediatamente la sua colpevolezza: non
voleva che
i suoi amici rimanessero coinvolti in quell’omicidio. La sua
confessione fu
superflua, anche se altruista: le macchie di sangue che chiazzavano i
suoi
vestiti e il suo viso erano sufficienti ad accusarlo.
E
ora attendeva di essere
giustiziato sulla pubblica piazza.
Kiku
si adagiò contro il palo,
inclinando la testa di lato. Quell’incidente aveva portato
alla luce la triste
realtà degli orfanotrofi, troppo spesso ignorata: le guardie
e i funzionari non
potevano eludere le denunce di maltrattamenti e sevizie dei bambini,
né
potevano dissimulare i lividi e i chiari segni di malattie sui loro
corpi
denutriti.
Non
aveva la presunzione di
diventare un eroe nazionale: ci sarebbero stati sicuramente altri
orfanotrofi
con le loro stesse condizioni, se non peggiori. Ma, almeno per i suoi
amici, le
cose sarebbero cambiate: aveva visto molte persone accalcarsi per
scrutare quei
fantasmi di bambini. Magari alcuni di loro sarebbero stati adottati;
magari
Heracles avrebbe trovato una famiglia.
«Ho
avuto una fine onorevole,
almeno» stimò in un bisbiglio, quando la porta
della capanna in cui era recluso
si aprì.
Faticò
a mettere a fuoco la
figura che si stagliò nel rettangolo della porta: la luce
improvvisa gli ferì
gli occhi, abituati all’oscurità di quel posto. Ma
anche quando le sue pupille
si adattarono, non riuscì a riconoscere immediatamente il
ragazzo che lo
scrutava dalla soglia. Il suo fisico e il suo volto erano disegnati con
tratti
estremamente delicati e, finché non aprì bocca,
non avrebbe saputo dire se
fosse un maschio androgino o una femmina mascolina.
«Sei
tu ad aver ucciso il
proprietario dell’orfanotrofio?» domandò
una voce cristallina.
Kiku
annuì, lievemente turbato
dal tono del giovane: doveva avere all’incirca la sua
età, ma il mondo stesso pareva
inchinarsi al suo volere, quasi fosse una creatura divina.
«Perché
lo hai fatto?» lo
sconosciuto chiuse la porta e si avvicinò a lui. Kiku lo
fissò guardingo, non
riuscendo a capire l’obiettivo di quel ragazzo.
«L’ho
fatto. Alle autorità
interessa solo questo» proclamò, e distolse lo
sguardo da quegli occhi scuri
che lo trapassavano, come se la sua pelle fosse un foglio di carta di
riso.
Le
labbra fini del giovane si
arcuarono in un sorriso cortese, e una delle sue mani si protese per
toccargli
lo sterno.
Kiku
trasalì ma non poté
sfuggire a quelle dita: le corde che lo legavano erano troppo strette.
Lo
sconosciuto chiuse gli occhi,
e alzò il mento come se stesse ascoltando una melodia
lontana. Increspò le
labbra e le sopracciglia un paio di volte prima di mormorare:
«Capisco…»
Si
rialzò fluidamente e lo
osservò dall’alto mentre lo giudicava:
«Hai
ucciso un tiranno perché
stava ammazzando un tuo amico. E ti sei dichiarato colpevole per
evitare che i
tuoi compagni subissero il tuo stesso destino. Se avessi detto queste
cose alle
guardie, la tua pena sarebbe stata più lieve.»
«La
voce di un orfano non conta
quanto il sangue di un adulto» notò Kiku, senza
alcuna particolare sfumatura. «Nessuno
mi avrebbe creduto.»
L’altro
fece un lieve cenno con
il capo, riconoscendo la veridicità del suo discorso.
«Comunque,
è davvero incredibile
che tu sia riuscito a sopraffare un adulto» valutò
il giovane, portando dietro le
spalle la lunga coda mogano che gli ricadeva sul petto. «Il
tuo tutore era più
robusto di te, e meglio nutrito. Eppure, tu sei stato abbastanza forte
da
abbatterlo.»
«Si
fanno molte cose, quando si
è disperati» replicò neutro Kiku.
«E
parli piuttosto bene, per
essere analfabeta» lo elogiò l’altro.
«Non
so leggere, ma so
ascoltare. E ascolto molto.»
«Ascolti
bene. E memorizzi
ancora meglio.»
Kiku
lanciò uno sguardo carico
di sospetto sull’altro giovane: non riusciva a capire
perché un signorino di
buona famiglia fosse venuto in quel tugurio per parlare con un
assassino. La
sua origine nobile era visibile nel vestiario curato e nella perfetta
salute di
pelle e capelli, ed era ancor più nitida nel suo portamento
impeccabile e nel
suo modo di parlare come se un gradino lo distanziasse dal resto del
mondo.
«Dove
hai imparato a combattere?»
«Non
so combattere.»
«Devo
dedurne che hai un grande
istinto. Hai colpito quell’uomo solo in punti
vitali.»
«Tutti
sanno che un sasso
diretto alla testa può uccidere.»
«Ma
non tutti sanno colpire lo
stesso punto ripetutamente, specie se attaccano in uno scatto di
rabbia» il
giovane lo sondò con gli occhi e con le parole:
«Sei sicuro di non aver mai
combattuto?»
Kiku
scosse la testa in cenno di
diniego.
«No.
Ogni tanto fingevo di
essere un soldato, insieme ai miei amici. Ma nessuno ci ha mai
insegnato.»
L’orfano
lanciò uno sguardo
obliquo, affilato dalla provocazione.
«Dovresti
temermi. Sono un
mostro che è riuscito a massacrare un adulto.»
Lo
sconosciuto ricambiò con
un’occhiata colma di saggezza e sfida.
«Se
i nostri antenati avessero
temuto le piene del Fiume Drago, il limo non avrebbe mai potuto
depositarsi
sulle valli e fertilizzarle, e le società arcaiche non
avrebbero prosperato.
Tuttavia, se non fossero stati in grado di creare una canalizzazione
adeguata
per i campi, le piene avrebbero sommerso anche i villaggi. Non temo la
forza,
ma ritengo che debba essere controllata e condotta sulla giusta
via» il ragazzo
si inginocchiò di fronte a lui: «Vorresti avere la
possibilità di domare il tuo
potere?»
«Non
vedo come. Sto per morire»
ribatté ovvio Kiku.
«Non
è ciò che ti ho chiesto»
gli ricordò serafico l’altro.
L’orfano
si morse le labbra
prima di ammettere:
«Sì.
La vorrei.»
«Allora
la morte dovrà
aspettare.»
Quando
il ragazzo allentò lo
scollo e il sole di fuoco baluginò dai bordi slacciati, Kiku
temette di essere
impazzito completamente: la sua mente, terrorizzata all’idea
della morte
imminente, doveva essersi inventata un’assurda storia in cui
il Figlio del
Cielo si era scomodato per venire a salvarlo.
«Quelle
corde sembrano scomode»
a Yao bastò schioccare le dita perché le funi che
grattavano i polsi del
giovane bruciassero senza scottare la pelle del ragazzo. Kiku quasi non
badò a
quel prodigio, troppo stupito dalla presenza del sovrano in quel
bugigattolo.
«Perché
siete venuto qui?»
domandò, incapace di alzarsi.
«Non
sono venuto appositamente
per salvarti» ammise Yao. «Sei stato fortunato,
Kiku: stavo visitando questo
villaggio quando ho sentito parlare del tuo caso, e mi sono
incuriosito» il
regnante gli porse una mano con eleganza: «Le vie del fato
sono misteriose,
anche per me.»
L’orfano
rifiutò con garbo
quella mano troppo preziosa per essere toccata dalla sua, e si
rialzò in piedi
appoggiandosi al palo.
«Non
riesco a credere che
vogliate un assassino… nella vostra corte» le
parole tremarono appena: Kiku era
troppo orgoglioso per balbettare apertamente.
«Ho
anche un mago nero, nella
mia corte» elencò a mezza voce il Figlio del
Cielo. Usò un tono stentoreo nel
ricordargli: «La mia decisione non cancella la tua colpa. Ti
viene data una
seconda possibilità, ma non la redenzione incondizionata.
Dovrai guadagnarti il
perdono diventando un soldato capace e, soprattutto, fedele.»
«Non
è il duro lavoro a
spaventarmi» asserì deciso Kiku. «Ma, se
permettete, temo che voi siate troppo
avventato.»
Il
sorriso parve accarezzare le
labbra ben disegnate del giovane, e una punta di dolcezza gli
illuminò gli
occhi a mandorla.
«Una
persona a me molto cara mi
ha mosso questa stessa accusa, circa un anno fa»
ricordò. «Come dissi allora:
se tu dovessi rivoltarti contro di me, ti incenerirei come ho fatto con
le tue
corde.»
Il
sovrano non smise di
sorridere, ma un fuoco terribile fece scintillare le iridi scure quando
consigliò, mellifluo:
«Non
darmi modo di ripensare
alla mia scelta, Kiku.»
***
Yao
e Arthur si voltarono di
colpo, quando l’immenso gong del Palazzo Imperiale fece
vibrare l’aria.
«Che
succede?» chiese il Mago
dell’Ovest, irritato per lo spavento.
«Stanno
per fare una comunicazione
ufficiale» il fiato del Figlio del Cielo si troncò
di colpo quando il Samurai
comparve sulla balconata del castello.
Il
bianco della tunica si
fondeva con il candore della pelle, e contrastava con la tinta
d’ebano di occhi
e capelli. Il rubino incastonato sull’elsa della katana e le
insegne militari
scarlatte ricordavano la sua fedeltà al sovrano.
Yao
infilò le mani nelle
maniche, e artigliò gli avambracci. Kiku non era cambiato
per nulla, come se
quell’anno non fosse mai trascorso.
Il
guerriero attese un istante,
con la sua espressione impossibile da scalfire ben saldata sul volto.
La sua
impassibilità era leggendaria.
Tuttavia,
perfino a quella
distanza, Yao poté immaginare con estrema chiarezza il lieve
tremore del
sopracciglio sinistro e il singolo battito di palpebre, che
contraddistinguevano gli stati di ansietà di quel giovane.
Conosceva bene quel
ragazzo, troppo bene.
«Il
Figlio del Cielo» annunciò,
scandendo ogni parola. «Non ha ancora vinto la sua lotta con
il coma. Le
condizioni del Portavoce del Sole restano immutate. Preghiamo gli dei
di
restituirli a queste terre il prima possibile» e scomparve
all’interno, prima
che una lacrima potesse affacciarsi dai suoi occhi.
Arthur
sentì il suo cuore
mancare un colpo. Il Figlio del Cielo in coma? Che assurdo trucco
avevano
inventato per mantenere quella bugia per un anno intero?
«Ma
cosa…» cercò di chiedere, ma
richiuse la bocca subito dopo.
Il
colorito terreo delle gote di
Yao era un chiaro segnale del suo stato d’animo. Era
angosciato fino all’ultima
fibra del suo essere: per il suo amico, le cui condizioni non erano
state
specificate, per il suo regno. E per il Samurai.
Arthur
osservò l’acciottolato
meditando un intervento intelligente. Tutto ciò che
riuscì a dire fu:
«Sembrava
sinceramente
preoccupato.»
«Lo
so» ghigliottinò il Figlio
del Cielo.
Kiku
non lo aveva mai tradito. Era
colpa del demone, di quel maledetto demone.
«Dobbiamo
trovare un modo di
entrare nel Palazzo il prima possibile» sentenziò
Yao.
Doveva
sapere cosa era successo
a Young Soo. E doveva cercare di salvare Kiku. Anche se ciò
avrebbe implicato uccidere
quel bambino che aveva salvato tanti anni prima, e che era vissuto fino
ad
allora solo per servirlo.
Scusate
il
ritardo dell’aggiornamento ç_ç
Ho
avuto una
brutta influenza, e non sono riuscita ad aggiornare prima di oggi .-.
E, sempre per via dell'influenza, il capitolo è venuto
più corto del previsto ç_ç MI
rifarò con il prossimo<3
Per
impegni che
sono sorti negli ultimi tempi, d’ora in poi
l’aggiornamento sarà bisettimanale.
Mi dispiace moltissimo ç_ç Quando sarò
più libera, gli aggiornamenti torneranno
settimanali<3
Come
sempre,
grazie per aver letto fin qui e per seguire questa storia<3
Nel
prossimo
capitolo saranno svelate altre cose sul Samurai :)
Ci
vediamo tra
due settimane, sempre di lunedì<3
A
presto<3
Red
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Capitolo 17 *** Heracles ***
Capitolo
Diciassette: Heracles
Il
giovane orfano fece in modo che il sovrano non dovesse
mai rimpiangere la sua decisione.
Raggiunse
il castello la settimana successiva, con un
fagotto contenente i suoi pochi averi.
Si
era concesso qualche giorno per separarsi dal suo
migliore amico: lui e Heracles erano scappati al mare, e si erano
divertiti con
le onde, la sabbia e la pesca.
«Così
te ne andrai nella capitale» ansò Heracles, quando
si
stesero sulla spiaggia assolata dopo una lunga immersione.
«È molto lontana da
qui?»
«Circa
tre giorni a piedi, uno a cavallo» calcolò rapido
Kiku.
«Non
ci vedremo più?»
«Troverò
un sistema.»
Heracles
sorrise, socchiudendo gli occhi nella luce
abbagliante del sole. Kiku trovava sempre una via di uscita; era
riuscito
perfino a tirarli fuori dall’orfanotrofio.
Il
ragazzo rabbrividì, nonostante la temperatura mite. I
calci del maestro gli avevano lasciato dei lividi scuri sulla pancia, e
il
labbro spaccato era ancora gonfio e gli pizzicava ogni volta che si
immergeva
nell’acqua salata del mare. Ma era libero, e lo doveva solo a
Kiku, che non
aveva avuto paura di sporcarsi le mani per salvarlo.
Stava
perfino per essere adottato dal fabbro del villaggio,
che si era impietosito ascoltando la sua storia. Pareva assurdo che,
fino a
pochi giorni prima, il suo futuro finisse con il tramontare del sole:
non era
mai sicuro che sarebbe sopravvissuto fino all’alba.
«Sono
orgoglioso di te» gongolò Heracles.
«Lavorerai nel
Palazzo Imperiale… sarà fantastico.»
Kiku
aspirò le labbra nella bocca, per assaggiare il sale marino
lì imprigionato.
Aveva
temuto che Heracles lo avrebbe guardato come gli altri
loro compagni: erano contenti di essere stati salvati, ma avevano visto
la sua
furia mentre spaccava il cranio del tutore. Avevano paura di lui, anche
se
volevano essergli grati. Heracles era troppo candido o troppo stupido
per
spaventarsi: il suo comportamento non era cambiato minimamente, come se
Kiku li
avesse liberati con uno slancio eroico e non con un omicidio.
Lo
avrebbe fatto diventare ancora più orgoglioso di lui, e
avrebbe fatto in modo che potessero continuare a sentirsi.
Una
volta raggiunto il castello, chiese a Yao se esistesse
un modo per comunicare con una persona che non sapesse né
leggere né scrivere,
e il Figlio del Cielo gli aveva proposto un usignolo meccanico, in
grado di
registrare messaggi vocali e riprodurli all’interessato, una
volta impostata la
destinazione. Ma quell’oggetto aveva un prezzo: Kiku avrebbe
dovuto superare l’esame
per entrare nell’accademia militare.
Il
ragazzo soddisfò quella richiesta la settimana
successiva, e l’usignolo partì per raggiungere
Heracles. Tornò indietro quattro
giorni dopo con la risposta dell’amico, e ripartì
il giorno successivo con la
replica di Kiku.
Trovava
sempre tempo per registrare un messaggio per
Heracles, nonostante la vita nell’accademia fosse molto
impegnativa.
Appena
arrivato, gli avevano rasato i capelli fino alla
radice, e Kiku era stato contento di quel taglio drastico: era stato un
ottimo rimedio
per i pidocchi, congiunto alla lozione che il Figlio del Cielo gli
aveva fatto
avere.
I
maestri avevano notato in lui un’enorme determinazione, e
uno spiccato talento per le spade: le lame stesse sembravano sforzarsi
per
armonizzarsi alle sue inesperte movenze, goffe come quelle di tutti i
novellini. La posizione delle gambe poteva essere scorretta o il
movimento
troppo veloce, ma vi era una sintonia particolare tra quel giovane e le
spade,
come se cercassero insieme il modo migliore di scivolare
nell’aria. All’interno
dell’accademia, fu il primo a impadronirsi di una destrezza
sufficiente per
accedere al secondo livello degli allenamenti. Quella promozione fu
approvata
anche dai medici militari responsabili della salute degli allievi: gli
arti
scheletrici del giovane si erano finalmente gonfiati in una parvenza di
muscolo
e carne, e gli allenamenti successivi, abbinati a una giusta dieta,
avrebbero
certamente irrobustito il suo fisico.
Kiku
si sottopose agli addestramenti più duri, con una
dedizione tale da risultare sconcertante: sembrava che il giovane
mettesse in
ogni colpo la sua stessa vita, tanto era concentrato nel far vibrare la
spada.
«Hai
mai pensato di concorrere per la carica di Samurai?»
gli domandò un giorno il suo maestro di spada.
Kiku
si passò un panno bagnato sul volto: non era decoroso
parlare con i propri superiori con il viso congestionato.
«Non
ci ho mai pensato, signore» asserì il giovane,
neutro. «Non
appartengo a un rango sociale sufficientemente elevato.»
«Ma
ti esprimi molto bene, per essere un orfano.»
«I
kami mi hanno
fornito due buone orecchie, signore, e una memoria abbastanza
capiente.»
«E
una retorica invidiabile, per una persona che non ha mai
aperto un libro» il maestro rinfoderò la spada e
considerò: «Sarebbe difficile
diventare Samurai, ma non impossibile. Dovresti superare un esame di
cultura
generale. Solo le persone colte possono stare al cospetto del Figlio
del Cielo.»
«E
dovrei sfidare e sconfiggere i guerrieri più forti del
Sistema Asean» aggiunse Kiku.
«Ma
questo non sarebbe un problema. Raramente ho visto un
talento smisurato come il tuo» l’insegnante gli si
piazzò davanti, e pretese
l’attenzione dei suoi occhi neri: «Posso trovarti
un maestro che ti aiuti con
gli studi culturali. E posso trovare un nobile che ti faccia da garante
per
permetterti di accedere alle selezioni.»
Kiku
si sedette sul terreno sabbioso dell’arena in
ginocchio, con la schiena perfettamente dritta e la katana
stretta in pugno, perpendicolare al suo fianco. Il maestro
lo osservò mentre il giovane chiudeva gli occhi,
sprofondando nelle sue
meditazioni. Sembrava una delle statue di bronzo raffiguranti i Samurai
delle
leggende; quel ragazzo sarebbe sicuramente entrato nella mitologia dei
guerrieri.
Kiku
sollevò il suo sguardo d’ebano dopo qualche
secondo, si
rialzò in piedi e scandì, marziale:
«Sono
pronto ad accettare questa prova, signore.»
Il
maestro sorrise e si sminuì, alzando una mano come per
frenare il ragazzo:
«Oh,
ma non sarò io a occuparmi della tua istruzione.
Qualcun altro si è già offerto per questo
ruolo.»
Come
evocata dalle sue parole, una figura impaludata di
rosso si materializzò nel rettangolo grezzo dello stipite.
Riconobbe
istantaneamente quei lineamenti regali, anche se
erano passati mesi dall’ultima volta che li aveva ammirati di
persona. Non
riconobbe invece il ragazzino che trotterellava festante di fianco al
nobile, vestito
con uno strano abito bianco e blu.
«Ti
presento i tuoi garanti e i tuoi istruttori» li introdusse
il maestro, con un gesto cerimonioso.
Per
quanto Kiku vantasse un volto di granito, non riuscì ad
arginare del tutto la sua commozione. Era convinto che il sovrano lo
avesse
salvato per capriccio, e che si fosse scordato di lui dopo averlo
lasciato in
accademia. Lui non avrebbe mai dimenticato la gentilezza del regnante,
che lo
aveva strappato alla morte, ma sapeva che per il Figlio del Cielo lui
sarebbe
rimasto insignificante come la ghiaia che calpestava nel suo giardino.
Un
simile interessamento era qualcosa che un povero orfano non avrebbe mai
potuto
sperare, nemmeno in cento anni. Era la prima volta, in tutta la sua
vita, che Kiku
si sentiva indispensabile e accettato, come se avesse trovato il posto
in cui
cucire il suo piccolo ricamo nell’immenso arazzo del Sistema
Asean.
Si
inginocchiò, porgendo la spada al sovrano e chinando la
testa, in modo da celare i suoi occhi lucidi.
«Mio
signore» recitò, come da cerimoniale.
«La mia forza e
le mie armi sono al vostro servizio.»
Yao
sollevò la spada dalle sue mani e la strinse al petto.
Accettando quella lama, aveva formalmente riconosciuto quel giovane
come
guerriero reale.
«Alza
il viso, Kiku» lo invitò con garbo il regnante,
restituendogli la spada. «Non è possibile studiare
a capo chino.»
«Concedetemi
qualche istante. Vi prego.»
Il
Figlio del Cielo e il Portavoce del Sole si scambiarono
un’occhiata complice: l’orgoglioso guerriero non
voleva mostrare le sue
lacrime. Finsero entrambi di non aver intuito il motivo
dell’esitazione del
giovane, e attesero che il ragazzo sollevasse spontaneamente il capo.
«Abbiamo
molto da insegnarti, Kiku» lo spronò Yao,
regalandogli uno dei suoi sorrisi che strappavano la luce al sole.
***
Heracles
si era divertito un mondo ad ascoltare i resoconti
di Kiku su quel periodo.
Pensava
che i nobili fossero rigidi come le statue d’oro dei
loro palazzi. Rise di gusto mentre l’usignolo gli raccontava
con la voce di
Kiku come Young Soo fosse esuberante: a dispetto del suo titolo
altisonante,
quel ragazzino era una forza della natura irrefrenabile, che rimbalzava
da una
parte all’altra della stanza snocciolando precetti ed
eseguendo numeri di
magia. Young Soo si occupava della sua istruzione militare, evocando
mostri con
cui Kiku combatteva per abituarsi a lottare in ogni situazione e contro
ogni
avversario. Aveva sconfitto dragoni, golem e costrutti
d’argilla; talvolta,
Young Soo gli lanciava degli incantesimi durante il combattimento, per
abituarlo
a prestare attenzione anche a eventuali avversari secondari.
La
prima volta che lo aveva fatto, Kiku si era infuriato a
morte: non aveva urlato, ma il suo volto era diventato livido in una
rabbia
silenziosa. Quello era stato l’unico momento in cui anche
Young Soo aveva
parlato con serietà.
«Se
diventerai Samurai, sarai incaricato della sicurezza del
sovrano. E i tuoi nemici non osserveranno i turni, per combattere: ti
arriveranno tutti addosso in un solo momento. E devo assicurarmi che tu
non
permetterai a nessuno di loro, per nessun motivo, di far del male al
fratellone.»
La
furia di Kiku si era spenta in comprensione. Il ruolo che
mirava a ricoprire non era un gioco: se non fosse riuscito a proteggere
il
Figlio del Cielo, Chugoku avrebbe rischiato il tracollo, e il Sistema
Asean con
lui.
Raddrizzò
le spalle e si inchinò con il capo.
«Sono
pronto a riprendere l’allenamento» aveva annunciato.
Kiku
aveva impiegato qualche settimana per accettare il
carattere turbolento di Young Soo. Parlare con lui era come costruire
un fuoco
di artificio: bastava la minima disattenzione per farlo scoppiare.
Il
Portavoce del Sole era più morigerato durante le lezioni
di Yao, in cui entrambi venivano istruiti nella scrittura, nella
lettura e nei
classici del loro popolo. Nemmeno Young Soo aveva avuto mai frequentato
una
scuola.
Yao
era un ottimo insegnante: aveva la capacità di stimolare
interesse per la materia spiegata, e la pazienza necessaria a
rispondere a tutte
le loro domande e correggere tutti i loro errori.
Si
prendeva cura di loro, li istruiva e gli voleva bene:
Kiku sapeva che quelle caratteristiche erano proprie di un padre. Non
aveva
esperienza di rapporti familiari, ma lui, il Figlio del Cielo e il
Portavoce
del Sole sembravano proprio un bizzarro nido domestico: Yao era il
padre di
entrambi e Young Soo il suo inarrestabile fratello maggiore.
Il
Figlio del Cielo si complimentò quando i loro progressi
furono visibili: riuscivano a leggere fluidamente, a scrivere
sbagliando
pochissimi tratti negli ideogrammi e a rispondere a domande di cultura
generale.
Heracles
lo incoraggiava a dare del suo meglio, dopo avergli
riassunto le sue giornate nell’officina.
Kiku
ascoltava quelle favole della buonanotte dopo essersi
fatto il bagno serale, steso nel letto con le luci spente, in modo che
solo la
voce di Heracles riempisse la stanza.
Si
chiedeva se anche il suo amico provasse quella punta di
nostalgia, nel sentire i suoi racconti. Erano stati abituati a
condividere la
stessa porzione di mondo, per quanto piccola e infame. Era
così strano non
riuscire ad associare una faccia alle persone di cui Heracles gli
raccontava, a
non avere una mappa mentale dei luoghi in cui viveva.
Una
volta che gli esami fossero finiti, avrebbe chiesto a
Yao il permesso di recarsi in visita al paese dove l’amico
abitava.
Ruotò
lo sguardo verso la finestra, mentre progettava il suo
viaggio verso il sud del paese. Si rialzò sulla branda,
osservando sconcertato il
cielo. Era nero, completamente nero, senza nemmeno uno spillo di luna.
Non ci
avrebbe fatto caso, se non avesse letto in tanti trattati militari come
i
comandanti si orientassero di notte grazie alle stelle. Aveva chiesto a
Yao
cosa fosse una “stella” e il Figlio del Cielo gli
aveva risposto che era una
goccia di sole incastrata nel cielo notturno.
Ma
la volta celeste era scura come un pezzo di carbone. Non
si era mai soffermato su quel fatto, all’orfanotrofio: al
termine della
giornata di lavoro, crollavano tutti in pochi secondi sui loro
pagliericci. Non
avrebbero avuto nemmeno il tempo di guardare il cielo; e poi, nessuno
di loro
sapeva dell’esistenza delle “stelle”.
«Da
quando il cielo di Chugoku è diventato così
nero?»
chiese il giorno dopo a lezione.
Young
Soo aveva appoggiato il libro che stava leggendo per
rivolgere uno sguardo preoccupato a Yao, quasi temesse che potesse
cominciare a
sanguinare da un momento all’altro: sapeva che per il
fratellone sarebbe stato
tremendamente doloroso rivivere i ricordi di uno dei suoi avi.
Nonostante ciò,
il Figlio del Cielo rispose con ineffabile compostezza a quella domanda:
«Circa
quattrocento anni fa, la flotta della Compagnia di
Britannia cercò di conquistare le nostre terre. Per alcuni
anni, Chugoku fu una
loro colonia. Riuscimmo a riconquistare il nostro pianeta e la nostra
libertà,
ma il prezzo fu il sacrificio di innumerevoli vite. Da allora, Chugoku
e i
pianeti maggiori del Sistema Asean hanno eretto uno schermo magico per
dirottare gli attacchi nemici. Ovviamente, è stato creato in
modo da non
impedire ai raggi solari del Palazzo di Quarzo di filtrare, o il
pianeta
sarebbe avvizzito in pochi giorni. Tuttavia, la luce delle stelle e
della luna
fu considerata un orpello inutile.»
Yao
appoggiò i suoi occhi scuri sul lussureggiante giardino
imperiale, al di là della finestra.
«Abbiamo
pagato la nostra libertà con il sangue, e abbiamo
ottenuto la sicurezza sacrificando la luna e le stelle.»
Il
Figlio del Cielo li fissò di nuovo con la sua espressione
più affabile e gli ricordò, indulgente:
«Abbiamo
interrotto la lezione. Riprendiamo.»
Young
Soo e Kiku annuirono, ma a nessuno dei due era
sfuggita l’amarezza con cui il sovrano aveva ricordato quegli
avvenimenti.
Sacrificare la luce per la sicurezza non era una scelta priva di
ripensamenti.
Young
Soo scribacchiò qualcosa su un foglio di carta, che
gli passò furtivamente poco dopo.
Kiku
lo aprì dietro il libro e lesse: “Riportiamo le
stelle
a Chugoku?”.
Il
guerriero asserì, e il Portavoce sorrise. Una nuova
alleanza era appena nata.
***
Young
Soo evocò un enorme drago di fiamme, che volò in
cielo
con un ruggito e deflagrò in un gigantesco fuoco
d’artificio.
«Per
il nostro Kiku, che oggi ha passato l’esame di cultura
generale!» esultò, battendo una sonora pacca sulle
spalle d’acciaio del
guerriero.
«È
presto per congratularsi» minimizzò il soldato.
«Non sono
ancora diventato Samurai.»
«Ma
ogni passo è una vittoria» celebrò Yao,
alzando la
piccola tazza di sakè.
«E, come tale,
va festeggiato.»
Young
Soo riempì il bicchierino di Kiku, versandogli
metà
della bottiglia sulle mani per la troppa baldanza.
«Hai
recuperato in pochi mesi interi anni di studio» si
congratulò il Portavoce del Sole. «Sii fiero di te
stesso!»
Il
guerriero avrebbe voluto replicare che la strada da
percorrere era ancora lunga, ma nessuno dei due sembrava disposto ad
ascoltarlo: Young Soo era troppo impegnato a riempirgli il bicchiere, e
Yao era
intenzionato a festeggiare, sebbene in modo più serafico.
Kiku,
il soldato d’acciaio, scoprì di tollerare assai
poco
l’alcol: il primo sorso gli incendiò la gola, e
rischiò quasi di sputarlo
addosso al Figlio del Cielo. Strabuzzò gli occhi e
gonfiò le guance, prima di
ingoiare la malefica boccata.
«Abbiamo
trovato il tuo punto debole» sorrise angelico Yao,
sorbendo il suo sakè.
Un
frastuono terribile sopraggiunse dall’entrata principale,
interrompendo il loro festeggiamento. Kiku fece loro cenno di non
muoversi,
sguainò la katana e
corse al massimo
della sua velocità verso i cancelli del palazzo. Si
bloccò di botto non appena
vide il responsabile di tutta quella confusione. Le guardie stavano
trattenendo
uno spaesato ragazzo di campagna, che reggeva tra le mani un lungo
fagotto
avvolto da stracci e cordoncini.
I
lineamenti squadrati e l’espressione smarrita erano
inconfondibili: il suo amico non era cambiato, in quegli anni.
«Heracles?»
lo chiamò, calmo a dispetto del marasma tutto
intorno.
Le
sentinelle si voltarono verso Kiku, e domandarono:
«Lo
conoscete?»
Il
giovane rinfoderò la spada per dare il buon esempio alle
guardie, che a loro volta abbassarono le armi.
«Sì.
Non farà del male a nessuno. Lasciatelo entrare»
garantì.
Heracles
si fece largo con titubanza tra i vigilanti, come
se temesse di essere infilzato da un momento all’altro.
Sapeva che Kiku era una
specie di leggenda nel Palazzo Imperiale, ma non riusciva a scrollarsi
di dosso
il loro primo, traumatico imprinting con
l’autorità: all’orfanotrofio, nessuno
avrebbe ascoltato le preghiere di un bambino abbandonato.
Heracles
si affrettò a raggiungerlo, e Kiku lo condusse velocemente
verso la sua stanza: il suo amico non era abituato al fasto del Palazzo
Imperiale, e camminava come se le mura stesse giudicassero le sue
azioni. Il
suo volto si rilassò non appena furono da soli in camera,
nascosti agli occhi
inquisitori del Palazzo.
«Non
mi avevi detto che saresti venuto a trovarmi» lo
salutò
Kiku, sedendosi a terra.
Heracles
lo imitò, impacciato. Il suo amico si era evoluto
enormemente, negli ultimi anni. Non era più un orfano sporco
e analfabeta: era
diventato un guerriero colto, che concorreva per il titolo di Samurai,
e che si
muoveva con naturalezza nel lusso della corte imperiale. Al contrario,
lui pareva
un sasso gettato tra le pietre preziose.
«Volevo
farti una sorpresa» spiegò flemmatico.
«Era come
avevi detto tu: tre giorni a piedi.»
Kiku
gli regalò quel suo sorriso particolare, che non
curvava le labbra ma illuminava gli occhi.
«Te
ne ricordavi?» le sue sopracciglia di pece si
incontrarono in un interrogativo, fissando il suo bizzarro bagaglio.
«Cos’è
quello?»
Heracles
spacchettò veloce il suo dono. Gonfiò il petto
con
orgoglio quando la luce colò senza impedimenti sulla lama
perfettamente
affilata.
Kiku
poggiò gli occhi sulla spada più bella che avesse
mai
visto. L’amico la tenne in equilibrio sul polso, per fargli
ammirare il
bilanciamento impeccabile tra elsa e lama.
Il
guerriero allungò le mani quasi con reverenza, e il
giovane fabbro gli permise di afferrare quella meraviglia di acciaio.
Kiku
contemplò la lucida perfezione della lama, la cura maniacale
negli intarsi
dell’elsa, raffigurante un dragone, e il prezioso rubino
incastrato tra le
fauci del rettile.
Si
rialzò in piedi per farla roteare in una serie di figure:
la lama quasi cantò, serpeggiando nell’aria come
fosse dotata di vita propria.
Heracles
ammirò le movenze dell’amico. Era davvero
maturato,
da quando giocavano ai guerrieri con dei bastoncini ritorti: sembrava
quasi che
lo spazio stesso si trasformasse per assecondare le sue figure di
combattimento.
«Hai
fatto un lavoro encomiabile» si congratulò Kiku.
Heracles rifiutò la spada che l’amico stava
tentando di restituirgli e
dichiarò:
«È
il mio regalo per te. Hai superato un esame tremendo.»
Kiku
lo osservò, confuso.
«L’esito
dell’esame è stato rivelato solo oggi. Non potevi
saperlo, tre giorni fa» contestò.
«Non
conoscevo l’esito dell’esame, ma conosco te. Sapevo
che
ce l’avresti fatta» dichiarò sicuro
l’altro.
Il
guerriero portò nuovamente i suoi occhi di ossidiana
sulla spada: quel capolavoro di officina era suo. Il suo amico
l’aveva creato
appositamente per lui.
«Quanto
hai impiegato a forgiarla?» domandò, senza alzare
gli occhi dalla lama.
Heracles
impiegò qualche istante per capire cosa l’amico
gli
avesse chiesto: la sua istruzione non era progredita più di
tanto,
nell’officina del fabbro, e faticava a capire i vocaboli
forbiti dell’amico.
Era decisamente passato molto tempo dall’ultima volta in cui
si erano visti.
«Un
mese, più o meno» quantificò
velocemente.
Trenta
giorni in cui il suo amico si era alzato con il
progetto della spada in mente, vi aveva lavorato tutto il tempo e si
era
addormentato con la speranza di perfezionarla il giorno successivo.
La
fatica del giovane fabbro sembrò trafiggerlo da quella
lama perfetta. Lui non aveva fatto niente di altrettanto grandioso, per
ricambiarlo.
«Grazie»
fu tutto ciò che la sua bocca filtrò dal
groviglio
di sentimenti che gli attanagliavano il petto.
Heracles
sorrise, lieto che gli anni trascorsi nel Palazzo
non avessero cancellato l’imbarazzo timido di Kiku, che
spuntava quando doveva
ringraziare per qualcosa.
Fece
per alzarsi, ma una mano indurita dagli allenamenti lo
bloccò.
«Allevi
ancora i gatti?» chiese Kiku.
«Sì…»
«Quanti?»
«Quattro.»
«Di
che colore sono?»
Lo
trattenne con le dita e con le domande, finché il suo
amico non si rimise a sedere e cominciarono a parlare come ai vecchi
tempi,
quando scorrazzavano nel giardino dell’orfanotrofio.
Erano
cambiate molte cose, in quegli anni, ma non la loro
amicizia. E la assaporarono appieno quel pomeriggio, quando finalmente
poterono
vedere le reazioni dell’altro alle proprie parole senza
limitarsi a
immaginarle.
Heracles
fu molto felice di scoprire che Kiku arrossiva
ancora, quando si facevano supposizioni sulla sua bellezza nuda.
***
«Kiku
non si vede più» si lamentò Young Soo.
«Chissà cos’è
successo all’entrata…»
«Oh,
io sono convinto che sia stato un incontro piacevole»
insinuò con eleganza Yao,
prima di terminare il suo bicchiere di sakè.
***
Il
Figlio del Cielo non fece commenti diretti sulla sua
assenza ai festeggiamenti. Lo colpì a tradimento con una
frecciatina casuale
qualche giorno dopo, durante una lezione di storia.
«Dovrò
far circolare un ritratto del tuo amico tra le guardie.
Così non lo attaccheranno, la prossima volta che
verrà a trovarti. O, forse,
preferirai fargli visita tu stesso.»
Young
Soo li aveva fissati alternativamente al di sopra del
libro di storia, senza capire a chi si riferissero. Kiku fu sul punto
di alzarsi,
tanta fu la veemenza con cui esclamò:
«Io
non intendevo mancare di rispetto…»
Yao
alzò una mano, quieto, invitandolo a sedersi di nuovo.
«Non
hai mancato di rispetto a nessuno. Anzi, trovo che sia
meraviglioso che la vostra amicizia sia così forte a
distanza di anni. Il tempo
ha la fastidiosa abitudine di sciupare le cose»
un’ombra di tristezza passò in
quegli occhi secolari, e un battito di palpebre la spazzò
via. «Solo, chiedigli
di annunciarsi, la prossima volta: il Palazzo non può essere
messo in allarme
per una visita confidenziale.»
«Sarà
fatto» garantì Kiku.
«Molto
bene» approvò Yao. «Riprendiamo la
lezione.»
Young
Soo non aveva ancora capito quale fosse l’oggetto
della discussione, ma tornò sulle pagine fitte di date senza
fare storie.
Il
Figlio del Cielo non diede voce al suo successivo
pensiero: Kiku si infiammava molto, quando si parlava del suo amico. La
cosa lo
rendeva molto felice: per lui, che era stato benedetto
dall’astro del fuoco,
era sempre un piacere vedere le fiamme divampare in quelle iridi nere.
Le
giornate successive trascorsero in sintonia con il
programma stilato: allenamenti e scontri si susseguirono rapidamente,
portando
Kiku alle selezioni finali per la carica di Samurai.
Yao
e Young Soo non potevano esprimere simpatie personali,
mentre assistevano agli scontri dalla balconata imperiale, ma gioivano
intimamente ogni volta che il loro lottatore preferito atterrava il suo
avversario, e l’arbitro lo dichiarava vincitore. I
festeggiamenti si svolgevano
a sera tra le mura riservate delle loro stanze, dove nessun occhio
esterno
avrebbe potuto interferire. Young Soo era sempre il più
chiassoso, nonché il
più goloso di sakè.
Kiku spediva
l’usignolo a Heracles con il resoconto della battaglia solo
dopo che i fumi
dell’alcol avevano abbandonato la sua lingua: non voleva che
l’amico lo
prendesse in giro per i suoi discorsi sbiascicati dalla sbornia.
La
notizia giunse mentre il medico di corte stava ricucendo
un taglio sulla spalla del giovane combattente. Aveva appena finito di
fasciare
la ferita suturata, quando Yao entrò nella stanza.
La
sua andatura non era cambiata, sempre elegante e ben
bilanciata, ma il fuoco del sovrano era stato smorzato da una colata di
cenere.
Kiku si sentì quasi minacciato da quell’aurea
funerea.
Il
dottore abbandonò la stanza dopo essersi inchinato al
sovrano, che si avvicinò al suo protetto.
Kiku
si appoggiò la giacca militare sulle spalle, per non
ricevere il suo regnante a torso nudo. Il soldato analizzò
la tristezza che
incupiva il volto del sovrano, la lieve incurvatura della schiena e la
cautela
con cui si muoveva, quasi temesse di spezzare l’aria;
sommò tutti quei dettagli
e trasse la sua conclusione. C’era solo un motivo per cui il
regnante avrebbe
potuto avere tante riserve nei suoi confronti.
«È
successo qualcosa a Heracles?» domandò.
Yao
si congratulò interiormente per la perspicacia del
guerriero: sarebbe diventato un ottimo Samurai, se fosse riuscito a
superare
anche le ultime prove.
«È
arrivato un messaggero adesso…» Kiku non gli diede
modo
di terminare il suo commiato; l’arguzia del soldato
anticipò ogni sua premura.
«Se
hanno inviato addirittura un ambasciatore, deve essere
successo qualcosa di molto grave. È morto?»
Il
corpo, la voce e il viso di Kiku rimasero immobili, marmorei.
I suoi occhi si fecero piatti, come se i sentimenti fossero stati
risucchiati
all’interno. Kiku stava ritirando ogni possibile emozione per
non esporla al
mondo esterno; era il suo sistema difensivo da sempre.
Yao
lo sapeva, ma si sentì intimamente ferito da quella
levata di scudi: non credeva che il suo figlioccio lo ritenesse
così poco degno
di fiducia.
«Nessuno
sa come sia successo» rivelò il Figlio del Cielo,
con il massimo tatto possibile. «Lo ha trovato il fabbro,
riverso a terra. Non
ha ferite o contusioni sul corpo, non sono state trovate tracce di
veleno.
Kiku…»
«Se
parto ora, sarò di ritorno in una settimana» il
giovane
infilò la giacca e la richiuse velocemente, per poi
riappropriarsi della sua
spada e avviarsi verso l’uscita. «Tra otto giorni
avrò il prossimo scontro.
Farò in tempo» e scomparve nel corridoio.
Poche
ore dopo, il guerriero abbandonò il Palazzo a dorso di
cavallo.
Young
Soo entrò in punta di piedi nella stanza di Yao; il
Figlio del Sole era adagiato sul suo trono, abbracciato dalla penombra
del
tramonto.
«Come
è andata?» domandò, accucciandosi ai
piedi del
sovrano, con i gomiti appoggiati sullo scranno. Yao gli
accarezzò la testa
pettinandogli all’indietro la frangia, e riassunse:
«Non
ha pianto, non ha urlato. È corso al villaggio per
assistere ai funerali.»
«Kiku
è proprio forte, se non ha nemmeno pianto»
considerò
Young Soo. Le dita del Figlio del Cielo si fermarono sulla sua testa,
raggelate.
«No.
È l’opposto» Yao ritirò la
mano all’interno dell’ampia
manica. «È così fragile che non
può permettere alle lacrime di scorrere: una
diga corrosa può andare in pezzi, se consente a una goccia
d’acqua di passare
tra le sue crepe.»
Il
Portavoce del Sole scattò in piedi, allarmato.
«Non
voglio che Kiku vada in pezzi!» esclamò.
«Cosa possiamo
fare?»
Il
Figlio del Cielo raccolse le pieghe di seta del suo abito
in grembo. La sua risposta fu un’unica parola.
«Aspettare.»
***
Kiku
tornò allo scadere del settimo giorno, come promesso.
Attraversò
l’entrata principale silenzioso come uno spettro.
Si imbatté in Young Soo al primo angolo del corridoio.
«Kiku…»
balbettò il Portavoce del Sole.
Il
guerriero scrutò adamantino il piccolo mago mentre questo
boccheggiava e gesticolava, senza riuscire a emettere suono; gli occhi
del
Portavoce si riempirono di lacrime, che ruppero gli argini poco dopo.
Prima che
Kiku potesse dire o fare qualunque cosa, Young Soo gli gettò
le braccia al
collo e gli bagnò la giacca con il suo pianto.
«Non
andare in pezzi, …» fu tutto quello che il soldato
riuscì a comprendere dal suo farfugliare. Il guerriero gli
batté alcune pacche
sulle spalle per tranquillizzarlo e, una volta che si fu calmato, si
discostò
da lui per poi imboccare il corridoio che conduceva alla sua stanza.
«Le
dighe crepate si riparano» gli gridò dietro Young
Soo,
asciugando le ultime lacrime sulle maniche troppo lunghe. «E
si riparano meglio
insieme!»
Kiku
non si fermò al richiamo del Portavoce del Sole. Temeva
che, se si fosse voltato, tutte le barriere che aveva eretto per
contenere il
suo dolore sarebbero crollate. Non aveva previsto che un avversario
molto più
ostico del ragazzo di Kankoku lo stesse aspettando nella sua stanza.
«Bentornato»
lo salutò Yao, finemente seduto sul bordo del
suo letto.
Kiku
rimase per un attimo congelato sulla soglia della
camera. Raggiunse il letto a passi marziali, e si mise a sedere su di
esso in
una posa rigida, fissando la porta e non il Figlio del Cielo.
I
loro respiri scandirono lo scorrere di alcuni minuti,
prima che Yao esordisse, con voce vellutata:
«Soffrire
non è un disonore, Kiku. Nemmeno le lacrime lo
sono. Significano che non sei così egoista da pensare solo a
te stesso.»
Il
guerriero rimase immobile e muto come una statua di
terracotta. Yao proseguì, morbido:
«Il
lutto è un cancro: se non lo asporti in modo
appropriato, si diffonderà in tutto il corpo. A volte, il
bisturi migliore è
l’orecchio di un compagno.»
Kiku
non rispose nemmeno a quell’appello. Il Figlio del
Cielo abbassò il capo, sebbene gli fosse difficile accettare
il silenzio
dell’altro. Lui avrebbe affidato la vita a Kiku, e lo feriva
profondamente
pensare che lui non gli avrebbe consegnato nemmeno una confidenza.
Stava
per abbandonare la camera quando le parole del
guerriero lo trafissero in mezzo alle spalle.
La
testa era chinata e le mani strette tra di loro, e le
parole si trascinarono faticosamente fuori dalle sue labbra contratte.
«Quando
sono arrivato là…» cominciò.
«… non ho riconosciuto
nulla. Ero abituato a conoscere tutti i posti in cui Heracles stava.
All’orfanotrofio, il nostro mondo era piccolo; quella
città era immensa e…»
Kiku scrollò la testa, ma tenne lo sguardo piantato a terra.
«Sono arrivato
dove si teneva il funerale. Il fabbro mi ha guardato e mi ha chiesto:
“Lo
conoscevi?”»
Quelle
parole caddero come macigni nel silenzio improvviso. Yao
si avvicinò di nuovo a lui, mentre il soldato confessava:
«All’orfanotrofio
tutti sapevano che eravamo amici. Nessuno
mi avrebbe chiesto se lo conoscevo. In quel momento ho capito quanto
fossimo
stati lontani in questi anni.»
Il
Figlio del Cielo raccolse le pieghe del suo abito con una
mano per inginocchiarsi di fronte a lui.
«Rimpiangi
di aver scelto la via della spada?» domandò
garbato Yao.
Kiku
scosse la testa. Le mani del Figlio del Cielo si
appoggiarono delicate sui suoi capelli corvini, come avrebbero fatto
quelle di
un padre.
«Spesso
la vita ci mette davanti a dei bivi. Chiedersi
troppo insistentemente cosa avremmo ottenuto se avessimo imboccato la
via
opposta può distruggerci.»
Kiku
negò nuovamente con il capo. Gli occorse qualche
secondo per riuscire ad articolare:
«Non
rimpiango la mia scelta. Ma avrei voluto avere tempo di
ripagare la sua gentilezza.»
Si
sottrasse alle carezze del Figlio del Cielo, sempre a
occhi bassi, ed estrasse da sotto il letto un fagotto di stracci e
cordoncini.
Yao si stupì enormemente quando una stupenda spada emerse da
quell’involto di
tessuto grezzo.
«Te
l’ha regalata lui?» chiese, apprezzando la mirabile
fattura dell’arma.
«L’ha
creata lui.»
Yao
schiuse le labbra in una moderata sorpresa: l’amicizia
profonda che li legava era impressa in ogni centimetro di quel ferro
magnifico.
«E
tu non gli hai regalato nulla in cambio?»
Il
Figlio del Cielo trasse le sue conclusioni dal silenzio
di piombo che colò su di lui. Il sovrano poggiò
di nuovo le sue mani setose
sulla testa del giovane, in ginocchio davanti a lui.
«Sai,
Kiku, credo che le cose che pesano di più, tra noi e i
morti, siano le occasioni perdute. Tu non rimpiangi la tua scelta. Ma
sono
rimaste tante cose che avresti voluto dire e fare, e la morte ti ha
strappato
l’opportunità di metterle in pratica.»
«È
una situazione senza rimedio.»
«Sbagliato.
Il rimedio esiste. Dentro di noi.»
Yao
accarezzò con più dolcezza quei capelli morbidi,
e
continuò:
«Tu
ora stai guardando solo alle cose che non hai potuto
fare. Ma pensa a quello che hai fatto: lo hai liberato, Kiku. Se non ci
fossi
stato tu, sarebbe morto sotto la sferza del suo maestro. Tu lo hai
salvato…»
«È
morto ugualmente.»
«È
il destino dei mortali, è inevitabile. Ma è morto
da uomo
libero. E quella libertà
gliel’hai
donata tu. Quindi non pensare di non essere riuscito a ricambiare:
questa spada
meravigliosa è stata il suo modo di ringraziarti per il
regalo inestimabile che
gli hai fatto.»
Lo
sguardo di Kiku continuò a evitare quello di Yao, e il
Figlio del Cielo appoggiò le dita sulle sue, strette a pugno.
«Te
l’ho detto. Soffrire non è un disonore.»
Finalmente,
le spalle del guerriero si sciolsero nei
singhiozzi trattenuti per tutti quei giorni. Le maniche del Figlio del
Cielo si
stesero sulla sua schiena curva, mentre il sovrano lo stringeva in un
abbraccio
paterno.
Heracles
non avrebbe mai più rincorso i gatti, non avrebbe
più forgiato spade, non avrebbe più gettato tutto
il Palazzo nello scompiglio
per una gita non annunciata. Non riusciva ad accettare che il suo
migliore amico
se ne fosse andato in un modo tanto assurdo. Doveva fare qualcosa per
ricordarlo e strapparlo a quella morte così insensata.
Si
staccò dal Figlio del Cielo con gli occhi ancora gonfi di
lacrime, afferrò la spada e la fece scintillare nella luce
del crepuscolo.
«Diventerò
il Samurai» la sua voce era intrisa di pianto, ma
tremendamente ferma. «Heracles mi condurrà alla
vittoria.»
Yao
accettò la sua decisione con condiscendenza, e
confermò:
«È
un bel nome per una spada» il Figlio del Cielo condusse
la sua arma verso il basso, e lo accolse di nuovo tra le sue braccia.
«Ma
adesso non è tempo di combattere. Adesso devi
sfogarti.»
Le
mani forti del guerriero si strinsero sulle sue spalle
sottili, mentre le sue lacrime gli bagnavano il petto.
Young
Soo si trattenne dal bussare alla porta, sentendo i
singhiozzi di Kiku all’interno. Non aveva voluto condividere
il suo dolore con
lui, ma lo aveva fatto con il fratellone.
Si
allontanò, scalpicciando festoso nei corridoi.
Il
Portavoce era una persona troppo semplice per offendersi
per una cosa del genere: era semplicemente felice che quel suo fratello
dalla
testa dura fosse riuscito a piangere, alla fine.
***
Heracles
svettò vittoriosa nel cielo il giorno successivo.
Kiku
si candidò ufficialmente alla sfida finale per la
carica di Samurai.
Ed
eccoci qui
con il capitolo su Kiku<3
Ma
la sua storia
non è finita: ci sarà ancora qualche capitolo
(due, all’incirca) sul passato
degli orientali, e poi si tornerà al presente e al piano per
riportare Yao sul
suo trono u.u E, nei prossimi capitoli, verrà ripreso il
discorso sulle stelle,
quindi tenetelo a mente 8D
E
tra poco… un
certo eroe di nostra conoscenza farà la sua apparizione XD
Anche se questa
volta sarà senza hamburger e bibitoni xD
Grazie
per
seguire questa storia<3<3<3
Ci
rivediamo il
diciassette!
Red<3
|
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Capitolo 18 *** L'Aquila ***
Capitolo
Diciotto: l’Aquila
Il
volto marmoreo di Kiku rimase immobile mentre la tempesta
rabbiosa vomitata dal consigliere si abbatteva su di lui. Le parole
sferzanti
dell’uomo non riuscirono graffiare il suo viso di porcellana,
né a incrinare il
suo sguardo di onice.
Il
consigliere infilò seccamente le mani nelle maniche,
mettendo fine all’inutile conversazione.
«Non
conosciamo la malattia che affligge il nostro sovrano,
e non sappiamo come risvegliare il Portavoce del Sole dal suo torpore.
Questo
fa di te l’unico sopravvissuto tra i vertici del potere, e
l’ultima immagine
carismatica per il popolo. Ma questa situazione non è stata
volontaria, Kiku
della Settima Prefettura. Se solo uno di loro fosse cosciente, saresti
immediatamente bandito dal castello. La tua incompetenza è
intollerabile: hai
permesso che l’incolumità del nostro regnante
fosse compromessa e, con essa,
quella di Chugoku. Tuttavia…» l’uomo gli
lanciò lo sguardo che avrebbe
riservato a un cumulo di sporcizia da stalla. «…
sei l’unico in grado di
ispirare fiducia nel popolo. È solo per questo che non sei
stato rimosso dalla
tua carica. Né tu né la... Stella
Polare.»
Il
consigliere gli voltò le spalle, senza nemmeno aspettare
la replica che non era intenzionato ad ascoltare: qualunque cosa
potesse dire
quel deprecabile Samurai, non era degna del suo tempo e della sua
attenzione.
La
katana cantò,
scivolando fuori dal fodero e solleticando la preziosa stoffa della
tunica del
consigliere.
«È
Honda» la voce del guerriero risuonò fredda e
affilata
come la spada che sfiorava delicata la schiena dell’uomo.
«Il nostro sovrano mi
ha regalato un cognome, il giorno in cui sono stato nominato Samurai.
Per
rispetto al Figlio del Cielo, vi prego di usarlo, quando vi rivolgete a
me.»
Il
consigliere fece un passo avanti per distanziarsi dalla
lama, e raddrizzò la schiena per sovrastare in altezza il
soldato, il cui
fisico non era cresciuto quanto le sue leggendarie capacità
in battaglia; gli
anni di malnutrizione all’orfanotrofio avevano lasciato la
loro impronta su
quelle membra acerbe.
«Il
Figlio del Cielo ti aveva anche assegnato una missione,
assieme al titolo e al cognome: proteggerlo. E adesso è
preda di un morbo
sconosciuto, contratto durante un attacco che il suo guerriero
personale non è
riuscito a gestire. Oserei dire che non hai rispettato i voleri del
nostro
sovrano fino in fondo.»
Le
labbra di Kiku si asserragliarono in una linea stretta,
mentre la spada tornava al suo posto. Il soldato abbandonò
il consigliere senza
sprecare una sola parola, e si diresse verso la stanza del Portavoce
del Sole.
L’uomo
scrollò la testa con disapprovazione, e fece per
imboccare il corridoio quando un metro e ottanta di guerriero ben
addestrato
gli sbarrò la via.
Le
sopracciglia brizzolate del consigliere si incontrarono
in un cruccio sdegnoso. Quello straniero era un’altra delle
bizzarrie apportare
dal Figlio del Cielo. Lui e tutti gli altri nobili lo avrebbero
volentieri
raschiato via dal palazzo se non fosse stato tanto popolare tra il
volgo.
Il
popolo lo acclamava come “l’Aquila”.
Nessuno aveva mai
capito come fosse nato quell’epiteto. Alcuni ritenevano che
fosse un modo per
elogiare la sua capacità di arrivare sempre al momento
giusto e nel posto
giusto, come un’aquila che scansiona il mondo
dall’alto per planare solo sulle
prede più succulente. Altri ritenevano che fosse un modo per
sminuire
indirettamente quello che, fondamentalmente, rimaneva uno straniero: il
paragone al rapace dalla vista formidabile risultava sarcastico, se
associato
agli occhiali che sellavano il naso del giovane.
Il
consigliere lo superò in fretta, ma non abbastanza da non
sentire l’affronto dell’uomo, pronunciato con quel
suo accento sbiascicante.
«Il
sovrano non è ancora morto. Finché il Figlio del
Cielo
avrà respiro, il Samurai combatterà per salvarlo.
E lo farà. Vedrete.»
L’uomo
esalò tra i denti un respiro tremendamente simile a
“selvaggi” prima di sparire nei corridoi tortuosi
del palazzo.
Una
nebbia di compatimento appannò gli occhi
dell’Aquila, e
fu costretto a battere le palpebre per scacciarla. Provava pena per
quei nobili
abituati a snocciolare sentenze senza avere la minima esperienza del
mondo al
di fuori delle loro suntuose tuniche. Gli davano
l’impressione di essere dei
pesci da acquario, convinti che la loro misera boccia di vetro fosse
l’oceano.
Si
appoggiò allo stipite cremisi, contemplando in silenzio
la scena fraterna all’interno della stanza del ragazzo di
Kankoku. Il Portavoce
del Sole giaceva dinoccolato sul suo trono, come una marionetta senza
fili dimenticata
su uno scranno troppo grande, gli occhi spaventosamente fissi e
l’espressione
tragicamente assente. Kiku era inginocchiato davanti a lui, le palpebre
chiuse
e le mani insensibili del fratello poggiate alle labbra. Le uniche cose
realmente esistenti per il Samurai, in quel momento, erano le nocche
ghiacciate
premute sulla sua bocca e il bisogno viscerale di vedere di nuovo il
sorriso spensierato
del giovane. I ricordi dei bei tempi passati insieme diventavano
angoscianti
come fantasmi, quando si rimaneva soli. Kiku aveva paura di quegli
spettri: lo
avevano tormentato quando Heracles era morto, e non voleva cadere di
nuovo tra
le loro grinfie. Aveva tremendamente bisogno che suo fratello gli
dicesse che
tutto sarebbe andato bene come se fosse davvero
possibile che tutto andasse bene.
«Young
Soo, se solo tu potessi consigliarmi…»
L’affetto
che scorreva in quelle parole non riscosse il
Portavoce dalla sua immobilità; il calore dimostrato dal
Samurai scivolò a fatica
sulle sue membra raggelate, come una goccia d’acqua su una
lastra di ghiaccio.
Kiku
sussultò a malapena quando l’Aquila gli
appoggiò una
mano sul capo.
«La
Stella Polare attende ordini» comunicò.
Il
Samurai si rialzò velocemente, ricompose la sua posa
militare e si preparò a una nuova giornata di lavoro. Il
giovane straniero lo afferrò
per una spalla, trattenendolo vicino al proprio petto.
«Posso
sostituirti io, per un giorno» si offrì.
Kiku
mosse pochi passi per sottrarsi a quella stretta
accorata e recitò, veloce e inflessibile come una scarica di
frecce:
«Hai
sentito il consigliere: sono l’unica figura autorevole
rimasta al momento. Chugoku non può fermarsi. E lo stesso
vale per me.»
Il
Samurai guadagnò velocemente l’uscita, lasciando
dietro
di sé solo l’eco dei suoi passi dal ritmo militare.
L’Aquila
lo seguì, il cuore pesante come il piombo.
Il
consigliere non avrebbe mai estrapolato la sofferenza
seminata nelle profondità di quegli occhi di pietra. Nemmeno
lui ci sarebbe
riuscito, se il loro passato non fosse stato così simile.
Solo
chi aveva udito il proprio mondo crollare in pezzi
poteva riconoscere lo stridio di un’anima in frantumi.
***
Il
ricordo della sua prima missione era vivido nella sua
mente come se il suo cuore lo irrorasse di nuova vita a ogni battito
Ricordava
le divise tutte uguali, le facce tutte uguali, le
espressioni tutte uguali. Tutto era grigio e senza vita, come se i
soldati
fossero morti nel momento stesso in cui avevano indossato la propria
uniforme.
Solo uno era diverso da tutti gli altri: un soldato che si sentiva
ancora vivo,
e aveva voglia di dimostrarlo sorridendo contro il grigiore del mondo.
Lo
stomaco di Alfred si era contratto in modo bizzarro:
guardare quell’uomo era come vedere il proprio riflesso allo
specchio - un
riflesso rivestito di carne, con un nome diverso dal suo e i capelli
lievemente
più lunghi-, entrambi intrepidi soldati di Britannia che non
avevano ancora
voglia di dichiararsi concime per le margherite.
Si
era immediatamente avvicinato a lui, e avevano fatto
amicizia in poco tempo. Si chiamava Matt, e si era arruolato qualche
anno prima.
Il
ricordo più intenso che aveva di quell’uomo era il
discorso che avevano fatto insieme sull’eroismo.
«Come
mai sei entrato nell’esercito?» gli aveva chiesto
una
volta Alfred.
La
striscia di carne conficcata sul suo spiedino rudimentale
si era quasi carbonizzata mentre Matt pensava a una risposta
convincente.
«So
sparare, so combattere. E ci sono tanti demoni, là
fuori, pronti a divorare chiunque non sappia fare altrettanto. Penso
che sia
giusto che io li sconfigga per proteggere chi non è in grado
di difendersi da
solo.»
«Quindi
ti sei arruolato per salvare le persone.»
La
faccia di Alfred aveva scintillato più del fuoco
lì
vicino, mentre elogiava il collega più anziano. Matt aveva
sgonfiato le spalle
in un sospiro greve, e aveva ammesso, con una certa vergogna:
«No.
Mi sono arruolato per uccidere i demoni.»
«Ma
tu hai detto…»
«Non
riusciamo a salvare tutti, Alfred. Anzi, raramente
riusciamo davvero a salvare la gente. La maggior parte delle volte
arriviamo
troppo tardi, o i nostri sforzi non sono sufficienti.»
«Ma,
allora, qual è lo scopo di un soldato?»
Matt
aveva osservato con tenerezza quel ragazzino che
fissava il suo grezzo spiedino con un cruccio quasi comico. Invidiava
la prima
fase dell’adolescenza, in cui si aveva ancora la sensazione
di poter afferrare
i sogni. Ben presto anche quel piccoletto dal labbro imbronciato
avrebbe
scoperto che le utopie non crescevano sull’albero della vita,
e, se lo
facevano, erano su rami troppo lati per essere raggiunti dagli esseri
umani.
«I
soldati uccidono i demoni. E cercano di prevenire altri
massacri» aveva cercato di calibrare Matt.
Alfred
non era parso per nulla soddisfatto da quella
risposta approssimativa. L’altro aveva spostato la carne
– che ormai aveva
assunto il colore e la consistenza della suola di uno scarpone
– dal fuoco, e
aveva tentennato, sperando di soddisfare la sete di speranza del
giovane:
«Gli
eroi. Gli eroi salvano la gente.»
Gli
occhi blu di Alfred tornarono a gareggiare con il fuoco
per luminosità. Il ragazzo si era spostato verso di lui,
curioso come un
animale che sente l’odore di una traccia inesplorata.
«E
come si diventa eroi?»
«Oh,
devi fare molte cose difficili» Matt aveva agitato
vagamente lo spiedino nell’aria, mentre elencava:
«Devi salvare tutti, nessuna
esclusione. Devi perdonare chiunque ti faccia un torto, e difendere i
deboli
anche quando la situazione appare disperata. E, soprattutto, devi
mantenere un
cuore puro e rimanergli sempre fedele.»
«Questo
è facile!» aveva declamato Alfred, gonfiando il
petto con orgoglio.
Matt
aveva scosso mestamente la testa.
«No.
Quella è la parte più difficile. Il mondo conosce
mille
modi per contaminarti il cuore.»
Ipocrisia,
invidia, opportunismo. Matt aveva visto i lati
peggiori degli esseri umani durante tutti quegli anni. Non riusciva
più a
credere che le persone di cuore esistessero ancora.
La
risposta di Alfred fu di quanto più lontano
dall’umano e
vicino all’eroico avesse mai udito.
«Il
mio cuore è solo mio. E solo io posso decidere se voglio
che sia inquinato o no» Alfred aveva strappato un pezzo di
carne stopposa e
l’aveva masticata con forza, come per rimarcare le sue
parole. «Vedrai»
biascicò a bocca piena.
A
Matt sarebbe piaciuto vederlo scintillare nelle sfere
degli eroi, ma non poté farlo. I demoni attaccarono a
sorpresa il villaggio in
cui erano alloggiati, e le strade si tinsero di sangue e di morte.
Urla,
scoppi, ruggiti, mescolati in un vortice nauseante. E,
in quella confusione polverosa, la cruda immagine del corpo di Matt, e
della
porta che gli inchiodava una gamba al suolo. I suoi compagni correvano
veloci
di fianco a lui, senza nemmeno guardarlo. Se si fossero fermati ad
aiutarlo, i
demoni li avrebbero divorati, e ogni soldato sapeva che dieci vite
valevano più
di una. Ma per un eroe ogni vita valeva più della propria:
Alfred si fermò, e cercò
di liberare il suo amico.
Le
sue orecchie non recepirono le urla accorate di Matt, le
sue mani non si accorsero di come le schegge della porta divelta le
stessero
martoriando. Le uniche cose che ricordava di quell’inferno di
caos e panico
erano il braccio che lo aveva afferrato per lo stomaco, trascinandolo
via, e le
labbra di Matt che si muovevano a formare un ringraziamento.
Matt
non versò nemmeno una lacrima, nel vedersi abbandonato
al proprio destino. Alfred lo fece per lui; pianse finché i
suoi occhi non diventarono
rossi come i suoi palmi feriti e sanguinanti.
«Era
il suo primo giorno» sentì un soldato vicino a lui
che
lo giustificava con un superiore. «Prima o poi si
abituerà a queste cose.»
Alfred
inghiottì un boccone di muco e amarezza, disgustato. Le
labbra tremarono in un respiro malfermo, frustato dalla rabbia che gli
incendiò
le parole.
«No.
Io non mi abituerò.»
L’intera
divisione si voltò, sconvolta da
quell’ammutinamento solitario. Alfred inalberò il
mento, tremante di un’emozione
sconosciuta e potente: la sentiva propagarsi dal midollo alle ossa,
avvertiva
il cuore che la pompava frenetico nelle vene, facendogli ribollire il
sangue.
La sua anima entrò in risonanza con quella vibrazione
terribile, che fece
fremere le sue parole con una furia maestosa:
«Nessuno
può ammaestrarmi il cuore. Io non voglio diventare
un soldato che uccide i demoni. Voglio diventare un eroe che salva la
gente.»
Per
quanto lodevole, per le orecchie di ferro dell’esercito
quella dichiarazione equivaleva a un atto di tradimento.
Il
giovane Alfred fu quindi allontanato con disonore e abbandonato
su Chugoku, il primo pianeta sulla loro rotta, e le navi Britanniche
ripartirono senza di lui.
Sistemò
gli occhiali, rimboccò le maniche e inghiottì le
lacrime. Non si fece intimidire dal terrore che vide serpeggiare negli
occhi
della gente al suo passaggio: i suoi lineamenti, su quella terra, erano
stampati sui libri di storia di fianco alla scritta
“oppressori”.
Erano
trascorsi secoli dalla guerra sino-britannica, ma gli
orrori di quelle battaglie erano passati dalla bocca dei superstiti
alle
orecchie dei successori, che le avevano poi impresse su carta e cantate
nelle
ballate belliche.
Alfred
non abbassò mai le spalle nonostante i continui
bisbigli che strisciavano sulla sua schiena, e non piegò la
testa sotto la
pressione del pregiudizio. Era un eroe, e glielo avrebbe dimostrato.
Cominciò
salvando la piccola Lin. La madre lo guardò carica
di sospetto, come se lo avesse visto gettarla dentro il pozzo e non
tirarla
fuori da esso. La bambina provò di avere il cuore
più grande di tutti gli
adulti presenti: si sporse verso il giovane dalle braccia della madre e
appoggiò
un bacino su quelle guance ancora sporche di acqua limacciosa.
Poi
aveva salvato un adolescente da una carrozza in corsa,
aveva messo in fuga un pericoloso lupo, aveva contribuito alla
costruzione di
un sistema per l’irrigazione dei campi, aveva consegnato
innumerevoli criminali
alla giustizia.
Aveva
scalzato il mosaico di preconcetti che gli avevano
fissato addosso un tassello per volta, finché la gente non
era finalmente
riuscita a vedere Albert, e non lo “straniero di
Britannia”.
Tutto
il suo corpo era diventato una papilla gustativa
quando per la prima volta una signora gli aveva portato degli onigiri in segno di ringraziamento: quei
chicchi di riso gli erano sembrati la cosa più gustosa che
avesse mai
assaggiato. Era la spezia della vittoria a renderli così
squisiti.
Quegli
anni erano stati un susseguirsi di piccoli e grandi
successi, e poteva vantarsi giustamente di aver rispettato i canoni
dell’eroe:
aveva mantenuto un cuore puro ed era rimasto fedele ai suoi principi,
perseguitando i malfattori e salvando gli innocenti.
L’appellativo
“l’Aquila” era sorto spontaneamente: non
si
sapeva chi fosse stato il primo a pronunciarlo ma tutti lo conoscevano,
come
fosse se stato generato dalle strade della città.
L’ex-soldato di Britannia si
era inorgoglito per quell’epiteto: essere paragonato a un
rapace così nobile
era un grande onore, e si sarebbe impegnato affinché
l’Aquila volasse sempre
più in alto.
Il
pallido sole di marzo osservò Alfred mentre si imbatteva
nel suo destino. Alcuni pericolosi criminali erano stati condotti alla
loro
città per essere giustiziati tramite impiccagione. Erano i
fautori della strage
nella Piazza della Pace, in cui avevano perso la vita numerosi
innocenti, per
la maggior parte studenti. I familiari delle vittime erano in prima
fila,
vestiti di bianco e con una furia cieca negli occhi affogati di
lacrime:
bramavano di vedere quegli uomini penzolare dai cappi, e allo stesso
tempo
sapevano che la loro morte non gli avrebbe restituito i loro figli.
Perfino
il Figlio del Cielo era presente: per quella
tragedia era stato dichiarato il lutto nazionale, e i drappeggi del
Palazzo
erano stati incupiti in un nero funereo dal Portavoce del Sole in segno
di
cordoglio.
I
criminali sfilarono lungo la stretta passatoia che li
avrebbe portati alla loro ultima meta. Il tempo sgroppò come
un cavallo
imbizzarrito quando quella stasi si ruppe: i polsi nerboruti dei
criminali
furono improvvisamente liberi dalle catene, e spalarono brutalmente la
folla per
guadagnare la libertà.
L’Aquila
non fece in tempo a spiccare il volo che un guizzo
bianco pose fine a quel putiferio. La folla ebbe solo
l’impressione di una
piuma di luce che fluttuava con una grazia spietata tra la folla,
aprendo
eruzioni di sangue con un sibilo argentato. Quell’apparizione
durò solo pochi
secondi. Quando finalmente il tempo riprese a scorrere normalmente, la
piazza
si rese conto che l’esecuzione non sarebbe più
stata necessaria: i criminali giacevano
al suolo, esangui, ognuno colpito una sola volta in un unico punto
vitale. Heracles
gocciolava sangue per terra, e qualche spruzzo cremisi aveva insozzato
la
divisa immacolata del Samurai e il suo viso latteo.
Alfred
aveva sentito i polsi tremare, a quella vista.
Quell’uomo, più piccolo di lui di tutta la testa,
era la personificazione della
dignità guerresca: aveva il volto fermo, ma non assente, gli
occhi solidi
eppure in movimento, l’animo saldo e vibrante al contempo.
Era la bellezza
contraddittoria e terribile della battaglia che riviveva in quei
lineamenti
d’acciaio.
«Mi
dispiace per non aver permesso al boia di fare il suo
dovere» si scusò cortesemente il giovane,
scrollando la katana prima di
pulirla velocemente su un panno e tornare al fianco
del sovrano.
I
più malevoli avrebbero detto che aveva pedinato il Samurai
tutto il giorno finché non lo aveva finalmente trovato da
solo; Alfred
preferiva dire che aveva fatto un appostamento mirato per non perderlo
d’occhio.
Seguire
assiduamente l’incaricato ufficiale alla sicurezza
del regnante e pensare di non essere scoperti era come pretendere di
guadare un
fiume e uscirne asciutti. Alfred avvertì le spade che il
guerriero aveva per
occhi trafiggerlo non appena mise piede nella sala da the. Il Samurai
era
seduto a un tavolo, schiena dritta, gomiti stretti e la testa appena
inclinata
in un’esternazione di aspettativa. Alfred impiegò
qualche secondo per capire di
essere l’oggetto di quell’attesa.
«Ho
notato il suo inseguimento» il soldato parlò con
calma
adamantina, mentre gli indicava la sedia di fronte a sé.
«Ma non ho notato
intenti bellicosi. Deduco quindi che non mi stai seguendo per uccidermi
o per
ferire il sovrano. Tuttavia, i miei sensi deduttivi non sono abbastanza
affinati da permettermi di capire cosa tu voglia da me, nello
specifico.»
Alfred
si sentì improvvisamente fuori posto di fronte a
quella scultura umana. Il Samurai sedeva con una compostezza
impeccabile, come
se fosse nato in quella posizione austera, e lo fissava con la calma di
chi sa
di poter sistemare qualunque inconveniente con la propria
superiorità fisica e
intellettuale. Al contrario, Alfred non riusciva a stare fermo su
quella sedia
troppo rigida o ad avere la stessa aura affascinante e intimidatoria.
In fondo,
erano un mito forgiato dalle sfere regali e un eroe sorto dai fanghi
popolari.
Nonostante
l’abissale divario tra loro, Alfred racimolò la
sfrontatezza
necessaria per chiedere al Samurai:
«Mi
alleni, per favore.»
Un
sopracciglio si arcuò, indeciso se deriderlo con
discrezione o valutare seriamente quella richiesta. Si
livellò di nuovo in
un’espressione neutra quando le labbra si aprirono per
formulare:
«Per
quale motivo?»
«Vorrei
combattere anche io come lei.»
«Cioè
in che modo?»
«Con
la stessa velocità, con la stessa precisione. Colpendo
solo i colpevoli e salvando gli innocenti…»
La
parte finale della frase sfumò nel delicato scroscio del
the versato nelle due tazze. Il Samurai appoggiò il corpo
panciuto della teiera
sul tavolo, si servì di un lungo sorso e rispose.
«Lo
stai già facendo, mi risulta. Ti chiamano
l’Aquila, non
è così?»
«Voglio
fare di più!» Alfred quasi si morse la lingua; non
aveva alzato la voce più di tanto ma, se paragonato al tono
pacato dell’altro,
aveva praticamente urlato. Rimase qualche secondo in silenzio mentre le
parole
udite per la prima volta tanti anni prima si cristallizzavano sulla sua
lingua.
«Voglio
diventare un eroe che salva le persone.»
«Perché?»
Non
si aspettava una domanda così diretta, né
così
immediata.
Alfred
fissò il liquido scuro nella sua tazza. Il passato si
ripresentò come un’allucinazione sulla superficie
nera del the: la porta
crollata sulle gambe di Matt, e la terribile rassegnazione con cui lo
aveva
guardato mentre lo portavano via, sapendo che non si sarebbero visti
mai più…
«Perché
nessuno dovrebbe morire senza poter dire addio.»
Quell’ultima
frase sembrò destare l’interesse del Samurai;
una minuscola scintilla crepitò per un istante
all’interno delle sue iridi
d’ebano. Il giovane sorbì di nuovo il suo the,
appoggiò la tazza e lo fissò con
un sottile velo di curiosità sul viso.
«Questo
è un buon motivo.»
Si
alzò dal tavolo con eleganza marziale, e Alfred si
sentì
di nuovo inadeguato per il modo grossolano in cui si separò
dalla sedia. Per
essere un eroe non importava essere aggraziati, per cui non aveva mai
dato
troppa importanza ai suoi gomiti che atterravano puntualmente sul
tavolo
durante il pranzo o al modo in cui colava
sulla sedia quasi fosse senza ossa. Cominciava a pentirsi di quella sua
disattenzione all’etichetta: accostato al Samurai, pareva un
sacco di tela che
tentava di assomigliare a un drappo di seta.
Il
giovane lo aspettò finché non ruzzolò
fuori dal locale.
«Cosa
vedi?» fu l’inaspettata domanda che gli rivolse.
Alfred
equilibrò gli occhiali sul naso, e osservò lo
spazio
intorno alla ricerca di una risposta soddisfacente. I negozi
effondevano un
piccante odore di cibo e spezie, l’acciottolato schioccava
sotto le scarpe
della gente, il vociare delle famiglie scrosciava dalle finestre
semiaperte
delle case. Ma non trovò la risposta nel profumo di cucina,
e nemmeno nel
marciare sulle strade; seguì lo sguardo del soldato,
appuntato su un cielo nero
come le sue iridi.
«Non
ci sono stelle» notò.
«Su
Britannia ci sono?» Kiku non distolse lo sguardo dalla
volta celeste inanimata, mentre lo interrogava.
«Sì»
confermò Alfred, disturbato da quella cappa di carbone.
Era la prima volta che fissava il cielo di Chugoku così
intensamente, e non
vedere nemmeno una capocchia di luce era quasi soffocante.
«La più importante
di tutte è la Stella Polare, per orientarsi durante le
navigazioni.»
Alfred
scostò gli occhi da quel cielo perturbante, e quasi
trasalì nel vedere due iridi ancora più nere che
lo scrutavano, pronte a
giudicare le sue successive parole.
«Sei
disposto a lottare per riportare le stelle nel cielo di
Chugoku?»
L’Aquila
non comprese quella domanda, ma annuì comunque.
Voleva diventare forte e temibile come quel piccolo combattente.
Avrebbe sparso
una manciata di stelle in cielo, se fosse servito a raggiungere il suo
obiettivo.
Kiku
inclinò il capo, accondiscendente.
«Allora
seguimi, Aquila.»
***
Con
suo enorme disappunto, Alfred scoprì di non essere il
solo privilegiato scelto dal Samurai. Il giovane aveva allestito una
specie di
accampamento fuori dalle mura del Palazzo, dove tutti coloro disposti a
lottare
per le stelle di Chugoku erano stati riuniti.
In
onore della conversazione avuta la sera prima,
quell’esercito anonimo di volontari assunse il titolo di
“Stella Polare”,
poiché sarebbe divenuto l’astro guida per il sogno
di Chugoku.
Il
Samurai aveva imposto una ferrea disciplina ai suoi
uomini: la loro giornata iniziava col sorgere del sole e finiva dopo il
tramonto. I loro allenamenti non riguardavano solo il fisico: Kiku
aveva stilato
un rigido codice di comportamento, con pene estremamente severe in caso
di
trasgressione.
«Un
buon guerriero deve avere muscoli di ferro e spirito
d’acciaio, altrimenti è solo un animale
forzuto» aveva spiegato, quando Alfred
gli aveva chiesto il motivo di quella disciplina inflessibile.
Erano
inoltre incaricati della pulizia delle proprie armi e
divise, che venivano meticolosamente ispezionate ogni giorno.
Alfred
sapeva che esistevano camerate e cucine comuni per
aumentare lo spirito fraterno tra le reclute, ma non ne faceva parte:
era il
solo cui era stato concesso l’onore di risiedere a Palazzo.
«Il
mio spirito di squadra non ne risentirà?» aveva
commentato scanzonato.
«Non
farai parte di una squadra. Ne comanderai una» Kiku lo
aveva inchiodato con quel suo sguardo quieto e temibile, articolando
con calma:
«Se te ne dimostrerai degno.»
«Perché
io?» la sorpresa fece ammuffire la mente di Alfred
in un pantano colloso, e quello fu l’unico pensiero coerente
che riuscì a
pescare.
«Perché
nessuno dovrebbe morire senza poter dire addio.»
Fu
tutto ciò che il Samurai gli consegnò prima di
sparire,
lasciandolo basito e confuso nell’enorme corridoio del
Palazzo.
Alfred
tolse gli occhiali, li pulì sulla maglia, li
posizionò di nuovo sul naso e sospirò:
«Beh,
Aquila, non ti resta che volare alto. Le stelle non si
raggiungono stando a terra.»
***
No,
le stelle non erano facili da raggiungere. Il cielo era
ancora più nero degli incubi di un assassino.
Alfred
tolse gli occhiali e li appoggiò sul comodino.
Era
passato qualche anno dalla prima volta che aveva messo
piede nel Palazzo.
Kiku
gli aveva fatto sputare sangue e anima prima di
assegnargli finalmente il ruolo di Caposquadra. L’Aquila
aveva condotto i suoi
sottoposti in mille imprese eroiche, accrescendo la fama della Stella
Polare in
tutto il Paese. Il Figlio del Cielo aveva riconosciuto la loro
organizzazione
come esercito di sostegno paramilitare; Chugoku aveva festeggiato
un’intera
giornata per quella dichiarazione.
Era
abbastanza soddisfatto, in fondo: quello che era partito
come un piccolo gruppo di volontari era diventato uno stendardo di
speranza per
la capitale e per tutte le città del pianeta. Tuttavia, non
erano riusciti ad
avanzare di un solo passo nella loro missione principale: il cielo di
Chugoku
era ancora un pezzo di carbone.
Sospirò
e si lasciò cadere sul futon,
badando di non schiacciare la persona stesa su un lato.
Alfred
si girò veloce sul fianco per accarezzare quelle
spalle, coperte appena dal kimono
che
il giovane indossava per la notte. La seta scorse sul braccio niveo,
lambito
dalle labbra dell’Aquila.
Kiku
non emise suono; si voltò di lato e gli porse la bocca,
che Alfred coprì con la sua.
Da
qualche mese, il suo rapporto con il Samurai era
cambiato.
Aveva
capito perché il giovane lo avesse preferito agli
altri nel momento in cui aveva scoperto il nome della sua spada:
Heracles.
Sapeva che molti guerrieri davano un titolo alla propria arma
preferita, ma mai
dei nomi propri. Doveva essere collegato a quel
qualcuno che aveva estinto il fuoco delle iridi scure del
Samurai,
spegnendole in una cenere mesta.
Alfred
aveva fatto il primo passo parlandogli di Matt, il
suo mentore, l’uomo che aveva abbandonato in pasto ai demoni
e che aveva
rafforzato il suo desiderio di diventare un eroe e non un soldato. Kiku
aveva
telegrafato il nome del suo migliore amico, accennando al fatto che
erano stati
all’orfanotrofio insieme. Il Samurai centellinava le
informazioni, e ad Alfred
erano occorse settimane per costruire un quadro approssimativo del
rapporto tra
il guerriero e l’orfano straniero.
Si
sollevò sui palmi per fissare il giovane steso sotto di
lui. I bordi del kimono erano
allentati sul petto, e gettavano penombre lascive sulle linee dei
muscoli non
del tutto denudati. Alfred risalì con gli occhi il profilo
eburneo del
guerriero finché non approdò in quelle iridi che
lo facevano sempre sentire
inadeguato.
Non
gli era occorso molto tempo per capire di essersi
innamorato del Samurai, e aveva accettato la propria
omosessualità con un
enorme sorriso, come era solito fare per la maggior parte delle
sorprese che la
vita gli proponeva. E si era dichiarato in un modo forse troppo
spregiudicato,
per i canoni forbiti del Palazzo. Nonostante tutto, Kiku aveva
accettato.
A
volte, però, Alfred faticava a capire perché il
Samurai
gli concedesse il corpo, se non era disposto a fare altrettanto con il
cuore.
Le emozioni di Kiku erano sempre fossilizzate negli occhi o barricate
nella
gola, e non trapelavano nemmeno nei momenti di intimità con
il suo amante.
Questa sua tendenza si era acuita quando era rimasto orfano di nuovo,
senza
padre e senza fratello.
Alfred
strinse i pugni sul materasso sottile. Che senso
aveva essere amanti, se aveva accesso solo al suo fisico e non alla sua
anima?
Che razza di eroe non era in grado di salvare nemmeno la persona di cui
era
innamorato?
Si
domandava con quali sentimenti Kiku giacesse con lui.
L’Aquila si sentiva ogni volta travolto dalle emozioni, con
gli organi
scombinati tra di loro: il cuore nelle orecchie, lo stomaco in gola, i
polmoni
nel naso. Si univa a lui per amore, e non aveva nemmeno bisogno di
dimostrarlo:
il suo battito forsennato parlava per lui. Al contrario, Kiku sembrava
più
sollevato che partecipe, come una persona che spalma un balsamo su
un’ustione.
Alfred
morse un sospiro sulle labbra. Non voleva essere un
rimedio conveniente; voleva essere l’unica persona
indispensabile per il
Samurai. Voleva essere… Heracles.
Forzò
un sorriso mentre accarezzava il volto liscio del suo
compagno, cercando di esiliare quei pensieri tortuosi.
«Kiku»
lo chiamò, ostentando allegria. «Dimmi
qualcosa.»
Il
giovane volse il viso all’interno del suo palmo,
solleticandogli il polso con le labbra morbide.
«Non
fermarti» sussurrò.
Una
risatina incespicò sulla bocca dell’Aquila. Non
era
quello che sperava. Avrebbe preferito sentirsi dire “non
lasciarmi solo” oppure
“ho bisogno di te”. Ma Kiku non chiedeva mai aiuto,
nemmeno agli eroi che
esistevano appositamente per salvare gli altri.
Sciolse
la cintura del kimono
del giovane, e le mani scivolarono automaticamente sul corpo nudo che
tanto
desideravano. Sapeva che il Samurai non provava i suoi stessi
sentimenti, e
sapeva che avrebbe dovuto rifiutare e aspettare che le loro emozioni
fossero
reciproche. Ma sapeva altrettanto bene che non avrebbe sopportato di
vedere
Kiku scivolare in un baratro di solitudine da solo, asserragliato nel
silenzio.
Non
poteva ancora essere un appiglio per prevenire la sua
caduta, ma poteva essere almeno la medicina che avrebbe lenito la
ferita.
Cercò
di fare del suo meglio, mentre si impossessava di quel
corpo tanto amato, che si inarcava contro di lui.
L’Aquila
avrebbe dovuto volare ancora più in alto, per
salvare la sua unica stella dal cielo nero in cui si era
avvolta…
Troppo
veloce? Volete saperne di più sull’Aquila e sulla
Stella Polare, sui dovecomequandoperché? I prossimi capitoli
spiegheranno ogni
cosa<3 E ciò che non spiegheranno loro
sarà spiegato negli spin-off.
Sì,
ormai è ufficiale: quando Caleidoscopio avrà
termine,
partiranno gli spin-off XD Saranno una serie di one-shot o brevi long
(tre o
quattro capitoli massimo) sull’infanzia dei fratelli Vargas,
sugli Hellsing, i
Marauder, i Carriedo e così via. E approfitto per lanciarvi
un appello riguardo
gli spin-off: se c’è qualcosa su cui desiderate
ulteriori informazioni, o un
pezzo che vi piacerebbe leggere, fate richiesta<3
Segnerò tutto su un foglio
di Word e vi accontenterò un capitolo per volta *yep*.
E
ora, qualche piccola precisazione storica<3 Gli
avvenimenti della Piazza della Pace Celeste sono un riferimento al
massacro di
piazza Tienanmen (1989, conosciuta anche come
“l’incidente del quattro giugno”),
in cui studenti e civili protestarono contro la classe politica cinese;
questa
rivolta pacifica venne soppressa nel sangue. Il governo cinese
proibì qualunque
fuga di notizie su questo incidente, per cui i dettagli sulle vittime o
sulle
modalità dell’attacco militare sono
tutt’oggi piuttosto confuse.
In
Caleidoscopio ho rimaneggiato la storia in modo che il
massacro fosse opera di un gruppo di terroristi; tuttavia, per rispetto
alle
vittime, mi è sembrato giusto mantenere simile il nome della
piazza (in
originale: “il Cancello della Pace Celeste”), e
ricordare che la maggior parte
delle vittime furono studenti.
Altra
nota: il codice ferreo imposto da Kiku è ispirato al
kyokuchuu hatto di Hijikata Toshizo, ossia il rigido codice di
comportamento
della Shinsengumi, che prevedeva il seppuku (suicidio rituale mediante
sventramento e decapitazione) come punizione per chi trasgrediva le
regole. Il
nostro Kiku non è così estremista, ma la fonte
storica è questa<3
Ultima
nota, la più leggera di tutte: gli onigiri
sono le palline di riso<3
E
dopo questo papiro, vi saluto e vi do appuntamento tra due
settimane, senza ritardi questa volta<3
E
ricordate: se avete richieste per gli spin-off, non siate
timidi<3
A
presto!
Red
P.S. Quasi dimenticavo... nel prossimo capitolo finalmente si scoprirà COSA è successo la sera in cui Yao è stato detronizzato XD
|
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Capitolo 19 *** Rancori Passati ***
Capitolo
Diciannove: Rancori
Passati
La
riunione fu veloce e concisa, una volta che Yao e Arthur ebbero
riassunto le loro scoperte all’equipaggio della Reina.
Il
popolo era convinto che il Figlio del Cielo fosse in
coma, le condizioni del Portavoce del Sole erano misteriose e il
Samurai
sembrava all’oscuro della catastrofe di cui era stato
artefice. Il non ti
scordar di me aveva indicato il Palazzo, per cui le istruzioni erano
semplici:
il giorno dopo si sarebbero introdotti nel castello, avrebbero trovato
il
Marauder e avrebbero combattuto contro il demone. Si sarebbero
intrufolati solo
Yao, che conosceva il posto, Arthur, che custodiva il fiore di
cristallo, e
Gilbert, l’unico in grado di fronteggiare degnamente i
demoni. Gli altri
avrebbero atteso in alcuni punti strategici per poi fare irruzione nel
Palazzo
al momento della battaglia.
Yao
aprì le mani a guisa di calice: sottili scie di luce
partirono dalle sue dita e si rincorsero nell’aria, creando
un modello
impalpabile del Palazzo Imperiale. Alcuni globi di fuoco si accesero
lungo il
perimetro, indicando le esatte posizioni in cui si sarebbero dovuti
trovare il
giorno dopo.
«Dobbiamo
agire il più velocemente possibile» concluse Yao,
dissolvendo la costruzione evanescente con un soffio gentile: le lingue
di luce
si dispersero in una polvere dorata che svanì prima di
toccare il suolo. «Il
demone non deve accorgersi di noi.»
Gilbert
fece trasalire tutti i presenti quando calò
bruscamente gli stivali sul tavolo. Si dondolò torvo sulla
pesante sedia di
legno, gli occhi rossi incupiti come se tutto il suo sangue si fosse
riversato
nelle sue iridi guerresche.
«“Un
demone” è una descrizione un po’
vaga» sbottò alla
fine, incrociando le caviglie. «Non sai quale sia il suo
elemento costitutivo?
Ti ha ridotto in fin di vita, da quel poco che ci hai detto. Non hai
notato
niente, mentre ti massacrava?»
Il
respiro si ritirò nei polmoni dei presenti; nessuno
osò
fiatare, nessuno osò battere le palpebre, nessuno
osò muoversi. Per un attimo,
Gilbert vide di nuovo l’immobilità gelida di Caina
in quelle facce pietrificate
dall’orrore.
Si
trattenne dallo sputare a terra solo perché quella era la
nave di Antonio. Il Figlio del Cielo non poteva continuare a
temporeggiare su
quella questione: avevano atteso anche troppo per sapere cosa fosse
realmente
successo la notte in cui era stato spodestato. Si rendeva conto che non
fosse
piacevole rivivere il ricordo di una sconfitta e di una perdita, ma non
gli
interessava: aveva il dovere di farli uscire sani e salvi dalle grinfie
del
demone, in quanto unico Hellsing presente, e, per farlo, aveva bisogno
di
conoscere il suo nemico.
Yao
lo fissò con i suoi occhi d’inchiostro,
batté un’unica
volta le palpebre e si sedette al tavolo in un frusciare di seta.
«Non
è un demone nato da un elemento» la voce regale
srotolò
quel racconto di sangue come se stesse svolgendo un velo di seta.
«È un demone
nato da un’emozione.»
Le
ciglia del Figlio del Cielo tremarono per un istante, ma
la sua voce rimase ferma.
«La
guerra sino-britannica. Quella che ci ha privato delle
stelle. Moltissimi uomini sono morti, da entrambe le parti. Moltissime
mogli,
figli, fratelli, amici li hanno pianti. Quel demone è nato
dalle loro lacrime e
dal loro sangue.»
«Non
è corretto» Gilbert irruppe di nuovo nella
conversazione con la brutalità di una frana. «Quei
demoni sono spiriti
inferiori, incapaci di ottenere un corpo materiale. Si cibano delle
emozioni
più forti e più basse delle persone per acquisire
potere. Certo, di solito
riescono solo a sbocconcellare qualche ventata d’odio
occasionale, ma in questo
caso…» l’Hellsing tolse i piedi dal
tavolo e vi abbatté sopra un pugno che fece
trasalire i presenti. «Un demone di questo tipo, che si
è nutrito degli ultimi
pensieri di migliaia di morti, e ha avuto centinaia di anni per
assimilarli, deve
avere raggiunto un potere non indifferente» una risata senza
gioia contorse le
labbra di Gilbert, e una nuova ondata di panico torse lo stomaco dei
presenti
alla sua successiva invettiva: «Questi demoni si cibano solo
delle emozioni
peggiori, Figlio del Cielo. Tutti quei soldati devono aver maledetto i
tuoi
predecessori, prima di morire.»
«È
probabile. Anzi, direi che è certo. In fondo, sono stati
loro a mandarli in guerra» confermò quieto Yao.
La reazione del
sovrano atterrì ulteriormente i presenti. La sua calma
imperitura assomigliava
troppo alla finta serenità che precedeva i più
turbolenti tifoni marini.
«Ma
questi demoni di solito non si impossessano delle
persone» obiettò Gilbert. «Di solito si
stabiliscono dentro oggetti inanimati.
Ma, per farlo, hanno bisogno di uccidere qualcuno, per sfruttare
l’energia
dell’anima che lascia il corpo e cingersi
all’oggetto scelto…»
«In
che modo uccidono?»
Una
vena di allarme palpitò nella voce armoniosa del
sovrano. Gilbert si strinse nelle spalle.
«Non
lasciano segni. Il soggetto è in piena salute e il
giorno dopo…» questa volta fu il palmo
dell’Hellsing a schiantarsi sul tavolo.
«Auf Wiedersehen.»
Yao
trasse un profondo respiro, come se improvvisamente i
suoi polmoni fossero diventati troppo stretti per raccogliere il fiato
necessario.
«Si
è verificato un episodio simile» le parole
uscirono a
tratti dalle sue labbra, quasi avessero paura di avventurarsi nel mondo
esterno. «Un amico di Kiku è morto senza alcuna
spiegazione apparente. Nessun
segno di lotta, o di malattia, o di avvelenamento. Semplicemente morto.
E Kiku,
da allora, non si è mai separato dalla katana
che Heracles aveva forgiato…»
«Quando
dici “da allora” quanto tempo intendi,
esattamente?»
«Degli
anni.»
Il
palmo si sollevò dal tavolo e si abbatté sulla
faccia di
Gilbert.
«Anni.
È un miracolo che il tuo pupillo sia rimasto in
sé
così a lungo» commentò caustico
l’Hellsing.
«Avevi
detto che questi demoni non possono impossessarsi…»
«Ma
possono controllare
un essere umano. Prendere possesso di un altro corpo
è un procedimento
complicato perché bisogna mettere a tacere per sempre
l’anima dell’ospitante. Ma
controllarlo dall’esterno, come una marionetta, è
molto più semplice: basta
zittire l’anima per qualche istante e poi ritirarsi, e il
controllato non avrà
alcuna memoria di quanto successo» Gilbert
incrociò le braccia, ringhiando
amaro: «I demoni sanno sempre qual è la via
più diretta per il successo.»
Il
viso del Figlio del Cielo si fece terreo, a dispetto
dell’espressione inalterata, come se quelle notizie gli
stessero assorbendo il
sangue una goccia dopo l’altra.
Gilbert
passò una mano nei capelli argentati, calcolando a
denti stretti: «Se è così, allora forse
abbiamo qualche speranza. Però, dopo
tutto questo tempo, probabilmente sarà già
riuscito a creare dei contatti, come
i fili della marionetta… questo complicherebbe le
cose.»
L’Hellsing
schioccò le dita, giungendo a una soluzione.
«È
possibile che il tuo figlioccio esca indenne da questa
situazione, ma le possibilità sono molto basse»
Yao apprezzò la schiettezza
cruda con cui Gilbert gli concesse una speranza spogliandola di ogni
illusione.
«Kiku è l’ancora che tiene questo demone
sul nostro piano di esistenza; se
uccidiamo il demone mentre è ancora legato a lui, moriranno
entrambi. Dobbiamo
riuscire a tagliare i fili che li legano, e poi potrò
ammazzare il demone.»
«E
chi meglio di un Marauder, per individuare dei fili
invisibili?»
Antonio spezzò l’attenzione con quella domanda che
aveva un retrogusto di
risata.
Arthur,
Gilbert e il capitano portarono in contemporanea gli
occhi sul non ti scordar di me. Già, chi meglio di Francis
poteva risolvere una
situazione impossibile?
Una
spolverata di riflessi ramati si spezzò sulla chioma
argentea dell’Hellsing, quando questo scosse il capo sotto il
lume della
lampada a olio.
«Ha
resistito così tanto tempo e continua a resistere senza
sapere nemmeno di avere un demone sulle spalle. Questo tuo figlioccio
deve
avere dei nervi d’acciaio.» Sebbene il tono fosse
aspro e la curva delle labbra
fosse più simile a un ghigno che a un sorriso, il Figlio del
Cielo accettò quel
commento come un complimento.
«Kiku
ha la forza del giunco. Riesce sempre a rialzarsi,
anche quando è abbattuto» scacciò la
malinconia con un battito di palpebre e
aggiunse: «C’è ancora una questione di
cui vorrei discutere con voi.»
Yao
attese un istante, per essere sicuro di aver ottenuto
l’attenzione di tutti i presenti, e annunciò:
«Sappiamo
tutti che, una volta sconfitto questo demone, la
meta successiva sarà il Vaticano. Voglio invitarvi a
riflettere su cosa avverrà
dopo.»
«In
che senso?» borbottò un marinaio.
Roderich,
che fino a quel momento era rimasto immobile e
impassibile sulla sua sedia, sistemò gli occhiali e la voce
prima di lanciare
l’annuncio che fece di nuovo calare un silenzio mortale.
«È
una notizia che il Vaticano tiene riservata. Al confine
della Confederazione sono ammassati mille demoni. Demoni che trovano
irresistibile la carne umana. Lo scopo dell’Asse non
è solo quello di
proteggere l’armonia delle Galassie; il suo compito
principale è quello di
mantenere intatto lo scudo che ci separa da loro.»
Tutti
si voltarono verso Lovino, che restituì lo sguardo
senza davvero vedere nessuno di loro. Non gli avevano mai accennato a
nulla del
genere, nelle Ville Vaticane. Mai.
Sentì
come lo schiocco di una frusta sul cuore, e il suo
mondo crollò in mille pezzi. Per anni non aveva fatto altro
che pensare a
portare via suo fratello dal Palazzo di Quarzo, e a trovare un pianeta
remoto
su cui vivere insieme. Se pensava al suo futuro, lo vedeva come una
strada con
una destinazione precisa, ma quella stessa via si stava ritorcendo su
se stessa
come un serpente, scaraventandolo in un precipizio buio.
Se
avesse strappato suo fratello al Palazzo, l’intera
Confederazione sarebbe stata devastata dai demoni. Sapeva che senza
l’Asse il
benessere della Galassie sarebbe stato fortemente colpito, ma uno
sterminio di
massa andava ben oltre quello che aveva previsto. E i demoni non
avrebbero
fatto distinzioni tra innocenti e colpevoli.
«C’è
un modo per risolvere tutto questo.»
L’affermazione
del Figlio del Cielo suonò ovattata ai suoi
sensi affogati in un oceano di pensieri. Gli occorse qualche istante
per scomporre
quelle parole, ricavarne il senso e accendere di nuovo il lume della
speranza.
«Il
Mago dell’Ovest proviene da un’altra dimensione.
È la
prova vivente che è possibile uscire indenni da un viaggio
oltre lo spazio e la
materia» proseguì sicuro Yao. Non diede tempo ai
marinai di sorprendersi o ad
Arthur di protestare per quella rivelazione indesiderata. «Se
l’Asse, Lovino,
il Mago dell’Ovest e io sincronizzassimo le nostre energie,
probabilmente
riusciremmo ad aprire più portali per permettere alle
persone di fuggire, prima
che lo spazio collassi.»
«Ciò
che state suggerendo è…»
«La
distruzione della Confederazione» Yao tagliò alla
radice
l’intrusione del marinaio. «E della sua ipocrisia.
Una volta per tutte.»
«Bisogna
fare molta attenzione con i viaggi dimensionali» li
ammonì severo Arthur. «Bisogna avere
un’idea abbastanza chiara del tipo di
luogo in cui si vuole approdare. Quando sono partito, ricordo che avevo
pensato
a un posto che avesse delle cose nuove da
insegnarmi…» il resto della frase si
spense. Morte, malattia e ipocrisia: in un certo senso, aveva imparato
cose che
a Faerie non avrebbe mai nemmeno immaginato. «Dobbiamo essere
molto attenti.»
«Un
nuovo inizio in una nuova dimensione» la risata grezza
di Gilbert raschiò l’aria. «Non sembra
male.»
«Ho
sempre pensato di distruggere il Vaticano»
dichiarò
Antonio, con una tranquillità agghiacciante. «Una
piccola deviazione non mi
disturba.»
«Dobbiamo
studiare con accortezza il piano!» ricordò brusco
Arthur. «Non si viaggia in un’altra dimensione
senza essere preparati!»
«Facciamoli
a pezzi.» Un ghigno intorbidò lo sguardo che
Lovino rivolse a Yao. Il Figlio del Cielo non rispose apertamente, ma
tutto il
suo corpo si trasformò in un sogghigno soddisfatto. Il loro
fuoco avrebbe
distrutto la Galassia, e una nuova era sarebbe sorta da quelle ceneri.
«Prima
la liberazione di Chugoku» decretò infine il
Figlio
del Cielo. «E poi quella della Confederazione.»
***
Gilbert
non ebbe nemmeno bisogno di voltarsi: riconosceva
quel passo spavaldo.
«Sei
venuto a farmi la ramanzina, Antonio?» domandò,
laconico.
La
riunione era stata sciolta, e l’Hellsing si era diretto
al ponte di poppa, da cui era possibile vedere in lontananza un
minuscolo pianeta
con una casa vicino al lago e una tomba poco lontano.
«Non
sei un moccioso, non mi disturberò a farti la
predica»
Antonio si appoggiò alla balaustra, di fianco a lui. Lo
sguardo dell’Hellsing si
inabissò di nuovo tra le stelle, e il capitano non
cercò di dirottarlo su di
sé. «Volevo solo farti notare che sei stato molto
scortese con il Figlio del
Cielo.»
«Gli
ho detto la verità.»
«L’hai
detta in modo che gli facesse più male possibile.
Almeno all’inizio. Riconosco che dopo sei stato
più moderato» Antonio seguì la
traiettoria dello sguardo di Gilbert, e il petto gli si
ingorgò con un sospiro.
La
testa dell’Hellsing crollò con una risata
graffiante,
mentre l’uomo si scompigliava i capelli.
«Avevo
detto che me lo sarei lasciato alle spalle, Antonio,
ed è vero. Ho accettato la sua morte, ho accettato il fatto
che non c’è più» i
pugni si strinsero finché le nocche non assunsero quasi lo
stesso colore
opalescente della sua chioma. «Ma lui si è ucciso
perché pensava di essere
l’ultimo demone. Pensava di liberarmi dal mio ruolo maledetto
dal Vaticano. E
adesso… scopro che c’è un altro
bastardo senza guinzaglio. È come se la morte
di Matthew non fosse servita a niente.»
Gilbert
sollevò il suo sguardo sanguigno, fissando quel minuscolo
punto di luce. I lati del suo campo visivo diventarono scuri e
indistinti, man
mano che si focalizzava solo su quello spillo luminoso. Poi, dopo che
la nave
si fu allontanata ulteriormente, anche quella capocchia scintillante
sparì. Una
risata amara gli corrose il petto. Eccola lì,
l’allegoria della sua vita: un
buio infinito rischiarato da una singola particella di luce,
improvvisamente
inghiottita dalle ombre circostanti.
«Eri
davvero innamorato di questo ragazzo» il calore nella
voce di Antonio lenì per un attimo il freddo che aveva
attanagliato l’Hellsing.
«Così
è riduttivo» sbottò Gilbert. Il
capitano vide i
ricordi di una vita scorrere sotto le iridi amaranto
dell’amico. «Matthew era
qualcosa per cui valeva davvero la pena di respirare ancora. Ho perso
la
famiglia, ho perso la mia gente. Ho visto il mio nome preso e gettato
nel fango
dal Vaticano» le dita dell’uomo tambureggiarono sul
legno come per aiutare le
parole a uscire. «Poi guardavo Matthew e tutto quello che
avevo passato
acquistava senso, se era servito a portarmi fino a lui.»
Gilbert
si zittì, e Antonio non fece pressioni. Entrambi
avevano perso la casa, la famiglia, e tutti i loro conoscenti. Ma lui
era più
fortunato: lui aveva Lovino. L’Hellsing non aveva nessuno.
Gilbert
gli rivolse uno sguardo sornione, prima di piegare
le labbra in una frecciatina:
«E
il tuo vice, invece? Riesce a spazzare via tutte le
brutture, con il suo angelico sorriso?»
Antonio
trattenne a stento una risata. Il suo amico aveva
davvero uno spirito di ferro: perfino dopo essersi spezzato
l’anima nei ricordi
di Matthew riusciva a fare una battuta a tradimento. Sperava davvero
che
Gilbert non cambiasse mai.
«No,
non riesce a cancellare il mondo» lo smentì
Antonio.
«Ma riesce a diventare il
mondo. Non
dimentico il mio passato, e non dimentico la battaglia che ci
aspetta…» le dita
del capitano si strinsero impercettibilmente sulla balaustra.
«Ma Lovino è più
importante di tutti loro. Li annienta, in un certo senso.»
Gilbert
annuì: poteva quasi vedere il ragazzo che cacciava a
calci gli altri pensieri dal cervello di Antonio.
L’Hellsing
sgranchì le spalle e trasse un profondo respiro
prima di buttare fuori:
«Quando
troveremo Francis, gli chiederò dove si trova
Matthew.»
Antonio
lo fissò senza capire; una goccia di malinconia si
spanse nella voce rauca di Gilbert.
«Ho
promesso che andrò da lui, quando morirò. Ma
vorrei
almeno un indizio sul luogo preciso. Credo che
l’aldilà sia molto più vasto di
quanto immaginiamo.»
«Hai
intenzione di ucciderti in questa guerra?»
La
gomitata dell’Hellsing lo colpì dritto in mezzo
alle
costole, facendogli sputare l’aria.
«Non
fare il melodrammatico, Antonio! Non siamo in un’opera
lirica dove tutti si ammazzano per i motivi più
assurdi» lo sbeffeggiò Gilbert,
per poi tornare serio. «Ma siamo in guerra. È
possibile che succeda. Farò del
mio meglio per sopravvivere, ma se non dovessi riuscirci…
voglio sapere dove
devo andare, esattamente. Non voglio perdermi nel prossimo mondo e
farlo
aspettare ancora» di nuovo, la testa argentata
dell’Hellsing franò tra le sue
spalle.
Antonio
attese finché l’amico non sollevò di
nuovo gli
occhi, che vagarono alla ricerca del loro punto di luce svanito.
«Vai
da Lovino, Antonio. La notte prima della battaglia è
meglio passarla con le persone che amiamo» lo
consigliò Gilbert, l’eco di un
ghigno vetroso nelle sue parole.
«E
tu?»
«Io
farò lo stesso» l’Hellsing
scrollò le spalle,
sogghignando. La rabbia, l’amarezza, il rimpianto li aveva
già versati su
quella tomba ghiacciata, una lacrima dopo l’altra; rimanevano
solo il dolce
tormento della nostalgia e dell’amore perduto.
Le
nocche di Antonio lo colpirono sulle costole, e Gilbert
lo guardò confuso, una mano premuta sul busto.
«Per
il tuo pugno di prima» sentenziò il capitano,
prima di
dirigersi verso la sua cabina.
L’Hellsing
scrollò la testa, ridendo a denti stretti.
Sperava
davvero che Antonio non cambiasse mai.
***
Le
dita passarono tra i capelli mogano, pensierose.
Non
era riuscito a raccontare tutti gli avvenimenti di quella
sera. Erano troppo grandi, troppo
pregni di emozioni per passare attraverso il filtro delle parole: la
sua gola
sarebbe andata in pezzi, se ci avesse provato.
Tuttavia,
quelle immagini erano più vivide che mai dentro di
lui, come se si nutrissero di tutti i suoi discorsi inghiottiti. Gli
bastava
chiudere gli occhi, per rivivere quei momenti di panico.
Gli
ultimi vapori del bagno serale indugiarono sulla sua
pelle, accarezzandolo con un calore profumato. Le pagine del libro
frusciarono
delicate, mentre il sovrano le sfogliava. Il cielo di Chugoku era nero
come
sempre.
Niente,
in quella serata, avrebbe lasciato presagire gli
eventi che si sarebbero scatenati in seguito.
Yao
non aveva quasi mosso lo sguardo dal racconto, quando
Kiku era entrato nella stanza. Aveva semplicemente alzato la mano per
fargli
segno di venire più vicino, per accovacciarsi di fianco a
lui e leggere
insieme, come facevano sempre.
Fu
la memoria generazionale a salvarlo: il predecessore
responsabile della guerra sino-britannica gli aveva improvvisamente
urlato di
spostarsi. L’istinto di Yao aveva raccolto immediatamente il
suggerimento,
facendolo scartare di lato. La katana
gli graffiò la spalla anziché recidergli la gola,
e si infisse nell’imbottitura
della poltrona.
Kiku
inclinò appena la testa, le sopracciglia aggrottate in
un lieve disappunto. Le iridi del Samurai erano piatte e vuote come un
vetro
sporco di fuliggine, e Yao rabbrividì interiormente quando
quegli occhi
senz’anima lo squadrarono.
«Kiku?»
lo chiamò, sconcertato.
Il
giovane ritrasse lentamente la spada, senza dire una
parola. Nello stesso terrificante mutismo sferrò il secondo
attacco, e di nuovo
Yao lo schivò per un soffio: la stoffa si tinse di un
cremisi ancora più
intenso quando fu bagnata dal sangue del sovrano.
Le
dita del Figlio del Cielo guizzarono impazienti, e si
richiusero a pugno subito dopo. La magia delle fiamme bruciava nei suoi
palmi,
pronta a neutralizzare il nemico, ma Yao la ricondusse a forza nello
sterno di
fuoco. Non era un nemico, era Kiku, l’orfano che aveva
salvato da morte certa e
che si era votato al bene di Chugoku e del suo regnante. E non avrebbe
mai
potuto fare del male al suo figlioccio.
Un
ghigno terribile, fratello dell’inferno e figlio della
crudeltà, si dispiegò sulle labbra pallide del
Samurai.
«Si
dice che il potere del Figlio del Cielo possa ridurre in
cenere un intero pianeta. Per quale motivo non riesci a distruggere un
singolo
uomo?»
Yao
arretrò di un passo, assottigliando gli occhi. Non era
la voce di Kiku: poteva a malapena udire il familiare tono adamantino
come
tintinnio di sottofondo. Pareva che le labbra del giovane fossero
riempite
dall’ululato del vento in mezzo alle tombe.
Il
Samurai schioccò le labbra, nauseato.
«Questi
sono i “sentimenti”. Troppo dolci, troppo
nauseanti»
la katana cantò di
nuovo, aprendo uno
squarcio sottile sul busto del sovrano. Di nuovo, Yao
indietreggiò senza
reagire. Se avesse scatenato il suo potere, per Kiku non ci sarebbe
stato
scampo. Se il suo figlioccio lo avesse tradito, per quanto a
malincuore, lo
avrebbe giustiziato; ma quello non
era lui, era qualcosa di spaventoso vestito con la carne del suo
Samurai. E
doveva capire cosa fosse.
«Preferisco
il sapore della morte» il suono delle unghie su
una bara riempì l’aria: l’essere aveva
riso.
«Sei
uno shinigami?»
domandò Yao.
Di
nuovo, rumore di artigli sul legno di un catafalco.
«Oh,
no, gli shinigami
sono legati da mille regole… io sono uno spirito
libero» l’essere reclinò
la testa di lato, e i capelli corvini di Kiku sfiorarono la spalla.
«Anzi,
possiamo dire che io sono la personificazione del karma:
cattive azioni portano a cattive conseguenze.»
La
spada saettò una terza volta nella sua direzione, e un
terzo squarcio si aprì sulla sua tunica. Ma Yao non
reagì. Non poteva
costringersi a ferire Kiku. L’essere rimase fermo nella
posizione allungata
dell’affondo, e girò solo la testa,
meccanicamente, fino a puntare i suoi occhi
vetrosi su di lui. Il Figlio del Cielo sentì un brivido
scuotergli la spina
dorsale: in quella posa, con il collo che si muoveva a scatti, il
Samurai
assomigliava tremendamente a una marionetta.
«I
tuoi antenati hanno decretato la tua morte, Figlio del
Cielo» salmodiò con calma spietata
l’essere. «Tutta Chugoku era loro devota, e
loro non hanno avuto pietà di lei: hanno mandato a morire
tutti quei giovani
soldati, raccontando alle loro famiglie che erano morti da
eroi» Kiku si
raddrizzò partendo dalle spalle, come se lo stessero tirando
per un filo
collegato alle scapole. «Dimmi, Figlio del Cielo, credi che
una medaglia al
valore possa raccontare la favola della buonanotte ai suoi figli, o
abbracciare
la propria moglie? Perché, se non ricordo male, è
così che li avete ripagati: un
pezzo di ferro in cambio di un marito, di un padre o di un fratello.
Non mi
pare uno scambio equo…»
«Sei
venuto fin qui per vendicarli?» lo interruppe
bruscamente Yao. Un demone. Un demone nato da sentimenti negativi.
Aveva letto
qualcosa a riguardo, ma solo cronache molto vaghe: i veri esperti erano
gli
Hellsing, e l’ultimo di loro era stato imprigionato a Caina
anni prima. E lui
non sapeva come estirpare quello spirito senza danneggiare Kiku.
Lo
stupro di un sorriso aveva torto le labbra del Samurai.
«Vendetta?
Oh, no, io sono felice che voi li
abbiate spediti al massacro, altrimenti non sarei
mai riuscito a diventare così forte… forte come
nessun demone della mia razza è
mai stato!»
L’essere
alzò le braccia, e il mondo si capovolse. Yao
sentì
i piedi perdere aderenza con il terreno e il suo corpo fluttuare in un
turbine
violento. Fu come essere investito da una tempesta di sassi e da una
tormenta di
neve al contempo: un vento gelido lo tenne sollevato
nell’aria, mentre mille
mani invisibili lo colpivano su tutto il corpo.
Crollò
a terra quando quel vortice terminò, ed ebbe appena
tempo di tossire in cerca d’aria prima che un altro peso lo
inchiodasse al
suolo. Il Samurai lo fissò compiaciuto, a cavalcioni sul suo
addome, e
posizionò con estrema lentezza la lama sul collo niveo del
sovrano. Yao cercò
di respirare il più lentamente possibile: se avesse
deglutito, la sua gola si
sarebbe lacerata contro Heracles.
Le
iridi vuote avvamparono improvvisamente con una luce
cupa, e si appuntarono sul volto del sovrano come se volessero
carbonizzarlo
con la loro brama.
«Non
è per vendetta, Figlio del Cielo. È
perché posso farlo,
perché sono l’unico demone
della mia razza ad avere un potere abbastanza grande da sopraffare il
tuo!»
«Se
fosse così, non useresti il corpo di Kiku come
nascondiglio» la voce di Yao suonò forte e chiara
come quando teneva i discorsi
ai consiglieri, nonostante la lama premuta sulla sua carotide.
L’essere
si strinse nelle spalle, noncurante.
«Un
corpo vale l’altro. Ma ammetto che questo è
piuttosto
utile, visto che tu non vuoi scalfirlo» il suono delle unghie
sulla pietra
tombale gli si rovesciò sul viso, quando l’essere
rise di nuovo. «Il Figlio del
Cielo ucciso dal suo Samurai. Mi chiedo cosa diranno i tuoi
consiglieri…»
Il
mondo impazzì di nuovo: un secondo turbine si
agitò nella
stanza, ma questa volta colpì l’essere seduto su
di lui, scaraventandolo
all’altro lato della stanza. Heracles cadde con un gemito
metallico sul
pavimento.
Yao
si rialzò velocemente e vide Young Soo, le dita maledette
stese nella magia di vento, la fronte corrugata e imperlata di gocce di
sudore.
«Fratellone,
da questa parte!» le maniche turbinarono
intorno ai suoi polsi mentre manovrava il tornado in modo che tenesse
l’essere
il più lontano possibile.
Il
sovrano si affrettò a raggiungere il mago di corte, che
bisbigliò, furioso:
«Che
diavolo è successo a Kiku? Ho sentito una vibrazione
magica anomala e…»
«Quello
non è Kiku. Un demone si è impossessato di
lui.»
Un
silenzio di ghiaccio li avvolse, sovrastato selvaggiamente
dall’infuriare del vento.
«Non
so come si sconfigge un demone» ammise a denti stretti
Young Soo.
«Nemmeno
io» confessò il Figlio del Cielo.
«Ma
non possiamo uccidere Kiku…» il Portavoce del Sole
dovette interrompersi per concentrarsi sulla magia: l’essere
all’altro capo
della stanza era riuscito in qualche modo a guadagnare una posizione
stabile, e
stava contraccambiando l’attacco con un incanto di vento.
«Gli
Hellsing. Gli Hellsing sanno…»
«Vattene
fratellone! Scappa!» eruppe all’improvviso Young
Soo. Il Portavoce del Sole mantenne ferma la posa di battaglia, ma i
piedi
cominciarono a scivolare all’indietro come se un toro lo
stesse spingendo.
«Non
posso…» Yao cercò di adirarsi per
quella proposta, ma
Young Soo troncò ogni sua possibile protesta.
«È
forte, fratellone, molto forte. E non sappiamo come
combatterlo senza fare del male a Kiku» il Portavoce del Sole
digrignò di nuovo
i denti e caricò le braccia per poi lanciarle in avanti con
uno schiocco: una
folata improvvisa costrinse il demone a indietreggiare.
«Trova gli Hellsing!»
«Gli
Hellsing non esistono più, Youg Soo!»
«Sciogliere
un pezzo di ghiaccio non è un problema per te!»
il Portavoce del Sole si scorticò la gola per farsi udire
sopra l’ululato del
vento. «Non puoi stare qui, fratellone. Questo demone
è troppo forte per le
guardie, è troppo forte anche per me. Ti
ucciderà, fratellone. Scappa!»
La
spalla di Young Soo ruotò bruscamente
all’indietro, come
se un proiettile l’avesse colpita. Il Portavoce del Sole
azzannò un grido di
dolore, e mantenne vivo l’incantesimo puntando solo il
braccio illeso. Yao non
lo vide in faccia, ma il sorriso di Young Soo era visibile nelle sue
parole.
«So
che stai esitando per me, fratellone. E sono felice che
tu non voglia lasciarmi qui. Ma devi farlo fratellone. E poi devi
tornare. Io
ti aspetterò.»
Young
Soo voltò appena la testa. Il vento gonfiò gli
strati
vaporosi del suo vestito, e gli coprì il viso con i capelli
scompigliati, ma,
anche in mezzo a quella bufera, il sorriso e le lacrime del Portavoce
del Sole
scintillarono come le stelle che Chugoku aveva perduto.
«Ti
aspetterò sempre, fratellone.»
Young
Soo tese una mano verso di lui, come per chiedergli
conforto. Yao si avvicinò e il Portavoce del Sole ne
approfittò: aprì le dita,
poggiandole sul suo sterno, e mormorò velocemente un
incantesimo.
Il
Figlio del Cielo trovò improvvisamente trasportato fuori
dal Palazzo, fuori dall’atmosfera di Chugoku, e fece appena
in tempo a spiegare
le sue ali di fuoco prima di trovarsi nello spazio aperto.
Yao
non sapeva cosa fosse accaduto dopo, ma la stanza che ne
era stata testimone ricordava alla perfezione.
Se
solo avesse potuto parlare avrebbe raccontato con quanto
ardore il Portavoce del Sole avesse continuato a trattenere il demone,
impedendogli di inseguire il Figlio del Cielo. Avrebbe narrato con
quanta
violenza l’essere avesse disintegrato le difese di Young Soo,
scaraventandolo
contro il muro in un impeto di rabbia.
Il
Portavoce del Sole tossì per rinvigorire i polmoni, che
si erano accartocciati dentro le costole dopo quell’impatto
violento. La sua
schiena diventò un campo di dolore bruciante, e poteva
sentire delle crepe
aprirsi nelle ossa delle scapole. Ma non si preoccupò di
nessuna di quelle
cose: il demone gli si avventò contro, sibilando come un
nugolo di serpenti.
«L’hai
fatto scappare!» inveì, con la sua voce di vento e
morte.
Young
Soo sorrise contento, il sapore salato del sangue che
si spandeva sulle sue labbra.
«Sì.
Non potrai raggiungerlo. Lui tornerà e ti
distruggerà.
Perché nessuno, in questa Confederazione, è forte
quanto il fratellone!»
Il
demone lo sbatté di nuovo contro il muro, e Young Soo
sentì il cervello rimbalzare nella scatola cranica. Sperava
solo che
quell’essere lo uccidesse in fretta: era deciso a morire per
il fratellone, ma
non sopportava il dolore. Quando era stato un servo era abituato a
soffrire, ma
il fratellone lo aveva viziato troppo, in quegli anni. Era da tanto
tempo che
aveva disimparato il significato della sofferenza. Sorrise amaro, senza
lo
scudo della frangia, costantemente pettinata in modo da scoprirgli il
viso: l’affetto
del fratellone lo aveva reso un invertebrato.
Gli
occhi del demone si restrinsero in due fessure piene
d’odio.
«Tu
parlerai» la sua voce risuonò affilata e fredda
come lo
stridio di un coltello sul marmo.
Il
Portavoce del Sole sollevò il viso, trionfante. Forse
sarebbe morto, anzi, quasi sicuramente sarebbe morto, ma almeno avrebbe
trascinato
in disgrazia anche quell’essere disgustoso.
«Anche
se mi uccidessi, non risolveresti nulla. Non puoi
nascondere la scomparsa del fratellone, così come non
potresti nascondere la
mia. Sarai l’essere più ricercato di tutta
Chugoku, di tutto il Sistema Asean.
E prima o poi ti cattureranno.»
La
spavalderia di Young Soo si sgretolò con un brivido di
terrore. Il demone non pareva spaventato, anzi: un compiacimento
malevolo
distorse i lineamenti di Kiku, mentre si chinava con eleganza a
raccogliere
Heracles.
«Oh,
non pensavo di ucciderti. Creerebbe troppo scompiglio.
Tuttavia, non posso nemmeno permetterti di parlare.»
La
spada fu troppo veloce per essere vista: trapassò la
gamba del Portavoce del Sole con la facilità con cui avrebbe
lacerato un
fazzoletto di seta. Young Soo fissò la sua coscia con
un’espressione confusa,
incapace di realizzare cosa fosse successo. Solo quando la prima
scarica di
dolore gli perforò il cervello riuscì a urlare a
pieni polmoni. Ma sarebbe
stato più saggio non concentrarsi sulla lama conficcata nel
suo muscolo: se ne
rese conto solo quando gli artigli del demone gli avvilupparono la
testa. Le
sue parole untuose gli scivolarono nelle orecchie come veleno.
«Pensavo
a una paralisi totale. Il Portavoce del Sole non è
riuscito ad accettare il coma del sovrano, e ha deciso di seguirlo nel
suo
triste destino. Questa sarà la versione ufficiale. Divertiti
ad avvizzire come
un vecchio albero, Portavoce del Sole.»
Young
Soo non riuscì ad articolare il suo ultimo grido: una
rigidità cadaverica discese su di lui, viscida e
appiccicosa, solidificando i
suoi muscoli come se fossero stati immersi nella resina. Il Portavoce
del Sole
avvertì il suo corpo abbandonarlo un arto per volta: prima
la mascella si
contrasse, chiudendosi per sempre sulle sue ultime parole; poi si
immobilizzarono
le spalle, coagulando anche braccia e mani in un unico blocco
inamovibile. Il
torso diventò un pezzo di legno e, infine, non
riuscì più ad avvertire il
dolore alla coscia lesa.
Udì
il tonfo del suo stesso corpo mentre cadeva a terra,
incapace di chiudere le palpebre fossilizzate sui suoi occhi.
L’unica cosa
ancora in movimento nel suo corpo di pietra era la mente, e il demone
lo
osservò dall’alto con un ghigno satanico impresso
sul volto. Lo aveva
premeditato: lo aveva lasciato cosciente in modo che potesse assaporare
appieno
la disperazione di non poter in alcun modo fermare quella catena di
eventi.
Le
sue pupille fisse osservarono il demone che si rialzava,
che puliva Heracles. Videro il primo consigliere entrare nella stanza,
e furono
testimoni dell’incantesimo dell’essere infame:
manipolò i ricordi dell’ignaro
uomo in modo che credesse di essere entrato nelle stanze imperiali e di
aver
visto il sovrano giacere nel suo letto, vittima di un coma
apparentemente
irreversibile.
Vide
il consigliere uscire di corsa per dare l’allarme, e
vide il demone chinarsi su di lui, sogghignando diabolico.
«La
mente degli esseri umani, quando non sono guerrieri o
maghi, è così malleabile…»
flautò,
lezioso. Poggiò le dita sulle labbra e le impresse sulla
fronte fredda del
Portavoce del Sole, sghignazzando: «Sogni d’oro,
piccolo schiavo.»
Kiku
chiuse le palpebre, e gli occhi tremarono dietro di
esse. Quando si sollevarono, le iridi di carbone del Samurai saettarono
confuse
sulla stanza in disordine. Poi si appoggiarono su di lui, e Young Soo
scoprì
che anche il suo cuore era in grado di muoversi: sprofondò
in fondo ai piedi
quando le iridi di Kiku si spalancarono nel notare il suo corpo riverso
al
suolo.
Una
mano callosa e gentile gli sollevò la testa, mentre
l’altra gli circondava il busto.
«Young
Soo?» c’era un lieve allarme che guastava la
fermezza
della voce di Kiku. «Young Soo, che
cos’hai?»
La
sua bocca quasi esplose quando cercò di forzare le parole
fuori da essa. Voleva avvisare il Samurai, voleva dirgli che il
fratellone era
lontano e al sicuro, voleva…
«Il
cielo di Chugoku non ha ancora le stelle, Young Soo. Non
puoi abbandonarci ora…»
Il
cuore e l’anima si rattrappirono a quelle parole, si
accartocciarono e poi esplosero con un boato al centro del suo petto.
Sentì le
lacrime pizzicargli gli occhi di pietra, e bruciare come lava dietro di
essi. I
sassi non potevano piangere.
La
presa di Kiku si stinse gentilmente, premendolo contro di
lui. La sua coscienza guizzò dietro i muscoli irrigiditi,
cercando di uscire da
quelle membra di granito e gridare la verità a tutto il
Palazzo… Young Soo
rimase immobile come una bambola nell’abbraccio di Kiku.
«Abbiamo
bisogno di luce per il nostro cielo. Non puoi
spegnerti, Young Soo, non puoi…» il mormorio
accorato di Kiku crebbe
bruscamente in un ordine, gridato verso la porta aperta: «Il
Portavoce del Sole
sta male! Chiamate il medico di corte, presto!»
Altre
lacrime gli arroventarono gli occhi, e la sua anima
stridette di nuovo, prigioniera di un corpo di fango.
Quel
giorno Chugoku perse due delle sue stelle più luminose.
Yao
riaprì gli occhi, terminando il suo viaggio nel passato.
Durante
il suo esilio, aveva avuto modo di pensare con
freddezza agli avvenimenti di quella sera e si era convinto che fosse
giusto
uccidere Kiku, se non vi fossero state altre vie: Chugoku non poteva
cadere
nelle mani di un demone. L’Hellsing aveva portato una
scintilla di speranza, dicendo
che forse il suo pupillo si sarebbe salvato, ma era troppo flebile
perché il
Figlio del Cielo potesse davvero contare su di essa. Era stanco di
vedere i
propri legami fatti a pezzi: prima l’allontanamento della sua
famiglia
all’epoca della sua incoronazione, il tradimento di Kiku,
l’abbandono di Young
Soo….
La
porta della camera si aprì. Il cuore di Yao
singhiozzò in
uno spasmo quando Ivan entrò nella stanza.
Anche
quel legame sarebbe svanito presto, come un cristallo
di neve al disgelo.
«Non
hai detto una parola alla riunione» notò
l’orientale,
avvicinandosi al Custode.
Ivan
abbassò lentamente i suoi occhi violacei su di lui. Yao
era abituato alla lentezza con cui il gigante faceva le cose; non
doveva essere
facile muoversi con le articolazioni congelate dal Cuore
d’Inverno, e il Figlio
del Cielo aveva accettato quella particolarità di Ivan. Come
ne aveva accettate
mille altre: la sua possessività asfissiante, la sua
incapacità di comprendere
le emozioni altrui, la sua incuria per la vita umana.
All’inizio,
Yao aveva solo sfruttato Ivan: era finito nel
castello di quel gigante che, per qualche arcano motivo, nutriva un
interesse
particolare nei suoi confronti. Il Figlio del Cielo aveva tratto
vantaggio da
questa piccola debolezza per riuscire a viaggiare nella Galassia ed
entrare in
contatto con chi lo avrebbe portato dall’Hellsing e dal
Marauder. Il Custode
doveva essere semplicemente un mezzo per tornare a Chugoku.
Poi
una sera quell’uomo di ghiaccio si era accovacciato ai
suoi piedi, aveva cercato il suo calore e gli aveva confessato di aver
ucciso.
E, quella volta, Yao aveva visto l’immensa voragine in cui il
cuore dell’uomo
era sprofondato. Ivan non stava solo confessando il suo crimine: stava
cercando
qualcuno che potesse scuoterlo dalla sua apatia, che potesse spiegarli
perché
la sua memoria era improvvisamente diventata un sepolcro vuoto.
Qualcuno che
mettesse a tacere il gelido ululato dei fantasmi e parlasse con il
calore di un
essere umano.
In
quel momento, il Figlio del Cielo aveva capito che non
era nelle intenzioni del Custode essere crudele: Ivan semplicemente non
ricordava
cosa significasse essere umani. Il ragno sul suo petto aveva
risucchiato anche
quello.
Era
stato allora che Yao aveva cercato di consolarlo con un
bacio, e aveva provato tutto il gelo che quell’uomo era
costretto a sopportare
ogni giorno. Poi quel gigante privo di empatia lo aveva preso sulle
ginocchia,
e lo aveva avvolto con la sua sciarpa, l’unica cosa che
ritenesse davvero
preziosa. E gli aveva chiesto di baciarlo ancora.
Quella
sera tutto si era complicato.
Yao
aveva cominciato a interessarsi a Ivan nello stesso modo
in cui il gigante era affascinato da lui. Lo aveva studiato, nei mesi
successivi, fino a riuscire a capire le emozioni che passavano sotto le
lastre
di ametista che l’uomo aveva come occhi.
Ivan
non era un essere senza sentimenti: era un uomo che non
ricordava più come esprimere quello che sentiva. Desiderava
scoprirlo di nuovo
e, allo stesso tempo, temeva che il Cuore d’Inverno avrebbe
nuovamente inghiottito
le sue emozioni, lasciando solo una distesa arida dietro di
sé.
Yao
non era più riuscito a staccarsi da lui: desiderava
avvolgerlo con il suo calore, bandire l’inverno perenne in
cui l’uomo era
immerso e vedere il vero Ivan sbocciare di nuovo come gli anemoni in
primavera.
Il
Custode avvertiva un baratro dentro di sé, e non sapeva
nemmeno di che cosa fosse stato
svuotato perché il Cuore d’Inverno non gli
permetteva di ricordare il tepore di
una famiglia. Yao desiderava riempire quel vuoto fino a farlo debordare.
Un
amore così folle e disperato non si addiceva
all’eterea
figura del Figlio del Cielo. Un sovrano avrebbe dovuto mettere il bene
del
proprio popolo sopra ogni cosa; Yao avrebbe abbandonato Chugoku, se
solo Ivan
glielo avesse chiesto.
Il
Figlio del Cielo scosse il capo tra sé e sé. No,
non lo
avrebbe fatto: Young Soo e Kiku lo stavano aspettando. Ma sapeva che
loro
avrebbero accettato una sua eventuale partenza, anche se con il cuore
gonfio di
lacrime. Il suo trono, invece, non lo avrebbe fatto: lo avrebbe tenuto
avvinto
a sé con le catene che si nascondevano dietro gli abiti
imperiali.
Non
aveva mai pensato prima alle sue responsabilità come a
un fardello, e non avrebbe mai immaginato di desiderare di lasciare il
suo
paese natale per un singolo uomo. Ivan aveva cancellato ogni cosa, come
la neve
che fagocitava il mondo durante gli inverni più implacabili.
Yao
reclinò appena il capo, e i capelli ricaddero voluttuosi
sul petto. Il Custode adorava la sua chioma sciolta, e anche quella
sera sollevò
la mano guantata per accarezzarla. Le dita si fermarono a
mezz’aria, rigide, e
si richiusero a pugno senza nemmeno sfiorarlo.
Ivan
sollevò la sciarpa sul volto e gli voltò le
spalle,
raggiungendo a larghe falcate la rastrelliera.
«Ivan»
lo chiamò pacato Yao, mentre l’altro appoggiava la
mazza ferrata all’apposito sostegno. «È
così penoso toccarmi?»
Il
Custode si erse in tutta la sua statura, ma non si voltò.
Il Figlio del Cielo ebbe l’impressione che fosse una montagna
a rimbombare:
«Domani
tornerai a Chugoku. Non sarai più Yao Wang. Sarai di
nuovo il Figlio del Cielo.»
L’Asean
raccolse quella provocazione e ribatté:
«Credevo
che la nostra promessa avesse valore finché questo
incidente non si fosse risolto.»
Il
Custode rimase immobile. Yao si avvicinò di un passo.
«Hai
intenzione di evitare di guardarmi fino a domani
mattina?»
Ivan
sollevò ulteriormente la sciarpa e si voltò verso
di
lui. Gli occhi ametista erano duri come sempre, ma Yao aveva imparato a
distinguere le varie sfumature. Quella era la tonalità del
dubbio. Ivan si
stava chiedendo quanto sarebbe occorso al Cuore d’Inverno per
divorare i
ricordi del loro tempo insieme. Prima si sarebbe scordato il suo nome,
poi il
suo viso, il suo corpo, la sua voce, il suo calore… gli
sarebbe rimasta solo la
vaga impressione di un’ombra nella sua vita gelida.
Quegli
interrogativi si infissero negli occhi di Yao e
risuonarono nelle sue ossa. Anche lui sarebbe diventato un fantasma di
quella
Fortezza, come Ivan sarebbe diventato un cimelio da passare ai suoi
successori?
La
mano di Yao corse ad afferrare quella di Ivan. Passò i
polpastrelli sulla pelle lucida del guanto, prima di pizzicare il medio
sulla
punta. Tirò con delicatezza, denudando pian piano la mano
del Custode. Sentì un
fremito scorrere nelle vene di Ivan quando si sporse per baciargli le
nocche, e
i suoi capelli ricaddero come una carezza setosa sul polso
dell’uomo. Con
delicata lentezza, Yao poggiò quella mano grande e fredda
sul suo sterno, sotto
la camicia, dove riposava la memoria dei suoi antenati.
«All’inizio
pensavo che fossimo opposti» mormorò, vellutato.
Quella sera era il suo turno per confessarsi. «Poi ho capito
che siamo più
simili di quanto non possa sembrare. Tu non hai ricordi, Ivan, mentre
io ho una
miriade di memorie che non mi appartengono. Sai a volte… non
si riesce più a
distinguere tra la propria vita e quelle degli altri.»
Yao
chiuse gli occhi, mentre il segreto che aveva chiuso
dentro di sé tanti anni prima affiorava. Il Figlio del
Cielo, a volte, non
riusciva a distinguere quale vita avesse vissuto davvero.
Gli
occhi di Ivan si assottigliarono, cercando di
comprendere cosa si provasse in una situazione simile. Yao sorrise
dolcemente:
anche quei tentativi rudi erano una prova dell’affetto
sincero del Custode.
Quell’uomo dimostrava un amore sconfinato, se solo si
sapevano cogliere i
segnali.
«So
che la mia vita è quella in cui posso sentire la risata
di mio fratello, in cui posso vedere il mio figlioccio
allenarsi» Yao sollevò
gentilmente la mano di Ivan al livello del suo viso e vi
appoggiò la guancia.
Il pollice dell’uomo si mosse quasi istantaneamente per
accarezzare la sua
pelle liscia. «So che ci sei tu, Ivan» il giovane
orientale sfiorò con le dita
le nocche dure del compagno. Il Figlio del Cielo era legato da troppe
responsabilità e impegni per lasciarsi andare ai sentimenti,
ma Yao Wang era
libero di immergersi nell’intricato amore di Ivan fino ad
affogare. «Non so
cosa ci aspetta domani, se dovrò tornare sul trono o se
cadrò combattendo. Ma
stasera sono qui, Ivan. Con te.»
Il
Custode gli fece sollevare il viso e lo trafisse con i
suoi occhi violacei. Il suo volto, anche se nascosto dalla sciarpa,
palesava un
unico interrogativo: per quanto ancora le memorie di Yao sarebbero
rimaste
vivide nella sua memoria carnivora?
La
mano di Ivan scivolò tra i suoi capelli, stringendosi a
pugno sulla sua nuca e attirandolo bruscamente a sé.
«Tu
sei mio» dichiarò, incatenandolo con il suo
sguardo
ghiacciato.
Era
la massima confessione d’amore che quell’assurdo
uomo
potesse fare. Yao si allungò per srotolare la sciarpa e
liberare il suo viso.
«Allora
dimostralo» lo incoraggiò, lanciandogli uno
sguardo obliquo
da sotto le ciglia nere. Anche quello era un comportamento che non
sarebbe
stato accettato dal trono reale, ma lì era solo un giovane
orientale innamorato
del più incomprensibile uomo che fosse mai esistito
all’interno della
Confederazione.
Ivan
si inginocchiò lentamente, e le sue grandi mani
salirono a slacciare i bottoni della camicia che Yao indossava per la
notte. Il
sole al centro dello sterno venne messo a nudo e l’Asean
immaginò che l’uomo vi
avrebbe premuto contro il viso come faceva sempre. Invece le labbra del
compagno gli sfiorarono la clavicola e risalirono sul collo, le mani
ancora
impegnate a spogliarlo. L’orientale rabbrividì
quando la camicia raggiunse i suoi
gomiti e le labbra di Ivan il suo orecchio.
«Yao.»
Il
mondo affondò per un attimo su quell’unica parola.
Ivan
non lo aveva mai chiamato per nome nell’intimità.
Forse temeva che il Cuore d’Inverno
avrebbe sbriciolato quelle tre lettere se le avesse pronunciate
apertamente. O
forse mai come in quel momento, a un passo dalla loro separazione, Ivan
aveva
paura di dimenticarlo se lo avesse lasciato andare anche un solo
istante.
Ripeté
il suo nome mentre appoggiava le mani sui suoi
fianchi, e lo fece scivolare lungo il suo busto mentre si inginocchiava
davanti
a lui.
Il
desiderio di Ivan gli marchiò il petto a ogni bacio
affamato che l’uomo vi depositò sopra. I baci di
Ivan erano fratelli dei morsi,
e lasciarono una pioggia di segni rossi sul loro passaggio.
Le
mani di Yao circondarono quei lineamenti duri, e i suoi
capelli scesero a creare un sipario setoso tra loro e il resto della
Fortezza.
Il tempo perse di senso, lo spazio di consistenza, e il mondo si
restrinse ai
loro occhi legati tra di loro.
Passò
un istante e una vita prima che Yao conducesse Ivan
sul letto alle loro spalle.
Curiosità
e perplessità scivolarono nel viola immobile delle
iridi del Custode mentre l’Asean lo faceva sedere e si issava
ad arcioni su di
lui. Il Figlio del Cielo abbassò lo sguardo sul suo cappotto
per dissimulare un
sorriso: Ivan aveva sempre un pizzico di meraviglia e confusione negli
occhi,
come un bambino che scopre il mondo e non sa bene come rapportarsi con
esso.
Anche dopo tutte le notti in cui avevano giaciuto insieme, il Custode
non aveva
perso quella sua espressione speculativa, quasi non avesse ancora
capito cosa
aspettarsi da Yao. Il Figlio del Cielo non poteva biasimarlo: nemmeno
lui
sapeva cosa aspettarsi da se stesso, quando era insieme a
quell’uomo glaciale.
L’orientale
si dilungò nello spogliare il suo amante: prima
il guanto rimasto, poi il pesante cappotto, quindi la camicia, un
bottone per
volta. Il brivido ormai familiare si scaricò alla base della
nuca per poi
percorrergli tutta la spina dorsale; mettere a nudo il suo compagno un
passo
alla volta, lentamente, era il rituale preferito di Yao. Gli piaceva
sentire il
desiderio lievitare pian piano in quel punto poco sotto lo sterno, e
trovava
gradevole l’aspettativa palpitante che si spandeva nel suo
corpo come un
monsone. Ma più di tutto adorava osservare Ivan, il gigante
di ghiaccio, ribollire
nell’impazienza mentre le sue mani scendevano verso il basso
per slacciargli la
cintura.
Le
dita artiche del Custode gli artigliarono i fianchi,
spingendolo di colpo contro di sé. Le labbra di Yao si
tinsero di un sorriso
severo, rimproverandolo silenziosamente per quella brutalità
indesiderata.
Il
Cuore d’Inverno baciò lo sterno del Figlio del
Cielo
mentre i loro petti e i loro bacini nudi premevano gli uni contro gli
altri.
Le
dita di Yao si insinuarono nei capelli dell’uomo,
iridescenti come la brina di dicembre, e le sue labbra sfiorarono
quella fronte
spianata da una totale assenza di emozioni.
Per
la prima volta, sentì la pelle dell’uomo
riscaldarsi
alle sue sole parole, le più ardenti che l’Asean
avesse mai pronunciato in
tutta la sua vita.
«Avrei
voluto essere abbastanza forte da spezzare il
sortilegio del Cuore d’Inverno.»
Ivan
lo stritolò quasi nel suo abbraccio di ferro, e
tuffò
il viso nel suo collo, coprendolo con i suoi baci violenti.
«Yao»
lo chiamò di nuovo, stringendo la presa sui suoi
fianchi fino a fare male. Dopo tutto quel tempo, Ivan ancora non aveva
capito
quale fosse il confine da non superare. «Il mio
Yao.»
L’Asean
sfiorò le labbra dell’uomo con le proprie, e la
mano
del Custode premette istantaneamente sulla sua nuca per spingerlo in un
bacio
più profondo. Yao si scostò bruscamene per
liberare un gemito quando l’amante
lo spinse su di sé senza alcun preavviso. Ivan non aveva
ancora imparato cosa
fosse la delicatezza, per sua sfortuna. Il respiro inciampò
in ansiti spezzati
attraverso le sue membra tremanti, e si aggrappò
all’amante per recuperare il
controllo. Respirò il suo odore freddo e pungente,
immobilizzò la bocca contro
quella pelle ghiacciata e affondò le dita nei capelli di
brina del compagno.
I
palmi di Ivan gli coprirono la schiena, stringendolo con
più delicatezza. In qualche modo, aveva capito di avergli
fatto male.
Yao
riaprì gli occhi lucidi, e li appuntò sul viso
del suo amante.
Non
voleva che quei ricordi passassero nella memoria
generazionale, dove un suo anonimo successore avrebbe potuto vederli.
Chiunque
fosse venuto dopo di lui non avrebbe mai provato sulla sua pelle
l’ineffabile
dolore di essere innamorato di un uomo senza memoria. Non avrebbe mai
capito
cosa lo avesse spinto a legarsi a un essere così privo di
tenerezza. Non
avrebbe mai compreso la bellezza nostalgica di una sciarpa, non avrebbe
mai
contato le sfumature delle iridi ametista, non avrebbe mai tratto gioia
dalla
primitiva gentilezza del Custode. Non avrebbe mai amato Ivan come lo
amava lui.
E quelle memorie non avevano senso, senza la sciarada di emozioni
incontrollabili in sottofondo. Senza di esse, sarebbe rimasta solo
l’immagine
che tutta la Confederazione aveva del Custode: un gigante figlio
dell’inverno,
privo di emozioni e di pietà.
Non
voleva passare quei ricordi così preziosi a chi non li
avrebbe apprezzati. Il Figlio del Cielo desiderò potersi
strappare quelle
memorie dal petto, e metterle sottochiave dove solo lui avrebbe potuto
consultarle.
Un
bacio ruvido si impresse sulla sua tempia, per poi
scivolare sulle sue labbra.
Si
chiedeva se anche Ivan provasse lo stesso desiderio di
poter salvare quei ricordi dalla sete del Cuore d’Inverno, e
conservarli in una
stanza di quella Fortezza desolata.
Le
dita dell’uomo scorsero tra i suoi capelli, lo
spogliarono dell’inutile camicia, lo afferrarono di nuovo per
i fianchi e lo
spinsero ancora verso il basso. Un’onda di calore sorse tra
le sue cosce e salì
violenta a inondargli il petto mentre si muoveva insieme
all’amante. Quella cascata
bollente trasmigrò su Ivan: la pelle dell’uomo
diventò gradualmente più calda,
incontrandosi ripetutamente con la sua.
«Non
sei più freddo» notò Yao sulle sue
labbra.
Ivan
lo cinse in uno dei suoi abbracci opprimenti, e spinse
più forte dentro di lui.
«Fa
ancora freddo» protestò, arrampicandosi con la
bocca
sulla sua mascella.
Era
il suo modo per chiedergli di restare con lui, di non
abbandonarlo al gelo e alla solitudine di quel posto. Di essere il suo
sole
ancora per un po’.
Un
roveto di spine gli frantumò il cuore, lasciandolo senza
fiato.
Mosse
le dita istintivamente sul petto sussultante, come
Young Soo faceva ogni volta che lo vedeva angustiato.
Non
fa male, non
fa male… non fa più male!
Sarebbe
bastata quella formula infantile per scacciare il
dolore?
Fissò
gli occhi di Ivan, la sua fronte sudata e le sue
labbra dischiuse nell’affanno. Sfregò la bocca
ansante su quella dell’uomo,
come se quel bacio, quell’unione potesse dilatare il tempo e
far durare quella
notte per sempre.
No,
quell’incanto puerile non sarebbe stato sufficiente per
lasciare andare Ivan. Una vita intera non sarebbe bastata per liberarsi
di quei
ricordi dolcemente velenosi.
Erano
il prezzo da pagare per il regnante che aveva deciso
di innamorarsi dimenticandosi delle regole auree del Palazzo.
Lo
avrebbe pagato ogni volta che avesse indugiato nel
ricordo di due occhi violacei e freddi, di mani prive di dolcezza e di
un’anima
congelata. Lo avrebbe pagato, ma non lo avrebbe mai rimpianto; quelle
memorie
sarebbero diventate delle spine e poi delle spade infisse nel suo
cuore, e Yao
le avrebbe benedette. Perché, col dolore, sarebbero arrivati
i ricordi di Ivan,
e quelle immagini erano sufficienti per accettare qualunque supplizio.
L’Asean
si inarcò su di lui, le mani nei suoi capelli e la
bocca sulla sua. Le mani del Custode percorsero la sua schiena
fremente, e
scivolarono lungo la sua chioma scura, strattonandola appena con le
loro
carezze rudi.
Yao
cercò di memorizzare e cancellare al contempo le
sensazioni, il calore e i colori di quella notte insieme. Avrebbe
voluto farne
tesoro, ma non voleva incamerarli nel suo sterno di fiamme, che un
giorno
sarebbe passato a qualcuno che avrebbe guastato quei ricordi con il suo
disgusto.
Se
solo potessi
essere davvero tuo, Ivan…
Buonasera
a
tutti<3
Dichiaro
conclusa la parte introduttiva della saga orientale: nel prossimo
capitolo si
entra nel Palazzo<3 E si scoprirà che fine ha fatto
il Marauder<3
A
parte questo,
nulla da dichiarare<3
Spero
che vi sia
piaciuta la parte RoChu (amo questa coppia, la amo da morire<3)
e che
abbiate patpattato il povero Gilbert, che meriterebbe tutto
l’amore e la
tenerezza che quella sadica dell’autrice gli ha brutalmente
strappato.
Ci
vediamo tra
due settimane<3
Red
P.S.
Casomani
qualcuno di voi se lo stesse chiedendo, visto che un questo capitolo
è
rispuntato Roderich… sì, più avanti
nei capitoli ci sarà un pezzo di “riunione
familiare” tra lui e Gilbert, e anche tra lui e
Mathias<3
P.P.S.
Rinnovo
l’annuncio di due settimane fa: se vi viene in mente qualcosa
che volete vedere
negli spin-off, chiedete pure<3
|
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Capitolo 20 *** Il Demone ***
Capitolo
Venti: il Demone
Kiku
era straordinariamente taciturno, quel giorno.
Non
era mai particolarmente ciarliero, ma quella mattina una
cappa di oscurità orbitava nei suoi occhi neri.
«Tutto
bene?» domandò Alfred, con il suo sorriso che
spazzava via le nuvole.
Non
fu sufficiente per le nubi sul volto di Kiku: il Samurai
rimase chiuso nel suo tetro grigiore. Annuì a malapena alla
sua domanda.
«Precedimi»
sancì infine. «Devo vedere il Portavoce del
Sole.»
«Ti
accompagno…»
«No.
Qualcuno deve finire il giro di pattuglia.»
Kiku
gli voltò le spalle senza nemmeno attendere una
risposta.
Alfred
si grattò la nuca e scosse la testa.
Avrebbe
potuto dire che Kiku era villano, certe volte, se
solo non fosse stato costantemente avvolto da quell’aura
carismatica e nobile.
Non poteva definirlo “maleducato”; al massimo
“altero”.
«Quante
cose dobbiamo sopportare noi eroi…»
sospirò
melodrammatico.
La
katana
sferragliò contro la pistola. Alfred era uno dei pochi, se
non l’unico, a
portare armi da fuoco: in quel paese esotico, preferivano affidarsi
alle lame e
agli incantesimi che li avevano resi celebri in tutta la
Confederazione.
Tuttavia, l’Aquila era stata addestrata tra le file di
Britannia: non si
sentiva a suo agio, senza una pistola. Una volta un suo collega gli
aveva
chiesto perché dovesse sempre portarsi in giro quel ferro
vecchio, e Alfred gli
aveva risposto che, senza, si sentiva indifeso come se lo avessero
fatto girare
in mutande. Si era guadagnato uno sguardo molto perplesso e una
scrollata di
spalle.
Quasi
inciampò in una profusione di seta colorata stesa al
suolo. Gli occhi di Alfred risalirono quelle pieghe elegantemente
raccolte
attorno a un corpo di donna, finché non incontrarono il viso
più delicato che
avessero mai visto, nonché il più simile a quello
del loro sovrano.
Grazie
a Kiku e al suo incarico all’interno della Stella
Polare, aveva avuto qualche occasione di incontrare il Figlio del
Cielo, ed era
rimasto sorpreso dalla sua bellezza eterea. La stessa che aveva
plasmato i
lineamenti della donna, elegantemente seduta davanti al cancello di
entrata.
Pareva
adagiata su un trono, e non su un volgare sasso: la
schiena dritta, il collo steso, lo sguardo fiero e la posa elegante
delle mani,
poggiate sulle ginocchia per trattenere le pieghe troppo lunghe che
avrebbero
altrimenti toccato il suolo. Non aveva bisogno di accessori
appariscenti per
imporre la sua presenza: la nobiltà le scorreva nel sangue.
«Posso
aiutarla?» si informò Alfred, avvicinandosi di un
passo.
La
donna girò lentamente il collo da cigno e posò
gli occhi
di ebano su di lui. Si concesse una lunga analisi prima di decretare:
«Tu
devi essere l’Aquila.»
«In
carne e ossa, signora» si esibì Alfred, gonfiando
il
petto con orgoglio.
Le
ciglia nere della donna tremarono appena, appuntandosi
sul Palazzo.
«Dicono
che sei un eroe. Faresti un piccolo miracolo per me?»
«I
miracoli sono la mia specialità» si
vantò lui.
«Devo
vedere mio figlio.»
Il
portamento della donna non cedette, ma la voce le tremò
impercettibilmente. Alfred ammirava la compostezza dei nobili, anche se
riteneva che sarebbe stato molto più salutare per loro
essere più onesti con i
propri sentimenti.
«So
che è malato. Chi non sa del suo coma?»
l’agonia di una
risata torse le labbra della donna. «Sono mesi che chiedo di
essere ammessa, ma
pare che nessuno voglia ascoltarmi. Sono le regole: la famiglia
precedente del
Figlio del Cielo deve abbandonare il Palazzo… ma quale legge
è superiore
all’affetto di una madre?»
L’Aquila
osservò quella donna, annuendo al suo discorso.
Cominciava a capire da chi il Figlio del Cielo avesse ereditato il suo
carattere
deciso e aggraziato al contempo.
«Chiedo
solo di vederlo. Se è grave come dicono, se non ci
sono speranze per lui…» un minuscolo tremito le
percorse le labbra chiare. La
donna non riuscì a terminare la frase, quindi ne
iniziò un’altra: «Voglio
essere al suo fianco. Ho amato mio figlio dal momento in cui ha aperto
gli
occhi in questo mondo, e ogni giorno in cui sono stata lontana da lui
è stato
come ricevere una pugnalata in petto. Se questi sono gli ultimi giorni
che gli
è dato trascorrere insieme a noi…»
«La
capisco» Alfred fermò la signora, prima che si
addentrasse in un discorso che nessuno dei due voleva affrontare.
Nonostante la
sua posa impeccabile, gli occhi tremavano di un terrore sotterraneo, lo
stesso
che scorreva nelle vene di Kiku quando si parlava del futuro incerto
del
sovrano. E lui era stanco di vedere quella paura infettare
l’anima di tutto il
popolo di Chugoku.
Era
un suo preciso compito sradicare quel panico alla
radice. In fondo, gli eroi servivano a quello.
«La
scorterò fino alle camere del sovrano» decise
d’impulso,
offrendo un braccio alla signora.
La
nobile lo fissò, titubante. Non era sicura di potersi
fidare della flebile speranza che quel giovane straniero le offriva.
«Ne
sei sicuro?» domandò.
Alfred
era certo che quella cosa fosse contro le regole, che
avrebbe avuto un richiamo ufficiale e, nel peggiore dei casi, sarebbe
stato
bandito dal Palazzo. Ma aveva fatto una promessa a un soldato, tanti
anni
prima: nessuno gli avrebbe inquinato il cuore. E se avesse lasciato
quella donna
a languire davanti al cancello, sarebbe stato come dichiararsi
sconfitto.
Inoltre, Kiku non avrebbe permesso ai consiglieri di cacciarlo, e lui
in primo
luogo non si sarebbe fatto esiliare tanto facilmente.
«Mi
segua» Alfred sfoggiò il sorriso che non aveva
avuto
effetto su Kiku, e che invece sembrò rasserenare la signora.
La
donna si alzò e poggiò la mano delicata sul suo
braccio,
lasciandosi condurre nelle entrate secondarie e nei corridoi meno
frequentati
del Palazzo.
«Ho
sentito molto parlare di te, Aquila» mormorò la
signora,
mentre si addentravano nel cuore del Palazzo.
«Scommetto
che avete sentito solo storie positive» si
inorgoglì Alfred.
«Non
proprio» ammise in un bisbiglio ovattato la donna.
«Alcuni
ti acclamano come un eroe, altri ti additano come pazzo.»
Pazzo.
Doveva immaginare che la sua tendenza a scavalcare le
norme gli avrebbe procurato qualche nomignolo indesiderato. Ma non era
certo
colpa sua se le regole a volte erano così assurde:
era come se chiedessero di essere
infrante.
Le uniche cui si era sempre attenuto scrupolosamente erano quelle che
Kiku gli
aveva chiesto di non dimenticare mai, per nessun motivo. Come la
normativa
sull’uso delle armi a Chugoku, e il fastidioso obbligo di
portare sempre con sé
quel fogliaccio che lo autorizzava ad avere una pistola.
«E
lei cosa ne pensa?» domandò, incurvando un angolo
della
bocca in un sorriso amichevole.
La
donna socchiuse appena gli occhi, scandagliando i dati in
suo possesso.
«Sei
una persona bizzarra, Aquila. Ma non sempre la
diversità è un difetto. Se non ci fossi stato tu,
sarei ancora davanti a quel
cancello» sentenziò infine, con un tono morbido.
«Lei
è molto acuta, signora» si complimentò
Alfred.
La
loro conversazione fu interrotta da un tremendo boato. Il
pavimento trasalì sotto i loro piedi, e le travi del
soffitto scricchiolarono
sulle loro teste. Un’immobilità spettrale si stese
su di loro come un sudario
subito dopo.
Le
dita della donna si strinsero sul suo braccio, e i suoi
occhi si spalancarono per lo spavento.
«Cosa
è stato?» chiese, atterrita.
Un
secondo boato, seguito da schianti ripetuti; quella
strana melodia crebbe di intensità, e acquistò un
sottofondo di tonfi e colpi
attutiti.
Una
goccia di sudore scese sulla sua tempia quando Alfred
realizzò la fonte di quei suoni. La stanza del Portavoce del
Sole. Dove si
trovava Kiku. Il Samurai stava affrontando da solo qualunque minaccia
si fosse
presentata in quella camera simile a un obitorio.
Alfred
fece strada alla donna, conducendola sotto uno degli
stipiti portanti dell’edificio: se anche le mura fossero
crollate, quel pezzo
di legno sarebbe rimasto in piedi.
«Attenda
qui» le consigliò velocemente Alfred.
«Chiamerò una
guardia, verranno subito a prenderla e la porteranno al
sicuro.»
«E
tu?»
Alfred
portò una mano all’elsa della spada, sfiorando
anche
l’impugnatura della pistola.
«Io
mi occuperò della sicurezza di Chugoku» si
incollò sulla
faccia l’espressione più rassicurante del suo
repertorio. «Sono un eroe,
ricorda?»
La
donna annuì, e congiunse le mani davanti al viso.
«Ti
prego, fai in modo che non accada nulla di male a mio
figlio. Eroe.»
Per
la prima volta, sentì quell’appellativo
pronunciato
senza derisione. Il tono serio con cui la donna aveva formulato la
richiesta lo
fece sentire come se la nobile lo avesse appena nominato cavaliere.
Alfred
sorrise, inchinandosi alla donna: non era male avere un riconoscimento
ufficiale, qualche volta.
«Questo
è il compito degli eroi, signora.»
E
poi corse, come non aveva mai fatto in vita sua.
Incrociò
una guardia sul suo cammino, e gli indicò la
posizione della donna, ignorando gli sberci del soldato su quanto fosse
illegale quello che aveva appena
fatto.
Gli ordinò di andare a mettere al sicuro quella signora, se
non voleva la sua
vita sulla coscienza, e riprese la sua corsa.
Gli
schianti si facevano più vicini a ogni passo.
L’eroe
sta
arrivando, Kiku. Tieni duro.
***
Arthur
e Gilbert furono sorpresi dalla facilità con cui
riuscirono a introdursi nel Palazzo.
«Credevo
che la corte imperiale fosse difesa un tantino
meglio» commentò l’Hellsing,
mentre scivolavano senza difficoltà in un corridoio laterale.
«È
difesa in modo ineccepibile» contestò in un
sussurro
garbato Yao. «Ma, ovviamente, le sue protezioni non
funzionano sul regnante. E
questo beneficio si estende a quanti lo accompagnano.»
Entrambi
riconobbero che il Figlio del Cielo non aveva del
tutto torto.
Athur
svolse il fiore di cristallo dal suo panno, e una
sottile scia azzurra si dipanò lungo i corridoi.
Una
pennellata di delizia si dipinse sul volto del nobile
quando vide dove quella scia fosse
diretta.
«Che
tipo era, il Marauder?» domandò in un mormorio,
prima
di guidarli lungo un altro dedalo di corridoi scarlatti.
«Sorrideva
sempre» tratteggiò Gilbert. «E trovava
sempre il modo
di inquadrare un problema per poi trovare la soluzione.»
«Il
suo ottimismo era snervante» precisò Arthur.
«Credo
di aver capito perché ha scelto il Portavoce del Sole
come tramite, allora» Yao non riuscì a reprimere
un sorriso: erano quasi
arrivati alle stanze di Young Soo, indicate dalla luce del non ti
scordar di
me. Non poteva più aspettare: voleva salutare suo fratello,
abbracciarlo e
rassicurarlo, e dirgli che tutto sarebbe andato bene, come Young Soo
aveva
sempre fatto con lui. Aprì velocemente la porta bisbigliando
un incantesimo
quando raggiunsero il legno intarsiato.
Yao
si stupì di trovare la camera immersa nella penombra:
Young Soo dormiva con le tende spalancate perché la stanza
potesse essere
inondata dai primi raggi dell’alba fino agli ultimi barbigli
di tramonto. Dovettero
aspettare che gli occhi si abituassero a quella lieve
oscurità per individuare
il giovane, afflosciato sul trono con una strana angolazione sbilenca.
Arthur
batté le palpebre, perplesso: non si era aspettato di
trovare un ragazzino immobile. Immaginava che la persona scelta da
Francis
fosse vivace, irrefrenabile e insopportabile come lui.
Gilbert
deglutì, mentre un orribile presagio gli strisciava
lungo la colonna vertebrale, accapponandogli la pelle. Aveva
già visto
quell’irrigidimento, prima.
Yao
fu il primo ad accostarsi al trono, e si inginocchiò
davanti ad esso. Il cuore gli martellò nelle orecchie tanta
fu la gioia di
rivedere il fratello; dopo tanto tempo, finalmente poteva
riabbracciarlo.
«Young
Soo, sono tornato, come promesso...» si era preparato
un lungo discorso di benvenuto, ma la voce si affievolì di
fronte
all’immobilità del fratello. Il Portavoce del Sole
non stava semplicemente
riposando: aveva gli occhi spalancati e fissi, i lineamenti congelati
come se
qualcuno avesse sostituito il suo sangue con del cemento, i suoi
muscoli e la
sua pelle con della pietra.
«Young
Soo…» lo chiamò flebilmente Yao,
sollevando una mano
per toccargli una guancia. La gota si rivelò ghiacciata come
quella di un
cadavere.
Il
Figlio del Cielo non si rese conto che l’Hellsing lo
aveva raggiunto; se ne accorse solo quando l’uomo
emanò il suo verdetto:
«La
Maledizione di Medusa.»
«Cosa
significa?» domandò Yao, con il tono sonnolento di
una
persona sotto ipnosi. Non poteva essere vero, non dopo tutto quello che
avevano
passato…
«È
una tecnica usata dai demoni di alto livello»
spiegò
l’Hellsing in un ringhio rabbioso. «Non uccide
direttamente la vittima. La
paralizza, lasciando la sua coscienza viva in modo che
possa…» il Mago
dell’Ovest gli lanciò uno sguardo ammonitore, e
Gilbert alleggerì il peso della
frase: «In sostanza, la vittima è pietrificata e
muore di inedie.»
«Quindi
Young Soo…»
«No.
È ancora vivo» lo tranquillizzò
aspramente l’Hellsing. «Credo
che sia la sua magia a tenerlo in vita.»
Gilbert
si morse le labbra per evitare un eccesso di
improperi. Era stato imprigionato a Caina, ne era uscito, aveva
combattuto
contro il suo padre adottivo, aveva raggiunto Chugoku… e
quell’idiota di
Francis aveva deciso di incarnarsi in un corpo pietrificato.
Il motivo della scelta del Marauder era da imputare
al fatto che era più facile inserirsi in un corpo solo
parzialmente cosciente
rispetto a un soggetto pienamente in forze… ma come contava
di aiutarli, con le
membra di calce?
L’unica
soluzione, a quel punto, era uccidere il figlioccio
del sovrano; senza l’aiuto di Francis per individuare i fili
da tagliare, non
potevano fare altro. La cosa avrebbe devastato il Figlio del Cielo.
Non
avrebbe nemmeno ottenuto risposta alla sua domanda: con
la bocca immobilizzata, il Marauder non avrebbe potuto dirgli dove
trovare
Matthew. E non avrebbe potuto scherzare, e ridere con loro. Non avrebbe
potuto
vedere Francis, imprigionato com’era in un corpo
cementificato. Uno dei motivi
che con più forza lo aveva spinto ad arrivare fin
lì era la prospettiva di
poter parlare di nuovo con l’amico, e sentirgli snocciolare
ottimismi di bassa
lega con quel suo accento arrotondato… anche quella
consolazione era andata in
frantumi.
Sollevò
lo sguardo sul Mago dell’Ovest, e vide le sue stesse
emozioni riflesse su quel viso: rabbia per
l’impossibilità di parlare con il
Marauder, e sofferenza per aver perso Francis una seconda volta.
Il
Figlio del Cielo non si rese conto del tumulto silenzioso
alle sue spalle, ma alcuni di quei pensieri attraversarono anche la sua
mente:
senza il Marauder, Kiku era condannato. E se anche fossero riusciti a
riscuotere Young Soo dal suo torpore, non sarebbe mai riuscito a
sopravvivere:
l’inedia gli aveva corroso i muscoli fino a lasciare le ossa
quasi scoperte, le
labbra erano parzialmente rientrate all’interno della bocca,
e gli occhi erano
infossati nelle orbite e cerchiati di nero.
Aveva
perso il fratello e il figlio prima ancora di
cominciare a combattere.
Lacrime
arroventate gli bruciarono gli occhi, e il Figlio
del Cielo riuscì a contenerle solo con enorme sforzo. Era
tornato solo per
Young Soo e Kiku, e stava per perderli entrambi.
Sollevò
le mani tremanti e circondò dolcemente il viso
screpolato del Portavoce del Sole. Riusciva a vedere ancora il sorriso
del
fratello su quelle labbra secche, poteva scorgere lo sguardo
furfantesco nei
pozzi vuoti dei suoi occhi. Il ricordo di Young Soo si sovrappose
all’immagine
presente, e il contrasto fu tale che Yao avvertì il cuore
andare in pezzi. Il
suo fratellino scoppiettante, ridotto a una statua di cenere.
«Mi
dispiace…» accostò il viso a quello del
giovane per
mormorarlo direttamente sulla sua guancia. «Non avrei mai
dovuto lasciarti
indietro… mi dispiace così
tanto…»
«Il
demone è ancora in circolazione» gli
ricordò Gilbert, incurante
dei gesti ammonitori del Mago dell’Ovest.
Yao
annuì, deglutendo le sue lacrime. Si alzò, ma
riuscì
appena a muovere un passo prima che la manica lo strattonasse indietro.
Il
braccio e il polso di Young Soo giacevano mollemente sul suo fianco, ma
le dita
avevano trovato la forza di stringersi attorno al vestito del sovrano.
Yao
fissò frastornato il viso del fratello, in guerra contro
quella prigionia: le guance fremettero e la mascella vibrò,
mentre le labbra si
increspavano impercettibilmente.
«…
e… o’e…»
Uno
spillo di luce fece capolino dall’angolo
dell’occhio
destro del giovane.
«…
te… one…»
La
lacrima appena nata rotolò sulla guancia scavata del
giovane, per poi lanciarsi sul suo gilet blu.
Fu
troppo per Yao: le ginocchia cedettero, così come gli
argini in cui aveva confinato la propria tristezza. La tunica di Yong
Soo si
spiegazzò sotto le sue dita mentre lo abbracciava con foga,
e la stoffa candida
sulle spalle si infradiciò con il suo pianto. Young
Soo… il suo vivace,
prezioso, insostituibile fratellino…
«Sono
qui, Young Soo» il sole nel suo petto ruggì,
riscaldando il corpo di pietra tra le sue braccia. «Sono qui
con te. Perdonami
se non ci sono stato prima.»
Non
ebbero tempo di commuoversi per quella riunione
fraterna: un boato esplose nella stanza, scatenando un turbine di vento
improvviso.
Gilbert
piantò la scimitarra a terra per non essere
trascinato via, Arthur invocò immediatamente uno scudo
protettivo, e Yao si
aggrappò con tutte le sue forze al trono e al fratello.
Quando
il vortice si placò, la stanza contava un ospite in
più.
Un
ragazzo asiatico, in un’impeccabile uniforme bianca li
fissava con il collo reclinato in un angolo innaturale.
«Non
credevo saresti tornato, Figlio del Cielo»
sghignazzò
il demone. Ignorò completamente gli altri due incantatori, e
si avvicinò al
sovrano. «Pensavo fossi fuggito per salvarti la
vita.»
«Me
ne sono andato per chiamare rinforzi» Yao si
rialzò
lentamente, stendendo un muscolo per volta. Quando parlò,
mille sovrani passati
condannarono il demone con voce di ferro: «E questa volta ti
distruggerò.»
Un’espressione
di divertimento osceno sollevò le
sopracciglia e aprì la bocca di Kiku.
«E
uccideresti il tuo figlioccio, dopo aver perso tuo
fratello?» il demone scoccò un’occhiata
untuosa alla figura scomposta di Young
Soo e valutò: «Se per miracolo doveste riuscire a
riscuoterlo dalla
maledizione, sarebbe troppo debole per sopravvivere. Lo svegliereste
solo per
farlo morire, che tragedia…»
«Taci»
intimò Yao, irrigidendo le spalle.
Il
demone non lo provocò ulteriormente, e indirizzò
la sua
invettiva contro gli altri presenti.
«Il
famoso Mago dell’Ovest e il famigerato Hellsing, quale
onore!» li salutò ironico, per poi assottigliare
gli occhi in uno sguardo
diabolico. «Certo, per me non siete che due persone
immensamente tristi. Un
povero alieno che rimpiange la sua dimensione natale e un paio di occhi
blu, e
un cacciatore decaduto che ha lasciato il cuore dentro una tomba
gelida.»
La
scimitarra di Gilbert stridette feroce, uscendo dal fodero
e puntandosi contro il loro avversario.
«Sai
cosa cacciano
gli Hellsing?» ringhiò, minaccioso.
«Lo
so. Come so che non hai mai affrontato un demone del mio
calibro» tutto il viso si incurvò in un ghigno
malefico, e la bestia infierì: «Anzi,
uno lo hai incontrato, ma si è sparato
prima che tu potessi affrontarlo…»
Il
demone accompagnò il passo con una risata, schivando la
scimitarra dell’Hellsing.
«Ma
come?» si portò un dito alle labbra, fingendosi
sorpreso. «Ero convinto che ti fossi lasciato tutto alle
spalle. O almeno, così
avevi detto al tuo amico Antonio…»
Fu
costretto a interrompersi per evitare un’enorme palla di
fuoco. Il Figlio del Cielo dimostrò un controllo dei suoi
poteri totale e
terribile, dissolvendo le lingue di fiamma prima che potessero
incendiare la
stanza.
«Adesso
basta» sentenziò, gelido.
«Concordo,
vostra
altezza» il demone si leccò le labbra,
come se già pregustasse il sangue. «Adesso
basta.»
«Se
ti arrendi, mostreremo clemenza» consigliò Arthur.
«Uccidendoti
senza farti soffrire troppo.»
La
mascella del demone quasi crollò al suolo per le risate
che la scossero. Gli occorsero alcuni istanti per ricomporsi.
«E
per quale motivo dovrei arrendermi? Oh, siete degli
ottimi avversari, nulla da eccepire... ma siete pieni
di ombre. Voi e i vostri amici che vi aspettano qui fuori,
con quei ridicoli incantesimi di camuffamento.»
Il
Mago dell’Ovest sentì un brivido lungo la colonna
vertebrale. Come aveva fatto a vedere attraverso le sue magie? Solo un
incantatore di livello superiore poteva smascherare gli inganni di un
mago di
livello inferiore. Ciò significava che quel demone era
più forte di lui?
Kiku
si avvicinò a una finestra e inspirò a fondo,
socchiudendo persino gli occhi, come preda di un’estasi
suprema.
«Il
giovane Vaticano che si strazia per il fratello, il
corsaro senza genitori e senza popolo, un povero padre responsabile
della
miseria del figlio e della sua gente, un gigante senza
memoria… e poi, voi»
il demone fece schioccare la
lingua, deliziato. «Siete così pieni di tenebre,
di rimpianti…»
Una
luce sepolcrale adombrò gli occhi scuri. La voce del
demone fu simile allo stormire dei cipressi in un cimitero.
«E io mi nutro di
ombre.»
Un
secondo boato fece tremare l’intero Palazzo; le assi del
soffitto scricchiolarono, e le pareti emisero un gemito terribile
mentre quella
forza violenta le scuoteva.
Una
sostanza nera e viscosa si spalmò lasciva sulle
finestre, e Arthur imprecò:
«Maledizione!
È un incantesimo di isolamento!»
«Sei
molto intelligente, Britanno» il demone ghignò,
maligno. «O forse dovrei dire Faerie?»
Avevano
portato le loro truppe per nulla: Antonio, Lovino,
Roderich e Ivan non sarebbero potuti entrare, con quella melma a
bloccare le
porte. Forse la Mano Sinistra del Diavolo sarebbe riuscita a spezzare
l’incanto, ma avrebbe impiegato interi minuti. E sarebbero
stati sufficienti a
quel demone per ucciderli.
«In
nome del Palazzo di Quarzo!» sbottò Arthur,
rivolto a
Gilbert. «Quanto diavolo è forte questo
demone?»
L’Hellsing
rispose con un filo di voce e il viso terreo.
«Tra
poco lo scopriremo» ripose la scimitarra per sfoderare
l’archibugio. Non poteva richiamare Gilbird nel palazzo: la
stanza era troppo
stretta, non sarebbe riuscito a muoversi o a difendersi, e sarebbe
stato come
consegnarlo al demone su un piatto d’argento. «Sa
dei Carriedo e degli
Hellsing. Temo che questo demone non si sia nutrito solo del
risentimento del
tuo popolo, Figlio del Cielo.»
«Intendi
dire…»
«Si
è nutrito anche del dolore della mia gente e di quella
di Antonio. Non c’è altra spiegazione. Non sarebbe
mai diventato così forte,
altrimenti» Gilbert stroncò la domanda di Arthur.
Quella bestia schifosa aveva
pasteggiato sulla sofferenza di sua madre adottiva, dei genitori di
Antonio, di
tutti i loro compatrioti…
Strinse
le mani sull’archibugio. Gli avrebbe fatto sputare
tutto quanto a forza.
Il
demone applaudì, ironico.
«Sei
davvero scaltro, Hellsing. Ora capisco perché sei
sopravvissuto solo tu.»
Il
diavolo alzò bruscamente le braccia al cielo, e un vento
infernale si sollevò tutto intorno a loro.
«Fino
ad oggi, almeno» sogghignò, tracciando una linea
obliqua con la katana.
«Barriere!
Subito!»
gridò allarmato l’Hellsing.
Arthur
si avvolse nel mantello salmodiando una litania, Yao
portò indice e medio davanti alle labbra che recitavano una
formula, e Gilbert
mise l’archibugio in verticale, gridando un’unica
parola nella lingua antica dei
Nibelunghi.
Un
suono metallico, come quello prodotto da una spada contro
uno scudo, rimbalzò nell’aria tutto intorno.
«Lame
di vento?» si sorprese Arthur. Non riuscì ad
aggiungere altro: l’avventatezza del Figlio del Cielo gli
tolse il fiato.
Yao
si disfò dello scudo magico, e si lanciò nella
selva di
lame invisibili. Un filo di sangue uscì dalla sua guancia
candida, uno spruzzo carminio
dalla sua spalla, e un rumore di seta stracciata accompagnò
il taglio dei suoi
capelli: la lunga coda mogano del Figlio del Cielo cadde a terra senza
emettere
suono, mentre il suo proprietario invocava il potere delle fiamme.
Perfino
Kiku indietreggiò di fronte alla ferocia del
sovrano. Le braccia di Yao divennero due lunghe lingue di fuoco, che il
regnante agitò come fruste in direzione del demone,
costringendolo a
indietreggiare.
«Come
è possibile?» ruggì il Samurai,
furibondo. «Tu non
dovresti essere così…»
La
mano destra del sovrano si sollevò, e si abbassò
scagliando una sfera di magma. Il demone non riuscì a
schivarla, e ne fu
colpito in pieno.
Yao
si avvicinò a quel contenitore bruciacchiato: il potere
del diavolo aveva evitato la morte, ma non aveva potuto arginare del
tutto i
danni. Il piede del Figlio del Cielo si abbatté con forza
sul suo sterno,
bloccandolo al suolo.
I
capelli scompigliati dal vento si agitavano in ciocche
scomposte ai lati del suo viso marmoreo, e i movimenti fluttuanti della
veste
scarlatta ricordavano le ali della fenice. Arthur e Gilbert furono
quasi
atterriti da quella visione: il Figlio del Cielo non si era mai
scomposto, non
aveva mai perso la sua seraficità. La freddezza guerresca
che lo pervadeva lo
aveva trasfigurato, facendolo assomigliare pericolosamente al demone
inchiodato
al suolo.
«Ciò
che davvero è da temere è l’ira
dell’uomo calmo…»
Arthur citò un vecchio detto popolare, incapace di
articolare qualcosa di più
complesso.
«Non
eri così forte!» si ribellò il demone,
sibilando come
un nido di vipere.
Yao
si chinò su di lui, e premette più forte sul suo
sterno.
«No»
le parole echeggiarono come frustate nell’aria scossa
dal vento. «Ero forte anche allora. Ma ero spaventato: avevo
paura di far del
male al mio figlioccio, o a mio fratello. Ma grazie a te, demone, non
ho più
paura di niente» Yao chiuse i pugni, che furono
immediatamente avvolti da
ruggenti lingue di fiamme. «Mi hai strappato mio fratello. Mi
stai costringendo
a uccidere mio figlio. E, se non ti uccido, perderò la vita
e il regno. Grazie
a te, demone… non ho più nulla
da
perdere.»
Calò
un pugno sull’essere sotto di lui, ma quello lo
bloccò
afferrandogli il polso con una forza sovrumana.
«Tu
non hai nulla da perdere…» quella risata
così simile a
degli artigli sul legno di una bara gli graffiò le orecchie.
«Ma io ho tutto da
vincere!»
Yao
fece appena in tempo a liberare il polso e scattare
all’indietro prima che il demone vibrasse un colpo di katana nella sua direzione. La lama gli
stracciò la tunica sul
petto, aprendo un ghigno rosso di sangue sulla sua pelle nivea.
Il
vento riprese a ululare, costringendo i tre maghi a
erigere nuovamente le loro barriere.
«Accidenti»
imprecò Arthur. Su Faerie, dove ognuno nasceva
con poteri magici, non aveva mai combattuto; aveva guerreggiato sulle
navi al
soldo della corona Britannica, ma non aveva mai avuto rivali che
sapessero
duellare con la magia. Era abituato all’ignoranza dei
soldati, e a essere
l’unico dotato di poteri magici: non sapeva come reagire a un
nemico di tale
portata, che riusciva a immobilizzarli in posizione difensiva con un
solo
incantesimo
Gilbert,
invece, aveva lottato con moltissimi demoni, ma
pochissime volte con diavoli incantatori, e mai a quel livello.
Il
Figlio del Cielo non aveva mai combattuto, pur essendo
dotato di poteri immensi.
Nonostante
le esperienze differenti, si trovavano tutti
inesperti di fronte a quel demone micidiale.
Yao
si circondò di fiamme per proteggersi, ma la cosa non
sembrò scalfire Kiku, che avanzò inesorabile
verso di lui.
In
quel delirio, nessuno sentì la porta aprirsi.
«Come
hai detto tu, Figlio del Cielo» Heracles svettò
contro
il soffitto, bellissima e terrificante. «Adesso
basta.»
Un’esplosione
di sangue sporcò l’aria e si disperse nel
vento turbinante. Ma non fu il sangue del sovrano a essere versato.
Solo
Yao riuscì a riconoscere l’uomo parato di fronte a
lui:
l’Aquila. L’eroe di Chugoku lo aveva salvato.
Alfred
barcollò sulle gambe, fiaccato dal dolore lancinante.
La spada gli aveva lacerato il busto dalla spalla al fianco, e una
cascata di
sangue colava dall’orrendo squarcio. Cercò
febbricitante di premervi le mani
sopra, ma ottenne solo due guanti di un vermiglio brillante.
Aprì
la bocca per parlare, e un fiotto di sangue quasi lo
soffocò.
Matt
aveva provato le stesse cose, quando era morto? Quel
dolore che risucchiava il respiro dai polmoni, quel freddo che
avvolgeva il
cuore, quel terrore opprimente…
Tossì
bolle di sangue, mentre biascicava:
«Non
so chi tu sia… ma non sei Kiku.»
«Complimenti»
lo schernì crudelmente il demone. «Ti sei
fatto ammazzare per questa illuminante constatazione?»
Alfred
emise un suono strozzato, a metà tra il singulto e il
conato, e un fiore cremisi gli scoppiò sulle labbra al
successivo colpo di
tosse.
«Kiku
morirebbe… se risvegliandosi scoprisse… di aver
ucciso
il sovrano» si avvicinò di un passo barcollante.
Doveva far sistemare gli
occhiali, il mondo era così sfuocato e
tremolante… o forse erano i suoi occhi.
Aveva sentito dire che la morte si prendeva un senso per volta, prima
di
togliere la vita.
Dunque
era vero. Stava morendo.
Il
demone lo fissò disgustato, mentre l’uomo
sanguinante gli
appoggiava una mano sulla spalla.
«Che
diavolo stai facendo?» domandò, schifato. Come si
permetteva quella nullità senza il minimo potere magico,
quell’essere così mediocre,
di intromettersi tra lui e le
sue prede?
Alfred
scoprì i denti arrossati di sangue in un sorriso
morente.
«L’unica
cosa che so fare» rispose.
«L’eroe.»
I
presenti trasalirono allo schiocco secco dello sparo.
Il
demone fissò l’uomo di fronte a sé,
inebetito dalla
sorpresa, prima di abbassare lo sguardo sul suo petto. Lenta e
irrefrenabile,
una macchia scura si allargava sulla sua divisa immacolata.
«Sembri
un grande mago, ma il tuo corpo è umano»
raspò
Alfred. «A volte, la soluzione più semplice
è… la più efficace.»
Sarebbe
morto. Ma sarebbe morto da eroe.
Le
labbra di Kiku si spalancarono in un grido agghiacciante,
lo stesso delle anime che vengono gettate nell’Inferno per
l’eternità. Si
graffiò il collo, ululando selvaggiamente, e cadde sulle
ginocchia.
Il
vento cessò all’improvviso, e Gilbert emise un
grido di
gioia: la schiena del Samurai stava sussultando in un modo che
conosceva bene.
Era il primo avviso di un demone che lascia il corpo ospitante. Quel
maledetto
diavolo non era più così forte, una volta
incrinato il suo legame con quel
mondo.
«Dove
credi di andare?» ghignò trionfante, puntando
l’archibugio. Sparò non appena la prima cresta
oscura spuntò dalla schiena
incurvata del Samurai. Il corpo di Kiku si inarcò
bruscamente, e si gettò a
terra subito dopo, scosso da spasmi irrefrenabili.
«Avanti,
esci, schifezza!» lo spronò barbaramente Gilbert.
«Non
eri ansioso di farci vedere il tuo potere?»
Di
nuovo, l’aiuto venne da un lato insperato. Kiku, il vero
Kiku, portò su di loro gli occhi velati da lacrime di
dolore, una mano premuta
al petto trafitto. Da vero guerriero, non elemosinò per la
sua vita; li fissò
sconcertato e domandò:
«Che
cos’è… c’è
qualcosa che… si agita sotto la mia
pelle…»
«È
un demone» Gilbert caricò il secondo colpo
dell’archibugio: non c’era tempo per le spiegazioni
complicate. «Ti sta usando
per rimanere aggrappato a questo mondo.»
Kiku
batté le palpebre sugli occhi lucidi. Non capiva cosa
stava succedendo: ricordava solo di essersi infilato la divisa, e poi
nulla
fino al momento in cui si era ritrovato a terra con un foro di
pallottola nel
petto. Quando era successo? Quando gli avevano sparato? Chi era stato?
Perché?
E
Yao, con la tunica sbrindellata sul petto e i capelli più
corti che lo fissava. Quando era guarito? Perché lo guardava
come se stesse
vedendo un fantasma?
E
Alfred, accasciato in una pozza di sangue accanto a lui,
che lo accarezzava con i suoi occhi cerulei.
«Bentornato,
Kiku» le labbra tremarono per lo sforzo di
incurvarsi in un sorriso stremato.
«Sono
stato io?» il Samurai articolò la domanda in uno
stridio: il demone aveva ricominciato a sgroppare dentro di lui. Non
ricordava
nulla di quanto fosse successo; e la dimenticanza era il primo segnale
di
colpevolezza, nel suo credo di ferro. «A fare tutto
questo…?»
«Non
tu. Il demone» la voce di Yao tremava. Non l’aveva
mai
sentita tremare prima di allora…
Il
demone. Quella bestia che si agitava sotto la sua pelle.
Da quanto era lì? Perché non se ne era mai
accorto? Quali altri orrori aveva
compiuto, servendosi del suo corpo?
Non
aveva una risposta a quelle domande, e il dolore sordo
che dal petto stava avviluppando tutto il suo corpo non gli permetteva
di
ragionare con chiarezza.
Un’unica
verità si fece strada nella sua mente confusa:
l’uomo con gli occhi rossi aveva detto che lui era
l’ancora di quel demone. Se
lui non ci fosse stato…
Aveva
un pugnale, stretto in una fondina sulla tibia. Lo
estrasse velocemente e, prima che il sovrano potesse fermarlo, lo
conficcò nel
suo ventre con forza.
Delle
braccia familiari si strinsero sulle sue spalle
ricurve, e Kiku avvertì delle lacrime di sollievo scaldargli
gli occhi. Il
sovrano gli era mancato da morire.
«Cosa
stai facendo?» la voce di Yao vacillava sull’orlo
del
pianto. Di nuovo, non avrebbe saputo dire quando era stata
l’ultima volta che
lo aveva sentito così disperato.
Kiku
voltò la testa verso di lui, malfermo.
«Quello
che ho giurato di fare il giorno della mia nomina a
Samurai» il guerriero contorse il viso in una smorfia,
lottando per il fiato:
non era facile parlare con una lama conficcata nella pancia.
«Difendo Chugoku e
il suo sovrano.»
Le
lacrime del Figlio del Cielo gli bagnarono il collo, e le
sue braccia gli abbracciarono il capo con più forza mentre
faceva passare la
lama in orizzontale e poi in verticale sul suo busto, secondo il
rituale dell’harakiri.
Alfred stava morendo da eroe;
lui sarebbe morto da Samurai.
Il
demone non riuscì a rimanere oltre in quel corpo a pezzi:
ne uscì bruscamente con un gemito innaturale, e Gilbert ne
approfittò
immediatamente.
Il
secondo colpo di archibugio abbatté il diavolo al suolo,
e l’Hellsing estrasse la scimitarra avvicinandosi a lui.
Osservò
ciò che rimaneva dell’essere che li aveva bloccati
poco prima: una poltiglia senza forma, di un nauseabondo colore scuro,
che si
contorceva sul pavimento.
«Tu»
la spada indugiò su quella fanghiglia animata. Gilbert
chiuse gli occhi un istante, e il volto che più aveva amato
comparve dietro le
palpebre. La storia dei demoni stava per finire: Matthew poteva
riposare in
pace. «Tu sei l’ultimo.»
Vibrò
il colpo finale senza alcuna pietà: la massa pulsante
emise un suono stridulo e inarticolato prima di dissolversi sotto la
sua lama
in un puzzo di carne bruciata.
Gilbert
si voltò, ma non riuscì a inneggiare alla
vittoria.
Il
ragazzo piombato all’improvviso nella battaglia giaceva
al suolo, tremendamente immobile, e Yao reggeva tra le braccia il suo
figlioccio, ormai prossimo all’ultimo respiro.
La
porta della camera si spalancò bruscamente, e delle
guardie irruppero nella stanza. Fissarono inorridite il lago di sangue,
allucinate gli stranieri e trasecolate il loro sovrano.
«Chiamate
i medici» ordinò Yao.
«Signore…»
«Chiamate
i medici adesso.»
Erano
chiaramente desiderosi di sapere cosa fosse successo,
perché il regnante fosse uscito all’improvviso dal
coma, chi fossero quegli
stranieri, ma il tono del Figlio del Cielo non ammetteva repliche:
corsero nei
corridoi chiamando a gran voce i dottori di corte.
Arthur
si avvicinò ai feriti e offrì:
«Conosco
alcuni incanti di guarigione.»
«Prima…
lui…»
Il
Mago dell’Ovest voltò la testa verso il giovane
biondo,
che sputacchiava le sue ultime parole nel suo stesso sangue.
«Non
io… prima lui…»
Arthur
gli appoggiò una mano sulla testa, per
tranquillizzarlo nella sua agonia.
«D’accordo.
Curerò prima lui. Non agitarti.»
Impose
poi i palmi sul ventre squarciato di Kiku, e richiamò
le sue energie taumaturgiche.
Yao
si allontanò per permettere all’incantatore di
lavorare
e un gracidio flebile lo raggiunse alle spalle.
«Sei
to… torna… to… fratel…
lone…»
Morto
il demone, anche la maledizione imposta sul Portavoce
del Sole si era sciolta.
Il
Figlio del Cielo si precipitò di fronte al trono su cui
giaceva Young Soo. Nonostante le membra stremate e avvizzite
nell’inedia, la
luce negli occhi del fratello era quella che ricordava, più
brillante del Sole
di cui era il Portavoce.
Yao
afferrò una delle sue mani nodose dal colore delle
cortecce, e se la portò alle labbra.
«Sono
qui. Perdonami se ci ho messo tanto.»
Young
Soo mosse impercettibilmente il capo in un cenno di
diniego.
«Non
importa. Lui mi aveva detto… che saresti
tornato…»
«Lui?»
Il
respiro uscì in un raspare crepitante dalle labbra secche
di Young Soo.
«Il
Marauder…»
«Come
hai fatto a parlarci? Non si era incarnato dentro di
te?» obiettò Gilbert.
Il
Portavoce del Sole chiuse le palpebre. Parlare era uno
sforzo tremendo, dopo quasi un anno di immobilità.
«Io
ero solo un passaggio… aspettava che il suo vero corpo
arrivasse…»
La
fatica fu troppa per quel corpo debilitato: Young Soo
tacque, inclinandosi in avanti con il busto per cadere tra le braccia
protese
di Yao.
«Bentornato
a casa, fratellone…» esalò, prima di
perdere i
sensi.
Un
rombo di passi concitati si gonfiò nel corridoio;
Antonio, Ivan, Lovino e Roderich si precipitarono nella sala, ancora
avvolti
dall’incantesimo di camuffamento.
«Cosa
è successo? Non siamo riusciti a…»
La
gravità della situazione li imbavagliò. Il Figlio
del
Cielo singhiozzava, reggendo tra le braccia una mummia respirante. Il
Samurai
giaceva al suolo, una magia di guarigione dorata che lavorava
faticosamente
sulla lacerazione che gli apriva l’addome, rosso come tutti i
paramenti della
stanza. Il Mago dell’Ovest era chino su un giovane
sconosciuto, affondato in un
mare di sangue.
L’Hellsing
osservava la scena, immobile e cinereo.
«Abbiamo
sconfitto il demone» annunciò.
Ma
non aggiunse altro.
…
in realtà il
capitolo doveva essere molto più lungo XD
Ma
ho avuto
alcuni inconvenienti nonché problemi familiari, quindi ho
dovuto dividerlo a
metà .-. Ergo, la saga asiatica si concluderà nel
prossimo capitolo (che in
realtà era la seconda parte di questo… eh XD).
In
ritardo di
una settimana, per le motivazioni di cui sopra .-. è stato
davvero un periodo
duro .-.
Anyway,
voglio
ringraziarvi tutti per essere arrivati fino a questo punto della storia
*-* Al
termine della saga asiatica, si aprirà l’arco
narrativo finale… la storia
dovrebbe concludersi verso il capitolo trenta.
E
un grazie di
cuore a tutti voi che avete recensito lo scorso capitolo: domani
risponderò
alle vostre recensioni una per una<3 (oggi non faccio in tempo
purtroppo
.-.) Mi avete scaldato il cuore<3
Che
altro
aggiungere… una tazza di the verde a tutti voi che avete
letto/recensito/speso
una lacrimuccia per questa storia<3 Per restare in tema
“Asia” XD
Ci
vediamo tra
due settimane<3
Red
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Capitolo 21 *** Le Stelle di Chugoku ***
Capitolo
Ventuno: le Stelle di
Chugoku
Arrivavano
appena alle spalle. La chioma color mezzanotte che
tanto amava era stata recisa brutalmente.
Lo
avevano anche sfregiato in viso: un piccolo taglio rosso
correva orizzontale sulla guancia pallida.
Ivan
non degnò nemmeno di uno sguardo la mummia arenata sul
letto. La sua attenzione, come sempre, era concentrata solo su Yao.
Il
sovrano era rimasto tutta la notte al capezzale del
fratello, mentre il Mago dell’Ovest cercava di restituire
coscienza al Samurai
e vita all’Aquila. Doveva essere crollato da poco: le ombre
scure sotto i suoi
occhi indicavano chiaramente la mancanza di sonno.
Ivan
tolse il guanto, prima di far scorrere le sue dita
d’inverno tra capelli mozzati del giovane. Yao
tremò per quello spiffero
gelido, ma non si svegliò: mosse le labbra e le spalle,
prima di tornare
immobile.
Ivan
torse la bocca, seccato, quando il suo sguardo scese
sulla tunica del sovrano. Lo scontro l’aveva ridotta a una
misera ragnatela di
seta aggrappata agli arti sottili del giovane. Per i suoi occhi gelosi,
Yao era
praticamente nudo.
Sbottonò
il cappotto, e lo drappeggiò sull’amante, avendo
cura di coprirlo il più possibile. Nessuno doveva vedere il
suo torso sottile,
o la sua vita stretta.
Le
mani di Ivan si fermarono sulle spalle del giovane,
pensierose. Aveva ancora senso proteggerlo? Yao non era più
il ragazzo asiatico
perso nella sua Fortezza; era il Figlio del Cielo, signore del Palazzo.
Un
imperatore non poteva separarsi dal trono. Non per un
castello fluttuante pieno di gelo e spettri, perlomeno. E nemmeno per
il suo
glaciale possessore.
Yao
non era più suo.
«Il
fratellone ti ama.»
La
voce della mummia scricchiolò nell’aria immobile
della
stanza.
Il
piccolo asiatico sorrise quando gli occhi duri del
Custode si sollevarono su di lui.
«Non
si è svegliato quando sei entrato. Non si è
svegliato
quando l’hai toccato o quando l’hai coperto.
Significa che è abituato alla tua
presenza e al tuo tocco. E se ti ha permesso di toccarlo, significa che
ti ama.»
Il
petto del piccoletto cigolò, sollevandosi in un pesante
sospiro. Era il discorso più lungo che avesse tenuto
nell’ultimo anno. Un tempo
sarebbe occorsa una colata di cemento per farlo tacere.
Ivan
indugiò di nuovo con lo sguardo su Yao. Innumerevoli
altre persone lo avrebbero visto – sudditi, soldati, un
giorno la sua futura
moglie. Ma nessuno avrebbe amato come lui l’ombra che le
ciglia stendevano
sugli zigomi candidi, il neo quasi invisibile all’angolo
sinistro delle labbra,
o la scintilla che si accendeva nelle iridi scure del sovrano quando
sorrideva.
Nessuno avrebbe avuto lui soltanto come ricordo.
«Potrei
essere un rapitore. Non sai che esistono i
criminali, in questa Galassia?» replicò freddo
Ivan.
«Non
sai che il fratellone è uno degli incantatori più
potenti di questa Galassia? Ti avrebbe incenerito, se gli avessi fatto
qualcosa
contro la sua volontà» gracidò
l’altro.
La
mummia sprofondò nei cuscini, esalando un altro dei suoi
sospiri scricchiolanti.
«Non
sopravvivrò fino all’alba»
sentenziò Young Soo, con una
calma serafica nella voce. Aveva avuto un anno di immobilità
per accettare
l’idea che sarebbe morto una volta liberato dalla
maledizione. «Ed è un
peccato. Avrei voluto accompagnare il fratellone fino
all’ultimo atto…» una
risata crepitò sulle sue labbra secche. «Invece, a
quanto pare, sarà il
fratellone ad accompagnarmi verso la fine…»
Young
Soo chiuse gli occhi, e inalò a fondo. I polmoni
stridettero mentre l’ossigeno li riempiva. C’era
stato davvero un tempo in cui
respirare non gli aveva fatto male?
«Nemmeno
Kiku… riuscirà a vedere la fine di questa
guerra»
profetizzò. «Ti prenderai tu cura del fratellone,
quando noi non ci saremo più?»
Ivan
ripensò alla riunione della sera prima. Avevano parlato
di distruggere la Confederazione, e scappare in una nuova dimensione.
«Quando
questa guerra sarà finita, questo universo finirà
con lei» sillabò tetro.
«Quale
occasione migliore per ricominciare da zero? Niente
più Figlio del Cielo né Custode dei
Cancelli» le labbra del giovane si
stropicciarono in un tentativo di sorriso. «E non devi
preoccuparti del Cuore
d’Inverno. Non distruggerà i ricordi del
fratellone. Il fratellone ti darà ogni
giorno un nuovo motivo per ricordarti di lui.»
Le
sopracciglia argentee di Ivan si aggrottarono in
un’espressione infastidita. Come faceva quel nanerottolo a
sapere tante cose su
di lui?
Il
ragno sul suo petto rispose al suo posto: era un mago, e
ai maghi piacevano un mondo quei trucchetti da tre soldi che chiamavano
“telepatia”.
«Smettila
di intrufolarti nelle menti altrui» lo avvertì.
«Non
mi sto intrufolando. Sto solo deducendo» la mano
scavata si appoggiò sul petto mingherlino. «Basta
guardarvi per capire molto
più di quanto qualunque incantesimo potrebbe mai
rivelare.»
Ivan
scrollò le spalle, e si diresse verso la porta. Con o
senza incantesimi, detestava le persone che gli leggevano il cuore.
«Promettimi…»
un accesso di tosse secca soffocò il Portavoce
del Sole, prima che questo riuscisse a parlare di nuovo.
«Promettimi che non
permetterai che accada nulla di male al fratellone.»
Era
la promessa cui aveva votato la sua vita. Aveva bisogno
di qualcuno che la mantenesse al posto suo, una volta che i suoi
polmoni si
fossero stancati di respirare.
La
sciarpa frusciò sulla camicia dell’uomo quando
questo si
voltò.
«Sono
il Custode. Non sai cosa fanno i custodi?»
«Custodiscono,
se non ricordo male» rise crepitando il
piccoletto. «Però non ti sto chiedendo di
custodire. Ti sto chiedendo di
proteggerlo.»
Il
sorriso debole del giovane si allargò impercettibilmente,
notando il cappotto sulle spalle di Yao.
«Ma
vedo che lo stai già facendo. È il tuo modo di
schermarlo agli occhi altrui, vero?»
Ivan
uscì dalla camera. Maghi. Ecco perché non li
sopportava. Né loro né il loro vizio di predicare
senza sosta.
Quasi
si scontrò con il Samurai, che stava invece cercando
di entrare nella stanza.
Il
guerriero gli cedette il passo: non era di certo nelle
condizioni per discutere con una montagna d’uomo alta tre
volte più di lui.
Scivolò
nella stanza e chiuse la porta alle sue spalle. Un
crepitio lo accolse.
«La
mia vista è peggiorata ulteriormente o hai dei bendaggi
sul petto?»
«Sei
abbastanza furbo da conoscere la risposta da solo,
Young Soo.»
«Non
tutte le risposte. So che sei stato fasciato, ma non so
cosa nascondono quelle bende.»
Kiku
pensò a come dovevano rifletterlo le iridi stanche del
fratello. Indossava ancora i pantaloni della divisa da Samurai, sebbene
macchiati di sangue. Le fasce che coprivano lo squarcio e il foro di
proiettile
sul suo busto avevano sostituito l’elegante giacca bianca,
che il giovane aveva
appoggiato sulle spalle per proteggersi dagli spifferi.
Quasi
rise per l’ironia di quel pensiero. Aveva due ferite
mortali sul petto, e si era preoccupato dei colpi di vento. Era un
riflesso
condizionato che non poteva evitare: aveva perso il conto delle volte
in cui
Yao si era chinato su di lui per coprirlo con una sciarpa o un
mantello, rimproverandolo
di non prendersi cura della propria salute.
Kiku
si avvicinò al letto, e restò in piedi, marziale,
di
fianco al sovrano addormentato.
«Incredibile»
gracchiò Young Soo. «Di tutto il tuo
vestiario, Kiku, le bende sono l’unica parte immacolata. Non
dovrebbe essere il
contrario?»
«Vedo
che la tua mente è sempre affilata come un rasoio»
notò pacato il Samurai. I pantaloni erano schizzati di
sangue, così come la
giacca. Le fasce, al contrario, erano linde e immacolate come se
fossero appena
uscite dalla valigia del medico. Quel candore significava solo una
cosa: magia.
Le garze non servivano a trattenere una ferita, ma solo a nascondere le
rune
che il Mago dell’Ovest aveva tracciato sul suo petto e sui
suoi addominali, per
dare una parvenza di normalità in quel Palazzo sprofondato
nella follia: era
stato ferito, era logico che fosse bendato.
Gli
occhi di Young Soo luccicarono nella penombra della
stanza.
«Il
fratellone non si sveglierà: era esausto, e
impiegherà
ancora almeno venti minuti per svegliarsi.»
«Come
fai a saperlo?»
«Sono
un mago, ricordi?»
Kiku
chinò il capo, comprensivo. Young Soo aveva
quell’intonazione così calorosa, come se il mondo
fosse un gigantesco parco
divertimenti a sua disposizione. Perfino in quel momento, bloccato a
letto con le
membra fossilizzate e la morte nelle vene, riusciva a instillare nelle
sue
parole l’eco di una risata perpetua.
Il
mondo non sarebbe più stato un gioco divertente, senza
Young Soo.
«So
che non vuoi che il fratellone senta cosa ti ha detto il
Britanno, perciò parla adesso che non può
sentirti.»
L’unico
suono nella stanza fu la custodia della katana
che sfregava contro i pantaloni
del Samurai, mentre questo circumnavigava il letto per portarsi sul
lato
opposto al sovrano.
Infine,
parlò.
«Uno
sparo in pieno petto. L’harakiri.
Sono troppe cose da sopportare, per un mortale.»
«Ma
sei vivo…»
«Momentaneamente»
Kiku portò una mano al petto. Prima che il
Mago dell’Ovest potesse fasciarlo, aveva visto la carne rossa
e viva dal bordo
frastagliato delle ferite, era perfino riuscito a intravedere il cuore
pulsare
e il colore bollente delle interiora. L’unica cosa che il
Britanno aveva potuto
fare, per lui, era stata bloccare il tempo su quei lembi di pelle.
«Ero
troppo oltre, Young Soo. Ero praticamente morto. Il Mago
dell’Ovest non è riuscito a guarirmi. Nessun mago
può interferire con la morte,
quando è troppo vicina.»
Il
Portavoce del Sole annuì. Lo sapeva. Era per quel preciso
motivo che lui non poteva salvarsi: nemmeno la magia più
potente poteva bloccare
la nera signora, quando questa aveva già sollevato la falce.
Forse
solo l’Asse sarebbe riuscito in un’impresa simile.
Ma
era a mille preghiere di distanza – troppe per aiutarli in
tempo.
«Ha
cristallizzato le ferite» proseguì Kiku.
«In modo che
rimangano bloccate e non possano degenerare.»
«Per
quanto?» gracchiò Young Soo. Da mago qual era,
sapeva
bene che tutti gli incantesimi che interferivano con il tempo avevano
una
caratteristica comune: essere limitati nel tempo.
Il
Samurai strinse i bordi della giacca appoggiata sulle sue
spalle, coprendo i bendaggi.
«Se
starò a riposo, un mese, forse due. Se andrò in
battaglia…»
«Se
andrai in battaglia, verrai presto a farmi compagnia»
terminò per lui Young Soo.
I
suoi fratelli erano un imperatore e un guerriero, ma lui
era sempre stato quello più coraggioso nelle parole. Non
aveva mai paura di
afferrare quelle frasi che la gente lasciava sospese
nell’aria, troppo grandi
per essere racchiuse in un discorso. Young Soo aveva il dono di
riuscire a
catturarle e trasformarle in qualcosa di tremendamente vero e
terribilmente
affettuoso al contempo. C’era sempre un messaggio dietro alle
sue parole e al
suo sorriso infaticabile: “arriverà il peggio, ma
lo affronteremo insieme”.
Young Soo aveva sempre la premura di ricordare agli altri che non erano
soli.
«Quindi
che farai, Kiku?»
«Sono
un guerriero» fu la risposta schietta del Samurai.
«Ma
non combatterai solo perché sei un soldato»
Youg
Soo reclinò il capo sul cuscino, attendendo che il
fratello selezionasse le parole più adatte al suo discorso.
«Un
uomo coraggioso un giorno mi disse che un vero eroe non
deve mai tradire il proprio cuore. Penso che un vero guerriero debba
fare
altrettanto. Per questo difenderò mio padre fino alla
fine.»
Young
Soo sentì il suo viso rinsecchito sgretolarsi nel
sorriso più aperto che avesse fatto da quando era stato
liberato.
«Hai
scelto un uomo poco saggio, come guida» rise, pensando
all’assurdo eroe di Chugoku, l’Aquila.
«Una
saggezza che nasce dal coraggio e fa nascere la
speranza credo sia una saggezza che merita attenzione»
replicò sereno il
Samurai.
Young
Soo rilasciò uno dei suoi respiri crepitanti, e una
domanda scivolò sulle sue labbra screpolate:
«Come
sta l’Aquila?»
Il
silenzio colò come resina tra di loro. Kiku
impiegò tutta
la sua forza di volontà per districarsi da quel mutismo
viscoso.
«Le
ferite inflitte da un demone sono molto più complicate
di quelle provocate da armi mortali. Il Mago dell’Ovest sta
ancora lavorando…»
«L’Aquila
non morirà. Cambierà, ma non
morirà.»
La
fronte candida di Kiku si aggrottò, confusa.
«Come
puoi dirlo?»
«Me
l’ha detto il signore che mi ha fatto compagnia
nell’ultimo periodo» Young Soo lottò con
le parole che faticavano a risalirgli
la gola. «È un signore molto particolare. Ma non
mente mai, e ha una conoscenza
infinita su queste cose. Il passaggio tra la morte e la vita, sai.
L’Aquila non
morirà. Ma cambierà un po’ il
piumaggio.»
Kiku
preferì non indagare oltre. Avrebbe accettato il
destino di Alfred quando fosse giunta l’ora. Per il momento,
doveva capire in
che modo dire addio al fratello morente.
Fu
proprio Young Soo a dargli l’idea.
«Mi
dispiace che il cielo di Chugoku sia ancora nero… avrei
tanto voluto accendere le stelle insieme a voi…»
«Young
Soo, sarò di ritorno tra pochi minuti. Perdonami»
scattò, avviandosi veloce verso la porta.
Il
Portavoce del Sole si limitò a sorridere, mentre il
fratello usciva dalla stanza.
Kiku
era sempre stato così: poche parole, molte azioni.
Esattamente come ogni soldato doveva essere.
Era
convinto che fosse riuscito a diventare un Samurai
perché era un guerriero non solo sul campo di battaglia: lo
era in ogni momento
della sua vita, con le sue frasi impersonali e i suoi atteggiamenti
marziali.
Era l’incarnazione della via della spada.
«Per
questo posso affidarti il fratellone senza
problemi…»
una risata gli arricciò le labbra, mentre osservava il
pesante cappotto sulle
spalle del sovrano.
«A
te e al lupo siberiano» concluse, in un ansito tremante.
***
Dare
ordini, assicurarsi che venissero eseguiti, darne
altri, correre, scattare.
In
quel modo, Kiku riuscì a non soccombere al senso di
colpa, quando abbandonò la stanza.
Il
demone aveva ucciso Heracles per avvicinarsi a lui, aveva
detronizzato Yao e pietrificato Young Soo per mano sua, e aveva quasi
ucciso
l’Aquila.
Il
pensiero di Alfred lo raggelò per un istante.
“Quasi”
ucciso. L’Aquila poteva essere già morta: quando
aveva abbandonato la stanza in
cui erano stati ricoverati insieme, il Mago dell’Ovest stava
ancora lavorando
su di lui. E le condizioni dell’eroe non erano delle migliori.
Dare
ordini. Correre. Scattare.
Doveva
assicurarsi che tutto fosse pronto prima del calar
del sole: non avrebbero avuto una seconda occasione, così
come Young Soo non
avrebbe avuto un’altra notte da vivere.
Doveva
fare ammenda per tutto il male che aveva causato,
anche se era stato solo il canale di quella malvagità. Il
suo modo per
riscattare il suo onore sarebbe stato proteggere il Figlio del Cielo
fino
all’ultimo, e morire per lui. Morire per Chugoku e per la
Confederazione.
Le
bende sul suo petto sembrarono strangolarlo. In un certo
senso, lo aveva già fatto: era un morto cui era stato
permesso di soggiornare
nel mondo dei vivi ancora per un breve periodo.
«Quanta
frenesia. A cosa dobbiamo questi preparativi?»
Il
tempo perse improvvisamente di significato: i secondi si
allungarono collosi, rendendo tutto lo spazio circostante indistinto e
sfuocato.
Riconosceva
quella voce. Ma non pensava che l’avrebbe
sentita di nuovo, non credeva…
Il
Samurai si voltò solo quando fu sicuro di aver recuperato
il suo contegno.
L’Aquila
lo fissava, appoggiato alla parete con le braccia
incrociate sul petto, un sorriso che indugiava sulle labbra.
Alfred
armeggiò qualche secondo con gli occhiali,
stranamente silenzioso. Trasse un respiro, e un secondo, e un terzo.
Poi,
finalmente, esordì:
«Non
sarò qui a lungo. Mi è stato concesso solo
qualche
momento per… salutare.»
Lo
squarcio dell’harakiri
sembrò riaprirsi, ma il dolore non riuscì a
distorcere la compostezza
adamantina del guerriero.
«Il
Mago dell’Ovest ha applicato anche su di te un
incantesimo temporale?»
«No.
Il mio caso era molto più complicato del tuo. Gli
artigli di un demone lacerano più a fondo di una spada
umana. O di una pistola.»
Le
dita di Alfred tambureggiarono sui gomiti conserti,
inquiete. Di nuovo, un silenzio quasi innaturale prese possesso di
quella bocca
sfrontata. Di nuovo, Alfred parlò con lentezza e
rassegnazione:
«Vedere
la fine di questa battaglia, Kiku… non è il mio
destino. Ma, in un certo senso, ci sarò
ugualmente.»
Le
sopracciglia nere dell’orientale si aggrottarono
perplesse, e si sollevarono nella comprensione. Young Soo aveva parlato
di un
uomo che gli aveva fatto compagnia, e di essere stato un contenitore
momentaneo…
«Il
mio tempo è scaduto» sentenziò Alfred,
stropicciandosi
la faccia con un sorriso sforzato. «Ma
c’è un uomo che ha bisogno di un corpo
vuoto per accompagnare i suoi amici fino alla fine di questa
guerra.»
«Quindi
ci sarà solo il tuo corpo» dedusse ferreo Kiku.
Alfred
si grattò la nuca, il sorriso che si ritorceva
inquieto sulla sua bocca.
«Non
è così semplice. Pare che una parte della nostra
essenza rimanga ancorata alla pelle, o una cosa del genere. In fondo,
è logico
che qualcosa di noi rimanga, in un corpo che abbiamo usato per tanti
anni…»
l’Aquila scrollò le spalle. «Dovrai
chiedere a quell’altro
una spiegazione più dettagliata.»
Kiku
deglutì in silenzio, osservando la giacca attentamente
abbottonata del giovane. Sicuramente anche lui era stato bendato,
laddove gli
artigli del demone gli avevano squarciato la cassa toracica. Ma aveva
avuto la
premura di abbottonare la giacca fino al collo, pur di non lasciar
intravedere
nemmeno un pezzettino dei bendaggi. Kiku si sarebbe sentito
terribilmente in
colpa, se avesse visto di nuovo cosa il demone era stato in grado di
fare.
Il
Samurai fissò intensamente l’uomo di fronte a lui.
Gli
era stato vicino per anni, nonostante lui non gli avesse mai riservato
particolare gentilezza. Aveva dimostrato una fedeltà e una
devozione che aveva
visto solo in pochi soldati. E non gli aveva permesso di andare in
pezzi,
quando suo fratello e suo padre erano caduti nell’inganno del
demone.
Meritava
una ricompensa, in qualche modo. E Kiku decise che
una briciola di sincerità sarebbe stata il dono migliore.
«Voglio
essere onesto con te, Alfred. Te lo devo visto che…
siamo entrambi in partenza» concluse a stento.
Incamerò un profondo respiro nel
petto malandato e confessò: «Hai sempre fatto un
grosso sforzo per
assomigliarmi: hai cercato di reprimere il tuo carattere euforico,
quando eri
con me. Quando eri con i tuoi uomini, invece…
brillavi.»
Alfred
sfolgorava con i suoi uomini, e spegneva a forza il
suo fuoco per stare con lui. Come una gemma che si copre di polvere per
essere
degna di un sasso.
«Ho
sempre preferito il tuo lato irrequieto a quello
addomesticato.»
Una
risata si spezzettò sulle labbra del soldato straniero,
mentre spingeva gli occhiali sul naso.
«Avresti
dovuto dirmelo prima, Kiku, ti avrei fatto vedere
quanto posso essere scellerato…»
«È
vero. Avrei dovuto essere sincero molto prima.»
Le
parole del Samurai non si flessero sotto il peso delle
emozioni: quella frase, che avrebbe potuto essere lorda di rimpianto,
scattò
fuori dalle sue labbra rigida come un comando militare.
Era
il solo modo che Kiku conosceva per difendersi. Avrebbe
sofferto troppo se avesse cominciato a contare tutte le occasioni
sprecate e i
minuti perduti. Lo aveva già fatto per Heracles, e non
voleva passarci
attraverso di nuovo.
Le
braccia dell’Aquila lo circondarono prima che se ne
rendesse conto, e lo strinsero con un affetto irruento.
«Spero
di incontrarti anche nella prossima vita.»
La
voce dell’Aquila traballò, e Kiku
accarezzò
distrattamente le sue spalle contratte. Alfred stava lottando con tutte
le sue
forze contro le lacrime. Piangere significava ammettere che qualcosa
stava
andando per il verso storto, e non era così: non era un
addio, era solo un
arrivederci, si sarebbero sicuramente visti in qualche mondo, in qualche modo. Lui era un eroe, poteva
fare questo e altro.
«Spero
che tu possa incontrare qualcuno che sappia amare»
replicò sterile Kiku.
L’Aquila
era una persona di cuore: meritava qualcuno che lo
amasse con la passione che lui metteva in ogni respiro. Meritava
più di un
compagno occasionale, che gli apriva il corpo e non il cuore.
Alfred
si scostò per prendergli il viso tra le mani e
fissarlo in volto. Ora poteva vedere le lacrime scintillare dentro
quegli occhi
azzurri, come Alfred poteva leggere la tristezza incarcerata nei suoi.
«Tu
sei l’unico a non rendersi conto di quanto profondamente
tu riesca ad amare» il sorriso di Alfred brillò a
discapito delle lacrime
intrappolate negli occhi. «Hai liberato Heracles e tutti i
tuoi compagni
all’orfanotrofio, hai dato la vita per tuo padre e per tuo
fratello, e mi hai
dato fiducia quando per tutti ero uno straniero e basta. Hai
un’anima grande
come il cielo.»
L’Aquila
lo abbracciò di nuovo, e accostò le labbra al suo
orecchio per bisbigliare:
«E
anche se tu non sapessi amare, non importa. Ti aspetterò
nella prossima vita. O in quella dopo. Ti troverò, e ti
insegnerò.»
«Perché?»
proruppe con garbo Kiku, scostandosi da lui.
«L’universo
è pieno di persone.»
«Esatto.
L’universo è pieno di persone. Proprio per questo,
quando ne troviamo una diversa da tutte le altre, non credi che valga
la pena fare
qualche sacrificio per rimanerle accanto?»
Sacrificio.
La gente pensava che l’amore vero fosse qualcosa
di semplice, pieno di felicità. Un’immagine
più sbagliata non esisteva: l’amore
era una lotta continua, con pochissimi attimi di tregua. Aveva lottato
per
liberare Heracles, aveva combattuto per suo fratello e suo padre, e
aveva
ingaggiato una guerra personale con se stesso per il sentimento
conflittuale
che nutriva per l’Aquila. Allo stesso modo, il soldato di
Britannia aveva
guerreggiato ogni giorno per ottenere il suo affetto.
L’amore
vero non era diverso dalla via della spada: entrambi
richiedevano dedizione e impegno, e ricompensavano solo dopo immensi
sacrifici.
Kiku
strinse i pugni sui gomiti di Alfred, spiegazzandogli
quella buffa giacca che si ostinava a indossare. L’Aquila gli
indirizzò un
sorriso malinconico.
«È
quasi ora…»
Una
cosa del genere esulava dal suo carattere, ma non ci
sarebbero state altre occasioni.
Kiku
si alzò sulle punte dei piedi, e unì le labbra a
quelle
dell’Aquila. Non aveva mai preso l’iniziativa,
prima di allora.
I
piedi persero aderenza con il terreno quando Alfred lo
sollevò da terra in un abbraccio caloroso, approfondendo il
bacio con foga.
Kiku
si aggrappò alle sue spalle, e sentì le guance
imporporarsi di imbarazzo. Quel bacio era osceno:
si stavano divorando le labbra, e suoni acquosi sfuggivano dalle loro
bocche in
movimento. Ed erano in un corridoio, chiunque avrebbe potuto inciampare
nella
loro frenesia. Ma era l’ultimo bacio: avrebbe fatto
un’eccezione.
Riaprì
gli occhi solo quando i suoi piedi toccarono di nuovo
il pavimento, e le labbra di Alfred lasciarono lentamente le sue.
Kiku
sprofondò il viso nella camicia dell’Aquila,
premendo
sulla stoffa la bocca ancora calda. Su quell’indumento
bisbigliò per la prima volta
il nome del soldato:
«Alfred…»
«Se
ne è andato.»
Il
Samurai si staccò bruscamente, quasi volesse impugnare la
katana e puntarla contro
l’Aquila.
Ciò
che vide lo pugnalò al cuore. Erano i capelli di Alfred,
i suoi occhi, il suo corpo, i suoi vestiti. Ma non c’era
più Alfred dentro:
l’anima che abitava quelle spoglie umane era cambiata. Lo
poteva vedere nella
postura, nel modo di parlare, ma, soprattutto, nello sguardo.
Non
erano più delle iridi innamorate a fissarlo; erano
quelle piatte di uno sconosciuto.
L’uomo
gli sorrise, e cercò di rincuorarlo.
«Ma
ti ha sentito. Ti ha sentito sempre, Samurai.»
Kiku
allentò la presa sull’elsa della spada,
rilasciando la
mano lungo il fianco.
«Vorrei
che fosse Alfred a dirmelo» rispose, atono.
Lo
sconosciuto gli sorrise di nuovo, come se gli importasse
davvero di rasserenarlo.
«Lui
c’è. Ho accompagnato mille e mille anime, Samurai,
e
posso garantirtelo: l’aldilà non è
lontano a sufficienza per separare due
persone che si amano.»
«È
sufficiente per allontanarle.»
«Solo
se le dimentichiamo.»
Poteva
leggere una saggezza centenaria nelle parole di
quell’uomo, ma non era ciò che voleva sentire in
quel momento. A essere
sincero, non voleva sentire nulla.
«Ho
del lavoro da fare» recise.
Si
allontanò svelto, e l’uomo non lo
seguì. Alfred lo
avrebbe rincorso in capo al mondo.
Dare
ordini, correre, eseguire.
E
poi, forse, avrebbe trovato un posto nascosto in cui poter
finalmente piangere.
***
Yao
e Young Soo erano seduti sul legno della veranda,
bagnato dai raggi scarlatti del tramonto.
Il
Portavoce del Sole era accasciato sul grembo del sovrano,
che lo teneva saldamente contro di sé.
Yao
aveva dato ordine a tutti i consiglieri e ai soldati di
stare fuori da quella stanza. Erano i suoi ultimi istanti con il
fratello, e
non desiderava intrusi.
Young
Soo gli strattonò scherzosamente il cappotto.
«Questo
di chi è, Yao? Non l’ho mai visto
prima…» insinuò,
con una risata gracchiante.
Il
viso del Figlio del Cielo si addolcì, e il Portavoce del
Sole riuscì a prevedere la sua risposta prima ancora che la
pronunciasse.
«È
il ghiaccio che accende il mio fuoco.»
Lo
sterno di fiamme del fratello bruciò teneramente, quando
Young Soo vi premette la guancia sopra.
«Ti
ama molto, fratellone.»
«Lo
so.»
«Non
lasciarlo andare, fratellone. Nemmeno se tutti i
consiglieri si opponessero.»
«Non
lo farò.»
«Ti
voglio bene, fratellone.»
Yao
rimase zitto e fermo qualche istante, stupito da quel
cambio improvviso di discorso. Accarezzò i capelli del
fratello, e sentì le lacrime
bruciargli dietro gli occhi. Il suo cameriere goffo, il suo mago
giocherellone…
«Ti
voglio bene anche io» mormorò in un sussurro
tremulo.
«Sai
che questa cosa non cambierà, vero?» Young Soo
reclinò
il capo all’indietro per fissare il fratello in volto.
«Anche quando ti
sembrerà che non ci sarò più, in
realtà ci sarò. Sarò sempre con te,
qualunque
cosa accada. Anche se non potrai vedermi.»
«E
come farò a sapere che ci sei davvero?»
«Un
mago non rivela mai i suoi trucchi, fratellone, dovresti
saperlo. Dovrai fidarti sulla parola.»
Trassero
entrambi un profondo respiro, e Young Soo proseguì
in un gracidio:
«Non
preoccuparti, fratellone. L’aldilà non
è abbastanza
lontano per separare chi si ama. Me l’ha detto un
esperto.»
«Mi
mancherai, Young Soo. Per quanto vicino tu possa essere,
mi mancherai.»
Il
Portavoce del Sole accartocciò le labbra in un sorriso.
«Allora
dovrai ricordarti la formula magica che ti ho
insegnato tanto tempo fa.»
Le
dita color legno si avvicinarono al suo petto, mimando
quel gesto infantile.
«Non
fa male, non fa male… non fa più male!»
Avrebbe
fatto male. Young Soo era una di quelle persone che
lasciavano un baratro, quando se ne andavano. E avrebbe sofferto per
quella
mancanza. Ma sarebbero stati ricordi come quello a permettergli di
sorridere
anche nel pianto.
Poggiò
le labbra sulla fronte del fratello, delicato.
«Credevo
che tu fossi un mago serio…»
«Infatti.
Questa è magia raffinata, fratellone!»
Furono
entrambi distratti da una luce fluttuante: una
lanterna volava solitaria nell’aria scura del crepuscolo
inoltrato.
«Cos’è…»
Young Soo non riuscì a finire la domanda: la
sorpresa lo ammutolì.
Una
seconda lanterna aveva seguito la prima, e mille altre
avevano fatto lo stesso. Stormi di fiammelle galleggianti facevano a
gara nel
cielo, spintonandosi tra di loro durante la salita.
Una
rete di luci si stese sulla veranda e sul cielo,
danzando sui volti stupiti dell’imperatore e del Portavoce.
Si
sporsero entrambi dalla balaustra, per quanto possibile,
e videro gli artefici di quel gesto: sotto il comando di Kiku, la
Stella Polare
stava punteggiando il cielo di Chugoku con un milione di stelle
artificiali.
Il
Samurai li salutò marziale, vedendoli dalla balconata, e
Young So rispose agitando la larga manica.
Poi,
tutti e tre fissarono il cielo. Le lanterne erano
diventate un fitto intreccio di perle di luce, disposte sul velluto
nero del
cielo notturno. Pareva che le ancelle del Palazzo Immortale avessero
gettato i
loro diamanti nella notte, come raccontava una leggenda popolare.
«È
bellissimo…» mormorò Young Soo,
affascinato. «Valeva la
pena di lottare per riavere le stelle…» il
Portavoce del Sole sorrise con più
dolcezza: «Non dimenticarti mai di questa notte, Yao.
Qualunque cosa accada,
ricordati che anche l’ora più buia può
essere migliorata dalla luce di chi ti
vuole bene. Ricordatelo anche quando non ci sarò io a
ricordartelo.»
Yao
riuscì solo ad annuire e a stringere il fratello
più
forte. Young Soo tremò nel suo abbraccio.
«Devo
andare anche io, fratellone. Tra le stelle. Anzi,
ancora più lontano…»
Il
sovrano lo abbracciò di nuovo, gli occhi puntati al cielo.
La luce di quegli astri artificiali si rifletté sul velo di
lacrime che gli
imprigionava le iridi.
«Siamo
stati fortunati ad averti incontrato, Young Soo.»
Le
braccia essiccate del Portavoce del Sole si strinsero
traballanti attorno alla sua vita.
«Sono
felice, fratellone. Ti assicuro, poche persone sono
state felici quanto me.»
Quando
si scostò da lui, reggeva in una mano color corteccia
una piccola palla di fuoco.
«Il
mio ultimo incantesimo» sorrise, nostalgico. «Mi
è
rimasta l’energia sufficiente solo per
questo…»
Yao
fece appello a tutte le sue forze per non scoppiare in
lacrime. L’ultimo regalo che poteva fare al fratello era
lasciarlo partire
sereno.
Appoggiò
di nuovo le labbra alla sua fronte, e trattenne
nella gola un singhiozzo.
«Vai
tra le stelle, Young Soo. Alzerò lo sguardo al cielo,
quando sentirò la tua mancanza.»
Le
dita del Portavoce del Sole si dischiusero, e la sua
piccola sfera di fuoco galleggiò nell’aria,
andando a raggiungere le sue
simili.
«Sarò
là per te, fratellone» esalò.
«Sarò sempre là per
te…»
Le
labbra del sovrano non abbandonarono la fronte di Young
Soo, nemmeno quando questa divenne gradatamente fredda come il
ghiaccio. Yao
non si mosse finché non fu sicuro di poter sopportare di
vedere il fratello
immobile nonostante i suoi richiami.
Lo
adagiò piano sulla veranda, poggiando con delicatezza la
sua testa alla superficie lignea. Compose le mani sul suo petto, e si
fermò a
fissarlo.
Le
luci volteggianti sopra e intorno a loro gettarono una
sciarada di riflessi caldi su quel volto ghiacciato.
Young
Soo sorrideva, come se fosse davvero soddisfatto della
vita che aveva vissuto. Nemmeno la morte era riuscita a sconfiggerlo.
«Addio,
Young Soo» si accomiatò Yao, carezzandogli una
guancia. «Le stelle saranno sicuramente felici di
accoglierti…»
***
I
consiglieri si scostarono veloci dalla porta della camera.
Si
aspettavano di vederne emergere un ragazzino spezzato, ma
quello che si stagliò nel riquadro dello stipite, fiero e
dignitoso, era il
Figlio del Cielo, il legittimo sovrano di Chugoku.
Yao
raddrizzò le spalle e sollevò il mento. Il
cappotto di
Ivan lo schermò da ogni possibile debolezza mentre scandiva:
«Confido
che i miei ospiti vi abbiano spiegato cosa è
successo. Che vi abbiano detto che un demone ha cercato di
detronizzarmi. E
dell’inganno con cui vi ha fatto credere che io fossi in
coma.»
«Sì,
vostra Altezza, ci hanno spiegato…»
«Dunque
capirete che non abbiamo un secondo in più da
attendere.»
I
consiglieri lo fissarono allibiti, senza capire a cosa il
sovrano si riferisse.
Yao
utilizzò la sua autorità e quella di mille
antenati per
comandare:
«Preparate
tutte le Aeronavi possibili, e fate in modo che
possano accogliere tutta la popolazione. Lasceremo la
Confederazione.»
«Per
quale motivo?»
«I
demoni banchetteranno con i nostri cadaveri, quando
l’Asse non ci sarà più.»
«Ma
l’Asse è attualmente…»
«Stiamo
andando a liberarlo. Io e i miei ospiti.»
Il
terrore puro invase i volti dei consiglieri,
immobilizzandoli.
«Siete
chiaramente sconvolto dalla perdita subita, Altezza,
e…»
«Non
confondere i miei ordini con le mie lacrime» le parole
di Yao suonarono come una frustata nell’aria.
«Questa Confederazione è marcia.
È un miracolo che sia sopravvissuta fino ad oggi.»
«Ma
signore…»
«Non
fingete di non aver visto l’ipocrisia che serpeggia in
questa Galassia» il segno sotto cui era nato si
manifestò nei suoi occhi di
fuoco e nelle sue parole incendiarie: «Il Vaticano ha gettato
fango sul nome
degli Hellsing, prima di distruggerli. Ha cancellato i Carriedo. Ha
perseguitato i Marauder. E ci ha così privato di
sterminatori di demoni,
guerrieri e traghettatori. Credete davvero che l’abbia fatto
per la nostra
sicurezza? Oppure è stata solo una mossa per fare in modo di
rimanere l’unico
punto fermo di tutta la Confederazione?»
«Ma
contro di noi non hanno…»
«Devo
ricordarti la guerra sino-britannica?» lo incenerì
Yao, imperterrito. «Chissà, magari pensavano che
il Figlio del Cielo fosse un
rivale troppo temibile per l’Asse. O magari volevano
indebolire la flotta
britannica. E abbiamo pagato sulla nostra pelle il prezzo della
scelleratezza
vaticana: un demone è nato da quella guerra, lo stesso che
ha quasi ucciso il
Samurai, l’Aquila e che ci ha privato del Portavoce del Sole.
Il nostro regno è
quasi crollato per la loro insaziabile sete di potere. In quanto
sovrano, non
ho intenzione di chiudere gli occhi e aspettare che divorino
Chugoku.»
«E
cosa avete intenzione di fare?» si azzardò a
chiedere un
consigliere.
Il
sole nel suo petto ruggì, illuminando l’intero
corridoio.
«Lotterò.
In prima fila. E otterrò un nuovo regno per i miei
sudditi. Anche se sarà in un’altra
Galassia.»
Yao
li osservò tutti, uno per uno, in modo che vedessero che
non vi era nemmeno l’ombra di un’esitazione nei
suoi occhi.
«Potete
dirmi che siete contrari, potete opporvi. Ma non
cambierà il fatto che, da questa sera stessa, dovrete dare
disposizioni per i
preparativi delle Aeronavi, e preparare il popolo alla partenza. Non vi
sto
chiedendo la vostra opinione: vi sto ordinando
di seguirmi.»
Il
sovrano strinse i lembi del cappotto, e rilasciò un
sospiro.
«È
una situazione di emergenza, purtroppo. Non abbiamo tempo
per discutere.»
I
consiglieri si lanciarono un’occhiata, prima che uno di
loro esordisse:
«Il
vostro corpo è giovane, signore, ma parlate con
l’esperienza di mille sovrani. Una saggezza che noi non
otterremo nemmeno in
mille discussioni.»
«Come
devono essere preparate le Aereonavi?»
***
Ivan
si avvolse la sciarpa intorno al collo.
Anche
senza cappotto, era pronto a tornare alla Fortezza
Errante. Yao probabilmente era ancora incastrato a spiegare ai
consiglieri il
piano di fuga: non si sarebbe accorto della sua assenza.
Fece
per uscire dalla stanza, ma si fermò con la mano sul
legno della porta: un rumore di passi in corsa si gonfiò nel
corridoio.
Ivan
aspettò, sbuffando a denti stretti. Non voleva
incontrare nessuno, prima della sua partenza.
I
passi si fermarono davanti alla stanza, e delle mani
affrettate aprirono la porta.
Yao
irruppe nella camera, finendo addosso a Ivan.
«Sei
ancora qui!» esultò. «Temevo che fossi
già partito…»
«Stavo
partendo» confermò il gigante.
Il
suo cappotto sembrava enorme attorno al corpo minuto del
sovrano; i centimetri finali spazzavano il pavimento come uno strascico.
Notò
di nuovo tutti i particolari che aveva già visto nella
stanza in penombra, ma lo colpirono maggiormente. Forse
perché la luce li
metteva a nudo con vivida chiarezza, forse perché Yao era a
pochi centimetri da
lui. Il graffio sulla guancia, i vestiti laceri e i capelli tagliati.
Le mani
guantate di Ivan solcarono le ciocche irregolari con rimpianto.
«I
tuoi capelli…»
«Ricresceranno»
le dita di Yao si strinsero sul polso di
Ivan, fermando le sue carezze. Gli occhi di onice salirono a incontrare
quelli
di ametista, mentre il sovrano domandava: «Sarai con me
quando ricresceranno? E
anche dopo, quando diventeranno completamente bianchi?»
Il
Custode lo fissò interdetto, e Yao sorrise della sua
perplessità. Dopo tanto tempo, Ivan sembrava ancora
sorprendersi che qualcuno
potesse amarlo.
«Sono
successe tante cose, oggi. Troppe per essere
affrontate tutte insieme» il sovrano rabbrividì
sotto il peso di quelle emozioni.
La lotta con il demone e la perdita di Young Soo. Ma entrambe quelle
esperienze
gli avevano lasciato qualcosa: la convinzione che era necessario
lottare, e che
non bisognava farlo da soli. Che non bisognava vivere
da soli.
«Tu
sei il Figlio del Cielo» gli ricordò Ivan.
«Anche
il Figlio del Cielo può innamorarsi»
replicò Yao.
«E
può abbandonare il trono?»
«Non
ci sarà più un trono dove stiamo
andando.»
Ivan
torse le labbra. Quasi le stesse parole del Portavoce
del Sole. Era chiaro che erano cresciuti insieme.
«Non
voglio vivere lontano da te, Ivan. Non voglio perché ti
amo. È così difficile credere alle mie
parole?»
Ivan
non riuscì a dirgli che lo amava. Sapeva di amarlo, ma
sapeva anche che erano parole da pronunciare con un cuore vero, non con
un
ragno ghiacciato sul petto.
Come
sempre, Ivan dimostrò ciò che non riusciva a
esprimere
con i suoi discorsi artici.
Sollevò
il sovrano afferrandolo per i fianchi, in modo che
non avesse altro sostegno al di fuori di lui. Il respiro di Yao si
ritrasse
nella gola quando Ivan prese possesso della sua bocca.
Il
cappotto scivolò a terra mentre le braccia del sovrano
cingevano il capo del Custode, e il cuore di fuoco si infiammava per la
vicinanza dell’uomo di ghiaccio.
Ivan
lo strinse a sé fino a fargli male, e lo baciò
finché
perfino le sue labbra divennero calde. Solo quando fu sicuro di aver
risposto
correttamente alla domanda di Yao gli permise di nuovo di toccare il
suolo.
Si
chinò per raccogliere il cappotto, e lo avvolse
nuovamente sulle spalle esili del sovrano. Slacciò la
sciarpa per avvolgerla
attorno al collo di Yao, e lo abbracciò rudemente.
«Non
ti ho mai visto così infreddolito»
bisbigliò roco sui
suoi capelli.
Il
sovrano rabbrividì nelle sue braccia, e Ivan lo strinse
più forte.
«Puoi
piangere. Non ti sentirà nessuno.»
La
risata del sovrano uscì strozzata dalle lacrime.
«Nessuno
mi ha mai visto piangere…» brontolò
Yao, mentre le
spalle sussultavano per i singhiozzi.
Ivan
lo serrò contro di sé, in modo che ogni lacrima
del
sovrano si infrangesse sulla sua camicia.
Non
capiva perché una persona dal cuore e dalle lacrime
calde come Yao potesse amare un figlio dell’inverno. Yao
viveva le sue emozioni
fino in fondo, le dichiarava a parole, le sfogava con le lacrime. Lui
aveva
bisogno delle azioni, perché né il suo volto
né le sue parole lo avrebbero
aiutato a esprimere quello che sentiva.
Si
chiedeva perché Yao avesse scelto lui, ma non aveva
davvero bisogno di rispondere alla domanda.
Yao
lo aveva scelto. Sopra ogni cosa, Yao aveva scelto lui.
Aveva
tutta una vita per capire il motivo.
***
Il
messaggio non era riservato a lui, ma Lovino lo udì lo
stesso.
L’ambasciatore
imperiale era troppo agitato per tenere bassa
la voce.
«Notizie
dal Palazzo di Quarzo» tartagliò, frenetico.
«La
cerimonia per la nomina del nuovo Asse avverrà tra una
settimana.»
Finalmente
giungiamo al capitolo ventuno<3
E
con questo si
conclude ufficialmente la saga asiatica; dal nuovo capitolo si aprono
le danze
per l’apertura dell’arco narrativo finale<3
Nel
prossimo
capitolo ci sarà la Spamano<3 E, se farò
in tempo a scrivere quanto voglio,
anche la GerIta<3
E
vi ringrazio
di cuore per aver commentato lo scorso capitolo, davvero
ç_ç Domani risponderò
alle recensioni una per una<3 Perdonatemi se non lo faccio ora,
ma rischiavo
di rimandare il capitolo al duemila mai >_>
Grazie,
grazie,
grazie e ancora grazie<3
Una
Confederazione di ringraziamenti a tutti voi<3
Red
|
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Capitolo 22 *** L'ultima settimana del Vaticano ***
Capitolo
Ventidue: l’ultima
settimana del Vaticano
Primo
giorno
Non
avevano eretto una tomba monumentale per Young Soo; non
si addiceva al mago che aveva sempre preferito una stuoia di paglia a
un letto
a baldacchino.
Avevano
bruciato il suo corpo, e le sue ceneri erano state
raccolte nell’urna che il Figlio del Cielo stringeva tra le
mani.
La
sua anima era volata oltre le stelle; era giusto che il
suo corpo danzasse assieme all’aria.
Non
aveva permesso ai soldati di seguirlo; perfino Ivan lo
stava aspettando al cancello del cimitero.
Yao
raggiunse la piccola collina al centro del camposanto,
ma non riuscì ad aprire l’urna; quella cenere era
tutto ciò che rimaneva di
Young Soo. Era così difficile disperderla…
«Non
sei mai stato bravo con gli addii. Per questo non ti
hanno permesso di vederci, quando abbiamo abbandonato il
castello.»
Yao
sentì il cuore martellargli in gola quando, voltandosi,
vide un volto che non aveva mai dimenticato, nonostante gli anni di
lontananza.
«Madre…»
chiamò, con un filo di voce.
Le
vesti e i capelli di seta della donna frusciarono
elegantemente mentre questa avanzava verso di lui e portava una mano ad
accarezzargli la chioma recisa.
Le
dita morbide della madre percorsero il suo viso e gli
scorsero tra i capelli più volte, come se la donna vedesse
bene solo attraverso
i polpastrelli.
Le
lacrime le illuminarono gli occhi e il sorriso quando
mormorò:
«Come
sei diventato bello, Yao…»
Il
sovrano afferrò la mano della madre con la sua, e
baciò
delicatamente il palmo soffice. Era reale: era tiepida, compatta,
delicata, come
la donna che vedeva nei propri lineamenti ogni volta che si guardava
allo
specchio.
Il
sorriso della nobile aumentò a dismisura, prima che i
suoi occhi scuri si posassero sull’urna.
«È
il Portavoce del Sole?» domandò.
Il
Figlio del Cielo annuì.
«Ti
è stato vicino quando sei rimasto solo»
sussurrò lenta
la madre. «Avrei voluto incontrarlo e ringraziarlo di
persona.»
«Ti
sarebbe piaciuto. Young Soo aveva il dono di riuscire a
entrare nel cuore degli altri con estrema
facilità» lo descrisse il regnante.
«Ma
entrare è facile. Riusciva a rimanerci?»
Yao
accarezzò l’urna con estrema tenerezza.
«Per
questa vita e per le prossime.»
«Allora
era davvero una persona speciale» la donna inclinò
la testa, gentile. «Posso unirmi alla tua preghiera? Vorrei
parlare con lui,
prima che tu gli permetta di andare.»
Yao
scosse la testa, sorridendo mesto.
«Lui
sarà sempre qui. Nemmeno l’aldilà
è abbastanza lontano
da separare chi si ama» l’eco delle parole del
fratello risuonò nella sua bocca
senza che se ne accorgesse, come se Young Soo gliele avesse bisbigliate
all’orecchio. E Yao si sorprese rendendosi conto che, in quel
momento, credeva
davvero che lui e il piccolo mago non sarebbero mai stati realmente
divisi:
nemmeno la morte poteva cancellare l’affetto che li aveva
sempre uniti.
Il
Figlio del Cielo appoggiò l’urna a terra, ed
entrambi
congiunsero le mani, recitando silenziosamente la propria preghiera.
La
donna ringraziò il Portavoce del Sole per aver protetto
il figlio dalla solitudine; Yao si limitò a ricordare i
momenti passati insieme
a Young Soo. Quello che aveva da dire, lo aveva già detto; e
quello che non
aveva fatto in tempo a dire, il fratello lo aveva intuito. Young Soo
riusciva a
leggere il cuore delle persone anche nel silenzio più totale.
Yao
si chinò lentamente, e strinse le dita attorno al
coperchio dell’urna prima di aprirla di scatto e lanciare la
cenere nel cielo.
La polvere grigiastra disegnò bizzarre volute nel vento,
quasi stessero
giocando a rincorrersi, e disegnò una buffa corona intorno
al sole prima di
disperdersi nell’aria dorata del tramonto.
L’urna,
ormai vuota, venne poggiata nuovamente a terra, e
Yao si rialzò con il cuore gonfio di una gioia triste: Young
Soo stava
sorridendo, da qualche parte, anche se non poteva più
vederlo.
La
mano della madre si appoggiò con grazia sulla sua spalla.
«So
che partirai in una missione contro il Vaticano» la
nobile possedeva la delicata forza del giunco: non poteva opporsi agli
eventi,
quindi si piegava sotto il loro peso per rialzarsi rinvigorita subito
dopo. In
quel momento, lo dimostrò appieno:
«Attenderò il tuo ritorno a Palazzo.»
Un
modo molto raffinato per ordinargli di non morire. Yao
portò nuovamente il palmo della madre contro le sue labbra.
«Tornerò»
promise.
La
donna sorrise un’ultima volta e si allontanò dalla
parte
opposta, permettendogli di tornare da solo dal suo custode di ghiaccio.
Ivan
non disse una parola: come sempre, non riusciva a
comprendere i sentimenti di chi ancora aveva un cuore caldo nel petto.
Ma
percepiva che qualcosa non andava: la dispersione di quelle ceneri
aveva
profondamente turbato il Figlio del Cielo.
In
completo silenzio si avvicinò a lui e lo cinse tra le sue
braccia. I pugni di Yao si strinsero sul suo cappotto, come se
volessero
ricaricarsi con l’energia del Siberiano.
«Andiamo,
Ivan» bisbigliò poco dopo l’Asean.
«Torniamo a
casa.»
Secondo
giorno
Il
signor Vargas fissò la parete davanti a sé.
Dall’esterno
non sembrava un muro particolarmente degno di
nota, eccezion fatta per la struttura liscia e incurvata che lo faceva
assomigliare
a un utero di pietra.
Il
vecchio Asse, però, gli aveva rivelato il segreto di
quella parete: era stata costruita trecento anni prima,
all’epoca del più
splendido tra tutti gli Assi, in previsione di possibili incantatori
troppo
potenti e troppo difficili da controllare.
Era
una parete in grado di staccare il potere dal corpo del
mago.
Se
Feliciano si fosse dimostrato in qualche modo un Asse immeritevole
per la sua anima dimezzata, lo avrebbero legato a quel muro
finché il suo
potere non fosse stato totalmente assorbito.
In
questo modo, la Confederazione avrebbe avuto l’energia
necessaria per mantenere il proprio confine intatto, isolando i demoni
all’esterno
di esso. E loro non avrebbero avuto un gemello malefico di cui
preoccuparsi.
Il
signor Vargas scosse la testa, lasciando la stanza.
Feliciano
era il suo figlio prediletto. Ma non gli avrebbe
permesso di guastare l’equilibrio della Confederazione, se si
fosse rivelato
indegno.
Terzo
giorno
«Mi
stai spaccando una costola.»
Roderich
non riuscì a rilasciare la presa: era passato
troppo tempo dall’ultima volta che aveva cavalcato un
famiglio, e la guida di
Gilbert era decisamente spericolata.
«Come
facevi, quando dovevi salire su Mathias?» lo prese in
giro l’Hellsing.
«Andavo
a velocità più ridotte» fu la replica
strozzata
dell’Accordatore.
Si
stavano dirigendo sul pianeta dei Gunsmith per arruolare
anche loro in quella folle missione. E per verificare che il tanto
prodigioso
“Elfo” fosse stato terminato.
Roderich
fissò lo sguardo su quella chioma argentata,
agitata dal volo senza controllo.
L’ultimo
ricordo che aveva di Gilbert era un bambino che
applaudiva alle sue sonate per violino. Quando aveva riaperto gli
occhi, si era
trovato davanti un uomo segnato da mille fatiche.
Aveva
perso parte dell’infanzia di Gilbert. Non era stato
con lui per scacciare i mostri immaginari da sotto il letto, non lo
aveva
tenuto per mano quando i tuoni lo spaventavano.
Aveva
perso completamente la sua adolescenza. Non sapeva
cosa avesse dovuto affrontare quel ragazzo, l’ultimo della
sua stirpe. Né come lo
avesse affrontato. Aveva trovato
qualcuno con cui piangere, o aveva versato le lacrime in solitudine?
C’era
stato un amico a indicargli la via, o si era dovuto creare una mappa e
una
bussola con le sue sole forze?
Lui
era il suo padre adottivo: avrebbe dovuto scacciare i
fantasmi, rimetterlo in piedi e offrirgli conforto. Invece lo aveva
abbandonato
su un pianeta abitato da tombe, con la sola compagnia del suo famiglio.
Cinse
con più forza il petto del figlioccio e buttò
fuori in
un fiato:
«Perdonami.»
Gilbert
gli lanciò uno sguardo perplesso da sopra la spalla.
«Non
c’è niente per cui scusarsi. Molte persone trovano
difficile adattarsi al mio stile di volo e…»
«
Mi hai parlato del fratello che ti sei creato e di quel
ragazzo di nome Matthew, e non so nemmeno che faccia abbiano. Sei stato
rinchiuso a Caina, e non sono stato io a liberarti. Perdonami per non
esserci
stato quando avresti avuto bisogno di me.»
Sentì
il fiato uscire in uno sbuffo divertito quando Gilbert
ghignò a quella frase.
«Non
hai passato un periodo migliore del mio» minimizzò
l’Hellsing. «E non mi hai abbandonato per tua
volontà. Se non c’è volontà,
non
c’è colpevolezza.»
La
zazzera argentata fu scossa dalla mano che grattò la
nuca, pensosa.
«Sei
tu a dovermi perdonare» la frase gli ruzzolò sulle
labbra, con una docilità che non si addiceva a
quell’uomo di sangue e acciaio.
«Per
cosa?» domandò Roderich, genuinamente confuso.
L’Hellsing
lo guardò di nuovo da sopra la spalla, e
l’Accordatore poté vedere la malinconia addolcire
quel ghigno arrogante.
«Avrei
dovuto salvarti molto tempo fa, anziché cercare di
liberare un pianeta vuoto» ammise, le parole appesantite da
quegli anni di
guerra. «Avremmo potuto riprenderci il nostro mondo
insieme… ma non ce l’ho
fatta. Sapevo che non sarei stato in grado di combattere contro di te.
Avevo
paura di essere ucciso, avevo paura di ucciderti, e avevo paura che tu
mi
guardassi senza riconoscermi. Piuttosto codardo, per essere
l’eroe indiscusso
della Galassia, non trovi?»
Le
spalle di Gilbert sussultarono per una risata velenosa.
«Solo
quando ho perso di nuovo la persona che più
amavo… ho
capito che non ha senso proteggere il passato se non
c’è futuro. Ho lasciato
mio fratello ad aspettarmi a casa, e sono corso a salvarti…
ma le forze
Vaticane erano troppe per un solo Hellsing. E sono finito a
Caina.»
«Ti
hanno scoperto perché stavi venendo a liberarmi?»
Gilbert non gli aveva mai rivelato quel particolare.
L’Hellsing
abbassò il capo, e una stella incastrò una punta
di luce nel suo occhio rosso, riflettendosi su una lacrima.
«Non
sono nemmeno riuscito a vederti» ricordò.
«Avrei dovuto
decidermi molto tempo prima, quando la difesa del Vaticano non era
così
stretta…»
Roderich
accarezzò il capo dell’Hellsing. La testa di
Giselbert era cresciuta rispetto a quando poteva racchiuderla quasi
completamente nel proprio palmo, ma i pensieri che si agitavano
all’interno
erano quelli di sempre: un bambino che aveva troppa paura di rimanere
solo, e
che gli placcava le gambe quando lo vedeva uscire di casa.
«È
tutto passato» cercò di tranquillizzare anche se
stesso e
i sensi di colpa che gi attanagliavano le viscere con quella risposta.
«Tra
quattro giorni combatteremo per il futuro. È questo
ciò che conta.»
Gilbert
annuì, e il ghigno prepotente tornò a
impadronirsi
delle sue labbra.
«Adesso
fai più fatica ad accarezzarmi la testa, eh?» lo
prese in giro. «Non sei più il più
alto.»
«Guarda
avanti. Siamo quasi arrivati» lo rimproverò
Roderich, con la severità tipica dei padri che hanno a che
fare con dei figli
indisciplinati.
Quarto
Giorno
Il
panno passò silenzioso sulla katana,
con devozione.
Kiku
la esaminò a lungo, in ogni suo millimetro, prima di
permetterle di tornare a riposare nel suo fodero.
La
notte di Chugoku era buia, come sempre. Né le stelle
né
la luna poterono riflettersi sul suo braccio pallido, mentre questo si
appoggiava sulla fasciatura.
Se
fosse stato a riposo, due mesi di vita. Se avesse
combattuto…
Kiku
diresse gli occhi, neri come le ombre della camera,
verso la porta scorrevole.
L’Aquila
doveva aver raggiunto Britannia, ormai, per aiutare
il Mago dell’Ovest a organizzare la flotta di assalto. Meglio
così: non avrebbe
sopportato di saperlo a Chugoku e non vederlo irrompere nella sua
stanza per
chiedergli perché fosse così cupo.
«Non
voglio essere un eroe» annunciò in un sussurro
alle
tenebre. «Gli eroi muoiono combattendo battaglie che non gli
appartengono, in
nome di qualche ideale.»
Accarezzò
l’elsa di Heracles, e massaggiò le bende sul suo
busto. Poteva quasi avvertire l’incantesimo lottare per
tenere chiusa la ferita
al di sotto.
«Sono,
e sarò sempre, un Samurai» dichiarò.
«E morirò nella
guerra che ho scelto, in nome del giuramento che ho fatto al Figlio del
Cielo.»
Appoggiò
la testa al muro ligneo, esalando un sospiro.
Alfred
sarebbe venuto a prenderlo, quando fosse arrivato il
suo momento.
Quello
straniero si preoccupava sempre troppo per gli altri.
Ma
era inevitabile.
Quello
era il lavoro degli eroi, in fondo.
Quinto
Giorno
«Entra
pure.»
Maledizione,
era stato notato. D’altronde, anche camminando
in punta di piedi, era difficile celare più di ottanta chili
sparsi su quasi
due metri di altezza.
Varcò
la soglia della stanza abbassando la testa come se
stesse entrando in un luogo sacro, e il suo cuore batté
più forte alla vista di
quel quadro familiare.
L’Hellsing
dormiva beato, coperto con attenzione fino al
mento e cullato nel sonno dal violino dell’Accordatore. Non
era difficile intuire
che Roderich stesso aveva sistemato il lenzuolo su Gilbert: ricordava
bene il
modo scomposto di dormire dell’Hellsing, e il suo
incorreggibile vizio di
calciare le coperte.
Roderich
gli diede il permesso di avvicinarsi con un
impercettibile cenno del capo, senza smettere di muovere
l’arco sulle corde del
violino.
«Gli
hai suonato la ninna nanna?» lo canzonò Mathias.
«Ho
semplicemente iniziato a suonare» minimizzò
Roderich,
altero. «E questo insensibile senza gusto musicale si
è addormentato di colpo.»
Gli
occhi di Mathias scivolarono sull’Hellsing e poi
sull’Accordatore. Un padre che suona per scacciare gli incubi
dal sonno del
figlio: era così che le cose sarebbero dovute andare. Non un
genitore divenuto
un’arma senza cuore e un bambino abbandonato in una guerra
solitaria.
«Avreste
meritato più momenti così» era certo di
non averlo
detto a voce troppo alta, ma fu sufficiente per bloccare
l’archetto
dell’Accordatore.
Roderich
fece finta di sistemare gli occhiali, mentre in
realtà si stava sforzando di controllare i condotti
lacrimali.
«Avremmo
meritato tutti una vita più tranquilla. Anche voi»
decretò infine.
«Non
mi lamento» Mathias si strinse nelle spalle larghe.
«Abbiamo
trovato un lavoro che ci piace, una persona da amare, e non siamo mai
stati
soli. Probabilmente, noi Gunsmith siamo tra le persone più
felici della
Confederazione.»
«Ma
se Gilbert non vi avesse confezionato dei nuovi corpi,
adesso di voi non rimarrebbero nemmeno le ossa.»
Si
sarebbe offeso per un commento del genere, se non avesse
capito che la vera sorgente di quelle parole era una tristezza
così profonda da
non poter essere sfogata né con le lacrime né con
le urla.
«Il
tempo è uguale per tutti, e non torna indietro per
nessuno» la mano artificiale dell’Accordatore si
strinse sul violino «Per
questo non potrò mai colmare il vuoto che ho lasciato in
tutti questi anni. Ho
permesso a mio figlio di crescere da solo, e ho quasi cancellato i
Gunsmith
prima che esistessero.»
Roderich
aggiustò di nuovo gli occhiali, traendo un profondo
respiro.
«Sai
perché ho deciso di combattere insieme a voi?»
l’uomo
lo trafisse con i suoi occhi violacei. «Perché
voglio che, nella prossima
dimensione, non ci sia più nessuno come me.»
«Come
te?»
«Qualcuno
che, guardandosi indietro, vede solo le voragini
che la sua assenza ha creato. Vede che il tempo è passato
per tutti, mentre per
lui si è cristallizzato a una ventina di anni prima. Vede
come le cose siano
cambiate e si accorge di non sapere cosa
le abbia fatte cambiare.»
Mathias
non lo interruppe, mentre Roderich terminava:
«Se
fosse stata una mia scelta, forse mi sarei sentito
meglio. Almeno avrei potuto biasimare me stesso. Ma mi sento come se mi
avessero rubato la possibilità di vivere il mio passato, e
mi stessero
togliendo la speranza di poter migliorare il futuro.»
Il
Gunsmith fu quasi tentato di guardare altrove, mentre
l’uomo accarezzava affettuosamente la frangia scomposta
dell’Hellsing. Era una
scena intima, che sarebbe dovuta rimanere tra padre e figlio senza
interferenze
esterne.
«Non
voglio che ci siano altre persone senza tempo e senza
scelte come me.»
Mathias
si sentì trafitto dallo sguardo che Roderich gli
rivolse subito dopo, e ancor di più dalla sua domanda.
«Mi
hai mai odiato, in questi anni?»
Di
nuovo, il Gunsmith si strinse nelle spalle.
«Gli
altri ti hanno portato molto rancore, non lo nascondo.
Però loro non ti avevano visto mentre crescevi Gilbert
insieme a Elizabeta, non
sapevano quanto amassi il tuo pianeta e la tua gente. Ma io
sì: io sapevo che
non eri stato davvero tu.»
Batté
una pacca sulla spalla dell’uomo, e per poco non lo
ribaltò. Cielo, quanto erano rachitici i musicisti!
«Non
ho mai smesso di credere in te. E nemmeno tuo figlio
l’ha mai fatto.»
Roderich
inclinò vagamente il capo, fingendo di non essere
toccato da quelle parole. Ma, come Mathias aveva già detto,
lo conosceva troppo
bene: sapeva che in realtà stava morendo per
l’imbarazzo.
«Se
è vero che non mi hai mai odiato, allora combatti
insieme a me, quando saremo nel Vaticano» propose
l’Accordatore, porgendogli la
mano meccanica. «Come ben saprai, posso controllare vaste
schiere di soldati
con i miei poteri musicali, ma non posso farlo se devo preoccuparmi dei
nemici
che potrebbero pugnalarmi alle spalle.»
Il
Gunsmith afferrò quella mano fredda e la scosse
saldamente, trovandola più robusta delle ossa del musicista.
Ovvio: i Gunsmith
producevano solo merce di ottima qualità.
«Le
tue spalle saranno protette» garantì.
«Non c’è maggiore
onore, per un famiglio, che lottare insieme al suo padrone.»
Le
mani dei due uomini si separarono, ed entrambi sorrisero
internamente.
Erano
ancora famiglio e padrone, nonostante il tempo
passato.
«La
melodia di prima era molto bella. L’hai composta
tu?»
domandò, uscendo dalla camera.
«L’ho
scritta per Gilbert. Era shockato dopo la morte dei
genitori, e non riusciva mai a prendere sonno. Si addormentava solo
ascoltando
questa melodia.»
«Come
si intitola?»
Il
violino tornò a incastrarsi con grazia sotto il mento
affusolato del musicista.
«“Non
sei solo”.»
La
sonata riempì la stanza con delicatezza, quasi avesse
paura di disturbare.
Mathias
abbandonò la camera, lasciando che la musica ricordasse
a padre e figlio che la solitudine era finalmente finita.
Sesto
Giorno -
mattina
«Non
mi hai rivolto la parola da quando siamo a Britannia.»
«Forse
la cosa ti è sfuggita, ma è piuttosto impegnativo
preparare una flotta per una guerra e un pianeta per
l’espatrio al contempo.»
«Scommetto
che il Figlio del Cielo parla con i suoi alleati.»
«E
allora tornatene a Chugoku!»
Le
sopracciglia bionde di Francis si incresparono, dietro
gli occhiali di Alfred.
«Credo
di notare un certo veleno nei miei confronti.»
«E
non ingiustificato!» sbottò Arthur, voltandosi di
colpo.
Il
Mago dell’Ovest era stanco nell’anima. Francis era
uno
specialista di spiriti, poteva dirlo con certezza. Una vita
pressoché eterna
era un peso estremamente gravoso da portare, ed era un fardello da
sopportare
da soli: nessuno avrebbe mai capito cosa significasse,
perché nessuno avrebbe
mai vissuto così a lungo da sentire la propria anima
diventare di piombo.
Arthur
era di nuovo vestito con i suoi abiti di Avalon: se
ne era riappropriato dopo che il suo riflesso aveva fatto ritorno allo
specchio. Sembrava quasi che il mago volesse improvvisamente rimarcare
il suo
essere alieno.
Arthur
lo fissò furente, e lo attaccò:
«Mi
hai fatto diventare un mago conosciuto solo perché
potessi seguire le previsioni di Jeanne sul futuro. Ho bruciato
un pianeta, ero presente quando tu e l’Hellsing siete
stati catturati, mi sono quasi fatto ammazzare da un demone!»
il Mago si girò
bruscamente, e Francis poté vedere le sue spalle contratte.
«Ti
ho aspettato per cento
anni. Da solo.»
«Eri
insieme alla tua gente…»
«Sai
bene quanto me che noi immortali siamo sempre soli. Se
non c’è nessuno che ti comprenda davvero, allora
sei solo» i pugni del mago si
strinsero sotto il mantello di Avalon. «Ti ho aspettato
fidandomi delle tue
parole. E quando ti sei reincarnato, in un battito di ciglia eri morto
di
nuovo. E ora sei in un corpo che non riconosco come tuo.»
Il
Mago si voltò di nuovo, gli occhi duri di rabbia e
liquidi di lacrime trattenute.
«Eri
l’unica persona che potesse davvero capire cosa
significa avere sulle spalle più anni di quanti si desidera
viverne. Avevi
detto che condividevamo il destino, e mi sono fidato. Ma ero sempre
solo.
Quando ho dovuto bruciare Hispaňa, quando ho assistito
all’incarcerazione
dell’Hellsing… non c’era mai nessuno con
me. Mi sono immerso nel sangue che
odio, mi sono gettato in una guerra che
detesto fidandomi delle tue vaghe promesse. Ma tu non c’eri
mai, Francis.
Credevi davvero che ti avrei gettato le braccia al collo piangendo,
quando ci
fossimo incontrati di nuovo?»
«Oh,
no. Non sarebbe nel tuo carattere. Anzi, per essere
onesti mi aspettavo una tua sfuriata – cosa che è
avvenuta.»
Si
ritrovò all’improvviso con le gambe
all’aria, e impiegò
qualche secondo per capire che il pavimento aveva sgroppato
sotto di lui come un toro infuriato. Maghi: avevano
sempre dei modi rudi di interrompere le conversazioni che non volevano
ascoltare.
Francis
si rialzò con fatica dal pavimento – doveva ancora
sintonizzarsi con quel corpo nuovo.
«Mi
dispiace di averti lasciato solo, Arthur.»
Il
Mago dell’Ovest non gli rispose nemmeno, e non si mosse
quando il Marauder gli si avvicinò.
«Ma,
come ti ho già detto, certe cose dovevano avvenire, per
quanto orribili. È necessario per la rinascita.»
«Lo
so» la voce uscì pesante come una palla di
cannone. «Ma
speravo che ci sarebbe stato qualcuno ad accendere una luce, nelle ore
buie.»
Il
corpo del Mago si irrigidì completamente quando i palmi
del Marauder si adagiarono sulle sue spalle.
«Mi
dispiace davvero di averti lasciato solo» la sua voce
era sincera, e questo fece arrabbiare ancora di più Arthur:
se avesse letto
anche solo l’ombra di una bugia, sarebbe stato molto
più facile squartarlo a
parole. «Ma adesso sono qui. Non isolarti, se davvero odi
così tanto la
solitudine.»
«Odio
te molto più di quanto non odi la solitudine»
sibilò il
Mago, iroso.
«Il
che è un vero peccato» le braccia del Marauder
scivolarono a cingergli il busto. «Perché io ti
adoro. Più di chiunque abbia
incontrato in tutte le mie vite passate e di chiunque
incontrerò in quelle che
verranno.»
Il
Mago si scrollò bruscamente di dosso l’uomo, e
rincarò:
«Non
sei stato perdonato. Cento anni: ti ho aspettato per cento
anni. Non li cancellerai con una
bella frase.»
Francis
si portò alle labbra la mano che il Britanno aveva
sollevato per ammonirlo.
«Farò
ammenda per i prossimi cento.»
«Trecento»
Arthur si riappropriò con stizza della sua mano.
«Non
hai calcolato gli interessi.»
Francis
accettò accondiscendente.
Sapeva
che quel Mago aveva intenzione di perdonarlo fin
dall’inizio, e che quell’arrabbiatura era solo un
modo per tutelare il suo
orgoglio. E per sfogare l’amarezza accumulata per tutto quel
tempo: Francis era
l’unico a poter comprendere lo sconforto di sentirsi soli in
mezzo a persone
che sarebbero sbocciate e appassite con la velocità dei
fiori di maggio.
«Jeanne
mi dice che non hai ancora il coraggio di dirmi
quella cosa che avresti dovuto dirmi un numero imprecisato di anni
fa» lo
punzecchiò Francis.
Il
Mago rimase così immobile, per qualche istante, da
ricordare i prigionieri di Caina. La velocità con cui si
mosse subito dopo fu
quasi incredibile: afferrò il colletto di quello stupido
uomo, lo trascinò
verso di sé e sfregò le labbra sulle sue.
«Dì
alla tua pulzella di essere meno indiscreta» il brontolio
si spense sulle parole finali, mentre Arthur abbandonava la stanza.
Francis
attese che il Mago fosse a una distanza sufficiente
per ridere di gusto.
«Buon
cielo, è proprio vero che i Britanni non sanno
baciare…»
Il
pavimento lo ribaltò di nuovo.
Maghi.
Davvero non avevano il senso dell’umorismo.
Sesto
giorno -
notte
«Dove
state andando?»
«Capitano,
stiamo per partire per una battaglia epocale. Se
questa deve essere una delle mie ultime notti, voglio passarla
navigando in
mari femminili.»
Antonio
concesse ai suoi uomini la libertà con un vago cenno
della mano.
«Cercate
di non fare troppa confusione» ricordò loro.
«Siamo
ospiti, su questo pianeta.»
«Ma
anche questo pianeta ha dei bordelli, grazie al cielo!»
rise rudemente un mozzo. «Mi sono sempre chiesto se le Asean
abbiano la…»
«Andate
e divertitevi, ma non eccedete» li congedò
Antonio,
richiudendo la porta della camera subito dopo. Apprezzava che i suoi
uomini
fossero venuti a chiedergli il permesso per abbandonare la pensione in
cui li
aveva alloggiati il Figlio del Cielo, ma avrebbe preferito che il loro
tempismo
non fosse stato così pessimo.
«Puoi
uscire, se ne sono andati» esclamò in direzione
dell’armadio a muro.
Lovino
uscì dalle ante con i capelli scompigliati, il kimono da camera stropicciato e il viso
fremente di rabbia.
«Questo
stupido pianeta!» si lamentò, prendendo di nuovo
posto sul futon. Quel materasso era
troppo sottile e l’unico nascondiglio disponibile in tutta la
stanza era
l’armadio a muro.
La
bocca di Antonio sul suo collo frenò ulteriori lagnanze.
La cintura di stoffa frusciò leggera quando le mani del
capitano sciolsero il
suo nodo.
«Non
ti hanno visto» lo rassicurò, insinuando le dita
nei
bordi aperti della veste. Un abito con una cintura facile da slacciare,
e che
permetteva di infilare le mani ovunque: gli orientali erano geniali.
Lovino
tirò la manica del capitano in un gesto fintamente
stizzito: il vero scopo era scoprire la spalla su cui
appoggiò le labbra.
«E
tu non vuoi navigare in mari femminili, questa sera?»
indagò, piccato.
Quella
stoffa era un intralcio, e Antonio la rimosse
velocemente, rendendola un cumulo di pieghe affrettate sui fianchi del
giovane.
Afferrò la sua vita asciutta per tenerlo fermo mentre
tracciava un percorso con
la bocca dal suo collo fino agli addominali. Lovino si chiuse sul capo
adagiato
sul suo ventre, fremendo a ogni tocco della lingua del compagno: le
parole
dell’amante strisciarono a fatica tra i suoi sensi
ottenebrati.
«Lovino»
sussurrò rovente Antonio, appena sopra la curva
pelvica. «Solo l’Apocalisse potrebbe convincermi a
lasciare questa stanza.»
«Sei
sempre esagerato…» con suo grande dispetto, le sue
labbra lo tradirono, lasciando uscire un gemito vergognoso. La bocca
del
capitano era scesa ulteriormente, arrivando a baciare
l’impazienza che pulsava
tra le sue cosce esili. Un brivido elettrico gli percorse la schiena
quando la
lingua del capitano percorse il suo sesso, e una scarica di delusione
lo
attraversò quando l’uomo si rialzò
subito dopo.
Era
sicuro che una cosa del genere non fosse leale: non
poteva dargli un tale piacere e staccarsi un secondo prima
dell’estasi.
Antonio
gli circondò il viso bollente di imbarazzo con le
mani. Lovino era davvero bellissimo quando si lasciava trasportare
dalla
passione. Ed era ancora più bello quando restituiva
l’attacco: il giovane lo
spinse bruscamente contro il materasso, aprì il suo kimono con un gesto brusco e si
portò a cavalcioni su di lui come
se lo volesse schiacciare.
Osservò
il viso del ragazzo farsi sempre più vicino,
finché
i suoi occhi non divennero una nebulosa sensazione di castano ramato
davanti a
sé.
«Non
credere di poter avere sempre il controllo, capitano»
Lovino gli morse il labbro
inferiore, prima di distanziarsi di nuovo.
Aveva
la conferma, ogni giorno di più, di quanto amasse quel
ragazzo nella sua interezza. Adorava perfino quelle strane schermaglie
che
avevano tra le coltri, Lovino sempre più determinato a
difendere il suo
orgoglio e ad avere un ruolo attivo nel rapporto e Antonio felice di
provocarlo
e di scatenare le sue reazioni.
«Il
controllo è l’ultimo dei miei pensieri,
adesso…» replicò
placido l’uomo.
Le
spalle di Lovino si contrassero e si piegarono verso di
lui quando la mano del capitano solleticò la curva delle
natiche. Le braccia
del giovane gli circondarono il capo e la bocca si premette sul suo
collo
mentre le dita dell’uomo si facevano strada dentro di lui.
Lovino
si allontanò per guardarlo in viso, e i loro occhi si
incatenarono. Antonio amava quei momenti di puro silenzio che
intercorrevano
tra di loro: era come se le parole fossero troppo strette per
circondare i loro
sentimenti, che venivano quindi lasciati liberi di fluire
nell’aria. Gli pareva
di immergersi nel cuore di Lovino, e di sentire la presenza del giovane
per
tutta l’estensione della sua anima.
Lo
strinse a sé quasi freneticamente, baciando ogni
centimetro di pelle che riusciva a raggiungere. Non sarebbe mai stato
abbastanza, con Lovino: non sarebbe mai arrivato il giorno in cui si
sarebbe
stancato di lui.
Il
giovane allargò le gambe, sentendo l’eccitazione
dell’amante
premere contro di esse, e rilasciò un suono inarticolato
quando i suoi fianchi
vennero abbassati con forza su quelli dell’altro.
Lovino
si aggrappò al suo compagno, cercando un contatto
sempre più profondo.
Il
capitano probabilmente aveva intuito il motivo che lo
aveva portato a introdursi in camera sua, quella sera. Il giorno dopo
sarebbero
partiti per la prima e ultima battaglia con il Vaticano. Sapevano
entrambi che
metà di loro non sarebbe sopravvissuta per raccontare di
quella lotta. E se lui
o Antonio erano destinati a far parte di quella triste porzione, allora
non
voleva sprecare nemmeno un istante a pensare: voleva amare, respirare,
vivere
il suo innamorato finché la notte gli avesse offerto riparo.
Si
ricongiunsero in un bacio profondo con urgenza, e una
sciarada di singulti di infransero sulla lingua del capitano, troppo
impaziente
per aspettare che il giovane seguisse il suo ritmo. Lovino
riuscì a staccarsi
solo un istante per respirare, prima che l’amante lo
catturasse di nuovo. Non
protestò, quella sera: strinse ancora di più le
braccia attorno al collo del
capitano, il respiro affaticato da quel bacio senza tregua e dalle
spinte sempre
più veloci, finché non lo sentì
liberarsi dentro di lui.
Lovino
quasi si gettò contro il suo compagno, il fiato che
ruzzolava sulle sue labbra arrossate. I loro petti si baciavano a un
ritmo
frammezzato, seguendo la loro respirazione sfiancata.
La
bocca dell’uomo si congiunse alla sua, una volta che i
loro polmoni ebbero trovato di nuovo la pace. Fu un contatto
più dolce del
precedente, e Lovino inseguì quelle labbra quando si
staccarono dalle sue,
pretendendo un altro bacio.
Antonio
lo adagiò sul letto, e accarezzò la sua pelle
sudata
senza trascurare nemmeno un centimetro; il capitano lo toccava sempre
come se
desiderasse superare il confine della pelle e diventare una cosa sola
con lui.
Lovino
alzò una mano, per sfiorare la palpebra sotto gli
occhi verdi, improvvisamente incupiti. La frangia ramata fu scostata
gentilmente da una carezza dell’uomo, affinché le
iridi rossastre fossero
totalmente libere di incontrare quelle dell’amante.
«Non
dimenticarlo, Lovino» un bacio fu impresso sulla sua
fronte corrugata. «Non dimenticare mai il tempo che passiamo
insieme.»
Il
ragazzo lo spintonò via senza preavviso, e si
rialzò a
sedere con la velocità di un gatto.
«Non
fare questi discorsi malauguranti!» scattò. E,
come
ogni volta in cui la sua rabbia era dovuta a un motivo più
profondo, Lovino si
placò subito dopo l’esplosione. Afferrò
un lembo del kimono aperto del
capitano, e lo strinse nel pugno con tutte le sue
forze.
«Credi
di essere dentro di me solo nel momento in cui
facciamo sesso?» sibilò. «Mi hai aiutato
a controllare i miei poteri, mi hai
insegnato a lottare… mi sei stato vicino ogni singolo
giorno!» nemmeno la
penombra della stanza riuscì a celare lo scintillio delle
lacrime in quegli
occhi orgogliosi. «Finché avrò la forza
di richiamare Roma, finché avrò respiro
tu sarai con me! Perciò non parlare come se dovessi
scomparire!»
Antonio
baciò le sue palpebre serrate, e sentì il salato
delle lacrime sulle proprie labbra.
Lo
trasse a sé con dolcezza, e lo accarezzò piano
per
tranquillizzarlo.
«Anche
tu, Lovino» le parole scivolarono languide nel suo
orecchio. «Anche tu non sparirai mai.»
Il ragazzo si
distanziò da lui a testa bassa, e Antonio credette che
volesse lasciare la
stanza.
«Se
non vuoi che dimentichi» propose in un mormorio Lovino,
troppo imbarazzato per sollevare lo sguardo. «Allora dammi
qualcos’altro da
ricordare…»
Il
ragazzo si protese per accogliere Antonio tra le sue
braccia, prima che questo lo stendesse delicatamente sul materasso
mentre univa
di nuovo le loro labbra.
Anche
se il mondo fosse finito il giorno dopo, anche se la
sua anima fosse stata fatta a pezzi, ci sarebbe sempre stato un
brandello
aggrappato ai ricordi di Lovino.
Quel
giovane sarebbe sempre stato incancellabile.
Non
gli sarebbe bastata l’eternità per far capire a
Lovino
quanto lo amasse.
E
a Lovino non sarebbe bastata l’intera Confederazione per
circoscrivere l’amore che provava per Antonio.
Ma
lo compresero entrambi, amandosi per tutta la notte come
se l’altro fosse l’unica cosa esistente
nell’universo. Il che, per loro, era la
pura realtà.
Settimo
Giorno
Il
cappello candido con la veletta bianca si appoggiò sul
capo del futuro Asse, e la sua vestizione fu completa.
«Sei
pronto, Ludwig?» domandò al suo Guardiano. Il
giovane
annuì, serio.
Feliciano
sorrise, e una punta di malizia del tutto sconveniente
scintillò nei suoi occhi.
«Oggi
è il giorno della proclamazione»
valutò. «Mi chiedo
come reagiranno alla sorpresa.»
Ed
eccoci qui
con il capitolo ventidue<3
Perdonate
la
lunga assenza, ho avuto alcuni problemi che mi hanno distanziata dal pc
-.-“
Coooomunque…
eccoci ufficialmente giunti all’arco finale<3
Nel
prossimo
capitolo, signore e signori, torna la GerIta<3
E
che la
battaglia con il Vaticano abbia inizio<3
E
grazie
infinite a tutti voi che avete letto e recensito lo scorso capitolo *_*
tra
stasera e domani vi rispondo, promesso<3<3<3
Che
la forza
dell’Asse sia con voi<3
A
presto<3
Red
|
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Capitolo 23 *** Ludwig ***
Capitolo
Ventitré: Ludwig
Al
contrario degli esseri umani, lui aveva un ricordo
perfetto dei suoi primi attimi di vita.
Aveva
aperto gli occhi su un volto giovane e provato, i
capelli appiccicati dal sudore e occhi rossi vibranti di speranza.
Ricordava
perfettamente anche la prima parola che le sue
orecchie avevano udito, e la prima sensazione che la sua pelle aveva
registrato.
Dita callose che si appoggiavano sulle sue guance, sfregandole con la
polvere
che le insozzava, e una voce battagliera che esultava:
«Ludwig!»
Aveva
alzato il braccio, e si era sorpreso della facilità
con cui riusciva a muoverlo nell’aria.
Si
era indicato il naso, sbatacchiando le ciglia sugli
occhi.
«Ludwig?»
«Sì,
Ludwig. Tu sei Ludwig!»
Non
aveva capito perché quel giovane fosse così
contento per
un semplice nome, ma gli piaceva la luce che si spandeva sul viso
guerresco
quando lo diceva.
«Ludwig.
Ludwig» continuò a ripetere, inspiegabilmente
più
felice ogni volta che il sorriso dell’altro si ampliava.
***
«Perché
mi hai creato, fratellone?»
Gilbert
era sempre stato sincero con lui. Il primo giorno,
lo aveva messo davanti a uno specchio, in modo che il piccolo potesse
vedere le
differenze tra di loro. Ludwig aveva impiegato qualche istante per
capire che
il bambino nello specchio era lui, e l’uomo che lo reggeva
sulle proprie
ginocchia era l’Hellsing. Ludwig si era passato le mani nei
capelli biondi: si
era aspettato di vederli riempirsi di riflessi argentei, invece si
erano
agitati in un mare dorato. Aveva battuto le palpebre più
volte, nella speranza
che i suoi occhi blu diventassero più simili al vermiglio
delle iridi
dell’Hellsing.
«Non
sei mio figlio» gli aveva spiegato Gilbert. «Non
sei
nato nel modo consueto, e non sei un essere umano» una mano
dell’Hellsing aveva
circondato le sue. Perfino i palmi callosi del giovane erano opposti
alla sua
pelle tenera e paffuta. «Ma ti ho fatto nascere
perché desideravo averti con
me. Sei un bambino che è stato voluto, Ludwig. Sei il mio
prezioso e
insostituibile fratellino.»
La
sua prima settimana di vita era passata e, finalmente,
quel dubbio che gli aveva grattato la nuca per sette giorni aveva
assunto la
forma di una domanda.
Gilbert
lo osservò. In mano reggeva il suo archibugio, che
stava pulendo mentre Ludwig gli passava gli attrezzi.
L’Hellsing
assestò una pacca alla canna di metallo, e
riassunse:
«Te
l’ho detto quando sei nato. Ti ho creato perché ti
volevo con me.»
«Perché
mi volevi con te, fratellone?»
Uno
sconosciuto si affacciò sulle labbra di Gilbert. Non era
il ghigno con cui si proclamava l’Eroe della Galassia, e non
era il sorriso che
sorgeva quando lo chiamava “fratellone”. Era una
strana curva, simile a quella
della gioia, ma senza la sua luce. Era un’increspatura che
piangeva.
«Spero
che tu non lo capisca mai» fu l’enigmatica risposta
del giovane.
***
Matthew
gli assomigliava di più.
Aveva
i capelli biondi e gli occhi azzurri, entrambi più
scuri dei suoi.
Tremava,
quando Gilbert gli si avvicinava, e fissava
terrorizzato ogni suo movimento.
Poi
aveva smesso di aver paura. Però non aveva smesso di
tremare. E aveva cominciato ad arrossire.
Ludwig
aveva osservato la situazione: lo spazio tra Gilbert
e Matthew era progressivamente diminuito. Parlavano a una distanza
quasi nulla
l’uno dall’altro; forse le loro orecchie avevano
qualche problema. Si
separavano bruscamente quando lo vedevano arrivare – o
meglio, Matthew
ruzzolava lontano, l’Hellsing rimaneva immobile, come se
parlare a quella
distanza fosse la cosa più naturale del mondo.
Però con lui non lo faceva. Forse
Matthew aveva davvero qualche problema ai timpani.
Avevano
piantato il bulbo sul retro del giardino. La terra
era fredda e dura sotto le loro dita, ma avevano scavato con foga fino
ad avere
le guance scarlatte e il fiato corto, e avevano ricoperto il seme con
cura,
come per rincalzare le coperte a un neonato.
Gli
piaceva Matthew. Aveva un buon profumo, era dolce e
delicato come il pane appena sfornato, e aveva un mucchio di attenzioni
per lui
e per il suo fratellone.
Gli
piaceva particolarmente quando gli pettinava i capelli.
Gilbert non lo aveva mai fatto – lui stesso si pettinava
raramente. Matthew
aveva introdotto quella novità, imponendola a entrambi i
fratelli.
Era
seduto sulle sue ginocchia, la spazzola che veniva
condotta gentilmente tra le sue ciocche color grano, quando
alzò la testa.
«Il
fratellone sta tornando» annunciò.
Matthew
appoggiò il pettine sul comodino, e fece scendere il
piccolo dalle sue gambe.
«Come
fai a saperlo sempre in anticipo?» chiese Matthew,
pacato.
«Perché
io sono un costrutto, come Gilbird. Abbiamo una
sorta di legame telepatico, perché siamo stati creati da
lui. Adesso mi sta
dicendo che stanno per arrivare.»
Matthew
gli accarezzò la testa, teneramente.
«Sei
un costrutto, ma Gilbert ti vuole un bene infinito. Sei
un bambino molto fortunato» lo coccolò.
Ludwig
sorrise, fiero.
«Lo
so. Sono molto fortunato» ciò detto, corse verso
la
porta della cantina: doveva prendere un po’ di sidro per
rinfrancare il
fratellone dopo la missione di quel giorno.
Sentì
la porta principale aprirsi mentre era in fondo alle
scale, la bottiglia di mele fermentate tra le braccia.
Risalì veloce, ma non
riuscì a uscire e presentarsi al fratellone. Uno strano
spettacolo si profilò
dallo spiraglio della porta: il fratellone aveva poggiato
sbrigativamente il
fucile allo stipite, aveva legato le braccia attorno alla vita delicata
di
Matthew e aveva poggiato le labbra sulle sue.
Le
mani del giovane erano salite, esitati, ad appoggiarsi
sulle spalle del guerriero, che aveva stretto ulteriormente la presa
sulla sua
vita, intensificando i suoni acquosi che venivano dalle loro bocche
unite.
Sembrava una strana caccia, in cui la preda desiderava essere catturata
dal
predatore.
«Che
state facendo?» domandò, decidendosi a uscire.
Matthew
si era staccato bruscamente, ma, quella volta,
Gilbert non gli aveva permesso di fuggire. Aveva premuto una mano sul
suo osso
sacro, spingendolo contro di sé e aumentando il rossore
congestionato sulle
guance del giovane.
«Ci
stavamo baciando» annunciò l’Hellsing.
«È
una cosa buona?»
«È
una cosa ottima» sottolineò l’uomo.
«Significa che
Matthew resterà con noi per tutta la vita.»
Ludwig
aveva quasi fatto cadere la bottiglia di sidro per la
gioia.
«Davvero?»
esultò.
Matthew
si stava sistemando le ciocche intorno al viso come
se volesse sotterrarsi dietro di esse, e annuì vergognoso
dietro quella cortina
bionda.
«Me
lo fate rivedere?»
Gilbert
rise di quella domanda candida, e lanciò
un’occhiata
predatoria al giovane tra le sue braccia.
«No»
mormorò Matthew, flebile ma inflessibile.
«È solo un
bambino.»
«Ha
sedici anni, si vede che il sangue adolescente comincia
a…»
«Sembra
un bambino.»
L’Hellsing
sbuffò e lasciò il giovane libero di fuggire. Si
chinò per raccogliere il piccolo da terra, e
iniziò a spiegare:
«Ludwig,
credo che sia il momento che io ti spieghi la
storia dell’ape e del fiore…»
***
Non
erano bastati tutti i baci del fratello per trattenere
Matthew con loro.
Ludwig
si era svegliato e si era sorpreso di vedere solo il
fratellone nel letto centrale. Matthew non era l’unico
scomparso: anche il
fucile dell’Hellsing non si trovava.
Gilbert
era uscito dalla casa come se tutti i demoni che
aveva ucciso lo stessero inseguendo. Gli aveva urlato di aspettarlo,
prima di
sbattere la porta dietro di sé.
L’Hellsing
era tornato a sera, ma Gilbert era sparito: Ludwig
vide solo un guerriero distrutto, quando sollevò gli occhi
su di lui.
«Fratellone…?»
Gli
occhi dell’uomo lo fissarono, immobili come pietre.
Occorsero alcuni secondi prima che Gilbert emergesse in quelle iridi di
cenere.
L’Hellsing
si inginocchiò scoordinato, come una marionetta
cui venivano tagliati i fili uno a uno. Appoggiò le mani
sulle sue spalle
minute, e frammenti di voce che si accatastarono sulle sue labbra
tremanti.
«Matthew…
è andato lontano… molto
lontano…»
«È
arrabbiato con noi?»
«No,
Ludwig. È… è stato costretto ad
andarsene.»
«Possiamo
andarlo a trovare?»
«Forse,
tra molti anni. Ma non adesso.»
«Perché
piangi, fratellone?»
Appoggiò
i palmi sulle guance dell’uomo, più volte,
ritirandole sempre più umide. Era la prima volta che vedeva
Gilbert piangere.
«Perché
mi mancherà da morire…»
buttò fuori l’Hellsing,
sfregando violentemente il dorso della mano contro gli occhi.
Ludwig
si sporse per depositargli un bacino sul naso. Le
lacrime di Gilbert si arrestarono, come colte alla sprovvista da quella
piccola
dimostrazione d’affetto.
«Non
preoccuparti, fratellone» lo tranquillizzò Ludwig.
«Rimango
io con te finché Matthew non ritorna.»
Le
lacrime sgorgarono di nuovo, ma un sorriso fendette
quella cascata inesorabile.
«Lo
so» Gilbert lo abbracciò con tutta la sua forza.
«Sei un
bravo bambino, Ludwig. Sei davvero un bravo
bambino…»
***
Non
pensava sarebbe arrivato anche il turno del fratellone.
Sapeva
che tutti i demoni erano stati eliminati, per cui non
capì perché Gilbert stesse lucidando le armi e
indossando la sua divisa color
notte.
L’Hellsing
si inginocchiò davanti a lui e gli accarezzò i
capelli, di nuovo aggrovigliati da quando Matthew era scomparso.
«Ascoltami,
Ludwig» il tono del fratellone era pesante come
piombo, e il piccolo provò l’impulso di scappare:
non voleva essere schiacciato
da quella pressione. «Ho una cosa da fare, lontano da
qui.»
«Vai
a uccidere dei demoni?»
«In
un certo senso» concesse mestamente l’Hellsing.
«Vado a
ripulire la Confederazione. E a riprendere il
papà.»
«Abbiamo
un papà?»
«Sì.
Delle persone molto cattive ce lo hanno portato via.
Adesso vado a riprenderlo. Ma Ludwig…» le mani del
fratello si erano appoggiate
sulle sue guance, come se volessero frenare le lacrime che ancora non
avevano cominciato
a scorrere. «Se non dovessi tornare…»
«Che
vuoi dire?»
«Se
dovessi andare lontano, come Matthew… voglio che tu ti
affidi ai Gunsmith, d’accordo? Loro avranno cura di
te.»
«Avevi
detto che avremmo rivisto Matthew solo tra molti
anni…»
«È
possibile che io lo raggiunga prima del tempo.»
«No!
Avevamo detto che lo avremmo aspettato insieme!»
«Ludwig…
a volte le cose non vanno come vorremmo…»
«Ma
tu sei l’eroe della Galassia! Tu puoi sistemare
tutto!»
«Ludwig»
l’Hellsing lo afferrò per le spalle, e lo
inchiodò
con i suoi occhi amaranto. Il piccolo deglutì a vuoto,
torchiato da quello
sguardo duro.
Le
lacrime irruppero sul suo viso, irrefrenabili. Non capiva
cosa stava succedendo, l’unica cosa chiara era il terrore di
vedere il suo
fratellone partire. Lo aveva visto lasciare quella casa mille volte per
cacciare i demoni, ma non lo aveva mai visto con quello sguardo. Anzi,
lo aveva
visto, una volta: il giorno in cui Matthew era sparito.
«Non
voglio che tu vada, fratellone…»
biascicò nel pianto.
Un
sorriso stanco si fece largo su quelle labbra di acciaio,
e le braccia dell’Hellsing lo cinsero gentilmente.
«Non
vado via, Ludwig. Anche se le nostre strade dovessero
separarsi, ci ritroveremo a un crocicchio. E sai
perché?»
Ludwig
scrollò la testa, facendo volare alcune lacrime
nell’aria.
«Perché
l’eroe della Galassia non lascerebbe mai da solo il
suo fratellino in questo schifo di mondo.»
«Hai
detto “schifo”» ridacchiò
Ludwig. «È una brutta parola.
Non si dice.»
«Hai
ragione» l’Hellsing si rimise in piedi, e si
avviò
verso la porta.
Si
fermò sulla soglia e si voltò.
Il
sole del tramonto disegnò una bizzarra aureola rossa sui
suoi capelli, come sangue sull’argento.
«A
presto, Ludwig.»
«Ti
aspetto qui, fratellone» il piccolo agitò la
manina
finché Gilbird non diventò un punto indistinto
nel cielo carminio.
Il
sole era sorto e tramontato tre volte, e il fratello
ancora non era tornato. Ma poteva sentire Gilbird, sapeva che era
ancora là, da
qualche parte nell’universo.
Il
messaggio era giunto il sesto giorno. Una sola parola.
Perdonami.
Ludwig
sollevò lo sguardo dalla camicia che stava pulendo.
Spazzò l’aria con gli occhi, alla ricerca del
minimo segnale.
«Gilbird?»
chiamò, in allarme. «Fratellone?»
Le
lacrime sconvolsero di nuovo i suoi occhi quando, dopo
interi minuti, non ricevette risposta.
«Fratellone!»
saltò sul letto, scese in cantina, salì in
soffitta, rovistò tra i mobili, chiamando, piangendo.
Uscì
a precipizio in giardino, e si gettò a quattro zampe
nel punto in cui avevano piantato il bulbo.
«Fratellone,
il nostro primo albero è qui! Non vuoi vederlo
crescere?»
Corse
verso il lago, mise le mani a coppa intorno alla bocca
e gridò di nuovo il suo nome sull’acqua scura. E
poi corse ancora, senza una
direzione, ovunque le gambe e il pianto lo portassero.
Crollò
a terra, esausto, qualche ora dopo. Il terreno era
duro e freddo, ma non quanto il suo cuore. Quasi non riconobbe come sua
la mano
che si trascinò a stringere un pugno di sterpaglie brulle.
Le
montagne tutto intorno, che fino al giorno prima gli
erano sembrate un cancello protettivo, d’improvviso
diventarono le zanne di una
prigione.
E
quel vuoto silenzioso, il mutismo di un pianeta che era
stato spogliato uno per uno dei suoi abitati fino ad avere solo un
bambino
spezzato ad agitarsi sulle sue zolle di fango…
All’improvviso,
capì cosa avesse inteso il fratello, tanti
anni prima.
Spero
che tu non
lo capisca mai.
«Mi
hai creato perché… ti sentivi
solo…» il mondo divenne di
nuovo indistinto dietro la coltre delle lacrime.
«Perché essere soli è peggio
che essere morti…»
Si
rialzò a fatica a quattro zampe, e gattonò nella
direzione da cui gli sembrava di essere venuto.
«Mi
hai creato perché fossi sempre al tuo
fianco…» le
braccia cedettero, facendolo cadere a faccia in giù nella
polvere.
Faticò
a respirare attraverso il naso otturato di terra e di
lacrime.
«Sapevi
quanto faceva male… allora perché mi hai lasciato
solo, fratellone?»
Fece
forza sui gomiti per sollevare il viso dal terreno, le
lacrime che segnavano una scia lucida sulle guance impolverate.
«Matthew,
ti scongiuro… non prenderti il fratellone
adesso…»
singhiozzò. «Non voglio rimanere solo…
per favore…»
Un
basso ringhio lo fece voltare. Un enorme lupo della
tundra lo stava puntando, gli occhi fiammeggianti e le fauci
spalancate,
bramose della sua carne tenera.
«No…»
tremò Ludwig, cercando di rimettersi in piedi. «Ho
promesso al fratellone… che lo avrei
aspettato…»
Il
lupo si caricò sulle zampe possenti, pronto al balzo.
«Anche
se lui dovesse dimenticarsi di me… io lo
aspetterò
sempre… perché io non esisto senza il
fratellone…»
L’animale
si scagliò su di lui, le zanne pronte ad affondare
nella sua carotide.
«E
se dovessero portarlo lontano…»
La
bestia bloccò il suo assalto, arretrando spaventata.
Ludwig
era finalmente riuscito ad alzarsi. La sua pelle bruciava,
irradiando una luce dorata che aveva invaso tutta la pianura, accecando
il
lupo.
«…
andrò a prenderlo con le mie stesse mani.»
Non
si era mai sentito in quel modo: tutto il suo corpo
pulsava, come se la pelle fosse troppo stretta per contenerlo. La sua
anima
stessa sembrava contrarsi e lamentarsi, rinchiusa in quel forziere di
carne
troppo piccolo.
«Perché
lui è il mio prezioso fratellone, il mio
insostituibile eroe…»
Il
lupo fuggì nel bosco, guaendo. Ludwig non lo
sentì
nemmeno. Le parole sgorgavano dalla sua bocca, una dietro
l’altra, senza
esitazioni, mentre il suo corpo intero si trasfigurava.
«E
non rimarrà mai solo finché ci sarò io
a proteggerlo!»
Il
suo cuore esplose in un fascio di luce. Lo sentì
distintamente mentre si smembrava sotto quella pressione serafica, ma
non
avvertì dolore: tutto era luce, tutto era pace.
Per
un attimo, vide con gli occhi delle montagne e parlò con
la voce del vento: l’intero pianeta era dentro di lui, e lui
era in ogni sasso,
ogni foglia, ogni onda.
Fu
un attimo di estasi, come se tutto il creato avesse
trovato ordine e armonia grazie a lui. Durò un unico,
meraviglioso istante,
prima che Ludwig si trovasse di nuovo con la faccia a terra.
Non
faticò a comprendere che qualcosa era effettivamente
cambiato: non ricordava di occupare tanto spazio, prima. Quelle braccia
lunghissime erano difficili da muovere, scivolavano da tutte le parti,
per non
parlare delle gambe. Il suo corpo era diventato più pesante,
più spigoloso e
più duro. Assomigliava di più a quello del
fratellone, adesso: l’adipe che lo
rendeva paffuto era svanito, lasciando posto a fasci di muscoli che mai
avrebbe
immaginato di poter sviluppare.
Cercò
di rialzarsi per tre volte, e per tre volte si ritrovò
a mordere la polvere.
«Lascia
che ti aiutiamo noi, ragazzo. I primi giorni dopo la
Cresima sono i peggiori.»
Ludwig
faticò a girare il collo muscoloso per fissare i
nuovi arrivati, un colosso con gli occhiali e un piccoletto dai capelli
biondi.
Il primo portava in spalla un fucile lungo quanto lui, che avrebbe
potuto
spazzare via un intero edificio con un singolo sparo.
«Cresima…?»
raspò Ludwig, trasalendo al suono della sua voce
improvvisamente bassa, quasi provenisse dalle profondità di
un pozzo.
Il
più piccolo si avvicinò a lui, e si
chinò in modo da poterlo
osservare in viso.
«Siamo
i Gunsmith. Tuo fratello ti ha mai parlato di noi?»
si presentò cortese.
Ludwig
annuì vagamente, e il giovane proseguì.
«Eravamo
famigli, una volta, e Gilbert ci ha fornito un
nuovo corpo dopo… che i nostri padroni sono
scomparsi» il piccoletto sfoderò un
enorme sorriso, come a rincuorarlo che ormai il lutto era stato
superato. «Quindi
siamo anche noi suoi costrutti. Abbiamo sentito il tuo richiamo, e
siamo corsi
ad aiutarti.»
«Non
vi ho chiamati…»
«Le
emozioni molto forti fungono da richiamo. È un
meccanismo di difesa di costrutti e famigli, in modo da poter sempre
lanciare
un segnale di emergenza» spiegò marmoreo il
più grande.
Ludwig
cominciava a capire: la sua disperazione aveva inviato
una specie di allarme che quei due strani personaggi, essendo stati
creati
dalla medesima magia da cui era nato anche lui, avevano recepito.
«Avevi
chiesto della Cresima» riprese il filo del discorso
il più mingherlino. «Non è niente di
grave, solo un processo di confermazione.
Vedi, Ludwig, al contrario degli esseri umani normali, noi famigli e
costrutti
veniamo al mondo con un solo scopo. Per i famigli è sempre
uguale: proteggere
il proprio padrone. Noi costrutti, invece, dobbiamo cercarlo.»
«Il
nostro è costruire protesi magiche»
echeggiò il più
grande.
«Il
tuo è proteggere chi è solo»
mormorò l’altro.
«Come
fate a dirlo?»
«Abbiamo
sentito il tuo giuramento, poco fa. E ti sei
trasformato nell’attimo in cui hai detto “non
rimarrà mai solo finché ci sarò
io a proteggerlo”. Quello è lo scopo per cui
vivrai.»
«Per
voi è stato lo stesso?»
«No,
la nostra trasformazione non è stata eclatante come la
tua. Ma siamo diversi, Ludwig: per farci nascere, tuo fratello ha
plasmato
materia già esistente. Tu invece sei stato creato
interamente da lui.»
«Mio
fratello…»
La
mano del piccoletto si appoggiò sulla sua guancia, e
Ludwig si sorprese di sentirla ruvida e callosa, quasi come quella di
Gilbert.
Dato il suo aspetto delicato, si era aspettato una mano soffice e
morbida.
Quelle erano le dita di un lavoratore e di un combattente.
«Lo
rivedrai, Ludwig. Non è morto: è stato
imprigionato a
Caina. Un giorno vi incontrerete di nuovo.»
Il
gigante si chinò su di lui, si fece passare un suo
braccio attorno alle spalle mastodontiche e lo sollevò quasi
senza sforzo.
«Vieni»
mormorò in un boato. «Prima di tutto dobbiamo
curarti.»
Ludwig
girò il collo con enorme fatica.
Dov’era
la sua casa? E il lago dove facevano il bagno?
E
il bulbo? Sarebbe morto da solo, dopo che lo avevano
illuso di farlo nascere e crescere?
Quel
cuore adulto faceva ancora più male, quando si
contraeva per il dolore.
«Tornerò»
bisbigliò, rivolto all’aria gelida intorno.
«Tornerò…»
Perché
anche se
questo pianeta è artico e morto… è il
luogo in cui il fratellone mi ha fatto
nascere. È casa mia.
***
Aveva
passato alcuni anni insieme ai Gunsmith.
Lo
avevano allenato e istruito finché non era stato in grado
di utilizzare tutte le armi che potevano fornirgli.
Aveva
un bel ricordo di quegli anni: i Gunsmith erano stati
molto gentili con lui, e lui aveva voluto bene a ognuno di loro, ma non
riusciva a considerarli “casa”.
Vivevano
in un edificio che avevano arredato con tutte le
finezze tecnologiche che erano riusciti a produrre in quegli anni, come
il
riscaldamento che scorreva sotto il pavimento. Nella sua vecchia baita
era
sempre freddo, ma c’erano Gilbert e Matthew e una coperta in
più per
racchiuderli tutti e tre in un piccolo guscio di calore.
I
Gunsmith non avevano mai preteso di prendere il posto di
Gilbert o di quella piccola casa abbandonata in mezzo al nulla, e di
questo
Ludwig gli era sempre stato grato.
Li
considerava degli alleati formidabili e degli amici
fidati, ma non erano la sua famiglia. La sua famiglia riposava sotto
uno strato
di terra fredda e in un blocco di ghiaccio.
Vide
la sua occasione per salvare il fratello quando il
Vaticano annunciò aperte le selezioni per il nuovo Guardiano.
Anche
quella volta, i Gunsmith erano stati accondiscendenti
con lui, e gli avevano permesso di partire.
Mathias
lo aveva abbracciato, Norge gli aveva stretto la
mano, Berwald gli aveva assestato una poderosa pacca sulle spalle, Tino
gli
aveva regalato un portafortuna, Vash lo aveva convinto a portarsi
dietro una
pistola e Lily lo aveva baciato su entrambe le guance.
Non
ricordava nemmeno i giorni delle selezioni: era stato
talmente concentrato sul suo unico obiettivo – liberare il
fratello – che non
aveva memoria di facce o di nomi che aveva affrontato e sconfitto.
Si
era risvegliato da quello strano stato di trance quando
era stato ufficialmente presentato al futuro Asse.
Davanti
a sé, l’incarnazione del marciume della
Confederazione gli sorrideva: una finta cortesia che malcelava
l’ipocrisia
debordante.
Aveva
finto di essere cieco, e aveva accettato l’incarico e
quel ragazzo dal sorriso fasullo.
Non
poteva negare di averlo odiato, all’inizio. Perché
quella bambolina di bugie poteva vivere serena mentre suo fratello era
incastrato in una tomba di ghiaccio?
Poi,
la porcellana della bambola si era spezzata, e Ludwig
aveva potuto scorgere l’interno.
Era
anche lui un ragazzo solo alla disperata ricerca del
fratello. Ricordava ancora quando gli aveva chiesto se anche lui avesse
qualcuno che voleva davvero proteggere, o quando lo aveva implorato di
parlargli del suo pianeta affinché potesse vederlo nei suoi
sogni. E ancora,
quando lo aveva pregato di abbracciarlo per non farlo diventare un
fantasma di
quel palazzo.
Durante
la sua Cresima, aveva giurato che avrebbe protetto
chiunque fosse stato solo. E, nell’intera Confederazione, non
esisteva una
persona più isolata di quel povero ragazzo.
Lui
era rimasto senza famiglia, ma almeno aveva dei ricordi
con cui cullarsi, quando la malinconia lo assaliva. Feliciano non aveva
nemmeno
quelli: il fratello gli era stato strappato quando erano ancora
bambini, e i
suoi genitori non si erano mai comportati come tali.
L’impressione
che aveva avuto il primo giorno non era del
tutto sbagliata: Feliciano era davvero una bambola, un burattino con la
bocca
dipinta che non poteva in alcun modo esprimere la sua opinione,
costretto a muoversi
per un burattinaio che detestava.
In
quel momento, aveva fatto il suo vero giuramento come
Guardiano: nessuno avrebbe mai più potuto ferire quel
giovane, finché lui fosse
rimasto al suo fianco.
Aveva
cercato di riempire gli interminabili pomeriggi nel
Palazzo di Quarzo raccontandogli tutti gli aneddoti più
divertenti della sua
vita familiare con Gilbert, e Feliciano gli aveva riassunto tutti i
libri che
aveva letto nella Villa Vaticana.
Ogni
tanto, quando anche le parole diventavano ingombranti,
Ludwig tendeva le braccia e Feliciano si tuffava tra di esse. Era
strano, per
il Guardiano, essere la forza portante: era abituato a essere lui
quello che si
gettava tra le braccia del fratello maggiore.
La
crescita era uno strano fenomeno: lo aveva gettato improvvisamente
nei panni di chi aveva sempre ammirato dal basso. Pensava che sarebbe
stato un
processo graduale, invece la realizzazione era stata improvvisa: non
era più un
bambino, era un adulto.
«Cosa
pensi che sia un bacio, Ludwig?»
Anche
la domanda di Feliciano era giunta improvvisa come un
fulmine.
Il
Guardiano attese un attimo, radunando i ricordi che aveva
a riguardo: il fratellone che stringeva Matthew, e che muoveva le
labbra sulle
sue con l’espressione di chi non avrebbe voluto fare altro
per il secolo
successivo.
«È
una promessa» decise infine, citando la spiegazione di
Gilbert. «Significa che vuoi stare insieme a una certa
persona per tutta la
vita.»
Feliciano
si alzò dalla poltrona color latte, e si affiancò
al suo Guardiano. Sfilò il guanto prima di appoggiare la
mano candida su quella
del guerriero.
«E
tu Ludwig… vuoi restare insieme a me per tutta la
vita?»
Il
combattente lo fissò in silenzio, la risposta che si
assemblava nella sua testa. Poi parlò con la voce profonda
che, il giorno della
sua Cresima, lo aveva fatto trasalire.
«Feliciano,
potresti pentirtene.»
«Perché?»
«Dovresti
chiederlo a una persona speciale.»
«Una
persona più speciale di te non esiste.»
«Come
puoi dirlo? Sono l’unica persona che conosci.»
Ludwig
non era stupido: si era accorto già da tempo di
provare per quel giovane qualcosa che andava oltre il semplice
attaccamento tra
Guardiano e Asse. Era qualcosa di estremamente simile alla tenerezza
con cui
Gilbert guardava Matthew, o all’affetto nascosto in ogni
parola che i Gusmith
rivolgevano ai rispettivi compagni. Ma non aveva mai rivelato quei suoi
sentimenti. Feliciano non aveva mai visto nessuno, oltre a lui. Se
anche si
fosse confessato, era altamente probabile che il giovane avrebbe
accettato solo
perché non conosceva alternative. Sarebbe stato come
approfittare di un animale
in gabbia, e lui non era caduto così in basso.
Feliciano
sembrò intuire quei suoi pensieri. Scostò la
veletta dal viso per colpirlo con tutta la luce del suo sorriso.
«Cosa
cambierebbe, anche se conoscessi altre persone?»
minimizzò. «Queste “altre
persone” non mi hanno parlato di pianeti lontani e
fratelli maggiori. Non mi hanno mai sorretto quando stavo per cadere,
non mi
hanno abbracciato quando stavo per spezzarmi. Non hanno giurato di
proteggermi
e non sono state al mio fianco per anni. Conosco solo una persona che
ha fatto
tutto questo.»
«Feliciano…»
«Forse
è vero che non esiste un’anima gemella
prestabilita,
ma che esistono più persone a noi compatibili»
ammise Feliciano, senza smettere
di sorridere. «Ma il destino ti ha messo sulla mia strada. E
sarebbe vuota in
un modo intollerabile, se tu te ne andassi.»
«Feliciano,
la tua è una scelta obbligata…»
«Potrei
scegliere di stare da solo. Potrei decidere di
aspettare di uscire da qui per avere un amante. Invece scelgo te,
Ludwig. Oggi
e domani, scelgo te.»
«Perché?»
Le
mani di Feliciano salirono ad accarezzargli il viso.
«Perché
tu tingi il bianco con mille colori. Perché fai
viaggiare chi è bloccato in un palazzo. Perché
non compatisci, perché ami» il futuro
Asse sorrise di nuovo. «Ti servono degli altri
motivi?»
Ludwig
scosse la testa in cenno di diniego. Non era sicuro
che Feliciano stesse davvero scegliendo ciò che era meglio
per lui, ma il
giovane pareva non nutrire il minimo dubbio a riguardo.
«E
tu, Ludwig? Non vedi niente di buono in me?»
«Penso
che tu saresti il migliore Asse che questa
Confederazione potrebbe mai avere» elencò preciso
il Guardiano. «Ed è proprio
per questo che dobbiamo scappare prima della tua incoronazione: non ti
lascerebbero più andare, e non potrei più farti
vedere dove sono nato.»
«Né
farmi incontrare tuo fratello maggiore.»
«E
io non potrei conoscere tuo fratello gemello.»
«C’erano
davvero dei pesci grandi come te, nel lago?»
«Anche
più grossi.»
«Dovrò
dire a Lovino di stare molto attento, allora.»
Le
dita dell’Asse lo sospinsero dolcemente ad abbassare lo
sguardo su di lui.
«Te
lo chiedo di nuovo, Ludwig: vuoi restare insieme a me
per tutta la vita?»
Ludwig
si chinò su di lui e Feliciano si alzò sulle
punte
dei piedi per congiungere le loro labbra.
Il
Guardiano si chiese se Gilbert provasse le stesse cose,
quando baciava Matthew. Era morbido, tiepido, vivo, nuovo. Le labbra di
Feliciano si muovevano curiose contro le sue, come a cercare
l’angolazione
perfetta per unirsi alle compagne.
Lo
sentì sussultare timidamente quando insinuò la
lingua ad
accarezzargli le labbra socchiuse.
«Per
tutta la vita» gli ricordò in un soffio caldo
Feliciano, prima di allacciare le braccia al suo collo, schiudendo la
bocca per
lui.
Ludwig
non si sarebbe mai scordato il loro primo bacio, né
avrebbe mai dimenticato la loro prima volta, circa due settimane dopo.
Feliciano
era steso sotto le lenzuola candide, avvolto nella
sua camicia immacolata. Ludwig era seduto di fianco al suo giaciglio,
come sempre.
Si
baciarono lentamente, e il Guardiano tornò nella sua
posizione di veglia.
Una
mano eburnea si appoggiò sul suo braccio.
«Ludwig…»
lo chiamò Feliciano.
Non
ebbe bisogno di aggiungere altro: i suoi occhi e il suo
tono basso parlavano con assoluta chiarezza.
Il
Guardiano si irrigidì, come spaventato. Amava quel
giovane, era innegabile, e Feliciano lo amava con l’amore
spensierato e totale
di cui solo un essere puro era capace. Adorava baciarlo, sentirlo
giocare con
le sue labbra e fremere quando le loro lingue si incontravano, e non
avrebbe
mai smesso di farlo. Ma c’era una regola ferrea che gli aveva
impedito di
unirsi al suo innamorato il giorno stesso in cui si erano dichiarati:
un Asse
doveva essere un canale senza macchia. Pertanto, l’Asse non
poteva concedersi
alla persona amata.
«Non
possiamo» rifiutò Ludwig, cercando di suonare
convincente.
Feliciano
piegò la testa sul cuscino, i capelli ramati che
formavano bizzarri intarsi sulla federa lattea.
«Non
vuoi?» chiese, la mano ancora fissa sul suo braccio.
Ludwig
chiuse gli occhi, imponendosi la calma.
«Un
Asse non può…»
«Non
sono l’Asse. Non ancora.»
«Lo
sarai molto presto.»
«No.
Non diventerò mai Asse. Non voglio diventare un
fantasma di questo Palazzo triste» la mano salì
sul suo gomito. «Vuoi che io
diventi un fantasma?»
«Voglio
che tu sia libero, Feliciano, e che tu sia felice.»
Il
ragazzo gli sorrise, solare e disarmante.
«Allora
lasciami libero di essere felice con te» lo invitò
con un tono morbido.
Ludwig
quasi non si rese conto di essersi portato sul letto,
sopra il giovane. Si mosse come se una forza maggiore dettasse i suoi
movimenti, allo stesso modo di una conchiglia trascinata dalle maree.
Era
Feliciano, il suo sorriso pieno di aspettativa e i suoi occhi colmi di
amore a
farlo muovere come intossicato. Non si accorgeva quasi delle sue mani
che
spogliavano il giovane, troppo catturato dal suo viso che arrossiva e
dalle sue
labbra che si torcevano per l’imbarazzo in un modo delizioso.
Pensava
che il corpo di Feliciano fosse bianco e immobile
come il marmo con cui era costruito il Palazzo. La pelle del ragazzo
era
pallida, velata di rosa, e rabbrividiva al suo tocco, e si scaldava ai
suoi
baci.
Un
gemito soffice fuggì dalle labbra del giovane quando
Ludwig depositò un bacio tra le cosce bianche che si
aprivano per lui.
«Ludwig…»
lo chiamò Feliciano, immergendo le dita nei suoi
capelli biondi. «Un bacio significa stare insieme per tutta
la vita, questo
significa stare insieme per sempre.»
Il
Guardiano si rialzò per fissare l’amante in volto.
Era
ancora convinto che avrebbero pagato a caro prezzo la
loro follia, che sporcare l’Asse fosse la cosa più
sbagliata e blasfema da
fare. Ma non riusciva a convincersi che amare Feliciano fosse una cosa
deplorevole. Non si era mai sentito a casa con i Gunsmith, per quanto
loro si
fossero sempre dimostrati premurosi nei suoi confronti; bastavano le
braccia
magre di Feliciano che lo stringevano, invece, perché Ludwig
potesse sentire di
nuovo il profumo della tundra e il sapore ghiacciato del lago.
Stavano
camminando sul ciglio di un burrone, sfidando a quel
modo le regole del Vaticano. E Feliciano era l’unico motivo
per cui si sarebbe
gettato a capofitto dal precipizio. Solo Feliciano.
Intrecciò
le loro dita e i loro sguardi.
«Per
sempre» confermò.
Fu
strano cercare insieme la giusta posizione e il giusto
ritmo; strano, ma non spiacevole. Erano entrambi ugualmente inesperti e
curiosi, e, soprattutto, desiderosi di sentire l’altro sopra
e dentro di sé.
Le
mani di Feliciarono tremarono nel togliere i vestiti a Ludwig,
ma non si fermarono, nemmeno quando il tessuto incespicò sui
suoi muscoli
scolpiti.
Rimasero
immobili un istante, guardandosi come affascinati.
I loro corpi erano diversi come il giorno e la notte: massiccio e
scolpito
quello del Guardiano, tenero e magro quello dell’Asse.
Feliciano
si aggrappò a quelle spalle forti quando gli
addominali di Ludwig coprirono il suo ventre morbido.
Le
gambe del giovane si strinsero spasmodicamente attorno alla
sua vita quando il Guardiano iniziò a spingersi in lui.
Ludwig cercò di
ritrarsi, preoccupato di avergli fatto male, ma Feliciano scosse la
testa e lo
trattenne su di sé.
Il
ragazzo inspirò a fondo, e cercò di rilassarsi
prima che
il Guardiano si portasse di nuovo dentro di lui.
Fu
doloroso, all’inizio. Feliciano non pensava che avrebbe
fatto così male, come se un coltello gli stesse lacerando la
carne. Ma non
voleva che Ludwig smettesse: voleva sentirlo dentro di sé e
marchiarlo come
suo, voleva essere sicuro che il suo Guardiano non avrebbe provato con
nessun
altro quello che stava provando con lui in quel momento.
Ludwig
si fermò più volte, accarezzando e baciando quel
ragazzo teso e irrigidito sotto di lui.
Finalmente,
il suo corpo parve adattarsi a quell’esperienza:
al posto del dolore, una sensazione bollente scaturì al
centro delle sue cosce,
e si scaricò come un fulmine in tutto il suo corpo.
Non
si era mai sentito così caldo, quasi sul punto di
sciogliersi. Sollevò gli occhi liquidi sulle iridi azzurre
che lo accarezzavano
adoranti. Avrebbe accettato di vedere la sua pelle e la sua carne
liquefarsi
come la cera di una candela, se avesse potuto diventare una cosa sola
con
Ludwig, in quel modo.
Era
un peccato, anzi, era quasi un’eresia, ma esistevano
cose più importanti della legge glaciale scandita dal
Vaticano. L’amore era
senz’altro una di queste cose: non poteva esserci nulla di
più puro e perfetto
del desiderio che entrambi nutrivano solo per l’altro, come
se il resto del
mondo si fosse ammutolito e spento.
Feliciano
sentì mancare il fiato quando Ludwig si liberò
dentro di lui. Finalmente era suo.
Il
giovane si accoccolò sul suo petto, quando il Guardiano
si stese sul letto.
«Abbiamo
sbagliato qualcosa all’inizio, credo»
notificò,
appena gli ansiti si placarono.
«Ti
ho fatto male?» le mani di Ludwig si posarono sulla sua
schiena, trattenendolo gentilmente sul suo ventre.
«Non
tanto» mentì Feliciano. «Ma credo che
esista qualcosa
per renderlo… sai… più agevole.»
Il
sospiro di Ludwig inciampò in un accenno di risata.
«Mio
fratello sarebbe stato molto contento di spiegarmelo.
Si divertiva un mondo a mettere in imbarazzo gli altri.»
«Dovremmo
chiederglielo, quando usciremo di qui.»
«Tu
non conosci mio fratello.»
«Ma
vorrei tanto conoscerlo.»
Feliciano
poggiò il capo ramato sulla curva della sua
clavicola, e bisbigliò sul suo petto:
«“Per
sempre” significa che non potrai mai dirmi addio,
né
lasciarmi solo. Qualunque cosa succeda, non puoi
abbandonarmi.»
Ludwig
baciò quella chioma calda, e fece scorrere un dito
sulla schiena delicata.
«Diventeremo
dei criminali, se scopriranno cosa abbiamo
fatto.»
«Il
giudizio del Vaticano non mi spaventa, e nemmeno
l’Inferno. Dicevano sempre che mio fratello era un diavolo, e
che giacere con
una persona senza aver intenzione di procreare è peccato. Se
questo è
l’Inferno, allora non è un brutto posto in cui
stare per l’eternità.»
Ludwig
lo abbracciò. Quel ragazzo era… indescrivibile.
«Per
sempre» il Guardiano afferrò dolcemente
l’anulare
sinistro del giovane, che non sarebbe mai stato stretto da una fede
nuziale, e
lo baciò. «Anche se tu dovessi rinascere come una
rosa, ti riconoscerei tra
altre mille rose.»
Feliciano
lo squadrò senza capire, e Ludwig spiegò:
«È
una favola che mi raccontava Matthew. Parlava di due
innamorati costretti a separarsi. Il loro amore era talmente forte che
aveva
fatto sbocciare una rosa di fianco alla casa di ognuno dei due, e loro
avevano
subito capito che quella rosa era nata grazie
all’altro.»
«Non
voglio che tu diventi una rosa» brontolò
Feliciano. «Una
rosa non può abbracciarmi.»
Le
labbra del Guardiano si poggiarono sulla sua tempia.
«Non
ho intenzione di diventare una rosa» lo rassicurò.
Non
voleva smettere di abbracciare, baciare e amare
Feliciano.
Nemmeno
se quel peccato lo avrebbe portato davanti al
tribunale del Vaticano.
***
«Sei pronto,
Ludwig?»
Il
Guardiano strinse la sua mano, rivestita dal guanto
bianco.
«Non
sarà facile, ma andremo fino in fondo»
scandì lui.
«Insieme»
aggiunse Feliciano in un sorriso.
Le
loro dita si separarono prima che le porte di marmo
bianco si aprissero, e la piccola figura dell’Asse venisse
proiettata in tutta
la Confederazione.
Alcune
Aeronavi fluttuavano intorno al Palazzo, gremite di
fedeli plaudenti. Una ventina di globi erano stati fissati attorno alla
terrazza, in modo da catturare l’immagine dell’Asse
e trasmetterla in tutta la
Confederazione. L’intera famiglia Vaticana era schierata sul
pomposo terrazzo
che correva lungo tutto il perimetro del Palazzo.
Feliciano
sorrise dietro la veletta, e iniziò il suo
discorso.
«Miei
cari fedeli» esordì. «Vi accolgo con il
cuore colmo di
gioia in questo lieto giorno. È per me il massimo onore
essere oggi investito
della carica di Asse… e il peggiore fardello.»
La
sorpresa serpeggiò in tutta la Confederazione a quelle
parole, e l’intera famiglia Vaticana inorridì: un
Asse doveva accettare il suo
ruolo con serena condiscendenza, non lamentarsi del suo stato.
Il
sorriso di Feliciano non si incrinò mentre sollevava la
veletta scatenando una seconda ondata di sgomento: mai gli Assi avevano
permesso ai fedeli di vedere il loro viso nudo.
«Un
Asse deve essere immacolato» proseguì, mentre il
coro di
scontento si gonfiava sempre più tutto intorno.
«Un Asse deve essere puro. Un
Asse deve essere… vergine.»
La
mano guantata afferrò il colletto della mantella,
strattonandolo bruscamente verso il basso. La Confederazione
trasalì, quando
una costellazione di succhiotti venne alla luce sul collo niveo del
giovane.
«Mi
sono unito al mio Guardiano più volte»
gridò, per
sovrastare il trambusto della famiglia Vaticana intorno a lui.
«Per cui sono un
Asse corrotto. Il degno Asse per questa Galassia marcia.»
Quattro
mani di ferro lo afferrarono per le spalle, e lo
spinsero bruscamente all’interno del Palazzo.
Le
guardie vaticane avevano circondato Ludwig, impedendogli
qualunque movimento, e i membri più anziani della sua
famiglia lo stavano
squadrando con occhi iniettati di sangue.
«Tu
sei diabolico come
tuo fratello!» ululò il padre, dando ordine ad
altri soldati di immobilizzare
Feliciano e di chiudere la porta. «Ma adesso basta: questa
maledetta storia
finisce oggi!»
Le
guardie non furono abbastanza rapide nel chiudere il
portone. Feliciano poté scorgere, in lontananza,
un’Aeronave la cui descrizione
era nota in tutta la Galassia: la Reina
de la Oscuridad. Un lupo nero come la notte si
lanciò dall’albero maestro,
correndo come un pazzo verso di lui.
«Lovino!»
gridò Feliciano. «Lovino, sono qui!»
Le
porte si chiusero sul suo ultimo richiamo.
Ed
eccoci
arrivati all’inizio della saga finale<3
Caleidoscopio
terminerà in dieci capitoli massimo çwç
Ancora
una
volta, grazie a tutti voi che avete letto fin
qui<3<3<3
A
presto con l’inizio
del marasma<3
Red
|
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Capitolo 24 *** Guerra ***
Capitolo
Ventiquattro: Guerra
«Fratelli
gemelli!»
Lo
strepito del signor Vargas scricchiolò nell’utero
di
pietra.
Feliciano
era stato fissato alla parete carnivora con pesanti
catene. Il suo viso diventava sempre più stanco e spento man
mano che il potere
defluiva dal suo corpo.
«Ma
adesso basta, questa follia termina oggi!»
«Oh,
sì… la follia termina oggi.»
Il
signor Vargas volse gli occhi allucinati sul figlio.
Nonostante l’energia fosse stata gradualmente drenata dai
suoi muscoli, il
giovane trovò la forza di alzare il volto con aria di sfida.
«Il
Vaticano ha creato i demoni che lo distruggeranno. E
pagherà per le sue malefatte passate.»
«Taci!
Abbiamo solo mantenuto l’ordine!»
«Avete
mantenuto una dittatura basata sull’oppressione. Ma
non potrete zittirli, oggi…»
«Di
chi stai parlando?»
Gli
occhi di Feliciano si chiusero, ma riuscì comunque a
esalare, prima di piombare nell’oblio:
«Le
vittime senza nome… urleranno…»
***
Antonio
lanciò un’occhiata alla Reina,
sotto di sé.
Stava
cavalcando Gilbird insieme a Gilbert, mentre Lovino
era salito su Mathias con Roderich. Al loro fianco, Yao fluttuava nella
sua
coltre di fiamme e Ivan attendeva, immobile nella sfera artificiale.
Avevano
formato quel piccolo gruppo di attacco per infiltrarsi
nel Palazzo, anche se il piano prevedeva che sarebbero entrati solo
Antonio e
Lovino: lo scopo degli altri era assicurarsi che varcassero le porte
sani e
salvi.
Aveva
lasciato la Reina
in mano a Francis, affiancata dalle truppe di Britannia, capitanate dal
Mago
dell’Ovest, e dalla flotta Asean, sotto la guida del Samurai.
Lily e Tino
avevano assunto nuovamente la loro forma di famigli, e portavano sulla
schiena
rispettivamente Vash e Berwald, armati di tutto punto. La piccola
scialuppa di
Norge si librava a poca distanza.
Erano
avvolti da un manto di invisibilità, mantenuto vivo
dagli sforzi congiunti di tutti gli incantatori presenti, per non
scatenare il
panico prima del previsto.
Avrebbero
aspettato che Feliciano si affacciasse per il suo
discorso, e lo avrebbero rapito prima che potesse finirlo.
Nessuno
di loro si aspettava la dichiarazione sconvolgente
del futuro Asse. Lo stupore fu così totale che non
riuscirono a muoversi finché
le guardie non afferrarono il giovane per le spalle, trascinandolo via.
«Feliciano!»
gridò Lovino. Roma uscì violentemente dal suo
corpo, richiamato dalla sua rabbia, e corse come un folle in direzione
del
Palazzo. Il lupo di ombra si bloccò quando vide le porte
chiudersi, e si voltò
verso Lovino in attesa di ordini.
«Andiamo
a riprenderci Feliciano» ringhiò il ragazzo a
denti
stretti.
Gilbert
e Mathias sfrecciarono veloci in direzione del
Palazzo di Quarzo; Norge, Lily e Tino li seguirono, assieme a Ivan e
Yao, mentre
le navi rimasero in retroguardia.
In
quel momento, sorsero.
Gilbert
frenò bruscamente il suo famiglio, e lo stesso fece
Roderich.
Le
schiere dei Serafini e dei Cherubini si stesero ai lati
del Palazzo, come le ali di un angelo della morte.
I
marinai mormorarono preghiere scaramantiche nel vedere i
Serafini, avvolti in tre delle loro sei ali piumate, le restanti
spiegate nell’aria
per permettere loro di volare. Gli Asean tremarono, inorriditi dalle
quattro
facce e dalle quattro ali membranose dei Cherubini.
Lovino
li aveva istruiti su di loro, nei giorni precedenti;
i Serafini erano incantatori di notevole potenza, trasmutati in quegli
esseri
meravigliosi e tremendi in seguito a un rito all’interno del
Vaticano. I
Cherubini, invece, erano combattenti che erano stati plasmati in quella
forma
bestiale dai Serafini stessi.
Furono
Ivan e Yao a spezzare la calma surreale che si era
creata: il Custode abbatté violentemente la sua mazza contro
un Cherubino,
fracassandogli due delle quattro teste, e le spire di fuoco del Figlio
del
Cielo avvolsero un Serafino, bruciandolo assieme alle sue sei ali.
Il
Samurai si staccò immediatamente dalla flotta Asean e,
avvolto da una bolla di atmosfera artificiale, affiancò il
suo sovrano.
Estrasse la katana, e
falciò due
Cherubini troppo audaci.
«Correte!»
gridò il Mago dell’Ovest. «Noi li
blocchiamo!»
La
flotta di Britannia si diresse verso i Serafini, la Reina
contro i Cherubini, mentre le navi
Asean si divisero a metà tra le due fazioni.
Gilbird
e Mathias saettarono verso le porte del Palazzo di
Quarzo, evitando il più possibile la battaglia infuocata.
«Come
diavolo si apre questo maledetto portone?» gridò
Gilbert sopra il frastuono dello sparo con cui eliminò un
Cherubino.
«Abbiamo
la chiave» Antonio estrasse dal suo tascapane una
croce argentata, lievemente arrugginita, e la passò a
Lovino. Il giovane la
strinse tra le dita per un istante, in guerra con se stesso.
Aveva
strappato quel simbolo nel momento stesso in cui la
sua famiglia lo aveva abbandonato. Ironico che proprio
quell’oggetto potesse
riportarlo da suo fratello.
Lovino
lo applicò sulla porta, e concentrò tutta la sua
magia per replicare l’incanto che permetteva agli edifici
Vaticani di
riconoscerlo come parte della famiglia. La magia scorse nelle sue vene,
riconobbe il suo sangue come quello di un Vargas, e i bagliori
argentati del
simbolo trapelarono dalle sue dita.
Le
porte perfette si aprirono senza un cigolio. Lovino e
Antonio saltarono all’interno, poco prima che queste si
chiudessero dietro di
loro.
«È
sicuro lasciarli andare da soli?» chiese Roderich, mentre
Mathias si voltava per fronteggiare i Cherubini e i Serafini.
«Solo
pochi eletti hanno il permesso di entrare in questo
palazzo. Non troveranno troppe persone a sbarrargli la
strada» spiegò Gilbert.
L’archibugio cantò di nuovo, prima che la voce
dell’Hellsing risuonasse nell’aria:
«Le guardie e l’esercito, di solito, sostano
all’esterno. Dobbiamo liberare
l’uscita per quando avranno finito.»
Il
calcio del fucile premette contro la spalla del
guerriero, ma non poté sparare: Roderich e Mathias si
pararono davanti a lui.
«Lascia
fare a me» ordinò il musicista.
«Interverrai solo in
caso di necessità.»
«Sono
un Hellsing anche io!» protestò Gilbert.
«Non
ti farò andare in battaglia con
quello sguardo!» sentenziò ferreo,
imbracciando il violino.
«Sembra che tu attenda la morte a braccia aperte!»
L’Hellsing
sbarrò gli occhi a quelle parole.
Era
sicuro di non averne parlato, e nessuno se ne era
accorto: erano tutti troppo focalizzati sulla battaglia. Roderich non
gli aveva
lanciato più di un’occhiata, eppure aveva capito.
Doveva essere una specie di
sesto senso sviluppato dai padri.
Aveva
parlato
con Francis, quella mattina. Poco prima di partire, gli si era
avvicinato e gli
aveva posto la fatidica domanda.
«Dove
si trova
Matthew adesso?»
Francis
lo aveva
guardato con quei suoi occhi nuovi. Gli aveva appoggiato una mano sulla
spalla,
e aveva mormorato, il più delicatamente possibile:
«Non
è nel regno
dei morti. Si è reincarnato.»
Il
suo cuore, la
sua anima, l’interno universo erano andati in pezzi. Gilbert
era riuscito a
malapena a tartagliare:
«Reincarnato?»
«Sì.
Potreste
incontrarvi di nuovo, un giorno…»
«A
che scopo?
Quando avrà dieci anni, io ne avrò più
di quaranta. Che futuro può esistere?»
Francis
aveva
stretto con più decisione la sua spalla.
«Gilbert,
lui
non ha rotto il giuramento.»
«Che
vuoi dire?»
«Sta
facendo
quello che ti ha promesso: ti sta aspettando. Non perdere la speranza,
Gilbert.»
L’Hellsing
stese le labbra in un ghigno.
Non
perdere la
speranza…
«Farò
un tentativo…» concesse a mezza voce.
«Anche se
continuo a non capire come un neonato e un vecchio possano stare
insieme…»
Gilbird
saltò improvvisamente davanti a Mathias, e Roderich
urlò un avvertimento all’Hellsing.
«Non
preoccuparti!» gridò di rimando Gilbert. Si
voltò,
mostrando un viso sfolgorante di orgoglio barbaro. «Non ho
intenzione di morire
in questo posto schifoso, papà!»
L’archetto
di Roderich si immobilizzò per un istante. Al
contrario, il suo cuore batté furiosamente nel petto,
risuonandogli fino alla
gola.
«Hai
sentito, Mathias?» sorrise l’uomo. «Erano
anni che non
mi sentivo chiamare così…»
La
musica dell’Accordatore risuonò come sottofondo
degli
spari dell’Hellsing. Padre e figlio cominciarono a suonare
quel concerto di
guerra.
***
«Non
ti fa impressione?»
«Cosa?»
«Se
ne sta lì fermo senza fare niente…»
«Meglio
così. Chi riuscirebbe a fermare quel bestione, se
fosse agitato?»
Le
guardie bisbigliavano appena, fuori dalla cella in cui
era stato rinchiuso il Guardiano.
Sicuramente
avrebbe lottato per salvare il giovane Vargas,
per cui era stato immediatamente saldato a un pesante ceppo con robuste
catene,
e rinchiuso in una cella sigillata con simboli magici.
Le
sentinelle si erano aspettate reazioni furiose, urla,
combattimenti inutili contro la magia che lo bloccava.
Invece
Ludwig era rimasto immobile e silente, profondamente
assorto nei propri pensieri.
«Siamo
fortunati che…»
Entrambi
i militi trasalirono per un piccolo rumore alla
loro sinistra. Fu l’ultima cosa che fecero: lo sconosciuto
alzò una mano, ed
entrambi crollarono a terra, addormentati.
Ludwig
rialzò il capo, per nulla sconvolto.
«Sette
minuti precisi» si complimentò, rigido.
«Stavi
contando i secondi?»
«Dovevo
pur impiegare il tempo in qualche modo.»
L’uomo
sorrise, prima di alzare nuovamente la mano.
La
magia che imprigionava Ludwig si dissolse con uno
sfrigolio, lo stesso prodotto dall’acqua gettata su un masso
rovente.
Il
Guardiano si liberò velocemente dai ceppi e uscì
dalla
prigione, sotto l’occhio vigile dell’altro
individuo.
«Questa
è tua, a proposito» offrì quello,
allungandogli la
spada che gli avevano sottratto al momento del turbolento arresto.
Ludwig
la sistemò sulle spalle con un unico movimento
esperto, per poi portare i suoi occhi di ghiaccio sul suo interlocutore.
«Possiamo
andare. Feliciano ci sta aspettando.»
L’altro
annuì.
Il
Palazzo inghiottì in pochi secondi l’eco dei loro
passi.
***
La
musica di Roderich rallentava i Cherubini, falciati da
Ivan e Gilbert, con il supporto della Reina,
guidata da Francis. Le fiamme del Figlio del Cielo trattenevano i
Serafini,
attaccati senza pietà dal Samurai e dalla flotta di
Britannia, protetta dal
Mago dell’Ovest contro gli incantesimi degli angeli con sei
ali.
I
Gunsmith volavano da una flotta all’altra, attaccando,
schivando, uccidendo.
Norge
aspettava, seduto nella sua scialuppa con le mani
avviluppate alla scatola contenente l’Elfo, la loro ultima
creazione.
Non
dovette attendere a lungo: ben presto, le porte laterali
del Palazzo si aprirono, e una cascata di soldati si
rovesciò all’esterno,
ognuno di loro protetto da un globo di atmosfera artificiale.
«È
arrivato il tuo momento» sussurrò Norge alla
scatola,
prima di rimuovere il coperchio.
La
carica furiosa delle truppe Vaticane si arrestò; i militi
inciamparono nei loro stessi piedi, perplessi e spaventati.
L’Elfo
li fissò dalla cima della sua altezza imponente, la
pelle verde che riluceva fioca sotto le luci delle stelle. La sua forma
umanoide confuse i soldati, incerti se quello fosse un uomo modificato
con la
magia o una creatura bestiale. Gli occhi gialli dell’essere,
tuttavia, erano
troppo vacui per appartenere a un essere senziente.
Norge
stracciò la scatola, impadronendosi della tastiera di
comando dell’Elfo. Premette i primi pulsanti e immediatamente
le iridi topazio
del costrutto si illuminarono di un’intelligenza feroce.
Comandato
dal Gunsmith, l’Elfo sollevò i pugni giganteschi e
spazzò via la prima fila delle schiere Vaticane.
Norge
non si sorprese della facilità con cui l’Elfo
seguiva
i suoi comandi: i Gunsmith non producevano mai prodotti fallaci. Il
costrutto
si mosse esattamente come desiderava, e il giovane lo guidò
contro l’esercito
Vaticano.
Era
troppo concentrato nel muovere l’Elfo, e non vide il
Cherubino che lo puntava.
Se
ne accorse solo quando un peso immane lo travolse,
schiacciandolo contro il legno dell’imbarcazione. Il comando
gli scivolò di
mano, e ruzzolò dall’altro capo della scialuppa.
Gli
artigli della bestia si conficcarono nelle sue spalle,
passandole da parte a parte come rasoi. Norge non fece quasi in tempo a
urlare:
il Cherubino lo voltò bruscamente sulla schiena, e
affondò le zanne di una
delle sue quattro facce nella gola del giovane. Il suo grido si
smorzò in un
gorgoglio mentre il suo sangue inondava le fauci della belva.
Lo
stridio bestiale di un falcone s’incuneò i suoi
timpani
otturati, e un vento improvviso gli schiaffeggiò il volto
prima che il peso
immane del Cherubino venisse scaraventato via dal suo petto.
Gli
parve di sentire perfino il suono di un violino. Ma era
assurdo: chi mai si sarebbe messo a suonare in mezzo a una battaglia?
«Norge!»
Conosceva
quella voce, ne era quasi certo, anche se era
distorta e offuscata. Gli faceva male al cuore, quella voce…
«Non
mi riconosce!»
Roderich
non smise di suonare, nemmeno quando Mathias, nella
sua forma umana, gridò disperato; non poteva terminare la
melodia, o l’effetto
frenante su Cherubini e Serafiti sarebbe svanito.
Le
mani si Mathias vagarono sul corpo sconquassato di Norge,
frenetiche: le spalle erano state quasi divelte dal corpo, e dalla gola
aperta
uscivano copiosi ruscelli di sangue. Non poteva chiamare il Mago
dell’Ovest:
era troppo lontano, e troppo impegnato a impedire ai Serafini di
trucidare i
suoi uomini. Lovino era dentro il Palazzo, e lui non aveva conoscenze
sufficienti per salvarlo.
Lo
sguardo gli cadde sulla spilla al colletto di Norge.
Quando
era stato solo un famiglio era quasi morto, ma nel
momento in cui Gilbert lo aveva punto con la spilla era rinato come un
essere
umano in piena salute. Non era certo che avrebbe funzionato di nuovo,
ma era la
sua unica possibilità per salvare l’uomo che amava.
Si
chinò su Norge, sui suoi occhi spenti e sulle sue labbra
insanguinate. Depositò un bacio su di esse, e le sue parole
ebbero il sapore
del sangue.
«Non
andare, Norge. Posso ancora salvarti. Ti amo.»
Se
c’era anche una remotissima possibilità che il
giovane
potesse udirlo, voleva che quelle fossero le ultime parole a scivolare
nelle
sue orecchie. Non voleva vivere per sempre con il rimpianto di averlo
fatto
fuggire senza avergli ripetuto che l’amava.
Punse
il collo delicato del ragazzo con la spilla.
Un
piccolo vortice risucchiò le membra umane di Norge
all’interno dell’orpello, facendolo sparire in un
turbinare di spire
smeraldine.
Mathias
strinse freneticamente il ninnolo tra le dita. Era
tiepido; poteva quasi sentire il cuore di Norge palpitare al suo
interno. Il
Gunsmith portò l’orpello al viso, e lo
tempestò di baci.
Norge
era vivo.
Avrebbe
aspettato fino alla fine della battaglia, e lo
avrebbe fatto uscire solo davanti al Mago dell’Ovest. Lui
sarebbe riuscito a
curarlo. Probabilmente.
Mathias
scrollò la testa. La battaglia. Doveva concentrarsi
sulla battaglia.
Si
mise a quattro zampe per tastare il pavimento della
scialuppa, e recuperò veloce il comando dell’Elfo.
Il
loro gigante verde si rianimò solo quando Mathias
cominciò a premere sulla tastiera.
«Roderich»
gridò, manovrando l’Elfo. «Mi dispiace,
avevo
detto che ti avrei guardato le spalle…»
«Lo
stai facendo.»
Mathias
sentì la schiena dell’uomo premersi contro la sua.
Le
scapole del musicista si muovevano sotto le sue, seguendo i movimenti
repentini
dell’archetto.
«Per
un famiglio non esiste onore maggiore che combattere
con il proprio padrone. L’hai detto tu» gli
ricordò Roderich. «Per un padrone,
non c’è onore più grande che salvare il
proprio famiglio, quando questo lotta
per la persona che ama.»
Mathias
sorrise, inghiottendo le lacrime.
Sapeva
che la sua fiducia era ben riposta. Il suo padrone
era un padre affezionato, e una persona dal cuore d’oro.
Cercò
di non pensare ad altro, mentre muoveva l’Elfo al
posto di Norge.
***
«Non
puoi
combattere in queste condizioni!»
«Non
posso. Ma
lo farò.»
«Perché?»
«Con
che
coraggio potrei presentarmi davanti a Young Soo, se non
spenderò ogni goccia
del mio sangue per difendere Yao?»
Il
primo spasmo lo colse durante i primi minuti della
battaglia.
Kiku
non vi badò, e continuò a combattere sotto lo
sguardo
preoccupato dei suoi colleghi della Stella Polare, gli stessi che
avevano
espresso la loro preoccupazione quella mattina.
Il
secondo giunse poco dopo, e Kiku faticò di più a
nasconderlo. Fortunatamente, Yao stava lottando dandogli le spalle.
Il
terzo lo costrinse in ginocchio, all’interno della sua
sfera artificiale.
Lo
spirito del Samurai gli impedì di arrendersi: la katana roteò, nonostante i
muscoli preda
di spasmi, stroncando i Serafini che miravano alle spalle del Figlio
del Cielo.
Il
guerriero strinse una mano al petto, e la stoffa bagnata
di rosso emise un rumore acquoso, strizzata dalle sue dita. Le ferite
si
stavano riaprendo; il respiro usciva più corto e
più affaticato a ogni nuova
stilla di sangue versato.
Yao
si voltò in quel momento, e lo vide spezzato, piegato su
se stesso e sanguinante.
«Kiku!»
esclamò.
Nemmeno
la preoccupazione del Figlio del Cielo lo fermò: il
Samurai spiccò un balzo e decapitò i Serafini
alle spalle del sovrano prima che
questi potessero ferirlo.
«Kiku,
fermati!»
Il
richiamo del regnante non sfiorò le orecchie del guerriero,
otturate dal rombo della battaglia. Il Samurai tenne una mano stretta
al ventre
sanguinante, e fece piroettare la katana
con l’altra.
Spezzò
le ali e tagliò le gole di altri dieci Serafini,
prima che Yao lo afferrasse per le spalle.
«Kiku!
Sei ferito! Se continui così, morirai!»
«Sono
già morto!»
Altri
due fendenti, altri due Serafini caduti.
Il
respiro si fece rovente nella sua bocca, impregnata del
sapore ferrigno del sangue, ma il Samurai riuscì comunque ad
articolare:
«Sono
già morto contro il demone. Ho ottenuto una vita lunga
qualche giorno. E voglio consacrarla al mio sovrano» un colpo
di katana concluse il suo discorso,
abbattendo un altro nemico.
«Io
non voglio perdere anche te!» Yao urlò sopra il
ruggito
delle sue fiamme.
Kiku
aprì la bocca per rispondere, ma un fiotto di sangue
sostituì le parole.
Tossì
e sputò, annaspando disperatamente per respirare. Due
mani delicate ma decise lo afferrarono da sotto le ascelle, e il
soldato si
sentì trasportare verso il basso.
Si
rese conto di dove si trovasse solo quando il legno della
nave Asean si plasmò contro la sua schiena.
Inspirò
a fondo, e i polmoni feriti quasi si carbonizzarono
per quel respiro. Allungò la mano alla sua destra; non aveva
bisogno di vedere
per riconoscere l’aura ribollente del sovrano.
«Non
ci perderai» riuscì finalmente a sputare fuori.
«Come
puoi dirlo, proprio mentre mi stai lasciando?»
Yao
faticò a spingere le parole fuori dalla gola gonfia di
lacrime bollenti.
La
guerra si spense, intorno a lui; il tempo perse consistenza,
lo spazio svanì. C’erano solo Kiku e quel dolore
lancinante al petto.
Le
iridi di pece lo fissarono vacue, e una mano candida si
alzò alla ricerca del suo viso. Il Figlio del Cielo la
afferrò e se la premette
sulla bocca, baciandogli il palmo.
«Questo
mondo non è stato creato per quelli come me e come
Young Soo» esalò, rauco. «Young Soo era
un servo con le mani maledette, io ero
un orfano assassino. Questo mondo ci ha calpestato dal giorno in cui
siamo
nati. Ma tu, Yao…» il pollice del Samurai gli
accarezzò debolmente lo zigomo.
«Tu hai creato un mondo a parte per noi. Io e Young Soo non
abbiamo combattuto
per la Confederazione; abbiamo combattuto per quel piccolo universo che
hai
cucito su di noi» le dita di Kiku si contrassero leggermente,
avvertendo le
lacrime di Yao scorrere sulle loro nocche. Circondò quella
guancia liscia con
la sua mano malferma, e stese un sorriso sulle labbra tremanti.
«Tu sei un
ottimo sovrano, perché, se il mondo non accetta i tuoi
sudditi, ne crei un
altro appositamente per loro. Non basterebbero mille vite per
ringraziarti
abbastanza.»
L’Aeronave
sobbalzò sotto un violento attacco nemico.
Un’orda di Cherubini si rovesciò sul ponte, e
fiotti di sangue colorarono
l’aria quando i loro artigli si abbatterono sui marinai
inermi.
Yao
si rialzò in piedi bruscamente, e richiamò a
sé il
potere delle fiamme. Il Cherubino che ebbe l’ardire di
scagliarsi su di lui
venne incenerito con un solo gesto da parte del sovrano.
Kiku
sorrise stancamente, steso sul pavimento.
Nonostante
il dolore, il suo regnante riusciva a recuperare
la freddezza e la lucidità in un attimo. Sapeva che
un’emozione fuori posto
poteva compromettere l’esito di un’intera
battaglia, e, qualunque fosse la
sofferenza che lo affliggesse, non le avrebbe permesso di compromettere
il
futuro dei suoi sudditi.
Un
sovrano che amava la sua gente; il popolo non avrebbe
potuto chiedere di meglio.
Kiku
strinse i denti, e fece un enorme sforzo per girarsi
sul fianco. Le dita artigliarono il legno e le ginocchia sfregarono
dolorosamente quando il Samurai tentò di rimettersi in piedi.
Era
il Figlio del Cielo migliore che Chugoku avrebbe mai
avuto; doveva combattere fino alla fine per quell’uomo dal
cuore di fuoco.
Impugnò
la katana e,
ringhiando di dolore, la conficcò nel petto di un Cherubino.
Il suo ventre
sanguinò assieme a quello del nemico,
l’incantesimo del Mago dell’Ovest che
perdeva progressivamente efficacia.
Un
vento gelido si abbatté sul ponte, e Kiku comprese che il
Custode dei Cancelli si era appena aggiunto alle loro forze.
Si
voltò leggermente, per catturare lo scorcio di Yao e
Ivan, fuoco e ghiaccio, che combattevano in sincrono, il primo quasi
danzando
con le fiamme e il secondo colpendo con la forza di una valanga.
Fu
così che vide anche il Cherubino avvicinarsi a Ivan senza
essere visto. Il Samurai estrasse velocemente un pugnale da lancio
dalla
custodia sulla sua coscia, e lo fece sfrecciare in direzione del mostro.
La
lama si infisse nella fronte del Cherubino con un secondo
di ritardo: la bestia era riuscita ad artigliare il Cuore
d’Inverno dell’uomo,
e a strapparglielo barbaramente dal petto.
L’urlo
del Custode frantumò l’aria. Yao si
voltò con gli
occhi sbarrati dal terrore, esattamente quando il gigante cadde
pesantemente
sulle ginocchia.
Ivan
udì il tonfo del suo corpo che urtava il suolo come da
un’enorme distanza.
Il
sigillo del Cuore d’Inverno era stato infranto.
Poté
avvertire quasi fisicamente una ragnatela di crepe diramarsi nella sua
anima di
ghiaccio e, da quelle spaccature, il suo potere si disperse nel nulla.
La
mazza ferrata divenne improvvisamente troppo pesante, e
le dita non furono più in grado di sostenerla. Il manico di
ferro rintoccò
funereo contro il pavimento.
Ivan
dischiuse le labbra per inalare l’aria sporca della
battaglia; a ogni respiro, una nuova ondata di ricordi
confluì in lui.
Tutte
le memorie congelate dal Cuore d’Inverno eruppero come
i fiumi durante il disgelo primaverile. Ricordi di infanzia e di
famiglia si
accatastarono senza ordine nella sua mente confusa, spingendo in un
angolo le
memorie fredde del Custode. Troppi colori, troppe emozioni, troppe cose
cui non
era più abituato. Di chi era quella vita che gli passava
davanti? A chi
sorridevano quelle due giovani ragazze, e quel vecchio signore dalla
pelle
rugosa come quella di una quercia?
E
sangue, sangue, sangue… un mare rosso gli annegò
gli
occhi.
Facce
sorridenti si frammentavano in bocche ritorte
dall’agonia, un abbraccio diveniva un tentativo di
strangolamento in un
secondo: amore e odio combattevano una battaglia furiosa nella sua
mente,
cercando di decidere chi fosse realmente vivo, se Ivan o il Custode.
In
mezzo a quella baraonda, solo una cosa era chiara.
Solo
una persona era sempre stata il suo punto di
riferimento inamovibile, il sole che splendeva sulla tundra gelata.
«Yao…»
chiamò con un filo di voce, quando il volto amato si
chinò su di lui, segnato da un torrente di lacrime.
Le
belle labbra del sovrano si schiusero per rispondergli,
ma Ivan non riuscì a sentirlo. Le memorie si erano affossate
in un enorme pozzo
nero. E aspettavano che lui le raggiungesse sul fondo di quel baratro.
I raggi
del sole di Yao sarebbero arrivati fin laggiù?
Gli
occhi dell’uomo si chiusero, e quelli del sovrano si
spalancarono.
Il
Figlio del Cielo chiamò a pieni polmoni il compagno,
scuotendolo per le spalle.
Aveva
perso Yong Soo, stava per perdere Kiku. Non voleva
perdere anche il suo gigante innamorato.
La
katana
sferragliò sul ponte: il Samurai aveva cercato di chinarsi
con grazia, ma le
ginocchia avevano ceduto. La fine era davvero vicina, se aveva
già cominciato a
perdere il controllo del suo corpo.
«Gli
ha strappato il cuore» esalò Yao, come se non
riuscisse
a trovare abbastanza fiato per parlare a
un tono di voce normale. «Non può
vivere senza cuore…»
Quasi
non si accorse dalla mano che si strinse sul suo polso
e lo diresse verso l’alto. Si voltò solo quando
percepì il battito del Samurai
sotto le sue dita.
«Allora
è sufficiente fornirgliene uno nuovo»
sentenziò
calmo Kiku, e aggiunse, prima che il sovrano potesse protestare:
«Io morirò
comunque. Lo sai, lo hai visto con i tuoi occhi. Ma il mio cuore
è illeso, ed è
forte.»
«Kiku…»
«Mi
hai fatto nascere come Samurai» il giovane chinò
il
capo, con la sua consueta eleganza. «Permettimi di morire
onorando il mio
ruolo.»
Le
braccia calde del sovrano si strinsero con forza attorno
alle sue spalle, e le sue lacrime roventi gli piovvero sul viso.
«Prima
di tutto, tu sei Kiku Honda» asserì il regnante
nel
pianto. «E non ci saranno altri Samurai, dopo di
te.»
«Ma
il Figlio del Cielo…»
«Nessuno
sarà mai degno di prendere il tuo posto. Kiku
Honda, tu sarai l’ultimo e il più grande tra i
Samurai» Yao si allontanò appena
per sfiorare le gote lattee con affetto. «Young Soo
sarà così felice di
rivederti…»
«Mi
assillerà di domande» sorrise mestamente il
giovane.
«Se
riuscirà a strapparti all’Aquila e a Heracles. Sei
mancato molto anche a loro.»
Gli
occhi di carbone si sollevarono su quelli del sovrano, e
la mano del Samurai si premette su quella del regnante, appoggiata al
suo
sterno.
«Ti
aspetteremo là, Yao. In un mondo in cui la notte
è
punteggiata di stelle, in cui non esistono orfani o schiavi. Heracles
ti
costruirà il trono più splendido che si sia mai
visto, e ti aspetteremo. Vivi
la tua vita e facci aspettare a lungo.»
Il
sorriso del Figlio del Cielo inghiottì a fatica le
lacrime, mentre il sovrano annuiva.
«Dovrete
fare spazio, perché sarò in compagnia di un
gigante…» mormorò in un sospiro.
Il
mento di Kiku si appoggiò alla sua spalla. Il corpo del
Samurai
stava perdendo le energie e, con esse, la vita.
«Ti
abbiamo amato con tutte le nostre forze, Yao. E
l’aldilà
non è abbastanza lontano per separare chi si ama.»
«Lo
so» le dita del sovrano si strinsero sul suo sterno, in
conflitto. «E lo sapeva anche Young Soo…»
La forza dell’incantesimo spinse all’indietro le
scapole del Samurai, come per
una forte onda d’urto. Il sovrano avvolse la schiena di Kiku
con un braccio per
impedirgli di cadere all’indietro.
Il
battito del Samurai si trasferì dallo sterno del
guerriero alle sue dita, che si chiusero a guisa di gabbia per impedire
al
palpito vitale di fuggire.
Il
Samurai si accasciò tra le sue braccia, come un bambino
contro il petto del genitore; la katana
emise uno stridio legnoso, sfregando sul pavimento della nave, e la
giacca
sporca di sangue scivolò a terra.
Le
ciglia di carbone tremarono, mentre le pupille si
fermavano per l’ultima volta sul viso del sovrano.
Aspettava
di dirlo da una vita intera. Le labbra esauste si
stesero in un sorriso sfinito, e una sola parola fuggì da
esse prima che si
chiudessero per sempre.
«Padre…»
Il
Samurai chiuse gli occhi. Non ricordava che il mondo
dietro le palpebre fosse così luminoso, quasi dorato. Era il
sole?
No,
non era il sole. Era una chioma bionda, con due occhi azzurri
e un sorriso abbagliante.
Sono
venuto a
prenderti.
Non
eri
obbligato.
Lo
so. Ma gli
eroi fanno così.
Due
mani dure come la corteccia, coperte da maniche troppo
larghe e troppo lunghe, gli strattonarono il polso.
Ben
fatto, Kiku.
Hai fatto sorridere anche le stelle.
In
lontananza, un ragazzo muscoloso con i capelli mossi si
stava sbracciando nella loro direzione.
Kiku
si lasciò condurre lungo quella strada eterea. Non
aveva paura.
Suo
fratello, il suo eroe e il suo amico d’infanzia erano
lì
con lui. Tutto era bello, in quel giardino di luce.
Lo
sapevi, no?
L’aldilà non è abbastanza lontano per
separare chi si ama…
***
Antonio
e Lovino ruzzolarono sul pavimento perlaceo, un
secondo prima che i portoni si chiudessero alle loro spalle.
Lovino
fu il primo a rialzarsi in piedi, e si sarebbe
lanciato a capofitto nel dedalo di corridoi se Antonio non lo avesse
trattenuto
per un gomito.
«Che
diavolo fai?» scattò il giovane, inviperito.
«Feliciano
è qui!»
«Ma
non è da solo» lo redarguì Antonio.
«Certo,
c’è anche quel bastardo di nostro
padre!» ruggì il
ragazzo, cercando di liberarsi dalla stretta del pirata.
Antonio
gli strinse il bicipite con tanta forza che Lovino
uggiolò di dolore.
«Fermo»
sibilò il pirata. «C’è
qualcosa che non va, qui.»
«Che
diavolo…»
L’uomo
gli impose il silenzio, e socchiuse gli occhi, come
in ascolto.
«Conosco
questa energia…» valutò, assorto.
La
sorpresa si stese sul volto del pirata, trasfigurandolo.
«Non
è possibile… come ha fatto a entrare prima di
noi?»
«Chi? Finisci una
frase, maledizione!»
Antonio
lo fissò stralunato.
«Eppure
dovrebbe essere al comando della Reina,
adesso…»
***
Un
plotone di Serafini si abbatté sulla nave delle Mani del
Diavolo.
Francis
guidò i marinai in una lotta furiosa, per difendere
la libertà della Reina.
Un
Serafino colpì duramente il Marauder al volto, facendolo
cadere a terra. Un marinaio al suo fianco svuotò
l’archibugio sulla bestia, che
precipitò fuori dalla nave ululando.
Il
mozzo si inginocchiò di fianco all’uomo e
tentò di
chiedergli dove fosse stato colpito. Le parole divennero cenere sulle
sue
labbra quando vide il volto del Marauder liquefarsi e ricomporsi in un
nuovo
viso.
«Mago
dell’Ovest?» ragliò il mozzo.
«Oh
no!» sbuffò quello. «Io sono il
riflesso. Il più bello
tra i due.»
«Ma
se voi siete qui…» balbettò il mozzo.
«Dov’è il
Marauder?»
La
copia del Mago dell’Ovest diresse il suo sguardo
acquamarina sul Palazzo di Quarzo.
«È
andato a sistemare una faccenda di trecento anni
fa…»
***
Il
signor Vargas tambureggiò nervosamente le dita tra di loro.
Il
Guardiano era imprigionato, suo figlio era saldato alla
parete che ne avrebbe assorbito l’energia.
Aveva
fatto in modo che tutto tornasse sulla retta via.
Eppure non riusciva a cancellare quella sensazione acre nel suo
stomaco…
«Stai
provando dei sensi di colpa, Vargas?»
L’uomo
trasalì e si voltò con occhi spiritati.
Uno
sconosciuto con un paio di occhiali davanti ai grandi
occhi blu lo fissava dalla porta, seguito dal Guardiano,
inspiegabilmente
libero e armato.
«Chi
diavolo sei, tu?» esacerbò l’uomo,
arretrando di un
passo.
«Oh,
forse non mi riconosci per via degli occhiali»
teatralizzò lo sconosciuto. Liberò il viso dalle
lenti, e diresse verso l’uomo
terrorizzato uno sfolgorante sorriso, che divenne un ghigno diabolico
l’istante
successivo. «Forse non mi riconosci perché sono
stato costretto a cambiare
viso. Hai fatto rotolare la mia testa troppo lontano perché
potessi
riattaccarmela al collo…»
«Cosa?»
«Oh,
hai ragione. Le tue mani sono sporche di talmente tanto
sangue, che non puoi distinguere una goccia
dall’altra» l’uomo portò una
mano
alla fronte con fare drammatico. «Ti darò un
indizio: traghetto le anime verso
l’aldilà.»
Il
volto del signor Vargas si contorse in una terribile
comprensione.
Ricordava
il Fammingo di cui aveva ordinato la condanna a
morte.
L’uomo
lo aveva
guardato, prima di appoggiare la testa sul ceppo. I suoi occhi non si
erano
colorati di terrore; al contrario, gli avevano lanciato una sfida.
«Alla
prossima,
Vargas» aveva salutato, per poi porgere il collo
all’ascia del boia. «Non mi
tagli i capelli troppo corti, per cortesia. Sono anni che li curo per
farli
crescere a dovere.»
«Non
può essere…» tartagliò,
annichilito.
«Sono
spiacente, Vargas. Questa volta non potevo aspettare
un intero ciclo di reincarnazione, per guidare la Confederazione verso
la sua
fine.»
Il
Marauder scivolò vicino a Feliciano, inchiodato alla
parete con gli occhi chiusi. Sfiorò appena la guancia, e le
palpebre del
giovane si sollevarono.
«Perdonami,
Jeanne» sussurrò dolcemente Francis. «Ti
ho
fatta attendere a lungo…»
«No»
rispose Feliciano, con voce febbricitante. «Dice che
è
lei ad aver fatto aspettare te…» il sorriso del
giovane si ampliò quando vide
il suo Guardiano poco distante. «Ludwig…»
«Tu
sei quel maledetto ciarlatano?» l’urlo del signor
Vargas
ruppe quella riunione.
Francis
si voltò lentamente, un sogghigno malevolo a
distorcergli il viso.
«Nelle
mie numerose vite ho cambiato nome svariate volte, ma
il mio titolo è rimasto sempre lo stesso:
Marauder» l’uomo inclinò la testa,
sornione e maligno. «Ma se vuoi sapere chi sono stato durante
la mia prima vita…
ti dirò che tu mi conosci bene, Vargas. Tutti, nella
Confederazione, mi
conoscono.»
L’uomo
allargò le braccia, come un prestigiatore che svela
il suo trucco finale.
«Sono
nato per la prima volta circa trecento anni fa. Ero
l’Asse leggendario, il cui potere è rimasto
imbattuto fino alla nascita di
Feliciano.»
Gli
occhi dell’uomo si assottigliarono come quelli di una
volpe.
«Ed
è da trecento anni che sto pianificando l’ultimo
atto
della Confederazione.»
Babababaaaaam!
E
il terribile
segreto di Francis è stato svelato 8D
Nel
prossimo
capitolo torneremo a trecento anni prima, per scoprire come esattamente
sono
andate le cose. E ci sarà l’epilogo di questa
battaglia.
Direi
che
mancano circa sei capitoli prima della fine. OMG, non ci credo, mi
sembra di
aver scritto il prologo ieri ç_ç
Anyway,
cercherò
di aggiornare il prima possibile<3
A
presto!
Red
|
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Capitolo 25 *** La fine del Vaticano ***
Capitolo
Venticinque: la fine
del Vaticano
Lovino
e Feliciano non erano i primi gemelli della famiglia
Vaticana.
Prima
di loro, più di trecento anni prima, erano nati Francis
e Jeanne.
Ritenuta
la parte debole, Jeanne fu annegata all’età di due
anni: la piccolina fu accidentalmente lasciata gattonare troppo vicino
al
torrente, e sfortunatamente nessuno udì la sua lotta con i
flutti. Nessuno
poteva uccidere un Vargas, se non la volontà divina; Jeanne
era stata
abbandonata al suo destino come Lovino era stato scaricato su un
pianeta
deserto. Un tragico incidente, recitavano le cronache Vaticane.
Francis
divenne Asse non appena compiuta la maggiore età. Fu
chiaro fin dai suoi primi anni di vita che sarebbe diventato uno degli
astri
più luminosi nella storia Vaticana: a soli dieci anni era in
grado di
sconfiggere i migliori maghi della Galassia; a dodici aveva vinto un
duello
privato con il Figlio del Cielo di allora.
Quello
che la sua famiglia non sapeva, era che Francis non
aveva mai perso di vista la sorella. I suoi enormi poteri gli avevano
permesso
di osare qualcosa che era condannato come tabù: parlare con
i morti.
Jeanne
chiacchierava con lui, cantava e si emozionava per i
fiori, come qualunque altra ragazza della sua età.
Ciò che la distingueva dalle
altre era che solo il fratello la poteva vedere.
Francis
fu davvero felice di poter contare sul supporto
della sorella quando, al momento dell’Auspicio, aveva visto
il futuro della
Confederazione.
Sei
pallido,
aveva notato Jeanne, non appena il fratello aveva fatto
ritorno.
«Ho
visto il futuro» esalò Francis, abbandonandosi su
una
poltrona nivea. «La Confederazione scomparirà tra
circa trecento anni.»
Cosa?
«Il
Vaticano ha fatto molti errori» mormorò,
carezzando la
guancia inconsistente della sorella. «E continuerà
a farne. Seminerà sangue e
raccoglierà guerra. E tutto finirà in cenere e
lacrime.»
Jeanne
volò rasente al soffitto, il viso tra le mani.
Non
si può fare
niente per impedirlo?
«Una
seconda visione si è sovrapposta alla prima»
rivelò
Francis. «Il Vaticano crollerebbe comunque, ma la maggior
parte delle persone
presenti nella Confederazione sopravvivrebbero.»
Cosa
ti fa
tentennare, fratello?
Francis
si aggrappò ai braccioli della poltrona per issarsi
a sedere.
«Dovrò
spargere a mia volta molto sangue. Per diventare un
ingranaggio del destino, bisogna sporcarsi le mani. Dovrò
trascinare fin qui un
alieno innocente perché possa spiegarci come effettuare un
viaggio
extradimensionale, dovrò convincerlo a distruggere un
pianeta intero, dovrò
osservare i miei amici che soffrono e aspettare, perché
nulla muove il fato
velocemente come il dolore…»
E…?
«E
dovrò condannarmi a una vita di continue reincarnazioni.
Questi eventi avranno bisogno di anni e secoli per avvenire.
Sarò l’unico
mostro eternamente vivo in una Galassia di fantasmi.»
Lo
farai,
fratello?
La
schiena del giovane Asse si adagiò di nuovo contro la
poltrona.
«Lo
farò, sorella. Per il futuro. Perché la Galassia
non può
crollare per la mia codardia. Ma non lo farò
sorridendo.»
Troverai
la
forza di sorridere, in qualche modo. Ti conosco.
Quasi
a confermare le parole di Jeanne, le labbra di Francis
si stesero naturalmente in una curva dolce.
«Due
gemelli come noi. Loro saranno il tassello finale»
annunciò
l’Asse. «Ma non troveranno mai la strada da soli.
Per questo ti chiedo un
favore, Jeanne: accompagnali.»
In
che modo?
«Diventa
il loro animale guida, il loro gregario, quello che
preferisci. Ma sarà un compito ingrato, Jeanne.»
Perché?
«Ho
letto i testi sui gemelli. Sì, quelli che il Vaticano ha
bollato come “letture eretiche”.»
Non
voglio
nemmeno chiederti come li hai ottenuti.
Un
ghigno scaltro scintillò negli occhi color fiordaliso
dell’Asse.
«Credimi,
sorella, è meglio che tu non lo sappia. Comunque,
ho finalmente capito perché i gemelli sono considerati
portatori di sfortuna,
all’interno della famiglia Vaticana. E non è per
la presunta anima divisa a
metà» Francis si alzò in piedi, e
cominciò a misurare la stanza a larghe
falcate. «Quello che i gemelli hanno in comune non
è l’anima, ma il potenziale
magico. Anzi, non l’hanno esattamente in
comune…»
Spiegati
meglio.
«È
come se i gemelli fossero collegati da un sottilissimo
filo di energia» Francis indicò
l’ombelico. «Una specie di cordone ombelicale
spirituale. E questo filo di energia mette in comunicazione le loro
forze
magiche. In un individuo singolo, il potenziale magico si divide in
ombra e
luce; per i gemelli è lo stesso, ma, per via di questo filo,
se uno è luce,
l’altro è ombra e viceversa.»
Non
capisco.
«È
complicato, in effetti» si scusò Francis, e
mimò con le
mani due piatti di bilancia per far comprendere meglio alla sorella.
«Quando un
individuo singolo usala sua energia positiva, quella negativa viene
momentaneamente messa da parte per permettere alla luce di sfolgorare
al
massimo del suo potenziale» la mano sinistra calò
verso il basso, mentre la
destra si sollevò a livello del suo viso.
«L’ombra viene momentaneamente
accantonata all’interno dello stesso individuo. Ma per via
del cordone
ombelicale spirituale…»
Nei
gemelli,
quando uno dei due usa il potere della luce, scarica tutto il potere
d’ombra
sull’altro.
«Esattamente.
Per questo i gemelli non sono ammessi nelle
famiglie Vaticane. Pensa se uno dei due diventasse Asse e
l’altro decidesse,
anche solo per una volta, di usare l’energia bianca: un Asse
insozzato sarebbe
un vero disonore, non trovi?»
È
orribile…
Francis
annuì, costernato. Le atrocità che il Vaticano
era
in grado di commettere in onore della purezza erano incredibili nella
peggiore
accezione della parola.
«I
gemelli hanno anche una seconda caratteristica. Un
singolo individuo ha solo un corpo, per contenere il suo potenziale
magico. I
gemelli, invece, ne hanno due» il sorriso che si stese sulle
labbra di Francis
quasi gli sgretolò la faccia. «Se pensano che io
sia potente, immagina cosa
potremmo fare insieme,
sorella.»
Jeanne
volò di nuovo vicino a lui, e lo fissò
intensamente
con i suoi occhi chiari.
Prima
hai detto
che sarebbe stato un compito ingrato occuparmi dei gemelli.
Perché?
Il
volto di Francis si rabbuiò.
«Poiché
quei libri sono stati riconosciuti come immorali e
distrutti quasi totalmente, solo noi due siamo a conoscenza di questa
particolarità dei gemelli. Il resto della Confederazione
è convinto che un
gemello erediti la parte malvagia dell’anima e
l’altro quella buona, e che
quindi sia necessario uccidere il malvagio. Solo noi due sappiamo che
entrambi
i gemelli possono essere luce e ombra allo stesso tempo, che
è una loro scelta»
Francis prese un lungo respiro, prima di buttare fuori:
«Dovrai scegliere il
gemello più testardo, e fargli credere che sia lui il
gemello maledetto. Dovrai
fargli credere di essere del tutto oscuro.»
Jeanne
fluttuò lontano da lui, inorridita.
«È
necessario!» si giustificò Francis.
«Sarà il desiderio di
riunirsi al fratello a muoverlo in modo da decretare la fine della
Confederazione per come la conosciamo.»
E
non pensi a
lui? Come si sentirà quel povero bambino?
«Potrà
ancora abbracciare il fratello, e lo farà, alla fine.
Credo che sia un bambino molto fortunato.»
Jeanne
si fermò a mezz’aria, folgorata da
quell’asserzione.
Un bambino più fortunato di loro: loro non erano mai
riusciti a scambiarsi un vero
abbraccio. Avevano solo quelle carezze di vento che ogni tanto Jeanne
gli
faceva, come in quel momento.
Francis
chiuse gli occhi, mentre la brezza della mano della
sorella gli sfiorava la frangia bionda.
«Ho
paura» confessò, flebile. «Diventeremo
due ladri di
vite, anche se per la salvezza della Confederazione. Dei
predoni…»
Marauder.
«Come?»
Nella
tua
prossima incarnazione. Fatti chiamare Marauder, e conduci verso
l’aldilà tutte
le anime che non sei riuscito a salvare. Sarà il tuo modo
per espiare.
Francis
annuì dolcemente, senza aprire gli occhi.
«Marauder»
ripeté. «Non suona male…»
Diventerò
un
lupo nero,
continuò Jeanne, accarezzando gli
zigomi del fratello. Un lupo nero per il
fratello malvagio. E un leone dorato per quello buono.
«E
io sarò la mano che li condurrà a te.»
E
insieme
condurremo tutti fuori dalla Confederazione.
«Prima
c’è una cosa che dobbiamo fare.»
Che
cosa,
fratello?
Francis
le assegnò il ghigno che percorreva sempre le sue
labbra quando macchinava qualcosa.
«Ordinare
la costruzione di un ventre di pietra in grado di
assorbire le energie vitali.»
***
Francis
passò le dita sulla concavità liscia, erosa dai
secoli.
«Proprio
questo» sussurrò, seguendo il filo dei suoi
ricordi.
Il
signor Vargas stava sbraitando qualcosa, ma nessuno dei
presenti vi fece caso: il Marauder era troppo occupato a ispezionare il
ventre
cavernoso, e Ludwig stava concentrando tutte le sue energie nel
liberare
Feliciano senza fargli del male.
«La
Confederazione crollerà, senza un Asse a
reggerla!»
sberciò l’uomo, le vene sporgenti sul collo
cianotico.
Francis
voltò la testa molto lentamente, a occhi chiusi,
mostrando tutto il suo disappunto per quelle continue interruzioni.
«È
ovvio che la Confederazione crollerà»
comprovò. «Siamo
qui per sbriciolarla fino all’ultimo frammento. Non
può esserci rigenerazione,
senza distruzione.»
«Se
la Confederazione crolla, morirete anche voi!»
«Se
fossimo all’interno della Confederazione, certo. Ma noi
stiamo pianificando un lungo e rilassante viaggio
extradimensionale.»
Gli
occhi del signor Vargas si spalancarono tanto che per
poco non esplosero.
«Voi
siete pazzi…» sputacchiò.
«Noi
pianifichiamo la salvezza di migliaia di persone, voi
avete sterminato interi pianeti. Date le circostanze, sono lieto di
essere
pazzo.»
Uno
schiocco secco annunciò l’avvenuta liberazione di
Feliciano. Il suo Guardiano si chinò sulle ginocchia per
impedirgli di cadere
al suolo, e lo strinse gentilmente tra le braccia finché le
gambe dell’Asse non
gli permisero di alzarsi faticosamente in piedi.
Francis
coccolò i suoi occhi stanchi con l’immagine di
Ludwig che sorreggeva Feliciano, facendosi passare un suo braccio
attorno alla
vita e stringendogli le spalle con la mano forzuta. Era bello sapere
che nella
Confederazione c’era ancora un po’ di amore sincero.
Si
rammaricò quando il signor Vargas rovinò anche
quel
momento magico.
«Il
Vaticano non vi permetterà mai un esodo così
blasfemo!»
Un
sorriso sconosciuto torse le labbra del Marauder. Non
aveva nulla in comune con la sua allegra malizia o con la scaltrezza
lasciva
che lo contraddistinguevano. Era il ghigno di chi aveva tessuto un filo
alla
volta l’arazzo della sua vendetta negli ultimi trecento anni.
«Ma
il Vaticano crollerà molto prima della
Confederazione.»
Il
signor Vargas arretrò di fronte all’espressione
del
Marauder. Sembrava che la sua ombra si fosse improvvisamente espansa,
avviluppando tutto lo spazio circostante in una notte innaturale.
«Quando
ho detto che il Vaticano ha creato con le sue mani i
demoni che lo avrebbero distrutto, dicevo sul serio» Francis
ancheggiò
lievemente, quasi volesse sedurre la parete al suo fianco.
«Ho ordinato io la
costruzione di questo posto, trecento anni fa. Un luogo in grado di
inglobare
l’energia, staccandola dal corpo. Nessuno di voi si
è mai chiesto perché abbia
dato un ordine simile,
vero?»
Il
Marauder appoggiò la schiena alla parete e
incrociò
braccia e gambe, perfettamente rilassato.
«Vuoi
spiegarglielo tu, Feliciano?»
«Questa
parete può inglobare le energie vitali quando queste
abbandonano il corpo in seguito alla morte» ansò
l’Asse.
«Esatto»
Francis mimò una pistola con pollice e indice, e
indirizzò l’immaginaria canna verso il signor
Vargas. «”Energie vitali” o
“anima”. Hai idea di quante anime desiderose di
vendetta questa parete abbia
inglobato, in tutti questi anni? Gli Hellsing, i Carriedo… e
chissà quanti
altri» Francis scrutò sopra la propria spalla, e
si compiacque: «Oh… vedo che
stanno già cominciando ad arrivare…»
Il
signor Vargas rimase muto, quella volta: il terrore gli
aveva congelato le parole nel cuore.
Pallide
come i ricordi di un incubo, alcune storpiature di
facce umane si erano materializzate contro la parete. Parevano una
processione
di fantasmi disegnati con la nebbia, che premevano i loro volti
spettrali
contro la pietra alla ricerca di una fenditura.
«Feliciano,
vuoi avere tu l’onore?» lo invitò
Francis.
L’Asse
fece un breve cenno di assenso con il capo, e strinse
più forte il fianco di Ludwig per sostenersi.
Serrò
le palpebre, e richiamò il suo famiglio. Il respiro
terrorizzato del padre graffiò l’aria, inciampando
nei suoi denti digrignati.
Feliciano
aprì gli occhi, e non si sorprese di vedere un
manto di fumo nero di fianco a lui. Allungò la mano per
accarezzare Roma sulla
testa, prima di sollevarla per afferrare il cappello candido e gettarlo
a
terra.
«Non
esiste un gemello completamente puro, e non esiste un
gemello completamente malvagio» dichiarò, con voce
spezzata dalla fatica. «Luce
e ombra sono in ognuno di noi; il bene e il male sono solo una
scelta.»
«E
tu scegli la distruzione!» ragliò il signor Vargas.
«Io
scelgo la rinascita» replicò Feliciano.
In
quel momento, la pietra dietro di lui si spezzò.
Una
grossa crepa si allargò con una specie di ululato lungo
tutta la caverna, spezzandola a metà. Ludwig lo strinse
più forte quando il
vento gelido delle lande dei morti li investì, facendo
danzare le loro vesti
nell’aria turbinosa.
Feliciano
chiuse agli occhi, abbracciando Ludwig con tutte
le sue forze.
Sentì
le urla di quella gente infuriata, ma non riuscì a
sollevare lo sguardo per osservare i loro volti lividi di collera.
Non
era la morte a spaventarlo, e nemmeno l’ira. Ma sapeva
cosa sarebbe successo a suo padre: gli spiriti avrebbero ottenuto
giustizia, e
lui sarebbe morto in un modo atroce.
Per
quanto fosse stato spietato con Lovino, per quanto lui
stesso lo avesse odiato ogni singolo giorno, era pur sempre suo padre.
Sprofondò il viso nel petto di Ludwig, cercando di
sotterrare gli unici ricordi
buoni che aveva del genitore: le volte in cui lo prendeva sulle
ginocchia e gli
diceva che era fiero di essere suo padre, quando si era ammalato e lui
lo aveva
vegliato…
«Andiamo
via» il suo tono salì di urgenza quando il primo
urlo del signor Vargas gli pugnalò le orecchie.
«Andiamo via!»
«C’è
sempre un prezzo da pagare, Feliciano…»
«Lo
so» l’Asse stroncò la lezione di
Francis. «Infatti non
sto aiutando mio padre.»
«Dopo
tutto quello che vi ha fatto, vorresti ancora
salvarlo?»
«Vorrei
che ci fosse un altro sistema. Non siamo diversi da
loro, così…»
La
mano del Marauder si posò sulla sua testa ramata.
«Tu
piangi quando devi uccidere qualcuno, anche se lo odi.
Sei deciso in quello che fai, ma non diventi arido. Questo ti rende
diverso,
Feliciano.»
«Andiamo
via» ripeté l’Asse.
Roma
sfregò il muso contro la sua veste candida, e Feliciano
si strinse ancora di più a Ludwig.
Il
Guardiano lo sollevò tra le braccia: le sue gambe
cedettero definitivamente poco prima di uscire dalla stanza, quando
l’ultimo
grido agonizzante del signor Vargas gorgogliò e si spense
nell’aria.
Feliciano
conficcò il viso nella spalla del suo Guardiano
con ancora più forza.
L’eliminazione
del padre era necessaria per il rinnovo della
Galassia. Lo sapeva, e lo aveva accettato quando aveva deciso di
rivedere il
fratello e devastare la Confederazione. Tuttavia, per quanti ricordi
orribili
avesse accumulato in quegli anni, le poche memorie affettuose che aveva
del
genitore non svanivano.
Le
dita forti di Ludwig gli accarezzarono i capelli,
dissipando i suoi pensieri.
«Digli
addio» le parole del Guardiano gli riempirono le
orecchie e il cuore, e Feliciano vi si aggrappò
disperatamente. «Ogni azione ha
le sue conseguenze, e lui sta pagando per il dolore che ha seminato.
Non è
colpa tua.»
Feliciano
annuì contro il suon petto mentre Ludwig lo
portava fuori.
***
Lovino
trasalì quando il suo famiglio cominciò a
contorcersi
al suo fianco.
«Roma!»
il giovane si gettò sulle ginocchia, le mani che
vagavano incerte sul corpo nebuloso del lupo. «Che ti
succede?»
Le
zampe dell’animale rasparono l’aria, le fauci
spalancate
in latrati singhiozzanti, finché tutto il corpo della bestia
si tese come una
frusta.
Lovino
si rovesciò all’indietro, ritrovandosi steso sulla
schiena, quando il pelo di Roma si gonfiò improvvisamente in
una nuvola di luce
ed energia che deflagrò l’istante successivo.
Il
capitano lo aiutò a rialzarsi in piedi, ed entrambi
fissarono annichiliti l’animale di fronte a loro.
«Venezia…?»
balbettò Lovino, la luce dorata del leone che si
spandeva sul suo volto confuso.
«Che
significa?»
«Non
lo so…»
I
loro farfuglii stupiti furono coperti da un tremendo
schiocco e un terrificante urlo.
La
perplessità abbandonò Lovino in un istante: il
giovane si
spinse lontano dal capitano e prese immediatamente a correre.
«Lovino,
aspetta!» gridò Antonio dietro di lui.
«Non sai
dove stai andando!»
«Da
Feliciano!» il ragazzo non si voltò nemmeno per
urlare
la sua risposta.
«Potrebbero
esserci delle trappole! Fermati!»
Gli
avvertimenti del capitano non riuscirono a farsi strada
nella mente di Lovino, travolta da una valanga di emozioni.
Erano
anni che non sentiva il fratello così vicino.
Gli
pareva di percepire un secondo battito contro il suo
sterno, come quando dormiva abbracciato con il gemello. Riusciva quasi
a
sentire il respiro tiepido di Feliciano sul suo collo, e la sua risata
rimbombargli dolcemente contro le costole.
Non
vide quasi i corridoi, mentre li imboccava: per lui, il
Palazzo e i suoi labirinti si erano spianati in un’unica
strada dritta. Una
sorta di filo invisibile legato al suo cuore e collegato a quello di
Feliciano
lo tirava con sempre maggiore forza, conducendolo senza la minima ombra
di dubbio
in quei dedali rompicapo.
Frenò
bruscamente dopo aver girato per l’ennesima volta, e
Antonio per poco non gli finì addosso.
Il
tempo e lo spazio si fermarono, fuori e dentro di lui; i
colori sparirono, e tutto sfumò in una confusa nebbia
bianca. I suoi polmoni si
scordarono di respirare, il suo cuore di battere e il suo sangue di
scorrere.
Non sentì la presenza di Antonio dietro di lui, non vide il
gigante biondo; non
sentiva nemmeno l’aria sulla sua pelle o la
luminosità di Venezia di fianco a
lui.
Il
mondo si era ristretto su quel viso identico al suo; tutto
il resto era polvere e fumo.
I
suoi polmoni si restrinsero vedendo Feliciano trattenere
il respiro, e i suoi occhi si spalancarono in sincrono con quelli del
fratello.
Feliciano
vide i sei anni di separazione marcati sul viso
del fratello, nella sua postura e nel suo vestiario. Davanti a lui
c’era un
pirata, la Mano Sinistra del Diavolo, un giovane che aveva terrorizzato
la
Confederazione sulla Reina de la
Oscuridad e che non temeva di uccidere.
Poi
vide quegli stessi sei anni rimpicciolirsi fino a
sparire del tutto. E davanti a lui ci fu solo suo fratello, il bambino
che gli
prendeva la mano mentre riposavano insieme nel letto e poi lo sfidava a
riconoscere più stelle di lui.
Nessuno
osò dire nulla. La realtà sembrava diventata
fragile
e inconsistente come un velo di cristallo: il minimo urto poteva
spezzarla per
sempre.
«Lovino…?»
Il
mormorio titubante di Feliciano ruppe dolcemente
quell’immobilità
vetrosa.
Lovino
sentì le lacrime fiaccargli gola e ginocchia nello
stesso istante. Dalle labbra gli uscì un misero rantolo e le
gambe inciamparono
nel primo passo che osò muovere in direzione del fratello.
Le gambe di
Feliciano non si dimostrarono più stabili: l’Asse
scese goffamente
dall’abbraccio del Guardiano, e incespicò nei suoi
passi affaticati mentre
correva verso il fratello.
Lovino
poté avvertire ogni millimetro di aria che le sue
mani attraversarono per abbracciare il gemello, e quella lentezza lo
fece quasi
impazzire.
Una
nuvola di profumo fresco lo avvolse quando finalmente
strinse le braccia attorno alle spalle magre del gemello. Sapeva di
luce, di
calore, di Feliciano.
L’Asse
sentì le ossa scricchiolare sotto la presa del
fratello. Si era davvero irrobustito in quegli anni, al contrario di
lui: evidentemente
i suoi muscoli non erano stati coccolati da poltrone lattee quanto i
suoi.
«Feliciano!»
la voce di Lovino s’infangò nel pianto
trattenuto, ma riuscì a scrollarsi di dosso le lacrime
quando lo chiamò di
nuovo. «Feliciano!»
L’Asse
sollevò il viso dal collo di Lovino per fissarlo in
volto. Le mani affiancarono gli occhi nel percorrere i lineamenti del
fratello,
come per sincerarsi che quel volto non fosse una proiezione onirica.
L’ultima
volta che lo aveva visto aveva avuto le mani incorporee
dell’apparizione
astrale, e non aveva potuto toccarlo. Era stato bellissimo vedere il
gemello e
atroce non poterlo abbracciare.
Avevano
sei anni da recuperare. Così tante cose da dire,
così tanti ricordi da condividere. Come tutte le volte in
cui il passato era
troppo e l’emozione era incontenibile, nessuno dei due disse
nulla.
Rimasero
a fissarsi, a riconoscere cosa era rimasto dei
bambini che erano stati in quei volti che si erano spogliati
dell’infanzia.
La
dolcezza negli occhi di Feliciano si era indurita da una
punta di cinismo, come una spina nel miele. Nelle iridi di Lovino,
invece,
scorreva sotterraneo un filo di amore che un tempo non esisteva.
«Non
hai la croce» notò l’Asse, quando le sue
dita
sfiorarono il collo del fratello.
«L’ho
abbandonata insieme al mio cognome» confermò
l’altro. «Sono
Lovino Belial, adesso.»
Le
ampie maniche della veste di Feliciano gli coprirono
tutta la schiena, e le sue mani si strinsero sulle sue spalle.
«Ma
non hai abbandonato me.»
«Avevo
promesso che sarei venuto a prenderti.»
Feliciano
sorrise con gli occhi, staccandosi affettuosamente
da lui.
«Ma
io non ho ancora mantenuto la mia promessa» stese le
braccia lateralmente, e le lunghe maniche candide fluttuarono attorno
ai suoi
arti esili. «Ho detto che avrei spezzato il Palazzo di
Quarzo, per voi.»
Lovino
lo osservò con un sopracciglio alzato, a metà tra
il
divertito e il perplesso, esattamente come quando da piccoli
programmavano
qualche marachella alle spalle degli adulti.
«Il
Vaticano deve crollare. Che crolli il suo massimo
simbolo» decretò Feliciano.
Lovino
lo imitò, allungando a sua volta le braccia.
E
il loro potere ruggì contro le pareti.
***
«L’Elfo
è stato abbattuto!»
Il
grido di Mathias deflagrò nella scialuppa.
Il
Gunsmith si sbarazzò del comando, ormai inutile: una
schiera di Cherubini aveva accerchiato l’Elfo e,
sistematicamente, avevano
distrutto prima le gambe, poi le braccia, e solo alla fine gli avevano
dato il
colpo di grazia, sbranandogli la testa. La loro creatura si era
dissolta in un
nugolo di cenere verde, dispersa nel buio dello spazio.
Mathias
indietreggiò, una mano ancorata al petto, dove aveva
appuntato la spilla di Norge. Non poteva trasformarsi: rischiava di
perdere il
prezioso ninnolo contenente la vita del suo innamorato.
Trafficò
per qualche secondo con le assi della barca:
avevano creato un doppiofondo per le armi di emergenza, e Vash non
dimenticava
mai di rifornirlo.
Il
Gunsmith si affiancò a Roderich, un grosso fucile a canne
mozze spianato davanti a sé.
Il
volto raffinato del musicista era adornato da una pioggia
di gocce di sudore. Era passato molto tempo da quando le sue dita si
erano
mosse sul violino in quel modo, e lo sforzo di concentrazione lo stava
sfinendo.
I polpastrelli si stavano consumando contro le corde, che vibravano
sotto
l’archetto come impazzite, e la sua mente si stava logorando
per la fatica di
controllare l’energia magica e ricordare la melodia al
contempo.
Le
fiamme del Figlio del Cielo tuonavano intorno a loro,
proteggendoli dai Serafini, mentre la Reina
e la flotta di Britannia, comandate dal Mago dell’Ovest e
dalla sua copia,
sfrecciavano nell’aria combattendo con soldati e Cherubini.
«Servirebbe
un miracolo» masticò a denti stretti.
Non
furono gli dei ad ascoltare la sua preghiera rabbiosa,
ma le legioni dei morti.
Entrambe
le fazioni si paralizzarono alla vista dello sciame
spettrale che si riversò su di loro attraversando le pareti
del Palazzo di
Quarzo come se non avessero consistenza.
Nessuno
capì cosa stesse accadendo: un esercito di spettri
di nebbia gonfiò le sue schiere davanti a loro, prima che
quello stormo di
spiriti si lanciasse in battaglia con un urlo.
I
Cherubini e i Serafini si sbriciolarono sotto le armi
sovrannaturali di quei fantasmi assetati di giustizia; le loro ali
gloriose si
sfaldarono in nebulose di cenere, e i loro corpi plasmati con la magia
si
sciolsero in un ululato bestiale.
I
soldati Vaticani si gettarono sulle ginocchia, invocando
pietà. Quei fantasmi erano tornati con l’intento
di avere giustizia, non
vendetta, e risparmiarono coloro che chiedevano clemenza.
Prima
che chiunque potesse realizzarlo, il combattimento era
terminato: i Cherubini e i Serafini erano ormai solo un ricordo, e i
militi
Vaticani giacevano sconfitti e prostrati nelle loro sfere di atmosfera
artificiale.
Il
Figlio del Cielo fu il primo a riconoscere qualcuno in
quelle schiere d’oltretomba.
«Kiku!»
gridò.
La
katana del
Samurai si sollevò dal Cherubino disintegrato,
l’ultimo rimasto. Rinfoderò la
spada e, con la grazia che lo aveva contraddistinto in vita, si
inchinò di
fronte al suo sovrano.
L’aldilà
non è
abbastanza lontano per separare chi si ama.
Le
sue parole furono udite dal cuore, non dalle orecchie di
Yao: scivolarono dolci nel suo sterno, accarezzandogli lo spirito con
la loro
vibrazione.
«Lo
so» confermò Yao, gli occhi scintillanti di
lacrime di
gioia. «Ora ne ho la prova.»
Non
fu l’unico a riconoscere qualcuno dei propri cari in
quella coorte di spiriti. Un coro di esclamazioni si sollevò
dalle Aeronavi,
mentre gli spettri si dividevano come gli affluenti di un fiume tra i
sassi di
montagna.
Il
violino quasi scivolò dalle mani del musicista quando un
fantasma si avvicinò a lui.
Roderich
pulì gli occhiali e batté le palpebre, come se
non
si fidasse delle sue iridi viola. Lo ricordava bene quel viso troppo
gentile
per una guerriera, e quei capelli assurdamente lunghi e
inspiegabilmente
soffici per una Hellsing: da quando non era più
l’Accordatore e la sua memoria
era tornata, li aveva visti ogni notte. Nei suoi sogni, li accarezzava
tra le dita;
nei suoi incubi, li vedeva raggrumati di sangue.
«Sto
sognando?» esalò, così flebilmente che
lui stesso
faticò a udirsi.
Stupido,
sorrise Elizabeta.
Roderich
allungò la mano umana, non quella ricostruita dai
Gunsmith, per accarezzare la guancia di vento della sua amata.
«Sei
venuta per portarmi con te?» non c’era paura nella
sua
voce: l’Inferno l’aveva vissuto in quella
Confederazione; riteneva di meritarsi
qualche briciola di Paradiso da consumare con la sua Elizabeta.
Non
ancora,
lo disilluse lei. Gilbert
ha ancora bisogno di te. Ma saremo insieme, Roderich. Presto saremo
insieme.
Il
musicista non era mai stato un uomo loquace: il violino
aveva sempre parlato più di lui. Ma, nel momento in cui la
guardò negli occhi,
seppe che lei aveva capito. Lei aveva sempre capito i suoi silenzi.
L’aldilà
non è
abbastanza lontano per separare chi si ama,
Elizabeta citò le parole del Marauder, che tanti anni prima
l’aveva aiutata a
entrare nella parete per aspettare il momento propizio.
Roderich
allargò le braccia, e la donna fluttuò tra di
esse.
Il suo petto di aria gelida si appoggiò su quello tiepido
dell’uomo quando lo
abbracciò.
Ti
procurerò un
violino, quando mi raggiungerai,
mormorò. Voglio sentire di nuovo
la
melodia che hai composto per me…
Il
musicista accarezzò quelle spalle incorporee, inspirando
a fondo. Ma non avvertì il profumo della donna: solo una
nebbia gelida gli
inumidì le narici.
«Il
mio diamante della battaglia…»
In
quell’attimo, un rumore tremendo, come l’esplosione
di un
pianeta, li travolse. I marinai furono costretti a gettarsi a terra e
ad
aggrapparsi con tutte le loro forze alle funi per non essere sbalzati
fuori
dalle imbarcazioni. Mathias afferrò con una mano il bordo
della scialuppa e con
l’altra Roderich, evitandogli un doloroso sbarco.
Quel
turbine folle si placò veloce come si era sollevato. I
marinai della Reina furono i primi
a
sollevare la testa per sbirciare al di là del parapetto, e
furono i primi a
gridare per la sorpresa.
Il
Palazzo di Quarzo era sparito. Anzi, per essere più precisi,
l’edificio che per tanti secoli aveva ospitato gli Asse
offerti dal Vaticano
era stato ridotto a una costellazione di frammenti vetrosi che
fluttuavano
pigri nell’aria.
Al
centro di quella nuvola di detriti, si ergevano alcune
figure ben conosciute, avvolte dal globo di atmosfera artificiale
mantenuto
vivo dai gemelli.
«Capitano!»
gridarono i marinai della Regina.
«Lovino»
sorrise Yao.
«Francis»
sbuffò Arthur.
«L’Asse!»
gridarono le truppe di Britannia.
«Ludwig?»
Il
gigante biondo si voltò con cautela. Gli era sembrato di
riconoscere quella voce, ma non voleva sperare troppo. Aveva pregato
per il
fratello giorno e notte, il desiderio di rivederlo lo aveva bruciato, e
non
avrebbe sopportato una delusione se voltandosi avesse visto un volto
sconosciuto.
Le
iridi scarlatte lo squadrarono stupefatte, quasi
terrorizzate. La bocca irriverente era muta, aperta in un esclamativo
senza
parole, e i capelli argentei incorniciavano scompostamente quel viso
bellicoso.
«Gilbert…»
Il
suo primo impulso fu di schiantarsi sul suo petto come
faceva quando era piccolo, aggrappandosi alle spalle con le braccia e
al bacino
con le gambe. Ma lo avrebbe scaraventato giù da Gilbird se
ci avesse provato,
così attese composto che il fratello fosse smontato dal suo
famiglio e si fosse
portato al suo fianco.
La
mano callosa salì lentamente, quasi con fatica, fino ad
appoggiarsi sul suo capo biondo.
La
rassicurazione che il fratello era effettivamente lì, e
non era un miraggio, colorò il ghigno
dell’Hellsing con una punta della vecchia
sfrontatezza.
«Una
volta ero io il più alto…»
La
frase si spense in uno sbuffo strozzato, quando il
Guardiano si chinò fulmineamente per abbracciare il fratello.
«Anche
se sei più basso, sei sempre il più grande eroe
della
Galassia, per me» scandì Ludwig, la voce profonda
appena traballante per
l’emozione.
Gilbert
sorrise, accarezzandogli bonario la nuca. Anche se
era cresciuto come un mastodonte, era pur sempre il suo fratellino.
«Non
sono io a essere più basso. Sei tu che sei cresciuto
troppo.»
«Tu
devi essere l’Hellsing, il fratello di Ludwig.»
Il
Guardiano si scostò per permettergli di vedere la
figurina ammantata di bianco che gli si affiancò, e che si
appoggiò
immediatamente a lui per sostenere le gambe spossate.
Gli
sembrava incredibile che tutti loro, briganti ed eroi,
avessero rischiato tanto per un ragazzino così filiforme.
Tuttavia,
doveva ammettere che, anche se non arrivava
nemmeno alle loro spalle, pareva di dover alzare lo sguardo per
incrociare i
suoi occhi. Il potere magico che lo permeava era innegabile: lo spazio
e le
stelle stesse sembravano inchinarsi di fronte a lui.
«E
tu devi essere l’Asse» Gilbert non poté
trattenere una
smorfia a metà tra il sarcastico e il malizioso. Se
l’annuncio che aveva fatto
qualche ora prima quel ragazzino era vero, lui e suo fratello
avevano… Ludwig
era davvero cresciuto. Anche se non
capiva come avesse fatto a non spezzare quel ramoscello di ragazzo.
Feliciano
si voltò, porgendo la mano a Lovino, che la
afferrò istantaneamente.
«Diamo
l’annuncio» lo spronò con garbo.
I
due gemelli invocarono un semplice incanto per espandere
le loro voci in modo che rimbombassero all’interno di ogni
singola sfera
artificiale.
«Il
Vaticano è crollato» proclamarono.
«Siamo liberi!»
Lo
spazio quasi crollò per il boato di gioia che esplose
dalla flotta di ribelli tutto intorno.
Lovino
strinse la mano di Feliciano, e allungò l’altra
verso
il fianco di Antonio. Finalmente, aveva tra le dita i due motivi per
cui aveva
lottato: l’uomo che amava e il suo adorato fratello.
«Siamo
liberi» ripeté ad Antonio.
Il
capitano lo abbracciò in vita, stringendolo a sé.
«E
siamo insieme» sottolineò l’uomo.
E
si unirono all’urlo di trionfo del resto della ciurma.
OMGOMGOMGOMG!!!
Mancano
tre
capitoli ç_ç Tre intensi capitoli e
sarà tutto finito ç_ç
OMG,
non mi
sembra vero ç_ç
Ma
poi ci
saranno gli spin-off *si massaggia le tempie*. Sì, dopo ci
saranno gli
spin-off. E la nuova long, sempre con i nostri beniamini, con richiami
a “Il
fantasma dell’opera”<3
Anyway…
nulla da
dichiarare, a parte che MANCANO SOLO TRE CAPITOLI AL FINALEOHGOD!!!!
Beh…
grazie per
essere arrivati fin qui<3
Che
i ribelli al
Vaticano siano con voi<3
|
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Capitolo 26 *** Veglia ***
Capitolo
Ventisei: Veglia
Arthur
si abbatté sulla sedia, schiantò i gomiti sulla
scrivania e buttò la testa sulle braccia incrociate.
Quando
aveva fatto il salto verso una nuova dimensione,
aveva desiderato di approdare in un mondo che potesse insegnargli nuove
cose. Ma
era nauseato da quelle lezioni che sapevano di sangue e lacrime,
perfino quando
sembravano colorarsi di gioia.
Era
rimasto a fianco del Leone Incoronato mentre questo
ruggiva glorioso a tutto il popolo di Britannia la caduta del Vaticano.
Quel
giorno, l’uniforme non pesava come un sudario sulle sue
spalle. La sentiva
leggera, fiera e splendente: avevano combattuto, avevano vinto, stavano
per partire
verso una dimensione libera dalla dittatura. Si aspettava applausi ed
entusiasmo.
E
li aveva avuti. Ma non totali come aveva sperato.
I
giovani, le famiglie e i forti avevano esultato, lanciando
cappelli e fiori in aria; gli avevano ricordato le feste su Faerie.
Ma
poi era giunto il momento degli anziani.
Il
loro portavoce era un vecchio curvo e nodoso come un
salice piangente, aggrappato a un bastone che svettava sopra la sua
testa
piegata.
«Noi
resteremo, sire.»
La
voce dell’anziano scricchiolava come le foglie autunnali
sotto le suole delle scarpe. Arthur pensò di aver capito
male, ma il vecchio
seguitò nella sua cigolante arringa.
«Siamo
troppo avanti con l’età per pensare di imbarcarci
in
un simile viaggio. La fatica potrebbe ucciderci. E, anche se
sopravvivessimo,
non ci resta molto da vivere. Vi rallenteremo, e ruberemo il cibo ai
giovani,
che hanno tutta la vita davanti a loro.»
Arthur
aveva mantenuto le spalle dritte e la voce stentorea,
anche se la sua anima era diventata sottile e fragile come un foglio di
pergamena secca.
«Cosa
state cercando di dirci?»
«Noi
non verremo» le rughe del vecchio quasi gli
sgretolarono la faccia in un sorriso incartapecorito. «Siamo
nati su questo
pianeta, mio signore. Amiamo ogni casa, ogni strada e ogni sasso. Non
trovate
che sia giusto che tutto finisca dove tutto è
iniziato?» l’anziano si
interruppe, sistemò la veste sul ventre scarno e
terminò: «Non possiamo
sopportare un viaggio così impegnativo, signore. E non
vogliamo rallentarvi.
Abbiamo aperto i nostri occhi su questo pianeta. Permetteteci di
chiuderli
qui.»
Arthur
non era riuscito a pensare a nessun pretesto per
convincerli a ripensarci: tutti quei volti solcati dal tempo lo
guardavano con
la serenità di chi ha scelto e accettato il proprio destino.
Aveva
cercato di rendere i suoi occhi insensibili come
pietre, mentre osservava le famiglie che si stringevano attorno agli
anziani,
li abbracciavano e piangevano sulle loro spalle ossute.
Erano
troppi. Troppe persone che avrebbero salutato un membro
della famiglia sapendo di lasciarlo per sempre, troppi nonni che non
avrebbero
visto crescere i propri nipotini. Avevano combattuto per proteggerli,
ma non
erano comunque riusciti a salvarli tutti.
«Non
essere triste per loro. Sii triste per noi: saremo noi
a dover ancora lottare.»
Arthur
si rialzò così bruscamente che per poco non
rovesciò
lo scranno di legno. Il Marauder si era materializzato alle sue spalle,
senza
il minimo rumore.
Arthur
si allontanò dalla scrivania, e la fretta lo fece
quasi inciampare nei suoi stessi piedi. Doveva nascondere gli occhi
rossi a
Francis prima che cominciasse a ficcanasare come una comare.
«Non
ricordo di averti invitato a entrare» sbottò,
brusco.
«Non
l’hai fatto. Ma io so quando sono necessario.»
«Ah,
non farmi ridere! Se lo avessi saputo, non saresti
sparito per cento anni!»
Credeva
di aver spento la sua rabbia nei confronti del
Marauder, invece era ancora lì, viva e bruciante,
indissolubilmente legata
all’affetto che provava per quell’uomo.
Più si rendeva conto di amarlo, più si
arrabbiava per il suo abbandono, e più si arrabbiava,
più capiva di amarlo, in
un circolo vizioso senza fine.
Arthur
rimase voltato di spalle, passando nervosamente una
mano sulla bocca. Ormai aveva aperto il vaso di Pandora, non poteva
più tirarsi
indietro.
«Cento
anni, Francis… sapevi quanto odiassi l’amore
malato
di questa Galassia per il sangue, eppure non hai fatto niente
per…»
«Sai
che non posso interferire con il destino…»
«Non
ti ho mai chiesto di cambiare il destino per me! Ma
avresti potuto essere lì,
Francis!»
Arthur si sentì sopraffare, come se quel torrente di parole
potesse slogargli
la mascella con la sua intensità. «Ho visto
Hispaňa bruciare, mi sono gettato
nell’orrore della guerra mille volte, e tu non sei mai stato lì! Anche durante la
lotta con il Vaticano… tu eri dentro
il Palazzo di Quarzo!»
«Sei
arrabbiato perché hai dovuto lottare da solo? I
guerrieri lo fanno continuamente…»
«Ma
io non sono un
guerriero!» Arthur si strinse i gomiti con tanta
forza che le nocche
sbiancarono. Credeva di essere un contenitore di pietra, in grado di
reggere
qualunque cosa; invece aveva scoperto di essere un vaso di cristallo
che
qualcuno aveva cercato di riempire di piombo. «Che il sacro
melo mi abbia in
gloria, io sono un mago, Francis.
Un
mago che è stanco di raccogliere sangue anche quando cerca
di seminare
felicità.»
Francis
si avvicinò a lui, ma Arthur lo bruciò prima che
potesse tentare di abbracciarlo.
«Non
ci provare. Sono furioso con te. E sono nauseato da
questa dimensione.»
«Ma
forse c’è ancora qualcosa che può
rasserenarti.
Seguimi.»
Arthur
si voltò, pronto ad azzannarlo, ma Francis era
già
sulla porta, e muoveva la mano per invitarlo.
Il
Mago dell’Ovest lo seguì suo malgrado, combattendo
con
l’impulso di prenderlo a calci lungo il corridoio.
Un’ultima possibilità. Gli
avrebbe dato solo quell’ultima possibilità, prima
di mandarlo al diavolo.
Il
Marauder si fermò davanti a un muro, e vi
appoggiò le
mani sopra.
«Non
è molto carino fare i guardoni» premise.
«Ma sarà solo
per qualche istante.»
Alcuni
mattoni divennero del colore dell’aria, permettendogli
di sbirciare all’interno.
Nello
squarcio magico sulla parete si profilarono due figure
abbracciate, una stesa su un letto e l’altra seduta al suo
fianco.
Arthur
riconobbe quei due uomini: aveva curato Norge poche
ore prima, dopo che Mathias gli aveva portato una spilla e lo aveva
supplicato
in lacrime di salvarlo. L’Hellsing lo aveva aiutato a
sciogliere l’incanto
sull’orpello, e l’Asse si era aggiunto a lui nella
magia di guarigione.
Le
ferite che spaccavano l’addome del Gunsmith si erano
rimarginate in poco tempo, ma il giovane non era riuscito a
risvegliarsi subito
dal suo stato di incoscienza. Mathias non aveva lasciato il suo
capezzale
nemmeno per un istante; aveva temuto di essere l’ultima cosa
che Norge avrebbe
mai visto. Adesso voleva essere certo di essere la prima persona che
avrebbe scorto
al suo risveglio.
«Qui
non c’è dolore» sottolineò
dolcemente Francis.
«È
una goccia nell’oceano» replicò Arthur,
cercando di
indurire il cuore.
«L’oceano
è fatto di gocce» mormorò il Marauder.
«E ci sono
molte gocce piene di luce come questa. Antonio e Lovino. Il Guardiano e
l’Asse.
Noi due.»
Arthur
passò una mano sulla parete, lasciando ai due
Gunsmith la loro meritata intimità. Afferrò con
un pugno la camicia del
Marauder e lo mitragliò:
«Non
passerò attraverso questo inferno una seconda volta,
sappilo.»
Le
mani di Francis gli percorsero le gote bollenti d’ira, e
si fermarono sulle sue spalle contratte.
«Sono
stato orribile.»
«Molto
più che orribile.»
«E,
nonostante questo, continui a cercarmi.»
«Io
non ti cerco» sbuffò acre Arthur. «Sono
i nostri destini
a essere intrecciati.»
Francis
lo circondò in un abbraccio affettuoso, e il Mago
dell’Ovest rimase fermo come un tronco di albero tra le sue
braccia.
«È
finita, Arthur. La guerra cominciata trecento anni fa, la
guerra che hai tanto odiato è finita»
bisbigliò sui suoi capelli ispidi.
Il
Mago dell’Ovest sbuffò qualcosa di
incomprensibile,
allacciando stizzosamente le braccia alla vita del Marauder.
Lo
aveva quasi dimenticato.
Dietro
tutti gli orrori, nel vaso di Pandora c’era sempre la
speranza.
***
Le
vesti di Yao ricoprirono elegantemente il trono, quando
il sovrano vi si adagiò esausto.
Si
domandava se anche il Mago dell’Ovest, l’Hellsing e
tutti
gli altri stessero faticando quanto lui.
Preparare
interi pianeti al grande Esodo non era semplice.
Ringraziava gli spiriti dei suoi antenati che, ormai, le Aeronavi erano
pronte
e stipate con le poche valigie che erano consentite per ogni famiglia.
Se
avessero permesso loro di portare di più, sarebbe occorsa
una flotta di
Aeronavi solo per i bagagli. Avrebbero ricominciato da zero. E lui
avrebbe
usato tutta la magia presente nel suo corpo per aiutare il suo popolo.
Ma
non era solo stanchezza fisica, la sua. Era soprattutto
stanchezza mentale: la tensione per la guerra lo aveva sfinito, dare
l’ultimo
congedo agli anziani che preferivano morire sul pianeta che li aveva
visti
nascere lo aveva straziato, e Ivan che giaceva in stato comatoso lo
aveva
distrutto.
Tuttavia,
la sua maschera di regale serenità era rimasta
intatta. Solo i suoi occhi raccontavano una diversa realtà.
Kiku
e Young Soo avrebbero letto i veri sentimenti che si
agitavano nelle sue iridi scure, ma loro non erano più con
lui. Era tempo di
imparare a camminare senza il loro silenzioso conforto.
Fece
scorrere le dita nei capelli, sorprendendosi di nuovo
di quanto fossero corti. Doveva ancora abituarsi a quella misura, dopo
una vita
di capelli lunghi fino ai fianchi.
Un
consigliere si avvicinò, scalpicciando disordinatamente
lungo il corridoio.
«Mio
signore!» ansò quello, senza fiato. «Si
è svegliato!»
Il
suo cuore si fece di piombo e gli sprofondò nei piedi.
Risalì con molta fatica, arrivando a strisciargli persino in
gola, riempiendo
le orecchie con un battito martellante.
Le
labbra di Yao furono ferree nel pronunciare le parole che
gli fecero tremare il cuore.
«Il
Custode dei Cancelli… si è svegliato?»
«Venite,
mio signore!» lo incitò il consigliere.
«Vi conduco
da lui.»
Non
ve ne era alcun bisogno: negli ultimi giorni, Yao aveva
visitato Ivan talmente tante volte che avrebbe trovato la sua camera
perfino se
l’avessero fatto camminare bendato.
Yao
impose al consigliere di attenderlo fuori dalla porta.
Appoggiò la mano sulla parete scorrevole e
inspirò a fondo. L’uomo al di là di
quella porta aveva perduto il Cuore d’Inverno. Chi avrebbe
trovato, steso su
quel letto? Il Custode? Ivan? O uno sconosciuto?
Aprì
la porta con un movimento secco, per evitare qualunque
tipo di ripensamento.
Il
respiro si scordò di riempire i polmoni quando vide la
schiena solida dell’uomo e la chioma argentata che
raccoglievano gli ultimi
raggi del sole in tramonto. Era così abituato alla sua
figura immobile e
inerte, che perfino vederlo seduto rasentava il miracolo.
L’uomo
si voltò, sentendo la porta aprirsi.
Le
ciglia e le labbra di Yao tremarono, stupite: gli occhi
che lo fissavano dall’altra parte della stanza possedevano
l’azzurro secco dei
cieli estivi nella steppa. Non erano più due freddi gioielli
di ametista. E lo
fissavano perplessi, come se cercassero di ricavare dei suoi lineamenti
un
qualunque indizio sulla sua identità. Sul perché
il sovrano di quel paese fosse
venuto a visitarlo.
Yao
chiuse la porta dietro di sé, cercando di non palesare
il suo sconforto.
Il
cuore era di nuovo sprofondato al suolo. I ricordi del loro
tempo insieme dovevano essere evaporati assieme al ragno di zaffiro.
Per ironia
del destino, lui li avrebbe conservati per sempre, e così
avrebbero fatto i
suoi successori grazie alla memoria generazionale. Ma Ivan non si
sarebbe
ricordato nemmeno il suo nome…
«Yao?»
La
voce si increspò a metà in una domanda.
L’Asean
sollevò gli occhi onice su Ivan, allibito.
«Come
mi hai chiamato?»
L’uomo
batté le palpebre, quasi cercasse di leggere
nell’aria il nome che aveva appena detto. Poi, il suo viso fu
illuminato dai
ricordi, e la confusione fu spazzata via come gli ultimi stralci di
notte
quando vengono cancellati dalla luce dell’alba.
Si
voltò verso di lui, più sicuro, e
allargò le braccia.
«Il
mio Yao»
rimarcò, possessivo.
L’orientale
gettò alle fiamme i protocolli imperiali.
Raccolse la veste con le mani e corse verso Ivan, lanciandosi nelle sue
braccia.
Il
petto che lo accolse era caldo, era vivo. Non c’era
più
traccia della tormenta che aveva congelato il cuore del Custode per
tutta la
sua vita.
Yao
alzò il viso, e notò una piccola corona ametista
sul
bordo delle iridi cerulee. Un sottile monumento del passato.
«Come
ti senti, Ivan?» domandò, senza allontanarsi.
L’uomo
gli accarezzò i capelli, affascinato. Non aveva perso
la passione per le sue ciocche mogano, anche se più corte.
«Come
se avessi dormito per seicento anni» le parole si
affacciarono lente sulle sue labbra, quasi che Ivan fosse incerto di
ogni
sillaba. «Come se qualcun altro avesse vissuto al posto
mio.»
«Ricordi
qualcosa?»
Ivan
si bloccò, come raggelato. Quando parlò di nuovo,
le
parole attraversarono con fatica la sua lingua e si lanciarono
titubanti dalle
sue labbra.
«Le
mie sorelle. Mio nonno. Li ha uccisi il Cuore di
Inverno, prima di inchiodarsi nel mio petto. Quell’oggetto
è un vampiro: ammazza
chi non gli serve e sfrutta l’umano prescelto.»
Yao
gli accarezzò le spalle, non potendo lenire
materialmente il suo dolore.
«E
ricordo la vita come custode. Ma non mi sembra di averla
vissuta realmente: è come se l’avessi vista
attraverso un vetro. Un vetro
gelido» appoggiò gli occhi su di lui, e lo strinse
con più forza. «E poi c’eri
tu.»
Non
aggiunse altro. Che potevano aggiungere le parole,
quando lui aveva scelto Yao dal primo momento in cui lo aveva visto, lo
aveva
amato ai massimi gradi permessi dal vampiro sul suo petto ed era quasi
morto
per lui? Un’accozzaglia di lettere non sarebbe mai riuscita a
circoscrivere quell’enormità.
Essere
innamorato di Yao era stato bello perfino quando il
ragno artico gli risucchiava le emozioni, ma viverlo con il suo vero
cuore,
senza il filtro invernale del vampiro, era meraviglioso. Era come
apprezzare un
fiore inglobato nel ghiaccio e assaporarlo invece in primavera, quando
la
calotta artica non poteva camuffare il colore e il profumo del
bocciolo, o
impedirgli di ondeggiare sotto le carezze del vento.
«Ti
ho fatto aspettare a lungo» si scusò, accarezzando
la
schiena fine del sovrano.
Yao
scosse la testa, abbracciandolo con più forza. Ivan. Il
suo Ivan era vivo!
«Non
mi hai fatto aspettare» lo contraddisse garbatamente
l’Asean. «Ti ho sempre visto, dentro il Custode dei
Cancelli. Ti ho sempre
sentito lottare contro il Cuore d’Inverno.»
«Non
ti mancherà il Custode?»
Yao
si distanziò il minimo indispensabile per sentenziare,
dolcemente:
«Il
Custode era una parte di te, quella che serviva al Cuore
d’Inverno per fare il suo dovere. Ho visto il tuo lato
più gelido e spietato. E
l’ho visto diventare più umano con me. E ti vedo
ora, Ivan. E ho amato tutto
quello che ho visto. Sarebbe davvero un amore insipido se amassi solo
un lato
di te.»
Ivan
lo sollevò di slancio, in uno di quei suoi tipici
momenti di irruenza, e lo appoggiò sulle sue ginocchia.
Subito dopo, premette
una mano sul petto, contorcendo il viso in una smorfia di dolore.
«Temo
di essere ancora in convalescenza» valutò.
Yao
lo aiutò a stendersi, e lo convinse a rimanere supino
baciandolo lentamente sulla bocca.
«Riposati.
Domani mattina ci aspetta un lungo viaggio.»
Il
sovrano si distese al suo fianco, sopra le coperte, e
fece passare una mano sul petto robusto dell’uomo. Ivan lo
tenne vicino a sé
passandoli un braccio attorno alle spalle.
Le
sopracciglia argentee dell’uomo si sollevarono stupite,
osservando fuori dalla finestra.
«Credevo
che il cielo di Chugoku fosse completamente nero»
ricordò.
Il
sorriso di Yao si estese, diretto all’intreccio di stelle
che trapuntava il cielo notturno.
«Lo
dovevo a mio fratello e a mio figlio» bisbigliò.
Loro
erano in quel cielo, adesso. Meritavano un prato di
stelle, e non un oceano di pece, dove potersi allenare come facevano
nelle sale
del palazzo.
E
dove, ne era certo, lo avrebbero aspettato finché non
sarebbe arrivato il giorno in cui si sarebbero incontrati di nuovo.
***
L’odore
dell’erba scura era cresciuto forte e umido con il
calare della sera.
Lovino
stringeva la mano di Feliciano, steso sul manto
erboso assieme a lui.
Erano
passati sei, lunghissimi anni dall’ultima volta che
erano rimasti così, sereni e rilassati, a fissare il cielo.
Feliciano
non aveva più quella veste assurdamente bianca:
Lovino gli aveva prestato una camicia e un paio di pantaloni. Erano un
po’
troppo larghi per il suo gemello mingherlino, ma nulla che una robusta
cintura
non potesse risolvere.
«Mi
piacciono questi vestiti» mormorò Feliciano,
muovendo il
pollice sulle nocche del fratello.
«Non
sono alta sartoria» minimizzò Lovino.
«Hanno
il tuo odore» Feliciano lo disse serio, come se fosse
il massimo complimento possibile per un abito, e Lovino rispose con una
scrollata di spalle, imbarazzato.
I
marinai li avevano fissati sconvolti, quando erano
approdati sul ponte della Reina de la
Oscuridad; sapevano che il vice del capitano e
l’Asse erano consanguinei,
ma non si sarebbero mai aspettati una tale somiglianza.
All’inizio era facile
distinguerli: quello senza tunica bianca era il loro vice. La faccenda
si era
complicata quando Lovino aveva rivestito il suo gemello. Grazie agli
dei, il
volto del vice non perdeva mai quell’accenno di broncio, e
quello dell’Asse era
costantemente permeato da un sorriso sotterraneo. Inoltre il vice si
muoveva
come un selvaggio, mentre l’Asse sembrava danzare in
un’esposizione di
cristalli.
«Non
ci siamo ancora raccontati cosa è successo in questi
sei anni» notò pacato Feliciano.
«È
vero» confermò Lovino, gli occhi appuntati al
cielo.
«Ma
non ne sento il bisogno.»
Voltarono
la testa nello stesso momento e sorrisero nell’istante
in cui incrociarono gli occhi. Quanto gli era mancata quella sincronia
che il
padre riteneva sacrilega. Lovino sentiva una scintilla di luce
sprizzare nel
suo cuore quando vedeva il sorriso baluginare nelle iridi del fratello
perché
avevano entrambi capito a cosa stavano pensando, anche senza parlare.
«È
come quando facevamo i sogni insieme» Feliciano
giocherellò con le loro mani, facendole applaudire a
mezz’aria. «Non c’era
bisogno di chiedere; sapevamo cosa era successo.»
Lovino
annuì. Ricordava con una nostalgia acidula le
mattinate in cui si svegliavano, saltavano a sedere sul letto e
scoppiavano a
ridere, sapendo di aver sognato la stessa cosa. E ne parlavano come se
fosse
stata un’esperienza realmente vissuta insieme.
«Mi
sento allo stesso modo» bisbigliò Feliciano.
Inspirò a
fondo, e l’aria della sera gli inumidì il palato.
Non servivano le parole,
quando tutto il corpo si trasformava nella cassa armonica dei ricordi
del gemello:
sentiva le battaglie della Reina
rombargli nelle costole, l’ululato di Roma nelle orecchie, la
paura di non
rivedersi conficcata come una spina nel fegato, e il sapore asciutto
della
rabbia seccargli il palato. Ma, soprattutto, sentiva
l’affetto sconfinato del
fratello avvolgerlo come il mare durante un’immersione.
Si
voltò di nuovo in sincrono con Lovino, e sorrisero
entrambi. Sicuramente, la Mano Sinistra del Diavolo era appena
rientrata da una
breve escursione nel Palazzo di Quarzo e nei suoi lunghissimi pomeriggi
di
preghiere e purezza.
Lovino
si girò su un fianco per poter fissare il fratello
dritto negli occhi.
«Hai
davvero fatto quelle cose con… la tua guardia del
corpo?»
Feliciano
assestò un buffetto sulla fronte corrucciata del
fratello. Era bello vedere qualcuno geloso di lui in modo quasi
infantile. Se
avesse potuto, Lovino lo avrebbe messo sotto una teca di vetro e lo
avrebbe
sorvegliato giorno e notte, per mantenerlo innocente per sempre. Ma era
contento che il fratello non potesse farlo, altrimenti non avrebbe mai
potuto
correre quel bellissimo rischio di nome Ludwig.
Feliciano
attorcigliò un filo di erba con la mano libera. Si
era quasi scordato le carezze ruvide dei prati, il massaggio umido
dell’aria
notturna, e l’odore selvatico del fratello. Era fantastico
uscire nel mondo e
innamorarsi di nuovo di ogni minimo particolare.
Entrambi
i fratelli sollevarono il capo per fissare un’altra
riunione di famiglia, poco più in là. Roderich
teneva il violino tra le mani,
seduto su un sasso, gli occhi viola che andavano da Gilbert a Ludwig
con
elegante curiosità; il Guardiano ritto in piedi come un faro
in mezzo a
quell’oceano verde, l’eco di un sorriso sulle
labbra e una mano sulla spalla
dell’Hellsing, seduto sullo stesso sasso
dell’Accordatore.
Erano
troppo lontani per sentire di cosa stessero parlando,
ma non era difficile immaginarlo: avevano vissuto una lunga lontananza,
e
stavano cercando di colmarla come potevano con le parole e con piccoli
gesti di
affetto.
«È
un po’ triste» Feliciano si stese sulla pancia,
esalando
un sospiro. «Per quanto le persone si amino, non possono
costringere il tempo a
tornare indietro. Sai, il tempo è come un uomo che sparge
sale nella terra di
un altro; il proprietario potrà avere di nuovo il suo
giardino, ma solo
lavorando con cura ogni giorno» Feliciano nascose il sorriso
triste tra le
labbra incrociate: il paragone era particolarmente calzante,
considerando la
storia che Ludwig gli aveva raccontato tempo prima sul bulbo che lui e
Matthew
avevano cercato di far germogliare. I tre Hellsing stavano cercando di
ricostruire il loro giardino distrutto: avevano appena cominciato a
piantare i
semi.
Lovino
gli picchiettò una tempia.
«Non
mi hai risposto» gli ricordò, con il tono del
prete di
famiglia quando li costringeva a confessarsi settimanalmente.
Feliciano
si girò di nuovo sulla schiena, e rivolse un
sorriso compiaciuto al fratello.
«Siamo
innamorati. Come te e il capitano.»
La
bocca di Lovino disegnò un “o”
indignato, e si richiuse
in uno sbuffo soffocato. Non era riuscito a negarlo con il Figlio del
Cielo,
che possibilità poteva avere con suo fratello?
«Mi
è stato vicino in questi anni» tagliò
corto.
«Come
Ludwig.»
Una
risata sferragliante gli ruzzolò tra le labbra strette.
Si augurava vivamente che quella montagna bionda non avesse fatto tutto quello che il capitano aveva fatto
a lui, o avrebbe ordinato a Roma di inseguirlo per tutta la
Confederazione.
Feliciano
era l’unica persona in grado di pungolarlo con gli
occhi: gli bastava uno sguardo obliquo con le iridi sfavillanti di
aspettativa
per convincerlo a sbottonare la lingua.
«Non
ce l’avrei fatta, senza di lui.»
«Come
Ludwig.»
«Non
è come quel… crucco!»
«Crucco?»
gli fece eco Feliciano, il tintinnio di una risata
in quell’interrogativo. «Non esiste, come
parola.»
«Gli
calza a pennello.»
«Non
puoi inventarti parole a caso, Lovino.»
«Posso,
se nessuno si è mai preso la briga di inventarsene
una che potesse descrivere quel crucco!»
Feliciano
si arrese con una scrollata di spalle e un
sorriso.
«Il
loro pianeta di origine è stato distrutto, hanno perso
la loro famiglia, sono cresciuti soli e si sono innamorati di un
Vargas… sono
incredibilmente simili, non trovi?»
«Io
non sono più un Vargas»
s’incaponì Lovino.
«Allora
non sei mio fratello?»
«Se
anche dovessero dividerci, sarei nel tuo sangue, nei
tuoi sogni e nei tuoi ricordi. Non ricordi?»
Un
brivido scese lungo la schiena di entrambi: nessuno dei due
aveva scordato le ultime parole che si erano scambiati sei anni prima,
sul
letto della Villa Vaticana.
«Essere
fratelli non ha niente a che fare con il cognome»
Lovino afferrò la mano di Feliciano e la strinse con forza.
«Ho gettato via i
Vargas perché i Vargas hanno gettato via me. Ma non
smetterò mai di essere tuo
fratello.»
Lovino
incrociò le braccia e increspò le labbra in una
buffa
smorfia.
«E,
comunque, non sono simili. Antonio è più
bello.»
«Potrei
smentirti.»
«Non
hai gusto estetico.»
«Sarebbe
tragico se considerassi più bello il tuo uomo del
mio, non trovi?»
Il
respiro gli uscì dalla bocca contratta in una stramba
pernacchia. Odiava non poter replicare. C’erano tre persone,
in tutta la
Confederazione, in grado di zittirlo: il Figlio del Cielo, la cui
memoria
generazionale e alterigia nobiliare mettevano a tacere chiunque; suo
fratello,
che lo acquietava con una logica affettuosa; e Antonio, che
semplicemente gli
toglieva il respiro.
«Antonio
è oggettivamente
più bello» la sua voce scese di
un’ottava, impantanandosi in una lacrima
trattenuta. «E non ha più una famiglia cui fare
ritorno come Ludwig. O come
noi. Non gli è rimasto nemmeno un brandello.»
Feliciano
si sollevò a sedere e abbracciò le ginocchia
contro il petto.
«C’è
una legge che governa l’universo, Lovino. Sai qual
è?»
le stelle intarsiarono una rete di luccichii argentei nelle sue iridi
ramate
quando Feliciano sollevò gli occhi al cielo.
«Tutto ciò che si distrugge, può
essere ricostruito.»
«Ne
conosco un’altra, Feliciano. I morti non ritornano in
vita.»
«Ma
le famiglie si possono ricostruire» il giovane
rovesciò
delicatamente la testa all’indietro, fissando il gemello.
«Tu puoi essere la
sua nuova famiglia. Anzi, ora che ci penso, è
impossibile.»
«Perché?»
scattò Lovino.
«Perché
lo sei già» Feliciano gli sorrise con tutto il
cuore. «Non puoi diventare la sua famiglia se sei
già la sua famiglia, no?»
«Non
sono un suo parente» fu la replica incoerente di
Lovino.
«Non
è una questione di cognome, l’hai detto
tu» Feliciano
aveva un modo dolce di ritorcere le parole contro il loro primo
utilizzatore,
come un pasticcere che nascondeva una punta di peperoncino nella crema:
c’era
tutto il tempo di assaporare lo zucchero prima di scottarsi la lingua
col
piccante.
Lovino
si toccò il collo, vicino alla nuca. La cicatrice a
forma di croce era ancora lì. Forse era tempo di sostituirla
con qualche altro
simbolo.
Il
giovane si alzò, e il gemello non lo fermò:
sapeva dove e
da chi stava andando. E sapeva anche che, finalmente, erano liberi e
pieni di
tempo da trascorrere insieme: avrebbe passato altri giorni e altre
notti
insieme al fratello.
«Lovino»
lo richiamò, dopo qualche passo.
«Guarda.»
Il
giovane sollevò lo sguardo sulla volta celeste.
Si
sentì improvvisamente piccolo e inutile, come una formica
messa di fronte a una montagna.
L’universo
si stava sciogliendo in un intarsio di spirali di
luce. Pareva che una serie di uragani avessero risucchiato uno sciame
di
fulmini: serpenti di luce saettavano tracciando cerchi nervosi,
dipingendo un
quadro astratto di luci e ombre nella trama dell’universo.
I
gemelli rimasero immobili, Lovino ancora in piedi e
Feliciano seduto, a fissare il cielo che si sgretolava in un gomitolo
disordinato di saette.
«Il
Confine sta cedendo» soffiò Lovino.
L’Asse non occupava
più il suo posto, e il muro che li divideva dai demoni stava
lentamente andando
in frantumi.
«È
la fine» concordò sereno Feliciano.
«Pensavo che avrei
avuto paura. Invece è semplicemente…
bello.»
Lovino
annuì, attonito.
Il
giorno dopo sarebbero salpati alla volta di una nuova
dimensione. Non sapevano cosa li attendesse al di là di quel
salto. Ma
sarebbero stati insieme, finalmente.
Era
la solitudine a spaventarli, non l’ignoto. L’ignoto
poteva essere esplorato, quando c’erano più di due
occhi a esaminarlo.
«È
straordinario» esalò, mentre un altro pezzo di
universo
si sfaldava in un roveto di saette.
«Ne
valeva la pena, Lovino» la mano del fratello strinse la
sua, e le labbra di Feliciano si poggiarono sulle sue nocche.
«Per te. Per
Ludwig. Per tutte le persone che avranno il coraggio di salpare con
noi.»
Lovino
si piegò sulle ginocchia per poter abbracciare il
gemello. Feliciano aveva ragione: ne era valsa la pena. Tutti i rischi
che
avevano corso e che ancora si stendevano davanti a loro sparivano se
poteva
stringere il fratello tra le braccia.
«Vai»
lo incitò dolcemente Feliciano, quando si staccarono.
«C’è un capitano molto solo che ti
aspetta.»
Feliciano
rimase qualche secondo a fissare il fratello che
si allontanava. I serpenti di luce spezzavano ombre guizzanti sulla
schiena del
gemello, e disseminavano manciate di riflessi argentei nella chioma di
rame.
La
sua figura di spalle non era straziante come quando la
vedeva nei suoi sogni. Al contrario dei suoi incubi, se lo avesse
chiamato,
Lovino si sarebbe voltato e, se avesse teso le braccia, sarebbe corso
ad
abbracciarlo.
Si
alzò in piedi a sua volta, e si girò verso gli
Hellsing.
Ludwig gli fece cenno di avvicinarsi, e Feliciano fu lesto a portarsi
al suo
fianco.
Roderich
chinò il capo, una punta di vergogna a intorbidare
la sua glaciale raffinatezza: l’ultima volta che aveva visto
l’Asse, era ancora
lo spietato Accordatore. E non aveva idea che il Guardiano potesse
essere il
suo secondo figlio. Nonché l’amante del mago
più potente della Galassia.
Ovviamente,
tutti lo conoscevano come Asse, ma il giovane
non vedeva l’ora di spogliarsi di quel titolo ingombrante
come aveva fatto di
quelle vesti troppo candide.
La
faccia di Gilbert si aprì in un ghigno da galera quando
il ragazzo si presentò:
«Sono
Feliciano. Feliciano Belial.»
«Questo
tipo ha capito tutto» si complimentò Gilbert,
battendo una pacca cameratesca sul braccio nerboruto di Ludwig, lieto
che il
cognome da lui creato avesse tanto successo. «Belial
è un bel cognome. Scelto
con cura da una persona meravigliosa.»
Feliciano
si sedette per terra e invitò Ludwig a fare lo
stesso. Rimase appoggiato alla spalla del suo Guardiano, il braccio
forte del giovane
stretto sulla sua vita, mentre i tre Hellsing si scambiavano ricordi e
aneddoti.
La
felicità aveva un gusto più semplice di quanto si
potesse
immaginare: sapeva di famiglia, di baite in riva ai laghi e sonate di
violino.
Feliciano
socchiuse gli occhi, rigirandosi quella sensazione
sulla lingua.
Era
tutto lì, in quel sapore casereccio. Il motivo per cui
avevano lottato.
Quel
sapore ne valeva la pena.
***
Non
li aveva visti.
Non
aveva voluto
vederli.
Appena
i fantasmi avevano fatto la loro apparizione nell’utero
di pietra, aveva chiuso gli occhi. Non voleva vedere i suoi genitori.
Aveva
mille bei ricordi di loro; non gli serviva una loro
immagine come spettri carichi di vendetta.
Emise
un sospiro flebile e lungo, nella penombra delle tende
di fortuna che avevano allestito di fianco al cantiere aeronavale.
Gilbert
aveva ritrovato una parte della sua famiglia. Chissà
che effetto faceva, ricongiungersi al proprio padre e al proprio
fratello dopo
tanto tempo. Doveva essere qualcosa di avvolgente, quasi schiacciante,
come
quando ci si tuffava in profondità troppo elevate. E bello
come le parole non
erano in grado di descrivere.
L’espressione
che aveva attraversato il volto di Lovino
quando aveva trovato Feliciano era qualcosa che aveva visto solo nelle
Chiese
Vaticane, sui volti degli angeli affrescati. Li aveva visti
perché era entrato
per rubare i tesori, non per recitare una preghiera come ogni fedele
timorato.
Era
stato belle assistere a quegli incontri. Bello, ma con
una punta di invidia, perché a lui non sarebbe mai successo.
Allargò
immediatamente le braccia quando uno scalpiccio di
passi ben conosciuti si fece strada nella tenda, e il corpo di Lovino
si sagomò
contro il suo l’istante successivo.
«Credevo
che fossi con tuo fratello» lo accolse, accarezzandogli
la schiena.
«Non
potevo lasciarti solo come un cane» il barbuglio del
giovane gli solleticò il petto, e Antonio gli
scompigliò con dolcezza i capelli
ramati. «Tu non… non hai più una
famiglia.»
Le
braccia del capitano si immobilizzarono, strette sulla
sua vita magra.
Il
puzzo della sua casa che bruciava gli pizzicò nuovamente
le narici, e l’uomo dovette scuotere il capo per scacciarlo.
«E
quindi?» domandò, senza capire perché
Lovino avesse
voluto sollevare quell’argomento caustico.
La
sua mano destra venne afferrata da quella del giovane,
fatta scivolare lungo il fianco per poi essere condotta in alto,
attraversando
il petto fino ad approdare al collo. I polpastrelli del capitano
saggiarono la
cicatrice a forma di croce, frastagliata e in rilievo rispetto al resto
della
pelle.
Sentì
Lovino prendere fiato e farlo uscire in un respiro
tremulo, tipico di quando voleva dire qualcosa, ma una micidiale
combinazione
di orgoglio e vergogna gli impediva di esprimersi.
«Non
sono una donna.»
«È
abbastanza ovvio» la penombra gli impedì di
schivare la
testata, diretta al suo mento.
«Non
mi interrompere!» sbottò Lovino, accecato
dall’imbarazzo. «Quindi non… non puoi
avere una famiglia, con me.»
«Lovino,
abbiamo già affrontato questo…»
riuscì a deviare la
seconda testata, e il ragazzo si vendicò sferrandogli un
colpo allo stomaco.
«Ti
ho detto di non interrompere!» Lovino era quasi
fluorescente nella penombra, tanto erano diventate paonazze le sue
guance. Il
giovane prese un altro respiro, bloccato dall’orgoglio che
veniva ingoiato.
«Non…
non posso portare anelli o sciocchezze simili»
riuscì
a brontolare, alla fine.
Antonio
non capì subito cosa intendesse dire. Impiegò
qualche secondo per ricordarsi che quella croce in rilievo, un tempo,
era stata
il simbolo dell’appartenenza alla famiglia
Vaticana… e ora era diventata uno
spazio vuoto per un nuovo marchio.
«Lovino»
il capitano si avvicinò per parlare a un soffio
dalle sue labbra. «Vuoi diventare un Carriedo?»
«Belial Carriedo»
precisò piccato lui, allontanandosi con il viso.
Le
dita del capitano tracciarono cerchi pensosi sul suo
collo.
«Ma
io non ho nessun marchio da metterti» rifletté,
sornione, come un gatto che gioca con un topolino che tiene tra le
zampe.
«L’unico che potrei avere…»
Lovino
si dimenò come una lince selvatica tra le sue braccia
mentre lo faceva voltare. Antonio gli afferrò con forza la
nuca, per evitare
un’eventuale testata sul naso, mentre schiudeva le labbra sul
suo collo.
Le
mani di Lovino gli artigliarono la camicia, e un ansito
sorpreso sfuggì alle labbra orgogliose. Antonio
ghignò, ultimando il lavoro: se
avesse saputo prima che quello era un suo punto sensibile, lo avrebbe
stimolato
molto tempo prima.
Un
fiore scarlatto si apriva al centro di quella croce
biancastra. Pareva quasi un’icona pagana.
«Sparirà
entro pochi giorni, idiota!» Lovino cercò di
assestargli una gomitata alle costole, ma Antonio lo
abbracciò così forte da impedirgli
qualunque mossa azzardata.
«Te
lo rifarò finché non mi verrà in mente
un simbolo adatto
da tatuarti» contrattò il capitano.
«Non
posso girare con un succhiotto per tutta la vita!»
scalciò il ragazzo.
«Non
ho detto per tutta la vita, solo finché non mi
verrà in
mente un bel tatuaggio» rimarcò Antonio.
«Allora
datti una mossa a pensarci!»
«Mi
è difficile pensare.»
«Non
è una novità!»
«Intendo
dire che mi è difficile mentre siamo soli.»
Lovino
si immobilizzò per un attimo, prima di insultarlo di
nuovo.
«Maniaco…»
ma proferì l’improperio con un tono di voce
così sommesso
da cancellare quasi del tutto la vena di rabbia.
Le
dita del capitano gli fecero voltare lentamente il viso,
finché non fu a portata di bacio. Lovino si voltò
nel suo abbraccio, per
potersi arrampicare su di lui e spingersi più a fondo nella
sua bocca.
Una
mano di Antonio scivolò piano verso il basso, passeggiando
oziosamente sulla cintura prima di scavalcarla e pizzicare la
biancheria del
giovane.
«Antonio!
Tirati su le braghe e vieni fuori!»
Adorava
Gilbert, gli voleva davvero un mondo di bene. Ma, in
quel momento, avrebbe voluto sparargli.
Lovino
si allontanò da lui con una spinta e sfregò con
foga
le labbra sulla manica, quasi temesse che la bocca di Antonio avesse
lasciato
una traccia indelebile su di esse.
Il
capitano uscì, senza riuscire a dissimulare il suo
malcontento.
«Spero
che sia una questione di vita o di morte»
minacciò,
uscendo un secondo prima di Lovino.
«Oh»
notò Gilbert, malizioso. «Allora
l’avvertimento sulle
braghe era lungimirante.»
«Cuciti
la bocca, crucco»
tagliò corto Lovino.
«Crucco?»
gli fece eco Gilbert.
«A
mio fratello piace inventare nuove parole»
minimizzò
Feliciano.
«Per
cosa siamo stati chiamati?» domandò sbrigativo
Antonio.
Roderich
sfoderò il violino e lo posizionò sotto il mento
con eleganza.
«Non
abbiamo ancora reso omaggio a tutti coloro che sono
caduti prima di vedere questo giorno» presentò il
musicista. «Questa canzone è
per loro.»
Gilbert
sorrise, sentendo le prime note diffondersi
nell’aria. “Non sei solo”. La sua
ninna-nanna.
Lo
sparuto pubblico si strinse in un abbraccio
attorcigliato: Antonio avvolse le braccia attorno alla vita di Lovino,
che
poggiò una mano sui polsi incrociati dell’uomo e
porse l’altra al fratello.
Feliciano intrecciò le dita a quelle del gemello, e sorrise
quando il palmo di
Ludwig si appoggiò sul suo fianco. Il Guardiano
allungò il braccio libero,
appoggiandolo sulle spalle di Gilbert, che gli batté alcune
pacche guerresche
in mezzo alle scapole.
Un
silenzio contemplativo colò gentilmente sulla piccola
assemblea, mentre l’archetto scivolava sulle corde.
Le
note parvero gonfiarsi, riempiendo dolcemente tutto lo
spazio circostante. La musica cullò i cuori nei loro petti,
e volò verso
l’alto, dove perfino gli angeli l’avrebbero udita.
Ognuno,
in quella melodia, rivide scene diverse.
Gilbert
vide un viso biondo con un paio di occhiali e un
sorriso goffo.
Ludwig
sentì il gelo di un laghetto di fianco alla sola
baita nella tundra brulla.
Antonio
udì le voci dei suoi genitori rimbombare nei
corridoi della sua memoria.
Feliciano
vide suo padre, quando ancora si ricordava come si
faceva a sorridere.
Lovino
avvertì la morbidezza del letto nella Villa Vaticana,
da cui fissava il cielo con il fratello.
Roderich
continuò a suonare, finché perfino le stelle non
si
voltarono per ascoltare la sua melodia.
La
stavano sentendo anche i combattenti incorporei che li
avevano aiutati in quella guerra.
Poteva
quasi vederli, affacciati dai loro seggi di nuvole.
E,
tra loro, poteva scorgere con particolare chiarezza una
donna fiera, dai lunghi capelli castani.
Una
guerriera che sorrideva solo per lui.
Più
di dieci
giorni senza wi-fi.
PIU’
DI DIECI
GIORNI SENZA WI-FI E CON IL CAPITOLO PRONTO DA POSTARE!!!! AVEVO VOGLIA
DI
MANGIARMI LE MANI!!!!
Cooooomunque….
Eccoci qui gente, al terz’ultimo capitolo! Ebbene
sì, ancora due capitoli e
Caleidoscopio sarà concluso ç_ç Mi
viene da piangere, come quando ho scritto la
fine di Rosario Cuentas çAç
Questa
storia mi
ha coccolata per un anno circa, e spero abbia tenuto buona compagnia
anche a
voi<3e, se l’ha fatto, spero seguirete anche gli
spin-off<3
Pensavo
di
cominciare dalla saga degli Hellsing, con il piccolo Gilbert e un
Roderich non
del tutto certo di voler allevare quello sgorbietto. Mi sono segnata
tutte le
vostre richieste su un foglio di word *_* Le elenco di seguito, se ne
aveste
qualcuna che volete aggiungere siete liberi di chiedere<3
(l’ordine è
casuale<3)
1)
Breve
divagazione sul “prima di Caleidoscopio”
HELLSING
1)
PruCan
e piccolo Ludwig (i giorni felici prima che l’autrice sadica
uccidesse il
povero Matthew)
2)
Elizabeta,
Roderich e Gilbert bambino
3)
Gunsmith:
come si è formato il loro gruppo e le varie coppie
REINA
DE LA
OSCURIDAD
1)
Profferte
fatte a Lovino da parte della ciurma (ebbene sì, qualcuno di
voi ha chiesto
anche questo<3)
2)
Come
Lovino è diventato Mano Sinistra del Diavolo
ALTRO
1)
Lovino
e Feliciano da piccoli:
se Lovino
anche in questa fic ama e invidia allo stesso tempo Felì,
come hanno preso
consapevolezza dei loro poteri e carica, il loro rapporto di gemelli
ecc.
2)
Kiku
e Heracles nell’orfanotrofio
3)
Heracles;
qualcosa sulla sua infanzia
4)
Giornata
tipo di Alfred prima della morte di Matt, una volta diventato Aquila e
Stella
Polare
5)
Formazione
stella polare
6)
Arthur
e i suoi cento anni da solo; Francis e cosa ha fatto in quei cento anni
7)
Bad
Touch Trio; qualche avventura che ha cementato l’amicizia,
come si sono aiutati
tra di loro quando Antonio e Gilbert hanno perso le loro famiglie, la
reazione
di Francis e Antonio quando Gilbert è stato catturato, cosa
ha provato Antonio
quando anche Francis è stato incatenato
8)
Come
sono finiti gli Hellsing e i Carriedo
Wow,
un bell’elenco direi XD<3
Se
vi viene in mente altro, prego<3 Non c’è
limite alla fantasia, qui<3
Ciò
detto vi saluto e, se il wi-fi mi assiste,
avrete presto mie notizie<3
Anche
per la futura fanfic su Hetalia, dopo o
contemporanea agli spin-off<3
Red
P.S. Non riesco a rispondere alle recensioni sempre per i problemi di wifi ;; appena avro’ la connessione per bene vi rispondero’<3 Grazie a tutti voi che siete arrivati a leggere fino a qui<3
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Capitolo 27 *** La Grande Partenza ***
Capitolo
Ventisette: la Grande
Partenza
Il
sole stava ancora dormendo nella culla della notte.
Il
cielo e gli astri erano le uniche creature in grado di
riposare felici, quella sera. Il mattino avrebbe squarciato la notte e
milioni
di famiglie, il giorno successivo.
C’erano
tanti figli in lacrime, ad assorbire con avidità le
parole degli anziani genitori che avevano deciso di rimanere, cercando
di
imprimere quegli ultimi momenti nella memoria e maledicendosi per non
aver
fatto tesoro dei precedenti. Tanto tempo passato insieme, e
così pochi ricordi
messi nel forziere della memoria. Nessuno pensava mai di gioire per le
giornate
di vita quotidiana, credendo che quel tempo sarebbe durato per sempre.
Ma niente
era eterno, specialmente il tempo: scorreva incessante nella grande
clessidra
che era l’universo, e ormai non ne erano rimasti che pochi
granelli.
E
c’erano tre compagni che avevano deciso di sfruttare una
di quelle ultime briciole per farsi una bevuta insieme.
Antonio,
Gilbert e i loro compagni non si erano accampati
troppo lontano da Britannia, e Francis era riuscito a trovare qualche
minuto
per loro, prima di tornare ai preparativi condotti dal Mago
dell’Ovest. Gilbert
si era assunto la responsabilità di trovare
l’alcol ed era sparito nella sua
tenda, lasciando Antonio e Francis seduti sull’erba umida.
«Ecco
qua!» la tenda sputò fuori un Gilbert trionfante,
armato di una fiasca di metallo dall’aria consumata.
«La scorta di emergenza
non tradisce mai!»
«Dimmi
che non è quel liquoraccio insipido che ti porti
sempre dietro» lo supplicò scherzosamente Francis.
«È come bere fango. Dopo che
è stato filtrato dall’alito di un drago.»
«Non
rompere!» il ginocchio dell’Helsing si
schiantò in
mezzo alle sue scapole, preciso e micidiale, prima che Gilbert
scaricasse tutto
il suo peso in mezzo a loro. «Meglio di
quell’acquetta d’uva che hai la pretesa
di chiamare “vino”!»
«Il
vino è come una poesia» decantò
Francis, pomposo come
sempre. «Richiede palati fini per essere
apprezzato.»
«Palati
da femminucce» lo corresse Gilbert, le parole
sbocconcellate per via del tappo di metallo tra i suoi denti.
«Non
hai portato dei bicchieri?»
L’Hellsing
aveva un modo piuttosto fisico – in senso barbaro
– di dimostrare amicizia. Lo spostò con una
gomitata, raschiando:
«Cos’è,
rinascere ti ha rammollito? Un sorso a testa e via.»
«Io
non mi fido di bere dalla sua stessa bottiglia» Antonio
cercò di protestare seriamente, ma un sorriso si stava
già affacciando sulle
sue labbra mentre indicava Francis. «Si è portato
a letto mezza Confederazione,
chissà che strane malattie potrebbe passarci!»
«Da
che pulpito viene la predica!» il tentativo del
Fiammingo di fingersi offeso fu ancora meno convincente:
scoppiò a ridere a
metà frase. «Come se tu avessi passato la tua vita
a comportarti da uomo casto!»
«Ma
adesso sono un uomo impegnato»
annunciò Antonio con solennità, poggiando una
mano sul cuore.
«Anche
io» ricambiò Francis.
«E
io non capisco come abbiate fatto a impegnarvi con
persone del genere» Gilbert si rivolse ad Antonio, le
sopracciglia quasi unite
per la perplessità: «Lovino potrà
essere un ragazzo attraente, quando non ha
quel viso corrucciato…»
«Fa
parte del suo fascino.»
«Ah,
l’amore è come una lobotomia, ti rincretinisce
completamente»
Gilbert fissò mestamente il terreno, come se stesse
esprimendo le sue
condoglianze a un funerale. «Riparleremo del suo
“fascino” quando sarà
diventato un po’ più docile.»
Un
lampo di malizia attraversò le iridi di smeraldo del
capitano.
«Ma
lui è docile.
Solo che tu non puoi vedere quando.»
Gilbert
gli schiaffò una mano sulla faccia, spingendolo
all’indietro per prevenire qualunque dettaglio indesiderato
sulle attività
segrete dei due.
«Facciamo
in modo che la conversazione non vada in quel
verso, o il Fiammingo qui comincerà
a straparlare per delle ore intere!»
«Credo
di non avervi mai raccontato di quella ragazza
Asean…»
«Al
Mago dell’Ovest l’hai raccontato?» lo
prevenne Gilbert,
puntandogli contro il collo della fiaschetta come avrebbe fatto con una
pistola. «E a proposito del mago, non hai visto le
sue…» e indicò le proprie
sopracciglia argentate, mentre le labbra si torcevano in una smorfia.
«Sembrano
due alieni che vivono di vita propria su una faccia umana.»
«L’amore
non è una questione di sopracciglia. L’amore
è…»
Francis aveva già assunto una delle sue pose teatrali, ma la
sgonfiò quasi
immediatamente. «Sappiamo tutti che
cos’è. Siamo in quella fortunata frangia di
popolazione che ha sperimentato il vero amore.»
«Non
mettetemi al vostro stesso livello, non ho un gusto
deviato come il vostro! Matthew era bello sia dentro che
fuori!»
Le
dita callose di Gilbert si immobilizzarono attorno alla
fiaschetta. Era. Matthew “era”. Non credeva che uno
stupido verbo potesse fare
così male.
Le
ciglia argentee proiettarono un’ombra triste nei suoi
occhi sanguigni, quando li diresse verso il Marauder. La voce
uscì rugginosa,
come la lama di una spada stanca di combattere.
«Lo
rivedrò?» non osò aggiungere altro. Un
Hellsing in
lacrime sarebbe stato uno spettacolo assai gramo.
Gli
occhi azzurri vennero liberati dagli occhiali, che
Francis fece penzolare nel vuoto mentre rispondeva:
«Ti
sta aspettando, Gilbert. Ti sta chiamando.»
«Allora
perché non riesco a sentirlo?»
«Perché
ascolti dalla parte sbagliata» Francis spostò gli
occhi sul cielo trapuntato di stelle sopra di loro. «Ma ti
sta chiamando,
Gilbert. E lo ritroverai.»
«Come
fai a esserne sicuro?»
Francis
gli strappò la fiaschetta dalle mani e sparò la
sua
replica sul viso guerriero dell’Hellsing:
«Perché,
se non lo troverai tu, ti prenderò per un orecchio
e ti condurrò personalmente da lui, uomo dalla testa di
pietra.»
Il
liquore tanto insultato ebbe la sua vendetta non appena
toccò la gola del Marauder: la scorticò quasi con
il suo sapore violento, e il
Fiammingo tossì fino a farsi lacrimare gli occhi.
«Voi
Hellsing non avete mezze misure» annaspò,
restituendo
la fiaschetta.
«Voi
Marauder siete delle donnicciole» Gilbert sorbì un
lungo sorso, che inghiottì rumorosamente, per poi gonfiare
il petto con
orgoglio in direzione dell’amico agonizzante.
«Visto? Nessun problema.»
«Tu
devi avere il sistema digestivo di una viverna.»
«In
che senso?»
«Le
viverne mangiano sassi»
semplificò il Marauder, sventagliandosi con la mano. Erano
passati troppi anni
dall’ultima volta che aveva bevuto il liquore casalingo degli
Hellsing, e il
suo palato da esteta si era disabituato a quel sapore barbaro.
Antonio
si sporse oltre Gilbert per poter scrutare il
Fiammingo.
«È
strano» concluse alla fine della sua osservazione.
«Parli
come Francis, hai i ricordi di Francis, gesticoli come lui…
ma sei in un corpo
diverso. È strano parlare con un vecchio amico, quando
questo ha una faccia
nuova.»
«Potrei
farmi ricrescere la barba. Dite che mi donerebbe?»
il Marauder si massaggiò il mento, alla ricerca di peli
inesistenti.
«Era
ancora liscio come un bambino. Quanti anni avrà avuto,
il ragazzo che ha dato forma a quel corpo?» Antonio
rubò la fiaschetta a Gilbert,
e si ricaricò con un goccio di liquore. «Non ti fa
impressione stare nel corpo
di un ragazzo morto così giovane?»
Francis
si spalmò sulla faccia un sorriso forzato,
voltandosi verso Antonio.
«Amico
mio… stai cercando di farmi sentire un assassino?»
Il
pirata si sollevò in piedi, e stese la schiena contro il
velluto della notte. Le saette che crepitavano nel cielo strappavano
frammenti
della sua figura alle ombre. Visto in quel modo, il capitano sembrava
quasi una
creatura della notte pronta a tornare nel grembo materno.
«Forse
per te è normale, Francis. Hai vissuto moltissimi
anni più di noi» esordì Antonio.
«Ma per noi non è facile accettare il fatto
che tu sia morto e risorto in una settimana. Ovviamente siamo felici di
averti
con noi, è solo… complicato» la luna
infranse uno specchio argentato nelle
iridi del capitano, e così Francis capì che
l’amico aveva gli occhi lucidi di
lacrime. «Siamo solo umani, in fondo.»
Antonio
inspirò rumorosamente, e mosse un passo di lato,
verso il Marauder.
«E
poi, Francis… non riesco a togliermi dalla testa una
cosa. Quando Feliciano ci ha raccontato come avete scatenato gli
spiriti, ha
detto che tu avevi visto cosa sarebbe successo, trecento anni fa. Per
trecento
anni, hai saputo esattamente cosa sarebbe accaduto ai nostri pianeti. E
hai
lasciato che avvenisse.»
«Antonio…»
«Rivedo
in continuazione il volto di mio padre, che mi
guarda per l’ultima volta prima di bruciare con il resto del
pianeta. E ho
odiato il Mago dell’Ovest per così tanto tempo,
senza sapere che i fuochi di
Hispaňa lo tormentavano come tormentavano me… e
c’eri tu, dietro a tutto
questo. Tu che sapevi, e che non hai fatto niente per
impedirlo.»
«Ascoltami,
ci sono degli avvenimenti, nel corso del tempo,
che devono restare immutabili, anche se atroci…»
il capitano alzò una mano,
imponendo silenzio.
«Ma
poi» la voce si addolcì impercettibilmente.
«Poi mi
ricordo che tu eri sempre là. Non l’hai impedito,
ma non ci hai mai
abbandonato. Né me né Gilbert. Ogni volta, tu eri
là.»
Il
capitano si mise a sedere davanti a Francis, porgendogli
di nuovo la fiaschetta.
«Non
so quali grandi piani avesse il destino per questa
Galassia, e quanto tu ne sia stato coinvolto. Ma non posso dimenticare
che,
ogni volta che tendevo la mano, c’era un Fiammingo pronto ad
afferrarla.»
Un
sorriso triste solcò le labbra del Marauder.
«Avrei
voluto avvertirvi. Lo avrei voluto davvero. Ma non ho
potuto. Alcune cose non devono essere impedite, per quanto spaventose.
L’unica
cosa che potevo fare era starvi vicino» afferrò la
bottiglietta, ma non riuscì
a portarla alle labbra finché Gilbert non
biascicò:
«E
non è esattamente quello che fanno gli amici? Non possono
impedire che ci venga fatto del male, ma, diavolo! Se non ci sono loro
andiamo
in pezzi!» l’Hellsing gli assegnò un
pugno e un sorriso sghembo. «Grazie per
essere stato la nostra colla.»
«La
vostra “colla”?» lo prese in giro
Francis, accostando la
fiaschetta alle labbra. «Dovresti spolverare la tua riserva
di dichiarazioni a
effetto, Gilbert. È piuttosto carente.»
«Le
dichiarazioni a effetto erano riservate a Matthew, tu
non ne vali la pena.»
Di
nuovo, il Marauder quasi sputò un polmone dal naso sotto
l’effetto del liquore.
«E
dovresti rivedere anche la ricetta di questa sbobba. Ma
che diavolo è, fuoco greco?»
«Ricetta
segreta» dichiarò Giselbert con fare misterioso,
prima di sorbire un sorso lungo il doppio di quello del collega.
«E tu fatti
revisionare lo stomaco, femminuccia. Devono averti dato per sbaglio
quello di
un canarino.»
I
tre amici volsero lo sguardo verso il cielo.
Socchiusero
gli occhi, accecati dal bagliore della tempesta
di fulmini sopra di loro.
Nel
cielo si erano aperti dei vortici crepitanti, e tra le
loro spire si agitavano interi stormi di fulmini. Qualche serpente di
luce
arrivava fino al Confine del Mondo e ne azzannava un pezzo, e quello
cadeva
nell’aria, lento e leggero come un fazzoletto di seta, prima
di sparire in una
finissima polvere argentea.
«Avevano
detto che avremo guidato i nostri popoli» mormorò
Gilbert. «E guardateci ora. A guidare popoli stranieri verso
un’altra
dimensione. I nostri vecchi sarebbero fieri di noi.»
«Così
è questa. La fine» Antonio contemplò lo
spazio che si
sgretolava, un atomo per volta. Era terribile, era magnetico, era
magnifico. Ed
era l’ultimo scenario che avrebbero visto della
Confederazione in cui erano
nati e cresciuti.
«Qualche
rimpianto?» chiese Francis.
«Avrei
dovuto avere più cura dei semi che avevo piantato»
confessò l’Hellsing.
«Ho
fatto molte cose di cui non vado fiero. Non mi chiamano
“la Mano Destra del Diavolo” senza un valido
motivo» Antonio sospirò, mentre un
altro pezzo di universo di schiantava nel nulla. «Ma ogni
passo, anche quello
più insanguinato, mi ha portato qui. Ho dei rimorsi, ma non
dei rimpianti.»
«Io
ho sia rimorsi che rimpianti, in un numero che è quasi
imbarazzante da elencare» Francis chiuse gli occhi, e una
saetta disegnò
un’ombra bianca sulle sue palpebre. «Trecento anni
sono troppo lunghi per non
averne. Ma il mio più grande rimpianto
è…» Francis inforcò di nuovo
gli occhiali,
e un’espressione sorniona gli si accovacciò sulle
labbra. «Non vi ho ancora
raccontato di quella ragazza Asean.»
«E
te lo terrai, questo rimpianto! Io non voglio sentire!»
lo zittì Gilbert.
Rimasero
tutti e tre in silenzio, mentre lo spazio che si
sfasciava dipingeva bizzarri aloni di luce sui loro volti.
Antonio
tese la mano. E quelle dei suoi amici l’afferrarono
immediatamente, stringendola con tutta la loro forza.
Erano
sempre stati lì. Anche quando erano stati separati,
non si erano mai perduti.
«Eccoci
qui. Alla fine» constatò l’Hellsing.
«Ti
sbagli, Gilbert» lo contraddisse Antonio. «La
nostra più
grande avventura deve ancora cominciare. Da domani, avremo una nuova
dimensione
da esplorare.»
***
Il
sole si stava affacciando all’orizzonte.
Feliciano
osservava Ludwig, profondamente addormentato. Era
buffo come riuscisse ad avere un’espressione seriosa perfino
mentre dormiva.
Sfiorò
delicato la curva pronunciata dello zigomo, e le
palpebre del giovane fremettero prima di aprirsi.
«Feliciano?»
lo chiamò, la voce appesantita dal sonno. «Che
ore sono?»
«Tra
poco partiremo» annunciò il ragazzo.
Ludwig
si sollevò a sedere e scostò la frangia ramata
del
giovane per poterlo vedere meglio in viso.
«Feliciano?
Che cos’hai?» chiese, circondando il volto del
ragazzo con le mani.
I
palmi di Ludwig erano ruvidi, gentili, e quando lo
toccavano con tutta quella premura Feliciano aveva voglia di piangere e
ridere
di gioia al contempo.
Il
giovane portò le mani su quelle di Ludwig. I suoi palmi,
invece, erano morbidi e tremanti. Era il mago più potente
della Galassia, e il
più spaventato.
«Ho
paura» ammise in un respiro tremulo.
«Il
Mago dell’Ovest ha aperto un portale, in passato,
è un
processo sicuro…»
«Non
ho paura di quello» Feliciano strinse forte i polsi del
suo amante. Sapeva che dire una cosa del genere sarebbe stato crudele,
ma come
poteva lasciare Ludwig nell’ignoranza? «E se nella
prossima dimensione non ci
fosse la magia?»
Il
Guardiano lo fissò senza capire, con i suoi occhi
azzurri.
«Hai
paura di perdere i tuoi poteri?» tentò.
«No.
Ho paura di perdere te!» esclamò Feliciano,
abbassando
la voce subito dopo. Era un discorso sufficientemente difficile anche
senza
condirlo con urla insensate. «Per gli incantatori come
me… sarebbe un duro
colpo, ma riusciremmo ad abituarci, in qualche modo. I Gunsmith sono
stati
plasmati da della materia vivente, potrebbero al massimo cambiare
forma, ma tu…
tu, Ludwig, sei nato interamente dalla magia.»
Gli
occhi del Guardiano si spalancarono, quando compresero
il sottinteso di quelle parole.
«Se
non ci fosse la magia… morirei.»
Feliciano
annuì, storcendo le labbra per trattenere le
lacrime.
«Non
riesco a immaginarmi una dimensione senza di te. In
questi anni, sono sopravvissuto al Palazzo di Quarzo solo
perché c’eri tu. Tu,
e il pensiero che dovevo vivere per rivedere mio fratello. Solo voi
due. Voi
due siete stati sufficienti per darmi ogni giorno la forza di
sopportare il
nulla e il vuoto di quel posto. Tu hai riempito
quel nulla. E se tu dovessi sparire, io…»
«Feliciano.
Feliciano, guardami.»
Le
mani attorno al suo viso lo sospinsero gentilmente verso
l’alto, e il giovane aprì gli occhi che aveva
chiuso per impedire alle lacrime
di uscire. Ludwig baciò le sue ciglia umide di pianto, prima
di poggiare le
labbra sulla sua fronte.
«”Per
sempre” significa che non ti dirò mai addio, e non
ti
lascerò solo. Qualunque cosa succeda, non ti
abbandonerò» le dita del Guardiano
gli accarezzarono la nuca, con una gentilezza impossibile per le mani
di un
guerriero. «Questa è la nostra promessa, non
ricordi?»
Feliciano
lasciò le lacrime libere di scorrere.
«Sì!
Sì, me lo ricordo!» e si sollevò per
baciare le labbra
del suo Guardiano.
«Perciò
anche tu, Feliciano…» lo pregò Ludwig,
scostandosi
appena dalla sua bocca. «Non dirmi addio. Qualunque cosa
succeda oggi, non puoi
dirmi addio.»
Feliciano
annuì, aggrappandosi al collo del giovane per
avere un altro bacio.
Il
muggito di un corno rimbombò nell’aria, e il
giovane si
staccò dal suo Guardiano. Ma non riuscì a
lasciare la sua mano, come non riuscì
a liberarsi della paura folle che Ludwig sarebbe volato in qualche
luogo
lontano, che lui non avrebbe potuto raggiungere.
La
mano del Guardiano gli accarezzò di nuovo il viso con
quella dolcezza insostenibile.
«Va
tutto bene, Feliciano. Sarà come fare un salto, e saremo
di nuovo insieme. In una nuova dimensione, una dimensione
libera.»
Il
giovane annuì, ma le sue dita rimasero serrate intorno
alla mano del giovane.
L’ombra
del dubbio passò nelle iridi cerulee di Ludwig.
«Vedi
qualcosa?» domandò, cauto.
Le
dita di Feliciano si strinsero come per uno spasmo
attorno alle sue, e il Guardiano comprese. L’Asse era uno dei
maghi più potenti
di tutta la Galassia; ovviamente, anche i suoi poteri divinatori erano
eccezionali. E precisi: le predizioni di un Asse erano sempre veritiere.
Ludwig
si chinò per arrivare con gli occhi alla stessa
altezza di quelli ramati del suo compagno, fissi al suolo.
«Cosa
vedi?» chiese, con il massimo tatto possibile.
Feliciano
prese fiato tre volte, i polmoni che sussultavano
come se non ricordassero più come si faceva a inalare.
«Non
vedo niente.»
«E
non è una buona cosa?»
L’Asse
rivolse verso di lui gli occhi ramati, infossati
nelle lacrime.
«Sai
qual è l’unica cosa che un indovino non
può prevedere?»
«Ludwig!»
il richiamo di Gilbert interruppe i loro discorsi.
«Feliciano! Dobbiamo partire!»
Il
Guardiano portò velocemente la mano dell’Asse alle
labbra
per baciarne il dorso.
«Ce
la faremo» cercò di rassicurarlo, prima di uscire.
La
chioma rossastra di Feliciano si chinò in un assenso,
prima di raggiungere gli altri.
Il
cielo era tappezzato di Aeronavi. Si distinguevano le
imbarcazioni Asean, sottili e slanciate, contrapposte ai velivoli
panciuti
prodotti su Britannia. La bandiera piratesca della Reina
sembrava farsi beffe delle vele bianche delle Aeronavi che
avevano sottratto alla decaduta flotta Vaticana. Le buffe mongolfiere
metalliche dei Gunsmith si incastravano negli spazi vuoti delle
colleghe più
imponenti.
Feliciano
si affiancò a Lovino. A terra erano rimasti solo
lui, il fratello, Ludwig e il Mago dell’Ovest, ossia gli
incantatori che
avrebbero aperto il portale e la loro guardia.
Il
Britanno vestiva gli abiti di Faerie, e sul suo viso era
sceso un velo di lutto.
Arthur
non riusciva a scordarsi cosa era accaduto quanto le
Aeronavi avevano lasciato il suolo di Britannia. I pianti
dell’addio gli
avrebbero torturato la coscienza per molti anni ancora.
Aveva
scorto il
Leone Incoronato, tra gli anziani che avevano deciso di restare.
Si
era fatto da
parte per permettere al sovrano di accedere al vascello, ma quello era
rimasto
fermo, a fissarlo con il sorriso sereno dei saggi.
«Vostra
Altezza?» Arthur non aveva osato formulare la tremenda
domanda che gli aveva
azzannato il cuore.
«Vai,
Mago
dell’Ovest. Le Aeronavi hanno bisogno di un
capitano.»
«Non
posso
salire prima di voi.»
«Io
non salirò
su quelle navi, Mago dell’Ovest.»
«Perché?»
la
domanda scivolò fuori dall’ombra del cappuccio:
Arthur aveva abbassato
impercettibilmente la testa in modo da essere completamente nascosto da
essa.
Il
Leone
Incoronato aveva rivolto uno sguardo alle sue spalle, sereno.
«Perché
anche
loro sono il mio popolo, e hanno bisogno di una guida. Tu guiderai la
nuova
Britannia verso una nuova dimensione, io condurrò la vecchia
Britannia a una
fine pacifica.»
«Mio
Sire…»
«E
non potrei
mai vivere in una nuova dimensione. Sono nato assieme a questo pianeta,
e
desidero andarmene assieme a lui.»
«Non
c’è niente
che possa farvi cambiare idea?»
Il
Leone
Incoronato gli sorrise compassionevole.
«No,
Arthur. Ma
non essere triste. Ogni cosa inizia, ogni cosa finisce. È
nel ciclo naturale
delle cose. Ed è giusto che sia così.»
Arthur
raddrizzò
le spalle: dovevano reggere il peso di una nazione, non poteva
permettere loro di incurvarsi.
«Siete
stato una
guida meravigliosa, Leone Incoronato» si congedò,
con un profondo inchino.
«E
tu lo sarai,
Mago dell’Ovest» rispose il sovrano. «Li
affido a te. Conducili in un posto che
sia bello come la tua Faerie.»
Li
aveva
osservati mentre si sollevavano in volo: piccoli corpi che diventavano
piccoli
punti che poi sparivano nel nulla. Tante persone che quel giorno
sarebbero
state cancellate.
«Dimmi
che è
l’ultima volta che devo vedere così tante
persone…» non era riuscito a finire
la frase, quando il Marauder gli si era accostato.
«Dimmelo.»
Gli
occhi di
Francis erano rimasti fissi su Britannia, un punto sempre
più piccolo e
indistinto nello spazio.
«Dipenderà
da
noi» aveva risposto. «È sempre dipeso da
noi.»
Scosse
la testa, focalizzandosi di nuovo sul presente.
I
due fratelli Vargas attendevano istruzioni.
Lovino
lanciò un’occhiata fuggevole alle sue spalle, dove
gravitava la Reina de la Oscuridad.
Anche
lui era inquieto, e non solo perché nessuno di loro
sapeva dove quella fuga li avrebbe condotti.
Antonio
era
tornato da lui, dopo aver trascorso un po’ di tempo con i
suoi vecchi amici.
L’odore
di alcol
lo aveva subito messo in allarme, ma il capitano sembrava assolutamente
sobrio.
Il mattino avrebbe preteso la massima efficienza, e un ubriacone era
l’ultima cosa
di cui avevano bisogno. Fortunatamente, anche Antonio lo sapeva.
«Il
liquore
degli Hellsing ha un sapore tremendo» si era lamentato, dopo
che il suo
compagno lo aveva baciato.
«Dovresti
dirlo
a Francis, ne sarà felice.»
«Non
voglio
avere niente a che fare con quel tipo.»
Antonio
aveva
fissato la posa irrigidita di Lovino. Lui poteva perdonare Francis in
nome
della loro vecchia amicizia, di tutti i bei momenti passati insieme,
ma, per il
giovane, il Fiammingo era il diabolico burattinaio dietro quello
sconvolgimento,
sempre in mezzo a loro e senza aver mai avuto la decenza di avvisarli.
Antonio
conosceva il vero Francis, Lovino aveva visto solo l’Asse di
trecento anni
prima. Era normale che provasse astio per la persona che aveva previsto
tante
sciagure e non aveva fatto niente per prevenirle. Anche lui aveva
odiato a
lungo il Mago dell’Ovest, prima di conoscere la
verità.
«Un
giorno
capirai che anche Francis è una brava persona. Nonostante i
suoi innumerevoli
difetti.»
«Non
voglio
parlare di quel brutto ceffo, adesso.»
Lovino
aveva
raddrizzato la schiena, e la pelle di Antonio si era accapponata per il
timore.
Non
era mai un
buon presagio, quando il giovane diventava serio in quel modo.
«E
di cosa vuoi
parlare?» lo aveva invitato il capitano.
«Domani»
Lovino
era partito alla massima velocità: se avesse rallentato, si
sarebbe fermato,
sarebbe scoppiato a piangere e si sarebbe precipitato tra le braccia di
Antonio
pregandolo di rimanere con lui, e non poteva permettersi una crisi di
nervi,
arrivato a quel punto. «Domani tu salirai sulla
Reina.»
«Ma
tu sarai ad
aprire il portale, e Ludwig rimarrà come vostra guardia. E
anche io…»
«Ludwig
non deve
pilotare un’Aeronave. Tu sì. Perciò,
domani salirai sulla Reina.»
«E
se dovesse succedere
qualcosa?»
«Se
dovesse succedere
qualcosa, troverò comunque una strada per tornare sulla
Reina.»
«Cosa
ti fa
essere così sicuro? Per via dei tuoi poteri?»
Lovino
aveva
appoggiato le mani sui suoi avambracci per avere un sostegno mentre si
alzava
sulle punte dei piedi e si avvicinava al suo orecchio.
«Perché
ti amo,
idiota.»
Era
stato appena
un mormorio. Se lo avesse detto più forte, sarebbe morto di
imbarazzo.
Erano
trascorsi
alcuni istanti nel silenzio più totale prima che le dita di
Antonio gli
accarezzassero la testa abbassata, per poi scendere sulle spalle,
percorrere le
braccia e approdare alle mani.
«Stai
tremando.»
Lovino
aveva
cercato di sottrarre le mani alla presa dell’uomo. Antonio le
aveva lasciate
libere, solo per afferrargli con rude delicatezza il viso e condurlo
verso di
sé.
«Ti
chiamiamo la
Mano Sinistra del Diavolo da così tanto tempo, Lovino, che
ci scordiamo sempre
quanto sei giovane» aveva bisbigliato sul suo viso.
«Non posso prendere il tuo
posto, domani?»
«Non
essere
stupido. Che poteri magici hai, tu?»
«Quasi
nessuno»
aveva confermato tristemente Antonio.
«Se
lo sai,
perché lo chiedi?»
«Perché
ti amo,
Lovino. E darei il mio braccio destro per poterti sostituire,
domani.»
Lo
aveva
abbracciato e lo aveva baciato a lungo, come se avesse voluto
strappargli
quella magia che gli avrebbe permesso di prendere il suo posto.
Era
giovane, era
troppo giovane per sostenere quel peso. Nessuno, in quella
Confederazione,
aveva mai aperto un portale dimensionale, prima di allora. Nessuno
sapeva cosa
sarebbe successo. E Lovino e Feliciano sarebbero stati
nell’occhio del ciclone,
assieme al Mago dell’Ovest, difesi unicamente dal guardiano
perché tutti gli
altri sarebbero stati troppo impegnati a fare i capitani e a salvarsi
la vita.
Sarebbero
stati
da soli, nel bel mezzo di una Galassia che divorava se stessa.
Lovino
scacciò a forza quei pensieri per concentrarsi sulle
parole del Mago dell’Ovest.
Assunsero
la posizione tracciata dal Britanno, e
pronunciarono assieme la formula magica.
Arthur
lanciò un’occhiata ansiosa alla sua flotta.
Sarebbero
stati gli ultimi a partire, per poterlo recuperare e fuggire prima che
il
portale si chiudesse. Sperava che questo non avrebbe compromesso la
loro
salvezza.
I
tre incantatori si disposero a triangolo e tesero le mani
verso il cielo.
Il
rituale ebbe inizio.
***
Gli
anziani rimasti su Britannia, nel sistema Asean e in
tutti i pianeti della Confederazione alzarono gli occhi al cielo, e
sorrisi
rugosi incresparono i loro volti.
Uno
squarcio di ombre e luci bluastre si era aperto nel
centro del cielo, più rassicurante e più maestoso
dei vortici impazziti che
squassavano la volta celeste. Alcuni di loro salutarono le Aeronavi
che, come
tanti piccoli sciami ordinati, si affrettavano verso un nuovo mondo.
Un
vecchio, su Chugoku, aveva appena acceso due incensi
sulla tomba della defunta sposa, e si era seduto di fianco alla lapide,
chiacchierando con il marmo.
«Stai
parlando con Mei-Ling?» domandò
un’anziana donna,
seduta di fianco a una tomba poco distante.
«Le
ho solo detto “aspettami”» sorrise,
mostrando un
chiostro di denti sgangherati. «Il resto glielo
dirò di persona, più tardi.»
Il
Leone Incoronato, su Britannia, stava leggendo alcuni
passi del Testo Sacro.
«La
gabbia della vita ti lascerà libero di volare nella
terra dei Verdi Pascoli, che non conosce fame, freddo o dolore. Non
accumulate
i vostri tesori su questa terra di cenere, ma accumulateli sotto gli
alberi in
fiore di quel posto miracoloso, poiché il vostro cuore
sarà dove sarà il vostro
tesoro.»
«Leone
Incoronato, maestà, ho un problema»
annunciò un
vecchio. «Il mio cuore è incatenato alla mia
patria. Che posso fare?»
Il
sovrano sorrise, chiudendo il libro.
«Sono
sicuro che il Giudice Supremo farà un’eccezione.
Abbiamo dato l’anima a questa nostra terra, e con essa
l’abbiamo amata. E
l’amore non è mai una cosa negativa.»
Fu
proprio in quel momento che il cielo crollò.
Il
terribile suono dello spazio lacerato si conficcò nel
cuore di ogni pianeta, facendolo tremare con violenza. L’asse
di rotazione dei
satelliti più piccoli fu divelto da quella scossa
apocalittica, e i vecchi più
deboli si accasciarono al suolo, mortalmente trafitti da quel suono
spaventoso.
«Non
devi avere più paura, Mei-Ling» mormorò
l’anziano Asean, tendendo la mano verso
la pietra tombale. «Non sarai più sola. Perdonami
se ti ho fatta aspettare» una
lacrima si incastrò in una ruga a lato degli occhi, mentre
il vecchio esalava
l’ultimo respiro con un sorriso. «Sei sempre
così bella…»
Il
cielo si spezzò, e i suoi frammenti si schiantarono sui
pianeti sottostanti,
schiacciando case, colline, persone. Una piccola baita solitaria e un
bulbo mai
nato furono sbriciolati da uno dei pezzi più grossi.
I
capitani delle Aeronavi quasi si bruciarono le dita per la forza con
cui
tirarono i timoni per evitare i frammenti fatali e mantenere
l’assetto di
bordo.
Feliciano,
Lovino e Arthur invocarono una barriera, mentre Ludwig colpiva i pezzi
di cielo
con la sua spada, mandandoli in frantumi prima che potessero colpirli.
Gli
incantatori lanciarono un’occhiata alle Aeronavi ancora dalla
loro parte del
portale: alcune mongolfiere dei Gunsmith erano rimaste indietro
rispetto alle
altre, e si affrettavano di fianco alle navi Asean e alla Reina, passata per metà. La
flotta di Britannia attendeva il
proprio mago.
Non
mancava molto, ma era comunque troppo se la Confederazione aveva
già cominciato
a crollare.
Poi
arrivarono.
Un’orda
di incubi e abomini piovve dal cielo. I demoni erano finalmente pronti
a
divorare quella Galassia che per tanto tempo avevano solo potuto vedere
dall’altra parte del Confine del Mondo.
Gli
anziani sopravvissuti si strinsero tra loro, decisi a portare fino a
termine il
loro intento di morire assieme al loro pianeta. Ma molti di loro
piansero,
prima che i demoni li travolgessero.
Gilbert
si sporse dalla balaustra della Reina
per scrutare all’interno del portale appena attraversato.
«Io
torno indietro» annunciò, caricandosi
l’archibugio in spalla. «Non ce la
faranno mai, senza un Hellsing.»
«Hai
ragione» convenne Roderich, poggiandogli una mano sulla
spalla. «Ma tu non sei
l’unico Hellsing presente.»
Lo
spinse prima che Gilbert potesse capire cosa stava succedendo. Le mani
callose
dei marinai lo afferrarono, trattenendolo sulla nave. Roderich doveva
essersi accordato
con loro in precedenza, in qualche modo.
Gilbert
si dibatté, ma inutilmente: per quanto forte, era pur sempre
uno contro sei.
«Fermo!»
gridò, vedendo l’altro Hellsing scavalcare la
balaustra.
Roderich
si voltò verso di lui, l’espressione seria appena
intaccata da un sorriso
triste.
«Faccio
quello che dovrebbe fare un padre. Vado a scacciare i mostri da sotto
il letto.»
«Un
padre dovrebbe stare insieme a suo figlio!»
Quelle
parole lo colpirono come una freccia al cuore e, per un attimo, la sua
compostezza
venne meno.
«Non
sono stato un buon padre» commentò amaro Roderich.
«Sei
stato pessimo» rincarò Gilbert, proteso verso di
lui con tutte le sue forze. «E
se muori adesso, non avrai nemmeno la possibilità di
dimostrare il contrario.»
Roderich
sfiorò il violino con devozione prima di mostrarlo a Gilbert.
«Non
sono mai stato in grado di uccidere i demoni, ma con questo posso
creare una
barriera per trattenerli. Non grande abbastanza per una Confederazione,
ma
sufficiente per cinque persone» portò il violino
al petto e assegnò uno sguardo
fiero e malinconico a Gilbert. «È sempre stata la
mia peculiarità. L’unico
Hellsing che non uccide i demoni ma li ferma» le dita
passarono delicate sulle
corde. «Mi chiedo se non fosse in qualche modo…
stabilito fin dall’inizio…»
«Roderich…»
Non
voleva perderlo di nuovo. Aveva passato anni a cercarlo, a tentare di
capire
perché suo padre li avesse traditi. E lo aveva trovato,
aveva capito. Così
tanto tempo, così tanto dolore che si sarebbe potuto
evitare…
Roderich
sollevò la mano in un saluto. Gilbert si sentì
morire.
«Vivi
la tua vita» l’Accordatore gli regalò un
sorriso inquinato di lacrime
trattenute. «E fai in modo che sia meravigliosa.»
Poi
si lanciò nello spazio, avvolto da una bolla di atmosfera di
artificiale, e
corse più veloce che poté dove le grida di suo
figlio non lo avrebbero
raggiunto.
Attraversò
il portale e atterrò in mezzo ai maghi prima che potessero
farlo i demoni.
L’archetto
passò furioso sulle corde, e la barriera bloccò
quegli abomini prima che potessero
abbattersi su di loro.
Un
rombo di fiamme riscaldò l’aria intorno a loro: il
Figlio del Cielo stava
combattendo per salvare le Aeronavi restanti.
«Quanti
ne mancano?» gridò Roderich, senza smettere di
suonare.
«Solo
due navi Asean» strillò di rimando Lovino, per
farsi udire sopra i versi dei
demoni e le fiamme del Figlio del Cielo. «E la flotta di
Britannia.»
Le
navi Asean attraversarono veloci il portale, e il loro sovrano si
librò sopra
le Aeronavi di Britannia per bruciare qualunque mostro troppo ardito.
«Il
Figlio del Cielo è straordinario» si
complimentò il Mago dell’Ovest.
«Rischiare
tanto per degli stranieri…»
«Non
dire sciocchezze Vaticane» lo rimproverò Lovino.
«Siamo tutti uguali. Siamo
tutti fuggiaschi.»
Il
giovane cercò di mascherare il tremito della voce, ma non
riuscì a nascondere i
brividi che si propagavano in tutto il suo corpo. Tenere aperto un
portale
dimensionale di quella grandezza era un’impresa estremamente
faticosa, e il
terrore che la barriera dell’Accordatore potesse fallire non
aiutava a
sopportare la stanchezza.
Era
troppo. Un portale intero, i demoni, la paura… era troppo.
Sentiva le lacrime
bruciargli gli occhi e le ginocchia sul punto di crollare, ma si morse
le
labbra e si costrinse a continuare. Era troppo, ma non poteva cedere:
non ci
sarebbe stato nessuno a prendere il suo posto. E si erano spinti troppo
lontano
per fallire per un suo istante di debolezza.
La
flotta di Britannia scorse veloce all’interno del portale,
fino a che l’ultima
nave lanciò una corda nella loro direzione.
«Dobbiamo
aggrapparci tutti nello stesso momento» urlò il
Mago dell’Ovest in direzione
dell’Accordatore: lui, Lovino, Feliciano e Ludwig si erano
accordati in
precedenza, ma Roderich era nuovo. «Appena interromperemo la
magia, il portale
inizierà a chiudersi.»
«Io
non attraverserò quel portale.»
Roderich
non si voltò per vedere le espressioni dei suoi
interlocutori. Doveva suonare.
E poi, sapeva che non avrebbe sostenuto lo sguardo ferito e sconvolto
di
Ludwig. Era troppo simile a quello di Gilbert.
«Se
smettessi di suonare, la barriera crollerebbe. E questi mostri ci
divorerebbero
in un attimo. Inoltre… non vogliamo che questi abomini ci
seguano, giusto? Li
tratterrò da questa parte finché il portale non
si sarà chiuso completamente.»
«Ma
non si sono avvicinati al portale, magari non gli
interessa…» provò a dire
Ludwig.
«Solo
perché ci siamo noi, e noi siamo carne, il portale no. Ma
quando avranno
esaurito il cibo, lo cercheranno da qualche altra parte…
magari una nuova
dimensione.»
«Cosa
dirò a Gilbert?»
Solo
gli anni di assiduo studio dello strumento gli impedirono di
interrompere la
melodia e decretare la loro fine. Gilbert. Il bambino che lo pregava
per un po’
di affetto e che all’improvviso era diventato un guerriero
solitario. Che non
aveva smesso di pregarlo.
«Non
gli dirai nulla. Ho già detto tutto quello che volevo
dirgli» questa volta, una
lacrima riuscì a scivolare sul violino.
«Non
c’è più tempo!» li
avvertì il Mago dell’Ovest, prima di afferrare la
corda.
Lovino e Feliciano si attaccarono subito dopo, seguiti da Ludwig, tutti
avvolti
da bolle di atmosfera artificiale.
Roderich
coprì la loro ritirata, ma quel giorno non aveva ancora
esaurito le sgradevoli
sorprese.
Ludwig
lasciò andare la corda come se si fosse trasformata
improvvisamente in un
tizzone ardente, ritraendosi all’interno del portale.
Feliciano
si dimenticò della corda e corse verso di lui, seguito da
Lovino, che non aveva
intenzione di lasciare il fratello da solo, ignorando le grida di
avvertimento
del Mago dell’Ovest.
«Che
diavolo stanno facendo?» inveì Antonio, vedendo i
tre bloccati davanti al
portale. Gilbert seguiva la vicenda con la stessa espressione sconvolta
incollata al viso.
Erano
troppo lontani per sentire cosa i fratelli Vargas e uno degli ultimi
Hellsing
si stessero dicendo.
«Ludwig?»
lo chiamò Feliciano, tendendo la mano. «Vieni.
Dobbiamo andarcene.»
Ludwig
lo guardò con la morte nelle iridi azzurre, e stese le dita
verso di lui. Nel
momento in cui queste attraversarono il portale si ricoprirono di crepe
e la
pelle divenne grigia e spenta come la sabbia su un fossile.
Il
Guardiano ritrasse la mano prima che potesse diventare un pugno di
sabbia.
«Era
come avevi detto tu» masticò a fatica, il cuore
gonfio di lacrime. «Non posso
uscire da questa dimensione. Sono stato creato dal nulla. Se esco da
questa
dimensione, torno a essere nulla» un pezzo di portale si
sfaldò in un lampo di
luce. Sotto quel bagliore pallido, il viso di Ludwig apparve cereo come
quello
di un morto. «Mi dispiace…»
Feliciano
quasi non sentì le mani del fratello poggiarsi sulle sue
spalle. Doveva perdere
anche Ludwig? Una delle due cose preziose della sua vita?
Tese
di nuovo la mano all’interno del portale. I demoni
impazzivano attorno alla
barriera di Roderich, i motori delle navi ruggivano e i capitani
urlavano loro
si sbrigarsi. Feliciano non udì nessuna di quelle cose.
Sentì solo il suo cuore
rallentare i battiti e poi tacere, come se fosse morto. Ludwig, il suo
Ludwig…
Il
Guardiano afferrò la sua mano e la strinse al petto, per poi
baciarne le dita.
«Non
dirò addio. Te l’ho promesso.»
Lovino
immaginava che Feliciano non avrebbe accettato facilmente la perdita di
Ludwig.
Ma non avrebbe mai pensato che sarebbe arrivato a tanto per il suo
Guardiano.
Si
gettò all’interno del portale, si portò
dietro Ludwig e appoggiò una mano in
mezzo alle sue scapole e l’altra al centro del proprio petto.
«Tu
sei forte» lo salutò con un filo di voce.
«Quindi trova la forza per perdonarmi»
e lo spinse verso Lovino con un’onda d’urto.
Ludwig
ruzzolò fuori dal portale, inebetito e dolorante. Tutto il
suo corpo bruciava,
come se un minuscolo incendio stesse divampando in ognuna delle sue
cellule.
Occorsero alcuni secondi di immobilità e respiri profondi
per calmare quella
sensazione e rendersi finalmente conto di cosa fosse successo.
Era
all’esterno della sua dimensione, eppure la pelle era ancora
pelle. Non si era
sgretolato in una miriade di frammenti.
«Feliciano!»
esultò, voltandosi. «Feliciano, ha funzionato!
Qualunque cosa tu…» la voce
rallentò tra le sue labbra fino a spegnersi del tutto.
«Feliciano? Perché non
esci?»
L’Asse
stese tristemente la mano nella loro direzione, e la ritirò
quando le dita
iniziarono a sbriciolarsi.
«Feliciano!»
il dolore nella voce di Lovino lacerò l’aria
martoriata dai versi dei demoni. «Che
cosa hai fatto?»
«Scambio
di struttura molecolare» il sorriso gli squarciò
il viso con una tristezza
infinita. «Ora sono io… a essere nato dal
nulla.»
Una
saetta bianca portò con sé un pezzo di portale,
nascondendo il corpo del
giovane dalla vita in giù.
«Fammi
tornare com’ero!» gridò il Guardiano.
«Feliciano, ti prego… non ho mai voluto
questo!»
«Ma
il destino l’ha voluto, Ludwig.»
L’Asse
si allontanò di un passo quando un fulmine azzurro
strappò un altro frammento
di portale. Ormai era visibile solo il suo volto a pezzi.
«L’unica
cosa che un indovino non può vedere, Ludwig. Vuoi sapere
qual è?» fu un lamento
strozzato quello che abbandonò la gola di Feliciano,
otturata di lacrime.
Avrebbe voluto essere forte, sorridere e incoraggiarli fino alla fine,
ma non
ci riusciva: i suoi cari stavano per andarsene dove non li avrebbe mai
raggiunti, e lui sarebbe stato divorato dai demoni, e tutto sarebbe
finito e
non ci sarebbe più stato ritorno. Aveva paura, e non sapeva
come nasconderlo.
«Un
indovino non può prevedere la sua morte» concluse
per lui Lovino, quasi
inudibile. La sua voce si alzò improvvisamente di tono
quando urlò: «Perché non
mi hai detto niente, Feliciano? Avremmo potuto trovare una
soluzione!»
«E
quale?» il pianto gli scosse le labbra, e l’Asse
abbassò lo sguardo perché i
due non vedessero lo spuntare delle prime lacrime sul suo viso.
«Non avrei mai
permesso a Ludwig di morire.»
«Sei
anni» paura, rabbia e tristezza avevano conficcato i loro
artigli nella gola di
Lovino, e le parole uscirono livide e tremanti. «Ti ho
cercato incessantemente
per sei anni, Feliciano! E adesso dovrei perderti
così?»
«Ti
voglio bene, Lovino» cercò di deglutire, ma la
gola era diventata un nodo
stretto e amaro. «Ricordatelo, ovunque andrai. È
l’unica cosa che conta.»
«Feliciano!»
«Ti
voglio davvero bene, Lovino. Davvero… davvero
tanto…»
Il
portale si sbriciolò sotto una saetta argentata, e gli occhi
ramati che li
guardavano disperati furono tutto ciò che poterono vedere di
Feliciano.
«Anche
se dovessi rinascere come una rosa, ti troverei tra mille altre
rose…» le
parole inciamparono sulla lingua del Guardiano, che dovette
interrompersi per
trangugiare le lacrime. «Troverò la strada,
Feliciano. Troverò la strada che mi
riporterà da te.»
«La
troveremo» si inserì Lovino, le spalle tremanti e
gli occhi di fuoco. «Non dirò
un addio. Non è un addio. Ci ritroveremo, da qualche parte,
in una qualche
piega dell’universo. Non è un addio. Ti
ritroverò.»
Gli
occhi di Feliciano annuirono, affogati dalle lacrime che continuavano a
sgorgare.
Il
portale lanciò il suo ultimo crepitio, e le iridi ramate
iniziarono a sparire.
«Feliciano!»
gridò Lovino, la bocca piena di collera e pianto, mentre le
ultime brecce del
portale si chiudevano. «Ti troverò! Lo giuro, ti
ritroverò!»
«Fate
presto» mugolò Feliciano, quando fu certo che il
portale si fosse
definitivamente chiuso, sigillandolo in quell’inferno di
demoni. «Ho paura di
rimanere da solo…»
«Non
sei solo.»
L’affermazione
del musicista lo sorprese alle spalle.
«È
anche il titolo di questa sinfonia» annunciò
Roderich, la schiena che si ergeva
fiera contro i demoni che picchiavano sulla barriera. «Che,
purtroppo, sta per
finire.»
Feliciano
non riuscì a dire nulla.
Si
alzò e sollevò le braccia verso il cielo,
invocando una barriera un istante
prima che l’archetto abbandonasse le corde.
«Ho
guadagnato solo un po’ di tempo»
notificò Feliciano, un terrore gelido che gli
scuoteva le ossa.
«È
sempre stato l’Asse a proteggere la Confederazione dai
demoni. Ma senza cibo e
senza acqua… resisteremo al massimo tre giorni.»
«Vale
davvero la pena sopravvivere per vedere… questo?»
Roderich indicò lo scempio
alle sue spalle: migliaia di demoni ammassati che premevano le loro
fauci sui
bordi invisibili della barriera.
La
preghiera dell’Asse si inciampò nel pianto.
«Non
voglio morire.»
Il
musicista lo osservò con una compassione sconfinata.
«Nessuno
lo vuole. Ma l’aldilà non è un brutto
posto. Ci sono tutti gli Hellsing, e,
anche se a volte sono rozzi, sono una buona compagnia. E se dovessi
vedere una
ragazza che combatte come un uomo, chiamami subito. Mi sta aspettando
da anni,
ormai.»
Un
singhiozzo gli scosse il petto quando le braccia dell’uomo lo
circondarono.
«Ti
abbiamo ammantato con il titolo di Asse, e ci siamo scordati che
c’è un
ragazzo, dietro quel nome.»
L’Asse
non poteva crollare, ma Feliciano sì. E stava andando a
pezzi, in quel momento.
«Loro
sono salvi» affermò, convincendo se stesso e
Roderich al contempo. «Ne è valsa
la pena.»
«Oh,
sì» Roderich lo abbracciò
più stretto. «Per loro, altre mille
volte…»
Feliciano
si aggrappò con tutte le sue forze alle spalle
dell’uomo mentre annullava la
barriera.
Il
respiro scorreva mozzato nelle loro gole, i muscoli tremavano e i cuori
battevano all’impazzata. La morte si stava avvicinando.
Feliciano
sollevò improvvisamente il capo, stupido.
«Roderich»
esclamò. «Qualcuno ci sta
chiamando…»
Furono
le sue ultime parole, prima che un demone si avventasse sul suo collo
scoperto.
***
Era
difficile correre quando tutto ciò che si desiderava era
inginocchiarsi e
piangere.
Se
solo le lacrime avessero davvero potuto risolvere il problema, Ludwig e
Lovino
avrebbero pianto fino a disidratarsi. Ma un Guardiano sapeva che si
vinceva
solo combattendo e la Mano Sinistra del Diavolo sapeva che il destino
si
cambiava con le proprie mani, non con le lacrime.
Anche
con il cuore di piombo e le gambe di marmo, i due si fecero strada
verso le
Aeronavi, chi con la tenacia del guerriero e chi con la rabbia del
fuorilegge.
Si
voltarono entrambi di scatto quando un fragore tremendo li scosse per
le
spalle.
La
chiusura del portale, per contraccolpo, aveva generato un vortice
dimensionale.
Che ora stendeva le sue spire turbinanti verso di loro.
«Via!»
gridò Ludwig, afferrando Lovino per un braccio.
La
Mano Sinistra del Diavolo cercò di correre al massimo delle
sue forze, ma il
vortice non impiegò molto ad afferrare un lembo dei suoi
pantaloni per poi
ghermire la sua caviglia. La spira diede uno strappo, e le gambe di
Lovino
furono risucchiate fino alla coscia.
Il
Guardiano lo tenne saldamente per i gomiti, cercando di tirarlo fuori
da quelle
sabbie mobili dimensionali. Lovino tentò di scalciare, poi
provò a rimanere
immobile, ma nessuna delle sue strategie ebbe successo: la melma
dimensionale
lo aveva inglobato fino alle anche.
La
consapevolezza che quella era la sua fine gli inumidì le
ciglia. Tutto quelle
battaglie per nulla. La Mano Sinistra del Diavolo sarebbe stata mozzata
da uno
stupido contraccolpo magico.
L’invettiva
uscì ruvida e rovente, per compensare il panico che gli
stava gelando il cuore.
«Lasciami
andare!» morse le lacrime che arrivarono a bagnargli le
labbra e ruggì: «Lasciami
andare! Mio fratello si è sacrificato per te, non azzardarti
a morire qui!»
«Feliciano
non ha salvato solo me» replicò Ludwig, la fronte
imperlata di sudore per la
lotta contro la presa ferrea del vortice.
Un
frullio d’ali si levò in lontananza, e Lovino
scorse l’Hellsing dirigersi verso
di loro, una figura in lontananza sopra la spalla del Guardiano.
«Arrivano!»
esultò la Mano Sinistra del Diavolo. «Arrivano a
prenderci!»
La
gioia durò un solo istante. Il vortice mugghiò, e
diede un altro, tremendo
strappo.
Il
Guardiano fu sbalzato in avanti, e le sue braccia, legate a quelle di
Lovino,
sprofondarono lasciando visibili solo le spalle. Dalla melma scura
spuntavano
solo il viso e le mani della Mano Sinistra del Diavolo, aggrappate alle
spalle
di Ludwig.
Lovino
chiuse le palpebre tremanti, e il suo cuore in tumulto gli spinse sulle
labbra
un’affermazione piena di amarezza.
«Non
doveva finire così.»
«No»
confermò Ludwig, la voce pesante come una pietra tombale.
«Non doveva finire
così» prese un respiro profondo sentendo il
vortice ringhiare: un’altra scossa
era in arrivo. L’ultima.
«Troveremo
la strada. In un modo o nell’altro, in un mondo o
nell’altro, troveremo la
strada per tornare da Feliciano» pregò, prima che
la melma assestasse il terzo
strappo, più forte di tutti gli altri.
Ludwig
chiuse gli occhi, per non vedere il vortice farsi sempre più
vicino. La melma
si strinse intorno a lui, stritolandolo con le sue spire. Le ossa del
Guardiano
scricchiolarono, le giunture minacciarono di spezzarsi e il cranio di
esplodere
in mille pezzi sotto quella pressione.
Il
Guardiano strinse le palpebre con tutte le sue forze, cercando di
trattenere
gli occhi pulsanti nelle orbite. Il cuore aveva smesso di palpitare, e
lanciava
singulti agonizzanti a intervalli irregolari. I polmoni si erano
ritirati come
il mare durante la bassa marea, due sacchetti smilzi incapaci di
trattenere una
singola boccata di aria.
Ludwig
non capì subito che la cosa che gli feriva gli occhi era la
luce del giorno e
gli schiaffi che riceveva sul viso erano vento.
Come
se un drago l’avesse masticato e poi sputato di colpo, il
Guardiano si trovò
libero all’improvviso. Sbatté contro qualcosa di
duro con tutto il corpo, e
qualcos’altro gli grattò le narici.
Ludwig
si girò bruscamente di schiena, sbarrando improvvisamente
occhi e gola. L’aria
fece irruzione nei suoi polmoni, e fu quasi doloroso sentirli tornare
alla loro
dimensione. Il cuore gli pulsò nelle orecchie e nella gola
prima di ricordarsi
il suo giusto posto al centro del petto.
Gli
occhi erano rimasti aperti, ma solo in quel momento videro davvero cosa
li
circondava. Sopra di loro, un cielo azzurro; ai lati, una strada
sterrata. La
cosa che gli aveva pizzicato il naso era la polvere sollevata dal suo
impatto
con il suolo.
Si
rialzò a sedere con uno scatto addominale, e
lanciò occhiate frenetiche tutto
intorno.
La
Mano Sinistra del Diavolo era poco distante da lui, carponi, e stava
tossendo
anche l’anima fuori dal corpo.
«Che
diavolo è successo?» sbottò, tra un
colpo di tosse e l’altro. «Dove siamo
finiti?»
Ludwig
si rialzò faticosamente in piedi per portarsi di fianco al
ragazzo.
«Siamo
vivi» notificò il Guardiano, tendendo una mano al
giovane. «Il vortice ci ha
spediti in un’altra dimensione.»
Lovino
rifiutò l’aiuto e si issò in piedi da
solo.
«Una
dimensione diversa da quella in cui sono approdate le
Aeronavi» Lovino finse di
scrollarsi la polvere dai vestiti per non dover incontrare lo sguardo
del
Guardiano.
Non
avevano lottato solo per una nuova dimensione. Avevano lottato per una
nuova
dimensione da condividere con i loro cari. Erano riusciti a realizzare
solo la
prima parte del loro piano: le persone che amavano le avevano perse
lungo la
strada.
Ludwig
sollevò improvvisamente il capo contro l’azzurro
del cielo, in ascolto.
«Lovino»
lo riscosse. «Qualcuno ci sta chiamando.»
«È
impossibile. Qui non conosciamo nessuno.»
«Ascolta»
Ludwig roteò il busto, socchiudendo gli occhi per
concentrarsi meglio. «Viene
da questa parte…» la sorpresa illuminò
gli occhi cerulei, facendoli spalancare.
«Non è possibile…»
«Cosa?
Che sta succedendo adesso?»
Ludwig
gli fece cenno di seguirlo e prese a correre lungo la strada sterrata.
«Da
questa parte, Lovino!» lo incitò.
«Forse… forse non tutto è
perduto!»
«Che
significa? Ehi, crucco, che diavolo significa?»
Dovette
rassegnarsi a seguire quel gigante nella sua folle corsa.
Chiunque
fosse a chiamarli, il Guardiano era abbastanza impaziente di
incontrarlo da
dimenticarsi perfino di rispondere.
Penultimo
capitolo.
Non
ci posso credere.
PENULTIMO
*piange*.
Anyway…
prometto che
non vi farò aspettare troppo per l’ultimo
capitolo! E anche per gli
spin-off<3
Grazie,
grazie, grazie
di cuore a tutti voi che avete letto fin qui e che siete spiritualmente
pronti
ad affrontare il capitolo conclusivo<3
Come
sempre, se avete
richieste di spin-off, fatemi sapere :)
A
presto!
Rred
|
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Capitolo 28 *** La Nuova Confederazione ***
Capitolo
Ventotto: la Nuova
Confederazione
La
Reina era silenziosa come non lo era
mai
stata.
I
marinai
svolgevano le loro mansioni, ma non erano animati dal solito
chiacchiericcio
rude.
L’Hellsing
era
tornato con l’Inferno negli occhi, le mani vuote e
l’anima a pezzi. Il loro
capitano si era avvolto in un drappo di silenzio pesante, e nessuno era
riuscito a svolgerlo dal suo bozzo.
Erano
due anime
che sanguinavano dentro due involucri perfettamente illesi.
Antonio
osservò
il suo amico, seduto scomposto contro la paratia. Aveva trascorso
qualche
momento con il suo padre adottivo e il suo fratellino solo per perderli
di
nuovo.
Gilbert
sollevò
i suoi occhi amaranto su di lui, che stava appoggiato alla balaustra
con i
gomiti. Il suo amico aveva ritrovato una famiglia in Lovino e, come la
prima
volta, gli era stata strappata senza che lui potesse fare nulla.
«Come
stai?» la
voce arrancò rugginosa sulle labbra dell’Hellsing.
«Come
te»
rispose atono il capitano.
Gilbert
ragliò
una risata.
«Allora
ti senti
uno schifo» le ciocche argento si appiattirono contro il
legno della parete
quando l’Hellsing reclinò il capo
all’indietro.
«Passerà.»
«No,
non passerà.
Lo sai bene quanto me. Puoi fare finta che vada tutto bene, puoi
fingere così
bene da ingannare perfino te stesso. Ma, per stare davvero
bene, loro dovrebbero tornare. E non torneranno.
L’aldilà è
un’Aeronave di sola andata.»
«Francis
direbbe…»
«Oh,
al diavolo
le sue perle da Marauder!» sbottò Gilbert.
«Sono stanco di consolarmi con la
filosofia. Vorrei che fossero qui, ma non ci sono. E non
c’è rimedio. Posso
anche pensare che mi sentano da un qualche lontano aldilà,
ma non mi importa,
perché, anche se questo aldilà esiste,
è troppo lontano. Non posso vederli, non
posso toccarli, non posso andare da loro. Abbiamo lottato tutta la
nostra vita,
per loro. Non meritavamo un finale migliore?»
Antonio
abbassò
la testa, senza sapere cosa rispondere.
Voleva
contraddire
l’amico, dirgli che c’era ancora speranza, che
sarebbe andato tutto bene, ma le
sue labbra si rifiutavano di muoversi.
Anche
se fosse
andato tutto bene, che senso aveva quel “tutto” se
non c’erano Lovino, Ludwig e
gli altri?
L’apparizione
di
Francis fermò il suo sospiro a metà.
«Non
ci
crederete mai!» esordì, assestando una pacca sulle
spalle di Antonio.
L’Hellsing
e il
capitano gli rifilarono un’occhiata molto cupa e molto
scettica. Non avevano
voglia di surriscaldarsi per le teatralità di Francis.
«Non
siamo
dell’umore» lo avvertì Gilbert.
«Raccontala breve, senza i tuoi fronzoli
melodrammatici.»
«Io
non uso
“fronzoli melodrammatici”, io rendo il racconto
vivo!» Francis gonfiò il petto
con orgoglio, e fece un passo in modo da trovarsi esattamente in mezzo
ai suoi
amici.
«Ma
vi farò
questo favore e sarò breve» mosse le mani come un
prestigiatore, e due globi
madreperla comparvero sui suoi palmi, fluttuando pigri
nell’aria.
«Arthur,
mi
senti?»
Il
globo sulla
mano sinistra si illuminò di verde.
«Vorrei
poter
dire di no» si rammaricò la voce del Mago
dell’Ovest.
«Figlio
del
Cielo, mi sente?»
La
sfera opposta
scintillò di rosso.
«Perfettamente»
il tono del sovrano Asean risuonò argentino
nell’aria.
«Francis,
cosa…»
«Stamattina»
iniziò il Marauder, stroncando la domanda
dell’Hellsing. «I macchinari Asean,
scandagliando lo spazio in cui ci troviamo, hanno fatto una scoperta
interessante.»
«Hanno
rilevato
un’atmosfera identica alla nostra Confederazione»
spiegò il globo scarlatto.
«C’è
una possibilità su un milione che una cosa del genere
avvenga.»
«E,
visto che
nessuno di noi crede alla casualità, il Mago
dell’Ovest e il Figlio del Cielo
hanno compiuto un viaggio astrale e controllato.»
Gilbert
e
Antonio si scambiarono un’occhiata perplessa. Francis era
quasi più difficile
da seguire quando cercava di sintetizzare.
«Ci
sono dei
pianeti» continuò la sfera verde.
«Abbiamo tracciato le loro posizioni e le
abbiamo fatte controllare ai nostri astronomi.»
«Sono
le stesse
dei nostri pianeti nella Confederazione» concluse il Figlio
del Cielo.
Francis
si
aspettava una reazione plateale, ma ottenne solo due occhiate sempre
più
perplesse.
«Ma
non capite?»
esultò. «Stessa atmosfera, stesse posizioni dei
pianeti…»
«Stai
dicendo
che abbiamo attraversato un’intera dimensione per trovarci
nella stessa,
vecchia Confederazione? Se è così, non voglio
capire» tagliò corto Gilbert.
«Non
abbiamo
rilevato tracce di vita demoniache, durante il nostro viaggio
astrale» aggiunse
pacato Yao. «I demoni devono essersi estinti, in qualche
modo.»
«Forse
sono
morti di fame dopo aver mangiato tutti quelli che sono rimasti nella
Confederazione» sputò velenoso Gilbert.
«Il
punto è…»
Francis cercò di farsi strada nel pessimismo degli amici.
«Che, se si sono
estinti, devono essere passati secoli…»
«Quindi
ci
stiamo dirigendo verso la stessa Confederazione, solo più
vecchia» lo affossò
Antonio.
«No,
fatemi
finire!» si spazientì Francis. «Non solo
non ci sono demoni, ma c’è una specie
di cordone di magia che protegge tutta la Confederazione, passando per
il suo
centro.»
A
questa
informazione, finalmente gli altri due Sparvieri diedero segni di vita.
«Per
il centro?
Come un…»
«Asse»
Francis
rubò la conclusione ad Antonio. «Non solo.
C’è vita sul pianeta degli Hellsing.
Pochi esemplari. Come una piccola famiglia.»
Il
volto di
Gilbert diventò bianco come se il sangue fosse
improvvisamente precipitato nei
piedi. Le labbra si aprirono senza emettere suono, e gli occhi si
sbarrarono
senza vedere realmente.
Poi
l’uomo batté
le palpebre, e sollevò una mano verso il Marauder.
«Francis,
se è
uno dei tuoi stupidi scherzi…»
«Non
scherzerei
mai su una cosa del genere» dichiarò serio
l’altro. «Non abbiamo viaggiato
nello spazio, abbiamo viaggiato nel tempo. Secoli e secoli nel futuro.
E c’è
una possibilità concreta che Lovino e Ludwig abbiano fatto
altrettanto.»
«Ma
come?» insistette Gilbert.
Francis
mostrò i
palmi come se volesse arrendersi.
«Questo
non lo
so. Dovremmo chiederlo a loro.»
L’Hellsing
si
rialzò in piedi, nonostante le gambe tremanti e le ginocchia
sull’orlo del
tracollo. Accarezzò distrattamente la spilla di Gilbird,
inspirò a fondo e
sillabò, lento:
«Puoi
giurare
che davanti a noi c’è la nostra
Confederazione?»
«Sì.»
«E
che ci siamo
solo mossi nel tempo?»
«Abbiamo
fatto i
calcoli e confrontato le mappe più volte. Non
c’è possibilità di errore»
confermò il Figlio del Cielo.
«E
c’è vita sul
mio pianeta?»
«Sì.»
«Bene.»
Gilbert
non finì
nemmeno di parlare: strappò la spilla e la gettò
in aria. Qualche piuma nera
cadde sul ponte mentre Gilbird prendeva forma dal metallo.
«Scusate
la
fretta. Non sono mai stato un tipo paziente.»
Francis
sorrise
di riflesso al sogghigno di Gilbert. Eccolo, il vero Hellsing, e non il
fantasma che aveva occupato il ponte negli ultimi giorni.
Gilbird
scese in
picchiata e l’uomo prese posto sulla sua schiena con un balzo
felino,
sfrecciando poi nel cielo notturno in direzione del suo pianeta. Casa,
finalmente!
«Vuoi
essere da
meno?» Francis pungolò Antonio, indicando con gli
occhi il loro amico che
spariva nel velluto dello spazio.
«La
Reina non sarà mai
battuta da un pennuto»
Antonio marciò deciso sul ponte di comando e
gridò ai suoi uomini: «Preparate i
razzi ausiliari e fate rotta verso il pianeta degli Hellsing!»
I
marinai
reagirono con un boato esultante.
Erano
felici di
avere una meta, ma, soprattutto, di avere di nuovo il loro capitano.
Era
terribile,
per un uomo di mare, vedere il proprio comandante fare rotta verso un
paese in
cui non lo si poteva raggiungere. Era un pianeta così strano
e privato, quello
del dolore.
Il
ventre della Reina rombò
all’accensione dei nuovi
propulsori. L’Aeronave lasciò dietro di
sé una sottile scia azzurrognola,
mentre inseguiva il famiglio dell’Hellsing.
«Noi
non ci
affrettiamo?»
Il
Mago
dell’Ovest non si alzò nemmeno dal suo tavolo e
dalle sue carte. Sapeva che
Francis non aveva mai la decenza di teletrasportarsi fuori da una
stanza e
bussare.
«No.
Non prima
di aver finito questi progetti di ricostruzione di Britannia»
e Arthur gli
indicò la sedia, in un invito che non si poteva rifiutare.
Il Marauder non si
sarebbe mosso da quella stanza finché non avessero deciso la
posizione
dell’ultimo mattone della Nuova Compagnia di Britannia.
«E
voi?» chiese
Francis al globo rosso.
«Non
abbiamo
fretta» rispose il Figlio del Cielo, prima di chiudere la
conversazione. Il
colore cremisi si ritirò dal globo, lasciando
un’anonima sfera madreperla.
«Anche
il
sistema Asean è da ricostruire»
commentò Arthur.
«No,
non credo
sia quello» Francis prese posto sulla sedia di fronte alla
scrivania del Mago
dell’Ovest, un’espressione malinconica e
comprensiva distesa sul viso. «Una
volta dentro la Confederazione, saranno di nuovo il Figlio del Cielo e
il
Custode dei Cancelli.»
«E
quindi?»
«Il
Figlio del
Cielo deve rimanere a guidare il suo popolo. Il Custode dei Cancelli
deve controllare
i confini e l’interno della Confederazione. Non ci sono molti
punti di
incontro, per due vite così.»
Le
sopracciglia
incolte di Arthur si sollevarono, increspando la fronte.
«Ti
ricorda
qualcosa?» lo stuzzicò Francis.
«Non
credo che
vada a tuo favore ricordarmi i cento anni che mi hai fatto passare da
solo. Ora
zitto e mettiti al lavoro» ordinò Arthur,
lanciandogli dei fogli pieni di
numeri e scritte.
Francis
sospirò
melodrammatico, prima di aprire le pergamene.
Rinfacciare
e
scendere a compromessi.
Immaginava
che
fosse un buon riassunto per il concetto di
“matrimonio”.
***
In
memoria di Roderich Edelstein e del suo diamante della
battaglia.
Qualcuno
aveva
fatto colare dell’oro, in quelle lettere incise nella pietra.
Lo
stesso
qualcuno che l’aveva scolpita a forma di violino, e che aveva
lasciato dei
fiori ai suoi piedi.
Gilbert
fissò quella
lapide in silenzio. Un monumento su un pianeta fantasma.
Fece
vagare lo
sguardo sullo spazio intorno e trovò prati e alberi, dello
stesso verde che
ricopriva le montagne circostanti. Il suo mondo era simile a come era
stato
prima dei demoni, ma era vuoto. Tremendamente vuoto.
Eccetto
per lo
sconosciuto che aveva costruito quella lapide. Non doveva essere
passato molto
tempo dalla sua ultima visita: i fiori avevano qualche petalo
avvizzito, ma non
erano marciti. Quindi questo qualcuno li aveva portati di recente.
Gilbert
flesse
un ginocchio verso il terreno, in una riverenza guerresca.
«Mi
mancherà il
tuo violino» riconobbe il sapore d’acciaio delle
lacrime: lo sentì risalirgli
la gola, prima di pizzicargli gli occhi. Ma non avrebbe pianto:
Roderich era
con Elizabeta, e aveva ripagato con la vita il male che aveva fatto
alla sua
gente.
Lui
era felice.
Che senso aveva piangere?
Si
rialzò e
batté qualche pacca sui pantaloni color notte, per scuotere
i fili d’erba
aggrappati.
La
mano fu
velocissima a correre dal tessuto alla sciabola, quando un grido
strozzato lo
colse alle spalle.
«Gilbert?»
L’Hellsing
aggrottò le sopracciglia, e tenne la mano
sull’elsa mentre si voltava. Gli pareva
di conoscere quella voce, ma era meglio essere prudenti.
Due
occhi ramati
lo fissarono come se avessero visto un miracolo vivente. Occorsero
alcuni
secondi prima che Gilbert riuscisse a trovare quella faccia nei suoi
ricordi.
«Asse?»
Il
ragazzo
scosse il capo.
«Solo
Feliciano.»
L’Hellsing
sentì
le tempie pulsare come se volessero spaccargli il cranio. Non era
possibile: lo
aveva visto rimanere intrappolato nella loro dimensione con Roderich e
orde
assassine di demoni. Com’era possibile che fosse davanti a
lui, vivo?
«Sei
cresciuto»
riuscì a buttare fuori, quando lo stupore gli permise di
nuovo di muovere le
labbra.
Feliciano
portò
una ciocca di capelli dietro all’orecchio, quasi imbarazzato.
«Non
so quanto
tempo sia passato per voi, ma noi siamo qui da sei anni.»
Di
nuovo,
Gilbert dovette premersi le tempie per impedire loro di sfondargli il
cervello.
Troppe
informazioni tutte insieme.
L’Asse
era
riuscito a salvarsi, ed era nella Confederazione di secoli nel futuro
da sei anni.
Questo spiegava perché il suo fisico e il suo viso si erano
induriti nelle
spigolosità di un giovane uomo.
E
c’era un altro
punto fondamentale, nel discorso dell’Asse. Aveva detto
“noi”.
Gilbert
passò
una mano sul viso, il respiro tremante che si infrangeva sul palmo.
«Come
hai fatto
a sopravvivere?»
Lo
sguardo
dell’Asse si fece più triste, e mosse un passo
verso il monumento. Solo in quel
momento l’Hellsing notò che aveva dei fiori in
mano. Almeno aveva scoperto chi
onorava la tomba di Roderich.
«Poco
prima che
i demoni ci assalissero, abbiamo sentito una voce chiamarci. E io ho
fatto lo
stupido errore di alzare la testa. Un demone mi ha quasi
ucciso» Feliciano
appoggiò i fiori freschi a lato della lapide e
afferrò quelli vecchi. Ma la
mano rimase ferma dov’era, i gambi umidi tra le dita.
«Si è sacrificato per
salvarmi.»
Feliciano
estrasse i fiori dall’acqua stagna, e li depositò
davanti alla lapide come
avrebbe fatto con una salma.
«Mi
dispiace,
Gilbert. Mi dispiace davvero.»
Avrebbe
mentito
se avesse detto che era contento della piega presa dagli avvenimenti.
Egoisticamente, avrebbe preferito avere suo padre con sé,
anziché un ragazzino
appena conosciuto.
Ma
era stato
Roderich a insegnargli il valore delle scelte individuali. Anche in
quel
momento, il violinista era stato libero: avrebbe potuto lasciar morire
l’Asse e
salvarsi, ma aveva preferito sacrificarsi per lui. Forse per fare
ammenda per
le sue colpe passate, forse per istinto. Comunque, aveva scelto. Non
era niente
che lui o Feliciano potessero cambiare.
«Ha
potuto
scegliere come morire» concluse Gilbert. Il dolore quasi gli
sciolse gli occhi,
quando lesse di nuovo l’iscrizione dorata. In
memoria di Roderich. Un altro che spariva dal mondo reale per
diventare un
ricordo.
«C’è
qualcun
altro, con te?» Gilbert cercò di distrarsi dalla
lapide, e si ricordò che
l’Asse aveva parlato al plurale, poco prima.
Feliciano
annuì,
lieto di poter dare una buona notizia.
«Ludwig
è andato
a prendere l’acqua per i fiori.»
Gilbert
barcollò
all’indietro come se un demone lo avesse colpito al petto.
«Ludwig…?»
«Lui
e Lovino
sono stati i primi ad arrivare» spiegò Feliciano,
lo sguardo addolcito al
pensiero del fratello e dell’innamorato. «Sono
stati loro ad aprire il portale
che mi ha permesso di arrivare qui. Hanno impiegato due anni per
trovare un
modo.»
«Ma
questo non
ha senso!» l’Hellsing sentiva bordi della
realtà strattonati e sul punto di
lacerarsi, come il suo equilibrio nervoso. «Per lo scorso
portale avete dovuto
lavorare tu, il Mago dell’Ovest, Lovino e il Figlio del
Cielo! Com’è possibile
che loro due, da soli, ne abbiano aperto un altro? E come hanno fatto a
salvarti, se ci hanno messo due anni a trovare un modo?»
«Ma
questo era
un portale per una sola persona. È molto più
facile da realizzare, rispetto a
un portale per pianeti interi» Feliciano stese un foglio di
carta a terra, vi
depositò sopra i fiori raggrinziti e li
accartocciò con cura. «E, esattamente
come il primo, non era un portale spaziale, ma temporale. Sapevano
esattamente quando
trovarmi.»
«Ma
non sapevano
che Roderich si era sacrificato.»
Il
castano
ramato degli occhi di Feliciano sembrò spegnersi a quelle
parole.
«No.
Non è stato
facile accettare di aver sbagliato di pochi minuti, per salvare
entrambi.»
Gilbert
quasi
trasalì quando una voce profonda, ben diversa da quella
squillante dell’Asse,
rispose in quel modo.
Il
cuore si
compresse nel suo petto per poi esplodere in battiti incontrollati.
Era
cresciuto
ancora. Era diventato un uomo. Ma l’affetto che bagnava
quegli occhi azzurri
non era cambiato: era rimasto sempre lo stesso, fin da quando era un
bambino
che ondeggiava sotto il peso di un pesce troppo grande.
Nessuno
dei due
disse niente. Gilbert lasciò cadere la spada e Ludwig il
secchio d’acqua che
reggeva tra le dita per correre ad abbracciarsi.
«Sei
diventato
ancora più alto» l’Hellsing gli
sferrò un pugno allo stomaco, per avere il
fratellino alla sua stessa altezza. «Se continui
così, ti metteremo a
spolverare le montagne.»
«Posso
anche
diventare alto come una montagna, ma dovrò sempre alzare gli
occhi, per
guardare verso di te.»
«Questa
è una
sviolinata gratuita.»
«Mi
sei mancato,
Gilbert» il naso era più appuntito e il mento
più pronunciato, ma il modo di
nascondere il viso nell’incavo del suo collo era lo stesso di
quando abitavano
insieme nella baita sul lago. «Speravo che un giorno saresti
arrivato, ma non
sapevo… non avevo la certezza…»
L’Hellsing
carezzò le spalle del fratello. Cielo, erano così
grandi che ci si sarebbe
potuto apparecchiare!
«Sono
qui,
Ludwig. Non vado più via. Finalmente potremo vivere come una
famiglia.»
Il
giovane annuì
contro la sua spalla.
«Ma
non hai
visto l’ultimo membro della nostra famiglia!» si
ricordò Ludwig, staccandosi di
colpo.
Gilbert
lo
guardò perplesso. Lui, Ludwig e l’Asse erano
lì. Chi poteva mancare?
«Lovino?»
collegò
l’Hellsing.
«No.
Cioè, sì, è
qui, ma non intendevo lui» incespicò Ludwig.
Le
sopracciglia
argentee dell’Hellsing disegnarono un arco confuso. Ludwig
non si inciampava
mai nei suoi pensieri in quel modo, a meno che la notizia non fosse
davvero
sconvolgente.
«Chi
è?» chiese
Gilbert, non del tutto sicuro di volerlo sapere.
Il
sorriso
radioso di Ludwig quasi lo accecò.
«Lo
troverai
alla baita» esultò il giovane. Ma fu la frase
successiva a far sentire di nuovo
l’Hellsing come se la sua realtà fosse sul punto
di stracciarsi in mille pezzi.
«Ti ha sempre aspettato.»
Nei
primi passi,
le sue ginocchia tremarono come quelle di un ubriaco. Poi
riacquistarono forza
e stabilità divorando il terreno, portandolo sempre
più vicino al profilo della
casa in lontananza.
Il
cuore e i
polmoni si erano fusi in un unico ammasso di materia pulsante, e il
respiro
sembrava fuoco liquido in gola.
Francis
aveva
detto che si era reincarnato. Che lo stava aspettando.
Cercò
di imporsi
di non sperare troppo, mentre un raggio di sole si infrangeva sulla
maniglia
della porta, come a invitarlo a entrare.
***
Erano
atterrati
ad Asean senza problemi.
Le
rovine del
Palazzo Imperiale si ergevano crepate contro il cielo, serie e fiere
come un
regnante troppo vecchio per stare eretto e troppo venerato per essere
dimenticato.
Yao
appoggiò una
mano sulla porta ammuffita. Il legno era lucido e splendente nei
ricordi suoi e
dei suoi antenati e, socchiudendo appena le palpebre, poteva ancora
vedere il
colore scarlatto del suo regno brillare sotto i raggi del sole.
Riaprì
gli occhi
su quello scheletro del passato, che lo fissava con le orbite vuote
delle
finestre. Ricordava un suo antenato, che era partito per un viaggio
lungo tutta
la Confederazione a scopo diplomatico, e aveva lasciato a casa il suo
vecchio
cane. Attraverso gli occhi dell’uomo, vedeva il cane alzare
la testa, avendo
sentito il passo del padrone scricchiolare sulla prima neve di
dicembre. Si era
drizzato sulle gambe ossute e gli era venuto incontro con una corsa
sgangherata. Aveva aspettato che il padrone lo abbracciasse e lo
accarezzasse
per andarsene. Un fiocco di neve era caduto sul suo naso… e
non si era sciolto.
Il
Palazzo
Imperiale gli ricordava quel cane. Aveva atteso troppo a lungo il suo
padrone,
ed era diventato vecchio ed esausto. Aspettava solo il permesso di
andarsene.
«Grazie
per aver
vigilato su Asean in mia assenza» mormorò
all’edificio. «Ti ricostruiremo.
Diventerai più bello di quanto tu non sia mai stato.
L’intera Asean tornerà a
splendere insieme a te.»
Si
voltò, e osservò
indulgente i consiglieri, diligentemente in fila e in attesa. E, alla
fine
della linea, sua madre.
«Il
Sistema
Asean ha regalato il potere magico al Figlio del Cielo
perché facesse
prosperare il suo popolo» la veste di seta si aprì
sul terreno brullo quando
Yao si chinò al suolo. «Asean ha mantenuto la
promessa. È tempo che il Figlio
del Cielo faccia altrettanto.»
«Che
intendete
fare?» chiese un consigliere.
Il
Figlio del
Cielo sorrise. E c’era un raggio di sole in quel sorriso.
«Non
conoscete
la storia della fenice? Risorge dalle ceneri, più forte e
splendente. Qui
abbiamo le ceneri. Manca solo il fuoco.»
La
terra arida fremette
contro le sue mani, e il Figlio del Cielo conficcò le dita
nel suolo selvatico.
Chiuse
gli
occhi, e il suo cuore di fuoco pulsò così forte
che lo sentì rimbombare in ogni
cellula del suo corpo.
Non
sentì i
richiami dei consiglieri e la preoccupazione della madre. Non
sentì nemmeno il
silenzio di Ivan, più lacerante di qualunque grido.
Il
cuore di
fuoco rilasciò il suo potere con il ruggito di un drago. Yao
avvertì la pelle delle
mani tendersi e lacerarsi sotto il flusso dell’energia, ma
non bloccò la
fuoriuscita di potere. Il suo corpo tremò interamente:
muscoli, carne, ossa.
Gli occhi e il cuore divennero incandescenti come lava. E, ancora, Yao
non si
fermò: la fenice non era ancora risorta.
Solo
quando
sentì l’erba sotto le sue dita staccò
le mani dal suolo.
La
sua schiena
si curvò all’indietro, come una corda troppo tesa
che viene improvvisamente
spezzata. Rimase immobile per un istante, gli occhi spalancati fissi
sul cielo,
prima di crollare di lato.
Ma
non toccò il
terreno. Il suo viso incontrò una giacca ben conosciuta, non
più gelida. Una
mano che conosceva la gentilezza si posò sul suo capo.
«La
fenice è
risorta» mormorò Ivan. «Adesso lascia
che ce ne occupiamo noi.»
Yao
annuì,
rubando un’immagine del suo pianeta prima di chiudere gli
occhi.
L’erba
era
tornata. Poteva sentire lo scroscio dei fiumi intorno. E il Palazzo era
di
nuovo vermiglio.
Il
sorriso non
svanì dalle sue labbra quando svenne.
***
Era
Britannia e,
allo stesso tempo, non era lei.
Riconosceva
l’aria umida, il colore ombroso della brughiera e il cielo
affollato di nubi.
Tuttavia,
era
rimasto solo lo scheletro delle città che ricordava: qualche
costola di muro,
il cranio vuoto di una cupola spaccata, e le vene sbeccate delle strade.
I
demoni e i
secoli avevano fatto il loro dovere, nell’erodere la loro
bella terra.
La
vista della
piazza in cui avevano abbandonato il Leone Incoronato e gli anziani su
Britannia
gli mozzò il respiro. Ormai, di loro non rimaneva nemmeno la
polvere.
Eppure,
avevano
cenato insieme a loro solo qualche giorno prima…
«Come
ti senti?»
Francis
spuntò
alle sue spalle, come sempre. Doveva avere qualche abitudine in comune
con i
folletti di Faerie, che non apparivano mai di fronte al loro
interlocutore.
«Come
se fossi
rimasto l’unico sopravvissuto in un naufragio»
rispose Arthur.
«Già»
concordò
Francis. «Ma, ormai, dovresti esserti abituato.»
«E
tu? Tu ti sei
abituato, a vedere la nave che affonda?»
Un
sorriso
malinconico torse le labbra di Francis.
«Sì,
mi sono
abituato. Ma ricordo ogni singola scheggia che ha composto quella nave.
Credo
che non sia male sopravvivere, se puoi contare su dei bei
ricordi.»
Arthur
sollevò
lo sguardo sulla piazza, e la osservò mentre prendeva vita
sotto i suoi occhi.
Le
crepe nelle
strade si ripararono da sole, mentre i bambini si rincorrevano
sull’acciottolato e i loro genitori contrattavano con i
mercanti delle
bancarelle rionali. La campana dell’abazia
cominciò a scandire i rintocchi del
mezzogiorno, e tutto era euforico e indistinto, come nelle veglie
passate in
compagnia di amici, focolari e vino caldo.
Bastò
un battito
di ciglia perché il ricordo si sgretolasse e la
realtà prendesse il
sopravvento.
«Sai
cosa credo,
Francis?» dichiarò Arthur, raddrizzando il
mantello degli Avalon sulle spalle. «Che
noi non siamo i sopravvissuti. Siamo l’eredità di
chi parte.»
«E
cosa cambia?»
«Il
legame»
Arthur abbracciò con lo sguardo quella terra brulla e troppo
avvezza alla
guerra, ma che, nonostante tutto, era arrivato a considerare casa sua.
«Se
sopravvivi e basta, vuol dire che sei stato solo tutta la vita, e non
ti
importa di chi ti sei lasciato alle spalle. Se sei
l’eredità di qualcosa,
invece, non dimenticherai mai chi ti ha reso erede, e potrai lasciare
il tuo
tesoro a qualcun altro quando verrà il tuo
momento.»
«Finalmente
ci
sei arrivato» concesse Francis, con un sorriso volpino.
«L’immortalità non è
una maledizione.»
Arthur
lo superò
con fare autoritario, per poi voltarsi e spronarlo.
«Muoviti,
Marauder. Abbiamo un pianeta da costruire. Non vorremmo lasciare dei
debiti
come eredità alle generazioni future.»
«Non
sia mai»
concordò teatralmente Francis.
Quel
giorno,
nacque Nuova Britannia.
***
Il
tramonto stava
cedendo il passo al viola del crepuscolo quando Yao si
risvegliò nel suo letto.
Il
cuore di
fuoco palpitava placido nel suo petto, e aveva una strana sensazione
alle dita.
Spostò lo sguardo verso il basso, e le vide completamente
bendate, abbandonate
senza forza sulle lenzuola.
«Il
potere ti ha
squarciato la pelle» lo avvertì una voce bassa
accanto a lui. «Ma i medici
dicono che non ci sono state lesioni alle ossa o ai muscoli.»
«Il
mio potere
cerca sempre di non farmi del male» la voce uscì
in un gracidio, e Yao tossì
prima di parlare di nuovo. «Non volontariamente,
almeno.»
«Cosa
intendi dire?»
«La
memoria generazionale, Ivan. È un grande fardello. Come lo
è sapere che, prima
o poi, un mio successore potrà esplorare tutta la mia vita,
dal primo
all’ultimo istante. Non ci sarà un solo pensiero
che rimarrà mio. E questo mi
farà male.»
La
mano dell’uomo si appoggiò sulla sua, coprendola
completamente.
«Ma
sono tuoi in questa vita. Perché preoccuparsi di quelle
degli altri?»
Yao
voltò il viso, e una ciocca di capelli gli ricadde sulla
fronte. La scostò per
guardare Ivan, il suo gigante con gli occhi azzurri e le mani gentili.
«E
il tuo potere?»
«Il
mio potere ha sempre cercato di farmi male, volontariamente. Ma ho
vinto io»
Ivan pronunciò la frase con assoluta indifferenza, come se
riguardasse uno
sconosciuto. Per lui, il Custode dei Cancelli era una storia raccontata
da
altri: il Cuore d’Inverno aveva divorato tutte le sue
giornate passate come
Custode, e le poche che non aveva fatto in tempo a cancellare erano
svanite
come neve al sole quando se ne era liberato. Solo i ricordi di Yao
rimanevano
impressi a fuoco nella sua memoria semivuota.
«Che
farai adesso?» scostò la mano da quella del
sovrano, nel porre la domanda.
Yao
chiuse gli occhi, come i bambini che sperano che il mostro sotto il
letto se ne
vada se ignorato. Ma quel mostro era troppo grande, e si chiamava
“trono”.
Riaprì
gli occhi, e la sua risposta fu trascinata all’esterno da un
respiro stanco.
«Chugoku
ha bisogno del Figlio del Cielo.»
Il
Custode conficcò le mani nelle tasche.
«Gli
astri hanno già deciso la tua strada, non è
così?» commentò Ivan. C’era
dell’amaro in quelle parole, e Yao storse la bocca come se
fosse stato
costretto a ingoiare un cucchiaio di acido. «Dovrai rimanere
qui e governare…
poi dovrai avere un erede, quindi una moglie…»
«Io
non mi sposerò. Adotterò il mio erede. Molti
sovrani l’hanno fatto, prima di
me.»
Ivan
scosse la testa, allo stesso modo di un toro che cerca di togliersi
inutilmente
il giogo.
«Anche
se questo non cambierà molto le cose tra noi»
rifletté Yao, incrociando le mani
sullo sterno. «Tu sei comunque il Custode dei Cancelli, e il
Custode deve
viaggiare nella Confederazione…» il petto si
gonfiò, sotto le dita bendate, in
un lento sospiro. «Quante volte riuscirai a fermarti a
Chugoku?»
«Circa
due all’anno.»
«Due
volte all’anno…» ripeté Yao.
«Finché
non troverò qualcuno che prenda il mio posto. Allora
potrò fermarmi. Anche per
tutta la vita.»
L’Asean
allungò una mano e la appoggiò sul ginocchio di
Ivan.
«Fai
in modo che non avvenga troppo tardi. Non voglio passare con te solo
gli anni
del tramonto.»
«E
tu aspettami. Non sposarti e non invaghirti di altre persone.»
«Aspetterò.
Ma non farmi aspettare tutta la vita.»
L’uomo
sollevò gentilmente la mano fasciata del compagno e impresse
un flebile sorriso
sulle nocche del sovrano.
«Immagino
che sarebbe noioso, aspettarmi così a lungo.»
«Oh,
lo sarebbe. Ma so che ti aspetterei.»
Le
bende sfregarono sulle guance del Custode quando Yao gli
accarezzò il viso.
«Potrei
aspettarti per questa e per le prossime vite, Ivan.»
Le
labbra del Custode si premettero sulle garze, per poi scendere a
baciare la
pelle del polso, sotto l’orlo dell’ampia manica.
Yao si sollevò a sedere e si avvicinò
a sua volta, per poggiare le labbra sul capo dell’uomo.
«Quando
partirai?» soffiò sulle ciocche
argentate.
«Domani»
sillabò lui sul suo polso.
Le
maniche si arrotolarono con un fruscio languido sulle spalle del
sovrano,
quando questo fece scivolare le braccia attorno al collo di Ivan.
«Domani
tornerai a essere il Custode dei Cancelli, e io il Figlio del Cielo.
Ma, per
stanotte, siamo solo Yao e Ivan» la veste sibilò
vellutata, accompagnando il
corpo del sovrano che si tendeva verso quello del suo compagno.
«E questa notte
dovrà bastarmi fino alla tua prossima visita.»
Le
mani di Ivan risalirono la schiena del sovrano, cercando un passaggio
sotto la
veste, mentre la bocca si premeva sul collo steso verso di lui.
«Non
ti farò aspettare troppo» sussurrò,
stendendolo sul materasso.
Yao
gli indirizzò il sorriso furbo di chi sapeva di avere il
controllo della
situazione.
«Lo
so. Perché io riuscirei ad aspettare tutta la
vita… ma tu no. Tu sei molto più
impaziente di me.»
Ivan
non si preoccupò di smentire l’affermazione del
sovrano.
Si
chinò su di lui per baciarlo, le sue mani che scendevano ad
allentare la
cintura di stoffa dell’Asean.
No,
lui non avrebbe aspettato tutta la vita. Non sapendo cosa si provasse,
a vivere
insieme a Yao.
***
Come
partorita dai suoi ricordi, la baita in riva al lago era là.
Era
migliorata, rispetto al passato: l’aspetto era meno cupo, e
qualcuno aveva
ampliato la parte sul retro. Qualcuno che non aveva molte nozioni si
architettura: più che allargata, la casa sembrava incinta.
Quel qualcuno aveva però
doti molto migliori nel giardinaggio: due file di alberi, accuratamente
potate
e innaffiate, correvano fino al lago.
Ma
Gilbert non vide nulla, né la casa, né gli
alberi, nemmeno le stanze in più che
facevano assomigliare la casa a un rospo gravido.
La
sua visione era ristretta alla porta di legno, che sbarrò
con uno schianto.
Niente.
La stanza era come la ricordava – il letto, il tavolo, tutto
era disposto
esattamente come il giorno in cui l’aveva lasciata. Ma non
c’era nessuno.
Gilbert
sentì un angolo della bocca tendersi in un sorriso sadico.
Tutto ciò la rendeva
ancora più simile ai suoi ricordi: una baita per un solo
Hellsing. Una casa
vuota.
«Ludwig?
Sei tu?»
Gilbert
si appoggiò deluso allo stipite della porta, mentre i passi
dello sconosciuto
risalivano dalla cantina.
Non
conosceva quella voce. Doveva aver frainteso il discorso di Ludwig.
D’altronde,
non era possibile che i morti tornassero in vita.
Si
è reincarnato. Ti sta aspettando.
Le
parole dell’amico gli risuonarono nella testa come uno
sberleffo.
Poteva
anche essersi reincarnato, ma, chiaramente, non era lì. Era
stato stupido anche
solo sperare una cosa del genere.
Il
suono di cocci infranti sul pavimento lo strattonò fuori da
quei pensieri.
Gilbert
osservò perplesso il ragazzo che lo fissava con gli occhi
sbarrati e le labbra
pallide, le mani raggelate con le dita aperte, in piedi in una pozza di
birra e
frammenti di vasellame.
«Sei
vero… Gilbert…» esalò
quello, senza smettere di fissarlo, come ipnotizzato.
L’Hellsing
si mosse inquieto sul posto. Quel giovane sembrava intenzionato a
scansionargli
perfino le viscere, e la cosa non gli faceva troppo piacere.
Non
aveva mai visto prima quei capelli castani, quel fisico asciutto o
quegli occhi
bluastri. Non c’era un solo lineamento, in quel viso
impietrito, che gli fosse
familiare.
Ma,
quando finalmente Gilbert si decise a degnare di un’occhiata
più attenta il
ragazzo, la nostalgia gli pizzicò lo stomaco. Conosceva
quell’andatura con una
punta di titubanza, quasi dovesse chiedere all’aria il
permesso di
attraversarla, e quel tono di voce, sommesso perfino nella rabbia. E
quel modo
di guardarlo come se fosse… il più grande eroe di
tutta la Confederazione.
Si
è reincarnato. Ti sta aspettando.
La
voce di Francis gli martellò le tempie, e Gilbert scosse il
capo per
scacciarla.
Troppe
cose. Troppe cose tutte insieme.
Avevano
scoperto di aver viaggiato nel tempo, non nello spazio. Si erano
riappropriati
della loro Confederazione, e l’avrebbero ricostruita su altre
basi da quel
giorno in avanti. Ludwig, il suo amato fratellino, era vivo, ed era su
quel
pianeta.
Il
suo cuore era già sul punto di esplodere. Non era sicuro di
poter sopportare
un’altra emozione troppo forte, che fosse gioia o delusione.
Ma il suo sangue
era quello bollente di un guerriero: la sua bocca si armò di
parole prima ancora
che se ne rendesse conto.
«Come
fai a conoscermi?»
Il
ragazzo boccheggiò un paio di volte a vuoto, in cerca di
parole o di aria,
prima di tastare ansiosamente i pantaloni. Dalla tasca destra emerse il
suo
trofeo, che inforcò con dita tremanti.
Il
cuore di Gilbert fremette più delle mani del giovane, alla
vista di
quell’oggetto.
Un
paio di occhiali, rammendati con mezzi di fortuna.
«Non…
non ricordavo niente, all’inizio»
tentennò il ragazzo, le mani ancora
aggrappate alle stecche degli occhiali. Si sarebbe troncato le orecchie
di
netto, se non avesse smesso di premervi sopra. «Mi sono
ritrovato solo, in una
dimensione vuota. Poi sono arrivati i sogni. Sul… sul nostro
passato. Poi sono
arrivati Lovino e Ludwig, e insieme abbiamo salvato
Feliciano…»
Le
parole rimbombavano come se il giovane stesse parlando dentro una bolla
d’acqua. Il loro significato gli scivolava addosso,
così come ogni altro
rumore: il vento fuori dalla porta, e le gocce della birra versata
sulle scale
della cantina.
I
suoi sensi si erano ristretti per lasciare spazio solo alla vista. Ed
era
puntata sul giovane davanti a sé.
Gilbert
non realizzò di essersi mosso verso il ragazzo, o di aver
appoggiato le mani
sulle sue guance.
Vide
il suo volto farsi più vicino, e delle dita estranee
accarezzargli gli zigomi,
ma aveva perso sensibilità con il suo stesso corpo. Tutto
era focalizzato su
quegli occhi che lo fissavano con un misto di speranza e di ansia.
La
bocca si mosse con lentezza e fatica, come se fosse rimasta ferma per
millenni.
«Matthew…?»
Le
lacrime si affacciarono sugli occhi del giovane, ma il ragazzo strinse
le
palpebre prima che potessero inondargli le guance. Poggiò le
mani su quelle
dell’Hellsing e le tenne ferme sul suo viso mentre annuiva.
«Sono
io» la voce ruzzolò goffa sulle labbra tremanti.
«Da
quanto… da quanto tempo hai ricordato?» non
riconosceva nemmeno più la sua
voce: tutto suonava strano e alieno, al di fuori del viso in lacrime
che
stringeva tra le dita.
«Dieci
anni.»
«E
cosa hai fatto in questi dieci anni?»
I
sensi tornarono alla vita quando il ragazzo si gettò contro
il suo petto: sentì
il suo tepore mentre stringeva le braccia sulla schiena fragile,
udì i
singhiozzi soffocati e sentì l’odore del bosco e
del lago intrappolati nei
capelli che gli solleticavano il naso.
«Quello
che avevo promesso» l’abbraccio del giovane si fece
più stretto, e Gilbert
rafforzò la sua presa di conseguenza. Se non lo avesse
tenuto premuto contro di
sé, quel giovane sarebbe andato in pezzi. «Ti ho
aspettato, Gilbert. Ti ho
aspettato sempre.»
Matthew
rialzò il viso. Nemmeno le lenti spesse degli occhiali erano
sufficienti per
mascherare del tutto il pianto.
«Ho
pensato tante volte che forse era tutto un sogno» le labbra
tremavano come se
temessero di ferirsi con le parole. «Ero da solo, e avevo
questi strani ricordi
di una vita passata. Poi sono arrivati Ludwig e Lovino, e ho capito che
non era
frutto della mia immaginazione. Ma, ogni tanto, temevo che sarebbe
arrivato il
giorno in cui mi sarei svegliato con i capelli bianchi e un sacco di
anni sulle
spalle, e mi sarei accorto di aver sprecato la vita ad aspettare un
sogno…» le
mani del giovane gli circondarono il viso, incerte, felici.
«Ma sei qui,
Gilbert… sei qui!»
L’Hellsing
non aspettò un momento di più per dimostrare al
ragazzo quanto fosse reale.
Si
chinò su di lui in uno dei loro baci simili a una caccia, in
cui Matthew
esitava e Gilbert lo intrappolava.
Il
giovane cinse il collo dell’Hellsing con le braccia,
spingendosi sulle punte
dei piedi per raggiungerlo meglio. Nonostante la reincarnazione,
Gilbert era
ancora il più alto.
Sentì
Matthew mugolare nella sua bocca quando strinse troppo
l’abbraccio, e si sforzò
di rilasciare la presa quel tanto necessario da permettere al giovane
di
respirare.
Solo
qualche anno prima, lo aveva seppellito con le stesse mani con cui gli
stava
accarezzando le spalle. Aveva scavato una buca e impilato sassi su di
essa per
evitare che gli animali selvatici potessero fare scempio del corpo, lo
stesso
corpo che si tendeva su di lui per prolungare il bacio.
La
nostalgia gli mozzò il respiro, e dovette staccarsi per
riprendere fiato.
Matthew.
Era lì. Era talmente bello da fare paura. Temeva che, da un
momento all’altro,
si sarebbe svegliato nella Prigione Caina, scoprendo che era stata
tutta
un’illusione magica per torturarlo.
Ma
era evaso da Caina, aveva combattuto e sconfitto il Vaticano insieme ai
suoi
compagni. E Matthew… lo aveva aspettato. Si era aggrappato a
dei brandelli di
sogno e lo aveva aspettato per tutti quegli anni.
Era sicuramente
l’eroe più grande della
Galassia. Dopo di lui, ovviamente.
«Credevo
che ti avrei rivisto solo nel Walhalla» bisbigliò
l’Hellsing sulle labbra
dischiuse del suo compagno.
Matthew
gli regalò uno di quei sorrisi per cui Gilbert avrebbe
attraversato un inferno
di demoni.
«Invece
mi hai trovato» il ragazzo lo abbracciò
più forte, spingendo il viso
nell’incavo del suo collo. «Avevo
ragione.»
«Su
cosa?»
Matthew
rialzò gli occhi. Avevano una tonalità di blu
nettamente più scura rispetto al
passato – quasi viola. Ma si sarebbe abituato a essere
guardato da quegli occhi
nuovi: il loro sguardo era lo stesso dei suoi ricordi.
«Sei
e sarai sempre il più grande eroe della Galassia»
sorrise Matthew. «Chi altro
avrebbe potuto trovarmi?»
«Chi
altro avrebbe potuto aspettarmi?»
«Una
persona che conosce il tuo valore» rispose prontamente
l’altro.
La
reincarnazione lo aveva reso più sciolto nelle parole, ma
non aveva migliorato
la sua tendenza ad arrossire: le guance avevano impiegato meno di un
secondo a
coprirsi di porpora.
Gilbert
poggiò un bacio sulle gote in fiamme prima di riappropriarsi
della bocca del
giovane.
Meglio
così. Non sarebbe stato il vero Matthew, senza il suo
rossore.
E
senza l’amore totale per lui.
Gilbert
lo strinse più forte, respirando a fondo il suo profumo.
Finalmente,
era tornato a casa.
***
«Lovino!»
Il
cuore si fece di cenere quando il giovane si voltò.
Non
era Lovino. Era il suo gemello.
«Antonio!»
lo salutò Feliciano. «Ci siete tutti?»
Il
capitano annuì.
«I
miei uomini sono ancora sulla Reina.
Sono sceso per vedere dove si era cacciato Gilbert.»
Un
sorriso da volpe solcò le labbra del giovane.
«Gilbert
sta bene. È con Matthew, adesso.»
Antonio
lo guardò trasecolato. Con Matthew?
«È…
morto?»
Feliciano
si affrettò a scuotere la testa.
«No!
Matthew si è reincarnato! È stato lui a chiamare
qui Lovino e Ludwig, e poi
loro sono venuti a prendere me… Antonio?»
Il
capitano barcollò all’indietro.
Ricordava
quella volta che uno dei suoi uomini aveva mangiato troppo a un
banchetto di
benvenuto, ed era rimasto steso immobile tutta la notte come un cobra
che
digerisce la preda.
Si
sentiva allo stesso modo: troppe informazioni tutte insieme, e non
riusciva a
scomporle e digerirle.
Matthew
si era reincarnato nella futura Confederazione e aveva aspettato
Gilbert.
Francis aveva detto qualcosa del genere, ma sapere che il compagno di
Gilbert
era vivo… aveva visto la sua tomba, aveva accompagnato
l’Hellsing a piangerci
sopra. Ma era vivo… e, grazie a lui, Ludwig e Lovino si
erano salvati. E anche
Feliciano.
«Lovino
è qui?» domandò, quando non ebbe la
sensazione di avere un deserto al posto del
palato.
Feliciano
annuì.
«Sarà
di ritorno tra poco» confermò. «Immagino
che avrai molte cose da chiederci.»
«Come
avete fatto ad arrivare qui?»
«È
stato merito di Matthew. Senza saperlo, ha lanciato una specie di
richiamo che
ha attirato qui Ludwig e Lovino, quando sono caduti nel risucchio del
portale.
E, insieme, sono tornati indietro a prendermi» Feliciano non
fu abbastanza
veloce a chiudere il colletto della camicia quando un soffio di vento
lo aprì.
«Come
hai fatto a sopravvivere, con una cicatrice del genere?»
Antonio era abituato
alle ferite, e riconosceva subito il segno lasciato da una
particolarmente
grave. E una di quelle proporzioni l’aveva vista solo sui
cadaveri.
Feliciano
pettinò una ciocca di capelli dietro l’orecchio,
quasi con vergogna.
«Roderich»
sussurrò. «E Lovino.»
Antonio
non indagò oltre, ma c’era un’altra cosa
che voleva chiedere al ragazzo.
«Abbiamo
visto una scia magica percorrere la Confederazione, prima di arrivare.
Come se l’Asse
fosse ancora al suo posto.»
«Infatti.»
«Ma
tu sei qui.»
«Ma
io sono solo Feliciano, adesso.»
Il
ragazzo lanciò uno sguardo al cielo, e Antonio
seguì la direzione dei suoi
occhi.
Un
cristallo biancastro dall’aria serena fluttuava al centro
della Confederazione.
«Lo
abbiamo ricostruito» spiegò Feliciano.
«Ma, soprattutto, abbiamo ricostruito il
muro progettato da Francis.»
Il
capitano continuava a non capire.
«Il
muro che assorbe i poteri» sottolineò il ragazzo.
«Ha assorbito i miei e li sta
propagando nella Confederazione. Abbiamo di nuovo un Asse, ma non ci
sono più
prigionieri nel Palazzo di Quarzo.»
«Quindi
ora tu non hai più poteri magici?»
Feliciano
gli regalò il sorriso ampio di chi non ha rimpianti.
«Solo
alcuni. Non sono più potente come una volta, ma sono mille
volte più felice.»
Antonio
annuì automaticamente. Faceva ancora fatica a credere che
tutto quello potesse
essere reale.
Una
nuova Confederazione da ricostruire, Gilbert che aveva riconquistato
parte
della sua famiglia, i gemelli Vargas insieme… era troppo, ma
si sarebbe
abituato.
Era
bello, per una volta, doversi abituare a tanti miglioramenti tutti
insieme.
Feliciano
si schermò gli occhi con le mani per alzare lo sguardo.
«Oh»
notò. «Mio fratello è
tornato.»
Antonio
si girò di scatto a quella frase, e vide un punto in
lontananza ingigantirsi
nella forma di un enorme volatile. Perfino le punte degli alberi si
piegarono
quando un’aquila di dimensioni ciclopiche atterrò
in un frullio di vento e
piume.
Il
capitano rimase paralizzato, attendendo che la figura in groppa al
volatile
scendesse. Un misto di ansia e trepidazione gli torceva lo stomaco.
Avrebbe
trovato lo stesso Lovino che ricordava, o avrebbe guardato uno
sconosciuto?
«Feliciano?»
chiamò il giovane, atterrando con un salto.
«Feliciano, dove diavolo…»
Sentirono
entrambi uno strappo, prima che il mondo si fermasse completamente.
Riconosceva
quel viso bellicoso, ma non ricordava quando si fosse indurito in una
forma più
matura. Non aveva mai visto quella cicatrice obliqua sulle labbra che
era
abituato a baciare, e non era stato presente quando i capelli erano
stati
accorciati, scoprendo gli occhi ramati.
In
quel giovane c’erano il Lovino dei suoi ricordi e il Lovino
cresciuto senza di
lui, in quella Confederazione nuova.
Il
cuore si gonfiava di gioia alla vista del giovane, e si stringeva
dolorosamente
notando dettagli a lui sconosciuti. Era felice di rivederlo, ma ogni
nuovo
particolare era come un’accusa. Dove era stato, per tutto
quel tempo? Per lui
si era trattato solo di qualche giorno, ma per Lovino quanto tempo era
passato?
«Da
quanto sei qui?» le parole galleggiarono nell’aria
densa.
Il
giovane spostò il peso da una gamba all’altra,
inquieto.
«Sei
anni» rivelò alla fine.
Lo
stesso tempo che avevano passato insieme. Il paragone era
impressionante, se
messo in quei termini.
Antonio
passò una mano sulla fronte, incredulo. Lo aveva visto
sprofondare davanti ai
suoi occhi solo qualche giorno prima, e adesso era davanti a lui, i
cambiamenti
maturati in sei anni incisi su tutto il corpo.
«Hai
intenzione di rimanertene lì impalato ancora per
molto?»
Antonio
non si rese conto dei movimenti del giovane finché non
sentì le sue braccia
chiudersi attorno al suo busto. Il ringhio del ragazzo gli
grattò lo sterno.
«Sono
passati sei anni e tutto quello che sai fare è startene
fermo e zitto?» Lovino
tuffò il viso nel suo petto, e la frangia disegnò
un sole ramato sulla camicia
del capitano. «Mi sei mancato, bastardo.»
Le
braccia di Antonio rimasero ferme, come paralizzate, per un istante
ancora.
Avvolsero lentamente la schiena del giovane, come se temessero che
Lovino fosse
fatto di fumo.
Poi
lo strinsero improvvisamente, facendo schiudere le labbra del ragazzo
in un
gemito di sorpresa.
«Lovino»
lo chiamò Antonio. L’abbraccio si fece
più forte, cancellando i sei anni di
lontananza, cancellando la paura di non rivederlo, cancellando tutto.
Tutto a
parte il ragazzo che gli stava prendendo a pugni sulla schiena per
fargli
allentare la presa.
«Volevi
ammazzarmi?» il ruggito di Lovino si smorzò sulle
labbra del capitano, scese a
premersi sulle sue.
«Mi
sei mancato» il sussurro caldo del capitano
scivolò sui suoi capelli come una
carezza. «Che il diavolo mi fulmini, mi sei mancato
così tanto…»
La
bocca del giovane si contorse in quella smorfia che Lovino usava solo
quando
doveva trattenere le lacrime.
Sprofondò
il viso nell’incavo del collo dell’uomo,
abbracciandolo con amore maldestro.
«Bentornato,
bastardo.»
Il
capitano sorrise, e sollevò il volto del ragazzo per
mormorargli sulle labbra:
«Sono
a casa. Scusa se ti ho fatto aspettare.»
***
Il
sole tardava ad alzarsi, quella mattina.
Yao
sorrise mesto, apprezzando lo sforzo dell’astro.
Poteva
indugiare nel giaciglio della notte quanto voleva. Ivan si stava
comunque
preparando per partire.
Il
sovrano si sedette sul bordo del letto. Il movimento di quella nottata
aveva
disegnato un intrico di grinze sulla veste da camera
dell’Asean, blandamente
annodata da un nodo frettoloso.
Ivan
stava finendo di allacciarsi il cappotto. Sistemò la sciarpa
intorno al collo e
si voltò verso di lui.
Nessuno
dei due disse nulla.
Ivan
rimase immobile, Yao continuò a pettinare i capelli con le
dita fasciate,
troppo scompigliati per la testa di un regnante.
Era
come se tra loro si fosse steso una specie di incantesimo: se fossero
rimasti
entrambi muti, forse il tempo si sarebbe fermato e loro non si
sarebbero dovuti
separare.
Ivan
chinò il capo, in un cenno di commiato.
Anche
senza parlare, la magia era stata spezzata.
L’uomo
fece un passo in direzione del compagno e si inginocchiò
davanti a lui, il
busto tra le sue ginocchia aperte. Appoggiò le mani sui suoi
fianchi e lo baciò
sul ventre, dove la veste scomposta lasciava intravedere la pelle nuda.
Yao
si chinò su di lui, abbracciando il capo argentato.
La
mano di Ivan gli accarezzò i capelli, trattenendone una
ciocca.
«Prima
che siano di nuovo lunghi come prima, Yao. Prima di allora,
sarò con te.»
Il
sovrano annuì, inclinando la testa per seguire le carezze
dell’uomo. Trattenne
il fiato quando la mano del compagno si allontanò da lui, e
morse le labbra per
impedirsi di chiedergli di rimanere ancora.
L’uomo
si sollevò per baciarlo, e Yao gli accarezzò il
viso con le dita bendate mentre
muoveva le labbra sulle sue.
«Aspettami»
mormorò Ivan sulla sua bocca.
«Non
farmi aspettare.»
Il
sovrano quasi rabbrividì quando Ivan si allontanò.
Lo
fissò, mentre usciva dalla stanza. Ivan non si
voltò. Si fermò sulla porta,
indugiò, e lo vide stringere il pugno, ma non si
voltò. Sapevano entrambi che,
se si fossero voltati, non si sarebbero più mossi da quella
camera.
Ivan
oltrepassò la porta e sparì nel corridoio.
Yao
scese veloce dal letto e si accostò alla finestra.
Attese
qualche minuto, poi la vide. La Fortezza Errante si sollevò
nel cielo come un
dinosauro di metallo, e sparì in uno scintillio argenteo nel
cielo di Chugoku.
Yao
prese un lungo respiro.
Young
Soo se ne era andato. Kiku se ne era andato. E, ora, anche Ivan.
Ma
sapeva dove trovarli, se avesse sentito la loro mancanza.
Il
cielo di Chugoku era trapuntato di stelle. Da qualche parte, tra quelle
luci,
c’era la Fortezza di Ivan, che si affrettava a compiere il
giro della
Confederazione per tornare da lui.
E,
ancora più su, sulle stelle più lontane,
c’erano Young Soo e Kiku. Sempre con
lo sguardo fisso su di lui, come quando vivevano al Palazzo insieme.
Solo che
adesso era lui a dover sollevare lo sguardo per vederli.
«Vi
rivedrò tutti, un giorno. Chi prima, chi dopo»
sussurrò al cielo notturno. «Aspetterò.
Sono una persona molto paziente.»
E
diede le spalle al cielo e alle stelle, preparandosi per la giornata.
Puoi
anche voltarti, fratellone, ma noi
continueremo a brillare.
Che
la nostra luce ti accarezzi il viso
o le spalle, poco importa.
Siamo
qui, fratellone.
Ricordatelo,
d’accordo?
***
Antonio
si guardò intorno.
Nemmeno
nei suoi sogni aveva mai visto un quadro simile.
La
casa di Gilbert, ampliata, costruita in un pianeta rifiorito.
Una
cucina calda, dove ancora aleggiava l’odore della cena appena
consumata. Il
fuoco che tesseva strani giochi di luce sui piatti accatastati nel
lavello.
Quella
non era la serata per lavare le pentole.
Ludwig
sedeva all’altro lato della tavola, su una pesante sedia di
faggio. Feliciano,
con la massima naturalezza possibile, era seduto sulle sue ginocchia,
le
braccia gentilmente allacciate al collo del compagno.
Lovino
fissava Ludwig con l’odio tipico del fratello apprensivo, e
stringeva a tratti
la forchetta che si era rifiutato di mettere nel secchiaio assieme al
resto,
come se aspettasse il momento giusto per conficcarla nella mano del
Guardiano
senza essere notato.
Antonio
avvicinò la sedia a quella di Lovino, e fece scivolare un
braccio attorno alla
sua vita.
Il
giovane lo fulminò per un istante, prima di sospirare e
ricambiare l’abbraccio
del capitano. Aveva lasciato andare la forchetta: le
ostilità erano cessate,
per quella sera.
Gilbert
si era accomodato sul divano scalcinato poco distante. Matthew era
appoggiato a
lui, la testa sulla spalla e una mano intrecciata a quella
dell’Hellsing sul
suo grembo.
«Non
riesco a credere che tutto questo sia vero»
bisbigliò Antonio. «Che siamo tutti
qui… è un miracolo.»
«Non
è un miracolo. È magia» rispose
gentilmente Matthew.
«Non
è magia, è un naso impiccione alla Fiamminga
chiamato “Francis”» lo corresse
Gilbert. «Ma è stato utile, questa volta. Gli
offrirò una birra, appena lo vedo.»
«Ancora
non capisco come siete arrivati qui. E come vi siete trovati»
continuò Antonio,
avvicinando a sé Lovino.
«Perché
sei un idiota» ringhiò quest’ultimo.
«È
difficile da comprendere, se non si sa tutta la storia»
concesse Ludwig, più
diplomatico. «Ma abbiamo un’intera serata, per
raccontarla.»
Aspettarono
che Gilbert tornasse dallo scantinato con una bottiglia di sidro
– “potrebbe
seccarvisi la gola, con tutto quel parlare” aveva detto
– e che Feliciano
disponesse i bicchieri sulla tavola.
Gilbert
e Matthew presero posto assieme agli altri, e l’Hellsing
iniziò a versare da
bere.
«Credo
che l’inizio spetti a me» annunciò
Matthew, una volta che tutti ebbero il
bicchiere colmo davanti.
Così
finisce il racconto della vecchia
Confederazione.
La
storia della nuova Confederazione,
invece, inizia da quella notte, da quella capanna su un piccolo pianeta
sperduto in mezzo alla Galassia.
Fine
Oddio,
ci siamo.
E’
finita!!! *piange
lacrime amare*
Non
ci credo…
Caleidoscopio è finita T^T
Finale
aperto? Avete
ragione. C’è un motivo? Ovviamente<3
Gli
spin-off partono da
qui, e i primi saranno appunto su come Matthew sia arrivato nella nuova
Confederazione, come abbia chiamato gli altri e tutto il resto *^*
Poi
ci saranno i vari
spin-off da voi richiesti sul passato dei vari personaggi!
Se
guardate in alto,
nella pagina, noterete che la fanfic non è completa; questo
perché ho deciso di
postare gli spin-off direttamente qui. Mi sembra meno complicato, e
poi, in
fondo, sono approfondimenti di questa storia *^*
Vi
ringrazio
infinitamente per aver aspettato con tanta pazienza il capitolo finale!
Spero
che il finale non
vi abbia deluso, e che i prossimi spin-off vi piaceranno *^*
Grazie
ancora a tutti
voi!!!
Ultimo
annuncio prima
di salutarvi: nuova fiction in cantiere, ma… con un sentore
di “antico”.
Ricordate
la serie
“Rosa de los Vientos”? Ricordate cosa accadde al
povero Feliciano?
E
se le cose non
fossero andate esattamente come Lovino pensa? 8D
Spero
di ritrovarvi lì,
di nuovo tra porti e navi *^*
E
sto macchinando
un’altra long<3 appena avrò deciso gli
ultimi dettagli, inizierà<3
Rimanete sintonizzati<3
Con
questo, vi saluto e
vi do appuntamento al prossimo capitolo con l’apertura degli
spin-off!
Grazie
di
nuovo<3<3<3
Red
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