Demon Slayers

di Lifaen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lenn ***
Capitolo 2: *** Keyleth ***
Capitolo 3: *** Nom ***
Capitolo 4: *** Mildred ***
Capitolo 5: *** Lifaen ***
Capitolo 6: *** Attacco ***
Capitolo 7: *** Massacro ***
Capitolo 8: *** Scelte ***
Capitolo 9: *** Ferite ***
Capitolo 10: *** Darknest ***
Capitolo 11: *** Dettaglio ***
Capitolo 12: *** Insulto ***
Capitolo 13: *** Serpe ***
Capitolo 14: *** Incontro ***
Capitolo 15: *** Viaggio nell'Oscurità ***
Capitolo 16: *** Occhi di fuoco e segreti ***
Capitolo 17: *** Giardino ***
Capitolo 18: *** Regalo ***
Capitolo 19: *** Speciale ***
Capitolo 20: *** Famiglia ***
Capitolo 21: *** Punizione ***
Capitolo 22: *** Massacro ***
Capitolo 23: *** Manto bianco, lingua di miele ***
Capitolo 24: *** Indifferenza ***
Capitolo 25: *** Destinazioni ***
Capitolo 26: *** Nom - Ricordi ***
Capitolo 27: *** Nom - Vecchia conoscenza ***
Capitolo 28: *** Nom - Fedele ***
Capitolo 29: *** Nom - Assedio ***
Capitolo 30: *** Nom - Fuoco contro Acciaio ***
Capitolo 31: *** Nom - Verità ***
Capitolo 32: *** Mildred - Into The Wild ***
Capitolo 33: *** Mildred - Una conversazione con Ryos ***
Capitolo 34: *** Mildred - La figura in nero ***
Capitolo 35: *** Mildred - La Secolare ***
Capitolo 36: *** Keyleth - Silverbell ***
Capitolo 37: *** Keyleth - La Gran Sacerdotessa ***
Capitolo 38: *** Keyleth - La Cultrice e il demone ***
Capitolo 39: *** Keyleth - Oscurità Folle ***
Capitolo 40: *** Lenn - La missione ***



Capitolo 1
*** Lenn ***


Un respiro profondo. Ecco tutto quello di cui aveva bisogno.
Lo stavano osservando tutti. Tutti si aspettavano che riuscisse a incenerire in un colpo solo il fantoccio di paglia che i bambini usavano per gli allenamenti con le loro spade di legno; esattamente come lui aveva promesso.
Gli sguardi che si sentiva addosso erano tutti carichi di aspettativa … Aspettativa che, se fosse andata delusa, avrebbe fatto di lui Lenn il Fanfarone dei Fulmini, invece del Dio del Fulmine con cui era ormai solito sentirsi chiamare.
Prese un altro respiro. Così, per sicurezza. E si preparò al fallimento.
Poi … Percepì qualcos’altro oltre alla curiosità. Qualcosa che … lo fece sentire a casa. E che dissipò ogni suo dubbio.
Sintonizzò il respiro sui battiti del proprio cuore. Quel piccolo organo pulsante in quel momento sembrava essere l’unica cosa al mondo. L’unica cosa che era importante. Pulsava, e rombava esattamente come … Come … Come un nembo di tempesta, in procinto di scaricare un fulmine.
Si mise in posizione, perpendicolarmente al bersaglio. Allungò il braccio e l’indice e il medio della mano destra con uno scatto serpentino, puntandoli contro il fantoccio, mentre l’elettricità scorreva nel suo corpo fluidamente come e più del suo stesso sangue, passando attraverso lo stomaco e risalendo fino alla punta delle dita. 
Passò solo una frazione di secondo fra la percezione interna dell’energia e la sua manifestazione esterna;  qualcosa di impercettibile per esseri umani quali erano quelli che assistevano alla dimostrazione. Ma a Lenn quella frazione parve minuti interi, e assaporò la sensazione familiare e frizzante che il fulmine produceva nel passaggio verso il mondo esterno.
La folla trattenne il respiro e mormorii si diffusero, mentre il fulmine scaturito dalle sue dita scattava verso il fantoccio e lo colpiva. Poi arrivarono le urla, quando il fantoccio esplose prendendo fuoco a contatto con l’elettricità pura. Infine il silenzio, mentre il fantoccio scoppiettava allegramente fra le fiamme.
Lenn prese il terzo respiro e si rilassò. La folla era ammutolita, ma Lenn sentiva ancora quello sguardo paterno e affettuoso su di sé, e si concesse un sorriso sotto i baffi.
Poi qualcuno cominciò a battere le mani. Diventarono due. Poi tre, e infine tutta la folla si profuse in applausi e lodi sull’abilità e sulla potenza del Dio del Fulmine.
Lenn sollevò lo sguardo e incontrò quello che sentiva diversamente su di sé dall’inizio. Due gentili occhi blu come il mare e simili a enormi orbite perlacee ricambiarono il sorriso cameratesco che sentiva crescere sul proprio volto.
La giornata si prospettava niente male, se l’inizio era tanto promettente.

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Capitolo 2
*** Keyleth ***


L’alba era davvero meravigliosa.
Keyleth era seduta sul ramo della gigantesca, enorme quercia che si ergeva al centro del villaggio, rivolta ad oriente per assistere alla nascita del nuovo giorno, e per pregare. Trovava un certo conforto nel pregare contemporaneamente la dea della natura, quello del sole e quella della luna: era come se le loro benedizioni unite l’aiutassero a ritrovare il suo posto nel mondo. O almeno nel villaggio.
L’elfa sospirò. La situazione non era affatto rosea, e le si prospettava un futuro persino più cupo. Gli attacchi negli ultimi tempi si erano intensificati, e si era ritrovata a pregare ancora più del solito. Non per un buon raccolto, non per allontanare la possibilità del cattivo tempo. Recentemente, si era scoperta a pregare perché le fosse donata la forza necessaria a impedire agli esseri che praticamente assediavano il villaggio di raderlo al suolo. E anche perché quella forza fosse donata anche ai suoi amici, che ne avevano bisogno quanto lei.
Keyleth non si era mai ritenuta granché, per quanto sapesse di essere bella e desiderabile per gli uomini con cui aveva a che fare. Conosceva bene la verità: era merito degli dei se riusciva ogni volta a respingere un assalto assieme ai suoi amici. Lifaen, dalla lunga chioma bionda e gli occhi blu come l’oceano che amava tanto, vicino e contemporaneamente ad una distanza infinita; Mildred, tanto grande e grossa eppure contemporaneamente così fragile; Nom, trent’anni, cicatrice lungo la tempia destra procurata in una rissa avvenuta anni prima che l’elfa lo conoscesse, sicuro di sé e avveduto in combattimento; ed infine Lenn. Giovane prodigio di stregoneria, sulle prime era rimasta scioccata che un ragazzino di appena diciassette anni fosse invischiato in una lotta coi demoni; dopo qualche battaglia al suo fianco Keyleth aveva ringraziato ancora più fervidamente gli dei per averle messo a fianco una persona così adorabile.
Finora le sue preghiere erano state esaudite, e avevano respinto più che egregiamente una decina di assalti nel giro di tre mesi scarsi. Ma per quanto a lungo ancora gli dei avrebbero potuto sostenerla? Per quanto ancora avrebbero permesso loro di resistere, contro la minaccia di bestie in grado di adattarsi nel giro di pochissime settimane a climi per loro precedentemente proibitivi?
Il sole sorse, la sua radiosità colpì Keyleth agli occhi accecandola temporaneamente. Percepì il calore sul suo viso, e fu soltanto grata perché lei, i suoi amici e la sua gente erano ancora in grado di gustare gioie semplici come quelle, ormai le uniche rimaste loro.
“Non è mia prerogativa questionare sulle decisioni degli dei”.
Terminò la preghiera all’incirca un paio d’ore dopo, ma rimase sulla quercia, da lei affettuosamente ribattezzata “Nonna Salice”, ancora per alcune ore. Non capiva proprio come gli abitanti del villaggio preferissero spesso e volentieri delle mura di paglia e pietra a un comodo ramo d’albero. Lei ci si trovava come su un letto di piume. E comunque, i mostri non si erano ancora dimostrati capaci di arrampicarsi sugli alberi, mentre erano stati più che in grado di abbattere le capanne costruite con settimane di fatiche dagli abitanti.
Un boato la distolse dalle sue riflessioni. Il suono attirò la sua attenzione verso l’origine dello stesso, verso il campo di allenamento, al centro del quale vide sprigionarsi un fulmine di grandi dimensioni.
Sospirò, rassegnata. Al Dio del Fulmine la sera prima era stata lanciata una sfida, e ovviamente il biondo, giovane e impulsivo stregone aveva accettato senza pensarci due volte. Con ogni probabilità aveva vinto. Come chiunque si sarebbe aspettato, a dispetto della scarsa considerazione di sé che il ragazzo mostrava, e che glielo aveva reso subito simpatico. Di solito gli stregoni erano dei boriosi pieni di sé in un modo …
Keyleth scese silenziosamente e con grazia dall’albero, salutandolo con affetto mentalmente. Poi si diresse verso il campo di allenamento, dove avrebbe trovato quantomeno Lenn e la folla che già sentiva sperticarsi in lodi sul “Dio del Fulmine”.

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Capitolo 3
*** Nom ***


Il sudore che colava sotto la cotta di maglia era un fastidio inimmaginabile.
Nom si stava chiedendo per quale dannatissimo motivo fosse costretto ad indossare l’armatura, in un semplice allenamento e sempre, in ogni momento della giornata, per rispondersi poi da solo: i demoni, ovvio.
Si rimise in posizione. Lifaen, l’eladrin dagli occhi azzurri come il mare e privi di pupille, gli fece un sorriso amichevole, l’ennesimo in quelle poche ore di allenamento con le lame. Nom andò all’assalto, mulinando lo spadone a due mani e puntandolo contro il fianco dell’avversario. Cosa non nuova, invece della carne dell’elfo, protetta solo da un’esile armatura di cuoio, sentì il suono cristallino del cozzare della propria lama con quella di Lifaen. Per la centesima volta.
Trovava estremamente frustrante allenarsi con l’elfo alto. Più esile e sfuggente di qualsiasi umano, non solo riusciva a non farsi colpire se non molto di rado; Lifaen, lui e i suoi maledettissimi occhi quasi ipnotici, nonostante fosse sempre estremamente gentile e cortese con chiunque, riusciva a non permettere mai che uno dei suoi lunghissimi capelli dorati andasse fuori posto e a farlo sentire un dilettante nell’arte della spada. Non era mai crudele o sarcastico, ma tutto, nella sua persona, indicava comunque un avversario che pochi esseri umani sarebbero stati in grado di affrontare in combattimento. Ancora meno sarebbero stati in grado di vincerlo.
“Questa è andata vicino. Bravo, Nom” fece l’eladrin, elargendogli l’ennesimo sguardo gentile.
Nom scattò all’indietro, fendendo al contempo l’aria davanti a sé con la lama, nel tentativo di far abbassare la guardia all’elfo.
E parve funzionare. La spada lunga dorata di Lifaen andò a parare il colpo per proteggere il fianco destro. Nom ritirò indietro il braccio, facendo scivolare la punta della propria lama sul piatto di quella dell’altro, e la puntò contro lo stomaco dell’avversario in un unico movimento fluido.
Quest’ultimo si bloccò sorpreso per un momento, fissando la punta dello spadone. Poi sorrise e disse: “A quanto pare sono morto”.
Nom sputò. Non era la prima volta che lo batteva a duello, ma lui era zuppo di sudore e aveva dato fondo a tutte le sue energie per un semplice allenamento. L’elfo sembrava più fresco della rugiada mattutina. Come se non bastasse, gli risuonavano ancora nelle orecchie le lodi che la gente continuava sicuramente adesso a tessere sul “Dio del Fulmine” che aveva sentito per tutta la mattina. Era anche per togliersi dalla testa quelle voci che aveva chiesto all’elfo di aiutarlo nell’allenamento. Certo, avrebbe potuto farlo anche con una compagnia meno … strana; il problema era che l’unica altra persona capace di brandire una lama nel loro gruppo era Mildred. E non era sicuro di volere Squartatrice piantata nel fianco per un semplice allenamento.
“Io vado a lavarmi via di dosso il sudore. Vieni anche tu?” chiese l’eladrin, voltatosi dopo aver fatto qualche passo. “Sì, perché no?” rispose il guerriero dopo una breve riflessione. Per quanto avesse seri dubbi che l’elfo avesse sudato. Forse voleva solo essere gentile. Di nuovo.
Camminarono in silenzio per un po’, diretti al fiume. Poi Nom chiese: “Non ti pare un po’ troppo fragile quell’armatura di cuoio? Non sembra essere di grande protezione”.
L’eladrin rise: “Non oso proprio immaginarmi ad andare in giro bardato come te. Mi sento meglio con qualcosa di semplice indosso, più flessibile. Certo, questa non vuole essere una critica al tuo equipaggiamento da battaglia. Ma sto bene come sto”. Poi aggiunse: “Sei stato bravo, oggi. Temo per il tuo prossimo avversario”.
L’uomo emise un grugnito d’assenso. Poi disse: “Attento a non farti sentire da Mildred”. L’antipatia della barbara per l’elfo alto era a dir poco palese, ma Lifaen sembrava non accorgersene assolutamente. O forse lo faceva apposta.
Erano giunti al fiume. In quattro e quattr’otto, Lifaen si era spogliato e gettato nell’acqua, felice come un pesciolino, ridendo come un bambino. Nom sospirò, poi cominciò a spogliarsi a sua volta, evitando il più possibile la visione del corpo totalmente glabro dell’altro.

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Capitolo 4
*** Mildred ***


Quelle pause erano una vera e propria rottura di scatole, nulla avrebbe mai scosso la convinzione di Mildred.
Lunghe, eterne, infinite pause in cui i demoni non attaccavano, le persone ricostituivano le difese del villaggio … E in cui lei si sentiva peggio che inutile.
Aiutava, per quanto possibile (e non era certamente poco, date la sua tenacia e forza) alla ricostruzione, e la gente sembrava apprezzarlo sinceramente, ma … Vedeva ugualmente che dietro le parole gentili, gli abitanti avevano comunque paura di lei. Tentava di non darci troppo peso, ma era seriamente difficile evitare di mettersi ad urlare per la frustrazione.
Certo, il fatto di doversi sorbire l’eladrin dai capelli biondi e gli occhi azzurri che (Mildred ne era assolutamente certa, oltre tutte le sue belle paroline mielate e complicate) la trattava come una bruta che non aveva altro scopo nella vita se non quello di fare a pezzi altri esseri non aiutava affatto, e più di una volta si era ritrovata ad immaginarlo agonizzante a terra, con Squartatrice, la sua ascia bipenne, che gli spuntava da dietro la schiena. A trattenerla era solo la consapevolezza che, senza di lui, il gruppo sarebbe andato in pezzi più in fretta di un battito di ciglia; quindi, in quanto male minore, doveva sopportarlo e pazientare.
Non ricordava molto delle settimane passate. Perlopiù le aveva passate a squarciare demoni e altri orrori in compagnia di Squartatrice, mentre Keyleth li tempestava di frecce e luce che Mildred faticava a comprendere da dove venisse (Forse è magia, rifletté), Nom e Lifaen li tenevano impegnati perché non oltrepassassero le mura del villaggio e Lenn (Il Dio del Fulmine, come lo chiamano ora, pensò ironicamente) che li faceva saltare in aria con le sue scariche elettriche nemmeno fossero fuochi d’artificio.
Ma quelle pause … Spesso, in cuor suo, si trovava a sperare che al più presto avvenisse un nuovo assalto di demoni. Di questo, ovviamente, non ne aveva mai fatto parola con nessuno. Forse, quei momenti di calma sarebbero anche stati sopportabili, se avesse potuto condividerli con un compagno, qualcuno capace di starle accanto senza essere terrorizzato dalla forza, sua e dei suoi antenati, che spesso, su sua richiesta, guidavano, con la propria esperienza e saggezza, i suoi colpi e le impedivano persino di soffrire a causa delle ferite. Ma una persona del genere non l’aveva ancora trovata. E, sulla soglia dei propri 25 anni, cominciava seriamente a dubitare di avere speranze di trovarne una che potesse anche essere un buon compagno.
Certo, Lifaen glielo ripeteva in continuazione che lei era bellissima, e che non doveva preoccuparsi, e che avrebbe presto trovato l’uomo giusto … Ma in fondo Lifaen era abituato a meravigliose principesse elfiche che non invecchiavano e di bellezza ultraterrena, e ognuno di quegli incoraggiamenti suonava come una crudele derisione alle orecchie della barbara.
Keyleth invece la trovava particolarmente strana. Era simile a Lifaen, ma contemporaneamente diversa. Forse erano gli occhi. Rimaneva il fatto che sembrava in grado di leggerla come un libro aperto. Era stata la prima a comprendere il suo tremendo timore di rimanere sola, e, nonostante fosse evidentemente anche lei intimidita dalla barbara, o almeno dalla sua presenza, le aveva costantemente offerto il proprio aiuto e conforto, quando ne aveva bisogno.
Nom era un buon compagno. Certo, anche lui era intimidito dalla forza della donna selvaggia, ma almeno la rispettava ed era bravo quasi quanto lei nel falciare quelle orribili bestie. Probabilmente era la persona più simile a lei che avesse mai trovato in tanti anni di combattimenti.
Lenn era … Lenn. Non c’erano molti altri modi per definire un ragazzo che disponeva di un potere apparentemente illimitato e così simile a quello dei suoi antenati e che fosse in grado di arrossire a quasi ogni complimento che gli venisse fatto. Soprattutto da parte delle ragazze del villaggio.
Si alzò. Era ora di allenarsi, e Squartatrice non avrebbe gradito un ritardo.

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Capitolo 5
*** Lifaen ***


Passeggiare per il villaggio era davvero rilassante. Nonostante tutto quello che stava accadendo, era bello vedere che comunque i bambini correvano per le strade, le donne facevano la spesa e gli uomini aravano e dissodavano il terreno.
Tuttavia, all’occhio esperto di Lifaen non sfuggiva il dettaglio che più di ogni altro rivelava l’attuale stato delle cose: le persone in giro per la città erano all’incirca la metà di quante erano state fino a quattro mesi prima, e questo poteva significare solo che la gente moriva, e chi sopravviveva aveva paura. Era innegabile. Ed era anche normale. D’altronde, anche l’eladrin era preoccupato, in quei momenti più che mai.
Alcuni braccianti lo salutarono dal campo in cui stavano lavorando. Rivolse loro un breve cenno di saluto, un sorriso e passò avanti.
Nonostante il gruppo in generale si fosse distinto in maniera eclatante in ogni combattimento in cui avesse preso parte, risultando sempre decisivo nella salvezza del villaggio, le persone avevano sempre parlato assai più volentieri con lui, se n’era reso conto. E dire che era il più strano del gruppo, non solo in quanto ad abilità combattiva: Mildred, la barbara dalle lunghe trecce scure e alta più di un uomo, era in grado di tagliare in 2 un demone grande quanto lei con un solo fendente; Lenn, recentemente acclamato come Dio del Fulmine, i capelli biondi sempre ritti in testa e costantemente avvolto da piccole scariche elettriche, era in grado di imprese ancora più straordinarie, come fulminare 5-6 demoni in un colpo solo; Nom, vistosa cicatrice sulla tempia destra, ottimo combattente, impediva alle creature il passaggio in città, tagliandole e mutilandole con il suo spadone pesante; Keyleth, sempre fedele ai suoi dei, i lunghi capelli corvini al vento e gli occhi di smeraldo, era capace di incenerire quelle bestie semplicemente richiedendolo tramite una veloce preghiera. Lui si occupava soltanto di coordinarli e aiutarli a sfruttare al meglio le opportunità che si presentavano loro, ma il grosso della fatica lo facevano i suoi amici. Rare erano le occasioni in cui dovesse estrarre personalmente la spada e ferire un avversario. Oltretutto, gli sembrava curioso che la gente fosse così disposta a parlare con lui, un eladrin, proveniente da un mondo che si trovava ad una distanza infinita e in cui la magia scorreva come i fiumi scorrevano nel mondo naturale, e che invece ostracizzassero, per quanto involontariamente, Mildred solo perché compiva imprese in cui la maggior parte degli uomini sarebbe immancabilmente perita.
Ma al momento aveva di meglio a cui pensare che non a chi fosse il più apprezzato del gruppo fra gli abitanti. O meglio, di peggio, visto che la fortuna dei propri nemici raramente è la propria fortuna.
L’evoluzione e l’adattamento erano delle costanti nella storia delle razze mortali, questo lo sapeva bene. E sapeva anche che chi si adattava, chi riusciva ad evolversi, sopravviveva. Era sempre stato così, e così sarebbe sempre stato, in barba a tante ridicole storie dei sacerdoti nanici che affermavano di essere nati dalla pietra e di essere sempre stati piccoli, resistenti, barbuti e burberi.
I demoni non facevano eccezione. Tuttavia, i loro tempi di adattamento erano qualcosa che Lifaen non aveva ritenuto possibile prima di averne avuto la prova davanti agli occhi. I primi demoni giunti nella valle, quattro mesi prima, erano tutti deceduti senza bisogno di combatterli, poiché, aveva asserito Keyleth, che di decessi in quanto guaritrice se ne intendeva, le condizioni di sopravvivenza in quei luoghi erano intollerabili per la conformazione fisiologica di quegli esseri. E allora come mai, dopo appena una manciata di mesi, quegli stessi esseri andavano in giro, e uccidevano come se fosse la cosa più naturale al mondo?
Lifaen aveva un’unica spiegazione: si erano evoluti. Si erano adattati a quelle condizioni. E in tempi assolutamente ridicoli, per giunta.
Altra cosa, altra informazione che la sua mente analitica aveva registrato come vitale, ancora più inquietante: i demoni erano capaci di adattamenti pressoché istantanei. Keyleth ne aveva avuto prova la prima volta quando, recitata due volte la stessa preghiera per bruciare una creatura con la luce accecante del suo dio, la seconda preghiera aveva sortito un effetto meno considerevole. Aveva riprovato, più e più volte. Ma il demone sembrava aver acquisito una sorta di resistenza contro la luce divina che Keyleth gli inviava contro.
Inconcepibile.
Altro fatto, che però questa volta era positivo: Lenn sembrava non darsene affatto pena. Gli incantesimi dello stregone, infatti, non diminuivano affatto di potenza, dopo un primo colpo. Sortivano lo stesso effetto ancora e ancora, finché del demone non restava un mucchietto di cenere che si sarebbe disperso presto al vento.
Lifaen aveva pensato inizialmente che solo alcuni demoni potessero usufruire di questa “resistenza variabile”, così aveva chiesto a Keyleth e Lenn di colpire due volte per ciascuno un certo numero di demoni, di varietà differente fra loro, catturati e tenuti in vita appositamente. Il risultato era stato chiaro: colpiti più volte dalla luce divina, i mostri le resistevano; colpiti più volte dal fulmine di Lenn, gridavano di dolore esattamente come la prima volta. Qualcosa, nel giovane stregone, gli consentiva di soprassedere a qualunque resistenza i demoni potessero fornirsi contro i suoi fulmini, qualcosa che Keyleth non aveva. E l’eladrin era intenzionato a scoprirlo, anche per il bene del ragazzo.
La campana che chiamava la raccolta per la cena lo distolse da quelle riflessioni. Lifaen si avviò di buon grado verso il punto di raccolta, sperando che a lui e a Keyleth fosse lasciata della buona insalata.

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Capitolo 6
*** Attacco ***


Era al terzo piatto di carne, quando cominciò a suonare la campana. La cosa non l’avrebbe assolutamente preoccupato, se non fosse stato che i rintocchi erano fin troppo forsennati.
Si erano ritrovati tutti insieme nella catapecchia che fungeva da mensa per le poche decine di persone che avevano il coraggio di uscire … e per quelle ancora vive. Nonostante il loro impegno, Lenn si sentiva sempre estremamente inutile se scopriva che durante l’attacco qualche abitante era caduto preda degli artigli di quei mostri famelici; ma le parole gentili di Lifaen e le rassicurazioni di Keyleth riuscivano sempre a tirarlo su di morale. E un piatto di carne bello saporito aiutava anche di più.
L’incontro non era stato diverso dai soliti. Keyleth aveva salutato tutti con un soave “Gli dei vi benedicano”, come ci si sarebbe potuti aspettare dalla somma sacerdotessa del Tempio Centrale di Blindlight, la grande città in cui si era trasferita dopo l’incendio che aveva devastato la sua foresta; Nom, lo spadone pesante che gli pendeva dal fianco, gli aveva riservato un brusco cenno del capo, come da vecchio commilitone; Mildred, Squartatrice al seguito sulla sua schiena, aveva appena accennato qualcosa di paragonabile ad un saluto per poi ringhiare contro Lifaen, che aveva salutato tutti con voce affabile e gentile come suo solito.
Si erano sistemati ad uno dei pochi tavoli presenti all’interno della baracca, concessi per le singolari distinzioni che avevano valso loro il titolo di Sterminatori di Demoni, piazzandosi come al solito: Lifaen e Keyleth, le fate, da un lato, attirando l’uno gli sguardi adoranti delle ragazze più o meno giovani, e l’altra gli sguardi un po’ meno pudichi degli uomini, più o meno giovani; Lenn stretto tra quelle due montagne umane di Nom, sempre teso come una corda di violino, sempre sull’attenti, e Mildred, sempre ignorata, sempre taciturna, sempre intimidatoria. Ma in fondo non gli dispiaceva, erano buoni amici e gli stavano anche simpatici. Aveva sfidato Mildred a una gara di cibo, per distrarla dal fatto che tutti adocchiavano Keyleth e non calcolavano lei; e stava perdendo per tre piatti di carne a sette.
Assai umiliante, non che per il Dio del Fulmine, per qualunque uomo.
Quando la campana aveva suonato il quarto rintocco, lui e la barbara, ancora a bocca piena, avevano alzato contemporaneamente il capo, Nom si stava chiedendo che succedeva, mentre le due fate si erano già alzate ed erano in attività fin dal secondo.
Avevano già capito tutto.
Lifaen aveva già cominciato a dare ordini perché gli uomini, per chi se la sentiva ovviamente, andassero al limitare del villaggio impugnando qualsiasi cosa potesse ferire gli assalitori; Keyleth stava facendo sfollare una ventina fra donne terrorizzate, bambini urlanti, vecchi e inabili di ogni tipo.
A Lenn bastò uno sguardo agli occhi degli eladrin per comprendere a propria volta.
Un attacco. Certo. Fin troppo dannatamente ovvio.
Ingollò in fretta e furia l’ultimo pezzo di carne, quasi strozzandosi. Lo stesso fece Mildred, che afferrò Squartatrice con una sonora imprecazione e si fiondò fuori dallo stabile sfondando, con la sua grazia tipica, la prima parete in linea di visuale, dato che l’unica uscita era bloccata dai civili. Nom sguainò il suo spadone pesante e corse dietro a Mildred, tenendole dietro come gli consentiva la cotta di maglia.
Lenn si apprestò a seguirli, ma si fermò notando che né Lifaen né Keyleth avevano le loro armi con sé.
Gridò, per farsi sentire oltre le urla terrorizzate che riempivano l’instabile stabile: “LIFAEN! KEYLETH!”
Entrambi si bloccarono per guardarlo.
“VADO A PRENDERE NAEGLING E ACQUA D’AUTUNNO!” gridò ancora, per poi dirigersi verso i loro alloggi privati. E l’avrebbe fatto, se non avesse sentito la stretta di una mano attorno al suo braccio.
Era Lifaen. Gli occhi privi di pupille e gentili, ma ora lievemente apprensivi, lo fissarono come a volergli imprimere bene le parole che gli stava dicendo l’elfo alto.
“Lenn, figliolo, lascia perdere. Va’ ad aiutare Mildred e Nom. Arriveremo il prima possibile entrambi, ma non perdere tempo a cercare le nostre armi, ce ne occuperemo noi. Ora va’” disse, lasciandolo andare.
Il ragazzo rimase fermo per un tempo che gli parve interminabile, come sempre ogni qualvolta fissava per troppi secondi consecutivi gli ipnotici occhi dell’eladrin.
Ma non era quello il momento adatto, proprio no. Si riscosse, e, data un’ultima occhiata apprensiva ai suoi due gentili alleati, corse verso la direzione in cui già si potevano sentire ringhi bestiali, grida di uomini e le urla di dolore degli esseri che avevano conosciuto il bacio d’acciaio di Squartatrice.
 

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Capitolo 7
*** Massacro ***


“Oh cielo”.
La voce di sua sorella era incrinata dalla preoccupazione. Lys la comprendeva. Il villaggio era già stato attaccato. E se fossero arrivate troppo tardi? E se fossero già morti tutti e cinque? Che cosa avrebbe detto la loro signora, se fossero tornate con tale ferale notizia?
“Avviciniamoci, forse riusciremo a vedere meglio” azzardò Lys.
Syl si limitò ad annuire, scivolando tra le ombre fornite dal bosco che copriva la collina che correva tutto attorno al villaggio, al centro della depressione. La sorella minore le andò dietro, furtiva quanto lei.
Lys come al solito si perse, nel contemplare i lunghi e fulvi capelli rossi trattenuti in una lunga coda di cavallo della sua adorata sorella maggiore. Si perse al punto da quasi calpestare un ramo, rischiando così di farsi scoprire.
Syl le rifilò un’occhiata, come a dire Sta’ più attenta, poi continuò ad avanzare.
Avanzarono per pochi minuti, poi giunsero in vista del villaggio. O di quello che ne rimaneva.
Le mura di pietra erano state abbattute. Decine di cadaveri pullulavano l’area, zona di guerra e banchetto dei demoni. Ogni singola casupola di paglia era stata schiacciata da qualcosa di enorme.
E quel qualcosa di enorme, testa taurina, torso umano, quattro braccia muscolosissime e zampe caprine, si accingeva a completare l’opera, aiutato da decine di demoni più piccoli, uccidendo gli ultimi tre sopravvissuti.
L’eladrin, l’elfa e il ragazzo.
Lys sospirò di sollievo. Sono vivi, per fortuna. Sua sorella le fece un cenno col capo, indicandole due corpi fra i cadaveri. La ragazza aguzzò i suoi occhi rossi: in effetti erano un uomo e una donna corrispondenti alla descrizione. Se quello non fosse bastato, la gigantesca ascia bipenne dalla lama spezzata coperta di sangue demoniaco a poca distanza dalla donna avrebbe fugato ogni dubbio in chiunque. E anche lo spadone pesante, distrutto fino all’elsa, non troppo lontano dall’uomo con la cicatrice sulla tempia.
Un boato le fece riportare l’attenzione sul combattimento. Anche il ragazzo era appena caduto. Il sangue fuoriusciva da numerose ferite sparse su tutto il suo corpo mediamente muscoloso, dandogli l’aspetto di una bianca isola da cui scorressero numerosi fiumi rossi.
Lys si preparò ad intervenire.
“Non ancora” l’ammonì in tono calmo Syl, scoccandole uno sguardo con quei suoi occhi azzurri contemporaneamente caldi e gelidi.
Lys si rilassò, e dopo pochi secondi cadde anche l’elfa. L’eladrin sembrava disperato, ma Lys riusciva ad intuire che non si preoccupava affatto della sua vita. Solo dei suoi amici.
“Ora, Lys” disse Syl, uscendo dalla boscaglia stagliandosi contro il paesaggio ormai all’imbrunire.
Lys si mosse il più velocemente possibile, tentando di non farsi notare da niente e nessuno, mentre si avvicinava a quelli che sperava non essere i cadaveri delle persone che avevano ordine di soccorrere.
Per un momento temette di essere stata scoperta, quando il ruggito dell’enorme demone fece tremare l’aria e gli alberi; ma subito il ruggito fu seguito da un uggiolio di dolore e dalle grida scomposte di altre decine di mostri, mentre sua sorella li faceva a pezzi con quella raffinata crudeltà che solo lei e la loro signora sembravano essere in grado di sfoderare.
Raggiunse i cadaveri della donna e dell’uomo. Entrambi avevano polso. Sembravano sull’orlo della morte, però. Lys imprecò. Frugò nella borsa che portava sotto il mantello, estraendo la fialetta contenente la pozione.
“Questo vi servirà, mie care” aveva detto lei. E, come ogni volta, aveva avuto ragione.
Lys ne versò poche gocce nella gola di entrambi, poi si avvicinò al ragazzo, mentre Syl continuava a distrarre il demone più grande, allontanandolo dall’eladrin che, apparentemente ignaro di tutto, tentava disperatamente di prestare le cure necessarie all’elfa.
Versò alcune delle ultime gocce nella bocca del ragazzo, poi si alzò.
L’eladrin la stava osservando, con quei suoi occhi blu come il mare, mentre in lontananza i muggiti del demone venivano tacitati dal suono di artigli che squarciavano la carne.
Erano circondati dai cadaveri mutilati dei demoni e da quelli martoriati degli abitanti del villaggio; non certo il luogo migliore, per un primo incontro. Lys si preparò a combattere, per ogni evenienza. Forse l’eladrin l’avrebbe attaccata in preda alla confusione.
“Ti ringrazio” disse invece quello, sorridendo. Nemmeno le chiese chi fossero lei e sua sorella. La ringraziò e basta. Come se fosse la cosa più naturale del mondo essere aiutati da delle perfette estranee, e ringraziarle. E poi: “Come posso ripagarvi?”
Ecco la domanda che aspettava.
“Recatevi a Darknest. E’ ad est, a pochi giorni di cammino da qui. Seguite il sentiero e ci arriverete anche senza una mappa. Lì troverete chi vi darà informazioni utili per cominciare una nuova vita … Visto che qui, di vita, non sembra essercene rimasta molta” concluse ridacchiando.
L’elfo alto rimase basito. Lys ne approfittò per concludere: “Chiedete di Slynth la Serpe Oscura, vi saprà dire lui. E prenditi cura dei tuoi amici, ne hanno bisogno”.
E se ne andò. L’eladrin non fece nulla, non disse nulla. Si limitò ad andare verso i corpi ormai semicoscienti dei suoi amici. Lys scomparve tra il fogliame, così come era venuta, e scivolò nella boscaglia senza lasciare ora che le radici e i rami fossero d’intralcio. Voleva ricongiungersi al più presto a Syl. E sollevarla dall’onere di uccidere dei demoni che non avrebbero mai dovuto raccontare cosa era accaduto quella sera.

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Capitolo 8
*** Scelte ***


Alla fine erano riusciti a salvarsi tutti. Lifaen non avrebbe mai ringraziato abbastanza gli dei.
Era riuscito a far riprendere i sensi a Keyleth giusto in tempo per salvare Lenn, Mildred e Nom, che, nonostante versassero in condizioni critiche, grazie allo strano liquido somministratogli dalla ragazza con i capelli blu e gli occhi rossi come il fuoco, erano riusciti a rimanere sospesi tra la vita e la morte abbastanza a lungo da permettere all’eladrin e all’elfa di prestare loro le cure più urgenti e spostarli senza pericolo nella foresta circondante la depressione del terreno che conteneva i resti di quello che era stato il villaggio e i suoi poveri abitanti.
Lifaen aveva pianto tanto. E Lenn con lui, una volta risvegliatosi. Keyleth si era occupata della sepoltura dei cadaveri appena le forze glielo avevano permesso, e lo stesso avevano fatto lo stregone, la barbara e il guerriero. Il condottiero aveva cominciato praticamente da quando si era assicurato che anche Lenn, l’ultimo a svegliarsi, stava bene.
Erano stati costretti a bruciare i corpi più marci; il contatto con la presenza demoniaca aveva esposto a una putrefazione accelerata i cadaveri, corrotti dal solo esistere di quelle aberranti creature.
Mildred si era persino astenuta dallo scoccargli occhiate assassine, vedendolo così scosso.
Anche durante le ore passate a scavare le tombe, tra il lezzo dei morti e i canti sacri che Keyleth intonava con la sua voce melodiosa per facilitare il passaggio delle anime nell’Oltre, i pensieri dell’eladrin tornavano sempre sugli stessi punti: l’attacco al villaggio e il salvataggio insperato da parte di quelle due strane ragazze.
All’inizio sembrava essere andato tutto come al solito: sembravano essere in grado di vincere anche quello scontro, i demoni erano persino meno numerosi dell’ultimo assalto. Lifaen si era sentito fiducioso, nessuno degli abitanti era morto e Lenn stava scatenando una vera e propria tempesta in pieno stile Dio del Fulmine, Nom e Mildred falciavano fino a 2 demoni in un colpo, e Keyleth richiamava luci accecanti che bruciavano i demoni lasciandoli in cenere senza che potessero utilizzare la loro resistenza.
Poi erano arrivati i tuoni.
All’inizio Lifaen non ci aveva nemmeno fatto caso, dando per scontato che fossero i rombi causati dagli attacchi di Lenn. Poi si erano avvicinati. E un’ombra, un’ombra gigantesca aveva oscurato il sole.
Il demone era stato una visione terrificante. Mai visto nulla di più grande.
Aveva il muso di un toro, quattro braccia muscolose e gambe e piedi caprini. I suoi occhi avevano una luminescenza rossa, e il suo sguardo era pura crudeltà. Una creatura uscita dagli incubi peggiori del mondo, venuta a portare morte e disperazione.
E la distruzione che aveva causato era stata proporzionale alla sua mole. Una sola zampata di uno dei suoi arti deformi aveva ucciso 5 persone sul colpo, mentre gli altri demoni si occupavano di distruggere tutto quanto sfuggiva a lui.
Avevano tentato di distrarlo, con ogni mezzo. Ma Squartatrice e lo spadone di Nom non l’avevano nemmeno scalfito, e neppure la luce di Keyleth ce l’aveva fatta. Lifaen aveva contato sui fulmini di Lenn.
Ed era rimasto deluso. I fulmini del giovane stregone l’avevano colpito in pieno, e il demone sembrava non esserne stato toccato punto. Aveva continuato la sua opera di devastazione. E loro avevano tentato di salvare il salvabile, con ogni mezzo.
Avevano fallito.
Completato il loro compito, si erano concentrati su di loro, gli ultimi sopravvissuti. Nom e Mildred, i più resistenti del loro gruppo, erano crollati in meno di quanto si sarebbero mai potuti aspettare, fra i colpi del demone gigantesco e di quelli più piccoli. Lenn era stato il terzo, sopraffatto dalle troppe ferite che non erano riusciti a guarire. L’ultima era stata Keyleth, e Lifaen si era sentito davvero disperato. Poi erano arrivate quelle due ragazze, e i demoni erano stati allontanati, e, sperava, uccisi in meno di un battito di ciglia.
Non era stata tanto la ragazza dai capelli rossi, che sembrava la maggiore, ad incuriosirlo di più. Certo, le dita-artigli di cui disponeva non erano passate inosservate, ma l’attenzione dell’eladrin era stata attirata più dalle azioni e dalle parole della ragazza dai capelli blu; aveva salvato tutti i suoi amici e aveva praticamente offerto loro un riparo, sebbene gli altri fossero assai sospettosi sulla natura disinteressata di quei gesti.
“Quello che sto cercando di dire” disse il guerriero “è che non è normale correre un rischio tanto grande solo per una gentilezza disinteressata. Solo tu potresti fare cose del genere, Lifaen”.
Erano seduti attorno al fuoco che avevano preparato, arrostendo il cervo che Mildred era riuscita ad uccidere. Lifaen e Keyleth andavano avanti a bacche.
La distruzione del villaggio li aveva lasciati praticamente privi di qualsiasi mezzo di sostentamento, naturale o artificiale. Squartatrice era andata distrutta contro la pelle del demone taurino, e dello spadone di Nom era rimasta solamente l’elsa e pochi centimetri di lama sbeccata. Lifaen aveva avuto più fortuna: Naegling, la potente e adorata spada della sua famiglia, era rimasta totalmente integra. L’eladrin attribuiva questa resistenza alle particolari tecniche di forgiatura elfiche. Keyleth del suo arco aveva ritrovato solo le schegge.
“Lo so anch’io che solo io sarei il tipo, Nom” disse l’elfo alto sorridendo. “Ma quali altre possibilità abbiamo?”.
Silenzio. Mildred non aveva detto una sola parola da quando si era risvegliata, e Lenn tentava di non dare troppo a vedere come la distruzione del villaggio lo avesse lasciato scosso e depresso. Ma Lifaen lo conosceva troppo bene, quel bambino, il suo bambino, per non capire cosa gli passasse per la testa. Keyleth osservava le fiamme scoppiettare, come se potesse trovare la risposta ai suoi dubbi e timori nel calore del fuoco. E alla fine fu proprio l’elfa a mormorare le parole che convinsero tutti.
“Lifaen ha ragione. Non abbiamo nessun’altra possibilità. Dobbiamo andarcene da qui, continuare a vivere e raggiungere quella città. Anche per loro. Non possiamo fare altrimenti”.
Li fissò tutti per un lungo momento con i suoi occhi verdi, i capelli neri come la notte che le ricadevano in ciocche scomposte sul viso. Lifaen pensò di non avere mai incontrato una donna più determinata, mentre la decisione che stava prendendo e che finora aveva solo vagheggiato come un sogno infantile diventava certezza. Poté vedere la stessa determinazione dipingersi  sui volti dei suoi amici. Sorrise, felice di essere lì con loro.
“Partiremo domani all’alba” concluse.

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Capitolo 9
*** Ferite ***


La vista della città, fuori dalla foresta, lo rincuorò alquanto.
La giornata limpida infondeva nuova speranza in Lenn. Nonostante la folta vegetazione e il sottobosco li avessero rallentati parecchio, avevano viaggiato relativamente poco, e in capo a due giorni erano arrivati, quindi non erano affatto stanchi. E Lifaen ne diede subito dimostrazione fiondandosi di corsa verso le mura, seguito a ruota da Nom che gli urlava di non correre, Mildred che gli stava appresso con le sue enormi falcate e Keyleth che li seguiva leggiadra come una foglia al vento, con un sospiro benevolo per l’irruenza del suo compagno fatato.
Il giovane stregone dovette limitarsi a camminare ad un passo veloce.
Era snervante. Lifaen e Keyleth non erano comuni esseri umani, e oltretutto erano due esperti guaritori; quindi le loro ferite erano guarite molto più in fretta di quelle di tutti gli altri, grazie al sangue elfico che scorreva nelle loro vene; Nom era stato sottoposto ad un costante addestramento marziale, che gli aveva consentito di recuperare la salute in tempi relativamente brevi per un umano; l’aspetto stesso di Mildred indicava una persona che non si sarebbe piegata per molto tempo a un qualsiasi danno fisico. Lenn, non fatato, non addestrato, resistente ancor meno, aveva ancora diverse costole rotte dal precedente scontro, e doveva fare molta attenzione a come si muoveva. Per quanto Keyleth fosse riuscita a curare le lesioni più gravi, lo stregone si era fidato del parere della bella elfa quando questa gli aveva detto che sarebbe stato meglio non forzare troppo le cose, lasciare che la natura seguisse il suo corso e che le ossa si ricomponessero da sole.
“Il corpo umano è una macchina strabiliante” aveva detto con la sua voce dolce e frusciante. “Non esagerare e vedrai che ti rimetterai in pochissimo tempo”.
Certo, il concetto di pochissimo tempo espresso da un elfo poteva anche significare mesi di convalescenza … nel migliore dei casi. Ma, grazie alle cure di Keyleth e Lifaen, poiché aveva anch’egli una qualche erudizione nelle arti curative, Lenn sentiva di recuperare le forze molto più in fretta di quanto non sarebbe mai riuscito a fare da solo. Quindi, tutto sommato, la sua situazione non gli sembrava tanto pessima, anche se i momenti come quello riuscivano a ricordargli quanto fosse debole rispetto ai propri amici.
C’era solo un problema: non riusciva più a controllare bene come prima i suoi fulmini.
Aveva esposto a Lifaen i suoi dubbi e le sue paure sull’argomento, e l’eladrin aveva risposto, in maniera molto complicata ma con tutta la gentilezza di questo mondo, che probabilmente era solo una “fase transitoria dovuta alla non proprio eccelsa situazione fisica” in cui si ritrovava.
Quello che aveva tentato di tacere, e che a Lenn non era sfuggito (perché Lifaen, per quanto i suoi occhi sapessero essere ipnotici e inespressivi, non era davvero un buon bugiardo), era che probabilmente un’altra possibile causa era lo shock emotivo dovuto al fatto di non essere stato in grado di proteggere gli abitanti del villaggio.
Ok, ora smettila. Sapeva che tormentarsi in quel modo era totalmente inutile, e anche deleterio alla lunga, ma era più forte di lui; non riusciva ad evitare che la sua mente tornasse sempre sullo stesso punto: quanto fosse stato debole e inutile ai suoi compagni contro quel demone.
Non aveva mai provato nulla di simile a ciò che aveva sentito vedendo quella belva immane. Una scarica pura di emozione e terrore, uno strano miscuglio che non aveva mai provato, si era propagata attraverso tutto il suo corpo, mentre il demone oscurava il sole con la sua enorme mole. Combattendo quei mostri si era sentito preoccupato, affaticato, a volte, stranamente, persino euforico. Ma mai aveva avuto così tanta paura come quella volta. E quando era caduto, una voce beffarda, la sua, gli aveva sussurrato nella mente: Così impari.
Imparare che cosa? Se l’era chiesto per un po’, poi aveva trovato la risposta: si era sentito in grado di poter proteggere tutti solo per qualche battaglia vinta, aveva pensato di non poter mai perdere. E quella era stata la giusta punizione, la migliore dimostrazione di quanto ancora fosse debole e patetico.
Da quando aveva trovato quella risposta, però, non si era sentito affatto meglio; anzi, si sentiva ancora più inutile. Detestava quella sensazione, e il suo umore andava peggiorando, se ne erano accorti tutti. Le parole di conforto di Lifaen e Keyleth contribuivano solo a farlo sentire ancora più ridicolo per quella sua stupida presunzione.
Non dovrà mai più capitare qualcosa del genere pensò, e nemmeno lui seppe dire, mentre varcava il portone di quercia della città, si faceva avvolgere dal rumore e gli odori dei bassifondi e raggiungeva i suoi amici, se stava prendendo una risoluzione o facendo una promessa.

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Capitolo 10
*** Darknest ***


Sospirò, lasciandosi cadere sul letto.
Era sfinito. Avevano girato la città per  due giorni, e tutto quello che avevano trovato erano state solo chiacchiere. Chiacchiere, chiacchiere, chiacchiere e ancora chiacchiere.
Darknest, però, non era male come aveva temuto. A differenza di quanto il nome non lasciasse presagire, gli abitanti erano tutti straordinariamente più gentili di quanto Nom si sarebbe mai aspettato. Dal panettiere al locandiere, dal lord locale alle sue guardie, nessuno li aveva trattati con sgarbo o troppa diffidenza, benché avessero comunque riservato a Mildred delle occhiate guardinghe e altre incuriosite a Keyleth e Lifaen .
Si erano recati da Lord Tyrell per sapere come funzionassero le leggi della città, poiché egli, a quanto avevano sentito informandosi nei bassifondi, era giudice, giuria e saltuariamente anche avvocato nei processi che si tenevano all’interno delle mura. La sua tenuta era a pochi metri dalla piazza principale, e, al contrario del resto della città, era grigia e, secondo Keyleth almeno, noiosa. Gli avevano chiesto se potessero fermarsi per un periodo nella città e il lord, in tono estremamente conciliante, li aveva rassicurati.
“Potete fermarvi finché volete, signori; l’unica cosa che vi chiedo è di non turbare la quiete della città. Ogni servizio in città è a vostra disposizione, purché possiate permettervelo, ovviamente.”
“Beh, ecco, da quel versante saremmo in difficoltà” aveva ammesso, non senza un certo imbarazzo, Lifaen. “Nella distruzione del villaggio da cui giungiamo abbiamo perso tutti i nostri averi. L’unica cosa che si è salvata è la mia Naegling.”
Ed era vero. Lo spadone di Nom; Acqua d’Autunno, l’arco di Keyleth; Squartatrice. Tutte le loro armi erano state distrutte nell’assalto in cui avevano quasi perduto la vita. Nom si sentiva nudo senza la percezione del metallo della lama al suo fianco, per quanto indossasse sempre la sua fedele cotta di maglia; Keyleth affrontava più serenamente la perdita, certa che gli dei avrebbero provveduto anche a questa necessità, se fossero stati attenti e avessero avuto fede; Mildred sembrava essere caduta in uno stato di apatia per qualsiasi cosa, e non dava cenni di volersi riprendere. Lifaen era stato l’unico tanto fortunato da non cadere in combattimento e perdere la sua spada lunga dorata, l’unico cimelio rimastogli della famiglia da cui era stato esiliato; Lenn non aveva problemi: lui stesso era la propria arma più potente.
“Capisco, e sono addolorato per la vostra disgrazia,” aveva detto il nobile “ tuttavia temo che sarete costretti a lavorare per potervi permettere i costi delle locande cittadine. Ce ne sono comunque molte a buon prezzo che posso indicarvi, se non volete spendere troppo.”
“Sarebbe veramente gradito. Grazie mille, lord Tyrell” aveva sorriso l’eladrin.
“Dovere, dovere, mio buon elfo” aveva risposto questi, cadendo (anche Nom l’aveva notato) nel consueto errore di confondere un eladrin con il suo meno magico cugino. “Se non sono troppo indiscreto, posso chiedervi quali affari vi portano qui a Darknest?”
Lenn stava per rispondere, quando Keyleth si era intromessa: “Vogliamo solo riprenderci completamente dalle ferite degli ultimi scontri, e dotarci di un nuovo equipaggiamento. Non rimarremo troppo a lungo, in ogni caso.”
“Allora vi auguro una buona permanenza, mia bella elfa.” Aveva concluso lord Tyrell con un sorriso.
La “buona permanenza” finora erano stati i 5 minuti che Nom aveva passato steso sul letto, l’armatura in una sacca lasciata in un angolo della stanza. Stando alle loro ricerche, per permettersi anche solo l’arco nuovo di Keyleth avrebbero dovuto lavorare per settimane … nella migliore delle ipotesi. Il mero pensiero del costo di uno spadone e di un’ascia bipenne fece rabbrividire il guerriero.
Avevano anche cercato quello Slynth che aveva nominato la donna con cui Lifaen aveva parlato, ma finora i loro sforzi si erano risolti in un buco nell’acqua. Forse, pensò Nom addormentandosi, il giorno dopo avrebbero avuto più fortuna. Forse … Forse …

Sognò. Si trovava in uno dei vicoli di Darknest, pieni di colore e, in totale contrasto con la policromaticità, miserie esattamente come quelli reali, cercando disperatamente un’arma: se non l’avesse trovata, gli altri se ne sarebbero andati senza di lui. Un guerriero senz’arma era inutile, lo sapeva perfettamente. E, mano a mano che avanzava nel vicolo sempre più buio, sentiva crescere il disagio.
Cominciò a correre. Girò il volto a destra, a sinistra, dovunque pur di trovare l’uscita da quel vicolo e un negozio di armi, disperato come solo poche volte in vita sua gli era capitato di sentirsi. Nulla. Nulla, se non ombre.
Una di esse si protese dal vicolo, un essere di pura tenebra, dalle sembianze indistinte, sibilando melliflua: “Vuoi un’arma? Eccotela!”
Nom sentì un dolore lancinante al fianco. Azzardò un’occhiata. Dal fianco destro gli spuntava la lama di una spada nera come la notte, infinita come l’oscurità. Urlò di dolore.
L’ombra rise, una risata che continuò a risuonargli nelle orecchie anche molte ore dopo, mentre raccontava a Lifaen il suo incubo.
Una risata dannatamente seducente.

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Capitolo 11
*** Dettaglio ***


Con la vista che si ritrovava, si stupiva di non averlo notato prima.
Keyleth era seduta al bancone della locanda che avevano scelto per soggiornare in città. A lei sarebbe anche andato bene un qualsiasi albero, ma se Lifaen avrebbe potuto farsene una ragione in virtù della sua natura elfica, dubitava che a Mildred, Nom e Lenn sarebbe piaciuto dormire e vivere su un albero.
Si era sentita distrutta quando aveva notato quanta poca natura fosse presente a Darknest. L’unico vero angolo di verde in tutta la città era il giardino personale di Lord Tyrell, anche se erano solo poche spanne incastonate a forza in una fortezza completamente costruita in pietra grigia.
Grigio. Quello era il colore predominante nella Darknest che non fosse quella dei poveri, dei diseredati, dei disadattati, degli ultimi. I bassifondi, sorprendentemente, erano molto colorati, espressivi, allegri. Per certi versi, sembrava che la casta degli emarginati se la passasse persino meglio di quella dei nobiluomini e dei mercanti. Keyleth si era chiesta il motivo di una così apparentemente totale contraddizione. Ma non aveva trovato risposta soddisfacente.
Il terzo giorno di permanenza a Darknest stava pregando ai piedi della statua di Pelor, il dio del sole, nel tempio principale della città. Nulla di eccezionale o particolare, il consueto omaggio quotidiano che doveva agli dei. Quando le era giunta alle orecchie una voce. Una voce femminile, serica, quasi voluttuosa.
Chi cerchi ti è più vicino di quanto pensi.
Non era abituata ad essere colta di sorpresa, riusciva a sentire persino in quel momento i passi del sommo sacerdote che avanzava quietamente verso il centro del tempio, un piccolo edificio con tre soli a sovrastare il portone in legno di quercia finemente lavorato a rappresentare le battaglie degli dei del bene contro demoni, diavoli e altre aberrazioni.
Si era voltata, spaventata che qualcuno le fosse giunto vicino senza che lo notasse; ma non aveva visto nessuno se non il vecchio, corpulento sacerdote che le aveva rivolto un sorriso benevolo e aveva continuato ad avanzare, spargendo fumi sacri per tutta la stanza.
Aveva richiuso gli occhi. Non doveva distrarsi. Il Sole Nascente non ascoltava le preghiere di chi non era determinato a far sì che gli giungessero. Non poteva distrarsi. E tuttavia … Quella voce non le era uscita dalla testa. Il riverbero di quelle parole aveva continuato ad aleggiare nella sua mente anche per i minuti successivi.
Alzatasi, aveva passeggiato per il tempio, un ampio spazio circolare con due bracci perfettamente simmetrici che terminavano in dei piccoli giardinetti quadrati, separati dal resto della città da mura in legno, dedicati alle divinità elfiche della natura, i Gemelli della Festa. Giunta davanti alla statua, due elfi che danzavano in preda a una frenesia quasi mistica, li aveva osservati per un po’. E i suoi pensieri erano andati subito alla persona che sentiva più vicina in assoluto: Lifaen, il suo gentilissimo cugino magico, proveniente da una terra lontana dall’attuale quanto il cielo distava dalla terra.
Le era piaciuto sin da subito. E quell’impressione era stata rafforzata dal comportamento che utilizzava sempre con chiunque. Estremamente affabile e cortese, premuroso e gentile, sempre; ma anche estremamente serio, quando la situazione lo richiedeva. Solo una cosa le sfuggiva sul suo conto: per quanto avesse insistito, Keyleth era riuscita a ricavare solo pochissime informazioni sul suo passato. Lui cercava sempre di sviare l’argomento, quando poteva; e, anche se nessun altro del gruppo l’aveva notato, era sempre un pochino teso.
Il fatto che Keyleth fosse estremamente intuitiva, però, non era servito ad aiutarla a convincerlo a parlare di quella parte della sua storia.
Lenn, invece, era completamente diverso. Estroverso, irruento, giovane, impulsivo. Il bambino del gruppo, e non solo dalla prospettiva elfica. Anche se fra i membri della sua razza era appena diventato un uomo, nemmeno Nom avrebbe negato di considerarlo ancora troppo giovane. Ma questo non sembrava importare al giovane stregone. Tutto quello che poteva ferirlo erano gli insulti alla sua arte del fulmine (ne era assai orgoglioso) e le ferite delle persone che si era prefissato di proteggere. L’ultima battaglia era stata uno smacco da entrambi i punti di vista.
Nom e Mildred invece facevano solo quello che sentivano di dover fare. Anche se Mildred era assai depressa per la perdita di Squartatrice, si era ripresa abbastanza in fretta, e Nom si era subito comprato un’altra arma, a costo ridottissimo e di fattura molto inferiore alla precedente, per sostituire il suo spadone pesante.
Acqua d’Autunno, invece … Aveva cercato semplicemente di non pensarci troppo. L’arco di famiglia era una delle cose più preziose che possedeva, e ora tutto quello che le era rimasto erano delle schegge di legno custodite in una tasca dell’armatura di cuoio.
Aveva sospirato ed era uscita dal giardino e dal tempio. E, tornando indietro, aveva notato una strana veste bianca sparire in un vicolo. Ma più della veste, l’aveva attirata il disegno sul lembo della veste.
Una serpe nera arrotolata che mostrava le zanne ….
Aveva seguito quella veste per diversi minuti, senza perderla di vista e senza farsi notare, nel dedalo di vie e viottole che erano i bassifondi di Darknest. Finché la figura, incappucciata, non era entrata in una locanda, non troppo diversa da quella in cui si sarebbe ritrovata Keyleth più tardi, ad aspettare impazientemente il ritorno dei suoi compagni.
Finalmente avevano un indizio su dove cominciare a cercare Slynth.
 

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Capitolo 12
*** Insulto ***


L’uomo sembrava davvero terrorizzato.
Certo, poteva essere dovuto al fatto di essere tenuto a mezz’aria per la gola da una donna, ma Mildred non si era mai fatta di questi problemi. Né aveva mai seriamente pensato che ci fosse qualcosa che non andava; in fondo, se qualcosa infastidiva, tanto valeva sbarazzarsene, no? Anzi, avrebbe dovuto considerarsi fortunato; la barbara non aveva con sé Squartatrice, dopotutto.
L’uomo scalciò l’aria, annaspando nel tentativo di sfuggire alla presa delle mani della donna selvaggia. Presa che puntualmente si fece persino più ferrea di quanto non fosse prima.
Avevano seguito Keyleth fino alla locanda con l’insegna della mela stillante rugiada. L’elfa e il suo passo aggraziato erano stati oggetto degli sguardi di quasi tutti gli uomini incontrati. Quelli che non si erano fatti distrarre dalla religiosa erano stati allontanati dalla presenza della barbara.
Questo non aveva certo contribuito a migliorare il suo umore.
Erano entrati nella locanda e avevano chiesto se vi soggiornasse un uomo simile alla descrizione che avevano fornito; il locandiere, un uomo di circa cinquant’anni, e anche di parecchi chili, nonostante i gentili tentativi di persuasione di Keyleth e Lifaen, in qualche modo era sempre riuscito ad eludere le domande, e Mildred si era costretta a pazientare mentre le due fate tentavano di trovare il modo di farlo parlare pacificamente.
Poi non ce l’aveva più fatta. Aveva sfoderato la sua espressione più temibile e terrificante, aveva troncato i tentativi di diplomazia di Lifaen e Keyleth oltrepassandoli con una sola grande falcata e aveva detto al locandiere: “O ci dici dove si trova quest’uomo, oppure dovremo passare alle maniere forti.”
L’uomo all’inizio era sembrato sorpreso; poi aveva risposto, con un tono che Mildred non aveva mai sentito utilizzare: “Non sono tenuto a dire assolutamente nulla, men che meno a gente che si porta dietro mostri come te!”
Mildred non capiva bene cosa fosse successo. Sapeva solo che la gola dell’uomo era come un foglio di pergamena da stracciare fra le sue mani, e che il viso del locandiere stava diventando blu, e che questo la faceva sentire bene, talmente bene … Poi sentì una mano batterle gentilmente sulla spalla, e un tono di comando intimarle: “Basta così, Mildred”.
Lasciò andare il locandiere, che crollò boccheggiando sul bancone, le vie respiratorie che lentamente riprendevano a funzionare.
La barbara era sconcertata. Nemmeno vide l’eladrin mentre la superava e andava a sincerarsi delle condizioni dell’uomo. Era stupita: Lifaen che usava quel tono? Con lei? Fuori dal campo di battaglia, l’unico in cui gli riconoscesse a fatica una tale autorità?
La vista le si annebbiò. E tornò la musica. Non musica prodotta da strumenti, no. Quella era la musica che solo lei riusciva a sentire. La musica delle voci dei suoi antenati, che la invitavano a punire quell’affronto al suo onore. Sarebbe bastato tanto poco, la fata era lì, davanti a lei, indifesa …
Poi, come da una distanza infinita, sentì una voce, la stessa di prima, che, con un tono molto, molto più gentile e meno aggressivo di prima, le disse: “Ora calmati, Milly. Va tutto bene.”
E lei tornò a vederci. La nebbia davanti agli occhi si dissipò, e la musica tornò ad essere silente, un silenzio imposto a forza e iracondo. Infine riuscì anche a sentire la voce terrorizzata del locandiere che diceva: “… ultima stanza, in fondo a destra. Ma vi prego, non fatemi del male!”
“Non ne abbiamo mai avuta la minima intenzione” asserì una voce che riconobbe per quella di Lifaen. “E’ solo che Milly è un pochino … impulsiva, ecco tutto. Non avrebbe reagito così, se non l’avesse chiamata a quel modo.”
Mildred scosse la testa, per liberarsi delle ultime eco delle voci. Era terribilmente frustrante passare attraverso quella fase, il ritorno alla realtà presente dopo la comunione con gli avi. Vide che al suo fianco c’erano Nom e Lenn, entrambi con un’espressione che esprimeva al contempo ammirazione per ciò che loro non erano riusciti a fare e preoccupazione per le possibili conseguenze di quel gesto.
Poco oltre, e con questo Mildred si accorse definitivamente di essere indietreggiata di qualche passo, c’erano Lifaen e Keyleth, che stavano ringraziando e scusandosi con il locandiere, ancora paonazzo in volto. Poi si avviarono su per le scale a fianco del bancone che portavano ai piani superiori, seguiti a ruota dal guerriero, lo stregone e la barbara, che stava maledicendo l’eladrin per l’ascendente che riusciva ad esercitare su di lei a proprio piacimento e con sommo scorno di questa.
Comunque non le sfuggì l’espressione di puro terrore che le rivolse il locandiere, mentre saliva le scale.

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Capitolo 13
*** Serpe ***


La notte era estremamente silenziosa.
Avevano montato la tenda in una radura e Lifaen stava ammirando le stelle. Gli erano sempre piaciute; così vicine e al tempo stesso così lontane, in grado di influenzare persino il destino dei mortali … Per la formazione che aveva ricevuto, sapeva perfettamente che non era così, tuttavia a volte era divertente pensare agli astri come ad esseri senzienti, capaci di modificare il corso delle cose a loro piacimento.
Erano ormai diversi giorni che erano in viaggio. Darknest era scomparsa all’orizzonte da almeno tre di questi, e ormai erano veramente vicini alla loro meta … Per quanto ancora non sapevano cosa ci fosse ad attenderli dopo essa.
Slynth, la Serpe Oscura, era stato molto cortese, nonostante avessero praticamente fatto irruzione nella sua stanza. Lifaen aveva trovato che fosse particolarmente attraente per un umano. Aveva stimato che avesse circa vent’anni, un ciuffo dei capelli castani che gli scendeva su uno degli occhi nocciola e un viso estremamente grazioso. Le sue parole non erano state illuminanti.
“Non dovreste essere qui. Mi aspettavo che vi foste già mossi verso il suo covo” aveva detto.
A Lifaen quelle parole erano suonate assai strane. Sembrava che quel ragazzo sapesse perfettamente di cosa fossero alla ricerca, e loro non ne avevano la più pallida idea.
“ Il suo covo? Di chi?” aveva chiesto Keyleth.
Slynth aveva ridacchiato. Poi aveva risposto: “Ovviamente il covo della Carezza dell’Oscurità, per cosa altro mi avreste cercato, altrimenti? Avete incontrato Lys e Syl, che vi hanno detto di cercare me, e che questa ricerca vi avrebbe condotti a una nuova vita, giusto?”
Lifaen aveva annuito, e Lenn gli aveva chiesto: “La Carezza dell’Oscurità? E chi è?”
“Non lo so proprio” aveva replicato l’eladrin. “Non l’ho mai nemmeno sentita nominare”.
“Cosa assolutamente non sorprendente” aveva continuato il giovane uomo, che fino a quel momento aveva conversato disteso su un soffice letto tenendo il volto fisso sul soffitto. “E’ quasi sconosciuta nel mondo. In compenso” aveva detto, mettendosi a sedere sul bordo del letto “non c’è quasi nulla di cui non sia a conoscenza”.
“Che intendi?” Aveva chiesto Nom, che sembrava lievemente spazientito da quel parlare criptico.
“Davvero non vi siete chiesti come mai Lys e Syl si siano date pena di salvare degli emeriti sconosciuti come voi? L’hanno fatto perché lei gliel’ha ordinato, ovviamente. E la sua parola, altrettanto ovviamente, è legge”.
“E tu invece? Come fai a conoscerla?” aveva chiesto Lifaen.
“Questi non sono affari tuoi, mio nobile elfo. Se mi è lecito darvi un consiglio, affrettatevi ed andate a nord-est. Non dovete assolutamente deviare da quella direzione, altrimenti vi perderete e diventerete cibo per gli esseri che abitano quelle terre. Dopo cinque giorni incontrerete Lys. Oppure Syl. Una delle due, comunque. Lei ha già aspettato abbastanza, e non è mai una cosa troppo saggia mettere alla prova la sua pazienza.”
“Ma CHI DIAVOLO E’??” era sbottata Mildred, la cui pazienza era certamente inferiore a quella della fantomatica signora.
Slynth non aveva risposto immediatamente, ma si era preso tutto il tempo per squadrarli ben bene uno alla volta. Poi aveva ridacchiato (un suono estremamente irritante e viscido, come di scaglie di serpente sulla pietra) e aveva concluso dicendo: “Non mi stupisco affatto che vi voglia con sé. Siete davvero un gruppo assai particolare, e a lei le novità piacciono sempre.” Detto questo si era alzato e aveva infilato stivali e mantello. “Signori, buona giornata” li aveva salutati, sgusciando oltre Nom e Mildred (Lifaen ancora non capiva come avesse fatto) e si era dileguato ancora prima che il guerriero potesse estrarre la spada.
Non era rimasto loro molto da fare. Avevano passato il giorno successivo a procurarsi vettovaglie per il viaggio che li attendeva, sebbene Keyleth si fosse offerta per procacciare cibo per tutti durante il viaggio. Ma Lifaen non se l’era sentita di rischiare: oltre a non sapere se ci fossero esseri o piante commestibili più avanti (le mappe non dicevano nulla a tal proposito, e gli abitanti di Darknest preferivano non parlarne), lo aveva preoccupato anche la frase di Slynth sugli esseri che infestavano quelle terre. Non avrebbe permesso che nessuno dei suoi amici venisse mangiato da una bestia.
Sospirò, tornando a rimirare le stelle, finché Nom non venne a dargli il cambio per la guardia. Lifaen sospirò e, prima di lasciarsi trascinare dal proprio sonno vigile nelle immagini della sua patria adorata, la cui caratteristica principale era un turbinio di foglie rosse, verdi, gialle e marroni, dedicò un pensiero a chi là aveva lasciato, tempo addietro.
Mi mancate tanto.
 

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Capitolo 14
*** Incontro ***


Gli incappucciati erano sempre più vicini.
Si stavano disponendo a circolo intorno a loro. Lifaen e Nom avevano già estratto le loro armi, Mildred lanciava occhiate ferine a quei volti che nemmeno erano visibili, e Keyleth era semplicemente molto attenta. Lenn si stava già preparando. Non avrebbero avuto fortuna, se si fosse scatenato, assolutamente no. Li avrebbe arrostiti tutti, se avessero osato alzare anche solo un dito sui suoi amici.
Azzardò uno sguardo avanti. Solo altri mantelli neri che uscivano da quel portone incastonato a forza fra le pareti rocciose dell’imboccatura di una caverna.
Chiunque avesse creato quella porta, era stato davvero molto abile. A prima vista sembrava soltanto un masso che chiudesse l’entrata di una caverna in pietra grigia. Ma appena Lifaen ci si era appoggiato, dopo aver marciato ininterrottamente per altri tre giorni quasi esaurendo le loro scorte di viveri, questa si era aperta. Si erano subito allontanati, mentre il primo mantello nero usciva dalla caverna; anche se Lenn immaginava che persino Mildred avesse capito che quello era un passaggio, e non una semplice caverna. Il portone era sembrato in tutto e per tutto una parte del paesaggio naturale arido e smorto che li circondava.
Ormai erano una ventina, tutti attorno a loro. Erano completamente circondati. E Mildred non la finiva di inviare bestemmie a mezza bocca verso il condottiero, che osservava la scena aspettando come tutti di capire dove sarebbe andata a parare.
Lenn tentò di calmarsi, e di attingere fin alla più piccola particella di stregoneria contenuta nel proprio corpo. Ma i mantelli neri non stavano facendo nulla. Rimanevano in cerchio attorno a loro e basta.
Nom e Mildred, che (Lenn ne era sicuro) avrebbe ricevuto una sana lezione di catechismo da Keyleth se fossero usciti vivi da quella situazione, erano tesi quanto due corde di violino, Lifaen invece sembrava essere sollevato che non si fosse scatenata una battaglia fin da subito. Scoccò un’occhiata a Keyleth, che ricambiò; e, incredibilmente, Lenn sentì la voce dell’eladrin chiedere la cosa che stava passando anche a lui per la mente, sebbene in termini più eleganti e raffinati.
“Perdonateci, gentili signori; è questo il covo di colei che si fa chiamare La Carezza dell’Oscurità?”
La domanda risuonò nell’aria senza che nessuno rispondesse. Lenn si concentrò ancora di più, nell’eventualità che si scatenasse davvero un combattimento.
Poi, improvvisamente, emerse da quel cerchio una risata incredibilmente femminile, e una delle figure avanzò, levandosi il cappuccio del mantello per rivelare i capelli azzurri e gli occhi rossi come braci ardenti.
“Finalmente siete arrivati. Mi chiedevo quanto ancora ci avreste impiegato.”
A Lenn quel volto non diceva assolutamente nulla. Ma a Lifaen sembrava dire parecchio. L’umana che stava loro davanti, occhi e capelli a parte, sembrava una normalissima ragazza: che fosse lei la donna che aveva salvato le loro vite, come aveva detto Lifaen?
Lifaen che stava rispondendo anche molto amichevolmente, per giunta!
“In effetti ci abbiamo messo un pochino” disse ridacchiando l’eladrin. “Slynth non è affatto semplice da trovare.”
“Il solo fatto che siate qui vuol dire che avete avuto successo, e che quindi è andato tutto come previsto” disse la donna. “Ma ora abbiate la cortesia di seguirmi” disse, voltandosi verso l’entrata della caverna. “La nostra signora ci sta aspettando con impazienza.”
Il cerchio si spezzò al suo passaggio, formando un corridoio che aveva come direzione obbligata quella che stava tracciando lei. Lifaen rinfoderò la spada e la seguì, seguito da Keyleth e da dei riluttanti Nom e Mildred. Lenn chiudeva il corteo, gli incappucciati che sparivano alle sue spalle, mentre veniva inghiottito dall’oscurità della caverna-passaggio, appena rischiarata da una torcia che la donna dai capelli blu aveva acceso più avanti.
“Non deviate dal sentiero, non entrati in altri cunicoli. Seguite la mia voce e arriverete sani e salvi, come vogliamo tutti” disse, la voce che rimbombava come il tuono durante un temporale in quel cunicolo vuoto, freddo e buio per la maggior parte. Poi cominciò a cantare, in una lingua sconosciuta.
Lenn raggiunse Lifaen, rivolgendogli uno sguardo interrogativo. E Lifaen gli rivolse un sorriso rassicurante, oltre il quale Lenn vedeva chiaramente i dubbi che tormentavano l’elfo alto.
Con quelli che sapeva essere i suoi stessi dubbi nel cuore, Lenn avanzò un passo dopo l’altro, seguendo la voce della donna che si perdeva più avanti nell’oscurità.

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Capitolo 15
*** Viaggio nell'Oscurità ***


La stanza era estremamente spaziosa. Per qualche motivo ebbe la sensazione di essere un imputato che attenda il processo e la condanna.
Nom tentò di calmarsi. Era totalmente assurdo sentirsi così agitati per un incontro. Aveva combattuto e ucciso decine di demoni, maledizione! Perché l’incontro con una donna avrebbe dovuto innervosirlo in quel modo?
Avevano seguito la voce della ragazza dai capelli azzurri per quelle che gli erano parse ore, alla debole luce della fiaccola che ondeggiava ogniqualvolta il respiro di lei lambiva il fuoco. La melodia arcana che stava cantando li aveva aiutati a mantenere la retta via, quelle rare volte in cui la giovane donna spariva oltre uno dei vari cunicoli laterali, che s’intersecavano attraverso tutto il tratto di sottosuolo che stavano percorrendo. Più di una volta aveva avuto l’impressione che qualcosa li seguisse nell’oscurità, e aveva anche avuto l’inquietante certezza che se non ci fosse stata la ragazza a guidarli, nulla avrebbe impedito alle cose che li seguivano di far di loro un sol boccone.
Lifaen e gli altri erano rimasti in silenzio per tutto il tragitto. Nessuno aveva proferito parola. Era stato estremamente snervante. Talmente tanto che Nom era giunto a chiedersi se avrebbe mai riguadagnato l’uso della parola, dopo essere stato tanto a lungo in silenzio.
Dopo un po’ di tempo, gli era parso che il terreno si sollevasse, e che il tragitto fosse in lieve pendenza. Keyleth aveva dedotto che si stessero riavvicinando alla superficie e questo aveva dovuto farla sentire meglio, perché aveva riguadagnato un po’ della sua quotidiana tranquillità. Appena lei si era rilassata, Lifaen aveva fatto altrettanto, e tutti si erano calmati, almeno un pochino. Anche Mildred.
Infine erano giunti davanti alla porta.
Era qualcosa di enorme. Ci sarebbero potuti passare due carri trainati da quattro cavalli, secondo la stima del guerriero. Ognuna delle due ante era priva di maniglia, in metallo nero come la notte, e sopra entrambe, attorniate da centinaia di fiori, stavano una di fronte all’altra, lavorate a sbalzo, due enormi  uccelli ad ali spiegate, quasi ad indicare la via da seguire.
La ragazza che li aveva guidati teneva una mano appoggiata sull’anta sinistra, mentre nella destra aveva la fiamma ormai smorta della fiaccola. L’espressione divertita che aveva sul volto aveva ricordato al guerriero quella di Slynth la Serpe Oscura quando aveva asserito che sarebbero piaciuti alla Carezza dell’Oscurità.
La giovane aveva aperto il portone con una mano (sorprendendo Nom: ci sarebbero voluti almeno tre uomini con la sua forza solo per muovere un’anta, a giudicare dalla grandezza del portone) e li aveva invitati ad entrare.
“Io non servo più, per ora. La mia signora vi sta aspettando qui dentro. Avanzate pure sicuri, non temete” aveva detto.
Nom non ce l’aveva più fatta. Aveva rinviato quella domanda anche troppo a lungo per i suoi gusti. Così aveva chiesto: “Come possiamo sapere che è vero e che non ci ucciderete tutti?”.
La ragazza era sembrata sorpresa. I suoi occhi rossi si erano spalancati e per un attimo il guerriero aveva temuto che l’avrebbe ucciso lì sul posto. Poi aveva riso, anzi, si era proprio sbellicata dalle risate.
“Avremmo potuto uccidervi cento volte in tutto questo tempo. Direi che è un motivo sufficiente per presumere che non vogliamo danneggiarvi in alcun modo” aveva risposto terminato l’accesso di risa.
E così erano passati attraverso il portone.
Erano saliti per altri minuti, il sentiero era assai più ripido e faticò parecchio prima di entrare nella seconda stanza.
Ora Nom la stava osservando, e più i suoi occhi si adattavano alla luce che entrava dalle finestre dopo tanto tempo sottoterra, più notava che in realtà quello era solo un corridoio, per quanto grande, introduttivo ad un’altra stanza grazie ad una porta in legno di quercia che si trovava sul fondo. Chiunque abitasse in quel luogo, o lo aveva conquistato, o doveva essere estremamente ricco, considerati i numerosi quadri che adornavano le pareti in mattoni; solo le cornici che li racchiudevano dovevano valere una fortuna. Nessuno dei quadri sembrava avere un collegamento con i precedenti. Un cimitero, una campo di grano in estate, un bell’uomo, una scena conviviale …
Nom fu particolarmente attratto dal penultimo quadro prima della porta. Rappresentava una meravigliosa donna seduta dai capelli rossi come il fuoco, dalla pelle rosea e con gli occhi verde foresta di un colore persino più intenso di quelli di Keyleth,  che guardava con dolcezza un punto indefinito oltre la tela. Era riccamente ornata da gioielli di vario tipo, orecchini d’avorio e un anello con zaffiro all’anulare destro; l’abito di seta verde con orlo dorato era un ulteriore prova del suo rango nobiliare, se fosse servita un’ulteriore prova. Se ne sentì estasiato. Sarebbe rimasto lì a fissarla come un ebete per tutta l’eternità, se Lenn non lo avesse chiamato.
Scosse la testa, e raggiunse gli altri mentre Lifaen apriva la porta ed entrava, per affrontare l’ignoto, e conoscere finalmente chi li richiedeva con tanta insistenza e determinazione.

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Capitolo 16
*** Occhi di fuoco e segreti ***


Nom, Lenn e Lifaen rimasero sbigottiti, al vedere la donna che li aveva chiamati e cercati. Keyleth e Mildred erano molto meno sensibili al fascino femminile, eppure anche loro strabuzzarono gli occhi, al vedere la donna soggetto del quadro che sorrideva ai cinque avventurieri lì presenti.
Era bella. Estremamente bella. I fluenti capelli rosso fuoco le arrivavano fin alla vita, scendendo in raffinate ciocche ai lati del viso delicato, pallido e perfetto, un lieve sorriso sardonico sulle labbra. Gli occhi rossi come il sangue seguivano ogni loro movimento, e ognuno di loro percepiva che qualunque tentativo di dissimulazione sarebbe stato sciocco e vano. Indossava un provocante abito rosso come i suoi capelli e i suoi occhi, che metteva in risalto ogni lineamento flessuoso di un corpo statuario e divino, ulteriormente evidenziati dalla luce delle fiaccole ai lati della stanza rotonda che proiettavano ombre scure . I polpacci erano coperti da eleganti stivali azzurri dotati di tacco, le gambe accavallate. Seduta su un trono il cui schienale era la spina dorsale di una fenice scheletrica e i braccioli le ali dell’animale, li osservava con un’espressione deliziata.
Il fatto che Lenn, Nom e Lifaen riuscissero a staccare gli occhi da quella perfezione era la prova più evidente della bellezza disumana del volto che li stava fissando.
“Finalmente siete arrivati, miei cari. Vi aspettavo, e sono lieta che mi abbiate raggiunto”.
Le sue parole avevano una tonalità musicale che Lifaen non aveva mai sentito, nemmeno in molte delle principesse eladrin che aveva conosciuto in vita. Erano totalmente in sintonia con l’armonia e le proporzioni perfette di quel viso.
In qualche modo, Lenn sentì di riuscire a esprimere qualcosa. E la domanda fu inquietantemente banale.
“Tu chi sei?”
Una risata, adorabile, esattamente quanto tutto il resto.
“Trovo davvero incredibile che non sappiate come sono conosciuta, miei cari ospiti. Davvero siete così disinformati sul mio conto?” disse, con un’aria talmente divertita che Nom avrebbe volentieri passato cinque vite ad ammirarla.
“Ci sono stati riferiti i suoi titoli, Carezza dell’Oscurità” rispose Keyleth “ma i titoli non valgono nulla, se non si sa chi li possieda. Pertanto vorremmo sapere con chi abbiamo l’onore di parlare”.
Molto diplomatica, come suo solito. E quel tentativo di diplomazia parve divertire ancora di più la meraviglia della natura che era seduta sul trono, l’ennesima risata che scuoteva quel corpo perfetto.
“Più che giusto, Somma Sacerdotessa Keyleth Greenleaf, più che giusto” parlò, sorprendendo tutti. Come poteva conoscere il cognome di Keyleth, la quale aveva espressamente dichiarato di averlo rivelato solo a loro?
La donna dovette accorgersene, perché continuò: “Non stupitevi, miei adorati; so tutto di voi, anche se, per rispetto alla vostra vita privata, e per mio personale divertimento, non svelerò ciò che non volete venga svelato”.
Lenn lanciò un’occhiata a Lifaen, e rimase esterrefatto nel vedere che era impallidito. Tornò a concentrarsi sulla donna, che frattanto si era alzata dal trono (in piedi era anche più bella) e aveva cominciato a scendere con grazia inaudita i gradini che rialzavano il trono dal pavimento.
“Le circostanze mi costringerebbero ad arrivare subito al motivo principale per cui siete qui” continuò, ogni passo che la avvicinava a loro “ma sarei un’ospite quantomeno pessima, se prima non mi occupassi di voi come si conviene. Avete la mia parola d’onore che, per quanto dipenderà da me, finché sarete sotto la mia giurisdizione, non vi mancherà da mangiare, né da bere, né da dormire. Gradirei che vi riposaste, prima di intraprendere discorsi complicati quali quelli che immagino avrete in mente di avviare” concluse, ormai a pochi passi da loro.
Lifaen si fece coraggio e parlò: “Non siamo stanchi, ma vorremmo sapere perché siamo arrivati qui, dove siamo e chi è lei, se non è di troppo disturbo” disse, gentile come al solito.
La donna sospirò: “Siete qui perché io qui vi ho voluti. Ho bisogno di voi, miei adorati ospiti” e quell’ospiti risuonò in maniera estremamente dolce sulle sue labbra, o almeno così parve ai cinque “per una missione di straordinaria importanza, probabilmente la più importante che avrete mai occasione di eseguire, e per una personalità di tutto rispetto quale, senza vantarmi, mi considero. E, per quanto riguarda la mia identità, almeno per questo momento dovrete accontentarvi dei titoli che vi sono stati forniti. Presto scoprirete ogni cosa, ma ora vorrei che seguiste il mio consiglio e andaste a riposarvi. Avrò il piacere di parlare con voi in privato domani, con tutta calma.”
L’ultima frase suonò invitante a tutti, Mildred compresa, che, dall’espressione dei suoi compagni, dedusse che sarebbe stato meglio non insistere e obbedire.
“Abbiamo la tua parola che non ci ucciderai?” chiese la donna selvaggia.
“Sul mio cuore” rispose la donna dalla bellezza selvaggia, un sorriso meraviglioso che increspava le labbra perfette.
Alle spalle del quintetto Nom notò che era apparsa una figura incappucciata.
“Scortali nelle loro stanze, Syl, grazie” ordinò la padrona di casa, e loro nuova padrona, comprese all’istante, e senza alcuna logica apparente, il mercenario. “Assicurati che abbiano ogni comodità, e che siano soddisfatti in ogni loro richiesta”.
“Sì, mia signora” rispose la figura, una donna a giudicare dalla voce, con un piccolo inchino. Fece cenno al gruppo di seguirla, e fu obbedita immediatamente. Nessuno di loro cinque voleva trovarsi più a lungo alla presenza di quella donna meravigliosa per quel giorno. Nom temeva di poter impazzire, se l’avesse fissata più a lungo. O se lei avesse fissato lui troppo a lungo.
La donna chiamata Syl li guidò fino ad una delle pareti circolari, a metà strada fra il portone da cui erano entrati e il trono della fenice. Premette un mattone e una parte di muro scivolò di lato, rivelando un corridoio riccamente ornato con quadri e specchi alle pareti e un tappeto rosso srotolato sul pavimento in marmo bianco illuminato dalla luce che entrava dalle grandi finestre sopra i candelabri spenti.
“Seguitemi” disse Syl, facendo strada. Lenn si girò, e, mentre il passaggio segreto si richiudeva, avrebbe giurato di aver visto la donna, rimasta al centro della grande sala circolare, fargli l’occhiolino.

 

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Capitolo 17
*** Giardino ***


Il parco era davvero meraviglioso.
Keyleth era convinta di non aver mai visto nulla di tanto rigoglioso in tutta la sua vita, nemmeno a casa sua, nella foresta. Passeggiava estasiata, osservando nel frattempo più varietà di fiori e piante di quante ne avesse mai osservate dal vivo. Odalische, salici, rose, aceri; c’era di tutto, di tutti i tipi e varietà.
Appena entrata nella sua stanza era stata subito attratta dalla grande finestra, da cui entrava moltissima luce che si rifletteva nello specchio sulla parete adiacente e faceva risaltare il rosso delle coltri dell’enorme letto a baldacchino al centro della stanza. Fuori da quella finestra c’era il giardino in cui stava camminando in quel preciso istante. Aveva subito chiesto alla donna che l’aveva accompagnata, Syl, di essere portata nel giardino. In fondo, la Carezza dell’Oscurità (ancora le era strano pensare di non conoscere il vero nome della sua ospite) aveva ordinato alla donna incappucciata di soddisfarli in ogni loro richiesta.
Syl aveva chiesto di pazientare un poco; era andata e tornata nel giro di una decina di minuti, dicendole di seguirla, invito che Keyleth aveva accettato immediatamente. Non era riuscita a comprendere le vere emozioni della Carezza, ma per lei non era un problema capire cosa pensasse o provasse questa sua servitrice; e non le sembrava avere cattive intenzioni nei suoi confronti.
Durante il tragitto verso il bellissimo giardino, aveva avuto modo di pensare e riflettere.
La maggior parte dei suoi pensieri era sempre stata diretta alla Carezza dell’Oscurità. Alla sua bellezza frastornante, alle sue parole cortesi ma risolute … Al suo atteggiamento, soprattutto, che Keyleth non era stata in grado di codificare. Per tutto il dialogo, aveva tentato di capire quale fosse la vera disposizione d’animo della donna verso di loro. Ma non aveva avuto nessun successo, e non era riuscita a carpire nemmeno un indizio; la signora sembrava essere impenetrabile, per quanto riguardava le sue emozioni. Tentare di comprendere i veri sentimenti di un muro sarebbe stato più semplice. Keyleth sospettava che qualunque tentativo più scoperto di comprenderla sarebbe stato eluso con altrettanta abilità, se lei non avesse voluto diversamente.
Pensieri di questo genere l’avevano dominata fino all’entrata del giardino. A quel punto la sua mente era rimasta soggiogata dalla bellezza naturale che si trovava davanti.
Stava poggiando la mano sul tronco di un olmo per assicurarsi che fosse reale, che non fosse una semplice illusione (non si poteva mai sapere), quando una voce alle sue spalle disse:
“E’ tutto reale, sacerdotessa. Non ricorrerei mai ad un inganno tanto volgare come un giardino finto.”
Keyleth non ebbe nemmeno bisogno di voltarsi per sincerarsi di chi avesse proferito tali parole. Ma un’occhiata, che, ne era certa, non era sfuggita alla meravigliosa donna dai capelli rossi che stava alcuni passi dietro a lei, le bastò a rivelarle che Syl se n’era andata, e che erano sole in quel giardino paradisiaco.
“Ti piace il mio giardino?” chiese la donna sorridendo amabilmente e avanzando fino ad arrivare al suo fianco. Incredibile, ma riusciva a risaltare per bellezza anche in mezzo a tutte quelle meraviglie naturali. “Mi ci è voluto un po’ di tempo per riuscire a coltivarlo così da ottenere esattamente il risultato che volevo, ma non mi rammarico di averlo speso in questo modo.”
Keyleth annuì, dicendo: “Non deve essere stato facile. Non ho mai visto nulla del genere, in tutta la mia vita.”
La sua ospite ridacchiò, un suono che le parve estremamente melodioso. “Sei ancora giovane per i parametri della tua razza, sacerdotessa Keyleth. Vedrai cose molto più spettacolari di questa, fidati di me. Settantanove anni non sono poi molti, paragonati a duecento. ”
Keyleth lasciò passare l’ultima osservazione. Non aveva voglia di chiederle come facesse a sapere persino della sua età; aveva detto di sapere tutto di loro. Questa era solo un’ulteriore conferma del fatto che non avesse mentito.
La donna continuò: “In ogni caso, se anche non avessi mai visto nulla di così bello, escludo categoricamente che tu non ne abbia nemmeno mai letto.”
Keyleth si guardò un attimo intorno. In effetti, qualcosa del genere le sembrava di averlo letto nelle scritture sacre su cui si era formata per il sacerdozio. E, ad un’occhiata più attenta, il giardino era sicuramente molto simile a quello che si descriveva essere il dominio divino in cui risiedevano la dea della Natura e gli dei elfici, ma non era assolutamente possibile che …
No, non era possibile, pensò l’elfa scuotendo la testa. Nessun mortale sarebbe mai riuscito anche solo a vedere nella sua interezza quel giardino divino, figuriamoci a riproporlo con tanta fedeltà nel mondo naturale. Probabilmente la Carezza si stava prendendo gioco di lei.
Eppure …
La risata della donna la distrasse dalle sue elucubrazioni. Tornò a concentrarsi su di lei, determinata a capire per cosa stesse ridendo. Ennesimo fallimento. Questo sembrò divertire l’altra particolarmente.
“Non escludere a priori che una cosa possa o non possa accadere, sacerdotessa. La vita è piena di sorprese, e il mio consiglio per non farsi prendere alla sprovvista da essa è mantenere sempre una sana dose di scetticismo su ogni aspetto di ogni questione” aveva detto, rientrando dopo averle accarezzato una guancia con la delicata e pallida mano morbida come seta.
Keyleth non poté fare altro che rimuginare sul significato di queste parole mentre raggiungeva Syl per essere riaccompagnata nella sua stanza. Sentiva ancora quel tocco serico sulla propria pelle. Un’ultima occhiata al giardino le diede l’impressione che avesse perso una parte della sua bellezza, senza la presenza della Carezza dell’Oscurità.
 

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Capitolo 18
*** Regalo ***


La spada era stata la prima cosa che aveva notato entrando.
Nom si era assicurato di darsi un contegno. Aveva ringraziato la ragazza che l’aveva accompagnato nella sua stanza (un enorme locale con tendaggi rossi, un letto a baldacchino, uno specchio e una gigantesca, enorme finestra che faceva entrare tantissima luce) con tutta la cortesia possibile, esattamente come pensava avrebbe fatto Lifaen. Una volta rimasto da solo, però, non aveva avuto occhi che per l’arma, il cui pomo riluceva nell’angolo adiacente alla parete contenente la grande finestra, quasi fosse stato lucidato di recente.
L’occhio esperto del guerriero non l’aveva ingannato. L’arma era davvero superba. Il filo della lama era praticamente perfetto, Nom era convinto di poterci spaccare un capello a metà con un singolo fendente. Lunga circa un metro, terminava in un’elegante elsa in oro bianco; alla sommità, un’impugnatura in bronzo dorato che il guerriero scoprì adattarsi perfettamente alla sua mano. Era come se fosse stata forgiata apposta per lui, la sua mano ci si adattava alla perfezione. Sentiva un’intesa che non aveva mai percepito, nemmeno col suo vecchio spadone, compagno fidato di tante avventure.
Chissà se poteva esercitarcisi.
Cretino, e per che altro l’avrebbero lasciata qui, se non perché la prendessi? gli chiese una vocina nella testa. In fondo, aveva ragione. Era la sua stanza, Syl ce l’aveva condotto apposta. Perché mai avrebbe dovuto essere tanto esitante nell’esercitarsi con una spada?
Si sedette sul letto, rimirandola da diverse angolature. Era davvero molto bella, anche esteticamente. Era come se lo chiamasse, come se lo tentasse. Provami; usami, sono tua. Quanto gli sarebbe piaciuto provarla …
Dopo venti minuti buoni passati ad indugiare, decise di buttare al vento la cautela. Si alzò e si mise in posizione di fronte alla finestra. Tirò un paio di fendenti a un demone immaginario, poi deviò la lama orizzontalmente per tagliarlo definitivamente in due. Il movimento fu incredibilmente fluido e non gli costò alcuna fatica. Era come se la lama percepisse le sue intenzioni e si desse spontaneamente da fare per semplificargli ogni azione e mandare a segno ogni colpo.
Roteò su se stesso e abbassò di scatto la spada, in un movimento che avrebbe tranciato in due verticalmente un obbiettivo. Fu solo per caso che si fermò appena in tempo per evitare di colpire una fulva capigliatura, rossa come fuoco, di fronte a lui.
Non si mosse. La guardò. La meravigliosa donna lo fissò con i suoi magnetici e sconvolgenti occhi rossi, un’espressione divertita sul volto.
Ma quando diavolo era entrata???
Nom fece un balzo indietro, terrorizzato. E se si fosse offesa? Se non avesse dovuto utilizzare quell’arma? Se si fosse arrabbiata per ciò che aveva fatto? In quel momento si sentiva, contro qualsiasi logica, un bambino che aspetti il rimprovero e la punizione della madre.
Lei rise, un suono delicato e meraviglioso, che s’intonava perfettamente con tutto il resto. E il guerriero capì di doversi nuovamente dare un contegno. Si schiarì la gola e portò la spada al fianco. “Non … Non l’ho sentita entrare, mi perdoni” disse, sentendosi completamente e totalmente ridicolo.
“Non c’è alcun bisogno di sentirti in imbarazzo, Nom” rispose la dea che gli stava davanti, un sorriso meraviglioso che incurvava le labbra perfette. “Avrei dovuto bussare, ma volevo assicurarmi che il mio piccolo regalo di benvenuto fosse gradito.”
Il mercenario la fissò. “Quindi questa è per me?” chiese, incredulo e riconoscente. Sentiva la gola secca.
“Finché sarà tuo desiderio utilizzarla, ovviamente. Spero che vada bene. E ti prego di non mentirmi per una qualche sciocca creanza” disse lei, sedendosi sul letto. “Un’arma che in battaglia non ti salva la vita è più inutile della falce di un contadino in inverno” concluse, sempre con quel sorriso angelico.
Nom impiegò un po’ a ritrovare l’uso della parola di fronte a una tale bellezza. “Beh, ehm, ecco … Come dire …” imbarazzato, incespicò nelle parole.
Lei gli venne in soccorso: “Grazie?” fece, con un sorriso ironico e compassionevole che gli fece andare il sangue alla testa.
Lei dovette accorgersene, perché lo invitò a sedersi al suo fianco. Il guerriero avanzò incerto, poi si sedette. Averla tanto vicina, avere quel corpo perfetto a poche spanne da lui gli provocava una sensazione indefinibile. Qualcosa che, pur con tutte le donne che aveva avuto in tanti anni, non aveva mai sperimentato. Si sentiva come se potesse sciogliersi ad un suo comando. Se lei lo avesse richiesto, sentiva che sarebbe andato in capo al mondo.
Calmati, si disse. Era una donna bellissima, certo, ma questo non bastava a spiegare la sua sensazione. Di donne bellissime ne aveva viste e avute diverse, avventure fugaci e occasionali. Ma non aveva mai provato nulla del genere per un’altra donna. E nessuna era mai stata tanto bella. Era totalmente irrazionale oltretutto, che diavolo! L’aveva incontrata solo due volte, più un’altra nel quadro …
Il quadro …
“La donna nel quadro è lei?” La domanda gli uscì di getto, senza che potesse fare niente per bloccarla. Per l’ennesima volta si sentì estremamente stupido. Ma certo che era lei, chi altri avrebbe mai potuto essere? Chi altri avrebbe potuto essere tanto bello …?
“No. È la mia carissima prozia, morta da molto, molto tempo.”
Era rivolta verso la finestra, un’espressione affettuosa su quel volto perfetto. Alla luce era anche più bella, e Nom distolse immediatamente lo sguardo. Temeva di non riuscire a controllarsi, se l’avesse osservata più a lungo.
“Sono … Sono davvero spiacente” borbottò. L’ennesima banalità.
La sua risata lo convinse a rialzare lo sguardo. Le parole che pronunciò gli risuonarono nelle orecchie anche molto dopo che se ne fu andata.
“Sono contenta che tu abbia apprezzato il mio regalo, Nom. Ma dammi del tu. Il “lei” mi fa sentire più vecchia di quello che sono.”
E non dimenticò nemmeno il bacio che aveva accompagnato quelle parole.

 

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Capitolo 19
*** Speciale ***


L’aria era calda, satura dei fulmini che stava producendo.
Lenn tentò di ignorare lo sguardo penetrante e seducente della Carezza che lo osservava incenerire uno dopo l’altro le decine di fantocci di paglia che popolavano il campo di addestramento, situato all’esterno del palazzo in cui risiedevano ormai da due settimane.
Il campo era assolutamente desolato, una landa grigia estesa diversi metri oltre l’edificio gigantesco in cui risiedevano loro, la Carezza e le sue decine di servitori, tutti innaturalmente pallidi come lei, Lys e Syl, le due sorelle che sembravano unite da più di un semplice legame familiare.
Incenerì altri tre fantocci con un singolo gesto. Aveva recuperato tutta la sua abilità nel condurre elettricità a suo piacimento, ne era certo. I suoi amici sarebbero certamente stati contenti per lui.
Era stato Lenn stesso a prendere l’iniziativa e a domandare, durante uno dei pranzi a cui la Carezza li invitava regolarmente e che loro, per prudenza e cortesia, non mancavano mai di accettare, se lei potesse aiutarlo in qualche modo a recuperare l’abilità che sentiva di aver perduto dall’ultimo scontro.
La meravigliosa donna per un attimo era rimasta interdetta, poi aveva ridacchiato, facendogli venire la pelle d’oca per quel suono angelico.
“E cosa potrebbe mai insegnare una come me al Dio del Fulmine?” aveva domandato, il viso composto in un sorriso di grazia incomparabile.
Il giovane stregone aveva perso un battito al sentir nominare il suo vecchio titolo. Lui non aveva più avuto il coraggio anche solo di ripeterselo nella mente dal giorno dell’attacco al villaggio; non ne era più stato degno, dopo essere stato sconfitto in quel modo patetico e soprattutto per aver consentito che tutte quelle persone morissero.
“La prego, non merito quell’appellativo. Non lo usi mai più, per favore” aveva risposto, con un tono talmente lugubre da strappare un sospiro di compassione alla sua interlocutrice. L’espressione della quale era stata sostituita da una compassionevole e triste che la faceva sembrare più anziana. Lenn si odiò per averla resa infelice.
“Non era mia intenzione offenderti. Ti prego di perdonarmi” aveva detto, abbassando lo sguardo e riprendendo a mangiare.
Lo stregone si era sentito a disagio a lasciare che la conversazione terminasse in una maniera tanto deprimente, perciò, dopo pochi attimi in cui l’unico rumore era stato il tintinnare delle posate contro i piatti, aveva ripreso: “Quello che volevo chiederle, è se fosse disponibile un luogo dove potessi allenarmi. E’ parecchio che non faccio esercizio, non vorrei diventare ancora più debole.”
La donna aveva risollevato lo sguardo, e annuito: “Sì, un campo di addestramento c’è. Ovviamente, è a disposizione di voi tutti, ogniqualvolta vogliate, se ne avrete necessità.”
Erano passati due giorni, e Lenn sentiva di stare riprendendo sicurezza. Non sbagliava un colpo. Certo, fossero stati bersagli semoventi, forse non li avrebbe colpiti tutti, ma la potenza di ogni fulmine era tale che comunque anche chi fosse riuscito ad evitare un colpo diretto avrebbe subito le conseguenze di esservi stato troppo vicino.
Poi sentì un applauso provenire dalla direzione della Carezza. Ed effettivamente era lei che stava applaudendo.
“Davvero magistrale” disse, avanzando verso di lui. “Ho sempre ammirato chi riuscisse a fare uso di tuoni e fulmini, ma tu, ragazzo mio, sei un vero prodigio, un talento naturale.”
“La ringrazio molto, ma non sono nulla di speciale” disse Lenn, grattandosi la nuca, imbarazzato da tutti quei complimenti.
Lei sorrise. “E’ proprio qui che ti sbagli, mio giovane amico. Tu sei molto speciale, quasi unico oserei dire.”
“Ah davvero?” domando lo stregone, stupito. Non era nulla di speciale. C’erano sicuramente molti altri stregoni simili a lui nel mondo, non era certo tanto stupido da pensare di essere l’unico.
Stregoni che riescono a proteggere le persone a cui vogliono bene sussurrò la stessa maligna voce nella sua testa che lo tormentava ogni notte col pensiero di tutte le persone che aveva deluso.
“Davvero” rispose la Carezza, ormai a pochi passi da lui.
Lenn sobbalzò. Non si era accorto che fosse avanzata tanto, né che gli fosse arrivata tanto vicino.
“No, si fidi. Io non sono assolutamente nulla di speciale” ripeté, lievemente agitato, con un tono che voleva troncare ogni discussione.
D’improvviso, ebbe l’impressione che il sorriso della donna pallida dai capelli e dagli occhi di fuoco si fosse modificato. In qualche modo gli appariva … differente, dai sorrisi che finora gli aveva rivolto. Anche se non aveva perso la capacità di mandarlo in estasi, sembrava quasi … provocante, tentatore.
La Carezza avanzò ancora, fino ad arrivargli al fianco. Lui non si mosse. Sentiva, intuiva, percepiva che qualcosa in lei era cambiato e che sarebbe stata una mossa poco saggia scansarsi.
Lei portò le labbra perfette al suo orecchio, e sussurrò: “Se continui a reputarti tanto normale” e la parola fu pronunciata con un disprezzo che lo stregone non aveva ritenuto appartenerle, sebbene continuasse a suonare dolce come miele, “non sorprenderti se non sarai in grado di proteggere chicchessia da qualsivoglia pericolo.”
Lenn rimase di sasso. Come poteva quella donna sapere cosa agitava la sua anima e cosa lo turbava? Gliel’avevano detto gli altri? Il giovane si rifiutò di credere ad un’eventualità simile.
Lei continuò, incurante della reazione che aveva scatenato, la voce un sussurro persuasivo come lo stregone non ne aveva mai sentiti: “Chi è normale, chi è debole non ha alcuna possibilità di proteggere nessuno. Ma chi è speciale non ha solo la possibilità di salvare vite, Lenn. Chi è speciale come tu lo sei ha la possibilità di cambiare il mondo. Per farlo, però, ha bisogno di forza. Se però rifiuti la particolarità, l’eccezione che rappresenti in questo mondo, allora non aspettarti che il potere di cui hai bisogno ti piova dal cielo. Io posso aiutarti su questa strada, mio giovane stregone” aveva concluso allontanandosi, “ma non ne sarò in grado se prima non accetterai te stesso e ciò che questa accettazione comporta.”
Lenn rimase fermo nel campo, a riflettere su quelle parole, la cenere della paglia fulminata che si depositava lentamente al suolo.
 

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Capitolo 20
*** Famiglia ***


L’acqua era veramente calda. Aveva avuto una buona idea ad andare a fare un bagno. Anche se non si sarebbe mai aspettato che ci fossero addirittura sorgenti d’acqua calda.
Lifaen era sempre più convinto che la loro ospite non fosse in nessuna maniera definibile normale. Quello di cui era sicuro era che la sua famiglia era molto ricca, e che lei non aveva certo scialacquato il patrimonio. Doveva essere stata sicuramente una accorta amministratrice, e questo lo riempiva di ammirazione, che si andava a mescolare con quella sensazione di attrazione e di inesplicabile, istintiva diffidenza che percepiva nei confronti della donna.
Non che lei facesse nulla per renderlo diffidente, ma sentiva che quella donna non era normale, non era comune e che, soprattutto, era imprevedibile. Lifaen faceva soltanto abbastanza attenzione a come si comportava e a quello che diceva, per essere sicuro di non offendere in alcun modo una persona che sapeva discendere da una famiglia estremamente potente e nota. Anche se, a quanto risultava a lui, l’Angelo delle Tenebre , che era il nome che lei gli aveva sussurrato di utilizzare se avesse trovato noioso usare l’altro, più lungo appellativo di Carezza dell’Oscurità, e che gli aveva risvegliato nella memoria ricordi di ormai vecchie lezioni di storia, era il nome di un individuo, deceduto più di quattrocento anni prima, appartenente ad un’antica famiglia umana di cognome Athanatos, nota soprattutto per la bellezza dei suoi appartenenti.
L’eladrin aveva deciso di documentarsi meglio, e dopo aver richiesto ed ottenuto di accedere alla biblioteca personale dell’Angelo, che dubitava sarebbe mai riuscito ad ispezionare completamente nei trecentoquaranta anni che gli rimanevano, e dopo aver consultato decine e decine di volumi di storia, era riuscito ad ottenere qualche informazione; la famiglia Athanatos, fondata secondo la leggenda da una donna, era effettivamente antica quanto ricordava, così come i racconti sulla bellezza frastornante di chi ne faceva parte per discendenza diretta, ma il problema sorgeva proprio sull’ultimo membro di cui si avevano notizie: l’Angelo delle Tenebre, Albert Athanatos, morto in qualità di condottiero nell’ultima battaglia della grande Guerra del Giorno Nero, così battezzata in quanto cominciata e ultimata nei diversi mesi in cui un’eclissi aveva oscurato il sole e annullato visivamente il susseguirsi delle giornate, facendo sì che sembrassero un unico, lunghissimo giorno.
Lifaen non aveva trovato null’altro riguardante quella famiglia; nessun membro sopravvissuto, nessun figlio nato dal condottiero che potesse riportarlo alla sua ospite, e, temeva, ora sua padrona. Sentiva, in qualche modo, che dal momento in cui erano entrati nel suo palazzo la donna li riguardasse come sua esclusiva proprietà, sebbene nessuna delle sue parole o dei suoi atteggiamenti lasciasse trapelare anche solo un indizio in quella direzione. Quelli di Lifaen erano semplici sospetti, intuizioni che sospettava potessero essere errate; in fondo non era infallibile, non lo era mai stato.
Perso in riflessioni di questo genere, dovette tornare bruscamente alla realtà notando che la donna a cui erano rivolti i suoi pensieri in quel momento era entrata in acqua, nella stessa fonte in cui si stava bagnando lui. Nuda.
Tentò di non pensarci troppo mentre abbozzava un saluto quantomeno cortese. Era assurdo quanto l’Angelo fosse meravigliosa, sebbene non si sarebbe mai aspettato che lei si facesse vedere in una situazione del genere.
“Mi dispiace … Non vi ho sentita entrare” disse, tentando contemporaneamente di mantenere un atteggiamento rispettabile.
La donna ridacchiò. “Tutti voi ragazzi vi scusate sempre, anche quando non avete colpa alcuna.”
“E’ una reazione naturale, quando una bella donna come voi si presta a situazioni del genere” rispose Lifaen, con tutta la calma e la gentilezza che lo contraddistinguevano.
Lei lo osservò per un po’, e Lifaen dovette fare uno sforzo enorme per mantenere gli occhi fissi nei suoi. Se avesse sviato lo sguardo sarebbe stato sinonimo di debolezza. Inoltre non c’erano altri luoghi abbastanza pudichi su cui fissarli.
Riuscì a sostenere l’esame, o almeno così arguì dalla risata che sgorgò da quelle labbra perfette. La donna riprese: “Sapevo che tu non eri facile da affascinare come altri. D’altronde, sei una creatura fatata. Sei abituato a bellezze sovrannaturali; è anche per questo che ti ho rivelato il secondo nome che preferisco.”
“Come mai usate quel nome? Insomma, il titolo di un condottiero mal si adatta ad una bella donna quale voi siete” controbatté Lifaen, desideroso di capirci di più.
“Perché è un nome che mi piace. Altisonante, armonico e soprattutto era il nome del mio caro nipotino.”
Nipotino??????
L’eladrin rimase sbigottito, e non fece nulla mentre lei gli scivolava accanto. Nemmeno la vicinanza di quel corpo perfetto riuscì a distrarlo.
“S-Suo nipote?” domandò, pensando che sarebbe scoppiata a ridere confessandogli lo scherzo.
La confessione non arrivò.
“Oh sì. Albert credeva in un mondo migliore, ma rimase deluso, povero caro” disse la donna, bagnandosi il corpo. “Ma non sono qui per parlare della mia famiglia, Lifaen Goldensword, o, come sei chiamato nel tuo piano di esistenza, Mekhlaurë” continuò, facendolo sobbalzare, “bensì per parlare della tua.”
“Della mia?” Questo sorprese anche più l’eladrin. Passasse che conoscesse il cognome che utilizzava nel mondo mortale. Ma possibile che conoscesse davvero anche il suo cognome originario?
“Vedi, per una serie di motivi ho avuto alcuni screzi con un certo ramo della tua famiglia. Ciò ovviamente non significa che io voglia farti del male” si affrettò a precisare la donna “né che la tua famiglia mi sia necessariamente nemica. Anzi, a pensarci bene, la tua famiglia è più nemica tua che mia. Ma io, tu e i tuoi parenti abbiamo un nemico comune nei demoni.”
“Eh?” fece Lifaen, capendoci sempre meno.
La donna rise alla sua confusione. “Perdonami, non sono stata molto chiara. Ciò che voglio dire è che tu sei dovuto fuggire da casa tua e da tutto ciò che ami” e sottolineò pesantemente l’ultimo verbo “a causa della stessa piaga che minaccia anche queste terre.”
“I … I demoni sarebbero la causa del mio esilio?” disse Lifaen incredulo. Impossibile. La causa del suo esilio era stata la sua incapacità nel difendere i confini dalle scorrerie dei ciclopi, che erano culminate nella morte di suo padre, ed era più che meritata.
“Precisamente. Ma ormai il tempo a mia disposizione è terminato” disse, uscendo dall’acqua (Lifaen distolse opportunamente gli occhi) e avvolgendosi in un lenzuolo. “Ho questioni che richiedono la mia presenza. Volevo soltanto che sapessi che c’è molto della tua storia di cui sei all’oscuro. L’unico vantaggio in tutta quest’ignoranza” concluse, con un sorriso meraviglioso che lasciò basito l’elfo alto, “è che probabilmente ti ha salvato la vita.”
I suoi passi risuonarono ancora a lungo nel corridoio di pietra, mentre Lifaen rifletteva su ciò di cui era venuto a conoscenza.


Ne approfitto anche per fare gli auguri di Buon Natale a tutti! Buone feste! -Lifaen-

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Capitolo 21
*** Punizione ***


Mildred sbuffò.  Era frustrante ritrovarsi quella donna davanti a tu per tu. L’unica cosa vagamente cambiata era il suo stato d’animo e il vestito della signora. Il primo era meno malinconico e molto più frustrato; il secondo era viola, di seta, e, come sempre, sembrava essere stato confezionato apposta per concentrare l’attenzione sull’indossatrice.
Non lo sopportava. Quella donna era bella, troppo bella; e la cosa, oltre a peggiorare il suo umore e ad affossare ancora di più la sua autostima, era accompagnata dalla sgradevolissima sensazione che sapesse sempre tutto quello che le passava per la testa. Ma non era mai stata scortese in alcun modo con lei, e sarebbe stato meglio per lei che continuasse su quella strada. Altrimenti, Mildred non era sicura di riuscire a trattenersi abbastanza da non piantarle nella schiena l’ascia che teneva fra le mani.
Gliel’aveva appena consegnata, dopo aver dato, le aveva detto, un pugnale a Lenn e un arco nuovo a Keyleth. Mildred non aveva mai fatto troppo caso alle decorazioni di un arma; bastava che fosse affilata e tagliasse in profondità. Però, in questo caso, non poté trattenersi dall’ammirare i volti demoniaci che ornavano l’elsa dell’ascia bipenne, le cui lame erano affilate come le parole che a volte la Carezza era in grado di sfoderare. I volti sembravano veramente sofferenti.
Tornò a concentrarsi sul volto della donna, dalla perfezione talmente devastante da darle quasi il voltastomaco. La stava fissando, ma non intimorita, sebbene la superasse di quasi mezzo metro; non era neppure preoccupata, lo si capiva benissimo; no, sembrava solo divertita dal suo silenzio … e oltre al divertimento, a Mildred parve di scorgere anche un barlume di superiorità, in quei demoniaci occhi rossi come il sangue.
“Non ti chiederò di ringraziarmi, se è questo che ti stai chiedendo, mia giovane e dolce amica” commentò la signora.
Mildred si limitò a dare un’occhiata in giro. Il campo di addestramento era cinereo e desolato come al solito; nulla che desse l’impressione che chicchessia potesse ascoltare una sola parola. Per cui tornò a porre gli occhi su quella devastante perfezione che era la donna che le stava davanti.
“D’altronde” continuò, “non sono nemmeno troppo sicura che tu l’abbia mai davvero voluto.”
Questo lo trovò veramente ingiusto. Aveva presente il suo carattere: era irruenta, impulsiva, spesso non rifletteva sulle proprie azioni. Anzi, spesso non ne sentiva proprio il bisogno. Sopportava poco le fate, anche se Keyleth riusciva a tollerarla perché era sempre stata molto comprensiva; era anche burbera, e non si sentiva in grado di attrarre un qualsiasi uomo. Ma non credeva proprio di essere un’ingrata. Le venne quasi voglia di risponderle per le rime, ma quella continuò prima che ne avesse tempo.
“In fondo non dovrebbe stupirmi. Sei molto più abituata a fare affidamento unicamente su te stessa, erro?” fece.
Mildred si limitò a lanciarle uno sguardo carico di minacciosi sottintesi. Non sopportava che si infiltrasse in quel modo fra i suoi pensieri. Ma la Carezza (Che nome ridicolo! pensò per l’ennesima volta) non sembrò curarsi neanche di quello.
“Sai, dovresti essere lievemente più grata ai tuoi amici. Soprattutto, credo tu stia maltrattando un po’ troppo il povero Lifaen” disse, sempre con quel sorriso mellifluo e intrigante che le sembrava incollato sulla faccia.
Mildred non ci vide più. Passasse pure che le desse dell’ingrata. Ma non avrebbe mai permesso, né a lei né a nessun altro, di stabilire cosa dovesse o non dovesse fare. Il fatto che poi la donna stesse difendendo quella mezza tacca di Lifaen, quel buono a nulla di Lifaen, quell’idiota la fece infuriare solamente di più.
E rieccole. Le voci degli antenati, la musica che l’accompagnava sempre, ma che si faceva sentire solo quando ne aveva veramente bisogno. Un coro fra i più meravigliosi che avesse mai sentito, decine e decine di voci che la incitavano senza sosta, suggerendole i modi più rapidi e brutali per porre un freno a quel torrente in piena di fango sul suo onore.
Strinse la presa sulla bipenne, e, con un unico movimento fluido, mirò alla cosa tonda, bianca e rossa senza la quale sapeva che quel fiume si sarebbe immediatamente prosciugato.
La bipenne non raggiunse il bersaglio.
Mildred guardò, poi realizzò. Subito dopo guardò meglio, perché quello che vedeva era veramente al di fuori dell’umano.
Non può essere vero, si disse. Non può assolutamente essere vero, mentre la tetra consapevolezza della propria stupidità le appariva davanti in tutta la sua magnificenza.
La lama della bipenne era bloccata. Da un lungo, affusolato e graziosissimo dito bianco.
Il polpastrello non sembrava assolutamente danneggiato. Il bianco braccio a cui quel dito apparteneva non era minimamente in tensione, e il volto perfetto che era a capo di tutta quella tremenda scena la stava fissando con ardenti occhi di brace, la superiorità che prendeva lentamente il posto dell’affabilità di poco prima.
Lasciò cadere l’arma, rimanendo a fissare quello sguardo tremendo. E ad aspettare la punizione.
Dopo alcuni momenti, la Carezza si girò, e si incamminò verso il castello dandole le spalle.
Mildred rimase sbalordita. Le servì un po’ per recuperare l’uso della parola, ma alla fine la frase che pronunciò le sembrò talmente stupida che, si disse, avrebbe fatto meglio a stare zitta.
“Non mi punirà?”
Una graziosa risata, e il volto della Carezza fu nuovamente davanti al suo. Le rimise in mano la bipenne con un’espressione amichevole.
“Perché?” chiese. “Forse questa punizione non ti è sembrata sufficiente?”
Mildred non poté fare altro che seguire, a falcate misurate, il suo passo aggraziato che la riconduceva all’interno del castello. Sembrava una scolaretta che avesse preso un brutto voto in una materia in cui non aveva mai avuto problemi. Fino ad allora.

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Capitolo 22
*** Massacro ***


Fu la prima a vederlo, cosa non sorprendente dati i suoi sensi.
Aveva sempre pensato che la sua vista estremamente accurata fosse un enorme vantaggio, e spesso aveva trovato conferma di questa opinione. Riusciva a vedere sempre prima di tutti gli altri ogni ostacolo, e ad evitarlo. Riusciva persino ad accorgersi se venivano pedinati, o se si stessero dirigendo in un agguato. Ma in quel momento Keyleth odiò la propria vista elfica, e provò un disgusto altrettanto bruciante e rovente per ciò che era successo in quel luogo. E per le creature che l’avevano causato.
La città era simile a Darknest, forse appena più grande; diverse casupole, ormai diroccate a causa del recente assalto, si erano erte in momenti più lieti a pochi metri dalle mura; delle vere e proprie baraccopoli. Ma la cosa più terrificante non era la rovina in cui versavano quelle misere abitazioni, come nemmeno i cadaveri disseminati per vie e viuzze. Non l’atterrivano nemmeno le case nobiliari, distrutte dal passaggio di qualcosa d’immenso che le ricordò troppo vividamente il demone contro cui aveva combattuto l’ultima volta insieme ai suoi amici. No, la cosa peggiore di tutte era quella che aveva indotto Lifaen e Lenn ad un sospiro scioccato, e che troneggiava al centro della città, sulla sommità della torre dell’orologio che si ergeva al centro della piazza.
Cadaveri. Decine e decine di cadaveri impilati, impalati sugli spuntoni della torre, un lago di sangue che continuava a colare dal tetto, dalle lancette, dalle finestre della torre; il sole del mezzogiorno rendeva talmente vivida quella scena che Keyleth rimase per un momento basita. E se quello non fosse stato sangue, ma polvere di rubino? O magari il risultato della fusione di decine e decine di pietre preziose?
Si avvicinò. Chissà, forse, se avesse lasciato che una goccia di quello strano liquido la toccasse, si sarebbe svegliata, scoprendo che era tutto un brutto sogno; un brutto, orrendo, disgustoso, inquietante sogno.
Sentì anche il sospiro scioccato di Nom, e si costrinse a sollevare lo sguardo. Sulla sommità del pinnacolo c’era la cosa più orrenda, macabra e disgustosa che avesse mai visto. Si chiese come fosse possibile tanta crudeltà.
Il cadavere che si trovava più in alto di tutti era di una donna, giovane e bella, impalata direttamente al ventre, un braccio che ricadeva piegato innaturalmente da un lato, i capelli ramati che scendevano fino a lambire una testa sottostante. E sopra il cadavere della donna c’era quello di un bambino. Un neonato, ancora legato alla madre dal cordone ombelicale.
Distolse ancora una volta lo sguardo, dando un’occhiata in giro. Cadaveri. Decine e decine di cadaveri sparsi tutto attorno. Donne, uomini, vecchi, bambini. Non sembrava mai nemmeno essere stata una città viva. Tutto quello che c’era ora era morte.
Senti una mano posarsi sulla sua spalla. Era Lifaen. Ed aveva un’espressione estremamente addolorata.
“Mi dispiace. Mi dispiace veramente tanto.” E Keyleth comprese che quelle parole erano rivolte a tutti i loro compagni. L’elfa non aveva mancato di notare l’espressione scioccata di Lenn; povero ragazzo, doveva ancora superare lo shock del massacro del villaggio. Persino Mildred sembrava basita, e proprio dalle sue labbra la sacerdotessa sentì uscire le parole che tutti stavano pensando.
“Com’è possibile? Com’è possibile tanta crudeltà insensata?” Era strano. Non aveva mai sentito quell’inflessione pietosa da parte della barbara.
Ancora meno Keyleth si aspettava la risposta addolorata, ma non per questo meno dura, che Lifaen diede alla risposta.
“Non è affatto insensata” asserì infatti il condottiero, l’espressione concentrata e inorridita.
“Che intendi dire?” chiese Lenn. Erano le prime parole che pronunciava. Ed erano rotte dal dolore. Keyleth non era sicura di voler sentire la risposta, ma Lifaen andò avanti con la sua spiegazione.
“Intendo dire che non è insensata” ripeté l’elfo alto. “Non lo è assolutamente. Tutto questo, tutto questo orrore” continuò, indicando con un gesto la desolazione circostante “fa parte di un rituale. E non è affatto qualcosa di buono.”
Un rituale. Ovviamente. Keyleth si chiese come avesse fatto a non accorgersene prima. I cadaveri sul terreno erano disposti esattamente a cerchio intorno alla torre dell’orologio, e concentrandosi l’elfa riuscì persino a percepire del potere magico provenire dall’interno della torre. Ma non fu quello a preoccuparla. Fu piuttosto il fatto che la fonte del potere si stava muovendo, dalla sommità della costruzione verso la base.
Lei, Lifaen e Lenn si irrigidirono immediatamente. Nom e Mildred in risposta alla loro tensione sguainarono le armi. E la presenza si avvicinava, sempre di più. Keyleth puntò gli occhi sulla porta alla base della torre. Sarebbe uscito da lì, qualsiasi cosa ci fosse là dentro.
“Non potremmo tentare di interrompere il rituale, Lifaen? Non c’è niente che possiamo fare?” chiese il guerriero, un fascio di nervi.
“Purtroppo no, Nom” rispose il condottiero. “È stato completato prima che arrivassimo qui, quelli che percepiamo ora sono soltanto gli ultimi strascichi. Qualunque cosa abbia fatto questo, ormai ha raggiunto il suo obbiettivo e-”.
L’eladrin fu interrotto dal rumore e dalla vista della porta che si stava aprendo cigolando. Keyleth si limitò a pregare gli dei di avere la forza di punire chi avesse commesso quell’orrore, mentre una figura avvolta completamente in un mantello candido come la neve avanzava lentamente verso di loro.

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Capitolo 23
*** Manto bianco, lingua di miele ***


“E così … Siete sopravvissuti.”
Lifaen sobbalzò, a sentire la voce. Era profonda, con un timbro abbastanza basso, decisamente virile. Molte persone che aveva sentito parlare avevano quel tipo di voce. Ma non era questo a stupirlo.
La voce che usciva da quel manto bianco che si era fermato ad alcuni metri di distanza da loro aveva un qualcosa di particolare, che l’eladrin non aveva sentito che poche volte in vita sua. E quelle poche volte era sempre stato alla presenza dell’Angelo delle Tenebre.
Anche Keyleth l’aveva notato.  Sebbene fosse chiaro che il beneficiario dell’orrore che li circondava era l’incappucciato, per un attimo si sentì assolutamente affascinata. Le parole danzavano sulla punta di quella lingua che sembrava sapere esattamente cosa dire e quando dirlo.
Ecco uno che sa dosare le parole … E sfruttarle pensò, ammaliata. Era sicura che quell’essere fosse uno dalla risposta sempre pronta.
Per fortuna fu un attimo soltanto.
Fu soprattutto grazie a Mildred che l’elfa riuscì a riscuotersi da quella sorta di ipnosi, ringraziando e benedicendo mentalmente la propria selvaggia compagna, e che Lifaen riuscì a schiodare le proprie orbite cerulee dal mantello bianco.
“Come fai a sapere di noi?” chiese la barbara con un tono che indicava quanto a fatica si stesse trattenendo dal caricare lo strano individuo dal candido vestiario. Le stava già antipatico, quel tizio. Odiava la sensazione di attrazione che esercitava su di lei, anche se le voci degli antenati la tenevano a bada. Quel miscuglio di emozioni era troppo simile a quello che provocava quell’altra donna. In più, il fatto che probabilmente fosse lui il responsabile del massacro che vedeva attorno a sé non contribuiva a renderglielo affabile.
Dal canto suo, l’incappucciato rise, una risata beffarda e viscida. Nom sentì di mal sopportare quel genere di suono, dopo essersi abituato ad ascoltare per giorni interi le dolci risate della Carezza, e strinse di più la presa sull’elsa della spada, pronto a scattare al minimo segnale che quel tizio avesse voluto attaccare. Se la sarebbe dovuta vedere con lui, se avesse provato ad alzare un solo dito sui suoi amici.
“Oh, so tante cose … Più o meno quante non ne sapete voi, miei stolidi signori” rise l’umanoide. “Che fortunata coincidenza trovarvi qui … Anche se, parlando di lei, è un po’ inappropriato usare il termine coincidenza.”
Lenn si sentì fremere di rabbia. Avrebbe solo voluto fulminare su due piedi quel mostro che, mentre discuteva con loro, terminava di assorbire le anime di quei poveri innocenti massacrati. Ma si impose la calma. Lifaen non aveva ancora fatto una mossa, così come nessuno degli altri, e quindi decise di limitarsi a preparare un paio di scariche di avvertimento.
“Oh, guarda un po’ il ragazzino come si scalda” fece l’incappucciato. “Tenetelo a bada, o rischia di farsi male.”
Lifaen gettò uno sguardo allo stregone, che tentò di darsi un contegno e riassumere compostezza. Ma era difficile, mentre quel tizio li fissava così, senza fare nulla. E gli occhi del condottiero tornarono a fissarsi sul loro avversario.
“Chi sei tu?” domandò, e per la prima volta l’intero gruppo sobbalzò, nel percepire che non c’era alcuna traccia di rispetto o gentilezza, nelle parole dell’eladrin. Anche il figuro incappucciato sembrò accorgersene, perché cambiò atteggiamento. Ora era apertamente derisorio.
“Ma che modi sono, Lifaen Mekhlaurë? Tuo padre sarebbe veramente deluso, se ti sentisse utilizzare tale volgare lessico” rispose.
Keyleth guardò il compagno con la coda dell’occhio e rimase di sasso: Lifaen aveva un’espressione che non gli aveva mai visto sul volto. Era stupita, commossa, ferita. Ma quello che davvero la lasciava sbigottita era la rabbia che leggeva sotto quel caleidoscopio di emozioni. Rabbia perché quel tizio osava nominare suo padre, di cui il condottiero parlava pochissimo. Rabbia perché aveva utilizzato quello che la sacerdotessa supponeva essere il suo cognome. Rabbia perché stava risvegliando ricordi apparentemente dolorosi. E tanta, tantissima rabbia verso sé stesso … Ma le motivazioni, quali che fossero, le erano sconosciute, e per il momento le accantonò.
Intanto l’incappucciato aveva ricominciato a parlare, questa volta a Lenn.
“E guardate il nostro giovane amico. Così esuberante, così pieno di vita, così arrogante da pensare di riuscire a proteggere qualcuno, debole com’è.”
Lenn si sentì trafiggere da quelle parole come da dei pugnali. Sentì un’espressione ferita dipingersi sul proprio viso, nonostante facesse di tutto per mantenere la calma. Eccone un altro che sapeva tutto sulle sue paure segrete! Ma se poteva accettarlo da parte della Carezza, per quel suo lato materno che lo faceva sentire protetto e al sicuro, l’intenzione con cui l’incappucciato aveva pronunciato quelle parole era meramente quella di fargli del male. Sentì montare dentro di sé una rabbia enorme, mai provata prima, e scariche elettriche cominciare a correre attraverso il suo corpo, lottando per uscire.
Nel frattempo, il mantello bianco si era rivolto a Mildred.
“Ed ecco la nostra testa calda, una barbara che alla soglia dei suoi 25 anni non ha altro scopo nella vita se non fare a pezzi e distruggere. Sai”, continuò “se non fossi così tremendamente complessata, probabilmente saresti un demone perfe-“.
Non poté terminare la frase che Mildred e Nom gli si avventarono addosso. Ma la cosa sconcertante fu che Keyleth e Lenn videro Lifaen gettarsi in mezzo alla mischia con un urlo furibondo, al fianco dei due combattenti. Lo stregone rimase come folgorato. L’eladrin, sempre così composto e aggraziato … che caricava un nemico al fianco della donna selvaggia. Avrebbe riso, se non fosse stato per la situazione in cui si trovavano.
Se avesse avuto un sorriso, si sarebbe detto più tardi, gli sarebbe morto sulle labbra.
Non appena Lifaen, Nom e Mildred giunsero in portata dell’incappucciato, dal mantello di quest’ultimo si sprigionò una strana nube viola, che coprì tutto il campo visivo dello stregone e della sacerdotessa. Una strana risata incorporea aleggiò nell’aria, mentre si coprivano naso e bocca, per evitare di inalare quello strano gas che, Keyleth aveva riconosciuto, era veleno.
“Lifaen! Mildred! Nom!” gridò lo stregone, fendendo la nebbia viola con i propri fulmini. Il gridò gli si fermò in gola, quando riuscì a vedere i propri compagni stesi a terra e privi di sensi.
Mentre Keyleth correva a sincerarsi delle condizioni dei loro amici, Lenn sentì le propria ginocchia entrare in contatto col suolo. Poggiò le mani a terra, e levò al cielo un grido di tristezza, disperazione ed angoscia.
Le lancette della torre dell’orologio batterono la mezza. Ma a lui sembrava fosse passato molto più tempo.
 

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Capitolo 24
*** Indifferenza ***


“Tutto qui?”.
Queste parole gelarono il sangue nelle vene di Lenn, non tanto nella loro natura in sé per sé, ma per il tono di totale noncuranza con cui erano state proferite.
Lui e Keyleth, gli unici del gruppo a potersi muovere sulle proprie gambe, erano stati convocati dalla Carezza per fare rapporto su ciò che era accaduto a Fallensun. Mildred, Nom e Lifaen, per quanto liberati dagli effetti debilitanti del veleno demoniaco, che persino Keyleth aveva avuto difficoltà ad eliminare con le proprie conoscenze, grazie alle cure dei medici della loro padrona stupenda e piena di risorse, non erano ancora in grado di muoversi a proprio piacimento, anche se andavano migliorando a ritmo rapido e costante.
Lui e l’elfa si erano presentati al cospetto della Carezza e le avevano riferito ogni singolo, macabro dettaglio di quella giornata disastrosa. O meglio, Lenn gliel’aveva riferito: per quanto gli facesse orrore rievocare quei ricordi, Keyleth gli aveva chiesto quel piccolo sacrificio, in quanto preferiva avere tempo e modo di studiare le reazioni della Carezza.
Vana speranza, amica mia si era detto lo stregone, ma aveva comunque raccontato ogni aspetto che ricordasse alla donna, che indossava uno sconvolgente abito blu notte, come sempre molto provocante, e, seduta sul suo trono a forma di fenice, sembrava veramente una dea. Si era soffermato soprattutto sulla descrizione, assai colorita e fatta in tono indignato, dello strazio a cui erano stati sottoposti i cadaveri degli abitanti di Fallensun; ma non aveva notato mutamenti nel volto dalla bellezza sconvolgente che lo stava fissando con occhi di brace. Aveva terminato il resoconto con una descrizione del catastrofico assalto al mantello bianco, tentando di indovinare se significasse per lei qualcosa il fatto che era come svanito in quella nuvola di miasma che aveva lasciato agonizzanti i suoi amici.
Non aveva avuto successo alcuno. Poi la Carezza, con deliberata lentezza e un tono di voce talmente neutro da rasentare la noia, aveva pronunciato quelle due sole parole.
Come sarebbe a dire “Tutto qui?”? pensò indignato il giovane, lanciando un’occhiata a Keyleth. L’elfa sembrava sorpresa esattamente quanto lui; evidentemente nemmeno lei si aspettava tanta indifferenza ad una descrizione simile a quella che aveva fatto Lenn da parte della Carezza.
La chierica tentò di dire qualcosa ma non riuscì a ribattere nulla alla donna, che aveva preso a tamburellare le lunghe dita bianche su un bracciolo del suo trono, mentre l’altro era impegnato a sostenere il braccio, la cui mano sosteneva la testa di fulvi capelli rossi che si era inclinata come a guardarli meglio.
Lenn si chiese come fosse possibile che Keyleth, così saggia e sempre abile ad argomentare, non riuscisse a spiccicare nulla proprio in quell’occasione. Sollevò gli occhi fino ad incontrare quelli della Carezza; e comprese perché l’elfa avesse così improvvisamente perso la favella.
Gli occhi che stava osservando erano sconvolgenti come loro solito: rossi come il fuoco e magnetici, un vortice a cui era impossibile sfuggire. Ma c’era qualcos’altro; o meglio, mancava qualcos’altro, e Lenn ci mise solo una frazione di secondo a capire cosa fosse, rimanendo sbalordito e deluso dalla risposta che trovò.
L’interessamento.
Lo stregone si sentì improvvisamente vuoto. La Carezza, ormai l’aveva capito anche lui, non aveva alcun interesse per quei poveri innocenti massacrati a Fallensun.
Si diede dello stupido. Cosa si era aspettato? Che quella sconosciuta, perché era una sconosciuta, scendesse dal suo piedistallo e li abbracciasse e li consolasse? Che dicesse che avrebbe vendicato quelle morti orribili, che avrebbe punito il colpevole? Perché mai aveva sentito che fosse suo dovere dare loro conforto e speranza? Non so nemmeno se sia veramente umana, dannazione!
Eppure non poté fare a meno di accorgersi che aveva comunque sperato in una risoluzione del genere. Contemporaneamente, sentì che anche Keyleth era giunta alle sue stesse conclusioni.
Lenn si sentiva privo di qualsiasi appoggio o certezza. Alla loro padrona non importava nulla della vita umana.
Poi udì un sospiro. Era della Carezza.
“Non ho intenzione di nasconderlo”, disse la donna, e lo stregone sentì che la delusione cominciava a pesargli come un macigno nel petto. Eppure non poté fare a meno di pendere dalle sue labbra. “Questa svolta è stata veramente deludente, ragazzi miei. Avreste potuto fare ben di più e ottenere molte più informazioni, come che genere di rituale si fosse compiuto, o una descrizione più dettagliata di un avversario evidentemente oltre la vostra portata; ma tutto quello che vi è rimasto sono infantili insulti di uno sconosciuto e ancor più infantili reazioni. Non è tollerabile.”
Keyleth tentò di ribattere, ma lei la zittì con un gesto della mano.
“Questo genere di errori posso aspettarmelo da dei novellini, o da degli idioti” continuò la Carezza, e la sua voce era carica di indifferenza, “e non mi sembra che voi siate né l’una né l’altra cosa. Perciò ho preso una risoluzione.”
Si alzò dal trono, statuaria in tutta la sua sconvolgente bellezza. Lenn fu quasi tentato di distogliere lo sguardo; gli sembrava di profanare qualcosa di sacro.
Lei scese lentamente e con grazia indescrivibile i gradini che la separavano da loro e si fermò a pochi metri di distanza.
“Vi separerete.”
A Keyleth quasi non parve vero di sentire quelle parole. Doveva stare scherzando. Ma per qualche motivo aveva il timore che fosse terribilmente seria, a dispetto del sorriso giocoso che le aleggiava sulle labbra perfette.
“Sì, hai capito bene sacerdotessa” fece la donna meravigliosa. “Vi separerete. Avevo in mente che accadesse più tardi, ma vedo che avete assolutamente necessità di passare del tempo distanti gli uni dagli altri.”
“Ma … Come?” balbettò Lenn. “Se non riusciamo a sconfiggere una sola persona in cin-”.
“È esattamente per questo che dovete allontanarvi. Siete troppo abituati a stare in gruppo, e troppo poco a pensare con le vostre teste. Rispondete a questo” continuò prima che potessero interromperla, “se vi foste soffermati un attimo a riflettere su cosa vi trovavate davanti invece che sentirvi sicuri della forza dei numeri e rispondere con una carica su un nemico di cui non sapevate nulla, avreste potuto ottenere qualche informazione ben più utile del fatto che il vostro avversario utilizzi del veleno demoniaco, no?”.
Lenn e Keyleth rimasero in silenzio. Aveva ragione, naturalmente.
“Per l’appunto” disse la Carezza. “Perciò, non appena vi sarete rimessi tutti in sesto, vi separerete. Un periodo gli uni lontano dagli altri vi farà bene. Potete andare. Oh, e non preoccupatevi” disse, mentre li superava lasciandoli immobili dove si trovavano e si avviava verso il portone. “Lo dirò io personalmente ai vostri compagni, non dovrete farlo voi.”
 

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Capitolo 25
*** Destinazioni ***


Lo stavano osservando tutti. Ovvio, era stato lui a chiamarli lì.
Lifaen fece un sospiro, guardandosi attorno. Era seduto ad uno dei tavoli che costellavano la biblioteca di villa Athanatos (o almeno lui intimamente l’aveva ribattezzata così, dato che non ne era sicuro e che la padrona non aveva espresso nulla al riguardo): ci era entrato da quando i debilitanti effetti del veleno demoniaco dell’uomo dal mantello bianco erano scomparsi, e ci era rimasto per quattro giorni. Sapeva bene che i suoi amici si stavano tutti riprendendo, dalla batosta e dalla notizia della separazione forzata che la Carezza aveva imposto loro. Ognuno faceva qualcosa che gli infondesse forza e coraggio: Keyleth recitava i suoi versi sacri, Lenn si esercitava con i suoi fulmini e sembrava stare raggiungendo vette di abilità veramente sconcertanti, Mildred e Nom si allenavano costantemente, per non permettere che una situazione come quella di Fallensun si ripresentasse mai più. Lifaen leggeva.
Fin da bambino, aveva sempre amato la lettura, anche se mai gli era sembrato vitale come in quei quattro giorni apprendere qualcosa di nuovo. La biblioteca personale della Carezza, come aveva sospettato, era praticamente sterminata, e nonostante avesse passato ogni momento non dedicato ai pasti a leggere, ancora sentiva come tremendamente inadeguate le proprie conoscenze.
Aveva letto resoconti storici, tomi di esoterismo e demonologia, scritti sacri: sembrava veramente che in quella biblioteca fosse racchiuso tutto lo scibile mortale dall’alba dei tempi, e non solo. La gente andava e veniva senza degnarlo di uno sguardo, probabilmente per ordine della donna meravigliosa. Si era imbattuto in parecchie informazioni interessanti, soprattutto riguardo gli avvenimenti degli ultimi secoli, che prima aveva studiato poco approfonditamente per lasciare tempo allo studio di tattiche, della psicologia e agli addestramenti marziali indispensabili per un buon condottiero, ma che ora aveva recuperato e integrato con quello di cui già era a conoscenza.
Cominciò a parlare, e vide lo stupore dipingersi sui volti degli amici, mentre lo ascoltavano utilizzare quel tono serio, proprio lui che era sempre così spensierato.
“Per cominciare, la Carezza mi ha detto dove andremo quando avremo terminato di riprenderci.”
Percepì distintamente il fastidio che quel preambolo costituiva per i suoi compagni, ma andò ugualmente avanti.
“Keyleth, tu andrai a Silverbell, una città a qualche settimana di cammino da qui; presterai servizio nel tempio del dio del Sole, come apprendista di una sacerdotessa lì presente. Il luogo dovrebbe essere sicuro, e stando alle mie ricerche, non ancora intaccato dalla presenza demoniaca.”
Osservò Keyleth chinare mesta il capo, e fu tentato di prenderle la mano per consolarla almeno in parte; la sua cara amica, sempre pronta a dispensare parole di saggezza e conforto agli altri, che chinava il capo, obbediente come ogni volta, e andava a servire i suoi dei dove essi la mandavano.
“Se questa è la volontà degli dei, così sia” mormorò la sacerdotessa.
“Questa non è la volontà degli dei” disse Mildred, granitica come al solito. “Solo di quella donna spietata e inquietante.”
Lifaen non poté che trovarsi d’accordo. Mildred aveva ragione, come molto spesso le era capitato senza che lei se ne rendesse pienamente conto. Andò avanti.
“Mildred, tu dovrai andare a nord da qui, nelle terre selvagge. Dopo quindici giorni raggiungerai un villaggio, dove incontrerai una persona. Non mi ha detto altro.”
La barbara fece un brusco cenno di assenso, e l’eladrin pensò per l’ennesima volta a come non avesse mai incontrato qualcuno di così forte e fragile, capace di andare incontro all’ignoto con una spavalderia da fare invidia ai più coraggiosi tra i mortali.
“Nom, tu dovrai andare ad ovest, dove c’è una fortezza in cui abita … un suo vecchio amico, ha detto.”
Il guerriero assentì, e Lifaen si scoprì a tirare un sospiro di sollievo: Nom e la Carezza sembravano essere particolarmente legati, o meglio lui sembrava saldamente avvinto a lei, e aveva temuto che potesse fare problemi nell’essere spedito così lontano dalla donna. Inoltre, come se non bastasse, non gli piaceva che avesse tutto quell’ascendente sul suo amico.
Per ultimo si rivolse a Lenn, il ragazzo per cui sentiva di provare affetto come per un figlio.
“Lenn, tu rimarrai qua. Ha detto di avere un compito particolare in serbo per te.”
Il ragazzo sembrò particolarmente sorpreso, cosa che non avvenne affatto per Lifaen. Aveva capito molto poco dell’Angelo delle Tenebre, ma di una cosa era sicuro: a quella donna piacevano i prodigi, e non era evidentemente disposta a separarsi da un talento in ascesa come il giovane stregone. E questo lo preoccupava anche più della relazione che intercorreva fra la signora ed il guerriero.
Ed ora, le cose veramente importanti pensò il condottiero.
“So perfettamente che questo non era lo sviluppo che ci saremmo aspettati” e sollevò una mano per evitare che lo interrompessero. “Anzi, penso che avremmo fatto tutti volentieri a meno di una sconfitta tragica come quella a Fallensun, per cui vi faccio ancora le mie scuse. Mi dispiace davvero, non avrei dovuto reagire a quel modo. Ma sto divagando. Quello che voglio dirvi è che in questi quattro giorni ho scoperto diverse cose su dove andrete, e ho anche fatto ipotesi sul perché.”
“Allora parla!” disse il guerriero, già abbastanza teso ed eccitato per la nuova avventura che gli si prospettava.
Lifaen sospirò benevolmente sull’irruenza del suo amico. “La città dove andrà Keyleth è famosa per una cosa. Circa duecentotrenta anni fa ha subito un poderoso assalto di demoni, terminato solamente quando la somma sacerdotessa rubò qualcosa al capo delle orde che cingevano d’assedio la città. Le fonti sono vaghe sulla natura di quell’oggetto, anche se sospetto possa trattarsi di un potente artefatto demoniaco; ma sono precise sulla descrizione del demone: dalle apparenze di un essere umano, indossava sempre un mantello bianco con cappuccio.”
Fecero tutti un sobbalzo.
“E’ stata la mia stessa reazione” fece l’eladrin. “Ma è comunque possibile. I demoni possono anche arrivare a vivere migliaia di anni.”
“E noi avremmo affrontato … quel demone?” domandò Lenn, ancora sbigottito.
“E’ possibile. Ma non è questo il momento adatto per pensarci. Fa’ solamente attenzione, Keyleth. Il luogo potrà anche non essere pericoloso, ma forse le sacerdotesse sanno più di quanto non diano a vedere o non racconti la storia.”
L’elfa fece un cenno di assenso, ma Lifaen notò che le brillavano gli occhi. Andò ugualmente avanti.
“Mildred, il villaggio dove andrai tu è rinomato per una persona in particolare, il suo capo. Nonostante sia uno dei combattenti selvaggi più potenti di sempre, sembra non si sia mai lasciato sopraffare dalla furia. Penso che voglia che tu vada lì per questo.”
Alla barbara non sarebbe potuto interessare meno: dopo aver sentito “più potenti di sempre” sembrava aver ottenuto tutte le informazioni di cui abbisognava.
“Nom, il luogo dove andrai tu è la fortezza di un carismatico leader di un clan di guerrieri specializzati nell’uso dello spadone pesante a due mani. Penso che lei voglia farti recuperare la tua abilità con quel particolare tipo di arma, e forse anche fungere da … una sorta di “spia”, penso.”
“Sarà l’occasione buona per riprenderci la mano” disse il guerriero strizzandogli l’occhio con un sorriso cameratesco a cui l’elfo alto rispose a sua volta con un sorriso.
“Molto bene”, fece alzandosi dalla sedia e lasciando sul tavolo un mare di libri. “Allora, ci vediamo presto.”
“Un attimo, Lifaen!” urlò Lenn correndogli dietro, mentre l’eladrin si allontanava. “Non ci hai detto dove andrai tu!”
Lifaen si fermò un attimo, voltandosi verso i suoi amici, mentre sul suo volto si dipingeva un sorriso misto a tristezza, nostalgia e gioia incontenibile. “Io?” chiese, mentre Lenn lo osservava allibito. Chissà quando e se lo avrebbe mai rivisto.
“Io tornerò a casa.”

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Capitolo 26
*** Nom - Ricordi ***


Il castello di Lord Fyrian si stagliava in lontananza, mastodontico come gli era stato descritto.
Il guerriero si ritrovò a pensare a quanto spesso fosse entrato in una tenuta come quella, con nessun’altra intenzione se non quella di spremere tutto il denaro possibile dal nobilotto del luogo che avesse problemi con goblin, o altre minacce del genere. A quanto spesso si fosse unito a gruppi di avventurieri col solo scopo di arrivare vivo alla fine della missione per ottenere il compenso pattuito … e occasionalmente sedurre qualche giovane, bella ed inesperta avventuriera.
Erano giorni che camminava, giorni che si era lasciato alle spalle il magnifico palazzo dell’Angelo delle Tenebre ad est, per dirigersi verso il castello di Lord Fyrian, alleato entrato in tempi relativamente recenti nel giro di affari dell’affascinante signora che ormai da tempo era fra i suoi pensieri. Quando Lifaen gliel’aveva descritto come “un vecchio amico”, Nom aveva pensato ad un amico d’infanzia, o qualcosa del genere. Invece, dalle informazioni ottenute dalla signora (ricordava ancora il suo tocco serico sulla pelle), gli era sovvenuta l’immagine di uno dei tanti nobili per cui aveva lavorato a pagamento. Sulla quarantina, dotato di un certo carisma e di un’invidiabile guarnigione per essere un semplice lord, e non un re, Fyrian non gli era sembrato nulla di più dell’”ultimo alleato ottenuto”, come lo aveva descritto l’Angelo. Chissà che intendeva Lifaen, parlando di un “vecchio amico”. Forse si era confuso, ma Nom lo riteneva improbabile. Il condottiero aveva una proprietà di linguaggio migliore di quella del guerriero, di Mildred e di Lenn messi assieme. Era evidentemente istruito, e per quanto tentasse di mantenere un tono cortese e di immediata comprensione, ogni tanto finiva con il farne involontariamente sfoggio.
I pensieri del guerriero presero a gravitare attorno al condottiero, una delle poche persone vere che avesse incontrato in trenta anni di vita; sempre gentile, ma anche particolarmente incisivo, andava subito al punto senza perdersi in preamboli quando era necessario, ed era questo che Nom apprezzava di più in assoluto di lui. Aveva avuto a che fare con altri comandanti in battaglia, d’altronde aveva cominciato la sua carriera da avventuriero mercenario a sedici anni; molti gli erano sempre sembrati eccessivamente pomposi, così pieni di sé nel guidare squadre di avventurieri ad affrontare orrori di ogni tipo e nel ricevere gli onori a nome di tutto un gruppo.
Lifaen invece era sempre stato diverso, l’aveva capito sin da quando l’aveva incontrato, quattro anni prima, in una taverna di una città parecchio distante da dove si trovava ora. All’epoca portava un cappuccio che nascondeva la sua fluente chioma dorata, e ad una prima occhiata gli era apparso come un qualsiasi altro avventore del locale. Si era seduto a qualche tavolo di distanza e aveva ordinato qualcosa da mangiare, con alcuni degli ultimi proventi rimasti dall’ultima avventura. Ricordava di aver pensato di dovere al più presto trovare un altro ingaggio, prima di rimanere completamente a corto di denaro, e di chiedere all’oste se ci fosse qualcuno disposto a pagare per risolvere un problema, di qualsiasi tipo; e ricordava anche di essere stato riportato brutalmente alla realtà quando la porta era stata buttata giù a calci da quello che aveva riconosciuto come un hobgoblin, una creatura affine ai goblin ma molto più alta e addestrata militarmente, che indossava un’armatura di piastre, un elmo e portava al fianco uno spadone di pregevole fattura. La creatura si era fatta accompagnare da alcuni goblin più piccoli, probabilmente senz’altro scopo che non fare casino, e aveva preso ad infastidire gli avventori, ad insultare gli sguatteri, a lanciare provocazioni alle cameriere finché non si era avvicinato a Nom rubandogli il piatto da sotto il naso.
La prima reazione del guerriero era stata quella di mollargli un bel pugno sul muso. E sarebbe stato quello che avrebbe fatto, se l’incappucciato che gli mangiava a poca distanza non fosse intervenuto tentando di mantenere la calma. Nom era sicuro che quella fosse stata la prima ed unica volta in cui avesse considerato bella la voce di un uomo.
Con il modo che lo avrebbe sempre contraddistinto, nei quattro anni successivi, l’allora illustre sconosciuto aveva tentato di ragionare con l’hobgoblin … senza alcun risultato. Dopo dieci minuti buoni che passava saltando da un argomento all’altro, tentando di convincerlo ad andarsene con ogni mezzo, Nom si era alzato, aveva messo una mano sul pomo del suo fedele spadone (gli si strinse il cuore nel ricordarlo) e aveva detto: “O te ne vai sfruttando l’opportunità che questo avventore ti sta offrendo, oppure ti butto fuori io, a calci.”
Sulle prime era calato un silenzio gelido, e la creatura era rimasta sorpresa, o almeno così gli era parso. Poi, prima che riuscisse a capire qualcosa, si era ritrovato a volare e aveva sbattuto contro la parete in fondo alla taverna. Gli ci era voluto un po’ perché la vista gli si snebbiasse, ma quando alla fine era successo aveva visto l’hobgoblin che troneggiava su di lui con lo spadone in mano che commentava qualcosa come: “Devi ringraziare che indossavi la cotta, ragazzino.”
Nom si era rialzato e aveva tentato un affondo, che era stato schivato in maniera totalmente noncurante. Era caduto, fra le risate dei goblin più piccoli e le urla terrorizzate degli avventori, e, mentre si rialzava, aveva visto la mano tesa dell’unica altra persona nella taverna oltre a lui e all’oste terrorizzato. L’aveva afferrata d’istinto, e, nonostante il braccio sembrasse veramente esile, era stato sollevato con una facilità incredibile.
Per la prima volta aveva visto gli occhi di Lifaen, rimanendone ipnotizzato. Blu come il mare, privi di pupilla, immensi come l’infinito. L’eladrin era rimasto in silenzio per un po’, poi, con un sorriso amichevole, aveva commentato: “Hai scatenato un bel putiferio. Se vuoi, posso aiutarti ad uscirne.”
Nom aveva soppesato per qualche secondo i pro e i contro, poi aveva deciso di fidarsi dell’eladrin, comunicando la risoluzione con un cenno di assenso.
A quel punto la stretta di Lifaen sulla sua mano si era fatta ferrea, e lo aveva avvicinato a sé bisbigliandogli in fretta: “Quell’hobgoblin non è un avversario che puoi battere da solo, la sua armatura però ha diverse falle che la sua agilità naturale non può compensare. La sua tattica si basa principalmente sulla forza bruta, quindi evita di rimanere fermo troppo a lungo in un punto solo. Appena avrò terminato coi goblin ti darò un aiuto più sostanzioso, ma cerca di prendere più tempo che puoi. Si diverte a giocare, fingi di essere un principiante. Non scoprire subito tutte le tue carte. Aspetta il mio segnale.”
Incredibile ma vero, era successo esattamente tutto quello che Lifaen gli aveva detto. L’hobgoblin aveva giocato con lui precisamente come aveva detto l’eladrin, fino a quando l’elfo alto non si era unito allo scontro; a quel punto aveva provato ad impegnarsi seriamente, ma gli ordini del condottiero, precisi e corretti, erano stati prontamente eseguiti dal guerriero, e non era riuscito a fare molto. Nom, alla fine della battaglia, la quale era terminata con cinque cadaveri goblin e un risarcimento all’oste con infinite scuse da parte dell’eladrin,sapeva di avere a che fare con un condottiero molto più esperto di quanto lo fossero mai stati i precedenti con cui aveva combattuto, e si chiedeva se non avesse incontrato una sorta di veggente. D’altronde, aveva capito da una singola occhiata che non era un principiante, e questo poteva solo significare che avesse incredibile talento nello stimare i punti di forza e le debolezze delle persone.
Gli aveva offerto la mano, soddisfatto di aver incontrato un combattente tanto in gamba.
E da quel giorno, ad ogni battaglia terminata, non avevano mancato di replicare quel gesto.

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Capitolo 27
*** Nom - Vecchia conoscenza ***


Era ancora stupito. Nom era sempre stato convinto che al passato non si potesse sfuggire, né avrebbe mai voluto dimenticare anche una sola delle avventure che aveva vissuto nelle varie compagnie di avventurieri, con molti dei quali aveva stretto amicizia. Aveva sempre saputo che prima o poi avrebbe potuto rincontrare qualcuno conosciuto negli anni precedenti; ma di certo non si sarebbe aspettato di incontrare proprio Falias, di stanza per qualche settimana presso Lord Fyrian, il quale, aveva scoperto, gli doveva un favore da quando, tre anni prima, l’avventuriero aveva guidato eroicamente le truppe del nobile per proteggere la fortezza da un attacco di demoni.
Falias. Di bell’aspetto, capelli biondi che arrivavano alle spalle e brillanti occhi verdi che rivelavano la sua natura ottimista, era un paladino, un crociato dedito a fare del bene nel  nome del dio Kord, signore delle tempeste e del valore in battaglia. Se c’era un dio a cui Nom si fosse mai sentito affine, probabilmente era proprio quello. Ed era abbastanza sicuro che fosse merito di Falias. Era una persona simpatica, a volte un po’ troppo chiacchierona, ma tutto sommato era un valido compagno, e col tempo il guerriero aveva imparato ad apprezzarlo. Ma quello che soprattutto lo aveva sempre colpito di Falias era la sua forza.  Perché Falias era veramente forte. Molto più di Nom, o almeno lo era quando si erano salutati sette anni prima, prendendo ciascuno la sua strada. Nom aveva ventitré anni. Falias ventisette, e già aveva una consolidata fama come Uccisore di Demoni.
In effetti, pensandoci bene, al guerriero non veniva in mente che Falias combattesse una qualunque cosa con un’efficienza superiore a quella con cui uccideva demoni. Fin da sette anni prima, quando avevano condotto un raid contro una tribù di goblin dalle cui scorrerie un piccolo possidente era spaventato, Falias era stato il primo e l’unico a riconoscere il piccolo mostriciattolo che appariva e scompariva ad intermittenza dal campo di battaglia non come un goblin, ma come un quasit, un demone che adorava portare scompiglio negli scontri e volgere alleati gli uni contro gli altri. Nom dubitava che sarebbe sopravvissuto ad un simile incontro, se Falias non fosse stato con lui, e non gli avesse consigliato di concentrarsi specificamente su quella cosina, che il guerriero ad una prima occhiata aveva giudicato insignificante.
Ed era esattamente di quella avventura di cui stava discutendo con Falias, boccale di birra in mano, ad un tavolo della piccola taverna che si trovava all’interno della fortezza di Lord Fyrian.
“Non pensarci, sono stato contento di poterti dare una mano” disse il paladino, sorridendo.
“Starai scherzando. Io so sempre quando devo un favore, e sai che non mi piace avere conti in sospeso”, replicò il guerriero con un sorriso cameratesco. Era davvero contento di aver ritrovato quel compagno d’armi. Certo, forse non era potente quanto Mildred, ma sicuramente era un validissimo combattente.
“Lascia perdere, o finirò col sentirmi in imbarazzo. Hai notato come le ragazze qui siano molto carine?” rispose Falias, facendo un cenno di saluto ad un paio di cameriere, che si voltarono ridacchiando.
“No, non proprio …”, fece il guerriero. Non ricordava di avere considerato anche solo carina una donna, dopo aver incontrato la sua padrona. “Allora, come te la passi?”
“Mah, sai, le solite cose. Andare in giro, risolvere problemi, uccidere demoni … Niente di troppo diverso dal quotidiano” rise il paladino.
Anche Nom scoppiò a ridere. “Sai, anche a me e al mio gruppo hanno dato un titolo simile al tuo.”
“Oh, quindi anche tu ora sei un Uccisore di Demoni?” chiese Falias, e Nom vide la curiosità accendersi negli occhi dell’amico.
“Almeno di nome … Ma non penso ancora di fatto” replicò il guerriero.
Probabilmente Falias notò che il suo tono si era intristito un pochino, perché ordinò un altro paio di birre, poi disse: “Che ti prende? Non è successo niente di grave, vero?”
Nom fece un sospirò. Avrebbe preferito non dirglielo, non ammettere la propria debolezza davanti ad una persona che stimava tanto. Però era suo amico, glielo doveva. In più sembrava veramente preoccupato. Così, gli raccontò tutto delle ultime due battaglie cui aveva partecipato, sperando che potesse dargli qualche consiglio.
“Sono state … Entrambe disfatte totali. Credo di stare … diventando più debole, ecco” ammise tristemente il guerriero.
Falias rimase in silenzio per un bel po’, mentre Nom, imbarazzato, beveva il suo boccale di birra. Poi, d’improvviso, il paladino batté il pugno sul tavolo, facendolo sobbalzare.
“Prima di tutto” cominciò, fissandolo dritto negli occhi, “demoni del genere non li ho ancora incontrati. Soprattutto non so nulla di questo demone dalle sembianze umane. Mai sentito. E’ questo può voler dire solo che erano di un livello completamente differente rispetto al tuo. E probabilmente anche al mio. In secondo luogo” e i suoi occhi divennero quasi fiammeggianti d’ira “pensieri del genere non ti porteranno da nessuna parte. Se pensi di essere debole, o inadatto a fronteggiare i demoni, allora fa’ qualcosa per cambiare.”
Nom in quel momento si ricordò l’altra caratteristica che più di tutte legava Falias al suo dio: come la sua divinità, il paladino odiava le manifestazioni di debolezza. E il guerriero sapeva di potersi affidare a lui, se voleva diventare più forte.
“Falias” disse “so che potrà sembrarti una richiesta strana … Ma devo portela comunque. Per me, per i miei amici e per tutte le persone che potranno essere salvate grazie alla tua risposta. Mi aiuteresti a diventare più forte? Mi aiuteresti a diventare a mia volta... un Uccisore di Demoni?”.
Vide l’espressione del paladino distendersi, quindi diventare pensierosa, poi diventare raggiante, e, in qualche misura, divertita.
“Lo vuoi davvero? Significa legarsi ad una divinità per la vita, e tu sei sempre stato fiero della tua libertà ed indipendenza. Sarai legato ad una gerarchia precisa, che ti darà grandi possibilità per adempiere ai tuoi desideri, ma che ti darà altrettanto grandi responsabilità. Sei davvero convinto di quello che stai chiedendo?”.
Nom esitò un attimo. Era vero, aveva sempre avuto molto a cuore la sua indipendenza, ma … in fondo, sarebbe stato molto peggio perdere i suoi amici. Si era già legato molto negli ultimi quattro anni. Pensò a Lifaen. A Lenn, così giovane, così promettente … così leale. Pensò a Mildred, burbera, irritabile, ma sempre disposta a dare una mano quando si trattava di difendere altre persone, anche se poi l’avrebbero isolata. Pensò a Keyleth, nobile, eterea, legata ai suoi dei da una fede che le ultime sconfitte sembravano solo avere rafforzato; eppure era sempre molto presente, non aveva affatto la testa tra le nuvole. Aveva imparato a conoscerla in quei quattro anni … Chissà che avrebbe detto lei.
“Sì. Sì, sono sicuro.”
Falias si concesse un sorriso mentre poggiava il boccale di birra vuoto sul tavolo e si alzava per andare a pagare l’oste.
“Molto bene. Ti insegnerò le vie della fede. Quando avremo finito, sarai un combattente del dio dei fulmini, della forza e della battaglia.”

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Capitolo 28
*** Nom - Fedele ***


Finalmente, dopo settimane, il momento era arrivato.
Nom, mantello recante un fulmine bianco su campo blu, era inginocchiato di fronte a Falias, il suo amico, che in quel momento lo osservava con un’espressione di orgoglio che gli aveva visto poche volte in viso, gli occhi verdi di un brillante come il guerriero non aveva mai avuto modo di osservare. Di fianco a Falias, Lord Fyrian, a cui il paladino aveva chiesto di assistere per cortesia e perché questi acconsentisse che Nom terminasse il suo addestramento da combattente di Kord all’interno della fortezza del nobile; attorno ai tre, l’intera corte di Lord Fyrian osservava emozionata e curiosa.
Mentre Falias cominciava a declamare i versi sacri che avrebbero conferito al guerriero l’investitura a campione di Kord, Nom si ritrovò a riflettere sulle settimane precedenti: veglie, addestramenti, meditazioni avevano occupato grossa parte del suo tempo, giorni e notti si erano susseguiti quasi senza che lui se ne accorgesse. I digiuni non erano stati particolarmente gravosi, era sempre stato abbastanza robusto da non sentire i morsi della fame per alcuni giorni; quello che però l’aveva sorpreso di più erano stati i combattimenti, anche se, col senno di poi, si era detto che era il minimo che si potesse aspettare da un paladino che adorava il dio della forza, del valore, della battaglia e della tempesta.
La tempesta… I suoi pensieri deviarono momentaneamente su Lenn. Aveva sempre trovato curioso come il ragazzo, così simile all’occhio del ciclone, lasciasse ogni tanto che le emozioni prendessero il sopravvento; ancora più curioso aveva trovato il fatto che il giovane stregone non avesse mai nemmeno sentito parlare di Kord. Nom aveva sempre pensato che la cosa naturale per lui fosse stata volgersi a quel genere di dio, ed invece lo stregone lo aveva sorpreso quando era stato in grado di nominare solo due o tre dei campi di influenza che la divinità reclamava per sé.
Non se n’era mai fatto gran problema, però. In fondo, fino a quel momento anche lui era sempre stato un profano in materia di religione, divinità e quant’altro.
Nom, il paladino pensò, trovando quel titolo contemporaneamente buffo ed altisonante. Chissà che avrebbero detto i suoi amici, se l’avessero visto in quel momento. Quasi gli venne da ridere al pensiero di Mildred che troneggiava su tutta quella gente, delle due fate che avrebbero sicuramente distolto un po’ l’attenzione da lui e di Lenn che avrebbe attirato le attenzioni e gli sguardi di diverse delle giovani aristocratiche e cameriere lì presenti.
Falias si stava avviando alla fine della sua recita di versi sacri, e il guerriero sentiva avvicinarsi a velocità folle il punto di non ritorno. Dopo quel momento, dopo che avesse detto le fatidiche parole, il suo mondo sarebbe completamente cambiato.
... Sono veramente pronto per questo? si chiese.
Quella domanda gli balenò in mente, inopportuna e molesta, senza volersene andare.
“E sulla base di questi sacri versi…” stava terminando Falias…
Forse non sono davvero pronto pensò il guerriero. Forse sarebbe stato meglio rimandare, o ancora meglio annullare tutto. Dopotutto, cosa gli dava il diritto di brandire la spada in nome di una divinità?
“… giuri tu, Nom Armstrong, di combattere in nome del Signore della Tempesta? Giuri tu di essere sempre pronto a lottare contro i nemici che infestano questo mondo e di proteggere i deboli, nel limite delle tue possibilità di mortale, in nome del Valoroso?”.
Nom sospirò.
Certo che lo sono.
Quelle domande lo avevano tormentato quasi costantemente, e aveva sempre trovato la risposta.
Ciò che gli dava il diritto di affiliarsi ad una divinità, come avrebbe detto Lifaen, era la sua volontà di aiutare gli altri, in primis i suoi amici. Era il suo desiderio di proteggere chi da solo non poteva farlo, chi non aveva mezzi per salvarsi dalle bestie fameliche che venivano fuori dai confini del mondo per bruciare e distruggere. Il suo obbiettivo era salvare delle vite. E lo avrebbe fatto in qualità di servitore di Kord.
Sollevò il capo.
“Lo giuro solennemente.”
La sala era incredibilmente silenziosa, mentre Falias poggiava di piatto la sua lama su entrambe le sue spalle.
“Allora io, Falias Sunrise, nomino te, Nom Armstrong, paladino di Kord, Signore delle Tempeste, dio del Valore; in aggiunta, ti conferisco, com’è mio diritto, il titolo di Uccisore di Demoni, cosicché chiunque ti incontri sappia che tu puoi proteggerlo, e che i tuoi nemici tremino, sapendo chi stanno per affrontare. Ora alzati.”
Nom eseguì il suo ordine. Falias rinfoderò la sua spada e gli porse l’arma che la Carezza dell’Oscurità aveva fatto forgiare per il guerriero.
Nom prese la sua arma con un cenno del capo. Poi sentì le mani del paladino poggiarsi sulle proprie spalle, e sollevò gli occhi per incontrare quelli dell’amico, più contenti di quanto non li avesse mai visti.
Si sorrisero vicendevolmente, poi Falias lo fece voltare, mentre sentiva la voce stentorea di Lord Fyrian dire: “Ecco a voi Nom il Paladino!”.
La folla esplose in grida di acclamazione che il guerriero quasi non sentì.
Sarò la tua spada e il tuo scudo in questa guerra, o Possente.

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Capitolo 29
*** Nom - Assedio ***


Il vino della tavola di lord Fyrian non era niente male, doveva riconoscerlo.
Nom era seduto alla lussuosa cena che il nobile aveva preparato per lui e Falias, per festeggiare la sua investitura a paladino. Erano seduti da ormai quasi un’ora, a parlare con aristocratici e a scherzare tra loro. Sulle prime il guerriero si era sentito un po’ intimidito dall’imponente volta dorata con affreschi di angeli che incombevano su di lui, ma a poco a poco era riuscito a sciogliersi grazie all’ottimo vino che gli veniva generosamente offerto ogni volta che il suo bicchiere si ritrovava vuoto, e i volti senza lineamenti degli angeli non lo avevano più turbato tanto.
Era il suo sesto o settimo bicchiere di vino, quando, d’improvviso, il chiacchiericcio dei nobili e il tintinnare di posate e bicchieri venne tacitato dal bussare frenetico al portone della sala.
Nom lanciò uno sguardo incuriosito a Falias, che però stava già fissando lord Fyrian; il quale, schiaritosi la gola, in evidente imbarazzo si alzò dal tavolo per mandare un servitore ad aprire la porta e prepararsi ad accogliere chiunque stesse interrompendo il banchetto.
Dev’essere qualcosa d’importante pensò il guerriero. Lord Fyrian era noto per essere un amante della buona tavola a dispetto del suo fisico, che indicava un combattente, e sapeva che avesse fatto giustiziare chiunque avesse osato interrompere un suo banchetto, in passato. Ma questi pensieri si polverizzarono nella mente del guerriero quando vide chi aveva interrotto la cena.
Era un ragazzo giovane, in armatura, con l’elmo ancora in testa. Al suo fianco c’era una spada, intrisa di sangue, che sembrava cambiare colore ad ogni incerto passo che il soldato faceva. Ma non era l’armamentario ad attirare l’attenzione di Nom.
Il giovane aveva conficcata, nel fianco opposto a quello a cui portava la spada, una picca di uno stendardo. Sangue gocciolava dalla ferita, macchiando il costoso tappeto di seta di lord Fyrian, il quale tuttavia sembrava troppo atterrito dalla visione per farci caso. Sollevando un po’ di più lo sguardo, il guerriero comprese anche il perché. Sotto l’elmo, metà del volto del giovane era stato completamente devastato. La pelle sembrava essere stata strappata a morsi, i muscoli esposti all’aria continuavano a muoversi frenetici, biascicando parole senza senso in tono terrorizzato, e l’occhio, privato della sua palpebra, era una visione veramente orrenda nella sua nudità, così come la mascella, coperta solo blandamente da alcuni lembi di cute. La scena era resa ancora peggiore da un altro particolare. L’altra metà del volto era completamente carbonizzata, ad un punto tale che Nom si chiese come un uomo ridotto in quello stato fosse riuscito a sopravvivere il tempo necessario anche solo a giungere in quella sala.
Il soldato avanzò fino al centro della sala, vicinissimo alla tavola. Nom e Falias si alzarono in contemporanea, ed il guerriero vide il suo stesso orrore e il suo stesso odio nascere negli occhi del paladino; entrambi sapevano perfettamente che c’era un solo genere di creature adatte a compiere tale scempio di un essere vivente.
Demoni.
Il soldato, gli occhi fissi su lord Fyrian, mosse qualche volta quelle che una volta erano state le labbra, come cercando di dire qualcosa. Alla fine riuscì ad articolare qualcosa, e la sua voce era lo straziante lamento dei morti.
“Demoni… Fuoco, tanto fuoco… Al castello…”
Poi, cenere che cadeva da quello che un tempo era stata la sua pelle, e sangue che sgorgava ad ogni movimento dei muscoli, collassò per terra, un lago di sangue che si allargava sotto di esso, l’ennesimo giocattolo rotto per soddisfare i sadici desideri di divertimento di quelle orride creature.
Si scatenò il panico attorno a lui e a Falias. I nobili fuggirono, terrorizzati, ma a Nom non importava nulla. Si sentiva come all’interno dell’occhio del ciclone, in una specie di piatto inebetimento che rendeva solo più acuta la rabbia che sentiva di stare provando. Senza nemmeno sapere cosa stesse facendo, o se Falias lo stesse seguendo, il guerriero avanzò, uscendo dalla sala per arrivare al corridoio, la spada sguainata, pronto a fare a pezzi qualunque cosa gli fosse capitato di incrociare per strada.
D’improvviso, percepì un lieve movimento dietro di sé. Reagendo d’istinto, si voltò sferrando un fendente, con una violenza tale da essere sicuro di mutilare un eventuale aggressore. Ma tutto quello che sentì fu solo lo stridore della lama nello scontrarsi con qualcosa di incredibilmente duro.
Superato lo stupore, ciò che vide fu un piccolo mantello nero da cui sbucava un braccio, mosso a parare il suo fendente diretto alla testa, che assumeva una colorazione grigiastra e simile a quella dell’acciaio attorno al punto nel quale la sua lama lo avrebbe dovuto tagliare. Dal mantello sbucava anche una testa, dai capelli azzurri e dagli occhi di brace, che riconobbe per Lys, la misteriosa servitrice, insieme a sua sorella Syl, della loro padrona.
Nom rinfoderò la spada, mentre il braccio della ragazza ritornava della consueta colorazione rosea. Che razza di abilità era quella, che le aveva permesso di bloccare il suo fendente? Il guerriero sentiva il suo braccio intorpidito, come se avesse a viva forza colpito una lastra di granito spessa almeno una decina di centimetri.
“Farei più attenzione con quella. Non è un giocattolo, ma tu dovresti saperlo assai bene, no?” disse, gelida, la giovane.
“Non mi aspettavo di trovarti qui. Che sei venuta a fare?” chiese Nom, pur potendo presagire la sua risposta. Rimase sorpreso nel notare come l’altra fosse parecchi centimetri più bassa di lui e tuttavia riuscisse a risultare tanto intimidatoria.
“Gli ordini della mia signora sono assoluti, e non possono essere né discussi né disattesi. Solo eseguiti” replicò la ragazza, facendo al guerriero cenno di seguirla, mentre lo precedeva lungo il corridoio.
Camminarono fino in fondo a questo, e quando Lys aprì la porta, Nom si ritrovò su una balconata semicircolare da cui poté vedere tutta la situazione sottostante.
Avrebbe preferito non vederla.
Al di fuori delle mura, un’enorme marea di corpi si estendeva. Demoni lottavano contro gli umani, massacrando indistintamente qualunque cosa capitasse loro a tiro, in un impeto di ferocia che Nom non avrebbe mai ritenuto possibile se non avesse saputo della congenita follia di quei mostri. Nonostante gli umani si battessero con valore, era ovvio che i demoni stessero avendo la meglio; la situazione avrebbe potuto presto diventare tragica.
“Che cosa possiamo fare?” domandò il guerriero a nessuno in particolare.
Sentì la ragazza ridere, e si voltò per vedere il suo sguardo scivolare indifferente sulla devastazione sottostante.
“Che razza di domande. Combattere, ovviamente. Ti aiuterò anch’io, non preoccuparti. Questi sono gli ordini della mia signora, e io li eseguirò fino in fondo. Una volta finito qui, tornerò a palazzo per far rapporto, tuttavia. I demoni questa volta sono davvero tanti, e a lei questo genere di notizie interessa sempre molto. Però” disse, rivolgendogli un sorriso che al guerriero sembrò soprattutto beffardo “cosa sarà mai un esercito di demoni per ben due Uccisori di Demoni, dico bene?”.
Il guerriero si voltò, fermandosi sulla soglia del corridoio. Aveva passato troppo tempo con le mani in mano assieme a quella strana donna. Sembrava quasi si divertisse ad osservare il massacro che si perpetrava là sotto.
“Ho solo una richiesta. Quando tutto questo sarà finito, mi dirai chi o che cosa siete tu e tua sorella Syl. D’accordo, Lys?”.
Sentì la ragazza ridere di nuovo, una risata in cui riuscì a percepire distintamente una violenza sanguinaria e folle propria di chi aveva combattuto innumerevoli battaglie, divertendosi nel farlo.
“Se sarai ancora vivo.”

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Capitolo 30
*** Nom - Fuoco contro Acciaio ***


Nom falciò esattamente in due metà l’ennesimo demone a quattro braccia che gli bloccava la strada, mentre al suo fianco Falias si occupava di quattro demoni simili a scimmie contemporaneamente.
Si sentiva frustrato. Stavano combattendo da ore, e ancora l’obbiettivo sembrava distante, immensamente distante.
Gli riecheggiavano ancora nella mente le parole di Lys, le uniche a cui avesse prestato veramente attenzione dopo la sua “promessa” di rivelare la natura propria e quella della sua sorella dai capelli rossi e gli occhi azzurri come ghiaccio.
“Ovviamente, come avrai notato, questo non è un assalto casuale di una casuale orda di demoni” aveva detto la ragazza mentre si avviavano al cancello principale della città per gettarsi nel folto della mischia.
“Già” aveva risposto il guerriero. “Se fosse stato così, probabilmente avremmo già vinto, e degli attaccanti non sarebbe rimasto nulla. Dev’esserci qualcuno che li guida, che li coordina.”
“Ne sono convinto anch’io!” Nom era rimasto sorpreso nel vedere Falias corrergli incontro dalla direzione opposta. Aveva qualche graffio sul viso, ma nulla di più. Era contento che stesse bene. “Sono troppo irreggimentati, troppo tattici. C’è qualcuno di più intelligente a coordinarli, ma non ho idea di chi possa essere.”
“Io lo so.” Il guerriero non era stato sorpreso di sentire queste parole uscire dalle morbide labbra di Lys. “A giudicare dalle ustioni riportate da quel soldato morente, direi che il demone che controlla quest’assalto è un pezzo da novanta… O almeno, un pesce non eccessivamente piccolo.”
“Là fuori è un inferno.” Aveva detto Falias. “C’è fuoco ovunque nel cuore dello scontro, e sembra che stia attaccando ogni creatura che non sia un demone, anche se ogni tanto qualcuna di quelle belve rimane comunque carbonizzata per essersi avvicinata troppo. Non ho idea di che cosa stia succedendo.”
Lys a quel punto si era bloccata, l’espressione che passava da stupita a crudelmente divertita nel giro di un secondo. “Oh, quindi è lui. Non ci speravo proprio.”
Nom aveva perso la pazienza. “Chi è lui, Lys? E piantala di girarci intorno, perché sono stanco dei tuoi indovinelli.”
Lei aveva riso, poi aveva risposto: “Lui è Myriar, sovrano degli immolith, i demoni del fuoco. Per farla molto breve” aveva detto in risposta alla espressione interrogativa di Nom, “quando qualcuno muore nel luogo di origine dei demoni, l’Abisso, alcune volte la volontà del deceduto è abbastanza forte da infondere una scintilla di vita nel cadavere; questa scintilla comincia ad ardere come fiamma e brucia qualunque cosa, comprese la carne e i muscoli. È così che nascono gli immolith, e Myriar è il più potente demone immolith esistente, quindi è un po’ il loro sovrano. Il tratto che lo distingue da tutti gli altri immolith è che le sue fiamme sono nere; se ve lo troverete davanti, e lo reputo molto probabile visto quanto siete potenti, fate attenzione ai suoi movimenti. E non fidatevi della più piccola fiammella, perché sarà in grado di divorarvi come farebbe con un foglio di carta.” Poi, senza aggiungere altro, si era gettata nel folto della mischia, facendosi largo con grazia attraverso l’orda di corpi umani e demoniaci che infestava il campo di battaglia; e Nom e Falias avevano cominciato la loro lotta per raggiungere Myriar.
Non gli sembrava di avere fatto molta strada, anche se indubbiamente parecchi soldati erano riusciti a salvarsi grazie al loro intervento. Avevano attirato entrambi l’attenzione dei demoni ed erano riusciti a tenerli impegnati abbastanza a lungo da permettere a diversi soldati di lord Fyrian di salvarsi. Inoltre, Nom aveva scoperto che pochi demoni costituivano una seria minaccia per lui, e non aveva dovuto impegnarsi particolarmente; Falias sembrava nel suo ambiente naturale, un luccichio eccitato negli occhi, l’ardore della battaglia che divampava in lui violento come un incendio.
Anche il guerriero sentiva qualcosa di diverso dentro di sé. Fino a quel momento, aveva combattuto i demoni come aveva combattuto qualsiasi altro avversario: muscoli e spada. Ora invece percepiva qualcosa di diverso. Riusciva a determinare se la creatura fosse un demone o un umano anche prima che il fumo si diradasse per mostrargliela: era come se una voce interiore lo guidasse, una voce forte e possente, come il rombo di un tuono.
La voce del suo dio che lo guidava in battaglia. Proprio come gli aveva detto Falias.
Un fendente portato dall’alto al basso bastò a tranciare in due il demone che aveva davanti, e una rapida rotazione fu altrettanto sufficiente per eliminare gli altri due demoni che stavano fiancheggiandolo. Falias, frattanto, aveva sistemato l’ultimo scimmione che gli ingombrava il passaggio e stava per procedere, quando Nom percepì qualcosa di ardente sfiorargli il volto e allontanarsi per dirigersi verso Falias.
“ABBASSATI!” provò a gridare. Ma non fece in tempo.
Falias prese fuoco, lanciando un unico grido di dolore prima che di gettarsi a terra per spegnere le fiamme e rialzarsi, tutto in soli sei secondi. Nom lo osservò bene, per assicurarsi delle sue condizioni. A parte qualche ustione superficiale, sembrava stare bene, per fortuna. Tirò un sospiro di sollievo, poi si rimise in guardia giusto in tempo per riuscire a frapporre lo scudo fra sé e un globo incandescente di fiamme, che esplose a contatto col metallo, arroventandolo.
Davanti a lui, a qualche metro di distanza, vi era uno scheletro più grande di quello umano, avvolto nelle fiamme, così strettamente avvinte a lui da somigliare ad un vestito; le ossa carbonizzate del dito di una mano puntavano verso di lui, mentre nuove fiamme si staccavano dallo scheletro per dirigersi nuovamente verso Falias, che però questa volta riuscì ad evitarle. L’immolith sghignazzò crudelmente, prima di cominciare a parlare.
“E così pare che questa sia una giornata estremamente fortunata! Non solo conquisteremo un castello dal quale far partire l’invasione di questo mondo sudicio che attende di essere purificato dal fuoco devastatore che consuma ogni cosa, ma avrò anche la possibilità di eliminare due fedeli servitori degli stupidi dei!”.
“Suppongo tu non sia Myriar, il sovrano degli immolith” disse Nom, pronto a scattare al minimo segno di un nuovo attacco.
“Sciocco mortale! Il mio signore non ha certo tempo da perdere con dei miseri esseri come voi! Preparatevi ad essere purificati! Probabilmente soffrirete assieme alla ragazza dai capelli blu…”
Non fece in tempo a dire altro. Falias e Nom lo colpirono rispettivamente alla testa e al bacino, facendolo collassare in una nube di cenere mentre le sue fiamme si spegnevano e l’immolith crollava in un grido di agonia che suonava persino più orribile delle sue parole blasfeme. Un cenno d’intesa ai due bastò per capire che sarebbero andati avanti insieme.
Poi Nom percepì distintamente un rombo e un esplosione, seguiti da un’enorme ventata di calore che quasi lo mandò a gambe all’aria. Fiamme si alzavano vicino a lui, ne percepiva distintamente lo scoppiettare, ma qualcosa che gli stava davanti gli impediva la vista. Quando questa gli si fu snebbiata, riuscì a vedere davanti a sé una minuta figura dai capelli azzurri che fronteggiava una creatura mostruosamente grande… e anche parecchio arrabbiata, a giudicare da come le sue fiamme nere ardevano.
“Nom, Myriar. Myriar… Ti presenterei volentieri Nom, ma non penso ti rimanga molto da vivere” scherzò Lys, apparentemente incurante della situazione. Osservandola meglio, Nom fu stupito dal vedere che non aveva nemmeno un graffio o un’ustione sul viso, e riteneva improbabile che ne avesse sotto il mantello.
Si rialzò, andando al suo fianco, mentre Falias si posizionò dall’altra lato, in guardia.
“Hai esagerato, volgare ibrido” parlò Myriar, le fiamme nere che scoppiettavano ad ogni parola che pronunciava. “Desidererai di essere morta, quando avrò finito con te, e vale anche per i tuoi amici. Avete osato sfidare il signore di tutti gli immolith, e ne pagherete le conseguenze! Non siete in grado di contrastare il mio potere! Il fuoco è eterno! Consuma ogni cosa! Alberi, animali, umani, demoni… persino gli dei temono la potenza del fuoco! Voi assaggerete ogni minimo grammo della mia furia, e solo quando mi implorerete di farlo, solo allora vi ucciderò!”.
Myriar allungò verso i tre combattenti altrettante fiamme a forma di artiglio, tentando di afferrarli. Solo Nom venne catturato, ma subito Lys colpì il gigantesco immolith al cranio con un semplice colpo secco della mano nuda, e Nom riuscì ad intravvedere, mentre cadeva a terra, come fosse possibile che la ragazza non avesse alcuna ferita: nel momento in cui la sua pelle era entrata in contatto col teschio fiammeggiante del demone, aveva assunto di nuovo quella colorazione quasi metallica, e, Nom dedusse, anche quella consistenza che gli aveva intorpidito il braccio qualche ora prima.
Scattò in avanti affondando la lama nello sterno ossuto dell’immolith, mentre Falias lo colpiva alla clavicola. Myriar emise un urlo di dolore simile al ruggito dell’incedio che divampa, e un’enorme marea di fiamme nere si propagò da lui, ustionando sia Nom che Falias.
Il dolore era veramente troppo. Il guerriero si chiese se sarebbero veramente sopravvissuti al confronto con un mostro del genere.
Un artiglio ossuto ardente come un tizzone passò sul suo volto, pericolosamente vicino all’occhio, facendolo cadere di lato mentre ancora tentava di riprendersi dal dolore delle ustioni. Sentì la risata trionfante dell’immolith, e l’ennesimo urlo di dolore di Falias, mentre provava ancora su di sé la forza delle fiamme del demone.
“Siete solo degli sciocchi” disse Myriar, troneggiando su di lui, un dito scheletrico puntato al suo viso, pronto ad investirlo con l’ennesima scarica di fuoco. “Quando le vostre anime avranno lasciato quei deboli involucri che voi chiamate corpi, le catturerò e le tormenterò per tutta l’eternità. La morte non vi darà pace, insolenti umani, perché noi demoni non riposiamo mai, e, deboli come siete, tutto quello che potete fare è soccombere a noi ed essere il nostro cibo e sostentamento!”.
A quelle parole, Nom rivisse una scena orribile. Una marea di corpi distesi a cerchio attorno ad una torre dell’orologio, e su questa altri corpi. Un mantello bianco che divorava le anime delle povere vittime.
Provò una rabbia indescrivibile. Tutto quello che riuscì a fare, sorprendendo se stesso e l’immolith, fu piantare la propria spada nel punto del petto in cui si sarebbe dovuto trovare il cuore di Myriar, se non fosse stato già bruciato da molto, molto tempo. Il demone gridò nuovamente, di dolore, rabbia e … paura. Sollevò di nuovo un enorme artiglio fiammeggiante per schiacciare Nom, ma Falias e Lys lo colpirono alla schiena e alle gambe, costringendolo ad indietreggiare mentre la spada di Nom cadeva per terra.
Il guerriero si rialzò, ignorando il dolore delle ustioni. Afferrò il pomo della spada, roteò su se stesso e, con un unico fendente, staccò il teschio di Myriar dal resto del corpo. Un ultimo grido di dolore si udì provenire dal corpo dell’immolith, mentre le fiamme che ardevano attorno al suo corpo si spegnevano e le ossa carbonizzate crollavano a terra come un castello di carte.
Nom udì le grida di giubilo dei soldati, ma non riuscì a vederli. D’improvviso sentì che gli mancava il terreno sotto i piedi. Infilò la spada nel terreno, mentre percepiva Falias accanto a sé che chiamava i guaritori, e sollevò lo sguardo fino ad incontrare gli occhi ardenti di Lys.
“Ricordati… della tua promessa” riuscì a bofonchiare. Sentiva di avere la gola secca e che le labbra gli dolevano.
Uno sguardo divertito passò sul volto della ragazza.
“E’ la nostra politica, quella che la nostra signora più apprezza. Mantenere sempre le promesse.”
Poi non sentì né vide più nulla.

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Capitolo 31
*** Nom - Verità ***


La prima cosa che vide svegliandosi fu un viso gentile e rugoso che lo fissava preoccupato.
A Nom servì un po’ di tempo prima di capire dove fosse, anche se gliene servì molto meno per ricordare il perché: sentiva dolore in quasi ogni parte del corpo, la pelle che tirava e pizzicava ad ogni battito di palpebra.
Il vecchio volto emise un sospiro di sollievo, e cominciò a parlare di come lo ritenesse quasi un miracolo. Nom non chiese a cosa si riferisse, né chi fosse. Sapeva solo di essere su un comodo letto soffice, e stava solo ringraziando per quello. Poi gli tornò tutto alla mente. Falias, Lys, la fortezza di lord Fyrian sotto assedio… Myriar, il Signore degli immolith.
Si sollevò di scatto a sedere, e il suo corpo lo ringraziò sentitamente con un giramento di testa e un dolore lancinante in quasi qualunque punto in cui avesse sensibilità. Gli sfuggì un lamento.
“Forse sarebbe meglio che rimanessi steso. Non sei messo troppo bene” osservò, divertita, una voce femminile.
Nom girò lo sguardo, solo per ritrovarsi a fissare quei tizzoni ardenti che aveva Lys al posto degli occhi. Si chiese se si sarebbe mai abituato allo sconvolgente calore che quegli occhi emanavano. Bruciavano quasi come le fiamme di un immolith, ora poteva proprio dirlo.
Obbedì al consiglio della ragazza, mentre si ristendeva sui soffici cuscini e sentiva questa chiedere al vecchio medico di andare a chiamare Falias. Apparentemente fu esaudita, perché dopo poco rimasero solo loro due, nella stanza. Nom notò per la prima volta come quella sembrasse in tutto e per tutto una stanza nobiliare, e ne rimase sorpreso. Si aspettava di essere in un’infermeria, o qualcosa del genere.
“Lord Fyrian ti ha concesso il piccolo privilegio di passare la convalescenza in camera sua” spiegò Lys, prendendo una sedia ed sedendovisi sopra, in risposta allo sguardo interrogativo del guerriero. “Direi che è stato quantomeno sensato, da parte sua. Se non fosse stato per te, forse ora lui sarebbe un allegro mucchietto di cenere fumicante” concluse, con una risata.
Nom prese un piccolo sospiro, sentendosi la gola incredibilmente secca. Si voltò di nuovo ad osservare la ragazza, solo per scoprire che gli stava tendendo un bicchiere d’acqua. L’accettò con un “Grazie” sommesso, beandosi del refrigerio provato mentre l’acqua gli scorreva lungo la gola, e sentì di poter riprendere a parlare quantomeno decentemente.
“Hai passato due giorni a letto, uno dei quali non sapevamo se saresti sopravvissuto o meno. Falias è sempre stato al tuo capezzale a pregare, e già i messaggeri dei nobili della corte di lord Fyrian stanno spandendo notizie in lungo e in largo sulla nostra piccola impresa. Tutto sommato, direi che il bilancio è fondamentalmente positivo. Ti sei comportato bene, novello paladino, giovane Uccisore di Demoni” disse la giovane dai capelli azzurri.
A Nom servì un po’ per riuscire a formulare una frase. Per qualche motivo, ora che era così vulnerabile si sentiva a disagio in sua compagnia.
“Credevo… Credevo che te ne saresti andata subito dopo la battaglia, per riferire alla Carezza” riuscì a parlare infine.
Lys sorrise, un sorriso che non avrebbe saputo definire se inquietante o divertito.
“Avrei dovuto, ma ti avevo fatto una promessa. E la mia signora non sarebbe stata soddisfatta se, per riferire a lei, avessi mancato alla parola data ad uno dei suoi adorati Sterminatori di Demoni. Potrà sorprenderti”, continuò, mentre Nom l’ascoltava, “ma vede in voi qualcosa che non ha mai visto prima in nessun altro, e lei anche solo guardando una persona è in grado di determinarne il talento; e voi la… affascinate, ecco. Perciò ho deciso di rinviare di qualche ora un compito che poteva essere rinviato”.
Non c’era stata amarezza, né invidia nel suo tono, quando aveva descritto le apparenti grandi speranze che la Carezza riponeva in lui e i suoi compagni, Nom l’aveva notato. No, se qualcosa c’era stato, quello era l’accettazione piena, totale ed incontrovertibile del giudizio della sua signora. Lys sembrava incrollabilmente fedele all’Angelo delle Tenebre, e il guerriero si chiedeva cosa potesse indurre qualcuno a riporre fiducia così piena e totale in una persona. A lui era capitato solo con Falias e con i suoi amici.
“Lys” parlò infine, “posso immaginare il motivo per cui tu e Syl siate così fedeli alla Carezza. Però… ora ho bisogno delle risposte che mi avevi promesso. E anche di sapere se c’era qualcosa, dietro quest’assalto di Myriar a lord Fyrian”.
“Più che giusto, ragazzo mio”, disse divertita la giovane. “Bene, ecco le risposte che cerchi, ma ti avviso che potrebbero essere sconvolgenti.”
Nom annuì, pronto a qualunque sconvolgente rivelazione. Lys prese un sospiro.
“Come avrai notato nell’ultima battaglia, non sono una comune umana. Hai scoperto della mia particolare abilità, o meglio ho lasciato che la scoprissi. Bene, quello è un retaggio della mia nascita. Io sono stata creata ed allevata con l’unico obbiettivo di essere lo scudo infrangibile che proteggerà la mia signora, così come mia sorella Syl è la spada in grado di distruggere qualunque cosa la minacci. Esistiamo solo grazie a lei, ed unicamente per proteggerla”.
Nom ascoltava, sbalordito. Forse sorpresa di non essere stata interrotta, la giovane continuò, con maggiore cautela nel proprio tono.
“Hai sentito Myriar chiamarmi ibrido, una parola poco aggraziata che preferirei sostituire con mezzosangue. Se ti senti a disagio, ora, qui, con me, è unicamente perché sono parzialmente quello che tu stesso pochi giorni fa hai affrontato sul campo di battaglia”.
No, non era possibile, lo stava sicuramente prendendo in giro. Non poteva essere veramente quello a cui stava alludendo… eppure la sua sensazione di disagio cresceva solamente, e lei l’aveva notata.
“Non può essere…” sussurrò.
Lys prese un ultimo sospiro, prima di terminare.
“Io e mia sorella Syl siamo mezzodemoni. Siamo il risultato di una procedura di accoppiamento che la nostra signora ha sperimentato su alcuni demoni maggiori ed esseri umani. Siamo dei casi unici nella storia del mondo, e le nostre abilità particolari sono il frutto totalmente casuale delle curiose modalità con cui siamo nate. Niente può scalfirmi, se non lo voglio; niente può impedire che Syl lo scalfisca, se lei non vuole diversamente”.
Nom non poteva crederci, ma non sembrava che Lys stesse mentendo. Lo osservava dritto negli occhi, senza vacillare, né tentennare; ed il guerriero dedusse che quella potesse essere solo la verità, per quanto strana ed orripilante gli risultasse. Il pensiero degli esperimenti sull’accoppiamento fra demoni ed umani gli faceva venire voglia di vomitare.
Dopo pochi secondi, la ragazza distolse lo sguardo e si alzò dalla sedia.
“Comprendo che tu ora possa non fidarti di me, e non ti biasimerei, ma mi permetto di ricordarti che avrei potuto ucciderti o lasciarti morire in mille modi là fuori, simulando un incidente. Confido dunque che capirai che non ti voglio fare del male”, disse, girando attorno al letto. Si diresse verso la porta, la mano sulla maniglia. “Per quanto riguarda Myriar… Sì, non è stata un’idea sua. Qualcuno lo manovrava da dietro le quinte, anche se dobbiamo ancora scoprire chi fosse. Dalle informazioni che ho potuto reperire, sembra che il mandante occulto di questa piccola scaramuccia sia un certo Rukana. Non appena sapremo altro provvederò a farti informare.” Aprì la porta, voltandosi un attimo verso di lui mente usciva cominciando a richiuderla. “Ti auguro di rimetterti in fretta”.
La porta si richiuse gentilmente.

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Capitolo 32
*** Mildred - Into The Wild ***


Erano più di due settimane che viaggiava, senza incontrare assolutamente nessuno.
Mildred stava cominciando a chiedersi se la donna che aveva preso a comandarli a bacchetta non le avesse fatto qualche scherzo di pessimo gusto, o se semplicemente non volesse averla tra i piedi. Ancora non si capacitava di come Nom, un valido compagno di avventura dal suo punto di vista, avesse potuto cedere tanto in fretta di fronte alle lusinghe di quel mostro dai capelli rossi; né si era liberata della sensazione, della cui correttezza non aveva alcun indizio, che lei li avesse spediti tanto lontani gli uni dagli altri, e Lifaen persino su un altro piano, soprattutto per avere sottomano Lenn, senza interferenze da parte di altri.
 In ogni caso, ad ogni passo che aveva fatto lontano dallo stranissimo palazzo e dai suoi ancora più strani abitanti, tre tipi di sensazioni si erano fatte strade principalmente in lei: il sollievo di stare allontanandosi dalla carismatica ed opprimente presenza della donna stupenda; la nostalgia nei confronti dei suoi compagni di avventura; ma, soprattutto, il richiamo delle terre selvagge, che non sentiva da quando aveva abbandonato il suo clan in cerca di maggiore fortuna.
Tutto attorno a lei era, per dirla come l’avrebbe detta il condottiero, aspro, e Mildred ci si ritrovava benissimo. I campi brulli e popolati solo da sporadiche erbe, animali che inseguivano e venivano inseguiti, prede e predatori: quello era il suo elemento, lo sentiva. La vita selvaggia, allo stato brado; la vita che aveva momentaneamente lasciato in disparte per unirsi al gruppo di Lifaen, divenendo Sterminatrice di Demoni; la vita dove, se non eri abbastanza rapido, furbo, o forte, soccombevi, e nessuno ti poteva aiutare; la vita che avevano vissuto i suoi antenati, la stava vivendo anche lei, per la prima volta dopo tanti anni.
Aveva attraversato una piccola catena montuosa, prima di ritornare a valle, per il semplice gusto di farlo e mettersi alla prova: il freddo era stato intenso, ma non se n’era sentita infastidita. Piuttosto, si era sentita come se un vecchio amico le avesse dato il bentornato in una casa che aveva sempre aspettato solo lei; l’amico freddo la cui forza e rigore erano sempre stati rispettati dalla barbara.
Non si era portata provviste, dal castello della Carezza, anche se lei aveva tentato comunque di offrirgliene qualcuna, sempre con quella sua gentilezza sottilmente inquietante che le faceva venire i brividi; aveva cacciato nei giorni precedenti, digiunando quando non riusciva a mettere da parte qualcosa per la giornata, e si era solo sentita sempre più tonica e scattante; aveva notato che i suoi sensi non si erano impigriti durante la permanenza nella civiltà, ed era sempre riuscita a rispondere in maniera più che adeguata alle minacce, alle sfide e ai pericoli che la natura incontaminata le poneva di fronte. Era persino riuscita ad evitare un paio di agguati da parte di leoni, pantere ed altri predatori di grosse dimensioni, e se ne sentiva abbastanza fiera: sapeva che non molti altri combattenti sarebbero sopravvissuti a lungo nelle sue medesime condizioni, ed ogni tanto si divertiva a pensare al modo atroce in cui sarebbe morta la Carezza, lontano dagli agi e dalle comodità a cui era tanto evidentemente abituata.
Più spesso ancora, però, le tornava in mente che quella donna, mostruosa ed insieme mostruosamente seducente, aveva allontanato tutti loro dal palazzo, tranne che Lenn; il pensiero le faceva sempre, invariabilmente venire voglia di spaccare qualcosa, ed ogni volta si sentiva sempre più sicura, senza avere prove, che il motivo principale della separazione forzata fosse proprio il giovane stregone. Non sapeva perché; non sapeva nemmeno cosa avrebbe provato a fare al ragazzino, né come, a dirla tutta, ma era certa di una cosa: se Lenn fosse stato cambiato da quel mostro dalle sembianze femminili, o se gli fosse stato fatto del male, in qualsiasi modo, Mildred avrebbe fatto in modo che la testa della Carezza si ritrovasse a diversi metri rispetto al resto del corpo.
Scacciò dalla testa quei pensieri cupi: al momento non serviva veramente a nulla. Ciò che contava era in realtà che aveva cominciato ad intravvedere alcune casupole di paglia, e qualche tenda fatta di pelli di animale. Sentì crescere l’eccitazione, e, con essa, il nervosismo: la Carezza non le aveva fatto fare un viaggio a vuoto. Continuò a camminare anche mentre sentiva le tende frusciare e da esse sbucare alcuni volti, giovani, vecchi, femminili e maschili; sussurravano, vedendola passare, ma non era il sussurro timoroso che era abituata a sentire da parte degli abitanti delle città. No, quello era un sussurro di ammirazione: era forte, lo sapevano, e la rispettavano per questo. Quello era ciò che le era mancato di più delle terre selvagge: nella civiltà, la forza eccessiva e il suo aspetto minaccioso erano temuti, additati, sussurrati, guardati con sospetto e malignità; ma nel bel mezzo delle terre selvagge, dove chi non era abbastanza resistente moriva e solo chi sfruttava al meglio tutte le proprie risorse riusciva a sopravvivere, le sue caratteristiche venivano apprezzate, prese a modello, persino elogiate.
Smise di camminare solo quando vide qualcuno venirle incontro, anziché seguirla stupito. Le stava venendo incontro un uomo; un uomo alto quanto lei, dal fisico scattante e vestito con una semplice giacchetta di pelle ed un paio di pantaloni, anch’essi in pelle grezza, che ricoprivano un corpo muscoloso ed agile. Inoltre, e Mildred si stupì nel sentirsi formulare quel pensiero, era indiscutibilmente bello: i freddi occhi azzurri facevano un pendant incantevole con la zazzera di capelli biondi che gli arrivavano alle spalle. Al fianco, appesa ad una rozza cintura di cuoio, un’ascia da battaglia decorata con piume di vari colori terminava il ritratto di quello che, Mildred ne era ormai certa, era il guerriero più potente del villaggio in cui era entrata.
Arrivato di fronte a lei, questi la fissò: lei non distolse lo sguardo. Farlo sarebbe stato sinonimo di debolezza, e non voleva dare una brutta impressione. Infine, l’uomo parlò, e la barbara sentì che parlava con l’autorità di un capo e contemporaneamente con una gentilezza ed un rispetto che raramente aveva sentito in toni altrui, se riferiti a lei.
“Tu sei… Mildred, la Sterminatrice di Demoni, vero?”.
La barbara annuì, lievemente sorpresa che il suo titolo, nonché quello dei suoi compagni, fosse conosciuto anche in quelle terre sperdute.
“Tu devi essere il capo del villaggio, vero?” domandò.
L’uomo annuì, mentre si discostava da lei per accompagnarla, come se stesse trattando da pari a pari.
“Il mio nome è Ryos. Aspettavamo da tempo che ci raggiungessi. Abbiamo bisogno del tuo aiuto, Mildred”.

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Capitolo 33
*** Mildred - Una conversazione con Ryos ***


Mildred stava terminando di gustarsi il cosciotto di carne che Ryos le aveva offerto come cena e segno di ospitalità; era veramente buona cotta al punto giusto. Tuttavia percepiva qualcosa di strano, una sensazione curiosa, mentre gli occhi glaciali del capotribù barbaro non la lasciavano un attimo, come se stesse cercando di scrutare a fondo la sua anima.
Erano seduti nella tenda di Ryos, la più addobbata con pelli di animali, ossa e trofei di ogni tipo, fra cui anche parecchie armi, come aveva constatato. C’era di tutto: da asce grezze e appena definibili come tali, a veri e propri spadoni per cui Nom (ne era certa) avrebbe stravisto. La luce arancione del tramonto filtrava attraverso il tessuto bianco della tenda, dando una sfumatura di quel colore a qualsiasi cosa al suo interno.
Mildred si sentiva un po’ intimidita dal fatto di stare al cospetto di una persona così evidentemente rispettata e potente, e, terminato il pasto, si decise ad imbastire almeno, come l’avrebbe chiamata Lifaen, uno straccio di conversazione.
“Vedo che possiedi molti trofei” disse, dopo essersi schiarita la gola. “Immagino che provengano da altrettante prede che sono state tanto stolte da sfidarti in combattimento.”
“Immagini bene” rispose Ryos. “Sì, questi trofei me li sono guadagnati tutti in combattimento… E’ per questo che sono stato scelto per succedere a mio padre, Rumbar.”
“Rumbar il Flagello?” chiese, stupita, la barbara. Sapeva di non essere né acculturata, né particolarmente ferrata in storia come Lifaen, e nemmeno aveva intenzione di diventarlo mai; troppe nozioni e troppo poco tempo da trascorrere all’aperto. Ma persino lei conosceva la leggenda di Rumbar il Flagello: il potente capotribù barbaro che aveva tentato di unificare tutte le tribù del nord per costituire una sorta di impero nelle terre selvagge era ancora oggetto di dicerie e pettegolezzi in tutte le città che avevano visitato, anche a tre anni dalla sua scomparsa in battaglia. Si diceva fosse talmente forte che un suo colpo di martello fosse sufficiente a far tremare la terra entro parecchie decine di metri.
Mildred cominciava a percepire il peso dell’autorità che quell’uomo si portava dietro, e il suo rispetto aumentava di conseguenza. Aveva davanti il figlio di uno dei capitribù barbari più potenti di cui si avesse memoria… e con lui stava parlando del più e del meno quando lui aveva espressamente dichiarato di avere urgenza di parlarle.
“Sì, quel Rumbar” disse Ryos con un sorriso. “Lui è morto nell’ultima scorreria che ha compiuto contro i suoi nemici che volevano opporsi alla sua autorità, così ora sono io il capotribù. Il sogno di mio padre di un impero barbarico nelle terre selvagge sembra essersi infranto, ma farò il possibile perché non sia così.”
Quanta determinazione pensò la barbara. Di certo non gli mancava il carisma per farcela: anche mentre parlava con lei, che lo aveva appena conosciuto, l’uomo dagli occhi di ghiaccio sembrava accalorarsi e risplendere quasi di luce propria, mentre la metteva a parte di quello che, a suo tempo, era stato il sogno di suo padre e poi il proprio.
Seguì un silenzio imbarazzato. Mildred non se la sentiva di lasciar morire così il discorso, quindi riprese a parlare, o meglio, a fare domande.
“Come fai a conoscermi? Sapevi persino del titolo che nel mondo civile ci portiamo dietro io ed i miei amici.”
“Le voci corrono più in fretta di pantere, anche fuori dalla civiltà” rispose Ryos. “So che tu ed i tuoi compagni avete compiuto assieme imprese in cui forse sarei morto persino io, quindi è naturale che sappia chi sei, Mildred. Abbiamo bisogno del tuo aiuto, del vostro aiuto.”
“Sta succedendo qualcosa riguardante i demoni?” chiese la barbara, fremendo nel ricordare quelle aberrazioni.
Ryos annuì. “Ormai ne siamo quasi certi. Quei mostri stanno prendendo sempre più piede nelle terre selvagge, dove non tutti sono eroi al vostro livello per riuscire a fronteggiarli. Finora siamo riusciti a tenerli a bada, ma non sappiamo per quanto potremo continuare ancora. Inoltre, una strana figura ammantata di nero si aggira nei dintorni, sparendo rapidamente ogni volta che la incontriamo. È come se non volesse farsi trovare, ed al contempo stesse cercando qualcosa.”
“Io ed i miei compagni ti aiuteremo, una volta che ci saremo riuniti. E’ una promessa, capotribù Ryos. Ma… non so quanto io possa essere in grado di fare, da sola” disse la barbara, abbassando il capo. Odiava manifestare la propria debolezza, ma qualcosa in Ryos l’aveva spinta a decidere di buttare al vento la cautela e lasciare che lui la osservasse per come era e traesse le sue conclusioni. Aspettò le sue risate, che però, stranamente, non giunsero. Giunsero invece parole.
“Ricorda questo, Mildred. Dovunque tu sia, in qualunque situazione ti ritrovi, devi sempre tenere a mente che non sei mai sola. Tutti coloro che ti hanno preceduto* e, sollevando lo sguardo, la barbara rimase sorpresa nel vedere che l’altro si era avvicinato e le stava puntando un dito sul petto, *e anche tutti coloro per cui temi, e che ami… sono tutti qui” concluse con un sorriso, tornando a posto.
La donna selvaggia si riscosse. Ovviamente aveva ragione. Non doveva avere paura, perché non sarebbe mai stata veramente sola. I suoi antenati erano sempre lì con lei… ed ormai, poteva sentire distintamente altre quattro presenze, in mezzo al coro di voci antiche ma comunque diverse da tutte le altre: erano quelle di Keyleth, di Nom, di Lenn, persino quelle di Lifaen.
“Già. Hai ragione. Grazie, Ryos” disse, con voce piena di gratitudine.
Lui fece un cenno col capo, come ad accettare il ringraziamento. Poi continuò.
“Il coro antico che si agita nel nostro cuore ci è sempre compagno, e ci aiuta quando siamo in difficoltà. Tuttavia, a volte… capiamo di sentire meglio quando riusciamo ad estraniarci dal coro.”
“A me non è mai successo. Sono sempre stata parte del coro, e lo sarò sempre” rispose la barbara, incuriosita. Dove voleva andare a parare Ryos?
“Certo, ma quello che intendevo dire è che…” Il capotribù esitò un attimo, come se fosse incerto su qualcosa, poi riprese. “Sia io che mio padre… abbiamo scoperto di riuscire a percepire meglio i consigli degli antenati quando riusciamo a rimanere esterni rispetto alle voci del coro. Riusciamo ad ascoltare più voci contemporaneamente, anziché una sola. E beh… se lo volessi… potrei insegnarti.”
Mildred rimase di sasso. Si stava offrendo di farle da maestro per questa cosa? Non aveva senso. Perché si dava tanta pena per lei?
“Grazie, ma… Perché ti stai offrendo di farmi.. da maestro?”
Ryos rimase in silenzio per un po’ a fissarla. Forse stava cercando la risposta giusta. Infine disse:
“…. Sento… sento che è giusto così. È… È che… sentivo di dovertelo chiedere. Non devi darmi una risposta subito. Pensaci su. Mi dirai poi. Intanto potrai essere nostra ospite, se lo desideri. Ti farò avere una tenda.”
Le fece un cenno, che per qualche motivo le sembrò estremamente imbarazzato, e Mildred, capendo di essere stata congedata, si alzò ed uscì dalla tenda.

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Capitolo 34
*** Mildred - La figura in nero ***


Lo sconosciuto, completamente coperto da una specie di soprabito nero, con un cappuccio che impediva anche solo di immaginare il suo volto, era semplicemente rivolto verso di lei, una mano appoggiata al tronco più grande che Mildred avesse mai visto.
Ryos le aveva raccontato di quel tronco, durante le lezioni che lei aveva accettato di seguire per mantenere la propria individualità nel coro degli antenati. Aveva scoperto che, come le aveva suggerito il capotribù dagli occhi azzurri, era molto più semplice notare i dettagli se si rimaneva appena fuori dal coro, ed aperti a qualunque consiglio, anziché scegliere un unico antenato ed entrare in connessione solo con quello. Era riuscita nel suo intento in poche settimane, sorprendendo Ryos e se stessa; avevano entrambi pensato sarebbe stato molto più lungo e faticoso.
Terminate le lezioni, Ryos era diventato da maestro ad amico, per lei. Era una persona semplice, eppure in qualche modo raffinata: sospettava sarebbe potuto andare d’accordo con Lifaen e Keyleth, se glieli avesse presentati. Aveva scoperto che l’uomo nutriva un profondo rispetto per la natura e gli spiriti che di essa permeavano ogni aspetto: dal più misero sasso alla quercia più maestosa, Ryos concedeva a tutti gli spiriti naturali il rispetto che riservava ai suoi antenati, ed a Mildred questo era piaciuto molto di lui. Le aveva parlato di una quercia enorme che si trovava al centro di una foresta a qualche giorno di distanza dal villaggio; tuttavia, aveva precisato, gli pareva più che altro che fosse la foresta ad essersi generata attorno all’albero plurimillenario.
Posso capire perché, pensò la barbara. Nonostante la figura in nero stesse assorbendo buona parte della sua attenzione, non poteva fare a meno di sentire soggezione, di fronte alla maestosità dell’albero che le si parava di fronte. Il tronco misurava almeno sette metri, mentre la quercia nella sua interezza era in altezza almeno pari a venti; in qualche modo si sentiva minuscola. Ma fece uno sforzo per tornare alla realtà, perché sentiva che qualcosa richiedeva la sua totale concentrazione; e non le ci volle molto per capire che era la figura ammantata di nero.
Era ancora voltata verso di lei. Era alta, sebbene non quanto Ryos né quanto la barbara, tuttavia supponeva che per gli standard di un uomo comune dovesse essere sicuramente sopra la media; indossava una sorta di uniforme nera, le cui maniche terminavano in ampie falde ed entrambe le mani erano coperte da guanti neri, uno dei quali a contatto con il tronco, come se stesse cercando di percepire qualcosa con quel contatto. Gli stivali erano anch’essi neri come la notte, e l’impressione generale che Mildred ebbe era di una corporatura esile, vagamente simile a quella di un elfo, o di un umano di media corporatura.
“Tu chi sei?” domandò la donna, mentre sentiva il coro nella sua testa che cominciava a farsi sentire. Brutto segno: voleva dire che quel tipo era pericoloso anche prima di aver aperto bocca. E quando lo fece per davvero, Mildred sentì crescere l’istinto di scappare e nascondersi, cosa che non aveva mai provato prima.
“Sono venuto a vedere la porta per questo luogo”. La sua voce era virile e profonda, ma fredda e tagliente. La voce di chi non lascia mai trasparire le emozioni… o che proprio di emozioni non ne possiede pensò la barbara; per un attimo aveva seriamente pensato che avrebbe riascoltato quella voce mielata e terrificante che proveniva da sotto il mantello bianco, ma questa era di gran lunga peggiore, perché, ad una tale freddezza, poteva associarsi solo una determinazione incrollabile.
Nel frattempo, il coro dentro la sua testa stava aumentando di volume, ma, grazie alle lezioni di Ryos, per la barbara non fu affatto uno sforzo metterlo a tacere per poter continuare con le sue domande.
“Cos’hai detto?” domandò Mildred, non capendo. Di che porta stava parlando quel tipo?
“Questo posto è stato collegato” continuò la figura, come se non l’avesse sentita.
“Di cosa stai parlando?” chiese nuovamente la barbara. Stava cominciando ad irritarsi, ma s’impose di mantenere la calma. Prima doveva avere delle risposte, poi avrebbe potuto pestarlo.
“Legato all’Oscurità… E presto verrà completamente eclissato” disse l’altro.
Ora Mildred era proprio sicura che la stesse volutamente ignorando. Ma nonostante sentisse una gran rabbia montarle dentro per una simile arroganza continuò a fare domande.
“Vieni da un altro mondo?” domandò. Poi le balenò in mente un’altra domanda, ancora più specifica. “Vieni dall’Abisso?” chiese.
“Non sai ancora cosa c’è al di là della porta” parlò la figura. Poi continuò, una frase insensata dietro l’altra. “C’è così tanto da imparare. E tu capisci così poco.”
Mildred non ce la fece più. Estrasse l’ascia, anche solo per stringere le mani intorno a qualcosa, ed assunse l’espressione più minacciosa che le riuscì di mettere insieme. “Ah sì? Beh, questo lo vedremo!” gridò allo sconosciuto.
Per un attimo le parve quasi di sentirlo ridere, anche se nessun movimento tradì minimamente alcuna emozione. Poi l’altro parlò, freddo come prima.
“Uno sforzo senza senso” disse. Poi Mildred rimase sorpresa dall’aprirsi di una breccia nera alle spalle dell’individuo. Sembrava fatta di pura tenebra, e la sensazione di pericolo che provava si acuì incredibilmente. Dovunque portasse quel buco nero, ne era certa, non era un luogo sicuro.
Rimase ferma mentre lo sconosciuto le dava le spalle, come se fosse certo che non sarebbe stata in grado di fargli nessun male.
“Chi non sa nulla non può comprendere nulla.” Con queste parole, lo sconosciuto entrò nel varco oscuro e svani. Il buco si chiuse, lasciando solo alcuni filamenti di oscurità che svanirono alla luce del sole come fumo spazzato via dal vento.
Mildred rinfoderò l’ascia, e andò ad osservare più da vicino il tronco della quercia gigantesca, per assicurarsi che quel tipo non avesse fatto nulla alla pianta. Non le parve di scorgere alcun segno o graffio sul tronco, così mormorò un breve saluto allo spirito dell’albero come Ryos le aveva insegnato e tornò indietro.
Doveva assolutamente avvisare il capotribù. Forse per lui quelle parole senza senso avrebbero significato qualcosa. Ma anche senza comprenderle appieno, Mildred era certa del fatto che fossero foriere di rovina imminente.

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Capitolo 35
*** Mildred - La Secolare ***


Ryos stava ancora in silenzio, e non le piaceva. Proprio per nulla.
Mildred era seduta davanti a lui, nella sua tenda; lui era rimasto immobile da quando aveva terminato di raccontargli il suo incontro con il tizio in nero. Si sentiva a disagio a vederlo così serio e pensieroso: finora era quasi sempre stato di umore ottimo e cordiale.
Intanto che aspettava le comunicasse una sua decisione o teoria, Mildred si ritrovò a pensare come quel piccolo villaggio, sperduto nelle terre settentrionali, fosse ancora in piedi e tenuto saldamente unito dalla presenza del capotribù. Ryos sembrava essere benvoluto da tutti; tutti gli abitanti si fidavano di lui, ed a lui si affidavano, per le decisioni comuni, confortanti dalla sua apparentemente perenne ed inesauribile fonte di voglia di fare. Sembrava che tutti dipendessero da lui, e che si sarebbero sentiti sperduti, senza la sua guida; e tuttavia, Ryos stesso le aveva rivelato che a volte non si sentiva affatto sicuro di essere in grado di guidare nella direzione giusta la propria gente, ma che finora aveva anche avuto molta fortuna.
Mildred sentiva di non riuscire a comprenderlo del tutto: anche se ormai erano amici, nei primi tempi si era stupita di come l’uomo fosse stato disposto ad aprirle le proprie porte e ad esporle i propri pensieri solo sulla base di voci giunte dalle terre civilizzate. Non aveva nessun senso, almeno non per lei: per quanto non fosse un’esperta di interazioni sociali, persino lei sapeva che essere cordiali a quel modo con un perfetto sconosciuto e rivelargli tanto era tremendamente rischioso. Eppure…
Per quanto si fosse sforzata di tenere la mente occupata, con gli esercizi che Ryos le impartiva, ed aiutando nel limite delle sue possibilità il villaggio (cosa per cui più di una volta si era sentita vivamente ringraziare come le era capitato solo con Lifaen quando un combattimento era terminato ed erano ancora tutti vivi), alcune volte le era sorto il pensiero di come avrebbe potuto essere avere Ryos come compagno di avventure; si era sorpresa a chiedersi come sarebbe stato farlo integrare con il resto del gruppo.
Sicuramente, si era detta, Nom sarebbe stato ben contento di un altro avversario con cui potersi misurare e su cui fare affidamento: avrebbe potuto non sembrare, di primo acchito, ma il guerriero faceva molto affidamento sulla fiducia riposta negli altri. Lenn sarebbe sicuramente stato emozionato, con nuove persone tendeva sempre a reprimere almeno un po’ i suoi poteri, per evitare di spaventare, come le aveva confessato una volta; Keyleth l’avrebbe preso come l’ennesimo dono dei suoi dei, per quanto Ryos vi desse un’importanza del tutto marginale, se paragonata a quella che riservava agli spiriti naturali; e Lifaen… avrebbe sorriso e l’avrebbe accolto a braccia aperte nel gruppo, come faceva sempre. Come aveva fatto anche con lei.
Fu strappata ai suoi ricordi dal sospiro di Ryos. Concentrò la propria attenzione sul capotribù, che cominciò a parlare con tono assai grave.
“Quello che mi riferisci mi inquieta, Mildred. Mi spaventa davvero tanto. Abbiamo affrontato altre minacce prima d’ora, ma erano sempre state tribù rivali, lupi, l’inverno. Questo tizio in nero è appena apparso, e per di più sembra essere completamente solo. Ma la sua attenzione per la Secolare, l’albero che stava guardando quando l’hai trovato, mi fa sentire veramente a disagio. Soprattutto se, come mi hai detto, gran parte del suo discorso riguardava una fantomatica Oscurità.”
La barbara annuì. “Ha inquietato anche me, anche se non ci ho capito nulla; però ho avuto l’impressione che mi abbia completamente ignorata. Come se fossi un qualche insetto che potesse schiacciare in qualsiasi momento. E poi, che intendeva, parlando di una porta? E che ha la Secolare di tanto speciale?”.
Ryos la fissò gravemente negli occhi. “Te lo rivelerò, Mildred. Ma tu devi giurarmi che non ne parlerai mai a nessuno all’infuori dei tuoi amici. Questa conoscenza non deve passare per troppe bocche, e per ancor meno orecchie, ma capisco che sarebbe impossibile per te ed i tuoi compagni intervenire efficacemente se dovessi tenerli all’oscuro.”
La donna selvaggia annuì, e immediatamente dopo Ryos riprese a parlare, come se desse per scontato che avesse giurato.
“La foresta vicino a questo villaggio è un luogo molto particolare, Mildred. Non solo perché, come hai avuto modo di vedere, ospita la quercia più grande dell’intero continente, ma anche e soprattutto perché è un luogo in cui il potere naturale è tremendamente forte. Lì gli spiriti naturali possono trapassare dalla loro dimensione in questo mondo, entrare in contatto con i mortali e prestare loro forza, speranza e conforto. Entrano a far parte della terra, dei fiori e degli alberi. E, la prima volta che giunsero in questo mondo, decisero che una foresta sarebbe cresciuta attorno al luogo da cui erano usciti. La Secolare segna, e contemporaneamente è, il punto e la porta da cui gli spiriti entrarono nella nostra dimensione; essi infusero in un singolo seme una forza sufficiente a sostenere la pianta che ne sarebbe nata per molto, molto tempo, e tale che questa avrebbe potuto cederla ad altri esseri. In questo modo, la foresta si generò attorno alla Secolare, ed essa è rimasta lì, per tutto questo tempo, nonostante cataclismi di ogni genere si siano abbattuti su queste terre, da terremoti a tempeste di fulmini.”
Mildred era ancora stupita, ma riuscì ad articolare una domanda.
“Quindi… La Secolare sarebbe… una specie di… porta fra il mondo degli spiriti ed il nostro?” chiese, per essere sicura di aver capito bene. “Era questo ciò a cui si riferiva quel tipo?”
Sono venuto a vedere la porta per questo luogo.
“Credo proprio di sì. Non so come conosca un tale segreto; io stesso l’ho appreso solo poco tempo fa da una viandante che è capitata qui” ammise Ryos.
Mildred rimase pietrificata. “Una viandante?” domandò. “E com’era?”.
L’uomo ci rifletté, come se stesse cercando di rimettere assieme i pezzi di un vaso. “Ricordo che era pallida… aveva i capelli rossi… ed era molto bella. Ma perché me lo chiedi?”.
Lei, pensò la barbara. C’era solo una persona a cui corrispondeva quella descrizione, ed era l’ultima persona a cui volesse pensare in quel momento.
“Non importa. Che facciamo?” domandò.
Ryos assunse un’espressione dura. “Mi dispiace, ma, con le ultime notizie, temo che sarò costretto ad affrettare il tuo addestramento. Dovrai impegnarti molto di più, anche se siamo già a buon punto. Poi dovrai riunirti con i tuoi amici, mentre noi, nel frattempo, cercheremo questo tizio in nero e lo terremo alla larga dalla Secolare per quanto ci sarà possibile. Ma senza il vostro aiuto, ho paura che potremmo non essere in grado di bloccare le sue mire e contemporaneamente contrastare la minaccia dei demoni.”
Mildred annuì. Ci aveva visto giusto, purtroppo. Stava per abbattersi una tempesta, sulle terre settentrionali… e, se non si fossero mossi in tempo, la Secolare non avrebbe passato l’ultimo cataclisma indenne.

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Capitolo 36
*** Keyleth - Silverbell ***


La città le piaceva. Sentiva di essere giunta in un luogo che non sapeva di avere cercato, ma di cui aveva sempre ardentemente desiderato essere parte.
Il viaggio non era stato di gran peso per Keyleth. L’elfa aveva semplicemente seguito il sentiero indicatole per diversi giorni, incontrando lungo la strada diversi villaggi in cui si era fatta dare indicazioni più precise rispetto a quelle fornitele da Lifaen. Gli abitanti erano sempre stati molto deferenti: le avevano spiegato di avere un debito di onore con la città di Silverbell da quando, duecentotrenta anni prima, le sacerdotesse avevano aperto le porte della città perché i loro antenati potessero rifugiarvisi per scampare al massacro che ne avrebbero fatto i demoni.
Arrivata in città, era stata colpita dalle occhiate incuriosite che la gente le lanciava. Aveva in seguito scoperto che gli elfi erano una visione rara a Silverbell: apparentemente, gli elfi che abitavano i boschi vicini erano deceduti tentando di difendere le proprie case dall’orda demoniaca. Keyleth si era sentita incredibilmente triste, venendo a conoscenza di un simile scempio; aveva conosciuto pochi elfi al di fuori della propria foresta, ed aveva provato dispiacere nel sapere che alcuni non ne avrebbe mai potuti incontrare.
Il tempio si era rivelato più semplice di quanto avesse immaginato: le pareti erano costruite in lucido marmo bianco, che rifletteva la luce del sole, e solo le cappelle del dio del sole Pelor e della dea della luna e dell’autunno Sehanine avevano materiali preziosi, come oro ed argento, ad incorporarli. Tutti gli altri templi avevano comunque qualcosa di caratteristico, che li differenziasse tra di loro: il tempio del dio Kord, ad esempio, era decorato con fregi e bassorilievi raffiguranti armi ed era frequentato in egual misura da chierici e combattenti, mentre quello di Corellon, il dio elfico del combattimento, dell’arte e della magia arcana, era frequentato da incantatori di ogni tipo e da elfi in misura quasi superiore ai chierici.
Avendo richiesto di essere introdotta alla somma sacerdotessa che guidava i templi di Corellon e Sehanine, Keyleth venne fatta attendere su una comoda panca in legno di quercia in un lungo corridoio, su un lato del quale erano raffigurate le varie fasi lunari, mentre per tutta la lunghezza dell’altro correva un lungo poema elfico che narrava di come Corellon avesse sconfitto in combattimento il dio degli orchi Grummsh e gli avesse tolto un occhio.
Mentre l’elfa stava recitando mentalmente un paio di versi sacri, per tranquillizzarsi un po’ e passare il tempo, sentì qualcuno sedersi accanto a lei. Voltando lo sguardo, vide al proprio fianco una giovane ragazza, con le vesti da sacerdotessa. Aveva occhi nocciola e capelli castani, che portava raccolti in una lunga treccia che le ricadeva sulla spalla sinistra. Dai paramenti che indossava, Keyleth stimò che fosse un’officiante sia per il culto di Corellon che di Sehanine: solo qualcuno che adorasse entrambi gli dei poteva avere paramenti d’argento tanto curati nei dettagli da permettere all’osservatore di contare il numero di foglie dell’albero ricamato sul petto. Non poteva avere più di vent’anni.
“Lei è la visitatrice che stavamo aspettando? Sono molto onorata di conoscerla” disse la giovane con un sorriso amichevole.
L’elfa annuì. “Il mio nome è Keyleth” rispose, ricambiando il sorriso della ragazza.
“Il mio è Mari” rispose l’altra. “È da tanto che aspettavo di conoscerla, sacerdotessa Keyleth! Ho sentito meraviglie di lei e del suo gruppo!”
“Mi meraviglio sempre di come le voci corrano più in fretta del vento, fra gli umani” commentò sorridendo l’elfa. “È da molto che sei officiante qui? Mi sembri molto giovane, anche per i canoni umani.”
Mari sembrò pensarci un attimo sopra, poi disse, gioviale: “Credo di avere assunto questa carica circa tre anni fa. Ho sempre vissuto qui da che ricordi, ed ho sempre sentito forte la voce dei Seldarine, anche se non la vocazione al loro stile di combattimento o di vita. Sono semplicemente una servitrice mortale della Signora d’Argento e del Primo dei Seldarine.”
Keyleth sorrise di nuovo, per nascondere la propria sorpresa. Mari, seppur molto giovane, era già a conoscenza del nome della guardia degli dei elfici: i Seldarine, ad immagine dei quali aveva sentito che anche i mortali avessero istituito un simile corpo di combattenti divini. Fin da piccola, da quando le era stato rivelato dei Seldarine, aveva desiderato farne parte: c’erano pochi onori grandi quanto essere insignita del titolo di Cultrice Seldarine. Si diceva che, dalla grande Guerra delle Fate combattuta da elfi ed eladrin contro i malvagi drow, soltanto sedici, fra elfi ed eladrin, avessero ottenuto quel prestigiosissimo titolo, a cui era associato un potere che pochi erano in grado di comprendere davvero. Per certi versi, aveva sempre pensato che, come gli eladrin riuscivano a fondere in maniera quasi del tutto perfetta le arti della spada e della magia in uno stile di combattimento aggraziato quanto potente e letale, allo stesso modo i Cultori Seldarine fossero riusciti a unire al proprio potere divino la loro abilità nel tiro con l’arco.
Fu risvegliata dai suoi pensieri dall’occhiata incuriosita che Mari lanciava all’arco che teneva sopra le gambe insieme al suo simbolo sacro. “Riesco a concentrarmi meglio quando ho entrambi insieme a me, durante la meditazione.”
Il regalo dell’Angelo delle Tenebre. Per quanto quella donna non le piacesse, e le desse la sensazione che sapesse sempre troppo più di quanto sarebbe stato utile, era sempre stata gentile. Non era mai riuscita a leggere nemmeno una volta la sua espressione perennemente cortese, e nemmeno i suoi movimenti aggraziati le avevano rivelato nulla di più a parte della sicurezza innata in quella donna dalla bellezza devastante. Lungo il cammino verso Silverbell aveva avuto modo di testare le proprietà della sua nuova arma, e, nonostante fosse estremamente potente ed utile contro i demoni, non riusciva a non sentire nostalgia di Acqua d’Autunno, le cui schegge erano ancora conservate in un borsellino che si portava al fianco.
Mari annuì, alzandosi. “Molto bene. Mi scusi se le ho fatto perdere tempo prezioso, ma gradivo di conoscerla meglio.”
“Non preoccuparti, nessun disturbo” si affrettò a dire Keyleth. “Spero di rivederti presto”, aggiunse.
Mari rise, una risata che le mise a sua volta allegria.
“Beh, di sicuro mi rivedrà presto” disse, con un sorriso genuino e furbo. “Sono io che la devo accompagnare dalla somma sacerdotessa. Sperò che sarà comunque in grado di perdonarmi questo piccolo ritardo.”

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Capitolo 37
*** Keyleth - La Gran Sacerdotessa ***


Di primo acchito era rimasta un po’ stupita, ma ora a Keyleth sembrava completamente normale ritrovarsi viso a viso con una delle cultrici elfiche più potenti degli ultimi trecento anni.
Aveva seguito Mari, che aveva continuato a chiacchierare di come avesse sentito prodigi sulle imprese sue e del suo gruppo, facendosi largo fra stuoli interi di sacerdoti e sacerdotesse che si fermavano tutti a salutarla con deferenza; la ragazza l’aveva condotta fuori dal tempio, e lì l’elfa aveva avuto modo di apprezzare come, dietro la costruzione, si stendesse praticamente un’intera foresta. Ricordava di aver sentito storie, quando era stata più giovane, sul fatto che Silverbell terminasse e delimitasse i propri confini grazie al “verde dietro al sacro”: probabilmente, quella frase si riferiva al fatto che il bosco era talmente fitto ed intricato che persino Keyleth, una o due volte, era riuscita a perdere il sentiero principale, ritrovandosi a ringraziare che ci fosse Mari a guidarla. Nessuno sarebbe riuscito ad orientarsi in quella distesa di piante perenni, senza essere molto esperto o conoscere bene i luoghi.
Mari si era ad un certo punto fermata davanti ad un’enorme pianta. Keyleth l’aveva riconosciuta per un salice di dimensioni veramente incredibili; poi aveva notato la figura che dava le spalle alle due sacerdotesse da cui proveniva un canto sommesso. Era avvolta in un leggero scialle che copriva le spalle, lasciate scoperte così come le braccia, da paramenti sacri d’oro e d’argento. Una cascata di capelli bianchi ricadeva sulla schiena della sacerdotessa, ed ai lati del viso spuntavano due orecchie a punta.
Avevano atteso che terminasse il canto, poi la figura si era voltata verso Keyleth e Mari. Nonostante i capelli bianchi, indice di età molto avanzata anche per un elfo, il viso era giovanile e animato da una sorta di serena pacatezza; occhi grigi, severi e compassionevoli ad un tempo, si soffermarono negli occhi verdi di Keyleth, come a volerle leggere l’anima. L’elfa sentì il bisogno di inchinarsi di fronte a tanta autorità; nel farlo, osservò che Mari aveva già provveduto, e stava dicendo alla sacerdotessa: “È lei, nobile Mialee”. Questa fece un cenno di assenso, e Mari, voltatasi, disse con un sorriso a Keyleth:
“Non preoccuparti, non sarò molto lontana. Quando avrete terminato, ti ricondurrò al tempio. Un paio di volte, e questo viaggio sarà uno scherzo per una come te.”
Keyleth annuì, ascoltandola solo a metà. Era ancora spiazzata dal nome che aveva udito.
Mialee. Quel nome le aveva risvegliato nella memoria vecchie lezioni di storia religiosa; in molte delle lezioni che aveva appreso, veniva citata Mialee Fogliascura, potente sacerdotessa detentrice insieme ad altre quindici come lei ad ottenere il prestigioso titolo di Cultrice Seldarine, ed unica fra tutte ad ottenere anche il titolo di Gran Sacerdotessa dei Seldarine, cosa che la poneva anche a capo delle forze militari dei Seldarine. Si diceva che in battaglia fosse persino in grado di chiamare in suo aiuto creature angeliche, e che gli dei Corellon e Sehanine in persona le avessero fatto dono di una longevità superiore persino a quella elfica per il valore dimostrato nella Battaglia di Silverbell, duecentotrenta anni prima, quando era riuscita a far terminare l’assedio dei demoni rubando al loro leader qualcosa di estremamente prezioso, sebbene di natura sconosciuta.
Si riscosse dalle sue riflessioni, facendo un nuovo inchino.
“Sono estremamente onorata, nobile Mialee.”
“L’onore è tutto mio, sacerdotessa Keyleth” rispose, con una voce sorprendentemente dolce, la Gran Sacerdotessa. Questo indusse Keyleth a sollevare lo sguardo; l’altra stava sorridendo, come stesse parlando con una cara amica. “Giungono molte voci sul conto tuo e dei tuoi amici, e, a parte qualcuna, mi portano a credere che gli dei ti abbiano inviato qui proprio al momento adatto.”
“Mi perdoni, ma che intende?” chiese l’elfa, sorpresa. Non le aveva dato l’impressione di qualcuno che desse molto ascolto alle voci.
“Beh, mi risulta che tu ed i tuoi amici vi siate fatti più volte valere contro la minaccia che pone questo mondo in grave pericolo, o mi sbaglio? Il fatto che tu fossi diretta qui ha reso particolarmente contenti tutti noi che viviamo a Silverbell, ed oltremodo agitata la cara Mari, che mi pare tu abbia già avuto modo di conoscere” rispose Mialee.
Keyleth sorrise. “Sì, è una persona molto simpatica. Ma soprattutto mi sembra sia illuminata e piena di fede. Sorprendente, data la sua giovane età.”
“Anche tu sei molto giovane, eppure in fede non difetti” replicò con un sorriso gentile la Gran Sacerdotessa. “Sarebbe stato molto bello, se ti fossi unita ai nostri ranghi prima, in qualità di Cultrice Seldarine, perché abbiamo veramente bisogno di un faro di speranza quale tu puoi diventare, considerati i tempi bui che stiamo affrontando.”
“Crede davvero… che ne sia degna?” domandò, stupita, Keyleth. Non aveva mai pensato di poter veramente diventare una Cultrice, sebbene fosse stato il suo sogno fin da bambina.
“Non lo credo, ne sono certa. Sai, Keyleth” disse, avvicinandosi a lei, Mialee “ho conosciuto molte aspiranti cultrici negli ultimi duecentocinquanta anni, desiderose di apprendere le arti segrete note soltanto ai sacerdoti di rango più alto del culto del Primo dei Seldarine e della Signora della Luna; ed a tutte sono state più che felice di insegnare ciò che sapevo. Ma a nessuna ho ritenuto adatto passare il titolo di Cultrice; nessuna aveva i requisiti. Ma tu… sei differente. Keyleth, guardandoti ho come la sensazione… che potresti essere quella giusta. Desideri apprendere, Keyleth Greenleaf?” domandò, fissandole nuovamente in volto i suoi occhi grigi.
Keyleth annuì. Aveva sempre desiderato apprendere tutto ciò che poteva venirle insegnato, ogni lezione che poteva esserle impartita, sulla natura dei Seldarine, perché era in quel modo che la sua fede era cresciuta, ed in quel modo avrebbe continuato a crescere. La possibilità di diventare una Cultrice Seldarine era sempre stata la sua aspirazione, per quanto l’avesse sempre ritenuta oltre la propria portata; ed ora, improvvisamente, le si era avvicinata e le aveva detto che si lasciava apprendere, con tono di voce sommesso ed amichevole.
Mialee sembrò soddisfatta.
“Molto bene. Avrò tutto il tempo che vorrai per rispondere alle tue domande, che sono sicura avrai, sulla storia passata e gli avvenimenti che mi coinvolgono. Sì, sacerdotessa” disse con un sorriso all’espressione stupita di Keyleth, “conosco le domande che ti stai ponendo, anche se potrei non approvare che tu le riferisca a chi dovresti. Ma risponderò, perché se abbiamo un modo per accertarci se l’attuale minaccia sia la stessa di duecentotrenta anni fa, o se sia solo una messinscena, l’unico è di confrontare le nostre conoscenze. Puoi andare. Il tuo addestramento da Cultrice Seldarine comincerà domani. Che la Vergine d’Argento protegga il tuo cammino, e che il Signore del Canto vegli i tuoi sogni”.

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Capitolo 38
*** Keyleth - La Cultrice e il demone ***


Quello che trovò nella cella riservatale quella sera, tornando dalla cerimonia di iniziazione, il rito che l’aveva confermata a pieno titolo Cultrice Seldarine, la spaventò a morte. Subito dopo, tentò di impalarla sulla punta di una lancia, cosa che Keyleth riuscì ad evitare scattando indietro con prontezza.
Mentre attorno a lei sentiva risuonare le grida terrorizzate delle altre sacerdotesse, l’elfa tentò di riconoscere l’essere dalla testa caprina e alto almeno due volte lei che tentava di sfondare la porta, che ora recava un buco grosso almeno quanto la sua testa, che aveva prontamente richiuso.
In primo luogo, mentre diverse sacerdotesse fuggivano incoraggiandola a fare lo stesso, Keyleth si chiese chi mai avesse potuto evocare un demone all’interno di un tempio come quello di Silverbell, che, le aveva rivelato la Gran Sacerdotessa Mialee, era stato dotato delle più alte protezioni contro quelle specifiche creature.
Poi, un dubbio ancora più atroce le attraversò la mente.
E se l’evocatore fosse qui, dentro il tempio?
D’istinto, estrasse l’arco. Non era proprio il momento per domande del genere: non sarebbe servito a nulla giungere intuitivamente alla conclusione, se poi fosse morta contro quell’essere immondo.
Però, non poté fare a meno di notare che si trovava in svantaggio. Il corridoio era stretto, e, non potendosi nascondere da nessuna parte per tentare almeno di disorientarlo e provare un’imboscata, il demone non avrebbe avuto problemi a localizzarla ed ucciderla. Con ogni probabilità, nel suo gruppo era la migliore nelle tattiche mordi e fuggi; sapeva per esperienza, anche grazie all’addestramento passato di combattimento con l’arco che ad ogni elfo era impartito, che, se non avesse trovato il modo di attirarlo su un tipo di terreno a lei più congeniale, non sarebbe sopravvissuta per i due minuti seguenti.
Si sforzò di pensare, sebbene la porta in legno che chiudeva la sua cella avesse ormai ceduto e la forma del demone stesse cominciando ad occupare il corridoio con la propria mole; e mentre pensava indietreggiando per mettere della distanza fra sé ed il mostro, si ritrovò all’angolo, con il corridoio che correva alla sua sinistra, ed il demone a qualche metro da lei.
Strano che non mi abbia già caricata pensò. Poi vide le spalle del demone tremare lievemente, e sentì uscire dalla bestia un rumore gutturale.
Sta ridendo? pensò. Istintivamente, cercò la fonte del divertimento, scoprendola quasi immediatamente: stava tendendo un arco senza avere una faretra, anzi senza nemmeno una freccia. Ecco cosa il mostro trovava divertente.
Fu il suo turno di sorridere, portando la confusione sul volto del demone, che ancora non era riuscita ad identificare con certezza. Quell’essere avrebbe avuto una brutta sorpresa, quando avesse scoperto la peculiarità dei combattenti Seldarine.
Spostò rapidamente un occhio sul corridoio alla propria sinistra. Soltanto ad una ventina di metri oltre lei, da una delle poche finestre ogni due svolte del corridoio, riusciva ad intravedere una sorta di giardinetto, un luogo dove le sacerdotesse si mettevano a meditare a contatto con la natura, come anche lei aveva spesso fatto nelle settimane precedenti; e, se non ricordava male, quel giardinetto era attorniato da un piccolo bosco. Poco oltre quello, cominciava il lato occidentale della foresta, il “Verde dietro il sacro”, come lo chiamavano…
Seppe quasi subito cosa fare. Per provocare il demone, intonò una breve preghiera, tendendo l’arco e scagliando un dardo di pura energia divina contro il mostro, che arretrò sorpreso. Sorrise alla bestia, poi si mise a correre lungo il corridoio, inseguita dai suoi passi tonanti e muggiti infuriati.
Spero che abbia compreso con chi hai a che fare pensò soddisfatta Keyleth mentre correva. Era quella l’abilità principale dei Cultori Seldarine: incanalare i propri poteri divini attraverso l’arco, anziché un simbolo delle proprie divinità. Così come Corellon, il Primo dei Seldarine, era rappresentato come un arciere provetto, anche i Cultori elfici sfoggiavano la propria abilità intonando preghiere e scagliandole dal proprio arco.
Raggiunta la seconda svolta del corridoio, si voltò a fronteggiare il demone. Questo, ululando furioso e proferendo maledizioni che l’elfa non capiva, la caricò con le proprie corna caprine; Keyleth scartò di lato, e ringraziò i propri riflessi, perché la carica del demone era stata talmente violenta da sfondare il muro del corridoio, facendogli terminare la corsa nella piccola radura. Proprio come Keyleth aveva pianificato.
Mentre il mostro, ancora stordito, tentava di capire dove si trovasse, Keyleth scivolò silenziosamente alle sue spalle, inoltrandosi nella boscaglia circostante e salendo su un albero; da lì, lo osservò meglio, giungendo alla conclusione che potesse essere solo un genere di creatura.
Un buleazu.
Probabilmente Lifaen l’avrebbe capito immediatamente dall’aspetto del demone. I buleazu erano demoni di alto livello, appositamente creati da Baphomet, il Re Cornuto, il demone che richiedeva il rispetto di tutti i minotauri selvaggi, dai cadaveri di pure donne mortali tramite un rito blasfemo, solo per uno scorno fattogli da Yeenoghu, il demoniaco signore degli gnoll. Se non l’avesse fermato in quella radura, avrebbe creato parecchi problemi, questo Keyleth lo riteneva indubbio: per quanto le sacerdotesse avessero centinaia di metodi per sigillare i demoni minori, questo era di livello probabilmente troppo alto per chiunque nel tempio tranne la Gran Sacerdotessa Mialee.
Il demone scosse un paio di volte la testa, tentando di scacciare gli ultimi residui di stordimento. Keyleth prese accuratamente la mira, pronunciò una breve preghiera alla Vergine d’Argento, e scoccò il proprio incantesimo divino, che colpì il demone il quale muggì nuovamente di dolore, mentre del ghiaccio gli appesantiva le zampe impedendogli di muoversi con la consueta agilità.
Il mostro voltò la testa freneticamente, la propria resistenza variabile annullata dalla magia divina, tentando di individuare la fonte dell’attacco, ma Keyleth aveva già cambiato posizione. Per chiunque altro sarebbe stato straordinariamente difficile muoversi attraverso l’intrico di radici così silenziosamente. La natura elfica aiuta in maniera straordinaria, in questi frangenti pensò la sacerdotessa mentre scagliava un nuovo colpo, che andò nuovamente a segno, sottolineato dal muggito di dolore del buleazu. Un sorriso le aleggiò sulle labbra, mentre sentiva avvicinarsi i rinforzi, ossia uno squadrone di spadaccini elfici ed umani.
Corellon, guida il mio cuore. Sehanine, guida la mia freccia.

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Capitolo 39
*** Keyleth - Oscurità Folle ***


A Keyleth risultava difficile credere che il misero omuncolo che stava di fronte a lei, appeso in catene e guardato a vista da Seldarine scelti nelle prigioni del monastero, fosse stato in grado di evocare un buleazu all’interno dei confini del tempio. La somma Mialee l’aveva mandata ad interrogarlo subito dopo la morte del mostro, in quanto era stato imprigionato dopo aver apertamente confessato di essere stato lui ad evocare quel demone, inframezzando alla confessione strane farneticazioni su una certa oscurità.
Tuttavia qualcosa a Keyleth non tornava. Se quell’uomo, che a sentire i resoconti dei sacerdoti era sempre stato un modello di virtù, avesse evocato veramente un buleazu, ciò sarebbe stato indice di una certa dimestichezza con quelle creature folli e distruttive, e probabilmente avrebbero potuto, e dovuto, accorgersi ben prima di un confratello avvolto da una forte aura demoniaca quale avrebbe dovuto essere. Ma dal povero uomo, circa sessant’anni, brizzolato, il volto rugoso distorto dalla follia, Keyleth non riusciva a percepire nulla di minaccioso; aveva solo la strana sensazione che non tutti i pezzi fossero al loro posto.
“Qual è il tuo nome?” chiese.
“Io… Io non ricordo. L’Oscurità… l’Oscurità dell’Abisso ha strappato via tutto” disse l’uomo. “Solo… solo ciò che dovevo fare è rimasto… Come l’Oscurità ha comandato.”
“Sei stato tu ad evocare il buleazu all’interno di questo tempio? Rispondi sinceramente, per favore” domandò Keyleth. Qualcosa evidentemente non andava in quell’uomo. Non aveva mai sentito nessuno ripetere in maniera così ossessiva una parola, come fosse il nome di qualche divinità irascibile.
L’uomo fu scosso da una risatina tremula.
“Sì… sì, sono stato io” disse. “Io ho evocato il demone, sono stato io. L’Oscurità richiedeva che la sacerdotessa morisse… Perché la sacerdotessa è pericolosa per l’Oscurità.”
“Continui a farneticare di questa oscurità” disse Keyleth. “Ma si è pericolosi per le persone, non per i concetti.”
Lo fissò negli occhi. Vi era indubbiamente follia in essi, ma questo già lo sapeva. Vi trovò paura, inquietudine, e… un indefinibile senso di colpa, sotto gli strati di pazzia del suo sguardo allucinato.
Sospirò. Se voleva ottenere qualche informazione, doveva evidentemente stare al suo gioco.
“D’accordo. L’oscurità ti ha detto che ero pericolosa per lei, e ti ha incaricato di uccidermi; e tu hai pensato di adempiere al tuo compito evocando un buleazu. È giusto?”.
L’uomo si affrettò ad annuire. “Sì… sì, è esattamente così. Questo è quello che l’Oscurità ha detto. La sacerdotessa… e l’albero. Dovevano morire.”
A quelle parole Keyleth si sentì quasi mancare. Non poteva essere…
“Albero? Che albero?” domandò, agitata.
“L’albero della sacerdotessa dai capelli bianchi… Lì giaceva il Cuore dell’Oscurità… L’albero doveva morire… Ed il Cuore sarebbe stato libero.”
Keyleth lasciò il vecchio alle sue folli farneticazione senza quasi accorgersene. Prima ancora di rendersene conto si stava facendo strada fra le occhiate stranite di sacerdoti e sacerdotesse senza nemmeno degnarli di uno sguardo.
Sono stata così stupida. Ho dato ascolto a delle farneticazioni senza senso ed ho perso tempo.
Non si capacitava di come non ci fosse arrivata prima. Qualcuno aveva manipolato i ricordi del vecchio portandolo alla follia, convincendolo di avere evocato il buleazu e poi a costituirsi, nonostante non avesse la benché minima aura demoniaca e non fosse minimamente potente quanto necessario per vincere i sigilli di guardia al monastero; e sempre quel qualcuno aveva inviato il buleazu ad attaccare Keyleth per distrarre l’attenzione da sé stesso, e, per essere ancora più sicuro di passare inosservato, aveva inscenato la montatura della confessione dell’anziano confratello. Così al sicuro, si era diretto verso l’albero dove la somma Mialee era solita pregare. La somma era semplice e terrificante. E Keyleth si maledisse per aver pensato di essere tanto importante: non era lei a dover morire in quanto pericolosa per quella strana oscurità di cui non comprendeva bene la natura. Era la somma Mialee.
Giunta davanti all’albero, la visione che le si prospettava era spaventosa. Una figura incappucciata da un mantello bianco stava davanti all’albero, con le braccia alzate. Ai suoi piedi, il corpo sanguinante dell’elfa dai capelli d’argento.
L’incappucciato dovette sentirla, perché si voltò verso di lei. Keyleth estrasse subito l’arco, per pura precauzione; ma l’altro si mise a ridere, mellifluo come l’ultima volta.
“A quanto pare ci rincontriamo, Keyleth Greenleaf. Spero che ti sia divertita a recitare la piccola sceneggiatura che ho pensato per te.”
Keyleth questa volta non si lasciò irretire. Credeva di capire cosa avesse provato Lifaen quando si era gettato in preda alla furia contro quel mostro, perché sentiva la stessa ira cominciare ad attecchirle dentro.
“Sei qui per l’Albero, vero?” domandò, tenendolo sempre sotto tiro.
L’altro scrollò le spalle, indifferente alla minaccia di essere un possibile bersaglio.
“Sì e no” ammise con tono annoiato. “L’albero in sé e per sé non m’interessa minimamente; ciò che conta è quello che vi è all’interno. Conosci la storia, sacerdotessa?”
Keyleth annuì. Doveva riuscire ad avvicinarsi abbastanza per prestare soccorso a Mialee. Probabilmente l’altro si dovette accorgere delle sue intenzioni, perché fece un cenno di diniego con l’indice.
“Non finché non avremo terminato la nostra conversazione. Detesto essere interrotto. Come immagino già saprai, tempo fa ho guidato un assalto contro questa città. E l’avrei anche conquistata, non fosse stato per l’interferenza della qui presente Mialee… Anche se immagino non vi resterà per molto.”
Quelle parole fecero aumentare ancora la rabbia che Keyleth sentiva di provare nei confronti dell’incappucciato. Ma si costrinse alla calma. Non era sicura di poter vincere, contro un simile avversario, e da morta non sarebbe di certo riuscita ad aiutare nessuno.
“Quella donna fece qualcosa che non avevo previsto… Ahimé, mi strappò via il cuore. Rimasi molto indebolito, ed io ed il mio esercito fummo costretti a ritirarci nell’Abisso. La Sacerdotessa Mialee rinchiuse il mio cuore all’interno di un albero, quest’albero per la precisione… per impedire che io potessi mai ritrovarlo, o anche solo raggiungerlo. Ma questa volta sono stato io a sorprenderla. Infiltrarmi è stato sorprendentemente facile. Nessuno sospetta mai che i pericoli più grandi possano indossare la forma meno appariscente” disse, levandosi il cappuccio dal capo e scoprendo il viso di una giovane ragazzina dai capelli castani.
Keyleth si sentì mancare il terreno sotto ai piedi.
Mari era l’incappucciato? No, non è possibile, me ne sarei accorta, se fosse stato così…
“Non essere così sconvolta, sacerdotessa. Sono un maestro nell’assumere altre identità, Mialee potrà confermartelo, se sarà ancora viva. Ovviamente questo non è il mio vero aspetto, ma non vedo necessità che tu scopra quale sia proprio ora.” Detto questo, le voltò le spalle e si diresse verso il gigantesco albero, scavalcando il corpo della Somma Sacerdotessa.
Keyleth non ce la fece più. Mormorando una veloce preghiera, scagliò verso quel mostro dall’aspetto umano uno dei suoi più potenti incantesimi divini, che però venne bloccato da uno scudo che le sembrò composto di veleno e pura tenebra. L’altro rise, i capelli castani che ondeggiavano mentre il viso di Mari si voltava verso di lei con un sorriso beffardo.
“Questo non è né il luogo né il momento adatto per combattere, sacerdotessa. Se non ti sbrighi, Mialee morirà…”
Aveva ragione, ovviamente. Keyleth si precipitò al fianco della Somma Sacerdotessa per prestarle le prime cure. Fortunatamente, constatò che era ancora viva. Mentre le offriva i primi soccorsi, teneva d’occhio anche il demone, che ormai era arrivato a meno di mezzo metro dall’albero e vi aveva poggiato la mano sopra.
Passarono alcuni momenti, poi Keyleth si stupì di sentire dall’essere provenire un suono sbigottito e sorpreso.
“Non è possibile…” lo sentì sussurrare, per poi voltarsi verso di loro. “Dov’è? DOV’È?” domandò, il tono sempre più minaccioso ed adirato ad ogni parola che pronunciava.
Per la prima volta, Keyleth ebbe paura. Nello sguardo che il volto di Mari le lanciò c’era una rabbia infinita: si sentiva come se potesse essere ridotta in cenere dal solo odio che percepiva le era riversato addosso.
Poi dall’esile corpo di Mialee, ancora coperto di sangue, sentì provenire un’esile risata.
“Mi… Mi dispiace, Void… Quello che cerchi non è qui… da molto… molto tempo, ormai…”
Ma che sta facendo, nobile Mialee? Lo provoca nelle condizioni in cui si ritrova? Pensò Keyleth sgomenta.
L’essere chiamato Void sollevò una mano, da cui partì un fulmine nero e violaceo, ma una rapida preghiera di Mialee fu sufficiente perché si infrangesse contro una barriera di luce divina senza che ne subissero alcun danno.
Void emise un urlo di rabbia e disse qualcosa in una lingua che Keyleth non riuscì a comprendere, poi svanì in una nuvola violacea di veleno demoniaco. Quasi simultaneamente, Mialee svenne di nuovo tra le braccia di Keyleth, che rimase immobile, stordita, prigioniera di una tempesta di eventi della quale sentiva di non comprendere appieno la portata.

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Capitolo 40
*** Lenn - La missione ***


E così, dopo settimane in cui non aveva fatto altro che starsene solo per il castello, allenarsi, ed occasionalmente uscire fuori a prendere una boccata d’aria, o a fare una passeggiata, si ritrovava nuovamente nella sala oscura, in attesa che la Carezza gli comunicasse il motivo per cui lo aveva convocato.
Lenn era rimasto sorpreso delle proprietà del pugnale che la donna gli aveva donato. La lama di avorio, l’impugnatura finemente lavorata in ossidiana e finimenti dorati, quel coltellino aveva sorpreso il giovane stregone consentendogli di incanalare i propri incantesimi attraverso il metallo dell’arma come si trattasse di un’estensione del proprio corpo. Anche grazie a quello strumento, Lenn sapeva di aver fatto enormi ed ulteriori progressi nella padronanza della sua arte dei fulmini.
Tuttavia, per quanto si fosse allenato fino allo sfinimento nelle settimane precedenti, aveva avuto continuamente la sgradevole sensazione di essere più un raro pezzo da collezione che non un essere umano. I pallidi servitori della Carezza raramente gli rivolgevano più di qualche parola formale; per non parlare poi di Lys e Syl, unite come al solito, che ogni tanto aveva sorpreso a controllare i suoi progressi. Loro avevano liquidato la faccenda come pura curiosità di vedere fin dove avrebbe potuto spingere le sue possibilità; Syl, la sorella maggiore, con i lunghi capelli rossi raccolti in un’elegante coda di cavallo e i penetranti occhi azzurro ghiaccio, aveva commentato di vedere un futuro in continua ascesa per lui, con quello che lo stregone supponeva voler essere un tono gentile ma che era risuonato alle sue orecchie come estremamente neutro.
Ma sopra ogni cosa, più della soddisfazione di essere ulteriormente migliorato, più della sgradevolezza che gli provocavano le occhiate degli abitanti del castello, era assurdo ed inquietante il pensiero di ritrovarsi solo in quel maniero, pur magnifico com’era. Solo, senza i suoi amici.
Non aveva mai passato così tanto tempo senza chiacchierare con almeno qualcuno di loro. Sentiva la mancanza di tutti, indistintamente: Lifaen, il suo mentore ed amico più intimo, una sorta di figura paterna; Keyleth, sempre tanto dolce e comprensiva, con una spiegazione su quasi ogni avvenimento che capitasse o creatura incontrassero; Mildred, sempre così sicura di sé e disponibile ad infondere un briciolo di sicurezza anche a tutti gli altri, dando loro la spinta necessaria a gettarsi all’avventura; Nom, senza il cui aiuto Lenn era certo non se la sarebbe cavata in una miriade di situazioni, dalle scorrerie dei goblin alle battaglie contro i demoni. Ogni tanto si era ritrovato a pensare a come stessero, e se e quanto il loro viaggio li avesse cambiati.
Per parte sua, lo stregone era convinto che il suo “viaggio”, per così definirlo, avrebbe dovuto aspettare il placet della Carezza; ed era anche abbastanza sicuro che la meravigliosa donna stesse valutando in quell’esatto momento se darlo o meno.
Dato che il silenzio si prolungava e l’angelo seduto sul trono di fenice non dava segno di voler parlare per prima, lo stregone prese il coraggio a due mani e cominciò a parlare.
“Mi ha fatto chiamare?”
Lei sembrò soddisfatta che finalmente avesse detto qualcosa, e prese a sua volta a parlare, seducente come al solito.
“In effetti sì, mio giovane stregone. Ti ho fatto chiamare. Avrei una domanda da porti, ed una missione da assegnarti. Se per te non è un problema, comincerei dalla seconda, perché la ritengo ben più importante allo stato delle cose.”
Lenn fece un cenno di assenso, sebbene sapesse ormai perfettamente che quella donna bella da star male avrebbe seguito comunque il suo piccolo programma anche senza quella muta approvazione che aveva appena espresso.
Se c’è una cosa di cui ormai sono sicuro, è che non permette a niente e a nessuno di distoglierla dalle sue decisioni, quando le ha prese.
“Molto bene” continuò la Carezza, con una strana espressione soddisfatta. “La missione che gradirei svolgessi per me è sufficientemente pericolosa da indurmi a smuovere uno stregone di potenza eccezionale come sei tu, penso che non ci sia effettivamente bisogno di dirlo. Ultimamente, sulla costa a sud di queste terre, si è stabilita una creatura che si sta rivelando fastidiosa per i miei commerci con le isole meridionali per il rifornimento delle città che hanno preso coscienza della gravità della minaccia rappresentata dai demoni.”
Lenn annuì. Aveva assistito a parecchi nobili entrare ed uscire dal castello per avere un’udienza con lei, e, dato che la Carezza lo teneva sempre al proprio fianco in quelle occasioni, aveva compreso come fosse abbastanza facoltosa ed influente da permettersi di poter essere il fulcro di una rete commerciale che si stendeva per diverse delle città del continente, non ultime Darknest e Silverbell, dove si trovava Keyleth; fra l’altro quest’ultima aveva di recente inviato un messaggio dove riferiva alla Carezza che una certa Mialee era sopravvissuta all’attacco dell’incappucciato dal mantello bianco, che avevano scoperto chiamarsi Void. Non sapeva altro, ma la Carezza era sembrata sufficientemente soddisfatta delle informazioni ottenute.
“Che genere di creatura? Un demone?” domandò il giovane stregone.
La donna meravigliosa sul trono rise.
“No, si tratta di un drago. Nello specifico, di un drago blu. Non eccessivamente potente ancora, ma già abbastanza molesto. Gradirei te ne sbarazzassi per me, se non ti è di troppo disturbo. Ha già saccheggiato e sterminato più di trenta villaggi nei pressi del suo covo per aumentare il proprio tesoro; un atteggiamento tipico dei draghi, ma che non sono disposta a tollerare.”
Lenn non capiva. Non le era importato nulla del massacro di Fallensun, o almeno così era parso a loro; come mai ora si preoccupava di un drago blu che distruggeva dei semplici villaggi? In ogni caso, lui non era certo disposto a permettere che quella bestia continuasse il suo ciclo di morte e rapina, se era in suo potere fermarla.
“Ci conti. Altro?”.
La Carezza sembrò stupita da tanta laconicità, ma si riprese in fretta, esibendo nuovamente un sorriso raggiante.
“Ovviamente mandarti da solo ad affrontare un drago con le tue attuali abilità equivarrebbe a condannarti a morte certa, ma non abbiamo tempo, temo, di aspettare che il tuo potere si affini ulteriormente, Dio del Fulmine. Perciò assieme a te verrà Syl, per assisterti in battaglia, ed esserti d’aiuto in qualunque altro modo riterrai opportuno. Gradirei, comunque, che vi adoperaste per tornare entrambi a casa sani e salvi” concluse, alzandosi dal trono e scendendo dai gradini per superarlo passandogli di fianco, con una falcata aggraziata che costrinse Lenn a mantenere lo sguardo fisso sul trono vuoto per non perdere il contegno.
“Ha detto che aveva anche una domanda per me” disse, mentre la sentiva avvicinarsi alla porta. “Qual è?”.
La sentì ridere, e si volto solo per vedere gli ardenti occhi rossi di lei fissi nei suoi, in cerca del minimo segno di debolezza, che si costrinse a non mostrare.
“Hai più ripensato alla nostra breve chiacchierata sulla mediocrità e l’eccezionalità?” domandò, un sorriso mellifluo che increspava le labbra perfette.
Lenn non seppe che rispondere, al che lei rise nuovamente, un suono angelico velato di malinconia quasi impercettibile.
“Prenditi dell’altro tempo per pensarci su ancora, allora. Io non ho fretta” disse, uscendo dalla porta, che rimase socchiusa mentre Lenn rimaneva fermo a contemplare la sua ombra allontanarsi, seguendo quel corpo perfetto che ondeggiava sinuoso come le onde del mare.

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