Amelie

di Vorarephilia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Il dolore dell'abbandono ***
Capitolo 3: *** Cambiamenti ***
Capitolo 4: *** Il campanile e la Luna ***
Capitolo 5: *** Mi sei mancata così tanto. Eppure mi hai lasciata andare... ***
Capitolo 6: *** Usare la Voce ***
Capitolo 7: *** Riflessi ***
Capitolo 8: *** Essere Uno, Essere in Due - parte I ***
Capitolo 9: *** Essere Uno, Essere in Due - parte II ***
Capitolo 10: *** Scoperta ***
Capitolo 11: *** Colpe ***
Capitolo 12: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Amelie

 

 

Prologo

Il mio primo ricordo.

 

Amelie

 

Il mio primo ricordo risaliva ad un pomeriggio soleggiato e caldo.

Io e Soleil giocavamo in un grande parco, sotto la supervisione di sua madre, che era anche la mia, credevo, ma non mi parlava mai.

-Sole, tesoro, con chi stai parlando?- le chiedeva sempre.

-Con Ame.- rispondeva mia sorella gemella, e sua madre ridacchiava e si allontanava, guardandomi solo per un attimo, per poi distogliere lo sguardo subito dopo.

Soleil era l'unica che mi parlasse, l'unica che giocasse con me.

Nessun altro si accorgeva mai della mia esistenza. Né la mia famiglia, né la sua, che era identica alla mia, né i compagni di scuola o gli altri abitanti di quella stupida cittadina.

Il mio primo ricordo era di risate allegre e sorrisi, di capelli biondi che si intrecciavano ai miei, di occhi come il cielo notturno e di una bocca rossa che sapeva di fragole e cioccolato al latte.

Il mio primo ricordo era sereno e luminoso, come quella giornata, quando ancora non sapevo.

Quando ancora credevo che fosse tutto normale, che le cose fossero perfette anche se era solo Soleil.

Sempre e solo lei.

Lei che mi guardava con affetto.

Lei che si divertiva a farmi le trecce.

Lei che mi sorrideva.

Lei che mi parlava e che scherzava con me, che giocava.

Lei che mi notava.

Quel ricordo era il più bello e il più prezioso, non solo perchè era il primo, ma perchè c'era lei, quando ancora le cose erano facili.

Quando ancora riusciva a sentirmi e voleva ascoltarmi.

Il mio primo ricordo portava ad una serata come ce ne sarebbero state tante, dove mi accorsi per la prima volta di quanto fosse strano guardarla andare via.

Eravamo sorelle gemelle.

Eravamo uguali.

Le nostre famiglie erano uguali.

Eppure lei non restava mai.

Ogni notte si allontanava da me e tornava a casa sua, nel suo letto, senza di me.

 

Soleil

 

Quando ero piccola, avevo sempre amato guardarmi allo specchio.

Tutti dicevano che ero una bellissima bambina, con capelli lisci, color del sole di cui portavo il nome, e occhi blu.

Avevo conosciuto una bambina, bella quanto me, con il viso uguale al mio, e un sorriso triste e spento.

La chiamavo sorella.

Il primo ricordo vero di lei, la vedeva seduta su di una panchina, appena fuori da casa mia, all'ingresso di un grande parco illuminato dal sole.

Era da sola ed era strana.

Aveva occhi liquidi come l'acqua ma freddi come il ghiaccio, di un azzurro cupo e inquietante, con pupille bianche come la neve. I suoi capelli erano grigi come la pioggia e la sua pelle era sempre gelida.

Amelie era come il mare invernale. Impietosa, pericolosa.

Terribilmente sola.

Ci eravamo guardate e ci eravamo sorrise.

Diventare amiche non fu affatto difficile. Riuscivamo a terminare l'una le frasi dell'altra e, più i giorni passavano, più ci sembrava giusto avvicinarci.

Raccontarci i nostri segreti, le nostre paure, i nostri desideri.

Eravamo solo bambine, ma volevamo fare tante cose.

Eravamo incredibilmente diverse, ed incredibilmente uguali.

Dove Amelie aveva paura, io rabbrividivo di disgusto.

I suoi sogni lasciavano una scia di orgoglio in me e mi ripetevo in continuazione quanto sarebbe stato bello se quelle fossero state anche le mie aspirazioni.

Amelie sapeva completarmi e non avrei mai voluto lasciarla andare.

Tuttavia, mia madre aveva paura di lei.

Aveva paura di Amelie perchè non riusciva a vederla.

E aveva paura per me perchè credeva che io fossi pazza.

Quel nostro avvicinarci divenne pericoloso e più desideravo restare con lei, più mi allontanavo da mia madre, dalla mia famiglia, dalle persone che conoscevo.

Più io e Amelie ci univamo, meno tempo passavo nel mondo reale.

Amelie non esisteva e avevo dovuto impararlo a mie spese.

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Capitolo 2
*** Il dolore dell'abbandono ***


Capitolo 1

Il dolore dell'abbandono

 

 

Amelie

 

C'era stato un tempo in cui io e Soleil stavamo insieme giorno e notte.

Eravamo inseparabili e, sebbene avesse paura del mondo in cui ero costretta a vivere, mi era stata davvero vicina.

Avevo potuto toccarla, sentire il caldo del sole che si specchiava sulla sua pelle sempre un po' abbronzata, bearmi del profumo fruttato dei suoi capelli e del colore intenso e brillante delle sue iridi scure.

Era stato solo un mese, poi era stata costretta ad andarsene, ma era stato il mese più bello della mia vita.

La luce prima di un'esistenza nell'oscurità di un baratro così profondo da non vederne l'inizio.

Ed io, persa sul fondo di quel baratro, non sapevo neanche se esistesse ancora un mondo, là fuori.

La mia era diventata una vita completamente solitaria.

Non che non lo fosse anche prima di incontrare Soleil, però lei mi aveva mostrato la felicità solo per potermela strappare via.

E ancora, c'erano giorni in cui mi guardava, ma stava in silenzio. Come tutti gli altri avevano sempre fatto.

Avrei dovuto esserne felice.

Finalmente ero normale. Ero come loro.

Ero sola.

Soleil mi aveva abbandonata a quell'esistenza.

Aveva preferito tornare nel suo mondo, quello bello, quello pieno di suoni, quello giusto.

Aveva preferito lasciarmi da sola, svegliarsi, essere di nuovo felice.

Con me non lo era mai stata davvero.

Dieci anni prima, subito dopo quel mese meraviglioso, avevo sentito più volte la sua voce.

Provava a chiamarmi, mi chiedeva scusa. Mi diceva che non potevamo più essere amiche.

-La mamma ha paura.-

-Per favore, perdonami.-

-Scusa.-

-Non voglio lasciarti.-

 

Eppure lo aveva fatto. Aveva ascoltato sua madre e mi aveva abbandonata, lasciata ad un destino crudele, in un'oscurità di cui non vedevo la fine, in un silenzio che dilaniava il cervello e manipolava i pensieri.

Dovevo fare qualcosa o sarei impazzita.

Ero condannata a vedere il suo viso, i suoi occhi blu che rifuggivano i miei ogni volta, vedere le sue labbra che sorridevano a ricordi di un passato lontano e mai dimenticato.

Non si mostrava spesso come un tempo. Lo faceva di rado, forse due o tre volte al giorno. Si metteva di fronte a me ed ero costretta a guardarla.

Faceva così male. Era una tortura.

Poter vedere solo lei in quell'oscurità mi feriva la mente, mi rendeva instabile.

In fondo, non sarei mai stata davvero normale.

Avrei sempre sofferto per qualcosa che agli altri non provocava alcun dolore.

Avrei sempre pianto per il suo sorriso, mai rivolto a me.

 

 

La mia stanza era un disastro. Regnava il tipico disordine della sedicenne in piena fase di ribellione.

Le pareti erano ricoperte di poster dalle figure confuse e scure. I vestiti erano sparsi dovunque. Fogli di compiti, appunti e verifiche erano buttati a casaccio, eppure, mai una volta che mia madre mi avesse detto di metterla in ordine.

La mamma di Soleil glielo diceva spesso.

Ma Mary era diversa da mia madre.

Mary era una persona.

Una persona vera, con vere emozioni, con occhi luminosi e vivi e la voce squillante.

Mia madre nemmeno mi aveva mai rivelato il suo nome.

Non mi aveva mai parlato, mai guardata, mai nemmeno notata.

Ero invisibile, come tutti gli altri.

Ma io degli altri mi accorgevo.

Mi accorgevo della loro apatia, della loro tristezza.

E da brava adolescente preda degli ormoni, avevo fatto la prima cosa che mi era venuta in mente.

Avevo ridipinto il mio mondo.

Quello di Soleil era pieno di colori, perchè io dovevo essere costretta in un posto grigio e tetro?

Partii dalla cucina.

Una bella spennellata di rosso sul muro.

Mia madre sembrò disturbata da quel colore.

Lei stava sempre in cucina, forse avrei dovuto chiederle se l'avrebbe infastidita.

-Scusa mamma.- dissi, mentre continuavo la mia piccola opera d'arte.

Per la prima volta in sedici anni, vidi le sue pupille bianche fissarsi sulla mia figura.

Non disse nulla, ovviamente, ma mi guardò.

Mi vide per davvero.

Forse ridipingere era stata un'idea migliore di quanto pensassi.

Più ricoprivo le stanze, le case, le strade e il mio mondo di quel colore intenso e bellissimo, più le persone mi guardavano.

Per una volta, non ero sbagliata.

Ero solo diversa.

Ero l'eccezione.

E mi andava bene, purchè il rosso desse un po' di luce alla mia vita.

 

Rosso come il fuoco.

Rosso come il sole.

Rosso come il sangue.

 

Soleil

 

Crescendo avevo imparato quanto fosse pericoloso non ascoltare le preoccupazioni di mia madre.

Il suo nome era Mary ed era, senza dubbio alcuno, la persona che mi voleva più bene nell'intero universo.

Anche più di Amelie.

Non avevo mai più parlato della mia gemella da quando ero entrata in coma e ci ero rimasta per quasi un mese, dieci anni prima.

Dieci anni in cui non avevo mai più sentito la sua voce, o visto il suo bel viso, o sfiorato i suoi capelli.

Dieci anni in cui non avevo sognato altro che il suo mondo, fatto di persone silenziose e per lo più immobili. Un mondo terrificante e triste, in cui Amelie era rimasta intrappolata, incapace di uscirne.

Nonostante mi sentissi incredibilmente in colpa per averla abbandonata, avevo capito che avere un amico immaginario, durante l'infanzia, era bello finchè non diventava pericoloso.

Ed Amelie era molto pericolosa.

Pericolosa come gli uragani e le tormente di neve e il mare in tempesta.

Amelie avrebbe potuto uccidermi con un sorriso.

-Sole, è ora di andare.- mi chiamò mia madre.

Non le piaceva che stessi davanti agli specchi troppo a lungo.

-Sono quasi pronta.- le gridai dal bagno.

Era il mio primo giorno di scuola.

Mi sentivo emozionatissima.

-Alle due e mezza hai l'appuntamento con la dottoressa Hewett.- mi avvertì mio padre, dandomi un bacio sulla fronte quando ci incrociammo in corridoio.

Lui era ancora in pigiama e vestaglia.

Era uno scrittore di successo e non aveva degli orari da rispettare.

Beato lui.

-Va bene. Ci rivediamo nel pomeriggio allora. Non faccio in tempo a tornare per pranzo.- mi alzai sulle punte dei piedi per abbracciarlo e baciargli la guancia. Il sottile filo di barba chiara mi solleticò le labbra, facendomi ridacchiare.

Mia madre lo salutò con un bacio sulla bocca e, insieme, uscimmo di casa.

La scuola era lontana, ma, fortunatamente, mamma aveva il tempo di accompagnarmi in macchina, prima di andare al lavoro.

Era un'impiegata statale, sottopagata e perennemente oberata di lavoro, ma lo faceva per passione. Chi ci manteneva davvero era papà, che con i suoi best sellers ci aveva permesso di comprare una bella casa e vivere nell'agio.

Mia madre aveva però abolito la proposta di fare la mantenuta, non era da lei.

Le piaceva troppo darsi da fare.

-Ci vediamo stasera, amore. Fai la brava.- mi disse mamma, baciandomi la guancia.

-Ok. A dopo.- scesi dall'auto e mi diressi verso lo spesso portone in legno chiaro.

Incontrai tutti i miei compagni dell'anno precedente. Non ero la più popolare e non andavo d'accordo con tutti, ma amavo i miei amici per quello che erano.

Senza maschere, con tutte le loro bizzarrie e stranezze.

-Ciao Sol.- mi urlò Valkirya, la mia migliore amica.

Aveva occhi di un bel grigio chiaro, e capelli rosso fuoco, che si ostinava a tenere nascosti con un basco nero.

-Ehi, Kiri, hai finito i compiti, immagino.- scherzai. Lei arrossì violentemente e mi tirò un amorevole pugno sulla spalla, sbilanciandomi e facendomi cadere contro Corvette, la ragazza di quarta per cui avevo una cotta da sempre.

Era bellissima, con la pelle color rame e i capelli d'oro. Mi sorrise, mostrando i denti bianchissimi e io mi sentii sciogliere.

-Sc-scusa...- balbettai, rimettendomi in piedi e cercando di lisciare le invisibili pieghe della maglietta verde scuro che indossavo.

-Figurati, può capitare.- mi rassicurò lei. La sua voce era come una cascata di tiepido cioccolato fuso che mi entrava nelle orecchie.

Dovetti reprimere un brivido, avrei rischiato di sembrare ancor più strana di quanto non dessi a vedere di solito.

Di sicuro l'avrei spaventata.

-Ehm... Io sono So-Soleil.- mi presentai, porgendole una mano tremante. Lei la prese, ridacchiando appena della mia goffaggine, e la strinse.

Le sue dita erano affusolate ed eleganti. Suonava il pianoforte, per cui non poteva tenere le unghie lunghe come le altre ragazze alla moda, però prestava loro una grande attenzione, cambiava colore dello smalto praticamente una volta al giorno.

Quella volta erano color perla.

-Lo so. Ci siamo già incontrate un paio di volte. Io sono Corvette, comunque.- mi disse.

Arrossii ancora di più e mi sentii incredibilmente stupida.

-Scusa... Non me lo ricordavo...- provai a giustificarmi.

-Non fa nulla. Ciao Soleil.- mi salutò, andando via con il gruppetto di ragazze della sua classe con cui la vedevo sempre.

-Bè, direi che come primo-ma-non-primo approccio è andato davvero alla grande. So-so-so-so-sono So-So-So-So-Soleil.- mi prese in giro Valkirya, battendomi una pacca sulla nuca.

-Tu e le tue fottute manine di fata!- esclamai, massaggiandomi la parte lesa.

-Oh, scu-scu-scusa.- rise così tanto che la sua faccia divenne rossa come un pomodoro maturo, si teneva la pancia con le mani e non riusciva a stare in posizione eretta.

-Va bene, era divertente, ora puoi smetterla?- le chiesi, un po' scocciata.

-Sì. Sì, ora sono seria.- disse, ma non ci credeva davvero nemmeno lei, infatti dopo appena due secondi, ricominciò a sghignazzare.

Per lo meno lo fece sottovoce.

Arrivammo in classe con calma. Tanto il primo giorno non si faceva mai nulla.

La professoressa di letteratura, Georgia Louis, ci accolse con un caloroso sorriso.

-Come sono andate le vacanze, ragazze?- ci domandò.

-Bene prof. A parte i compiti.- rispose Valkirya. Non era proprio in grado di essere seria, nemmeno per un minuto.

-E a te?- insistette la donna, fissandomi, mentre prendevo posto in uno dei due banchi liberi della prima fila.

-Benino.- mormorai.

Dover ritornare dalla psicologa dopo quasi cinque anni in cui sembravo guarita non era stato proprio divertente, ma cercavo di affrontarla al meglio.

-I tuoi genitori me l'hanno detto. Se hai bisogno di un aiuto, non farti problemi a parlarmene.- si mise a disposizione. Nonostante non fosse lei, la coordinatrice di classe, le piaceva che i suoi studenti sapessero che lei c'era, per qualunque cosa.

Era una buona donna, Georgia Louis, ed un'ottima insegnante. Sapeva far appassionare i ragazzi come nessuno e, prima di ogni altra cosa, si premurava di insegnare a vivere in mezzo agli altri e l'educazione, che era sempre importante e, purtroppo, carente nei giovani.

Io vedevo i miei compagni e mi chiedevo come fosse possibile essere così infantili, rozzi, sgarbati e chiusi di mente.

Poi mi rispondevo che era più facile così.

Essere educati, gentili, altruisti, maturi, tutto questo costava fatica e impegno.

-Grazie.- dissi alla professoressa.

Sentii i miei compagni sussurrare maldicenze e voci di corridoio, ma non mi premurai nemmeno di zittirli.

Tanto non sarebbe servito a nulla. Potevano pensare ciò che volevano. Io sapevo quale fosse la verità, e così i miei amici.

 

Restai a pranzo a casa di Valkirya, che abitava a pochi metri dallo studio della dottoressa Hewett.

Mi stava simpatica, era una donna comprensiva e paziente e dagli ideali importanti. A tempo perso faceva l'attivista per i diritti delle donne, dei gay, degli animali e di tutti gli altri.

Mi accolse con il suo solito sorriso, gli occhi scuri illuminati dalla luce solare che filtrava dalla grande finestra e i capelli nerissimi lasciati ricadere sulle spalle minute.

-Ciao. È da tanto che non ci vediamo.- mi disse.

-Già. Quasi cinque anni.- borbottai, prendendo posto di fronte a lei, su una poltroncina di pelle.

-Tua madre era preoccupata. Dice che hai ricominciato a parlare nel sonno. A parlare di lei.- mi spiegò.

Lo sapevo bene perchè mi avessero mandata lì. Di nuovo.

Lo sapevo e ne ero spaventata.

-A volte faccio degli incubi.- era una bugia.

Tutte le notti facevo gli incubi.

Incubi che raccontavano di un mondo grigio, scuro, triste e dannatamente silenzioso.

Ed era reale.

Sapevo che era reale perchè c'ero stata.

Un intero mese in quell'Inferno, al fianco di una bambina di sei anni che aveva il mio stesso viso, ma che sapeva di acqua e di tempesta in ogni suo dettaglio.

-Ti va di parlarmene?- mi propose.

-No.- ridacchiai. Non ne avrei parlato a nessuno.

-L'hai vista di recente?- mi domandò, appuntando qualche frase sul suo taccuino, celando un moto di delusione dietro le pagine spesse e profumate di carta e inchiostro.

-Chi?- chiesi. Lei sapeva che avevo capito, ma mi accontentò lo stesso, rispondendomi.

-Amelie.-

-No. Sono dieci anni che non la vedo.- risposi.

-E ti dispiace? Vorresti vederla?-

Sì. sì, avrei voluto poterla rivedere, poterla sfiorare, poterle intrecciare i capelli ai miei.

Sole e pioggia insieme.

-No.-

Non avrei dovuto abbandonarla.

Mi sentivo talmente in colpa. L'avevo lasciata nel Silenzio, nella solitudine, nel grigiore del suo mondo, tutta da sola.

Non avrei mai voluto lasciarla andare.

-Sicura?- chiese conferma.

-Sì.- mentii ancora.

Non aveva molto senso far spendere soldi ai miei genitori per una psicologa, se poi non dicevo la verità, ma non potevo fare altro.

Se le avessi detto che ogni volta che mi guardavo nello specchio, solo per un attimo, solo con la coda dell'occhio, vedevo le sue pupille bianche sostituirsi alle mie, avevo il terrore che mi facesse prendere dei farmaci, o mi chiudesse in qualche istituto per gente come me.

Gente che vedeva cose.

Folli.

 









NdA: Ringrazio tutti quelli che hanno recensito il prologo, che hanno letto e che hanno inserito la storia tra le preferite/seguite/ricordate.

 

Fun Fact:

Soleil, in francese, significa “sole” (ma davvero?!)

Il soprannome di Amelie, Ame, invece, significa “pioggia” in giapponese.

Lo so, non è un fatto molto Funny, però mi sembrava carino dirvelo.

 

Il prossimo capitolo lo metterò la prossima settimana.

Cercherò di essere il più puntuale possibile.

Alla prossima.

JJ.

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Capitolo 3
*** Cambiamenti ***


Capitolo 2

Cambiamenti

 

Amelie

 

Dopo aver dipinto tutto il mondo di rosso, iniziai a sentirmi meglio per davvero.

Certo, c'era ancora qualcosa che non andava, ma sembrava poter migliorare.

Non c'era sole, tuttavia, che potesse rendere quel colore brillante.

Dovevo accontentarmi dell'ombra di un rosso cupo, che era comunque meglio del grigio che aveva sempre accompagnato la mia vita.

Mi avventurai per quelle strade che da troppo tempo non percorrevo, per paura di vedere la gente.

Le persone mi avevano sempre messo un po' d'ansia. Così immobili e silenziose, così perse nel loro mondo.

Ma ora tutti erano attenti, ora mi osservavano, senza nemmeno sbattere le palpebre, perchè io ero l'attrazione principale.

Io avevo cambiato le cose.

Avevo dipinto il mondo di rosso.

Il posto che cercavo era uno in particolare, ma era molto lontano dal buco in cui abitavo.

Avevo trovato, lungo la strada, una bicicletta dalle ruote bucate, un'automobile che non si accendeva e un triciclo.

Per quanto camminare mi scocciasse, non sarei andata in triciclo.

Ad ogni passo che facevo, lasciavo cadere delle gocce rosse sull'asfalto scuro.

Il paesaggio attorno a me restava, più o meno, invariato.

Edifici grigi si accatastavano l'uno sull'altro, fatiscenti, mai utilizzati, mai nemmeno costruiti da qualcuno in particolare.

Esistevano e basta.

Perchè ciò che esisteva nel mondo giusto esisteva anche nel mio mondo.

Non c'era bisogno che gli edifici fossero costruiti, i bambini partoriti, le verdure ed i fiori piantati.

Tutto esisteva perchè era così che doveva essere.

 

Dopo tre lunghe e faticose ore di cammino, mi ritrovai davanti all'ennesimo edificio grigio. L'unica cosa che lo differenziava dagli altri era l'elegante semplicità della sua forma.

Era il campanile di una chiesa e si stagliava alto contro il cielo perennemente nero e privo di stelle.
Entrai e un brivido di inquietudine mi scese lungo la spina dorsale.
Per arrivare nella piccola stanzetta che avevo scoperto dieci anni prima c'era un'infinita successione di scalini ripidi, storti e stretti.
Riguardandolo a distanza di tempo, quel posto era ancora più tetro e terrificante.
Mi sedetti per terra, riposandomi un pò.
Vidi di nuovo il suo viso.

Aveva le guance rosse e sorrideva felice. I capelli erano disordinati e gli occhi erano lucidi di sonno e di risate.
Il nero della sua pupilla sembrava vedermi ancora, ma la mia immagine si fermava lì, al centro dei suoi occhi, senza riuscire ad arrivare al suo cuore.
Era talmente bella.
Mi uccideva vederla così.
Stava bene, anche senza di me, mentre io, senza di lei, ero alla stregua di una bambola di pezza, rovinata e rotta.
Il dolore che mi provocò quell'ennesima dimostrazione della mia inutilità mi diede la forza di iniziare la scalinata.


Non ero arrivata neanche a metà e già mi sentivo spossata.

Non potevo fermarmi lì.

Gli scalini erano instabili e non avrebbero retto il mio peso a lungo. Potevo solo continuare a mettere un piede davanti all'altro.

Fare forza sulle gambe, tendere i muscoli, respirare profondamente.
Tutto meccanico, doloroso, semplice.
Dopo più di un'ora, mi ritrovai davanti la porta di legno di quella stanza che mi aveva accolta tante volte, quando ero una bambina.
La spinsi con delicatezza e mi beai di quella visione.
Il soffitto a volta era ricoperto di specchi, dai quali provenivano dolci raggi di sole, le pareti erano colorate di arancione, di giallo, di verde e di azzurro e il pavimento era candido.
Lo macchiai di rosso.
Era così bello il rosso quando il sole lo illuminava. Desideravo che tutti potessero vedere quello spettacolo.
La stanza era piena di oggetti, oggetti veri, provenienti dal mondo giusto.

Oltre ad un altro paio di specchi a parete, c'erano libri e animali di stoffa – pupazzi, li aveva chiamati Soleil una volta – e bambole e tutù e carillon e cianfrusaglie, non più funzionanti, ma meravigliose.
Guardai la mia immagine riflessa. I miei capelli sembravano un pò più biondi, i miei occhi un pò più blu, le mie pupille un pò più nere.
Non ero veramente io.

Era il riflesso di Soleil che si univa con il mio, creando un effetto che mi lasciava senza fiato.
Avrei voluto poter essere come Soleil.
Lei era felice.

Viveva in un mondo pieno di suoni e di colori.
Pieno di luce.
Sapevo, però, di non poter restare nel suo mondo troppo a lungo.

Non se lei fosse stata viva.
L'unica soluzione era ucciderla.
Anche se faceva male solo l'idea, anche se non era giusto, anche se non era ciò che le brave ragazze facevano.

Era la condanna di quelli come noi.

Obbligati a vivere attraverso i Giusti.

Obbligati a restare fermi finchè loro non si muovevano, obbligati a stare in silenzio.

Obbligati ad esistere, essere vivi, in un mondo che di vivo non aveva nulla.

Io non volevo essere così. Volevo sentire, volevo vedere, volevo vivere, vivere davvero, fare esperienze e ridere, gridare, saltare, divertirmi.

Non era giusto che solo Soleil potesse fare tutto questo.

Se l'avessi uccisa avrei potuto prendere il suo posto nel mondo giusto.

Avrei avuto quello che desideravo.

 

 

Soleil

 

Il flash mi accecò per un istante.

Una foto di famiglia.

Zia Dory aveva insistito per fotografarci tutti e tre insieme.

Era il compleanno della mamma e lo stavamo festeggiando. C'era la torta, c'erano le chiacchiere leggere e spensierate e c'era da bere.

Non che i miei bevessero tanto, ma non si rifiutavano una birra o un bicchiere di vino quando capitava l'occasione.

Mamma era un po' brilla e continuava a ridacchiare, aggrappandosi al gomito di papà, che la sosteneva per miracolo.

Era bello vederli felici e rilassati.

Ricordavo un tempo in cui non facevano altro che litigare, ma per fortuna erano riusciti a sistemare le cose.

-Com'è andata oggi a scuola?- mi chiese mia zia, tirandomi per la manica della maglietta e costringendomi a sedermi accanto a lei sul divano.

Dory aveva gli stessi capelli biondi di mia madre e occhi verde prato. Era più giovane di lei di tre anni, ma molto più matura, a mio parere.

Mamma era un po' infantile a volte, irresponsabile e con la testa tra le nuvole.

-Bene.- risposi sorridendo. Papà mi mise un calice di spumante in mano e lo fece tintinnare con il suo. Ne presi un piccolo sorso, appoggiandolo poi sul tavolino da caffè.

-C'è qualche bel ragazzo nella tua classe?- domandò, alzando le sopracciglia e sorridendo maliziosa.

Io ridacchiai, scuotendo la testa.

-No.- dissi.

Nessuno sapeva che mi piacevano le ragazze.

Non ero pronta a fare coming out, perciò dovevo continuare a sopportare quelle stupide domande.

-Vedrai che prima o poi troverai qualcuno che fa al caso tuo. Sei una bella ragazza Sole, non disperare!- mi incoraggiò, battendomi una leggera pacca sulle spalle.

E chi si dispera!? Avrei voluto risponderle, ma mi trattenni e sorrisi educatamente.

 

Proprio come nella favola di Cenerentola, a mezzanotte in punto la festa finì.

Dory tornò a casa sua e papà portò a letto la mamma, che a malapena si reggeva in piedi per il sonno e per l'ebbrezza.

-Buonanotte tesoro.- mi disse, baciandomi la fronte.

-Notte papà.- lo salutai con la mano e mi infilai nel bagno interno alla mia camera.

Le piastrelle erano azzurre e rilassanti. Lanciai un'occhiata al mio riflesso, ma me ne allontanai appena vidi quella scintilla bianca nelle pupille.

Non volevo ricaderci.

Non di nuovo.

Mi bastavano gli incubi, per ricordarmi di quel luogo, di quel mondo sbagliato.


Mi concessi una doccia veloce prima di infilarmi sotto le coperte.
Quest'anno, settembre era clemente e portava con sé una brezza leggera e fresca.
Non ero mai entusiasta quando si trattava di dormire, ma avevo imparato che fare i capricci avrebbe solo allarmato mia madre più del necessario.
Ero grande ormai e potevo combattere da sola i miei brutti sogni.
Spensi l'abat-jour che tenevo sul comodino e restai al buio.
Dalla mia finestra si vedeva la luna, era quasi piena ed illuminava dolcemente la città notturna.
Chiusi gli occhi, abbandonando la testa sul cuscino.
Ripensai alla seduta con la dottoressa Fannie Hewett.

Era brutto doverle mentire.

Era brutto dover partecipare a quelle sedute, in primis.
Parlare di lei, di Amelie, sentire come gli altri la sminuivano, "immaginaria", "malsana proiezione del mio cervello", "scappatoia da una realtà solitaria", "spiegazione irrazionale di un coma durato un mese"; non potevo negare che mi infastidisse.
Sebbene avessi imparato a mentire ai miei cari, dicendo che sapevo che non era reale, io continuavo a credere in Amelie.
Lei era la mia pioggia, era le nuvole grigie che offuscavano la mia luce, la luce del Sole.
Nessuno mi avrebbe mai convinto che lei non esisteva.
Nemmeno la dottoressa Hewett, con la sua dolcezza, la sua razionalità e la sua comprensione.
Sentii le palpebre pesanti e non potei più rimandare il sonno.

Una luce fredda e dolce illuminava la piccola stanzetta.
Le pareti erano colorate e coperte da scaffali pieni di oggetti da bambini, rotti e nostalgici.
Al centro, in piedi, c'era lei.
Era bella, proprio come me la ricordavo, e inquietante.

Allungai una mano per sfiorarla. La sua pelle era fredda e liscia.
Sobbalzò e si volse. I suoi occhi color ciano si spalancarono e le pupille bianche si dilatarono per la sorpresa, diventando grandi punti di luce in mezzo al mare che erano le sue iridi.
Vidi una lacrima scorrerle lungo il viso e la sentii gemella alla mia, calda, piena di dolore, fastidiosa. Le asciugai entrambe con un gesto della mano e le sorrisi.
Le sue dita, tremanti, corsero al mio volto e lo sfiorarono.
-Mi dispiace.- dissi, abbracciandola strettamente. La sentii tremare tra le mie braccia, prima di sciogliersi in un pianto disperato.
-Sei stata via così a lungo.- sussurrò tra i singhiozzi.
Sentivo la sua disperazione rispecchiarsi nella mia.
Faceva male. Tanto male.
Come tutte le volte.


Mi misi a sedere di scatto.

Le lacrime mi bagnavano il viso e offuscavano la vista.
Ero dannatamente stanca di vederla così.
Ero stanca di dover fingere che la cosa non mi provocasse dolore.
Ero stanca di non poter stare con Amelie come quando eravamo piccole.
Gli altri non volevano capire.

Noi eravamo le due metà di una stessa persona, dovevamo stare insieme!
-Ancora incubi?- mio padre si affacciò in camera mia. Gli occhiali inforcati e una penna tra le dita affusolate.
-No, dovevo bere. Che ore sono?- chiesi.
-Le sei. Hai ancora un'ora per dormire.- mi disse, sorridendo.
-Tu hai dormito?- domandai.
-Non molto. Mi ha colto l'ispirazione e, sai com'è...-
-Cogli l'attimo!- finii per lui, ridacchiando.
-Esattamente! Dormi ancora un pò tesoro.- mi consigliò. Soffiò un bacio nella mia direzione e tornò nel suo "Angolo Creativo".
Non avrei sopportato di rivederla, perciò mi alzai e mi feci un'altra doccia.
L'acqua bollente mi sciolse i nervi tesi e i profumi fruttati dello shampoo e del bagnoschiuma addolcirono i ricordi dell'ennesimo sogno.
Era stato diverso, questa volta. C'era luce, c'erano colori. Non era stato il solito paesaggio tetro e scuro che vedevo tutte le notti.
Mi asciugai i capelli e mi vestii con calma, indossando un paio di jeans rossi e una maglietta verde acceso, a maniche corte, sopra la quale misi una felpa nera.
Non ero mai stata brava nell'abbinare i colori, ma l'effetto finale non fu poi così terribile come temevo.
Feci colazione con una tazza di latte tiepido e caffè, in cui inzuppai un muffin alla vaniglia.
Poiché avevo ancora venti minuti di tempo prima di dover uscire di casa per andare a scuola, decisi di appoggiarmi sul divano. Mi misi comoda e mi infilai gli auricolari del lettore mp3.
La musica era piacevole e mi dava la carica.

Incontrai di nuovo Corvette nell'atrio e si offrì di accompagnarmi in aula.
-Il terzo anno è il più divertente, a mio parere, ma il più difficile. Se hai bisogno, non esitare a chiedermi aiuto.- mi disse, sorridendo in quel modo che mi faceva diventare le ginocchia come gelatina appena fatta.
-Oh, certamente... Grazie mille.- bisbigliai. Mi sentivo il viso accaldato e sapevo bene di essere arrossita.
-Se non te ne sei accorta, era un modo per dirti che mi farebbe piacere vederti fuori da scuola.- mi sussurrò all'orecchio prima di lasciarmi davanti alla porta della mia classe.
-Hai fatto colpo, vedo!- esclamò Valkirya, circondandomi le spalle con un braccio.
-Oh, taci!- tuonai io, imbarazzata, correndo a sedermi al mio posto e iniziando a tirare fuori i quaderni che mi sarebbero serviti e l'astuccio.
-Eddai, è una cosa carina.- disse lei, sedendosi sul mio banco e sporgendosi su di me.
-Sarebbe più carina se io non fossi goffa come un cazzo di rinoceronte morto da settimane!- mi lamentai.
-Come la fai tragica. Magari le piaci proprio per questo.- le sue parole mi mandarono in pappa il cervello.
Piacevo a Corvette.
Piacevo alla ragazza più bella della scuola.
I miei pensieri vennero interrotti dall'arrivo del professore di matematica.
Era nuovo, perciò dovemmo fare tutte le presentazione e le tipiche cose che si facevano in quelle situazioni.
Si chiamava Victor Marshall, aveva trentasette anni e viveva appena fuori città, anche se le radici della sua famiglia erano al sud - e questo spiegava il suo buffo accento.
Espose il programma di algebra e geometria, con nostro estremo dispiacere, e accennò qualche argomento di fisica.
Nulla di troppo rilevante.
La sua ora si concluse così, senza che avessimo fatto nulla, ma, d'altronde, era solo il secondo giorno.
Dalle nove alle dieci, restò con noi la professoressa di inglese, che volle sapere qualcosa delle nostre vacanze.
Poi fu il turno di letteratura, filosofia e religione.

Valkirya decise di aspettare con me che arrivasse l'autobus. Lei era vicina a casa e poteva fare il tragitto a piedi, ma io non avevo questa fortuna.
-Non sei ancora arrabbiata con me per prima, vero?- si accertò dopo quasi dieci minuti di silenzio.
Io sorrisi e feci no con la testa.
-Allora cos'hai? Mi sembri triste.- disse, appoggiando la sua mano sulla mia, appoggiata alla panchina che stava giusto di fronte alla fermata del bus.
-Brutti sogni. Mi scombussolano un pò.- confessai.
-Ancora Amelie?- chiese lei, preoccupata.
-No, no. Non preoccuparti.- ridacchiai senza allegria e mi appoggiai con la testa sulla sua spalla.
Non ci dicemmo più nulla finchè non arrivò l'autobus.
-A domani stella.- mi salutò, baciandomi la tempia prima che mi alzassi.
-A domani.- dissi io.
Presi posto di fianco al finestrino, mi infilai gli auricolari e guardai il paesaggio che sfocava attorno a noi.

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Capitolo 4
*** Il campanile e la Luna ***


Capitolo 3

Il campanile e la Luna

 

Amelie

 

L'avevo vista.

L'avevo vista davvero, non come tutte le altre volte. Avevo potuto toccarla e farmi stringere dalle sue braccia, sentire il calore del suo corpo, il profumo della sua pelle, proprio come quando eravamo bambine.

Mi era apparsa in quella stessa stanza, senza motivo, dopo dieci anni.

Era crudele. Proprio nel momento in cui decidevo di doverla uccidere, lei ritornava.

Aveva tanta disperazione negli occhi e forse, mi dissi, non ero stata la sola a soffrire.

Forse anche lei era stata male e aveva pianto.

Forse anche lei si era sentita abbandonata.

 

Poi mi guardai intorno e mi resi conto che non era la stessa cosa.

 

Per quanto Soleil fosse stata male e avesse sofferto della mia assenza, non aveva certamente dovuto passare quei dieci anni, da sola, in quell'Inferno Silenzioso.

Lei era stata nel mondo giusto, aveva vissuto con persone che l'avevano amata e ancora riusciva sorridere.

Lo sapevo perchè l'avevo vista.

Avevo visto la felicità nei suoi occhi, e non era intaccata di dolore.

Nonostante rincontrarla fosse la cosa che desideravo di più al mondo, lei mi aveva lasciata sola.

Lei aveva preferito la luce e i colori, abbandonandomi al mio destino, senza provare a salvarmi.

Non si meritava il mio affetto o la mia pietà.

Doveva morire.

Doveva lasciarmi il suo posto nel mondo giusto.

Me lo meritavo.

 

Non avevo deciso io di nascere da questa parte dello specchio.

 

Toccai con dita tremanti la superficie riflettente. Era fredda e liscia e sembrava volermi divorare.

Le persone come me non si guardavano negli specchi.

Nemmeno si avvicinavano a quegli oggetti, figurarsi toccarli.

Tuttavia, io ricordavo bene.

Ricordavo la sensazione estremamente dolorosa che si provava nell'attraversarli.

Ricordavo il calore del mondo giusto, il profumo dell'aria che volava dolcemente, la luce che si infrangeva sulla pelle troppo delicata e i suoni e i rumori che investivano violentemente.

Mi ero stancata del Silenzio. Faceva male alle orecchie, rendeva il cervello simile ad un'inutile poltiglia, mi impediva di ragionare, di immaginare.

Mi impediva di fuggire da quella realtà che non volevo fosse la mia.

 

Per quella ragione decisi di attraversare lo specchio.

 

Il vetro e l'argento accolsero il mio braccio, poi la spalla, la testa, il busto, infine le gambe.

Sentivo le schegge che si infilavano sotto la pelle, negli occhi, in gola.

Sentivo il sangue che usciva dalle ferite, le lacrime che scivolavano, bollenti, sulle guance, mischiate a quel rosso così bello da sembrare irreale.

Urlai, tanto forte da ferirmi le corde vocali, da sentire i polmoni che bruciavano, il petto sul punto di esplodere.

Mi sentii morire e mi chiesi come una bambina di soli sei anni avesse potuto sopportare tutto quello, per di più in così tante occasioni.

 

La forza della disperazione, probabilmente.

 

Era la stessa che mi stava muovendo adesso, che mi permetteva di avanzare in quell'oscurità che superava anche quella del mio mondo.

 

Arrivai in una stanza identica a quella dalla quale ero partita. Delle ferite che avevo sentito non c'era traccia. Se non, forse, il dolore lancinante che mi dilaniava le membra.
Decisi di riprendere un po' di forze, prima di andare da Soleil.
Il solo pensare al suo nome mi mandava scariche al cervello.
Il ricordo della sua stretta, sapere che ero nel suo mondo e che in poco tempo avrei potuto guardarla di nuovo, guardarla davvero, ed essere vista, mi provocavano una fastidiosa sensazione allo stomaco, che si avvicinava tanto allo sbattere di milioni di ali.
Sì, la odiavo, ma l'avevo amata come una gemella per tanti anni e non potevo negare di volerla vedere, di volerle parlare.
Riposai a lungo, massaggiandomi le spalle, le braccia, la testa e gli occhi, per cercare di lenire il dolore provocato dal passaggio attraverso lo specchio.
Nemmeno nei miei incubi lo ricordavo così intenso. E di sicuro avevo dimenticato il formicolio che lasciava sulla pelle e quella sensazione di soffocamento.


A me stessa non dovevo mentire e mi costrinsi a notare la riluttanza del mio corpo di funzionare correttamente in quel mondo.
Tutto mi sembrava al contrario, eppure sapevo che era più giusto in quel modo, rispetto a come mi ero abituata in quei dieci anni.
Mi distesi sul pavimento color panna, unica diversità rispetto alla stanza del mondo sbagliato.
Usai una vecchia bambola di pezza polverosa come cuscino.
Chiusi gli occhi solo per un secondo, ma quando mi svegliai, la luce che prima entrava, violenta e calda, dalle finestrelle, era bianca e soffusa.
Mi affacciai e osservai quel cielo immenso e privo di limiti. La luna era quasi un cerchio ed era bellissima.
Talmente bella che, dopo poco, dovetti distogliere lo sguardo per non svenire dall'emozione.
Decisi di voler guardare il cielo da uno spazio più ampio e aprii la porticina di legno, abbandonando – per poco, lo sapevo – quella stanza che mi era così cara.
Sapevo che, in pochi giorni, avrei dovuto tornarci.
Non potevo rimanere a lungo in quel mondo.
Erano le regole.
Iniziai, con calma, a scendere quegli infiniti scalini. Non erano diversi da quelli che avevo fatto per salire.
Pericolanti, fragili, vecchi, storti e ripidi.
Non erano piacevoli. Anche scenderli mi metteva addosso un'incredibile ansia.
All'esterno di quel campanile mi aspettava Soleil.
La bambina che mi aveva guardata e che aveva giocato con me.
La ragazzina che mi aveva dimenticata.
La ragazza che mi aveva abbandonata.
Sebbene la mia mente fosse ancora decisa ad agire ed ucciderla, il mio cuore stava fremendo all'idea di poterla rivedere.
Magari, per qualche ora soltanto, avemmo potuto rivivere uno spezzone di quel mese meraviglioso che aveva trascorso nel mio mondo.
Non potevo negare di sperarlo.
Avrei fatto di tutto per poterla riavere come in quel periodo.
Eravamo così felici insieme.

A differenza della salita, non mi fermai per le scale.
Sì, ero stanca, affaticata e ansimavo, ma volevo assolutamente bearmi della vista del cielo.
Ci impiegai molto tempo, ma alla fine appoggiai i piedi sul pavimento di pietra e corsi fuori.
Dalla strada, il cielo si vedeva molto bene, nonostante qualche casa colorata e qualche edificio troppo alto che ne tagliavano la linea dell'orizzonte.
Lo spettacolo mi lasciò senza fiato in corpo e mi accasciai sull'asfalto gelido.
La rabbia mi pervase.
Perchè a noi non era concesso tutto quello?
Perchè a loro, gli abitanti del mondo giusto, erano state date così tante meraviglie che si permettevano di ignorare?
Perchè ero nata dalla parte sbagliata dello specchio!?
Quella situazione mi frustrava.
Sapevo bene che, anche uccidendola, non avrei mai potuto prendere il posto di Soleil in tutto e per tutto.
I suoi conoscenti non mi avrebbero mai amata allo stesso modo.

Probabilmente non mi avrebbero mai nemmeno visto.
Avrei vissuto nel mondo giusto, sì, ma comunque isolata dagli altri, comunque solitaria e silenziosa.
Non valeva un omicidio.
Forse.

 

 

 

Soleil

 

Accettai l'invito di Corvette di uscire alle tre del pomeriggio.

Avevo chiesto a Valkirya dei consigli su come vestirmi, pettinarmi, truccarmi, comportarmi.

Lei era decisamente più pratica di me per quanto riguardava gli appuntamenti.

Io ne avevo avuto uno, al massimo due, in sedici anni di vita.

Un po' troppo pochi per sapere come doverli “affrontare”.

Per di più non ero abituata alle attenzioni di persone belle come Corvette.

Lei era una delle ragazze più popolari e più desiderate.

Avrebbe potuto avere chiunque.

E aveva scelto me.

-Stai attenta, mi raccomando.- disse Valkirya per l'ennesima volta, lanciandomi addosso una maglietta bianca, aderente e corta.

-Questa non la metto.- rifiutai, gettandola sul letto.

La sentii sbuffare, prima che si immergesse di nuovo nel mare dei miei vestiti, tutti estratti dall'armadio per un controllo più accurato.

-Devi proprio andarci con i jeans? Non puoi metterti un bell'abitino?- mormorò lei con sguardo supplicante.

-No. Sembrerei un'idiota. Le gonne mi stanno malissimo.- liquidai la sua idea.

Borbottò qualcosa su quanto rompessi le palle, ma entro una decina di minuti riuscì a trovare un paio di jeans scuri, tendenti al grigio o al nero, e una maglietta bordeaux, manica a tre quarti e lunga fino alla coscia.

Mi costrinse a farmi la treccia, perchè, a suo dire, “stai meglio con i capelli legati e farsi la coda al primo appuntamento è pessimo. Tanto varrebbe andarci in pigiama e con le pantofole, magari senza aver nemmeno fatto la doccia. Perciò treccia!

E come potevo ribattere ad una così ben argomentata motivazione?

 

Il luogo dell'incontro era la gelateria dietro l'angolo di casa mia.
Corvette aveva detto di abitare nelle vicinanze e che per lei non sarebbe stato un problema nemmeno venire direttamente alla mia porta.
Le avevo risposto che non mi sembrava giusto.
Non volevo che mio padre la vedesse. Non volevo dovergli mentire dicendo che era una mia amica.
Quando arrivai, lei mi stava già aspettando.
Aveva un vestito color panna, che si sposava a meraviglia con la sua pelle ramata.
I capelli color oro erano lasciati sciolti, in grandi onde, e ricadevano sulle spalle sottili.
Gli occhi verde oliva mi scrutarono, illuminati da un sorriso che le tendeva le bellissime labbra carnose e lucide.
-Sei qui da molto?- le chiesi, imbarazzata.
-No, non preoccuparti.- mi baciò una guancia e mi prese a braccetto.
I tacchi dei suoi stivaletti color crema producevano suoni piacevoli contro le pietre del marciapiede.
-Sei bellissima.- le dissi. Sentivo già il viso arrossato di vergogna.
-Anche tu. Cosa ti va di fare?- mi chiese.
-Nulla in particolare. Essere con te è abbastanza per farmi sentire felice.- confessai in un sussurro.
Valkirya mi aveva detto di essere mielosa, ma seguire i suoi consigli era più facile a dirsi che a farsi.
A dire quelle frasi mi sentivo una grandissima idiota.
-Come sei carina, Soleil. Non sembravi così adorabile quando parlavi con la tua amica, l'altro giorno.- mi disse. Probabilmente si riferiva alle varie "litigate" che avevo avuto con Kiri negli ultimi giorni.
Tra noi era così, ci urlavamo contro, ci offendevamo, ci picchiavamo e dopo cinque minuti eravamo di nuovo appiccicate come gemelle siamesi.
-Devo averti dato una pessima impressione...- borbottai.
Lei rise. Aveva una risata meravigliosa.
-Oh, no. Al contrario, mi sei sembrata molto attraente e sicura di te.- mi sussurrò all'orecchio.
Mi sentii sciogliere tutti gli organi interni. La sua voce era incredibilmente soave e ispirava pensieri maliziosi e indecenti.
Un pò tutto di lei ispirava pensieri indecenti, ad essere onesti.

Tornammo alla gelateria dopo aver fatto una lunga passeggiata, durante la quale avevamo parlato, per lo più di noi stesse - desideri, paure, ciò che amavamo, ciò che odiavamo, hobby, eccetera.
Avevo scoperto molte cose di lei, ad esempio che ascoltavamo la stessa musica, ci piacevano gli stessi cibi e gli stessi film e che, a dispetto dell'apparenza, stare in mezzo alle persone e socializzare non erano nei nostri interessi.
E tanto meno nelle nostre priorità.
-Vuoi che ti accompagni a casa?- mi chiese.
-No, tranquilla. Tanto sono solo due passi.- la rassicurai.
-Per me non è un problema.- disse.
-Davvero Corvette, ce la faccio da sola.- ridacchiai, cercando di nascondere il mio nervosismo.
-Ovvio che ce la fai. Sarebbe solo carino poterti accompagnare.- insistette.
-Senti, non voglio che mio padre ti veda.- confessai.
Dopo un attimo di immobilità, le sue dita si intrecciarono alle mie e mi sorrise dolcemente.
-Capisco. Scusa se ho insistito.- mormorò, comprensiva.
Si avvicinò lentamente al mio viso, appoggiando poi le labbra alle mie, in un tocco leggero come un sussurro, che purtroppo terminò subito.
-Allora buona serata. Ti scrivo più tardi, se non mi addormento.- mi disse. Io sentivo le guance in fiamme e riuscii solo al annuire e a guardarla andare via.
Si muoveva in modo così aggraziato ed elegante.
Con un sospiro, percorsi quel breve tratto di strada che mi portò alla porta d'ingresso di casa mia.
Mio padre non si vedeva in giro, segno che probabilmente era andato a dormire o nel suo studio a scrivere.
Io decisi di prepararmi un'insalata di pollo per cena e ne lasciai una zuppiera, piena per metà, nel frigorifero.
Non sapevo a che ora sarebbe tornata mamma, dato che faceva sempre gli straordinari, perciò non avrebbe avuto senso aspettarla.
Mi sedetti sul divano e accesi la televisione.
Misi su un telefilm giallo e mi godetti il mio solitario pasto.
Non era così atipico per me, trascorrere in quel modo le mie serate, non mi dispiacevano, in tutta onestà. Era un modo come un altro per stare da sola con i miei pensieri.

Inviai a Valkirya un SMS in cui la informavo riguardo gli avvenimenti di quella splendida giornata.

“Vedi che non era poi così difficile!?” Mi rispose dopo pochi minuti.

 

Già...”

“Voglio i dettagli!!! Ti ha baciata? Come bacia? Con quelle labbra deve baciare da Dio!”


Sì mi ha baciata. Ma è stato un bacio piccolo e innocente. Credo che voglia andarci piano.”

Le piaci! Te lo dicevo io!”

Avevi ragione, lo ammetto.”

Quando uscite?”

Non ne ho idea. Non abbiamo organizzato nulla...”

Invitala tu stavolta. Non fare la principessina spocchiosa che si lascia desiderare!”

Non lo faccio! Perchè dovrei? Lo sai che ho una cotta per lei da tanto.”

Lo so. Ora vado Sol, devo finire i compiti.”

Ma siamo ancora nella prima settimana, non ce ne hanno dati!”

Sono quelli delle vacanze. Matematica...”

Capisco. Buon lavoro. Un bacio. Buonanotte.”

Notte.”

Appoggiai il cellulare sul tavolo della cucina, mentre mettevo nel lavello il piatto dell'insalata.
Erano quasi le dieci ormai e decisi che era ora di chiamare mia madre.
-Tesoro, sto arrivando. C'è stato un incidente e sono bloccata in strada, ma arrivo il prima possibile. Tu mettiti a letto.- mi disse tutto d'un fiato.
-Vieni a salutarmi quando torni.- borbottai.
Non mi piaceva addormentarmi mentre lei era fuori casa. Mi faceva sentire vulnerabile e ansiosa.
-Come sempre. A dopo amore. Buonanotte.-
-A dopo mamma.- chiusi la telefonata con un senso di disagio nel petto.
Andai a controllare mio padre e lo trovai che sonnecchiava nel lettone. Gli baciai una guancia, senza svegliarlo e me andai in camera mia.
Lasciai la porta socchiusa e mi gettai sul letto, abbracciando i cuscini soffici.
Inspirai il profumo delle federe pulite e fresche, affondandoci il viso.
Qualche minuto dopo, mi costrinsi ad alzarmi per mettermi in pigiama e lavarmi i denti.
Cercai di non guardarmi allo specchio, ancora inquieta a causa del sogno della notte precedente.
Sapevo che il mio riflesso mi avrebbe mostrato pupille bianche come neve e non me la sentivo di vederle.
Una volta pronta, mi infilai sotto le coperte calde. Un bel contrasto con l'aria fresca, fin troppo, che entrava dalla finestra socchiusa.
Mi resi conto di mia madre che mi baciava la fronte, qualche tempo dopo, e poi basta. Solo buio.
Non il solito buio del mondo sbagliato, ma una vera e propria oscurità, quella di quando non si sogna nulla.
Per la prima notte dopo dieci anni, non ebbi nessun incubo.
Questa consapevolezza, unita allo strano scenario che avevo visto la notte precedente, mi lasciarono turbata per tutto il giorno.
Cercai di sembrare il più normale possibile, arrossendo ai gesti affettuosi di Corvette, ridendo per le battute di Valkirya, ignorando le parole velenose dei miei compagni meno affabili.
Eppure, nemmeno nel tardo pomeriggio riuscii a scrollarmi di dosso la certezza che qualcosa fosse successo.

Che qualcosa stesse per accadere.
Fu per questa sicurezza che riuscii a non farmi venire un infarto quando la vidi in camera mia, quella sera.
I suoi capelli erano lunghi, sciolti sulle spalle, un po' secchi, un po' rovinati.
Mi dava la schiena e sentii le vibrazioni poco amichevoli che provenivano dal suo corpo.
-A-Ame...- balbettai, insicura. Lei si voltò lentamente.
Le sue ciglia lunghe incorniciavano quegli occhi color acqua che mi erano tanto mancati. Le pupille bianche scrutarono nella mia anima, facendomi fremere di insicurezza e paura.
-Ciao.- disse lei, senza una particolare intonazione della voce.
-Come sei arrivata?- chiesi, muovendo un passo nella sua direzione.
-Gli specchi. È passato tanto tempo, Soleil.- mormorò, sfiorando con le dita, delicate e candide, il legno rossiccio della testiera del letto.
-Dieci anni. Mi dispiace.- sussurrai, percorrendo in pochi attimi la distanza che ci separava e stringendola tra le braccia.
Dopo un secondo di rigidità, la sentii sciogliersi e aggrapparsi a me. Le spalle si rilassarono, come se, fino a quel momento, avesse dovuto sopportare il peso di tutta una vita di ansie, preoccupazioni, dolori e solitudine.
E no, non credevo che fosse diverso da così.
Anche nella mia piccola bolla di egoistica felicità, seppur fittizia, sapevo benissimo quanto Amelie avesse sofferto per la mia assenza ed indifferenza.
-È il minimo.- disse lei contro la mia clavicola. Sentii le sue labbra gelide tendersi in un sorriso, mentre le sue mani si ancoravano a me, come un naufrago ad un salvagente.
-Scusami.- implorai.
Lei non disse nulla, ma mi strinse più forte e sentii le sue lacrime infrangersi contro il cotone della mia maglietta.
-Ho sempre saputo che sei reale.- la rassicurai.
-Stai in silenzio, ti prego. Solo per un po'.- e con quella frase capii che voleva solo bearsi della mia presenza, e che io avrei dovuto fare lo stesso.
Starle vicina, toccarla e sentire il suo profumo di ghiaccio ed erba bagnata, era giusto. Era la prima cosa che sentivo veramente giusta da dieci anni.
Giusta come solo Amelie poteva essere.

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Capitolo 5
*** Mi sei mancata così tanto. Eppure mi hai lasciata andare... ***


Capitolo 4

Mi sei mancata così tanto.

Eppure mi hai lasciata andare...

 

Amelie

 

Il suo corpo, attorcigliato al mio, era caldo e rilassante.
Era sciocco, in parte, il mio desiderio che lei stesse zitta.
Ricordavo giorni, di dieci anni prima, in cui avevo sentito la sua voce chiamarmi disperatamente dallo specchio.
Era stato in quel periodo in cui mi aveva lasciata per tornare nel suo mondo.

Ero troppo debole, allora, per rispondere al richiamo.
Non ero ancora pronta per ascoltare le sue scuse e, se le avessi lasciato la possibilità di parlare, di sicuro non avrebbe detto altro che quello.

Mi dispiace.

Scusami.

Giustificazioni varie.

No, non ce l'avrei fatta.

Non ancora.
Avevo bisogno di qualche ora di pace, di vera pace, di tranquillità, di suoni.
Nel mondo giusto tutti bramavano il silenzio.
Forse non si rendevano conto di quanto assordante e doloroso potesse essere.
Di quanto facesse perdere la testa.
Io amavo quei piccoli rumori che si intrecciavano alla notte.
Le auto che passavano sotto la finestra di quella stanza, così simile alla mia; i gufi e le civette che strillavano i loro versi, il ronzio degli insetti e la voce, appena percettibile, del padre di Soleil, che borbottava cose incomprensibili contro i personaggi del suo libro.
C'era un'aria piacevole e fresca che girava nella stanza.

Soleil si stringeva a me, inconsciamente, per ricercare un calore che non avevo.
Ero fredda.
Fredda come il ghiaccio. Come uno specchio.
Mi sentivo debole e per nulla desiderosa di addormentarmi, anche se sapevo che mi avrebbe fatto bene.

 

Dovetti cedere definitivamente quando Soleil mi circondò la vita con un braccio e si accoccolò contro di me.
Senza che me accorgessi, il mio respiro si sincronizzò al suo, le palpebre si chiusero e il cervello si spense lentamente, lasciandomi precipitare in un buco di oscurità avvolgente e morbida.
Non feci incubi, quella notte.
Probabilmente sapevo che non c'era più alcun motivo di avere paura.
O forse ero semplicemente troppo stanca.

 

La mattina mi colse in uno stato di abbandono totale.

Ero da sola, di nuovo, ma non all'Inferno.

Ero in un Paradiso che non sarebbe mai stato mio, ma avevo la possibilità di visitarlo quanto mi pareva.

Almeno per quei pochi giorni in cui potevo restare senza iniziare a scomparire.

I Riflessi non erano fatti per vivere nel mondo giusto.

Così come i Giusti non potevano vivere troppo a lungo nel mondo sbagliato.

Nel mio mondo.

Il mondo specchio.

Quando Soleil ci era rimasta per un mese, il suo corpo, nel mondo in cui era nata, stava morendo.

E se lei fosse morta, sarei scomparsa anch'io.

Era questo che ci differenziava.

Io senza di lei non ero nulla, lei senza di me poteva vivere.

Nel senso più letterale della cosa.

Certo, non avrebbe mai più visto le mie pupille bianche negli specchi, ma la sua immagine ci sarebbe stata.

Un po' meno reale, un po' meno viva, ma ci sarebbe stata.

E non sarei stata io.

 

Soleil mi aveva lasciato una nota scritta a mano, sul cuscino.

Me ne accorsi non appena mi sollevai dal letto.

Erano poche parole, scritte di fretta.

 

Sono andata a scuola.

Non andartene, ti prego.

Torno il prima possibile.

Mi sei mancata.

 

Non l'aveva firmato.

Oltre a lei, comunque, non c'era nessuno, in quella casa, che riuscisse a vedermi.

Sua madre forse mi percepiva ancora, come quando io e sua figlia eravamo bambine, ma non ero nulla di più che un'ombra che si nascondeva in fretta, ai suoi occhi.

Di suo padre non me ne preoccupavo nemmeno.

Troppo concentrato sul suo nuovo romanzo per fare caso a creature invisibili che si muovevano in casa sua.

 

Solo alcuni dei Giusti potevano vederci.

C'erano tre categorie in cui i nostri studiosi, che di sicuro non parlavano ma sapevano scrivere benissimo, li avevano divisi: i Ciechi, i Riflettenti e gli Osservanti.

I primi non vedevano nessuno di noi, ed ero sicura che il padre di Soleil, John, fosse uno di loro.

I secondi potevano vedere il proprio Riflesso, nel caso fosse ancora vivo, negli specchi, magari solo per qualche istante, e lo avrebbero sicuramente visto se si fosse spostato nel mondo giusto. Per quanto riguardava i Riflessi altrui, ne coglievano solo per poco l'esistenza, ma il loro subconscio faceva in modo di ignorarli.

Mary era una di loro, una Riflettente.

I terzi, invece, potevano vedere la pupilla bianca del proprio alter-ego ogniqualvolta si guardassero in una superficie riflettente, e si accorgevano – e registravano come reale – la presenza dei Riflessi degli altri, qualora fossero nel mondo giusto.

A quest'ultima categoria apparteneva Soleil.

Ed era anche una Osservante molto potente, da quel che avevo potuto notare.

 

Decisi di darmi da fare. Non volevo aspettarla chiusa in quella stanza, immobile e isolata.

Girovagai per casa sua.

Era bella.

L'edificio era uguale a quello in cui abitavo, ma i mobili, i colori, le luci e tutto il calore che c'era, calore delle persone, della vita, un calore che non si poteva misurare con un termometro, erano molto diversi.

Nel mondo specchio, tutto era scuro e freddo e inanimato.

Invece qui, dalla parte giusta, ogni cosa era meravigliosa.

Ogni singolo, minimo, infinitesimale dettaglio mi trasmetteva delle sensazioni.

Non c'era nulla di ignorabile, nulla che si potesse tralasciare.

Le mie mani bevevano le scanalature e le incisioni di ogni pezzo di legno, di ogni oggetto, di ogni parete.

I miei occhi registravano inesauribili quantità di sfumature differenti per ogni colore.

Le mie orecchie percepivano ogni suono, rumore, melodia e voce.

Oh, le voci.

Erano così belle, così dolci, così vive.

Ognuna era diversa dalle altre, ma le amavo tutte. Da quella piagnucolosa e lievemente fastidiosa del bambino che faceva i capricci e gridava, a quella educata e sottile, un po' rauca, della vecchietta che passava sotto la finestra del salotto.

Non c'era nulla di più meraviglioso delle voci.

Nulla che mi rendesse più felice di questo viaggio.

 

Tuttavia, quando Soleil tornò a casa, mi resi conto che, quel Paradiso, non era sempre un posto felice.

I suoi occhi, blu come il mare di notte, erano arrossati e spenti, le labbra screpolate, la voce, che bisbigliò un debole saluto rivolto a suo padre, era cupa e inconsistente.

Non provai nemmeno a parlarle, o a consolarla.

Cosa avrei potuto fare io?

Non sapevo nemmeno perchè stesse in quel modo.

Era una Soleil che io non avevo mai conosciuto.

Qualcosa nel suo sguardo mi impedì di avvicinarmi, di parlarle, di esprimere tutte le meraviglie che avevo scoperto.

Era lo stesso sguardo vitreo dei Riflessi.

Una cosa che avevo sperato di non dover mai associare a lei.

A tutti, ma non a lei.

Perchè lei doveva essere migliore.

Doveva essere una Giusta diversa dagli altri, come io ero diversa dalla mia gente.

Lei doveva essere come il Sole, sempre calda, sempre accesa, sempre luminosa.

Perchè era così che la ricordavo e la conoscevo.

Era quella, la persona con cui mi sentivo bene, non questa copia spenta e triste.

Sembrava come addolorata e io non potevo fare nulla per farla sentire meglio.

 

 

 

Soleil

 

Il ritorno di Amelie mi aveva spiazzata.

Ero felice, ovviamente.

Da dieci anni, non desideravo altro che rivederla.

Eppure, c'erano ancora cose di lei che mi mettevano paura.

Forse perchè mia madre mi aveva insegnato così, dopo il coma.

O forse perchè conoscevo il mondo da cui proveniva e temevo che tutto quel tempo passato là da sola l'avesse cambiata radicalmente.

Non le avevo parlato la sera prima, se non per quelle due o tre frasi che ci eravamo scambiate.

Parole prive di significato, di sentimento.

Sentii una mano di mia madre che si appoggiava dolcemente sulle mie.

-Ti farai male.- mi disse.

All'inizio non capii, poi iniziai ad avvertire un certo bruciore ai palmi, dove avevo spinto con rabbia le unghie.

-Va tutto bene?- mi chiese, un po' preoccupata.

-Sì.- mentii e le feci un sorriso, giusto per tranquillizzarla.

-Oggi devi vedere la dottoressa.- mi ricordò, riportando la mano sul volante e fissando lo sguardo sulla strada.

Non volevo andare da Fannie Hewett, quel giorno.

Avevo qualcuno di molto più importante che mi aspettava a casa.

Qualcuno la cui sola presenza poteva mandare a puttane cinque anni di terapia psicologica.

Non che mi interessasse, io sapevo che era reale, solo che gli altri non potevano vederla.

Questo mi dimostrava che Amelie era mia e mia soltanto.

Non poteva che rendermi felice.

L'auto di mamma si fermò a pochi metri dalla scuola, le diedi un bacio affettuoso sulla guancia e la ringraziai, come sempre, del passaggio.

Valkirya mi corse incontro, sembrava affannata e agitata.

-Che succede?- chiesi.

Non ero certo pronta per la notizia che mi diede.

Sì e no la recepii, inizialmente.

Fu quasi dieci minuti dopo che compresi le sue parole, i suoi abbracci, le sue carezze accorate.

-...Ospedale... Incidente... Schianto...- tre parole.

Avevo capito solo tre parole del suo lungo discorso, e mi erano bastate.

Corvette era in ospedale. Aveva fatto un incidente con il motorino. Si era schiantata da qualche parte.

Maledizione!

 

Arrivai nello studio della dottoressa Hewett con quasi un'ora di ritardo.

L'avevo chiamata per spostare l'appuntamento, le avevo spiegato le mie ragioni.

Valkirya mi aveva accompagnato, insieme alle amiche di Corvette, Lauren e Glimmer, al pronto soccorso.

Trauma cranico, aveva detto il dottore.

Sala operatoria.

Vedremo come va la notte.

La notte è decisiva.

Non possiamo fare altro che sperare.

Ma le sue parole, quelle che avevo recepito, per lo meno, non mi avevano affatto aiutata a tranquillizzarmi.

Avrei voluto essere lì, quando si sarebbe svegliata.

Perchè Corvette si sarebbe svegliata, lo sapevo.

Doveva.

Non poteva abbandonarci tutti in quel modo.

Avevamo bisogno di lei.

Io avevo bisogno di lei.

-Soleil.- mi chiamò la donna, sfiorandomi la spalla e allungandomi un fazzoletto bianco di stoffa, elegantemente ripiegato.

Mi asciugai lacrime che non sapevo di aver pianto e strinsi il cotone così forte tra le dita che sentii uno strano scricchiolio d'ossa.

-Scusa.- singhiozzai.

-Non fa nulla. È una tua amica, è normale che tu sia preoccupata.- cercò di rassicurarmi.

-Lei è più di questo. Io ci tengo a lei, ma in un modo diverso, in modo migliore.- confessai.

Non mi ero spiegata al meglio delle mie capacità, ma lei comprese.

Non fece commenti e di questo gliene fui grata; si limitò ad annuire e appuntare qualcosa sul suo taccuino in pelle nera.

-Hai più avuto incubi?- mi chiese. Voleva riportare la conversazione sull'argomento principale di quelle sedute.

-Sì. Ho incubi tutte le notti. Ho passato un mese in coma! È normale che abbia degli incubi!- tuonai.

Mi sentivo i nervi a fior di pelle.

Sapevo che avrei dovuto rispondere di no.

Sapevo che avrei dovuto continuare a mentire.

-Cosa vedi nei tuoi incubi?- domandò, calma come sempre.

Lei non si faceva toccare dalle scenate dei suoi pazienti. Non poteva.

-Un mondo sbagliato. Il suo mondo.- dissi, accasciandomi sulla poltrona.

Non ne potevo più di mantenere quel segreto.

Ora Amelie era tornata. Potevo dimostrare al mondo che era reale.

Sempre che il mondo desiderasse vedere e ascoltare.

-Sbagliato? In che modo?- la curiosità si poteva leggere nei suoi occhi, nella sua postura, ora piegata verso di me per sentire meglio i miei sussurri.

-Tutto è grigio e freddo, ma non come la neve o il ghiaccio. È freddo perchè non c'è calore, di nessun tipo. Non c'è aria, non c'è cielo, non c'è luce, non ci sono colori. E tutto, tutto è silenzioso. Nulla fa rumore. Le persone non parlano, non ci sono animali di nessun tipo. La gente non parla mai, non guarda nulla. Hanno tutti le pupille bianche e colori cupi.- mormorai.

-Anche Amelie?-

-Ame parla. Parlava. Comunque si vede che è di quel mondo. Anche lei ha le pupille bianche. Capelli grigi, occhi verde acqua. Pelle chiarissima.- descrissi.

-E perchè? Insomma, lei è tua sorella gemella, non dovrebbe essere uguale a te?- chiese, ora il suo sguardo era sulle pagine di carta spessa e sulla penna che scriveva con veemenza.

-Lo so che non ci credi.- buttai lì, quasi offesa dal suo atteggiamento accondiscendente.

-Fai finta che io ci creda. Per ipotesi.- disse lei, prestandomi solo la minima attenzione necessaria.

Dovevo essere un caso particolarmente interessante se si premurava di prendere così tanti appunti.

Forse quando mentivo non la soddisfacevo abbastanza.

-Ho la mia teoria. Non c'è nulla di certo o, in qualche modo, accertabile. Quando noi ci specchiamo la prima volta, il nostro riflesso nasce anche nel mondo sbagliato. Solo che lì non ci sono luci, perciò ogni colore è più spento, meno vivido.- borbottai.

Ci avevo pensato tante di quelle volte che ormai ero sicura della mia spiegazione.

Lei annuì ma non sembrò molto convinta.

-Quindi è il mondo degli specchi?- mi chiese, ora davvero confusa.

Sembrava che per lei non avesse il minimo senso.

Ovvio, lei non aveva mai visto Amelie o qualcuno che provenisse da lì.

-Sì, più o meno.- risposi.

-Ed è per questo che tua madre ha paura quando stai allo specchio.- aggiunse lei per me.

-Già. Credo che in qualche modo sappia anche lei. Forse fa finta di niente, lo nasconde anche a se stessa, ma lei ha visto Amelie...- dissi.

-Quando?-

-Quando eravamo bambine. Lei guardava sempre nella sua direzione. Guardava lei e la vedeva. Solo che non vuole ricordarselo perchè le fa paura!- esclamai.

Se qualcosa di mia madre mi faceva arrabbiare, era di sicuro quello.

Quel suo negare, quel preferire l'idea di una figlia pazza, piuttosto che l'esistenza di qualcos'altro a questo mondo.

Mia madre era infantile e molto paurosa a volte.

Io e Fannie Hewett parlammo per tutta l'ora successiva e ci salutammo con la promessa che non le avrei mai più mentito.

Se doveva aiutarmi, voleva farlo in modo serio e, se per caso io non avessi avuto alcun desiderio di essere aiutata, come effettivamente era, allora sarebbe stata per me un'ascoltatrice.

Una persona a cui aprire il cuore, in modo del tutto non psicologico, ma umano.

Perchè anche lei lo sapeva: tutti hanno bisogno di sfogarsi e lasciar liberi i pensieri più profondi e importanti, di tanto in tanto.

 

Era tardi quando arrivai a casa.

Mamma non era ancora tornata ed era un bene. Non avevo voglia di vederla. Mi sentivo furiosa con lei, sebbene non avessi una ragione specifica per esserlo.

Forse la sua paura che, da bambina, mi aveva costretta ad abbandonare Amelie, o forse il suo rifiuto di ammettere la sua esistenza. O forse ancora, per il fatto che non mi sentissi per nulla a mio agio a parlarle di Corvette.

Non era colpa sua, quest'ultima cosa.

Eppure la incolpavo.

Perchè non aveva mai capito i miei segnali. Perchè non mi aveva mai chiesto nulla della mia vita sentimentale. Perchè non era mai presente quando avevo davvero bisogno di lei.

Come in quel momento, mentre osservavo Amelie che mi osservava.

Proprio come uno specchio.

Alzai una mano.

In segno di saluto.

Per dirle di non parlare.

Sembrava più a disagio di me, poverina.

Mi dispiaceva mostrarmi in quelle condizioni. Dovevo essere un brutto spettacolo.

Mangiai qualcosa, nonostante avessi lo stomaco chiuso.

Volevo essere in ospedale. Volevo stringere la mano di Corvette mentre attraversava la notte, esserle accanto, darle sicurezza e forza e aiuto.

Non potevo. Non ero una famigliare e gli orari di visita erano ormai terminati da un pezzo.

Non le sarei stata di nessuna utilità, potevo solo aspettare e vedere come sarebbero andate le cose.

 

Fu solo quando mi sedetti sul materasso che Amelie pronunciò qualche parola.

La sera prima non mi ero accorta di quanto la sua voce suonasse rauca.

Non parlare per dieci anni non poteva non avere conseguenze.

-Cos'è successo?- mi chiese, dolcemente, appoggiando una mano sulle mie, come quella mattina aveva fatto mamma.

-Una persona a cui voglio molto bene è stata ferita.- le dissi.

Non sapevo bene perchè, ma non credevo potesse capire l'amore, o il concetto di ospedale.

Per me lei proveniva da un altro mondo, troppo diverso dal mio.

-E morirà?- domandò con aria innocente.

Sentii il cuore che si fermava.

Che effetto dovevo farle?

Non mi ero mai preoccupata di lei.

Non le avevo mai chiesto come stesse, dopo tutti questi anni, anche se era stata in casa mia per un intero giorno.

E le parlavo, invece, di un'altra persona.

Il sottinteso era chiarissimo anche per me, che non lo desideravo far notare: questa persona è più importante di quanto tu non potrai mai essere.

L'avrei capita se mi avesse odiata per sempre.

-Non lo so.- risposi.

-Spero che non muoia.- sussurrò lei, facendosi più vicina.

-Perchè?- la sua reazione mi aveva stupita. Invece di provare gelosia ed invidia, era dolce come solo lei poteva essere.

Dolce e pericolosa, perchè l'avevo notata, quella punta di veleno nella sua voce.

E sapevo che non era data dalla raucedine.

-Perchè ti renderebbe ancor più triste.- rispose lei.

Era così ingenua, a volte.

Mi fece venire voglia di sorridere e di abbracciarla.

-Sei importante per me, Ame, e mi sei mancata così tanto...- le mormorai contro la pelle della spalla.

-Eppure mi hai lasciata andare...-

E lo notai chiaramente stavolta. Senza nessun dubbio.

Era odio.

La sua voce nascondeva un odio profondo nei miei confronti, nei confronti di quello che le avevo fatto, di quello che le stavo facendo anche in quell'istante.

Preferivo gli altri. Lei non era mai al primo posto nella mia lista delle priorità, mentre io lo ero sempre nella sua.

Mi odiava per questo.

E non potevo di certo biasimarla.

Conoscevo il posto in cui l'avevo lasciata da sola.

Un vero Inferno.

E ora che era tornata, pensavo ad un'altra persona.

Anch'io mi sarei odiata, certo, ma Amelie era pericolosa e il suo risentimento mi faceva paura.

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Capitolo 6
*** Usare la Voce ***


Capitolo 5

Usare la Voce

 

Amelie

 

Erano trascorsi alcuni giorni da quella sera in cui Soleil era arrivata a casa triste.
Non avevamo passato tanto tempo insieme.
A sua madre aveva detto che andava in “ospedale” per vedere un'amica.
Quell'amica che era più importante di me.
Nonostante le mie preghiere, non mi aveva permesso di uscire dalla sua abitazione.
Non voleva che corressi pericoli.
E intanto, il tempo che potevo trascorrere in quel mondo era agli sgoccioli.

 

Avevo un piano.
 

Sarei andata al campanile e poi nel mondo specchio.
Solo il tempo necessario per recuperare le forze. Poi sarei tornata indietro e avrei completato la mia missione.
Con Soleil fuori dai giochi, avrei potuto rimanere nel mondo giusto senza che le mie energie vitali fossero prosciugate.

Partii di notte, per non doverle dare spiegazioni.

Mi sentivo una brutta persona.

Sapevo di star facendo la cosa migliore per me, e che ne avevo il diritto dopo dieci anni passati nell'ombra, ma mi sentivo un'egoista, mi sentivo sporca dentro, immeritevole di stare dinnanzi a questa ragazza, così simile a me eppure così diversa.

 

Salii la scalinata, entrai nella stanzetta dalle pareti colorate e poi dentro lo specchio, scesi la stessa scalinata.

 

Arrivata a terra, a mala pena riuscivo a respirare. Avevo fatto talmente tanta fatica che non mi sentivo più i muscoli delle gambe.

Di sicuro era un buon modo per scoraggiare i ribelli che volevano entrare nel mondo giusto.

Il mio corpo fu felice di essere tornato alla sua normalità.

La temperatura sempre stabile del mondo specchio era un toccasana per guarire dalle emozioni troppo forti provate in quei pochi giorni.

Il grigio e la statica confusione delle strade, ancora macchiate di rosso, non stancavano i miei sensi come i colori ed i dettagli del mondo di Soleil.

Il Silenzio mi dava pace al cervello, ancora confuso per la troppa quantità di informazioni incamerate.

Mi sentivo talmente stanca.

Avevo voglia di dormire.

A passo lento mi avviai verso la prima abitazione disponibile.

Non era nulla di diverso dalle altre, se non fosse stato per una scritta nera su una parete.

Usate la Voce

Solo quello, ripetuto molte volte, in tanti stili e dimensioni differenti.

Usate la Voce.

Era un buon consiglio, senza dubbio.

Con troppo silenzio si rischiava di impazzire.

Tuttavia, solo i diversi “usavano la Voce”. Solo quelli come me, che io non avevo mai incontrato, sapevano parlare.

Spesso mi ero chiesta, crescendo, se anche per loro fosse stato così difficile, o se, invece, avessero trovato degli alleati. Degli amici. Qualcuno con cui “usare la Voce”.

Io l'avrei voluto.

Se avessi avuto anche solo un amico con il dono della parola, probabilmente non mi sarei sentita così incline all'uccidere Soleil, così pienamente giustificata.

Trovai un letto scomodo e dalle coperte ruvide, ma era molto meglio di niente.

Mi ci accasciai sopra, davvero sfinita, e mi addormentai in fretta.

 

Quando riaprii gli occhi, scoprii di non essere sola.

Erano in quattro.

Portavano delle sciarpe di cotone pesante, nere, che coprivano loro il viso.

Indossavano abiti scuri, che si mimetizzavano perfettamente con l'ambiente.

Se non fosse stato per l'atteggiamento bellicoso, il volto coperto e i cappucci alzati, avrei pensato che fossero semplici abitanti sopravvissuti alla dipintura in rosso.

La più vicina a me si scoprì la testa, lasciando ricadere sulle spalle fluenti onde color luna. Avevano anche la stessa luminescenza di quel disco colorato che stava in cielo.

Erano bellissimi.

La sua pelle era di un grigio soffuso, come il tratto sfumato di una grafite.

I suoi occhi, neri come la notte, riuscirono a mettermi in soggezione.

-Come ti chiami?- chiese in tono perentorio.

La sua voce era poco più di un rauco sussurro, ma aveva parlato.

Era la prima volta in sedici anni di vita che sentivo un Riflesso, che non fossi io, usare la voce.

Una voce bellissima, per di più.

Sembrava voler essere dolce come miele, nonostante il poco utilizzo l'avesse resa un po' gracchiante e bassa.

-Amelie.- risposi.

-Usi la Voce, come noi!- esclamò lei, sorpresa.

-Sì. Da che mi ricordo.- dissi, mettendomi a sedere.

Vidi che le altre tre figure avevano delle armi in mano.

Dovevano essere delle Ribelli.

Proprio come me.

Persone che non sopportavano le condizioni in cui eravamo costretti a vivere. Persone che non accettavano l'idea di dover esistere in quel modo.

-A cosa servono?- chiesi, indicando le canne scure dei fucili.

-Protezione. Qualcuno ha ucciso tutti quanti. Siamo rimaste solo noi e l'assassino.- mi spiegò la ragazza con il volto scoperto.

Non le dissi che ero stata io.

Non le spiegai che il mondo doveva essere ridipinto.

Non le spiegai nulla.

Non ero obbligata a farlo e non volevo. Preferivo tenere per me quell'informazione.

Mi era comodo.

Loro avevano tre fucili, io ero disarmata.

Di certo non mi conveniva dichiararmi colpevole.

Avevamo anche noi le nostre leggi e io ne avevo infranta una piuttosto importante.

-Sono Corvine. Loro sono Laureth, Valkhari e Gleam. Usano la Voce, come noi.- disse lei, tendendomi una mano per aiutarmi ad alzarmi.

-Perchè non andate via?- chiesi ingenuamente.

-Via dove!? Non c'è un altro posto!- tuonò Corvine, frustrata.

-In realtà c'è...- mormorai.

 

Spiegai loro del mondo giusto, di come non fosse soltanto una leggenda in uno stupido libro di fiabe, la maggior parte delle quali incomprensibili.

Dissi loro che potevamo raggiungerlo insieme, in poche ore.

Le avvertii di tutti i rischi, di come avrebbero dovuto tornare al campanile e superare lo specchio ogni tre o quattro giorni.

Raccontai loro dei colori, del sole, della luna, dei suoni e di tutte le meraviglie che facevano parte di quel luogo.

Laureth, la ragazza più bassa e carina delle quattro, che aveva la pelle di un grigio scuro, occhi color del fango e capelli tendenti al verde palude, sembrò poco convinta.

Mi squadrò a lungo, cercando di capire se fossi totalmente fuori di testa o se, in parte, ciò che avevo detto fosse vero.

-Quale motivo avrei di mentire?- domandai nel tono più conciliante che potei trovare.

Mi piaceva l'idea di affiancarmi a loro, soprattutto a Corvine, in quel viaggio.

Per la prima volta non sarei stata da sola a soffrire, ad aver paura, a sentire l'inquietudine.

Per la prima volta avrei avuto dei compagni veri, gente uguale a me, che mi avrebbe sempre capita. Che aveva una chiara idea del mio disagio, del disagio che provano i Diversi.

-Magari non menti. Può essere che tu ci creda davvero, ma questo non lo rende meno folle.- borbottò Gleam.

La sua pelle era bianca, anche più bianca della mia, ed era addolcita da capelli color noce. I suoi occhi erano però duri come pietra e avevano il colore del ferro.

Appena l'avevo vista a volto scoperto avevo capito che era una persona feroce.

Lei non si sarebbe fatta problemi ad uccidere.

Proprio come me.

L'ultima delle quattro, Valkhari, mi affiancò.

-Io ti credo.- mi disse.

Sentii il petto che si scaldava.

Era una sensazione così strana.

Non l'avevo mai provata prima di allora, nemmeno in presenza di Soleil.

-Stare qui non è la soluzione. Abbiamo delle armi, e quindi? Chi stiamo combattendo? Sono tutti morti! È giunto il momento di trasferirci.- esclamò a voce alta.

La sua era meno rauca delle altre, segno che probabilmente parlava più di tutte loro.

Mi piaceva Valkhari. Mi piacevano i suoi capelli, erano di un colore intenso, un viola che avevo visto poche volte anche nel mondo giusto, ed i suoi occhi erano come ghiaccio, seppure sapessero guardare con dolcezza.

Era amichevole e sapeva farsi ascoltare. Fu lei a convincere le altre, soprattutto Laureth e Gleam, ad attraversare lo specchio.

Corvine, già dall'inizio, non sembrava troppo reticente ad assecondarmi.
Le vedevo negli occhi la stessa esasperazione che sentivo nel cuore.
Né io né lei potevamo sopportare un altro giorno in quella desolazione.
Nemmeno il rosso bastava più a farmi sentire meglio.
Era come se fossi dipendente dal mondo giusto.

Null'altro mi avrebbe resa felice o serena o tranquilla.
-Va bene. Lo faremo. Tutte insieme.- disse. Era il capo e nessuna di loro avrebbe voluto mai stare nel mondo specchio senza di lei.

 

 

Soleil

 

Una mattina, così com'era arrivata, Amelie scomparve. Non una parola, non un biglietto.
Non gliene facevo una colpa, davvero, ma di sicuro mi aveva rattristata.
Ne parlai con la dottoressa Hewett.

Lei lo interpretò come un miglioramento.
Corvette era stata dimessa dall'ospedale e passavo praticamente ogni pomeriggio a casa sua, in compagnia di Lauren, Valkirya e Glimmer.
Secondo Fannie, l'avvicinamento a persone reali mi aveva fatto perdere il bisogno di un'amica immaginaria che colmasse i vuoti.
Ma io sapevo che c'era più di questo.

Amelie se n'era andata perchè non le avevo prestato attenzione. L'avevo ignorata in favore di un gruppo di amiche del mio mondo.
Non le avevo permesso di fare nulla, avevo preteso che stesse chiusa in casa come un uccellino in gabbia.
Ero stata crudele e insensibile.
Dopo tanto che eravamo state lontane, avrei dovuto, per lo meno, dedicarle più tempo.
Ne avevo parlato anche con Valkirya.

Era tempo di rendere la cosa ufficiale.
Tra una cosa e l'altra, tutte le ragazze lo vennero a sapere.
Corvette non fece alcun commento, si limitò a sorridere e fingere di essere gelosa.
Lauren ridacchiò a lungo, scusandosi ogni cinque minuti e Glimmer liquidò la faccenda come "una delle mie tante stranezze", ma lo fece in modo amichevole.
Per loro, Amelie non era niente di più di una fantasia.
Valkirya fu l'unica a preoccuparsi, forse perchè eravamo amiche da una vita e conosceva i miei precedenti.
Alla fine, tutto era stato meno peggio di quanto avessi temuto.
Eppure, nemmeno il loro calore mi fece sentire meglio.
Il pensiero di aver abbandonato, di nuovo, la mia metà mi dilaniava ogni volta che mi coricavo sul letto per dormire.
Anzi, ogni volta che ero da sola.
Cosa che non accedeva poi così spesso.
In pochi giorni la mia vita era cambiata drasticamente.
Avevo la ragazza dei miei sogni, una compagnia di amiche e una vita sociale decente, molto più attiva di quella precedente.
Avrei dovuto esserne felice, ma una parte di me sapeva.

Sapeva che tutto quello non era ciò che desideravo davvero.

Avevo passato dieci anni pensando costantemente ad Amelie.

Ero stata in coma per un mese, e tutto per starle vicino.

Perchè io volevo starle vicino.

Tutte quelle notti che speravo di poterla rivedere, tutte le superfici riflettenti che avevo evitato, per non dover vedere le sue pupille bianche, per non dover rimpiangere, ancora una volta, di aver preferito mia madre, il mio mondo, il Paradiso.

Poi Amelie era tornata e io non ero stata in grado di esprimere tutta la gioia di riaverla con me, tutto il dolore che avevo provato.

Mi ero distratta.

Avevo preferito fare amicizia con Glimmer e Lauren, stare vicina a Corvette, dimostrare a Valkirya ed ai miei genitori che ero normale, quando invece avrei dovuto tenermi stretto ciò che avevo di più caro al mondo, ciò che per dieci anni mi era mancato come la pioggia in periodo di siccità.

Il sole, da solo, poteva risultare davvero odioso, doveva avere qualcuno che lo oscurasse, di tanto in tanto.

-Va tutto bene?- mi chiese mia madre, appoggiandomi davanti il piatto della cena.

Con la forchetta infilzai la bistecca di manzo, poco convinta.

-Cosa ne pensi dei gay?- le chiesi, cercando di dirottare il discorso sull'altra grande faccenda che mi assillava.

Avrei voluto presentare loro Corvette, prima o poi. Nei panni della mia ragazza.

-Nulla. Cosa dovrei pensarne?- ribatté lei, un po' confusa dalla mia domanda.

-Non lo so... E papà?-

-Papà non pensa nulla di nessuno, purchè siano decenti esseri umani.- rispose lei, sorridendo.

Era la classica frase che usava sempre mio padre quando gli veniva presentato qualcuno di nuovo.

-Sto vedendo una persona.- confessai.

-Bene. Com'è?- mi domandò, mettendosi in bocca una forchettata di purè di patate.

-Fantastica...- mormorai.

Ero un po' in imbarazzo perchè sapevo che lei aveva capito.

Non fece nessun commento, proprio come Fannie Hewett.

Forse a nessuno interessava poi così tanto come temevo.

Prima o poi le avrei parlato anche di Amelie.

Forse durante la prossima serata tra di noi, mentre papà era costretto a presenziare a qualche evento importante.

Di sicuro non quella sera.

Una confessione per volta era abbastanza.

Ci guardammo un film, sedute scompostamente sul divano.

Lei appoggiava la testa alla mia spalla e di tanto in tanto allungava una mano nella grande ciotola piena di caramelle gommose che avevo in grembo.

Andava pazza per le caramelle gommose.

-Domani esco.- la avvertii.

Non era necessario che glielo dicessi nei giorni settimanali, a meno che io non stessi fuori per i pasti o per la notte, ma siccome l'indomani era una domenica, mi sembrava cortese farle sapere che non sarei stata in casa.

-A che ora?- chiese, rigirandosi una gelatina al limone tra le dita.

-Nel pomeriggio. Verso le quattro.- risposi.

-Ok. Se a casa per cena? Tuo padre voleva portarci al ristorante.-

-Sì, sono a casa.- la rassicurai.

Quando il film fu finito, nessuna delle due aveva ancora voglia di andare a dormire. Restammo lì, praticamente abbracciate, a parlare del più e del meno.

-Ho parlato con Fannie qualche giorno fa. Dice che stai meglio.- borbottò ad un certo punto, obbligandomi a lasciare a metà il mio racconto del professor Victor Marshall che rispondeva a Valkirya con la perfetta dose di sarcasmo e ironia necessaria a farla stare zitta.

Non sapevo cosa dire di fronte a quell'affermazione.

Sapeva che avevo tutto il diritto di arrabbiarmi.

Più volte le avevo chiesto di non intromettersi, per lo meno non durante il periodo di sedute, eppure lei continuava a farlo, imperterrita e, ancor più grave, sempre convinta di averne il diritto ed il dovere di madre.

-Scusami.- disse per colmare il silenzio.

-Non fa niente. Me ne vado a letto.- appoggiai la zuppiera di gelatine e caramelle sul tavolino da caffè e, senza nemmeno aspettare che si spostasse, mi alzai.

-Non fare così! Ero preoccupata...- provò a giustificarsi.

-È una cosa privata, ok!? Quello che ci diciamo deve restare tra di noi, eccetto in casi specifici. Perchè devi sempre intrometterti?- sbottai.

-Non lo faccio certo per indispettirti, Sole, lo faccio perchè mi interessa la tua salute.- mi rispose, sedendosi in modo più composto.

-Io sto benissimo. Sono passati dieci anni da quando sono stata in coma, passa oltre, superalo!- esclamai, allargando le braccia per l'esasperazione.

Era sempre stato così, lei non riusciva a farmi fare più di tre sedute che subito doveva chiamare Fannie Hewett per scucirle a forza qualche informazione.

-Intendevo la salute mentale.- sussurrò.

Lo vidi perfettamente l'esatto momento in cui si pentii di quella frase.

E nonostante lo avessi visto, non potevo fargliela passare così.

Mi aveva dato della pazza, in modo sottile e crudele.

Sapeva quanto mi stesse a cuore che tutti pensassero che io ero normale.

Le conosceva bene le mie preoccupazioni, le conosceva eppure aveva detto quella frase.

Lei pensava, o peggio ancora temeva, che io non fossi sana di mente.

Che senso aveva averle nascosto la verità su Amelie per tutti quegli anni se non mi portava ad apparire normale ai suoi occhi.

Dopotutto, lo avevo fatto per lei.

L'avevo abbandonata perchè mia madre ne aveva paura.

La avevo lasciata all'Inferno perchè mia madre non piangesse più, non si sentisse sola.

-Scusa tanto se non sono normale, Mary.- sibilai velenosa, prima di rifugiarmi in camera mia e chiudere a chiave la porta.

La sentii avvicinarsi a piccoli, silenziosi, passi, ed appoggiare la mano contro il legno spesso e lucido.

-Scusami.- disse ancora.

La ignorai, ero troppo impegnata ad asciugarmi le lacrime e a sciogliere il nodo che avevo in gola.

Se le avessi parlato ancora, anche solo una parola, sapevo che i freni che mi ero imposta di mantenere si sarebbero allentati e sarei scoppiata in un pianto disperato.

Perchè avevo fatto davvero troppo male a quella creaturina, e tutto per colpa di mia madre, della sua incapacità di lasciarmi libera.

Lei non si era mai accorta di quanto io fossi felice con Amelie.

Mai.

Aveva preferito averne paura, aveva preferito non ascoltare, non vedere, chiudere gli occhi, la mente, il cuore.

Aveva preferito credermi pazza, sottopormi ad esami, farmi osservare da equipe di psicologi, da cosiddetti specialisti e, per finire, dalla dottoressa Hewett, che, senza dubbio, era sempre stata il male minore.

Il nome di Amelie era stato proibito, parlare con lei assolutamente vietato e se anche la guardavo e basta, mia madre andava in paranoia, convinta che avessi lo sguardo perso nel vuoto.

Ma dopotutto, una persona dovrebbe abituarcisi dopo dieci anni, no?

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Capitolo 7
*** Riflessi ***


 

Capitolo 6

Riflessi

 

Amelie

 

Attraversare fu più difficile di quanto pensassi.

Nonostante l'aspetto da Ribelli, nessuna di loro era davvero una combattente e di sicuro non sapevano affrontare quel dolore.

Il problema dell'attraversare lo Specchio era che, una volta entrata, non potevi tornare indietro fino a che il viaggio non era finito.

Ma, soprattutto, più ti dimenavi e più le schegge di vetro e argento ti si piantavano in profondità nella carne, causando un dolore insopportabile praticamente per chiunque. 

Corvine fu la prima a rendersene conto e tentò di dire alle sue compagne di provare a stare ferme.  

Ovviamente non riuscì nel suo intento. 

Laureth venne sputata sul pavimento bianco panna in preda alle convulsioni. Aveva gli occhi completamente bianchi e, poiché era distesa sulla schiena, rischiò di soffocare nel suo stesso vomito. 

Una delle scene più raccapriccianti che mi fosse mai capitato di vedere. 

Valkhari le fu subito accanto e la ruotò su un lato, aiutandola, per quanto possibile, a calmarsi. 

Gleam era in ginocchio, con la schiena piegata e la fronte attaccata al pavimento e tentava di fermare i tremori compulsivi del suo corpo. 

Corvine mi interrogò sul pizzicore fastidioso alla pelle, un'espressione preoccupata le turbava i bei lineamenti del viso. 

-È normale. Succede sempre.- la rassicurai, accarezzandole una spalla con delicatezza. 

Valkhari sembrava l'unica, oltre a me, ad aver superato quell'ostacolo senza gravi ripercussioni. 

A rimetterle in sesto ci impiegammo quasi un'ora. 

Laureth sembrava intenzionata a morire su quel pavimento, non riusciva ad alzarsi o a smettere di vomitare bile e saliva. 

Quando finalmente riuscimmo a metterla in piedi senza provocarle un attacco di panico o un crollo emotivo e psicologico, uscimmo dalla stanza e iniziammo a fare le scale. 

-Maledetti scalini! Ma non potevano farla a pian terreno questa stupida stanza!?- esclamò a un certo punto Gleam, sbuffando sonoramente. 

-Smettila di lamentarti, brillantino, e aumenta la velocità.- rimbeccò Valkhari. Aveva deciso di stare per ultima, per tenere d'occhio Laureth ed aiutarla qualora fosse inciampata. 

Non si faceva molto allenamento nel mondo specchio, nemmeno tra i Ribelli che usavano la Voce, e talvolta la coordinazione e il corretto utilizzo della muscolatura potevano venire a mancare, senza preavviso. 

Corvine camminava a passo spedito, procedendo a distanza di qualche gradino davanti a me, il che mi lasciava la possibilità di osservare la sua schiena perfetta, ora coperta solo da una leggera maglietta a maniche corte, che si rilassava e tendeva a seconda dei movimenti.

Attraverso la stoffa chiara si intravedeva il colore sfumato e compatto della sua pelle. 

Non pensavo che avrei mai incontrato qualcuno più bello di Soleil. 

Corvine lo era. 

Lo era dieci volte, cento. 

Era talmente bella che desideravo perdermi nei suoi occhi per sempre, affondare le mani nei suoi capelli e accarezzare la sua pelle.

Era talmente bella che mi toglieva la concentrazione. 

-Risparmiate il fiato.- disse Laureth in un debole e provato sussurro. 

Ascoltai il suo consiglio e non professai parola. Non ero mai stata un'amante delle chiacchiere, meno che mai di quelle sotto sforzo. 

Bastavano già i gradini a svuotarmi i polmoni. 

 

Quando varcammo il portone del campanile, mi resi conto che la bellezza dell'espressione sul viso di Corvine era superata solo da quella della luna stessa. 

 

Non ne conoscevo la ragione, ma arrivavo a toccare l'asfalto sempre di notte. 

Era così anche quando ero una bambina. Arrivavo con la luna. Me ne andavo quando era il momento, di solito durante la sera.  

Valkhari rise gioiosa, alla vista del cielo. Gleam e Laureth avevano gli occhi lucidi di lacrime e si sostenevano a vicenda, sorridendo. 

Io le capivo.

Capivo la sorpresa la meraviglia e la leggerezza che colpiva la prima volta. 

Non era mai come la prima volta. 

Vedere la luna dopo che avevi conosciuto solo quella specie di soffitto cupo del mondo specchio era un'esemplare dimostrazione dell'enormità e della libertà che c'erano nel mondo giusto

Cose che a noi Riflessi erano sconosciute. 

Aspettai pazientemente che tutte loro staccassero gli occhi da quella tela blu, punteggiata di luminose stelle, prima di incamminarmi.

Avevano bisogno di dormire, ma non sapevo dove portarle. L'aria era troppo fredda per stare all'esterno, anche per noi, abituate alla strana temperatura del mondo specchio, e non ero sicura che Soleil avrebbe accettato di tenerci tutte nella sua stanza.

Non ero nemmeno sicura che accettasse me, dopo il modo brusco in cui l'avevo lasciata.

Eppure, nonostante le mie preoccupazioni, quando la vidi, in compagnia di quattro ragazze, che camminavano nella direzione opposta alla nostra, notai chiaramente sul suo viso la gioia del riavermi con sé.

Non sembrava arrabbiata, anzi, dal modo in cui mi corse incontro e mi strinse tra le braccia compresi quanto ancora ci tenesse a me, nonostante il modo a dir poco gelido in cui mi aveva trattata in quei giorni.

-Pensavo che non saresti più tornata.- mormorò contro la mia pelle fredda.

-Dovevo solo recuperare le energie. Stare troppo a lungo in questo mondo potrebbe uccidermi.- le spiegai.

Le sue braccia si strinsero con più forza attorno al mio corpo e sentii le sue labbra muoversi sulla mia spalla, ma non capii neanche una parola.

 

Quando finalmente si accorse delle altre, scoppiò a ridere di gusto.

Nella sua voce si nascondeva uno spillo di gelosia, rabbia, forse offesa, che io non compresi appieno finchè non osservai con attenzione i volti delle ragazze che l'accompagnavano.

Non eravamo più le sole.

Non eravamo più speciali come ci aveva sempre fatto piacere sentirci.

O forse lo eravamo ancora. Non era detto che quelle ragazze fossero Riflettenti od Osservanti, probabilmente non avrebbero visto il loro Riflesso.

Oppure ne avrebbero avuto paura e lo avrebbero allontanato.

Era una speranza vana, ma sapevo che Soleil la condivideva.

A nessuno piaceva vedersi sottratta la propria miglior qualità, ovvero quella di avere una metà perfettamente in sintonia.

A me di sicuro non andava a genio.

Nemmeno un po'.

 

Probabilmente fu per quello che decisi di allontanarmi dal gruppo non appena Valkhari si avvicinò alla sua Giusta.

Non riuscivo a sopportare di vederle avvicinarsi.

Era inconcepibile, non avrebbe mai dovuto succedere.

 

 

Soleil

 

Per prima cosa, fu importante organizzarci.

Dissi a Corvette e a Valkirya di tenere d'occhio le altre due, che sembravano sul punto di svenire.

Non era facile accettare una cosa simile alla nostra età.

Se fossero state bambine non avrebbe fatto così tanta paura.

Sarebbe stata una cosa bella, come era stata per me e Amelie.

Amelie che era scappata, disturbata dalla stessa consapevolezza che aveva colpito anche me, dolorosa come una lancia conficcata nel torace, che aveva distrutto lo sterno e si faceva largo nel cuore.

-State tutte insieme.- ordinai, rivolgendomi anche alle compagne di Amelie, che mi guardarono per un attimo sconcertate, poi annuirono.

Quella simile a Corvette mi si avvicinò e mi sfiorò la guancia. Sorrise, illuminandosi di gioia.

-Tu mi piaci.- disse.

-Grazie.- risposi con distacco, allontanandomi dalla sua mano con un gesto secco.

-Io mi chiamo Corvine. Loro sono Laureth, Gleam e quella è Valkhari.- presentò se stessa e le altre tre ragazze, indicandole con piccoli gesti.

Nessuna di loro sembrava intenzionata a volermi rivolgere la parola, troppo impegnata ad osservare la propria metà.

-Corvette, Lauren, Glimmer e Valkirya. Io sono Soleil.- indicai le mie amiche.

-Nomi simili. Tranne il tuo.- borbottò, in faccia aveva un'espressione incuriosita.

-Lo è anche il mio.- la contraddissi. Lei mi guardò confusa, ma io non le avrei spiegato nulla.

Soleil era il mio nome ed era giusto che lei mi conoscesse così.

 

Amelia era come mi aveva chiamata qualcun altro.

Qualcuno di cui non mi piaceva parlare.

Il suo nome era stato Dannielle, gemella della donna che chiamavo mamma, e mi aveva abbandonata qualche mese dopo la mia nascita.
Da lei avevo preso la brutta abitudine di preferire qualcosa alla persona che avrei dovuto ritenere la più importante della mia vita.
Come io avevo preferito Corvette ed una vita sociale ad Amelie, lei aveva preferito la droga a sua figlia Amelia.
Era andata in overdose e mi aveva lasciata a Mary, che poco dopo si era presa anche John, il suo fidanzato.
Mary e John si erano sposati, mamma mi aveva adottata legalmente ed eravamo diventati una vera famiglia.
Mi avevano parlato di Dannielle una sola volta, quando avevo sette anni, e da allora non ne facemmo mai più parola.
Amelia era il mio nome, ma a tutti era stato detto di chiamarmi Soleil.
Progettavo di cambiarlo all'anagrafe non appena avessi compiuto diciotto anni.

Irritata dalle mie stesse memorie, che Corvine aveva riportato a galla, le lasciai lì, dicendo loro di non muoversi.
Corsi nella direzione presa da Amelie, sapevo che solo lei avrebbe capito il mio fastidio.
Quello dei ricordi come quello di aver perso la nostra unicità.
La trovai su quella panchina.
Quella su cui sedeva la prima volta, dieci anni prima.
-Ciao.- mormorai mettendomi al suo fianco. Lei sorrise debolmente ed iniziò ad accarezzarmi i capelli.
-Mi fai le trecce?- mi chiese implorante.
Il suo sguardo perso mi fece affiorare una risata sulle labbra. Infilai le dita tra i suoi capelli per districarli, prima di separarli in tre grandi ciocche.
Iniziai ad intrecciarle e la sentii mugolare. Era in uno stato di totale adorazione.
Era una cosa che facevamo spesso, da piccole, giocare con i nostri capelli.
Ed in quel momento, a tanti anni e avvenimenti, di distanza, era un rito molto calmante, un gesto che ci permetteva di conoscerci ancora e ancora, anche senza parlare.
Eravamo sempre noi.
-Tutto sembra uguale ad allora.- la sentii sussurrare.
-Non è cambiato molto.- dissi io, e lo sapevo bene che era una stronzata, così come lo sapeva lei, ma andava bene così, perchè avevamo bisogno di sentirci come le bambine di sei anni che erano uniche nel loro essere in due ed erano uguali seppure così diverse.
Era una vera necessità, qualcosa che io sapevo che lei sentiva, perchè lo sentivo io.
E lei era proprio come me.
Lo era sempre stata e lo sarebbe stata per sempre.
Perchè lei era Amelie, la pioggia che oscurava un sole impietoso e troppo caldo, che aveva seccato le piante, i fiumi e le terre.
-Anche tu lo trovi fastidioso?- mi chiese.
-Sì.-
-Non è giusto, però, vero? Anche loro hanno il diritto di stare insieme e di conoscersi.- mormorò.
Io rimasi in silenzio per pensare ad una risposta. Voleva zittire quella voce che le stava dicendo che era da stronze pensare male di loro.
Praticamente quello che avrebbe detto anche la mia, se non se ne fosse andata a puttane qualche anno prima.
-Ne hanno il diritto, sì; proprio come noi abbiamo il diritto di sentirci infastidite da questa cosa. Ma credo che sia stato il destino a fartele incontrare.- borbottai, chiudendo la treccia con un elastico per capelli che tenevo intorno al polso sinistro.
-Loro usano la Voce. Nessun altro usa la Voce nel mondo sbagliato.- la sentii mormorare.
-Lo so Ame. L'ho visto.- le ricordai.
-Ma è stato troppo tempo fa. Non puoi ricordartelo in ogni dettaglio.-
-Per me non sono passate che poche ore. Io torno in quell'Inferno ogni notte, da dieci anni. Non solo ricordo ogni dettaglio, io li vivo. Li vivo in continuazione. Quei dettagli sono miei.- rivelai. Lei fece silenzio e si appoggiò a me, sospirando quando la circondai con le braccia.
-Temevo che fossi infuriata per il modo in cui me n'ero andata.- disse, disegnandomi sul dorso della mano dei ghirigori con due dita.
-E io temevo che tu non tornassi. Pensavo che mi odiassi per come ti avevo trattata.- ridemmo entrambe. Ne avevamo bisogno.

Per quanto ci avesse rese speciali, il nostro disperato amore a distanza era finito. Ora eravamo insieme, non dovevamo più struggerci a causa della lontananza e potevamo benissimo spendere il nostro tempo creando delle memorie indimenticabili.
Fu questa consapevolezza a farmi alzare.

Amelie mi guardò con curiosità e, sebbene avesse tante domande che le riempivano gli occhi, non disse nulla, si limitò a seguirmi.

Avrei voluto mostrarle il mare.

Mamma e papà mi ci avevano portata, una volta, quando ero piccola.

Mi ero innamorata del mare e sapevo che anche Amelie l'avrebbe adorato.

Purtroppo era lontano, il massimo che la città aveva da offrire erano un laghetto dall'acqua verde e densa e un fiume dall'odore sgradevole, nascosto per la maggior parte da ponti.

Nulla di piacevole o in qualche modo romantico.

Nulla che valesse la pena di mostrarle.

Decisi allora di portarla in un posto che, da bambine, non potevamo visitare, a causa delle paure di mia madre: il bosco che circondava il parco.

Era pieno di suoni e profumi e di colori, sebbene nella notte si mischiassero un po' tutti.

Ero quasi certa che lo avrebbe apprezzato più di qualunque altro abitante.

Conoscevo il suo mondo e loro non avevano il privilegio di vivere nella natura.

Era tutto così spoglio, grigio, inanimato.

 

Amelie si perse ad ammirare la bellezza delle cortecce.

La loro resistenza, la consistenza, il colore, che variava da albero ad albero, l'odore intenso e piacevole.

Se n'era innamorata.

Più che delle foglie, ormai tutte, o quasi, ingiallite dall'autunno; più che degli animali notturni, che le facevano più paura di quanto volesse ammettere; e più della luna che spuntava appena tra le fronde.

-Quella l'ho già vista, ma questa cortecchia... questa è nuova.- esclamò allegramente, accarezzando con estrema delicatezza il tronco di una betulla.

-Corteccia. Si dice corteccia.- la corressi con un sorriso, avvicinandomi a lei.

-È meravigliosa. Senti come profuma!- mi appoggiò una mano sulla nuca e mi spinse gentilmente con la faccia contro il tronco.

-Sì, Ame, lo so.- le dissi ridendo.

-Ne voglio un po'! Possiamo prenderne un po'? Voglio che anche Corvine e le altre la vedano.- era euforica.

E tutto solo per della corteccia.

Questo lato di lei non era mai cambiato, nonostante la solitudine.

-Ora non ho nulla con cui prenderla. Torneremo domani con un coltello e ne taglieremo un pezzo.- le assicurai. La sua espressione sembrò rabbuiarsi per un secondo, ma subito tornò ad essere splendente e gioiosa, non appena posò gli occhi su un cespuglio di bacche.

Velenose, per di più.

Ci si tuffò dentro, quasi, incurante delle spine e del dolore come era sempre stata.

-Sono stupende! Come si chiamano?- volle sapere, staccandone con delicatezza qualcuna dal suo ramoscello.

-Bacche. Non mangiarle.- le dissi. Il modo a dir poco insistente in cui guardava quelle piccole sfere rosse mi preoccupava.

-Mangiarle? Non le mangerei mai, sono troppo belle.- borbottò lei, quasi offesa dalla mia insinuazione.

I cespugli di bacche la tennero occupata a lungo. Ne trovammo anche uno di more e uno di lamponi e riuscii a convincerla ad assaggiarne qualcuno. Se la prima le era piaciuta tanto per la sua consistenza e dolcezza, il secondo lo aveva sputacchiato per terra.

-È troppo...- aveva la stessa faccia di una che aveva appena mangiato un limone intero. Non riusciva nemmeno a trovare il giusto aggettivo per descrivere il frutto.

-Aspro?- le suggerii.

-Disgustoso.- fece lei con un'occhiata assassina.

Non si fidò più dei miei consigli, soprattutto non dopo che mi vide mettere in bocca quattro lamponi per volta.

-Sicura che non ti uccideranno?- chiese.

-Sicurissima. Alla fine, quando ti abitui al sapore sono buoni.- le risposi continuando il mio spuntino notturno.

-Queste sono buone.- indicò le more, poi osservò me e la mia mano piena di frutti rossi che si stava pericolosamente avvicinando alla mia bocca. -Quelli sono disgustosi.- terminò.

Scrollai le spalle. Non era poi una gran cosa, a tante persone non piacevano i lamponi.

 

Quando uscimmo dal fitto del bosco, ci dirigemmo subito al punto di strada, a pochi passi dalla porta d'ingresso di casa mia, in cui avevo lasciato le ragazze.

Rimanevano solo in due.

Corvette e Corvine erano sedute sul marciapiede, a debita distanza l'una dall'altra, e si scambiavano occhiate ansiose e cariche di sospetto.

-Le altre?- chiesi.

-Andate a casa. Ognuna si è portata appresso la propria... non so come definirle, copioni? Cloni? Replicanti?- chiese, alterata, Corvette, alzandosi in piedi e venendomi incontro con l'aria di una che voleva riempirmi di botte.

-Riflessi. Siamo Riflessi.- rispose Amelie al posto mio, mettendosi tra me e lei, facendomi da scudo.

-Tu devi essere la famosa Amelie. Ho sentito parlare di te.- disse la mia ragazza, incrociando le braccia e alzando il mento con fare altezzoso.

-E tu sei la persona speciale di cui Soleil mi ha raccontato.- ribatté la mia metà.

Il mio Riflesso.

Corvette restò spiazzata dalle sue parole e cercò una conferma nei miei occhi. Io le sorrisi dolcemente e le tesi una mano.

-Va tutto bene, davvero. Non sono qui per farci del male, ma solo per fuggire dal loro mondo.- le dissi sussurrando.

-Sei sicura?- mi domandò.

-Sì. Sii gentile con loro, non meritano altra sofferenza.- la pregai.

Dopo un lungo bacio, riuscii a convincerla a portarsi Corvine a casa.

Nessuna delle due sembrava troppo contenta, ma accettarono senza dare a me e ad Amelie troppe noie.

Per la prima notte dopo davvero tanto tempo, riuscimmo a ritrovarci sul letto e a parlare come quando eravamo bambine.

Con vasi e vasi pieni di bacche di varie forme e colori e dimensioni. Su alcuni scrissi il loro nome, quando lo conoscevo, su altre scrissi “Velenose. Non mangiare assolutamente.”; su altre ancora scrissi un punto interrogativo e spiegai ad Amelie che, finchè non avessi scoperto qualcosa, non doveva mettersele in bocca.

Lei ancora non capiva il mio bisogno di ingoiarle, rovinandone così la perfezione, ma iniziai a non prenderla sul serio quando la scoprii che si divorava manciate di more.








NdA: Chiedo umilmente scusa per il ritardo, il lavoro mi sta portando via tanto tempo e il freddo non aiuta la mia ispirazione.
cercherò di postare il prossimo capitolo tra una settimana.
Ancora scusa e un bacio a tutti quelli che leggono, recensiscono e hanno inserito -. e inseriranno - tra le preferite/seguite/ricordate.
JinnyorJolly

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Capitolo 8
*** Essere Uno, Essere in Due - parte I ***


Capitolo 7

Essere Uno, Essere in Due – parte I

 

Valkhari

 

Vedere Amelie andare via mi aveva rassicurata.

Sapevo che era pericolosa, l'avevo vista mentre uccideva i Riflessi, nel mondo specchio.

L'avevo vista e non avevo detto nulla, troppo preoccupata di poter provocare reazioni che non avremmo potuto fermare.

Non potevamo fidarci di lei, era totalmente fuori di testa.

 

-Io devo andare.- annunciò Valkirya.

Non sembrava scossa come tutte le altre e questo mi faceva piacere.

-Vieni con me.- mi disse. Sulle labbra aveva un sorriso dolce, anche se incerto.
Per la prima volta in tutta la mia vita, mi sentii a casa.
Capii come Soleil, una ragazza che appariva sveglia, potesse fidarsi ciecamente di Amelie.
Compresi la luce che brillava negli occhi di entrambe, poiché era le stessa che illuminava lo sguardo di Valkirya quando presi la mano che mi porgeva.
Quel contatto mi diede la certezza che non avrei più potuto viverle lontano.
Era come se tutta la sofferenza che avevo provato nel mondo specchio fuggisse dalla mia mente, terrorizzata dalla luce che la mia metà aveva portato.

 

Mi fece salire su una moto.
Ne avevo già viste, ma non in funzione.
La maggior parte delle cose, nel mondo specchio, erano rotte o inutilizzabili.
Il rombo del motore mi assordò e le vibrazioni mi scossero. Mi sentivo su di giri, agitata e felice allo stesso tempo e, per la prima volta, senza parole.
Era come se la mia gola si fosse chiusa per l'emozione, una sensazione che non avevo mai provato.
Mi strinsi a lei, affondando il viso nei suoi capelli rossi, di una morbidezza indescrivibile.
Valkirya era perfetta. Ogni cosa di lei mi invadeva i sensi, il suo profumo: un misto tra dolce, fresco e aspro; i suoi colori: la pelle chiarissima, i capelli di fuoco, gli occhi di un grigio che nulla aveva a che spartire con quello del mio mondo; la pelle liscia e morbida, priva di difetti; la voce soave che avrei ascoltato per sempre.
Non riuscivo a pensare a come avessi vissuto prima, senza di lei.

 

Casa sua aveva la stessa forma di quella in cui io ero costretta ad abitare. Grande, spaziosa, eppure non era vuota, non era inquietante, non era spettrale.

Era calda, armoniosa, invitante, piacevole.

Quel genere di edificio che si poteva tranquillamente chiamare Casa, perchè ti lasciava dentro una sensazione di pace e protezione.

Valkirya salutò i suoi genitori con un abbraccio e mi trascinò in camera sua.

Il suo letto a due piazze era rivestito da coperte blu chiaro. Sul comodino in legno rosso c'era una cornice con una foto che la ritraeva al fianco di Soleil.

Erano piccole e sorridevano. Le mancavano i denti davanti e portava i capelli molto più corti, da maschio.

Sembrava effettivamente un bambino, ma sapevo che era lei.
-Avevamo dieci anni. Lei era sempre triste.- mi disse, sedendosi sul materasso, proprio dietro di me. Prese in mano la cornice e sorrise affettuosamente, anche se nei suoi occhi c'era preoccupazione.
-A me sembra felice.- mormorai, prendendo posto accanto a lei.
-È il suo super-potere. Sembra felice anche se non lo è. La fa per non intristire le persone che le vogliono bene.- mi spiegò.
-Tu sei una di quelle persone, vero?- chiesi.
-Sì.- era orgogliosa di questo.
Le domandai perchè il nome di Soleil non assomigliasse a quello di Amelie.
Corvine non era la sola a cui suscitasse una certa curiosità.
Lei mi raccontò di una donna di nome Dannielle e di come avesse vissuto una vita tremendamente infelice. Sempre chiusa in casa, nella sua stanza.

Mi raccontò di come avesse iniziato ad abusare di “certe sostanze” quando aveva più o meno la nostra età. Di come avesse conosciuto un uomo speciale e di come se ne fosse innamorata.
Avevano avuto una figlia, Amelia.

Una bellissima bambina.
Ma Dannielle non aveva la forza di crescere e diventare responsabile per lei, perciò aveva deciso di ricominciare ad usare quelle “sostanze”, che però l'avevano uccisa.
Mi raccontò di come l'uomo speciale si fosse innamorato della gemella di Dannielle, di come si fossero sposati e avessero cresciuto insieme Amelia, decidendo però di cancellare quel triste passato cambiandole nome.
-La mamma di Soleil, Mary, mi ha raccontato questo storia. Io non dovrei conoscerla, ma non importa. Sono la sua migliore amica, è giusto così.- disse alla fine, con espressione dolce.
Non sembrava turbata da quel racconto tanto quanto avrebbe dovuto essere. Era come se per lei fosse tutto normale.
Una madre che abbandonava la figlia.
Un uomo che dimenticava la donna della sua vita per la gemella.
Una bambina che veniva chiamata con un nome non suo.
Era come se Amelia fosse morta con Dannielle e questo, ai miei occhi, era molto conturbante.
-E questo l'ha resa infelice.- mormorai pensierosa.
-Non solo questo. Anche non poter stare con Amelie.- mi disse Valkirya.
-In che senso?- domandai.
-Soleil è stata in coma per un mese. Un mese trascorso nel mondo specchio e dopo quel mese, siccome sua madre stava soffrendo troppo, ha deciso di non dover mai più vedere Amelie. Così le ha detto di non presentarsi più. O almeno questo è quello che so.- spiegò.

Forse non compresi pienamente tutto quello che mi aveva detto, ma non pretesi chiarimenti di alcun tipo. Sapevo che aveva già raccontato cose che avrebbero dovuto restare segrete a tutti quanti.

Non mi chiesi nemmeno perchè si fosse aperta con me, forse sentiva le stesse cose che provavo io, ovvero che mi potevo fidare della mia metà.

Era come me, dopotutto, cosa avrebbe mai potuto farmi di male?


Di lei sapevo già qualcosa, appresa in quelle occasioni in cui Valkirya si era specchiata nel corso negli anni.
Era stata una bambina serena, tranquilla, piena di amici e sempre desiderosa di giocare.
Ma era successo qualcosa, ad un certo punto. Qualcosa che l'aveva fatta piangere e soffrire.
Piangeva e soffriva ogni volta che si guardava allo specchio.
Non sempre per le stesse ragioni.
Alle volte era per preoccupazione, altre per rabbia o per dolore o per vergogna o per odio verso se stessa.
Valkirya, e questo lo sapevo perchè ero costretta, dalla mia condizione di Riflesso, ad essere uguale a lei, non era sempre stata una ragazza che la società avrebbe definito bella.
Era stata una bambina paffuta prima e grassa in seguito. I compagni di classe la prendevano in giro e un paio di volte l'avevano picchiata.
O almeno così avevo sentito attraverso lo specchio.
Era nel periodo in cui io avevo iniziato ad usare la Voce, perciò non mi ero propriamente interessata alla sua situazione.

Ora me ne pentivo.
Ad ogni modo, le cose avevano iniziato a migliorare durante l'ultimo anno delle scuole medie. Aveva iniziato a seguire una "dieta", qualunque cosa fosse, e aveva perso peso, entrando automaticamente nella categoria delle belle ragazze.

Dopotutto, con i suoi capelli che sembravano fuoco, gli occhi grigi e l'incarnato bianchissimo, appena spruzzato di lentiggini sulle spalle, era praticamente impossibile che le persone riuscissero a non guardarla in quel modo.
Aveva smesso di piangere allo specchio e di odiarsi.

Aveva iniziato a tenere i capelli sciolti, a truccarsi, a sostituire gli occhiali con delle lenti a contatto e ad uscire più spesso di casa.
Entrata alle superiori, era una ragazza popolare.
-A cosa pensi?- mi chiese.
-A te. A com'eri qualche anno fa.- risposi.
-Mi hai vista?- spalancò gli occhi, sorpresa.
-Ogni volta che ti specchiavi.- le sorrisi con affetto.

Era strano, il mondo Giusto.
Non era come le fiabe lo descrivevano, era allo stesso tempo migliore e peggiore.
Non tutti i suoni erano piacevoli, alcuni perforavano i timpani, facevano venire la pelle d'oca o il mal di testa, altri erano troppo alti, fastidiosi, mi rimbombavano nel petto e nelle tempie.
Era difficile, per me, sopportarli tutti.
La stessa cosa valeva per gli odori. Alcuni pungevano il naso, ce n'erano di insopportabili, acidi, aspri, troppo dolci, malsani.
D'altro canto, nelle fiabe non erano riusciti a descrivere nemmeno alla lontana la bellezza del cielo e dei colori.

Tanti, tantissimi colori.
E, e questo mi lasciava estremamente dubbiosa, nonostante l'aria fosse gelida, era più calda di quella del mondo specchio. Baciava la pelle, la frustava, la pizzicava, ma era comunque molto più piacevole della temperatura immobile e invariata del mio mondo.
-Sai, voi dovreste prestare più attenzione a tutto quello che avete.- sussurrai.
Valkirya era stanca quindi ci eravamo distese sul letto, coperte fino agli occhi da pesanti e morbide coperte dal profumo floreale.
-Lo so. Ma andiamo tutti molto di fretta, non c'è tempo per osservare.- mi spiegò con voce quasi triste.
-Non va bene. Ci sono cose meravigliose qui! Guarda solo i colori della maglietta che indossi. Sono stupendi!- esclamai, alzandomi a sedere.
-Lo so Valkhari...- ripeté lei sbadigliando.
-Scusa, mi agito troppo a volte.- mi distesi nuovamente e la guardai per un pò.
Pensai seriamente se avvisarla oppure no.

Ero indecisa.
-Senti...- mormorai.
-Che c'è?- chiese, sforzandosi di ascoltare le mie parole.
-Fai attenzione ad Amelie.- dissi a bassa voce. Lei mi guardò negli occhi, per qualche secondo incerta, poi annuì.

 

Valkirya


“Fai attenzione ad Amelie.”
Avrei potuto avere dubbi su come interpretare quella frase, se solo non l'avessi guardata negli occhi.
Paura.
Valkhari era spaventata.
E, se era simile a me almeno un po', potevo dire che la sua paura era già di per sé qualcosa di terrificante.
Non ero una persona che si lasciasse manipolare dalle emozioni senza senso.
Non più da quando ero cresciuta.
Non potevo dire che Amelie mi avesse fatto una brutta impressione.

L'avevo vista per pochi secondi, non le avevo nemmeno parlato.
Però avevo visto lo sguardo traboccante di gioia di Soleil e questo mi era bastato per apprezzarla.
Eppure le parole di Valkhari mi avevano messa in allarme.
-Cos'ha fatto?- le domandai.
-Ucciso. Tutti quanti nel mondo specchio. Tranne noi, ovviamente, e un ragazzo che non usa la Voce.- mi disse con voce tremante.

 

Un'assassina.

Non era poi così diversa da Soleil, alla fine.

 

-Va bene, ho capito. Grazie di avermi avvertita.- le dissi, intrecciando le dita alle sue, sotto le coperte.

Lasciai che si addormentasse. Non sapevo cos'avesse dovuto sopportare per venire da questa parte dello specchio, ma di sicuro era stato qualcosa di incredibilmente faticoso.

Già dalla prima occhiata si vedeva che, a parte Amelie, erano tutte molto stanche e fisicamente provate.

La guardai per un po' e sorrisi.

Nemmeno noi eravamo molto diverse.

Escludendo le ovvie somiglianze nell'aspetto, ad esempio il modo in cui i capelli si attorcigliavano su se stessi, la grandezza e la forma degli occhi, i lineamenti del viso, l'altezza, il peso e la fisionomia, c'erano sostanziali analogie anche nell'atteggiamento, nell'accento, nelle parole che sceglievamo di usare.

Non avevo avuto la possibilità di ascoltarla a lungo, ma avevo già capito qualcosa di lei.

Si faceva coinvolgere facilmente e amava con tutta se stessa sperare in qualcosa di migliore.

Era, molto probabilmente, stata sua l'idea di seguire Amelie nel nostro mondo.

Era solare e allegra, ma seria quando serviva, ed era ben consapevole del carisma che possedeva, con cui convinceva gli altri a fare ciò che voleva, o ad ignorare importanti dettagli.

 

Come io avevo sempre fatto per coprire Soleil e le sue... stranezze.

Lei era la mia migliore amica da una vita, ma avevo iniziato ad avere un po' paura di lei da quando si era svegliata dal coma, dieci anni prima.

La cosa più bizzarra, e anche quella che era mutata di più dal suo atteggiamento normale, era stata la rabbia, la paura di perdere qualcosa di questo mondo.

Non avevo ricordi precisi di quel periodo, solo qualche flash ogni tanto, e qualche immagine impressa a fuoco nel cervello.

Come quando l'avevo vista per la prima volta uccidere.

Non persone, no.

Piccoli animali.

Roditori per lo più.

Scoiattoli che trovava nel bosco, nonostante i suoi genitori le vietassero di entrarci; topi, ricci e anche un paio di gatti.

Li stritolava e poi li apriva. S ricopriva le mani di sangue e restava per ore a osservare il colore rosso.

I colori.

Per Soleil, uscita dal coma, erano sempre stati molto importanti.

Sembrava terrorizzata dall'idea di non poterli più vedere.

Tanto che una volta mi arrischiai a chiederle il perchè.

 

-Non ci sono colori dall'altra parte.- mi aveva risposto in un sussurro strozzato. Un brivido l'aveva scossa e mi aveva fissato con occhi vitrei.

Un riflesso bianco le aveva illuminato le pupille.

 

All'epoca non avevo capito. Mi ero spaventata, pensando, stupidamente, che fosse stata nel mondo dei morti.

Ma ascoltando i suoi borbottii involontari riguardanti Amelie, avevo capito che le pupille bianche erano il marchio dei Riflessi, anche se all'epoca non sapevo di doverli chiamare così, e che “l'altra parte” a cui si riferiva da bambina, altro non era che l'altra parte dello specchio.

Non che queste spiegazioni lo rendessero meno inquietante, certo.

Ora, vedendo Valkhari, riuscivo a capire meglio ogni cosa.

C'era una specie di energia che mi suggeriva e mi spingeva ad avvicinarmi a lei.

Sembrava come se il mio corpo volesse fondersi con il suo.

La trovavo incredibilmente intrigante e bella, volevo scoprire tante cose di lei, del suo mondo, che Soleil mi aveva sempre descritto come orribile, vuoto, spento, morto, silenzioso.

 

Probabilmente erano già le tre o le quattro del mattino quando finalmente scivolai nel sonno.

La mano ancorata a quella di Valkhari, che respirava docile al mio fianco.

I sogni parlarono della mia infanzia e delle mie brutte esperienze preadolescenziali.

Di Riflessi e di riflessi bianchi negli occhi.

 

Quando mi svegliai, mi resi conto che Valkhari non era la sola ad aver dato un'occhiata dall'altra parte.

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Capitolo 9
*** Essere Uno, Essere in Due - parte II ***


Capitolo 8

Essere Uno, Essere in Due – parte II

 

 

Corvine

 

Soleil ed Amelie erano andate via per prime.

Subito dopo Laureth e Lauren, poi Gleam e Glimmer e infine Valkhari e Valkirya.

Corvette mi guardava come se fossi un animale feroce.

La intimidivo.

Probabilmente la mia incapacità di sorridere influenzava parecchio le sue emozioni.

Purtroppo, però, nessuno che avesse vissuto tanto a lungo nel mondo specchio sarebbe stato in grado di essere realmente felice.

Certo, tutto era meraviglioso nel mondo Giusto, c'erano un sacco di cose stupende e curiose e affascinanti e strane, ma quanto sarebbe durato?

Due giorni?

Tre?

Non credevo che valesse il dolore dell'attraversamento.

Non volevo mettere di nuovo in pericolo le vite delle mie amiche, delle uniche persone con cui io avessi mai parlato in diciannove anni di vita, le persone che mi avevano circondata di un affetto un po' freddo, ma senza dubbio sincero.

-Quindi... Tu sei me.- disse Corvette con voce dubbiosa, sedendosi sul marciapiede.

-Sì e no.- risposi.

-Ti chiami Corvine, giusto?- chiese.

-Sì.-

Nonostante sapessi usare la Voce, non ero abituata a parare molto.

Forse perchè c'era Valkhari che riempiva ogni attimo di silenzio con le sue chiacchiere senza senso, eppure estremamente piacevoli.

Ogni volta che parlavo la gola mi raschiava dolorosamente.

Sospettavo che fosse per il poco uso che ne facevo.

Questo si trasformava in un suono roco e poco piacevole da udire.

 

Aspettammo in silenzio. Sentivo la sua irritazione anche stando a cinque metri di distanza, il che mi faceva un po' ridere.

Era sicuramente gelosa.

Glielo si leggeva negli occhi verde scuro. Quando Soleil era corsa dietro ad Amelie, una scintilla di puro odio le aveva attraversato le iridi e aveva stretto i pugni.

E forse, era un po' irritata anche dal mio atteggiamento poco espansivo.

Forse le avrei spiegato da cosa derivava.

Forse no.

Potevo anche tenere per me i racconti drammatici di un'esistenza priva di utilità e spessore, in un mondo cupo e inesistente.

Corvette era serena e tranquilla, nel mondo Giusto e, sebbene non provassi per lei ciò che Amelie provava per Soleil – ovvero un amore incondizionato e folle, incrollabile e inarrestabile, che la spingeva a preoccuparsi sempre e comunque della sua Giusta, a seguirla, a curarsi di lei – non volevo darle pensieri.

Sapevo che non era colpa sua se io ero nata dalla parte sbagliata.

Non era colpa sua se le nostre condizioni di “vita”, sempre se così si potesse chiamare, erano e sarebbero sempre state pessime.

Inutile descrivergliele e farla sentire stupidamente in colpa.

 

Finalmente, dopo quasi un'ora, le vidi tornare.

Tra le mani tenevano piccoli oggetti colorati, che Amelie guardava con estrema attenzione.

Ci fu un breve scambio di battute tra Soleil e Corvette, che si era alzata in piedi e si era avvicinata a loro con fare minaccioso.

La discussione si concluse con un passionale bacio.

Corvette tornò al mio fianco e, bruscamente, mi disse che stavamo andando via.

Dove?

Non mi era dato saperlo.

Non che lo avessi chiesto, comunque.

Non mi interessava più d tanto.

Stare lì, nel mondo Giusto, non mi interessava.

Nonostante le sue meraviglie e l'estrema diversità dal mio mondo, non riuscivo a non pensare che fosse solo un miraggio.

Una stupida illusione, che ci avrebbe ferite tutte, una volta finita.

 

Avevo già visto qualcuno piangere, ma mai in quel modo.
Corvette sembrava molto sofferente e la sua posizione era chiaramente di difesa. Anzi, di protezione.
Le ginocchia strette al petto e il viso nascosto dalle braccia.
Era come una pallina, tutta rannicchiata in un angolo del grande letto.
Risvegliava una certa tenerezza che non avevo mai avuto.
-Cos'hai?- le chiesi.
Lei mi guardò solo per un attimo, alzando la testa, ma tornò subito nella sua posizione.
-Nulla. Lasciami stare.- sibilò.
-È per colpa mia?- ignorai il suo ordine e mi sedetti al suo fianco, la schiena appoggiata alla testiera del letto e la spalla destra che sfiorava il suo corpo rigido.
-No.- rispose, strascicando la negazione più del dovuto.
-Stai sanguinando.- la avvertii poco dopo. La maglietta rosa , un colore piacevole, chiaro, luminoso, rilassante, che indossava era macchiata sul fianco.
-Cazzo!- esclamò lei, alzandosi in piedi in fretta e spogliandosi dell'indumento. Aveva una spessa garza giallo chiaro, quasi bianca, che le fasciava la vita, imbrattata di sangue. La srotolò, mostrando una brutta ferita. La pelle era lacerata in modo disordinato e i punti che avrebbero dovuto tenerla chiusa si erano aperti.
-Sai guidare la moto?- mi chiese. Era pallida e aveva le sopracciglia aggrottate. Con una mano si teneva appoggiata al muro.
-Ti fa male?- le domandai io.
-No, mi fa senso. Devi accompagnarmi in ospedale.- disse.

Era spaventata, lo vedevo.
Lo sentivo.
Era come se la sua paura stesse toccando anche me, una carezza appena percepibile, che però mi penetrò fino al cuore, facendomi rabbrividire.
-Andiamo.- la presi per il polso e la strattonai fuori dalla stanza.
-Aspetta!- esclamò agitata, prendendo una maglietta a maniche lunghe ed una felpa, entrambe nere, ed indossandole in fretta.
Il sangue continuava a scorrere ed era arrivato al bordo dei jeans che portava.  

 

Avevo già guidato una moto, prima di allora, nel mondo specchio.

Non era difficile, ma facevo fatica a concentrarmi. Sbandai un paio di volte e mi risultò quasi impossibile ascoltare le indicazione sussurrate di Corvette, che si stringeva in modo ossessivo a me come se mi volesse trafiggere con le dita.
Quando finalmente arrivammo al pronto soccorso, lei si rese conto che nessuno poteva vedermi o sentirmi e dovette farsi coraggio e richiamare l'attenzione di qualcuno.
Per me era così strano vedere tutte quelle persone che interagivano le une con le altre, che si preoccupavano, affannavano, si davano da fare per salvare delle vite.
Mi piacevano.
Erano buoni, non come i Riflessi, impossibilitati dalla loro condizione a provare emozioni e, di conseguenza, a preoccuparsi per gli altri.
Alla fine, un giovane uomo si avvicinò a noi.
-Qual è il problema?- le chiese, prendendola per un braccio per evitarle di cadere.
Le appoggiò una mano sulla fronte sudata, le passò una piccola torcia davanti agli occhi e le sentì il battito cardiaco, appoggiandole due dita ai lati della trachea.
-I punti...- mormorò Corvette con voce strozzata.
L'uomo la accompagnò in una stanza e la fece distendere su un lettino bianco e la spogliò.
-Cazzo...- borbottò. Corvette allungò una mano nella mia direzione.
-Chiama Soleil.- mi pregò. Il dottore la guardò, poi si volse verso di me e sorrise.
-Andrà bene, dobbiamo solo fermare l'emorragia.- le disse. Io presi il cellulare dalla tasca dei jeans e feci partire la telefonata.
Soleil mi rispose dopo poco, la voce allarmata.
-Cosa succede?- chiese.
-Sono Corvine. Siamo al pronto soccorso. Ha un'emorragia.- dissi. In risposta, solo il suono ritmico e cadenzato che mi indicava che la linea era caduta.
Quando lei e Amelie arrivarono, Corvette era in sala operatoria.
-La stanno richiudendo.- informai.
Soleil aveva gli occhi pieni di lacrime e Amelie tentava di consolarla con gentili tocchi ai capelli.
Le leggevo nelle iridi tutta la gelosia che provava nel vedere la sua adorata che singhiozzava per un'altra persona.
Amelie non meritava questa sofferenza come non aveva meritato tutte le altre.
Mi sentivo legata a lei più di quanto fosse lecito dopo il poco tempo trascorso e le poche parole che ci eravamo scambiate. Forse era perchè le nostre Giuste si piacevano o forse era un colpo di fulmine, amore a prima vista.
Non avrei saputo dirlo.
Mi sedetti al suo fianco e appoggiai una mano sul suo avambraccio. Sobbalzò appena e si voltò. Dopo un attimo di smarrimento si aprì in un sorriso luminoso e grato.

Non permisero a Soleil di vedere Corvette ma non lo poterono impedire a me.
-Stai meglio?- le domandai. Lei tese la mano verso di me e mi tirò al suo fianco, costringendomi a sedermi sul materasso.
-Sì.- sussurrò, intrecciando le sue dita alle mie.

-Bene.- mormorai, confusa da quel contatto. La sua pelle era calda e piacevole, morbida e il suo colore ramato si sposava bene con quello grigio cupo della mia.

-Se non ci fossi stata tu avrei rischiato davvero tanto.- mi confidò con uno sguardo carico di ammirazione.

-Ah.- mi limitai a dire.

Sebbene non volessi ammetterlo, il suo comportamento mi metteva in imbarazzo.

Nessuno, nemmeno Valkhari, Laureth e Gleam erano mai state così gentili e affettuose con me. Certo, eravamo amiche, ma non in un modo così profondo, così naturale.

-Stavo piangendo per rabbia, principalmente. Mi stanno succedendo un po' di cose brutte ultimamente.- mi disse dopo qualche minuto.

-Capisco.- ero felice che me lo avesse rivelato. Era un buon passo avanti nella nostra ipotetica amicizia.

 

 

 

Corvette

 

Era vero quello che avevo detto a Corvine. Stavano succedendo un bel po' di casini nella mia vita.

I miei genitori stavano per divorziare, anche se non avevano voluto parlarcene, ancora.

Mia sorella minore, Hirina, di sedici anni, era rimasta incinta e non lo aveva ancora detto a nessuno, a parte me, ovviamente.

La scuola era estremamente pesante e, anche se non erano che i primi mesi, già sentivo addosso troppa pressione. I professori, che per quanto simpatici a volte potevano risultare dei grandissimi stronzi, continuavano a ripeterci che si avvicinavano gli esami di maturità. Nonostante fossimo solo in quarta.

E poi c'era Soleil.

Soleil che non voleva che io mi avvicinassi a casa sua, perchè probabilmente si vergognava di avere una ragazza al posto che un ragazzo, o forse perchè non voleva che le cose si facessero troppo serie.

Soleil di cui mi stavo seriamente innamorando, e questo mi spaventava, perchè non mi ero mai innamorata di nessuno in diciassette, quasi diciotto, anni di vita.

Dire che stavo meglio prima, quando le mie uniche preoccupazioni erano che borsa si abbinasse meglio alle scarpe, era falso.

Non mi era mai piaciuto apparire superficiale e di sicuro, frequentare Soleil mi stava aiutando a sbarazzarmi di quella facciata da Barbie che gli altri mi avevano costruito attorno durante il passare degli anni.

E adesso era arrivata anche Corvine, che non sembrava interessata al nostro mondo quanto Soleil ci aveva raccontato.

Io sapevo, a grandi linee, com'era il posto da cui proveniva, ma non mi azzardai mai a chiederle di parlarne.

 

Forse per paura, o chissà?

 

Mi dimisero dall'ospedale solo due giorni dopo.

Mamma mi era venuta a prendere con Hirina, che aveva pianto per tutto il viaggio.

Il dottore che, lo sapevo, aveva visto Corvine, mi trattenne per un braccio, appena prima di lasciarmi uscire, allontanandomi dalla mia famiglia.

-Non parlare con loro davanti agli altri, o la prossima volta potresti ritrovarti nel reparto psichiatrico.- la sua voce era scherzosa, ma stava parlando sul serio.

-Sì, grazie.- mormorai.

-Figurati. Spero di non rivederti qui dentro molto presto. Ciao. E ciao anche a te.- salutò sia me che Corvine, che era rimasta al mio fianco.

Avevo scoperto che la mia famiglia non poteva vederla nemmeno di sfuggita, e questo era un bene, perchè non avrei dovuto dare stupide spiegazioni.

Mi bastava solo stare attenta e non parlare con lei ad alta voce di fronte alle persone che non la vedevano.

Altrimenti sarei davvero finita nel reparto psichiatrico.

 

Le ragazze organizzarono un'uscita per festeggiare e, siccome Soleil aveva la casa libera, ci invitò tutte quante da lei a dormire. Che poi si traduceva in: mangiare schifezze e guardare i peggiori film trash per tutta la notte.

Che l'indomani avessimo scuola non importava a nessuno.

 

-Vuoi un cambio d'abiti?- chiesi a Corvine, dato che l'avevo sempre vista indossare il parka nero pece, con un paio di jeans scoloriti e una maglietta grigia a maniche lunghe, semi-trasparente.

-No, grazie.- rifiutò, accennando, per la prima volta in quei tre giorni, un sorriso.

-Un pigiama per stanotte?- proposi.

-Un... pigiama? Cos'è un pigiama?- domandò, confusa.

Ridacchiai.

-È un indumento o un insieme di indumenti comodi e caldi che si mettono per dormire.- le spiegai.

-Io dormo vestita così.- disse lei.

Effettivamente aveva dormito in quel modo, in ospedale con me, seduta su una sedia accanto al mio letto, però non pensavo che fosse parte delle sue abitudini.

-Va bene, come preferisci.- mormorai, infilando una camicia da notte in più nella borsa.

Nel caso le fosse venuta voglia di cambiarsi.

 

Eravamo le seconde ad arrivare. Come previsto, Valkirya e Valkhari erano già lì, ad aiutare Amelie e Soleil a sistemare pop corn, patatine e M&M's nelle ciotole di plastica colorata.

-Ciao.- mi salutò la padrona di casa con un bacio lieve sulle labbra, che ricambiai a metà, stupita dalle decorazioni e dai cartelloni di “Bentornata” che coloravano le pareti.

-Una festa non è una festa senza i cartelloni. O almeno così dice Valkirya.- mi disse Valkhari, che ad allegria non aveva nulla da invidiare alla sua controparte.

Lei e Corvine si appartarono per un po' per chiacchierare delle loro cose, mentre io mi lasciavo abbracciare da Soleil, ora un po' meno spensierata e un po' più tremante.

-Devi smetterla di finire in ospedale. Sul serio, tu mi farai morire di questo passo.- mormorò contro la mia spalla.

-Scusami. Si erano solo riaperti i punti, alla fine. Mi hanno tenuta dentro due giorni solo per fare un paio di controlli alla testa. Sai, con il trauma cranico e tutto il resto...- dissi io, alzandole il viso con due dita e baciandola con dolcezza.

Le sue guance si tinsero appena di rosa e i suoi occhi vagarono alla furiosa ricerca di Amelie, nella stanza.

Lei ci guardava con odio puro al 100%.

Non potevo biasimarla, chiunque avrebbe voluto avere Soleil.

Ma era mia, e non potevo permetterle di vincere, nemmeno se si trattava solo di una stupidissima sfida di sguardi.

 

Quando fummo tutte presenti, ci mettemmo comode in salotto, disposte un po' sui due divani, un po' sulle poltrone e un po' sul tappeto di pelo bianco che ricopriva il pavimento in piastrelle lucide, color caramello.

A prima vista, sembrava che tutte avessero fatto amicizia con il proprio Riflesso, e questa era una cosa buona.

Soleil si distese tra me ed Amelie, stringendo ad ognuna una mano.

Non mi andava bene doverla dividere, ma non avevo intenzione di rovinare la serata a nessuno, soprattutto perchè l'avevano organizzata per me, perciò cercai di non farci caso e di prestare attenzione all'orribile film.

Era un quasi-horror-splatter-Z-movie. Con un budget di al massimo venti dollari, filmato con la videocamera di un nokia vecchio modello, molto probabilmente.

La trama era bizzarra, nel vero senso della parola.

Una squalo.

In un supermercato.

Come riuscisse a sopravvivere fuori dall'acqua era e sarebbe rimasto un mistero, dato che nessuno di noi riusciva a rispondere a quella domanda senza scoppiare a ridere incontrollatamente.

 

Finito il film, e il cibo spazzatura e le bibite, fu ora di srotolare i sacchi a pelo e di metterci più o meno a dormire.

Era già tardi e il lunedì mattina non avrebbe aspettato che noi fossimo pronte ad alzarci, per iniziare.

Io dividevo il mio con Corvine, che si era distesa, dritta come una candela, con tutti i vestiti ancora addosso.

Anche il parka.

 

Con la mattina, arrivarono anche i problemi.

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Capitolo 10
*** Scoperta ***


Capitolo 9

Scoperta

 

Amelie

 

La corteccia.

Le bacche.

La festa.

La mattinata trascorsa a scuola, con il permesso di girare liberamente per l'aula, purchè non disturbassi nessuno.

Soleil aveva iniziato a lasciarmi fare delle cose divertenti, a mostrarmi delle meraviglie del mondo Giusto.

Tutto questo mi faceva pensare che avrebbe potuto esserci un altro modo.

Un modo più semplice, meno doloroso per tutti.

Un modo che non comprendesse ucciderla.

Perchè io non volevo ucciderla.

 

Forse.

 

Volevo poter restare con lei per sempre. Farmi fare le trecce, correre nel bosco, raccogliere frutti, piante, foglie e metterle nei vasi di vetro, a casa.

Volevo che lei ci scrivesse sopra i loro nomi e che me li indicasse durante la notte, per aiutarmi a dormire.

Come lei, anch'io avevo paura degli incubi.

Anche se, da quando ero arrivata nel mondo Giusto, nessuna di noi ne aveva più avuti.

 

Ma non tutto era bello e felice, nemmeno ora che ci eravamo ritrovate in sintonia.

C'era ancora qualcosa che ci impediva di essere perfettamente unite come un tempo.

Le sue amiche.

Corvette.

Solo pensare al suo nome mi scatenava una tempesta di odio nelle viscere.

Corvette doveva capire una cosa.

Una semplicissima cosa.

Un minuscolo dettaglio.

Un'inezia, per così dire.

Soleil era mia.

Era stata mia prima ancora che lei sapesse della sua esistenza.

Era stata mia più di quanto avrebbe mai potuto essere sua.

E questo, nessuno sembrava capirlo.

Nessuno comprendeva il mio fastidio, non gli altri Riflessi, non le amiche, le stupide amiche, di Soleil, non Soleil stessa.

Sebbene avesse detto che mi avrebbe prestato l'attenzione che meritavo.

Qual era l'attenzione che meritavo?

Non certo quella di una seconda scelta.
No, non era davvero così che mi sentivo.
Mi sentivo come quella che avrebbe scelto per prima, ma che veniva messa da parte per favorire le apparenze.
E faceva male.
Mi dava fastidio.
Mi faceva venire voglia di prendere Corvette e di aprirle la gola con una lametta.
I grandi pro erano due: Soleil sarebbe stata mia soltanto e Corvine avrebbe potuto vivere per sempre nel mondo Giusto.
I contro erano però tanto spaventosi quanto erano fantastici i pro: Soleil mi avrebbe molto probabilmente odiata e nemmeno Corvine sarebbe stata tanto felice.
Sembrava che lei e la sua Giusta avessero fatto amicizia, dopo la permanenza in ospedale.
Se solo fosse morta allora...

Il comportamento del mio sole mi dilaniava.
Anche il più piccolo scambio di sguardi con la sua ragazza mi accecava di odio; ogni tocco, anche se solo accennato mi scatenava istinti omicidi verso entrambe.
Il che non era poi male, erano proprio i pensieri di cui avevo bisogno.
Purtroppo, con tutte le cose belle che stavamo facendo insieme, tendevo a mettere da parte il rancore che provavo per lei.
Il mio cervello la amava troppo per tenere in conto il fatto che mi avesse ripetutamente abbandonata.
Prima da bambina per sua madre, ora per Corvette e le sue amiche.
Non potevo fidarmi di lei e della felicità che provavo.
Dovevo assicurarmi un posto nel mondo Giusto.
E dovevo farlo presto, dato che il mio tempo da questa parte stava per scadere.
Avevo un paio di giorni ancora.
Un paio di giorni e l'avrei distrutta.
Avrei ucciso Soleil per prendere il suo posto e vivere per sempre in quel Paradiso di suoni e colori.
Perdonarle tutto, rassegnarmi ad esistere a cavallo tra un mondo che odiavo e uno che non mi avrebbe mai accettata, continuare a sopportare il dolore provocato dall'attraversamento.
Era troppo da chiedere.
Io volevo solo avere un posto in cui vivere, in cui mi sentissi a casa, che io amassi e dal quale fossi amata.
Non chiedevo tanto.
Chiedevo solo quello che Soleil aveva e che non riusciva ad apprezzare appieno.

Mi sedetti di fianco al suo banco, a terra.
Valkirya mi guardava di sottecchi, convinta che io non mi stessi accorgendo di nulla.
Lei sapeva qualcosa che non avrebbe dovuto sapere.
Non riuscivo a capire cosa fosse, però.
Ogni sguardo che mi lanciava era carico di apprensione - ovviamente per Soleil - e biasimo.
Mi biasimava per qualcosa che non avrebbe dovuto sapere che avevo fatto.
Ingenuamente, mi chiesi se era perchè avevo assaggiato qualche bacca dai vasetti con il punto interrogativo, che Soleil mi aveva detto di non toccare.
Poi mi resi conto che sarebbe stata una motivazione stupida.
Forse era la mia stessa esistenza ad irritarla e preoccuparla, o forse sapeva qualcosa riguardo alla dipintura in rosso.
Che Valkhari mi avesse vista e glielo avesse raccontato?
No, era assurdo.
Ovviamente, per quanto improbabile, non potevo lasciarmi sfuggire nessun dettaglio.
Certamente non volevo che quelle due mettessero in allarme tutte le altre.
Dovevano essere docili quando mi sarei decisa ad iniziare la mia vendetta.

 

O era meglio chiamarla rivincita?

 

Decisi di prenderla da parte durante la ricreazione – o anche intervallo. Soleil aveva detto che potevo chiamarlo nel modo che preferivo. A me piaceva ricreazione – e di chiederle quale fosse il problema.

-Non c'è nessun problema, Amelie.- pronunciò il mio nome come se fosse stata la cosa più disgustosa che era mai passata attraverso le sue labbra e fece una smorfia che poco le donava, su quel suo visino da bambola di porcellana.

 

Soleil mi aveva fatto vedere anche quelle. Erano inquietanti ma belle, con la pelle liscia e strana e i capelli sintetici che ricadevano su spalle morbide, coperte da vestitini colorati e pieni di fronzoli, che nessuno indossava più perchè “questo stile è vecchio. Ottocentesco o giù di lì”.

 

-Sì, c'è un problema. Dimmi perchè mi odi.- dissi, imperiosa.

Lei rise, forse cercando di apparire divertita, ma si leggeva benissimo nella posizione del suo corpo che aveva paura perchè era stata scoperta.

-Ma cosa dici!? Io non ti odio affatto.- negò. Arricciandosi una ciocca di capelli tra due dita.

-Valkirya io non voglio farti male, ma se non parli temo che dovrò strapparti le parole di bocca.- sussurrai minacciosa.

Lei deglutì rumorosamente e si passò una mano sulla nuca.

-Valkhari mi ha raccontato di quello che hai fatto nel tuo mondo.- confessò, ogni traccia di paura o finto divertimento ora sparita dalla sua voce. C'era solo una profonda rabbia, una preoccupazione feroce.

Nei confronti di chi?

Non dovevo nemmeno chiedermelo, lo sapevo già.

Erano tutte preoccupate per Soleil.

-Tu non hai visto quel luogo, non puoi sapere cosa ti rende capace di fare.- sibilai.

Non volevo essere giudicata da nessuna di loro. Loro non sapevano, non avrebbero mai potuto sapere.

Nemmeno Valkhari, o gli altri Riflessi che avevo portato con me.

Non capivano cosa significasse vivere per dieci anni in un mondo che non riuscivano a sentire proprio.

Io non ero nata per essere un Riflesso.

Non volevo essere un Riflesso.

-Cosa hai intenzione di fare a Soleil?- chiese Valkirya, stringendomi un polso con forza, il suo viso fin troppo vicino al mio.

Il suo respiro troppo dolce e freddo – sapeva di menta – mi infastidì il naso e gli occhi.

-Ucciderla.- mormorai, gli occhi piantati nei suoi, un sorriso che stava nascendo sulle labbra.

 

 

Soleil

 

-Davvero non capisco cosa intendi dire.- mormorai, confusa, tenendo lo sguardo fisso sui miei appunti.

-Chi è quella ragazza?- ripeté Luke, alterato.

Sospirai e lo fissai, ma solo per un secondo.

-Nessuno. Senti, vuoi che chieda alla mia psicologa di darti una controllata? O preferisci un oculista?- sbottai, ironica.

-Senti, Soleil, non fare la stronzetta petulante, lo so che c'era qualcuno. Non sono il solo ad averla vista!- tuonò lui.

Luke era uno spaccone, volgare ed antipatico.

Il classico “bello e dannato”, ancora convinto, a diciotto anni – dato che era stato bocciato già due volte – che fumare e bere come una spugna lo rendesse figo.

-Beh, forse dovreste smetterla di farvi di LSD prima di entrare a scuola.- proposi con un sorrisino.

Non mi piaceva quella situazione.

Mi veniva quasi l'istinto di dirmi, da sola, “te l'avevo detto”.

Ed effettivamente, me l'ero detta di non portare Amelie a scuola.

Eppure non ero riuscita a dire di no a quei suoi occhioni da cucciolo spaventato.

Non ero riuscita a dirle di stare a casa, di stare buona e di aspettarmi.

Non potevo più costringermi a lasciarla sola.

Era più forte di me, dovevo averla vicina.

Sapevo che tra pochi giorni – o poche ore? Non ne ero certa – sarebbe dovuta tornare nel suo mondo. Volevo trascorrere con lei più tempo possibile, e, sebbene lei girovagasse un po' per tutta la classe, e in quel momento fosse andata a fare una passeggiata per i corridoi con Kiri, il solo sapere di averla a pochi passi di distanza mi rassicurava enormemente.

-L'LSD te lo metto nel culo se non mi dici subito chi è quella tipa!- gridò, esasperato.

-Contieniti Luke, potrebbe partirti un embolo.- lo presi in giro.

Stava per ribattere qualcosa, ma fu interrotto dalla – che sia benedetta – campanella di fine intervallo.

Non ero mai stata più felice di iniziare una lezione di matematica in vita mia.

Victor Marshall aveva questo prezioso super potere che gli permetteva di essere in perfetto orario sempre e comunque.

Ci alzammo in piedi e lo salutammo con il solito “Buongiorno prof.” in coro, che lui ricambiò con un sorriso e ci disse di sederci.

Gli bastò un'occhiata alla classe per vedere che mancava qualcuno.

-Valkirya dov'è?- chiese.

-In bagno.- risposi io.

Non sapevo se fosse veramente in bagno, ma non importava. Era la scusa migliore che potesse venirmi in mente in quel momento.

Era probabile che si trovasse dall'altra parte della scuola – che non era poi un edificio tanto piccolo – a spiegare ad Amelie cosa fosse l'intonaco o un'altra cosa qualsiasi.

Oppure Ame si era spaventata per il rumore della campanella e Valkirya aveva dovuto rassicurarla.

-Si sente male?- chiese Victor Marshall, che aveva una grande, immensa, difficoltà a mascherare il fatto che preferisse Kiri a tutti gli altri studenti della classe.

Dopotutto lei era un genio in matematica, anche se non faceva mai i compiti, ed era simpatica.

-Non credo. Prima stava bene.- intervenne Hailey, una nostra compagna, che aveva una seria cotta adolescenziale per il professore.

-Va bene, noi intanto cominciamo. Soleil prendi gli appunti anche per lei e, se non torna entro cinque minuti, vai a cercarla.- mi disse con cipiglio preoccupato.

Mi sentii quasi sul punto di ridacchiare, ma annuii ed estrassi il quaderno ed il libro di matematica ed iniziai a scrivere le formule che Victor Marshall stava spiegando alla lavagna.

 

Cinque minuti passarono, ed Amelie rientrò in classe.

Feci finta di non accorgermi di nulla, a differenza di Luke e qualche altro ragazzo, che iniziarono a sussurrare qualcosa tra di loro, spaventati ed irritati.

-Soleil, è successa una cosa- mi sussurrò lei, chinandosi sul mio banco e parlandomi all'orecchio.

 

Feci finta di non accorgermi di nulla.

Non della sua voce tremante.

Non delle macchie di sangue sui suoi vestiti, sulle sue mani.

Non dei graffi che aveva sul viso.

 

Feci finta di nulla e mi alzai, sfiorandole il polso e costringendola a seguirmi.

-Prof, vado a vedere come sta Kiri.- informai con voce piatta.

-Va bene.- mi disse lui, concentrato nella spiegazione.

Una volta in corridoio, la schiacciai contro il muro, il viso a pochi millimetri dal suo. Condividevo il suo respiro affannato e incerto.

-Cosa hai fatto a Valkirya!?- inquisii, arpionandole una spalla con rabbia.

-Sol, calmati.- mi disse lei sottovoce, i suoi occhi ben impiantati nei miei, non intenzionati ad allontanarsi nemmeno per un secondo.

Non intenzionati a mostrarmi la paura che, senza dubbio alcuno – e io conoscevo Ame da abbastanza tempo per non avere dubbi – la stava dilaniando.

-Cosa le hai fatto?- ripetei.

In risposta, solo quella scintilla di sfida che le illuminò gli occhi.

 

Scoprilo.

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Capitolo 11
*** Colpe ***


Capitolo 10

Colpe

 

Amelie

 

Valkirya era diventata ingombrante.

Per così dire.

Non potevo davvero permettere che spifferasse tutto quanto a Soleil.

 

Non che le cose si fossero risolte tanto meglio.

Soleil aveva effettivamente scoperto ciò che avevo fatto nei bagni della scuola e si era arrabbiata.

Non tanto quanto avevo immaginato, ma abbastanza da non volermi nemmeno guardare.

Non importava, tanto sarebbe stato presto il suo turno di morire.

Dovevo solo sbarazzarmi delle sue due amiche e dei loro Riflessi e di Valkhari.

Per non parlare di Corvette.

Corvine pensavo di tenerla in vita. Giusto per avere un po' di compagnia.

Giusto per avere qualcuno al mio fianco.

Per non essere di nuovo da sola.

 

Aspettai che Soleil, la mia dolce, affettuosa, traditrice metà, si addormentasse, con lo stomaco attorcigliato dalla vista della sua migliore amica morta, prima di uscire.

Incrociai John e Mary che stavano parlando a bassa voce, seduti al tavolo della cucina.

Mi avvicinai a loro e accarezzai le spalle di Mary.

Sapevo che poteva avvertire la mia presenza.

La vidi rabbrividire, i peli delle sue braccia, lasciate scoperte dalle maniche a tre quarti, si rizzarono e lei guardò verso di me.

Dovette coprirsi la bocca con una mano per non singhiozzare per lo spavento.

-Cosa c'è Mary?- chiese John, ignaro di tutto.

-Credo che sia tornata...- sussurrò lei, incontrando, forse inconsciamente, i miei occhi.

-Chi?- domandò l'uomo, guardandosi intorno, confuso.

-Amelie...- sibilò la donna con astio e paura.

Mi lasciai scappare una risatina compiaciuta.

Mi conosceva, anche se non voleva ammetterlo.

Era colpa sua se Soleil aveva dovuto abbandonarmi dieci anni prima.

Era colpa sua e io non l'avevo di certo perdonata.

 

Non l'avrei mai perdonata.

 

-Non essere sciocca! Adesso che Sole sta bene vuoi forse farle tornare in mente certe cose!?- la rimproverò il marito, battendo poco gentilmente la mano sul tavolo, per richiamare la sua attenzione.

-John, io te lo giuro, lei è qui. Non so come sia possibile, ma è qui!- cantilenò la donna, prendendogli la mano e stringendola tra le sue.

-Sei solo scossa per quello che è successo a Valkirya. Lo capisco tesoro, ma non tirare in ballo Amelie. Hai passato anni a dire che non esisteva. Hai fatto diventare pazza tua figlia con tutte quelle discussioni, ora non vuoi certo tornare a quel periodo.- mormorò John con dolcezza, dandole un colpetto sul naso con un dito.

 

Sarebbe stato fin troppo facile spaventarla, una volta preso il posto di Soleil.

Una Mary vulnerabile ed addolorata dalla perdita della figlia era decisamente il regalo di benvenuto che mi aspettavo.

 

Lei non si meritava di avere Soleil.

Nessuno si meritava di averla, tranne me, perchè lei ed io eravamo la stessa cosa, le due facce della stessa medaglia.

 

L'Umano e il suo Riflesso.

 

E se noi non potevamo essere unite e stare insieme, allora lei non sarebbe stata con nessuno.

E siccome non potevo imprigionarla da nessuna parte, l'avrei uccisa.

Avrei ucciso tutti coloro che la portavano nel cuore, perchè lei era mia soltanto e solo io avevo il diritto di amarla.

 

Solo che nessuno lo capiva.

Nessuno tranne me.

 

 

Trovai Valkhari nel parco dove avevamo incontrato Soleil e le sue amiche la prima volta.

Non piangeva, ma si vedeva quanto fosse triste.

Mi avvicinai silenziosamente e presi posto accanto a lei.

-Sei stata tu. Lo so che sei stata tu.- mi accusò.

-E allora fai qualcosa. Mi hai vista anche nel mondo Specchio, quando ho ucciso tutte quelle persone, ma anche allora non hai fatto nulla.- la derisi.

Derisi la sua debolezza, la sua rabbia non taciuta e improduttiva.

 

A cosa serviva la rabbia se non veniva usata per la vendetta?

 

-Non voglio diventare come te. Non voglio sporcarmi le mani con il sangue di nessuno. Io non sono come te!- urlò, e una lacrima le rotolò lungo il viso pallido.

-Temo che non potresti nemmeno volendo. Tu sei debole. Capace solo di stare in disparte mentre le cose succedono e sperare che qualcuno risolva tutto al posto tuo. Quanto sarebbe stato bello se Valkirya mi avesse uccisa, o se avesse parlato con Soleil e le avesse raccontato tutto. Sarei stata allontanata, abbandonata, costretta a rifugiarmi nel tuo mondo.- parlai, giusto per prendere tempo, dato che non avevo nessuna intenzione, comunque, di lasciarla in vita.

-È anche il tuo mondo.- sibilò.

-Tra poco non lo sarà più. Devo solo liberarmi di tutte voi e sarò libera di restare qui quanto voglio.- dissi.

La vidi agitarsi, ma non si spostò.

Sapevo ciò che stava pensando.

Era quello che avrebbero pensato tutti.

 

“Uccidimi pure. Senza la mia Giusta non ha senso vivere.”

 

E io lo feci.

La uccisi.

Perchè quel ragionamento non aveva senso.

I Giusti avevano un mondo meraviglioso e non sapevano nemmeno cosa farsene, mentre noi eravamo costretti in un luogo orribile.

-Noi non dovremmo essere così. Tu ti senti arrabbiata perchè sei diversa.- mi sussurrò poco prima di avere la gola recisa da pezzo di vetro, ricavato da un bicchiere di Soleil, che io avevo rotto il giorno prima.

Non capii le sue parole, e nemmeno mi ci concentrai troppo su.

Avevo una missione da compiere e poco tempo per farlo.

Stavo già iniziando a sentirmi debole e affaticata.

E respirare faceva male e volevo solo che il sole smettesse di splendere in quel modo, perchè mi bruciava la pelle.

E l'aria fredda la faceva seccare e mi chiudeva la gola, e mi faceva lacrimare gli occhi.

 

Dovevo fare in fretta.

 

Trovai Lauren e Laureth a casa loro. La prima stava piangendo la morte della sua amica.

Si spaventarono alla mia apparizione, poiché non se lo aspettavano.

Probabilmente la voce si era già sparsa in tutto il gruppo.

 

Amelie ha ucciso Valkirya.

 

Non sapevo se Soleil avesse avuto il coraggio di dirlo oppure no, stava di fatto che Laureth e la sua Giusta erano piuttosto terrorizzate dalla mia presenza.

 

-Non lo faccio per odio nei vostri confronti.- chiarii, estraendo la mia arma di fortuna, che fino a quel momento aveva funzionato più che bene.

Mi pregarono di fermarmi.

Mi chiesero perchè io lo stessi facendo.

Non erano rassegnate come Valkhari.

Loro avevano la forza di combattermi, o per lo meno ci provarono, dato che il risultato fu sempre lo stesso.

Anche Laureth mi lasciò con una frase che poteva sembrare colma di significato, ma che non mi diceva nulla.

 

Se fossi stata come tutti loro non avresti sofferto.

 

Sì, se fossi stata come tutti gli altri Riflessi non avrei sofferto.

Non mi sarei accorta di soffrire, molto probabilmente.

Sempre in silenzio, sempre ferma, in attesa di mostrarmi alla mia Giusta, qualora avesse voluto vedermi.

Non avrei avuto una mente per soffrire, o un cuore.

Invece ero nata così, sbagliata, diversa.

Ero nata Giusta.

E Giusta sarei diventata, ma questo Laureth non poteva saperlo.

Lei che era la più simile ai Riflessi, tra di noi, sebbene sapesse usare la Voce.

 

Le lasciai così, le gole recise e il sangue che le circondava.

Qualcuno avrebbe dovuto piangerle e ripulire quel casino, ma non spettava a me.

Non avevo lacrime per loro.

Non per Lauren, ennesima persona che non si accorgeva del Paradiso che la circondava, non per Laureth, che era priva di spessore come solo quelli del mio mondo riuscivano ad essere.

 

Così come non ebbi lacrime per Gleam e Glimmer, alle quali aprii lo stomaco.

I loro organi stavano ancora scivolando fuori, mentre le parole sussurrate a fatica di Gleam si ripetevano nella mia testa.

 

Non è colpa loro.

 

Era colpa loro.

Era colpa di tutti loro, con i loro maledetti specchi da cui erano sempre attratti, come calamite. Con la loro indifferenza e il loro menefreghismo.

Era colpa loro perchè non si erano mai degnati di conoscere ciò che c'era al di là.

Era colpa loro perchè non sapevano.

Era colpa loro perchè Mary mi aveva sempre vista e aveva fatto finta che io non esistessi, e perchè Soleil aveva accettato di tenere un nome non suo, un nome diverso dal mio.

E questa era una colpa che non avrei perdonato.

Era il suo modo, forse non voluto, per farmi capire che non voleva essere uguale a me.

 

E mentre io massacravo le sue amiche, Soleil dormiva tranquilla, sognando la sua migliore amica, che non sarebbe tornata mai più.

E mentre spezzavo ad una ad una le dita di Corvette e le sussurravo che, no, lei non avrebbe mai vinto contro di me, in ogni caso; lei, forse, iniziava a rendersi conto che avrebbe raggiunto Valkirya molto presto.

 

-È tua! Te la lascio, ma non uccidermi.- implorò Corvette, il viso rovinato dal pianto e dalla paura.

 

Risi.

Risi perchè avrebbe venduto pure sua madre per avere salva la vita.

Risi perchè quello era il valore degli esseri umani, dei Giusti.

E risi perchè anche quella era una colpa.

 

-Soleil è mia e tu morirai comunque, perchè è giusto così.- le sibilai all'orecchio, mentre il pezzo di vetro, ferendomi il palmo della mano, si incastrava perfettamente tra le sue costole, desideroso di tagliare la carne e lacerare la pelle e bere il sangue che ne sarebbe uscito.

 

E poi decisi di uccidere anche Corvine, perchè non mi andava di dover condividere un'esistenza con lei, così poco attraente, così poco coraggiosa, così debole.

Lei che piangeva sul cadavere di una che avrebbe venduto l'amore ad un assassino.

 

Io sapevo di non essere buona.

Lo sapevo e non mi interessava. Essere buoni non pagava.

Essere buoni significava vivere nel mondo Specchio, da sola, e chiedere scusa a Soleil.

 

Decisi di uccidere Corvine perchè bramavo altro sangue e altre urla, e perchè mi ricordava troppo la seconda persona che mi aveva allontanato dalla mia metà.

E decisi di ucciderla perchè ero curiosa di sapere cosa avesse da dire.

 

Questo non ti farà sentire meglio. Non riuscirai ad uccidere anche lei.

 

Beh, era tutto da vedere.

 

 

Soleil

 

Il sangue imbrattava le piastrelle chiare e Valkirya, la mia Kiri, la mia migliore amica di una vita, giaceva a terra, morta, gli occhi vitrei ancora spalancati dallo stupore.

Le labbra ormai grigiastre, socchiuse in una domanda.

Perchè?”

Sì, me lo chiedevo anch'io.

Perchè?

Perchè Amelie aveva dovuto ucciderla?

Perchè lei?

Perchè!?

 

 

 

Non aprii subito gli occhi. Non volevo vedere la mia stanza, non volevo vedere lei.

Lei che aveva infestato i miei sogni per dieci anni, che mi aveva condizionato la vita, la cui sola esistenza mi aveva sempre provocato dolore.

 

Non mi importava di vedere la mia stanza.

La conoscevo fin troppo bene.

Non mi importava di vedere nemmeno Amelie, perchè conoscevo bene anche lei.

E se a quattordici anni avevo sperato che fosse almeno un po' migliore di me, ora sapevo che erano state speranze – e preghiere, Cristo, quanto avevo pregato perchè fosse diversa, almeno sotto quel punto di vista – vane.

Del tutto vane.

Perchè Amelie era uguale a me, con la stessa paura e la stessa rabbia e la stessa solitudine e la stessa sete di sangue che le faceva contorcere le viscere.

E io mi sentivo furiosa, ma non riuscivo ad odiarla, perchè la capivo.

Perchè sapevo com'era il suo mondo e come avrei reagito – come avevo reagito – se avessi dovuto viverci.

Non riuscivo ad odiarla perchè lei non avrebbe mai odiato me.

Eravamo uguali.

 

E poiché la capivo così bene, sapevo ciò che avrebbe fatto dopo.

Sapevo che il sangue che la sporcava quella mattina non era quello di Valkirya, e ancora non riuscii ad odiarla.

Non riuscii ad odiarla nemmeno per la realizzazione e l'orgoglio verso se stessa che le leggevo negli occhi.

 

Non riuscii ad odiarla e le sorrisi.

 

-Buongiorno.- le dissi, accarezzandole una mano sporca di sangue secco.

-Buongiorno Soleil.- mi rispose lei, una risata accennata le accendeva le parole e mi sentii quasi bene.

 

Poiché sapevo ciò che avrebbe fatto dopo.

 

E avevo un coltello lungo venti centimetri sotto al cuscino.

 

-Hanno chiuso la scuola per quello che è successo ieri.- dissi distrattamente, mentre mi vestivo.

Jeans.

Maglietta a maniche lunghe – la prima che avevo trovato. Azzurra, andava bene.

Felpa.

Calze.

Stivali.

Aveva nevicato il giorno prima e la neve, ormai sporca, imbrattava le strade.

 

A Valkirya era sempre stata antipatica la neve.

Troppo bianca, diceva lei, troppo fredda.

A me piaceva.

Il bianco accecante che illuminava la notte.

I giardini ricoperti totalmente, come lo zucchero a velo sulle torte.

 

Ma era già tornato il sole e aveva sciolto lo zucchero, lo aveva rovinato.

-Usciamo?- chiese Amelie.

-Ho voglia di fare un giro nel parco.- le risposi, nascondendo il coltello nella tasca interna del giubbotto di pelle nera che mi ero infilata.

-Va bene.- disse lei, prendendo uno dei miei maglioni di cachemire – quello rosso, il mio preferito – e appoggiandoselo sulle spalle.

 

La neve sciolta lasciava spazio all'erba verde e profumata. Il sole la illuminava e creava dei bei giochi di luce.

-Ame, tu lo sai, vero?- le chiesi dopo lunghi minuti di silenzio.

E lei annuì.

Forse perchè sapeva a cosa mi riferivo – gli animali morti, la paura, la rabbia, la sete di sangue, il bisogno di morte – forse perchè voleva solo che io continuassi a parlare.

-Non te ne faccio una colpa. Sei così perchè io sono così. Va bene.- la rassicurai. Il tono piatto della mia voce, tuttavia, non aiutò le mie parole.

-Non importa Soleil. Siamo qui, adesso, e sia tu che io sappiamo il perchè.- sussurrò.

Si rigirò tra le mani un pezzo di vetro rotto, sporco di sangue.

 

E poi me lo piantò nello stomaco e io fui veloce ad estrarre il coltello e a fare lo stesso con lei.

Il suo bel viso si contorse in una smorfia di dolore, speculare alla mia, e mi sorrise.

 

Perchè mai avrebbe potuto odiarmi.

 

E poiché io la conoscevo così bene, avevo perdonato mia madre, entrambe le mie madri, e avevo abbracciato mio padre un po' più forte, la sera prima, e gli avevo detto che non importava se aveva lasciato che Dannielle morisse.

Non importava perchè l'avrei rivista presto.

Avrei rivisto Kiri e Corvette e Lauren e Glimmer e tutte le persone che avevo perso.

E un giorno avrei rivisto anche i miei genitori, Mary e John, mamma e papà, e avrei presentato loro Amelie e avrei detto che mi dispiaceva averli lasciati così presto, ma che era giusto così.

 

Perchè forse non mi meritavo di vivere nel mio mondo e Amelie non meritava di vivere nel suo, ma andava bene perchè tutto stava finendo, quell'ingiustizia stava arrivando alla sua conclusione.

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Capitolo 12
*** Epilogo ***


Epilogo

Il mio ultimo ricordo

 

 

Amelie

 

Il mio ultimo ricordo era di una voce e di capelli come il sole e occhi come il cielo notturno.

E di urla e sangue e paura e morte.

Il mio ultimo ricordo era di Soleil, non solo perchè la riguardava, ma perchè a lei era andata la scintilla di vita che avevo perso.

E quando la guardai, il pezzo di vetro piantato nello stomaco e il mento sporco di sangue, le sue pupille mi parvero più bianche che mai e i suoi capelli un po' più grigi di quanto non avrebbero dovuto essere e le iridi un po' più slavate, un po' più chiare.

Il mio ultimo ricordo era di lei e solo di lei, perchè non me n'ero mai accorta prima, ma io ero stata sua quanto lei era stata mia.

E quando entrambe ci ritrovammo distese sull'erba fresca, che tante volte ci aveva accarezzate da bambine, capimmo.

Capimmo che stavamo morendo perchè nessuna delle due se n'era accorta.

Di come non ci avrebbero mai potuto separare.

Di come fossimo, a tutti gli effetti, una cosa sola.

Capii e non seppi dire se il calore che sentivo nel petto, quel cuore che tante volte avevo sperato di non avere, fosse solo mio o solo di Soleil o di entrambe.

Il mio ultimo ricordo era suo e non avrei potuto esserne più felice, perchè il suo era il mio e tutti e due erano nostri.

Ed era uno solo.

Un solo ricordo per due persone.

Due persone Giuste.

Due Riflessi.

Perchè io meritavo quella vita, quel rumore e Soleil era sempre stata un po' il Riflesso del suo Riflesso.

Il mio Riflesso.

Il nostro ultimo ricordo era di un giorno soleggiato e di una ferita che faceva male ad entrambe, perchè, e lo capii solo quando ormai le palpebre si abbassavano su occhi color ciano dalla pupilla bianca, e il sipario si abbassava su una vita che non avevo mai compreso o vissuto davvero, io e Soleil non eravamo in due.

Io e Soleil eravamo Uno.

 

E quando morii, mi sentii bene.

Nonostante i miei crimini, sapevo che sarebbe stato tutto meraviglioso.

Perchè io avrei avuto per sempre la mia Amelia.

E perchè sarei per sempre stata sua e sua soltanto.

 

Amelia

 

Quando ero piccola, avevo sempre amato guardarmi allo specchio.

Nello specchio c'era lei, la mia metà, il mio riflesso.

Con occhi color acqua e capelli grigi e pupille bianche.

E pelle pallida come la neve.

E quel candore lo avevo sporcato di rosso.

Perchè Amelie era pericolosa, pericolosa come la tempesta che infuria violenta e spazza via ogni cosa che trova.

E lava via lo sporco.

E purifica.

Amelie era pericolosa, ma mi aveva schiarito le idee.

Con i suoi omicidi e la sua sete di sangue e la sua follia, lei mi aveva fatto capire che eravamo troppo uguali per odiarci.

Troppo legate perchè una delle due riuscisse a sopravvivere all'altra.

Troppo innamorate per sopportare di vedere l'altra morire.

Il mio ultimo ricordo era di un parco soleggiato, sebbene freddo d'inverno, e di Amelie distesa al mio fianco, con le labbra teste in un sorriso, e ciocche bionde tra i capelli e pupille nere e vuote e occhi giusto un po' più blu.

 

Forse avremmo potuto sopravvivere insieme, a cavallo dei due mondi, o forse no, ma non aveva più importanza, perchè su quel prato, – in quel parco che ci aveva viste da bambine e ci aveva permesso di raccogliere bacche e ci aveva sentite ridere e aveva sentito le mie lacrime di solitudine e le aveva bevute e asciugate – proprio in quel momento, noi stavamo morendo e stavamo diventando una cosa sola.

Come avremmo dovuto essere da sempre.

Unite in uno stesso corpo.

Non avrebbero mai dovuto separarci, nessuno avrebbe dovuto intromettersi tra di noi.

E lo capii tardi, quando ormai coloro che ci avevano provato erano morti.

Ma andava bene così, mentre stringevo le sue dita, fredde come sempre, tra le mie, e il mio corpo, a fatica, si avvicinava al suo.

 

Il mio ultimo ricordo era di un parco soleggiato e di calore dentro al petto e di una ragazza che sapeva di pioggia, ma che era bollente come sole.

Il mio ultimo ricordo era Amelie ed ero io.

Insieme.

 

 

Quando a Mary e John venne chiesto di identificare le loro figlie, quello che trovarono fu talmente sconvolgente che non riuscirono a parlarne mai con nessuno.

Quella ragazzina, Amelie, di cui loro non avevano mai voluto accettare l'esistenza, era ora attaccata a Soleil tramite il braccio destro.

I loro capelli erano biondi e grigi e gli occhi avevano pupille grige e iridi di un vivido blu chiaro.

Quello che non dissero nemmeno alla polizia, che le aveva trovate accoltellate in un parco, fu che loro non avevano mai avuto due figlie.

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NdA: Ed eccoci alla fine di un'altra storia.
Onestamente parlando, non so nemmeno se sia considerabile Horror oppure no, a volte mi sembra di aver fatto solo stronzate, ma comunque ormai non importa. Se avete suggerimenti su dove potrei collocarla, sono sempre bene accetti.
Ringrazio tutti quelli che hanno letto, recensito e inserito da qualche parte.
Alla prossima storia.
JinnyorJolly

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