Blue Box is cool

di Marra Superwholocked
(/viewuser.php?uid=515498)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un incontro non programmato ***
Capitolo 2: *** Gradisci del tè? ***
Capitolo 3: *** Bando alle ciance! ***
Capitolo 4: *** Il secondo satellite ***
Capitolo 5: *** La Parola Magica ***
Capitolo 6: *** Qualcosa, in soffitta, si muove (Parte 1) ***
Capitolo 7: *** Qualcosa, in soffitta, si muove (Parte 2) ***
Capitolo 8: *** Colpire, ecco il punto ***
Capitolo 9: *** Ritorno a casa ***
Capitolo 10: *** Tutto ha una sua origine ***
Capitolo 11: *** Gli addii non esistono, per noi (parte 1) ***
Capitolo 12: *** Gli addii non esistono, per noi (parte 2) ***



Capitolo 1
*** Un incontro non programmato ***


CAPITOLO 1

Un incontro non programmato

 

La mia vita era tremendamente monotona. Era tutto concentrato su orari da rispettare, linguaggio appropriato e treni da non perdere.
Facevo la commessa in un negozio d'alta moda da dieci anni. Non era di certo il lavoro che sognavo mentre frequentavo il liceo, ma era tutto ciò che potevo fare dopo la morte dei miei genitori quando avevo diciotto anni e dovetti lasciare la scuola. Studiavo per diventare una giornalista, ma il mio sogno andò in frantumi quando mia nonna, l'unica parente che mi rimaneva, si rifiutò di ospitarmi durante il mio ultimo anno di studi. E questo solo perché il mio ex fidanzato si era tinto i capelli di un verde acceso e ascoltava solo rock psichedelico: era un tipo abbastanza particolare ma del tutto innocuo. Solo che mia nonna non mi credette e fui costretta ad andarmene dalla casa in cui crebbi perché non riuscivo a pagare le bollette, cercarmi un lavoro come si deve e una casa poco costosa.

Stavo viaggiando in treno verso casa quella sera. Faceva freddo e non aveva intenzione di smettere di piovere. Me ne stavo seduta sul mio sedile, rannicchiata col mio libro in grembo, troppo stanca per aprirlo. Fissavo le case svanire in pochi secondi dalla mia visuale che avevo dal finestrino alla mia sinistra; le gocce di pioggia scendevano in diagonale per la forte velocità del treno.
All'improvviso sentì la voce del controllore, a poche spanne dal mio volto, chiedere del biglietto. Gli porsi il mio tesserino di abbonamento e con un sorriso stanco lo salutai, per poi tornarmene a fantasticare sulla vita che non ho mai avuto. E che, in un certo senso, non rimpiango, perché di lì a poco avrei incontrato la persona che stravolse la mia vita.
Scesi dal treno una fermata prima della mia, solo per poter camminare al chiaro di luna. Non ho mai avuto paura del buio, ma di certo la luna piena mi aiutò a non perdermi.
Erano le otto di sera passate e in giro c'erano solo pochi ragazzini che, incuranti delle ventate gelide di novembre, camminavano mano nella mano con le loro fidanzatine.
Da una finestra provenivano le dolci note di Casta Diva: segno che il mio vicino di casa, Earl, aveva esagerato con il vino. Nonostante i suoi ottantasette anni.
Mi soffermai sotto la sua finestra e chiusi gli occhi stringendomi nel mio cappotto e assaporando ogni nota di quella canzone, finché un gatto non si strofinò tra i miei stivali cercando compagnia.
La musica finì e qualcosa prese il posto di quella melodia. Questo..rumore somigliava al respiro di un sub a tre metri sott'acqua: tutto tace, tranne quel suono.
D
a dietro l'angolo lampeggiava una luce allo stesso ritmo di quel rumore. Mi avvicinai rasente il muro e sbirciai verso quella luce.
Sembrava tutto normale. Ma poi notai una lanterna che non avevo mai visto prima. Era la lanterna più luminosa e strana che vidi in tutta la mia vita: illuminava l'intera via senza dar alcun fastidio e non attirava nessun insetto. Sembrava essere fatta per stare in quel preciso posto; era perfetta.
Dopo qualche istante notai una cabina telefonica della polizia proprio sotto la lanterna.
Una cabina blu con una lanterna appollaiata sul suo tetto.
Ero più che certa che quella mattina non ci fosse nulla di tutto ciò in quella via.
Mi avvicinai di soppiatto e guardinga alla cabina, dal suo interno proveniva una sola voce, quella di un ragazzo o di un uomo, forse.
Poi la porta cigolò e mi nascosi immediatamente dietro un bidone della spazzatura che puzzava come solo-Dio-sa-cosa. Da quel punto potei vedere bene che l'interno era molto luminoso e non somigliava nemmeno lontanamente ad una cabina telefonica. Certo, fuori c'era un vecchio telefono, forse funzionante, ma l'interno...era più grande. Il ragazzo uscì e sembrava quasi drogato: saltellava da un punto all'altro come una cavalletta e non stava zitto un secondo: “Ah, guarda che cielo! Guarda che luna! ...Senti che puzza!” lo sentì esultare.
Era euforico e contento per la puzza?
Ringrazio infinitamente quel gatto che poco prima si strusciava tra i miei stivali e che in quel momento fece cadere il bidone dietro il quale mi ero nascosta.
Il ragazzo si irrigidì subito e mise una mano nella sua giacca.
“No!” urlai in preda al panico. “Non ho armi con me quindi.. metti giù quella pistola!”
Ma lui, per tutta risposta, rimase con la mano nella giacca e ne estrasse una cosa lunga, luminosa e rumorosa, puntandomela a due centimetri dal naso.
Io ero letteralmente spiaccicata al muro, con gli occhi serrati e la bocca che lo imploravano di mettere giù quel coso dalla luce verde.
Poi quell'aggeggio finì di far rumore e potei finalmente riaprire gli occhi.
E fu lì che conobbi il Dottore.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Gradisci del tè? ***


CAPITOLO 2

Gradisci del tè?

Mi risvegliai più confusa di prima.
Le stelle erano ancora al loro posto, ma la puzza di pattume era sovrastata dal profumo del tè. Strizzai gli occhi per mettere meglio a fuoco e vidi l'uomo – naturalmente, ancora non sapevo chi fosse – chino su una catasta di legna scalpitante.
Mi girai su un fianco e faticai un po' per rimettermi in piedi e per riprendere un giusto equilibrio. Il profumo del tè riempiva l'aria delle vie della mia città. Eravamo ancora sul fianco di casa mia, davanti alla cabina, che si intravedeva a malapena.
Improvvisamente mi trovai faccia a faccia con quell'uomo: due occhi scintillanti color miele incorniciati da due sopracciglia squadrate e a punta; leggermente stempiato e con due basette dritte sulle guance magre; un naso lungo, stretto e spigoloso; fronte abbastanza alta, in parte nascosta da qualche ciocca di capelli castano scuro, pieni di gel, che ondeggiavano ad ogni minimo movimento della testa. E quel sorriso...disarmante, di chi sa quel che fa.
“Ti va una tazza di tè?” mi chiese a un palmo dal mio naso.
In mano aveva una tazzina bianca, fumante e profumata.
“Chi è lei?”
“Oh, non ti preoccupare di chi sono, probabilmente ti dimenticherai di me. Dai, avanti, prendi una tazza di tè”.
“Grazie” e presi la tazza facendo finta di sorseggiare la bevanda.
L'uomo finalmente si allontanò, intrecciando le mani dietro la schiena. Sembrava indossasse un cappotto lungo e beige e da sotto di esso spuntavano delle Converse: un abbinamento abbastanza stravagante.
Camminava davanti al piccolo fuoco mentre io continuavo a fissarlo per inquadrarlo bene.
“Tu non sei di qui, vero?” gli chiesi per cominciare un discorso.
“No”. Si girò. “Vengo da lontano. Molto lontano”.
Abbassai gli occhi sulla mia tazzina. “Capisco”.
Lui si avvicinò sorridendomi e, senza staccarmi gli occhi di dosso, prese in mano la tazzina dicendomi: “Se non ti andava il tè, bastava dirlo”.
Cercai di farfugliare qualche scusa ma mi uscì una domanda: “È tua quella cosa?”
Alzò un sopracciglio, si chinò in avanti e si girò di scatto sui tacchi verso la cabina con la lanterna, mentre dalla tazzina uscivano gocce di tè. Tornò verso di me con fare deciso. “Oh, intendi il Tardis?”
“Tar-che?”
“La cabina blu”.
“Sì, intendevo...”
“Quella cosa, come la chiami tu, si da il caso che sia la mia astronave!” poi corse verso la cabina e l'accarezzò sussurrandogli qualcosa del tipo: “Non voleva offenderti, tranquilla tesoro”.
Astronave? Avevo capito bene? Astronave?
Rimasi senza fiato per qualche secondo; tentai di decifrare le informazioni senza andare nel panico, ma il risultato fu come raccogliere dello zucchero con una forchetta.
“Astronave, hai detto?”
“Ehilà!”
“Ho capito bene?”
“Ssst! Non vorrai svegliare tutta Londra, spero!”
“Londra? Quale Londra? Ehi, amico, cosa ti sei fumato?”
Aveva gli occhi spalancati. “Non siamo a Londra?”
“Certo che no!”
Sembrava arrabbiato con la cabina, perché non faceva altro che lanciarle occhiatacce. Se ne stava semplicemente lì, con le mani sui fianchi, il piede destro che batteva sull'asfalto e a commentare con: “Brava, complimenti. Testarda che non sei altro”.
Tra me e lui c'era il fuoco che aveva acceso per fare il tè dopo che ero svenuta e che mi diede l'opportunità di notare che sotto il cappotto portava un completo blu, una camicia azzurro sbiadito e una cravatta bordeaux.
“Hai appena dato della testarda alla tua astronave... E pensavi che fossimo a Londra...” Non ci capivo più nulla. Stavo seriamente pensando di essere diventata matta.
“Be', ma certo! Insomma, un attimo prima è tutta carina, ma quando le neghi un attimo di riposo..si offende.” Lanciò uno sguardo alla cabina. “Si è offesa! E invece che portarmi a Londra nel 1874, si è vendicata portandomi a ...Dov'é che siamo?”
“Milano”.
“Portandomi a Milano nel..XXI secolo, suppongo.”
“Corretto, sì, ma.. portarti nel 1874?”
“Sì, hai sentito bene”.
“E si è offesa”.
“Sai, anche loro hanno un'anima”.
In quel momento anche Einstein sarebbe impazzito.
Mi appoggiai al muro freddo di mattoni mentre lui sorrideva per la mia confusione.
“Ridi di me?”
“Chi, io? No. Vi trovo intelligenti ma, ammettilo, andate spesso in confusione”.
“Ci trovi intelligenti? Tu, l'alieno venuto da chissà dove, trovi noi miseri esseri umani..intelligenti. Noi che non sappiamo fare altro che lavorare, fare figli, pagare le bollette e fare finta di essere felici? Credimi: se fossimo davvero intelligenti come tu ci credi, avremmo già trovato la soluzione per mettere fine alle guerre, alla fame nel mondo e al surriscaldamento globale. Senza contare che lavoriamo anni e anni, e quando finalmente arriva la pensione ..è ora di andare. Non so come funzionino da te le cose, ma qui è uno schifo. Poi tu vieni qui e mi dici che la tua astronave si è offesa perché non l'hai lasciata riposare? Be', permettimi almeno di essere confusa!”
Lo lasciai senza parole. Mi fissava come se quella strana fossi io.
Ripresi fiato e mi sistemai i vestiti. “Scusami, non volevo”.
“No! Figurati! Sono abbastanza abituato alle vostre sfuriate” e mi sorrise.
Ricambiai volentieri il sorriso ma avevo ancora una domanda da porgli. Un passo alla volta, lentamente, mi avvicinai a lui. “Posso chiederti una cosa?”
“Spara!”
“Spiacente: ti avevo detto di essere disarmata”.
Partì con una risata sonora. “Sai? Cominci a piacermi! Anche il tuo cappotto mi piace!”
“Ne sono onorata! Comunque la domanda era.. Si può sapere chi sei?”
Lui alzò il mento, gonfiò il petto e allargò ancora di più il suo sorriso. “Sono il Dottore!”
“Dottore?”
Il Dottore”.
“Dottore chi?”
“Esatto!”
E detto questo, si sistemò la cravatta.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Bando alle ciance! ***


CAPITOLO 3


Il Dottore.
Eccolo, in tutto il suo splendore, davanti a me.
“Vengo da un pianeta chiamato Gallifrey” cominciò a dire “e ho circa mille anni. Non guardarmi così, non sto scherzando. Se prima hai creduto al fatto che io non fossi umano, ora puoi credere anche a questo: alle tue spalle ci sono degli ometti bassi, grossottelli e con un berrettino rosso a punta. Sono circa...sei e sono affamati. Quindi, ora: non girarti per nessun motivo – se ne accorgerebbero e a quel punto saranno costretti a mangiarti – ma soprattutto: non urlare”.
“Che cosa?” e feci l'errore di non dargli retta: mi girai e vidi quei nanetti tutte-rughe guardarmi in cagnesco e con i pugni serrati.
Il Dottore mi prese subito la mano e mi tirò verso di lui, verso il Tardis. Lo aprì e mi ci spinse dentro. Mi rigirai subito per vedere un'ultima volta gli gnomi prima che lui chiudesse la porta: cominciarono a correre, inferociti, facendo capriole e balzi di circa cinque metri.
Nonostante nelle fiabe siano descritti come piccoli esserini dolci e amichevoli, che preparano dolci alla frutta per i viandanti, in realtà sembrano diavoletti pronti a fare a pezzi anche la creatura più indifesa dell'universo.
Il Dottore fece appena in tempo a chiudere l'entrata del Tardis che quelli ci si aggrapparono sopra e cominciarono a battere forte. Lui rimase con le spalle attaccate alle porte per tenerle ben chiuse. “Perché nessuno mi dà retta?! Se ti dico di non girarti, non devi girarti!”
“Mi dispiace, non pensavo...”
“Vieni qui e tieni ban salda la porta: questi esseri sono tutt'altro che in buona fede!”
Obbedii agli ordini e mi affrettai all'ingresso. Mi appoggiai bene alla porta in modo da tenerla chiusa mentre quelli continuavano a battere forte con i loro pugni. Facevano un verso strano, come se avessero ingoiato delle rane vive e quelle stessero “urlando” per uscire.
Mi voltai per distrarmi da quel verso e rimasi letteralmente a bocca aperta.
Davanti a me si apriva una grande sala a pianta circolare, con le pareti tondeggianti che davano una sensazione di sicurezza. Lungo le pareti si aprivano numerosi corridoi che portavano in altri luoghi all'interno del Tardis. Da chissà dove si espandeva una gran luce dorata, mentre al centro della sala era posizionata una torre luminosa, con la base più larga e a forma esagonale, piena di leve e pulsanti.
Il mio cuore mi rimbalzò in petto a quella visione. Stavo sognando?
“Aspetta un momento! Fuori era... Dentro è... Poco più di due metri quadrati... Enorme...” farfugliai.
Il Dottore era tutto preso da quei pulsanti e da quelle leve alla base della torre, che neanche si accorse che mi ero staccata dalle porte.
“Ehi, tu!” urlai per attirare la sua attenzione.
Lui si girò: “Tutto ti sarà spiegato a tempo debito. Per adesso..vieni qui e aggrappati forte a quella sbarra vicino al tasto verde, a destra di quella leva grande che hai davanti agli occhi!”
“D-dove?!”
Il Dottore, a denti stretti, mi prese la mano e me la mise sulla sbarra vicino al tasto verde, a destra della leva grande che stava davanti ai miei occhi.
“Ma certo, come ho fatto a non capire!” dissi ironicamente tra mille scossoni.
Sembrava che là fuori ci stessero bombardando e poi, all'improvviso, come tutto era iniziato, finì.
“Arrivati!”
“Ma non ci siamo neanche mossi...”
“Già, è questo il bello!”
Mi staccai dalla sbarra, le ginocchia mi tremavano ancora.
Il Dottore andò dritto filato alle porte e le spalancò: entrò una gran luce che mi costrinse a socchiudere gli occhi. Lentamente mi avvicinai a lui e tentai di guardar fuori.
Eravamo in una via stretta, molto illuminata.
“Dove siamo?”
“Vuoi dire quando siamo!”
In quel momento mi accorsi che il Duomo di Milano ci dava le spalle.
“Con la fretta che avevo ho potuto cambiare solo il Tempo. Per cambiare lo Spazio sarei dovuto andare dalla parte opposta, ci avrei impiegato più tempo e gli gnomi sarebbero entrati. E ci avrebbero mangiati. Vivi”. Poi si girò verso di me e si aprì in un sorriso: “Fantastico, no?”
Lo guardai spiazzata. “Tu non sei altro che un povero matto!”
Il suo sorriso si spense velocemente per lasciar spazio alla delusione.
“Mi hai quasi rapita! Mi porti qui, a trecento metri da casa mia, ma chissà quando, e dici che è stato..fantastico?”
“S-sì, be'..”
“No!”
“Io...”
“Zitto! Fammi ragionare”. Rientrai nel Tardis e lo guardai bene, misurando a grandi passi lo spazio interno. Saltai sul posto più volte, con le braccia protese in alto, per capire se potevo toccare un soffitto che non vedevo o se semplicemente, ciò che avevo davanti ai miei occhi, era reale.
Mi fermai. Lui mi guardava, appoggiato all'entrata.
“Ho paura che la povera matta sia io”.
“Oh, no! Non sei diventata matta!”
“Ma fuori è solo una piccola cabina, mentre dentro è...”
“Più grande?”
“Enorme!”
“Questa è nuova... Comunque, ti ho detto che ti avrei spiegato tutto quando sarebbe stato il mometo, il momento è adesso e... Sono un Signore del Tempo”.
“Tu sei cosa?”
“Un Signore...del Tempo!”
“Ora è tutto più chiaro... E io sono Eleonora Martinelli”.
Ci stringemmo la mano e la mia avventura ebbe inizio.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Il secondo satellite ***


Capitolo 4


Dunque, avevo appena viaggiato nel tempo. Ed era magnifico.
Dopo esserci presentati meglio, il Dottore andò a prendere degli abiti e tornò con addosso uno smoking nero che gli calzava a pennello, mentre tra le braccia teneva un abito nero da sera. Spinsi fuori dal Tardis il Dottore e mi cambiai. Quando uscii, lui era seduto sul marciapiede, che si guardava le mani.
Chiusi le porte del Tardis e andai verso di lui. “Hey”.
Mi guardò e sorrise, poi abbassò di nuovo lo sguardo. Capii subito che c'era qualcosa che non andava. “Cosa c'è?”
Non ottenendo risposta mi sedetti al suo fianco. “A cosa pensi?”
“Quegli gnomi”.
“Oh..”
“Anche loro, in fin dei conti, sono stati sfortunati”.
“Stai parlando di quegli esserini che per poco non ci staccavano la testa?”
Rise. “Sì”. Poi tornò serio: “Il loro pianeta, o meglio satellite, è stato distrutto molto tempo fa. Solo una decina di superstiti. E in poco tempo hanno trovato una nuova sistemazione, aumentando di numero e popolando l'intero pianeta Terra”.
“Ma come hanno fatto a venire fin qui? E chi ha distrutto il loro pianeta?”
“I Dalek all'epoca si divertivano a distruggere le popolazioni solo per il gusto di farlo, poi hanno avuto degli obiettivi precisi. Gli gnomi possono spostarsi in qualsiasi luogo, semplicemente volendolo”.
“Ma perchè proprio la Terra?”
“Era la più vicina”.
“È impossibile! La Terra ha sempre avuto un solo satellite: la Luna”.
“Milioni e milioni di anni fa, no. Per fartela breve.. Fino all'era dei dinosauri, erano due: uno, la Luna, non colonizzabile; l'altro, dal nome perduto nei tempi, era il pianeta in questione”.
Rimasi senza parole. Due satelliti?
“Ma non dirlo a nessuno, Eleonora” disse. “Voi umani siete nati quando ormai c'era solo la Luna, quindi per voi è come se l'altro satellite non fosse mai esistito”.
Poi, il Dottore si alzò di scatto e disse: “Mi fa compagnia, signorina Martinelli?”
“Dove mi vuole portare?” scherzai, prendendolo a bracetto.
“Oh, be'!” spostò lo sguardo in alto. “Pensavo una semplice passeggiata pomeridiana per le strade di Milano, se non le dispiace”.
Camminammo senza meta finchè non ci fecero male i piedi. Cominciava ad imbrunire e le strade non erano illuminate come lo sono ora. Decidemmo dunque di tornare verso il Tardis.
Ma qualcosa, nell'ombra, ci stava spiando...
“Dottore...”
“Non adesso, Eleonora. Sto cercando di ricordare la strada a ritroso”.
Eravamo fermi ad un bivio.
“Dottore...”
“Eleonora, non riesco a pensare se continui a chiamarmi. Se riesci ad esprimere il tuo disagio con una sola parola, te ne sarei grato”.
“Una parola, eh?”
“E la parola magica è...?”
“GNOMI!”
Si girò di scatto verso l'ombra e due gnomi sbucarono dallo scuro cespuglio; sorridevano, o meglio, avevano spiccicato in volto quel ghigno maligno che vidi poco prima.
“Viaggiare con te è sempre così?”
“La maggior parte delle volte..”
“Rassicurante, dico davvero”.
“Grazie!” e poi tirò fuori dalla giacca dello smoking quell'aggeggio luminoso e glielo puntò addosso. “Che cosa cercate?!”
Ancora quei versi, simili a rane.
Il Dottore ripetè: “CHE COSA CERCATE?!”
E quelli indicarono me, dicendo: “Umanaaa.. Carneee..”
Un brivido percorse la mia schiena.
“Lei non è umana! Veniamo da Gallifrey!” mentì il Dottore.
Gli gnomi si scambiarono un'occhiata e, quando si girarono nuovamente verso di noi, fecero un inchino. “Scusateci” e tornarono nel cespuglio dal quale erano comparsi.
Una volta tornati nel Tardis e cambiati d'abito, mi feci coraggio e andai dal Dottore: avevo ancora molte domande da porgli.
“Mangiano carne umana?”
“Mhm? Ah, sì... Sì, perchè è la più simile al tipo di cibo che avevano sul loro pianeta. Devo dire che non li ho mai visti così aggressivi, mai”.

Certamente, non potevo tornare a casa proprio ora che la mia vita si era fatta interessante!

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** La Parola Magica ***


Capitolo 5


Forse ero in pericolo e, molto probabilmente, una ragazza sana di mente sarebbe tornata a casa e avrebbe cercato di dimenticare quello strano alieno. Ma io non sono mai stata una ragazza sana di mente.
“Dai, ora ti riporto a casa”.
“Ti piacerebbe!”
“Come, scusa? Non vuoi tornare a casa?”
“Non ora! Là fuori ci sono milioni di cose che vorrei vedere: pianeti, epoche diverse, altri alieni! Non posso tornare a casa con un bagaglio culturale pari ad un granello di polvere!”
Gli feci l'occhiolino e mi rispose con lo stesso gesto.
“Però non dimenticare che hai conosciuto la vera natura degli gnomi”.
“Scommetto che c'è di meglio, oltre a quei diavoletti..”
“Be', ma è ovvio” incrociò le braccia. “E quindi non ti manca casa?”
Casa significa famiglia, giusto?”
“Sì” e si fece cupo in volto, sciogliendo l'incrocio delle braccia sul petto.
“Dunque, non mi manca casa. Ho sempre voluto viaggiare, e adesso che ho questa opportunità tu non mi abbandonerai, vero?” cercai di addolcirlo.
“No. Chiunque ami viaggiare è il benvenuto, qui”.
Il mio cuore fece sei capriole, quattro ruote e due salti mortali dal trampolino prima di calmarsi e dire al cervello di farmi sorridere.
“Deduco che possiamo partire!”
“Aspetta! E quegli gnomi? Che ne sarà di loro?”
Lui mi si avvicinò lentamente, spiegandomi che era la loro natura e che non poteva fare altrimenti che lasciarli stare.
“Lasciarli stare? Si mangeranno tutta Milano!”
“Eleonora, ci sono... Oddio che nome lungo, posso chiamarti Elly? Dunque, dicevo? Ah, sì! Ci sono dei punti fissi nell'universo che non possono essere modificati. Ad esempio, è un bene che avvenga una determinata cosa come l'estinzione di una razza, perché ne farebbe nascere o evolvere un'altra..”
“In poche parole, il tuo compito è quello di salvare razze e pianeti senza cambiare il loro futuro?”
“Più o meno..”
“E, tanto per sapere.. Quante volte, esattamente, la Terra si è trovata in pericolo e tu hai evitato che venisse distrutta?”
Lui cominciò a contare su una mano, poi sull'altra, riprese a contare sulla prima e poi mi guardò. “E chi le conta più, ormai!”
“E noi non ci siamo mai accorti?”
“Può darsi che qualcuno si sia accorto di qualcosa, ma di solito sono abbastanza discreto”.
“Discreto.. Con una cabina luminosa che fa un rumore assordante.. E tu la chiami discrezione?” dissi ironizzando.
Rise fragorosamente, strizzando gli occhi e piegandosi in due. “Ok, ok! Forse noi Signori del Tempo non abbiamo il senso di discrezione.. Comunque, da dove vuoi partire?”
Ci pensai su un attimo e.. “Grand Canyon!”
Il Dottore andò verso il centro del Tardis e, con un sorriso che avrebbe potuto sciogliere l'intero Polo Sud, esclamò: “Bene! In questo caso.. Allons-y!”

Una parola, quella parola - “Allons-y” - fece scattare dentro di me una molla, come se avessi avuto la possibilità di venire a conoscenza di tutto lo scibile in un sol secondo.
Perchè “Allons-y” è la parola che Earl ripete più spesso.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Qualcosa, in soffitta, si muove (Parte 1) ***


Capitolo 6

Qualcosa, in soffitta, si muove
(Parte 1)

 

Cercai di tenermi ben ancorata alle sbarre intorno al centro della torre, ma finii per terra e rotolai fino a raggiungere la porta. Non c'è bisogno, dunque, di descrivere l'espressione del Dottore alla vista di una ventottenne che cerca di mettersi in piedi dopo tutto quel trambusto.
“Bene!” soffocò una risata. “Siamo...arrivati!”
Il Dottore aprì lentamente le porte e si fece da parte per farmi passare.
Aspettai per anni, con ansia, il momento in cui avrei assaporatto con gli occhi quella meraviglia. Le mani mi tremavano, e ancora non ero uscita dal Tardis! La maggior parte di chi c'è stato dice che è solo un deserto rosso con un fiume sporco che lo attraversa. Non hanno del tutto torto, ma, probabilmente, lo descrivono così solo perchè non sono rimasti affascinati dalla bellezza di quel posto come lo ero rimasta io.
I colori dell'alba che riempivano l'aria e rimbalzavano sulle poche nuvole a bassa quota e sulle ali delle aquile che facevano il loro primo volo mattutino; la luce che si propagava minuto dopo minuto e a cui piaceva fare giochi di luce ed ombra con le rocce; la temperatura tiepida del vento che accarezzava la mia pelle; il profumo di libertà davanti ai miei occhi.
Feci qualche passo in avanti e mi guardai i piedi; strofinai le scarpe sulla terra arida e mi venne da sorridere.
Mi girai verso il Dottore, che per tutto il tempo era rimasto appoggiato al Tardis.
“Grazie”, fu l'unica parola che riuscii a dire.
Lui mi rispose con un sorriso sghembo.
Poi il sole trionfò, alto in cielo. Cominciò a far caldo e, a malincuore, decisi che era ora di ripartire: ora che ero rilassata, niente avrebbe potuto spaventarmi.
O almeno così credevo.

Tornammo nel Tardis, ma prima di chiudere le porte mi soffermai qualche istante per ammirare quel rosso vivo ed ipnotizzante.
“Allora? Non vieni?” chiese il Dottore, già pronto alla partenza.
Chiusi le porte e mi assicurai ad una sbarra prima di dare l'OK.
“Dove andiamo, adesso?” chiesi, mentre i soliti scossoni provocati dal viaggio ci sballottavano di qua e di là.
“Andiamo...dove...c'è bisogno...di noi!” sembrava affaticato ma, naturalmente, era arzillo come al solito.
Un ultimo sussulto e - così mi piace dire - atterrammo.
“Dove e quando siamo?”
“Burbank, 1956”.
“E perchè siamo qui?”
“Tranquilla: lo scopriremo tra poco”.
“Come fai ad esserne così sicuro?”
“Perchè ogni volta che esco da qui, nel giro di pochi minuti, succede sempre qualcosa”.
Poi, ignorando la mia espressione preoccupata, andò verso le porte e le aprì con cautela; si sporse solo con la testa e guardò prima a sinistra e poi a destra; uscì del tutto (io ero ancora attaccata alla sbarra), si mise le mani sui fianchi e inarcò la schiena.
“Oh..” disse.
Andai verso di lui e gli chiesi perchè mai fosse tanto triste.
“Tutto tranquillo!” rispose.
“Meglio, no?”
“Mhm..”
“No?” ripetei, nella speranza di ricevere una risposta affermativa.
“N'ah!” rispose dopo qualche istante.
Il Dottore sa metterti sempre a tuo agio.
“Perché no? È tutto tranquillo! Niente mostri, niente gnomi e niente alieni” incrociai le dita e aggiunsi scherzando “Be'.. Niente alieni, tranne te!”
“Non ne sarei tanto sicura. È tutto troppo tranquillo..”
Mi arresi e chiusi le porte del Tardis.
“Cosa intendi fare, perlustrare ogni villa nella speranza di trovare un letto killer che risucchia ragazzini intenti ad ascoltare musica?”
“Che? Certo che no, Elly!” chiuse a chiave il Tardis e si girò verso di me. “Farò così!” e tirò fuori dal cappotto quella specie di penna luminosa. “Questo si chiama cacciavite sonico, ma non ti spiego come funziona perché sarebbe troppo complicato per te”.
“V-va bene. O-ok” dissi perplessa.
Il Dottore si allontanò leggermente da me, tanto da permettermi di guardarmi attorno.
Eravamo in una via per nulla trafficata; lungo entrambi i due marciapiedi c'era una fila di alberi con foglie color rame che oscillavano col vento. Le villette, candide come la neve, avevano giardini ben curati e siepi ben potate. Qua e là, nei vialetti, vi erano parcheggiate biciclette o macchine di vari colori pastello. Io ero emozionatissima nel vedere un quartiere tipicamente americano; il Dottore sembrava anch'egli molto emozionato. Ma non dal quartiere, bensì dal cacciavite sonico che, evidentemente, gli segnalava che da qualche parte c'era qualcosa che non andava per il verso giusto: seguii il Dottore che si avviò verso una villa a due piani e ben tenuta.
Nessuno poteva certamente dire che lì dentro, più precisamente in soffitta, si nascondevano creature dagli occhi grandi come palle da tennis...

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Qualcosa, in soffitta, si muove (Parte 2) ***


Capitolo 7

Qualcosa, in soffitta, si muove
(Parte 2)


Seguii quasi correndo il Dottore; salimmo il vialetto evitando di calpestare vagoncini di legno e una palla di gommapiuma; quando fummo davanti alla porta, bussammo più volte finchè non mi appoggiai involontariamente alla maniglia e quella fece scattare la serratura.
Io e il Dottore ci scambiammo un'occhiata: io preoccupata per quello che avremmo trovato dentro; lui felice per l'arrivo di una nuova avventura.
Misi la mano sinistra sulla spalla del Dottore per poi indicargli una macchia argentea sul muro alla mia destra. A quel punto, il Dottore fu ancora più invogliato a sapere cosa si nascondeva in quella casa.
Spalancò la porta e un odore nauseabondo di fumo misto a pesce fritto invase le mie narici. Cercai non far molto caso a quell'odore (che il Dottore sembrava non sentire affatto) e mi concentrai sulle pareti del corridoio: davanti a noi avevamo un tunnel completamente ricoperto di fotografie, mentre il pavimento era anch'esso disseminato di giocattoli. Non vedevo l'ora di risolvere insieme al Dottore qualsiasi problema vi fosse in quella casa ..e di andarmene. Ma, come tutti voi sapete, non è semplice... Col Dottore, non c'è mai nulla di semplice.
Percorsi il corridoio dietro al Dottore, che tendeva un braccio e agitava il cacciavite sonico, avvicinandoselo, ogni tanto, all'orecchio.
Notai un'altra macchia argentea, questa volta sul parquet color ciliegio del pavimento scricchiolante. Indicai la mia scoperta al Dottore, che annuì facendomi poi segno di seguirlo verso una voce femminile, proveniente da una stanza poco illuminata.
“Sei sicuro di..”
“Nella vita non si può avere alcuna certezza, mia cara Elly” mi disse e poi proseguì verso la voce.
Ormai eravamo sulla soglia dell'entrata e non potevamo più tirarci indietro. La porta era socchiusa ma ora si sentiva chiaramente una ninna nanna dolce e cantata con amore. Il Dottore fece scricchiolare la porta e la donna fermò il suo canto materno, girandosi di scatto e mostrando il suo viso rigato da numerose lacrime.
“Chi siete? Dov'è il mio bambino?” disse piangendo la donna.
“Buongiorno” rispose calmo il Dottore. “Io sono il Dottore, lei è Eleonora. Siamo qui per aiutarla.. Cos'è successo?”
“Oh..” altre lacrime scesero dagli occhi stanchi della donna, che ora si era girata nuovamente verso la finestra della camera da letto di un bambino, suo figlio. “È...spa...spa.. Sparito.. Nel nulla” proseguì tra mille singhiozzi.
“Quanti anni ha suo figlio?” chiese il Dottore.
“Otto mesi”.
Senza pensarci due volte, mi diressi dalla donna e mi sedetti al suo fianco. “Lo ritroveremo, stia tranquilla.. Lei come si chiama?”
“Sono Lisa. Mio figlio si chiama Daniel”.
“Ok, Lisa” intervenne il Dottore sedendosi vicino a lei. “Troveremo Daniel!”

Io e il Dottore finimmo per andare in cucina per preparare un tè a Lisa, che rimase tutto il tempo nella cameretta di suo figlio. Dopodichè, lui andò dalla donna, mentre io feci un giretto per la casa.
I mobili erano moderni, ovviamente degli anni '50, e le pareti erano tutte piene di fotografie. Sopra un cassettone notai una foto che ritraeva Lisa insieme ad un uomo: era molto anziano, con i capelli che stavano su per miracolo e una leggera barba, di quelle che graffiano la guancia non appena la si sfiora. Doveva essere suo padre.. Ma del marito di Lisa nessuna traccia: solo foto di lei con suo figlio, un tenero fagottino tenuto con amore tra le braccia.
Fuori faceva caldo ma in quella casa c'era un'atmosfera triste e umida, degna di una storia dell'orrore. Magari ora giro l'angolo e mi trovo faccia a faccia con un alieno dalla pelle rugosa e denti aguzzi, pensai.
La mia attenzione fu attirata da qualcosa che non smetteva di...piangere. Col cuore in gola, andai verso la camera da letto di Lisa, poi di fronte al suo armadio: era da lì che proveniva quello strano lamento. Era simile al pianto di un neonato ma le speranze di trovare Daniel dentro ad un armadio erano pari a zero.
Più mi avvicinavo a quell'armadio, più sembrava che il cuore volesse uscirmi dal petto e scappare. Ma non gli diedi ascolto: aprii, facendola scricchiolare, un'anta leggera e color miele. Il pianto si propagò nella stanza e aldilà della soglia cadde il silenzio; poi una Lisa tutta raggiante fece capolino nella camera da letto, ma il suo sorriso non durò a lungo.
Quando mi inginocchiai, notai, nella penombra, che quest'ultimo aveva la testa molto più grande di quella di un normalissimo neonanto, ed era un po' a punta. Lo presi in braccio e questi smise di piangere; mi rialzai in piedi e cercai di dare le spalle a Lisa e al Dottore; andai verso la finestra, dove c'era più luce. Il bambino era arrotolato da testa a piedi con un leggero lenzuolo; scostai quest'ultimo per guardarlo meglio in faccia e per poco non svenni: la testa era davvero grande e a punta, sembrava un limone gigante, ed era color grigio chiaro; spalancò gli occhi e due grosse palle da tennis nere lucenti mi fissarono; la bocca era ridotta ad un semplice buco, senza labbra.
Indietreggiai e mi sedetti sul letto, ansimante. “Dottore!” lo chiamai; la mia voce tradiva un leggero tono di paura.
Lui fu subito al mio fianco e capì al volo la situazione, tanto che mi strappò quasi letteralmente il neonato dalle braccia, tornò da Lisa, la fece uscire e si chiuse la porta alle spalle. “Questa proprio non me l'aspettavo!”
“A chi lo dici..”
“È meraviglioso!”
“Che?! Quel bambino ha un limone al posto della testa..”
“È un Ciunwatt, non li ho mai incontrati!” sibilò, attento a non farsi sentire da Lisa.
Io ero troppo sotto shock per staccare gli occhi dalla finestra e guardare ancora quel neonato. Poi si udirono dei tonfi provenienti dal soffitto..
“Hai sentito?” mi chiese il Dottore.
“Probabilmente sarà qualche uccello, sul tetto..”
“Non penso” mi rassicurò lui e poi aprì la porta.
Lisa era tornata in cucina e si teneva la testa tra le mani. “Non lo rivedrò più, non è vero?”
Io e il Dottore non sapevamo cosa rispondere; ci furono un altro paio di tonfi.
“Vive da sola, Lisa?”
“Solo io e mio figlio, perché?”
“Perché abbiamo compagnia”.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Colpire, ecco il punto ***


Capitolo 8

Abbiamo compagnia?
Ok, calmiamoci: d'altronde ho scelto io di viaggiare col Dottore.
Ma non penso che sia stato un errore, anzi. Potrei paragonare la mia esperienza ad un viaggio di riflessione, uno di quelli che fanno gli avvocati sotto stress o i giornalisti in fase “rincorriamo tutti”. Sì, è stata un'esperienza unica.
Ma ora me ne stavo impietrita, senza parole, con un uomo (o meglio, alieno) che teneva in braccio un altro alieno..e chissà cosa ci avrebbero fatto i suoi genitori se ci avessero visti col neonato!
Accantonai questi pensieri e cercai di concentrarmi su quello che era da poco avvenuto: la Milano del XXI secolo, la stessa città ma in un'epoca diversa, gnomi spietati, la parola di Earl e i Ciunwatt.. Sì, direi che non c'è male.
“...ed Eleonora ha trovato questo” disse il Dottore, interrompendo i miei pensieri.
“Cos'è?” chiese Lisa con un filo di voce.
“Un neonato dei Ciunwatt. Probabilmente hanno pensato che casa tua era un luogo sicuro e ci si sono nascosti dentro.. Il problema è che hanno la possibilità di tramutarsi in qualsiasi oggetto, dai divani agli specchi.. E così uno non sa mai dove siano realmente.. Potrebbe essercene uno anche qui, adesso..”.
“Prego?”, la domanda uscì quasi meccanicamente dalla mia bocca, ma il Dottore mi ignorò. L'idea di essere spiata sempre ed ovunque mi rabbrividì.
“Lisa, controlla bene i mobili, le foto e tutto ciò che hai in casa e se noti che c'è qualcosa in più.. Be'.. Colpisci”.
“Colpire? Con cosa?”
“Con qualsiasi cosa faccia male”.
Lisa obbedì agli ordini e si trascinò fuori dalla cucina lasciandoci soli col neonato.
“A me sembrano innocui..” tentai di difenderli.
“I Ciunwatt sono innocui tanto quanto Anna è umana” disse tra sé e sé il Dottore.
“Anna? Chi è Anna?” gli chiesi sottovoce.
“Chi? Cosa? ..Oh, ehm, niente!” terminò lui con un sorriso, per poi tornare a guardare il bambino con fare paterno. Erano un bel quadretto.
Lisa tornò da noi, pallida, con gli occhi sbarrati. “In sala c'è un cuscino in più. Non l'ho mai visto in vita mia, giuro!”
“L'hai colpito?”
“Sì, con questo”, ci mostrò un vocabolario di francese. “Ma poi ha cominciato a muoversi e sono scappata..”
“No!” urlò il Dottore facendo fare un balzo a Lisa per lo spavento.
“I-io ...n-non volevo.. Mi dispiace...”
“Tieni qua, Lisa” e le mise in braccio il neonato addormentato, lasciando sulla cucina il dizionario. “Tranquilla, da piccoli non fanno male ad una mosca”. Mi prese per mano e mi portò in sala.
“Dov'è? Lo vedi ancora?” le chiese.
“L'avevo fatto cadere per terra.. Ora..non c'è più...”
“Era quello che volevo evitare” disse a denti stretti il Dottore mentre continuava ad agitare il suo cacciavite sonico. “È qui, da qualche parte..”.
“Dottore, il camino..” dissi con Lisa alle mie spalle che non smetteva di piangere.
“Che ha di strano?”
“Il camino in sé, nulla. Solo..che prima non c'era”.
Il Dottore strabuzzò gli occhi, mi fece segno di tacere e di portare Lisa fuori dalla sala; feci ciò che mi aveva mimato e tornai da lui, che aveva già iniziato a colpire il camino con un candelabro di ferro. Si cominciarono a sentire, subito dopo, una serie di lamenti; la casa tremò e il camino sembrò uscire dalla parete. Il Dottore indietreggiò, stanco; allora presi, da dietro la porta, una mazza da baseball – scommetto qualsiasi cifra che ne troverei una in ogni casa americana – andai al suo fianco e cominciai a colpire, con tutta la forza che avevo in corpo, il camino che ora si contorceva, ora tremava. Esausta e soddisfatta, smisi di colpire il camino e quello cambiò colore: da bianco che era, diventò grigio in pochi secondi; poi si rimpicciolì, fino ad assumere fattezze umane. Era alto circa un metro e novanta, nudo e asessuato. E poi la faccia..ruvida, a punta e minacciosa. Ci fissava sbattendo le enormi palpebre e dondolando leggermente la testa una volta a destra e una a sinistra.
Volevo urlare.
Il Dottore si fece avanti brandendo il suo cacciavite che emetteva un suono ipnotizzante. “Bzzzzzz” faceva quello e, intanto, il Ciunwatt davanti a noi si mise sulla difensiva, piegando le ginocchia e metendo davanti a sé le mani, se così si possono chiamare due piccole sfere da cui partono numerosi fili, simili ai tentacoli di una medusa.
Poi, all'improvviso, il Dottore cominciò a contorcersi dal dolore, strizzando gli occhi e accasciandosi a terra, tutto tremante, tenendosi la testa tra le mani. Non sapevo cosa fare, non sapevo cosa dire, non sapevo come fermarlo.. D'istinto, corsi verso il Ciunwatt e, vedendo che fissava il Dottore, gli diedi una spinta. Una volta perso il contatto visivo, il Dottore poté finalmente rialzarsi in piedi e spiegarmi quello che era appena successo, con numerose pause per riprendere fiato: “Tranquilla, loro comunicano in questo modo. Solo che il mio cervello è troppo stup... Loro sono molto più intelligenti e non riuscivo a sopportare tutto quello che mi stava dicendo..”
“E cosa ti ha detto?”
“Che sa dove si trova il bambino di Lisa”.
“Eureka!”
“Eureka?” mi domandò con un mezzo sorriso. “Mhm.. Ci farò un pensierino.. Comunque.. Non esserne troppo felice: ce l'hanno loro.. In soffitta”.
“Be', che stiamo aspettando? Andiamo, no?” mi avviai verso Lisa ma lui mi afferrò per il polso e mi scaraventò contro di lui, a due centimetri dal suo naso. Non nascondo, di certo, che la cosa mi fece piacere.. Ma, tralasciando i dettagli..
“Non hai sentito quello che ti ho detto? Non sono degli orsacchiotti, i Ciunwatt! Io posso resistere alla comunicazione, ma se uno di loro si mette in testa di dire qualcosa a te... Moriresti!”
Quelle parole bastarono a farmi riflettere: “Ok”.
M
a non abbastanza per farmi cambiare idea: “Vengo con te”.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Ritorno a casa ***


Ritorno a casa
 

Ero davvero pronta a morire. Come detto prima, la mia vita era monotona, mentre in quel momento mi sentivo finalmente viva. Ero pronta a morire per quel bambino, ero pronta a morire per il Dottore, ero pronta a morire perché non avevo nulla da perdere.
Il Ciunwatt, che un momento prima era di fronte a noi, ora trovò il modo di sparire nel nulla.
Il Dottore rimase ad osservarmi mentre mi dirigevo verso Lisa per chiederle di starsene zitta col neonato mentre noi due saremmo andati in soffitta. Evidentemente, lui non si aspettava una reazione simile.
“Sta' qui, chiuditi in camera ma prima controlla che non ci sia nulla di troppo, ok?”
Lei annuì ma non mi fidai: una volta che fu sicura che all'interno della sua camera da letto non c'era nulla in soprannumero, ce la spinsi dentro, presi la chiave dalla serratura e chiusi bene la porta.
Il Dottore mi raggiunse: “Pronta?”
“Certo.”
“Sei sempre in tempo ad andare in camera con Lisa e il bambino.”
“Da dov'è che si sale per andare in soffitta?”
Sorrise. “Per di qua, vieni.”
Salimmo le scale che portavano al piano di sopra, alle camere degli ospiti. In cima c'era un corridoio e, in fondo a questi, una botola sul soffitto. Presi il Dottore per le spalle e gli dissi di unire le mani per farmi da scaletta, ma lui piegò la testa e capii che voleva salire lui per primo.
Così, con un po' di fatica, riuscii a sostenerlo; aprì la botola e un odore di umidità piombò su di noi. Scese dalla scaletta improvvisata e restammo a guardare in alto. Tutto taceva..
Poi, all'improvviso, una testa a forma di limone fece capolino dalla botola: rimase a fissarci mentre io affondavo le unghie nel braccio del Dottore, nascondendomici dietro.
Lui deglutì, e io con lui; ma non aveva paura, affatto. No, perché lui è un guerriero, un eroe.. All'apparenza sembra timido e impacciato, ma poi lo scopri fare cose incredibili.. Cose che nessuno si sognerebbe mai di fare. Come avanzare verso l'ignoto, affrontarlo e vincerlo. Vince senza alcun tipo di violenza. Vince solo usando il cervello.
In un attimo, fu proprio sotto la botola, con un braccio proteso in alto. Il Ciunwatt capì e tirò fuori anch'egli il suo braccio: lo prese per mano, lo tirò su e il Dottore venne inghiottito dal buio.
Silenzio.
Nemmeno un sospiro.
Indietreggiai, aggrappandomi al passamano delle scale, ma qualcosa mi sfiorò la nuca, facendomi trasalire. Mi girai lentamente e..era Lisa.
“Lisa! Ma come..?” sussurrai.
Per tutta risposta, lei mi mostrò una forcina aperta in due - aveva giocato a guardie e ladri - mentre in braccio aveva il piccolo Ciunwatt.
Poi un pianto interruppe la quiete e i nostri sguardi caddero sull'entrata della soffitta.
“È qui!”. Era la voce del Dottore, che, all'improvviso, si era calato a testa in giù dalla botola e allungò una mano. Presi il neonato dalle mani di Lisa, che aveva le lacrime agli occhi, andai verso il Dottore e afferrai la sua mano vedendo la sua sicurezza; mi tirò su e per qualche istante non vidi nulla al di fuori dell'oscurità.


Infagottato in quel modo, il neonato Ciunwatt passò inosservato agli occhi dei suoi simili: sembrava parte del mio corpo. Il Dottore ed io c'eravamo seduti sulle travi di legno, in mezzo a ragnatele e grossi bauli nei quali avrei voluto nascondermi. L'intera soffitta era illuminata da una semplice candela posizionata per terra, al centro della stanza; i loro volti, con la luce proveniente dal basso, mettevano i brividi.
Vidi il Dottore mimare qualcosa con una specie di linguaggio dei segni e i Ciunwatt risposero nella stessa maniera. Alla fine, sembrarono arrabbiarsi: probabilmente, il Dottore non voleva dirgli dov'era il loro bambino finché non avremmo visto il piccolo Daniel.
Sembrava fossero arrivati al culmine di un litigio quando un ragno, di cui non osai esaminare neanche una zampetta, mi camminò sulla mano; lanciai un urlo a mo' di film horror e, con gesto fulmineo, lo catapultai a tre metri di distanza. Quel gesto mi costò il pianto del piccolo Ciunwatt e uno sguardo fulminante da parte del Dottore.
Lentamente, srotolai le coperte che avvolgevano il neonato e lo avvicinai alla candela per fare in modo che lo vedessero meglio.
Uno di loro mi si avvicinò e si mise a sedere proprio di fronte a me. Sembrava essere più giovane, forse era il fratello del bambino che tenevo in braccio. Mi esaminò a lungo e, dopo un tempo che mi sembrò infinito, uno dei suoi tentacoli si illuminò; lo appoggiò sulla mia fronte e tutto diventò annebbiato.
Bruciava. Mi sembrava di andare a fuoco. E mi girava la testa.
Quando riaprii gli occhi, ero ancora in soffitta con in braccio il bambino: apparentemente, nulla sembrava fosse cambiato..
“Grazie” sentii dire all'improvviso da qualcuno. D'istinto, mi voltai verso il Dottore, ma questi se ne stava semplicemente con la bocca spalancata a fissare me e il ragazzo Ciunwatt di fronte a me. A quanto pare, i Ciunwatt possono decidere di comunicare con qualcuno senza farlo soffrire.
“Grazie” ripeté l'alieno per attirare la mia attenzione. “Non servono le parole, basta pensare” aggiunse.
Deglutii. “Grazie di cosa?”.
“Hai ritrovato mio fratello e non gli hai fatto nulla di male.”
“E Daniel?”
“Ce l'hai in braccio proprio adesso.”
Mi guardai in grembo e non c'era più nessun bambino-limone! Era Daniel! Mi voltai accigliata verso il Dottore e lui mi guardò ancor più incuriosito ma mi spiegò che li avevano sostituiti nel momento in cui il ragazzo mi toccò la fronte.
“Il tuo comportamento è strano, umana. Spiegami.”
Tornai a guardare il ragazzo Ciunwatt, ma non capii esattamente cosa voleva sapere. “Penso di essermi comportata come la maggior parte della mia specie avrebbe fatto..”
“Non intendevo in quel senso. Ognuno di noi è legato al proprio nome, qual'è il tuo?”
“Mi chiamo Eleonora.”
A quel nome, il ragazzo sembrò afferrare tutta la situazione; io non ci capivo più niente.
“Perché quella reazione?” chiesi, vedendolo dimenarsi nella direzione degli altri Ciunwatt.
Lui tornò a guardarmi negli occhi. “Eleonora! Il tuo nome.. Significa creatura che ha pietà! La Terra dovrebbe essere orgogliosa di te!”. Si alzò in piedi di scatto, andò verso i suoi simili e mi rivolse un ultimo saluto, “Grazie ancora per tutto, Eleonora. Si torna a casa!”, per poi sparire insieme a tutti gli altri.


Una volta scesi dalla botola, Lisa mi corse incontro con le braccia tese e scoppiò in lacrime. “Grazie, grazie!”.
Io e il Dottore la lasciammo tranquilla e scendemmo le scale, uscendo poi sul vialetto che portava alla strada dove avevamo lasciato il Tardis.
“Mi mancava.”
“Cosa?” domandai.
“La luce del Sole!” mi rivolse un sorriso a trentadue denti. “E ora? Dove vuoi andare?” mi chiese sulla soglia del Tardis.
“Voglio fare una pausa. Portami a casa, voglio farti conoscere una persona”.
“Be', allora.. Allons-y!”
Era arrivato il momento di sapere la verità su quella parola.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Tutto ha una sua origine ***


Tutto ha una sua origine


Di nuovo a casa. Milano, la mia città. Quanto mi era mancata!
Sbucammo dalla stessa via in cui vidi il Dottore per la prima volta. Uscii quasi di corsa dal Tardis e una ventata d'aria gelida mi fece rabbrividire. Il Dottore chiuse le porte della sua astronave e mi raggiunse. “Perché sei voluta tornare a casa?” mi chiese.
In quel momento, da una finestra si sentì della musica. L'Ave Maria.. Io sorrisi e lo guardai negli occhi color nocciola. “Per Earl” gli risposi indicando la finestra di Earl. “Seguimi.”
Mi avviai verso il portone di casa mia e cercai le chiavi nella borsetta; aprii, tenni aperto il portone e cominciai a salire le scale che portavano al primo piano del mio palazzo col Dottore alle calcagna. Quando fummo davanti alla porta di casa di Earl gli sorrisi. “Non deludere le mie aspettative” lo ammonii, ma lui non capì.
Suonai il campanello e la musica si abbassò di volume.
Ci aprì un uomo alto, magro e ingobbito, segnato dal tempo. “Oh, Elleonnora!” mi salutò Earl col suo accento inglese, mai scomparso nonostante sia in Italia da molti decenni.
“Buonasera, Earl. Ti ho portato un amico, possiamo entrare?”
“Certo, prego.” Si scostò appena per farci passare e io portai il Dottore verso la sala, sul divano.
Earl ci si parò davanti con fare inquisitore. “Chi è quest'uomo? Ah, non dire niente.. È il tuo nuovo boyfriend, non è vero?”
Io e il Dottore ci scambiammo un leggero sguardo. Che? “No, no, Earl. Non stiamo insieme..” anche se avrei voluto. “È il Dottore.”
Earl sembrò sul punto di svenire; afferrò una sedia dietro di lui e ci si accasciò sopra. “Hai detto ..i-il D-Dottore?” chiese balbettando con gli occhi sbarrati. Si mise a fissarlo, incredulo.
Il Dottore capì che chi aveva di fronte lo aveva conosciuto molto tempo prima, per questo non lo riconosceva.
“Non ti ricordi di lui?” gli chiesi.
Il Dottore fece cenno di no, ma lo vidi agitarsi all'improvviso. “Earl! Quel Earl?”. Si mise degli occhiali dalle lenti sottilissime, quasi inesistenti, e lo guardò con maggiore attenzione; poi, all'improvviso, si alzò, spalancò le braccia e corse ad abbracciare il suo Earl.
Tra lacrime e singhiozzi non riuscii a capire nulla di quello che si dicevano ma posso solo dire che entrambi erano molto contenti di rivedersi. Il Dottore aveva un sorriso che andava da un orecchio all'altro e due occhi lucidi come quelli di un bambino che vede la mamma dopo una giornata intera passata alla scuola materna; Earl non riuscì più a trattenere le lacrime, le quali gli sgorgarono lungo le guance senza timore, bagnandogli anche la maglietta del pigiama...


Qualche anno prima, Earl venne a suonarmi alla porta portando con sé un vassoio di dolci inglesi. Lo feci entrare e, non ricordo come, arrivò a raccontarmi di un uomo che incontrò da bambino. Era il 1934 e aveva 8 anni. All'epoca era ancora in Inghilterra con i suoi genitori. Erano tutti riuniti in salotto, quando Earl si allontanò per andare a giocare fuori col suo cane, stufo delle soliti liti. Una volta in cortile sentì qualcosa alle sue spalle (“Sentii un rumore strano, metallico”). Quando si girò, davanti a lui troneggiava una cabina blu con una lanterna, da cui non riusciva a distogliere lo sguardo. “Per me è ancora difficile credere che esista qualcosa di più bello e misterioso di quell'astronave” mi disse.
Inizialmente pensai che Earl, prima di venire a trovarmi, avesse bevuto un bicchiere di troppo, come sempre da qualche anno a quella parte.
Mi disse che dalla cabina uscì un uomo simile ad un clown: capelli ricci e pomposi, sciarpa dai mille colori e occhi grandi, luminosi e sorridenti. Earl gli raccontò dei suoi genitori e quell'uomo sembrava non aspettare altro che una domanda: “Posso venire con te?”.
Povero Earl, tutti questi anni senza che nessuno gli abbia mai creduto..


“..Oh, no, Dottore, ormai sono troppo vecchio per avventure simili..” Earl interruppe il mio flashback.
Non osai nemmeno immaginare la faccia del Dottore davanti a quel rifiuto; lui, che amava tanto l'arte del viaggiare, lui, che non si stancava mai di correre..
“Quindi, non verrai per un ultimo viaggio?” tentò comunque il Dottore.
Guardai Earl che ricambiò il mio sguardo e mi sorrise. “Lasciami qui, a godere degli ultimi istanti della mia vita con la mia Maria.”
A volte dimentico quanti anni ha..
“Earl..” cominciai, cambiando discorso, “Tempo fa mi hai descritto il Dottore diversamente da com'è adesso.. Perché?”
Lui e il Dottore si guardarono e si misero a ridere; io non capii ma pensai che fosse meglio lasciarli soli ancora qualche istante: andai in cucina e mi affacciai alla finestra. Avevo voglia di una nuova avventura.
Quando sentii silenzio, tornai in sala. Earl si era addormentato sulla sua poltrona rossa di pelle, ma nessuna traccia del Dottore.
“Earl! Earl!”
Spalancò gli occhi e si guardò attorno cercando di mettere a fuoco la mia immagine a pochi centimetri dal suo naso.
“Earl! Dov'è lui?” gli chiesi quasi urlando.
“È..è andato via, pochi minuti fa, credo.”
Gli accarezzai una guancia. “Torna a dormire, ok?” conclusi con più calma.
Non aspettai nessuna risposta e mi precipitai all'uscita; corsi più veloce che potei, girai l'angolo e..
Era lì che mi aspettava. “Dove vuoi andare, adesso?” mi chiese con un gran sorriso, sulla porta del Tardis.
Che sarebbe stata la mia ultima avventura, gliel'avrei detto alla fine..



NOTA DELL'AUTRICE:
Questo non è l'ultimo capitolo ma il penultimo: più avanti pubblicherò l'ultimo, una sorta di speciale, che scriverò insieme a CassandraBlackZone.
A presto,
Tilena Girl

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Gli addii non esistono, per noi (parte 1) ***


NOTA DELLE AUTRICI
Come promesso, io e CassandraBlackZone abbiamo scritto lo speciale! Per quanto riguarda la mia ff, è il capitolo di chiusura, per la sua, invece, no. Parto col dire che Emily Creek è una nuova companion dell'Undicesimo Dottore, incontrata in corcostanze particolari.. Per qualsiasi chiarimento, leggete "The girl who keeps running" di Cassandra!!
Ecco a voi la prima parte di "Gli addii non esistono, per noi". Buona lettura,
xoxo
T.G.


Forse penserete che io sia stata molto stupida a scegliere come ultimo viaggio proprio un parco della mia stessa città. La verità è che non ci fu un vero motivo logico nel chiedergli di seguirmi fin lì. Lasciammo il Tardis nel vicolo in cui lo vidi per la prima volta e alle prime ore dell'alba iniziammo a percorrere le vie deserte di Milano rispettando, in silenzio, l'armonia dei canti degli uccelli.
“Cosa ti piace, per colazione?” gli chiesi, quando fummo sotto un portico pieno di negozi con le serrande a metà.
“Cosa mangiate a colazione, voi milanesi?”
Lo portai dunque davanti all'entrata di un bar in stile francese, dai tavolini circolari con sedie dallo schienale in ferro battuto decorato con grazia. Ho sempre amato quel posto. Mi sedevo fuori, in primavera, e facevo colazione in compagnia di un buon libro. Aspettavo l'orario di apertura del negozio in cui lavoravo e poi me ne andavo col sorriso.
Il Dottore mi guardò e dai suoi occhi percepii meraviglia e stupore per la bellezza di quel bar.
“Sei mai stata a Parigi?” mi chiese tornando a guardare l'interno del negozio, da cui provenivano le dolci note di La Vie En Rose.
“No, sono stata solo a Londra” risposi. Un terribile nodo in gola. Mi perdonerà?, pensai.
“Ah, Londra! Una città così ricca di mistero! Lì capita di tutto, credimi. E Parigi...” Lasciò la frase in sospeso, come se quella città gli ricordasse qualcosa o qualcuno che gli provocasse dolore. Sbatté velocemente le palpebre per scacciare le lacrime. Si era fatto cupo, in volto.
Nel tentativo di allontanarlo dai – possibili – brutti ricordi, lo portai all'interno del bar; lo feci accomodare ad un tavolino e lo controllai con la coda dell'occhio mentre mi dirigevo verso il bancone scintillante e quasi fatato per il marmo che sembrava appena levigato e il legno di ciliegio intagliato con motivi floreali. Se ne stava tranquillamente seduto a fissare il vuoto come se fosse stato drogato; tornai da lui con una tazza di caffè pesantemente zuccherato e due croissant integrali ripiene di miele. Gli misi tutto davanti agli occhi e lo fissai mordendo la mia brioche. Era ancora immerso nei suoi pensieri, ma non appena le sue narici incontrarono le scie di vapore profumato si rianimò. “Dove mi vuoi portare dopo?” mi chiese con una briciola di croissant su una fossetta. Quell'immagine mi fece arrossire – mi hanno sempre attratta gli uomini con le fossette – ma frenai gli impulsi e gli dissi che era una sorpresa, sebbene non fosse nulla di speciale.
Finimmo di fare colazione, uscimmo con calma dal bar e in un batter d'occhio fu ora di pranzo: ci fermammo ad un mercato per comprare due semplici panini al prosciutto che divorammo lungo il percorso per il Parco Sempione.


Uno sguardo veloce e via, senza nemmeno chiedersi da dove fosse mai saltata fuori una cabina telefonica della polizia. Nessuno al parco Sempione sembrò stupirsi, tranne magari qualche bambino attirato dal profondo blu e dalla curiosa scritta in inglese, o cani intenzionati a fare qualcosa di poco decoroso, come un pastore tedesco, che subito guaì e si allontanò dalla porta correndo appena ne uscì una ragazza con in mano un trofeo violaceo informe.
Prima di toccare terra, Emily lo ammirò soddisfatta con gli occhi che le brillavano e lasciò che l’aria invernale le colpisse leggermente le guance.
“Chi l’avrebbe mai detto! Ho vinto! Ho vinto sul serio! La mia prima partita a Ontìpyo!”
“Non è Ontìpyo!” urlò il Dottore dal ripostiglio “È Ontipyò
“Oh, scusami, Hermione. Bruci di invidia, vero?”
“Non direi.”
Il Signore del Tempo uscì dal TARDIS con un paio di giacche, uno lungo e verde per lui e uno più sportivo e rosso per Emily.
“È meglio se lo lasci nel TARDIS. Oltre ad essere un trofeo è anche un’antenna. Potrebbe causare interferenze qua intorno”
“Ok.”
La ragazza si avvicinò alla macchina del tempo e lasciò il trofeo all’entrata. Quando ritornò fuori vide il Dottore agitare il suo cacciavite sonico con la sua solita posa alla Superman.
Sforzandosi di non ridere, Emily lo ignorò e si limitò a chiedere: “Trovato qualcosa di nuovo?”
“No” disse lui controllando il cacciavite “ma non si sa mai. Dopo i Kujacara, Milano potrebbe diventare un nido per qualunque altra specie. Anche se…”
Con gli occhi assottigliati per la luce accecante del cielo bianco, il Dottore vagò con lo sguardo tra le persone e la natura circostante contaminata dalle strade. Non sapeva bene dire come e perché, ma qualcosa nell’aria oltre al forte odore di umidità solleticò non poco il naso dell’alieno.
“Anche se che cosa?”
“Non so… forse è un'impressione. Ho come un déjà-vu…”
“Ah beh. Per te dovrebbe essere normale, vista la vita che fai.”
“Sì, in effetti non hai tutti i torti.”
“Comunque, perché siamo tornati qui a Milano? Mi avevi promesso che saremmo andati su un altro pianeta, no?” disse Emily un po’ delusa.
“Beh, vista l’improvvisa partenza di Cristian in America e il prolungamento del lavoro di tuo padre, ho pensato che abbiamo tutto il tempo per girarci tutto l’Universo – cosa un po’ improbabile-. Un passo alla volta, ti devi un po’ abituare all’idea.”
Emily pensò alle parole del Dottore e subito le venne in mente un particolare che aveva tralasciato. Qualcosa di davvero importante che l’allarmò parecchio.
“Aspetta! Avrai pure parlato con Cristian e mio padre, ma che ne sarà della scuola?”
“Ah! Pensavi che me ne fossi dimenticato?”
Tutto eccitato il Gallifreyano tirò fuori dalla giacca un foglio ripiegato in quattro e lo mostrò ad Emily sorridente.
“Ecco qui nero su bianco una bella giustificazione del tuo viaggio d’istruzione a Londra per un totale di tre mesi! Eh? Sono stato bravo?”
La ragazza glielo tolse dalle mani e lo lesse tutto ad un fiato spalancando gli occhi alla firma in fondo alla pagina. Quella A era inconfondibile, non aveva dubbi di chi fosse.
“Mrs. Alba? È stata lei a firmarla?”
“Esatto! Lei in persona! Sono andato da lei ieri.”
“E quando saresti andato da lei se noi er-… Ah!! Ecco dov’eri finito al buffet! Credevo fossi andato a cercare i tuoi vestiti!”
Il Dottore arrossì violentemente dall’imbarazzo.
“C-certo che sono andato a cercare i miei vestiti! La penitenza era finita e sono tornato nel TARDIS per prenderne degli altri!”
Emily scoppiò a ridere pensando per un solo istante a lui che correva con le braccia al petto, nella foresta, senza nessun vestito addosso.
Il Dottore la squadrò severo per niente divertito. “Non c’è proprio da ridere, sai?”
“Scusa, scusa, è che… eri così ridicolo mentre correvi!”
“Non sono stato di certo io a scegliere una penitenza che mettesse a nudo il pudore. O sbaglio?”
“E dai, ti ho già chiesto scusa!”
“Umani… Senti, vuoi qualcosa da mangiare prima di andare? Tu fatti un giro qua attorno. Brioche?”
“Al cioccolato, grazie” rispose la ragazza già con l’acquolina in bocca.
“Perfetto. Brioche integrale al miele in arrivo.”
“Cioccolato! Non al miele.”
“Ho detto miele? Volevo dire cioccolato, scusa! Bene, vado e torno.”
Con un sopracciglio inarcato, Emily salutò l’eccentrico alieno e si diresse verso l’arena Civica.
Risposto al saluto, il Dottore prese a camminare nella direzione opposta alla ragazza scuro in volto e grattandosi la nuca.
“Accidenti… Ci è mancato poco, ma ancora questa sensazione non se ne va.”
Come poteva essere possibile, pensò. O meglio, era possibile, ma come? Due erano passabili, ma come poteva percepirne tre?
Quello era un mistero degno di Sherlock Holmes o Agatha Christie – Oh Agatha, se solo fossi qui -.
Il Signore del Tempo per un istante si fermò sotto un albero e scrutò da lontano il bar. Un vago ricordo gli passò nella mente, fino a quando quel déjà-vu non divenne un effettivo ricordo. Ora gli era tutto più chiaro: era quel giorno. Il giorno in cui avrebbe dovuto dirle addio.


I cancelli del parco erano spalancati come due braccia aperte, pronti ad accoglierci. Il chiosco-bar affianco all'entrata lavorava senza sosta con l'aiuto di Sofia, la figlia dei proprietari, che raccoglieva gli ordini dei clienti. Tutto sembrava essere uguale a quella piazza londinese, tutto mi ricordava la mia ex coinquilina, e fra poco avrei dovuto parlarne al Dottore. Mi ero ripromessa più volte di non piangere, ma mi fu sempre impossibile. Lui notò la mia insicurezza nell'attraversare l'entrata del parco; mi prese per mano e a quel punto dovetti allentare la sciarpa che già di per sé era pesante. Continuammo a camminare così fino all'entrata opposta, contemplando gli alberi totalmente spogli e i sentieri quasi del tutto deserti se non per chi faceva jogging o portava a spasso il cane.
Arrivammo al bar e lui si voltò verso di me.
“Elly, questo parco è così spoglio!” esordì mollando la mia mano per poi guardarsi attorno.
“Dottore, è.. È novembre.. Ed è normale.”
“Ma è così.. Triste” replicò lui.
“Ti prego, ti supplico, ti scongiuro: non fare nulla di azzardato. Qui non c'è nessun pericolo!”
Lui tirò fuori il suo cacciavite sonico e lo puntò in giro, guardandolo di tanto in tanto. “Sì, hai ragione” concluse. Ma poi il suo voltò cambiò espressione; sembrava molto preoccupato. “Quanto distiamo da casa tua e di Earl?” mi chiese con la fronte aggrottata.
“Mhm, circa due chilometri, credo.”
“Ma è impossibile! E anche nello stesso momento! Voglio dire.. Potremmo creare un paradosso di quelli coi fiocchi!”
“Mhm?!” Aiuto. Un'altra crisi da Signore del Tempo.
“No, no, no! È semplicemente..”
“Ma cosa?!” Mi sentii come la notte in cui lo conobbi per la prima volta: confusa come un gatto che segue con affanno una luce sulla parete.
Lui continuava a fare avanti e indietro facendomi girare la testa. Scattai verso di lui e lo afferrai per le spalle. “Senti, bello. O ti calmi e mi spieghi che diavolo sta succedendo, o ti dico subito quel che ho da dirti e me ne vado.”
Quel discorso sembrò calmarlo.
Stava cominciando a parlare quando una ragazzina bionda spuntò dal nulla, ci venne addosso con la sua bici e cadde ai piedi del Dottore. Aveva una mantellina rosso brillante col cappuccio tirato sul capo. Il paradosso era già in atto? Dov'era il lupo cattivo?, ero tentata di chiedergli per scherzare e prenderlo in giro.
“Oh, mi scusi! Che sbadata, scusatemi!” Tirò su la bici e, dopo un ultimo sguardo lanciato sul Dottore, se la svignò a testa bassa, diretta nella direzione opposta alla precedente.
Il Dottore si lisciò bene il cappotto e la cravatta blu metallico con decorazioni dorate. “Che strana ragazza.. Comunque!” riprese sorridendo, come se non fosse successo nulla. “Non siamo soli. Nel senso che due Tardis nello stesso momento è anche possibile, ma addirittura TRE...è praticamente... Non è... Insomma...”
“Perché due sono possibili ma tre no?” chiesi, senza sperare di capirci qualcosa. “In fondo sono tuoi simili, no?”
“Non credo, Elly. No. Io..li ho uccisi tutti.”
In quel momento anche un sordo avrebbe potuto sentire uno spillo cadere a terra.
“C-cosa?” gli chiesi con un filo di voce.
“Hai capito bene” tagliò corto lui guardando a terra.
“Ma perché? Cos'è successo?” Cercai di essere il più delicata possibile, nonostante lo scomodo momento. Ma ormai c'ero dentro.
“Ricordi i Dalek?”
“La causa della scomparsa del nostro secondo satellite?”
“Brava, loro. Stavano distruggendo il mio pianeta e sapevo che l'unico modo per non farli più soffrire era...era...”
“Capito.” Lo fermai senza pensarci due volte: non mi piaceva vederlo in quello stato. Anche in quella casa di Burbank non potei fare a meno di notare l'angoscia nei suoi occhi sempre sorridenti. “Vuoi qualcosa da bere?” dissi per distrarlo.
“No, grazie. Vorrei stare un po' da solo, se non ti dispiace” replicò lui.
“Capisco. Ci vediamo tra un po' lì, al bar?”
“..Certo.” Si voltò e cominciò a camminare lentamente con le mani nelle tasche dei pantaloni, senza sapere che al bancone del bar lì vicino vi era un tizio con losche intenzioni.


Emily inspirò profondamente l’aria circostante e chiuse gli occhi, lasciando che fossero i suoi sensi a guidarla. Percepì l’odore e la consistenza molliccia della terra bagnata sotto i suoi piedi, il dolce suono delle risate gioviali di bambini che la rilassarono fino a farla sorridere. Gli abbai dei cani un po’ meno, ma ciò non la distrasse dal suo momento di relax, fino a quando non sentì una fitta di dolore alla pancia.
Il suo stomaco cominciò a gorgogliare rumorosamente.
Non vedeva proprio l’ora di mangiare la sua brioche al cioccolato e sperava che il Dottore si sbrigasse. Sapeva bene che avrebbe potuto mangiare al buffet su Marxiya e provare le specialità locali, ma una come lei, che già s’impressionava con il semplice pesce crudo del sushi, non sarebbe mai riuscita a mangiare un piatto con chissà quale creatura ancora viva al suo interno. No, il suo stomaco non avrebbe decisamente retto.
Con le mani affondate nelle tasche della giacca, Emily cercò di ignorare quel fastidioso borbottio camminando lungo il perimetro dell’Arena Civica. Forse lo scricchiolio dei sassi l’avrebbe anche aiutata a non attirare l’attenzione su di sé.
Parco Sempione era uno dei parchi di Milano che le piaceva di più, non solo perché era il secondo parco costruito nella città, ma anche per ogni pezzo di storia che racchiudeva al suo interno. A lei piaceva molto la storia, e lo doveva solo ai suoi genitori: entrambi archeologi, una più adatta alle spedizioni estere e l’altro ai lavori in laboratorio, ma ciò non voleva dire che non potessero fare uno il lavoro dell’altro. In un certo senso si completavano a vicenda senza problemi, o almeno era così prima che sua madre morisse.
Dalla tasca dei pantaloni Emily tirò fuori il suo portafogli blu regalatogli da suo padre per il suo compleanno e sfilò la prima foto che c’era, se non l’unica, e sorrise.
Ritraeva lei, suo padre e sua madre ai suoi fianchi, tutti e tre che sorridevano per la splendida giornata passata a Londra. Con un dito passò prima sul volto del padre, soffermandosi poi più a lungo su quello di sua madre. Erano due gocce d’acqua, tutti lo dicevano, si assomigliavano così tanto che la maggior parte le scambiavano per sorelle più che per madre e figlia: stessi capelli castani, stessi occhi verdi e stessi lineamenti del viso.
A malincuore, Emily rimise a posto la foto e cacciò indietro le lacrime. Era sul punto di ricominciare a camminare quando qualcosa la bloccò. O meglio, qualcuno.
A circa cento metri da lei c’era l’ultima persona che avrebbe voluto incontrare: non lì.
“Oh, cavoli… no” Non qui. Non ora.
Era quella testa-a-caschetto di Jeremy, assieme alle sue bertucce dei suoi compagni.
Per lo meno non la stava guardando, visto che era troppo occupato a parlare di videogiochi e altre stupidaggini per accorgersi di lei, ma questo non l’avrebbe impedita di scappare.
Senza farsi troppo notare, Emily camminò veloce verso la direzione opposta di Jeremy e, girata una curva dell’arena, fece uno scatto lungo una ventina di metri. Giusto per esserne sicura, si girò per vedere che non la stesse seguendo, e accadde l’inevitabile.
“Ah!”
All’improvviso Emily si sentì cadere all’indietro dopo aver sbattuto contro qualcuno.
“Ehi!”
Una mano subito la prese per un braccio, una mano che lei aveva già sentito recentemente sulla sua pelle.
“Dot-…”
Era davvero sul punto di chiamarlo per nome, quando incrociò lo sguardo di due enormi occhi color nocciola, e la sua fronte sfiorò un ciuffo castano ingellato.
No, decisamente non era chi si aspettava.


NOTA DELLE AUTRICI
A presto, la seconda parte dello speciale. Speranzosa di avervi divertiti, alla prossima ;)

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Gli addii non esistono, per noi (parte 2) ***


Gli addi non esistono, per noi
PARTE 2

Mi avvicinai al bancone e ordinai una cioccolata calda al peperoncino. Sbottonai i tre bottoni del mio cappotto e tolsi la sciarpa tenendola sull'avambraccio. I pochi clienti lì intorno erano molto silenziosi e interessati ai fatti loro, quando un omone alla mia destra, di cui sarebbe stato un miracolo se gli avessero trovato delle gocce di sangue nell'alcol che gli circolava nelle vene, si girò verso di me col sorriso di un ebete e allungò una mano sulla mia coscia.
“Ehi, cosa ci fa una ragazza bella come te.. Qui, da sola?” Accompagnò le ultime parole con un'alitata di whisky economico e avvicinò i suoi occhi rossi e umidicci ai miei.
Vicino a noi sembrava non esserci più nessuno tranne il titolare, impegnato ad asciugare i bicchieri, e i piccioni che beccavano le foglie secche in cerca di cibo. Il tempo parve fermarsi e quei pochi secondi che passarono parvero durare minuti scanditi da un enorme gong nel silenzio di una montagna innevata.
Lui era ancora lì, con la sua sudicia mano sulla mia gamba, quando arrivò alle nostre spalle un uomo molto giovane, vestito elegante e dall'aria saccente. Con uno strano sorriso che creava una doppia fossetta sulla guancia contratta, sollevò la mano dell'ubriacone che, sbuffando alito puzzolente, se ne andò controvoglia trascinando i piedi.
La fase pre-panico era finita e cominciai a riavere una buona vista.
“Grazie” gli dissi stringendogli la mano.
“Di nulla, Elly.”


Capotto color cioccolata lungo fino alle caviglie, completo blu con tanto di cravatta e un paio di converse bordeaux: di certo il gusto nel vestire era molto simile.
Forse… era un po’ più sexy, ma giusto solo un po’. Emily non riusciva a togliergli gli occhi di dosso, mentre lui scrutava malinconico l’elenco dei caduti incisi su una lastra di marmo.
“È triste, non trovi?”
“Che cosa?”
“Il modo in cui bisogna venir ricordarti, ovvero quando si è morti. E’ una cosa che mi deprime.” La sua voce era così malinconica, intenta a sopprimere un brutto ricordo. La prova era nei suoi occhi lucidi prossimi a diventare rossi.
Per un momento Emily sembrò soffrire insieme a lui.
“Beh, pazienza” disse finito di leggere l’ultimo nome.
“Ad ogni modo, perché correvi? Qualcuno ti stava inseguendo?”
Un po’ imbarazzata, la ragazza abbassò lo sguardo a terra, intravedendo con la coda dell’occhio un sorrisetto compiaciuto su di lui.
“Beh, ecco… in realtà non volevo essere seguita.”
“Da chi? Dal biondino in giacca gialla fluorescente?”
“C-come fai a saperlo?”
L’uomo scrollò le spalle.
“Ho tirato ad indovinare. Se vuoi posso farti compagnia. Sto ancora aspettando una mia amica, ho un po’ di tempo.”
“Anche io sto aspettando qualcuno, ma mi sa che mi sono allontanata un po’…”
“Già, anche io. È strano fino a dove si può arrivare con la testa fra le nuvole.”
“Tu non sei di queste parti, vero?”
“Ebbene sì, non sono di Milano.”
“Sei scozzese?”
L’uomo fissò Emily con un sopracciglio inarcato. Era così buffo agli occhi della ragazza.
“Come fai a dire che sono scozzese?”
Questa volta, fu lei a scollare le spalle.
“Ho provato ad indovinare.”
I due si scambiarono due smaglianti sorrisi. Anche il suo sorriso piacque molto ad Emily. Un bel sorriso a trentadue denti, ma uno di quelli che le sembrava di aver già visto.
Possibile che lui…
“Come ti chiami?”
“Ehm… Emily” si avvicinò per stringergli la mano. “Emily Creek.”
“Oh, ma guarda, un cognome inglese!” L’uomo rispose con una stretta vigorosa. “Anche tu allora non sei di queste parti.”
“Mio padre è americano.”
“Ah, capisco. Bene, Emily Creek. Piacere di conoscerti, io sono-… ma, cosa..?!”
Un po’ bruscamente l’uomo ritirò la mano e la infilò nella giacca. Con gli occhi spalancati dalla tasca tirò fuori uno strano strumento simile ad una penna con una curiosa punta blu lampeggiante.
Emily trasalì quanto lui. Forse era un modello diverso o semplicemente non era quello che pensava, ma il ronzio era inconfondibile: quello tra le sue mani era proprio un cacciavite sonico.
“Ma… ma quello è…”
“Oh, lo sapevo!! Il segnale si è agganciato! È qui! Lui – o lei, non si sa mai- è qui!”
“Cos-… un momento, ma chi?”
“È un po’ difficile da spiegare, e sicuramente non capiresti, quindi tanto vale non farlo. Mi dispiace Emily, ma devo proprio scappare. Non mi deve sfuggire.”
Inaspettatamente Emily ricevette un bacio sulla fronte che la bloccò per almeno una decina di secondi, un tempo sufficiente per lui per poter girare un angolo.
“Ehi!! Aspetta!”
Ripresasi dallo shock, Emily lo rincorse.
“Dottore!”
Ma non fece in tempo. Quel Dottore era come svanito nel nulla.


Cosa?!, pensai. C'è solo un uomo che mi chiama così.
Momento, momento, momento.
“Dott-.. Dottore?!” sussurrai avvicinandomi al suo viso, diverso da quello che ricordavo. “Ma cosa..? Quindi, uno degli altri due Tardis è il tuo..” Ok, ma il terzo?
“Sono successe un po' di cose da quando ci siamo lasciati.” Mi fece l'occhiolino, poi si rabbuiò. “Mi ricordo perché sei qui. Non c'è alcuna possibilità che tu cambi idea?”
Feci cenno di no; era troppo importante. Sapevo a quali pericoli stavo andando incontro – non l'avrei più rivisto, probabilmente – ma ormai avevo deciso e di tornare indietro non ci pensavo nemmeno.
“È bello rivederti.” Tornò a sorridere e mi abbracciò. Aveva un odore diverso..
“Dove l'hai messo il cappotto?” gli chiesi quando sciolse l'abbraccio. “E come mai sei qui?”
“Mia cara Elly.. Nella vita, si cambia idea molte volte. E io sono parecchio duttile. Ehm.. Sono qui con degli amici. Sai, nuove avventure..” Il suo dolce farfallino metteva ancor più allegria sul suo visino angelico.
“Dottore?”
“Dimmi, Elly.” Mi guardò con lo sguardo più spensierato ed innocente che potesse esistere.
“Scusami. Intendo per quello che tra poco ti dirò.. Che ti ho detto..” Wow. “Detto o dirò? Che confusione..”
“Per me è passato; per te è futuro.” Una lacrima stava per farsi strada sulla sua guancia. “Tranquilla. Mi mancherai, è vero, ma la supererò. L'amicizia è una cosa importante.”
Aveva ragione: per me, Jenna è sempre stata importante e, nonostante la poca conoscenza di lei, l'ho considerata fin da subito come una sorella. Ciò che causò la rottura della nostra amicizia è paragonabile ad una minuscola crepa nell'immensità dell'universo.
“Qualche consiglio?”
“Parla col cuore. Apprezzo le persone sincere.”
Un ottimo aiuto. Per chi non ha un cuore freddo come il mio.
Nel riabbracciarlo, sentii che profumava di qualcosa di nuovo – crema, forse – ed era caldo, tremendamente caldo: non riuscivo più a staccarmi da quel calorifero. Mi accarezzò i capelli scompigliandoli appena, come farebbe un fratello maggiore, e io risposi bagnandogli tutta la spalla con lacrime che mi facevano bruciare gli occhi per il trucco che colava, colorandomi gli occhi come un panda. Un po' controvoglia, mi staccai dal Dottore col farfallino.
“Salutami Londra. E chiama se noti qualcosa di strano come cani che parlano o case che scompaiono, eh!” mi disse con un sorriso che non ammetteva repliche.
“Come farai a sapere che avrò bisogno di te?” È vero, c'era un telefono incorporato al Tardis; ma come avrei fatto a chiamarlo se fosse stato in tutt'altra epoca?
“Tranquilla: ovunque ci siano guai, prima o poi arrivo io! Non so come, ma è così.”
“Allora questo è un addio?”
“Probabilmente, per me sì. Ma tu mi parlerai nuovamente fra qualche istante” rispose inclinando la testa e, dopo aver dato uno sguardo al minuscolo orologio da polso, indicò un albero alla mia sinistra. “Guarda: sto per spuntare da là dietro. Ah” mi prese il mento per farmi girare la testa e guardarlo negli occhi; mi si avvicinò, naso contro naso, e il mio volto diventò come il sole al tramonto. Fortuna che lui ebbe l'accortezza di non dire nulla.
“Ricordati di non dirgli nulla di me. Digli che stavi parlando con.. il tuo ex fidanzato, ok?”
Con le gote in fiamme e la pelle d'oca perfino sul cuoio capelluto, annuii.
“Elly!” mi chiamò il Dottore col cappotto lungo fino alle caviglie. Mi girai; lui era ad una cinquantina di metri da noi. O meglio, da me.. Perché, quando mi girai nuovamente, l'altro lui non c'era più.


Assurdo. Quello era veramente… il Dottore? Ma non può essere! Insomma: era così… diverso! Ma anche così… simile.
Ad Emily le era passata la fame, come se il suo stomaco si fosse chiuso all’improvviso. Non le importava più della brioche al cioccolato, ne tanto meno di incontrare Jeremy (tanto era già uscito dal parco, lo aveva intravisto). L’unica sua premura era quello strano tizio con il cacciavite sonico: perché quello era un cacciavite sonico, e non c’erano dubbi. Forse era un suo amico, tentò, o suo fratello, o… un clone.
Frustrata, la ragazza si arruffò i capelli levandosi dalla testa quel cappotto, quel completo blu, tutto, finché non le rimase da dimenticare quel bacio sulla fronte. Una sfida.
“Ah! Non ci capisco niente! Al diavolo i viaggi nel tempo!”
“Lo sai che parlando così mi stai insultando pesantemente?”
La voce del Dottore spaventò Emily a tal punto che saltò lontano da lui di almeno un metro.
Da dove era sbucato? Come aveva fatto a non sentirlo arrivare?
“Ah! Dottore?!”
“Wo, calma Emi! Sì, sono io. In carne ed ossa, dal farfallino alle scarpe di pelle. Tutto bene?”
Un po’ sorpresa Emily si avvicinò al Signore del Tempo e iniziò a toccarlo con un indice.
“Sei… sei veramente tu?”
“Cos’è questo, un interrogatorio?”
“Mi è… successo qualcosa di strano un attimo fa.”
“Cosa? Hai visto qualcuno fico come me?”
“Non proprio, ma ti… assomigliava, credo.”
“Ed era più bello?”
“Forse.”
“Oi!”
“Tu piuttosto! Dove sei stato?”
Il Dottore tirò fuori dalla tasca della giacca un sacchetto di carta e lo agitò sotto il naso di Emily.
“Brioche al cioccolato. Come avevi chiesto. Gustatela fin quando è calda.”
La ragazza non se lo fece ripetere due volte e gli sfilò il sacchetto dalla mano. Al primo morso le sembrò di essere in estasi. Era davvero buona.
“Grazie, Dottore.”
“Di nulla. Bene, credo che ora dovremmo andare.”
“Di già?”
“Ho detto che facevamo uno spuntino e poi ripartivamo, no? Forza allora!”
“Ehm, Dottore?”
“Sì?”
“Ti potrà sembrare una domanda… un po’ sciocca, ma considerando il fatto che sei un alieno…” un boccone di brioche le si bloccò in gola. “per caso tu, puoi cambiare faccia?”
Stupito, l’alieno si voltò serio verso la ragazza rimanendo in silenzio. Si avvicinò a lei così tanto, che i loro nasi quasi si toccavano.
Emily si aspettò che le chiedesse il perché di quella domanda così all’improvviso, ma non accadde, sicché lui si limitò a sorriderle e a sfiorarle il naso con un indice.
“Ti racconto tutto sul TARDIS. Ora è meglio se andiamo. Tira una brutta aria, qui.”
Il Dottore prese per mano Emily e camminarono a passo sostenuto.
“Ehi, aspetta. Perché tanta fretta? È successo qualcosa?”
“Credimi. È meglio se non te ne parlo qui e ora.”
I due tagliarono per un parco giochi che brulicava di bambini, mentre poco più lontano da loro, il Dottore dalla giacca color cioccolata, cercava invano l’uomo da lui intravisto.


“Elly, tutto bene? Dov'è andato quell'uomo?” mi chiese il Dottore quasi correndo. Si era messo un paio di occhiali e studiava, con profonda concentrazione, lo spazio alle mie spalle.
“Dottore, tranquillo. Mi ha aiutata a liberarmi di un ubriacone. E poi.. era.. il mio ex.” Autoconvincimento, mode: ON.
“Mhm, va bene. Ma dimmi il suo nome, non si sa mai. Sembrava inglese.. Non è così?”
Oh, mamma. Oh, cavolo. “Sì, si chiama.. Joey.. Joey Turner.” Che fantasia...
“Ok, appuntato in mente.” Si toccò la tempia. “Cosa mi dovevi dire?”
Pericolo scampato. “Siediti.” Mi aveva detto di parlare col cuore. L'unico problema è che ho il tatto di un elefante.. Ma se ha detto che l'avrebbe superata, allora l'unico modo per dirglielo era essere me stessa.
Quando si fu seduto, cominciai a contorcermi le mani che sudavano come non mai. “Ammetto di non essere brava con le parole, specialmente per cose del genere, quindi ti chiedo subito scusa.”
Lui aveva già capito. “No, non pure tu, ti prego! Rimani!” I suoi occhi erano diventati come diamanti ambrati; si espose per prendermi una mano e stringermela forte.
“Oh, Dottore.. Non sai quanto mi piacerebbe. Ma non posso restare.”
“Invece sì! Saremo liberi di andare ovunque noi vogliamo; niente più lavoro per guadagnarsi da mangiare; niente bollette, niente stress, niente cose noiose che riguardano la vita monotona! Vieni con me, ti prego..”
Mi girai; non riuscivo a sopportare quella visione. “C'è una ragazza a Londra che aspetta le mie scuse. Da quasi sette anni. Devo tornare da lei, Jennifer mi aspetta.”
Lui abbassò lo sguardo in un silenzio straziante. “Permettermi di accompagnarti a Londra personalmente, almeno” mi implorò.
“No, vorrei fare tutto da sola. Dottore, tu hai già fatto molto per me, moltissimo.” Lui alzò lo sguardo; la bocca semichiusa con fiumi di lacrime che gli scorrevano fin oltre il mento. “Standoti vicino, ho imparato i valori dell'amicizia e quella pazza londinese mi manca da morire. Ho bisogno di mettere in piedi un discorso che le faccia capire che sono cambiata.”
“Allora questo è un addio?”
Mi venne da sorridere. Curioso, la mia stessa domanda. “Probabilmente, per me sì. Ma aspetta ancora qualche avventura e, vedrai, ci rincontreremo, senza preavviso, qui e oggi.”
Quello che avvenne dopo esserci salutati non voglio descriverlo. Posso solo dire che, ancora adesso, quando ci penso, mi viene la pelle d'oca alta come un palazzo..
Andai all'aeroporto con un taxi e comprai un biglietto per Londra; partii senza bagagli, quasi senza meta, ma non mi importava. Stavo tornando a casa. Dalla mia Jennifer.


NOTA DELL'AUTRICE
E' stato magnifico condividere con voi questa emozionante avventura! Vi ringrazio ad uno ad uno, nella speranza di avervi tenuto buona compagnia.
Vostra,
Tilena Girl.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2100687