Memorie di un Tabarro: a Ritroso nel Passato, nella Memoria

di Hoel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Antifona d'Ingresso ***
Capitolo 2: *** Le Tre Figlie di Eva ***
Capitolo 3: *** Piogge di Marzo, Piogge d'Ottobre, Piogge di Vita ***
Capitolo 4: *** Adeste Fideles, cinque minuti prima ***
Capitolo 5: *** Gala ***



Capitolo 1
*** Antifona d'Ingresso ***


B’jour a tutti!

Voilà una nuova storia della sottoscritta, l’ennesimo mio esperimento di stile di scrittura (adoro sperimentare, oh yes) e trattando di un tema che sinceramente adoro: le saghe familiari. Sì, mi piace molto spettegolare sulle vicende di una o due famiglie, raccontarne gli altarini e intrecciare le storie di quasi ciascun componente e il fandom di Naruto me ne offre due di molto interessanti … *risata maligna*

Ovviamente, essendo un’AU, ci saranno delle inesattezze sull’IC e, proseguendo, delle vere e proprie modifiche temporali per cercare di conciliare manga e fic. Ai puristi chiedo già venia.

Inoltre, chiedo di essere pazienti per i primi capitoli di questa storia, che potrebbero parere molto confusionari, ma che in realtà sono essenziali per capire l’intera vicenda, insomma, gettano le basi, introducono l’intero intreccio. In ogni modo, una piccola dritta ve la concedo, ovvero che la prima parte della storia si svolge nell’Ottocento, pur essendo narrata a ritroso, nel Novecento. Man mano che proseguiamo, nelle note introduttive vi fornirò di ulteriori informazioni atte a non scandalizzarsi troppo per i contenuti, che, cogli occhi di noi, uomini e donne del XXI secolo, potremmo concepire come indigeribili. Tuttavia, non scriverò nel dettaglio scene troppo forti, le lascerò in innuendo come mio solito.

Vi saranno, soprattutto nella prima parte della storia, molti elementi del “magico”: non aspettatevi, però, robe alla Harry Potter o Twilight o abracadabra, per “magico” intendo il sovrannaturale della superstizione, delle credenze popolari e talvolta ancora pagane legate ai cicli della natura, alla linea labile tra la realtà e la fantasia.  Ma non compariranno troppo spesso, né saranno così intrusive. Forse. *seconda risata maligna*

Bien, non credo di aver altro da dire, se non di augurarvi buona lettura e ringrazio in anticipo coloro che leggeranno questo mio nuovo sghiribizzo di fanwriter!

Bisous,

 

 

 

 

 

 

H.

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“L’Amore non invecchierà nei ricordi”

(“A Celtic Tale”, M. & J. Danna)

 

 

 

 

 


 


Antifona d'Ingresso.


Colui che fin dalla tenera infanzia ho sempre appellato il  Benefattore  – e che solo in queste straordinarie quanto tremende circostanze scopro essere mio cugino primo – mi nascondeva spesso, nelle notti in cui l’insonnia cronica m’impediva di bearmi del giusto riposo, sotto un tabarro enorme, pezzato di stoffe di ogni sorta e dai diversi colori, un savio testimone dei tempi perduti e di molteplici storie zittite, che mio cugino estrapolava dall’ingarbugliata matassa dell’oblio, delineandole con pennellate linguistiche estremamente vivide, sebbene sconnesse nella linea temporale. E quando io gli ricordavo in uno stizzito rimprovero di mantenere una certa logica negli eventi, la mia Sharazade si schermiva, adducendo come spiegazione che lui non poteva controllare i ricordi del tabarro: essi gli venivano presentati così, a seconda del suo capriccio.

“Inoltre”, aggiungeva, infilando la testa dentro il rigido bavero rialzato. “Non puoi riordinare le divagazioni di un tabarro vissuto per oltre duecento anni!”

E adesso, che sono in esso avvolto per celarmi ancora una volta dalla realtà beffarda e crudele, posso sentire i sussurri del tabarro, le sue maliziose confessioni e le immagini nitide di un passato inalterato dalla convenienza, dalle amarezze, dalle nostalgie e dai reciprochi rancori. Aspettando qualsiasi fine mi sia stata riservata assieme a lui e al mio neonato nipote, ascolto di nascite, di amori, di pazzie, di morti assurde e logiche e di odi tremendi in questo monologo incredibile; ascolto di nomi ora a me noti ora nuovi, che però possiedono la vaga famigliarità delle anime incatenate nel processo della metempsicosi. E anche coloro che io dovrei conoscere, mi appaiono, grazie ai tocchi romanzeschi di questa pittura da aedo, personaggi dai contorni eroici e al contempo banali, figure eterne che la vita reale aveva svilito e maltrattato, annientandoli, e che la memoria caparbia del tabarro mi restituisce epurate dai pregiudizi della storia a chiunque abbia voglia di ascoltarlo.

Perché il tabarro, nella sua dualità quasi femminile, avvolge e protegge chi vi si rifugia, ma allo stesso tempo nasconde e svela in un teatrale svolazzo le nefandezze che ipocritamente non si vogliono vedere, che non devono essere viste.

L’eco dell’ennesimo bombardamento mi distrae per un istante dai fenomenali racconti del tabarro e allora io lo stringo, chiudendo gli occhi e invocando la sua protezione dall’apocalisse che si sta scatenando al di là della sua stoffa variopinta, che divora simil Saturno i suoi stessi figli, ghermendoli anzitempo e trascinandoli a sé. L’immagine della morte che mi trascinava all’inferno mi ha perseguitando da molti mesi, specie dopo l’arresto di mio fratello, del suo amico e della sorella gemella di quest’ultimo e del loro conseguente, seppur in diversi luoghi e modi, decesso. Lo vedo chiaramente, l’inferno, così com’era dipinto sulla parete dell’entrata interna nella chiesa di Santa Lucia, un affresco pennellato dall’allucinata fantasia di un anonimo seicentesco, dove il Cristo e la corte celeste osservavano leggermente scocciati il bailamme d’anime dannate scatenatosi sotto i loro santi piedi, una vera bolgia di torture così macabre che oggigiorno si sarebbero potute additare come le perversioni sadiche del pittore, il tutto sotto lo sguardo pasciuto da libidinoso magnaccia di un satana che rassomigliava piuttosto ad un dio Pan biscottato dal sole caraibico. Nel mezzo, gli angeli ineffabili sollevavano le anime per la gola, per la pancia, per le ascelle e qualsiasi altra parte del corpo dove le loro forche arrivassero, come i contadini facevano ammucchiando i covoni di fieno. Questo, signori, era l’inferno che da piccoli ha spaventato ogni generazione di Mokuton, nel distretto di Konohagakure. Nessuno ne è stato esente, nemmeno io che spesso mi sono dichiarato insensibile alle suggestioni perverse di un pittore di cui s’ignora perfino il nome. Eppure, poiché io le torture le ho vissute e ad esse sono, grazie al Benefattore, sopravvissuto, non posso non ripensare a quegli angeli campestri che inforcano le anime malvagie e nel delirio del dolore e del refrain: “Dov’è il tuo complice?” oppure “Chi sono i tuoi compagni?”o “Dove si trova la vostra base segreta?” o “Dicci chi è il capo!” e dei miei “No, no, no, no” senza senso, perché ad un certo punto neppure io sapevo che cosa stessi negando e per che cosa stessi soffrendo come un cane, nella confusione generatami dal cervello scombussolato dalle scariche elettriche, in quel torpore della memoria fatta a brandelli, ebbene in quell’istante l’inferno della chiesa di Santa Lucia s’animava ai miei occhi forzatamente ciechi e le facce insulse di quei manichini seicenteschi assumevano i più nitidi contorni di mio fratello e dei due marchesini deceduti, mentre la grande statua della vergine martire – ora me la ricordo – coi suoi occhi strappati e offerti grondanti di sangue e nervi alla nostra vista, si trasformava nel prozio, la cui morte relegò il nonno nella pazzia e nella torre campanaria, dove visse e morì fino a qualche giorno or sono ridendosela letteralmente come un matto.

“Non preoccuparti”, mi conforta colui che scopro essere mio cugino, cingendo col braccio il sottoscritto e il piccolo Menma. Forse sto tremando sotto il tabarro, non so, non sapevo potesse leggermi nei pensieri, anche se più volte ha dimostrato questa sua valentia. “Sopravvivremo. Non sussiste altra scelta; lo dobbiamo ai nostri morti.”

Perché queste parole mi suonano così famigliari? Le ho già sentite? Qualcuno prima di me le ha già sentite? Il tabarro freme, annuisce.

Ho paura di morire, cugino, di morire impiccato col filo di ferro o magari davanti ad un plotone d’esecuzione, dopo avermi nuovamente  torturato fino a rigirarmi i muscoli e frantumarmi le ossa. Per gli invasori si è tutti seguaci del Dittatore, anche chi ha sofferto per causa sua, come successo a te, a me. Inoltre, poiché so di aver molto peccato, pur nei miei idealismi, temo follemente di finire all’inferno prima di poter fare ammenda, nell’inferno barocco della chiesa di Santa Lucia di Mokuton, distretto di Konohagakure.

E ancora mi risponde il tabarro, o meglio, per spazzare via questi miei timori spirituali evoca dal suo magazzino incantato una donna, la mia bisnonna, eterna e serena nel suo abito rosso pomodoro dai bordi lordi di fango, le babbucce di corda ai piedi e i capelli color melanzana raccolti da una cuffietta un po’ scolorita, un tempo giallo canarino. Sta accarezzando la zazzera arruffata di un ragazzino che mi assomiglia vagamente- questo io vedo – un moccioso dalle gote infiammate per l’ennesimo rimbrotto moralistico del vecchio prete e magari pure per uno schiaffo ammonitore.

“Ma chi ti credi di essere, miser puer?”, tuonava l’anziano, mulinando avanti e indietro il braccio scimmiesco,  che pareva più lungo del solito a causa del bastone puntato contro il petto del preadolescente. “Solo perché ti concedono di giocare e studiare col padroncino, tu pensi di essere un suo pari? Peccato di superbia, stultus infelixque, peccato di superbia! Servo sei nato e servo creperai, così come fece tuo padre e  suo padre prima di lui e come faranno i tuoi figli e i loro figli, in saecula saeculorum. Questo è il destino per cui Domine Iddio ti ha fatto nascere e contestarlo è sovversione, il chaos, la fine dell’ordine! E tu vuoi che l’infernus – e indicava dalla porta l’incubo metafisico dell’anonimo – venga in terra? È questo ciò che vuoi, miser puer? Allora, che rispondi?”, s’inumidì le labbra secche dal tanto parlare, stringendole piccato alla vista dello sguardo sì basso del ragazzino, ma affatto penitente come s’aspettava: al contrario, la bocca  serrata caparbiamente dimostrava una voglia matta di protestare, di piangere e mandarlo a quel paese  a suon di sacramenti. “Oh, Kiyora? Com’è che non risponde? Ma capisce? Benedetto Signore, questo è un indemoniato! Hai capito, Madara? Sei un indemoniato, un saraceno, un miscredente e finirai all’inferno, lo sai? All’inferno!” e indicava quella demoniaca mietitura, che aveva turbato i sonni del giovinetto fin dai tempi della sua nascita.

Ecco: la bisnonna si alzò dalla seggiola in fondo alla stanza intonacata di bianco e santità raffazzonata, avanzando verso il figlio ritto davanti al prete, non dissimile da un eretico al tribunale dell’inquisizione. “Sì, reverendo, ha capito. È testardo, mica scemo”, dichiarò lei, allargando le braccia coperte dallo scialle verde smeraldo. Subito, il ragazzino l’abbracciò, celando il volto nel suo ventre rigonfio di donna incinta per non tradire le lacrime amare dell’umiliazione. “E tu sciocchino, di che ti preoccupi? La vita è già un inferno”, sentenziò sardonicamente solenne, sorda alle invettive del parroco che bollava anche lei come indemoniata, per la parcondicio, perché se la cagna è ammalata, il cucciolo è moribondo. “Esatto, un fottuto inferno. Per questo, da morti, si va tutti in paradiso.”

I passi di mio cugino pongono fine a questa prima dissolvenza, mi par d’essere quasi la Piccola Fiammiferaia, solo che al posto di fiammiferi io accendo ricordi, ma sempre con essi mi scaldo. Però non desidero perderli, non mi accontento di quell’effimero calore destinato a svanire al singolo rumore della realtà omicida. Il silenzio regna sovrano, ergo non c’è nessuno, ergo mi azzardo a stendere una mano oltre il tabarro – com’è fredda e tagliente l’aria! – e reperisco un pezzettino di carta, un lapis lo trovo nella mia tasca, quel che mi serve per fissare questi ricordi, queste vite che mi confortano nell’ora del buio assoluto.

Ora mi puoi dettare, tabarro. Non importa l’ordine, purché tu non taccia mai, mai e poi mai, finché non tornerà il Benefattore e ci stringeremo in un misero trifoglio umano. Schiarisciti la gola, ma non farmi morire d’inedia; solo un pazzo darebbe ascolto ad un mantello, ma denunciare i propri parenti e amici alla polizia segreta è cosa da pazzi, accettare e seguire le vanità del Dittatore è stata la pazzia per cui si pagherà amaramente, così come pazzia sono state le atrocità compiute in nome di alti ideali per celare i vili tornaconti personali, e pazzia, sì, la più grande pazzia è di nascondersi da coloro che dovrebbero essere i liberatori e che invece distruggono più dei pazzi di questo maledetto paese, quindi non mi si giudichi pazzo se io scrivo questi racconti sostenendo di averli sentiti da un tabarro. Ci sono pazzie peggiori, la mia è solo eccentricità di fuggitivo e chissà, forse un giorno Menma, cresciuto libero dalle nostre ombre, troverà queste carte e potrà giudicare obiettivamente, l’unico sano poiché troppo piccolo per impazzire via contagio.

L’antifona d’ingresso è finita, scriviamo in pace per scacciare l’angoscia.

Amen.

 

 

 

 

 

 

 

 

To be continued …

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Capitolo 2
*** Le Tre Figlie di Eva ***


B’jour a tutti!

Eccoci qua col primo e vero capitolo di questa fic; già immagino, infatti, che il prologo abbia lasciato leggermente perplessi, confusionario com’era. (Volutamente confusionario, eh!). Speriamo che, adesso che ci inoltriamo nella storia vera e propria, i dubbi incomincino a dissiparsi.

Come scritto nel prologo, gli eventi sono ballerini, si va avanti e indietro, come quando uno ti racconta una storia, interrompendola di tanto in tanto con aneddoti e digressioni. È un mio esperimento, vediamo come riesce.

Inoltre, poiché cerco sempre di adattare la mentalità dei personaggi all’epoca descritta – seppur tracciata a grandi linee – so che alcuni pensieri potrebbero parere sciovinisti o poco politically correct: ebbene, sappiate che l’autrice non condivide tali pensieri, s’immedesima solo ed esprime ciò che una persona dell’Ottocento/Novecento, a seconda della sua classe sociale, avrebbe detto o fatto. Così come i pensieri, anche gli atteggiamenti dei personaggi, che spero di rendere il più “grigio” possibile, né santi né peccatori, uomini e donne con pregi e difetti.

A parte l’essermi reinventata la carta amministrativa di “Naruto”, ho anche dato al Regno di Hi (il previo Hi-no-Kuni) una lingua, un esperanto un po’ imbastardito da altre lingue. Vi sarà anche l’uso del francese, perché si sa, quella era la lingua dell’aristocrazia, dei diplomatici, degli intellettuali nell’Ottocento europeo, più dell’inglese che svolgeva funzioni più commerciali. Ma non preoccupatevi: saranno paroline di qua e di là, facilmente intuibili dal contesto! Non abuserò di bilinguismo!

Un sentito ringraziamento ai miei lettori e coraggiosi recensori, in particolare a: Mary_Uchiha e Sagitta72.

Vi auguro buona lettura,

 

 

 

H.

P.S. Per il titolo, “Figlie di Eva”, mi sono ispirata “patronimico” usato nelle “Cronache di Narnia”, di Lewis.

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Memorie di un Tabarro: a Ritroso nel Passato, nella Memoria.

Parte Prima:

Genesi

 

 

 

 

 

 

Capitolo Primo: Le Tre Figlie di Eva.

 

 

 

 

In principio ci furono tre donne.

No, nessun Adamo, nossignore, di uomini ce ne saranno fin troppi in queste memorie, per questo incominciamo con Eva, che fa una figura più onorevole. Eva e le sue figlie, che il tabarro chiama Najtine, Kiyora e Anise.

Di Najtine non si sa un granché,  pur essendo stata la padrona del tabarro – almeno quando fece il suo ingresso in questo dramma corale. Infatti, esso è restio a svelare le sue origini o a spiegare da dove provenisse la sua saggezza epicurea, la sua straordinaria longevità ma soprattutto la misteriosa capacità di fissare i ricordi cucendoli in toppe arlecchinesche in quella che lei soleva appellare Mia bebo, la mia creatura. La quale mi concede soltanto una parca descrizione di lei: Najtine aveva i capelli blu con sfumature verdi, che portava sempre sciolti, incurante del caldo, dei pidocchi e delle forbici del barbiere e che neppure la vecchiaia avrebbe alterato, umiliando quell’acquatico riflesso in un grigio di riva sassosa. Alcuni la chiamavano strega, altri santa, altri gitana, altri ancora curandera e siccome era tutto questo, a Mokuton e nel mondo lei era la Fata Najtine, sotto il cui prodigioso tabarro si sarebbero intersecati i destini di due famiglie.

Kiyora giunse a Mokuton con Najtine.

No, non era sua figlia, bensì una triste mocciosa dodicenne che la donna, mossa da una “trascinante” pietà, aveva raccattato durante il suo lungo peregrinare, non riuscendo appunto a separarsi (letteralmente) da quello sporco scheletro ambulante che, pur di mangiare un pezzo di pane, s’era aggrappato al suo tabarro, lasciandosi trainare da esso per la calle, finché non si accorse di aver ormai da un pezzo abbandonato la sudicia città cannibale e di trovarsi in piena campagna. Lo dedusse dai vapori asmatici di un misero fuoco attizzato quasi dal nulla, sotto le cui braci si cuocevano delle patate recuperate chissà dove, ma di sicuro allettanti nella loro farinosa consistenza. Il vento ottobrino, poi, favoriva quella naturale acquolina e la piccola mendicante, pur di non lordarsi il mento già di suo sudicio, morse ferocemente un lembo del tabarro – scorro i polpastrelli alla sua ricerca; trovato! – spostando febbrilmente avida gli occhi dalle patate abbrustolite a Najtine, supplicandola di averne almeno un quarto da masticare.

“Bene, bene, malgranda mostroccio”, si scrollò la fata quel sacchetto d’ossa dal mantello, invitandola invece a rintanare la sua schiena ossuta dentro di esso. “Che farai ora? La urbeto è lontana, lo sai.”

“Non ci torno”, replicò la giovanissima senzatetto, cui gli stenti e le umiliazioni avevano già corrotto l’anima, rendendola sfacciatamente schietta. “Non torno dove crepo di fame.”

“Chi sono tuo padre e tua madre?”

“Non ho né l’uno né l’altro.”

“Chi ti ha dato questo vestito?”

“Qualcuno dalle … delle … insomma, quel posto dove danno da dormire (pagando) e all’occasione da trangugiare qualche merda di sbobba (per aiutare noi sventurati, dicono)  ma dove in realtà,  mi creda, si lavora come cani finché non si schiatta come tali e poi ti buttano nelle fogne a marcire coi topi … come si chiama ‘sto posto, ecco, avrà capito, no?”

Evidentemente a Najtine non importava un fico secco del nome specifico di quelle vergognose case di lavoro, da cui la ragazzetta doveva essere una sfortunata habituée in odore d’evasione compulsiva. Piuttosto, volle sapere altro. “E come ti chiamavano lì?”

“Kiyora.”

“Kiyora cosa?”

La giovinetta si grattò quella formidabile matassa di capelli color melanzana arricciati pulciosamente tra di loro, aggrottando la fronte forse alla ricerca di un cognome degno delle sue incerte origini o forse – cosa assai più verosimile – nel disperato tentativo di non annusare il fragrante odore di patata cotta alla brace e di salivare di conseguenza. Strabuzzò quindi gli occhi troppo grandi dalla piacevole sorpresa di trovarsene una sotto il naso, infilzata libidinosamente su di un bastoncino, dando così modo a Najtine di scoprire quanto grande fosse la bocca della marmocchia, che in effetti spalancò certe fauci da cerbero, inghiottendo mezza patata, con la buccia, in un sol boccone.

“Bah, poco male. Te lo darò io il cognome e sarà Yōsei, perché ad una fata ti sei accodata, a Najtine la Fata. Che ne dici?”

Kiyora, in tutta onestà, non sapeva cosa dire, anzi, non aveva capito proprio nulla di quel battesimo pagano e l’unica cosa che le importava era la patata che le sue mascelle intorpidite stavano maciullando alacremente. Buttò giù silenziosamente l’ultimo pezzo, leccandosi le dita lerce una per una e magari ripassando là dove avvertiva indugiarvi il sapore del tubero. A operazione completata, si leccò le labbra e la punta del naso, fissando la fata piena d’aspettativa.

Prontamente, Najtine le cedette la seconda patata. “Sto andando a Mokuton, nel distretto di Konohagakure, nel Regno di Hi. Lo conosci?”

“No”, sbiascicò a bocca piena la ragazzetta, la cui realtà si circoscriveva al capolinea del tram 9, ergo la fine della Città Libera di Amegakure e l’inizio dell’inesplorata campagna. “Cosa c’è lì?”

“Niente per me. Un futuro per te.”

“Se per futuro lei mi promette un vestito nuovo, un paio di scarpe comode, uno scialle, un tetto sopra la testa e almeno due pasti caldi al giorno, beh, mi può anche portare nel quinto culo del mondo!”

“Non sarà necessario recarsi così distante”, addentò la fata la gustosa patata. “Il mondo non è poi così grande, anzi è piccolo. E vedrai come il Regno di Hi sia ancora più piccolo e Mokuton una cacca di piccione a confronto.”

Parla sempre a sciarade?, cogitò perplessa la dodicenne udendo questo e pulendosi pensierosa gli spazi dei denti con l’unghia del pollice. Non che le dispiacesse, risolvere enigmi preveniva la stupidaggine - o similia per quel che si ricordava - ma quella bizzarra creatura imperturbabile le si rivolgeva con fare da profetessa e il futuro aveva sempre crucciato non poco la liscia fronte della mora, indice di rughe precoci. Perciò, alla quarta patata, chiese a Najtine spiegazioni col medesimo tono scettico e al contempo pieno di soggezione di coloro che cercavano il responso della Sibilla Delfica o Cumana, ricevendo come risposta un invito a darle un’opinione sul suo neoacquisito cognome; allora Kiyora, più disorientata che mai, lo pronunciò con la medesima ieraticità, assaporandone il suono e, piaciutole subitaneamente, si risolse seppur un po’ titubante a fidarsi comunque della fata e di seguirla in quel posto che, a orecchio, le ricordava il muco verde dei poppanti bavosi.

Fece bene? Chissà, forse che sì, forse che no, ma intanto a Mokuton ci arrivò e questo a fine ottobre, commettendo una gaffe o errore (a seconda dei punti di vista), le cui conseguenze avrebbero influenzato per sempre l’esistenza della mia bisnonna.

Mi sa che dovrò insegnarle un po’ di buone maniere, fu l’allora primo pensiero della fata mentre incrociava le braccia al petto, scuotendo il capo alla vista di Kiyora che, in segno di massimo spregio, sputava sulle scarpe di tale Natsumi tra gli sghignazzi generali.

(Per la cronaca: è il tabarro che, generosamente, mi concede un qualche pensiero di Najtine sulla sua protégée, altrimenti non riuscirei ad immaginarne neanche uno).

Le due viaggiatrici erano appena arrivate a Mokuton, dopo una settimana di marcia intensa e di patate e anguille affumicate e rane fritte e di conversazioni più o meno atte ad una reciproca conoscenza o sopportazione, e già la pestifera mocciosa si faceva una reputazione - negativa che altro? - e sosteneva, appunto, di aver ricevuto un pestone sul suo piedino nudo – un lividaccio, sì sì - dalle incaute babbucce di corda di Natsumi Uchiha, che la terza gravidanza aveva reso assai antipatica al prossimo per via dei suoi sbalzi d’umore. (Una vera bestia, oh che bestia!) Calando qualche santo dalla sua corte celeste, Kiyora aveva inseguito la donna e, le mani ai fianchi, le aveva berciato dietro:

“Ma dica, lei, le dolgono così tanto le scarpe, che le va ad ammorbidire sui piedi altrui? No perché, hundina, mi permetta d’aiutarla!”e, raschiando ben bene la gola si liberava di tutto il salivume accumulato durante il viaggio sull’urlante donna, nel frattempo che i presenti, schiamazzando divertiti,  esclamavano paonazzi in volto dal tanto ridere:

“Ohé , Tajima, t’innaffiano la moglie! E magari stavolta il pupo ti viene con un innaffiatoio così!”

Akcidentoj! Che getto!”

“Manco un lama sputa così!”

E se Najtine non avesse avuto la prontezza di riflessi di pigliare Kiyora per il braccio e di trascinarla a viva forza sotto il tabarro nella sua nuova casa, di certo due o tre o mille ceffoni da parte di una livida Natsumi Uchiha non glieli avrebbe risparmiati nessuno, tantomeno un sonoro calcione sulle natiche da parte di suo marito Tajima, il quale in futuro avrebbe lo stesso avuto modo di far una particolare conoscenza di quelle natiche e sicuramente non per calciarle.

Comunque sia, lo scalpiccio degli zoccoli del cavallo di uno dei collaboratori dell’amministratore interruppe l’allegro spettacolino: “Via via, razza di fannulloni! Al lavoro! Al lavoro! I campi non si lavorano da sé!” e schioccò la frusta giusto per sottolineare il suo scarso senso dell’umorismo.

“Io l’ammazzo, quella putina, io l’ammazzo quant’è vero Iddio!”, digrignava nel frattanto i denti Natsumi, levandosi stizzita le babbucce vischiose di saliva catarrosa. “E tu”, sibilò al marito, che continuava a seguire con lo sguardo le due neoarrivate. “Non dici nulla? Non fai nulla? Mi sputano sulle scarpe e tu lasci correre?”

“Stai buona, che vuoi che faccia?”, rispose per lui un’altra sua parente. “Che pigli a calci in culo un merdoso sacco di pulci? Che magra figura ci farebbe! Nah, se ne andranno via prima degli Ognissanti, vedrai!”, la rassicurò, cingendole le spalle col braccio e solo perché quelle erano l’unico paio di babbucce che aveva impedì alla gravida donna di lanciarle lontane, schifata.

Contrariamente, però, alle ottimistiche previsioni di quest’anonima parente, Najtine e Kiyora avevano al contrario ogni buonissima intenzione di restare e restate ci sarebbero, assistendo così all’arrivo della nuova padrona di quelle terre tanto vaste quante dimenticate da Domine Iddio, come soleva definirle il prozio.

E non si creda, poi, come succede a certe eroine dei feuilleton cui tutto è concesso e perdonato, che Kiyora non avesse pagato il fio per la sua liquida bravata e che anzi fosse stata acclamata da un coro di entusiasti brava! bravissima! ancora!, visto che, pur avendo suscitato l’ilarità generale, far divertire i mezzadri di Mokuton non richiedeva infondo un enorme sforzo. Nella casetta di mattoni ai margini del fiume Naka, i cui tortuosi arabeschi di percorso passavano per le antiche paludi e sfociavano nel Golfo di Uzushiogakure, Kiyora se le prese, Dio quante se ne prese! Il salvataggio di Najtine l’aveva preservata dalle sberle altrui, non dalle sue, che elargì con esuberante prodigalità.

“Avrai certamente avuto le tue ragioni, deliktula”, ribatteva ella tra un ritmico tambureggiare di chiappe. “Ma lo stesso  non si fa; giocare ai gradassi non porta a niente, ti crea inutili inimicizie. Pertanto, domani ti recherai dalla sputazzata e accetterai ogni ceffone e insulto e calcio in culo che lei ti darà.”

“Al diavolo, io non ci vado!”, protestò orgogliosa la preadolescente, massaggiandosi il deretano rosso e pulsante.

“Ci andrai, eccome se ci andrai.”

E Kiyora ci andò, presentandosi scura in volto alla porta di casa di una stupefatta Natsumi Uchiha, ch’era venuta ad aprila barcollando nella sua grossezza di orsa e in compagnia dei suoi due marmocchi, un maschio e una femmina, attaccati con una mano alla sottana, l’altra utilizzata o per suggersi il pollice o per scaccolarsi il naso. Ovviamente, la donna si scaldò immediatamente le mani callose sulle guance della ragazzetta che sopportò stoicamente, invitandola poi a prendere un caffè e dei biscotti – le fave dei morti, tipici del periodo degli Ognissanti – dopodiché la schiaffeggiò ancora, accettò commossa e piangente il regalo di riparazione fornito da Najtine (un paio di scarpe di cuoio tirate fuori il tabarro solo sapeva dove) diede un ulteriore scappellotto alla zazzera nera dai riflessi violacei di Kiyora e, sempre piangendo, le regalò un nuovissimo scialle verde smeraldo -  Povera infana! Qui l’inverno uccide! - un caldo abbraccio di lana, forse un regalo del marito, che la ragazzina avrebbe un giorno imbrattato di rosso maledetto, usandolo per nascondere il corpo mutilato del suo ultimogenito, il mio prozio.

Ma allora Kiyora non poteva nemmeno lontanamente immaginarlo e pensò, invece, che la gente si sbagliava a giudicare antipatica Natsumi “Akvumita” Uchiha, la quale al contrario si rivelò essere una massaia piuttosto simpatica, resa gonfia e irascibile dall’ennesima gravidanza che le deturpava il viso in macchie e le ingrossava le gambe in due bluastre zampe d’elefante, ma che soprattutto digrignava i denti dalla fatica di dover provvedere ai due moccolosi che non le davano mai requie e peggio di loro era suo marito, perché lui tornando dal lavoro poteva riposarsi, ne aveva il sacrosanto diritto, diceva, come se lei facesse la gran signora e poltrisse tutto il giorno su di un morbido canapè, no, no, lei si dannava nei campi come lui e magari più di lui perché doveva mantenere pulita la casa e anche i bambini li voleva meno sporchi di quelli dei vicini. “Che ci vuoi fare, non stanno mai fermi, li pulisci, ti volti e sono già lerci, ma no, nessuno lo capisce questo, mia madre sostiene che è nostro destino, china il capo e obbedisci, sei donna e te lo meriti e allora io chino il capo e bado alla mia casa, perché non sia mai che mi diano della barbona e questo senza mai un lamento, capisci?, mai un lamento e se ogni tanto, Santissimo Domine Iddio!, ti viene da sbottare e dire a quel disgraziato del marito: “E mo’ lasciami un po’ respirare!”, no, sei antipatica! Se per stanchezza dai delle oche a quelle pettegole delle comari del paesino – sei cornuta! sei cornuta, sghignazzavano le bastarde – ecco se solo t’azzardi a chiamarle per il loro vero nome sei un’antipatica e un’isterica e poi pesti per sbaglio il piede ad un’accattona e questa ti sputa addosso, ma dico, mi volete morta? E allora creperò, statene certi, sì creperò, così sarete contenti! E mio marito sarà il più contento di tutti, ché da quando ha scoperto che in passato l’ho cornificato mio malgrado col padrone mi tratta peggio di una cagna. Ma che ha da rimproverarmi, insomma? Come se si potesse dire di no al padrone! Mi avrebbe cacciata, Kiyora, oh sì, me e la mia famiglia e poi chi avrei ringraziato? Sarei finita a battere il marciapiede, no, no, meglio così, ci ho anche rimediato qualche vestito nuovo e soldi per costruire una casetta migliore, eppure quella carogna di Tajima ancora mi fa il muso duro e controlla ogni giorno il viso dei nostri, eh, nostri!, figli per scorgere una possibile rassomiglianza col padrone. No, Kiyora, io morirò, l’ho già deciso, o Tajima mi dà requie o lui canterà il mio requiem, per me, al mio funerale e ben gli starà, poiché le seconde mogli danno l’inferno, dice il proverbio, e dopo rimpiangi amaramente quella che hai spedito al Padreterno. Non ti sposare mai Kiyora, fatti suora e poi diventa badessa, ché se proprio devi servire qualcuno, questi almeno ti mostrerà un po’ di riconoscenza, aprendoti le porte del paradiso …”

Queste cose ascoltava attenta e sconcertata Kiyora, la quale si vergognò profondamente della sua aggressiva e avventata stupidità e abbracciò in lacrime Natsumi, piangendo con lei, e offrendosi di aiutarla perlomeno coi pupetti, anche se di bambini non ne sapeva un’acca, ma che importava se poteva in qualche modo alleviarle un poco la sua pena di vivere e fare conseguentemente ammenda per il suo gesto inutilmente offensivo.

“Sarò tua amica, fino alla morte!”, le promise, la mano sul cuore. Allora la donna si asciugò il volto umido col dorso della mano, sostenendo che no, che non ne valeva la pena, che però accettava, no, no che assurdità e balbettava, lusingata di aver trovato in colei che aveva giurato d’ammazzare una spalla su cui piangere.

“Natsumi mi ha promesso di insegnarmi a cucinare e a rammendare e a spazzare per terra e a tenere l’ordine nella dispensa e a pulire i bambini e … e …”, raccontò quella sera Kiyora a Najtine, mentre si perdeva nei meandri più oscuri del tabarro, scorrendo i ghirigori di stoffa con la punta dell’indice. “Lei dice che io imparerò tutto questo?”

“Quando non fai la sciocca, sei piuttosto assennata e sveglia! Tu sei come il fuoco, bambina: tanto generosa e calorosa quanto feroce e distruttrice. Jes, kiel fajro.”

Da sotto il tabarro, la preadolescente schioccò la lingua in segno di scocciata disapprovazione, tic che i suoi figli avrebbero ereditato, il primo e l’ultimo in particolare. “Natsumi ha spesso ribadito di voler morire. Mi tolga una curiosità: si può morire di propria iniziativa?”

Cessando per un istante di rimestare il brodo, la fata sentenziò in un sussurro: “Talvolta certi cuori smettono di battere quando l’anima dentro è già marcita” e altro non aggiunse, ignorando gli inviti a spiegarsi della ragazzina che, attirata dall’odore della minestra, riemergeva dal tabarro per cenare. “Perlomeno non si porterà l’infano con sé.”

Infatti, Kiyora tramite Natsumi ebbe l’occasione di imparare molte cose, tra cui che se uno è risolto a morire, è assolutamente impossibile scrollarlo dall’allettante idea dell’eterno riposo, si può solamente rallentare l’inevitabile, ma la volontà rimane ed è quella che muove il mondo. Natsumi non aveva scherzato in quel suo sfogo, aveva solo dato finalmente voce a quell’oscuro desiderio che più volte – vuoi per senso di colpa, vuoi per scrupoli religiosi – aveva forzatamente represso. L’irriverente vendicativa sputazzata di Kiyora sulle sue babbucce di corda l’aveva tentata per l’ennesima volta, indubbiamente, ma l’ambasciata di pace della stessa sputacchina era valsa per lei alla sua tanto agognata epifania e di fatti, riconoscente alla giovinetta, finché campò le due rimasero molto amiche, così tanto da nominare la ragazzina sua erede universale di ogni sua possessione, dai vestiti (tra cui l’abito rosso pomodoro) ai figli e, col tempo, al marito stesso. In quei momenti in cui l’amica le elencava questa sua parca eredità, Kiyora, che nel frattanto aveva trovato lavoro come cameriera presso la sorella del padrone, rideva  e diceva che lei sarebbe sopravvissuta fino a diventare una curva e canuta nonnetta.

“No, io creperò. Lo voglio e lo farò.”

Sicché Natsumi morì e, come commentato da Najtine, non portò nell’aldilà il suo bambino, una femminuccia dall’aria già stanca nonostante fosse appena nata e che battezzarono Haruka. Morì dissanguata dopo il travaglio del parto, fregandosene dei disperati tentativi da parte della levatrice, di sua madre e di sua suocera di fermarle l’emorragia, anzi, spingendo quasi il sangue fuori dal suo sesso fiaccato, acciocché, pur lavando il pavimento con l'aceto e arieggiando la stanza con lo zolfo, ci si ricordasse di lei per almeno una o due settimane dal suo funerale. “Ti prego, fratina, non c'abbandonare!”, aveva gridato la preadolescente, tenendole la mano insanguinata. Natsumi volle morire e morì e al suo funerale fu Kiyora a tenere la bambina, vedendo per la prima volta i padroni della terre di Mokuton (lei conosceva solo la sorella zitella e il vecchio padrone) i quali, così si bisbigliò, avevano un bel coraggio a farsi vedere, o meglio: il padrone ha un bel coraggio a mostrare il suo muso da porco dopo aver sollazzato con mia moglie, così sibilò Tajima Uchiha; ma stai zitto scemo, che vuoi metterti a litigare col padrone?; e che possa crepargli la moglie, quel fantasma bianco imperturbabile a tutto e a tutti; ma fate silenzio voi e portate rispetto alla povera Natsumi!; ma quale rispetto, ché se ne starà a poltrire su di una nuvola in paradiso, di noi lei se ne sbatteva altamente, dei suoi figli poi …

Ciò era falso. “Prenditi cura dei miei infani, brata”, le aveva confessato la scomparsa, appena avvertite le prime fitte delle doglie. “Prendi il mio posto in questa casa, se davvero sei tanto contrita per avermi sputato sulle scarpe!”

Najtine le aveva detto, sulla strada per Mokuton, che quel villaggio campestre le avrebbe riserbato un futuro. E lei, con la fierezza delle martiri di cera sotto gli altari, lo accettò sia per far ammenda della sua pubere stupidità e  sia perché tre anni dopo la morte di Natsumi, la sorella del padrone presso cui prestava servizio, la Sinjorina Tōka Senju, la cacciò via in malo modo, facendosi per poco venire una crisi epilettica. Suo padre (il Maljunulo Sinjoro, il vecchio padrone, come lo chiamavano tutti) dopo averla calmata, raggiunse Kiyora nella sua stanza dove lei stava riordinando il suo misero fagotto e, datale una lauta manciata di ryo, la rassicurò: “Tornerai in questa casa e sarà per mia nuora.”

Kiyora, già di suo scossa dal licenziamento poco ortodosso, pigliò i soldi e se li ficcò in una piega interna della camicia, ringraziando e ribadendo la sua intenzione di cercare altrove lavoro a Mokuton. “C’è sempre bisogno di braccianti, Sinjoro, m’arrangerò”. Il vecchio Senju, sorridendo, scosse il capo in diniego.

“Cos’hai combinato stavolta, mizera?”, le chiese serenamente Najtine, che già conosceva la risposta, rivedendosi ricomparire la sua protetta alla porta di casa e troppo in anticipo. Non che temesse il peggio: l’impulsiva sputacchina era scomparsa in una giovane donna più calma e matura, ma non meno attaccabrighe, colpa della sua natura sanguigna.

Diretta come suo solito, Kiyora le spiegò concisamente: “La padroncina ha scoperto che sono incinta.”

“Capisco. E chi è il padre?”

“E chi vuoi che sia? Tajima Uchiha, ovviamente.”

I  due si sposarono solamente ad aprile dell’anno successivo, qualche settimana prima del battesimo del loro primogenito Madara, giacché sua madre, quando tra lo stupore generale lo partorì in chiesa alla Vigilia di Natale dinanzi all’affresco seicentesco del Giudizio Universale (da qui il terrore atavico dell’inferno), non possedeva ancora l’età giusta per maritarsi. Come regalo di nozze, la moglie del padrone le regalò una graziosa cuffietta gialla in segno di riconoscenza per l’aver allattato, in contemporanea a Madara, anche suo figlio, come predetto dal vecchio padrone.

Ma di questo ne riparleremo più tardi. Passiamo ora ad Anise Howaitogōsuto in Senju, la terza figlia di Eva e la moglie del padrone delle terre di Mokuton.  

 

 

 

***

 

Anise Howaitogōsuto sapeva che si sarebbe sposata con Butsuma Senju sin dalla tenera età di nove anni: glielo aveva comunicato sua madre - Madame la Contessa, una nobildonna di Kumogakure - e ciò che lei decideva era legge, dunque se si era stabilito che si sarebbe maritata con lui, le conveniva accettare a capo chino e non inscenare inutili e grotteschi teatrini di protesta. Anise non avrebbe mai dimenticato il giorno in cui sua madre la distolse dai suoi giochi per recarsi in salotto e così riferirle le sue volontà: la Virina Yuki, la sua governante, entrò nella sua stanzetta dai teneri colori pastello. "La sua Maman ha da parlarle", le riferì, tendendole la mano, che la piccina afferrò prontamente. Mano nella mano, le due scesero per le scale, Anise saltando uno scalino sì e uno no, la sua bambola preferita Nanà stretta al petto. L’allora bambina comprese immediatamente che qualcosa di inusuale dal solito stava accadendo, giacché la sua tata divincolò la presa e la condusse oltre la porta vetrata e, una volta entrata lì, camminò da sola, intimidita, tutta la lunghezza dell’elegante sala; passò titubante davanti alle vetrine ricolme di tesori, alle piante delicate e odorose di primavera, ai lunghi specchi dalle cornici ricamate di vetro soffiato, alle ottomane in stile secondo impero. Giunse a capo chino al cospetto delle due matrone sedute languidamente sulle sedie ricamate accanto al tavolino di malachite, sedie troppo piccole per contenere l'esuberante eccesso di stoffa che straripava dai lati, da sotto il tavolino.

“La mademoiselle Tōka Senju”, le presentò sua madre la giovane donna che sedeva rigidamente composta accanto a lei. Col suo viso affilato, reso ancora più severo dalla stretta crocchia di capelli castani, e l’abito scuro dal taglio sobrio, essa ricordò ad Anise la badessa del convento dove studiavano le sue sorelle maggiori. Una donna estremamente intransigente, giudicò, con una certa tendenza a fustigare i peccati altrui, poiché lei non aveva potuto commetterli. Peccato, concluse, ché tutto quell'eccessivo rigore non rendeva giustizia alla vera età della madamigella di venticinque anni neppure compiuti.

Chiudendo il ventaglio, la sua futura cognata la salutò arricciando appena appena le labbra sottili e struccate, com'era uso nell'orgogliosa e conservatrice Konohagakure. Madame la Contessa, ch'era d'origini più frivole, se le truccava eccome, d'un bel rosso ciliegia, alla faccia delle invettive da parte dei protettori dei costumi. “Come sta, contessina?”

“Molto bene, merci. E lei?”

“Ma chère”, le sorrise la Contessa, intromettendosi, e Anise strinse più forte Nanà: conosceva bene quel lieve increspare della bocca materna, significava solamente una cosa, un annuncio che già le sue due sorelle avevano accolto, volenti o nolenti. “La mademoiselle Senju ed io stavano parlando del suo avvenire, figlia”, dichiarò, facendole cenno di avvicinarsi. Obbediente, la bambina avanzò di qualche passo, allungando il collo per vedere ciò che la genitrice aveva appoggiato sul tavolino, tra le tazze di cioccolata e le pastine.

“Le piace, ma fille?”, fu la domanda retorica di sua madre, indicando la foto del suo promesso. “Costui sarà il suo futuro marito.”

“Ha il naso grosso”, puntualizzò Anise, tracciando con la punta dell’unghia rosea i lineamenti dell’altro e provocando un feroce rossore nelle gote della Contessa. Quanto alla Sinjorina Tōka, ella trattenne il fiato, imbarazzata, replicando in una nervosetta mezza risatina:

“Che sorta di risposta è la sua, contessina? Come se fosse cruciale per decidersi se sposarlo o meno!”, e se non avesse tenuto molto a questo matrimonio, di certo si sarebbe offesa per quel commento assolutamente ingenuo e diretto, che solo una pargoletta poteva dar voce con tale sfacciata nonchalance.

“Maman mi ha chiesto se mi piaceva, mademoiselle, io ho risposto. Del resto, non credo di aver lo stesso molta voce in capitolo: lei vuole che io lo sposi e non posso far altro che obbedirle. E ora, col vostro permesso, ritorno ai miei giochi”, le restituì la foto, recandosi in uno stato leggermente sonnambolico nella sua stanza, accompagnata dalla governante che l’attendeva sulla soglia del salotto.

Di norma, a vedere la propria figlia ridotta in un simile stato di depressa rassegnazione, una qualsiasi madre avrebbe gettato la foto e sarebbe corsa dietro alla pargola, consolandola con dolci paroline d’incoraggiamento e carezze alla testa; alas, la Contessa era la donna che era e Anise si rifugiò indisturbata nella sua camera, chiudendosi dentro a chiave e, sorseggiata la crème de menthe che la governante si accertava che avesse sempre pronta a portata di mano, aprì il suo scrittoio. Ma chère sœur, scrisse d’impeto alla maggiore, aujourd’hui j’appris que je vais épouser un barbare avec un nez assez gros.

La contessina Anise”, riferiva invece Tōka via lettera al fratello diciannovenne “non mi pare assai intelligente, altrimenti rifletterebbe prima di parlare. In compenso, possiede un’ottima proprietà di linguaggio per la sua età, ricama con gusto e sua madre la Contessa mi ha confessato di una sua passione musicale per il violino: infatti, prima di terminare la mia visita, Madame sa mère la ha pregata di esibirsi in un piccolo concerto. Bravissima, invero, una piccola virtuosa, peccato che abbia scelto uno strumento così poco consono ad una signorina della sua estrazione sociale! In ogni modo, la contessina non è di natura molto ciarliera, anzi, talvolta ho l’impressione che neppure ascolti quando ci si rivolge a lei e si chiude di sua spontanea iniziativa in lunghi silenzi, tutti risibili difettucci che però sono certa spariranno crescendo: il convento dove sua madre la Contessa ha intenzione di mandarla gode di un’eccellente reputazione e vedrà, fratello, che fra nove anni, quando vi potrete frequentare liberamente, troverà pronta per lei una ragazza degna di portare il titolo di Duchessa di Mokuton e di donare alla nostra famiglia figli sani e robusti.

E rimpinguare il già cospicuo patrimonio dei Senju con una dote all’epoca portentosa: 5 milioni di ryo, una follia che solo il defunto Conte di Kureha, il padre di Anise, poteva stabilire nel suo testamento: temendo che le sue uniche e adorate tre figliole – Akane, Arisa e Anise – rimanessero zitelle, volle e decise che avessero la dote più allettante di tutto il Regno di Hi e, di fatti, i mosconi non tardarono a ronzare al portone del loro elegante palazzo in stile neoclassico nel quartiere di Città Giardino a Konohagakure. Ronzare? Nah, il tabarro sostiene che ci fu una vera e propria corsa alle Howaitogōsuto, una frenesia nuziale che spaventò non poco la loro madre, la quale ricorse ad ogni genere d’informatore, pur di conoscere la rispettabilità e posizione sociale ed economica degli innumerevoli spasimanti alla mano – e dote – delle tre sorelle.  Contessine che la vedova rese pressoché inaccessibili al mondo, relegandole o in casa o in convento, e cui si poteva giungere per vie traverse, sfruttando l’amicizia dell’amico dell’amico del cugino del nipote del marito del cognato del genero della sorella della zia del figlio di un parente della famiglia Howaitogōsuto. Per puro caso Butsuma Senju riuscì ad accaparrarsi, seppur in largo anticipo, l’ultima sorella rimasta: la Sinjorina Tōka frequentava la medesima associazione benefica promossa dall’instancabile Contessa, un ente d’amateurs dell’equità sociale, composto da vedove e zitelle che, nauseate dal troppo, calmavano i loro spleen esistenziali – o rimorsi di coscienza, come diceva lo zio – andando nei rioni più malfamati di Konohagakure e dintorni a fare del bene. E del bene Tōka Senju ne fece di certo, non per i poveri, bensì alla sua più che agiata famiglia, quando, in una colazione d’inizio marzo, dichiarò a suo padre che era riuscita a strappare alla Contessa Howaitogōsuto un incontro per iniziare le contrattazioni di matrimonio.

“A onor del vero, figlia”, obiettò il vecchio Duca. “Sapevo che le donzelle in età da marito fossero due e che fossero oramai entrambe maritate.”

“Certo, padre, ma rimane pur sempre Anise, l’ultimogenita! Sicuro, ha nove anni, però l’imeneo non deve per forza essere celebrato subito …”

“E allora temo, figlia, che se la Contessa accetterà la sua proposta, finiremo noi di educare la bambina”, borbottò l’uomo. “Fidanzata a nove anni … Pensavo di essere stato uno degli ultimi ad averlo fatto in sì tenera età … Bah! Il mondo gira e rigira e alla fine si torna sempre al punto di partenza …”

Scrollando le spalle, sua figlia lo consolò elencandogli tutti i vantaggi che avrebbero avuto con tale unione, ai miglioramenti delle loro tenute e al prestigio per aver ottenuto una sposa così nobile e graziosa, ultima esponente di un casato antico quanto la monarchia; peccato che nulla di questo riuscì a distogliere l’anziano Senju dalle sue cupe meditazioni, portandolo a rintanarsi nel giardino d’inverno e fumare immalinconito la sua pipa.

Al compimento del suo decimo anno d’età, Anise e Butsuma, pur non essendosi mai visti, erano ufficialmente fidanzati e la prima venne puntualmente impacchettata e spedita dalle suore nel convento di Santa Marta, nomen est omen, dove imparò il fas e il nefas della vita coniugale e magari a leggere e a scrivere in una terza lingua. Annoiatissima, la giovinetta giunse ad impararne ben cinque, alternandole allo studio “maniacale”, come lo descrivevano le sue istitutrici, del violino, aprendo la via ai misterici segreti della  musica alle generazioni successive delle nostre – sì, nostre, perché no? - famiglie.

A quindici anni, sotto dettatura di sua madre, ad Anise venne concesso di scrivere la prima lettera al fidanzato, infilandovi però dentro fini e ingegnosi codici per decifrare il vero messaggio criptatovi, per poi scoprire che il suo capolavoro di spionaggio veniva filtrato a Butsuma dalla sorella, la quale gliela leggeva con voce sì stentorea che avrebbe addormentato perfino un predicatore protestante. Inoltre, il giovane Duca aveva delle incombenze più pressanti su cui concentrarsi, al posto di scervellarsi sui giochini leggo-non-leggo di un’adolescente. Di conseguenza, incassata la cocente delusione, la contessina si limitò a mantenere una corrispondenza non formale, no, gelida piuttosto, un manierismo di distacco affettivo degno di un cadavere e giustamente Butsuma Senju, dal più conciliante mon fiancé, era ritornato a rivestire il suo antico titolo di le barbare.  

Il barbaro in questione si presentò la settimana successiva al diciottesimo compleanno della sua promessa e Anise aveva per l’occasione calmato ogni forma di tristezza nella sua anima, arrivando ad accoglierlo con tale apatia, che Butsuma Senju si chiese se lei fosse muta o svagata o addirittura scema: sua sorella Tōka e la Contessa gli avevano descritto Anise come una fanciulla discreta e docile, incline alla malinconia e dal carattere flemmatico e saturnino, tuttavia qua si superava ogni limite! Non gli parlò se non il minimo necessario, sì, molto carino; grazie, che gentile; certo, oggi è una giornata davvero incantevole; ancora un po’ di crème de cacao? Immaginate, quindi, l’impaccio dello spasimante nel momento in cui, riuscito ad ottenere un attimo di intimità dalla futura suocera, le chiese di sposarlo. Da dove incominciare? Si sarebbe messo in ginocchio o le avrebbe preso la mano o avrebbe potuto schiarirsi la gola e dire: “In merito ai nostri previi incontri …” Dio del cielo, concludere un affare, una compravendita, gestire le beghe tra quei bifolchi dei suoi mezzadri a confronto gli pareva una passeggiata alla marina!

“Anise … ecco … lei … in questo ultimo periodo, frequentandola, ho sentito crescere in me un notevole affetto nei suoi confronti … la sua dolcezza, nonché la bellezza senza pari che ogni volta che la vedo m’acceca, ecco, mi innamorano di lei, suscitandomi il desiderio di … di … poter vivere assieme e onorevolmente questo sentimento … Ecco … Contessina Howaitogōsuto non è che … che … vuole … accondiscenderebbe a divenire mia moglie?”

E Anise, che fino a quel momento aveva ascoltato in doveroso silenzio la strampalata confessione del suo fidanzato, cessando di rigirarsi i riccioli di quel biondo talmente pallido da sembrare argento, posò sull’anello i suoi distratti occhi carminio e, sbattendo le ciglia lunghissime e seriche, rispose arrossendo lievemente: “Mi perdoni, mon cher Butsuma, che mi stava dicendo? Temo di non aver sentito …”, dando prova di essere, similmente alla descrizione di Najtine quando la incontrò per la prima volta a Mokuton, come l’acqua, così trasparente e luminosa in superficie, ma oscura e impenetrabile in profondità.

Infatti, nonostante l’aria d’ingenua freschezza ed apparente estroversione che le adornava il volto quasi angelico, Anise si trincerò in una spessa corazza fatta di silenzio e solitudine, una piccola e inespugnabile fortezza interiore costruita durante il fidanzamento e inaugurata e in seguito esacerbata dal matrimonio. Salendo sulla carrozza che l’avrebbe condotta nella sua nuova dimora, la giovane era corsa dalla madre e, trattenendo lacrime di sdegno, le domandò in un filo di voce: “Adesso è contenta, ma mère?” e la Contessa, interpretando scioccamente quelle perle salate per contentezza, rispose giustamente di sì.

Del resto, prima che le generazioni successive di Senju si adoperassero a rendere il villaggio di Mokuton un posto vagamente mondano, finire lì corrispondeva alla morte civile, giacché la vita era scandita a suon di canti di calli, di Angelus, di Vespri e, in una scala temporale più larga, dalle stagioni. Il più acculturato era il parroco, pregno di latinorum, di fantasiose quanto apocalittiche interpretazioni della Bibbia e convinto fino al midollo che satana e una donna colta s’equiparassero, lo stesso "sant'uomo" che, molti anni dopo,  avrebbe minacciato di far scomunicare Tobirama, bollandolo come corruttore dei costumi e puttana di Babilonia, quando questi volle far andare a scuola anche le bambine e non solo i maschietti di Mokuton. Non v’era nessuno quindi con cui Anise si potesse confrontare intellettualmente o parlare le sette lingue che padroneggiava egregiamente, oppure qualcuno che potesse apprezzare i delicati virtuosismi del suo violino, tranne suo suocero, al quale la sposina faceva sinceramente pena, in quanto abbandonata dal marito proprio nel periodo cruciale del matrimonio, quelle prime settimane dove era fondamentale consolidare il rapporto di coppia. Ma che volete, all’epoca la moglie valeva quanto un vaso di porcellana cinese della dinastia Ming, un pezzo pregiato dell’arredamento, e poi quando i due si sposarono era il tempo della mietitura e Butsuma e suo padre dovevano controllare il loro amministratore e i mezzadri, acciocché non s’azzardassero ad intascare gli introiti o a rivendere al mercato nero i prodotti dei raccolti. Abbandonata a se stessa – e alla cognata, ch’era assai peggio -  Anise aveva tentato di scacciare la noia e i brutti pensieri organizzando prussianamente la sua giornata: passeggiata mattutina, ricamo, disegno, pittura, pranzo, violino, violino, violino …

“E’ una cosa patologica, esasperante!”, borbottava Tōka Senju, sottraendole un giorno il suo prezioso strumento e chiudendolo a chiave nel cassetto di un pesante comò in soffitta. E quando Anise le domandò, torcendosi le dita diafane, dove si trovasse il suo violino, lei le aveva circondato le spalle, dichiarando: “Lei è certamente molto brava, sorella, ma deve dedicarsi ad altro, non può suonare tutto il santo giorno, è cosa maniacale, ossessiva e non fa bene né a lei, né al bambino che verrà …”

“Ma io non sono incinta …”, obiettò debolmente la più giovane.

“A Dio piacendo, lo sarà presto e le troppe emozioni suscitate da questo strumento potrebbero essere davvero dannose per la creatura!”

Anise dovette cedere a questa pressante premura, annuendo sconfitta onde celare la smorfia d’enorme fastidio che le provocava fremiti d’ira lungo la schiena.

La sera stessa, ritornando dai suoi giri di controllo della vasta tenuta, Butsuma Senju, accorgendosi dell’assenza di sua moglie a cena, domandandone l’ubicazione, la ritrovò immersa nel buio della camera nuziale, sdraiata stancamente sul letto, vestita.

“Si sente bene?”

“Una lieve emicrania”, si giustificò lei, girandosi sul fianco. Volendo, avrebbe potuto confidare al marito i suoi crucci, il violino sotto sequestro e, non meno importante, la necessità di trovare una qualche forma di distrazione in quelle lande vaste e ultimo caposaldo del Medioevo. Volendo, avrebbe potuto colmare, aprendogli il suo cuore, quella distanza abissale che la separava dal marito. Ma non lo fece, gli preferì il silenzio ermetico e Butsuma altro non poté fare che augurale una pronta guarigione e riempirle il bicchiere di crème de menthe sul comodino.

“Che aveva sua moglie, figlio?”

“Un’emicrania, padre”, gli rispose l’uomo, riprendendo il suo posto a tavola.

“Un’emicrania”, ripeté sospirando l’anziano genitore, lanciando un’occhiata significativa alla figlia, che finse indifferenza.

A peggiorare la già di suo precaria situazione, s’aggiunse poi la mancata gravidanza di Anise, nel senso che, un anno dopo le nozze, ancora non dava segni di voler rimanere incinta. Il vecchio Duca, accorgendosi della crescente depressione della nuora per la mancata maternità, la consolava spiegandole che lei non ne aveva colpa se si era ritrovava un deficiente per marito che, al posto di correre dietro alle sottane delle contadine, si fosse deciso ad onorare in ogni senso la sua povera moglie. Quanto alla cognata, hé, il tabarro ha scelto questa particolare conversazione avvenuta tra le due donne per aiutarmi a capire la portata effettiva della pressione psicologica esercitata su Anise Senju.

Mokuton, distretto di Konohagakure, Regno di Hi. Fine luglio.

Il sole martellante del meriggio s’era un pochino ammansito, diminuendo il biancore accecante dei muri delle case di Mokuton. Pigre e sfiancate dalla calura insopportabile, le campane domenicali della chiesa di Santa Lucia annunciavano le due e trequarti del pomeriggio alla popolazione rinchiusa in casa, nella frescura delle stanze scure e attraversate dalle correnti d’aria generate dalle finestre aperte tutte allo stesso tempo. I più fortunati si consolavano sotto le frasche di un giardinetto interno oppure tamponandosi tempie e collo con panni inumiditi di acqua fredda. Altrimenti, spogliatisi direttamente di ogni abito tranne che per l’intimo – sempre che l’avessero avuto -  si distendevano sul letto purtroppo umido e appiccicaticcio, dormicchiando un poco fintanto che le ore più terribili non si sarebbero placate, in attesa delle sospirate cinque – sei del pomeriggio. Uomini fortunati: non in tutte le tenute i mezzadri godevano del lusso di poltrire la domenica. Ancora oggi mi domando cosa avesse potuto spingere il Duca Butsuma - o suo padre, a seconda di chi aveva elargito per primo questa concessione - ad essere così generoso. Molto probabilmente, doveva aver avuto le scatole piene di spendere quattrini per le bare di semplice pino per i contadini schiattati per l'ennesimo e fatale colpo di calore.

Intanto che i fittavoli onoravano a loro modo il giorno del Signore, nel Castello di Mori, la residenza del padrone che sovrastava arcigna e severa il villaggio di Mokuton, si scatenava l’uragano Kanako (Kanako era la fantesca) che irruppe nella stanza della sua padrona, facendo sobbalzare violentemente quest’ultima, tanto che il libro ch’era in procinto di leggere le cadde dalle belle mani.

“Madame! Sta arrivando, è qui! E ha una faccia da spaventare un intero branco di chupacabras!”, avvertì la ragazza praticamente la sua coetanea, i cui occhi carminio si ingrandirono per la sorpresa e il fastidio, nel frattempo che scendeva disordinatamente dal letto, ficcando sotto il materasso il libro incriminato. Ultimo tocco, si lisciò la gonna sgualcita dalla posizione scomposta e affatto signorile, sistemando i riccioli alle tempie previamente portati dietro le orecchie. Dopodiché pigliò lesta il libro delle preghiere e il rosario regalatole dallo zio vescovo, sedendosi vicino alla finestra. Fu così che, entrando da perfetta estranea nella camera da letto, Tōka Senju trovò la cognata intenta a pregare, mentre la sua fantesca ricamava discreta al suo fianco, l’immagine stessa del mutismo più assoluto. Accortasi “casualmente” dell’entrata dell’austera matrona, la ragazza si levò sorpresa in piedi, inchinandosi rispettosamente e riponendo il libro sul tavolino accanto.

“Buon pomeriggio, sorella”, la salutò deferente, avvicinandosi alla donna più anziana e permettendo che ella le baciasse la fronte a mo’ di benedizione. “Ha riposato bene?”

“Abbastanza, mia cara Anise”, concesse l’altra. “L’ ho disturbata?”, le domandò, accennando con un breve cenno del capo al libro di preghiere.

La giovane scosse il capo dai ricci di quel biondo pallido, quasi argento. “No, sorella. Stavo terminando.”

“Me ne compiaccio: dovevo giusto parlarle”, disse Tōka Senju, prendendo posto sulla sedia previamente occupata dalla cognata, la quale fece segno a Kanako di portagliene un’altra. Silenziosa, la fantesca obbedì rapidissima. “Prima però, gradirei che congedaste la vostra … dama”, pronunciò incerta la donna l’ultima parola. “E’ una faccenda privata …”

 L’indesiderata in questione non si mosse di un sol centimetro, rimanendo ben ancorata vicino alla padroncina, domandole tramite una perplessa occhiata se obbedire o meno all’ordine della cognata. Sorridendole a fior di labbra, Anise la rassicurò con lo sguardo. “Sorella, conosco la mia Kanako da quando eravamo bambine e posso garantirle che sarà più silenziosa di una tomba! Le sue orecchie sono le mie, così come il suo silenzio …”

Tōka Senju strinse gli occhi: per quanto la ragazza avesse usato un tono mesto e affatto arrogante, lei percepiva la sfida dietro quelle parole dall’apparenza concilianti. Intimamente maledì il giorno in cui s’era messa in testa di promuovere questo matrimonio: più trascorreva il tempo, meno docile e sottomessa stava diventando Anise, imbastendole una resistenza passiva. Diceva: sì, sorella; certo, sorella; faremo così; ha perfettamente ragione, sorella; molto carino; ancora crème de cacao?  E poi faceva l’incontrario. Ma la matrona, sin dal primo giorno in cui l’aveva accolta due anni addietro come cognata, si era ben ripromessa di ricordare a quell’allora diciottenne che si credeva la regina di Saba quale fosse il suo ruolo nella loro famiglia.

“Ho ricevuto da Konohagakure una lettera, nella quale mi si annuncia che vostra sorella Arisa ha dato alla luce il suo terzo figlio, un maschietto sano e forte”, rivelò la donna ad Anise non senza una qualche punta di malignità, molto probabilmente derivata da una cocente delusione. Nondimeno, non si tolse la soddisfazione di assistere alla presa convulsa della mano della cognata sul bracciolo della sedia, malgrado l’espressione di granitica indifferenza sul viso ancora infantile della ragazza, malgrado i suoi vent’anni.

“Le  mie felicitazioni per la cara sorella”, affermò ella incolore, distogliendo altrove lo sguardo, affatto immune da quella ch’ella sapeva essere una frecciatina. Kanako, percependo invece il disagio della padroncina,  abbassò il suo, fingendo di concentrarsi sul ricamo.

“Sì, questa notizia mi ha riempito di gioia e soddisfazione”, sospirò solenne Tōka Senju. “Sentimenti, ch’amerei assai provare anche qui. Piuttosto, dove si trova mio fratello? L’ho cercato dappertutto, senza risultati!”

Incominciando a giocherellare con il rosario, Anise prese un lungo respiro, inumidendosi le labbra tumide. “Credo sia uscito”, dichiarò dopo un penoso silenzio. “Dove si sia recato, tuttavia, lo ignoro. Non parla molto con me” e fu il turno della ragazza di sputare un malcelato veleno. In parte, a onor del vero, divideva metà della colpa, poiché ella non gli rivolgeva la parola, se non direttamente interrogata.

Le vene del collo di Tōka Senju si gonfiarono impercettibilmente. “Noto che lei non trascorre molto tempo con lui e la sua completa ignoranza circa le sue abitudini olezzano molto di totale disinteresse nei confronti di chi lei ha giurato, davanti a Dio e agli uomini, di amare e onorare con muliebre discrezione e modestia fin che morte non vi separi!”

“E appunto perché il mio sesso mi impone di essere discreta e modesta, sorella mia, che non voglio impormi in maniera oppressiva e invadente nella vita di mio marito, come solgono fare le donne del popolo”, ribatté soavemente Anise, le ciglia sempre abbassate, che pareva l’umiltà incarnata. 

“Nondimeno, mia cara, sono trascorsi due anni dal vostro matrimonio e sembrate ancora due estranei”, argomentò implacabile la donna. Silenzio. “Anise, non vorrei addentrarmi su certi argomenti privati, ma considerate le circostanze, ho paura di non avere altra scelta: mio fratello frequenta regolarmente il vostro letto?”

Gli occhi carminio della ragazza si dilatarono similmente a quelli di un lemure, mentre il colorito svaniva dalla pelle alabastrina. Dopodiché un feroce rossore le tinse le gote ed ella riprese ad attorcigliare nervosamente il rosario tra le dita. “Tre o quattro volte al mese, sorella …”, mormorò infine in maniera così flebile, che fu costretta a ripeterlo una seconda volta, acciocché la cognata intuisse la sua risposta, schioccando in disapprovazione le labbra.

“Come immaginavo: troppo poco!”, borbottò tra sé e sé Tōka Senju, ignorando come le sue parole avessero contribuito all’ulteriore afflosciamento di Anise sulla sedia per il disagio provocatole da tale conversazione.

Della vita intima di una coppia le era stato insegnato poco niente; al convento simili nozioni non si apprendevano, non almeno direttamente dalle suore. Sapeva soltanto, come spiegatole vagamente da sua madre la Contessa di Kureha, che la passione non doveva concernerla: a quella badavano les femmes de plaisir. Il suo ruolo si limitava a compiere in silenzio l’atto, evitando possibilmente di guardare il marito negli occhi. Dopodiché, doveva pregare la Vergine Santissima affinché da quell’unione venisse concepito un bambino. Docilmente, Anise aveva eseguito alla lettera i dettami della madre, della badessa e del suo padre spirituale: alla sua prima notte di nozze si era comportata come la vergine sacrificale qual era, giungendo alla conclusione quanto l’intimità tra uomo e donna fosse un qualcosa di assolutamente schifoso e si era anche stupita che sua madre e suo padre, del quale serbava solo vaghi e teneri ricordi, si fossero a loro tempo dilettati in simili atti. Nondimeno, non gliene voleva a suo marito se, talvolta, bussava alla sua porta per chiederle di trascorrere la notte assieme (all’epoca, chi si poteva permettere più di un letto, dormiva spesso e volentieri separato dal coniuge) e, per quanto non trovasse tali incontri gradevoli, si riprometteva di non negarli a Butsuma, contrariandolo. “So, figlia mia, come certe incombenze matrimoniali possano risultare imbarazzanti e spiacevoli”, le aveva ripetuto sovente la madre. “Ma si adegui e non odi suo marito per questo; altrimenti, concepirà figli deformi e malvagi.” Di conseguenza, fedele al suo giuramento nuziale, Anise si era sforzata, Iddio le era testimone, di comportarsi da degna sposa e di “soddisfare” il consorte in ogni suo desiderio. Non che Butsuma le mancasse di rispetto, al contrario, era la gentilezza fatta persona (se si era alzato col piede giusto alla mattina). Eppure, dopo due anni di matrimonio, la ragazza ancora non era rimasta incinta, né s’era avvicinata di più allo sposo: all’inizio, lei aveva creduto che l’essersi ritrovato maritato ad una diciottenne vissuta metà della sua vita in convento lo avesse posto in imbarazzo – troppo vecchia?, troppo bigotta e ignorante? -  o che magari gli avesse dato fastidio. Ma ora, a vent’anni suonati, era una giovane donna, forse non molto formosa né di una bellezza chissà quanto esotica o ammaliante, per quanto lo stesso Maljunulo Sinjoro, il suocero,  affermasse sincero quanto il radioso sorriso tutto fossette di Anise, sorriso in seguito ereditato dal suo primogenito Hashirama, avesse l’occulto potere di sconvolgere perfino un santo, inducendolo in ogni sorta di tentazione.

“Sorella … io … io sono mortificata …”, proferì Anise rossa in volto le parole, che lei sapeva che sua cognata desiderava ascoltare: ovvio, no? la colpa doveva per forza essere sua. “Lei conosce bene come non desideri altro che compiacere suo fratello sia in qualità di sposa che di futura madre dei suoi figli …”, le confessò contrita. Quand’ecco, che un’idea affatto balzana le rischiarò la mente, così da poter rigirare a proprio favore una conversazione nata con lo solo scopo di umiliarla. “Ecco …”, esordì la ragazza, esitante, tormentando il suo rosario. “Mi domandavo, se … se non fosse il caso di … di …”

“Parla, sorella!”, la incalzò la cognata, tamburellando impaziente le dita sul bracciolo.

“Ecco … temo sia il caldo, sorella!”, si sbottonò infine Anise. “E in parte la malinconia! Mi è stato riferito dal medico, che la malinconia nuoce agli umori del corpo, impedendo un normale andamento delle mie funzioni femminili”, mentì ella spudoratamente, sperando di suonare convincente. “Se magari potessi ritornare a casa per qualche tempo! La serenità dei luoghi della mia infanzia mi gioverebbe, senza parlare che rivedrei la mia famiglia, la quale ammetto che mi manchi un pochino …” Le mancava orribilmente, a onor del vero. Come le mancavano le passeggiate per il boulevard fiorito di Città Giardino dai marciapiedi in pietra d’Istria assieme alle sue sorelle Akane e Arisa.

Di nuovo, la fronte di Tōka Senju si aggrottò, presa di contropiede da quella proposta alle sue raffinate orecchie indecente. “A Konohagakure, mia cara? È questo quello che vorreste dire? Non è con l’ulteriore lontananza, che lei risolverà la sua mancata maternità!”, le ricordò perfida.

“Ma almeno …!”

“No, Anise. È fuori questione! Ora lei è una donna sposata e come tale detiene diritti come doveri, molti doveri. E abbandonare la sua nuova e unica casa non rientra tra di essi!”, ribatté implacabile la donna, sorda ad ogni compromesso. E così la fraschetta sperava di gabbarla, così da permetterle di fare i propri comodi? Figurarsi! Essere la cocca di suo padre non l’avrebbe di certo salvata dal giusto decoro, che quella debole di sua madre e fannullone delle suore avevano mancato di impartirle!

“Però …!”

Prima che la ragazza potesse terminare il suo discorso, Tōka Senju si alzò, segno che la conversazione era terminata senza possibilità di appello. “E’ la mia ultima parola, Anise. Lo faccio per il suo bene: ogni giorno mi appare sempre più pallida, dubito che le gioverebbe rientrare in città, specie con questa canicola. Ma ne riparleremo, d’accordo? Buon pomeriggio”, si congedò lapidaria, sgonnellandosene via dalla stanza accompagnata da Kanako e lasciando la cognata muta, umiliata e offesa a fissare il vuoto dinanzi a sé, la bocca a stento trattenuta dallo spalancarsi, per quanto il labbro inferiore le tremasse violentemente, segno che o stava per piangere o imprecare in maniera più grossolana di un marinaio.

Ma Anise era una vera signora, nelle cui vene scorreva il sangue più antico e nobile del Regno di Hi; di conseguenza, si accasciò sul letto, tamponandosi il naso col fazzoletto, da cui si stava manifestando una piccola epistassi, disturbo che avveniva sempre quando la giovane si trovava in situazioni particolarmente stressanti.

“Sta bene, Madame?”, inquisì preoccupata Kanako, non garbandole l’insolito grigiore nel viso della padroncina, che si limitò, senza voltarsi, a congedarla piuttosto scocciata tramite un nervoso svolazzo della mano.

Liberatasi della presenza della fantesca, la ragazza tentò d’alzarsi, ma il mondo si cosparse di chiazze giallo-nerastre e prese a girare attorno a lei e Anise, cercando disperatamente appiglio, rovesciò il tavolino, provocando così la caduta e rottura della caraffa d’acqua lì previamente appoggiata. Una cameriera che passava di lì, sobbalzando impaurita, la fissò stralunata, neanche si trovasse dinanzi ad una bestia rara. Scossasi però dal suo incantamento, la fantesca acchiappò Anise in tempo e la condusse sul letto, sistemandole i cuscini e costringendo il sangue a circolare pel verso giusto. “Mon Dieu! Mon Dieu! Non mi sono mai sentita così umiliata in vita mia! Tutta colpa di quella strega! Mi odia! Mi sbeffeggia! Mi rende la vita amara, un inferno! Perché mia madre ha acconsentito alle nozze? Mon Dieu, che ho fatto di male per sposarmi?!”, prese a mugolare la giovane una volta che il mondo ridivenne più stabile, affondando il viso nel materasso e lasciandosi andare a stizziti singhiozzi. Sedendosi accanto a lei, la fantesca dai capelli color melanzana le accarezzò la schiena, tentando di consolarla.

“Perché non chiede al Maljunulo Sinjoro il permesso di partire, sinjora Duchessa?”, interruppe l’adolescente il flusso dei suoi pensieri. Udendo una voce ancora da bambina, Anise alzò il capo, asciugandosi le lacrime di rabbia.  E stranamente, la collera era scemata tanto velocemente, quanto s’era manifestata.  “Lui l’ha molto in simpatia! Vedrà che a lei non negherà nulla!”, fece ottimista la fantesca, sorridendo fiduciosa alla giovane donna.

Un timido sorriso increspò le labbra tumide di Anise, nel frattempo che lei si alzava, rassettandosi la gonna nuovamente sgualcita e accettando che la mora finisse di levarle via ogni traccia di sangue dal naso. Guardandola meglio, si ricordò improvvisamente della ragazzina dinanzi a lei: l’aveva scorta al funerale di tale Natsumi Uchiha e, se non errava, era la cameriera personale di sua cognata. “Dovrò prima avvertire mia madre … Tu sei …  sei la Kiyora, giusto? La pupilla della Fata. Grazie per il tuo consiglio.”

“E di che. Le porto carta, penna e calamaio?”

Anise annuì in silenzio, progettando mentalmente il discorso onde persuadere il suocero a concederle di recarsi a Konohagakure. Ah sì, e la formula più rassicurante per annunciare il suo prossimo arrivo alla sua famiglia: ai loro occhi doveva apparire una visita normale, non una fuga disperata da un inferno domestico nel quale la giovane si sentiva inesorabilmente intrappolata. “Si ricordi, ma fille, lei non ci deve creare alcun scandalo, intesi? Mai!” La ragazza si massaggiò le tempie doloranti, intanto che i famigliari sintomi della sua emicrania prendevano a manifestarsi: per un istante, giudicò che tutto sarebbe più facile se lei si fosse ritrovata da un giorno all’altro vedova, libera, senza dover rispondere di niente a nessuno.

Sarebbe invero stato bello.

Come sarebbe stato bello poter continuare a coltivare la conoscenza di Kiyora – la monella, per rincuorarla le raccontava, deformandole in scenette gustosamente grottesche, ogni sorta di aneddoto sulla cognata  o l’impressioni che tutto il personale aveva di lei - ma ancora una volta les autres si misero in mezzo, scacciandola di casa.

“Perché? Che aveva combinato di così riprovevole da essere cacciata così, su due piedi, in pieno giorno come una ladra?”, aveva voluto immediatamente spiegazioni dalla cognata, irrompendo nel suo boudoir, una delle tante sancta sanctorum dove le era proibito entrare, alla faccia ch’era la padrona di casa. Tōka Senju, non attendendosi quell’atteggiamento così bellicoso da parte dell’usuale remissiva e malinconica cognata, sobbalzò per la sorpresa, ricomponendosi goffamente e spiegandole assai scocciata:

“Quella sgualdrina mi ha tenuto nascosto fino ad adesso ch’era incinta! Ha capito, Anise? Incinta di cinque mesi! Alla sua età! E senza la benedizione della Chiesa!”, perché figurarsi se tali sciagurate si sposavano! Lei e i suoi simili vivevano peggio dei selvaggi, altroché!

La giovane donna dinanzi a lei non parve affatto soddisfatta di tale replica. “E al piccino non ha pensato? Come lo manterrà?”, appoggiò inconsciamente Anise la mano sul suo ventre gonfio, lì dove, dopo tre anni di matrimonio sterile, finalmente cresceva quel bambino tanto desiderato e che per averlo suo madre s’era sottoposta ad ogni genere di cura, pellegrinaggio ed esorcismo.

“Ci penserà la Strega, sua madre!”

E allora, non potendone più, Anise gridò. Gridò così forte che le colò sangue dal naso e schiumò la bocca di saliva e stramazzò a terra, in preda alle convulsioni. Un simile ululato vetricida sarebbe stato emulato – e superato – solamente dal suo secondogenito, Tobirama, per far valere le sue ragioni in una disputa assai impari. (No, non quella col parroco che lo voleva far scomunicare). In ogni modo, terrorizzati e mezzi assordati da questo urlo demoniaco, si chiamò d’urgenza proprio Najtine, poiché il medico non avrebbe fatto a tempo a raggiungere il castello e perché, tra la servitù, la curandera era considerata una presenza molto più valida.

“Come sta il bambino?”, la interrogarono dopo ore che si era chiusa con la gestante.

“Come può stare uno che è stato tanto così dalla morte”, replicò la fata, stringendosi il tabarro che frusciò avido d’informazioni per il lussuoso parquet. Scosse il capo, le sue mani che ancora potevano sentire l'affanno del bimbo dietro la sottile barriera di liquido amniotico e pelle. “La Sinjora dev’essere confortata e per confortata dico che il sinjoro marito trascorra del tempo con lei. Restituitele inoltre il violino, al piccino piacerà, addolcendo un poco la depressione con la quale sua madre l’ha nutrito.”

“Mi dispiace avervi causato simili grattacapi”, si scusò invece Anise, quando venne visitata dal marito e i parenti acquisiti. “E’ che talvolta mi sento così inutile e voi siete sempre così gentili e mi sopportate …”, sicché quando uno sta male e ha, in aggiunta, rischiato d’abortire, non sa proprio più quello che dice.

“Non si preoccupi, deve pensare soltanto alla sua salute e al bambino. E adesso che nascerà, lei sarà sul serio una di noi.”

Anise, in tutta sincerità, non trovò molta consolazione in quelle parole, tormentandosi invece per il destino di Kiyora e della sua creatura.

 

 

 

 

 

To be continued …

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Capitolo 3
*** Piogge di Marzo, Piogge d'Ottobre, Piogge di Vita ***


B'jour!

Rieccoci qui col nuovo capitolo!

Volevo specificare, così da non creare confusione durate la lettura della storia, che v'è una gerarchia tra gli appellativi di cortesia. Li traduco in inglese per rendere meglio l'idea:

Sinjoro, Sinjora, Sinjorino, Sinjorina = Lord, Lady; travolta padrone/a, padroncino, padroncina (nel vero senso della parola)

Viro, Virina, Knabina = Mr., Mrs., Miss

Majstro = Master (inteso come mastro / padron)

In questo capitolo ci sarà una scena, come dire, dai contenuti delicati: mi giustifico prima dicendo che l'ho molto edulcorata, niente di eccessivamente descrittivo,  e secondo, hé, che quelle cose succedevano moltissimo nell'Ottocento.

Quanto alla filastrocca che comparirà  nel corso del capitolo, non mi ricordo il nome dell'autore, comunque non  è mia, precisiamo!

Un sentito ringraziamento ai miei lettori e recensori, ad Ame Tsuki in particolare.

Vi auguro buona lettura,

 

 

H.

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Capitolo Secondo: Piogge di Marzo, Piogge d'Ottobre, Piogge di Vita

 

 

 

Con ancora l’eco di un bombardamento non distante dal nostro rifugio, rileggo attentamente quanto scritto e, correggendo di qua e di là mi rendo conto quanto sia difficile star dietro alla fiumana di nozioni che il tabarro mi vuole dare: sul serio, a volte mi irrita questo suo andare avanti e indietro nel tempo, infischiandosene dell’assoluta incomprensione che genera in chi sente questa storia per la prima volta. Sicché, tentando di dare un ordine riguardo le circostanze della nascita di mio nonno e dello zio del mio Benefattore (e mio cugino primo), noto di aver omesso alcuni punti, pur di favorire una sorta di parallelismo tra le vite delle loro madri: se non lo si era compreso, quando Anise Senju assaporava la bellezza di una deprimente solitudine matrimoniale, Kiyora Yōsei incontrava la sua madre adottiva e la sua futura famiglia, il tutto facendo il suo bizzarro ingresso a Mokuton, distretto di Konohagakure, Regno di Hi.  

E ancora, cos’è Mokuton, non l’ho spiegato, se non accennandolo in brevi e imprecise descrizioni. Mi si perdonerà se spendo qualche parolina in suo favore?

Dunque.

Quando venni al mondo, Mokuton significava due cose: il paese appellato Mokuton e le terre sulle quali sorgeva, poiché, durante il Medioevo, esso era stato un feudo e precisamente del nobilissimo quanto inesorabilmente estinto casato dei Duchi Rikudo, che vantava parentele perfino con la stessa famiglia reale e dalla quale i Senju, giusto per impedire che qualche spiritosone li tacciasse di arricchiti arrivisti lanzichenecchi mercenari figli di donna dalla poca virtù, sostenevano a viva voce di discendere, seppur per via femminile. Purtroppo per i maligni, i fatti storici li danno ragione: l’ultima Rikudo, tale Tsuki, aveva effettivamente sposato un Senju, il cui nome ora mi sfugge, un sedicenne figlio cadetto senza né arte né parte che per sua (s)fortuna divenne l’oggetto dei desideri di Sua Grazia la Duchessa Tsuki, un’attempata vedova, senza figli, dalla formidabile età di trentacinque anni. Niente politically correct: a quell’epoca a trentacinque anni si era vecchi e la Duchessa Tsuki Rikudo oltre che vecchia era pure di una bruttezza portentosa e al povero Senju vennero i sudori freddi quando ella gli palesò le sue ben poco caste intenzioni. Pur chiedendosi in che modo avesse mancato di rispetto a Dio, alla Madonna, San Giorgio e San Michele per essersi meritato tale orripilante sciagura bipede, il suo buonsenso di giovanotto dalle belle speranze gli suggerì, anticipando i tempi, che Mokuton, il feudo che la Rikudo portava in dote, valeva bene una Messa e nel suo caso, chiudere gli occhi e soddisfare le brame senili di Tsuki, la quale era, tra le altre cose, la cugina prima dell’allora Re di Hi, Soma IV, ergo una donna da non contrariare e Dio ci salvi dall’ira vendicativa di una jolie femme respinta. To make a long story short, i due si sposarono e Tsuki Rikudo in Senju rimase perfino incinta di ben nove figli, per poi schiattare al decimo. Nacque così il casato dei Senju, duchi e signori di Mokuton.  In una cappella sulla navata laterale di destra nella chiesa di Santa Lucia si può (se sopravvive ai bombardamenti) ammirare il monumento funebre di questa coppia stranamente assortita, entrambi scolpiti dormienti e oranti e morti sul coperchio di marmo del sarcofago, lui con la sua bella armatura e la spada e lo scudo, lei coi suoi lussuosi abiti alla moda e un'acconciatura scomodissima, cagnolino ai piedi compreso. Da piccolo trovavo un particolare gusto ad arrampicarmi sulle sbarre di ferro lavorato che circondavano la tomba, volevo vedere bene il volto dell'illustre fondatore e della sua nobilissima moglie, cosa non facile per la mia bassezza di poppante, e se prima della guerra mi sono interessato a storia dell'arte, lo devo proprio a questo gioiellino di scultura marmorea.

"Per essere morto e pronto per il paradiso, il tuo antenato non ha un'aria molto felice!", rimarcavo spesso, quando il Benefattore mi staccava dalla recinzione, riportandomi coi piedi per terra. "Come mai?"

"Hé, caro mio", sospirava ironico lui "immagina di essere sepolto assieme alla persona che in vita hai detestato con tutto te stesso; dubito che questo ti possa mai rendere felice, specie, se te la ritrovi pure nell'Aldilà."

Guerre tra feudi, matrimoni, appropriazioni indebite, eredità, scambi e acquisti ingrassarono i possedimenti dei Senju, portando Mokuton, dalla foce paludosa del fiume Naka che favoriva un commercio diretto sia col Principato di Uzushiogakure sia con la Repubblica Marinara di Kirigakure, a lambire perfino i confini del  Granducato di Yukagakure. Il feudo venne citato, tra i vari capitoli della tumultuosa storia di Hi, per aver subìto una devastante razzia alla fine del Cinquecento da parte dei mercenari dell’Impero dei Quattro Kaze, da qui l’odio perpetuo, fino a sfociare nella follia dei miei tempi, nei confronti dei sunagacini, i loro abitanti. Meglio un morto in casa, che uno di Sunagakure alla porta, sosteneva la gente di Hi (e soprattutto Mokuton) da secoli. E i sunagacini: Che Dio ti possa esaudire! Poco o niente si sa dell’originario aspetto di Mokuton (paese) prima del saccheggio; dalle litografie si suppone essere stato un fiorente borgo di confine, arricchitosi spudoratamente coi dazi della dogana. Ad unica testimonianza delle glorie medievali dei Senju rimase la chiesa di Santa Lucia e la statua quattrocentesca dell’omonima martire e di S. Giuseppe protettore dei mariti, dei falegnami e della famiglia Senju. Tutto, perfino l’imponente residenza padronale, il Castello di Mori, venne ricostruito in seguito a quel secolo horribilis, in cui le alte e possenti mura del Medioevo crollarono dinanzi alla forza devastatrice del futuro, rappresentato dalla nuova arma bellica, il cannone.

Il periodo di massima espansione s’ebbe con il matrimonio tra Butsuma Senju e Anise Howaitogōsuto, giacché la fanciulla, oltre che a portargli in dote 5 milioni di ryo, ereditava un terzo della contea di Kureha (divisa tra le tre sorelle, data la mancanza di eredi maschi, cosa inaudita in un paese dove ancora s'applicava la legge del maggiorascato) che permise a Mokuton, in un ultimo dolorosissimo stretching, di sfiorare i confini con la Città Libera di Otogakure, la cui annessione forzata al Regno di Hi avrebbe creato, in futuro, notevoli tensioni col Regno di Kaminari, secolare protettore di Otogakure. Pertanto, visti e considerati i notevoli possedimenti dei Senju, un detto molto popolare ai tempi dell’infanzia di mio nonno era che il casato avesse “più terre che anima”, ma che il sottoscritto, analizzando spassionatamente i fatti, corregge in “più terre che figli”. Infatti, quando Anise partorì il suo primogenito, l’orgogliosa famiglia s’era ridotta a Sua Grazia il Maljunulo Sinjoro e i suoi due figli, di cui uno, Tōka, manco si sposò per la disperazione dell’anziano Duca, che l'avrebbe voluta maritata  e fuori di casa. Malgrado i quattro maschi donatigli dalla nuora (e che uno solo, però, avrebbe conosciuto di persona, mentre  un altro solo durante la sua gestazione) il destino aveva stabilito che solo il mio Benefattore avrebbe continuato a portare il cognome dei Senju, mentre mio nipote Menma si dovrà accontentare di un altro, meno altisonante, un cognome impostosi solo di recente e tramite i borghesissimi soldi di mio padre e di mio nonno. Talvolta, quando i bombardamenti scemano e l’illusione di sopravvivere a questo mattatoio ritorna, mio cugino ed io ci chiediamo se sarà possibile conferirgli il titolo di marchese appartenuto a suo nonno paterno, anche se la cosa oramai appare totalmente improbabile visto che la monarchia non esiste de iure da anni e fra poco non esisterà neppure de facto.

“Ma le terre continueranno ad essere nostre”, ribatte stoicamente testardo mio cugino, “Fintanto che uno della mia famiglia rimarrà in piedi, mai, mai Mokuton cambierà padrone, mai!”

Gli credo, troverà il modo per evitare l'espropriazione: i Senju non hanno posseduto per più di quattrocento anni quelle terre senza averle difese colle unghie e i denti, anche a costo di macchiarsi di subdola illegalità, allo scopo di consegnarle con la ieratica gravità di un voto alle generazioni successive, di padre in figlio, fino a quella del Benefattore, il ventisettesimo Duca di Mokuton.

Interrompendo le mie inutili divagazioni – il tabarro vuole seguitare coi suoi racconti – concluderò dicendo che Mokuton, il paese, all’epoca di mio nonno non assomigliava minimamente al grazioso, quasi idilliaco, paese rurale (e sornionamente di villeggiatura) in cui era stato trasformato dallo zio e il padre di mio cugino a suon di coliche al fegato, notti insonni e pugni in tutti gli uffici di Konohagakure. Ah sì, e di millantate scomuniche. La piazza del mercato lastricata dai sanpietrini e con al centro la capiente fontana della guardiana delle oche zampillante d’acqua freschissima e che nei dì di festa veniva decorata da nastri e coccarde colorate; il municipio in stile neogotico; la scuola elementare dove brillai negli studi e al contempo venni bacchettato per la mia attitudine contestatrice; i negozi dalle grandi vetrate multicolori; la locanda di Mamma Ichiraku, che alle cinque serviva una torta alle ciliegie e cannella da svenimento e un caffè che pareva caramello da quanto era dolce, mentre suo figlio si specializzava più nei piatti salati di mezzogiorno e della cena; la boutique della sarta, che per volere della Duchessa doveva sempre aggiornare a seconda dell’ultima moda;  la dolciaria e pasticceria e i waffles e i bignè e le frittelle mattutine; la farmacia dai mille profumi, un’altalenarsi olfattivo tra disinfettante e pungenti erbe medicinali; le strade selciate e all’occasione interrotte da piccoli canaletti sovrastati da graziosi ponticelli decorati da vasi di fiori; i giardini sempre odorosi delle case tradizionali; i fiori ai loro balconi e l’ombra degli alberi secolari …  tutti posti che caratterizzarono la mia infanzia, ora, purtroppo in balìa della guerra. No, quando Anise e Kiyora partorirono i loro marmocchi, Mokuton appariva un pantano, un vero e proprio villaggio da ultima frontiera – mancava solo la scritta sulla cartina “Hic sunt leones” – con la bella quanto inutilmente spaziosa chiesa per le sue cinquanta anime, la residenza padronale sulla collinetta con un signor giardino romantico e i resti delle antiche mura e torri medievali, un forno comune, mulini a vento e ad acqua, un droghiere e il camposanto. E basta. Poi i campi, di ogni genere e coltura, ma campi. E basta. Il fiume Naka. La foresta. La siluette delle montagne visibili solo nei giorni chiari senza umidità. E basta. Nella torre campanaria, tra un’isterica sghignazzata e l’altra, il nonno mi raccontò che la prima stazione ferroviaria, che non si dovesse raggiungere in mezza giornata di carro, arrivò durante la sua prima adolescenza e solo su insistenza della Duchessa Anise, la quale s’era stufata di dover mangiar polvere ogni volta che da Konohagakure si trasferivano a Mokuton per sfuggire alla canicola estiva e controllare l’andamento dei raccolti.

Per il resto, il nulla.

 

***

 

 

Ad un certo punto della sua inaspettata vedovanza, Tajima Uchiha realizzò che o si trovava una seconda moglie o che sarebbe stato ben presto impiccato per infanticidio. L’ultimo marameo di Natsumi, morire di parto, lo aveva sinceramente spiazzato. Gli uomini non sono adatti a crescere i loro cuccioli, non almeno nei loro primi giorni di vita: li trattano alla stregua dei cagnolini, due o tre pat-pat sulla testa, qualche mezzora di gioco e poi li restituiscono sporchi e strillanti e affamati alle rispettive mogli, affinché se ne occupino. La loro fragilità ed eccessiva dipendenza li confondono, mettendoli a disagio. E Tajima Uchiha di simili bestiole ne aveva ben tre: Setsuna, di cinque anni, Saya di tre e Haruka, la neonata.

Da dove incominciare?

Sua suocera, tanto per cambiare, lo odiava, ritenendolo il principale responsabile della morte della sua figliola, perché Natsumi era sempre stata più forte di un bue e quindi era impossibile che una tale sciocchezza come il parto l’avesse costretta a cambiare di domicilio. Sua madre, Avina (= nonna) Uchiha, doveva badare agli altri figli e nipoti e pronipoti e non aveva né il tempo né la voglia di ammazzarsi per questi tre, figli inoltre di una donna che non aveva mai digerito. Una vicina generosa e dalle poppe piene di latte – tanto, di puerpere a Mokuton non mancavano mai – Tajima la trovò, soddisfacendo perlomeno le esigenze mangerecce della perennemente affamata terzogenita. Ma i figli maggiori? La casa? Quello rimaneva un territorio assolutamente inesplorato per l’Uchiha, che sognava di possedere sul serio cento occhi per star dietro a quelle pesti bubboniche di Setsuna e Saya, ch’erano tutto tranne che disciplinati - via la gatta-madre, i topi-pargoli ballano.

Finché un giorno non si presentò, di nuovo, alla porta la tredicenne Kiyora “Kraĉisina”, raccontandogli di una certa promessa fatta alla morta, ovvero che si sarebbe presa cura dei suoi piccini, della casa ed eventualmente del marito. Tajima Uchiha non se lo fece ripetere due volte, anzi, non le permise proprio di finire la frase che Kiyora venne ufficialmente arruolata e di fatti i risultati non tardarono a mostrarsi: i due monelli, ricevuto ciascuno una sonora rapsodia di sculacciate, scoprirono ben presto le gioie dell’obbedienza.

“Ma come hai fatto? Gliene ho date, credimi, e si comportavano peggio di prima!”

“Perché lei si trattiene, Majstro Uchiha”, gli spiegò pratica la ragazzina, massaggiandosi le mani indolenzite. “I bambini sono delle canaglie, avvertono che lei non ha intenzione di menarli troppo forte. E ne approfittano per fare i loro porci comodi. Io, al contrario, non ho remore a scuoiarli del loro deretano se necessario e da me  non si salvano!”

Sculaccioni a parte, la giovinetta, istruita man mano da Najtine, s’applicò con seria dedizione al suo fioretto e ben presto la casa ritornò ad essere ordinata, pulita, col fuoco sempre acceso e la cena pronta in tavola all’ora giusta. Setsuna e Saya, pur augurandole uno scagotto fulminante tra un Padrenostro e un’Avemaria alla sera prima di addormentarsi, le obbedivano loro malgrado, un po’ perché sentivano comunque la necessità di una rassicurante figura materna; un po’ perché Kiyora, se contrariata, brandiva la famigerata Madama Ferula, un’inflessibile canna di bambù che aveva martoriato e che martoriò in seguito il fondoschiena di generazioni di Uchiha, perfino del sottoscritto quando, ancora in vita la bisnonna, mi ostinavo nei miei puerili capricci. Il condannato veniva fatto piegare su di un tavolo e, calatigli i calzoni e talvolta le stesse mutande o se femmina sollevatole le sottane, doveva contare ad alta voce la dozzina più dolorosa della sua vita.

Kiyora però aveva detto il vero: i bambini Uchiha erano effettivamente dei piccoli delinquenti, avevano fiutato gli indizi nell’aria prima ancora del loro ignaro padre e di fatti la loro iniziale avversione nei confronti della mora derivava dalla paura matta che si realizzasse uno scenario, per loro, apocalittico: le seconde nozze. Matrigna. Vi dice nulla Biancaneve?

“La figlia della Strega sposerà nostro padre, avranno altri figli, dopodiché ci abbandoneranno nella foresta come Pollicino e Hansel e Gretel!”, confidò Setsuna a sua sorella sotto le coperte del lettone, una volta accertatosi che Tajima stesse dormendo profondamente. “Dobbiamo cacciare via la figlia della Sorcxistinon, prima che sia troppo tardi! Altrimenti, se non ci abbandona nel bosco, potrebbe chiamare sua madre e trasformarci tutti in rospi!”

Saya si portò una mano alla bocca, trattenendo a stento un gridolino spaventato. Odiava i rospi, quelle creature brutte e viscide che i figli dei vicini la costringevano a baciare per dispetto.

Si scatenò, dunque, una piccola guerra sotterranea fatta di dispetti e ripicche, sotto i volti apparentemente sereni e innocui dei contendenti. Figurarsi se si volevano dare la soddisfazione di riferire tutto a Tajima! No, piuttosto la lotta all’ultimo sangue!

Trascorsero così due anni e la tensione bellica si rilassò, più che altro dovuta alla forze dell’abitudine, la quale si sa, stempera e uccide ogni umana passione: assuefatti, appunto, alla presenza di Kiyora, Setsuna e Saya la giudicarono non pericolosa per la loro incolumità, seppellirono l’ascia di guerra, cessando di conseguenza le ostilità, e accettarono di firmare  un simbolico armistizio. Fu in quel periodo che Tajima prese a corteggiare Kiyora, anche lui per la forza dell’abitudine, visto che l’aveva sempre sotto il naso e un vedovo con tre figli non è mai un partito allentante, non senza mononi sonanti.

Tutto iniziò quando lui, rincasando leggermente in anticipo rispetto al solito, trovò Kiyora a carponi per terra intenta a lavare il pavimento. Ora, vi chiederete, cosa c’è di strano o di conturbante in quella mansione domestica sì faticosa? Hé, forse galeotta fu la sottile sottoveste umida di sudore, che risaltava le forme oramai di donna della mora: infatti, non volendo rovinare l’abito sobrio ma di ottima qualità e le scarpe buone che le servivano per il suo lavoro di cameriera presso la Sinjorina, Kiyora s’era spogliata di questi, procedendo alla pulizia scalza e coperta da un discutibile intimo. Non l’aveva fatto apposta, quindi.  O forse sì, giacché il tabarro mi confida che lei, accortasi della figura pietrificata di Tajima alle sue spalle, prese perfino ad ancheggiare, dimostrandogli che lei non castigava la sua prorompente femminilità. E poi Tajima aveva onorato la memoria di Natsumi per due anni, due anni di astensione carnale, un record per l’epoca, figurarsi se non era rimasto – piacevolmente – sconvolto da quella vista, perfino sua nonna in mutande gli avrebbe fatto risalire il sangue alla testa, quindi Kiyora stava vincendo facile e, per umiliarlo definitivamente con la sua vittoria, gli venne incontro in queste condizioni, con la scollatura rivelante un seno non particolarmente prosperoso ma bello sodo ed eretto.

“Permettimi di accompagnarti a casa!”, le propose quella sera, sentendosi d’un colpo protettivo nei suoi confronti.

Kiyora si schermì, divertita da quella premura molto interessata. “Ma no, si figuri, Majstro Uchiha!”

“Insisto!”

Ma la ragazza fu irremovibile. Gli concesse di accompagnarla a casa solo una settimana dopo la prima proposta e solo il mese successivo accettò che lui incominciasse a tenerla per mano, accomiatandosi da lei con un bacio sulla fronte, che non tardò a scendere verso territori più morbidi.  Si susseguirono piccole tenerezze e carinerie tra i due, come un regalo qua e una mano là, un favore qui e una palpatina lì e non si può negare che la giovane non ci trovò il suo gusto, in quanto deve ancora nascere la donna che non ha mai intimamente goduto nel ritrovarsi desiderata e corteggiata.

“Il periodo più bello della mia vita”, soleva ripetere Kiyora ai figli, a se stessa e a me, rivangando quei ricordi lontani. “Poi, andò tutto a remengo.”

Fin da piccolo, mi ero sempre chiesto – e forse anche mio nonno lo fece all’epoca sua – che cosa ci aveva trovato una personalità bizzarra come Kiyora in un totano (sì, perfino mio nonno aveva rifilato a suo padre questo poco lusinghiero soprannome) come Tajima Uchiha. Che cosa aveva provato veramente per lui? Il tabarro risponde: compassione, simpatia, affetto, passione, fintato che il cuore della bisnonna era rimasto puro da ogni malizia e delusione. Poi, l’abitudine e altre magagne dell’esistenza ridimensionarono questi sentimenti, facendoli convergere tutti in un unico: l’indifferenza.

Ma in quella notte piovosa di marzo, Kiyora non pensava a queste cose, bensì a come le sue calze le si fossero bagnate nella corsa da casa sua a quella degli Uchiha. “Le dispiace se le asciugo qui, vicino al caminetto?”, chiese al suo anfitrione, alzandosi nel frattempo le gonne fino alle cosce, con la stessa candida naturalezza di quando le sollevava nelle esuberanti danze della domenica.

“Certo, fai pure.”

Stranamente, per una casa dove convivevano quasi quattro famiglie assai numerose, erano soli. L’Avina Uchiha, i suoi figli con a seguito le loro piccole tribù, Setsuna e Saya si trovavano in visita ad una loro parente che stava per dare alla luce l’ennesimo moccioso. Tajima, che possedeva delle validissime ragioni per astenersi da tale evento, preferì non venire e nessuno gliene volle, poiché a Mokuton nessuno, manco il padrone stesso, ha segreti e mio nonno e lo zio di mio cugino avrebbero, crescendo, appurato a loro spese quanta dannata verità contenessero queste mie parole.

Alzandosi dapprima baldanzosa, Kiyora si recò verso il caminetto; tuttavia, a ciascun passo, la sua puerile tracotanza si gelava e l’incertezza e la paura l’assalirono, aprendole gli occhi: era sola in casa con un uomo. Non giocare alla donna navigata, ché sei ancora una bimba ingenua! , le risuonarono le parole di Najtine all’orecchio. La ragazza inghiottì malamente la sua saliva, tremante. Rise nervosamente, scompostamente, ebbe all’improvviso voglia di piangere, guardò ansiosa il fuoco scoppiettante, Tajima, le calze bagnate, Tajima, le gocce cadenti che creavano una piccola pozza d’acqua, Tajima … Si sentì stupida, maledisse la sua ingenua sfrontatezza, l’hai provocato!, si diceva, ora ne paghi le conseguenze!, si fustigava. Nascose il viso colle mani, chiuse gli occhi, non voleva vedere, desiderava rifugiarsi sotto il tabarro, temeva ora l’uomo le cui attenzioni aveva prima desiderato.

Una gentile e callosa pressione sui polsi. Le dita che si schiusero. Gli occhi scuri di Tajima sui suoi. 

“Non c’è nulla di cui vergognarsi”, dacché un uomo in preda all’istinto primordiale sarebbe capace di spararne non grosse, bensì gigantesche. “Nulla.”

Su questo punto Kiyora avrebbe avuto molto su cui controargomentare; invece, non levò una sola parola di protesta quando si diressero al piano superiore, nella camera da letto. E come batté, quella notte, la pioggia! Tenace, conquistatrice, insidiò la solida barriera del pudico vetro, inumidendolo della sua liquida lascivia, rigandolo, macchiandolo, insinuandosi libidinosamente curiosa tra gli infissi di legno, cadendo, pluff-pluff, goccia dopo goccia: s’irrorò così il basilico appena seminato nei capienti vasi, bevve e ne godette, vinto dalla pioggia apportatrice di vita. Fila triste la vecchierella, che non può più ballare: un tempo ero sì giovine e bella, d’un giunco palustre più snella e già a quindici anni m’insegnavano a far l’amore … , cantano le spigolatrici il dì della mietitura, il loro destino di figlie della campagna.

Sgattaiolando via furtivamente dal letto dell’amante – le riusciva arduo guardarlo dritto in faccia – Kiyora rientrò quatta quatta a casa sua, lavando via vergognosa con l’aceto i segni della sua verginità perduta.

“Sai che è inutile”, le parlò allora l’ombra di Natsumi, così pallida nella bruma mattutina, il sangue vermiglio che ancora le colava lungo le gambe. “Hai concepito. Adesso sei una di noi.” E cosa la defunta avesse inteso con quel noi , la ragazza se lo sarebbe chiesto fino al letto di morte.

“Taci! Non mi seccare!”, ringhiò Kiyora, rendendosi d’un tratto conto, che stava parlando col vuoto. Sbattendo confusa, e un po’ impaurita, le palpebre, la giovane zoppicò fino al tabarro di Najtine - ch’era sveglia, figurarsi! – vi si rifugiò sotto in cerca di conforto e protezione. “Se davvero sono rimasta incinta”, meditava, “Come farò con quella bigotta della Sinjorina? Mi caccerà e dopo? Come ci manterremo? Ma no, non è possibile! È troppo presto per dirlo, eppoi sono anche molto giovane … forse …”, si raggomitolò, inspirando a fondo l’odore centenario del tabarro. “Almeno, mi ha preso su di un letto e non sui campi o in riva al fiume, come una cagna …”

 

***

 

 

Nel frattempo, a due mesi di distanza dal suo concepimento, Hashirama, avendo fino ad allora risparmiato a sua madre quasi tutti i piccoli segnali che tradiscono una gravidanza, decise che era infine giunto il momento di annunciare al mondo la sua prossima venuta. Nella tranquillità del ventre materno, progettò con cura la cosa e scelse con studiata perfidia l’occasione più propizia.

L’ignara genitrice si trovava quel giorno nel suo boudoir a suonare – ma no! – il suo adoratissimo violino, trapanando il cranio agli abitanti della casa padronale e non perché suonasse da cani, bensì per l’incessante esecuzione di brani di ogni genere musicale, difficoltà e tempo. Anche la bravura, alla lunga, stroppia e la testa di Tōka Senju stava appunto per scoppiare.

“Tutto il santo giorno, pardi, tutto il santo giorno! Ma non si stanca mai? Che sorta di malefica stamina possiede quella donna? E mio padre, poi! Le ha restituito il violino, dopo che, confiscandoglielo, speravo di aver portato un po’ di quiete in questa casa di matti!”, si tappava la Sinjorina le orecchie, mentre la sua cameriera gliele rimetteva al loro posto, altrimenti incapacitata a pettinarla. “Non lo trovi anche tu, Yōsei?”

Kiyora, che aveva ben altro per la testa, scrollò le spalle: “Suona bene, la Duchessa” e, terminato lo chignon della padrona, s’apprestò a servirle la cioccolata per la colazione, sennonché dal beccuccio non uscì nulla.

“Come! Ancora! È tutta la settimana che mi porti un bricco da cioccolata vuoto! Sogna meno, ragazza, e magari combinerai qualcosa di buono!”, la rimproverò Tōka Senju senza tanti giri di parole, invitandola spazientita a recarsi di filato in cucina a riempire il bricco.

“Le andasse di traverso tutta la cioccolata di ‘sto mondo, hundina!”

“Che hai detto, Yōsei?”

“Niente!”, esclamò con forzata enfasi Kiyora, voltandosi e sfoderando il più tirato dei suoi sorrisi. “Che vado, no, corro in cucina a prepararle la sua cioccolata!”

Non ci andò. Si sedette piuttosto sugli scalini di marmo, il bricco di porcellana alla sua destra, la fronte appoggiata sul fresco corrimano dai putti  di maiolica e le mani giunte sul grembo. Serrò la bocca, cercando di trattenere la nausea montante, che da un po’ la tormentava. Le venne allora in soccorso la musica proveniente dal piano inferiore, quel trascinante arabesco di note che, zigzagando in arpeggi e accordi talvolta miti, talvolta indomiti, la cullò nella sua arcana nenia. Avvolgendola pronta a soffocarla nel suo abbraccio di segrete melodie. Kiyora s’addormentò mentre la Duchessa s’impegnava in un saturnino andante e se non si buscò l’ennesima lavata di capo, lo dovette a Kanako, la cameriera personale della padrona, che la trovò per prima.

“Dio mio, Kiyora! Hai la faccia più verde dell’erba e ancora sostieni di stare bene?”, sbuffò quella, prendendo posto accanto a lei. La sua collega non replicò, limitandosi a schioccare la lingua in disapprovazione. “Sul serio, che cos’hai?”, la incalzò la giovane. “Ti comporti in modo strano …”

“Beata lei”, mormorò invece Kiyora, lo sguardo fisso su Anise, che intravedeva dalle scale e dallo spazio concessole dalla porta semiaperta. La Duchessa, suonando, si dondolava, quasi fosse in preghiera, i riccioli biondissimi dai riflessi argentei leggermente umidi sulle tempie. “Beata lei che è sterile …”, e sì, avevano sentenziato i servitori dal primo all’ultimo, tre anni di matrimonio e ancora niente figli, due più due …

Ah no, razza di pettegoli, ah no! Nessuno dà della sterile alla mia Maman, men che meno in mia presenza, cari miei!

Il trillo s’interruppe bruscamente. Uno stridulo gracidare di rospo fendette l’aria e menomò la melodia, sopprimendola. Un grido di protesta si sostituì al gorgheggio del violino e la sua proprietaria, portandosi all’altezza del grembo sia l’archetto che lo strumento stesso, si piegò, tradita e oltraggiata, in avanti, per barcollare all’indietro, il volto cinereo e gli occhi quasi fuori dalle orbite. Infine, seguì un tonfo di corde e carne accompagnato dall’eco del legno e dei vestiti.

Sua Grazia la Duchessa era svenuta. Missione compiuta.

“Sinjora! Madame!”, gridò spaventata Kanako, volando al fianco della padrona e tentando di rianimarla. “Su, Kiyora, non startene lì impalata! Portami i sali! Presto!”

La mora corse, certo. Al primo catino reperibile per vomitare, tra lacrime e crampi atroci, la colazione, il pranzo e la cena del giorno precedente.

“Il dottore aveva in viso una tale espressione …”, confidò Anise  a suo marito al termine della visita. “Spero che non sia nulla di grave …”

“Oh, no”, la rassicurò Butsuma Senju, stranamente raggiante. “Lei deve solo riposare, e anche molto, fino alla nascita, al resto ci penseremo noi.”

“Nascita, dice lei?”

“Sì, a ottobre a Dio piacendo nascerà il nostro primogenito.”

Silenzio.

“Ah, je vois …”

“Non è contenta?”, aggrottò l’uomo la fronte, interdetto dall’assoluta apatia con la quale la moglie aveva accolto la notizia.

“Si sbaglia, mon ami, lo sono, perché so di aver finalmente adempiuto al mio dovere, rendendo felice sia lei che la sua famiglia” e mentre lei pronunciava questo accorato discorso di repertorio, lo sguardo inquieto di Anise vagava alla ricerca del suo violino, sebbene nutrisse numerose remore da informarsi sulla sua ubicazione.

“Ovvio che sono felice per il dono che mi ha fatto!”

La Duchessa gli elargì un tremulo sorriso. Nel frattanto che era rimasta in deliquio, la sua cognata doveva averle sottratto per la seconda volta il violino, ci poteva scommettere i mignoli. Sorrise di nuovo, lasciandosi rimboccare le coperte, baciare la fronte e sprofondare nel buio delle tende tirate a ritmo di: “Adesso, sarà meglio che lei dorma un poco.”

A parte, dunque, lo strabiliante silenzio che piombò sul Castello di Mori da quel giorno, rendendolo un vero e proprio mausoleo, la gravidanza di Anise proseguì relativamente tranquilla, se per tranquillità s’intende ritrovarsi agli arresti in camera da letto. L’unico suo alleato in quella premurosa prigionia rimase suo suocero, il magnanimo approvvigionatore di quei fichi al miele dei quali Anise non riusciva a farne a meno, ingurgitandone in quantità spaventevole. Inoltre, sordo alle insistenze della figlia, l’anziano Duca, verso le cinque e mezza, accompagnava sempre la nuora a passeggiare lungo i vialetti aiuolati del giardino romantico, facendola sostare di tanto in tanto presso la fontana di Apollo e Dafne o al laghetto artificiale o a un ninfeo o al gazebo circondato dai profumati roseti ormai pronti al loro lungo sonno autunnale e invernale.  

“Il mio dev’essere un bambino molto tranquillo”, si accarezzava Anise il ventre rigonfio, a malapena contenuto dalla vesticciola, retaggio di un settembre davvero mite. Un mese era trascorso dall’incidente con la fantesca scoperta incinta e da quel momento si tenne Anise all’oscuro da qualsiasi affare di famiglia che la concernesse, direttamente o indirettamente. “Scalcia a malapena. È normale?”

“Segno che possiederà un carattere migliore rispetto agli altri Senju che lo hanno preceduto!”, scherzava l’anziano Duca, osservando pieno di malinconica dolcezza quella rotonda promessa di una nuova vita.

“Lei ha un buon carattere, mon père.”

“Perché mi ha conosciuto da vecchio, bambina mia!”

Anise ridacchiò timidamente. “Secondo lei, sarà maschio o femmina?”

Per la continuazione del casato Senju, sarebbe stato augurabile un maschio, ma Sua Grazia il Maljunulo Sinjoro era un uomo di mondo e conosceva la raffinata arte della diplomazia. “A mio parere, lei ci donerà una splendida bambina, coi suoi capelli biondo pallido dai riflessi più d’argento che oro.”

La Duchessa scosse il capo. “Io invece spero sia un maschio, un Senju dalla testa ai piedi, coi capelli castano scuro e gli occhi anch’essi marroni, acciocché nessuno gli rimproveri di non essere il figlio del Duca e soprattutto, perché per gli uomini è più facile sopportare un matrimonio combinato rispetto a noi donne … Almeno, loro possono permettersi il lusso dell’amante …”, sentenziò incolore Anise, stringendo gli occhi carminio e puntandoli in una direzione a lei sola tristemente nota.

“Sua nuora ha ragione, Maljunulo Sinjoro”, gli confermò Najtine in una di quelle notti insonni, durante le quali l’anziano Duca, soffocato dal peso della vecchiaia, vagava in cerca di un po’ di compagnia. No, eh! Non quella compagnia: oramai, alla sua età, l’unica forma di libido che lui provava si manifestava alla vista di un cannolo alla ricotta con scaglie di cioccolato e ciliegie candite. In Najtine il vecchio Senju riviveva quell’antica sensazione di incrollabile sicurezza, che solo ai tempi dell’infanzia, ancora viva sua madre, aveva provato.

“Su che punto?”

“Sarà un maschio e nascerà sotto il segno dello Scorpione.”

“Impossibile, Najtine: il dottore ha stabilito il parto verso i primi di ottobre, ergo, sarà un Bilancia!”

“Nah, non ascolti quello stultaj! Creda a me, avverrà verso la fine di ottobre. E se avrà bisogno, non esiti a chiamarmi.”

“Me ne ricorderò. E la prego di accettare ancora le mie scuse, per il modo ignominioso in cui mia figlia ha trattato la sua.”

Najtine liquidò la questione tramite un nervoso svolazzo della mano. “Non me ne cale poi molto; quello è un affare tra Kiyora e la Sinjorina, noi non siamo i custodi delle loro anime, ergo non si scusi, padrone, perlomeno non con me.”

“In ogni modo, vorrei rimediare.”

“Chi vivrà, vedrà. Il mondo fa tanti giri, Sinjoro, può darsi che un giorno, suo malgrado, la Sinjorina dovrà riassumere mia figlia. Chissà.”

“Sul serio, non c’è niente …?”

“No, niente. Lei mi ha ospitato nelle sue terre, signore, aiutare i suoi nipoti a venire al mondo è il minimo che possa fare.”

Il volto dell’anziano Duca si illuminò. “Nipoti? Ne verranno altri?”

Quello di Najtine, invece, s’incupì. “Jes, tri. Anzi, quattro, ma uno non ce la farà” Sospirò affranta. “E poco le dovrebbe comunque importare, visto che lei non li conoscerà. Solo il primo le è concesso. Solo il primogenito.”

Di norma, sentendo tali discorsi, una persona qualsiasi o si sarebbe spaventata o innervosita per simile assurdità. Invece, il vecchio Senju accolse serenamente la notizia, quasi gli avessero comunicato il bollettino meteorologico per l’indomani. “Mi accontenterò, allora.”

Najtine convenne con lui.

Terminarono la nottata parlando d’altro.

 

 

Si racconta che Hashirama Senju nacque incazzato come una bestia e, a parer del tabarro, aveva ogni sacrosanto diritto ad esserlo: se, alla sera del 22 ottobre, dopo che le doglie erano incominciate la mattina del 21, notando che la faccenda non andava né avanti né indietro, suo nonno non avesse posseduto la prontezza di spirito e apertura mentale sufficiente per chiamare Najtine, di certo le congiunte perplessità del dottore e della levatrice gli sarebbero costate lo strangolamento con lo stesso cordone ombelicale, che lo aveva fino a quel momento nutrito.

All’inizio, quando Kanako, affacciandosi all’entrata del giardino d’inverno, aveva strillato: “A Sua Grazia la Duchessa si sono rotte le acque!”, tutti supposero che il parto certamente sarebbe stato lungo, ma non così esasperatamente lento come invece procedeva.

“E’ il primo figlio, Butsuma”, cercava Tōka di tranquillizzare l’iper-agitato fratello, che non cessava nel suo esagitato andirivieni davanti alla porta della stanza, da cui provenivano urla disumane e spinga! spinga forte! “E’ sempre il più difficile, ma Anise è forte e ce la farà!” e gli accarezzava la schiena, dimostrando un lato tenero che difficilmente si manifestava nei confronti di terzi.

Suo padre, invece, aveva optato per il metodo più antico del mondo, ovvero riempirgli il bicchiere con del Porto. “Beva, figlio, beva in onore del bambino e della madre!”, in realtà voleva che se ne stesse fermo per un istante, giacché gli stava venendo un possente mal di testa. L’assurdo temporale, poi, che faceva coi suoi tuoni tremare i vetri del castello e illuminava a giorno il cielo grigio fumo, riempiendo i corridoi di ombre, sicuramente non migliorava la situazione già di suo tesa e carica di nervose aspettative.

Moltissime ore dopo, quando Najtine, scortata dall’anziano Duca in persona, entrò nella stanza della partoriente, la trovò più grigia di un topo e lucente di sudore, il lineamenti del viso deformati dalla fatica. “Aprite una piccola sfesa, giusto per cambiare l’aria, qui si soffoca!”, furono le prime parole della donna, mentre si avvicinava al letto della digrignante e ringhiante Duchessa. “Sinjora, sia onesta con se stessa”, le prese la mano completamente bagnata, accarezzandole i capelli umidi incollati sulle tempie. “Lei, lo vuole il bambino?”

Anise la guardò a lungo, sbattendo freneticamente le ciglia, che si liberarono delle ultime pingui lacrime. Annuì, troppo stanca per parlare.

“Perfekto, su questo punto ci troviamo d’accordo tutti e tre”, commentò più serena Najtine, passando una mano sul ventre tesissimo. “E lei, Sinjorino, la smetta di fare lo spiritoso e si decida ad uscire una buona volta: mi occuperò io di lei, è in buone mani, non la sculaccerò troppo forte né le farò il bagno con l’acqua bollente. Ma esca, non faccia la primadonna!”, sussurrò a quel pancione sudaticcio, ignorando le occhiate scandalizzate dei presenti – Kanako, il dottore e la levatrice – che presero a borbottare contrariati, dandole della pazza strega. Najtine, per tutta risposta, li relegò nell’angolino, pena l’essere cacciati via a calci nel sedere.

Hashirama Senju nacque alle nove del mattino del 23 ottobre, giorno di San Giovanni da Capestrano sacerdote, nella 43esima settimana dell’anno, luna piena, segno zodiacale Scorpione. I rintocchi della pendola non avevano ancora finito di suonare il loro carillon, che le urla isteriche della madre cessarono per lasciare posto ad un eloquente silenzio, cosicché fossero gli strilli acuti del tanto sospirato erede a terminare lo stonato gorgheggio materno.

“Dio, che polmoni!”, esclamò suo nonno, l’anziano Duca, alzandosi incerto sulle sue gambe e barcollando verso la porta che si apriva.

Butsuma, leggermente alticcio a causa della medicina paterna, scoppiò in un pianto liberatorio, nascondendosi tra le mani un volto così stravolto, che sembrò che avesse partorito lui il suo primogenito e non la moglie. Tōka, per una volta, non disse nulla e per questo il genitore gliene fu immensamente grato.

Sculacciato, privato del suo cordone ombelicale, esaminato in ogni sua parte, lavato e avvolto da morbide coperte, Hashirama venne posto su di una lussuosa culla rococò, dove i suoi predecessori avevano risieduto prima di lui. La cosa non gli garbò per niente: voleva il caldo e morbido abbraccio della madre, perdio, non quel surrogato di seta, pizzi e merletti! Inoltre, cos’erano quegli sguardi indagatori da bue lessi dei suoi parenti, che gli pendevano col loro viso enorme e gli occhi ancora più grandi e quell'incessante toccargli il naso, le manine, le guance, la pancia, i … e no! Pussa via! Voglio la mia Maman! E, per rafforzare queste sue esigenze di neonato, il piccino strinse i pugni, divenne rosso ciliegia e ululò peggio di un lupo solitario, mostrando le gengive senza denti, la linguetta tesa come una corda di violino e perfino l’entrata del suo esofago. Pianse, scalciò, gridò, si fece dare dell’indemoniato, epiteto che di certo non scalfì la granitica risoluzione di Hashirama di calmarsi solo quando il nonno, venendo a trovare la puerpera che nel frattempo s’era un poco ripresa dal suo deliquio, lo sottrasse delicatamente dalla culla, cedendolo alle braccia ansiose di Anise, che se lo portò prontamente al petto, cullandolo.

“Ma sarà un bel matto, lei!”, gli sussurrò la donna, accarezzandogli con la punta del dito la guancia calda e paffuta. Il pargoletto, soddisfatto, le regalò in segno di gratitudine il suo primo sorrisone sdentato. "E chissà perché, ma qualcosa m dice che lei non avrà il naso grosso!" Esatto, crescendo Hashirama avrebbe avuto un bel naso dritto, interrompendo la tradizione somatica che tutti i maschi Senju sfoggiassero un solenne naso grifagno, come testimoniano gli innumerevoli ritratti. I geni generosi di Anise avrebbero fatto poi quaterna, aggiungendo i figli successivi, tutti col naso dritto, toh!

“Ha un carattere molto volitivo, senza dubbio!”, sentenziò il nonno, sorridendogli orgoglioso. Nella stanza erano rimasti solamente loro due, poiché Najtine, a compito terminato, dichiarò di dover ritornare a casa sua per tener d’occhi sua figlia, ch’era al settimo mese di gravidanza. Quanto al dottore e alla levatrice, Butsuma li stava scortando all’ingresso, mentre sua sorella era corsa in cucina per dare le prossime istruzioni ai servitori.

“Vorrei chiamarlo come lei, mon père”, ruppe Anise il dolce silenzio instauratosi tra di loro.

Sua Grazia il Maljunulo Sinjoro scosse il capo, portando giocosamente le mani in avanti. “No, no, per carità. Non merito cotanto onore” e, sospirando malinconicamente, le confessò un piccolo segreto, che però, con l’avanzare degli anni, gli impediva la notte di dormire bene. “Sa, non avrei dovuto neppure ereditare il titolo di Duca né tantomeno le terre di Mokuton. Non sarei dovuto essere nulla.”

“Non era lei il primogenito?”

“No, lo divenni grazie alla prematura scomparsa di mio fratello, un uomo d’onore che avrebbe meritato cento volte rispetto a me l’intera fortuna dei Senju.”

“Che avvenne?”

Aveva parlato, tanto valeva terminare la sua dolorosa confessione. “S’arruolò al posto mio.” E altro non ci fu da aggiungere.

Silenzio.

“Come si chiamava?”

“Hashirama.”

Anise sorrise. “Dunque, sia Hashirama il nome di suo nipote, cosicché egli cresca generoso, onorato e fide come lo era suo fratello”, pronunziò ella tali parole con la solennità di un voto e, guardando amorevolmente il figlioletto, che si stava succhiando il pollice e si chiedeva a quando il pasto, gli domandò: “Che ne pensa, mon coeur?”

Il bambino non assordò nessuno coi suoi ululati, ergo si presunse che gli piacesse. A onor del vero, a lui sarebbe andato bene perfino il nome di Ermenegildo, purché sua madre si sciogliesse la liseuse e si decidesse a dargli la pappa. Invece, dovette sopportare un infinito giro di posso tenerlo in braccio? e, ovviamente, la falsa discussione sul suo nome, sul giorno del suo battesimo e sui suoi padrini. Hashirama sbadigliò, a bocca ben larga perché ai neonati tutto è scusato e giunse alla conclusione che, a neppure ventiquattrore dalla sua nascita, già si pentiva d’essere uscito dal più rassicurante ventre materno: lì, almeno, non era circondato da adulti ridicoli, che lo trattavano come un micetto e parlavano di cose astratte e prive di senso. Senza contare, che lì dentro gli davano da mangiare. Aggrottò quindi la fronte, arricciò il naso, inspirò aria e s’esibì, per il terrore della sua famiglia, nell’ennesimo sconquassante do di petto. Solo i tuoni dei fulmini, che continuavano a dominare il cielo, piovendo che Dio la mandava, gli arrivavano in quanto a potenza alle caviglie. Se Hashirama non fosse nato figlio del Duca di Mokuton, una brillante carriera di cantante lirico, viste e considerate le premesse, nessuno gliela avrebbe negata.

Intanto, fuori continuava a diluviare.

 

Vien l’autunno sospirando,

sospirando alla tua porta.

Sai tu dirmi che ti porta?

“Qualche bacca porporina.

Nidi vuoti, rame spoglie,

e tre gocciole di brina

e un pugnel di morte foglie.”

 

 

“Sei tornata tardi, Panja! Ch’è successo?”

Najtine s’era appena levata il tabarro, il quale ronronnò soddisfatto sentendo il tepore di un luogo asciutto, che Kiyora le comparve dinanzi, avanzando goffamente col suo pancione ben protetto dal caldo scialle verde. Per motivi che spiegherò più avanti, la ragazza s’era rifiutata di rimanere in casa col padre del bambino, non date le attuali circostanze: la Canossa di Enrico IV sarebbe stata niente a confronto del calvario che lei aveva in mente di sottoporre a Tajima Uchiha, se desiderava rivendicare la sua paternità sull’infante. 

Aiutandola a sedersi sulla sedia davanti al caminetto acceso, la fata le spiegò concisamente: “La Duchessa ha partorito un bel maschietto; lo chiameranno Hashirama, come il fratello di Sua Grazia il Maljunulo Sinjoro.”

“ Pah! Tutto qui? Un altro aristocratico è nato! E allora? Mica mi cambierà la vita! Né la mia né quella del mio piccino!”, rise sardonicamente la giovane, pigliando l’attizzatoio e smuovendo la brace. In tutta onestà, che gliene doveva importare? Neppure avevano pagato la sua benefattrice, quei taccagni! Se solo la Sinjorina non l’avesse scoperta … almeno non subito …

“E chi lo sa!”, ripeté invece enigmaticamente Najtine e Kiyora distolse gli occhi dalla sua triste contemplazione del fuoco, fissando la donna interrogativamente. “Chissà … Il mondo fa tanti giri … Chissà, filina mia, chissà … ”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

To be continued ...

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Capitolo 4
*** Adeste Fideles, cinque minuti prima ***


B'jour!

Rieccoci qui col nuovo capitolo, questa volta in tempo record!

Mi sono particolarmente divertita a scriverlo, forse perché mi ricorda un certo periodo dell'anno in cui si è tutti più buoni e felici! XD

Per il resto, non credo che ci siano degli avvertimenti da fare, in ogni modo l'universo qui narrato, per quanto "realistico", è pur sempre di fantasia e quindi qualche licenza poetica ce la prendiamo! XP

Quanto alla filastrocca che comparirà  nel corso del capitolo, non mi ricordo il nome dell'autore, comunque non  è mia, precisiamo!

Un sentito ringraziamento ai miei lettori e ad Ame Tsuki in particolare, che è stata così gentile da recensire.

Vi auguro buona lettura,

 

 

H.

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Capitolo Terzo: Adeste Fideles, cinque minuti prima.

 

 

 

Le origini degli Uchiha, la mia famiglia, sono tuttora avvolte nel mistero, una nebbia genealogica che neppure l’onnisciente mostro dell’anagrafe poté mai rischiarare. Nessuno sa da dove siamo venuti. Taluni sostengono da Kirigakure, attraversando il mare e risalendo per il fiume Naka. Altri da Kumogakure, oltrepassando la foresta e altri ancora da Iwagakure, scendendo per gli angusti passi di montagna.

Personalmente, sono propenso a credere che in un passato ben remoto gli Uchiha avessero fatto parte della popolazione autoctona di Hi e che, chissà, magari erano stati perfino i padroni di quelle terre che, ai tempi della nascita di mio nonno, generazioni dei loro esponenti s’erano spaccati la schiena a lavorare. Secoli di continue invasioni dai quattro punti cardinali del paese li avevano relegati dallo status di uomini liberi a quelli di servi della gleba, poi mezzadri e infine riscattati dalla forza pecuniaria dell’irrequieta e ambiziosa borghesia.

 Ma le mie sono solo supposizioni.

Le ricerche da me condotte e delle quali mio cugino rideva bonariamente – “Vuoi appurare se discendi davvero dalle scimmie?”; “Taci, patacca! Tu hai già il tuo bell’albero genealogico con tanto di stemma! Voglio scoprire le mie origini!”; “E’ facile, mio caro: sei uscito da …”; “Troppe informazioni!” – insomma, da esse sono giunto ad un’unica certa conclusione, ovvero che a Mokuton v’erano degli Uchiha perlomeno sin dal Seicento, secolo in cui s’introdusse il registro parrocchiale per tener conto dei matrimoni, battesimi e funerali.

Ed eccola qui, la prima testimonianza della nostra esistenza, scritta in un commuovente quanto impacciato latinorum: Matrimonium Bakin Uchiwa cum  Tara uxor suas, Anno Domini MDCXIX, Dies Domini XXVII Augustus, Sancta Monicae Mater Sancti Agostini, Doctor Ecclesiae.  Sotto questa pomposa dicitura, due timide X, tratteggiate col medesimo insicuro e infantile tratto di chi non aveva mai tenuto un pennino tra le dita. Quasi un anno dopo, segue il nome di un tale Dayu Uchiwa, probabilmente il figlio della coppia.

Dunque, in passato ci chiamavano Uchiwa e continuammo a farlo fino all’inizio del Settecento, quando un parroco o molto svogliato o molto orbo o entrambi scambiò la “w” per una “h”, rinominando le generazioni future, le quali non s’accorsero mai di tale storpiatura, neppure mio nonno, il primo  della sua stirpe in duecento anni ad aver imparato a leggere e a scrivere, neppure lui venne a conoscenza del suo vero cognome, firmandosi invece Madara Uchiha, così come gli aveva riferito l’allora parroco di Mokuton, consultando i registri.

Ma il suo cognome sarebbe stato il più risibile dei problemi che il nonno ebbe con l’anagrafe. Ve ne fu uno ancora più ostico e al contempo assurdo: stabilire il giorno della sua nascita.

 

 

***

 

 

In un goffo tentativo di modernizzare il disomogeneo Regno di Hi  – progresso feroce nelle città, arretratezza sconcertante nelle campagne -  il Parlamento decretò e il Re Sorato XXI firmò che tutti i suoi sudditi avessero un documento di identificazione, un confusionario precursore del passaporto. E fin qui – ovvero: fino alla classe media – nessun problema, alcuni, per motivi di viaggi d’affari, già ne possedevano uno. Le incomprensioni sorsero nel momento in cui si scese nei quartieri più bassi, nel labirinto sociale del proletariato, degli immigrati, dei senzatetto e di altre categorie inclassificabili. Immaginatevi poi, quando i funzionari degli uffici dell’anagrafe uscirono dalle confortevoli e organizzate mura di Konohagakure e delle altre città di Hi, per disperdersi e dare un’identità cartacea agli abitanti delle campagne.  Nelle campagne dell’Ottocento! Potete figurarvi il bedlam che si scatenò? Quei signorini impomatati, cresciuti e già avvizziti in un sicuro ufficio, coi loro completi troppo sporchevoli per il fango, troppo caldi per l’umidità e troppo raffinati per lo stile sobrio e pratico adottato dai padroni stessi delle terre, si scontrarono con una realtà completamente differente, che avevano solo supposto esistere ai tempi delle jacquerie: gente cotta dal sole, dalle mani ruvidi e forti che avrebbero potuto strangolarli come niente; tanti visi giovani, poiché per la legge dell’assurdo i poveri hanno sempre figliato più dei ricchi e la vita media nelle campagne era tra i cinquanta e sessant’anni e di fatti, aggrappati alle sottane delle madri o portati nelle ceste sulle spalle, orde di bambini moccolosi affollavano in nuclei famigliari simili a tribù casolari sparsi per tutta l'estensione dei possedimenti, dove il concetto di privacy neppure esisteva nel loro vocabolario, dove si dormiva tutti nello stesso letto e dove vigeva il postulato, per quel che riguardava i vincoli famigliari, del "mater semper certam, pater numquam", in un concetto più spiccio: "Boh, potrebbe anche essere figlio mio, visto che è uscito da mia moglie!"

Eppoi, vabbè, puzzavano. Un odore misto di sudore, letame, paglia, fango, erba, latte, fumo, sangue nei giorni della mattanza delle bestie, tant'è vero che, durante la compilazione delle carte, più d'un funzionario avvolgeva col fazzoletto un sacchetto di lavanda essiccata, portandosela alle nari offese.

Tutti i proprietari terrieri erano stati previamente avvisati - e i Senju con loro - acciocché si mettessero a disposizione di questi temerari per aiutarli, come se loro fossero informati su tutte le tresche famigliari dei loro fittavoli. Certo, forse alcuni potevano dare delle dritte circa la paternità dei bambini, visto che andare a contadine era più sicuro che a prostitute ... In ogni modo, i funzionari vennero accolti generalmente bene, anzi, quando uno di questi raggiunse Mokuton, l'anziano Duca, mentre il figlio leggeva la sua lettera di presentazione più il fac simile del decreto, gli offrì cordialmente un bicchiere di vino, battendogli poi una gioviale pacca sulla spalla:

"Bonne chance, mon  vieux", disse sornione. "Bonne chance!"

Il Viro Morino non si lasciò certo intimidire: assieme ai suoi sottoposti occupò l'ufficio dell'amministratore e fece mettere in fila indiana i servitori del Castello di Mori, più i loro famigliari per farsi "esaminare", un affare mica semplice, poiché alcuni domestici non sapevano con certezza la data di nascita loro e dei figli e nipoti; altri, le donne in particolare, ovviamente non gliela volevano rivelare; ci fu chi si finse sordo per non scucire quelli che definiva "i miei affaracci" e qualcuno manco si presentò, tentando di disertare, sennonché venne prontamente riacciuffato e, pena il licenziamento, costretto a parlare. La notizia si sparse a Mokuton tra i mezzadri, riempiendosi di tinte fosche: vengono a schedarci come criminali, e quanto sei alto? e quanto pesi? chi era tuo padre? e chi era tua madre? sei sposato? hai figli? che fai per vivere? poi ti lordano le mani d'inchiostro e te le premono su di un sudicio pezzo di carta che non so manco leggere; e sì, ci schedano, amico mio!, così poi, al minimo sgarro, il padrone chiama la sbirraglia e sanno dove trovarci!; a che pro? il padrone sa a priori dove scovarci, perché catalogarci come anticaglie?; sentite,  è vero che ti chiedono l'età?; certo che credi?; ma io non gliela voglio mica dire! altrimenti penseranno che sono vecchia!; piuttosto, suo figlio, in che anno è nato?; l'anno della grandine per una settimana intera!; grazie, e in cifre?

Madara, che all'epoca aveva quattro anni e mezzo, fu scortato a viva forza nell'ufficio dell'amministratore: siccome sua madre lavorava nelle cucine del Castello e lui da lei si staccava solo per trovare sua "nonna" Najtine, il piccolo si trovava nel gruppo delle prime cavie e, siccome la sua mamma lo aveva sempre ammonito sulla preziosità della vita privata, lui aveva deciso di onorare questa massima materna e di non presentarsi dal funzionario. Perciò, bisognò rincorrerlo per tutto il Castello, fin sopra al cedro del Libano su i cui rami possenti il bambino s'era arrampicato con agilità scimmiesca. Staccatolo unghia per unghia, lo blandirono, gli diedero una stecca di zucchero alla fragola, ma no, non ti farà niente! solo un paio di domandine, che vuoi che sia? Guarda, se vieni, col funzionario ci sono anche i tuoi genitori, li abbiamo chiamati, ti stanno aspettando! Effettivamente, quando lo gettarono quasi nell'ufficio dell'amministratore Madara ritrovò la sua Ponja e il suo Paĉjo più i fratelli, provati da un estenuante interrogatorio, specialmente i genitori visto che il documento di identificazione serviva più a loro che ai piccini, ancora minorenni e sotto la patria potestà. Scorta la madre, il bambino le si aggrappò subito alla gonna, mentre lei gli accarezzava la zazzera corvina.

"Dunque, stavamo dicendo ... di quante persone è composta la sua famiglia? Sette?"

"Otto, Viro Morino."

"Ecco, Virina Uchiha, noi non consideriamo i nascituri", disse, alludendo al pancione di Kiyora. "Solo una volta nati, i bambini sono, come dire, fisici agli occhi della legge", in realtà il termine era un altro – soggetto di diritto - ma il funzionario sapeva ch'era meglio non confondere ulteriormente la psiche già di suo sconvolta di quella gente tagliata fuori dal mondo e in gran parte ignorante della legge. Anche perché, spassionatamente parlando, pur riconosciuti de iure come sudditi esercenti di diritti e doveri, de facto i mezzadri (e pure gli operai) vivevano come veri e propri schiavi, almeno all’epoca in cui mio nonno nacque e crebbe fino alla maggiore età.

"Neanche a qualche mese dalla nascita?"

"No, virina, poiché tutto potrebbe succedere nel frattempo ...", alluse cupamente l'uomo, provocando uno sbiancamento sul volto sia di Kiyora che di Tajima.

"Tié!", fu la svelta replica della giovane donna, un bel paio di corna a mo' di scongiuro. Senza darsi pena per quel gesto, il funzionario seguitò:

"Majstro Uchiha, potrebbe per cortesia dettarmi le date di nascita dei suoi figli? Partendo da quelli di primo letto, se non le dispiace ..."

"Uhm, vediamo ... c'è Setsuna, nato il 29 giugno 18 - ... , poi c'è Saya, nata il ... il ... che giorno è San Francesco d'Assisi? Ah, il 4 ottobre ... del 18 - ... Poi c'è Haruka" e lì sospiro, dacché se la ricordava molto, troppo, bene quella data funesta "che è nata 12 maggio 18 - ..."

"Perfetto, perfetto ... Ora, prosegua con quelli di seconde nozze ..."

Tajima Uchiha sospirò di nuovo, lanciando un'occhiata obliqua a Madara, il quale, ignaro delle sue origini, ricambiò arcuando il sopracciglio, passandosi la lingua là dove lo zucchero gli aveva reso appiccicaticcia la pelle.

"Ebbene, mio figlio ..."

Nonostante il tono melodrammatico usato dall'uomo, non sussisteva alcun dubbio sull’appartenenza di Madara alla famiglia Uchiha, neppure quando il funzionario dell’anagrafe, il Viro Morino, venne a Mokuton a spargere un po’ di vitalità urbanistica in quelle lande secolari. Tajima Uchiha, che pur non avendo mai frequentato la scuola (e chi lo aveva mai fatto, del resto, lì?), sapeva tuttavia fare i suoi conti e anche in maniera eccellente: il giorno in cui Kiyora si sgravò, contando a ritroso i mesi, ecco che giunse a quella piovosa notte di marzo in cui spulzellò la ragazza e lì, signori, v’erano più che valide prove sull’onestà di Kiyora, giunta invero illibata nel suo letto. Ma questo calcolo servì solo a confermare ciò che l’uomo sapeva ormai da tempo, visto che i suoi bravi dubbi li ebbe assai prima, diciamo quando Kiyora era al quarto mese, controversie risolte a suon di ceffoni da parte di una gestante non arrabbiata, no, furiosa. Infatti, ancora scottato dal tradimento di sua moglie, Tajima aveva osato avanzare qualche riserva sulla paternità del bambino, rese giustificabili dal ritardo col quale gli era stata riferita la notizia: insomma, se lei non aveva nulla di losco da nascondere, perché non comunicarglielo prima? A meno che …  Kiyora, già di suo stressata per l’impegnativo tentativo di tenere nascosta la gravidanza alla Sinjorina,  aveva ascoltato tutto in doveroso silenzio, chiazzandosi di macchie man mano che l’uomo giungeva alla fine del suo discorso. Dopodiché, sorridendogli a denti stretti, partì all’attacco.

“Buon pro le faccia, Majstro!” e via con uno Sciaff!, che avrebbe torto il collo ad un montone, ma non di certo la dura cervice di Tajima Uchiha, che, reggendosi la guancia offesa, esclamò incredulo:

“Che schiaffo!”

“Che schiaffo?! E allora, se le piace, si pigli pure questo! …”

Sciaff!

“ … e questo! …”

Sciaff!

“ … e ancora questo! …”

Sciaff!

“… e quest’altro! …”

Sciaff!

“Ma stai ferma, femmina isterica … ahia!”

Sciaff! Tonff! Sciaff!

Kiyora s’era denudata delle sue babbucce e, scambiando Tajima per un tamburo di latta, lo stava per l’appunto tambureggiando con queste bacchette improvvisate. “Femmina isterica a chi, razza di furbastro? Tu stai zitto e pigliatele in silenzio come un vero uomo!”

Sciaff! Tonff! Tonff! Sciaff! Tonf!

“E se non ne hai abbastanza, te ne do ancora!” e concluse con un virtuoso arpeggio di Sciaff! Tonff! Tonff! Sciaff! Sciaff! Tonff-sciaff! “Oh, Sua Eccellenza re dei babbei, ma per chi mi ha preso? Per una di quelle gran puttane che aprono le gambe a tutti? È questo quello che credi, Uchiha? Eh? Eh?”, sbraitò, contorcendo il viso in una sinistra smorfia, per poi scoppiare a piangere, sopraffatta dagli sbalzi d’umore. Sempre il solito refrain: la ragazza eruttava in crisi di rabbia a dir poco spaventevoli, per poi scemare in un letargo urside. Calmati, filina mia, calmati! O l'infano prederà il tuo caratteraccio lunatico!, le ripeteva saggiamente Najtine.  

“Via, via quelle lacrime!”, volle consolarla Tajima, cercando di abbracciarla, sennonché lei lo spinse via malamente, berciando:

“Ma lasciami stare, stultaj!”

“E smettila d’insultarmi, perdio!”

“Non ne avrei forse motivo? E’ quel che ti meriti, mizero!”, borbottò Kiyora, calmandosi un poco e lasciandosi massaggiare la schiena prima, abbracciare poi dall’uomo. “Cane! Assassino! Tu non vuoi riconoscere il mio bebo, altroché!”

“Non ho mai detto questo!”

“E allora, cosa sono tutte ‘ste coglionate su di chi è figlio, deliktulo?”

Tajima si morse il labbro inferiore: su questo punto, la ragazza non aveva tutti i torti. Nondimeno, pur essendosi scusato e riscusato e coperto il capo di ceneri, Kiyora non gliela perdonò tanto facilmente e di fatti, invece di vivere “nel peccato di concubinato”, gli riferì spietata che sarebbe rimasta con Najtine la Fata fino alla nascita della creatura – che è un Uchiha, non startelo neppure a domandare! – e fino al sedicesimo compleanno di lei, l’età consentita dalla legge per sposarsi, benché nelle campagne, e nei quartieri meno ambienti delle sempre più sovraffollate città, s’incominciasse a convivere ben prima, figli illegittimi inclusi.

"Ebbene, mio figlio Madara è nato  il 25 dicembre del 18 - ..., mentre Yakumi il ..."

"Eh no, qui ti sbagli!", lo interruppe sua moglie appena in tempo, cosicché il segretario non sbenedettò per la macchia apportata da un'eventuale correzione. "Madara non è nato il 25, bensì il 24 dicembre, Vigilia di Natale e San Delfino Vescovo, ultimo quarto di luna calante, 52esima settimana dell'anno, segno zodiacale Capricorno."

"Ma no, che dici?", ribatté l'altro, scuotendo il capo. "Se vi ho trovati durante la Messa di mezzanotte!"

Su quel punto, Kiyora gli concesse ragione, ma non per questo vacillò nella sua convinzione. "Esatto, ci hai reperiti, ad opera compiuta! Non mentre mi trattenevo dall'imprecare per essermi ritrovata a partorire su di un gelido pavimento di marmo, dietro una colonna, colla gente che mi fissava stralunata! Tu non c'eri, vigliacco, quando ho lasciato mezze budella davanti al Giudizio Universale!", e via che si ricominciava cogli sbalzi d'umore. Non che Kiyora possedesse la cattiva abitudine di tiranneggiare il marito, come forse si sarà pensato: semplicemente, quand'era incinta la sua natura sanguigna diveniva collerica ed ecco che diveniva insofferente ad ogni cosa, tranne dei suoi pargoli, Madara  e Yakumi.

Schiarendosi a disagio la gola, il funzionario Morino propose una soluzione alternativa, prima che la giovane donna, visibilmente contrariata, non prendesse la nefasta iniziativa di brandire una sedia e spaccarla in testa al consorte. Era preoccupato perché, nella concitazione della loro discussione, i due avevano incominciato a parlare in dialetto stretto e l’uomo, che sbiascicava affettato il nordico konohagakuriano perfetto, non stava capendo un emerito tubo. "Forse, Virina Uchiha, suo figlio Madara potrebbe risolvere questo piccolo mistero ...", affermò conciliante, allungandosi verso il bambino. "Vero, junulo? Ci aiuterai?", gli sorrise incoraggiante. Il moro, per quel che gliene concerneva, era assai più interessato alla suzione del suo zucchero. "Allora, Madara, quando sei nato? Il 24 o il 25 dicembre?"

Stettero tutti in un religioso silenzio, neanche attendessero il responso della Pizia di Delfi. E similmente alla profetessa, il bambino smise di succhiare, tolse la stecca dalla bocca, si leccò le labbra, prese un profondo respiro, chiuse gli occhi e pronunciò con ieratica solennità la sua risposta:

"Boh."

Fu il turno del funzionario Morino di arrabbiarsi e tanto, anche. "Mi volete fare impazzire, voialtri?", ululò così forte, che quelli in fila fuori dalla porta presero a pigiare sull'uscio per cogliere un frammento di quello che si preannunciava essere un gustoso alterco burocratico. "Soprattutto, tu, piccola canaglia! Che razza di risposta è Boh?! Sei così ignorante, disgraziato, da non sapere neppure quando sei nato?"

"Oh, ma neanche lei lo sa!", replicò imporporandosi Madara, piccato per quell'epiteto alle sue orecchie infame.  "E comunque, che vuole che ne sappia, io, della mia data di nascita?", strillò stizzito la sua protesta, con un'eloquenza invero straordinaria per la sua giovanissima età. "Mica sono come l'uomo di Platone, che nasce con le idee già in testa! Mi rende forse più saggio o intelligente essere nato il 25 anziché il 24? Ma mi faccia il piacere, lei è un bab- ..." e fu grazie alla pronta mano di Kiyora sulla sua bocca, che al moro venne impedito di offendere un funzionario pubblico, pregiudicandosi prima ancora di esercitare i suoi diritti. Per sua fortuna, il Viro Morino non aveva udito nulla, ancora sconcertato per aver sentito un moccoloso figlio di mezzadri che parlava dell’innatismo di Platone con la medesima chiarezza di un adulto.  A onor del vero, Madara stesso ignorava chi fossero Platone e la sua teoria sull’innatismo, avendo infatti assimilato e riutilizzato a suo piacimento queste informazioni estrapolate da una conversazione origliata per caso tra la Duchessa Anise  e un suo amico, conosciuto in villeggiatura, il giovane dottore Sasuke Sarutobi. A Madara quest’uomo piaceva, perché lo trattava d’adulto pur dandogli del tu e soprattutto perché, oltre a non avere mai argomenti banali da discutere con la Duchessa ergo era un piacere ascoltare i due conversare, il giovane medico gli regalava ad ogni visita libricini narranti di storielle certamente semplici, ma che il bambino divorava, interrogandolo poi su cosa aveva appreso e invitandolo ad esprimere la sua opinione. “Bene, il tema di oggi è questo”, invitava lui e Hashirama a sederglisi accanto. “Hashirama supporterà questo argomento, mentre Madara lo osteggerà. Vediamo, chi dei due riesce a persuadermi, vincendo.” I due marmocchi non se lo facevano di certo ripetere due volte, arrivando a sparare certe fantasiose teorie pur di convincere Sarutobi della bontà delle loro idee. La Duchessa, seduta a ricamare in un angolo, riprendeva giocosamente i tre, il giovanotto in particolare. “Ma Sasu-ehm, Monsieur le docteur! Che giochi sono mai questi? Lei ha a che fare con dei pupetti, che opinione vuole che abbiano?” Ma il kuracisto replicava testardo: “No, no, Madame! Non sottovaluti questi due monellacci: per la loro età possiedono una maturità di pensiero non comune, lo leggo dai loro occhi!” e alla fine dava il premio ad entrambi e la Duchessa sorrideva di nuovo, facendo sorridere per effetto domino anche il figlio. Inutile dire che anche ad Hashirama piaceva il dottor Sasuke Sarutobi, l’unico assieme al nonno che riuscisse a far ridere la sua Maman, la quale, dopo aver perso al sesto mese una bambina, per un periodo era divenuta più apatica di una statua di marmo. Adesso, incinta della terza creatura, era un sollievo rivederla così rilassata e gioviale con tutti.

Ma ritornando all’esterrefatto funzionario dell’anagrafe.

Balbettando, l'uomo proferì debolmente, asciugandosi la fronte col fazzoletto: "Insomma ... non ... non c'è nessuno che ... che sappia dirmi ... quando è nato questo demon-ehm, bambino?"

Kiyora, sistematasi meglio Yakumi sul fianco, gli disse paziente: "E' come le ho detto io: Madara è nato il 24 dicembre, cinque minuti prima dell'Adeste fideles ..."

E ora, se il tabarro la smettesse di ingarbugliarmi la vita con questi saliscendi temporali, vorrei cogliere l'occasione offertami dal sopracitato dilemma anagrafico per descrivere le circostanze della nascita del nonno.

 

E l’inverno vien tremando,

vien tremando alla tua porta.

Sai tu dirmi che ti porta?

“Un fastel d’aridi ciocchi,

un fringuello irrigidito;

e poi neve, neve a fiocchi,

e ghiaccioli grossi un dito.”

 

 

Due mesi e un giorno dopo la nascita di Hashirama Senju, giunse infine il turno di Madara Uchiha.  

Un inverno come quello in cui il nonno venne al mondo difficilmente sarebbe stato dimenticato: incominciò, infatti, a nevicare già alla prima domenica d’Avvento e non dopo Santa Lucia, com’erano abituati, ritrovandosi così in anticipo ricoperti di neve fino alle finestre del pianoterra, dannandosi l’anima a spazzarla via per poter almeno uscire di casa e non rimanervi seppelliti fino allo sgelo. Le strade, rese inagibili dalla neve, tagliarono fuori Mokuton dal resto della società civilizzata. Non si vedeva, poi, al di là del proprio naso tanto fitta cadeva la neve. Ad inverno terminato, i bollettini delle vecchie edizioni del Vespero sarebbero stati pieni zeppi di drammatiche cifre e melense descrizioni di tragiche morti per ipotermia, un patetico tentativo di commuovere coloro che invece se n’erano stati ben al calduccio, fregandosene degli altrui destini. In quel frangente, devo spezzare una lancia in favore del Duca Butsuma Senju il quale, non essendogli ancora passata la sbornia della recente paternità, in barba ai costi decise di donare legna e carbone gratuitamente a tutti i suoi mezzadri, un atto di generosità che impedì alle pompe funebri di far guadagni anche a Mokuton, distretto di Konohagakure, e al padrone di scoglionarsi per trovare nuovi lavoratori: causa l’inarrestabile industrializzazione di Hi, le campagne si stavano gradualmente spopolando e i contadini con meno prospettive preferivano cavarsela in qualche modo in città, piuttosto di lavorare come bestie da soma e aver lo stesso fame in campagna.

La mia bisnonna sopravvisse a quell’annus gelus  standosene rintanata in casa come un’orsa, tutta rannicchiata sotto il tabarro di Najtine, la quale la incoconava di zuppe di miso, di cavoli, barbabietole e rassolnik, di medhu (latte di mandorle caldo con miele e cannella), di spesse palachinke alla ricotta acidula e di qualsiasi cibo sostanzioso riuscisse a reperire, giacché Kiyora, dovendo nutrirsi per due, aveva costantemente fame e freddo. I regolari calci da parte di Madara la rassicuravano che il piccino non s’era nel frattempo assiderato, visto che lei più volte aveva perso la sensibilità delle mani e dei piedi pur standosene a momenti dentro il caminetto stesso. Per distrarla, allora, Najtine la spronava a parlare del più e del meno, evitando però la parola tabù, Tajima Uchiha.

“Ma sentilo come scalcia! Manco fossi un tamburo!”, rideva la gestante, tra un morso e l'altro di pane imburrato e salame.“Eh, la knabina è piuttosto irrequieta, sì sì …”

“Knabina? Pensi sia femmina?”

“Certo, così potrebbe farne la sua apprendista: vorrei tanto che da grande divenisse come lei …”

“Mi lusinghi. Piuttosto, come la chiameresti?”

“Ho pensato a Madaleine.”

“Come la prostituta pentita che divenne santa?”

“Jes … Neniu! … No, lei non commetterà gli stessi errori di sua madre, sarà una fanciulla onorata e si sposerà bene, ecco!”, sentenziò solenne, accollandosi ulteriormente dentro il tabarro.

Najtine annuì, seppur poco convinta.

La Vigilia di Natale colse tutti alla sprovvista: il paesaggio circostante bianco e ovattato, letteralmente congelato in un grigio limbo, aveva tolto alla popolazione di Mokuton la cognizione del tempo, limitandosi a trascinare le giornate nell’ozio e nel gelo, scrollandosi talvolta la noia con una sporadica visita ai vicini, giusto per scroccar loro qualche salsiccia affumicata e un bicchiere di enzian o di altri liquori casalinghi, nulla a che vedere con le fetenzie vendute in città, poiché a Mokuton non si rifiutava mai il cibo ad un ospite, anche a costo di privarsene. Ovviamente, si ricambiava, poi,  la visita!  Per questo si evitava di andare troppo spesso dai vicini più benestanti, coloro che potevano permettersi di offrirti del pane abbondantemente imburrato cosparso di zucchero e liquore all'anice per meglio gustarlo: il bon ton esigeva che dopo bisognava contraccambiare in egual misura, ergo ognuno faceva i suoi calcoli in base alla disponibilità della propria dispensa. Altrimenti, se proprio quella visita era irrinunciabile, si fingevano crampi atrocisissimi  allo stomaco e scagotti apocalittici, pur di non sembrare scortesi e rifiutare il cibo offerto.

Furono le campane vespertine delle sei che annunciarono l’inizio della veglia natalizia, culminante col rombo carillonesco di mezzanotte e da un’abbuffata di dolci accompagnata da cioccolata calda e vin brulé offerta dal padrone, ragion per cui i fedeli, richiamati da quel metallico gargarismo, si limitarono ad ingerire qualche panino di lardo addolcito dallo sciroppo, buttato giù con un po’ caffè corretto con grappa e via, imbacuccati come cosacchi, si accinsero a percorrere il faticosissimo tragitto da casa loro alla chiesa. L’aria, infatti, si presentava irrespirabile da quanto era pesante nel suo gelo, lasciando nelle gole un retrogusto ferroso, neanche si avesse ingoiato del freddo metallo. Il cielo plumbeo e vitreo che feriva gli occhi con la sua luce livida per fortuna era stato sostituito da un buio pesto, reso meno inchiostro dalle lanterne che i mezzadri si portavano seco,  costringendoli però ad ancorarsi sul più neutro e scricchiolante terreno, tamburellandovi i piedi infreddoliti e battendo in seguito le mani secondo il rito di auto-riscaldamento più antico del mondo. Siccome in chiesa faceva leggermente più caldo che fuori, i mantelli e scialli e tabarri rimasero ben ancorati sulle loro spalle e mai come a Natale le persone sopportano la reciproca vicinanza, pur di scaldarsi.

Kiyora giunse leggermente in ritardo, verso le sei e mezza, trascinandosi sfinita ed ansante lungo i muri alla volta di un angolino seminascosto: sebbene una ragazza incinta fuori dal matrimonio non fosse per i mezzadri una novità, nondimeno in chiesa loro riassumevano quella moralità che perdevano nei campi e gente scostumata come la mora non era, ai loro occhi, degna di comparire al cospetto di Nostro Signore. Kiyora arrivò in ritardo un po’ per questo motivo, non voleva imbattersi in Tajima, un po’ perché Najtine aveva cercato di trattenerla, non garbandole il colore grigiastro e sudaticcio del volto. “Non uscire”, le aveva detto. “Anche se non vuoi parlarmi, so che non stai bene. Resta a casa, è meglio!”

Ma la sua protetta fu irremovibile. “Sto bene, maljunula, ho voglia di camminare un poco. Eppoi, ho perso un mese di Messa, quella di Natale non la perdo manco a morire!”, s’era intestardita, afferrando il pesante scialle di lana e la lanterna, dirigendosi verso la chiesa. Camminando a passo spedito, si sentì d’un colpo meglio, come se ricominciasse a respirare, ignorando di conseguenza i segnali di un parto pressoché imminente. Il travaglio varia da donna a donna, c’è chi impiega meno tempo per sfornare il pargolo, chi di più; c’è chi prova dolore e chi meno; chi s’accorge d’essere nella fase clou e chi, come Kiyora, che non se ne accorge finché il pupo incomincia a scalpitare per uscire.

Complice anche un'infanzia trascorsa tra stenti e miserie, Kiyora aveva sviluppato crescendo un'alta sopportazione del dolore fisico, affrontando i dolori generati dalle contrazioni con stoica indifferenza. Notando che camminando scemavano, aveva trascorso la notte precedente e tutta la Vigilia di Natale a gironzolare per casa, inquieta e sofferente e ciononostante, per Dio solo sapeva quale arcano motivo, non volle mai confidarsi a Najtine, che certamente le avrebbe rivelato in quale fase si trovava. Sebbene stimasse molto la sua madre adottiva, la ragazza difficilmente s'affidava a lei o seguiva i suoi consigli, così come funziona appunto l'autentico rapporto madre-figlia. Najtine, non desiderando che Kiyora s'agitasse arrabbiandosi, decise di lasciarla fare: avrebbe raggiunto quella testona al momento opportuno.

Trovata infine una sua mea nascosta tra l'ultima colonna della navata centrale e il confessionale, la giovane vi si rintanò, respirando forte, domandandosi se non avesse camminato troppo di fretta. Aveva una tremenda sete, poi. E crampi non dissimili a quelli che vengono quando la natura chiama e il pitale risponde. Mezzora dopo, la ragazza avvertì il pressante impulso di accucciarsi. Una quindicina di minuti più tardi, di spingere.

Kiyora impallidì. "Mizera! Proprio adesso vuoi nascere?"

Sì, Madara voleva nascere proprio in quell'istante, per dimostrarle che tanto femmina non era e solo perché a Natale si è tutti più buoni, collaborò senza tante storie.

Sollevatasi le gonne e morsicando il velo da chiesa per non dare spettacolo, la partoriente allora si mise all'opera, invocando a mente la protezione della Madonna, di Santa Margherita d'Antiochia protettrice dei parti e ovviamente di Domine Iddio, sperando di non finire come Natsumi, morta in un lago di sangue e muchi azzurrini. E a proposito della morta, che ci faceva lì davanti a lei? Dapprincipio, la litania parve aiutarla poiché la distraeva tramite la sua ossessiva ripetitività; man mano che s'avvicinava al momento dell'espulsione, Kiyora s'imporporava fino a sbiancare dallo sforzo, sbuffando come un bue, ringhiando ingolata come un mastino e aggrappandosi a qualsiasi cosa, in particolare alla tenda viola del confessionale, che resisteva ai suoi strattoni per puro miracolo.  Non s'accorse neppure delle occhiatacce indiscrete lanciatele dai fedeli dell'ultima fila i quali, pur non avendo una buona visuale della scena, si permisero lo stesso di giudicare.

"Ma che sta facendo quella lì?"

"Crede di essere su di un'ottomana?"

"O peggio, su di un pitale?"

"Cosa? Non ditemi che sta cagando in chiesa!"

"Barbara! Blasfema!"

"Gente come lei una volta la mettevano al rogo!"

Ed ecco che tra questo gracidare di rospi, s'elevò la voce della verità, incarnata in una bimbetta di pressappoco sei-sette anni: "Sta avendo un infano!", esclamazione ben presto seguita da un coro di increduli: "Eh?", terminato da sconcertati: "Oddio!" quando, facendo uno strappo al suo codice morale, Najtine entrò nel sacro edificio e, scivolando nell'ombra col suo tabarro, raggiunse una pallidissima Kiyora, afferrandola per le ascelle per rimetterla nella posizione più consona. "Non potevi avvertirmi prima, disgraziata?", borbottò la fata rancorosa a Natsumi, che scrollò con indifferenza le spalle, posizionandosi sull'acquasantiera di marmo. Poco dopo una contadina, molto probabilmente la madre della savia bambina, si risolse ad abbandonare il banco assieme alla figlia, raggiungendo le due donne.

"Santa vergine martire d'Antiochia!", mormorò ella, segnandosi velocemente. "Questo ci sta per nascere in chiesa!", boccheggiò, legandosi lo scialle ai fianchi e arrotolandosi le maniche. Sperò di non venir tacciata di blasfemia quando, per amor dell'igiene, si ripulì le mani nell'acqua benedetta, passando attraverso il grembo di Natsumi, che aprì la bocca in un muto gridolino, indignata.

"Knabina!", si rivolse Najtine alla piccina, che si mise quasi sull'attenti, eccitatissima da quello spettacolo ai suoi occhi divertentissimo. "Vieni qui. Premi su questo punto. Brava. Premi finché non te lo dico io!"

In sincronia perfetta, le tre gentlewomen of fortune si adoperarono per far nascere il bambino, mentre dalle ultime file la gente aveva finito da un pezzo di borbottare preghiere, girandosi invece verso quel curioso quartetto femminile, commentando tra di loro la peculiarità di quell'evento; di donne partorienti nei luoghi più disparati ne avevano viste a bizzeffe, ma mai, mai nella casa del Signore ... Che fosse un cattivo presagio? Che preannunciasse l'Apocalisse? La venuta dell'anticristo? E via discorrendo, avanzando verso la penultima fila e la terzultima, chetando il brusio di litanie e invocazioni per un più mondano cicaleggio e un poco decoroso voltare le spalle dall'abside centrale.

Né anticristo, né tantomeno messaggero dell'Apocalisse, Madara era solamente uno di quei pochi che non mentiva quando affermava di aver visto satana coi propri occhi. Lo vide affrescato sulla parete della chiesa di Santa Lucia, a testa ingiù, tutto sporco di sangue e muchi azzurrini e tenuto per ambedue le caviglie dalla brava donna che lo aveva aiutato a venire al mondo. Vuoi per l'impellente necessità di respirare, vuoi per il dolore alle chiappe provocato dal sonoro ceffone elargitogli dalle ruvide mani della contadina, vuoi per il terrore provocatogli da quel panzone d'un limbidinoso sileno, ecco che il neonato strillò peggio d'un invasato tutta la sua perplessità di critico d'arte su quel modo assolutamente grandguignolesco di rappresentare l'inferno e il suo padrone. E da quel momento in poi, a livello d'inconscio, Madara avrebbe sempre avuto una paura matta di quella bolgia metafisica, trasmettendola ai suoi discendenti, tra cui il sottoscritto.

"Oh, ma che bel maschietto!", cinguettò la bambina, mentre Najtine, estratto un coltellino dal tabarro, lo separava definitivamente dalla madre. La sua Ponja, invece, lo ripuliva alla bell'e meglio dall'unguento azzurrino che lo ricopriva.

"Che?!", esclamò debolmente Kiyora il suo disappunto, per poi abbandonarsi sul petto della fata, svenendo per la fatica sopportata. Natsumi, ancora seduta sull'acquasantiera, si mordicchiava divertita il pollice. 

Cinque minuti dopo, senza che nessuno si fosse minimamente turbato di verificare di persona come stesse la puerpera, le campane di mezzanotte scossero la terra, l'organo rombò e il coro partì in quarta con un sconquassante:

 

Adeste fideles laeti triumphantes

venite, venite in Bethlehem.

Natum videte Regem angelorum.

Venite adoremus, venite adoremus, venite adoremus,

Dominum.

 

... interrotto di tanto in tanto dai Mué! Mué! dei neonati lì presenti che nel frattanto stavano schiacciando un pisolino. Il resto della funzione Madara lo trascorse in canonica, portato in braccio dalla stessa bambina che aveva premuto sulla parte superiore del ventre materno per aiutarlo ad evacuare la zona. Suo padre Tajima, invece, trasportava una semicosciente Kiyora in sacrestia: li aveva trovati grazie ai continui bisbigli dei banchi dietro di lui. A concludere l'allegro corteo, seguivano Najtine e la contadina.

"Che ha? S'è sentita male?", aveva sgranato gli occhi la perpetua vedendoseli comparire davanti e accarezzando di riflesso il capo sudaticcio della ragazza.

"Peggio: ha partorito!", replicò spassionatamente Najtine. "E mi sa che lei dovrà gettare un po' di segatura tra l'ultima colonna e il confessionale ..."

Trattenendosi dal sacramentare come il peggiore dei miscredenti, la perpetua li condusse in canonica, dove si premurò che madre e figlio fossero ben lavati. Fu la prima ad accorgersi che il neonato ancora non possedeva un nome e quando lo comunicò alla puerpera, che nel frattempo aveva ripreso il pieno possesso delle sue facoltà cognitive, ecco imporsi un imbarazzante silenzio. "A dire il vero", ammise Kiyora, torcendosi le dita, "non ho un nome maschile per il pupo, in quanto ero così sicura che nascesse femmina ..."

"Puoi sempre chiamarlo Madara, che un po' assomiglia a Madaleine", le suggerì Najtine.

"Che nome strano!"

"Mai sentito!"

"Non sarà leggermente ambiguo?"

Kiyora ignorò bellamente questi commenti, allungando invece le braccia per ricevere dalla perpetua il suo bambino, che già s'agitava inquieto, non essendo le fasce che lo ricoprivano sufficientemente calde. Gorgogliò di puro piacere al tocco materno, in particolare quando Kiyora lo strinse al petto, riscaldandolo e offrendogli una vista molto, molto allettante per i suoi occhi di poppante. Come sempre, però, bisognava attendere che gli adulti terminassero i loro insulsi discorsi. Quanta pazienza!, aveva dovuto pensare Madara in quell'istante, cacciandosi tre dita nella bocca sdentata. E che fregatura: prima vedo il diavolo, poi mi sculacciano a testa ingiù e adesso mi fanno venire i geloni al deretano. Forse, avrei fatto meglio a ritardare ancora di qualche giorno ...

 "E chi se ne cale, se il suo è un nome strano, inusuale o ambiguo. Meglio! Così non passerà inosservato e coloro che incontrerà si ricorderanno di lui. Vero, malgrando trezoro?", esclamò entusiasta la ragazza per quella soluzione. Se lo dici tu, Ponja, significò quell'infilarsi un quarto dito in bocca da parte del bébé.

"Secondo me, un giorno ti maledirà per questo nome bislacco!"

"Che ci provi, lo ammazzo di botte!"

"Kiyora!"

"Scherzavo, dai! Non alzerei mai un solo dito contro di lui!"

Silenzio.

"Allora, che dire? Benvenuto a questo mondo, Madara Uchiha!"

"Eh no, signor scaltro!", interruppe la puerpera l'amante. "Madara e basta, finché tu non mi sposi!"

Senza scomporsi, Tajima replicò: "Quando compi sedici anni?"

"Ad aprile."

"Bene, ci sposeremo ad aprile" e solo Domine Iddio sapeva quanto mai vicino alla morte fosse stato l'uomo come in quel momento e la sua fortuna consistette nel fatto che, oltre ad avere il neonato tra le braccia, la presenza di troppi testimoni aveva inibito ogni istinto omicida di Kiyora, che si limitò a ribattere:

"Perfekto: dunque, rivedrai tuo figlio ad aprile!"

"Cosa?! Ma sei pazza o che?!"

Mi fischiano le orecchie, ho come l'impressione che stiano parlando di me ... Oh! E tu che vuoi, mocciosa? Mettimi giù, non sono una bambola, aiuto!

Ma né suo padre né sua madre si resero conto di come la bambina avesse sfilato Madara dall'abbraccio di Kiyora, per poterselo portare fino alla sedia accanto alla stufa, cullandolo con eccessivo vigore, sguarattandogli di conseguenza le budella. "Quanto sei bello, che occhi vispi che hai!", lo vezzeggiava.

Accortasi dell'innocuo furto, Najtine le requisì la refurtiva, coprendola con un lembo del tabarro. "Sh, calmati!", sussurrò all'infante, che scalciava esagitato da sotto la copertina, mulinando perfino le braccia in una strana danza. "Raffredda quel tuo cuore di fuoco, o ti uscirà dalla gola!" Solo allora il bébé osò rilassarsi un poco, appisolandosi, fedele al detto: "Chi dorme, mangia."

E ben fece, giacché non vide il volto cinereo di Natsumi Uchiha pendere sopra di lui come un avvoltoio, pigliandosi conseguentemente l'ennesimo spavento. Un seicentesco demonio affrescato gli bastava, grazie tante.

Riassumendo - i fatti da narrare sono molti, ergo non ci possiamo troppo soffermare - due verità Madara apprese il giorno in cui il funzionario Morino, venuto dalla capitale con le sue scartoffie e cinque impiegati, s'incaricò di scrivere nero su bianco una biografia essenziale sulla sua famiglia: la prima, che lui era effettivamente nato il 24 dicembre 18 -  a cinque minuti dall'Adeste fideles, dunque nel giorno della Vigilia di Natale e San Delfino vescovo, ultimo quarto di luna calante, 52esima settimana dell'anno, segno zodiacale Capricorno. La seconda, che non era affatto fotogenico: la foto scattatagli dall'impiegato del Viro Morino lo avrebbe perseguitato fino alla vecchiaia..

Ah, il tabarro preme per una postilla e, ascoltandola, la giudico importante, perciò ve la riporto: la mattina del 1 gennaio dell'anno successivo, una volta ritornata la calma in seguito ai festeggiamenti della notte di San Silvestro, Hashirama Senju si ritrovò senza balia. A quanto pareva, il compagno/marito/amante/quel-che-era di lei s'era divertito ad ammazzarla e a gettarla in un ramo del fiume Naka, il quale, non volendosi rendere complice di tale misfatto, pensò bene di gelarsi, preservando il corpo per i gendarmi. Il movente? Lei s'era stufata di lui, della sua natura grezza e manesca e del suo vizio dell'alcol. Inoltre, la nutrice non aveva neppure ventun anni, lasciava al mondo un bambino, il cui nome adesso non rivelo, ma che avrebbe determinato in maniera pressoché mortifera la sorte del suo fratello di latte. Io lo so per certo: ho conosciuto quest'uomo. In ogni modo, le indagini si conclusero rapidamente, tanto a Mokuton avevano sempre sospettato che si trattasse del compagno e di chi altro, sennò? Una giovane donna così perbene, a modo ... chi poteva ammazzarla se non quello scellerato? Eppoi, era uno straniero, di Takigakure, ragion per cui lui si presentava doppiamente sospetto, noi di Hi non commettiamo queste porcherie, ma uno straniero sì, specie uno straniero proveniente da quella spelonca di ladri e strozzini com'è Takigakure! Arrestarono il Fremda - un nome bisogna pur darglielo - una settimana dopo la scoperta del cadavere. Due settimane dopo, pendeva dalla forca eretta apposta sulla piazza del mercato di Mokuton, mai così gremita di gente come in quell'occasione: simili a scarafaggi sbucati dal nulla, non solo i fittavoli, ma anche i vicini dei paesi e città confinanti presenziarono all'evento; l'ultima impiccagione aveva avuto luogo quando il figlio di Sua Grazia il Maljunulo Sinjoro, Butsuma Senju, non dimostrava neppure quindici anni. All'esecuzione assistettero tutti, tranne Najtine e Kiyora e la Duchessa Anise per ovvie ragioni le ultime due (i pargoli) e la prima perché giudicava barbarica l'intera messinscena, coi contadini che ridevano, gridavano, sputavano e ingiuriavano il già malmenato condannato, prendendolo a sassate mentre rimaneva sospeso nel vuoto, arrivando perfino a percuoterlo col bastone e a tirargli le gambe da sotto la forca, acciocché il collo si spezzasse, come facevano loro con le proprie galline, oche, anatre e un qualsiasi volatile da cortile. Alla fine dell'esecuzione, si discusse se lasciare o meno il morto a dondolare sulla piazza, mentre i corvi banchettavano ingordi sui suoi occhi e viscere. Il Duca fu irremovibile: "Non siamo più nel Medioevo", affermò vivacemente, accondiscendendo però, dietro lauto compenso, a cedere il cadavere alle aule universitarie di medicina a Konohagakure per le dissezioni accademiche.

"Che triste, che triste!", aveva sospirato Najtine il giorno dell'impiccagione del Fremda. "Suggere il latte di un'assassinata. Povero bimbo; che triste presagio!"

Sbuffando scettica, Kiyora obiettò: "Ma che presagio e presagio! Hanno fatto fuori la sua balia e allora? Mica volevano accoppare lui! Non conferirgli tutta questa importanza!"

La fata non s'alterò davanti a questo scetticismo, anzi, seguitò a fissare stancamente la neve che aveva iniziato ad ammantare il paesaggio fuori dalla finestra, ovattandolo in un gelido limbo. "Tu ridi di questo presagio. Tuo figlio piangerà a causa sua!" e non terminò neanche la frase, che Kiyora aveva stretto protettivamente Madara al seno, aggrottando bellicosa la fronte.

 "Balle! Tutte balle senili! Non giochi alla savia sibilla, alla lunga è stupido e snervante!", berciò ella, terrorizzata all'idea che qualcosa di orribile potesse accadere al suo prezioso frugoletto.

"Dici?", ribatté serafica la madre adottiva.

"Dico!", sibilò velenosa la figlia. "Eppoi, non vedo come accidenti s'incastri il figlio del padrone col mio ..."

Oh, quanto si sbagliava! Le loro vite si sarebbero incastrate, oh sì, se si sarebbero incastrate: in un puzzle perfetto, talora sublime e puro, talvolta perverso e diabolico, sì, si dovevano incastrare l'un l'altra per formare un unico destino, la storia che vi racconto.

Destino che non tardò a bussare alla porta di Najtine la Fata, tre giorni dopo questa conversazione. Si preannunciò tramite lo scampanellio di una slitta, rompendo il silenzio domestico caratterizzato dallo scoppiettio della legna bruciante, dalla rauca risata dell'arcolaio e da ruttini soddisfatti.

Andò la fata ad aprire la porta. "Oh, è lei!", esclamò imperturbabile.

"Mi aspettava, Najtine?"

Riconoscendo quella voce, la giovane madre si voltò di scatto, sbattendo incredula le palpebre.

"Tutti in questa casa la stavano attendendo. Prego, entri, Maljunulo Sinjoro!", fece accomodare Najtine l'ospite, il quale portò con sé parte della neve sulla piccola entrata, che cadde già bagnata sul pavimento, creando una piccola pozza melmosa.

"Spero di non disturbare."

"Lei non disturba mai, Sinjoro, forse nelle case dei suoi mezzadri, ma non in questa."

L'anziano Senju annuì, sorridendo a fior di labbra, enigmatico, lo sguardo indagatore già puntato con la precisione di un segugio su Kiyora. Ti ricordi, vero, delle mie parole?, le dissero quelle iridi cioccolata. Quasi cinque mesi fa: “Tornerai in questa casa e sarà per mia nuora.”

Sì, la mora se ne sovveniva fin troppo bene. E anche mettendo caso che se ne fosse scordata, il triangolo visivo del vecchio Duca - la figura nell'insieme della giovane, il suo seno e Madara che dormicchiava ignaro e beato nella sua culla improvvisata - spiegarono assai chiaramente lo scopo di quell'inaspettata visita. Senza voltarsi, inconsciamente, portò la copertina al mento del bambino, quasi volesse nasconderlo da quell'intenso studio.

"Bambina mia", le parlò infine l'uomo a quattr'occhi una volta onorati i convenevoli dell'ospitalità. La fata, dal canto suo, osservava la scena in disparte, riprendendo il suo lavoro all'arcolaio. "Sii sincera: nutri abbastanza il tuo piccino?"

"Jes, Maljunulo Sinjoro. Il mio bebo gode di un eccellente appetito, eppure non mi ..." e si vergognò un poco di dire "svuota" al padrone, ritenendolo leggermente volgare per le sue raffinate orecchie.

"Capisco", convenne meditabondo l'anziano Senju, battendo la punta del bastone sul pavimento. "E dimmi, te la sentiresti di allattarne un altro? Sarai ben remunerata, ovviamente."

Un tuffo al cuore. "Un altro?"

"Sì, bambina mia. Un altro ..."

Silenzio. Torcersi incerto di dita. Masticazione nervosa del labbro inferiore.

"... Mio nipote Hashirama."

Madara che si svegliava, si stiracchiava, sbadigliava e riprendeva a dormire, il pollice umido rificcato in bocca.

"Allora, mia cara, accetti?"

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

To  be continued ...



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Capitolo 5
*** Gala ***


Rieccoci qua col nuovo capitolo.

Gala”, dal titolo, deriva dal greco e significa “latte”. Come mai? Leggerlo per scoprirlo ...

La storia adesso incomincia a entrare nel vivo, ora che i due bischeri – Hashirama e Madara – sono nati, le vicende dei personaggi prenderanno a legarsi tra di loro. Incrociamo le dita ...

Ah, mi ero dimenticata di dire nei capitoli precedenti, che per “Najtine la Fata” non intendo che il personaggio ha le orecchie a punta, bacchetta magica e le ali, no la “fata” era una curandera, una sorta di strega bianca e questo termine si trova nella tradizione popolare medievale.

Un sentito ringraziamento per i miei lettori e recensori, in particolare Ame Tsuki e Sagitta72.

Vi auguro buona lettura,

 

H.

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Capitolo Quarto: Gala

 

 

 

Sfamare Menma è problematico. Non è rimasto quasi più niente da mangiare, la dispensa del nostro rifugio patisce come noi la fame, noi, due uomini, inadatti per natura a nutrire un neonato. Nell'inerzia dell'attesa, pensieri cupi affollano la mia mente, i quali m'inducono a pensare che se non salteremo in aria, moriremo d'inedia. O forse sto già crepando di fame, poiché, per quanto la desideri, la mia bocca non si apre dinanzi al cucchiaio di pappa d'avena offertomi (come l'avrà reperito?) dal Benefattore. Storco il viso, nauseato. Mio cugino ne approfitta per riporre il cucchiaio, rimestarlo in quella sbobba di fortuna, io nel frattanto nascondo quanto dettatomi dal tabarro, lui mi porge ancora quell'insopportabile pappetta molle. Ostinato filantropo, gran vizio della sua famiglia paterna.

"Devi mangiare", mi comanda. "Sembri un cadavere." Parla proprio lui, i cui zigomi resi prominenti da una quaresima fuori stagione gli ingrandiscono gli occhi, quegli occhi così belli che, alle feste e serate mondane, ammaliavano le donne lì presenti. Pallido, ora, estremamente pallido, sporco di polvere raggrumatasi nel sudore, come lerci e fiaccati si appoggiano i suoi ricci sulla fronte aggrottata. Conosco quello sguardo. Mi costringerà a mangiare, anche a costo di forzarmi le mascelle. E mi chiedo: se lui appare così, io quale mostruoso aspetto sto sfoggiando?

"Tu, invece, sei l'ottava meraviglia del moooh-gulp!", ecco mi ha gabbato per l'ennesima volta, infilandomi traditore il cucchiaio in bocca e il sapore di quella robaccia mi paralizza la lingua. Fa schifo, è fredda e viscida, l'ingoio a fatica, lo stomaco si ribella, disgustato, grugnisce il suo disappunto, vuole ricacciarla via. Ma si adegua, sconfitto. E' pur sempre cibo e la fame torna a rodermi le viscere.

Il Benefattore mi cede la scodella, appoggiandomela sul grembo e mi sottrae Menma, destatosi e già frignante e desideroso anch'egli di nutrimento. Mi detesto per l'arrendevolezza delle mie mani, che non piangono la perdita di quel dolce peso, l'unico loro interesse consiste nell'afferrare la ciotola e il cucchiaio, ingozzandomi senza riprender fiato tra una cucchiaiata e l'altra. Stupido stomaco avido e traditore, accetteresti di nutrirti perfino di topi se te li offrissero!

"Tieni", mi allunga il cugino un biscotto leggermente infiappito. "Gli darà un po' di gusto ..." E mentre io gli divoro in un battibaleno pure quello, egli estrae un cornetto di mucca traforato, riempiendolo di latte. Menma, affamato, si serve di esso senza alcun rimorso, suggendo energico, i pugni chiusi e le nari dilatate quanto gli occhi bicromi.

"Lo hai bollito?", gli chiedo, leggermente preoccupato delle doti di balia del mio parente.

L'occhiata lanciatami è spietata. "Ovvio", dice, provocandomi un feroce rossore per il mio scetticismo. Avendo ereditato un carattere sostanzialmente estroverso, amabile e talvolta eccessivamente esuberante e disponibile verso il prossimo (un po' come lo zio materno di Menma), tutti tendono a dipingerlo come uno stolto, un pagliaccio, per poi tremare dinanzi ai suoi scatti di collera o quando quella sua giovialità si sostituisce ad un'inflessibile serietà. Ignorano che lui si atteggia così per meglio manipolarli, come il toreador che gioca col toro prima di infliggergli l'estocade finale.

Questo nei confronti degli altri eper quel che mi concerne, il Benefattore non sa portarmi rancore troppo a lungo. "Mi prendi per un babbeo?", sorride, seguitando ad allattare Menma col cornetto, magro sostituto del seno materno. Ecco che termina il latte, il piccino piange, ne esige ancora, è finito, mio cugino lo appoggia sulla sua spalla, Menma piange disperato e rutta e piange e invoca quel latte che non riceverà. Vorrei dargli un po' della mia pappa d'avena, me è ancora troppo piccolo per digerirla.

Mio cugino, cullando il piccino, tenta di sopprimere con le parole quella frignante protesta. "Temo che a breve dovremo abbandonare questo rifugio. A Konohagakure hanno bombardato il bombardabile. Non siamo più al sicuro, bisogna procedere verso casa!", si alza, barcolla, la vista gli si offusca, costringendolo a coprirsi gli occhi con le dita fusiformi ereditate dal padre. 

Lo afferro, prima che sbatta contro il muro o, cadendo riverso sul pavimento, schiacci il piccolo Menma col suo peso. "Ah, sì?", ringhio, frustrato dall'apprensione. "E dove speri di andare così ridotto? Hai mangiato, almeno? O meglio, quando è stata l'ultima volta che l'hai fatto?", bercio fuori di me, grattando dalla scodella gli ultimi rimasugli della sbobba e ficcandoglieli ferocemente in gola. Il Benefattore non replica, si limita a sorbire la pappa in silenzio.

Talvolta la sua generosità m'irrita a tal punto che vorrei strangolarlo, però desisto, poiché anch'io ho peccato di simile eccesso e così non posso scagliare la prima pietra.

Cala la notte. Abbiamo procrastinato per qualche ora la nostra partenza. Siamo sfiniti, il sonno nuoce alle nostre ossa ammaccate dal pavimento duro e per fortuna che c'è il tabarro, che amorevolmente ci copre, riscaldandoci quel tanto per non rabbrividire nel sonno.

Un vagito. Di fame. Che posso fare?

"Non ho niente, tesoro", sussurro a Menma, il cui pianto aumenta di volume ad ogni secondo che passa. "Non ho niente da darti" e vi giuro che più le lacrime gli rigano le guance smorte e sporche, più la mia anima s'accartoccia, sopraffatto dall'impotenza. Per non svegliare mio cugino, il quale dorme rannicchiato come un gatto pur di cedermi quanta più stoffa possibile del tabarro, mi metto in piedi col nipotino in braccio e prendo a ballucchiare un piccolo valzer consolatorio per l'esausto piccino. Ottenuta finalmente la sua attenzione, oso spingermi oltre, azzardando un'arietta dal Faust di Gounod (la musica, eh!), la stessa che la mia bisnonna cantava a mo' di ninnananna per i suoi figli, nipoti, pronipoti e a suo tempo per i figli del padrone ...

 

 

C'era una volta a Tulé un re, fedele

fino alla tomba, e a lui fu donato,

cara memoria della sua bella,

un bel calice d'oro cesellato ...

 

 

"... Eh, no!", s'interruppe Kiyora, chinandosi per terra onde raccogliere la bianca cuffietta di pizzo che Hashirama, in piena crisi di ribellione vestiaria, aveva afferrato dalla sua testa e scaraventata giù dalla culla. Sbattutala contro la coscia, la giovane la rinfilò a fatica al suo legittimo proprietario, il quale storse il capo neanche avesse voluto svitarselo dal collo. "Benedetto fanciullo, vuoi gelarti le orecchie?", gli chiese, sistemandogli il delicato nodino sotto il mento e, dichiarandosi soddisfatta, lo sollevò dalla culla e lo avvolse nella morbida coperta di lana addolcita da decorazioni in merletto, cullandolo. "Eppoi, mica vuoi presentarti tutto sciatto, vero? Che dirà il cappellano?"

Francamente, Hashirama del cappellano se ne infischiava altamente, soprattutto se incontrarlo significava agghindarsi peggio di una bambolina di porcellana e coi suoi occhioni grandi, marroni, dalle ciglia lunghe quasi femminee, hé, ad una bella pupetta ci poteva assomigliare.

"Allora, che ne dite? Non l'ho preparato bene? I Sinjori saranno contenti, spero", volle Kiyora l'opinione di sua madre Najtine e di Haruka, intenta a trattenere uno sgusciante Madara, insofferente a quel suo tenerlo per la vita alla stregua d'un gatto. "Hai visto com'è ben vestito il tuo fratello di latte, tesoro mio? Oggi lo battezziamo, sai? La Sinjora m'ha poi promesso di donarti una vesticciola simile, quando verrà il tuo turno!", parlò lei dolcemente al figlio, portandosi assieme ad Hashirama alla medesima altezza. Smettendola di contorcersi come un fachiro, il piccino osservò attento il volto del Sinjorino, allungando una manina bavosa verso il nastro, tirandolo a sé in modo da rubargli la cuffietta.

Il piccolo Senju poteva, su suo capriccio, denudarsi di tutte le cuffiette di questa terra, ma guai se qualcun altro osava mettersi in mezzo, guastandogli il divertimento! Non appena i suoi morbidi capelli castano scuro vennero a contatto con l'aria leggermente più fredda, egli s'imporporò sdegnato, cacciò un belluino grido di battaglia e schiaffeggiò in una rapida zampata il naso di Madara, che rimase a bocca aperta per la sorpresa, prima di sciogliersi anch'egli in un pianto stizzito. E avrebbe pure ottenuto la sua giusta vendetta se sua madre, dopo avergli sottratto la cuffietta, non si fosse alzata, separando i due litiganti. "Cattivi, cattivi, brutti e cattivi tutti e due!", li rimproverò Kiyora, mentre Najtine sogghignava segretamente tra sé e sé.

"Ma come, furbastro? Aspetta di essere più grande per simili giochi ...", disse al nipotino, alludendo alla strana mania di Madara di sottrarre,tirando, ad Hashirama un qualsivoglia capo d'abbigliamento, dai calzini, alle fasce-pannolino, alla copertina e se gli oltraggiati strilli di risposta del Sinjorino avessero trovato una traduzione, di sicuro sarebbero stati non dissimili ad un "E smettila, lurido maiale ladro pervertito!"

Ma a parte questo, i due non s'importunavano troppo, o meglio, tutto dipendeva dall'umore già pestifero del moro - sì, i quattro ciuffi che aveva in testa avevano ripreso il corvino della madre, solo con sfumature azzurrine invece che viola - il quale, imparato a stare seduto, tentava ora saltellando sulle chiappe ora strisciando di afferrare Hashirama, che aveva a sua volta appreso a gattonare con un mese in anticipo pur di sfuggirgli, nascondendosi sotto il tabarro di Najtine. Gli adulti, ovviamente, interpretarono la cosa come un segno di grande precocità da parte di ambedue i pargoli, in particolare quando Madara, raggiunto il nascondiglio del compagno di poppate, ne sollevava il lembo alla ricerca del fuggitivo; rapida come la morte, una manina tesa lo aspettava al varco, una manina che gli rifilava un bel ceffone, costringendolo ad abbassare stupito e umiliato il tabarro. Allora, dimostrando di essere già un testardo, il piccolo Uchiha rotolava dalla parte opposta, infilando la testa sotto il mantello e alla fata cadeva per poco il fuso dell’arcolaio non appena i suoi timpani sperimentavano l’acuto strillo di Hashirama, presto seguito da quello di Madara. Prontamente la donna scostava il tabarro dal punto in cui i due s’erano accampati, rivelandoli intenti in una strana zuffa, il moro che stava tentando di smutandare – anzi, spannolizzare – il castano, mentre questi ricambiava il favore tirando vendicativo i pochi ciuffi del suo assalitore. Solo l’allettante prospettiva della pappa riusciva a calmare le urla ferine che uscivano impunite da quelle gole nuove di zecca, desiderose d’essere collaudate quanto prima.

"Ponja ... parlando del ba-battesimo ... Quando ... quando sposerai il Paĉjo ...?", tartagliò ad un certo punto Haruka, riacciuffando Madara e ritrovandosi di conseguenza la mano sbavata in segno di protesta.

Il sorriso della giovane s'incrinò in un che di sinistro. "Il giorno in cui verrà strisciando a chiedermelo, filina mia!" Ed effettivamente, non mancava giorno che Tajima non insistesse acciocché Kiyora venisse a vivere con lui, marmocchio compreso. Dal canto suo, la mora era irremovibile: l'Uchiha aveva promesso di sposarla compiuti i sedici anni? Ottimo, allora avrebbe atteso e siccome non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca, o Tajima si pigliava tutti e due con la benedizione della Chiesa o ciccia, senza contare che l'essere divenuta la nutrice del figlio del padrone le riempiva le giornate e l'ultima magagna che poteva sopportare erano le lamentevoli insistenze dell'uomo, sicché, appena lo scorgeva dalla finestra, Kiyora correva in camera sua, chiudendosi a chiave e cantando ad alta voce per non udire i battiti alla porta dell'Uchiha.

Talvolta, però, le richieste di Tajima si facevano così insistenti che neppure i rimedi della giovane potevano metterle a tacere; di conseguenza, ella balzava giù dalla sedia a dondolo e, spalancando la finestra, gridava spazientita:

“Ohé, ma la smetti di rompermi le pigne? I pargoli starebbero dormendo, sai? Santa Trinità, se mi fai scaturire il Sinjorino, la Duchessa m’impicca con le mie budella! E allora, chi si prenderà cura di Madara? Tu, razza di totano?”

Sorvolando sul “totano” nell’ultima domanda retorica, Tajima ribatté ostinato: “Certo, perché sono suo padre! E in quanto tale è ingiusto vedermelo privato!”

“Aria fritta con cipolle! Manco te ne cale di lui!”

“Baggianate!”, sbraitò l’Uchiha, che incominciava a perdere la pazienza. “M’importa moltissimo di lui, così come dovrebbe importare a te la magra figura che ci stai facendo fare alla comunità intera! La gente parla!”

“E lasciali fare, hanno la lingua apposta!”

“Io”, si batté l’uomo il petto, indicandosi “quando metto su famiglia, non voglio che nessun possa dire! Capito? Niente chiacchiere! Nessun Uchiha a Mokuton ha mai portato il titolo di “bastardo” e mio figlio non farà eccezione!”

“Ma sentilo, sentilo, il gran pater familias!”, roteò Kiyora gli occhi in maniera beffarda. “E a me non pensi, hundino? Non pensi alla vergogna che potrei provare giù in paese, sentendomi dare della baldracca? Della concubina? Io vengo solo se mi sposi, intensi?”

“Non si può fino ai tuoi sedici anni!”

“E allora, aspetta! Che fretta c’è?”

“Ma nel frattempo torna a casa, vivaddio!”

“Sono già a casa, pirla, a casa mia, di mia madre!”

“Manchi ai bambini …”

“Forse ad Haruka, ma agli altri due masnadieri no di certo …”

“Benedetta knabina, quando ti impunti così avrei voglia di strangolarti!”

“Ecco, bravo!”, berciò Kiyora, afferrando Madara dalla sua culla e mostrandoglielo ancora insonnolito dalla finestra. “Strangolami davanti a tuo figlio! Avanti, strangolami, ch’è la volta buona che t’impiccano e hai finito di scocciarmi!”

Najtine, filando imperterrita malgrado le grida belluine e la raffica d’insulti scaraventati a destra e a manca, li giudicò entrambi due cretini.

Quanto a Madara, egli visse abbastanza serenamente questo braccio di ferro tra i suoi genitori; a onor del vero, gli importava ben poco. Aveva questioni più pressanti cui badare: contendersi ad Hashirama il seno di sua madre. Il piccolo Senju, quando si trattava di poppare, non era un rivale da sottovalutare: complice il periodo di schifosi surrogati e un inverno assai rigido, il piccino aveva sviluppato una fame pressoché mostruosa e siccome lo stesso Madarain fatto di appetito non era secondo a nessuno, la povera Kiyora, appena terminato con uno, doveva issare lo strillante altro per allattarlo e così via suggendo. Lentamente, la mora stava incominciando a svezzare Hashirama e le richieste di poppare presero a diminuire; nondimeno, le prime settimane furono orribili.

Del resto, quando Sua Grazia il Maljunulo Sinjoro si presentò alla porta di casa di Najtine, suo nipote versava in condizioni davvero critiche, strappando un’esclamazione di preoccupato stupore perfino a quella scettica per natura di Kiyora. Infatti, in seguito alla morte della sua balia, se ne chiamò presto un’altra, sennonché Hashirama si rifiutava di nutrirsi da lei, neanche avesse intuito tramite un arcano ragionamento d’infante che la persona che fino a quel momento l’aveva allattato fosse deceduta, per di più di morte violenta. Non volle rimpiazzi, anzi, non volle proprio mangiare, per la disperazione di sua madre la Duchessa Anise che vegliava in lacrime sul figlio, rimpiangendo quel latte che i suoi seni oramai non potevano più offrirgli. Si temette dunque per la sorte di Hashirama, dimagrito in un battibaleno da un morbido frugoletto ad un fragile scheletrino: non solo declinò la poppa della seconda balia, bensì della terza, della quarta, etc.; prese a vomitare il latte ingurgitato per disperazione; piangeva e strillava giorno e notte come un ossesso e si rigirava esagitato nella culla che pareva epilettico.

A suo modo, Hashirama stava onorando il lutto per la scomparsa della sua nutrice, visto che neppure un cane aveva presenziato al suo funerale.

Fu forse per questo motivo che, nel momento in cui l’anziano Duca comunicò ai figli e alla nuora di voler affidare il nipote per un anno – secondo le usanze dell’epoca – alla figlia della Fata, nessuno osò sollevare delle obiezioni, neppure Tōka Senju, la quale si limitò ad annuire tristemente.

“Ve lo riporterò bello come il sole!”, aveva promesso loro Kiyora, quando Sua Grazia e la Duchessa vennero a portarle il bambino, il quale dormicchiava respirando appena appena. “Avete la mia parola.” I due Senju sorrisero a fior di labbra a mo’ di ringraziamento e non per scortesia, bensì in quanto entrambi provati da quell’atroce esperienza, assistere al deperimento di un bébé fino a quell’istante considerato uno splendore di salute. Rassicurati i sinjori con questa ottimista promessa e congedatasi da loro, Kiyora cedette allora il suo figliolo a Najtine e riempì il vuoto del suo abbraccio con il Sinjorino, il quale strabuzzò gli occhi, allarmato da quell’inatteso scambio. Prese quindi a tirare su col naso, a sforzare la trachea già di suo abbondantemente sfruttata, ma ecco! Oh, il miracolo della natura! Quali segrete paroline gli aveva sussurrato la ragazza, mentre prendeva posto sulla sedia a dondolo? Parole certamente di conforto, come consolanti erano quei ghirigori tracciati col polpastrello sul visino scavato, gli occhioni sporgenti e le manine ossute, che Hashirama schiuse e riaprì nel tentativo di afferrare il dito della mora. Con l’altra mano, lei si slacciava la blusa e la tetta turgida ebbe appena il tempo di fare capolino, che il piccolo Senju s’attaccò al capezzolo, suggendo vorace, gli occhi chiusi in apprezzamento e le dita intente in strani esercizi motori. Non si separò neppure quando Madara, frignando incollerito, gli diede tramite una serie di singhiozzi-gridolini del porco egoista, specificando in questo arcano e indecifrabile linguaggio infantile che quella era la sua tetta e che sloggiasse immediatamente. Hashirama, ineffabile, fece orecchie da mercante, gli rispose solamente a pasto terminato attraverso un soddisfatto ruttino e fu forse questa piccola provocazione che istigò in mio nonno il vindice pallino di smutandare ad ogni occasione il suo fratello di latte, il quale, omettendo i primi problemucci d’adattamento, riprese a mangiare con regolarità, riacquistando peso e cessando i suoi estenuanti isterismi con sommo sollievo di sua madre la Duchessa, la quale malgrado le fosse stato consigliato di sfruttare il periodo di convalescenza per rilassarsi, non passava giorno che non trovasse un modo per venirlo a trovare, magari adducendo qualche flebile scusa o portando calzini, cuffie, vestitini nuovi anche per Madara o sapone o coperte o altro denaro per pagare ogni spesa aggiuntiva. E spesso, sedendosi accanto a Kiyora, Anise si fermava assorta a contemplare il figlio che poppava come un matto, mentre un’espressione d’infinita malinconia le si dipingeva in volto e il fievole e sempre più saltuario dolore ai propri seni le ricordava maligno quell’arcano rimpianto, di non aver mai allattato personalmente la sua creatura sia per motivi estetici che di etichetta. Alla fine della visita, la Duchessa si raccomandava sempre con voce roca, dopo aver baciato e ri-baciato la testolina castana del suo bébé, di trattarlo bene e di avvertirla al minimo problema.

“Non avrei mai immaginato che l’allattamento fosse per i ricchi un qualcosa di sconveniente!”, confidò una sera Kiyora a Najtine, intanto che cambiava le fasce ai due marmocchi. 

“Non a caso nelle loro vene, quelle dei nobili in particolare, scorre ghiaccio al posto del sangue!”, replicò la fata, aiutandola a finire il lavoro e a sistemare nella semplice culla Hashirama e Madara, entrambi troppo stanchi e satolli di latte per protestare l’eccessiva vicinanza, in poche parole dormire nella stessa culla, preferendo invece rimandare a più tardi la loro diatriba lattea, addormentandosi quasi subito, Hashirama coi pugnetti portati all’altezza della testolina come le icone bizantine, Madara col suo immancabile pollice in bocca.

Una piccola tregua che durò all’incirca quattro ore quando, in sincronia perfetta, i due ulularono nel cuore della notte la loro fame lupesca.

 

 

 

... Nessun tesoro tanto gli piaceva!

Se ne serviva nei giorni solenni,

e ogni volta ch'egli vi beveva,

i suoi occhi di lacrime eran pieni ...

 

 

 

Il 29 giugno dello stesso anno, giorno dei Santi Pietro e Paolo, il sovrano di Hi, Re Sorato XIOotsusuki, impalmava una bella straniera, figlia di un imperatore, Sua Eccellenza la Principessa Kaguya. La peculiarità di codesto imeneo risiedeva nelle origini della regale sposa, la quale non proveniva, come le previe regine, né da Tsuchi, né da Kuminari, né da Mizu, né da Kaze, né da qualsiasi altra città libera o granducato o principato confinante con Hi. Sua Eccellenza Kaguya veniva da una nazione lontana (così lontana che solo chi aveva studiato geografia o viaggiato poteva figurarsela mentalmente) e aveva conosciuto Sua Maestà quando questi era ancora un Principe Ereditariosballottato di qua e di là per il globo terrestre su istruzione di suo padre, il defunto Re Soma VIII.

Il matrimonio reale, celebrato con uno sfarzo senza pari, galvanizzò l'intero regno, da nord a sud, da est ad ovest e le casse dello Stato ingrassarono per la folla di sudditi dalle province o di visitatori, che si prestò a rimanere pigiata negli angusti marciapiedi o appollaiata alle finestre pur di vedere la sposa arrivare nel Duomo di Nostra Signora dei Miracoli a Konohagakure o viceversa, la coppia reale uscire da esso sulla carrozza scoperta e salutare i festanti sudditi con un artificioso svolazzo di mano di repertorio. L'euforia generale sconvolse talmente la psiche dei konohagakuriani e hiliani in generale, che ogni screzio politico venne accantonato; perfino gli oppositori più accaniti della monarchia - i famigerati repubblicani che avrebbero dato la mano destra per veder la testa dei reali rotolare nello sterco di vacca - ebbene pure loro si sciolsero in un esaltato: "Dio salvi il Re! Dio salvi la Regina!"

Insomma, ci si riscoprì d'un tratto patriottici, perfino i più scettici.

A Mokuton l'effetto esaltante delle nozze reali venne prontamente assorbito dall'incrinabile imperturbabilità dei suoi abitanti i quali, un giorno di ferie e qualche bicchiere di vino gratis a parte, non si ritrovarono  né più ricchi né più privilegiati di prima, anzi, con la scusa che i padroni avevano dovuto lasciare la tenuta per presenziare alla funzione nel duomo, l'Amministratore ne aveva approfittato per godersela un poco, angheriandoli ulteriormente con le sue prepotenze e se il mio prozio simpatizzò con la classe lavoratrice, fino a pagare con la propria vita tale empatia, lo si deve a suo padre, il bisnonno Tajima, che, eletto a portavoce di tutti i mezzadri, si rivolse all'ultima autorità rimasta a Mokuton, quando i Senju erano assenti: il parroco. Col vecchio medico quale testimone (saranno stati analfabeti, ma mica fessi, eh!) il bisnonno e i suoi compari obbligarono il parroco a compilare il primo cahier de doléances mai esistito a Mokuton, un dettagliato resoconto di tutte le malefatte dell'Amministratore, alcune dimostrate, altre solo ipotizzate. In un appassionato quanto indignato appello al Duca, vi si denunciavano dopo anni di silenzio le birbonate e prepotenze cui i mezzadri erano sottoposti, le ladrerie compiute alle sue spalle e lo si invitava a prendere quanto prima dei seri provvedimenti. Ovviamente, questo quadernino non giunse mai nella scrivania né del Maljunulo Sinjoro né di Butsuma Senju, giacché il parroco, temendo ripercussioni da parte dell'Amministratore, lo nascose ai piedi della quattrocentesca statua di Santa Lucia e lì sarebbe rimasto per tre lustri, fino ad un suo casuale ritrovamento che avrebbe portato al giusto licenziamento dell'Amministratore prima, ad una tremenda tragedia nella famiglia Senju poi, segnando per sempre il destino delle due famiglie e dei loro componenti.

"Lui era venuto a punirci per i peccati compiuti dai nostri antenati", avrebbe confessato Kawarama a suo fratello Tobirama in seguito all'orribile sciagura. "Dobbiamo rassegnarci a raccogliere quanto seminato."

Intanto però, l'Amministratore (vi sarete resi conto che non voglio neppure dargli un nome) si accertò di fargliela pagare a quei disgraziati che lo avevano denunciato; il parroco, del resto, non ci mise molto a confidargli i loro nomi. La conseguente rappresaglianon tardò a venire: l'Amministratore e i suoi sottoposti, cui era stato erroneamente riferito che i mezzadri stavano organizzando una sommossa ai danni del padrone, irruppero di notte nelle case dei recriminanti e, strappatili a viva forza dal letto, li menarono a sangue davanti ai loro atterriti famigliari, ficcando poi la loro testa nel buco sul retro casa che fungeva da pitale. Lo stesso fato lo avrebbe subìto anche Tajima Uchiha, sennonché le oche nel cortile, accortesi dei visitatori notturni, similmente alle loro ave del Campidoglio presero a starnazzare impazzite, svegliando tutti gli abitanti del casolare, i quali, affacciandosi alla finestra, intuirono il motivo di quella visita sgradita e di fatti, vestito il parente alla bell'e meglio, lo fecero uscire di soppiatto dalla cucina. Correndo trafelato nei campi bui come l'inchiostro, l'uomo si diresse verso il solo posto che avrebbe potuto dargli asilo: la casa di Najtine la Fata.

"Mi danno la caccia, nascondimi!", esclamò egli senza fiato alla moglie, che gli venne ad aprire dopo che questi ebbe per poco sfondato la porta a furia di disperati colpi. (Pur seguitando a non vivere assieme, Tajima e Kiyora avevano nel frattempo convolato a nozze).

Senza neanche dargli il tempo di deglutire la saliva, la giovane lo tirò dentro casa, spingendolo in camera sua. "Qui!", disse, indicandogli la capiente cassapanca. "Nasconditi qui! Non muoverti, non respirare! A loro ci penso io!", lo istruì, per quanto lei per prima non sapeva come accidenti comportarsi, proprio in quella notte le doveva succedere un tale teatrino, l'unica notte in cui Najtine non c'era!

Ma il suo tabarro sì, neanche la fata l'avesse sospettato, e di fatti Kiyora se lo mise addosso a mo' di sostegno e protezione, sedendosi sopra il mobile, Madara e Hashirama stretti al collo. Molti anni dopo, poiché il mondo è un Uroboro, una scena simile si sarebbe ripetuta: sua nipote, mia zia, avrebbe atteso col figlio in braccio i "difensori dell'ordine" alla ricerca di suo padre e di suo zio, che lei aveva precedentemente nascosto in casa. Soltanto perché i capi di questa marmaglia erano amici di vecchia data di suo marito e avevano colto l'occasione per pareggiare dei conti comunque sbilanciati (il padre del Benefattore s'era giusto difeso e basta), mia zia sarebbe scampata ad una caterva di colpi allo stomaco, salvando così il nonno e il prozio.

Similmente, anche Kiyora la fece scampare a Tajima per intercessione di un Senju, sfruttando per una volta il suo speciale status a Mokuton. Le servì un enorme coraggio, però. Un'audacia accompagnata dal tremore delle gambe e dal cuore che le batteva a mille nel petto, mentre udiva i cani dell'Amministratore abbaiare verso la sua abitazione, ben presto seguito da un deciso rumore di passi.

"Aprite questa porta, streghe!", gridarono da fuori.

Kiyora non si schiodò dal suo posto.

"Aprite o giuro su Dio che appena dentro vi torco il collo, puttane!"

La mora strinse di più a sé Madara e Hashirama, i quali neppure fiatavano, intuendo secondo i loro ragionamenti d'infante che qualcosa di brutto stava accadendo e che non era il caso di fare storie.

Un calcio, due calci, tre calci. La porta crollò, sfondata, frantumandosi in un bedlam di schegge e tavole irregolari al primo contatto col pavimento. Entrarono come un fiume in piena, invadendo e violando la sacralità domestica coi loro stivali sporchi di fango, d'orina e sangue, rovistando dappertutto, distruggendo, dissacrando. In mezzo a questo blasfemo bailamme, la giovane nutrice era rimasta immobile come il sole, i due pargoletti oramai un tutt'uno con lei e col tabarro.

"Avanti, parla! Dove hai nascosto il tuo uomo?", si rivolse brusco l'Amministratore a Kiyora, dopo un'oretta buona d'infruttuose ricerche.

"In questa casa gli unici maschi che vi abitano sono questi due bambini."

"Non fare la furba, troia. Sappiamo che tuo marito è venuto qui a nascondersi! Dove lo hai ficcato?"

"Non è insultandomi che mi persuadi a dirtelo! Eppoi, io non so niente, non ho visto niente, a che pro mentirti?"

"Piuttosto, perché non eri a letto? Perché sei seduta qui?"

"Stavo allattando ..."

"Mi pare che questo qui sia un po' grandicello per poppare ..."

"Non il mio, però!"

"Suvvia, carina, poche storie: quella cassapanca è l'unico posto in cui non abbiamo controllato. Alzati: se davvero tuo marito non è in questa casa, non hai nulla di cui temere!"

"E appunto perché questa è casa mia, che mi alzo come e quando ho voglia e adesso non ne ho!"

"Non scherzare con me! Alzati o ..." e le puntò con freddezza assassina la volata del fucile dritto al cuore.

Kiyora impallidì fino al grigiastro, incominciando poi a gridare isterica: "Cornuto! Avresti davvero i coglioni di sparare ad una donna disarmata, per di più con dei bambini in braccio?", ululò, ingobbendosi e torcendosi con busto e spalle per proteggere i piccini, adesso piangenti e terrorizzati. Gli uomini dell'Amministratore si mossero a disagio sul loro posto: decisamente il loro superiore stava sorpassando ogni limite, specie se ancora non aveva intuito la vera identità di quella donna.

"E sai quanto me ne frega; una puttana e dei bastardi in meno, come se il mondo vi potesse mai rimpiangere!"

"Puttana sarà tua madre e bastardi sarete te e i tuoi fratelli! Lo sai chi sono io? Sai chi è lui, figlio di scrofa?", strillò ella esasperata dal terrore, indicando appena Hashirama, riconoscibile dai ciuffi castani che spuntavano dal tabarro. "Io sono la balia del figlio del padrone! Il figlio primogenito del Duca! Se gli dovesse mai succedere qualcosa, quant'è vero Iddio, Butsuma Senju ti farà squartare vivo e getterà le tue viscere merdose ai maiali!"

Una dolorosa stretta ai capelli la interruppe, piegandole dolorosamente il collo all'indietro. "Me ne sbatto dei Senju, di quegli ingrati rotti in culo, mangiapane a ufo, parassiti! Pensi che ti salverai il deretano nascondendoti dietro di loro? Che siano onnipotenti? Oh no, un giorno dimostrerò quanto essi siano fatti di carne e sangue e quel giorno gliela farò pagare non cara, no, carissima, salatissima, li farò disperare, li umilierò e tu sarai la prossima, tu e il tuo bastardo e quel cacasotto di tuo marito! Ah sì, e la strega che chiami madre!"

"Se non sarai tu a morire per primo, chi augura la morte ad una persona, accorcia la sua e l’allunga a quell’altra!", sentenziò serena la padrona di casa, comparendo alle loro spalle.

Calò immediatamente un pesante silenzio.

"Che blateri mai, strega?", la derise l'Amministratore, seppur un poco titubante.

"La pura verità", replicò serafica la fata, avanzando verso il gruppetto, che indietreggiò, impaurito. "E adesso, andatevene via o vi getto il malocchio!" e in tutta onestà, gli uomini lì presenti non avevano alcunché da obiettare, anzi, stavano giusto per esaudire il desiderio della donna, sennonché l'Amministratore li ordinò di restare.

"Che! Avete paura di questa befana?"

"Chi insulta senza un valido motivo dimostra di non possedere troppo cervello!"

Per tutta risposta alla massima di Najtine, l'uomo le elargì un possente manrovescio, gettandola a terra. "Taci, baldracca, e dimostra di averne un poco anche tu!"

Di nuovo calò il silenzio, stavolta mortale.

"Solo un maiale colpirebbe una donna", mormorò infine la fata ieraticamente, rialzandosi. All'improvviso, Najtine gli batté le mani davanti agli occhi, a qualche centimetro dal suo naso. "E allora vai! Vai a rotolarti coi tuoi simili, porco!", gli ordinò, indicandogli la porta.

L'Amministratore appoggiò le mani ai fianchi, gettò indietro il capo e si esibì in una grassa e insolente risata. "Via, vecchia! Il Medioevo è finito da tem-  ... Oink!", si tappò la bocca con la mano incredulo del suono emesso dalla sua gola. Ché infatti, mescolandosi alle risa, un vero e proprio grugnito maialesco era eruttato dalle sue labbra, scioccando tutti, tranne i piccini, che ripresisi dallo spavento iniziale incominciarono a ridacchiare.

Oink, oink!

"Oh Gesù, Giuseppe, Maria ...", si segnò velocemente Kiyora, portandosi le ginocchia al petto, tanto l'aveva invasa  la paura della superstizione, mentre osservava l'Amministratore cadere bocconi sul pavimento, grugnendo e dimenandosi e trotterellando a quattro zampe verso la porcilaia, dove si gettò  tra gli esterrefatti suini, i quali si domandarono se dovevano contendersi anche con questo nuovo arrivato le loro ghiotte ghiande.

Oink, oink, oink!

"Vade retro, Strega!", gridarono terrorizzati i sottoposti dell'uomo, intasando l'uscita in uno scomposto mucchio, essendosi infatti gettati nella fuga esattamente nello stesso istante.

Najtine sogghignò, puntando contro loro due dita e bofonchiando gutturali parole di minaccia, che si persono nel vento notturno, soppresse dagli ululati dei fuggitivi.

"Si è ... si è davvero trasformato in un ... maiale?", le domandò la figlia sull'orlo dello sconcerto, una volta che nella casa ritornò una certa calma. "Potresti ripetere anche con lui?", avanzò ella la sua richiesta, indicando Tajima, che in quel momento stava aiutando ad uscire dalla cassapanca, dopo aver coricato Hashirama e Madara nella loro culla.

"Senti, donna, non infierire ..."

Riprendendosi il suo tabarro, la fata incrociò le braccia al petto, svelando l'arcano: "Neniu, non l'ho "trasformato". Ho solo rilassato la sua coscienza d'uomo, visto che èuna bestia nell'animo. In ogni modo, domani mattina ritornerà in sé e non si sovverrà niente di questa notte, un po' come se avesse sperimentato una forte ubriacatura. Forse preserverà una vaga sensazione di aver fatto una figuraccia e di doversoprattutto stare alla larga dalla mia casa!", disse, massaggiandosi la spalla indolenzita dal carico di affanno che il tabarro aveva accumulato dalla figlia e i piccini, passandoglielo e conseguentemente irrigidendole i muscoli. "Ciononostante, pur conoscendo le dinamiche del futuro, mi sarebbe davvero piaciuto trasformarlo sul serio in un porco, coda inclusa!", rimpianse tristemente, dirigendosi verso il caminetto e lì riprese il suo infinito lavoro all'arcolaio. In silenzio, dietro di lei, la sua pupilla riaccompagnava Tajima dalla sua famiglia. 

Najtine possedeva un'incomprensibile, per i non-adepti, chiaroveggenza e appunto per questo motivo ella aveva previsto il progressivo allontanamento spirituale di Kiyora nei suoi confronti; l'affetto sincerofinora dimostratole dalla mora da quel momentosi sarebbe mutato gradualmente in un formale rispetto, più che altro dovuto al timore di subire la medesima sorte dell'Amministratore, il quale, come da lei predetto, si chiese nelle successive settimane come accidenti fosse finito a ruzzolare nel fango e nella merda tra i maiali, nutrendosi delle loro ghiande. Kiyora, col passare del tempo, avrebbe perfino smesso di vedere Natsumi Uchiha. Ciò dispiaceva grandemente sia alla fata che al fantasma, giacché la prima aveva perduto una potenziale apprendista, la seconda una persona a cui manifestarsi.

"Cinque anni e quattro mesi", consolò ella il tabarro, che vibrava il suo disappunto, aderendo al suo corpo da dea mater. "E avrò una persona cui insegnare ciò che sento, ciò che vedo."

Sospirò, appoggiando il fuso e gettando un ciocco di legno nel caminetto.

Non sempre pagano a questo modo gli atti di misericordia.

 

 

 

... Quando, sul freddo letto, il passo estremo

della morte il re sentì arrivare,

per potere alla bocca avvicinare

la coppa, fece uno sforzo supremo ...

 

 

 

 

L'estate ingiallì nell'autunno e, prima che ci si potesse rendere conto, giunse il 23 ottobre, segnando il momento della restituzione di Hashirama alla sua vera famiglia, la quale si trovava brevemente di passaggio a Mokuton, giusto per sbrigare le ultime formalità concernenti l'amministrazione della tenuta,  per poi ripartire col bambino alla volta di Konohagakure, dove avrebbero trascorso l'inverno e il primo mese di primavera, fino a Pasqua.

Nei mesi trascorsi tra giugno e ottobre, il Sinjorino aveva dato del filo da torcere a Kiyora, specie quando, a furia di capriole e strilli frustrati, imparò a camminare e iniziò dapprima la sua fase di lallazione, in seguito a spiaccicare le prime pragmatiche paroline: "Mamma ... pappa ..." e se il suo vocabolario fosse stato più articolato, di certo avrebbe aggiunto "E pure in fretta, eh!" Poppare latte oramai non lo interessava, trovava assai più divertente impiastricciarsi le mani di morbido purè di patate e spalmarlo sulla testa di Madara (o "Dada", come Hashirama lo aveva ribattezzato, essendo il nome del nonno ancora troppo complicato per la sua linguetta inesperta) e il piccolo Uchiha, costretto ancora a gattonare, non poteva competere con la vantaggiosa posizione eretta del Senju, impedendogli così di rendergli pan per pariglia. Piangere però no, non gli voleva dare codesta soddisfazione. Sicché, in una mattina ottobrina, Madara decise, esigette, risolse, stabilì ed eseguì, di sollevarsi dalla sua animalesca andatura a quattro zampe e di ergersi come i suoi simili homo sapiens sapiens, camminando sui suoi piedini. Più facile a dirsi che a farsi: al bambino costò una fatica immane sollevare in alto il sedere e formare una sorta di triangolo tra  salsiccesche gambe e braccia tese. E quando gli parve di poter raddrizzare la schiena e compiere i primi fatidici passi, ecco che la testa, più pesante del corpo, onorò le leggi di Newton e si piantò per terra e in battibaleno il mondo si capovolse e Madara si ritrovò supino per terra, la veste di lana sporca di terra e sollevata quel tanto da mostrare al mondo le sue ancora acerbe grazie (Vorrei far notare, che all'epoca di mio nonno, i bambini piccoli vestivano come bambine, con le sottane, e non calzavano alcun genere di costrittiva mutanda, acciocché potessero urinare e defecare a loro piacimento, quando natura chiamava, sollevandosi la vesticciola). Hashirama, che aveva assistito all'esperimento in doveroso silenzio, alla vista del perplesso Uchiha spaparanzato per terra gli trotterellò accanto a mo' di sostegno o forse per tappare la zampillante fontanella tra le gambe del fratello di latte, il quale, vuoi per la paura del ruzzolone vuoi per la pienezza della vescica, si stava per l'appunto pisciando addosso e, a quanto pareva, il piccolo Senju si stava divertendo un mondo ad aprire e chiude con la manina la parabola d'urina, un po' quando si è alla Fontana delle Tette e si blocca un capezzolo per far uscire più acqua dall'altro, schizzando i malcapitati attorno a quello ostruito. "Lalla-la-mah-gah-tat-ta!", strillò Madara, agitandosi come una tartaruga finita sul dorso, chiaro invito ad Hashirama di scegliersi un altro passatempo. Togliendo la mano lercia di pipì dalle modestie del moro, il Sinjorino se la ripulì sulla gonna della sua veste di verde velluto, osservando attento e senza malizia come Madara si rotolasse prono, gattonandosene via umiliato e offeso col sedere nudo al vento e, pensando che si trattasse di un nuovo gioco, si alzò anch'egli la sottane e gli gattonò accanto in simile maniera, in quanto pure lui privo di intimo.

Una settimana dopo, Kiyora riportava Hashirama al Castello di Mori.

I due pargoli, grazie alla loro infantile intuitività, avevano compreso che qualcosa di strano stava accadendo quella mattina del 23 ottobre: la giovane balia, vestitati con l'abito della domenica, aveva destato il Sinjorino e lasciato invece Madara nella culla, che si issò sulle paffute e spellate ginocchia per meglio studiare quell'inusuale programma, giacché la sua mamma soleva sottrarli contemporaneamente a Morfeo, senza precedenze.  Spiò come Hashirama venne fatto colazionare, seppur controvoglia, e sottoposto ad una lunga toeletta: con mesta accuratezza,  Kiyora lavò e strofinò ogni centimetro della sua piccola figura; gli tagliò le unghie delle mani e dei piedi, più quattro dita di capelli arricciatisi tra di loro in un'arruffata matassa e infine lo unse di un profumato unguento alla lavanda, vestendolo infine. Per la prima volta, il piccolo Senju indossò un paio di mutande, poi le calze bianche di lana lunghe fino al ginocchio, seguite da dei pantaloncini alla zuava blu di Prussia e nascosti da una lunga blusa del medesimo colore, su cui spiccava un ampio colletto di pizzo bianchissimo. E vennero le scarpe, quel gran mistero, fino ad allora Hashirama aveva girovagato per il mondo scalzo o al massimo con indosso  degli spessi calzettoni. Senza fiatare, fissando in muta partecipazione gli occhi sempre più umidi e lucidi di Kiyora - E' il fumo, mio bebo, è il fumo del caminetto, sai? -  il bambino si lasciò pettinare e non osò scendere dal letto imbottito di paglia, dove la balia lo aveva appoggiato, dedicandosi ora a Madara, attendendo entrambi in assoluta immobilità. Il piccolo Uchiha si dovette accontentare di un trattamento più approssimativo, quel tanto da farlo apparire pulito e decente dalla cesta, in cui sua madre lo depose e che si mise in spalla, allacciandosi le cinghie alla cintola e incrociandole per sicurezza al petto.  Sistemato al Sinjorino la mantellina e un cappellino alla gavroche, Kiyora s'avviò assieme a Najtine e il carrettiere Majstro Bourbon (così soprannominato per via della sua fenomenale golosità per l'omonima crema), venutole appositamente a prendere.

Nessuno proferì parola fino all'arrivo ai cancelli del Castello.

I padroni li stavano attendendo nel salottino privato, una confortevole stanza tappezzata di caldo e avvolgente rosso cardinale, dalle cui pareti innumerevoli ritratti di Senju di ambo i sessi e vestiti secondo la moda delle epoche più disparate osservavano vacuamente annoiati i loro discendenti, in particolare la Duchessa Anise la quale, annunciata Kiyora, balzò dal canapè, gli occhi spalancati dall’aspettativa, impaziente di riabbracciare il suo bambino.

Rimase quindi sorda agli inviti di rimanere compostamente seduta al suo posto e di ricevere imperturbabile la giovane balia, ringraziandola affettata per il suo servizio: non appena Hashirama, guidato per mano dalla mora, entrò nella sala, sua madre gli corse incontro, inginocchiandosi davanti a lui. Lo abbracciò forte, accarezzandogli il capo e cospargendogli il volto di baci, ignara di quanto quelle effussioni d’incondizionato affetto stessero mettendo in imbarazzo il marito e la cognata, suscitando invece un sorriso benevolo nel suocero. Anise studiò a lungo il figlio, scorrendo i polpastrelli sulle guance piene e la pelle morbida e olivastra, accarrezzando i capelli castani e riprendendo a stringerlo al petto, ricacciando indietro lascrime sia di gioia che di disappunto, poichè non le era sfuggita la rigidità del corpo del primogenito né le sue occhiate confuse. “Ah, mon enfant ...”, sospirò.

Gli occhi di Hashirama, infatti, non tradivano alcun segno di riconoscimento della madre uterina; di conseguenza, sentirsi così maneggiato lo metteva a disagio, incerto se ricambiare o meno l’abbraccio di quell’elegante sconosciuta dai capelli biondissimi, quasi argento, e dalle iridi carminio. A onor del vero, lo intimoriva un poco l’intensità di quello sguardo talmente pieno d’amore e tristezza, che si sentì consumare da esso. Si voltò quindi verso Kiyora, accennando a sciogliersi da quella dolce gabbia di carne e stoffa e di raggiungere la sua nutrice, nascondendosi dietro la sua ampia gonna domenicale.

Ma Kiyora, intuito il desiderio del piccino, indietreggiò di un passo, facendogli cenno di no col capo, che non stava bene: da adesso in poi lui non sarebbe più stato il suo bebo, un bimbo qualsiasi, un suo pari, da vestire spartanamente pratico e lasciar gironzolare come un selvaggio per i campi; Hashirama ritornava ad essere un Senju, l’erede di Mokuton, il suo futuro venticiquesimo duca e tutti avrebbero dovuto rivolgersi a lui ossequiosamente, dandogli del “lei”, del “padroncino”, del “Sinjorino”. Cessava di appartenere al loro mondo, catturato per sempre da quello di provenienza, per loro inarrivabile, proibito.

Allora, compreso come quel legame con la balia fosse ormai destinato a dissolversi, Hashirama si riconcentrò sulla Duchessa sua madre, abbracciandola a sua volta e permettondole di essere da lei sollevato e tenuto in braccio. Nello stesso istante, il Maljunulo Sinjoro raggiunse la mora, ringraziandola da parte di tutta la famiglia, traendola poi in disparte, fuori dalla sala, onde conferire con lei sul compenso e altre questioni.

Kiyora non salutò Hashirama, non gli lanciò neppure un’ultima occhiata, per quanto gli occhi del piccino fossero rimasti attaccati a lei, sperando fino all’ultimo che la giovane, in un impeto di affetto, lo strappasse dalle braccia della Duchessa, ritornando assieme nella casetta di mattoni di Najtine, sulle sponde del fiume Naka. Ne rimase deluso, sgranando però gli occhioni non appena si accorse di un braccino sporgere dalla cesta: rigiratosi a fatica nel suo costringente interno, Madara aveva steso il braccio in direzione di Hashirama, aprendo e schiudendo la manina, come se volesse afferrare  e trascinare a sé il fratello di latte, che imitò ben presto il gesto, allungando il collo oltre la spalla materna quando Anise, voltandosi, gli impedì di accommiatarsi appropriatamente dall’Uchiha.

Quella notte la culla parve a Madara terribilmente grande, vuota, fredda.

“Hai accettato?”, udì la sua nonna adottiva confabulare con la madre, le quali lo credevano addormentato e comunque troppo acerbo per comprendere i loro discorsi, Kiyora soprattutto.

“Jes”, le confermò la giovane, sistemandosi lo scialle sulle spalle. “Incomincierò dalla prossima settimana.”

“Tuo marito non ne sarà molto contento”, puntualizzò Najtine, preparando il telaio. “Potrebbe finire come la povera Natsumi ...”

La mora rise sarcasticamente. “Come se me ne importasse! Settanta ryo al mese, voglio ben vedere se ci sputa sopra! Io no di certo! Eppoi, non corro alcun rischio: lavorerò nelle cucine, non come cameriera, ergo il padrone non mi ronzerà attorno!”

La fata mormorò il suo assenso. Che altro poteva fare, altrimenti? Aveva perduto Kiyora in quella terribile notte di fine giugno, che gliene veniva a litigare con lei?

“Porterai Madara con te?”

“Non oso lasciarlo solo con quei bifolchi”, mormorò cupamente la sua pupilla. “Lo odiano. Mi odiano. Chissà a quali malagrazie potrebbero sottoporlo, mentre io lavoro al Castello! Inoltre, sono convinta che lì avrà modo di costruirsi un destino diverso dai suoi antenati, le occasioni non gli mancheranno! Sono stata la nutrice del loro erede, i padroni se ne ricorderanno, quando prenderanno mio figlio a loro servizio. E a Dio piacendo, se la Sinjora Duchessa si dovesse decidere a sfornarne altri, non mi dispiacerebbe proprio allattare pure quelli ... Nessuno dei miei figli si piegherà a zappare i campi, mangiando polvere come i serpenti!”

Il cigolante rumore del pettine del talaio s’interruppe. “Attenta, filina”, l’avvertì Najtine. “Non permettere che il fuoco dell’ambizione ti consumi, potresti rimanerne scottata: i servi che si mettono sullo stesso piano dei padroni, raramente finiscono bene ...”

“Trovi iniquo il mio desiderio di volere un destino migliore per Madara?”

“No, ma deve essere lui ad ambire ad esso. Costringendolo, te lo alienerai e l’amore interessato che finora gli avrai dato sarà ricambiato con l’odio della recriminazione.”

Kiyora sospirò, massaggiandosi la tempia.

“Mi accontenterei anche solo di saperlo un uomo libero, slegato da ogni obbligo servile. Senza padrone, tranne che di se stesso. E’ troppo domandare?”

“Il tempo ti darà la risposta che cerchi. Per stanotte, dormi e non ci pensare.”

La voce di Kiyora tremò, semi-soffocata dalle mani dietro cui la mora aveva nascosto il suo volto stanco. “Voglio bene a mio figlio, sai?”, singhiozzò. "Gli voglio bene ..."

“Nessuno lo ha mai messo in dubbio, filina”, la consolò Najtine, abbandonando il lavoro al telaio e, raggiuntala, avvolgendola col suo centenario tabarro.

 

 

Finalmente, in onor della sua dama,

egli vi bevve per l'ultima volta;

tra le sue dita tremò quella coppa,

ed egli, dolcemente, rese l'anima.

 

 

Fu così che Madara si trasferì al Castello di Mori.

L’idea proveniva da Sua Grazia il Maljunulo Sinjoro, il quale ancora ben si sovveniva del brutale e umiliante licenziamento di Kiyora da parte della figlia e, desiderando portare la faccenda ad un giusto equilibrio, aveva elaborato quel compromesso: la mora avrebbe lavorato nelle cucine o meglio, nella terza cucina, quella riservata alla preparazione dei dolci, acciocché potesse mantenere il figlio e nascondersi dagli occhi vendicativi  di Tōka, le cui urla ancora riverberavano sia nel Castello che nella loro dimora cittadina a Konohagakure. Suo padre dovette battere il pugno sul tavolo, alzare la voce e minacciarla di spedirla in convento se ancora s’azzardava a remargli contro – Butsuma sarà il Duca, però io sono ancora il padrone di questa casa e soprattutto sono suo padre! Un’altra parola, signorina, e ne paga le conseguenze! -  per poter giungere evemtualmente ad una parvenza di tranquillità all’interno dell’aristocratica famiglia. In ogni modo, la sua soluzione si dimostrò valida, rasserenando l’anziano signore e concedendogli di giocare finalmente al nonno.

Hashirama era un amore di bambino: passate le prime settimane di malinconia per il distacco dalla nutrice, aveva ben presto obliato l’anno trascorso tra i mezzadri, adattandosi con l’elasticità ingenua degli infanti alla sua nuova vita nel signorile palazzo della sua famiglia, giostrandosi tra le continue attenzioni dell’anziano Duca, di sua madre, delle zie e delle cugine. Crescendo, si delineava un carattere molto vivace eppure dolce, rasserenante, gentile. Non si esibiva in nessun capriccio e se ogni tanto metteva su un signor broncio, ecco che la sua espressione alterata si scioglieva in un sorriso radioso tutto fossette, che faceva innamorare chiunque gli stesse accanto. L’unica pecca in questo bonbon di creatura si trovava nella sua facile tendenza alla depressione, ereditata, come asserito da Najtine, dalla madre durante la sua gestazione. Hashirama si intristiva per un nonnulla, dimostrandosi estremamente sensibile ai commenti negativi e ai rimbrotti. I cugini lo dileggiavano spesso e volentieri per la sua reclutanza a tirare la coda al gatto o a spennare i canarini o con la fionda a distruggere le bambole delle cugine, appellandolo “mollaccione”, “signorinella”, “frignone”. Allora, il piccolo Senju si rannicchiava sotto il tavolo, dietro il vaso di selci o della palma nana, oppure in un angolino nascosto e, portate le ginocchia al petto, si ubriacava della sua medesima tristezza fintanto che il nonno, scovando sempre e comunque il suo nascondiglio, lo issava in braccio e, accomodatolo sulle ginocchia, lo invitava a confidargli i suoi crucci, leggendogli poi le favole dei fratelli Grimm o poesie e filastrocche, nel frattempo che gli accarezzava il capo e sorrideva alla vista del visino di Hashirama che si distendeva gradualmente, addormentandosi poi, la testa appoggiata sulla spalla del vecchio.

Sua Grazia il Maljunulo Sinjoro a parte, Hashirama crebbe tra le donne nel gineceo di casa, un mondo segreto e ovattato distante anni luce dalla schietta e cameratesca competitività che avvertiva ogniqualvolta si relazionava coi cugini e, nelle rare occasioni in cui s’imbatteva in lui, col padre. Lo preferiva al mondo dei “veri uomini”, gli era più caro e vicino questo locus amenus pieno di calda luce, dai colori pastello e morbido come le mani bianchissime della Duchessa Anise, il cui ventre, notò Hashirama un giorno, incominciava ad arrotondarsi, come se la sua Maman si stesse gradualmente trasformando in un’orca assassina. Ne parlò entusiasta col nonno, il quale gli sorrise a mo’ di conferma, spiegandogli che Anise gli stava preparando un dono molto speciale, un fratellino o una sorellina con cui giocare e a cui badare, in quanto primogenito.

“E quando sarete grandi abbastanza, potrete scorazzare quanto vorrete a Mokuton, dove altro non sussiste che il cielo, l’acqua e la terra. Non come a Konohagakure, dove sono le case a farla da padrone!”, gli raccontava e Hashirama lo ascoltava rapito, fantasticando su queste terre il cui nome ricorreva spesso nelle conversazioni in famiglia e che la sua mente infantile dipingeva come la gemella della Camelot arturiana, piena di avventure, magie, misteri. Ogni giorno insisteva sulla data della partenza, tampinando tutti i suoi famigliari finché, alzando lo sguardo dal suo ricamo, sua zia Tōka sbuffò snervata all’ennesimo strattone alla gonna: “Quando nascerà il bambino!”

“Ancora? Sono mesi che me lo dite!”, protestò il castano.

“Ci vuole tempo, tesoro, ci vuole tempo ... Bisogna attendere ...”

“Ma io non posso aspettare!”, frignò Hashirama, scappando via alla ricerca del nonno. “Quando nascerà il bambino?”, gli chiese ansioso, arrampicandosi sulle sue ginocchia e costringendo l’anziano Duca a riporre il giornale e la pipa che stava fumando.

“A settembre.”

“Eh? Ma per allora l’estate sarà finita! Come gioco, io?”

“Vero, però l’estate successiva il suo fratellino o sorellina sarà abbastanza grande per viaggiare. E’ lunga, da qua a Mokuton!”

Un anno ancora. Beh, poteva farsi forza e attendere.

Il viaggio non ebbe mai luogo.

Una mattina di metà giugno, mentre giocava coi suoi soldatini di piombo, Hashirama sobbalzò quando le sue giovanissime orecchie entrarono in contatto col primo vero grido della sua vita: Kanako, la cameriera personale della Duchessa, si diresse urlando da suo padre Butsuma, spiegandogli concitatamente come sua moglie fosse caduta in deliquio per terra, inzuppando il tappeto di sangue. Si chiamò il medico e il piccolo Senju, che naturalmente era corso a curiosare, fu trasportato via a viva forza dalla zia nella sua cameretta, dove rimase segregato in compagnia di una fantesca finché questa, appisolatasi, non gli concesse una ghiotta occasione per sgattaiolare via e scoprire quale male stesse affliggendo la sua Maman. Nascondendosi dietro le tende, Hashirama assistette all’uscita del dottore dalla camera di Anise, un’espressione grave dipinta in volto.

“La creatura era una bambina”, annunciò cupamente. “Troppo fragile e deforme per sopravvivere all’intera gestazione. Quanto a Sua Grazia la Duchessa, le sue condizioni sono stabili, non corre alcun pericolo di vita. Solo, potrebbero esserci delle complicazioni ... spirituali, ecco.”

Il Duca accolse stoicamente la notizia, non muovendosi neanche quando Kanako uscì dalla stanza, recando seco in un pasciuto fagotto il corpicino senza vita della figlia.

“Dio, è orribile!”, commentarono schifati i servi nella cucina, attorniando il feto che la cameriera aveva appoggiato sul tavolo, in attesa che si decidesse il da farsi.

“Mostruosa!”

“Non ha neppure le gambe!”

“E le mani? Hai visto? Sembrano due moncherini!”

“Guarda la schiena ... E gli occhi?! Un rospo!”

“Come ha potuto la Sinjora portare in grembo un simile obbrobrio?”

“Sangue marcio, mia cara, sangue marcio! Così imparano a sposarsi tra di loro, i porci incestuosi!”

Dall’ombra del suo osservatorio Hashirama assisteva a tali discorsi, la lenta e inesorabile fine del suo infantile idillio.

A Mokuton, similmente nell’ombra delle cucine cresceva Madara Uchiha, una piccola peste dalla lingua assai lunga, la quale traeva un birbonesco gusto a far impazzire sua madre, celandosi in ogni angolo oscuro del vasto labirinto e sparendovi in essi per ore e ore, dall’alba al tramonto. I cuochi, gli sguatteri e le cameriere gli davano man forte e Kiyora imprecava come un marinaio quando, concentrandosi su di una pietanza, perdeva di vista il figlio, che immediatamente ne approfittava per continuare le sue esplorazioni. Ogni cosa lo incuriosiva, scatenandone un intelletto non comune per la sua età, che lo portava a tartassare il Majstro Takagi, il guardiacaccia, il quale di tanto in tanto si presentava nelle cucine per cedere della selvaggina o fare rapporto all’Amministratore. Attendendolo quatto quatto, Madara gli saltava addosso, aggrappandosi alla sua schiena e, se voleva liberarsi del suo insignificante peso, gli intimava di raccontargli questo, quello, tutto. L’uomo rideva, sconquassandogli il petto col suo timbro possente da basso, afferrandolo per il coppino come un gatto e, rimettendolo coi piedi per terra, prendeva posto accanto al camminetto, dove il piccolo Uchiha tosto lo raggiungeva, accocolandosi per terra, sorreggendosi il viso con le mani. Beveva i racconti, talvolta esagerati e talvolta pragmatici, del guardiacaccia, immagazzinando i suoi aneddotti, consigli ed esperienze personali, di amici e di parenti e se fosse stato per Madara, non avrebbe mai cessato di ascoltare le sue storie, anche all’infinito, pur di non ritornare alla realtà, quella vacca schifosa e traditrice che lo attendeva fuori dai cancelli del Castello di Mori.

Non gli piaceva ritornare  a casa, in quello squallido casolare dove abitavano i suoi parenti, dove egli sapeva di essere a malapena tollerato. Il padre Tajima lo trattava alla stregua di una bestia, nel senso che tra il cane e il quartogenito non sussisteva alcuna equa distribuzione d’affetto, un pat-pat sulla testa e tant’era. Se avesse potuto, il moro sarebbe scappato da Majstro Takagi, supplicandolo di adottarlo. Oppure di sposare la sua Ponja, in modo da divenire una famiglia con tutti i crismi. Magari un giorno gli avrebbe insegnato a sparare ai bracconieri e a preparare le tagliole.

Madara percepiva di essere un estraneo in seno agli Uchiha, ma non gliene importò.

Similmente, non gli importava che gli altri bambini del villaggio, invidiosi dei suoi lindi abiti seminuovi e della ciccia del bambino sano e nutrito sulle sue ossa, lo isolassero dai loro giochi, ostracizzandolo; che all'insaputa dei genitori i suoi fratellastri Setsuna e Saya assieme ai suoi cugini gli tirassero i capelli, gli strappassero di dosso i vestiti e lo strascinassero nella melma, urinandoli in faccia e chiamandolo "bastardo" tra un pizzicotto e l'altro. Non gliene calava un'emerita cippa di queste vere e proprie sevizie: lui sapeva di essere superiore a loro e la prova stava nella vita che conduceva al Castello, nel dedalo delle immense cucine sotterranee, dove lui regnava incontrastato in quel mondo dai mille odori e dal vociare incessante, piccolo monarca assoluto del continuo viavai di servi e contadini che portavano i viveri da catalogare, riporre nelle dispense e cucinare. Lì era vezzeggiato, coccolato, poteva fare e dire ciò che gli saltava in testa e nessuno lo avrebbe mai punito: l'aver condiviso il medesimo latte col Sinjorino gli conferiva una sacra aura d'intoccabile agli occhi ancora superstiziosi delle fantesche, le quali se lo contendevano per lavarlo, giocare con lui, sfamarlo. Madara ingurgitava giornalmentelatte, biscotti, carne, pesce, verdure mista, frutta in quantità tale, che i suoi parenti non avrebbero visto neppure in un anno. All'inizio, aveva desiderato condividere siffatte ghiottonerie, ma poi aveva riconsiderato queste sue filantropie alla luce della poca bontà e riconoscenza ricevuta in cambio, giungendo alla conclusione che non si meritassero un bel niente da lui. Sicché, fu generoso solo con Yakumi, il fratellino nato due anni dopo, che Madara avrebbe sempre tenuto in braccio quando la madre impastava i dolci, spezzettando piccoli bocconcini di cibi vari per aiutarlo nella masticazione, una volta cresciutigli i denti.  Divenne il maestro del piccino, iniziandolo ai segreti delle cucine e raccontandogli le storie di Majstro Takagi, aiutando in questo modo sua madre a badare al marmocchio durante i suoi turni al forno, in particolare quando Kiyora si scoprì incinta per la terza volta.

Eppure, per quanto considerasse Yakumi  un suo vero parente e nutrisse per lui un grande affetto, il fratellino non poteva alleviare la tremenda solitudine che giorno dopo giorno cresceva nel cuore del piccolo Uchiha. Il Re si scopriva sempre più solo, incapace di relazionarsi con qualcuno della sua età, un coetaneo con cui giocare e condividere i biscotti e le confidenze. Di conseguenza, trascorreva giornate intere ad analizzare ogni minimo dettaglio delle cucine, dagli scaffali al girarrosto, dalle ragnatele nelle cantine agli animali morti appesi e in attesa di essere cucinati. Rovistava perfino nella spazzatura, studiando accorto la testa decapitata di un'oca, forzandole aperto il becco per appurare se avesse o meno la lingua. E quando, con una zampata, Kiyora gli sottraeva il giocattolo di fortuna, ecco che Madara riemergeva dalla fuligginosa penombra delle cucine per rimanere accecato dalla schietta luce esterna, ritagliandosi un piccolo angolo dell'immenso parco-giardino che circondava il Castello. Afferrato un sassolino, tracciava sulla terra con la punta di un bastone la tabella per il gioco della Campanella, tirando la pietruzza e saltando come un ranocchio e piegandosi come una gru per recuperarlo e riprendere il gioco.

Il tutto, canticchiando: "C'era una volta a Tulé un re, fedele fino alla tomba ... ", pomeriggio dopo pomeriggio per quasi quattro anni, finché un giorno in cui era stato letteralmente espulso dall'improvvisa ressa creatasi nelle cucine neanche si fossero tramutate in vespaio, gli capitò di lanciare il sassolino nell'ultima casella. Aprendo le braccia per coordinare meglio i balzi, Madara incominciò a saltare, prima su di un piede, poi su due, poi ancora uno ... "... e a lui fu donato, cara memoria della sua bella ..." e due ... uno ... due ... l'ultima casella giunse, ma ... ohibò! E il sassolino? E quel paio di scarpe di nero cuoio sotto il suo naso?

"... un bel calice d'oro cesellato!", concluse una vocina bianca come la sua, costringendo il piccolo Uchiha a risalire con lo sguardo la linea degli stivaletti, lungo delle calze nere e un abito scuro alla marinara, soffermandosi sullanuda, morbida e ombrosa fossetta del giugulo fino a giungere ad un volto pienotto incorniciato da corti capelli castano scuro e su cui troneggiava un sorrisone speranzoso. "Piacciono anche a te le poesie di Goethe? Grand-père me le legge spesso, prima di coricarmi."

Un arcano terrore invase l'anima già di suo scossa di Madara: il bambino - o nano, chissà - davanti a lui gli si parava innanzi come una sorta di indecifrabile creatura sovrannaturale. Non apparteneva al suo mondo, non almeno quello cui il moro faceva riferimento. Inoltre, la parlata lineare e pulita da ogni forma di gergo, l'atteggiamento composto di chi conosceva il proprio status, i vestiti troppo puliti, troppo costosi e quel viso pieno della compiaciuta serenità di chi era sempre vissuto in una felice campana di vetro misero il moro in uno stato di impaurita soggezione, quasi il suo istinto animale - o la tara genetica d'essere discendente d'una lunga stirpe di servi - lo stesse avvertendo che, al primo suo passo falso, quel fanciulletto poteva rovinargli l'esistenza. Emanava una forte aura di potere che lui, Madara Uchiha, solo in età adulta avrebbe raggiunto, ottenuto dopo lunghi anni di sacrifici, lacrime, sudore e sangue. Ma allora, in quel pomeriggio di fine aprile, lui si sentì minacciato da quel bizzarro bambino che blaterava di assurde chimere. E come ogni brava bestia sotto attacco, si mise subito sulla difensiva.

"Non conosco nessun Gheute, io! E tu, sei un suo amico o cosa, che ne parli con tanta ... famigliarità? E chi è Grammper?", indietreggiò cauto il moro di un passo, pur mantenendo il contatto visivo col suo opponente, il quale scosse divertito il capo castano.

"No, non Gheute. Si pronuncia Goethe, è un cognome tedesco", lo corresse, senza però dare alcun segno dispocchiosa sufficienza. "E comunque no, non lo conosco, non di persona almeno, perché è morto!"

Madara spalancò la bocca, terrorizzato: Dio santissimo e benedetta Lucia di Siracusa, questo qui parlava coi morti! Doveva essere un fattucchiere, un eretico, un posseduto ...

"Allora, vuoi giocare con me?"

E siccome il piccolo Uchiha ci teneva all’eterno destino dell’anima sua, in barba alla corretta pronuncia di quel cognome bislacco e a delle pur allettanti offerte ludiche, fece dietrofront e corse via alla velocità di un treno, manco avesse satana in persona alle calcagna.

Il diavolo no di certo, ma Hashirama Senju sicuramente e di fatti, quest'ultimo non tardò a lanciarsi all'inseguimento del moro, ridendo come un matto e per questo spaventando ulteriormente l'altro bambino, il quale fece voto solenne di mortificare il suo stomaco rinunciando per una settimana ai biscotti, nel caso qualche santo celeste avesse avuto compassione di lui, salvandolo dalle grinfie di quell'indemoniato.

Non ottenne nulla di tutto ciò, la sua fervente petizione rimase assolutamente inascoltata.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

To be continued ...

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L’ultima parte potrebbe sembrare un po’ frettolosa, ma è fatta apposta. Le dinamiche del ritorno a Mokuton da parte di Hashirama verranno meglio spiegate nel prossimo capitolo.

Andate su YouTube e provate a sentire la poesia di Goethe musicata da Gounod nel “Faust”, in questo modo avrete una colonna sonora per il capitolo! XD

Alla prossima, ciao!

 

 

 

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