Il mio bellissimo imprevisto

di reb
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo due ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno ***


 


Il mio bellissimo imprevisto.





-Amico, andiamo!-
L’incredulo urlo maschile si propagò per tutta Diagon Alley, facendo voltare anche le poche teste che già non l’avevano fatto quando un tornado vestito di rosso era sfrecciato loro accanto, rischiando di travolgere molti di loro a causa dell’alta velocità.
Il gigante dai capelli rossi che aveva urlato l’avvertimento rimase inascoltato dall’altro ragazzo, mentre questi continuava a correre, senza perdere d’occhio l’uomo che stava inseguendo. A Ronald Weasley non rimase che guardarlo sparire, indeciso se mostrarsi offeso per essere stato ignorato dopo che era andato a cercarlo fino all’Accademia Auror per passare la pausa pranzo insieme o il divertimento, per l’ennesima dimostrazione, che l’amico avesse scelto la strada giusta nella vita.
Harry Potter, d’altra parte, sperava che il rosso non si fosse offeso troppo quando, appena un paio di minuti prima, l’aveva abbandonato nel mezzo alla strada per rispondere al richiamo di aiuto di uno dei tanti negozianti della Londra magica.
Evitando l’ennesimo passante che era stato spintonato senza attenzione dall’altro uomo, Potter scartò di lato solo grazie ad anni e anni di allenamenti sotto la rigida e psicotica guida di Oliver Baston, per poi riprendere a correre il più veloce possibile, ben deciso a raggiungere il ladro prima che si perdesse nella folla.
Il ragazzo ringraziò mentalmente anche gli estenuanti allenamenti dell’Accademia, cui era costretto a sottostare ogni giorno, perché era solo grazie a quelli che poteva dirsi abbastanza in forma da continuare a correre, invece di stramazzare al suolo senza fiato implorando pietà.
Il mondo intorno a lui, che probabilmente si fermava vedendoli sfrecciare come due pazzi lungo la strada frequentata dell’ora di pranzo, si poteva riassumere semplicemente come una girandola di colori a largo spettro, che impedivano di mettere a fuoco singole immagini, ma soltanto il loro disarticolato insieme. L’unico punto fermo al suo sguardo, il centro perfetto di quella girandola che teneva insieme tutto quanto, era il ladro che stava inseguendo.
E così Harry correva e correva ancora, ignorando il sudore che gli colava dietro gli occhiali, decidendo anzi di spingere ulteriormente sulle gambe prima che l’altro uomo sparisse senza lasciare alcuna traccia dietro di sé.
“Dannazione! Ron avrebbe anche potuto lanciarsi all’inseguimento a sua volta!” pensò irritato il ragazzo, ben sapendo che, nonostante l’amico avesse messo in pausa la propria carriera di Auror un paio di anni prima per aiutare George al negozio di scherzi, sarebbe stato un utile alleato in quel momento. Le sue gambe lunghe, certamente, lo sarebbero stato.
Harry scartò l’ennesima persona, rischiando di strozzare il povero ignaro nel suo stesso mantello quando il braccio vi rimase impigliato, e maledì l’uomo davanti che ancora non accennava a fermarsi. Diagon Alley non era il luogo migliore, in effetti, per decidere di lanciarsi in una corsa folle dietro a un criminale, ma l’istinto di una vita, che si era soltanto affinato negli ultimi anni, l’aveva spinto a muoversi prima ancora di rendersene conto. Dopotutto quel criminale era uscito da una famosa gioielleria magica, una delle poche che, anche anni dopo la guerra, poteva vantarsi di fare affari con i folletti e la refurtiva, pur piccola che fosse, doveva valere una mezza fortuna. O almeno era quello che diceva il viso stravolto del povero commesso che aveva gridato al ladro con voce isterica.
Osservandolo con occhio attento, nonostante il fiato che iniziava a mancare per lo sforzo prolungato, Harry capì che, con ogni probabilità, l’uomo che stava inseguendo era un mezzosangue. Era stato coinvolto in troppe situazioni del genere per sbagliare. E, come ogni volta, si trovò a detestare quella determinata categoria umana che, nei momenti di stress, sembrava dimenticare di possedere una bacchetta e di potersi chiamare mago in favore della metà babbana della loro anima.
Iniziavano a correre in preda al panico, dimenticandosi di potersi smaterializzare in ogni momento con una semplice giravolta, scassinavano le porte alla maniera babbana invece che con un incantesimo ben eseguito e, ogni volta, complicavano solamente la sua vita.
Perché a lui, recluta Auror per propria scelta, toccava inseguirli e farsi prendere a pugni. Ancora a lui toccava ricercare prove inesistenti sui luoghi dei delitti quando mancavano segni di magie. Sempre lui, alla fine, ci andava di mezzo.
Era in quelle occasioni che rimpiangeva la scelta di rinunciare, dopo quasi un anno, alla carica di Auror ad Honorem che gli era stata offerta dopo la guerra, decidendo invece di fare un passo indietro a terminare la scuola, prendere i M.A.G.O., sebbene con due anni di ritardo, e diplomarsi all’Accademia Auror.
Svoltando a sinistra e saltando una sedia che era stata lanciata a terra al solo scopo di rallentarlo, Harry ripensò a quando, cinque anni prima, aveva capito quanto la vita che stava vivendo fosse sì, quella che aveva scelto, ma che non l’aveva ottenuta come invece aveva programmato.
Non c’era stato bisogno di nient’altro che un breve addestramento, per lui e per Ron, giusto un mese prima di iniziare a prestare servizio effettivo. Allora gli era sembrava una cosa fantastica. Dopotutto non era mai stato uno studente modello e la sua voglia di studiare scarseggiava già prima di vedere quanto male, un solo uomo, fosse in grado di fare e il desiderio di aiutare per quanto possibile diventasse così forte. Ma poi, ritrovandosi improvvisamente circondato da Auror fatti, veterani che avevano combattuto al suo fianco contro i Mangiamorte ma che, allo stesso tempo, avevano raggiunto la loro posizione con sacrificio e fatica, che lo guardavano con sospetto e ammirazione insieme, perché da solo era riuscito a sconfiggere il mago più temibile di sempre, si era sentito soffocare.
Tutto quanto gli impediva di respirare.
Essere chiamato eroe. La propria fama. Le aspettative che tutti nutrivano in lui.
Perfino il proprio nome, e non per la prima volta.
Sentiva che aveva ottenuto il mantello rosso che aveva sognato, lo stesso che i suoi genitori avevano indossato con orgoglio e cognizione di causa, senza meritarlo davvero.
Perché, quel mantello, era stato consegnato a Harry Potter.
Perché era stato consegnato al ragazzo che è sopravvissuto.
Perché era stato consegnato al Prescelto.
Ma mai, era stato consegnato a Harry. Harry e basta.
E, accettandolo, lui aveva acconsentito che mai sarebbe successo.
La carriera che voleva, l’unica che avesse mai contemplato come possibile nel proprio futuro, era diventata una gabbia quanto il suo nome stesso.
Harry ricordava lo stupore della comunità magica, quando aveva rinunciato alla carica e agli onori, scegliendo invece una vita normale. Per quanto possibile.
Aveva ripreso in mano i libri, sotto lo sguardo fiero di Hermione che, come lui, aveva terminato la scuola l’anno precedente, e quello sbigottito di Ron che non aveva mai nemmeno contemplato un pensiero del genere. La vita fuori dalla scuola, all’amico, andava più che bene, anche se alla lunga perfino lui aveva smesso l’immagine pubblica in favore di una più tranquilla quotidianità domestica nel negozio del fratello.
Così, a ventitré anni, con dei M.A.G.O. di tutto rispetto alle spalle e due anni di Accademia ancora davanti, si sentiva finalmente a posto. Certo che il futuro che lo aspettava lo aveva costruito interamente con le proprie mani e che avrebbe potuto esserne fiero.
Potter svoltò per l’ennesima volta lanciando un’imprecazione particolarmente scurrile ad alta voce, retaggio, quello, dei tre anni di Accademia che aveva già completato.
Quel bastardo aveva scelto la traversa migliore per la propria fuga. Nessuno, lì dentro, avrebbe mai contemplato l’ipotesi di aiutarlo. Anzi, il contrario.
Non erano benvenuti, gli Auror, a Nocturn Alley.Nemmeno quelli che ancora erano all’Accademia. 
Harry lo sapeva perché altre volte, durante quell’anno di servizio, si era ritrovato costretto a passare per quella via, cercando informazioni per i più svariati casi. Ogni volta, solo una costante. Nessun risultato e nessun aiuto. Semplicemente, i maghi che frequentavano Nocturn Alley, per affari o per diletto non importava, erano poco propensi a raccontare i fatti loro, figurarsi quelli degli altri avventori. Fare la spia era pericoloso, perfino di quei tempi, per quella strada.
E lui vi si stava dirigendo perfettamente consapevole delle conseguenze.
-Odio i mezzosangue!- bofonchiò tra sé il ragazzo, avvicinando la mano alla bacchetta sperando di riuscire finalmente a schiantarlo, adesso che non c’era più il rischio di colpire un passante, addentrandosi sempre più nel malfamato vicolo, ma non ce ne fu bisogno visto che il mantello dell’altro era a portata di braccio.
Così lo tirò verso sé quel tanto necessario a sbilanciarlo fino a farlo cadere riuscendo finalmente a fermare la loro corsa forsennata.
Da quel momento, esattamente come Harry aveva preventivato, non ci fu più tempo per pensieri logici per quanto risentiti, tutte le sue energie erano volte solamente allo schivare i colpi dell’avversario e restituirne a sua volta, rotolandosi per la strada.
L’altro uomo, adesso Potter poteva vederlo in viso per la prima volta, era biondo e intorno ai trentacinque anni. Forse meno, sebbene le precoci rughe intorno agli occhi lo facessero apparire più vecchio. Perdeva sangue da un sopracciglio, segno che uno dei suoi tanti colpi era stato più efficace di altri, sebbene anche lui ne avesse incassati alcuni. Al naso, ad esempio, che bruciava come se vi avesse avvicinato una fiamma arroventata.
-Odio i mezzosangue.- ringhiò di nuovo frustrato, schivando l’ennesimo colpo.
Harry gli lanciò un altro pugno, in pieno petto, abbastanza forte da fargli uscire una buona dose di ossigeno dai polmoni e costringerlo a fermarsi per riprendere fiato. Il ragazzo già sentiva la bacchetta, sotto le dita della mano destra, e si preparava a schiantarlo e finirla lì, quando tutti i suoi peggiori pronostici si avverarono.
Non erano benvenuti, gli Auror, a Nocturn Alley. Nemmeno quelli che ancora erano all’Accademia.
Si sentì scagliare all’indietro da un’improvvisa onda magica, abbastanza forte da farlo cozzare contro il muro opposto e lasciarlo senza respiro. La bacchetta era volata chissà dove. Del suo assalitore, chiunque fosse, nemmeno l’ombra. Sicuramente ritenendo di aver fatto il proprio dovere verso la comunità, atterrando un esponente della giustizia, si era dileguato in uno dei tanti vicoletti secondari in cui un estraneo avrebbe potuto perdersi.
-Odio i mezzosangue.- ripeté in un sibilo mettendosi in piedi.
Con un ringhio, Potter, si scostò dal solido appoggio per avvicinarsi di nuovo al suo fuggitivo, che si era rialzato in piedi e stava cercando di raggiungere il piccolo fagotto che gli era caduto di tasca poco prima, probabilmente contenente la refurtiva, quando la luce rossa di uno shiantesimo gli passò vicino all’orecchio sinistro, tanto vicino da sentire i capelli sfrigolare al contatto, fino a cozzare contro l’uomo, che cadde atterra in un lieve tonfo.
-Non è sicuro esternare certe idee in pubblico, Potter. Tra tutti, tu più di altri, dovresti saperlo.- gli fece notare divertita una donna alle sue spalle, sicuramente quella che aveva lanciato l’incantesimo poco prima togliendolo dai guai.
-E considerando che sei tu, a dire una cosa del genere, si scatenerebbe il caos. Immagino già i giornali, “Harry Potter si schiera nelle file nemiche. La guerra incombe”.- continuò con tono drammatico la donna avvicinandosi a lui per allungargli la bacchetta da sopra la spalla.
Il ragazzo, irritato, si voltò per prenderla e guardare finalmente in faccia la sua salvatrice e dirle il fatto suo. Per qualche strana ragione, sentendola parlare, aveva la sensazione di conoscere la sua identità, senza però non riuscire a dare un volto alla voce udita.
-Parkinson?- chiese stupito, appena mise a fuoco il viso della vecchia compagna di scuola.
Probabilmente la sua faccia doveva esprimere tutto lo sbigottimento che provava perché la ragazza ridacchiò sarcastica, prima di rispondere.
-Non credevo che l’avrei mai detto, Potter. Ma ti ho appena salvato la vita.- e rise di nuovo.
Il ragazzo non poté impedirsi una smorfia indispettita, ma non ribatté, osservandola poi curioso. Tanto per la sua presenza in quella strada, quando per quella risata divertita che mai, da ragazzini, le aveva sentito emettere. Scherno e insulti erano decisamente più congeniali a Pansy Parkinson che non un sincero divertimento.
Guardandola notò che ricordava poco la ragazza che era stata, forse solo il caschetto nero di capelli che seguiva ogni movimento della testa e l’atteggiamento superiore che, nonostante il divertimento, non svaniva comunque.
Il viso appuntito per il quale era sempre stata sbeffeggiata si era ammorbidito e così anche la figura, rendendola piacevole da guardare. Era addirittura bella, di una bellezza aristocratica e lontana, che ben si addiceva all’espressione altezzosa che mise su non appena il suo sguardo si posò, per caso, sull’uomo che aveva schiantato pochi secondi prima.
-Hai delle belle compagnie, Potter.- commentò poi, avvicinandosi al pacco che l’altro aveva cercato di recuperare con tanta cura, e aprirlo senza farsi problemi.
-Accidenti!- commentò deliziata, osservando il gioiello che si era ritrovata inaspettatamente tra le mani.
Harry si avvicinò a lei, guardando così per la prima volta il motivo di tutto quel correre, e rimase quasi a bocca aperta di fronte a tanta bellezza. Una delicata collana di argento e rubini scintillava sulla pelle diafana della ragazza, ma fu solo un attimo, prima che lei richiudesse il fagotto con ogni cura e prendesse il ragazzo per un braccio aprendogli poi il mantello e nascondendo al suo interno il prezioso oggetto.
-Ehi!- si lamentò Harry, imbarazzato.
Gli anni l’avevano cambiato, smussando lati del suo carattere e affilandone altri, ma l’imbarazzo che provava ogni volta che si ritrovava, improvvisamente, vicino a una ragazza non era mai svanito.
Ginny lo aveva sempre preso in giro, per quella caratteristica. Gli diceva che non sapeva mai fino a che punto poteva avvicinarsi, prima di sentirlo scattare, ma poi ci rideva sopra e lo baciava come a farsi perdonare. Il ragazzo non aveva mai potuto obbiettare niente, al riguardo, perfettamente consapevole di quanto, di fatto, fosseimpedito in certi aspetti della vita.
-Non è sicuro portare un oggetto di un tale valore da queste parti. Controllala fino a che non sei fuori di qui.- gli disse la ragazza adesso seria, distaccandosi ulteriormente dall’immagine che Harry aveva sempre avuto di lei.
La ringraziò con un cenno del capo, osservando attento le sue mani fino a che non lo ebbe lasciato andare, tanto che lei se ne accorse e mise su quell’espressione snob che, invece, ricordava esserle propria negli anni di scuola.
-Non è di me che devi preoccuparti, Potter. Sono troppo ricca per abbassarmi a rubare qualcosa.- gli disse sarcastica, ma comunque gelida.
-Non è questo. E’ che…- Harry si bloccò di botto, arrossendo incredulo di stare per ammettere la verità. E cioè che sentirsi le sue mani sul corpo, perfino in un contatto così innocente, lo aveva imbarazzato a tal punto da non sapere cosa fare.
Ci sarebbe andata a nozze, riusciva perfino a immaginarsi le sue risate incredule. Era pur sempre una Serpeverde, dopotutto.
-Grazie.- le disse alla fine, sperando così di riuscire a cambiare discorso.
Pansy per tutta risposta scrollò le spalle con indifferenza, Harry non riuscì, però, a capire se perché non ritenesse di meritare il ringraziamento o per il commento di poco prima.
Continuò a osservarla con la coda dell’occhio, mentre lui si avvicinava al biondo svenuto per controllare che l’effetto dell’incantesimo non svanisse prima del tempo e lanciò velocemente delle scintille rosse in cielo, predisponendosi ad aspettare la pattuglia di Auror di stanza a Diagon Alley quel giorno, per consegnare loro ladro e refurtiva, prima di tornare indietro sperando di non aver completamente perso la sua pausa pranzo. Stava morendo di fame, in effetti.
-Se vuoi posso accompagnarti…ecco…ovunque tu stia andando.- si ritrovò a dire alla Parkinson prima ancora di rendersene conto.
Lei lo guardò incredula per alcuni secondi, prima di scuotere la testa sorridendo. Non era l’unico, evidentemente, a essere stato colto alla sprovvista da quell’invito.
-Non preoccuparti per me, Potter. Come ti ho appena dimostrato, sono perfettamente in grado di prendermi cura di me stessa.-
Harry si irritò sentendo quel commento, come quella risatina trattenuta che l’aveva preceduto, vedendo ignorare così tranquillamente i suoi tentativi di ringraziarla. O di portarla fuori da quel maledetto vicolo sana e salva, invece che andarsene a lasciarla da sola a guardarsi le spalle dai malfamati avventori di Nocturn Alley. Hermione gli aveva sempre detto che aveva la sindrome dell’eroe, e forse non aveva tutti i torti.
-D’accordo, allora. Immagino ci vedremo in giro, allora.- commentò con falsa indifferenza, accordandosi all’umore della ragazza e controllando per l’ennesima volta,inutilmente vista l’efficacia della magia della Parkinson, il suo prigioniero.
-Se dici ancora una volta allora, Potter, finirò per credere che te la sei presa.- e vedendo il vecchio compagno di scuola sempre più indignato, riprese a parlare –Comunque ci vediamo in giro, Potter. Vedi di non farti ammazzare nel frattempo.-
E con quell’ultima dolcissima carineria, Pansy si sistemò il mantello sulle spalle per poi andarsene con un’aggraziata giravolta su se stessa. Ennesima conferma, quella, che solo un mezzosangue si sarebbe messo a correre come un ossesso per Diagon Alley, in qualunque strada del mondo, invece di svanire, semplicemente.
A Harry non rimase che appoggiare le spalle al muro e fare l’inventario dei danni, non molti nel complesso e probabilmente grazie, doveva ammetterlo, all’intervento della Parkinson, e aspettare l’arrivo degli Auror. Della sua pausa pranzo, lo sapeva, rimanevano solo poche briciole.
 












 

*




 













Nocturn Alley, di nuovo.
Harry iniziava a trovare irritante quel necessario recarsi nel lato oscuro della Londra magica così spesso.
Non era passato nemmeno un mese da quando era finito nella stessa strada e vi aveva incontrato Pansy Parkinson e adesso ne stava di nuovo varcando i confini.
Vestito di un anonimo mantello nero tirato fino sul naso, proteggendo al meglio la sua privacy e quella della sua missione, camminava tranquillo verso uno dei negozi più noti del vicolo.
Gli ci vollero altri cinque minuti di cammino per ritrovarsi davanti alla sua meta, il 13b di Nocturn Alley, dove una vecchia e a tratti scrostata insegna sui toni del verde e del nero recava la scritta “Magie Sinister, dal 1863 a oggi”.
Entrando nel negozio, come ogni volta precedente, la prima cosa che lo colpì fu l’aspro odore di muffa che copriva ogni angolo della stanza e, subito dopo, l’immobile silenzio.
Di Avidius Sinister, che aveva preso il posto del genitore da un paio di anni a quella parte, dopo che l’uomo si era ammalato improvvisamente rendendogli impossibile dirigere il negozio, Harry aveva appreso poco e la maggior parte erano dicerie. Alcuni pensavano addirittura che fosse stato lui ad avvelenare il padre per poter acquisire il controllo della società di famiglia quando il genitore aveva minacciato di diseredarlo. Qualunque fosse la verità, il ragazzo sapeva che trattare con lui era un incubo per ogni Auror, tanto l’uomo era restio a fornire loro informazioni e tradire, così, la fiducia che i suoi clienti riponevano in lui. Soprattutto senza riceverne niente in cambio.
Per quello già immaginava l’immane mal di testa che quel colloquio gli avrebbe procurato, così come l’inutilità del viaggio stesso.
Se avesse ricevuto anche solo un piccolo indizio, si sarebbe potuto dire fortunato.
Se, invece, avesse ottenuto qualche informazione veramente utile, avrebbe potuto urlare al miracolo.
Nessuno era in vista, in quel momento. Gli affari più importanti di Sinister, infatti, si svolgevano nel retro e poco e niente avevano a che fare con gli oggetti oscuri di più o meno grande valore che esponeva nella sala principale del negozio. L’uomo, a differenza dei predecessori, era famoso per la grande cultura che possedeva e in molti, maghi oscuri e non, preferivano rivolgersi a lui piuttosto che a chiunque altro antiquario se si presentava il bisogno di far valutare un manufatto potenzialmente prezioso, sebbene la disonestà di Avidius fosse un importante aspetto della contrattazione da tenere sempre in considerazione. Come i suoi predecessori, Sinister Senior e Mr Burke, non era noto per la sua integrità. Da quando era lui a dirigere l’attività, di fatto, gli affari avevano preso a fiorire e i conti erano tornati quelli di un tempo, quando Olconio Sinister insieme all’amico d’infanzia Caractacus Burke aveva aperto il negozio nel lontano 1863.
Harry si guardò intorno senza fretta, osservando la merce esposta con curiosità, sebbene la loro natura non propriamente legale, prima di decidersi a suonare il campanello posto in un angolo del bancone, come anni prima aveva visto fare a Lucius Malfoy, ma venne anticipato.
-Non si preoccupi, signorina, conosco un abile artigiano in grado di riportare il ciondolo al suo originale splendore. Il prezzo ovviamente salirà, ma posso assicurarle che ne varrà la pena. Il ciondolo sembrerà un altro, quando lo verrà a ritirare.- spiegò Avidius Sinister con tono accomodante, senza i viscidi ed equivoci modi del genitore che portavano molti ad abbassare maldestramente la guardia, mentre scostava la tenda che divideva il negozio dal retro per far passare la cliente.
-Spero per te, Avidius, che quando dici che il ciondolo sembrerà un altro tu intenda che sarà perfettamente restaurato e non che cercherai di affibbiarle una copia.- gli rispose un’annoiata voce maschile strascicata, che Harry conosceva fin troppo bene.
Lo sapeva, che quella giornata non poteva che peggiorare.
La visita a Nocturn Alley non poteva essere abbastanza per la sua sfortuna, gli serviva anche un piacevole intermezzo, per concludere al meglio la sua gita di piacere.
-No, certamente no, signor Malfoy. Non mi permetterei mai. Sapete quanto io sia degno della vostra stima più sincera.- rispose velocemente l’uomo, con tono irritato e accondiscendente insieme.
Harry avrebbe voluto ridere, perfino a lui, un cliente tutt’altro che abituale del negozio, era evidente la bugia appena pronunciata, e dubitava che Malfoy si sarebbe fatto raggirare così facilmente. Anche a sedici anni era riuscito ad avere ragione di un Sinister, per quanto con scopi tutt’altro che onesti.
Il loro chiacchiericcio fu interrotto da una voce di donna, dolce come il veleno e forse irritata per essere stata ignorata fino a quel momento, che decise di inserirsi nella conversazione.
-Draco, tesoro, sono sicura che il signor Sinister non pensi certo a ingannarmi. Dico bene signore?-
L’uomo annuì febbrilmente con il capo, prima di farsi ancora più da parte per permettere alla ragazza di uscire a sua volta.
A Potter venne da ridere nuovamente, quando incontrò lo sguardo di Pansy Parkinson, per l’ennesima volta nel giro di un mese e quasi nello stesso luogo.
Nient’altro, però, uscì dalle loro labbra appena intravidero l’imprevista figura che trovarono ad attenderli nel negozio e non dettero segno di averlo riconosciuto. Harry, ancora nascosto sotto il suo cappuccio, sorrise divertito notando la faccia risentita del proprietario per essere stato interrotto proprio nel momento cruciale della trattativa, e le occhiate caute che Draco Malfoy gli stava lanciando.
-Posso aiutarla, signore?-
-Cerco solo qualche informazione, signor Sinister, circa questo manufatto. Lo ha mai visto?- chiese fingendo di ignorare il silente invito che l’uomo gli stava lanciando affinché si togliesse il cappuccio ed esponesse il viso al suo sguardo perché potesse osservarlo con agio.
-Mai visto niente del genere.- rispose lui rigido, senza nemmeno guardare il foglio che Harry gli stava porgendo.
Sapeva che sarebbe stato un buco nell’acqua, accidenti!, pensò irritato il ragazzo.
Nel frattempo, Draco Malfoy insieme alla compagna, aggirarono il bancone con il loro prezioso manufatto, e il ragazzo, passando accanto al proprietario, diede un’occhiata distratta alla foto che Harry porgeva.
Un fugace ghigno divertito gli attraversò il viso, segno che lo aveva già visto, con ogni probabilità proprio dentro al negozio in cui stavano al momento, ma non una parola uscì dalla sua bocca. Fu la ragazza, invece, che dopo aver imitato l’amico decise di parlare.
-Oh, signor Sinister, non è per caso la stessa scatola di legno di pino finemente intagliata che era esposta fino alla settimana scorsa? Ricordo che ero rimasta ammirata, di fronte alle eleganti rifiniture in quercia rossa egizia.- commentò deliziata, con lo stesso tono frivolo che aveva al quarto anno, quando andava vantandosi per ogni corridoio della scuola che Draco Malfoy l’aveva invitata al Ballo del Ceppo.
Draco represse malamente una risata divertita, mentre la ragazza, senza fare una piega, intascò il proprio ciondolo segno che anche a lei, le occhiate cupide di Avidius, non erano passate inosservate e che, come il compagno, conosceva l’alta percentuale di ritrovarsi tra le mani un manufatto contraffatto, per quanto realistico.
Perfino un’anima Grifondoro come la sua, Harry fu costretto ad ammetterlo, si ritrovò ad apprezzare la sottile vendetta della ragazza che, con apparente inconsapevolezza, lo aveva smentito e si dirigeva, in quel momento, tranquilla verso la porta senza aver concluso nessun affare. Il ragazzo non sapeva cosa fosse, esattamente, quel ciondolo tanto prezioso, ma di certo Sinister si sarebbe mangiato le mani, non appena avesse lasciato sbollire la rabbia e avesse recepito di aver perso una tale occasione di guadagno.
Gli ci vollero solo alcuni minuti per farsi dire dall’uomo più di quanto avesse mai immaginato e, il tutto, senza dover ricorrere a minacce di perquisizione o altro, visto che il cappuccio non aveva mai abbandonato il suo viso. Si limitò semplicemente a esprimere il grande desiderio di entrarne in possesso, qualunque fosse la cifra che il nuovo proprietario avrebbe richiesto, e comportandosi esattamente come avrebbe fatto il biondo Serpeverde appena uscito. Alla fine, incontrare Malfoy e la Parkinson, si era rivelato non un fastidioso contrattempo come aveva temuto, ma anzi una fortuita coincidenza.
Aveva chiesto un miracolo, dopotutto, e questo si era palesato nel più improbabile dei modi. Due serpi!
Annotati quindi il nome del compratore e quello della donna che lo aveva venduto, promettendo a Sinister una sostanziosa quanto fittizia donazione qualora fosse riuscito a metterlo in contatto con uno dei due, Harry se n’era andato soddisfatto nella speranza di non dover rimettere piede in quel luogo per parecchio tempo a venire. L’odore di muffa, infatti, ancora non accennava ad andarsene dal suo naso e, ci avrebbe scommesso, i suoi vestiti avrebbero avuto bisogno di almeno tre lavaggi a opera di nientemeno che Molly Weasley o avrebbe potuto buttarli direttamente, se si fosse affidato alle sue scarse doti come mago di casa. Perfino la signora Flora, la dolce donna che due volte la settimana andava a pulire il caos che riusciva, da solo, a creare senza nemmeno accorgersene, aveva rinunciato all’impresa, definendola ben al di sopra delle sue capacità, ma soprattutto un’incombenza troppo complicata per lo stipendio che percepiva. Proporle di raddoppiarlo, triplicarlo se necessario, non era servito ad altro che a farla ridere, perché nemmeno se glielo avesse centuplicato avrebbe accettato di combattere con le macchie che l’Accademia portava con sé, aveva detto la donna. La signora Weasley era, quindi, rimasta la sua ultima speranza.
Harry stava percorrendo a ritroso i vari vicoli di Nocturn Alley, scansando vecchie fattucchiere che cercavano di vendergli unghie o denti dalla dubbia origine, e si era ormai lasciato alle spalle il negozio, quando si ritrovò davanti Malfoy e la Parkinson.
-Sembri un Mangiamorte, Potter, lasciatelo dire.- lo apostrofò il ragazzo divertito, segno che entrambi lo avevano riconosciuto senza problemi poco prima.
-Oh, Draco tesoro, non dire certe cose. Giusto l’altro giorno elaborava la consapevolezza di odiare i mezzosangue, adesso questo. Potresti spaventarlo prima che i tempi siano maturi.- lo prese in giro la ragazza, rievocando quell’inopportuno flusso di coscienza cui aveva assistito settimane prima.
Harry voleva schiantarli. Entrambi.
-Divertente. Molto divertente.- si limitò, però, a commentare sarcastico il ragazzo, fingendo di ignorare lo sguardo divertito di Draco.
-Sono colpito, san Potter, davvero, davvero colpito. Chi avrebbe mai pensato che alla fine saresti passato al Lato Oscuro?- continuò impietoso il biondo, trovando la situazione troppo esilarante per lasciarla svanire senza colpo ferire.
 -Che la forza sia con te, allora, Malfoy.- ribatté acido Harry, citando senza sapere perché quel grande capolavoro che era Star Wars. Qualcosa, nel commento ironico del biondo, glielo aveva fatto venire in mente. Osservando le facce perplesse dei due Serpeverde, però, ricordò che non erano la compagnia ideale per apprezzare certe citazioni da cinefilo.
-Lascia perdere, vecchia citazione babbana. A cosa devo l’onore?- chiese poi, memore delle estenuanti spiegazioni che Ron aveva preteso quando lui e Hermione avevano provato a spiegargli il significato della stessa frase.
Fu la ragazza, stranamente, a rispondere.
-Mi mancavi, Potter, non è ovvio?- il tono frivolo che aveva usato qualche minuto prima con Sinister si presentò di nuovo insieme a uno sfarfallio di ciglia, facendo inarcare scettico il sopracciglio al Grifondoro, anche se lievemente divertito dall’ironia corrosiva della ragazza.
-In realtà ammetto che ero curiosa. Non capita spesso di vederti da queste parti, Potter, e questa è la seconda volta nel giro di poco.- ammise alla fine, lanciando poi un’occhiata disgustata a un piccolo mago che le si stava avvicinando furtivo con intenti piuttosto chiari.
Nessuno disse una parola al riguardo, bastò, infatti, uno sguardo minaccioso da parte di Draco perché l’uomo decidesse di rinunciare ai propri propositi criminali, sicuramente ritenendolo più saggio che non inimicarsi l’ultimo dei Malfoy, per poi defilarsi in un angolo buio e sparire alla vista. Erano proprio quelle pozze di ombra e per i vicoli nascosti che Harry odiava passeggiare per Nocturn Alley. Non era mai possibile stabilire da dove, o quando, sarebbe arrivato il primo tentativo di furto o abbordaggio.
-Solo lavoro. Cerchiamo di metterci in contatto con la vecchia proprietaria del cofanetto.- si limitò a rispondere, senza scendere nei particolari.
-In ogni caso, quale che sia il motivo del tuo ficcanasare, Potter, ci hai dato modo di liberarci di Avidius senza eccessive noie.- ammise Draco non completando però la frase. Erano pur sempre loro due che stavano parlando, sebbene con toni tranquilli che durante gli anni di scuola erano solamente un’utopia, e non si sarebbe mai abbassato a ringraziare il vecchio rivale.
-Andiamo, Pansy.- ordinò poi rivolto alla ragazza, accomiatandosi da Harry con un silente cenno del capo.
La ragazza sembrò innervosirsi per il tono, che spesso le era stato rivolto durante l’adolescenza e che Draco usava ancora per abitudine quasi senza accorgersene, e approfittò bassamente della presenza del Grifondoro per vendicarsi di quel comportamento orribile.
-Oh, Draco caro, non vorrai già tornare da quella noia della tua fidanzata, mi avevi promesso un invito a pranzo e non concedo deroghe. Sai, Harry –e qui, calcò sul nome dell’altro ragazzo, così come prima aveva calcato il dolce complimento rivolto ad Astoria Greengrass – sembra che Astoria, ultimamente, non riesca a vivere più di due ore lontano da Draco. Ha paura che lui torni in sé e decida di scappare a gambe levate.- osservando poi soddisfatta l’improvvisa rigidità che le spalle del biondo avevano assunto, diede la stoccata finale, grondante di femminile divertimento -Voglio dire, io, lo farei senza pensare!-
Pansy non aspettò che Harry le rispondesse, tutti e tre sapevano che da lui era stata richiesta soltanto la presenza, certamente non una replica, prima di raggiungere il fianco dell’amico e appendersi al suo braccio come i vecchi tempi continuando ad argomentare la sua tesi.
-Andiamo, tesorino, perfino Millicent trova la tua fidanzata irritante fino al parossismo. Quando è presente anche lei, non sappiamo mai se possiamo parlarti o se finiremo avvelenate anche solo guardando nella tua direzione.- e continuando a elencare le innumerevoli, a suo dire, nevrosi della ragazza, Pansy si voltò per alcuni attimi verso Harry, per un frivolo svolazzo di mano come saluto e trovandolo a ghignare divertito decise di infierire impietosa anche su di lui.
-Te l’ho già detto, Potter. Cerca di non farti ammazzare, prima della prossima volta. Ma cosa faresti, senza di me, mi chiedo.-
Potter scosse la testa adesso nuovamente infastidito, di fronte a quella strana irritante donna, per una volta in sintonia con Malfoy e la sorte che lo attendeva. Aveva il vago sospetto che, come il biondo, nemmeno lui sarebbe riuscito ad avere l’ultima parola con Pansy. Lo dimostrava la facilità con cui lanciava sale sulle ferite.
Nel loro caso, suo e di Malfoy, l’orgoglio maschile ferito, era decisamente quella che aveva scelto di colpire.
 












 

*

 













Il secondo livello del Ministero della Magia era in fermento. Come a ogni ora del giorno, a essere sinceri.
Auror, orgogliosi nei loro mantelli color porpora, si aggiravano da una scrivania all’altra, lavorando febbrili ai loro incartamenti prima che la nuova ora scattasse, segnando così l’inizio della loro pausa pranzo. Per tutti, perfino i più dediti al lavoro, quell’ora era sacra e avrebbero preferito far tardi la sera, peggio tutte le sere della settimana, piuttosto che essere costretti a rinunciare anche solo a dieci minuti di quell’intervallo per qualche contrattempo nella loro tabella di marcia.
Come ogni anno durante l’autunno, a ogni squadra erano affiancati due allievi Auror, perché imparassero sul campo quello che, fino ad allora avevano solamente studiato a livello teorico. Quella specie di tirocinio sarebbe durato un paio di mesi ancora, fino all’inizio dell’inverno, e tutti i giovani dell’Accademia accoglievano quel piacevole ed eccitante cambio della loro routine come un regalo di Natale anticipato. Non importava loro che, quasi ogni sera, tornassero a casa malconci e con gli abiti a brandelli, feriti addirittura. Non erano rare nemmeno le visite al San Mungo, ma era un prezzo che tutti pagavano volentieri, perfino i più piantagrane sembravano acquietarsi in quel periodo.
Harry ascoltava attentamente quello che Marcus, il suo Caposquadra, stava spiegando loro circa l’ultima missione appena compiuta, dividendo poi tra i sottoposti i vari rapporti da compilare prima di poter archiviare finalmente la pratica. Tutto, come però aveva tenuto a specificare e che aveva fatto sospirare di sollievo gli Auror,dopo pranzo.
La squadra, quindi, si divise, ognuno diretto verso la propria scrivania per controllare eventuali post-it volanti arrivati nel frattempo e sistemare le ultime pergamene prima di scendere a mensa. Harry stava giusto per rispondere a una nota di Ron, che lo invitava quella sera a cena alla Tana, dove ancora avrebbe abitato fino al matrimonio quando, lui e Hermione, si sarebbero trasferiti nella villetta a sud di Londra che avevano comprato un paio di mesi prima e che stavano ancora finendo di sistemare, quando una voce ormai nota lo interruppe, facendogli macchiare d’inchiostro la pergamena.
-Perdi tempo durante l’orario di lavoro? Fortuna che non lavori per me, Potter, o ti avrei già licenziato in tronco.- lo informò Pansy Parkinson, sedendosi senza essere invitata sulla sedia davanti alla scrivania del ragazzo, aspettando tranquilla la sua replica come rispettando una vecchia e ormai collaudata routine.
Lui la guardò in silenzio per alcuni secondi, prima di riprendere a scrivere borbottando –Fortuna che non lavoro per te, allora.-
-Beh, sai, in realtà, non avrei accettato nemmeno il tuo curriculum, se tu ti fossi presentato al colloquio con quel mantello che tutti sembrate trovare tanto elegante.- gli disse civettuola, occhieggiando però disgustata il mantello rosso d’ordinanza, appeso a un piolo alle sue spalle.
-E’ la nostra divisa, Parkinson.- rispose colpito, di nuovo, nell’orgoglio sentendole insultare con tanta tranquillità il simbolo del suo status.
Ancora, a quel mantello, mancava lo stemma del Ministero, che avrebbe fatto bella mostra di sé, a sinistra sul suo petto, non appena fosse diventato a tutti gli effetti un Auror, ma questo non glielo rendeva meno caro. Anzi, forse, era ancora più prezioso. Quando, a diciotto anni, aveva indossato quella divisa, non ne aveva mai avuto uno senza. Era stato immediatamente assunto come Auror effettivo, pronto al servizio attivo sul campo, e in quanto tale gli era stata offerta una cappa con lo stemma.
-Che lo indossino tutti, Potter, non lo rende un esempio di eleganza. Quest’anno, quel rosso, proprio non va di moda e credimi, di queste cose me ne intendo.- ribatté di nuovo con occhio clinico.
Pansy Parkinson, da tre anni a quella parte, infatti, era diventata in mezza Europa simbolo di stile e guru della moda per tutte le giovani streghe e non solo. Harry non si interessava a quel genere di attività, per quanto lo riguardava i maglioni che la signora Weasley ancora gli regalava ogni Natale erano il massimo dell’eleganza, ma aveva suo malgrado seguito l’ascesa nel mondo magico della sua vecchia compagna di scuola.
Ginny, inizialmente, non aveva risparmiato commenti al vetriolo verso la ragazza, sicura che fossero solo i soldi di famiglia e qualche vecchio favore finalmente riscosso, i motivi che avevano reso il marchio Parkinson sinonimo di eleganza e stile. Con il tempo era stata poi costretta ad ammettere che la ragazza sapesse il fatto suo e aveva perfino ingoiato l’orgoglio per comprare una delle borse che erano diventate un must per la società bene di Londra.
Tutto quello avveniva due anni prima e la posizione della stilista si era consolidata tanto da imporsi anche fuori dall’Inghilterra. Di tutto quel successo, per quanto in un ambito di cui Harry non capiva niente, c’era da esserne davvero fieri.
-Comunque, non mi chiedi perché sono qua, Potter?- riprese poi a parlare la donna, con quella tipica prerogativa femminile che era l’incapacità di rimanere in silenzio quando ignorate.
-Perché sei qua, Parkinson?- chiese accomodante il ragazzo, arrendendosi all’impossibilità di scrivere anche solo un’altra riga con davanti quella rompiscatole e riponendo perciò la piuma.
Dallo scintillio soddisfatto dei suoi occhi scuri, il ragazzo lo avrebbe giurato, concederle tutta la sua attenzione era stata la mossa giusta da fare. O meglio, era esattamente quello che la ragazza voleva.
Per la prima volta da che era arrivata, svariati minuti prima, Harry si ritrovò a guardarla.
Come già aveva pensato al loro primo incontro a Nocturn Alley, era diventata bella, Pansy, di una bellezza che, da ragazzina, non le avrebbe mai attribuito. Bella ed elegante, con quel completo pantalone da lavoro a vita alta e la camicetta verde chiaro che esaltava il biancore della pelle.
Abituato fin da ragazzo alla pelle candida di Ginny cosparsa di lentiggini, ritrovarsi davanti quella perfezione di alabastro lo fece deglutire a vuoto, nella speranza di scacciare quell’inopportuna sensazione al petto.
-Visto che mi devi un favore, due in realtà se consideriamo anche l’imbeccata da Sinister, invitarmi a pranzo mi sembra il minimo, non credi? Dopotutto ti ho salvato la vita.- gli disse tranquilla, accavallando le gambe e inclinando la testa di lato, con il caschetto scuro che le sfiorò una spalla e la guancia opposta, in una posa sbarazzina che sembrava essere stata inventata apposta per lei.
Il ragazzo rimase un attimo immobile a osservarla, per poi realizzare quello che gli aveva appena detto e, una volta che il messaggio arrivò al suo cervello, rischiò di cadere a terra dallo stupore.
-Vuoi che ti inviti a pranzo?- chiese allibito, giusto per assicurarsene.
La vide storcere il naso infastidita da quell’uscita indelicata.
-Non l’avrei messa in questo modo. Ma si, riassumendo, il concetto è quello.- concesse infastidita come una giovane lady costretta a rapportarsi col volgo.
Harry, in quale modo l’avrebbe messa, non riusciva a capirlo, visto che per quanto lo riguardava quello era l’unico modo in cui riassumere l’intera conversazione, escludendo ovviamente i suoi commenti assurdi sul rosso dei loro mantelli, e per questo rimase nuovamente in silenzio.
-Se il Signore Oscuro potesse sapere che bastava farsi invitare a pranzo per farti fuori, Potter, si mangerebbe le mani, credimi.- sibilò irritata da quel silenzio imbarazzante che, improvvisamente li avvolgeva.
-Cosa? Ehm, ecco…io credo che si, insomma…- balbettò Harry senza avere anche la sola, minima, idea di cosa volesse dire davvero.
La ragazza sbuffò infastidita, muovendosi a disagio sulla sedia per alcuni secondi, prima di chinarsi a prendere la borsa e alzarsi senza poi fare una piega.
-Fingi che non abbia detto niente, Potter.- gli aveva già voltato le spalle quando sibilò quella frase e si avviò a passo svelto verso l’ascensore che collegava tutti i livelli del Ministero.
Il ragazzo rimase immobile a fissarle la schiena che si allontanava sempre più senza riuscire a capire in che modo, esattamente, fosse riuscito a farla arrabbiare a tal punto in così poco tempo.
Un secondo prima gli diceva di portarla a pranzo, quello dopo se ne andava ticchettando su quei tacchi assurdamente alti che la facevano ancheggiare in un modo da far girare la testa a ogni uomo.
La dimostrazione di quello che aveva appena pensato, così poco da lui, venne da Charlie, l’altra recluta che era stata assegnata alla squadra di Marcus insieme a lui.
-Lasciatelo dire amico, non dovresti far arrabbiare così la tua ragazza. Te la potrebbero rubare in un attimo, se non stai attento.-  ammiccò ammirato verso la mora, lasciandogli una pacca cameratesca sulla spalla come a complimentarsi della conquista.
-No, lei non…ecco non è la mia ragazza.- alitò Harry, allibito dalla presupposizione dell’amico.
Cosa gli aveva fatto pensare che stessero insieme? Erano pur sempre Harry Potter e Pansy Parkinson, per Merlino! Avevano passato l’adolescenza a insultarsi ed evitarsi il più possibile!
-Beh, in questo caso, Potter, faresti meglio a correrle dietro prima che cambi idea e vada io a invitarla a pranzo. Ammettilo, è una vera bomba.- e, saputo che non stava invadendo campo amico, non si fece più scrupoli a osservarle il sedere fino a che la ragazza non fu sparita dietro l’angolo.
-Ehi!- commentò Harry infastidito notando dove, cosa, l’occhio del collega fosse caduto, esattamente dove fino a pochi secondi prima era anche il suo.
Senza capire perché si ritrovò ad alzarsi e andarle dietro svelto, con nelle orecchie la risata divertita dell’amico di fronte a quello scatto inconsueto, sperando di riuscire a fermarla prima che sparisse dietro le porte dell’ascensore.
-Ehi ehmm…ehi Pansy, aspetta! Aspetta, ho detto, per la miseria!- le urlò dietro appena fu vicino abbastanza, per poi afferrarle il polso e costringerla ad ascoltarlo. Non sembrava intenzionata a farlo volontariamente, in effetti, e urgevano misure d’emergenza.
-Andiamo a pranzo insieme.- le disse in imbarazzo.
Sentiva il viso andare a fuoco perfettamente consapevole della propria inappropriatezza in certe situazioni.
-No, grazie.- disse lei concisa.
-Ma…ma hai detto che…- balbettò incredulo Harry, senza saper raccapezzarsi con quella ragazza.
Non aveva mai conosciuto una donna lunatica come la Parkinson.
-Beh, ho cambiato idea, non si può?- rispose lei acida con uno sguardo che gli intimava di non replicare.
-Cosa? Si, certo che puoi, ma pensavo che…-
-Allora è il caso che smetti di farlo. Pensare, intendo.-
Ormai era abituato a sentir montare il fastidio ogni volta che si ritrovava a scambiare anche le più brevi delle conversazioni con la Serpeverde e quella volta non fece differenza.
-Ma io non capisco cosa ti prende, adesso! Sei venuta qua apposta e poi te la prendi per niente. E ora che ti chiedo di pranzare insieme dici di no?- la perfetta conclusione sarebbe stata un “vorrei sapere cosa ti passa per la testa”, ma il ragazzo teneva ancora abbastanza alla vita per decidere di tacere quella parte.
-Non voglio pranzare con te perché ti senti in colpa.- il tono acido continuava a persistere, ma sfumava più verso il fastidio che non il gelo di poco prima.
-Non mi sento affatto in colpa!- replicò indignato il ragazzo, alzando la voce sull’ultima parola, forse troppo in fretta per risultare davvero credibile.
-Davvero?- lo scetticismo nella voce di lei gli fece capire che non si era sbagliato.
-No! Voglio dire, un pochino, ma davvero mi fa piacere se pranziamo insieme.- cercò di placarla il ragazzo immediatamente.
Hermione era da sempre un tipetto autoritario che lui e Ron cercavano di tranquillizzare ogni volta che era loro possibile, memori di quello sciame di uccellini cannibali che la ragazza, in un momento di particolare stress, aveva lanciato addosso al rosso. Ginny, d’altra parte, a causa delle temibili fatture che con gli anni erano soltanto andate migliorando, era sempre stato meglio non portarla al punto di rottura per evitare una visita fuori orario al San Mungo. Eppure, sebbene con esempi di cotanta imponenza, Harry non aveva idea di come rapportarsi con la giovane donna che gli stava davanti per farle passare quell’arrabbiatura ancora inconcepibile.
Certo, aveva capito che il motivo scatenante era stata la sua lentezza nell’acconsentire a quel bizzarro pranzo insieme, eppure non riusciva proprio a capacitarsi di averla fatta andare fuori di testa in così breve tempo.
-Non sembri molto convinto.- replicò lei ancora cauta.
-Certo che lo sono! Non ti sarei corso dietro, altrimenti, no?- esasperato, Harry, non sapeva più che corde tirare per risolvere quella spinosa situazione.
E quel brancolare nel buio doveva essere piuttosto evidente, viste le risatine sadiche che i colleghi gli indirizzavano, uscendo per la tanto agognata pausa. Quella scena,che stava velocemente prosciugando tutte le sue energie, doveva risultare parecchio comica, vista dal di fuori.
-Ne sei sicuro, Potter? Vuoi davvero pranzare insieme?- chiese per sicurezza Pansy ancora sulle sue.
Il ragazzo si ritrovò ad annuire convinto, senza dover fingere, quella volta.
-E ti fa piacere?- chiese ancora lei.
-Si, te l’ho già detto.-
-Non ti senti costretto in alcun modo, allora.- riprese il suo interrogatorio d’intenti.
-No, Pansy, no! Ti sto invitando a pranzare insieme perché lo voglio e mi farebbe realmente piacere. Sono sincero, davvero.- le disse alla fine.
-D’accordo, allora. Posso scegliere io dove, vero?- acconsentì alla fine la ragazza, sorridendogli senza più nessuna traccia di irritazione nella voce.
-Aspetta un attimo qui, vuoi? Vado a prendere il mantello.- vedendola aggrottare un sopracciglio, però, decisedi rettificare quanto appena detto –Ehm, il cappotto. Vado a prendere il cappotto.- e senza ulteriori indugi, prima che quella squinternata si mettesse a disquisire anche sui cappotti e sul loro essere assolutamente inappropriati per la loro estrema babbanosità, Harry corse veloce alla scrivania, recuperando il cappotto che indossava quella mattina quando era uscito di casa per poi tornare da lei, nel minor tempo possibile.
Per qualche recondita ragione, che certamente il suo cervello non era in grado di razionalizzare, si ritrovò a sospirare di sollievo vedendola annuire in direzione del suo cappotto nero preferito, regalo di Fleur e Bill per il Natale precedente.
Fu solo una volta in strada, camminando affiancati per Diagon Alley, mentre lei raccontava meraviglie del locale verso cui si stavano dirigendo, che Harry si ritrovò a realizzare una cosa.
Non aveva idea di come o perché, ma alla fine l’aveva invitata a pranzo.
Anzi, l’aveva quasi supplicata. Forse poteva perfino togliere il quasi.
Come fossero arrivati a quel punto, lui che pregava perché accettasse e lei che ogni volta rifiutava sdegnosa, Harry non se ne capacitava. Di certo c’era solo una cosa.
Quelle suppliche erano sembrate maledettamente sincere. Perfino alle proprie orecchie.
E così, Harry Potter, aveva supplicato Pansy Parkinson per accettare un invito a pranzo.
 














 

*

 











La sera, alla Tana, era stata invitata tutta la famiglia Weasley, compagni compresi e il clima di allegra convivialità era il solito di sempre.
Solo Harry sembrava fuori fase. La signora Weasley, una volta individuato il ragazzo in quel mare di teste rosse che, in ogni caso, erano la maggioranza, aveva immediatamente dato la colpa di quel comportamento ai barbari allenamenti cui il ragazzo era costretto giornalmente e, cercando di risollevargli il morale, si era prodigata affinché il ragazzo avesse il piatto sempre pieno. Aveva assoldato perfino Ginny, che in quelle occasioni si teneva il più lontano possibile dal ragazzo per l’ancora relativamente fresca rottura, perché sopperisse qualora uno spazietto vuoto di piatto fosse sfuggito alla sua rapace attenzione.
-Harry, stai bene?- chiese alla fine Hermione, spazientita di dover ripetere all’amico tre volte ogni frase prima che lui si degnasse di prestarle attenzione.
La cena, infinita nelle sue nove portate come ogni cena di Molly Weasley che si rispetti, era finalmente finita e tutti gli invitati si erano sparpagliati per tutta la casa.
Alcuni aiutavano Molly nelle faccende domestiche, altri si erano concessi un cordiale dopo cena e altri ancora si erano accampati in salotto fino a riempire ogni superficie piana disponibile e combattere, o sopperire nel tentativo, la sonnolenza che quella cena luculliana aveva portato con sé.
Harry, Ron e Hermione, come nella migliore tradizione, stavano vicini in un angolo, apparentemente a chiacchierare tra loro, in realtà era solo la scusa per avere la privacy necessaria a interrogare Potter circa il suo strano comportamento.
Quella sera non aveva nemmeno rivolto una delle sue patetiche occhiate da cucciolo a Ginny che la seguivano ogni volta che si incontravano da che si erano lasciati,incolpandosi totalmente della rottura quando la colpa, invece, proveniva da entrambe le parti, tanto era stato con la testa altrove.
-Perché?- chiese lui sulla difensiva.
-Oh, andiamo, Harry! È tutta la sera che ti comporti in modo strano. Hai perfino mangiato la torta di carote e tu non la sopporti!- lo riprese Hermione con quel tono da maestrina che le era proprio.
-Davvero? Io…pensavo…- rispose alla fine evasivo.
-Harry, seriamente, cosa succede? Problemi sul lavoro?- chiese Ron pratico, pronto ad aiutare l’amico nonostante avesse appeso al chiodo il mantello rosso da un paio di anni, se se ne fosse presentata la necessità.
-No, certo che no. L’internato è fantastico e Marcus è un grande. Tratta me e Charlie come se fossimo già parte della squadra, ed è grandioso.- si affrettò a smentire Harry.
Il silenzio cadde ancora su di loro, Harry di nuovo libero di pensare a quell’assurdo pranzo di poche ore prima si perse la comunicazione silenziosa che avvenne tra i suoi due amici che portò Ron ad allontanarsi per lasciare campo libero alla fidanzata.
-Sai che puoi parlami di ogni cosa, vero Harry? Se anche tu avessi incontrato una ragazza, nessuno ti giudicherebbe male. Voglio dire, tu e Ginny avete rotto da quasi sei mesi, è normale che tu abbia cominciato a guardati intorno. Nemmeno Ron si aspetta che tu rimanga single per sempre solo perché hai lasciato sua sorella.- gli disse comprensiva la ragazza, accarezzandogli dolcemente una mano.
-Sai perché ho rotto con Ginny. Ho solo fatto quello che rimandavamo da mesi e che lei sembrava non avere il coraggio di fare.- le disse risentito.
In una rottura, il chi-ha-lasciato-chi, era sempre un argomento spinoso, soprattutto quando consideri la famiglia della ragazza come tua e quando la tua migliore amica è anche la sua. All’inizio c’erano stati attriti su tutti i fronti e stare nella stessa stanza con entrambi i ragazzi era stato imbarazzante per tutti, perfino per Ron che aveva, notoriamente, la profondità emotiva di un cucchiaino da caffè.
Ma Potter aveva detto la verità. Avevano rimandato quella decisione per mesi, prima che lui prendesse a due mani il coraggio e ammettere con Ginny di non riuscire più a trovare un senso alla loro storia. La ragazza, alcune settimane dopo, aveva ammesso di provare lo stesso, sebbene certamente non l’avesse fatto con l’ormai ex ragazzo.
-E’ successa una cosa strana, oggi. Ho pranzato con Pansy Parkinson.- ammise alla fine Harry, dopo l’ennesima attenta riflessione.
Il ragazzo vide l’amica lanciargli uno sguardo incredulo, dopotutto non aveva detto a nessuno di quei due strani incontri che aveva avuto con la ragazza e forse era arrivato il momento di parlarne, anche se non sapeva cosa ci fosse, esattamente, da dire al riguardo.
-L’ho incontrata per caso un mesetto fa, a Nocturn Alley e…insomma oggi è venuta in ufficio e siamo finiti a pranzo insieme. – iniziò in difficoltà Harry –Comunque dopo avermi detto che voleva pranzare con me, se n’è andata arrabbiata per non so quale motivo e le sono corso dietro per…non so nemmeno io per quale ragione. Lo volevo fare, semplicemente. Diamine, mi ha quasi costretto a invitarla a pranzo e poi ha voluto scegliere dove andare e…è una tiranna, Hermione! Riesce a irritarmi anche con solo una frase e non so mai cosa sta per succedere, se quello che ho detto la farà ridere o andare via. Non capisci quanto è stressante, starle accanto anche solo due minuti. E quel pranzo…- Harry fermò il suo assurdo sproloquiare sotto lo sguardo sempre più stupito della ragazza che non riusciva a credere alle proprie orecchie.
-Ecco…si insomma, avete pranzato insieme. Ma perché l’hai portata a pranzo se ti irrita così tanto?- chiese Hermione, cercando di trovare un punto, uno qualsiasi, a quel discorso. Tutto si sarebbe immaginata, tranne quello.
-Perché…perché…non lo so. E’ che lei se ne stava andando e io sapevo di aver fatto qualcosa di male, anche se lei è talmente assurda che probabilmente il problema è tutto nella sua testa, e mi sono ritrovato a invitarla.-
-In questo caso, Harry, d’accordo; hai pranzato con la Parkinson, ma sei sopravvissuto, no? Voglio dire, per quanto ti abbia innervosito e tutto il resto l’hai superata e puoi passare oltre. Giusto?
-No! Tu non capisci! Quella donna è completamente fuori di testa! E’ acida e snob da morire, ha insultato il mio mantello da Auror solo perché il rosso non va di moda, quest’anno, e lei se ne intende – disse facendole il verso con una smorfia – e poi ha qualcosa da ridire su ogni cosa. E’ sarcastica, ma con toni corrosivi che potrebbero uccidere. Fosse per lei chiuderebbe la maggior parte dei negozi, perché portatori di degrado sociale e ride nei momenti peggiori. Probabilmente riderebbe perfino durante un funerale. Certo, a volte, quei commenti sono divertenti e ti ritrovi a ridere senza accorgertene, ed è intelligente, non sarebbe riuscita a farsi un nome nel suo settore altrimenti. Lo capisci anche parlandole che non è più l’oca degli anni di scuola, ma…- e a quel punto si interruppe, con i pensieri talmente confusi da non trovare le parole adatte per srotolarli.
Inaspettatamente, Hermione si mise a ridere, sinceramente divertita dall’assurda situazione che si era vista dipanare davanti agli occhi. Tutto quell’arruffare le penne, da parte di Harry, era quanto meno inusuale, lui sempre così tranquillo e pacifico, e vederlo in quello stato per una ragazza aveva del miracoloso. Letteralmente. Nemmeno Ginny era mai riuscita a sconvolgerlo tanto.
-Questa sì che è una bella sventura. Trovare simpatica la persona che si è prefissi detestare.- disse Hermione sibillina, trattenendo un sorriso senza, peraltro, riuscirci per niente.
-Che stai dicendo?-
-Oh, andiamo, Harry, lei ti piace. Certo, non ho ben capito in quale modo contorto e perché, visto che hai elencato forse giusto un paio di pregi in tutto il tuo allucinante monologo, ma è ovvio che ti piaccia.- gli rispose lei con il tono orgoglioso da mamma di fronte alle prime parole del figlio.
-A me non piace affatto!- si risentì Harry, facendo sobbalzare entrambi per quella smentita sentita.
-Davvero?- il dubbio, nella voce della sua amica, era troppo profondo perché potesse accettarlo senza problemi.
Di solito, quando Hermione usava quel tono, significava solamente una cosa. Che sapeva perfettamente di avere ragione, nonostante il suo interlocutore non l’avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura, e aspettava solo il momento in cui la verità l’avrebbe avvalorata, per poter sorridere vittoriosa, con chiaramente scritto in fronte la frase “Io te l’avevo detto, ma tu sei troppo stupido per credermi”.
Ma non quella volta. Com’era vero che si chiamava Harry, quella volta Hermione aveva torto. Torto marcio.
-Certo, che è vero! Come potrebbe piacermi una persona del genere? D’accordo, è diventata molto bella e il pranzo non è stato poi così male, ma ti ho detto quanto è irritante? Perfino Malfoy non è indenne a quella lingua biforcuta e anche lui ne possiede una!-
-Ma se la Parkinson ha sempre baciato la terra su cui quel ragazzo metteva i piedi, fammi il favore!-
-No, non capisci. Voglio dire, sì, prima era esattamente così. Ma ora…non lo so, sono amici, credo. E si vogliono bene, in quel modo contorto e incomprensibile in cui si vogliono bene i Serpeverde. Lui le ha permesso di insultare la sua ragazza senza dire una parola per fermarla…-
-Magari solo perché quel matrimonio è stato pianificato a tavolino e non per amore.- commentò acida la ragazza.
-…e si è lasciato prendere in giro senza desiderare di ucciderla. E non è che lei ci sia andata poi così leggera, credimi.- continuò Potter infervorato, ignorando l’interruzione come stava ignorando tutti i logici commenti dell’amica.
-Ma dov’è che tu avresti visto quei due insieme?- chiese alla fine lei, sinceramente curiosa.
-Eh? Oh! A Noctunr Alley, ero in ricognizione per un caso, la settimana scorsa, e li ho trovati là. E comunque perché stiamo parlando di Malfoy, adesso?-
Harry, effettivamente, non capiva come fossero arrivati a quel punto. Malfoy, dopotutto, non era mai stato il suo argomento di conversazione preferito.
-Perché tu non vuoi ammettere che la Parkinson ti piace, tesoro!- gli disse allegra la Granger, per poi ridere apertamente quando Harry si alzò indispettito dichiarando a chiara voce che stava andando ad aiutare Molly in cucina.
Quella frase stava a significare solo una cosa. Considerava l’argomento concluso.
Ma ancora, Harry, non sapeva quanto si sbagliava.
 


















 
 
 
ANGOLO AUTRICE.
Allora partiamo col dire che non ho mai scritto niente del genere. Io, i Serpeverde non li so gestire e se Scorpius Malfoy è sempre stato l’eccezione che confermava la regola, visto quanto ne ho scritto e continuo a fare, magari senza pubblicare, ma Pansy è stata un altro paio di maniche. E l’ho adorata, letteralmente. Mi ha fatto sudare, ma ho amato questa donna.
Come avete visto nella presentazione questa storia partecipa al contest “Dalla vecchia alla nuovissima generazione, per tutti i gusti” indetto da Alistel. Era un concorso a pacchetti e, come potete immaginare mi sono toccati Harry e Pansy. Non amo particolarmente il genere, non mi dispiace nemmeno in realtà, ma quei tre pacchetti combinati mi hanno fatto prudere le mani e questo è il risultato. Almeno la prima metà. Ventisei pagine mi sembravano davvero troppe tutte insieme e non volevo indurre nessuno a tagliarsi le vene dalla disperazione!
Giusto un paio di precisazioni su questo primo capitolo perché ne sono ossessionata.
La storia, ovviamente, è ambientata cinque anni dopo la fine della battaglia con Voldemort e tiene conto di tutto quello che è successo quindi non troverete un AU nelle note.
Al 13b di Nocturn Alley si trova Magie Sinister che, come Lexicon tiene a precisare, il negozio è stato aperto nel 1863 da Sinister Senior e Caractacus Burke, sparito poi improvvisamente dalla circolazione. Sinister Senior è l’uomo che lo gestisce nella saga, qua ha fatto la stessa fine dell’amico. Come vedete è una tara familiare!
Ovviamente “che la forza sia con te” è una citazione blasfema per la quale potrete lapidarmi, come quasi tutte quelle che faccio, ma Malfoy aveva la faccia giusta in quel momento.
Che Harry sia un impedito con le ragazze, poi, è un dato di fatto, quindi non prendetevela troppo se sembra ancora più rincoglionito del solito. È con Pansy Parkinson che deve vedersela, mica boccini, insomma!
Infine, la citazione “Questa sì che è una bella sventura. Trovare simpatica la persona che si è prefissi detestare.” arriva dritta dritta da Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen. E anche se non c’era quasi bisogno di scrivervelo, vista la notorietà dell’opera, lo faccio comunque perché è uno dei pacchetti.
Ancora non sono usciti i risultati, quindi incrociate le dita per me!
Grazie a chi vorrà dare un’occhiata a questo ennesimo delirio dovuto alla mia febbre da contest ancora non curata. Probabilmente vi colerò un calco di bronzo se mi lasciate una recensioncina. Spero di avervi strappato almeno un sorriso.
A giorni la seconda parte, ovviamente già scritta!
Nel caso qualche lettore di “A modern myth” incappi in questa storia non disperate! Il nuovo capitolo è praticamente scritto, mancano giusto un paio di pagine e poi pubblico anche quello. Finalmente, oserei aggiungere!
 

Un abbraccio ai coraggiosi che hanno aperto il documento. Un plauso ancora maggiore a chi è arrivato fino a qua.
Rebecca.




P.S. (28 gennaio 2015) La storia è stata modificata per inserire l'immagine, ma non è stato cambiato niente del testo. Tra l'altro è il mio primo banner, quindi abbiate pietà, soprattutto perchè Harry non ha gli occhiali, ma Pansy meritava e pretendeva un volto!
Un abbraccio, Rebecca.

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Capitolo 2
*** Capitolo due ***


















Il quarto incontro, ad appena tre giorni dal precedente, era avvenuto quando Harry aveva deciso di averne abbastanza, della voce saccente della Hermione undicenne che continuava a ripetergli imperterrita “Questa sì che è una bella sventura. Trovare simpatica la persona che si è prefissi detestare” e tutti gli sguardi superiori che ne erano conseguiti.
Il ragazzo, infatti, stanco di rivivere nella propria testa quella conversazione ai limiti dell’assurdo, essendo purtroppo impossibilitato per qualche oscura ragione a dimenticarla semplicemente, aveva deciso di prendere in mano la situazione e dimostrare all’amica quanto, quella volta, si stesse sbagliando.
Certo non si sarebbe presentato nel suo ufficio per sbatterle in faccia quella verità, teneva ancora troppo alla propria vita per buttarla via facendo saltare i nervi a una ragazza, ma lo avrebbe fatto. Con tatto e maturità, ovviamente, ma niente glielo avrebbe impedito. E quello era solamente il primo passo per dimostrare che la sua teoria, “Questa sì che è una bella sventura. Trovare simpatica la persona che si è prefissi detestare”, fosse soltanto l’allucinazione di una pazza.
Hermione poi avrebbe trovato il modo di sopravvivere con la consapevolezza di aver sbagliato e di essersi sentita dire, per la prima volta, “Ah! Te l’avevo detto, io!”. Ron forse avrebbe avuto davanti giorni difficili, ma ne andava della sua sanità mentale, che l’amico lo perdonasse.
E così, all’alba delle otto e mezzo di sera, si trovava davanti alla boutique più grande di Londra tra quelle appartenenti a Pansy, dove aveva sede anche il suo ufficio privato, con la chiara intenzione di invitarla a cena e dimostrare, finalmente, che no, a lui non piaceva affatto la Serpeverde.
Solo un sadico avrebbe cercato volontariamente la sua compagnia, dopotutto.
Harry, fortunatamente, non aveva mai studiato la filosofia di Aristotele con i suoi collaudati sillogismi, oppure avrebbe individuato con facilità la falla nel proprio ragionamento, ma in quanto ignorante in materia non trovava affatto contraddittorio invitare a cena la ragazza, nonostante solo un sadico avrebbe cercato volontariamente la sua compagnia, per fornire prove alla propria difesa, perché no, a lui non piaceva affatto la Serpeverde.
Convincere la commessa a farlo parlare con la titolare non fu per niente facile e gli costò minuti preziosi della propria vita, poiché sembrava che la proprietaria soffrisse di evidenti manie di persecuzioni. Non capiva proprio, Harry, perché avesse dovuto fargli  tante storie solo perché non era un cliente con qualche ordine speciale o una lamentela sull’ultimo acquisto, non era un fornitore con la necessità di una firma sull’ultimo stock di stoffe, non era un aspirante stilista con portfolio sotto il braccio e nemmeno un avvocato con qualche denuncia a seguito.
-E allora perché vuole vedere la signorina?- chiese indagatrice la donna, con un’espressione arcigna che la faceva assomigliare a una poliziotta di secondo ordine, avendo ormai appurato che quel giovane non apparteneva a nessuna delle categorie di scocciatori abituali che era autorizzata a buttare fuori a calci senza pensarci due volte. Era stata Pansy stessa, ad approvare certe misure. Anzi, le aveva caldamente raccomandate.
-Può chiamarla, per favore?- si arrese alla fine il ragazzo, ormai provato psicologicamente da quell’assedio.
Era sicuro, infatti, che lei non avesse dovuto rispondere a un tale interrogatorio quando si era presentata alla sua scrivania, giorni prima. Aveva semplicemente preso un ascensore e chiesto di lui. E lui era un Auror, per la miseria! Si occupava di salvaguardare i cittadini, non del loro modo di vestire!
-Potter che cosa ci fai qua?- chiese stupita la ragazza quando finalmente ebbero la decenza di ammetterlo al suo cospetto, chiamandola al bancone perché sembrava che, se fosse entrato lui nel suo ufficio sarebbe scoppiata l’apocalisse.
E se non era la Parkinson ad avere problemi mentali, aveva mostrato tanti difetti negli anni di scuola, ma mai uno squilibrio di tale dimensioni, era certamente la commessa, che ancora lo fissava arcigna, a essere sulla strada di un ricovero al San Mungo, nel reparto di igiene mentale.
Probabilmente era una sociopatica con manie ossessive compulsive, Harry ci avrebbe scommesso il mantello.
-Ero venuto a invitarti a cena, se non hai già altri impegni.- le disse alla fine, decidendo che continuare a fissare l’altra donna avrebbe fatto passare lui, l’unico sano nell’edificio, per pazzo.
-Oh! E non potevi inviarmi un gufo, invece che arrivare fin qua? Hai fatto agitare Dora, presentandoti senza avvertire a quest’ora, a pochi minuti dalla chiusura.- lo riprese la ragazza, prima di lanciare un’occhiata solidale alla propria dipendente.
Harry rimase letteralmente a bocca aperta, di fronte a quell’assurda logica femminile cui lui non sarebbe mai venuto a capo, ma per la propria salute, già decisamente messa a dura prova quella sera, decise di non chiedere passando però lo sguardo, sgomento, da Pansy alla cara Dora e viceversa, sperando in un’improvvisa illuminazione divina da parte di una delle due, che gli permettesse di fare luce su quello che le girava in testa.
Certamente non pensava mai alla possibilità di agitare lui, visti i modi che la ragazza gli usava con tutta tranquillità.
Per quanto lo riguardava, presentarsi personalmente per invitarla, essendosi perfino preso la briga di scoprire dove, esattamente, sorgesse il negozio della Parkinson, per poi andare insieme al ristorante invece di farla arrivare fin là da sola, sempre assumendo che accettasse, era sinonimo di buona educazione e non motivo di rammarico.
Ma, poi, perché continuava a presupporre che quella donna pensasse come tutte le altre? Era ovvio che non era affatto così!
-Beh…ecco…la prossima volta farò così, allora.- rispose alla fine, completamente disarmato.
-E cosa le fa presumere che ci sarà, una prossima volta?- chiese indagatrice Dora, ancora con l’espressione di reticente diffidenza stampata in viso.
Pansy ridacchiò divertita sentendo quelle parole, mentre Potter non poté fare altro che lanciare un’occhiataccia irritata a entrambe per l’incubo in cui si era volontariamente cacciato.
Tutta colpa di Hermione, accidenti! Un’altra che non si preoccupava di scuoterlo quando parlavano.
In una vita precedente, con ogni probabilità, doveva aver fatto qualcosa di davvero orribile per meritarsi tanto. Probabilmente era stato un serial killer di cuccioli di foca, un clown alla It o un politico, perché dovesse scontare tutto il male che aveva fatto in un modo tanto sadico.
-Non preoccuparti, Dora, Potter qui, è innocuo.- lo prese impietosamente in giro Pansy, dicendo poi alla donna che poteva andare a casa, per quella sera, e che ci avrebbe pensato lei a chiudere. Sempre, ovviamente, con quel sorrisetto stampato in faccia.
La commessa prese le sue cose con tutta calma e, avviandosi alla porta, lanciò l’ultimo sguardo ammonitore all’inopportuno visitatore, a intimargli di comportarsi al meglio, pena gravissime e infinite penitenze.
Harry non era mai stato uno di quei cattivi ragazzi che le adolescenti trovavano tanto affascinante, eppure era sicuro che, anche lo fosse stato, il suo comportamento sarebbe improvvisamente diventato esemplare, solo per evitarsi la paura di ritrovarsi in un vicolo buio con quella donna psicopatica alle spalle, armata di un coltello insanguinato pronto a conficcarsi nella sua schiena.
Perfino il suo amor proprio, sentendosi definire innocuo, aveva deciso di tacere, per timore di far apparire in viso una qualsiasi emozione che avrebbe indisposto ulteriormente Dora.
-Vuoi fare un giro, Potter?- chiese tranquilla Pansy, cominciando poi a camminare senza aspettare risposta, come era tipico di lei.
Si erano visti solo quattro volte negli ultimi anni, eppure il giovane aveva già inquadrato quell’aspetto del suo carattere, troppo indipendente, arrogante e sicura di sé per accettare niente di meno che l’eccellenza, nella vita privata come in quella pubblica. E adeguare i propri piani, le proprie mosse, a quelli di un altro non era decisamente nel suo stile.
Pur riluttante, perciò, il ragazzo si apprestò a seguirla, solo per sentirsi nuovamente deridere  -Probabilmente è la prima volta, che entri in un posto del genere, quell’antiquato maglione color prugna ne è la prova.-
Lui non aveva idea di come fosse possibile, dopotutto era un Grifondoro fino al midollo checché ne avesse detto, un tempo, il Cappello Parlante, e tali erano anche i suoi più cari amici, ma non sentiva in quel continuo canzonare, per quanto insopportabile, nessun intento di offenderlo realmente. Lo avrebbe piuttosto definito, con ossimorica definizione, un affilato schernire bonario, che lasciava sulla pelle decine di irritanti escoriazioni dalle quali non usciva neppure una stilla di sangue. Di certo, però, quelle continue battutine gli facevano scorrere sotto pelle un’irritazione che poche volte in vita sua aveva mai provato.
Ode a Pansy Parkinson, allora!
Ancora, lui non aveva idea di come fosse possibile, usare tutto quello scherno senza l’intenzione nemmeno di ferire la propria vittima, ma era evidente che quello fosse l’obbiettivo della Parkinson. Non gli sarebbe parso poi strano che nei loro antri sotterranei i giovani Serpeverde imparassero, fin dalla culla, la delicata arte che era il prendersi gioco del prossimo, fino a raggiungerne la suprema conoscenza. Di certo, Pansy Parkinson, aveva raggiunto vette di tutto rispetto, almeno per quanto lo riguardava. E, ricordandosi delle spalle irrigidite di Draco Malfoy, anche il ragazzo doveva pensarla alla stessa maniera.
Ode a Pansy Parkinson, allora!
Fatto un veloce tour nel negozio e sul retro, dove la donna recuperò la propria borsa e soprabito, spensero finalmente tutte le luci, eccetto quelle esterne che illuminavano la vetrina, e si misero in strada.
Erano, solamente, le nove e un quarto. Di quel passo non avrebbero cenato prima delle dieci.
-Certo, Potter, avresti potuto avvertirmi per tempo. Guarda in che stato sono ridotta!- si lamentò dopo un po’ la ragazza, mentre camminavano tranquilli per Diagon Alley.
Harry rispose all’invito lanciandole un’occhiata veloce, osservando l’elegante abito borgogna, come gli aveva saccentemente detto poco prima in negozio, ricordandogli cheera quello, il colore di tendenza quell’anno e non lo squallido rosso sangue del suo prezioso mantello, senza capire cosa avesse, esattamente, che non andasse. Le stava ovviamente bene, o non lo avrebbe mai indossato, mettendo in risalto la vita sottile e le spalle delicate, con il taglio asimmetrico dello scollo.
Non era nemmeno sgualcito dalla giornata di lavoro, le scarpe erano perfettamente abbinate e, il cappotto bianco che aveva attentamente piegato sul braccio, ricordava il candore della neve. Forse lui non si intendeva di moda, mai negato tra l’altro, ma la trovava perfettamente in ordine per una cena. Non andavano certamente all’opera o in qualche altro elitario locale in cui fosse presente il dress code all’ingresso, per la miseria! Lui si teneva ben alla larga dai quei posti, perfino quando era Kingsley in persona a invitarlo. E anche in quel caso, era sicuro che sarebbe stato lui a essere fermato all’ingresso, certamente non lei, che appariva splendida nel suo completo.
La confusione che provava doveva essere evidente, ma si sentì in dovere di rassicurarla in qualche modo, per quanto assurdo fosse quel pensiero –Stai bene, davvero.-
Per tutta risposta Pansy mise su una smorfia disgustata, verso il suo commento, verso di lui in generale o, più probabilmente, verso i suoi dubbi gusti in fatto di moda, da lasciarlo sbalordito.
Che lo reputasse incapace di comprendere perfino i più basilari concetti di stile, gli sarebbe stato evidente perfino se non avesse indossato gli occhiali. E, come Hermione a diciassette anni aveva carinamente notato ritrovandosi nella sua pelle, lui era completamente cieco, senza.
-Tu non sai niente, Potter.- berciò appunto infastidita lei, prima di mettersi a camminare impettita a due passi di distanza da lui.
-Oh, andiamo! Che cosa ho fatto, adesso?- chiese incredulo Harry, dando voce per la prima volta a tutta la confusione mentale che quella ragazza sembrava portare sempre con sé e affrettando il passo per esserle a fianco.
-Voglio dire ti ho appena fatto un complimento. Perché devi reagire così?- continuò con lo stesso tono lamentoso.
Lei nemmeno si prese la briga di rispondere arroccata nel proprio silenzio, da donna lunatica e fuori di testa quale era, tanto che il ragazzo sentì montare il solito molesto fastidio di sempre.
-Dannazione, ti ho appena detto che sei bella, vestita così!- sbottò infatti seccato, rendendosi conto solo dopo, di averle appena fatto un complimento invece che insultarla come aveva avuto intenzione.
Non si sarebbe stupito se il suo alterato stato emotivo fosse conseguenza di una qualche rara malattia a contagio aereo, visto il veleno che la Parkinson spargeva intorno a sé costantemente. Un veleno che lo portava a rincorrerla come un cagnolino adorante ogni qual volta lei si mostrasse infastidita per qualunque ragione, prima ancora che Harry se ne rendesse conto.
Ancora un passo avanti a lui, Pansy sgranò gli occhi stupita, presa completamente in contro piede dal complimento del ragazzo. Fortuna che la strada era male illuminata, pensò grata, sentendo le guance andare in fiamme, altrimenti Potter si sarebbe accorto di averla fatta arrossire con una semplice parola. Per Morgana, quando era stata l’ultima volta che era successo?
Quello, Pansy lo sapeva, era preoccupante. Perché solo Malfoy ci era mai riuscito.
E lei, di Draco, era stata innamorata.
 
 


 
 
 
 
 
 
 
*
 
 
 
 


 
 
 
 
 
Al quarto incontro era seguito un quinto, un sesto, un decimo. Poi Harry aveva semplicemente perso il conto, troppo concentrato a stare al passo con il lunatico umore di quella pazza senza farsi venire un tracollo emotivo, per poter perdere tempo in altro durante le loro ore insieme.
Eppure quel numero sconosciuto e approssimativo continuava ad aumentare immancabilmente, con gran stupore del ragazzo che ancora non si capacitava di come, ogni volta, finisse per chiederle nuovamente di uscire.
Prima c’era stata la scusa dell’orologio che i Weasley gli avevano regalato per la maggiore età, perso durante la cena del quarto incontro e che aveva costretto Pansy a rispedirglielo via gufo, dimostrandogli quanto fosse affidabile quel mezzo, dopo che lui lo aveva bellamente ignorato presentandosi invece alla porta del suo atelier, con in allegato un appunto dai suoi tipici toni dispotici e insindacabili.
“Il tuo orologio era finito nel reparto di biancheria intima, non voglio sapere come. In ogni caso sei in debito. Una cena al Poison kitchen sarebbe il minimo” aveva scritto quell’irritante donna, senza nemmeno sentire il bisogno di firmarsi.
C’erano voluti due giorni, a Harry, per scoprire dove, esattamente, fosse quel dannato locale e, scoperto che si trovava a Praga le aveva mandato un biglietto a sua volta,rigorosamente via gufo, con su scritto “Sei pazza? Praga?”, eppure alla fine si era trovato a chiedere una passaporta oltremanica per accontentarla. Non che lei avesse minacciato o messo il broncio o qualche altro trucchetto femminile che Harry avrebbe potuto contrastare. Da abile subdola manipolatrice quale era aveva risposto checertamente non lo costringeva nessuno, a scegliere proprio quel posto, che la sua era solo un’idea per passare una simpatica serata diversa dal solito, che si doveva sentire libero di decidere quello che preferisse, e Harry era stato sommerso dal senso di colpa per il brusco biglietto che le aveva inviato. Aveva capito la trappola solo un paio di ore più tardi, davanti all’addetto alle passaporte internazionali e allora era stato troppo tardi, per cercare un altro ristorante, con gran divertimento dell’uomo che lo aveva ascoltato inveire irritato contro vipere velenose e le loro spire malefiche.
Poi c’era stata la volta in cui l’aveva portata al cinema, uscita, quella, causata da una nuova citazione cinefila presa da Star Wars e dalla malaugurata idea di spiegargliene il significato. Pansy, infatti, aveva ricordato la battuta sulla forza che aveva fatto a Malfoy tempo prima e aveva preteso di sapere di cosa stesse parlando, senza sconti, ritrovandosi però, alla fine, più confusa di prima.
Harry aveva scoperto poi, grazie al suo collega Charlie che era tornato a vivere con i genitori babbani dopo che le tubature erano esplose nel proprio appartamento, che in uno dei vecchi cinema alla periferia di Londra davano tutta la serie. Così l’aveva invitata a vedere il primo capitolo della saga, trovandolo un modo carino per farle finalmente capire quella che lei aveva carinamente definito “un’evidente deviazione mentale babbana dovuta alla loro comprovata inutilità”.
A dispetto dei pregiudizi, suoi quanto di lei, la ragazza si era divertita abbastanza da pretendere che la accompagnasse, nelle settimane seguenti, a vedere tutti i film successivi perché “non puoi certo pretendere, Potter, che una ragazza venga da sola in uno squallido quartiere del genere. E oltre a te, poi, chi accetterebbe di venire?”.
Cercare di ribattere sdegnato che non era la ruota di scorta di nessuno, che sebbene in periferia quello fosse un quartiere di tutto rispetto e che, di fronte a qualunque babbano, perfino il più pericoloso, lei avrebbe potuto schiantarlo in un attimo, era stato inutile. Anzi, aveva portato a un’occhiata condiscendente nei suoi confronti, per criticare nuovamente, i suoi modi, rozzi e ineleganti.
Dopo due mesi di incontri più o meno regolari, a seconda degli impegni di entrambi, poi, Pansy aveva trovato da ridire su qualcosa di diverso, di nuovo, rispetto ai suoi soliti commenti acidi sul suo modo di vestire, le sue amicizie, le vecchie diatribe di scuola, e la sua educazione in generale perché aveva lui avuto l’ardire di disdire un appuntamento all’ultimo minuto per due volte di fila. Il ragazzo, impegnato a leggere il menù, visto che la ragazza sceglieva sempre posti nuovi con piatti che definire etnici era un complimento, era come caduto dalle nuvole sentendole dire “Potter, ammettilo. Tu mi eviti.”
E Harry, piccola stella immacolata, si era ritrovato a negare con la stessa convinzione con cui, la prima volta, aveva ammesso di volerla invitare a pranzo di sua iniziativa e non perché lei lo aveva messo all’angolo e senza idea alcuna di come, ogni singola volta, finisse esattamente nel modo in cui la ragazza aveva programmato. Infatti, con ancora in mente quell’uscita assurda, che lo aveva distratto abbastanza da fidarsi di lei per l’ordinazione, ritrovandosi nel piatto uno strano intruglio di carne, cioccolato e broccoli saltati che avrebbe preferito non assaggiare mai, non aveva avuto il cuore, il coraggio, di rifiutare quando lei gli aveva chiesto di accompagnarla a una sfilata per stilisti emergenti, prima di una festa tra nomi importanti della moda a cui, quello si che era equiparabile a un miracolo, lei aveva accettato di graziarlo.
Un modo come un altro per dimostrarle la propria buona fede, gli aveva detto soddisfatta per convincerlo.
Aveva così sopportato un pomeriggio di shopping che lo aveva quasi ucciso, Voldermort si sarebbe mangiato le mani se avesse saputo quanto poco bastasse a sconfiggerlo, perché ovviamente “non posso lasciare decidere a te come vestirti per una serata del genere. E anche affidarti al dubbio gusto dei tuoi amici non è uno scenario accettabile. Ricordo ancora quel pacchiano cappello a forma di leone di Lunatica Lovegood. Ruggiva, se non sbaglio, vero?” e la sola, per niente malcelata repulsione, che il ricordo aveva evocato in lei, fu un incentivo sufficiente per zittirlo del tutto. Dopotutto, aveva pensato Harry distrutto, era vero che lui non aveva mai partecipato a una serata del genere. E anche quando era dovuto intervenire in una di quelle serate al Ministero, subito dopo la guerra, era sempre stata la signora Wealsey e consigliargli la mise migliore per l’occasione.
Ma il vero colpo di grazia era stato quando, un paio di settimane dopo quella sortita pubblica, che Harry aveva trovato esilarante nonostante i più cupi pronostici, quando due degli stilisti in passerella avevano scatenato una rissa perché avevano presentato due capi praticamente identici, e ognuno accusava l’altro di avergli rubato l’idea, minacciando perfino ripercussioni legali, era arrivato un invito per entrambi da Dafne Greengrass, per un brunch, la domenica a venire.
Quasi come se avessero voluto conoscerlo, visto che usciva con la loro amica.
Quasi come gli fosse dovuto, perché la sua non era più una presenza da potere ignorare.
Potter era andato in panico a causa dell’ufficiosità che l’invito recava con sé, allungando la sua ombra perfino su quella specie di relazione che lui e Pansy sembravano avere, ma che lui non aveva mai analizzato nel dettaglio.
Tutte le loro uscite, per una scusa o per l’altra, erano state catalogate dal ragazzo come una bizzarra parentesi temporanea senza futuro e, per quanto lui si scervellasse, senza significati nascosti. Uscivano insieme perché avevano un motivo per vederli. L’orologio e il debito che aveva portato con sé, dimostrare che Hermione aveva torto, il cinema. Tutto quanto per un motivo, mai perché lo volevano davvero.
O almeno era quello che Harry si era sempre detto.
Non aveva cambiato idea, per quanto riguardava la ragazza, giusto? 
La trovava sempre indisponente fino al midollo, arrogante come nemmeno una regina e assolutamente, indelebilmente, irritante come una pozione urticante sotto pelle.
Esattamente come aveva detto a Hermione e come, nei momenti di maggiore insofferenza, aveva detto anche a Pansy. Hermione lo aveva guardato con compatimento, Pansy, invece, gli aveva detto che li considerava complimenti, giacché lui era così visceralmente Grifondoro da non vedere a più di un palmo dal proprio naso. E se, in quel momento, aveva considerato quell’insulto uno strano modo per dargli del razzista prevenuto, da che pulpito, poi!, alla luce dei fatti, forse, intendeva che era un mentecatto.
Un innocente, ingenuo e completo mentecatto, che si nascondeva dietro a paraocchi grossi come delle case.
Aveva continuato a uscire con lei, nonostante tutto, e il suo cervello gli aveva più volte ricordato che, alla lunga, lo stress cui si stava sottoponendo avrebbe potuto portare a un’ulcera precoce, recante il nome di Pansy Parkinson. Ma lui, indefesso, aveva ignorato gli avvertimenti e l’aveva invitata ancora e ancora, accettando i suoi commenti sarcastici, ridendo suo malgrado alle battute acide che chiunque, un ingenuo passante o un vecchio amico non importava, poteva scatenare, e impelagandosi in discorsi su politica, etica e, con sommo gaudio della ragazza, ideali Grifondoro, per scambiarsi punti di vista e finendo, ogni volta, a litigare per gli stessi. Era arrivato perfino a tollerareil tono di superiorità con cui pronunciava abitualmente il suo cognome.
E poi era arrivato quell’invito.
-Harry che fai qua?- chiese stupefatta Hermione, ritrovandosi l’amico alla propria porta alle sette di sabato mattina, quando lui dormiva fino a tardi ogni volta che era possibile.
-Non avevi il giorno libero?- continuò poi, per accertarsi della cosa.
Il ragazzo era così sconvolto che tutto sarebbe stato possibile, in quelle condizioni. Magari aveva passato la notte in ufficio e non ricordava più che giorno era, oppure qualcuno lo aveva maledetto friggendogli del tutto il cervello e vista la sua proverbiale sfortuna quella era l’ipotesi più accreditata.
-Mi piace. Mi piace quell’assurda, irritante e incomprensibile pazza.- esalò incredulo delle sue stesse parole.
-Vieni, entra.- dopo un attimo di silenzio la ragazza lo prese dolcemente per un braccio tirandolo dentro, fino a raggiungere la cucina dove, prima che il campanello squillasse, si stava preparando un caffè.
Ne empì due tazze, sperando che il calore del liquido avrebbe permesso all’amico di riprendersi dopo quella sconvolgente scoperta. Sinceramente, quando ne avevano parlato mesi prima, aveva sperato che ci sarebbe arrivato prima, ma gradualmente, in modo da non vederlo completamente fuori di testa.
Lei ci aveva provato, dopotutto. Glielo aveva detto con tutto il tatto possibile.
 
 
 
 Questa sì che è una bella sventura. Trovare simpatica la persona che si è prefissi detestare.
 
 
 
E chi, meglio di Jane Austen, possedeva il tatto necessario per preservare la salute mentale del suo amico? Anche se sembrava non aver funzionato, visto il suo sguardo allucinato.
-Hermione tu non capisci. Hai presente di chi stiamo parlando? È assolutamente impensabile. Mi farebbe diventare pazzo, perché mai avrei dovuto permetterle di piacermi?- chiese senza nemmeno guardarla, perso in pensieri probabilmente così ingarbugliati da essere completamente incomprensibili.
-Harry, tesoro, non possiamo scegliere di chi innamorarci.- cercò di placarlo con tutta la delicatezza possibile.
-Innamorarsi? Chi ha parlato di…oh!- l’illuminazione sembrò coglierlo improvviso, sebbene forse fosse prematuro parlare di sentimenti importarti come l’amore.
Tuttavia la ragazza conosceva Harry abbastanza da sapere che, se non era davvero interessato a una ragazza, difficilmente si sarebbe lasciato coinvolgere fino a quel punto. Cho Chang e la fine prematura della loro relazione, per motivi assurdi tra l’altro, ne erano l’esempio. Che fossero passati anni, che Harry fosse un ragazzino allora e che lei fosse la sua prima ragazza erano solo dettagli. Harry era sempre Harry, non importava quanti anni fossero passati da allora.
Con una come la Serpeverde, poi, doveva esserci sotto molto più di quanto lei non sapesse. E lei ne sapeva poco, molto poco, vista tutta la reticenza del ragazzo nell’affrontare certi argomenti.
Dopo attimi di attenta riflessione, quando ormai la Granger si era tranquillizzata circa le condizioni dell’altro, Harry lasciò scivolare la testa dalla mano che l’aveva sorretta fino a quel momento, per poi andare a schiantarsi contro il tavolo sottostante.
-Oddio!- urlò Hermione, lasciando andare la tazza senza riguardi, facendo fuoriuscire alcune gocce di caffè dal bordo per il brusco movimento, e stringendo la spalla del ragazzo fino a tirarlo nuovamente su.
Osservò preoccupata il segno rosso che la botta gli aveva lasciato sulla fronte, vista la forza che aveva messo nel colpo, era un miracolo che non ne uscisse del sangue, per poi lanciarsi in una predica con i fiocchi circa certi gesti inconsulti per motivi futili.
-Hermione avevi ragione. Mi piace Pansy. Pansy Parkinson.- scandì poi lentamente il nome completo il ragazzo, convinto che bastasse quello per spiegare l’intera situazione, soprattutto visto il suo alterato stato mentale.
-Ho presente chi sia, ma non vedo il motivo di prendere a testate il mio tavolino, Harry. È di marmo, accidenti!- lo riprese irritata la ragazza –E poi, a cosa dobbiamo questa improvvisa presa di coscienza? Fino a pochi minuti fa, era assolutamente impensabile che ti piacesse.- continuò facendogli il verso.
-Mi piace perché riesce a convincermi a fare tutto quello che vuole raggirandomi e anche se lo so, glielo lascio fare comunque.- le disse agitato, mangiandosi alcune parole.
Forse vedendo lo sguardo dubbioso dell’amica, era vero che Harry andava sempre per la propria strada indipendentemente da quello che consigliavano gli altri, ma non vedeva quell’avvenimento degno di un oracolo, o forse ormai troppo preso dai suoi deliri per potersi fermare, il ragazzo continuò con tono lugubre.
-Mi ha chiesto di andare a quel dannato brunch tra Serpeverde e ho detto si.-
Non era proprio così che era andata, ma il suo amor proprio gli impediva di scendere nei dettagli con lei. Si era opposto strenuamente, trovando sempre nuove scuse per declinare l’invito, ma quando Pansy gli aveva detto divertita “Per Merlino, Potter! Sei più razzista di un Mangiamorte!”, non aveva potuto fare altro che ribattere e ribattere ancora circa l’accusa, fino a imporle di rispondere affermativamente alla Greengrass. Le aveva quasi strappato la pergamena di mano, per assicurarsi di spedirla il più in fretta possibile e dimostrarle quanto sbagliasse, accidenti!
Quanto poteva essere cretino? 
Hermione non poté trattenersi dallo scoppiare a ridere, già immaginando la faccia da coraggioso condannato a morte che avrebbe accompagnato Harry per l’intera giornata, e perché davvero, quella ragazza poteva rigirarselo come voleva.
Per una volta, Hermione Granger, provò invidia nei confronti di Rita Skeeter. Anche lei avrebbe voluto sapersi trasformare in un insetto.
Avrebbe davvero voluto essere una mosca, per osservare con agio l’amico circondato dagli avversari di sempre solo per una ragazza.
Avrebbe voluto vedere la sua faccia, quando si fosse trovato davanti Draco Malfoy, solo per una ragazza.
Forse avrebbe messo da parte l’antipatia che da sempre la legava alla Serpeverde solo per quel motivo. Sentir raccontare, nei dettagli, quella giornata, valeva il sacrificio.
Enrico IV di Francia aveva detto “Parigi val bene una messa” e Hermione non poteva trovarsi più d’accordo.
Nel suo caso, la sua Parigi, era quel brunch e il compromesso, per quanto la riguardava, era ben più che accettabile!
 
 
 
 
 
 
 
 
 


 
 
*
 


 
 
 
 
 
 
 
 
 
Harry di quella dannata e tanto temuta domenica non ricordava poi così tanto.
C’era stato il fastidio per essere costretto a vestirti tutto elegante, come nemmeno una serata con la regina, per quello che Pansy continuava a definire “un’amichevole colazione tra amici di lunga data”.
Poi l’incredulità quando la stessa padrona di casa, niente meno che Dafne Greengrass, aveva aperto la porta per riceverli, accolta con sguardo divertito della sua compagna“chiudi la bocca, Potter, o un beccaccino potrà farci il nido!”.
Ricordava vagamente l’irritazione per le battutine sarcastiche di Malfoy, “com’è, entrare volontariamente nella tana del lupo, Potter? Paura?”, e quelle appena più amichevoli di Nott “quanto vorrei poter immortalare il momento, Potter, a memoria per i posteri.”
Si era perfino divertito, quando erano stati raggiunti da Astoria, troppo a lungo ignorata dal proprio fidanzato impegnato nella faticosa impresa di ridere alle spalle del Grifondoro, e Pansy aveva dato il meglio di sé, tirando fuori una velenosa dolcezza fino ad allora insospettabile “Oh, Astoria, tesoro. Non devi preoccuparti che allontaniamo l’attenzione di Dracuccio da te. Dovresti averla, prima, per accusarci di un tale torto.”
E c’era stata la sorpresa sentendo Pansy stessa, sempre così prodiga di battutacce e recriminazioni nei suoi confronti, ribattere acida ai commenti degli altri invitati solo per salvare il suo onore. “Sei appena diventato la damigella da salvare, Potter. Ma la tua virtù è al sicuro, con me”, lo aveva poi preso in giro impietosa una volta lontani da orecchie indiscrete. Probabilmente si riteneva l’unica in diritto di infierire in quel modo su di lui.
Tutto, però, assumeva sfumature vaghe e fumose, di fronte a quello che era successo dopo, una volta lasciata casa Greengrass.
-Sei sopravvissuto, Potter, non l’avrei mai detto.- si era complimentata.
-Sono sopravvissuto a molto peggio, se mi permetti di dirlo.- aveva ribattuto lui, più per facciata che per reale convinzione. Quella giornata era stata una prova di resistenzanon indifferente.
-E comunque deve sorprenderti che sia sopravvissuta Astoria, non io.- aveva continuato poi, riferendosi alle mille frecciatine che le due donne si erano lanciate.
-Oh, Harry, quella non è sorpresa. E’ semplice dispiacere.- ribatté lei infastidita avendo visto frustrati tutti i suoi tentativi di convincere l’amico a lasciare quella sanguisuga senza personalità.
Il ragazzo rise scuotendo la testa, trovandola nella sua inaspettata infantilità decisamente tenera.
Per alcuni minuti era stato infastidito dall’idea che tutta quell’animosità nei confronti della futura moglie del suo ex fosse dovuta solo alla gelosia, ma poi guardandoli rapportarsi tra loro si era ricordato di quello che aveva pensato la prima volta che li aveva visti insieme, a Nocturn Alley, e di quello che poi aveva detto a Hermione “ma ora…non lo so, sono amici, credo. E si vogliono bene, in quel modo contorto e incomprensibile in cui si vogliono bene i Serpeverde.” e il fastidio era passato.
Semplicemente voleva bene al suo amico e non lo voleva vedere con quella che lei, nella sua immensa e presuntuosa onniscienza, riteneva una cretina senza speranza. O meglio, più di quanto non fosse il resto delle persone. Dopotutto sospettava, e a ragione, che Pansy non avesse poi questa grande opinione del genere umano in generale. Astoria era solo in fondo alla catena alimentare.
-Grazie per essere venuto, oggi. È stato divertente.- gli disse dopo alcuni minuti di silenzio la Serpeverde, con lo sguardo cocciutamente puntato diritto davanti a sé.
Harry la guardò stupefatto da quella sincerità inaspettata. Non era nel suo stile, in effetti.
Eppure, proprio come la ferocia che aveva tirato fuori per difenderlo dai vecchi amici o quella più acida che vomitava addosso alla piccola Greengrass senza senso di colpa alcuno, trovò veramente dolce quel lato umano che non credeva avrebbe mai avuto l’opportunità di vedere. Fu per questo, probabilmente, che allungò una mano per stringere la sua, per la prima volta in mesi di uscite.
Pansy sussultò per la sorpresa, fermandosi di botto, tanto che lui fece altri due passi prima di accorgersene.
-Che succede?- chiese titubante il ragazzo, con il rossore sul collo che minacciava di espandersi a tutta la faccia.
-Io…ecco, Potter…- balbettò con lo sguardo fisso a terra, prima di riprendersi e dichiarare fintamente infastidita – Cos’è? Abbiamo dieci anni da camminare mano nella mano?-
Stranamente, per uno come Harry, quel ritorno ai modi dittatoriali che le erano propri, gli diede il coraggio necessario per dirle quello che provava. Probabilmente non avrebbe avuto un’altra occasione del genere. Non senza che la ragazza lo sbranasse, almeno!
-Mi piaci, Pansy e…stai zitta, per un secondo!- la sgridò vedendo che stava per interromperlo nuovamente, quando finalmente aveva iniziato a parlare –Sei una pazza sclerotica che non accetta le opinioni altrui. Sei acida e indisponente per la maggior parte del tempo e per il resto mi irriti come non ci riesce nessuno. Sei cinica e probabilmente prima o poi mi farai venire un’ulcera. E potrei continuare, credimi.- e sorrise vedendola arrossire infuriata per quella lunga lista di difetti –Ma mi piaci, Pansy. Perché sei divertente e sarcastica e intelligente. E bellissima. Una bellissima e forte giovane donna che mi stupisce ogni secondo, con ogni parola che pronuncia. Sei una sorpresa continua, un imprevisto incontrato per strada.-
-Potter.- lo minacciò lei ostile, guardandolo per la prima volta da che si erano fermati e Harry si stupì, di vederle gli occhi pieni di lacrime e il volto arrossato.
Era bellissima.
La sua bellissima sorpresa.
-E voglio che tu sia il mio bellissimo imprevisto. La mattina appena sveglio e la sera prima di andare a dormire e…-
-Potter, ti odio!- gli urlò lei ormai completamente in lacrime, gettandosi tra le sue braccia e nascondendo il viso nel suo collo –Perché vuoi farmi piangere a tutti i costi?-
Harry sentiva tutta quella fastidiosa umidità penetrane nel colletto della camicia, ma paradossalmente non era mai stato bene come in quel momento.
Era tranquillo, con lei tra le braccia.
Aveva iniziato a respirare, tre anni prima, riprendendo in mano la propria vita.
E lo stava facendo anche in quel momento, con quella donna stratta al petto e la voglia di baciarla.
Una contraddizione vivente di velenosa dolcezza e bieca malvagità. E la voleva per sé, lo sapeva ogni momento di più.
-Non provare a baciarmi adesso, Potter, perché potrei staccarti la lingua con un morso.- berciò lei infastidita allontanando la testa di scatto, sentendo le sue mani sulle spalle, e asciugandosi veloce le guance per eliminare ogni prova di commozione.
Harry rise di nuovo, scuotendo la testa, perché lei era esattamente quello che aveva pensato e detto e molto di più.
Una sorpresa continua.
Il suo bellissimo imprevisto.
Una contraddizione vivente di velenosa dolcezza e bieca malvagità.
-Sarebbe carino se anche tu dicessi che ti piaccio, almeno un po’.-
Pansy, come ogni volta che riteneva di aver sentito la più grande delle idiozie, gli rifilò uno sguardo disgustato, senza degnarlo di una risposta.
Un po’ se lo aspettava, in effetti.
Lui continuò a guardarla nella speranza, molto remota, di farla cedere. Ci riuscì solamente per l’alterato stato emotivo della donna, non avrebbe mai potuto vantare alcun merito, al riguardo.
-Ma era ovvio, no?- rispose alla fine infastidita.
-Davvero?- chiese lui scettico.
-Certo!-
-E da cosa?-
Lei gli rifilò lo stesso sguardo raggelante di poco prima.
-Ho perso tutto questo tempo a raggirarti e ingannarti. Pensi che lo faccia con chiunque, stupido Grifondoro?-
Ogni timore verso le sue minacce, dopotutto la sua lingua era un ben misero prezzo da pagare, svanì vedendo di nuovo quegli occhioni lucidi. Ma doveva agire in fretta, o un calcio tra le gambe non glielo avrebbe tolto nessuno.
Le prese il mento tra pollice e indice per inclinarle il viso e abbassò il suo fino a toccarle le labbra. Erano morbide proprio come le aveva immaginate.
Era bello, baciarla. E stringerla a sé. Era bello anche sentire le unghie di lei piantate saldamente nel suo collo, a intimargli di staccarsi nonostante anche lei, stesse rispondendo al suo bacio.
 
 
 
 
Solo un paio di minuti dopo, sentendosi pestare dolorosamente un piede, Harry la lasciò andare, trovando di nuovo i suoi occhi umidi e le sue labbra arrossate.
Una contraddizione vivente di velenosa dolcezza e bieca malvagità.
Ed era sua. Ne era certo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Un anno dopo.
 
Harry Potter trovava ancora difficile accettare che il suo salotto, così come la sua camera da letto, avesse come colore preponderante il verde.
Certo, al momento della decisione, aveva trovato quel verde, che allora era stato subdolamente definito un verde bosco brillante, una rilassante sfumatura per i preziosi momenti di relax che l’Accademia Auror gli concedeva. Dopo tre mesi dall’imbiancatura, invece, vedeva solamente le astuzie della sua fidanzata per ottenere, come ogni volta, quello che desiderava.
Il colore delle pareti, l’arredamento in generale e l’enorme cabina armadio, talmente grande che lo stesso spazio avrebbe potuto essere stato sfruttato per un’altra stanza, in cui erano appesi per colore tutti i capi della ragazza, erano solo i primi di una lunga lista.
Harry aveva ben presto capito che certi argomenti era meglio non toccarli, e la disposizione dell’armadio insieme alla frequenza con cui questo veniva maniacalmente riordinato erano due di quelli.
Certo non si sarebbe infastidito più di tanto se, durante quell’ossessivo riordino, l’intera superficie del letto non finisse immancabilmente coperta di abiti. O se quelle manovre, degne solo di un plotone militare, non avessero dovuto avere luogo proprio durante i suoi riposini pomeridiani, al ritorno dall’ennesimo massacrante allenamento.
A ogni critica sulle tempistiche, immancabilmente, gli veniva ricordato che “nessuno, lo aveva obbligato a scegliere quella carriera” o ancora che “era stato lui a decidere di riprendere gli studi per sentirsi in pace con se stesso” o, la preferita della ragazza, “siamo abbastanza ricchi da vivere di rendita e tu vai a farti pestare per sport!”.
Tra gli altri argomenti da non toccare, sfortunatamente, c’era quell’inopportuna palla di pelo che era Fluffy, il loro cane-padrone che, da che era arrivato, aveva preso possesso di ogni angolo della casa.
Pansy era impazzita definitivamente, per quell’essere, diventando ancora più irritante di quanto non fosse normalmente.
Harry rimpiangeva il disgraziato giorno in cui, l’anno precedente, si era presentato a quel brunch in territorio nemico, e la dichiarazione che ne era seguita.
Ovviamente rimpiangeva ancora di più il giorno in cui le aveva proposto di andare a vivere insieme, o meglio quando Pansy l’aveva raggirato abbastanza da farselo proporre come se la decisione non provenisse da lei, ma niente era paragonabile a quanto odiasse il giorno in cui aveva accettato di comprare quel dannato cane.
A disturbarlo di più, probabilmente, era il fatto che per una volta l’idea fosse stata davvero sua, senza ingerenze esterne, e che dopo strenue battaglie l’avesse avuta vinta sulla ragazza che, sinceramente seccata dalla proposta, l’aveva accompagnato a un negozio di animali babbano solo per assicurarsi che non tornasse a casa con qualcosa di potenzialmente mortale.
Quanta fiducia, che aveva in lui, la sua ragazza!
Nel giro di un paio di giorni Pansy stravedeva per quel cicciotto cucciolo peloso che era Fluffy, arrivando perfino ad affibbiargli quel vergognoso nome, mentre Harry voleva solamente farlo evanescere.
Mordeva le sue scarpe, solo il sinistro di ogni paio, però, costringendolo a sistemarle ogni volta con un tocco di bacchetta prima di uscire, occupava il suo posto sul divano, quello a lato, dove poteva appoggiarsi al bracciolo per leggere tranquillamente la Gazzetta del Profeta, e rendeva Pansy instabile da far paura.
Perfino Malfoy, mosso a pietà dal mostro che l’amica era diventata, aveva proposto di condividere con lui la sua scorta di veleni, per uccidere il cane o la ragazza indifferentemente.
Scegli chi preferisci, Potter”, gli aveva concesso magnanimo.
-Dannazione, botolo, stai fermo!- brontolò Harry sempre più stressato, tentando di asciugare quel dannato cane prima del ritorno a casa della ragazza.
Avrebbe infatti preferito non spiegargli perché, esattamente, si ritrovasse a fargli un bagno quando lo avevano portato a lavare solo il giorno prima, rovinandogli così la perfetta piega da trentasette galeoni che l’Elvis dei poveri aveva avuto fino a quella mattina.
Ma Harry doveva saperlo che non poteva andare tutto secondo i suoi piani.
Era appena riuscito ad asciugare il cane e concedere una più che meritata doccia a se stesso, perché quella bestia ingrata gli aveva bagnato perfino le mutande nel tentativo di liberarsi dalla tortura, quando Pansy entrò in casa allegra.
-Amoooreee! La mamma è tornata!- gorgheggiò dall’ingresso rivolta a Fluffy, prima di prenderlo in braccio e coccolarlo come nemmeno un figlio.
Non c’era possibilità di errore, al riguardo. La ragazza non lo avrebbe mai apostrofato in modo tanto sdolcinato ancora nei pressi della porta d’ingresso, rischiando di farsi sentire da un qualunque passante.
Tornò improvvisamente normale quando lo vide, baciandolo veloce sulle labbra, prima di ghignare divertita. Quell’espressione, Harry l’aveva imparato in quei mesi insieme, non prometteva mai niente di buono. Non per lui, almenoLei ci ricavava sempre delle grasse risate a sue spese.
-Potter che cosa hai combinato?- chiese infatti scettica, alternando lo sguardo dal cane, ancora caldo di phon a Harry, con i capelli umidi di doccia e la maglietta al contrario, tenero come un bimbo.
Stranamente, e visti i trentasette galeoni non ci avrebbe giurato sopra, non se l’era presa per la piega ormai inesistente del cane, ma puntava lui come un mastino con un osso.
-Di che stai parlando?- chiese Harry sulla difensiva.
-Ho parlato con la signora Wistlett, la nostra vicina, e ha detto che per poco non hai scatenato una rissa, là fuori.- gli spiegò con quella faccia da baro Serpeverde che Harry temeva come niente altro.
Aveva anche pensato di portarla a Las Vegas per un pellegrinaggio nei casinò, ma poi aveva avuto pietà dei poveri ignari che avrebbero condiviso il tavolo verde con lei, ritrovandosi la mattina dopo senza nemmeno le forze per tornarsene a casa. Ammesso che l’avessero ancora, una casa.
-Non so di cosa stai parlando.-
-Non provare a negare, Harry Potter! Hai quasi scatenato una rissa con uno sconosciuto!- si arrabbiò lei, prima di dare una nuova carezza sulla testa del cane che ancora aveva in braccio.
-E chi dice che sia stato io?- Harry indispettito, anche se stava sudando freddo, consapevole che non avrebbe retto a lungo, a quell’interrogatorio. Purtroppo non era mai stato bravo a mentire.
Lei, in risposta, si limitò ad alzare scettica un sopracciglio, aspettando il momento in cui il ragazzo si sarebbe irritato abbastanza da confessare tutto solo per sbatterle in faccia la verità. In sei mesi di convivenza, ormai, lo conosceva abbastanza da sapere come raggirarlo.
Non che si fosse mai fatta troppi scrupoli in precedenza, in effetti, ma adesso c’era tutta una nuova soddisfazione nel farlo, perché lui ne era consapevole, sebbene l’orgoglio gli impedisse di ammetterlo.
E Pansy lo trovava ancora più divertente.
Mai quanto prendere in giro Weasley, magari insieme a Draco, ma non si lamentava.
-Magari è lui che ha attaccato briga, no?- chiese irritato il ragazzo, confermando la sua teoria.
-La signora Wistlett non la pensa così.- gli disse Pansy soddisfatta mettendo a terra Fluffy.
-Beh, sai che ti dico? È tutta colpa del tuo dannato cane. Quello sconosciuto, come dici tu, lo ha chiamato insulsa palla di pelo e ha proposto al suo cane di usarlo come antipasto e l’ho difeso. Sei contenta? Sei contenta, adesso?- sbottò arrabbiato Harry, arrossendo in viso per l’imbarazzante confessione cui era stato costretto.
Pansy sorrise intenerita da quello che il fidanzato aveva fatto per il botolo ubriaco, come lo chiamava lui, sebbene la vecchia vicina le avesse già raccontato l’intera storia.
Il suo ragazzo che quasi si picchiava con un uomo grosso il doppio di lui solo per proteggere l’onore del loro piccolo. Pansy lo trovava davvero molto dolce. E sexy.
-Hai protetto il nostro piccolino?- gli disse ghignante avvicinandosi al ragazzo fino a circondargli il collo con le braccia con voce svenevole.
-Lo sapevi già, maledetta, vero?- borbottò lui infastidito.
Harry era sempre molto tenero, quando si accorgeva di essere stato raggirato e lo era ancora di più prima, quando ancora non se ne era reso conto.
Come quando l’aveva invitata a pranzo la prima volta, rincorrendola e cercando di capire cosa avesse detto per irritarla, finendo poi per supplicarla per andare in pausa pranzo insieme. O quando si era presentato al negozio e aveva stoicamente sopportato i commenti al vetriolo prima di Dora e poi di lei.
In realtà, trovava Harry tenero la maggior parte delle volte. Doveva essere la sua integrità Grifondoro, quella che gli impediva di ingannarla come lei faceva giornalmente con lui, sebbene alla fine apprezzasse i suoi metodi, a renderlo così adorabile.
Pansy si era sempre detta che, fin da ragazza, era stata circondata da un ben altro genere di persone. E non se ne vedevano tanti, come lui, tra le umide pareti dei sotterranei.
Probabilmente, poi, a quell’età non l’avrebbe nemmeno apprezzato, visto che tutti i suoi interessi vertevano su giovani rampolli di buona famiglia arroganti e tenebrosi.
Malfoy ne era l’esempio.
Non sarebbero arrivati a quel punto, se lei non avesse preso la situazione in mano. Probabilmente Potter avrebbe avuto ancora mille dubbi se salutarla per strada o meno. Fortuna che lei era una donna che sapeva cosa voleva e come agire per ottenerla.
Un primo appuntamento.
Un bacio.
Un impegno.
E poi la convivenza. L’arredamento e i colori alle pareti.
E perfino il cane.
E mille piccole altre cose che era meglio Harry non scoprisse mai.
Come il color rosso acceso dei mantelli Auror, che il Ministero aveva inaspettatamente cambiato in un rosso più cupo e decisamente più accettabile. Forse non alla moda, ma aveva ancora tempo, per lavorarci sopra.
-Sei una subdola arrivista.- le disse scontento, stringendole le braccia intorno ai fianchi.
-Lo sai Potter che sto con te solo per i soldi, no?- rispose sarcastica, facendolo scuotere la testa divertito.
-Beh io sto con te solo per i tuoi amici, quindi mi sembra uno scambio equo.- rispose lui con lo stesso tono.
Pansy si ritrovò a ridere allegra per la menzogna palese, ricordando ancora con ridicolo divertimento il giovedì precedente, quando avevano invitato Draco e Astoria Sono Troppo Noiosa Greengrass a cena, e i due ragazzi avevano quasi fatto a botte per decidere chi dovesse lavare i piatti.
Un altro brillante raggiro andato a segno.
Pansy era deliziata, dalla capacità che ancora aveva dopo anni di fregare perfino il suo migliore amico, e la rabbia che questo comportava nella piccola Greengrass rendeva tutto ancora più soddisfacente.
Harry guardò affascinato il succedersi di emozioni sul viso della ragazza, abbassandosi un poco per baciarla sul naso quando un sorriso sincero le illuminò gli occhi.
-Hai salvato il nostro cucciolino, Potter!- soffiò lei con voce suadente.
-Me lo rinfaccerai per sempre, vero?- chiese lui, fingendosi orripilato dalla possibilità.
-Ammettilo, che alla fine gli vuoi bene.- lo prese in giro pizzicandogli una guancia.
-Mai. Lo sai che non lo sopporto. Ma dico, lo hai visto? Potremmo usarlo come panno per la polvere e non noteremmo la differenza!- si intestardì il ragazzo.
Era adorabile, in quel momento. Sembrava un ragazzino vergognoso. Un po’ come quando lo costringeva a portarle la borsa durante una passeggiata per poterlo abbracciare come meglio credeva, sogghignando poi sadica vedendo le facce invidiose delle altre donne che la vedevano con il Prescelto, o quando portava a passeggio Fluffy con il collare di brillantini azzurro che lui trovava tanto offensivo. Le prime volte brontolava “Tu vuoi castrarmi, donna. Ammettilo!”
- Questa sì che è una bella sventura, Potter. Trovare simpatica la persona che si è prefissi detestare.- gorgheggiò lei sogghignando.
Harry borbottò qualche parola indistinta, irritato per l’ennesima volta dalla ragazza e dalla consapevolezza di concederle tutto quello che voleva, ogni singola dannatissima volta.
Come quando aveva preteso di sapere quando, esattamente, si fosse reso conto che stavano uscendo insieme come coppia. O che si stava innamorando di lei.
Al ragazzo non era rimasto, dopo due ore di raggiri e seducenti promesse, che ammettere di aver avuto bisogno di una chiacchierata chiarificatrice con Hermione e si era ritrovato a citare quella frase.
Non poteva certo immaginare che, da quel giorno, Pansy l’avrebbe ripetuta ogni volta che se ne fosse presentata l’occasione.
Ma che paragonasse la sua epifania affettiva a quello che provava per il botolo che aveva preso possesso di casa loro no, non ci stava!
-Pansy.- le intimò infatti serio, sperando che il discorso finisse lì.
Non aveva considerato di essere finito in trappola per l’ennesima volta, ma lo capì quando lei rise deliziata strofinandogli il naso sul collo.
-Dimmelo.- lo pregò dolce.
-Mai.- rispose lui risoluto, deciso a non piegarsi fino in fondo.
-Oh, andiamo Harry, non fare il cattivo.- continuò con lo stesso tono, baciandogli leggera il pomo d’Adamo che andava su e giù frenetico, al ritmo del suo respiro.
Quella dannata donna sapeva sempre quali tasti premere, accidenti.
-Andiamo Pansy…- la pregò lui, attaccandosi agli ultimi brandelli di determinazione, sperando sarebbero bastati.
-No, no, no, no, Harry. Solo due paroline. Due paroline piccole, piccole.- lo incoraggiò salendo verso la mandibola con le sue labbra soffici.
-Ti amo. Accidenti, donna, sei contenta, adesso?- si arrese alla fine irritato, prima di stringerle il mento tra pollice e indice e inclinandole il viso quel tanto per poterla baciare.
La ragazza sospirò soddisfatta, come ogni volta che il fidanzato si imponeva in quel modo, e gli strinse di più le braccia al collo per potersi avvicinare a lui.
 
 
 
 
 
 
Un paio di ore dopo, abbracciati sul letto sfatto, Harry cercava a tentoni gli occhiali che erano finiti tra le lenzuola senza però abbandonare la presa sul corpo morbido di lei, e Pansy fumava tranquilla una delle sue sigarette al limone, picchiettando occasionalmente sul posacenere che le stava a fianco.
Quando avevano iniziato a uscire lei fumava del normale tabacco, Harry lo ricordava perché ogni volta che accendeva una sigaretta storceva il naso infastidito dall’odore, ma da quando vivevano insieme, lei aveva iniziato a comprare sigarette aromatizzate al limone, in uno dei suoi tanti piccoli pensieri per Harry, sebbene non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce.
La ragazza continuava a sostenere che lo avesse fatto perché ormai solo i proletari, fumavano tabacco, ma visti gli sguardi invidiosi che lanciava a Malfoy ogni volta che lui accendeva una delle sue, Harry aveva scoperto la menzogna.
Era dolce, Pansy. Come una pianta velenosa, certo, ma non per questo i suoi fiori erano meno preziosi. Per Harry lo erano di più.
-Ti amo, comunque.- gli disse indifferente tra una boccata e l’altra di sigaretta, guardando diritta davanti a sé.
Il ragazzo sorrise sentendo quelle parole, apparentemente gelide e distaccate, ma si chinò un po’ verso di lei per baciarle una spalla nuda.
La ragazza difficilmente sprecava il proprio tempo a mentire, dissimulare forse, raggirarlo certamente, ma mentire? Non credeva di averla mai sentita mentire in un anno che stavano insieme.
Se non lo guardava quando gli diceva di amarlo era perché si sentiva indifesa quando lo faceva, e non voleva darlo a vedere.
Anche quando le aveva confessato i propri sentimenti per la prima volta, aveva fatto di tutto per non guardarlo in viso ed evitare le lacrime.
Se l’avesse osservato, probabilmente, si sarebbe messa a piangere anche in quel momento. Lo faceva ogni volta che lui, in qualche modo, riusciva a giocarla.
-Dillo che vuoi farmi piangere, allora. Dillo, accidenti a te, stupido Grifondoro!- lo insultò, infatti, con voce rotta, spintonandolo perché si allontanasse da lei prima di vedere le lacrime nei suoi occhi, facendolo ridacchiare divertito.
Solo dopo che ebbe notato la mancanza di occhiali si rilassò leggermente, permettendogli perfino di abbracciarla.
Dopotutto Harry era cieco come una talpa, senza.
Rimasero in silenzio qualche minuto, cullati l’uno dal respiro dell’altra.
Erano momenti perfetti, quelli, ma generalmente duravano poco. Pansy era troppo sadica per cadere nello sdolcinato.
E così fu anche quella volta.
-Potter, devi portare fuori Fluffy. Non senti come gratta la porta? Probabilmente deve fare pipì, povero piccolo!-
E con quell’ultima romanticheria, lo spinse fuori dal letto soddisfatta, osservandolo muoversi alla cieca per parecchi minuti, divertita dal suo sbattere contro ogni spigolo esistente, prima di decidersi a consegnargli gli occhiali che aveva nascosto sul proprio comodino.
-Stupida.- borbottò infastidito il ragazzo, mentre si allontanava insieme al cane per cercare il vergognoso guinzaglio massaggiandosi il posteriore sul quale presto sarebbe comparso un importante livido dopo un incontro ravvicinato con il comodino.
Pansy si stiracchiò e gli urlò dietro –Ti amo anche io!-
Non avrebbe mai avuto l’ultima parola, con la ragazza.
Ogni giorno passato al suo fianco non faceva che ricordarglielo. Eppure, perfino quella fastidiosa consapevolezza, gliela faceva amare anche di più.
Hermione glielo aveva detto, tempo prima, ma forse non ne aveva capito le reali implicazioni.
 
 
 
Questa sì che è una bella sventura. Trovare simpatica la persona che si è prefissi detestare.
 
 
 
E se da ragazzino la detestava davvero e l’anno prima aveva fatto di tutto per ricordarsi quante e quali fossero le sue reticenze nei confronti della ragazza, adesso la amava e basta con tutti i suoi difetti e le mille paranoie psichedeliche.
 
 
 
 
 
Una sorpresa continua.
Il suo bellissimo imprevisto.
Una contraddizione vivente di velenosa dolcezza e bieca malvagità.
Sua. 
 
 
 
 
 



 
 
 

ANGOLO AUTRICE.
Ecco a voi il secondo e ultimo capitolo di questo ennesimo delirio.
Grazie a XanderXVII per la recensione, entro sera prometto di risponderti, e grazie anche a chi ha letto soltanto.
Come avevo detto nelle note dello scorso capitolo questa storia partecipa al contest “Dalla vecchia alla nuovissima generazione, per tutti i gusti”indetto da Alistel, e si è classificata seconda. Potete immaginare quanto sia contenta!
http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=10639201&p=5 Qui potete leggere i giudizi alle varie storie e, se volete, andare a dare un’occhiata di persona.
Passando alle mie, spesso inutili, precisazioni di fine capitolo, vado a segnalarvi ciò che non è farina del mio sacco. Aristotele e i suoi sillogismi in prima fila, visto l’importanza storica e culturale che quell’uomo incarna ancora a distanza di secoli e secoli, la mia anima da filosofa fallita derivante da anni di liceo, ci teneva alla precisazione.
La frase di Pansy, “Tu non sai niente, Potter!” deriva direttamente da una delle frasi più famosi delle Cronache del ghiaccio e del fuoco, di Martin, dove Igritte la rivolge a Jon Snow con la stessa frequenza con cui cadono teste. Se non ve la sentite di cimentarvi nel malloppo, almeno date una possibilità al telefilm, che almeno fino al punto cui sono arrivata è parecchio attinente alla trama originale!
Il Poison Kitchen, ristorante di Praga, invece, è il ristorante preferito di Karou, protagonista della Chimera di Praga, di Laini Taylor e che, purtroppo, non esiste, altrimenti anche io sarei loro cliente.
Parigi val bene una messa” è la celebre frase con cui Enrico III di Navarra, in seguito Enrico IV di Francia (1553 – 1610) accetta di convertirsi pur di governare sulla Francia, almeno secondo le leggende.
Un beccaccino, che rischia di finire nella gola di Harry, come amorevolmente gli ricorda Pansy è, ovviamente, il beccaccino di Up!, e con questa ultima delirante citazione blasfema, direi che posso salutarvi.
Grazie a chi sprecherà un po’ del suo tempo per questa storia. Se decidete di lasciarmi una recensioncina mi farete sempre felice.
Un abbraccio, Rebecca.






 

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