Crossroad Blues

di Yoko Hogawa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Primum Vivere pt.1 ***
Capitolo 2: *** Primum Vivere pt.2 ***



Capitolo 1
*** Primum Vivere pt.1 ***


Desclaimer: come sempre, Sherlock e i suoi personaggi non mi appartengono, così come non mi appartengono tutti gli altri personaggi che compariranno relativi alle altre serie con cui mi “incrocerò” nella raccolta. Sono tutti dei rispettivi creatori.
 
Note: era da un po’ che volevo cominciare questa raccolta, dato che Sherlock è riuscito a farmi nascere un kink per i crossover (che prima addirittura disprezzavo). Solo che avevo altre cose da scrivere.
Non che adesso io abbia meno cose da continuare, anzi. Però in un momento di noia ho cominciato a scrivere, ed eccoci qui.
Crossroad Bluesè, come dice fuori, una raccolta di crossover. Non verrà aggiornata con regolarità, perché dipende tutto dall’ispirazione, dunque sarà molto ballerina. Io la vedo molto... come una raccolta di appunti, dunque potrete trovare capitoli lunghi o brevi a seconda di come mi andava in quel determinato periodo. Ci saranno onestot e storie di più capitoli... insomma, di tutto un po’.
Per chi vede Supernatural, sì: “Crossroad Blues” è il titolo di una canzone che gli fa da OST. Era adattissimo come titolo e l’ho preso in prestito XD
 
Come sempre, auguro a chi vorrà una buona lettura ♥

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Sherlock/The Hunger Games
Primum Vivere
Parte 1

 
 
 
Era in piedi in mezzo al salotto, le mani strette sugli avambracci e lo sguardo preoccupato fisso sullo schermo del televisore. L’energia elettrica era razionata ma quello era l’unico periodo dell’anno in cui il Governo la forniva continuamente, obbligando i cittadini di tutti i Distretti ad accendere il televisore e a guardare la diretta. L’unico periodo dell’anno in cui era permesso di non lavorare allo scopo di poter assistere all’Evento – talmente significativo da meritarsi la maiuscola – trasmesso su rete nazionale 24 ore su 24.
Gli Hunger Games.
Era già passato un anno.
John si strinse nelle spalle, coperte solo dalla maglietta a mezze maniche che usava come pigiama, rabbrividendo ma non per il freddo. Era l’ da ancora prima che le prime luci dell’alba rischiarassero il cielo di quello che una volta era il Sussex, scalzo sul tappeto del salotto, i denti stretti nel vano tentativo di resistere all’ansia che gli aveva impedito do dormire per tutta la notte.
Sullo schermo del televisore LCD, uno sfarzo di tecnologia per chi era tornato a vivere come se fosse il 1930, un conto alla rovescia indicava il tempo mancante alla messa in onda della Mietitura.
I quattordicesimi Hunger Games incombevano su di loro.
Chiuse gli occhi quando sentì dei passi scendere le scale, attutiti dalla moquette che le ricopriva. Attese che quegli stessi passi, che aveva giù riconosciuto, si avvicinassero e che un paio di mani fredde si posassero, gentilmente, sulle sue spalle.
« Non volevo svegliarti... » sussurrò John, chiudendo gli occhi in un sospiro.
« Sai che non stavo dormendo » rispose l’uomo dietro di lui con il medesimo tono basso.
« Sherlock... » John mormorò: « la Mietitura è oggi » disse.
Come se non lo sapesse. Come se non fosse quello il motivo per cui avevano passato la notte svegli, stesi sul letto a fissare il soffitto, trattenendosi nell’andare nella camera accanto e stringere il loro bambino in un abbraccio; un comportamento che avevano deciso di tenere per non agitarlo, per non imporgli la loro presenza in una notte così importante, così spaventosa. Come se non fosse quello il motivo per cui avevano passato ore a tenersi per mano in silenzio.
« Lo so » rispose Sherlock.
« Trasferirsi nel Sussex non è contato niente ».
« All’epoca pensavamo che fosse sicuro » rispose Sherlock.
« Non siamo stati capaci di impedirlo... dovevo darti retta, dovevamo andare all’estero. Adesso non possiamo nemmeno uscire dal Paese » cominciò a dire John, agitandosi parola dopo parola.
« È una cosa che non possiamo controllare, John. Lo sai » disse Sherlock.
« Mh... » annuì il medico.
Le cifre, bianche su sfondo blu, continuavano a decrescere sul televisore. John le guardò di nuovo e sentì la nausea farsi strada in lui.
« Sherlock, vieni qui » sussurrò infine.
Non era una richiesta come ogni altra e non intendeva il senso letterale della frase. Sherlock era già lì, accanto a lui. La sua era una richiesta di contatto fisico, era chiedergli di occupare anche quei pochi centimetri che li separavano. E Sherlock capì, come capiva ogni volta, ogni parola che John pronunciasse.
Si avvicinò del tutto e lo abbracciò, appoggiandosi con il petto alla sua schiena e circondandogli la vita con le braccia.
John si abbandonò contro di lui, cercando con le mani quelle di Sherlock ed intrecciandone le dita.
La sua vicinanza non rallentava lo scorrere del tempo, non fermava il countdown implacabile sullo schermo del televisore, non cancellava la Mietitura che si sarebbe tenuta in poco più di sei ore. Ma era Sherlock, suo marito e la sua vita, e se c’era lui John poteva sopportare anche quell’agonia che, nel migliore dei casi, si sarebbe ripetuta per altri sei anni.
Nel peggiore...
Quell’abbraccio non riuscì a tenere lontano i pensieri negativi che affollavano la sua mente, gli scenari da film dell’orrore che lo attraversavano in un brivido quando chiudeva gli occhi. Non per molto.
« Ha solo dodici anni, Sherlock... Dodici » disse in una specie di lamento a mezza voce: « non ha nemmeno cominciato a vivere la sua vita... ».
Sherlock lo strinse di più a sé, provando a calmarlo con la fisicità a discapito delle parole. « Lo so » disse solamente.
« Cosa faremo se– »
« Ha poche probabilità » lo interruppe il detective, convinto a non lasciare che il medico di auto-distruggesse da solo a quel modo: « una su più di mille ».
« La stessa che hanno tutti » ribatté John.
« È più probabile che torni a casa. Il suo nome c’è solo una volta » continuò Sherlock. « Pensa a quando saremo a casa, oggi pomeriggio, e tutto sarà finito ».
« E poi ci sarà un altro anno, e un altro ancora. Fino ai 18 anni. E non sappiamo se... se lui... »
« Non è piangendoci addosso che risolveremo il problema » intervenne Sherlock, forse duramente, ma John poteva essere scosso solo così, solo con la fermezza.
« Non possiamo risolverlo comunque, Sherlock » rispose però lui, la cassa toracica che vibrava delle parole amare che stava pronunciando: « possiamo solo aspettare ».
Sherlock rimase in silenzio per qualche istante, le labbra appoggiate alla tempia di John e gli occhi rapiti dal conto alla rovescia per l’inizio delle trasmissioni, momento in cui il Maestro di Cerimonie avrebbe presentato il Primo Stratega a capo della pianificazione e dello svolgimento dei giochi.
« Andiamo, John » sussurrò poi: « torniamo di sopra. Fra poco dovremo svegliare Hamish ».
John annuì, sciogliendosi dall’abbraccio ma senza slegare le loro mani.
In silenzio e mano nella mano, salirono le scale verso la camera di loro figlio.
 
 
 
Un allegro motivetto di trombe e accordi in pianoforte annuncia l’inizio delle trasmissioni in diretta nazionale. Un uomo dai capelli blu elettrico ed un codino dietro la nuca viene inquadrato e, verso la telecamera, si esprime in un sorriso che sembra incollato con lo stucco su di un volto fatto di cera.
« Signori e signore... » annuncia una voce echeggiante da fuori campo: « il nostro Maestro di Cerimonie, Caesar Flickerman! ».
Il pubblico in sala applaude ed incita l’uomo, che si alza da una poltroncina bianca e allarga le braccia a raccogliere il calore del pubblico. Un altro uomo è seduto nella seconda poltroncina e, chiunque abbia visto le ultime tre edizioni degli Hunger Games –  dunque tutti – è in grado di riconoscerlo come il Primo Stratega: Seneca Crane.
Gli applausi si esauriscono e Caesar di siede, rivolgendo lo stesso sorriso al suo ospite. Lo indica poi con le mani e un secondo boato di applausi ed incitazioni riempie la sala.
Seneca di alza e si inchina, rimettendosi comodo dopo qualche istante, appoggiando la caviglia della destra sulla coscia sinistra e aprendo le braccia sui braccioli della poltroncina.
« Benvenuto! » esordisce poi Flickerman quando gli applausi cessano per la seconda volta: « benvenuto, Seneca! Mi permetti di darti del tu, vero? » domanda.
Crane sorride. « Certo. Dopotutto è il terzo hanno che ho il piacere di essere tuo ospite » dice.
« Vero » annuisce Caesar con un nuovo sorriso, e il pubblico parte con un terzo giro di applausi.
« Allora Seneca » comincia poi Caesar, il tono di un presentatore nato appositamente per fare quel mestiere: « fra poco meno di un’ora partiranno i collegamenti audio/video con in nostri inviati in ogni Distretto ed assisteremo in diretta alla Mietitura. Nel frattempo, cosa puoi dirci dell’Arena di quest’anno? Dobbiamo aspettarci delle sorprese? ».
Prendendo fiato, Seneca Crane comincia a parlare.
 
 
 
Hove era l’unica città rimasta in quello che una volta era il Sussex orientale e che, insieme al Kent, ora formava il Distretto 4, o anche detto “Distretto Sud-Est”.
Il Distretto 4 viveva di pesca e di agricoltura e l’unico territorio in cui era concesso ai cittadini di costruire case ed abitazioni per loro personale uso era, per l’appunto, la città di Hove. Anche se, più che “città”, poteva venire chiamata cittadina. Tutto il resto del territorio era adibito a campi coltivati e controllato dai Pacificatori.
I mezzi di trasporto a motore erano vietati e appannaggio unico del Governo. Gli abitanti del Distretto 4 si muovevano per lo più in bicicletta o, per i viaggi corti, a piedi. Ogni famiglia viveva soprattutto dei prodotti dell’orto e del pollaio di casa, cercando di essere auto-sufficiente, e di baratto durante i mesi invernali. Le scorte dei prodotti industriali lavorati, come medicinali ed altri alimenti confezionati o contenenti prodotto lavorati da materie prime non reperibili (come lo zucchero), erano costosi e preclusi alla vendita diretta per gran parte dell’anno. Potevano essere richiesti ai Pacificatori ma, ovviamente, aveva un costo. Tutto aveva un costo.
Nel complesso, però, la famiglia Watson-Holmes non se la cavava male.
John era medico, dunque riusciva a guadagnarsi da vivere grazie proprio a quella professione. Avevano adibito la rimessa della loro casa in periferia ad ambulatorio medico, con tre letti per la degenza, e John era abbastanza gentile da permettere a chi non aveva i soldi per permettersi le sue prestazioni di pagarlo con il baratto. Essendoci carenza di medicinali usava l’antico sapere medico degli alchimisti e dei guaritori, ovvero le piante officinali.
Il marito Sherlock, che prima della Rivolta era stato un famoso detective privato, ora allevava api e produceva miele. Barattava i vasetti con  prodotti di prima necessità ma la maggior parte dei suoi introiti provenivano dalle richieste private dei Distretti 1 e 2, i più benestanti, dove alcune famiglie importanti avevano avviato un piccolo commercio clandestino per avere il suo miele, ritenuto il più buono. Commercio che andava ingrandendosi man mano che la voce si spargeva e che, ovviamente, coinvolgeva anche qualche Pacificatore.
Dato che la maggior parte dei dolci in commercio qualche anno prima, come le caramelle e il cioccolato, erano ormai rari o addirittura scomparsi, il miele e la marmellata erano gli unici cibi dolci rimasti; la marmellata, tra l’altro, essendo fatta con lo zucchero era molto più rara del miele, che una volta raccolto non aveva bisogno di importanti lavorazioni. A volte Sherlock ne dava un vasetto ad Hamish da portare a scuola, sotto consiglio di John.
Insomma, erano una famiglia tranquilla e gentile, per questo in città i Watson-Holmes erano molto ben voluti. Dunque molte persone condivisero la loro ansia, quella mattina, quando accompagnarono il piccolo Hamish, 12 anni appena, alla sua prima Mietitura.
La piazza di Hove era uno spiazzo piastrellato e circondato da basse case, ovvero tutto ciò che rimaneva del centro cittadino e che era stato ricostruito alla bene e meglio. Una volta c’era una fontana e qualche albero, ma era stato tutto abbattuto e appianato per consentire l’assembramento durante la Mietitura, sia dei ragazzi che degli adulti. Ed essendo che durante gli Hunger Games non si lavorava, le persone che si ritrovavano in piazza riuscivano tranquillamente a riempirla.
La piazza centrale era, di fatti, gremita di gente e di ragazzi fra i 12 e i 18 anni in fila davanti ai funzionari del Governo addetti alle liste di presenza.
Fermandosi ai margini della piazza, John strinse di più la mano di Hamish nella sua, che non aveva lasciato un attimo durante tutto il tragitto a piedi fin lì.
« Papà, mi fai male » protestò il piccolo.
« Scusa... non volevo, Hamish » disse il medico, allentando di un poco la presa e cercando dentro di sé la forza di sorridere in modo tranquillo, senza però riuscirvi.
Sia Hamish che Sherlock se ne accorsero. Sherlock non disse nulla, limitandosi ad appoggiare la spalla contro quella di John, mentre il bambino lo abbracciò, allacciandogli le braccia alla vita.
« Andrà tutto bene papà » disse: « è il primo anno, il mio nome c’è solo una volta ».
John trattenne un singhiozzo. Si chinò sulle ginocchia per poter abbracciare Hamish, circondandolo con le sue braccia e affondando il naso nei suoi capelli scuri e ricci come quelli del padre. Sherlock, accanto a loro, accarezzò in silenzio la testa del bambino.
« Ti voglio bene, Hamish. Ti voglio bene, hai capito? » disse John. Era preda di un brutto presentimento, un sesto senso che gli diceva che sarebbe stata l’ultima volta che lo avrebbe visto, l’ultima sua occasione per abbracciarlo.
Un sesto senso a cui non voleva dare ragione.
« Devo andare... » disse il piccolo, staccandosi dall’abbraccio del padre: « ci vediamo dopo » aggiunse, riservando un sorriso ad entrambi i genitori.
John lo guardò allontanarsi verso le file di ragazzi con un senso di impotenza che minacciava di fermargli il cuore.
 
 
 
« È il momento! ».
All’esclamazione di Flickerman, il pubblico applaude e poi piomba in un silenzio carico di aspettativa.
Un enorme schermo scende piano al centro del palco, esattamente dietro alle poltroncine in cui sono accomodati Caesar e Seneca, e le luci in sala di abbassano mentre parte il collegamento con il Distretto 1, ovvero il vecchio Surrey.
Quando gli passa la linea, l’inviato sorride e apre ufficialmente la quattordicesima Mietitura.
 
 
 
Il silenzio calò su tutta la piazza quando Effie Trinket, la presentatrice ufficiale della Mietitura nel Distretto 4, salì i gradini del palco davanti al Palazzo di Giustizia e si posizionò fra le due bull di vetro contenenti i nomi di tutti i ragazzi e le ragazze fra i 12 e i 18 anni che partecipava ai giochi. Il numero dei biglietti con lo stesso nome raddoppiava o triplicava a seconda che si chiedessero favori al Governo (come medicinali specifici i cibo extra). Fortunatamente, John e Sherlock non avevano mai usufruito di quel servizio, dunque non avevano mai sacrificato il nome di Hamish a quello scopo, che figurava solo una volta.
Sherlock riusciva a vederlo, dal posto in cui lui e John si erano sistemati. Riconosceva la capigliatura riccia e scura e la postura ben dritta. Sapeva che non era tranquillo, non poteva esserlo, ma il piccolo era bravo a mantenere il controllo delle proprie emozioni.
Era intelligente, il suo Hamish.
Sentì la mano di John afferrare la sua quando la signorina Trinket presentò il classico filmato proveniente direttamente da Westminster City, che apriva ogni anno la Mietitura, e senza pensarci la strinse. John non parlava e non scostava lo sguardo dalla bull contenente i nomi maschili dei candidati ma Sherlock sapeva benissimo che anche lui, come Hamish, dissimulava una calma che non possedeva.
Ma dopotutto, anche lui faceva finta di non avere lo stomaco chiuso e i polmoni stretti in una morsa.
Dopo la fine del video, Effie Trinket prese finalmente parola.
« Benvenuti alla quattordicesima edizione degli Unger Games! ».
Solo un profondo silenzio arrivò dalla folla ma questo non demotivò la donna, sgargiante nel suo completo lucido lilla con la spilla a fiore dello stesso colore.
« Cominciamo subito l’estrazione dei due nomi che rappresenteranno il Distretto 4 ai giochi di quest’anno » disse, il tono allegro e cinguettante di chi non ha un figli praticamente condannato a morte.
« Come sempre, prima le signore! »  pronunciò, dirigendosi verso la bull alla sua sinistra. Allungò la mano a sfiorare i biglietti nel silenzio più totale e, con uno scatto delle dita, ne scelse uno.
Tornò al microfono  e il nome che pronunciò fu...
« Emily Morstan! »
Dal lato delle femmine, una ragazzina di appena 15 anni si staccò a passo lento da un gruppetto di coetanee che la guardavano con occhi sbarrati e labbra tremanti. Aveva i capelli a caschetto e mossi, biondi, e Sherlock la conosceva come la figlia dell’insegnante di Hamish, la signora Mary Morstan, vedova da qualche anno. Arrivò nel corridoio centrale e, accompagnata dai Pacificatori, venne scortata fino al palco.
Era terrorizzata. I suoi occhi volavano tra la folla in cerca di una faccia amica che probabilmente non trovavano.
John strinse di più la mano in quella di Sherlock quando Effie pronunciò le parole seguenti.
« E adesso il giovane uomo! » esclamò.
Sherlock trattenne il respiro, lo sguardo altalenante fra Hamish e la bull con i nomi. Inconsciamente aumentò la stretta nella mano di John, che divenne talmente salda da fermare la circolazione delle dita di entrambi.
Effie allungò la mano nella bull, sfiorò i biglietti con la punta delle dita... ne prese uno.
Tornò al microfono e lesse il nome.
« Hamish Watson-Holmes! ».
« No... » mormorò John al fianco del detective, occhi spalancati nel panico più assoluto. Sherlock non fece in tempo  Capire cosa stesse succedendo, cos’era stata quella mano che all’improvviso gli aveva stretto il cuore e contorto lo stomaco fino a fargli venire la nausea: dovette trattenere John dal correre in mezzo alla piazza a prendere Hamish, cosa che avrebbe sicuramente fatto se Sherlock non lo avesse afferrato per la vita e lo avesse trattenuto puntato i piedi, mettendogli una mano alla bocca per impedirgli di gridare la sofferenza che invece soffocò nel suo palmo. I Pacificatori uccidevano senza remore i genitori che si opponevano al sorteggio, che correvano in mezzo alla piazza rispondendo all’istinto di proteggere i loro figli, perché quelli erano gli Hunger Games, e il destino del sorteggio andava accettato per quello che era.
Sherlock sentì la propria mano bagnarsi delle lacrime del marito proprio mentre il figlio, ormai giunto sul palco, cercava con la paura negli occhi i loro visi fra la folla.
Incrociò i loro sguardi proprio mentre Effie, con un sorriso raggiante, chiudeva la Mietitura di quell’anno.
« Felici Hunger Games! » disse: « e possa la fortuna sempre essere a vostro favore ».

 
 
 
 

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Capitolo 2
*** Primum Vivere pt.2 ***


Sherlock/The Hunger Games
Primum Vivere
Parte 2
 
 
 
 
« Avete tre minuti ».        
La guardia all’ingresso aprì la porta della stanza con un cigolio sinistro e John non attese nemmeno che fosse completamente spalancata. Scattò all’interno e si inginocchiò di fronte alla figura di loro figlio, in piedi davanti all’unica finestra che dava sul cortile che avevano appena lasciato, stringendolo fra le braccia in un sospiro dolorante. Sherlock rimase in piedi dietro di loro, in silenzio, le sopracciglia aggrottate in un’espressione ferita.
« Andrà tutto bene... » disse John, stringendo di più Hamish a sé: « andrà tutto bene. Sei bravo, ed intelligente come tuo padre... ce la farai... ce la farai ».
Non sapeva perché stesse dicendo quelle cose, quelle bugie, ma erano le uniche parole che riusciva a trovare nel profondo di sé.
Hamish non faceva altro che rimanere aggrappato al padre con tutte le sue forze; era impossibile per lui continuare a fingere una calma che non aveva mai posseduto e si limitava a guardare Sherlock da sopra la spalla di John, occhi lucidi e sguardo preoccupato e spaventato.
Non ce l’avrebbe fatta, Sherlock lo sapeva; così come lo sapeva John, e Hamish stesso. Aveva solo dodici anni e nessuna esperienza, o forza, o possibilità.
Loro figlio sarebbe morto. Morto agli Hunger Games.
Morto per cosa?
Sherlock si avvicinò ai due e, appoggiando una mano sulla testa del bambino, lo abbracciò a sua volta. John si appoggiò contro di lui e Sherlock poté essere sicuro che fatto che stesse trattenendo le lacrime, forse per mostrarsi forte davanti al piccolo, forse per orgoglio personale o forse per entrambi i motivi.
« Sopravvivi, Hamish. Il più a lungo possibile. Non cercare la battaglia, non metterti nei guai di tua iniziativa. Impara le tecniche di sopravvivenza e rimani in vita, almeno finché non ci saranno pochi avversari rimasti. Abbassa le probabilità che ti trovino nascondendoti dove ti è possibile. Fai in modo di avere poche persone contro cui combattere alla fine dei giochi » disse Sherlock a bassa voce. Hamish, sotto il tocco della sua mano, annuì ogni volta.
Ciò che Sherlock non pronunciò fu John ad aggiungerlo, come sempre. « Ti vogliamo bene ».
Il tempo per le visite scadde e, così come erano entrati, John e Sherlock furono costretti ad uscire dalla stanza. L’ultima cosa che sentirono fu la voce impaurita di Hamish rispondere: « vi voglio bene anch’io ».
 
 
 
Solo quella mattina, John aveva preparato la colazione a suo figlio mentre Sherlock lo aiutava con i bottoni della camicia nuova. Ci si doveva vestire bene per la Mietitura e Sherlock era riuscito a tenere da parte qualche soldo per comprare al piccolo un paio di pantaloni ed una camicia nuova al mercato del paese.
Solo quella mattina avevano fatto colazione con toast e miele – era un’occasione speciale, dopotutto – e John aveva sorriso al pensiero che la vita, nonostante fosse ingiusta e scostante, avesse deciso di donargli Hamish e Sherlock, le persone per lui più importanti al mondo.
Solo quella mattina, nonostante la Mietitura, erano ancora genitori.
Solo quella mattina poteva chiamarsi “padre” e poteva andarne fiero. Poteva sorridere dei bei voti di Hamish a scuola e guardare con ammirazione figlio e marito analizzare e catalogare tipi diversi di api per le ricerche di Sherlock.
Solo quella mattina Hamish era lì con loro... ed ora non c’era più.
Ora, il salotto della loro modesta casa era vuoto e silenzioso. John, seduto sul divano, fissava un angolo del tappeto senza realmente vederlo, le mani abbandonate al suo fianco e la schiena appoggiata pesantemente allo schienale.
Non era ancora morto ma era come se lo fosse. Come poteva non essere considerata una condanna a morte? Aveva solo dodici anni... dodici anni ed era suo figlio, il suo bambino, il suo... mondo intero, e gli era stato portato via.
Chiuse gli occhi e smise di pensare a qualsiasi cosa. Si concentrò sui rumori all’esterno, come il sibilo del vento che entrava sottoforma di spifferi dalle finestre o il frusciare delle foglie della quercia in giardino, o come i passi di Sherlock sul vialetto, poi la porta si apriva e richiudeva, i passi del marito nel corridoio e la sua silenziosa presenza sulla soglia della stanza.
« È insieme ad altri due dodicenni, dal Distretto 8 e dal 10 » cominciò l’ex detective con tono pragmatico: « tutti gli altri hanno dai quindici ai diciotto anni » gli disse.
John non lo voleva sapere. Aveva detto a Sherlock di andare a vedere il riassunto della Mietitura altrove, dai vicini o in piazza, perché non poteva sopportarne la vista. Non voleva sapere nulla di dove Hamish sarebbe morto, delle persone che lo avrebbero ucciso o degli individui che glielo avevano portato via a causa di una stupida Rivolta, di uno stupido Trattato o di uno stupido show, a causa del maledetto Presidente Snow che se ne stava comodo a Westminster a vedere dei bambini trasformarsi prima in martiri poi in assassini ed infine in semplici vittime.
Sherlock, ignorando il suo silenzio, continuò a parlare. « Non credo che abbia molte possibilità. Sopravvivrà alla Cornucopia e riuscirà ad andare avanti per qualche giorno ma quando i Favoriti cominceranno a dargli la caccia– ».
« Taci ».
L’ordine di John fu perentorio e sibilato con rabbia. Sherlock chiuse la bocca e rimase in silenzio.
« Come fai...? » chiese poi, la voce bassa ma ferma, quasi paurosa. « Come fai a parlare in quel modo di Hamish, tuo figlio, il nostro bambino? Come fai?! » domandò incredulo, alzando progressivamente la voce e sollevandosi dal divano, camminando a passo di marcia in direzione di Sherlock.
L’ex detective non si mosse. Lasciò che John si avvicinasse e lo spingesse con forza contro il muro, sul quale sbatté la schiena e la nuca.
Si guardarono negli occhi. Uno sguardo che voleva dire molte cose tutte insieme, tutto ciò che non si dicevano a voce era racchiuso nei loro sguardi. Rabbia nell’uno e semplice silenzio nell’altro.
John premette Sherlock contro la parete con il proprio corpo, petto contro petto e gambe intrecciate, e attaccò senza delicatezza le sue labbra sottili con le proprie.
I loro baci erano raramente dolci e lenti. Solamente durante le piovose mattinate invernali o i malinconici pomeriggi di pioggia si lasciavano andare alle carezze e ai giochi d’amore. Le altre volte era la fretta, l’adrenalina, a fare da padrona. La violenza di un istinto profondo e radicale, la pulsione di possedersi vicendevolmente e di dimostrarselo l’un l’altro con foga. La gelosia sporca nei confronti di tutti gli altri occhi che guardavano John, che apparteneva solo a Sherlock, e Sherlock, che apparteneva solo a John.
Sherlock rispose al bacio, gli occhi socchiusi incatenati a quelli di John, dischiusi a loro volta. Riusciva a capire di cosa il marito avesse bisogno in quel momento, perché lo stesse baciando con tutto quell’ardore e quella fretta, con tutta quella rabbia e quella violenza, strappandogli quasi le labbra dal viso con i denti e rubandogli il respiro ancora prima che lo prendesse. Lo sapeva perché era John e perché, come sempre, capiva molto meglio i fatti che le parole.
Dopo alcuni, frenetici istanti, John si allontanò di qualche centimetro dalle labbra rosse e umide di Sherlock, osservandole con occhi languidi, eccitati ed iracondi al contempo.
« A volte vorrei ucciderti » soffiò sulla bocca di Sherlock: « per quello che dici, per come sei, per quello che pensi. A volte vorrei ucciderti » ripeté.
« Non è vero » rispose Sherlock.
John lo guardò. L’astio nei suoi occhi si trasformò in altro, si tramutò in rassegnazione. Chiuse gli occhi ed appoggiò la fronte sulla sua spalla. « Hai ragione, non è vero ».
Sherlock gli cinse la vita con le braccia e lo strinse a sé.
 
 
 
Caesar Flickerman aveva i capelli blu elettrico cotonati sulla testa ed un fastidioso sorriso a trentadue denti stampato in viso. Si godeva gli applausi del suo caloroso pubblico e si alzò in piedi per dedicare loro un inchino.
John sentiva di odiarlo. John odiava quell’uomo da quando, giovane ed inesperto, aveva diretto le cerimonie della prima edizione degli Hunger Games.
Strinse la mano di Sherlock, seduco acanto a lui al buio sul divano. Sherlock non disse nulla ma gliela strinse a sua volta.
Era la sera della discussione ufficiale sui Tributi insieme al Primo Stratega. Hamish doveva essere ancora sulla via per Londra in quel momento e in sole ventiquattro ore lo avrebbero trasformato in un fenomeno da baraccone, completo di vestiti stravaganti e lustrini, messo su di un carro trainato da cavalli e gli avrebbero fatto fare la Parata dei Tributi, prevista per la diretta la sera successiva.
E poi, dopo due settimane di allenamento individuale, nell’Arena.
Il dottore lasciò andare un sospiro tremulo. Sbollita la rabbia si sentiva in trappola, in un limbo fra l’incapacità e la tristezza che si trasformava in disperazione quando guardava la parte vuota del divano accanto a sé, dove solitamente si metteva Hamish. Un Governo sporco ed ingiusto aveva presto il suo bambino – avrebbe ucciso il suo bambino – e lui non poteva fare niente. Inutile.
Si sentiva inutile.
« Inutile... » sussurrò infatti.
Sherlock spostò l’attenzione dal televisore a lui.
« Inutile. Sono inutile » ripeté John.
« Come chiunque altro, John » rispose Sherlock, passando il pollice sul dorso della mano del marito. Non aveva mai saputo come consolare la gente – soprattutto John, che era sempre colui che consolava gli altri e non sembrava averne mai bisogno a sua volta – ma faceva del suo meglio per rendere almeno nota all’altro la sua presenza.
« Avevamo giurato di proteggerlo » continuò però Watson: « quando era piccolo e lo tenevamo in braccio; quando asciugavamo le sue lacrime e lo guardavamo sorridere... abbiamo giurato di proteggerlo, ed ora... ».
« Lo so » gli rispose Sherlock. « Lo so ».
Rimasero in silenzio mentre, in televisione, Caesar Flickerman mostrava alcuni spezzoni presi da edizioni precedenti dei giochi. Un ragazzo del Distretto 1 stava pugnalando ripetutamente al petto una ragazza del Distretto 7 nonostante fosse palese che fosse già morta.
Per un istante, John vide Hamish impugnare quel pugnale e chiuse di scatto gli occhi.
Hamish sarebbe morto. E per non morire avrebbe dovuto diventare un assassino ed uccidere sicuramente almeno una persona. Gli Hunger Games, insieme alla guerra, erano un ottimo espediente per trasformare i bambini in assassini e gli assassini in eroi.
E non c’era niente che potessero fare per fermare questa macabra giostra.
« Non tornerà più a casa, non è vero? » domandò spezzando il silenzio. « Per questo hai detto quelle parole, oggi pomeriggio. È un dato di fatto, giusto? ».
Sherlock non rispose.
Girando il capo in sua direzione, John osservò il marito, lo sguardo fermamente puntato al televisore. Era un’espressione che John non vedeva da tempo, da prima della Rivolta, da quando Sherlock attaccava appunti e foglietti con codici da decifrare allo specchio sopra al camino e passava nottate intere a fissarli e a pensare, passando mentalmente in rassegna ogni simbolo e codifica che conosceva, ogni stanza di quel Mind Palace di cui sembrava aver buttato via la chiave anni prima.
Era lo sguardo di una persona che ha la soluzione a portata di mano ma non riesce ad afferrarla. Oppure, di una persona che ha già trovato la suddetta soluzione ma che ne sta cercando altre, forse migliori.
John si era sempre sentito fuori dalla portata di quello sguardo. Ma quello non era il momento adatto perché Sherlock lo escludesse dai suoi pensieri.
« Sherlock? » chiamò John.
L’ex detective staccò gli occhi dal televisore e li portò in quelli del medico. Allungò poi una mano sulla sua guancia e, con un tocco leggero dato dall’esperienza, fece in modo di attirarlo a sé e lo baciò.
Le iniziative prese da Sherlock nei confronti del contatto fisico si potevano contare sulle dita di una mano. Non si poteva dire che non gli piacesse – era un amante straordinario – ma probabilmente preferiva che fosse John a fare il primo passo.
Fu questo a renderlo starno.
Sherlock lo baciò con dolcezza, accarezzandogli le labbra con la lingua come per chiedergli il permesso di approfondire il bacio, e quando John glielo concesse Sherlock mantenne un ritmo lento e delicato, rispettoso, sentito. Quello era un bacio per esprimergli il suo amore, simile a quello che si erano scambiati quando si erano sposati, ma questa volta aveva il retrogusto dell’addio.
Quando si separarono, John lo guardò dritto negli occhi.
« Tu hai un’idea » disse – non chiese: disse – aggrottando le sopracciglia. « Tu hai un’idea e non vuoi coinvolgermi » specificò.
Sherlock arricciò l’angolo destro delle labbra, ma era un sorriso triste. « Le tue capacità di osservazione sono migliorate » commentò, come a voler cambiare discorso.
« Non c’entra ‘osservazione, conosco quello sguardo. E se avessi potuto farlo mi avresti baciato così solo prima di buttarti da quel maledetto tetto. Ti sbagli se pensi che rimarrò indietro ancora una volta, con le mani in mano a marcire d’ansia, Sherlock Holmes. Ti sbagli » gli rispose in tono duro.
Sherlock strinse le labbra ed aggrottò le sopracciglia. « Non voglio che tu muoia ».
« Ma tu morirai ».
« È probabile » ammise Holmes.
John fece passare alcuni istanti di silenzio, in cui non smise mai di guardarlo negli occhi. « Questa volta per davvero, eh? Non è un’altra finzione... » domandò con un sorrisetto stentato e triste.
Sherlock si limitò ad annuire. « Per Hamish » disse solamente.
Per Hamish vale la pena dare la mia vita, sembravano dire i suoi occhi chiari.
John chiuse i suoi e sospirò. « Sei pazzo a pensare che io sia forte abbastanza per perdere mio figlio e mio marito senza crollare ».
« Lo sei ».
« No, non lo sono » ribatté John. « Motivo per cui mi metterai al corrente del tuo piano e mi ci includerai. Così come ho giurato di proteggere Hamish ho anche giurato di passare il resto della mia vita con te, ed è ciò che intendo fare ».
Sherlock lo osservò in silenzio per qualche secondo, poi distolse lo sguardo nell’unico segno di imbarazzo per quelle parole che avrebbe mostrato. John sorrise e poggiò velocemente le labbra su quelle del marito in un gesto d’incoraggiamento.
« Coraggio. Raccontami tutto ».
 
 
 
Stavano sorgendo le prime luci dell’alba quando John, indossando la sua vecchia divisa dell’esercito ed uno zaino mediamente pesante sulle spalle, chiuse la porta di casa a chiave. Sherlock, in piedi accanto a lui nel migliore dei suoi completi scuri, si sistemò meglio la borsa a tracolla ed il colletto del cappotto.
In silenzio, si guardarono.
Con un sorrisetto stentato, John alzò la mano sul cui palmo era appoggiata la chiave di casa. Probabilmente nessuno di loro avrebbe mai avuto il bisogno di usarla.
Sherlock la prese e, con un movimento elegante, la nascose dentro un mattone vuoto a destra dello stipite, il solito posto in cui la mettevano quando uscivano tutti e tre la casa rimaneva vuota.
Come sempre, pensò John. Abitudine, routine, quotidianità. Come se non ci stessimo dicendo addio, ma solo “arrivederci”.
Il dottore annuì in silenzio, sforzandosi per allargare il sorriso. Guardò Sherlock e non servì altro, solo gli occhi di suo marito nei suoi.
« Per Hamish » sussurrò Holmes.
« Per Hamish » rispose Watson.
Chiudendo gli occhi si voltarono e si incamminarono in direzioni opposte.

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