Mayonaka ni hotaru - Lucciola nella Mezzanotte

di A q u i l e g i a
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Primo Capitolo 第一章 ***
Capitolo 2: *** Secondo Capitolo 第二章 ***
Capitolo 3: *** Terzo Capitolo 第三章 ***



Capitolo 1
*** Primo Capitolo 第一章 ***


真夜中にホタル

 

Mayonaka ni hotaru

 

 

Lucciola nella Mezzanotte

 

 

Primo Capitolo

第一章

 

 

 

Barcollava lungo tutto il corridoio, tendendo stretta fra le dita una chiave. A fatica, riusciva a sollevare le gambe, una ad una: il dolore era troppo forte. Come se un trapano le avesse squarciato le carni, proprio lì, nella zona più intima che una donna possa nascondere.

Si accasciò con la schiena sul muro e chinò il capo. Aveva preso le redini del suo corpo, ed eccola là; per l'ennesima volta: sola, dolorante, fragile.

Sentì dei timorosi passi, troppo silenziosi per essere di un giovane in salute. Chi era lo sapeva già. Era sempre lei, la sua salvatrice.

 

«Ogni notte la stessa storia» disse pacata la donna, accarezzandole il viso.

La giovane, inerme, tentò di alzarsi, facendo leva con le gambe.

«Non preoccuparti per me» sussurrò con un fil di voce.

La signora, vestita di grembiule azzurrino, si chinò faticosamente per raggiungere la mano della ragazza, prendendo la chiave.

La fanciulla alzò il volto e fissò la vecchietta nelle more pupille: «La prossima volta sarà l'ultima.»

Sì, era sempre l'ultima volta. Ogni promessa fatta da quella bocca, non valeva nemmeno il tempo di essere ascoltata.

«Fino ad allora» continuò l'anziana «Fatti un bel riposino. Segui il mio esempio! Non vedi quanto sono rampante ogni volta?» scherzò, cercando di nascondere quella nota di amarezza che velava ogni suo discorso con Vera.

 

La sveglia, puntuale, cominciò a strillare alle dieci in punto. Vera cercò di alzarsi da quel letto così scomodo e si guardò nello specchio appeso vicino a quel ammasso di coperte buttate lì alla rinfusa.

«Dio che occhiaie!» esplose, massaggiandosi gli occhi con le dita «E che mani sporche!» continuò.

Diede un'occhiata a Skitty, che giaceva comodo nella cuccia a fianco al letto, e sorrise. «Mi conviene fare una doccia!» esclamò accarezzandosi i capelli.

 

Si ritrovò nuda di fronte ad un altro specchio: non voleva vedere quel corpo. Non era più il suo, oramai. Si accarezzò le spoglie cosce, notando dei profondi lividi, i quali le dolevano molto.

Cercò di sorridere, ma quella vista le dava il voltastomaco.

«Asciugamano, accappatoio, asciugacapelli...» pensò, prima di mettere piede nella doccia.

Strinse con la mano la manopola per regolare l'acqua e la impostò quanto più calda poteva. Non voleva più sentirsi così sporca.

Incrociò le braccia davanti al petto e osservò i suoi seni: voleva essere l'unica a poterli toccare. Essere se stessi; parole così facili da pronunciare. Ma Vera poteva essere se stessa? Poteva dire: «Questo corpo è solo mio»?

Uscita dal bagno, cominciò ad asciugarsi. Ed ecco davanti a lei le solite viste: quel corpo che non era più il suo. Odiava lavarsi solo per questo.

 

«Questo è quanto ho guadagnato ieri.» annunciò schietta Vera, di fronte alla vecchia signora Fujiko.

«Sai che non basta, vero?» la rimproverò quella, mentre contava i soldi.

La castana si appoggiò con la schiena sulla porta.

«Non...» insistette, cercando di non scoppiare in lacrime «Non ce la faccio più... La prego, non mi dica che devo tornare là fuori...»

I suoi occhi celavano tristezza, ma soprattutto rabbia e vergogna.

«Per questo mese passi, ma la mia pietà ha un serio limite.»

Se potesse, Vera la avrebbe abbracciata e stretta forte forte. Amava quella donna.

Vera si rituffò nel suo letto. Per quanto fosse duro, era l'unico luogo in cui si sentiva protetta: era il suo spazio, nessun uomo ci sarebbe entrato. Mai e poi mai.

«Lucciola» sussurrò. Già, lucciola! Un essere fragile, indifeso, impaurito, ma che cerca di brillare come una stella. Ecco cos'era.

 

«Allora? Dici niente?»

Una giovane ragazza dai capelli arancioni raccolse i capelli per mettere in evidenza il petto.

«Be'. È una collana.» rispose Vera mentre sorseggiava una Guinness.

«Non una semplice collana! Questo è oro!» Spiegò mentre rigirava la preziosità tra le mani.

«Lo fai perché vuoi farmi sentire una povera sciattona?»

«Gelosa, eh? Dai, te lo concedo!»

«Non è giusto! Perché non regalano anche a me una bellezza del genere?! Uffa...» Sbottò con fare infantile, cercando, al contempo, di assaporare le ultime gocce del boccale.

«Eppure c'è chi potrebbe farlo...» era maliziosa, Misty.

«Oh, senti. Eravamo entrambe lucciole, giusto per ricordartelo!»

«Ovvio.» Misty cercò di forzare un sorriso «Ma vedi. Io ho deciso di smettere, non tanto perché gli altri mi guardavano dall'alto verso il basso, ma perché non mi sentivo più io. L'ho fatto per me, per essere di nuovo libera...»

«È facile parlare...» il tono di Vera s'era fatto malinconico «Tu hai trovato chi ti ha aiutata! E io chi ho? La Signora Fujiko, tu, mia madre e chi altri?»

«Di se stessi bisogna decidere da se stessi! Non fare troppo affidamento sul resto del mondo... Le piccole cose le puoi fare anche tu!»

«E sentiamo. Tu sei riuscita a diventare quello che sei oggi da sola?»

Vera non ottenne risposta. Misty si alzò, buttando sul bancone quattro spiccioli per pagare il barista.

«Non prendere la mia vita come esempio.» tuonò «Vivi la tua vita e non giudicare quella degli altri»

Vera non avrebbe voluto essere così acida con l'amica, ma preferiva vederla ridotta peggio di lei. L'unico suo conforto era quello di poterla consolare, ma ora non era Misty ad essere la poveraccia di turno.

L'unica che soffriva ogni notte e che sognava una nuova realtà era Vera, Vera Haruka.

Si alzò dallo sgabello e lasciò il locale vuoto. Sapeva bene dove si stava dirigendo. Era il pezzo di strada che più odiava, che più le ricordava chi era veramente.

Si appoggiò davanti al solito lampione, cercando di rendere più stretti e più sexy i suoi jeans, i quali arrivavano a mala pena a metà coscia.

Era il momento in cui si sentiva una merda. Nel verso senso della parola, e allora perché lo faceva? Una domanda che s'era posta molte volte, ma alla quale aveva risposto sempre allo stesso modo: «Per vivere». Menzogne. L'unico motivo per il quale Vera faceva quel lavoro era perché non voleva tuffarsi nel mondo, crescerci, aveva paura di assumersi delle responsabilità. Si odiava per questo.

«Mi faccio schifo» era l'unica cosa che riusciva a pensare in quelle occasioni. Ogni qualvolta che tentava di adescare un cliente, quello era il suo unico pensiero fisso.

 

Erano le dieci spaccate, come al solito. Dal fondo del viale si avvicinò una sfarzosa limousine, sempre la solita.

Abbassato il finestrino, Vera si ritrovò a sorridere nel modo più convincente possibile.

«Monta.» un'ombra scura, nascosta dal vetro semichiuso, aprì la portiera.

«Ma perché non crepi, brutto vecchiaccio?» pensò, mentre entrava nell'auto «Ciao tesoro...»

Era falsa, finta. Quella persona esigeva i suoi servizi da più di un mese, non voleva nessun'altra a parte lei. La cosa le dava il disgusto.

«Sai cosa fare.» le sussurrò all'orecchio, avvicinando la lingua al collo.

Si sforzò di non vomitare. Era di nuovo lì; nonostante la promessa alla governante. Erano quelli i momenti in cui si vergognava di esistere.

Quella puzza di sake era nauseabonda, e non sopportava stargli accanto. Avvicinò la mano alle gambe, e massaggiò l'inguine.

«Ti ho fatto male l'altra volta?» continuò con un sussurro, inebriandosi con il delicato profumo di vaniglia dei capelli di Vera.

«N-No.» rispose, cercando di velare i conati di vomito.

«Ti va di rifarlo?»

La ragazza deglutì. Cercava di respirare, voleva uscire da lì! Ma non poteva.

«Sì.» mentì.

Vera uscì dalla limousine. Era quasi mezzanotte, la fine e l'inizio di un giorno. Vagava solitaria lungo le vie del centro, meno dolorante delle volte precedenti. Preferiva non riportare alla mente ciò che le aveva fatto quello sporco pervertito.

Contava i soldi guadagnati. «Che miseria.» pensò mentre li intascava avidamente nella borsetta. Allo stesso tempo, prese un pacchetto di sigarette che nascondeva nel taschino più interno.

«Black Stones» lesse la scritta che sovrastava i soliti avvertimenti impressi su ogni marca di sigarette.

«Mi chiedo quando le abbia comprate.» rifletté, stringendo le sigarette nella mano destra «Che schifo.» sussurrò.

Era risaputo che quella particolare marca non era certamente delle migliori, tutt'altro. Non le aveva mai provate, è vero, ma non era il momento migliore per iniziare a scrutare nuovi orizzonti in fatto di sigarette.

Lungo la strada, si fermò di fronte ad un tabacchino chiuso. Infilò nel distributore automatico la prima banconota che riuscì a pescare dal portafoglio.

Non perse tempo e aprì il pacchetto, come fa una bambina mentre scarta il suo regalo di Natale.

Frugò nuovamente nella borsa e prese in mano un accendino rosa.

«Ti prego non abbandonarmi proprio ora!» gridò, scagliandolo lontano «Tutto Made in China, è mai possibile?»

Quella notte, Vera era particolarmente nervosa. Ma del resto, come poteva non esserlo? Dopo una giornata da dimenticare, come tutte, del resto, l'unica soddisfazione era quella di poter finalmente fumare; ma oggi non lo poteva fare.

 

«Qualcuno ha da accendere?» si ritrovò a domandare nel primo locale notturno capitatole a tiro.

Il barista le offrì un accendino.

«Posso, vero?» fece lei, già con la cicca in bocca, pronta per essere fumata.

«Fa' pure» rispose, continuando a pulire i bicchieri di birra.

Vera si sedette sul primo sgabello cigolante che trovò e si guardò attorno.

«Caspita, avreste bisogno di una bella mano di vernice, qua dentro» esordì, indicando le pareti scrostate e ingiallite.

«Già» intervenne una voce dal fondo della sala «Ma questo è ciò che spetta a noi comuni mortali.» avvicinandosi, il giovane scostò dalla fronte i capelli verdi «E tu non mi sembri una frequentatrice di locali di classe» alluse, infine, osservando i jeans esageratamente corti e stretti e la scollatura non poco evidente.

«Se è per questo, tu mi sembri appena uscito da un concerto punk.» ribatté «Ma come t'è venuto in mente di tingerti i capelli di verde?»

 

 

 

 

Giustificazioni (?)

 

Sarebbe troppo complicato spiegare i motivi che mi hanno spinta a scrivere questa nuova long. Si può notare, temo, che non è stata scritta in preda alla felicità più totale, bensì quando avevo poco per cui sorridere. … =_=

Per chi non avesse capito: lucciola = prostituta, giusto per intenderci ^^. Non mi chiedete: «Perché Vera è una prostituta?»; non ne ho idea. Boh, è così e basta, cosa devo dirvi? Se chiedete ad una lucciola (preferisco usare questo termine) per strada del perché la diano a destra e a manca per denaro: o vi sputeranno in faccia o vi manderanno a quel paese, dunque ritenetevi fortunati che io non faccia altrettanto … xD

Ci tengo, inoltre, a precisare che non sono esperta in materia, possono esserci delle imprecisioni qua e là, ma spero non siano troppo fastidiose xS Non essendo una lucciola, non posso che documentarmi su Wikipedia...

 

Aggiungo (lettori in coro: «Ebbasta!!!») che la storia non sfocerà mai nell'atto sessuale vero e proprio, verrà solo accennato, come avvenuto in questo capitolo.

Si richiede che sappiate che cosa sia il sesso; se così non è... Beh, parlatene con i vostri genitori... Che devo dire? *^*

 

La vostra Saku ♥

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Capitolo 2
*** Secondo Capitolo 第二章 ***



 

Secondo Capitolo

第二章

 

Si sentì stringere i fianchi. Era quel contatto umano che desiderava, ma le dava fastidio: quelle mani, che la avvolgevano con brutalità, le davano disagio. Percepiva quel caldo e affannoso respiro sul collo; avvertiva un corpo bollente che premeva dal basso verso l'alto, con movimenti decisi.

Vera non poté non emettere un forte gemito: voleva che quell'unione fosse sciolta e che quei corpi, nudi, non si potessero mai più sfiorare. Furono le sue carni, per prime, ad abbandonarla; una sorta di resa, ma forse era meglio così: più il cliente era soddisfatto, più era disposto a pagare. Porre resistenza, difatti, avrebbe diminuito il piacere di entrambi.

Si lasciò andare, avvinghiata stretta con le gambe alla vita di quell'uomo. Poteva comunque gioire: non era il solito vegliardo dal forte odore di sake, bensì un nuovo cliente e, se avesse svolto a dovere il suo lavoro, probabilmente sarebbe tornato da lei, in futuro. Doveva solamente giocare bene le sue carte, quelle poche di cui disponeva.

 

«20.000 ¥» il cliente, sul ciglio della strada, le avvicinò due banconote.

Vera forzò un sorriso. La cifra era bassa, da sola non sarebbe bastata nemmeno una settimana.

«Dolcezza, io non valgo così tanto. La metà è più che sufficiente»

E così fu. Quell'uomo svanì nell'ombra: chissà se sarebbe tornato. Era il trucco più vecchio del mondo, quello di mostrare i prezzi; d'altronde più sono bassi e più vale la pena tornare. Alla fin fine, è lo stesso principio di un qualsiasi negozio.

Vera sospirò avvolta dalla quiete di quella mezzanotte, mentre la leggerissima brezza le baciava la pelle non coperta dai vestiti.

Si chinò a terra, posando la piccola borsetta al suo fianco. Si mise le mani tra i capelli, fino tirarli leggermente.

La giovane squillo si rialzò, scrocchiandosi con delicatezza le tese spalle. Il lampione illuminava leggermente la cupa via; cercò di ricomporsi, specchiandosi nella vetrina di un negozio.

Il mascara le era leggermente colato sugli zigomi e il rossetto fuoriusciva dalle fini labbra. Prese dalla borsa un piccolo fazzoletto e cercò di rendersi presentabile.

«Quel punk...» pensò «Non gli ho nemmeno chiesto il suo nome.»

Quel ragazzino dai capelli verdi era il suo chiodo fisso. Non avevano fatto altro che scambiare due chiacchiere, ma le sarebbe piaciuto poterlo rivedere.

 

Le coperte avvolgevano il suo corpo con delicatezza. Si sentiva accarezzata, confortata da quelle semplici lenzuola rosa, oramai fuori moda.

Cominciò a massaggiarsi le gambe, fino ad arrivare ai polpacci, lisci, tastando con deboli movimenti la sua carne, così fragile. Il dolore soffocante che la tormentava fino a pochi giorni prima s'era affievolito ed era diventato un semplice fastidio. Ma, alla sofferenza fisica, c'era tristemente abituata; l'aspetto che più le doleva, era quello psicologico: non riusciva a sopportare l'idea di essere toccata, presa e stretta tra le braccia di sconosciuti.

Si rigirò sul fianco destro del letto. La luce della notte le rischiarava il viso, rimasto in penombra. La finestra della camera dava su un'enorme infissa pubblicitaria: su quanto possa essere buona una marca di caffè, così tremendamente uguale alle altre, ognuna dal sapore disgustoso.

Sentì di essere diversa, lei. Nessuno le avrebbe mai fatto pubblicità, nessuno l'avrebbe giudicata in modo positivo, di primo acchito; ma sapeva di non essere come il mondo la vedeva: quella ragazza, che batteva lungo i grandi viali di Tokyo, quella mera puttana non era Vera. Non si vedeva in quel ruolo. Una nuova personalità nata dal bisogno di evadere dalla realtà; colei in cui si trasformava per paura e per bisogno: un'estranea.

Quella notte, non riuscì a prendere sonno. La sua mente non riusciva a trovare la serenità, quella condizione oramai perduta da tempo.

Si tolse da quell'abbraccio datole dalle coperte, calde, e si alzò.

La moquette era soffice al tatto e riusciva ad accarezzarle i palmi dei nudi piedi. Si chinò verso la cuccia del suo gattino, appena addormentatosi.

«Skitty» sussurrò «Cosa devo fare?»

Non ottenne alcuna risposta. Nemmeno un cenno, un'occhiata, di odio o di amore che fosse. Nulla. Vera sorrise. Si allontanò dalla camera, lasciando dietro di sé la porta chiusa. Voleva lasciar intuire alla vecchia Fujiko, che non sarebbe tornata, che aveva intenzione di abbandonare tutto e tutti.

Salì la gradinata che portava sul tetto, mentre i suoi passi echeggiavano nel silenzio del complesso. Non appena aperta la porta, riuscì a percepire l'ebrezza del vento fra i capelli; come se la volesse accompagnare. Il cornicione era poco più avanti, con una distanza di una ventina di sospiri. Ci ripensava. Era la cosa giusta da fare?

«Sì, lo è» era la sua coscienza a parlare, decisa.

Riuscì ad afferrare quegli ultimi residui di vitalità che si celavano nel suo cuore e alzò ambe due le gambe. Si ritrovò in piedi, senza nulla di fronte. Solo aria e una nuova esistenza. Magari più dolorosa, chi lo poteva sapere?

«Farà male» tuonò una voce.

Il cuore di Vera sussultò: confuso, spaesato; e il suo respiro, sempre più convulso, era l'unico suono che si coglieva in quella tetra notte, priva di stelle, come tutte le altre.

«Lo so» fu l'unica espressione che riuscì a coniare.

«Sei convinta della tua scelta?»

Vera esitò. Strinse i pugni, cercando di far riemergere la sua determinazione. «Sì» rispose secca.

«Allora che aspetti? Buttati, avanti.»

Quelle parole furono come una morsa atroce al cuore, come se ne volesse impedire i battiti. Perché quell'ombra, quella voce, non aveva intenzione di fare nulla per lei?

Eppure, era una sola la domanda alla quale premeva di rispondere: cosa avrebbe pensato la gente nel vederla morta? Probabilmente, che era una debole, una che non è riuscita a reggere il peso della vita, la cui esistenza non era altri che una foglia in un incendio.

«Hai paura?» si sentì domandare.

«Non dovrei?»

Sentì quella presenza avvicinarsi, disinvolta. Voltando il capo, Vera non riusciva a vedere altro che le tenebre.

Forse, non era che una sua fantasia, il suo subconscio che la voleva far ragionare. E allora perché quella voce le risultava familiare?

Una sensazione di calore avvolse la sua mano. Era piacevole, come quella data dalle lenzuola. Non si sentiva afferrata: era ferma lì, mentre veniva delicatamente stretta al polso.

Fu l'unica volta in cui un contatto umano le riuscì a dar piacere, infondendo nel suo animo la serenità; quella che cercava, che ambiva a toccare. E ora c'era riuscita. Che senso avrebbe avuto finirla lì.

Si lasciò andare. Le sue membra caddero con la convinzione di essere presa: ogni suo timore le sembrò vano. Fu per un semplice contatto, uno solo, ma sincero.

 

Lenzuola. Le percepiva al di sotto della vita, mentre riusciva ad accarezzarle con le mani, leggermente intorpidite. Sentiva un leggero fastidio al braccio, come se qualcosa stesse fluendo dentro il suo corpo. Voleva che quella sensazione, così innaturale, finisse. Ma non riusciva ad impedirlo, non aveva facoltà di decisione sul proprio corpo.

Cercò di emettere un gemito, anche debole, ma nessun rumore fuoriuscì da quella bocca. Si sentiva impotente, a disagio. Ma protetta.

«Svegliati, Vera!» si sentì gridare.

Era una voce che andava al di là dell'immenso spazio fosco che la circondava. Quel timbro: lo conosceva, sapeva a chi apparteneva!

Quel nome, sì quel nome. Era lì, sulla punta della lingua, in procinto di volare come parola da quella bocca.

«M-Misty...» sussurrò.

Sentiva di aver ristabilito il possesso di sé, su quel corpo che giaceva, disteso, sul quel letto. Si ritrovò nel bel mezzo di una stanza, cerea, pulita. Osservò la flebo, a poca distanza da sé, e intuì di ritrovarsi in ospedale.

«Cosa...?» riuscì a scorgere lo sguardo della ragazza. In quegli occhi, v'erano racchiuso odio e rabbia, tristezza e felicità. Sentimenti così contrastanti cercavano di coesistere in una singola persona, all'apparenza forte.

Ottenne una lacrima, però. Dalla guancia, che cadde sulle coperte, sopra le sue mani.

Misty tentò di formulare una frase, una qualsiasi.

«Cosa cazzo ti dice il cervello?!» sbraitò, strofinandosi gli occhi «Stavo per perdere la mia migliore amica, te ne rendi conto?! Non hai pensato alle persone che ti amano, che ti vogliono bene?»

Vera non trovò il coraggio di dare risposta a quelle domande. Era doloroso vedere Misty piangere, troppo.

«Chi mi ha salvata?» domandò, cercando di eludere i quesiti.

«Il tuo vicino di casa.» rispose secca, alzandosi dalla sedia posta accanto al letto.

«Vicino?» pensò, ripensando a quel tocco magico «Sì. M'è stato vicino. L'unico» continuò, cercando di velare, nella sua mente, quella nota amara, nata dalla sua solitudine.

«Perché lo hai fatto?» Misty riprese il discorso, fissando attentamente Vera negli occhi. La lucciola restò fulminata da quell'espressione, mai stata più seria.

«Sono stanca» si giustificò, in un sospiro, evitando quell'occhiata così penetrante.

Misty si risedette, cercando di assumere un tono più dolce e materno. Cercò la mano dell'amica sotto le coperte e la strinse con ardore.

«Lo siamo tutte» la rasserenò, accennando un timido sorriso.

 

Il suo alloggio era l'ultimo del corridoio. Questo, dipinto di un blu molto acceso, era locato al terzo piano. Anonimo: nessuno lo avrebbe notato tra i tanti.

Vera non aveva mai conosciuto il suo vicino. Era rimasta una presenza priva di una qualche identità, che c'era, ma non c'era. Eppure sapeva della sua esistenza: fu la signora Fujiko, quell'amabile vecchietta, ad informarla. Eppure, quei due non s'erano mai incontrati.

Possibile che proprio lui, tra i tanti abitanti del complesso abitativo, era riuscito a darle quel tocco umano che mai aveva ricevuto prima?

Non appena tornata a casa, Vera non esitò a mettersi ai fornelli. I soldi che aveva in tasca non sarebbero stati sufficienti per un regalo degno di questo nome, ma forse, una delle sue opere culinarie, brillanti ed inimitabili, a suo dire, sarebbero state l'arma vincente! Bastava crederci, dopotutto.

Il risultato che ne scaturì non era certo bello a vedersi: con grande probabilità un tortino, di una bella doratura, ma dall'interno ignoto.

«O la va, o la spacca!» si disse, ponendo l'opera su di un vassoio in metallo. Quantomeno, era qualcosa di commestibile, il suo vicino l'avrebbe dovuto apprezzare in ogni caso!

Fiera del risultato, Vera uscì dal suo appartamento, reggendo con cura il vassoio in mano, cercando di non far scivolare quella tale preziosità sul pavimento.

Si ritrovò di fronte ad una porta in legno, con sopra infisso il numero “121” in un rettangolino placcato in ottone.

Tirò un debole calcio sull'uscio di quell'abitazione, cercando di udire una risposta. Nulla. Ci riprovò, cercando di dare un bel colpo di reni, in modo da far risuonare quel calcio in modo più chiaro. Nulla, di nuovo.

«Sono Haruka» affermò, utilizzando un tono di voce quasi urlato «Sono la sua vicina. La volevo ringraziare per l'altro giorno...»

«Perdi fiato!» urlò una voce proveniente dall'inizio del corridoio «Il mio appartamento è un gran maleducato. Non ti risponderà mai...»

Il sarcasmo, in quella frase, era leggermente fastidioso. Vera cercò di non farci caso, forzando un grosso sorriso.

Osservò, in un breve istante, la figura che le si stava avvicinando. Poteva notare fin da subito quei capelli verdi, ovviamente tinti, e quei piercing posti sul lato sinistro del naso e vicino alla bocca. Le era stranamente familiare.

 

 

 

Angolo autrice

 

Io so come infondere allegria nella gente, me lo devo riconoscere! *^* Spero che non mi arrestino per istigazione al suicidio, semmai qualche lettore decidesse di farla finita non appena terminata di questa lettura!

Ma state sereni, se aveste letto la prima stesura del capitolo... Meglio non pensarci, va!

Dunque dunque, ancora niente Contest? Deluse? (maschi, fatevi sentire una buona volta!) Rasserenatevi, date tempo al tempo... Nel prossimo capitolo... Ehehe, vedrete *^^*

Nello scorso capitolo, un recensore mi ha consigliato di passare ad un carattere più grande, ma, siccome è il pubblico a decidere, ve lo chiedo: “Sarebbe meglio passare al carattere, sempre Times, 14 o restare al 12?” - Per me non fa alcuna differenza, ma è il pubblico a leggere la storia, no?

Se i miei calcoli sono esatti, a parte un giovedì (cioè oggi) particolarmente intenso, penso di trovare il tempo di scrivere :D

 

Quindi vi saluto, sperando di non aver deluso le aspettative di nessuno (pensiero che mi ha tormentato non poco...)

 

BaiBai!

 

-Saku-

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Capitolo 3
*** Terzo Capitolo 第三章 ***


Anteprima:

Vorrei scusarmi con tutti voi per avervi sottoposti a questo vergognoso ritardo. Alla fine, con il caldo, l'università e lo stress accumulato, scrivere non era più un piacere, ma un vero obbligo e, di conseguenza, una nuova fonte di tensione.

Spero che questo capitolo possa essere di gradimento a quelle anime pie che riusciranno a perdonare il mio ritardo.

Inoltre, ci tengo a precisare che i personaggi apparsi in questo capitolo non sono OC, ma sono rispettivamente: Dent (Spighetto – sì, non giudicatemi); Melanie (nome tedesco per Karen) e Itsuki (Pino); i quali, in ogni caso, verranno sviluppati maggiormente nel prossimo capitolo e sono tutti OOC.

 

Grazie per l'attenzione.

 

Terzo Capitolo

第三章

 

 

 

Quanto avrebbe voluto cambiare vita, voltare pagina, o capitolo. Non vergognarsi del proprio impiego, potersi pagare l'affitto senza favori e con soldi puliti; eppure, malgrado gli sforzi, la cosa si prospettava ardua. Chi sarebbe stato disponibile a dare lavoro a una lucciola, doveva essere un sant'uomo. Poco, ma sicuro.

Uno spiraglio, però, s'era aperto grazie a quel misterioso salvatore. Fu molto breve.

«Se proprio vuoi, vai a fare visita nel locale dove lavoro. Sono sicuro che il vecchio Dent saprà essere buono»

 

Il locale di cui parlava non era grande, nemmeno appariscente. Privo di insegna e di grandi vetrate, l'unica cosa che saltava all'occhio era la porta verdognola. Su di essa, infatti, v'era infisso, nell'esatto centro, un piccolo quadretto. Una birra, piena, con la schiuma bianca; ecco cosa v'era rappresentato. Diceva già tutto, non serviva specificare che tipo di locale fosse: si vendeva birra, cos'altro importava?

Semplice e modesto, dalle poche pretese. Nato per far trascorrere alle persone una piacevole serata. Nulla di più, nulla di meno.

La particolarità che si annidava in quel luogo era un incredibile aroma, simile a quello dei sigari che non hanno ancora conosciuto il tocco ardente del fuoco. Pungente.

Vera stentava a riconoscerlo dall'ultima volta che c'era stata. Una sola e poco significativa volta, ma se la ricordava. Solo per accendersi una sigaretta. Ma, da quella notte, sembrava diverso. Non era quel luogo tetro e squallido che aveva impresso nella mente. Appariva, invece, più sobrio alla vista e non dava l'idea di essere un locale frequentato da ragazze squillo e uomini che non hanno nulla da perdere se non la propria dignità umana.

Si trovava esattamente di fronte, con la luce del sole che batteva, tiepida, sull'uscio. Con una leggera spinta, aprì la soglia, venendo sommersa da quell'onda aromatica che le mandò in confusione i pensieri.

«Sei tu Haruka?» una calda e roca voce le balzò subito alle orecchie.

Persino il proprietario le sembrava diverso. Anche lui con i capelli verdi, ma di una tonalità più chiara rispetto al suo vicino di casa. Non dava l'aria di essere un folle punk: più che altro uno che si divertiva a tingersi i capelli.

«Sì, sono io» rispose, avvicinandosi all'uomo.

«Drew mi ha parlato abbastanza bene di te» annunciò, sfoggiando un grande sorriso.

«Si chiama Drew?» giustamente, non poteva saperlo.

L'uomo scosse la testa in segno di disappunto, ma non mutò la sua espressione.

«Comincerai oggi, alle venti in punto; se non hai altre domande»

«I pagamenti?» era forse l'argomento che più premeva a Vera. Doveva pur vivere in qualche modo: senza soldi non sarebbe andata da nessuna parte.

«Dipende dagli incassi. Purtroppo non posso fare altrimenti» tirò un leggero sospiro di malinconia «Se ti va bene, la cifra si aggirerà sui 50.000 yen al mese»

 

Tutto così in fretta, senza che si potesse accorgere di nulla, si ritrovò ad avere il primo lavoro onesto della sua vita. La stabilità era il problema più grande che doveva affrontare, e il fatto che la sua paga fosse di poco superiore all'affitto di certo non avrebbe giovato alla situazione. Però, poteva sorridere, per una volta.

Quella sensazione di sporco se ne stava andando, lentamente.

 

Si ammirò nello specchio un'ultima volta prima di uscire di casa. Quel vestito nero le sembrava stare d'incanto, ma forse era solo una sua impressione. Dopotutto, era abituata a vestirsi in modo ben diverso prima di uscire: solitamente degli stretti jeans che stentavano a superare l'inguine e una maglietta corta molto scollata. Eppure, oggi si sentiva diversa.

«Il primo passo per diventare una donna migliore» si disse, con una palese nota di allegria.

Fu lo stesso atteggiamento con cui superò le strade dell'immensa città. Pensava potesse essere difficile camminare con una gonna che le arrivava alle ginocchia: non lo aveva mai fatto prima, dopotutto.

Si ritrovò a sopravanzare anche i quartieri in cui bazzicava le sere precedenti, ma si sentiva orgogliosa di non dover più vivere quell'orrenda esistenza, dettata dal sesso a pagamento.

 

La notte avvolse, come un velo, le strade; brunendo le ombre e il cielo. Le conveniva prendere la metro, ma doveva cercare di spendere il meno possibile. Non poteva permettersi sprechi, visto che la sua vita lavorativa sarebbe stata anche meno redditizia di prima.

Un chilometro o forse due, ogni sera dopo le otto. Certo, non era facile e la tentazione di utilizzare mezzi più veloci era forte.

Ora il locale le sembrò già più familiare: di giorno, la presenza di scale che affondano sottoterra, non crea alcun fastidio; ma di notte, il tutto sembra più tetro e maligno.

Infilò la mano destra nella borsetta e prese in mano il cellulare.

«Le 7:56» pensò. Era anche in anticipo, sebbene di poco; ma era importante, almeno per lei, dare una buona impressione fin dal primo giorno.

Aprì la porta, cercando di farsi coraggio. L'intenso aroma di sigari, che l'aveva così inebriata quello stesso pomeriggio, era diventato un leggero e flebile odore, un aroma delicato, ma poco percettibile.

Le orecchie riuscirono a percepire dei sommessi e deboli ansimi dal fondo della sala, probabilmente dal ripostiglio. Non faticò ad immaginare che cosa stesse accadendo là dietro, né le premeva di scoprirlo.

«Vergognoso» Vera si avvicinò facendo attenzione a non rumoreggiare in modo troppo evidente. Giunta davanti alla porta, della sua stessa altezza, bussò sonoramente.

Non aprì nemmeno; ma si sedette sullo sgabello più vicino per godersi la scena: per una volta non era lei ad essere pizzicata nel compiere atti di tale scempio. Un cigolio le fece intuire che la porta si stesse aprendo.

Da essa, difatti, a capo chino per non sbattere la testa per via della soglia troppo bassa, uscirono, uno alla volta, due ragazzi, dai capelli color del male.

«Disturbo?» interrogò maliziosa.

«Non è come pensi!» si giustificò il ragazzo, mentre si asciugava con la mano le goccioline di sudore sulla fronte «Stavamo facendo...»

«L'inventario!» esplose la ragazza, cercando di ottenere il consenso del compagno.

«Dev'essere stato faticoso...» ironizzò Vera, con un sorriso quasi malizioso.

 

«Hai già conosciuto Melanie e Itsuki, dunque?» domandò il direttore del locale alla nuova arrivata, sorridendo.

Si limitò ad annuire, per evitare ulteriori imbarazzi alla giovane coppia.

«Ottimo! Così risparmiamo tempo!» l'esuberanza del signor Dent era quasi contagiosa, ai limiti dell'irritante; ma Vera cercò di passarci sopra. Dopotutto, era lì per ricostruirsi una vita, passo dopo passo.

Tra i dipendenti del locale, notò subito la figura di Drew. Slanciata e flessuosa, dallo sguardo di ghiaccio, assente, eppure penetrante.

«Te la affido.» fece il proprietario a Drew, indicando la giovane e inesperta Vera. Il giovane alzò le spalle, quasi non gliene importasse più di tanto, ma per la ragazza non era necessario. Era l'unica figura sulla quale riusciva a fare affidamento, in quel posto, e ciò era già positivo.

«Appena arrivano i clienti» iniziò lui, non appena il capo lasciò la sala «Mostra la merce»

Vera titubò, assumendo un'espressione sbigottita.

«Intendi le birre? I boccali?»

«Certo che no!» era ironico «Per merce, intendo le tue curve, bella mia...»

«Mi prendi in giro?» non poteva credere a quella frase.

«Farai felici i clienti e un cliente felice è un cliente che paga»

Vera rimase muta. In fondo, era lo stesso identico principio che aveva adottato quando batteva per le strade.

«...E la mia dignità?» abbassò lo sguardo con fare indignato.

«Suvvia...» s'intromise Melanie «Forse Vera non è adatta al bancone, non c'è problema!»

Prese la compagna per mano e la trascinò via da lì. Drew sbuffò, in segno di disapprovazione.

«Allora tu ti occuperai delle pulizie, non è nulla di grave, sta' tranquilla!» la ragazza sfoggiò un enorme sorriso a trentadue denti. Era raro che qualcuno le dimostrasse cotanto affetto, ma forse faceva parte dell'indole di Melanie.

Vera prese in mano una scopa e, con grande impeto, spazzò i pavimenti. Vi ci sfogò tutte le sue frustrazioni, come se la pulizia fosse un antistress.

 

In breve tempo, arrivò la mezzanotte e il turno finì.

«Torniamo a casa insieme?» le domandò Melanie, mentre si copriva con il cappotto beige e foulard rosso.

«Dove abiti?» Vera era felice di quella proposta: lo si leggeva nei suoi occhi.

«Vicino a Shibuya, tu?»

Nella sua mente, Vera emise un gridolino di gioia. Sotto sotto, la giovane ragazza che le si mostrava di fronte era motivo di curiosità: voleva conoscerla meglio, in poche parole.

«Anche io!» cercò di moderare la nota stridula che assumeva quando l'esuberanza sforava dai limiti, senza riuscirci, ovviamente.

Ogni volta che sorpassavano un lampione, grazie all'incredibile luce sprigionata, Vera poteva ammirare l'incredibile bellezza della compagna. Una cosa, fra tutte, spiccava: i capelli. Li definirebbe “malvagi”, perché è così che sua madre chiamava chi aveva i capelli tinti con il blu. Eppure, erano talmente belli e lucenti che, quasi quasi, provava invidia.

«Beh? Vogliamo starcene così mute tutto il tempo?» Melanie non aveva di certo un carattere introverso, poco ma sicuro «Come t'è sembrata la giornata di oggi?»

«Drew mi ha deluso.» rispose secca, quasi amareggiata.

«Secondo me, l'ha fatto solo per vedere se volevi davvero dare un taglio alla tua precedente vita» quelle parole erano davvero sincere.

«Dici?» si limitò a domandare Vera, quasi per timidezza, che per altro.

«Beh, in genere è più gentile...»

«Comunque» la interruppe «Grazie per essere intervenuta! Conoscendomi, sarebbe finita in una scazzottata!» cominciò a ridere felicemente, contagiando la compagna che la seguì a ruota.

Era bello, ridere.

 

«Ora devo svoltare. Ci vediamo domani, okay?»

In pochi secondi, Melanie si allontanò, lasciando Vera raggiante come non mai.

Pochi passi la separavano dall'appartamento in cui viveva. Finalmente, dopo tanto tempo, non stringeva dei soldi in mano, non le doleva l'inguine e il suo onore come donna non era stato toccato. Era un piccolo gradino, su una scala lunga chilometri, ma uno in più era meglio di uno in meno. Avrebbe voluto vedere la signora Fujiko, la governante del palazzo, mentre varcava l'ingresso.

Invece, appena entrò nell'edificio, nessuno era lì ad attenderla. Alcune voci si facevano strada tra i corridoi, ma una, in particolare, le era familiare. Bassa, profonda e leggermente roca. Era l'unica, tra le due, che riusciva a distinguersi.

Salì le scale velocemente, spinta dal desiderio di incontrare colui che possedeva quella voce. Arrivò allo stesso piano sul quale abitava. Con passò svelto, si avvicinò al suo appartamento, notando con stupore la figura della signora Fujiko, affiancata da una a lei sconosciuta, eppure tremendamente familiare.

Non appena la luce riuscì ad illuminare quell'uomo, una feroce morsa al cuore le bloccò il respiro. Gli occhi, prima quieti, si riempirono d'odio e di rabbia, ma anche di paura.

La sua bocca riuscì a pronunciare una sola e semplice parola. «Saké.»

 

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