Ora è morto

di Amens Ophelia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fango e sangue ***
Capitolo 2: *** Casa ***
Capitolo 3: *** Come un bucaneve ***
Capitolo 4: *** Un aspide in seno ***
Capitolo 5: *** Più di una lama, meno della morte ***
Capitolo 6: *** Ciò che desidero ricordare ***
Capitolo 7: *** Senza alcuna pietà ***
Capitolo 8: *** Un modo per dirsi addio ***



Capitolo 1
*** Fango e sangue ***





1. Fango e sangue







Un lampo, un’affilata scheggia bianca, luminescente, aveva attraversato il cielo per un secondo, in quella notte. Non poteva sfuggire al suo occhio, abituato a cogliere anche il minimo dettaglio, così come non potevano sfuggirgli quella miriade di sottili aghi pungenti che il cielo gli stava saettando contro, aculei che gli altri avevano l’accortezza di chiamare semplicemente “pioggia”. Se anche loro avessero posseduto il dono dello sharingan, si sarebbero sorpresi di quanto la forma di una goccia, in caduta libera, assomigliasse più a un ago acuminato, che a una morbida curva. L’unico beneficio che la gente possedeva e di cui lui non era più in grado di fruire era l’astrazione, la capacità di cogliere ogni cosa nel suo complesso, dimenticandosi dei dettagli; lui, invece, viveva per i particolari, li svelleva da qualsiasi entità, contro il proprio volere.

Il rombo del tuono lo distrasse, arrestando i suoi passi. Non aveva un luogo dove andare, non c’era posto che potesse chiamare casa, ormai. Era solo, allo sbando, imbrattato di sangue fino al midollo, e per quanto l’acqua scrosciasse, era ben consapevole che nulla avrebbe potuto farlo tornare immacolato. Sorrise, pensando a quella parola. Lui non era mai stato veramente puro, innocente, no. Da qualche parte, in lui, era sempre vissuta una bestia assetata di sangue. Sbagliato, non era così; troppo facile addossare la colpa a un essere staccato da sé, come se anche in lui vivesse un demone dotato di code che poteva prendere il sopravvento sul suo animo. No, Itachi era così di suo, lo era sempre stato, un tempo inconsapevolmente, ora consciamente, non c’erano giustificazioni plausibili. Era stata solo colpa sua, se tutto era accaduto, perché lui doveva farlo, non si era tirato indietro; e non gl’importava se non fosse stata una sua autentica idea: si considerava l’unico responsabile, il solo assassino.

Il silenzio del bosco, interrotto solo dai tuoni e disturbato dall’ovattato scrosciare di pioggia, avvolgeva il suo corpo, ma non fu in grado di ristorare la quiete che tanto desiderava. Il giovane non  riusciva a cancellare dalla mente le urla dei suoi genitori, come se gli stessero strappando i timpani con le unghie, né i loro occhi, probabilmente ancora spalancati, che sembravano tuttora fissarlo e valutarlo. Per tutta la vita si era sentito giudicato, costantemente messo sotto pressione da suo padre, che soppesava ogni suo passo falso, valutato per qualsiasi minima azione che compiva in seguito a una sua scelta personale. «Era inevitabile», mormorò, quasi sorridendo. «Era inevitabile che sarebbe successo». Quella parte oscura del suo cuore era grata al massacro, e premeva perché l’anima del ragazzo ne gioisse pienamente, ma non ci riusciva.

Improvvisamente cadde in ginocchio e affondò le mani nel fango, tremando. Perché quel dolore? Perché quei rimorsi? Era da tempo che voleva sbarazzarsi di ombre tanto ingombranti, di una famiglia pericolosa e che non sapeva apprezzarlo degnamente, nel tentativo di ridare vita al suo clan, donandogli ancora più rispetto. Quel ventaglio che gli copriva la schiena, del quale era sempre andato orgoglioso, si era macchiato di sangue e ora sembrava opprimerlo, non difendendolo nemmeno dalla pioggia. Qualcosa gli impediva di respirare, fermo in gola come un boccone amaro. “Diavolo, Itachi, sei libero!”, pensò, stringendo i pugni nella melma. “Perché non riesci a capirlo? Sei padrone di te stesso, ora!”.

Mentre osservava le macchie di sangue sulle braccia e sulla casacca, non poté evitare di pensare all’altro, unico sangue che ancora era libero di scorrere nelle vene Uchiha, a suo fratello Sasuke. Il fanciullo lo aveva rivisto e, per una volta, l’ammirazione – mista sempre a un senso di inferiorità - era scomparsa dai suoi occhi da bambino: quella sera, il mito del fratello maggiore da emulare si era per sempre estinto, nella mente del minore degli Uchiha. Quel vespro, le sue pupille innocenti gli avevano promesso la morte e Itachi sapeva che, nonostante quanto ora lui fosse infinite volte più forte del fratello, difficilmente sarebbe sfuggito al suo destino. Si era un po’ scavato la fossa con le sue stesse mani, sterminando la famiglia, ne era consapevole. Non avrebbe rinunciato a combattere per la sua vita, ma una parte di lui si era arresa all’impietoso fato. Solo sperava che un giorno Sasuke, per quanto lo odiasse, avrebbe inteso il suo gesto; non gl’importava di essere perdonato, ma solo compreso. “Voglio solo che capisca che l’ho fatto per il bene del clan e del villaggio”, pensò tremando, fissando quel limo scuro che stava arrivandogli ormai al polso.

Dei passi titubanti interruppero quei pensieri, mentre delle piccole scarpe bianche si erano fermate a pochi centimetri dalle sue mani, ancora chiuse e sporche. Non aveva il coraggio di alzare la testa, di affrontare nuovi sguardi, nuovi giudizi. Poteva solo osservare quelle calzature candide ormai infangate e trattenere il respiro, pensando a come rispecchiassero la sua condizione attuale. Ma se le scarpe potevano essere pulite, lucidate e rimesse a nuovo, non c’era niente che potesse redimere la sua anima. D’altronde, lui non sperava nella redenzione, dacché si era condannato da sé.








Scritta parecchio tempo fa, rimaneggiata di recente grazie a DoubleSkin che, con le sue bellissime storie, mi ha trasmesso la voglia di riprendere in mano le "sorti" di Itachi XD Grazie mille!! ;)
Spero che sia di vostro gradimento, a presto! :)

 

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Capitolo 2
*** Casa ***


2. Casa







Due occhi iniettati di sangue lo fissavano con disprezzo, più cupi della notte e più minacciosi di una tempesta. Itachi cercava di sostenere quello sguardo, ma era in trappola, lo sapeva bene: non si sarebbe potuto salvare, né fuggendolo, né affrontandolo. Era la resa dei conti, Sasuke era davanti a lui, incredibilmente maturato, nel fisico e nella mente, e più scrutava quelle iridi vermiglie, più la sua figura appariva pallida, divorata dalle fiamme dell’odio. Così aveva davvero seguito il suo consiglio, aveva deciso di eliminare definitivamente l’ideale del fratello maggiore per detestarlo di tutto cuore, odiarlo fino all’inverosimile, senza farsi fermare da niente e nessuno.
 Itachi sorrise amaramente, osservandolo. “Sei diventato un uomo, otouto”, avrebbe voluto dirgli, se la lingua non gli si fosse impastata nel sangue, dopo quel mille falchi che il fratello gli aveva scaraventato addosso fino alla colonna vertebrale. Mentre il respiro andava affannandosi, sputò quell’acre fiotto di sangue che gli stringeva la gola, rovesciando il sorriso in una smorfia di pieno disprezzo. Ma quel sentimento non era rivolto a Sasuke, come poteva biasimarlo? L’odio era tutto per sé, e non per quella strage, bensì per quelle parole che aveva rivolto al fratellino tremante, ormai solo al mondo. Gli aveva ordinato di fare dell’odio il suo maestro, di farsi guidare dal desiderio di vendetta e distruzione, e di tornare ad affrontarlo quando avrebbe posseduto quel diabolico marchio intorno alla pupilla. Ecco, ora era diventato persino più spietato e potente di lui, del temuto Itachi Uchiha, e sapeva benissimo che quei magnifici occhi mortiferi sarebbero stata l’ultima immagine che i suoi avrebbero raccolto.
            Il sorriso tornò a sfiorare le sue labbra spaccate; era onorato di trovare la morte per mano di Sasuke, era ciò che aveva sempre desiderato, nel momento in cui aveva fantasticato sulla propria fine.
          “L’ho tenuto in vita per due motivi: poter rivedere la luce o, paradossalmente, per far sì che lui possa continuare a goderne, chiudendo per sempre i miei occhi. Nel caso io venissi sconfitto, sarò onorato nel sapere che il mio sangue è stato versato dal mio stesso sangue… da un Uchiha, da Sasuke. D’altronde, chi meglio di lui ha un valido motivo per spedirmi all’altro mondo?”. Quel flusso di pensieri gli diede la forza per affrontare ancora lo sharingan del fratello.
 
Un improvviso fascio di luce colpì i suoi occhi chiusi, obbligandolo a strizzarli, infastidito, fino ad aprirli. Quel raggio di sole inaspettato gli sembrò persino più doloroso del mille falchi che lo aveva colpito. Prima di osservare lo scenario intorno a lui, si tastò l’addome, controllando la ferita inflittagli. Strabuzzò lo sguardo, toccando con più insistenza quella parte del corpo, affondando con decisione le dita, tanto da poter sentire le costole e contarle: tutto intatto, nessun danno. Com’era possibile?

«Ben svegliato!», esclamò una voce cristallina, al suo fianco. Itachi immediatamente si tirò su, sulla difensiva, scrutando il volto di quella ragazzina. Chi diavolo era? «Hai dormito dodici ore filate! Come ti senti?», gli chiese sorridente. Quella luminosità gli faceva male al cuore, gli ricordava che era ancora in vita, malgrado tutto. Sorrisi del genere non gli davano il buongiorno da troppo tempo, ormai; era quasi sicuro che non ne avrebbe mai più rivisti. Di fronte a lui, un altro segno di vita lo tormentava: la finestra era spalancata e faceva entrare prepotentemente la luce del sole, che pian piano andava ad alzarsi sull’orizzonte.
        «Dove sono?», mormorò con voce roca, osservando quella piccola stanza arredata alla bell’e meglio; era disteso su un divano sgualcito, sotto delle corte coperte marroni che gli pizzicavano maledettamente le caviglie. Fissò l’alluce spuntare da quell’ammasso di rattoppi e s’interrogò su dove fossero i suoi calzari, la katana… i suoi vestiti! Chi aveva preso la libertà di spogliarlo e metterlo a dormire? Tornò a fissare quella fanciulla, con uno sguardo severo e interrogativo, ma lei non fece una piega, così come il suo sorriso.
         «Questo è il posto in cui viviamo io e mio fratello. Se ti fa piacere, puoi chiamarla casa», gli propose raggiante la giovane.
         «Casa», ripeté meccanicamente Itachi, fissando gli alberi oltre la finestra. Poi proruppe in una risata spaventosa, che rasentava l’isteria e la commiserazione, e che riuscì a spezzare l’armonia dalle labbra della ragazza. «Nessun posto sarà mai casa, per me», commentò alzandosi, pronto ad andarsene.
         «Aspetta, rimani! Non sei ancora abbastanza in forze per ripartire … e, davvero, se tu volessi rimanere, io e mio fratello saremmo lieti di averti con noi. Non abbiamo nessuno al mondo», affermò lei, chinando il capo sull’ultima frase. Gli occhi cominciarono a pungerle, ma trattenne l’istinto di piangere, risollevando il capo e tornando a mostrare il suo sorriso. «Rimani, solo oggi». Sembrava una preghiera, ma Itachi aveva imparato a non farsi impietosire davanti a nulla.
         «Siamo tutti soli, nessuno escluso», ribatté lui, penetrando quegli occhi innocenti con i suoi.
 
Un rumore metallico, seguito da un tonfo, alle loro spalle, li fece sussultare. I due ragazzi si girarono contemporaneamente e trovarono un giovane disteso sul pavimento, che tentava di rialzarsi, imbarazzato.
       «Eiji! Sei il solito disastro!», esclamò in una fragorosa risata la ragazza, alzandosi e andando ad aiutarlo.
       «E tu sei la solita disordinata, Hikari! Ti sembra normale ammassare all’ingresso questa roba?», protestò lui, rinunciando alla mano che la ragazza gli aveva teso.
       Non appena i due furono in piedi, Itachi poté notare la grande somiglianza che li accomunava: lisci capelli color mogano scuro; occhi color blu notte intenso, grandi, ma anche affilati; carnagione lunare e sottili labbra armoniose. Solo la corporatura era diversa, perché se il ragazzo era più alto e ben bilanciato, la giovane invece era piuttosto minuta. Era chiaro come il sole che fossero gemelli.
      «Così ti sei alzato! Spero che ti senta meglio, ieri sera non eri un gran bello spettacolo», sorrise il ragazzo, avvicinandosi a Itachi. «Beh, io sono Eiji!», si presentò sorridente. Nessuna risposta dall’altro capo, se non uno sguardo indifferente. «Che dici, forse è sordo?», bisbigliò lui all’orecchio della sorella.
      «No, il tuo baccano l’ha sentito benissimo. Oh, è anche vero che la tua delicatezza da elefante la sentirebbe anche un audioleso, in effetti», sussurrò lei, tirandogli un’affettuosa gomitata nel fianco.
      «Vi sento benissimo, se ci tenete a saperlo», li interruppe lui, glaciale. «E se non vi dispiace, vorrei riprendermi la mia roba e andarmene». Per rafforzare il concetto, osservò quasi disgustato quella semplice maglietta bianca e i pantaloni neri che qualcuno gli aveva fatto indossare, mentre forse era svenuto.
      «Gran bel completo, vero? È la mia tenuta da corsa», sorrise Eiji, notando l’attenzione per quegli indumenti.
      «Dov’è la mia casacca?», tagliò corto, ignorando anche quel commento.
      «L’ho lavata, era sporchissima! Il fango più difficile che abbia mai dovuto strofinare», ricordò lei, massaggiandosi le mani, ancora affaticate da quel lavaggio. Non sospettava minimamente che sotto quelle incrostazioni di melma, gli indumenti erano macchiati di sangue, così come non poteva immaginare che quel ragazzo scontroso che avevano di fronte fosse un assassino. Continuava a sorridergli, come se fossero amici da una vita. «Per questo ti ho chiesto se volessi fermarti da noi; domani sicuramente sarà tutto pulito e asciutto per ripartire, senza contare che sarai più in forze», aggiunse.
      «E nel frattempo potrei anche affilarti questa bellissima katana», si offrì Eiji, sollevando quell’arma che gli aveva procurato il tonfo di poco prima.
      «Non toccarla!», urlò Itachi, avvicinandosi furioso. Gli strappò la spada di mano, incenerendolo con lo sguardo, poi accarezzò la nera guaina dell’arma, che nascondeva le prove del turpe crimine del giorno prima. Così perfetta, ma altrettanto fatale, proprio come i suoi occhi.
      «Non volevo mancarti di rispetto, è solo che è il mio lavoro. Ci so fare con la mola, e non lo dico per vantarmi. Beh, forse un po’ sì, ma sono sincero… ».
      «Se solo la sfiorerete ancora, vi giuro che sarà l’ultimo contatto che la vostra pelle sentirà», sussurrò sinistramente l’Uchiha, stringendo l’impugnatura.
      Hikari trattenne un fremito di terrore; il suo sorriso si era improvvisamente spento, di fronte a quell’aura scura. Eiji, invece, non si lasciò intimidire e continuò a guardarlo.
      «Beh, facciamo così, se mai avessi bisogno di un arrotino, ricordati di Eiji Ando, d’accordo? Per gli amici non bado a fatiche», esclamò sorridendo.
 
Itachi rinunciò a controbattere, a sottolineare che loro non erano amici, quasi nemmeno conoscenti… che lui non avrebbe mai più avuto amici, se non le tenebre. Sospirò, posando la katana contro il muro, e mancò poco che non si accasciasse per terra, in preda a un’improvvisa spossatezza.
     «Ti senti bene?», chiese preoccupata Hikari, correndo a reggerlo per un braccio. Lui la osservò muto, con i suoi occhi scurissimi e profondi come un pozzo.
     Perché darsi pena per lui, soprattutto dopo quella frase che l’aveva terrorizzata? Perché quei due non gli davano pace? Possibile che non capissero che la sua unica necessità era quella di andarsene? Davvero ci tenevano tanto a condividere una giornata della loro vita con un assassino?
     «Dovresti stenderti! Adesso provvedo subito a cucinare qualcosa!», lo rassicurò la giovane, non lasciando ancora la presa dal suo braccio. Era una morsa leggera, tenera, delicata quanto quella di una bambina, eppure i suoi polpastrelli erano ruvidi, esperti delle asprezze di una vita poco agiata.
 
Mentre anche Eiji lo aiutava ad accomodarsi sul divano, Itachi tornò a fissare quegli occhi blu come la notte, che sembravano essere l’unica cosa, in quel momento, capace di assicurargli un minimo di pace.
    «Te l’ho mai detto che Hikari sa cucinare la miglior zuppa di cardi e radici del Paese?», gli sorrise il ragazzo, battendogli la mano sulla spalla, prima di andarsene.
 
Itachi girò il capo e lo chinò, fino a fissare il pavimento. Quelle piccole scarpe bianche, ancora sporche di fango, gli occuparono di nuovo la visuale, e lui tornò a pensare a quanto fosse spregevole la sua anima, prima di precipitare in un nuovo abisso dell’inconscio.






Grazie a tutti per aver letto anche questo capitolo, per chi ha recensito il precedente.... sono davvero commossa davanti alle vostre parole! :') 
Spero che anche questo possa piacervi!
A presto!! :D

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Capitolo 3
*** Come un bucaneve ***


3. Come un bucaneve

 
 
 
 
Questa volta la luce del sole non c’entrava. A svegliarlo non fu quella palla infuocata alta nel cielo, ma qualcosa di altrettanto luminoso, quello stesso qualcosa che gli aveva augurato un buon riposo. Itachi sbatté le palpebre più volte, ma quel blu intenso non ne voleva sapere di allontanarsi dal suo volto.
        «Sei fastidiosa, te l’hanno mai detto?», mormorò disturbato, osservando le serene iridi di Hikari a pochi centimetri dalle sue.
        «Sto cercando di capire cosa diavolo siano quei segni che hai sotto gli occhi!», affermò lei, tanto concentrata in quell’impresa da non sentire la critica del suo oggetto di studio. «Eiji dice che hai le rughe d’espressione, perché sei scontroso, ma secondo me sono segni naturali», spiegò convinta.
         «Ti ripeto che sono rughe», ribatté il gemello, mentre sistemava tre ciotole sul tavolo.
         «Come puoi essere così stupido? Avrà un paio d’anni più di noi, è impossibile che gli siano già comparse delle grinze del genere!», urlò in sua direzione, finalmente scostandosi dal ragazzo disteso.
          Itachi issò il proprio peso sulle braccia e riuscì a sollevarsi. Stavolta sapeva di aver chiuso gli occhi al massimo per un’oretta, perché lo scenario non era particolarmente diverso da prima: stessa giornata di sole, stessi indumenti e stessa coppia di fratelli irritanti. Sospirò e si scrollò di dosso quell’urticante coperta, pronto a scendere dal divano.
          «A proposito, posso farti una domanda?», chiese la ragazza, sollevando lo sguardo dal bicchiere che stava lucidando.
          «Adesso chiedi il permesso?», la beffeggiò ironicamente lui, ormai in piedi.
          «È il suo modo di fingersi gentile, non ci cascare», gli sussurrò all’orecchio Eiji, passandogli accanto.
          Hikari arricciò il naso e strinse gli occhi, captando il sarcasmo del fratello, ma decise di non rispondergli. Concentrò il suo sguardo sul moro, sfoderando un sorriso accogliente: «Quanti anni hai?».
          «Tredici», rispose atono. Questo era quello che diceva l’anagrafe, ma lui gli anni non li aveva mai contati, perché una volta nato nel ghetto degli Uchiha, i giorni passavano insapori, gli uni uguali agli altri, talmente monocromi e impegnativi, tra allenamenti, dispute e rancori, da dimenticarsi delle festività, dei compleanni, di qualsiasi evento che il resto del villaggio festeggiava. Sapeva di avere tredici anni, ma non avvertiva quella giovinezza, si sentiva già adulto; poteva benissimo averne venti, per quanto lo riguardava, se solo il fisico non avesse tradito quell’autoconvinzione.
         «Che ti dicevo? La nostra età! Paga pegno, prego», esclamò raggiante Eiji, assemblando una gomitata alla sorella.
         «Ma ne dimostra quindici! Non vale, sono state le rughe a trarmi in inganno!», sbuffò lei, osservando Itachi.
         «Allora sei d’accordo con me che sono rughe! A-ha sorella, Eiji non sbaglia mai!», la canzonò nuovamente, al settimo cielo.
         «Non volevo dire “rughe”, mi sono confusa! Uffa, Eiji, ti odio», borbottò lei, smorzando il sorriso.
       Prima che potesse concedersi un minuto per chiedersi in che razza di guaio si fosse cacciato, entrando in quella casa, a contatto con quei due fratelli, il “tutti a tavola” urlato dalla giovane lo obbligò a sedersi.
 
Incredibilmente nessun rumore, a parte quello dei cucchiai nelle ciotole, spezzava il silenzio di quel pranzo. Nessuna parola, nessun urlo, nessuna lite fraterna… che si fossero decisi a comportarsi in modo civile, finalmente?
          Itachi alzò lo sguardo per misurare il livello di tensione dei padroni di casa, ma per poco non gli andò di traverso il cibo: entrambi lo stavano fissando attentamente, quasi come se pendessero dalle sue labbra, analizzando nel dettaglio il movimento della sua mano, l’apertura della bocca, la masticazione dei cardi. Si vedeva lontano un miglio che si stavano trattenendo dall’esclamare qualcosa, e quel silenzio costava loro caro. L’Uchiha abbassò la testa, tornando a fissare la zuppa.
           Erano normali tredicenni, in fondo, era logico che si comportassero in quel modo. Quello ad essere diverso era lui, come era sempre stato evidente. Era fiero di spiccare sugli altri, elevarsi per intelligenza, abilità nel combattimento, coraggio… andava orgoglioso di se stesso, del proprio nome, nonostante tutto quello che la propria appartenenza al clan aveva comportato, inclusa la strage della sera precedente. Mai aveva desiderato essere qualcun altro, prendere il posto di un'altra persona. Mentre girava per il cortile del ghetto e incrociava uomini e donne dai capelli neri e gli occhi profondamente scuri, quanto le loro ombre – interne ed esterne, era convinto di vivere nel miglior mondo possibile, per quanto terribilmente duro. Nulla avrebbe potuto fargli cambiare idea, perché il senso di appartenenza alla famiglia che Madara aveva generato non era scemato minimamente, anzi, dopo quella sera, era persino aumentato, se possibile.
            Eppure, per una volta, quell’essere discorde, tanto diverso dai due gemelli che aveva di fronte, lo disturbò; dov’erano finiti il suo orgoglio, il viscerale sentimento di legame al clan? Si erano dileguati, di fronte alla spontanea gioia di vivere dei due ragazzini, come se la loro spensieratezza fosse un promemoria atto a ricordargli che anche lui aveva tredici anni e che si sarebbe dovuto godere la vita in quella maniera, fin tanto che gli era lecito.
            Alzò ancora il capo e, ritrovando quegli occhi puntati addosso, si sentì improvvisamente in dovere di prendere la parola: «Questa robaccia non è poi tanto male». Era il massimo della gentilezza che si poteva pretendere da lui, in quel momento.
             Osservò il sorriso di Hikari allargarsi sempre di più e per un momento temette che le si sarebbero strappate le guance. «Lo sapevo! – urlò lei, entusiasta - Sapevo che ti sarebbe piaciuta!».
            «Hai scommesso anche su questo?», domandò Itachi, cercando di sopprimere un sorrisetto divertito.
            «No, nessuna scommessa. Ho già vinto sulle rughe e sulla tua età, di questo passo la umilierei troppo», rispose Eiji, ancora su di giri per quella vittoria.
            «Non… non sono rughe», mormorò il moro, contraendo la mascella. Hikari non riuscì a trattenere un risolino di scherno in direzione del gemello, al suono di quelle parole.
           «D’accordo, siamo pari», sospirò il padrone di casa, riprendendo a mangiare.
 
La sorella tornò a osservare il loro ospite. Avrebbe voluto ringraziarlo per quella precisazione, ma non gli pareva il tipo da accettare una riconoscenza così banale. Esattamente non sapeva che genere di persona avesse davanti; era un ragazzo freddo, distaccato, ma anche molto acuto, attento ai loro dialoghi… parlargli non era facile, temeva che dopo quelle poche battute si sarebbe potuto chiudere nuovamente in un silenzio impenetrabile, ma la curiosità era tanta, perciò decise di rischiare.
            «Vieni dal Villaggio della Foglia, vero?», gli domandò pacatamente. Lui si limitò ad annuire e lei interpretò quel gesto come un via libera per proseguire il discorso. «Ti sembrerà sciocco, ma non me ne sono accorta dal coprifronte, dato che ieri, quando ti ho visto, eri prostrato nel fango. L’ho intuito dalla tua casacca». Itachi alzò improvvisamente lo sguardo, rivelando un’espressione sconcertata, ma lei non si fece bloccare da quegli occhi. «Quel ventaglio bianco e rosso l’ho già visto: sei un Uchiha».
            Al suono di quel nome, Eiji si lasciò cadere il cucchiaio di mano, sbarrando gli occhi. Quella reazione distrasse Itachi, ancora sconvolto dall’acume della ragazza.
            «Un Uchiha», ripeté il giovane Ando, fissandolo con uno sguardo improvvisante rabbuiato. Non poteva crederci! Era l’ironia del destino peggiore che avesse mai conosciuto. Dopo qualche secondo in cui il vuoto aveva attraversato i suoi occhi e la mente gli si era affollata di ricordi, Eiji si alzò di scatto e si precipitò fuori di casa.
            «Non avrei dovuto dirlo», sussurrò Hikari, raccogliendo la ciotola del fratello. Scosse la testa, amareggiata per come il passato fosse riuscito a segnarli tanto e continuasse a tormentarli.
            «Lui non lo sapeva?», domandò stupito Itachi, alzandosi e porgendole anche la sua scodella.
            «No. Quando ti ho trovato nella foresta, eri sul punto di perdere i sensi. Non sarei mai riuscita a portarti al sicuro da sola, essendo tanto gracile, così, prima di venire a chiamare Eiji, ho provveduto a coprire lo stemma della tua casata con il fango. Mi è dispiaciuto, non l’ho trovata una cosa carina, ma non ti avrebbe mai aiutato, se l’avesse visto», spiegò la ragazza, prendendo la tazza dalle mani dell’Uchiha.
            «Non mi serviva il vostro aiuto», affermò sprezzante il ragazzo, con uno sguardo affilato.
 
 In verità sapeva che stava mentendo spudoratamente, che doveva la vita, ai suoi coetanei. Erano stati il sorprendente conforto che non gli aveva permesso di commettere follie o di cadere preda della febbre, quella notte. Non era in grado di ammetterlo, ma era loro riconoscente; erano la prova che potevano esserci ancora persone per cui valeva la pena fare parte dell’umanità.
            «Immagino che ora andrà a Konoha ad avvertire l’Hokage, la Squadra Speciale…», si preoccupò il ragazzo. Non aveva pensato a quale trattamento gli avrebbe riservato il villaggio, d’ora in avanti, ma aveva deciso di non preoccuparsene, dal momento che non intendeva ancora farci ritorno.
            «No, per noi Konoha non esiste più», dichiarò decisa la giovane. Per la tensione, una ciotola le era sfuggita di mano ed era caduta sul pavimento, frantumandosi in cocci.
            Itachi, d’istinto, l’aiutò a raccoglierli e, quando le loro mani si sfiorarono, non riuscì a trattenere un sorriso.
            «Grazie», mormorò lei, frenando a stento una lacrima.
            «Ti commuove tanto ricevere un piccolo aiuto?», la irrise lui, tornando ad indossare la sua consueta maschera di serietà.
            «No, mi tocca il cuore vedere un Uchiha sorridere», spiegò Hikari, risollevandosi.
            Quella piccola gioia inaspettata, fiorita come un bucaneve in pieno inverno, le riportò il consueto sorriso armonioso sulle labbra. Quella serenità spontanea, genuina, assolutamente fortuita, in quel pantano di tristezza, come per riflesso, contagiò anche l’espressione di Eiji che, nascosto dietro la tenda della porta, aveva osservato la scena. Da quella reazione, pensò che forse c’era un motivo per cui il passato si denominasse così, differenziandolo dal presente e, soprattutto, dal futuro.
            «Chiamami Itachi», quasi la pregò lui, capendo di potersi fidare di quei ragazzi.
 
Per quanto fosse legato al proprio clan, anzi, al mito della propria famiglia, voleva che quei due lo conoscessero per come era realmente, per come avrebbe dovuto essere, per come il suo io più nascosto aveva sempre voluto mostrarsi. Desiderava solo stare al mondo per come lo erano loro, da normale tredicenne, spensierato, scapestrato, insolente, ma assolutamente vivo. Almeno per un giorno, voleva essere Itachi, più di ogni altra cosa. 



Permettetemi di ringraziarvi per il supporto, per la vicinanza, per le preziose parole che mi sanno sempre confortare, DoubleSkin e The Valkiria! E ringrazio anche chi dà una lettura silenziosa alla storia, permettendomi di continuare a immaginare come le cose potrebbero evolvere :D Spero che la storia vi abbia incuriositi!
A presto!! ;) 

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Capitolo 4
*** Un aspide in seno ***


4. Un aspide in seno

 
 
 
Ancora non si rendeva conto di quello che stava succedendo, perché quella situazione era figlia di una scelta improvvisa, un mero colpo di testa. Mai e poi mai l’Itachi che tutti conoscevano e rispettavano avrebbe sprecato un pomeriggio di sole per recarsi al fiume, improvvisandosi pescatore, soprattutto in compagnia di due mezzi sconosciuti. In giornate serene come quella – ma anche tempestose, o imbiancate dalle nevicate più imperterrite, o funestate da turbini ghiacciati – si sarebbe normalmente massacrato di allenamento, cedendo sotto i duri colpi del padre o ribaltando la superbia di qualche compagno della Squadra Speciale.
            Invece era placidamente adagiato sotto un salice, sulla sponda del fiume, con una rudimentale canna da pesca fra le mani, in attesa che qualcosa abboccasse, anche un vecchio scarpone... Tutto, per poter finalmente lasciarsi andare ad una sana risata liberatoria. Aveva un grande desiderio di ridere di gusto, a crepapelle, ma, allo stesso tempo, qualcosa di più grande di lui, dei suoi tredici anni, gli impediva di farlo. Si sarebbe sentito fuori luogo a comportarsi in modo tanto leggero, con ancora una katana insanguinata dietro la schiena. Si sarebbe sentito ancora più sporco e colpevole, se avesse riso senza Sasuke, praticamente l’unico ad avergli mai visto tutti i denti e ad aver ascoltato la vera intonazione della sua voce. Si sarebbe sentito un mostro abominevole, ridendo dopo tutto quello che aveva provocato al fratello. Avrebbe tanto desiderato vivere la spensierata gioia di un pomeriggio fra ragazzi, aveva cento buone ragioni per farlo, ma non gli sarebbe mai stato possibile per una sola, molto più preziosa di tutte le altre.
 
«Hikari, scommettiamo che pescherò più trote di te e Itachi?», esclamò con aria spavalda Eiji, proprio prima di gettare l’amo nel fiume e sedersi accanto all’Uchiha.
           «No, io mi ritiro dalla competizione. Però punto su Itachi», sorrise lei, tenendo conto del potere nascosto di quegli occhi neri.
           Sapeva benissimo come quell’abisso corvino potesse tingersi di una pericolosa tonalità vermiglia, cui non sfuggiva nulla. Aveva già avuto modo di osservare lo sharingan, un tempo, e ne era rimasta sconvolta; per quanto il ricordo fosse lontano, sfuocato, non avrebbe desiderato riviverlo. Inoltre, pur non vivendo nel villaggio, le voci sulla potenza del clan erano giunte alle orecchie di due bambini quali loro erano stati, e lei si era ritrovata sempre terrorizzata nell’apprenderle, ma anche affascinata, in qualche misura. Non aveva mai immaginato che un giorno avrebbe potuto osservare ancora tanto da vicino un esponente della famiglia più temuta di Konoha, un affiliato a quel gruppo che aveva segnato la storia del villaggio – e anche la loro.
           Era perfettamente fedele al fosco ricordo-stereotipo che le si era dipinto in mente: lisci capelli neri, penetranti occhi scuri, pelle diafana, lineamenti tanto affilati quanto armoniosi, un’indole imperscrutabile che trapelava soltanto quando le conveniva mostrarsi. Per quanto le provocasse dolore ricordarsi quale fosse il nome di quel ragazzo, traeva anche una certa felicità dall’averlo affianco, almeno per quella giornata; per poche ore, lei ed Eiji potevano dividere il tempo con una nuova persona… con un amico. Sorrise tristemente, intuendo che nessuno stringe un rapporto d’amicizia nel giro di un giorno, men che meno una persona come Itachi, ma voleva illudersi che lei e suo fratello avessero ancora qualcuno al mondo con cui spartire qualcosa, qualcuno che sapesse della loro esistenza.
           Ripensò a quella sera appena trascorsa, alla pioggia che lo aveva abbattuto, al fango che sembrava volesse inocularglisi fino alle ossa. Lui si era perso, era solo al mondo, proprio come loro. Tornò a fissarlo e si meravigliò nello scoprire un’espressione quasi rilassata sul suo volto, ora molto più simile a quello dei due gemelli: perché non sarebbe potuto essere così per sempre? Cosa gli impediva di mostrare al mondo quel piccolo atomo di felicità? Perché, semplicemente, non si sarebbe potuto fermare con loro e fingere di aver trovato casa? Chiuse gli occhi e, nonostante fosse pieno giorno e nessuna stella cadente solcasse il cielo, desiderò che le loro strade non si dividessero inesorabilmente.
 
            «Ehi, così non vale!», sbraitò Eiji, con una nota di frustrazione. «Hikari, digli qualcosa! Sta usando la sua abilità innata!», protestò in direzione della sorella.
            La ragazzina quasi non scoppiò a ridere, quando si ritrovò davanti agli occhi quello spettacolo: Itachi immerso nel fiume fino alla cintola, con il cesto pieno di trote, mentre cercava di catturare l’ennesimo pesce a mani nude. Aveva accuratamente deciso di non osservare le sue iridi, onde evitare di perdersi ancora in malinconici pensieri.
            «Non sai accettare la sconfitta», commentò sarcastico l’Uchiha, intanto che si avvicinava alla riva, ghermendo una nuova preda e restaurando la naturale sfumatura carbone nello sguardo.
            «Questo si chiama barare», affermò oggettivamente Hikari, contando mentalmente il numero di pesci pescati.
            «Dovresti ringraziarmi: ti ho fatto vincere di nuovo una scommessa».
            Gli occhi blu della giovane brillarono: per un secondo l’aveva visto di nuovo sorridere, ne era certa!
            «Grazie», mormorò profondamente lieta, prima di girarsi verso il gemello: «Dieci a uno. Eiji, devi pagare pegno», urlò lei, su di giri.
 
Itachi si buttò supino sull’erba, sotto il sole. La giornata era incredibilmente mite, i vestiti si sarebbero asciugati rapidamente. Ripensò al suo consueto abbigliamento, alla casacca che la ragazzina aveva provveduto a lavargli: probabilmente, essendo stata stesa al sole, a quell’ora era ormai già pronta per essere indossata. Il pensiero di dover ritornare a mettere quell’indumento, cui era profondamente affezionato, lo turbò leggermente: infilarsi quella maglia avrebbe voluto dire ergere una nuova barriera fra lui e il mondo, prendere nuovamente le distanze da tutti e dire addio a quella breve tregua dai suoi doveri. Il desiderio di lasciarsi andare e partecipare alla pesca aveva vinto sul rimorso, ma sapeva che si sarebbe trattato di una piccola parentesi. Non poteva sfuggire da ciò che era, né intendeva davvero farlo, andando pienamente fiero dei suoi natali, nel bene e nel male. Ad ogni modo, per quelle poche ore avrebbe cercato con tutte le sue forze di aggrapparsi ai suoi tredici anni, a quell’anelito di serenità.
           «Si può sapere in cosa consistano i vostri “pagare pegno”?», domandò con gli occhi chiusi, nel tentativo di occupare il cervello di chiacchiere, e non di pensieri.
           «Qualsiasi cosa che ci passa per la testa. Per lo più faccende domestiche, mansioni pesanti, come recuperare acqua dal pozzo, raccogliere legna, pulire lo sgabuzzino dove lavoro… chi perde, è costretto a saldare la scommessa», spiegò Eiji. Fissò Itachi e anche lui, come la sorella, si meravigliò nello scoprire quella perfetta macchina assassina mostrarsi improvvisamente umana. «Per caso ti va di scommettere qualcosa? Ti avverto che difficilmente perdo…», ridacchiò il ragazzo mentre, inspiegabilmente felice, osservava quell’inaspettata pace sul volto dell’Uchiha.
           «A parte oggi, mi pare. Hai azzeccato solo la mia età, per il resto hai perso due a uno contro Hikari», lo beffeggiò il moro, riaprendo gli occhi.
           «Dettaglio irrilevante, dato che ho all’attivo un centinaio di vittorie su questa perdente», si gloriò il diretto interessato, con un largo sorriso sul viso.
           «Oh vantatati fin tanto che hai fiato! Escogiterò una punizione tanto tremenda che a malapena ti reggerai in piedi, stanne certo!», esclamò Hikari con un sorriso forzatamente malvagio, assestandogli l’ennesima gomitata nel petto. Itachi sorrise, capendo come quell’atteggiamento fosse una montatura, esattamente come la storia del pagare pegno; si vedeva benissimo come entrambi si sostenessero a vicenda, contando l’uno sull’altra.
             Erano totalmente incapaci di ferirsi, di procurarsi gratuito dolore, essendo soli al mondo. Una fitta al petto, più atroce di qualsiasi spasimo che avesse mai provato prima d’allora, lo costrinse a rialzarsi; come poteva sentirsi simile a loro? Come poteva ancora dichiararsi fratello di qualcuno, quando aveva violentemente rovinato la vita di una creatura di soli otto anni? Non era degno di godere di quella spensieratezza e di quei sorrisi.
            Come se qualcosa lo avesse punto, si alzò improvvisamente in piedi, spaventando gli Ando.
            «Stai bene?», chiese Eiji, mentre la sorella si era già avvicinata a Itachi, preoccupata.
            «Devo andare», dichiarò meccanicamente. Traditore, urlava una voce nella sua testa, battendogli forsennatamente sulle terminazioni nervose. Traditore della famiglia, del villaggio, degli affetti.
            «D’accordo, torniamo a casa», acconsentì Hikari, prendendo il cesto con le trote.
            «Devo andare», ripeté il ragazzo, sempre più convinto, mentre quella voce non taceva.
 
La piccola dimora s’intravedeva a malapena, totalmente immersa nel verde dei cespugli e degli alberi. Itachi avrebbe potuto contare sul suo infallibile colpo d’occhio per individuarla subito, ma altri forestieri avrebbero penato parecchio prima di raggiungere quel luogo. O forse no?
            Un uomo guardava nella loro direzione, appoggiato al tronco della quercia che svettava sul lato destro dell’abitazione. Sembrava li stesse aspettando da parecchio tempo, in quella posizione, perché il sorriso che cercava di comporre sul volto assomigliava più a una smorfia di dolore, quando si era staccato dalla pianta. Era un uomo sulla cinquantina, dai crespi capelli brizzolati legati in un codino spettinato, gli occhi grigi e l’abbigliamento trasandato. Un avventuriero, molto probabilmente, come faceva pensare la spada che portava legata alla cintura. Eiji cominciò a sorridere, sfregandosi soddisfatto le mani: erano settimane che non faceva partire la mola e non vedeva l’ora di affilare qualcosa, di osservare le scintille alzarsi nella polvere dello sgabuzzino e respirare quell’odore di ferro, peripezie e coraggio. I polpastrelli gli prudevano per il desiderio di tastare il freddo acciaio e vedervi riflesso il suo sguardo soddisfatto. Per quanto la gente potesse ritenerlo un lavoro di poco conto, lui amava quel mestiere, ci metteva tutto se stesso. Lo amava perché gli ricordava gli istanti più belli della sua breve vita.
            «Cercavo la bottega degli Ando», disse quell’uomo dalla voce rauca.
            «Allora è proprio nel posto giusto! Sono Eiji Ando, come posso aiutarla?», esclamò sorridente, balzando in avanti per raggiungerlo.
            «Portami da tuo padre, devo far affilare una spada».
            Il sorriso gli si spense in un secondo, così come la luce nello sguardo. Le mani avevano smesso di fremere, abbandonandosi lungo i fianchi. «Ecco, lui non c’è», mormorò a capo chino.
            «Si occuperà Eiji, di lei. Non lo dico perché è mio fratello, ma è il miglior arrotino del Paese del Fuoco», dichiarò sicura Hikari, raggiungendo il gemello e posandogli una mano sulla spalla.
           
Itachi poteva solo rimanere al loro fianco ed osservare quanto fosse forte il legame fra i due. Quel semplice contatto sulla spalla era stato in grado di far risollevare la testa al ragazzo, permettendogli di guardare negli occhi quell’uomo. Avevano attraversato sicuramente periodi bui, lo intuiva; avevano affrontato ombre terribili, che ancora stavano minacciosamente alle loro spalle, oscurità che rispondevano al nome di passato. Eppure erano ancora lì, in piedi, l’uno vicino all’altra, e non solo perché erano fratelli, ma perché condividevano un legame.
            Per la seconda volta nel giro di una ventina di minuti, si era sentito pungere il petto da un tremendo aspide chiamato rimorso. Gli occhi gli bruciavano, gli dolevano più di quanto potesse fare l’uso incontrollato dello sharingan. Una lacrima pesantissima gli scese lungo la guancia, scavando nel suo animo una voragine che avrebbe lasciato un segno ben maggiore di quelle che gli Ando nominavano rughe. Non trovava la forza per strapparla violentemente dalla guancia, con un gesto della mano; le nocche erano chiuse, rigide e ciondolanti accanto alle cosce.
           Non capiva ancora quale fosse la sua vera natura, se fosse vittima o carnefice della sua esistenza, né era del tutto sicuro che ci fosse una riposta sicura a quel dilemma. Di una sola cosa era certo: Itachi era debole, soccombeva irrimediabilmente sotto i colpi feroci del nome Uchiha.
           Un impulso rapì i suoi piedi e lo costrinse a voltare le spalle a quella scena, per farlo dirigere nel fitto della foresta. Nessuna luce nei suoi occhi, né intorno a lui, se non quella opaca, macchiata di un rosso ancora troppo fresco, sulla lama della sua katana. 





Mmm... e quest'uomo misterioso? E la nuova fuga d'Itachi? Presto arriveranno delle risposte ;) 
Grazie per le testimonianze d'affetto e la lettura di questa storia :) Mi riempie davvero il cuore di felicità, è la mia prima long sul mondo di Naruto ed ero spaventatissima nello svilupparla... perciò grazie davvero!! :)
A presto!!

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Capitolo 5
*** Più di una lama, meno della morte ***


5. Più di una lama, meno della morte

 
 




Era consapevole che presto o tardi un velo avrebbe per sempre coperto i suoi occhi, ma non immaginava che quel giorno potesse già fare capolino nella sua vita, soprattutto quando la causa non era ancora una malattia dei bulbi oculari, ma un’improvvisa rabbia, che era impetuosamente scesa nel suo cuore come una colata lavica, distruggendo tutto ciò che trovava sul proprio cammino.
          Non sapeva dove quel funesto sentimento lo stesse guidando, non riusciva a controllare le proprie azioni, rinunciava a pensarci. A un certo punto, però, notò che i suoi piedi si erano fermati davanti a un alto faggio, e che la katana che stringeva tra le mani stava ripetutamente affondando fendenti nel robusto tronco dell’albero. Osservò furiosamente quella superficie scalfita, rantolando per la fatica e l’ira, finché non decise di smetterla. Cosa diamine stava facendo? Non aveva forse promesso a se stesso che non avrebbe più sguainato quella lama, se non in casi di estrema necessità? Quello non lo era di certo, e non c’era motivo per comportarsi così.
           Inspirò profondamente e ricacciò la spada nella sua guaina nera. Nemmeno quei colpi sulla corteccia erano stati in grado di scalfire la perfetta affilatura e lucentezza di quell’arma, né tantomeno erano riusciti ad eliminare il sangue ancora rappreso. Non intendeva lavarla o prendersene cura, anzi, era sul punto di abbandonarla lì, per sempre. Aveva scelto di consacrare la propria esistenza alla costruzione della pace, con ogni mezzo possibile, purché rispettoso delle vite umane. Avrebbe fatto di tutto per non ferire più nessuno, e non gl’importava se questo significasse pugnalare se stesso.
           Guardò quell’arma raffinata, elegante, il cui richiamo era pericolosamente seducente per qualsiasi ninja; la osservò con quello sguardo d’addio che prepara la mente a rimuovere per sempre i ricordi, le immagini, legate a un qualsiasi oggetto. Stese la mano verso terra, aprendo lentamente le dita, una dopo l’altra, come una lenta, esasperante carezza di commiato, pronto a far cadere la katana sul manto erboso.
           Quanto sforzo può costare, abbandonare una parte di sé in un luogo sconosciuto, dove non si tornerà mai più indietro? Itachi era sul punto di scoprirlo, se un urlo agghiacciante non avesse fatto irruenza nel suo orecchio, costringendo le dita a cingere nuovamente quella spada, quel fardello pesante.
 
***
 
Hikari stringeva fra le braccia Eiji, privo di sensi. Il respiro affannoso di lei scuoteva entrambi i corpi, ma non sarebbero bastati quei sussulti per ridestarlo; il sonno era pericolosamente più profondo, stavolta.
            «Ti prego, fratellino, svegliati», gli sussurrava all’orecchio, premendogli la testa sul suo cuore, come se i battiti di vita potessero trasmettersi per osmosi.  Sentiva il suo respiro essersi fatto più lento e, pur sapendo che non rischiava la vita, era in preda al panico. Eiji era sempre stato la sua ala protettiva, l’aveva fatta sentire a casa nonostante tutto quello che avessero passato… era la sua famiglia, era sempre stato così. Non vedere le iridi blu del ragazzo, tanto identiche alle sue da potervisi specchiare, in quel momento, era come morire.
            «Questo è ciò che succede agli insolenti che pretendono soldi da chi è al verde», commentò con un sorriso spietato quell’uomo, osservando i gemelli. «E adesso, affinché la lezione sia chiara anche a te, proverò la spada. Voglio proprio vedere se quell’inetto è il miglior arrotino del Paese del Fuoco», affermò in un’agghiacciante risata, che bloccò il sangue nelle vene della Ando.
            Non doveva finire così, la morte non poteva coglierla senza che lei provasse almeno a tenersi stretta la vita. Osservò Eiji, il sorriso che nemmeno quel sonno forzato era riuscito ad estirpargli dal viso. Sorrise di rimando, facendo cadere una lacrima sulla guancia del fratello. Non avrebbe rinunciato a proteggerlo, per quanto fosse gracile. Lo stese per terra, accomodandogli la testa su una fascina di rametti secchi, impugnò una vecchia spada che giaceva impolverata in fondo allo stanzino e guardò negli occhi quell’uomo, affilando lo sguardo come mai aveva fatto prima.
            «Usciamo di qui», ringhiò con una voce improvvisamente adulta.
           
           
***
 
Se le sue gambe prima avevano corso velocemente, ora avevano addirittura raddoppiato la celerità, tanto che i piedi non sembravano toccare terra, con tutto quel chakra che li sospingeva alla casa degli Ando. Itachi aveva distinto chiaramente il timbro di voce di Hikari, in quell’urlo terrorizzato. Non avrebbe mai immaginato che la sua gola potesse emettere suoni diversi da quelli di una risata, e la cosa lo preoccupava terribilmente.
            Quasi gli mancò il fiato quando la scorse fuori dal capanno di Eiji, sola, esile e tremante quanto un giunco, mentre tentava di difendersi con una vecchia spada, malridotta dai colpi che quell’uomo le stava infliggendo. Aveva mirato alla testa della ragazzina, senza alcuna pietà, e lei era riuscita miracolosamente a deviare il fendente con uno sfregamento assai debole della lama. Talmente fiacco che la spada le sfuggì di mano, di fronte alla ferocia del colpo appena sviato.
            «Ah, bel tentativo, mocciosa! Potrei anche risparmiarti la vita, ma voglio sperimentare l’affilatura della mia katana… senza contare che non amo lasciare le faccende in sospeso!», asserì sinistramente l’energumeno, facendo un passo avanti. 
            Hikari si lasciò cadere sulle ginocchia, ormai pronta a fare da fodera a quella lama affilatissima e lucente. Non avrebbe pianto, sarebbero bastate le lacrime che Eiji avrebbe versato sul suo volto, una volta sveglio e messo violentemente davanti a quella scena. Le si spezzò il respiro, immaginando il nuovo dolore che sarebbe gravato sul fratello, l’ennesimo colpo che il destino gli avrebbe assestato. Cosa avevano fatto di tanto orribile per meritare una vita così dura?
           
«Sei un vigliacco della peggior specie ad attaccare una ragazzina disarmata», urlò una voce furente.
            Hikari sgranò gli occhi, sorpresa quanto il suo carnefice. Non lo conosceva che da un giorno, ma avrebbe subito distinto quel timbro basso, pacato da mettere i brividi, fra altri mille. Si era chiesta, in effetti, che fine avesse fatto, ma se anche se la fosse data a gambe, non l’avrebbe potuto biasimare: nessun estraneo e sano di mente si sarebbe mai fermato ad aiutarli, tenendo giustamente alla propria pelle.
            Invece era proprio lì, l’aveva raggiunta, parandosi davanti ai suoi occhi, al suo corpicino inginocchiato, pronto a difenderla.
            «Non è così importante…», aveva mormorato, guardando la sua schiena tesa e preparata all’attacco. I singhiozzi le avevano impedito di terminare la frase. “Non è così importante, la mia vita”, completò mentalmente.
            «E tu chi saresti, ragazzino?», domandò stupito il cinquantenne, squadrandolo dall’alto in basso.
            «Sono quello che ti darà una bella lezione, se non ti sbrighi a levare le tende», gli intimò per niente impaurito.
            Odiava combattere, sperava di non dover provare ancora quel sentimento di disprezzo misto ad adrenalina per un bel po’, ma non poteva lasciare quei due ragazzi indifesi, sentiva l’onere di doverli difendere, proprio come loro avevano fatto con lui. Hikari l’aveva protetto dalla pioggia sferzante, Eiji dal malumore; ora sarebbe stato il momento giusto per poter pagare pegno. Un sorriso fece capolino sul suo volto, pensando a come, pur non avendo scommesso nulla, gli Ando avessero vinto anche su di lui, riuscendo a scoprire la sua natura più nascosta. Sarebbe stato il modo migliore per sdebitarsi.
            «Hikari, prendila tu e allontanati», disse alla ragazza, girandosi velocemente e lanciandole la katana. Non voleva uccidere, avrebbe mantenuto la promessa che aveva stipulato con se stesso pochi minuti prima, davanti al faggio.
            Sentì un fruscìo allontanarsi timidamente, alle sue spalle, e, rincuorato, estrasse dalle tasche alcuni kunai e shuriken che aveva recuperato dal suo armamentario, prima di andare a pesca. Un accorgimento lungimirante, grazie al cielo.
 
L’uomo si scagliò verso l’Uchiha, innervosito da quell’aria di superiorità che il giovane trasudava da tutti i pori. Con quale insolenza poteva credersi migliore di un ninja esperto di campi di battaglia quale lui era? Avrebbe dato ben volentieri una lezione di vita a quei tre mocciosi.
            Itachi bloccò la lama a pochi centimetri dal suo volto, allontanandola con un kunai impugnato saldamente. Lo stridio che quel contatto aveva provocato era nulla in confronto al fastidio che gli suscitò la vista della benda coprifronte del manigoldo, allacciata sotto la spalla. Era del Villaggio della Sabbia, e la lamina di metallo era attraversata da una scheggia orizzontale. Quell’uomo era un traditore, godeva della stessa fama che lo aveva toccato da poche ore.
            Lo guardò negli occhi grigi, così vuoti e putridi da farlo rabbrividire. No, lui non voleva essere quel genere di traditore e, in fondo, sapeva di non esserlo.  L’abominio che aveva compiuto era frutto di un nobile ideale, mentre in fondo a quelle pupille malvagie poteva quasi leggere la scelta individuale e ipocrita di quel ninja, poteva scorgere il suo credo corrotto, totalmente asservito al tornaconto personale, non certamente alla salvezza di terzi. Quell’uomo, nonostante a un osservatore esterno potesse sembrare simile a lui, era quanto di più lontano ci potesse essere da Itachi.
            Il traditore indietreggiò di un passo, riprendendo fiato. Odiava ammetterlo, ma quel ragazzo gli stava dando filo da torcere; probabilmente non aveva nulla in comune con quei due gemelli, era come se fosse di un’altra scuola, tutt’altro livello. Gli era bastato quel colpo di kunai preciso sulla lama per capire che lo scontro fisico non avrebbe dato i risultati ottimistici che aveva immaginato, con lui. Rinfoderò quindi l’arma, osservandolo con un sorrisetto maligno agli angoli della bocca. Voleva il gioco duro? Bene, l’avrebbe ottenuto.
            Itachi notò quella smorfia e capì che ora avrebbe fatto sul serio. Aveva rinunciato a un combattimento ravvicinato, probabilmente puntando su qualche abilità innata da poter usare a distanza. Era il momento giusto per vederci chiaro: chiuse gli occhi per un secondo e, quando li riaprì, poté leggere il nuovo stupore dipinto sul volto dell’avversario, quasi annegato nel rosso sangue del suo sharingan.
            «Oh, non mi dire… un Uchiha», mugugnò, cercando di mantenersi calmo, mentre delle gocce di sudore cominciavano a imperlargli la fronte.
Itachi alzò un sopracciglio, sorridendo soddisfatto al suono di quelle parole: la fama del clan era davvero conosciuta in ogni dove.
            L’uomo, percependo quanto l’orgoglio e il senso di superiorità stessero crescendo nell’animo del ragazzo, tentò di freddarlo, giocandosi la carta dell’insolenza: «Chi ti credi, Madara in persona? Sei un insignificante sputo sulla tela degli Uchiha, moccioso».
             Una nuova rabbia cominciò a ribollire nelle vene di Itachi, quando quelle parole raggiunsero il cervello, quasi incendiandogli i nervi. Voleva davvero prendersi gioco di lui? Eppure, a quell’età, doveva aver imparato cosa succede a scherzare con il fuoco! Non sapeva niente di lui, del clan, di quello che era successo… come poteva azzardarsi ad infangarlo in quel modo?
             Un cieco impulso distruttivo s’impadronì del suo cuore. Si girò verso Hikari, ordinandole di non guardarlo negli occhi fino alla fine dello scontro, anzi, di allontanarsi.
            La ragazza, alla vista di quello sguardo vermiglio, sobbalzò terrorizzata e s’impietrì di colpo. Allontanarsi, aveva detto? Non era in grado di muovere un solo muscolo, dopo aver rivisto quello sharingan. Aveva sperato di non incrociarlo mai più, ma avrebbe dovuto immaginare che il fato non sarebbe mai stato troppo benevolo con lei, ne aveva avuto delle prove ineluttabili. Avrebbe dovuto intuire la probabilità di rivedere quegli occhi nel momento in cui aveva scorto quel ventaglio bianco e rosso sulla schiena di Itachi, la sera prima. Sapeva benissimo che quello sharingan, stavolta, li avrebbe protetti, eppure non si sentiva tranquilla. I ricordi bruciavano nello spazio dietro la mente.
 
“Questo è il solo modo in cui voglio essere pericoloso: più di una lama, ma meno della morte. Non voglio ferire irrimediabilmente, non voglio più uccidere, desidero solo concedere una seconda opportunità a chi mi sfida, concedergli una via per la redenzione, mettendogli davanti le sue più grandi paure”. Aveva deciso che quelle parole sarebbero diventate il suo mantra, il suo nuovo credo ninja. Le scolpì nel proprio cuore, mentre guardava negli occhi quell’uomo e si apprestava a infliggergli una punizione.
            «Luna insanguinata!». L’espressione gli uscì stentorea dalle labbra, fredda e imperiosa quanto una coltellata.
            Hikari aveva chiuso gli occhi, ma poteva benissimo immaginare la scena, grazie alle urla dell’energumeno.
 
 Tutto era durato per un breve, intenso istante. Forse due secondi, a dir tanto, eppure all’uomo sembrarono essere passati giorni, delle decine di ore terribili, in cui i contorni del mondo che conosceva si erano fatti spigolosi, quasi taglienti, e i colori della realtà si erano rovesciati, macchiandogli le pupille di sangue. Era stata l’esperienza più terribile che avesse mai vissuto, persino peggiore della Terza Grande Guerra Ninja. Da quelle battaglie aveva avuto scampo, era potuto fuggire, ma quegli occhi e il loro tormento non aveva potuto evitarli.
              Quando sollevò le palpebre, si trovò accasciato per terra, ancora agonizzante. Davanti a lui scorse rannicchiato quel micidiale ragazzino di stirpe Uchiha. Lo fissava senza lasciar trapelare nessuna emozione, se non un certo disgusto.
             «Se fossi in te, non tornerei più qui», gli consigliò il giovane, risollevandosi. Gli occhi gli si erano tinti della consueta tonalità scura, eppure all’uomo tremava ancora il respiro.
             Appena fu in grado di rialzarsi, il ninja traditore della Sabbia non obiettò nulla, non ci pensò due volte e prese a camminare lentamente, affaticato, nella direzione da cui era giunto, lasciandosi alle spalle quella casa e quei tre ragazzi. Sperava solo di non dover incrociare mai più un Uchiha in vita sua e nemmeno sapeva che, proprio grazie a quel temibile giovane, le possibilità che il fatto si sarebbe avverato erano davvero effimere.
 
Itachi si girò verso il capanno e si meravigliò nel trovare lì Hikari, nel punto esatto in cui l’aveva vista prima di invocare la luna insanguinata.
             Lo fissava con gli occhi persi nel vuoto, stringendo ancora nelle piccole mani pallide la katana. Le sue pupille, probabilmente, stavano contemplando tutt’altre iridi da quelle color carbone che la stavano osservando.
             Le ci sarebbe voluto tempo per assimilare quegli avvenimenti, per capire cosa fosse successo, ma lui sapeva benissimo che non sarebbe più riuscita a guardarlo senza pensare allo sharingan, a sorridergli come in precedenza, e per quanto poche ore prima la cosa non lo toccasse minimamente, ora quel timore non gli dava pace. Aveva perso la fiducia di una persona cui aveva appena salvato la vita, e quella certezza lo feriva crudelmente.
Itachi non disse una parola; non ne trovava più, dentro di lui. Si diresse nello sgabuzzino e sollevò il corpo privo di sensi di Eiji, per poi dirigersi in casa.
             Nonostante la grande paura, lo spavento, il terrore che era corso sulla sua pelle e nelle sue vene come una lama infuocata, Hikari riuscì finalemente a sbattere le palpebre e un senso di riconoscenza riuscì a spronarla per farla entrare nell’abitazione. 



So che vi starete chiedendo perché diavolo Hikari abbia reagito in quel modo... e avete ragione! XD Nel prossimo capitolo scopriremo il motivo ;)
Grazie infinite per aver letto anche questo episodio, aver segnato "Ora è morto" tra le seguite/preferite :') grazie di cuore, perché è il primo mio vero tentativo di scrivere una fan fiction "seria".
Un ringraziamento speciale, doveroso, va a The Valkiria e DoubleSkin... la fortuna di avervi conosciute non riesco ancora a spiegarmela! *-*
A presto, 

Ophelia

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Capitolo 6
*** Ciò che desidero ricordare ***


6. Ciò che desidero ricordare
 

 
 
Non aveva mai amato il silenzio, Eiji Ando, perché lo riteneva una sorta di morte, una terribile quiete che non riusciva a procurargli la pace dei sensi che invece dava agli altri. Persino nei momenti in cui non trovava le parole per parlare, si rifiutava di farsi abbracciare dal silenzio, mettendosi a urlare o sfogando la sua ira con calci e pugni sugli alberi. Si guardò le mani e trovò le sue dita percorrere le cicatrici bianche che quelle risse verso l’assenza di suoni gli avevano procurato, contro le dure cortecce delle piante. Erano ferite guarite da tempo, ma ancora le sentiva sanguinare dentro, in qualche modo.
          «Qualcuno si decide a parlare o devo dare di matto come al solito?», sbottò impaziente, osservando la sorella e l’Uchiha in piedi davanti al suo letto. Chissà da quanto tempo stavano vegliando su di lui, senza nemmeno fiatare. Non era un genio, ne era consapevole, ma aveva facilmente intuito che quel gelo era stato causato da qualcosa di sconvolgente. Dello scontro del pomeriggio ricordava solo le premesse, ma non la conclusione: quel bandito lo aveva violentemente colpito alla tempia con il manico della spada, e lui si era accasciato a terra, tutto qui.
           Guardò Hikari negli occhi e provò una grande rabbia per se stesso. «Non sono riuscito a proteggerti», sussurrò, stringendo le lenzuola e abbassando subito lo sguardo.
          «Eiji!», esclamò lei, con voce tremante, accarezzandogli i pugni chiusi. Non aveva saputo dire altro, non riusciva ad aggiungere parole per farlo sentire meglio, anche se i pensieri non le mancavano. Desiderava che sapesse che lui sarebbe sempre stato il suo eroe, che non aveva nulla di cui rimproverarsi, che teneva alla sua vita più della propria… che si sarebbe sacrificata volentieri, sotto quella katana affilata, per lui.
          «Come ti senti?», domandò Itachi, fissandolo con aria seria. Vederlo privo di sensi l’aveva fatto preoccupare, ma si era subito accertato della minima entità del danno: un piccolo bozzo sulla regione temporale.
          «Va decisamente meglio, ho solo un po’ di mal di testa, ma nulla di grave. La mia capoccia è davvero dura quanto dicono!». Il sorriso gli ricomparve spontaneamente sul volto e riuscì a tranquillizzare i due ragazzi più delle parole.
          «Dovresti riposare», gli consigliò il moro, uscendo dalla stanza.
          I gemelli lo osservarono andarsene in silenzio, poi si lanciarono un’occhiata serena. Dovevano la vita a quel ragazzo misterioso, dal nome funesto. Avrebbero cercato un modo per ringraziarlo, ma l’unico che veniva loro in mente era quello di accoglierlo nella loro “famiglia”, renderlo uno di loro, per tutto il tempo che lui avesse desiderato. Non c’era bisogno di scambiarsi parole, perché era come se i pensieri dei due si fossero trasmessi telepaticamente, con uno sguardo d’intesa.
           «Va’ da lui e chiediglielo, io intanto mi faccio una bella dormita. Dovrò essere in forze per andare a raccogliere un po’ di legna, domani», rise. Sapeva benissimo che Hikari non gli avrebbe permesso di uscire dal letto per almeno una settimana, ma voleva che lei capisse che stava bene, e fare lo spaccone era l’unico modo che conosceva per mostrarle che era l’Eiji di sempre.
            La gemella gli baciò la fronte e chiuse la porta, sospirando. Finché aveva suo fratello, qualsiasi terribile cosa potesse accadere, il mondo non le sarebbe mai crollato addosso, ne era certa.
 
Passando per la cucina, quasi non le venne un colpo nel trovarsi davanti Itachi; pensava che fosse fuori, probabilmente intento a riflettere su questioni che lei non poteva nemmeno lontanamente immaginare. Invece era in piedi davanti al tavolo, con indosso la sua casacca pulita, intento a tirare fuori le trote dalla cesta.
            «Così rischi di sporcarti», lo ammonì timidamente lei, avvicinandosi.
            «In questo modo avrei una scusa per fermarmi un giorno in più», sorrise l’Uchiha.
Hikari spalancò gli occhi, di fronte a quella reazione: non solo era ciò che lei ed Eiji desideravano, ma aveva anche notato come ormai il ragazzo sorridesse spontaneamente, senza farsi troppi problemi, rispetto a prima.
             «Allora ti lascio campo libero», affermò, spostandosi e osservandola pulire il pesce. Aveva una manualità atipica per una ragazzina di tredici anni, e questo lo rattristò. Guardò le sue piccole mani, così infantili, le cui estremità erano paradossalmente rovinate e ruvide. Immaginava da quanto tempo fosse costretta a svolgere mansioni domestiche che avrebbero dovuto essere compiute da un adulto, pensò a quante gioie le erano state negate… in fondo, sotto questa ottica, i gemelli non erano tanto diversi da lui; erano stati costretti a maturare prima del tempo, pur di stare al mondo.
              «Ecco fatto», sorrise lei, dopo aver sciacquato le trote e averle infilzate sugli stecchi. «Sono già le sette, è ora di cucinare. Pensavo che, se a te va bene, potremmo fare una specie di grigliata», propose. L’Uchiha annuì e la seguì verso il retro della casa.
 
La giovane appiccò la fiamma nel piccolo focolare di pietre, poi si accovacciò per terra e prese ad osservare le lingue di fuoco danzare lentamente nel vespero, aspettando che tutta la legna bruciasse, per cuocere il pesce sulla brace.
              «Scusa per la mia reazione», mormorò timidamente, alzando lo sguardo verso l’Uchiha, che sembrava non aver afferrato a cosa si stesse riferendo. «Intendo dire, l’essere rimasta così impressionata da quello che hai fatto… Temo di averti offeso, con quell’atteggiamento. Ti devo la vita, e ti ringrazio anche per esserti occupato di Eiji, davvero. Perdona quegli occhi sbarrati, quel vuoto... non ero io, non volevo che tu mi vedessi così», spiegò imbarazzata, stringendosi le ginocchia al petto.
               Itachi scoppiò in una risata spontanea e incredula. «Mi chiedi scusa, dopo che ti ho terrorizzata a morte?», le chiese.
               «Tu mi hai salvata. Ci hai salvati», si affrettò a precisare, sorridendo.
               «Ho solo riportato in vita un brutto ricordo, invece. Lo capisco dai tuoi occhi, che ancora non riescono a guardare i miei». Nella sua voce c’era una nota di rammarico, l’ennesimo senso di colpa che stava maturando.
              «Non è vero!», quasi gridò lei, avvicinandosi. «Posso condurre le mie pupille ad annegare nelle tue, senza paura», asserì, affondando lo sguardo nel suo.
              Quel contatto visivo così sincero stupì il ragazzo, che si vide costretto ad interromperlo. Non voleva che quei preziosi occhi blu come la notte potessero in qualche modo intorbidirsi, a furia di scrutare i suoi.
             «Ci sono delle cose che non capisco. Cosa ti impediva di muoverti? Da dove nasce la paura per lo sharingan, la diffidenza per gli Uchiha?», domandò qualche minuto dopo, prendendo due trote ed adagiandole sulla griglia che Hikari aveva appoggiato sul braciere. La osservò serrare le labbra, pensierosa. Che domanda idiota! C’era bisogno di sentirsi dire in faccia ciò che la gente urlava da decenni alle spalle degli Uchiha, contro il ventaglio che svettava con arroganza sulle loro maglie? «Non ha importanza, posso immaginarlo. E hai perfettamente ragione; questi sono davvero gli occhi di un mostro», commentò atono, fissando i tizzoni iridescenti.
              «No. Questi sono gli occhi del tuo clan, è vero, ma, prima di tutto, sono gli occhi di Itachi, gli occhi cui devo la vita», lo rassicurò con lo sguardo lucido. Una lacrima tremante insisteva per scendere, ma lei la ricacciò indietro, strizzando le palpebre: non era ancora ora che le stelle cadenti solcassero il cielo dei suoi occhi. «Perciò, affinché tu capisca, ti racconterò cos’è successo nove anni fa.
 
Avevamo intorno ai quattro anni, quando la Terza Grande Guerra Ninja era in procinto di infuriare. Anche tu avevi quell’età e, per quanto piccolo, credo che possa ricordare quanto l’aria di Konoha, in quel periodo, fosse tesa, carica di pessimi auspici. Per il conflitto imminente, si stava scatenando una vera e propria corsa alle armi e i ninja si erano letteralmente fiondati alla bottega di mio padre, l’arrotino Hyobe Ando, nella zona più umile del villaggio.
              Quel giorno, anche io ed Eiji eravamo nel suo laboratorio. Lo osservavamo meravigliati, cercando di contare ogni volta quante scintille potessero scaturire dalla lama di una katana a contatto con la smerigliatrice, ma la velocità con cui queste si alzavano in volo era tanto elevata da lasciarci a bocca aperta. Lo stupore, però, venne estinto dall’arrivo di tre uomini della polizia, esponenti del clan Uchiha. Avevano chiesto a mio padre di uscire dalla bottega, in modo da poter parlare pubblicamente, sotto gli sguardi degli altri abitanti.
              Quelle parole ci strozzarono il respiro. Banditi, esiliati da Konoha, perché una spada si era spezzata durante un combattimento tra un poliziotto e un criminale, provocando il ferimento dell’agente; questi aveva subito riferito che la spada era appena stata ritirata dall’atelier degli Ando, pagata profumatamente per essere rifinita come un rasoio.
               Era vero; anche mio padre ammise che ricordava di un giovane agente passato a riprendersi la katana, ma aggiunse che l’aveva avvertito di quanto la saldatura tra la lama e il manico fosse instabile, consigliandogli di fare un salto dal fabbro per accertarsi della tenuta. Ricordavamo anche noi quella discussione, ma non potevamo essere creduti: avevamo solo quattro anni e una mente facilmente suggestionabile.
               A nulla era valso il tentativo di mio padre di regalare una preziosa katana antica che teneva da anni nel negozio… quella che ho cercato di impugnare oggi, indegnamente. Non c’erano giustificazioni plausibili: gli Ando avevano tramato contro la sicurezza del Villaggio della Foglia, con un attentato diretto alle forze di sicurezza. Gli Ando erano sullo stesso piano dei traditori, pertanto andavano allontanati.
               Mia madre, kunoichi originaria del Villaggio del Vortice, cugina della famosa Kushina, aveva cercato invano di opporsi a quella decisione. Era scesa velocemente in strada, avendo sentito quella discussione dalla finestra della cucina, e aveva tentato di convincere l’ufficiale a non cacciarci. Ricordo ancora il sorriso di quell’uomo, reso ancora più intenso e sinistro dallo sharingan: “Tu sei una kunoichi, Aiko Uzumaki, e pertanto resterai al Villaggio. Konoha non può rinunciare a te, in punto di guerra! La decisione è presa: tuo marito e i vostri figli lasceranno la Foglia, seduta stante. D’altronde sono semplici civili, non rappresentano una perdita per nessuno, qui…”, gli rise beffardo in faccia.
               “Per me sì!”, aveva urlato lei, in lacrime, lanciandosi verso l’uomo, pronta a ferirlo con tutte le sue forze. Gli altri due erano pronti a difenderlo, ma il capo fece loro cenno di non disturbarsi. Lo sharingan gli aveva permesso di contemplare in anticipo le mosse di mia madre, così la bloccò in tempo, assestandole un colpo al collo che le fece perdere i sensi.
                Le mie urla, le lacrime di papà, i singhiozzi di Eiji non riuscirono a ridestarla in tempo per salutarci, prima che il corpo di polizia ci sospingesse con forza verso le porte del Villaggio, con quei pochi bagagli che ci aveva concesso di preparare in fretta e furia. Konoha era rimasta a guardare, nessuno aveva mosso un dito per evitare la nostra cacciata… nessuno. Non eravamo nessuno, come potevamo pretendere che qualcuno si accorgesse di noi?
               Papà, negli anni, costruì questa semplice casa, esercitò la sua professione nello sgabuzzino, insegnò ad Eiji i trucchi del mestiere. È rimasto con noi fino a tre anni fa, quando un bandito l’ha accoltellato perché non aveva soldi per pagarlo. Che ironia! La storia si ripete, ma non insegna nulla. È toccato a noi dargli sepoltura, a dieci anni: Eiji ha scavato la fossa, io ho intrecciato una corona di fiori; un funerale sobrio, con solo due familiari presenti. Era il massimo che potevamo fare, per lui, ma l’abbiamo fatto con il cuore.
               Mamma invece è scomparsa nella Guerra, molto probabilmente lasciandosi uccidere dal nemico, rinunciando a combattere, rifiutandosi di proteggere il Villaggio che non aveva salvaguardato i suoi affetti.
               Se c’è una cosa che mi consola, è pensare che siamo stati tutti inconsapevoli delle nostre sorti, ci siamo trovati dentro i nostri destini senza rendercene conto, in fretta, e non abbiamo potuto fare niente per cambiarli… e forse, questa è stata una fortuna, perché vivendo in un tale angolo di mondo, nella foresta, la guerra non ci ha particolarmente sfiorati, così come l’attacco della Volpe. In qualche modo, per quanto sia stato atroce crescere senza nostra madre, lontano dagli amici, dal villaggio, la nostra disgrazia è stata ciò che ci ha salvati».
               Il ricordo giaceva ancora perfettamente nitido nella sua mente, più limpido di quanto desiderasse, e le lacrime lo confermarono. Non voleva piangere, aveva speso fin troppe giornate a disperarsi, senza risolvere nulla, ma non riusciva a trattenersi, quella sera. Tutto quello che era successo in quelle ventiquattro ore sembrava un piano del destino per farle cambiare idea sulla famiglia Uchiha, grazie a Itachi, e, forse, per farle trovare il coraggio di guardare al futuro con più speranza.
 
«Mi dispiace avervi fatto passare tutto questo… è assurdo», mormorò il ragazzo, pietrificato. Non trovava le parole adatte per descrivere la sensazione di disgusto che provava, né per cercare di lenire le sofferenze di Hikari. Non era mai stato bravo nell’esprimersi, era un suo limite, ma questo non significava che non provasse nulla, anzi, spesso le emozioni che avvertiva riuscivano a sopraffarlo al punto da costringerlo a trattenere il respiro, proprio come in quel frangente.
              «Ma tu non hai fatto nulla», sorrise la ragazzina, asciugandosi gli occhi con un rapido gesto delle mani.
              «Hikari, il capo della polizia, quello che vi ha cacciati dal villaggio… era mio padre», sussurrò lui, guardandola dritto negli occhi.
              La giovane Ando raccolse le ultime due trote dalla griglia e le appoggiò nel piatto, cercando di non smettere di mostrarsi imperturbabile. Quella notizia l’aveva colpita, non avrebbe mai immaginato di trovarsi di fronte al figlio di chi aveva deciso delle loro vite, ma, allo stesso tempo, era fermamente convinta di quello che aveva detto poco prima riguardo alla fortuna di essere scampati a disastri peggiori, grazie all’esilio. Coprì gli ultimi tizzoni ardenti con la cenere, prese il piatto e si alzò in piedi, assolutamente serena.
              «Non hai fatto niente, Itachi. Tu sei nostro amico, ti dobbiamo la vita», lo rassicurò lei, prima di tornare in casa.
              Per quanto volesse precisare che le cose non stavano così, che si sentiva colpevole per tutto quello che era successo, seppur, chiaramente, non lo fosse, si tenne in silenzio e la seguì.
 
In cucina trovarono Eiji, seduto sul divano. Inutile dire come la sorella lo strigliò per essersi alzato dal letto senza aver chiesto aiuto, contro le loro raccomandazioni. Lui sviò i rimproveri con il consueto buonumore, accomodandosi a tavola.
               Anche la cena trascorse tranquilla, ancora più silenziosa del pranzo. Nessuno osava aprire bocca e stavolta gli sguardi erano bassi. Le emozioni che vibravano nell’aria erano più o meno simili: gratitudine, rimorso, senso di condivisione; ma afferrare le parole per esprimersi sembrava essere un peccato mortale, in tutta quella pace.
               Hikari sparecchiò la tavola e si dedicò alla pulizia dei piatti, mentre Eiji si appisolò sul divano, ancora un po’ spossato. Quando terminò quel compito, la ragazza uscì di casa per prendere una boccata d’aria fresca, sperando che si sarebbe rivelata una soluzione per ristorare anche i pensieri, oltre che i polmoni. Qualche istante dopo, anche Itachi la raggiunse, appoggiandosi come lei sul parapetto di legno che proteggeva il modestissimo patio dell’abitazione.
              «Stanotte partirò. Ho abusato fin troppo della vostra ospitalità», affermò deciso, puntando gli occhi nella luna piena.
             «Non è così», si affrettò a smentirlo lei.
             «È così», la interruppe sorridendo, accarezzandosi una manica della casacca. «È tornata come nuova, grazie».
             Hikari non aveva nemmeno sentito quella riconoscenza, perché un dettaglio più importante aveva catturato la sua attenzione.
             «Rifallo, per favore», gli chiese con dei lucciconi negli occhi.
             «Cosa?». Proprio non capiva a cosa stesse alludendo.
             «Sorridi. È questo ciò che desidero ricordare, della nostra giornata: il tuo sorriso», esclamò lei, fremendo.
             Itachi accontentò la sua richiesta, a cuore aperto, spontaneo come nell’atto di respirare. Anche lui voleva chiudere così quella breve parentesi di felicità.
 
La porta si aprì alle loro spalle e sull’uscio comparve Eiji, sbadigliando. Si reggeva perfettamente in piedi da solo, sembrava in ottima forma, nonostante il bernoccolo rosso sulla tempia.
            «Cosa state facendo, qui fuori?», domandò con la voce ancora impastata di sonno.
            Itachi, per tutta risposta, si sfilò la katana e la porse ai fratelli. Nel tardo pomeriggio, prima di tornare a indossare le sue vesti consuete, aveva provveduto a lavarla, cercando di farla tornare immacolata come quando la sua lama era ancora innocente. Avrebbe desiderato tanto che lo stesso si potesse dire anche della sua anima.
            «Ho deciso di vivere per la pace e questa non mi serve più, ve la regalo. Prendetela come un dono per la vostra ospitalità», affermò guardandoli con attenzione, come per scolpire per sempre nella memoria quei volti gioviali che tanto lo avevano sollevato.
            «Ma che dici? Vuoi ripartire… e senza spada?!», esclamò il giovane Ando, stupito.
            «Ti prego, rimani con noi! So che siamo insopportabili, che chiacchieriamo incessantemente, che ci punzecchiamo a vicenda… ma è stato meraviglioso trovarti, Itachi! Non abbiamo mai avuto un amico», lo implorò Hikari, cingendogli l’avambraccio e guardandolo negli occhi.
            «Mi dispiace, ma io non posso essere questo, oggi è stata un’eccezione. Non posso conoscere questi sentimenti di amicizia, non li merito. Sono cresciuto rigidamente per far affidamento solo sui miei sensi, fuggendo le emozioni; questa è la mia regola. Potete chiamarmi insensibile, spietato… non vi posso dar torto, lo sono. Non mi supplicare, Hikari, perché io non ho mai conosciuto la pietà! I tuoi occhi non possono fare nulla per farmi cambiare idea. Vi accorgerete presto di quanto sia stata una fortuna che stanotte un mostro come me se ne sia andato; sentirete parlare di me, purtroppo». Il tono di voce era quasi meccanico, eppure la sua mano aveva tremato nell’allontanare quella della ragazza.  
            «N-non dire stupidaggini! Tu puoi benissimo restare qui con noi, lo sai! Non ci interessa quanto scura possa essere la tua ombra, perché oggi la luce del tuo sorriso è riuscita a vincerla. Ti prego, resta, Itachi! Sai che non ce ne importa nulla di Konoha, del villaggio…», lo pregò in lacrime lei, cominciando a singhiozzare.
            «Non posso obbligarti a restare, ne sono consapevole, ma se lo desideri, ti chiedo anch’io di fermarti con noi. Conoscerti è stato un vero piacere, sembriamo quasi avere una certa sintonia! E poi, non permetterai che Hikari perda tutte le scommesse da qui in avanti!», ridacchiò Eiji, con una luce cristallina nelle iridi.
            «Vi ringrazio, ma ora è morto. Tutto ciò che poteva essere vivo in me, ora è morto. Ha conosciuto la breve luce dei vostri sorrisi, la limpidezza dei vostri occhi, il calore della vostra gioia, ma è appassito definitivamente, perché tutto questo non merita di vivere in me».
 
Itachi si girò rapidamente, decidendo di ignorare i singhiozzi della ragazzina e il silenzioso pianto del fratello. Sulla schiena sentiva il peso di quegli sguardi purissimi, come se le loro lacrime stessero cercando di spezzare l’incantesimo maledetto del ventaglio Uchiha. Impossibile, l’anatema era un marchio congenito, per sempre impresso nel suo cuore, da cui non si sarebbe mai potuto liberare. Nascere in una famiglia tanto prestigiosa, fruire del dono dello sharingan, essere temuto e rispettato, erano benefici che avevano un prezzo, decisamente alto da pagare. Venire al mondo in quel clan significava rinunciare a stringere legami profondi con persone esterne alla cerchia, morire quotidianamente per il glorioso nome della casata. Avrebbe fatto ancora i conti con il suo passato, ma, per quanto lo riguardava, d’ora in avanti avrebbe cercato di pensare solo al futuro, suo e di Sasuke.
            Passare quella giornata con Hikari ed Eiji gli aveva fatto capire ancora di più cosa significasse amare fino al punto di annullarsi e rischiare tutto, per un fratello. Quelle ventiquattro ore travagliate, tanto intense da apparire molto più lunghe, anche se passate inesorabilmente, gli avevano fatto maturare una scelta di cui andava orgoglioso.
           “Comunque andranno le cose, non voglio più i tuoi occhi, anzi, ti donerò i miei, piuttosto, affinché tu continui a vivere, ed io con te. Ti regalerò quel poco di luce che le tenebre non riusciranno ad avvelenare. Sasuke, mi terrò in vita solo per te. Impara ad odiarmi, io non smetterò mai di amarti, otouto”. Era il riflesso delle stelle o erano lacrime, a illuminare i suoi occhi scuri?
            Quella promessa tacita gli penetrò il cuore più di quanto potesse fare una spada.
 
Tredici anni, una katana insanguinata che premeva sulla schiena, che nessuno aveva il coraggio di affondargli nel petto.
           Tredici anni, infiniti spasimi affrontati ed evitati, ma la ferita più dolorosa che avrebbe subìto si chiamava destino; Itachi era solo in attesa del suo fato.
           Tredici anni, e già il sapore della morte ottenebrava i suoi sensi. Non aveva scelto lui cosa farne della sua vita, se mai la sua era stata un’esistenza.




Ecco, questa sarebbe la conclusione ufficiale della storia... ma mi è saltato in mente qualche episodio da aggiungere. Non vi garantisco che sia una brillante idea, mi inquieta un sacco ahahah :D Perciò volevo conoscere la vostra opinione: proseguire o non proseguire? (questo è il dilemma!) XD
Come sempre, grazie davvero di cuore per aver letto e... le mie carissime The Valkiria e DoubleSkin per le preziose parole!! :')
Spero che questa fiction sia stata di vostro gradimento!! ;)

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Capitolo 7
*** Senza alcuna pietà ***


7. Senza alcuna pietà





Erano passati velocemente, quei cinque anni lontani da Konoha e dall’unico legame che ancora lo legava a quel luogo. Le lune nel cielo si erano susseguite rapidamente, mese dopo mese, proprio come quella nei suoi occhi, che tingeva le menti degli avversari di un color sangue indelebile. Era maturato, in quell’arco di tempo. Anzi, no, per niente; lui era sempre stato maturo, un piccolo adulto nel corpo di un bambino. La verità era che era marcito, ecco tutto. Le poche sensazioni che in lui erano rimaste attive, quelle che tentavano di ricordagli che la sua natura era umana, e non infernale, si andavano sempre più degradando, convincendolo del fatto che fosse un mostro.
                 L’aveva rivisto, e il suo cuore aveva conosciuto ancora l’emozione di un brivido, per quanto si fosse sforzato di dimostrarsi il più infastidito possibile. Sasuke era cresciuto, era diventato incredibilmente forte, ma certamente non ancora abbastanza per sfidarlo. Itachi voleva che lo stremasse, che lo vincesse con tutta la potenza del suo odio, senza concedergli pietà per quel peccato che intendeva espiare per mano sua. Avrebbe dovuto aspettare ancora del tempo per incontrare il buio definitivo, ma desiderava morire fin da ora, liberarsi di quella vita malata, proprio come il suo fisico.
                 Mentre con il suo compagno di squadra stava sorvolando la foresta fuori da Konoha, per tornare alla base, un violento colpo di tosse lo obbligò a fermarsi su un ramo. Ecco l’ennesima prova di quanto si sentisse deteriorato.
                 «Itachi… », si preoccupò Kisame, affiancandolo.
                 «Non è niente, sto bene», tagliò corto lui, osservando indifferente quella macchia di sangue che gli aveva imbrattato la mano.
                 Guardò altrove, per non prestare attenzione all’apprensione dell’amico, e lo sguardo cadde verso il basso, spingendolo a ricordare quel luogo. Vi era già stato, ma sembrava essere passata una vita. Un tetto ricoperto di muschio e foglie, quasi invisibile a occhio nudo, non poté sfuggire allo sharingan. Quel posto! L’ultimo luogo in cui si era sentito a casa, seppur per poco. Si sporse quanto più poté, cercando di non perdere l’equilibrio, nel tentativo di cogliere qualche segno di vita proveniente da lì. Sperava di rivedere i loro volti, ancora una volta, anche se una parte di lui si augurava il contrario; d’altronde, era stato lui stesso a voltargli le spalle, cinque anni prima. Non voleva sconvolgere le loro tranquille vite, soprattutto dopo quello che erano stati costretti a subire a causa di suo padre. Non avrebbe mai voluto intorbidire il loro vivere, ma vide una sagoma dai capelli mogano, di schiena, attraverso la finestra della cucina, e nulla poté fare la ragione, se non sottomettersi all’istinto.
                 «Sei sicuro che sia tutto a posto?», lo incalzò il Fantasma del Villaggio della Nebbia, osservandolo incuriosito.
                 «Kisame, raggiungi il rifugio senza di me. Ho una questione in sospeso, qui». Quella frase gli era costata una certa fatica, non era sicuro di voler riaprire quella faccenda, ma ormai il danno era fatto.
                 L’Hoshigaki non mise in discussione quel volere, abituato ad assecondare l’Uchiha. Annuì e si rimise in volo, lasciandoselo alle spalle.
 
Itachi si precipitò a terra con un balzo, e il contatto con quella natura che l’aveva accolto nel peggior momento della sua vita riuscì a farlo rabbrividire. Nemmeno quello che stava vivendo con l’Akatsuki era il miglior frangente della sua esistenza e si chiedeva se far ritorno in quel luogo avrebbe ripetuto l’incanto di farlo sentire vivo.
                Con passo felpato, quasi temendo di commettere un atto violento, si avvicinò alla casa; salì il gradino del patio, con il cuore in gola, e alzò il pugno, pronto a bussare. Nella mente gli tornarono i volti sorridenti dei gemelli, i loro modi di fare irritanti, ma spontanei, le loro paure e speranze. Sicuramente il tempo era passato anche per loro, sarebbero stati diversi, eppure sperò che ad aprirgli la porta ci fossero ancora due tredicenni.
 
***
 
Due colpetti timidi, appena accennati, la fecero alzare faticosamente dal divano. Le girava un po’ la testa e temeva di essersi immaginata quel rumore, ma decise comunque di controllare. Imbracciò una spada e si diresse all’entrata.
            Quando aprì la porta, si trovò davanti un giovane dal mantello solcato da nuvole rosse, che la guardava sorpreso, quasi divertito.
            «Eppure ti ricordavo più accogliente, Hikari», rise.
            La ragazza abbassò lentamente l’arma, percorrendo con lo sguardo i tratti del ragazzo: labbra sottili, inaspettatamente incurvate verso l’alto, occhi scurissimi, carnagione pallida e… quelle erano rughe?
            «I-Itachi Uchiha?», balbettò sottovoce, facendosi sfuggire l’impugnatura della katana. Il moro la osservò con pacatezza, sorridendole, e fu allora che lo riconobbe seriamente; quell’espressione l’aveva impressa nella memoria, sicura che difficilmente l’avrebbe rivista. «Itachi Uchiha!», ripetè, urlando con una voce indebolita dall’emozione, saltandogli d’impeto al collo, infischiandosene dei dolori.
            «Sono proprio io», confermò lui, leggermente imbarazzato.
            «Non sei cambiato di una virgola», constatò lei, allontanandosi per rimirarlo. «Beh, naturalmente facendo eccezione dell’altezza e della muscolatura», precisò.
            «Nemmeno tu, poi tanto», osservò perplesso, notando quanto fosse ancora esile. Sì, era cresciuta di almeno sette centimetri, il viso si era fatto ancora più delicato e dolce, gli occhi erano proprio quelli della famiglia Uzumaki… ma rimaneva uno scricciolo, un esserino che avrebbe potuto prendere il volo da un momento all’altro.
            «Coraggio, entra», lo spronò lei, facendosi da parte. Si chinò a raccogliere la spada, ma l’Uchiha le risparmiò la fatica. La riconobbe subito, al tatto, come se l’impugnatura gli avesse procurato una scarica elettrica, ma decise di riconsegnarla nelle mani della proprietaria; la lama non gli apparteneva più, ad appartenergli erano solo gli squarci che aveva provocato.
 
Hikari si sistemò stancamente sul divano, trattenendo il respiro ad ogni fitta che sentiva pervaderle le ossa e la carne. Strinse i denti, ma cercò di convogliare quella smorfia in un sorriso.
            Nel rivederlo e scorgendo il coprifronte segnato da una scalfittura orizzontale, le erano tornati in mente i racconti che i passanti avevano riferito poco dopo che lui se n’era andato, la strage della famiglia Uchiha, il suo coinvolgimento… ma, più delle voci, del dolore, delle scelte personali che non aveva mai voluto giudicare, alla memoria riaffiorarono quelle ore tanto lontane, trascorse insieme; quei momenti così felici che non voleva fossero rimasti sepolti tanto a lungo. Il ricordo di quell’Itachi era sempre bastato a lei e al fratello per non condannarlo.
            «Dov’è Eiji?», chiese curioso il moro, guardandosi attorno. Non era cambiato quasi nulla, là dentro, nemmeno il divano, che era stato rattoppato in nuovi punti, con delle stoffe di colori diversi.
            «In questo periodo è fuori, è un arrotino ambulante. Ultimamente abbiamo bisogno di più soldi, perciò si sposta di villaggio in villaggio, mentre io sono qui che cerco di sostituirlo, anche se non sarò mai veloce quanto lui. Comunque lo troverai domani pomeriggio, e anche lui sarà felicissimo di rivederti», spiegò la ragazza, ridendo. Quel suono cristallino lo colpì come una pugnalata, una fitta dolcissima e atroce, che non udiva da anni.
            «Purtroppo non posso fermarmi abbastanza per salutarlo, ripartirò tra qualche ora», affermò incupendosi, guardando la sua veste e ripensando agli eventi accaduti pochi momenti prima, al villaggio. Non poteva rischiare di rimanere così vicino alla Foglia, né poteva permettersi che gli Ando corressero il rischio di ritrovarsi ninja e membri dell’ANBU in casa.
            «Immagino che nemmeno stavolta io possa farti cambiare idea, riguardo la tua partenza», sorrise amaramente Hikari, ricordando quell’addio tanto sofferto. Eppure riuscì a scacciare la malinconia, notando che Itachi aveva scelto di farsi rivedere. Non riusciva a crederci, ma era davvero lì, davanti a lei!
            Lui annuì, confermando quella certezza.
           «E passi tanto tempo da sola? Potrebbe essere rischioso», commentò preoccupato, ripensando istintivamente a quello scontro con il nukenin della Sabbia.
            «A dir la verità, non è più successo nessun grave incidente, da quel giorno». Era come se gli avesse letto quel timore negli occhi. «E poi, fino a qualche mese fa, c’era Murai con me», sospirò lievemente.
            «Murai?», domandò sorpreso il giovane.
            «Oh, scusami, tu non l’hai conosciuto. Ecco, per farla breve, lui era arrivato qui due anni fa, dal Villaggio della Luna. Era stato un viaggio lungo, era in pessime condizioni, e così l’abbiamo accolto, ci siamo occupati di lui. Era un civile in fuga dal villaggio, in cerca di fortuna, così Eiji gli aveva proposto di aiutarlo nell’affilatura delle armi, e lui aveva accettato di buon cuore, unendosi a noi. Con il tempo è entrato molto in sintonia con me…». La ragazza si bloccò, arrossendo violentemente, senza capire il motivo per cui il passato fosse riaffiorato sulle sue guance.
            «Vi siete fidanzati?», domandò l’Uchiha, interessato.
            «Oh, non era una cosa ufficiale! Eravamo solo… innamorati. O, almeno, io lo ero, perché poi lui se n’è andato», spiegò, chinando la testa, mentre pronunciava quell’ultima parola.
           «Mi dispiace. Ma perché? Se era innamorato, perché è partito?», domandò, colpito da una curiosità che sapeva di amara tristezza.
           «Semplice, perché sto lentamente morendo», mormorò lei, fissandolo con gli occhi lucidi.
           «Tu… cosa?!», gracchiò il moro, alzandosi di scatto dalla sedia e avvicinandosi al divano.
           «Non è nulla, Itachi, sono malata. È solo la vita, e la morte non è che il compimento del cerchio, non le si può sfuggire. Alcuni muoiono giovani, altri si godono più anni sulla terra, nelle loro gioie o miserie. È una cosa naturale», sorrise lei, con una falsa imperturbabilità che cercava solo di nascondere la rassegnazione.
           «Ma dalle malattie si guarisce», affermò lui, ignorando il resto di quel ragionamento.
           «Non dal cancro, non io».
           Il fiato gli si spezzò, come quello scrigno nascosto tra i polmoni. Anche lui conosceva quella certezza, era segnato dallo stesso destino, ma non si era mai dispiaciuto di doversene andare; morire giovane era una possibilità che aveva accettato nel momento in cui aveva preso in mano il primo kunai, all’accademia, ma, soprattutto, il perire prematuramente era qualcosa che aveva intuito come sicurezza quando era divenuto nukenin. Ma non poteva credere che la stessa sorte stesse toccando a Hikari, a quella ragazza già segnata da disgrazie e stenti… non lo trovava giusto. Strinse i pugni e abbassò il capo, tremando.
            «Ne sei certa?», chiese flebilmente.
            «Sì. Tumore osseo. Non so bene da quanto ne soffro, un anno, forse; all’inizio non davo rilevanza ai dolori, e oggi potrei essere quasi a un ultimo stadio… ma mi sono imposta di non pensarci, di vivere ciò che resta senza accertarmi di nulla, sfruttando il tempo che rimane per accumulare più vite nella mia, arricchendola di tutto ciò che non ho mai fatto». La sua voce era piatta, espressione di una forza d’animo ormai costretta ad accettare il proprio fato.
 
Le ginocchia di Itachi si piegarono sotto il peso di quella verità, mentre lui cercava disperatamente di non credere a una sola parola di quella ragazza, pur sapendo che non era mai stata in grado di mentire, né di atteggiarsi da vittima. La guardò negli occhi e, ancora una volta, quel blu notte lo colpì quanto un colpo allo stomaco. Perché quell’anima serena doveva sacrificarsi a una morte impaziente? Perché rubarle il fiore degli anni? Perché il destino non era stato clemente nemmeno con una persona che aveva patito tanti dolori in soli diciotto anni di vita?
            «C’è qualcosa che posso fare per te?», domandò l’Uchiha, con gli occhi umidi di preoccupazioni troppo gravose.
            Hikari scoppiò a ridere. «L’hai già fatto!». Il ragazzo la guardò stralunato, così lei si impegnò a spiegarsi: «Desideravo rivederti almeno un’altra volta, ed oggi hai bussato alla mia porta. Potrei chiedere di più, da te?», gli sorrise.
            Quelle parole l’avevano spinto a osservarla di nuovo, con cura, come se volesse ricordare ogni tratto di lei. Capelli mogano, lunghi e sparsi sul cuscino, lucidi per quanto non curati da tempo, ormai; pelle più pallida della luna, quasi trasparente sul collo, che metteva in evidenza le vene e le clavicole; mani minute, arrossate sulle nocche, evidente segno di ulteriori fatiche; labbra screpolate, abbandonate da labbra crudeli, incuranti del silenzioso grido d’aiuto che la sua testardaggine non le avrebbe mai permesso di pronunciare.
            «Tu guarirai, è chiaro? Non puoi morire, non succederà», dichiarò deciso Itachi, stringendole la mano.
             Lei gli sorrise, maledicendosi mentalmente per non essere riuscita a trattenere una lacrima, che era scivolata fino al cuscino, tracciando una cometa sul suo zigomo. Per quanto avesse desiderato rivederlo, non avrebbe mai voluto che lui potesse osservare la condizione in cui si trascinava ora. Voleva rimanere impressa nella sua mente per come se la ricordava prima di aver bussato alla porta.
             «Farò del mio meglio, Itachi», promise.
 
Hikari osservò le sue iridi scure e le sovvennero nuovamente i racconti dei clienti della bottega: “Quel mostro li ha sterminati con un colpo d’occhio”, “Non vorrei mai incontrarlo, con quello sharingan”, “La sua anima è dannata, proprio come quel rosso che gli tinge gli occhi”. E sorrise, era più forte di lei.
             «Avevi ragione, abbiamo sentito parlare di te. Ci sono giunte le notizie più terribili e disparate sul tuo conto, su quello che era successo a Konoha… ma io ed Eiji non ci abbiamo mai dato conto. Loro parlavano di un’altra persona, non di te, non del ragazzo che avevamo conosciuto, che ci aveva salvato la vita. Per noi sei rimasto sempre l’Itachi di quel giorno», gli confidò d’istinto.
Il ragazzo sospirò, prendendo una sedia e accomodandosi di fianco a lei. Per quanto quelle parole lo avessero in parte rinfrancato, non era ciò che voleva sentire, perché non era la verità. Lui era un assassino, ecco perché doveva andarsene anche stavolta, trascinando la sua aura nera lontano da quella casa.
                «Vedi questa veste?», le chiese, sospirando e strattonando un lembo della tenuta dell’Akatsuki.
                «Carina», sorrise, sfiorando il tessuto con le nuvole rosse.
                «Nasconde mani ancora più insanguinate di cinque anni fa», rispose lui, gelidamente.
                La osservava di sottecchi, cercando di capire come le fosse suonata quella confessione.
                «Non m’importa. Per quanto mi riguarda, nessuno è innocente, al mondo», affermò la ragazza, spiazzandolo.
                «Sono un criminale, un malvivente, un assassino», quasi urlò, temendo che lei non avesse capito.
                «Tanto meglio, Itachi, perché ti devo chiedere un favore», sussurrò lei, ignorando l’ennesima fitta. Deglutì, tirandosi su con il busto, faticosamente, e cercando il suo sguardo. «Sto per morire, è vero, e credo che questa sia la mia ultima possibilità per provare un’esperienza fisica, prima che le mie ossa si sbriciolino per sempre. Fra le ultime parole che ci avevi rivolto, prima di andartene, avevi detto che non conoscevi pietà. Ecco, Itachi, non provarne per me».
                 Quella richiesta le era costata una fatica non indifferente, senza contare l’imbarazzo che le avvampava sulle guance come una fiamma. Non avrebbe mai voluto chiedere una cosa del genere a quel ragazzo, ma, allo stesso tempo, dopo che Murai se n’era andato, non l’avrebbe potuta domandare a nessun altro, e, in ogni caso, non l’avrebbe richiesta a nessun altro uomo, se non a Itachi.
 
L’Uchiha la guardò sconcertato, non tradendo la preoccupazione e lo stupore, davanti a quella richiesta. Anche se effettivamente conosceva pochissimo Hikari, era certo che non avrebbe mai chiesto quella “cortesia” né a lui, né a nessun altro, se davvero non fosse stata certa della gravità della sua condizione di salute. Sapeva che era una ragazza moralmente integra, ci avrebbe messo la mano sul fuoco… come aveva detto lei prima, voleva solo godersi ogni aspetto della vita, prima della fine. E scrutando il suo sguardo, acceso e spento contemporaneamente, le labbra tremanti, le guance arrossate, aveva avuto la certezza della sua innocenza, dietro una richiesta apparentemente spregiudicata. Aveva diciotto anni e stava per morire, proprio come lui.
            «Itachi, perdonami. Hai ragione, comprendo il tuo disgusto», mormorò lei, abbassando il capo e coprendo il volto ancora impetuosamente roseo da una cascata mogano.
            «Perché me lo stai chiedendo?», domandò il nukenin, ignorando quelle scuse.
            «Non te l’avrei mai chiesto, qualche mese fa. E non te l’avrei chiesto nemmeno oggi, se non fossi certa del mio destino. Avevo una specie di ragazzo, vivevamo felici, mi bastava tenerlo per mano e appoggiare la mia testa sulla sua spalla, quando ero stanca. Non desideravo nulla di più; per quanto la mia vita non fosse perfetta, a me pareva vicina all’esserlo. Poi è arrivata la notizia della malattia e gli ho spezzato il cuore. Ma il tuo non potrei mai ridurlo in pezzi», sussurrò la Ando, tornando a fissarlo negli occhi.
            «Perché non ce l’ho».
            «No, perché tu sei Itachi. Il tuo cuore è già spezzato, proprio come lo è sempre stato il mio».
            L’Uchiha sorrise a malincuore, annuendo. Era vero, sotto quell’ottica, condividevano qualcosa: una voragine nel petto, che nulla avrebbe potuto colmare. Le accarezzò una guancia, tremando insieme a lei, a quel contatto con la scia della lacrima. Non era più abituato a sfiorare la pelle degli altri, di solito si limitava ad attraversarla con punte acuminate o scariche di dolore. Era una sensazione che gli era fortemente mancata, per quanto cercasse di negarlo.
              «Non voglio la tua pietà, amico mio», ripeté la ragazza, lambendo con la sua destra quella mano che stava infondendo calore al suo viso.
             «Avrai me, ma non la mia pietà», sussurrò il moro, avvicinando il proprio volto al suo, fondendo i loro occhi in una medesima sfumatura ombrata.
 
Quel corpo lo aveva sempre spaventato per la sua delicatezza, che lo rendeva più simile al cristallo, che a carne ed ossa. E la temperatura che avvertiva, sotto le labbra, mentre le baciava dolcemente la bocca e le guance, era la stessa di un pezzo di vetro. Soffriva nel constatarlo, ma non per se stesso, bensì per quella ragazza che sembrava essere costituita da brividi e cristallo. Avrebbe fatto di tutto per farla sentire al sicuro, per quanto in suo potere.
            Cercò di stendersi sopra di lei senza opprimerla con il suo peso, mortalmente imbarazzato, ma anche determinato a non volersi dimostrare intimidito. Aveva invano tentato di farle cambiare idea, consigliandole, impacciato, di fare uno scambio di prospettive, permettendole di adagiarsi sopra di lui, in modo che le sue ossa potessero conoscere un minimo di sollievo, in quella morsa d’amore, ma lei aveva rifiutato quella gentilezza. Non voglio la tua pietà, aveva ripetuto nuovamente, tremando come una foglia.
            Aveva lentamente spogliato il suo esile corpo, bottone dopo bottone, fremito dopo fremito, mostrandolo alla luce del sole, così pallido da riflettere il fulgore diurno quasi meglio della luna. La osservò, trattenendo il respiro; era splendida, per quanto fragile, con quei lunghi capelli scuri che le solcavano a tratti la carne, come alghe negli abissi marini. La tredicenne che fu, era ormai stata oscurata da una donna, per quanto Hikari non ne fosse consapevole.
  Lei rabbrividì al contatto del suo petto con l’aria, colpita dal senso di pudore e, istintivamente, aveva cercato di prendere la coperta e sistemarsela addosso, sul punto di fare retro-front, ma Itachi era stato più rapido della trapunta, infondendo a quella pelle diafana un calore sconosciuto e benevolo. Non poteva permettere che quella vecchia stoffa rattoppata e ruvida sfregasse sul corpo delicato della giovane; gli sembrava un peccato maggiore di quello che s’accingeva a compiere.
            «Non avrai la mia carità», le ricordò, sussurrandole all’orecchio.
            Si liberò della veste dell’Akatsuki e della maglietta, adagio, e fu in quel momento che Hikari sospirò sommessamente, abbracciando la sua schiena nuda, lasciando che le lacrime bagnassero il suo volto e la fronte di Itachi, che aveva affondato il naso e le labbra nella sua clavicola pronunciata. Districava i lisci capelli mori, stretti in una coda, mentre fissava il soffitto della stanza. Stava succedendo davvero? L’ennesimo brivido, al contatto di quelle labbra con il suo collo, le confermò che era tutto vero. Sì, stava accadendo.
             Percorse con i polpastrelli screpolati i muscoli dorsali del ragazzo, tracciando il profilo delle sue ossa inarcate, nel tentativo che aveva messo in atto per non comprimerla. Ossa, la sua morte, in quella vita, e la sua rinascita, in quella morte.
            “Non c’è nulla di male, nel voler vivere”, si convinse la ragazza, socchiudendo gli occhi e lasciandosi andare al corso irrefrenabile degli eventi e della natura.
            Sospiri, fremiti, carezze e baci fra corpi perfettamente maturati, ma animi ancora acerbi.
            Era il momento, e non era pronta. Capì che non lo sarebbe mai stata, così come l’aveva intuito l’Uchiha. Non voleva farle del male, per quanto lei gli avesse chiesto espressamente di non cadere vittima della compassione, e stavolta si vide costretto a disobbedirle. Si piegò su di lei, delicatamente, e colse il fiore dei suoi diciotto anni, limitandole la sofferenza allo stretto indispensabile, a quella inevitabile fitta che macchia di un peccato decisamente trascurabile, di fronte alla piena sensazione di vita.
 
Lo chiamavano il dolce morire, e finalmente lei aveva capito il perché di quell’espressione. Se solo il cuore non le stesse battendo all’impazzata e Itachi, seduto sulla sedia, non si fosse trovato al suo fianco, sarebbe stata certa di essere trapassata. Invece era viva, come mai era stata prima d’allora. Il dolore, almeno in quell’istante, riuscì a passare in secondo piano.
            L’imbarazzo corse a tingere le sue gote, ripensando a ciò che era successo. L’ultimo ricordo era quello di un abbraccio tra corpi discinti, una stretta calorosa e innocente, per quanto quell’aggettivo non fosse più adatto a descriverla. Si era addormentata fra le sue braccia, mentre lui vegliava su di lei, perso in mille pensieri.
            «Devo andare», dichiarò deciso il ragazzo, imponendosi di non tornare su quell’argomento.
            «Io… ti ringrazio», riuscì a mormorare Hikari, sul punto di nascondersi sotto la coperta con cui il giovane aveva provveduto a coprirla.
            «Non puoi ringraziarmi per non aver avuto pietà», commentò, disgustato dal modo in cui si era comportato. Si sentiva peggio di quanto si aspettasse, nonostante avesse appena esaudito una richiesta accorata che non aveva in sé traccia di malizia. Si sentiva come se avesse approfittato della sua innocenza, quando così non era.
            «So quanto ti è costato assecondarmi, ecco perché volevo ringraziarti. Non ci vedremo più, quindi spero che riuscirai a cancellare presto la mia pateticità», asserì la ragazza, approfittando in tempo delle spalle che lui le aveva rivolto, per abbottonarsi la blusa e alzarsi stentatamente in piedi.
            «Non sono in grado di dimenticare niente, neanche se volessi. E, decisamente, non intendo dimenticarmi di te», dichiarò l’Uchiha, girandosi di sfuggita.
            Hikari lo abbracciò d’istinto, nascondendo il volto nel suo petto, dentro quella nuvola rossa che si accordava perfettamente alle sue guance. Erano anni che il suo volto non assumeva più quel colorito, e nonostante questo, si ostinava nasconderlo a quegli occhi.
            «Grazie per non esserti dimenticato di noi… di me», sussurrò sorridendo, staccandosi da lui e riportando sulle labbra il suo consueto sorriso tranquillizzante. Ecco la donna che era appena sbocciata, eclissata da un’eterna tredicenne.
            «Salutami Eiji», le sorrise di rimando, uscendo dalla porta e avviandosi verso il rifugio.
 
Hikari l’osservò fin quando la vista e la celerità del giovane glielo consentirono. Saltava di ramo in ramo con un impeto disumano, lasciandosi alle spalle una casa abbracciata dal crepuscolo, e un cuore attraversato da palpitazioni che, in quanto a calore, non avevano nulla da invidiare al centro dell’universo.
            Sorrise, restando affacciata alla finestra finché il cielo non imbrunì, sperando che la sua morte potesse essere dolce quanto quella che le aveva appena permesso di apprezzare maggiormente la vita.
            Il medesimo sentimento percorse il petto di Itachi. Una ragione in più per vivere, ma, certamente, non sufficiente per non morire.






Non ci credo, siete davvero riusciti a leggere fino in fondo?? Vi prego, non uccidetemi! XD  Quest'idea è nata quasi per caso, immaginando cosa sarebbe potuto succedere se i ragazzi si fossero rincontrati, anni dopo quell'addio. Non volevo che fosse davvero un addio, in fondo :) 
Spero non abbia urtato la sensibilità e lo stomaco di nessuno ahah :D 
Ho in mente di proseguire, aggiungendo almeno un altro capitolo, ma prima fatemi sapere cosa ne pensate... in caso faccia tanto schifo, chiuderei qui, scusandomi con voi e con Itachi :) 
A presto, grazie mille per la vostra lettura!!

Ophelia

 

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Capitolo 8
*** Un modo per dirsi addio ***


8. Un modo per dirsi addio
 

 
 
L’appuntamento con il destino era vicino, ne era certo. Era scampato diverse volte alla morte, ma adesso aveva deciso che era il momento giusto per chiudere il sipario su quella triste esistenza, a ventun anni. Eppure, prima di affrontare Sasuke, sentiva la necessità di visitare un luogo, delle persone. Lo doveva loro, in fondo.
            Aveva chiesto - ancora una volta - al fedele Kisame di non seguirlo e di non preoccuparsi se avesse tardato, dicendogli che aveva una faccenda di cui occuparsi prima di incontrare suo fratello. L’Hoshigaki si era turbato al suono di quelle parole: come poteva essere sicuro che Sasuke si sarebbe presentato a sfidarlo di lì a poco? E, per quanto Itachi fosse potente, come poteva tenergli testa, in quello stato di salute? Il moro aveva dribblato quelle domande con un'alzata di spalle, minimizzando poi la gravità della malattia. «Sto bene, non farti venire dei patemi per me», l’aveva schernito, prima di mettersi in marcia. 
            Saltava rapidamente di ramo in ramo, fermandosi solo quando si sentiva fiaccato da un peso al petto e un colpo di tosse sanguigna lo obbligava a piegarsi e sputare. Odiava quel sapore in gola, ma lo confortò il pensiero che avrebbe dovuto sopportarlo ancora per poco, seppur in dosi massicce.
           
Riconobbe il posto, ancora intatto, proprio come l’aveva sempre ricordato. Come di consueto, aveva esitato alla vista della casa: fermarsi sul serio? Sarebbe stata una buona idea? Ma, soprattutto, avrebbe trovato qualcuno, là dentro? Gli sovvenne Hikari, malata e indebolita; era ancora viva? Ed Eiji… lo avrebbe riconosciuto, acciecato dal dolore dell’eventuale scomparsa della sorella? Chiuse gli occhi e strinse i pugni, cercando la risposta a quelle domande.
            Doveva fermarsi. Qualsiasi fosse stata la notizia da apprendere, in quelle mura, voleva rivedere gli Ando, anche solo uno dei due. Rabbrividì al pensiero di un gemello privato dell’altro, ma si ricordò della promessa di Hikari, del suo strenuo tentativo di far appello a tutte le forze rimanenti per guarire.
 Sì, doveva fermarsi. Sarebbe stata l’ultima volta, lo sapeva. Anche le sue ossa dovevano averlo capito, perché a stento lo reggevano, sotto quel fardello di preoccupazione. Anche i suoi occhi ne erano a conoscenza, perché la vista – quella minima che gli rimaneva, per scorgere sagome e colori sfuocati – gli si era appannata di fronte a quella scena.
 
Una ragazza dagli inequivocabili capelli color mogano si stava allontanando di casa, con una corona di fiori stretta al petto, il capo chino. Indossava una lunga veste bianca, che la faceva apparire un fantasma, e il vento che la sferzava metteva in mostra un fisico inaspettatamente più florido, ancora piuttosto magro, ma sicuramente non preoccupante. Non come l’ultima volta che l’aveva visto, almeno.
            Il ricordo del suo corpo nudo, in quel raggio di sole che filtrava dalla finestra, il contatto con la pelle fredda e le ossa appuntite lo fecero tremare. Erano passati altri tre anni, da allora, ed Hikari era diventata una splendida donna, sembrava aver preso qualche chilogrammo, e la sua seraficità ne aveva guadagnato. Sperò che non fosse più una ragazzina indifesa, ma qualcosa lo fece precipitare nello sconforto. Nonostante fosse cresciuta, rimaneva inerme al mondo.
            L’aveva seguita fra i rami degli alberi e aveva benedetto il fruscìo del vento che era riuscito a camuffare lo scalpitio dei suoi passi sul legno. Ma quando lei si era fermata davanti a due rocce squadrate e aveva posto la ghirlanda davanti a una di esse, il suo cuore aveva perso un battito.
            La osservò chinarsi davanti alla lapide, raccogliendosi in una silenziosa preghiera, finché un singhiozzo non le era sfuggito dalle labbra e aveva spezzato quella mistica quiete.
           «Mi manchi», aveva mormorato, mentre le spalle le tremavano. Non era riuscita ad aggiungere altro, affondando le mani nell’erba e strappando qualche ciuffo; si sentiva totalmente imbelle di fronte a quel dolore, e così anche il ragazzo, che la osservava qualche metro più in alto.
            Il viso della giovane era percorso da lacrime trasparenti, ma pesanti quanto macigni; il petto si alzava e abbassava ad un ritmo serrato, mentre le mani tentavano inutilmente di estirpare tutto quel verde che la circondava e che le ricordava che erano passati già più di due anni da quando l’aveva perso. In quell’arco di tempo, la terra smossa si era coperta di erba e fiori, ma la metà esatta del suo cuore era appassita.
            Itachi provò una fitta al petto, mentre assisteva a quello spettacolo tragico. Aveva sperato con tutte le proprie forze di ritrovarsi davanti Hikari, ma certamente non in quel modo angosciante. Vederla in quello stato non era tanto diverso dall’averla immaginata fredda, immobile, preda del nulla eterno.
 
Una forza misteriosa, che aveva creduto di aver seppellito da tempo in qualche angolo ancora illuminato della sua anima, l’aveva spinto a balzare giù dall’albero. Con passo silenzioso si avvicinò alla figura ancora piegata, trattenendo il respiro e sforzandosi di non fare troppo rumore. Non voleva che si accorgesse di lui, aveva quasi paura di rivedere chiaramente il suo viso, le sue lacrime. L’impavido Itachi Uchiha, pronto a fronteggiare persino il proprio destino, inaspettatamente intimorito da una ragazza affranta, ormai lontana dalla morte, per quanto essa l’avesse sfiorata crudelmente diverse volte.
            Si fermò almeno cinque passi dietro di lei, quel tanto che bastasse a leggere i nomi sulle lapidi.
           Qui riposa l’onesta persona di Hyobe Ando, insieme all’anima dell’amata Aiko Uzumaki, recitavano gli ideogrammi della tomba più vecchia, ricoperta da qualche accenno di muschio. Itachi provò un brivido di rabbia e malinconia, leggendo quei nomi; non trovava il coraggio per volgere lo sguardo sull’altra pietra, quella più giovane, davanti cui Hikari era crollata. Temeva che il suo pensiero avesse già scorto il nome inciso sulla roccia, involontariamente. Eppure, la speranza lo spinse a convogliare gli occhi sulla lapide. Speranza trafitta da una certezza spietata, per quanto preannunciata.
           Trova riposo in questo giaciglio, l’eroe Eiji Ando, che donò la sua vita per salvarne due. Il tempo non cancellerà la tua luce, né il nostro amore.
           Le gambe dell’Uchiha tremarono di fronte a quell’encomio, e lui si vide costretto a cedere sulle ginocchia. Non poté evitare che il tonfo giungesse alle orecchie di Hikari, che si girò spaventata.
 
Se non fosse stata inginocchiata, di sicuro sarebbe caduta a terra, proprio come quel ragazzo che nascondeva il viso, piegando il mento fino a toccare il torace. Stavolta lo riconobbe subito, pur non guardandolo in volto; come poter dimenticare quel mantello?
            «Che ci fai qui?», chiese incredula, mentre le sue pupille tremavano.
            Il ragazzo alzò il capo, spiazzato da quella domanda. Esisteva una risposta adatta? Anche se ci fosse stata, non sarebbe stato in grado di pronunciarla, perché la sua lingua era paralizzata. Gli occhi erano fissi in quelli blu di Hikari, mentre il cuore si rammaricava di non poterla vedere pienamente, a causa della vista consumata dallo sharingan.
            «Pensavo che non ti avrei mai più rivisto», mormorò la ragazza, avvicinandoglisi a carponi, perdendo improvvisamente il coraggio di guardarlo in faccia e chinando lo sguardo sull’erba. Quando nella sua visuale entrarono le ginocchia di Itachi, rialzò il volto. «Non c’è due senza tre, proprio vero», commentò, abbozzando un timido sorriso. Non era spontaneo, non era più stata in grado di ridere, da due anni a quella parte. Nemmeno nel giorno più importante della sua vita, un vero sorriso aveva solcato il suo volto.
            Non trovava ancora le parole per confortarla, non ne esistevano, probabilmente. Aveva perso tutta la sua famiglia, proprio come lui, anche se in modi non paragonabili. Eiji era tutto quello che le era rimasto, e adesso era stata privata anche di lui… consolarla era quasi rigirare il coltello nella ferita, proprio non ci riusciva. Fissare quegli occhi limpidi, trasparenti e ancora lucidi per le lacrime fresche, lo gettava nello sconforto più totale.
            «Sono felice che tu sia qui, Itachi». Non stava mentendo, per quanto la gioia non sprizzasse in modo evidente, dalle sue labbra.
            Il ragazzo l’abbracciò d’istinto. Tenerla fra le braccia, costruire con quella carne corrotta una gabbia intorno al suo corpo, era l’unico modo che trovava per farla sentire al sicuro, ancora preziosa per qualcuno. Nascose il viso nei suoi capelli lisci, ancora più lunghi di tre anni prima, e sentire quel profumo lieve di erbe di campo, in quel mare mogano, lo fece viaggiare nel passato. Fra fughe e ritorni, la conosceva da otto anni, e lei era l’unica, in quell’arco di tempo, ad averlo mai compreso sul serio.
            «Mi dispiace», sussurrò al suo orecchio, con il fiato corto. «Non sono nemmeno riuscito a rivederlo, quella volta… ancora non posso crederci! Eiji…». Non riusciva a continuare, gli mancavano il fiato e i pensieri.
             «In questo momento, stai abbracciando anche lui», sussurrò Hikari, immergendo il viso nell’incavo del suo collo e aggrappandosi con forza alla sua schiena, respirando avidamente il profumo di quei capelli scuri, ancora legati in una coda, che le sue dita districavano delicatamente. Era reale, adesso ne aveva la certezza, e farsi stringere da quelle braccia la catapultava nel dolore più innocuo che avesse dovuto subire, quello intenso, ma semplicemente fisico. Impossibile non pensare a quel giorno, al divano, alla luce del sole oscurata dal fascino di Itachi, al dolore di un sigillo spezzato per entrare nel mondo degli adulti, a quelle gocce di sangue che avevano macchiato la stoffa e l’anima… quel giorno, il primo e ultimo in cui si era sentita completamente viva.
             Il ragazzo allentò la morsa per poterla guardare negli occhi. Sentiva il bisogno di rivederla chiaramente, sperava di farcela senza dover ricorrere all’uso dell’abilità innata, ricordando quanto essa la spaventasse. Quella poca luce in fondo alle pupille gli permise di osservare come il suo aspetto fosse più sano, ora.
            «Sei bella», commentò obiettivamente, dopo qualche minuto. Non aveva incespicato, né aveva evitato il suo sguardo, nel dirlo. Lo pensava davvero e non trovava nulla di imbarazzante nel confessare la verità.
            «Ti va di prendere una tazza di thè?», chiese lei, quasi ignorando quell’affermazione. Non aveva mai dato peso a come gli altri la vedevano, occupata com’era ad avere lei una visione chiara di se stessa. Certo, in fondo al cuore le faceva piacere che Itachi la trovasse meglio di tre anni prima, ma se pensava al prezzo pagato, avrebbe preferito marcire come le sue ossa.
 
Si alzarono insieme e l’Uchiha si stupì nell’osservare quanto fosse più agile dell’ultima volta; nessuna smorfia di dolore da trattenere, né gemito da sopprimere. Sembrava essersi ripresa splendidamente, e questo lo riuscì a sollevare.
              «Ho sentito parlare di voi e di queste vesti… Akatsuki, giusto?», domandò Hikari, mentre fissava il sentiero snodarsi ai loro piedi, verso casa.
              «Te lo dicevo che ero deplorevole».
              Per tutta risposta, Hikari scrollò le spalle. Non era in grado di giudicare la condotta delle altre persone, figuriamoci di Itachi! Per lei rimaneva uno dei migliori individui mai incontrati, con tutti i suoi misteri e ombre inquietanti alle spalle.
              «È stata una scelta obbligata, una volta divenuto nukenin», aggiunse atono.
              «Ti ammiro», esclamò d’un tratto lei.
              «Ammirarmi? Per cosa? Essere divenuto un criminale in odio al proprio villaggio?», sbottò incredulo, arrestandosi.
              «Questo passa in secondo piano, proprio come il tuo cognome, Uchiha. Tu sei solamente Itachi, per me. Ed io ti ammiro per questo: essere rimasto fedele a te stesso. Dentro di te, vive ancora ciò che sei! Per quanto male tu possa aver arrecato e dolore abbia dovuto sopportare, non hai permesso che il rancore avvelenasse il tuo animo, hai conservato la tua natura, forse con la speranza che qualcuno se ne accorgesse… e non voglio peccare di presunzione, ma penso di conoscerti tanto da poter dire che il vero Itachi viene a galla solo in questo bosco. Non penso che tu sia un assassino, non l’ho mai potuto credere… e vorrei che anche altre persone potessero rendersene conto».
             «Nessuno ci crederebbe, ed è un bene», tagliò corto lui, riprendendo a camminare. Come poteva averlo letto dentro?
             Hikari lo raggiunse, bloccandolo per un braccio. «Tu sei una splendida persona, non sei mai riuscito a detestare nessuno! Me ne sono resa conto quel giorno, quando non hai ucciso il traditore del Villaggio della Sabbia. Gli avrei dato fuoco, se fossi riuscita a muovere un minimo muscolo! L’avrei ridotto a brandelli, se la spada non fosse pesata così gravemente fra le mani!  Io cado vittima delle emozioni, della rabbia, dell’odio… ma non riesco a fare assolutamente nulla, non trasformo le sensazioni in fatti! Sono inerme, totalmente inutile… ecco perché ti ammiro, vorrei essere come te, possedere la tua forza», asserì con gli occhi lucidi.
             «Erano sentimenti giustificabili, aveva ferito tuo fratello! Sei una brava ragazza, Hikari, cosa vai dicendo?». Come poteva invidiarlo? Davvero non si rendeva conto di quanto il male del mondo l’avesse corrotto?
             «Non lo sono, per niente. C’è una cosa che non riuscirò mai a perdonarmi: sono arrivata a odiare un dono divino».
 
La struttura della casa era identica a tre anni prima, se non qualche dettaglio aggiunto fra gli alberi che la circondavano, come un’altalena e un’amaca, o una sedia a dondolo sul patio.
            Oh, sì, e due grandi occhi neri che li fissavano curiosi, sulla soglia d’ingresso.
            Quelle iridi scure stavano aspettando impazienti quelle blu della ragazza, mentre le mani torturavano i calzini azzurri, indecise se tendersi verso Hikari o continuare a sfilacciare quel filamento di cotone lungo l’elastico, attaccato al polpaccio. Probabilmente a trattenere i suoi passi, che volevano spingersi verso la giovane, era stata quella figura alta al suo fianco, avvolta in quel curioso manto scuro a nuvole rosse.
            Si alzò lentamente in piedi, aprendo la bocca, improvvisamente intimidita dall’emettere qualsiasi suono. Osservò il sorriso di Hikari e, come uno specchio, rifletté quell’espressione sul suo volto. Da quanto non la vedeva così serena? Così naturalmente felice, senza alcuno sforzo per rendere più tranquilli gli altri, nascondendo un dolore nel cuore? Forse era la prima volta, ma sperava davvero che non si fosse trattata dell’ultima.
            L’istinto prese il sopravvento, non poteva curarsene dell’imbarazzo suscitato dall’estraneo. Doveva abbracciarla, doveva assicurarsi che non si trattasse dell’ennesimo sogno. Cominciò a correre, fino a sbattere il suo naso e il suo sorriso nelle ginocchia di Hikari.
            «Mamma, finalmente!», rise la bambina.
 
La giovane donna le accarezzò i lunghi capelli neri, così lisci e lucenti da procurarle sempre una fitta al cuore. I suoi polpastrelli avevano appena sfiorato un’altra chioma del genere, ma mai il suo animo aveva immaginato che potesse vederli insieme, così vicini. L’aveva sperato a lungo, ma non reputava da tempo la speranza come un’attitudine degna di nota.
            «Sono a casa, Eijiko», mormorò con la voce spezzata, prendendola in braccio.
            La bambina nascose il volto nell’incavo del collo della madre, protetta da una coltre color mogano che timidamente le sue piccole dita aprivano per fissare quell’uomo misterioso, ma, ritrovando i suoi occhi fissi su di lei, incapace di parlare o battere ciglio, lei abbassava quella tenda di capelli che li divideva. Moriva dalla voglia di chiedere chi fosse e cosa ci facesse lì, ma qualcosa le diceva che non avrebbe mai ottenuto risposte soddisfacenti da quel ragazzo.
            «È tua figlia?», gracchiò l’Uchiha, dopo una pausa di silenzio troppo lunga. Hikari annuì, stringendola di più a sé. «Quanto ha?».
            «Due anni e quattro mesi», rispose prontamente la diretta interessata, sporgendosi per guardarlo meglio.
           
Il moro si bloccò sulla soglia di casa Ando, mentre la bambina era corsa dentro, riversando tutta la sua allegria su delle bambole di pezza abbandonate sul pavimento della cucina.
            Due anni e quattro mesi, aveva detto. Non ci voleva un matematico per capire che la sua età era perfettamente simmetrica al tempo trascorso da quell’ultimo incontro, sommando agli anni della bambina i nove mesi che aveva trascorso nel grembo materno. Così come non ci voleva un accurato pittore per cogliere quanto quelle sfumature scure degli occhi e dei capelli fossero simili alle sue, chiaro segno di appartenenza al ceppo Uchiha.
            Le gambe gli tremarono e si vide costretto ad appoggiarsi allo stipite della porta, socchiudendo gli occhi.
           «È la tua goccia d’acqua, Itachi», commentò Hikari, intuendo cosa avesse turbato l’Uchiha.
           «È una bambina sana e sembra davvero molto sveglia», mormorò il ragazzo, risollevandosi.
           «È la luce dei miei giorni, l’unico motivo per cui sono ancora al mondo. L’ho capito solo quando l’ho vista per la prima volta, e mi dispiace non averla amata degnamente fin dal primo battito del suo cuore». Un singhiozzo la fece trasalire e si affrettò a cancellare le lacrime dai suoi occhi. Sorrise, cercando di mantenere quell’espressione che un tempo era il suo marchio di fabbrica, spazzando via quell’umore malinconico. «Andiamo, ti avevo promesso una tazza di thè», rise, precedendolo nell’entrare.
 
Con grande sorpresa, la cucina era diversa dall’ultima volta in cui vi aveva acceduto: il divano era stato sostituito da un modello nuovo, seppur ancora modesto, così come il fornello. Non sapeva perché, ma quella scoperta spezzò qualcosa nel petto di Itachi. Troppi cambiamenti e così poco tempo per comprenderli!
            «Il vecchio ammasso di rattoppi non c’è più… mi ci ero quasi affezionato», scherzò a malincuore il ragazzo, togliendosi il mantello e sedendosi al tavolo.
            «Non potevo più tenerlo, Eijiko l’aveva praticamente demolito. Sembra una bambina angelica, ma detiene una forza incredibile», rise Hikari, mettendo il bollitore sul fuoco.
            Itachi osservava la bambina giocare con le bambole, seduta sulle assi di legno del pavimento, a mezzo metro da lui. Era una creatura incantevole, con quei grandi occhi scuri dal taglio delle madre e la pelle candida, come di porcellana. Sembrava non accorgersi di essere il fulcro dei pensieri di quei due giovani improvvisamente adulti… di quegli ex tredicenni che erano i suoi genitori. Gli mancò il respiro, al pensiero di essere diventato padre di qualcuno. Era davvero possibile? Ma, soprattutto, come poteva essere così tremendo, il destino? Presentargli l’unico motivo per cui tenersi stretto alla vita poco prima di dover per forza soccombere…
            «Per fortuna non ha ereditato questi solchi», sorrise il giovane, accarezzando quei segni caratteristici sul suo viso, senza smettere di osservare la piccola. «Ha un bellissimo nome. Eiji sarà stato pazzo di lei, quando è nata», affermò, tornando a guardare Hikari.
            «Eiji non l’ha mai vista», dichiarò tristamente la giovane.
            Il fischio sempre più insistente del bollitore scandiva il trascorrere dei secondi, ma i due ventunenni sembravano essere diventati improvvisamente sordi.
            «Mamma!», urlò la bambina, spaventata da quel rumore, indicandole il fornello.
            Hikari si affrettò a spegnere il fuoco e a versare l’acqua nelle tazze.
 
Il vapore si alzava lento verso il soffitto, separando gli sguardi dei ragazzi. Il thè era bollente, ci sarebbero voluti alcuni minuti perché raggiungesse la temperatura adatta a sorseggiarlo; tempo che doveva essere colmato da risposte.
            «L’hai chiamata così in sua memoria?».
            «Sì. Entrambe dobbiamo la vita ad Eiji. Quando ero agli ultimi mesi della gravidanza, la mia condizione di salute era drasticamente peggiorata… non mi rimanevano ossa sane, se non lo sterno e il bacino. Non potevo reggermi in piedi, la colonna vertebrale era spezzata, così come gli arti inferiori e le braccia. Sono convinta del fatto che sia stato solo merito della presenza di Eijiko se non mi si era sfondata anche la cassa toracica e, di conseguenza, gli organi interni.
Eiji era disperato, aveva rinunciato a lavorare per passare il tempo al mio capezzale, pronto a soddisfare tutte le mie ultime richieste. Inutile dire che aveva contattato tutti i medici di nostra conoscenza, spingendosi in diversi villaggi, ma nessun tentativo era andato a segno. Rimaneva solo la Foglia, con il suo Hokage esperto delle arti mediche. Mi ero fermamente opposta a questa possibilità: non intendevo ritornare a Konoha, mi ero decisa a non rimettervi più piede. Ma Eiji era testardo!», scoppiò a ridere, mentre una lacrima le rigava la guancia, fissando il paesaggio oltre la finestra. «Si era messo in testa che doveva salvarci, proteggere me e il bambino. “Scommettiamo che tornerai a Konoha, invece?”, aveva azzardato una sera. Prontamente avevo ribadito la mia posizione, ma il giorno dopo mi ero svegliata sul letto di un ospedale. Al mio fianco c’era Eiji, sorridente e, dietro di lui, la signorina Tsunade, che ci osservava con una velata tristezza negli occhi. Ricordo ancora le ultime parole di mio fratello: “Sarò sempre con te, in questo modo”». Hikari abbassò il capo, nascondendo il viso nel vapore e fra i capelli. Il capo e le spalle tremavano; Itachi comprese che il ricordo era una ferita che niente avrebbe potuto rimarginare.
«Mi ha donato le sue ossa, rinunciando alla sua vita per salvarne due… e io, in quel momento non ho potuto che detestare me stessa e la creatura che avevo in grembo. Mi sento ancora uno schifo per aver odiato la cosa più preziosa che ho, non rendendomi conto che in lei vive anche Eiji… e anche tu». Aveva incontrato i suoi occhi neri, in quell’ultima affermazione, ed aveva sorriso, risollevando il capo.
            «Eiji è stato un vero eroe, ed è ancora con voi. Guardandoti lo vedo ancora, riesco a sentire la sua voce, la sua risata… e mi sento di dovergli parte della mia vita, una porzione di quella parte di esistenza che posso davvero chiamare vita, proprio come la devo a te», confessò l’Uchiha, ghermendo la tazza. «Ti sei fermata molto a Konoha?», chiese qualche minuto dopo.
            «Sono rimasta un paio di mesi all’ospedale, il tempo necessario perché Eijiko venisse alla luce in un luogo sicuro; l’ho fatto solo per lei. Quando sono stata in grado di rimettermi, sono tornata qui, senza ascoltare l’insistenza dell’Hokage perché mi fermassi al Villaggio. Ho rilevato l’attività di famiglia, cercando di specializzarmi nell’affilatura quanto mio fratello, e gli affari sono andati meglio del previsto. Ci possiamo permettere una vita abbastanza dignitosa, senza contare che la foresta ci dona tutto ciò di cui abbiamo bisogno».
            «Quindi non tornerai al villaggio?», domandò Itachi, con una punta di tristezza.
            Hikari sospirò profondamente, osservando la testolina della figlia.
            «Forse, anzi, quasi certamente. Voglio che Eijiko sfrutti le sue potenzialità, non desidero che sprechi la sua vita qui, in mezzo al nulla. Discende da un membro della famiglia Uzumaki e da un Uchiha, sarebbe un peccato se non intraprendesse la strada di kunoichi… naturalmente se questo è ciò che vuole. Credo che abbia tutte le carte in regola per farcela e io farei di tutto per lei, la seguirei anche all’Inferno, anche al Villaggio della Foglia».
             Le sfuggì un sorriso quando, subito dopo quelle parole, vide la bambina far piombare una bambola addosso all’altra, come se stesse simulando un combattimento all’ultimo sangue. Sì, senza dubbio quella sarebbe stata la sua strada, ne aveva avute diverse prove. Non voleva che restasse inerme quanto lo era stata lei, non meritava una vita come la sua.
            «Sentirtelo dire mi rende felice, Hikari. Credo che sia la cosa migliore per entrambe, anche se… Stanno per accadere vicende terribili. Non posso prevedere il futuro, ma so che sarà un periodo duro. Pertanto, per favore, non abbandonate subito questo angolo della foresta, perché qui sarete al sicuro. Appena la situazione migliorerà, torna a Konoha. Se il Villaggio esisterà ancora, troverete il quartiere degli Uchiha e, se il destino sarà benevolo, mio fratello Sasuke. Sono sicuro che vi proteggerà, nulla potrà più ferirvi, lì», quasi la pregò il ragazzo, appoggiando la tazza al tavolo.
            «M-ma cosa… e tu?», balbettò la giovane, sgranando gli occhi. Cosa voleva dire con quelle parole?
            Itachi si alzò e indossò lentamente la veste dell’Akatsuki, osservando il pavimento.
            «Temo che questa sarà davvero l’ultima volta che ci vedremo. Voglio che Eijiko sia un’Uchiha a tutti gli effetti, ma nella maniera più positiva possibile. Desidero che sia la capostipite di una casata onorabile, rispettata e amata dalla gente. Voglio che mia figlia sia il mio sogno, e so che sarà così, perché lei è il futuro», affermò deciso, chinandosi verso la piccola e accarezzando il suo tenero capo.
 
Hikari restò immobile al suo posto, incapace di parlare o anche solo di muovere un dito. Avrebbe voluto dire tante cose, ma di fronte a quella scena riuscivano a esprimersi solo le lacrime. Vederli così simili e vicini era una visione che finalmente si avverava, il quadro che il suo amore aveva dipinto in quei due anni, ma che la ragione aveva sempre provveduto a cancellare. Capelli neri, occhi scurissimi, pelle candida e una pericolosa eleganza… chi erano queste creature divine, e cosa aveva mai fatto di tanto speciale, lei, da meritare il privilegio di abbracciarle e custodirle nel cuore?
            «Posso sedermi qui con te, piccolina?», aveva chiesto con un tono improvvisamente delicato, quell’uomo misterioso, curvandosi maestosamente come una tigre al domatore, pronto a imprimere l’immagine della bambina nella sua mente, per quella poca vita che gli restava.
            «Vuoi giocare a uccidere qualche ninja?», gli propose lei, entusiasta.
            «No, Eijiko. Non si uccidono le persone», rise lui, raccogliendo la bambola malconcia che la bimba aveva decretato essere una nemica.
            «Lei è cattiva», spiegò contrariata.
            «E se decidesse di diventare buona?».
            «Diventerebbero amiche», rispose prontamente, strappandogliela dalle mani e facendola affettuosamente cozzare contro l’altra che teneva in pugno.
            «Bisogna sempre dare una seconda possibilità alle persone, d’accordo?», le sorrise, prendendola in braccio e rialzandosi.
           
La piccola si lasciò sfuggire le bambole di mano, intimidita da quel gesto. Fissava il giovane negli occhi, riuscendosi a specchiare in quelle iridi così simili alle sue. Itachi, per l’ennesima volta, maledì la sua vista malata. Avrebbe dato qualsiasi cosa per poterla vedere sul serio, almeno una volta sola.
            «Sarai una kunoichi eccezionale, renderai fiera la tua mamma». “E anche il tuo papà”, completò una voce dentro di lui.
            «Sarò la più forte dell’Accademia!», promise lei, ridendo.
Itachi si girò verso la finestra, osservando il sole lentamente abbassarsi. Era ora di andarsene, in tutti i sensi. Si voltò verso Hikari, tenendo stretta a sé Eijiko. La giovane li raggiunse, intuendo che quella sarebbe stata la prima e ultima possibilità per essere una famiglia. Strinse la manina della bambina, sorridendole, mentre incontrava gli occhi di Itachi e gli accarezzava un braccio.
            «Potremmo essere questo, per sempre», sussurrò tristemente, quasi stesse parlando a se stessa.
            «Lo saremo comunque, per sempre», la rincuorò lui, baciandole la fronte.
            Hikari si staccò da loro, indietreggiando di qualche passo, desiderosa di immortalare quell’istantanea nella sua mente. Non l’avrebbe mai più rivisto, e quello era il modo migliore per ricordarlo. Quante persone care, aveva perso! La consolava, seppur esiguamente, il fatto che poteva incontrare ognuna di loro nel suo cuore.
 
L’Uchiha uscì di casa e scese il gradino del piccolo portico, sempre con le braccia della figlioletta al collo. Per un secondo, prima che i suoi maledetti occhi tornassero a bruciargli, era riuscito a vedere entrambe chiaramente, e non poteva chiedere altro, ai Kami celesti. Aveva rivisto il dolce volto di Hikari, le sue iridi blu, il suo sorriso sincero, e, soprattutto, aveva scoperto la vivacità di quegli occhi color carbone e le guance paffutelle della bambina.
            Puntò ancora il suo sguardo in quegli occhi, ma non poteva pretendere due miracoli in così poco tempo; si accontentò di una visuale più sbiadita, sorridendo. Era davvero bellissima e sarebbe cresciuta al sicuro, lontana da qualsiasi dolore.
           «Non ci vedremo mai più, probabilmente non ti ricorderai nemmeno di questo momento, ma voglio che tu sappia che sei la cosa più bella che abbia mai visto, Eijiko. Saresti l’unica ragione per non morire, se non fossi già morto… vorrei averti conosciuta prima», la voce gli si incrinò su quell’ultimo desiderio, mentre chinava il capo e cercava di trattenere le lacrime.
           «Non te ne andare, papà».
           Itachi sgranò gli occhi, guardandola incredulo. Aveva sentito bene?
           «Avevi correttamente intuito, è molto sveglia», sorrise Hikari, affiancandolo.
           L’Uchiha baciò la guancia della bambina, i cui occhi cominciavano ad arrossarsi e a bagnarsi di lacrime.  
           «Sarò sempre con te, Eijiko», le promise, assestandole un leggero ed affettuoso buffetto sulla fronte. Quel gesto gli ricordò quanto il fato fosse irreprensibile, ma scrollò le spalle, decidendo di non pensarci. In fondo era ciò che aveva sempre voluto, no?
           Adagiò la bambina fra le braccia della madre, osservando entrambe, commosso. Accarezzò il volto di Hikari, incapace di aggiungere altro.
          «Non riuscirò mai a trattenerti qui, vero?», scherzò lei, cullando Eijiko.
          «Sarò sempre anche con te, Hikari».
          La ragazza annuì amaramente, intuendo come quella frase fosse una forma meno aspra per dirsi addio. Le sovvennero le ultime parole di Eiji e capì che queste sarebbero state le conclusive di Itachi. Un brivido la scosse e comprese che non avrebbe potuto far niente per evitare l’ennesima perdita, ma giurò a se stessa che sarebbe stata l’ultima.
 
Itachi Uchiha si voltò lentamente, ancora una volta cercando di rimanere indifferente al pianto della bambina e alle silenziose preghiere della madre, che accompagnavano i suoi passi. Non doveva pensarci, bisognava lasciarsi alle spalle Hikari ed Eijiko, non contaminarle con i pensieri di morte che lo stavano ghermendo. Loro erano pure, erano ninfe di quel bosco, e lui aveva abusato fin troppo della loro luminosità. Con tutta la forza disperata d’amore che poteva conoscere, aumentò la velocità dei suoi passi e saltò su un albero, continuando la sua corsa al riparo da quegli sguardi innocenti. Era l’unico modo per proteggerle, abbandonarle all’oblio della mente e custodirle nel cuore.
           Aveva affrontato battaglie e pericoli mortali, conosciuto sofferenze atroci e sopportato un destino crudele, eppure, mai come in quel momento si era sentito tanto indegno di vivere. La felicità aveva violentemente attraversato il suo petto, come un lampo di luce in piena notte, rischiarando tutto ciò che giaceva inerte all’interno del suo animo, ricordandogli un maledetto conto in sospeso che ora non desiderava chiudere tanto velocemente.
            Nessun ninja era mai riuscito a stremarlo tanto quanto l’amore, l’affetto più incondizionato del mondo. E questa era solo la prima parte del suo appuntamento con il destino.
           
“Sasuke, sono pronto”, giurò la sua voce interiore. Per un momento temette che nessuno sarebbe stato in grado di uccidere uno spettro quale lui ormai si sentiva, ma non appena vide da lontano quei quattro ragazzi parlare con Kisame, su quell’altopiano, il dubbio si estinse.
            Attivò lo sharingan e vide chiaramente il fratello e l’odio che gli bruciava dentro. Sorrise soddisfatto, immaginando quanto il suo angelo della morte sarebbe stato rapido. La felicità tornò a gonfiargli il petto, mentre un nuovo fiotto di sangue gli era salito alla bocca, con un colpo secco di tosse. Presto sarebbe finito tutto, finalmente. Non aveva dimenticato la giusta pena da scontare per i crimini del suo passato.
 
Sasuke lo raggiunse rapidamente, carico di rabbia e rancore, osservandolo con aria di disprezzo e superiorità. Itachi sorrise rincuorato, pronto a raccogliere la sfida per quell’ultimo duello.
           Nulla era più certo della morte, se non l’amore. 






Ed eccoci qui, all'epilogo di questa storia. Ok, l'ammetto: ci sono andata giù pesante con gli Ando XD Prima i genitori, poi Eiji (mi è pianto il cuore farlo sacrificare per la gemella, ma ho pensato che sarebbe stato molto verisimile: lo vedevo davvero, pronto a donare la propria vita per Hikari)... e questa sorpresa, Eijiko! Cosa ne pensate? Ero abbastanza indecisa se inserirla o meno, ma ho immaginato che Itachi meritasse un'erede :D Senza contare che la sua presenza mi permetterebbe di ampliare la storia, se mai giungessero idee degne XD 
Voglio ringraziarvi dal profondo del mio cuore per aver letto, recensito, inserito la storia tra le seguite e preferite! Sono davvero commossa!! Questa FF è stata una scommessa con me stessa, non ci ho mai creduto molto... e il vostro affetto è stato il carburante per proseguire con sempre più entusiasmo, di capitolo in capitolo! 
Un ringraziamento speciale, devo ribadirlo, va a The Valikira e DoubleSkin, il cui sostegno è stato così affettuoso da lasciarmi senza parole! Pronte a tutto, perché questa storia continuasse... non so ancora bene come ringraziarvi! Ma lo faccio con l'unica parola che conosco: GRAZIE, GRAZIE, GRAZIE INFINITE!!! 
Spero che il finale non abbia deluso nessuno e, sul serio, non esitate nelle critiche, possono solo farmi del bene :) Leggere le vostre recensioni è sempre un piacere, uno stimolo a migliorarmi e continuare a sognare! 
Un abbraccio, alla prossima!! :D

Ophelia

 

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