Solum

di Honey Tiger
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Eva Salmons ***
Capitolo 3: *** Key Austrang ***
Capitolo 4: *** Richford ***
Capitolo 5: *** Il Compleanno ***
Capitolo 6: *** Oscuri presagi ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 

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Quest'opera "Solum" scritta da "Krystal Darlend & Emide" è distribuita con la Licenza
 Creative Commons Attribuzione - Non opere derivate 3.0 Unported.

                                                                                                               

 1. Prologo. 

 


      Il mondo che tutti voi conoscete ha perso ogni colore. Non lasciatevi ingannare dall’apparenza: la terra, il mare, le montagne e qualunque altra cosa vi circondi qui, in questo spazio tempo, assai lontano dal vostro, è solo il frutto indomabile dell’inganno dell’uomo. 
Correva l’anno 2809, il professor Frederic Dexter scoprì la cellula che poi in seguito avrebbe cambiato le sorti dell’umanità. Prese in suo onore il nome di Dexcell. Questa cellula fu estratta in una zolla semi-congelata del pianeta H57g.
La sua caratteristica principale? Modificare qualsiasi cosa entri a contatto con essa e con le sue devastanti proprietà.
È stata lei a cambiare tutto.
La cosa non mi dispiace in fin dei conti, il suo utilizzo è stato funzionale per l’uomo. Ha evitato grandi catastrofi come imminenti glaciazioni, il surriscaldamento globale, la conclusione delle materie prime terrestri, e si, perché no, anche un’eventuale fine del mondo.
Il Dexcell ha portato però anche numerosi effetti negativi. Come quella che tutti i Bariesu definiscono la crepa terrestre. Il mondo, ha infatti preso una piega diversa da quella che Frederic si sarebbe aspettato, scoprendo una cellula di tale magnificenza e potere. L’uomo, infatti ha finito per fare di lei il suo unico ed esclusivo mezzo di sopravvivenza. Si è attaccato talmente tanto ad essa da diventare lui stesso un vero e proprio Dexcell.
Sono nati cosi i vari utilizzi dei Dexcell che hanno portato alla nascita di tre nuove specie che hanno segnato la fine della vita umana che voi conoscete.
La prima razza è quella dei Bariesu, come precedentemente menzionato. Loro sono l’orgoglio della cellula, la parte altezzosa ed eccentrica dell’“umanità”. Le loro caratteristiche principali sono quelle di poter plasmare il mondo al loro piacere, dando libero sfogo a quelli che voi chiamereste semplicemente poteri magici. Sono abili, furbi, potenti e terribilmente ostinati. Tutti i Bariesu sono raccolti nella fascia che va dalla Spagna sino alla Polonia, racchiudendo anche la Gran Bretagna e l’Islanda, che ormai sono un’unica grande isola.
Poi ci sono gli Ocuber, che ai Bariesu piace beffare chiamandoli con il nome di “alberi che parlano” per la loro essenza immortale. Sono infatti le persone più antiche della terra, capaci di vivere oltre l’immaginabile. Sono forti, veloci e silenziosi. Non dormono e spesso e volentieri si cibano cacciando chi incontra il loro cammino. Le loro famiglie, vecchie e non numerose si trovano sparse per tutta l’Asia e le praterie congelate dei paesi nordici.
Infine, l’ultima razza, è quella dei Vilkas, che in vita mia non ho mai avuto l’occasione di incontrare. Le loro doti innate sono quelle di poter mutare forma, divenendo animali.
L’animale che prediligono diventare è senza dubbio il lupo e i suoi simili. Anche loro sono veloci, massicci e hanno un grande fiuto, peccato che siano terribilmente impulsivi e quindi sia impossibile ragionare con loro.
Coloro che hanno scelto questa vita sono grandi amanti di quegli animali che prima popolavano la nostra terra in abbondanza.
Mentre i Bariesu, al contrario degli Ocuber, sono coloro che hanno preferito vivere un giorno da leoni piuttosto che mille da pecore.
Queste tre razze hanno dato vita a interminabili guerre per il potere, la sopravvivenza e il dominio indiscusso del pianeta.
Io, sfortunatamente, non appartengo a nessuna di queste tre razze.
Sono Eva Salmons, e questa è la mia lunga e triste storia.

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 1. Prologo. 

 


      Il mondo che tutti voi conoscete ha perso ogni colore. Non lasciatevi ingannare dall’apparenza: la terra, il mare, le montagne e qualunque altra cosa vi circondi qui, in questo spazio tempo, assai lontano dal vostro, è solo il frutto indomabile dell’inganno dell’uomo. 
Correva l’anno 2809, il professor Frederic Dexter scoprì la cellula che poi in seguito avrebbe cambiato le sorti dell’umanità. Prese in suo onore il nome di Dexcell. Questa cellula fu estratta in una zolla semi-congelata del pianeta H57g.
La sua caratteristica principale? Modificare qualsiasi cosa entri a contatto con essa e con le sue devastanti proprietà.
È stata lei a cambiare tutto.
La cosa non mi dispiace in fin dei conti, il suo utilizzo è stato funzionale per l’uomo. Ha evitato grandi catastrofi come imminenti glaciazioni, il surriscaldamento globale, la conclusione delle materie prime terrestri, e si, perché no, anche un’eventuale fine del mondo.
Il Dexcell ha portato però anche numerosi effetti negativi. Come quella che tutti i Bariesu definiscono la crepa terrestre. Il mondo, ha infatti preso una piega diversa da quella che Frederic si sarebbe aspettato, scoprendo una cellula di tale magnificenza e potere. L’uomo, infatti ha finito per fare di lei il suo unico ed esclusivo mezzo di sopravvivenza. Si è attaccato talmente tanto ad essa da diventare lui stesso un vero e proprio Dexcell.
Sono nati cosi i vari utilizzi dei Dexcell che hanno portato alla nascita di tre nuove specie che hanno segnato la fine della vita umana che voi conoscete.
La prima razza è quella dei Bariesu, come precedentemente menzionato. Loro sono l’orgoglio della cellula, la parte altezzosa ed eccentrica dell’“umanità”. Le loro caratteristiche principali sono quelle di poter plasmare il mondo al loro piacere, dando libero sfogo a quelli che voi chiamereste semplicemente poteri magici. Sono abili, furbi, potenti e terribilmente ostinati. Tutti i Bariesu sono raccolti nella fascia che va dalla Spagna sino alla Polonia, racchiudendo anche la Gran Bretagna e l’Islanda, che ormai sono un’unica grande isola.
Poi ci sono gli Ocuber, che ai Bariesu piace beffare chiamandoli con il nome di “alberi che parlano” per la loro essenza immortale. Sono infatti le persone più antiche della terra, capaci di vivere oltre l’immaginabile. Sono forti, veloci e silenziosi. Non dormono e spesso e volentieri si cibano cacciando chi incontra il loro cammino. Le loro famiglie, vecchie e non numerose si trovano sparse per tutta l’Asia e le praterie congelate dei paesi nordici.
Infine, l’ultima razza, è quella dei Vilkas, che in vita mia non ho mai avuto l’occasione di incontrare. Le loro doti innate sono quelle di poter mutare forma, divenendo animali.
L’animale che prediligono diventare è senza dubbio il lupo e i suoi simili. Anche loro sono veloci, massicci e hanno un grande fiuto, peccato che siano terribilmente impulsivi e quindi sia impossibile ragionare con loro.
Coloro che hanno scelto questa vita sono grandi amanti di quegli animali che prima popolavano la nostra terra in abbondanza.
Mentre i Bariesu, al contrario degli Ocuber, sono coloro che hanno preferito vivere un giorno da leoni piuttosto che mille da pecore.
Queste tre razze hanno dato vita a interminabili guerre per il potere, la sopravvivenza e il dominio indiscusso del pianeta.
Io, sfortunatamente, non appartengo a nessuna di queste tre razze.
Sono Eva Salmons, e questa è la mia lunga e triste storia.

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Capitolo 2
*** Eva Salmons ***


 

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 2. Eva Salmos. 

 


      Piove, piove fuori e dentro di me.
Ho la fronte imperlata di sudore, gli occhi ancora gonfi di lacrime e i vestiti impregnati di sangue: il suo sangue. Nella mia mente continuo a vedere i suoi occhi che mi supplicano di perdonarlo, ma io non posso, non posso farlo; non dopo quello che m’ha fatto.
Sento il cuore dilaniarsi, vuole uscire dal petto.
Sono sola e ho paura di affrontare il mondo ora. Come potrei del resto senza il suo supporto. Mi sento come un uccellino in gabbia, rinchiusa dentro un corpo che non mi appartiene più.
Assaporo il suo sangue portandomi un lembo del vestito alla bocca: è dolce.
Almeno adesso sono sicura di non potergli più fare del male.
Mi sento morire e se solo avessi il coraggio giuro che lo farei.
Mi ucciderei, si. Solo per sentire cosa avresti di nuovo da dirmi.
Sussulto quando una mano fredda mi sfiora la guancia. Mi volto e lo guardo con i miei occhi freddi e arrossati: è Josh. Sta male anche lui. Riesco a notare la sua sofferenza negli occhi, ma non ho la forza di parlare in questo momento o meglio non voglio farlo. Non gli sarei di grande aiuto.
Mi sorride, ha gli occhi talmente lucidi che riesco a specchiarmi in essi. Non devo essere proprio un bel vedere in questo momento.
«Non riesco più a vederti in questo stato.» Mi sussurra all’orecchio. Ha ragione, neanche io ho più la forza per convivere con me stessa. «Ti prego solo di perdonarmi» prosegue lui mentre percepisco un lieve piccotto nell’avambraccio. «Perdonami se puoi» Mi sussurra depositandomi un lieve bacio sulle labbra.
«Ma cosa…» Non riesco a concludere la frase che tutto intorno a me comincia girare, per poi svanire nel nulla.
Fine.
Sono forse morta?


Mi risveglio di soprassalto, ho di nuovo avuto un incubo. Sto forse impazzendo per caso? Per fortuna esso evapora dalla mia mente con facilità. È ora di iniziare una nuova giornata.
La solita routine che ripeto da oltre diciassette anni e che oggi dovrò riuscire a scardinare. Dopo aver preso un lungo respiro, mi alzo controvoglia e vado a infilarmi nella doccia. Adoro la sensazione dell’acqua che piano mi accarezza la pelle, riesce sempre a rilassarmi e calmarmi dopo ogni incubo in cui annego per tutta la notte.
Impiego una quindicina di minuti per prepararmi: indosso velocemente la divisa della mia nuova scuola, che consiste in una gonnellina a scacchi azzurra e nera, decisamente smilza, che a parer mio mette in risalto davvero troppo del mio misero corpo e mi fa sentire in imbarazzo, degli scaldamuscoli della stessa tonalità e colore, accompagnate da un paio di ballerine nere, decisamente scomode per una come me che è abituata a indossare sempre le scarpe da tennis. Sopra, una camicetta dalle maniche corte mi cinge il petto e una cravattina azzurra mi stringe il collo; sul braccio destro posiziono la fascia nera, che poi, in futuro segnalerà a quale corso apparterrò. Alla fine applicò un fiocco sul lato destro dei miei lunghi e profumati capelli neri e mi guardo allo specchio per controllare che tutto sia apposto.
Con mia grande meraviglia, noto che i miei occhi, solitamente dipinti di un verde smeraldo, sono ora tinti di un giallo candido, quasi trasparente. Mi piace vedere il gioco di colori che le mie iridi mettono in atto, anche se, quando succede, provo sempre un lieve mal di testa che non riesco a comprendere fino in fondo.
«Eva! Dobbiamo andare, muoviti se non vuoi perdere il treno o dovrai farti tutto il tragitto a piedi!» Mi urla Sally dal piano inferiore.
Sally è la mia madre adottiva, vivo con lei sin da quando ho memoria e per me è una madre a tutti gli effetti. Si è sempre presa cura di me, ricoprendomi di affetto, attenzioni e sincerità e io la ringrazio per tutto questo. Probabilmente senza di lei, oggi non sarei quella che sono.
«Piuttosto preferirei la morte» mentre dico questa frase mi esce un risolino, per un attimo pronunciare la parola “morte” mi ha dato una sensazione assai strana, ma comunque allontano quel pensiero senza pensarci troppo su.
«Beh? Allora? Ti vuoi muovere?» continua lei inducendomi a prendere la valigia strabordante di cianfrusaglie e libri vari, e a scendere le scale a tutta velocità.
«Ci sono Sally…» Sembrerà strano che io non la chiami mamma, ma, da quando ho la consapevolezza che da qualche parte nel mondo ci sia qualcuno che mi abbia abbandonata così senza pensarci due volte, credo che il titolo di “madre” non sia poi così importante e fondamentale.
Ad ogni modo le voglio lo stesso un gran bene. La guardo silenziosamente negli occhi, è davvero una donna molto bella per la sua età: è alta, dai lineamenti talmente dolci e armoniosi da conferirle un’aria estremamente bonaria e amichevole, mentre i suoi capelli lunghi e biondi, le trasferiscono quella sensualità travolgente atipica per i suoi cinquant’anni.
Mi fa cenno di seguirla e così, insieme usciamo da quella casetta dalle mura familiari. Fuori, un albero ricoperto di neve ci fa dimenticare che è settembre solo da pochi giorni, ma nello stesso istante ci fa ricordare che il Dexcell può tutto.
«Allora? Ti senti pronta bimba?» Mia madre nonostante i miei 17 anni suonati, continua a chiamarmi bambina! E io, per sua fortuna, glielo lascio fare.
«Alleluia! Credevo che non saresti più uscita da quella casa!» Vedo spuntare la folta chioma rossiccia di Mona ,che in un baleno mi è addosso con uno sguardo curioso, ben stampato in volto. Mona è la mia amica più cara, la conosco fin da quando ero piccola. Abbiamo frequentato la stessa scuola e anche adesso stiamo per intraprendere la stessa strada. Frequenteremo insieme una delle scuole più note dei Bariesu: Richford. Con lei al mio fianco mi sento più forte e coraggiosa, quindi capace di affrontare questa nuova esperienza. Non sono mai stata lontana da casa per troppo tempo, e qui, in questo istituto lontano chilometri da New Varsavia, potrò tornare solo per natale, pasqua e le due settimane di vacanze estive. E sarà così per i prossimi tre anni, nei quali accrescerò la mia conoscenza della cellula.
«Scusa, è che ho fatto un altro dei miei incubi e sono ancora un po’ scossa.» Le rispondo sottovoce, non voglio che Sally ci senta; si preoccuperebbe inutilmente per me e non voglio che succeda.
«Me ne vuoi parlare?» mi chiede l’esile figura al mio fianco.
«Non lo ricordo!» le rispondo velocemente io, mentendo e tagliando subito il discorso.
Piano, ci giriamo verso mia madre, che sta già posando le valige dentro la macchina. Noi siamo una delle poche famiglie ad avere ancora una macchina che non voli. La nostra è una semplice Poison azzurra, evidentemente datata.
«Muovetevi, ragazze!» sbotta Sally.
Facciamo per incamminarci e salire verso quello che sarà il nostro mezzo di trasporto, per raggiungere la stazione che poi ci condurrà a Krakow: luogo dove sorge l’imponente scuola dei Bariesu.
Una volta giunti al porto, Sally ci saluta con le lacrime agli occhi e augurandoci buona fortuna, ci abbraccia calorosamente. So già che mi mancherà molto, e per rivederla dovrò aspettare davvero tanto tempo.
Mi volto verso il treno che ruggendo e fluttuando tra le tubature celesti della stazione, ci avvisa che sta per partire.
Il caos generale mi impedisce di sentire le parole che Mona e mia madre mi stanno rivolgendo. Vedo solo che la prima mi indica di seguirla, facendosi spazio tra la folla, la quale spinge e preme per ottenere un posto in prima linea tra i binari del treno, per poter vedere meglio e così salutare i propri cari.
L’unica cosa che riesco a percepire intorno a me è un profumo tanto forte, quanto dolce, come fosse una qualche fragranza floreale.
Camminando in mezzo alla folla perdo improvvisamente di vista Mona, che viene come inghiottita da quelle figure stagliate tra le luci artificiali della stazione. Cerco di farmi spazio per raggiungerla ma, lentamente, vengo risucchiata e assorbita anch’io da quella stessa folla agitata di New Varsavia.
Mi sento spaesata, intorno a me non c’è più uno sguardo amico, un volto che io sappia riconoscere. Barcollo da un lato all’altro della strada, inciampando tra i passanti che totalmente assorti dai loro pensieri, non si accorgono nemmeno di starmi calpestando. La mia vista è come offuscata, le mie mani si irrigidiscono e la mente mi si annebbia, quando ecco che qualcuno o qualcosa mette fine al mio delirio.
Sento delle braccia, forti e accoglienti, sorreggermi e proteggermi da quel burrone che sta per inghiottirmi impietoso.
Rimango ferma per alcuni istanti, cinta da quelle mani che mi sembra di conoscere da tempo.
Che siano quelle di Mona? Mi domando senza fermarmi a dare un’effettiva risposta a questo quesito. In realtà non mi importa molto di chi siano, almeno per ora. So solo di essere al sicuro dal resto del mondo.
Lentamente incomincio a riacquistare quella vista che di punto in bianco ha deciso di abbandonarmi, facendo sì che tutto intorno a me ritorni ad essere caotico e rumoroso, come prima del mio malore.
«Va meglio?» mi domanda una voce maschile molto profonda. Avvampando notevolmente in volto, mi rendo conto che le braccia, che fino ad allora mi avevano sorretta, non appartenevano né a mia madre né a Mona.
«Chi sei?» esclamo sfuggendo al suo abbraccio, voltandomi verso di lui. Non riesco a vederlo bene in volto, sicché un cappuccio nero come la notte lo ricopre quasi totalmente, mostrandomi solo le sue labbra leggermente carnose, con una piccolo e superficiale taglio che gli graffia la parte inferiore di queste.
«Un grazie sarebbe stato più che sufficiente» mi canzona ironicamente.
«E per cosa dovrei ringraziarti? Per avermi stretta a te? Maniaco….» replico io del tutto fuori di me. «Se pensi di abbindolarmi ora, facendomi sentire in debito con te, ti sbagli di grosso!
Conosco i tipi come te! » proseguo mentendo. In realtà non ho mai avuto un rapporto chissà quanto intenso con il sesso opposto al mio. Sono sempre stata poco attratta dal mondo che mi circondava, e l’unico ragazzo che ho avuto è stato con me solo per pochi mesi; poi qualcosa, dentro di me, che non so bene spiegare, mi ha indotto a lasciarlo.
«Ah si?» mi domanda lui con una sfacciataggine inaudita. Sento il sangue pulsarmi nelle vene, scoppiettando e implorandomi di far fuoriuscire il peggio di me. Non capisco, sinceramente, perché io stia perdendo con così tanta facilità il controllo. Non mi era mai successo prima.
«Si bello mio! Oh, scusami! Tanto bello non devi essere visto che ti nascondi dietro un cappuccio da quattro soldi evitando di mostrare la tua vera identità » con vergogna mi accorgo di stare esagerando con le offese, ma ormai è troppo tardi per battere la ritirata.
«Vedo che ti piace fare conversazione, eh? » ridacchia lui portandosi le mani sul cappuccio e togliendoselo, permettendomi così di poterlo vedere in volto, senza maschere alcune.
Degli occhi del colore del ghiaccio una volta immerso nell’oceano mi congelano il cuore. I suoi lineamenti, tanto aspri e acerbi quanto dolci e puri, mi ricordano quante realtà il nostro mondo possa celare, e i suoi capelli, neri e spettinati, fanno sì che io percepisca il suo essere trasandato e vissuto, nonostante la sua giovane età.
«Beh? Ora ti risulta più semplice parlarmi?» si prende gioco ancora una volta di me con un sorriso quasi impercettibile. Poi, senza aspettare la mia risposta, che probabilmente non sarebbe mai arrivata, si volta e scompare tra la folla della stazione, lasciandomi sola come quando mi aveva incontrata.
«Eva? Che stai facendo?» Mi chiede Mona a pochi passi da me. Ero talmente tanto assorta nel vedere quello sconosciuto allontanarsi dalla mia vista, che non mi sono neanche accorta della sua presenza così vicina alla mia.
«Ho preso i biglietti. Salutiamo tua madre e poi andiamo che i posti in treno saranno già belli che occupati» prosegue lei prendendomi il braccio e trascinandomi verso mia madre. «Spero che a Richford ci sia molto da mangiare…ho una fame! Si dice in giro che… » Le parole di Mona sembrano sfuggirmi di dosso, mentre i miei pensieri confusi e offuscati cercano di avere la meglio su tutto il resto.
Non capisco perché io mi sia comportata in quel modo così sgarbato con quello sconosciuto, che altro non aveva fatto, se non sorreggermi dopo il mio malessere. Ma la rabbia, che per diciassette anni non avevo mai tirato fuori era come riuscita a liberarsi da ogni catena o trappola che la imprigionava, venendo fuori indomata.
Salutiamo mia madre e tra falsi sorrisi e qualche lacrimuccia entriamo in quello che, nel giro di sette ore, ci condurrà verso la nostra nuova casa.

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Capitolo 3
*** Key Austrang ***


 

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3. Richford. 

 


      Diverse forme di nuvole mi scorrono davanti agli occhi, ma con la mente queste sono la cornice di un pensiero ben più profondo, perfino del cielo stesso.

«Quanto credi che sia in alto questo treno?» domanda Mona attaccata al vetro della nostra cuccetta come una ventosa, totalmente assorta nel contemplare i paesaggi che scorrono rapidamente fuori dal finestrino del treno.
Il mezzo su cui stiamo viaggiando verso Richford è uno degli ultimi modelli tutt’ora in circolazione. Il Dexcell ha fatto sì che avesse la possibilità di volare nel cielo, senza nessun’ostacolo, sorretto solamente dalla poca forza di gravità che questo nostro pianeta in rovina conserva ancora.
La nostra cabina è costituita da due comode poltrone color mogano e un piccolo tavolo situato in mezzo ad esse, sopra il quale, due ragazzi sconosciuti avevano posato e ora stavano giocando con una scacchiera.
«Si può sapere che cosa stavi facendo alla stazione quando ci siamo perse?» mi chiede Mona distaccandosi da quel finestrino che l’aveva tenuta incollata sino ad allora ad osservare il paesaggio circostante, con la fronte rossa.
“Che mi abbia visto parlare con quello sconosciuto?” mi domando mentre una voce acuta annuncia: «La sala bar chiuderà fra pochi minuti. Vi preghiamo di affrettarvi per soddisfare ogni vostro desiderio culinario.»
«Ti vado a prendere qualcosa da mangiare, non avevi detto di avere fame?» e senza aspettare una sua risposta mi alzo e esco dalla nostra cabina, riuscendo così ad evitare l’interrogatorio ormai prossimo, lasciandola sola con quei due sconosciuti tanto concentrati quanto silenziosi.
Seguo il corridoio che divide, in due metà perfette il treno, fino ad arrivare ad una saletta quasi del tutto deserta. Lentamente prendo un respiro e mi appoggio al muro osservando il mio riflesso sul vetro enorme che mi sta dinanzi.
Mi dispiace essermi comportata in quel modo con Mona, ma non avevo proprio intenzione di parlare di quello che mi era capitato. Magari se le avessi raccontato tutto si sarebbe perfino messa a ridere oppure avrebbe trovato del tutto assurda la mia reazione. Ma d'altronde come biasimarla, neanche io riesco a credere di aver reagito così male, con un ragazzo a me del tutto sconosciuto, che nulla aveva fatto, se non salvarmi da quella folla spietata.
«Guardalo! E’ proprio lui…» bisbiglia una ragazza, sbucata fuori dallo stesso corridoio dal quale ero venuta io. La sua amica, stretta al suo fianco sembra sgranare gli occhi dal terrore, mentre entrambe guardano qualcosa che ancora non rientra nel mio campo visivo.
«Non pensavo sarebbe tornato così presto…» sibila l’altra ragazza portandosi una mano all’altezza della bocca per coprire quel ghigno di terrore che ora le oscurava il volto già pallido.
Senza capire e di sottecchi cerco di guardare lungo quel corridoio che nasconde il soggetto dei loro pettegolezzi, ma subito qualcosa, mi fa desistere, con mio grande imbarazzo, dall’azione.
Il ragazzo, con il quale mi ero scontrata e incontrata alla stazione, ora stava attraversando, quasi totalmente assorto nei suoi pensieri, nonostante i chiacchiericci evidenti di quelle due ragazze, la saletta dove io avevo deciso di fermarmi per schiarirmi un po’ le idee. Imbarazzata, perché sicura di essere stata notata a curiosare, incrocio le dita e abbasso lo sguardo contemplando il suolo freddo e sterile del treno. Vorrei tanto chiedergli almeno scusa per il trattamento spiacevole che gli ho riservato, ma in cuor mio so che non ci riuscirei mai, ma anzi forse peggiorerei solo le cose.
«Hey ragazzina. Come mai tutta sola? Non hai più nessuno da rimproverare?» scherza lui fermandosi al centro della stanza, con quella sua voce tanto profonda quanto strafottente, facendomi rabbrividire.
Alzo lo sguardo, pronta a difendermi da quell’accusa ironica e con mio grande stupore noto che molti, tra alunni e professori, ci stanno fissando come se fossimo due alieni da studiare.
«Non sono una ragazzina…» ribatto io insicura con un filo di voce, cercando di non dare troppo nell’occhio.
«Comunque volevo chied…» e prima di continuare la mia timida e incerta frase lui mi parla sopra sovrastando il mio intervento «Stai bene?» domanda con un sorriso quasi del tutto impercettibile.
Faccio in tempo ad annuire che, dopo avermi lanciato un ultimo sguardo enigmatico, il ragazzo dai capelli neri scompare dalla mia vista, accedendo ad un nuovo e separato da una porta trasparente, corridoio. Gli studenti, diventati più fitti e numerosi, incominciano a sparpagliarsi lanciandomi qualche occhiata curiosa e severa e io, senza comprendere il perché di quei gesti, faccio per andarmene di lì il più velocemente possibile.
«Eccomi Mona. Perdonami per averti fatto aspettare così tanto!» esclamo mostrandole le due bibite che ero riuscita a raccattare appena qualche istante prima che il vagone degli alimenti chiudesse. I due ragazzi, ancora intenti a giocare a scacchi mi guardano appena e poi proseguono la loro partita esclusiva senza troppi preamboli.
«Purtroppo avevano finito tutte le scorte del cibo, mi dispiace» proseguo io appoggiando il mio malloppo sopra al tavolino e rapidamente mi siedo di fronte a lei cercando di improvvisare un sorriso.
«Oh beh, se ti avessi chiesto di prendermi qualcosa mi sarebbe dispiaciuto. Ma comunque non fa nulla, ti ringrazio Eva…» borbotta lei, guardandomi con la peggiore delle sue occhiate. Uno sguardo dispiaciuto e confuso.
Mona è sempre stata una ragazza buona e gentile e mai, in dieci anni di amicizia, sono entrata in contrasto con lei, se non per futili scemenze. E’ sempre stata comprensiva e gentile con me e raramente mi è capitato di vederla imprecare per qualcosa. Devo ammettere, che se non fosse stato per il suo continuo e solido appoggio, molte volte sarei crollata in un baratro dal quale molto probabilmente non sarei più fuoriuscita.
«Beh io…hai ragione.» le confido senza troppi preamboli, scusandomi a modo mio. Lei mi sorride comprensiva e consapevole che sotto, sotto sto nascondendo qualcosa di cui non ho ancora voglia di parlare ma che presto verrà a galla.
Uno scatto improvviso della porta ci fa voltare entrambe verso l’entrata della cuccetta. A fare irruzione nella nostra cabina è un uomo che mai avevo visto prima d’ora. Doveva avere almeno cinquant’anni, e con quel corpo massiccio e tarchiato sembrava essere quasi una caricatura vivente.
«Buongiorno ragazzi» esordisce lui guardandoci tutti e quattro con un sorriso smagliante, e mentre io e Mona, non conoscendo il soggetto appena entrato nella cabina, ricambiamo con un saluto indifferente, gli altri due ragazzi vicino a noi ci fanno capire subito di chi si tratta chiamandolo con il suo attuale titolo.
«Per chi non mi conosce, io sono il professor Masosky. Insegnante di Storia del Dexcell e storia generale, della scuola di Richford.» si presenta, guardando più me e Mona che gli altri due suoi alunni.
Poi, non vedendoci rispondere prosegue, questa volta rivolgendosi ai due ragazzi vicino a noi con fare affabile.
«Warston, Joyce, che ne dite di andarmi a prendere il cappotto che ho lasciato nella cabina degli insegnanti?» quanto detto dal professore sembra più un ordine che una richiesta vera e propria e così i due ragazzi, senza fare troppe domande su cosa, effettivamente, potesse servirgli o meno un cappotto all’interno di un treno del tutto riparato e riscaldato, escono dal nostro scompartimento, pronti ad effettuare quanto comandato.
Una volta rimaste da sole con il professore, noto i suoi occhi quasi del tutto grigi, squadrarmi da capo a piedi, come nel tentativo di trovare delle parole opportune per iniziare il suo probabile discorso.
«Bene,bene…» borbotta lui sedendosi vicino a Mona. Lo vedo aprire e chiudere la bocca varie volte, senza però far fuoriuscire alcuna parola da essa, se non qualche “bene, bene” nel tentativo di temporeggiare e cercare di riflettere il più possibile sul da farsi. Che cosa vuole da noi?
«Qualcosa non va professore?» domanda Mona guardandolo con una preoccupazione evidente.
«Voi siete due nuove studentesse, sbaglio?» controbatte lui, deviando il quesito di Mona e rilanciandoci un’altra, interessata, domanda.
«Si, è il nostro primo anno a Richford.» taglio corto io cercando di farlo arrivare al fulcro del suo discorso.
«Allora forse non conoscerete Key Austrang …»
«Perbaccolina, certo che lo conosciamo! Lo conoscono tutti» replica Mona, voltandosi entusiasta verso di me, che invece scuoto la testa in segno di diniego.
«Io non ho mai sentito parlare di lui…non seguo molto il gossip, scusatemi. E ad ogni modo chi dovrebbe essere questo Key Austrang?» chiedo, giustificandomi per la mia mancata conoscenza.
«Qui non si tratta di gossip ma di cronaca, Eva. Key Austrang è…»
«Un assassino… Key Austrang è un assassino da poco uscito di prigione.» conclude il professore guardandoci entrambe con premura e preoccupazione.
«Beh…e questo cosa significa?» insisto non riuscendo a comprendere il punto.
«Significa che sta per frequentare il suo terzo ed ultimo anno a Richford, e più volte, in questa giornata, ho avuto modo di vederlo in vostra compagnia, signorina…»
«Salmons…» lo aiuto io a concludere la frase sbarrando completamente gli occhi.
«E’ per questo che vorrei pregarla…pregarvi, di fare maggiore attenzione. Stategli il più lontano possibile.» conclude il professor Masosky alzandosi nuovamente in piedi con un’autorità mai espressa sino ad ora.
Vari secondi di silenzio incessante incombono in questa nostra cabina, ora diventata improvvisamente fredda e desolata, perfino Mona, che ora deve aver compreso il mio precedente cruccio sembra non voler aggiungere più nulla al riguardo.
«Perché? Perché ha ucciso delle persone?!» esclamo quasi innervosita, mentre mi ricordo di quegli occhi di ghiaccio dalle sfumature color lavanda che mi avevano salvata e aiutata a riprendermi, assorbendosi passivamente le mie offese senza replicare o reagire in qualche modo.
«Questa è un’altra storia signorina Salmons. Una lunga e triste storia.» sindaca lui volgendosi verso la porta che lo avrebbe portato al di fuori di questa stanza.
«Oh, ce ne parli la prego…dobbiamo conoscere chi dormirà sotto il nostro stesso tetto per un anno intero» insisto alzandomi a mia volta dalla poltroncina rossa. Non volevo e non potevo permettergli di andarsene così, dopo avermi totalmente sconvolta e confusa.
«Conoscevo Key dal suo primo anno qui a Richford. E sebbene non fosse mai stato un gran simpaticone avevo sempre provato stima nei suoi confronti e nelle sue capacità straordinarie.» Inizia a raccontare lui, tirando fuori qualcosa che forse non vedeva, in realtà, ora di raccontare da tempi inenarrabili.
«Inoltre mi era sempre sembrato un ragazzo buono, altruista e pronto a dare la vita per gli ideali in cui credeva. E poi era innamorato, innamorato di un angelo.» prosegue il professore fermandosi ogni tanto per prendere fiato.
«Susan Summon era davvero una ragazza fuori dal comune. Gentile, premurosa, terribilmente buona, onesta e di una bellezza fuori dal comune; amava Key con ogni cellula del suo corpo.»
«Amava…? Perché amava?» lo interrompo io, spaventata di sentire la risposta a quella domanda.
«Non vorrà dire che lui le ha…»
«Key non avrebbe mai torto un capello a Susan. Ma due anni fa, durante una delle tante, terribili, lotte contro gli Ocuber… Key, mandato sul campo di combattimento da suo padre in persona, per le doti stupefacenti di lotta che lui aveva da sempre dimostrato di avere, si ritrovò a dover assistere a qualcosa che non avrebbe mai voluto vedere.» sia io che Mona, vacillammo, come distrutte dall’attesa raggelante al quale quel racconto ci stava sottoponendo.
«Susan lo seguì a sua insaputa. E fu uccisa davanti ai suoi occhi dal principe, Fang III, degli Ocuber. Fang fu poi ammazzato dallo stesso Key, ormai privo di autocontrollo» raccontò il professore appoggiandosi con la schiena alla porta scorrevole.
«E fu così che Key, colto da una disperazione inconsolabile, cedette al male e si unì con la parte più oscura dei Bariesu. Con loro si dimenticava del dolore incessante e di tutto il male subito.» terminò il professore aprendo un po’ la porta nel tentativo di concludere finalmente quella conversazione, ormai diventata terribilmente pesante per lui.
«Ha passato il suo ultimo anno di vita in una delle prigioni più crudeli dei Bariesu, in totale solitudine» sospirò.
«Io non ne sapevo niente.» sussurro io con un filo di voce, del tutto incredula da quanto ho appena ascoltato.
«E’ stato rilasciato grazie alla congrega, per mancanza di prove effettive, ma io temo e spero che ci ritorni presto»
«Ci ha comunque salvati facendoci vincere la battaglia!» esclama Mona intenta a dare una svolta a questa conversazione triste e malinconica.
«Avrebbe preferito non farlo e tenersi la donna che amava…» sospiro io con gli occhi lievemente lucidi.
Il professore fa in tempo a guardarci entrambe per un ultima volta, che quei due ragazzi, mandati in spedizione per prendere quello che ora appariva solo come un diversivo per parlarci in privato, rientrano all’interno della cuccetta porgendogli il cappotto invernale con riverenza.
«Grazie mille ragazzi. Beh, mi ha fatto piacere conversare con voi due. Spero che presterete ascolto alle mie parole» e dopo aver detto questo, esce richiudendo la porta dietro di sé, scomparendo dalla nostra vista.
Sembra così assurdo tutto quello che il professore ci ha appena raccontato, seppure così vivido e triste. Mille pensieri mi attraversano e torturano la mente: sparando giudizi, sentenze e pensieri che alla fine dei conti sarebbero sempre inevitabilmente sbagliati. Non so se provare pena o disprezzo per quel ragazzo, ma forse dovrei cercare di non provare nulla, solamente indifferenza.
Mona mi guarda con quel suo solito sguardo comprensivo e intenso, che mi fa capire, che quando avrò bisogno di sfogarmi, lei ci sarà. E questo mi concede quel conforto necessario, per riuscire a sorriderle di nuovo.

“Mi sono addormentata?” mi domando, osservando l’area circostante nonostante non distingua nulla: solo l’oscurità che mi avvolge.
«Eva …» mi chiama una voce distante eppure cosi vicina al mio cuore.
«Chi sei?» domando io, mentre un senso malinconico si impossessa del mio cuore. Che cosa sta succedendo? Dove sono?
«Eva, apri gli occhi! Sono io, sono qui vicino a te.» sussurra lo sconosciuto mentre io continuo a girarmi intorno, spaventata come una bambina. Realizzo che sto facendo un altro dei miei soliti incubi, benché questo non mi trasmetta il solito senso di angoscia e impotenza ma una tristezza dettata da una mancanza a me sconosciuta, quando ecco che qualcosa mi ridesta dal mio breve ma intenso sogno.
«Eva!»
Spalanco gli occhi impaurita, mentre Mona si accomoda sulla poltroncina accanto a me.
«Un altro incubo?» domanda preoccupata, accarezzandomi i capelli come spesso faceva Sally; già mi manca.
«Si, questa volta era tutto diverso. C’era il buio che mi opprimeva,» mi blocco, riportando alla memoria la voce del ragazzo che chiamava il mio nome. «e una voce che ...»
Un richiamo riprodotto dall’altoparlante, insieme al fischio stridulo delle rotaie che impattavano con il suolo sottostante, segnò l’arrivo incondizionato alla nostra meta.
«Benvenuti a Richford ragazzi. Sentitevi liberi di fare domande a me e a tutti gli assistenti e collaboratori della scuola.» ci annuncia uno dei probabili insegnanti dopo che fummo tutti scesi dal treno volante.
Ad accoglierci, davanti a noi, si staglia un cancello dalla maestosità prorompente. Le sue fondamenta, decisamente impenetrabili mi fanno rimanere del tutto sbalordita.
«Se vi state chiedendo se è possibile violare questo posto, la risposta è no. Queste mura sono state costruite con la massima accortezza e sicurezza, viste le vicinanze con il bosco che ci divide dagli Ocuber.» la voce del professore universitario fa sì che io mi volti attorno per guardare ciò che spaventosamente mi circonda: una foresta che sembra distendersi senza un limite effettivo avvolge tutta la parte sottostante la scuola e il piccolo monte che la sorregge, erigendola in un punto strategico contro i suoi probabili ed eventuali nemici. I suoi alberi fitti e insormontabili, donano a tutta l’area una nota di mistero mai riscontrata in nessun’altra cosa.
I Bariesu, per difendersi e segnare il confine tra loro e gli Ocuber, devono aver usato una quantità smisurata di Dexcell.
«Potrete fare sogni tranquilli qui a Richford.» rassicura la stessa donna, vedendo i volti pallidi e spaventati dei nuovi iscritti all’università dei Bariesu, come reazione alla parola “Ocuber”.
«Quel cancello deve essere stata davvero un’invenzione formidabile, se riesce a tenere a bada esseri come gli Ocuber» sbotta Mona, simulando un risolino derisorio verso quegli esseri che nessuno dei “nostri”, considera e potrà mai considerare un vero e proprio essere vivente.
Lentamente mi volto a guardare il cancello diviso in tre strati. Una prima parte composta da dalle saette vorticanti di colore nero che guizzano da un lato a un altro della struttura. La seconda parte, costituita da un terriccio evaporante e inumidito che si frappone tra le due nette estremità, e una terza formata da delle saette altrettanto elettriche, ma di un colore diverso da quelle che si affacciano sulla foresta: del tutto bianche.
Tre rintocchi sordi come tonfi in una cascata profonda, ci avvertono che il cancello davanti a noi ci sta per mostrare la facciata principale della scuola, alzandosi letteralmente in aria, apparendo leggero come una piuma ai nostri occhi.
«Guarda un po’ chi c’è Eva? Il nostro bel ruba cuori!»
Alzo lo sguardo e noto davanti a me, l’unica persona che in questo mondo avrei sperato di non dover mai più rivedere: Darkan Kowalski.

 

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Capitolo 4
*** Richford ***


 

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 4. Richford. 

 


      Quel giorno anche le libellule sembravano canticchiare e contemplare la nostra momentanea affinità.
Tutto era iniziato quel fatidico giorno in cui ogni cosa sembrava andare per il verso più sbagliato.
Ero stata chiamata “la strana” per l’ennesima volta, da una ragazza che da sempre aveva provato quel senso di odio e rancore che si riserba solo ai peggiori nemici e io come al solito, una volta finite le lezioni ero uscita dalla mia classe senza né salutare né voltarmi a guardare nessuno dei miei compagni, ignorando quei chiacchiericci privi di logica.
Con uno scatto fulmineo mi ero recata in quel corridoio, il quale mi avrebbe poi portata fuori dall' edificio che tanto mi avevano indotta a detestare.
«Dannazione, questa me la paga.» pensai ad alta voce, mentre con un gesto repentino avevo aperto il mio armadietto per appoggiare i libri e le scartoffie utilizzate durante la giornata, quando un rumore, un tonfo secco mi fece sobbalzare sul posto.
«Che diav…» un mugolio seguito da un imprecazione spezzata dall’altro lato della piccola barriera in ferro, fece sì che io trasalissi, sporgendomi per guardare che cosa fosse involontariamente accaduto.
«Credo che, se ce l’avevi con me, tu me l’abbia fatta pagare davvero cara» sogghignò il ragazzo al quale avevo sbattuto l’anta metallica in testa per la foga implacabile di abbandonare quel luogo il più velocemente possibile, mentre con una mano si teneva la parte dolorante della sua testa.
«M-mi dispiace…non ce l’avevo con te» balbettai mortificata: «No, non ce l’avevo affatto con te» continuai a scusarmi più imbarazzata che mai, mentre lui ammirava la mia espressione corrucciata con aria quasi divertita.
«Suvvia, calmati, non è poi così grave come pensi» mi confidò smettendo di coprirsi con quella sua mano grande quasi due volte più della mia, mostrandomi per la prima volta le sue fattezze. Sin da subito la sua bellezza, per la quale era famoso in tutta la scuola, mi fece sbarrare gli occhi dallo stupore più totale: era proprio lui, Darkan Kowalski.
Una risata sguaiata mi fece capire che l’ espressione che animava il mio volto doveva lasciar intendere più di quanto le mie parole non dicessero in quella circostanza alquanto scomoda.
«Sei davvero carina sai? E’ strano che io non ti abbia mai notato» mi confidò richiudendo lo sportello per me, e guardandomi con quei suoi occhi azzurri come il cielo una volta illuminato dal sole.
«Non sei quella che tutti chiamano la strana?» domandò sistemandosi in quella stessa posizione che pochi istanti prima gli aveva assicurato un bernoccolo in testa
«Stammi lontano, ti conviene.» lo avvertii acquisendo l’espressione più minacciosa che riuscissi ad assumere. Sebbene il cuore mi pulsasse a mille all’ora sapevo bene che non dovevo violare, nemmeno con lui, quei precetti che da sempre mi avevano costretta a rispettare.
«E perché? A me non sembri così strana» la sua prossemica, il suo corpo propenso verso di me, i suoi occhi, che guardandomi luccicavano divenendo quasi argentei, scalfirono per la prima volta quel mio cuore che per anni si era finto duro come la pietra.
«E poi, chi è a decidere ciò che è strano e ciò che è normale in questo pianeta? Non credo che degli esseri come noi, che abbiamo ridotto il mondo in questo stato, possano permettersi di giudicare» disse riferendosi al Dexcell e all’uso improprio che l’uomo ne ha fatto.
Io gli sorrisi avvampando, per poi voltarmi ed uscire da quella scuola, scomparendo almeno per quel giorno dalla sua vista, del tutto inconsapevole che da lì a pochi giorni sarei caduta ai suoi piedi come tutte le altre.
Forse aveva ragione lui, forse non ero poi così strana come tutti dicevano.
Torno rapidamente alla realtà rendendomi conto che stavo fissando Darkan, chissà da quanto tempo.
«Sapevi che aveva scelto quest’università?» mi domanda Mona con un’aria corrucciata e preoccupata, e io le rispondo scuotendo la testa quasi del tutto persa nei miei pensieri.
«E’ fantastico…» a farmi distogliere lo sguardo da quel ragazzo biondo come il grano, che tempo fa aveva scavato così tanto a fondo nel mio cuore, e il quale ora stava ridendo e scherzando con alcuni suoi colleghi, è uno studente sicuramente del primo anno, che con lo sguardo sognante stava guardando quell’imponente struttura bluastra, perforata da quattro possenti torri ai suoi lati, denominata da tutti col nome di Richford.
Pienamente d’accordo con lui, anch’io sgrano gli occhi ed emetto un lieve sospiro che lascia intravedere tutto il mio stupore dinanzi a quello spettacolo.
In diciotto anni di vita ho avuto modo di vedere alcune delle grandiose creazioni che la combinazione Dexcell-uomo è riuscita a creare, ma mai mi sarei potuta aspettare cotanta magnificenza.
«Nemmeno Dio sarebbe riuscito a fare meglio di così» sospira un altro studente alludendo alla supremazia che i Bariesu hanno sempre sperato di ottenere contro tutto e tutti, perfino contro Dio.
Una struttura di un blu scintillante che sembra stagliarsi dal nulla fino a raggiungere le alte sommità del cielo, si innalza come una montagna davanti ai nostri occhi increduli di ragazzi, mentre delle piccole sfumature biancastre accarezzano quelle fattezze perlacee e insormontabili.
Tutto intorno a lui, un gigantesco giardino che sembra non avere fine, mette in evidenza una peculiarità molto comune nel mondo dei Bariesu, ma mai rifinita e impreziosita così tanto come in questo caso. Il giardino sembra infatti diramarsi fino e prendere due pieghe, due realtà del tutto diverse a seconda del lato, destro o sinistro, della colossale struttura.
Nella parte destra, una radura ricolma di fiori di ogni specie, alberi pieni di frutta e farfalle svolazzanti di vari colori e tonalità, che solcano una vasta prateria di un verde smeraldo, ci danno il benvenuto in quella che sembra essere la parte estiva del giardino, mentre dall’altro lato, un quadro più arido e spoglio dà l’idea di un ambiente perennemente autunnale: foglie rinsecchite, verdi, gialle e arancioni si adagiano cautamente a terra, come cullate da quella fresca brezza autunnale, in un eterno ridiscendere, in un perpetuo frusciare, che spoglia quegli alberi freddi e desolati per poi ripopolarli e riscendere in una danza senza fine. Due immagini completamente opposte che ci lasciano comprendere quanti passi sia riuscito a fare l’uomo in questo pianeta ormai in rovina.
«Nella parte posteriore della struttura, potrete poi ammirare la parte primaverile e invernale del nostro impeccabile giardino» rompe quel solenne e surreale silenzio, quella stessa insegnante che poco prima ci aveva dato il benvenuto.
«Noterete che nulla è lasciato al caso a Richford» Continua a pavoneggiarsi lei, arricciando il naso ogni qual volta uno studente più o meno interessato alle sue spiegazioni, faceva per scherzare sulla composizione, quasi artistica, di quel giardino.
Ad ogni modo, dopo aver percorso la parte estiva del parco e aver riposto in seguito i nostri indumenti più caldi, ci ritroviamo a diretto contatto con il portone principale della nostra futura scuola, che aprendosi ci rivela tutto ciò che al suo interno vi è cautamente celato.
Una luce abbagliante ci avvolge tutti da capo a piedi nel momento in cui solchiamo l’ingresso di quel territorio sacro per i Bariesu, per via delle misteriose leggende che vi circolano all’interno e anche e soprattutto per gli intellettuali di alto rango e di nobili origini che lavorano in questa struttura, tanto nuova quanto ricca di storia e di passato.
«Benvenuti, cari figli di Bar» una voce emersa dal bagliore accecante che ci occlude la vista, fa sì che io mi guardi attorno in cerca di quel qualcosa che riesce ad osservarci senza bisogno di doverci realmente vedere.
«Sono lieto di darvi il benvenuto in questo centododicesimo anno di insegnamento, qui al prestigiosissimo college di Richford» prosegue quella voce potente e autoritaria che ogni secondo di più sembra esserci più vicina. Lentamente la luce inizia a disperdersi e i nostri occhi ad abituarsi alla composizione di quel luogo sconosciuto e al volto pragmatico e amichevole del preside di Richford.
«Io sono il preside Lucsor, custode e vigilante da ben quarant’anni di questo istituto» si presenta la figura più importante della scuola mettendo in mostra i suoi lunghi capelli dorati, in parte avvolti in una treccia argentata che gli accarezza delicatamente tutta la schiena ricurva. Il viso, decisamente marcato dal tempo, lascia però trasparire la gentilezza e la sincerità che gli dimora in petto.
Senza prestare particolare attenzione a quello che annuncia il preside, alzo lo sguardo per osservare il soffitto, decorato da rune di varie forme e significati, le quali mi impediscono di poter vedere ciò che da fuori mi aveva fatto strabuzzare gli occhi: l’altezza stratosferica di questo palazzo.
«Ci troviamo nella sala delle rune protettrici» Lucsor indica il soffitto con un sorriso, fiero di quello che aveva appena detto e di quant’altro stava per professare sulla sua amata e protetta scuola, poi continua a raccontare: «Questa stanza è stata realizzata con l’intento di proteggere Richford e i suoi studenti dal pericolo evidente che serpeggia appena fuori da qui.»
Avvicinandomi per poter ammirare meglio quelle rune del colore della pietra, le quali ai miei occhi sembrano essere chissà quanto pesanti, incomincio ad udire un suono fastidioso che non ho mai percepito prima in vita mia e il quale mi martella sistematicamente il cervello, rendendo il mio udito più ovattato e evidentemente meno sensibile rispetto a pochi istanti prima.
«Vi invito pertanto a tenere gli occhi aperti e a non allontanarvi troppo dalle mura sicure di Richford, dove potrete fare sogni tranquilli» conclude il preside, vedendomi oscillare sul posto notevolmente stordita, poggiandomi una mano sulla spalla con l’intento di sostenermi e sorreggermi in quella danza creatasi dal delirio più totale.
Faccio in tempo a mandagli un sorriso di gratitudine che il gruppo di studenti si allontana assieme ad un altro professore, che sembrava voler insistere nello spiegare l’utilità di quelle pietre decorate da simboli e incisioni di diversa specie, lasciando me e Lucsor, qualche passo indietro.
«Lei è la signorina?» mi domanda il preside, continuando a tenermi salda per la spalla provocandomi un leggero fastidio. «Sono Eva Salmons» rispondo stropicciandomi gli occhi anch’essi intorpiditi dal frastuono che continuo selvaggiamente ad udire.
«Ho notato che non si sente bene, mi segua…» e incitandomi a seguirlo mi conduce lontano da quel salone, in un luogo più limitrofo a questo, accanto ad una finestra solitaria, che permette la visuale ben distinta di un tratto del giardino autunnale che abbiamo scorso poco prima.
«Va meglio?» mi chiede lui con fare bonario, osservando la mia espressione, ora notevolmente più rilassata.
Io annuisco senza comprendere il perché di quel gesto, decisamente insolito, e prima di allontanarmi lo ringrazio con un sorriso e un lieve inchino atto a dimostrargli la mia devozione di alunna e la mia perplessità in quanto Eva Salmons.
«E’ tutto apposto? Stai bene?» mi domanda Mona, la quale doveva avermi notata mentre conversavo con il preside Lucsor. «Si, ma non vedo l’ora di andarmene da qui.» le rispondo io con un’espressione sofferente ben stampata in volto. In realtà non comprendo bene il motivo di questa mia risposta, so solo che c’è qualcosa, in questa sala, che mi trasmette un senso di angoscia tale da desiderare di voler scappare da qui il più presto possibile.
«I vostri corsi inizieranno domani mattina. E per i prossimi quattro mesi praticherete dei corsi che approfondiranno le vostre conoscenze del Dexcell, tutti assieme» spiega l’insegnante alla schiera di alunni posizionati davanti a lei con fare quasi annoiato.
«Poi dopo questi quattro mesi? Che cosa faremo?» domanda un ragazzo dai capelli rossi e unticci, portandosi il dito indice davanti alla bocca con fare falsamente interrogativo.
«Credo che lei lo sappia più che bene, signor Hilton, visto che frequenta questo anno ormai da due» lo canzona l’insegnante evitando la presa in giro di quello studente decisamente poco serio.
«Ad ogni modo, per chi non lo sapesse davvero, dopo dicembre ognuno di voi incomincerà ad intraprendere strade diverse, a seconda di quale sfumatura prenderà il suo percorso educativo, e di quale sarà la sua vocazione Bariesu» l’insegnante dai capelli nocciola a caschetto, prende un respiro e poi prosegue tranquillizzandoci: «Ma di questo ci preoccuperemo più avanti, e ad ogni modo non si tratterà di dover studiare qualcosa»
«E questo è l’importante!» sghignazza un ragazzino davanti a me facendo spallucce all’amico in piedi vicino a lui.
«In realtà sarà molto peggio di dover imparare qualche libriccino sulla storia della civiltà Bariesu» ci avverte quello stesso ragazzo dai capelli rossicci, una volta che la professoressa, dopo averci segnalato i dormitori, le mense e le aule, si fu allontanata dal resto del gruppo per lasciarci ambientare e conoscere meglio i nostri colleghi.
«Che cosa vuol dire? A che cosa andremo in contro?» domanda uno dei tanti ragazzi in soggezione, con la voce quasi tremolante e sommessa, mentre il suo interlocutore, in tutta risposta simula una risatina canzonatoria e poi se ne va ignorandolo.
“Deve essere davvero un gran simpaticone quel ragazzo…”
«Beh? Noi che facciamo? Ho sentito che molti andranno a vedere i vari piani dell’istituto, mentre altri ancora passeranno il tempo che rimane prima di andare a cena, in giardino» borbotta Mona domandando più a se stessa che a me l’eventuale risposta a quella domanda.
Io, ancora evidentemente infastidita da quel suono stridulo e fastidioso che non sembra volermi abbandonare, faccio per allontanarmi da quella sala il più velocemente possibile quando qualcosa, a cui avevo smesso di riflettere ormai da un po’ cattura nuovamente la mia attenzione.
A pochi metri da me, in lontananza, si stagliano due figure alte e longilinee, dalle quali scorgo subito indistintamente la sagoma misteriosa e composta di Key, che sembra non prestare troppa attenzione al discorso che la ragazza al suo fianco gli sta esponendo.
Il mio udito, ancora del tutto ovattato, non riesce a cogliere neanche una sola, delle tante parole fuoriuscite dalla bocca di quella misteriosa ragazza dai lunghi capelli biondi e riccioluti, nemmeno sotto sforzo.
«Il nostro assassino ha una bella amichetta eh? Sembra quasi una bambola!» commenta Mona ammirando come me quella conversazione lontana anni luce dalla nostra portata.
Percepisco il cuore divenire pesante come un macigno, nel contemplare quella scena estremamente naturale, ma non ne comprendo il motivo.
“Alla fine sono felice che abbia ancora degli amici. Anche se non deve essere stato affatto facile, per quella ragazza, rimanere legata a qualcuno che, nel vendere la sua vita al servizio del male non ha fatto altro che favorire chi, da anni, gioca come il più infido dei burattinai, con la vita altrui” penso tra me e me immaginandomi la vita di quel ragazzo, così vicina eppure così lontana e diversa dalla mia, rovinata dalle cicatrici indelebili di un passato oscuro.
Lentamente, dopo essermi persa a contemplare quello sguardo corrucciato e inevitabilmente smarrito nel vuoto più totale, scorgo l’indice destro di lei, puntarsi, da un momento all’altro su di me. Che mi abbiano notata?
Totalmente imbarazzata, avvampo, sperando che non stiano indicando veramente me e, voltandomi per guardare se ci sia qualche altro essere vivente alle mie spalle, mi accorgo di essermi posta una domanda perlopiù evidente.
«P-perché mi indicano?» balbetto strabuzzando gli occhi, in cerca di capire dagli occhi divertiti di Mona, cosa stia realmente succedendo.
«Non guardare me! Sei stata tu a decidere di rimanere qui a guardare quei due! Però devo ammettere che Key non è niente male! In televisione lo si vedeva sempre di sfuggita…» sogghigna Mona tutto d’un fiato, guardando la mia espressione modificarsi sempre di più fino a divenire una maschera, indistinguibile d’imbarazzo.
«Andiamocene!» ordino dando le spalle al colloquio in cui sono involontariamente entrata a far parte, prendendo Mona per il braccio, con l’intento di trascinarla verso di me.
Nel sentire la mia mano tremare e i miei occhi socchiudersi, Mona mi stringe la mano con l’intendo di infondermi quel coraggio che sento mancarmi senza motivo. Sono sempre stata forte in vita mia, ho sempre affrontato qualsiasi peripezia a testa alta, orgogliosa e fiera di essere chi dicevo di essere: la figlia di nessuno, colei che passava per le bocche sghignazzanti di tutti eppure basta l’attenzione e qualche smorfia di una ragazza sconosciuta per mettermi in crisi e farmi desiderare di essere altrove.
“Sono un’ idiota”
«Sei una spiona» afferma una voce calda e profonda alle mie spalle, che riconosco immediatamente, dopo che un peso notevole si fu cautamente poggiato sulle mie esili spalle. Più veloce che mai, mi volto verso di lui sciogliendo quel contatto creatosi per errore e guardando oltre la figura di Key, mi accorgo che la ragazza bionda se ne era già andata via, chissà dove.
«Oh, mi dispiace di aver disturbato la vostra conversazione!» dico ricomponendomi e soffermandomi a guardare quegli occhi che mi studiano con indiscrezione, guizzando da una parte all’altra come perle illuminate dal sole.
«Non ho mai detto una cosa del genere» mi confessa scuro in volto, camminando alla mia destra, senza però distogliere lo sguardo dai miei occhi confusi e incespicanti. Mona, che sembra non capire nulla di questa scenetta senza capo né coda, mi stringe il braccio, intimandomi, con una paura silente di andarcene da lì.
«Non vi stavo affatto spiando» La mia affermazione sembra far nascere sul suo volto un sorriso, debole e sommesso, che però plasma quel mio cuore corrucciato e irrigidito di poco prima, facendolo ritornare di nuovo calmo e leggero.
«E-eva, credo che dovremmo almeno passare a vedere la nostra stanza, non credi?» balbetta Mona irrigidita dalla paura.
«Perché mi indicavate?» domando lui, ignorando radicalmente la supplica impellente della mia amica.
«Perché? Perché lo vuoi sapere?» controbatte Key simulando l’ennesimo disaccordo tra di noi.
«Ah! Vai al diavolo, non lo voglio affatto sapere! Non mi importa niente delle vostre faccende private. Cercate solamente di non coinvolgermi nelle vostre malefatte»
A quella affermazione i suoi occhi color lavanda chiaro sembrano sbiadire, scolorendo davanti alla mia evidente accusa, la quale rimanda senza troppi preamboli alla sua vita passata da criminale.
«Beh…mi dispiace, io non volevo…»balbetto cercando di scusarmi per il mio intervento del tutto fuori luogo e che probabilmente lo ha colpito nella parte più debole e indifesa del suo cuore.
«Ah! Non fa niente, ci sono abituato…» mi tranquillizza mettendo fine alle mie giustificazioni prive di logica, sospirando lievemente.
«Beh comunque…io sono Eva Salmons. Non credo di essermi mai presentata» farfuglio cercando di evadere da quella situazione assai scomoda per me.
«Beh, ti saluto Eva Salmons» ribatte serio in volto.
Detto questo, dopo aver spettinato i miei lunghi capelli mori, se ne va, lasciando me e Mona, sole come lo eravamo prima di incontrarlo.
«E’ insopportabile, poteva almeno presentarsi…» mi lamento cercando di non guardare lo sguardo perplesso di Mona.
«Credo avesse capito che lo conoscessi già, il suo nome…» mi risponde lei per poi riprendere facendomi notare una cosa che era già successa in precedenza: «Ci stanno osservando tutti, preside compreso. Spero non vorrai rovinare la tua reputazione fin da subito, Eva»
Io la guardo del tutto scettica, pensando tra me e me, che sia impossibile rovinare una reputazione che non ho mai avuto.

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Capitolo 5
*** Il Compleanno ***


 

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 5. Il compleanno. 

      «Come tutti noi sappiamo, la parola Bariesu deriva dal nostro creatore: Bar» il professor Konnor, dopo aver fatto una pausa per osservare i suoi alunni e quindi controllare se stessero attenti alla sua ennesima spiegazione giornaliera, riprese la parola e continuò: «Bar come Ocarin e Victor diedero vita alle tre specie che ora dominano e popolano la terra. Non possiamo affermare precisamente chi di queste tre specie sia la più evoluta oppure la più estesa, ma quello che sappiano e possiamo dichiarare con certezza è che noi Bariesu, siamo superiori a tutti gli altri in quanto dominatori e vincitori delle ultime tre grandi guerre tra i popoli» concluse fiero e a testa alta il professore di Storia della civiltà Bariesu.
Percepisco le parole del professore, non dissimili da quelle di molti altri Bariesu, graffiarmi la coscienza avidamente, poiché sento questo delirio di onnipotenza da parte nostra, solo come un futile mezzo per schiacciare, dominare e contrastare il prossimo.
«Professore, io so per certo che Bar e Ocarin fossero anche amanti oltre che nemici durante la prima guerra che si svolse tra le tre razze» interviene la mia compagna di stanza, saccente e piena di sé come al solito.
L'ho conosciuta il primo giorno che siamo arrivati qui a Richford, esattamente una settimana fa, nel dormitorio che condivido con lei e Mona, e la prima impressione che ho avuto su di lei è stata quella di pensare che fosse una ragazza sola, che cercava l’accettazione del prossimo tramite la sua conoscenza e cultura, indubbiamente superiore a chiunque altro della nostra età.
«E ti pareva che non dicesse la sua» commenta Mona sottovoce, catturando la mia attenzione.
«Eccellente signorina Legrand, stavo giustappunto per arrivarci io» si congratula il professore mostrando un sorriso enigmatico e camminando per quella classe abbellita in stile neobarocco, caratterizzata nel dettaglio da merletti e statue di vetro soffiato fuoriuscenti dal muro color perla, mentre i banchi di marmo lucido lasciavano percepire uno stile altrettanto antico e delicato. «Ocarin, la capostipite degli Ocuber, ingannò e raggirò con la sua bellezza accecante il povero Bar e lo indusse a procreare il frutto del peccato. Cinque bambini nacquero dall'unione dei due, ma di loro e della loro discendenza si sa ben poco».
La ragazza dai capelli color nocciola a caschetto sembrò voler alzare nuovamente la mano per intervenire, ma il professore la zittì mettendo fine a questa lezione tanto breve quanto introduttiva, ripromettendoci il proseguimento l’indomani.
«E anche questa lezione è andata» sospira Mona, guardandomi con un volto stanco e provato, mentre la nostra coinquilina si alza sbuffando. «Spero che la prossima volta non ci soffermeremo a discutere solo di queste sciocchezze».
«Da quando in qua per lei, qualcosa non è sciocco?» chiedo a Mona, osservando Emily che si allontana dalla classe indispettita, portandosi i capelli con un gesto preciso e fulmineo dietro le spalle. «Non riesco a capire se lo fa apposta oppure è ignara di quello che le accade intorno» borbotto, riferendomi al suo comportamento da ragazza viziata e saputella.
«Lasciala in pace, siamo solo alla prima settimana e tu già non sopporti la tua coinquilina. Non è da te Eva» dice ironicamente Mona, raccogliendo il suo materiale da sopra il banco biancastro. «E non solo con lei, vogliamo parlare di Key e della sua amichetta? Non hai fatto altro che parlare e pensare al motivo per cui quella ragazza ti possa aver indicato» aggiunge lei riaprendo una ferita non ancora in via di rimarginazione.
«Key» pronuncio il suo nome sottovoce, senza però farmi udire da Mona, che sta uscendo dalla classe continuando a farmi la predica sul mio comportamento fuori luogo e non adatto ad una ragazza riservata come me.
«Parli del diavolo e spuntano le corna…» borbotta Mona indicando la direzione opposta nella quale dobbiamo procedere. Key insieme alla bambola bionda, con cui l’avevo visto parlare l’ultima volta, stanno attraversando il corridoio proprio davanti alla mia aula.
I suoi occhi, spenti e senza nessuna luce che illumina quel colore particolare quanto affascinante, sembrano persi nel nulla, mentre la sua interlocutrice continua a sostenere un monologo solo a lei conosciuto.
“Che cosa si cela dietro il tuo sguardo?” penso tra me e me, emettendo un sospiro e osservandoli finché non scompaiono dalla mia visuale una volta per tutte.
Camminando con la testa totalmente da un’altra parte vado a urtare contro qualcosa di decisamente solido.
«Ma allora il tuo è un vizio!» sbraita una voce maschile estremamente famigliare davanti a me.
«Darkan!» esclamo io, alzando lo sguardo verso quegli occhi azzurri come il cielo che sembrano entrarmi fin dentro le ossa.
«Eva, ti stavo cercando sai?» dice prendendomi per entrambe le spalle e avvicinandomi a sé con aria quasi divertita.
«Ah si? D-davvero? Come sapevi che mi fossi iscritta proprio qui a Richford?» balbetto intercettando l’espressione quasi del tutto sconvolta di Mona, che sembra essere un ritratto dettagliato della mia, la quale vorrei davvero avere uno specchio per poter vedere.
«Ti ho vista il primo giorno durante l’accoglienza dei nuovi iscritti e sembravi un coniglietto spaventato» sorride lui, accarezzandomi i capelli e continuando il suo discorso: «cosi ho pensato di non compromettere ulteriormente le cose, evitando di farmi vedere».
Nell’accarezzarmi delicatamente il volto mi fa avvampare come solo lui è in grado di fare. I suoi capelli sempre ordinati e lucenti, che ora si adagiano morbidamente contro la mia fronte imperlata di sudore, sintetizzano l’enorme cura quasi maniacale, che Darkan ha per il suo corpo. «Che volevi dirmi?» domando io per togliermi dalla mente i vecchi ricordi che mi legavano a lui. «Questa sera spero che tu non abbia altri impegni perché non potrei accettare il tuo ennesimo rifiuto, specialmente perché questa sera è il mio compleanno e tu sei una delle poche ad essere stata invitata. Beh, perlomeno del primo anno…»
«Una delle poche?» domando subito io, stupita da quella sua sfrontataggine.
«Sì, se ci verrai sarai in compagnia della tua coinquilina se non erro, la sorella minore di Legrand»
«Emily?» esclama Mona sorpresa, facendosi avanti in quella conversazione che non la riguardava affatto.
«Sì, forse, non lo so, ma comunque spero che verrai, la tua presenza mi sarebbe davvero cara» conclude lui riportando il suo sguardo da me a Mona in un lampo, facendomi l’occhiolino.
So che il suo sorriso, le sue attenzioni e quei gesti apparentemente interessati, sono rivolti a me solo in segno di quell’affetto che provava tempo addietro nei miei confronti; gentilezza che nasconde sicuramente un’indifferenza priva di doppi fini.
«Sono mortificata. Mi dispiace dover interrompere questo continuo lancia sguardi, ma Eva e io abbiamo una lezione tra meno di due minuti» annuncia Mona, riportandomi alla realtà e, prendendomi alla sprovvista, mi tira via per la manica della maglia, indispettita.
«Aspetta Mona, che ti prende?»
«Non pensarci nemmeno, lo so a cosa stai pensando! Non voglio assolutamente che tu ci vada a quella festa. Ricordi quanto sei stata male i primi mesi, dopo la vostra rottura?» mi domanda lei leggermente preoccupata una volta che la figura di Darkan fu totalmente scomparsa dalla mia vista in un modo così brusco.
Rimembro il dolore che ho provato dopo la nostra separazione, anche se oggi, a distanza di anni, non riesco a comprendere pienamente il motivo che mi ha spinto a lasciarlo andare, seppure sono sicura che in questa strana decisione c’entrino i miei sogni.
A distrarmi dal mio mondo di pensieri e congetture è il professor Masosky, la stessa persona che, giorni prima ci aveva parlato e rivelato delle informazioni riguardanti la vita di Key, e il quale ci fa notare di essere entrate all’interno della sua classe in maniera irruenta, durante il nostro breve dialogo.
«Signorine, avete intenzione di restare lì per tutta la durata della lezione?» sorride lui indicandoci i posti restanti.
Io e Mona, entrambe distratte dai nostri pensieri non ci eravamo accorte di esserci fermate cosi, senza una vera spiegazione e motivazione, in mezzo alla classe, scaturendo l’interesse di tutti i nostri compagni.
«Ci scusi» diciamo noi all’unisono e andiamo subito a metterci sedute negli ultimi posti disponibili: penultima fila, accanto alla finestra.
La sala è pressoché identica a quella precedente, l’unica cose che la rende differente è il colore della parete: verde chiaro.
«Ho intenzione di andare a quella festa» sussurro io una volta sedutami al mio posto, sorprendendo Mona che mi fissa con gli occhi fuori dalle orbite. «Pensandoci bene, Darkan non mi ha mai fatto nulla di male e andando a quella festa avrò l’occasione di incontrare molte persone interessanti, visto che, oltretutto, non conosciamo quasi nessuno qui» sorrido a lei che mi fulmina con i suoi occhi castani.
«Questo non è mai stato un problema!» mi confida lei, riferendosi allo scarso interesse che ho sempre provato nei confronti delle persone che mi circondavano. O meglio, ho sempre avuto l’incessante bisogno di potermi confrontare con una qualsiasi altra persona all’infuori di Mona e Sally, ma questo mio, seppure ormai scemato, desiderio di socialità è sempre stato placato da una forza superiore, da qualcosa di più grande perfino della mia volontà stessa. Devo sembrare del tutto fuori di senno, nell’ammettere che la persona, o meglio la cosa, a me più cara in assoluto è una stupida voce con la quale dialogo spesso la notte, durante il dormiveglia, la quale mi consiglia e fa sì che io riacquisti sempre la voglia di continuare questa mia eterna battaglia contro tutto e tutti. Ma sta volta è diverso, sta volta lui non c’è. E’ da quando sono entrata in questa scuola che i miei sogni, e quindi la medesima voce fioca che la mia mente filtra prima di addormentarsi del tutto, non riescono più ad avere luogo e quindi ad appoggiare le mie scelte. E’ come se questo qualcuno mi avesse improvvisamente reso quell’indipendenza che io non avevo mai espressamente richiesto ma che da tempo avevo segretamente aspirato a raggiungere. Non ho mai parlato né a Sally né a Mona di Nathan, perché in primo luogo, penso che mi avrebbero presa per pazza senza permettermi di replicare, e anche e soprattutto perché lui, il ragazzo invisibile che vive nella mia dimensione onirica, mi aveva fatto espressamente promettere, durante il mio quinto compleanno, che se avessi rivelato ad alcuna persona della sua presenza, lui sarebbe scomparso per sempre lasciandomi sola come lo ero prima di incontrarlo.
«Ora incomincia ad esserlo Mona! Guardati intorno, questa scuola è l’apice della sicurezza» dichiaro sicura di quello che sto dicendo, cercando di convincerla a desistere. Non mi importa così tanto della festa di Darkan, sebbene, quella con lui, sia stata la mia prima ed unica relazione di coppia, ma sento il bisogno di dover rivendicare le mie scelte. Mi sento come una ragazzina, a cui è stato appena concesso di poter uscire la sera senza genitori alle calcagna che, in lontananza osservino ogni suo movimento e azione, mi sento come una bambina alla quale sono state donate le prime monetine da spendere in tutta libertà. Sono paonazza al solo pensiero di poter compiere le mie scelte autonomamente, pur sentendomi completamente estraniata da quell’Eva che solo pochi giorni fa governava il mio corpo, pur consapevole che la voce di Nathan mi mancherà, a lungo andare.
«Se la metti così, allora verrò anch’io con te…» prorompe lei, appoggiando con violenza il quaderno degli appunti sul banco in marmo, producendo una sonora frustata.
«Non sei stata invitata Mona» le ricordo io ironicamente.
La mia amica sta per replicare, ma una ragazza, che davanti a noi aveva accennato già da un po’ il suo essere infastidita dalla nostra conversazione, ci fa segno di fare silenzio e rimandare il nostro turbolento colloquio.
«Sta sera, se mi aspetterai sveglia, ti farò il resoconto della serata» solennizzo rizzandomi in piedi per uscire dall’aula di storia del Dexcell, perdendomi così la prima lezione con il professor Masosky, il quale con lo stesso sguardo enigmatico e raggelante di Mona, lasciava intendere, come la mia amica, che mi avrebbero seguita e osservata ovunque.

Il terzo piano dell’istituto di Richford è in assoluto il più bello che fin’ora ho avuto l’occasione di vedere. Delle cascate di fuoco vivo e intenso, si aizzano, scoppiettando, tra le varie decorazioni del corridoio principale, facendomi così strada, verso quello che deve essere uno dei dormitori maschili del terzo anno. I bordi delle pareti, i merletti e le ringhiere, totalmente composte da fuoco e fiamme sembrano essere l’unica fonte di luce in quella via a me del tutto sconosciuta, illuminando così il mio passo cauto e insicuro che ad ogni tratto sembra incespicare dallo stupore.
La musica forte, proveniente da chissà quanti metri più giù e le urla paonazze, mi aiutano a capire che la festa di compleanno di Darkan non deve essere poi tanto lontana da qui.
«Chissà oggi quanto sarà bello...» sento esclamare da una ragazza più grande di me, che sta camminando insieme alla sua amica nella mia medesima destinazione, probabilmente riferendosi all’aspetto fisico del festeggiato.
Arrivata davanti all’entrata dove un grande arco di fuoco azzurro mi da il benvenuto, ho la possibilità di osservare tutti gli invitati di Darkan. «Una delle poche ragazze ad essere stata invitata, eh?» faccio io, sbuffando e osservando tutte le ragazze che si muovono al ritmo dell’ultimo pezzo in voga di questo periodo.

Przez całe lato tańczyliśmy. 
Jesteś szalony, zakochałem się.
Piliśmy, kochali.
Za każdą godzinę, za wszystkie godziny.

Gracchia a squarciagola l’altoparlante fissato sul soffitto azzurrino.
La ragazza che mi aveva zittita al corso di Storia del Dexcell mi urta la spalla e poi se ne va come se niente fosse accaduto, facendomi percepire per la prima volta fuori luogo in quel posto così caotico. Valanghe di cibo perlopiù caramellato, si fanno spazio tra i vari tavoli curati nel più minuzioso dettaglio, mentre una caraffa alta almeno la metà di me, si erige al centro del dormitorio C-10 illuminando lo sguardo degli invitati già ebbri. Quello stesso recipiente, il quale sembra contenere un liquido giallastro mai visto prima di allora, mi consente però di specchiarmi, tra i vari spintoni dei ragazzi sbronzi. Avevo comprato questo vestito, proprio in vista di occasioni come queste a Richford, ma non pensavo che avrei avuto l’occasione di sfoggiarlo così presto; due fasce bianche che s’intrecciano fra loro mi coprono il petto per poi scendere lungo la pancia e trasformarsi in una gonnellina che mi arriva leggermente sopra le ginocchia. Dei cinturini del medesimo colore invece, uniscono le due fasce scoprendo quasi del tutto la parte superiore dei fianchi.
Le scarpe, con un piccolo tacco, mi slanciano, rendendomi leggermente instabile, ma sicuramente molto elegante.
Avanzando tra la folla intenta a ballare e a canticchiare a squarciagola il testo della canzone, mi ritrovo vicino ad un divano di pelle nera ad osservare Darkan,il quale sta conversando con ragazze di ogni età. La cosa bella è che non mi da minimante fastidio il suo comportamento, benché io continui a sentirmi decisamente avulsa da questo folle contesto.
«Ehi, dolcezza vuoi qualcosa da bere?» mi sento domandare da un ragazzo alto e moro che sembrava fissarmi da chissà quanto tempo. Faccio cenno di no con la testa e quando sto per andarmene avvisto Mona, in lontananza.
«Sapevo che saresti venuta» sospiro tra me e me, osservando la sua figura avanzare secondo dopo secondo, probabilmente cercandomi con gli occhi. Seppure io non mi senta entusiasta di stare qui, in questo luogo così angusto, Mona deve comprendere e rispettare le mie scelte, positive o negative che siano.
«Guarda, se offri da bere a quella ragazza sono sicura che accetterà» suggerisco io a quello stesso ragazzo che poco prima aveva tentato un approccio fallimentare con me, cercando di nascondermi dietro il suo corpo massiccio.
«Se lo dici tu…» dice lui incerto, guardandomi con quell’aria lievemente perduta in un mondo in cui solo la droga e l’alcol fanno da padroni, per poi seguire il mio consiglio e andare nella sua direzione.
Io intanto, furbamente, mi avviò verso l’uscita, facendomi spazio tra la gente, cercando di scappare dalle “grinfie” di Mona che sicuramente mi vorrà riportare dentro il nostro dormitorio.
«Eva?» mi sento chiamare da una voce squillante mentre una mano fredda mi afferra per la spalla. Emily, vestita con vestito color lilla, lungo fino ai piedi e con un’ampia scollatura sul collo, mi guarda leggermente confusa. «Che cosa ci fai qui?» domanda irritata e confusa.
«Per lo stesso motivo che ci sei tu Emily» le rispondo con un sorriso a trentadue denti scomparendo rapidamente dalla sua visuale.

A teraz już mnie opuścił.
Moja szalona miłość.
Cholernie płacz. Ty stworzyłeś.
Jestem twój, ale zostawił mnie.

Prosegue quella stessa canzone, che non ero neanche riuscita a sentire tutta, vista la mia fugace permanenza alla festa, accompagnando la mia evasione disperata.
Con grande difficoltà riesco ad uscire fuori, investita da alcune ragazze che cercano di entrare dentro la stanza, con la stessa foga con la quale gli invitati, all’interno, mi avevano spinta e strattonata, quando ecco che, pochi metri più in giù avvisto qualcuno che non mi sarei mai aspettata di incontrare qui: Key Austrang. Poggiato ad una delle colonne di fuoco in fondo al corridoio, si guarda intorno confuso e dolorante, mettendo ben in vista un’espressione che non avevo mai avuto modo di vedergli prima di allora; mi avvicino cautamente a lui, mentre Key, claudicando, sembra cercare di reggersi in piedi disperatamente, accompagnato e sostenuto da un’altra figura maschile che non conosco.
«Hey!» esordisco io, non riuscendo a dire nient’altro.
A quell’esclamazione priva di senso entrambi si voltano verso di me, senza né dire né fare nulla.
In particolare, il ragazzo vicino a Key, sembra quasi sgranare gli occhi nell’osservarmi da capo a piedi, mentre io imbarazzata rivolgo lo sguardo a terra.
Perché mi fissa in questo modo?
«Eva? Che ci fai qui?» mi sento domandare di nuovo, sta volta da Key.
«V-vi conoscete?» ci chiede il ragazzo biondo con gli occhi grigi, quasi balbettando dallo stupore, avvicinandosi a me. Ad ogni modo né io né Key, proviamo a rispondere a quella domanda del tutto fuori luogo, limitandoci a stare in silenzio e ad osservare i suoi movimenti incerti.
«Io sono Leo Lachowski, piacere di conoscerti» dice porgendomi la mano, in una maniera estremamente forzata e decisamente innaturale, quasi inciampando una volta giunto a pochi passi da me.
«Sono Eva Salmons, piacere Leo…» rispondo io, stringendogli la mano, estremamente confusa e in parte spaventata dal suo comportamento insolito.
«Il tuo amico sta male…lo sto aiutando ad andare in camera sua» mi sussurra in maniera tale da non farsi sentire da Key che stremato, sembrava respirare a fatica.
«Non è mio amico» gli bisbiglio in tutta risposta, guardandolo Key Austrang lievemente preoccupata. Leo accenna un sorrisino compiaciuto e poi riprende a parlare « Assomigli tanto ad una persona…» farfuglia.
Senza chiedermi o interessarmi all’affermazione del biondino, proseguo ciò che già da un po’ mi ero prefissata di chiedergli «Che cos’ha? Perché sta così male?»
«Sono cose oscure…è meglio non farsi coinvolgere» mi spiega sottovoce facendomi sgranare gli occhi e rendendomi ancora più curiosa e confusa di prima.
Ad ogni modo, mentre alcuni pensieri incominciano a farsi strada dentro la mia mente, scorgo la figura di Key, che già da un po’ riprometteva di crollare a terra da un momento all’altro, barcollare come un ubriaco saturo di alcol.
«Key!» esclamo, correndo verso di lui nell’atto disperato di soccorrerlo, aiutata da Leo.
«Stai fermo qui!» lo rimprovera il suo amico, riportandolo a contatto con il muro di fuoco finto, mentre io lo aiuto a sostenersi.
«Lasciatemi stare!» sbraita Key, allontanandosi da noi due e proseguendo il tragitto verso il suo dormitorio.
«Sei un testone, quando imparerai ad apprezzare le attenzioni dei tuoi amici» lo sgrida il ragazzo dagli occhi grigi e dalla costituzione massiccia seguendo il suo passo incerto e barcollante.
«Oh, avete detto bene, voi non siete miei amici!» sbotta Key, guardando non tanto me, quanto Leo, con il disprezzo più assoluto, rendendo evidente il fatto di avermi sentita mentre io lo dicevo al suo amico, facendomi vergognare.
«Lasciati almeno aiutare fino a che non sarai arrivato al tuo dormitorio» lo supplico io, portandomi istintivamente davanti a lui, portandogli il braccio destro dietro la mia schiena, sorreggendolo. Senza dire nulla, ma lanciandomi solo uno sguardo tanto divertito quanto enigmatico e provato dal dolore, Key si lascia aiutare da me e Leo in questa processione impacciata.
«Vedrai, presto starai meglio» cerco di rassicurarlo io, per qualcosa che probabilmente spaventa più me che il diretto interessato.
Che cosa nascondi Key Austrang?

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Capitolo 6
*** Oscuri presagi ***


6. Oscuri presagi

 

Rimasi sveglia ad assisterlo per tutta la notte. La stanchezza incessante che il mio cuore provava non m’impedì di prendermi cura di lui.
Key si svegliò un paio di volte in preda al delirio, ma grazie al mio sangue freddo e all’aiuto di Leo riuscimmo a ricondurlo al sonno.
Durante il suo riposo però, nonostante cercassi di fidarmi di Lachowski, avevo un brutto presentimento, e infatti Leo non smise mai un secondo di osservarmi, come fosse rapito dai miei occhi. Era inquieto, agitato, ma sebbene pensassi che tutto questa preoccupazione fosse dovuta alla malattia improvvisa di Key, qualcosa mi suggeriva che le cose non andassero proprio cosi.
Furono proprio le sue parole a confermare questo mio pensiero: «Key non è ammalato» aveva esordito lui dopo estenuanti secondi di silenzio.
«Che cosa?» fu la mia immediata domanda.
«Hai sentito bene. Il suo corpo non è ammalato quanto invece lo è il suo cuore.»
«Dici che stia soffrendo per Susan?» nel pronunciare quel nome il copro di Leo si irrigidì e dopo aver scosso la testa ricominciò a parlare: «Vedi Eva, Key ha dovuto affrontare una prova molto grande durante la sua vita e quest’ultima gli ha lasciato una cicatrice indelebile. Più rimarrà lontano da questa sua scelta, da questa sua promessa irrevocabile, e più questa cicatrice brucerà.»
«E dov’è la ferita in questione?» chiesi io, rapita e preoccupata per le parole di Lachowski. Lui in risposta si avvicinò piano a Key, e con un unico movimento gli slacciò la camicia e mi lascò ammirare sbalordita lo spettacolo che bruciava esattamente sopra al suo cuore.
Una chiave di fuoco abbracciata da dei rovi che si intersecavano tra le varie insenature di quest’ultima, sembrava bruciare con foga sul petto di Key.
Richiusi subito la camicia cercando di fare più dolcemente possibile in modo da non svegliarlo, guardando ipnotizzata quel marchio finché questo non fu mascherato del tutto dal indumento di Key.
«Deve fare molto male» domandai totalmente ammaliata dal volto tranquillo di Key.
«Talvolta sanguina anche» mi rispose lui, sedendosi di fianco a me, procurandomi una dolorosa fitta al cuore.
“Come può sopportare un dolore simile? Come può far cessare tutto questo?” rifletto sulle parole di Leo che continuava a osservare il volto dormiente di Key.
«E l’unico modo per far cessare tutto questo dolore è quello di tornare tra le braccia del signore a cui ha giurato fedeltà eterna» rispose Leo alla mia domanda inespressa, lasciandomi senza fiato.
Non capivo il perché mi stesse confidando tutti quei segreti intimi di Key, e tantomeno perché mi trovavo lì ad aiutarlo mentre alla fine dei conti lui era per me un perfetto sconosciuto; un ragazzo come un altro dal quale, senza capacitarmi, ero inspiegabilmente attratta come una falena che volteggia attorno al suo lume.
«Perché io? Perché mi stai raccontando tutti questi particolari?» domandai a voce bassa mentre le mani mi tremavano. Avevo paura della sua risposta perché sapevo in fondo al mio cuore che in quale modo, per una strana ragione, ero indissolubilmente legata a lui.
«Perché mi chiedi? Eri ad una festa privata alla quale doveva essere difficile perfino entrare, eppure sei subito accorsa in suo aiuto non appena lo hai veduto in difficoltà. Quindi, la risposta non è difficile come credi» asserì lui, mostrandomi un ghigno che sembrava aver compreso più di quanto non avessi capito io. «Volevo dunque metterti allerta sul lato oscuro di questo ragazzo al quale sembri tenere tanto.»
«Sono sicura che Key ha abbandonato per sempre questo lato oscuro di cui parli tanto, altrimenti non sarebbe qui con noi. Ci deve essere un’altra soluzione per guarirlo.» di fronte alla mia affermazione Leo prese a ridere sguaiatamente.
«Come sei ingenua. Non sempre tutto quello che ti circonda è fatto di bontà, ci sono cose che non puoi comprendere, l’uomo di per sé è crudeltà celata da maschere che lo rendono piacevole alla società che lo circonda. Key ha rotto questa maschera, ma non ha mai più imparato a rimettersela.» sbottò Leo, facendomi trasalire per poi proseguire come se le sue parole non avessero un peso effettivo: «Ad ogni modo ricordati di evitare di pronunciare il nome di Susan in presenza di Key. Non credo lo gradirebbe.»
«Susan. Deve essere stata molto importante per lui» affermai io con un filo di voce, perdendomi per un istante dentro quegli occhi addormentati.
«Lo era, lo era eccome. Era bellissima, un angelo sceso in terra, con i suoi capelli biondi come il grano e gli occhi verdi come lo smeraldo più prezioso del mondo. Lei era bellissima.»
«E tu ne eri innamorato?» chiesi, cercando di capire il perché avesse ecceduto con quegli aggettivi qualitativi che aveva usato per descrivere la ragazza che aveva amato Key.
«Cosa? No!» fece lui, quasi spaventato da ciò che avrebbe potuto causare la sua risposta. «Lei teneva troppo a Key, avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui» riprese, osservando Key con una nota di disprezzo nello sguardo. «Ti assomiglia molto.» sussurrò lui a denti stretti.
Durante la notte, quando le forze stavano per abbandonarmi e i miei occhi si stavano per chiudere, Key si svegliò.
Leo aveva abbandonato quella stanza ormai da tempo, quasi infastidito dalla mia presenza costante. Mi chiese più volte di lasciare a lui l’incarico di badare a Key al posto mio, ma la mia testardaggine e la mia voglia di sapere di più su quella faccenda mi impedì di scollarmi dalla sedia.
«Che cosa ci fai ancora qui?» mi domandò Key, dolorante e con la fronte che a contatto con la mia mano fredda, bruciava prepotentemente.
«Quanto scotti. Cerca di riposare ancora un po’» suggerì io con un sorriso sulle labbra.
Key provò ad alzarsi invano, dimostrando di non aver dato un peso alle mie parole. «Non posso aiutarti se continui a comportarti come un bambino. Cerca almeno di non fare sforzi. Io e Leo abbiamo faticato molto per riportarti qua.» borbottai, offesa per non essere stata minimamente ascoltata.
«Vi ringrazio amici miei!» rispose lui sprezzante e poi riprese osservandomi da capo a piedi con occhi indagatori: «Dove stavi andando vestita cosi? Al circo?»
«Stavo andando ad una festa di compleanno. Una festa privata che mi sono persa a causa tua!» gli rispondo con voce collerica per poi finire nuovamente seduta su quella sedia che mi aveva sostenuta per tutta la notte.
Key storse il naso, riadagiando la testa sul cuscino. Il suo volto provato riuscì nuovamente a farmi stringere il cuore cosi avvicinandomi a lui gli presi incerta la mano.
«Sei molto graziosa in realtà» biascicò lui improvvisamente, prendendomi alla sprovvista e facendomi arrossire più del dovuto.
«Menti» sussurrai io con un filo di voce mentre gli lasciavo la mano, calda e imbarazzata.
«Non è vero!» ribatté lui, osservandomi divertito da quel piccolo battibecco.
«Si invece» replicai io, decisa a conquistare la ragione.
«Pensala come vuoi! Se vuoi sempre renderti insopportabile accomodati pure.»
Attimi di silenzio nutrirono il mio imbarazzo, rendendo quella stanza bianca e desolata, più silenziosa e cupa di quanto già non lo fosse.
«Hai ragione tu» risposi io sconfitta mentre mi accomodavo accanto a lui e lo guardavo dritto negli occhi. Una lacrima silenziosa mi solcò il viso senza che io avessi la forza di fermarla; una lacrima che mi attraversò il viso e catturò immediatamente l'attenzione di Key che mi guardò preoccupato e con voce spaventata mi chiese: «Che ti succede ora?» I suoi occhi, belli come il cielo dopo la tempesta, mi scrutarono attentamente, pronti a intercettare ogni mia debolezza per renderla fortezza, quercia, in grado di resistere ad ogni improvviso temporale.
«Ho avuto paura» sussurrai, lasciando uscire liberamente i miei pensieri allo scoperto.
«Di che cosa hai avuto paura?»
«Stavi cosi male…» in un lampo tutta quella notte infernale mi ripercorse la mente ricordandomi dei suoi deliri e del tatuaggio sul suo petto, infiammato come il più prepotente dei fuochi; tatuaggio che avrebbe potuto sanguinare da un momento all’altro come la più profonda delle ferite. E ripensando alle parole di Leo, con preoccupazione, mi avvicinai al corpo di Key e senza riflettere alle conseguenze inizia a slacciargli il primo bottone della camicia per cercare di osservare nuovamente quel marchio che lo aveva torturato per tutta la notte. Riuscì a intravedere la sua pelle glabra dove prima era situato quel tatuaggio crudele, ma quest’ultimo non vi era più. Era scomparso come se non fosse mai esistito.
Eppure io lo avevo visto.
Key, fino a che non emisi un sospiro di tranquillità, osservò le mie mani come rapito dai miei movimenti incerti. Lentamente allontanò la mia mano dall’apertura della camicia e se la portò al petto, facendomi arrossire.
I suoi occhi mi guardavano ricolmi di emozioni mentre le sue mani sembravano ringraziarmi per tutto quel supporto che dovevo avergli dato, anche se lui non se ne era accorto, durante tutto l'arco della notte.
«Key» Improvvisamente Leo fece capolino nella stanza, interrompendo quello scambio di sguardi che non sapevano bene dove rivolgersi, rimanendo per qualche secondo interdetto ad osservarli in quella posizione equivoca.
«Come stai?» A quella domanda Key si scostò lievemente la camicia già leggermente sbottonata in precedenza dalle mie mani tremolanti, per mostrare poi al suo amico quel tatuaggio che ormai non c’era più, reputando con tutte le probabilità del mondo che io non fossi a conoscenza di tutto quello che ingiustamente doveva subire di tanto in tanto.
 
Abbandonai il dormitorio con gli occhi arrossati per il sonno mancato e mi diressi verso l'esterno con un'urgente bisogno di respirare l'aria pulita e fresca del mattino. Sebbene avessi voglia di far ritorno al mio dormitorio per riposare un po', l'idea di rincontrare Mona e i suoi pregiudizi negativi nei confronti di Darkan, mi ridestarono da quel sonno prepotente.
A piccoli passi percorsi il corridoio semi vuoto in quanto la maggior parte degli studenti dormiva o preparava qualche incantesimo per l'interrogazione dei professori. "Forza e coraggio" mi dissi mentalmente, prima di posare il piede nell'ingresso e venir invasa da quel giramento di testa che mi perseguitava ogniqualvolta che mi trovavo nei pressi di quella sala costellata dalle rune magiche. Feci più in fretta possibile per attraversarla e quando finalmente il caldo sole estivo mi accarezzò la pelle, sorrisi soddisfatta.
Amavo l'aria fresca e diverse volte alla settimana, quando ancora ero a casa, mi svegliavo di prima mattina per poter andare fuori e arrampicarmi su qualche albero alto in modo da potermi godere meglio il sorgere del sole. Uno spettacolo che ti toglieva l'aria dai polmoni.
Il dolce profumo dei fiori mi accoglie in quella immensa prateria contornata da mille colori e mentre i miei pensieri ritornano dentro quel palazzo titanico, da quale sono appena uscita, i miei sensi vengono cullati da quella dolce brezza.
«Key» sussurrai sottovoce e guardai il cielo azzurro che mi ricordavano terribilmente i suoi occhi, perennemente tristi e contornati da quel velo di mistero. Non era giusto che quel destino cosi spietato fosse toccato proprio a lui, sebbene il suo passato lo avesse segnato profondamente.
Seguì il sentiero che conduceva verso la parte autunnale del giardino e mi lasciai cadere in mezzo a quelle foglie secche e giallognole che sembravano coprire la terra stessa.
Key assomigliava tanto a quel gigantesco giardino. Quelle foglie avevano infatti la stessa consistenza del suo corpo avvizzito dal dolore, provocato da quel marchio infernale; mentre quel sole e quel caldo cosi inteso le restituivano lo stesso conforto che il sorriso di lui era in grado di donarle. Cosi Key era per me l'estate e l'autunno al contempo, cosi lui era per me sia la forza che la fragilità più assoluta.
«Eva?» Mi chiamò alle spalle una voce conosciuta e mentre mi sedevo e mi coprivo gli occhi dal sole, osservavo Darkan che si avvicina lentamente a me. «Grazie per essere venuta al mio compleanno» disse lui sarcastico per poi rimanere senza parole davanti il mio abbigliamento. «Non credi di essere troppo provocante di prima mattina?» mi domandò lui, facendomi notare di essere vestita come il giorno prima, come quando mi ero preparata per andare alla sua festa.
«Perdonami Darkan, è una lunga storia» cercai di giustificarmi notando la sua espressione vagamente delusa.
«Non preoccuparti sarà per la prossima volta. Sempre se ce ne sarà una» tagliò corto lui, facendomi capire che quella festa per lui era talmente tanto importante da costituire una vera prova per una nostra futura relazione, osservandomi con il dispiacere negli occhi.
«Darkan mi dispiace davvero! Mi ero presentata alla tua festa e questo vestito ne è la prova, ma poi un evento spiacevole ha fatto si che io dovessi andare via» gli spiegai, senza soffermami troppo sui particolari di quella notte; notte che aveva reso la mia anima inquieta.
«Un evento spiacevole? Che cosa mi nascondi Eva?» chiese lui, intenzionato a scoprire di più su quella vicenda che gli aveva probabilmente distrutto il compleanno.
«Non nascondo nulla. Lo sai, sono una ragazza che si confida facilmente con tutti coloro a cui ripone la sua fiducia» balbetto e poso i miei occhi a terra, cercando di nascondere quella bugia che serviva a nascondere una serata della quale io stessa non sapevo parlare.
Perché non volevo raccontargli di Key? Perché continuavo a ostinarmi a tenere Key lontano da me nonostante, al suo primo cedimento, non avessi esitato a corrergli incontro, nonostante fosse entrato silenziosamente nella mia vita da quella mattinata alla stazione.
Il ricordo della stazione le riportò alla mente il dolce profumo che l'aveva attirata e salvata da quel oblio generato dal caos che le aveva fatto perdere perfino i sensi. L'aveva salvata cosi come lei, quella notte, aveva salvato lui.
«E io sono uno di questi? Ti fidi di me?» mi chiese a brucia pelo, con gli occhi velati da una felicità che fino a quell'istante non avevo minimamente notato.
Distaccarmi da quel ragazzo bello come sole, mi aveva letteralmente distrutta. Non ero stata in grado di abbandonare la mia stanza per giorni, sicché il pianto e la consapevolezza di essere tornata nuovamente sola come un tempo, mi aveva costretta a quella situazione così disperata.
«Sai di essere stato molto importante per me, Darkan.» gli dissi onestamente, senza troppi preamboli.
«E potrei esserlo ancora?» fu la sua domanda a lasciarmi senza parole e senza fiato. Non mi sarei mai aspettata di sentir pronunciare quelle parole che un tempo mi avrebbero fatta andare al settimo cieco e lì, tra quelle mura dove la voce di Nathan non riusciva più a raggiungermi come faceva abitualmente a casa mia, forse avrei potuto ricominciare ad avere una vita normale, priva di ogni schermatura e ordini da parte di quest'ultimo.
«Io...Io non lo so Darkan.» risposi con il cuore in gola, pensando di tradire quel Nathan che si era preso da sempre cura di me cercando di proteggermi.
«Dannazione Eva! Non soffocare le tue sensazioni con me, sai quanto io sia legato a te. Se solo mi dessi la possibilità di dimostrartelo.» mi supplicò, abbassandosi alla mia altezza e guardandomi dritto negli occhi.
«Ho paura di cadere nuovamente a terra.» gli confidai, guardando quel cielo in parte nuvoloso e in parte offuscato da quel sole incandescente.
Forse Darkan non si meritava di essere stato lasciato da me, in quel modo cosi brusco e inaspettato. Ma che cosa potevo farci io? Ero solo una ragazzina che ascoltava la dolce voce di Nathan che mi suggeriva che fosse quella la cosa giusta da fare; la scelta giusta per andare avanti e non soffrire in un futuro più lontano.
«Ti aiuterò a rialzarti se dovesse succedere. Dammi una seconda possibilità, non ti deluderò, non ti deluderò mai più»
«Darkan, io...» e mentre prendevo la mia decisione, vidi il panorama che si offuscava e diventava sempre più scuro dal momento prima. Una voce in fondo al tunnel mi chiamava per nome, ma io come una stolta chiusi gli occhi senza ascoltarla, abbandonandomi a quella oscurità che in un certo senso mi fece di nuovo sentire a casa.

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