Astrolabio

di Francine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** #1 Il Prestigiatore del Ghiaccio ***
Capitolo 2: *** #2 Paramythi ***
Capitolo 3: *** #3 L'ottomana di velluto rosso ***
Capitolo 4: *** #4 Una mela al giorno ***
Capitolo 5: *** #5 Cinque Minuti ***
Capitolo 6: *** #6 Quella carezza della sera ***
Capitolo 7: *** #7 Il tassello mancante ***
Capitolo 8: *** #8 Chi di spada ferisce ***
Capitolo 9: *** #9 Tele-Romanza ***
Capitolo 10: *** #10 De Consolatione Philosophiae ***
Capitolo 11: *** #11 Tra le fronde dei limoni ***
Capitolo 12: *** #12. Rådjur pudding ***
Capitolo 13: *** #13 Viaggi organizzati ***
Capitolo 14: *** #14 Quando soffia il Meltemi ***
Capitolo 15: *** #15 Rosa, rosae ***
Capitolo 16: *** #16 Un anno ancora ***
Capitolo 17: *** #17 Beaujolais ***
Capitolo 18: *** #18 Briciole di zenzero e cannella ***
Capitolo 19: *** #19 Glasperlenspiel ***
Capitolo 20: *** #20 Come un bogatyr in sella al suo destriero ***



Capitolo 1
*** #1 Il Prestigiatore del Ghiaccio ***


#1- Il Prestigiatore del ghiaccio

 
Prompt: Libro
Titolo: Il Prestigiatore del ghiaccio
Autore: Francine
Fandom: Saint Seiya – The Lost Canvas
Personaggi: Fluorite, Madame Fraille, Dégel, Sasha
Genere: Commedia
Rating: Verde
Avvertimenti: Da collocarsi dopo il Gaiden di Dégel
Lunghezza: (conteggio parole e numero pagine) 963/ 2
Eventuali note dell’autore (o alla fine se contengono spoiler):Oh Dégel, Dégel, perché sei tu Dégel?(cit.)
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Si scrive soltanto una metà del libro, dell'altra metà si deve occupare il lettore.
(Joseph Conrad, Lettera a Robert Bontine Cunninghame Graham, 1897)



È quando posa la penna sul tavolo, si massaggia gli occhi e stiracchia le spalle indolenzite che si accorge di un piccolo, minuscolo particolare. Che tanto minuscolo poi non è. Non conosce il suo indirizzo. Non sa dove spedirgli il suo regalo.
Come faccio adesso?!, pensa. Senza accorgersi di averlo fatto ad alta voce. Talmente alta che madame Fraille, adesso madame Caillou, entra nella sua stanza senza bussare.
«Che succede, Flore?»
Flore, che quando si sono conosciute qualche anno addietro si chiamava Fluorite, sobbalza sulla sedia. «Ah, madame. Siete voi.»
«Tutto bene? Ti ho sentito gridare…», e lo sguardo di madame Fraille, ora madame Caillou, si posa sullo scrittoio della ragazza che ha adottato come figlia dopo quella sera sciagurata a palazzo de Garnet. «Non dirmi che hai di nuovo versato l’inchiostro sul manoscritto», chiede la donna avvicinandosi. Ma i fogli sono intatti. Immacolati. E anche le dita di Flore sono pulite. Più o meno.
«No, il manoscritto è intatto. Ho finito. Adesso lo lascerò in un cassetto per un mese, poi lo correggerò e lo manderò all’editore F. Il problema è un altro…»
Madame Caillou piega la testa di lato. «Sarebbe?»
«Avevo pensato di inviarne una copia a quella persona. Come dono, sapete. Però… mi sono dimenticata di chiedergli il suo indirizzo!»
Madame Caillou pone le mani l’una nell’altra e fissa un punto indistinto dello scrittoio. Sta pensando. In effetti, è un problema non avere un indirizzo vero e proprio a cui spedire una copia del romanzo. Cosa scrivere sul pacco?  Atene? Grecia? No, troppo generico. Nessun ufficio postale accetterebbe un invio del genere. Né tantomeno possono indicare come destinatario “Cavalieri di Athena”.  Vincerebbero un posto presso il più vicino… com’è che li chiamano adesso? Ah, si. Manicomio. A madame Caillou, ex madame Fraille, l’idea non alletta. Neppure un poco.
«Non potreste… non potreste chiedere a qualche amico di vostro marito?», domanda Flore guardandola con i suoi occhi grandi e fiduciosi. No che non può. Sarebbe come andare all’ufficio postale, se non peggio.
«Credo… credo proprio di no», e negli occhi della ragazza dilaga uno sconforto doloroso. «Sono tempi difficili, questi. Il nostro paese …» Madame Caillou si ferma.  «Però… forse….»
«Forse?», l’incalza Flore.
«Forse un sistema ci sarebbe», dice con un sorriso. Madame Caillou, ex madame Fraille, sorride di rado, ma quando accade, il suo viso si illumina e infonde agli altri speranza. Fiducia. La stessa che prova Flore specchiandosi in quegli occhi blu.
«Davvero? E quale?»
 

È da qualche giorno che Kardia non si fa vedere in giro. Sasha lo sta cercando, e quando Sasha cerca di lui significa una cosa sola: vuole andarsene a fare un giro in città, in Europa, sulla Luna non le importa. Vuole spezzare la monotonia delle giornate sempre uguali passate al Santuario. Lui non ha grossi problemi a portarsela dietro. Sasha è simpatica. Un po’ troppo chioccia e apprensiva, magari, però è uno spasso.
Il problema è che il Grande Sacerdote non approva che la dea Athena metta il suo divino nasino fuori dalle rassicuranti e protettive mura del Santuario. E a nulla vale dire che è un ordine della dea Athena in persona. Il Sommo Sage sorride comprensivo ed abbassa la testa davanti a Sasha, ma quando lei rientra nei suoi appartamenti il suo sguardo è pervaso da una furia assassina.  
«Devi dirle di no!», ringhia, e da come si gonfiano le vene che ha sul collo, teme che possa scoppiargli un embolo da un momento all’altro. «Che cosa succederebbe se le accadesse qualcosa?!»
Ed è questo che a Kardia brucia di più, non tanto la reprimenda del Sommo Sage, quanto il fatto che lui non sia tranquillo nel saperla accanto allo Scorpione. Crede davvero che permetterebbe che le torcessero anche un solo capello?
Per cui, onde evitare seccature, Kardia è sceso ad Atene. Da solo. E gli ha fatto giurare di non dire a nessuno dove sia andato. Men che meno a Sasha. «Altrimenti ti tolgo il saluto», e lui sa che Kardia, quando vuole, sa essere un uomo di parola. Così non si stupisce quando Sasha si presenta all’Undicesima Casa.
«Bonjour, Dégel», gli dice con una piccola riverenza. Ha voluto che le insegnasse qualche parola di francese, e Dégel scopre che il suo accento migliora di giorno in giorno.
«Bonjour, Athena», replica lui inginocchiandosi. Non è lì per la lezione settimanale, lo sa bene. «Se state cercando Kardia non è qui.»
«Lo so», risponde lei avanzando. Ha le mani dietro la schiena. Nasconde qualcosa, e Dégel pensa si tratti di un regalo per il suo amico. Novembre è vicino, dopotutto. «Sto cercando te.»
Me? Gli occhi dell’Acquario si spalancano dalla sorpresa. «Dite pure.»
Sasha si avvicina e gli porge quello che nascondeva dietro la schiena. Un pacchetto dalla forma parallelepipeidale, avvolto in una carta ocra scuro. Lui lo prende, lo scarta e quando legge il titolo e l’autore i suoi occhi quasi minacciano di rotolare giù dalle orbite. Il racconto s’intitola Il Prestigiatore del ghiaccio. L’autore è un certo Dégel du Verseau.
«Perché non mi hai detto di aver scritto un racconto, Dégel?», gli chiede Sasha, un po’ delusa.
«Perché questo racconto non l’ho scritto io», risponde con assoluta sincerità. «C’è il mio nome, ma io non ho mai scritto un libro in vita mia. Li ho solo letti.»
«E allora com’è possibile?», domanda Sasha indicando il volume.
«Non lo so», le confessa l’Acquario. «È un bel mistero. Che ne direste di dipanarlo insieme?»
A Sasha brillano gli occhi. La delusione per non aver trovato Kardia è spazzata via dalla proposta di Dégel. «Ci sto!», dice battendo le mani per la felicità. E a Dégel non resta che affiancare due sedie, schiarirsi la voce e cominciare a raccontarle una storia che ha vissuto in prima persona. Con il sorriso sulle labbra.
 

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Capitolo 2
*** #2 Paramythi ***


#2- Paramythi


Prompt: 
Titolo:  Paramythi
Autore: Francine
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Scorpion Milos
Genere: Commedia
Rating: Verde
Avvertimenti: 
OC e lievissimo AU
Lunghezza: (conteggio parole e numero pagine) 1821/ 4
Eventuali note dell’autore (o alla fine se contengono spoiler): Adoro vederlo nei pasticci (cit.) 
Prima pubblicazione: 27.11.2010
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Favola. Una piccola bugia per illustrare qualche importante verità.
(Ambrose Bierce, Dizionario del diavolo, 1911)




«Tanti, tanti e tanti anni fa, prima ancora che l’apostolo Paolo tenesse il suo discorso sull’Areopago, sorgeva un grande castagno alla fine della salita alla base dell’Acropoli, dove adesso c’è la casa del vecchio Kostas.»
«Il vecchio Kostas? E chi è?»
«Non ha importanza.»
«Certo che ce l’ha, o non l’avresti nominato», ribatte lei. «Chi è?»
«Nessuno. E adesso zitta, o perdo il filo. Dicevo… sì. Il castagno era immenso. Si diceva che, quand’era ancora giovane, fosse stato l’unico albero ad offrire riparo alla dea Demetra mentre era in cerca di sua figlia Persefone, e che la dea, per ringraziarlo della sua gentilezza, l’avesse premiato con una crescita ed una resistenza fuori misura. La gente che abitava nei dintorni viveva a stretto contatto con il castagno per tutto l’anno: in primavera, i pastori si fermavano a riposare ai suoi piedi mentre le pecore brucavano l’erba; in estate, la gente si riuniva sotto alle sue fronde per cercare rifugio dal caldo; in autunno, una pioggia di frutti cadeva dai suoi rami carichi, rotolando fino alla base della collina, ed in inverno si tagliavano un paio di rami che, divisi e distribuiti tra le varie famiglie, aiutavano ad affrontare le lunghe notti.
«Un giorno di autunno, durante la raccolta delle castagne, un ragazzo dai capelli neri e gli occhi verde bottiglia trovò un riccio ancora chiuso tra le radici del castagno. Era di un bel verde scuro, ancora sigillato e tondo tondo. Probabilmente, pensò il ragazzo, sarà caduto prima del tempo. Lo scosse e vi sentì la castagna ballare all’interno, ma non trovando alcun modo per aprire il riccio, ed avendo la gerla ben ripiena di frutti, decise di lasciarlo lì dove l’aveva trovato e di andarsene per la propria strada.
«Arrivò l’inverno, un inverno rigido per le nostre zone, e fiocchi di neve caddero ad imbiancare il castagno. Passò sotto i suoi rami scheletrici un altro ragazzo che aveva gli occhi di ghiaccio ed i capelli biondi. Vide il riccio spiccare contro la neve e stese le sue mani per raccoglierlo. Si punse, ma la bellezza di quel piccolo riccio verde lo indusse a manovrarlo con maggiore delicatezza alla ricerca di un modo per aprirlo e gustarne il frutto, ma non trovando alcun accesso al suo cuore, il ragazzo lo scagliò contro il tronco del castagno e se ne andò nella neve, senza voltarsi indietro.
«Arrivò la primavera, i rami si ricoprirono di gemme e di nuove foglie e il riccio stava ancora ai piedi dell’albero, un po’ ammaccato e sempre più chiuso. Passò in un bel giorno di sole un ragazzo dalla veste candida. Era bellissimo. Alto. Forte. Aveva gli occhi azzurri e magnetici, e una gran massa di capelli ricci. Anche lui notò il piccolo riccio a terra ed anche lui, incuriosito, si avvicinò e lo raccolse, avendo cura di non pungersi con le sue spine. “Come sei bello”, mormorò il ragazzo al piccolo riccio. Poi avvicinò le labbra al frutto e chiese “Non ti apriresti per me, per favore?”. Subito il frutto si illuminò di una calda luce dorata e si trasformò sotto gli occhi increduli del giovane. Il piccolo riccio era scomparso. Al suo posto c’era ora una bellissima fanciulla, dagli occhi dello stesso colore del riccio ed i capelli dello stesso tono del tronco dell’albero. La fanciulla prese le mani del giovane tra le proprie e disse: “Grazie, mio eroe. Uno stregone mi aveva lanciato un incantesimo per farmi comprendere il valore della gentilezza, e tu mi hai salvato.”
«Il ragazzo non credeva ai propri occhi. La fanciulla era bellissima, la sua voce aveva un timbro melodioso e il suo sguardo dolcissimo, così il nostro eroe la invitò a sedersi all’ombra, e parlarono a lungo sotto i rami frondosi del castagno, fino a quando il sole non scese oltre alla collina. Allora il giovane condusse la fanciulla alla propria casa e vissero per sempre felici e contenti.»
Lui osserva naso all’insù le fronde dorate del castagno in giardino. Sta aspettando che lei dica qualcosa. Le è piaciuta la favola? L’ha raccontata bene? Ma soprattutto, avrà capito? Lei tace. Il suo sguardo va dalle foglie d’oro al cielo al piccolo riccio che lui tiene tra le mani alle due tazze di tè che li aspettano ai piedi dell’albero.
«Così, domani torni a casa dalla mamma…»
No, non ci siamo. Resta spiazzato. Non si aspettava proprio che gli dicesse questo. Sì, i bagagli aspettano solo di essere caricati sul traghetto delle undici e mezza, e a dirla tutta lui non dovrebbe trovarsi lì, in giardino con lei, ma a riempire gli ultimi moduli prima della partenza; ma quando lei ha bussato alla sua porta e gli ha detto «Tè di commiato in giardino?», con due tazze fumanti, quelle due tazze, lui non ha saputo dirle di no.
«Sarai contenta, immagino. Avrai tutta la libertà che vuoi, adesso.» Gli è uscita un po’ più acida di quanto avrebbe voluto. Vorrebbe mordersi la lingua. «Scusami. Sono stanco», aggiunge, dandosi del cretino. 
Lei fissa un nodo sul tronco del castagno, la testa abbassata. «Ti dispiace se tengo questo riccio per ricordo?», dice alla fine, per cambiare argomento. Solo questo. E nient’altro.
«Se ti piace…», risponde lui, con finta noncuranza, passandole il riccio. Sì, ma la storia? Che ne pensi della storia, dannazione?, vorrebbe chiederle, ma non osa. Teme che sotto sotto sia quello che lei vuole, coglierlo con le braghe calate, e lui non le farà questa cortesia.
«Certo che mi piace», replica lei osservando il frutto ed un sorriso si distende sulle labbra di lui. «Però se adesso dico parakalò, che succede?»
Lo sta fissando dritto negli occhi, adesso, occhi verdi dai quali non riesce a svicolare in nessun modo. «Che succede? Perché, dovrebbe succedere qualcosa?», quasi balbetta. L’ha messo all’angolo. 
«Non lo so. Magari mi trasformo in una castagna? O vi trasformate tu e la mamma?», domanda lei. «O devo pensare che la storia della fanciulla nel riccio e dei tre ragazzi siano solo un caso, una coincidenza?» 
Conosce bene quello sguardo, l’allungarsi degli occhi e il distendersi della sopracciglia in quel modo, come faceva Camus; vederlo affacciarsi sul suo viso gli regala un brivido lungo la schiena. Ha capito. Eccome se ha capito. Solo che sta ribaltando la questione. 
Non sono la sola ad indossare una corazza. O un riccio di castagna, dardeggiano gli occhi verdi.
Vero. Ma il tuo è più coriaceo del nostro, ribattono quelli azzurri.
Osserva il piccolo riccio che lei tiene tra le mani e si stringe nelle spalle. «È solo una vecchia favola che mi raccontava mia nonna prima di dormire. Perché vuoi vederci a tutti i costi delle attinenze con il mondo reale?»
Perché altrimenti non me l’avresti raccontata, abbellita e modellata a tuo uso e consumo, gli rispondono i suoi occhi. «E guarda caso il riccio diventa una bellissima fanciulla dagli occhi verdi… Come maman...»
Niente. Non molla. «Vallo a dire alla nonna.» 
«A me la nonna non l’ha raccontata proprio così…»
«Si vede che non se la ricorda più tanto bene.» 
«Sarà passato troppo tempo da quando la raccontava a te…»
«Certo», dice lui, e un attimo dopo capisce di essersi dato del vecchio da solo. Piccola strega!
Lei ci pensa su, lo sguardo abbassato sui suoi stivali rossi, poi dice: «In effetti, una mezza idea su chi sia il biondino dagli occhi di ghiaccio ce l’avrei, ma proprio non mi torna chi possa essere il primo ragazzo... Qualcuno che conosco? No, non mi pare, a meno che non si tratti di qualcuno che la mamma frequentava prima di conoscere te…» 
«La mamma? Ossignore, ma te l’ho detto! Si tratta solo di una favola. Una. Favola.» Niente. Non sta andando affatto come lui aveva preventivato. Nemmeno per sbaglio. È sempre così con lei. Riesce sempre a scombinargli le carte. È peggio di sua madre. Quando lo imparerò?
«E il ragazzo che rompe l’incantesimo ha gli occhi azzurri e una gran massa di capelli ricci… Però, hai ragione, se si fosse trattato di te, ci sarebbe stata una mela e non un riccio di castagna…», prosegue ignorandolo.
«Ma che c’entro io? E poi, insisti ancora con questa storia? Il mio nome significa misericordioso e non mela
«Misericordioso? Tu?»
Lo stesso tono strafottente di sua madre. «Io, sì. Perché? Non ti torna?»
«Se lo dici tu, ti credo. Facciamo come nei film. Ogni riferimento a persone realmente esistenti o esistite o a fatti realmente accaduti è da ritenersi puramente casuale», propone lei. 
«Precisamente. E questa è solo una leggenda che non ha attinenza con il mondo reale», risponde annuendo, anche se una voce dentro di lui gli dice che farebbe meglio a starsene zitto. 
Raccoglie le tazze e gli porge la sua. «Ma le leggende hanno tutte un fondo di verità… Quasi quasi ci provo anche io. Sta a vedere che trovo un fidanzato degno di questo nome…», commenta rigirandosi con cautela il frutto tra le dita. 
Fidanzato?! Quasi si strozza con il tè. Un fidanzato? Per lei?! Ma stiamo scherzando?! «Non dovrei provarci io?», ribatte lui. 
«Tu? Guarda che lo dico alla mamma! Tienimi la tazza, piuttosto. S’il te plaît
«E se diventasse una ragazza?»
«E se diventasse un ragazzo?»
Lei chiude le mani a coppa attorno al riccio. Lui trattiene il fiato, entrambe le tazze tra le mani, impotente. 
È assurdo, si tratta solo di una sciocca favoletta che si racconta ai bambini per renderli più educati… 

Ma anche gli dei sono una favola, eppure Athena non si trova a poca distanza da noi, che passeggia per i giardini della Tredicesima Casa? 

Ma che c’entra? E poi, Athena è Athena, e quello è solo un riccio di castagna. 

Sì, ma che succede se quel riccio si trasforma per davvero?


«Non ti apriresti per me, per favore?», recita lei.
Non può succedere nulla. Razionalmente lo sa. Anzi, dovrebbe toglierle di mano quel riccio e spedirla di gran carriera a fare i suoi esercizi quotidiani. Decuplicati. Eppure lui, proprio lui trattiene il fiato per alcuni secondi che sembrano anni. Anni in cui gli occhi verdi di lei fissano il piccolo frutto senza che accada nulla. Il riccio resta un piccolo riccio ancora acerbo, lei resta lei, e lui riprende a respirare.
«Niente, ma valeva la pena provare. Mi passi il mio tè?»
«Te l’ho detto. Era solo una leggenda», commenta lui, visibilmente sollevato mentre le porge la tazza. «Non puoi pretendere che esca un bel ragazzo da una castagna acerba…»
«Certo che no», risponde lei sfarfallando le ciglia. «Ma la faccia che hai fatto è stata impagabile …»
«Faccia? Quale faccia?», chiede lui facendo un passo indietro e tornando ad osservare il castagno. 
Lei ride, un suono argentino che si perde nell’aria di Novembre. «Buon compleanno, papà», dice sollevando la tazza di tè al suo indirizzo. 
«Buon compleanno a te», risponde un po’ imbronciato, le tazze che tintinnano tra di loro. Maledizione a me e a quando mi vengono in mente certe idee…
 

 Questa storia è dedicata alla piccola Maria Bianca.

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Capitolo 3
*** #3 L'ottomana di velluto rosso ***


#3 – L’ottomana di velluto rosso



Prompt: Divano

Titolo: L’ottomana di velluto rosso

Autore: Francine

Fandom: Saint Seiya – Serie Classica

Personaggi: Aquarius Camus, Scorpio Milo, Pope Sion

Genere: Commedia/Sovrannaturale

Rating: Verde

Avvertimenti: Da collocarsi da qualche parte nello spazio/tempo precedente alla Notte degli Inganni


Lunghezza: (conteggio parole e numero pagine) 2417/ 4

Eventuali note dell’autore (o alla fine se contengono spoiler): Le vicende della Bête du Gévaudan si sono svolte, in realtà, una ventina d’anni dopo gli eventi narrati in Lost Canvas. Voi fate finta che gli abbia dato uno strappo il Dottore...

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Un buon divano è spesso ciò che c'è di più efficace per imbastire una conversazione.
(Pierre Dac,
Arrières-pensées, 1998 )



«E IO ti dico che c’è!»
Alza gli occhi al cielo. È stanco. Ha tutte le ossa rotte. Un mal di testa che rulla costante come farebbero le bacchette sulla pelle tesa del tamburo. L’ultima cosa che vuol fare è mettersi a discutere e precipitare in una spirale di discorsi insensati. Sarà stanco anche lui. E quando è stanco, straparla. Quindi l’unica cosa da fare è assecondarlo. Nella speranza che la smetta e lo lasci in pace.
«D’accordo. Mi hai convinto.» È sicuro di aver chiuso la questione. Quando fa così, vuole solo avere ragione e a lui che cosa costa dargliela?
Costa il fatto che con il suo compagno non funzioni così. Anzi. Ma lui questo ancora non può saperlo. «Benone. Andiamo.»
Andiamo? E dove?, chiedono i suoi occhi blu, allargati dallo stupore più genuino di questo mondo. «Pardon
«Vieni con me», gli dice. Serrandogli il polso. La sua mano brucia. Sente il calore attraverso il metallo dell’armatura.
«No», ribatte. È inutile, già lo sa, ma ogni mosca tenta di alzarsi in volo dalla tela del ragno, anche quando ha le ali invischiate. «Dobbiamo andare a fare rapporto al Sacerdote.» Disciplina. Un bel richiamo all’ordine. Questo ci vuole. Spera che, da qualche parte in quella testa bacata, il guerriero abbia la meglio sul ragazzino esagitato, e segua il senso del dovere, invece che strampalate fantasie.
«E che problema c’è? L’Ottava Casa è sulla nostra strada.»
 


Milo aveva ragione. C’è qualcuno seduto sul divano ai piedi del letto. L’alba deve ancora tingere il cielo di rosa, ma si riesce ad intravedere bene quella figura. Magra. Alta. È un uomo. Non sembrerebbe essersi accorto di loro due, che lo spiano nascosti dietro lo stipite della porta della stanza da letto del cavaliere di Scorpio. Cavaliere che non riesce a trattenere l’eccitazione – e la fifa – mentre anche il suo compagno osserva quella scena che si ripete da qualche mese. Puntuale ogni mattina.
«Hai visto?», sussurra Milo, quasi grida sottovoce sopra la testa del compagno. Il suo fiato gli sposta i capelli. Camus sente caldo. Un caldo tremendo. Come se qualcuno avesse acceso le caldaie del mondo a piena potenza e se ne fosse andato a fare una passeggiata.
L’uomo seduto sull’ottomana rossa legge un libro. Le gambe accavallate, una giacca di velluto bordeaux ed una decorazione di pizzo sullo sparato della camicia, i suoi occhi rincorrono le parole scritte sulle pagine che tiene tra le mani eleganti, la sua espressione è tranquilla e paziente, come se attendesse qualcosa. O qualcuno. Un leggero sorriso gli inarca le labbra mentre una ciocca di capelli lunghissimi e liscissimi scivola sul velluto della giacca. Ora riescono a vedere bene l’uomo ed i suoi colori, mentre questi volta la pagina e alza lo sguardo. I suoi occhi sono verdi. Di un verde impossibile. E mentre Camus ha la sgradevole sensazione di vedersi riflesso in uno specchio del tempo, il primo raggio di sole entra dalla finestra, fende la cortina leggera delle tende ed attraversa l’uomo. Che scompare sorridendo.
 


Nessuno dei due dice una parola mentre salgono le scale che li condurranno alle stanze del Sommo Sion. Camus ha la fronte imperlata di sudore e la schiena bagnata. Quello che hanno visto ha ben poco di naturale. Sapeva delle storie che circolano per il Santuario, e non se n’è mai stupito; anzi, credeva fossero un’invenzione di Mask per spaventare i più piccoli con le fole dei fantasmi. Lui non ha mai dato peso alle voci di fantasia. Perché dovrebbe? Ogni luogo con una storia alle spalle ha un forziere di leggende e tradizioni da raccontare. Echi del passato, riflessi di persone che non ci sono più, che permangono come piccoli frammenti d’anima e restano impressi sulle pietre che compongono il Santuario dall’alba dei tempi. A volte basta poco perché qualcosa di soggettivo divenga un fatto reale ed accertato. Un riflesso, un soffio di vento, una forte umidità… ed ecco un luogo infestato dai fantasmi. Oppure un animale feroce ed affamato, come La Bête du Gévaudan che sembrava dovesse essere chissà quale mostro uscito dai recessi dell’inferno ed invece era solo un grosso lupo.  

Io c’ero...

Camus spalanca gli occhi, i piedi fermi su uno scalino. Cos'è quel pensiero? Lui c’era? Ma quando?, si chiede guardando il marmo candido. È certissimo di non essere mai passato per il Rossiglione. Mai. Nemmeno durante il viaggio con Rémy per raggiungere il Santuario. E poi, si tratta di fatti avvenuti almeno duecento, se non duecentocinquanta anni prima. Come faceva ad esserci, lui?

Io c’ero. L’ho visto. Con questi occhi. L’ho combattuto. E l’ho congelato in una bara di cristallo eterno.

Camus abbassa lo sguardo sulle proprie mani, mentre sente che gli occhi di Milo gli stanno così addosso da potergli quasi fare una radiografia. La sua pelle chiara è avvolta nell’oro dell’armatura e si stupisce di non trovare i segni del morso della bestia.

Le sue fauci. Enormi. Mastodontiche. Così forti da spezzare l’osso del collo di un uomo.

«Tutto ok?»
Milo lo chiama, ma lui non lo sente. Avverte un eco, un ronzio in sottofondo, come una frequenza radio disturbata. Ha le narici invase del forte odore di resina dei pini, del sangue ancora caldo, dell’afrore delle bestie selvagge. Della paura. Ed è la paura a farlo piegare sulle ginocchia in un conato di vomito che gli mozza il fiato. Stavolta Mask non c’entra niente. Stavolta ci sono davvero i fantasmi.
 
 

Il rapporto della missione al Sommo Sion è spiccio. Sbrigativo. Parla Milo, perché Camus non ce la fa. Un senso di nausea, montante e pervicace, gli ottunde la mente. Guarda stralunato il Sacerdote. Stanco. Come chi ha vegliato tutta la notte al capezzale di un ammalato, ma non vuole darlo a vedere. Non sa se sia il caso di parlarne con il Sommo Sion. Che gli direbbe? Sapete, Sacerdote? Questa mattina ho visto un fantasma che leggeva un libro nella camera da letto di Milo e sono sicuro di aver combattuto contro il Grosso Lupo Cattivo duecento anni fa? Lo prenderebbe per pazzo. S’è lasciato suggestionare, è chiaro. Tutta colpa di Milo e dei suoi discorsi strampalati. A dargli ascolto si finisce per diventare matti come un cavallo a cui mancano un paio di rotelle e una mezza manciata di venerdì…
«Va tutto bene, Aquarius? Sembra tu abbia visto un fantasma.»
Camus spalanca gli occhi.  Il Sommo Sion si avvicina, la veste immacolata che produce un fruscio morbido sul pavimento di marmo. Con la coda dell’occhio vede che Milo freme. Vuole raccontare tutto al Sacerdote. Liberarsi. Vuotare il sacco. E poi sia quel che sia. In un angolo della sua mente il giovane Acquario annota che no, Milo non è in grado di tenere un segreto. Nemmeno per sbaglio. Lui sente che il compagno vorrebbe riuscirci, lo vorrebbe con tutta l’anima, e il Cielo solo sa quanto potrebbe avere bisogno, un domani, di avere qualcuno a cui confidare i propri pensieri e dubbi e perplessità, come faceva Rémy con Yannick; ma Milo no, non è quel tipo di persona che resta muta come un tomba a custodire una confidenza privata.
«Io…», prova a rispondere. Perché il Sommo Sion è di fronte a lui, adesso, che aspetta e deve pur dargli una risposta, giusto? Sì, ma quale?, si chiede Camus, prima che intervenga Milo a toglierlo dall’impaccio.
«Sì, Sacerdote. Abbiamo visto un fantasma.»
 


Lo studio di Sion è una piccola stanza da cui entra la luce del mattino – e quella delle stelle – attraverso una grande vetrata ovale che si affaccia sulle Dodici Case. Lungo tutte le pareti sono allineate pesanti librerie di legno. Legno di castagno, pesante e massiccio, che sorregge con grazia pesanti incartamenti, e pergamene, e rotoli e libri e fogli tenuti insieme con un nastro di seta rosso scuro. Lo scrittoio, su cui svetta una penna d’oca color cobalto che dorme placida in un calamaio di vetro, retaggio di un tempo che fu, è ingombro di altre carte, mappe e rotoli accatastati attorno ad un mappamondo antico. È d’avorio, prezioso dono di un regnante europeo i cui domini non esistono più, e riporta i confini del mondo così come lo si conosceva all’epoca. Manca ancora l’Oceania e l’Oceano Pacifico è una gigantesca area dai confini non molto definiti. C’è un’ottomana anche qui. Di velluto rosso. La gemella di quella che troneggia ai piedi del letto di Milo.
Il giovane Scorpione ha sempre detto di aver trovato quel mobile nella stanza, quando è arrivato dalla sperduta Milos con l’Armatura fresca di vittoria. Non l’ha fatto mettere lui. L’ha fatto mettere il Sacerdote in persona. Duecento anni prima. Quell’uomo si chiamava Sage. 
Il Sommo Sion sorride, in un misto di tristezza e tenerezza. «Venite, ragazzi. Devo mostrarvi qualcosa», dice loro indicando l’ottomana con un cenno del mento.
Milo e Camus obbediscono. Hanno sonno, si vede che non hanno dormito – per la febbre l’uno e per i conati l’altro – eppure hanno ubbidito all’ordine del Sacerdote di presentarsi poco prima dell’alba nel suo studio. «Tanto le persone anziane come me si svegliano prestissimo», ha detto loro il giorno prima, con voce pacata. La verità è che Sion oramai non dorme più. Avrà tempo di farlo quando sarà nella tomba, ma fino a che Athena lo manterrà su questa Terra vuole godere della luce del sole e di ogni singolo alito di vita che gli sarà concesso. Perché dopo non ci sarà più nulla. Solo il buio. Ed è al buio che i due ragazzini sono arrivati. Ed ora, mentre il crepuscolo del mattino rischiara di poco lo studio del Sacerdote, tre persone sono in attesa di qualcosa.
Per un attimo non succede nulla. C’è solo il velluto rosso e un po’ antiquato dell’ottomana, il senso di nausea di Camus ed un calore fiammante che lascia la bocca di Milo riarsa. Eppure non avevo la febbre, ieri sera, pensa il giovane Scorpione. No, il termometro segnava trentasei gradi. La temperatura ideale, né troppo calda né troppo fredda. Ma allora perché si sente bruciare dentro?, si domanda mentre a Camus sfugge un gemito.
C’è un uomo sul divano. Alto. Massiccio, ma elegante al tempo stesso. Una cascata di capelli ricci gli incornicia una mascella volitiva ed un naso dritto e fiero. Ha l’aria imbronciata. Annoiata. Non trattiene uno sbadiglio, spalancando la bocca e grattandosi la testa arruffata. Indossa una camicia bianca ed un paio di pantaloni scuri, ha i capelli sudati e lo sguardo febbricitante. Lo stesso che ha Milo mentre guarda se stesso riflesso in uno specchio del tempo. Ha la bocca riarsa dalla sete e la testa leggera. Come se avesse passato la notte intera a sudare sotto pesanti coltri di lana, e non a rigirarsi tra le lenzuola madide.
Il tizio sul divano – il fantasma? – allarga lo scollo della camicia e sbuffa. Deve avere molto caldo, pensa lo Scorpione in un angolo della sua mente mentre si sente bruciare proprio al centro del petto. Poi lo sguardo del fantasma si carica di speranza e si allarga mentre fissa qualcosa – o qualcuno?, pensa con terrore Milo – alle loro spalle.
Ed è qualcuno che, con aria annoiata, passa attraverso Camus fluttuando sul pavimento. Milo osserva che i piedi del tizio, lo stesso che lui vede ogni mattina intento a leggere un libro sul divano, toccano il marmo screziato di rosso, ma non producono alcun suono. Camus non nota questi particolari. È attraversato dal freddo più profondo ed intenso che abbia mai provato in vita sua. Altro che gli eterni ghiacciai della Siberia! Altro che lo zero assoluto! Questo è qualcosa che va oltre l’arresto del moto degli atomi. Questo freddo oltrepassa la vita stessa. Questo freddo è…
La morte, pensa il giovane Acquario non riuscendo ad impedirsi di tremare. In nome di Athena, che sta succedendo qui?!
Il fantasma sull’ottomana scambia un paio di battute con il nuovo arrivato. Di nuovo quel conato di vomito, una boccata d’acido che risale lungo l’esofago di Camus. L’altro fantasma, quello dell’Ottava Casa, sembra ignorare il compagno. Si dirige allo scrittoio del Sacerdote, si siede e comincia a leggere dei documenti. Registri, questa volta. La sua mano afferra la piuma blu cobalto – il fantasma della piuma blu cobalto, o un suo residuo ectoplasmatico – ed inizia a farla danzare sulla carta pergamenata, mentre l’altro continua a parlare, imperterrito ed incurante del fatto che il suo compagno abbia da fare. Sembra chiedergli qualcosa. Sembra… Milo, pensa Camus e corre a cercare lo sguardo del compagno, che trova ad osservare, rapito, la piuma d’oca compiere dei circoli e delle piroette tra le mani affusolate del fantasma. Fantasma che alza lo sguardo con espressione seccata, si sfila un pince-nez e ribatte qualcosa al compagno seccatore. Il quale sorride, soddisfatto, mentre il primo raggio di sole penetra nella stanza.
I due svaniscono assieme, nella calda luce del mattino, non prima di essersi girati verso il loro pubblico. Sorridendo, l’intellettuale. Alzando una mano in segno di saluto, il seccatore. E poi più nulla, nessun residuo, niente più caldo atroce o freddo assoluto, solo l’aria gentile dell’alba che soffia sul viso dei due Gold Saint facendo loro sentire il freddo bacio delle lacrime.
Anche il Sommo Sion sta piangendo. Un sorriso mesto gli piega le labbra rugose mentre due rivoli d’argento percorrono la pelle avvizzita delle sue guance.
«Sacerdote…» Milo rompe quell'attimo sospeso tra passato e futuro, mentre dalla finestra giungono i rumori del Santuario che si risveglia: le campane risuonano nell’alba, gli uccelli cinguettano, le imposte si aprono ed il sole riempie in un baleno la stanza. «Sacerdote… chi erano quelli?», chiede lo Scorpione, mentre l’Acquario no, non riesce a spiccicare parola.
Eravate voi. I voi di un altro quando. I voi di tanto, troppo tempo fa.
Sion si impone di riprendersi. Si asciuga gli occhi stanchi con le dita deformate dall’artrite e scrolla via le lacrime, come stille preziose. Sanno di sale, ma sono anche dolcissime. Ha avuto modo di rivedere due suoi compagni, e se una parte di lui avrebbe voluto sparire con loro, nel sole e godere del meritato riposo – e ritrovare il suo maestro e gli altri fratelli d’arme – il Sacerdote dentro di lui ha avuto ragione di quello sciocco, egoistico sentimento. Ci sarà tempo per gli abbracci e le riunioni, per Sion dell’Ariete. Tanto tempo. Ma adesso sulle sue spalle incurvate dagli anni grava una responsabilità. Athena. E deve formare come si conviene questi giovani cavalieri d’oro che puzzano ancora di latte e se la fanno sotto alla vista di un fantasma.

 «Venite, ragazzi, », dice Sion dopo essersi accomodato sull’ottomana di velluto rosso. «Devo raccontarvi una storia…»

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Capitolo 4
*** #4 Una mela al giorno ***


#4 – Una mela al giorno
Prompt: Computer
Titolo:  Una mela al giorno
Autore: Francine
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Scorpion Milo
Genere: Commedia
Rating: Verde
Avvertimenti: AU- OC
Lunghezza: (conteggio parole e numero pagine) 2940/5
Eventuali note dell’autore (o alla fine se contengono spoiler): Adoro vederlo nei pasticci II (cit.)
Fate finta che sia passato qualche anno dagli eventi mostrati nella serie classica. Tipo una ventina, ok?
Partecipa alla Challenge Slice of Life


La cosa che ci insegna il futuro, quando diventa passato, è che le cose non vanno mai come prevediamo.
(Daniel Pennac) 

 

 
Tactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactac

TU quell’aggeggio non lo volevi. Nemmeno scuoiato vivo, perché – dicevi – sapevi già come sarebbe andata a finire. E il tempo ti ha dato ragione in cinque giorni. Cinque. Come le dita di una mano. Sprofondi in poltrona, il giornale aperto per inganno davanti a te – è quello di tre giorni fa e lo tieni anche alla rovescia – mentre le sue dita agili corrono su quella stramaledetta tastiera ad una velocità che farebbe impallidire il miglior marconista del secolo scorso.
Sta chattando, o almeno questo è quello che ti ha spiegato sua madre quando le hai chiesto se la vostra primogenita fosse affetta da un qualche strano virus chiamato pazzia. La seconda domanda è stata: con chi? E Lei, a quel punto, ha alzato le spalle e ti ha risposto:«Boh?». Come se le avessi chiesto se domani ci sarebbe stato bel tempo o pioggia a catinelle.
E tu avresti voluto aprirle quella testolina per controllare che il cervello fosse ancora al suo posto e non fosse avvizzito a furia di leggere tutti quei rotocalchi femminili o di guardare quei telefilm senza capo né coda con cui si droga pesantemente da qualche tempo a questa parte.

Tactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactac

Sta chattando. Certo. Sta chiacchierando amenamente con qualcuno. Certo. Qualcuno di molto simpatico, a giudicare dallo sguardo divertito e dal sorrisetto sornione. Certo. Quello sguardo che si ha quando stiamo parlando con qualcuno che ci interessa. E molto. In quel senso, ovviamente. La tua bambina sta flirtando con Athena solo sa chi tramite lo schermo di un computer e tu non hai idea di chi diamine sia questo soggetto.
Hai provato una volta sola a chiederle che stesse facendo.  Sei suo padre, giusto? Giusto. E che razza di padre non domanderebbe conto e ragione alla propria figliola del suo comportamento squinternato?
Così ti sei avvicinato, il caffè in mano e l’espressione più innocente del tuo repertorio stampata in faccia, e le hai chiesto: «Cosa…», prima che lo sguardo di sua madre ti si piantasse dritto al centro della schiena e un freddo mortale ti irrigidisse le membra.
Ti sei voltato e l’hai vista, alle tue spalle, apparsa da chissà dove, un asciugamano tra le dita, la testa piegata da un lato come avrebbe fatto un cane indeciso su cosa stesse osservando, o meglio: su quale punizione sarebbe stata più appropriata tra il cavarti gli occhi o lo scuoiarti vivo sul posto. Ha sorriso, regalandoti un lunghissimo brivido lungo la schiena, e tu hai fatto marcia indietro, con la tua tazza tra le dita e il sapore che lascia in bocca la valle dell’Ade.

Tactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactac

Volti con ostentato rumore la pagina delle notizie economiche. Niente. Lei guarda lo schermo su cui quell’altro avrà scritto la sua risposta, mentre un alone bluastro le illumina il viso. E tu vorresti avere tra le mani il collo di quel disgraziato che ci sta provando con la tua bambina e stringerlo, stringerlo, stringerlo… Se solo sapessi chi è!
Sbuffi. Accavalli e scavalli le gambe almeno tre volte. Colpi di tosse plateali. Ti stiracchi. Manca solo che tu ti metta a sbattere tra loro i piatti della banda comunale e a soffiare nelle lingue di Menelik, e poi le avrai tentate tutte per attirare la sua attenzione. La verità è che sai che l’unico modo che hai per far sì che tua figlia alzi i suoi occhioni da quel dannatissimo monitor a cristalli liquidi e te li piazzi in faccia, come faceva fino a cinque giorni fa, è di sottrarle quel dannatissimo computer – «È un MAC!», ti ha specificato quel commesso con gli occhiali, l’aria da primo della classe e le maniere così compite ed affettate che te l’hanno fatto diventare simpatico come un foruncolo sul naso il giorno del tuo matrimonio – e lanciarlo fuori dalla finestra dritto dritto nel cuore del Mediterraneo.
E se non lo fai non è tanto per i tremila e rotti euro che t’è costato questo scherzetto, quanto perché sai bene che quel subitaneo momento di sollievo e soddisfazione per aver gettato fuori di casa il nemico – quell’elegante portatile bianco con una mela in rilievo –sarebbe annichilito dalle urla della luce dei tuoi occhi e dalle saette dardeggianti che uscirebbero dallo sguardo di sua madre, incenerendoti sul posto.
Gioco, partita e incontro.

Tactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactac

Lei sorride ancora. Scrive una risposta velocissima e poi si mette a ridere. Con la mano davanti alla bocca. Come farebbe una donna un po’ civettuola ad una battuta brillante del proprio corteggiatore. E tu dovresti startene a guardare mentre qualche bell’imbusto armato delle peggiori intenzioni ci sta provando con tua figlia?!
Certo, come no?, pensi sbattendo il giornale sul bracciolo della poltrona e alzandoti di scatto.
Raggiungi in tre passi il tavolo, le mani sui fianchi, l’espressione omicida stampata sul volto e sei pronto a chiederle di condividere anche con te quello che la fa tanto ridere, quando un solo, singolo, secco colpo di tosse ti congela sul posto. Lei. Sua madre. Certo. È stata Lei ad insistere perché le regalaste quel dannatissimo portatile bianco – «È un MAC!», ripete nella tua testa la voce antipatica del commesso saputello con gli occhiali e lo mandi a quel paese dentro di te – e adesso non ti fermerà dal disfarti di quell’affare e dall’impicciar… interessarti della vita di tua figlia. O forse sì?
Ti fa cenno di raggiungerla fuori, sulla spiaggia.
No, ruggiscono i tuoi occhi.
Se. Gui. Mi, dardeggiano i suoi e i tuoi piedi obbediscono. Lei non si è accorta di niente. Per quel che ne sai, potrebbe anche cascare il mondo e continuerebbe a ticchettare sulla tastiera come se nulla fosse.
«Che ti salta in mente?», chiedi quando raggiungi la tua compagna fuori. La sabbia è ancora calda.
«Che salta in mente a te», ribatte Lei, a braccia incrociate. «Cosa avevamo detto sul lasciarle i suoi spazi?»
«Cosa hai detto tu, vorrai dire», replichi. «I suoi spazi, certo. Come no? Perché non darle pure le chiavi di casa, visto che ci siamo? Ha una stanza tutta sua, e guai a chi vi entra.» Tu compreso. «Non le basta?»
«Ha bisogno dei suoi spazi e della sua privacy», ripete, come farebbe con un allievo duro di comprendonio.
«Mandiamola in orbita. Così avrà tutto lo spazio che le serve!», proponi sarcastico. Sì, sei arrabbiato. Anche con Lei. Perché se non avesse insistito tanto e non ti avesse portato di peso in negozio, quell’attrezzo non sarebbe mai e poi mai entrato in casa.
«La maggior parte degli astronauti sono uomini», risponde Lei, centrando il problema. «Non vorrai mandare la tua bambina in mezzo ad un branco di lupi affamati, vero?»
Vorresti ribattere qualcosa, ma taci. La zitella acida che dorme nella tua mente ti suggerisce di aspettare ancora un po’, giusto il tempo necessario perché Etienne cresca a sufficienza per interessarsi alle gonnelle. Poi vedremo se sarà ancora così distaccata quando il suo bambino avrà occhi per le altre donne e non più solo per la sua mammina. Non è forse morta dentro quando ha sentito il pargolo dire che Athena era molto, molto bella?
«Tu sai con chi sta chattando da due ore nostra figlia?»
«No. Ma finché non farà qualcosa di strano, non penso che tu debba ficcare il naso nella sua vita.»
«Qualcosa di strano? Ci passa le ore davanti a quel dannatissimo affare!», ringhi.
«È una ragazzina. È tua figlia. Vuoi avere fiducia in lei?»
«Io ho fiducia in lei. È dei ragazzi che non mi fido!» Ti guarda perplessa, sbattendo le ciglia. «Sono stato adolescente anche io, cosa credi. E lo so cosa passa nella testa dei ragazzi a quell’età. Parlo per esperienza.»
«Esperienza. Certo…» Si passa una mano sulla fronte. «Senti. Sei nervoso, e lo capisco. Facciamo così. Io domani devo andare in missione. Me la porto dietro, così si stacca per un po’ da quell’affare… e quando ci rivedremo al Santuario, tu te lo sarai scordato a casa, quell’aggeggio!»
«Allora dà fastidio anche a te!»
«Quel continuo tictictic è snervante. Lo ammetto. Non è piacevole avere uno zombie telematico in giro per casa. Ammetto anche questo.» Sorridi, perché sai che si è pentita e che se anche non ti darebbe ragione nemmeno scuoiata viva, almeno ha fatto un passo per venirti incontro. Piccolo, ma l’ha fatto. «Secondo me è solo la novità. Diamole qualcos’altro a cui appassionarsi e vedrai che ci si tufferà a pesce.»
«E se…», si fosse trovata il ragazzo?, vorresti chiedere. Ma non osi. Temi che possa risponderti che sì, c’è questa possibilità. In fondo, è una bella ragazza. Tutta suo padre, direbbe per addolcirti la pillola, ma avresti già la bocca invasa dal fiele.
Scuote la testa. «Le interessa solo quell’attore… come si chiama… quello del telefilm», dice, ma tu non la segui più. Vorresti chiederle a quale telefilm si riferisce, ma desisti. «Anche io alla sua età ero innamorata del cantante del momento. Avevo tutti i suoi poster nell’armadio», e quest’ammissione ti gela il sangue nelle vene. Perché tu somigli in modo impressionante a quel cantante.

Tactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactactac


Il giorno successivo ti godi ancora il suono della risacca che entra dalla finestra aperta. Niente ticchettio isterico, niente risate civettuole, solo il placido, calmo silenzio della caletta solitaria. Etienne dorme ancora. È crollato esausto dopo cena e non s’è spogliato. Pazienza, dormire vestiti non ha mai ucciso nessuno. E poi sei di buon umore e ti va di viziare tuo figlio prima che cresca e diventi insopportabile. E poi c’è qualcosa che devi fare lontano dallo sguardo indiscreto – e odiosamente partigiano – del tuo erede. Che correrebbe a raccontare tutto a maman non appena fosse rientrata a casa. Così ti prepari il caffè. Ti siedi davanti al tuo nemico e lo accendi. E aspetti. Perché sai che prima o poi lui, l’infame che sta circuendo la tua bambina, la contatterà. È solo questione di tempo, che ti veda connesso e poi…
L’icona lampeggia. Clicchi e si apre la pagina intera.

Ciao Piccola!, ti scrive, anche le scrive un certo The Doctor. E nella tua testa risuonano due domande. Punto primo: Dottore…chi? Cosa? Come? Quando? Perché tua figlia chiacchiera con un dottore? Che tipo di dottore? È malata? E secondo poi, come diamine si permette quest’imbecille di chiamarla piccola?!

Ciao, ribatti. Neutro. Non devi farti scoprire, se vuoi saperne di più su chi è che se ne va in giro ad importunare la tua bambina. Sì, è una bambina. Ha solo sedici anni, dopo tutto. Anche se il suo nick è Starlight Queen.

Pronta per la tua prima missione? Come ti senti?

Sai che tua figlia non può essere stata così cretina da aver spifferato del Santuario al primo che passa. Lo escludi categoricamente. Siete stati severi quanto basta perché quel concetto le entrasse in testa. Deve dunque trattarsi di qualcuno che conoscete. La classica serpe in seno, insomma. Ma chi? Il figlio di Shiryu? O di quello di Hyoga? Tutta sua madre…

Tesa. Parto con mia madre. Che mi starà col fiato sul collo per tutto il tempo. Quasi quasi avrei preferito starmene a casa con mio padre. È più simpatico, lui…
Dici? A me mette un po’ i brividi. E sì che lo conosco da tempo…


Ti conosce, l’infame. Forse non abbastanza, pensi.

No, perché? Mio padre è simpaticissimo. Se sai come prenderlo, certo.
Quindi ha smesso di tartassarti? Ha deciso di farti uscire la sera?
Ma nemmeno se si fa blu
, pensi rispondendo: Dipende.
Dipende da che?
Dalle circostanze
.
Beh, sempre meglio che niente. Allora, che fai il 23?

Il 23? Che diamine succede il 23?
, pensi. Il tuo sguardo allarmato corre al calendario, ma non vedi segnato nulla in corrispondenza del ventitré Novembre.

Ancora non lo so…
Fatti aiutare da tua madre! Sono sicuro che lei l’ascolterà. Ha sempre avuto buoni argomenti con lui.

Buoni argomenti tua sorella,
pensi digrignando i denti. Chi diamine è quest’imbecille?!

Ma sì, ma sì!, ribatti. Dove ci vediamo?
A casa mia. E dove, sennò? Saremo soli. Avremo tutta la casa per noi. Ci pensi? Sono così eccitato al pensiero!

Se non spacchi tutto è solo perché l’idea di dare una ripassata a quel bastardo ha la meglio. È solo una ragazzina innamorata dell’attore del momento, eh? Certo, come no! Qui le cose sono già ben oltre quanto sospettavi. Avremo la casa tutta per noi. Sono così eccitato al pensiero!, ha scritto lo stronzo. Te la do io l’eccitazione, pensi prima di digitare: Anch’io! Ti va di vederci?, e premere invio. Come dice il detto? Una mela al giorno toglie il medico di torno, giusto?

Quando? Adesso?
No, dopodomani
, rispondi. Sarcastico, ma lui non coglie questa sfumatura.
Non sapevo tornaste così presto! D’accordo. Dimmi solo dove e quando.
All’arena. Alle sei e mezzo del mattino.


Ci mette qualche secondo per ribattere. In effetti è un luogo bizzarro per un appuntamento romantico. «Che c’è? Hai paura?», chiedi allo schermo del portatile, come se potesse risponderti.

Ma allora sei qui al Santuario! Vediamoci subito, scusa!
«Come siamo impazienti…», commenti mentre un sorriso omicida ti arriccia le labbra all’insù. No, non posso. Vorrei tanto vederti, adesso, ma devo partire a momenti.
Ok. Allora, in bocca al lupo, Piccola!
Crepi, Dottore.


E stacchi. Spegni il computer, spalanchi le finestre e guardi quell’attrezzo infernale. Dovrai aspettare quarantotto ore, ma non importa. Goditi queste due giornate, dottore dei miei stivali. Perché saranno le ultime che passerai tutto intero…
 

Uno scrittore francese una volta ha detto una frase molto bella e molto calzante sul futuro e sulle nostre aspettative, ma non ti ricordi più come reciti esattamente. Il succo è che le cose non vanno mai come uno le ha preventivate. Ma proprio mai. Perché tu all’appuntamento ti sei presentato. E hai trovato Kiki dell’Appendix, l’allievo di Mu, sinceramente stupito di trovare te all’arena dei tornei all'alba, e non tua figlia. Figlia che non ti rivolge la parola da tre giorni. Da quando hai spedito Kiki da un vero dottore, uno che gli rimettesse a posto tutte e duecentosei le ossa che ha in corpo, frantumate ad arte da un padre poco propenso a ché quel bell’imbusto dai capelli rossi e qualche anno di troppo flirtasse con la sua bambina. Certo, la scusa ufficiale è che vi siete casualmente incontrati all’alba all’arena dei tornei deserta, e che tu gli abbia casualmente proposto di allenarvi per sgranchirvi un po’. E che ti sei lasciato prendere la mano. La foga del combattimento e tutto il resto. Però sei stato umano e misericordioso. Te lo sei issato in spalla – invece che trascinartelo dietro come un sacco di patate – e lo hai portato dai medici del Santuario. Non potevi certo lasciarlo lì, a morire come un cane, anche se avresti tanto, tanto, tanto voluto assistere al banchetto che i corvi avrebbero fatto con il suo cadavere.
Eppure, nonostante questa gentilezza che hai avuto nei confronti del tuo nemico, per tua figlia sei fatto d’aria. Aria puzzolente, a giudicare da come ti gira alla larga. Anche adesso che prende le sue cose e scende alla Prima Casa. Perché Mu è in Giappone in missione. Per sei mesi. E chi mai si prenderà cura del suo allievo in questi sei lunghi mesi? Le inservienti della Prima Casa? Ma non scherziamo!
«Ci penserò io», ha detto la luce dei tuoi occhi con un cipiglio che avrebbe fatto impallidire Ares in persona, e l’unica concessione che ti è stata fatta è che tornasse all’Ottava Casa al tramonto.
«Io vado.» Saluta sua madre e suo fratello ed esce, ignorandoti, il ticchettio dei tacchi che riecheggia per la scalinata che conduce alla Casa di Libra.
Lei ti piazza il caffè davanti al naso, come se stesse ipnotizzando un cobra. «E non fare quella faccia! Ricorda che te la sei cercata.» Chi è causa del suo mal pianga se stesso, recita un proverbio famoso, lo stesso che Lei ti ha ripetuto dopo aver ascoltato la tua versione dei fatti. Perché quella di Etienne l’ha ascoltata non appena posato lo scrigno dell’armatura. Ma che ne potevi sapere tu che non stavano parlando di un rendez-vous romantico, ma di una serata da passare in gruppo per vedere un episodio speciale di un telefilm? E pensare che quel poveraccio ha anche provato a spiegartelo che per lui tua figlia è una specie di sorella minore, ma tu no, tu niente, tu avevi già deciso che volesse saltare addosso alla tua bambina come il lupo affamato dei cartoni di Tex Avery. Ma sul serio non hai notato che gli occhi di quel ragazzo sono incollati da tempo addosso alla figlia di Aiolia?
«Certo che quando ti metti una cosa in testa…», dice Lei, come se stesse concludendo un discorso fatto e finito nella sua mente e che non ti è concesso ascoltare per intero.
«Senti chi parla…», commenti dando la prima sorsata. Il caffè è caldo, nero e amaro come piace  a te.
«Io rispetto la privacy degli altri. E ho fiducia in mia figlia.»
Sicura? Dentro di te ghigni. Perché Lei è come te. Testarda e orgogliosa e gelosa. Mortalmente gelosa. E sai che, al posto tuo, avrebbe fatto la stessa, identica cosa. Se non di peggio. Ma basterà attendere. Forse meno di quanto credi. «Sai… Etienne… l’altro giorno…»
«Etienne? Che gli è successo?!»
Ti guarda allarmata, la tazza che trema tra le mani. Chi sta attentando alla vita del suo bambino? Ghigni. A trentadue denti. Aspetti qualche istante prima di assestare la stilettata finale. «Credo che abbia preso una cotta per la figlia di Seiya. Non le ha staccato gli occhi di dosso da quando siamo arrivati…»
Lei sbianca. Spalanca gli occhi e dalla bocca le esce un suono simile ad un rantolo asmatico.
«Eh, quanto è bello il primo amore…»
E bevi il tuo caffè.
Gioco, partita, incontro.

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Capitolo 5
*** #5 Cinque Minuti ***


#5 – Cinque minuti
 
Prompt: Colazione
Titolo:  Cinque minuti
Autore: Francine
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Phoenix Ikki, Andromeda Shun
Genere: Introspettivo
Rating: Verde
Avvertimenti:  Nessuno
Lunghezza: (conteggio parole e numero pagine) 1725/3
Eventuali note dell’autore (o alla fine se contengono spoiler): Il pumpkin spice latte è de-li-zio-so. Vero, Shun?
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Son sabbia i minuti, spensierato mortale,
da non lasciar scorrere senza cavarne oro!
(Charles Pierre Beaudelaire)




La città si deve ancora svegliare mentre la cameriera si allontana dopo aver posato sul tavolo la colazione. Caffè. Una fetta di torta alla zucca. Un paio di muffin. Tre cookies. Un’altra tazza di caffè. E il pumpkin spice latte. Che Shun ha chiamato pumpkin space latte, come se avessero munto le mucche direttamente nello spazio. La cameriera non ci ha fatto caso, forse perché ha lasciato la propria coscienza al calduccio sotto al futon a dormire il sonno dei giusti, ed ha portato a lavorare un involucro di carne e ossa in un grembiule rosa e bianco. Un involucro che avrebbe bisogno di prendere un po’ di sole. Di vitamina D. E di qualche ora di sonno in più.

La ragazza sciabatta come un fantasma verso il bancone.
«È ancora presto, abbiamo acceso le macchine da poco», ha detto, e lui ha pensato che il caffè avrebbe fatto più schifo del solito. Cosa che è, ma d’altro canto l’insegna è a mala pena accesa. Altro che città che non dorme mai! Tokyo non gli mancherà col suo caos, il cielo grigio e l’idea, nemmeno poi tanto sballata, di trovarsi in un formicaio umano. La trova straniante. Perché Tokyo ti fagocita nel suo baillame di luci, traffico, ingorghi e operosi cittadini in fila indiana, come uno scarico che trascina l’acqua in fondo alle tubature. E lui è fatto di fuoco. Che arde vivo. E che no, non può lasciarsi ingoiare da questa città rutilante di colori come un enorme videogioco in 3D. Ecco perché resta in giro lo stretto indispensabile. Perché detesta il casino. Certo. Ovvio. Il casino e lo sguardo di suo fratello. Limpido. Puro. Nonostante tutto.

Ikki si chiede se suo fratello ce la farà mai a mangiare tutto quello che ha ordinato senza stramazzare sul tavolo. Ha lo stomaco chiuso. E vedere quella roba glielo ha serrato ancora di più. Sorride, portandosi alle labbra il bicchiere di cartone termico. Sì, il  caffè fa schifo.

Shun non dice una parola. Tiene stretto tra le mani il suo space latte con quel profumo dolciastro di cannella e noce moscata, mentre la torta e i muffin lo osservano chiedendosi cosa stia aspettando. Solo i cookies sembrano indifferenti al loro destino. Forse lo stomaco di Andromeda è come quello di qualsiasi altro cliente?
Forse sì, pensa Ikki guardando fuori dalla vetrata le auto sfrecciare lungo i viali deserti ed illuminati da lampioni pronti ad addormentarsi tra poco. Come vampiri elettronici. Suo fratello ha ordinato quella montagna di roba non tanto perché abbia fame, quanto perché vuole trattenerlo con lui il più possibile. Perché Shun sa che lui non si allontanerebbe mai dal tavolo mentre un suo commensale sta ancora mangiando. Sua madre non approvava. E per quanto Ikki sia un puledro recalcitrante, è anche un figlio obbediente. E Shun questo lo sa.

La Fenice osserva sul vetro opaco il proprio riflesso e quello del fratello: capo chino, bevanda tra le dita e l’aria di chi deve farti chissà quale discorso, ma non sa da che parte cominciare. Come lo scrittore che ha in testa la più epica delle avventure, o il chitarrista che non trova l’attacco giusto. Quello che funziona. Quello che sblocca un’ondata di idee che non chiede altro che di rompere gli argini che la trattengono e di scorrere. Libera. Scrosciante. Impetuosa. Shun sta cercando le parole. O l’accordo giusto. Ed Ikki non può concedergli questa cortesia. Perché sa che se lo facesse, sarebbe la volta buona che non partirebbe mai più da Tokyo. E lui deve andarsene. Perché si sente come un uccello in gabbia quanto atterra a Narita. E quando si trova di fronte ai suoi occhi.

Hyoga l’ha capito. «Deve somigliarle molto, vero?», gli ha chiesto una mattina, bevendo un caffè come si deve nella grande sala da pranzo di Kido Manor. Il sole aveva deciso di restarsene a letto, quel giorno, e faceva freddo, ma Hyoga sembrava non essersene accorto. Girava con le maniche della camicia blu arrotolate fino ai gomiti e si lamentava del caldo. E lui aveva risposto che sì, Shun le assomigliava molto; ma non a loro madre – da cui Andromeda ha preso gli occhi gentili e la carnagione chiara – come credeva Hyoga, quanto a lei. Ad Esmeralda.

A Shun ha raccontato poco di lei. Lo stretto indispensabile. E gli ha omesso quanto quella ragazzina assomigliasse a suo fratello. Per evitare che Shun si sentisse in colpa senza motivo, certo. E per evitare a se stesso di pensare a lei, e a quelle mani sporche del suo sangue. Rosse, come i fiori che lei gli aveva mostrato solo pochi giorni prima, in quella vallata dietro il campo di addestramento.

Nei telefilm polizieschi dicono sempre che il sangue lascia delle tracce evidenti al luminol. Forse è la stessa luce che proietta la coscienza. Perché, per quanto abbia lavato quelle mani, fin quasi a scorticarsele, il sangue di Esmeralda è sempre lì. E a volte gli sembra di percepire ancora quel calore impossibile.
«Trasformati nella Fenice e vola via da qui», gli ha detto morendo. Forse maledicendolo, chissà.
Anche se fosse, me lo merito, si dice sorbendo un altro goccio di quella brodaglia. Poi si dice anche che è tardi. Che se non si alza, adesso, paga il conto e saluta suo fratello, perderà la nave.
Le dita si stringono attorno alla maniglia della valigia con un preoccupante crac. Andromeda alza la testa con lo sguardo da cane bastonato. Dannazione!
Sapeva che Shun non l’avrebbe presa bene, fin dal momento in cui ha realizzato che era arrivato il momento di levare le tende. Lui è fatto così, ma a Shun non entra in testa. A nessuno di loro entra in testa che lui non sopporta gli addii. Un «ciao», un saluto con la mano, per lui è già troppo. È un qualcosa di definitivo. Qualcosa che ha il sapore di una pietra tombale. Come quella che ha messo sul corpo di Esmeralda.
Sta per aprire bocca e salutare il fratello, ignorando il suo sguardo supplichevole, quando Shun lo precede. E lo spiazza.

«Inutile chiederti se e quando tornerai, immagino…»
C’è una strana maturità nella voce di suo fratello. Profonda. Maestosa. E Ikki si chiede se Ade non abbia lasciato il segno sull’anima pura di sua fratello.

«Tornerò. Quando ce ne sarà bisogno.» Io sarò sempre con te. Ti basterà pensarmi, e io arriverò. Come ho sempre fatto, pensa Ikki, senza riuscire a dare corpo a quelle parole. Senza trovare il coraggio necessario per parlare a suo fratello con il cuore.

«Certo. È ora. Capisco», gli dice Shun, prima di decidersi a dare una prima sorsata al suo latte spaziale. Che è dolce e pastoso come poche altre cose abbia mai bevuto in vita sua, ma pazienza. Gli indorerà la pillola. Ormai ci siamo. Ikki ha già deciso di partire. Se n’è accorto ieri sera che lui è altrove con la mente. Su un promontorio a chilometri da lì, inginocchiato davanti ad una croce. Deve andare a cambiarle i fiori, questo Shun lo capisce, anche se una piccola parte di lui, quella carogna che ogni tanto esce fuori a sussurrargli parole che grondano veleno, si chiede cosa se ne faccia la polvere di una corona di margherite intrecciate. Quello che non capisce, quello a cui proprio non arriva è perché suo fratello si comporti così. In questo modo odioso.

Cinque minuti. Gli sarebbero bastati solo cinque minuti. Prima o dopo, non importa, ma se solo li avessero avuti – se solo lui avesse bussato dopo o lui fosse uscito prima – adesso non si starebbero comportando come due statue di sale. Una statua con la valigia, pensa Shun guardando la quantità di cibo che ha ordinato per colazione. Credeva davvero che sarebbe durata per sempre? Credeva davvero che avrebbero iniziato a vivere come due bravi fratelli nella loro casetta, aspettando l’arrivo di Biancaneve?

No. Ma sarebbe stato bello.

E infatti Ikki ha fatto i bagagli. Ha messo le sue cose nella valigia logora con cui è apparso nel bel mezzo dell’ultima crisi. Solo che allora ce l’aveva in mano, quando ha bussato alla sua porta per svegliarlo, invece, la teneva stretta tra le mani. E adesso aspetta accanto ai suoi piedi. Piedi che stavano per varcare la soglia di casa senza degnarsi di salutare. Di dire “Ciao” o “Io vado” oppure “A presto, e grazie di tutto”. Non che i piedi possano parlare, si capisce. Ma il loro proprietario sì. Ed il loro proprietario no, non è muto. È solo stronzo.

Shun prende tempo. Ikki partirà e lui non gli avrà fatto quel discorsetto che da tanto tempo vuole fargli. Per chiarirsi. Per affrontarsi. Per confrontarsi. Da uomo a uomo. Ma forse è meglio così. Perché se parlasse adesso, gli vomiterebbe addosso anni e anni di frustrazione e discorsi non fatti. E potrebbe perdere il controllo. E una parola è come una freccia, non la puoi riprendere una volta che t’è scappata dalla bocca, giusto?

Shun pensa ad altro, mentre le mani di suo fratello tornano a stringere la maniglia della valigia. Vigliacco! Deve fare la spesa. Pane, caffè solubile – ché l’hanno finito  ieri pomeriggio– zucchero, miso, carote e daikon. Vuole fare una zuppa per pranzo. Perché l’autunno sta iniziando a stringere le sue dita fredde. Perché fra poco verrà a piovere. Perché gli va proprio una bella zuppa di daikon e miso per pranzo. Guarda un po’.

Ikki tace. Shun addenta una forchettata di torta e si comporta come se lui non ci fosse, come se al suo risveglio avesse trovato il monolocale vuoto, come se il canarino fosse scappato – evaso – dalla gabbia mentre lui era con la testa girata da un’altra parte. Non ti trattiene nessuno, pensa Andromeda posando la forchetta. Non può trattenerti nessuno. Sei fatto di fuoco. Sei fatto così.

«Fai buon viaggio», gli dice. Sorridendo.

Ikki spalanca gli occhi. Vorrebbe chiedergli se vada davvero bene così, ma non trova l’attimo. E sa, in fondo alla sua anima, che suo fratello gli sta spalancando la porta della gabbia, in un gesto d’amore. E lui lo accetta. Abbassa gli occhiali da sole – gli occhi stanno iniziando a pizzicargli, forse sta diventando allergico alla polvere. «Io vado», dice. Come se dovesse tornare tra qualche ora, magari stasera stessa. Una pacca sulle spalle del fratello. «Ce la fai a mangiare tutta quella roba?», gli domanda. Concedendosi qualche altro minuto insieme a Shun.
 
 
 
 

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Capitolo 6
*** #6 Quella carezza della sera ***


#6 – Quella carezza della sera
 


Prompt: Bagno
Titolo: Quella carezza della sera  
Autore: Francine
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Cancer Death Mask
Genere: Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: probabile OOC. Ai lettori l’ardua sentenza.
Lunghezza: (conteggio parole e numero pagine) 2912/5
Eventuali note dell’autore (o alla fine se contengono spoiler): Death Mask ha un lessico parecchio sboccato, sappiatelo. Gliela lavate voi la lingua col sapone?
Partecipa alla Challenge Slice of Life 
 
 
Per fare un bagno ad un gatto occorrono una buona dose di perseveranza, coraggio, convinzione e un gatto. L'ultimo ingrediente di solito è il più difficile da reperire.
Stephen Barker
 



Ci sono due cose che non si devono mai fare al Santuario di Athena: scommettere con la dea –Athena bara. In maniera vergognosa. E se non ci credete, andate a scambiare quattro chiacchiere con Kanon dei Gemelli – e giocare a poker con Aphrodite dei Pesci.

Perché voi poveri stolti penserete che Aphrodite sia solo un fotomodello mancato, e che, come tale, sia tanto meraviglioso quanto stupido, giusto?

Illusi.

Aphrodite possiede le seguenti qualità, tenetele bene a mente: è bellissimo, al punto che le donne cadono ai suoi piedi – anche se a sentir lui nessuna è degna della sua avvenenza, e perciò si arrangia da solo.

Aphrodite è intelligentissimo, anche se i suoi discorsi sono inclini ad involarsi sulle ali della retorica per dei percorsi che farebbero impazzire lo stesso Pindaro.

Aphrodite ha un metabolismo accelerato che gli permette di restare sempre in forma, nonostante mangi quanto un esercito dopo quaranta giorni nel deserto; e non ha mai avuto carie in vita sua, lui.

Aphrodite ha un pollice verde strepitoso, capace di far resuscitare anche quelle piante oramai spacciate – sì, anche quelle che avete innaffiato con candeggina pura perché regalo sgradito di vostra suocera.

Ma soprattutto Aphrodite ha più culo che anima.

Chi pescherà il biglietto per la crociera tra i fiordi, gratis, tutto spesato?
Aphrodite.

Chi troverà sempre parcheggio, proprio davanti all’ingresso del posto dove deve recarsi?
Aphrodite.

Chi ti spennerà a poker con una scala reale servita?
Aphrodite.

E allora vi starete chiedendo perché lui si sia seduto al tavolo verde sapendo che c’era anche Aphrodite, giusto?

Perché alla divina Athena serviva il quarto per la partita di poker del venerdì, e lui ha estratto il fiammifero più corto. Un fiammifero svedese, per giunta.
Così, mentre Mu se ne tornava alla Prima Casa a riparare le armature, Shaka riprendeva a meditare e gli altri se ne andavano allo stadio con trombette e bandierone, lui ha dovuto recarsi alle stanze di Athena assieme a Shura. Che ha avuto il buonsenso di chiamarsi sempre fuori ad ogni mano, lasciandolo ad affrontare  la dea. E Aphrodite. Che l’ha spennato. In senso metaforico, perché Athena non vuole che si giochi con dei soldi veri. Sarebbe poco… com’è che ha detto? Ah, sì. Poco probo. Poco adatto a dei Santi, ai suoi sacri guerrieri, appartenenti alla casta più alta per giunta. Eppure lui avrebbe preferito ritrovarsi con il conto in banca in rosso – e se vi state chiedendo a quale conto alluda, lasciate perdere, ché è una mera sperequazione filosofica – piuttosto che dovere un favore ad Aphrodite.

Perché il caro Aphrodite non ti dice subito cosa vorrebbe tu facessi in cambio, no. Ma scherziamo? Ti guarda, con quel sorriso che chiama i pugni come i fiori le api, piega la testa da un lato, squadrandoti e pensando in quel malvagio cervellino che cosa chiederti, e poi ti dice: «Cielo, così su due piedi… non saprei cosa dirti. Facciamo che ci penso su e poi te lo faccio sapere, ok?».

E il tempo passa. Scorre. E quando oramai la consapevolezza di dover onorare un debito è dimenticata nelle pieghe della memoria e della vita di tutti i giorni, e tu non ci stai pensando più, perché nel frattempo ti sei dato malato un paio di volte e qualcun altro - Milo, Aiolia, Kanon, Aldebaran, Vattelappesca – ha estratto lo svedese più corto, lui arriva. Puntuale come le tasse, o la febbre dei bambini il sabato pomeriggio. E ti rammenta che devi ancora onorare il tuo debito con quel sorriso al Viakal. E i debiti di gioco si pagano, giusto? Giusto. Anche perché, quando Athena li ha riportati in vita è stata molto esplicita con loro due. «Rigate dritto. Intesi?»

Ecco perché Death Mask sta smoccolando il nome di ogni santo esistente, esistito e che probabilmente esisterà mentre pulisce una lettiera piena zeppa di bentonite agglomerata. Perché Aphrodite, poco prima di partirsene in vacanza per la crociera tra i fiordi di cui sopra, s’è presentato alla Quarta Casa con la valigia sul punto di scoppiare, delle sporte stracariche ed un involto molto, molto voluminoso.

«Parti?», gli ha detto indicando con lo sguardo preoccupato la valigia verde acqua formato famiglia del santo dei Pesci. Raccattare la biancheria di Aphrodite per le scale del Santuario, no. Non è cosa. «Vuoi che ti aiuti coi bagagli?», gli ha detto, pregando di risolvere la questione, perché quando Aphrodite parte, si porta dietro mezza casa. Letteralmente.

«Uno non sa mai cosa possa servirgli, lontano da casa», ama ripetere il fotomodello mancato, ed il fatto di trovarsi su una nave da crociera con tutti i comfort e non in mezzo agli zulù, non fa alcuna differenza, per lui.

«Saresti molto gentile ad aiutarmi», ha risposto l’infame, sorridendo e regalandogli un brivido di terrore lungo la schiena, prima di aggiungere: «Se non ti dispiace, vorrei che tu saldassi il debito di gioco che hai contratto due mesi fa», quando Mask aveva già le dita strette attorno alla maniglia della valigia. E no, Aphrodite non si stava riferendo al trasporto eccezionale dei suoi bagagli fino allo spiazzo antistante la Prima Casa.

«Certo», gli ha risposto. Ha provato a mettere mano al portafogli – vuoto – prima che uno zut zut di Aphrodite lo fermasse a mezza via.

«Sai che non possiamo giocare soldi veri. Sarebbe giocare d’azzardo», gli ha ricordato, con quell’aria da primo della classe che lo fa sembrare simpatico come la sabbia nelle mutande.

«Quindi?»

«Volevo proporti un pagamento in natura.»

E il colorito sempre abbronzato del Cancro è diventato bianco come le rose di Pisces. «Non… non credo di aver capito bene…»

«In natura», ha ripetuto lo svedese, con quella finta pazienza che si riserva agli allievi ottusi. «Significa che mi pagherai facendo qualcosa per me.»

«Il greco non è la mia lingua madre, ma posso assicurarti che quell’espressione ha un preciso significato. In tutte le lingue del mondo», ha ribattuto lasciando andare la valigia come se la maniglia fosse diventata incandescente.

«Non sei il mio tipo», ha soffiato fuori Aphrodite. Come un crotalo molto, molto incazzato. E lui non ha voluto sapere chi mai potrebbe essere il suo tipo. Certi sentimenti è bene che rimangano segreti, segreti e taciuti, per la propria sanità mentale. «Devi badare al mio gattino mentre sono via. Una settimana, non di più. Voi del Cancro ci andate a nozze coi gatti, giusto? Qui ci sono le istruzioni, qui le medicine, qui il cibo e, qui sotto, il gatto», ha detto raccogliendo la propria valigia come se pesasse quanto un francobollo. Poi ha inforcato gli occhiali da sole – occhialli da sole a specchio, prego – e se n’è andato in una scia di petali di rose rosse, lasciandogli tre sporte stracariche di medicine, balocchi per felini, crocchette, paté al cervo, due buste di lettiera e l’involto più grande. Un trasportino, taglia extralarge, con all’interno due occhi verdi che lo fissavano con malignità.

Vi ho forse detto che Aphrodite è anche molto, molto, molto sadico?

Così, eccolo qui il prode Cancer, con le braccia piene di graffi e una paletta tra le mani a raccogliere gli accumuli di bentonite rossa dalla lettiera. Perché Sua Maestà, la lince travestita da gatto che Aphrodite gli ha scodellato in casa prima di andarsene a morire ammazzato chissà dove, non ne vuole sapere di farla sui cristalli celesti al silicio gentilmente forniti dal suo padrone. Nossignore. Gliel’ha fatta sui vestiti, piuttosto, appestandogli la casa di un olezzo acre e pungente che gli è entrato nelle narici.

Francesca ha pulito la Quarta Casa e i suoi alloggi da cima a fondo con dosi generose di candeggina che smorzassero il tanfo di orina, ma lui sente ancora quella puzza nell’aria. Se la sente addosso. Così, sapendo che la divina Athena non l’avrebbe presa bene se avesse un torto anche un solo baffo a Sua Maestà – pur se per giusta causa –, ha spedito la sua inserviente all’emporio di Agathê a comperare una vaschetta con coperchio e dieci chili di lettiera agglomerante per gatti. Lettiera che lui, adesso, sta pulendo. Perché Francesca riusciva a spolverare canticchiando i volti che adornavano la Quarta Casa prima che Athena gli imponesse di rimuoverli tutti, ma non riesce a sopportare certi lavori. È più forte di lei, e rischierebbe di rimettere sulla lettiera, e poi di rimettere ancora per pulire il proprio pranzo, e poi…

Maledettissima bestia, pensa Death Mask guardando il gatto troppo cresciuto che si sta facendo la toilette leccandosi il pelo. Dalle istruzioni lasciate da Aphrodite ha scoperto che quella razza si chiama Norsk Skogkatt, Gatto Norvegese delle Foreste. Lui insiste a considerare una lince sotto mentite spoglie quell’animale bianco come la neve, checché ne dicano Aphrodite e anche Francesca.

I gatti veri non pesano dieci chili.
I gatti veri non hanno nomi assurdi come Non Plus Ultra.
I gatti veri non costano quanto uno stipendio.
I gatti veri non muggiscono nel cuore della notte.
I gatti veri non cercano di soffocarti nel sonno acciambellandosi sulla tua trachea.
I gatti veri non ti miagolano nell’orecchio fino a quando non ti alzi, nel cuore della notte, solo perché non sanno con chi giocare.
I gatti veri non ti depositano rane, topi morti, mosche, scorpioni e lucertole sul cuscino.
I gatti veri non ti si accoccolano sul petto, ringhiando basso se solo tenti di cambiare posizione.
I gatti veri non hanno il fiato che puzza di cadavere.

Ma per Aphrodite, come per Francesca, quello è un gatto.
Con questo principio un leone sarebbe un micio troppo cresciuto?, si chiede abbassando il coperchio della lettiera e chiudendo la busta con la bentonite sporca. La getta nella pattumiera, si strofina le mani tra loro e poi pensa che quel momento tanto temuto è arrivato. È ora.

Fosse per lui, non ci sarebbero problemi, tanto i gatti veri si lavano da soli, giusto? Si leccano con una pazienza ed una perizia da far invidia ad un certosino – il monaco, non il gatto – quindi che bisogno c’è che lui riempia la vasca ed affoghi… ehm, lavi Non Plus Ultra con il suo detergente profumato alla clorofilla?
Nessuno.

Ma Aphrodite è un tipo pignolo, più del notaio dei quiz di Mike Bongiorno buonanima, e sarebbe capace di dire che no, il suo debito non è estinto nemmeno per sogno. E lui rischierebbe non solum di aver faticato come un dannato per sette giorni per nulla, sed etiam di vivere sapendo di avere una spada di Damocle sulla testa. Una spada di nome Aphrodite. Che può essere ben più pericolosa di quella di cui va tanto fiero Shura.

«Avanti», dice a se stesso rimboccandosi le maniche. Perché il difficile non è tanto lavare la bestia – la schiaffi in acqua e ce la tieni fino a quando non l’hai lavata e insaponata per bene, possibilmente senza affogarla – quanto acciuffarla. Perché il bastardo va da lui solo di notte. Quando dorme. Gli si infila sotto al lenzuolo. O gli si piazza con quel suo culone bianco proprio davanti al naso. O respira il suo fiato, come farebbe una Lamia. O si sistema sul suo fianco, come un salame, e guai a lui se si sposta.

Di giorno, invece, lo evita cordialmente. Solo Francesca riesce ad avvicinarglisi. Ma Francesca non c’è, perché è il suo giorno di libertà ed ha ben pensato di partirsene ieri sera per andare da sua sorella. Quindi, è una questione tra loro due. Una questione da risolversi da maschio a maschio.

«Qui, micio micio micio…», dice. Agitandogli sotto al naso quella piuma di pavone sintetica con un campanellino in cima. Il giocattolo preferito del mostro. Quello che riesce sempre a scovare, ogni notte nell’ora più silenziosa, quando tutto il Santuario dorme ed anche lo spillo più piccolo cade a terra come se pesasse una tonnellata. Quella che adesso ignora bellamente. La guarda, lo guarda – con quell’espressione che sembra chiedere «Ma che sei scemo?» – sbadiglia, mostrando la sua dentatura da carnivoro, e se ne va. Lasciandolo come un deficiente ad agitare una piuma sintetica.

Figlio di una gatta spagnola, pensa abbandonando il giocattolo. Ok, non ha tutto il giorno davanti a sé. Deve prendere quella bestia, lavarla, asciugarla e poi lavare se stesso prima che quel rompicoglioni di uno svedese torni indietro. Perché sperare che la nave di Aphrodite sia rimasta incagliata in qualche fiordo oppure sia colata a picco nelle gelide acque del Mare del Nord è una pia illusione.

Se Non Plus Ultra vuole la guerra, che guerra sia. E così, Death Mask chiude tutte le porte, lasciando aperta solo quella del bagno. Bagno dove ha già preparato una vasca piena di acqua tiepida – ha controllato la temperatura col gomito, come si fa coi neonati –, il sapone e gli asciugamani per Sua Maestà. Adesso inizia la caccia.

Non Plus Ultra deve aver capito l’andazzo perché trotterella lungo il corridoio per sfuggirgli. Ma lui è più veloce. Lui lo incalza e lo insegue, ridendo come un pazzo, come quand’era piccolo ed era lui che correva per non farsi prendere dalle inservienti dell’orfanotrofio che volevano solo fargli il bagnetto serale.

A Non Plus Ultra importa poco della sua infanzia. La bestia immonda scatta verso la porta del bagno, correndo all’impazzata, con le zampe posteriori che arrivano all’altezza delle orecchie, e proprio mentre lui pensa che è fatta, che adesso non deve far altro che chiudersi anche quella porta alle spalle e procedere al lavaggio, il gatto compie un balzo prodigioso – uno di quelli che solo un vero felino può fare – e scavalca la vasca piena d’acqua atterrando sul davanzale della finestra.

Aperta.

E quanto volete che ci metta un gatto a sgattaiolare, appunto, verso la libertà?

Trenta secondi netti.
L’ultima cosa che Death Mask vede prima di inciampare sul tappetino del bagno e scivolare in acqua, è la coda a pennacchio di Non Plus Ultra svettare orgogliosa fuori dalla finestra.

«Stramaledettissima creatura!», inveisce prendendo a pugni l’acqua e innaffiando il soffitto della stanza con schizzi corposi. Al diavolo il gatto. Aphrodite gli ha chiesto di tenerglielo in custodia per una settimana. E la settimana scadrà alle sette di stasera. E lui dubita fortemente che Aphrodite torni in tempo. E anche se fosse, al diavolo lui e il suo gatto.
Si passa le mani sulla faccia, la camicia appesantita dall’acqua, i pantaloni fradici e le scarpe in cui i piedi sguazzano come due pesci rossi.

«Sai che c’è? Che il bagno me lo faccio io, e festa finita», dice all’aria, come se sapesse che Non Plus Ultra si è appostato dietro la finestra e lo sta ascoltando, l’infame. Si alza, cercando di non scivolare – sarebbe davvero comico schiattare battendo la testa nella vasca da bagno, giusto? – si disfa dei vestiti zuppi, e prende il detergente per il gatto, pardon, la lince sotto mentite spoglie. Detergente neutro alla clorofilla, c’è scritto.

«Male non farà», dice versandosene una dose generosa nel palmo della mano. E il suo cervello escogita un piano B. Perché gli dirà che il bagno al gattino, come lo chiama Aphrodite, lui l’ha fatto, eccome. La sera prima del suo rientro alla base. Solo che il giorno dopo il gatto se n’è andato a fare una passeggiata e s’è lordato tutto daccapo. E nelle istruzioni Aphrodite ha parlato di un bagnetto a settimana.

«Non dih piùh, altri-menti si risckia di rOhfinareh  il pelo kantito tel micioh», dice scimmiottando l’accento marcato del Santo dei Pesci. E anche se Aphrodite dovesse mangiare la foglia – o anche un’intera piantagione di lattuga, per quel che lo riguarda – gli mostrerà la confezione del detergente. Non penserà mai che lui si sia ridotto a lavarsi con il bagnoschiuma del micio, no? No?

E anche se fosse, chissenefotte, pensa. Gli servirà da lezione.

«Scommettiamo che Athena non mi chiederà più di partecipare alle serate di poker del venerdì?», dice ad alta voce scivolando nella vasca e godendosi l’abbraccio rilassante dell’acqua. Incrocia le braccia a cuscino dietro la nuca e chiude gli occhi.

Ci voleva proprio, dopo una settimana passata ad occuparsi di quella belva pelosa.
E dagli da mangiare. E puliscigli la lettiera. E spazzolagli il pelo. E dagli il remover per eliminare i boli di pelo. E spazzola il divano, il letto, le tende, i tappeti ed i vestiti per eliminare quello stramaledetto pelo. E…

SPLASH.

Dieci chili di gatto gli piombano addosso. Saltando dalla finestra del bagno – che lui ha lasciato aperta così com’era – ed atterrandogli sul plesso solare. Perché a molti Norvegesi delle Foreste piace fare il bagnetto. Piace sguazzare nell’acqua. Piace agitare quella stramaledetta coda a pennacchio schizzando da tutte le parti. Quando lui riesce a respirare lancia un’occhiata carica d’odio puro al gatto. Che adesso assomiglia più ad un grosso gremlin bianco. Un grosso gremlin bianco e fradicio. Che gli si avvicina e gli struscia la testa bagnata contro la mascella. Ronfando.

Infame di un gatto bastardo, pensa, mentre le sue mani agiscono da sole ed accarezzano la testa del felino. Per insaponarlo, certo; mica per dargli quella carezza della sera che anche lui riceveva da piccolo, quando era Marianna a fargli il bagno.

«Ok, amico. Ok. Un po’ di coccole serali non hanno mai ucciso nessuno. Ma che rimanga un segreto tra di noi, intesi?»

Non Plus Ultra socchiude gli occhi e gli avvicina il muso al mento. E il suo alito pesante non è poi così puzzolente com’era all’inizio. E anche se Death Mask non l’ammetterà mai, nemmeno con una pistola alla tempia, gli mancherà quel casinista extralarge. Speriamo che la nave di Aphrodite sia davvero colata a picco, pensa godendosi il bagnetto serale assieme al gattino bianco.
 

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Capitolo 7
*** #7 Il tassello mancante ***


#7 – Il tassello mancante
 
 
Prompt: Letto
Titolo: Il tassello mancante
Autore: Francine
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Pegasus Seiya – Ophiucus Shaina
Genere: Drammatico? Onirico?
Rating: Giallo
Avvertimenti:  Un futuro post Hades.
Lunghezza: (conteggio parole e numero pagine) 2550/5
Eventuali note dell’autore (o alla fine se contengono spoiler):  Ci sentiamo a fine racconto, stavolta.
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Per la gelosia, niente è più tremendo della risata.
Françoise Sagan,
La Chamade, 1965
 
 
IL bello della domenica mattina è che si può poltrire a letto senza troppi rimorsi.
Stiracchiarsi, rigirarsi tra le lenzuola che profumano di sole e fiori di campo, abbandonare la testa sul cuscino e godersi una mezz’ora di tranquillità, mentre fuori il mondo scorre lento, come se fosse festa anche per lui. Il vero lusso è questo, potersi concedere del tempo tutto per sé. E se c’è anche lei, allora è davvero il paradiso. Per questo la sua mano la cerca, accanto a sé, sul lato sinistro del letto; però quando trova il suo posto vuoto, ancora tiepido, e le lenzuola sollevate, qualcosa dentro di lui stona, come una chitarra non accordata.

«Hn?»

Confuso, riemerge dalle braccia di Morfeo, socchiude un occhio, poi l’altro, le palpebre pesanti che vogliono ricadere giù, come una saracinesca a schermare la vista dalla luce del sole che filtra dalle tende, e cerca il quadrante luminoso della radiosveglia. Le nove. Poi sente l’acqua scorrere allegra in cucina. E sente lei. Sta cantando. E quando sta cantando, è felice.

La sente armeggiare, rumore d’acciaio e cucchiaini, il frigorifero che si apre e si richiude, i suoi piedi scalzi sul pavimento della cucina. Sorride, si stiracchia ancora una volta e si alza. A piedi nudi, la raggiunge.

Lei sta preparando la moka davanti al lavello, di spalle. Indossa una sua camicia che le sta tre volte, l’orlo fin quasi alle ginocchia e le maniche arrotolate oltre i gomiti, e lui sogghigna godendosi lo spettacolo del suo corpo in controluce. Si appoggia allo stipite della porta, braccia conserte. Sì, berranno il caffè in cucina. E poi la solleverà di peso e la riporterà di là, in camera da letto. Abbracciarla e baciarle il collo è una questione di tre piccoli passi. 

«Ah!», sussulta lei. Non l’ha sentito arrivare ed un po’ di caffè è caduto sulla guarnizione e sul piano del lavello.

«Buongiorno», mormora contro la sua pelle. Calda. E fresca. E così morbida… «Come mai così mattiniera?» 

«Perché abbiamo un appuntamento», ribatte lei allentando la sua presa. Posa la moka sui fornelli ed accende il gas.

 Appuntamento? Di domenica? E con chi?, pensa lui aggrottando le sopracciglia, ma niente non riesce a ricordare nulla. Strano. Un appuntamento di domenica mattina significa, di solito, un paio di cose: andare a pranzo da qualcuno – ma da qualcuno chi? Saori, forse? – oppure andare a pranzo fuori. Ma dove?

Shaina si volta. Lo scruta con quel suo sguardo color verde bottiglia e poi sospira: «Ho capito. Hai di nuovo alzato il gomito, ieri sera, coi ragazzi. Lo sai che non reggi bene l’alcol come Hyoga…»

Lui la guarda come se fosse appena atterrata da Marte. «Hyoga?» Perché? Sono uscito ieri sera? Con Hyoga?, si chiede, ma non ricorda nulla, se non di essersi spogliato, guardandola addormentata sotto le lenzuola, ed averla raggiunta in un battibaleno.

«Sì. Hyoga, Shun e tutti gli altri. C’erano pure Jabu e Ikki, non ricordi?»

«No», ed è questo a sconcertarlo: le volte in cui Ikki esce con loro si contano sulle dita di una sola mano. E avanzano sempre l’anulare e il mignolo.

Shaina sospira. «Lasciamo perdere. Su, vatti a lavare. La dottoressa Anteriotis ci aspetta.»

Dottoressa? «Amore, stai male?!», le domanda lui. Allarmato. Cancella il pensiero che forse non è ancora domenica mattina, ma solo sabato. O la dottoressa non li riceverebbe di sicuro. Ma la cosa più importante è un’altra: che bisogno c’è di andare dalla dottoressa? Che cos’ha la sua Principessa?

La Principessa ride. «Ma no, scioccone. Non sono malata, sto benissimo. È solo una visita di controllo ricordi?», gli risponde fissandolo con quei suoi occhi così dolci. «No, non te lo ricordi. Pazienza. Così impari a sbronzarti. E adesso vai. Non mi va di fare tardi», conclude con aria decisa. Eccola qui la maestra che dorme sotto le ceneri, l’istruttrice severa e indefessa che tanto gli faceva paura quando aveva sette anni e spaccava rocce a mani nude tutto il santo giorno. 

«Agli ordini!», le ribatte, facendo il saluto militare e pentendosene subito dopo. La testa gli duole. Sembra che qualcuno abbia scambiato il suo cervello per il tamburo di una batteria, e ci sta dando giù di gusto.

«Un buon caffè ti rimetterà in sesto, Agapê mou», gli dice prendendo le tazzine. Poi si volta. «Sei ancora qui?»

«Vado, vado», ribatte. Esce dalla cucina scostando la tenda di perline tintinnanti, per la gioia del suo mal di testa, e svolta a sinistra verso la porta azzurro carico in fondo al corridoio. Entra nel bagno e apre i rubinetti. S’insapona il viso, scoprendo una barbetta di tre giorni, che a lei non farà piacere. Prende il rasoio e la schiuma da barba. Intanto lei canta in cucina, mentre lui sente la moka in sottofondo che borbotta sul fornello. 

Forse è uscito davvero. Forse dovevano festeggiare qualcosa, ieri sera. Ricorda che Aiolia gli ha scassato le spalle a furia di riempirlo di pacche fraterne e Kanon ha pagato il primo giro di bevute. Sì, ieri sera è uscito. Lo sente dall’alito, quello che  impasta la bocca al risveglio, quando abbiamo esagerato con l’alcol. E ieri sera s'è spinto davvero oltre. Ricorda che Hyoga e Shun hanno aperto la porta di casa con le sue chiavi mentre lui teneva fermo il muro con la testa. O qualcosa del genere. Sì, ha esagerato, ma c’era un ottimo motivo per farlo. Ieri sera dovevano proprio festeggiare. Sì, ma cosa?

«Che ne dici?»

Seiya sbatte le palpebre. Shaina deve aver parlato e lui non ha ascoltato mezza parola, immerso com’era nel tentativo di ricostruire cosa sia successo ieri sera. «Cosa hai detto?», le chiede tendendo l’orecchio. 

«Ti ho chiesto se hai già pensato ad un nome.» 

Un nome per chi?, si domanda. Forse per il cucciolo che avevano deciso di adottare? «Non è meglio se aspettiamo di vedere che faccia ha?», si sente rispondere. Che senso ha decidere di chiamare un cane Scott se ha la faccia da Sparky?

«Sì, lo so. Ma la mia era solo un’idea», dice lei apparendo sulla porta del bagno con i due caffè.

«E sentiamola, quest’idea», le propone aprendo il rubinetto.

«Ho pensato», e Shaina posa il suo caffè sulla lavatrice, «ma tu non ridere, intesi? Ho pensato a Elenê, come tua madre. Oppure ad Aristotiles. Come tuo padre. Che ne dici?»

Ma se mia madre si chiamava Sumire?, pensa lui sciacquandosi i residui della schiuma da barba. Sta per risponderle quando i suoi occhi incrociano il riflesso nello specchio, mozzandogli il fiato. C’è un'altra persona. Un altro uomo. I suoi occhi sono azzurri, come la porta del bagno. La mascella è più decisa e volitiva. I capelli più lunghi. E scuri. E ricci. E il naso più marcato e deciso.

Seiya vede con orrore Milo sovrapporsi a se stesso, voltarsi ed attraversarlo, tagliandolo in due come una lama di ghiaccio, ed andare da Shaina per abbracciarla.

«Allora? Che ne pensi?», chiede lei. La sua voce gli arriva ora ovattata, lontana, distante. Disturbata. Come quando qualcuno ci parla e noi siamo immersi in piscina.

«A parte Aristoteles, ci sto. Ma bisogna vedere che ne pensa lei.»

Milo la guarda con quell’aria che chiama i pugni e quel dannatissimo sorriso smagliante. Perché non c’era ieri sera?, si chiede Seiya, sempre più confuso, ricordandosi all’improvviso di quel particolare. Come se fosse la tessera che manca al mosaico per ottenere l’interezza.

C’erano tutti, giusto? Shiryu, Ikki, Hyoga. Jabu, Shun. Aiolia. Mu. Persino Kanon. E Aldebaran. Shaka li aveva raggiunti con il suo cosmo potente. E Kiki aveva ottenuto di poter bere una sola birra, vista l’occasione. Ma mancava qualcuno, alla serata. E quel qualcuno era Milo.

Seiya si dice che è tutto un sogno.  Perché sì, è chiaro. Si tratta di un sogno. Deve esserlo. Un incubo, sì, uno di quelli annichilenti, degno inizio di un dopo sbornia coi fiocchi. Ma allora perché sente il cuore pulsare nelle orecchie come se volesse schizzare fuori dal suo petto?

«Non sappiamo…», tituba Shaina, e quand’è così arrendevole lui si sente sciogliere di tenerezza.

«Io sì», le risponde Milo. Poi si inginocchia, il viso all’altezza del ventre di Shaina e Seiya capisce. Capisce perché ieri sera ci fosse bisogno di festeggiare. Una consapevolezza crudele, abbagliante e gelida lo riempie. La tessera del mosaico. L’ha trovata. Una tessera dorata, che lo acceca con un bagliore di luce. È Seiya a non essere stato invitato alla bevuta all’osteria di Kostas. Lo zio di Milo.

«Ehilà. Ti piacerebbe chiamarti Elenê? Elenê Papadopoulou, senti come suona bene?», dice lo Scorpione, dando un bacio sul ventre di Shaina.

Shaina che affonda le mani in quell’ammasso esploso di capelli e ride. Ed è quella risata a ferirlo nel profondo, come se lei stesse spingendo un pugnale nel suo cuore e si baloccasse a rigirarlo nello squarcio aperto.

 «Tu sei matto da legare…»

«Oh sì», risponde lui alzandosi. «Sono pazzo di te.»

Urlare non serve a niente. È come se ci fosse un muro davanti a sé, un muro invisibile che lo separa dalla coppia – Mettiti il cuore in pace. Così come ho fatto io. E vai avanti, gli sussurra all’orecchio la voce di Saori – e per quanto tenti di abbattere quella barriera prendendola a pugni e a calci, non accade nulla. Milo si china su di lei e la bacia, una luce dorata che scende ad illuminarli dall’alto.
Seiya continua ad urlare tutta la sua disperazione, i suoi «No!», i suoi «Perché?», ma l’universo lo ignora. Shaina lo ignora. Milo lo ignora. Anche Saori non gli parla più.

Un ultimo, disperato «No!», gridato con ogni fibra del suo essere, e la barriera s’incrina, come un vetro colpito da una pallonata. La crepa si allarga con un sinistro scricchiolio e il muro invisibile va in mille pezzi, e lui lo segue. Seiya cade. Cade all’indietro, risucchiato via dall’aspiratore più potente del mondo, assieme allo specchio e al lavabo, mentre Shaina e Milo restano sotto la calda e rassicurante luce dorata.
Seiya cade. Giù. Nel buio.

Poi qualcosa lo avvolge. Lacci. Legami? Corde? Lo avvolgono e lo soffocano, qualsiasi cosa siano. Sono… sono le lenzuola. Le lenzuola spiegazzate del letto da cui si è alzato pochi minuti prima. Quelle stesse lenzuola che no, non profumano più di fiori di campo e sole, ma di muffa e polvere. E che adesso gli serrano polsi e caviglie e si attorcigliano attorno al suo collo. Stringendo, stringendo, stringendo…

 

«NO!»

 

Si ritrova a sedere, nel buio.
La luce sul comodino di Shaina si accende, lei lo guarda con gli occhi cisposi, confusa.
«Amore?»

Lui non può risponderle, è troppo impegnato a respirare a pieni polmoni. Come se fosse appena risalito dopo un’immersione in apnea. Sente il sudore lambirgli gelido la pelle nuda della schiena, il collo, la fronte, il ventre. Stringe le lenzuola tra le mani serrate, ha gli occhi strabuzzati e si guarda intorno smarrito. Come un bambino che ha avuto il più terrificante degli incubi.

«Amore? Seiya, che c’è? Che succede, Agapê mou?»

«No!» Seiya ha urlato. Come una bestia ferita. Come un animale impaurito.

«Ok, ok. Calmati, adesso», gli dice mostrandogli i palmi delle mani.

Shaina lo guarda perplessa. Sì, lo fa impazzire sentirla parlare in greco, sentirla sussurrare al suo orecchio in quella lingua così musicale, che sa di sole e sale e rocce. E involtini in foglie di vite e limoni. E anice. Ma adesso il greco gli suona strano. Viscido. Gli dà la nausea. E gli sembra che lei parli con uno strano accento. Quello che sa di meltemi e mare. Quello delle Cicladi.

 «Che è successo? Seiya, parlami…»

«Ho fatto un… un brutto sogno…», le dice. Passandosi la mano sugli occhi. Ha persino le sopracciglia madide di sudore.

Questo lo vedo da me, gli dicono i suoi occhi. Vede Shaina voltarsi, prendere la radiosveglia e controllare l’ora. «Ho capito. Hai di nuovo alzato il gomito, ieri sera, coi ragazzi. Lo sai che non reggi bene l’alcol come Hyoga…»

«No!» Non di nuovo! No! «Smettila!»

«Seiya, ma che…»

«Non mi sono ubriacato. Non sono uscito. Non c’era Hyoga, ieri sera. E non c’era nemmeno Milo. Anzi, non c’era Seiya. Perché l’osteria è dello zio di Milo!»

«Seiya, mi stai facendo paura», gli dice lei, un braccio che corre a proteggersi il ventre.

«Sei incinta», le dice. Come se lo scoprisse adesso. Come se non rammentasse che hanno atteso assieme il risultato del test di gravidanza. E che quando è comparso quel più si sono abbracciati, entrambi senza fiato e con le vertigini.

Shaina si alza. Indietreggia verso la porta della camera da letto, fissandolo.
«Seiya, è stato solo un brutto sogno. Ok?»
Sta espandendo il suo cosmo. Piano piano, dolce, costante. Può sentire le stelle dell’Ofiuco avvolgerlo nelle sue spire rassicuranti. E Seiya si calma. Piano piano. I battiti del cuore rallentano, il respiro si fa regolare e lui torna in sé.

«Shaina…», le dice. Allargando le braccia per accoglierla. Accoglierla e stringerla a sé. Per non lasciarla andare mai più. Braccia in cui lei si tuffa. Con fiducia. Appoggia la testa sul suo petto e si rannicchia contro di lui, come quando l’ha protetto col proprio corpo dall’assalto di Aiolia. «Scusami», le dice annusandole i capelli. Sanno di pulito, di fresco e di noce di cocco. «Ho fatto un brutto sogno.»

«Ma dai?», ribatte lei accarezzandogli una spalla. Il suo cuore è la più dolce delle melodie, ma stavolta l’ha davvero spaventata. «Perché non me lo racconti? Così lo sconfiggiamo insieme. E non ci pensiamo più.»

E Seiya racconta. Del risveglio, della moka in cucina, della sua sbronza, del bagno. Di Milo. Le tace solo la voce di Saori, che gli soffia quelle parole velenose all’orecchio. Lei ascolta. Paziente. Comprensiva. Sorride fin tanto che il sogno è divertente, ma quando il racconto si addentra nell’incubo assume un’espressione seria che lui non può e non deve vedere.

«E questo è tutto…», conclude Seiya respirando il profumo dei suoi capelli.

«Seiya, Seiya, Seiya…», gli dice. Accoccolandosi ancora di più contro di lui. « È sempre lo stesso sogno. Lo sai anche tu che è impossibile, vero? Quando lo capirai?»

«Sì, lo so che tu mi ami. Lo so che il bambino è mio, ma…»

«Seiya», e Shaina si libera dal suo abbraccio, fissandolo negli occhi. «Seiya, è impossibile per una semplice ragione. Milo, Aiolia e gli altri Santi d’Oro sono morti. Contro Ade. Ricordi? Ci siamo solo noi, Seiya. Solo io e te.»

, pensa, rivivendo quei giorni in flash abbaglianti. «Vieni qui», le dice, sdraiandosi sul letto. Abbracciandola. Perché ha bisogno di lei. Perché in due è più facile affrontare il buio e i suoi mostri.

E con Shaina tra le braccia Seiya  si tranquillizza. E capisce che il vero tassello mancante non riguarda Milo. Nossignore. Il vero tassello mancante riguarda le parole di Saori. È sua la voce che ha sentito.

Mettiti il cuore in pace. Così come ho fatto io. E vai avanti.

Questo gli ha detto. Ed è la prima volta che Athena entra nei suoi sogni. Forse avrebbe dovuto farlo prima. Perché non erano parole velenose, dettate dalla vendetta appagata, le sue. Erano parole d’amore. Era il suo modo per dirgli di andare avanti. Di ricominciare. Di vivere. Di guardare al futuro. Era quello il tassello mancante per completare le loro vite. E per farle brillare. Più splendenti dell’oro.
 
 
NOTE: i più attenti si saranno accorti di aver già letto questo sogno del povero Seiya (no, non ve lo dico dove. Niente spoilers, grazie. Chi lo sa, lo sa; chi non lo sa, pazienti un pochino.). È disdicevole citare se stessi, lo so, ma mi serviva riprodurre quello stesso sogno con quella stessa angoscia. La chiave, il tassello mancante, è tutta nelle parole di Saori. Andare avanti. E lasciarsi alle spalle il passato, una volta per tutte. Incubi compresi.

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Capitolo 8
*** #8 Chi di spada ferisce ***


#8 - Chi di spada ferisce
 
 
Prompt: Dolci
Titolo: Chi di spada ferisce
Autore: Francine
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Capricorn Shura
Genere: Commedia
Rating: Verde
Avvertimenti:  AU. Perché nella testa di Kurumada le cose sono andate diversamente, ahinoi.
Lunghezza: (conteggio parole e numero pagine) 1753/3
Eventuali note dell’autore (o alla fine se contengono spoiler):  Ci sono dei riferimenti a Scripta Manent, ma non è necessaria la lettura di quella storia per la comprensione di questo racconto.
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La regola è: marmellata domani e marmellata ieri, ma mai marmellata oggi.
Lewis Carrol
 

BURRO, uova, zucchero, lievito, farina.
E una decina di vasetti di marmellata sul primo ripiano della credenza, allineati come tanti soldatini coraggiosi. Lupe sta facendo un dolce. Lupe sta facendo la sua crostata, quella che le invidiano tutte le altre massaie del paese. E Ruy, che è entrato dalla porta sul retro, quella della cucina, si avvicina alla spianatoia infarinata con un misto di gola e curiosità a solleticargli il palato.

Il burro è freddo, segno che Lupe deve essersi allontanata da poco, e che tornerà a breve. Altrimenti l’avrebbe rimesso in frigorifero, pensa Ruy, memore delle spiegazioni della donna su come si faccia la pastafrolla. Non c’è un libro di cucina da cui prendere spunto, perché Lupe è figlia di altri tempi, quando si custodivano con religiosa gelosia le proprie, di ricette – tramandate di madre in figlia per generazioni; e non rivelerebbe i propri segreti alle altre compaesane  neppure se minacciassero di tagliarle la lingua con delle cesoie arroventate. Nahia ha provato in mille maniere a farsi dare la ricetta delle sue patate arrosto, anche offrendosi di aiutarla a prepararle, ma Lupe è sempre stata irremovibile. E non è per fare un piacere a Nahia – «Su, ti prego, a te lo dirà cosa ci mette in quelle dannate patate!» - che Ruy è andato a trovare la perpetua di don Julio?
 
Perpetua che si sarà allontanata per andare a ritirare i panni stesi in terrazzo. Cinque minuti fa ha tuonato, un rombo che avrà fatto tremare i vetri delle finestre e costretto Lupe ad arrampicarsi per gli scalini di pietra fino all’ultimo piano per salvare dall’acquazzone in arrivo le lenzuola stese e quasi asciutte.
 
Sarà bene che mi sbrighi anche io, pensa Ruy leggendo la grafia incerta di Lupe sulle etichette dei vasetti. Rincasare con la pioggia non è piacevole, specie se e quando non si ha un ombrello e si vive a mezza dozzina di chilometri fuori dal paese, abbarbicati su un picco roccioso che anche le capre, i camosci e gli stambecchi evitano con cura, per non rompersi gli zoccoli e le corna.
E Javier potrebbe innervosirsi se si beccasse un raffreddore per aver indugiato troppo in paese. Perché lui non avrebbe dovuto avvicinarsi, al paese. Avrebbe dovuto starsene appeso su una roccia sopra un baratro dalle pareti scoscese e fare i suoi piegamenti mattutini – cinquecento – per irrobustire le gambe e la schiena. Ma Javier non c’è. Javier è dovuto andare a Barcellona per motivi che non si è degnato di discutere con lui, e gli ha lasciato i suoi esercizi da fare.
 
«Rientrerò nel dopopranzo.» Non c’è stato bisogno di aggiungere: «Vedi di non fare scherzi», perché quella frase è baluginata negli occhi del madrileno regalandogli un brivido lungo la schiena. Perché Javier non è uno di quei maestri che borbotta, borbotta, ma non agisce. Javier agisce. E basta. E la sua schiena ne sa qualcosa.
Solo che la libertà dai propri doveri ha un profumo irresistibile, e dopo duecentoquarantatré piegamenti sulle gambe, appeso a testa all’ingiù con il vento caldo di fine Maggio che gli asciugava il sudore, Ruy s’è scocciato. E ha deciso di andare a farsi un giro ad Orreaga.
Non è andato bighellonando per i prati, baloccandosi con i denti di leone o le farfalle, nossignore. È sceso in paese ed è entrato dritto dritto all’Emporio di Nahia. Per vedere se fossero arrivate le sigarette e le provviste che aveva richiesto Javier, non per mangiare una mela candita – e del cedro, tre caramelle all’anice, un lecca-lecca coloratissimo, quattro boeri e una stecca di liquirizia. «Ché è digestiva», gli ha detto dona Ana regalandogliela assieme ad un buffetto sulla guancia.
Ed è stato allora che Nahia è entrata sulla fascia, a gamba tesa, da dietro. Un intervento da espulsione immediata, e senza nemmeno passare per il via.

«Ruy… non è che chiederesti a Lupe che diamine ci mette in quelle sue patate al forno?»
 
Ora, Ruy lo sa qual è l’ingrediente segreto di Lupe. Lo sa perché una volta l’ha aiutata a pelare le patate e l’ha vista mettere qualcosa nella teglia, oltre all’aglio, al sale grosso, al rametto di rosmarino, alle bacche di ginepro e all’alloro. Il cerfoglio. E un pizzico di anice stellato.
«Ma che resti un segreto tra di noi, intesi?», gli ha detto la donna, sapendo che il ragazzino, che un giorno diventerà il Capricorno, avrebbe tenuto l’acqua in bocca. E così Ruy ha fatto. Solo che, uscendo dall’Emporio, si è diretto lo stesso da Lupe, pur sapendo che non le avrebbe chiesto la lista degli ingredienti della sua ricetta. Perché a Ruy non piace dire le bugie. Preferisce le mezze verità, adesso che è ancora un ragazzino di sette anni tutto pelle e ossa con le ginocchia sbucciate e i gomiti pieni di graffi; avrà tempo per meditare sul reale peso della verità quando sarà più grande e si farà chiamare Shura, e una bugia gli avvelenerà la vita.

Ma adesso Ruy non medita su queste faccende da grandi. Perché anche se è quasi capace di spaccare gli atomi e le rocce in due con un colpo di taglio della mano destra, è pur sempre un ragazzino di sette anni. Un ragazzino goloso. E i dolci di Lupe sono qualcosa che vincerebbe le riserve di sant’Antonio che digiuna nel deserto.
Lupe non c’è. Ma non tarderà a tornare. O avrebbe rimesso il burro in frigo, ché per fare una pastafrolla come Dio comanda il burro deve essere il più freddo possibile.
Quindi potrebbe anche andarsene e dire a Nahia che no, non ha trovato Lupe in casa e festa finita. Ma Ruy si guarda intorno nella cucina che odora di vaniglia. Si sta così bene, lì. Il cielo si sta annuvolando pericolosamente. La pioggia lo coglierebbe strada facendo. Tanto vale restare finché non spioverà e poi correre a casa, si dice aprendo la dispensa. Anche Javier tornerà più tardi, con la pioggia la corriera ci mette più tempo ad arrivare da Iruña.

Ruy ha fame. Mezzogiorno si avvicina pericolosamente, ma Ruy non vuole qualcosa di salato, nossignore. Vuole assaggiare una delle marmellate di Lupe. Così. Solo una cucchiaiata. Poi livellerà la confettura nel vasetto e non se ne accorgerà nessuno. In queste cose è bravo. Non rammenta quante ossa ci siano nel corpo umano – duecentosei –, il numero delle Costellazioni – ottantotto – e quali siano le Triplicità – Cardinale, Fisso e Mutevole –, ma a fregare la marmellata non lo batte nessuno.
Javier ancora se la ricorda la delusione nell’aver aperto quel barattolo di crema alle nocciole e averlo trovato vuoto. Eppure a vederlo da fuori sembrava intonso, ancora chiuso e sigillato. E invece qualcuno, qualcuno alto un metro e cinquantacinque, occhi grandi e secco come un chiodo, l’aveva aperto di notte e ne aveva prelevato una cucchiaiata alla volta stando ben attento a ricompattare il livello e a non intaccare lo strato adiacente al barattolo di vetro.
 
Vediamo un po’, si dice, mentre legge le etichette con l’acquolina in bocca. Pesche, mele cotogne, susine, pere… tamarindo. Quasi non ci crede. Nella dispensa, dietro a tutti gli altri vasetti, ce ne sono tre di marmellata al tamarindo. Tre. Allarga gli occhi dallo stupore. Ruy adora il tamarindo. D’estate ne berrebbe a litri di quello sciroppo per alleviare la sete, e non solo. La tentazione è troppo forte. Solo una cucchiaiata. Solo una, pensa armandosi di cucchiaino e aprendo il vasetto.
 
Il CLACK del coperchio esplode nel silenzio della cucina, fulminandolo sul posto. Ruy si gira, convinto di trovare Lupe, o peggio ancora don Julio, alle sue spalle. E invece non c’è nessuno. Il suo cervellino non processa quest’informazione come strana, bizzarra, curiosa. La vede come un segnale di via libera, e allora alza il cucchiaino, sfiora la superficie della marmellata, ne raccoglie un po’ – poco poco poco – e se lo porta alle labbra.
 
Deliziosa.
 
La marmellata rotola sulla lingua, si spalma sul palato e scivola in gola. Lupe ha superato se stessa, stavolta. E sarebbe un peccato non fare onore alla sua cucina non prendendone un’altra cucchiaiata. Per far restare quel sapore in memoria, certo. E per capire se gli piaccia oppure no quel retrogusto acidulo che sente. Cos’è che ci ha messo dentro? Scorza di limone, oppure il solo infuso? Un’altra cucchiaiata che male fa? Una sola, e poi ricompatterà il composto e chiuderà il barattolo. Non se ne accorgerà nessuno, pensa affondando il cucchiaino ancora una volta, ed ignorando che la grafia sull’etichetta non è quella di Lupe, e nemmeno quella di sua sorella Noelia, l’unica a darle del filo da torcere in fatto di cucina, ma è quella del farmacista.
Questo è il paradiso, pensa affondando il cucchiaino ancora una, due, tre, troppe volte, fino a spazzolarsi tutta la marmellata.
 
 
Un barattolo dopo, Ruy è all’inferno.
La sua pancia sta ospitando la corsa dei tori di San Firmìn e nessuno s’è preso la briga di avvisarlo della cosa. Lupe lo ha trovato sul pavimento della cucina piegato su se stesso dai crampi, il barattolo della marmellata pulito e brillante al suo fianco. Come nuovo.
Metterlo a letto e dargli una borsa dell’acqua calda è stata una cosa sola, anche se Ruy vorrebbe poter piantare una tenda in bagno. Gli dispiace essere entrato di soppiatto ed aver spazzolato tutta la marmellata, ma non è riuscito a fermarsi. Cucchiaiata dopo cucchiaiata ha vuotato per intero il vasetto, infilandoci le dita quando il cucchiaino non è stato più adeguato al lavoro di pulizia. Ed è mentre Ruy si trova a letto a contorcersi dai crampi e a pensare che no, non lo farà mai più, campasse cent’anni ancora, che Lupe chiama Javier.
«Dov’è quel disgraziato?», chiede il madrileno. Ha capito che deve essere successo qualcosa, visto che è rincasato da quasi un’ora e del suo allievo nessuna traccia.
«L’ho messo a letto. Poverino…», e Lupe gli racconta, costernata e contrita, di come Ruy abbia ripulito un intero vasetto di marmellata al tamarindo. Marmellata lassativa, preparata da don Antoni, che Lupe non riesce a capire come sia finita nella sua dispensa. «Tre vasetti, poi, non uno. Tre. Oh, Javier, sono così dispiaciuta…»
Io no, pensa Javier. Perché quei vasetti li ha richiesti lui al farmacista. E sono state le sue mani a metterli nella dispensa di Lupe, questa stessa mattina, mentre don Julio diceva messa e la sua perpetua stendeva i panni in terrazzo.
Javier prende una sedia e ascolta il racconto della donna e le sue scuse. Accarezzando un vasetto di crema alle nocciole, intonso. Tutto per lui. Chi di spada ferisce, di spada perisce.

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Capitolo 9
*** #9 Tele-Romanza ***


#9 - Tele-Romanza

Prompt: Telefonata
Titolo: Tele-Romanza
Autore: Francine
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Miho – Erii – Pegasus Seiya
Genere: Commedia
Rating: Verde
Avvertimenti:  Sono una carogna, io…
Lunghezza: (conteggio parole e numero pagine) 2220/4
Eventuali note dell’autore (o alla fine se contengono spoiler):  Partecipa alla Challenge Slice of Life 
 


 
 A man falls in love through his eyes, a woman through her ears.
Woodrow Wyatt



Le ragazze sono fiori in boccio che ondeggiano sul ciglio dell’eternità. 

L’ha scritto lei, ieri sera, di suo pugno, con una penna verde sulle pagine del suo diario dalla copertina rossa. Non quello con il lucchetto che le ha regalato padre Ranmaru a Natale, che tiene nel terzo cassetto della scrivania, ma quello vero, che nasconde in bella vista tra i quaderni di giapponese e i libri di algebra.
Miho sa che Akira e Tatsuya sbirciano tra le sue cose. Gliel’ha detto Erii il mese scorso, quando ha trovato Makoto nel corridoio a fare da palo davanti la porta della sua stanza, e così, a mali estremi, estremi rimedi.

I sentimenti di una ragazza sono questioni serie. Personali. Delicate. Specie se la ragazza crede nell'Uomo Ideale - per gli amici LUI - e lo cerca in quelle storie d’amore che divora nel segreto e nella solitudine della propria stanzetta, la sera, prima di spegnere la luce ed abbandonarsi a romantici sogni in rosa.
Sogni in cui Lui - che nei romanzi ha nomi che suonano esotici come James, Richard, Edward, Andrew, Terence - è l’Uomo Perfetto. Non il Principe Azzurro in sella al suo cavallo bianco, no - Miho detesta i romanzi a sfondo storico - ma un uomo sicuro di sé, bello e ricco e fiero e dalla volontà indomabile che, a seconda dei casi, riesce a conquistare l’eroina della storia (Seduzione senza Inganni); apre il suo cuore indurito da una brutta delusione alla sua anima gemella (Dimmi di sì); la sposa con una cerimonia intima e romantica sulla spiaggia, al chiar di luna, con le onde e le stelle come damigelle d’onore (Quando torna l’Onda); le garantisce un E vissero felici e contenti molto più accattivante e concreto di quello promesso nelle favole (La rivincita del Conte).

Il fatto che Lui abbia gli occhi dolci e scuri di Seiya - e la sua voce, i suoi capelli, il suo sorriso - è un puro caso. Una coincidenza. Un viso dovrà pure avercelo questo Lui, giusto? E allora perché non dargli quello del suo più caro amico nonché amore impossibile? Sognare non costa niente e non fa male a nessuno. E poi nei sogni non rischia certo di apparire quella strega con la sua aria da prima della classe e l’arrabbiatura facile. 

E pensare che gliene diceva di tutti i colori. 

Miho sospira. Ripone Magia Greca assieme agli altri volumi nella scatola che nasconde sotto al letto, si lega i capelli in una coda di cavallo, ed allaccia il grembiule. C’è la colazione da preparare e poi via, a scuola. Forse dovrebbe lasciar andare Seiya alla sua vita e voltare pagina. Trovarsi un ragazzo vero, in carne e ossa, perché un Santo di Athena avrà sempre e solo Athena come primo pensiero. Tutto il resto, passerà in secondo piano. Con tutta la buona volontà possibile. Vedi Erii e Hyoga. E a lei, di essere la seconda scelta ancora una volta proprio non va.
Voglio un fidanzato. Uno vero, si dice prendendo i quaderni per metterli nella borsa. Ed è in quel momento che Erii bussa alla porta e si affaccia oltre il legno bianco dicendole: «Miho? Ti vogliono al telefono!», con un’espressione sorpresa. Ha il viso arrossato e gli occhi spalancati.

«E chi è?»
«Non ci crederai mai!!», ed Erii la guida - la trascina - verso il telefono rosa, quello che si trova nel corridoio tra l’ufficio di padre Ranmaru e il salotto. Sembrerebbe una tranquilla e normale giornata di Febbraio, una come tante altre all’Orfanotrofio Star Child. I bambini stanno aspettando la colazione nel refettorio, il loro allegro baccano in sottofondo. Fuori c’è un bel sole che buca un cielo così azzurro e terso come solo l’inverno sa regalare e riscalda i pupazzi di neve che resistono stoici in giardino. Ma allora perché Erii sta boccheggiando come un pesce, l’aria curiosa ed impaziente?

«Erii, mi fai paura. È successo qualcosa?», le chiede posando una mano sul microfono dell’apparecchio.
Rispondi. Rispondi!, le intimano gli occhi della collega. E Miho ubbidisce.
«Pronto?»
«Miho-chan? Sei tu?»

Una scarica di adrenalina la investe in pieno, forte come il parafango di un tir e lieve come un cuscino di piume. È una voce calda, sicura e un po’ imbarazzata al tempo stesso. È una voce che sa di mare, cielo, sogni e stelle cadenti. Una voce che lei conosce molto bene. Una voce maschile. La sua.

Le tremano le mani. Quasi non ci crede. «S… sì?»
«Non so se ti ricordi di me», dice l’uomo dall’altra parte del filo. E Miho pensa di voler catturare ogni singola inflessione di quel timbro. Perché è la sua voce. La voce perfetta per Lui: piena e profonda e morbida e calda e… «Sono io, Seiya.»

Le guance s’infiammano, la bocca si spalanca dalla sorpresa e i suoi occhi corrono a cercare quelli di Erii. Pone una mano sul microfono. «È Seiya!», strilla sottovoce, incredula lei stessa. Quanto tempo è passato dall'ultima volta che si sono sentiti? Un mese? Due?

Un anno, quattro mesi, due settimane e tre giorni, le ricorda il suo cervello con precisione svizzera.

Erii annuisce, come a dirle «Sì, lo so. Te l’ho passato io.». Ha le mani davanti alla bocca e il fiato sospeso. Come se fosse al telefono ci fosse lei.
«Ah. Ciao, Seiya. Come va? Certo che mi ricordo di te! Come potrei averti dimenticato?», e Miho vorrebbe mordersi la lingua. Come potrei averti dimenticato?! Ecco quello che succede a leggere i romanzi al mattino, ché poi certe frasi ti restano in testa e rischi di usarle a sproposito. Con il primo che chiama, magari. Un ragazzo alto un metro e settanta, gli occhi dolci e scuri e un sorriso da infarto. E un accento musicale che farebbe sciogliere anche la più rigida delle colonne di ghiaccio (Amore tra i Ghiacci).
«Va tutto bene, grazie», risponde lui, con un coinvolgente sorriso. Perché lui ha sorriso. Deve averlo fatto. Perché Lui sorride sempre. Sempre. Anche quand’è arrabbiato perché le sue azioni sono colate a picco in borsa o il puledro che voleva salvare resterà zoppo. E lei lo sa. «Ti disturbo?», domanda. Glissando con cavalleria sulla sua frase infelice.
«Ma no, figurati. Nessun disturbo.» Erii si avvicina con l’orecchio all’altoparlante. Miho ha bisogno del supporto e dell’aiuto di un’amica, ora che la guarda con aria terrorizzata.

E adesso che gli dico?, si chiede Miho, cercando risposte nell’altra, che le fa cenno di continuare a parlare muovendo le mani.
Vai. Avanti.
 Sì, ma che gli dico?!
«Sono solo stupita.» Credevo che avessi gettato via il mio numero di telefono tempo fa...

«Lo so, non mi sono fatto sentire per un po'. Ho avuto... da fare.» Professoressa non ho fatto i compiti perché dovevo salvare il mondo da una divinità impazzita. A Miho scappa da ridere, ma riesce a trattenersi. «Sai... ti ho chiamato perché dovevo parlarti di una cosa. Ho fatto male?»
«No, no, hai fatto benissimo», trilla lei. Come un fringuello a primavera. Tu dovevi parlarmi? E di che cosa?
«Immagino ti starai chiedendo perché ti abbia chiamata così presto.» In effetti, sì, pensa Miho, grata che lui diriga la conversazione. «Sai… sono in città», aggiunge, come proseguendo con un copione prestabilito. «E volevo chiederti una cosa…»
«Una… cosa?» Il cervello di Miho sta per partire a briglia sciolta sui sentieri così rosa, ma così rosa che più rosa non si può. Dall’altra parte c’è Seiya. Che deve parlare con lei. Che deve chiedere una cosa a lei. Non essere sciocca. Non è un capitolo di Una Rosa per Eulalia. Non è detto che abbia chiamato perché si sia accorto di provare qualcosa per te.
E se fosse così, invece? 
«E… e che cosa?»
«Preferirei non parlarne per telefono, se non ti dispiace», le risponde lui. «Possiamo vederci?»
«A… adesso?»
Miho sta balbettando. Senza freno. «Vuole vedermi. Adesso!», strilla sottovoce ad Erii, la mano sul microfono e il cuore a mille.
«Se fosse possibile, sì. Ma mi rendo conto che forse tu sia impegnata…»

Sì, oggi la giornata di Miho è bella densa di appuntamenti. La scuola - e anzi, se non si sbriga non farà mai in tempo - le attività del club di giardinaggio, la spesa per la cena, stirare, rammendare una montagna di calzini, preparare la cena, fare il bucato ed il bagno ai bambini e i compiti. E se le avanzano cinque minuti guardare la puntata di Come Due Stelle Gemelle prima di crollare a letto e leggere un altro capitolo mozzafiato di Magia Greca. Deve sapere come va a finire tra Jade e l'affascinante surfista Niklos, alto, bello e con due occhi azzurri da infarto.

 «Ecco… così su due piedi», risponde. Senza accorgersi di star pronunciando le esatte parole di Daisy in Un Amore Selvaggio.
«Lo immaginavo, Miho-chan. Ma credimi, se non fosse una cosa importante, non ti avrei mai disturbata.»
Miho è senza parole. Sta succedendo davvero?, domandano i suoi occhi a quelli di Erii.
Perché no?, brillano le iridi scure dell’amica.
Perché Miho sa che sarebbe troppo bello. Sarebbe un sogno mozzafiato. Uno di quelli che ti gonfiano la corolla della gonna in un impeto di ventosa felicità.

«Ecco… così su due piedi», ripete. Come un disco a cui si sia inceppata la puntina.
«Miho, parakalò. Scusami. Per favore.» 
«Certo. Certo. È che… », devo ancora dare la colazione ai bambini prima che si ammutinino e sfascino tutto l’edificio, infilarmi la divisa, raccattare il bento e correre a scuola. Ma tu fallo ancora. Parlami in greco.
«Ti ruberò solo pochi minuti. Parola.»
«È davvero così importante?», domanda Miho con la genuinità di chi crede ancora al Principe Azzurro. Un principe senza calzamaglia e cavallo bianco, ma sono gli anni ’80, baby, e anche i Principi Azzurri si adeguano ai tempi.
«Davvero. Mi sento un po’ egoista ad insistere, però… Ho bisogno di te.»
Miho deglutisce a vuoto. E con un coraggio che non credeva di possedere, risponde:«Ci vediamo alle cinque. Dimmi tu dove.»
«All’orfanotrofio, se per te va bene.»
All’orfanotrofio?! Si scambia uno sguardo interdetto con Erii.
A Seiya piacciono i bambini, le rispondono gli occhi dell’amica. Che fa spallucce. Sono strani, questi Santi di Athena. Bellissimi da far venire le vertigini, ma strani. Molto strani.
«Va… va benissimo, figurati. Ma non è che i bambini ti daranno fastidio?»
«No, no. Non ti preoccupare. Sono abituato ad avere a che fare con Kiki.» Lo sente ridere e nel petto le esplode un fuoco d’artificio. «Facciamo alle cinque, allora. Alla spesa penso io.»
La spesa? «Ma…», e Miho impone al suo cervello di lasciare l’immagine di Seiya che, in dolcevita nero e giacca color cammello, riempie un carrello nelle scansie del supermercato all’angolo insieme a lei, e ritornare sulla terra.
«Permettimi di insistere. Ci penso io. Tu dimmi solo quali ingredienti ti servono e…»
Ingredienti? «Ingredienti per cosa?», domanda ingenuamente, con un senso dell'equilibrio molto, molto precario.
«Giusto! Scusami, non te l’ho detto. Che testa! Gli ingredienti per l'omu-rice
«Eh? Di cosa stai parlando, Seiya?» Non di un rendez-vous con tanto di dichiarazione romantica al tramonto, temo, le sussurra l’odiosa vocetta della sua coscienza.
«Dell'omu-rice. È che io tra due settimane sarà S. Valentino.  E siccome alla mia compagna, Shaina hai presente?, le è piaciuto molto l’omu-rice, ho pensato che sarebbe stato carino preparargliene uno come si deve e così…»

Miho ha smesso di ascoltare. Non sa se sia stato peggio sapere che Seiya l’ha cercata per una ricetta - non poteva chiedere alle cuoche di Kido Manor?! - sapere che Seiya ha una compagna - qualcosa che suona di più serio di una innocua fidanzata - o sapere che Seiya non ha intenzione di riservare a lei, quel genere di attenzioni, ma a quella strega dai capelli color verderame.
Ormai hai promesso di aiutarlo, le rammenta la sua coscienza. Come farai?
L'illuminazione giunge improvvisa, mentre focalizza la dispensa. Adesso ti sistemo io, pensa, prima di rispondere: «Ho capito», con lo stesso tono con cui Siobhan gela Rupert nel secondo capitolo di A letto con il nemico. «Scusami, Seiya, ma adesso devo proprio andare. Gli ingredienti li ho in casa. Ci vediamo più tardi», dice con un sorriso forzato.
«Certo, certo. Anzi, scusami se ti ho tenuto troppo al telefono. Ci vediamo più tardi. Buona giornata, Miho-chan. E grazie mille. Efkaristò polì.» E riattacca.

Miho guarda i fori dell'altoparlante che le ripete un beffardo tutututututututututututututututu. Digrigna i denti, il viso livido di rabbia. Affida la cornetta ad Erii e ritorna sciabattando nella sua stanza, i pugni chiusi e l’aria bellicosa di chi sta architettando qualcosa. Qualcosa di molto piccante. O molto salato. O entrambe le cose insieme. Come in Amore tra i fornelli.

«Che è successo a Miho?», chiede Akira tirando la gonna di Erii. Che si volta. I bambini la stanno osservando dalla porta del refettorio. Affamati. La ragazza riaggancia.
«Niente, niente. Adesso andiamo a fare colazione, eh?»
«Seiya?», domanda ancora Akira, preoccupato.
E tu come te ne sei accorto?, vorrebbe chiedergli. «In un certo senso…»
Il ragazzino scuote la testa. «Stavolta la vedo brutta», annuncia con aria profetica tornando nel refettorio, e ci sarebbe anche da ridere della sua espressione così seria, se non fosse che ferirebbe i sentimenti di Miho-chan.
Ed Erii pensa che per un po’ di tempo sarà bene non mangiare l’omu-rice. E nemmeno nominarlo. Così. A scopo precauzionale.
 
 
 

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Capitolo 10
*** #10 De Consolatione Philosophiae ***


#10 De Consolatione Philosophiae




Prompt:  Vacanza
Titolo: De Consolatione Philosophiae
Autore: Francine
Fandom: Saint Seiya
Personaggi: Leo Aiolia – Scorpio Milo – Virgo Shaka
Genere: Commedia
Rating: Verde
Avvertimenti: AU
Lunghezza: (conteggio parole e numero pagine) 2324/5
Eventuali note dell’autore: possibile presenza di OOC. Anzi, quasi sicura presenza di OOC. Io metto le mani avanti. Decidete voi.
Partecipa alla Challenge Slice of Life
 
 



«È la Filosofia. Va un casino, quest’anno, la Filosofia.»
(Jacobean Mugatu, 2014)
 
 


 
 

Aiolia getta l’asciugamano bagnato sulla panca alle sue spalle. «Allora, per stasera è tutto confermato?»
«Stasera?»
«La partita di calcetto. Gold contro Bronze. Non dirmi che te ne sei dimenticato…»
«No, io no», ribatte Milo raccattando i boxer dalla sacca. Fa un caldo micidiale. Anche per essere Luglio. Anche per essere ad Atene. E tutto quel frinire di cicale lo manderà al manicomio. Lo sfiora l’idea di non indossare nulla. A che servirebbe? I vestiti gli aderirebbero al corpo. Ricomincerebbe a sudare. E dovrebbe lavarsi di nuovo. Che seccatura, l’estate.
«Gli altri?», insiste Aiolia.
«Quali altri?», gli domanda Milo, facendosi coraggio e sperando che la stoffa leggera dei boxer non gli si appiccichi alle chiappe all’istante.
«Aldebaran, Kanon, Mu…»
Una risatina ironica interrompe l’elencazione del Leone.
«Aldebaran esce con una ragazza. Kanon non c’è. Ha da fare. E Mu ha detto che deve provare una nuova polvere d’oricalco a grammatura ultrafine. Una cosa del genere.»
«Aldebaran esce con una ragazza?» Lo sguardo sconcertato di Aiolia riceve come risposta un’alzata di spalle da parte di Milo. «Quindi?»
«Quindi?!», ripete lo Scorpione, la massa anarchica di capelli tenuta a bada da un elastico di spugna sottile che sta per alzare bandiera bianca. Alza gli occhi al soffitto e sbuffa. «Quindi, che facciamo? Giochiamo tu ed io contro loro cinque? A meno che tu non ti aspetti un aiuto dall’oltretomba», prosegue indicando l’esterno dello spogliatoio, dove il sole batte forte e caldo e intenso e le cicale friniscono impazzite.
«Non dire queste cose, ché porta male. E poi sei tu il superstizioso tra noi due.»
«Bah», ribatte Milo agguantando i pantaloni. «Per stasera non se ne fa nulla. Chiameremo i Bronze e fisseremo un altro giorno. Che palle! E ho anche discusso per giocare a calcetto stasera, questo è il bello!»
Aiolia sbuffa. «Ma com’è possibile che solo noi due ci siamo liberati?»
«Perché solo noi due abbiamo il laccio al collo», risponde Milo indossando una canotta. Nera. Suda al solo pensiero, ma non è andato tanto per il sottile quando ha riempito la propria sacca. Ha aperto un cassetto, arraffato due vestiti puliti ed è uscito per andare all’appuntamento con Aiolia. Un allenamento intensivo. Come una volta. Come quand’erano ragazzi e sfogavano tutte le loro energie menando le mani nell’arena. «Negherò fino alla morte di aver detto una cosa simile. Lo sai.»
Aiolia annuisce. «Che seccatura…»
«Sì, non dirmelo. Ho discusso per due ore per poter andare a giocare a calcetto e poi non se ne fa niente. Sai quando mi ricapiterà? Te lo dico io. Mai più.» Milo chiude la sacca con stizza. «Anzi, sai che facciamo? Stasera usciamo.»
«Perché no? Fammi avvisare Marin», dice il Leone prendendo il cellulare. La mano di Milo cala sul suo polso implacabile, come la lama di una ghigliottina.
«No. Non ci siamo capiti», dice lo Scorpione. Piazzandogli gli occhi azzurro carico nei suoi. «Stasera. Usciamo. Tu. Ed. Io. Ce ne andiamo a bere una cosa da Kostas. Tra maschietti. La signore se ne restano a casa a fare quello che avrebbero fatto se noi fossimo andati a giocare.»
Aiolia sgrana gli occhi verdi. «Sai che ci ammazzeranno?»
«Perché? Che facciamo di male? Ci prendiamo una vacanza di qualche ora…»
«Come sarebbe a dire perché?», domanda il Leone allargando le braccia. «Non ci lasceranno mai andare da soli, giù da Kostas. Penseranno che andiamo a donne!»
«A donne? Nella taverna di mio zio?»
«A donne, sì. Nella taverna di tuo zio, sì», ripete Aiolia. «Tu non sai quant’è gelosa Marin…»
«E tu non dirglielo. Se ti chiederà come è andata la partita, inventati una balla.»
«E se dovesse venirlo a sapere?»
«E da chi?», chiede Milo. Incuriosito, il sorriso da faina dipinto sul volto. «Kostas terrà la bocca chiusa. E io non sarò così scemo da andarglielo a dire. Marin lo saprà se tu glielo dirai.»
«Amethyst. Jade.» Bastano queste due parole perché il viso di Milo perda colore. Adesso capisci, sì?, dardeggiano gli occhi di smeraldo del Leone. «Figurati se loro due non sanno che stasera Kanon ha da fare con lei…»
«Ehi, piano… Non è detto che…»
«È detto, è detto», sentenzia il Leone agitando il cellulare come se fosse il martelletto di un giudice. «E se non si tratta di lei, povero lui quando Amethyst Jade lo verrà a sapere. Perché lo verrà a sapere. Fidati.»
«Questo posto è diventato un covo di pettegole», commenta Milo lisciandosi il mento. Sta provando a farsi crescere il pizzetto, oppure s’è dimenticato di radersi? Perché così fa davvero ridere i polli, pensa il Leone. «Io stasera voglio uscire.» Lo dice come un bambino che s’è incaponito.
«E se cambiassimo la sfida?», propone Aiolia. Perché l’idea di rientrare a casa dopo aver subodorato tre ore di libertà non lo alletta proprio. È bella, la libertà. È dolce. Sa di miele ed erba tagliata. E quando hai intravisto il sole brillare attraverso un pertugio è dura tornare alle care, quattro mura di casa. «Street basket al posto del calcetto!»
«Street basket?»
«Tre contro tre. Dovremmo farcela. E poi, a te, il calcetto neanche piace.»
«Sì, Aiolia. È tutto molto bello, ma resta il problema. Dove lo troviamo il terzo? Chiediamo a Kiki di fare gruppo? Così giochiamo con l’handicap?»
Il viso del Leone s’illumina. Di quella luce che promana quando ha un’idea geniale. Quando pensa di avere un’idea geniale. Che è troppo spesso più pericolosa che altro. «Shaka…»
«NO.»
«Perché no?», protesta Aiolia. «Non fare il guastafeste! È la soluzione ideale. E lo sai.»
«Ideale un corno!»
«Dici così perché l’idea non l’hai avuta tu», provoca il Leone, lo sguardo sottile ed il sorriso di sfida che metteva su quand’erano bambini. Prima che la morte di Aiolos precipitasse il Santuario nel terrore e nel dubbio.
«Dico così perché è un idea imbecille», ribatte lo Scorpione.
«E perché mai, sentiamo!»
«Avanti! Shaka è a suo agio nel discorrere di filosofia con Mu, passeggiando per i viali del Santuario. E non fare quella faccia. Paese che vai, usanza che trovi», ribatte lo Scorpione. «Hai mai parlato con Shaka, tu?»
Il Leone ci pensa. In effetti, l’unica e sola volta in cui si sono confrontati è stato nella Sala delle Udienze del Sacerdote. E non è andata a finire bene. Anzi.
«Punto primo.» Milo continua l’esposizione della sua teoria. «Non sappiamo se Shaka sappia tenere tra le mani una palla da basket. Punto Secondo. Non sappiamo se Shaka sappia giocare a basket. Punto Terzo. Non vorrei che Ikki pestasse duro e ce lo azzoppasse. Sai com’è, la foga del gioco e via dicendo. Punto Quarto. Chi glielo chiede a Shaka? Perché toglitelo dalla testa che lo faccia io. Quello lì è capace di tenerti mezz’ora a parlare di filosofia spicciola prima di darti retta e risponderti sì o no…»
Milo è partito. Come un treno che deraglia e passa sopra qualunque cosa incontri sul proprio cammino, sassi, alberi, strade, case, persone. Elenca le sue prove aiutandosi con le dita, lo sguardo fisso sulle mani, e non s’è accorto dell’espressione di Aiolia. Che ha sgranato gli occhioni come l’agnellino davanti al lupo.
«Milo…»
«Non ho finito. Tu gli chiedi “Ehi, ti vanno due tiri a canestro?”, e lui se ne esce con speculazioni filosofiche del tipo: “Cos’è un canestro? Sei tu che vi infili la palla o è la palla che vi si infila da sé?”. Sempre ammesso che non parta davvero per la tangente…»
«Milo…»
«… e attacchi con la filosofia orientale. Lì sei davvero fottuto. E il Nirvana. E il Sàmsara. E…»
«Samsàra
La voce calma e pacata di Shaka si infila nell’invettiva dello Scorpione. Congelandogli la spina dorsale più di quanto avrebbe fatto il potere di Camus buonanima.
Giuda!, dardeggiano gli occhi azzurri di Milo.
Ho provato ad avvertirti, gli rispondono quelli verdi di Aiolia.
Milo ruota la testa. Piano. A scatti. Come se le vertebre del suo collo fossero arrugginite ed immobili da tanto, tantissimo tempo. Ed è con un sorriso colpevole che si rivolge alla Vergine. Perché se c’è una cosa in cui Milo è bravo, oltre che nell’usare il nemico come un puntaspilli, è nel fare le imitazioni dei suoi compagni. Delle persone a lui più vicine e più care. E non è un caso che abbia dormito sul divano per una settimana di fila, solo per aver osato fare il verso anche a lei.
«Si dice Samsàra, Milo.»
«Salve, Shaka. Anche tu qui?»
Shaka scuote la testa, i lunghissimi capelli biondi che gli scendono sulle spalle. Indossa un abito tradizionale, color zafferano. Di lino. Sembra fresco. Ma con Shaka non vale. È talmente lontano e distaccato dalle cose terrene che per lui le regole della traspirazione umana non valgono. Questo nemmeno suderà, si dice Milo osservando l’espressione atarassica della Vergine. Gli occhi sono chiusi. E qualcosa, il suo istinto di sopravvivenza forse, gli suggerisce che è bene che restino così.
«Pensavo che per te la Filosofia fosse più importante…»
«Ma per me la Fi… filosofia è importante… Se potessi, la sposerei.»
«Non denigrarla, Milo. Non sta bene. E non si conviene ad un greco.»
«Non so cosa tu», abbia sentito, ma c’è stato un malinteso. Così proseguirebbe il discorso dello Scorpione, se l’altro gli concedesse il tempo per completarlo.
«La Filosofia sa essere di grande consolazione. Ricordi Boezio? La Filosofia ci aiuta. Ci alleggerisce questa vita, immersa nelle colpe del karma precedente. La meditazione permette allo spirito di elevarsi al nirvana dal samsàra, vuoto e vacuo. Non senti, nel tuo cuore, il bisogno inarrestabile di giungere alla mutki? No. No. Tu dovresti aver  superato la Brahmacharya, abbracciato ormai la Vanaprastha ed essere pronto alla Sannyasa. E invece, sei ancora schiavo della Grihastha, vero?»
Milo non ha capito una sola parola. Non ha ascoltato. Grihastha? Sannyasa? Che roba è, si chiede in un angolino del suo cervello, un soffio di vento gentile che fa oscillare appena il giunco nel canneto. Tutta la sua attenzione è concentrata sulle palpebre di Shaka.
«Non hai capito una sola parola di quello che ho detto, vero? Voi greci… così attaccati alla physis e all’origine dell’Universo da non concepire che vi sia altro, oltre il mondo del tangibile. Ma non preoccuparti. Non temere. Ti insegnerò a meditare. A concepire le Quattro Verità. A staccarti dal mondo materiale…», e Shaka solleva le palpebre. Piano. Con lentezza. Le ciglia nerissime della Vergine si aprono a ventaglio, rivelando la sclera candida. È finita, pensa Milo. E scopre che non c’è tempo per rivedere la propria vita a ritroso o il viso delle persone care prima che la luce lo inghiotta, prima che l’azzurro intenso dell’iride di Shaka riveli la struggente tonalità del cielo di primavera e… «Anche la meditazione è una forma filosofica, sai?»
E non succede proprio niente. Lui è ancora lì. Atomo dopo atomo. Shaka non l’ha disintegrato, non gli ha fatto alcun male. Gli ha solo regalato un infarto e lo stomaco gli è diventato un pezzo di ghiaccio, ma, per il resto, è vivo. E vegeto. Forse. Fra cinque minuti potrà dirlo. Dopo che avrà strozzato Aiolia.
«E aiuta anche a sopportare il caldo…»
Ok, è durata anche troppo, si dice lo Scorpione, intento a trovare un modo per uscirne senza massacrare oltre il proprio onore. In quella, il suo cellulare squilla. Lo spogliatoio si riempie del trillo del telefonino, un suono disperato di protesta, di richiesta di attenzione immediata. Un’ancora di salvezza per Milo, che si scuote dal torpore, apre la sacca e ne estrae il cellulare.
Un attimo, fa con un gesto all’indirizzo di Shaka. «Sì? Oh, ciao Amore. No, no, niente più calcetto stasera. Sì, Kanon. Sì, Amethyst Jade. Certo che ha da fare con lei? Cosa? Lei non ha da… Ma no, ma no. Ma no. Ti giuro. Io non ne so niente. Ma figurati. Ma no, quel disgraziato vorrà farle una sorpresa…» Raccatta la sacca, se la mette in spalla e copre l’altoparlante del telefonino con la mano. «Scusate, devo andare», dice, prima di riprendere a parlare al telefono: «No, non ho detto che so che Kanon vuole farle una sorpresa, ho detto che penso che…»
La porta si apre e si chiude e la sua voce riecheggia per il corridoio deserto. Nello spogliatoio sono rimasti solo Aiolia e Shaka. Le cui labbra sono incurvate in un sorriso soddisfatto.
«Per un momento ho creduto che avresti usato il tuo potere contro di lui…», gli confida Aiolia, le braccia a penzolare lungo il busto.
«Anche Milo.»
«Anche Milo. Ma che ci facevi, qui?»
«Passavo per caso», risponde la Vergine, un’espressione melliflua sul volto, che stride con la pacatezza che lo contraddistingue. E che fa più paura del sorriso da tagliola di Kanon. «Devi scusarmi, Aiolia. Ho ascoltato le parole di Milo, e non ho resistito.»
Si giustifica. Piegando la testa da una parte, come farebbe un gatto dispettoso. Poi sospira. «Si vede che forse non sono così distaccato dal mondo materiale come credevo. È meglio che torni a meditare e a ripulirmi il karma…»
«Te la stai godendo come un matto, vero?», chiede Aiolia. E quello che ottiene in risposta è quel sorriso perfido che gli regala una pelle increspata dalla paura come le acque di un placido laghetto al passaggio di una brezza bizzosa.
«Sì. Lo ammetto. Vedere quell’espressione sul viso di Milo è stato… impagabile.» Shaka si ravvia una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Per praticità più che per civetteria. «Buona giornata, Aiolia», ed esce dallo spogliatoio. Lasciandolo solo.
Demonio, si dice Aiolia, il cellulare ancora stretto tra le dita. E pensare che Marin ucciderebbe per avere capelli liscissimi come i suoi.E senza nemmeno l’ombra delle doppie punte. La voce dell’Aquila gli esplode nel cervello. Come se lei fosse lì. Aiolia sospira. Chiude la sua sacca, se la mette a tracolla e preme il tasto di richiamata rapida.
«Amore? Sono io. Indovina? Esatto, niente calcetto. Stasera ti porto a cena fuori…»
Inutile opporsi alle onde del destino, no?
 
 
 
 
Note:
Ogni tanto, un po’ di Out of Character aiuta a rinfrancare lo spirito. Non credete? Suvvia, l’ho fatto per una buona causa, e una risata non ha mai ucciso nessuno. Poiché Milo se l’è andata a cercare, Shaka ha giocato pesante. Ha tirato in ballo sia l’induismo sia il buddhismo, ben sapendo quanto lo Scorpione fosse digiuno di filosofia orientale. Qui di seguito farò chiarezza, per quanto possibile. E a tal proposito: le mie sono reminescenze dell’Università. Trattandosi non solo di dottrine filosofiche, ma anche di religioni correntemente praticate, anche in Italia, mi scuso in anticipo per eventuali fraintendimenti ed imprecisioni, non volute e non intese a recare offesa ad alcuno, dichiarandomi prontissima ad accogliere migliorie e correzioni qualora ve ne fosse bisogno.

Il titolo si rifà alla celeberrima opera di Boezio, il quale, incarcerato in attesa di essere giustiziato, trova nella Filosofia una consolazione ai propri affanni e alla vita nel carcere. Qui, la consolazione che trova Shaka è leggerissimamente diversa e forse più appagante, ma non staremo a cavillarci su, vero? Con Boezio me la vedo io. Deve ancora farsi perdonare qualcosina...

In Grecia l'ora dei fantasmi e dei ritornanti è il primo pomeriggio. Secondo una leggenda, il frinire delle cicale indurrebbe uno stadio di coscienza alterato che permetterebbe ai vivi di comunicare, o quantomeno di percepire la presenza dei defunti.

Non ho la più pallida idea di chi sia Amethyst Jade. Chiedete a Kanon.

​Kostas è lo zio di Milo, ed ha una taverna a Plaka, proprio ai piedi dell'Acropoli. Si chiama Kallistê ed è l'ultima in cima alla salita, poco prima dei cancelli che delimitano l'accesso all'Areopago, non potete sbagliare. Dite che vi mando io.
 
Nirvana: per la filosofia buddista è il fine ultimo a cui deve tendere l’individuo, la liberazione dal dolore e dalla reincarnazione in una vita futura. È l’assenza di desideri, che sono perniciosi in quanto spingono l’uomo a continuare il ciclo infinito di nascita e reincarnazione.
 
Samsàra: è l’esistenza in cui viviamo, il mondo terreno che si contrappone a quello metafisico, il piano d’esistenza in cui l’uomo continua a reincarnarsi, vita dopo vita. Per estensione, con samsàra si intende l’illusione (propriamente detta Maya).
 
Brahmacharya, è uno dei quattro stadi della vita (Ashrama) di un uomo per l’Induismo. È un periodo che dura fino ai venticinque anni ed in cui si apprende la conoscenza abbandonando la propria famiglia e andando ad abitare presso un maestro (guru), preparandosi alla propria vita futura.
 
Grihastha è il secondo stadio, quello dell’uomo sposato. All’uscita dalla Brahmacharya l’uomo si sposa e prende su di sé le responsabilità di mantenere una famiglia. In questo stadio il benessere materiale, che l’Induismo rifugge, è visto come una necessità, mentre la sessualità è uno strumento per perpetuare la specie. Dura per i successivi venticinque anni, fino al raggiungimento dei cinquanta, o dell’ingrigimento dei capelli.
 
Vanaprastha è lo stadio dell’eremitaggio, quando l’uomo, diventato nonno a sua volta, non ha più la necessità di prendersi cura dei propri figli. Compie in tal modo una rinuncia sia ai beni materiali che ai piaceri della carne, si ritira dalla vita sociale e professionale e spende il proprio tempo pregando e digiunando. È una fase della vita molto dura ed è oramai quasi obsoleta.



Sannyasa è l’ultimo stadio della vita umana, che va dai settantacinque anni fino alla morte – l’induismo stima che la vita umana duri fino a cento anni. È lo stadio della completa devozione a Dio. Non ha più né casa, né beni, né relazioni, né desideri o paure o speranze o responsabilità. L’unica cosa che lo interessa è la ricerca della Moksha, la liberazione dalla forma terrena. Anche questo stadio è pressoché quasi obsoleto nell’induismo moderno.
 

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Capitolo 11
*** #11 Tra le fronde dei limoni ***


#11 Tra le fronde dei limoni





 
 
Prompt: Giardino
Titolo: Tra le fronde dei limoni
Autore: Francine
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Saori Kido, Gemini Kanon, Scorpio Milo, Siren Sorrento, Julian Solo
Genere:  Malinconico
Rating: Verde
Avvertimenti:  Piazzabile da qualche parte tra la saga di Poseidone e quella di Hades
Lunghezza: (conteggio parole e numero pagine) 2116/5
Eventuali note dell’autore (o alla fine se contengono spoiler):  Ci sentiamo a fine racconto, stavolta.
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Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità.

(Eugenio Montale, I Limoni, «Ossi di Seppia», 1925)
 


«La vedi quella stradina che si arrampica per la salita? Quella che porta all’Acropoli? Bene. Prendila, prosegui fino a quando non vedrai le inferriate marroni della Passeggiata. Ti troverai il Kallistê sulla destra. Non puoi sbagliare: c’è un pergolato che si affaccia sui budelli di Plaka, i tavoli sempre apparecchiati e Carbone, un grosso gatto nero che dorme sulle cassette di plastica, o tra i limoni. Li coglie Kostas, sai? L’albero che sorge ad un lato del giardino l’ha piantato suo padre quand’è nato lui, ma il pover’uomo non ha fatto in tempo a vederlo crescere. Eh, la guerra è brutta, sai, ragazzo? Ma a te non importa di tutto questo, scommetto. Vai, vai pure. Al Kallistê si arriva in meno di dieci minuti. Assapora il fresco della primavera. Goditi l’ombra. E se vuoi un gelato, ti consiglio di prenderlo lì, al bar di Petros, alla base della salita. Ma ti sconsiglio di andare al Kallistê, oggi. È chiuso. Pare che abbiano riservato tutto il locale, dentro e fuori. Una festa, o che so io. Roba grossa, se è arrivato pure il nipote di Kostas, con la fidanzata e un paio di amici. Forse ha deciso di mettere la testa a posto. Forse è il suo amico che ha deciso di mettere la testa a posto. Valli a capire, i giovani d’oggi. Prima convivono, poi si sposano… Come hai detto che ti chiami, ragazzo?»
«Julian.»
 

Phi stende con le mani una tovaglia immacolata, vi posa sopra un vaso azzurro carico con un paio di rose candide e ammira il risultato del proprio lavoro, con espressione soddisfatta. «Ho un futuro. Ammettilo.»
«Se è uno scherzo, è di pessimo gusto.»
«Quale scherzo?»
Lui la guarda come se le fosse spuntata un’altra testa, il Cosmo in subbuglio come una pentola di latte che sta per generare della panna.
«Ti rendi conto di quello che sta per succedere?»
Phi sospira. Non alza gli occhi al cielo, né si mette le mani sui fianchi. Solo, sospira. «Kanon…»
«No. Niente Kanon, per favore. Non con quel tono», sibila lui, gli occhi che hanno assunto un colore metallico e irreale. «Doveva essere un pomeriggio di shopping a Kolonaki.» Indica la montagna di pacchetti che hanno preso possesso di un tavolo, accanto alla porta delle cucine. «Non era previsto questo
«Uh, quante storie per un caffè…»
«Tu non ti rendi conto…»
«No, tesoro. Tu non ti rendi conto.» Phi recupera la borsa da una sedia accanto al registratore di cassa. «Sei un gran bel ragazzo, ma non sei il centro del mondo.»
«E chi sarebbe il centro del mondo, allora? Il cameriere?», la provoca, indicando con un cenno del mento Milo. È fuori, con un vassoio tra le mani, intento a spiegare ad Athena come si prepara il caffè alla greca.
«Non dovrebbe essere Athena?», lo rintuzza lei, con un lampo pericoloso di rossetto rosa acceso.
«È una pazzia…»
«Senti. Andrà tutto bene.»
«Stiamo parlando di Poseidone…», insiste.
«Che Athena ha sigillato nell’urna. Anni fa.» Gli si avvicina, rassicurante, ma decisa al tempo stesso. Indossa la giacca e poi sistema la borsa sulla spalla destra. «Senti. Tu sei qui. Milo è qui. Lo credi tanto scemo da tentare una mossa falsa in campo nemico? Che deve succedere, me lo spieghi?»
«Non lo so», risponde, di getto, prima di accorgersi che lei non s’è inclusa nel conto. «Dove staresti andando?»
«A fare una chiacchierata con una sirena», risponde. «Andrà tutto bene, Kanon.»


Saori è seduta sotto le fronde dei limoni ad osservare i raggi del sole far capolino tra le foglie rigogliose. Il cuore di Kanon è in subbuglio. È come uno specchio d’acqua sconvolto dalle raffiche di un vento dispettoso e violento, di quelli che si divertono a strapparti il cappello per il gusto di baloccarcisi. E Julian non è ancora arrivato. Che cosa succederà? Saori teme che Kanon possa commettere un’azione impulsiva, o molto stupida. O tutte e due le cose insieme. La tentazione di alzarsi e di raggiungere il nuovo Gemini è forte, ma deve resistere. Rimane sulla sedia in legno chiaro, le mani in grembo, come una signorina bene educata, ad aspettare l’arrivo di Julian, mentre le volute del fumo s’alzano dalla caffettiera di rame.
Non le piace quel tipo di caffè, ma sembrava scortese rifiutare, non dopo che Stavros ha messo l’intero locale a sua disposizione. Saori sa che l’ha fatto per Milo, non certo per lei, che gli ha sottratto il nipote ancora bambino, ma apprezza comunque il gesto e la delicatezza di Stavros e di sua nonna, che hanno preferito restarsene all’interno.
E così tu sei nato qui
, pensa Saori, rammentando la chiacchierata fatta poco prima con Melpomenê. Da donna a donna. Un passaggio di consegne, come avviene tra suocera e nuora, tra chi ha cresciuto l’uomo e chi lo accetta, promettendo di stargli accanto e di curarlo come e quanto e più di quello che ha fatto l’altra in precedenza. Una chiacchierata dovuta. Le sembra che Melpomenê attendesse quel momento da anni, forse dall’istante in cui le hanno detto che per suo nipote il Destino aveva ben altri piani in mente che ereditare il ristorante del nonno; eppure è stata gentile. L’ha squadrata con quei suoi occhi azzurro carico, gli stessi che splendono sul viso di Milo quando ride, e le ha sorriso.
«Glielo affido», ha detto.
Saori avrebbe voluto ribattere che sarebbe dovuta essere un’altra donna, la destinataria di quelle parole, ma qualcosa dentro di lei – Athena, forse? – le ha intimato di tacere. E di annuire al tappeto di rughe che decorano il viso di Melpomenê. Perché l’amore non è solo una corrispondenza di sensi e di carte da decifrare, ma è soprattutto accettare l’altro, e prendersene cura. E perché ogni tanto anche i mortali si prendono delle rivincite sugli dei.
Julian si sta facendo attendere, e qualcosa le dice che non si tratta solo del taxi bloccato nel traffico, quanto del fatto che lui vuole farsi quasi desiderare. E che forse, un vento dispettoso e violento sta mettendo in subbuglio anche il suo, di cuore.
 

Sorrento della Sirena.
A vederlo, diresti che si tratta di un fotomodello scappato dal set. Poi ti accorgi che è troppo muscoloso per essere un modello. Che quella chioma argento non è una parrucca. E che i suoi occhi raccontano un’altra storia. Di cicatrici rammendate con tanta buona volontà, pazienza e acqua di mare.
Si dicono tante cose su Sorrento della Sirena. Che la sua musica commuova gli angeli. Che accompagni Julian Solo nei suoi viaggi di beneficenza. Che tra loro ci sia qualcosa di più di una semplice amicizia.
Quando servi una divinità, quando respiri la sua stessa aria e calpesti le sue stesse impronte e versi il tuo sangue per lei, è come se ricevessi un marchio sull’anima. Indelebile. E lei, questo, lo sa. Perché lei condivide il suo stesso segreto.
Sorrento della Sirena è passato davanti al giardino del Kallistê e lei lo ha seguito, lungo la passeggiata che costeggia l’Acropoli. Lui se ne è accorto e sa che lei lo sa.
Sorrento della Sirena non è ad Atene per fare il turista. Sorrento della Sirena sta proteggendo il suo re. A distanza. Perché non ha gradito la proposta di riappacificazione di Athena. Perché lui ancora si chiede come abbia fatto Athena a trovarli laggiù, in quell’angolo remoto di terra rossa conosciuta solo a poche altre creature. E perché il suo signore potrebbe aver bisogno di lui.
Sorrento della Sirena si ferma a pochi metri dalla scalinata in ferro battuto che delimita il complesso dell’Acropoli, accanto a quattro alberi che resistono per scommessa e due panchine di pietra. Lei gli si affianca. Sorrento sorride, educato. Ma non si volta.
«Cosa vuoi?»
«Parlare.»
«Di cosa?»
«Di chi, semmai», ed è allora che Sorrento abbassa gli occhiali da sole. Le sue iridi sono rosse come rubini. Di chi?, le chiedono. «Isaak. Il Kraken», aggiunge, vedendo che quel nome non fa scattare alcun ricordo.
«Il Kraken», e la sua voce è il suono di qualcosa che torna a galla. Che riaffiora dopo la procella. Qualcosa di spezzato. Dai tentacoli del mostro marino. «Vieni, sediamoci. Non sarà una conversazione lunga, ma sarà meglio stare comodi.»
 

Quando incontri un dio, lo riconosci tra mille. La pelle ti si increspa. Il cuore batte più piano, come a non volerlo disturbare. O a non voler essere riconosciuto. Per paura. O per umiltà, che poi sono la stessa cosa. Dipende da quale punto di vista si applichi alla faccenda.
Quando si sono conosciuti, Julian Solo era un ragazzo. Un ragazzo sperduto e arrogante e viziato che giocava a fare il re su di un trono troppo grande e pesante per le sue spalle. Qualcuno da poter manovrare sussurrando le parole che voleva sentirsi dire. Qualcuno che, adesso, è entrato nella taverna, riempiendo l’ambiente con la sua sola presenza. Come le onde del mare.
Poseidone dorme. Sogna il suo sonno, cullato dalle sirene, laggiù, negli abissi più profondi, ma un frammento del dio è rimasto sul fondo degli occhi azzurri dell’uomo che stavano aspettando.
«Maybe, the stars were right», ha detto Milo poco prima. Scherzando. E solo ora si accorgono entrambi di quanto quella citazione fosse inopportuna. Perché è vero quello che si dice degli dei. Sono molto, molto permalosi. Ed un incidente diplomatico aggraverebbe una situazione già complicata di suo.
Julian Solo non dice una parola. Kanon non riesce ad abbassare lo sguardo. Anche se vorrebbe. Anche se dovrebbe.
Milo inchina la testa, poi la rialza. L’onore delle armi. L’onore al dio sconfitto.
«Buonasera», esclama, col suo senso pratico. Ha riconosciuto Julian Solo grazie ai rotocalchi che sua zia leggeva qualche anno fa. E un avventore è pur sempre un avventore. Uomo o dio che sia. «La stavamo aspettando. Da questa parte, prego», dice. Guidandolo all’esterno, verso il giardino, dove l’aspetta Saori.
Julian lo segue, fermandosi per qualche istante davanti a Kanon. Si scambiano uno sguardo che sa di sale. Sulle ferite ancora aperte e dentro gli occhi. Sulla pelle, sul cuore  e sull’anima.
«È stato divertente, dopo tutto…», sussurra, in una lingua antica quanto il mondo e profonda come l’eternità, la voce liquida di Poseidone. Un sorriso, un battito di ciglia e il dio torna a dormire mentre Julian esce dalla taverna, la giacca blu su una spalla e i mocassini di cuoio marrone chiaro senza calze.
«È stato… divertente?», chiede Milo rientrando, un braccio sullo stipite della porta.
Kanon annuisce. «Sì. Ha detto così», risponde.
Julian è seduto davanti a Saori. Due ragazzi come tanti. Due amici. Due fidanzati, quasi. Ma per un attimo, solo per un attimo, ad entrambi è sembrato di intravedere la sagoma del tridente di Poseidone e dello scudo di Athena nelle ombre sul pavimento del giardino.
Gemelli e Scorpione si scambiano uno sguardo stupito.
«Vieni. Lasciamoli da soli. Ci sono momenti che non sono fatti per gli uomini», dice Milo. Chiudendo – accostando - la portafinestra che dà sul giardino di limoni.
 

Saori è leggiadra come sempre, come se il tempo non avesse scalfito la sua bellezza. «Ti ringrazio per aver risposto al mio invito.»
«Grazie a te, per avermelo porto», replica. Con quella galanteria che pensava di aver perso, tra le dune dell’Australia, ma come si dice? È come nuotare. Una volta imparato, non lo scordi più. «Di cosa volevi parlarmi?»
«Ho pensato che fosse giunto il tempo di mettere da parte i nostri… dissapori. E cominciare ad essere amici…» La voce di Saori è un bisturi che fende i convenevoli.
Venti ore di volo perché vuoi essere mia amica?
Julian la guarda. E pensa che non era questo quello che voleva sentirsi dire da lei, ma pazienza. Amici. Lei ha bisogno di lui, perché lui è come lei. Un dio in carne e ossa. Questa è la verità. Amici. Per il momento, se lo farà bastare. E dopo… dopo, si vedrà. «Amici», ripete. Porgendole la mano. «Ma niente ramoscelli d’ulivo, per favore. Un cavallo è molto più utile di una piantina.»
«Andata.» Saori ride. Una mano a ripararsi la bocca, il suono argentino della sua voce che si perde nell’aria, assieme alle volute del caffè, tra le fonde dei limoni.



Note: E con questa giuro che la finisco di strizzare I Limoni di Montale e il pergolato del Kallistê.
La passeggiata a Kolonaki è il pegno che Kanon ha dovuto pagare per aver scommesso con Athena. Athena bara. Clamorosamente. L'antefatto lo trovate qui.

Maybe the stars were right è un verso di Prime Time, una canzone di The Alan Parson Project, che strizza l'occhio ad una celeberrima frase all'interno del racconto "The Call of Cthulhu" di H.P. Lovecraft (Il senso della canzone è un altro, tranquilli.).
Cthulhu è un essere dalla testa di una gigantesca piovra che dorme nella città sottomarina di R'lyeh - Ph'nglui mglw'nafh Cthulhu R'lyeh wgah'nagl fhtagn - e attende che le stelle siano allineate - the stars come right - per destarsi e spalancare i cancelli per il ritorno dei Grandi Antichi, creature inconcepibili dalla mente umana. Perché inconcepibile è la quantità di segreti e misteri che il mare nasconde. E si sa, il mare sa essere molto, molto paziente...

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Capitolo 12
*** #12. Rådjur pudding ***


#12 Rådjur pudding



 
Prompt: Torta
Titolo: Rådjur pudding
Autore: Francine
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Pisces Aphrodite, Cancer Death Mask
Genere: Commedia
Rating: Verde
Avvertimenti:  Piazzabile da qualche parte post-Hades
Lunghezza: (conteggio parole e numero pagine) 2095/5
Eventuali note dell’autore (o alla fine se contengono spoiler):  Ci sentiamo a fine racconto.
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Vägen till mannens hjärta går genom magen. 
La strada per il cuore dell’uomo passa attraverso la pancia.
(Proverbio svedese)
 
 
Il suo compleanno è passato da un pezzo. Da tre mesi esatti. E tutto si aspettava, stamattina, tranne che ricevere quel pacchetto. Astrid non c’è. È uscita per sbrigare qualche rognosa commissione e tocca a lui avere a che fare con la ragazza armata di un involto scuro e un sorriso smagliante. E anche un po’ inquietante.
«Chi hai detto che lo manda?»

Lei non si scompone, nonostante gli abbia già rivelato l’identità del mittente di quel dono. «Il Venerabile Cancer», ripete. Prima che un’occhiata obliqua di Aphrodite non l’induca ad aggiungere: «Signore.».

Cancer. L’unico, tra i suoi colleghi, a non avergli porto gli auguri per il suo compleanno. Non che Aphrodite ci tenesse, o si aspettasse chissà cosa, da lui. Ma gli è sembrata una scortesia lo stesso non ricevere i suoi auguri. E le scortesie, il mancato rispetto delle convenzioni sociali sono una cosa brutta. Una cosa antiestetica. Specie se il compleanno di cui si parla è il suo.

Qualcun altro, come il placido Aldebaran, avrebbe scrollato le spalle e pazienza. Il sole avrebbe continuato a sorgere e ad ardere lo stesso, figuriamoci!
Qualcun altro ancora, Aiolia ad esempio, avrebbe ricordato, con motti di spirito e battute sagaci, la dimenticanza al Cancro – pronto a sorvolare sui compleanni altrui quanto ligio a che ci si rammenti del suo, di genetliaco. Qualcun altro infine, Milo senza dubbio, gli avrebbe tolto il saluto. Cosa che lui aveva fatto. Dopo la prima settimana. Non c’erano state più occasioni di incrociarsi. Mask non si era più fatto vivo per il poker del venerdì sera. E lui aveva fatto in modo e maniera di eclissarsi ogni qual volta che il Cancro si trovava a passare per la Dodicesima Casa.

Aphrodite fissa il pacchetto sul tavolo con circospezione, curiosità e un senso di pericolo. Un po’ come farebbe un gatto alle prese con qualcosa che lo intriga. Non Plus Ultra, seduto sulla sedia, la testa appoggiata al piano freddo di marmo, annusa l’aria davanti a sé con interesse sempre maggiore.
Quello non può che essere un dono per il suo compleanno. Quale altra scusa avrebbe Cancer per inviarglielo, altrimenti? E lui si domanda perché con la stessa insistenza del frullare delle ali dei piccioni in piazza San Marco a Venezia.
Il diavolo ti vezzeggia quando vuole la tua anima, giusto? Ed Aphrodite non fatica di certo ad immaginare Mask col forcone tra le mani ed un paio di minacciose corna rosse e acuminate che gli spuntano fra i capelli.

Mask. Per quel che ne sa lui, quel pacco potrebbe anche nascondere un pericolo. Solo che al posto di una bomba, quel pazzo ci avrà messo dentro qualcosa di mortalmente puzzolente. O di mortalmente seccante, pensa. Bigattini. Serpenti. Formiche. Pulci. E non sarebbe la prima volta.

«Aprilo.»
Glielo dice senza un’intonazione specifica, né ordine, né minaccia. Le mani della ragazza sono leste a sciogliere lo spago. Il rumore attira Non Plus Ultra. Aphrodite lo prende tra le braccia – dovesse essere davvero pericoloso, il contenuto di quel pacco – e sbircia.

C’è un tegame. Di coccio. Di quelli che si usano per cuocere i cibi nel forno. Ha il coperchio, come quella zuppiera pesantissima che sua madre tirava fuori dalla credenza ogni volta che preparava la Fisksoppa. Ed è sagomato a forma di pesce. Squame, pinne, espressione idiota e occhio a palla incluso. Aphrodite regala alla ragazza uno sguardo perplesso. Perché lui credeva seriamente che il Cancro avesse derubricato ed archiviato l’intera faccenda. E che forse, l’anno prossimo, gli avrebbe porto i suoi auguri. Se qualcun altro glieli avesse fatti in sua presenza, ovvio. E invece, quel tegame di coccio dall’aria improbabile lo fa sentire… meschino. Perché sì, Death Mask si è dimenticato d fargli gli auguri, ma ha cercato un modo per farsi perdonare. Almeno credo.

«Sicura di non aver sbagliato casa?»
Ha usato quel tono a cui le donne non sanno resistere. E infatti lei lo guarda, arrossisce, chiude le mani a pugno e dice:«No».
«No?»
«Assolutamente no», e muove la testa da destra a sinistra un paio di volte, i capelli castani che le ondeggiano sulle spalle. Se li è sciolti. Si è pettinata, lavata e profumata. Ha cambiato il vestito, ha indossato un grembiule pulito ed ha affrontato tutte quelle rampe di scale con quell’affare tra le braccia.

«Sicura?» Stavolta il tono è più imperioso.
«Sì.» Lei ha alzato il mento. Mi stai sfidando, ragazzina? «Sicurissima.»
Le mani di Aphrodite accarezzano il pelo candido di Non Plus Ultra, la coda a pennacchio che svetta, incuriosita. «Solleva il coperchio.»

La ragazza trattiene uno sbuffo indispettito. Si avvicina al tavolo e obbedisce, rivelando agli occhi del Santo dei Pesci non un bomba, non una puzzola morta, né un formicaio in fase di trasloco, ma un semplice pasticcio di carne.
«Rådjur pudding. Pasticcio di cervo. Nella speranza di farvi cosa gradita, signore», dice lei. Con la giusta intonazione. Come se si fosse ripetuta quella frase mentre saliva ogni singolo scalino tra la Quarta e la Dodicesima Casa.

«Assaggialo.»
«Come?»
«Assaggialo», ripete. Con meno pazienza. «Sai, al tuo padrone piace giocare strani scherzi… Il Venerabile Cancer potrebbe averci messo una purga, dentro. Olio di ricino, ad esempio. Tu non lo conosci, ma…»
«Quel pasticcio l’ho fatto io. E no, non ci ho messo dentro alcuna purga.» Stringe le labbra. «Non credo ce ne sia bisogno. O sbaglio?», domanda. Guardando dritto negli occhi Non Plus Ultra.

«Mewreown», ribatte il gatto. Intenzionato a svincolarsi dalle braccia di Aphrodite, saltare sul tavolo e attaccare con le fauci quel pasticcio di cervo.
«Volete accettare questo dono o devo portarlo indietro, signore?», gli domanda la ragazza. È sarcasmo, quello che le colora la voce?
«No», dice Aphrodite. È ora di mettere fine a questa sceneggiata. «Non ce n’è bisogno. Vai pure. E ringrazia il tuo padrone.»
«Non mancherò, signore.» Uno sbuffo, la gonna che ruota e il ticchettio nervoso dei tacchi che si allontanano pestando il pavimento della Dodicesima Casa. È furiosa. E vuole che tutto il Santuario lo sappia.

Quando è sicuro che la ragazza si sia incamminata per la propria strada e che no, non tornerà indietro per cantargliene quattro, Aphrodite fa scendere Non Plus Ultra a terra, si avvicina e prende il tegame tra le mani. Al posto suo, Astrid avrebbe annuito, ringraziato, accettato il dono per gettarlo nella pattumiera non appena la ragazza avesse voltato le spalle. E così farà lui.
Però, complice una folata di vento birichina e complice l’ora che si avvicina sempre più a mezzogiorno, gli arriva alle narici un profumo invitante che gli apre letteralmente lo stomaco. Con un groan degno di un troll che ha annusato nell’aria l’odore inconfondibile della carne dei cristianucci.

Che aspetti? Non lo butti nella pattumiera?
Io…
Non vorrai mangiarlo
davvero?

Bella domanda. Perché lui sa che non ci si può fidare di Mask. Mai. È uno sbaglio che costa molto, molto caro. Però… Però a lui piace il cervo. A lui piace da matti il rådjur pudding. Da quando era poco più che un soldo di cacio. E il fatto che Mask abbia chiesto alla sua serva di prepararglielo, equivale ad una richiesta di perdono nella testa di Aphrodite. Perché si è dimenticato del suo compleanno, ovvio.
E perché il compleanno del Cancro si avvicina a grandi passi. Il Solstizio d’Estate è dietro l’angolo.
Ecco. Questo gli serviva, una piccola dose di meschinità con cui sentirsi meno fragile e meno in debito con il suo collega d’armi.
Aphrodite sorride. Non Plus Ultra gli si sta strusciando contro il fondo dei calzoni impelandoglieli di bianco, nel tentativo di corromperlo e di convincerlo a fargli assaggiare un pezzetto di quel pasticcio di cervo dall’odore così invitante.

Non hai l’acquolina in bocca anche tu?, sembra chiedergli il miagolio assillante del suo gatto. E Aphrodite risponde che sì, ce l’ha eccome quel languore alla bocca dello stomaco. Apre un cassetto, prende un piattino ed una forchetta e divide il pasticcio con Non Plus Ultra. Perché è scortese rifiutare un dono. E perché, quando Mask gli chiederà com’era il pasticcio che gli ha mandato, dovrà pur dirgli qualcosa, giusto?
 


Astrid rientra che i suoi due maschietti hanno appena terminato la battaglia contro il pasticcio. Vincendola. A mani basse. Aphrodite sta ripulendo dagli avanzi il tegame quasi leccandolo, prima di abbandonarlo al suo destino nell’acquaio.

«Astrid. Bentornata», le dice Aphrodite alzandosi da tavola. «Non preoccuparti per il pranzo. Abbiamo già mangiato.»
Vedo, sembrano dire gli occhi della donna andando dal tavolo alla bocca di Aphrodite ancora sporca di cibo, a Non Plus Ultra, che sotto al tavolo si sta leccando i baffi con estrema soddisfazione.
«Mask ci ha inviato un rådjur pudding buonissimo.»
«Lo so. Me l’ha detto Francesca. L’ho incontrata strada facendo…»
«Chi?»

Aphrodite è un tipo tranquillo, che si dimentica del mondo circostante perché troppo perso nella contemplazione di se stesso e della propria bellezza, tranne quando s’interessa a qualcosa.  A quel punto se ne innamora, ciecamente, fortemente e dolorosamente, e Astrid sa che parlerà per giorni della sua nuova passione fino a quando non subentrerà la noia a sbiadirgliela. Allora Pisces tornerà a specchiarsi in se stesso, placido e tranquillo come il mare al mattino. Fino al prossimo giro di giostra.

«Francesca. L’attendente del Venerabile Cancer.»
«Ah.» Aphrodite sembra quasi perplesso. Credeva forse che quella ragazza non avesse un nome di battesimo?
In realtà non gliene importava affatto, si risponde Astrid, dirigendosi all’acquaio. Tappa una delle due vaschette e fa scorrere l’acqua calda.
«Mi spiace non avertene lasciato un pezzo. Anche Non Plus Ultra ha gradito.»
Astrid stringe i due lacci del grembiule dietro la schiena con un nodo semplice e versa il sapone nell’acqua.

«Ah. Prima che me ne dimentichi», dice immergendo il tegame nell’acquaio, «Francesca mi ha detto di darvi questo», e tira fuori dalla tasca della gonna un biglietto. Una busta color bianco gesso, di buona filigrana, che Aphrodite prende con un sorriso spavaldo.
«Che caro. Ha scritto anche il biglietto d’auguri», dice Aphrodite con un sorriso dei suoi. Uno di quelli cinici che lo divertono tanto. E che lo fanno sembrare ancora più bello, così pensa lui, almeno. «Vediamo un po’ che dice, il Venerabile Cancer.»

Gli occhi azzurrissimi di Aphrodite inciampano nella grafia spigolosa del Cancro ed assumono un’espressione sempre più perplessa, preoccupata, accigliata. Verso i tre quarti del biglietto il suo viso ha assunto una preoccupante sfumatura verdognola. Si porta le mani alla bocca, reprimendo un singulto. Il biglietto cade a terra, come un fazzolettino profumato alla vaniglia, mentre Aphrodite abbandona la cucina di gran carriera sibilando un rabbioso «Io l’ammazzo, quello!», prima di trincerarsi a doppia mandata in bagno.

Astrid sospira. Abbandona il tegame di coccio alle cure dell’acqua calda e raccoglie il biglietto, mentre Non Plus Ultra inizia la sessione pomeridiana della propria toilette. Che ci sarà scritto?, si chiedono i suoi vecchi occhi leggendo quelle quattro righe storte.
 
Ciao, bellezza!
Credevi che mi fossi dimenticato del tuo compleanno, vero? Perdona il ritardo, ma ero in missione, e sono tornato solo ieri. Per farmi perdonare, ti ho preparato questa sorpresa. Se non ricordo male, vai matto per il cervo. Spero ti piaccia anche fatto così e non solo come esce dalle tue preziosissime scatolette! Sì, ammetto che mi ha aiutato Francesca. Lo sai che in cucina sono una schiappa. Le ho detto di metterci anche qualche goccia di olio d’oliva, così da farti avere il pelo bello folto e splendente. Ancora buon compleanno, bellissimo. Una grattata dietro le orecchie, dove piace a te.
E un abbraccio dei nostri.

M
 
Astrid rilegge il biglietto ancora una volta. E un’altra e un’altra ancora, mentre Non Plus Ultra inizia ad occuparsi della propria coda e dal bagno arrivano rumori preoccupanti.
«Tu lo avevi capito, vero?», domanda al gatto. Che per tutta risposta solleva la testa, si specchia negli occhi azzurri della donna e risponde con un: «Mrewreooown», che per Astrid assomiglia tanto – troppo – ad un «Sì.».
«Immaginavo», dice, mentre il gatto strizza i suoi occhietti d’agata e riprende le proprie faccende. Aveva ragione sua madre. Se si è preso il diavolo sulla barca tocca traghettarlo sulla terra. Come è successo a lei quando, anni prima, scelse di accudire quel bimbo così bello da sembrare un angioletto, quanto bravo a nascondere il proprio animo meschino. E che ora affronterà da solo quella dura prova. Chi mangia da solo, si strozza in solitudine, giusto?, pensa, mentre dalla finestra le arriva il caldo dell’aria immobile del primo pomeriggio di Giugno.





Note:
La Fisksoppa è una zuppa di pesce svedese. Se volete la ricetta, potete trovarla qui.

Il Rådjur pudding non credo esista. È una mia libertà gastronomica. Dovrebbe trattarsi del classico pasticcio (che se non ho capito male gli svedesi chiamano pudding) a base di carne di cervo tritata. La stessa che fa da base ad una linea di cibi per gatti con problemi di allergie alimentari. La stessa per cui Non Plus Ultra va matto.

Nel mio triste mondo malato ogni Casa dello Zodiaco ha un Attendente che si preoccupa di mandarla avanti e di gestire le piccole incombenze quotidiane. Un po' come faceva Galan per Aiolia in Episode G. Ma senza tagliare gli spicchi di mela a forma di coniglietto. Alla Dodicesima Casa c'è Astrid. Alla Quarta, Francesca, che avete già conosciuto qui.

Non Plus Ultra non credo abbia bisogno di presentazioni. In caso contrario, fate pure un salto qui. E portatevi i croccantini.

Il proverbio citato da Astrid è il seguente:
Har man tagit fan i båten får man ro honom i land. 
Se si è preso il diavolo sulla barca tocca traghettarlo sulla terra.
Non ho la più pallida idea di quale sia la pronuncia corretta, ma l'ho preso qui.

L'altro, Chi mangia da solo si strozza in solitudine, è un proverbio arabo.  

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Capitolo 13
*** #13 Viaggi organizzati ***


#13 Viaggi organizzati





 
 
Prompt: Gita in montagna
Titolo: Viaggi organizzati
Autore: Francine
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Gemini Saga - Gemini Kanon
Genere: Commedia
Rating: Verde
Avvertimenti:  Piazzabile da qualche parte post-Hades
Lunghezza: (conteggio parole e numero pagine) 1955/5
Eventuali note dell’autore (o alla fine se contengono spoiler):  Ci sentiamo a fine racconto.
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People don't take trips… trips take people
(
Le persone non fanno
i viaggi, sono i viaggi che fanno le persone.)
(John Steinbeck, Travels with Charley: In Search of America, 1962; trad. it. Viaggio con Charley,1969)



«Ripetimi perché siamo qui.»
Vasilios ha sempre pensato che certe cose andrebbero evitate, proibite e bandite. Quali cose? I pranzi della domenica e i viaggi organizzati, ad esempio. Quelle gite massacranti in cui si spende un giorno intero della propria esistenza col sedere sul sedile di un pullman ad osservare attraverso il finestrone opaco località e panorami raggiungibili in treno. Anche quelli inclusi nel percorso e segnalati come mete turistiche. Soprattutto quelli.
«E quella laggiù è Nauplia», ha detto la guida meno di un’ora fa, all’ennesima sosta sigaretta del conducente. Quando ha seguito il suo dito, Vasilios ha visto dall’altra parte del golfo la sagoma di una città ancora addormentata, lontana e ancora avvolta dalla foschia del primo mattino.
«Nauplia?», ha ripetuto. Come un pappagallo ammaestrato, lo sguardo sconcertato a posarsi sui capelli legati della guida.
«Sì. È stata la prima capitale della Grecia riunificata.»
Questo lo so. «Ma non ci saremmo dovuti fermare a Nauplia?»
«Sì.»
«Quindi, adesso stiamo andando a Nauplia. Giusto?»
«No.»
«No?»
«Non facciamo in tempo. C’è traffico, sulla strada per Micene.» E lui avrebbe voluto strozzare suo fratello Viktoras. E stavolta sul serio.

Invece Viktoras adora i viaggi organizzati, e a pensarci c’è qualcosa di assolutamente bislacco nel fatto che una persona insofferente alle regole e agli orari fissi come il suo gemello possa trovarsi a proprio agio nel seguire una tabella di marcia che metterebbe a dura prova il più stoico dei giapponesi. E invece è la terza volta che Viktoras partecipa al viaggio organizzato Atene – Micene – Nauplia. E stavolta ha preteso che lui lo accompagnasse. E Vasilios si domanda ancora perché gli abbia risposto di sì.

Perché tu gli hai chiesto cosa volesse come regalo di compleanno. E lui ha risposto questo, ecco perché!

«Perché mi hai trascinato quaggiù, fratellino?», domanda Vasilios. Di nuovo.
Viktoras lo guarda come se gli fossero spuntate le ali.
«Per vedere Micene?»
Vasilios trattiene il respiro e serra la mani a pugno. Per non stringerle attorno al collo del fratello. Qualcuno potrebbe rimanerci male. Molto male. E perdere la pazienza. E questo, lui, non lo vuole. Affatto. Anche se Viktoras se lo meriterebbe…
«Avremmo potuto prendere il treno!»
«Sì. E fare tre cambi da Atene. Tre», ribatte Viktoras mostrandogli pollice, indice e medio della mano destra.
«Avremmo potuto affittare un’auto!»
«Con quale carta di credito? Quella del Monopoli?» Vasilios tace. «Dai, su. Non fare il guastafeste. Oggi è il mio compleanno!»
«È anche il mio compleanno», ribatte Vasilios, le mani sui fianchi e l’aria infastidita. È il mio compleanno e lo sto passando con te.
«Credi che me lo sia dimenticato?»
Viktoras sa essere così indisponente, alle volte, che Vasilios si chiede come sia riuscito ad arrivare a ventinove anni senza che nessuno l’abbia affogato prima. Lui ci ha provato, a voler essere onesti; è Athena che ci ha messo lo zampino, barando, e l’ha salvato, altrimenti, a quest’ora, lui non starebbe trascorrendo il giorno del proprio compleanno assieme ad una mandria di grassi e annoiati turisti americani e di formiche giapponesi armate di macchina fotografica e occhiali da sole enormi.
«No. Come potresti?»
Viktoras sorride. «Dai, non fare quella faccia. Vedrai che ti piacerà. È venuta anche Nadja, con me. E si è divertita un mondo.»
Immagino, pensa Vasilios, rammentando che Nadja andrebbe in capo al mondo con suo fratello. Hanno legato subito, quei due. E anche se non l’ammetterà mai, Vasilios ne è geloso. È la mia allieva, lei. Non la tua. Trovatene un’altra.
«Tutto bene, Saga?»
Un’occhiataccia che avrebbe incenerito persino la roccia, questo è lo sguardo che Vasilios rivolge al proprio gemello.
«Scusa. Scusa, Vasilios.» Si corregge e Saga… pardon, Vasilios gliene è grato. «Tutto a posto?»
No. Vasilios si passa una mano sul viso, a cancellarsi la stanchezza. Il viaggio è stato scomodo, la guida non la finiva più di raccontare episodi mitologici a caso e lui ha sonno. Molto sonno. Inforca gli occhiali da sole mentre attorno a loro esplode il mezzogiorno. Ed il caldo.
La Grecia è il portone attraverso cui sgattaiola l’estate in Europa. Entra in punta di piedi, piano piano, un fascio di spighe di grano tra le braccia e dei papaveri tra i capelli raccolti. E prima che si faccia Giugno e tu te ne accorga, lei è lì, accanto a te, a scaldare col suo sole furioso e cocente le tue giornate, e a riempire del canto delle cicale i tuoi pomeriggi assonnati.
«Avanti, signori! In marcia!» La voce della guida trilla come una cincia a primavera, richiamando l’attenzione su di sé.
«Forza, fratellone», gli dice Viktoras assestandogli una pacca sulla spalla. «Micene ci aspetta!»
Guarda il lato positivo. Almeno qui in montagna fa fresco, si dice Vasilios accodandosi al gruppo.
 

La Porta dei Leoni accoglie il visitatore alla fine della salita con la sua maestosità. Svettando su di lui. Sembra quasi che i due animali, di guardia all’entrata della città, stiano osservando il gruppo di turisti in arrivo con la coda dell’occhio. E se non sapesse che è impossibile, Vasilios giurerebbe di sentirsi addosso lo sguardo delle sentinelle, nascoste dietro le mura ciclopiche.
La Porta dei Leoni è capace di farti sentire una formica. Piccola. Minuscola. Che potrebbe finire schiacciata, se solo una delle due fiere di pietra decidesse di allungare una zampa. Per sgranchirsi un po’. O ammazzare il tempo, chi può dirlo?
Vasilios attraversa la porta in un tripudio di flash abbaglianti, nemmeno si trovasse sul tappeto rosso di chissà quale evento mondano, e oltrepassa il gruppo di fotografi scalmanati. Paraskena, la guida, li aspetta oltre, appoggiata al parapetto che dà sulla vallata prospiciente, aspettando che la frenesia del turista si consumi, come la fiamma della candela. C’è una vista mozzafiato, oltre quel parapetto. Tutta la vallata di Argo e, laggiù, un puntolino lontano, il mare. Ed un venticello gentile gli accarezza la pelle e quasi non gli fa sentire quanto faccia caldo, oggi.
«Sei mai stato a Micene?»
Paraskena è in vena di fare conversazione. Nonostante lui si trovi a quasi due metri di distanza da lei. Forse fa parte del suo lavoro gestire i turisti che le hanno affidato. Anche quelli che vogliono starsene per i fatti loro, pensa Vasilios. La domanda è diretta a lui, lui solo. Perché Viktoras c’è già stato, certo. E scommetto che ogni volta c’era lei a fare da cicerone.
«Tanto tempo fa. Da bambini. Mio fratello ne è rimasto folgorato…»
«Con la scuola o con i vostri genitori?», insiste lei.
«Con la scuola», e non è proprio una bugia, quella che le ha raccontato, giusto?, perché le lezioni del Sommo Sion sono quanto di più vicino ad una scuola lui abbia mai conosciuto.
«È sempre così?», domanda a Paraskena, non sa neppure lui perché. Forse per cambiare argomento.
«Oh no», ribatte lei, felice di poter parlare in greco, una volta tanto. «A volte sono anche peggio…»
Peggio? Vasilios lo crede improbabile. Impossibile quasi. Cosa potrebbero fare di peggio? Staccare un pazzo di roccia e portarselo a casa come souvenir?
«Fattelo raccontare da tuo fratello. Non ci credi? Stai a guardare, allora.»
Non ribatte. Perché Paraskena si è staccata dal parapetto ed ha riassunto le sue funzioni di guida. Batte le mani e la comitiva – e a Vasilios tornano in mente i giorni precedenti all’avvento di Athena, quando lui e Aiolos dovevano tenere a bada quel manipolo di ragazzini con l’argento vivo addosso – le si raduna attorno. Come i pulcini e mamma chioccia. Dovessero perdersi…
«Ci siamo!», sussurra Viktoras, lo sguardo vispo del monello che ha messo la biscia – o il topo, o la rana, o un grosso ragno peloso – nel cassetto che la maestra sta per aprire.
Vasilios si acciglia. «Non ne avrai combinata una delle tue, vero?», sibila. A bassa voce. Guardando altrove. La faccia di quel turista alto, bianco come la feta, così in carne da sembrare una salsiccia con le braccia, un cappellino da pescatore di un improbabile color can che fugge sporco. Un americano, con la sua polo e le immancabili scarpe da tennis… e l’espressione che si fa via via più delusa mentre Paraskena racconta loro dei tesori della tomba di Atreo, di Agamennone, di Menelao e di dove, secondo gli archeologi, si trovano le loro ipotetiche tombe.
«Come sarebbe a dire?»
Lo sguardo del turista americano – e Vasilios è pronto a scommettere che proviene da uno stato del profondo sud, se non addirittura dal Texas – è quello di chi si sente preso in giro. O del bambino a cui i genitori hanno rivelato che no, Babbo Natale non esiste e che sono loro che gli lasciano i doni accanto al cuscino.
Viktoras sogghigna. Crudele e malvagio come solo lui sa essere, ma Vasilios registra la presenza di suo fratello come un rumore di fondo o poco più. Il suo sguardo va da Paraskena alla salsiccia con le braccia e viceversa.
«Come sarebbe a dire, cosa?», domanda la guida. Con l’aria di chi ha già sentito quell’obiezione tante, troppe volte.
«Ipotetiche», ripete la Salsiccia. Rossa in faccia, e Vasilios non sa se è per il sole, il caldo, la salitella sull’acropoli o lo sdegno. «Significa che gli archeologi ancora non hanno trovato le tombe di Agamennone e Menelao?»
No, Non l’ha detto davvero, non può essere, devo aver capito male, pensa Vasilios, gli occhi spalancati che minacciano di cadergli dalle orbite e rotolare giù per la strada appena percorsa. Mentre sente Viktoras trattenere una risata. Malvagia. Liberatoria. Genuina. Di cuore. Di pancia e di anima. A cui, se il gemello cedesse, lui si unirebbe molto, molto volentieri.
«Non possono averle trovate», gli spiega Paraskena con lo stesso tono che si usa con l’allievo duro di comprendonio.
«Non possono?» La Salsiccia è sempre più perplessa. Perplessa e sdegnata, come la zia che ha beccato il nipote con le scarpe sul poggiapiedi davanti alla sua poltrona.
«Agamennone e Menelao sono personaggi epici. Sono personaggi inventati. Non sono mai esistiti, capisce?»
La Salsiccia tace, gelata, mentre il mormorio che aveva accompagnato la sua reazione si va spegnendo in suoni indistinti. Paraskena riprende la sua spiegazione. Le mura, i confini, l’acropoli, il tesoro ritrovato che è in esposizione al piccolo museo, accanto al parcheggio dei pullman, mentre l’originale si trova ad Atene; ma Vasilios non sente. Non ascolta più. Suo fratello è girato verso la vallata perché no, non può sbottare a ridere in faccia ai turisti. Non sarebbe corretto. Non sarebbe educato. E con che faccia si ripresenterebbe ad Atena, stasera? Con la sua solita faccia di bronzo. Triplicata.
Paraskena informa il gruppo che hanno quaranta minuti liberi prima che il pullman riparte e da il rompete le righe battendo le mani. Si avvia per la discesa, al pullman dove li aspetterà  - e dove l’autista starà fumando l’ennesima sigaretta - ma prima lancia un’occhiata a Vasilios. Un’occhiata complice e divertita. Che ti avevo detto?
I turisti sciamano in direzioni diverse. Gli americani sorpresi dalla rivelazione appena ricevuta, i giapponesi che riprendono seraficamente a fotografare qualsiasi cosa incroci la loro strada.
Vasilios sposta lo sguardo azzurro sul fratello.
«Allora… queste gite in montagna sono o non sono uno spasso?», riesce a chiedere Viktoras. Prima di abbandonarsi e dare corpo a quella risata che sta trattenendo da troppo tempo. Malvagia. Liberatoria. Genuina. Di cuore. Di pancia e di anima. A cui lui si unisce molto, molto volentieri. E ridono, i due gemelli. L’uno con un braccio sulle spalle dell’altro. Come due vecchi amici ad una battuta di spirito. Come due fratelli. E pazienza se non è una cosa molto educata da fare. Tanto la Salsiccia non c’è. E Vasilios è sicuro che quando a sera racconteranno ad Athena come è stata la loro giornata, anche lei si unirà alla loro in un risata sincera. Genuina. Di cuore. Di pancia. Di anima.



Note:
Viaggi organizzati è il titolo di una canzone di Lucio Dalla contenuta nell'album omonimo del 1984.

Micene è un sito archeologico nell'Argolide, una regione del Peloponneso; si trova su una collina da cui domina la valle, ad una dozzina di chilometri dal mare e a soli sei dalla città di Argo. Tra i suoi monumenti si ricordano la Porta dei Leoni, e le tombe attribuite a Menelao ed Agamennone.

Nella mia testa i Santi di Athena hanno tutti un nome di battesimo, che perdono quando vestono l'Armatura. Un po' come avviene per il sacramento dell'Ordine. I nomi dei due Gemelli sono Vasilios (lett. "re") per Saga e Viktoras ("vittorioso") per Kanon. Nadja è un personaggio inventato dlala sottoscritta, allieva di Saga ed entrata in scena facendo un gran casino...

E per ultimo, ma non meno importante: χρόνια πολλά, al piccolo Gio.


 

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Capitolo 14
*** #14 Quando soffia il Meltemi ***


#14 Quando soffia il Meltemi





 
Prompt: Bacio
Titolo: Quando soffia il Meltemi
Autore: Francine
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Scorpio Milo
Genere: Commedia
Rating: Verde
Avvertimenti: 
Lunghezza: (conteggio parole e numero pagine) 1490/3
Eventuali note dell’autore (o alla fine se contengono spoiler):
 Partecipa alla Challenge Slice of Life 
 
 

Oh, it's such a perfect day 
I'm glad I spent it with you 
Oh, such a perfect day 
You just keep me hanging on 
You just keep me hanging on 
(
Lou Reed, Perfect Day, 1972)




 
La tenda di perline azzurre tintinna dolcemente al soffio della brezza che spira dal mare.
L’isola sonnecchia pigra e indolente, in un’atmosfera strana, in quel silenzio per cui anche i pensieri fanno rumore. Ad Agosto fa troppo caldo per tutto. E dopo pranzo, in quell’ora magica in cui tutto il mondo sembra fermarsi e dire «Adesso schiaccio un sonnellino anche io», anche il Meltemi assume un altro sapore. Un altro odore. Di tempo, che scorre in maniera diversa. Più lento, come se i granelli di sabbia fossero più grandi, e non impalpabili come quelli bianchissimi delle spiagge di Milos. O sono impalpabili e il resto del mondo non se n’è accorto?
Dettagli con cui baloccarsi, mentre fuori un suono di cicale riempie l’aria e dentro Il Gatto sonnecchia prigro sulla sedia di vimini.
Quando soffia il Meltemi si riposa. O ci si lascia cullare dal sonno e dall'aria che spira dal mare. Il cervello si spegne, sulle lenzuola fresche di bucato, sulla federa del cuscino che profuma di mughetto. Manca solo una cosa, perché tutto sia perfetto.
«Dove sei?»
Tramestio in bagno. Lei si affaccia dalla porta, il costume azzurro addosso, le unghie laccate di verde smeraldo.
«Qui.» Un libro in mano, l’asciugamano nell’altra, un cappello bianchissimo in testa. «Che c’è?»
Allunghi una mano, verso di lei. Chiamandola. Senza parlare, senza emettere nemmeno mezzo suono.
Lei ti fissa. Tu aspetti.
«Stavo uscendo.»
Che carina, che è. Prova anche a protestare. Come se non sapesse già da sé come finirà. Come se non le piacesse, in fondo, farsi stravolgere la vita dai tuoi capricci.
La tua mano resta in attesa. Aperta. Le dita che sembrano allungarsi per raggiungerla. O ipnotizzarla, per farsi raggiungere.
«Vuoi qualcosa, prima che vada?»
Sì, te, pensi. Ma non glielo dici. Perché lei lo sa già, ecco perché non si avvicina. E perché fa un caldo belluino ché si fatica anche solo a pensare, figuriamoci a parlare. Apri impercettibilmente le dita, come un richiamo, da sirena a pescatore nell’azzurrità del mare.
«Milo?»
Non rispondi, la faccia sprofondata sul cuscino, gli occhi piacevolmente socchiusi, l’espressione beata del gatto che sta per papparsi un cardellino molto, molto saporito. Anche se non hai mai visto cardellini dal piumaggio azzurro, ma pazienza. Nessuno è perfetto.
Il cardellino si avvicina. A piccoli passi cauti. Per essere sicuro che il gatto non finga di essere morto e non gli zompi addosso. Creaturina ingenua. Evita accuratamente la tua mano, ma si china lo stesso in avanti.
«Dormi?», ti chiede.
Per inganno, per conversazione, o forse perché vuole stare al gioco. Apri un occhio, uno solo, che risplende azzurrissimo nella penombra della stanza. Il sole filtra rabbioso tra le persiane, disegnando righe di luce sul pavimento, sul suo costume ed i suoi capelli. Come diamine si può pensare di andarsene fuori quando si sta così bene dentro?
I suoi occhi ti fissano, smarginati, in contrasto con la pelle abbronzata, le labbra appena dischiuse. Una ciocca di capelli le scivola sulla spalla. La tua mano scatta.
Un urletto – «Oh!» – di genuina sorpresa. Il cappello plana a terra. Lei cade sul materasso. In trappola. La senti che prova a sgusciare via dalle tue braccia, come un’anguilla che si nasconde sotto la sabbia per sfuggire al pescatore e guizzare lontano, verso quella spiaggia che sta sempre lì, bianchissima, e non se ne va da nessuna parte.
«No, non voglio dormire, voglio andare in spiaggia!», protesta lei. Scalciando, come una bambina piccola che non vuol fare il riposino pomeridiano.
Non molli la presa. Nonostante lei sbuffi. Cerchi di liberarsi.
«Eddai!»
Affondi il viso tra il suo collo e la spalla. La pelle profuma di crema solare. Cocco. Morbida. Vellutata. Non diventerà mai scura come Nadja, e questo colorito caffellatte è il massimo a cui può ambire, ma lei è testarda e vuole insistere. Chissà poi perché.
«Ti prego!», ti soffia all’orecchio. Piano. Pianissimo. Tentando la carta dell’arrendevolezza. Con una voce che farebbe sciogliere persino il Polo Sud. Ha smesso di scalciare e dimenarsi, ma li senti, i suoi muscoli, tesi e pronti a guizzare via non appena allenterai la presa. Come se non la conoscessi. Come se non ti conoscesse.
I tuoi occhi incontrano di nuovo i suoi. Un attimo. Appena. Ma basta. E le catturi le labbra. Per un istante pensi che ti morda la lingua, ma o l’hai presa davvero in contropiede, oppure non le dispiace poi così tanto ricambiare quel bacio. Anzi.
I suoi muscoli si rilassano, i nervi si allentano. Risponde al tuo bacio arrendendosi all’onda che torna, in un battere e levare che ti porta via, se non stai attento a tenere sempre d’occhio la linea di costa. Mugugna insoddisfatta quando abbandoni le sue labbra. Resta ad occhi chiusi, ad un soffio da te. Aspettando, forse, che la giostra ricominci.
Tu aspetti.
Socchiude appena un occhio, il verde che buca il nero delle ciglia, e ti fissa come a dire «E allora? Perché ti sei fermato?».
Tu sorridi, soddisfatto.
Lei apre entrambi gli occhi. Confusa. Sbatte le ciglia. Piega la testa da una parte, per metà affondata sul cuscino.
Ti scosti. E la guardi, adesso perplesso.
«Non dovevi andare in spiaggia?», le dici. E ti gusti lo spettacolo dei suoi occhi che si fanno scuri e profondi, come un lago di montagna prima che si scateni la tempesta perfetta.
Lei si solleva, puntellandosi su di un gomito. Ti fissa. Per sincerarsi delle tue intenzioni. Ti scruta a fondo, con quello sguardo capace di farti la radiografia in un secondo. Temi che la punta del suo indice destro si illumini di viola quando vedi le sue labbra stirarsi in un smorfia indispettita.
Tu! Come ti sei permesso di prendermi in giro!, starà pensando. Ne sei così sicuro che quasi puoi sentire anche il tono stizzito con cui pensa quelle parole. Sorridi, mentre i suoi occhi diventano due mezzelune affilatissime.
«Giusto… La spiaggia.»
Ed una cuscinata ti arriva sulla testa. Senza preavviso. Lasciandoti mezzo stordito.
«Ahio», fai per replicare, ma lei non te ne da il tempo. Il cuscino cala sulla tua testa, una, due, tre, tante volte, mentre cerchi tu, adesso, di sgusciare via, e di nasconderti sotto al letto. Come l’anguilla, ecc. ecc. La furia si ferma così come era iniziata. Senza preavviso. Il cuscino plana sul letto. Tu ti riaffacci da dietro il materasso. Cauto.
Lei raccoglie libro, asciugamano e cappello e fa per imboccare la porta di gran carriera, quando le rendi la cortesia. Una cuscinata la centra in pieno sulle reni, mandando di nuovo sul pavimento le sue cose. Ti fissa, uno sguardo incredulo. Come hai osato!?, sta pensando.
Tu ridacchi.
Ridacchi mentre lei, a bocca socchiusa e passo pesante – TON TON TON -, raggiunge la sua metà del letto.
Ridacchi mentre afferra il cuscino e balza sulle lenzuola, in posizione sopraelevata.
Ridacchi anche quando ti centra in pieno. E quando raccogli il cuscino e glielo lanci, facendole perdere l’equilibrio.
Atterra di sedere sul materasso, che protesta con un sordo SBOFF, e tu lei sei subito sopra. E le inchiodi i polsi sulle lenzuola.
«Non vale!», protesta lei.
«Pace?», le chiedi. Tenendole le gambe sotto le tue.
«E va bene», sbuffa. «Pace.»
E poi ridete. Come due bambini troppo cresciuti che hanno riscoperto quanto sia divertente giocare. Ridete ancora mentre vi girate nel letto, e tu ascolti il suono della sua voce contro la pelle. Ti accoccoli meglio. Come un gatto nella sua cesta.
«Non vai più in spiaggia. Vero?»
«Bastava chiedere», ribatte lei, Giocando con i tuoi capelli. Arrotolando un ricciolo attorno alle dita, come fosse una molla. O come quel tipo di pasta che si chiama fusilli e che è buonissima con la salsa di pomodoro, le olive nere ed il basilico.
«Lo so», rispondi. «Ma così è più divertente, no?»
Lei sospira. Alza gli occhi al soffitto con fare plateale – lo sai che lo sta facendo, anche se non la vedi – e ti tira i capelli.
«Ahio.» Glielo dici alzando la testa. Piano. L’espressione seria di chi dice «Non è divertente.».
E te la ritrovi con le labbra a pochi centimetri dalle tue. Un soffio o poco più. Ed è lei, stavolta, che ti bacia. Che dirige le danze. Che si stacca da te per respirare. E poi ti chiede: «E questo? È divertente, questo?».
«No.»
«No?»
«È perfetto», le sussurri all’orecchio. Scivolando su di lei, sulle sue labbra, sul costume azzurro e sulle lenzuola che sanno di mughetto. Non volevi questo. Volevi solo schiacciare un sonnellino stringendola tra le braccia, ma la vita è un eterno divenire, giusto? Tu fai progetti, e lei si diverte a cambiarti le carte in tavola. Come un gioco di prestigio. O un miraggio di Morgana.
L’importante è abituarsi, pensi. Abbassandole le spalline del costume, mentre dalla sedia di vimini Il Gatto protesta nel dormiveglia.
Fuori, le cicale cantano la loro canzone a piena potenza.
Dentro, la perfezione.
La tenda di perline azzurre tintinna dolcemente al soffio della brezza che spira dal mare.
 

 
You're going to reap just what you sow
You're going to reap just what you sow
You're going to reap just what you sow
You're going to reap just what you sow


 

Nota:
Il Meltemi è un vento secco e fresco che soffia sul Mar Egeo specialmente d'estate.
E giacché mi ci trovo, buona estate e buone vacanze a tutti voi.

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Capitolo 15
*** #15 Rosa, rosae ***


#15 Rosa, rosae





 
Prompt:Compleanno
Titolo: Rosa, rosae
Autore: Francine
Fandom: Saint Seiya – Lost Canvas
Personaggi: Pisces Albafica
Genere: Introspettivo
Rating: Verde
Avvertimenti: 
Lunghezza: (conteggio parole e numero pagine) 353/1
Eventuali note dell’autore (o alla fine se contengono spoiler):
 Partecipa alla Challenge Slice of Life 
 
 
Rosa d’amore padrona, punisci e perdona, non chiuderti mai.
Rosa d’amore signora, digiuna e divora, non perdermi mai.
(Rosa Rosae, Francesco De Gregori, 1996)
 



Una rosa è una rosa. Come quella che tiene tra le dita passeggiando per il villaggio. Una semplice bianca rosellina. Troppo grande per essere ancora un bocciolo. Troppo piccola per usarla in battaglia. Una rosa è una rosa. Punto. Una corolla di petali candidi e vellutati che nascondono un potere inimmaginabile. Forti. Resistenti. Velenosi. Letali. Come le rose bianche che lui sferra, lanciandole dritte verso il cuore dell’avversario in quella danza di petali impazziti e che suscita un sorriso di scherno. E poi dolore e smarrimento. E morte.
Ma una rosa è anche un fiore. Che cresce in altezza, arrampicandosi sui muri baciati dal sole di mezzogiorno, e spicca, solenne regina tra i rovi. Perché non c’è bellezza senza spine. «E per amore della rosa, si sopportano anche le spine», ha mormorato un giorno Lugonis. Ma quello era tanto tempo fa. Quando per Albafica non c'era bisogno di chiedersi cosa fosse una rosa. E una rosa era una rosa, punto.
Ma una rosa anche un fiore. Ed un fiore lo si può donare. Ad una fanciulla, per il proprio compleanno. O per dirle grazie. Per averci riportato indietro il mantello, pulito e sbiancato e amorevolmente stirato. O per essere testarda. E non avere paura di starci vicino. Nonostante questo possa essere pericoloso. O perché è il suo, di compleanno. E per un giorno, uno soltanto, Albafica vuole regalare un fiore ad una ragazza. Facendoglielo cadere sui capelli. Con noncuranza. Senza parole. Anche perché, cosa le direbbe che già la rosa stessa non potrebbe esprimere con la sua sola presenza?
Una rosa è una rosa. E una rosa parla da sé. Con i suoi petali. Il suo profumo. Le sue spine. Una rosa parla a tutti. Anche a te, se solo la stai a sentire. In silenzio. Senza parole. Una rosa è una rosa, pensa Albafica. Solo una piccola, tenera rosellina appena sbocciata. Punto.
Ma in cuor suo, il Santo dei Pesci sa che una rosa non è solo una rosa. È un universo, racchiuso, custodito, protetto dalla corolla candida e setosa che fa cadere sui capelli biondi di Agathê. Con noncuranza. Senza parole.

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Capitolo 16
*** #16 Un anno ancora ***


#16 Un anno ancora





 
Prompt:Anello
Titolo: Un anno dopo
Autore: Francine
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Polaris Hilda
Genere: Introspettivo
Rating: Giallo
Avvertimenti: 
Lunghezza: (conteggio parole e numero pagine) 624/2
Eventuali note dell’autore (o alla fine se contengono spoiler):
 Partecipa alla Challenge Slice of Life 
 
 
 
Sale la nebbia sui prati bianchi 
come un cipresso nei camposanti 
un campanile che non sembra vero 
segna il confine fra la terra e il cielo.
 
(Fabrizio de André, Inverno, 1968)
 


 
È passato un altro anno, e il cuore di Hilda batte ancora.
Asgard osserva la sua Celebrante dall’alto delle pesanti torri di pietra nera che si stagliano contro il cielo. Non per ghermirlo, no; per delimitarlo. Per dire al Padre di Tutto che gli uomini di quelle terre resistono. Nonostante le difficoltà. Attraverso le difficoltà.
La neve è tornata ad ammantare i prati ed i boschi del profondo nord, avvolgendo quella landa in un silenzio irreale, rotto solo dal soffiare impetuoso del vento. Che sferza visi e mani e vesti. Che gonfia mantelli e ruba sciarpe.
Hilda lo detesta. Perché il suo tocco di ghiaccio la fa sentire viva. Sullo sperone di ghiaccio, sola, le braccia levate al cielo, Hilda si chiede spesso se il Padre di Tutto non l’abbia punita, lasciandola in vita. Se non voglia obbligarla a scontare le sue mancanze permettendo al suo cuore di battere. Ed ogni minuto - ogni rintocco è una stilettata affilata.

Ad un dolore costante ci si abitua. Ci si assopisce. Ci si lascia anche cullare, da esso. Come conforto. Ci si ricorda di piccoli attimi di luce sopportando, pazientando, vivendo. Il sorriso di Hagen, quando il suo sguardo si posava su Freya. L’astuzia di Alberich per negoziare coi reami vicini. La fedeltà di Syd. Il cuore generoso di Thor. Il triste suono della lira di Mime. Gli occhi di Siegfried. Splendenti come una stella. La purezza di Freya.
Freya che continua a vivere, nel ricordo di chi non c’è più.
Freya che continua a portare fiori sulla tomba di Hagen.
Freya che ha smesso di attendere il suo principe senza corona, ma che spera ancora nel suo ritorno.
Freya le cui delicate spalle no, non sono fatte né per il trono né per la maternità.
Freya che le fa compagnia, alle sue spalle, mentre lei eleva le preci al Padre di Tutto.
Freya che sa che la vita torna a scorrere.
Freya che porta la primavera nel suo nome e sul suo viso.

Il giorno dopo Hilda era ancora stordita. Incredula. Come quando ci si alza dal letto dopo una febbre molto alta, o dopo una malattia insidiosa. Barcolli. Ti guardi attorno, cercando di scorgere qualcosa che ti faccia riconoscere dove ti trovi. Perché non lo riconosci. Ed Hilda ha avanzato, stordita, appoggiandosi a sua sorella, un dolore al dito medio sinistro. Come una bruciatura. Il solco dell’anello. Non c’era tempo per capire, il giorno dopo. Per razionalizzare. Per comprendere fino in fondo la vastità delle proprie azioni, la profondità del baratro su cui si stava affacciando.

Il mese dopo si era illusa di aver ricominciato a strisciare. Strisciare, sì. Perché è abbastanza difficile alzare la testa, dopo. Nonostante Hilda sapesse che non era lei, quella che aveva armato le Stelle del Nord contro Athena, non aveva il coraggio di perdonarsi. Accettava tutto il dolore possibile. Tutte le colpe. Tutto il biasimo del mondo. Per sentirsi piena. Per colmare un vuoto abbacinante. Perché quando sei colpevole vuoi solo espiare i tuoi peccati; e la punizione peggiore non è la morte, no. La morte è liberazione. La morte è ricongiungersi a Siegfried. La morte è un sospiro atteso, dolce come miele.

La punizione peggiore è il perdono. Che ti costringe a guardarti in faccia, giorno dopo giorno. Che ti ricorda quell’anello d’oro. Lì, attorno al tuo dito affusolato. Che brillava, cupo, nel silenzio del salone di Asgard.
Un anno dopo, senza l'anello, Hilda è ancora lì. A pregare Odino che preservi Asgard dai ghiacci, che protegga il suo popolo, che dia loro quanto più sole possibile. Nulla è cambiato, in fondo; e la pace è tornata ad Asgard. Eppure, per gli occhi tristi di Hilda un cerchio s'è chiuso.

È passato un altro anno ad Asgard, lungo, freddo, difficile; ma il cuore di Hilda batte ancora. 

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Capitolo 17
*** #17 Beaujolais ***


#17 Beaujolais





 
Prompt: Bicchiere di vino
Titolo: Beaujolais
Autore: Francine
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Chameleon June – Andromeda Shun
Genere: Commedia
Rating: Verde
Avvertimenti: 
Lunghezza: (conteggio parole e numero pagine) 1575/3
Eventuali note dell’autore (o alla fine se contengono spoiler):
 Partecipa alla Challenge Slice of Life 
 
 
 

Il vino prepara i cuori
e li rende più pronti
alla passione.
(Publio Ovidio Nasone)

 

«Pensavo… Non ti andrebbe di bere qualcosa?», ti senti chiedere. E pensi che forse hai alzato un po’ troppo il gomito, a cena. Che quel beaujolais – o come diamine si chiamava – deve essere uno di quei traditori che scendono giù allegramente, come fossero acqua fresca appena spruzzata un po’ di porpora, per poi presentare il conto dopo. Quando uno meno se l’aspetta.

«Non voglio che questa serata finisca», e mentre la voce di Shun ancora galleggia nell’aria frizzante della sera il tuo cuore si ferma. Le stelle sono un frammento di eternità sospeso sopra le vostre teste. Brillano, sfavillanti e lontanissime, rincorrendosi nella volta celeste, densa e nera come un cappotto fradicio di pioggia, ma voi neppure vi accorgete della loro presenza silenziosa. Shun tiene i suoi occhi piantati nei tuoi, occhi blu, profondi e trasparenti come un pezzo di vetro in controluce e per il quale serve il porto d’armi. Occhi che ti guardano fiduciosi, con la certezza incrollabile del cucciolo che osserva il padrone, sì; ma anche come quelli di un uomo. Che vuole te, per questa notte almeno.

«E chi ha detto che deve finire?», rispondi. Sfoderando le unghie e aggrappandoti a quello spiraglio con tutta te stessa. E dimostrando un’audacia ed un coraggio che non credevi di possedere. Affatto.

Shun sorride, un paio di passi davanti a te. Ti porge la mano e ti dice: «Vieni», in un sussurro così languido e carico di promesse che lo segui. Docile come un agnellino, per una volta tanto. Percorrete il marciapiede bagnato, il ticchettio dei tuoi tacchi che vi accompagna ad ogni passo. Avanzate decisi e rapidi, ma senza correre.
Che fretta c’è?, pensi, mentre una parte di te vorrebbe correre su, nell’appartamento di Shun e chiudervi la porta alle spalle. Sì, ma poi? Che succede, poi?, ti chiede l’altra parte di te. Quella che no, non vuole crescere. Che vuole restare ancora la solita June, in perenne attesa che il suo Principe Azzurro si accorga di lei. Che non vuole cambiare. Che ha paura. Del dopo, che è troppo oscuro e sconosciuto per non generare ansie e timori.

Shun armeggia con il mazzo delle chiavi, non trovando quella giusta, e tu pensi che se cincischia ancora un secondo di più, girerai sui tacchi e fuggirai via nella notte. Ma la serratura scatta, con un clac sinistro che assomiglia al suono della ghigliottina che impatta sull’osso del collo del condannato. Shun ti apre la porta e ti dice «Prego», facendosi da parte. «È un po’ in disordine, ma…»
Tu sai che non sarà così. E che ti sta tentando. Vuole che sia tu a decidere se entrare o no, adesso che ancora puoi. Io non mi fermerò, promettono i suoi occhi. E tu sai che stavolta sarà così. Che non si addormenterà mentre contate le stelle. Non stasera. Così sorridi, e i tuoi piedi piombati si muovono. Un passo, uno solo, ed entri nella tana del lupo.
«Permesso», dici, mentre varchi la soglia e Shun chiude la porta dietro di voi. Un suono ovattato, stavolta, non più minaccioso.

La stanza è in perfetto ordine, come sospettavi. Hai quasi paura che le scarpe nel genkan creino disordine, ma accetti le pantofole che Shun ti porge – rosa, ancora nel cellophane –e abbandoni le tue décolleté nere all’ingresso. Shun ti prende la giacca e la fa sparire da qualche parte.
«Ho del vino, se per te va bene», gli senti dire, mentre i tuoi occhi sono incollati alla vista mozzafiato che si gode dalla finestra. Le luci del porto non ti sono mai sembrate più romantiche e magiche. Rarefatte, come dopo una giornata di pioggia. Lucide, come se qualcuno le avesse rese d’acqua, e non di fuoco. Che è un po’ come ti senti tu, adesso.
«Va benissimo», gli dici. Perché per te va bene tutto, adesso. Anche ingollare del catrame ancora fresco. Lo senti aprire e chiudere i pensili del microscopico angolo cottura che vi ha accolto dopo il genkan.

Quando si riaffaccia nella stanza è armato di due bicchieri, la bottiglia di vino e una strana brocca. Sai che quell’affare si chiama decanter, e che al vino rosso fa bene prendere aria dopo che lo si è stappato. Deve’essere rosso per quanto è scuro. Borgogna, pensi, osservando il liquido ruscellare nell’ampolla panciuta.
«Ecco fatto. Un paio di minuti e sarà pronto», dice Shun, gli occhi che scintillano nella penombra della stanza. La sua mano sale a cercare la catenella che accende la luce, ma tu lo fermi.
«No. Lascia così», gli dici, gli occhi fissi e incollati a quella lucetta rossa che vedi brillare in lontananza. Una qualche boa di segnalazione, supponi. Ma adesso non ha importanza. Ti concentri su qualcosa, qualsiasi cosa, per non farti vincere da quel groppo che ti si è formato nello stomaco e che minaccia di straripare da un momento all’altro.

Non posso farmi prendere da un attacco di panico proprio adesso, pensi. Mordendoti le labbra. Tanto il rossetto non c’è più. L’hai lasciato ovunque, sui bicchieri e sulle posate del ristorante, ma non sul collo di Shun. Che si avvicina. E ti sfiora con un dito le spalle nude.
Trattieni il respiro. E il vino?, ti chiedi. Dandoti della cretina l’istante successivo. Al diavolo, il vino. Lo berrete dopo. Qualunque cosa ci sia, dopo. O forse non lo berrete affatto. Ma davvero vuoi fermati a pensare al vino adesso che Shun è così vicino che quasi fa male?
No.

Le dita di Shun catturano una ciocca di capelli, lasciata cadere dallo chignon e arricciata ad arte sulla tua nuca. Il suo respiro, sempre più vicino. Il suo alito che ti sfiora la guancia. Le sue labbra che si posano appena sulla tua pelle, da qualche parte tra la linea della mascella e l’orecchio, come il battito di una farfalla. Strappandoti un lievissimo sospiro. Perché tu quel bacio lo aspettavi. Da sempre. Così come aspettavi che lui ti prendesse tra le braccia. Ti facesse voltare. E ti stringesse al suo petto. Forte. Solido. Duro. Un petto di uomo, non come quello del passerotto sparuto che hai imparato ad amare e difendere sull’Isola.

Non aver paura. Sarò io il tuo rifugio, stanotte. Ti sembra che il suo cosmo te lo stia promettendo, accarezzando dolcemente il tuo in un sussurro. Niente promesse di amore eterno. Niente frasi sdolcinate. Solo tu e lui e l’infinità del microcosmo di Andromeda. Che ti abbraccia, ti cattura e ti conduce per mano dove non ancora tu non sei stata. Che ti ruscella nelle vene, innocente e lieve come il beaujolais. Inebriandoti. Perdendoti. Catturandoti. E facendoti chiedere ancora, ancora, ancora…
Ed è mentre la labbra di Shun abbracciano le tue che ti lasci andare. Ed iniziate a danzare assieme. Esplorandovi. Conoscendovi. Assaporandovi. Gustando il sapore dell’arrosto nella bocca l’uno dell’altra.

«Non sono ubriaca», gli dici, staccandoti per prendere aria, a fior di labbra. «Lo sai questo vero, Shun?»
«Neppure io», ti risponde, prima di riprendere a baciarti, mentre dalla finestra la luce della luna proietta le vostre sagome allacciate sul tatami.
«E il vino nel decater?», chiedi. Quando lui ti consente di riprendere fiato, le dita che si fermano attorno al tuo viso con delicatezza e fermezza. Come se non volesse farti scappare via.
Shun sorride. «Il… vino?», ti chiede. Con una nota di genuino divertimento nella voce.
«Sì», dici. Hai il timore di aver rovinato tutto. Ti mordicchi le labbra quando Shun ridacchia.
«Il vino, certo.» Si stacca da te, e senti il freddo più intenso che tu abbia mai provato invaderti le vene, nonostante sia a meno di un braccio di distanza da te. «Ecco», ti dice. Porgendoti il tuo bicchiere di vino. Rosso. Profumatissimo. Invitante. Come le labbra di Shun.
«Grazie», dici. Per educazione, certo. Ma anche perché non sai cosa diamine dire, adesso.
«A noi», propone lui, mentre i bicchieri tintinnano tra loro.
E tu ripeti «A noi», con un tono meccanico e imbarazzato.
Beve e tu ti accodi. Che altro puoi fare? Il vino scende nella gola fruttato, ma fai a malapena in tempo a buttarne giù una sorsata, che Shun te lo sfila di mano.

«Non vorrei che ti ubriacassi per davvero», ti dice, ma sai che è tutta una scusa, una bugia. Perché Shun freme per riprendere il discorso da dove lo avete interrotto.
In realtà sono ubriaca di te da che ho memoria, pensi. Ma non glielo dici. Non potresti mai. Non adesso, almeno. Magari un domani, chissà. Ma stasera… stasera no. Penserebbe che tu sia davvero brilla se cominciassi a parlare come un’eroina di un romanzetto rosa da quattro soldi.
«Non sono ubriaca», protesti. Lievemente. O non saresti tu.
«Bene», dice lui. Avvicinandosi. Abbracciandoti. Con un sorriso da predatore che non gli hai mai visto. Un sorriso che ti fa un po’ paura, sì; ma che ti regala un piacevolissimo brivido di piacere lungo tutta la spina dorsale.
«Tu, piuttosto», gli dici, accarezzandogli la linea del mento. «Non è che crolli addormentato come l’ultima volta, vero?»
«Nessun problema», e scende a baciarti. Ancora. E ancora. E ancora. Senza darti respiro. Stringendoti a sé. Liberandoti dall’impiccio dei vestiti. Stendendoti sul letto come se fossi fatta di cristallo. Unendosi a te, mentre la luce della luna si affaccia nella stanza e si specchia, vanesia, nei bicchieri lasciati a metà.
Il vino rosso ha bisogno di prendere aria, pensi da qualche parte del tuo cervellino, prima di tornare con la mente, l’anima, il corpo ed il cosmo ad occuparti di Shun.
 
 

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Capitolo 18
*** #18 Briciole di zenzero e cannella ***


#18 Briciole di zenzero e cannella





Prompt: Regali di Natale
Titolo: Briciole di zenzero e cannella
Autore: Francine
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Saori Kido – Ophiuchus Shaina
Genere: Introspettivo 
Rating: Verde
Avvertimenti: -
Lunghezza: (conteggio parole e numero pagine) 1946/4
Eventuali note dell’autore (o alla fine se contengono spoiler):
 Partecipa alla Challenge Slice of Life 
 
 
 
 
 

Gli uomini portano una maschera – le donne due.
(Iginio Ugo Tarchetti, Pensieri, 1869)
 




«Pensavo di dare una festa, per Natale. Per i ragazzi. Una bella festa, con l’albero addobbato, i regali, le candele, e tutto il resto.» Pausa. «E se non dovessero svegliarsi in tempo per Natale, pazienza. Avremo la nostra festa quando si sveglieranno.»

La tua festa, vorrai dire. Sbatti le ciglia nere e folte – e quel mascara fa davvero miracoli! – perché tu sul serio non hai capito quello che ti ha detto Saori. E ti viene il dubbio che il suo discorso non fosse rivolto a te, quanto a se stessa. Che ci fossi tu o un qualsiasi altro essere umano – a partire da Tatsumi per terminare con l’addetto alle pulizie di questo reparto – poco le sarebbe importato; sarebbe stato qualcuno più vivo e presente dell’estintore alle vostre spalle o del distributore automatico del caffè, in fondo al corridoio. E tu non hai fatto tutte quelle ore di volo per sentire certe sciocchezze. Tu sei venuta a trovare Seiya. A vedere coi tuoi occhi che no, da quella sera disgraziata non ci sono stati progressi. E a portargli il suo regalo di compleanno. Perché è oggi il compleanno di Seiya. Te l’ha detto Marin. E sapevi che anche oggi Saori sarebbe stata presente. Oggi più che mai.

Saori sta ancora fissando il proprio riflesso – sta ancora fissando Seiya, pensi – quando riprende a parlare: «Non pensi anche tu che sia una buona idea, Shaina?», e ti sorride, dal vetro spesso tre dita, mentre ti chiedi quale sia la risposta giusta.

«No», ti verrebbe da dire. Perché il bello dell’anno – il bello della vita – è accogliere le occasioni giorno per giorno. E se si salta un Natale o un compleanno, pazienza. Si festeggerà due volte il successivo. E festeggiare una ricorrenza fuori tempo massimo altro non è che rigirare un dito in una piaga che deve essere lasciata a cicatrizzare pian piano. Senza farla suppurare inutilmente. Ma quello che ti fa tentennare è Saori stessa. Perché quella che hai di fronte non è Athena, ma la rampolla dei Kido. E ti aspetti da un momento all’altro che batta a terra le sue scarpe di vernice rosso ciliegia perché tu le risponda quello che vuole sentirsi dire. Come una bambina che fa i capricci.

Saori si volta. E dall’occhiata che ti rivolge capisci che è più pericolosa adesso, che con il chitone addosso e lo scettro di Nike tra le dita. Perché il suo aspetto dolce, ingenuo, fragile, nasconde in realtà una bomba da un milione di megatoni. Athena. Che se ne resta in disparte  sul fondo della coscienza di Saori, ma con le orecchie ben tese. Sia mai che un essere umano ci caschi ancora e pecchi di ubris, ti dici.

«Athena… io…», prendi tempo, mentre pensi che non è giusto leggere nella mente del prossimo, anche se hai tirato la corda troppo forte.

«Il tuo viso non sa mentire, Shaina. Parla pure apertamente», ti dice – ti concede – Saori. E tu decidi di accontentarla. L’ha chiesto – ordinato –  Athena dopo tutto, no?

Prendi fiato e ti lanci. «Io non credo sia una buona idea….»

«Perché?»

«I ragazzi potrebbero svegliarsi in qualsiasi momento», come non svegliarsi mai più, ma riesci a ricacciare indietro, nei recessi della mente, questo pensiero viscido e terribile prima ancora di rendertene conto. «Oggi. Come domani. Come tra sei mesi.»

«Ci sarà sempre una festa di Natale ad attenderli.»

«Ma non sarà più Natale!» e adesso sei tu che per poco non pesti a terra i piedi.

Saori ti guarda come se ti fosse spuntata una seconda testa. «Certo che non sarà più Natale», ti dice. «Ma sarà un modo per…»

E poi, all’improvviso, Saori trema. Senza alcun perché. Trema così forte che pensi si spaccherà da un momento all’altro. Serra le labbra, si stringe le braccia al busto e si allontana dal vetro. Come se il vostro chiacchiericcio potesse disturbare il riposo dei ragazzi. Fai un passo avanti, per aiutarla, e magari passarle un braccio attorno alle spalle, ma lei te lo impedisce. Ti oltrepassa, dirigendosi verso il finestrone che si affaccia sul retro dell’ospedale, su quel parco adesso spruzzato di neve dove tu hai rincorso Seiya e dove Aiolia ha scaricato il suo fulmine addosso a lei.

«La realtà è che mi sento impotente», ammette in un soffio Saori. «E responsabile», aggiunge. Calando quella maschera di fredda regalità che ben conosci. «Per cui, se anche solo potessi dare loro qualcosa in cambio…»

«Ma sarebbe quello che loro vorrebbero?», ti ritrovi a chiederle. Perché non è per i ragazzi che Saori preparerà la festa di Natale perfetta, ma per se stessa. Per avere un po’ di pace e normalità, fossero anche solo delle briciole. Profumate di zenzero e cannella, ma pur sempre briciole, pensi.

Saori si stringe nelle spalle. «Non lo so», ammette, in un sussurro pesante quanto il piombo. «Ma è quello che io adesso posso fare per loro.»

Ti dici di no. Ti dici che Athena potrebbe fare molto di più. Che potrebbe affrancarli dalle lotte future. Dispensarli dallo scendere in battaglia. Rinchiudere i loro cosmi nel profondo delle loro anime. Ma sai già che non servirebbe. Sai già che se anche Athena decidesse di privarsi dei suoi pezzi più preziosi, quegli stessi pezzi si ammutinerebbero e scenderebbero in campo a prescindere dal suo volere. Anche senza un cosmo a sorreggerli. Perché sono fatti così. Perché Seiya è fatto così, ti dici. Avvicinandoti al vetro e posando una mano a contatto con la superficie trasparente. Com’è freddo, pensi, mentre la pompa del respiratore si alza e si abbassa, si alza e si abbassa, si alza e si…

«Mi farebbe piacere che ci fossi anche tu, a quella festa», ti dice. E stavolta no, non ti senti come se ti avessero messo di precetto. È sincera, stavolta. Come se volesse ricucire uno strappo, un orlo scucito che vi portate dietro da troppo tempo e che minaccia di sfilacciarsi sempre di più. Un colpo di forbici e via, questo vuol dare Saori. Tentando di non perdere l’orlo – di non perdere te. Come guerriera, perché tu e lei non sarete mai amiche. Avreste potuto esserlo, se non vi fosse stato Seiya di mezzo. Ma il destino sa essere capriccioso. E Saori –Athena – ha bisogno di tutti voi. Anche a costo di perdere Seiya. «E penso che farebbe piacere anche a Seiya.»

Questo è giocare sporco, Athena. «Allora, dovrà invitarmi lui», dici. Voltandoti verso Saori.

Sai già che non sarà una battaglia ad armi pari, e sai già che lei non mollerà mai e poi mai l’osso. Non fintantoché avrà un alito di vita nei polmoni, pensi. Ma vuoi lo stesso combattere. Perché non sei una che si tira indietro, tu. Così come non lo è lei. E siete troppo simili, troppo dannatamente vicine, per non intuire quali saranno le mosse dell’altra, o cosa vi passi nella testa con un solo, semplice sguardo.

Saori non lo lascerà andare. Mai. Perché lui è Pegaso. Perché Seiya le ha salvato la vita tante, troppe volte, mentre tu hai passato più tempo a minacciare di cavargli gli occhi che ad accarezzargli il viso. Ma, soprattutto, perché Seiya è Seiya. E sai che devi benedire Athena se tu, adesso, puoi stare davanti a quel vetro; perché se quella davanti a te fosse stata solo Saori Kido, non ti avrebbe permesso di avvicinarti nemmeno al perimetro dell’ospedale. E forse lo avresti preferito. Perché sarebbe stata una lotta ad armi pari, quella. Che cosa può fare un essere umano – una donna – contro un divinità – una dea?

Tutto. E il contrario di tutto, ti dici. Ritrovando un po’ di coraggio. Qualche briciola. Ma è sempre meglio che niente.

«Giusto», dice Saori, dopo un’impercettibile pausa. Accennando un gesto con la testa. Come a dire che sì, ha capito davvero. Che sia Seiya a scegliere tra voi due. Che sia lui a decidere il proprio destino. Perché lei ha le mani legate. Perché se lei davvero potesse… «È un regalo per Seiya, quello?»

La tua mano destra corre al tuo fianco, al quel pacchetto che fa capolino dalla borsa a tracolla. Un angolo di carta azzurra. Come il suo cosmo. Tu l’hai visto, laggiù in quel parco, sotto le fronde di un platano, dopo che il colpo di Aiolia ti aveva lasciata più morta che viva. Carta azzurra e nastri bianchi e rossi. Come la sua armatura.

Annuisci. «Oggi è il suo compleanno», le dici, come se tu fossi a conoscenza di qualcosa che lei, forse, non sa. Per prenderti una piccola rivincita. Per dimostrarle che tu non perdi terreno. E che non deve sottovalutarti, solo perché sei un essere umano – una donna.

E ti dai della sciocca vedendo il suo sorriso. Un sorriso dolce, comprensivo, paziente, come quello di una madre davanti ad un figlio testardo e lento di comprendonio. Ha occhi grandi, Saori. Grandi e lucenti, come quelli di un bambino. Ciglia folte e nere, senza bisogno di ricorrere ad alcun mascara allungante. È bella, Saori. L’epitome della principessa da salvare, con le mani curate ed un velo appena di smalto rosato sulle unghie. E ti ritrovi a sperare che Seiya voglia avere accanto una compagna, e non una statuina di cristallo da venerare da lontano.

Annuisce. Non dice «Lo so», e gliene sei grata.

«È un libro», confessi. «Me lo leggeva mia nonna prima di… prima che io arrivassi al Santuario.»

«Una bella idea», ti senti dire. «Magari, potrei leggergliene qualche brano, così…»

«È in italiano» e il sorriso di Saori si crepa. Mi credi così stupida, Athena? «E poi, vorrei che lo scartasse lui. Anche se non sarò qui per quando si sveglierà.»

«Potrebbe svegliarsi mentre sei qui.»

«Sarebbe un miracolo...»

«Sono gli uomini a compiere i miracoli, Shaina. Non gli dei », ti dice. Raccogliendo una mantella di lana grigia e posandosela sulle spalle. «Quando parti?»

Hai così tanta fretta di togliermiti dai piedi, Athena?, pensi. «Domani, dopodomani al massimo», rispondi. «C’è bisogno di me, al Santuario.»

Restate in silenzio, il suono dei respiratori che pompano l’ossigeno nei polmoni dei ragazzi. «Sono sicura che Seiya apprezzerà il tuo regalo. Tornerò tra mezz’ora. La sedia dentro la stanza non è comodissima, purtroppo.» Poi raccoglie qualcosa dalla sedia, qualcosa che era nascosto sotto la mantella. Come le radici degli alberi sotto la neve, pensi. È una scatola. Una bella scatola. Viola scuro con un nastro dorato.

«Buon Natale, Shaina», ti dice porgendoti – piazzandoti – quella scatola tra le dita. E prima che tu possa anche solo dire «ah» Saori è uscita, sgattaiolata oltre la porta d’accesso al reparto, lasciandoti da sola e senza parole.

Seiya dorme. E decidi di dare una sbirciatina al tuo regalo. Tanto non lo saprà nessuno. Solo tu, Saori e le telecamere di sorveglianza del reparto. Sposti il nastro dorato e sollevi il coperchio della scatola. C’è una maschera, all’interno. Talmente lucida che puoi specchiartici sopra e vedere il tuo viso stanco e sciupato, tra l’indaco che scorre ad esaltare la linea delle guance e il taglio degli occhi. È la tua maschera rituale. Quella dell’armatura dell’Ofiuco. Quella che va in mille pezzi ogni singola volta che scendi in battaglia.

È stupenda, pensi. E se in un primo momento vorresti spaccare in due quella maschera d’argento, dentro di te sei felice. Perché non è stata Saori a farti quel dono. È stata Athena. Per dirti grazie. Per dirti di restare con lei. E per chiederti una tregua. Almeno fino a quando Seiya non si sarà svegliato.

Perché ne hai bisogno anche tu. Perché aspettare stanca. Logora. Dal di dentro. E non aveva un’espressione provata anche Saori, che ha il lusso di poter vegliare Seiya ogni giorno?

Buon Natale, Athena, ti dici. Mentre Seiya dorme – riposa – e la neve ricomincia a cadere.
 
 
Note: siamo dopo la battaglia al Santuario, quando le Facce di Bronzo passano svariati mesi in coma (da ottobre al 21 Marzo, il compleanno di Julian Solo). Ho immaginato che in questo intervallo di tempo potesse esserci stato un faccia a faccia tra Saori e Shaina, complice il compleanno di Seiya, il 1 Dicembre. Che a voler tagliare a testa al toro sarebbe non più un Sagittario, ma un Ofiuco, ma è un altro discorso...
Ovviamente, questa storia è tutta colpa di avalon9. E il trapezista sta arrivando. Promesso!

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Capitolo 19
*** #19 Glasperlenspiel ***


#19 Glasperlenspiel





Prompt: Collana
Titolo: Glasperlenspiel
Autore: Francine
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Mitsumasa Kido – Saori Kido
Genere: Missing Moments 
Rating: Verde
Avvertimenti: -
Lunghezza: (conteggio parole e numero pagine) 825/2
Eventuali note dell’autore (o alla fine se contengono spoiler):
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Della sua vita non c'è altro da raccontare. Il resto si è svolto al di là delle immagini e della storia.
(Hermann Hesse, Il giuoco delle perle di vetro, 1943)

 
 



«E quella lassù?»
«Cassiopea.»
Mitsumasa annuisce. «E sai dirmi come si chiama quella alla sua sinistra?»
Gli occhi della piccola Saori si spostano di qualche grado e fissano quel gruppo di stelle. Si mordicchia le labbra. «Andromaca?», tenta.
Nonno Mitsumasa ride.
«Andromeda», la corregge. «Andromaca è la moglie di Ettore, nell’Iliade. Il suo nome significa “che combatte come un uomo”. Andromeda è la figlia di Cassiopea, e il suo nome significa “sovrana degli uomini”.»

A Saori gira la testa. Non capisce perché suo nonno sia fissato con quei nomi così difficili, ma le piace passare del tempo con lui, lassù, nel planetario. Soli. E vedere il viso burbero e severo dell’uomo addolcirsi solo con lei. C’è un senso di quiete, nel planetario. Di pace. Un mondo a parte, dove può avere il nonno tutto per sé.

Saori ancora non sa cosa l’attende dietro l’angolo. Le sue giornate sono piene di attività - danza, pianoforte, canto, inglese, nuoto - in una casa troppo grande per lei. Ogni tanto, il nonno le permette di andare a giocare con quei bambini che ha raccolto. Per lei, dice il nonno. Eppure, non si diverte con loro come si diverte con il nonno. Ha tante storie meravigliose da raccontare, il nonno. Le piace sentire la sua voce, bassa e un po’ roca, perdersi lungo sentieri sconosciuti. È come se quelle storie così lontane nello spazio fossero, invece, vicine nel tempo, per la piccola Saori. Che sente qualcosa accendersi, dentro di lei, ogni volta che il nonno nomina il cavallo alato. Pegaso. Quello con cui Perseo ha salvato la giovane e bellissima Andromeda dalle fauci della Balena.

«Uffa!», e Saori incrocia le braccia in un fruscio di velluto verde bosco. «Ma perché hanno questi nomi così strani?»
«Sono nomi greci, piccola mia», le dice il nonno, accomodandosi sulla poltrona di destra.
«Ma sono difficili!», protesta la bambina, mettendo su il broncio.
«Anche le scale erano difficili, la prima volta», le ricorda il nonno. «Ma poi hai imparato con l’esercizio, vero?»

Saori annuisce. Le stanno bene i capelli a caschetto. La fanno sembrare una bambolina, pensa l’uomo. Ma il broncio non sparisce dalle labbra della bambina.

«Ti svelo un segreto», le dice. Tirando fuori dalla tasca del suo completo blu notte un astuccio nero. «Un piccolo gioco per aiutarti a ricordare le costellazioni», le spiega, vedendo come gli occhi della bambina si siano incollati a quella custodia.
Saori si avvicina e lui le porge la scatola quadrata. Cosa c’è qui dentro, nonno?, gli domanda la bambina con lo sguardo. E lui, con un piccolo gesto da vecchio seduttore consumato, schiude quell’astuccio davanti ai suoi occhi. E l’espressione di Saori alla vista della collana è la stessa di tutte le donne che ha avuto la fortuna di incontrare sul suo cammino. Uno stupore smarginato. Una sorpresa inaspettata. Di quelle che ti lasciano senza parole.
«Sono ottantotto perle di diaspro rosso», le dice il nonno. «Una perla per ogni costellazione», aggiunge, sfilando la collana dal suo supporto ed allacciandola al collo della nipotina.

«Gli antichi greci credevano che il diaspro rosso fosse la pietra di protezione per eccellenza. Responsabilità, battaglie, benessere psicofisico. Non c’è nulla che il diaspro rosso non controlli», ha detto Mitsui, l’incaricato che il vecchio Mitsumasa ha mandato a chiamare il mese scorso. «Ma sono tutte leggende, queste, si sa…», ha aggiunto prima di passare a mostrargli il pezzo forte del suo campionario, le perle lilla.
Mitsumasa l’ha ascoltato fino alla fine, paziente e rispettoso del suo lavoro, per poi ordinargli una collana di diaspro rosso. Perché sì, saranno pure tutte leggende quelle secondo cui una pietra può influenzare il nostro benessere, ma dietro ogni leggenda non c’è forse un filo di verità?

Il diaspro ti proteggerà, Athena. Ti aiuterà in quelle battaglie che ti aspettano. E che io, forse, non vedrò mai.

Il viso di Saori è raggiante. Le dita corrono a toccare quelle perle rosso scuro che le ricadono sul petto. «Com’è bella, nonno…»
«Adesso ti spiego come funziona il Glasperlenspiel. Il gioco delle perle di vetro», le dice vedendo il suo sguardo preoccuparsi. Adesso anche il tedesco?, chiedono gli occhi della bambina. «Dai il nome di una costellazione ad ogni pietra. E così fino a quando non hai finito tutte le pietre.»
«Ho capito.»
«Scommettiamo che i nomi delle costellazioni non saranno più così difficili?»
«Vero!»
«Allora, cominciamo», le dice, portando la chiusura della collana davanti ai suoi occhi. «Rircorda. Una perla per ogni costellazione.»
«E se non me ne ricordo qualcuna?»
«Ti aiuto io.»

Saori annuisce. Si schiarisce la voce con un finto colpo di tosse e poi inizia.
«Ariete. Toro. Gemelli. Cancro. Leone…», toccando una perla dopo l’altra, una costellazione alla volta, a partire dall’Ellittica, l’espressione seria che i bambini mettono su quando pensano che qualcosa sia oltre la loro portata.
Il vecchio Mitsumasa sorride nel vedere la propria nipotina così assorta in quel gioco. E sa che, alle sue spalle, anche Athena sta sorridendo.


Note: ... con buona pace di Hermann Hesse, ma dovevo trovare un senso alla collana di perle grosse come palline di naftalina di Saori.

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Capitolo 20
*** #20 Come un bogatyr in sella al suo destriero ***


#20 Come un bogatyr in sella al suo destriero





Prompt: Giro in bicicletta
Titolo: Come un bogatyr in sella al suo destriero 
Autore: Francine
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Cygnus Hyoga
Genere: Introspettivo 
Rating: Verde
Avvertimenti: -
Lunghezza: (conteggio parole e numero pagine) 1525/3
Eventuali note dell’autore (o alla fine se contengono spoiler):
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La vita è come andare in bicicletta. Per mantenere l'equilibrio devi muoverti.
(Albert Einstein, Lettera al figlio Eduard, 1930)
 
 


I doni degli dei non sono fatti per i mortali, pensi. Faticando su una salita più ripida del previsto.

«C’è qualcosa che vorresti per Natale, Hyoga?», ti ha chiesto Saori mentre fuori dall’ospedale Ottobre regalava alla città il primo di una lunga serie di cieli d’acciaio. Gli occhi di Saori brillavano, sintomo che aveva già una sua idea, qualcosa da proporti nel caso ti avesse preso in contropiede. O avessi più di un desiderio nel cassetto.

E chi non ce l’ha?, ti sei anche detto vedendo quel luccicore regalare una sfumatura decisa allo sguardo di Saori. E hai tremato. Perché qualcosa, dentro di te, ti diceva che Saori era prontissima a far recuperare il relitto dove riposa tua madre, mandando alle ortiche l’ultima e preziosa lezione di Camus. Impedendoti di crescere.

Così le hai risposto. Glielo hai confessato, a bassa voce. Come se le stessi ammettendo che sì, sei stato tu a mandare in frantumi quel bel vaso in salotto centrandolo in pieno con una pallonata.
«Tutto qui?», ti hanno chiesto i suoi occhi.
«C’è altro?», ha domandato la voce di Saori.
Hai scosso la testa.
«No. È tutto qui.»
«Capisco», ha detto. Stupita. E forse anche un po’ spiazzata. Perché quella era una richiesta più nelle corde di Shun che tue. «Mi assicurerò che sia tutto pronto per quando uscirai dall’ospedale», ha aggiunto. Ed è stata di parola. A modo suo.

Dentro di te ti chiedi se Saori sarebbe stata in grado di ritrovarti anche PuCiPé, il tuo Pupazzo Ciccione Peloso, un orso bianco che hai dovuto lasciarti alle spalle quando sei partito con tua madre per il Giappone; ma poi ti dici che quella sarebbe stata una richiesta dispettosa. Infantile. Cretina. Subdola. Un modo per ribadire ad Athena – a Saori – che in certi casi gli dei possono fare poco per gli uomini. Che ci sono ferite che non si possono ricucire, come fossero orli strappati, bottoni pericolanti o braccia penzolanti di bambole di pezza. Che devono restare lì. Esposte. E sanarsi da sé. Gli uomini hanno le loro cicatrici. Sulla schiena, sul cuore, nell’anima. Che si rimarginano e lasciano spesso solo un ricordo, un’increspatura sotto pelle. Che brucia, nelle notti di vento o quando il cuore s’inerpica attraverso quei gineprai sconosciuti e sussurrati.

«Le cicatrici sono le medaglie dei guerrieri», diceva Camus. «E loro, i guerrieri, ne vanno fieri. Anche se ogni tanto il dolore si riacutizza e torna a trovarli.»
Saori questo non può capirlo. Perché Saori è una donna. E una donna, anche se dea, non può comprendere quanto possano essere importanti quelle ferite, quelle medaglie, per il corpo di un uomo. Anche se lei è la dea della guerra. Quella cui lui ha votato la sua esistenza, per un sorriso, uno sguardo, una lacrima appena.

Quest’affare ha bisogno di una bella oliata, ti dici. Affondando i pedali, uno due, uno due. La collina è ripida e la cima ancora lontana. E sei tentato di mettere il piede a terra e proseguire al passo. Questo sarebbe barare, ti dici, e se Seiya avrebbe ceduto e avrebbe spinto la bicicletta a mano fino alla cima del pendio, tu non sei Seiya. Non è Seiya, quello che si è perso. Sei tu. Ed è in bicicletta che sai che troverai te stesso. Restando al tuo posto. In sella. Affondando quei pedali ancora e ancora e ancora, come se dovessi immergerli dentro di te. E far tornare indietro il Cigno.

Ci sono momenti in cui la senti ancora, quella risata. Un suono come di unghie  - lunghe, ricurve, gialle – sulla lavagna sporca. Che ti ghiaccia il sangue nelle vene. Che ride di te. Della tua umanità. Della tua inutilità.
«Cosa vorresti fare, tu, miserabile? Rinchiudere il Fuoco nel ghiaccio?», rideva, lo sguardo allucinato di chi vede qualcosa, oltre la tua disfatta. Un piano, un progetto, una visione. Una promessa. Una profezia. Il gioco di chi bluffa, ridendo, per dimostrare al nemico che nulla, oramai, può fermarlo. Che niente e nessuno può fermarlo. Nemmeno un’arma potentissima. Perché anche l’arma più potente dell’universo non rappresenta una minaccia reale nelle mani di chi non sa come usarla.

Ed è questo, a lasciarti l’amaro in bocca. Non tanto l’aver creduto all’impossibile, l’esserti piegato – l’esserti voluto piegare – alla più allettante delle menzogne, quanto il fatto di non essere stato tu, l’ago della bilancia. Perché sì, questo tu volevi. E perché no, la vita non è un dramma wagneriano. Oh, come sarebbe tutto più bello, se fosse così. Chi rompe, paga. Delitto e Castigo. Facile. Lineare. Russo. Umano. Ma questa è Letteratura. E Letteratura è solo un bel nome per definire come l’uomo vorrebbe che fosse la Vita. Che è diversissima dalla Letteratura, anche se a volte vanno a braccetto come due buone amiche. O come due sorelle.

La Letteratura è la sorella buona. La Vita, la pecora nera. Perché la Vita ti lusinga, ti adula, sussurra al tuo orecchio promesse e realtà facendoti credere che siano tutte possibili. Tutte vere. La Letteratura è più onesta. Te lo dice prima, che è tutta finzione. Che cambierà la terra sotto ai tuoi piedi da un momento all’altro, ma ti fa la gentilezza di lanciarti dei segnali. Che tu puoi cogliere oppure no. Ma sono problemi tuoi. La Vita, no. La Vita ti toglie la sedia da sotto le chiappe mentre sei seduto. Senza alcun preavviso. Cambia le carte in tavola e si diverte nel rigirare le frittate, rimescolare gli eventi e rovesciare il mondo con un colpo secco del polso. Ridendo. Dell’umanità che cerca di capirla, guardarla e imbrigliarla per tutta la breve durata della propria esistenza. Una corsa senza freni, a perdifiato, dall’esito già scontato. Perché non puoi vincere contro chi gareggia con le ali ai piedi. E che bara. Clamorosamente. Aprendo trappole sotto ai tuoi piedi e creando scorciatoie con un solo schiocco di dita. Lasciandoti a mangiare la sua polvere, il braccio teso per acciuffare quella ciocca dispettosa di capelli che ti sventola proprio davanti al naso. Così vicina. Ma anche così incommensurabilmente lontana.

Dovevi raccogliere tu quel martello. È come se qualcuno ti avesse tolto qualcosa che ti spettava di diritto. Ed è per questo che ti senti perso, come se stessi vagando nella nebbia. Perché ancora non hai compreso – ancora non vuoi comprendere – quale fosse il tuo ruolo, in quello scontro. E che di quella battaglia eri solo spettatore. Pedina. Vittima. E non il bogatyr, l’eroe.

Arriverà il momento in cui il Cigno spiegherà le sue ali in battaglia, ancora una volta; ma quando sarà lui il protagonista assoluto eleverà quel canto straziante che sei stato molto vicino ad intonare in più di un’occasione. O almeno, questo è quello che credi. Ma la verità è che finora non è mai stato il tuo momento. È stato quello del tuo avversario. Di Babel. Di Camus. Di Isaac. E continuerà ad essere il momento di qualcun’altro, fino a quando la Nera Signora non farà il tuo nome; ma questo devi comprenderlo. E non puoi comprenderlo se prima non lo vivi.

Come le salite. Che non ti accorgi di viverle, quando ci sei dentro. Sono brutte prima. E il loro ricordo lo è dopo. Ma quando ci sei in mezzo, non puoi fare altro che pedalare. E andare avanti. E non pensare a quanto manchi alla fine. Solo, viverla. Affondando il piede una, due, tre, dieci, cento, mille volte. Fino a quando servirà. Fino a quando sarà necessario. Anche se la bicicletta su cui sei non è l’ultimo modello con il cambio a venti rapporti, ma una da passeggio. Bianca. Pesante – robusta, direbbe qualcuno. Il padre che la sceglie per la figlia, forse. Con la pedaliera che a volte ti scivola sotto la suola e la catena che gratta sulla guarnitura. Di quelle da donna, cui Saori ha fatto togliere il cestino. Per delicatezza nei tuoi confronti. Pensi che poteva anche mettercele, un paio di carte da gioco sui raggi delle ruote, così da incanalare il vento e fare un po’ di rumore. Ma per avere il vento che ti soffia sul viso devi avere una discesa. E non c’è discesa, se non dall’altra parte della salita, giusto?

Giusto.

Ancora un paio di pedalate e ce l’avrai fatta. Ancora poco. Un piccolo sforzo, ti dici, mentre il sudore inizia ad imperlarti la fronte. Ci sei. Quasi. Ancora un po’, e poi sì che avrai il vento in faccia. E ti sembrerà tutto più diverso. Più facile. Più possibile. Anche se la Vita, seduta sulla canna davanti a te, sarà sempre pronta a tirare fuori un asso dalla manica e a cambiare le regole. A proprio vantaggio. Sennò che gusto c’è?, ti dici. Osservando la discesa, davanti a te, addolcirsi in un lungo rettilineo a valle. Un bel salto. Ma si può fare. Il trucco è non voltarsi indietro. Mai. Perché indietro c’è il passato. Davanti a te, solo il futuro.

Ti asciughi il sudore dalla fronte, mentre il sole sorge dietro i tetti delle case di una città che si deve ancora svegliare. Un attimo, uno solo. Poi prendi fiato, fletti i muscoli e sei giù. Nella discesa. Aria nel vento. Come un bogatyr in sella al suo destriero.
 

 
Note:
Non poteva mancare Hyoga, in questa raccolta (mi scuso per lo spazio che Milo e famiglia hanno preso, ma l’hanno fatto sfondando a calci qualsiasi remora, pudore e/o vergogna. Timeo Danaos et dona ferentes, diceva qualcuno. E faceva bene.).
Questa storia si piazza dopo la mia primissima incursione nel mondo dei Santi di Athena. Inutile dire che ho fatto le cose a modo mio. Bussando coi piedi, e non perché avessi le mani occupate dai doni. Anzi.

L’episodio cui si rifà il cignetto, il nemico che ride, ride, ride, manco fossero unghie sulla lavagna (rabbrividiamo. BRRRR.) lo mostrerò a breve. Intanto, potete dare una letta qui per scoprire l’antefatto.
EDIT: Poiché sono un'idiota, ho accidentalmente cancellato la storia mentre spostavo un capitolo. Chiedo scusa a quanti avevano recensito/seguito/letto quella vicenda.
Dovrei avere tutti i capitoli (incrociate le dita), per cui non è un gran danno, fegato ingrossato a parte.
Al massimo per la prossima settimana si torna on line. Ché abbiamo accumulato un po’ troppe ragnatele, né?


EDIT (14.11.14): Sistemato il bug. Per ora. La storia a cui faccio riferimento la trovate qui. Buona lettura.

Un bogatyr è l’eroe delle fiabe (dei racconti, sarebbe meglio dire) del medioevo slavo. Un guerriero molto simile al cavaliere errante delle nostre tradizioni. L’eroe cui io faccio riferimento per Hyoga è Alëša Popovič, (Alëša Figlio del prete), noto per la sua astuzia. Hyoga, a mio avviso, dovrebbe essere quello più scaltro del gruppo, almeno quando l’amore per mammà non lo fa svirgolare per bene.

E con questa scemenza si conclude Astrolabio. Un ringraziamento va a tutti voi che avete letto, seguito, amato, commentato, messo nelle preferite/ricordate/seguite questa raccolta. Grazie di cuore. Anche del vostro silenzio. Le visualizzazioni sono state stratosferiche, nonostante io abbia pubblicato a più riprese nel corso di un anno (un anno ed un paio di mesi, ad essere precisi).

Astrolabio tornerà. Con gli speciali dedicati ai prompt bonus di questa raccolta. Un prompt ad anno. C’è di che andare avanti all’infinito. Intanto, leggetevi queste venti storielle, senza pretese e senza gloria. Avrei potuto dare di più, avrei potuto fare di meglio. Lo so. Ma questo passa il convento.

Grazie ancora per essere passati.

E un caffè, adesso, ve lo siete meritato di diritto.

Logorroicamente vostra,
Francine

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