Stand My Ground di Hagne (/viewuser.php?uid=33495)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 - Iron ***
Capitolo 2: *** 2 - Pearls Of Light ***
Capitolo 3: *** 3 - Restless ***
Capitolo 4: *** 4 - Pale ***
Capitolo 5: *** 5- Running Up That Hill ***
Capitolo 6: *** 6- The Cross ***
Capitolo 7: *** 7 - The Other Half (Of Me) ***
Capitolo 8: *** 8 - Deceiver Of Fools ***
Capitolo 9: *** 9 - Where Is The Edge? ***
Capitolo 10: *** 10 - Stand My Ground ***
Capitolo 11: *** 11 - Utopia ***
Capitolo 12: *** 12-Extra-Gotta Be Somebody ***
Capitolo 1 *** 1 - Iron ***
Capitolo 1
“Left in the
darkness
Here
on your own
Woke
up a memory
Feeding
the pain
You
cannot deny it “
[…]
“Raised in this
madness
You're
on your own
It
makes you fearless
Nothing
to lose”
[…]
You
can't hide what lies inside you
It's
the only thing you've known
You'll
embrace it and never walk away
Don't
walk away “
(
Iron- Within Temptation)
I fantasmi del passato
erano mostri difficili da addomesticare, creature
d’ombra che mal tolleravano le catene alle quali venivano
costrette, ed i suoi, di fantasmi, non avrebbero potuto essere
imbrigliati neanche se avesse avuto le catene più spesse,
pesanti e dure con le quali vincolarli.
Dormire non le era mai
piaciuto, ed aveva perso l’abitudine di farlo vista la
possibilità di privarsi del risposo e, conseguentemente, dei
ricordi che l’avrebbero assalita e tormentata nel sonno.
Ricordi dai quali si
sarebbe svegliata urlando, angosciata dai morsi che avrebbe
ritrovato sulla sua pelle, il tocco di mostri che nella sua
testa diventavano reali assieme alle loro voci.
E quello non era da
meno.
Reale lo era, e
terrificante, tanto da far nascere in lei l’ansia di sapersi
preda di un altro incubo, una prigione buia dalla quale cominciava a
faticare ad uscire, lì, dove le carezze sul suo capo si
facevano più viscide e cadenzate, una sensazione familiare
che le inondò il viso di panico.
Perché
Yehouda era morto, sua madre, era morta, così gli
altri Creatori, e nessuno, nessuno
avrebbe potuto più nuocerle, non a lei, non
all’uomo che amava, non alla sua famiglia.
Eppure c’era
quella paura, c’era e sempre vi sarebbe stata, a farla
contorcere dall’angoscia.
Il terrore di saperli
da qualche parte, nonostante tutto, vivi e forse,
forse in cerca di vendetta, di quel desiderio di rivalsa su
di lei, la brama che li avrebbe portati a cercarla in capo al mondo per
ricordarle una verità che nonostante gli anni passati,
nonostante le gioie conquistate e l’amore ricevuto,
non era mai cambiata.
Ciò
che non sarebbe dovuto esistere.
Sapeva di esserlo, di
non poter in alcun modo negare una verità che era costata
così tante vite, così tanto dolore, ed anche
se ora aveva un amore al quale poter rivolgere ogni
suoi pensiero, ciò non la ripuliva dalle colpe del
passato.
Il motivo di tanta
morte, tanta distruzione, tanta disperazione.
Perché Loki
aveva sterminato una razza di divinità per vendicare le
offese a lei arrecate, e aveva ucciso i Creatori, divenendo giudice e
giustiziere per proteggere lei, era sempre, per lei.
Ogni suo respiro,
sguardo, pensiero, Loki non aveva mai fatto mistero
dell’ossessivo bisogno di saperla al sicuro, di
saperla felice, ma
accanto a lui.
E lei lo era,
infinitamente, profondamente felice, ma non al sicuro, non lo sarebbe
mai stata.
Perché era
la sua stessa condizione a renderla incapace di protezione, incapace di
sicurezza persino nei suoi sogni.
Il fiato caldo
tornò a soffiarle il viso freddo e imperlato di sudore, ma
aspettò, trepidante, di averlo di nuovo vicino per voltarsi
e affrontare il mostro dei suoi incubi, quello che gorgogliava
nell’ombra e tornava, ogni notte, a infestare la sua mente.
Perché non
era più una bambina, ed aveva imparato a reprimere la
“paura”, quella che anni prima l’aveva
vista morire in un cielo tinto dal blu della sua essenza e del suo
cuore pulsante vita ed energia.
La stessa energia che
le lambì le mani in una lingua infuocata quando, percepito
il tremolio di quel respiro contro la tempia, si decise a voltarsi con
la risolutezza necessaria a non cedere alla paura, ma quando lo fece,
quando la sua mano calò su di lui, sul suo mostro, qualcosa
si mosse nel suo petto, l' urlo col quale sgranò gli occhi
sul soffitto della sua stanza e sull’arto mutilato
che si trovò a stringere tra le dita e a gettare, poco dopo,
via dal letto.
- Min
dame – sibilò qualcuno al suo fianco, una voce
roca e bassa che sentì spirare da una bocca
violacea schiusa su denti bianchi e affilati, una dentatura che vide
calare sull’arto che Sunniva azzannò, sollevandola
con un braccio mentre arretrava di tutta fretta dal letto che ora
fissavano entrambe in agitazione, schiacciate contro la parete.
- State bene?
– masticò la Gigante con voce graffiata,
abbassando su di lei occhi rossi pulsanti vita, forza, quella
che aveva reso Sunniva mal tollerata dai suoi simili, perché
troppo piccola di statura per poter essere apprezzata, e
troppo forte di braccia per poter essere sconfitta e sottomessa, come
le loro leggi imponevano ai maschi della razza, durante
l’accoppiamento.
Usanze verso le quali
neanche la sua volontà di cambiamento aveva potuto nulla,
vista la rigidità delle loro antiche credenze e il religioso
rispetto che serbavano per queste.
I giganti di ghiaccio
non amavano essere soggiogati, comandati, non loro che, creature
più forti dei novi mondi, erano temuti e odiati
più di altri, perciò, se la presenza di
un Re li aveva resi insofferenti, la venuta di una Regina, di una donna, li aveva
resi recalcitranti come animali chiusi in gabbia.
E mai avevano perduto
occasione di sottolineare quella che vedevano come una debolezza. Si
erano mostrati ostili, tanto inospitali da aver preso
l’abitudine di distogliere lo sguardo da lei, una volta
raggiunti i loro passi lunghi leghe più che metri.
Ma aveva comunque
imparato a non accaparrarsi un diritto che quelle creature
riconoscevano solo a Loki.
Il diritto di
comandare, e di esigere da loro il rispetto.
Un rispetto che lei
aveva sempre ricercato, mostrando loro la
fecondità di una terra arida e aspra ma che, se coltivata,
avrebbe potuto sostenere la fame tra i loro neonati e saziare i loro
stomaci che tuonavano per il fastidio.
Si era adattata
persino alla temperatura rigida, alle loro rozze usanze che
più di una volta l’avevano costretta ad
accompagnarli nelle peregrinazioni assieme al bestiame sulle vette
più alte, dove l’aria diveniva così
spessa da bloccarsi nei polmoni in rocce d’acqua congelata,
ma aveva resistito, e lottato, non aveva mai smesso.
Perché Loki
era uno di loro, e come lei aveva saputo accettare tutto di
lui, come loro lo avevano accettato per diritto di legge, per
linea di sangue, così lei aveva sempre cercato di farsi
accettare per quello che era.
Una creatura che aveva
peregrinato per mondi, senza avere né una patria, non un
amore, non una famiglia ma che, alla fine, aveva
conquistato tutto, ma non la quiete.
Non con un
braccio mozzato sul suo letto, un arto maschile dalla forma tozza e
ruvida, col palmo grigiastro abbandonato mollemente sulle lenzuola
candide.
- Dobbiamo avvertire
il Mester – esclamò Sunniva in agitazione
una volta ripresasi dalla confusione – dobbiamo-
- Non dobbiamo fare
nulla – la interruppe lei con voce stanca, frusciando via dal
braccio muscoloso della gigante con un gemito di dolore che la
portò a chiudere una mano sulla gola.
E trovò
ciò che l’aveva fatta svegliare urlando,
l’unghiata rossastra che la sua fedele compagna
fissò rabbiosa prima di stringere le labbra con fastidio.
Perché
più del Re, più dei suoi simili, Sunniva era
fedele a lei, una devozione nata per riconoscenza, per affetto e per
quella compassione che le era stata mostrata da una donna ben
più piccola e sottile di lei.
Una creatura
che la rendeva incapace di andare contro le sue preghiere, anche quelle
più irragionevoli, perché a lei fedele.
Ma se anche la gigante
si fosse irragionevolmente opposta al suo desiderio di tacere, sarebbe
stato comunque sciocco da parte sua pensare davvero di poter nascondere
qualcosa a Loki, e lo capì, lo comprese quando
sentì le porte della stanza schiantarsi con un fischio per
accogliere la figura tetra del nuovo venuto.
- Fuori.
Sunniva
tentennò per un lungo istante, il braccio allacciato attorno
alla vita della sua signora che accanto a sé pareva serena
nonostante lo sguardo feroce del Mester levitasse su di loro come una
minaccia di morte, ma c’era sempre la sensazione di pericolo
a pizzicarle le terminazioni nervose per ricordarle quanto crudele
potesse essere il loro signore e padrone.
E collerico,
rancoroso, ma incapace di fare del male a lei, la minuta
creatura dai capelli d’arcobaleno verso il quale il Re
serbava un amore quasi malato, un’ossessione che lo privava
di raziocinio e lucidità, tanto da renderlo irragionevole e
crudele verso chi si mostrava arrogante con lei.
Lei che
l’aveva accettata al suo fianco quando nessuno
l’aveva voluta, ascoltata, quando nessuno aveva
provato a capire la sfortuna della sua diversità, e
accettata, come nessuno avrebbe mai fatto.
Eppure
l’aveva voluta, e la amava per quella che era, una diversa.
- Vai – la
invitò Astrid con voce morbida, sorridendole gentile per
rassicurarla prima di notare come la schiena massiccia della
creatura si fosse irrigidita nel passare di fianco al dio degli
inganni, così alto, lì, contro la porta, lui e la
sua ombra che si dilungava per metri sulla parete opposta, una chiazza
scura che si mosse sinuosa assieme all’uomo che si
trovò presto addosso.
Loki aveva mani
gelate, dure come pietra per la temperatura che condensava i suoi
respiri in nuvole di ghiaccio polveroso, ma erano mani gentili quelle
che le accarezzavano la gola, polpastrelli che si muovevano con
dolcezza e perizia sulle tre strisce scarlatte.
Una ferita alla cui
vista il dio reagì indurendo la mascella e cristallizzando
lo sguardo che dal suo viso volò alle proprie spalle,
sull’arto che con un suo schioppo di lingua
svanì per smaterializzarsi nel suo studio, un immenso
androne dai soffitti alti e dalle pareti stipate di libri che sapevano
tendere il viso di Loki di interesse.
Il viso che Astrid
lambì nel palmo della mano quando notò il lampo
di dolore saettato nell’unica pupilla, quella che diveniva
così vigile e attenta, e cattiva, nel guardare il mondo, ma
che su di lei pareva sciogliersi, ammorbidirsi come una canzone
d’amore sussurrata nel dormiveglia per non turbare il suo
sonno leggero.
- Guarirà
– gli sussurrò morbida, schiudendo le labbra
colorate in un sorriso che però non sembrò
intaccare la rigidità di quelle di Loki, tanto strette da
scomparire nel pallore cadaverico del viso.
Perché
anche se sarebbe scomparsa dal collo che accarezzava distrattamente,
lui l’avrebbe vista ugualmente su di lei, l’avrebbe
percepita sotto le sue dita quando l’avrebbe accarezza,
l’avrebbe sentita pulsare nella lingua quando
l’avrebbe baciata.
Non avrebbe
dimenticato la profondità, lo spessore, il colore scarlatto,
non avrebbe dimenticato nulla, non quell’urlo che lo aveva
sottratto ai suoi studi, non quella nuova ferita.
Una cicatrice che non
sarebbe rimasta su di lei, ma che avrebbe intaccato il suo orgoglio di
uomo, di dio.
Un dio incapace di
difendere la donna che amava pensò rabbiosamente, tirando
l’angolo della bocca in una smorfia contrita che una carezza
delicata provò a sciogliere, così da rendere
dolce ciò che non lo era, pulito, ciò che era
sporco.
Ma era la sua
coscienza ad essere sudicia, lercia, e non c’era nessun
inganno, nessuna arte manipolatrice o menzognera capace di
convincerlo di averla ancora integra, intatta, priva di falle, di
voragini nelle quali inciampare e scivolare nella lordura delle sue
colpe.
Perché era
stato sì tanto crudele da sterminare una civiltà,
ma ogni morte, ogni anima rubata aveva portato con sé il
senso di colpa, il ribrezzo che mangiucchiava come termiti ingorde gli
angoli del suo cuore malmesso e scheggiato.
Ogni gesto compiuto
nell’impeto della follia aveva intaccato un nuovo bozzo nella
sua armatura di divinità, ogni scelleratezza, ogni vendetta
guadagnata lo aveva reso sempre più sconsolato, sempre
più bisognoso di ricercare qualcosa di nuovo da
distruggere, da piegare a sé.
Una vita, una
città, una civiltà, nulla sarebbe mai bastato a
riempire il vuoto della sua anima, il male inconsolabile che aveva
creduto di poter ostruire con gli stralci di un affetto che mai gli era
spettato, non quello silente di Odino, non quello ossessivo di Thor,
non quello delicato di Frigga.
Eppure,
c’era lei, a dargli l’illusione di non avere
più nulla per il quale sentirsi perso, e solo.
Bastava quella voce
gentile che sapeva rendere il suo nome sempre così scarno e
arido sulla lingua altrui meno pungente, più dolce, amabile
come lo sguardo di luce che la sua compagna
d’eternità gli rivolgeva ogni giorno, anno, secolo.
Immutabile.
Lo era il sorgere e il
calar del sole, lo era il suo amore per lui, insensato vista
la sua natura, il suo passato, le sue colpe, ma lo amava, e bastava il
pensiero di saperla sua, di sapere che lei lo avrebbe amato comunque, a
dargli l’impressione di non essere così sbagliato,
di poter avere ciò che la vita e il destino gli aveva negato
con tanto accanimento.
- Guarirà
– ripetè ancora lei, schiudendo le dita su quella
parte del viso che le cicatrici avevano reso tanto sgraziato,
lì dove la pelle diveniva così tesa e
fragile, rigida su zigomi che, in passato, avevano potuto
vantare una beltà invidiabile prima di essere
intaccata dalla sua follia.
La stessa follia che
lo aveva privato di un occhio, quello che gli avevano cavato, che aveva
barattato in cambio della vittoria.
E fu sulla palpebra
fragile e morbida che Astrid premette le labbra, dolcemente,
imprimendo in quel tocco ciò che lui più bramava
prima di prendergli le mani e avvolgersele attorno al busto.
Lo
abbracciò con delicatezza, una presa
gentile nella quale Loki si lasciò sfuggire uno
sguardo stanco prima di abbandonare il capo sulla testa di Astrid e
chiuderla nel suo, di abbraccio.
Soffocante, doloroso,
ma loro.
Quel piccolo pezzo di
mondo nel quale sapevano di poter essere al sicuro, di poter essere
accettati, e amati, nonostante tutto.
Le regalò
una carezza, una sola, un fuggevole tocco di dita gelate che Astrid
sentì chiudersi in pugni prima di vederlo perdersi in
pensieri ben più tetri, e oscuri, lì
dove lei non avrebbe potuto proteggerlo, lì dove, per quanto
vi avesse provato, non sarebbe mai riuscita a guarirlo del tutto dalla
malattia d’amore che lo avrebbe reso sempre così
bisognoso di essere accettato, di essere amato.
°°°
Jötunheimr.
La Terra dei Giganti
di Ghiaccio.
La Terra della
Distruzione la chiamavano alcuni, perché arida e morta,
disseminata di vette altissime sulle quali perire per il
freddo, gole profonde nelle quali poter gettare le carcasse del
più debole della tribù, e lande desolate,
ricoperte di fine sabbia bianca nella quale poter essere inghiottiti.
Deserti incontaminati e morti ricoperti
però da una distesa di fiori di ghiaccio, gigli dai petali
d’acqua cristallizzata dal quale era possibile trarre il
latte per i neonati, una delle bellezze che Astrid aveva riportato alla
luce scavando nelle profondità della terra per mostrare che
persino lì, in quel mondo aspro e crudele, c’era
la vita, c’era dolcezza.
Il vento lì
dove si trovava però si affievoliva, divenendo
una litania che sussurrava ai visitatori di chinare il capo,
rallentare il passo e volgere lo sguardo al cielo,
lì dove i rami nodosi di Yggdrasill chiedevano
rispetto e silenzio, un cheto riguardo che lei offrì con un
cenno ossequioso del capo prima di volgere l’attenzione alle
sue spalle.
Sunniva
ricambiò lo sguardo della sua signora con devozione,
intimorita dal movimento sinuoso degli steli che vedeva fluttuarle
attorno come braccia candide che guidavano il canto della natura madre,
ma non osò abbandonare il manto sabbioso sotto i piedi nudi
per raggiungerla, non ne era degna.
Perché
quella era la terra dei vecchi Re, degli spiriti della Terra, e nessuno
poteva addentrarvisi senza essere punito per l’impudenza.
Si udì una
voce di donna frusciare d’improvviso tra le foglie
d’acqua, un richiamo verso il quale Astrid volse lo sguardo
prima di richiudere il mantello di Loki attorno alla gola e
avvicinarsi al tronco evanescente, il grembo di una vita infinita, la
porta verso il mondo di mezzo, lì dove non c’era
vita, né morte, solo un limbo nel quale le grandi anime
degli antichi dimoravano per dare consigli ai Re della terra.
E quello che la stava
chiamando aveva una voce familiare, dolce, morbida come una carezza di
artigli d’argento che percepì contro la guancia
quando allungò una mano per sfiorare il corpo storto
dell’albero.
- Bentornata bambina.
Il dolore la rese
cieca per un attimo, e fu con gemito soffocato che serrò le
palpebre per contenere le lacrime.
Non era la prima volta
che le chiedeva consiglio, che correva da lei per soffocare
l’ansia, il timore, eppure, come ogni volta, quella voce
riusciva a riportare alla luce quel dolore che non l’avrebbe
mai abbandonata.
La perdita che mai
sarebbe riuscita ad accettare, per quanto tempo fosse trascorso.
- Madre –
bisbigliò ad occhi chiusi, immaginando nel buio
delle palpebre il viso deforme di Semjace, la dentatura affilata tesa
in un sorriso aguzzo che, se avesse teso un po’ di
più le dita, avrebbe potuto attraversare.
Le sorrise di rimando,
abbandonandosi al suolo con le mani chiuse in grembo per seguire la
discesa morbida della creatura evanescente che, nel riaprire gli occhi,
trovò davanti a sé.
Alta, fiera come una
vecchia regina buona che dispensa consigli e abbracci, e in uno di essi
si abbandonò con un sospiro pesante, scivolando a terra
tanto da non essere più vista neanche da Sunniva.
I fiori le
accarezzavano le gambe ripiegate l’una sull’altra,
ma era il tocco morbido sul capo a farla sorridere nostalgica.
Dita ferrose ma
gentili si immergevano tra i suoi capelli che con gli anni avevano
raggiunto i polpacci, li aveva fatti crescere, in realtà,
perché Loki amava immergervi il viso per soffocare
il dolore e la solitudine, la paura che dopo tutti quegli anni, non era
riuscita ancora a debellare.
Paura di perdere.
Lei, tutto.
- Ha fatto male?
– bisbigliò sua madre contro l’orecchio
destro, debole ma apprensiva, sfilando un artiglio per seguire la linea
sinuosa degli artigli che le segnavano la gola.
Aveva fatto male.
Faceva sempre male.
Non lo disse
però, non per mostrarsi stupidamente orgogliosa, ma
perché era noto a lei, come a Loki, che ogni ferita inferta
sul suo corpo sarebbe stata molto più dolorosa di
quella di un comune essere umano, o di un dio.
Un dolore che nessuno,
per quanto vi avesse provato, sarebbe mai riuscito a capire.
Perché non
c’era metro di giudizio per lei, non termini di paragone, non
possibilità di comparazione.
Lei era unica, e sola,
nella sua rarità, e non c’era nulla di
più triste che essere gli unici di qualcosa.
Una dinasta.
Una famiglia.
Una stirpe.
Se le era create
però, tutte le cose che le mancavano.
Aveva intessuto
legami, stretto amicizie, costruito amori, e, per natura delle cose,
anche nemici.
C’era stato
Yehouda, e H’ava, periti per mano di Loki.
E Thor, Odino, i suoi
figli. Tutti, i suoi figli.
Quelli che per
capriccio, per follia, per senso di abbandono Loki aveva ucciso,
sterminato, nella speranza di ridurre la circonferenza di quel buco al
cuore che prima di lei, prima dell’amore, aveva cercato di
riempire con qualcosa.
Affetto elemosinato.
Attenzione richiesta,
desiderata, obbligata.
Nulla però
era servito, non a renderlo più sicuro e meno solo, non a
curare il suo male d’amore.
Ci aveva provato anche
lei, a dargli conforto, a smorzare quell’innaturale paura, ma
sua madre le aveva confessato che era nella sua natura temere di
perdere.
Il trono, il potere,
lei.
Loki era stato
destinato a perdere ogni cosa, l’ aveva perduto alla nascita
quando era stato abbandonato da chi avrebbe dovuto proteggerlo e
amarlo, avrebbe temuto di perdere fino alla morte.
E neanche lei, per
quanto caparbia, per quanto ansiosa poteva nulla contro quella paura.
Ma ora
l’aria era morbida attorno a lei, e calda, intiepidita dal
respiro di sua madre che continuava a cullarla lì dove tutto
si espandeva, il mondo si sformava, ed era circondata da luce.
Morbida e calda luce.
La sua, luce.
Quella per la quale
era stata catturata e torturata, la sua condanna, la sua
essenza, la fonte d’energia più potente
dell’universo incanalata in un petto capace anche di
trasalire per la paura e l’orrore.
Con gli anni
però, l’iniziale paura di se stessa, di
ciò che era, aveva lasciato posto alla curiosità,
alla brama di sapere cosa portasse tante creature a bramarla, cosa
potesse spingere gli uomini a uccidere, pur di avere quel potere.
E la risposta
l’aveva trovata, anche se malincuore.
Invincibile.
Ogni creatura amava
l’idea di sapersi superiori ad altri,
più forti, più potenti, persino Loki
aveva peccato di superbia, di arroganza, persino lui aveva bramato
ciò che lei avrebbe portato.
Potere. Tanto, troppo
potere.
Più di
quello posseduto da un dio, più di quello di una
creatura soprannaturale dai poteri illimitati.
Perché il
confine tra quello che si potesse o non potesse fare, con lei
non esisteva.
Era infinita.
Lo era la sua anima
che, se chiudeva gli occhi e rilassava la mente, mutava in un vuoto
denso di pulviscoli di luce simili a sbuffi di polvere, estesa e tanto
vasta da non poterne trovare il confine con lo sguardo, per quanto vi
avesse provato.
Un’enormità
che però aveva portato con sé anche la solitudine
e l’amarezza.
Aveva accettato
però la profondità di quel
potere, la potenzialità delle sue capacità.
Si era accettata, alla
fine, come avrebbe voluto che Loki facesse a sua volta.
In quanto Re, in
quanto dio, in quando Gigante di Ghiaccio.
- Non angustiarti
bambina, non ora, non quando c’è bisogno che tu
sia forte per ciò che verrà.
Il gelo che la
investì le intorpidì i muscoli, ma
riuscì comunque a tornare seduta per guardare
Semjace in viso e cercare la risposta a quanto detto, a
ciò che ora, nelle sue orecchie, con il canto degli spiriti
a cullare il suo riposo, pareva la promessa di un
nuovo dolore, nuove morti, nuova distruzione.
- Cosa intendete madre?
Il silenzio le venne
in risposta, freddo e ingiusto, ma fu breve quanto il battito
che si trovò a perdere nel vedere gli steli sui
quali era distesa rigettarle in viso uno schizzo di rosso porpora, una
tonalità che secoli orsono aveva macchiato le sue mani, un
colore dal quale aveva faticato a ripulire lei e Loki.
Ma quella volta non
c’erano lame ad aprire ferite e a ripulirsi su di lei,
perché era il cielo a tingerle i palmi
schiusi di quel rosso scarlatto.
Il cielo verso il
quale si trovò a volgere le palpebre sgranate, la voce
incastrata in quella gola che sentì bruciare per il bisogno
di urlare il nome di Loki, di sua madre, degli spiriti, per ricercare
la risposta a quello spettacolo orribile.
Perchè
c’erano nuvole di fumo nero a vorticarle sul capo,
e il fischio del vento che sentì sibilare alle
spalle assieme al grido di Sunniva.
Ma ebbe tempo solo di
leggere l’orrore negli occhi della creatura, il suo terrore,
l’angoscia che le segnava il viso prima di
cogliere il lampo perlaceo saettato nelle iridi
rossastre della Gigante, metallico come una freccia scoccatale
contro, grigio
come i petali d’acqua curvatisi come lei sotto la
forza devastante dell’onda d’urto.
- Min dame!
°°°
La pelle tenera del
polso si ritirò con un crepitio sinistro quando la miscela
corrosiva vi entrò in contatto, una reazione raccapricciante
per la quale Loki si trovò però a tendere un
sorriso storto prima di richiudere la lastra di vetro e aspettare che
l’arto smettesse di agitarsi per il dolore, così
da riprendere l’esperimento.
Analizzare le forme di
vita inferiori era sempre stato uno dei mille espedienti con i quali
amava ingannare l’eterno trascorrere tempo, e torturarli, una
volta classificati la loro origine, il loro possibile utilizzo.
Lo allietava sapere di
essere il decisore della vita altrui, delle loro sofferenze, dolori,
angosce, una sensazione di onnipotenza che zittiva la voce insistente
della sua follia, quel desiderio di distruzione e morte che lo rendeva
sordo ad ogni preghiera, voce, suono all’infuori di quel
profondo e insaziabile brontolio.
Perché
aveva fame di morte, di dolore, non avrebbe mai smesso di averne, non
lui, non chi sazio mai sarebbe stato di vita, di calore, di
amore.
E per quanto
ne avesse ricevuto, per quanto affetto e devozione Astrid gli avesse
riservato, ci sarebbe sempre stata una piccola parte di lui che avrebbe
continuato a ricercare la morte, quella che lui stesso aveva portato
alla sua stessa famiglia, quella che mai avrebbe smesso di affiancarlo
lungo il suo cammino.
Un’ ombra
che da bambino lo aveva atteso appena girato
l’angolo, o guardato sotto il letto, o fissato nello specchio
per trovare la somiglianza tra lui e Thor.
Ma era una
macchia.
Una chiazza nera che,
per quanto si fosse affannato a sfregare, a ripulire, avrebbe
continuato a segnare il suo passaggio, a ricordargli chi era, dove
sarebbe dovuto essere.
Non nell’oro
scintillante di Asgard e della luce riflessa sull’armatura di
Thor, di suo padre, ma in uno sfondo monocromatico, asettico e
silenzioso come una camera abbandonata al degrado.
Il picchiettare
isterico della mano all’interno della teca lo
riportò in sé, in una realtà
nella quale era il Re di qualcosa, lì
dove ci sarebbe stato qualcuno ad aspettarlo in fondo a
quella stanza buia, non un padre deluso, non un fratello amareggiato,
non una madre sofferente, ma un amore.
Un amore da poter
chiamare e dal quale potersi aspettare di ricevere conforto con un
abbraccio, un sorriso, quello che gli tese l’angolo destro
della bocca poco prima di far scattare la mascella nel
captare lo schianto alle sue spalle, una volta tornato a percepire il
mondo circostante.
Quando il tonfo
seguì la caduta del Gigante al suolo Loki si decise a metter
via il suo esperimento per osservare con fastidio la creatura riversa a
terra, il capo tanto schiacciato al pavimento da aver generato una
piccola conca sotto il suo cranio inumano, una cavità nella
quale la creatura non osò fiatare, stringendo la mandibola
per sopperire al dolore.
- Spero che questa tua
irruzione valga la tua insubordinazione – lo riprese
piccato, serrando la presa attorno al suo scettro nel
cogliere il lieve irrigidimento della schiena del mostro.
Orgogliosi.
Per quanto gli umani
peccassero di superbia, non c’era creatura al mondo che fosse
orgogliosa e stupidamente arrogante come i Giganti di Ghiaccio, esseri mastodontici, dalla
forza inumana e dall’intelletto sottile e acuto, creature con
un enorme potenziale se non fosse stato per la poca
furbizia e l’eccessiva arroganza.
Perché
persino un cane avrebbe ritirato la coda e serrato le
mascelle nel riconoscere la mano di chi puniva l’insolenza.
Una lezione
che i suoi sudditi, a giudicare dal ringhio gorgogliante
nella gola del gigante, non avevano ancora imparato.
- Si Mester.
- Ebbene? –
scattò cattivo, seguendo con la coda dell’occhio
l’ansimare dell’arto mozzato con noia.
Tese il palmo,
così da poter flettere il polso e tranciare di
netto la testa del Gigante non appena lo avesse informato del motivo
della sua impudenza.
Un motivo
sciocco, indegno della sua attenzione, del suo interesse,
perché non c’era nulla da temere, non per il
mietitore di vite, il distruttore di mondi, non per il Re dei Giganti
di Ghiaccio.
Gli diede le spalle
ancor prima di udire la risposta, consapevole che qualunque cosa fosse
uscita dalla bocca del servo, non avrebbe comunque potuto richiedere da
parte sua più di un cenno annoiato del capo.
Eppure
riuscì a scatenare in lui qualcosa di ben più
feroce di un guizzo isterico del viso, qualcosa di ben
più umano di un lieve assenso.
Perché ebbe
terrore, e angoscia.
Non per sé,
non per il grido d’isteria che la sua anima
lanciò, ma per quel cuore raggrinzito che
sentì singhiozzare disperato nell’udire
l’urlo fuori le mura
L’urlo con
il quale, una volta, l’aveva perduta.
Il grido di chi mai il
mondo avrebbe smesso di portargli via.
°°°
Grida.
Vagiti.
Voci sconnesse e rese
tremanti dal panico.
Non c’era
nulla che le risultasse sconosciuto.
Nulla che non avesse
già visto, per il quale non avesse patito l’ansia
nel petto e la paura nel cuore, ma era rabbia quella che le graffiava
la voce, rabbia di vedere i Giganti proteggere con le loro moli la
propria progenie, rabbia di sapere la ragione di
quell’attacco, rabbia per una caccia all’uomo che
non avrebbe avuto fine, fintanto che lei fosse esistita.
Un lampo perlaceo e il
fischio del vento alla sua destra la avvisarono del secondo tentativo
dei Giganti di contrattaccare mentre Sunniva e le donne, protette dalla
fila di uomini, scortavano i piccoli al riparo con
i loro ringhi a cadenzare i passi nella fuga.
Ma era energia quella
che proteggeva l’essere dal corpo di metallo piovuto dal
cielo, pura e semplice energia dai riverberi scarlatti che riluceva
dell’entità astratta presente nell’aria,
una presenza che pareva essere ovunque.
Alle sue spalle, sopra
la sua testa, davanti a lei.
Occhi che guardavano
tutto e niente ma che su di lei parevano catalizzarsi quando osava
alzare un braccio per difendere i Giganti da una pioggia di schegge e
lampi metallici.
E
c’era qualcosa di orribilmente familiare nel modo in cui
quella creatura rigettava i suoi attacchi, una capacità di
repulsione che lei stessa aveva potuto saggiare su chi provava a
toccarla senza il suo consenso.
Capacità
che solo una quantità di energia simile o pari alla sua
avrebbe potuto impedirle di raggiungere e distruggere
l’essere dal corpo metallico.
Eppure, non
c’era energia al mondo simile alla sua, lo
ricordò a se stessa con una smorfia contrita prima di alzare
un braccio nel tentativo di difendersi dalla pioggia di
calcinacci esplosa a seguito dell’ennesimo cratere apertosi
nel terreno.
Detriti che
però non sentì cozzare contro
la barriera di energia issata a sua difesa, ma che invece
vide scivolare dall’arto dalle vene verdi pulsanti forza
issato in sua difesa.
Il braccio che il
Gigante di Ghiaccio abbassò assieme allo sguardo
rosso con un ringhio sommesso.
Knut.
Lo riconobbe per la
cicatrice obliqua che gli segnava l’occhio sinistro, un
taglio profondo che feriva il viso squadrato della creatura come
l’artiglio feroce di una belva sanguinaria, ma non era stato
un mostro, in realtà, a lasciargli quel segno.
Era stato Loki, il
loro Re, ad aver scavato nella carne tenera degli
zigomi del Gigante, così da marchiarlo come suo
schiavo e mostrare chi d’ora in avanti li
avrebbe comandati.
Il più
forte.
- Dovete tornare al
castello – ruggì funesto Knut una volta
agguantatala per un braccio, rafforzando la presa attorno
all’arto che prese a tirare con forza, ritrovandosi
però a tendere le labbra gelate nel non riuscire a muoverla
di un millimetro.
Gli sfuggì
un ringhio di gola nell’incrociare lo sguardo duro della
donna, occhi che lui per primo aveva rifuggito per mostrare la propria
contrarietà nell’accettarla come sua Regina e
signora, ma era stato costretto a serbarle rispetto e devozione,
perché era stato battuto dal Re, ed ora che non era lui il
più forte, non aveva più il diritto di dettar
legge o di decidere chi lasciar vivere o morire.
E se vi era qualcosa
per la quale il re avrebbe potuto ucciderli tutti, era lei.
Perchè
avrebbe mozzato loro le teste, tranciato gli arti e cavato gli occhi se
lei fosse rimasta ferita, se loro avessero lasciato che ciò
accadesse.
- Dovete tornare. Ora.
- No.
Un guizzo isterico
della mascella gli costò un’occhiata caustica di
Astrid, i talloni affondati nel terreno sabbioso e la veste arricciata
sulle gambe flesse per essere pronta a scattare, in caso di ribellione.
Quella che
sempre le avrebbero mostrato, perché compagna del
loro Re, un re temuto e mal visto per la propria crudeltà
verso il suo popolo ma non verso di lei, così piccola e
fragile da far loro ribrezzo.
Perchè
i Giganti di ghiaccio erano mostri che della loro levatura fisica ne
avevano fatto un vanto, un simbolo d’onore, di rispetto, e
avere creature filiformi come loro signori era una ferita
d’orgoglio che mai Knut sarebbe riuscito a sanare.
- Il Mester non-
- Il Mester
capirà – lo riprese severa, allontanando la mano
sproporzionata del mostro per tornare a volgere la sua attenzione oltre
le file alleate, lì dove lo scintillare metallico li
avvisava dell’arrivo oramai imminente della creatura.
Intravide i profili
asimmetrici dei giganti, i loro passi scoordinati, i colpi feroci
schiantati su ciò che non potevano raggiungere mentre la
polvere di ghiaccio rendeva la visuale incerta, ma c’erano le
voci di Yggdrasill a bisbigliarle nell’orecchio dove
guardare, quando indietreggiare, chi richiamare all’ordine.
Un mormorio che si
tramutò in un grido quando le sovvenne
all’orecchio un suono debole, fragile e inudibile ad orecchio
mortale, ma un suono tanto acuto
e doloroso da farla rabbrividire per
l’orrore.
Perché
più dei ringhi di scontento dei Giganti, più di
bisbigli concitati degli spiriti e del respiro ansante del suo
mostro, vi era un unico suono capace di strapparle
il cuore dal petto e strizzarlo fino a farla piangere per il dolore.
Quello per il quale si
era trovata in ginocchio, nel buio di una stanza, con le braccia della
sua madre umana strette attorno al suo corpo scosso dai singhiozzi e
dalla disperazione.
L’unico
suono che avesse mai voluto sentire accanto al suo
letto oltre al respiro di Loki, quello che non avrebbe mai avuto modo
di udire, consolare, zittire nel calore di un abbraccio.
Eppure era
lì, a pochi metri da lei, inghiottito dal polverone nel
quale nessuno pareva scorgere la figura piccola e abbandonata in terra
come un vecchio pupazzo di pezza.
Ma era un
bambino, quello che vagiva disperato, figlio di
Jötunheimr, figlio dei Giganti di Ghiaccio, e indirettamente,
anche figlio suo.
Quando Knut la vide
muovere un passo schiantò il braccio poco lontano dalla
testa della donna, per darle l’ultimo avviso, ma quello che
le sue dita callose strinsero fu fuoco, e dolore, il suo,
quando fu costretto a ritirare la mano ustionata con un ringhio prima
di vederla saettare tra loro come una scheggia impazzita,
sparendo al di là del muro di fumo e polvere.
La sabbia scivolava
sotto i suoi piedi nudi come acqua fresca, quasi a spianarle la strada
e raggiungere ciò che il cuore le diceva di
proteggere, ciò la terra la incitava a raggiungere
prima dello schianto.
L’ennesimo
vagito disperato la fece scartare a destra,
portandola infine a rallentare l’andatura
mentre l’energia sfrigolava dal suo corpo per respingere ogni
forma di minaccia, quella che Astrid sentì
frusciarle sopra il capo prima di intravedere nella foschia la schiena
ricurva del bambino, e benchè la piccola creatura la
raddoppiasse in altezza e in larghezza, lo cinse con un braccio non
appena fu abbastanza vicina da toccarlo.
Lo sentì
sussultare ferocemente nel percepire il suo tocco tiepido, ma i bambini
di ghiaccio, a dispetto degli adulti, avevano imparato a riconoscere e
ad apprezzare il suo calore corporeo, perciò, quando il
piccolo le si raggomitolò lungo il fianco, afferrandole le
spalle con le braccia tozze e gelate in cerca di protezione,
Astrid non potè che schiudere un sorriso affettuoso prima di
udire il fischio davanti a sé e caricare il primo colpo.
Un lampo di luce
saettò nel cielo come la coda sinuosa di un serpente,
frantumando il polverone in nuvole di ghiaccio che Sunniva
respirò affannosamente, imprimendo maggior forza nelle gambe
nel cogliere il profilo distorto della barriera che la sua signora
aveva appena sorpassato, ma il fruscio sinistro alla sua
destra le causò un vuoto allo stomaco che la fece inchiodare
con forza nel manto sabbioso.
Persino Knut, ancora
irritato per l’onta subita, non potè che
strizzare le palpebre istericamente nel patire la presenza
soffocante al suo fianco, il profilo aguzzo di un volto che lui per
primo temeva di incrociare sul suo cammino.
- Pagherete per la
vostra incompetenza – gli sibilò di fianco Loki
non appena sentì lo sguardo rosso dei Giganti di Ghiaccio
scostarsi dalla barriera d’energia per puntarsi
sulla sua altera figura, ritraendosi a spalle
ricurve nel vederlo compiere il primo passo nella loro
direzione.
- Si, Mester
– gorgogliò Knut, le labbra secche per la paura,
stringendo le dita carbonizzate con una smorfia.
Un sorriso affilato
tagliò il volto di Loki come una lama intinta nel sangue,
ma fu la furia ad arricciare gli angoli della sua bocca verso
il basso, la follia che gli fagocitò il cuore
nell’intravedere la figura minuta di Astrid inghiottita nella
nebbia.
Raggiungerla
costò meno di una manciata di secondi, ma quando
l’ebbe davanti, a pochi metri da sé, non
potè che rafforzare la presa attorno al proprio
scettro nel cogliere la sofferenza intrisa nei lineamenti della
compagna, ombreggiature che una creatura dal corpo di metallo fissava
con freddo distacco dall’alto della sua posizione
sopraelevata.
Increspature per le
quali Loki si ritrovò a masticare bile e
saliva mentre l’odio gli corrodeva il fiato e il sangue gli
pulsava nelle vene e urlava di rabbia.
Perché il
viso di Astrid era la sua tela bianca e priva di macchie, il
quadro dove non avrebbe trovato che sorrisi gentili e sguardi
amorevoli e dove persino lui sarebbe apparso migliore, giusto.
Ma era paura quella
che le intaccava lo sguardo di luce, e stanchezza, afflizione per
quelle parole che la creatura sciorinava senza batter ciglio,
indifferente al dolore delle sue pupille, e allo spasmo di qual cuore
che Loki sentì ansimargli nel petto prima di rafforzare la
presa sul proprio scettro.
Quando la lancia gli
grattò la gola con ferocia Norrin tese il collo e
la schiena di riflesso, ritraendosi dal corpo raggomitolato sotto di
lui per dirottare la sua attenzione sulla creatura che brandiva
l’arma contro di lui.
Era alto, con il viso
sfigurato e l’iride chiara cristallizzata in una patina
d’odio che se avesse avuto forma, avrebbe potuto
ferirlo come la lama che Loki gli spinse contro la giugulare
con forza, frammentando l’epidermide di metallo che Astrid
vide crepitare assieme all’imperturbabilità della
creatura, quando lo vide riportare l’attenzione su di lei.
E fu nel risentire su
di sé i suoi occhi smorti che distolse velocemente lo
sguardo, nascondendo sotto le ciglia l’orrore di quel nome
che da anni, oramai, aveva smesso di tormentarla.
Un nome che altri
avevano scelto per lei, il richiamo ad un passato che ora ridiveniva
un' ombra concreta, e non più un fantasma inconsistente dal
quale sapeva di non poter ricevere più dolore, altra
sofferenza.
Quella che
bagnò la lingua di Loki di magia prima di far patire alla
creatura uno schizzo di sangue e lo schianto dello scettro ai
suoi piedi.
Il bambino che lei
stringeva si trovò a piangere nell’udire il boato
del colpo, ma quando la nebbia si dissolse, Astrid non potè
che guardare la scia cosmica appena saettata nel cielo con sofferenza.
Perché
l’aveva trovata, la sua risposta.
Il responso alle
parole di sua madre, la risposta degli artigli che le segnavano la gola
e che ore pulsavano del suo dolore mentre la scia di luce si proiettava
verso il pianeta successivo a quello.
Un mondo che un tempo
l’aveva vista divenire figlia, sorella, e amica di creature
destinate, per uno strano scherzo del fato, ad essere vittima
dell’arroganza divina ed ora di quella di una creatura dalle
capacità similari alle sue.
Quando Sunniva
riuscì ad infrangere la fila di Giganti potè
intravedere il profilo ingobbito della sua signora, abbandonata al
suolo con una stanchezza che pareva persino smorzare il baluginio delle
sue iridi, e alla sua destra, quello ricurvo del loro Re,
chino su di lei come il più semplice degli umani, la mano
piena del viso abbandonato docilmente nel suo palmo.
Perché era
stanca, Astrid.
Stanca di
ciò che non avrebbe mai smesso di gettare ombre sul suo
futuro, su Loki, su se stessa.
L’ombra
della sua grandezza e della sua disfatta ora che il destino tornava
crudele a chiedere il pagamento dei loro errori, delle morti che avevano
generato, delle vite che invece, avevano salvato,
dell’equilibrio che entrambi avevano spezzato.
Perché fu
Yggdrasill a bisbigliare il segreto taciuto in fondo alla sua gola, il
mormorio concitato che Loki sentì strisciare sotto
pelle, lì dove ogni tendine, nervo, e stilla di
sangue si coagulò nei suoi occhi.
Iridi rosse come
quelli dei Giganti di Ghiaccio, pupille dilatate all’interno
delle quali Astrid non potè che vedere il riflesso di se
stessa e chiudere gli occhi in cerca di silenzio.
Ma non ce ne sarebbe
stato più, non nella sua testa, non contro il petto di Loki,
non nell’abbraccio di sua madre.
Perché ci
sarebbe stata quella voce, a ricordarle il suo passato, la sua essenza,
una voce metallica che, nei suoi sogni, avrebbe ripetuto il nome che
forse mai, il mondo, avrebbe mai del tutto dimenticato.
Tesseract.
Continua…
Come avevo promesso, ecco la
continuazione della quale avevo accennato qualcosa.
Premetto che la storia
sarà di massimo 11/12 capitoli, e l'aggiornamento
cadrà ogni sabato. Potrà inoltre accadere che gli
aggiornamenti avvengano più volte nel corso della settimana
visto che la stesura sta andando molto velocemente, quindi
aspettatevi delle sorprese!
Ovviamente
ringrazio chi è venuto a dare un'occhiata e chi dalla storia
precedente ha deciso di buttarsi in una nuova avventura di Astrid.
Grazie di cuore per la
lettura, al prossimo aggiornamento
Gold Eyes
|
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Capitolo 2 *** 2 - Pearls Of Light ***
Capitolo 2
“After the cold
darkness,
in
the heart of the forest.
Where
birds are singing,
for
the new born sun “
[…]
“In
the womb of the leaves,
on
the branches of the trees,
lies
the treasure of the morning,
the
pearls of light. “
(Pearls
of light – Within temptation)
Tony Stark non era mai
stato un uomo di facile comprensione.
Non lo erano mai
stati i suoi pensieri da scienziato folle e
megalomane, non i suoi reali desideri che, il più
delle volte, finivano con collidere con il generale buon
senso, figurarsi il motivo di sue determinate
azioni, come l’ immolarsi per il bene
dell’umanità e subito dopo proporre una buona cena
a base di shawarna.
Ma
era il suo cuore, in realtà, ad essere il
più grande enigma dell’universo, un cubo di
rubik che Pepper “Potts” in Stark aveva
imparato a risolvere con l’unica arma a
disposizione del mondo femminile.
L’ignoranza.
Quella che ogni
moglie sana di mente sapeva fingere per non scalfire
l’ orgoglio di chi si credeva realmente
più furbo e scaltro della popolazione mondiale, ma
soprattutto, della propria consorte, e Tony Strak
aveva la frequente tendenza a vantarsi della propria fama di uomo
imperscrutabile e di ghiaccio.
Ma era semplicemente
egocentrico e insofferente alle critiche, peculiarità che lo
avevano reso ingestibile e che, il più delle
volte, lo rendevano l'incubo di ogni anima pia che aveva
davvero creduto di poter trovare qualcosa di più profondo,
oltre alla sua vanità.
Non che
il Dottor Barner non avesse tentato di raccapezzarsi sul
perchè delle schermaglie dell’uomo
d’acciaio al quale oramai aveva fatto il callo, ma
Pepper trovava estremamente spossante lo sguardo stizzito e
le occhiate oblique del marito, badilate di sensi di colpa
tanto angoscianti da far tremare i polsi persino ad una
congrega di suore nel sentire i borbottii maligni
che lo scienziato sciorinava tra sé e
sé, minacciando il mondo intero, uno stupido mondo a suo
parere, sulle conseguenze che sarebbero seguite per
aver ferito il suo amor proprio.
Tanto amor proprio,
una montagna dalla quale Pepper era rotolata giù
fin troppe volte per sfidare la fortuna e solleticare la
suscettibilità bambinesca del marito,
perché bambino a volte Tony diventava davvero,
soprattutto se preso alla sprovvista.
Quella volta
però lo furono entrambi quando il bip acuto
dell’allarme li costrinse a schiudere gli occhi assonnati e
guardarsi vicendevolmente con nervosismo.
- Vai tu questa
volta – brontolò la donna con voce
impastata, affondando il naso nel cuscino mentre Tony si trovava ad
alzare un fine sopracciglio nel seguire il braccio
teso della compagna fuori dal letto.
- Perché
dovrei andare io? Sarà uno degli acquirenti della ditta, e
sei tu il boss in casa tesoro, perciò alza quelle tue belle
chiappette pallide e fa il tuo lavoro.
Il calcio nello stinco
fu la risposta che lo scienziato si dovette far bastare prima di
brontolare di malumore e fissare incattivito la parete color crema
della stanza.
- Jarvis!
L’urlo non
fu una buona idea a giudicare dal colpo al fianco che Pepper gli
rifilò con un sibilo, ma Tony non era particolarmente fine
appena sveglio, men che meno alle cinque del mattino.
- Jar-
- Sono qui signore,
non c’è bisogno di urlare a quel modo e disturbare
la signora – lo riprese con garbo l’intelligenza
artificiale, guadagnatosi un pugno alzato da parte della
“signora” che lo scienziato fissò
trucemente prima di darle le spalle e ripetere in falsetto il
rimprovero di Jarvis prima di trovarsi sul pavimento gelato a gambe
all’aria.
- Stupida moglie.
- Ti ho sentito
– gli latrò dietro Pepper con rabbia, scostando il
viso dal cuscino nel quale avrebbe voluto soffocare anche lui.
- Credi che non lo
avessi capito da me ? – berciò di rimando,
issandosi a sedere per scoccarle un’occhiata al vetriolo
– non credi che l’abbia detto ad alta voce
proprio per farmi udire da te tesoro?
- Signore, mi dispiace
interromperla, ma riguardo il localizzatore -
- Quale localizzatore
– saltò su quando la parte più lucida
della sua testa captò una parola che portava sempre guai, la
fronte increspata per la confusione – io non ho attivato
nessuno localizzatore, io non …tu! Tu hai toccato
qualcosa che non dovevi non è vero? Tu e la tua
stupida fissazione per quel ridicolo feng shu-
Un cuscino
affogò l’ultimo insulto che Tony Stark si
trovò a sputare assieme alla federa, tornando a fissare con
astio la donna in vestaglia che sembrava particolarmente
propensa a strozzarlo a mani nude.
- Io non ho toccato un
bel niente – si difese Pepper con verve, gonfiando il petto e
strizzando incredula le palpebre nel notare lo sguardo compiaciuto con
il quale il marito prese a fissarle il decolté prima di
ritrovarsi ancora col sedere all’aria.
- Psicopatica di una
segretaria!
- Vedi che ti ho
sentito!
- Lo so!
- Il localizzatore
della signorina Astrid, signore, ha captato un segnale pochi minuti fa
nei pressi di Buenos Aires.
Tony Stark non era
tipo da sorridere, non un era marito romantico, un
padre affettuoso o sdolcinato, neanche con una moglie
schizzinosa a carico e un figlio scapestrato ad assottigliare
mensilmente il suo conto in banca, ma amava a modo suo, e strappargli
quello sguardo lucido era più di quanto ci si
potesse aspettare da lui, come reazione.
Uno sfavillio che
Pepper aveva avuto modo di cogliere solo quando il marito
aveva stretto tra le braccia il loro primogenito, una reazione che
però rendeva persino lei un po’ più
emotiva e sensibile al suono di quel nome.
Il nome della sua
seconda figlia.
Una figlia adottiva,
certo, ed aliena, ma sua figlia, comunque.
L’unica
creatura capace di far regredire due dei cervelli più
sviluppati del pianeta terra ad un ammasso informe
di gelatina molle, e molliccio lo diveniva anche
l’autocontrollo del quale Tony Stark amava vantarsi sempre.
Ma non ce ne fu
neanche un briciolo, non una minima stilla di amor proprio quando lo
scienziato, in barba al suo decantato sangue freddo, si
ritrovò a sorridere come un beota nel correre verso la
cucina.
Pepper non
lo seguì subito, si concesse un paio di minuti di
silenzio, lo sguardo fisso nel vuoto e la mente proiettata ad un
ricordo che, per quanto lontano, non avrebbe smesso di strizzarle il
cuore in una morsa dolorosa ad ogni visita di Astrid.
Un’afflizione
che però non aveva mai avuto cuore di condividere con
nessuno, perché madri e figlie avevano i loro
segreti, e quelli tra lei ed Astrid erano fin troppo fragili da poter
essere sbandierati ai quattro venti.
Non che Tony fosse
manchevole di fiducia, ma c’erano cose che nessuno, se non
una donna, poteva capire.
Ed anche se aliena,
Astrid lo era, e in quanto donna, sebbene immortale, era
soggetta alle sventure alle quali il mondo femminile poteva incappare.
Ma quella sofferta da
sua figlia era stata crudele, una menomazione che persino Pepper, in
quanto madre, in quanto essere umano, non aveva avuto modo di
affrontare con l’impersonalità richiesta.
Non se era la sua
bambina a soffrire ciò che mai nessuna madre avrebbe
augurato alla propria prole.
L’urlo
isterico che irruppe d’improvviso nella stanza la
strappò a pensieri che era meglio stipare in fondo al cuore,
perché Tony stava urlando, e da che ne avesse memoria,
Pepper conosceva un'unica persona in grado di generare
nell’uomo di metallo un grido di quella portata, un misto di
orrore e sorpresa che la donna ritrovò sul viso del marito,
una volta entrata in cucina.
- Ciao tesoro.
Un viso squadrato.
Occhi grandi ed
espressivi di un tenue cioccolato.
E un sorriso sornione
fin troppo simile a quello del padre per poter metter bocca
sulla presunta illegittimità del ragazzo.
- Ciao mamma.
- Non ignorarmi! E tu,
madre degenere, non sorridere a quel modo a questa progenie infernale!
– sbottò Tony Stark nel seguire lo scambio di
sguardi tra la consorte e il suo primogenito, il primogenito che
sarebbe dovuto essere alla conferenza di Berlino, non nella
sua cucina, e non con quel sorriso.
- Io non ti sto
ignorando papà – se ne uscì
l’adolescente con voce annoiata, scoccando al genitore uno
sguardo ironico che lo scienziato rigettò indietro con un
ringhio – sto solo salutando educatamente la mamma.
- Educatamente un
corno! Tu non dovresti essere qui! Non nella mia maledetta
cucina, non con sul mio maledetto sgabello e – gli
sfuggì un ansito incredulo e un tic nervoso
all’occhio destro prima che il viso gli divenisse rosso per
la stizza – e non con la mia maledettissima tazza preferita
in mano!
Marcus Jay Stark si
abbandonò ad una risata di gola nel patire
l’isteria del padre, tornando poco dopo a sorseggiare
elegantemente il suo caffè mentre lo scienziato riprendeva
fiato e tornava a fulminarlo con lo sguardo.
- Non avevi
appuntamento con quella Mar-Mer-Mar- qualcosa? -
brontolò caustico.
- Marjorey
papà – lo corresse il ragazzo con voce annoiata.
- Quello che
è! Ciò che voglio dire è che non
dovresti essere qui, non ora che-
- Astrid sta
tornando? È questo che volevi dire
papà?
Il gelo che
calò nella stanza fu netto, pesante e surreale, come lo
strabuzzar d’occhi che Tony Stark coprì con una
mano nel patetico tentativo di ricordare quel piccolo batuffolo di
carne e braccine paffute che Marcus un tempo era stato.
Una piccola cosina
rosa, innocente, dolce, e affettuosa, con di lui e
sopratutto con Astrid.
Si, Astrid.
La sua Astrid.
La piccola aliena dal
sorriso gentile e dallo sguardo di stelle per la quale lui e
Barner si battibeccavano ogni anniversario dell' associazione benefica
redatta a suo nome.
Una lotta che
perdurava da anni, che mai forse sarebbe finita fino a quando uno dei
due non avesse smesso di arrogarsi la sua paternità, ma ora
non era la reale figura genitoriale di Astrid a preoccuparlo.
Era Marcus.
Il suo primogenito.
Il suo erede, la sua
condanna e salvezza.
Quel tenero involtino
di carne che però era cresciuto, distruggendo la sua figura
tenera e innocente qual’era stata.
Un bambino che aveva
smesso di abbracciarlo ma che, in compenso, pareva aver
imparato ad imitare i suoi sorrisi scanzonati e irritanti, e
sfortunatamente, il
piccolo uomo che aveva imparato a chiamare Astrid sorella, poi cugina,
e poi, con l’età adulta, futura moglie.
E non c’era
nulla di più agghiacciante che sapere il perché
della presenza ingombrante di Marcus nella sua cucina, alle cinque del
mattino, senza la sua nidiata di ammiratrici pettegole a tirar le
finestre con le loro risatine isteriche.
Perchè
era un uomo, quello che lo fissava con divertimento.
Un uomo capace di
intendere e di volere e, a giudicare dall’aria tronfia e
soddisfatta, di fare le scarpe al padre miliardario.
-È incesto!
Lo sai vero? Astrid è-
- Non è mia
sorella papà – precisò il ragazzo con
irritazione, scattando in piedi per fronteggiare lo sguardo truce del
padre – Astrid non è mia sorella, per quanto tu e
Bruce continuiate ad azzannarvi per riservarvi il titolo di suo
genitore.
- Ma io sono padre,
suo e tuo – lo rimbrottò Tony con rabbia
– e in quanto tale devi dare ascolto ai miei consigli.
- I tuoi non sono
consigli papà – tornò alla carica il
ragazzo, raggiungendolo in due falcate per guardarlo fisso negli occhi
– i tuoi sono ordini.
- Io non vedo la
differenza – gli sibilò ad un palmo dal naso
– ed ora, posa quella maledetta tazza e torna a Berlino.
- No!
- Invece si!
- E io dico
no! No e no!
Continuarono a darsi
addosso per un’altra manciata di minuti prima che Jarvis li
avvisasse dell’arrivo di una chiamata.
Una chiamata alle
cinque del mattino.
Bizzarro, ma non per
questo meno irritante.
E lo fu per Tony Stark
quando, dopo aver accordato a Jarvis la possibilità di
metterlo in videochiamata con lo scocciatore di turno si
trovò con la testa mozzata di Nick Fury a levitare sul piano
cottura della sua cucina.
- Buongiorno signor
Stark – lo salutò asciutto il capo dello
S.H.I.E.L.D., l’occhio vigile puntato sulla smorfia
imbronciata del multimiliardario.
- Buongiorno? Questo
è un buongiorno secondo lei? Mh? – si
ritrovò a strepitare lo scienziato, allargando le braccia
per mostrare la presenza del figlio al lato e la sua mise non propria
consona ad un uomo della sua levatura intellettuale.
Non che i suoi boxer
di Iron Man avessero turbato l’irreprensibile agente, ma non
migliorava la visione d’insieme che si poteva avere di Tony
Stark.
Non se il suddetto
miliardario era così egocentrico da indossare
l’intimo con la sua faccia stilizzata disegnata sopra.
Un particolare sul
quale Nick Fury sorvolò, preferendo rivolgere la sua
attenzione all’unica persona sana di mente in quella stanza.
- Buongiorno signora
Stark.
- Buongiorno a lei
Fury – lo ricambiò Pepper con garbo, stringendosi
nella sua vestaglia mentre il marito e il figlio tornavano ad
azzannarsi a suon di monosillabi – a cosa dobbiamo la
chiamata, se mi è permesso chiedere?
- Abbiamo motivo di
credere che la signorina Astrid abbia fatto ritorno sulla
terra pochi minuti fa. E che ora si trovi a Rio De Janeiro.
La lieve torsione del
collo con la quale Tony Stark si premurò di
palesare il suo ritrovato interesse convinse Nick Fury a riportare su
di lui uno sguardo pacato, così dissonante da quello arcigno
con il quale lo scienziato si riservò di fulminarlo.
- Con “avete
motivo” intendi che i tuoi hacker si sono
intrufolati nel mio sistema centrale per prendere controllo del mio
localizzatore, non è vero?
- No signor Stark
– negò Fury – non abbiamo bisogno dei
suoi localizzatori quando possiamo fare affidamento su una spia
satellitare ben più accurata e precisa.
- Barner –
latrò Tony con rabbia, snudando i denti e lasciando che
Marcus riprendesse fiato dalla sua stretta – quel traditore!
Ha captato le onde gamma e non mi ha avvisato!
- Precisamente signor
Stark, ed ora l’agente Hills lo sta accompagnando alle
favelas dove il dottore ha captato il segnale della signori-
- Jarvis!
- Si signore?
-
L’armatura, subito! – sbraitò
isterico Tony Stark, lanciando un’occhiata obliqua
al capo dello S.H.I.E.L.D.
- Credeva davvero di
imbrogliarmi? – lo attaccò feroce, raggiungendo la
finestra così da poter spiccare il volo una volta che
l’armatura lo avesse raggiunto – crede davvero che
non abbia capito che lei sta solo prendendo tempo?
Un fischio
coprì il verso sorpreso dell’ologramma, il sibilo
con il quale il braccio di metallo si arpionò al braccio
teso dello scienziato.
- So che lei tifa per
Barner.
Gambale, guanto,
collare.
- E so anche che
è stata l’Hills ad avvisarvi, ma non lo
lascerò vincere, perché c’è
una cosa che quell’idiota verde spesso dimentica –
e Tony si trovò a serrare le mascelle quando la luce
fluorescente dei comandi gli colorò il viso
d’azzurro.
- Che tra noi due, il
più veloce sarò sempre io.
°°°
La paura di morire era
una preoccupazione che, almeno una volta nella vita, giungeva
a turbare l’animo dell’essere umano.
Qualcosa di
così spaventoso, di così raccapricciante da
annientare il raziocinio e le speranze, un terrore
ben più angoscioso del pensiero di esser rimasti
soli al mondo, perché dalla solitudine si poteva sfuggire,
il più delle volte, la si poteva persino
ingannare, mascherare.
La morte no.
Perché
arrivava, e quando riusciva a raggiungerti, quando finalmente dimezzava
la distanza dal passo svelto con il quale si era cercato di
seminarla, non la si poteva scongiurare di aver un
po’ di tempo più, di aver ancora molte cose da
fare, creature da conoscere, bellezze da ammirare.
Arrivava e basta, ed
era triste, lei, lo trovava triste, anche se era il corso naturale
della vita, anche se era giusto, logico, normale,
un destino che però né a lei
né a Loki sarebbe mai toccato.
E a volte, nel
pensarci, Astrid non aveva saputo come reagire, come doversi sentire,
se triste o felice al pensiero.
L’immortalità
era qualcosa di agognato, di voluto, di desiderato, ciò per
il quale l’uomo avrebbe barattato la propria anima, ma
né lei né Loki avevano dovuto dar nulla in
cambio, in verità.
Non lui che lo
era per eredità divina, non lei che lo era
diventata per decisione del fato, qualcosa che non aveva mai
chiesto, né pensato.
Aveva tuttavia avuto
modo di provare la morte, una volta, anche se le era stata imposta.
Perché
l’aveva avuta quando non richiesta, era stata indotta
più volte, ma quando era giunta, quando anche lei,
nel voltarsi, si era sentita cadere nel vuoto, quando
aveva avuto l’occasione di essere come tutti gli
altri, di morire, come tutti gli altri, aveva avuto paura.
Paura di non sapere il
perché, il come, il dove stesse andando.
Paura del buio che
l’aveva inghiottita, del silenzio che l’aveva
turbata, del gelo che le aveva bloccato il corpo ma non il cervello,
sveglio e angosciato dalla consapevolezza di non poter far nulla.
Non muoversi, parlare,
o chiamare aiuto.
Aveva tentato di
richiamare l’attenzione di suo padre Bruce, di
Pepper, di chiunque, ma era stata un sibilo, non una richiesta di aiuto
quello che aveva sentito rimbalzare da una parte all’altra
dell’abisso nel quale era affondata, e aveva saggiato il silenzio, e il
vuoto, un profondo e annichilente vuoto che aveva
sentito nello stomaco, e nel cuore, una sensazione di annientamento
dalla quale, per quanto forte si fosse gridato, per quanto
veloce si fosse corso, nessuno sarebbe potuto sfuggire.
Nessuno.
Ma lei ce
l’aveva fatta, ad uscire da lì.
L’avevano
salvata, in verità, perché qualcuno
aveva sentito le sue urla, e l’aveva trovata in tutto quel
buio.
C’era stato
qualcuno ad afferrare la mano che aveva sempre tenuto tesa fuori
dall’acqua ghiacciata nella quale era affondata, nella quale
non aveva mai smesso di dimenarsi nella speranza di essere
salvata dalla solitudine, da quell’orribile silenzio nel
quale neanche i suoi gesti isterici e agitati facevano rumore.
Ma l’aveva
sentita attorno al suo polso, e l’aveva vista
tentare di farla risalire.
Una mano.
Grande, sporca di sangue, ma una mano, la sua mano.
Quella che stringeva
delicatamente per rendere Loki consapevole della sua presenza mentre,
piegata sulle ginocchia, rimirava l’incisione confusa delle
due lapidi di pietra scura.
Le toccò
ancora una volta, con gentilezza, seguendo la linea dolce delle lettere
scavate rozzamente mentre il volto burbero di Raul e il suo
braccio stretto attorno alla vita le ricordavano quanto
gentile quell’uomo fosse stato con lei.
Un essere umano capace
di guardare oltre il colore di pelle e di accettare quello che lei
aveva sempre voluto essere.
Una ragazza in cerca
d’amore.
Un desiderio semplice
il suo, ma la ragione della sua esistenza.
Lei che non era nata
per amore, come spesso Pepper le aveva spiegato, ma per saziare il
desiderio di sperimentare, di concepire qualcosa di grande, maestoso,
potente, ma insensibile.
Perché era
nata senza sentimenti, senza sapere cosa fosse la gioia, la paura, il
piacere, ma solo il silenzio della propria mente,
un’imperturbabilità per la quale si era scoperta
desiderosa di capire il perché di quella sensazione di
vuoto, di profondo silenzio.
Ed aveva scoperto il
perché di tante cose. Il perché la sua pelle
fosse così diversa, i suoi occhi così accesi, e
la sua essenza così vacua, come un disegno abbozzato ma mai
del tutto completato, uno schizzo che però lei era
riuscita a ricalcare, delineando i profili di ciò
che era riuscita a costruirsi da sola.
Una famiglia.
Una patria.
E un amore.
- Sono sicura che
sarebbero stati felici di vederti.
La voce giunse soffusa
e inquietante dal fondo del terreno spoglio, ma quando la vide
sobbalzare a quel modo Estela si trovò a nascondere un
sorriso nostalgico nel pensare che Astrid, per quanto tempo fosse
potuto passare, per quanto fiacca fosse divenuta la vista e roca la
voce, sarebbe stata sempre la sua
“scoperta”.
E di tempo ne era
passato tanto, per lei.
Perché ora
c’erano rughe a segnare la pelle scura del suo viso, e dolori
alle giunture oramai non così forti come un tempo, ma il
sorriso non era cambiato.
Sempre
aperto, gentile, e semplice.
Un sorriso che
Astrid ricambiò quasi subito, tornando in piedi e
lasciando scivolare dalla mantella i boccioli dei fiori che
aveva deposto sulle lapide dei genitori di Estela, un rito
che ad ogni sua visita sulla terra non mancava di ripetere.
Perché non
avrebbe mai smesso di ringraziare chi in lei aveva creduto, chi
l’aveva protetta, aiutata, e amata, nonostante tutto.
Ed Estela era stata la
sua maestra delle cose divertenti, la bambina verso la quale persino
Loki, per quanto il pensiero di essere debitore di un altro essere
vivente lo disgustasse, sapeva d’essere in debito.
Perché
senza di lei non sarebbe rientrato in possesso del suo scettro e del
cuore di Astrid.
Non avrebbe potuto
smaterializzarsi nella fucina.
Non avrebbe potuto
sconfiggere i Creatori.
Non avrebbe potuto
salvare Astrid, nè se stesso.
Raggiungere le due
figure costò all’umana ben
più di qualche breve pausa lungo il viale, ma ancor prima di
poter rafforzare la presa sul bastone da passeggio per evitare la
caduta ci fu una mano a sorreggerla, un palmo dal colore bizzarro e
fluorescente che vide allacciarsi morbidamente attorno al polso in una
presa ferrea ma delicata.
Fragile.
Estela lo era sempre
stata, lo erano stati tutti quelli che Astrid aveva incontrato.
Fragili e bisognosi di
aiuto, di amore, ma ora, con la vecchiaia ad intorpidirle i
muscoli e affaticarle la vista, lo era ancor di più ai suoi
occhi.
Morire era triste,
veder morire le persone care sapendo di poterlo evitare lo era ancor di
più.
Faceva male,
perché sarebbe bastato un suo cenno del capo per
rigenerare quella pelle ruvida al tatto, spianare le rughe, rinvigorire
i muscoli e rafforzare le ossa, avrebbe potuto, avrebbe voluto, ma
non le era mai stato permesso.
Lei, non glielo
avrebbe permesso.
Perché
Estela aveva preferito lasciarsi morire come ogni
altro essere umano, come sarebbe dovuto essere, come lei non sarebbe
mai riuscita a capire, ad accettare, non con la consapevolezza di non
poter resistere ad un'altra perdita.
Non ancora, non dopo
tutto ciò che aveva passato.
Non dopo aver perso
sua madre, quella vera, quella che le aveva dato la vita e che forse, a
dispetto di H’ava e Yehouda, aveva davvero voluto che lei
imparasse quelle cose, che avesse una vita, che fosse felice.
Ed anche se Pepper era
la sua madre umana, anche se l’amore di Bruce e di Tony le
ricordava di avercela, una famiglia, sapeva che avrebbe fatto di tutto
per riportare in vita Semjace, per renderla solida e non più
spirito, così da poterla abbracciare e lasciare che i suoi
artigli metallici le raccogliessero le lacrime.
Lacrime che le avevano
rigato il viso tante di quelle volte da renderle ancora più
salate, lacrime per le quali aveva sentito la propria voce
tremare e il proprio cuore spaccarsi al pensiero di poter impedire
tutto quello, se solo glielo avessero permesso.
E
c’erano stati momenti in cui Astrid aveva pensato
di costringerla, di ridarle la giovinezza perduta per rendere se stessa
felice, per essere egoista, per una volta, per salvare almeno lei, ora
che ne aveva la possibilità, ma poi aveva visto i
suoi figli nascere, i suoi nipoti crescere, e l’orrore di
quanto pensato l’aveva fatta crollare in ginocchio di fronte
a quelle stesse lapidi per chiedere perdono.
Perdono per essersi
arrogata un diritto che era di Estela, di ogni altra
creatura, quel libero arbitrio che una volta Loki aveva
tentato di rubare all’umanità ma che lei, nel suo
profondo desiderio di essere come loro, non era riuscita a
togliere.
Il diritto di
scegliere.
Un diritto
che lei non aveva mai avuto, perché nata senza.
Persino Loki
lo aveva ricevuto, in quanto dio, in quanto uomo, in quanto essere
vivente, ma lei, lei non era stata voluta,
né desiderata.
La sua sola esistenza
era capitata per sbaglio, come un errore di calcolo che non
può più essere cancellato.
Ed era, un errore,
Astrid lo aveva accettato nell’apprendere l’ unico
limite impartitole dal fato, il più orribile, il
più crudele, forse per vendetta di Yehouda, per
il rancore di H’ava, ma una condanna, la sua.
Dare sì la
vita, ma a qualcosa che fosse già esistito, qualcosa che era
stato precedentemente forgiato dai Creatori, gli unici a possedere il
potere di creare dal nulla, mentre lei, lei aveva
ricevuto solo l’orribile e patetica
capacità di clonare ciò che una vita
aveva già avuto ma che, per sfortuna o destino, aveva poi
perduto.
Il suo limite, il suo
più grande dolore.
Perché
l’aveva resa una donna difettosa, incapace di sentire la
tensione del ventre, la stanchezza delle mille notti
insonni, l’emozione di sentirlo piangere, ma capace
solo di provare dolore e la
sensazione di vuoto nelle mani che il tocco tiepido del palmo di Estela
provò a colmare, strofinando le dita ruvide per tutto il
palmo blu.
E si sforzò
di sorridere, di mostrarsi forte, di convincersi che forse, il ricordo
di aver voluto morire, di averci provato davvero, di averlo
voluto fino a credere di esserci riuscita venisse smorzato dalle mani
intrecciate alle sue, quella che Loki stringeva tanto forte da far
male, e quella che Estela carezzò con dita deboli ma gentili
prima di torcere il collo al fischio acuto appena saettato
sulle loro teste.
Una nuvola di polvere
si alzò da terra quando l’elivelivolo
provò a riprendere quota dopo aver aperto il portellone
d’entrata per permettere a qualcosa di uscire.
Qualcosa di grosso e
verde alla vista del quale Astrid si ritrovò a sorridere
sofficemente, alzando il viso per guardare la smorfia contrita di Loki
che la teneva nascosta sotto il proprio mantello, così da
difenderla dai detriti sospinti dal vento.
Persino Estela era
riuscita a ricucirsi un piccolo posto sotto il pesante
tessuto nero, così da poter essere protetta a sua volta e
seguire divertita l’arrivo di una scheggia rossa appena
saettata nel cielo, in diretta collisione con la creatura dalla folta
capigliatura verde petrolio.
Tony Stark
liberò un rantolo sommesso quando sentì
l’armatura lanciare un grido isterico nell’attutire
l’impatto del corpo estraneo che il rilevatore aveva appena
fatto in tempo a scorgere, ma allo scienziato bastò
quantificare la pesantezza dell’oggetto non identificato per
convincersi che Barner aveva messo su qualche chilo di troppo in
quell’ultimo anno.
Provò a
scrollarselo di dosso con qualche acrobazia che presto lo avrebbe visto
ripiegato su se stesso per gli acciacchi, ma le mani callose del mostro
continuavano ad essere saldamente arpionate alle sue anche.
- Scendi.subito.dal.mio.scintillante.fondoschiena.
Un grugnito di sfida
gli giunse come unica risposta mentre la distanza tra loro e il terreno
si accorciava e la chiazza monocromatica del piccolo cimitero si
tingeva di blu.
Un profondo e acceso
blu per il quale Tony si trovò ad aguzzare la vista prima di
sorridere debolmente e sventolare un braccio, in saluto, e quando vide
Astrid alzarsi sulle punte per agitare le sue, di braccia, lo
scienziato non potè che ammorbidire il viso e indurirlo poco
dopo nel patire il primo pugno di Hulk sul suo povero cranio.
- Non si stancano di
far sempre così?
Pepper
“Potts” si azzardò a lanciare
uno sguardo incuriosito al sedile accanto al suo nell’udire
il tono curioso del figlio, ma quando provò a distogliere
l’attenzione dalla piccola stradina sterrata che stavano
percorrendo per scoprire il soggetto della frase si convinse a
riportare l’occhio sulla strada con un sorriso scanzonato.
- Non credo tesoro.
Marcus tese una
smorfia nel sentire fin da lì il crack del casco del padre
che dall’energumeno non sembrava riuscire a liberarsi.
- A volte mi viene
difficile credere che quei due siano gli uomini più
intelligenti della terra mamma – lamentò il
ragazzo, tornando a posto con lo sguardo accigliato – credi
che si siano accorti di noi?
- Sono troppo
impegnati a darsele per far caso ad una piccola e innocua jeep come la
nostra – lo avvisò pacata, sterzando per evitare
una piccola buca.
Non che la strada non
fosse già di per sé tanto dissestata da
richiedere tutta la sua concentrazione, ma lei preferiva di gran lunga
usare i vecchi mezzi di trasporto che usufruire degli appariscenti jet
che Tony le aveva messo a disposizione.
Regali per i quali si
era ritrovata più volte a storcere il naso, ripiegando
sull’utilizzo di vecchie automobili datate ma sicure come
carri armati, e quella piccola jeep in particolare le permise di
superarli senza esser vista, o almeno, così aveva
ingenuamente creduto.
- Credo che ci abbiano
visti – le sussurrò infatti il figlio, allacciando
la cintura nel sentire il fischio acuto sopra la testa.
- Fedifraga!
- Ci hanno visto
– tornò a sottolineare Marcus nell’udire
l’urlo del padre – dai gas mamma! – la
incitò ansioso, torcendo il collo per vedere con orrore la
discesa del padre e di Hulk che pareva essersi calmato e che ora stava
usando lo scienziato come tavola da surf.
Il ruggito del motore
attirò lo sguardo delle figure accostate alle lapidi, e
quando Loki vide Astrid tendersi verso l’umana con il viso e
il corpo non potè che far scattare la mascella e rilasciare
un profondo respiro mentre la presa attorno alla mano della compagna si
allentava e lo sguardo si puntava minaccioso sull’uomo di
metallo.
Frenare richiese
più controllo del previsto, ma Marcus e la madre impiegarono
poco tempo per saltare giù e guardare la figura
sottile di Astrid correre loro in contro.
- Mamma! –
la chiamò lei con un sorriso nell’abbandonare il
rifugio dalle braccia del compagno, aumentando l’andatura
mentre Loki continuava a far altalenare lo sguardo da lei alla scheggia
impazzita che pioveva giù dal cielo.
Sentirsi chiamare a
quel modo causò in Pepper un moto di commozione che neanche
dopo tutti quegli anni, per quante volte Astrid l’avesse
rivestita di quel ruolo, sarebbe riuscita a smorzare.
Perché
c’era tanto amore in quella piccola creatura, un amore che
Astrid non aveva mai smesso di rivolgere a lei e ai suoi cari, non a
Marcus, non a Tony, non a lei.
Ed essere amati da
Astrid era appagante, perché quella piccola creatura dagli
occhi di stelle e dalla chioma d’arcobaleno amava in modo
assoluto, senza se, senza ma, senza quel bisogno di autoconservazione
che portava gli esseri umani e l’uomo in genere a frenarsi un
po’, a pensare più a se stessi che agli altri,
alle proprie reazioni, ai propri dolori.
Ma lei non ragionava
come gli umani.
Lei amava e basta.
- Siamo fortunati. Non
lo credi anche tu?
Estela non distolse lo
sguardo dalla commovente scena quando sentì
l’occhio di Loki puntarsi su di lei, uno sguardo spettrale
che non riusciva a trovare la voglia di mostrare interesse per
ciò che lo circondava, per lei, o per qualunque cose gli
capitasse di guardare.
Eppure,
c’era un ma
anche per lui.
Un
“ma” dal sorriso gentile e dallo sguardo infinito
che molti di loro aveva reso un po’ più
coscienziosi di quanta bellezza potesse esistere in una sola creatura.
Una beltà
non d’occhi, non di labbra, non di arti sottili o spalle
minute, ma un fascino che rapiva per la profondità di
un’essenza con la quale, una volta venuti in contatto,
si riusciva a credere che forse, vivere non era poi
così terribile, che forse, il mondo non era così
crudele, se aveva dato vita a lei.
E come Astrid non
avrebbe smesso di ringraziare loro, così Estela che
mai avrebbe smesso di rivolgere al cielo la propria
gratitudine per averla incontrata e per essere stata felice.
Perché la
sua “scoperta”
era la felicità.
Ne portava a chi non
l’aveva mai avuta, la regalava a chi non ci aveva mai
creduto, e la insegnava a chi non l’aveva mai imparata.
E l’uomo che
la accostava, il dio tornato a fissare quel loro
“ma” aveva imparato cosa la felicità
fosse, e forse, persino a ringraziare per ciò che aveva
ricevuto.
Perché
Astrid sarebbe potuta nascere da qualche altra parte, come non sarebbe
potuta nascere affatto.
Avrebbe potuto incontrare altre creature, amare altre persone, dare la
felicità a qualcun altro, ma erano stati loro, a trovarla e
amarla.
Ed erano fortunati, lo
erano sempre stati.
Lo era Pepper che era
diventata di nuovo mamma.
Lo erano Bruce Barner
che aveva imparato ad amarsi un po’ di più, e Tony
Stark, che a credere negli altri aveva deciso di impegnarsi, e persino
lei, che aveva potuto vivere avventure e far parte di un disegno ben
più grande di tutti loro.
Un disegno che Astrid
aveva abbozzato amando di questo ogni sfumatura, ogni errore, ogni
sbavatura.
E Loki sapeva di
esserlo sempre stato, una macchia, la
macchia che molti avevano scambiato per sporcizia ma che
lei aveva pensato come ad un piccola ma graziosa opera d’arte.
Una meravigliosa
opera astratta più volte fraintesa e scambiata per
altro, ma mai per qualcosa di bello, di utile.
Quando la terra
franò loro sotto i piedi Pepper si sentì tirare
su da una stretta ferma e decisa mentre Astrid rimaneva allacciata a
lei e un braccio verde si chiudeva attorno a loro, raccogliendoli tutti
in un abbraccio scomodo e goffo nel quale Tony Stark si
trovò ad agitare nervosamente i piedi che non toccavano
terra per mostrare il proprio nervosismo.
L’identica e
profonda tensione della quale Loki non riusciva a liberarsi, non con
lei così lontana, nascosta sotto tutte quelle braccia che
parevano volerla soffocare e far un po’ più loro,
e un po’ meno sua.
E la paura
tornò a farlo tremare, ad irrigidirgli le spalle e
inspessirgli lo sguardo come placche di metallo sistemate
l’una dietro l’altra, così da rendere la
sensazione di angoscia un po’ meno soffocante, un
po’ più anonima, meno sua, ma la sentiva comunque.
Perché
imparare ad amare era stato difficile per chi come lui non aveva
neanche ipotizzato di riuscirci, di scoprirsi bisognoso di qualcosa per
la quale chiunque, persino Thor, sembrava disposto a rinunciare a
tutto.
Lui che non aveva mai
avuto niente da perdere, niente per il quale affannarsi, nulla da
proteggere, ma ora che ce l’aveva, ora che sapeva di avere
qualcosa sacrificare oltre se stesso, aveva paura.
Paura di perderla, di
essere abbandonato e messo da parte come tutti, una volta capito
l’orrore della sua natura, avevano fatto.
Perché lei
aveva persone che la amavano, oltre lui, creature che, seppur
inferiori, avrebbero fatto di tutto per proteggerla, per saperla
felice, mentre lui, lui aveva lei.
Solo lei.
E a lei si era legato,
anima, cuore e corpo, nella speranza di renderle impossibile vivere
senza di lui, nel disperato tentativo di renderla dipendente da lui
tanto quanto lui lo era da lei, così da sapersi
indispensabile, così da sapersi voluto e desiderato come
aveva sempre pensato fosse giusto.
Si toccò
distrattamente l’orecchio, dita tremanti e nervose che
avvolse attorno al cerchio di metallo del lobo, un’abitudine
che Astrid gli aveva trasmesso quando si sentiva insicuro e desideroso
di fare dal male a qualcosa, a qualcuno, a se stesso.
Un gesto
impercettibile che persino l’umana accanto a lui non
sembrò cogliere, presa com’era dal
sorridere raddolcita alla scena, ma qualcuno a notarlo ci fu.
Quel qualcuno che
pareva accorgersi sempre del suo dolore nonostante
il gelo del suo viso, o l’imperscrutabilità dei
suoi occhi, quel qualcuno che vide voltarsi con attenzione,
rivolgendogli uno sguardo silente che però sembrava
bisbigliargli all’orecchio parole di conforto, di amore.
Gli sfuggì
un sussulto sorpreso delle spalle quando la vide portarsi una mano
all’orecchio, lì dove sapeva, le piccole dita di
Astrid nascondevano un monile gemello del suo, il simbolo
dell’appartenenza dell’uno all’altro, la
prova di averla resa sua, di poter avere un po’
più di sicurezza per ciò che credeva fosse stato
un errore.
Perché lui
era stato il primo ad incontrarla, forse per destino, o forse per
errore, ma lui li amava gli errori.
Perché lo
era stato lui, lo era stata lei, lo erano entrambi.
Quando il rumore di
passi coordinati giunse loro all’orecchio Estela
dirottò lo sguardo alle proprie spalle, riconoscendo lo
S.H.I.E.L.D avanzare tranquillamente per il piccolo campo abbandonato,
ma si ritrovò a ruotare improvvisamente su se stessa quando
percepì l’assenza del dio degli inganni attorno a
sé.
E nel voltarsi lo
ritrovò più in là, un po’
più distante dall’abbraccio di gruppo, ma pur
sempre vicino, accostato a quella figura che lo guardava con
dolcezza prima di tornare a soffocare il viso nel petto di
Pepper e dei genitori, ma non era stato il movimento del dio, a
lasciarla con le labbra socchiuse per la sorpresa e gli occhi un
po’ sporgenti.
Era stato un assenso
che Loki pareva aver dato a se stesso, forse persino alla
domanda posta da lei poco prima, ma pur sempre
un’approvazione a quella fortuna della quale lei aveva
investito ognuno di loro, persino lui, forse più di tutti.
Un’approvazione
per la quale si trovò a sorridere debolmente in seconda
fila, mentre Nick Fury arcuiva un sopracciglio alla visione
dell’abbraccio comune e dello sguardo tetro del dio, una
scena dalla quale distolse lo sguardo per portare
l’attenzione sulle lapidi dei suoi genitori.
E forse, si
ritrovò a pensare, quel bisbiglio concitato poteva esser
stato un’illusione, la conseguenza
dell’anzianità che oramai poteva averla resa un
po’ sorda.
Perché non accadeva spesso che il dio degli inganni
approvasse il pensiero comune, figurarsi quello di un’umana.
Eppure Estela non
potè che sorridere a se stessa e alle lapidi, lasciando su
queste una carezza spensierata e delicata prima di riportare lo sguardo
su Loki e darsi ragione.
Perché
vecchia, per quelle cose, non lo era ancora.
Continua…
Ringrazio tutti per la lettura e l'attenzione.
Al prossimo aggiornamento, Gold Eyes
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Capitolo 3 *** 3 - Restless ***
Capitolo 3
“She
embraced, with a smile
As
she opened the door
A
cold wind blows,
it
puts a chill into her heart “
[…]
“Take my hand
as I wander through
All
of my life I gave to you
Take
my hand as I wander through
All
of my love I gave to you “
(Restless-
Within Temptation)
Mescolarsi agli umani gli era sempre risultato particolarmente
ostico, bastava il solo pensiero a generare in lui
disgusto
e raccapriccio.
Fin dal suo primo respiro di aria inquinata e aspra
inspirata, Loki aveva infatti capito di aver scelto un mondo abitato da
creature inferiori, dall’intelletto limitato e da una
moralità che il più delle volte erano loro stessi
a
metter da parte per un bene maggiore.
E lui glielo aveva dato, quel bene maggiore, un motivo
per
il quale unirsi sotto un’unica bandiera e scoprire che essere
governati era nella loro natura mentre la sua, al
contrario, era sempre
stata quella di comandare.
Mondi.
Umani.
Giganti di Ghiaccio.
Ogni creatura era predisposta al suo dominio, a sottostare alle sue
leggi, a chinare il capo di fronte alla superiorità del suo
intelletto e dei suoi poteri
divini, eppure, c’erano volte in cui Loki,
dall’alto del
suo ruolo di tiranno e Re senza pietà né
comprensione,
veniva spinto giù da un malessere che lo rendeva quanto e
forse
più impotente degli umani stessi.
Ed era il viso turbato di Astrid, in quel momento, a
lasciarlo
inerme lì, accanto a lei, con l’occhio buono
catturato
dall’ombra di un sorriso che lentamente, parola dopo parola,
aveva visto spegnersi fino a diventare il fantasma di una
serenità che in lei non trovava più.
- Quindi lo avete già incontrato ? – chiese Nick
Fury con voce tetra, quasi a ricordare a se stesso che fosse
oramai consolidato che il loro pianeta fosse divenuta meta turistica di
mostri spaziali.
Astrid scostò gli occhi dalle mani strette in grembo con
aria
tesa, riportando l’attenzione sul fotogramma che il
capo
dello S.H.I.E.L.D aveva mostrato a lei e agli occupanti delle sedie
accanto alle sue.
Era un’immagine sfocata, ma la scia d’energia
rilasciata
dalla creatura era troppo familiare per non far aggrottare
pericolosamente le sopracciglia di papà Bruce e di Tony.
Un’aria crucciata che l’aveva fatta irrigidire per
l’ansia di non poter sbrogliare la matassa di ipotesi che,
molto
probabilmente, elaboravano ogni secondo.
Perché, qualunque domanda le avessero posto, qualunque
quesito
le avessero rivolto, lei non avrebbe saputo cosa rispondere.
Avrebbe potuto però confermare il sospetto che increspava il
viso di suo padre, ma ogni qual volta schiudeva le labbra per
rivolgergli la parola, non riusciva a trovare nè la voce,
né il
coraggio di dire sì.
Non ci riusciva, non ne aveva la forza, e non perché temesse
una
loro reazione, ma perché quel pensiero spaventava anche lei.
Il pensiero di aver trovato qualcuno come lei, qualcuno che emanasse
un’energia distruttiva tale da disintegrare la materia e
mutare
le sorti di una civiltà, di un mondo,
dell’universo, del
pianeta che lei si era ripromessa di difendere.
Provò ancora a farsi coraggio, facendo scattare la mano
verso
l’orecchio destro che richiuse fra pollice e medio, sfiorando
distrattamente l’orecchino che pareva assorbire il suo calore
corporeo, prosciugandola dal sudore che, se avesse continuato a
incupirsi ancora, le avrebbe imperlato la fronte.
Ma nuovamente, non riuscì a sillabare una parola.
Rimase muta, con le labbra socchiuse e lo sguardo incatenato
al
profilo sfuggente dell’uomo di metallo che, dopo tanti anni,
le
aveva ricordato un nome che aveva sempre tentato di dimenticare e
seppellire assieme ai ricordi più tristi della sua storia.
- Se necessario useremo i Giganti di Ghiaccio come difesa.
Loki potè quasi sentire sotto le dita la pelle del viso di
Astrid perdere calore, ma tacque l’agitazione di sapersi
responsabile dell’angoscia della compagna quando seppe di
essere
nel giusto.
Lo era, sapeva
d’esserlo, ma ciò non gli impedì
comunque di distogliere lo sguardo per non vedere l’orrore
negli
occhi della compagna.
E lei lo era, orripilata da una possibilità che non avrebbe
mai
potuto essere concepita in nessuno caso, ma una
possibilità che Loki aveva invece espresso senza
l’ombra di emozione, come se la consapevolezza di aver
proposto
il suo popolo come scudo difensivo dal nuovo pericolo non lo avesse
minimamente toccato.
Ma toccava lei.
Perché quelle creature, seppur a lei avverse, ostili e
recalcitranti, avevano il suo affetto.
Lo aveva Sunniva, lo avevano i
piccoli cuccioli che avevano imparato ad amare il calore
insolito del suo
corpo più che respingerlo, gli unici figli che avrebbe mai
potuto avere.
Lo aveva quel
pianeta che era diventata la sua seconda casa, una casa da proteggere,
da difendere, non da sacrificare.
- No.
Lo scatto isterico della mascella del dio portò Bruce a
muoversi
nervosamente sulla sedia mentre un velo d’ansia frusciava tra
i
presenti, un’ inquietudine che Tony, contrario ad ogni forma
di
pessimismo cosmico, tentò di smorzare a suo modo.
- Credo di riuscire a gestire una statuetta degli oscar rivestita di
carta stagnola.
- Il signor Stark ha ragione Astrid – lo appoggià
Nick
Fury, non riuscendo comunque a non tendere una smorfia nel comprendere
di aver appena gonfiato l’ego dell’eroe –
più
di una volta ci siamo dimostrati sufficienti a respingere gli attacchi
alieni.
- E poi non dimenticare che abbiamo Hulk – tornò a
sottolineare lo scienziato, strizzando l’occhio al dottor
Barner
che però pareva far caso solo al pallore del viso di sua
figlia.
Perchè Astrid non era tipo da spaventarsi facilmente, Bruce
lo sapeva,
perciò, il vederla turbata a quel modo
lo rendeva
cosciente che il pericolo, quella volta, superava di gran lunga le loro
aspettative.
Persino guardandola sua figlia sembrava urlargli
che non
ce l’avrebbero fatta, che quello che stavano per affrontare
era
qualcosa di così orribile da scuotere anche lei.
Perché
ciò che aveva deciso di invadere il loro pianeta,
ciò che
aveva reso lei così preoccupata e loro così
ansiosi era
un essere con le sue stesse potenzialità, lo aveva capito
lui, l'aveva capito l’altro nel
riconoscere lo sciame di
radiazioni gamma disperso dalla strana creatura, lo aveva
compreso anche Tony,
ma se l’uomo non riusciva ad esprimere la propria agitazione,
lui
era ben lungi da fingersi ignorante, in quel momento.
- Non basterà.
- Come?
Astrid fissò il viso di suo padre con ansia, indurendo lo
sguardo nel guardare il fotogramma e la creatura.
- Non basterà – ripetè ancora, e
persino Pepper fino ad allora rimasta silente non
potè che agitarsi sulla sedia prima di
lanciarle uno sguardo inquieto.
- Cosa non basterà tesoro? – si convinse a
chiederle,
sebbene la paura di conoscere già la risposta le avesse
fatto
tremare la voce.
Astrid non rispose subito, prese del tempo, per se stessa, e per
ciò che sapeva di dover fare, di dover dimostrare loro
così da mettere la sua
famiglia di fronte alla realtà, un’orribile
realtà che lei per prima non voleva accettare,
ma era sua responsabilità difenderli tutti, lei che ne aveva
il
potere.
Un potere che se fosse stato davvero comparabile a quello del
loro nemico, come temeva, avrebbe richiesto ben più di un
pugno
di eroi, quella volta.
E aveva paura.
L’aveva avuta la prima volta chi si era vista davvero, la prima e
unica volta che si era data la possibilità di
“cadere”.
Ma non era stato come guardarsi allo specchio, perché non ci
sarebbero stati specchi abbastanza grandi da contenere la sua immagine,
e quando era caduta, quando si era lasciata implodere, ciò
che
aveva visto l’aveva atterrita.
- Tutto – si arrese a bisbigliare nel tornare a guardare in
viso
suo padre e chi, in quel momento, si accorse con una nota di panico che
la stanza, i mobili, cominciavano a sbiadire.
- Non contro questo.
Quando il pavimento scomparve loro sotto i piedi Pepper non
potè
che lanciare un urlo spaventato mentre l’agitazione tornava a
farli trasalire nel notare come il nero cupo che aveva appena
inghiottito il pavimento tornasse loro in contro, un abbraccio di morte
che li abbandonò, con angoscia, in un
immenso abisso monocolore, una distesa di buio nel quale, per un
attimo, rimasero
tutti immobili, e silenti, spaesati, prima di riuscire a
vederla.
Luce.
Minuscoli pulviscoli di luce che puntellavano il pavimento e il
soffitto come un cielo stellato, ricoprendo ogni cosa, ma non gli
angoli.
Perché non ce ne erano, da nessuna parte.
Era in un
corridoio infinito proiettato verso il nulla, ciò che li
aveva inghiottiti, un tunnel che non sembrava avere
nè un
inizio, né una fine se non un centro, ed era
davanti a loro, quel centro.
L’unico punto in cui il bagliore diveniva così
acceso, così accecante
da far male agli occhi, e dovettero tutti schermirsi il viso per
riconoscere il profilo di un viso che portò Bruce
a
sgranare gli occhi per l’incredulità con un
bisbiglio sommesso.
- Cosa diavolo è ? – sibilò Fury,
l’occhio serrato per non essere accecato dalla luce.
- Astrid.
- Come? – saltò il capitano dello S.H.I.E.L.D nel
sentire
la voce di Loki soffiargli sul viso, come se fosse poco lontano, ma
allo
tempo irreale, impalpabile come un fantasma.
- Astrid. Tutto ciò vedete intorno a voi è Astrid
–
tornò a ribadire il dio, accostato alla figura che solo lui
poteva guardare senza rimanerne folgorato, perché era una
luce
alla quale i suoi occhi si erano abituati, un bagliore che, se avesse
allungato le mani, avrebbe visto raggrumarsi attorno al suo
palmo
come fiamme.
Lingue infuocate che però non l’avrebbero
bruciato,
né ferito, non lui, non chi avevano imparato a riconoscere e
ad
amare.
Perché Astrid era tutto quello.
Cielo, terra, aria e fuoco, non c’era limite a ciò
che potesse diventare,
essere.
Energia, pura e semplice energia che nessuno mai era riuscito
a controllare, o ad aver per sé.
Ma lui l’aveva.
Poteva controllarla, poteva toccarla senza temere di esserne
annientato, guardarla, senza timore di venirne accecato, stringerla,
senza aver paura di sentirla svanire dalle braccia
che al suo tocco sarebbero rimaste ustionate.
Perchè Astrid era sì impalpabile, sfuggente come
un sogno, ma capace di raggrumarsi tra le sue
braccia, se glielo avesse chiesto, e non potè fare
altrimenti
quando colse il rammarico nei suoi occhi policromatici, la
preoccupazione per quegli esseri umani che, sebbene non fossero
spaventati da lei, non riuscivano a non provare timore per tutto quello.
Quando la luce smise di sfrigolare Nick Fury sbattè le
palpebre
più e più volte, disorientato e non ancora
abituato al
chiarore delicato della stanza, ma era di nuovo nella sala informatica
dell’elivelivolo, con delle pareti a confinare il loro spazio
e
un tavolo sul qual reggersi per riprendere l’equilibrio.
Anche Bruce impiegò qualche secondo a capire di essere
nuovamente seduto su qualcosa che non fosse il nulla, e fu con
preoccupazione che cercò intorno a sé la figura
di sua
figlia.
Ma quando non la trovò lì dove l’aveva
lasciata,
sentì l’orrore fargli tremare le pupille e
l’altro
cominciare a ruggire per l’angoscia prima che un
colpo allo
stinco lo convincesse a guardare in cagnesco Tony Stark.
- Se cerchi la piccola è lì, perciò
non osare fare
lo psicolabile perché non ho nessuna intenzione di farti da
analista in questo momento – gli berciò contro lo
scienziato, indicando col
mento l’angolo della stanza dove l’ombra cupa di
Loki
inghiottiva una figura più minuta e luminosa, dallo sguardo
rammaricato.
- Bene – cominciò Fury con stanchezza,
massaggiandosi energicamete le tempie – credo sia il
caso di darci la possibilità e il tempo di assorbire questa
notizia, ma vi voglio pronti per le otto in punto. Ci stiamo dirigendo
a New York per incontrare il dottor Reed Richards. Pare che
lui sappia dove colpirà il nostro amico. Potete andare a
riposare.
Le smorfie pensierose degli eroi lo convinsero a congedarli senza altre
parole, perché nessuno di loro le avrebbe ascoltate davvero,
non
dopo la portata di quanto visto.
Perché, se davvero il nuovo nemico della Terra poteva
disporre
di un simile potere, se davvero l’entità
sconosciuta aveva
solo un minimo di quelle capacità, allora avevano bisogno di
riposare un po’ prima di decidere quale divinità
pregare
per ricevere un po’ di fortuna.
°°°
- Ripetimelo ancora una volta tesoro, credo di aver capito male, sai,
l’età.
‘Cretino!
Pepper avrebbe voluto urlarglielo nell’orecchio a
pieni
polmoni, ma si costrinse ad essere più matura di
quell’idiota che aveva capito, aveva capito benissimo, solo
che
faceva lo gnorri per dispetto e continuava a fissarla con uno
sguardo obliquo dall’uscita dell’hangar.
Non che l’espressione di Bruce fosse migliore di quella dello
scienziato, ma il dottore era fin troppo educato per mostrarle
apertamente la propria contrarietà, una carineria
della
quale Pepper si accontentò, tornando ad indicare col braccio
la
figura seminascosta nell’ombra di un aereo.
- Andate da lui.
- Continuo a non capire.
- Cosa c’è da capire? –
sbraitò esausta,
allargando le braccia in un gesto di insofferenza –
dovete.andare.da.Loki. – sillabò
contrita, ricercando
nello sguardo del dottore un po’ di sostegno, ma per quanto
dolce
e pacato l’uomo fosse, l’idea di rivolgere la
parola al dio
degli inganni lo infastidiva, figurarsi andare a ricercare di propria
iniziativa un confronto verbale con lui.
Non che Bruce non fosse un uomo che preferiva il sano dialogo al
mutismo ostile, ma c’era qualcosa in Loki a lasciarlo sempre
un
po’ perplesso.
Perchè si sentiva sconfitto già in partenza,
ancor prima di aprir
bocca, una reazione ovvia la sua visto che quello con cui
tentava di instaurare un rapporto
era pur sempre il dio degli inganni, e per quanto intelligente fosse,
ne sarebbe uscito sempre perdente, in un modo o nell’altro.
- Ma io
non.ci.voglio.andare – puntualizzò
Tony con
sarcasmo, incrociando le braccia al petto e imbronciando le labbra.
Una reazione per la quale la donna si trovò a conficcarsi le
unghie nei palmi delle mani.
- Sei o non sei il padre di Astrid?
Lo sguardo inviperito con il quale Bruce sembrò tornare in
sé riuscì a strapparle un sogghigno, ma lei
mirava a
pesci più grandi, e ora il cetaceo più grande e
stupido
aveva appena abboccato all'amo.
Perché Tony Stark non era tipo da gabbare
facilmente, ma se
c’era un modo per attirarne l’attenzione era senza
dubbio
mettere in dubbio le sue qualità come leader, e ovviamente,
dubitare anche solo lontanamente la paternità di Astrid.
- E questo cosa diavolo c’entra ora? –
berciò incattivito, aggrottando le sopracciglia.
- C’entra visto che Astrid è tua-vostra figlia
– si
corresse subito nel cogliere il lampo di frustrazione nello sguardo del
dottore – ciò fa di voi i suoceri di Loki.
Ridere avrebbe rovinato l’estenuante opera di convincimento
che stava portando avanti, ma
Pepper non riuscì a nascondere un risolino divertito nel
vedere
i due uomini, gli eroi d’America, rabbrividire
all’unisono
e trasalire come se li avessero punzecchiati con un forcone.
Ma era puro e semplice raccapriccio quello che arricciava il naso di
Tony Stark e irrigidiva le pupille del dottor Barne, un profondo e per
una volta, comune orrore per una possibilità che non aveva
mai
sfiorato nessuno dei due.
La risata però scoppiò, e non nel petto della
donna, come
ci si sarebbe aspettato, ma in quello che lo scienziato
colpì
con un pugno per ritrovare il fiato mentre ricercava la stessa
sprezzante ironia sul viso del compagno.
- Hai sentito Barner? Suoceri
. Potts dice che io e te saremmo i
suo-suoc- si umettò le labbra più volte per
riuscire a
dare la perfetta intonazione derisoria – suoceri di quello
lì – ed indicò
il dio immobile nell’identica
posizione di poco prima.
Bruce stiracchiò un sorriso così, per renderlo
contento, non per vero e proprio spirito di
solidarietà.
- Io e te – continuò a cinguettare –
suoceri di
quello lì, hai capito? – cercò anche di
pungolarlo
con il gomito prima di torcere il collo verso la moglie e tendere un
sorriso sprezzante.
- Ora mi dirai anche che quello lì ed Astrid sono sposati.
Pepper potè quasi vedere il povero dottore
sbiancare di colpo alle
spalle del marito mentre un filo di sudore freddo cominciava a
imperlargli la fronte, ma lo scienziato non sembrava riuscire a
fermarsi.
- No Barner? – tornò a punzecchiarlo Tony, il viso
voltato
per metà così da riuscire a cogliere la sua
reazione
– te lo immagini? Astrid, la mia Astrid, moglie
del dio degli
inganni, non lo trovi divertente?
Ma il dottore non rideva, non sorrideva neanche, pareva invece
spaventato da lui e dallo sguardo che lo scienziato aguzzò
istericamente nel subodorare qualcosa di orribile.
Una scia che sapeva di menzogna e di un terrore freddo che ora rendeva
Barner incapace persino di muovere un muscolo senza sembrare spiritato.
- Non lo trovi divertente Barner?
Un guizzo isterico delle palpebre tradì il suo nervosismo,
la
tensione che lo scienziato acuì nel tendere un sorriso che
ora
pareva essere un po’ meno divertito e un po più
cattivo.
- Hai visto tesoro, il dottor Barner non lo trova divertente
–
sibilò, rivolgendo uno sguardo distante alla moglie prima di
ritornare su di lui – e come mai? Forse perché sa
qualcosa
che io non so?
Altro guizzo isterico, altra ruga d’espressione attorno gli
angoli della bocca che ora Tony Stark teneva tanto tesi da farlo
sembrare un invasato.
- E quale oscuro segreto mi tiene nascosto secondo te? Qualcosa di
così agghiacciante da aver paura di condividerlo con il suo
più vecchio e caro amico.Perché siamo
amici io e
te, non è vero Bruce?
Ma pareva completamente terrorizzato, il povero Barner, un orrore che
Pepper preferì smorzare per dargli un po’ di
respiro e
far capire a Tony, una volta per tutte, ciò che era ovvio a
tutti meno che a lui.
- Credevi davvero che non avrebbero fatto il grande passo tesoro?
Tony Stark non era un uomo pauroso, glielo impediva l’aria da
belloccio e quel sorriso scanzonato che smorzava la sua indole acida e
suscettibile, ma in quel momento era tanto brutto da far spavento con
tutti gli zigomi tirati e le pupille pulsanti orrore e fastidio.
- Lo-
- Lo sapevi anche tu ? – lo precedette Bruce con aria
sorpresa,
attirando su di sé l’occhiata allucinata con il
quale lo
scienziato lo fucilò prima di guardare la moglie e
rantolarle un
“donna” piuttosto minaccioso.
- Anche? Cosa diavolo significa anche tu, Barner? Da quanto lo sai?
Perché non me lo hai detto? Perché diavol-
- Per lo stesso motivo per il quale io non l’ho fatto tesoro.
Sei consapevole di stare delirando vero?
- Delirando? – gracchiò l’uomo con la
gola secca e
la mano pressata sul petto – credi che io stia delirando? Io?
- Si, perché ti stai innervosendo senza motivo?
- Senza motivo! Donna! Fai attenzione a quello che dirai oppure io-
- Io cosa Tony – lo riprese piccata, alzando il mento in
segno di
sfida – stai solo facendo i capricci, e solo
perché
l’idea che Astrid sia cresciuta non ti va giù.
- Non è vero, non è solo per questo.
- E allora perché?
- Perché- perché … lui non mi ha
chiesto il permesso!
La smorfia attonita con la quale Pepper si trovò ad
accogliere
la sua giustificazione sembrò rendere Tony ancora
più
folle, uno squilibrio mentale che catalizzò
sull’ombra
immobile del dio, un profilo verso il quale caricò con le
narici
frementi prima di sentire le urla della moglie e il richiamo concitato
di Bruce.
Quando cadde riverso a terra Tony Stark si trovò a strizzare
gli
occhi con un gemito di dolore mentre i passi frettolosi di Bruce e
Pepper lo avvisavano dell’immediato soccorso rivoltogli,
tuttavia, anche quando lo raggiunsero preferì rimanere
disteso a
rimirare il cielo con il viso ancora arrossato per lo schianto contro
il muso dell’aereo.
Perché si era gettato contro un’illusione, un
vecchio
trucco che avrebbe dovuto cogliere, capire, ma per il quale, nella foga
del momento, non era riuscito a captare.
Ed eccolo lì, disteso per terra con il naso probabilmente
fratturato e la rabbia sfumata per una realtà che aveva in
realtà ipotizzato, ma non accettato, dopo tutti quegli anni.
Forse l’aveva sempre saputo, perché lui era un
genio, e i
geni non si lasciano sfuggire nessun particolare, non il modo in cui
Astrid pareva tenere al proprio orecchino, non la presenza di un monile
identico sul sinistro di Loki.
Ma capire e accettare non andavano di pari passo, e forse, arrivati a
quel punto, avrebbe dovuto accettare la cosa, capire che Astrid era
davvero cresciuta, avrebbe dovuto, ma non voluto.
E non lo volle, si limitò infatti ad alzare un pugno in aria
e
urlare il proprio malumore nella speranza di irritare il dio degli
inganni e avvertirlo del pericolo imminente che lui avrebbe presto
rappresentato per lui, ma Loki non si diede pena di quelle urla, o
delle
minacce di morte, non ora che la stanchezza stava assalendo anche lui.
- Non crede a tutte le cose brutte che ha detto, sai?
Loki riaprì gli occhi con un gesto annoiato, ma quando la
sentì muoversi tra le sue braccia non potè che
inclinare il
collo e ritrovare la compagna con il naso
all’insù,
gli occhi sgranati per rimarcare la foga della sua confessione.
- Tony - gli spiegò tranquilla – non
pensava tutte
le cose brutte che ha detto su di te sai? Credo solo che sia un
po’ nervoso – e gli si strinse un
po’ di
più, cingendogli la vita per affondare il viso contro il suo
collo prima di continuare a parlare - e le persone dicono
cose
che non pensano quando sono nervose, l’ho letto in un libro
molti
anni fa.
Gli sfuggì un sorriso obliquo nel sentirla strofinare il
naso
contro il suo collo, un contatto che oltre a trasmettergli
l’elevato calore corporeo della compagna, pareva convincere
la
palpebra a schiudersi un po’ più dolcemente nel
tornare a
riposare lo sguardo.
Ed avevano bisogno entrambi di riposare, perché
ciò che
li avrebbe attesi il mattino seguente avrebbe richiesto un dispendio di
energie che Loki avrebbe voluto spendere per altro che per far da balia
a quegli irritanti Avengers, ma Astrid non li avrebbe abbandonati, e
lui, conseguentemente, non avrebbe abbandonato lei.
Non nelle mani di incompetenti che non avrebbero saputo
proteggerla a dovere, non ad un pugno di umani che minimizzava il
pericolo imminente, una minaccia alla quale il dio degli inganni
avrebbe potuto dare le spalle e fingere ignoranza, fintanto che la
minaccia non avesse colpito lui, eppure, indirettamente, lo aveva fatto.
Perché era una concatenazione di eventi che non avrebbe
potuto
manipolare, né rigirare a suoi piacimento, non se
erano i
sentimenti di Astrid ad aver azionato quel meccanismo.
Un meccanismo del quale lui stesso era venuto a far parte, divenendo
uno degli
anelli della catena che Astrid non sapeva di avere tra le mani, per
nulla consapevole di poter allentare la presa e generare
più
dolore di quanto si sarebbe mai aspettata.
Il dolore degli umani, che di lei si erano profondamente innamorati, e
il suo, di dolore, quello che Loki sapeva di non poter reggere, non
quel tipo di disperazione, non la sua, di perdita.
Non avrebbe potuto, semplicemente.
E non per la dipendenza che oramai lo rendeva schiavo di ogni sua
minima smorfia, sorriso o lacrima, ma perché non avrebbe
retto,
non lo avrebbe fatto il suo cuore, o ciò che ne rimaneva, un
ammasso informe che singhiozzava a stento e che di quel calore pareva
nutrirsi per rimanere ancora in vita.
Perché Astrid lo era per lui.
Una vita.
Quella che non aveva mai creduto di poter avere, quella che mai nessuno
gli aveva dato l’occasione di costruire, perché
rinnegato,
respinto, abbandonato, e dimenticato, ma lei non l’avrebbe
mai
respinto o scordato, non lei che lo amava così tanto da
fargli
paura.
Una paura sciocca la sua, ma ovvia per chi come lui non aveva
mai avuto nulla se non vuoto e silenzio, attorno a
sè, un profondo e gelido silenzio
del quale ora ne aveva quasi perduto il ricordo.
Perché c’erano risate a tintinnare nella sua
testa, e una
voce che non smetteva mai di ripetere il suo nome come una cantilena
che gli ricordava che lei
c’era, che non era solo, che alla fine,
qualcosa di buono lo aveva fatto, ed era stato salvare lei, solo lei,
da un annientamento che lui avrebbe potuto accettare se fosse
stato il
suo, o quello dell’universo stesso.
Il respiro di Astrid era stato uno dei primi suoni verso i quali avesse
mai imparato a nutrire una profonda ossessione, un bisogno
viscerale, un desiderio tanto folle da averlo portato ad aver bisogno di
sentirlo sempre contro di sé.
Sul viso,
sulle palpebre chiuse che lei amava baciare con delicatezza, su
quell’orribile cicatrice che percorreva anche con
le dita e
con gli occhi in una carezza lieve, ovunque, ma su di lui, vicino, a
lui.
Perchè lo aveva amato fin dal primo
istante, da quando quella piccola e strana
creatura fluorescente aveva trovato rifugio tra le braccia ammanettate
e quella maschera di metallo che nella prigione gli aveva
più
volte impedito di gettare orribili maledizioni su Asgard.
E quando, notte dopo notte, lo
aveva sentito infrangersi dolcemente sul proprio collo, con
delicatezza, aveva trovato impossibile addormentarsi senza
avere la sicurezza di averla lì dove la sua testa aveva
deciso infine che lei sarebbe dovuta stare.
Con lui.
Tra le sue braccia.
Sempre.
Ed era stato stupido, era stato infantile, ma era stata la
prima ricorrenza che lui avesse mai potuto chiamare
“abitudine”.
E lui, di abitudini, non ne aveva mai avute. Ma ora, ora
aveva
imparato ad abituarsi a tante cose, al calore di quel corpo che si
ritrovò a stringere un po’ di più nel
patire uno
spiffero un po’ più freddo, e alla consapevolezza
di
essere amato.
Profondamente e, con suo profondo stupore, incondizionatamente.
Lui che di incondizionato aveva avuto solo l’odio altrui, ma
Astrid, Astrid era la sua abitudine.
Un’abitudine dalla quale non avrebbe mai voluto,
nè sarebbe mai riuscito a stancarsi.
°°°
L’andirivieni dell’uomo poteva apparire
snervante, ma
le prassi andavano rispettate, e Nick Fury non era uomo da saltare le
accurate ispezioni del proprio equipaggio, in nessun caso, a maggior
ragione se fra i suoi uomini ritti e seriosi poteva scorgere il profilo
annoiato di un miliardario con manie di protagonismo, un dottore con la
tendenza a perdere il controllo e distruggere i suoi nuovi aerei
da combattimento, e la piccola e graziosa creatura
dall’incarnato
oltremare che gli sorrideva cordiale tra i due.
Fury amava le persone carine ed educate, una predilezione
della
quale nessuno, a parte Maria, era a conoscenza, e l’aliena
che
ricambiava il suo sguardo con pacatezza era forse l’essere
più gentile e di buone maniere con il quale fosse mai venuto
in
contatto, il che era tutto dire visto il miliardo di esseri umani con i
quali aveva avuto a che fare.
Eppure, c’era qualcosa di profondamente rassicurante in lei,
un’affabilità che più di una volta
l’aveva
sorpreso piacevolmente, ma per quanto cordiale e garbata Astrid fosse,
rimaneva il fatto che Nick Fury, capitano dello S.H.I.E.L.D, aveva il
compito di essere discreto e di mantenere un certo riserbo riguardo
alle proprie missioni, e quella, ovviamente, non sarebbe potuta essere
né discreta, né riservata.
Non se la sua squadra contava personaggi tanto eccentrici, e non se una
di loro poteva vantare uno sguardo che, se si ci fosse soffermati a
guardarlo un po’
di più, avrebbe potuto mostrar loro una parte di quelle
galassie
che la giovane racchiudeva nelle iridi.
Uno spettacolo stupefacente, certo, ma che dava nell’occhio,
e quello Nick Fury non lo desiderava affatto.
Quando Astrid vide l’uomo fermarsi davanti a lei non
potè
che alzare il viso per riuscire a guardarlo bene in volto e capire il
perché dell’aria crucciata che continuava a
deformargli il
viso.
Un paio di sopracciglia aggrottate che su di lei parvero infossarsi
ancora di più, dando all’occhio acuto
dell’uomo un
chè di preoccupante.
- Qualcosa non va signor Fury?
Così educata.
L’uomo si trovò a tendere un sorriso gentile nel
sentirla
appellarsi a lui con quel ‘signore che su quella piccola
bocca
colorata dava ancora più importanza ad una forma
d’educazione piuttosto comune.
Ma era il Tesseract, la fonte di energia più potente
dell'universo ad averlo
chiamato ‘signore, e avere quel rispetto da parte sua era
già di per sé un vanto.
- Non vorrei essere indiscreto – cominciò pacato,
sentendo
su di sé l’occhio pungente con il quale il dio
degli
inganni lo stava fissando, indurirsi – ma credo che la tua
conformazione
fisica darà nell’occhio una volta scesi in strada
–
si arrese a spiegare, sperando davvero di non averla offesa con
quella che molti avrebbero scambiato per una discriminazione, ma Astrid
era fin troppo intelligente e acuta per travisare le sue intenzioni.
E infatti annuì conciliante, capendo il perché di
quella
constatazione volta non a sottolineare la sua diversità, ma
a
informarla che si sarebbe diffuso il panico se gli abitanti di New York
l’avessero vista, e riconosciuta.
Perché nessuno aveva dimenticato, non il suo sacrificio che
lo
S.H.I.E.L.D. non aveva potuto tenere segreto alla popolazione mondiale
visto che il mondo intero aveva potuto assistere alla propria
fine scampata, non al
perché della sua presenza lì, sul pianeta.
Pericolo.
L’avrebbero pensato in molti, temuto in troppi se mai
l’avessero vista passeggiare per le strade, e capiva che ora
come
ora, con la minaccia imminente ma non ancora del tutto identificata,
era meglio mostrare riserbo.
- Capisco – convenne comprensiva, decidendo di
inclinarsi in avanti per incrociare lo sguardo che Loki, nel vedere la
chioma policromatica della compagna oscillare morbidamente nel vuoto,
si trovò a spostare su di lei e sul sorriso che gli stava
rivolgendo – credo però che non ci sia problema,
Loki
può rendermi un po’ meno appariscente.
Ovvio.
Nick Fury si diede dell’idiota ancor prima di trovarsi a
cogliere
il lieve annuire del dio prima di notare con la coda
dell’occhio
un movimento sospetto alla sua destra, lo scatto repentino che anche
qualche soldato si trovò a guardare con curiosità.
Tony Stark non sembrò far caso al fare scocciato con il
quale il
capitano dello S.H.I.E.L.D. si costrinse a prestargli attenzione, al
contrario, si trovò a sorridergli con quel viso stanco e
segnato
dalle occhiaie che aveva informato molti di loro sulla notte insonne
passata dallo scienziato.
E Pepper sapeva per esperienza che il marito, se non dormiva,
costruiva, e se costruiva qualcosa, di sicuro quel qualcosa non era
niente di sicuro, né di normale.
- Si, signor Stark?
In quel caso, il ‘signore era palesemente ironico, ma
l’uomo non parve indispettirsi, una mancata reazione per la
quale
Pepper e persino Bruce Barner si trovò ad aggrottare le
sopracciglia per rivolgerli uno sguardo cupo.
- Io avrei un’alternativa.
- E quale sarebbe?
Il tintinnio portò molti di loro a tendere un po’
di
più il collo per capire cosa lo scienziato avesse appena
allacciato attorno al polso di Astrid, ma a dispetto della comune
aspettativa di trovare qualcosa di orribilmente pacchiano e
appariscente, ci fu la semplicità di un grazioso bracciale
d’argento a incuriosire ancor di più.
Un monile che Astrid guardò deliziata, sorridendo
apertamente
nel notare i delicati ghirigori che si intrecciavano tra loro per
ricalcare le sagome di fiori.
- Ti piace ?
Bastò il fermo annuire della sua bambina a farlo andare in
brodo
di giuggiole mentre Nick Fury continuava ad altalenare lo sguardo dal
grazioso oggetto all’aria sognante dello scienziato.
- E questo sarebbe l’alternativa? Un bracciale.
Lo sguardo sprezzante con il quale Tony Stark sembrò tornare
in sé indispose non poco l’uomo con la benda.
- Non avrei mai costruito solo
un bracciale, le pare? – lo
rimbrottò innervosito, allungando una mano per afferrare il
polso sottile di Astrid e pigiare delicatamente un piccolo rialzo sul
monile,
impossibile da notare ad occhio nudo.
Si udì un lieve scatto, come di una serratura appena aperta
prima che un lampo di luce fluorescente togliesse loro la vista, una
manciata di secondi dopo la quale Astrid si sentì addosso
sguardi allucinati e increduli senza capire il perché.
- Tu- tu sei malato – sentì sibilare
papà
Bruce che ora, voltato interamente dalla sua parte le rivolgeva
occhiate fugaci e innervosite per le quali non seppe come reagire,
cercando in sua madre o persino in Loki un indizio del
perché di
tutta quella confusione.
Ma ci fu il braccio di Tony a strattonarla di lato, un braccio
che si ritrovò attorno le spalle nel venire premuta contro
il
suo fianco mentre la sua confusione cresceva e
l’irritazione di
papà Bruce aumentava.
- Perché quella faccia signori? Eppure dovreste essere
abituati alla mia genialità, non-
- Genialità un corno! – sbraitò Bruce
con un
diavolo per capello, allungando una mano per afferrare il polso di
Astrid e rigirarselo tra le mani – falla tornare subito come
prima – strepitò ancora prima di sentirsi
spintonare via e
tornare a guardare in cagnesco lo scienziato dal sorriso sprezzante.
- Cosa c’è Barner? Geloso?
- Falla tornare come prima!
- Perché dovrei ? – lo rimbeccò acido,
guardando
con compiacimento la sua opera – Non vedi che è
bella come
il suo papà.
E fu nel venire strattonata ancora che Astrid si sorprese nel notare
che la mano che papà Bruce stringeva non era più
blu, o
fluorescente, ma rosa e delicata come quella del genitore, come quella
che aveva sempre desiderato avere.
Sorridere era una reazione comune tra gli esseri umani, ma quando
Astrid sorrideva, lo faceva con un tale trasporto, con una simile
carica emotiva da anestetizzare i sensi e lasciare disorientati per la
forza di quelle emozioni.
Un disorientamento per il quale Bruce Barner si trovò a
guardare la figlia con indulgenza, anche se quella che
guardava era una donna con occhi nocciola e
labbra pallide aperte su un viso che rimaneva comunque
bello, comunque gentile, comunque
suo.
E sebbene fosse ancora perplesso per l’ovvia e
destabilizzante
somiglianza somatica tra Tony e l'umana sorridente che non aveva
smesso di guardarlo con amore, il dottore si convinse ad accettare
quella stranezza.
Perché Astrid sembrava felice, e se era felice lei, lo
sarebbe
stato lui e chi vide la figlia di Tony Stark abbracciare
con affetto quelli che, nonostante il colore di pelle, nonostante le
differenze, sarebbero stati sempre i suoi due papà.
Continua…
Grazie a chi legge la storia e continua a seguirla!
Al prossimo aggiornamento,
Gold Eyes
|
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Capitolo 4 *** 4 - Pale ***
Capitolo 4
“I have to try
To
break free
From
the thoughts in my mind
[…]
Have
to fight
'Cause
I know in the end it's worthwhile
That
the pain that I feel slowly fades away
It
will be all right “
[
Pale- Within Temptation]
- Sono così
belli.
Era stato meno di un
sussurro il suo, un pensiero espresso inconsciamente ad alta
voce, senza che realmente lo avesse voluto, ma c’era stato
così tanto incanto in quell’esclamazione da
convincere Loki a ricercare la stessa malia che Astrid pareva sempre
trovare ad ogni loro visita su quel pianeta.
Una bellezza che
però il dio non aveva mai avuto modo di cogliere, incapace
di definire incantevole una natura che l’uomo stava
uccidendo, o di poter captare il sottile fascino del quale la sua
compagna sembrava essere vittima, nel guardare tutte quelle creature.
Esseri umani.
Non c’era
forma di vita più abbietta di quella, persino suo padre
Odino, dall’alto della sua onniscienza, non aveva mai perduto
occasione di biasimarli.
Perché
erano creature da compatire, per le quali provare pietà,
commiserazione, ma non apprezzamento.
Di apprezzabile in
loro, in fondo, non vi era nulla.
Nessuna particolare
capacità che li rendesse migliori di altri, o più
avvenenti, scaltri, temibili, nulla per il quale valesse la pena
perdersi in considerazioni.
Erano banali, molto,
intrisi di una noiosa mediocrità che in lui
generava disprezzo, più che rapimento, una profonda
avversione verso ciò che l’uomo chiamava
“normale”ma che Astrid pareva trovare
così affascinante, bello, e incantevole.
Un apprezzamento che
lui non poteva e non riusciva a condividere.
Perché, che
c’era di così esaltante nell’essere
normali?
Quale profonda
bellezza c’era in quelle donne tanto identiche tra loro da
dar noia a guardarle?
Chi, tra
tutti quegli umani, poteva ritenersi fortunato ad essere
così privo di abilità?
Nessuna magia da
sfoggiare, nessuna capacità da reclutare, nulla che li
rendesse interessanti, o quantomeno utili, il motivo per il quale,
l’idea di essere divenuto loro protettore glieli aveva resi
ancor più detestabili.
Era stato in fondo
compito del padre degli dei, quello di difendere, non il suo, e non
qualcosa per la quale non provasse altro che sdegno e irritazione, non
un pianeta del quale non gli importava il destino, se la distruzione o
la vita.
Eppure, lo era
diventato, anche se di malavoglia, per desiderio di quella
creatura che persino in quell’involucro di noiosa
normalità pareva risplendere più di tutte,
risaltare, più di tutte.
Forse, gli umani che
sorpassavano nel percorrere il marciapiede si soffermavano a guardarla
per curiosità, o per i lineamenti graziosi e gentili, ma era
qualcosa di ben più nascosto, di ben più intimo
ad attrarli verso di lei.
Luce.
La vedeva scivolare
morbida in quelle pupille così curiose e affascinate,
bagliori perlacei che lasciavano col fiato sospeso per ciò
che lei emanava.
Potenza, e chiunque
era stato attratto dal potere, almeno una volta, lo era stato persino
lui, tanto ossessionato dalla volontà di divenire
invincibile, di divenire tanto forte da poter mostrare ad Odino di
essere meritevole del suo affetto, delle sue attenzioni, di quegli
sguardi che Thor catalizzava su di sè fin da
bambino.
Un bisogno di apparire
migliore di suo fratello, più grande di qualsiasi altro
essere vivente verso il quale il padre degli dei avrebbe potuto volgere
lo sguardo, ma quando lo aveva guardato, quando finalmente Odino si era
deciso a distogliere la sua attenzione da Thor, quello che lui aveva
ricevuto era stato solo biasimo.
Una desolazione che
aveva sbriciolato il suo amor proprio e allentato la presa su quella
mano che aveva tentato di salvarlo dalla caduta.
Ma Loki non aveva mai
smesso di cadere, perché nessuno era mai riuscito ad
afferrarlo in tempo ogni qual volta la terra gli era franata sotto i
piedi, una dolorosa discesa che però qualcosa era riuscito a
fermare, e attutire, un terreno che per quanto forte
l’avessero colpito, per quanto gli altri avessero provato a
sbriciolarlo, non avrebbe mai mostrato crepe o fessure.
La terra promessa che
Loki, dopo tanto vagare, era riuscito a trovare in lei.
- Lo hai sentito?
Astrid potè
seguire il sussulto sorpreso con il quale Loki reagì alla
sua voce, una reazione per la quale si trovò a scoccargli
un’occhiata preoccupata prima di tornare a cercare con lo
sguardo la fonte di quel suono.
- Ehi! Cosa
state facendo lì fermi ? – li richiamò
Tony Stark nel venire avvisato dalla moglie dall’assenza di
Astrid alle loro spalle.
- Ehi!
- Non lo senti?
- Cosa dovrei sentire?
– si innervosì a chiederle, agitato
dall’apprensione con la quale la vedeva guardarsi attorno.
- Ehi! Mi avete
sentito? Cosa-
- Astrid!
Il richiamo secco con
il quale Loki la chiamò la convinse a gettare
un’occhiata ansiosa alle proprie spalle, ma quando la folla
la inghiottì non potè che aumentare
l’andatura e concentrarsi per riuscire ad isolare quel suono
e trovarne la fonte.
Sorpassò un
paio di umani dall’aria eccentrica mentre il rumore di
clacson tornava a rendere quella breve scia sonora ancora
più debole, ma quando fu sul punto di svoltare
l’angolo percepì la vibrazione farsi
più acuta e vistosa alla sua sinistra.
Un passante la
colpì rudemente alla spalla nel sorpassarla in tutta fretta,
ma riuscì comunque a riprendere l’equilibrio
reggendosi ad un lampione e riprendendo la sua corsa affannata.
La voce preoccupata di
papà Bruce si levò alta tra la folla, ma Astrid
era troppo occupata a cercare con lo sguardo una figura piccola e sola
per poter prestare attenzione alla sua famiglia.
Perché lo
aveva sentito di nuovo, e non nei suoi incubi, non nella sua
testa, ma lì, a poco metri da lei, un pianto che
le aveva strappato il cuore dal petto.
Il disperato lamento
con il quale una piccola umana rimaneva ritta sul marciapiede opposto
al suo, stretta su se stessa senza essere aiutata da chi, nel captare
il piagnucolio, la guardava dispiaciuto prima di riprendere a camminare
e preferire non far nulla.
Ma quando finalmente
la raggiunse, quando finalmente si fermò, Astrid non pote
che scivolare sulle ginocchia e riprendere fiato mentre
aspettava che la bambina si accorgesse di lei.
Era minuta, con un
grazioso abito a fiori e una bambola stretta tra le braccine paffutelle
con le quali si puliva ad intervalli regolari gli occhi dalle lacrime,
occhi che vide sgranarsi sorpresi una volta vistala così
vicina.
- Ciao.
La piccola
umana si stupì un po’ al suono
della sua voce, e sembrò titubare sulla
possibilità di rivolgere la parola o fare finta di niente,
imbronciando le labbra ed intensificando la presa sulla bambola.
- Ti sei persa?
– le chiese gentile, sorridendole con calore per risultare
amichevole – sei con qualcuno?
- La mia mamma mi ha
detto di non parlare con gli sconosciuti – si
lasciò sfuggire la piccola, stringendosi su se
stessa nel tentativo di sembrare un po’ più alta e
un po’ più coraggiosa, ma la ragazza che le era
inginocchiata davanti era carina, e aveva un sorriso a labbra chiuse
che le piaceva, perché era come quello della sua bambola.
- La tua mamma ti ha
insegnato bene.
Le sfuggì
un sorriso nel sentire il complimento rivolto al genitore, ed Astrid
non potè che intenerirsi.
- Se vuoi, ora
noi ci presentiamo, così non sarò
più un estraneo e potrò aiutarti a
ritrovare la tua mamma, va bene?
Era un fare un
po’ ingenuo il suo, un gioco per rendere l’umana un
po’ meno spaventata e lei un po’ meno ansiosa.
- Va bene.
- Allora comincio io.
Il mio nome è Astrid.
- Il mio nome
è Eleonora, e significa cresciuta nella luce – ci
tenne a puntualizzare la bambina, calcando le ultime tre parole per
specificare l’importanza nel nome scelto da sua madre.
Una precisazione che
la fece ridere sofficemente prima di prenderla tra le braccia e
scandagliare i passanti in cerca della madre della piccola.
- Anche il mio nome ha
un bel significato come il tuo sai? – le bisbigliò
cospiratoria in un orecchio, reggendola tra le braccia con
naturalezza, come se non avesse fatto altro nella vita.
- E qual’
è? - le chiese Eleonora, affascinata, prima di
alzare lo sguardo sopra la sua spalla e accucciarsi contro il suo collo
nel vedere un’ombra nera incombere minacciosa su di loro.
- Significa amata
dagli dei.
- Astrid!
Il movimento
brusco alle sue spalle e l’improvviso irrigidimento
dell’umana la portarono ad indurire lo sguardo e
allungare una mano per allontanare chi l’aveva
appena afferrata per un gomito, ma quando mise a fuoco il
viso trasfigurato di Loki si calmò, rilassando la postura e
fissando con tranquillità la corsa trafelata con la quale
sua madre, e i due uomini a lei appresso la raggiunsero.
- Cosa –
cosa ti è preso? – la riprese severo Tony nel
piegarsi sulle ginocchia e fare segno di dargli tempo per continuare la
sua ramanzina, ma Bruce che di certo aveva una tempra ben
più allenata dello scienziato si trovò ad
avanzare di un passo con aria inquisitoria.
- Non è
modo di comportarsi così all’improvviso
– la rimproverò severo – mi hai fatto
preoccupare.
- Scusa
papà.
- Ehi, anche io mi
sono preoccupato sai – saltò su l’uomo
di metallo nel sentirsi escluso – e a me? A me non chiedi
scusa?
- Scusa
papà.
- Tu hai due
papà?
Fu il tintinnio acuto
di quella voce infantile ad attirare finalmente l’attenzione
dei due uomini e di Pepper che, nel vedere la bambina stretta tra le
braccia della figlia non potè che sentire una morsa allo
stomaco per l’apprensione.
- Astrid? Cosa-
- Lei è
Eleonora – si affrettò a spiegare imbarazzata,
toccando la mano che Loki aveva allungato sulla sua spalla e che ora
sentiva un po’ più dura contro la pelle
– si è persa.
Il silenzio attonito
che seguì la sua confessione la mise a disagio, ma era in
realtà lo sguardo silenzioso del compagno a darle una strana
sensazione di vuoto allo stomaco, una staticità che si
decise a interrompere, stiracchiando un sorriso e rafforzando
la presa attorno all’umana.
- Io- io
l’ho sentita piangere.
- Da così
lontano? – si stupì Tony, colpito al fianco da una
gomitata con la quale Pepper lo invitò al silenzio prima di
alzare uno sguardo comprensivo su Astrid che ora pareva così
disorientata su come agire, su cosa dire.
Perché
udire il pianto di un bambino tra il chiasso assordante di New York non
era normale, neanche per un dio, neanche per un essere soprannaturale
come lei, eppure, sua figlia aveva sviluppato una specie di sesto
senso per ciò che riguardava i bambini.
E che fossero i loro
primi vagiti, o un pianto scoppiato per capriccio, lei
l’avrebbe individuato e da questo sarebbe stata attratta
inconsapevolmente, per un istinto materno che, non potendo essere usato
per se stessa, si predisponeva all’utilizzo degli altri.
Come
l’aiutare una piccola bambina sperduta nel cuore della
città, di notte, senza che qualcuno potesse far caso al suo
pianto, se non Astrid.
- E come si chiama la
tua mamma, tesoro?
Eleonora si strinse un
po’ di più ad Astrid, scatenando un sorriso
caloroso in lei ed un irrigidimento doloroso in Loki che
abbandonò la presa sulla spalla della compagna,
indietreggiando di un passo, come a mettere maggior distanza tra loro.
Un particolare che
Astrid colse ma non si permise di esprimere assieme all’aria
ferita che nascose dietro un sorriso, accarezzando la bambina e
guardando sua madre in cerca di qualcosa al quale rivolgere la propria
attenzione per non crollare.
- La mia mamma si
chiama-
- Eleonora!
L’urlo li
fece voltare tutti verso due figure sottili accostate al muro di una
pasticceria, un uomo dall’incarnato pallido e una graziosa
donna dalla alta coda di cavallo che aveva appena gridato il nome della
bambina e che videro correre loro in contro con le braccia tese in
avanti.
- Mamma! –
strillò la bambina nel riconoscerla, tendendo a sua volta le
braccia verso la donna che, una volta raggiuntala, la attirò
a sé, fissando in apprensione la giovane dall’aria
gentile che da lontano aveva visto stringere la figlia.
- Chi siete?
- Io sono Pepper, e
lei è mia figlia Astrid – spiegò Pepper
velocemente, allacciando un braccio attorno alle spalle di Astrid che
per un momento, aveva visto tremare – abbiamo trovato vostra
figlia a piangere da sola, e ci siamo fermate per vedere se servisse
aiuto.
- Oh –
esclamò imbarazza la donna, arrossendo e sorridendo con
nervosismo ad entrambe – vi chiedo scusa allora per la mia
reazione, io-
- Non si preoccupi
– tentò di tranquillizzarla Astrid, sorridendo
gentile all’umana per tentare di far rallentare il pulsare
isterico di quel cuore che sentiva battere fin da lì, una
reazione per la quale si sentì in colpa.
Perché,
quale madre non sarebbe andata in una crisi di panico nel vedere il
proprio figlio tra le braccia di un estraneo?
Nessuno, una
constatazione che le offuscò lo sguardo di un rammarico per
il quale Pepper non potè che stringere aspramente le labbra.
- Allora è
meglio incamminarci, abbiamo un appuntamento.
- Oh, certo, e ancora
grazie per aver aiutato mia figlia – tentò di
rimediare la donna, abbassando lo sguardo nel sentire Eleonora
dimenarsi nella sua presa per poter avere la libertà di
movimento.
E quando Astrid vide
la manina paffuta della bambina trattenerla per la maglia non
potè che sussultare debolmente e osservare la
bambola che la piccola le stava tendendo con sguardo serio.
- È per me?
– sussurrò incredula, rialzando uno sguardo lucido
sulla bambina che vide annuire, allungando ancora la mano.
Aveva le dita che le
tremavano, e persino la voce, se mai avesse provato a parlare, sarebbe
andata in pezzi, perciò si limitò a sorriderle, e
per un attimo, un solo attimo, i suoi occhi parvero illuminarsi come se
la via lattea avesse voluto illuminare la via ad una creatura sperduta
per indirizzarlo verso la via di casa.
Un fenomeno per il
quale l’umana si trovò a fissarla per una manciata
di secondi con meraviglia prima di tornare in sé e
congedarsi con l’ennesimo ringraziamento.
- Mi ha regalato la
sua bambola – ripetè a se stessa con voce
trasognata, accarezzando con l’indice il viso morbido della
bambola di pezza – mi ha regalato la sua bambola.
- È stato
un gesto carino il suo, non trovi ?
Astrid
annuì con foga alla constatazione della madre, alzando un
sorriso sereno che le si sbriciolò in viso quando
incrociò lo sguardo di Loki.
Uno sguardo
distante, muto, un silenzio per il quale si trovò
a rabbrividire internamente prima di distogliere lo sguardo e mordersi
il labbro inferiore con indecisione nel compiere il primo passo.
Quando Loki la vide
passargli accanto senza rivolgergli più uno sguardo
indurì il viso e la piega delle labbra che tese aspramente,
artigliando l’interno della giacca di pelle con una tale
forza da farne udire lo strappo anche agli altri umani che di quella
scena non ne capirono il motivo, ma Pepper lo intuì.
Perché era
una donna, e quel malessere che portava sua figlia a trincerarsi dietro
un silenzio imposto era il senso di colpa, un torto che Astrid credeva
di aver fatto a Loki, ai suoi genitori, a chi le voleva bene,
perché nata imperfetta e incapace di dargli quello che
chiunque, persino il più debole degli esseri viventi sarebbe
stata capace di donargli.
Una prole, un erede.
E il freddo distacco
con il quale il dio degli inganni tentava di manifestare il proprio
disinteresse verso quella nascita neanche voluta, la noncuranza nei
suoi gesti e nelle sue reazioni volte a renderla consapevole di un
desiderio che lui non voleva e per il quale non la accusava, non la
consolava, come Loki pensava avrebbe fatto, ma l’avrebbe
ferita.
Perché, per
quanto verità vi fosse in quell’inesistente
desiderio di un erede, per quanto tentasse di convincerla che credersi
causa di un suo malessere immaginario fosse sciocco, ciò non
avrebbe cambiato la menomazione della quale Astrid si sentiva vittima.
Una mutilazione che le
avrebbe ricordato sempre che, per quanto normale avesse desiderato
d’essere, per quanto umana si fosse convinta di poter
diventare, vi era un limite, al quale dover sottostare.
Il limite di chi, di
soffrire e sacrificare una parte di sé
per tutto quel potere illimitato ma sofferto, non avrebbe mai smesso.
°°°
Susan Storm era una
donna pratica, che dello stacanovismo del suo futuro marito aveva
saputo farne il callo, ma odiava non essere considerata, e in
particolar modo, odiava non ricevere una risposta alle sue domande.
Perciò,
quando, nel tentativo di avvisare nuovamente Reed
dell’arrivo di ospiti non ne ebbe alcuna reazione, non
potè che richiuderlo dentro un campo di forza e sperare che
si accorgesse della mancanza di ossigeno che prima o poi lo avrebbe
convinto a scollare gli occhi dallo schermo del suo dannato computer.
Una privazione della
quale lo scienziato si accorse, annaspando incredulo per
l’espressione infastidita con la quale Susan lo stava
fissando.
- Scommetto un giro di
jack daniel’s che stavolta ci rimane secco –
esordì l’Uomo torcia, stravaccato bellamente sulla
sua poltrona reclinabile.
- Io credo che se lo
meriti.
- Grazie Ben.
- Di nulla tesoro.
- Allora? Hai capito
cosa sto cercando di dirti da più di un’ora?
L’espressione
rammaricata di Reed rischiò di farla scoppiare in una crisi
isterica, ma Johnny odiava quando la sorella cominciava a lamentarsi
della noncuranza del suo fidanzato storico, perciò si
decise, almeno per una volta, di rendersi utile per il bene della
famiglia.
- Ciò che
la mia adorabile ed isterica sorella sta cercando di dirti –
e lì gli sfuggì un verso gutturale nel patire una
pressione invisibile sullo stomaco, come se qualcuno lo avesse colpito
– qualcuno sta venendo a farci visita.
- Esatto –
continuò per lui Susan, schiudendo la bella bocca per
continuare il discorso, ma si trovò invece a liberare il
marito dalla morsa nell’udire il rumore di passi nel
corridoio.
Passi numerosi e
diversificati per categoria, ma bastò poco a tutti loro, e
in particolar modo a Johnny, per riconoscere l’affascinante
uomo dalla barba curata e dallo sguardo scaltro con il quale
perlustrò la sala circolare, fermandosi sull’uomo
magro e dall’aspetto emaciato che ricambiava
l’occhiata con un po’ di sorpresa.
- Tony Stark!
– saltò su Johnny nel riconoscere il
multimilionario che della sua sorpresa parve esserne lusingato prima di
accennare con il capo un cenno di saluto e lasciare il passaggio libero
all’arrivo delle altre figure.
Bruce Barner
salutò garbatamente la padrona di casa, provvedendo a non
attirare su di sé un’attenzione della quale
avrebbe odiato ogni stilla, ma ricordò a se stesso le
raccomandazioni di Maria sul suo poter apparire un sociopatico con quel
suo continuo estraniarsi dalla realtà.
Un isolamento dietro
al quale persino Astrid si trincerò nell’entrare
accompagna da Pepper e dalla figura muta di Loki, due passi indietro a
lei, sempre, due passi dietro di lei.
Era diventata la
loro distanza di sicurezza, lo aveva appreso con gli anni, lo
spazio che il dio le avrebbe concesso per lasciarla ai suoi pensieri,
un suo modo per sapersi tanto vicino da poterla portare via
in caso di pericolo e tanto lontano da poterle garantire
l’intimità della quale avrebbe potuto aver
bisogno.
Una solitudine che lui
non sarebbe stato capace di concederle se non attraverso quel misero
stralcio d’aria che li divideva, ma era un mondo quello che
il dio vide scivolare dolcemente verso l’ampia vetrata della
stanza.
Un universo pulsante
vita e luce, la stessa luce che Astrid faticava a tenere incanalata
dentro di sé tanta era la necessità di liberarsi
di quell’involucro che aveva voluto con tutto se stessa.
Ma non si poteva
cambiare ciò che si era, e fingersi qualcun altro non aveva
portato loro altro che dolore.
Dolore per chi, nato
nel ghiaccio e nel buio, aveva bramato e pregato disperatamente di
poter ricevere una stilla di calore.
Dolore per chi,
consapevole della propria inettitudine, non riusciva a farsene una
ragione.
Quando Tony Stark
prese posto al centro della stanza, non di lato, non di dietro, ma al
centro, Pepper informò se stessa della
possibilità di smetterla di concedergli la sua attenzione
per interessarsi di un uomo che, per quanti anni fossero passati, per
quante parole sua figlia avesse rivolto in sua difesa, lei non sarebbe
mai riuscita a capire.
Perchè Loki
era semplicemente troppo.
Troppo da analizzare,
troppo da cercare, troppo da mettere insieme.
E se ci si arrogava la
capacità di riassumere la personalità caotica e
selvaggia del dio come un’ovvia conseguenza del suo cuore
nero, allora si commetteva un peccato di superbia.
Perché
c’era molto più che un cuore nero sotto un petto
che molti avrebbero creduto muto, molto, molto altro.
Non solo orrore, non
solo odio e disgusto, ma un profondo e disperato bisogno di
attenzione, e non un’attenzione generale, ma specifica,
convergente in quello che Loki avrebbe nominato come il baricentro del
suo mondo.
Il centro di
gravità che finalmente gli avrebbe impedito di
venire gettato via e allontanato da ciò che, una volta
toccato, avrebbe visto morire sotto le proprie dita, un punto di
congiuntura tra lui e quella realtà che lo aveva vomitato
assieme all’orrore di non aver voluto mai
un’esistenza come la sua.
Ma un centro,
comunque, ciò che sarebbe dovuto essere il suo
perché e il come, ciò che un giorno, forse, gli
avrebbe spiegato il perché di tutto quel dolore, di quella
disperazione e solitudine che seminava attorno a sé ma per
la quale, in verità, non poteva far nulla, perché timido.
Di sicuro Tony avrebbe
riso di lei e di quei pensieri, ma Loki, per quanto pericoloso e
meschino si fosse mostrato, era una creatura insicura che non sembrava
riuscire a credere in nulla, neanche in se stesso.
Un'insicurezza
mostrata dal modo in cui, nella sua posizione rigida e severa, pareva
tendere in avanti per proiettarsi su una sagoma più minuta e
fragile, ma infinitamente più forte di quanto lui sarebbe
mai potuto essere.
Perché
Astrid era forte.
Lo era la sua anima, e
quel cuore che aveva saputo amare ciò che non poteva essere
amato, e voluto, ciò che nessuno avrebbe mai potuto
desiderare per sé ma che lei aveva amato fin da subito.
Un amore del quale
nessuno di loro avrebbero potuto mai capire la profondità,
ma solo ipotizzarla, abbozzarla dalla morbosa ossessione di lui verso
qualcosa per il quale era stato disposto a sacrificare ogni cosa, un
mondo, un unvierso, se stesso, tutto.
E non c’era nulla di malato, di cattivo, nel loro
amore, nulla per il quale ergersi a giudice e giustiziere per
condannare ciò che ora appariva così chiaro, ai
suoi occhi.
Anime gemelle.
Lo erano loro due.
La metà di
un’unica entità che senza l’altro non
avrebbe potuto vivere, né sopravvivere.
Un pensiero romantico
forse, ma un pensiero del quale Pepper ricevette la conferma nel notare
il movimento tenue e morbido con il quale Astrid aveva allungato le
dita per ancorarsi a quelle di Loki, quasi avesse captato il bisogno di
sentirla, di sentirsi, di sentire entrambi.
Un’empatia
che ora portava sua figlia a sorridere al riflesso suo e del dio che
parve ripulirsi dal grigiore che poco primo pareva averlo fatto
sbiadire nella cornice, tanto da diventare una sagoma indistinta, e poi
una macchia, solo una macchia, prima di tornare ad avere un corpo, un
viso, e un tenero e delicato senso di sollievo.
- Non credo che ci
siamo capiti.
Il tono affilato con
il quale Tony Stark si ritrovò a rivolgersi al dottor Reed e
al suo piccolo gruppo di supereroi costrinse tutti a reagire
nervosamente nel captare la tensione che ora tendeva il viso dello
scienziato e quello del dottore a lui di fronte, non meno inquieto.
- Io credo invece che
siate voi a non capire, signor Stark – cominciò il
dottore con voce solenne e rigida – sono stato io il primo a
individuare Silver Surfer, perciò –
- Chi? – lo
interruppe stralunato l’uomo, protendendosi in avanti con
sguardo confuso mentre una lieve smorfia andava a contrarre il viso
dello scienziato.
- Silver Surfer,
l’alieno – si trovò a specificare Reed,
sentendo il viso andare in fiamme nel sapere che la reazione del
multimiliardario non sarebbe stata diverso da quella con cui i suoi
compagni avevano reagito al soprannome dato alla creatura.
- Sa,
quell’alieno è color argento e bè, sta
– sta su una tavola da surfer, quindi – ma la
risata profonda dell’uomo gli portò via persino il
filo di voce con cui si era ridotto a dar spiegazione del
perché di quel nomignolo orribile, un soprannome per il
quale persino Pepper, benchè meno rumorosa del marito, si
trovò a ridere sotto i baffi.
- Vedi? – lo
riprese Tony una volta riuscito a quietare la risata convulsa
partitagli dal fondo dello stomaco - questo, amico mio,
è il motivo per cui sono io, quello ad aver ragione, e non
perché il fatto che io sia sempre nel giusto sia una legge
universale – divagò egocentrico, tirando un
sorriso un po’ più pungente e meno scherzoso
- ma perché ci sono tre buoni motivi per cui tu e
la tua famiglia vi limiterete a farci da supporto.
Uno,
perché in realtà non siete stati voi i
primi ad averlo visto, ma mia figlia – ci tenne a
puntualizzare, sforzandosi di non rivolgere un sorriso affettuoso ad
Astrid, impossibilitata però a non sorridergli di rimando,
sebbene in ombra, per non attirare l’attenzione.
- Due, noi siamo stati
autorizzati dal governo a rompere le cose, in più
siamo gli Avengers, il che dovrebbe già bastarvi –
- Ma anche noi
– provò a intervenire Jonhnny, subito zittito
dall’occhiata affilata che l’uomo
d’acciaio gli lanciò di sbieco, tornando a
guardare il dottore per alzare il medio e seguitare nella sua
elencazione.
- E come terzo e
ultimo punto, ricordate la nube di raggi cosmici che vi ha
dato i vostri “piccoli superpoteri”? – e
Tony ci tenne particolarmente a imitare le virgolette per ridicolizzare
ciò di cui andavano fieri, poteri che sì li
rendevano diversi, ma non potenti come il caso avrebbe richiesto.
Ben si
stizzì a quel suo modo di fare, ma Susan riuscì a
placarlo con uno sguardo serio che riportò sullo scienziato
con durezza, rafforzando la presa sulla spalla del marito che pareva
altrettanto innervosito, prima di intervenire a sua volta.
- Certo che la
ricordiamo, ma questo cosa-
- C’entra
mia cara – la zittì mordace, incrociando le dita
sotto il mento – perché noi tutti eravamo dentro
quella nube cosmica, e per un certo senso, siamo stati noi a causarla.
Come credete sia possibile per me vantare una tale avvenenza alla mia
età – se ne uscì alla fine, adducendo
al viso pulito e maturo, ma per nulla segnato
dall’età, come invece sarebbe dovuto essere.
Una
particolarità della quale però solo Pepper, Bruce
e Tony parevano aver giovato, e non per qualche strana invenzione dei
due scienziati, ma per un meccanismo molto più complicato di
quello.
- Voi- voi eravate
lì dentro? Ma non è possibile! Sareste dovuti
morire – saltò su Reed, facendo sobbalzare a sua
volta Susan e Ben, appena scattato in piedi assieme a Bruce che si era
avvicinato di un passo come reazione.
- Si, ma qualcuno ci
ha aiutato a scappare prima di poterlo essere – riprese
Barner, invitando il colosso di roccia a tornare a sedere mentre con
l’occhio controllava che Astrid stesse bene,
perché quelle non erano ricordi che sua figlia amasse
riportare alla mente.
La vide infatti
irrigidirsi un poco prima di distogliere lo sguardo e stringere in modo
impercettibile le palpebre, come per frenare il dolore che sarebbe
colato giù a fiotti dalle sua guance se si fosse permessa di
cedere.
Perché
Semjace era sì con lei, ma il non toccarla, il non poterla
abbracciare e sentire contro era ben peggiore dell’averla
davvero perduta, e uno spirito lo si poteva vedere, persino seguire, ma
non toccare, mai, toccare.
- E credete davvero
che noi accetteremo solo di farvi da spalla ? - se ne
uscì Johnny Storm con tono caustico, drizzando la schiena e
tendendo i muscoli delle braccia alla cui vista Bruce fece scattare la
mascella.
- Noi siamo
i Fantastici Quattro – e l’uomo di fiamma non
potè che manifestare un eccessivo adonismo in quella sua
constatazione – noi siamo degli eroi.
- Questo lo dubito
fortemente – borbottò Tony ad alta voce per
rimarcare la propria avversione al riguardo, un’esclamazione
per la quale Johnny si trovò a scattare in piedi e allargare
le braccia verso Pepper e le due figure che fino a quel momento,
nessuno, se non Tony e Bruce, non avevano perso di vista un istante.
- Mentre voi lo siete?
– lo riprese mordace – lei è un eroe?
– e nell’indicare la moglie del multimiliardario
Tony si trovò a serrare la mascella e incupire lo sguardo.
- Io abbasserei quel
braccio se fossi in te, e mi rivolgerei alla mia signora con un
po’ più gentilezza.
- Johnny –
provò a rimproverarlo Susan nel cogliere la tensione nella
voce dell’uomo di metallo e nel dottore che poco lontano
cominciava ad agitarsi nervosamente.
- Cosa Susan?
– aggredì la sorella – non capisci che
ci ritengono delle nullità? Noi, mentre loro possono contare
solo su un boss dell’alta finanza in gonnella e –
si interruppe per mettere a fuoco l’uomo alto e
dall’incarnato pallido che affiancava una figura
più minuta e graziosa sulla quale si soffermò,
schiudendo un sorriso languido alla cui vista Loki si
irrigidì.
- Bè, tu
credo sia l’unica che si possa salvare qui, dolcezza.
Astrid
reagì aspramente al tono carico di sottintesi
dell’umano, pensieri che lei non apprezzava e che nessuno
della sua famiglia, in verità, sembrò prendere
bene.
Persino sua madre non
potè che tendere la schiena e incrociare le braccia al petto
prima di consigliargli di non rendersi più ridicolo di
quanto stesse facendo, un commento per il quale Johnny parve risentirsi
ulteriormente.
- Non sono
io quello che si sta rendendo ridicolo – le rispose
l’uomo piccato, tornando a fissare le due figure e in
particolare l’uomo dal profilo aguzzo che non aveva mai
smesso di guardarli duramente fin dall’inizio – e
tu non credere che non mi sia accorto del modo in cui ci stai guardando
amico.
- Johnny ha ragione
– brontolò Ben dal fondo della stanza, alzando uno
sguardo freddo su quello incattivito che lo straniero non si
premurò di mascherare – quello lì non
ha fatto altro che rivolgermi uno sguardo che non mi piace.
- Visto Reed ?
– chiamò il cognato – Visto? Persino Ben
se ne è accorto! Perciò, perché non
buttiamo questi buffoni fuori a calci e –
- Chiedete scusa.
Quando
l’attenzione si catalizzò su di lei
Astrid non sembrò innervosirsi, né curarsi
dell’espressione attonita con la quale l’umano
dalle cattive maniere prese a guardarla, come a capire di aver sentito
davvero la sua voce.
Ma lei era vera, lo
era la sua voce e il comando che tornò a ripetere nel non
ricevere quanto richiesto.
- Chiedete scusa.
Susan
rabbrividì leggermente nel cogliere la nota autoritaria, una
lieve ma profonda fermezza che ora pareva renderla incapace di chiedere
il perché, un bisogno del quale suo fratello si
disfò con molto meno pazienza di quella che lei avrebbe
adottato.
- E a chi dovremmo
chiedere scusa dolcezza? – chiese l’uomo di fiamma,
sboccato.
- Ai miei genitori
– e Astrid indicò con la piccola mano sua madre e
i suoi due padri – per la maleducazione con la quale vi siete
rivolti a loro.
- Che paroloni per una
cosina così piccola come te.
- Johnny dannazione!
– scattò su Reed nel non riuscire più a
sopportare la boria del ragazzo, perché si stavano
comportando come idioti, e soprattutto, si stavano davvero dimostrando
inospitali in casa sua, non di quello stupido di Johnny, ma sua.
- E anche a mio marito.
Vi fu un silenzio
attonito dopo la sua seconda richiesta, ma Astrid non scostò
la mano dal braccio di Loki neanche quando l’umano, dopo aver
guardato entrambi per un po', scoppiò a ridere loro in
faccia.
- Johnny!
- Ma l’hai
sentita? – si difese lui nell’udire il rimprovero
in sincrono della sorella e di Reed – marito? – si
battè il petto un paio di volte, singhiozzando una risata
che tentò di contenere nel tornare a guardarli, ma quando
tornò a rivolgere loro la sua attenzione, potè
sentire l’aria e il riso strozzarsi in gola assieme al cuore
nel petto.
-Johnny?
Ma Johnny non rispose.
Non alla sorella, non
al richiamo confuso di Ben, non a Reed, a nessuno, e non
perché volesse mostrarsi ancora piccato per il mancato
appoggio della sua famiglia, ma perché, semplicemente, non
sembrava trovare più la voce.
In verità
non riusciva a trovare nulla, neanche la forza di distogliere lo
sguardo da quegli occhi cangianti che per un attimo, un solo attimo,
vide tingersi di verde, un profondo e acceso verde cristallizzato in
una pupilla che vide restringersi fino a sembrare quella di un rettile.
Lunga, sottile, e
fissa su di lui che non riusciva a muoversi, per quanto tentasse, e
l’impossibilità di riuscire persino a sbattere le
palpebre gli causò uno spasmo dello stomaco che gli si
accartocciò assieme ai polmoni quando vide il viso
dell’uomo scollarsi, come se qualcuno, aiutandosi con un
picchetto, gli stesse scrostando la pelle per vedere cosa ci fosse
sotto.
E ad ogni strato di
pelle asportata, dopo ogni pezzo d’epidermide graffiata,
l’orrore di vedere scaglie di un acceso verde acido comporre
come un mosaico il viso dell’uomo lo fece annaspare per la
disperazione di non riuscire a chiudere gli occhi per privarsi di
quell’orrore.
E provò ad
urlare il nome della sorella, di Ben, ma aveva le labbra sigillate, e
tutto ciò che poteva fare era guardare terrorizzato le
pupille oblique della creatura pulsare divertite della sua paura.
Sembrava persino
annusarla, ricercarla nell’aria e inalarla in quelle narici
sottili e incassate nel viso come fori senza spessore, e lui
puzzava di paura, ne rilasciava ogni stilla di sudore che gli imperlava
la fronte, ne sfuggiva via un po’ ogniqualvolta un pezzo di
pelle cadeva via assieme al suo coraggio e alla sua baldanza.
Perché non
ce ne era più da nessuna parte, e non ce ne fu neanche
quanto vide le labbra, ora una sottile linea bianca e liscia, curvarsi
in un sogghigno che mostrò il luccichio sinistro di una
dentatura aguzza, canini che Johnny potè sentire
premere contro la propria giugulare mano a mano che il sorriso si
allargava e la paura lo rendeva simile ad un manichino.
Un manichino del quale
avrebbe udito presto lo strappo quando
percepì il lieve sibilare di quella cosa prima di
vederlo scagliarsi su di lui e affondare con rabbia la sua
dentatura nel-
- Johnny!
Lo sguardo allucinato
con il quale suo fratello la guardò nel torcere
dolorosamente il collo mise Susan a disagio – tutto bene?
- Io-
- Ti stiamo chiamando
da più di dieci minuti – lo rimproverò
Ben che ora, sorprendentemente, non era più sulla poltrona,
ma al suo fianco, assieme a sua sorella e a Reed che lo fissava
crucciato.
- Ti senti poco bene?
Forse lo scontro con Silver Surfer deve aver alterato anche il tuo
sistema immunitario.
- Lo credi davvero?
– domandò la donna invisibile con orrore,
ritrovandosi a far altalenare lo sguardo ansioso dal viso crucciato del
marito a quello pallido e sudato del fratello.
- Io credo che sia
solo stanco.
Loki tese un sorriso
nel sentire su di sé gli occhi dei presenti, ma era su uno
in particolare che la sua attenzione era catalizzata, sulle pupille
nere cerchiate d’azzurro che vide tremare dal terrore
nell’incrociare le sue, nere e umane, ma non meno
agghiaccianti di ciò che aveva mostrato all’umano.
Un' illusione, un
avvertimento a non osare altro, non contro di lui, non contro la
compagna che di fianco gli stringeva il braccio.
- Come hai detto?
– sussurrò Susan con un groppo in gola, sottomessa
da una voce che nella sua testa pareva zittire ogni cosa se non quel
suono, come la melodia di un flauto magico che, se l’avesse
voluto, l’avrebbe guidato verso un precipizio senza che lei
avesse opposto resistenza.
Una sensazione che Ben
e Reed condividevano, asserviti a qualcosa che non capivano, non
vedevano, ma che impediva loro di rispondere all’uomo dal
sorriso affilato.
- Credo che
Johnny – e su quel nome Loki sembrò sputare le
maledizioni più orribili – abbia solo bisogno di
riposare, non è così?
- Io-
tentennò l’uomo di fiamma per un attimo,
sobbalzando nel risentire la morsa dolorosa alla giugulare,
lì doveva aveva sentito i denti affondare e dove
portò una mano per coprirsi – io credo di si.
- Quindi siamo
d’accordo sulla vostra azione di supporto dottor Reed?
- Io- io credo di
sì.
Il sorriso che Loki
rivolse loro sembrò cristallizzare le loro espressioni nella
smorfia confusa e spaventata con la quale il dio li lasciò,
dando le spalle e incamminandosi fuori dalla sala assieme agli
Avengers che di quella piccola opera teatrale avevano riconosciuto il
compositore.
Il solo che potesse
giocare con la mente umana e dilettarsi con il cuore che Loki avrebbe
potuto strizzare rozzamente tra le mani se ne avesse avuto desiderio,
ma ora non ne aveva, perché annoiato e placato dal tocco
delicato di quel piccolo palmo sul suo braccio.
Un braccio che sapeva
uccidere, un braccio che, se Astrid non fosse stata al suo fianco,
avrebbe affondato nel petto dell’umano per strappargli il
cuore e vederlo annaspare, petto contro petto, prima di strappargli a
morsi quel suo sorriso osceno e cavargli gli occhi che su di lei
avevano osato illanguidirsi in sua presenza.
°°°
- Ecco a lei.
Pepper sorrise gentile
all’uomo quando questo le tese due batuffoli di zucchero
filato prima di voltarsi a cercare con lo sguardo sua figlia
e ammorbidire la linea degli occhi nel trovarla
ferma in mezzo al via vai di gente.
Nessuno si soffermava
a guardarla per più di qualche secondo, giusto il tempo di
ipotizzare il perché del suo viso rivolto al
cielo, prima di riprendere a camminare, ma quando Pepper la
raggiunse non potè che alzare lo sguardo a sua
volta e allungarle lo zucchero filato.
Solo allora, nel
sentire il breve contatto caldo sulla propria mano Astrid
parve tornare in sé, distogliendo l’attenzione dal
cielo limpido per guardare di fronte a sé dove
incontrò sua madre e la sua espressione comprensiva.
- Andrà
bene tesoro – tentò di rincuorarla la donna,
invitandola ad assaggiare il dolce prima di prenderla sotto
braccio e portarla verso una giostra con cavalli e carrozze a forma di
zucca.
Pagò per un
giro, e sebbene le occhiate stupite delle madri lì accanto
la fecero sorridere un po’, guidò sua figlia ai
due cavalli che trainavano la carrozza, issando se stessa e aiutando
Astrid a salire in groppa al cavallo.
Cavalli minuscoli, non
adatti certo a sorreggere il peso di due donne adulte come
loro, ma quando la giostra cominciò a muoversi
Pepper seppe di aver fatto la cosa giusta quando vide il sorriso timido
con il quale sua figlia ancorò le mani alle briglie di
pezza, osservando divertita come il proprio cavallo andasse su e
giù prima di essere colte entrambe da un lampo di luce che
portò la donna a roteare gli occhi nel riconoscere la
scheggia rossa appena schizzata dal tetto di un furgone dei gelati.
Quando Tony Stark
toccò terra non si curò del grugnito con il quale
Hulk accolse il suo ritorno, né si premurò di
mascherare l’aria estatica con la quale contemplava la
fotografia appena scattata per essere poi inserita nel suo album di
famiglia.
Un nuovo grugnito da
parte del colosso verde lo avvertì però
della contrarietà del dottore, ma Tony fece
orecchie da mercante, decidendosi con aria annoiata di concedere la sua
attenzione ai “Fantastici Quattro” che di
fantastico, a suo parere avevano solo il nome, oltre a delle tutine
davvero ridicole.
- Bene, ora che siamo
tutti qui – e Reed non potè perdere
l’occasione di lanciare un’occhiata severa al
multimiliardario – possiamo prendere posizione ai posti-
- E lui?
L’uomo di
gomma si costrinse a continuare di spiegare il piano, ma quando Johnny
tornò a lamentare il proprio disagio non potè che
sospirare e seguire il braccio del ragazzo puntato sul giovane
appoggiato alla ringhiera di ferro del piccolo ponte sul quale avevano
deciso di ritrovarsi.
- Lui cosa?
- Perché
è qui? Non è mica un Avengers, non è
vero ? – si impuntò l’uomo fiamma con
acredine, rabbrividendo un poco nel sentire lo sguardo tetro
dell’uomo puntarsi aspramente sulla sua schiena.
- Bè,
diciamo che lo è per parentela – spiegò
Tony a tentoni.
- Per parentela?
– si stupì a chiedere Susan.
- Si. Per parentela,
ereditarietà, linea di sangue, chiamatela come vi pare, ma
lui comunque resta – e il discorso poteva considerarsi chiuso
se Johnny non avesse serbato tanto timore per lui e la sua aria
affamata, memore ancora degli incubi che lo avevano assalito la notte
scorsa e che ora lo rendevano ancora più irritabile.
- Ma ci
sarà solo d’intralcio!
- Invece ci
sarà di aiuto, più di quanto immagini, credimi
– si lasciò sfuggire Iron Man con un po’
di stizza, rivolgendo al “cognato” uno sguardo
avvelenato prima di rilasciare un lungo e profondo respiro –
diceva dottor Reed?
- Stavo dicendo che
ora sarà meglio prendere i posto prestabiliti. Hulk e Susan
pattuglieranno il lato est del parco, Johnny e Ben andranno a
ovest, mentre io, Iron Man e Jean Cloud andremo a sud del
parco divertimenti.
Jean Cloud.
Loki non
potè non stringere i denti nel sapere con esattezza chi gli
avesse dato quel nome, una vendetta infantile per la quale Tony si
trovò a sghignazzare.
- Ora bisogna solo
aspettare mezz’oretta e –
- Sta arrivando.
- Come?
- Sta arrivando
– ripetè Loki, tornando ritto con le spalle rigide
e gli occhi puntati verso il cielo terso.
- Che vuol dire sta
arrivando? Il mio dispositivo dice che non arriverà prima di
mezz’ora – lo contraddisse Reed, sicuro dei propri
calcoli.
- Se lui dice che sta
arrivando, allora sta arrivando – si trovò a
ringhiare Tony mentre l’aria pareva farsi
più fredda, il cielo farsi più scuro, e la terra
cominciava a tremare leggermente.
Una scossa di
magnitudo ridotta, ma sufficiente ad attirare lo sguardo dei giostrai,
dei bambini e dei loro genitori verso le nuvole appena condensatesi in
un unico punto, un vortice di nebbie scure al centro del quale sembrava
si stesse raggrumare una luce incandescente, dai riflessi perlacei che
Pepper vide tingersi di rosso prima di guardare Astrid e strattonarla a
sé per abbracciarla e urlare per l’orrore che ne
seguì.
Il boato che si
levò zittì le strilla isteriche e terrorizzate di
chi si trovò a strisciare verso i propri cari con un' ombra
incombente a gravare sulle loro teste, l’immensa onda
d’acqua che i fantastici quattro fissarono con angoscia prima
che Susan Strorm alzasse un campo di forza che le costò fin
da subito un gemito di sofferenza.
- Johnny!
– gli gridò contro Reed nel vedere un rivolo di
sangue scivolare giù dalle labbra della moglie –
cerca di far evaporare l’acqua!
L’uomo
fiamma annuì meccanicamente, volando lungo la barriera per
essere intercettato da Silver Surfer ancor prima di poter anche solo
osare un gesto, un capitombolo che lo rigettò nelle
profondità del lago mentre l’alieno tornava a
riprendere quota per puntare gli umani urlanti e l’immensa
ruota paronimica.
- Come-
- Da qui in poi ci
pensiamo noi dottore.
- Hulk spacca
– proruppe il mostro verde nell’accostare
l’uomo di metallo e ricercare con lo sguardo la scheggia
d’argento sulla quale era pronto ad affondare i denti.
-
Lì! – lo avvertì Tony
nell’intercettare la scia di onde gamma
dell’alieno, ma non fu l’amico verde, né
tanto meno la Cosa a poter prendere la rincorsa per gettarsi al di
là della barriera e saltare in groppa all’alieno.
Fu una figura sottile
ed elegante quella che Susan Storm vide passarle di fianco,
l’uomo dal sorriso sottile che vide incattivirsi mano a mano
che la figura avanzava verso il precipizio.
- Aspetta!
- Dove diavolo pensi
di andare? Così ti farai ammazzare! –
latrò la Cosa nel vederlo accennare un passo nel vuoto,
tendendo un braccio per afferrarlo, ma ciò che le
sue dita di roccia strinsero non fu una giacca di pelle, ma un mantello
verde dalle rifiniture dorate, e familiare, orribilmente familiare come
l’elmo dalle corna oblunghe che i supereroi videro
scintillare del sorriso macabro di chi il mondo aveva sempre temuto
,che mai avrebbe smesso.
- Tu-
Il ghigno
causò uno spasmo isterico alla parte deforme del viso, un
zampillare di lineamenti bruciati e cicatrici mai del tutto guarite che
resero l’unica pupilla buona l’unica cosa umana su
quel viso repulsivo.
- Oh sì, io.
Quando lo videro
volare feroce contro l’alieno Reed Richard parve non trovare
parole, né la volontà di chiedere
perché.
Perché
stesse succedendo tutto quello.
Perché il
dio degli inganni non li avesse uccisi.
Perché,
semplicemente, stesse andando tutto così male.
Quesiti ai quali non
riuscì e potè dare una risposta, non con sua
moglie a pochi passi da lui, accartocciata su se stessa, bianca in
volto e con le labbra sporche del sangue che oramai pareva uscire a
fiotti persino dalla bocca.
- Lascia andare.
Susan Storm
patì lo schianto dell’alieno sulla sua barriera
con un rantolo sommesso, strizzando gli occhi per mettere a fuoco lo
scintillio scarlatto della creatura che la accostava, l’uomo
d’acciaio che le aveva chiesto di lasciare.
- Lascia la presa ho
detto – tornò a ripeterle Tony mentre, con Hulk
sparito oramai oltre la foschia, sentiva le mani bruciare per il
bisogno di prendere a pugni qualcosa.
- Lascia andare quella
maledetta barriera.
- Sei impazzito per
caso? Non le vedi tutte quelle persone? Verranno uccisi se lascio
andare – gli strillò contro, attirando
l’attenzione del marito che anche da lontano
riuscì a sorreggerla allungando uno dei suoi arti.
- Fa come ti ho detto.
- Non ci penso neanche.
- Cosa diavolo sta
succedendo?
- Sta succedendo che
la tua isterica moglie non fa come le si dice – lo
informò Iron Man, stufo di fare da balia a quella
squilibrata – fa come ti ho detto, lascia.
- Non posso.
- Certo che non
può – la spalleggiò Reed sebbene la
visione di Susan sofferente lo ferisse – come puoi chiederle
una cosa simile? Fra quelle persone c’è tua
moglie! Non ti importa di lei?
- Mia moglie in
questo momento è più al sicuro che in un botte di
ferro, perciò convinci tua
moglie a fare come ti dico e aiutami a catturare quello squilibrato o
giuro che vi butto giù da questo ponte!
Ricevere
l’ordine di lasciare che mille o forse più persone
morissero per causa loro era assurdo, ma se era Iron Man, Avengers ed
eroe mondiale a chiederlo, allora qualcosa di giusto doveva esserci, e
Susan pregò di essere nel giusto, pregò
disperatamente prima di lanciare un urlo di dolore e alzare uno sguardo
sofferente sull’acqua prima di lasciare che suo marito la
portasse via di lì.
I primi ad essere
inghiottiti furono i furgoni che costeggiavano il parco di
divertimenti, poi i chioschi, dilungandosi in un immenso ventaglio
d’acqua gelata dalla quale, per quanto veloce avessero corso,
nessuno avrebbe potuto salvarsi.
E i fantastici Quattro
assistettero attoniti a quella scena raccapricciante, mentre le urla
della gente facevano sanguinare loro le orecchie e gli scontri tra gli
Avengers e Silver Surfer rendevano tutto più caotico.
Ma quando
l’acqua sommerse ogni cosa, persino le urla, Susan non
potè che nascondere il viso nel petto dell’uomo e
piangere la propria amarezza prima di sentire un ansito incredulo
contro il petto.
- Cosa diavolo-
- è quello
?– finì per lui Johnny, sospeso a
mezz’aria con gli occhi strabuzzati e il fiato stretto in
gola per lo shock.
Perché
c’era qualcosa, lì, in mezzo alla folla gettata a
terra, e c’era l’acqua sospesa sulle loro teste,
una tonnellata d’acqua ghiacciata che rimaneva ritta e
sospesa come una placca di ghiaccio temperato, ma acqua, in
verità.
L’acqua che
Susan aveva strenuamente tentato di bloccare, l’acqua che
videro evaporare sopra le teste di chi non guardava loro, non il vapore
che ora li attorniava, ma davanti a loro.
- Non è lui.
- Cosa tesoro ? - si
riscosse Pepper nel captare il sussurro di sua figlia.
- Non è lui
ad emettere quel potere simile al mio – ripetè
Astrid, stringendo gli occhi per ricercare la figura di suo padre e
quella di Loki nella foschia – è la tavola, non
l’alieno, ad avere il mio potere.
- Oh – si
lasciò sfuggire la donna, realmente incapace di dire altro,
perché quello non era certamente una delle opzioni messe in
contro, neanche una delle più terribili, e di risultanti
catastrofiche ne avevano tenuto conto.
Ma se davvero quella
creatura non era il vero possessore di quel potere, se davvero quella
cosa che Hulk, Tony, e persino Loki riusciva a stento ad imbrigliare,
era solo un emissario, allora la speranza non sarebbe servita a molto,
quella volta, non contro quello.
- Andrà
bene.
- Come?
- Andrà
bene. Ci sono io – e forse, se non fosse stata Astrid, se non
fosse stata sua figlia, se non fosse stato il Tesseract a pronunciare
quel giuramento, ma un semplice eroe, un semplice umano, un semplice
dio, Pepper non avrebbe potuto non temere per sé e la sua
famiglia.
Ma non era un comune
eroe quello che le persone attorno a loro fissavano in silenzio e con
le lacrime di gratitudine a bordar loro gli occhi, non era un dio
impietosito dalla loro vulnerabilità, ma era Astrid.
Astrid
l’umana.
Astrid la moglie di un
dio.
Astrid e basta.
Quando James Rhodes
diede ai suoi uomini l’ordine di attaccare si
ritrovò a coprirsi gli occhi con un braccio e sterzare il
manubrio dell’aereo per evitare di andare a collidere contro
qualcosa, un gesto che i militari dietro di lui imitarono prima di
sbattere le palpebre e provare a vedere cosa avesse generato quel lampo
di luce accecante, una luce che molti di loro, impiegarono pochi minuti
a riconoscere.
Perché la
morte non si dimenticava, né chi da questa ti risparmiava, e
lei, quella creatura di luce incandescente immobile nel cielo con la
mano stretta attorno alla gola del loro obiettivo era difficile, da
dimenticare.
- Signore? Tutto bene?
– lo richiamò il centro operativo.
Il soldato si
accostò la ricetrasmittente alle labbra per fare rapporto, e
forse, un tempo, dopo essere stato informato del pericolo, dopo aver
visto quanto davvero fossero deboli contro l’universo,
avrebbe optato per una risposta neutra.
Avrebbe potuto, se non
avessero avuto lei.
- Tutto bene, sono
arrivati i rinforzi.
- Quali rinforzi
signore? Qui alla base non è stato ordinato nessun invio di
rinforzi.
James non
potè che scucire un sorriso e allentare il colletto della
divisa prima di umettarsi le labbra e lasciarsi scappare una risata
profonda e sollevata.
- Diciamo che questo,
è un rinforzo non richiesto, ma ben accetto. Lo è
sempre.
Continua…
Ed ecco che per farmi perdonare il ritardo anticipo l'aggiornamernto di
questa settimana, ringrazio ancora chi legge la storia e viene a dare
un'occhiata, al prossimo aggiornamento,
Gold Eyes
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Capitolo 5 *** 5- Running Up That Hill ***
Capitolo 5
“You don't want to hurt me,
But see how deep the bullet lies.
Unaware I'm tearing you asunder.
Oh, there is thunder in our hearts”
[…]
“And if I only could,
I'd make a deal with God,
And I'd get him to swap our places,
Be running up that road,
Be running up that hill,
With no problems”
(Within Temptation – Running Up that Hill)
Fine.
Quattro lettere. Due
vocali. Due consonanti. Un’unica presa di fiato per concedere
sfumature d’orrore ad ogni cosa.
La fine di una
civiltà, di un mondo, di un’età
storica, e di una vita.
La loro,
vita.
Quella che tutti
videro passare davanti ai loro occhi e mischiarsi nel
cielo cupo dai riverberi scarlatti che il monitor rimandava ad
intervalli regolari mentre il sistema tentava di ricercare la fine di
quell’immagine.
Ma non ce ne era.
Non quel tipo, di
fine, ed era proprio l’impossibilità di
confinare quell’orrore, di quantificare il proprio terrore in
comparazione al danno che si sarebbe andato a subire, a rendere le loro
espressioni tanto affrante, e stanche.
- Credo che
basti così per oggi.
Il ‘click
della tastiera cancellò l’immagine dallo
schermo, ma non dalle loro menti, perché si sarebbe
ripresentata
ogni qual volta avessero guardato un amico, un parente, una moglie, un
figlio, o un marito pensando che forse, il giorno dopo, sarebbe potuto
essere l’ultimo.
Ed essere privati
persino del tempo, di ciò che era già
una condanna per il genere umano, rendeva la visione di insieme ancora
più agghiacciante.
Astrid
però, a dispetto di chi aveva già predisposto un
controllo all’alieno sedato e disteso sul lettino, continuava
a
fissare lo schermo in silenzio, ferma in mezzo alla stanza e al via vai
di militari che riportavano la presenza di nuovi giornalisti sotto la
Stark Tower.
Uomini e donne che
chiedevano risposte sul perché della sua
venuta, sul perché di quel nuovo attacco, sul come, quella
volta, avrebbero potuto farcela, perché c’era
consapevolezza, nell’aria.
Consapevolezza di non
poter nulla, contro tutto quello, neanche con
tutti quegli eroi, neanche con la ferma volontà di
proteggere il
mondo che stavano distruggendo ma che, in fondo,
l’umanità
amava.
Un mondo che quella
creatura, Galactus si corresse, sembrava voler divorare.
Non distruggere, non
radere al suolo, ma mangiare.
Perché
l’essere dei ricordi di Silver Surfer non era un mostro
comune, ma un universo, come lei, una fonte di energia
distruttiva che per vivere doveva annientare.
Ma anche se
ora conoscevano il nome di quella cosa,
ciò non li rendevano più sicuri di cosa stessero
per
affrontare, perché non lo sapevano, in realtà.
Potevano ipotizzare,
persino provare a immaginare l’entità
del danno, ma non potevano conoscerlo, e ciò li lasciava
atterriti e disorientati su come organizzarsi per difendersi.
Perché,
come ci si poteva difendere da qualcosa che si cibava di interi pianeti?
Nulla, se non
mandargli contro un suo pari.
Lei.
Una
responsabilità della quale Astrid si caricò nel
vedere attraverso lo schermo la smorfia stanca di Nick Fury.
- Quando?
- Hanno indetto una
conferenza stampa tra cinque minuti.
- Cinque minuti?
– ringhiò il capo dello S.H.I.E.L.D., la
mano corsa al viso sciupato per lisciare le rughe
d’espressione
che gli accartocciavanogli zigomi – e cosa dovrei dire in
diretta
mondiale? Che andrà tutto bene? Che non
c’è
da preoccuparsi?
James Rhodes
incassò le stoccate del superiore a capo chino, in
silenzio, senza mostrare la propria angoscia per ciò che li
attendeva e che non potevano controllare, così come non
avrebbero potuto contenere la reazione della popolazione mondiale alla
notizia che quella volta non poteva essere tenuta segreta.
- Il presidente?
- È partito
due ore fa per Berlino assieme ai capi delle altre nazioni per parlare
del da farsi.
- E ha lasciato il
lavoro sporco a me, come sempre d’altronde, in fondo
è me che linceranno.
- È per il
lavoro sporco che veniamo pagati così tanto
amico mio – si lasciò sfuggire Tony Stark nello
sfogliare
distrattamente i risultati delle onde cerebrali dell’alieno
prima
di coprirsi la bocca con una smorfia attonita – o
no, io
non vengo pagato affatto.
Fury si
lasciò sfuggire un rantolo di insofferenza
nell’udirlo, ma c’era un po’ di sollievo
ora, sul suo
volto, un sollievo che James imitò prima di spostare lo
sguardo un po’ più a destra, e
più
giù, per inquadrare la nuova venuta.
Ritta e composta, il
Terreract li fissava in silenzio, le mani
intrecciate in grembo e nessun sorriso a rendere la
profondità
dei suoi occhi un po’ meno agghiacciante, ma ora, era quella
stessa profondità, quell’abisso di luce a
schiarire il
cielo scarlatto impresso a fuoco nelle loro retine.
- Si?
- Io credo che
dobbiate dire la verità.
L’irreprensibilità
del suo tono la rese un po’ meno
dolce, un po’ meno pacata, un po’ meno umana,
perché
non c’era paura, in quello sguardo, neanche se avessero
provato a
rovistare un po’ più a fondo, non in lei, non in
chi
sapeva che a quella stessa infinità avrebbe potuto
contrapporre
la propria, non chi aveva promesso di proteggere.
Quel mondo, la sua
famiglia, e una civiltà sempre sul baratro
dell’estinzione.
- La verità
? – si trovò a sbottare Nick Fury senza
realmente voler scaricare su di lei il proprio malumore, e ancor prima
che fosse la sua coscienza a farlo rinsavire, ci fu uno sguardo, calmo
e agghiacciante dal fondo della sala, l’occhio vigile di un
dio
che nella mente gli rimandò l’immagine di lui
stramazzato
a terra, senza più testa.
Un' illusione dalla
quale l’uomo si riprese, scuotendo il capo e tornando a
guardare lei.
- E quale sarebbe la
verità, mia cara?
Astrid
indurì le spalle e lo sguardo, ponendo fine
all’immagine ingenua e debole di se stessa che gli umani
avevano
sempre conosciuto, una parte di lei, ma non la sola, non
l’unica.
Perché era
diventata donna, era diventata moglie, e soprattutto,
era diventata una sovrana responsabile della sua gente, di tutta la sua
gente.
Giganti di Ghiaccio e
umani, gemme di una corona che non aveva mai
smesso di pesarle sul capo, ma della quale andava fiera,
perché
consapevole di aver trovato qualcos’altro da proteggere,
oltre al
suo amore, e che fossero creature dall’aspetto
raccapricciante o
esseri esteticamente più apprezzabili, non importava, non
era
mai importato.
Non il loro aspetto,
non le loro origini, non il loro sangue,
perché avevano un cuore, uguale, identico al suo, un cuore
che
avrebbe tremato dall’orrore, urlato per il dolore, ma un
cuore
che lei avrebbe protetto assieme a chi, prima di lei, non aveva mai
smesso di difenderli.
- Che andremo in
guerra – e al sentire quella parola chiunque in
linea d’aria si trovò a torcere il collo con
apprensione,
fissando la creatura fluorescente che ora pareva molto più
alta,
molto più minacciosa di quanto fosse mai stata.
Perchè non
era la “guerra” umana alla quale lei si
riferiva, ma uno scontro che avrebbe davvero deciso il destino di
un’intera razza, della loro, razza, e Nick Fury non
potè
che stringere le mani in pugni prima di sentire il tocco leggero di
quel palmo su di sè.
Un palmo piccolo, dal
colore inusuale, ma forte, forse più di
lui, più di tutti loro, una forza che però quella
creatura sapeva rendere gentile, e calda, come un abbraccio nel quale
si sa di essere al sicuro, ed era un abbraccio quello che Astrid voleva
concedere all’umanità.
Braccia materne in cui
lasciare ogni timore e ritrovare la speranza di non essere soli.
- E che non sarete
soli – continuò pacata, alzando il viso
dalla mano che stringeva premurosa – perché non ci
sarò solo io a proteggervi.
- Cosa-
- Signore, la
situazione si sta surriscaldando qui sotto – si
levò dal corridoio la voce apprensiva di un militare, una
richiesta di aiuto che il capitano dello S.H.I.E.L.D. si impose di
accettare, fissando brevemente il Tesseract con serietà
prima di
stringerle un po’ la mano, come una sorta di ringraziamento,
ed
ordinare ai suoi uomini di avvisarli del suo arrivo immediato.
- Signor Rhodes?
Il militare si
fermò sulla soglia della porta nell’udire
il richiamo alle sua spalle, e quando incrociò lo sguardo
del
Tesseract, Astrid si corresse
con un sorriso al pensiero di quanto isterico sarebbe diventato
l’amico di vecchia data nel sentirla chiamare sua figlia a
quel
modo, e non potè che sentirsi come tanti anni fa, quando il
cielo aveva vomitato le stesse nuvole, le stesse stelle, lasciando la
pace e la tranquillità di un mondo salvato dalla fine.
Una fine che lei aveva
evitato, e una fine che, nel guardarla, sembrava
un po’ meno vicina, un po’ meno agghiacciante.
Perché una
fine, lei, era sempre riuscita a darla a chiunque.
A loro la fine di una
guerra.
A Loki la fine di
un’eterna afflizione.
A tutti, in quel
momento, la fine della paura.
- Vorrei mi facesse un
favore.
°°°
Maria Hill era avvezza
ai cambiamenti.
Ne era stata
spettatrice, critica, e a volte anche vittima, ma mai si era lamentata
di tutto ciò.
Perché
cambiare non era sempre un passaggio doloroso della vita
umana, a volte, come era successo a lei, poteva essere essenziale, e
infinitamente appagante veder mutare un aspetto della propria vita, e
il suo, di cambiamento, aveva spalle larghe, occhi neri, e un colorito
che molti avrebbero attribuito ad un malore improvviso.
Ma Hulk era
semplicemente verde, una pigmentazione che ora, col sole
accecante di Rio de Janeiro a sbattergli addosso, diveniva ancora
più appariscente.
Eppure, era un colore
al quale pian piano si era abituata, e che aveva
imparato persino ad amare, come l’uomo che dimorava dentro
quella
creatura sproporzionata.
Bruce Barner
le era parso fin dall'inizio un uomo gentile,
cordiale, ma difficile, estremamente difficile.
Difficile da
approcciare, difficile da affrontare, davvero,
difficile, una difficoltà che però ora Maria era
felice
di aver sbrogliato assieme alla matassa di ricordi dolorosi che le
avevano stretto il cuore e la gola per le lacrime.
Innamorarsi era
difficile, riuscire a farsi amare lo era ancora di
più, ma farsi amare da Bruce Barner era quanto meno un
pensiero
irreale, ma lei c’era riuscita alla fine, a vincere i suoi
timori
e buttare giù le sue difese.
Difese che avevano
già cominciato a cigolare fin
dall’arrivo della donna che ora, circondata da uno stuolo di
militari, camminava tranquilla per il centro della città con
accanto il proprio compagno.
Una creatura dalla
quale lei per prima aveva imparato il vero
valore della vita, non semplicemente umana o alinea, ma della
vita in genere, una lezione che Astrid aveva impartito a
tutti
loro, a chi era nato libero e di quella vita e libertà
doveva
ringraziare e farne tesoro.
Perché lei
non lo era mai stata, veramente libera.
Non era stata voluta,
non aspettata, non prevista, ma quando era
arrivata , quando avevano visto il lampo di luce che aveva informato il
mondo della sua venuta, tutto era cambiato, e per quel cambiamento,
tutti avrebbero dovuto ringraziare.
- Non credevo
arrivasse tutta questa gente – le sussurrò
di fianco un soldato, impressionato dalla strada gremita di persone,
gente delle favelas a giudicare dagli abiti dimessi e dai fisici
emaciati, ma una moltitudine che affollava e tendeva le mani verso
Astrid al pari di un messia.
Ma era solo una donna,
quella che camminava per la strada, una donna
che un’anziana dalla schiena ricurva accompagnava in
silenzio,
lasciandosi guidare dalla mano che Astrid le stringeva per aiutarla a
tenere il suo passo mentre attorno a loro, la voce tonante di Nick Fury
si elevava dalle radio e dai televisori di qualche bar.
E mentre lo sentivano
parlare di guerra, di pericolo, il mondo tremava
ma Rio de Janiero sorrideva, sicuro del domani, attratto dalla figura
sottile che puntava senza remore la statua imponente del Cristo
Redentore.
La camminata fu
stancante per tutti quei corpi umani che si accalcavano
per vedere e seguirla in silenzio su per la salita, ma quando
finalmente arrivano ai piedi della statua Astrid alzò il
viso al
cielo per ammirare il viso gentile del monumento e le sue braccia
aperte in un abbraccio imponente.
- Ed ora?
Estela strinse la mano
della sua scoperta quando la vide voltarsi a
guardarla con quel sorriso, lo stesso con il quale le aveva chiesto di
dare il bastone a Loki, una volta che la battaglia fosse finita, lo
stesso con il quale l’aveva vista librarsi e scomparire nel
cielo
assieme al suo cuore.
E fu il ricordo di
quella perdita, seppur momentanea, a convincere
l’umana a rafforzare la presa e reggersi un po’
meglio sul
proprio bastone per avere più aderenza al terreno, come se
si
aspettasse di essere strappata via da terra.
- Come lo
chiamate voi ?
- Come
chiamiamo chi, tesoro? – la richiamò
Pepper da poco dietro.
- Lui – e
Astrid indicò l’immensa statua.
- Lui è
Gesù.
Gesù.
Astrid sorrise,
ripetendo la parola come soleva fare da bambina, quando
ancora non conosceva nulla del mondo, e c’era la stessa
ingenua
curiosità ad addolcirle la voce e il bisbiglio, una dolcezza
della quale le sue labbra di impregnarono nel ripeterlo ancora, ma con
un altro nome.
Allah.
Buddha.
Re.
Messia.
Epiteti
così differenti ma con un’unica radice, un nome
che forse nessuno di loro ricordava più, perché
abbandonato nel passato assieme all’immagine sbiadita di un
profilo imponente come quello ma oramai sbiadito, dimenticato.
Chi, prima di lei, li
aveva difesi, protetti, amati come una madre.
Perché una
madre ama i suoi figli e basta, non giudica, non
punisce, ma ama, e la loro madre, la vita che sentiva pulsare sotto i
piedi e battere nel cuore di quel mondo era forte, potente e gentile,
infinitamente gentile.
Yggdrasill era il nome
che lei conosceva, quello che loro avevano
dimenticato ma che Loki aveva imparato a ritenere suo creatore, ma era
unico per tutti.
Per gli umani, per gli
uomini di Ghiaccio, per ogni creatura vivente.
La vita,
quella che poteva essere concessa ed essere creata dal
nulla, il dono che rendeva l’alberò
così diverso da
lei, quella dimenticanza della quale lei era stata vittima dai
Creatori, il limite del loro potere, il suo, limite.
Perché era
un grembo fecondo quello che Yggdrasill riempiva
d’amore, di vita, mentre sterile era solo il suo, un ventre
che
non avrebbe mai avuto la gioia di dare la vita a qualcosa, a qualcuno,
un' imperfezione che però mostrava come si dovesse
sacrificare
qualcosa, in cambio di altro.
E il suo sacrificio,
quello che i Creatori le avevano imposto era stato quello.
La creazione a
discapito del potere, potere infinito, ma incapace di colmare quel
vuoto.
Un vuoto che ora
però si era fatto più tenue, lì
di fronte, con quel viso gentile a guardarla con comprensione e amore,
amore incondizionato, proprio come il suo.
Ed era tempo di
mostrare all’uomo chi quell’amore aveva
sempre riversato e per il quale non si era mai risentito, per quanto
dolore le avessero arrecato, per quanto dispiacere le avessero inferto,
perché una madre perdona sempre i suoi figli, e
quell’emanazione di Yggradrill li amava tutti, senza
differenze,
senza ma nè perché.
Quando la videro
scostarsi dal gruppo Estela provò a riportala
indietro, ma la sua forza era nulla in confronto al magnetismo che
attirava la sua scoperta alla statua, una forza impalpabile
della
quale nonna Baba le aveva parlato spesso, in passato.
Perché
c’era una leggenda, attorno alla solennità
che ora impregnava l’aria, un detto popolare che consigliava
di
non chiudere gli occhi, ma di alzarli al cielo una volta perduto
qualcosa, una figlia, una moglie, un padre, un figlio,
perchè di
quelle perdite sarebbe rimasto qualcosa, accanto a noi, un frammento
che ci avrebbe accompagnati, tutelati fino al loro richiamo, quello che
li avrebbe ricongiunti tutti ai propri cari.
A chi aveva
abbandonato quella terra, ma non loro, non chi avevano
amato e che anche nell’aldilà avrebbero difeso,
protetto, e amato.
Ed alzò lo
sguardo, Estela, stringendo gli occhi per mettere a
fuoco il viso del Cristo e socchiudere le palpebre
nell’avvertire
una brezza leggera sul viso, come una carezza.
Un tocco fuggevole che
cominciò a spirare tra loro, sorreggendo
chi non ce la faceva, accarezzando chi non sorrideva, confortando chi
non credeva mentre la voce di Nick Fury, dopo un attimo di pausa,
tornava a tuonare tutto attorno.
- Perché
noi non siamo soli.
Si avvertì
una leggera scossa sotto i piedi, una lieve
vibrazione che fece urlare qualcuno, sorridere pochi, alzare lo sguardo
a molti, a chi sentiva qualcosa di caldo accanto a sé, una
presenza confortante che li abbracciava e li spingeva a guardare in
alto, verso il cielo che ora pareva così limpido e pulito da
dar
l’impressione di poter respirare meglio persino con la paura
a
stringere la gola.
- E mai lo
siamo stati.
- Si è
fatta grande.
Quando lo
udì accanto, flebile come un sussurro ma presente,
vero,
Estela non potè che tremare leggermente e stringere il
bastone
per reggersi sulle gambe che sentiva deboli, terrorizzata da
ciò
che aveva udito accanto a sé, angosciata dal pensiero di
essere
impazzita.
Perché
quella voce lei la ricorda, l’aveva amata e poi
perduta, come era giusto che fosse, ma non lo era risentirla, non
così vicino, non ora, non dopo tutto quel tempo.
Eppure, quando
l’urlo incredulo di una donna nella folla la
convinse a girarsi, il viso che si ritrovò un poco
più su
rispetto al suo era quello di suo padre Raul.
Seguì un
grido sommesso poco lontano, e un singulto strozzato,
vicino, tanto vicino da poter richiamare l’attenzione di
Astrid
che continuava a rimanere ritta e con il viso rivolto al cielo, ferma
ai piedi della statua.
Ma Tony Stark non
aveva potuto evitarlo, non di sentire il dolore
strizzargli il petto e condensarsi in una bolla d’ossigeno
che,
nell’uscire dal suo petto, era divenuto strozzato, non di
sgranare le pupille lucide e fissare attonito il viso squadrato di suo
padre Howard, imperioso come ricordava, ma lì, con lui.
- Tu – tu
cosa-
- Non sei felice di
rivedermi? – se ne uscì l’uomo,
scherzoso, raddolcendo il viso nel guardare il figlio e intravedere a
lui accanto una donna bionda stretta a due figure sottili e una terza
persona, il ragazzo dagli occhi nocciola che fissava l’uomo
con
occhi lucidi e affranti come quelli del padre.
- Nonno?
C’erano
urla, attorno a lui, strepiti isterici di chi,
nell’abbracciare i genitori, figli, mogli perdute, si trovava
ad
attraversare i loro corpi e guardarsi attorno con angoscia, ma Loki
distoglieva lo sguardo con irritazione nel sentirli su di sé.
Lui che era
l’unico a rimanere immobile, in silenzio, rigido
nella sua posa di spalle tese e labbra strette, una linea retta dal
colore della neve, pallida per il dolore che gli avrebbe cavato il
cuore dalla gola se si fosse azzardato ad aprire la bocca.
Perché lo
avrebbe vomitato, quel cuore, rigettato in terra e
calpestato per la frustrazione di provare tutto quel risentimento, e gelosia, un' infida e patetica
gelosia per ciò che vedeva.
Madri che
abbracciavano i propri figli, figli che abbracciavano i
propri padri, nipoti che stringevano piangenti i nonni di cui si era
solo sentito parlare, persino l’uomo verde pareva aver perso
la
propria compostezza, chino ad abbracciare una figura femminile minuta
contro la quale piangeva in silenzio, mentre lui, lui era solo, in
mezzo a tutto quello.
Nessuno da
abbracciare, nessuno da stringere, nessuno dal quale farsi guardare.
Ed anche se erano
spiriti quelli che trovava accanto a sé,
la gelosia gli stava divorando il cuore e avvelenando lo sguardo
puntato in cielo come gli altri, ma senza aver la
possibilità di
riabbassarlo sui propri genitori.
Genitori che lo
avevano abbandonato mentre quelli che l’avevano
amato, quelli che ci avevano provato, li aveva uccisi, smembrati, e
fatti cadere esanimi ai suoi piedi, un’immagine per la quale
si
trovò a strizzare le palpebre e irrigidire la mascella forte
per
sopperire a tutto quel dolore.
Il dolore di sapersi
solo, di aver avuto una famiglia, ma di essere
stato allontanato da questa, emarginato come il più infimo
delle
creature, come il più inutile degli esseri viventi, una
sensazione di impotenza per la quale, fin da bambino, aveva sofferto.
Impotente di fronte
agli sguardi orgogliosi che Odino rivolgeva a Thor
invece che a lui, gli abbracci che Frida soffermava un po’ di
più su Thor che su di lui, gli sguardi amorevoli che tutti
rivolgevano sempre a Thor ma mai a lui.
Ed erano morti per
questo, per quella loro incapacità di amarlo
come avrebbe meritato, come sapeva di dover essere amato, ma alla fine,
si era comunque ritrovato con le mani sporche di sangue e il cuore
ancora spaccato a metà.
- Loki.
Quando lo vide
riaprire gli occhi Astrid sperò di non trovarvi
ciò che aveva immaginato, ciò che aveva sempre
temuto di
riscoprire un po’ più in fondo, in quegli occhi,
ma lo
trovò comunque, per quanto disperatamente avesse
pregato
di non ritrovarlo più.
Eppure era
lì, il dolore.
Nelle pupille che ora
provavano a tremare un po’ di meno per non
mostrarsi debole, sciocco e patetico, ma era proprio quel suo bisogno
di mascherarsi a bordarle gli occhi di lacrime, il bisogno di
nascondersi per paura di essere deriso, scacciato, biasimato.
Una paura che aveva
portato lui a stringer a quel modo gli occhi e lei
a voltarsi con apprensione nel percepire il cambiamento in lui, un
mutamento che aveva reso la sua figura un po’ più
sbiadita
e cupa, come se stesse per scomparire, ma era davanti a lei, Loki era
davanti a lei ricordò a se stessa, allargando le braccia per
invitarlo ad andare da lei, lei che come lui non aveva
nessuno
spirito a starle accanto, non su quel mondo dove non aveva niente di
suo, nulla che avesse perduto davvero.
Aveva solo lui, come
lui aveva solo lei, ed erano entrambi la famiglia
dell’altro, una famiglia che si erano scelti
perché dalla
propria cacciati e respinti.
Due scalini saliti con
stanchezza, poi il terzo e il quarto scavalcati
assieme, e il quinto, sesto, settimo fatto di corsa, veloce, tanto
veloce da privarlo dell’orgoglio con il quale si era
ripromesso
di raggiungerla per mostrarsi indifferente a tutto quello, ma era da se
stesso, che Loki scappava.
Era sempre scappato da
se stesso.
Quando lo
sentì crollare su di sé Astrid fece forza sui
talloni per sorreggere entrambi, per far sapere che quella terra sulla
quale Loki aveva creduto di poter finalmente riposare non avrebbe
ceduto, che lei, non avrebbe ceduto mai.
Perché lo
avrebbe sorretto, difeso, protetto da se stesso e da
ciò che credeva andasse ucciso, da
quell’orrore che
credeva di essere, uno scherzo della natura del mai nessuno
aveva
avuto il coraggio di farsi carico, perché gravido di troppo
marciume, troppa disperazione, troppo tutto da poterlo sopportare.
Ma lei lo avrebbe
sopportato, ogni dolore taciuto in gola, ogni sguardo
lucido nascosto lì dove nessuno avrebbe provato a scavare,
avrebbe ripulito ogni cosa, ogni macchia, schizzo che lui credeva di
poter diventare.
Lo avrebbe amato come
meritava, come lui sapeva di dover essere amato,
e sarebbe stata la sua Yssgradill, il suo albero della vita, chi lo
avrebbe protetto, confortato, amato senza remore alcuna.
Ed avrebbe fatto in
modo di avere le radici più forti, gli
arbusti più robusti di ogni altro, così da
rimanere
piantata a terra e non lasciare a nulla, non vento, non fuoco, acqua a
smuoverla lì dove si era piantata, in quel cuore che sentiva
pulsare frenetico contro l’orecchio mentre la terra tremava e
la
vera madre, la vera Yssgradill di quel mondo tornava a mostrare il
proprio corpo affusolato, la chioma scarlatta dai rami possenti che un
po’ alla volta si tesero verso il vuoto, come mani allungate
per
afferrare qualcosa, per proteggere qualcosa, i figli che lasciarono di
nuovo prima di divenire ciò che prima o poi, ogni uomo
sarebbe
diventato dopo la morte, un ramo, forte e vigoroso, capace di
alleggerire i propri figli del peso della vita.
E mentre
l’albero cresceva, mentre l’umanità
intera
si trovava ad alzare lo sguardo verso le anime di coloro i quali
continuavano a proteggerli dall’alto, Loki stringeva a
sé
il cuore pulsante dell’universo, il suo
cuore,
quello attorno il quale le radici di Yssgradill si erano intrecciate
per darsi la spinta verso l’alto, lì, verso quel
cielo
fatto di foglie, rami e amore.
L’amore di
quelle madri, sorelle, padri e fratelli che mai
avrebbero smesso di proteggere chi per loro aveva significato la vita
Perché
nessun genitore, alla fine, avrebbe mai potuto
smettere di proteggere la propria famiglia, né i
propri
figli.
°°°
“Dottore”
era stata la prima parola verso la quale avesse
imparato a nutrire sentimenti contrastanti, divisa fra
l’amore
per il padre che di quel titolo era stato omaggiato dagli abitanti
delle favelas in onore del suo buon cuore, e l’odio
per
quegli uomini in camice bianco che avevano giustificato le loro torture
come il compito di ogni professionista dedito alla scienza.
Ma anche suo padre era
un dottore, e sebbene la vista di quel lettino
le riportasse alla memoria le volte in cui si era ritrovata assalita
dalle convulsioni per la sua poca collaborazione, ricordò a
se
stessa che non era lei, quella lì sopra, e che quella
creatura
era stata sedata e trattata più umanamente di quanto
avessero
fatto mai con lei.
- Se continui a
fissarlo a quel modo il vetro potrebbe andare in frantumi,
sai?
Astrid distolse lo
sguardo dalla vetrata nell’udire il tono
divertito della madre, accostata alla finestra dalla quella era
possibile vedere una buona porzione di Yssgradrill, divenuto tanto
imponente da aver coperto per un quarto la superficie terreste.
Ma Pepper non fissava
più l’imponente albero da un
po’, attenta al riflesso di sua figlia, raccolta su se stessa
sopra un divanetto, le braccia allacciate alle ginocchia e lo sguardo
incollato alla camera insonorizzata dalla quale erano fuggite un ora fa.
Fuggite non era il
termine giusto, in verità, perché
erano state cacciate, e anche frettolosamente, ma non dai due eroi che,
in un moto di iperprotettività verso la propria prole,
avrebbero
potuto decidere di tenerla a chilometri di distanza
dall’alieno
sedato, ma da Loki, che nel captare il brivido con il quale la compagna
aveva guardato la creatura alla quale lui stringeva il capo per
rovistargli tra i ricordi in cerca di notizie su Galactus, le aveva
ordinato di aspettarlo fuori.
E Astrid aveva
eseguito subito il comando del compagno, fuggendo via
tanto velocemente da informare tutti loro che il suo disagio era ben
più profondo di quanto avrebbero potuto ipotizzare, ed era
stato
proprio Loki, l’algido e freddo Loki ad accorgersene, uno
smacco
per il quale Tony si era ritrovato a imbronciare le labbra e
incaponirsi con alcuni calcoli impossibili per distogliere la mente
dalla propria inettitudine come padre.
Quando Astrid
sentì il tessuto morbido del divano inclinarsi
sotto il peso della madre tentò strenuamente di non guardare
quella creatura priva di sensi, ma c’era la paura, a
costringere
le sue pupille a seguire irrazionalmente Loki, suo padre, chiunque in
quella stanza fosse in linea d’aria con il suo sguardo.
Paura di non essere
abbastanza attenta, abbastanza veloce da
intervenire in caso di pericolo, un pericolo che sentiva frusciare
nell’aria, sopra la sua testa, come una mano pronta a calare
su
di lei per strapparla da terra e avventarsi sugli umani.
Perché non
era lui, chi stavano cercando, non era Silver Surfer,
il loro nemico, e tenerlo imbrigliato a quel modo non avrebbe dimezzato
le possibilità di poter essere attaccati, non contro chi
aveva
il potere di creare portarli come, lei, e per quanto Yssgradrill
avrebbe potuto difendere i suoi figli, nessuno avrebbe potuto difendere
lei che lo sentiva attorno a sé.
Vicino, tanto vicino
da stringerle la gola per l’angoscia di
trovarlo seduto di lato, a fissare come lei la vetrata e sorriderle con
un viso che non conosceva ma che nei suoi incubi aveva immaginato
frammentato come una maschera di creta spaccata per il calore.
- Di cosa hai paura
tesoro? – sentì bisbigliare sua madre, apprensiva.
Di cosa aveva paura?
In quel momento di
tutto, e di perdere.
Lei, i suoi genitori,
Loki, tutto ciò che aveva costruito con
tanta fatica, troppa per poter accettare di lasciare la presa
e
abbandonare ciò che il mondo non le aveva concesso ma per il
quale era stata costretta a lottare, e a uccidere, quella
volta
però il suo nemico era potente, era pericoloso, e
ingiustamente crudele verso di lei.
Perché non
capiva il motivo di tanto odio, di tanto feroce
accanimento verso di lei, verso quelle creature
così
delicate e fragile da farle temere di poterle vedere spegnersi davanti
ai suoi occhi da un momento all'altro, non capiva il perché
di
tutto quello.
- So io cosa ci vuole
in momenti tristi come questi –
saltò su Pepper con un sorriso conciliante, incamminandosi
verso
il distributore che la donna aveva deciso di inserire
nell’ufficio di Tony per evitare di ritrovarlo stramazzato a
terra per astinenza da caffè, ma ciò
che
l’umana prese per sé e la figlia fu cioccolata.
Calda e densa
cioccolata profumata che Astrid annusò con un
sorriso quando la madre le porse il bicchiere di plastica gialla.
- Bevi, sono
sicura che ti sentirai subito meglio.
Ed era vero, o forse
voleva che fosse vero, ma lo zucchero riusciva a
smorzare l’amarezza della bile che risaliva a fiotti dalla
sua
gola mentre guardava sua madre tornare alla finestra, sorseggiando la
bevanda e sorridendole attraversa il vetro, come per controllarla senza
essere soffocante.
Ma non lo sarebbe
comunque stata, e se anche così fosse stato,
non se ne sarebbe lamentata, non ora che aveva bisogno di contatto
fisico, tocchi, mani, sguardi che sapeva di poter trovare se avesse
alzato il naso un più in su, ma si limitò ad
affondarlo
nella tazza e osservare il proprio riflesso tremolante.
Il cioccolato era
dolce, zuccherino, e caldo, un calore che le
colorò le guance di rosa prima che l’afflusso di
sangue si
interrompesse nel sentire un tocco fuggevole sulla sua testa, ma quando
Astrid si voltò a controllare, trovò sua madre
nella
stessa identica posizione, lì dove l’aveva
lasciata.
Immobile.
Nel sentire lo sguardo
insistente su di sé Pepper le sorrise
conciliante prima di tornare a fissare il cielo, ma la
sensazione
di disagio non abbandonava Astrid.
Tornò
comunque a rilassarsi sul divanetto, chiudendo le
palpebre per rilassare le pupille che avrebbero cominciato a
lacrimare se avesse continuato a tenerle tanto sgranate mentre la
stanchezza, unita al languore della bevanda, ammorbidiva ogni nervo
teso, stendeva i lineamenti crucciati, e permetteva al suo cuore di
tirare un profondo e lento sospiro di sollievo.
Un sollievo di breve
durata, il tempo di un nuovo respiro incastrato
nel petto che Astrid irrigidì assieme al busto nel percepire
di
nuovo quel tocco sul suo capo, un peso leggero, simile ad una carezza
gentile, ma non era gentile, perché c’era qualcosa
di
sbagliato, nell’odore di quella mano che la sfiorava.
Una puzza di zolfo e
bruciato che la portò a stringere gli occhi
e il bicchiere di carta nella speranza di scacciare
quell’illusione mentre la presa forte di Sunniva attorno alla
sua
vita le ricordava che lei, quel fetore, l’aveva aspirato fino
ad
esserne disgustata.
Un olezzo che pareva
divenire più forte mano a mano che la mano
scendeva a toccarle la fronte, calando sulle tempie dove il sudore
cominciava a raggrumarsi, ma continuò a tenere gli
occhi
chiusi e la mente rivolta a pensieri felici, ad immagini felici, ma era
rosso, tutto ciò che vedeva.
Rosso come il cielo
scarlatto che i suoi occhi avevano inghiottito
voracemente per quantificare la grandezza del pericolo, rosso come le
dita che riscoprì incorniciarle il mento prima che il suo
urlo
si levasse nell’aria e la tazza finisse rovesciata a terra
assieme al suo contenuto.
- Tesoro? Tutto bene?
Astrid
guardò la madre con gli occhi sgranati dalla paura, ma
non trovò mani artigliate a graffiarle il viso,
né un
busto privato di un suo arto ad accogliere il suo terrore, era
semplicemente sua madre, spaventata quanto e forse più di
lei.
- Astrid?
- Io- provò
ad articolare, finendo col guardarsi nervosamente
attorno e puntare lo sguardo al suolo, sulla ciocolata rovesciata che
rimandava la sua immagine tremante e sorpresa.
- Tutto bene?
- Si – si
arrese a dire, chinandosi sulle ginocchia per rimediare
al danno mentre sentiva lo sguardo apprensivo della madre provare a
superare la barriera visiva che aveva creato coi propri capelli, ma si
sentiva stupida, in quel momento.
Stupida per essere
stata suggestionata da immagini con le quali avrebbe
dovuto imparare a convivere, stupida per aver spaventato sua
madre e se stessa per qualcosa che non poteva esserci, non
lì
non con loro.
Quando
sentì i primi passi seppe di non potersi
più
nascondere dietro i propri capelli, ma si concesse qualche altro minuto
di silenzio prima di sollevare lo sguardo dalla chiazza scura e
stiracchiare un sorriso imbarazzato, un sorriso che le si
congelò in volto quando li trovò ad un centimetro
da lei.
Non piedi, non
scarpette graziose, ma zampe dalle unghie curvate in
artigli d’avorio che riflettevano il suo viso pallido e
l’orrore di quello sguardo che Astrid ebbe paura di
sollevare,
per timore di sapere cosa si sarebbe trovata davanti, cosa la stava
guardando a sua volta, e continuava a tenerle quella mano sulla testa.
Ma non vi furono urla
quella volta, solo passi scoordinati e braccia
tese in avanti per mettere più distanza possibile tra lei e
la
creatura inghiottita dal cielo venato di nero che ritrovò
davanti a sé, non più il corridoio, non
più casa
sua, ma fuoco e nero, un nero soffocante che ritrovò sulle
mani
nell’abbassare gli occhi.
- Tesoro?
Pepper
arricciò le labbra nel non ricevere una risposta, ma le
spalle, spalle che vedeva tremare debolmente assieme alle mani che
Astrid strofinò ferocemente sul suo bel vestito,
arrossandole
per lo strofinio isterico con il quale tentava di pulirle da
quell’orrore, ma era come incollato alla sua pelle.
Un altro passo goffo e
incespicato, un altro sguardo attonito che la
donna si trovò a rivolgere a sua figlia e alla vetrata
dentro la
quale nessuno pareva essersi accorto di nulla, e Pepper
tentennò
un attimo, indecisa sul da farsi prima di notare attraverso il vetro il
modo in cui sua figlia assottigliò d’improvviso
gli occhi,
avventandosi su di lei e causandole un grido sorpreso che
l’umana
si costrinse ad inghiottire quando lo vide torreggiare su di loro.
Alto, dalle braccia
sinuose e dalle spalle larghe che un cielo nero
rendeva difficile da separare, perché c’era nero,
dietro
di lui, nei suoi occhi, sulle sue braccia e in quelle mani artigliate
che vedeva pulsare come la carne viva di una ferita inferta a
tradimento.
Un incubo,
perché era il parto di un incubo la creatura che la
fissava con i suoi occhi sgranati e sproporzionati, privi di palpebre,
che vide scattare serpentine sulle pupille violacee dilatate
dall’eccitamento.
- Notevole.
La puzza di zolfo
investì entrambe come una folata di nube
tossica vomitata dalle profondità di una palude, ma Astrid
si
costrinse a rimanere immobile sebbene la vicinanza con quella
creatura le desse un senso di nausea.
Un disgusto che gli
vomitò addosso nella speranza di poterlo
allontanare, ma lui non indietreggiò, non si
mostrò
infastidito, ma inverosimilmente deliziato da quella sua reazione.
La pelle che richiuse
nel palmo era morbida come aveva immaginato, come
sapeva sarebbe dovuta essere, morbida e calda come un respiro di vita
chiuso tra le dita, dita che la creature schiuse su quel volto
grazioso, stuzzicando le ciglia pallide per convincerla ad aprire un
po’ di più gli occhi e mostrargli ciò
che per cui
era venuto, ciò che la rendeva migliore di lui.
E quando le scorse,
quando i profili delle galassie gli rigettarono in
viso i loro colori sgargianti, Galactus non potè che
rafforzare
la presa sulle sue guance nel sentire lo stomaco
brontolare, sorridendo biecamente nel cogliere il
lieve
spostamento d’aria al lato destro del capo.
Quando il braccio
tornò al suo fianco Astrid potè tornare
a respirare nel notare la distanza recuperata, ma era comunque vicino,
e veloce, lo era stato quando aveva provato ad avventarsi su sua madre
che ora le stritolava il braccio con angoscia.
- Tony
– la sentì sussurrare dietro di lei,
mentre
Galactus raccoglieva il sangue scaturito dalla ferita al viso con
l’unico braccio rimasto, perché l’altro
glielo aveva
tranciato lei stessa, e glieli avrebbe strappato tutti se avesse
provato ancora ad avanzare.
- Tony –
tornò a chiamare Pepper, e questa volta con
più voce, stringendo Astrid contro il petto quando colse il
movimento febbrile davanti a lei.
- Non immaginavo
così il nostro primo incontro.
- Chi sei?
- Chi sono?
La risata che gli
graffiò il petto fu stridente e acuta come il
grattare isterico di un gesso sulla lavagna, una cacofonia che Galactus
rese ancora più sgradevole digrignando i denti e soffiandovi
attraverso il fiato di zolfo – vedo che Yehouda non si
è
premurato di informarti della mia esistenza.
Il solo sentire quel
nome le inondò il viso d’orrore al
ricordo di quegli artigli chiusi attorno alla sua gola, una sensazione
di soffocamento che si costrinse a zittire, ricordando a se stessa che
non era sola, ma che c’era sua madre, accanto a lei.
Sua madre che era
umana, e fragile, infinitamente più
vulnerabile di chiunque altro, in quel momento, con quella creatura
innanzi a loro.
Lo videro ondeggiare
flessuoso sulle gambe lunghe e ossute, sorridendo
gentile con una bocca due volte più larga del
nomale,
senza labbra, ma con un unico taglio dritto a dargli la
possibilità di parlare e ridere di loro.
- Come fai a conoscere
Yehouda?
Uno sguardo affilato
fu tutto ciò che ebbe in risposta prima di
vederlo tendere il viso e schiudere un altro sorriso deliziato.
- Come faccio a
conoscerlo? Non credi che ogni figlio abbia il diritto di conoscere il
proprio padre?
Il pallore improvviso
del suo viso sembrò incantarlo,
perché lo vide addolcire il taglio degli occhi e abbozzare
un
passo prima di cogliere il lieve movimento con il quale Pepper aveva
rafforzato la presa, tentando di nasconderla dietro di sé.
Ma Astrid era ben
più forte di lei, e per quanto tirasse, per
quanto sapesse di essere responsabile della sua protezione in quanto
donna, in quanto madre, in quel momento non poteva nulla, non contro
quella creatura che, nel posare lo sguardo su di lei, si
lasciò
sfuggire un rantolo disgustato.
- Umani, davvero?
– irruppe con voce incredula, grondante biasimo
– vedo che neanche nostra madre H’ava ti ha
insegnato ad
odiare creature così insulse.
- Lei non è
mia madre – rantolò lei.
Un’espressione
attonita solcò il viso di Galactus per
quelle che le parvero secondi prima che il suo sguardo tornasse a
veleggiare sull’umana, scandagliando la sua figura con
ribrezzo
prima di soffiare tra i denti un verso di scherno.
- E sarebbe lei,
invece? Sarebbe lei tua madre? Quell’insulsa -
- Non osare andare
oltre – lo minacciò aspra,
scaraventandogli contro un’ondata di energia che gli incise
una
ferita profonda sulla guancia destra, un taglio dalla linea obliqua che
gli aprì il viso come se lo avesse frustato con una corda di
metallo bollente.
La pelle
crepitò sinistra quando Galactrus provò a
sfiorarla con le dita e gli artigli, affondando le unghie nel taglio
per impregnarle del proprio sangue denso e nerastro e osservare in
silenzio l’offesa subita.
Un’offesa
per la quale si trovò a brontolare un ringhio
bestiale prima di far scattare il braccio e dirottare una scarica di
scintille verso Pepper, prontamente difesa dal corpo incandescente di
Astrid.
Una smorfia contrita
gli tese il viso quando la luce parve accecarlo
per un attimo, perché i suoi occhi non avevano mai avuto la
capacità di sopportare tanto potere.
- Tanto bella quanto
sciocca.
- Bada a come parli.
- Ma sei stata
contaminata da quelle creature - e Galactus
accennò con il mento alla figura tremante
dell’umana
– perciò posso giustificare la tua confusione.
- Confusione?
Confusione per che cosa ? – gli ringhiò
contro, sentendo la pelle del viso crepitare per le fiamme che oramai
la ricoprivano per un terzo.
Perché
quelle parole lei le aveva già sentite una volta.
Contaminata.
Yehouda non aveva
detto altro da quando lo aveva incontrato, da quando
il Creatore si era arrogato il diritto di poter giocare con lei, con la
sua mente, e con quel cuore che aveva provato a cavarle dal petto per
mostrarle a quale razza appartenesse, a chi dovesse tutto quello.
Ma lei non doveva
nulla, non più, non quella vita che si era
creata da sé, non quella felicità che i fantasmi
del
passato tornavano a turbare.
- Io non ho fatto
nulla per scatenare il tuo odio. Non ho fatto nulla
di sbagliato, nulla per il quale debba sentirmi in colpa. Nulla per
dover ancora subire queste torture – e affondò una
mano
nei capelli per strattonarli e catturare tra le dita schegge di stella
mentre il dolore le gonfiava la voce di disperazione.
- Perché
non potete lasciare la mia gente in pace? Perché non potete
lasciare me in pace?
Perché?
E quello lo
urlò, sentendo la gola bruciare per la foga di un
quesito al quale non era mai riuscita a dare risposta, una domanda che
da bambina si era posta tante di quelle volte da aver creato
più
interrogativi di quanti avesse voluto.
Ma lei stessa era nata
da una domanda.
Come?
Perché?
Chi?
Ed aveva implorato di
trovarle da qualche parte, tutte quelle risposte,
per comprendere la complessità della sua esistenza, del
tormento
che non riusciva ad abbandonarla, dell’annichilente
consapevolezza di non poter essere felice senza pagare per quella
stessa felicità.
Ma quello, quello non
lo accettava, l’esistenza di quella
creatura, non la accettava, non il suo definirsi come lei, solo
perché frutto della follia di una creatura che per la sua
crudeltà aveva pagato.
Perché non
era come loro, non era come lui.
Lei aveva un cuore
umano e una forza divina, lei era diversa, e
quella diversità lei l’aveva accettata,
perché non
sempre il diverso indica qualcosa di cattivo, ma solo diverso,
semplicemente, diverso.
E non accettava di
sopportare ancora tutto quello, non poteva sostenere
di nuovo quel peso, non ora che ne aveva così tanti.
La sua famiglia.
I Giganti di Ghiaccio.
E Loki.
Loki che aveva sempre
avuto paura di perderla, di essere abbandonato da
lei, e quella nuova guerra nella quale lei era il premio
l’avrebbe solo ferito e reso più disperato nella
sua
strenua ricerca di tenerla con sé, di saperla accanto a lui,
ma
forse, era quello il suo pegno da pagare per ciò che era.
Sapere di non poter
fare altro che arrecare dolore a chi amava
sacrificando se stessa nel tentativo di proteggerli, un sacrificio che
a lei avrebbero lasciate ferite aperte sul viso e sul corpo, e
cicatrici incurabili dentro di loro.
Eppure, quando vide
nel riflesso di quelle pupille lucide il proprio
viso stanco, quando sentì l’urlo di sua madre alle
spalle
e il vento sibilarle di lato, non potè che ruotare il busto
e
stringere ciò che amava.
Perché non
era brava in nulla, se non a fare da scudo e parare i
colpi per gli altri, nella speranza di non vederli soffrire e sentirli
urlare, ma sua madre lo fece.
Urlò,
urlò tanto forte da strapparla per un attimo dal
dolore che l'accecò mentre il nero sbiadiva e si
ritrovava
a terra, in mezzo al corridoio, stretta nella braccia che dondolavano
entrambe e chiedeva aiuto.
Un aiuto che
rimbalzava su un muro di vetro dentro il quale però
nessuno poteva udirla, non il suo disperato grido di madre, non il suo
respiro flebile.
Eppure, poteva vedere
il proprio riflesso mischiarsi alla figura altera
di Loki, l’occhio sano nascosto dalla palpebra che amava
baciare
per fargli sentire la sua presenza con labbra che si trovò a
schiudere con un rantolo sommesso mentre uno schizzo di sangue
imbrattava il pavimento e le braccia di sua madre provavano a
trascinarla in braccio verso la porta.
Inciampò,
ma Pepper liberò un grido frustrato nel
mantenere l’equilibrio e tamponare la schiena squarciata che
liberava una densa scia di sangue mentre lei avanzava, con
sua
figlia in braccio, il viso inondato di lacrime e la gola bruciante per
le urla che nessuno riusciva ad udire.
Ma era disperazione,
quella che la portava a gridare ugualmente il
proprio dolore, disperazione per quel viso che sentiva pesante sulla
sua spalla, pesante come il corpo esile che stringeva al petto e
trascinava assieme a se stessa.
Quando
cozzò contro il vetro il contraccolpo rischiò di
farle prendere la presa attorno Astrid, ma digrignando i denti
rafforzò il braccio destro mentre con l’altro
prendeva a
colpire la lastra, urlando e fissando con le lacrime agli occhi il
sangue che oramai le impregnava i vestiti e continuava a gocciolare a
terra, inesorabile.
Un fiume che non
riusciva ad arginare con la mano che sentiva il
bisogno di abbandonare la presa sulla carne viva e sulla schiena
squarciata, una mano che zittì il disgusto con il bisogno di
essere di aiuto, di poterla guarire, ma era un’umana.
Una stupida e inutile
madre umana che non poteva far altro che gridare
al vuoto e sentire sua figlia respirare pesantemnte per il
dolore
contro la sua tempia.
Un dolore che era
stata lei a causare, perché era lei, chi
Astrid aveva protetto quando quella creatura si era avventata su di
loro, era stata su quella schiena piccola e minuta che gli artigli
erano affondati, non nel suo petto, non nella sua gola, ma nella
schiena che strinse rabbiosa, battendo la fronte contro il vetro per
generare maggior rumore.
Perché
Astrid sapeva di non poter morire, sapeva che le sue, di
ferite, si sarebbero rimarginate, che il suo corpo, alla fine, avrebbe
retto tutto quello, ma non il cuore di chi si sapeva responsabile di
quello scempio, non il suo che pareva sgretolarsi dopo ogni stilla di
sangue caduta a terra.
Ma era ingiusto, tutto
quello, era ingiusto, perché era sua figlia, quella che
giaceva esanime sulla sua spalla.
Era
sua figlia quella
che non
aveva potuto proteggere, che mai, era riuscita a proteggere, se non
lui, il dio che per la prima volta implorò,
supplicò di guardarla, di sentirla, di ascoltarla, di vederla.
E quando lo vide
aprire gli occhi con una smorfia confusa, quando
potè rispecchiare la sua immagine nell’iride
chiara, vide
qualcosa andare in frantumi,dentro di lui un annichilente
sgretolamento che venne giù assieme al suo sguardo sul corpo
appallottolato contro il ventre schiacciato sulla vetrata.
Un fisico minuto e
grazioso, dalla fluente chioma colorata bagnata di
rosso, un denso e corposo rosso porpora che Loki sembrò
inghiottire assieme alla saliva quando ne trovò tanto,
troppo
attorno a lei.
-
Passerà.
Il tremolio isterico
del vetro attirò lo sguardo di chi, ancora,
il pericolo non aveva sentito, ma nel percepire l’incrinarsi
della vetrata Bruce Barner non potè che distogliere lo
sguardo
dai documenti ammassati sulla scrivania e lanciare uno sguardo alle
proprie spalle, intravedendo una piccola crepa nel muro divisorio,
prima di vederlo.
Il sangue.
Una pozza, enorme e
impiastricciata su una schiena alla vista della
quale sentì il cuore schiantarsi nello stomaco assieme
all’uggiolio dell’altro nel riconoscerla.
- Cos’hai da
agitarti tanto ? – brontolò Tony nel
notare il tremolio convulso del corpo del dottore, ma quando le sue
narici riconobbero l’odore, la puzza, ghiacciò
sulla sedia
con gli occhi fissi al monitor e la gola stretta per l’orrore
di
vedervi dentro qualcosa che non sarebbe dovuto esserci.
Non la figura
disperata di sua moglie, non il corpo gracile che lei stringeva fino a
farle male.
Una scheggia gli
ferì lo zigomo quando la vetrata
scoppiò, una pioggia di schegge dalle quali però
nessuno,
nella stanza, riuscì a proteggersi, o volle.
Quando Pepper
scivolò a terra si sentì reggere da
una mano dura e gelata, dita che sentì tremare contro la
carne
tenera del suo collo prima di scivolare sul suo petto e scostare
lentamente la figura raggomitolatele addosso che a quel contatto cadde
indietro con gli occhi socchiusi per il dolore.
Un dolore che Loki
inghiottì, la gola vibrante un
urlo che non riusciva a cavarsi dal petto, perché stava
soffocando.
Annegava, inesorabile,
nella disperazione che lo stava affogando,
spingendo la sua testa sotto l’acqua che ingoiava a fiotti e
che
non riusciva a sputare fuori, perché ce l’aveva
già
dentro.
Nel sangue, negli arti
lividi per il mancato afflusso di sangue che pareva essersi congelato
negli occhi divenuti cremisi.
Perché era
il Gigante di Ghiaccio in lui, il mostro che covava
in petto a tentare di tamponare la ferita, congelando ciò
che
sarebbe marcito, disgregato nel vedere la sua terra sporca di tanto
sangue.
Una terra che sarebbe
dovuta rimanere candida, gentile, e pulita, come
lui non era mai stato, come lei lo faceva sentire, ma ora stava
affogando, e non c’era più nulla che potesse
ripulire quel
dolore.
Non le grida di quegli
umani che come lui non avevano potuto nulla se non guardarla sempre
cadere.
Non quella voce che,
nella sua stessa, continuava a rassicurarlo sul dolore
passeggero.
Ma non sarebbe passato.
Non il suo.
Non quello di chi, di
soffrire, non sembrava destinato a smettere.
°°°
C’era
silenzio, una pace finta e indotta che il cigolio del letto
e il respiro stanco della figura raccolta contro il suo petto
frammentavano mentre le lacrime continuavano a scorrere sul suo viso.
Pepper si premurava
però di asciugarle in tempo,
cosicché non bagnassero il capo di
Astrid ripulito
da sangue che le aveva impiastricciato i capelli e che aveva reso
l’acqua della vasca un' orribile melma fangosa dalla quale
l’avevano tolta gentilmente, aiutandola ad indossare abiti
puliti
e profumati di fresco, così da riposare.
Ma non stava
riposando, perché non poteva dormire.
Ed erano
lì, coricate sul letto, strette l’una
all’altra, rinchiuse in quella bolla di silenzi che la donna
si
sforzava di mantenere per rassicurare sua figlia e se stessa, ma le
bruciava la gola, e le lacrime continuavano a bordarle gli occhi nel
sentire la cicatrice sotto le dita.
Perché
erano stati costretti a ricucirla,
lei e la ferita, troppo profonda e troppo estesa per poter essere
riassorbita velocemente dal corpo di Astrid che, nel
processo,
avrebbe perso altro sangue, sarebbe diventata più debole, e
avrebbe fatto sentire lei ancora più inutile.
Perché
Pepper sapeva di esserlo.
Lo era stata lei,
Tony, Bruce, tutti, persino Loki che non aveva mai
guardato dalla sua parte, come se vedere Astrid ridotta in quello stato
gli arrecasse disturbo, e gliene aveva arrecato, a lui, a lei, e alla
sua intera famiglia che, ancora una volta, era stata protetta.
Protetta da chi doveva
essere protetto, tutelato, difeso, ma che nuovamente aveva difeso loro,
inutili e stupidi umani.
E si sentiva stupida,
in quel momento, stupida come donna, come essere umano, ma soprattutto,
come madre.
Una madre capace solo
di guardarla ferirsi per spirito di sacrificio, e
soffrire senza aver la possibilità di ricucire le ferite e
asciugare le sue lacrime, incapace, semplicemente, di proteggerla, e
non c’era nulla di più doloroso che sapere, sapere
di non
poter nulla, di essere inadeguata e inutile.
Perché era
debole, anche con la pistola nascosta sotto il
cuscino, anche con le mani incatenate attorno al corpo di Astrid, anche
con il campo di forza che aveva chiesto di ergere al marito nella loro
camera da letto, così da permettere alla figlia un
po’ di
riposo, ma era stato inutile.
Lei
era inutile,
perché
aveva davvero creduto che quelle stupide precauzioni avessero potuto
fermare quel mostro e impedirgli di toccarla ancora, ma per quanto
fragile sapesse d’essere al confronto, per quando inetta
potesse
diventare, Pepper aveva giurato a se stessa che nessuno,
l’avrebbe più ferita a quel modo.
Ed avrebbe sparato,
schiaffeggiato, strappato con le unghie e con
i denti chiunque avesse provato a cacciarla dal suo
abbraccio,
lì dove era giusto che fosse, lì dove una figlia
avrebbe
dovuto sapere di essere protetta, e al sicuro.
Non si mosse di un
millimetro nel sentire il cigolare della porta
dietro la quale sapeva, il dottore e suo marito andavano a controllarle
ogni quarto d’ora, senza però mai
entrare, colmi di
vergogna per il senso di colpa.
Ma quello che Pepper
sentì fu diverso, ambiguo, e troppo
distante dalla porta che pochi minuti fa aveva visto schiudersi per
lasciare passare lo sguardo scuro del marito.
Sentì
Astrid irrigidirsi nella sua presa mentre la mano correva
sotto il cuscino per afferrare la pistola e puntarla davanti a
sé, glaciale in quello sguardo che faceva scorrere per la
stanza
con rabbia, la mano tremante per l’ansia di non
sapersi
abbastanza pronta, abbastanza forte, abbastanza giusta, ma era una
madre.
Era sua madre, e
avrebbe protetto ciò che era suo, anche da un
alieno divoratore di galassie, anche da quello che, da quanto appreso,
poteva essere un essere uguale ad Astrid, l’unico, uguale ad
Astrid.
Lo scricchiolio alla
sua destra attirò la mano verso quel punto,
per poi scattare nuovamente di lato e sfiorare il grilletto nel
cogliere l’ombra grottesca di una figura poco lontana, e
vicina
lo era davvero, perché ne sentì il peso sulle
lenzuola e
sulle gambe che Pepper ritirò, richiudendo la figlia contro
di
lei e alzando il mento per fronteggiare la creatura e vendicare il
torto subito.
Ma non era un mostro,
quello chino su di lei, o almeno, non un mostro
dal quale temere ritorsioni, perché quella bocca di metallo,
per
quanto orribile alla vista, sorrideva gentile mentre da sotto il
cappuccio Semjace fissava morbida la donna bionda che racchiudeva sua
figlia in un abbraccio soffocante.
- Madre.
Entrambe abbassarono
lo sguardo su Astrid, un sorriso morbido a ridare
colore al viso stanco verso il quale la creatrice tese le dita
metalliche, solleticando una guancia che, pur volendo, non avrebbe
potuto accarezzare, non come l’umana che in silenzio guardava
ogni suo movimento con la pistola ancora stretta tra le mani.
- Mi dispiace
– ed era sincero, il rammarico nella voce della
creatura, una desolazione che Pepper per prima aveva sentito nel
toccare distrattamente la ferita sulla schiena della figlia.
- Lo siamo tutti
– si trovò infatti a sussurrare quasi a
se stessa, decidendo infine di abbandonare la pistola sulle lenzuola e
ammorbidire l’abbraccio nel quale Astrid si
rilassò
esausta, sbattendo le palpebre per cercare di rimanere sveglia
nonostante la stanchezza le appesantisse lo sguardo.
Le sfuggì
una smorfia contrita a quella vista, e la donna
potè giurare di aver colto lo stesso cocente dolore nelle
pupille inghiottite nel buio del cappuccio.
Semjace
sembrò abbozzare un altro movimento, ma
rimase con il braccio teso a mezz’aria sul viso di
Astrid
prima di dirottare verso il busto che Pepper
irrigidì nel sentire il tocco fuggevole della Creatrice su
di
lei.
- Mia figlia mi ha
parlato molto di te.
Essere gelosi di lei
non era giusto, lo sapeva, ma non
potè che risentirsi un po’ di quel “mia
figlia”, perché Astrid era anche figlia sua,
e non
per linea di sangue, non per volontà divina, ma
perché si
erano scelte entrambe.
- E devo ringraziarti
per quello che hai fatto per lei.
- Astrid
è mia figlia. Tutto ciò che ho fatto
l’ho fatto perché sono sua madre,
perciò non devo
essere ringraziata – le rispose dura, ma la reazione di
Semjace
non fu irritata come Pepper si era aspettata, al contrario, le parve
persino di vederla ampliare il sorriso da sotto il cappuccio.
- Allora dovrai essere
tu a proteggerla per entrambe.
Il sussulto del petto
portò Astrid a sgranare un po’ gli
occhi e guardare le sue due madri fissarsi vicendevolmente in silenzio,
ma c’era qualcosa sul viso di Pepper, un'ombra di dolore che
assalì anche lei nel sapere di esserne
responsabile, ma
quando Semjace le toccò la testa guardò anche lei.
Uno scambio di sguardi
dal quale l’umana distolse
l’attenzione, ferita da quell’affermazione che lei
non
poteva che negare.
Perché lei
non era capace di proteggere Astrid, non ne aveva la forza,
né le capacità.
- Vorresti averle?
La sorpresa di sapere
a cosa la Creatrice si stesse riferendo le
impedì di rispondere prontamente alla domanda, ma il
pensiero di
poter essere un libro aperto per una divinità come quella
confermò la sua ipotesi.
L’aveva
sentita, lei e il suo desiderio di poter fare qualcosa, qualsiasi
cosa
per essere in grado di proteggere sua figlia, una
possibilità
che ora, quella creatura, quella madre disperata come lei le stava
offrendo.
Perché
incapace a sua volta di supportarla, di toccarla,
di aiutarla come avrebbe voluto, ma lei, lei poteva stringerla,
abbracciarla e baciarle le guance quando l’amore era
così
forte da guidare le sue labbra su quel viso dolce, e per un attimo
Pepper provò compassione per quella creatura, e
pietà.
Compassione per
un’incapacità che rendeva entrambe succubi
del dolore di sapersi impreparate per reggere altro dolore, il suo,
dolore.
E lei non voleva
sentirsi più così impotente, non voleva
più nascondersi dietro le divise e attendere la fine della
battaglia, voleva combattere al loro fianco per proteggere sua figlia
dal male dal mondo, voleva il potere, non per sé, non per
gli
altri, ma per lei, per Astrid.
Ancor prima di poter
proferir parola però, sentì la mano
della creatura sfiorarle la tempia, affondare nei suoi capelli e
attendere una sua risposta, ma Pepper si limitò a sospirare
pesantemente prima di stringere la presa attorno ad Astrid e chiudere
fiduciosa le palpebre.
- Cosa è
stato?
Le rotelle delle sedie
slittarono all’indietro quando la voce di
Tony Stark tuonò per la stanza con ferocia, ma un militare,
intimorito dall’aria cupa dell’eroe si
affrettò a
controllare le telecamere, e in particolare quella della stanza da
letto dove si trovava la moglie e la figlia che il dottore e lo
scienziato si contendevano da anni.
Ma il soldato non
trovò nulla di strano, o anomalo, solo due
figure addormentate placidamente l’una nelle braccia
dell’altra.
- Tutto tranquillo
signore, anche nella camera da letto.
Un ‘mh
stizzito convinse il militare a tornare a sorvegliare il
monitor mentre l’eroe raggiungeva a grandi falcate la figura
piegata sull’immenso schermo del computer centrale.
- Allora? Nessun segno
di quel bastardo?
- Negativo –
rispose Maria, china sulla tastiera con l’aria crucciata
– ma c’è un problema.
- Quale problema ?
– le chiese Bruce dal lato opposto della sala,
precipitandosi al fianco della compagna che ruotò su se
stessa,
fissando i due uomini con faccia scura.
- Loki.
Sfuggì ad
entrambi un ringhio sommesso, ma si costrinsero a
mantenere la calma vista la situazione di emergenza, anche se erano
stanchi ed esausti da quanto accaduto poche ore prima.
- Cosa non va con
Udinì?
- Non
c’è più.
- Dove? Nella sua
camera? – chiese lo scienziato con
acidità, memore di avercelo lasciato non più di
mezz’ora fa.
- No, non nella sua
camera – sussurrò Maria con un filo di
voce, tornando a smuovere la sedia per pigiare un pulsante e far
apparire un’immagine satellitare del pianeta.
- Sulla terra.
Continua…
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Capitolo 6 *** 6- The Cross ***
Capitolo 6
“His soul was
tortured by love and by pain
He
surely would flee but the oath made him stay
He's
torn between his honor and the true love of his life
He
prayed for both but was denied “
[…]
“Was
it worth the ones we loved and had to leave behind
So
many years have past toward a noble land of lies
Will
all our sins be justified?”
(
Within Temptation – Hand of Sorrow)
I morti non erano
creature da
strappare alle braccia scheletriche dell’oblio, ma quelle
stesse
braccia Loki le aveva squarciate non appena l’ombra
silenziosa vomitata dalla terra putrida aveva provato a ghermirgli un
piede.
Maciullò
tra le mani il
cranio di un non-morto appena decapitato, sorridendo
biecamente
per la paura che le pupille lucide e pallide delle creature attorno a
lui riflettevano sul terreno fangoso, mentre la pioggia battente
fischiava nelle orecchie il brontolio inquieto del suo
stomaco.
- Non è
permesso a nessuno
di calpestare queste terre, figlio di Laufiel, neanche a voi
–
gorgogliò il più possente di loro,
l’anima perduta
di quello che un tempo era stato il più efferato degli
assassini
ma che ora scontava la propria colpa nell’oltretomba,
lì
dove né uomo, né dio, era ben accetto.
Ma le porte di Hel
erano state
forzate, e ciò che l’esterno aveva
rigettato
lì dentro era una creatura meno viva di quanto avessero
pensato.
Perché non
c’era
nulla, ad accendere quella pupilla dilatata, nulla se non follia e fame
di sangue, di morte, un’urgenza che Loki aveva
appagato
tappezzando gran parte del terreno circostante di cadaveri in
putrefazione.
- Devo vedere la
vostra regina.
Un grido isterico si
levò
dalla folla di cadaveri, improvvisamente appiattitisi contro il terreno
in posizione animale nell’udire la richiesta del dio degli
inganni, un ordine per il quale persino l’assassino si
trovò a rabbrividire profondamente.
- La regina non
può essere disturbata da un vivo.
La risata che gli
ruggì in
petto li fece trasalire per la nota malsana e stridente che gli
risalì la gola, aggrappandosi alle labbra che videro
curvarsi in
un sogghigno ben più temibile di quello isterico della loro
Regina.
- Ma io non vi stavo
chiedendo il permesso – li avvisò asciutto
– la mia era solo una semplice constatazione.
- Di qui non si passa!
–
gridò allora un’ombra piccola e
ingobbita, dalla
barba incolta e dagli occhi incavati – ci è stato
dato
ordine di non lasciar passare nessuno, e nessuno lasc – il
risucchio isterico della terra accolse la punta dello scettro affondato
nel cranio piantato a terra, e quando il non- morto provò a
dimenarsi si ritrovò sgozzato dalla mano che dio
aveva
calato su di lui, tranciandogli la carotide di netto prima di
accostare al fianco una porzione del mantello per ripulire lo scettro
dallo schizzo di sangue marcio.
- Presumo ancora che
non vogliate
lasciarmi passare, dico bene? – li riprese divertito,
calciando
il cranio e alzando su di loro l’unico occhio buono con un
sorriso storpiato in una smorfia invasata.
Un singulto di paura
sfuggì
a tutti loro, ma fu l’assassino, in vero, a piantare la
propria
lancia nel terreno e alzare la mascella forte mentre alcuni dei suoi
compagni tentavano di trovare rifugio sotto terra, scavando fosse dalle
quali speravano di non essere strappati.
Ma quando lo videro
inclinare il
capo di lato e schiudere un sorriso di labbra arricciate, la puzza
della loro paura appestò l’aria umida rendendo
persino la
pioggia acida e gravida del loro terrore.
- Tanto, alla fine,
siete tutti destinati ad inginocchiarvi di fronte a me.
°°°
Quando il corpo venne
rigettato
malamente sul pavimento scarno una testa grigia si alzò dal
braccio magro e puntellato di morsi abbandonato sul bracciolo mentre le
porte uggiolavano per la forza con la quale erano state schiantate
contro le pareti.
Un viso pallido e
incavato fece in
seguito capolino dal fondo dell’immensa costruzione
diroccata,
lineamenti ruvidi senza pelle ad addolcire
l’ossatura tanto
visibile da poterne contare i segmenti, ma furono gli occhi, orbite
cave svuotate da ogni senso di moralità e giustizia a
sorridere
isteriche nel vuoto, volando oltre il corpo malandato per puntarsi
sulla figura immobile sulla soglia della sua dimora.
- Loki.
Una smorfia disgustata
tagliò il viso del dio non appena il trillo irritante di
quella
voce gli perforò il cranio, una voce che non era
cambiata
negli anni, ma che era rimasta ugualmente raccapricciante e ugualmente
irritante, anche se da bambino, di quella creatura ne era sempre stato
intimorito.
Nel vederla saltare in
piedi sulle
gambe sottili e appuntite come chiodi Loki ricordò a se
stesso
che nonostante l’aspetto gracile e inquietante di quella
piccola
cosa, c’era una vera bestia, a dimorare in lei, una
crudele
fiera verso la quale persino il Padre degli dei aveva serbato una certa
apprensione.
E non solo
perché quella
creatura fosse sua sorella, ma perché c’era
qualcosa di
malsano in quel viso emaciato, una fame che non sarebbe mai stata
saziata per quanto avesse mangiato e bevuto, una voracità
mai
appagata che aveva finito col farla impazzire.
Una risata isterica le
scosse il
corpo secco come se fosse preda di convulsioni, ma era semplicemente il
suo fisico ad essere tanto magro da non poter reggere neanche le
vibrazioni del suo stesso riso, un tintinnio sinistro che
seguì
il ‘crack del braccio che il non-morto si vide
strappar via
quando la creatura gli concesse la sua attenzione.
- Zenas, mio stupido e
piccolo
Zenas – canticchiò la dea, afferrando i capelli
della
creatura con rabbia, sputandogli in faccia la propria irritazione
– neanche come cane da guardia vali qualcosa.
- Mi dispiace.
- Ti dispiace?
– gli
gridò contro, spillando saliva e azzannando l’aria
con i
denti affilati e cuneiformi – ti dispiace? Vuoi che ti
strappi
anche l’altro braccio?
- No, mia signora.
- Supplicami.
Il silenzio protratto
del mostro
parve indispettirla, perché c’era ancora orgoglio,
in quel
lurido assassino, una furia omicida che Hell aveva sempre apprezzato,
come la prestanza fisica di quella carne che rimaneva
comunque
possente, anche se oramai tumefatta, eppure era proprio quella
scintilla di ribellione ad indisporla.
Il motivo per cui
più di
tutti lui fosse torturato e lasciato a marciare nei campi dimenticati
per diventare preda degli ingordi, sempre affamati di nuova carne
putrefatta.
- Vi supplico
– e il
non-morto fu costretto a mordersi l’interno del labbro per
sputare quelle parole – vi prego di perdonarmi mia signora.
La mano si
addolcì
lievemente, ma tornò a scattare in artiglio come era solita
tenerle, perché la poca pelle presente sul suo corpo non le
permetteva di fletterle in modo da farle sembrare quanto meno umane.
- Allora Loki? Cosa ti
porta nel
mio bel regno? Hai finalmente deciso di arruolarti nelle mie legioni?
– gli chiese civettuola, sventolando ciglia che parevano
più ragnatele rinsecchite che altro.
- Sai come ucciderlo?
Nel mentre che Zenas
riusciva a
raggiungere l’angolo buio nel quale la dea aveva lanciato il
suo
braccio Hell era tornata a sedersi sul proprio trono d’ossa,
con
il mento abbandonato mollemente sulla mano chiusa in pugno.
- Se non sei
venuto per arruolarti, allora qualunque cosa tu abbia da dire non mi
interessa.
Gli sfuggì
un verso
gutturale nel vedere il gesto annoiato con il quale la dea aveva
indicato l’uscita, ma Loki rimase ritto e gelido.
- Tu sai come
ucciderlo vero?
- Non so di chi tu
stia parlando – replicò Hell, palesemente annoiata
dalla conversazione.
- Invece sì
–
sibilò incattivito – ti ho sentito parlare di lui
da
bambino, tu e mio padre ne parlavate sempre.
Un guizzo isterico del
viso della
dea lo convinse di essere nel giusto, che Hell ricordava e aveva capito
a cosa si stesse riferendo, ma per qualche ragione sembrava voler
dirottare il discorso.
- Allora? Tu sai come
ucciderlo? – insistette – sai come-
- Non può
essere ucciso.
- Cosa?
Il salto con il quale
Hell scese
dal trono fu felino, calcolato, e osceno, perché ondeggiava
più che camminare, e il modo in cui lo guardava fece
stringere a
Loki la presa sul suo scettro.
-
Non.può.essere.ucciso
– cantilenò sadica, soffiando una nuvola di aria
rarefatta
e tanto malsana da sbriciolare la base della colonna contro
la
quale si era poggiata con le braccia intrecciate dietro la schiena.
- Che significa che
non può essere ucciso?
- Perché
credi sia servito
l’aiuto di tutti e nove i sovrani Loki? – lo
riprese
aggressiva, indurendo il viso congestionato dalla rabbia
–
siamo dovuti intervenire tutti, tutti per evitare che quell’abominio potesse
divorarci tutti.
E sai cosa abbiamo fatto?
Negò con un
cenno distratto
del capo, perché risponderle a voce avrebbe potuto darle
l’alibi giusto per cambiare discorso.
- Abbiamo dovuto
imprigionarlo,
Loki, relegarlo nelle profondità dell’universo.
Galactus,
quel lurido piccolo bastardo! - e il suo nome lo
urlò fino
a privarsi dell’aria che incanalò per un secondo
grido
frustrato.
- Lui non
faceva altro che mangiare e mangiare anche sapendosi sazio,
ed ora, ora è libero, e tutto per colpa tua.
- Mia?
- Si tua! Tua e di
quell’altro abominio!
Lo schizzo di sangue
imbrattò la parete di polvere come un vaso di vernice
gettato a
caso, ma la ferita che tagliava a metà la gola
della dea
era stata intenzionale, e calibrata, di una precisione millimetrica che
impedì alla creatura di ritrovare la voce prima di
riassorbire
lo squarcio e sputare altro sangue raggrumato in gola.
- Non osare parlare di
lei –
la minacciò il dio con asprezza, alzando lo
scettro e
puntandoglielo alla gola, pronto a tranciarle la testa di
netto
– non permetto a nessuno di parlare così di lei.
Hell tossì
ancora, coprendo
la bocca con la mano che sfregò contro il proprio abito
sgualcito per tornare a ridere isterica.
- Non posso credere
che davvero tu ti
sia invaghito di quella cosa
- e agitò la mano per mostrare il proprio disgusto al
riguardo
- pensavo che fossero solo voci di corridoio, ma a quanto
pare
persino a te l’amore ti ha reso stupido.
- Bada a come parli.
- Altrimenti?
– lo
stuzzicò, balzando indietro di qualche metro nel cogliere
l’agitare frenetico del suo scettro – mi ucciderai
come hai
fatto con mio fratello? Il padre che ti amato fino a morirne? Allora
Loki? Potresti uccidermi tanto orribilmente solo per aver parlato male
di lei?
- Ho ucciso per molto
meno –
ringhiò incattivito, seguendo i movimenti scoordinati con i
quali la vide muoversi a destra e sinistra, come a prender tempo.
- Lo so, ho sentito
dello sterminio dei Creatori, e tutto per quella piccola
nullità!
Un altro schizzo di
sangue, e un
braccio volato dall’altra parte dell’androne mentre
la Dea
saltava verso le arcate della cattedrale, reggendosi al soffitto con
gli artigli affondati nel marmo cedevole del tetto.
- Sei piuttosto
protettivo nei suoi
confronti - e c'era una nota d'invidia a graffiarle la voce - non
credevo che il dio degli inganni potesse provare simili emozioni
all’infuori dell’odio –
gracchiò con voce
isterica, saltando da una parte all’altra della sala per
sfuggire
ai raggi di magia scagliatele contro come frecce avvelenate.
- Ma vuoi sapere una
cosa? Galactus la verrà a cercare, se non l’ha
già fatto ovviamente.
- Perché lo
credi?
Un sorriso divertito
le
piegò le labbra quando le sembrò di cogliere
dubbio nello
sguardo impenetrabile del dio, una fragilità della quale si
cibò, tornando a terra e spolverandosi l’abito
sgualcito
con l’unica mano rimastele.
- Perché
lui è come
lei. Gli fu data la vita da uno dei Creatori per usarlo come
pattumiera, se mai i loro esperimenti avessero dato cattivi frutti,
capisci? Ha
la sua stessa forza, ma è nato per distruggere, mentre lei
è nata per dare la vita.
- E perché
sarei stato io a
liberarlo? – chiese disorientato, e questa volta
c’era vera
paura, a fargli tremare il cuore, il timore che fin da bambino lo aveva
spinto ad allontanare il calore di sua madre Fridda e
l’iperprotettività di Thor.
Paura.
Paura di essere ferito
e tradito da
chi ad amarlo aveva imparato, ma nessuno c’era riuscito fino
in
fondo, e a lui le cose incomplete non gli erano mai piaciute, ma ora,
ora aveva davvero qualcuno che lo amava per quello che era.
Qualcuno da
proteggere, da amare
senza paura di rimanere scottato, qualcuno che forse aveva
destinato lui stesso a soffrire per espiare peccati suoi.
- Perché
hai rotto
l’equilibrio, Loki. Hai ucciso una razza, e seminato
distruzione.
Perché hai distrutto un anello della catena che
teneva
Galactus relegato, e con la fine di Asgard hai sancito la rinascita di
quel mostro e la dipartita della tua bella.
Il contraccolpo con il
pavimento
gli tolse il respiro, ma fece scattare una mano al viso per lanciare
via il suo elmo coperto da una melma corrosiva che Hell gli aveva
vomitato addosso prima di colpirlo con le mani artigliate e gettarlo
indietro.
- E per questo
entrambi dovrete
pagare, ma sappi una cosa. Anche se in quanto divinità non
possiamo morire, posso sempre condannarti ad un destino ben
più
orribile della morte stessa, una punizione che servirà a te
e a
quell’abominio da lezione.
- Tu non la toccherai
con un dito
– soffiò tra i denti, rimettendosi in piedi e
caricando il
colpo mentre la dea si acquattava in una posa animale per schiudere la
dentatura affilata e sorridere melliflua.
- E chi ha detto che
voglio solo
toccarla?
°°°
Le immagini
sfrecciavano
davanti ai suoi occhi sgranati per l’orrore, un prisma di
colori
sgargianti sfumanti dal ceruleo tiepido di quello che poteva
essere scambiato per un fulmine passeggero, ma non era un
fulmine, quello che Astrid fissava con angoscia sullo schermo del
computer.
Era un portale, una
via per l’universo che Loki aveva aperto e imboccato senza
avvertirla, lasciandola indietro.
Lasciandola
sola.
- Sono sicura che sta
bene, forse è andato su Jotunheim.
- Oppure ha deciso di
prendersi una
vacanza – ci scherzò su Tony Stark, meno attento
della
moglie che gli rifilò una gomitata nel fianco per avvertirlo
che
quello non era il momento di fare il sarcastico, e l’uomo lo
capì quando non vide l’accenno di un sorriso sul
viso
pallido di sua figlia.
- Qualunque cosa sia
successa, sono
sicuro che quello squilibrato sia capace di cavarsela da sé
tesoro– tentò allora di riparare, sospirando
pesantemente
nel non riuscire a scalfire la sua espressione angosciata.
Perché si
sentiva sperduta,
Astrid, e spaventata, gravida di quella
“paura” che
da bambina aveva imparato a temere più di ogni altra cosa
quando
il buio della sua prigione l’aveva accolta nel mondo,
quando, per la prima volta, si era sentita abbandonata.
Ed erano una
sensazione che aveva
creduto di aver dimenticato, ma ora, con quelle immagini impresse a
fuoco nella retina, non poteva che sentirsi ferita da quella
che
le sembrava una fuga, un fuga da lei, dal dolore che gli aveva
inflitto, dalla frustrazione di sapersi coinvolto in guerre non sue.
Un braccio forte la
sollevò
da terra ancor prima di potersi abbandonare ad un gemito
addolorato, e quando Bruce se la schiacciò contro si
premurò di coprirle gli occhi e baciarle la tempia con forza.
- Non pensare a
ciò che
può accadere, ma a quello che vuoi fare ora – le
sussurrò in un orecchio, cullandola dolcemente nel sentirla
rilassarsi contro il suo petto e rilasciare un lungo respiro stanco.
Stanco come lo sguardo
che Astrid
puntava nel nulla, la mente proiettata in immagini di Loki ferito,
catturato, o peggio, prigioniero di Galactus, ma si costrinse a non
pensarci, perché suo padre aveva ragione.
Perdersi in fantasie
non avrebbe
fatto altro che farla soffrire, doveva perciò concentrarsi
su
come comportarsi, su casa fare ora per capire il perché di
quel
gesto.
- Andrò a
cercarlo.
- Andremo tesoro,
andremo – la corresse sua madre con un sorriso gentile
– andremo tutti insieme.
- Su questo avrei da
ridire –
intervenne lo scienziato con voce grave, voltandosi a guardare la
moglie con durezza – questa volta non credo sia il
caso che
tu venga con noi.
Petto contro petto,
Pepper Potts si
trovò a fronteggiare il viso cupo dell’eroe senza
remora
alcuna, il mento alto e lo sguardo severo di chi, di sottostare a leggi
imposte, non sembrava interessato.
- Invece io
verrò.
- No, tu non verrai
– la
contraddisse arcigno, afferrandola per un braccio con un lampo di
dolore per il quale, per un momento, la donna si trovò a
schiudere le labbra – non posso combattere
sapendoti in
pericolo.
- Ma non lo
sarò – e
così dicendo si districò dalla presa per
accostare il
dottore e aiutare Astrid a tornare di fianco a lei –
perché sarò troppo occupata a proteggere mia
figlia, e
non ho il tempo di gettarmi in stupide schermaglie tra mostri e alieni.
Una giustificazione
gettata quasi
per scherzo, ma c’era qualcosa di strano, nello sguardo di
sua
moglie, una luce diversa che Tony fissò attentamente per un
istante prima di aggrottare le sopracciglia.
- Cosa diavolo hai
fatto?
- Io? – si
ritrovò ad
indicarsi la donna, colpita all’acume del marito che doveva
aver
annusato qualcosa – io non ho fatto nulla. Ho solo promesso
ad
una persona di proteggere Astrid.
- E chi sarebbe questa
persona? La conosco? – si indispettì lo scienziato.
- Si papà,
la conosci – gli rispose Astrid con semplicità
–è mia madre.
- Tua madre?
Cioè, tu ti sei ripromessa di proteggerla?
Una smorfia divertita
le tese il
volto nel ripensare alla frase preferita di suo marito, una critica che
quella volta, sarebbe stata lei a rivolgergli.
- Hai dimenticato come
si conta tesoro? Quante dita vedi alzate?
- Due –
rispose prontamente
lo scienziato, imbronciando le labbra nell’altalenare lo
sguardo
dalle affusolate dita al sorriso strafottente della moglie, e fu solo
dopo molto, troppo tempo per un genio come lui, che Tony Stark si
trovò ad impallidire e arrossarsi per la rabbia che gli
gonfiò il petto e gli bruciò la gola.
- Tu hai incontrato
uno dei Creatori? Quando? Come? Perché?
- Mi spiace tesoro,
roba da donne.
- Roba da- mi stai
prendendo in
giro? Come osi tacere questi particolari? - e andò
avanti
a sbraitare fino a diventare paonazzo mentre Astrid, assicuratasi di
avere abbastanza forza da compiere quel viaggio, si
allontanò
dalla sua famiglia per andare in contro al capitano dello S.H.I.E.L.D.
chino sull’ennesima scartoffia da firmare per dare il via
all’operazione di difesa.
- Signor Fury?
Uno sguardo gettato
distrattamente
alle spalle, e l’uomo si convinse a lasciar perdere i codici
di
sicurezza inviati da Selvigg per dare la sua completa attenzione
all’alieno, ancora provato da quanto accaduto poche ore prima
anche per la sua incompetenza, ma pronto a gettarsi in campo.
- Si Astrid?
- Io e la mia famiglia
andremo alla
ricerca di Loki. Cercherò di fare il più in
fretta
possibile, ma renderò Yssgradrill una difesa
impenetrabile
fino al mio ritorno, in caso di un attacco in mia assenza –
gli
spiegò severa, tornando a quella se stessa un po’
più adulta e meno ingenua, un piccolo soldato in gonnella
che
del proprio dovere non si era dimenticato.
E non lo avrebbe
fatto,
perché era un suo dovere come umana, come donna, e come
Tesseract, proteggere ciò che andava protetto, e
la Terra
sarebbe rimasta illesa fintanto che lei fosse stata in vita.
Una fedeltà
per la quale
l’uomo si trovò a ringraziarla con lo sguardo,
richiamando
l’attenzione dei sottoposti che scattarono in piedi con le
mani
portare al capo in un saluto militare che Nick Fury per primo
compì.
- Aspetteremo il
vostro ritorno
allora. Buona fortuna agente Astrid – e c’era reale
riconoscimento in quel titolo, un’identità che ora
la
investiva davvero di un ruolo concreto, e non solo immaginato.
Perché era
Astrid, componente onorario degli Avengers, ed ora, soldato scelto
degli Stati Uniti d’America.
- Si, si, ora basta
con queste
sciocchezze che abbiamo da fare. Astrid! Vieni qui vicino a me, non
voglio che quella degenerata di tua madre ti spinga sulla cattiva
strada, bugiarda com’è diventata –
lamentò
Iron Man, strattonando la figlia verso di sè prima di
molleggiare il braccio e imitare un saluto fiacco e sbadato.
- Mi dispiace
contraddirti, ma se
c’è una persona che la può condurre
sulla cattiva
strada quello sei tu – lo rimproverò Bruce,
arpionando il
braccio destro di Astrid e tirandosela contro mentre dal lato opposto
Iron Man si aggrappava al busto della figlia nel vano tentativo di
fungere da zavorra.
- Tu che vuoi ora?
Vatti a sbaciucchiare la Hills e non appestare me e mia figlia con la
tua puzza di piedi!
- I miei piedi non
puzzano!
- Ma davvero? Dove
credi sia andata
la mia colf Barner? In ospedale! E solo perché quella povera
donna ha avuto la malaugurata idea di lavare i tuoi dannati calzini
radioattivi!
- Non è
vero!
- Si che è
vero!
Con uno sguardo
scanzonato Pepper
si insinuò tra i due uomini che parevano fare a
gara su
chi distoglieva per primo lo sguardo, salvando Astrid dalle loro
grinfie per fare quanto promesso a Semjace.
E quando scomparvero
in un tunnel
di luce comparso dal nulla, Nick Fury si accostò alla
finestra
della stanza, osservando attentamente il campo di forza che
l’albero sembrava lanciare come una rete sopra le loro teste,
la
protezione promessa e ricevuta da quella che non era più un
alieno adottato, o una fonte d’energia condivisa, ma un eroe.
Il più
grande eroe che l’America e il mondo intero avesse mai avuto
il privilegio di avere come compagno.
°°°
- Dove diavolo siamo
finiti?
Il fischio del vento
fu
l’unica risposta che Tony Stark ricevette mentre
l’occhio
si perdeva per miglia e miglia di terra ribaltata, cieli cupi e coperti
da coltri di nebbia talmente fitta e compatta da sembrare una parete
traslucida inchiodata al cielo come barriera dal sole.
Perché non
c’era luce, lì dove erano capitati, non una
scintilla.
- Sei sicura che Loki
sia qui?
La risposta
tardò ad
arrivare, ma Astrid non riusciva a trovare la voce, incastrata in fondo
alla gola assieme al nome che avrebbe voluto urlare, se solo non avesse
percepito tutte quelle presenze attorno a sé, ombre sinistre
che
si agitavano attorno a loro come il riflesso frammentato di uno
specchio rotto.
- Stiamo vicini
–
raccomandò loro Bruce prima di trasformarsi e raddoppiare la
stazza, così da rinchiudere tra sé e
l’uomo di
metallo le due donne e avviarsi.
La terra si sgretolava
sotto i loro
piedi come creta, costringendoli a deviare per ammassi di rocce coperte
di brina sotto i quali, con orrore, Pepper trovò il corpo
mutilato di un uomo dal quale il marito la allontanò
bruscamente, stringendo la cintura di difesa formata con Hulk che
pareva altrettanto nervoso.
Ma più
procedevano nella
speranza di trovare qualcosa, più il nulla tornava a
gettarli
nella confusione mentre Astrid cominciava ad avere paura.
- Starà
bene, sono sicura
che starà bene – la rassicurò sua
madre, stringendo
la presa sulla mano che la donna portava al petto nel captare
scricchiolii, risate sommesse, e dialoghi concitati di ombre che non
osavano mostrarsi, forse per la stazza imponente di Hulk, o forse
perché gli era stato ordinato di non farlo.
Perché
qualcuno voleva che
avanzassero, che calpestassero la terra putrefatta e urlassero di
orrore nell’inciampare in qualche arto mozzato, una creatura
che
di quella desolazione era padrone, un mostro che forse, avrebbero
trovato nell’imponente cattedrale diroccata a qualche metro
di
distanza.
Fu proprio
nell’aguzzare la
vista verso lo sgangherato edificio che Astrid vide un’ombra
stesa al suolo, circondata da qualcosa, topi forse, ma erano troppo
grandi per poterlo essere, ma avrebbe preferito che lo fossero,
perché ciò che vide la disgustò a tal
punto da
costringerla a coprirsi la bocca per non vomitare.
- Astrid!
Risate isteriche
irruppero
nell’aria quando l’urlo di Pepper si
levò alto, un
richiamo per ciò che fino ad allora era rimasto nascosto ma
che,
nel vedere la piccola figura avanzare da sola, senza protezione,
balzarono via dai loro nascondigli per raggiungerla.
E non ci fu
più solo la sua
ombra a sfrecciare veloce per la terra morta, furono decine, migliaia
di figure che Astrid ritrovò davanti a sé, su
quel corpo
ferito che delle creature parevano torturare, generando urla di dolore
che per un attimo, temette appartenessero a Loki.
Il lampo di luce
fendette il cielo
come la lama implacabile di una divinità, ma non era il suo
dio,
quello riverso a terra, non era Loki si rincuorò, il respiro
affannato e la mano ancora tesa davanti a lei, per far arretrare quelle
cose.
Ricadde in ginocchio
con il cuore
stretto in gola, lo sguardo lucido per ciò che vedeva, lo
scempio di un corpo privato degli arti superiori, con il volto esangue
e le iridi pallide rivolte al vuoto, come se fosse morto.
Ma lo sentiva
respirare, e tanto le
bastò per chinarsi a raccoglierlo tra le braccia e aiutarlo
ad
appoggiarsi al suo petto per ritrovare un minimo di ristoro.
Quando Zenas si decise
a schiudere
le palpebre lo fece per la meraviglia di sentire un tocco delicato
sulle sue membra spolpate, un tocco che non poteva appartenere a
nessuno dei suoi compagni che, poco prima, avevano tentato di privarlo
di ogni parte del corpo come loro era stato ordinato della regina.
Una punizione alla
quale lui
più di tutti era avvezzo, perché
d’animo ribelle e
violento, ma quella volta, c’era calore, attorno al suo capo,
e
una luce gentile che gli riempì lo sguardo quando la vide
china
su di sé.
Il disagio la
investì nel
sentire i suoi occhi puntati sul suo viso, ma Astrid non
riuscì
a distogliere lo sguardo come avrebbe voluto, perché
c’era
qualcosa di doloroso, in quella pupilla vitrea, una sofferenza senza
fine per la quale si trovò a stringere le labbra prima di
tergere il sangue con un lembo dell’abito e accostare la mano
ai
suoi arti mozzati.
- Allontanati da lui!
Lo strattone la fece
sussultare per
la sorpresa, ma Tony non perse tempo a mostrarsi compassionevole come
la figlia di fronte a quell’orrore che Astrid teneva in
grembo,
come a concedergli un minimo di conforto.
- Lascialo!
- Ma è
ferito.
- Ma non vedi
cos’è ? Non vedi che –
- Cosa? – lo
interruppe lei,
fissando suo padre negli occhi con durezza – cosa
papà?
Cosa dovrei vedere? Che è diverso da me? È questo
ciò che vuoi dire?
- Io non volevo-
- Solo per questo non
dovrei
aiutarlo? Solo perché è diverso da me ?
–
continuò con voce rotta – tutti hanno bisogno di
aiuto,
persino lui – e si districò dalla presa
dell’eroe,
tornando a chinarsi sulla creatura e riversare sulle ferite un
po’ del suo potere.
Nel percepire il
rigenerarsi dei
suoi arti, Zenas tese una smorfia dolorosa, ma si costrinse a guardare
in alto, su un cielo che aveva visto sempre nero e cupo, ma
che
in quegli occhi vide tingersi di luce, un’abbacinante e
gentile
luce cerulea che lo investì, lasciandolo spossato ma
nuovamente
integro.
- Tornerò
– gli
promise, trascinandolo contro una roccia prima di tornare ritta e
guardare la costruzione decadente con occhi pesti e stanchi,
mentre il suo corpo tornava ad emettere il bagliore accecante
dal
quale le ombre si allontanarono frettolose tornando nella terra da dove
erano uscite.
Ripresero ad avanzare,
con un
po’ meno timore, illuminati dalla scia di stelle che Astrid
lasciava dietro di sé, perchè era tornata a
proteggerli,
come lei sapeva, era giusto che fosse, come era suo compito fare.
Perché, se
l’umanità non ci sarebbe riuscita, se un dio non
avesse
potuto, sarebbe stata lei, a combattere per ognuno, e a mostrare
pietà per chi, d’aspetto diverso, avrebbe potuto
generare
disgusto e avversione negli altri.
Ma non in lei, lei che
diversa lo
era sempre stata, e che compatita non era mai stata, una mancata
premura per la quale Astrid aveva deciso di non privare nessuno.
Non chi escluso era
stato, e
né chi, assassino e sterminatore di razze, si
trovò a
vedere la luce per la prima volta.
°°°
Lo
scricchiolio sinistro
della porta lì invito ad entrare, ma fu Hulk ad aprire loro
la
strada, avanzando lento e con gli occhi neri fissi su ogni cosa si
muovesse, ma non c’era niente, in quella stanza.
Solo polvere, e i
resti di colonne
che ancora fumavano per uno scontro consumato con troppa violenza, una
ferocia che gli schizzi di sangue sulle pareti imbrattate e le impronte
di mani rosse che parevano aver provato a reggersi ad una delle colonne
cadute resero ancora più agghiaccianti alla vista.
Pepper si
abbandonò ad un
rantolo sommesso nel vedere quell’orrore, e fu con fare
apprensivo che vide le spalle di sua figlia sussultare ferocemente
prima di vederla correre senza fiato verso un angolo buio della sala,
lì dove la videro crollare in ginocchio con un gemito
stretto in
gola.
Le tremavano le mani,
ma quando i
polpastrelli toccarono le corna lucide dell’elmo Astrid se lo
tirò al petto con tanta forza da ritrovarsi senza fiato per
il
contraccolpo, ma le sue braccia parevano essersi congelate in
quell’abbraccio disperato, una stretta nella quale
affondò
il viso, schiacciando la fronte contro il freddo metallo con un
singhiozzo.
- Tesoro? Cosa- la
voce si perse
nel nulla quando, nell’accostarsi alla piccola figura
raggomitolata su se stessa, riconobbero ciò che Astrid
stritolava tra le braccia, bagnando l’elmo delle lacrime che
rotolavano giù dalle sue guance assieme ai singhiozzi
sfuggiti
dalle labbra tremanti.
- Forse è
di qualcun altro,
forse non è il suo – provò a consolarla
Tony Stark,
ma lui per primo sentiva la menzogna nella propria voce, una bugia che
Pepper non ebbe cuore di raccontarle, perché era di Loki,
l’elmo macchiato di sangue, sue le impronte di mani
insanguinate che avevano provato a reggersi a qualcosa.
Il dolore al petto non
le
permetteva di respirare, si sentiva soffocare, e le lacrime le
gonfiavano la voce dello strazio con il quale si costrinse ad alzare il
viso nel sentire il tocco delicato di una mano sulla spalla.
Ma fu proprio
nell’aprire le palpebre serrate che lo vide.
Un luccichio.
Delicato e abbandonato
nel buio
dell’angolo, ma una luce verso la quale Astrid tese un
braccio,
strisciando verso il piccolo monile con il quale le sue mani,
una
volta entrate in contatto, inviarono una fitta di dolore tra
gli
occhi, come se qualcuno le avesse appena trapassato il cranio con una
lama.
Perché era
il suo orecchino,
quello che giaceva a terra tra la polvere, il simbolo del
loro
amore, il dono con cui era divenuta sua secondo
le leggi del suo popolo, la prova di quell’amore che Astrid
sentì scricchiolare assieme agli occhi che avrebbero potuto
infrangersi come specchi rotti, se non l’avesse raccolto da
terra.
E quando lo strinse
nel palmo,
quando saggiò il familiare gelo, un’ondata di
dolore le
offuscò la vista, costringendola a curvarsi su se stessa e
schiudere le labbra in un urlo che si trovò però
ad
inghiottire, quando lo sentirono sibilare nel vento.
Una voce.
- Le scale!
Correre le venne
naturale una volta
seguito il braccio di sua madre puntato alla loro sinistra,
lì,
dove una scala a chiocciola conduceva ai piani alti, alla fonte di
quello che poteva essere stato uno spiffero del vento, ma non
c’era tempo per perdersi in supposizioni.
Ed anche se
l’elmo la
rallentava, anche se l’anello stretto nella sua mano sembrava
ustionarle la carne, Astrid non abbandonò mai la presa,
salendo
scalino dopo scalino con la voce che spingeva per urlare il nome di chi
stava cercando, di quell’amore che le era stato rubato e
senza il
quale sarebbe morta.
Ma quando
riuscì ad
imboccare una piccola entrata nascosta da un nugolo di ragnatele,
quando gli vi si gettò all’interno senza curarsi
del
pericolo, senza proteggersi da una ferita che avrebbe potuto
raggiungerla, potè urlare quel nome, mentre il cuore tornava
a
battere e a farla sentire viva.
Quando Pepper
precedette gli eroi
all’interno della stanza dimessa si fermò sulla
soglia
della piccola entrata, le mani corse alla bocca che vibrò
istericamente per il singhiozzo che le sarebbe sfuggito, ma non se lo
permise, non di mostrare il proprio dolore per quella vista, persino
gli occhi di Hulk si fecero lucidi.
Perché lo
aveva trovato.
Steso su un quello che
sembrava un
altare scheggiato ai bordi, immobile, e con gli occhi chiusi, ma con il
petto smosso da un respiro per il quale Astrid si era trovata a
ringraziare, perché era vivo, Loki era vivo,
ed era lì, tra le braccia che lo strinsero al
petto con
disperazione, cavandole dalla gola quel gemito che a lungo aveva
tentato di trattenere.
Un pianto silenzio le
fece tremare
le spalle, ma c’era sollievo, a farle brillare lo sguardo di
nuove lacrime mentre le mani correvano ad accarezzare quel volto
sfigurato, abbracciando con le dita quella porzione di viso che,
benchè deturpata da quelle orribili cicatrici,
tornò a
farla innamorare.
- Incantevole, non
trovi?
Si strinsero gli uni
agli altri con
uno scatto nervoso quando la udirono, ma la voce impiegò
qualche
altro minuto prima di disperdersi in un eco flebile e acuto come il
fischio del vento.
- State dietro di me.
Pepper
annuì severa,
accostandosi alla figlia che aveva stretto Loki un po’
più
a sé, come a fargli da scudo con il proprio corpo, ma
c’erano Hulk ed Iron Man a rappresentare la prima linea di
difesa, un muro divisorio contro il quale persino Hell avrebbe avuto
qualche difficoltà, perciò fu con
l’ennesima risata
che venne giù dal soffitto, mostrando la sua
figura secca
e rachitica.
- Attendevo con ansia
il tuo arrivo
– sussurrò melliflua la Dea, alzandosi sulle punte
per
vedere ciò che con tanto ardore il dio degli inganni aveva
difeso assieme al suo onore, e quando la vide, ne rimase
affascinata, e affamata.
Perché
pulsava vita, quella
piccola creatura dalla pelle di cielo, tanta di quella vita da poter
persino saziare lei se non fosse stata quello che era, una forza contro
la quale la dea sapeva di non potersi misurare, non direttamente,
almeno.
- Che cosa gli hai
fatto?
- Io? Io non ho fatto
nulla,
è stato lui a fare tutto – le spiegò
gentile,
ondeggiando su se stessa con un sorriso che fu costretta ad inghiottire
nel venire bruciata da una scheggia di luce lanciatale contro, una
saetta che Astrid caricò nella mano destra, sentendo la
furia
divampare dentro di lei e bruciare.
- Non devi incolpare
altri dei
vostri peccati, Tesseract – e nel dire quel nome la dea
sputò tutta la sua invidia per ciò che
rappresentava
– siete stati voi a meritare questa posizione,
perché
è colpa vostra, se Galactus si è liberato.
- Noi-
- Noi cosa? Voi siete
stati la
causa di tutto, e Loki ha meritato la sua punizione. Lui ha sterminato
una razza per amore tuo, piccolo Tesseract, un amore che gli ha ridato
ciò per il quale è stato condannato.
Amore.
Colpa.
La sua.
Astrid potè
sentire una voce
nella sua testa urlare di non ascoltarla, perché quelle
parole
lei le aveva già udite in passato, una cantilena che il
mondo
non aveva mai smesso di usare come sua ninna nanna.
Perché era
per amor suo, che
Loki aveva ucciso la sua famiglia, per difendere lei, la sua
dignità, il suo cuore sempre bersaglio della brama ed odio
altrui.
- E con la distruzione
di Asgard
avete liberato quell’abominio dal giogo al quale i nove regni
lo
avevano costretto, perciò Loki è destinato a
scontare la
punizione per sempre.
L’orrore di
quelle parole, di
quella minaccia che sapeva d’eternità la
tramortì
come se l’avesse appena colpita, ma era stato il suo cuore, a
ricevere la punta di quella freccia che le iniettò veleno
nelle
vene, nelle braccia che sentì afflosciarsi lungo i fianchi e
su
quel corpo che tornò a fissare con paura, terrore,
disperazione.
Un sorriso stucchevole
tese le
labbra della dea di fronte a quella vista nell’annusare tutta
quella disperazione, molta più di quanta lei stessa potesse
mai
aver nutrito, perché lei non aveva limiti, non nel suo
potere,
non per quelle emozioni che nella loro infinità avrebbero
potuto
ucciderla.
E stava morendo dal
dolore, Astrid,
lentamente, ma stava morendo con quel viso stanco stretto al petto come
un salvagente al quale sapeva di non potersi più aggrappare,
perché sarebbe venuto giù con lei.
- Non si
sveglierà mai
più – tuonò la voce della dea, gravida
di
quell’isterico godimento del quale si tinsero le sue orbite
cave
risucchiate da quell’immagine, affamate dal dolore che pareva
sgretolare ogni cosa nel Tesseract.
Il corpo afflosciatosi
al suolo, il
viso distorto in una smorfia addolorata, e lo sguardo, frammentato in
piccole schegge che sarebbero potute venire giù al suono
della
sua voce, al suono di quella che appariva come un destino inevitabile.
Ma non lo era, e la
dea amava
troppo se stessa per poter godere fino in fondo di tutto quel dolore,
perché c’era un mostro, al di là dei
suoi cancelli,
una creatura che l’avrebbe uccisi tutti, una bestia che solo
lei
avrebbe potuto imbrigliare, ma solo se avesse avuto un motivo per
combattere.
E il suo motivo era il
dio sul quale aveva abbandonato il petto rigato dalle lacrime.
- Ma potrà
riaprire gli occhi, se tu farai quanto da me richiesto.
- Cosa devo fare ?
– fu
l’immediata risposta che Astrid le diede in un sussurro,
senza
allontanare il capo dal petto che sentiva alzarsi sotto di
sé, a ricordarle quanto dolore aveva seminato per far felice
lei, per amare lei.
E si sarebbe caricata
di quel
dolore, lo avrebbe preso tutto, senza lasciarne una minima
goccia, in cambio del suo risveglio.
Perché si
sarebbe sobbarcata
di quei peccati che lei avrebbe potuto reggere, dei quali, in fondo,
era responsabile, e perché, semplicemente, sapeva di dover
sempre sacrificare qualcosa, per ciò che era, ma non lui,
mai,
lui.
- Devi ridare la vita
a ciò
che Loki ha distrutto, e quando Asgard tornerà a
risplendere,
lui potrà riaprire gli occhi.
Ma c’era un ma,
nella sua voce, una pausa lunga un respiro con il quale Astrid
riaprì gli occhi, osservando il vuoto mentre il cuore le
andava
in frantumi.
- Ma al suo risveglio,
una volta
riaperto gli occhi, lui non avrà più alcun
ricordo di te
o della tua esistenza. Tornerà al tempo della sua prigionia,
della sua vecchia avita, senza avere memoria di te. È questo
il
prezzo da pagare per riaverlo indietro. Resta a te decidere se
accettare di pagarlo, Tesseract.
Di nuovo quel nome, il
fantasma
più ingordo dei suoi ricordi, il suo tormento, il suo
strazio,
ma ciò che ora le avrebbe permesso di riportarlo da lei, e
di
fare quanto detto.
Lei che poteva
riportare in vita
ciò che una vita aveva già avuto, il limite per
il quale
si era ritrovata a piangere il proprio dolore, il confine per il quale,
quella volta, si costrinse a ringraziare.
Fu un bacio lieve,
quello che le
labbra fredde di Loki accettarono, una bocca tremante che Astrid si
costrinse ad allontanare per guardare di fronte a sé.
Non la dea, non la sua
famiglia, ma
il nulla, un punto che nessuno oltre lei avrebbe visto,
perché
era dentro se stessa, che si stava perdendo, in quella
immensità
che la spinse ad avanzare in silenzio, da sola, verso la finestra dalla
quale volò giù in un soffio, tuonando a terra
come se un
fulmine avesse provato a spaccare quella parte di mondo a
metà.
Ed una crepa si
aprì, ai
suoi piedi, mentre il nero del cielo gorgogliava nervoso per il suo
cheto avanzare, lento, e solitario come sempre era stato il suo passo.
Perché
nessuno avrebbe potuto reggerlo, sopportarlo, ma andava bene
così, sarebbe dovuto, andar bene così.
Quando Zenas
percepì la
presenza calda accanto a lui si costrinse a riaprire le palpebre e a
richiuderle frettolosamente per non rimanere accecato, mentre la figura
camminava lenta per una via che la crepa tracciava di fronte a lei.
Lei che bruciava e
spogliava il terreno da ciò che morto, sotto i suoi piedi,
non fu più.
E ci furono erba e
fiori, a
tendersi verso di lei, verso la vita che gli umani e la dea affacciati
alla finestra videro brillare nel vuoto, la guida di chi per strada si
era perso, dalla quale era stato scacciato, chi Astrid avrebbe
recuperato dal fondo dell’oblio per adempiere al suo dovere,
al
suo destino.
Pagare per ogni amore
conquistato,
perire, per ogni lacrima che sulle sue guance evaporava per le fiamme
che le lambivano il corpo sottile e stanco.
Si udì un
grido, al di
là del vuoto, un coro di voci che lo squarcio aperto nel
cielo
rese più acute, isteriche, disperate, le urla di chi alla
vita
venne richiamato da lei, quella luce che smise di essere umana e
divina, e che aria ed energia pura, si arrese a ritornare per un
istante.
Il boato
dell’esplosione
coinvolse i pianeti a quello vicino, il palpito isterico di un cuore
che tutti sentirono tuonare sulle proprie teste, un palpito per il
quale Giganti di Ghiaccio ed umani si trovarono a fissare lo stesso
punto di luce comparso d’improvviso lì dove nulla
vi era
più.
Ma era oro, quello che
Zenas ed Hell si trovarono davanti.
E torri alte, dagli
stendardi
d’avorio che la grandezza di quel popolo non avrebbe smesso
di
mostrare, un’opulenza che l’armatura dorata del dio
biondo
riflettè nello sguardo tornato blu, senza più
luce,
né vita, solo uno sguardo che era divenuto stanco e cedevole
come un cristallo abbandonato nel fondo dell’oceano.
- Che la tua gente
abbia imparato
la lezione, figlio di Odino – tuonò la sua voce,
storpiata
da quel potere che in lei ancora vibrava e che rendeva le sue parole
l’eco lontano di anime grandi, antiche, e solenni.
- La vita vi
è stata
restituita, ma per l’ amore che tu per primo hai
disprezzato – e c’era rancore, nella voce di
Astrid,
rancore per le sofferenze subite, e per quell’ascolto che mai
le
era stato permesso, ma ora avrebbero ascoltato tutti.
E lui, quel dio che in
Loki aveva
sempre generato amore ed odio, sarebbe stato il testimone delle sue
promesse, delle sue minacce, dei suoi comandi.
Perché era
il Tesseract, e a
lei si doveva la vita, a lei avrebbero dovuto ogni sorriso, respiro,
sguardo rivolto ai propri cari ritrovati, d'ora in avanti.
- E
quell’amore, figlio di Odino, chiedo che a Loki sia concesso,
come fin dall’inizio sarebbe dovuto essere. Perché
ora avete la possibilità di riparare l’errore e
riprendervi dalla vostra ignoranza, ed amarlo come si merita, questo
è tutto ciò che vi chiedo in cambio.
Ci fu silenzio, e
sguardi duri
rivolti a ciò che di splendere smise in silenzio, ma lo
sguardo
di stelle mai Thor, dio dei fulmini, abbandonò, per amore
del
suo popolo, e del ruolo del quale era stato investito.
Protettore di Loki, da
lì in
poi, responsabile di quel dolore che lui per primo sapeva di aver
causato al fratello, e fu per amor suo, che promise.
Fu per amor suo, che
Astrid sorrise debomente prima di chiudere gli occhi e smettere di
bruciare.
La videro rivolgere
loro uno
sguardo assente, vitreo e distante, ma quando Pepper non la vide
girarsi al suo richiamo sentì le lacrime di disperazione
riempirle gli occhi quando udì lo strappo che la figlia
generò nel vuoto, uno squarcio dentro il quale ci fu neve e
ghiaccio, ad accogliere i piccoli passi di Astrid.
E fu sulla neve, che
lei ricadde,
le mani affondate fino al gomito nella distesa ghiaccio che le sue
lacrime tinsero d’azzurro.
Un pianto per il quale Yssgradrill intera si trovò a tremare
mentre Asgard tornava risplendere di un fulgore che lentamente, sul
manto innevato, si spense assieme all’urlo con il quale cadde
riversa al suolo, il viso rigato di lacrime e lo sguardo stanco di chi,
oramai, non aveva più nulla da sacrificare.
Continua…
Hel e il suo regno non
sono di mia invenzione, poichè sono descritti nella
cosmologia norrena come il regno opposto ad Asgard, che
rappresenterebbe il cielo, ed Hel, di conseguenza, l'inferno.
Ringrazio tutti per la lettura, l'attenzione e il passaggio da queste
parti!
Al prossimo aggiornamento, Gold Eyes
|
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Capitolo 7 *** 7 - The Other Half (Of Me) ***
7 - The Cross
“You can't brighten
all the gloom
Your
heart is afraid and so empty
You
glorify the future
Living
in a different world than me
The
journey ends in death
You
are giving up so easily “
[…]
“We
are drifting apart
Chilled
to the marrow, cause you don't want to go
Cause
we've got a different wish at heart
The
amulet guides us to the other side
When
I go down it's you who'll bleed
I'm
not scared to die, as long as I'm with you
You
are the other half of me “
(The
Other Half (Of Me) - Within Temptation)
Il fruscio armonico
degli steli di ghiaccio aveva perduto la cadenza melodica con la quale
aveva imparato a cullare il sonno di
Jounheim, una litania che ora, nel buio della sera, col grido isterico
della Madre terra a lacerare il silenzio, appariva
più tremante ed incerta, una voce storpiata dal peso del
corpo abbandonato sul suo petto.
Un’ombra
sottile e minuta che nel suo ghiaccio era immersa per metà,
il viso sepolto nella neve che rendeva incerto il suo
profilo, distante il suo sguardo, e morente il respiro appena
accennato che abbandonavano le labbra colorate appena schiuse.
E il suo canto
spezzato tornò a librarsi dell’aria ancora
una volta, rotto, la gola stretta dall’angoscia di
quel peso che la terra non riusciva a sopportare, non tutto quel
dolore, ma era su di lei, che Astrid giaceva, immobile, riparata
dall’ombra di Yssgradrill che sotto i suoi rami
l’aveva rinchiusa nel tentativo di proteggerla.
Ma a farle male, a
ferirla, era lei stessa, lei e l’elmo stretto al
petto che aveva reclamato accanto a sé per avere qualcosa a
cui aggrapparsi nella sua lenta caduta.
Un crollo inesorabile
e rumoroso che l’aveva vista sepolta nella neve del suo regno
con il cuore in pezzi, un cuore che a respirare, non era più
in grado, lei, non ne era più in grado.
Non di sopportare
quella perdita, non di ribellarsi alle braccia di sua madre che fino ai
suoi rami l’avevano trascinata, riparandola sotto il legno
possente delle sue braccia che avevano tentato di reggere il peso del
suo corpo e del destino che per sé aveva scelto, ma che,
alla fine, le aveva spezzato le gambe e la voce.
Una voce che Astrid
non aveva più, perché perduta, era tutto perduto,
oramai.
Lei, era perduta.
Perche non esisteva.
Non nel
cuore di Loki, non nella sua mente, non in quello sguardo
che, nel calare su di lei, non l’avrebbe
riconosciuta, né capito il perché delle sue
lacrime.
Ed era ingiusto, tutto
quello.
Perché
aveva sperato di poter avere almeno lui, con sé, alla fine.
Il primo ad averla
amata, il primo ad averla dimenticata.
Ed era il pensiero di
non esistere, di essere stata cancellata tanto facilmente dal cuore di
Loki a toglierle la forza di rialzarsi, di provare ancora a lottare, ma
non ora, non ancora.
Voleva solo riposare,
in quel momento.
Chiudere gli occhi e
fingere di essere qualcun altro.
Un’ umana,
una dea, chiunque ma non se stessa, non il motivo di tanto dolore, non
la causa di tanta disperazione, la sua, disperazione, quella che aveva
pregato di non provare più, quella dalla quale era stata
salvata da qualcuno, perché da sola, ad uscirne, non ce
l’aveva fatta.
E il suo eroe si
trovava a pochi passi da lei, lì dove Sunniva non si era mai
mossa dopo averla seguita, in silenzio e a capo chino, per il manto
innevato dal quale sua madre l’aveva sottratta per
nasconderla agli occhi del mondo.
Ma quelli della
Gigante riuscivano a vederla, parevano persino spezzare i fragili steli
per farle sentire la sua presenza, il suo sostegno, perché
da lei mai il suo sguardo si era mosso, memore di un segreto,
di una storia della quale lei era la sola custode.
Un storia che parlava
di precipizi, disperazione, e un salto che la Gigante non le aveva mai
permesso di compiere.
Da quel precipizio
però, era infine caduta, una voragine che lei stessa aveva
rappresentato per se stessa, il fondo che ancora una volta si era
trovata a toccare per una perdita, l’ennesima perdita.
Una brezza gentile e
morbida le sfiorò lo zigomo, un tocco per il quale si
trovò a far scivolare gli occhi un po’
più in alto nel riconoscere il profumo di buono di sua
madre, in piedi davanti a lei con gli artigli pieni dei suoi
capelli.
- È tempo
di rialzarsi – la sentì sussurrare nel vento, ma
quella volta, non ci fu comprensione, ad accendere il suo sguardo, ma
rabbia, una collera che le riempì le mani delle fiamme che
le divorarono il viso scattato verso l’alto, su quella figura
che continuava a rimanere immobile e severa, come sarebbe dovuto
essere.
Perché
non aveva bisogno di essere compatita, confortata, Astrid lo sapeva, ma
la ferita era troppo profonda, e bruciava, ardeva del dolore che le
graffiava il viso e il petto senza pietà.
- Hai delle
responsabilità.
- E gli altri? Gli
altri non ne hanno verso di me? – si ritrovò a
gridare quando la frustrazione e la desolazione la
assalirono, liberando il rancore che le arrochì la voce e la
spinse a tornare in piedi per sfogare il malessere che la stava
uccidendo – Allora madre? Gli altri non ne hanno
verso di me?
- I tuoi obblighi
verso gli altri sono ben più gravosi dei loro – le
ricordò però la Creatrice, quasi insensibile allo
sguardo arrossato e alle lacrime che rotolavano giù dalle
guance, ma non lo era.
Perché
Semjace piangeva, dentro di sé, ed urlava per quella figura
che non smetteva mai di guardarsi attorno con quello sguardo sperduto,
che di soffrire, non aveva mai smesso, per quanto lei avesse pregato le
anime degli antichi di darle conforto.
Ma non ce ne era per
lei, non in quel momento.
- E perché
? Perché lo sono? – tornò ad urlare con
strazio, gettando a terra l’elmo per avere le mani libere di
agguantare l’aria e bruciare gli steli che la toccavano, come
a calmarla, ma non aveva bisogno di parole dolci, non quando
era l’odio, ad avvelenarle il cuore, il disprezzo per
ciò che le avevano fatto, per ciò che era
costretta a sopportare, ma era stanca.
Stanca di comprendere,
stanca di sapere, stanca di credere che alla fine, un lieto fine lo
avrebbe avuto anche lei, perchè era sempre stata la fine, la
sua unica scelta.
- Perché
madre? Non ho il diritto anch’io di riposare? Di essere
stanca? Perché lo
sono – e si battè il petto con il
pugno chiuso per farsi male, per mostrarle che quello che lei guardava
era carne, e pelle che sapeva aprirsi di ferite, e arrossarsi per i
suoi colpi, non metallo, non energia, ma ossa e muscoli – lo
sono madre, perché, per quanto io mi sforzi di essere
diversa, tutto ciò che mi circonda è
dolore.
- Non è la
diversità che devi ricercare, figlia mia – e
quella volta c’era tormento, in una voce che sarebbe dovuta
rimanere salda, ma non davanti a tutta quella disperazione, non davanti
a quelle lacrime.
Le mancò la
voce, per un attimo, l’aria risucchiata da quei polmoni che
le diedero la possibilità di replicare, ma Astrid non lo
fece, non quando le proprie parole riecheggiarono nella sua
testa e le ferirono lo sguardo.
Diversa.
Chinò il
capo senza più sapere dove guardare, limitandosi ad
osservare in silenzio le mani inghiottite dalle fiamme.
Pensava di averlo
accettato, oramai, di aver accettato se stessa, ma erano solo menzogne,
le sue, bugie che aveva scambiato per verità, ma
la realtà era ben diversa.
Perché alla
fine, dopo quanto accaduto, tornava a porsi la stessa domanda.
Chi?
Chi era lei?
Chi credeva di essere?
Un' umana, un alieno,
una divinità, un abominio?
Cos’era lei?
Tutto e niente era la
risposta.
Tutto
e niente.
- Io volevo solo
essere felice- un sussurro distorto dalle lacrime che le
gonfiavo la gola e le annebbiarono lo sguardo – io volevo
solo essere felice, madre.
Quando la vide
stringere i palmi per liberarli dalle fiamme, quando la vide nascondere
il viso tra le mani e scoppiare in singhiozzi ci fu disperazione, a far
rantolare la voce della Creatrice, un tormento che non le dava pace e
che la uccise quando, nel provare ad accarezzale il capo, si
trovò a stringere solo aria.
Ma lei piangeva, e
nulla poteva fare per consolarla se non guardarla soffrire, la sua
condanna, il suo supplizio, perché era un abbraccio, quello
di cui ora aveva bisogno sua figlia, una stretta nella quale rilasciare
tutto il dolore per ricominciare a respirare e a vedere se stessa non
per ciò che gli altri vedevano, o credevano di sapere, ma
per ciò che era, ciò che sempre, sarebbe stata.
Non Astrid
l’umana, non la moglie di un dio, ma la sovrana
dell’universo, una regina che poteva decidere chi lasciar
vivere o morire, l’essere superiore il cui compito sarebbe
stato quello di regnare su ogni cosa.
Uomini, dei, mondi,
non avrebbe avuto importanza, ma per regnare lei era nata, non per
comprendere, non per capire, ma per essere.
L’inizio e
la fine di tutto.
Spiegarglielo,
tuttavia, non sarebbe servito, perché doveva esser lei
stessa a capirlo, a sentirlo, ad accettarlo, ma era pur sempre una
donna ferita, quella che piangeva sepolta tra la neve, una creatura
infelice della quale l’uomo e gli dei avevano nuovamente
abusato, ma era stata lei a permetterglielo.
Lei che credeva di
dover provare ad essere un po’ più come loro e un
po’ meno come se stessa, in quel disperato
tentativo di avere un’identità, ed era quella
stessa identità che lei non vedeva, ciò che era e
che doveva ricordarsi d’essere, ma non in quel modo, non
affogando in tutto quel dolore.
Il suo
lamentò si levò, alto e acuto come
l’arpeggio stonato di una melodia che faticava a mantenere il
ritmo, ma ci furono tonfi, a seguire quel suono, decisi come lo
scorrere di un fiume, il fragore di una cascata, e ci fu un respiro, a
franare su di lei, quello che Astrid sentì soffiare sul
proprio capo.
Un respiro pesante e
irregolare per la fuga dissennata con la quale l’aveva
raggiunta e poi sollevata in un abbraccio che Sunniva
intensificò, serrando le mascelle possenti nel sentire
l’umida scia delle lacrime bagnarle il petto.
Ma le lacrime si erano
fermate, mentre gli occhi tornavano a vedere il terreno ribaltato di
fiori calpestati nel quale la Gigante si era fatta strada per
raggiungerla, contravvenendo alle leggi del suo popolo, disonorando la
sua stirpe per aiutare lei, così piccola e fragile tra
quelle braccia che però sapevano essere così
gentili, sul suo corpo stanco.
E furono
d’amore, le lacrime che le bagnarono il viso.
Fu per amore che
ricambiò la stretta , abbandonandosi alla dolcezza di un
abbraccio che sapeva di gelo, di casa, e di qualcosa che Astrid
sentì grattarle il petto.
Energia.
La sua, energia,
quella che invano aveva tentato di mitigare, nascondere, adombrare
nell’ombra del suo sorriso gentile, ma non ci fu dolcezza,
sul suo viso, mentre il cielo si scuriva e i fiori tornavano a cantare
e bruciare.
Un canto che si
levò forte, fino a diventare un coro di voci che di
bisbigliare avevano smesso, lei, aveva smesso.
Smesso di cercare di
essere qualcuno che alla fine non era.
Perché
aveva sempre cercato di essere l’inizio e mai la fine, ma era
giunto il momento, per lei, di conoscere l’altra
faccia di se stessa.
Lei, che i Creatori
avevano creato non per essere serva, non schiava, non amica,
ma Regina.
Regina del mondo,
della vita.
Di tutto e niente.
°°°
L’aria era
satura di frasi non dette, maledizioni inghiottite di forza e costrette
nelle gole vibranti di chi ricordava ma di punire non aveva il potere,
né la possibilità, neanche il Padre
degli dei che dal suo trono d’oro fissava silente la figura
dal sorriso ferino e dall’occhio cieco e affamato fisso su di
lui.
- È un
piacere rivederti fratello.
Una voce sgradevole
quella di Hell, dal tono graffiante e acuto come il grido isterico di
bambini spaventati dal buio della propria camera, e
l’oscurità annidata in quelle orbite vuote sarebbe
bastata a gettare ombre su tutti loro, sui guerrieri di Asgard che
accostavano Odino e che, nell’udirla, serrarono i ranghi,.
Ma
c’era chi paura della dea non provava
più.
Non timore, non
orrore, solo rancore, un sorso di acqua ghiacciata che occluse la gola
di Pepper quando la donna si trovò a rialzare il viso dalle
mani umide delle sue lacrime per tornare alla realtà.
Una
realtà che ora la vedeva di nuovo madre disperata per una
figlia che non era riuscita a proteggere, neanche quella volta.
Ed era colpa sua, di
quella piccola creatura dal sorriso sbilenco e dal passo zoppicante,
era lei la causa di quel pianto, del suo, e di quello con cui
aveva visto Astrid svanire nella neve, in solitudine, chiudendo la
porta alle spalle, quella che Pepper si era sempre augurata di poter
aprire senza dover chiedere permesso.
Ma ora
l’entrata era talmente usurata, talmente abusata che la
vedeva cigolare davanti ai suoi occhi sgranati dal dolore, il passaggio
verso un rifugio nel quale sua figlia sperava di non poter essere
raggiunta dal dolore, ma quello aveva imparato ad abbattere
le sue difese filtrando sotto la porta, insinuandosi nelle crepe che
Pepper aveva sempre provato a tamponare.
Rimedi per una rottura
sempre rimandata ma mai del tutto risanata, non quel piccolo cuore che
aveva visto sgretolarsi, impotente, assieme allo sguardo straziato di
sua figlia.
Ed ora lei ne aveva le
mani piene, di quei frammenti, schegge che se avessero avuto forma, le
avrebbero martoriato i palmi quando li richiuse in pugni per la rabbia
di sapere che era colpa loro, era sempre stata colpa loro.
Sua, degli uomini,
degli dei, del mondo, se lei soffriva e moriva di dolore.
Era colpa sua.
- Quanta freddezza mie
cari – e questa volta la dea ruotò su se stessa
per rivolgersi ai presenti nella sala del trono con feroce ironia
– non dovreste osannare chi vi ha ridato la vita? Chi vi ha
salvato dall’oblio? Non-
Il tintinnio
vibrò nell’aria per una manciata di secondi,
echeggiando per la sala del trono con uno squillo che si
interruppe quando la pesante decorazione d’oro
massiccio smise di agitarsi, gettando schizzi di rosso porpora sul
pavimento immacolato.
Sangue che Hell
toccò con dita tremanti sulla propria guancia, gli occhi
sgranati per l’incredulità e la bocca schiusa in
un urlo che fece tremare l’intera sala ma non lei.
Non l’umana
dallo sguardo duro e dalle labbra arricciate in una smorfia sprezzante
che non cedette di un millimetro neanche quando vide quella creatura
torcere il collo tanto forte da spezzarselo per la fretta di
identificare il responsabile di quella blasfemia.
E quando la dea vide
la mano rea di averla ferita tesa ancora in aria, come a gridarle che
era stata lei, a gettarle contro la decorazione strappata ad una delle
colonne della sala, gridò isterica.
Ma Peppper,
della saliva spillata da quelle labbra secche e spaccate non ne venne
impaurita, neanche quando Hell, preda della follia feroce,
alzò il braccio per infliggerle la punizione adatta ad un
essere come lei prima di arricciare il naso e fermare le dita richiuse
improvvisamente in pugno.
- Zenas.
Il non-morto che
l’aveva affiancata fino a quel momento a capo chino si
trovò a rialzare uno sguardo diffidente
all’indirizzo della sua signora, insospettito dal fremere di
narici che la dea dilatava rumorosamente, quasi ad annusare il pericolo
incombente.
Ma era
un’umana, quella che aveva davanti.
Una donna, fragile e
disarmata, il bersaglio perfetto da schiacciare e dilaniare, da far
urlare per il dolore.
- Puniscila.
Eppure non
così fragile si ritrovò a pensare quando la sua
padrona tornò ad abbandonare il braccio lungo il fianco con
un lampo inquieto negli occhi, sospetto forse, una diffidenza che
però la dea pareva nutrire per la piccola umana.
- Puniscila
–tornò a ripetere la divinità,
schiumando rabbia nel non notare alcun movimento alla sua destra.
Perché
Zenas dubitava, ora, di ciò che vedeva, di ciò
che fragile sembrava ma che forse, in fondo, non era.
- Puniscila ho detto!
Eppure, per quanto
recalcitrante fosse, per quanto il suo sesto senso gli urlasse di non
rivolgere minaccia alla creatura pallida e dallo sguardo duro, il
pensiero di poter essere preda e bottino di guerra dei suoi simili lo
convinse a scattare nella sua direzione con occhi cupi.
Occhi che dovette
sgranare quando, nell’approcciarsi alla fragile umana, si
ritrovò a schiantarsi duramente contro la colonna opposta a
lei, respinto non dall’uomo di metallo che aveva provato a
tirar via la moglie, non dalla creatura dallo sguardo di pietra, ma da
una sottile patina dorata che l’aveva avvolta e protetta dal
suo attacco.
- Vedo che Yssgradrill
ha scelto una nuova protetta.
Pepper strinse le
labbra nel cogliere il fastidio nella voce della dea,
l’occhio cieco fisso su di lei e sulla barriera che, una
volta percepito l’assenza di pericolo, svanì nel
nulla, lasciando alle sue spalle solo silenzio e il gemito di dolore
del non-morto che faticò a tornare in piedi.
- Cosa- cosa diavolo
è stato? – sbottò Tony Stark quando
riuscì a riprendersi dallo shock, tirando la moglie per un
braccio, così da leggere direttamente nei suoi occhi le
risposte che chiedeva, ma l’umana non provò
neanche a scostare lo sguardo dalla dea affamata.
Non con ancora il
crepitio dell’energia a formicolarle sotto le dita e sulle
spalle che Pepper contrasse, scostando gentilmente la mano del marito
dal suo braccio.
- Perché ha
scelto te e non me? – ringhiò Hell,
assalita dall’invidia che mai l’avrebbe abbandonata
o resa sana di mente, perché lei era nata folle, e nella sua
follia aveva imparato ad odiare qualunque cosa lei voleva ma non poteva
avere per sè.
E la protezione di
Yssgradrill era un dono del quale nessuno aveva mai potuto godere,
neanche suo fratello, nessuno se non quella piccola e insignificante
umana che quel potere non avrebbe saputo apprezzare a dovere, non come
avrebbe fatto lei.
- Perché
è il compito di ogni madre proteggere i propri figli
– le sibilò contro Pepper, i muscoli delle braccia
contratti e gli occhi tanto fissi da dolerle.
- Madre –
la riprese la dea con voce gutturale, le labbra piegate per il sorriso
affettato con il quale Hell tornò a dondolare, ondeggiando
verso il trono del fratello con una risata di scherno rinchiusa in gola
– madre.
Il fischio della sua
risata mozzò l’aria come uno stiletto piantato nei
loro crani, tanto in fondo da costringere alcuni a portarsi una mano al
capo e mitigare il pulsare frenetico delle loro tempie, disturbate da
quella cacofonia che la dea tornò ad intonare nel volgere
uno sguardo feroce agli umani.
I suoi artigli
graffiarono l’aria quando alzò il palmo magro e
ossuto mentre gli occhi le si riempivano dell’eccitamento per
il profumo di sangue giovane che avrebbe fatto spillare da quella
piccola e insignificante creatura, protetta sì da
Yssgradrill, ma non del tutto immune al suo potere, non chi la
circondava e chi su quella stessa protezione non poteva contare.
Perché era
una dea, quella che sorrideva loro languida, un mostro dal viso di
bambina che di ridere smise solo per porre un’unica e
tagliente domanda.
- Madre di chi?
- Mia.
L’orrore
graffiò il viso della dea quando quella voce
echeggiò macabra nella sua testa, come se le avessero
parlato all’orecchio, un sussurro gelato che si disperse
nell’aria assieme alla brezza artica per la quale tutti si
trovarono a trasalire.
Ma non fu per
l’improvviso calo di temperatura che molti si schermirono il
viso e inghiottirono il grido serrato in gola, non per ciò
che si poteva sentire, ma ciò che si poteva vedere e
toccare, e temere.
Una paura che Hell
sentì scivolare fino in gola quando
sentì qualcosa di ghiacciato tracciare un percorso
immaginario sino alla nuca dove la dea potè
sentire la pressione di dita, lunghe e fredde dita blu che Astrid
richiuse con forza, stritolando la trachea prima di sollevare il
braccio e lasciarla scalciare per la mancanza d’aria.
Un gemito di angoscia
si levò alto per la sala quando il pavimento si flesse sotto
il passo pesante della Gigante di Ghiaccio ferma all’entrata,
gli occhi scarlatti fissi sulla piccola e minuta figura che la dea
fissava con occhi dilati per il terrore e
l’angoscia.
- Com-co-
rantolò Hell in preda al panico, facendo pressione sul palmo
sottile che le stava togliendo l’aria, ma era
d’acciaio la presa che la stava stritolando, un acciaio che
neanche lei avrebbe potuto spezzare, non il freddo metallico di quel
sorriso spietato che piegava le labbra del Tesseract.
Un sorriso per il
quale Hulk si trovò ad aggrottare le sopracciglia e
stringere i compagni un po’ più assieme, i sensi
impazziti per il pericolo che sentiva serpeggiare attorno a loro, una
minaccia tanto soffocante da impedire persino ad Odino di proferir
parola.
Ma anche se lo avesse
fatto, Astrid non l’avrebbe udito, o sentito, non sentiva
niente, in quel momento, se non le ossa gracili di quel collo spezzarsi
una dopo l’altra dopo ogni sua piccola pressione.
E stringere le veniva
semplice, sorridere a quel modo, le veniva semplice.
Essere crudele, le
veniva semplice.
- Credevi davvero che
non sarei tornata per vendicarmi?
Il rantolo soffocato
della dea fu l’unica risposta che ebbe, ma bastò
per cavarle dagli occhi la sottile delizia di vedere tutto quel dolore
in quegli occhi che ora provavano paura.
Paura di lei, di
ciò che Hell vedeva bruciare nelle pupille di stelle in
pasto alle fiamme, fiamme che la divoravano da dentro senza sosta,
uccidendo ogni cosa avesse imparato.
La morale.
La pietà.
La comprensione.
Non c’era
più nulla di umano ora in lei, niente che potesse ricondurla
a quei principi che suo padre le aveva insegnato a rispettare, ma
nessuno aveva mai avuto rispetto per ciò che lei
rappresentava, per quell’incubo che Astrid non aveva mai
voluto essere ma che, alla fine, si era ritrovata a diventare.
L’incubo di
un mondo che di tremare ad ogni suo passo non avrebbe smesso, non fino
a quando il suo dolore non sarebbe stato ripagato con altro dolore, il
suo, dolore, quello della dea che le aveva tolto ciò che le
rimaneva di buono in lei.
Un amore che, una
volta perduto, l’aveva gettata in pasto all’odio e
al rancore.
Perché a
tenerla in piedi, ora, era solo quello.
Desiderio di vendetta,
di rivalsa su chi, su di lei, aveva creduto di possedere qualche
diritto, ma era lei, ad averli, su tutti.
Il diritto di decidere
chi lasciare morire.
Il diritto di
distruggere ciò che di vivere non si meritava, e quella
creatura rantolante non lo meritava, nessuno lo meritava
più per ciò che le avevano fatto, per
il dolore che le avevano inferto.
Per le ferite che l'
avevano costretta a subire.
- Astrid.
Quando Pepper la vide
irrigidire le spalle nel cogliere il suo sussurro incredulo
potè percepire il dolore di sua figlia, perché
era diventata un fascio di dolore, Astrid.
Lo erano diventate le
sue ossa, i suoi muscoli, ogni cosa che sotto il pulsare frenetico
della ferita la portava a muoversi, a gesticolare, persino a sbattere
le palpebre in un tentativo disperato di espellere dal corpo, come
veleno, quel dolore soffocante.
Ed erano i suoi stessi
occhi, ad essere avvelenati, le pupille vitree che su di loro, sulle
tre figure lanciarono un grido isterico, un richiamo per il quale Hulk
si trovò a rantolare il nome di sua figlia che chiedeva
aiuto.
Un lampo di
fragilità che Astrid inghiottì assieme alla
lucidità quando sentì le dita della dea provare a
graffiarle il viso, nel tentativo di farle perdere la presa, e su di
lei il nero tornò a tingerle la voce e a chiazzarle lo
sguardo di punti ciechi nei quali venire trafitti e uccisi.
- Lasc-
- Lasciarti? E
perché dovrei? – e serrò la stretta con
le labbra tornate a piegarsi per la crudeltà che le grattava
la voce – perché è così che
dovrei essere? Perché è giusto che sia
così? Non credo.
Il grido di dolore
fece scattare in piedi il Padre degli dei, ma quando Odino
provò a schiudere le labbra si trovò ad
impallidire per la paura che gli fece tremare le gambe e che lo
riportò a sedersi sul suo trono, gli occhi sgranati per la
fitta di dolore che gli aveva trapassato lo sterno, come se qualcosa
avesse provato a spezzargli la schiena e la gabbia toracica.
Una sensazione di
disfacimento che Astrid riportò sulla dea con una luce folle
negli occhi.
- Visto? Anche io
posso essere cattiva, molto più crudele di quella creatura
che temete tanto.
- Io-
- Sai
perché sei ancora viva? Sai perché continui ad
appestare l’aria con la tua sola presenza
– un rantolo il suo, una voce che sembrava ripescata dal
fondo di una caverna, un eco grottesco che fece rizzare i capelli sulla
nuca della dea – non perché sei utile, non
perché sei potente, ma perché l’ho
voluto io. L’ho sempre voluto io.
Quando la videro
torcere il collo per guardarli tutti in viso ci fu un brivido
collettivo a far tremare loro le ginocchia, un fremito che sul corpo
della dea divenne un movimento convulso e scoordinato di arti
che di lottare, di respirare, non riuscivano più.
- Perché
sono io qui a decidere chi vive e muore, non voi, e soprattutto
– e nel tornare a risentire su di sé quello
sguardo Hell lanciò un uggiolio angosciato – non
te.
- M-
- Ma su una cosa hai
ragione – la interruppe feroce, incavando il viso con quel
sorriso raccapricciante – l’equilibrio deve essere
mantenuto, perciò non ti ucciderò, ma ti
farò desiderare di essere morta una volta che
avrò finito con te.Tu.
Zenas
deglutì a vuoto quando la udì, ma tenne gli occhi
bassi nella speranza di aver capito male.
Eppure sentiva quegli occhi levitare su di lui come mani invisibili che
lo toccavano e spingevano il suo mento a rialzarsi, ciò che
fu costretto a fare quando la possibilità di sfuggire al suo
comando lo convinse ad arrendersi.
Un lampo di
pietà saettò per le iridi di Astrid quando vide
il braccio livido della creatura, malamente riattaccato alla spalla, ma
mantenne l’aria altera e la voce dura quando lo
invitò ad avanzare verso di lei.
Uno, due, tre passi,
il non-morto tremava dopo ogni singolo movimento, ma quando la
raggiunse, quando si decise a guardarla in viso, seppe di essere
perduto.
- Vuoi diventare Re?
La domanda
portò via con sé alcuni sospiri increduli,
persino i guerrieri di Asgard non poterono che temere per
l’incolumità del Padre degli dei, ma
Zenas non emise suono, si limitò solo a sgranare le palpebre
secche e screpolate per la sorpresa.
Astrid si convinse ad
addolcire la piega delle labbra quando lo vide indietreggiare
lievemente nel cogliere il movimento della sua mano, un palmo che gli
tese in silenzio, le pupille di luce incatenate agli occhi che, anche
volendo, il non-morto non avrebbe potuto rivolgere ad altro se non lei.
- Vuoi diventare Re?
- Tu non puoi-non
– ma il rantolo sommesso di Hell si ridusse in un verso
strozzato per il quale Zenas si trovò a tendere un
sogghigno, incurante dello sguardo feroce che la dea gli
lanciò, ma non c’era più nulla di
minaccioso in lei, non con quella mano stretta attorno al suo collo a
costringerla all’ubbidienza.
E
d’improvviso, il quesito immotivato della creatura
sembrò prender senso e un significato che lo fece sorridere
apertamente.
- Nessuno meglio di
chi ha indossato le catene può capire la
desolazione dell’essere schiavo di un tiranno crudele
– e Astrid fissò con crudo compiacimento il viso
della dea tendersi per l’ansia e la paura –
perciò nessuno più di te merita la sua
corona.
- No! Lui non
può – tornò a dimenarsi Hell, una volta
riuscita a liberarsi del polpastrello schiacciato contro la sua
carotide – quel trono è mio per diritto di
nascita, tu non puoi darlo a lui, non puoi darlo-
- Invece posso
– la zittì lei, tornando a toglierle la voce e la
speranza di potersi ribellare al suo volere – e lo
farò, a patto che tu rimanga fedele a me-
- Zenas – le
rispose il non-morto, una punta di presunzione a storpiargli la voce
arrochita dall’eccitamento – il mio nome
è Zenas.
- Allora Zenas, vuoi
diventare Re pur sapendo della fedeltà a me rivolta e
dovuta?
Uno sguardo supplice
da parte della dea fu ciò che spinse la creatura ad
allargare il sorriso e afferrare la mano che Astrid gli
tendeva mentre attorno a loro il freddo si inspessiva e il
grido di Hell tornava a levarsi alto.
- Non farà
male – la rassicurò, falsamente dolce, quando la
costrinse ad accostare la fronte alla sua, i lineamenti tanto storpiati
dalla paura da rendere il suo viso simile al teschio corroso di un
morto – o almeno, non quanto vorrei ne facesse.
Un lampo.
Non videro altro.
Uno sprazzo di luce
che dal nulla calò sulle loro teste con il rombo grottesco
di uno stomaco vuoto, ma ciò che Hell vedeva,
ciò che fu costretta a guardare fino a desiderare di
diventare cieca era un vuoto infinito tempestato di luci accecanti,
pulviscoli di quelle che parevano focolai, e poi lo sentì,
lo strappo.
Una lacerazione che la
spinse a gridare con una voce che non ebbe più quando si
sentì tirare dentro quel mondo senza fine,
trascinata per i piedi verso una profondità che la
prosciugò della vista e di quella forza che le
impedì di attutire la caduta quando la mano attorno alla sua
gola si allontanò.
Il franare silenzioso
della dea portò molti dei presenti ad indietreggiare
velocemente quando videro il Tesseract avanzare di un passo, ma fu
davanti al non-morto che Astrid si fermò, gli occhi
irradiati dal potere risucchiato e imprigionato nelle
profondità del suo essere, una potenza divina verso la quale
Zenas si tese inconsciamente mentre da terra, Hell, alzava le mani per
scagliare su di loro la sua furia.
Ma non aveva
più nulla da invocare, nulla da lanciare su quella creatura,
se non maledizioni e urla deboli come lei era stata costretta a
diventare.
Perchè non
più dea immortale, non più divinità
crudele, ma una creatura senza più poteri e
legioni da comandare.
E quando lo
lasciò uscire da sé, quando riversò in
quella creatura l’ultima stilla di potere, Astrid smise di
soffrire, tornando a guardare al mondo con meno cattiveria, con meno
odio, ma con amore, e comprensione.
Perché era anche quello,
alla fine, sarebbe stata entrambe per tutta la vita.
Crudele e gentile.
Dolce e meschina.
Ambivalenze che alla
fine l’aveva riportata lì dove tutto era iniziato.
Quando Pepper la vide
correre verso la porta indicata dal Padre degli dei, il desiderio di
seguirla fu forte, ma si trattenne dal cedere ad un bisogno che suo
marito e il dottor espressero a loro volta prima di trovarsi con le sue
mani a stringere l’avambraccio di ognuno.
Era giusto che la
lasciassero da sola, in quel momento, libera di andare in contro a
ciò che aveva ripromesso di riprendersi.
Perché non
gli avrebbe mentito come loro, non avrebbe tenuto nascosto il suo
amore, ma glielo avrebbe gettato addosso come una coperta nella quale
avvolgersi per stare al caldo nelle fredde notti d’inverno.
Gli avrebbe insegnato
ad amarla di nuovo, ad amarsi, di nuovo.
Non lo avrebbe
allontanato, non lo avrebbe abbandonato, né avrebbe
allentato la presa attorno alla mano che mai avrebbe lasciato, a costo
di cadere assieme a lui e non ritrovarsi più.
Ed anche se nel
guardarla lui non le avesse sorriso, anche se nel vederla non
l’avesse riconosciuta, non si sarebbe arresa.
Avrebbe lottato per
riprendersi ciò che era suo, e una volta recuperato
ciò che era andato perduto, gli avrebbe dato ciò
che lui per primo, le aveva regalato.
Il simbolo del loro
amore, l’orecchino che sul suo lobo sinistro rifletteva lo
scintillio delicato del gemello sul suo orecchio destro.
Perché
avrebbe lottato per entrambi, non avrebbe mai smesso fino a quando
avesse avuto un respiro e un cuore da far battere, un cuore che
sentì scoppiarle in petto quando, disceso velocemente la
familiare scalinata a chiocciola, si trovò davanti alla
porta delle prigioni.
Lì dove per
la prima volta l’aveva incontrato, lì dove
finalmente, l’avrebbe ritrovato.
Il cigolio dei cardini
attirò lo sguardo curioso di Thor verso l’entrata,
ma ben presto si trovò ad assottigliare le palpebre nel
vedere tutta quella luce, un bagliore per il quale Loki non
potè che schermirsi il viso e smettere di massaggiare i
polsi segnati dalle manette dalle quali il fratello lo aveva appena
liberato.
Durò una
manciata di secondi, il tempo di qualche battito nervoso di palpebre
che finalmente, nel riuscire a definire il contorno di una figura
minuta, Loki si convinse a schiudere lentamente.
E più la
luce sbiadiva, più quella figura prendeva forma.
Piedi piccoli e scalzi
furono il primo particolare che il dio degli inganni
registrò, ricercando nella memoria una donna
dall’incarnato simile a quello ceruleo
dell’epidermide appena visibile dalla gonna morbida e di un
tenue bianco panna.
Fu poi la volta di un
busto asciutto, abbracciato da un abito semplice e grazioso che
scivolava come nuvole sulle braccia scoperte della donna, braccia che
Loki vide scattare verso il petto che la sconosciuta
abbracciò, come a darsi conforto.
E capelli, lunghi e di sfumature tanto
contrastanti da dargli l’impressione di star osservando un
arcobaleno, ma erano semplici ciocche quelle che le accarezzavano il
collo e il seno, sbuffi di colore che addolcivano la
tonalità particolare della pelle.
E una bocca,
morbida e dall’aspetto delicato, come un fiore appena
sbocciato su un viso per il quale, una volta inquadratolo nella sua
interezza, si trovò a trattenere il fiato.
- Cosa ci fai qui?
La voce di Thor fu
tetra, pericolosa, ma Astrid non lo sentiva, non lo guardava, non
vedeva nulla se non lui.
Loki.
Sentì le
labbra tremarle per il bisogno di gridare il suo nome a
squarciagola e fargli sentire la gioia che le stava
squassando il petto, il sollievo di sapere di averlo salvato,
alla fine, di aver ripagato lo stesso debito che lui, prima di lei,
aveva estinto.
Eppure non riusciva a
trovare la voce, Astrid, poteva solo tremare d’amore e
pregare di essere forte per lei, per lui, per entrambi.
Perché
avrebbe dissipato ogni suo dubbio, spiegato ogni dilemma, confessato il
perché dei suoi occhi lucidi e delle lacrime che le rigarono
il volto, avrebbe pensato ad ogni cosa, persino al dolore che avrebbe
taciuto in gola per ogni suo sguardo diffidente e sospettoso,
perché lo sarebbe stato con lei, lo era stato con tutti.
Ma gli avrebbe
insegnato a fidarsi di lei, lei che non lo avrebbe tradito come
gli altri avevano fatto, ma che lo avrebbe amato fino alla
fine dei suoi giorni.
E quando la sorpresa
lasciò posto alla diffidenza, quando gli occhi di Loki si
assottigliarono per il sospetto, Astrid non potè che
sorridere come lui le aveva insegnato a fare.
Un sorriso che
profumava di qualcosa di buono, di gentile, un sorriso che profumava di
casa, la sua casa.
Un senso di vertigine
lo assalì quando, nel fissare inquieto la strana creatura,
si sentì intrappolato in quello sguardo lucido e proiettato
lontano, tanto lontano da sentirsi perso e spaesato, una sensazione che
quel sorriso sembrò mitigare, dandogli
l’impressione di aver già vissuto tutto quello.
Ma era un' illusione,
quella nella quale era intrappolato, un’allucinazione con la
quale quella creatura voleva distrarlo per far sì che suo
fratello potesse trovarlo indifeso, e debole.
Eppure,
c’era una voce, nella sua testa, che lo invitava a cedere a
quell’illusione, a lasciare che quella sensazione di calore,
di amore
lo affogasse nel suo abbraccio, ma aveva paura di tutto quel calore.
Perché ne
sarebbe rimasto scottato, e le sue mani erano piene di troppe
bruciature per poterne reggere altre, e in qualche modo sapeva che
quella, sarebbe stata la scottatura più dolorosa di tutte.
- Chi sei?
Atroce.
Lo fu la scarica di
dolore che le azzannò ogni nervo del corpo, un morso che per
un attimo la rese insensibile ad altro se non al dolore, ma si
costrinse a tenere il sorriso fermo e lo sguardo morbido conficcandosi
le unghie negli avambracci stretti in vita.
E per un attimo, il
desiderio di non rispondergli fu forte tanto quando la disperazione che
le aveva rinchiuso il cuore in una morsa di angoscia, ma doveva
scegliere cosa essere.
Se fingere ancora una
volta, di essere qualcuno che non era, o accettare il peso di
ciò che rappresentava.
La voce della creatura
lo fece trasalire, perché non l’aveva immaginata
così potente, come un comando smussato dagli angoli per
apparire più gentile, ma furono le sue parole, a indurigli
lo sguardo e irrigidirgli il cuore.
Due parole. Semplici,
innocue, ma pesanti per ciò che significavano, per il legame
che rappresentavano.
Un legame che quella
creatura impalpabile e surreale definì con
quelle semplici parole.
Parole che Loki, in
vita sua, non aveva mai creduto di poter udire sulla bocca di
nessuno.
Men che meno su quelle
di chi, ora, si presentava come sua moglie.
Continua…
E ci stiamo avvicinando quatti quattri alla fine, con mio enorme
dispiacere, ma va bene così.
Ringrazio chi continua a leggere la storia.
Al prossimo aggiornamento, Gold Eyes
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Capitolo 8 *** 8 - Deceiver Of Fools ***
Capitolo 8
“He told the tale so
many times
About
the dream not meant to be
In
a world of the free
He
plays with your mind
[…]
Deceiver
of hearts, Deceiver of fools
He
rules with fear
He
rules again ,He feeds on fear
Poisons
the truth To gain their faith
To
lead the way To a world of decay
He
will sell your soul to bitterness and cold
Fear
him”
(
Within Temptation – Deceiver of Fools)
Spalle rigide per
l'ansia.
Mandibole serrate con
apprensione.
Gambe flesse per essere pronte a concederle la spinta
necessaria
a farle tendere il collo taurino e azzannargli la gola,
strappargli, la gola.
Sforzo apprezzabile il
suo, quasi scenico, ed eroico, ma patetico, a suo dire.
Non che la Gigante di
Ghiaccio avesse potuto avere davvero
la possibilità di raggiungerlo senza trovarsi
senza gambe
né braccia dopo aver solo azzardato il primo passo, ma Loki
apprezzava comunque quel suo tentativo di intimidirlo.
- Una storia piuttosto
fantasiosa, te lo concedo.
Sunniva
rafforzò la presa
attorno ai braccioli della poltrona su cui sedeva la
sua
signora quando lo vide scivolare elegantemente in piedi, ergendosi in
tutta la sua altera e cruda bellezza a cui la cicatrice
conferiva
un’aria spettrale e inquieta, come il ritratto rovinato di
uno di
quei Tiranni di cui l’odio della
popolazione aveva
fatto scempio.
Ma era
l’odio del mondo ad averlo reso il mostro del quale
le storie e i miti cantavano le orribili gesta.
Un essere che aberrava
ogni forma di dolcezza, amore, comprensione, preferendovi il dolore, la
rabbia e la follia.
La stessa follia che
dopo tanti
anni era tornata ad inghiottigli il cuore e l’unica scintilla
di
sanità perita assieme ai ricordi oramai perduti.
La stanza era
sfarzosa, con pesanti
tendaggi verde petrolio a smorzare la luce filtrata dalle finestre alte
fino al soffitto.Vi era anche disposta con una precisione quasi
maniacale, una mobilia degna del più ricco ed elegante dei
Re,
ma era sull’enorme libreria a muro che
Astrid
lasciava vagare lo sguardo, serena nonostante i movimenti
serpentini di Loki fossero volti a metterla a disagio.
Ma cercare di
scatenare in lei
l’avversione alla sua presenza era inutile, perché
era
così abituata ad averlo vicino, a sentire il suo odore e i
suoi
occhi seguirla da ritenerli ovvi e naturali, attorno a lei.
- Quello è
uno dei tuoi libri preferiti.
Loki smise di
circumnavigare la
scrivania quando la sentì parlare, ritrovandosi ad
assottigliare
pericolosamente le palpebre nel seguire lo sguardo
morbido
che la creatura teneva fisso sulla sua libreria, o, se voleva essere
più puntiglioso, su una
parte specifica della libreria.
- Davvero? E quale di
preciso?
– le sibilò mellifluo, cercando sui lineamenti
gentili di
quella che asseriva di essere sua moglie una qualche incertezza,
dubbio, disagio, ma quella bizzarra creatura sembrava abituata al suono
tagliente della sua voce, avvezza persino allo sguardo insistente che
più di una volta aveva costretto sua madre a ritirarsi con
un
sorriso nervoso dalle sue stanze, ma lei pareva immune ad ogni suo
tentativo di renderla vittima dei suoi giochi mentali.
- Quello con la
copertina rosso
porpora, ha gli angoli un po’ smussati – gli
spiegò
gentile, continuando a fissare lo stesso punto senza patire minimamente
il peso del suo sguardo.
Quando lo vide muovere
le dita
lungo la parete, carezzando ogni copertina con leggerezza Astrid si
lasciò sfuggire un sorriso nostalgico al ricordo di quanto
Loki
fosse sempre stato amante del sapere, persino di quello degli
esseri umani, di quelle creature che lui riteneva inferiori, l'ultimo
anello della catena, ed era verso quella categoria che lei lo aveva
condotto.
- Questo?
- Un po’
più a destra
– lo guidò ancora, consapevole che Loki stesse
giocando
con lei, come a tastare il terreno e capire dove mirare per ferirla,
per cavarle dal petto un grido di paura e farla fuggire da quella
stanza, una delle arti manipolatrici affinate nel tempo con le quali
sapeva che il dio amava torturare chiunque osasse anche solo minacciare
la sua solitudine con promesse d’amore.
Promesse che non
sarebbero mai state mantenute, non se fatte a lui.
Ed era nel vano
tentativo di
difendersi da un dolore che lui sapeva,
sarebbe arrivato,
prima o poi, che provava a metterle paura, così da farsi
odiare
ancor prima di poterle dare davvero qualcosa per il quale
allontanarlo, ripudiarlo.
Un istinto di
autoconservazione che
lo rendeva incapace di accettare ciò che sapeva di
non
meritare, che non era mai stato abituato a ricevere.
Le dita titubarono un
attimo prima
di raggiungere il tomo indicato, ma anche quando Loki sentì
la
consistenza ruvida sotto i polpastrelli non riuscì a
distogliere
lo sguardo dalle iridi fumose della creatura, placide come un lago
insensibile al ringhio feroce del vento.
E quel vento era lui,
lui che con
tanto accanimento tentava di increspare le sue acque senza
però
riuscirvi, un fallimento che cominciava ad incattivirgli lo sguardo e
gonfiargli la voce di nuovo veleno.
Perché lui
odiava perdere,
battaglie verbali, fisiche e mentali, e lei, lei stava annientando ogni
sua azione offensiva ancor prima di poter affilare le armi,
come
se prevedesse in anticipo ogni sua mossa, come se lo conoscesse.
Una spiegazione che
non era disposto ad accettare, perché incapace di
comprenderla, di capirla.
Eppure, per quanto
recalcitrante
fosse all’idea di concederle il beneficio del dubbio, la
prova
delle sue verità, di quelle che il Tesseract aveva ribadito
come
la realtà, cominciava a lasciarlo perplesso.
Perché
nessuno, non uomo
né dio sapeva di una passione per la quale aveva provato
imbarazzo, fin dall'infanzia, un disagio profondo, nato dalla
consapevolezza che essere stato affascinato dalle parole di
un
essere umano, di una creatura inferiore, tanto debole da far
ribrezzo, era patetico, specialmente per chi come lui
asseriva di
non poterli considerare che giocattoli con i quali giostrarsi
per
far passare la noia di un momento.
Ma da bambino, quando
ancora
c’era stata la curiosità innocente ad attirarlo
verso
ciò che non conosceva, aveva ritrovato in
quell’uomo
solitario la sua stessa tristezza, un’amarezza che lo aveva
mangiato dentro fino a lasciare un buco in fondo al quale
più
volte si era trovato a cercare qualcosa, qualsiasi cosa,
rimanendo sempre deluso da ciò che aveva trovato.
Niente.
- Cosa ti fa credere
che non abbia
già ipotizzato un giochetto da parte tua? Non
credi che
essere il Tesseract ti dia un grosso vantaggio su di me?
Sentire quel nome
uscire dalle sue
labbra la ferì molto più di quanto avesse pensato
e
temuto, e quando tentò di ricomporsi si scoprì
incapace
di inghiottire l’aria senza emettere un verso affaticato e
irregolare, come un singhiozzo.
Uno sfogo che
però sapeva di
non potersi permettere, non con lui che la guardava e cercava un'altra
parete da colpire e buttare giù, ma
c’era riuscito,
quella volta, a trovare la falla nella sua difesa.
Un attacco inaspettato
contro il
quale non potè che sbattere più volte le ciglia
nel
tentativo di rimandare indietro le lacrime, uno sforzo inutile quando
l’affanno di nascondere la piega affranta delle labbra e
camuffare il suo dolore rese i suoi lineamenti incredibilmente fragili
e vulnerabili ad un nuovo colpo.
Quando Loki la vide
chinare
leggermente il capo per nascondere dietro i capelli la propria smorfia
ferita si preparò a sentire il sottile piacere per quella
vittoria guadagnata, per lo scacco matto che il Re era tornato a
compiere, divorando ogni pedina su quell’enorme scacchiera
che
era la sua vita.
Il piacere di
sapere
un’altra anima angosciata a causa sua, un godimento che
però, in quel caso, il dio non riuscì a
provare.
Ci fu invece il
rammarico a
bruciargli la gola, a costringerlo a schiarirsi la voce per tenderle
una nuova trappola mentale nella quale cadere, ritrovandosi
ancora una volta incapace di finirla.
Perché
c’era
qualcosa di profondamente straziante nella piega docile di
quel
collo, un profondo senso di disperazione che gli impedì
anche
solo di azzardare un sorriso obliquo nella sua direzione, lasciandolo
immobile contro la libreria, incapace di ferire lei per paura di ferire
se stesso nel tentativo di farlo.
-
C’è una frase in
particolare che amavi recitarmi – si ritrovò a
raccontare
Astrid quando il pavimento lucido della sala rifletté
l’immagine sbiadita di un sorriso che era riuscita ad
aggiustare
in qualcosa di meno triste di una smorfia desolata.
- E quale sarebbe
questa frase?
La mancanza di freddo
sarcasmo
nella voce di Loki la convinse a tornare un po’
più
ritta, mantenendo comunque gli occhi fissi al suolo per non tradire
l’agitazione che le avrebbe fatto tremare la voce di
lì a
poco.
- *Chi lotta contro
mostri, deve fare attenzione a non diventare lui stesso mostro.
Il rumore di passi le
impedì
di completare la sentenza, ma ad ogni suo tentativo di ritrovare la
voce, un passo seguiva ogni suo tentennamento, costringendo entrambi ad
una danza di labbra tremanti e passi concitati, ma veloci, che lo
portarono poco alla volta ad un soffio da lei, tanto vicino da
permetterle di fissare la punta delle sue scarpe, e non
più il pavimento.
- Continua –
lo sentì
sussurrare sopra di lei, ma ora c’era qualcosa di pericoloso
nel
suo tono, un’asprezza per la quale sentì Sunniva
tendersi
alle sue spalle mentre la sensazione di pericolo attorno a lei si
inspessiva divenendo una sciabola pronta a calare di netto
sulla
sua nuca e spezzarle il collo, tagliarle la testa.
Si costrinse
però ad
umettarsi le labbra, serrando le braccia sul proprio busto per trovare
il coraggio di affrontare un’altra stoccata, un'altra ferita.
- E se tu
guarderai in un
abisso – un respiro troppo vicino da lasciarla indifferente,
troppo pesante da farle credere di essere al sicuro, in quel momento,
mentre poteva quasi sentire
le pupille del dio dilatarsi per essere pronte ad
inghiottirla.
- Anche l'abisso
vorrà guardare dentro di te.
Il ruggito di Sunniva
le
rovinò addosso assieme alle braccia con le quali la gigante
la
schiacciò contro la poltrona, sottraendola alla presa di
quelle
mani chiuse in artigli che Loki, nel vederla fuggire dalle sue
spire, serrò sui braccioli, il viso trasfigurato
in una
maschera d’odio.
E rantolava, la voce
ingolfata per
il dolore che gli occludeva la gola, ma era tanto il disprezzo che gli
avvelenava il cuore da renderlo insensibile allo sguardo
spaventato con il quale lei lo fissava da dietro le braccia della
Gigante.
Un disprezzo che nel
vederla venne meno assieme al battito isterico del suo cuore.
Fragile.
Non riuscì
a trovare un
altro aggettivo con il quale descriverla, non nel vederla
così
piccola e minuta, e fragile, lì, affondata nel
tessuto
imbottito della poltrona, i capelli a nasconderle metà viso,
come a porre un’ulteriore difesa tra lei e il mostro che
voleva
divorarla, una fame che Loki non riuscì a saziare con la
paura, non quella di quel viso, non con quella voce nella sua testa ad
urlargli che era sbagliato.
Era tutto sbagliato.
La sua rabbia.
La sua paura.
E lo sguardo sperduto
che sembrava
cercare in lui qualcosa che non c’era, qualcosa che lei si
era
convinta di poter trovare.
Ma lui sapeva che non
c’era
nulla, perché aveva guardato lui stesso, e cercato come lei,
preda della disperazione di scoprire ciò che tutti avevano
temuto, ciò che persino suo padre aveva detto di
aver
visto in fondo al suo cuore.
Buio.
Solo buio, e ombre
deformi,
sussurri concitati di un bambino che di gridare non aveva smesso,
neanche per un attimo, per paura di tutto quel silenzio, per il
desiderio di far udire la sua richiesta di aiuto a qualcuno.
Una preghiera che,
anche se ascoltata, tutti avevano fatto finta di non udire.
- E tu? – le
chiese asciutto,
la voce arrochita dall’amarezza che gli inaspriva lo sguardo
– tu cosa hai visto?
Toccarlo le venne
istintivo, un
bisogno viscerale che Astrid esaudì senza
rimproverare se
stessa di stare bruciando le tappe, di permettergli altro
tempo
per assorbire la sua confessione e la sua storia
con i suoi
tempi.
Ma non ce
n’era per nessuno
di loro, non con quella guerra alla porte, non con la consapevolezza
che forse quel giorno non sarebbe più tornato, e lei non
voleva
che lui vivesse nella menzogna, non voleva che credesse ancora in una
certezza che solo lei era riuscita a sfaldare.
L’impossibilità
di essere amato da qualcuno.
Un qualcuno che
però, alla fine, c’era stato.
Ed era stata
lei, quel qualcuno.
Era lei.
Lei
che aveva guardato in quell’abisso fino a
venirne inghiottita, fino a perdersi lei stessa.
Ma poi, poi lo aveva trovato, alla fine, quel
bambino,
raggomitolato su se stesso come a proteggersi dal freddo pungente, il
viso affondato nelle ginocchia e il piccolo petto scosso da singhiozzi
appena udibili che però nelle sue orecchie erano sembrate
urla
di dolore, gemiti
che
aveva affogato nel suo abbraccio, lasciandosi cadere accanto a lui per
trasmettergli un po’ di calore, un pò di amore.
Perché, per
quanto
avesse provato, per quanto avesse tentato di recidere il suo legame con
tutte quelle ombre, non sarebbe riuscita a
sottrarlo da
tutta quell’oscurità, non da quel buio
che
faceva parte di lui, di ciò che era,
un’anima che
nel buio era nata ma che della luce, benchè non
l’avesse
mai vista, si era innamorata.
E lei gliela aveva
concessa, quella
luce, accettando di condividere quello spazio e renderlo con
la
sua presenza un po’ più confortevole, meno triste,
meno
doloroso, più umano.
Eppure dirglielo non
avrebbe avuto
senso, non per chi come lui non si fidava di ciò che
sentiva, ma credeva solo a ciò che vedeva, ad
inganni che
avrebbe riconosciuto, perché lui ne era il dio.
Ma lei non gli mostrò menzogne, sogni, desideri,
solo
ciò che aveva trovato in fondo a quell’abisso,
ciò
che entrambi avevano imparato a costruire in quel piccolo spazio
angusto.
Bianco.
Loki ne fu circondato,
sopraffatto.
Soffice e morbido
bianco latte che
riscoprì sopra il petto, una
calda coperta di
neve nella quale si trovava ad affondare le dita con
gentilezza,
un leggero sorriso ad increspargli le labbra.
Ed era una sensazione
strana,
quella che lo stava assalendo in quel momento, una sensazione che lo
turbò, perché era una sensazione di
calma , di pace
che lo confondeva, che gli faceva paura, lui che pace non ne
aveva mai avuta.
Ed era felice, si sentiva, felice, sapeva di esserlo.
Sapeva che sarebbe
dovuta essere
così, la felicità, anche se lui non
l’aveva mai
sperimentata sulla propria pelle, ma la riconosceva, la sentiva
scivolare nelle dita che si stavano riempiendo di quel bianco
familiare, come se i suoi fossero gesti consolidati
dall’abitudine, un'abitudine che però lui non
ricordava di
aver mai raggiunto mai, con nessuno.
Non lo ricordava, ma
in qualche modo sapeva che la presenza di quel colore su di lui era
naturale, e giusto.
Perché era
tutto giusto.
Il peso che sentiva
sotto il braccio sinistro, quello completamente nascosto da
quella cascata di nuvole bianche.
La sensazione di pace
all’altezza del cuore.
E quel leggero tocco
sulle guance.
Giusto,
giusto come mai niente era stato nella sua vita.
Una sensazione di
legittimità che lo rendeva ebbro di quel silenzio, un
silenzio
che per la prima volta non lo feriva, non faceva male,
perché c’era
qualcosa a frammentarlo.
Un profondo e placido
respiro che
inseguì con lo sguardo sotto le dita, ritrovandosi a
scavare gentilmente sotto quella neve per scoprire
dove
quel suono provenisse, scostando onde di quelli che
capì
essere capelli mentre delle sfumature colorate cominciavano a
rendere più visibile ciò che ben presto
trovò
davanti a sé.
Un viso.
Un viso placidamente
addormentato.
Il desiderio di
toccarlo, di
sentirlo contro il palmo fu naturale, istintivo, e quando le sue dita
vennero in contatto con la pelle morbida delle guance, quando la
sfiorò, Loki sentì nuovamente quella
bizzarra
sensazione di familiarità assalirlo mentre sentiva
un
nuovo sorriso increspargli le labbra quando la vide
arricciare il
naso.
Una reazione che lui
ricordava di aver visto tante volte senza riuscire mai ad
averne abbastanza.
Non di quella
sensazione di pienezza nei palmi.
Non del calore di quel
corpo che
sapeva di stare stringendo a sé, al quale sapeva di essere
ancorato come un naufrago in balia della tempesta.
Ed era lì,
la sua ancora,
era lei, lei che vide aprire gli occhi e sorridergli come mai
nessuno prima di allora gli aveva sorriso, mai a quel mondo,
mai con tutto
quell’amore.
Quando Astrid lo vide
riaprire gli
occhi sorrise conciliante per non spaventarlo, per non spezzare il filo
di ricordi che gli aveva mostrato per rispondere alla sua
domanda.
E Loki
trovò la risposta in
quegli occhi che continuavano a fissarlo in quel modo, anche
se
il bianco era svanito e il tocco gentile di quella mano gli ricordava
di essere tornato ad un’altra realtà, ma una
realtà, comunque.
Perché non
erano menzogne, quelle che lei gli aveva mostrato, lo sapeva, lo sentiva, e per un
breve attimo, pregò di aver ragione, di non avere torto.
Ma non ne aveva,
perché era giusto.
Tutto quello era
giusto.
- Tesseract.
Bastò quel
nome e quella
voce tetra a spezzare il silente scambio di sguardi dal quale Astrid
venne strattonata bruscamente, irritata dall’intrusione del
dio
che all’entrata della sala fissava entrambi con un velo di
rimprovero.
Ma Thor non parve
risentirsi
dell’astio della creatura, troppo occupato a tenere a bada i
guerrieri che dietro le sue spalle si agitavano nervosi.
- Il padre degli dei
vuole parlarti.
Quando Loki vide Lady
Sif e i suoi
compagni sorpassare il fratello con le armi tese verso di
loro
strinse ferocemente la vita della creatura accanto a lui, un istinto
difensivo che lo lasciò turbato dal logorante bisogno di
protezione che chiedeva di più di una misera mano poggiata
sulla
schiena del Tesseract.
Un ossessivo bisogno
di nasconderla
da qualche parte e renderla impossibile da trovare per chiunque,
soprattutto per il fratello che pareva essersi adombrato nel captare il
suo gesto verso di lei.
La frettolosa ritirata
della mano
del dio non la sorprese, perché era ancora troppo presto per
esigere da lui una risposta più concreta e tangibile ai suoi
sforzi, sforzi che ora, dopo aver visto il suo sguardo, sapeva di dover
raddoppiare per abbattere le sue difese.
E avrebbe dovuto
portare pazienza,
verso di lui e verso quelle stupide creature che credevano
davvero di poterla imbrigliare, ma se era la sicurezza
ciò
che desideravano da lei, allora lei gli avrebbe
concesso
solo il pensiero, di poterla controllare.
Quando le manette le serrarono i polsi Astrid non potè che
indurire lo sguardo e lasciare che il dio dei tuoni la scortasse fuori
dalla sala assieme agli altri guerrieri mentre Loki, alle loro spalle,
si trovava a richiudere i palmi con gli occhi sgranati
dall’angoscia e dalla paura di sapere a chi la sua magia
stava
per divorare anima e corpo.
Non chi, in quando dio affrancato e figlio riconosciuto, avrebbe avuto
il dovere di abbattere come una bestia, ma coloro i quali, nella sua
testa, erano diventate solo ombre inconsistenti che gli inquinavano la
vista e gli impedivano di seguire la luce in fondo al tunnel.
Un tunnel che il dio degli inganni si trovò ad imboccare con
sguardo tetro, il passo strascicato e febbrile di chi sembrava pronto
ad avventarsi sulle sagome indistinte di coloro i quali, nel suo mondo,
non avrebbe mai dovuto metter piede.
°°°
- Non mi piace.
Pepper rafforzò la presa attorno al braccio del marito
quando ne
udì accanto il sussurro scontroso, ma si costrinse a
mantenere
per entrambi quel freddo distacco che la situazione richiedeva loro,
un’indifferenza che però il dottor Barner faticava
a
piegare al suo volere quando colei che veniva accusata
ingiustamente era sua figlia.
La figlia che ritrovava nel mezzo alla sala, circondata da
lame e
parole che tentavano di ferirla, di farla a pezzi, mentre il cigolare
delle catene che da terra costringevano il Tesseract a tenere i polsi
flessi verso il basso assottigliava la lucidità di ognuno di
loro.
- Mi dispiace per questo – esordì il Padre degli
dei,
indicando con il capo le costrizioni alle quali la creatura era stata
obbligata, come a scusarsi di un’ospitalità
mancata che
non erano soliti mostrare se non ai loro nemici – ma
è per
la –
- vostra sicurezza – finì Astrid per lui,
osservando il
proprio riflesso nelle spesse manette magiche prima di alzare il viso e
ammorbidire la piega dura delle labbra nel vedere la sottile figura
appena accostatasi al Padre degli Dei.
Loki inghiottì la morbidezza di quello sguardo con un
deglutire
rumoroso, incapace di contenere in gola la sorpresa di tutto quel
calore, un calore bruciante che sentì scivolare come fuoco
nel
spetto, togliendogli il respiro per la forza di quel sentimento che la
piccola creatura non aveva fatto altro che riversare in ogni suo
sguardo, gesto, tocco a lui rivolto.
E rimasero a fissarsi in silenzio fino a quando non lo
udì.
Un fiotto di bruciante disperazione le si accumulò in
gola
quando colse il lieve cigolio che aveva spezzato il loro incontro di
sguardi, il cigolio della catena
stretta aspramente attorno al collo
della guardia ritrovatosi a rantolare mentre Sunniva
sollevava lo sguardo sulla figura altera e minacciosa della sua
signora, ancora incatenata, immobile, ma con il sottile collo blu teso
dalle vene pulsanti che nei suoi occhi parevano divenire il
battito isterico di una stella che muore.
- Lascialo!
Il grido di Frigga tuonò per la sala con
l’angoscia di una
madre che di proteggere i suoi figli non sembrava più in
grado,
una cupa e profonda disperazione per la quale Astrid si
trovò a
ruotare il busto per fissare la donna mentre poco lontano, il soldato
che aveva tentato di costringere la Gigante all’umiliazione
delle
catene continuava a rantolare.
Ma se l’era meritato, quel trattamento.
Perché era su di lei, che il loro odio poteva inasprirsi
fino a
ferire la gola, era su di lei che la loro paura e ignoranza
sarebbe dovuta essere puntata, non su Sunniva.
E lo ricordò loro, sibilando ciò che le era stato
promesso, la libertà della sua famiglia in cambio della sua
collaborazione, della sua falsa sottomissione, ma gli dei non
mantenevano mai le promesse ricordò a se stessa con
acredine quando sentì la voce roca del dio dei
tuoni
raschiarle la tempia, come se avesse davvero provato a grattarle la
pelle per scoprire tendini e muscoli da colpire con i suoi fulmini.
- Lascialo.
- E perché dovrei ? – lo
zittì cattiva,
sorridendo biecamente nel patire il freddo del metallo del suo martello
sull’avambraccio destro – è stato il tuo
stupido
sottoposto a non rispettare i patti.
- Ma è una Gigante di ghiaccio – le
ricordò
aspramente il dio dei tuoni, rafforzando la presa attorno al manico di
ferro – non posso lasciare che-
- Che cosa? Che viva?
Il freddo che piovve su di loro fu secco, violento come se una lastra
di ghiaccio temperato avesse comincato a scivolare giù dal
tetto, macinando aria e rinsecchendo la lingua di chi la saliva non
riusciva più a trovare per parlare.
Neanche Thor, dall’alto della sua levatura, parve trovare
parole
utili a maledire quell’abominio che gli sorrideva crudele dal
basso, un sogghigno che Astrid rese tagliente come la lingua incastrata
tra i denti.
- Cosa ti fa credere che tu possa avanzare una simile pretesa su di lei?
- Mio figlio è giovane – la interruppe con voce
grave il
padre degli Dei, sollevato di aver riportato su di sé quegli
occhi di stelle ora adombrati da una patina perlacea che rendeva le sue
pupille di cristallo – non riesce ancora a comprendere.
Un guizzo isterico sul viso della creatura lo costrinse a tacere mentre
il freddo si inspessiva e la gravità di quello sguardo gli
inchiodava i piedi a terra, come se qualcuno gli avesse appena
conficcato dei chiodi nei piedi per impedirgli di fuggire da
quegli occhi che rappresentavano l’abisso e dalle parole che
Odino per primo sapeva tinte di verità.
Un’orribile e cruda verità che lui, in quanto
padre, non era riuscito mai ad accettare.
- È questa la vostra giustificazione? La giovinezza?
– una
risata fredda le tuonò in petto prima che il capo che aveva
gettato indietro sotto la vibrazione del riso non la portasse
nuovamente ritta, nuovamente crudele.
- Ed è per questo che Thor ha tentato di uccidermi appena
nata?
Loki udì uno strappo echeggiare attorno a lui, vibrare sotto
i
piedi e tamburellare l’interno del suo petto, ma
più i
suoi occhi cercavano la fonte di quel suono, di
quell’isterico
‘crack,
più si accorgeva che era dentro di lui, che qualcosa aveva
cominciato a scricchiolare.
Era il suo cuore, quello che aveva sentito incrinarsi
nell'udire quelle parole.
- È per questo che ha provato a far del male a degli
innocenti?
- Tu non sei mai stata innocente – la aggredì Thor
con
voce tonante, ritrovandosi a stringere le labbra nel trovarsela ad un
soffio dal viso, le manette a tenerle lontano le mani che se avesse
voluto, Astrid gli avrebbe affondato nel petto per strappargli quel
cuore egoista.
- Io sono stata la vittima della tua frustrazione, figlio di
Odino. Vittima innocente di quella rabbia che ti ha reso cieco a tal
punto da non vedere che Loki era felice con me, piuttosto che nella tua
ombra, lì dove lo hai sempre lasciato.
Il vibrare isterico del martello attirò lo sguardo distante
di
Loki, ghiacciato accanto alla madre che gli teneva una mano sulla
spalla, come a rincuorarlo, ma il dio quella mano non la sentiva.
Ciò che udiva, ciò che scivolava morbidamente
giù
per il suo essere era quella voce, arrochita dalla rabbia, che
nonostante la lieve incrinatura nel tono non lo feriva, non lo gettava
nella disperazione di sapere che aveva ragione su tutto.
Su quella felicità mai ricevuta.
Su quel ruolo di antagonista che gli era sempre toccato,
perché
tinto dal buio della sua anima e dal nero di quell’ombra
troppo
grande da potervi sfuggire.
Su quella verità che risultava così chiara, nella
sua
testa, con quella voce, mentre nuove immagini rimpinguavano la fila di
ricordi nei quali Loki sapeva di essere stato felice, davvero felice.
- Lui è mio fratello – soffiò
il dio dei tuoni
con rabbia, facendo irrigidire i presenti per il movimento consulto
della mano libera ora chiusa in pugno, come pronta a colpire, a
ferirla.
- No – e il sussurro di Astrid parve un grido
lanciato dal
fondo dell’anima – tu non sei mai stato suo
fratello.
Il vibrare di quelle pupille cerulee non la intimidì, ma
rafforzò quella verità che lui per primo non era
mai
riuscito ad accettare assieme alla consapevolezza di aver fallito con
Loki.
- Tu, tutti voi – e Odino trasalì visibilmente nel
cogliere il guizzo di quegli occhi tornati a inchiodare il dio dei
fulmini al suolo – lo avete tradito, umiliato, relegato a
ruolo
di comparsa, quando invece Loki avrebbe meritato molto più,
e
tutto ciò che voi non avete avuto il coraggio di dargli, io
gliel’ho dato. Io l’ho amato –
e c’era
disperazione ora, nella sua voce, un’angoscia che le incupiva
lo
sguardo di dolore e le cospargeva le labbra di un tremolio
sconnesso mentre Loki continuava a fissarla, muto.
- Io l’ho protetto e difeso, quando nessuno aveva voluto
farlo.
Verità.
Non c’era menzogna, in quelle parole, non ce n’era
in lei,
nella creatura che il dio degli inganni guardava con la gola secca e il
cuore a pulsare nelle mani, nei piedi, nella testa
che
sentiva pesante, affaticata dal dolore che gli bruciava le labbra e gli
occhi.
Il dolore di essere stato respinto da chi amava, rinnegato,
da
chi credeva, l'avrebbe accettato, abbandonato, da chi aveva promesso di
proteggerlo da bambino.
Un bambino che però era sempre rimasto due
passi dietro a
tutti, affranto dalla consapevolezza di essersi perduto e di
non
poter più trovare la via di casa, ma ora, ora Loki la
riusciva a
vedere, la sua via, una stradina sottile illuminata da quelle che
sembravano lucciole, piccoli bagliori che sfrigolavano per essere
toccate, per fargli da guida.
E d’un tratto parve vederle levitare attorno a sé,
accanto
a suo madre, davanti a suo padre, piccole scintille che
oscillavano come un’onda e si gettavano in avanti, verso il
mare
d’amore che il Tesseract continuava a far scivolare dalle
labbra
e dagli occhi lucidi di pianto.
- Lui è la mia famiglia.
Il primo passo gli costò fatica, perché si
sentiva
stanco, e confuso, e spaventato, ma sicuro che se l’avesse
raggiunta, se l’avesse stretta tra le braccia, quella
sensazione
di vuoto sarebbe scomparsa, annichilita dalla pienezza di quegli zigomi
abbandonati nei suoi palmi, di quello sguardo affogato nel suo.
- E lui è la mia.
Rosso.
Se ne tinse il suo sguardo, le sue labbra in procinto di urlare quando
udì quel lieve vibrare, il fioco e debole
singhiozzo che
Astrid si lasciò scappare quando le mani rudi del dio la
afferrarono per la schiena.
Una schiena che qualcuno prima di lui aveva provato a incidere con le
proprie dita, un’impronta che Thor non ebbe modo di lasciare
quando lo sentì schiantarsi contro lo zigomo.
Il lungo stridio che l’armatura del dio emise nel raschiare
il
suolo costrinse molti a proteggere l’udito dalla cacofonia
mentre
le mani di Loki correvano a sorreggere il corpo gracile del Tesseract
che raccolse tra le braccia.
E quando ne incrociò lo sguardo sofferente, quando la vide
tendere quel sorriso che sapeva, era solo suo, Loki si sentì
combattuto, diviso tra il prepotente desiderio di credere a
quelle belle parole e la paura di poter essere tradito da lei, da
quella piccola creatura che non aveva fatto altro che professargli il
suo amore.
Un amore che lo terrorizzava, perché troppo grande
da
poter essere accettato senza porsi delle domande su di lei, ma avrebbe
avuto tempo per sbrogliare quei pensieri, avrebbe potuto lasciarsi
sopraffare dall’ansia e dall’angoscia il giorno
dopo,
quando la paura di perderla, di scoprirla un’illusione, una
bugia
come era stata la sua intera esistenza, sarebbe tornata a
sussurrare nelle sue orecchie.
Ma ora, ora aveva solo bisogno di affogare in quel calore e
lasciarsi alle spalle il silenzio di quella stanza che fin da bambino
aveva abitato ma dalla quale, per quel giorno, si sarebbe fatto
coraggio ad abbandonare per afferrare la mano tesa nel vuoto
da chi non riusciva a vedere bene in viso, ma chi,
lui sapeva, non aveva mai smesso di sorridergli, neanche per
un
istante.
°°°
Accadeva spesso, nel ciclo vitale di un essere vivente, di ritrovarsi a
dover tirare le somme della propria esistenza e venire a
patti
che alla fine ci sarebbero state le conseguenze delle proprie azioni,
da dover fronteggiare, e se lo si faceva a testa alta o a
capo
chino, ciò non importava, perché, in un modo o
nell’altro, si sarebbe dovuto alzare il proprio
sguardo
smarrito per incrociare quello di chi sulla propria strada si era
incrociato.
Un momento dal quale persino un dio, persino lui, non poteva
fuggire, un momento che tuttavia nel suo caso rappresentava un istante
perpetuo che si concretizzava nelle ombrose figure tra le quali si
sarebbero potute scorgere facce conosciute, alcune odiate, altre,
terribilmente amate, ma quelle che Loki si trovava davanti agli occhi,
quelle che il dio degli inganni fissava in silenzio erano nemici.
Solo nemici.
Davanti, di lato, dietro di lui.
Ovunque.
Ne era stato circondato, soffocato come l’anello di una
catena
che attorno a lui si serrava, sui polsi che teneva morbidi contro la
veste pregiata, sul capo ritto e adombrato dall’odio che gli
inghiottiva le pupille, e su quelle labbra che di sfrigolare sotto la
forza dei suoi gorgoglii sinistri e di riprendere forma umana non
sembravano avere intenzione.
Ma non li biasimava, né distoglieva lo sguardo tetro dalla
moltitudine di pupille dilatate su di lui, iridi sgranate per
l’orrore di rivedere chi per l'uno aguzzino, chi
per
l'altro peggiore incubo lo aveva scambiato, ma
c’era
anche chi, semplicemente, lo riteneva lo scarto di
un’esistenza che non era stata all’altezza di
quanto
sperato.
Ed era su quello sguardo che più di tutti gli rigettava
l’odio per ciò che non era mai riuscito ad essere,
per
chi della sua patetica malformazione fisica non provava
pietà ma sdegno che Loki si convinse a catalizzare la
propria
attenzione, colorando il viso di un livore che gli
chiazzò
le labbra del viola cupo del proprio, di disgusto.
Padre.
Laufey non aveva mai meritato quel titolo, ma Loki non aveva
altro modo di chiamarlo se non con un titolo che il Re dei Giganti di
Ghiaccio non aveva mai rivendicato, perché non lo aveva
voluto,
né desiderato.
Lui lo aveva semplicemente abbandonato sulle cime sperdute di
quei deserti di neve dal quale Odino lo aveva raccolto, credendo di
poter essere per lui ciò che quella creatura non era mai
stata.
Ma Odino lo aveva cresciuto solo per usarlo, uno volta divenuto adulto,
lo aveva amato per dargli motivo di sentirsi debitore di
quell’amore, di doverlo ricambiare, una volta avuta la
possibilità, e il dio lo aveva ripagato con la
punizione
alla quale il padre degli dei aveva condannato la sua razza di
divinità dorate credendo di potersi servire di
lui, di
poter esigere
qualcosa da lui.
Lui che non aveva desiderato altro che amore, un amore che non avrebbe
dovuto chiedere, nè ripagare.
Ma tutti si erano arrogati una parte del suo cuore, avevano
rivendicato un posto nella sua mente, il pegno da pagare per
avergli dato il proprio affetto quando lui, lui aveva solo desiderato
non doversi privare di una parte di sé per avere
ciò che
tutti ricevevano senza dover sacrificare qualcosa.
Laufey però non aveva chiesto nulla, perché il nulla
era ciò che rappresentava per lui, e quella mano appena
serratasi attorno alla sua caviglia mentre la terra sotto i suoi piedi
crollava non aveva voluto fargli credere che forse avrebbe
potuto
essere almeno quello, un sostegno, ciò che avrebbe
potuto
addolcire la sua discesa negli inferi, inferi nei quali Loki
sapeva di avere un posto d’onore.
Lì dove suo padre e le mani tese verso i suoi abiti lo
avrebbero
voluto trascinare, per ricordargli che anche lui sarebbe dovuto cadere,
prima o poi, e quando lo avrebbe fatto, quando sarebbe arrivato il suo
turno, tutti loro sarebbero stati lì ad attenderlo, ad
aspettarlo.
E quelle stesse mani che a lui si aggrappavano, quelle stesse dita che
avevano provato a lasciarsi il segno del loro passaggio prima
di
sprofondare nel vuoto, avrebbero potuto incidere sul suo viso una tacca
alla volta, il conteggio di quanto dolore avesse generato, quante morti
avesse causato, quanto odio lo avrebbe seguito, una volta finito
lì.
Eppure ci fu una mano che a fargli male non ci provò,
preferendo
sostare immobile sullo zigomo freddo che il palmo, muovendosi
leggermente, tantò di caldare
per dare un
colore sano alla pelle olivastra che Astrid continuò a
strofinare, non aspettandosi di vederlo aprire gli occhi.
Ma quando lo fece, quando vide le pupille del dio dilatarsi
un
poco prima che il riconoscimento lo convincesse a ritirare la mano dal
suo collo rimase a fissarlo, immobile, la mano abbandonata sul viso che
non lasciò, perchè Loki non sembrava
esserne
infastidito.
Una carezza fuggevole e delicata, si era costretta a renderla tale, a
non imprimere troppo forza, troppo
sentimento,
perché riabituarlo alla sua presenza era stato difficile,
rieducarlo al tocco delle sue mani, delle sue labbra continuava a non
essere semplice vista la facilità con la quale il dio
faticava a
mantenere un contatto fisico prolungato, se non era lui a iniziarlo.
E forse non avrebbe dovuto toccarlo, forse avrebbe dovuto
farsi
bastare l’abbraccio con cui Loki l’aveva riportata
nella
camera e poi deposta sul letto, in silenzio, senza mai guardarla in
volto, come se temesse di farle leggere nel suo sguardo qualcosa che
non sarebbe dovuto essere scorto, visto, riconosciuto da lei.
Avrebbe dovuto farsi bastare tante cose, ma non c’era
più
tempo e lei languiva di quell’amore che le urlava di
nascondergli
il capo nel petto e cullarlo fino a farlo riaddormentare, e dirgli che
lei ci sarebbe stata al suo risveglio, che lo avrebbe aspettato e
vegliato per tutto la notte.
Avrebbe potuto, se solo non fosse stato tutto così
dannatamente
complicato, ciononostante, mantenne il contatto per quanto
potè, sorridendo debolmente per convincerlo a sbattere le
ciglia, a non aver paura di perderla di vista, perché lei
non lo
avrebbe lasciato neanche se lui l’avesse costretta a farlo.
E quando non lo fece, quando non espresse il fastidio di essere
toccato, di essere guardato con occhi che lei sapeva essersi
ammorbiditi nell’avere quella concessione, Astrid si fece
temeraria, decidendo di sfidare la sorte, per una volta.
Andargli in contro le era sempre venuto naturale, ed era
accaduto
spesso, anche in passato, che in Loki vi fosse rimasto il residuo del
suo vecchio se stesso, del fuggitivo che dai sentimenti preferiva
nascondersi per non ripresentarsi più, ma aveva imparato a
frenare la sua fuga e bloccargli ogni via d’uscita.
Perché dall’amore, dal suo
amore non lo avrebbe lasciato scappare, e quando riuscì a
coglierlo di sorpresa, quando riuscì ad cingergli il capo in
un
abbraccio per spingergli il viso contro il petto si
aspettò di sentirlo irrigidirsi prima che
l’istinto lo
portasse a stringerle i fianchi per allontanarla.
Per respingerla.
Ma Astrid non glielo permise, mantenne la presa rigida, affondando il
naso nei capelli profumati di Loki mentre sentiva le sue mani spostarsi
sulla schiena per afferrarle le spalle e convincerla ad
allentare
l’abbraccio, per liberarlo, ma più lui
si mostrava
desideroso di sfuggirle, più i suoi occhi si serravano per
convincersi di stare facendo la cosa giusta.
Perché la creatura che stava soffocando in un abbraccio
aveva solo paura.
Paura di lei, dei suoi sguardi, dei suoi sorrisi.
Paura dell’amore.
Loki aveva paura dell’amore, di amare, di essere amato, di
dover
ripagare chi quell’amore gli donava con qualcosa di suo, un
compromesso che da bambino il dio si era costretto ad accettare,
concedendo un sorriso timido e incerto ad ogni sguardo rivoltogli, il
tentativo di un abbraccio a chi a lui provava ad accostarsi,
ma
dopo essersi svuotato, dopo essersi privato di una parte di
sé,
dopo aver ceduto qualcosa in cambio, nessuno aveva più avuto
motivo di amarlo ancora, una volta avuto ciò che fin
dall’inizio tutti quanti avevano desiderato ricevere da lui.
Obbedienza.
Controllo.
E Loki aveva imparato a perderlo, quel controllo, aveva imparato a non
permettere più a nessuno di metterlo nell’angolo,
preferendo non dare fin dall’inizio la possibilità
di
tradirlo, impedendosi ogni contatto con l'esterno,
affinchè nessun altro potesse divenire importante
per lui,
necessario, per lui.
Lui che aveva imparato a fidarsi solo di se stesso, esclusivamente di
se stesso.
Ma era stanco, si sentiva
stanco, e quelle braccia erano così morbide e profumavano di
buono, di casa, una casa che non ricordava ma della quale lei gli
parlava ogni giorno, spiegandogli di come fossero stati felici insieme,
e lui voleva illudersi, per un momento, di poter aver bisogno di
qualcuno dopotutto, e quel qualcuno poteva essere lei.
Avrebbe lasciato che fosse lei.
Perché lo abbracciava come aveva sempre voluto essere
abbracciato, e lo guardava, come aveva sempre voluto essere
guardato.
Lei era chi aveva sempre voluto avere per sé.
Qualcuno con cui spogliarsi della solitudine per accettare
ciò che per la prima volta non chiedeva nulla in cambio.
Lei, non gli chiedeva nulla in cambio.
Astrid impiegò qualche istante ad accorgersi di come le mani
che
fino a poco prima le avevano stretto duramente i fianchi si fossero
ammorbidite, abbracciando gentilmente la pelle arrossata dalla
pressione delle sue dita, ma quando si rese conto che stringere non era
più necessario, che lui non sarebbe scappato, non
potè
che inghiottire le lacrime e avvicinarselo un poco, così da
permettere anche a lui di averla vicina, di sentirla vicina.
E quando si ritrovarono a stringersi, quando la familiarità
di
quel contatto convinse Loki di poter davvero fidarsi di qualcuno,
Astrid sorrise tra i suoi capelli, rilassando il cuore e il viso nel
percepire il respiro tranquillo del dio contro di sé.
Trascorsero minuti di silenzio, minuti nei quali Loki decise di non
pensare, di non provare a giocare con lei, perché
non se
lo meritava, e lui non lo voleva, ora come ora, voleva solo
chiudere gli occhi e dormire,
riposare.
Un riposo che in qualche modo, per qualche ragione, sapeva di poter
avere con lei accanto, come se lei, sua moglie, potesse davvero
diventare uno scaccia incubi, uno scudo contro il quale, per quante
volte quelle mani avessero potuto avventarsi, per quanto forte quella
di suo padre avesse provato a sfondarlo, non avrebbe ceduto.
Perché lo avrebbe protetto, lo avrebbe vegliato, lo avrebbe
amato in un modo che non poteva paragonare a nulla, perché
quel
tipo di amore lui non lo aveva mai provato, ricevuto, e per
una
volta, non era desideroso di respingerlo, anche se era sconosciuto,
anche se aveva paura di scoprire che anche quello, alla fine, sarebbe
venuto meno.
- Andrà bene.
Astrid lo disse senza accorgersene, senza aver realizzato di aver dato
voce all’incoraggiamento che ogni notte dava a se stessa per
continuare a provare, a credere che il giorno dopo sarebbe risultato
tutto un po’ meno confuso.
E lo ripetè ancora, e ancora, una litania che
accompagnò
con il corpo, cullandosi per augurare ad entrambi un lieto
fine,
quello che la sua voce sempre più bassa, lenta e lontana
pregava
di concedere loro.
E per la prima volta Loki si sentì di credere a quelle
parole, a
quella voce che lo stava conducendo, mano per mano, fuori dalla sua
stanza buia.
Il suo rifugio, il silenzio nascondiglio nel quale lei e la sua voce
portarono un pò di luce.
Perché, se era lei a dire che sarebbe andato bene, allora
lui avrebbe potuto provare a crederci.
A lei, e all’unica storia nella
quale era lui ad
essere il protagonista.
Non Thor, ma lui.
Lui.
Lei.
Loro.
Continua…
* La frase è di Friedrich
Nietzsche;
-
Ringrazio tutti per continuare a seguire la storia, in settimana la
storia dovrebbe concludersi perchè i capitoli finali sono
stati già scritti, devono solo essere revisionati e
corretti, perciò manca poco ormai!
Ancora grazie, al prossimo aggiornamento
Gold eyes
|
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Capitolo 9 *** 9 - Where Is The Edge? ***
Capitolo 9
“Where is the edge
Of
your darkest emotions?
Why
does it all survive?
Where
is the light
Of
your deepest devotions?
I
pray that it's still alive”
[…]
“
Even
though you don't know what the price is
It
is justified
So
much more that you've got left to fight for
But
it still doesn't change who you are
There
is no fear you'll ever give in to
You're
untouchable
'Cause
you're losing your mind and you sleep
In
the heart of the night”
(
Where is the Edge? – Within Temptation)
Non ricordava quanto
tempo fosse
passato dall’ultima volta in cui si era sentita
tanto
stanca, ma ora che si guardava per la prima volta dopo aver passato
tanti giorni a mantenere i confini sicuri, Astrid non riusciva
più a riconoscersi, perché la donna che
ricambiava il suo
sguardo era stata prosciugata da ogni cosa.
Gioia.
Speranza.
Non c’era
più niente a muoverla se non la disperazione.
Ed era la disperazione
stessa a
convincerla ogni giorno ad aprire gli occhi per scoprire se lo sguardo
di Loki risultasse un po’ meno diffidente, un po’
più suo, e se così non fosse stato, se il
riconoscimento
non l’avesse trovato, avrebbe provato a sforzarsi
ancora un
poco con la speranza che forse, i ricordi che stavano
riaffiorando non lo avrebbero fatto impazzire, che non li avrebbe
respinti come avrebbe fatto con chiunque, che avrebbe provato
anche lui a combattere per entrambi, a salvare entrambi, ora
che
di quelle battaglie Astrid cominciava ad essere stanca mentre
la
fine di quella guerra non si riusciva a vedere ancora, e non
c’era rimasto più tempo.
Lei non ne aveva mai
avuto, in
verità, un paradosso per un essere immortale come
lei, ma
era così,e né lei, né Loki
avrebbero potuto
fare nulla contro i rintocchi dell’orologio.
E come se ciò non bastasse, le rappresaglie di
Galactus
non avevano fatto altro che aumentare, e aumentare, tanto che le ferite
che le segnavano il corpo asciutto non avevano ancora avuto il tempo di
rimarginarsi del tutto, non che riposarsi le fosse stato possibile,
perché c’erano gli umani da tenere
d’occhio, e gli
dei da controllare, i non-morti, e i Giganti di Ghiaccio, quella, in
verità, era la sua più grande preoccupazione, la
prima
fonte di angoscia.
Non che quelle
creature non le
avessero mai dato motivo di preoccuparsi di loro, ma la situazione era
degenerata da quando Loki aveva perso ogni memoria del passato, di lei,
e del suo ruolo di Re e Tiranno, un posto vacante che Knut avrebbe
tentato di fare proprio se non vi fosse stata Sunniva a comandare in
sua vece di aspettare il ritorno del loro Re, perché lei lo
avrebbe aspettato, anche se fossero stati necessari cento e
più
anni.
Anche se non
c’era tempo,
anche se lui non aveva ancora ricordato, anche se continuava ad essere
sola in quella lotta contro il mondo e contro chi nel loro amore non
aveva mai creduto.
Ma lei ci credeva, ci
aveva sempre creduto, e sapeva che anche Loki, in fondo al cuore, aveva
cominciato a farlo.
Perché lo
aveva sentito
quando si erano sfiorati, quando lo aveva toccato e aveva scorto la
crepa minuscola dalla quale poco prima aveva solo potuto sbirciare
dentro la stanza nella quale Loki si era nascosto, mentre ora, ora
poteva allungare la mano e sentire il palmo gelato dall’altra
parte sfiorare timidamente le sue dita.
Era ancora spaventato.
Da lei, da
quell’amore che
gli offriva senza volere nulla in cambio pur sapendo che forse non
sarebbe riuscita a fargli recuperare la memoria, da ciò che
gli
veniva dato perché gli era dovuto.
Ma se la sua
mente ancora
faticava ad accettarla, a ricordarla, il suo corpo non aveva
dimenticato nulla, non dove chiudere le dita sapendo di generare
piacere in entrambi, non dove i suoi baci le avrebbero fatto inumidire
le ciglia.
Non aveva dimenticato il suo calore, perché quando
l’aveva inghiottito, quando era implosa sotto di lui, non si
erano respinti, non si erano allontanati, ma si erano riconosciuti
entrambi.
- Non credevo che
potessi riuscire a sorridere ancora per qualcosa.
Fu come se qualcuno le
avesse
conficcato una lama nel petto, un mancamento che si costrinse
ad
inghiottire assieme all’urlo che le aveva gonfiato i polmoni
per
la stizza e la frustrazione di sapere di chi era quella voce, ma
avrebbe attirato l’attenzione, e avrebbe dovuto dare
spiegazioni
che non aveva, che non poteva giustificare.
Perciò,
anche se le
palpebre erano stanche, arrossate dal sole che ora
moriva,
si costrinse a socchiuderle, così da non dargli la
soddisfazione
di vederla cedere, di godere della desolazione che ancora le incupiva
lo sguardo e che la rabbia calpestò quando se lo
ritrovò
davanti.
Se mai
l’anima egoista di
Yehouda avesse potuto scegliere un involucro diverso dal suo, Astrid
sapeva che sarebbe stato deliziato dal quello che Galactus aveva scelto
per sé, perché quell’emanazione
racchiudeva in
sé l’orrore del mondo divino e umano, un gusto per
l’orrido che le ricordava Hell, la piccola e scheletrica
divinità alla quale aveva rubato i poteri, della quale aveva
deciso il fato, la punizione.
Ma per lui, per la
creatura che nel
riflesso dorato del sole calante le sorrideva languido con la sua bocca
priva di labbra non sarebbe riuscita a trovarne una abbastanza
crudele, abbastanza opportuna.
Non avrebbe avuto
motivo di
colpirlo, perché avrebbe sentito crepitare sotto le sue dita
chiuse in pugno solo il rivestimento metallico della colonna nella
quale si specchiava, ma la sua mano volò ugualmente sulla
sua
gola, sgretolando il materiale ferroso che sentì grattarle
il
polso quando vi affondò il braccio, ma lui continuava a
sorridere, e a guardarla con quell’orribile sicurezza di
averla
in pugno.
- Non sapevo ti fosse
mancato
così tanto toccarmi – chiocciò
irriverente,
ondeggiando il busto per mettere in mostra l’arto mancante,
quello che non sarebbe ricresciuto più, perché
era stata
lei, ad amputarglielo, lei che era la vita e che di ridarglielo ne
aveva il potere, ma non la volontà.
- Il desiderio di
cavarti il
cuore dal petto non ha mai smesso di tormentarmi – fu la sua
unica risposta, il tono secco e tagliente ripescato dalle
profondità della gola, lì dove
l’odio le
arrochiva la voce e tingeva di sfumature cupe il suo sguardo di luce.
Galactus
liberò una risata
bassa, profonda come il ronfare di un gatto che sa di non poter essere
afferrato, per quanto in alto si fosse saltato per raggiungerlo, e
Astrid non avrebbe potuto toccarlo, per quanto in fondo le sue mani
fossero affondate nella colonna, perché avrebbe stretto solo
metallo, non la gola impalpabile del corpo riflesso di fronte
al suo.
Il tocco che lui le
concesse sul
polso non lo percepì veramente, ma potè comunque
immaginare la brama con la quale avrebbe voluto sfiorarla, un desiderio
di possessione che non aveva nulla a che vedere con il
desiderio
sessuale.
Era più simile alla volontà
dell’animale
più forte di sapere di avere la carcassa
più
grande, succulenta e preziosa tra le sue fauci, e che quella creatura
la paragonasse ad un premio, ad un oggetto la indisponeva.
Perché
aveva passato anni,
secoli a sentirsi chiamare con un nome che non era mai stato suo, che
non era stato lei a scegliersi, un titolo che la relegava ad essere
un’arma priva d’anima e cuore, capace di sterminare
intere
razze senza battere ciglio, come se la morte non la toccasse mai, ma
l’aveva toccata.
La morte di sua madre.
La morte
seppur momentanea di Loki.
La sua
morte l'avevano toccata, e avevano scavato un buco che mai,
mai sarebbe riuscita a
colmare, per quanto amore avesse ricevuto, per quanto felice fosse
stata, perché erano ferite che non si sarebbero rimarginate,
che
non si sarebbero riempite come il grembo che sarebbe sempre rimasto
sterile, e muto.
Un silenzio che
l’avrebbe accompagnata in eterno, perché una fine
per lei non ci sarebbe stata.
Lei che non poteva
essere distrutta, ma solo disarmata, indebolita, ma non uccisa, mai
uccisa.
Perché
l’energia non
si può annientare, non si può distruggere, ma si
può vederla languire in eterno, in un ciclo senza fine nel
quale, da sola, non sarebbe riuscita a sopravvivere senza desiderare di
uccidersi.
E aveva provato, una
volta, a farla
finita con le proprie mani, a zittire quel dolore sordo al petto che
non aveva smesso di tormentarla, di ricordarle quanto sbagliata, quanto
inutile e vuota fosse.
Un oggetto danneggiato
che non si può ridare indietro nella speranza di averne uno
migliore, nuovo, funzionante.
Lei era rotta, era
nata così, e nessuno, per quanto avesse provato, sarebbe
riuscito ad aggiustarla.
Una condizione per
quale aveva
pagato, aveva pianto, cadendo in una depressione cupa e profonda che
l’aveva convinta per un attimo, un solo attimo, di non
meritare
di vivere, di non meritare tutto quello.
Un segreto,
il suo segreto,
quello che mai avrebbe rivelato, non a sua madre, non ai suoi due
padri, non a Loki, soprattutto a Loki che dalla sua esistenza era
dipendente, da lei, era dipendente, e non gli avrebbe più
dato
motivo di soffrire nel sapere di poterla perdere.
Non avrebbe
più concesso
alla propria disperazione di offuscarle la ragione e renderla cieca al
dolore che dalla sua morte, dalla sua volontà di annientarsi
sarebbe sopraggiunta, un dolore che non sarebbe riuscita a reggere, a
consolare, perché sarebbe stato troppo profondo,
troppo
scuro e troppo frammentato da poterlo rammendare.
Per questo non aveva
permesso a
Galactus di indebolirla con quelle apparizioni, con le sue parole, con
i pensieri che leggeva nella sua testa e che ripeteva di propria bocca
per metterla di fronte alla debolezza che lei tentava di celare, di
nascondere a tutti, anche a se stessa.
- Stai solo
posticipando ciò che deve accadere.
- E cosa dovrebbe
accadere? – lo riprese piccata.
Un guizzo di
eccitazione gli tese il viso e la bocca schiusa in uno di quei sorrisi
che le facevano ribrezzo.
- Ciò che
sarebbe dovuto essere sempre. La tua presenza al mio fianco, come
compagna.
Il raccapriccio le
arricciò
le labbra e appesantì le ciglia mentre l’orrore di
quel
pensiero, il disgusto per ciò che lui credeva giusto,
naturale,
ciò che lui chiamava destino, la faceva trasalire,
come se
lei fosse destinata a unirsi a lui, in quanto sua metà
mancante,
ma non era così.
Perché lei
non era nata per
compiacere lui, non era nata per essere un’arma di
distruzione
nella mani delle masse, no, lei non era nata per tutto quello.
Lei era nata per amare
Loki.
Era nata per lui, era
stata fatta, per lui, solo per lui, e per nessun altro motivo.
Perciò, se
qualcuno poteva
arrogarsi il diritto di sapere a chi fosse votata la sua esistenza, se
davvero c’era qualcuno che poteva rivestirsi di
quel
ruolo, di sua metà, quel qualcuno era Loki.
- Per quante volte io
lo abbia
ripetuto – cominciò a rantolare, distendendo le
dita per
allentare la presa e cominciare a sfilare il braccio dalla colonna che
non si era accorta di essere stata in procinto di dividere a
metà.
- Ciò che
tu credi sia il
mio destino, non è quello che ho scelto per me,
perché
non sei tu il motivo della mia esistenza.
Non gli umani, non gli dei, ma solo lui. Perché io sono nata
per
Loki – e quel nome scivolato dalle sue labbra
sembrò
racchiudere in sé l’amore del mondo, la dolcezza
incontenibile di un cuore che di battere d’emozione per lui
non
avrebbe mai smesso – per lui soltanto.
Quando lo vide tendere
una smorfia
e irrigidirsi, come per sferrarle un pugno, si tese a sua
volta,
avvertendo l’elettricilità statica punzecchiarle
la nuca e
i capelli abbandonati in petto, ma ancor prima di poter rilasciare il
sibilo di minaccia, ancor prima di poter anche solo allungare la mano
per cancellare la sua immagine da quella colonna, vi fu una voce, a
piombare sopra di loro con la tonalità cupa di quelle corde
vocali.
Un suono che molti
avrebbero
ricondotto al sibilo del vento per quanto debole e freddo fu,
ma
fu una voce, quella che Astrid sentì avvicinarsi
assieme
al passo cadenzato ed elegante del dio, ed era il suo nome, quello che
Loki stava chiamando, era lei, chi lui stava cercando.
Sorridere le venne
istintivo.
Ammorbidirsi e sciogliere lo sguardo in un moto di tenerezza fu
naturale, come lo fu voltarsi al suono di quella voce e sentire il
cuore palpitare isterico nel petto, come la prima volta in cui lo aveva
visto.
Ma era sempre quello,
l’effetto che Loki aveva su di lei, un’emozione che
non
voleva tramontare o smorzarsi con l’andare del tempo.
Non lo avrebbe fatto
il sorriso gentile con il quale lo raggiunse a passi veloci, come se
volasse su ali che non aveva.
Non lo avrebbe fatto
l’amore che le riempiva lo sguardo e la rendeva
così bella e felice.
Solo per lui.
Fece scivolare la mano
nel palmo
rigido del dio quando riuscì a raggiungerlo, costringendolo
in
una presa dalla quale, in un primo momento, Loki sembrò
volersi
ritrarre, ma fu questione di un attimo, un battito di ciglia che gli
ripulì lo sguardo dal timore che gli aveva offuscato le
iridi
prima che la calma, la quiete tornasse a gettare qualche luce
in
fondo a tutto quel buio.
La luce di quella
creatura che in
silenzio, a passi quasi volutamente lenti, come a poter saggiare meglio
la dolcezza di quell'attimo, a sottolineare quella che poteva essere
una sua prerogativa, un loro momento speciale, seguitava il suo passo,
fiduciosa e abbandonata al suo tocco che non le avrebbe fatto male, che
al solo pensiero l'avrebbe fatto inorridire.
Perché era
divenuto debole,
di fronte a lei, e vulnerabile, con un fianco scoperto che per quante
volte lei avesse potuto avere davanti non aveva mai neanche
guardato nella speranza di infleggergli il colpo mortale.
Quello che chiunque
gli avrebbe
inferto, una volta riuscito ad abbattere le sue difese, ma lei, lei non
ci aveva neanche provato, e il solo pensiero pareva inorridirla,
ferirla, e se Loki aveva imparato una cosa da quando
l’aveva vista per la prima volta nelle prigioni di Asgard,
era
che sapersi responsabile del suo dolore era qualcosa di così
angosciante da togliergli il respiro e lasciarlo agonizzante.
Ed aveva sognato
più volte,
mentre lei lo teneva stretto, di ferirla, di essere il colpevole del
suo dolore, e ogni volta che la vedeva andare via, ogni volta che si
trovava immobile, senza possibilità di muoversi
né di
urlarle di fermarsi, moriva un po’.
Una morte dalla quale
Loki sapeva
che era stata lei a strapparlo, perché incapace di
vivere
senza di lui, perché lui era il suo punto debole,
ciò che
la teneva ancora in piedi, ciò che Galactus sapeva,
rappresentava l’ostacolo che li divideva, il confine che il
Tesseract avrebbe dovuto oltrepassare per avvicinarsi a lui, per
scegliere lui.
E se non era
attraverso i ricordi
dolorosi di lei che l’avrebbe avuta, allora si sarebbe
servito di quel dio, di quell’uomo che amato era da
lei
senza realmente conoscere la profondità di
quell’amore,
senza realmente capire quanto favorito fosse stato dalla sorte per
avere lei al suo fianco.
Ma la fortuna era
bendata, e se
sopra quel capo la sua mano misericordiosa si era posata,
allora
Galactus avrebbe fatto in modo che fosse proprio lui, proprio quel dio
ingrato a farla girare, a portarla su chi avrebbe capito e
realmente apprezzato il dono di quel cuore che lei, tanti anni prima,
non aveva temuto di strapparsi dal petto per deporlo tra le
mani insanguinate del dio con un sorriso.
°°°
Giungere a compromessi
era alla
base dei rapporti civili, rappresentava le fondamenta delle relazioni
che si sarebbero instaurate in futuro, rapporti che si predisponevano a
ciò che richiedeva quell’accorgimento, ma se tra i
propri
simili era difficile riuscire a scendere a patti, pretendere di
costringere quattro razze diverse a coesistere in uno spazio ristretto
senza provare ad uccidersi a vicenda era quanto meno impensabile.
Eppure, il tavolo
attorno al quale
gli esponenti di ogni specie sedevano tremava sotto i pugni
di
chi di agitarsi sulle sedie ne aveva abbastanza, e che fossero umani,
dei immortali o non morti, ciò non importava,
perché
prima o poi le recriminazioni sarebbero giunte da ognuna delle parti,
anche solo per il semplice desiderio di contraddire l’altro.
- Perciò tu
credi che io
mandi mia figlia in prima linea solo perché quel vecchio
crede
che sia la tattica migliore? – tuonò la voce
aggressiva di
Tony Stark, l’unico ad essere scattato in piedi
assieme al
dio dei fulmini che della sua impudenza nei confronti del padre degli
dei ne aveva avuto abbastanza.
- È
l’unico modo per
sfondare le linee nemiche – gli ripose a tono Thor, le gote
arrossate per la stizza che lo portava a digrignare i denti
rumorosamente – ora che anche *Mùspellsheimr si
alleato
con Galactus, non possiamo che agire di conseguenza.
Il vendicatore
soffiò tra i
denti una bestemmia rivolta al dio, a suo padre, ad ogni
divinità presenta nella sala, stringendo le dita
sul
tavolo attorno al quale, alla sua destra, il dottor Barner
fissava in rigido silenzio il confronto tra i due, una tensione che in
lui diveniva visibile solo dalla vena pulsante contro la tempia, un
particolare del quale nessuno, se non Maria e Fury, erano
consci.
Perché era
pericoloso il suo
silenzio, lui, era sempre stato pericoloso, barricato in quel mutismo
che taceva un’ira animale, una volontà di
distruggere,
annientare e calpestare ogni cosa davanti a sé, e Thor
sarebbe
stato tra i primi a saggiare l’odio che tentava di zittire se
non
avesse smesso di pretendere il sacrificio di sua figlia.
Sua figlia, non loro.
Quella che Bruce aveva
trovato per
primo, aveva voluto per primo, la figlia che era stato lui a crescere,
lui ad amare, per la quale aveva compreso di poter ancora
ricevere qualcosa dalle persone, e non solo paura, non solo
timore, e quella stessa figlia ora gli veniva tolta, strappata a quelle
braccia che il dottore non avrebbe mai voluto allontanare da lei.
Perché si
era ripromesso di
proteggerla, di renderla felice, di difenderla da chi avrebbe voluto
ferirla, e tutti in quella stanza, a proprio modo, le stavano facendo
del male.
Un dolore che Astrid
non mostrava
sul viso impassibile, ma un dolore che Bruce notava nelle
mani
raccolte in grembo sbiancate per lo sforzo di non gridare, di non
compiere gesti avventati mentre attorno a lei il mondo tornava a
decidere per lei, ad usarla come arma finale, come il Tesseract.
E Bruce conosceva lo
sguardo spento
con il quale ora sua figlia guardava di fronte a sé, aveva
imparato a temerlo quando lo aveva visto per la prima volta, quando,
stretta in un camice bianco, senza più voce né
lacrime,
gli si era accasciata davanti per la crudeltà
dell’uomo,
una cattiveria dalla quale l’avrebbe difesa con il suo corpo,
se
fosse stato necessario.
- È
l’unica soluzione
possibile – continuava a dire il dio mentre un guizzo
isterico
faceva vibrare le braccia conserte sul petto del dottore –
sembra
quasi che abbiate dimenticato che il Tesseract sia immortale
– e
fu il tono accondiscendente con il quale parlò loro,
l’ovvietà con la quale la chiamò a quel
modo o
forse lo sguardo severo con il quale fissò Astrid a spezzare
qualcosa dentro di lui, ma qualcosa a rompersi ci fu, e non fu solo il
tavolo sul quale Hulk schiantò il proprio piede per balzare
addosso al dio dei fulmini.
Quando i due
rotolarono a terra
sotto le urla sorprese dei presenti, Astrid si sentì
strattonare
indietro con forza mentre un braccio correva protettivo a circondarle
le spalle e il tavolo accoglieva il fisico possente del dio
che
il dottore colpì ferocemente mentre Lady Sif e Pepper
tentavano
di allontanarli l’uno dall’altro, ma
senza successo.
E più i
colpi divenivano
feroci, più Astrid si agitava in preda
all’angoscia di non
riuscire a tollerare anche quello, di non poter accettare che suo padre
si ferisse per colpa sua, ma ancor prima di poter azzardare un passo
che Loki non le avrebbe permesso di compiere, vi fu un’ombra
scura a calare sul dio per strattonarlo lontano.
Zenas fece scrocchiare
la mascella
con rabbia quando Thor provò a divincolarsi dalla sua presa,
ma
era due volte la sua stazza, e tenerlo inchiodato contro una colonna
gli costò poca fatica, perciò lasciò
che la
creatura verde avesse il tempo di rimettersi in piedi prima di
allentare la presa e tornare con lo sguardo sulla donna dai capelli
arcobaleno che, nell’incrociare il suo sguardo vitreo e senza
vita, gli concesse un sorriso grato.
Una riconoscenza che
il non-morto
inghiottì assieme alla strana contrazione nel petto che
percepiva sempre nel guardala, un rimescolio di organi che non
ricordava di avere ancora, perché putrefatti dal tempo e
dalla
sua condizione, ma lei che era divenuta la sua salvatrice, la sua dea,
pareva riaccendere in lui la vita perduta molti anni fa.
Ma ciò che
provava, la
profonda attrazione che nutriva per ciò che lei
rappresentava,
per ciò che era diventata per lui, non poteva in alcun modo
venire alla luce, perché sarebbe stata fagocitata da quello
sguardo che Zenas sapeva di avere sempre addosso.
Occhi per i
quali aveva avvertito
un senso di smarrimento mai provato, neanche in vita, neanche di fronte
ad intere armate, ma quella creatura, quel dio che tutti in quella
stanza sembravano temere, per il quale sembravano provare repulsione e
diffidenza nascondeva qualcosa di oscuro, dentro di sé, una
fame
di morte che persino lui non riusciva a capire, a comprendere.
Ma una cosa
l’aveva capita.
Lei non andava toccata.
Mai.
Quando Astrid vide suo
padre
cercare il suo sguardo con l’ansia e la preoccupazione a
tendergli
il viso sfiorò debolmente la mano che le stringeva la
spalla,
come ad avvisarlo della sua volontà, del bisogno di correre
da
lui, e quando Loki sciolse la presa, quando lo sentì
irrigidire
il busto e farsi da parte gli regalò un sorriso prima di
correre
verso suo padre e affondare nelle braccia che Bruce Burner
serrò
attorno alla sua schiena, tremando leggermente mentre la sua natura
umana tornava a prevalere.
Vi fu un guizzo,
improvviso e tanto celere da passare inosservato, fra di loro.
Il frusciare di un’ombra che per un attimo, un solo istante,
aveva sfiorato la piccola figura che il dottore dondolava tra le
braccia, una sagoma evanescente che Loki e Zenas seguirono con lo
sguardo in silenzio, entrambi irrigiditisi per la ciocca rosa che
intravidero nelle mani della creatura prima che questa scomparisse
dietro l’angolo.
Ma ancor prima che il
non-morto
potesse anche solo azzardare un passo in quella direzione, lo
svolazzare ipnotico del mantello verde lo avvisò
dell’impossibilità di procedere oltre, di ergersi
a
protettore di una creatura che Zenas ricordò a se stesso,
non
andava toccata.
Non da lui, non da
un’ombra che per aver preso qualcosa di suo, avrebbe pagato
con la vita.
°°°
Procedeva spedito, il
passo
appesantito dalla rabbia che gli gonfiava il petto di un calore che gli
si condensava nello sguardo duro come una coltre di nuvole in procinto
di fagocitare nella sua ombra un povero villaggio.
Ma ciò che
il dio fissava
incolore era l’ombra scura che sibilava nel vuoto passando di
corridoio in corridoio senza mai fermarsi o voltarsi indietro, come a
confonderlo, ma lui quei corridoi li conosceva fin troppo bene, li
aveva odiati e poi amati per le nicchie sicure che gli avevano donato
quando lo sguardo di suo padre diveniva troppo amareggiato da poterlo
reggere.
E fu proprio in uno
dei suoi nascondigli, poco lontano dall’uscita alla parte
alta del palazzo, che lo trovò.
Una figura slanciata,
nascosta da
una mantella che delineava un profilo aguzzo e inghiottito dal buio del
cappuccio, ma benchè non gli vedesse il volto, Loki
capì
che c’era qualcosa di pericoloso negli occhi che non
vedeva
ma che sapeva, lo stavano fissando.
La sua attenzione e il
suo sguardo
erano però catalizzati sulla ciocca che nel buio della
mantella
pulsava di luce propria, come a sottolineare che non era il suo posto,
quello in cui si trovava, che quelle mani, non avrebbero dovuto neanche
toccarla.
- Stupefacente, non
trovi anche tu?
– lo sorprese la voce bassa e arrochita che sibilò
fuori
dal cappuccio mentre la sagoma, quasi come se avesse notato il suo
sguardo insistente, alzava il braccio per riportare alla luce la ciocca
abbandonata tra le sue dita rosse venate di nero.
Aveva
artigli oblunghi,
spessi come se fossero fatti d’ossa umane, di un nero pece
che
rivaleggiava le tonalità scure delle venature che si
ramificavano per la sua mano e sembravano voler rubare il colore caldo
della ciocca di capelli di Astrid.
- Ho avuto ogni genere
di oggetto
nelle mie mani, e ognuno di loro è appassito tra le mie dita
non
appena ne ho sfiorata la superficie, ma questa – e la voce
divenne graffiante mentre la mano si serrava con foga sulla ciocca che
Loki avrebbe voluto strappargli dalle mani per non sentire quella fitta
al petto nel pensare ad Astrid richiusa tra quelle grinfie assieme a
quei capelli - questa
è l’unica cosa che non è morta a
contatto con la mia pelle. Non lo trovi stupefacente Loki?
Sentirsi chiamare per
nome da
quella cosa non gli piacque, come non gli piacque la
possessività con cui quelle dita tornarono a nascondere la
mano
e ciò che stringeva all’interno della mantella,
come se
volesse portargliela via dagli occhi, come se volesse mostrargli la
facilità con la quale avrebbe potuto portargli via lei, e
capì Loki, chi avesse davanti.
Lo comprese con un
moto
d’isteria quando riconobbe l’odore di zolfo e
catrame che
appestava l’aria circostante, una cappa di terra putrida e
morta
di cui quella creatura, Galactus sembrava essere formato.
E il pensiero di avere
davanti il
loro nemico, di trovarsi faccia a faccia con il mostro di cui Odino
temeva la sola presenza, la consapevolezza di trovarsi di fronte il
responsabile dell’angoscia e delle ferite di
Astrid, chi
terrorizzava sua moglie, lo rese cieco di rabbia, tanto che quando il
suo braccio gli trapassò il petto, affondando nella parete
alle
sue spalle, pensò di averlo solo immaginato.
Ma ora che lo aveva ad
un
centimetro da sé, ora che poteva annusare la puzza che
più di una volta aveva trovato tra i capelli di Astrid e i
vestiti che aveva bruciato per cancellare ogni traccia di lui
su
di lei, l’impotenza di non poterlo toccare, di stare
attraversando solo aria e null’altro lo uccise nel profondo.
- Credevi davvero che
fosse tutto
così semplice? – lo rimproverò amabile
Galactus
quando, nel vederlo ritrarsi da sé, raggrumò la
misera
quantità d’energia che riusciva a filtrare la
barriera e
che lo rendeva innocuo a bloccare il braccio che il dio avrebbe voluto
sfilare.
- Credevi davvero che
uccidermi
fosse possibile per te? Che lei avrebbe permesso che tu fossi alla mia
mercè con tanta facilità?
Loki
strattonò il braccio
con un ringhio frustrato, ma più provava a dimenarsi per
allontanarlo da sé, più gli si
ritrovava vicino,
come se fosse stato inghiottito dalle sabbie mobili che lentamente, un
po’ per volta, ingoiavano una parte di lui.
- Tu non sai quanto
potente lei sia
– e c’era rancore, nella voce di Galactus, come se
lo
stesse incolpando di essere così ignorante dei poteri di
Astrid,
di quanto pericolosa potesse diventare - non hai la minima
idea
di cosa significhi essere voluti da lei, essere protetti, da lei,
perché è lei a proteggere te, non il contrario.
Avrebbe voluto
gridargli di fare
silenzio, di non provare neanche a giocare con la sua mente,
perché era lui il dio degli inganni, era lui che si
dilettava a
rendere folli le masse attraverso l’inganno, la menzogna, le
illusioni, e più di tutti Loki avrebbe dovuto capire che
Galactus voleva solo instillare il dubbio in lui, che lui voleva solo
trovare
il suo punto debole per colpirlo.
Quel fianco che aveva
imparato a
scoprire per lei ma che ora cercava di coprire con entrambe le mani,
come a tamponare una ferita che ora cominciava a scavargli la pelle, ad
incidergli nel corpo la paura che sebbene fosse riuscito a smorzare
continuava a frenarlo, ad impedirgli di abbandonarsi completamente ad
Astrid.
Ed era su quella paura
che quel
mostro tentava di fare leva, lo sapeva, ne era cosciente, ma
ciò
non significava che fosse immune da quei pensieri, pensieri che lui per
primo aveva avuto, che gli avevano fatto chiedere più
volte perché lei l’avesse scelto,
perché
continuasse a seguirlo.
Perché aveva voluto lui.
- Tu non sei degno di
lei.
- Fa silenzio!
- Non hai avuto il
coraggio di
accettarla, perché non ne sei in grado, perché tu
stesso
sai che non la meriti, che non meriti neanche una stilla
dell’amore che lei riversa ogni giorno in te mentre tu,
ingrato,
continui a nasconderti. Perché sei un vigliacco, figlio di
Laufey, un codardo che non riesce neanche a vedere che
è
solo la pietà quella che la spinge a
volerti.
- Taci ! –
e quella volta lo
ruggì, lo urlò tanto forte da sentire i polmoni
bruciare
per l’odio, la disperazione che aveva cominciato a
graffiargli lo
sguardo e a fargli tremare il cuore d’angoscia, di
consapevolezza.
Di riconoscimento.
Perché
erano i suoi stessi
pensieri, quelli che Galactus gli stava sibilando
nell’orecchio
mentre il fiato spezzato gli usciva in rantoli sommessi dalle labbra
secche e spaccate per il freddo, il gelo che lentamente lo
stava
prosciugando da ogni stilla di calore presente in corpo.
Erano le sue paure,
quelle che
sentiva sibilare da una voce che non era sua. I suoi dubbi, le sue
incertezze, le spiegazioni che aveva provato a dare a ciò
che
stava vivendo, alla felicità che sentiva, al motivo della
presenza di quella creatura al suo fianco.
Ed era proprio il
perché
della sua vicinanza a frenare il suo bisogno di amore, il suo
desiderio di cedere e lasciare che lei lo amasse, che potesse
raggiungere il suo cuore e toccarlo, e prenderlo, se lo
avesse voluto.
Ma aveva paura,
ed era un
terrore ancestrale quello che ora tornava a rinvigorirsi dentro di lui,
il timore di sapere che lei, che Astrid era divenuta sua moglie
perché spinta dal bisogno di sdebitarsi per ciò
che lui
aveva fatto.
Salvarle la vita.
Sapeva di averlo
fatto, lo aveva
ricordato, lo aveva sentito dalla bocca degli Avengers, e quando lo
aveva saputo, la speranza di essere davvero voluto da lei aveva
cominciato a vacillare.
Spirito di sacrificio.
Loki sapeva che Astrid
ne era
capace. Immolarsi per lei era naturale, e farlo per lui sarebbe stato
semplice, giusto, ovvio dal momento che lui l’aveva salvata,
lui
che doveva essere ripagato per ciò che aveva
fatto,
per l’attimo di bontà, di
umanità nel quale
aveva
deciso di ridarle il suo cuore.
Un gesto
d’amore il suo, lo
era stato, lo sapeva, lo credeva, ma un dono che ora dava nuove
sfumature, nuovi significati a tutto.
Al perché
lei fosse lì, con lui.
Al perché
continuasse a rimanergli accanto.
Al perché,
semplicemente, non potesse lasciarlo solo.
Pietà e
senso di gratitudine.
Non amore.
Non affetto.
Ma ciò che
Loki aveva temuto
di ricevere dagli altri, per il quale aveva lottato, nella speranza di
sapersi comunque odiato, temuto, qualunque cosa, ma non commiserato.
Eppure quello era
tutto ciò che aveva ricevuto, che ora, riceveva da lei.
Galactus si
lasciò scappare
un sorriso quando udì i passi veloci poco lontano da loro,
una
corsa che avrebbe portato lì chi voleva, chi finalmente
avrebbe
capito quanto sbagliato fosse tutto quello.
E sarebbe stato
proprio lui,
proprio l’uomo che stava crollando di fronte a lui, divorato
dai
dubbi e dalla paura che stava avendo la meglio sul suo raziocinio, su
ciò che in fondo al cuore sapeva, erano solo
bugie, menzogne, a
darle l'ultimo colpo.
Perchè
Loki era nato da una bugia, e ingannare se stesso e gli altri era
naturale, per lui.
Credere di non essere
amato era più semplice, per lui.
Perciò
accettò
ciò che gli veniva offerto, la scappatoia ad un dolore che
non
era in grado di tollerare, una via di fuga da una felicità
che
Galactus, con voce suadente e vibrante astio, gli offrì.
- Se così
non fosse, se non
fosse stata davvero la pietà a convincerla a rimanere al tuo
fianco, a sacrificare per te la vita che le hai donato, non credi che
dopo tutto il tempo passato insieme, non avesse voluto avere un figlio
da te?
Il dolore sordo che lo
colpì
al petto gli appesantì lo sguardo di lacrime che
ingoiò a
fatica, il respiro affannato che si faceva flebile e stanco, come il
braccio che abbandonò inerte nel corpo di Galactus,
sconfitto da
ciò che sapeva, lo avrebbe ucciso.
- Non credi che
avrebbe voluto dare
vita al frutto del vostro amore? O non sei consapevole
dell’orrore e del ribrezzo che le avrà fatto il
pensiero
di avere un figlio da te, un mostro, uguale a te?
Quando finalmente lo
lasciò andare, quando Astrid lo raggiunse, fu troppo tardi,
per entrambi.
E inorridire di fronte
alla
presenza oscura accostata a Loki non servì a nulla,
chiamarlo e
chiedergli se stava bene, non servì a nulla.
Perché Loki
non sentiva più niente, se non il vuoto, e stanchezza.
Un’annichilente
e antica
debolezza che gli fece sentire tutto il peso dei suoi anni, secoli
passati a lottare per trovare un posto nel mondo, un posto che
però, dopo tutto quel tempo, aveva compreso di non poter
avere.
Neanche con lei.
Mai con lei.
Il lampo di luce
colpì
Galactus al fianco, ma era tornato ad essere inconsistente e
impalpabile come l’aria, ma Loki non si muoveva, continuava a
darle le spalle, ed o Astrid cominciava ad avere paura.
Paura di non poter
controllare il
tremore della propria voce, né il dolore e
l’angoscia che
doveva averle sformato il viso in una maschera di disperazione,
perché sentiva, che c’era qualcosa di sbagliato,
nella
schiena rigida di Loki.
Che doveva essere
successo
qualcosa, mentre lei non c’era, qualcosa di così
orribile
da impedirle persino di attirare l’attenzione del dio.
Il dio che non la
guardava, né la sentiva.
Un dio che pareva
essere diventato ignorante della sua esistenza e del singhiozzio
isterico del suo cuore.
- Tesoro-
- Allontanati da lui!
–
strillò isterica quando vide Galactus ridere sotto il
cappuccio,
come se vederla cedere, finalmente, lo divertisse, ma lei voleva solo
che si allontanasse da Loki, che lo lasciasse in pace, che li
lasciasse
in pace ora che lui cominciava a credere, ora che finalmente, era
riuscita a farsi accettare.
Pepper
tentò nuovamente di
bloccarla per un braccio, ma Astrid fuggì dalla sua presa
per
compiere un paio di passi in avanti, allontanando la folla che ora
cominciava a riempire l’androne, gli spettatori di una
tragedia
che lei non era disposta ad accettare.
E fu con paura che
provò a
toccargli la spalla, la mano tremante per l’angoscia mentre
la
bocca secca tentava di schiudersi per pronunciare il suo nome.
- Loki?
Fece male.
Vederlo voltarsi, fece
male.
Riconoscere il vuoto
di quello sguardo spento, fece male.
Capire di stare per
perdere tutto, ancora,
fece male.
Ma respinse la paura e
il dolore, perché doveva essere forte entrambi. Doveva
esserlo.
- Stai bene?
– si
costrinse allora a sussurrare, la voce resa sottile dalla
preoccupazione mentre la mano continuava a rimanere sulla sua spalla e
l’immobilità di quelle pupille
cominciava a
spaventarla, lui, cominciava a spaventarla.
- Cosa è
successo? Ti ha
fatto del male? – e la paura quella volta trasparì
dalla
sua voce – cosa è successo Loki? Ti prego, parla
con me.
Cosa-
- È
così orribile?
La confusone di
sentirlo parlare
così piano la fece trasalire, e se non gli fosse stata
così vicina, Astrid non lo avrebbe sentito, ma lo aveva
sentito.
Aveva avvertito il
dolore cocente
che pareva bruciargli la lingua e la voce e vedeva che era distrutto,
annientato da qualcosa che lei non capiva, da qualcosa che lei sapeva,
in cuor suo, di non poter combattere, non quella volta.
- Cosa è
orribile Loki?
- Il pensiero di poter
avere un figlio da me.
Il silenzio che cadde
poco dopo il
suo sibilo disperato fu smorzato dal gemito che Pepper aveva coperto
con la mano mentre gli occhi le si inumidivano nel vedere la schiena
di sua figlia tendersi come se l’avessero appena sparata.
- Deve averti fatto
ribrezzo, non
è così? Pensare di aver in grembo un figlio mio
– e
la sua voce sembrò riprendere forza, gonfiarsi della
disperazione che ora rendeva il suo sguardo lucido e che aveva portato
la sua mano a serrarsi attorno al polso gracile di Astrid mentre la
vedeva chinare il capo, come ad ammettere la sua colpa.
E fu nel vederla
nascondersi sotto
i propri capelli che Loki si sentì morire, odiandosi per
averle
creduto, per aver davvero pensato di poter essere amato da lei, di
poter essere stato desiderato così tanto da averla spinta ad
aspettarlo in eterno, a concedersi senza remore alcuna.
Perché era
tutta una bugia.
L’amore che
lei aveva professato per lui.
La devozione con la
quale lo aveva seguito e aspettato, accostato nonostante i suoi
tentativi di respingerla.
Tutto. Era stata tutta
una bugia.
Lui, era una bugia.
- Perché
sono un mostro
vero? – continuò a rantolare con la voce ingolfata
dal
dolore mentre qualcuno da qualche parte attorno a lui gli chiedeva di
smetterla, di non continuare, di non andare oltre, ma lei avrebbe
pagato, come tutti, per quell’amore che gli aveva teso e poi
sottratto con tanto crudeltà.
Avrebbe pagato per
averlo illuso, per avergli fatto credere di meritarla davvero, di aver
trovato in lei il suo posto nel mondo.
- Allora? Il senso di
colpa è tanto profondo da averti zittito?
- Ti prego, ora basta
– lo
implorò Pepper con disperazione, la voce rotta dal pianto
che le
soffocò la voce quando vide il dolore sommergere sua figlia,
mangiarla da dentro.
- Cosa hai-
- Mi hai mentito.
Il suono di quella
voce
spaventò tutti, lui per primo, persino Galactus non
potè
impedirsi di trasalire quando la voce del Tesseract sembrò
superare la barriera del suono per quanto acuta fu, come lo
strimpellare stonato di un violino scordato.
- Mi hai mentito.
- Tesoro-
- Mi hai mentito
– e la sua
voce si gonfiò di un umore nero, di
un’ilarità
grottesca che spinse Loki ad abbandonare la presa e indietreggiare di
un passo, disorientato da come le spalle della donna presero a tremare
sotto la profondità della risata.
Ma quando Astrid
alzò il
viso non ci fu alcun sorriso a piegarle la bocca, nessun divertimento
ad accenderle lo sguardo, solo il tremore convulso di chi sembrava
indeciso se scoppiare a ridere o a piangere.
E avrebbe fatto
entrambe, se avesse
potuto, perché la disperazione era strana, e lei
trovò
una via di mezzo, in tutta quella follia.
La mano corse ad
intrecciarsi ad
alcuni ciuffi mentre la sinistra correva a premere il proprio stomaco,
come a frenare una risata che non si decideva ad uscire mentre la bocca
era piegata in un sorriso triste e guizzava isterica verso il basso per
impedirle di rimettere, di vomitare il dolore che la faceva tremare.
Perché non
era il riso, a
scuoterla, non era la forza della risata trattenuta a gonfiarle il
petto e la voce, ma il pianto disperato che Astrid tentava di arginare,
ripetendosi che Loki non pensava davvero quelle cose, che lui non
poteva sapere, che non ricordava quanto avesse sofferto, quante volte
le avesse ripetuto che non gli importava dei figli, che non gli
importava di nulla se non di lei.
Bugie
le sussurrò la voce isterica del suo cuore, bugie per
tenerla
calma, per non farle compiere gesti avventati, ma lei lo aveva fatto,
ci aveva provato, e lui non lo sapeva.
Lui non sapeva niente.
Niente.
Quando le gambe le
cedettero non ci
furono mani a reggerla, ma qualunque mano sarebbe rimasta ustionata se
avesse tentato di bloccare il suo collasso, una crisi nervosa che
esplose assieme all’urlo con il quale si accasciò
in
ginocchio, le mani corse a serrarsi con forza attorno al capo mentre
bruciava e il mondo si sformava sotto la forza del suo dolore.
Ci furono urla di
orrore per gli
squarci apertisi d’improvviso nel soffitto, come una lama che
affonda crudelmente in un lenzuolo sdrucito, stralci di mondi che sulle
loro teste parvero essere sul punto cadere, di schiantarsi
come
stelle impazzite che avevano perduto la direzione, la via di casa, ma
era lei ad aver perduto la via, mentre il mondo attorno si spaccava a
metà assieme al suo cuore.
Il panico costrinse
molti a
riparare sotto le colonne e fissare con orrore gli umani, i non-morti e
i Giganti che dalle loro porte sul loro mondo li fissavano con uguale
paura, uguale confusione, uguale timore mentre le sue urla aumentavano
e sgretolavano, un poco alla volta, ciò che rimaneva di lei,
una
figura piangente che di dolore bruciava senza avere nessuno a cui
reggersi mentre la disperazione e le lacrime la affogavano.
Qualcuno
però tentò
di raggiungerla, qualcuno ad avvicinarla ci fu davvero, ci
provò, ma quando la mano venne respinta, quando la pelle
pallida
si arrossò per le fiamme che gli venarono il palmo di piaghe
e
sangue, Loki sentì un grido acuto spaccarlo a
metà da
dentro.
E quando
tornò a tendere una
mano, quando provò a raggiungerla, a toccarla, il dolore lo
accecò per un istante prima che qualcuno lo afferrasse per
le
spalle e gli impedisse di perdere un braccio, nel tentativo di
afferrarla.
Ma la voce nella sua
testa
continuava ad urlare, ed urlare senza dargli modo di pensare ad altro
se non al dolore che lo squarciava, alla disperazione di sapere che
tutto quello non sarebbe dovuto accadere, che la sua mano non si
sarebbe dovuta bruciare, che lui non poteva essersi bruciato.
Perché
sapeva, sapeva che non sarebbe dovuto accadere, mai ,
perché bruciare significava essere respinti da lei, dalla
sua
essenza, dalla sua anima, dal suo cuore, e lui non voleva, lui non
poteva essere respinto da lei, non
l’avrebbe sopportato.
Eppure era stato lui, era stato lui a costringerla
a farlo gli sibilò la voce amara che aveva
smesso di urlare,
perché voce non aveva trovato più, una voce
uguale alla
sua, ma diversa, arrochita dal pianto che gli aveva
gonfiato i polmoni e gli impediva di respirare.
Perché era
colpa sua, se ora lei piangeva.
Era colpa sua se la
sua mano era ustionata.
Era colpa sua e di
quella patetica
paura che gli aveva fatto dire cose che non pensava, parole risentite
di chi di nascondersi non riusciva a smettere, ma ora voleva che lei lo
guardasse, voleva solo che lei alzasse il viso e vedesse il suo dolore,
il suo pentimento, la
sua disperazione.
Ma anche se lei lo
avesse fatto,
anche se davvero Astrid avesse sentito la sua voce che la
chiamava e implorava il fratello di lasciarlo andare da lei, non
sarebbe servito a nulla, perché c’era lui, ora, a
dividerli.
Il mostro che nel
delirio aveva
ripreso forza da quel dolore, rimpolpando l’essenza che lo
aveva
reso evanescente ma che ora gli permetteva di riempire la
mano del viso che Loki sapeva era suo compito
abbracciare nel proprio palmo.
Quando il cappuccio
calò
sulle spalle, ogni creatura presente si cristallizzò in
un’espressione di paura per la quale Galactus tese un sorriso
deliziato prima che le sue orbite vuote tornassero a guardare lei e
quei
suoi occhi liquidi che il colore acceso delle fiamme rendeva tanto
lucide da potersi specchiare attraverso.
Uno sguardo spento che
Astrid non
mosse da lui mentre un pollice di quella mano le accarezzava
delicatamente la gota, scatenando un coro di urla isteriche che non la
raggiunsero.
- Povera piccola
creatura innocente
– la consolò delicato, piegandosi sulle ginocchia
per
essere lei di fronte e lasciare che il dio degli inganni vedesse
ciò che aveva fatto, ciò che aveva distrutto con
le
proprie mani – non dovresti reagire così mia cara,
lui non
poteva sapere che tu non puoi concepire.
Thor sentì
il corpo che
tentava di trattenere divenire un blocco di ghiaccio sotto le proprie
dita, un irrigidimento dal quale Loki stentò a liberarsi
mentre
l’orrore gli gonfiava la gola di un urlo che avrebbe voluto
sfogare, di un perdono che avrebbe voluto implorare, e la
consapevolezza di non poter provare altro dolore, di non poter reggere
altro veniva frantumata da una verità nascosta che Astrid
non
ebbe la forza di tacere, perduta in se stessa e in
quell’universo
parallelo nel quale Galactus si specchiava compiaciuto.
- Come nessuno di loro
sa che hai
tentato di ucciderti buttandoti giù dalle alte montagne di
Jotunheim, quando il dolore era diventato troppo da sopportare.
E fu il turno degli
umani, di
irrigidirsi e trasalire per l’angoscia, per
l’orrore che
colorò i loro sguardi di disperazione quando una lacrima
rigò il viso blu di Astrid nel sentire il suo nome
bisbigliato
dalle labbra tremanti dei suoi genitori, come a cancellare quanto
detto, a diluire un dolore che Loki non riuscì
più a
reggere, finendo con il lasciare che fosse suo fratello a reggere
entrambi, perché lui non ne aveva più la forza,
né
la volontà.
Perché
aveva sbagliato, aveva sbagliato tutto quanto.
Ed era stato lui a
mentire per
tutto il tempo, era stato lui il bugiardo, non lei, non chi
davanti
alla verità lo aveva spinto, spostato di peso per fargli
comprendere la profondità di quanto vissuto assieme, di
quanto
lei lo avesse amato mentre lui, lui non aveva fatto altro che ferirla.
Perché
ancora non la
ricordava, perché non avrebbe potuto chiedere di dargli
l’anello che lei gli aveva raccontato, le aveva donato per
renderli l’uno il compagno eterno dell’altro,
l’anello che lei aveva promesso di riconsegnargli una volta
che
avesse ripreso possesso della vita che aveva avuto, per continuare a
costruire quella che sarebbe venuta.
Una vita che lui aveva
spezzato per egoismo, per paura, per codardia.
- Ed ora guardati,
guarda dove ti
ha portato il tuo vero amore – e sembrava prenderla in giro,
con
quel tono lamentoso volto a mostrarle quanto ingenua e stupida fosse
stata - a morire di dolore per uno come lui.
E quel lui la
fissò, la
guardò fino a consumarsi gli occhi, fino ad attirare la sua
attenzione e il suo sguardo con la forza della sua disperazione, del
suo bisogno di essere guardato, di essere ascoltato, di essere visto da
lei.
E quando lei lo
guardò,
quando quelle pupille che Astrid aveva tenuto mute per tutto il tempo
si mossero nella sua direzione, ci fu un guizzo, in quegli occhi, un
lampo di qualcosa che Loki non riuscì a comprendere mentre
il
Tesseract alzava una mano per toccare quella che le reggeva il mento,
come in una carezza gentile.
Un tocco leggero, come
il battito
d’ali di una farfalla, per il quale Galactus sorrise
vittorioso,
rinvigorito dal sapore della conquista, del trionfo che finalmente, con
quel gesto, lei gli aveva riconosciuto.
Un trionfo che
però, quel giorno, non fu di chi ci si sarebbe aspettato.
Lo schizzo di sangue
che le
frustò il viso fu copioso, e rancido, ma Astrid rimase
indifferente all’urlo di dolore con il quale Galactus si
ritrasse
mentre lei buttava in terra il braccio che gli aveva
strappato e si
fletteva sulle ginocchia con un ringhio animale che spinse molti ad
arretrare con terrore.
E quando la videro
caricare, quando
la videro spostare di peso la creatura per rigettarla nello squarcio di
neve e ghiaccio ci furono urla, a richiamarla a gran voce mentre
Jotunheim gridava d’orrore per quella presenza straniera sul
suo suolo, un ruggito che Astrid cavò nel colpire Galctusa,
una,
due, tre volte, fino a quando non lo vide evaporare dal terreno sul
quale era accovacciata e che improvvisamente vide tremare.
Il rimarginarsi degli
squarci
avvenne senza rumore alcuno, ma c’era il grido del vento
gelato a
graffiarle nell’orecchie, e il passo pesante di chi le stava
andando in contro per accogliere lo straniero che nella terra del
Giganti aveva osato metter piede, e quando Knut osservò la
piccola figura dalle mani e dal viso imbrattate di sangue abbandonata
sulla neve ringhiò minaccioso, attirando lo sguardo di chi
correndo lo aveva raggiunto.
Sunniva era ferita,
Astrid lo
notò con ciò che rimaneva della sua
lucidità che
andava spegnendosi mentre nel tornare in piedi stirava le dita chiuse
in artigli per ripulirsi dal sangue che la sporcava, ma si
ritrovò ancor più lercia di prima, senza
però
curarsene veramente.
Perchè chi
l’aveva ferita, chi
aveva segnato il viso dell' unica presenza amica in quella terra ostile
doveva essere lui, il Re che dal proprio trono era stato
spodestato da
un suo simile con arti minuscoli e sottili, un trono che Knut sembrava
volersi riprendere ora che a sfidarlo per aggiudicarsi il
comando non c’era più una divinità
lontana, un re
caduto, ma era rimasta la sua regina.
Era rimasta lei.
- Sfida me.
Il sibilo del vento si
caricò delle sue parole come l’incoccare di una
freccia
pronta a colpire il grosso bersaglio rosso che le si stagliava davanti,
e il suo, di bersaglio, era altrettanto grosso, e pallido, dalla pelle
livida e il viso sfregiato ora arricciatosi in una smorfia divertita,
canzonatoria.
Un divertimento che
Astrid gli
tirò via dal viso con la forza che adoperò per
colpirlo
al ginocchio e afferrargli il collo, così da averlo ad una
spanna dal viso e mostrargli che c’era ancora lei,
da
battere, che qualcuno da sconfiggere era ancora rimasto.
- Sfida me.
Continua…
* Muspellsheimr: è il regno del fuoco nella
mitologia norrena, qui vivono i Giganti di Fuoco;
Grazie per la lettura,
Gold Eyes
|
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Capitolo 10 *** 10 - Stand My Ground ***
Capitolo 10
“I can feel That its
time for me to face it
Can
I take it?
Though
this might just be the ending
Of
the life I held so dear
But
I wont run, there’s no turning back from here “
[…]
“Stand
my ground, I wont give in
No
more denying, I got to face it
Wont
close my eyes and hide the truth inside
I
just know theres no escape
Now
once it sets its eyes on you
But
I wont run, have to stare it in the eye
All
I know for sure is I'm trying
I
will always stand my ground”
[
Stand My Ground – Within Temptation]
Sapersi osservata,
sola e
vulnerabile in mezzo a tutta quella neve chiazzata di sangue, senza una
presenza amica abbastanza vicina a ricordarle che qualcuno per
lei
c’era avrebbe dovuto intimidirla, avrebbe dovuto spaventarla,
ma
non c’era mai stato posto per la paura in quella terra.
Lì,
provarne era sinonimo di
debolezza, e i Giganti di Ghiaccio aberravano ogni forma di
fragilità fisica e mentale più della morte
stessa,
perché persino morire era un atto di forza se si
era morti
combattendo, senza provare timore per la propria fine, una fine che
sarebbe toccata ad uno di loro.
Ed Astrid sapeva che
Knut non aveva
creduto, neanche per un istante, che potesse essere lei la vincitrice
della lotta per il potere che avrebbe deciso il loro destino.
Il terreno scelto per
lo scontro
era disposto su una delle cime montuose più alte di
Jötunheimr, uno spiazzo arido circondato da spuntoni
che
sarebbero potuti servire come lame di pietra da affondare nel corpo
dell’avversario, lì dove persino il
ghiaccio che
Astrid sentiva gelarle le piante dei piedi avrebbe potuto divenire
un’arma da usare contro di lei.
Perché avrebbe potuto perdere
l’equilibrio con
tutto quel sangue che gocciolava lungo le sue mani, mani che non
avrebbero potuto avere una presa salda su qualunque cosa
fosse
risultata utile per reggersi in piedi, per non cadere in
ginocchio, ma se anche l’avesse avuta, se anche un aiuto
dall’ambente vi fosse stato, non lo avrebbe usato, non quando
sapeva che ogni Gigante di Ghiaccio avrebbe visto in quel suo
gesto un segno di debolezza, di sconfitta, un atto che una regina, la loro regina non
avrebbe osato compiere.
Perché
cercare aiuto non era
nella loro natura, contare su altro all’infuori di se stessi,
non
era nella loro natura.
E loro aspettavano
solo di trovare
un motivo per giustificare la loro diffidenza, per la
recalcitranza che lo sguardo di Sunniva tentava di smorzare,
minacciando con un ringhio chi incitava Knut a strapparle le braccia e
gettarla di sotto, ma si sarebbe fatta bastare il suo sguardo
e
le fiamme che ancora le lambivano il viso e il petto per gridare al
mondo che lei non avrebbe risparmiato colpi, che non avrebbe avuto
pietà, in quella lotta, come lei sapeva che Knut non ne
avrebbe
avuta per lei.
Perché
così
sarebbe dovuto essere, così le loro leggi dicevano,
ma non
c’erano regole da seguire in quel combattimento,
niente
proibizioni su quale parte del corpo risparmiare dai colpi, come non ci
sarebbe stato il fischio di inizio a metterla in guardia, e lei ne era
cosciente, perché quell’avviso mancato
lo vide
giungere come il primo pugno con il quale il Gigante di
Ghiaccio
le si avventò contro.
Indietreggiare fu
necessario per
evitare che la mano della creatura le fracassasse la gabbia toracica,
ma fuggire da quei colpi non era tra le opzioni possibili,
non
era un gesto da Gigante di Ghaccio, men che mano da regina,
perciò Astrid si trovò ad irrigidire i muscoli
delle
braccia da calare sull’arto che Knut era pronto a ritirare
per
caricare un altro colpo, un colpo che lei non gli permise di rivolgerle.
Quando
l’ombra gigantesca
della sua schiena la inghiottì, si elevò un coro
di
ruggiti attorno a lei mentre gli occhi delle creature osservavano con
malcelata sorpresa come il loro capo, il più forte tra loro
si
trovasse fermo a mezz’aria, sollevato dalle mani che la
piccola
creatura, la compagna del vecchio Re gli aveva serrato attorno
all’avambraccio per staccarlo da terra e tentare di
impedirgli
movimento alcuno.
Ma Astrid non aveva
tenuto conto
della caparbietà di quelle creature, di Knut, , e quando lo
vide
gettare indietro la testa per colpirla, lei si
trovò ad
atterrare malamente verso il limite del precipizio sul quale
senza fiato si trovò stesa a metà.
E Knut non le diede
tempo di
rialzarsi, di riprendere fiato, di provare a fuggire, perché
le
si rovesciò sopra come una valanga di muscoli che le
immobilizzarono braccia e gambe, lasciandola con il collo teso per lo
sforzo di non rovesciare la testa sul vuoto che le soffiava tra i
capelli l’aria gelida delle sue profondità.
Sunniva
lanciò un grido di
rabbia nell’assistere a quella scena, provando a muoversi
nella
direzione della sua signora che continuava ad essere schiacciata da
Knut.
Knut che non
l’aveva mai
accettata, capita come aveva fatto lei, lui che non poteva capire
quanto la piccola creatura che tutti loro faticavano ad accettare, la
minuscola ombra che su di loro aveva vegliato materna fin dal loro
arrivo, in silenzio, senza farsi vedere, si era già
conquistata
un posto nel loro mondo.
Lei che non era una
misera femmina
straniera, nè la compagna del vecchio Re, ma la
loro
regina, quella per cui Sunniva era pronta ad inimicarsi la sua stessa
razza, pur di proteggerla, pur di farle capire che qualcuno a seguirla
ci sarebbe stata anche senza dimostrazioni di una forza che lei aveva,
una forza di fronte alla quale chiunque, persino Knut,
sarebbe
impallidito.
Una forza che
però Astrid
aveva adoperato per tamponare la ferita che le
parole di
Loki le avevano scavato nel petto.
Parole che lei aveva
sempre temuto
di sentire, di ricevere da lui, e pensava di essersi preparata al
peggio, di aver acquisito abbastanza autocontrollo
da poter
accettare tutto, da potersi impedire di crollare ancora,
così
da non permettere a Galactus di giocare con la sua mente.
Ma era col suo cuore,
che quel
mostro aveva giocato, con quello di Loki che aveva riempito di dubbi,
di paura, e di risentimento per se stesso e lei.
Soprattutto per lei.
- Questa è
la nostra
terra – berciò il Gigante di Ghiaccio con rabbia,
la voce
pregna di quel disgusto che per lei, per la sua conformazione fisica
che gridava debolezza e la sua diversità non aveva
mai
perduto occasione di esternare – e tu qui non sarai
mai la benvenuta, figlia di Yssgradrill.
Un rantolo sommesso le
sfuggì dalle labbra quando la creatura fece scivolare una
mano
attorno al suo collo, stringendo le dita tozze nel tentativo di
soffocarla, ma erano state quelle parole, quell’ennesimo
rifiuto
a farle salire le lacrime agli occhi mentre le incitazioni a finirla, a
uccidere la straniera si alzavano nell’aria come un canto di
guerra.
Una guerra contro di
lei, contro il nemico.
Ma Astrid non aveva
mai voluto essere il nemico di nessuno.
Lei voleva
essere solo
capita, e aveva passato la vita a cercare di compiacere gli altri, di
adattarsi ai loro costumi, alle loro usanze, andando contro se stessa,
sempre, contro se stessa.
E tutto ciò
che aveva avuto
in cambio, tutto quello che aveva ricevuto era stato solo disprezzo e
lo schianto di una porta che di aprirsi per lei, di lasciarla
passare non ne aveva mai avuto ragione, né
volontà.
E lei, lei avrebbe
voluto urlargli
che loro erano tutto ciò che le rimaneva, che lui, era tutto
ciò che le rimaneva, che i Giganti di ghiaccio erano
ciò
che le restava della famiglia che aveva costruito
con Loki,
l’unico contatto con un mondo che aveva perduto, l’anello della catena
attorno alla quale le sue dita insanguinate erano disperatamente
aggrappate.
Ed erano loro, a
tenerla ancora in
piedi, perché era la sua ultima battaglia,
l’ultima che
poteva ancora vincere per riconquistare un pezzo di Loki, un
frammento che loro, i Giganti, rappresentavano, in quanto suoi simili, in
quanto suoi pari.
Loro erano
ciò che le
rimaneva di lui, l’ultimo appiglio al quale potersi
aggrappare
per non arrendersi, per non decidere di averne abbastanza di tutto
quello, di lasciare la presa e cadere una volta per tutte, senza
provare più a frenare la discesa.
E lei aveva bisogno di
quello, aveva bisogno di loro, di ognuno di loro.
Di essere accettata,
voluta, e accolta come una di loro.
Aveva bisogno persino
di Knut, lui
che più di tutti le ricordava lui e quel mondo costruito con
la forza e governato dall’ orgoglio.
Un orgoglio che lei
aveva ammirato
da lontano, che per prima aveva messo da parte, un orgoglio
che
ora Knut, per lei, avrebbero dovuto mettere da parte.
E lei glielo chiese
con la mano che
serrò attorno a quella rozza del Gigante, glielo
bisbigliò con la voce rotta dal dolore e dal pianto,
sperando di
poterlo convincere che lei non voleva comandarli, che non aveva mai
voluto essere loro nemica.
Avrebbe voluto
spiegargli che loro
erano il suo ultimo legame con Loki, chi le impediva di crollare, chi
lei avrebbe potuto amare come avrebbero meritato se solo le
avessero permesso di essere qualcosa
per loro.
Non una regina, non
una tiranna, ma
una madre, quella che non era mai potuto essere, quella che Yehouda le
aveva impedito di diventare, ma quella che per loro, per i
suoi
figli, per il popolo dell’uomo che amava sarebbe potuta
essere,
se glielo avessero lasciato fare.
Ma se c’era
una cosa che
Astrid aveva imparato in quegli anni, era che dai Giganti di ghiaccio
non si poteva pretendere nulla, non il rispetto, non la comprensione, e
che l’unico modo per riceverlo era chiederlo con la forza
bruta.
E così fece.
Quando
Knut si trovò a fissare il cielo terso
di Jötunheimr seppe di essere
stato appena battuto.
Ancora una volta.
E il pensiero di poter
essere
marchiato di nuovo, di dover sopportare la vergogna di sapersi
sconfitto lo convinse che la morte sarebbe stata la scelta migliore,
che l’avrebbe pretesa da quelle mani che lo schiacciavano a
terra.
Le mani di una femmina.
Una piccola e stupida
femmina che non apparteneva neanche alla loro razza.
Una creatura che in
passato aveva
denigrato, respinto con rabbia, una minuscola e sciocca creatura che
nella neve aveva continuato ad affondare pur di mostrargli di essere
degna della sua considerazione, di avere il diritto di essere
riconosciuta come loro pari, come uno di loro, ed ora, di fronte al suo
popolo, lei lo era diventata.
Degna di ricevere
rispetto, degna
di ricoprire il ruolo che aveva sempre inseguito e che aveva infine
raggiunto e stretto tra le dita.
E il suo primo compito
di regina,
secondo le loro leggi, secondo la sua stessa volontà,
sarebbe
stato quello di uccidere chi in battaglia aveva perduto il diritto
sulla propria esistenza, su una vita della quale lei avrebbe potuto
farne scempio umiliandolo di fronte ai suoi simili, o uccidendolo
lentamente, per ripagarlo della crudeltà che le aveva
rivolto,
del dolore che le aveva inferto.
E avrebbe preferito la
morte,
perché il suo orgoglio non avrebbe retto ad un'altra
umiliazione, perciò attese in silenzio, lo sguardo perduto
nella
vastità della sua terra per trovare qualcosa di familiare a
cui
aggrapparsi durante la caduta.
Ma ciò che
sentì,
ciò che percepì contro di sé
non fu la
pressione di una mano affondata nel torace in cerca del cuore da
strappargli, fu invece un peso diverso da quello che si aspettava, il
tocco di una fronte abbandonata sul suo stomaco con stanchezza.
Perché
sul corpo del
Gigante, sul petto che secondo le leggi lei avrebbe dovuto squarciare
per prendergli il cuore e impedirgli l’onore di
ricongiungersi
con la madre terra, Astrid si svuotò di ogni cosa.
Sunniva la raggiunse
in silenzio,
attirando su di sé lo sguardo dei suoi simili che ora
parevano
smarriti, e confusi da tutto quello, ma lei non era smarrita,
perché lei non aveva mai perso la fiducia nel cuore buono di
quella creatura.
Un cuore grande e
gentile che le
aveva dato un posto in cui stare, e quando lo riprese, quando
affiancò la sua signora lasciò che Knut la
guardasse da
terra per qualche istante prima che una mano piccola e blu lo portasse
ad abbassare lo sguardo.
Un gesto che prima lo
avrebbe
disgustato, per il quale avrebbe preferito cavarsi gli occhi per non
vedere, ma quando lo fece, quando sentì le piccole dita
seguire
il segno della schiavitù, della sua prima e unica sconfitta,
non
riuscì a scostare lo sguardo dal mondo di luci che vedeva
tremolare per disperdere calore.
Un tepore gentile e
soffice come la
carezza che gli sfiorò il volto, un tocco che
Astrid
compì con gli occhi bordati dalle lacrime che
lasciò
cadere, raccogliendo con le dita la vergogna di una creatura
che
di quel gesto ne fu sorpreso, confuso, ed infine turbato.
E quando il peso di
quella vergogna
smise di segnargli il cuore e il viso, quando sentì la pelle
arricciata distendersi sotto quel tocco gentile, lo squarcio che il
loro Re aveva inferto venne risanato e l’orgoglio ripagato
dell’onta subita.
Perché era
stato
risparmiato, e Knut non riuscì a trovare nullo di sbagliato,
nulla di errato nell’umanità con la quale aveva
deciso di
ridargli la sua libertà.
Quando
tentò di
rialzarsi Astrid seppe con un sorriso amareggiato che non aveva
più la forza di compiere un passo, ma c’era
Sunniva
accanto a lei, e lei l’avrebbe aiutata, perché era
sua
amica.
La sua
un’unica amica.
Eppure non fu la
Gigante a raccogliere da terra la piccola regina stanca, ma
Knut.
Knut che ora fissava
il cielo con
una quiete, una pace che non gli aveva mai visto in viso
mentre
si caricava del suo esile peso e la Gigante che lo
fissava
guardinga seguiva la sua risalita verso il cielo, come se temesse un
atto scellerato verso di lei.
Ma ciò fece
fu
sollevare la piccola creatura sulla propria spalla, cosicché
risultasse più alta di lui, più alta delle
montagne,
più alte di ognuno di loro.
Perché
quella che Knut
reggeva con forza, quella che il suo ruggito animale acclamò
mentre il primo pugno prendeva a battere sul suo petto, la
piccola creatura che Sunniva continuava a guardare con orgoglio era la
loro regina.
La Regina dei Giganti
di Ghiaccio.
Quando Knut prese a
discendere la
montagna, quando tutti lo seguirono, Astrid si sentì
smarrita,
confusa, e disorientata da ciò che vedeva, che non capiva,
mentre lo sguardo si perdeva
sull’immensità
di quel pianeta che ora, per la prima volta, senza un reale
perchè, le appariva un po’ meno ostile, un
po’ meno
freddo, un po’ più suo.
Loro.
E si
abbandonò contro la
spalla del Gigante, incapace di fare altro se non guardare di fronte a
sé e lasciare che il vento gelido di Jötunheimr
le
asciugasse le lacrime e soffiasse su quella ferita che lentamente,
sotto il suono di quei passi e il battito di quel cuore sotto la mano
smise di sanguinare, smise di soffrire.
Perché
c’erano quelle
voci a dirle che una battaglia l’aveva vinta, che finalmente,
la
sua scelta era stata fatta, e che una risposta, finalmente, avrebbe
potuto dare alla domanda della sua esistenza.
Chi era lei?
Regina di
Jötunheimr
sussurrò flebile, la voce incrinata dall’emozione
che le
fece sgranare gli occhi su un mondo che ora poteva chiamare casa, un
pianeta che riecheggiava di un titolo che ogni Gigante di Ghiaccio
ruggì nell’aria, per ricordare al mondo di tremare
e ai
popoli di ricordare chi fosse il più forte tra loro.
Perché
c’era un nuovo
sovrano, a sedere sul trono di Jötunheimr, e non era
né un uomo, né un Gigante di Ghiaccio.
Non era stato subito,
né costretto, ma scelto.
Lei, era stata scelta.
Una donna.
Una regina.
La prima regina
di Jötunheimr.
°°°
Raccogliere da terra
ciò che
altri avevano abbandonato credendo di non averne più bisogno
era
un’azione che Loki sapeva di aver già compiuto
molte volte
in passato, da bambino.
Aveva memoria di
qualche episodio
in cui aveva atteso che Thor mettesse da parte il giocattolo che il
padre degli dei gli aveva appena donato per rubarlo e riporlo
con
cura nel piccolo nascondiglio ricavato in una delle nicchie del
palazzo, la sua caverna delle meraviglie, tesori che aveva
sì
rubato, ma solo perché nessuno avrebbe potuto apprezzarli
come
avrebbe fatto lui.
Perché suo
fratello aveva
sempre avuto la sciocca tendenza di annoiarsi facilmente di
ciò che gli veniva concesso, una conseguenza della
eccessiva frequenza con cui tutti esaudivano ogni suo
capriccio
mentre lui trovava difficile non tenere a tutto ciò che gli
veniva donato.
Un libro, una vecchia
palla, ogni
cosa, una volta passata nelle sue mani, diveniva una reliquia da
conservare con cura, un’attenzione maniacale che con
l’andare del tempo si era tramutato in un tratto distintivo
del
suo carattere.
Era diventato
meticoloso e pedante,
e quel suo bisogno di ordine, di perfezione aveva trovato sfogo nei
piani di vendetta che aveva meditato e trasformato in azioni, una volta
divenuto abbastanza grande da poter liberare la rabbia che lo aveva
divorato e incattivito nella sua infanzia.
E come allora non
aveva potuto fare
a meno di piegarsi sulle ginocchia mentre nessuno guardava
per
raccogliere da terra ciò che Galactus aveva lasciato cadere
quando Astrid lo aveva spinto brutalmente nel portale.
Solo che quella volta
non aveva rubato niente a nessuno, perchè si era invece
riappropriato di ciò che era suo.
Quella ciocca di
capelli era sua,
non di quella creatura che per primo l’aveva rubata, non
degli
umani che si definivano la sua famiglia e che forse,
l’avrebbero
rivoluto indietro.
Ma non erano loro la
sua famiglia, Astrid lo aveva detto chiaramente.
Erano loro due, la
famiglia dell’altro, solo loro due.
Una famiglia alla
quale era stato lui a voltare le spalle per una volta, non il
contrario.
Quella volta non erano
stati gli
altri a decidere di non credere in lui, non era stato tradito, non era
stato respinto, ma era stato lui, quello che l’aveva lasciata
sola.
Era stato lui a
lasciarla indietro.
Mi
hai mentito.
Chiudere gli occhi non
sarebbe servito a cancellare il dolore di quello sguardo vitreo.
Smettere di pensarci
non gli avrebbe permesso di dimenticare la voce rotta dal pianto che le
aveva stretto la gola.
Rinchiudere quella
ciocca nella
prigione crudele delle sue dita non gli avrebbe permesso di bloccare il
tremore di quelle spalle minute.
Perché lei
non avrebbe
smesso di tremare e piangere e bisbigliare con voce tradita
un’accusa dalla quale non aveva saputo come difendersi, lui
che
di averla ferita non lo aveva capito, di averla appena
uccisa,
non lo aveva capito.
Si era preoccupato
solo del suo dolore, si era sempre
curato del suo dolore, senza rivolgere uno sguardo a chi lo circondava,
senza tener contro della sofferenza, della disperazione che era stato
lui a causare, una sofferenza che tutti si
meritavano di
ricevere da lui, ma lei, lei non se lo meritava.
Lei non avrebbe dovuto
essere
vittima del suo rancore, non aveva motivo di odiarla come odiava suo
padre, come odiava Thor e chiunque aveva professato il
proprio
amore per lui.
Il motivo per cui lo avevano perseguitato come un criminale, il
perché fosse rimasto rinchiuso nelle profondità
di Asgard
senza avere la possibilità di rivedere mai la luce del sole.
Perché
lo amavano.
Ma se davvero lo
avessero amato, se
davvero il padre degli dei avesse nutrito un poco dell’amore
che
lui stesso aveva tentato di soffocare, allora lo avrebbe perdonato, e
capito, avrebbe provato ad ascoltarlo, a sentire le sue ragioni.
Perché era
per lui, che aveva compiuto ogni gesto, era sempre stato per
lui.
Per renderlo fiero,
per sapersi degno dell’ affetto elemosinato fin da bambino.
E dopo tutto quello
che aveva fatto
per lui, dopo aver compito gesta degne di un vero Re,
dell’unico
Re, lui aveva scelto Thor, sempre Thor.
E lo aveva lasciato
andare, lo aveva lasciato cadere con quello sguardo che aveva
continuato ad ammonirlo fino alla fine.
Ma lei, lei
lo aveva amato davvero.
Astrid, sua moglie, la
sua
famiglia, non aveva fatto altro che sorridergli e tenerlo stretto
quando la notte calava, quando i pochi ricordi riconquistati si
mescolavano alle illusioni create dalla sua mente, incubi dai quali si
svegliava urlando.
E quando accadeva,
quando riusciva
a liberarsi da tutte quelle mani che tentavano di trascinarlo
giù, non c’era sua madre a calmare i suoi ansiti,
non
c’era suo padre, né suo fratello, ma lei.
Lei che era sempre
lì ad
aspettare che il suo respiro si calmasse, che il suo dolore
si
placasse e che il suo sguardo sperduto si accorgesse di lei.
Dei suoi occhi colmi
d’amore che gli avrebbero dato qualcosa di sicuro e familiare
a cui aggrapparsi.
Della voce che non
avrebbe smesso di bisbigliargli parole di conforto.
Delle
braccia strette attorno alle sue spalle per tenerlo vicino a
trasmettergli un po’ di calore.
Di quel sorriso che
ora, dietro le
palpebre chiuse vedeva sformarsi sotto la forza di quell’urlo
che
lo costrinse a gemere dal dolore mentre le mani correvano a coprirgli
le orecchie e il viso.
Per non vedere.
Per non sentire.
Per non soffrire per
quei ricordi che neanche adesso riusciva a riprendersi.
E lo avrebbe voluto,
lo desiderava
più di ogni cosa, più di quanto avesse mai
desiderato ricevere l’approvazione di
Odino,
più di quanto avesse mai voluto essere
riconosciuto come
unico e vero Re di Asgard.
Lui rivoleva quei
ricordi.
Voleva sentirsi felice
come sapeva
lei lo aveva fatto sentire, voleva tornare ad essere il dio
di
cui lei si era innamorata, l’uomo che Astrid aveva
trovato
dietro la paura e l’orrore.
Rivoleva
lei.
Quando le porte della
sua camera si
aprirono sotto la spinta esigente delle sua mani, quando
abbandonò il letto sul quale si era lasciato cadere senza
più voce, il silenzio che fino ad allora aveva cullato i
suoi
pensieri venne spezzato dalle urla che echeggiavano per il palazzo,
voci animate che parlavano di eserciti da schierare per
marciare
verso la fine dell’universo dove Galactus e i suoi alleati li
attendevano per lo scontro finale.
E più Loki
si avvicinava
alla sala del trono, più la sicurezza di dover correre da
lei,
di doverle chiedere perdono per lasciare che lui la toccasse e
la
rendesse introvabile per chiunque eccetto che per lui si fece
soffocante, tanto che quando si trovò alle spalle degli
umani
non ne fu pienamente cosciente fino a quando non
udì
qualcuno chiamarlo.
Perché di
lui qualcuno si accorse.
- Loki?
Pepper si
affrettò a
raggiungere il dio non appena lo vide voltarsi al suo richiamo, un nome
che la donna aveva sussurrato per non attirare l’attenzione
del
marito e di Fury, di nessuno degli uomini che per quella venuta non
avrebbe provato altrettanto sollievo.
Ma ritrovarlo
lì, ancora in
piedi, l’aveva confortata con il pensiero di non
dover
raccogliere i pezzi di un cuore diverso dal proprio, di non dover
consolare qualcun altro oltre se stessa, perché non ne
avrebbe
avuto la forza.
- Hanno deciso di
attaccare domani
all’alba – gli spiegò frettolosa,
così
da non lasciar cadere il silenzio, così
da non
permettere ad entrambi di sprofondare nella commiserazione che sarebbe
sopraggiunta una volta che avesse taciuto.
E Loki dovette
comprendere lo
stesso bisogno di mantenere un contatto con il mondo esterno per non
crollare, perché si decise a raggiungerla a metà
strada,
lo sguardo fisso sugli uomini sul piede di guerra che vedeva
accalorarsi gli uni con gli altri.
- Domani?
- Si –
assentì Pepper,
non trovando la forza di distogliere lo sguardo da lui,
perché
in qualche modo contorto il dio la faceva sentire vicina a sua figlia,
ed ora lei aveva bisogno di sapersi saldamente legata a lei, nonostante
la lontananza.
E il suo anello di
congiuntura era Loki.
Loki che guardava ma
non vedeva
veramente, che la ascoltava, ma non la capiva, perché i suoi
occhi cercavano un'altra figura che non era lei.
- E Astrid?
Dire quel nome gli
costò
fatica, e più fiato di quello che aveva creduto,
perché
aveva dovuto scacciare l’amarezza della bile che gli aveva
impiastricciato la lingua, ma bastò dirlo, bastò
trovare
il coraggio di ripetere quel nome per avvertire la dolcezza invadergli
il palato come se avesse trangugiato un fiotto di miele.
E a lui, che
le cose
dolciastre non erano mai piaciute, si scoprì incredibilmente
toccato dalla sensazione di piacere che gli pizzicò ogni
nervo
teso come una mano corsa a lisciare ogni sua ruga
d’espressione,
ogni smorfia contrita, ogni linea ferita.
Una mano piccola,
dalle dita
sottili che la sua memoria gli ricordò di aver
già
sentito in passato, sul proprio viso, prima di chiudere gli occhi e
abbandonarsi al buio.
Un buio che
ritrovò dietro
le palpebre ma che nel pensare a lei non gli fece paura,
perché
ad aspettarlo trovò una risata, dolce e morbida come un
bacio
soffiato sopra l’orecchio.
- Oh, Astrid
tornerà
– la sentì sussurrare al suo fianco con un filo di
voce
mentre un sorriso nostalgico che lui non poteva vedere tendeva il viso
dell’umana con una familiarità che avrebbe colto,
se
l’avesse guardata.
- Per quanto la cosa
abbia sempre
irritato mio marito, lei è sempre riuscita
a
trovare il modo di tornare da te.
°°°
Non ricordava che
respirare fosse
un’azione così difficile da compiere, che
costringere i
suoi polmoni a dilatarsi per incamerare aria fosse così
faticoso
e spossante, ma lo era, e Astrid cominciava a capire il
perché
di alcuni tratti comportamentali di Loki.
Il modo sospetto in
cui il suo
petto riusciva a risultare così incredibilmente controllato
persino nel compiere un gesto naturale come la respirazione che sarebbe
dovuta risultare più rumorosa e visibile, mentre la sua non
lo
era.
O la cura con la
quale le sue
labbra si schiudevano per lasciar passare solo un filo
d’aria,
non un po’, non di più, ma una quantità
sufficiente
a scivolare tra lo spazio inesistente concesso da quella bocca, dando
come l’impressione che lui non stesse respirando
veramente,
che non avesse bisogno di farlo per sopravvivere come gli altri, come
tutti, persino gli dei.
Suo padre in passato
aveva detto la
sua, al riguardo, spiegando che quello del dio era solo un modo per
inquietare chi gli stava vicino con una delle molteplici e grottesche
abilità che gli permettevano di trovarsi alle spalle del
nemico
come un’ombra minacciosa e incorporea, ma ugualmente letale.
E se i suoi genitori
fossero stati
lì con lei, se suo padre l’avesse guardata, Astrid
era
certa che ognuno di loro avrebbe espresso il proprio sconcerto nel
vederla imitare un tratto distintivo del dio.
Ma faticava davvero a
respirare
normalmente, e non per volontà di emulare l’uomo
che
amava, di essergli ancora più vicina, ancora più
coinvolta, ma perché doveva sforzarsi di non occludere la
trachea con più aria di quella che sarebbe riuscita a far
passare per le vie respiratorie ostruite dal ghiaccio che aveva
rivestito i suoi organi interni.
- Come ti senti?
Ruotare il busto per
seguire quella
voce le costò fatica, perché non si sentiva
più
leggera e veloce come prima, non con quella sensazione di costante
spossatezza che rendeva i suoi movimenti così stanchi,
affaticati, falsamente eleganti.
Ma era solo fatica
quella le
appesantiva il cuore e lo sguardo che Semjace incrociò,
persa
nella contemplazione silenziosa del mutamento fisico dal quale sua
figlia era stata colta impreparata quando i primi segnali di
cambiamento l’aveva informata del reale peso delle sue scelte.
E l’onere
della spessa corona
che Sunniva le aveva posto sul capo sotto lo sguardo dei Giganti, di
Jotunheim, era stato ben più gravoso di quanto previsto, di
quanto pensato.
Perché,
quando
l’intricata struttura di ghiaccio e brina cristallizzata era
venuta a contatto con l’epidermide, quando il suo intero
corpo
aveva provato a rigettarlo come un organo incompatibile, un corpo
estraneo, il gelo le era penetrato nelle ossa assieme alle spirali di
ghiaccio che sotto la pelle tenere della tempia si erano insinuate come
nuove vene che invece del sangue facevano circolare ghiaccio, divenendo
un tutt’uno con i capelli ora divenuti di un colore
più
tenue, più freddo.
- Io –
provò ad
articolare, sforzandosi di risultare il più chiara possibile
nonostante sentisse la lingua pesante – io mi sento
stanca.
Ed era vero, ma quella
stanchezza
non l’aveva mai provata o sentita prima,
perché non era stata scatenata da
nessuno sforzo
fisico.
Era più che altro un affaticamento mentale che la
rigidità dei suoi arti congelati rendeva ancora
più
palese per chi la guardava, per chi probabilmente sembrava estremamente
posata, come Loki pensò accigliata, ripensando
all’indolenza con cui compiva ogni azione,
un’indolenza che
molti, troppi avevano scambiato per un gesto di superiorità
da
parte sua.
Lui che
risultava algido
nella sua postura composta, e parlava solo quando lo riteneva
opportuno, si muoveva solo quando lo considerava necessario.
- Non è
come pensi, la
fatica che senti è causata
dall’assestamento con cui
il tuo corpo sta cercando di abituarsi al cambiamento. Né
Loki
né i Giganti di Ghiaccio ne sono affetti. È la
loro
natura, ma non la tua.
- Oh –
un’esclamazione
quasi sciocca la sua, ma Astrid non sapeva come reagire, come abituarsi
ai cambiamenti a cui il suo corpo stava andando in contro.
Mutamenti che non
interessavano
solo la sua essenza rarefatta come il respiro di ghiaccio che soffiava
pesantemente dalle labbra, ma anche l’involucro della sua
anima,
quel corpo che tornò a guardare attraverso le mura di
cristallo
della sala del trono.
E quando le ciglia
imperlate di
brina le permisero di notare il rosso borgogna che le affogava
l’iride, quando si strofinò le braccia per
liberarle dallo
strato di ghiaccio che l’aveva rese un po’
più
pallide e traslucide come un velo impalpabile, Astrid sentì
un
moto di orgoglio per ciò che vedeva, per ciò che
era
diventata.
Perché la
se stessa dallo sguardo velato e le labbra blu acceso sembrava felice.
Felice di
ciò che vedeva, delle somiglianze che ora la rendevano una
Gigante di Ghiaccio.
La regina dei Giganti
di Ghiaccio.
E ora, neanche avere
la pelle rosea come quella degli umani le importava più.
Cercare di sembrare
come loro, non
le importava più, perché ora anche lei
apparteneva ad una
specie, ad una razza, ad un popolo con cui condividere le proprie
caratteristiche, la propria bellezza, e quella che ora rendeva
lei eterea e fuggente come un soffio di
vento la rendeva fiera della scelta presa.
Il frusciare di vesti
e il tocco
leggero sulla spalla la convinse a spostare lo sguardo dalla corona che
non avrebbe più potuto sfilare dal capo per quanto
forte
avesse tirato al viso metallico di sua madre, un viso segnato da una
felicità che la portò a schiudere un sorriso
emozionato.
- Sei felice?
– la
sentì sussurrare con un filo di voce, e c’era
così
tanto bisogno di sapere, così tanto desiderio di saperla
finalmente felice, dopo tutto quel tempo, da bordarle gli occhi di
lacrime che vide tramutarsi in piccoli cristalli di ghiaccio che, a
contatto con il suolo, tintinnarono assieme alla sua risata
commossa.
- Si madre, sono
felice.
Ed era vero.
Era felice,
davvero felice, e
non per qualcun altro, ma per se stessa, per il posto che finalmente si
era riuscita a ritagliare nell’universo, nel mondo.
Ed era su quel trono,
tra quelle
terre, in mezzo ai Giganti che sarebbe dovuta stare, non tra gli umani,
non tra gli dei, non in una teca di vetro, ma lì, proprio
lì.
La carezza con
cui sua madre
le sfiorò lo zigomo le fu data con dita tremanti, dita che
Astrid afferrò con delicatezza, rigirandosi tra le sue
braccia
per guardarla in viso e gridarle con gli occhi che aveva vinto.
Una vittoria per la
quale
riuscì a non pensare a nient’altro che a quella
bolla di
felicità che le solleticava il cuore ferito, un cuore che
avrebbe riparato, pezzo per pezzo, ora che sapeva di avere un posto in
cui tornare, una volta che tutto fosse finito.
E avrebbe voluto
correre da Loki
per raccontargli che l’avevano accettata, che i suoi simili,
il
suo popolo, l’avevano accettata come Regina, come loro regina,
e che insieme avrebbero potuto costruire qualcosa di bello, qualcosa
per cui lei avrebbe combattuto, così da realizzare
il
sogno di ognuno di loro.
Perché
c’era ancora
una guerra da finire, e uno scontro da iniziare ora che di scappare non
c’era più la possibilità.
La battaglia più difficile, quella che forse
l’avrebbe vista perdente, ma anche vincitrice.
Non vi era certezza
quella volta, neanche per lei, e la cosa non la spaventava, Galactus,
non la spaventava più.
Avrebbe trovato il
modo di
sconfiggerlo, di rendere impotente ciò che non poteva essere
distrutto, lo avrebbe trovato, ma quella risposta fu sua madre a
dargliela, come dono per ciò che era riuscita a raggiungere,
a
conquistare.
Un compito che Astrid
non aveva preso coscienza di aver assolto.
La matita di un grande
disegno che Yssgradrill e gli spiriti del passato avevano finalmente
finito di guidare.
Continua...
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Capitolo 11 *** 11 - Utopia ***
Capitolo 11
“Burning desire to
live and roam free
It
shines in the dark and it grows within me
I'm
dreaming in colours of getting the chance
I'm
searching for answers not given for free
They
live inside as they lie within me “
[…]
I'm
dreaming in colours, no boundaries again
Dreaming
the dream we all seem to share
The
search of the door to open your mind
The
search of the cure of mankind “
[ Utopia
– Within Temptation]
La speranza non aveva
forma in sè.
Non aveva un volume,
un’unità di misura, e per quel motivo nessuno
aveva
un’idea precisa di cosa fosse, a cosa
assomigliasse,
se davvero esistesse. Ciononostante, se qualcuno lo avessero
domandato, molti avrebbe potuto affermare con sicurezza di
averla
vista almeno una volta nel corso della propria esistenza.
E che una forma alla
fine ce l’aveva, in realtà.
Alcuni dicevano che
assomigliasse ad una bambina dalle trecce bionde e il viso spruzzato di
lentiggini.
Altri giuravano di
averla vista
sotto le mentite spoglie di un vecchio anziano dal bastone
nodoso
e occhi tanto chiari da sembrare trasparenti come specchi.
Altri ancora parlavano
di
entità astratte, angeli, credevano in molti,
esseri
soprannaturali che se si era abbastanza accorti, se si era abbastanza
fortunati, si potevano percepire accanto a sé come un soffio
di
vento caldo, di quelli che convincono i fiori a schiudere i petali e
mostrare al mondo la propria bellezza.
Ma nonostante
l’esistenza di
tutte quelle voci, di tutte quei racconti, nessuno era ancora
riuscito a dargli una forma definita, anche se
secondo
quelle storie la speranza ce l’aveva, una forma definita,
solo
che decideva di non mostrarsi sempre con lo stesso aspetto,
per
non annunciare una venuta che sarebbe dovuta risultare casuale e non
premeditata.
Perciò,
quando ti
veniva a cercare, quando la speranza decideva che era il momento giusto
per farti sentire il suo alito di vita contro la guancia, sulle cigli
bagnate di lacrime, allora questa assumeva le sembianze di
chi
meglio in quel momento di sconforto, di dolore, avrebbe incarnato la
nostra idea di aiuto.
Perché
ciò che si
sperava di ricevere non erano miracoli, o magie, o un deus ex machina
che avrebbe avuto il compito di salvarci dalla crudeltà del
mondo, da noi stessi.
No.
La speranza non era
neanche
la bambina che ti chiedeva curiosa, se stessi bene, e neanche
il
vecchio anziano che sembrava fissarti ma che in realtà, non
ci
vedeva bene.
La speranza, quella
vera, quella
che non aveva forma, quella che giungeva inaspettata, era la caramella
sciolta dal caldo che la bambina avrebbe tirato fuori dalla tasca del
suo vecchio abito scolorito per convincerti a farle un sorriso.
Era il bastone nodoso
del vecchio
che ti avrebbe colpito duramente alle ginocchia per convincerti a
buttare a terra la prima sigaretta che gli amici ti avevano consigliato
come sfogo per la tua rabbia.
Era l’angolo
di un appunto
divertente che avresti trovato nascosto in quel vecchio e pesante libro
che non avevi voglia di leggere ma che forse, una volta
aperto
sul piccolo tavolo sgangherato della biblioteca, ti avrebbe strappato
una risata sincera.
La speranza non aveva
un aspetto
preciso perché era multiforme, eclettica, e
soprattutto,
capace sempre, in qualsiasi tempo, in qualsiasi angolo
dell’universo, di sorprenderci con l’insospettabile
forma
che avrebbe assunto per noi.
E per loro, per i
militari che
erano costretti a tendere il collo per scrutare da sopra le spalle
dorate dei guerrieri divini, per i non-morti che negli angoli bui della
sala faticavano a mantenere il contatto con tutta quella luce, per i
Giganti di Ghiaccio che dal fondo scrutavano con malcelato nervosismo
di fronte a sé, per i leader, regnanti di ogni specie, la
speranza aveva preso un’unica forma.
Quella che nessuno si
sarebbe
aspettato di fissare con tanta intensità, o sospetto,
perché era solo una mano, e le mani non erano capaci di
salvare,
non erano capaci di concedere un desiderio o di vincere una guerra,
eppure, quell’organo tattile di cui tutti in quella stanza
erano
stati dotati dalla madre terra, dalla vita, in quel caso appariva
davvero, così diverso.
E non
perché fosse blu, o piccolo, o cosparso da brina e cristalli
di ghiaccio, no.
Non era il colore
né la
forma a lasciarsi combattuti, così confusi sul
perché ora
quella stessa mano risultasse così fondamentale, necessaria
da
stringere.
Ma sapevano di doverlo
fare,
chiunque, in quella stanza, di fronte al corpo nodoso e fecondo di
Yssgradill e alla piccola figura che la guardava in silenzio, con le
mani tese in avanti, voleva raggiungere quei palmi e stringerli nei
propri con forza, lasciando che la saggezza e il coraggio fluisse in
loro.
Il coraggio di
combattere per la salvezza del proprio pianeta, delle propria gente,
della propria famiglia.
La risolutezza con la
quale
Nicholas Jack Fury allungò il braccio, afferrando la mano
della
donna che fissava fiducioso, e grato, fu netta e repentina
mentre
il cuore tremava e lo sguardo veniva attirato dall’albero che
parve divenire un po’ più luminoso, a quel
contatto.
E quando il nero del
suo palmo
venne racchiuso nella mano gelida e putrefatta di Zenas
l’umano
non battè ciglio,ma rimase immobile, le pupille dilatate su
qualcosa che nessuno oltre lui, ed ora, oltre il non- morto, poteva
vedere.
Ma rimaneva ancora una
mano da
afferrare, e stringere, una mano che Odino fissò in
silenzio,
facendo scivolare lo sguardo sul profilo regale del Tessaract che non
lo guardava, né lo costringeva ad stringerle la mano come le
altre due creature avevano fatto con la sinistra.
Perché era
una loro scelta se accettare o meno ciò che lei gli avrebbe
concesso.
E non sarebbe stata la
vittoria, un
lieto fine, e neanche l’immunità da un destino di
morte e
sangue oramai prossimo, no.
Ciò che
Astrid stava
offrendo loro, ciò che la Regina di Jotunheim
stava
concedendo era una possibilità.
Possibilità
di vincere.
Non una certezza, non una sicurezza, ma una possibilità.
Una
possibilità che ognuno di loro avrebbe dovuto
trasformare in realtà, loro, non lei.
Perché lei
non era la
salvezza, lei non era il miracolo, lei era solamente la via che si
poteva decidere di imboccare per raggiungere ciò per cui
loro
avrebbero dovuto lottare con le proprie forze.
Ed Odino, che di
scelte sbagliate
sapeva di averne fatte molte, decise di fare la cosa giusta, per una
volta. E quando afferrò la sua mano, quando lo
vide,
quando l’Albero della Vita gli mostrò quella
possibilità, quando l’eco dei vecchi Re, dei
grandi
spiriti della terra sussurrarono nelle loro orecchie ciò che
si
sarebbe potuto fare per raggiungere la salvezza della propria stirpe,
sentì la mano del Tesseract scivolare tra le sue
dita
come acqua mentre Yssgradrill tornava a tacere e riprendere
il
suo fulgore gentile e rassicurante.
- Che quanto visto non
esca dalle vostre bocche.
Sentirla parlare con
una voce che,
in un primo momento, nessuno riuscì ad associare al suo
aspetto
minuto, perché troppo maestosa e suadente da appartenerle,
li
colse impreparati, ma quando videro che le sue labbra
colorate
non si erano mosse, la consapevolezza di averla nella propria testa
impedì loro di risponderle.
Le
bastò ricevere un
cenno d’assenso dal capo prima di decidere che il suo compito
era
finito, che ora, il destino del loro popolo era nelle loro mani, non
più nelle sue.
Perché
Astrid non avrebbe
più potuto caricarsi del loro futuro, non ora che aveva un
suo
popolo, da difendere, la sua gente, da schierare, e quando Knut
fuoriuscì dall’ombra della colonna, quando gli
umani,
intimoriti dalla sua stazza e dal suo passo minaccioso si aprirono a
ventaglio per lasciarlo passare, lei si concesse un ultimo sguardo ad
ognuno di loro, soffermandosi su Odino.
Odino che
più di tutti,
più di altri, avrebbe dovuto tenere a mente il suo
comando, ricordando di non poter indugiare su pensieri che lo avrebbero
potuto tradire in presenza di quel figlio che con quella stessa mente
aveva imparato a giostrarsi.
Un dio che se avesse
visto, se
avesse capito, avrebbe compromesso la loro unica possibilità
di
salvezza, di vittoria, e lei non poteva permetterlo, il Padre degli
dei, non poteva permetterselo.
E fu per accortezza, o
per semplice
desiderio di parlargli, di strappargli un’altra promessa che
Astrid lo invitò con un cenno della mano ad accostarla,
l’ennesimo ordine al quale Odino non potè
rifiutarsi,
perché glielo doveva.
Le doveva la vita, e
il ritorno di
un figlio che sapeva, stava cercando sul suo viso il motivo di tanto
silenzio, dell’apprensione che l’umano, Nick Fury,
si era
lasciato sfuggire prima di tornare dai suoi uomini.
Un’apprensione
che
l’uomo aveva rivolto a lei, alla Regina che fin dal suo
arrivo
non aveva guardato nessuno, ma aveva ordinato, e chiesto di seguirla,
di non rivolgere domande, perché lei non avrebbe risposto.
E lui ne aveva tante
di domande da
porle, ma più di tutto, più del bisogno di sapere
perché ancora non lo avesse guardato, perché, una
volta
tornata lì, non lo avesse cercato, Loki aveva la
necessità di chiederle di perdonarlo.
Di
non odiarlo.
Perché
sarebbe potuto
morirne di quell’odio, se era lei a rivolgerglielo, e lui non
poteva, non voleva lasciarla passare senza provare a parlarle.
L’avrebbe costretta ad ascoltarlo, perché era
egoista, e
perché aveva bisogno che lei sapesse che anche se ancora non
ricordava, anche se ciò che aveva tra le mani erano stralci
di
una vita che non conosceva ma di cui cominciava ad avere
nostalgia, gli sarebbero bastati.
Lei, gli sarebbe
bastata.
Essere fissata non le
dava
fastidio, sentire di fianco la presenza silenziosa del padre degli dei,
non le dava fastidio, sapere di non doversi guardare intorno in cerca
della sua famiglia che sapeva, la stava guardando con apprensione, non
le dava fastidio.
Perché non
poteva, ora che
era la Regina, ora che al primo posto non poteva più mettere
i
propri sentimenti, ora che non poteva concedersi di essere egoista.
Non poteva guardare i
suoi genitori
e spiegar loro che anche se il suo corpo era cambiato, anche se
c’era una corona a pesare sul suo capo, lei li amava, non
avrebbe
mai smesso. Ed anche se le sue labbra non potevano muoversi,
anche se dalla sua bocca non sarebbe potuto uscire un fiato, Astrid
glielo sussurrò gentilmente con la mente.
Le parve quasi di
sentire, di
vedere il sorriso aprirsi sui loro volti un po’ meno
apprensivi,
un po’ meno spaventati, e tanto le bastò per
continuare il
suo cammino mentre Knut la aspettava alla fine di quel corridoio umano.
Il Gigante che
l’aveva accettata come regina, e la regina di
Jotunheim sarebbe dovuta essere la più forte.
Sarebbe
stata lei a
comandare, a condurre quella battaglia, in quanto sovrana del popolo
più forte dell’universo.
E forte si impose d'
esserlo,
costringendo il cuore in un’imbracatura che le
impedì di
farlo fuggire, di vederlo gettarsi sull’ultima componente
della
fila, il dio che Astrid avrebbe dovuto superare per raggiungere Knut,
per finire ciò che aveva cominciato.
Ma quando vide una
mano del dio
scattare verso il suo braccio si sentì morire, incapace di
respingere un contatto che desiderava, un contatto che qualcun altro
però riuscì a bloccare.
- Non ora Loki.
Odiare gli era sempre
venuto
naturale, ma il dio degli inganni potè giurare di non aver
mai
odiato tanto suo padre come in quel momento.
Perché
stava commettendo lo stesso errore di quando era bambino, il motivo del
suo rancore.
Gli stava impedendo di
raggiungere ciò che voleva.
E quella volta non era
il suo trono.
Non era la sua
approvazione.
Ma lei.
Sua moglie.
Sua.
- Mid dame.
E la loro regina gli
sussurrò una voce lontana, un bisbiglio che lo
portò ad
abbandonare il braccio lungo il fianco mentre la guardava spezzare il
contatto tra i loro sguardi e allontanarsi con suo padre.
Lontano, sempre
più lontano.
Da lui.
E da quel ‘mi dispiace
che nessuno oltre lui riuscì ad udire.
°°°
Asgard era bella vista
da
lassù, forse un po’ troppo opulente per
i suoi
gusti, ma per lei che era cresciuta nella povertà
delle
favelas il dover ricoprire ogni superficie d’oro scintillante
non
aveva molto senso.
Eppure, Astrid si
trovò a
stirare un sorriso mentre il sole che moriva all’orizzonte
faceva
brillare ogni cupola, casa, e strada come stelle, minuscole e brillanti
stelle dorate che la sua corona imprigionava nelle spirali di
ghiaccio che la componevano, facendo brillare anche lei, come
una
stella.
Chiuse gli occhi con
un respiro
stanco, beandosi del calore di un sole che non avrebbe più
avuto
la possibilità di baciarle il viso, o sfiorarle la pelle, o
bagnarle i piedi, perché non ci sarebbe stato
nulla di
tutto quello ad attenderla, lì dove sarebbe tornata.
Non ci sarebbero stati
prati
verdi o erba fresca ad accogliere il suo passo, ma laghi
ghiacciati e sentieri tanto ripidi da condurre su, sempre
più
su, sulle cime di quelle montagne così alte da scomparire
oltre
le nuvole nere che oscuravano i cieli di Jotunheim.
.
Ma non era quello
il tipo di
calore che le sarebbe mancato, non quello del sole, ma delle braccia
degli umani che dabbasso, se tendeva le orecchie, poteva sentire
parlare tra loro, litigare tra loro.
Origliare non era
educato, suo
padre Bruce non aveva fatto che ripeterglielo da bambina, ma Tony,
l’altro suo papà, le aveva spiegato che alle
volte, se si
aveva un super udito come il suo, non si poteva fare a meno di
impicciarsi degli affari degli altri, e lei, in quel momento, voleva
far finta di essere là con loro.
Riconobbe la voce
posata di
sua madre, il tono di rimprovero di suo padre
Bruce,
e riuscì persino a cogliere la nota stizzita con la quale
Tony
stava ordinando a suo figlio Marcus e ad Estela che non li avrebbero
seguiti in battaglia l’indomani, non importava quanto a lungo
avessero gridato, o quanti sguardi truci gli avessero rivolto, loro
sarebbero rimasti a casa, al sicuro.
La loro casa.
Sentì il
bisogno impellente
di sporgersi e provare a vederli, di smorzare l’agitazione
che la
assalì nel ricordare la sua camera, quella che
papà Bruce
aveva condiviso con lei assieme alla vecchia coperta di lana
nella quale amava avvolgerla prima di stringerla a sé, o
quella
luminosa, dagli alti soffitti che suo padre Tony aveva tinto di rosso
per ricordarle di lui, dell’armatura che l’aveva
protetta
da sveglia e che nei suoi incubi l’avrebbe vegliata.
La sua prima casa,
quella che
avevano costruito attorno a lei per farla sentire sicura e amata,
quella che non aveva dimenticato, che Jotunheim non avrebbe
sostituito, perché erano le sue radici, loro, erano le sue
radici.
Ed aveva bisogno di
guardarli, ora.
Aveva bisogno di vedere il cipiglio austero di suo padre Bruce e il
sorriso a mezze labbra di suo padre Tony, e lo sguardo pacifico di sua
madre, aveva bisogno di vederli, di ricordare come fosse stare con
loro, sapersi con loro, perché non l’avrebbe
più
fatto.
Perché lei
aveva creduto di
poter affrontare tutto quello, di poter compiere quanto necessario
senza essere assalita dalla nostalgia, ma era stata sciocca a credere
davvero che essere diventata regina significasse essere diversa.
Lei era
sempre la stessa, sarebbe stata sempre la stessa, anche se con una
corona in testa, perché sotto questa c’
era lei.
Una bambina cresciuta
troppo in
fretta, una ragazzina che di crescere, di diventare
adulta
l’aveva desiderato troppo presto, ed ora che lo era
diventata,
ora che era donna e regina, la consapevolezza di aver comunque bisogno
dei suoi genitori, dei suoi papà e della sua mamma le
stringeva
la gola per il dolore che avrebbe voluto sfogare in un sospiro tremulo.
Quello che invece
scivolò
via dalle labbra fu un gemito di sorpresa, un singulto che le sue
spalle seguirono mentre la testa scattava indietro e gli occhi lucidi
abbandonavano le figure che aveva provato a portare con sé
lassù per smorzare la sua solitudine.
Ma non era
più sola,
perché la causa della sua distrazione, il motivo di quel
singulto di spalle e labbra era stato Loki.
Loki che ora la
fissava e che, nel cogliere la sorpresa del suo sguardo,
rafforzò la presa sulla sua spalla.
E non piangere sarebbe
stato
impossibile, non con lui lì, non ora che si sentiva
così
scoperta, e sola, e vulnerabile, incapace di mostrarsi serena come si
era augurata.
Perché lui
era lì, Loki
era lì,
e pensare di poter far finta di nulla, di poter ignorare il
battito isterico del cuore salitole in gola e il tremore delle mani che
avrebbe voluto alzare per incorniciargli il viso e lisciare con le dita
quella smorfia di dolore e rammarico era impensabile.
E lo fece.
Gli sorrise per
impedire alle sue labbra di tremare.
Strizzò gli
occhi per
arrestare le lacrime che le avrebbero reso impossibile vedere, lei che
ora voleva vedere tutto.
Quegli occhi simili a
specchi rotti
che nel sentire le sue mani sul viso, nel percepire il calore delle sue
dita contro la cicatrice sembrarono ritrovare
l’incastro di
ogni pezzo caduto.
Perché lo
stava rimettendo
in piedi, lei che ne aveva sempre avuto il potere, lei che sapeva quale
tasto toccare per avviare quell’operazione di ricostruzione
alla
quale Loki si abbandonò, lasciando che lo toccasse quanto
volesse.
E quando si
ritrovò con lei
tra le braccia, quando si accorse, non senza una certa sorpresa, di
essere seduto sul davanzale della finestra situata nella torre
più alta di Asgard, lì dove l’aveva
guardata da
lontano per ore prima di decidere di raggiungerla e parlarle, Loki non
trovò la forza di fare altro che abbandonare il mento sulla
testa di Astrid mentre le braccia correvano a raccoglierla contro il
suo petto, affinchè non cadesse, affinchè non lo
lasciasse.
E lei
non provò a
fuggire, si limitò solo a sistemare il capo
nell’incavo
del suo collo e rilasciare il primo vero respiro della giornata, quello
che carezzò la mascella del dio con gentilezza, una carezza
di
dita invisibili che lo spinse a chiudere gli occhi per la stanchezza
che ora lo assaliva.
Ma aveva bisogno di
scusarsi ricordò a se stesso con voce dura.
Doveva chiederle scusa
per averla
ferita, per averle dato della bugiarda, a lei e a quell’amore
che
menzognero non era mai stato, lei, non lo era mai stata.
Affinchè si
liberasse del
dolore di sapersi responsabile di tutta quella tristezza che le
offuscava lo sguardo, affinchè lo perdonasse,
affinchè
non lo odiasse.
- Io non ti odio.
Sentirglielo
dire fu strano,
e spaventoso, perché Loki sapeva di averlo solo pensato, di
non
aver parlato, e soprattutto, di non aver avvertito nessuna intrusione,
nessuna mano intenta a rovistare nei suoi pensieri, ma non si era
accorto che lei ora lo guardava di sottecchi e che glielo aveva letto
in viso.
In un viso che il dio
osservò preoccupato nel riflesso dorato delle pareti alle
sue
spalle, ma non trovò nulla di sbagliato, nulla di diverso,
se
non una minuscola e banale contrazione dell’angolo destro
delle
sue labbra.
Un movimento
impercettibile del quale neanche lui si era accorto, ma lei
sì.
Lei se ne era accorta.
E la consapevolezza di
risultare
così chiaro, di non riuscire a nascondersi dietro la sua
maschera lo colpì, convincendolo a guardarla negli occhi per
capire, per mettere alla prova quella sua strana empatia e vedere
quanto lo conoscesse, quanto in
profondità potesse
scavare per grattare la superficie del muro che aveva sempre eretto
attorno al suo cuore.
La vide sorridere con
gentilezza, e
il modo in sui i suoi occhi si ammorbidirono per lui gli causarono un
vuoto allo stomaco, una sensazione di vertigine che però
risultava piacevole, estremamente piacevole.
- Credo che tuo padre
abbia compreso il tuo bisogno di attenzione, sai?
Quello non se
l’era aspettato.
La comprensione di un
malessere così intimo e infantile, non se l’era
aspettato.
Quello sguardo
indulgente, non se l’era aspettato.
- Ho avuto modo di
parlare con lui
mentre stavamo revisionando le truppe – e Astrid si costrinse
a
rendere la voce simile ad un soffio per non spaventarlo, per non
rendere quello sguardo ancora più sperduto – e
posso dirti
con sicurezza che lui l’ha compreso, che sarà
disposto ad
ascoltarti, quando ne sentirai il bisogno. Lui ha capito, Loki. Ti ha capito.
- Perché?
Glielo disse
con voce rauca, graffiata dalla frustrazione di non sapere
perché.
Perché,
nonostante tutto, si fosse lasciata toccare.
Perché,
ancora volta, era stata disposta ad aspettarlo.
Perché,
semplicemente, continuasse a cercare di renderlo felice.
- Lo sai
perché
– e c’era durezza nella voce di Astrid mentre
un’ombra di fastidio le attraversò il
viso quando lo
vide stringere le labbra e grattare la gola con un ruggito che non la
spaventò.
Lui, non la spaventava.
- No invece
– sibilò cattivo – io non lo so
perché continui ad insistere con me.
- Invece lo sai, solo
che non vuoi accettarlo.
- Accettare?
– lo aveva quasi
urlato, ma era stato un urlo fatto con un filo di voce, un fischio che
gli ronzò nelle orecchie fino a renderlo sordo alla sua
stessa
voce, quella che nella sua testa gli ordinava di smetterla, di non
cercare di essere infelice.
Perché era
quello che stava facendo.
Rendersi infelice.
- Non sono io quello
che non riesce
ad accettare la realtà. Io non sono l’uomo di cui
parli,
non sono più l’uomo di cui ti sei innamorata
– e
dirlo gli fece male, pensarlo, gli faceva male – io non sono
l’uomo che vuoi.
Lo schiaffo giunse
inaspettato, ma
non fu uno schiaffo eccessivamente doloroso, non fece neanche lo
schioppo, perché la mano scattata sulla sua guancia, corsa a
coprire la cicatrice di cui Loki non ricordava il responsabile, non
aveva fatto male.
Lei non voleva fargli
male, era stato lui a fargliene, era sempre lui, a fargliene.
- Io non mi sono
innamorata di un
uomo, né di un dio, io mi sono innamorata di questo
– e la
mano che Astrid aveva tenuto abbandonata in grembo corse a coprire
un’altra porzione di pelle, il pettorale sopra il quale
schiuse
le dita, come a riempirsi il palmo del cuore di Loki.
Il cuore che piangeva
e tentava di non soffocare, senza farsene accorgere.
Ma lei se ne era
accorta, lei se ne sarebbe sempre accorta.
- Io mi sono
innamorata del tuo
cuore, Loki. Non della bellezza di un uomo, non della potenza di un
dio, è del tuo cuore, che mi sono innamorata, lo
stesso
cuore dell’uomo che ha dimenticato, lo stesso cuore che io
non ho
mai smesso di amare, neanche per un istante.
Le lacrime che le
rigavano il viso
erano state involontarie, ma scivolavano assieme alle parole, ad una
confessione dalla quale Loki non ebbe il tempo di schermirsi,
di
nascondersi, e lo colpì.
Lo colpì
dritto al cuore, con forza.
E quando cedette,
quando sentì la rabbia venir meno e l’angoscia
sciogliersi come neve al sole si arrese.
A lei, a
quell’amore che non poteva più rifiutare, a quella
vita che lei aveva cercato di migliorare.
Vederlo chiudere gli
occhi fu
commovente, ma Astrid si tenne per sé i propri commenti,
preferendo ritornare a posare l’orecchio contro il cuore che
sentiva battere veloce.
Veloce come se fosse
emozionato.
Veloce come se fosse
stato liberato.
E fu allora che Astrid
seppe che si
sarebbero presi cura di lui, che Loki avrebbe avuto la famiglia che
meritava, il padre, che meritava, che avrebbe potuto crearsi nuovi
ricordi per riempire il buco che lei non era riuscito a richiudere.
Ma ci avrebbe pensato
Odino in sua vece, ad amarlo, a dargli un posto nel mondo.
Perché lei
era la regina dei Giganti di Ghiaccio.
Le creature nelle
quali Loki non si
era mai riconosciuto, una stirpe che lui aveva ripudiato e che forse,
mai sarebbe riuscito ad accettare.
Ma andava bene cosi.
Avrebbe fatto in modo
che andasse bene così.
°°°
“Le guerre
non erano mai
giuste” aveva detto qualche vecchio moralista nei suoi anni
di
massimo senso civico, ma su quello Nick Fury dovette dissentire
duramente.
Le guerre non era
giuste, su
quello poteva concordare, ma qualche volta potevano diventarle,
potevano esserlo quando si doveva proteggere
qualcosa di
caro.
E quello era sensato,
quello, era giusto.
Lottare per proteggere
una vita lo era.
Muovere guerra per
proteggerne più di un miliardo lo era.
Ed erano tutti
lì, radunati
in file ordinate, disposti in plotoni che di respirare avevano smesso
quando sul pianeta disabitato su cui avevano scelto di battersi misero
piede loro.
Múspellheimr
era un
nome che non faceva suonare nessuna campanella di riconoscimento nella
testa di Fury, ma la stazza e lo sguardo crudele delle creature che con
quel nome definivano la loro razza era spiacevolmente familiare.
Perché
quelli erano Giganti, dalla pelle scarlatta e dal corpo frastagliato di
piaghe, ma pur sempre Giganti.
E facevano paura.
Ne facevano a lui, ai
suoi uomini
che di trattenere il fiato non avevano smesso, e persino alle
divinità che nelle loro belle armature dorate avevano
sentito il
cuore pompare di paura, di disperazione.
Persino Odino non
aveva potuto
evitare di mostrare un lampo di apprensione alla vista dei Giganti di
Fuoco, e Thor stesso aveva sentito le dita tremare quando il loro capo,
il loro Re si era mostrato loro.
Più alto di
ogni altra
creatura avessero mai avuto la sfortuna di incontrare, e spietato, una
crudeltà che i suoi occhi dorati ruggivano assieme a quella
bocca di denti aguzzi che esalano respiri di gas maleodoranti
e
acidi.
Puzzavano di zolfo, di
morte, e di
sangue rappreso, le chiazze che tempestavano i petti glabri di ognuno
di loro senza mostrare le ferite da cui era potuto fuoriuscire, ma non
ce ne erano, perché non era il loro, quel sangue.
Non sarebbe
stato mai il loro.
- Dove sono?
Aveva una voce
sgradevole il Re di Múspellheimr, *Surtr, ma tutti rimasero
fermi, immobili.
Sordi.
-
Dov’è la piccola sgualdrina di
Jötunheimr ?
Quella volta il
movimento
però vi fu, ve ne furono molti in verità, e
maledizioni
masticate a denti stretti, urla inghiotte di forza in gole nervose e
bisognose di fargli rimangiare quelle parole, di fargli rimangiare
quell’insulto.
Ma nessuno si mosse,
nessuno
fiatò, rimase solo fermi, ad aspettare che lei si
presentasse, ad attendere che Astrid arrivasse.
- Allora? Credete che
sarete sufficienti a distruggere la mia armata? A distruggere lui? Voi
patetiche-
- Vedi di fare
silenzio o ti
strapperò la lingua e ci farò una zuppa di
jambalaya
– ruggì Tony Stark dalle prime file,
contravvenendo
all’ordine di non fiatare, di aspettare il segnale, ma non
c’era mai stata la reale possibilità di
imbrigliare la sua
lingua, non quando era sua figlia, quella che stavano chiamando
sgualdrina.
Sua figlia.
E se Iron Man aveva
mai avuto modo
di mostrare quale tasto in lui andasse toccato per inimicarselo, era
senza dubbio quello di rivolgersi ad Astrid in un modo che non gli
piaceva, e il modo in cui l’aveva chiamata, il modo in cui
l’aveva insultata non gli piaceva.
Non gli piaceva per
niente.
- Quale parte dello
“stare in
silenzio e fermi” fino al mio segnale non hai capito Stark?
– gli sibilò di fianco Rhodes, un velo di sudore
ad
imperlargli la fronte.
Lo scienziato gli
concesse solo uno
sguardo sfacciatamente irritato prima che il ringhio animale del
Gigante li zittisse nuovamente, ma Tony non smise comunque di
gorgogliare, covando in petto bestemmie che neanche in mille
anni
avrebbero mai potuto eguagliare.
E gliele avrebbe
urlate tutte, gliele avrebbe sputate in faccia se lo scoppio alla sua
destra non lo avesse fatto sbiancare.
Un grido di terrore si
alzò
tra le file dei non-morti quando la palla di fuoco che uno dei Giganti
aveva vomitato si schiantò su di loro, facendo saltare teste
e
arti che con orrore alcuni militari calciarono via quando una di quelle
cose provò a toccarli.
Ma Zenas, che dalle
prime file
aveva assistito in silenzio alla scena non mostrò
pietà
per quello scempio, ma sibilò ai suoi sottoposti di tacere e
tornare in file ordinate anche senza una gamba, perché anche
così avrebbero potuto combattere, e fu con qualche grido
isterico che quelle creature o almeno, ciò che ne rimaneva,
ripresero il loro posto.
- Interessante
– se ne
uscì Fandral, la testa bionda rivolta ad una di quelle cose
senza braccia che lo accostava e che, nel sentirsi osservata, gli
sibilò contro come una piccola serpe velenosa.
- Fa attenzione
– lo
rimproverò Lady Sif con acredine, rabbrividendo nel sentire
l’ “idiota” con cui Loki aveva esternato
il proprio
disgusto nei confronti del guerriero che di rispondergli non ne ebbe il
coraggio.
E non
perché, in linea di
massima, andare contro Loki avrebbe significato perdere la
vita
nel tentativo di farlo, ma perché in quel momento il dio
degli
inganni non lo avrebbe considerato abbastanza interessante da
convincerlo a distogliere lo sguardo dal cielo che fin dal loro arrivo
non aveva mai abbandonato.
Perché era
da lì che
lei sarebbe giunta secondo quanto riferito da suo padre e gli altri
leader delle specie, ma Astrid non era ancora arrivata, e quello strano
senso di pericolo che lo aveva portato a stringere le palpebre per il
sospetto di annusare qualcosa nelle espressioni imperscrutabili dei Re
non fece che acuirsi e dare adito alle sue supposizioni.
Ipotesi su come
fossero
eccessivamente rilassati, tutti loro, troppo posati, troppo rigidi,
come se gli fosse stato imposto di mostrarsi così
controllati,
come se lo facessero per nascondere qualcosa, come se suo padre volesse
nascondergli qualcosa.
E Loki odiava i
segreti, quegli
stessi segreti che avevano dato un nome a quella sensazione di
abbandono che da bambino non si era mai riuscito a spiegare, e provava
la stessa e profonda paura di sapere che ciò che Odino
sapeva,
ciò che ognuno dei quattro uomini sapeva, non gli sarebbe
piaciuto.
Il respiro trattenuto
del soldato
alla sua destra lo distrasse dai suoi pensieri, distendendo le rughe di
preoccupazione quando sentì un insolito crepitio sopra la
testa,
come se qualcosa si stesse preparando a calare su di loro, come se
qualcuno stesse per arrivare.
E quando venne, quando
il cielo
lampeggiò di luce viva e pulsante, nessuno, neanche il Re di
Múspellheimr poté impedirsi
di serrare le
palpebre per non rimanere folgorato dall’esplosione che
inondò di luce l’intero pianeta, portando attimi
di paura
per cosa lo avesse generato, per chi, finalmente fosse arrivato.
Armature.
Quella fu la prima
cosa che gli
uomini e i non-morti videro di fianco a sé, negli spazi
lasciati
liberi secondo le direttive, una scacchiera che ora si componeva anche
dei suoi talloncini bianchi, gli elementi mancanti che ognuno di loro
ritrovò nei Giganti di Ghiaccio.
Numerosi, tanto
numerosi da averli
resi una tavolozza di colore monocromatica, una chiazza perlacea che
una punta di colore verde interrompeva, il verde brillante
dell’elmo sotto il quale il viso della Regina
di
Jötunheimr si mostrò in tutta la sua
agghiacciante e
terribile bellezza.
Un elmo che Loki
sapeva di
aver indossato durante ogni combattimento imbastito, ma un elmo che non
ricordava di aver perduto, o rovinato.
Ma mancava un corno dorato al suo copricapo, ed scheggiato,
graffiato da piccole dita che il metallo avevano tentato di infossare
per raggiungere l’ossatura nascosta.
Un coro di ruggiti si
levò alto tra le fila di Giganti di Ghiaccio quando li
riconobbero, quando li videro.
I loro opposti, i loro
nemici naturali, i
suoi
nemici naturali Astrid ricordò a se stessa con una punta di
durezza, lasciando che lo sguardo vagasse fra loro con ferocia,
inghiottendo ogni loro sospiro trattenuto, indugiando
sulle
somiglianze col suo popolo, somiglianze che non
trovò.
Perché
ciò che
batteva nel cuore dei suoi soldati, ciò che induriva lo
sguardo
di Knut e oscurava il viso di Sunniva era orgoglio, fierezza,
e
non ce n’era dall’altra parte, non ne
trovò in
nessuno di loro.
Solo follia, e
odio, quello
che trovò nello sguardo delirante del Re di quelle
creature che l’aveva nominata con impudenza,
un’impudenza che andava punita con il sangue per
l’orgoglio
ferito di una Gigante di Ghiaccio.
Vederla muovere un
braccio
scatenò una concatenazione di eventi che Astrid
osservò
con indolenza, registrando il lieve irrigidimento dei soldati
alle spalle, il rantolio sommesso di Knut al suo
fianco, e
il digrignare di denti dei Giganti di Fuoco, di tutti i Giganti di
Fuoco.
Ma a lei non erano gli
altri
che interessavano, non erano loro chi lei stava cercando, chi
avrebbe voluto torturare fino a fargli chiedere pietà, a
fargliela implorare.
Chi cercava, chi
voleva era
la figura che nell’ombra di Surtr si stava
nascondendo, chi
sapeva, attendeva trepidante la sua prima mossa.
E Astrid non gliela
negò.
Non gli avrebbe negato
nulla di quello che si sarebbe meritato di ricevere da lei.
Quando la videro
accostare le dita
alla propria corona, in un primo momento nessuno capì il
perché di quel gesto, la pericolosità di
quell’atto, ma quando si udì un fruscio, quando
sentirono qualcosa scivolare dai suoi capelli, quello che si
udì dopo fu solo un sibilo, lo schioppo secco di
uno
sferzare d’aria ghiacciata in grado ferire, di tagliare.
Una ferita di cui
nessuno si
accorse, perché non un’arma
era stata usata,
non un’arma era stata vista.
Eppure, qualcosa era
stato colpito,
qualcuno era stato tagliato, e fu sotto lo sguardo attonito
di
chi ancora non riusciva a vedere, di chi ancora non riusciva a capire,
che il terreno cominciò a puntellarsi di rosso.
Un rosso corposo e
denso che il Re
di Múspellheimr
sentì
impiastricciargli le dita della mano che aveva portato con fastidio al
collo quando si era sentito pizzicare, quando aveva avvertito qualcosa
mordergli la gola, ciò che non aveva visto arrivare ma che,
nel
tremolio della pupilla che lo avvisò del dolore imminente,
ritrovò ai piedi della donna.
Sangue, il suo sangue,
quello che
la frusta di ghiaccio abbandonata con indolenza al suolo
spillava
ancora, frusciando nella neve per tornare ad essere parte di una corona
che tornò bianca e immacolata ,come se sangue non avesse mai
visto, come se morte non avesse mai procurato.
La morte di quella
creatura
impudente che in un ultimo e ansimante battito di ciglia non
trovò più nulla da stringere quando la testa
rotolò a terra, quando gli organi collassarono e la mano che
ora
stringeva il vuoto si accartocciasse assieme al corpo decapitato che
ricadde con un tonfo, ammutolendo tutti eccetto lui.
Lui che rideva di quel
corpo
smembrato e la fissava con eccitamento da sopra quel lago di sangue,
schiudendo le labbra sottili in quello che sarebbe
apparso
il ringhio più orribile, se qualcuno non l’avesse
anticipato.
E qualcuno lo
anticipò.
Knut, lo
anticipò.
Poi giunsero un
po’ assieme,
il ringhio rancoroso di un non-morto che dal
braccio era
stato derubato e quello di un uomo, di un essere umano che di
avere provare paura, di strare immobile non riusciva più.
E ci furono mille
altri di
quei ruggiti, urla di mostri che di morire non aveva paura, nessuno,
aveva paura, perché prima o poi sarebbe giunta la loro fine,
e
ciò che potevano fare era decidere come morire, e farlo nel
tentativo difendere le proprie famiglie, perire per
proteggere il
loro futuro non faceva paura.
Non ne faceva
più.
Fu come
assistere al cozzare
isterico di onde su scogli che erano gli unici a rimanere fermi, gli
unici a non venire trasportati via dalla corrente di gambe e braccia
tese in avanti per sparare, strappare e cavare dal petto il cuore dei
propri nemici.
Gli scogli che Astrid
e Galactus
rappresentavano, loro che non avevano fretta di uccidersi e accelerare
una fine che non avrebbero potuto rappresentare per l’altro,
solo
una tortura, una lenta e dolorosa tortura eterna.
E lui
preferì aspettare,
assaporare con calma l’emozione di quello sguardo
che si
induriva sempre di più nel calare su di lui.
Preferì aspettare di vederla avanzare con quel suo mento
alto
che non era riuscito mai a farle abbassare, a guardare lì
dove
avrebbe voluto che lei guardasse.
Avrebbe avuto anni,
secoli per
rivendicare il suo diritto su di lei, per insegnarle a dovergli tutto,
d’ora in poi, ma c’era qualcosa che avrebbe potuto
insegnarle ora, una regola che persino l’uomo aveva imparato
nei
suoi primi anni di vita.
Quel dente per dente
con cui
l’avrebbe ripagata per gli arti che gli
aveva
strappato, dei quali lo aveva privato.
L’urlo che
le esplose nel
petto la rese preda di sguardi apprensivi, spaventati, sguardi che
Astrid conosceva, di cui poteva sentire vivo il dolore di ritrovare la
sua piccola mano stretta attorno al braccio che lasciava
ciondolare di lato, mentre la mano sana veniva
sporcata del
sangue che Galactus aveva sputato quando lo aveva colpito in viso per
allontanarlo da sé e riprendere fiato.
Ed anche se era forte,
anche se era
pura energia, quella che le scorreva nelle vene, fece male ricevere un
pugno da lui, farsi spezzare le ossa da lui,
perché lui
avrebbe potuto ferirla come lei avrebbe potuto ferire lui, con la
stessa forza inumana che aveva usato per privarlo di entrambe le
braccia.
Braccia che non
sarebbero
più ricresciute e che Galctus aveva
dovuto
sostituire con arti di metallo, mani che aveva sentito affondare
dolorosamente nella sua spalla destra per lussargliela, per
rompergliela.
Una rottura che le
aveva tolto il
respiro per il dolore che l’aveva accecata, resa insensibile
ad
ogni altra cosa prima che l’istinto, il bisogno di
ripagarlo l’avesse portata a
contrattaccare, a
riprendere il controllo, a pensare a come doversi preparare per il
prossimo attacco.
Percepì un
respiro pesante
dietro di sè, ma non si diede pena del Gigante di Fuoco che
aveva provato a riservarle lo stesso trattamento concesso al suo
Re, un mostro che ora si ritrovava senza quel
braccio che
su di lei aveva alzato, il braccio che Sunniva gli aveva
strappato con i denti prima di calciarlo via e gettarsi nella
mischia, come avevano concordato.
Perché lei
non avrebbe
dovuto pensare a difendersi da nessun altro se non da
Galactus,
perché né gli dei né i suoi alleati
avrebbero
potuto anche solo pensare di poterlo distrarre senza ritrovarsi con il
proprio cuore pulsante stretto nelle mani di quel mostro.
Un mostro che Astrid
sentiva
respirare attorno a sé, scivolare sinistro tra i corpi che
cozzavano tra loro con forza, spillando sangue, saliva e lacrime dopo
ogni ferita inferta, ferite che su di lei si sarebbero rimarginate, se
non fosse stato lui a infliggergliele.
E la sua spalla non si
sarebbe rigenerata, non così in fretta.
Sarebbero servite
settimane a
permettere al suo corpo di ristabilirsi, ma a lei serviva solo qualche
altro colpo, solo qualche altro minuto per riuscire a completare parte
del piano che con tanta foga aveva proibito ai Re di far
parola
con alcuno.
Un piano che era stata
Yssgradrill
stessa a suggerirle, raccomandandole di essere precisa nei colpi, di
indebolirlo il più possibile, di renderlo innocuo anche solo
per
una manciata di minuti, perché sarebbero bastati per quello
che
sarebbe andata a fare, per quello che i leader erano stati informati di
compiere, una volta ricevuto il segnale.
Ma più
tempo avrebbe
impiegato a finire il lavoro, più le
possibilità di
veder morire qualcuno dei suoi sarebbero aumentate, perché
le
armature avrebbero retto per poco se lei avesse continuato ad
indebolirsi, e le barriere che ogni corazza gettava sugli umani a cui
ogni Gigante era stato affidato avrebbero perduto elasticità
e
potenza difensiva.
Perciò
doveva sbrigarsi a
finirlo, a renderlo quanto meno incapace di alzarsi per un paio di
minuti, così da darle il tempo di fare ciò che
andava
fatto. E l’occasione si presentò quando,
scrutando
tra la polvere e i corpi ammassati riconobbe lo scintillio sinistro
delle sue braccia di metallo.
Aspettare di rientrare
nella sua
traiettoria sarebbe stato sciocco e controproducente, ma farsi colpire
era l’unico modo per essergli tanto vicina da infliggergli
una
ferita mortale che avrebbe faticato a rimarginarsi in fretta.
Quella era la sua
unica
possibilità di accelerare i tempi, di salvare vite, di non
dover
piangere sulle tombe dei propri cari.
Attese dunque di
sentirlo
vicino, di percepire il suo respiro affannoso contro la
guancia
sporca di terra, e quando lo vide caricare la mano per sferrare
l’attacco, quando intravide il bagliore
dell’energia
accumulata nel palmo strinse i denti con forza per prepararsi al dolore
che sarebbe arrivato, un dolore al quale non si negò,
sgranando
gli occhi per non perdere l’occasione di colpirlo, di
strappargli
qualcosa.
Il crack’
della sua gabbia toracica la informò di cosa le
mani di
Galactus avevano cercato di strapparle, cosa aveva tentato di
togliere, il polmone destro che quel
mostro
riuscì solo a lesionare, causandole
un’
emorragia interna per la quale sputò sangue, ma non poteva
permettersi di sbagliare.
E
approfittò della
vicinanza per affondargli le dita nel petto, poco lontano da
quel
cuore che riuscì solo a graffiare prima che
entrambi
venissero sbalzati via dal contraccolpo generato dai loro poteri.
Grattò la
schiena per un
paio di metri prima di ritrovarsi a fissare il cielo con gli occhi
pieni di lacrime e un rivolo di sangue a bagnarle il mento mentre la
mano sana correva a tamponare la ferita profonda che le incideva il
fianco.
Non riusciva a
respirare, ed ad
ogni boccata d’aria sembrava di respirare sabbia per quanto
pesante e faticoso le risultasse ora, ma l’elmo le aveva
impedito
di ferirsi al capo e rallentare la guarigione forzata dalla quale
tentava di riprendersi il più possibile.
Sputò
sangue, rovesciandosi
di lato per non inghiottirne e ritrovare un po’ di
stabilità nel terreno che fissò ansimante,
sfiorando con
le dita scorticate ciò che l’aveva protetta,
l’elmo
che aveva indossato con orgoglio per non far dimenticare al mondo chi
fosse l’uomo che lei amava, per portar via con lei qualcosa
che
glielo avesse ricordato, qualcosa da poter stringere nelle notti buie.
E il bisogno
di cercarlo, di
saperlo vivo la portò a cercarlo con lo sguardo
come si
era promessa di non fare, ora che aveva altro a cui pensare, ma i suoi
occhi non la ascoltarono, continuando a scandagliare la terra che ora
cominciava ad essere tappezzata di corpi umani e mostruosi.
Sentì il
bisogno di chiudere
gli occhi quando le parve di riconoscere un militare schiacciato dal
corpo di un Gigante di Ghiaccio, e la rabbia le fece prudere gli occhi
prima che un lampo verde attirasse la sua attenzione.
Respirare cominciava
ad essere
difficile, e parlare non sarebbe stato possibile per molto tempo a
causa della ferita al polmone, perciò non riuscì
a
bisbigliare il suo nome, ad esprimere il suo sollievo, quando lo
trovò vivo.
Loki era vivo, e la
ferita al
fianco non faceva più così male,
perché, se lui
era vivo, se lui riusciva a tener testa a tutti quei Giganti
di
Fuoco da solo, allora lei avrebbe potuto rimettersi in piedi e cercare
Galactus per infliggergli un colpo che quella volta gli
avrebbe
impedito di rialzarsi, di fare ancora del male.
- Sempre lui.
Il gelo di quella voce
le
azzannò la nuca quando, anche sopra tutte quelle
urla,
anche con tutte quelle voci riuscì a riconoscerlo, a
cogliere
l’invidia, la rabbia di quella voce che seguì
angosciata,
ritrovandosi a fissare il viso deformato del mostro dei suoi incubi
inginocchiato poco lontano.
Ed era un mostro
ferito, quello che
la fissava con rabbia e una mano premuta al petto
sanguinante, ma aveva ancora la forza di muoversi, di fare
del
male, di scaricarle addosso l’odio per un rifiuto che non
accettava, per una preferenza che non capiva.
Perché
Galactus non capiva cosa ci fosse in quel dio ad attrarla tanto.
In cosa fosse migliore
di lui.
Lui che era la fine di
tutto,
mentre lui, mentre quel dio riusciva ancora a respirare solo grazie
alle origini di Gigante di Ghiaccio che gli conferivano la
forza
di un mostro, più che di un dio.
Ed era
perché era stato
graziato da una forza sovrumana, che non moriva. Era per quel
sangue che lui ripudiava, che lui non aveva raggiunto i corpi dei suoi
simili a terra.
E il fatto che ancora
respirasse,
il fatto che gli fosse stato concessa tanta fortuna, che
ancora
riuscisse ad attirare lo sguardo di lei, di chi suo padre aveva creato
per lui, di chi avrebbe dovuto sceglierlo senza pensarci due volte,
glielo fece odiare ancora di più.
Avrebbe dovuto
divorargli il cuore
per vedere il suo corpo crollare e il suo sguardo divenire vitreo molto
tempo prima, ma c’era stata sempre lei, a frapporsi tra loro,
a
proteggerlo da lui.
Ma ora lei era terra,
esangue e
incapace di aiutarlo, e da solo quel dio, senza la sua
protezione non avrebbe potuto reggere un suo attacco, non lo
avrebbe visto arrivare, e quando si fosse accorto di lui, del suo
potere, sarebbe stato troppo tardi, e lei sarebbe stata sua.
Solo sua.
Quando la terra prese
a tremare
nessuno sembrò curarsene, non quando c’erano colpi
da
parare e compagni da salvare dal nuovo attacco, a cui pensare, ma
quando si udì il grido della terra, quando finalmente lo
sguardo
di tutti si puntò in basso, fu troppo tardi.
Tardi per gridare un
nome che
Astrid si ritrovò imprigionato in gola, senza
possibilità
di avvisare, senza la possibilità di salvare.
Le urla che riempirono
l’aria
furono di disperazione, di paura, e quello che Maria Hills
lanciò fu agghiacciante, simile al pianto di una bambina che
sapeva di stare per cadere e di non poter fare nulla per evitarlo.
Qualcuno
tentò di
raggiungerla, la mano tesa in avanti per toccarla, ma
più
la terra si spaccava, più la donna risultava irraggiungibile
anche per chi nel non riuscire più a mantenere salda la
presa
sul braccio del compagno si trovò a cadere nel vuoto.
Ma lei non voleva
cadere, non
voleva morire, non ora che voleva sposarsi, e avere figli, e convincere
il dottor Barner ad accompagnarla allo spettacolo teatrale che non
aveva mai avuto il coraggio di proporgli per paura di essere respinta.
E le
sembrava così
stupido essersi fatta sfuggire così tante cose, aver perso
così tanto tempo a rimuginare, ora che tempo non ne aveva.
Ora che moriva.
Eppure, più
il vuoto la
chiamava con il suo grido sinistro, più le sue mani
tentavano di
affondare nella terra e tentare di riportarla su, per
permetterle
di rivederlo ancora una volta, di dirgli ti amo, ancora una volta.
Perché non
voleva morire
senza dirglielo, non voleva morire, non voleva cadere,
ma
la mano era debole, lei era debole, e quando il suo grido di
paura le esplose nel petto ci fu una mano, a tirarla su di
peso,
trascinandola verso un corpo ferito sul quale Maria
abbandonò il
capo con gli occhi ancora sbarrati dalla paura.
- Sei al sicuro ora.
Sei al sicuro
– la rassicurò Bruce Barner con voce affaticata,
il fisico
debilitato incapace di far altro se non strisciare verso il
burrone e metterla al sicuro mentre lo sguardo si perdeva
nelle
profondità di quella voragine con cui
Galactus aveva
voluto raggiungere il suo obbiettivo sacrificato
metà del
suo esercito.
Ed il suo obiettivo
era stato il
nemico di molti, di tutti, ma non suo, non
dell’unica mano
che in avanti si era lanciata nonostante le ferite e il sangue su cui
era scivolata nel gettarsi verso di lui.
Perché era
stata lei, ad
impedirgli di cadere. Era di Astrid la mano sporca di sangue e lacrime
saldamente ancorata sul polso di Loki . Era la
Regina
di Jötunheimr a puntare i piedi
terra per
reggere entrambi, per salvare entrambi.
Quando
l’elmo le
scivolò giù dal capo e i capelli, ricadendo sul
viso
rigato di lacrime, gli solleticarono le guance, Loki
riuscì a riprendere coscienza del proprio corpo
prima di
sentirla, e quando alzò il capo dal vuoto da cui sembrava
essere
sempre destinato ad essere inghiottito, quando si specchiò
in
quegli occhi sgranati sul suo viso con disperazione seppe che lei non
lo avrebbe lasciato.
Perché chi
gli stringeva il
braccio, chi, senza curarsi del proprio dolore, del sangue che le
colava giù dal viso e dal braccio smorto abbandonato lungo
il
fianco non era un padre che era sempre stato sordo alle sue richieste.
Non era un fratello
sciocco ed egoista che di lui non aveva mai avuto rispetto.
Era lei.
E per quanto forte
avesse gridato,
per quanto disperatamente l’avesse pregata di lasciarlo
cadere,
di non caricarsi del suo peso, sapeva che lei non l’avrebbe
lasciato, che Astrid, sua moglie, non lo avrebbe
abbandonato.
- Lascialo.
Il gemito di dolore
che
inghiottì le causò uno spasmo doloroso del petto,
ma era
la schiena che bruciava, la pelle bruciata che gridava per
l’energia che Galactus le aveva lanciato contro assieme al
suo
comando, al suo ordine.
- Ho detto di
lasciarlo.
Un cenno di diniego
compiuto con
foga dal capo e una corona insanguinata fu tutto ciò che
Astrid
si concesse prima di stringere i denti e rafforzare la presa sulla mano
del dio che continuava a scivolare e tirarla verso il vuoto.
Giù, sempre
più giù.
- Lasciami.
Loki si
sentì morire
per quel ‘no sillabato con forza da labbra sporche
di
sangue che non potevano dare voce a tutta la disperazione che le
accendeva lo sguardo, labbra che il dio vedeva indurirsi
quando il terreno cedeva un pò mentre la voglia di
gridare
con una voce che non aveva che non lo avrebbe lasciato, che non
importava quante ferite quel mostro le avrebbe procurato, lei non lo
avrebbe lasciato cadere la convinceva a non cedere, a non lasciare
quelle mano.
Non voleva.
Non poteva.
Non se lo poteva
permettere.
- Lasciami –
e quella volta
Loki non si preoccupò di mascherare la nota incrinata della
sua
voce, perché voleva piangere, e non sapeva se per
gratitudine o
per il dolore di vedere quel viso così ferito, e
disperato, e rotto – lasciami, ti prego.
‘No gli
sillabò ancora con labbra tremanti, riprendendo a tirare e a
gridare al suo corpo di non cedere ora, di darle ancora un
po’ di
tempo, solo per tirarlo su, solo per salvarlo un’ultima
volta, e
poi, poi avrebbe potuto riposare, solo allora avrebbe potuto riposare.
E pregò,
pregò
su madre, pregò Yssgradill di aiutarla, solo per
quella
volta. La pregò di ascoltare le sue preghiere ed esaudire i
suoi
desideri, così da permetterle di compiere il suo
destino,
di ristabilire l’equilibrio.
E sorrise, grata, quando un soffio di vento gelato le
scompigliò i capelli, asciugandole le lacrime che si
trovò ad inghiottire nel far forza sulle ginocchia sbucciate
e
cominciare a tirare, a tornare in piedi sotto la forza di quella spinta
invisibile che persino Loki avvertì, ritrovandosi a
irrigidire i
muscoli per allungare una mano verso il terreno sul quale, una volta
affondato le dita, fece forza per riportare entrambi a terra, ansanti e
stretti in un abbraccio che sapeva di sangue e lacrime, ma un abbraccio
che nessuno dei due riuscì a sciogliere.
Astrid lo strinse con
disperazione
a sè, con rabbia, e solo quando seppe che quel
contatto le
sarebbe bastato si decise a scostarsi da lui, lasciando che
Loki
le accarezzasse una guancia e cercasse nel suo viso la risposta che
rimaneva sempre la stessa, la risposta ai suoi perché.
Chiudere gli occhi per
memorizzare
il calore di quelle dita fu necessario per tracciare nel buio
delle palpebre il suo viso, per ricordarsi che lei lo aveva avuto, che
si erano amati, che lei avrebbe continuato a farlo, che per
quanto tempo fosse passato, lei non avrebbe dimenticato nulla.
Non l’amore,
fragile e delicato, che lui le aveva concesso di avere.
Non una vita che
neanche nei suoi sogni più arditi di bambina avrebbe avuto
la possibilità di sperimentare.
Quando
tornò in piedi lo
fece con lentezza, così da lasciare il tempo a Loki di
abituarsi
al distacco, ma la mano del dio continuava a rimanere ancorata al
fianco sul quale era scivolato mentre lei guardava
lontano,
scavalcando i corpi ammassati di creature innocenti, scivolando in alto
quando l’unica chiazza di colore in quel deserto bianco le
colorò gli occhi di luci, di energia.
La lancia gli
trapassò il
petto quando Galactus si sentì spintonare brutalmente
sull’arma affondata in una roccia, un’espressione
di dolore
a deformargli il volto mentre lei continuava a guardare quella farfalla
colorata, graziosa e delicata, andatasi a posare dietro di lui, ad
attendere, dietro di lui.
E giunse il momento,
per ognuno dei Re, di fare quello che gli era stato richiesto,
ciò che andava fatto.
Odino non
risparmiò colpi
quando il lembo di terra si colorò d’oro, una
pozza dorata
nella quale la sua lancia si conficcò, causando il suono di
uno
strappo che nessuno oltre lui, oltre loro riuscì ad udire.
Ne seguì un
altro, appena
più udibile mentre Zenas sfilava il braccio
dall’aria
rarefatta improvvisamente tintasi di rosa, come un corpo impalpabile
che esplose in scintille colorate.
E fu al terzo colpo,
fu con lo sparo di Nick Fury rivolto al cielo terso
che Astrid decise di avanzare.
In silenzio, senza
guardare
l’espressione atterrita del dio che si vide scostare la
mano da quella vita che non voleva abbandonare ma che fu
costretto a lasciare per permetterle di andare.
Dove, nessuno lo
sapeva, ma lei sì.
Lei lo aveva sempre
saputo.
Lo scintillio di una
lacrima
attirò lo sguardo di Loki, un baluginio che
catturò con
una mano, stringendo le dita su ciò che lo aveva attirato,
che
lo aveva distratto dalla sagoma che lenta si allontanava con passi
stanchi e macchiati di sangue.
Ma ciò che
i suoi occhi
trovarono non fu una scia bagnata, non fu una lacrima, ma un
orecchino puntellato di rosso, un minuscolo anello di metallo scivolato
dal viso che ora Astrid privò di ogni emozione mentre lo
raggiungeva, mentre il richiamo di sua madre si faceva più
forte, più deciso.
E fu con decisione che
tese il
braccio da affondare nel petto di Galcatus, immobile di fronte a lei,
con quell’espressione di eterno godimento per un male che era
felice di generare, di una morte che era orgoglioso di portare, ma era
giunto il momento di sradicare l’errore degli dei, dei
Creatori,
un’ultima volta.
- Tu non puoi
uccidermi –
rantolò il divoratore di mondi quando la ebbe tanto vicina
da
essere petto contro petto, ma in quello del Tesseract non
c’era
nessuna lancia, nessun braccio a spezzarle il respiro
– noi
non possiamo morire.
- Lo so –
sussurrò
lei, ampliando la ferita al petto che sussultò
nell’avvertire il corpo estraneo affondare sempre
più in
fondo, sino a raggiungere ciò che gli era dietro,
ciò che
le dita di Astrid, per un istante, titubarono a stritolare, prima di
farlo.
Prima di recidere
l’ultimo legame fra il loro mondo e chi, fin
dall’inizio della vita, lo aveva tenuto unito.
- Ma neanche tu puoi
sfuggire a questo.
Il tentativo di
Galactus di
risponderle, di chiederle cosa avesse fatto fu interrotto dal sibilo
con il quale Astrid ritirò il braccio, mostrando tra le dita
serrate l’ala colorata della farfalla che aveva ucciso, del
legame che aveva reciso.
E quando la terra
sotto i loro
piedi riprese a tremare, quando vennero inghiottiti da un vuoto che
fagocitò la figura urlante del mostro, una dimensione
oscura nella quale, con un gemito di sorpresa, i
superstiti
si trovarono a levitare Loki capì quale segreto suo padre
avesse
celato.
Perché
ciò che ora la
Regina di Jötunheimr stringeva tra le dita
tremanti
non era più una piccola farfalla, ma un cuore, il cuore che
l’emanazione di Yssgradrill si era
lasciata strappare
per spezzare la via tra i mondi e rinchiudere nel vuoto senza fine chi
non poteva essere ucciso, chi di tornare, senza più quella
via,
sarebbe riuscito.
- Sei stata brava.
La prima lacrima le
costò un
respiro affannoso, perché il polmone lesionato non era
riuscito
ancora a cicatrizzarsi, ma Astrid non riusciva a frenarle, a non
guardare tra le lacrime sua madre Semjace.
La madre a cui aveva
dovuto
strappare il cuore. La madre che, ancora una volta,
si era
sacrificata per lei, per l’amore di sua figlia.
- Hai fatto la cosa
giusta, sai che
è così – sussurrò
Yssgradrill con voce
gentile, sorridendo morbida a quel viso che ora poteva abbandonarsi al
dolore e mostrare quanto difficile fosse stato per lei compiere quel
gesto, quanta sofferenza le avesse arrecato.
- No, non è
vero – le
rispose con voce rotta – non è vero, non
è mai
stata la cosa giusta da fare.
E c’era un
tale strazio in
quel lamento disperato, un tale disperato bisogno di essere toccata, di
essere consolata da costringere molti, tra gli umani, a provare a
raggiungerla, ma né Tony, accasciato al suolo con
l’armatura oramai priva d’energia, né
Bruce
riuscirono a raggiungerla, ad asciugare quelle lacrime che facevano
male a vederle.
Avevano sempre fatto
male.
- Andava fatto
– la riprese
indulgente l’Albero della vita che ora, con il viso metallico
di
Semjace le mostrava un sorriso sereno – ricorda cosa ti
abbiamo
detto, giovane Regina. È meglio così.
- Non è
vero – la
contraddisse ancora con un filo di voce, stringendo le mani attorno a
quel cuore che sentiva morire lentamente tra le sue dita, un poco alla
volta – non è meglio così. Perdere mia
madre non
è meglio, non per me. Io ho ancora bisogno di lei.
La stretta in cui
l’Albero
della Vita la richiuse era saldo e sicuro come i rami che
dall’universo si stavano ritraendo lentamente, rendendo il
profilo sfocato di Semjace un po’ più solido da
stringere,
da abbracciare, e la Creatrice pianse quando finalmente dopo tanto
tempo potè di nuovo toccarla, ora che poteva consolarla come
aveva desiderato fare.
Astrid
soffocò un singhiozzo
contro la spalla della creatura quando la sentì sussurrare
con
voce tremante contro i suoi capelli parole che conosceva, che
l’Albero e gli spiriti le avevano ripetuto fosse giusto.
Perché una
via per
l’universo non sarebbe più servita ora che lei
aveva
riunito i loro cuori, ora che era lei a rappresentare
un’unione
che non era più fisica, ma spirituale, e non c’era
motivo
di piangere, di abbandonarsi alla tristezza, ma era sua madre quella
che la Regina stava stringendo, una madre che non voleva lasciare, che
non voleva perdere ancora.
Ma era il prezzo da
pagare, il
sacrificio da compiere per liberarli da Galactus, per riportare la pace
e ristabilire l’equilibrio.
Eppure Astrid si
sentiva spezzata,
perché non c’era armonia, in lei, non
c’era
stabilità, né la pace che avrebbe dovuto sentire
sapendo
di aver salvata ancora una volta la Terra, l’intero universo.
Era caduta in pezzi
ancora una
volta, e l’unica che avrebbe potuto toccarla,
l’unica
persona che avrebbe potuta raccogliere le sue lacrime stava svanendo
dalle braccia che irrigidì attorno al suo busto, tentando di
tenerla lì con lei, di non lasciarla andare via, non ancora.
La pregò di
non lasciarla
sola, perchè non avrebbe potuto sopportare tutto quello, non
di
nuovo, non ce l’avrebbe fatta, e non bastò il
sussurro di
sua madre, la sua promessa di rimanerle comunque accanto a tenerla in
piedi. E quando cadde in ginocchio, quando le caviglie cedettero e il
corpo tra le sue braccia si disperse in pulviscoli di luce non ci fu
più nulla da fare se non abbandonarsi ad un pianto muto e
smettere di pensare.
Vedere quelle piccole
spalle
sussultare, assistere impotente alla disperazione di sua figlia
convinse Tony Stark a privarsi dell’armatura oramai
inutilizzabile per provare a raggiungerla zoppicando, ignaro dello
sguardo dolente che Nick Fury si costrinse a distogliere da quella
scena per non vedere, per non dover rispondere alle domande che lo
scienziato gli avrebbe rivolto, una volta capito che il prezzo di
quella libertà ritrovata, lo avevano pagato anche loro.
Il respiro era pesante
e spezzato,
affaticato da quella ferita al fianco che Iron Man non
considerò, non quando mise a confronto le sue ferite con
quelle
di sua figlia, quando si rese conto che chiunque altro non avrebbe
retto a quelle di Astrid, nessuno, neanche un dio avrebbe potuto
impedirsi di morire dal dolore.
E si sentì
umiliato, da tutto quello.
Si sentì
stupido, e piccolo,
e inutile con lei davanti, lei che era stata di nuovo piegata, e
ringraziò che Pepper non fosse lì a guardare,
perché ne sarebbe morta come lui, piano piano, si sentiva
morire
dopo ogni passo.
- Astrid, tesoro
–
provò a chiamarla, tossendo per sopprimere la nota
spezzata che gli fece tremare la voce – tesoro sono
qui,
siamo qui – e Bruce Barner lo ringraziò per quel
plurale,
lui che non aveva la forza di muoversi, né di parlare, ma
solo
di guardare sua figlia, la sua piccola e spezzata piccola Astrid
piangere da sola, in silenzio, in un vuoto che sotto di lei pareva
essere più angosciante che in altri punti.
- Astrid?
Non giunse
risposta ai suoi
richiami, come se lei non lo sentisse, o non lo volesse ascoltare,
possibilità che gli fecero venire la nausea mentre quella
sensazione di impotenza tornava a stringergli la gola.
- Astrid, tesoro,
guardami –
nulla, non un cenno, non un suono in risposta, solo spalle tremanti e
uno sguardo che ancora non si decideva a guardarlo – tesoro,
ti
prego, ti scongiuro,
guardami. Sono qui, sono qui per te.
Ancora il vuoto,
ancora la nausea e un bisogno di piangere, e gridare.
- Ti prego tesoro,
cerca di
capirmi, io ho bisogno che tu mi guardi –
disperato, Tony
Stark sapeva di sembrarlo, di esserlo, e non gli importava di sembrare
così fragile, e stanco, e vecchio, non gli importava nulla
se
non poteva fare il padre, se non poteva esserlo con lei.
- Per favore, non-
- Non può
sentirti.
Lo sguardo che Nick
Fury
sentì sulla schiena lo fece irrigidire, ma si costrinse ad
incrociare le pupille dilatate dell’avengers,
perché
glielo doveva.
- Come hai detto?
- Non può
sentirti, non ora che Yssgradrill è morta.
Se avesse avuto il
tempo di
piangere, lo scienziato lo avrebbe fatto, e sarebbe stato un
pianto rumoroso quello che gli avrebbe gonfiato il petto, ma non aveva
tempo per quello, non quando voleva delle risposte.
- Cosa significa che
non può
sentirmi – sibilò, incattivito dal dolore che
cominciava a
risalire per la gola – cosa-
- L’ho
sempre ritenuta un
uomo intelligente signor Stark – e non c’era nessun
ironia
nella sua voce, nessun sarcasmo, solo rammarico, e dispiacere per un
dolore che sapeva di stargli dando – sono sicuro
che lei
abbia capito esattamente cosa significa.
Ed era vero, Tony lo
sapeva, sapeva di saperlo, ma non lo voleva accettare, non poteva
accettarlo.
Perché
credere ai suoi
pensieri, dare voce alle sue paure avrebbe reso tutto più
reale,
avrebbe reso quella perdita, ancora più reale, e lui, lui
non
poteva sopportare di perderla ancora.
Perciò
decise di sfidare la
sua intelligenza, di mettere alla prova quella maledetta
intuitività che lo aveva portato lontano, che lo aveva reso
un
eroe, e quando si schiantò contro il nulla, quando, nel
tentativo di accorciare le distanze e toccarla per mostrare di
aver torto, per una volta, di aver sbagliato, si rivide respinto, non
ci fu possibilità di errore.
Perchè Tony
Stark non sbaglia mai.
E quando quel vanto lo
lasciò senza forze, le braccia abbandonate sui
fianchi e
gli occhi lucidi, quando udì il respiro strozzato di Bruce
Barner alle spalle, si odiò.
Perché
avrebbe voluto essere
stupido, non così perspicace, non così
dannatamente
arguto, ma non poteva farci niente, lui, non poteva fare più
niente.
Il pianto di
quell’umano era
difficile da guardare, ed anche se non poteva sentirlo, anche se poteva
solo vedere quelle spalle muscolose abbassarsi e quel petto teso
gonfiarsi dal pianto, Odino volle concedergli la sua comprensione, lui
che sapeva cosa significava perdere un figlio.
Quello stesso figlio
che, alle sue
spalle, continuava a rimanere seduto, in silenzio, lo sguardo freddo e
smorto fisso sul minuscolo orecchino che Loki non aveva smesso di
guardare per un istante, come se non si fosse accorto di quanto
avvenuto, come se non fosse lì con loro, in quel momento.
- Cosa è
successo?
La voce di Thor era
stanca, persino
il suo viso sempre così duro e irreprensibile era segnato
dalla
fatica che aveva lasciato spossati tutti loro.
- Cosa è
successo? -
ripetè il Padre degli Dei, come a distogliere
l’attenzione da quelle figure piegate dal pianto,
da quei
genitori che avevano appena perduto una figlia – è
successo che quella donna ci ha salvato, tutti quanti – e il
dio
dei fulmini si risentì per la nota di rimprovero
con il
quale sottolineò quel ‘tutti.
- Era questo che vi ha
mostrato
quella volta? – gli chiese in un sussurro Lady Sif, il viso
insanguinato e il braccio allacciato con fare materno attorno alle
spalle di un Fandral svenuto – che Yssgradrill sarebbe dovuta
morire?
-
È stato
l’Albero della vita a spiegarci cosa fare, dove colpire per
recidere i rami che univano il nostro mondo a lei –
spiegò Odino, chinandosi a raccogliere la lancia che
sfilò dal manto nero che li aveva inghiottiti nel vuoto
–
la terra per il mondo degli dei, il cielo per la terra degli
uomini, e l’aria per il mondo dei non-morti, Yssgradrill ha
fatto
in modo di rendersi solida solo per un istante, così da
darci il
tempo di colpirla.
- Perciò
quell’umano ha sparato al cielo per colpire
l’emanazione?
- Si.
- E il Tesseract?
– chiese
Thor, un velo di rammarico a incupirgli la voce –
cosa ha
dovuto distruggere lei per rompere il legame con l’albero?
- La farfalla
– soffiò la guerriera sovrappensiero, attirando lo
sguardo interrogativo del dio dei fulmini.
- La vita –
la corresse il
Padre degli dei, l’occhio catturato dal movimento silenzioso
con
cui alcuni Giganti di Ghiaccio cominciavano a ricongiunsi alla loro
Regina – lei che aveva il potere di estirpare le radici, ha
dovuto distruggere la vita che Yssgradrill rappresentava,
così
da rompere il legame tra i mondi e permettere a Galactus di venire
esiliato nel vuoto.
- E adesso? Cosa ne
sarà di
noi? Cosa- ma il rantolio sommesso con cui Volstagg da terra diede voce
alle proprie paure venne interrotto da un susseguirsi di
strappi
che lanciò su quel mondo di ombre lampi di luce, chiazze di
colore che tutti ritrovarono alle proprie spalle, riconoscendo nei
paesaggi sfumati dal chiarore del giorno la propria città.
Il Padre degli dei
invitò
tutti a raggiungere il portale, lasciando a Thor il
compito
di guidarli verso l’uscita, perché Odino aveva
ancora un
figlio da ascoltare, e quando strinse la spalla di Loki tra le dita si
concesse un sorriso morbido illuminato dal bagliore dorato di
Asgard.
- È ora di
tornare a casa.
*-
Loki amico.
Aveva
una voce
graziosa, quella piccola e strana creatura, ed anche se era acuta non
gli arrecava fastidio, neanche il modo in cui storpiava il suo nome con
la sua voce di bambina, neanche le parole che ripeteva alzando le dita
per contarle lo infastidiva.
Lei
lo incuriosiva.
- Dobbiamo sbrigarci
–
gridò James Rhodes quando i primi soccorsi giunsero
attraverso
il portale, riversandosi nello spiazzo buio per prestare le prime
medicazioni ai superstiti e preparare nuove barelle sulle quale
condurli fuori.
Ma Bruce Barner non si
lasciò sollevare, non si lasciò
toccare,
perché non poteva andarsene, non poteva lasciarla sola, non
poteva abbandonarla, e quando le mani di Maria gli afferrarono il volto
che teneva ostinatamente rivolto ad Astrid, quando la donna lo
costrinse a nascondere il viso contro la sua spalla smise di agitarsi.
- Dobbiamo andare
– la
udì sussurrare contro il suo orecchio, la voce
rotta dalle
lacrime che si raccolsero sul suo mento, bagnandogli il colletto della
camicia, ma quando Maria si scostò, quando lo costrinse a
guardarla in viso si accorse che non erano sue, le lacrime.
Non era lei, a
piangere.
Era lui.
- Dobbiamo andare.
-
Loki non è cattivo.
Sentiva
tutti
quegli sguardi su di sé, tutto quell’orrore, su di
sé, ma lei continuava a rimanere ritta e a stringergli la
mano,
a condividere con lui quell’odio che con lei vicino non
faceva
male.
Il suo amore, non faceva male.
- Tiratelo su
– li
aggredì Thor quando i due soldati sopraggiunti in aiuto
tentarono di sollevare il dio, ma entrambi furono costretti ad
indietreggiare frettolosamente quando uno sprazzo di magia
tentò
di bruciare le mani che avevano tentato di toccarlo.
- Thor!
-
Mi dispiace.
Respirare
era difficile,.
Inghiottire
le
lacrime, era difficile, ma quando udì quel sussurro
accorato,
quando la vide sorridergli incerta prima di bruciare e volare via da
lui, andare lontano, da lui, continuare a vivere, era
divenuto difficile.
- Spostatevi.
- Cosa dobbiamo fare?
Non si lascia
toccare – ragionò ad alta voce Lady Sif,
osservando con
tristezza il soldato carbonizzato accostato al corpo rannicchiato del
dio, immobile nella stessa posizione in cui lo avevano lasciato.
- Padre?
-
È per
me? – sussurrò commossa, guardando con occhi
lucidi
l’orecchino che gli sfilò dalla mano per
indossarlo con
mani impacciate, sorridendo tra le lacrime che Astrid tratteneva per
non risultare troppo sciocca.
Ma
non lo era, non lo era mai stata.
Era
solo bella, e dolce, e sua.
Lo
era sempre stata.
- Dobbiamo
andare.
-
Loki?
- Mi senti fratello?
Dobbiamo tornare a casa.
-
Loki?
- Non credo riesca a
sentirmi, Padre.
- Fa provare me
–
consigliò Frigga, accorsa al capezzale dei figli non appena
l’avevano avvisata dell’apertura del portale nel
quale
avrebbe potuto trovare il Padre degli dei.
-
Loki!
- Loki?
Il sorriso nervoso di
Frigga si
velò di sollievo quando riuscì a
strappare una
reazione dal figlio poco prima immobile, riuscì persino a
toccarlo senza essere bruciata, e ne approfittò per
accarezzargli la spalla e ammorbidire lo sguardo.
- Loki, sono tua
madre. È ora di tornare a casa.
-
Dov’è Astrid?
La voce gli
uscì rauca,
aspra come se non parlasse da anni, come se avesse appena
ingerito acido, ma era solo bile quella che gli appesantiva la lingua
mentre i muscoli indolenziti delle gambe seguivano con stanchezza il
suo tentativo di tornare in piedi dopo aver passato così
tanto
tempo nella stessa posizione.
Sentì il
calore di una mano
alla base della schiena, ma la allontanò
bruscamente,
perché a lui non gli piaceva essere toccato, in particolar
modo
da quel dannato dio dei tuoni.
Thor
registrò la reazione
violenta del fratello come il frutto della confusione che doveva
provare, ma non fu confusione ciò che trovò nello
sguardo
di Loki quando, non ricevendo risposta alcuna, il dio alzò
su di
loro uno sguardo che in passato aveva fatto perdere al Padre degli dei
un figlio.
Lo sguardo tradito e
rancoroso di un uomo che non aveva dimenticato.
-
Dov’è Astrid?
- Io non capisco
a chi tu-
-
Dov’è mia moglie ?
– e l’ultima parola la gridò,
la urlò
affinché tutti potessero udire e sapere che lui ricordava.
Ricordava la bambina
che nel suo petto si era rannicchiata in cerca di calore, quando
nessuno lo aveva voluto vicino.
Ricordava la ragazza
che dal mondo
umano non aveva fatto altro che farsi accettare, scegliendo di essere
come lui, alla fine di tutto.
Ricordava la donna che
non aveva mai smesso di amarlo, e di conoscerlo, di farlo innamorare
ancora una volta di lei.
La donna che lo aveva
cercato, e
seguito, e aspettato. La donna che aveva riportato in vita
un’intera razza solo per ridargli la forza di riaprire gli
occhi
su un mondo sconosciuto che gli aveva fatto paura, un mondo in cui un
posto lui continuava a non avere, ma un posto che lei, con pazienza e
gentilezza, gli aveva spiegato di aver sempre avuto, per lei.
- Loki? Cosa-
-
Dov’è lei? – sibilò ancora,
incattivito dalla mancata risposta che tardava ad arrivare.
- Cerca di calmarti
– lo
ammonì Thor, l’aria ferita di chi non si aspettava
tutto
quell’odio – né io, né nostra
madre possiamo
far più nulla per lei – lamentò
irritato –
oramai non c’è più nulla che tu o io
possa fare per-
Il verso strozzato
portò i
soldati di Asgard a rivolgere uno sguardo sorpreso all’erede
al
trono, e quando riconobbero la mano dell’uomo che
teneva il
dio dei fulmini per la gola, quando il Padre degli dei capì
che
non ci sarebbe più stato spazio per il perdono, nel cuore di
suo
figlio, si lasciò sfuggire uno sguardo stanco prima di
stringergli una spalla ed invitarlo ad allentare la presa.
- Lascialo Loki.
- E perché
dovrei? –
lo sentì rantolare, riempiendo la voce e lo sguardo di un
odio,
di un rancore che Odino si era augurato di non dover più
ritrovare, perché il Loki confuso e stanco era stato ucciso
da
quel mostro che li aveva sterminati senza batter ciglio, lo stesso
mostro mosso solo dal bisogno di distruggere e punire chi lo
aveva ferito in passato, chi si era meritato il suo cuore nero.
- Perché
tuo fratello ha
ragione – e il dolore che lesse in quegli occhi che da
bambino lo
avevano fissato con un bisogno di attenzione che lui non aveva mai
capito lo ferì più delle parole con le quali la
Regina lo
aveva messo di fronte ai suoi errori, ai suoi sbagli.
Perché lui
aveva sbagliato,
con Loki. Non aveva ascoltato abbastanza, capito, abbastanza, e
ciò che vedeva, il dio che tutti erano tornati ad odiare e
temere era colpa sua, sua e di quell’amore di padre
che gli
aveva fatto mancare, che lei, era riuscito a risanare.
Si assunse
perciò la
responsabilità di quel dolore che pareva spaccarlo a
metà, distogliendo lo sguardo da quello ferito di suo figlio
per
guardare la piccola figura che un Gigante di Ghiaccio stava conducendo
in braccio verso Jotunheim.
- È troppo
tardi.
No.
Loki avrebbe voluto
urlarlo, ma non
aveva avuto neanche la forza di dar voce alla sua disperazione, al
terrore che lo assalì quando la guardò, quando il
suo
cuore, nel riconoscerla, nel vederla davvero, lanciò un
grido
sommesso.
- Loki-
- No – lo
zittì
mordace, gettando di lato il fratello per allungare il passo e seguire
quella figura che nel braccio muscoloso della creatura
sembrava
svanire per quanto piccola era – no
– ripetè ancora, e quando, nel tentativo di
aprirsi una
via tra i soldati che trasalirono nel vedere la sua espressione,
compì un passo di troppo, si sentì spingere via
da una
forza, da un muro che non riusciva a vedere ma che, fisicamente, gli
impediva di avanzare.
Di raggiungerla.
- Non puoi tornare da
lei Loki
– echeggiò sinistra la voce di Odino –
ora che
Yssgradrill è morta nessuno può abbandonare il
proprio
mondo. Tu, in quanto dio, non puoi lasciare questo posto.
- Astrid!
- Loki, ti prego
– lo
supplicò sua madre, ma il dio non la sentiva, non con quel
fischio nelle orecchie a renderlo sordo a tutto tranne a quel nome che
urlò ancora, e ancora, fino a sentire i polmoni bruciare. E
quando udì le voci alle sue spalle, quando si
sentì
chiamare, gridò loro di fare silenzio, perché con
tutto
quel rumore lei non l’avrebbe ascoltato, non si sarebbe
voltata.
Ma lei continuava ad
essere
così lontana, e piccola, tanto minuscola da costringerlo a
stringere le palpebre per metterla a fuoco, e faceva male, tutto quello.
Vederla andare via,
sapere cosa
fosse l’orecchino che fino a poco prima aveva fissato con
diffidenza, quello che lei aveva promesso di ridargli una volta
ricordato il suo valore, faceva male.
E lui
l’aveva ricordato,
aveva ricordato ogni cosa, ma lei non era lì a sorridergli
commossa, a dirgli che sarebbe andato tutto bene, che sarebbero potuti
tornare finalmente a Jotunheim.
A
casa loro.
Quando lo videro
tornare indietro
vi fu un lampo di sollievo a ripulire il viso di Thor
dall’ombra
cupa con la quale si era arreso a fissarlo, un’ombra che
tornò, crudele, ad oscurargli lo sguardo quando assistettero
inorriditi alla scena.
Perché Loki
non era tornato
indietro per ricongiungersi a loro, ma per prendere la rincorsa e
scontrarsi duramente con la barriera nel tentativo di infrangerla e
fuggire da lì, da loro, da una famiglia che non riconosceva
più, che non voleva più, che non era mai stata
vera.
Mentre lei, lei era la
sua famiglia, e il suo cuore, il suo mondo, la sua casa.
Lei era tutto.
- Loki!
Il primo scricchiolio
causò
sgomento, e incredulità sul viso di chi non riusciva a
credere a
quanto potere quel corpo sottile celasse, ma più la barriera
tremava e sfrigolava dopo ogni urto, più il Padre degli Dei
riconosceva il cambiamento, sul volto del figlio.
E fece finta di non
udire le
preghiere della moglie, le sue suppliche, perché era giusto
lasciarlo andare ora che Loki aveva accettato il proprio passato, ora
che finalmente, aveva accettato se stesso.
Lui che un dio non era
mai stato destinato ad essere, a diventare, perché Loki era
sempre stato qualcos’altro.
Qualcosa che nessuno,
neanche lui,
in tutta onestà, aveva potuto capire e accettare
fino in
fondo, ma lei, quella piccola creatura era riuscita in quello che
Odino, come padre, non era mai riuscito a fare.
Renderlo felice.
Ma ci
provò, per una volta, a farlo, a spianargli la strada dagli
ostacoli che loro, lui
stesso aveva rappresentato.
E zittì
chi, nel vederlo
trasformarsi in ciò che era sempre stato, in ciò
che
aveva sempre temuto di diventare, si era lasciato sfuggire un urlo di
orrore, ma voleva che il loro ultimo saluto fosse diverso, per una
volta.
Perciò rise
per nascondere
il pianto nella voce, per concedergli una fuga da un mondo
dal
quale non era stato mai accettato per lasciarlo tornare da
quel
pianeta che mai davvero lo aveva abbandonato.
Il respiro era stanco,
lei, era
stanca, ma la pelle gelida di Knut le diede sollievo dalla febbre che
doveva essersi insidiata nel suo fisico provato quando
l’infezione raggiunse l’organo lesionato,
costringendola a
chiudere gli occhi per riposare la mente.
Ma ci avrebbe pensato
Sunniva a
fasciarle il petto una volta tornata a casa, e lì, sul suo
letto, nella sua stanza, avrebbe potuto passare qualche mese
a
riprendersi da quelle ferite che sarebbero guarite, ma per le altre,
per quelle del cuore, non sarebbero bastati anni.
Perché
quelle non si
sarebbero mai rimarginate, e né lei, né i Giganti
avrebbero potuto riempire quel vuoto. Avrebbe solo dovuto imparare a
conviverci, e per quello avrebbe avuto tutto il tempo, avrebbe avuto
l’eternità.
- Knut?
Lo aveva chiamato con
un filo di
voce, ma era chiara in lei la sorpresa di aver sentito i suoi muscoli
contrarsi attorno a sè, inspessirsi come se avesse captato
qualcosa di orribile, qualcosa di pericoloso.
E l’orrore
di sapere che
Galactus fosse riuscito a fuggire in qualche modo dalla sua prigione,
la paura di sapere di aver fallito, di aver reso vano il sacrificio di
sua madre la portò a sgranare le palpebre e sporgersi sulla
spalla del Gigante per vedere cosa lo avesse fatto irrigidire a quel
modo.
Knut tentò
di fermarla,
persino Sunniva, notato i suoi movimenti febbrili si
avvicinò
per calmarla e farla tornare distesa, ma Astrid si ribellò
alle
loro mani, tossendo con forza quando riuscì a poggiare il
mento
sulla spalla del Gigante, abbandonandosi su questa con gli occhi che
bruciavano per il sonno.
Ma quando lo vide,
quando le sue
pupille riconobbero la sagoma indistinta di una figura in avvicinamento
temette per la sua vita, per quella del suo popolo che ancora non aveva
attraversato il portale, che ancora in salvo non era.
Ed avrebbe urlato, se
solo avesse
avuto la voce per farlo, ma anche se l’avesse trovata, anche
se
ci fosse riuscita, non sarebbe stato un grido di paura ad abbandonare
le sue labbra, ma un nome.
Solo un semplice nome.
- Min Dime!
– la
chiamò apprensiva la Gigante quando la videro scivolare
frettolosamente dalle braccia di Knut e zoppicare verso il sentiero che
dopo ogni suo passo sbiadiva, cancellando il ricordo di quanto
avvenuto, il passo di chi lì non sarebbe potuto giungere.
Eppure, qualcuno a
ripercorrere la
via ci fu, e fu verso quel qualcuno che Astrid si mise a correre, la
mano premuta al fianco e gli occhi pieni di quelle lacrime che non
credeva di avere più, ma lui, lui sarebbe sempre riuscito a
fargliele trovare.
Perchè
quelle che le
rigavano il viso illuminato dal suo sorriso incredulo e spezzato erano
lacrime di gioia, una gioia che sentì esploderle nel petto
quando dall’ombra che li aveva inghiotti uscì la
figura
vista da lontano, una sagoma di fronte alla quale ogni Gigante di
Ghiaccio si fermò, riconoscendo la somiglianza nella
creatura
che ora stringeva la loro regina come se ne andasse della sua
vita.
Ma lei era,
la sua vita, e quando Loki capì di esserci riuscito, di
averla
trovata, di averla raggiunta, lasciò il suo corpo a tremare
per riprendere la sua forma umana e abbracciarla
come aveva
sempre desiderato fare fin dal primo momento.
Quando la
sollevò tra le
braccia, quando affondò il viso tra i suoi capelli, quando
sentì le mani di Astrid stringersi alla sua nuca e le sue
lacrime bagnargli il collo seppe di essere tornato a casa,
finalmente.
E
mentre
Jotunheim svaniva in silenzio, mentre l’equilibrio
della
vita si risanava e il cuore di suo figlio trovava il suo
posto
nel mondo, il Padre degli dei sorrideva, orgoglioso di aver
mantenuto la promessa che lei era riuscita a strappargli.
Lasciare a Loki la
scelta di decidere da chi lasciarsi amare.
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Capitolo 12 *** 12-Extra-Gotta Be Somebody ***
Cause
nobody wants to be the last one there.
Cause
everyone wants to feel like someone cares.
Someone
to love with my life in their hands”
Il pranzo domenicale
era uno di quei riti familiari ai quali Tony Stark, da vecchio lupo
solitario qual’era, non aveva mai amato
presenziare, a maggior ragione se il numero di bambini in preda ad un
overdose di zuccheri superava di gran lunga quello degli
adulti.
Non che essere
diventato nonno non gli avesse strappato più di
un sorriso bonario e qualche bizzarro pupazzo gigante
nascosto dietro un altrettanto gigante albero di natale, nel corso
degli anni , ma sottostare alle leggi di una nidiata di bambini urlanti
che pretendevano la sua attenzione imbrattandogli il viso con i propri
omogeneizzati non era l’agognata pace che si era augurato di
avere dopo aver salvato il mondo così tante volte.
Eppure, vi era sempre
una via di fuga, quella che iil lavoro aveva sempre rappresentato per
lui e per la sua sanità mentale e fisica.
Costruire aveva sempre
alleggerito pensieri che a tarda notte, quando la casa era silenziosa e
le luci erano spente, divenivano tanto gravosi da costringerlo a
fissare il vuoto per ore e ore nella speranza di svuotarsi da quella
sensazione di incompletezza.
Un’imperfezione
dovuta ad un sorriso mancato tra le foto di famiglia, ad una sedia
vuota durante le cene di natale, ad un letto freddo e perfettamente
ordinato al quale alle volte si ritrovava a cambiare le lenzuola per
dargli un'aria vissuta, una ferita al cuore e
nell’anima causata dall’assenza di un
componente che era andato perduto anni fa, quando il mondo aveva vinto,
ma sacrificando qualcosa di suo, ancora una volta.
Ed erano stata dura
confessare a Pepper di averla perduta ancora, di non essere riuscito a
proteggerla, di aver fallito come uomo e come padre, ed era stato
difficile non piangere sulla lapide di Estela, spirata dopo la tragica
notizia che l’aveva resa incapace di accettare
quella privazione, quella perdita.
"Cause
nobody wants to go it on their own
And
everyone wants to know they're not alone"
Eppure la vita era
andata avanti, loro, avevano provato ad andare avanti, ma crescere non
voleva dire dimenticare, e Tony Stark, sulla soglia dei suoi
ottant’anni non aveva dimenticato nulla.
Non quel viso
sorridente che si era ripromesso di continuare a cercare.
Non quegli occhi che
aveva giurato di incrociare ancora una volta, anche se ci
fossero voluti anni per trovare il modo di colmare il divario dei due
mondi, e di conseguenza il vuoto nel suo cuore.
Ed eccolo
lì, ciò che la sua mente aveva partorito.
Aveva impiegato mesi
per trovare i pezzi giusti, anni per avere le coordinate adatte, minuti
per stabilizzare il sistema di controllo e renderlo attivo,
ma aveva avuto pazienza, se l’era imposta quando il pensiero
di rivederla, di poter regalare a sua moglie uno di quei sorrisi che
con la perdita di Astrid si erano affievoliti e fatti più
meccanici, lo aveva spronato a continuare, a non perdersi
d’animo.
Perchè Tony
Stark non era mai stato un uomo che si arrende facilmente, e con sua
figlia, specialmente con sua figlia, per quanto tempo fosse potuto
passare, per quanto a lungo avesse dovuto lavorare per riaverla con
sè, non si sarebbe mai arreso.
Mai con lei.
"Is
there somebody else that feels the same somewhere? "
Quando gli ingranaggi
cominciarono a grattare tra loro e il monitor si azionò con
un sospetto ma necessario ronzio Iron Man si allontanò dal
motore del suo proiettore stellare con la fronte madida di sudore e un
sorriso speranzoso a spiegazzarli il viso e la gola.
Vi
fu un ambiguo rumore di sottofondo a seguire
l’accensione del motore, uno scricchiolio che lo fece
irrigidire per l’ansia di aver sbagliato qualcosa, di dover
ricominciare tutto da capo, di dover tornare a cercare, un suono che
però non sembrava provenire dal monitor improvvisamente
occupato dal profilo sfocato di un pianeta azzurro, ma da dietro la
scrivania verso la quale lo scienziato torse il collo con aria inquieta.
E fu nel ritrovare gli
occhietti vispi di due minuscole e colorate bambine sorridenti.
Fu nel sentirle
gridare un ‘è
pronto al
quale seguirono numerosi tip tap di passi che Tony Stark
capì che la sua segretissima operazione “Trova
Astrid” non era mai stata veramente segreta, glielo avevano
solo lasciato credere.
Loro che lo
avevano sempre definito come un perfido e cinico
manipolatore, e forse lo era stato davvero, un tempo, prima
dell'arrivo di sua moglie probabilmente.
"Tonight
out on the street out in the moonlight
And
damn it this feels too right"
- Finalmente!
– lamentò un indaffarato Marcus Stark,
attento a non rovesciare i popcorn quando le figlie di undicianni lo
raggiunsero gongolanti, invitando la nonna e uno stuolo di persone che
Tony non ricordava di aver invitato al suo pranzo domenicale di
prendere posto sul pavimento del suo laboratorio, ora più
simile al ritrovo per anime sole che al covo di un supereroe
tecnologico.
Ma cacciarli via
sarebbe stato impossibile, credere di poter spostare lui da
lì senza trovarsi con una tonnellata di arrabbiati muscoli
verdi abbandonati pigramente sul suo stomaco,
sarebbe stato impensabile.
Bruce Barner si
accomodò in prima fila, gli occhi sgranati e un
po’ lucidi intenti a divorare ogni fotogramma, ed anche se
quello era il suo posto, quando Pepper gli
si sedette di fianco con il viso delicato un poco irrigidito
dalla tensione lo scienziato si arrese ad afferrare una manciata di
popcorn e raggiungere il pannello di controllo con un brontolio
sommesso.
"So I'll be holding my
breath
Could this be the
end?"
Pigiò un
paio di pulsanti, cadenzando con il ‘click della tastiera il
respiro che tutti nella sala si ritrovarono a trattenere mano a mano
che il proiettore zoomava il pianeta, rendendo visibile solo
il profilo di un enorme prato fiorito sul quale qualcosa di
piccolo e colorato sembrava essersi abbandonato, una figura sulla quale
Tony si affrettò a mettere a fuoco la lente, mordendosi le
labbra nel riconoscere il verde acceso di un mantello che diede a molti
la possibilità di sperare per il meglio.
Perché se
lui era lì, se Loki, che ora tutti fissavano con angoscia,
era lì, allora ci sarebbe stata anche lei, con lui.
Lei era sempre con lui.
- Ruota
l’immagine – bisbigliò Bruce
con il cuore stretto in gola mentre sulla sua spalla la presa di Maria
si faceva quasi dolorosa, ma ora c’era uno stralcio di
vestito a fare più male.
C’era il
profilo sfocato di una figura che il dio degli inganni, abbandonato su
un prato di fiori di ghiaccio, stringeva tra le braccia a bordare gli
occhi di lacrime.
"Cause nobody wants to
be the last one there
Cause everyone wants
to feel like someone cares.
Someone to love with
my life in their hands. "
- Vuoi cercare di
mettere a fuoco quella dannata lente! – esplose Marcus quando
l’immagine si fece improvvisamente distorta, come se qualcuno
si divertisse a strizzare i loro cuori assieme al fotogramma che
mostrava solo sagome indistinte, nulla che potesse davvero calmare
l’agitare frenetico delle loro pupille.
Il verso isterico del
padre lo avvisò però di non tentare la
fortuna, perché era lui ad essere il più isterico
tra loro.
In fondo era stato lui
a costruire quel dannato aggeggio, erano state le sue lacrime quelle
che avevano agito da lubrificante a quei dannati ingranaggi, era stato
il suo orgoglio di padre a cercare nell’universo
ciò che doveva essere trovato, e avrebbero dovuto
ringraziarlo, non gridargli contro con le loro stupide bocche piene di
pop corn mentre lui si affannava a manovrare il controller mantenendo
la presa salda nonostante la commozione.
E sarebbe dovuto
essere lui quello a sbraitare, non loro, ma Tony Stark aveva preso
coscienza, col passare del tempo, di essere divenuto oramai il capro
espiatorio preferito per l’isteria comune, meno che per la
propria.
- Credi sia semplice ?
– si ritrovò infatti a sibilare, afferrando una
penna laser per modificare un filo saltato – invece di
lamentarti e ingozzarti perché non vieni qui ad aiutarmi? Io
ho salvato il mondo sai? Perciò cerca di
–
-Eccola!
Pepper lo aveva
gridato, urlato come si urla di fronte a qualcosa di tanto terribile,
di tanto potente da togliere il fiato e rendere incapaci di fare altro
se non boccheggiare in cerca d’aria, e quella visione fu da
togliere il fiato.
"There's
gotta be somebody for me like that.
Cause
nobody wants to go it on their own "
Era
identica a come l’aveva lasciata, lo pensò Bruce
con il magone mentre osservava con il viso rigato di lacrime quello
sorridente di sua figlia, una figlia che ora, dopo tanti anni, dopo
tutto quel tempo passato a domandarsi come stesse, cosa stesse facendo,
sapeva salva, e felice.
Lo era Astrid.
Astrid che sorrideva
al mondo, a loro, e all’uomo contro il quale era abbandonata,
avvolta nel mantello verde col quale Loki la riparava dal freddo
pungente, una premura per la quale Tony Stark grugnì,
tirando su col naso, sperando di non aver attirato
l’attenzione di nessuno.
Ma Pepper lo
notò, perché c’era così
tanta luce nello sguardo di suo marito, così tanta
felicità, e orgoglio, da far male solo guardarlo.
- È lei?
– chiese una delle due gemelle, affascinata dalla giovane
donna che suo padre aveva detto essere loro zia perduta, quella che il
nonno non aveva mai smesso di cercare dacché
l’aveva smarrita – è lei,
papà?
- Si – le
rispose dolce Marcus, lo sguardo rotto dall’emozione di
ritrovare la creatura che in gioventù avrebbe voluto
sposare, una sorella che non aveva avuto modo di amare a lungo, ma una
donna alla quale doveva la vita sua e quella della famiglia che si era
creato col tempo.
Maggie e Valery
continuarono a fissare lo schermo con gli occhietti sgranati, attirate
dallo sguardo strano ma magico che la loro zia puntava in
giù, verso qualcosa che il mantello copriva parzialmente ma
che entrambe, uniche a non essere distratte dalle lacrime,
riuscirono a scorgere torcendo un po’ il collo mentre attorno
a loro il pianto silenzioso dei grandi portava via il loro respiro
sorpreso.
-
Cos’è quello?
Ignorare quel ditino
paffuto puntato con foga contro lo schermo sarebbe stato
impossibile, ma Bruce Barner e Tony Stark ebbero lo strano e
comune istinto di ignorarlo, di far finta di nulla, perché
la parola “quello” unito alla loro piccola e dolce
Astrid non aveva nulla di confortante.
Eppure Maggie, offesa
dal mancato interesse da parte dei suoi nonni si incaponì, e
correndo via dalle braccia del padre si gettò contro il
monitor, schiaffando la mano sull’ombra verso la quale Astrid
apriva il sorriso più dolce che mai avessero avuto modo di
vedere sul suo viso, un sorriso che Pepper riconobbe
all’istante, perché ogni donna, prima o poi, si
sarebbe trovata a tendere la stessa curva.
Una curva dolce per la
quale nuove lacrime le rigarono il viso mentre sotto la mano di sua
nipote si mostrava il viso paffuto di un bambino dagli occhi verdi e i
capelli color ghiaccio.
- È un
bambino – strillò la piccola saccente, colpendo
l’immagine per attirare l’attenzione dei due uomini
che si erano scoperti a guardarsi l’un l’altro con
l’identico e profondo orrore – avete capito? Lui
è un bam.bi.no.
- Tesoro, non credo
abbiano bisogno di uno spelling – tentò di
ammansirla Pepper, divertita dal frenetico ‘click con il
quale il proiettore aveva inquadrato solo il viso di Loki, zoomando sul
sorriso sottile di fronte al quale Tony Stark mosse
nervosamente una palpebra prima che il fischio della sua armatura e il
ruggito di Hulk franasse loro addosso assieme ai resti del monitor
verso il quale i due Avengers si trovarono presto a sfogare la propria
indignazione.
- Io ti
troverò! – sbraitò lo scienziato mentre
un altro pezzo di intonaco veniva giù assieme
all’ululato dell'altro eroe– e quando ti
troverò vorrai non aver mai deflorato la figlia di Tony
Stark e Hulk - si affrettò ad
aggiungere quando il dottore diede segno di non aver gradito la
mancanza dell'uomo nei suoi confronti- Ci hai sentito
Udinì?
"Is
there somebody else that feels the same somewhere?"
- Loki?
Il dio
sbatté le palpebre un paio di volte prima di riuscire a
scrollarsi di dosso quell’insolito pizzicore dietro
l’orecchio, come se qualcuno avesse provato a urlargli
qualcosa, ma ora c’era Astrid che aveva sollevato su di lui
uno sguardo preoccupato, e avanzare ipotesi sul perché
avesse avuto la sensazione di essere stato maledetto da qualcuno non
era fra le sue priorità.
Non quando
c’era sua moglie tra le sue braccia, abbandonata contro di
lui con il viso che accarezzò dolcemente,
guidando la testa contro il petto sul quale Astrid si
ritrovò a ruotare lo sguardo, osservando il piccolo fagotto
stretto tra le braccia.
Sorrise dolce quando
lo sentì gorgogliare qualcosa di incomprensibile ma tenero,
e strofinargli il naso contro la guancia fu necessario per ricordarle
che era tutto vero, che Draco era vero.
La pelle morbida che
baciava, la risata dolce che le abbracciava l’udito era vera,
suo figlio, era vero, e non c’era nulla di più
bello di quello.
Aveva gli occhi di
Loki, occhi che aveva visto aprirsi e guardarla con innocente
curiosità prima di sentirlo ridere e tendere le
braccine verso di lei.
E in lui aveva visto
la vita, quella vera, quella che le era stata negata, quella
che era riuscita a dargli in quanto nuova Yssgradrill, in quanto unica
via tra gli spiriti della terra.
Una via che ora, per
la prima volta, era stata lei ad imboccare per raggiungere quel pezzo
di cuore che stringeva tra le braccia.
- Va tutto bene
– le sussurrò Loki tra i capelli con voce morbida,
sfilando una mano per raggiungere la guancia di Draco e sfiorarla
debolmente, in un gesto quasi distratto ma presente come
Loki si era ripromesso di essere, una volta tornato alla sua
vita, una vita che avevano riconquistato con fatica, e
sangue, e lacrime, ma ne era valsa la pena.
Ne era sempre valsa la
pena.
Lottare contro se
stesso per lasciarla entrare.
Soffrire e morire pur
di renderla felice.
Accettarsi per
riaverla indietro.
Amarsi,
amarla, ne era sempre valsa la pena.
Perché
aveva trovato il suo posto nel mondo, un mondo che la risata
di suo figlio gli ricordò essere pieno di gioia e
felicità, quella che con lei era riuscito a trovare dopo
tanto vagare, dopo tanto cercare, assieme a ciò
che gli era sempre stato negato ma che con lei aveva infine
avuto.
Un lieto fine.
Un eterno lieto fine.
"So
I'll be holdin my breath
Right up to the end
Until that moment when
I find the one that I
spend forever with "
* La canzone
è dei Nickelback- Gotta Be Somebody
Piccolo Extra per
concludere la storia, sono emozionata per questa fine,
perchè volevo davvero dare un "felice e contenti" a Loki ed
Astrid, finalmente.
Ringrazio chi
è riuscito a giungere fin qui, davvero, grazie per avermi
seguito in quest'avventura.
Un saluto, Gold Eyes
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