Honey's World

di Mary P_Stark
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Splendente (Giugno 2013) ***
Capitolo 2: *** Viaggio... con sorpresa (Giugno 2012) ***
Capitolo 3: *** Lezioni di cucina. (Settembre 2014) ***
Capitolo 4: *** Nuovi arrivi (Novembre 2012) ***
Capitolo 5: *** Daddy (Agosto 2013) ***
Capitolo 6: *** First sight (Agosto 2002) ***
Capitolo 7: *** Is this the real life? Is this just fantasy? Caught in landslide, No escape from reality. (Agosto 1998) ***
Capitolo 8: *** Il vuoto nell'anima (Dicembre 2003) ***
Capitolo 9: *** Sci... e manette (Dicembre 2017) ***
Capitolo 10: *** Sorry (Luglio 2014) ***
Capitolo 11: *** A new life (Agosto 2015) ***
Capitolo 12: *** Il ritorno (2004-2008) ***
Capitolo 13: *** La legge di Murphy (2013) ***
Capitolo 14: *** Fast & Reckless (2018) ***
Capitolo 15: *** Solo con te (Luglio 2030) ***
Capitolo 16: *** Decisioni (Dicembre 2028) ***
Capitolo 17: *** Destini incrociati (Luglio-Settembre 2032) ***
Capitolo 18: *** Una piacevole trasferta -1- (ottobre 1975) Grace e Barthemius ***
Capitolo 19: *** Una piacevole trasferta -2- (Novembre 1975) Grace e Barthemius ***
Capitolo 20: *** Una piacevole trasferta -3- (Dicembre 1975) Grace e Barthemius ***
Capitolo 21: *** Una piacevole trasferta -4- (Dicembre 1975) Grace e Barthemius ***
Capitolo 22: *** Una piacevole trasferta -5-(dicembre 1975) Grace e Barthemius ***
Capitolo 23: *** Una piacevole trasferta -6- (febbraio 1976) Grace e Barthemius ***
Capitolo 24: *** Una piacevole trasferta -7- (Febbraio 1976/Agosto 1981) Grace e Barthemius ***
Capitolo 25: *** Quel pizzico d'amore in più - Parte 1 - (Agosto 2028) Phill e Brandon ***
Capitolo 26: *** Quel pizzico d'amore in più - Parte 2 - (Agosto 2028-Aprile 2032) Phill e Brandon ***



Capitolo 1
*** Splendente (Giugno 2013) ***


1

Parte I^

L'incontro.

 

 

 

 

Non era del tutto sicuro che Hannah lo avrebbe lasciato in pace per molto tempo ma, visto che era riuscito a ottenere quanto sperato, doveva approfittarne finché fosse durata.

Certo, poteva capirla. In fondo, Cam e Dom avevano solo sette mesi, perciò non faticava a comprendere quanto fosse in ansia all'idea di non averli perennemente al fianco.

Ma era anche giusto che iniziasse a staccarsene un po', o avrebbe finito con il diventarne schiava.

Gli spiaceva un poco fare la parte dell'insistente, ma anche Nick aveva necessità di riavere sua moglie al fianco e, con due gemelli come quelle pesti, sapeva quanto poco erano stati insieme, ultimamente.

La passeggiata lungo la Ocean Front con i passeggini gli era sembrata la scelta migliore, almeno in un primo momento.

Sarebbe stato vicino alla V.B. 3000, a portata di mamma, insomma, il percorso era in gran parte ombreggiato dalle palme e c'erano un sacco di parchi in cui fermarsi per dare il biberon ai bambini.

Andrea non aveva però calcolato che, accanto alla Ocean Front, c'era anche la sabbia, tanta sabbia. E Cam e Dom la adoravano.

Non passò molto tempo che i due bimbi dalle teste bionde e la carnagione eburnea iniziarono a scalciare, allungare le braccia paffute e strillare come aquile per ottenere ciò che volevano.

Andrea si ritrovò così a sospirare affranto e, con una mano a massaggiarsi la nuca umidiccia d'ansia, osservò esasperato i due meravigliosi quanto pestiferi nipotini.

“Sapete che se vi riporto dalla mamma ricoperti di sabbia, lei mi uccide” brontolò il nonno, inginocchiandosi dinanzi a loro per scrutarli con serietà. Sperava davvero in una loro collaborazione, in una sorta di complicità maschile, ma non aveva ancora capito con chi aveva a che fare, evidentemente.

Cam, alias Cameron Andrew Van Berger, lanciò un tale strillo da poter far incrinare persino lo scudo termico di uno Shuttle, a cui seguì quello del gemello Dom, alias Dominic Paul Van Berger.

Più di una persona si volse nella loro direzione, incuriositi da tanto chiasso e Andrea, non sapendo bene cosa fare, si rialzò sconfitto ed esalò scontroso: “Ed io che volevo farvi divertire un po' in giro, fuori da quell'ufficio...”

“Sbaglia tattica, se mi permette” esordì una voce alle sue spalle, sorprendendolo.

L'uomo si volse, incuriosito da quel timbro di contralto così affascinante e, sgranando leggermente gli occhi, si ritrovò ad affondare i suoi scuri occhi blu in quelli brillanti e color brandy di una splendida amazzone dai capelli rossi.

 

 

Parte II^

Risate e pannolini.

 

 

Gli riuscì difficile trovare abbastanza energia per aprire bocca di fronte a un simile concentrato di eleganza, bellezza e joie de vivre – che brillava in quegli occhi caldi come una promessa segreta – ma, alla fine, Andrea riuscì a gracchiare: “Ah... ah, sì? E cosa dovrei fare con queste due pesti?”

La donna ridacchiò, coprendosi la bocca carnosa con il dorso della mano, su cui splendevano una serie di anelli d'argento dall'aria bohemien.

Sbattendo le lunghe ciglia biondissime con aria divertita, la donna si inginocchiò accanto ai due gemelli allargando l'ampia gonna a balze – color turchese a fantasie fiorate – intorno alle lunghe gambe e, indirizzando un'occhiata studiata ai bambini, dichiarò: “Hanno bisogno di un cambio di pannolino. Questo è sicuro.”

“Oh” esalò sorpreso Andrea. Ma Hannah non li aveva cambiati giusto prima di uscire? Che avessero già fatto i loro bisognini?

La donna si rialzò con grazia, facendo tintinnare i campanellini della cavigliera che solleticava il suo piede sinistro e, sorridendogli comprensiva, dichiarò: “Se si fida, le posso dare una mano. In due faremo prima.”

“Beh, avrà sicuramente di meglio da fare che dare una mano a un nonno così imbranato” replicò con una certa ironia Andrea, scrollando le spalle.

“Un nonno molto giovane, se posso permettermi” sorrise la donna, lanciando un'occhiata ai due bambini prima di aggiungere: “Che ne dite? Ci cambiamo?”

Cam e Dom si dichiararono d'accordissimo e lanciarono un altro strillo, stavolta di giubilo e Andrea, vistosi costretto ad accettare, dichiarò: “A quanto pare, hanno deciso tutto loro.”

“Ragazzini in gamba” asserì la donna, allungando una mano, su cui tintinnarono tutta una serie di braccialetti d'argento bulinato, cerchi d'oro e bracciali tibetani in legno lucido. “Io sono Helena, tanto piacere.”

“Andrea... e il piacere è tutto mio, Splendente” replicò l'uomo, sorridendo nello stringerle la mano.

Lei ampliò il suo, di sorriso, e sollevò con ironia un sopracciglio, dichiarando: “Oh... siamo molto acculturati, a quanto pare. Il completo di Gucci non è lì solo per bellezza. Vale veramente qualcosa.”

“Qualcosina, sì” ammise laconico Andrea, lanciando uno sguardo distratto dietro di sé, dove il palazzo della V.B. 3000 si stagliava verso il cielo in tutta la sua imponenza.

“Bene, Andrea. Vediamo di trovare un bagno e un fasciatoio dove cambiare questi due campioni, o penso potremmo subire ben presto un ammutinamento” asserì la donna, indicando con fare cospiratorio i due bambini, che stavano diventando rossi in faccia come due ciminiere spinte al massimo.

Spalancando gli occhi per l'ansia, lui annuì in tutta fretta e, indirizzato lo sguardo tutt'intorno a sé, si ritrovò ad esalare un sospiro di puro sconforto.

Si era forse dimenticato che Santa Monica era il regno dei giovani e che, difficilmente, avrebbe trovato il necessario per i suoi nipotini proprio dietro l'angolo?

Helena venne in suo soccorso e, con un sorriso consolatorio, gli disse: “Secondo me, se lo chiediamo gentilmente, in quell'albergo troveremo quello che ci serve.”

Lanciando un'occhiata al Blu Santa Monica Hotel, Andrea si diede quasi dello stupido.

Come aveva fatto a non pensarci prima? Con tutti i clienti che vi aveva indirizzato nel corso degli anni, di sicuro lo avrebbero accolto a braccia aperte, e Cam e Dom avrebbero trovato di sicuro un luogo adatto in cui poter essere cambiati.

Più sicuro di sé, Andrea annuì e si diresse senza problemi verso l'enorme albergo a più piani e dalle candide pareti affrescate di fresco, camminando speditamente sulla Ocean Front gremita di passanti.

Helena, al suo fianco, si impegnò con molto zelo a tenere occupati i bambini con moine e buffe vocine di contralto, che letteralmente fecero impazzire di gioia i due gemelli.

E anche lui.

Fin da quando Isabel aveva fatto esplodere quel colpo di pistola contro Phillip, finendo con il colpire Hannah, il suo cuore si era chiuso in un guscio protettivo, pronto a non riaprirsi mai più per nessuno.

Il matrimonio di Nick e Hannah, la successiva nascita dei gemelli e il fidanzamento di Rena lo avevano però spinto poco alla volta a riaprirsi al mondo, permettendo alla gioia di sfiorare il suo animo così ferito.

Vedere poi Bran e Phill andare d’amore e d’accordo non aveva fatto che tranquillizzarlo, giorno dopo giorno, come un massaggio benefico al suo cuore martoriato.

Prendersi cura di Cam e Dom lo aveva aiutato a riacquistare fiducia e, come in una sorta di catarsi personale, si era gettato anima e corpo nella cura dei nipoti, forse per compensare a ciò che non aveva fatto con i figli.

Hannah e Nick lo avevano lasciato fare, e anche Bran e Phillip erano stati lieti di farsi da parte più del necessario, perché fosse lui ad occuparsi il più delle volte dei bambini.

Capivano, evidentemente, quanto fosse importante vederli crescere assieme a lui.

Ma ora compariva dal nulla quella donna dall'aria gitana, dai riccioli ramati sparsi sulla schiena diritta, abbigliata come una splendida chiromante, e lui si sentiva come poche altre volte si era sentito in vita sua.

Era come se si fosse risvegliato di colpo sotto il sole, e i suoi occhi fossero rimasti abbagliati dal riverbero.

Non c'era malizia alcuna nel suo sguardo sincero, ed era più che evidente che non lo aveva affatto riconosciuto, nonostante il processo di Isabel li avesse spinti tutti sulle prime pagine per più volte di quante gli fossero piaciute.

Certo, erano passati un paio d’anni, e anche quello scandalo era passato e dimenticato, sostituito da altre notizie, altri fatti sconvolgenti.

Inoltre, i ragazzi sembravano essere ben disposti verso lei, perciò …

Se non ci si poteva fidare dell'istinto dei bambini, di cos'altro ci si poteva fidare?

Fu per questo che, all'ultimo momento, Andrea si fermò prima di entrare nell'albergo e, scuotendo il capo, mormorò: “Forse è il caso di cercare un bar. Non vorrei perdere del tempo, qui.”

“Credi che le persone qui dentro siano così meschine da non perdere la testa per questi due angioletti?” replicò Helena, sorridendogli divertita.

Lui negò recisamente ma, prima ancora di poter dire qualsiasi cosa per poterla convincere a cambiare strada, uno dei ragazzi del servizio interno lo riconobbe e, dalla porta a vetri dell'ingresso, lo salutò cordialmente.

Un attimo dopo, gli si avvicinò sorridendo.

Vistosi scoperto, Andrea rispose al sorriso con un saluto e, mogio, mormorò: “Ehi, Sebastian. Vedo che la caviglia è guarita bene.”

“Molto bene, grazie, Mr Van Berger. Sono i suoi nipotini?” dichiarò allegramente il giovane ispanico, sorridendo ai bimbi. “Mrs Van Berger ha fatto un autentico capolavoro. Suo figlio ne sarà molto orgoglioso, penso.”

“Moltissimo” assentì Andrea, lanciando in straforo alcune occhiate all'indirizzo di Helena.

Stava ascoltando con molta attenzione e pareva divertita. Oltre che vagamente sorpresa.

“Senti, Sebastian, pensi potremmo utilizzare uno dei bagni del pian terreno per poter cambiare loro il pannolino? Siamo in totale emergenza, al momento” si informò a quel punto Andrea, lanciando alle ortiche ogni tentativo di segretezza.

Avrebbe voluto chiacchierare ancora un po’ con Helena senza il peso del suo nome a fare da peso ingombrante sulle spalle, ma gli era andata male.

“Ma certo, Mr Van Berger. Se preferisce, chiamerò Rachel e Bonny per prendersene cura. Sono adorabili, coi bambini” lo informò allora il giovane, conducendoli verso l'entrata con un cenno della mano.

“Faremo da soli, grazie” scosse il capo Andrea, declinando cortesemente l'invito.

“Come desidera, Mr Van Berger” assentì senza problemi il giovane, invitandoli a oltrepassare la hall, ariosa e profumata di rose, per dirigersi verso un corridoio illuminato da faretti a led.

Lì, Sebastian li indirizzò verso il fondo, dove si trovavano due porte in radica di legno lucidata a specchio e su cui campeggiavano i simboli delle toilette per uomo e donna.

Helena si trattenne finché Sebastian si fu allontanato dopodiché, con un risolino, esalò: “Ti prego, dimmi che non hanno le tazze in oro.”

“Sono in ceramica” la rassicurò lui, sospirando afflitto nell'aprire la porta del bagno delle signore.

Per loro fortuna, in quel momento non c'era nessuno, così si dedicarono alacremente al cambio dei pannolini senza dover dare spiegazioni di sorta ad alcuno.

Helena si dimostrò veloce ed operativa e Andrea, nel cambiare Dom, si rese conto di apprezzare il modo in cui la donna si occupava di Cam.

Anche il bambino parve d'accordo con lui, perché rise felice e allungò le braccia verso la donna, come per volersi far prendere in braccio.

Helena però lo ignorò, limitandosi a sorridere, mettere il borotalco e sistemare il pannolino nuovo.

Solo allora lo accontentò e, presolo in spalla, gli carezzò il mento e disse: “Sei davvero un bel bambino, lo sai? E scommetto che la tua mamma ti vuole tanto bene.”

“Li adora, e soffre molto a separarsene, come oggi” la informò con candore Andrea, finendo il suo lavoro con Dom con il tocco esperto di chi è abituato a cambiare pannolini tutti i giorni. “Però ho pensato che fosse giusto offrirle la possibilità di riprendere a lavorare accanto al marito, dopo tanti mesi di maternità.”

Annuendo, Helena rimise sul passeggino Cam e asserì: “Staccarsi dai figli è difficile, ma anche necessario. Non possiamo diventare dipendenti da loro. Come se la cava tua nuora?”

“Ha la fortuna di avere un marito che la ama, e che lei riama alla follia, perciò è... più facile, se vuoi” chiosò lui, rimettendo a posto anche Dom prima di uscire dal bagno con Helena.

“E per il magnate dell'imprenditoria Andrea Jameson Van Berger, com'è essere nonno?” gli domandò Helena, una volta raggiunta la hall dell'albergo.

Andrea la fissò sorpreso per un attimo prima di sorridere tristemente e asserire: “Ti va un caffè?”

“Volentieri.”

 

 

Parte III^

Segreti e verità.

 

 

Seduti ad uno dei tavolini rotondi del piano bar dell'albergo, Andrea sorseggiò pensieroso il suo scuro caffè espresso, lasciando che i suoi pensieri vagassero per i fatti loro, a briglia sciolta.

Evidentemente, Helena aveva collegato nomi e fatti, nel sentire parlare Sebastian, e onestamente avrebbe preferito evitare.

Lei però, dopo essersi accomodata nella poltroncina accanto alla finestra, da cui si poteva scorgere la Ocean Front e, più in là, la sagoma scura dell'oceano, non gli aveva chiesto nulla.

Aveva preso un caffè macchiato e una pasta alla crema dopodiché, con un cipiglio da militare in carriera, aveva pagato il conto per entrambi.

Cam e Dom dormivano pacificamente, in quel momento, le due teste bionde reclinate entrambe verso destra, come facevano sempre quando sonnecchiavano sul passeggino.

“Sono davvero meravigliosi. Ma non mi stupisce, visti i genitori” sorrise benevola Helena, ammiccando al suo indirizzo.

“Hannah e Nick sono speciali, sì” assentì Andrea, passandosi nervosamente le mani sui pantaloni dalla piega impeccabile.

Helena se ne avvide e, divertita, gli domandò: “Pensi voglia strapparti un'intervista? O chiederti dei soldi per non spifferare al mondo intero che anche i figli di Nickolas Van Berger e signora fanno la pupù come i comuni mortali?”

Andrea si lasciò andare a un mezzo sorriso, che però non sfiorò minimamente gli occhi scuri e la donna, perso qualsiasi desiderio di fare dell'ironia, asserì: “Okay, il caro Sebastian mi ha fatto capire chi sei... ma dove sta il problema? Ti vergogni a farti vedere in giro con la proprietaria di un negozio di surf?”

“Come, scusa?” gracchiò Andrea, facendo tanto d'occhi. “Io... vergognarmi?”

“Sì, insomma... lo vedo che sei a disagio, da quando ci siamo seduti qui” scrollò le spalle la donna prima di sobbalzare quando il suo cellulare suonò all'improvviso.

Afferrandolo dalla borsettina che teneva a tracolla – interamente ricamata a mano, in stile peruviano – Helena borbottò: “Dimmi, Kyle...”

“Ho interrotto qualche tuo piacevole interludio, mamma?” chiese ironico il figlio, all'altro capo del telefono.

“Per la verità, sì, ma dimmi pure” precisò la donna, accavallando le lunghe gambe con disinvoltura.

“Volevo solo sapere se devo aspettarti per pranzo, oppure se posso chiudere il negozio e andare con Bryan a fare un po' di surf con lui” la informò Kyle, attendendo impaziente una sua risposta.

Helena ci pensò sopra un attimo, soppesando le sue parole e il suo attuale compagno di caffè ma, alla fine, disse: “Vai pure con Kyle. Io pranzerò fuori, tesoro.”

“Dev'essere un uomo interessante, se non vieni a controllare neppure l'incasso di oggi” ridacchiò Kyle, divertito.

Accigliandosi, Helena replicò gelida: “Non è l'incasso, che controllo, ma la tua testaccia vuota, ragazzo. Se non ci fossi io, quel negozio sarebbe stato depredato mille volte!”

“Divertiti, mamma. Qui chiudo io!” rise Kyle, mettendo giù il telefono.

Fissando malamente il cellulare, come se potesse trasmette il suo sguardo torvo al figlio, Helena lo rimise a posto un attimo dopo e, a mo' di spiegazione, borbottò: “Mio figlio Kyle è uno scapestrato, ma è buono come il pane e voleva sapere se la sua mammina stava bene.”

“Oh. E il marito no?” si informò Andrea, incuriosito. Non aveva notato nessuna fede nuziale, però erano in molti a non portarla.

Helena allora rise divertita, facendo scampanellare quella voce deliziosa e, con tono irrisorio quanto lapidario, lei asserì: “Se lo trovi, avvertimi. L'ultima volta che ho controllato, era dalle parti di Alberta, o giù di lì.”

“Come?” esalò a quel punto lui, più che sorpreso.

Tornando seria, Helena lanciò un'occhiata tenera ai due gemelli prima di ammettere: “Non ci siamo mai sposati, in realtà, e Kyle è nato quasi per sbaglio. O meglio, io lo volevo, lui no. Tutto qui. Pensavo che avrebbe potuto comunque funzionare, ma lui si stancò alla svelta dei suoi pianti notturni e del cambio dei pannolini così, una mattina, mi ritrovai a fissare il letto vuoto, l'armadio lindo e i miei risparmi spariti. Sono passati trent’anni, da quel giorno, più o meno.”

“Mi spiace” mormorò Andrea, trovando difficile non esprimersi in maniera più volgare. Detesta gli uomini di quel genere, e già il fatto che Hannah ne avesse avuto uno simile, lo aveva spesso portato a meditare vendetta.

Sapere che anche l'uomo di Helena si era comportato similmente gli fece tornare alla mente Patrick Fielding e le sue mani, istintivamente, si strinsero a pugno.

“Non ti devi scusare. Io ho Kyle, lui niente. Chi ci perde, è lui” scrollò le spalle Helena prima di avvedersi della sua rabbia. “Ehi! tutto bene?”

“Sì, tu non c'entri... ma...”

Lei parve capire e, rimuginando un attimo, si illuminò in viso e divenne tremendamente seria. “Ora ricordo quella brutta faccenda. Anche tua nuora ha vissuto un'esperienza simile, eh? Abbandonata dal padre a quel modo! Che gran bastardo!”

Andrea rise stizzito, annuendo e, tornando a sorriderle gradevolmente, asserì: “Avrei voluto dirlo prima del tuo compagno.”

“Potevi farlo. Io lo dico sempre” ammiccò lei, portandolo a ridere di nuovo. “Non mi spaventa la verità, sai? Mica è colpa mia se lui è un idiota. Io ho solo fatto l'errore di accorgermene un po' tardi, ma in fondo non ci ho perso nulla perché Kyle è il mio bambino adorato.”

“Di certo saprai che io...” iniziò col dire Andrea, subito azzittito da Helena, che gli sorrise scuotendo il capo.

“Ho sentito quel che hanno detto i notiziari, certo. Ma la cosa è morta e sepolta, ormai. Non è divertente rivangare il passato, perché si ammucchiano solo delle gran arrabbiature e basta. Preferisco vivere giorno per giorno, guardando avanti, non indietro” replicò lei, alzandosi in piedi per poi spazzolarsi la gonna a balze. “Vieni con me, voglio farti vedere una cosa.”

Andrea decise di seguirla e, sospingendo i passeggini, tornarono sulla Ocean Front dopo aver salutato Sebastian e gli altri inservienti presenti in quel momento nella hall.

“Se non ti scoccia prendere un autobus, vorrei andare in 3rd street Promenade” gli propose lei, sorridendogli appena.

Immaginando dove volesse andare, Andrea annuì e, dopo aver preso in braccio Cam, si lasciò aiutare da Helena con Dom e il passeggino doppio.

Voleva andare, voleva scoprire.

Ed era da tempo che la curiosità e l'interesse spontaneo non facevano più parte della sua vita privata. Da troppo tempo.

 

Parte IV^

L'onda perfetta.

 

 

Rip Curl.

La sagoma di un'onda rossa svettava su quello strano nome, stampigliato in nero sul fondo bianco del muro che sovrastava le tre vetrate del negozio di surf di Helena.

In quel momento, un cartello con 'TORNO SUBITO' se ne stava appeso alla maniglia chiusa del negozio e la donna, con un sorriso, la tolse ed entrò con le sue chiavi, permettendo ad Andrea di fare allo stesso modo.

Rimesso a posto il cartello di cartoncino colorato, Helena richiuse e, le mani poggiate sui fianchi, dichiarò: “Questa è la mia onda perfetta.”

Andrea si guardò intorno, ammirando la distesa di surf appesi ai muri, le mute da sub di mille colori, il reparto abbigliamento variopinto e griffato e, sorridendo, annuì con compiacimento.

“E' davvero molto bello” dichiarò dopo un momento, sorridendole da sopra una spalla.

“Beh, non è la tua mega azienda...” ridacchiò lei, passando una mano sul bancone scheggiato dove teneva il registratore di cassa. “... ma è mio e di Kyle, ce lo siamo guadagnato con il sudore della fronte e ci piace.”

“Si vede, infatti. E'... vitale, dinamico. Sono sicuro che a Nick piacerebbe fare una capatina qui. Lui ama molto fare surf e...” iniziò col dire Andrea prima di soffermarsi su una bacheca piena di fotografie.

Avvicinandosi per meglio osservare, l'uomo sgranò leggermente gli occhi non appena riconobbe uno dei surfer e Helena, avvicinatasi a lui, gli sfiorò un braccio con la mano e mormorò: “Conosco tuo figlio da anni, Andrea. Non mi sarei mai sognata di dire che i suoi figli sono meravigliosi, se non sapessi chi è il padre. Non sono così superficiale da dire una cosa che non penso e, soprattutto, di limitarmi a fare un complimento solo perché una persona ha una bella faccia.”

Andrea rimase in silenzio a contemplare Nick nella fotografia, abbracciato a un ragazzo dai corti capelli biondo rossicci, entrambi sorridenti e fieri di fronte a un mare agitato e furioso.

“Erano a Mavericks, nella Half Moon Bay... cinque anni fa, se non ricordo male” gli spiegò Helena, accarezzando con un dito la fotografia. “Nickolas finì al pronto soccorso con un taglio bello grosso al gomito, quella volta.”

Andrea assentì, mormorando con voce persa nei ricordi: “Ero a Dublino, quel giorno. Mi telefonò dicendomi di non preoccuparmi, casomai avessi letto sui giornali che era finito all'ospedale. Gli domandai cosa fosse successo e lui, ridendo e scherzando, mi raccontò del volo contro gli scogli.”

“Quando li accompagnai al pronto soccorso, ridevano come due matti” rammentò lei, accentuando il suo sorriso.

“Sapevi chi ero, quando ti sei fermata ad aiutarmi?” le domandò allora lui, lasciando perdere la fotografia per guardarla negli occhi ambrati.

Lei ridacchiò, dichiarando con candore: “Faccio schifo nel ricordare le facce delle persone. Lo dimostra il fatto che ho dovuto sentire il tuo cognome per ricordarmi di te dalle immagini che ho visto ai notiziari. E credimi, non rendevano nemmeno un po'.”

Andrea allora scoppiò a ridere, si passò una mano tra i capelli ordinatamente pettinati ed esalò divertito: “Oh, cielo! Ed io che pensavo di essere più famoso di così!”

“Nel tuo settore, sicuramente...” precisò Helena. “... ma non aspettarti che io sia una molto esperta. Le uniche cose che leggo sono i romanzi di Dickens e il settimanale di enigmistica.”

“Meglio” dichiarò Andrea, riuscendo in qualche modo a tornare serio.

Era difficile, con Helena che portava le persone a sorridere soltanto guardandola.

Era gioia, era purezza, era candore … era splendente, tutta quanta.

Nessun altro nome avrebbe potuto essere più calzante, su di lei.

Fece per chiederle altro di Nick e suo figlio, del rapporto che li legava, ma il suono del cellulare lo interruppe sul nascere, portandolo a rispondere lesto.

“Pronto?” mormorò lui, osservando distrattamente Helena, impegnata a fare le moine ai due bambini.

“Papà, posso sapere dove sei finito?” esordì Nick, con tono vagamente preoccupato. “Ho mandato Carl e Leonard a cercarti sulla Ocean Front, dove avevi detto che saresti andato, ma non ti hanno trovato da nessuna parte. Si sono fatti sette miglia a piedi, avanti e indietro, ma di te nessuna traccia. Dimmi che tu e i bambini state bene, o dovrò chiamare i marines per tenere bloccata Hannah.”

Andrea scoppiò a ridere sommessamente incuriosendo un poco Helena, che lo guardò con i suoi intensi occhi color brandy, caldi e fumosi.

“E' Nick” sussurrò lui, indicando il telefono prima di aggiungere: “Stiamo benissimo, tranquillizza la mia bambina, ragazzo. Non ci è successo nulla. Abbiamo solo... deviato un po'.”

Il figlio rimase in silenzio per un paio di secondi, dubbioso, poi gli domandò: “Spiegati meglio. Dove sei finito?”

“Sono in un bellissimo negozio di surf” gli disse il padre, facendo ridere Helena.

Nell'udire una voce di donna, Nick si accigliò leggermente e asserì: “Papà... con chi sei, scusa? E perché sei in un negozio di surf? Tu neppure ci vai, sul surf!”

“E' una storia un po' lunga e...”

Interrompendosi quando udì dei rumori di fondo piuttosto sconnessi, Andrea sorrise spontaneamente quando percepì la voce di Hannah farsi strada con prepotenza.

“Papà, dove cavolo sei?!” esclamò la donna, non poco agitata.

“Stiamo bene, tesoro, tranquillizzati.” Con tono suadente e pacato, aggiunse: “Cam e Dom hanno fatto i bisognini, li ho cambiati, hanno dormito e mangiato un po' di latte coi biscotti inzuppati. Sono in perfetta salute e adesso stanno giocando con... cos'è quello?”

“Un guanto in neoprene” gli spiegò Helena, facendo dondolare il guanto colorato di fronte alle mani tese dei bimbi.

“Oh... un guanto in neoprene” ripeté Andrea, sentendo bofonchiare Hannah per diretta conseguenza.

Nick riprese lesto il telefono e, perentorio, disse: “Papà, dimmi subito dove sei, altrimenti a Hannah verrà un infarto.”

“Sono al Rip Curl, e...”

“Cosa? Sei da Kyle e Lenny?” sbottò Nick, interrompendolo a metà della frase.

“Lenny?” esalò Andrea, notando poi Helena indicarsi simpaticamente. “Oh, vuoi dire Helena.”

“Helena è lì con te?” gracchiò Nick, sempre più sconcertato. “Papà... no, niente, lascia perdere. Veniamo lì, facciamo prima.”

Detto ciò, buttò giù il telefono lasciando Andrea tutto sorridente e divertito.

“Hai la faccia di un bambino che ha combinato una marachella” commentò con sincerità Helena, sorridendogli.

“Mi ci sento, in effetti” ridacchiò l'uomo, piegandosi verso i nipoti per sorridere loro. “Mi sa che ho fatto preoccupare mamma e papà, piccolini. Dite che mi sgrideranno?”

Cam e Dom se ne uscirono con un 'ti' dalle ottave altissime, portando i due adulti a tapparsi comicamente le orecchie e a chiedersi se quell'unica nota squillante potesse essere un 'sì, nonno, sei nei guai'.

Ad Andrea, però, importò poco.

Si stava divertendo come mai prima d'ora e, per la prima volta da molto tempo, si sentì vivo.

 

 

Parte V^

Universi paralleli.

 

 

La Lexus CT200h bianco cangiante di Hannah era posteggiata nel parcheggio riservato ai proprietari, in quel momento, e rifletteva il sole di quel pomeriggio piacevole e caldo.

Quando i due coniugi Van Berger ne discesero, però, la giornata parve un po' meno piacevole, almeno agli occhi di Andrea che, preoccupato, li osservò avvicinarsi al negozio a passo di carica.

Helena, accanto a lui, ridacchiò e, nel poggiargli una mano sulla spalla a mo' di consolazione, esalò: “Oh,... mammina è sul piede di guerra.”

“Sì, ed è una mammina alta, forte e che conosce il karate. Sono spacciato” mugugnò Andrea, sbuffando leggermente.

Nick aprì galantemente la porta alla moglie, entrando subito dopo di lei che, inquadrati immediatamente i figli, ignorò bellamente Andrea e Helena per accorrere da loro e rendere nota la sua presenza.

I bambini strillarono felici non appena la videro e Hannah, ora tutta moine e sorrisi, li prese entrambi in braccio per stringerli a sé mentre Nick, fermo dinanzi al padre, attendeva spiegazioni.

Il piede tamburellante e le braccia conserte non aiutarono Andrea a tranquillizzarsi. Nick poteva essere persino più pericoloso della moglie, se c’era da proteggere i figli.

Fu Helena, però, a intervenire prima di qualsiasi scoppio d’ira da parte dei genitori ansiosi.

“Su, ragazzo, non uccidere con i tuoi begli occhioni tuo padre. In parte è colpa mia. Volevo mostrargli il negozio” sorrise benevola la donna, attirando l'attenzione di Nick su di sé.

Lui storse il naso per un istante ma si chinò per un rapido abbraccio e un bacetto sulle guance, asserendo: “Sono tranquillo solo perché so che c'eri tu.”

“Ehi!” sbottò il padre, vagamente piccato.

Con Cam e Dom in braccio e incollati al suo collo, Hannah si avvicinò al trio e, sorridendo curiosa in direzione di Helena, disse: “Noi non ci conosciamo. Io sono Hannah, tanto piacere.”

“Il piacere è mio, cara. Io sono Helena” asserì la donna, sorridendo divertita quando la giovane madre cercò di allungare una mano con fare cordiale. “Se mi permetti, prendo Dom in braccio.”

Sentendosi interpellare, il bambino si voltò verso la donna con un angelico sorriso e si allungò per farsi prendere, sorprendendo un poco la madre che, divertita, chiosò: “A quanto pare, mio figlio dimostra già di avere buon gusto.”

Nick rise allegramente a quella vista e, ammiccando all'indirizzo della moglie, celiò: “Ha lo stesso gusto del padre, non c'è che dire.”

I due coniugi si scambiarono un'occhiata d'intesa e, per un attimo, Andrea pensò di essere in salvo.

False speranze.

Hannah non attese un solo istante e, recuperando il suo aplomb ormai famoso, fulminò con lo sguardo Andrea e asserì: “Sarebbe stato carino sapere i tuoi spostamenti, papà, almeno per evitare a Carl e Leonard un'inutile sfacchinata. D'accordo che la Ocean Front è piena di belle donne, e sicuramente si sono lustrati gli occhi mentre ti cercavano, ma il fatto rimane; ci hai fatti morire di paura.”

“'Ura!” trillò Cam, in braccio alla mamma.

Andrea le sorrise contrito e, avvicinandosi alla donna, la strinse in un leggero abbraccio baciandole la fronte con tenerezza. “Mi perdoni, bambina mia?”

“Ovvio” borbottò Hannah, reclinando il capo con un casto rossore a imporporarle le gote. Non si era ancora abituata ad avere ben due padri amorevoli. “Ero solo preoccupata per voi.”

“Lo so, tesoro, e mi spiace di averti fatto stare in pena ma... beh, proprio non ci ho pensato. Sapevo che erano al sicuro, e così...” cercò di spiegarsi Andrea, lanciando un'occhiata disperata all'indirizzo di Helena, che sorrise dolcemente con le sue labbra a cuore.

“Stavamo parlando di Nick e dei suoi trascorsi con gli ospedali, e così non ci siamo accorti del tempo che passava” spiegò benevola Helena, incuriosendo non poco Hannah.

“Il tuo gomito?” si informò subito la giovane, rivolgendosi al marito.

Annuendo all'indirizzo della moglie, Nick sogghignò nel guardare Helena e disse: “Mi accompagnò lei all'ospedale, quando mi schiantai contro gli scogli. E Kyle che mi prendeva in giro come un matto.”

“Per forza, amico...” esordì una voce sull'entrata, accompagnata dal tintinnio dei campanellini appesi sopra la porta. “... sanguinavi come una fontana e ridevi come un pazzo. Eri troppo comico!”

“Kyle! Ciao, amico!” esclamò Nick, esibendosi nel mezzo abbraccio tanto caro agli uomini.

Due pacche sulle spalle e Nick perse completamente il suo aplomb manageriale per parlare in un tipico slang da strada assieme a Kyle che, con i suoi capelli ossigenati e sparati in testa, sembrava appena uscito da un rave party.

Hannah sorrise nel vedere il marito così spensierato e Helena, al suo fianco, mormorò: “Sono stata in ansia per lui per anni, ma sono stata felice di sapere che si era sposato con te. Mi hai fatto una bella impressione fin da quando ti ho sentita parlare a quella conferenza stampa sulla costruzione della nuova centrale eolica di L.A.”

“Grazie” sussurrò Hannah, continuando ad osservare i due uomini parlare gradevolmente del loro mondo, fatto di onde e balzi strepitosi. “E' bello vedere anche questa parte del suo universo. Ogni tanto lo accompagno, ma non sono molto esperta in materia.”

“E-ehi! Posso insegnarti io!” si intromise con spavalderia Kyle, sorridendo  a Hannah con aria maliarda.

Nick si accigliò immediatamente e la moglie, scoppiando a ridere e coinvolgendo a questo modo anche Helena e Andrea, esalò esasperata: “Dio, ti prego, Nick! E' un tuo amico!”

“Se vuoi imparare, ti insegno io. Non se ne parla che io lasci a Kyle un simile piacere” replicò perentorio l'uomo, facendo sogghignare non poco l'amico.

Ammiccando con fare cospiratorio, Kyle asserì divertito: “In effetti, sai, trattandosi di tua moglie, dovrei stare particolarmente attento a che non si faccia male, perciò dovrei tenerla in posizione con molta attenzione e...”

“Appunto” grugnì Nick, scuro in volto. “Le tue mani sui suoi fianchi non ce le metti, bello.”

Kyle scoppiò nuovamente a ridere assieme agli altri e Nick, raggiunta la moglie – che stava ancora ridendo gaiamente – avvolse la sua vita con un braccio e sentenziò: “Lei non la tocca nessuno.”

“Fai bene a tenere a freno mio figlio, Nick. Si diverte un po' troppo, ultimamente” dichiarò allegra Helena, dando di gomito a Hannah, che sorrise complice prima di ammiccare all’indirizzo di Kyle.

“Mamma, ti prego!” esclamò il diretto interessato, avvampando in viso per l'imbarazzo.

 

Parte VI^

Brandy e fragole.

 

Kyle, Hannah e Nick stavano chiacchierando animatamente accanto alla Lexus, i bambini già sistemati sui sedili posteriori, legati ai loro seggiolini ergonomici.

Helena e Andrea, invece, erano fermi sulla soglia del negozio, restii a unirsi a loro.

Vederli dialogare del più e del meno era piacevole per diversi motivi.

Andrea amava scorgere quel lato leggero del figlio, sempre impegnato nella direzione della ditta per lasciare al fratello e a lui più tempo per loro stessi.

Gli aveva ripetuto più volte di non esaurirsi, o di non lasciare che il lavoro lo tenesse separato dai suoi amori, ma lui gli aveva assicurato che non sarebbe mai successo.

Vederli così complici e sorridenti gliene diede una conferma. Inoltre, scoprire quanto affiatati fossero Nick e Kyle gli fece piacere.

“Sono molto belli, assieme” mormorò Helena, al suo fianco.

Andrea annuì. “Mi fa piacere che i nostri figli vadano così d'accordo.”

Ridendo sommessamente, Helena si spiegò meglio. “Intendevo Nick e Hannah. Ma anche Nick e Kyle mi sta bene.”

“Sì, sono davvero perfetti per stare insieme, quei due. Ed io la adoro” assentì orgoglioso Andrea.

“Si vede. E lei è davvero adorabile. Mi ha fatto piacere scoprire che, per una volta, i giornali avevano scritto una notizia vera. E' sincera, spigliata e affabile. Oltre a essere una donna estremamente attraente” dichiarò Helena, annuendo più volte.

“Posso rivolgere anche a te, questi complimenti” replicò Andrea, sorridendole con generosità.

Helena sorrise, arcuando quelle meravigliose labbra a cuore e color fragola e, maliziosa, sussurrò: “Andrea... sei davvero un adulatore.”

“Sincero, piuttosto” ribatté lui, scrollando le spalle. “E mi piacerebbe scoprire se hai altri lati del tuo carattere altrettanto interessanti.”

Sbattendo le lunghe ciglia bionde su quei meravigliosi occhi color brandy, che in quel momento lo stavano mandando vagamente in confusione, Helena dichiarò: “Se non hai niente da fare, domenica, mi piacerebbe andare a vedere la partita di baseball dei Los Angeles Dodgers.”

“E' da un po' che non vado allo stadio. Non sarebbe una cattiva idea, così almeno sfrutterei l'abbonamento che mi mandano tutti gli anni” assentì lui, facendola ridere sommessamente.

“Tieni pronti due cesti di pop-corn. Li divoro come se niente fosse” lo mise in guardia lei, battendogli una mano sul braccio.

“Ne prenderò un bel po', allora, perché piacciono un mondo anche a me” ritorse lui, assottigliando le palpebre con fare vagamente malizioso.

“Papà! Noi andiamo! Vieni con noi?” lo informò Nick, interrompendo quel breve interludio.

“Arrivo!” esclamò subito Andrea, tornando però a rivolgere un ultimo sguardo a Helena per sussurrare: “Ti passo a prendere qui alle dieci, va bene?”

“Metti jeans, maglietta e scarpette. Sarà meglio” gli raccomandò lei, alzandosi in punta di piedi per stampigliargli un bacio leggero sulla guancia. “A presto, Mr Van Berger.”

“Solo Andrea, per te” si raccomandò lui, allontanandosi a ritroso per alcuni passi prima di spezzare – a fatica – il contatto visivo con lei.

Quando infine salì in auto a fianco dei suoi nipoti, che si erano appisolati dopo quella lunga giornata passata in giro per Los Angeles, Andrea si allacciò la cintura con un bel sorriso stampato in viso.

Sorriso che non passò inosservato a Nick che, dal posto di guida, chiosò: “A quanto pare, hai fatto conquiste, oggi.”

Hannah sorrise sotto i baffi, cercando di non scoppiare in una fragorosa risata ma Andrea non raccolse la sfida e si limitò a scrollare le spalle, imperturbabile.

“Kyle mi ha detto che Lenny non ha mai invitato nessun uomo in negozio, prima di te. Non sei proprio da buttare, allora, quanto a fascino, papà” insistette Nick, ormai prossimo a scoppiare a ridere.

“Chi l'ha detto che non ho charme?” protestò amabilmente Andrea.

Hannah  non ce la fece più. Esplose a ridere e, volgendosi a mezzo per allungare una mano ad Andrea, gliela batté su un ginocchio e disse: “Sono contenta per te, papà.”

“Andremo solo a vedere giocare i Dodgers, ragazzi... niente di che” precisò lui, sentendosi in dovere di chiarire senza però saperne il motivo esatto.

“Ti presterò la Lambo, allora. Hannah l'ho conquistata così” strizzò l'occhio Nick, facendo inalberare un poco Hannah.

“Non è assolutamente vero!” sbottò lei, avvampando in viso.

“Ammettilo che il nostro giro in Lambo ti ha fatto capitolare...” ridacchiò lui, ammiccando.

Andrea li guardò battibeccare con un sorriso dipinto sul viso ma, dopo alcuni attimi, preferì chiudere gli occhi e concentrarsi sulla bella giornata appena passata.

Non avrebbe mai pensato che il brandy e le fragole potessero stare così bene assieme.

Non si finiva mai di imparare.

 

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Capitolo 2
*** Viaggio... con sorpresa (Giugno 2012) ***


111

Amsterdam era caotica, variopinta, ricca di profumi speziati, di turisti provenienti da ogni parte del mondo ma, più di tutto, era ricca di canali.

Era stato divertente raggiungere la casa di Cécille e Michael. utilizzando una delle barche piatte e lunghe che attraversavano in lungo e in largo la città olandese. Quando finalmente erano giunti a destinazione, Nick aveva afferrato i trolley e aveva sorriso soddisfatto a Hannah, divertito dalla sua aria meravigliata quanto affascinata assieme.

Era lieto che il viaggio le stesse piacendo.

Ad attenderli alla pensilina, interamente assolata e riscaldata dal chiacchiericcio allegro della gente, la coppia trovò ad attenderli Cécille, la moglie fiamminga di Michael.

Piccola di statura ed esile di corporatura, aveva brillanti occhi azzurri e corti capelli castano scuri tagliati appena sotto le orecchie.

Il viso a cuore era dolce, solare e pieno di spirito e, quando la donna strinse con forza la mano di Hannah, la giovane ne rimase immediatamente conquistata.

“Prego, ragazzi, venite. Togliamoci da questa masnada di turisti” sorrise loro la donna, accompagnandogli verso una Toyota Prius Hibrid color sabbia. “Michael e i ragazzi sono ancora in ufficio, ma ci raggiungeranno per pranzo. Com'è andato il viaggio?”

“Tutto bene, zia. Siamo arrivati in perfetto orario” la rassicurò Nick, caricando i trolley nel bagagliaio prima di salire assieme a Hannah.

“Che ne dici della nostra città, Hannah? Ci eri mai stata?” domandò allora Cécille, mettendosi al posto di guida.

“E' davvero originale, con questa serie di canali che si intersecano tra loro come autostrade... ho visto poco, per ora, ma quel che mi è capitato sotto gli occhi è stato molto interessante” dichiarò con sincerità Hannah, osservando ammirata gli alti palazzi dalle pareti colorate, gli stucchi alle finestre e le buffe torrette a cupola che molti di loro vantavano sui tetti spioventi.

Le strade, ricoperte di san pietrini, erano ordinate e pulite ma pullulavano di biciclette, motorini e taxi.

Cécille, però, da conoscitrice navigata di quel caos multiforme, svicolò abilmente in mezzo al traffico fino a raggiungere l'entrata del parcheggio sotterraneo della loro casa a tre piani.

Situata sul Prinsengracht, uno dei tanti canali di Amsterdam, aveva una facciata interamente a mattoncini rossi, ricoperta in parte da foglie rampicanti di edera verdeggiante.

Le finestre, cinte da stucco bianco, erano immensi occhi che raggiungevano il tetto nero e spiovente e la lunga scala d'ingresso, in granito rosa, era accompagnata da un mancorrente in ferro battuto.

Nel salirla assieme alla padrona di casa e a Nick, Hannah osservò con curiosità il piccolo appezzamento di terra dinanzi all'abitazione, da cui prendevano vita le edere che ricoprivano casa e, rivolgendosi a Cécille, le domandò: “Immagino che qui in città sia un lusso avere un giardino ampio, vero?”

“Non ce l'ha quasi nessuno, in effetti. Lo spazio è quello che è, qui, e il costo dei terreni è mostruoso, così ci eleviamo verso il cielo, invece che in largo come fate voi americani” le spiegò la donna, sorridendo benevola. “Ma sono sicura che troverai soddisfazione nella mia piccola serra sul tetto. Nicklaj ci ha detto che sei un'amante delle piante come lui.”

“Ci intendiamo molto, in quel campo” sorrise Hannah, entrando finalmente in casa.

Sospirando di sorpresa, la giovane ammirò con piacere il parquet chiaro sul pavimento, il lungo tappeto orientale che si snodava dalla porta fino in fondo all'abitazione e la gradevole carta da parati in seta che ricopriva la parte alta dei muri.

In basso, le pareti erano abbellite da una fitta pannellatura in legno di cedro rosso, lucidato a specchio e dalle bellissime striature lineari.

Sui mobili del corridoio, belle lampade in vetro e ferro battuto si intervallavano a fotografie della famiglia, dove Hannah poté scorgere Aaron e Christoffer all'età di circa nove-dieci anni.

Anche Nick si soffermò ad osservarle e, sorridendo divertito, domandò alla zia: “Non era il periodo in cui Aaron si ruppe il braccio in bicicletta?”

“Più o meno sì. Volevano girare tutta l'Olanda Meridionale con quelle maledette trappole!” ridacchiò Cécille, invitandoli a seguirli al piano superiore.

Dopo aver abbandonato quell'angolo di casa, salirono una pesante scala in legno e si ritrovarono sul piano delle camere da letto.

Lì, la padrona di casa li scortò fino a un'enorme stanza nei toni dell'azzurro pallido, dove un letto a baldacchino dalle tende in velluto blu notte campeggiava per grandezza e bellezza.

Vicino alla finestra era stata sistemata un'ottomana dai cuscini in tinta con il letto e, sul muro opposto, un bel mobile a specchiera si accompagnava a un tavolino da toeletta.

Aprendo una porticina, Cécille mostrò loro il bagno personale, interamente rivestito da piastrelle che ricordavano tanto gli occhi di Nick e, con un sorrisino, disse loro: “Vi lascio un attimo. Vado a preparare il pranzo. Fai tu gli onori di casa, Nicklaj?”

“Certo, zia. Scenderemo appena sistemato le valige” le promise lui, dandole un bacetto sulla guancia.

La donna allora si allontanò tutta soddisfatta e Hannah, guardandosi intorno con un sorriso, sfiorò le pareti ricoperte di calde pannellature in legno chiaro e mormorò: “E' davvero bellissima. Quanti anni ha questa casa?”

“Credo si aggiri intorno ai duecento, o giù di lì. Lo zio mi ha detto che appartiene alla famiglia Van Berger da almeno cinque generazioni” le spiegò Nick, aprendo i trolley per iniziare a svuotarli.

Hannah si mise d'impegno per aiutarlo ma, a metà dell'operazione, dovette sedersi per riprendere fiato.

Subito preoccupato, Nick le sfiorò il viso pallido e leggermente umido, domandandole: “Ehi, ti senti bene?”

“Mi sa che quel pretzel che ho preso all'aeroporto mi è andato di traverso. Dovevo saperlo che i semi di papavero mi avrebbero dato fastidio” brontolò Hannah, facendosi aria con una mano.

Nick le sorrise dolcemente e, terminando il lavoro anche per lei, le disse: “Sei tu che vuoi mangiare tutto quello che vedi.”

“Sono cosmopolita, Nick. Mi piace assaggiare i piatti tipici” replicò lei, ammiccando comicamente.

“Beh, sarai accontentata. Zia Cécille è un'ottima cuoca, per quel che so” le confidò Nick, tornando da lei non appena ebbe sistemato i trolley.

“Com'è recuperare parte della tua famiglia dopo tanto tempo?” gli domandò a quel punto Hannah, sdraiandosi sul letto assieme a lui.

Nick se la strinse al petto e, dopo alcuni momenti dedicati a formulare una risposta adatta, asserì: “E' stato strano, i primi tempi, trovarmi a parlare così spesso con lo zio, ma è stato anche piacevole. E ora che la villa a San Francisco è finalmente finita, ci ritroveremo Aaron e Chris sulla soglia di casa quando meno ce lo aspettiamo!”

Hannah rise a quel commento e, baciato che ebbe Nick sul naso, asserì: “Ammettilo che li adori!”

“Sono simpatici...” ammise di malavoglia lui, rialzandosi con lei per scendere dabbasso. “Meglio?”

“Sì, meglio, grazie” assentì lei, avvolgendogli la vita con un braccio.

§§§

“... e così abbiamo pensato che il modo migliore per farvi visitare Amsterdam fosse affittare una barca per tutta la giornata” terminò di dire Christoffer, allungando a Hannah il vassoio con le patate al forno.

“Sarebbe bastato un giro a piedi per il centro. Non c'era bisogno di scomodarsi tanto!” replicò lei, sorridendo affabile al cugino acquisito.

“Niente è mai abbastanza per la mia adorabile cugina” sentenziò con galanteria Chris, sollevando una mano di Hannah per un elegante baciamano.

Nick sbuffò mentre Aaron si esibiva in un risolino divertito.

Michael e Cécille, invece, si scrutarono con espressioni ironiche e l'uomo, rivolgendosi al nipote, dichiarò: “Se avessi saputo che, per far diventare dei gentiluomini questi due orsi, ci voleva Hannah, l'avrei rapita prima del tuo matrimonio.”

“Sei arrivato tardi, zio. Hannah è mia e solo mia, e così sarà finché avrò fiato nei polmoni” decretò Nick, versandosi un po' di vino rosso nel calice in cristallo boemo.

Chris e Aaron si esibirono i ululati denigratori, cui però il cugino non badò minimamente, limitandosi a terminare il suo arrosto perfettamente eseguito dalle abili mani di Cécille.

“Ragazzi, è inutile prendere in giro vostro cugino. Lui si è dimostrato solo più furbo di voi” intervenne con una certa ironia Cécille, ritrovandosi addosso le occhiate risentite dei figli.

Hannah ridacchiò e, nel dare una pacca sul braccio a Christoffer, che le sedeva accanto, gli confidò: “Se vuoi, ti presento ad alcune mie amiche.”

“Sono come te?” si mostrò interessato il giovane, sorridendole speranzoso.

“Ti riferisci a Sy e Claire?” si informò Nick, sorridendo alla moglie.

Hannah assentì ed il marito, con aria saputa, dichiarò: “Ah, no, cara. Sono troppo furbe, per questi due.”

“Ehi, dico!” sbottarono in coro i due fratelli, facendo scoppiare a ridere i genitori.

Michael osservò benevolo e sorridente la famiglia e, piegandosi per parlare all'orecchio di Hannah, chiosò: “Grazie per aver reso così felici i miei ragazzi.”

“E' stato un piacere” dichiarò lei, sorridendo ai due coniugi prima di impallidire visibilmente.

Michael si preoccupò all'istante e così pure Cécille che, levatasi in piedi in tutta fretta, attirò l'attenzione dei figli e del nipote, facendo azzittire l'intera casa.

Subito, Nick la imitò ma Cécille lo bloccò con un gesto della mano e aiutò Hannah ad alzarsi per accompagnarla nel vicino bagno, mentre Aaron e Chris si guardavano terrorizzati.

Michael sfiorò con una mano il braccio leggermente tremante del nipote e, imponendogli di sedersi, gli disse: “Vedrai che non è nulla. Sarà un residuo del viaggio. Sai per caso se soffre il mal d'aria? Può fare scherzi simili.”

“Non lo so” esalò Nick, sgranando leggermente gli occhi per l'ansia. “Quando siamo andati in Nuova Zelanda non era stata male.”

“E' stato l'anno scorso, giusto?” si informò allora Michael con gentilezza.

“Sì, perché?” gracchiò il giovane, fissandolo senza capire.

In quel mentre, Cécille uscì dal bagno di corsa e, nel passare loro accanto per recarsi al piano superiore, esclamò: “Va tutto bene!”

Nick non ne fu per niente certo e, scusandosi con il resto della famiglia, si avviò a grandi passi verso il bagno.

Una volta aperta la porta, quasi non crollò a terra senza forze quando vide Hannah, seduta sulle piastrelle del pavimento e abbracciata alla tazza del water come se ne andasse della sua vita.

Era pallida come un morto, con i suoi occhi grigi sgranati per l'ansia che lo fissavano senza risposte da dargli, e la bocca piegata in una smorfia di dolore.

“Vai via, ti prego...” gracchiò lei, prima di gettarsi nuovamente in un altro attacco di vomito.

Nick non ci pensò neppure un secondo. Fu da lei in un lampo e la sorresse per tutto il tempo, trattenendole i capelli in una mano mentre la moglie dava di stomaco.

Quando la crisi fu passata, le massaggiò teneramente la schiena in lenti massaggi e, non appena vide entrare la zia, esalò sconvolto: “Che le succede?”

“Ne ho una mezza idea, ma così su due piedi non vorrei sbilanciarmi a darti false informazioni. Aiutala da alzarsi, così può cambiarsi la camicetta” lo instradò con calma Cécille, osservandolo con i suoi benevoli occhi chiari.

Nick fece come gli fu detto e, dopo aver aiutato Hannah a cambiarsi, la accompagnò fuori dal bagno, dove Michael e i due fratelli li stavano aspettando trepidanti.

“Su, non fate quelle facce!” sbottò Cécille, battendo le mani per richiamarli all'ordine. “Ora andiamo da Isobel e vedrete che sistemeremo tutto in un batter d'occhi.”

“Isobel?” ripeté sorpreso Michael, subito guardato con attenzione dai due figli che, invece, non ci stavano capendo niente.

“Eh, già, Isobel” ripeté lei, con un gran sorriso. “Voi rimettetevi pure a mangiare, mentre io la accompagno dalla dottoressa. Ci metteremo poco.”

“Non se ne parla!” sbottarono in coro i quattro uomini.

Hannah, ancora stretta al marito, lo guardò con il dubbio negli occhi e Nick, perentorio, dichiarò: “Dove va lei, vado io.”

“E noi ti seguiremo” sentenziò Michael, annuendo ai due figli, che si mossero lesti per recuperare le chiavi delle auto.

“Scusami, Cécille...” gracchiò Hannah, fissandola spiacente.

“E di che, ragazza? Se è come penso, farò i salti di gioia” dichiarò la donna, sospingendola verso la porta di casa assieme a Nick.

§§§

Non appena i tre giovani scorsero sul pannello della porta di che genere di ambulatorio si trattava, le reazioni furono differenti, ma tutte piuttosto evidenti.

Aaron e Chris fissarono il cugino con eguale aria divertita e vagamente strafottente mentre Nick, senza parole, raggiunse la prima sedia utile e si sedette, del tutto senza parole.

Certo, ci aveva pensato.

Certo, ne avevano parlato più di una volta.

Certo, tutto era possibile, visto che Hannah non stava più prendendo precauzioni da tempo.

Ma cavoli... un figlio?!

Michael gli si sedette al fianco mentre Cécille pensò ad accompagnare Hannah dalla ginecologa e, battendo una mano sulla spalla del nipote, gli domandò: “Lo stavate cercando?”

“Beh, sì e no. Ce la siamo presa comoda, per la verità. Hannah ha smesso gli anticoncezionali e... oddio...” gracchiò Nick, portandosi le mani nei capelli con aria sconvolta prima di guardare disperato lo zio. “E... e se fosse un bambino?”

I cugini ridacchiarono alle sue parole, ma Michael li redarguì con un'occhiata fulminante, che li fece tacere nell'immediato. Rivoltosi poi al nipote, asserì: “Non vedo quale sia il motivo di tanta agitazione. Non lo vuoi?”

“Sì, certo. Se così fosse, sarei felicissimo, ma... ma Hannah...” tentennò lui, passandosi una mano sul torace, in corrispondenza del cuore. Una fitta improvvisa gli tolse il fiato, al pensiero di quello che un bambino avrebbe potuto voler dire per loro.

Non solo gioia, aspettativa, ma anche ansia, paura e...

“E se le succedesse qualcosa?” ansò senza forze Nick, facendo scemare di colpo tutta l'allegria dei due cugini, che si volsero a fissare ansiosi la porta dello studio.

“Nicklaj, queste non sono cose a cui devi pensare. Hannah è una ragazza sana e forte, non hai motivo di preoccuparti” lo rincuorò Michael, sorridendogli premuroso.

“Ma l'hai vista!” protestò Nick, ancora parecchio pallido in viso.

“Cécille mi odiò per i primi quattro mesi di gravidanza, quando aspettò Aaron. Non ci vedo nulla di strano, specialmente dopo un volo così lungo in aereo” replicò con serenità Michael.

“Sì, ma...” tentennò Nick, alzandosi in piedi come una molla quando la porta dello studio si aprì e ne uscì per un momento Cécille.

“Tesoro, potresti entrare anche tu?” mormorò la donna, rivolta al nipote.

Nick annuì come un automa e, non tanto saldo sulle gambe, si infilò nello studio mentre i due cugini e lo zio restavano fuori in attesa di notizie. Cécille si limitò a far loro un segno con il pollice levato in aria, prima di rientrare e chiudersi la porta alle spalle.

I tre uomini sospirarono di sollievo e, più calmi, attesero notizie. Loro potevano aspettare, in quel momento, Nick no.

Non altrettanto calmo fu Nickolas alla sua entrata, quando vide Hannah sdraiata sul lettino della dottoressa e con la pancia piatta e liscia ricoperta di gel trasparente.

Gli sorrise, allungando una mano nella sua direzione e, non appena Nick gliela strinse per portarsela alle labbra, lei mormorò: “Mi sa tanto che dovremo allestire una stanza in più.”

“Come?” gracchiò l'uomo, fissandola a occhi sgranati prima di rivolgere un'occhiata confusa in direzione della dottoressa.

La donna, un'ispanica dai lunghi capelli bruni e l'aria simpatica, gli sorrise benevola dicendo: “Da quel poco che abbiamo visto, sua moglie è incinta di almeno sette settimane, e pare che ci siano due gemellini, dentro di lei. La visuale è ancora sgranata, visto quanto sono piccoli, ma ne ho la certezza quasi assoluta. Si sentono due battiti ben definiti e la loro lunghezza è nella norma. Per ora, direi che la gravidanza sta procedendo secondo norma e, per le nausee, eviterei cibi speziati almeno per un po'.”

“Oddio...” esalò Nick, sentendosi le gambe improvvisamente molli. Cécille fu lesta a passargli uno sgabello, sul quale lui si sedette in tutta fretta e, sempre tenendo la mano di Hannah tra le sue, riuscì a dire: “Quindi... è tutto regolare?”

“Sì, non si preoccupi. Consiglio di andare da un medico non appena tornerete a Los Angeles per iniziare le cure e i ricostituenti necessari ma, per il resto, va tutto bene” li informò la dottoressa, dando una pacca leggera sulla spalla di Hannah, che sorrise orgogliosa.

Nick annuì ad ogni parola, limitandosi a tenere il capo poggiato contro la spalla di Hannah, gli occhi chiusi e il cuore che pulsava a mille.

Due. Gemelli. Non aveva sperato in tanto neppure quando ne avevano parlato la prima volta.

Pareva quasi che il destino volesse ripagarli delle precedenti sofferenze, conferendogli in un colpo solo una doppia felicità.

Ma Nick era restio a credere che tutto potesse andare così liscio, così bene, dopo aver patito per tanti anni a causa della madre.

“Nick” mormorò sua moglie, ridestandolo da quel breve incubo a occhi aperti.

“Sì, amore. Dimmi tutto” asserì lui, rialzandosi immediatamente prima di rendersi conto che erano soli, nello studio. “Oh, ma... la dottoressa e zia Cécille?”

“Sono uscite per dare la bella notizia” gli spiegò lei, sistemandosi i pantaloni dopo essersi tolta il gel con un po' di carta. Sedutasi sul lettino, prese il suo viso tra le mani e lo baciò. “Va tutto bene, Nick?”

“Dovrei chiederlo io a te” replicò lui, attirandosela vicino per poi poggiare il capo tra i suoi seni. “Cristo, non me lo aspettavo!”

“Neppure io! Con tutto il lavoro che abbiamo in azienda in questo periodo, non ho proprio fatto caso al tempo che passava...” ridacchiò lei, baciandolo sui capelli con amore. “Però, sei contento, vero?”

“Al momento sono terrorizzato per te. Con calma, poi, apprezzerò anche la notizia” ammise lui con sincerità.

“E perché dovresti essere terrorizzato per me?” replicò lei, vagamente confusa.

“Non mi è piaciuto vederti star male. Io voglio che tu stia sempre bene, e sempre felice” mormorò lui, con tono vagamente petulante.

Hannah allora rise sommessamente e, scostandolo da sé per guardarlo negli occhi, dichiarò: “Sarò ben felice di avere un po' di malessere passeggero, visto quale sarà il risultato e, se proprio vorrai, mi sosterrai durante tutti i mesi in cui starò male, e ti buscherai anche i miei improperi e minacce, va bene?”

“Tutto quello che vuoi” annuì lui con foga.

“Oh, Nick!” sorrise lei, stringendoselo al petto con amore. “Ci pensi? Due!”

“Già... sono già in ansia adesso” ridacchiò Nick. “E Stark? Sarà geloso di loro? Sarà il caso di tenerlo lontano dalle culle, una volta che...”

Si fermò, strinse gli occhi con forza per un attimo e, infine, attirò a sé Hannah per un bacio dolce e pieno d'amore. “Due gemelli. Tutti nostri.”

“Già” assentì Hannah, piena di gioia. “Quanto a Stark, non credo ci saranno problemi. Non è mai stato geloso di te ma, per precauzione, vedremo come reagirà.”

Nick le sorrise, annuendo e, con dita leggere, sfiorò il suo ventre prima di mormorare contro la sua pancia: “Vi voglio già bene, sapete?”

“Anche la mamma” aggiunse lei, ammiccando al marito.“Hai già qualche idea, sui nomi? La vostra è una famiglia antica, e forse...”

Interrompendola sul nascere, Nick scosse il capo e replicò: “Sceglieremo i nomi che ci piacciono. Punto. Non mi interessa se il mio trisavolo si chiamava Olaf o la mia bisnonna Whilelmina. Curioseremo in giro e poi decideremo.”

“Se saranno due maschi, che ne dici di Steve e Bruce?” disse allora Hannah, con un sorriso birichino dipinto sul volto.

Accigliandosi leggermente, Nick le domandò: “Perché proprio questi nomi?”

Lei ridacchiò e Nick, pensandoci bene, sospirò esasperato e scosse il capo con forza, replicando torvo: “Non se parla. Non darai ai nostri figli i nomi di Captain America e Hulk.”

Hannah allora scoppiò a ridere e lo abbracciò con forza, mormorando contro di lui: “Tu mi conosci davvero.”

“Vorrei ben sperare. Sono tuo marito” ironizzò lui prima di veder comparire come un'onda di piena i due cugini, seguiti con più calma da Michael, Cécille e la dottoressa.

Aaron e Chris gli strapparono praticamente dalle braccia Hannah, stringendola a loro con foga e facendole i complimenti per la bellissima scoperta, ignorando bellamente Nick, che li squadrò malissimo.

Michael, sorridente e fiero, gli giunse alle spalle e, poggiate le mani sulle braccia, lo scrollò un poco dicendo: “Le mie felicitazioni, ragazzo.”

“Grazie, zio” mormorò lui, alzandosi in piedi prima di spingere via i due cugini ed esclamare: “Insomma, piantatela! E' incinta! Dovete trattarla bene!”

“Sei il solito scorbutico, Nicky. Non vuoi condividere con noi la tua gioia?” ironizzò Aaron, strizzando l'occhio a Hannah, che rise sommessamente.

“Condividere la gioia non vuol dire condividere la moglie, cugino. Hai le idee un po' confuse” brontolò Nick.

“Che egoista!” si lagnò Aaron, ricevendo per diretta conseguenza uno scappellotto dalla madre. “Ahia!”

“Così impari a parlare come una persona adulta, la prossima volta” dichiarò sorridente Cécille. “Complimenti, ragazzi. Non potevate rendere più bella la vostra visita da noi.”

“Non era programmata ma, … grazie” sorrise Nick, dando un bacio sulla guancia a Hannah.

§§§

Le stelle si intravedevano appena nel cielo terso, a causa dell'illuminazione feroce che invadeva le strade di Amsterdam, ma a Hannah poco importò. Quel giro in barca per i canali era bello anche così.

Inoltre, con quel tipo di illuminazione non le poteva sfuggire nulla, neppure il minimo dettaglio.

Dettagli che invece stavano sfuggendo a Nick che, per tutto il tempo, non aveva fatto altro che guardare lei.

Non che le spiacesse, ma trovava la cosa vagamente inquietante.

Ad un certo punto, si sistemò meglio sulla sedia reclinabile del piccolo battello e lo scrutò negli occhi limpidi, chiedendogli: “Posso sapere cosa stai cercando di capire, guardandomi?”

“Ti osservo perché mi piace il tuo viso” scrollò le spalle lui, sorridendole.

“Ormai dovresti aver imparato com'è” replicò lei, divertita.

“Non mi stancherò mai dei tuoi lineamenti” mormorò Nick, baciandola con tenerezza.

“Neanche quando sarò vecchia e rugosa?” ironizzò allora la donna, giocherellando con le chiome morbide del marito.

“Sarai sempre bellissima. E ogni giorno io ti dirò che ti amo e farò l'amore con te” le promise lui, scendendo con la bocca per sfiorarle il collo.

Ridacchiando, Hannah sussurrò: “Guarda che siamo all'aperto, la barca la sta guidando Aaron e Chris sta arrivando con gli aperitivi. Vuoi davvero dar loro un'occasione per prenderti in giro?”

“Che guardino pure. Non hanno che da imparare” ironizzò il marito, pur risistemandosi sulla sua sedia.

“Preferirei essere la sola, a imparare da te” gli sussurrò lei, portandolo a sorridere tronfio.

“Finora, sei stata un'allieva eccelsa” ammise Nick, chinandosi per baciare il ventre piatto della moglie.

Alle sue spalle, Chris esclamò: “Niente oscenità in luogo pubblico, Nick!”

Hannah scoppiò a ridere e, nel prendere dalla mano del cugino un bicchiere di limonata fresca, asserì: “Ma Amsterdam non è una città liberale, in quel senso?”

“Siamo noi che non vogliamo vedere le chiappe di Nick!” replicò Aaron, facendo scoppiare a ridere tutti.

“Come se volessi spogliarmi qui, dinanzi alle vostre brutte facce” brontolò con un ghigno Nickolas, afferrando dalla mano del cugino un Martini con ghiaccio.

Accomodandosi accanto a loro, Chris celiò: “Se lo facessi, sareste voi a dover portare me dal dottore, stavolta.”

“Di certo non ti porteremmo dalla dottoressa Isobel” precisò Nick, dandogli di gomito.

“Mmmhhh. Devo capire come fare per andarci, invece. Non è male” dichiarò con un sorrisino Christoffer, sorseggiando il suo bourbon con aria meditabonda.

Hannah gli sorrise complice e gli sussurrò: “Puoi sempre passare casualmente davanti al suo studio per ringraziarla di aver trattato così bene tua cugina.”

Chris sorrise con la bocca e gli occhi alla donna e, stampigliatole un bacio con lo schiocco su una guancia, sentenziò: “Ti amo, Hannah. Sei un genio.”

“Ehi, piano con le esternazioni!” sbottò Nick, facendo sghignazzare i due fratelli e sorridere Hannah.

“Rompipalle. Se vuoi, dico anche a te che ti amo, cugino...” ghignò Chris, allungandosi per dargli un bacio.

Nick allora gli schiacciò una mano sulla faccia per spingerlo via e, da quel momento in avanti, fu il parapiglia.

I due uomini iniziarono a spintonarsi e farsi i dispetti come due bambini delle elementari e Hannah, osservandoli con occhi brillanti e divertiti, carezzò la pancia con amore e sussurrò: “Mi sa che vi educherò io, ragazzi. Vostro padre mi sembra ancora in fase preadolescenziale.”

Quando Nick e Chris finirono con lo stendersi a terra per darsele bonariamente di santa ragione, mentre Aaron inneggiava alla violenza e i due cugini ridevano a crepapelle tra una spinta e l'altra, Hannah annuì tra sé con veemenza.

Sì, all'educazione ci avrebbe pensato lei.

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Capitolo 3
*** Lezioni di cucina. (Settembre 2014) ***


6

Brandon amava il football.

O meglio, quello che veniva dal football.

Cioè spalle ampie, addominali scolpiti, braccia forti... insomma, il pacchetto completo.

E Phill era il prototipo perfetto di questo sport.

Poco importava se la sua carriera era terminata da tempo e se, nel suo futuro, si potevano scorgere solo planimetrie, squadre, programmi di Auto-CAD e levatacce per recarsi in mille e più cantieri.

Era comunque affascinante. E la stazza del giocatore di football rimaneva.

Lui era sempre stato una frana, con la palla ovale, e aveva sempre privilegiato sport come il tennis o il nuoto, ma ammetteva senza problemi che veder giocare Phill nelle partite dilettantistiche Ingegneri contro Muratori, lo divertiva.

E gli faceva venire voglia di imparare.

Tutto quel cozzare di corpi, di colpi dati con violenza, di strette di mano a fine partita, di strani balletti propiziatori e gagliardi sfottò tra giocatori, lo facevano sorridere.

Ma sapeva che, se solo ci avesse provato, avrebbe collezionato solo lividi.

Lui, la palla ovale, proprio non la capiva.

Ma gli piaceva un sacco veder giocare con quello strano arnese che, come una scheggia impazzita, prendeva traiettorie impossibili, si esibiva in rimbalzi assurdi e, il più delle volte, sfuggiva dalla presa dei quarterback per finire chissà dove.

Nel veder comparire Phill con il necessario per guardare l'ennesima partita di campionato alla TV – suo padre e Helena erano andati allo stadio, e Bran l'aveva trovata una cosa dolcissima – sorrise e disse: “Hai intenzione di divorare tutto quel pop-corn? Ce ne sarà per un reggimento!”

“Ti ricordo che l'ultima volta ti sei lagnato perché, nel secondo tempo, non avevi più nulla da sgranocchiare” precisò Phill, accomodandosi accanto a lui sull'enorme divano della sala audiovisivi della villa di Santa Monica, dove Bran abitava assieme al suo compagno e al padre.

La loro era una strana convivenza, iniziata poco dopo il matrimonio di Nick e Hannah.

Andrea si era dichiarato più che d'accordo, sostenendo che una villa così grande era del tutto inutile, se nessuno l'abitava, e che un po' di compagnia faceva sempre bene all'umore.

Bran ne era stato entusiasta e Phill, dopo un po' di tentennamenti, aveva infine accettato.

Erano quasi tre anni che convivevano e, tra alti e bassi, la loro storia era proseguita senza grossi scossoni.

Il primo periodo era stato piuttosto imbarazzante, con frequenti “scusate!” o “ops! Me ne vado!” , tutti esclamati dal padre quando, per un motivo o per l'altro, Bran e Phill erano stati beccati a scambiarsi effusioni in giro per casa.

La cosa era parsa così assurda, una volta, che Phill era crollato a terra a ridere, tenendosi la pancia con le mani, mentre Andrea cercava di non imitarlo, finendo così con l'affogare in piscina.

Era stato imbarazzante farsi beccare a intrattenere un interludio piuttosto focoso con Phill. Il padre, come se nulla fosse, era sbucato dalla cabina dove tenevano i costumi per farsi una nuotata in piscina, ignorando la loro presenza.

Bran, che si trovava steso sul lettino prendisole, piacevolmente schiacciato dai muscoli guizzanti di Phill, aveva sospinto via l'amante facendolo ruzzolare a terra e Andrea, sorpreso e vagamente imbarazzato, era scivolato in acqua un attimo dopo.

Phill a quel punto era scoppiato a ridere, Bran si era preventivamente coperto con un salviettone per non rendere più evidente del necessario la sua eccitazione e il padre, sbucato dall'acqua con un gran sputacchiare, aveva chiosato: “E con questa, la mia figuraccia l'ho fatta.”

Il tutto si era risolto così, con una gran risata collettiva e una nuotata in compagnia e, da quel giorno, tutti loro si erano fatti più attenti a dove mettere i piedi, in tutti i sensi.

Afferrando la sua ciotola di pop-corn prima di alzare il volume del televisore LED a 50 pollici, Bran borbottò: “E' successo solo perché la meta non sembrava arrivare mai, e così mi è venuta una fame nervosa.”

“Se lo dici tu...” celiò Phill, intrecciando le lunghe gambe fasciate da jeans neri.

Il fischio d'inizio venne dato e, subito, i centromediani di spinta si diedero da fare, mentre il running back prendeva la palla per tentare il primo attacco.

Subito, venne placcato e gettato a terra, bloccando così l'azione e Bran, afferrata la prima manciata di pop-corn, bofonchiò: “Ma non poteva stare più attento, il cornerback? Doveva pensarci lui, a coprire le spalle al running back.”

“Non sempre è facile, quando hai a che fare con un colosso come lui” replicò candidamente Phill, indicando il giocatore che aveva steso il running back.

“Tu avresti fatto di meglio” protestò Bran, ingollando la seconda manciata di pop-corn.

Il compagno lo fissò con aria divertita e, dandogli una pacca sullo stomaco piatto, chiosò: “Se non sapessi che è impossibile, direi che hai le voglie come le gestanti. Mangi come un cavallo, quando si tratta di guardare le partite di football!”

Bran scoppiò a ridere di gusto, a quel commento – ricordava benissimo le crisi di fame di Hannah e la ricerca disperata di fragole il 25 di dicembre – e celiò: “Sarei il primo caso di mammo al mondo!”

“Dio ce ne scampi! Vorrebbe dire essere assillati dai paparazzi ancor più di adesso!” esalò Phill, scuotendo il capo con aria tragica.

Il cancan causato dal processo a Isabel, il successivo matrimonio di Nick e Hannah e la notizia della gravidanza non erano bastati a far passare in secondo piano la loro storia d'amore.

E lì, i giornali scandalistici ci erano andati a nozze.

Il capo di Phill, scoperta la sua omosessualità, aveva accampato diecimila scuse prima di licenziarlo e, pur se Andrea aveva puntato i piedi per fargli causa, lui aveva preferito evitare.

Non era la prima volta che gli capitava, e non sarebbe stata l'ultima.

Il lavoro alla centrale eolica e alla villa di Michael Van Berger lo avevano di sicuro tenuto occupato e, a onor del vero, per almeno altri tre anni, il progetto in collaborazione con Dreyfus non si sarebbe esaurito.

Ma il fatto rimaneva.

Uscire allo scoperto assieme a Bran aveva di sicuro complicato le cose, almeno per lui. E accettare l'aiuto dei Van Berger sarebbe stato uno scorno non da poco, per Phill.

Sapeva che Andrea, Michael e lo stesso Dreyfus gli avrebbero trovato un sacco di lavori da svolgere, ma lui se la voleva cavare da solo, e non desiderava essere aiutato dalla parte potente della sua attuale famiglia.

Hannah gli aveva dato ragione e aveva spinto Bran a non insistere oltre, pur se entrambi loro sapevano quanto costava al giovane non dargli appoggio anche sul piano lavorativo.

La palla ovale stava volando oltre l'arco della porta, facendo segnare alla squadra ospite tre punti meritatissimi, ma Bran aveva altro in mente, in quel momento.

Tornato serio, sbocconcellò un po' di pop-corn prima di sorseggiare della Sam Adams ghiacciata e, a mezza voce, dichiarò: “Vorrei davvero che le cose fossero diverse, che il mio cognome non capeggiasse sul palazzo dove lavoro, o che la gente che ho conosciuto in passato non si fosse così divertita a spifferare segreti su di me. Vorrei essere stato più intelligente, meno stupido o superficiale, ma ormai è andata. Posso solo sperare che, prima o poi, arrivi qualcuno più interessante di noi per toglierci di dosso i paparazzi.”

“Oh, beh, con quello che sta combinando ultimamente Justin Bieber, non ci metteremo molto a diventare argomento superato” ridacchiò Phillip, dandogli una pacca su una coscia.

Bran accennò un sorriso, ma questo non raggiunse mai i suoi occhi limpidi e disarmanti. Quando le sue iridi scintillavano a quel modo, come se lui volesse mettere il mondo ai suoi piedi, o donargli tutte le ricchezze del creato, Phill non sapeva cosa fare.

Sapeva benissimo quanto il nome Van Berger pesasse sulle spalle di Bran.

Il tradimento della madre era ancora troppo fresco, nella sua mente, e sapere che Isabel aveva mirato proprio a lui, non aiutava il figlio minore a venir fuori dall'incubo di avere una madre così folle.

Phill aveva tentato più volte di fargli capire che non riteneva lui il responsabile della pazzia di Isabel, ma Bran aveva sempre sostenuto che, se fosse stato più forte, più coraggioso, forse avrebbe trovato il modo di far capire ogni cosa a sua madre.

“Forse dovremmo trasferirci, andarcene da Los Angeles” gli propose a quel punto Brandon, sorprendendolo non poco.

Aggrottando la fronte, Phill scosse recisamente il capo e replicò: “E dargliela vinta? Ma non se ne parla! Non stiamo facendo niente di male, Bran. Questa è la nostra città, qui vive la nostra famiglia. Non ci penso proprio a trasferirmi!”

“Potremmo andare in una città meno modaiola di questa... e risolvere il problema dei paparazzi” insisté lui, storcendo la bocca.

Phill allora lasciò del tutto perdere la partita e, arcuandosi verso di lui, lo baciò con tenerezza, carezzandogli un braccio con dita leggere.

Bran sospirò per diretta conseguenza e lo afferrò alla nuca per tenerlo accanto a sé, contro la sua bocca che, ruvida, sfregò contro le sue labbra assieme alla lingua.

Il bacio si fece più profondo e, dimenticati, i pop-corn finirono a terra rovinosamente, sparpagliandosi sulla moquette color cammello.

Phill lo attirò a sé, afferrandolo ai fianchi perché salisse a cavalcioni su di lui e Bran, senza farsi pregare, lo assecondò.

Lentamente, le mani di Phillip risalirono sotto la camicia di cotone dell'amante e, carezzevoli, le dita sfiorarono quella schiena forte, dai muscoli guizzanti.

Bran poteva anche sembrare delicato, con quei suoi occhi che emanavano amore e dolcezza a chi gli era nel cuore, ma era tutto fuorché un uomo debole. Sia fisicamente che mentalmente.

Calando la bocca sul collo di Phill, Brandon ne mordicchiò la pelle scura e bollente, che sapeva di dopobarba e di lui e, con un sorriso sornione, mormorò: “Non dovevamo guardare la partita?”

“Chi se ne frega” ansò l'altro, muovendosi con dita abili per liberare Brandon dalla camicia.

Lui rise, denudandosi per il piacere dell'amante e, quando Phill lo mordicchiò a un capezzolo, ansimò deliziato.

“Non ce ne andremo. Scordatelo” ringhiò tra un bacio e l'altro Phillip, massaggiando il torso del suo amore con la stessa delicatezza dei suoi baci.

“E vuoi convincermi facendo sesso sul divano?” ridacchiò Bran, avvertendo senza problemi l'erezione propria e dell'amante.

“Per ora, ci stiamo solo scaldando” replicò l'altro, sogghignando nel tirare l'orlo dei jeans di Brandon.

Ridendo sommessamente, Bran lo afferrò alla nuca per un altro bacio divorante, che implicò lingua, denti e labbra in egual misura e, muovendosi sinuosamente contro di lui, mormorò roco: “Voglio solo che tu sia felice, maledizione!”

“Lo so” replicò Phill, interrompendo di colpo il bacio per allontanarlo da sé.

I capelli stretti nella presa forte di Phill, che gli impediva di fatto di tornare a baciarlo, Brandon fissò accigliato la sua unica ragione di vita e, accigliandosi, sbottò: “Odi i paparazzi e i giornali quanto me e, a causa mia, hai dei problemi sul lavoro. E' ovvio che io desideri allontanarmi da un mondo che non ci vuole!”

La mano di Phillip allentò la presa e divenne una carezza sul suo cuoio capelluto mentre gli occhi scuri, fissati in quelli chiari di Bran, espressero tutto l'amore e la comprensione che risiedevano nel suo animo.

“Bran, tesoro, lo so che vuoi solo proteggermi ma sarebbe come dargliela vinta, o permettere a tutti loro di insozzare ciò che ci lega. E questo non lo voglio. Troverò una società affidabile a cui appoggiarmi per i prossimi lavori, senza il vostro aiuto. Non sono tutti degli idioti, credimi” gli sorrise Phill, spostando la mano dai capelli alla bocca tumida di baci dell'amante.

“Se ti faranno soffrire, li ammazzerò” sentenziò lapidario Brandon, gli occhi che sprizzavano scintille.

Phillip ridacchiò di fronte a quella minaccia e annuì, dichiarando: “Allora che dovremmo cambiare città. Direi anche Stato. Diventeremmo dei latitanti, e tutto perché un branco di idioti non hanno saputo guardare al di là del proprio naso.”

Bran storse il naso, sentendosi preso poco sul serio e, nel poggiare la fronte contro quella del suo unico amore, aggiunse: “Non sto scherzando. Per te, ucciderei.”

“Non per motivi così stupidi, Bran. Davvero no” ribatté Phill, stringendolo a sé in un abbraccio carico di calore umano e amore. “Non me ne frega niente di loro, e dovresti farlo anche tu.”

“Lascia che ti aiuti, allora... mi farebbe felice” sospirò Bran, accarezzando i cortissimi capelli di Phill con gesti eleganti, delicati.

“Se proprio me la vedrò brutta, faremo così” gli propose a quel punto Phillip, scostandolo da sé per sorridergli.

Brandon allora annuì e, sceso dalle sue gambe, tornò a sedersi al suo fianco mormorando: “E ora come faccio, con i pop-corn?”

Phill squadrò divertito la nevicata artificiale sparsa sulla moquette e, scoppiando a ridere, si levò in piedi e chiosò: “Ne farò degli altri ma tu, nel frattempo, ripulisci tutto.”

A Brandon non restò altro che andare a cercare l'aspirapolvere. Il più era sapere dove lo tenesse Corinne, la loro domestica.

§§§

“Non sono adorabili?” esordì Helena, le braccia intrecciate sotto i seni e un bel sorriso stampato in faccia.

“Più che altro, mi danno l'idea di essere scomodi” replicò Andrea, inclinando il capo di lato per osservare da un'angolatura diversa la strana posizione presa da Phillip e Brandon.

Se si fossero limitati a sdraiarsi – e appisolarsi – sull'enorme divano della sala audiovisivi, non vi avrebbe visto niente di strano.

Ma la postura che avevano preso, oltre a essere evidentemente scomoda, non aveva un senso logico. Almeno ai suoi occhi.

Brandon dormiva letteralmente a testa in giù, con il capo biondo castano a ciondoloni dal divano, un braccio rilasciato su uno dei braccioli, una gamba a cavallo dello schienale e l'altra stesa sui cuscini.

Phillip non era messo meglio. Dormiva prono, con la faccia schiacciata contro la schienale, le lunghe gambe accartocciate su loro stesse e le braccia posizionate in maniera quasi impossibile.

Come fossero finiti così era difficile da stabilire, ma l'ambientazione era piuttosto comica e, in particolar modo, dava da pensare il caos che sembrava essere esploso nella stanza.

Quando però videro comparire Khaleesi1 e Irish da dietro un angolo, Andrea iniziò a comprendere.

Sorridendo alla bella cocker spaniel nera di Bran e al setter irlandese di Phill, l'uomo si piegò su un ginocchio per fare una grattatina dietro le lunghe e morbide orecchie di Khaleesi e, a mezza voce, disse: “Li avete stremati, eh?”

Loro abbaiarono fiere e Helena, afferrato che ebbe il telecomando, spense la TV inascoltata e chiosò: “Sempre detto che le femmine sono più toste dei maschi.”

“E' strano che Bran le abbia fatte entrare in casa. Di solito non lo fa” disse Andrea, pensieroso, prendendo in braccio la piccola cocker. “Ha il terrore che possano segnare il parquet con le unghie, … per questo ha fatto costruire loro una dependance tutta per le cagnoline.”

“Hanno una dependance?” gracchiò Helena, sgranando leggermente gli occhi a quella notizia.

Andrea ridacchiò, annuendo e, nell'uscire dalla sala audiovisivi assieme alla cagnolina e alla donna, si avviò verso una finestra che dava sul giardino per mostrargliela.

Indicando una casupola a piano terra dalle mille vetrate, il tetto in tegole rosse e una serie infinita di giocattoli sparsi tutt'attorno, Andrea ammise con un vago imbarazzo: “E' la loro cuccia.”

“Quello è un monolocale, Andrea, non una cuccia” precisò Helena, fissandolo vagamente accigliata. “Non è che le state viziando, queste bricconcelle?”

Khaleesi abbaiò ancora, scodinzolando allegra tra le braccia di Andrea mentre Irish si strusciava contro la sua gamba. Dando un bacetto sul tartufo nero e umido della cocker, l’uomo asserì: “Non lo faresti anche tu? Sono adorabili.”

Helena si limitò a scuotere il capo, a metà tra il disgustato e il divertito, asserendo: “Ha ragione Hannah. Siete schiavi dei cani. Ho visto la cuccia di Stark, alla villa di tuo figlio, ed è forse peggio di questa. Ha una piscina personale!”

Andrea allora scoppiò a ridere e, conducendo con sé Helena, uscirono dalla villa per raggiungere il giardino e, a quel modo, anche la casa di Khaleesi e Irish.

Lì, l'uomo lasciò andare la cagnolina che, con il suo incedere elegante e il bel pelo nero e lucido che danzava ad ogni suo passo, andò a giocare con Irish, che attaccarono a morsi una palla di plastica.

Aperto che ebbe la dependance dei cani, Andrea indicò col pollice in fondo all'immensa stanza ricoperta di piastrelle color sabbia e celiò: “Non è il solo.”

Là, piccola e funzionale, una graziosa piscina dai toni dell'azzurro e del verde non attendeva che di essere usata dalle loro padrone. Abbandonate sulla superficie dell'acqua, alcune paperelle navigavano senza meta, pronte per essere morse senza alcun preavviso.

Helena scosse nuovamente il capo e, fissando bieca l'uomo, sentenziò: “Non ho davvero parole. Se viziate così due cani, cosa farete con Cam e Dom, quando saranno un po' più grandi?”

Andrea pensò fosse meglio non rispondere, visto soprattutto cosa aveva specificamente vietato Hannah. L'uomo aveva idea che Helena fosse dello stesso avviso della madre dei gemelli.

Niente esagerazioni, niente giocattoli da fuori di testa, niente acquisti folli come certi divi del cinema avevano fatto per i loro figli – Suri Cruise in primis – niente eccessi senza motivo.

Cam e Dom dovevano crescere come due bambini normali, pur avendo già a disposizione un fondo fiduciario a sei zeri.

Hannah era stata categorica, e Nick si era dichiarato d'accordo con lei.

Ma nessuno aveva parlato dei cani.

L'abbaiare allegro di Khaleesi e Irish lo salvò dal rispondere e, sorridendo ai due nuovi arrivati, esclamò: “Ehi, ben svegliate, belle addormentate!”

Phill e Bran sembravano passati sotto uno schiacciasassi e avevano le facce peste, oltre che profonde occhiaie sotto gli occhi.

La mancanza della camicia di Brandon non portò a nessuna domanda indiscreta ma Andrea, sorridendo a entrambi, indicò i due cani e domandò: “Come mai Kahleesi  e Irish erano in casa? So che di solito non le fai entrare.”

“Non trovavo l'aspirapolvere” mugugnò Brandon, sbadigliando sonoramente prima di piegare a destra e a sinistra il capo. Il collo emise degli inquietanti scricchiolii.

Helena e Andrea si guardarono vagamente confusi e Phill, venendo loro incontro, si mise dietro Bran per fargli un massaggio veloce alle spalle e, per dovere di cronaca, disse: “I pop-corn erano finiti sulla moquette, così volevamo aspirarli ma, non trovando l'aspirapolvere, abbiamo pensato di farli mangiare a Khaleesi e Irish, visto che li adorano.”

Helena li fissò con aria di sufficienza ed esalò: “Trentatré anni e non sentirli. Mai sentito parlare di paletta e scopa?”

“Corinne ha il giorno libero, e non volevo chiamarla sul cellulare per chiederle dove tiene queste cose” ammise imbarazzato Brandon, diventando paonazzo in volto.

Helena si passò una mano sul volto, esasperata, e dichiarò: “E' proprio vero che i soldi fanno danni irreparabili.”

Andrea non poté che annuire e, con un risolino, disse: “In effetti, forse sarebbe il caso di imparare dove sono certe cose, in casa.”

“Non lo sai neppure tu?!” esclamò a quel punto Helena, fissandolo scioccata.

Ancora una volta, Andrea scelse il silenzio come arma migliore.

Khaleesi allora abbaiò per attirare l'attenzione e Helena, presa in braccio la cagnolina, la accarezzò gentilmente prima di fissare i tre uomini con aria esacerbata e sentenziare: “Si vede che in questa casa le uniche femmine sono a quattro zampe. Tolta la domestica, ovviamente. E' la riprova che non si possono lasciare da soli, gli uomini, perché sanno solo combinare disastri.”

I tre interpellati ebbero il buon gusto di non dire nulla, e si limitarono a grattarsi le guance con fare disinvolto.

“Coraggio, rientriamo, così potrò mostrarvi il magico mondo dell'universo femminile” dichiarò con una certa ironia Helena, dando un buffetto sulla guancia di Brandon, che le sorrise adorante, con occhi che alla donna ricordarono molto quelli della cocker che teneva in braccio.

Tutti dolcezza e amore.

§§§

“... e così, Khaleesi ha pensato bene che correre con in bocca la ciotola del pop-corn fosse divertente. Irish non voleva essere da meno, e ha preso quella di Phill” spiegò Brandon, allungando l'insalata a Helena, che annuì.

“Perciò, quel che non era caduto prima, è caduto poi, e da lì è nato il parapiglia” aggiunse la donna, con un risolino.

“Ci abbiamo messo quasi un'ora per placcarle, e alla fine eravamo stremati, così siamo crollati sul divano” ammise Phillip, ridacchiando.

“Quando siamo arrivati, sembravate in stato catatonico” assentì Andrea, affettando un pezzo di braciola al sangue.

“E lo eravamo” dichiarò senza problemi Phill, ingollando un po' di buon vino rosso.

“Ribadisco, almeno uno di voi tre deve inserire la modalità 'donna di casa', ogni tanto. Non potete diventare schiavi delle domestiche. E se Corinne prendesse un raffreddore e dovesse stare a letto per due giorni?” ribadì con vigore Helena, sorridendo spontaneamente alla domestica, che stava arrivando con un vassoio di verdure grigliate.

Dopo averle sistemate sul tavolo, si sedette con loro – come era nuova usanza in casa Van Berger – e celiò: “Credo che la casa andrebbe a fuoco.”

“Triste verità” annuirono i tre uomini all'unisono, facendo scoppiare a ridere le due donne.

Da quando Isabel era sparita dalle loro vite, la servitù era stata decisamente ridimensionata – soprattutto perché sovrastimata fin dall'inizio.

Dei cinque domestici della villa di Santa Monica, due erano stati assunti da Nick per la sua abitazione di Malibù – così da rendere la vita più facile a Hannah, dopo la nascita dei gemelli – mentre Corinne, Ramon e Carlos erano rimasti lì, con i compiti originari.

Corinne si occupava della cucina e della pulizia della villa e, quando i lavori erano particolarmente pesanti, si faceva aiutare da Carlos, che spaziava dalle faccende domestiche alla cura della dependance dei cani.

Ramon invece si occupava del giardino e, tra le altre cose, teneva in ordine la piscina esterna, oltre a quella interna alla villa.

Tutti e tre, poi, abitavano con le loro famiglie nella dependance della servitù, costruita accanto alla villa principale.

Da poco, la figlia di Corinne si era sposata, andando ad abitare nella zona di Venice e, da quel giorno, la donna aveva riempito la sua stanza di canarini, vera passione della domestica.

“Toglimi una curiosità, Phillip, ma quando abitavi da solo, come facevi a sopravvivere?” si interessò a quel punto Helena, più che mai curiosa.

Scoppiando a ridere, lui ammise senza remore: “Ero un frequentatore assiduo di una gastronomia e, quando non mi fermavo lì, la mia vicina di casa mi preparava i pasti in cambio di un aiuto in casa, visto che lei era sola.”

“Santo cielo! Una vera catastrofe!” sbottò la donna, scuotendo recisamente il capo. “Non si può più andare avanti così. Dovete assolutamente imparare a farvi un uovo sodo, almeno!”

Corinne rise sommessamente e Andrea, stringendole una mano con affetto, assentì dicendo: “E' a tuo rischio e pericolo. Sei sicura di volerci tutti e tre in cucina?”

Helena si guardò intorno e, di colpo, divenne timida.

Si era data un gran daffare per inculcare loro un po' di buon senso ma, a onor del vero, lei non era né la moglie di Andrea, né la madre di Brandon e Phillip.

Lei e Andrea si frequentavano, si divertivano ad andare alle partite di baseball e football assieme, uscivano spesso a pranzo o a cena, discorrendo del passato di Nick e Bran, o dei progetti di Kyle per il futuro.

Si amavano, certo, ma non erano fidanzati.

Certo, non erano due ragazzini, e si erano scambiati più di un bacio da dieci e lode, ma questo non voleva dire che lei si potesse permettere di sparare ordini a destra e a manca in casa di Andrea!

Sorridendo a mezzo all'uomo, dichiarò: “Sono sicura che Corinne vi insegnerà senza problemi.”

Brandon allora si alzò dal tavolo, la raggiunse e, presala per mano, la accompagnò al frigorifero chiedendole: “Mi insegneresti a fare le uova strapazzate, Lenny?”

Helena allora gli avvolse la vita col braccio per un attimo, dandogli una leggera scrollata e, annuendo con vigore, dichiarò: “Scommettiamo che, nel giro di un'ora, le saprai fare buonissime?”

“Andata” assentì lui, sorridendole grato.

Mentre i due erano impegnati al piano cottura con padelle, burro e uova, Phillip sorrise ad Andrea e disse sommessamente: “Gli fa bene stare con lei.”

“Fa bene a tutti” assentì l'uomo prima di notare il sorriso compiaciuto della domestica. “Vero, Corinne?”

La donna si limitò a sorridere e Andrea, annuendo tra sé, si levò dalla sedia e, rivolto a Phill, disse: “Sarà meglio che andiamo a vedere la lezione anche noi, o Bran ci surclasserà.”

“E dopo chi lo sente? Ci prenderà in giro a vita!” assentì Phillip, levandosi in piedi a sua volta per raggiungere la coppia al bancone della cucina.

Sorseggiando del buon vino rosso, Corinne osservò i tre uomini e la donna dalla chioma fulva e, brindando silenziosamente al loro indirizzò, mormorò: “Era ora...”

1: Khaleesi: Per chi non seguisse la saga "Il trono di spade", di R.R. Martin, significa "regina" in lingua dotraki.

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Capitolo 4
*** Nuovi arrivi (Novembre 2012) ***


2

Novembre 2012

 

 

“Sembri una boa.”

Gli occhi liquidi di Hannah si spostarono dal libro che stava leggendo alla faccia divertita del marito che, sdraiato prono sul letto e con il mento poggiato sulle mani a coppa, la stava osservando sorridente.

Le domeniche scorrevano flaccide, nelle ultime settimane. Hannah era davvero troppo grossa per aver voglia di muoversi di casa, perciò passavano il tempo in villa, da soli, o in compagnia della famiglia.

Stark la pedinava di continuo, non lasciandola mai da sola, forse presagendo quanto, entro breve, il loro mondo sarebbe cambiato.

Il cane aveva seguito il lento cambiamento della padrona con i grandi occhi scuri sempre vagamente spalancati, forse incredulo di fronte alla natura che faceva il suo corso.

Nel corso di quei mesi, Hannah gli aveva fatto vedere foto di bimbi, gli aveva spiegato con parole semplici che, dentro la sua pancia, si trovavano due cuccioli e che, presto, lui avrebbe avuto due fratellini da accudire.

“Non è molto carino da dire, anche se so che è vero” precisò Hannah, tornando a leggere l'ultimo libro di Ken Follett con aria di sufficienza.

Nick non perse il suo sorriso allegro e, divertito, aggiunse con ironia: “Scommetto che non riesci neppure più a vederti la punta dei piedi.”

“Amore, vuoi che ti dia questo libro in testa?” ironizzò lei, mettendo giù il tomo in brossura per sorridere al marito.

“Posso lasciarti sola per mezz'ora? Vorrei andare nella serra per raccoglierti i un po’ di verdura fresca, ma ...” tentennò lui a quel punto, perdendo di colpo tutta la sua baldanza. Con un movimento leggero, si allungò per dare un bacio al pancione.

“Vai pure, Mister Ansietà. Io e i gemelli stiamo bene, e qui a fare la guardia c'è Stark” lo rassicurò lei, carezzandogli la chioma biondo castana.

Non del tutto convinto, Nickolas balzò giù dal letto e si accucciò accanto al golden retriever per prendergli il musone tra le mani. Occhi negli occhi, gli disse: “Chiamami se la mamma sta male, va bene?”

Il cane abbaiò, leccandolo in faccia un paio di volte e Nick, rialzatosi con un gran sorriso, estrasse da una tasca dei pantaloni un fazzoletto per ripulirsi le guance.  Ripassatosi ben bene il viso umidiccio, esalò: “Cos'ha mangiato, stamattina a colazione? Zombie e cadaveri?”

Hannah ridacchiò e, scuotendo il capo all’indirizzo del cane, replicò divertita: “Credo abbia dato la caccia a una lucertola, prima di entrare in villa. Almeno, così mi è parso di capire, dato che l'ho visto correre per il prato e saltare come un forsennato.”

“Fai schifo, Stark. Ti farò mangiare un intero bastoncino per ripulire i denti... e l'alito” si lagnò con un sorrisino Nick, carezzando il cane prima di uscire.

Il golden retriever si limitò a scodinzolare soddisfatto prima di acciambellarsi sulla moquette, piazzandosi sul lato del letto accanto a Hannah.

Lei allungò una mano per fargli un grattino tra le orecchie e, divertita, asserì: “In effetti, se evitassi di mangiarle, dopo non ti puzzerebbe l'alito come il bagno di una stazione di sosta.”

Lui si limitò a guardarla amorevole, e a Hannah non restò altro che sorridergli.

§§§

L'ultimo mese era stato molto duro, per Hannah, e l'idea che mancassero ancora due settimane al parto lo faceva star male.

Era atroce non poter far nulla per lei, e limitarsi ad accudirla e amarla più che poteva.

Glenn gli era stata di grande aiuto, spiegandogli tutti i segreti della gravidanza e come meglio comportarsi in caso di necessità.

Anche parlare con zia Cécille via Skype era servito, ma poter contare sulla presenza di Glenn in ogni momento della giornata, era stato un sollievo.

Aveva legato molto con la madre di Hannah, in quel periodo, e poteva affermare senza ombra di dubbio che, nonostante i trascorsi con l'ex marito, ora era una donna equilibrata e amorevole.

Alla fine, era sopravvissuta anche lei a Patrick Fielding, e lui ne era ben felice.

Da quel poco che aveva saputo da Hannah, l'uomo aveva tentato, almeno in un'occasione, di mettersi in contatto con Glenn ma, per sua sfortuna, la telefonata era stata intercettata da Pavel.

E quel che si erano detti aveva spinto Patrick a non tentare mai più un approccio.

Nick era stato felice di saperlo ma, parlandone con il suocero, gli aveva consigliato di far cambiare numero di cellulare alla moglie, così da evitare qualsiasi tipo di ritorno di fiamma.

Pavel era stato più che d'accordo con lui.

Ora che Hannah stava per avere i gemelli, però, non sapeva come comportarsi.

Certo, Patrick Fielding non meritava di condividere la loro felicità, o di sapere che Hannah stava per partorire ma, dopotutto, era suo padre e...

Cosa doveva fare?

Voleva che fosse solo e unicamente felice e, visto che lei non parlava mai di suo padre, lui non aveva idea se le potesse far piacere o meno fargli conoscere il suo attuale stato di salute.

Non desiderava angustiarla, ma neppure privarla di una felicità. Ne faceva un punto d'onore.

Afferrato perciò il cellulare, digitò il numero di Glenn e attese paziente che lei rispondesse.

Quando avvertì il suono trillante della sua voce, sorrise spontaneamente. “Glenn, ciao, sono Nick.”

“Tesoro! State bene, lì? Come va, con la mia bambina?” esclamò la donna, tutta giuliva.

“Lei sta bene, e qui procede tutto nella norma. Però volevo chiederti una cosa, Glenn...” dichiarò lui, tentennando un attimo. “... so che Patrick ne ha combinate di cotte e di crude ma... pensi che a Hannah farebbe piacere averlo vicino, al momento del parto?”

La donna rimase in silenzio per alcuni attimi, forse ponderando bene cosa rispondere e, alla fine, mormorò pensierosa: “Hai pensato una cosa davvero carina, Nicky.”

Da quando lui e Hannah si erano sposati, Glenn aveva iniziato a chiamarlo così e, ogni volta che si vedevano, la donna lo salutava con un buffetto sulla guancia e un bacio.

La sua disinvolta gioia di vivere, il suo affetto palese lo avevano sconcertato, all'inizio ma, col passare del tempo, se n'era innamorato alla follia ed ora, ogni volta che la vedeva, la stringeva in un abbraccio forte, senza fine.

E lei lo ricopriva di attenzioni tutte materne.

Forse sentiva quanto ne aveva bisogno, forse Hannah gli aveva raccontato un po' dei suoi trascorsi infantili, fatto stava che Glenn lo strapazzava di coccole.

E lui ne era ben lieto.

Quindi sorrise spontaneamente quando si sentì chiamare con quel nomignolo e, pragmatico, disse: “Non voglio negarle nulla e, anche se personalmente io lo detesto, se lei vuole averlo accanto, io lo trascinerò in ospedale anche per i capelli.”

“Gliel'hai chiesto?” si informò allora Glenn.

“Non voglio turbarla, per questo ho chiamato te” si premurò di dire lui, appoggiandosi al tavolo dove aveva sistemato ordinatamente i vasi delle orchidee.

Il loro profumo lo avvolse e lui, inspirandolo con piacere, cercò di rilassare i muscoli delle spalle, tesi fino allo spasimo. Anche non volendo, parlare di Patrick lo metteva in agitazione.

“Non credo, in tutta onestà, che Patrick possa darle quell'appoggio che, invece, Andrea e Pavel riescono a donarle. Loro sono i suoi due papà. Patrick è stato solo un comprimario, nella sua vita, e mai il protagonista perciò no, la farebbe soltanto soffrire rivederlo” sentenziò lapidaria Glenn.

“Allora non lo chiamerò. Grazie per il consiglio, Glenn” assentì a quel punto Nick, più tranquillo.

“Sei un bravo ragazzo, Nicky, e sono felice che tu abbia sposato la mia bambina. So che è al sicuro, con te, che tu non la lascerai mai, né la tradirai” mormorò la donna, con voce rotta dall'emozione.

“Lei e io siamo una cosa sola. Per sempre” le promise lui, mettendoci tutto il suo amore, in quelle parole.

“Lo so” disse solo la donna, salutandolo.

Quando chiuse la comunicazione, Nick tirò un sospiro di sollievo e, andando finalmente a raccogliere pomodori e fragole, si ripromise di impegnarsi ancora di più per rendere felici sia Hannah che Glenn.

§§§

Doveva andare a fare pipì. Per la decima volta in tre ore.

Ormai non ne poteva più. Si sentiva un rubinetto rotto, un'auto col motore guasto, una mongolfiera e una balena spiaggiata.

Insomma, niente di buono.

Sbuffando, allungò le gambe gonfie giù dal letto sotto gli occhi ansiosi di Stark e lei, appoggiando le mani sul materasso, si issò in piedi ringhiando: “Se ingravidi Khaleesi o Irish, farai bene a essere mooolto gentile con loro. Voi maschi non avete idea di cosa voglia dire portare nella pancia una rock band assatanata.”

Stark guaì, rattrappendosi sotto il suo sguardo omicida, ma la seguì ugualmente fuori dalla stanza per essere certa che non avesse bisogno d'aiuto.

Tenendo una mano sotto il ventre prominente e l'altra contro il muro, Hannah avanzò reggendosi come se fosse ubriaca ma, prima ancora di raggiungere il bagno, avvertì una fitta improvvisa e uno strano umidore tra le gambe.

Il suo cane guaì nuovamente e la donna, reclinando il capo verso il basso, esalò un singulto strozzato prima di gracchiare: “Oh, oh...merda!”

Una seconda fitta le strappò il fiato dai polmoni e, momentaneamente senza forze, si lasciò andare lungo il muro fino a sedersi a terra, ansante.

Saltellando sulle zampe come un forsennato, Stark la fissò con i suoi enormi occhi scuri in attesa di ordini e lei, senza attendere un solo attimo, allungò un braccio in direzione del giardino e ringhiò: “Chiama Nick! Nick!”

Stark non si fece pregare. Zampettando veloce sul pavimento, si incuneò in una delle tante botole automatiche fatte inserire nelle porte e, lesto, corse in direzione della serra, dove avvertiva forte l'odore del suo padrone.

Penetrandovi come un caccia bombardiere in picchiata, iniziò ad abbaiare come un pazzo e Nick, balzando in piedi tenendo in mano il cesto con la verdura fresca, esalò sconvolto: “Stark, che succede?”

Il cane cominciò ad abbaiargli contro, puntando alternativamente il musetto verso di lui e verso la casa e Nick, impallidendo visibilmente dopo alcuni attimi di sconcerto, mollò tutto e corse con Stark all'interno della villa.

Quando finalmente riuscì a raggiungere Hannah, Nickolas quasi svenne di paura nel vederla seduta a terra, le mani premute sul ventre e l'aria di una persona pronta a uccidere il primo venuto.

“Hannah, tesoro! Cosa c'è?” esalò lui, inginocchiandosi al suo fianco.

“Cosa vuoi che ci sia?!” sibilò la donna, indicando infuriata la macchia scura sul suo abito prémaman.

“Oh... ah! I bambini!” gracchiò a quel punto Nick, esibendosi in un sorriso un po' sciocco.

“Già, complimenti, genio. Deduzione eccellente” grugnì la donna, soffiando come un treno a vapore. “Ora, se tu fossi così gentile da tirarmi via dal pavimento per portarmi in clinica, sarei felicissima.”

“Sì, sì, certo!” assentì lui, continuando a sorridere un po' stupidamente.

Hannah lo fissò con sufficienza, lasciandosi aiutare dal marito mentre Stark, agitato, proseguiva nei suoi balzelli nervosi.

“Devo cambiarmi” brontolò la donna, trovando immediatamente il pieno dissenso del marito.

“Non se ne parla. Andiamo subito in ospedale. Non gliene fregherà niente, se anche vedono che hai perso le acque” replicò Nick, scuotendo recisamente il capo.

Hannah allora lo fulminò con lo sguardo e, raggiunta che ebbero la loro stanza, precisò: “Tu vai a pulire il pavimento, io mi cambio.”

L'uomo soppesò velocemente i pro e i contro della situazione, fissò quegli occhi di ghiaccio che sprizzavano scintille e, da bravo affarista, asserì: “Mettiti lo chemisier abbottonato sul davanti. Farai prima.”

“Bravo” annuì compiaciuta Hannah, facendogli segno di andarsene dalla stanza.

Con un leggero sospiro di esasperazione, Nick chiamò con sé Stark e, dopo aver recuperato straccio e secchio, mormorò al cane: “Appunto per il futuro. Dai sempre ragione alle donne che stanno per partorire, altrimenti diventano pericolose.”

Stark annuì col muso, parendo aver capito perfettamente la situazione e Nick, sorridendogli nel dargli una pacca sulla testa, si mise di buona lena a pulire.

Non era tranquillo, per niente, ma sapeva che, se non avesse dato retta alle fissazioni di Hannah, non avrebbe risolto nulla.

Si fidava ciecamente di quel che gli avevano detto i dottori, e cioè che i gemelli avrebbero impiegato ore prima di nascere, ma non gli piaceva per nulla attardarsi per pulire quello stupido pavimento.

Dire di no alla moglie, però, avrebbe potuto voler dire guai seri, visto quant'era nervosa ultimamente.

Perciò, avrebbe pulito.

E sperato che tutta quella situazione assurda finisse alla svelta.

§§§

Il borsone di Hannah in una mano e la sedia a rotelle accanto a loro, Nick esortò la moglie a salirvi per raggiungere più agevolmente il reparto maternità ma lei, imperterrita, scosse il capo.

Disperato e ai limiti della sopportazione, l'uomo allora cercò l'aiuto di una delle infermiere del Pronto Soccorso che, mossa a pietà, si avvicinò a loro dicendo cordialmente: “Vuole che la aiuti, signora? Ci penso io, a lei.”

“Posso farcela benissimo a raggiungere l'ascensore con le mie gambe” protestò Hannah, pur respirando a fatica.

“Ne sono sicura, ma così il bambino soffrirà” replicò l'infermiera, serafica e sempre sorridente.

Hannah allora sgranò immediatamente gli occhi, in allerta e, dubbiosa, mormorò: “Dice... sul serio?”

“Sono serissima” assentì la donna, indicandole gentilmente la sedia a rotelle.

Controvoglia, Hannah vi si sedette e l'infermiera, volgendosi a mezzo per strizzare l'occhio a Nick, la sospinse verso gli ascensori asserendo: “Così arriverà più in forze al reparto, signora. E vedrà che tutto andrà bene.”

“Lo spero, visto che sono in due, dentro questo pancione enorme” brontolò lei, massaggiandosi il ventre teso e duro.

“Congratulazioni” esclamò allegra l'infermiera, pigiando il pulsante dell'ascensore.

“Grazie” dissero quasi in coro i genitori.

Un attimo dopo, il dottor Sodano li raggiunse in contemporanea con l'apertura delle porte dell'ascensore e, salito con loro, esalò: “Appena ho saputo del vostro arrivo, mi sono precipitato dal reparto.”

“E' un piacere vederla, dottore” dichiarò Nick, stringendogli la mano mentre salivano al piano desiderato.

“Vi vedo belli arzilli” ridacchiò Sodano, osservandoli entrambi con indulgenza.

Nick si limitò a guardare per aria mentre Hannah, storcendo il naso, mugugnava: Sarò contenta solo quando questa storia sarà finita.”

“Lo immagino, ragazza. Lo immagino davvero” assentì il dottore, battendole una mano sulla spalla.

“Ho i miei dubbi che possa saperlo, dottore, ma grazie per la comprensione” sospirò la donna, scuotendo il capo quando l'infermiera sospinse fuori la sedia a rotelle.

Restando a qualche passo di distanza dalla partoriente, il dottore si rivolse a Nick a bassa voce e sussurrò: “Ma... da quando è così acida?”

“Da quasi due mesi. Ha esaurito tutta la mia pazienza, ormai” sospirò stremato l'uomo, passandosi una mano tra i capelli. “Rivoglio mia moglie, lo ammetto spudoratamente.”

“Ti ha tirato addosso qualcosa?” si informò allora il dottore, sorprendendo un poco Nick.

“Perché?” esalò lui, un po' sgomento.

Ridacchiando, Sodano lo sospinse verso il reparto maternità e, divertito, asserì: “Mia moglie arrivò a tirarmi dietro la sua trousse preferita e credimi, quelle cose fanno un male cane, quando ti arrivano addosso.”

Aprendosi in un mezzo sorriso, Nick asserì: “Ma dopo è tornata normale, no?”

“Eccome. Ci ho fatto due figlie, infatti” ridacchiò il dottore, prima di tornare serio e aggiungere: “Sarà sicuramente terrorizzata e, con tutti gli ormoni che ha in circolo, le sue emozioni saranno sballate all'ennesima potenza. Non prendertela per quello che sentirai. Non è lei a parlare.”

“Mi metterò i tappi per le orecchie” ironizzò Nick, ringraziando il dottor Sodano per poi raggiungere la moglie.

Osservandoli allontanarsi lungo il corridoio, Sodano sospirò vagamente preoccupato e mormorò: “Speriamo servano solo i tappi.”

§§§

Non se ne parlava di avere un altro figlio. Neppure in un milione di anni.

Si sarebbe ben guardato dal chiedere un altro sacrificio simile a Hannah.

E non si sarebbe mai fatto convincere, qualora lei avesse desiderato fare il bis.

Non sopportava l'idea di non essere con lei, di non poter condividere con sua moglie la sofferenza di quei momenti, ma i dottori erano stati lapidari. In un parto gemellare, non dovevano esserci persone tra i piedi.

Restare fuori dalla sala parto per ore e ore era più snervante di qualsiasi altra cosa avesse mai provato ma, più di tutto, lo era non sapere nulla, non avere notizie di lei.

Dalla sala d'attesa non potevano udire nulla e, dalla stanza dove si trovava Hannah, non era uscita una sola infermiera, da quando erano entrati per la fase calda del parto.

Ci erano volute quattro ore perché sua moglie fosse pronta per essere condotta lì ma, da quel momento, non si era saputo più nulla.

Accanto a lui, in quei momenti di tremenda attesa, Nick poteva contare sulla presenza di Glenn, di suo padre Andrea, di Bran e Phill, di Rena e Berry, giunta di corsa dall'agenzia dopo aver avvisato Sylvia dell'evento.

Non erano sicuri che Sy avrebbe potuto arrivare in tempo, visto che si trovava a San Francisco, ma la donna aveva promesso di fare il tutto e per tutto per esserci.

Pavel era inchiodato al ristorante a causa di un matrimonio, ma Nick lo aveva rassicurato dicendogli che l'avrebbero tenuto in costante aggiornamento. Peccato che neppure loro sapessero cosa stava succedendo.

Quanto al neo-fidanzato di Rena… beh, meglio stesse alla larga, in quel momento. Avrebbe potuto cedere alla tentazione di riempirlo di botte solo per il gusto di fare a pugni con qualcuno.

E, con lui in particolare, gli veniva spontaneo.

Alzandosi forse per la millesima volta per passeggiare nervosamente avanti e indietro, gli occhi spiritati e l'aria di una persona dispersa e senza appigli, Nick fissò ansioso la porta del reparto, e imprecò.

Subito, allora, Rena si avvicinò a lui per avvolgergli la vita con un braccio e, trascinandolo di nuovo verso i divanetti, mormorò: “Hannah è forte e, di sicuro, non puoi pretendere che due bambini escano in quattro e quattr'otto da una pancia.”

Berenike annuì subito dopo, spalleggiando l'amica, e aggiunse: “Per far nascere Bryce ho impiegato un bel po', e lui era da solo. Ci vuole il tempo che ci vuole, Nick, e là dentro di sono dei medici bravissimi.”

Piegandosi in avanti per stringersi la testa tra le mani, lui annuì più volte ma, con voce rotta, replicò: “Avete tutte ragione da vendere. Ma io rivoglio Hannah... la voglio qui con me, assieme ai miei bambini.”

Andrea gli carezzò silenziosamente i capelli, sorridendogli comprensivo e Glenn, nel dargli una pacca sul ginocchio, mormorò: “Hannah è forte, Nick. E sa che noi siamo qui a pensare a lei. Tenterà il tutto e per tutto per non farci soffrire, vedrai. Starà benissimo.”

Nickolas annuì al suo indirizzo, cercando di sorridere e la suocera, nel depositargli un bacio sulla guancia, aggiunse: “Sono sicura che tra poco ci chiameranno per dirci che è andato tutto bene.”

Lui la strinse in un forte abbraccio, poggiando la fronte contro la sua esile spalla e Glenn, dandogli delle pacche leggere sulla schiena, sorrise ad Andrea e, nel frattempo, disse a Nick: “Nessuna nuova, buona nuova, tesoro. Andrà bene.”

“Grazie, Glenn. Grazie, mamma” sussurrò lui, contro di lei, accentuando ancora un po' il suo abbraccio.

“Di nulla, caro” lo rassicurò la donna, baciandolo su una tempia.

§§§

Era stremata, non ce la faceva davvero proprio più, eppure sapeva di dover aprire gli occhi.

Non era certa di cosa la spingesse a farlo, ma doveva.

Sbattendo le palpebre sottili, Hannah si guardò intorno vagamente confusa prima di individuare la testa biondo castana di Nick poggiata sul materasso del suo letto, apparentemente addormentato.

Sorridendo spontaneamente, gli carezzò i capelli disordinati e mormorò: “Ehi, Nicky...”

Subito, come se l'avessero collegato alla corrente elettrica, l'uomo balzò a sedere e, fissandola con gli occhi gonfi e stanchi, le sorrise spontaneamente prima di alzarsi in piedi e allungarsi su di lei per un bacio.

Le loro labbra si sfiorarono tenere, orgogliose, piene d'amore e, quando Nick trovò la forza per parlare, esalò: “Speravo davvero ti svegliassi. I dottori mi avevano assicurato che stavi bene, che eri solo molto stanca, ma volevo ugualmente vederlo con i miei occhi.”

“Mi sento un po' sbattuta” ammise lei, massaggiandosi la pancia leggermente arrotondata.

Subito, lo sguardo andò alle due culle trasparenti poste accanto al letto e, un orgoglioso sorriso di mamma si dipinse sul suo viso.

“Li ha visti?”domandò lei, rivolta al marito.

Nick annuì e, nel sedersi sul bordo del letto per attirarla vicino, dichiarò: “I dottori mi hanno detto che, anche se sono nati un po' in anticipo, non hanno bisogno dell'incubatrice. Hanno un peso tale che permette loro di evitarla, e sono in ottima salute.”

Hannah annuì e, traditrice, una lacrime le scivolò lungo il viso, subito catturata da un dito di Nick, che la asciugò.

Volgendosi verso di lui, gli domandò: “E tu, come stai?”

“Sbattuto anch'io. Ma sono felice di vedere che stai bene... che state bene.” Poi, deponendole un bacio sulla fronte, si alzò per raggiungere i gemelli e li fissò con malcelata soddisfazione. “Hanno dita lunghe. Diventeranno alti.”

Lei annuì, sorridendo, e Nick, rivolgendole uno sguardo carico d'amore, aggiunse: “Ma, soprattutto, saranno dei bambini amati.”

“Oh, Nick!” esalò Hannah, allungando una mano verso di lui.

L'uomo la raggiunse e la donna, stringendosi al marito, lo rassicurò dicendo: “Non succederà loro proprio nulla. Hanno una famiglia che già li ama, perciò questo non gli mancherà mai. Anzi, forse alla fine ci insulteranno per il troppo affetto.”

A Nickolas sfuggì una risatina e la moglie, soddisfatta, gli domandò: “Hai pensato ai nomi?”

“Pensavo a Cameron e Dominic come avevamo stabilito, ma volevo aggiungere Andrew e Paul come secondi nomi” le propose lui, sorridendole.

“Paul?” ripeté Hannah, un po' sorpresa.

“E' la traduzione in inglese di Pavel. Volevo inserire anche il suo nome, oltre a quello di mio padre, ma lui ha detto che sarebbe stato meglio tradurlo” le spiegò il marito, dandole un bacetto sul naso.

Hannah annuì orgogliosa e assentì.

“Cameron Andrew e Dominic Paul. Sì, mi piacciono” mormorò la donna, saggiandoli sulla lingua.

§§§

Un fagottino profumato a testa, Hannah e Nick giunsero dinanzi alla porta di casa dopo una settimana passata in ospedale per i controlli di rito dopo il parto gemellare.

Stark era stato accudito amorevolmente da Brandon ma, almeno a detta del giovane, era chiaro quanto il cane avesse sentito la mancanza dei suoi padroni.

Ora dovevano solo capire come l'avrebbe presa lui con l'arrivo dei due bambini.

Per maggiore sicurezza, Glenn e Pavel li avevano seguiti a casa per essere loro d'aiuto, nel caso in cui Stark avesse mostrato segni di gelosia, ma Hannah era certa che non sarebbe successo.

Quando infine aprirono le porte della villa ed entrarono, Stark li accolse sull'entrata, seduto a terra e scodinzolante.

Subito, Hannah si mosse per raggiungerlo ma Nick, bloccandola a un braccio, mormorò: “Aspetta un attimo. Lascia che si abitui al nostro odore combinato con quello dei bambini.”

Pur controvoglia la donna annuì e, mentre Pavel e Glenn facevano i complimenti al cane,  Stark annusò l'aria e puntò i suoi occhioni scuri sulla coppia di giovani e sui bambini.

Subito, il cane si avvicinò loro con curiosità e Hannah, scoprendo appena il viso di Cam dalla copertina che lo riparava, mormorò: “Lui è Cameron. Cameron.”

La coda del cane si mosse ancor più lesta di prima e Stark, con un guaito sommesso, si strusciò contro la gamba della padrona per attirarne l'attenzione.

Nick allora annuì e Hannah mostrò il piccolo al cane perché potesse vederlo meglio.

Il golden retriever lo scrutò attentamente con i suoi occhi, annusando l'aria con il suo tartufo umido dopodiché, lanciata un'occhiata a Nick, estrasse la lingua a ciondoloni ed emise un secondo guaito.

“Lui è Dominic” mormorò allora Nickolas, mostrandogli anche il secondo bambino.

Stark lo fissò per un attimo poi, piegatosi in terra, scodinzolò come se volesse giocare. Hannah allora sorrise sollevata e, rivolta ai presenti, disse: “E' felice.”

Tutti tirarono un sospiro di sollievo e, nel portare i bambini verso la loro nuova stanza, vennero accompagnati dal cane che, con passo altezzoso e cadenzato, aprì loro la strada.

Ridacchiando, Glenn mormorò alla figlia: “Perché fa così?”

“Fa lo sbruffone” sogghignò Hannah, sentendosi maledettamente orgogliosa del suo cane.

Quando raggiunsero la nursery, Stark entrò per primo, annusò tutto, curiosò in ogni angolo, come se temesse potesse esserci qualche pericolo nascosto e infine, raggiunte le due culle, vi si pose innanzi come una sentinella, scodinzolando soddisfatto.

Scoppiando in una risata sommessa, Nick depositò Dominic in uno dei due lettini e, carezzando soddisfatto la testa di Stark, asserì: “Farai loro la guardia, eh? Sei il loro paladino.”

Come se avesse capito, il cane fece un giro attorno alle culle e infine si accoccolò ai loro piedi, soddisfatto.

Pavel, allora, sorrise alla figlia e asserì: “A quanto pare, li ha presi sotto la sua ala.”

“Già” mormorò Hannah, deponendo anche Cameron prima di piegarsi in ginocchio per baciare Stark sulla testa. “Grazie, tesoro mio.”

Lui la leccò in viso, ma non si mosse dalla sua postazione, già immedesimatosi nel suo nuovo ruolo di protettore.

Nick allora avvolse la vita della moglie e, sorridendole, asserì: “E' proprio vero che i cani prendono dai loro padroni.”

“In che senso?” sorrise lei, divertita.

“Tu hai un istinto di protezione innato, e una generosità enorme. Lui è uguale” mormorò lui, baciandola su una guancia per poi piegarsi su Stark e accarezzarlo affettuosamente. “E io vi amo entrambi.”

Il cane si alzò sulle zampe per leccarlo in viso, soddisfatto e Nick, nello scompigliarli il pelo, sorrise a tutti i presenti e dichiarò: “Non potevo desiderare nulla di meglio, dalla vita.”

Cameron pensò bene di svegliarsi proprio in quel momento e, lanciando uno strillo disumano, passò parola con il gemello, che lo imitò un attimo dopo.

Pavel e Glenn allora scoppiarono a ridere e, mentre Hannah balzava subito all'attacco per scoprire cosa stesse succedendo, la suocera fissò il genero e celiò: “Intendevi anche questo?”

Ridacchiando nervosamente, Nick esalò: “Beh... non si può avere proprio tutto, dalla vita.”

Un attimo dopo, si ritrovò uno dei figli tra le braccia, urlante e insoddisfatto e, con rassegnazione, seguì Hannah al fasciatoio per il primo di una lunga, lunghissima serie di cambi di pannolino.

Stark pensò bene di defilarsi in un angolo e Nick, ancora una volta, pensò che quel cane era davvero intelligente. Un autentico genio.

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Capitolo 5
*** Daddy (Agosto 2013) ***


2

D'accordo, non era stato il salto migliore che aveva fatto in vita sua e, in tutta onestà, chi se lo aspettava che, una volta finito sotto l'arco dell'onda, avrebbe trovato quel cavolo di scoglio?

Nickolas fissò accigliato la gamba ingessata dal ginocchio in giù e il braccio appeso al collo, fasciato vistosamente fino alla spalla.

Hannah lo stava fissando malissimo, ma era nulla in confronto allo sguardo che gli aveva lanciato quando era giunta all'ospedale, subito dopo essere stata avvisata da Kyle del suo piccolo incidente.

Naturalmente, tutta la famiglia si era mobilitata, la moglie aveva lasciato Dom e Cam ad Andrea, che si era premurato di ricordarle di chiamarlo non appena avesse avuto notizie di Nick.

Brandon aveva mollato l'ufficio in quattro e quattr'otto per fiondarsi da lui assieme alla cognata e, quando si erano presentati nella sua stanza, lo avevano guardato con uguali espressioni di sconcerto.

Nick non aveva potuto fare altro che scusarsi mille e mille volte, ma questo non lo aveva salvato dalle loro reprimenda incrociate.

Il fratello minore gli aveva ricordato un numero infinito di volte le sue nuove responsabilità di marito e padre, mentre Hannah gli aveva rammentato il suo ruolo sempre più importante all'interno della V.B. 3000.

Insomma, lo avevano fatto sentire un idiota.

Ed ora che poteva uscire dall'ospedale, non si sentiva meglio.

La gamba gli faceva un male cane, per non parlare del braccio che, pur se non rotto, pulsava come se ci fosse passato sopra un TIR.

L'ortopedico era stato chiaro: malleolo fratturato e cinque settimane di gesso. Per il braccio, due settimane di fasciatura stretta per evitare al gomito di partire per la tangente.

Insomma, un disastro, visto che con quella mano ci scriveva.

«Spero che ora tu sia soddisfatto» brontolò Hannah, aprendogli la portiera della Lexus perché potesse salire.

«Non proprio» mugugnò Nick, salendo a fatica sull'auto della moglie.

«Dovrei spaccare la testa a Kyle. Ma che vi diceva, il cervello? Quelle erano onde alte nove metri!» sbuffò la donna, salendo sul sedile dell'autista per poi mettere in moto.

«Ma erano belle» replicò fiacco lui, poggiando il capo contro il poggiatesta. Gli dava un fastidio tremendo aver fatto incavolare Hannah, ma non si pentiva di aver solcato quelle onde splendide.

Finché era durata, era stato splendido.

Un bacio leggero giunse a sorpresa sulla sua guancia e Nick, riaprendo gli occhi per fissare la moglie, si ritrovò ad annegare nei suoi caldi occhi chiari, oltre a dover affrontare il suo sorriso triste e preoccupato.

«So che ti piace fare surf, ma mi spiace vederti star male, Nick» precisò Hannah, avviandosi per tornare a casa.

«E a me spiace farti rattristare. Non me l'aspettavo proprio, quello scoglio. Sono stato sbalzato dalla cresta senza preavviso e... beh, il resto lo sai» mormorò lui, accendendo con la mano sana lo stereo dell'auto. Alla radio davano Lady Gaga.

«Gli incidenti capitano, lo so, Nick. Solo, non mi va che capitino a te» ammiccò lei, svoltando lungo la via principale per dirigersi verso Malibù. Il traffico, come al solito, era caotico e pieno di folli al volante, che scambiavano la East Pacific Coast Highway per un circuito di Formula 1.

«Non sono indistruttibile... può capitare che mi faccia male» ironizzò Nick.

«Se esistesse, ti comprerei l'armatura di Iron Man. Starei più tranquilla» brontolò Hannah, svicolando abilmente tra due utilitarie.

«Finché non mi porti a casa l'attore di Iron Man, va bene» ammiccò il marito, sorridendole.

Lei gli lanciò un breve sorriso in risposta prima di accelerare non appena vide un varco e, con aria di sufficienza, replicò: «Ti dirò... Robert non ci starebbe poi così male, nella stanza degli ospiti. Potrei andarlo a trovare quando tu non ci sei e...»

«Hannah!» esclamò Nick, scoppiando a ridere.

Ammiccando, lei rise con il marito e, più seriamente, aggiunse: «Mi basti tu, tranquillo. Non vorrei mai un altro uomo nella mia vita. E' per questo che mi preoccupo che tu rimanga tutto intero.»

«Farò più attenzione, la prossima volta» le promise allora il marito, sfiorandole la mano che si trovava sul cambio manuale della Lexus.

«Sai fare surf solo spingendoti al massimo, è così che ti piace, ed io non tenterò mai di cambiare il tuo stile. Ma ti comprerò delle cartine nautiche con i fondali... non si sa mai» ribatté lei, stringendo la sua mano per un istante prima di tornare a concentrarsi sulla guida.

«Grazie, honey.»

«So quanto ci tieni. Non ti rovinerei mai il tuo angolino di paradiso» gli sorrise lei, un poco più serena.

§§§

Bernard terminò di sistemare i cuscini contro la spalliera del letto mentre Amélie sprimacciò le lenzuola ritirate in fondo alla pediera, il tutto supervisionato da Hannah, che alternava sguardi al marito e ai figli.

Cam e Dom, seduti a terra su un morbido tappeto in gomma colorata, stavano scrutando con immensa curiosità il padre, indecisi se avvicinarsi alla strana sedia con le ruote su cui era accomodato.

«Ecco fatto, il letto è pronto, Nickolas» sentenziò Bernard, avvicinandosi al padrone di casa per aiutarlo ad alzarsi. Nick aveva tassativamente vietato ai domestici di usare le forme di cortesia, con loro e, alla fine, era riuscito nel suo intento.

«Scusa, Bernard, ma al momento potrei ruzzolare in terra, se provassi ad avvicinarmi al letto senza aiuto e, col braccio bloccato, non posso usare neppure la stampella dalla parte giusta» si lagnò Nick, lasciandosi sistemare sul letto dal possente domestico.

«Nessun problema. Ho già avvisato Cindy che rimarrò qui, nei prossimi giorni, finché non ti sarai abituato» lo rassicurò l'uomo, sorridendogli.

Sgranando gli occhi, Nick scosse recisamente il capo ed esalò: «Non se ne parla! Non ti disturberò così tanto!»

Amélie sorrise a Hannah che, conciliante, asserì: «Vedremo come va nei prossimi due giorni, Nick. Se te la cavi anche a camminare con la stampella dalla parte sbagliata, non ci saranno problemi, no? Nel frattempo, però, hai bisogno di aiuto, e mentre io sono in ditta, e Amélie è impegnata con i bambini, qualcuno deve pensare a te.»

«Vi eravate già coalizzati contro di me, vero?» brontolò Nick, fissandoli storto.

«Esattamente» assentì senza problemi la moglie, avvicinandosi per dargli un bacio sulla fronte aggrottata. «Ora scappo in ufficio perché nel pomeriggio arriverà Dreyfus, e non voglio che se ne occupi solo Bran. Ti lascio in buone mani.»

Detto ciò, Hannah si piegò in ginocchio sul tappetino di gomma e baciò i figli, dicendo loro: «Prendetevi cura di papà, mentre non ci sono.»

«Ti!» strillarono in coro i due bambini, levando le manine verso l'alto.

Amélie e Bernard uscirono sorridenti dalla stanza da letto mentre Nick, ammirando i suoi figli e la moglie, mormorò: «Saranno eccellenti sentinelle.»

«Ti mando anche Stark, adesso. Non voglio che resti solo» disse Hannah prima di fermarsi sul ciglio della porta e sorridere al golden retriever che, scodinzolante, le sgusciò tra le gambe per entrare. «Pare non ce ne sia bisogno. E' già arrivato.»

«Sai che non è mai troppo lontano dai gemelli» le ricordò lui, accarezzando allegramente il cane quando se lo ritrovò accanto, già pronto a leccarlo per solidarietà.

«Vero» ammise lei, sospirando leggermente. «Allora... a stasera.»

«Non ti stancare troppo» si raccomandò Nick, osservandola uscire per recarsi in ufficio da sola.

Era la prima volta che capitava, da quando si erano sposati. Durante la gravidanza era stato Nick a recarsi in ditta senza la sua presenza, ma Hannah non si era mai trovata in ufficio senza di lui.

Sarebbe stato strano, e straziante, immaginarla là senza la sua presenza.

Sdraiandosi sul letto, si passò una mano sul viso e si diede per l'ennesima volta dell'idiota. Come aveva potuto essere così stupido da farsi male a quel modo? Ma non pensava alle persone che erano a casa?

Il trillo infantile delle risate dei suoi figli lo fecero sentire ancora più male e, nel volgere appena il capo, li osservò sentendo il proprio cuore andare in pezzi.

Aveva rischiato di rimanere senza di loro, senza Hannah. E loro avevano rischiato di perderlo.

Feroce, una lacrima gli solcò la guancia, lasciando una scia acida sul suo viso percorso dal dolore e, quasi richiamati da quello stato d'ansia, i due bambini si voltarono verso il padre, titubanti.

Nick fu lesto a tergerla con la mano sana, ma Cam e Dom non furono paghi.

Sotto gli occhi attenti di Stark, che si avvicinò loro con un uggiolio dubbioso, i due frugoletti si fecero forza sulle braccia e, a fatica, si raddrizzarono caracollanti sulle gambette robuste, sorprendendo il padre.

Nove mesi erano sufficienti, per camminare?

I dottori si erano sbizzarriti con i commenti. Sì, no, forse, servivano anche due anni, … insomma, nessuno lo sapeva.

Succedeva quando succedeva.

E, evidentemente, per Cam e Dom era giunto il momento.

Si fissarono vicendevolmente negli occhi, studiandosi da quella nuova prospettiva mentre Stark li scrutava attento, pronto a intervenire qualora uno di loro due avesse fatto l'atto di cadere.

Nick, in religioso silenzio, li guardava con il cuore ora gonfio di orgoglio, un sorriso dipinto sul viso e le lacrime asciugate da quel piccolo miracolo.

Non contenti, però, i due bambini rivolsero la sua attenzione al padre e, allungando titubanti le braccia verso di lui, zampettarono verso il letto con la stessa andatura di due ubriachi.

Ma camminando.

«Oddio, Cam... Dom...» mormorò con voce spezzata Nick, allungando verso di loro il braccio sano.

I due bambini, ringalluzziti da quei primi passi, sorrisero al padre e, in coro, esclamarono: «Pa-pà!»

Per maggiore sicurezza, ripeterono la parola un paio di volte, giusto per saggiarla sulla lingua e, quando finalmente raggiunsero indenni il letto, avendo compiuto ben sei passi senza cadere, trillarono giocosi: «Papà!»

Stark abbaiò allegramente e per Nick fu troppo.

Esplose in un pianto di gioia e, sforzandosi di attirarli a sé con l'unico braccio utile, se li strinse al petto, continuando a piangere come una fontana, ma senza mai smettere di ridere.

I bambini, lieti dal riso del padre, pur se un po' confusi dalle sue lacrime, gli asciugarono il viso con le manine grassocce e lo tempestarono di baci umidicci e di carezze.

Nick allora si issò a sedere come meglio poté e, battendo una mano sul letto, disse: «Salta su, Stark. Oggi si festeggia!»

Il cane non se lo fece ripetere e, con un balzo, si andò ad accoccolare accanto al padrone che, afferrato il telecomando, accese il televisore a LED 32'' e lo sintonizzò su un canale per bambini.

Cam e Dom, trovata una sistemazione confortevole contro il torace del padre, si misero a guardare la TV ma, ogni tanto, si volsero per fissare il viso sorridente di Nick e ripetere la loro prima parola di senso compiuto.

Papà.

§§§

Era stato davvero strano trovarsi sul lavoro senza Nick e, a peggiorare il tutto, si era sentita in colpa tutto il pomeriggio per avergli fatto in qualche modo pesare il suo incidente.

Non voleva che rinunciasse al surf, per nessun motivo al mondo, ma non era sicura che vederla così abbattuta l'avesse aiutato. Certo, gli aveva detto di non volere nulla di tutto ciò, ma un conto era dirlo, un conto era convincerlo.

Quando infine mise la Lexus nel garage, Hannah sospirò afflitta ma si costrinse a stamparsi in faccia un sorriso allegro a tutto beneficio di Nick.

Non c'era bisogno che lui si sentisse più male di quanto già non stesse.

Perciò entrò in casa con aria serena e poggiò borsetta e scarpe nel guardaroba d'entrata, badando a contenere l'ansia che la spingeva a correre da suo marito.

Si infilò le pantofole e, sempre con passo misurato, si diresse in camera da letto ma lì, sopraffatta da una marea di emozioni diverse, si fermò di botto e scoppiò in lacrime.

Là sul letto, sdraiati scompostamente, c'erano tutti i suoi uomini.

Il cane, sistemato accanto a Nick, teneva il muso poggiato sulla sua coscia mentre Dom e Cam, abbracciati al loro papà, riposavano sereni tenendo le loro testoline gemelle sulle sue ampie spalle.

E infine Nick, con un sorriso angelico, dormiva della grossa tenendo protettivo a sé i suoi due angioletti. Non dubitava che il braccio malandato gli avrebbe fatto un male cane, al risveglio, ma era anche sicura che non gliene sarebbe importato nulla.

Alle sue spalle, silenziosa, Amélie giunse in punta di piedi e sussurrò: «Li ho trovati così un'ora fa, e non ho avuto cuore di svegliarli. Dalle risate che ho sentito durante il pomeriggio, devono essersi divertiti molto.»

«Lo immagino» assentì Hannah, un sorriso deliziato a illuminarle il viso. «Grazie per non averli svegliati. Ora ci penso io.»

«Ho tenuto la cena in caldo, e i biberon sono già pronti» la informò allora lei, sfiorandole una spalla con la mano.

«Va bene. Bernard ha già mangiato?» le chiese Hannah, senza mai distogliere lo sguardo dai suoi amori.

«Sì. Ora si trova nella Camera Azzurra, nell'ala degli ospiti. Mi ha detto di ricordarti che è sempre pronto, se c'è bisogno di lui» la mise al corrente Amélie.

«Ora vai. Qui me la cavo. A domani» la ringraziò Hannah, dando un bacio sulla guancia ad Amélie, che le sorrise e si allontanò per tornarsene a casa.

Rimasta sola sul ciglio della porta, Hannah finalmente entrò e, dopo essersi concessa un ultimo sguardo compiaciuto, si chinò per baciare Nick sulle labbra dischiuse.

Lui si riscosse con uno sbadiglio e, sorridendole non appena la vide, mormorò: «Sei una sirena?»

Lei sorrise, ricordandosi di quella volta in cui erano scesi insieme in spiaggia, e lui si era addormentato senza problemi, sapendo di essere vegliato dalla sua fida segretaria.

«Sbagli razza. Sono una segretaria» replicò lei, dandogli un altro bacio.

«E mia moglie» sottolineò Nick, accentuando il sorriso. «Mi ero addormentato, eh?»

«Tutti voi, per la verità» gli fece notare Hannah, indicando i figli e Stark.

Ridacchiando sommessamente, lui annuì e, con occhi che scintillavano, esalò: «Hanno detto la loro prima parola. E hanno camminato

Hannah fece tanto d'occhi e, lasciandosi scivolare in ginocchio accanto al letto, si aggrappò al bordo del materasso per poi esalare sconvolta: «Oddio! Davvero?!»

Fattosi serio, lui asserì: «Stavo pensando a quanto sono stato stupido a non soppesare i rischi che correvo, facendo surf. Ci siete voi ad aspettarmi a casa, e io devo pensare a queste cose!»

«Nick...»

«Comunque... loro mi hanno visto triste, così si sono sollevati dal tappeto e, dopo averci pensato su un attimo, hanno camminato verso di me! E dicevano papà!» le raccontò Nick, eccitato e lieto per quella novità.

Hannah si sentì pronta per un nuovo pianto, ma preferì evitarlo quando il marito le disse perentorio: «Da questo momento in poi, con il surf ho chiuso. D'ora in poi devo pensare solo a voi.»

«Non se ne parla neanche!» replicò lei, accigliandosi.

«Come? Ma pensavo che...» tentennò Nick, non del tutto sicuro di aver capito cosa gironzolasse per la testa della moglie.

«Non è stato corretto farti pesare tanto la mia paura, quando ti ho visto ferito. Non posso vietarti di andare sul surf, come non posso impedirti di fare qualsiasi altra cosa ti piace. Sarebbe prevaricarti e, di sicuro, è una cosa che non voglio assolutamente fare!» protestò Hannah, lapidaria. «Sono tutte situazioni nuove, per noi, e ci abitueremo insieme ad affrontarle, di volta in volta... ma non voglio assolutamente che tu rinunci a qualcosa per me... per noi. E' chiaro?!»

«Hannah...» mormorò lui, dandole un bacio tenero sul naso. «Non mi spiace... davvero.»

«Non ci credo neppure se mi firmi un giuramento col sangue» ribatté caustica la donna, sorprendendolo non poco. «Voglio che continui ad andarci. Solo, magari... scegli onde un po' più piccole.»

Nick allora le sorrise amorevole e, annuendo, la baciò sulle labbra asserendo: «Mi limiterò un po'.»

«Bene» assentì lei prima di aprirsi in un sorrisone quando vide Cam e Dom svegliarsi con un gran sbadiglio collettivo.

Stark uggiolò, riprendendosi dal suo sonno ristoratore e, vedendo la sua padrona, balzò dal letto per farle le feste mentre i due bambini, ancora un po' insonnoliti, cercarono il volto sorridente del padre prima di volgersi verso la mamma.

Lì, le sorrisero giulivi mentre Hannah era impegnata a carezzare Stark e, strillando felici, urlarono: «Ma-mma!»

Hannah sobbalzò a quella parola e Nick, felice come una pasqua, disse: «Sì, è la mamma!»

«Mamma, mamma, mamma!» trillarono i bambini, allungando le mani verso di lei.

La donna non si fece pregare.

Li strinse in un abbraccio caloroso e, sempre trattenendo le lacrime, esclamò: «Ciao, tesorini miei. La mamma è a casa, e stasera faremo uno strappo alla regola. Mangeremo tutti sul lettone!»

I bambini ne furono più che lieti e, quando Hannah uscì per andare a prendere il necessario per la cena, si ritrovò a fissare Bernard oltre un velo di lacrime di gioia.

«Ho sentito i bambini urlare, e così... va tutto bene?» si informò l'uomo, sorridendole benevolo.

«Va tutto... benissimo» assentì lei, tergendosi gli occhi con una mano.

Bernard allora le passò un fazzoletto e, strizzandole l'occhio, le confidò: «Li ho filmati, questo pomeriggio. Potrai goderti i loro primi passi quando avrai un attimo di tempo.»

«Grazie, … davvero tanto» balbettò Hannah.

«Torna pure da loro. Vi porto io i vassoi con la cena.»

Hannah lo ringraziò con un bacio sulla guancia e, con un rinnovato sorriso, tornò dalla sua famiglia. Dai suoi amori.

 

 

 

______________________

N.d.A.: per chi si chiedesse come mai non ho ancora parlato di Rena, è presto detto. Per lei, sto scrivendo un’intera storia, così come è stato per Hannah e Nick. Quindi, per poter avere sue notizie, ci vorrà ancora un po’ di tempo. Nel frattempo, continuerò a postare OS sui personaggi di Honey, quando l’ispirazione verrà e, insieme a questi brevi racconti, posterò la prima delle quattro storie sui gemelli Hamilton, di cui vi avevo già accennato. Il titolo è “Broken Ice”.

Grazie a coloro che hanno letto e/o commentato fino a qui! A presto!

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Capitolo 6
*** First sight (Agosto 2002) ***


Sapeva benissimo che, presto o tardi, sua madre si sarebbe veramente risentita, di fronte ai suoi colpi di testa apparentemente immotivati ma, finché il buon nome della ditta era salvo, poteva tirare un sospiro di sollievo.

Partecipare agli eventi di volontariato organizzati e patrocinati dal comune di L.A. era una cosa a cui teneva da anni e, per anni, aveva finanziato – spesso usando il suo conto personale – quelle opere di bene.

Naturalmente, aveva sempre sottolineato quanto tutta la V.B. 3000 tenesse a quelle manifestazioni, e Brandon sapeva bene che, almeno per quanto riguardava suo padre e suo fratello, questo era vero.

Quanto a sua madre, ormai non era più sicuro di nulla.

L'ultima discussione avuta con lei all'ombra del salice piangente, che maestoso si inerpicava verso il cielo nel loro immenso giardino, era stata memorabile.

Era passato un anno, da quel nefasto giorno.

Ammettere ad alta voce che le sue preferenze sessuali non erano così in accordo con quanto sperato da Isabel Van Berger, mastino dai denti affilati di antica stirpe europea,  era stato un autentico inferno.

Rammentava ancora bene gli sguardi glaciali della madre, il suo furioso rammentargli quanto illustre e antico fosse il nome che portavano, e quanto scandalosa sarebbe stata una tale rivelazione.

L'aveva liquidato con poche, rapide parole al vetriolo, tacciando le sue pulsioni di giovane ventenne come uno sciocco e puerile modo per mettersi in mostra ai suoi occhi.

Come se sperare in qualche attenzione materna da parte sua fosse, ormai, una speranza da coltivare con passione!

Aveva imparato fin troppo presto di essere l'indesiderato, il secondogenito nato più per errore che per reale interesse.

Era più che certo che suo padre non fosse di quell'avviso, pur se gli impegni di lavoro lo tenevano spesso lontano da casa.

Ogni qualvolta Brandon poteva passare del tempo con lui, non era mai tempo perso, o passato invano, e questo gli faceva capire quanto bene gli volesse.

A volte invidiava suo fratello Nick, già ben inserito all'interno della ditta e più volte al fianco di loro padre Andrea, specialmente quando si trattava di conoscere nuovi clienti o potenziali fornitori.

Brandon doveva ancora terminare gli studi a Princeton e, come sua madre aveva fin troppo spesso sottolineato, finché non avesse ottenuto ottimi voti in tutti i corsi, non avrebbe mai messo piede in ditta.

Sapeva quanto l'eccellenza e la notorietà piacessero a sua madre e, per quanto Nickolas fosse un'inguaribile scapestrato per alcune cose, aveva sempre dimostrato di essere un genio degli affari.

Si poteva passare sopra a certe sue scappatelle sentimentali, soprattutto perché erano tutte consumate con ragazze bene dell'alta società losangelina.

Tutt'altro discorso si poteva fare per lui.

Brandon non dubitava che, se mai fosse stato visto assieme a un altro ragazzo o, peggio ancora, in atteggiamenti intimi con uno del suo stesso sesso, sarebbe scoppiato un putiferio.

Non aveva mai osato parlarne con suo padre, perché Isabel era stata lapidaria su questo punto.

Andrea non avrebbe mai dovuto neppure sospettare le sue disgustose inclinazioni sessuali, e lui avrebbe dovuto impegnarsi perché cambiassero.

Come se si potesse chiedere a una rosa di diventare un lillà!1

Parlare con mamma era stato un errore ma, per lo meno, Nick si era dimostrato più comprensivo e, con i suoi modi un po' goffi e impacciati, dovuti soprattutto alla sorpresa di quella confessione, l'aveva spalleggiato in toto.

Ancora adesso, da quella prima ammissione a denti stretti, Nickolas non l'aveva mai abbandonato una sola volta, quando gli eventi si erano fatti troppo pressanti da sopportare, o la vita tanto dura da essere quasi insopportabile.

Aveva pensato spesso di scappare da lì, di mollare studi e famiglia, ma si era sempre trattenuto per non dare un dolore al padre e al fratello.

Quanto avrebbe resistito sotto l'egida rigida e irriguardosa della madre, però, non gli era dato sapere.

“Ehi, Brandon!”

Una voce tra la folla di volontari lo strappò a quei tristi pensieri e, stampatosi in faccia un sorriso di circostanza, il giovane Van Berger fissò lo sguardo su Padre Brown e disse: “Padre, buongiorno. Direi che l'affluenza è buona. Le braccia, oggi, sono davvero molte.”

“La tua pubblicità mirata è stata sicuramente di aiuto” lo lodò il pastore, facendo sorgere un sorriso bianco e lucente sul viso color caramello dell'uomo. “Si sono mobilitate un sacco di associazioni no-profit, e anche alcune radio locali saranno presenti per raccontare l'evento.”

“E' un'ottima cosa” assentì il giovane, più che orgoglioso di quel che erano riusciti a mettere in piedi.

Aiutare i senzatetto e gli indigenti era un imperativo, per lui, perché sapeva bene di non meritare – ancora – neppure la metà di quello che, giornalmente, usava per le sue necessità.

Il suo bisogno di dare agli altri era più forte della paura che provava al pensiero di essere denigrato da sua madre o, peggio, rabberciato per essersi abbassato al livello di tali perdenti.

Da dove fosse nato l'odio della madre nei confronti del mondo, Brandon non lo aveva mai scoperto, ma era un fatto assodato, un assioma incontrovertibile, e a questo si doveva attenere.

Da lei, non avrebbe mai ricevuto una pacca sulla spalla e un 'complimenti!'.

Doveva scordarselo e farsene una ragione.

“E come sempre, gran parte del merito è tuo” dichiarò soddisfatto l'uomo, dandogli una pacca sulla spalla.
“Possiamo sperare anche nella presenza di tuo fratello, quest'anno?”

“Da quel che so, passerà nel pomeriggio. Dovrebbe rientrare da San Francisco nella tarda mattinata, perciò...” gli spiegò Brandon, scrollando appena le spalle.

Nick sarebbe arrivato anche a nuoto, se necessario, ma ci sarebbe stato.

Non lo aveva mai deluso una sola volta, nella vita, e dubitava che avrebbe iniziato quel giorno.

“Molto bene” assentì Padre Brown, aprendosi in un largo sorriso un attimo dopo.

Incuriosito, Brandon seguì lo sguardo del pastore per capire chi lo avesse tanto colpito e, nell'inquadrare un giovane afroamericano dalle ampie spalle e il largo sorriso, si chiese chi fosse.

L'andatura con cui si avvicinò loro era potente, fluida, tipica di un atleta e, quando si fermò loro accanto con aria spavalda, Bran notò quanto fosse alto.

Doveva sfiorare il metro e novanta.

“Benarrivato, Phillip! Lascia che ti presenti Brandon Van Berger, uno dei promotori della raccolta di fondi di oggi” esordì il pastore, tutto sorrisi e pacche sulle braccia.

Gli occhi di pece di Phillip si spostarono sul viso allampanato di Brandon e sorrisero al pari della bocca che, generosa, si levò con sincerità verso l'alto.

La mano, grande e forte, si allungò verso di lui mentre la sua voce tenorile e leggermente roca esordì gradevole dicendo: “Finalmente ti conosco. Zio Bob non fa che decantare le tue doti, e ormai ero sicuro che avrei trovato un gigante alto tre metri!”

Brandon strinse quella mano con decisione, avvertendone subito il calore e la possanza e, vagamente imbarazzato, replicò: “Oh, non sono niente di tutto questo. Dunque sei suo nipote?”

“Figlio di sua sorella.”

Rivolgendosi poi allo zio, aggiunse: “Mamma e le ragazze arriveranno più tardi. Credo abbiano avuto dei problemi logistici.”

“Sondra non trova l'abito adatto?” ironizzò il pastore, ben conoscendo le sue nipoti.

“Temo di sì” sospirò esasperato Phill, pur sorridendo con amore.

“Molto bene. Io torno a fare pubbliche relazioni. Voi prendete pure posizione agli stand gastronomici. Ci sarà bisogno di tante mani per servire ai tavoli” li sollecitò Padre Brown, andandosene a passo svelto un attimo dopo.

Rimasti soli, Brandon e Phillip si guardarono indecisi per alcuni attimi prima di incamminarsi verso i numerosi banchi, sistemati sotto una miriade di tendoni multicolori.

La vicinanza con l'oceano facilitava il passaggio di una brezza salmastra e umida quanto fresca che rinfrancava un poco, vista la calura di quel giorno.

Nel camminare al fianco di Phillip, Brandon mormorò: “Non so davvero dove trovi tutta quell'energia. E' sempre in movimento.”

“Mio zio? Dio lo ha dotato di una batteria Duracell inesauribile. Mamma lo ha sempre detto. Fin da piccolo, era indistruttibile, una vera roccia” ironizzò Phill, sorridendogli spontaneamente.

Brandon replicò al sorriso con uno maggiormente sicuro di sé e, nell'indicare il banco delle zuppe, disse: “Direi che potremmo posizionarci qui. Il profumo della zuppa di Florence è impagabile, e lavorare sarà meno faticoso, con un simile aroma nelle narici.”

Sentendosi interpellata, la piccola ispanica dalle trecce sottili sorrise bonaria ai due giovani e, salutando con calore entrambi, disse: “Oggi c'è davvero un sacco di gente. Hai fatto davvero un ottimo lavoro, querido. Ci sai fare, altro che storie! Dovrebbero metterti subito a capo della ditta di tuo padre!”

Brandon scoppiò a ridere, diventando paonazzo in viso per quei complimenti e Phillip, nell'osservarlo con il dubbio negli occhi, domandò: “Oh... ma allora Van Berger è quel Van Berger.”

“Già” assentì l'altro, sorridendo sghembo.

Florence diede una pacca affettuosa sulla guancia di Bran, aggiungendo spavalda: “Lascia che te lo dica, Felipe, questo giovane meriterebbe un posto di comando, per come ragiona. Il mondo andrebbe meglio, con uno come lui al governo.”

Phill sorrise benevolo alla donna, adorando segretamente il modo in cui spennellava con un po' di spagnolo ogni cosa che diceva.

Ma, soprattutto, rimase colpito dalle sue parole.

Era difficile che Florence si sperticasse in complimenti così entusiastici, se non lo pensava veramente, perciò era indubbio quanto il giovane Van Berger le stesse a cuore.

Ora il viso di Brandon appariva vermiglio e, nell'abbracciare la donna, il giovane le disse sconvolto e imbarazzato al tempo stesso: “Oh, dai, ti prego, Florencita, non mettermi in imbarazzo. Ora Phillip penserà chissà che cosa!”

Florence gli batté una mano sulla schiena con fare molto materno e, nel dargli un buffetto sul naso, replicò serafica: “Penserà che ho fiuto nell'inquadrare le persone.”

“Florencita non ha mai sbagliato” aggiunse Phillip, sorridendo a un timido Brandon che, con un gesto negligente della mano, diede adito di non voler sentire altro, su di lui.

Dopo un bacio sulla fronte alla donna, il giovane rampollo dei Van Berger afferrò uno dei grembiuli di cotone azzurro, su cui capeggiava il simbolo della manifestazione – una rosa tra due mani a coppa – e lo indossò.

Dai suoi gesti sicuri, Phillip comprese non fosse la prima volta che si offriva per simili compiti e, imitatolo, gli si mise al fianco con un mestolo in mano e disse: “Si comincia.”

Brandon assentì e, con i chiari occhi lucenti e pieni di sogni, diede inizio al lavoro.

 
§§§

In maniche di camicia e, sulle spalle, la giaccia di Armani rilasciata negligentemente e trattenuta solo da due dita infilate nel tessuto di classe, Nickolas Van Berger fece la sua apparizione verso le tre del pomeriggio.

A grandi passi, e con le Prada già impolverate per il lungo camminare in mezzo al terriccio smosso dell'enorme campo che avevano occupato per la manifestazione, il giovane levò un braccio e salutò il fratello.

Questi, nel sentire la sua voce forte e baritonale, levò il capo e gli sorrise prima di concedersi un risolino per come era conciato.

Di certo, era la persona più elegante presentatasi quel giorno, potenziali finanziatori esclusi.

La camicia azzurro cielo era infilata in pantaloni scuri e tagliati su misura per lui, e facevano risaltare non solo la sua altezza ma anche la sua presenza tonica e slanciata.

Più di una donna volse lo sguardo per guardarlo con apprezzamento, e Brandon non si stupì quando Nick si lasciò andare a sorrisi e sguardi maliziosi.

Era nel suo ambiente naturale; ammirato e desiderato da sciami di donne senza fine.

Ma sapeva bene che, quel giorno, non ci sarebbe stato posto per quel genere di pensieri.

Quando Nick prendeva un impegno, era imperativo portarlo a termine, e nessuna distrazione lo avrebbe portato fuori dal seminato.

Quel giorno, il suo compito era dare una mano, e a ciò si sarebbe attenuto.

Quando finalmente li raggiunse, strinse in un abbraccio caloroso Florence, che si complimentò con lui per l'eleganza, e infine si volse verso il fratello, dicendo: “Eccomi qui! Scusa il ritardo, ma l'aereo ha fatto i capricci.”

“Non c'è problema... ma arrivi direttamente dal LAX?” gli domandò Brandon, vagamente sorpreso.

“Ovvio. Se avessi dovuto anche passare dalla villa per cambiarmi, sarei rimasto invischiato nella rete di mamma, e non avrei avuto scampo. Una tarantola, al confronto, è meno pericolosa” ghignò Nick, gettando la giacca su una sedia pieghevole prima di rigirarsi le maniche e scoprire gli avambracci muscolosi.

Volgendosi a mezzo verso Phillip, che non aveva perso una sola battuta del loro scambio di informazioni, Bran mormorò: “Nicky, posso presentarti Phillip? E' il nipote di Padre Brown.”

Allungando lesto una mano, Nick esclamò: “Ehi, è un piacere conoscerti, Phillip. Io sono Nickolas.”

“Piacere mio” sorrise l'afroamericano, ridacchiando un attimo dopo quando vide alcune donne avvicinarsi con aria speranzosa.

Nick scoppiò a ridere con maggiore forza e, preso il mestolo in mano, mormorò con aria da cospiratore: “Succede sempre. Il mio fascino le cattura tutte.”

“Se il tuo fascino servirà ad attirare anche altri finanziatori, ben venga” sottolineò Brandon, passandogli un piatto di plastica da riempire.

Nick lo fissò con aria supponente e, nel servire le signore come se fossero state a un party di gran classe, ciangottò divertito: “Ovvio che ho fatto anche questo. Se vorrai degnarti di guardare alla tua sinistra, là in fondo vedrai Rena con la penna in mano e un blocchetto di assegni e, assieme a lei, Maggie Price e Winifred Willingcott. Tutte estremamente desiderose di staccare ingenti somme di denaro.”

“E bravo fratellone” ghignò Brandon, sorridendogli fiero.

“So che ci tieni e, quando posso, mi presto volentieri. Vorrei solo dedicarti più tempo ma...”

Nick si interruppe, scrollò le spalle e, con un sorriso amaro, aggiunse: “Cerco di dividermi equamente, se riesco.”

“E' importante che tu stia con papà. A me va bene così” scosse il capo il fratello, sorridendogli grato.

“No che non va bene” sbottò Nickolas, adombrandosi in viso. “Se solo riuscissi...”

Interrompendolo sul nascere, Bran replicò seccamente quanto sentitamente: “Nicky, non puoi essere onnipresente. Me la cavo anche da solo.”

“Beh, non è giusto lo stesso” brontolò per un istante il fratello, stampandosi però un sorriso elegante in viso non appena si avvicinò qualcun altro al bancone.

Brandon fu grato per quel temporaneo break ma, quando si ritrovò addosso gli occhi curiosi di Phillip, non seppe che dire.

Quanto aveva capito?

 
§§§
 
La notte era scesa da tempo, e gli ultimi stand erano stati riposti nei camion assieme alle piastre per il barbeque e ai tavolini pieghevoli usati quel giorno.

Le sedie, invece, erano state tutte caricate su un vecchio macinino che, sferragliando, si era immesso nel traffico per tornare alla Missione di Padre Brown.

Il campo recava i segni del passaggio di miriadi di piedi e, da quel poco che Brandon aveva saputo, erano stati raccolti più di seicentomila dollari, quel giorno, e altri sarebbero arrivati sotto forma di attrezzature e vettovaglie.

La comunità di recupero per indigenti e senzatetto di Padre Brown avrebbe prosperato e, al solo pensiero, Brandon si sentì finalmente realizzato.

E un po' meno inutile.

Succedeva di rado, ma almeno ogni tanto poteva gioire del solo fatto di esistere.

Seduto in solitudine su una delle panchine del parco adiacente, gli occhi stanti e infiacchiti dal lungo lavoro, il giovane li spalancò non appena sentì dei passi alle sue spalle.

Fu sorpreso di vedere Phillip che, con calma, si appollaiò sulla panchina nella sua esatta posizione: piedi sulla seduta e schienale utilizzato come sedia.

Gli diede una leggera spinta con la spalla e, sorridendo a mezzo, disse: “Direi che è andata bene.”

“Ottimamente. Sono giornate come queste per cui vale la pena vivere” dichiarò Brandon, sorridendogli di rimando.

“Sarà una scocciatura rientrare nel New Jersey, dopo questa lunga estate calda. Ma almeno quest'anno ho potuto partecipare a quest'evento. L'anno scorso ero all'ospedale con una gamba rotta” ridacchiò Phillip, battendosi una mano sulla coscia destra.

Vagamente sorpreso, Brandon esalò: “New Jersey? Studi lì?”

“Princeton. Studio alla School of Engeneering and Applied Science, perché?”

Phillip lo fissò curioso, con i suoi profondi e pensierosi occhi scuri e orlati di lunghe ciglia brune.

Più che stupito, Bran scoppiò a ridere e, passandosi una mano tra la folta chioma biondo castana, ammise: “Woodrow Wilson School of Public and International Affairs, tanto piacere.”

“Ehi, ehi, sei una tigre2 anche tu, allora!” rise di gusto Phill, dandogli un'amichevole pacca sulla spalla.

“A quanto pare... è davvero piccolo il mondo.”

“Già” assentì Phillip, tornando serio.

Il silenzio calò tra loro, ma Brandon non lo trovò né imbarazzante, né tanto meno pesante.

Era un silenzio rilassato, tra due persone che andavano d'accordo e si trovavano in sintonia.

Era piacevole e, nonostante la stanchezza, lo trovò stranamente corroborante.

Il trillare delle cicale si intervallava a quello delle rade auto di passaggio in quella zona defilata e, quando anche l'ultimo camion scomparve dal campo, Phillip scese dalla panchina e disse: “Non rientri?”

“Mi piace stare qui, al buio, in santa pace” replicò Brandon, scrollando le spalle.

“Allora vado. Non voglio rovinare l'atmosfera” ridacchiò Phill, muovendo il primo passo per allontanarsi.

Bran agì d'istinto.

Allungò una mano e, afferrata quella del giovane, la strinse con forza ed esclamò: “No, non andare!”

Phillip allora si volse lentamente verso di lui, ne scrutò il viso in ombra, solo parzialmente sottolineato dalla luce diafani di alcuni lampioni in lontananza, e sorrise.

Replicò alla stretta e, senza dire nulla, tornò a sedersi, continuando a trattenere nella sua la mano di Brandon.

Nessuno dei due parlò.

Quelle mani giunte parlarono per loro, per lungo tempo, spiegando cose non dette, sussurrandone altre che non avevano il coraggio di esporre a voce, gridandone altre ancora con foga, quasi con disperazione.

Quando infine quelle dita si lasciarono per intrecciarsi con le rispettive gemelle, Phillip mormorò: “Se vuoi il mio parere, sei fortunato ad avere un fratello così.”

“Lo so.”

L'abbaiare improvviso di un cane li fece entrambi sobbalzare di paura e, scoppiando in una risatina nervosa, i due giovani decisero all'unisono di allontanarsi dal parco ormai deserto.

Appaiati e distanziati l'uno dall'altro solo da un alito impalpabile d'aria, Brandon e Phillip raggiunsero con calma le loro auto e, quando infine furono sul punto di separarsi, il giovane afroamericano mormorò: “Se vorrai qualcuno con cui parlarne, io ci sarò. So cosa vuol dire sentirsi incasinati.”

Bran si limitò a sorridere e Phill, dopo un istante, aprì la sua auto, ne estrasse una penna e un foglietto e vi scrisse sopra un numero di telefono.

Nel consegnarlo al nuovo amico, aggiunse: “Chiamami. Ci terrei davvero. A me ha fatto bene parlarne con la mia migliore amica... e tu mi dai l'impressione di avere un gran bisogno di sfogarti.”

Lui rise sgangherato, passandosi una mano nervosa tra i capelli e Phill, cogliendolo del tutto di sorpresa, lo strinse a sé con un braccio ed esalò con veemenza: “Ci si può perdere, se non si parla apertamente! Non perderti, se puoi!”

Brandon rimase di ghiaccio nel suo strano abbraccio a metà e, solo dopo alcuni secondi, riuscì a rispondere al suo dire con qualcosa che assomigliava a una voce normale.

“Grazie. Davvero.”

Phillip si scostò e, vagamente imbarazzato, disse: “Spero di non averti sconvolto troppo. La mia migliore amica dice che, a volte, sono troppo diretto.”

Il giovane Van Berger allora ridacchiò e scosse il capo, come a liquidare le sue scuse come inutili.

“La tua amica mi sembra davvero intuitiva.”

“Hannah è splendida. E' anche grazie a lei se mi sono chiarito le idee.” Poi, con un sorriso sghembo, aggiunse. “E' più facile se non si è da soli, credimi.”

“Comincio a crederlo” assentì Brandon.

“Beh, tigre, ci si rivede nel New Jersey, allora” dichiarò a quel punto Phillip, salendo in auto.

Brandon annuì e, con un cenno della mano, lo salutò mentre lo osservava allontanarsi lungo la via secondaria in cui avevano parcheggiato entrambi.

Quando fu solo, sorrise stranamente sereno e ammise tra sé: “Già. Ci si vede.”

Il cane che tanto li aveva fatti spaventare in precedenza tornò ad abbaiare e Bran, nel tornarsene alla sua auto, si convinse fosse arrivato il momento di andare a casa.

Avrebbe trovato i soliti problemi, forse un’altra lite ma, per una volta, si accorse di averne meno paura.

Sperò soltanto di non doversi ricredere.

 
 
 
 
_________________________
1.  La frase è una citazione dal cartone animato “Lady Oscar”.
2. Tigre è il nome che viene simpaticamente dato agli allievi di Princeton, che ha diverse facoltà (per questo Brandon e Phill nominano due scuole diverse che, però, fanno parte dello stesso complesso universitario). Il nome è derivato dai colori dell'università, nero e arancione.
 
N.d.A.: Questo è l'evento in cui Bran e Phill si conobbero, e compresero di avere molto in comune. E' molto probabile che aggiungerò altre loro avventure, ma per ora mi limito al loro primo incontro. Buona lettura. ^_^

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Capitolo 7
*** Is this the real life? Is this just fantasy? Caught in landslide, No escape from reality. (Agosto 1998) ***


Is this the real life? Is this just fantasy?
Caught in landslide, No escape from reality.*
 
Non era del tutto sicuro di essere ubriaco.

Forse la definizione più giusta sarebbe stata sull'allegro andante, con una punta di malinconia a fare da sottofondo e un'ilarità fuori luogo a far da contraltare.

Probabilmente, avrebbe dovuto semplicemente girarsi dall'altra parte, farsi gli affari suoi, non ficcare il naso, fregarsene come, ormai da tempo, lei faceva con loro.

Ma suo padre non gli aveva insegnato ad essere superficiale, ed ora ne pagava le conseguenze.

 
Atto I: Ombre nella notte.
 
Si sentiva un idiota a camminare in punta di piedi, scalzo, con le Prada in una mano e le chiavi di casa nell'altra, ma sapeva già a cosa sarebbe andato incontro, se la madre l'avesse beccato a quell'ora.

Non che festeggiare la laurea fosse sbagliato.

Ma non per un mese di seguito.

Però... come non continuare a gioire di quel Magna con laudae stampigliato sopra il suo nome, o del ricordo del riconoscimento personale che il rettore di Yale gli aveva tributato?

A ventidue anni, chi non si sarebbe vantato neppure un po'?

Già sul punto di disconnettere il sistema d'allarme per infilare la chiave nella toppa, Nick sobbalzò visibilmente quando udì dei rumori sul selciato del cortile e, in fretta, si nascose.

La siepe di ligustro che circondava il perimetro della villa – opulenta costruzione di chiara discendenza europea – fu un ottimo posto in cui infilarsi e, accucciatosi a terra, si chiese chi vi fosse in giro alle tre del mattino.

A parte lui, ovviamente.

Dubitava che fosse Bran. Il sedicenne secondogenito della famiglia Van Berger era troppo morigerato e a modo per uscire di notte, e rincasare poi così tardi.

No, Nick dubitò immediatamente fosse il fratellino.

Anche se un po' ci sperò. Era fin troppo meditabondo e cupo, per i suoi gusti, e tutto quel rimuginare sui propri pensieri era anche vagamente inquietante.

Tra sé, si ripromise di portarlo fuori, una di quelle sere.

Tralasciando il pensiero del fratello, si concentrò su altro.

Dubitava fossero dei ladri perché, tra il sistema d'allarme perimetrale e i cani da guardia, se si fosse trattato di intrusi, ormai se ne sarebbero già accorti.

Quindi, chi poteva esserci in giro, a quell'ora?

Sbirciando oltre le piccole e corpose foglie di ligustro per scrutare la semioscurità della notte, Nickolas si sorprese non poco nello scorgere la figura elegante e snella di sua madre.

Un abito nero di chiffon le scivolava sinuoso lungo il corpo slanciato e perfetto, e la bionda chioma dai riflessi castani era trattenuta da uno chignon che aveva visto tempi migliori.

Le alte scarpe con il tacco ticchettavano sul selciato grigio scuro, producendo sinistri suoni nella notte e Nick, per la milionesima volta in pochi secondi, si chiese dove fosse andata a quell'ora di notte.

E con chi.

Andrea Jameson Van Berger, suo padre e marito di Isabel Van Berger, era in giro per affari in Medio Oriente, perciò non poteva essere di certo uscita con lui.

Da che poteva rammentare, in quei giorni non era previsto nessun vernissage, o cena di gala, né tanto meno la madre li aveva avvertiti di qualche uscita tra amiche.

Quindi, dove diavolo era stata?

Accigliandosi leggermente quando la vide avvicinarsi alla porta di casa, quasi imitando le sue movenze silenziose, Nick la osservò in silenzio, studiandone ogni particolare, ogni movimento.

Appariva quasi fluida e incorporea, come se i suoi movimenti fossero frutto di un'attenzione distratta.

Neanche fosse appena uscita da una SPA, e fosse ancora troppo stordita dai massaggi per essere del tutto conscia del mondo esterno, persa nel piacere di essere stata coccolata e morbidamente massaggiata.

Ma Nick dubitava fortemente che la madre, per quanto vanitosa, si sarebbe recata in qualunque centro benessere di L.A. in tacchi a spillo, abito da cocktail e a quell'ora di notte.

Il dubbio si tramutò ben presto in sospetto e, quando la vide finalmente entrare in casa, si allontanò in fretta dalla siepe per raggiungere di corsa il muro perimetrale della tenuta.

Lì, incrociò un paio di cani che, nel riconoscerlo, uggiolarono leggermente per poi seguirlo curiosi.

Nick non vi badò. I dobermann di casa Van Berger erano addestrati alla perfezione, e non gli avrebbero dato problemi.

Incurante quindi della loro presenza, il giovane si arrampicò lesto su uno dei salici piangenti adiacenti alla muratura in mattoni rossi e, nello sbirciare all'esterno – verso la strada – non vide nessuno.

La via era deserta, non c'era nessuno in vista per miglia, e le poche auto parcheggiate erano vuote.

Questo particolare insospettì non poco il ragazzo che, tornato a terra con un balzo, allontanò con un gesto i cani perché tornassero a controllare il perimetro della villa e, in silenzio, si avviò verso la dependance della servitù.

Sarebbe stata una follia entrare in casa in quel momento, con la madre ancora in giro e, forse, troppo sveglia e vispa per dirigersi direttamente in camera sua.

Tanto valeva passare attraverso i corridoi della servitù, a quel punto.

Estratta una seconda chiave dalla tasca, entrò da una porticina laterale e, quasi morendo d'infarto per la paura, si ritrovò a fissare la faccia sorridente di Sebastian che, in piedi accanto al frigorifero, si stava bevendo un po' di latte.

«Ore piccole, signorino?»

«Eh, già, Sebastian» assentì il ragazzo, passandosi una mano nervosa tra i folti capelli castano dorati.

«Le apro la strada?»

Nick ridacchiò nell'annuire e seguì a ruota l'anziano domestico di casa Van Berger, che si inerpicò su per le scale per raggiungere la porta di comunicazione con la villa.

Lì, sbirciò nell'ampio corridoio ricoperto di pannellature lignee, tappeti Aubusson e quadri del settecento europeo e, annuendo al giovane, sussurrò: «Via libera.»

«Mi hai appena salvato la vita, Sebastian. A buon rendere.»

L'anziano ammiccò al giovane, lasciandolo passare e, nel dargli una pacca sulla spalla, il domestico replicò: «Non ci sono debiti, signorino, glielo assicuro.»

«Me lo ricorderò comunque.»

Ciò detto, lo salutò e sgattaiolò in camera sua muovendosi come un gatto e, solo dopo essersi richiuso la porta alle spalle, poté dirsi tranquillo.

A quel punto, però, tutta l'adrenalina che lo aveva sostenuto fino a quel momento scemò di colpo e, scivolando lungo la porta, si strinse le ginocchia al petto e pensò.

Pensò a ciò che aveva visto, a ciò che non aveva visto, a quanto di ciò che aveva scorto nell'oscurità della notte potesse essere travisato, o male inteso, e infine si decise.

Dopo essersi rialzato a fatica – era più stanco di quanto non avesse pensato – si recò alla scrivania e, dopo aver acceso il suo computer, attese di ottenere la linea per scandagliare internet.

I suoi amici erano parecchio invidiosi di quell'aggeggio futuristico che era internet e anche Nick, a dir la verità, si era vantato forse più del necessario di quella concessione offertagli dal padre.

La V.B. 2000 non poteva essere all'avanguardia solo entro le quattro pareti della ditta, ma doveva esserlo anche nella villa e, con l'arrivo del nuovo millennio, questo imperativo era ancora più vitale.

Così, Andrea aveva fatto installare un computer con collegamento internet per ogni figlio e anche uno per la moglie, che lo teneva nello studio che aveva in casa.

E proprio grazie a quella diavoleria della tecnica, Nick si mise all'opera per scovare il mezzo con cui avrebbe scoperto la verità.

Perché, se c'era una cosa che non sopportava, era la menzogna.

 
Atto II: il detective privato.
 
Chissà perché, si era immaginato un palazzo fatiscente, strade sporche e un'entrata seminascosta, o caratterizzata da un'insegna pencolante e fuori uso.

Di certo, guardava troppi film in bianco e nero.

Quando entrò nello stabile in centro città, dove si trovava l'agenzia di investigazioni Prescott & Co. , Nick dovette ricredersi su una marea di stereotipi assurdi che si era messo in testa.

Nessun uomo con impermeabile e cappello girava per quei corridoi ampi e dalle tinte tenui, nessun odore di sigaretta stantia aleggiava nell'aria, che invece profumava di muffin e zucchero.

Le porte che davano sulla hall in cui si trovava lui – accomodato su una comoda poltroncina bianca e squadrata – erano in legno grigio perla, e su ognuna di esse compariva un nome a caratteri romani e color oro.

La receptionist, una donna cinquantenne bassa e magra, sfoggiava una capigliatura alla moda e neri capelli dalle sfumature azzurrognole, oltre a pendenti enormi e multicolore.

Le labbra rosse e carnose lasciavano scivolare fuori una voce profonda e roca, che Nickolas aveva trovato molto sensuale al suo primo ascolto.

Quando aveva preso appuntamento per un colloquio privato con il capo dell'agenzia, non si era aspettato di trovare un simile concentrato di organizzazione.

E neppure la sventola alta quanto una pertica che lo aveva invitato ad accomodarsi.

Ventenne allampanata e dal fisico slanciato, Berenike Prescott – così si era presentata – l'aveva invitato ad entrare ed accomodarsi, prima di offrirgli un buon caffè e un set di pasticcini fatti in casa.

Scusandosi con lui, si era poi dileguata lungo uno dei corridoi, con il suo passo lungo e la falcata potente.

Sicuramente, era – o doveva essere stata – un'atleta.

Gambe simili non si ottenevano solo grazie a Madre Natura.

Dopo circa venti minuti di attesa, Nick la vide tornare assieme ad un uomo ancor più alto di lei, dalle spalle possenti ed il fisico degno di un pugile.

Il viso, serio e abbronzato, era circondato da cortissimi capelli neri e gli occhi, grigi al pari di quelli della figlia – non poteva che essere Mr Prescott, non aveva dubbi in merito – lo fissarono curiosi e vagamente dubbiosi.

Levatosi in piedi, Nickolas allungò una mano verso di lui per presentarsi.

«Sono Nickolas Van Berger, molto piacere.»

«Il piacere è mio, Mr Van Berger. Io sono Ulysses Prescott e, come forse avrà già capito, lei è mia figlia Berenike. Prego, mi segua. Parleremo in privato del suo caso.»

L'uomo si fece precedere da figlia e cliente e, assieme, entrarono in un ampio ufficio interamente sui toni del bianco e dell'ambra.

Sulle pareti si trovavano fotografie e stampe dell'Africa, molti scorci di savana e un'intera sequenza di un volo su due ruote per superare una duna, probabilmente durante una Parigi Dakar.

Dopo essere stato invitato a sedersi, Nickolas si ritrovò a fissare due paia d'occhi grigi che, pensierosi, si stavano evidentemente chiedendo cosa ci facesse lì il rampollo di casa Van Berger.

Senza girare in convenevoli, Nick decise di essere chiaro quanto conciso e, serio in viso, asserì: “Vorrei che seguiste mia madre, Isabel Van Berger. E' mio desiderio sapere se intrattiene una relazione extraconiugale.”

Nessuno dei due mosse un sopracciglio, cambiò espressione facciale o si esibì in sospiri di sorpresa.

Evidentemente, era una cosa che capitava loro più spesso di quanto il giovane non si fosse aspettato.

Ulysses si rivolse un attimo dopo alla figlia, che annuì, ed infine disse: «Immagino che suo padre non sia al corrente di questa sua scelta.»

«No, affatto. E desidero che ogni cosa che troverete venga comunicata unicamente a me

Il tono di Nickolas fu lapidario, e Ulysses annuì grave.

Un attimo dopo, uscì dalla stanza lasciandolo solo con la giovane che, nell'accomodarsi alla scrivania del padre, intrecciò le dita sul sottobraccio in pelle e mormorò: «Posso darti del tu? Siamo d'età, più o meno.»

Lui assentì, chiedendosi il perché di quella strana scelta d'ingaggio, ma preferì starsene zitto e lasciarla parlare.

«Vista la situazione piuttosto delicata, mio padre preferisce delegare a me simili compiti. Ho un tocco piuttosto... elegante, per certe questioni.»

«Non sei un po' giovane, per questo genere di mestiere?» si informò a quel punto Nickolas, vagamente dubbioso.

Lei sogghignò divertita e, indicando una laurea appesa al muro, Berenike mormorò pacata: «Ho ottenuto il diploma a sedici anni, mi sono iscritta a Princeton a diciassette e due mesi fa ho ottenuto la laurea in Psicologia. Sono una testa d'uovo in un corpo da fata, Mr Van Berger. Tutto tranne che un'idiota, e una volpe in quello che faccio.»

Quella sana sfacciataggine, unita a un sorriso micidiale fecero sorridere Nick che, annuendo, omaggiò la giovane con un cenno del capo e mormorò: «Chapeau. I miei complimenti. Quindi, hai imparato nella culla i segreti del mestiere di tuo padre?»

«Qualcosa del genere» scrollò le spalle lei.

«Lo seguo da quando ho tredici anni e, a diciotto, ho seguito il mio primo caso. So essere discreta, precisa e metodica, e non mollo l'osso finché non l'ho divorato tutto.»

«Sei la donna che fa per me, allora.»

Nick le sorrise, intrecciò le mani in grembo e fissò con interesse gli occhi perlacei della donna riempirsi di soddisfazione.

C'era quasi da aver paura di una ragazza così determinata.

«Dimmi quello che sai. Spostamenti, incontri, vernissage, appuntamenti, targa dell'auto, tutto quello che puoi darmi come punto di partenza. E dimmi se hai qualche ipotesi.»

Afferrato un notes e un registratore piccolo e grigio fumo, Berenike si mise in ascolto e Nickolas, dopo un attimo di tentennamento, raccontò tutto ciò che sapeva di sua madre, e quello che sospettava.

Le raccontò della notte in cui la vide rientrare ad un orario insolito, e le strane telefonate che, in seguito, lui ascoltò di nascosto tramite la linea interna di casa.

Berenike annuì silenziosa, si annotò alcune cose e, nel frattempo, registro ogni sua parola.

Alla fine, i suoi occhi apparvero vagamente turbati e, sì, dispiaciuti, ma la sua voce suonò sicura e confortante.

«Farò del mio meglio. Spero soltanto che tu ti sbagli.»

«Lo spero anch'io ma, per qualsiasi cosa tu troverai, hai fin d'ora la mia gratitudine.»

Nickolas si alzò in piedi, le allungò una mano – che lei strinse con energia – e aggiunse con ironia: «Quasi quasi mi faccio pedinare anch'io, da te.»

Berenike ridacchiò e, nello scrollare le spalle, dichiarò spiacente: «Arrivi tardi. Sto già pedinando l'uomo che sposerò.»

«Uomo fortunato» ironizzò allora Nick, salutandola nell'uscire dall'ufficio.

Fu solo quando raggiunse la strada, e la sua auto anonima – se l'era fatta prestare dal giardiniere con una scusa banale – che iniziò a tremare.

Salire sulla piccola Bronco fu un autentico inferno e, quando infine si ritrovò a stringere con forza il volante, si accorse di piangere.

Macchie scure comparivano a distanza di pochi secondi l'una dall'altra sulla stoffa dei suoi pantaloni e lui, con un gesto stizzito, le asciugò in fretta.

Non era il momento di piangere. No davvero.

 
Atto III: la verità.
 
Quella maledetta carpetta se ne stava sulla sua scrivania come un caimano pronto a morderla, foriera di una tempesta che non voleva scaricare sulla testa di un bravo ragazzo, ma oggetto finale per cui era stata profumatamente pagata.

Aveva aspettato due giorni, prima di chiamarlo, ma alla fine non aveva potuto tacere oltre.

Ed ora quella schifosa se ne stava lì, insultante e vanitosa nel suo colore giallo canarino, in attesa che il suo cliente la raggiungesse in ufficio.

Berenike non si era mai sentita così male, o così disgustata da un'indagine.

Sulle prime, l'idea di seguire una celebrità come Isabel Van Berger le era parsa grandiosa ma, con il passare del tempo, a mano a mano che il suo sordido segreto veniva a galla, tutta la sua gioia si era sgretolata.

Aveva fatto scrupolosamente il suo lavoro, aveva trovato addirittura divertente invitare il suo fidanzato in un rinomato ristorante, e solo per seguire da lontano la sua ignara vittima, ma il risultato non era cambiato.

Ora aveva la nausea.

E dubitava fortemente che a Nickolas Van Berger non ne sarebbe venuta una ben peggiore.

Quando lo vide entrare in ufficio, in maniche di camicia e jeans chiari, gli parve bellissimo e spaurito. Forse subodorava già qualcosa, e quegli occhi color dell'oceano sembravano addirittura urlare quella verità.

Lui sapeva, senza aver bisogno che lei glielo sbattesse nei denti.

Lo invitò ugualmente ad accomodarsi e, dopo un'inutile quanto vuota serie di convenevoli, mormorò turbata: «Posso soltanto dire che mi dispiace.»

Nick annuì, non espresse a parole il suo disappunto, ma quei profondi e cupi occhi blu mare furono più chiari di una sequela di insulti urlati a squarciagola.

Berenike deglutì a fatica, chiedendosi come riuscisse a contenere quel controllo sulle emozioni quando, di fronte a una simile notizia, lei sarebbe esplosa come una bomba H.

Lo stimò molto, in quel momento, e desiderò con tutta se stessa trovare il coraggio per alzarsi e abbracciarlo, anche solo per fargli capire che lei comprendeva il suo stato d'animo.

Non lo fece.

Non era compito suo e, molto probabilmente, neppure avrebbe gradito un simile gesto.

Si limitò ad allungare la schifosa verso Nickolas e, in silenzio, lo osservò prendere la carpetta in mano, levarsi in piedi e salutarla con eleganza e cortesia.

Non avrebbe letto il suo contenuto dinanzi a lei, non si sarebbe sfogato nel suo ufficio. Era troppo signore per farlo ma, per un momento, desiderò che potesse dare libero sfogo alla rabbia.

Un simile fuoco, se trattenuto troppo a lungo nell'animo, poteva divorare anche i cuori più puri.
 
Atto IV: la caduta nell'abisso.
 
I fogli con i rapportini giornalieri, le fotografie e i dati raccolti erano sparsi sul letto in ordine sparso, come se un refolo di vento avesse scompaginato la sua scrivania.

In realtà era stato lui a lanciare tutto alla rinfusa dopo aver letto non meno di venti volte le conclusioni a cui era arrivata Berenike, che aveva svolto il suo lavoro con una caparbietà davvero ammirevole.

Non le era sfuggito nulla, su certi punti Nick si era addirittura chiesto come fosse riuscita a scoprirli ma, quando aveva visto le fotografie, tutto era crollato attorno a lui.

Erano inequivocabili, senza appello, e condannavano sua madre senza possibilità alcuna di redenzione.

Mayers Grant.

Non poteva credere che se la intendesse con lui, con il loro stimatissimo vicino di casa, con quel maledetto imprenditore vitivinicolo del sud California.

Ai limiti dell'isteria, Nickolas si passò una mano tra i capelli, che apparivano spiritati come il padrone, e ridacchiò nervosamente.

Un attimo dopo, un urlo roco e rabbioso gli esplose nel petto, incendiando la gola e la bocca, erompendo come lava da un vulcano.

Scagliò un fermacarte contro il muro, inveì contro tutto e tutti e, senza neppure rendersene conto, crollò in ginocchio e pianse.

I pugni, sempre più deboli, picchiarono contro il tappeto che ricopriva il parquet di rovere.

Le parole si smozzicarono in bocca, sempre più flebili e smorte e, quando il telefono squillò nella sua stanza, quasi desiderò lanciarlo contro la parete.

Ipotizzando, però, che potesse essere il padre da Londra, si costrinse a rispondere e, con voce il più possibile controllata, mormorò: «Pronto?»

«Ehi, ragazzo! Ti ho svegliato? Non ho neppure controllato il fuso, scusa.»

«No, tranquillo. Sono solo un po' stanco perché ho fatto una lunga passeggiata sulla Ocean.»

In effetti l'aveva fatta, stando fuori per ore e ore, finché il sole non era reclinato all'orizzonte, lasciando che la notte prendesse pieno possesso del cielo.

«Troppi pensieri, figliolo?»

«Sto pensando di prendere un Master in Tecnologia, dopo la laurea in Economia. Che ne pensi?» gli domandò, cercando di non abbandonarsi alla rabbia.

Suo padre non doveva sapere nulla. Non a quel modo, non per telefono.

«Penso che puoi fare quel che vuoi, Nicky. Se te la senti di tornare all'università, avrai tutto il mio appoggio.»

«Mi piacerebbe, allora.»

La voce gli uscì quasi a forza, ma riuscì a controllare all’ultimo istante un singhiozzo e, ormai senza più energie, salutò frettolosamente il padre prima di lanciare uno sguardo alla sua stanza.

Avrebbe voluto bruciarla e, assieme a quelle foto, a quei documenti, avrebbe voluto bruciare anche sua madre.

Non l’avrebbe mai perdonata, lo sapeva già, perché ciò che stava facendo a suo marito, ai suoi figli, travalicava qualsiasi possibilità di perdono.

Lei che aveva sempre predicato l’onore della famiglia, il rispetto delle regole civili, del bon ton dell’alta società, aveva una tresca con un uomo dalle discendenze più che discutibili.

Con un ringhio che risalì dai polmoni fino a sgorgare dalla sua bocca piegata in una smorfia, Nick si lasciò andare ad un grido rauco e pieno di furia.

Furia che spinse Brandon a bussare alla sua porta prima di affacciarsi dubbiosamente e mormorare, con tono insicuro e tenue: «Nicky, che succede?»

La voce del fratello gli assestò un colpo durissimo al plesso solare, quasi mandandolo al tappeto e, senza minimamente controllarsi, si volse a mezzo e urlò: «Esci immediatamente di qui!»

Lo disse per proteggerlo da ciò che nascondeva la sua stanza, dalle verità scomode che aveva scoperto, ma il modo che scelse per allontanarlo da quelle brutture servì solo a terrorizzarlo.

Risentito, Bran si affrettò a chiudere la porta dietro di sé, ma Nickolas fece in tempo a scorgere il suo sguardo ferito e, purtroppo, un’espressione sul volto che troppo spesso aveva visto.

La delusione.

In fretta, prima che quella delusione si tramutasse nell’ennesima ferita all’interno dell’animo del fratellino, Nick si levò da terra, inciampò, ruzzolò contro la scrivania urtandola con un fianco, ma non si fermò.

Imprecando per il gran male all’anca, raggiunse di corsa la porta e, dopo averla quasi divelta dai cardini, corse nella stanza di Brandon trafelato e sconvolto.

Lui lo fissò in silenzio, i chiari occhi che lo fissavano in attesa dell’ennesimo rimbrotto di cui, probabilmente, non avrebbe capito la fonte o la ragione, e Nick si maledisse per la milionesima volta.

Raggiuntolo alla scrivania, dove Bran si era accomodato per aprire un libro a caso, Nick lo strinse a sé, avvolgendogli la testa con le braccia perché lui affondasse il viso nel suo petto.

«Dio, scusami, scusami, scusami…» mormorò roco il giovane, cullando contro di sé un tremante fratello.

«Nicky, se ho fatto…»

Nickolas non gli permise di proseguire.

Lo azzittì con uno sguardo e, scuotendo il capo, asserì con veemenza: «Non hai fatto nulla, Bran, te lo giuro. Ero solo sconvolto, e ti ho risposto male perché sono un idiota. Tutto qui.»

«Se posso fare qualcosa per te, io…»

Il fratello gli sorrise, poggiò le sue labbra sulla fronte fresca di Bran e sussurrò: «Dolce Bran… sempre pronto ad aiutare il prossimo anche quando ti trattano a pesci in faccia…»

Brandon sorrise.

«Sei mio fratello.»

«E tu il mio, ed io farò il tutto e per tutto per proteggerti. Da tutti. Questo lo sai, vero?»

La veemenza con cui Nickolas parlò mise in allarme Brandon che, annuendo serio, gli domandò: «Cosa succede, Nicky?»

«Nulla, fratello, nulla. Penserò a tutto io. Tu non ti dovrai preoccupare di niente. Niente

Ciò detto, tornò ad abbracciarlo e, torvo in viso, osservò la fotografia che Brandon teneva sulla scrivania.

Ritraeva loro due assieme a mamma sulle nevi di Aspen, quando Brandon aveva solo otto anni.

Era stata l’ultima gita che avevano fatto assieme a papà.

In seguito, si erano sempre intervallati impegni pressanti, viaggi di lavoro, incontri che li avevano portati a dividersi il compito di portarli in giro per il mondo.

E Nick si chiese se non avesse cominciato già da lì a raccontare bugie al padre.

Tentò di ricordare qualche aneddoto, qualche particolare, ma nulla gli tornò alla mente.

Solo il sapore della cioccolata calda, bevuta alla luce del camino acceso nello chalet, assieme a mamma e papà.

La rabbia rincorse il suo buonsenso, lo divorò per fare fiero pasto e, quando ebbe terminato, essa prese possesso della mente di Nickolas.

Più determinato che mai, baciò nuovamente il fratello raccomandandogli di non preoccuparsi e, tornato che fu nella sua stanza, rimise tutto in ordine, sistemò ogni cosa nella cartella e la mise al sicuro.

E quando la madre lo chiamò per telefono, ricordandogli la cena di gala di quella sera, fu lieto di scoprire che Isabel gli aveva trovato una dama per la serata.

Le avrebbe fatto scoprire come la vedeva, con che occhi vedeva donne come lei.

E, finché non avesse compreso i suoi errori, lui le avrebbe sbattuto in faccia la sua stessa mercanzia.

 
 
 
________________________
* Is this the real life? Is this just fantasy? Caught in landslide, No escape from reality.: (cit.) Queen. Bohemian Rapsody.
 
N.d.A.: Ho pensato che usare l’inizio del brano dei Queen, Bohemian Rapsody, fosse l’ideale per far comprendere lo stato di profonda confusione in cui versa Nick alla scoperta della seconda vita di sua madre.

Per chi si ricordasse cosa disse Nick a Hannah, la prima volta che il magnate vide Stark, tengo a precisare che, effettivamente, Nickolas non ha mai avuto cani da compagnia. Quelli che si intravedono in questa OS sono addestrati solo alla difesa, perciò non possono essere messi sullo stesso piano di Stark. E ovviamente, essendo Isabel allergica al pelo di cane, non si è mai avvicinata loro neppure di striscio. ;-)
 
Con questa OS vi saluto e vi faccio gli auguri di Buon Natale e Buon Anno Nuovo. ^_^
 
Nel nuovo anno, inizierò a postare la storia di Serena Ingleton, amica di Nick e Hannah, e avrà come titolo “Renny”. Se vi ha appassionato “Honey”, passate a dare un’occhiata anche a questa storia. ;-)

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Capitolo 8
*** Il vuoto nell'anima (Dicembre 2003) ***


b

“Da quanto ho potuto leggere o udire

di racconti e storie vissuti, la strada

del vero amore non è mai piana.”

Sogno di una notte di Mezza Estate

- W. Shakespeare -

 

 

 

 

 

L'aria era molto più che frizzante, glaciale sarebbe stato l'aggettivo giusto da usare.

Ma, con una temperatura di quindici gradi Celsius sottozero, era abbastanza normale.

Non che il suo naso gradisse quell'informazione.

Anzi, non se ne faceva nulla.

Le piste innevate, comunque, erano eccezionali, e Aspen quell'anno letteralmente brillava.

Passare lì il Capodanno sarebbe stato eccezionale, già lo sapeva.

Inoltre, dopo la laurea e la decisione di intraprendere un Master in Comunicazioni a Harvard, aveva bisogno di un po' di svago.

E, sicuramente, di allontanarsi da sua madre.

Dio, se la sentiva ancora sulla pelle, la sua bruciante filippica.

Forse, se le avesse detto che aveva ammazzato qualcuno, sarebbe stata più comprensiva.

Sì, Isabel Van Berger avrebbe sicuramente trovato il sistema di tirarlo fuori dai guai, in un caso del genere, con la sua innata grazia nel risolvere ogni problema.

Persino le scappatelle sempre più frequenti di Nickolas le davano poca noia, perché lei sapeva gestirle con abile maestria.

Laddove una ragazza di buona famiglia veniva deflorata dai modi da affascinante mascalzone del fratello, lei vi poneva una pezza con eleganza sopraffina.

Misteriosamente quanto magicamente, la ragazza in questione veniva etichettata come ragazza leggera, o peggio, e Nick passava come la vittima di turno, il 'povero' ragazzo gabbato dalle astuzie femminili.

Brandon sapeva dove stava la verità, però.

Nickolas non sarebbe mai stato preso in giro da nessuna donna, questo era poco ma sicuro.

Cosa lo spingesse a saltare da un letto all'altro con una precisione quasi chirurgica, restava da capire.

Il loro rapporto si era raffreddato da tempo, e lui sapeva bene il perché.

L'aver parlato con la madre lo aveva quasi spezzato in due nell'animo e, quando Nick lo aveva visto scoraggiato e abbattuto, sul balcone della villa che dava sul giardino, lui lo aveva scacciato con rabbia.

Il fratello lo aveva guardato spiacente e contrito ma, nella sua ira profonda, lui non aveva trovato parole di conforto da offrirgli.

Lo aveva allontanato ogni volta che Nickolas aveva tentato un successivo approccio con lui, e alla fine il fratello maggiore aveva desistito.

Perché era difficile ammettere con lui, con il perfetto Nickolas Van Berger, che il fratellino non era altro che un gay.

L'avrebbe sicuramente deriso, così come la madre lo aveva avvisato con tono perentorio.

Nick era sempre stato un passo avanti a lui, l'uomo che lui avrebbe voluto diventare, l'uomo che tanto la madre venerava e idolatrava.

Poco importava che il fratello, invece, se ne infischiasse grandemente dell'amore incondizionato della loro cara mamma.

Certo, lui passava da una donna dell'alta società all'altra con la stessa facilità con cui cambiava cravatta, ma ciò non importava perché, alla fine dei conti, nessuna restava delusa dal breve interludio.

La nomea dello sciupafemmine, strano a dirsi, su di lui non aveva un effetto negativo. La stampa lo adorava, perché Nick non si negava mai a loro, era sempre sorridente e disponibile con tutti.

Sfoggiava le sue nuove donne con la stessa grazia di un pittore che mostri il suo nuovo quadro, il tutto condito dallo charme di un uomo che sembrava sapere esattamente cosa voleva dal mondo.

Lo odiava.

E, al tempo stesso, si sentiva un mostro al solo pensiero di provare un simile sentimento nei confronti del fratello.

Nickolas non l'aveva mai bistrattato, né aveva mai avuto una parola meno che gentile, per lui.

Si era sempre preoccupato della sua salute, sia mentale che fisica e, a conti fatti, non gli aveva mai chiesto niente in cambio.

E l'unica volta in cui il fratello gli aveva chiesto di aprirsi, lui l'aveva scacciato a male parole.

Niente di strano che lo evitasse bellamente.

Per lo meno, tutto quel gran parlare del primogenito dei Van Berger distoglieva l'attenzione da lui, il che era un bene.

Non avrebbe resistito neppure cinque minuti dinanzi a telecamere e microfoni, con tutta la rabbia che covava dentro.

Perché lui non era Nickolas Van Berger.

Non si aggirava per i salotti bene di Los Angeles a braccetto con bellissime donne, non sorrideva a tutti elargendo perle di saggezza o la non indifferente cultura.

No, lui si aggirava nell'ombra, non visto, l'altro figlio dei Van Berger.

Neppure il suo nome era mai balzato agli onori della cronaca, grazie al cancan generale sempre sollevato da Nickolas.

Forse, avrebbe dovuto semplicemente sbandierare tutto e farla finita.

Che se la cavasse la madre, con quella bomba tra le mani.

O Nickolas.

Chissà se sarebbe riuscito a sorridere come sempre, sapendolo omosessuale?

Ne dubitava, specialmente considerando che il fratello, del sesso e delle belle donne, aveva fatto la sua ragione di vita, dopo il lavoro in azienda.

Le mani esili e fredde di una donna si insinuarono attorno alla sua vita, e due labbra morbide si andarono a posare sul suo collo, subito seguite da un leggero mordicchiare.

Jolie.

Brandon si volse a mezzo, distogliendo lo sguardo dalle piste innevate e illuminate dal sole al tramonto.

I pensieri errabondi svanirono, lasciando il posto al consueto vuoto.

La giovane francese, piccola e bruna e voluttuosa come una statua del Canova, si incuneò tra le sue braccia per abbracciarlo stretto.

Lui la lasciò fare; in fondo, aveva invitato lei e le sue amiche anche per questo.

Sarebbe stata una festa grandiosa, lì allo chalet e, forse per una notte, si sarebbe sentito meno solo, meno diverso.

«Cosa ti trattiene qui fuori, mon bijoux

Bran le sorrise, deponendo un casto bacio sulla sua fronte.

Era incantevole, profumata, morbida al tocco e generosa.

La notte precedente avevano passato ore piacevoli, a letto insieme, e lei si era donata con una spontaneità davvero encomiabile.

Che avesse compreso o meno quanto si fosse sentito male, in seguito, lei non gliel'aveva fatto capire.

Si era risvegliato nel letto disfatto con lei accoccolata al suo fianco e, quando aveva tentato di alzarsi, Jolie lo aveva trattenuto, sgattaiolando fuori dalle lenzuola come una gatta.

Solo un paio di minuti dopo, lei si era presentata con il vassoio per la colazione e un gran sorriso allegro.

Avrebbe voluto piangere, cacciarla, abbracciarla e baciarla fino a cambiare.

Desiderarla!

Dio, quanto avrebbe voluto!

Jolie sarebbe stata una fidanzata splendida... se lui fosse stato uguale agli altri.

«Avevo voglia di rinfrescarmi le idee, ma belle. E tu? Perché sei qui?»

«Ero preoccupata per te.»

I suoi occhi color cioccolato sondarono il suo volto, dubbiosi e speranzosi al tempo stesso.

Brandon la scostò appena. Non voleva farle del male, farle credere di poterle dare più di quanto non poteva.

Lei, però, non si allontanò.

Resistette nonostante il fisico esile e apparentemente fragile e, accigliandosi, mormorò: «Non ti chiudere, mon chère... non è successo nulla.»

«Nulla, tu dici?» ironizzò lui, ormai pronto per crollare.

Cosa lo teneva ancora integro? Davvero non lo sapeva.

Jolie carezzò il suo torace, dove il cuore sembrava volergli sfondare la cassa toracica per puro dispetto.

Era nervoso, pronto a uccidere qualcuno... o a trovare qualcuno che lo uccidesse, liberandolo così da quella tensione continua.

«Je suis ici pour toi, mon petit... calmati. Calmati.»

Lo ripeté all'infinito, intervallando frasi in francese a interi monologhi nel suo morbido inglese dallo strano tono strascicato.

Qualsiasi altro uomo avrebbe mandato al diavolo tutto, l'avrebbe presa in braccio e portata nella prima stanza utile, uscendone solo la mattina seguente.

Lui no.

Aveva già assaggiato le sue carni pregiate, in qualche modo ne aveva goduto... si erano divertiti, dando e ricevendo in egual maniera.

Ma Brandon si era reso conto molto presto che qualcosa di basilare mancava al loro rapporto.

Non c'era la perdizione, il salto nel vuoto... lo sconvolgimento dei sensi.

Chinandosi su di lei, interruppe il suo dialogare solitario con un bacio tenero, struggente, a cui Jolie si aggrappò con forza, cingendogli il collo con una mano.

Lo trattenne, giocando con la sua lingua e mordicchiando il suo labbro inferiore e alla fine, scostandosi, gli sorrise.

«Sei un po' meno triste, mon petit

«Dovrei lasciarti andare da...»

Lei lo azzittì con un bacio a labbra serrate e, scuotendo il capo, replicò: «C'est bon, pour moi. Non preoccuparti. Non voglio trovare...» Con ironia, virgolettò le parole seguenti: «... il grande amore della mia vita. Voglio qualche giorno di serenità, con un ragazzo gentile, buono e solo come me.»

«Come può bastarti?» ansò Brandon, passandosi una mano tra i corti capelli biondo castani.

«Come può bastare a te? Sei così... combattuto, così lacerato dal dolore. E non capisco perché. Cosa c'è di male in quello che provi?»

Brandon distolse lo sguardo e, inevitabilmente, i suoi occhi cercarono una persona, e una sola.

All'interno dello chalet, seduto a chiacchierare assieme agli altri invitati per il suo speciale Capodanno, c'era Phillip. Il suo amico Phillip.

Si erano conosciuti due anni addietro, a un incontro benefico e, da quel giorno, la loro amicizia era cresciuta, si era fortificata, era diventata quasi indispensabile come l'aria.

Phillip era dichiaratamente omosessuale, non aveva paura di parlarne, di dire quel che provava e, in quel periodo, frequentava un ragazzo loro coetaneo, anch'egli invitato alla festa.

Non se l'era sentita di dirgli di no, di lasciare che il suo Jeremy rimanesse fuori dall'equazione.

Sarebbe stato da autentici bastardi, anche perché lui non poteva vantare nessun diritto sul Phill.

Neppure sapeva cosa voleva, con esattezza.

Non era né carne né pesce, né da una parte, né dall'altra, e non desiderava stare in nessun posto in particolare.

Come in tutti i posti contemporaneamente.

Jolie seguì il suo sguardo, che si addolcì fin quasi alle lacrime.

«Lo ami?»

Quella domanda lo fece irrigidire e Jolie, tornando a cercare il contatto con i suoi occhi, disse ancora: «Cosa ti trattiene dall'andare là dentro, baciarlo, e strapparlo al suo uomo?»

«Non me lo merito. Non mi merito nulla, né lui, né te e la tua gentilezza. Nulla!» gracchiò Brandon, scostandosi a forza dalla ragazza, che barcollò per un attimo, incredula.

Afferrato il parapetto in legno del balcone, strinse fino a farsi sbiancare le nocche e Jolie, turbata, gli carezzò un braccio con fare comprensivo.

«Non so chi ti ha fatto credere che tu non valga nulla, e non meriti nulla, ma non è così. Tu es très important. La tua vita lo è. Qualsiasi vita. Come puoi pensare il contrario?!»

«Jolie, per favore...» mormorò con voce rotta Brandon, reclinando il capo per non dover incontrare neppure per errore il suo sguardo.

«Bon... come vuoi tu. Ma mi troverai ancora, se vorrai parlare con me» asserì lei, dandogli una leggera pacca sulla spalla prima di andarsene, leggiadra e bella come un angelo.

§§§

Avrebbe voluto scrollarlo, tirargli un paio di ceffoni, ma sarebbe stato tutto inutile, a conti fatti.

Quando Brandon si chiudeva a quel modo, non c'era verso di parlargli, di penetrare quella scorza dura che ricopriva il suo cuore.

Osservando Phillip, seduto sul divano dinanzi al fuoco assieme a Jeremy, Corinne, Eliah e Cody, si irritò a morte.

Come potevano ignorare così il suo dolore?

Lo squillo di un telefono la fece sobbalzare per la sorpresa, strappandola così a quei violenti pensieri e, quando lanciò uno sguardo alla distesa di cellulari sulla credenza, vide illuminarsi quello di Brandon.

Curiosa, notò il nome del fratello comparire sul display e, subito, lo afferrò per dirgliene quattro.

Chissà se, sfogandosi con lui, si sarebbe calmata?

«Hallò?»

«Ah... ciao. Sei Jolie? Sono il fratello di Bran. Sai se è impegnato, o se posso parlare con lui?»

Jolie fece per ricoprirlo di insulti, ma il tono sommesso dell'uomo all'altro capo la bloccò. Non le sembrava un uomo in grado di ferire il proprio fratello.

«Beh, credo non sia il momento giusto.»

«Oh...speravo di fargli gli auguri prima che le linee diventassero roventi, ma... non sta bene, vero?»

Che doveva dirgli? La verità? Nascondere la tristezza con una maschera di beltà?

«Scusa, non avrei dovuto chiedertelo. Lascia stare. Digli soltanto che l'ho chiamato per fargli gli auguri.»

Quanta tristezza c'era, in quella voce, quanta rassegnazione!

«No, aspetta!» lo richiamò Jolie, prima che lui potesse riattaccare.

«Dimmi...»

Lappandosi le labbra, rimuginò alcuni attimi per sapere cosa dire ma, infine, si arrischiò a domandare: «Tu vuoi bene a ton frère? Oui

«C'est ma vie. Oui, j'aime mon frère» rispose Nickolas, adattandosi alla parlata della ragazza.

Lei sorrise e, con tono accorato, mormorò: «Non abbandonarlo, ti prego! Anche se ti chiude le porte in faccia. Ha bisogno di te!»

Un sospiro, e l'uomo disse: «Mia madre ha colpito ancora. C'è bisogno che io venga lì? Sono a Tokyo, adesso, ma penso di poter prendere un aereo entro...»

«Non, ce n'est pas le moment. Baderò io a lui. Ma sono felice che lui abbia te.»

«Non puoi dirmi altro?» le domandò allora Nickolas, un sorriso nella sua voce ora più serena.

«Credo che di questo dovresti parlarne direttamente con lui.»

«D'accordo» assentì con un sospiro. «Per qualsiasi cosa riuscirai a fare per lui, io ti sono già grato. Io, ormai, riesco a essere solo la sua ombra fedele, ma poco altro.»

Sospirando afflitta, Jolie lanciò un'occhiata all'esterno dello chalet – la notte era giunta con il suo carico di stelle e gelo – e mormorò: «Due ombre non formano un uomo. Perché vi vedete come tali?»

Nickolas si esibì in una risata aspra, segnata da antiche ferite, e replicò soltanto: «Ti auguro un bellissimo Capodanno, Jolie. E non esitare a chiamarmi, se tu o lui aveste bisogno di me.»

«Lo farò. À bientôt» mormorò lei, chiudendo la chiamata.

Dopo aver poggiato il telefonino sulla credenza, Jolie si volse e, nello scrutare oltre i vetri della porta-finestra, sorrise mesta nel notare Phillip accanto a Brandon, le teste vicine e tristi.

A quanto pareva, non solo Brandon si stava ingannando.

§§§

«Hai intenzione di rimanere qui tutta la sera, così che domattina possiamo consegnarti direttamente al coroner?» brontolò con macabra ironia Phillip, dando un colpo spalla contro spalla a Brandon.

«Quanto sei idiota. Ovvio che no! Sarei tornato dentro nel giro di dieci minuti al massimo. Ho già le unghie viola» replicò il giovane, mostrandogli le mani.

Phill le prese tra le sue, scure quanto quelle di Brandon erano chiare e, assentendo, mormorò: «Sono fredde. Hanno bisogno di essere scaldate.»

Brandon non fraintese neppure per un istante le sue parole.

Comprese benissimo che non stava parlando delle mani.

Scivolando via dalla sua presa leggera, Bran reclinò il capo e mormorò: «Non devi preoccuparti per me, amico mio. Ne verrò fuori, davvero.»

«Non stai mai veramente bene, Bran. Come puoi pensare sul serio che io ti creda?»

Phillip scosse il capo, indeciso se parlare o continuare a trattenere ciò che aveva dentro da ormai troppo tempo.

La loro amicizia era iniziata come tante altre, con sorrisi, risate e battute ma, fin da quel primo giorno, seduti su quella panchina sotto la luce diafana dei lampioni, aveva compreso molto di lui.

Di quel giovane di bell'aspetto e di buona famiglia, troppo compresso nei confini del suo corpo, troppo oppresso da un nome che a fatica portava sulle spalle, sì, robuste, ma non sufficienti per quel peso.

Aveva ipotizzato cose, del suo carattere, poi rivelatesi vere ma, quando aveva tentato un approccio più diretto con lui, era rimasto profondamente colpito dal suo netto rifiuto.

Dalla sua paura di ammettere ciò che, invece, Phillip accettava senza problemi.

Si era scusato con Bran, gli aveva promesso che mai più gli si sarebbe avvicinato a quel modo.

Brandon aveva accettato le sue scuse in lacrime, abbracciandolo come se la terra gli stesse mancando sotto i piedi e, da quel giorno in poi, Phill non aveva più accennato a quell'incidente.

La loro amicizia era proseguita senza ulteriori intoppi – anche se lui aveva notato in Bran un progressivo indebolimento psicologico – e, sorpresa delle sorprese, aveva anche trovato un ragazzo da amare.

O così, almeno, aveva pensato in un primo periodo.

Con Jeremy si era trovato bene da subito e, fin dal primo giorno, si erano intesi alla grande.

Nessuno dei due aveva avuto alcun problema a dichiarare i rispettivi pensieri e, insieme, avevano riso del tempo trascorso a guardarsi senza spiccicare parola in ateneo.

La prima volta che Phill l'aveva presentato a Brandon, aveva temuto un putiferio, invece l'amico si era limitato a sorridere a Jeremy, stringendogli calorosamente la mano.

E lì, per la prima volta, aveva dubitato di aver compreso pienamente l'amico.

Si era forse clamorosamente sbagliato?

Aveva visto cose che non c'erano solo perché lui desiderava che fosse così?

L'arrivo di Jolie nella loro vita lo aveva ulteriormente mandato in confusione.

Conosciuta all'università – grazie a uno dei progetti Erasmus, che l'aveva condotta lì – la ragazza si era subito insinuata nella vita di Brandon, portandogli un minimo di serenità.

Quel loro strano rapporto, fatto di sorrisi, carezze, gentilezze di ogni tipo e passeggiate mano nella mano aveva ulteriormente mandato in pezzi le sue certezze.

L'invito ad Aspen era giunto quasi a sorpresa.

Sulle prime, Phill aveva pensato che Brandon avrebbe colto l'occasione per rimanere solo con Jolie, invece così non era stato.

Vederlo sulla balconata, immerso nel freddo e solo con se stesso, lo aveva quasi spezzato in due.

Anche con Jeremy al suo fianco.

Il che la diceva lunga, su cosa provasse...

Aveva osservato con gelosia a stento trattenuta l'avvicinarsi di Jolie, le sue tenere carezze e il suo sguardo preoccupato e, quando lei lo aveva lasciato solo, aveva trovato una scusa per sostituirla.

Ma ora non sapeva cosa dirgli, cosa fare per strapparlo a quell'apatia.

«Pensavo che tra te e Jolie... insomma, andasse tutto bene.»

«Ed è così. E' una ragazza adorabile, gentile... chiunque la vorrebbe al fianco.»

Ciò detto, rise mesto e si passò una mano sulla corta capigliatura biondo castana.

La tensione su sul viso era enorme.

«Bran...» tentennò Phillip, sfiorandogli la spalla con una mano.

«Torna dentro. Torna da Jerry. Io arrivo subito, davvero» lo pregò con voce rotta l'amico, impedendosi di incrociare il suo sguardo.

Phill sospirò e annuì, concedendo il beneficio del dubbio a Bran.

Se non lo voleva lì fuori, non poteva obbligarlo a sopportarne la presenza.

§§§

Il soffitto in legno dello chalet era interamente ricoperto di rami di vischio, nastri di seta rossi ed enormi palline di vetro colorate di diverse dimensioni.

Le luci soffuse si riflettevano su quelle superfici curve creando arcobaleni sulle pareti, composte da tronchi levigati e intrecciati tra loro.

E mentre il gruppo si preparava ad ammirare i fuochi d'artificio allo scoccare della mezzanotte, Phillip se ne stava serio accanto alla porta della cucina, in attesa dell'arrivo di Bran.

Il giovane ne uscì alcuni attimi dopo, con un vassoio colmo di calici.

Sobbalzando nel ritrovarsi davanti l'amico, Brandon esalò: «Ehi, hai intenzione di farmi venire un colpo?!»

«Tutt'altro, ma volevo parlarti.»

«Domani, ti prego. Stasera voglio godermi i fuochi e gli amici, va bene?» scosse il capo Bran, sorridendogli.

Pareva che il brutto momento fosse passato.

«Come tu possa annoverare Bratt tra i tuoi amici, mi è ancora oscuro» ghignò allora Phill, osservando storto l'alto e allampanato ragazzo.

«Quello me l'ha appioppato mamma. E' il figlio di una sua carissima amica e, da quel che avrai capito, è così solo che ha bisogno che mammina cara gli trovi degli amici.»

«E tu ti sei prestato?» esalò Phillip ridacchiando nel seguirlo sulla balconata.

«Per evitare una discussione, mi getterei senza paracadute dalle Montagne Rocciose» ironizzò Bran, iniziando a offrire calici di spumante a tutti.

Chi non era in dolce compagnia, se ne stava appoggiato al parapetto assieme agli amici, in trepidante attesa che, dal paese, partissero i primi razzi.

Consegnato infine un calice a Jolie, Bran si pose al suo fianco e mormorò: «Tutto bene? Sei silenziosa. Non hai quasi aperto bocca, a cena.»

«Scusa. Ero solo pensierosa» gli sorrise lei, incuneandosi sotto il suo braccio per poi sistemarsi la bombetta nera che aveva in testa.

Ognuno di loro ne aveva indossata una, quella sera.

Lui le sorrise, stringendola a sé perché potesse appoggiarsi al suo torace.

Gli piaceva il suo calore, la sua morbidezza, persino il suono della sua voce... ma non era abbastanza. Non era … giusto.

Si irrigidì appena, a quel pensiero, ma Jolie mormorò: «Va bene così, Brandon. Rilassati e goditi la serata assieme a un'amica.»

«Jolie...» ansò lui, reclinando il viso per affondare in quei caldi occhi di cioccolato fuso.

Lei si levò sulle punte dei piedi per dargli un tenero bacio sulle labbra.

«C'est bon, pour moi, mon petit. Voglio solo che tu sia felice, e così non lo sei.»

«Dovrei! Tu sei splendida, eccezionale, e ogni uomo dovrebbe essere orgoglioso di averti al fianco!» protestò Brandon, accigliandosi.

Incuranti di quel momento di tensione, i loro amici iniziarono il conto alla rovescia, i calici levati verso il cielo ricolmo di stelle.

«Non se a quest'uomo piace... ama qualcun altro» replicò lei, lanciando un'occhiata intensa in direzione di Phillip, che pareva avere un'espressione sofferta e pensierosa.

Brandon ne seguì lo sguardo, scosse con violenza il capo e si lasciò andare ad un singhiozzo di pura infelicità.

«Io non posso... non devo...»

A quelle parole, Jolie lo afferrò per un polso, lo ricondusse in silenzio all'interno dello chalet e, mentre le prime figure pirotecniche si levavano nel cielo, lei esclamò: «Che razza di scemenza è questa?!»

Sorpreso da quello scoppio di rabbia improvvisa, Bran la fissò a occhi sgranati e lei, addolcendo lo sguardo, disse più gentilmente: «Tuo fratello ha chiamato, questo pomeriggio. Voleva farti i suoi auguri... e pregarmi di prendermi cura di te.»

Brandon si accigliò a quelle parole e, torvo, ringhiò: «Non ho bisogno del suo aiuto.»

«Di un aiuto in generale, o del suo in particolare?» indagò dubbiosa Jolie.

«Del suo. Lui non può capire! Lui, che è così perfetto, così bravo!» sbottò Brandon, passandosi una mano tra i capelli mentre iniziava a muoversi avanti e indietro per il salone.

All'esterno, tutti stavano festeggiando allegramente, godendosi lo spettacolo pirotecnico.

«Perché, invece, io credo che non sia lui il vero problema? Mi è parso sincero e preoccupato per te. Non voleva disturbare, solo assicurarsi che tu stessi bene.»

«Ma certo, San Nick deve sempre preoccuparsi di tutto, deve dimostrare che lui può tenere in piedi il mondo intero, neanche fosse Atlante!» replicò furioso il giovane, gesticolando nervosamente.

Jolie rimase imperturbabile di fronte al suo isterismo e lui, con un sospiro tremulo, crollò su uno dei divani e gracchiò sconsolato: «Vorrei davvero che Nick la smettesse di preoccuparsi per me. Non so come gestire la sua ansia.»

«Parlagli, sii onesto con lui e con te stesso.»

Jolie si accomodò al suo fianco, gli diede un bacio sulla guancia e aggiunse: «Ma, prima di tutto, accetta quel che hai nel cuore, o non potrai mai parlare onestamente con tuo fratello.»

«Non so cosa c'è... cosa provo...» ammise lui, nascondendo il suo viso dietro le mani tremanti.

«Allora, datti il tempo di capirlo, ma non rifiutare gli altri. E, soprattutto, non essere condizionato da quello che pensano le persone... o i tuoi famigliari

A quell'accenno, Brandon si irrigidì e Jolie, nel rialzarsi, gli carezzò i corti capelli, mormorando: «Non conosco i tuoi genitori o tuo fratello, ma Nickolas mi è parso sincero, al telefono, e l'accenno a tua madre mi ha messo la pulce nell'orecchio. Non permetterle di decidere chi tu sei. Solo tu puoi decidere per te stesso, non gli altri.»

Brandon sollevò il viso per guardarla, gli occhi colmi di paure e di speranze che, come biglie impazzite, rimbalzavano tra loro elidendosi a vicenda.

Jolie desiderò per un istante essere la persona giusta per lui, ricoprirlo di attenzioni, di amore, di calore. Ma sapeva di non essere la persona adatta a quello scopo.

Si era trovata bene con lui, era stata coccolata, vezzeggiata, cullata in una sorta di limbo caldo e piacevole e, grazie alle attenzioni delicate di Brandon, si era ripresa.

Il suo passato burrascoso se n'era andato, eclissato dietro il sorriso gentile di quel ragazzo dall'animo buono.

E poco contava se lui non l'amava.

Era stata bene, e la sua anima era guarita.

Ora, come minimo, gli doveva la stessa cosa.

«Resta qui.»

Lui annuì, troppo sconvolto per poter anche solo pensare di muoversi e Jolie, con un ultimo sorriso, se ne andò, tornando sulla terrazza.

Lì, individuò Phillip e Jeremy, impegnati in una discussione non proprio animata, ma quasi e, dentro di sé, tremò.

Era il caso di lanciare quel dado?

Doveva dare inizio a una partita che non sapeva come si sarebbe risolta?

Ci teneva davvero così tanto a Brandon, da sacrificare i sentimenti di Jeremy per lui?

Quando compì il primo passo verso di loro, si diede da sola una risposta.

Sì, doveva farlo.

Jeremy, però, le semplificò le cose.

Scostò Phillip con un gesto eloquente e, passandole accanto senza quasi vederla, scese dalla terrazza dello chalet e prese la sua auto per scendere ad Aspen.

Vi furono occhiate furtive, qualche risatina – Bratt fu il più spudorato – e molto disinteresse.

Jolie fissò quei fantomatici amici, anche le sue amiche, con aria disgustata ma, conscia della sua missione, proseguì imperterrita.

Avrebbe potuto dare loro degli idioti più tardi.

Raggiunto che ebbe Phillip, gli sfiorò una spalla con la mano, vedendolo sobbalzare per la sorpresa e, gentilmente, gli chiese: «Tutto bene?»

«Per niente. Ma avrei dovuto aspettarmelo. Quando molli qualcuno la sera di Capodanno, non va mai bene.»

Lo disse con un sorriso mesto, e Jolie assentì comprensiva.

«Beh, se non ti scoccia troppo, ci sarebbe anche qualcun altro da consolare, oltre al tuo cuore. Magari, vi potreste dare una mano a vicenda.»

Phillip aggrottò la fronte, non comprendendo appieno le sue parole, così Jolie si vide costretta a strattonarlo per un polso, aggiungendo: «Ma perché voi uomini non siete un po' più perspicaci? Vai dentro, vai da Brandon. Ha bisogno di te

Il solo nominarlo portò il giovane a risollevarsi e, dopo averla squadrata confuso per un istante, annuì e si dileguò all'interno dello chalet.

Soddisfatta, Jolie lanciò uno sguardo alla lucente Aspen e sussurrò: «Bonne Année ...»

§§§

L'interno dello chalet era immerso nella semi oscurità, rischiarata ogni tanto solo dai fuochi d'artificio e da qualche abat-jour rimasta accesa negli angoli del salone.

Phillip inciampò in quella che gli sembrò essere una bombetta di plastica, di quelle che avevano usato per festeggiare.

Si chiese chi l'avesse persa.

«Bratt lascia in giro di tutto. E dire che hanno l'elastico, quelle maledette bombette.»

Il mormorio sommesso di Brandon giunse dal divano e Phillip, raggiuntolo, si accomodò poco distante e asserì: «Sai che Bratt non perde la testa solo perché è attaccata al collo.»

Brandon accennò un mezzo sorriso, lo sguardo puntato nel vuoto, le mani rilasciate stanche sulle cosce.

Phill si avvicinò ancora un poco.

«Perché non sei fuori a festeggiare con gli altri?»

«Potrei chiederti la stessa cosa. Dove hai lasciato Jerry?»

«Credo che, al momento, stia scendendo ad Aspen per trovarsi qualcuno con cui passare il resto della notte, visto che gli ho detto che era finita, tra noi.»

Bran sobbalzò, sgranando gli occhi per poi posarli, confuso, sul viso stanco dell'amico.

«Ma... perché?»

«Non era amore. E continuare sarebbe stato stupido e crudele. Meglio chiuderla ora, quando siamo agli inizi. Mi trovavo bene, con lui, avevamo un sacco di cose in comune e, per un po', ho pensato bastasse. Ma non era così.»

«Non è mai così» assentì Brandon, sospirando.

«Brandon, senti...»

Phill non riuscì mai a terminare la frase.

Brandon annullò le distanze tra loro e poggiò le sue labbra su quelle carnose di Phillip, concedendosi il suo primo bacio con l'amico.

Ne aveva sognato per lungo tempo, era stato il protagonista dei suoi incubi – diurni e notturni – aveva sperato che quell'immagine si cancellasse dalla sua mente, ma niente.

Quando Phillip, più di un anno prima, aveva tentato un approccio con lui, l'aveva allontanato, terrorizzato di cadere nuovamente nell'abisso.

Ma non era servito a nulla negarsi, negare l'evidenza.

La sua anima sarebbe bruciata all'inferno, ma da Phill voleva almeno quel bacio.

E sua madre avrebbe dovuto accettarlo.

L'iniziale sorpresa del giovane afroamericano venne presto tramutata in desiderio.

Afferrato il collo di Bran perché non si scostasse, Phillip approfondì il bacio, si incuneò tra le sue labbra e affondò in lui con un ansito di piacere.

Brandon non fu da meno e lo spinse lungo riverso sul divano, carezzandogli le braccia, il torace, i fianchi.

Erano preda di una frenesia senza vincoli, e la barriera degli abiti era l'unica cosa a trattenerli dallo spingersi più in là... troppo in là, per il loro primo bacio.

Fu questo a bloccare Phillip, a farlo rinsavire.

Pur se contro la sua volontà, allontanò Brandon e, ansante e con le labbra tumide dei suoi baci, ansò roco: «No, aspetta... non così veloce... non adesso...»

L'amico quasi si spezzò in due, ma Phill fu lesto ad abbracciarlo perché non prendesse quell'interruzione come un rifiuto.

«Bran, ascoltami. Non voglio mandarti via, ma non voglio che tra noi si risolva tutto così, con noi due che finiamo a letto per fare sesso sfrenato tutta la notte.»

«Cosa ci sarebbe di male?»

«Niente. Niente» sibilò Phillip, rifiutando di ascoltare le grida della sua anima, che voleva Brandon tutto per sé, per tutta la notte, per tutta la vita.

No, non avrebbe agito in maniera affrettata, non con lui.

«E allora perché non mi vuoi?» mormorò affranto Brandon, scostandosi per fissarlo negli occhi.

Phill tornò a baciarlo, e non fu un bacio casto, o delicato.

Vi mise tutta la sua frustrazione, il suo desiderio inappagato, la sua speranza di potergli fare capire quanto fosse speciale, unico.

Quando tornò a scostarsi, disse perentorio: «Voglio che sia speciale, la notte in cui faremo l'amore, Brandon. Non voglio che capiti perché abbiamo i nervi a pezzi, capisci?»

Lui annuì, indifeso e speranzoso al tempo stesso.

«Voglio per noi qualcosa di più. Tutto deve essere perfetto. E lo sarà, ma dobbiamo fare le cose con calma.»

«E se mia madre...»

Phillip lo azzittì con un piccolo bacio e, nel rialzarsi, lo afferrò alla mano, dicendogli: «Parlerò con lei, le farò capire che il tuo non è un capriccio, non è un colpo di testa.»

«Non capirebbe. Non sai quante volte ci ho provato?» sospirò Brandon, scuotendo il capo.

«Insieme, ci riusciremo» gli promise Phillip.

Bran allora tornò a sorridere, e a Phill non interessarono i festeggiamenti all'esterno, i fuochi d'artificio, nulla.

Era quel sorriso, la cosa più bella del mondo, l'unica da assaporare, da godersi, da apprezzare.

Jolie, all'esterno, sorrise.

E anche Bratt.

§§§

Non aveva la più pallida idea del perché la madre lo avesse convocato nel suo studio, alla villa, ma la cosa non gli piaceva per nulla.

Non credeva che Phill avesse già chiamato per chiedere di parlare con lei – erano appena tornati da Aspen – , ma tutto poteva essere.

Ugualmente, si recò nel suo studio con passo tranquillo e la consapevolezza che, qualsiasi cosa fosse successa, lui aveva Phillip.

Quel loro primo bacio, a cui ne erano seguiti molti altri, lo aveva sbloccato.

Jolie era stata felice di saperlo e, nonostante le sue paure, aveva abbracciato entrambi di gioia nel sapere che, almeno in parte, i problemi parevano essersi risolti.

Certo, erano ben lungi dall'essere al traguardo, ma contava sul fatto che, la vicinanza di Phill, gli avrebbe dato nuova forza.

Quella che, finora, gli era mancata.

Bussò discretamente alla porta e, all'assenso di Isabel, entrò.

La trovò alla sua scrivania, con un abito in maglina bianca e oro, uno chignon perfetto a trattenerle la chioma curata e un sorriso a dargli il benvenuto.

Phillip non ha chiamato, questo è sicuro,  pensò tra sé Brandon, accomodandosi dinanzi a lei.

«Bene, caro. Spero che le vacanze siano state gradevoli.»

«E' andato tutto bene.»

«Ottimo» assentì lei, sfogliando un catalogo illustrato. Erano appartamenti lussuosi, almeno a prima vista.

«Avevi bisogno di me, moeder

«In effetti, sì. Volevo parlare con te del tuo Master in Comunicazioni.»

Accigliandosi leggermente, Brandon replicò: «Ci sono dei problemi con Harvard? Mi era sembrato di aver mandato correttamente la mia iscrizione.»

«Oh, sì, certo. Infatti, non è sorto nessun problema, solo...»

«Solo?» insisté Brandon, stringendo leggermente le mani sui braccioli della poltrona in stile Luigi XV.

«Ho pensato che studiare qui sia quanto meno inutile. Un'università straniera rientra meglio nell'idea che ho in mente per te. Harvard potrà essere un vanto, all'interno del panorama americano, ma penso che studiare in un paese straniero fortifichi molto di più, e renda anche più capaci.»

«Che intendi dire?» sibilò Brandon, facendo l'atto di alzarsi per andarsene.

Ogni gentilezza sparì dal viso perfetto di Isabel che, accigliandosi, disse secca: «Non ti ho detto di andartene. Siedi.»

A malincuore, Brandon obbedì.

«Ti ho iscritto alla Zayed University di Abu Dhabi, dove potrai seguire i migliori corsi del Medio Oriente. La loro laurea è valida in tutto il mondo, e i loro insegnanti sono tra i più preparati che potrai mai sperare di trovare... anche qui.»

«Mi vuoi spedire... in Arabia?!» sbottò il figlio, sinceramente senza parole.

«Spedire... neppure tu fossi un pacco postale. Ti sto semplicemente offrendo un'opportunità che altri tuoi coetanei non potranno mai avere. Inoltre, la V.B. 3000 si espanderà ben presto sul mercato medio-orientale, e poiché tu rappresenterai la ditta, a Master compiuto, abituarti a quello stile di vita non potrà farti che bene.»

Più incredulo che furioso, Brandon crollò sulla poltrona ed esalò: «Papà cosa dice? È d'accordo?»

«Pensi davvero che lo disturberei ora, con sua madre così gravemente malata?» lo rimproverò Isabel, torva in viso.

«Nonna? Ma... perché non sono stato avvisato?» esalò Brandon, confuso.

Isabel liquidò il discorso dicendo: «Andrea è partito per Sacramento il giorno dopo Natale. Non voleva disturbare le tue vacanze, così mi ha pregata di non avvisarti, mantenendo un'opzione aperta qualora la nonna si fosse aggravata tanto da dover richiamare tutta la famiglia al suo capezzale.»

«Cos'ha?»

«Dovrà essere operata ai reni, perciò non ti sognare di disturbare tuo padre con domande inutili. Posso benissimo occuparmi dei miei figli senza il suo intervento.»

Non lo sa! Lui non sa nulla!, esalò Brandon, rendendosi finalmente conto della verità.

Levandosi in piedi con lentezza, il corpo quasi piegato in due dal dolore e la rabbia, mormorò furente: «Mi spedisci lontano migliaia di miglia, in un paese in cui l'omosessualità è vista come il fumo negli occhi, e solo perché non puoi accettare che tuo figlio voglia un uomo da amare?»

Isabel parve farsi di ghiaccio, a quelle parole, unico segno della sua ira a stento trattenuta il leggero palpitare delle labbra.

Con eleganza, si levò in piedi a sua volta e, livida in viso, fissò il figlio minore con aperto biasimo.

«Ho fatto la scelta migliore per il tuo futuro e, se questo ti terrà lontano da chi ha deviato la tua mente, ben venga. Tornerai forgiato e di nuovo in te, questo è poco ma sicuro.»

«Tu fai del male a Phillip, o prova soltanto a...»

La madre bloccò le sue minacce con un gesto imperioso della mano e, sorridendo lievemente, replicò: «Sei solo tu che puoi impedirmelo, quindi gestisci bene il potere che ti sto dando. Sai cosa fare, perciò fallo. Disubbidisci, e ne pagherai le conseguenze.»

«Mi fai schifo» le sputò addosso Brandon, andandosene a grandi passi.

Quando fu sulla porta, Isabel però lo fermò con una sola frase sussurrata e stucchevole.

«E tu lo faresti a tuo padre, se sapesse. Vuoi davvero che lui ti biasimi, che ti odi? O preferisci continuare a bearti del suo sorriso benevolo e del suo amore?»

Lui non disse niente, uscì senza sbattere la porta e si incamminò lungo il corridoio con un diavolo per capello.

Aveva saputo.

Non sapeva come, né da chi, ma aveva saputo di lui e Phillip, e queste erano le conseguenze.

Se avesse continuato a vederlo, lei avrebbe agito di conseguenza.

E, in parte, lo aveva già fatto. Quell'università non era stata scelta a caso, lo sapeva bene.

L'urto improvviso contro un corpo solido lo fece irritare ma, quando si ritrovò innanzi il fratello, fu troppo.

Lo sospinse lontano da sé prima che lui potesse dire qualsiasi cosa e, quando Nick lo trattenne per sapere cosa avesse, gli ringhiò contro con tutta la rabbia che provava.

«Vuoi sapere cos'ho? Ho che ti odio, perché la tua vita è perfetta! Tu non devi affrontare sempre il biasimo di nostra madre, o nasconderti da quello che sei veramente. Sei sempre stato il preferito! Io sono sempre venuto dopo! Sempre

«Bran...» esalò Nickolas, senza parole.

«Non provare neppure a compiangermi, perché giuro che ti ammazzo!»

«Ma che è successo, Bran?!»

«Me ne vado ad Abu Dhabi, ecco che succede. Così la mamma si libererà di me per un po', e non potrò essere di imbarazzo per la famiglia.»

Ciò detto, se ne andò, ignorando i richiami del fratello, le sue preghiere di tornare da lui.

Se lo avesse fatto, sarebbe scoppiato in lacrime o l'avrebbe preso a pugni, e nessuna delle due opzioni gli piaceva.

Perché prendersela con Nick era stato da stronzi, e lo sapeva, ma non voleva neppure dover affrontarlo nuovamente.

Estratto il cellulare dalla tasca, mandò un messaggio a Phillip.

Fu scarno, semplice.

In quel momento, non poteva fare di più.

Parto x Abu Dhabi. Mamma sa di noi, e così mi manda via.

Un attimo dopo, il telefono squillò e un turbato Phillip esalò: «Cos'è successo?»

«Me ne vado. Punto.»

«Ma Bran, non potresti... forse, se venissi e...»

Interrompendolo con ira, ringhiò: «Phill, basta! E' andata così, punto! Non voglio più tornare sull'argomento! E' chiaro che non potrò mai avere ciò che desidero, perciò trovati qualcuno e sii felice, tanto io non lo sarò mai!»

«Non puoi davvero pensare che...»

Brandon interruppe la chiamata e, in fretta, digitò un altro numero.

La voce di Jolie lo avvolse come una calda coperta e, nell'entrare in camera sua, scoppiò in lacrime e le raccontò ogni cosa.

La giovane lo sostenne, si infuriò per l'ingiustizia di quella situazione e alla fine sostenne: «Bran, mon petit, ascoltami. Non permetterle di distruggerti. Non darle questo potere.»

«Lei ce l'ha già, Jolie, non capisci? Sono solo un giocattolo nelle sue mani.»

«Forse adesso. Ma tu termina questi dannati studi, falle vedere che non ti ha spezzato, che sarai ancora tu, quando tornerai. Questa sarà la sua punizione, credimi.»

«Non potrei avere comunque Phill. Lei lo ha minacciato, e...»

Interrompendolo, la giovane replicò: «Phillip è adulto, e se la sa cavare. Ora non puoi risolvere questo ginepraio, ma al tuo ritorno saprai che lui c'è ancora.»

«E come lo sai?»

«Perché lui ti ama, sciocchino. E un amore così resiste al tempo e alla distanza.»

«Jolie?»

«Dimmi.»

«Je t'aime, e je te remercie.»

«Je t'aime aussi, mon frère... dai il meglio di te, dimostra che questa è un'opportunità, non una punizione. Phill ti aspetterà, ne sono sicura.»

«E tu?»

«Tornerò in Francia e ricomincerò anch'io. Grazie a te, ho trovato la mia nuova opportunità di vivere.»

«Potrò chiamarti? Sapere se stai bene?»

«Mi offenderò se non lo farai» mormorò lei, mandandogli un bacio. «E' stato Bratt, comunque. Me lo ha detto ieri notte, mentre smaltiva la sbornia sul divano di Angélique.»

Sospirando, Brandon annuì. Avrebbe dovuto sapere che invitare i figli degli amici di mamma avrebbe avuto ripercussioni negative. Ma non si aspettava a quel modo.

«Mon petit

«Sì?»

«Parti da agnello, e torna leone.»

«Non sono Gesù» ironizzò lui, pur apprezzando le sue parole.

«Ma anche tu risorgerai, ne sono certa.»

Nel chiudere la comunicazione, Brandon lanciò uno sguardo alla porta della sua stanza, socchiusa dalla mano di Nick che, turbato, lo fissò senza parlare.

Lui allora allungò una mano verso di lui, ed il fratello entrò.

Sarebbe risorto, proprio come gli aveva detto Jolie, ma per farlo aveva bisogno di tutto l'aiuto possibile.

Anche di quello di suo fratello.

E, se tutto fosse andato per il meglio, sarebbe tornato da Phillip. Per Phillip.

 

 

______________________________________
N.d.A: ho pensato fosse importante dare rilievo al primo bacio di Phillip e Brandon e, soprattutto, a cosa abbia fatto deviare Bran, portandolo ad essere così furioso col mondo intero, al nostro primo incontro con lui in Honey.  Ammetto di aver odiato quasi ogni riga, perché detestavo fargli del male, ma non potevo lesinare su nulla di quanto è successo, perché questo ha forgiato il Brandon che abbiamo conosciuto.
Alla fine, volevo strozzare Isabel con tutta me stessa.

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Capitolo 9
*** Sci... e manette (Dicembre 2017) ***


nick

 

 

«Essere amati profondamente da qualcuno ci rende forti;

amare profondamente ci rende coraggiosi.»
(L. Tze)

… e anche un po’ sconsiderati.

 

 

Le vetrine del centro di Aspen erano allegre, colme di luci e addobbi natalizi e, quel che più piaceva a Cam e Dom, erano i pupazzi colorati che danzavano a ritmo di musica.

Le manine strette in quelle della madre, che stava protettiva in mezzo a loro, i due gemelli sorrisero alla donna lanciandole sguardi adoranti.

Lei, per tutta risposta, si chinò per stringerli in un caloroso abbraccio e, sorridendo con espressione lieta, disse allegra: “Andiamo a vedere vostro padre mentre scende dalla pista?”

“Sììì!” esclamarono in coro, ben felici di vedere il loro papà librarsi sulla neve con lo snowboard.

Come promesso dai genitori, avrebbero messo gli sci ai piedi all'età di sei anni e, fin da quando avevano strappato loro quella promessa, si erano messi a cancellare i giorni sul calendario in previsione di tale traguardo.

Certo, avevano appena compiuto cinque anni, perciò ci sarebbe voluto ancora un po' di tempo, ma loro sapevano aspettare.

Sempre mano nella mano, si diressero perciò in direzione degli impianti di risalita, dove si trovavano centinaia di persone sparpagliate tutt'intorno, chi in direzione della seggiovia, chi seduto a bordo pista.

Scegliendo per loro un punto sicuro, e da cui avrebbero potuto godere di un'ottima vista sul muro finale, che Nick avrebbe affrontato con la sua tavola, Hannah disse ai figli: “Possiamo metterci qui.”

I gemelli assentirono soddisfatti, piazzandosi su un paio di sassi liberi dalla neve e, trepidanti e con le gambette che dondolavano agitate, si misero in contemplazione della pista.

Il via vai di sciatori non li disturbò, ma l'attesa si fece sempre più pressante e, quando finalmente scorsero la sagoma inconfondibile del padre, vestito in argento e nero, esclamarono di giubilo.

Hannah sorrise loro prima di puntare lo sguardo sul marito che, abile come sempre, si esibì in una serie di curve pennellate alla perfezione per poi fermarsi accanto a loro.

Sganciatosi che fu dalla tavola, sollevò a turno i figli per baciarli dopodiché, malizioso, si impossessò della moglie afferrandola alla vita.

Lei lo lasciò fare e, avvolte le braccia al collo del marito, lo baciò con un certo trasporto mentre i figli, ridendo e schiamazzando, battevano le mani divertiti.

Nick non ci fece caso, si limitò a badare alle calde labbra della moglie, al loro sapore fruttato, alla promessa che colse in quel bacio e, nello scostarsi da lei, sussurrò: “Non vedo l'ora.”

“E' reciproco” mormorò la donna in risposta, dandogli poi un buffetto sulla guancia con la mano inguantata.

Nickolas allora sorrise e, nell'osservarla compiaciuto nel suo completo invernale, dichiarò: “Sei davvero troppo bella, così vestita.”

Hannah si guardò i leggings morbidi e caldi, color ghiaccio, gli stivaletti in pelo, il vaporoso maglione bianco e lo smanicato in piuma d'oca.

Ridacchiando, ammise: “Li adoro. E tengono così caldo!”

“A me lo fanno venire” mormorò roco Nick, guadagnandosi per diretta conseguenza uno schiaffetto sulla spalla da parte della donna.

Cam e Dom ridacchiarono sornioni.

“Vai a sciare, sarà meglio” brontolò la moglie, pur sorridendo.

“Ci vediamo dopo” promise loro allora Nick, infilandosi nuovamente lo snowboard ai piedi per scivolare verso la seggiovia poco lontana.

Hannah lo osservò sorridente prima di accomodarsi accanto ai figli, ben decisa a rimanere ancora un po' ad osservare gli sciatori impegnati in quell'attività appassionante.

Il giorno seguente si sarebbero dati il cambio.

Avevano preferito non prendere nessuna baby-sitter e, almeno fino al giorno precedente Capodanno, Andrea e Helena non si sarebbero visti. Perciò, avrebbero fatto a turno a restare con i figli.

§§§

Un piede legato alla tavola e l'altro impegnato a trascinare il tutto verso la seggiovia, Nick era perso in mille e più pensieri, riscaldato dal bacio che Hannah gli aveva appena dato.

Natale si avvicinava e, ben presto, avrebbe potuto darle il suo regalo. Sperava soltanto di averci azzeccato.

Ma credeva che portare lei e i ragazzi a Disneyland, in Florida, fosse un buon modo per passare il compleanno di Hannah.

“... e hai visto che gambe si ritrova?”

Cogliendo quello spezzone di frase, Nickolas si chiese di chi stessero parlando i due uomini davanti a lui e, curioso, si fece più attento.

“Come avrei potuto non notarle? Alta com'è, colpisce l'occhio. E ha un fisico... Cristo, avrei voluto essere al posto del belloccio che se l'è spupazzata un attimo fa!” rise il più basso tra i due, sfoderando un ghigno malizioso e furbo.

Accigliandosi immediatamente, Nick si fece scuro in volto. Stavano per caso parlando di...

“Quei due marmocchi devono essere sicuramente suoi. Le somigliano troppo, per essere diversamente” fece notare quello in giacca rossa, lanciando poi uno sguardo dietro di sé. “Guarda, è ancora là.”

“Chissà se accoglierebbe anche me con un bacio come ha dato a quel tipo!” ghignò il tizio basso, mandando letteralmente in bestia Nick.

“Non penso proprio, mi spiace” sibilò lui, attirando l'attenzione dei due uomini.

“E tu che vuoi?” brontolò giacca rossa, fissandolo bieco.

“State parlando di mia moglie, quindi vorrei la piantaste” fece notare loro Nickolas, cercando di contenersi per non levare i pugni e semplificare così le cose.

“Beh, buon per te. Ma potremo pure fare due commenti, no?” brontolò a sua volta il tizio basso, sbuffando contrariato.

“Se permetti, no. Non amo particolarmente sentire altri uomini che parlano di mia moglie, specialmente a quel modo” sottolineò allora lui, assottigliando le iridi color del mare.

Alcune persone, attorno a loro, colsero il cambio di tono e pensarono bene di girare al largo, tenendo una certa distanza dal trio.

Non furono altrettanto lesti i due fautori della rabbia di Nick che, per nulla turbati, gli risero in faccia.

“Ehi, amico! Con una sventola come quella, dovrai ormai esserci abituato!” sghignazzò giacca rossa, dando di gomito all'amico, come se avesse detto la battuta più scherzosa al mondo.

Nickolas cominciò a contare, ma tutto fu vano quando il tizio basso aprì bocca per dire la sua.

“Cazzo, abbiamo gli occhi, amico! E una tipa così si nota subito! Con curve simili, poi, che pretendi?”

Quello fu troppo.

Senza pensarci due volte, slacciò il piede dallo snowboard e, caricando un destro con tutta la rabbia montata il lui in quei pochi minuti, lo riversò sulla bocca ghignante di giacca rossa.

Subito, il bassetto cercò di allontanarsi per darsela a gambe, ignorando bellamente l'amico steso a terra in mezzo alla neve, ma Nickolas non lo lasciò andare.

Lo afferrò per il colletto della giacca e centrò anche lui con un montante, mentre la gente urlava spaventata e tutti tentavano di fuggire terrorizzati.

Hannah, ben lontana da quel parapiglia, si preoccupò all'istante quando riconobbe la tenuta del marito e, levatasi in piedi, afferrò i due figli e disse preoccupata: “Sarà meglio che andiamo a vedere.”

“Perché papà sta facendo a botte con quei due?” borbottò Cam, mentre un destro centrava Nickolas ad un occhio.

La madre si accigliò a quella vista ma, preferendo non dare in escandescenza proprio di fronte a loro, disse soltanto: “Lo scoprirò presto, Cam, stanne certo.”

Dominic, pragmatico come sempre, sentenziò ciangottante: “Papà è nei guaiii.”

§§§

La panca della cella dove si trovava era maledettamente scomoda e, più ancora, lo era dover sopportare i due ubriachi stesi lì accanto a lui, in attesa di far passare la sbronza.

Giacca rossa e nanetto erano stati messi in un'altra cella di detenzione, visto soprattutto il nervosismo che era seguito al loro arrivo in Centrale.

Nickolas li aveva minacciati di querelarli per ingiurie rivolte alla moglie, mentre la coppia di amici aveva urlato in coro di volerlo mandare dietro le sbarre per aggressione.

Lo sceriffo, preferendo evitare ulteriori danni – a giudicare da come erano arrivati, se le erano già date di santa ragione – li aveva separati e, con calma, aveva preso le loro deposizioni in merito all'accaduto.

La sera era presto scesa e, dopo aver permesso a ciascuno di loro di chiamare chi di dovere, lo sceriffo si era messo a compilare il rapporto più senza pensare ai tre scalmanati.

Non era la prima volta che metteva in cella dei novelli Mohammed Alì. Ma trovarsi a dover redigere un rapporto su un magnate della finanza, coinvolto in una rissa che suonava tanto come un regolamento di conti, non gli era ancora mai capitata.

Non se ne intendeva molto, ma Nickolas Van Berger era un nome che difficilmente si dimenticava, specialmente dopo il processo che aveva coinvolto la sua famiglia alcuni anni addietro.

Quel tentato omicidio aveva colto tutti di sorpresa, e fatto un tale scalpore a livello nazionale che, pur a distanza di quasi sette anni, ancora se lo ricordava.

Quando poi, in Centrale, si presentò la moglie – seguita da due frugoletti dai capelli d'oro – lo sceriffo non faticò a rammentare anche lei.

Hannah Van Berger Fielding era una donna che non potevi dimenticare facilmente, vuoi per l'altezza, vuoi per la bellezza elegante e sopraffina.

E, a giudicare dalle motivazioni che il marito aveva addotto a spiegazione del suo gesto, doveva essere anche una donna molto fortunata.

Non tutte potevano vantare un marito pronto a battersi a quel modo per il loro nome, anche se questo aveva fatto finire nei guai il suddetto marito.

“Buonasera,... lei deve essere Mrs Van Berger.”

“Sceriffo...” mormorò la donna, pregando poi i figli di sedersi sulle poltroncine in sala d'attesa. “... a quanto ammonta la cauzione di mio marito, Nickolas Van Berger?”

“Tremila dollari anche se, vedendovi tutti assieme, oserei dire che ha fatto bene a malmenare quei due idioti” replicò l'uomo, scribacchiando distrattamente su un foglio.

Hannah sbarrò gli occhi per un istante prima di sbattere le ciglia, confusa, ed esalare: “Scusi, come dice?”

“Suo marito, da quel che mi ha detto, ha difeso il suo onore. Per questo ha fatto a pugni con i tizi che sono finiti qui con lui” le spiegò lo sceriffo, sorridendole divertito.

“Oh” esalò allora Hannah, più che mai sorpresa.

Vedere il marito trascinato via da alcuni agenti, mentre la folla si assiepava curiosa attorno alla seggiovia, l'aveva fatta andare nel panico più totale.

In fretta, si era quindi spostata in un luogo più appartato per telefonare a Grace, tenendola pronta per un eventuale suo intervento ma, quando la donna le aveva chiesto spiegazioni, lei non aveva saputo cosa dire.

Perché, a dirla tutta, non aveva affatto capito cosa diavolo era successo all'imbocco della seggiovia.

I presenti non avevano compreso molto di quel parapiglia, e anche Nickolas era stato laconico, al telefono.

Non potendo fare altro per lui se non aspettare che il giudice di pace decidesse a quanto dovesse ammontare la cauzione, Hannah aveva riportato in albergo i figli perché cenassero in santa pace.

Naturalmente, Cam e Dom l'avevano subissata di domande, a cui però lei non aveva saputo rispondere.

Di fronte all'uscita dello sceriffo, perciò, rimase più che sbalordita e, quando consegnò il denaro per la cauzione, il dubbio e la curiosità crebbero in lei come un'onda di marea.

Dopo circa venti minuti di incartamenti, firme e raccomandazioni, Nick poté infine raggiungere moglie e figli che, letteralmente, balzarono dalle poltroncine per abbracciarlo.

In prigione gli avevano medicato un taglio sullo zigomo, ma poco avevano potuto fare per il livido bluastro che aveva iniziato a formarsi sull'occhio.

Quando Hannah lo vide, sorrise spiacente.

Salutato lo sceriffo, accompagnò in silenzio il marito ed i figli all'auto e, dopo essersi messa al volante, mormorò: “Difendere il mio onore, Nick?”

“Te l'ha detto lo sceriffo, eh?” mugugnò l'uomo, grattandosi delicatamente la carne attorno all'occhio. Pulsava come un tamburo martellato con violenza.

“Cosa vuol dire, mamma?” si informò Cam, curioso come sempre.

“Che il papà si è picchiato con quei due tizi perché hanno parlato male di me, e lui si è arrabbiato.”

Hannah sorrise loro attraverso lo specchietto retrovisivo ed i gemelli, accigliandosi non meno di quanto aveva fatto il padre poche ore prima, sbottarono in un urlo furioso.

“Non dovevano offenderti, mamma!” sbraitarono in coro i bambini, i pugnetti ben piantati sulle cosce e gli occhi torvi, come desiderosi di una degna vendetta.

“Ci ha pensato papà, infatti” sorrise ancor di più Hannah, lanciando un'occhiata maliziosa al marito, che iniziò a rasserenarsi un poco.

“Non sei arrabbiata?” si informò allora Nick, scrutandola dubbioso.

“Loro quanti occhi neri hanno?” domandò per contro lei, sorprendendolo.

“Due ciascuno, e credo di aver incrinato anche qualche costola” ammise il marito, con tono vagamente tronfio.

“Bravo, papà!” esclamarono i gemelli, picchiando i pugni sui seggiolini a cui erano legati.

“Tempeste, state calmi, lì dietro” ridacchiò Hannah, svoltando nel parcheggio dell'albergo.

I bambini ridacchiarono ma Nick, del tutto serio, afferrò la mano della moglie non appena lasciò andare il volante per spegnere l'auto e mormorò: “Non volevo farti preoccupare. Scusa.”

Lei allora si allungò un poco per baciarlo sulle labbra e, sorridendogli, replicò: “Tesoro... pensi non sia maledettamente orgogliosa di te, in questo momento? Quante donne possono vantare un marito così coraggioso da battersi a questo modo per il loro onore?”

“Già... ma ti è toccato venirmi a prendere in galera” le fece notare lui, scendendo dall'auto per poi slegare Dom dal seggiolino e prenderlo in spalla.

Hannah lo imitò con Cam, sempre tutta sorridente e divertita.

“Già mi immagino i titoloni di domani, sui giornali. Magnate della finanza finisce in galera per rissa da bar su una pista da sciare.

“Molto spiritosa” brontolò lui, avviandosi verso le porte dell'albergo mentre i bambini ridacchiavano allegri.

Hannah allora scoppiò a ridere assieme ai figli e, nell'oltrepassare le porte scorrevoli, si limitò a dire: “Credimi, Nick, al momento sto gongolando troppo per potermi arrabbiare per il tuo occhio nero.”

“Valle a capire, le donne” sentenziò Nickolas, scuotendo impotente il capo.

La moglie non disse nulla in merito e, quando finalmente giunsero in camera, mise a letto i bambini per poi chiudere la porta della loro stanza e dirigersi in quella matrimoniale, che divideva col marito.

Lì, la donna lo sospinse verso il letto, costringendolo a sedersi prima ancora di aver iniziato a spogliarsi.

Curioso, Nick  si fece attento non appena lei tornò ad allontanarsi, inserendo un cd nell'impianto stero della stanza.

Subito, una morbida canzone di Frank Sinatra sfiorò le sue orecchie.

Hannah gli sorrise e, con mosse studiate, calò la gradazione di luce nella stanza prima di mettere mano al maglione che indossava.

“Che hai in mente?” mormorò lui, esibendosi in un sorriso malizioso.

Lei ridacchiò birichina, ma non rispose, e continuò imperterrita nel suo gioco.

A sorpresa, da sotto il maglione di ciniglia – scostato con movenze lente e sinuose –  sbucò un reggiseno di pizzo nero mozzafiato e l'uomo, deglutendo a fatica, esalò: “Quello è nuovo, o sbaglio?”

“E' un acquisto di ieri. Devi dirmi cosa ne pensi” sussurrò lei, togliendosi i leggings con una lentezza quasi esasperante.

Sotto lo sguardo attento e malizioso di Nick, comparvero dei reggicalze maledettamente sexy, abbinati a slip in coordinato, che Hannah mostrò con una spavalderia tutta femminile.

“Non posso che approvare” riuscì a dire il marito, incatenato con lo sguardo a quello della moglie che, passo dopo passo, si avvicinò a lui.

Gattonando sul letto verso il marito, che la attendeva seduto e ancora totalmente vestito, lei mormorò: “Non sai quanto può eccitare una donna, quello che tu hai fatto oggi per me?”

“Comincio ad averne una vaga idea” assentì lui, avvertendo sul collo il tocco delle sue mani esperte.

La zip della giacca venne fatta calare con calma, mentre gli occhi di Nick indugiavano sul décolleté della moglie.

Lei lo spinse contro il copriletto e, con risolino ai lati della bocca, lo liberò della tenuta da sciatore fino a lasciarlo in abito adamitico.

Famelica, gli mordicchiò il mento ed il contorno del viso, sempre tenendogli i polsi bloccati sopra la testa, in posizione di totale dominio.

Roca, gli disse all'orecchio: “Amo quando diventi selvaggio per me. Amo che tu abbia voluto difendermi, anche se sapevi che quei due idioti non meritavano neppure un attimo del tuo tempo. Amo che tu sia così cavaliere da voler proteggere il mio onore.”

“Hannah...”

Lei sorrise e, nell'allungare una mano verso il centro della sua virilità, stampò un bacio sulla bocca del marito e aggiunse: “E amo le foto che faremo per Natale, con il tuo bell'occhio nero in bella vista!”

Nick a quel punto scoppiò a ridere e, afferrata la moglie, la abbracciò con forza mentre anche lei si lasciava andare ad una risata liberatoria.

“Dio, verranno delle foto splendide!” continuò a ridere Hannah, intervallando risate a baci focosi.

“Dovrò fare a pugni più spesso, se il risultato è questo” esalò Nick, schiacciandola sotto di sé per averla alla sua completa mercé.

Lei assottigliò le iridi di ghiaccio liquido e bollente e, sorridendo maliziosa, mormorò: “Hai tutta la notte per scoprire qual è il risultato della tua rissa.”

“Non vedo l'ora di scoprirlo” dichiarò lui, lasciando che la passione di Hannah li avvolgesse entrambi.

Sì, doveva darsi al pugilato più spesso, se i risultati erano quelli.

 

 

 

 

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Capitolo 10
*** Sorry (Luglio 2014) ***


andrea

 

Più a fondo vi scava il dolore, più gioia potete contenere.

Kahlil Gibran, Il profeta, 1923

 

 

 

 

Sorry.

Come poteva, una semplice parola, creare così tanti problemi, così tanti dubbi, così tanti rimorsi?

 

Atto I: Shock.

 

Sorry.

La telefonata era giunta nel bel mezzo della notte, a sorpresa, come un fulmine a ciel sereno, e quella parola era rimbalzata più e più volte, tra lui e colui che lo aveva contattato.

Il direttore del penitenziario era stato avaro di spiegazioni e, poiché il parente più diretto era attualmente su un altro continente, avevano ricevuto l'autorizzazione dall'avvocato per chiamare lui.

L'ex marito, colui che per primo era stato preso in giro e disonorato dai comportamenti dissennati della moglie.

Il magnate della finanza che, durante tutta la vita passata al suo fianco, aveva cercato di redimersi – ora sapeva, scioccamente – dall'essere un semplice figlio di nessuno.

L'uomo che, più di tutti, si era sentito stupido e ingenuo dinanzi alle sue colpe e al suo comportamento egoista.

Quando aveva poggiato il cordless sul comodino, l'oscurità della notte parzialmente spezzata dalla luce diafana dell'abat-jour, Andrea aveva sospirato afflitto.

Che fare, a quel punto?

Levatosi in piedi dopo diversi minuti passati a fissare silente il soffitto, a cassettoni di legno scuro, si vestì senza fare alcun rumore e discese in cucina per bersi un caffè.

Ne aveva decisamente bisogno.

Lì, accese un paio di luci in prossimità del piano cucina e, dopo aver acceso la macchinetta, si preparò un tazza e una zolletta di zucchero, a cui abbinò anche una fetta di torta.

Era inutile presentarsi in carcere a stomaco vuoto.

L'orologio da muro segnava le quattro e ventidue, e fuori dalla finestra il buio regnava sovrano.

Era estate, per cui entro breve si sarebbero intravisti i primi bargigli di colore in direzione della San Fernando Valley.

Ma quella mattina non avrebbe provato alcun piacere, nel veder sorgere il sole.

Dopo aver afferrato un notes, lasciò uno scarno messaggio a Bran e Phill – perché non si preoccupassero – dopodiché uscì silenzioso dalla villa e si recò nella rimessa per prendere l'auto.

Alla finestra della dependance dei domestici, però, scorse una luce accesa e il volto preoccupato di Sebastian per cui, non volendo mettere in ansia anche lui, si avvicinò per parlargli.

«E' successo qualcosa di grave ai bambini, Mr. Van Berger?» domandò turbato l'anziano domestico.

Cam e Dom erano un'autentica benedizione e, fin dal loro arrivo in famiglia, tutti li avevano adorati. Non faceva specie che Sebastian avesse pensato a loro, vista l'ora antelucana a cui si stava muovendo.

«Nulla di tutto ciò, tranquillizzati. Ma mi hanno chiamato dal penitenziario e...»

Sebastian aggrottò la fronte, annuendo, e si limitò a dire: «Baderò io ai ragazzi, non si preoccupi. Anche se, grazie a Miss Swanson, sanno cavarsela alla grande, ormai.»

Andrea sorrise nel pensare a Helena, a come fosse cambiata la sua vita nell'ultimo anno, da quando l'aveva conosciuta.

Ma quello non era il momento di indulgere in pensieri simili. Doveva badare al problema che gli era capitato tra capo e collo.

«Mi farò sentire, se tarderò più del necessario. Per ora, non dica a Bran e Phill dove mi sto recando.»

«Come desidera.»

Andrea assentì al buon Sebastian e, dopo aver aperto la rimessa con il telecomando, prese la sua Bentley nera e uscì dalla proprietà con un peso sul cuore, a cui però non seppe dare un nome.

 

Atto II: Rifiuto.

 

Sorry.

Sì, c'era questo, scritto col sangue sul pavimento della cella.

Non ci si poteva sbagliare, i suoi occhi lo coglievano senza fallo, eppure era assurdo. Rifiutava di credere che l'orgogliosa, inflessibile, cinica Isabel Van Berger potesse aver scritto questo.

E soprattutto, con il suo stesso sangue.

Doveva esserci qualche altra spiegazione, un'intrusione non autorizzata nel suo reparto di detenzione, un regolamento di conti, qualsiasi altra cosa.

Perché non aveva senso che Isabel si fosse suicidata.

Lei non si arrendeva mai, non era mai stata una persona pavida, insicura.

Non avrebbe mai accettato una sconfitta.

E morire significava perdere.

Peggio, uccidersi significava perdere.

Perciò... cos'era veramente successo, in quella cella?

«Forse, sarebbe meglio parlare nel mio ufficio, Mr. Van Berger. Qui c'è molto poco che lei possa fare, e la Scientifica ha già raccolto tutto quello che poteva, sulla scena del crimine. Ad ogni modo, non era molto.»

Il direttore del penitenziario di San Quintino, nei pressi di San Francisco, lo accompagnò fuori dalla cella poggiandogli una mano sul braccio, con cortesia.

Benjamin Adamson si era presentato di persona all'entrata della prigione e, scortato da un paio di secondini, lo aveva accompagnato a visionare la cella della donna che, un tempo, era stata sua moglie.

Non avevano parlato molto, il direttore gli aveva riportato ciò che sapeva, e ciò che le telecamere interne avevano visto.

Nessuno era entrato, nessuno era uscito.

E la guardia carceraria si era accorta del fatto troppo tardi, durante una delle ronde notturne previste in quel braccio penitenziario.

Era stato tutto regolare. Solo una cosa guastava. La morte di Isabel.

 

Atto III: Senso di colpa.

 

Sorry.

Quell'unica parola gli rimbalzava nella testa, simile al colpo interminabile di un gong.

Mr. Adamson gli aveva offerto un caffè e, dopo avergli domandato se volesse qualcosa per pranzo – era mezzogiorno passato – aveva iniziato a raccontargli ciò che sapeva.

Isabel era stata trovata con i polsi tagliati, a terra e in un lago di sangue, alle tre e dodici di quello stesso mattino.

In primo luogo, avevano sigillato l'area e chiamato la locale squadra della Scientifica – che ora stava analizzando le prove – dopodiché, lui in prima persona aveva provveduto a chiamare il parente più prossimo.

Michael Van Berger non aveva risposto alla chiamata e, dopo averne discusso con il legale di Miss Van Berger, avevano optato per chiamare lui, in vece dei figli.

«Apprezzo che abbiate preferito chiamare me, invece di Brandon o Nickolas. Preferisco essere io ad affrontare questo... incidente.»

«Di comune accordo con il legale, ci è parso più umano non sconvolgere i vostri figli, vista soprattutto la motivazione che ha portato Miss Van Berger in galera» assentì il direttore, imperscrutabile in viso.

Andrea si chiese quante volte gli fosse capitato di dover affrontare simili situazioni imbarazzanti.

Molte, ipotizzò dopo un attimo.

«La polizia è sicura che si tratti di suicidio? Isabel era tutto tranne che una persona debole» ammise Andrea, cercando di rammentare qualcosa di lei che non fosse un'immagine negativa.

Era così difficile ricordare come fosse all'università, così bella e piena di vita... e com'era diventata nel corso degli anni, sempre più fredda e calcolatrice.

Com'era potuta cambiare così tanto?

E come aveva fatto, lui, a non accorgersene?

«Le prove sono inconfutabili. Quel che sta facendo la Scientifica è più che altro il protocollo standard, ma non vi è dubbio che si sia suicidata. Nella cella è stata trovata una penna a sfera, con cui era solita tenere il suo diario o scrivere lettere. Era stata affilata a tal punto da diventare un perfetto oggetto contundente.»

«E... e non ha mai dato prova di... di voler...»

Andrea non riuscì a terminare la frase. Era troppo doloroso accettare che nessuno, nessuno si fosse reso conto di questo suo malessere.

«Eccelleva nei lavori in laboratorio, si faceva valere, ma non era mai espressamente scostante con nessuno. Si era fatta rispettare tra le sue compagne di detenzione e no, mai una volta ha dato l'idea di volerla fare finita.»

Ciò detto, il direttore estrasse da uno stipetto alcuni oggetti ricamati e glieli mostrò, aggiungendo: «Nel laboratorio di cucito, metteva assieme delle piccole borsette di stoffa, che poi venivano vendute in empori locali, in accordo con il penitenziario. Era brava.»

Andrea le prese in mano con dita tremanti, sfiorò quei punti fatti a mano con una precisione quasi chirurgica, e un singulto strozzato gli uscì dalla gola.

Erano anni che Isabel non prendeva in mano ago e filo... eppure era ancora brava.

Le tutine di Nickolas le aveva fatte lei e...

La vista gli si offuscò, e solo quando vide alcuni cerchi scuri sulla stoffa si rese conto di stare piangendo.

 

Atto IV: Paura.

 

Sorry.

Secondo quanto raccolto dalla Scientifica, quella scritta doveva essere stata indirizzata a lui, e lui solo.

Nella cella erano stati trovati molti ritagli di giornale, articoli ricavati da riviste patinate, e tutti riguardavano lui.

Andrea.

Secondo il loro metro di giudizio, e anche per il detective che aveva aperto e chiuso il caso, quell'estremo bisogno di perdono era stato inviato a lui, suo unico e ultimo pensiero fin da quando era entrata in penitenziario.

Non aveva idea se questa notizia fosse buona, o più semplicemente follia pura, ma tant'era.

Erano tutti concordi, nessuno la pensava diversamente.

Ma come avrebbe potuto gestire una notizia simile? Come avrebbe potuto dire ai suoi figli che la madre era morta suicida, e che l'unica persona a cui si era rivolta in punto di morte, era lui?

Possibile che, esalando l'ultimo respiro, lei non avesse pensato neppure per un attimo ai suoi figli?

Le fotografie trovate nella cella, parevano confermarlo. Lui, e lui solo era stato la sua ossessione.

Avrebbero avuto un responso anche dai suoi diari, ma per quello ci sarebbe voluto più tempo.

Ma a lui interessava saperlo?

Le sue mani tremanti, che a stento trattenevano il volante, parevano già aver risposto al suo posto.

No. non voleva saperlo.

 

Atto V: Rabbia.

 

Sorry.

Era l'unica parola che le era tornata indietro, dopo suoi numerosi quanto infruttuosi messaggi.

Che diavolo voleva dire?!

Di cosa si doveva scusare? E perché non le rispondeva?

Nel parcheggiare l'auto in cortile, Helena discese dal suo pick-up con l'aria di voler abbattere la villa di Andrea e, quasi a sorpresa, si ritrovò a fissare uno speranzoso Sebastian.

Accolta praticamente a braccia aperte dal domestico, la donna si intrufolò in casa in tutta fretta, ascoltando sempre più preoccupata le spiegazioni ansiose dell'uomo.

«Meno male, Miss Swanson... sono ore che se ne sta chiuso nel suo studio, senza rispondere a nessuno.»

La voce accorata quanto tesa di Sebastian accompagnò il ticchettio ritmico delle scarpe di Helena che, a passo di carica e come un diavolo incarnato, stava raggiungendo il punto di saturazione.

Sessanta telefonate a vuoto, e un numero imprecisato di sms a cui lui non aveva risposto – se non con quello scarno sorry – non bastavano a fermarla.

Quando aveva bypassato il problema e aveva telefonato direttamente alla servitù, Helena aveva scoperto che, non solo Andrea era andato e venuto da San Franscisco in giornata, ma si era rinchiuso nello studio senza dire nulla.

Non aveva risposto alle chiamate accorate dei due domestici e, quel che era peggio, il telefono era suonato a vuoto per ore.

Non volendo turbare nessuno della famiglia, Sebastian e Leonie non avevano chiamato nessuno, ma era evidente quanto gradissero la presenza di Helena in casa.

«Ora ci penserò io a scoprire cos'ha Andrea.»

Poi, un poco più calma, mormorò: «San Quintino, eh?»

«Sì, Miss. Ma non conosciamo i motivi della chiamata.»

Il domestico sospirò e Helena, nel dargli una pacca sulla spalla, raggiunse infine lo studio di Andrea e disse: «Ora agirò di testa mia, perciò potrebbero anche volare insulti. Non fateci caso.»

«Ci ritireremo in buon ordine. Ci fidiamo di lei, Miss.»

«Mi verrà la raucedine a forza di dirtelo, Sebastian. Helena, solo Helena» gli sorrise lei, guardandolo allontanarsi con un mezzo sorriso.

Quando infine fu sola nel corridoio, recuperò il suo cipiglio battagliero e, dopo due colpi ben assestati alla porta, esclamò: «Ti lascio cinque secondi di tempo per aprirmi, Andrea, dopodiché scoprirai cosa vuol dire far incazzare una rossa!»

 

Atto VI: Depressione.

 

Sorry.

Helena non sapeva cosa dire, in tutta onestà, ed era una bella novità, per lei, restare zitta e buona.

Quando Andrea le aveva aperto, il volto segnato da un'ombra cupa e un bicchiere di whisky in una mano, Helena aveva compreso subito che qualcosa di molto brutto doveva essere successo.

Andrea non era il tipo da rinchiudersi a quel modo per ubriacarsi.

Anzi, era quasi sicura che non si fosse mai ubriacato, almeno dacché lo conosceva. Ma dubitava fortemente che, anche prima, fosse dedito all'alcool.

«Solo questo?» si informò ancora lei, tornando a fissare i suoi occhi ambrati sul volto stanco dell'uomo.

«La polizia dice di sì. E nella cella c'erano foto mie, articoli di giornale, un po' di tutto.»

Lo disse con voce fiacca, stanza, e Helena si mise subito in allarme.

Riconosceva quel tono di voce, perché lei stessa si era trovata in situazioni simili, anni addietro, e sempre quando pensava di non farcela ad andare avanti.

«Non farlo, Andrea. Non darti colpe che non hai.»

«Che non ho? Quella donna è morta da sola, senza la sua famiglia accanto, e tutto per colpa mia!» esplose lui, sbattendo con violenza il bicchiere sul ripiano ligneo della scrivania.

Helena non fece una piega.

«Per quale dannato motivo dovrebbe essere colpa tua? Si è custodi solo della propria coscienza, Andrea, non di quella degli altri! Nessuno le ha detto di imbracciare quella pistola, né di assoldare una banda di delinquenti perché facessero del male a Hannah!»

«Avrei dovuto capire il suo malessere, cercare di aiutarla...» sospirò lui, crollando sulla poltrona dello studio con un tonfo fiacco.

Sospirando, Helena lo raggiunse e, inginocchiatasi accanto a lui, poggiò le mani sulle sue ginocchia e mormorò: «Andrea, era una donna adulta, molto fiera e volitiva. Pensi che non avrebbe avuto il coraggio di parlarti, se avesse voluto

Lui la fissò senza capire, confuso dalle sue parole.

«Pensi davvero che una donna come Isabel avrebbe avuto remore a parlarti, se qualcosa non le fosse andata bene? Non la conoscevo, ma dubito fosse una donna pavida.»

«No... non lo era. Era...»

Sospirò, si passò una mano tra i capelli sale e pepe e si chiuse in un cocciuto mutismo.

Rialzatasi, Helena gli domandò: «Com'era Isabel, quando vi siete conosciuti?»

Passarono diversi minuti, minuti in cui Helena pensò non le avrebbe mai risposto ma, alla fine, Andrea mormorò: «Aveva vent'anni, quando la conobbi a Harvard. Era bella, spigliata, allegra, un'autentica forza della natura. Trovava eccitante il fatto che io fossi riuscito a entrare a Harvard solo con le borse di studio, ottenute per meriti scolastici. Mi parlò della sua famiglia, di come fossero rigorosi e chiusi, di come lei si sentisse oppressa dai genitori. Mi disse che avrebbe preferito di gran lunga essere come me. Iniziammo a frequentarci quasi subito, e la sua freschezza mi conquistò senza scampo.»

«Era uno spirito libero?» chiese Helena, vagamente sorpresa.

«Col senno di poi, direi più uno spirito inquieto. Nulla sembrava mai accontentarla, ma presi quel suo comportamento per frenesia giovanile. Ero innamorato.»

Lo disse con ironia, e Helena gli batté una mano sul braccio.

«Rimase incinta di Nick a ventidue anni, quando gli ultimi esami erano ormai finiti. La sua famiglia diede di matto, quando io proposi loro di sposarla. L'avrei comunque fatto, con o senza Nick in arrivo. La volevo nella mia vita.»

«Era come una droga, per te?»

«Qualcosa del genere. Il suo essere così... sempre un passo avanti, sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo, di più bello, di più eccitante, di più emozionante... mi dava carica, desiderio di concederle tutto quello che voleva. E a questo mi attenni.»

«Promettesti che le avresti donato il mondo?» esalò Helena, un po' sorpresa.

«Promisi a suo padre che non avrei infangato il loro buon nome, che Isabel sarebbe vissuta negli agi e nel lusso, così come aveva sempre vissuto fino a quel momento. Non mi diedero ascolto, così Isabel fece il resto. Li aggredì, dichiarando che io ero una sua scelta. Il suo ennesimo capriccio, direi ora.»

«Andrea...» sospirò spiacente Helena.

«No, l'ho accettato, ormai. Ne ho parlato molto anche con Michael, e siamo giunti alla medesima conclusione. Isabel sapeva amare solo così. Tu dovevi appartenerle

«E Nick e Bran?»

«Loro erano anche miei... credo che l'unico problema con loro sia sempre, e solo, stato questo. Non erano solo suoi. Doveva condividerli con me, e questo era inaccettabile.»

«Per questo tentò di distruggerli?» ansò sgomenta Helena, facendo tanto d'occhi.

«Voleva che fossero come lei, così avrebbero visto solo lei, e non lei e me...credo. Neppure Michael ne è sicuro... ed io meno di lui. Per questo, penso, si sia rivolta a Grant, il suo amante. Avevano lo stesso modo di vedere la vita, erano egoisti l'uno con l'altro, e questo evidentemente li appagava. Io ero il giocattolo di Isabel, la moglie di Grant il suo.»

«Dio, Andrea...» scosse il capo Helena, abbattuta.

«Va bene, Helena. Davvero. Ho accettato da tempo di averla mal giudicata, in gioventù, e di aver visto qualità che, in effetti, si sono trasformate in difetti, ma non potrò mai odiarla completamente, perché mi ha dato Nick e Bran.»

«Certo che non devi odiarla!»

Helena si avvicinò per carezzargli i capelli, il viso e, gentilmente, lo attirò a sé perché poggiasse il capo contro i suoi seni.

«Avrei solo voluto che fosse tutto... diverso

«Credo che quel sorry fosse proprio riferito a questo. Forse, anche lei si è resa conto che tu e lei avreste potuto essere veramente felici, se lei lo avesse voluto sul serio.»

«Forse.»

«Teneva le tue foto. Io credo fosse così.»

«E a te sta bene? Che lei si sentisse ancora legata a me?» le domandò allora lui, sollevando il viso a guardarla.

«Mi stavi bene anche quando lei era viva, Andrea. Tutto sta a capire se io sto bene a te. La ami ancora?»

Andrea non le rispose.

La attirò sulle sue ginocchia e, preso il viso tra le sue mani, la baciò teneramente sulle labbra al sapor di fragola, sulle gote, sul naso, sulle palpebre abbassate.

Helena lo lasciò fare, sorridendo appena ad ogni suo bacio.

«Ti amo. Ho amato Isabel in gioventù e, negli anni, il nostro rapporto è diventato sempre più freddo, sempre più una convenienza, piuttosto che un vero matrimonio. Ho le mie colpe, e non mi nasconderò dietro un dito, lasciando che lei raccolga tutto il male, ed io solo il bene. Avrei potuto anch'io chiudere il nostro rapporto, quando mi accorsi che ormai non c'era più nulla a rinfocolare il nostro amore, che era ormai del tutto svanito.»

«Non è mai facile.»

«No, e spero che tu possa accettare accanto a te un uomo sciocco come so di essere.»

Le sorrise, e lei gli baciò la fronte.

«Penso di aver giudicato male anch'io le persone, in passato. Basta guardare me e Kyle per esserne certi. Suo padre era l'uomo più sbagliato di questa Terra, eppure Kyle è adorabile, un bravo ragazzo ed io lo amo. Anche dagli errori più grandi, può nascere del buono.»

«Nick e Bran sono il riscatto dai miei errori» assentì Andrea.

«Direi proprio di sì. E loro ti amano, quindi non direi che sei stato poi questo disastro, nonostante tu pensi il contrario.»

«Sa solo Dio perché mi vogliono bene» ridacchiò lui, stringendola in un tenero abbraccio.

«Perché il tuo cuore era aperto a loro, anche se spesso non hai potuto dimostrarlo con fatti concreti come la tua presenza in casa. Ma hai dato loro un futuro roseo, la sicurezza di una casa e, all'occorrenza, loro sapevano che il tuo abbraccio non sarebbe mai mancato, se lo avessero cercato. Tu dai sicurezza, Andrea, anche se forse non lo hai dimostrato ampiamente come vorresti.»

Lo baciò teneramente, indugiando sulle sue labbra, e aggiunse: «E ti amo anch’io, e sarò con te quando lo dirai ai ragazzi. Non devi affrontare questa cosa da solo.»

«Grazie.»

 

Atto VII: Accettazione.

 

Sorry.

Nick continuava a rimuginare su quella parola e, a giudicare dallo sguardo pensieroso del fratello, anche lui ci doveva stare pensando.

Phill e Hannah stavano facendo giocare i gemelli sul grande tappeto del salone della villa di Malibù, mentre fuori Khaleesi, Irish e Stark giocavano a rincorrersi.

Apparentemente, tutto era normale.

Eppure era estremamente diverso.

Alla fine, forse, quello che aveva sempre desiderato da sua madre, era giunto.

Anche se lei aveva preferito andarsene in silenzio, piuttosto che ammettere con tutti loro di avere sbagliato.

Aveva sperato, fino all'ultimo, che lei ammettesse le proprie colpe, non tanto nei loro confronti – non tutti coloro che avevano figli, erano anche bravi genitori – quanto piuttosto nei confronti del padre.

Loro si erano scelti. Avrebbe dovuto pur contare qualcosa, per lei.

Quell'estrema richiesta di perdono era accettabile, per permettere a suo padre di non vivere nel rimpianto? Forse.

Solo il tempo avrebbe potuto dirglielo.

Sperava davvero di sì, perché Helena gli pareva la donna giusta per permettergli di vivere almeno una seconda vita più tranquilla.

Non lo aveva mai visto così sereno, così in pace con il mondo, e non pensava fosse solo per merito dei gemelli, che lui adorava.

No, era anche Helena ad aver causato quel cambiamento, e lui non l'avrebbe mai ringraziata abbastanza, per questo.

Sorride nel vederli tornare dalla cucina, entrambi con dei vassoi di bibite per tutti.

Si sedettero accanto a lui sul divano e Brandon, nascondendo la sua aria pensierosa dietro un sorriso, disse: «Lo zio ha telefonato prima. Dice che sarà qui domani.»

«Molto bene. E' giusto che parliamo di Isabel tutti assieme.»

Andrea strinse la mano di Helena e Nick, lanciandogli uno sguardo speranzoso, mormorò: «Tutto bene, papà?»

«Andrà bene» lo rassicurò lui. «Se saprete perdonarla per ciò che ha fatto, andrà anche meglio.»

«L'unica cosa che volevo...» iniziò col dire Nick, lanciando un'occhiata a Brandon, che annuì. «... era che lei accettasse quel che aveva fatto a te. I figli non si scelgono, e ci può stare che noi non fossimo come lei desiderava. L'abbiamo entrambi sperato, e per lungo tempo abbiamo lottato per avere il suo amore, quando semplicemente lei non era in grado di darcelo.»

«Nick...»

L'uomo scosse il capo, proseguendo nel suo dire.

«Ma lei ti ha sposato. Vi siete scelti. Era questo ad angustiare entrambi, … il fatto che vi foste scelti, e che lei avesse tradito questa scelta. Potevamo sopportare che non amasse noi, ad un certo punto, ma odiavamo che lei non amasse te. Quelle scuse, almeno per me, pareggiano tutti i conti... trattandosi di Isabel Van Berger.»

«Anche per me» aggiunse Brandon. «Non provo più rancore nei suoi confronti, perciò non devi preoccuparti per noi due, papà.»

«Bran» sussurrò Andrea, sorridendogli.

Hannah e Phill, un bambino a testa in braccio, raggiunsero la loro famiglia e, annuendo tra loro, dichiararono: «Siamo a posto anche noi.»

«Bambina... figliolo...»

Andrea allungò le braccia verso di loro ed i due giovani, lasciati i bambini a Nick e Bran, lasciarono che l'uomo li avvolgesse in un abbraccio caloroso.

Pianse in silenzio, cullato dalle braccia dei due giovani, ma si rese conto che non erano lacrime tristi o macchiate da rimorsi.

Erano, finalmente, lacrime di gioia.

Ora, tutto era libero da ombre.

Avrebbe preferito non si giungesse a tanto, ma sapeva che, trattandosi di Isabel, tutto era possibile.

Lei era sempre stata alla ricerca di qualcosa di più, nella sua vita... forse, neppure lei aveva mai saputo dire di cosa avesse bisogno.

Alla fine, si era resa conto di averlo trovato, e perso, e per questo aveva chiesto perdono.

Per la prima volta nella sua vita, e all'atto della sua morte, aveva ammesso di aver commesso un errore.

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N.d.A.: I sette punti inseriti come titolo di ogni atto sono le sette fasi di elaborazione del dolore.

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Capitolo 11
*** A new life (Agosto 2015) ***


12

"L'amore non vuole avere, vuole soltanto amare."

Hermann Hesse

«Ehi, mamma, ho pensato che forse tu...»

Kyle, come sempre espansivo, e come sempre irrispettoso, entrò nella stanza della madre dopo essere penetrato senza permesso, e con le sue chiavi, nell'appartamento della genitrice.

Mai idea fu più balzana di questa... visto quello che si trovò ad affrontare.

Sgranando gli occhi e spalancando la bocca – tanto che avrebbe potuto atterrarvi un Chessna – il giovane dai capelli sparati in testa puntò un dito verso il letto e, tremante, esclamò: «Ohsignoresantocielo!»

La coppia addormentata nel letto, riscossa con violenza da quell'urlo stridente e vagamente isterico, si mise a sedere di colpo, le coltri in disordine e l'aria sbattuta quanto confusa.

Balbettante e frenetico, Kyle si affrettò a volgere lo sguardo mentre Helena, grattandosi la massa voluminosa e scomposta di capelli rossi, borbottava: «Ma che diavolo succede, Kyle? Va a fuoco la casa?»

«N-no, m-mamy... è che io... beh, ecco, io...»

Kyle balbettò in modo sempre più evidente finché, al colmo dell'imbarazzo e del panico, scappò fuori dalla camera da letto borbottando delle stentate scuse.

Sempre più confusa, Helena si volse per scrutare il viso dell'uomo al suo fianco e, vagamente divertita, chiese: «Dici che l'ho sconvolto a morte?»

Andrea sorrise, si chinò a darle un bacio sulle morbide labbra a cuore e, annuendo, dichiarò: «Poco ma sicuro.»

 

§§§

 

Non aveva visto quello che aveva visto, non aveva visto quello che aveva visto, non aveva...

«Aaah, ma che dico! L'ho visto eccome!» gracchiò Kyle, passandosi le mani tra i capelli biondo platino e distruggendo in poche mosse la cresta ricoperta di gel.

Quando era entrato nella stanza della madre, armato delle migliori intenzioni e propenso a portarla in un ristorantino per i suoi primi cinquantotto anni, non si era certo aspettato di vederla a letto con un uomo.

A letto con Andrea Jameson Van Berger.

Cristo!

Cioè, lo sapeva che si frequentavano da due anni, ormai, e che sua madre era una bella donna, Andrea un uomo forte, di sani principi e tutto il resto ma...

Beh, a chi farebbe piacere beccare la propria madre a letto nuda con un uomo?!

Se si fosse schiantato contro un muro a tutta velocità, si sarebbe sentito meno stordito, poco ma sicuro.

E lui, da bravo imbecille, non si era fatto neppure passare per l'anticamera del cervello, di bussare.

O chiedere il permesso.

O telefonare preventivamente.

Con sua madre non era mai servito.

Erano dirimpettai sullo stesso pianerottolo nel palazzo che sovrastava il loro negozio, e tra loro non c'erano mai state porte chiuse.

E infatti lui ci era cascato come un somaro proprio per quello.

Perché non l'aveva avvertito che avrebbe avuto qualcuno in casa?

Perché si ostinava a non metterlo al corrente dei suoi impegni?

Dio, che figura!

Quando poi sentì la porta della stanza aprirsi, sobbalzò, divenne paonazzo in viso e, impossibilitato a muovere un solo muscolo, rimase seduto sullo sgabello in cucina ad attendere il loro arrivo.

Non appena la coppia si presentò lì, Helena scoppiò a ridere di gusto e l'ansia di Kyle aumentò.

«Tesoro, hai una faccia!» sghignazzò Helena, passando oltre la consolle della cucina per accendere la macchinetta del caffè.

Più indulgente, Andrea gli si sedette al fianco e, datagli una pacca sulla spalla, mormorò: «Buondì, ragazzo.»

«A-Andrea...» balbettò Kyle, ormai di un preoccupante color violaceo.

Infornando tre croissant nel forno a microonde, Helena tornò a volgersi verso di loro e, senza alcuna pietà, disse: «Così la prossima volta impari a bussare, tesoruccio.»

«Mamma!» esalò il giovane, coprendosi il viso con le mani per poi sbattere il capo, ripetutamente, sul ripiano in marmo della consolle.

Helena rise di gusto, per nulla preoccupata dell'imbarazzo del figlio mentre Andrea, battendo pacche affettuose sulla schiena del giovane, diceva: «Non sei carina con lui, Lenny. Pensa a come deve essersi sentito, vedendomi lì con te.»

«Scusa, ma pensava che fossi decrepita?» brontolò a sua volta Helena, imperturbabile.

«Oddio, non voglio neppure pensarci!» esalò sconfortato Kyle, rialzando di colpo il viso per scrutare la madre, che appariva pimpante, allegra e... dannatamente soddisfatta.

Armata di un cucchiaio e di un barattolo di marmellata, Helena indicò il figlio con aria imperiosa e, sostenuta, esclamò: «La tua mamma è una donna molto giovanile, dovresti saperlo. E che si tiene molto in forma!»

«MAMMA!» sbraitò di nuovo Kyle, facendo tanto d'occhi. «Non voglio assolutamente sapere che razza di ginnastica fai, per tenerti in forma! Risparmiami!»

Fu il turno di Andrea di ridere e, data un'altra pacca sulla spalla a Kyle, disse: «Si sta approfittando del tuo imbarazzo, figliolo. Non dargliela vinta.»

«Oooh, e tu non spalleggiarlo. Mi sto divertendo un mondo a vederlo con quella faccia allucinata» ironizzò la donna, sorridendogli divertita.

«E' tempo e ora che abbia qualcuno che lo difenda da te» replicò Andrea, sogghignando.

«Ma bene... ti vuoi coalizzare con il mio ragazzo?» sottolineò Helena, poggiando le mani sui fianchi.

«Direi di sì.»

Andrea annuì e, per sottolineare la cosa, avvolse le spalle di Kyle con un braccio.

Quel gesto, apparentemente così innocente, sorprese non poco il giovane, decisamente non avvezzo a trovarsi a così stretto contatto con un uomo che era anche l'uomo di sua madre.

Lo fissò vagamente confuso, non sapendo bene come replicare a quel cameratismo, a quello spalleggiarsi e, abbozzando un sorrisino, disse: «Come funziona la cosa?»

«Semplice, Kyle. Ora la mamma è in minoranza, quindi vinciamo noi.»

«Mi piace» ghignò il giovane, tornando a guardare la madre con rinnovata sicurezza. «Non mi capita mai, di solito!»

Ora vagamente accigliata, Helena borbottò: «Ehi, voi due... cos'avete in mente?»

«Sai, stavo pensando una cosa, Lenny» sogghignò Andrea, grattandosi pensosamente una guancia. «Questo povero ragazzo ha subito per anni e anni la tua dittatura...»

Kyle sottolineò il tutto mettendo il broncio e appoggiandosi al torace di Andrea, abbracciandolo poi come se Helena volesse squartarlo.

Andrea ridacchiò. Helena un po' meno.

«Dittatura, eh?»

«Ammetterai che ha vissuto un sacco di tempo sotto il tuo giogo e, anche se ora vive per conto suo, ha sempre dovuto riferire a te e solo a te, ciò che faceva.»

«Dove vuoi arrivare, Andy?» sottolineò Helena, assottigliando le iridi color whisky.

Kyle sghignazzò e disse, petulante: «Salvami tu da lei, Andrea.»

«Tranquillo, ragazzo, è proprio quello che voglio fare.»

Indulgente, batté una mano sul capo del ragazzo che, con un miagolio, si strinse ancor di più all'uomo, facendolo ridacchiare.

Helena scosse il capo disgustata ma, suo malgrado, divertita da quella strana scena.

Non era stata una santa, nel corso degli anni, ma era la prima volta in assoluto che Kyle passava del tempo con uno dei suoi uomini e, soprattutto, che si arrischiava ad avvicinarlo tanto.

Era bello, e tenero, vederli assieme, scherzare come se si conoscessero da sempre, vederli interpretare il ruolo di padre e figlio, come se Kyle avesse cinque anni, invece di trentadue.

«Pensavo che io e Kyle potremmo andare a fare un giro per il centro. Giusto per conoscerci meglio» propose Andrea, facendo sobbalzare sia il giovane che la madre.

Scostandosi di colpo dall'uomo, Kyle lo fissò come se non avesse capito bene quel che aveva sentito e Andrea, ora serio, disse: «E' un po' che ci vediamo, e che tu mi vedi gironzolare attorno a tua madre. Magari ti farebbe piacere conoscermi meglio. Che ne dici, Kyle?»

«Ah, beh, ecco... sì, penso che... sì, si potrebbe fare» assentì confusamente lui, annuendo con vigore.

«Bene.»

Nuovamente, Helena gli chiese torva: «Dove vuoi arrivare, Andy?»

«Da nessuna parte, perché?» replicò lui, candido come la neve.

Helena non gli credé neppure per un attimo.

Ma le piaceva troppo l'idea di suo figlio e Andrea in giro assieme, per protestare ulteriormente.

 

§§§

 

Sceso che fu dalla Mercedes Benz grigia di Andrea – posteggiata in un parcheggio sotterraneo del centro – Kyle si guardò intorno e disse: «Dove vuoi andare?»

Andrea, in maniche di camicia e jeans, non appariva come l'importante imprenditore quale era, ma solo un uomo di sessanta e rotti anni in compagnia di un giovane, lui, che avrebbe potuto essere suo figlio.

Kyle trovò scioccante anche il solo pensarci.

Lui non era mai andato in giro con un uomo che avrebbe potuto essere anche suo padre, visto che lui si dilettava a uscire solo con i suoi amici... o con le ragazze.

«A parte il surf hai qualche altro hobby? Interesse? Mi piacerebbe conoscerti meglio, Kyle» gli spiegò Andrea, indirizzandolo verso gli ascensori per salire fino al piano stradale.

«Ahhh, mi piacciono le moto. Non quelle americane. Quelle giapponesi. Ho una Yamaha 1000 r1... blu e nera.»

Lo disse di getto, poi si chiese se fosse il caso parlare con così tanta chiarezza.

Come ci si comportava, in quei casi?

Vagamente terrorizzato, rivolse un'occhiata disperata al suo interlocutore che, sorridendo, gli strinse una mano sulla spalla, replicando: «Dimmi quello che vuoi, Kyle. Davvero. Hai detto una Yamaha. Come quella di Lorenzo?»

Vagamente confuso, lui annuì. «Beh, la versione stradale, ma sì. Conosci Lorenzo?»

La sola idea che potesse conoscere il campione motociclistico di MotoGP, lo lasciò interdetto.

Ironico, Andrea disse: «Non personalmente, se è questo che intendi, ma sono un appassionato di corse, e più di una volta sono andato a Indianapolis per vedere le gare di moto.»

«Oh, wow. Fico!» esclamò lui, tappandosi la bocca un attimo dopo.

Andrea rise di fronte al suo imbarazzo e, nell'indirizzarlo verso una vicina concessionaria di motociclette, chiosò: «Con tutto quello che sai di Nicky, pensi che 'fico' mi possa sconvolgere?»

«Aaah... no.»

«Appunto. Parla liberamente, Kyle. Davvero.»

Il giovane sorrise e, ringalluzzito dal sorriso confortante di Andrea, partì a ruota libera.

E si divertì un mondo.

 

§§§

 

Arrotolando delle linguine allo scoglio attorno alla forchetta, Kyle le ingoiò con sommo gusto e, quando fu pronto per tornare a parlare, disse: «Sono assolutamente sicuro che, se avessero optato per una forcella a steli rovesciati molto prima, quel campionato l'avrebbero vinto loro. L'avantreno ha dato un sacco di problemi.»

«Ma la Ohlins non riforniva già la casa, a quel tempo?»

«Se non ricordo male, no. E' stata presa in seguito» sottolineò Kyle, sorseggiando un buon vinello bianco del Sud California.

Andrea sorrise nel vederlo così rilassato, dopo l'iniziale ritrosia.

Kyle si era pian piano lasciato andare e, dopo avergli mostrato il suo modello di moto in concessionaria, gli aveva spiegato i perché che l'avevano spinta ad acquistarla.

Poco per volta, le parole erano corse a fiumi e, dopo un paio d'ore di chiacchiere quasi incessanti, Andrea gli aveva proposto di pranzare sul mare, in un localino che lui conosceva bene.

Kyle aveva accettato, ma solo a patto di poter pagare la consumazione, e Andrea aveva acconsentito.

Dopotutto, il ragazzo era anche un imprenditore, perciò aveva le sue finanze, e non aveva senso metterlo in imbarazzo intestardendosi con il volergli offrire il pranzo.

Tra scarichi di moto, nuovi chassis per le auto, alcuni commenti sulle vendite del negozio, il pranzo era iniziato e proseguito con serenità, e Andrea si era divertito un mondo a sentirlo parlare.

Capiva bene perché lui e Nick andassero d'accordo. Come si poteva non trovare Kyle più che interessante? Era impossibile.

Il cellulare di Andrea suonò all'improvviso, bloccandolo a metà di un discorso e, scusandosi con Kyle, scrutò lo schermo per capire chi fosse. Helena.

Sorridendo spontaneamente, accettò la chiamata e disse: «Ciao, Lenny. Qualche problema?»

«Se mi dici che non siete a Las Vegas a giocare come pazzi, o a sposarvi con qualche spogliarellista, direi di no.»

L'uomo rise sommessamente e, con il labiale, spiegò a Kyle di chi si trattasse. Il giovane sghignazzò.

«Tutto a posto. Tuo figlio mi ha offerto un pranzo a base di crostacei, e ci stiamo godendo la frescura della brezza oceanica che penetra nel ristorante» le spiegò Andrea. «Dovrei portartici. Si sta bene, qui.»

«Nessun problema. Ma ora spiegami cos'hai intenzione di fare.»

Il suo tono burbero e vagamente sospettoso fece sorridere Andrea, che però non rispose.

«Non posso uscire con Kyle senza che tu pensi a qualcosa di brutto? Non lo porterò in un antro di perdizione, cara. Stai tranquilla» ironizzò Andrea, salutandola per poi chiudere la chiamata.

Il giovane, sghignazzando divertito, dichiarò: «Ti ucciderà, poco ma sicuro. Non le si chiude la bocca a questo modo senza rischiare la vita.»

Decisamente tronfio, Andrea replicò: «Conto di sorprenderla con un regalo.»

Kyle allora appoggiò la forchetta, fissò il volto sereno e luminoso dell'uomo seduto dinanzi a lui e, serio, mormorò: «Non è un semplice invito, il tuo, vero?»

«Sì e no. Volevo sul serio uscire con te per conoscerti meglio, ma avevo anche un secondo fine, lo ammetto.»

«Ebbene? Se vuoi una dritta da parte mia per questo fantomatico regalo, caschi male. Non ci ho mai capito nulla, sui gusti di mia madre» ironizzò Kyle, facendo spallucce.

Andrea ridacchiò.

«No, con il regalo sono a posto. Piuttosto, volevo sapere da te se... potesse starti bene.»

Il giovane si irrigidì all'istante e, accigliandosi, borbottò: «Non stai pensando quello che io sto pensando, vero? Vero

«Sarebbe così tremendo?» replicò Andrea, vagamente sorpreso dalla sua reazione.

Kyle si passò le mani tra i capelli, seriamente agitato e, con voce gracchiante, esalò: «Sarebbe... da panico! Perché immagino che il regalo sia un anello con tanto di dichiarazione, vero?!»

«Nick l'ha sempre detto che sei perspicace, e sono lieto di sapere che ha ragione.»

«Ohmiodio!» ansò Kyle, sempre più agitato.

Andrea storse appena la bocca e chiosò: «Date sempre l'impressione di incollare le parole, quando siete nervosi. Come ci riuscite, voi giovani?»

Ghignando nervoso, Kyle borbottò: «Tutta pratica accumulata negli anni.»

«Ad ogni modo, devi spiegarmi, primo, se ti starebbe bene, secondo, perché hai parlato di panico.»

Intrecciate le mani con fare tranquillo, Andrea attese la sua risposta e Kyle, messo alle strette, reclinò il viso vagamente arrossato dall'imbarazzo e borbottò: «Beh, ecco... mamma ti avrà sicuramente detto che ha combinato il mio vecchio.»

«Se l'è filata quando tu eri piccolo. Sì, lo so.»

«Insomma, mamy ha avuto diversi uomini, ovviamente. E' una bella donna, ed è simpatica» mugugnò ancora Kyle, passandosi nervosamente una mano sui capelli, ormai disordinati e sparsi ovunque. «Però, non ha mai trovato nessuno di veramente okay da portare in casa. Sono sbiellato anche per quello, stamattina. E, scusa, tra l'altro.»

«Niente sangue, niente danno» ironizzò Andrea, incitandolo a proseguire.

«Da quando ci sei tu, invece, mamma sembra un'altra persona. E' più... felice. Ecco, più felice che in ogni altra occasione.»

Si morse un labbro, e alla fine sputò il rospo.

«Avevo paura che tu potessi abbindolarla con i tuoi soldi, e subito non ero molto d'accordo sulla vostra relazione...»

«Mi sarebbe parso stupido il contrario. Vai avanti.»

«Beh, però ho visto che, a parte qualche giro in auto e le partite allo stadio, non è che la stai ricoprendo di gioielli Cartier, o cose simili. Insomma, non la stai comprando.»

Prese un gran respiro, e aggiunse: «E non hai cercato di comprare me

Andrea sorrise indulgente e comprensivo. Capiva perfettamente quello che il giovane gli stava dicendo, e questo deponeva solo a suo favore.

«Sarebbe stato semplice ricoprirla di gioielli, bei regali costosi o altri gingilli del genere. E' vero» ammise senza problemi l'uomo. «Ma, come dici tu, l'avrei comprata. E non mi permetterei mai di fare una cosa simile a Helena. I soldi ed il potere hanno minato il mio primo matrimonio, Kyle, e non volevo assolutamente che guastassero il bel rapporto che ora ho con tua madre e, spero, con te.»

Kyle annuì.

«E' inutile dire che, se Helena e tu deciderete di entrare a far parte della mia famiglia, mi prenderei cura di voi anche sotto l'aspetto finanziario, così come ho fatto per Hannah, Phillip e i gemellini, ma non voglio in alcun modo che questo pregiudichi le vostre scelte.»

«Perché lo chiedi a me?»

«Sei tu l'uomo di casa, Kyle, ed io sono un tipo vecchio stampo.»

Gli sorrise, ed il giovane arrossì.

«Oh, beh, è la mamma che decide per se stessa, non certo io. Mi ha detto che ti ama, quindi penso sia già di per sé una cosa importante. Di solito, non me lo diceva mai degli altri uomini.»

«Direi che è basilare. Ma anche tu devi avere un'opinione, e vorrei ascoltarla.»

Kyle ridacchiò nervoso e borbottò: «Mamma me la pagherà cara per avermi messo in un simile casino.»

Andrea ridacchiò, ma lo lasciò libero di pensare e prendersi tutto il tempo necessario per rispondere. Era vitale che fosse sicuro.

Quando infine parlò, il giovane si mostrò serio e compassato. Non il solito Kyle.

«Rendi felice mamma, quindi a me starebbe anche bene. E sei forte. Non sei spocchioso, e con te si può parlare di tutto, quindi per me è okay. Se poi vogliamo spaccare il capello in quattro, diventerei fratellastro con Nick e Bran, e già questo sarebbe mitico. Ma la sostanza di fondo è una e una sola; me l'hai chiesto. Hai chiesto il mio parere, volevi sapere cosa ne pensassi io

«Tu e Hannah avete troppi lati in comune, perché non prendessi a cuore la tua situazione. Non è giusto che gli adulti facciano pagare ai figli le proprie colpe e i propri errori, ma tu e lei ne siete stati le vittime incolpevoli. Desideravo che ti sentissi apprezzato per te stesso, non perché sei il figlio di Helena. Sei Kyle, e mi interessi tu come mi interessa lei. Sarete la mia famiglia assieme a tutti i miei ragazzi, se vi sta bene.»

Gli sorrise speranzoso e Kyle, passandosi un dito sotto il naso, che sentì prudere per l'emozione, dichiarò: «Se sei convinto di potermi sopportare, a me sta bene che tu diventi il mio patrigno.»

Ciò detto, storse la bocca e aggiunse: «Fa schifo la parola patrigno, però...»

«Potrai chiamarmi come vuoi» rise sommessamente Andrea, allungando una mano verso di lui.

Kyle la strinse con forza, ora tutto sorridente e sì, vagamente sgomento di fronte a quell'enorme novità.

«Pa' mi suona bene. A te?»

«Benissimo» assentì Andrea.

 

§§§

 

Stavano ancora chiacchierando allegramente, quando misero piede nell'appartamento di Helena.

E lì si bloccarono, vagamente intimoriti dalla posa battagliera della donna di casa.

La chioma fulgida, e dalle onde morbide, era rilasciata sulle spalle in una criniera fiammeggiante mentre gli occhi, di un color ambra che ora sprizzava scintille, li stavano fissando con aria accigliata.

«A-ehm... temo che nessuno dei due si sia ricordato di chiamarti. Giusto?» esalò Andrea, sorridendo impacciato.

«Ma no, dai?» esclamò lei, sbracciandosi.

Kyle si rattrappì dietro la schiena di Andrea, già conoscendo i segnali di una prossima esplosione della madre.

«Non stavamo combinando niente, Lenny e, dopotutto, sono solo le sette di sera. E' un orario onesto

«Onesto, dici tu. Ho provato a chiamarvi per tutto il pomeriggio, ma eravate irreperibili. Potevate anche essere morti, per quel che ne sapevo io!» sbottò la donna, fulminandoli con lo sguardo.

«Oh. I go-kart.»

Helena strabuzzò gli occhi nel sentire Andrea nominare quella parola e Kyle, fissando spiacente la madre, mormorò: «Mamma, frena. Era ovvio che non ti sentissimo, visto che eravamo in pista a fare qualche giro.»

«E l'idea di curiosare sui vostri cellulari non vi è balenata neppure di striscio, vero? Ma di che mi stupisco! Metti due uomini assieme, in piena libertà e senza donne al seguito, e quelli perdono neuroni dalle orecchie! Che dico, poi! Voi di neuroni non ne avete proprio!»

La donna si animò di secondo in secondo, sembrando in tutto e per tutto un'Erinni pronta a colpire ma Andrea, agendo all'improvviso, la bloccò a metà di un secondo attacco.

Da dietro la schiena fece comparire un piccolo cestino di vimini, ricolmo di succose fragole rosse e Helena, bloccandosi con le braccia ancora levate, le fissò sconvolta, incapace di comprendere quel gesto.

Rilassando le braccia, lei fissò dubbiosa quel cesto dalla frutta succosissima e, scrutando con occhi assottigliati Andrea, borbottò: «Cos'è, un sistema contorto di chiedere scusa?»

«Qualcosa del genere» ridacchiò lui, allungandogliele.

Helena prese il cesto in una mano e, con l'altra, cominciò a piluccare i dolci frutti rossi, mettendosene uno in bocca.

«Buone» mormorò, ora più calma.

Kyle si arrischiò a ricomparire da dietro la schiena di Andrea.

Continuando a fissare i due uomini mentre, con la mano, continuava a scegliere le fragole per portarsele alla bocca, borbottò: «Lo sapete che sono ansiosa. Avreste potuto avvertirmi, no?»

«Hai ragione. Ma abbiamo perso tempo a trovare un agricoltore che vendesse al dettaglio frutta biologica» ammise Kyle, sorprendendo non poco la madre.

«Siete andati... in campagna per prendermi le fragole?» esalò Helena, facendo tanto d'occhi.

Andrea vide ciò che aveva sperato. Imbarazzo, gradevole sorpresa e, sì, amore.

«Voi siete tutti...»

Helena interruppe la sua frase non appena le dita della sua mano intercettarono qualcosa che, di fragola, non aveva nulla a che spartire.

Irrigidendosi immediatamente, la donna distolse lo sguardo da Andrea e Kyle per meglio comprendere cosa avesse toccato e, avvampando in viso, esalò: «Ohsignoresantocielo!»

«E' di famiglia, allora...» chiosò Andrea, rivolgendosi a Kyle, che ridacchiò.

Afferrando con mano tremante un bellissimo anello in oro bianco, Helena lo fissò a occhi sgranati, per nulla convinta di essere sveglia.

Un cerchio concentrico di diamanti, che proseguivano anche sulla fascia dell'anello, tratteneva un enorme topazio giallo dalla forma arrotondata.

«Mi ricordava i tuoi occhi» mormorò Andrea, avvicinandosi di un passo.

Helena levò il viso a scrutarlo e, con un mezzo sorriso, annuì. «Le fragole...»

«Te l'ho sempre detto che le tue labbra sanno di fragola, e hanno lo stesso colore.»

«Niente particolari piccanti, grazie» borbottò alle loro spalle Kyle.

Andrea ridacchiò e Helena, con un sorriso a metà tra l'imbarazzato e lo sconvolto, scrutò l'anello con il dubbio negli occhi.

«E' quello che penso io?»

«Solo se tu lo vuoi, altrimenti rimarrà un semplice anello» scrollò le spalle Andrea, cercando di mostrare una calma che non provava affatto.

Con Isabel era stato tutto totalmente diverso, si erano trovati – e amati – in fretta, con la disinvolta follia della gioventù, e forse questo li aveva condannati fin dall'inizio.

Con Helena, tutto sembrava sciolto, limpido, semplice, anche se si conoscevano solo da due anni.

Era come se lei fosse sempre stata lì, al suo fianco, pronta a spalleggiarlo – o a insultarlo bonariamente – qualora lui ne avesse avuto bisogno.

Come la metà di un'anima, che non aveva mai saputo di essere stata separata dalla sua compagna.

Helena gli sorrise, con le labbra di fragola e gli occhi color whisky, e disse ironica: «Kyle, voltati per favore.»

Il figlio si affrettò a voltarsi e, per ogni evenienza, si coprì anche gli occhi mentre la madre, avvolte le braccia attorno al collo di Andrea, si levò in punta di piedi e, sulla bocca dell'uomo, mormorò: «Mi bastavano le fragole, per dirti di sì.»

«Non potevo infilarti una fragola al dito» replicò Andrea, pragmatico.

«Vero» ammise Helena, annullando la distanza che li separava.

Il bacio fu lento, caldo, dolce, al sapore di frutta, e Andrea lo lasciò scivolare nel tempo, perché durasse in eterno.

Perché voleva che, con Helena, durasse realmente in eterno, finché morte non li avesse separati.

Era convinto di non sbagliare, quella volta e, almeno a giudicare da come le mani di Helena si spostarono attorno al suo corpo per attirarlo a sé, anche lei pareva voler essere certa che lui non scappasse.

Beh, non sarebbe successo.

«Ehi, voi due! Niente cose sconce!» sottolineò Kyle, facendo scoppiare a ridere entrambi.

Scostatasi da Andrea, Helena si portò dinanzi al figlio e, scostate le sue mani, lo fissò in viso – lei sorridente e lieta – e gli domandò: «A te sta bene che io sposi Andrea?»

«Mica lo devo sposare io» ironizzò Kyle, dando poi di gomito all'uomo. «E poi, io e Pa' siamo già d'accordo.»

«Pa'?» ansò Helena, fissando senza parole il figlio.

Un attimo dopo, il suo sguardo ambrato passò sul volto di Andrea, che nel frattempo aveva avvolto un braccio attorno alle spalle di Kyle.

Subito, i suoi occhi si inondarono di lacrime e, senza riuscire a frenarsi, Helena scoppiò a piangere.

Kyle allora si scostò da Andrea per abbracciarla e, dandole dolci pacche sulla schiena, mormorò contro il suo orecchio: «Su, su, mamma... va tutto bene. Andrea mi piace. E so che piace a te. Andrà alla grande, davvero.»

«Non hai... non hai mai...» singhiozzò lei, compressa contro il torace del figlio.

«Mai chiamato nessuno papà, lo so. E' fico, no, che adesso possa farlo anch'io?» ironizzò il giovane, dandole una leggera scrollata. «Dai, Ma', o Andrea comincerà a preoccuparsi.»

Annuendo a più riprese, Helena si deterse il volto con i dorsi delle mani e, sorridendo impacciata ad Andrea, esalò: «Scusa. E' che non mi era mai capitato, e...»

«Va tutto bene... però vorrei sapere se ti sta bene l'anello» disse Andrea, facendola scoppiare a ridere.

Quel suono lo rassicurò.

Vederla in lacrime l'aveva turbato nel profondo, pur comprendendone i motivi. Avrebbe lavorato per vederla sorridere e basta.

Infilandosi l'anello al dito, Helena lo fissò strabiliata e, annuendo, mormorò: «E' davvero stupendo, Andrea. Non potevi scegliere niente di più bello.»

Andrea allora la fissò vagamente dubbioso e la donna, accigliandosi leggermente, borbottò: «Perché non mi piace quello sguardo?»

«Devo chiamare la Concessionaria Aston Martin e annullare l'ordine per la tua nuova auto, allora? A questo punto, mi viene da pensare che non ti piacerà.»

Lo disse con un tale candore che Helena strabuzzò gli occhi e gracchiò: «Cos'hai fatto?!»

Kyle scoppiò a ridere di gusto e Andrea, nell'abbracciare la donna, la cullò dolcemente contro di sé mormorando: «Tranquilla, scherzavo.»

«Ah, ecco...» esalò un sospiro di sollievo Helena, dandogli delle pacche sulla schiena a mo' di punizione.

«Infatti, l'ha ordinata per me» buttò lì Kyle, facendo nuovamente irrigidire la madre, che lo fissò con aperta riprovazione.

«Kyle! Non ti ho insegnato a fare l'approfittatore! Anche se Andrea diventerà mio marito e tuo patrigno, non vuol dire che...»

Bloccandosi, Helena li fissò entrambi con il dubbio dipinto in faccia, studiò le loro identiche espressioni birichine e, puntate le mani sui fianchi, ringhiò: «Un altro scherzo, eh?»

Kyle fu il primo a darsela a gambe, ben conoscendo i rischi che si correvano a prendere in giro la madre.

Andrea fu un po' meno rapido.

Quel che ne seguì, almeno agli occhi di uno sconosciuto, avrebbe potuto sembrare una resa dei conti all'O.k. Corral.

Ma Andrea, come Kyle e Helena, sapevano bene che quello schiamazzare, come quel cercare di sfuggire alle grinfie l'uno dell'altro, era amore.

 

 

 

 

___________________________

N.d.A.: ho pensato fosse carino dare un po’ di spazio a Kyle, visto che non era più ricomparso nelle mie OS. E far vedere anche come fosse Helena assieme ad Andrea.

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Capitolo 12
*** Il ritorno (2004-2008) ***


il

“Amico mio, accanto a te non ho nulla di cui scusarmi, nulla da cui difendermi, nulla da dimostrare: trovo la pace… Al di la’ delle mie parole maldestre tu riesci a vedere in me semplicemente l’uomo.”

Antoine de Saint-Exupery

 

 

 

 

To: joliepitt@yahoo.com

Object: Stanchezza

From: branvb@gmail.com

12-06-2004 ore 12.06 pm

-------------------------------------

Non ho neppure la forza di dirti ciao,… il che è tutto dire.

Figurati se voglio tornare a L.A. per le vacanze di Natale. Vieni qui. C’è caldo, il sole e tanto spazio in cui godersela, nel mio loft.

Mi sento solo. E sono stufo marcio di sforzarmi di usare quelle maledette H! Xkè ci sono così tante H, nell’arabo?! -_-‘’

Bran :*

 

To: branvb@gmail.com

Object: Re:Stanchezza

From: joliepitt@yahoo.com

12-06-2004 ore 10.15 am

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Mi preoccupi, sai?

A sentirti parlare… ops, scrivere, si direbbe che non hai trovato nulla di bello, lì. Eppure mi sembra 1 posto che offre molto. *_*

Bran, sei proprio sicuro di non voler tornare a casa? Dopotutto, è passato 1 anno. Non pensi sia bello poter rivedere Phill, rivedere tuo fratello?

Jolie :*

p.s. Ho vinto alla lotteria! 12.000,00 euro tondi tondi. Quasi quasi, li uso per venire davvero da te. (una parte, non tutti! :D)

 

To: joliepitt@yahoo.com

Object: Re: Re: Stanchezza

From: branvb@gmail.com

12-06-2004 ore 12.25 pm

------------------------------------

Non ho NESSUNA intenzione di rivedere Phillip. Sbaglierò, ma ti ho spiegato circa 1000 volte perché non posso rivederlo. E non credere che mia madre esageri. Quella è capace DI TUTTO. E poi, penso che in fondo mi sia passata.

Dopotutto, forse, aveva ragione lei.

Magari mi sono solo lasciato andare all’idea di darle contro in qualche modo, di sfidarla.

Ad ogni modo, Phill è stato un buon amico, e non voglio metterlo in pericolo a causa mia, anche se non voglio più stare con lui.

Bran

p.s. ma non sarebbe il caso di cambiare indirizzo e-mail? Sei ridicola, con quel nomignolo! :P

 

To: branvb@gmail.com

Object: Re:Re:Re: Stanchezza

From: joliepitt@yahoo.com

12-06-2004 ore 10.30 am

-------------------------------------

 

Col cavolo che cambio e-mail! E poi, che posso farci se il destino ha unito il mio nome a quel figo di Brad Pitt? *_____________*

Io sono stra-felice. Ihihihih

Comunque, trovo che tu stia dicendo un sacco di scemenze. Da dove salta fuori che il tuo amore per Phill fosse inventato? Un mero gioco con tua madre?

Sei fuso, ecco cosa. E questo mi spinge a dirti: aspettami, perché verrò lì da te a passare il Natale. Controllerò di persona il tuo stato di disadattato senza speranza.

Bacio!

Jolie

p.s. sicuro che faccia caldo? Cosa metto in valigia?

p.p.s. ci vuole il chador?

 

To: joliepitt@yahoo.com

Object: Re: Re: Re: Re: Stanchezza

From: branvb@gmail.com

12-06-2004 ore 12.41 pm

-------------------------------------

 

Tu sei tutta matta. Brad Pitt? Ma dove hai gli occhi? Potrei capire Viggo Mortensen, ma Pitt? Non ci siamo proprio.

Comunque, vieni pure. Ti accoglierò a braccia aperte, e vedrai perché mi sto annoiando a morte e perché, nel contempo, non ho voglia di tornare a casa.

Mi sa che sono davvero matto, a ben pensarci.

Bran

 

To: branvb@gmail.com

Object: Re: Re: Re: Re: Re: Stanchezza

From: joliepitt@yahoo.com

12-06-2004 ore 10.45 am

------------------------------------

 

Te lo sei detto da solo, sottolineo.

Comunque, nulla da dire, su Viggo. Mi sta bene pure lui.

Verrò, tranquillo, e scoprirò cosa bolle in pentola. Ma, ad ogni modo, rimarrò della mia idea. Tu ami Phill, e niente di quello che dirai, o farai, mi convincerà del contrario.

Baci.

Jolie.

 

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15 agosto 2008 – Los Angeles

 

Con un ampio gesto del braccio, Phillip si fece notare da Nick che, giungendo quasi di corsa dalle scale mobili che conducevano al lounge del LAX, sorrise nonostante il fiato corto.

Era in giacca e cravatta, un completo chiaro di Armani, se i suoi occhi non lo ingannavano.

Quasi sicuramente, giungeva direttamente dall’ufficio.

L’orologio digitale segnò le 15:32.

Il volo sarebbe giunto sulla pista di lì a cinque minuti al massimo.

«Ehi, amico, ciao» esalò Nickolas, riprendendosi dalla corsa  a perdifiato che lo aveva condotto fino a lì.

«Ciao a te. Tutto bene? Sembri trafelato» replicò Phill, sorridendogli divertito.

«Puoi dirlo! Ho fatto una corsa indiavolata, per essere qui in tempo. Mi è parso di trovare tutte le lumache del mondo, per strada e, ovviamente, trovare un parcheggio è stata praticamente un’impresa.»

Lo disse con un sorriso, forse non meno eccitato di lui all’idea di rivedere Brandon dopo tanto tempo.

Da quando era partito per il Medio Oriente, nei primi giorni del 2004, non si erano più rivisti.

Da Nick aveva saputo che, anche in famiglia, si era fatto vivo praticamente un paio di volte in quattro anni.

Per vederlo, il fratello aveva dovuto prendere un aereo per recarsi da lui, e anche lì non aveva avuto molta fortuna.

Brandon era stato distante, inserito più che bene in una compagnia di ragazzi di ogni genere ed etnia, con cui Nickolas non aveva legato praticamente per nulla.

Quel poco che Phillip era venuto a sapere dal primogenito dei Van Berger non gli era piaciuto molto, ma avrebbe lasciato parlare Brandon stesso.

Ricordava ancora troppo bene le parole di Bran, all’atto della loro separazione.

Non voleva affatto proseguire la sua storia con lui, pur se non gli aveva spiegato nessun valido motivo per una simile decisione.

Lui l’aveva lasciato andare senza protestare, ben sapendo quanto male gli avesse fatto quella sottospecie di esilio, ma ora avrebbe chiesto spiegazioni.

E, se possibile, si sarebbe riunito a lui.

I numeri sul display si mossero, i cinque minuti passarono, l’aereo atterrò e, dopo un tempo che parve loro lunghissimo, Brandon fece infine la sua apparizione dal gate.

Portava con sé un trolley nero, che trascinava con l’eleganza innata che gli era propria, oltre a una borsa di tela scura, poggiata su una spalla.

Era in maniche di camicia e pantaloni chiari, forse di lino.

Da quella distanza, non ne era sicuro.

I battiti del suo cuore accelerarono, un lento sorriso salì sul suo volto mentre quel viso tanto amato si faceva più vicino, più a portata di mano.

Ma, quando i suoi occhi poterono sfiorare quelli di Brandon, il suo cuore perse un battito, poi un altro, e un altro ancora.

Un vuoto improvviso cominciò a scavare solchi sempre più profondi nel suo animo scombussolato e, senza che potesse fermarla, una lacrima di sangue scivolò dal suo cuore ferito.

Quelli non erano gli occhi appassionati che ricordava.

Quelli non erano gli occhi di cui si era innamorato.

Quelli non erano gli occhi di Brandon.

Quello, semplicemente, non era Brandon.

Era il figlio di Isabel Van Berger. Una cosa ben diversa.

I lisci capelli perfettamente tagliati ed il volto maturo puntato verso quello del fratello maggiore, Brandon bloccò il trolley e poggiò la sacca a terra per abbracciare Nick.

Fu un abbraccio formale, che sconcertò lo stesso Nickolas.

Scostandosi dopo qualche attimo dal fratello minore, Nick lo scrutò in viso quasi senza riconoscerlo.

Era davvero Brandon, quello?

«Quasi non ti riconosce, Bran. Non sembri davvero il ragazzo che partì quattro anni fa» commentò sconcertato Nickolas, sorridendo fiero al fratello.

«Le persone cambiano» chiosò serafico il giovane, lanciando un’occhiata tranquilla all’indirizzo di Phillip. «Ehi, ciao. Non sapevo saresti venuto anche tu, a prendermi.»

«Mi sono messo d’accordo con Nick» gli spiegò Phillip, restio ad avvicinarsi a quel giovane.

Non era Brandon.

Aveva il suo viso, i suoi meravigliosi capelli biondi, striati da linee più scure, brune come il caramello più puro.

Aveva la sua corporatura snella ed elegante, dalle spalle ben proporzionate al resto del corpo tonico.

Aveva la sua bocca morbida, dalle labbra calde e color delle rose tea più belle e profumate.

Ma non era lui.

Fu a fatica che gli allungò una mano.

Brandon gliela strinse sotto gli occhi sgranati e sgomenti di Nickolas, che mai si sarebbe aspettato un saluto così formale.

«Andiamo? Sono stanco e voglio farmi una doccia. In quell’aereo, giuro, devono aver fatto salire un branco di mucche» borbottò Brandon, riafferrando saldamente sia il trolley che la sacca.

«Sì… andiamo» mormorò Nick, seguendo il fratello solo dopo aver lanciato una lunga, interminabile occhiata a Phillip, che si limitò a scrollare impotente le spalle.

***

Seduti comodamente ad un tavolino d’angolo, le luci soffuse del bar che allungavano oscure ombre tutt’attorno, Nick, Bran e Phill stavano sorseggiando delle birre in santa pace.

Il rientro a casa era stato molto semplice.

Bran aveva poggiato le valige nella sua stanza, si era fatto una doccia veloce mentre Nick e Phillip lo attendevano dabbasso e, nel giro di venti minuti, erano usciti di nuovo.

Dopo aver cenato in un ristorante sul mare, a base di gamberi alla griglia e aragoste alla catalana, si erano spinti fino a Malibù per raggiungere un bar sulla spiaggia.

Lì, si erano fatti dare un tavolo e, in quel momento, una calda musica da discoteca reggeva bene le sorti della serata.

Una ventina di coppie ballavano nella piccola pista ottenuta in un angolo del locale anche se, per definire ballo quello che stava osservando Nick, si doveva essere molto ottimisti.

Era più uno strusciare di corpi, un lento passaggio di ormoni da corpo a corpo, un preludio a una notte di sesso sfrenato.

Una danza, certo, ma di un tipo diverso da quello che si aspetterebbe su una pista da ballo.

Bran seguì lo sguardo del fratello e, nel notare una ragazza sola, all’altro capo del bar, sorrise e disse: «Nick, hai notato quella bionda laggiù, tutta sola soletta?»

«Direi di sì. Ha più pelle scoperta che zone coperte» ironizzò Nick, sorseggiando la sua birra alla spina.

«Vi scoccia se tento un approccio? Non vado con una donna da almeno un mese, e comincio a sentire un certo languorino» ridacchiò Brandon, levandosi in piedi con un luccichio sinistro nello sguardo.

Né Phillip né tanto meno Nick dissero nulla ma, quando lo videro approcciare la ragazza e lanciarsi con lei sulla pista in un lento sensuale e soffocante, entrambi si guardarono.

Il dubbio era ben radicato nel loro sguardo.

Neppure Nickolas credeva più che quello fosse il loro Brandon.

 

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To: joliepitt@yahoo.com

Object: Natale & Co

From: branvb@gmail.com

05-01-2005 ore 09:01 am

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Ciao! ^_^

Ancora mille volte grazie x aver passato sia il Natale che Capodanno qui con me. Spero che i miei nuovi amici non ti abbiano sconvolto troppo. O le danzatrici del ventre…

Sai com’è… non a tutti può piacere un simile spettacolo. :P

A dirla tutta, neanche pensavo si sarebbe arrivati a tanto ma sai, non ero a casa mia perciò ho preso quel che passava il convento. E anche tu, mi sa.

Scusa... :P

Ribadisco, non pensavo che Hamir avesse programmato di mettere in scena una versione sconcia di Mille e una Notte.

Spero davvero che vorrai ancora parlarmi, dopo questa cosa.

Un abbraccione forte, mon chérie.

Bran :*

 

To: branvb@gmail.com

Object: Re: Natale & Co

From: joliepitt@yahoo.com

05-01-2005 ore 8:21 am

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Ciao

Parlarti? Bran, qui non si tratta di parlare, si tratta di trovare le parole per insultarti come meriteresti, e come meriterebbero quegli stramaledetti figli di buona donna che tu reputi essere i tuoi nuovi amici. >.<

Guarda, augurati che non mi venga la brillante idea di sollevare il telefono per chiamarti, perché allora le linee bruceranno, per quante te ne dirò.

Non solo mi ha fatto SCHIFO la festa, ma anche il tuo comportamento, se devo essere sincera.

Non avrei mai neppure immaginato che saresti stato capace di fare cose simili con una donna, figurarsi poi farlo davanti a me!

Che sono TUA AMICA!

Pensi che usare una donna da tavolo imbandito sia una cosa affascinante? Pensi che leccarle via il cibo dalla pelle sia sinonimo di mascolinità? Pensi che usarle da OGGETTI sia bello? Beh, allora il Brandon che ho conosciuto in America devo averlo perso da qualche parte, perché tu non sei così!

 

To: joliepitt@yahoo.com

Object: Re: Re: Natale & Co

From: branvb@gmail.com

05-01-2005 10:32 am

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Scusa tanto se sto tentando di fare ammenda! >.<

Avresti potuto dirlo, che non ti piaceva! Ce ne saremmo andati subito! Però, mi sembravi un po’ troppo impegnata a farti palpare da Hans, per pensare di andartene, o sbaglio?

E’ facile sputare sentenze, quando non vivi qui ogni giorno, non hai a che fare con le solite persone, le solite idee, tutti i santi giorni!

Quelle donne erano pagate per starsene lì a farsi leccare da noi, sai? Non ci sono venute controvoglia! E poi, se io me ne sono portata a letto una, che problema c’è?! Anche tu ci sei venuta, a suo tempo, se non ricordo male, e ti è pure piaciuto!

 

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05 gennaio 2005 – Doha

 

Il trillo del telefono lo fece sobbalzare dal divano su cui era accoccolato a scrivere, gli occhi lividi di rabbia e sconcerto.

Ma come si permetteva di insultarlo a quel modo? Neanche lei fosse stata una santa!

Afferrato il cordless come se avesse desiderato lanciarlo giù dalla finestra, accettò la chiamata e sbottò: «Sì, pronto…»

«Vai affanculo, brutto stronzo!»

Quell’insulto gratuito rimbalzò tra le pareti del suo cervello annebbiato dall’alcol come una bomba a frammentazione.

Sobbalzando, e rischiando di far cadere il portatile dalle gambe, Brandon ringhiò furente: «Fanculo tu, anche quanto! Come ti permetti di trattarmi come un maledetto porco?! Non si sembra di aver fatto nulla di diverso dagli altri, mi pare!»

«Innanzitutto, non mettere mai a confronto quello che c’è stato tra di noi, con quello che hai fatto con quella escort, è chiaro?! Non lo accetto!»

La voce trillante di Jolie suonò sibilante e feroce come quella di un cobra e Bran, un po’ spiazzato dalla sua veemenza, riuscì solo a replicare: «D’accordo, d’accordo, calmati. Non c’è bisogno che tu mi spacchi il timpano.»

«Sei ancora ubriaco? Un’altra volta?» esalò a quel punto Jolie, perdendo di colpo tutta la sua rabbia, sostituita da una cocente delusione.

Vagamente piccato per quel commento, Bran si irrigidì tutto e borbottò: «Non sono affari tuoi e poi, comunque, ho bevuto solo qualche birra assieme agli amici, tutto qui.»

«A che ora sei rientrato?»

«Non sono affari tuoi, ribadisco. Non sei mia madre» ringhiò Brandon, oscurandosi in viso.

«A me, sembra che sia tu ad essere tua madre. E me ne dispiace molto.»

Ciò detto, riattaccò ed il giovane, scagliando lontano il cordless, si ritrovò a lottare contro lacrime furiose, che minacciarono di sgorgare dai suoi occhi tumultuosi.

Come sua madre.

Beh, in fondo non era lì per quello?

 

 

16 agosto 2008 – Malibù

 

La villa di Nickolas era calma, priva di domestici come lui la voleva e Brandon, spaparanzato sul divano della sua sala audiovisivi, stava sorseggiando un gin tonic assieme al fratello.

Alla fine, non era riuscito a portarsi a letto la brunetta, ma l’aveva palpeggiata a sufficienza per poter dire di aver imparato molto, di lei, quella sera.

Strano a dirsi, il fratello non l’aveva seguito sulla pista, limitandosi a rimanere seduto al tavolo assieme a Phillip.

Phillip che, dopo essere rimasto con loro tutta la sera, li aveva salutati entrambi con un sorriso nell’accomiatarsi.

Si erano ripromessi di sentirsi per uscire altre volte, ora che era tornato, ma Brandon non era certo di volerlo intorno.

Troppi ricordi.

Lui, ad ogni modo, non aveva cercato di approcciarlo in nessun modo e, anzi, gli era stato ben alla larga.

Forse, la passione era scemata, in quei quattro anni.

Se così fosse stato, sarebbe stato un successo. Meno tentazioni.

Sarebbe stato più facile vivere, senza l’assillo di saperlo ancora innamorato di lui.

Perché allora sì che, averlo sempre attorno, sarebbe stato uno strazio.

«Cosa ti è successo, laggiù, Bran?»

La domanda giunse a sorpresa, spezzando il silenzio della notte.

Levato lo sguardo a incrociare il viso del fratello, perfettamente sveglio nonostante fossero già le cinque del mattino, Brandon non seppe come rispondere.

Cosa intendeva dire?

«Hai trattato di merda Phillip, che era venuto proprio per vederti.»

«Non mi sembra di averlo trattato diversamente da te» scrollò le spalle Brandon, pur sapendo bene cosa intendesse dire il fratello.

Non aveva mai parlato a Nick dei suoi trascorsi con Phillip, vergognandosi di quello che aveva provato a suo tempo per un altro uomo.

Ma aveva scoperto che, non solo il fratello l’aveva sempre sospettato, ma che non gliene sarebbe fregato un accidente, se anche lui avesse amato una persona del suo stesso sesso.

Il problema era solo suo.

La sola idea, al momento, lo ripugnava.

«Sei diventato omofobo, per caso?» gli ritorse contro Nickolas, sprezzante.

Brandon ridacchiò, ben sapendo di quanto fosse nervoso quel semplice suono gracchiante, e scrollò nuovamente le spalle.

«Non ho niente contro i gay, se è questo che mi stai chiedendo.»

«Quindi, non taglierai fuori Phillip dalla tua cerchia di amici.»

«Sei il suo portavoce, adesso?» gli rinfacciò Brandon, accigliandosi.

«No. E’ che è un bravo ragazzo, a cui stai a cuore. Mi sentirei più tranquillo, se fosse con te.»

«Tranquillo? Fratello, non faccio parte degli Hell’s Angel, sai?»

La risata di Bran, stavolta, fu tagliente come una lama e Nick, assaporandone il taglio sulla carne, si accigliò infastidito.

«No, lo so. Ma è sempre bene avere un amico fidato, al fianco. Io ho Rena, e su lei posso contare sempre e comunque. Tu chi hai, a parte me e lei?»

Brandon rimase in silenzio, ben sapendo a chi si stesse riferendo.

Nick sapeva della rottura furiosa avvenuta tra lui e Jolie e, pur se non gliene aveva mai spiegato i motivi, dubitava che il fratello non ne immaginasse le ragioni.

Non nominò la vecchia amica, ma il suo nome galleggiò nell’aria come un monito.

«Se Phillip vuole rimanere solo mio amico, per me va bene. Mi ci sono sempre trovato bene, dopotutto» scrollò le spalle Brandon, parlando con tono pacato.

Nickolas allora lo irrise con lo sguardo, forse disgustato dal suo totale disincanto.

«Cresci, Brandon, perché ne hai davvero bisogno. Se non riesci a capire che Phill vuole innanzitutto esserti amico, e non sbatterti, allora hai ancora molto da imparare. Non è per il tuo bel faccino, o per i tuo soldi, che vuole rimanere con te.»

Bran si levò dal divano con un barcollio da ubriaco e, furente, ringhiò all’indirizzo del fratello: «Sai che ti dico? Fatti i cazzi tuoi, fratello!»

Nickolas distolse lo sguardo, lanciò un’occhiata all’oceano visibile dalla vetrata aperta e, con voce piana, mormorò: «Buonanotte, Brandon.»

Il fratello minore non disse niente, si limitò a fissarlo accigliato mentre il primogenito di casa Van Berger, senza null’altro dire, si avviò verso il giardino di casa.

Lì, sotto gli occhi accigliati del fratello, Nick si sdraiò su una delle sdraio di fronte alla piscina e, intrecciate le mani dietro la nuca, chiuse gli occhi.

E fu allora che Brandon capì.

Non sarebbe rientrato in casa, finché lui si fosse trovato lì.

«Schifoso… bastardo…» sibilò Bran, afferrando la giacca del fratello nel tentativo di trovare le chiavi dell’auto.

Nulla.

«Le ho messe via, dove tu non potrai trovarle. Sei ubriaco. Non è il caso che tu ti metta al volante. Dormi nella camera degli ospiti e medita, fratellino.»

La voce di Nick giunse dal giardino, calma e pacata come una placida brezza di mare.

«Non sei mia madre, Nick! Dammi quelle maledette chiavi!» gli urlò lui, uscendo a sua volta di casa per afferrargli la spalla.

Nickolas fu lesto a reagire.

Gli afferrò la mano e, con una mossa degna di un maestro di karate, lo scaraventò nella piscina, dove Brandon annaspò e sguazzò impotente per qualche attimo, ingoiando acqua e rabbia.

Ora nero in viso come la morte, Nick gli sputò addosso tutto il suo livore, fino a lì trattenuto.

«Se vuoi fare lo stronzo, fallo fuori di qui, lontano da chi ti vuole bene, è chiaro?! Hai mandato a puttane il tuo rapporto con Jolie dio solo sa perché, ma non permetterò che tu rovini anche quello con Phillip! Lui ti vuole bene, esattamente come te ne voglio io! Piantala di fare il galletto superbo, e scendi sulla terra! Vivi! Non fare finta di essere qualcuno che non sei!»

Brandon riemerse dall’acqua, gocciolante e domo, ma non sconfitto e, levati occhi lividi e vuoti sul fratello, mormorò: «Perché cazzo pensi che io sia così? Per poter vivere

Nick lo fissò basito, scrutò quelle orbite vuote, quel volto che aveva solo le sembianze del fratello e, con mano esitante, gli carezzò una guancia.

Fredda e umida, gli trasmise solo una sensazione di solitudine, di grande lontananza.

Brandon era lì, dinanzi a lui, ma in realtà non era mai tornato.

«Dove sei, fratello?» mormorò accorato Nickolas, stringendo la mano su quel viso tanto amato.

Sorridendo mesto, Brandon poggiò il capo contro la spalla del fratello e, straziato, esalò: «Dimmelo, se lo trovi.»

 

 

 

 

 

_________________________

N.d.A: ho cercato di rendere, in una sola OS, cosa abbia comportato, per Brandon, quel lungo periodo lontano da casa, e come sia tornato a Los Angeles. Ho preferito non andarci giù pesante, giusto perché non è un rating rosso. Spero si sia capito almeno un po’ perché Brandon è tornato parecchio stronzetto. 

 

 

 

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Capitolo 13
*** La legge di Murphy (2013) ***


25

“ La probabilità che qualcosa accada è inversamente proporzionale alla sua desiderabilità.”

Legge di Gumperson




 

 

Si sentiva un po' idiota, al momento, ma come si poteva dire di no a Hannah?

Kahleesi sembrava entusiasta – aveva capito cosa avrebbe dovuto fare di lì a poco? - perciò non pensava fosse un'idea così balzana portarla alla sede losangelina di Vanity Fair.

Ben sistemata nel suo trasportino da auto, Brandon lanciò un'occhiata alla sua cagnolina di due anni e, con un sorriso adorante, infilò un dito all'interno delle sbarre di plastica per farle un grattino.

Lei leccò il dito tutta contenta e, mentre l'auto dell'uomo procedeva nel traffico cittadino, lui si chiese ancora una volta il perché di quell'idea.

Un album fotografico dei loro cani.

D'accordo che, da quando aveva avuto i bambini, Hannah si era fatta più romantica e con la testa tra le nuvole, ma qui si esagerava.

D'altra parte, però, anche Serena si era dichiarata entusiasta dell'idea, e aveva ingaggiato uno dei fotografi della rivista che dirigeva per un fotoshoot con i contro fiocchi.

Che Serena fosse incinta, e gli ormoni danzassero? Poteva essere...

Ad ogni buon conto, ne aveva parlato anche con Phill, e lui si era dichiarato d'accordo nell'accontentare Hannah.

D'altra parte, era la loro adorata sorella maggiore. Come facevano a negarle qualcosa?

Se gli fossero piaciute le donne, di sicuro avrebbe combattuto con suo fratello per la mano di Hannah.

Quel pensiero così strano, che avrebbe dovuto farlo divertire – almeno in teoria – portò però a galla i ricordi di un'altra donna che, nella sua vita, era stata molto importante.

E che lui, da bravo idiota insensibile quale era stato, aveva gettato via come un sacchetto di carta straccia.

Certo, quel lungo periodo passato in Medio Oriente lo aveva cambiato radicalmente.

Certo, convivere ogni giorno con restrittive regole sull'orientamento sessuale, lo aveva radicalmente cambiato.

Certo, la sua mente era stata offuscata dai dubbi e dal dolore per lungo tempo...

Ma niente poteva giustificare il comportamento che aveva tenuto con Jolie.

Un lieve sospiro sconfortato scivolò fuori dalle sue labbra, piegate all'ingiù in una smorfia di rimpianto.

Avrebbe dovuto chiamarla, farle sapere che stava con Phillip, che tutto era andato a posto, che non era più schiavo dei risentimenti della madre nei suoi confronti.

Ma, a onor del vero, non aveva più il suo numero di cellulare, neppure sapeva più se viveva a Bordeaux, o se avesse anche solo una minima voglia di sentirlo.

Magari si era trasferita in Nepal – visto che era buddista... – oppure si era sposata con uno sceicco, ed ora era in un paese arabo.

Ma, visti i suoi trascorsi con quella zona del mondo, forse quell'idea era da scartare a priori.

Nel posteggiare l'auto nel parcheggio sotterraneo di Vanity Fair, Brandon lasciò perdere quel pensiero assurdo e, sceso che fu, prese con sé Kahleesi e raggiunse gli ascensori.

§§§

Hannah era splendente nel suo completo bianco giacca-pantalone e Brandon, nel vederla, sorrise spontaneamente.

La gravidanza non ne aveva segnato minimamente le forme – i gemelli, ormai, avevano otto mesi – e, anzi, la donna appariva ancora più bella e lucente, in viso.

I capelli, raccolti in un elegante chignon sulla nuca, erano di un bel biondo platino, a cui Hannah aveva abbinato una vezzosa ciocca bruna, che scendeva a incorniciarle il viso.

Quando le aveva chiesto il motivo di quella piccola follia tricologica, lei aveva ammesso di non averlo mai fatto prima, e di voler provare come stesse.

Ovviamente, nulla poteva renderla meno bella, e la ciocca bruna le conferiva un tocco di eleganza in più.

Almeno per gli standard di Los Angeles.

Non appena lei lo vide, si allontanò dalla porta dove, quasi sicuramente, si trovava lo studio fotografico e, dopo averlo abbracciato, sorrise nel vedere Kahleesi nel trasportino.

«Ciao, Bran. Se vuoi portare Kahleesi là dentro, potrà giocare con Stark mentre il fotografo sistema luci e fondali.»

«D'accordo. Phill ha per caso chiamato? Quando l'ho sentito, era ancora in cantiere» si informò Brandon, consegnando nelle mani divertite del fotografo la sua cocker nera.

Da perfetta fotomodella, la cagnolina si guardò intorno con il nasino per aria e, altezzosa, si avvicinò ancheggiando a uno Stark tutto scodinzolante e felice.

Brandon rise sommessamente e Hannah, al suo fianco, mormorò: «E' un'attrice nata.»

«Già» assentì lui, tornandosene fuori per non disturbare fotografo e addetto luci.

Stark e Kahleesi erano così buoni e cooperanti che non avrebbero avuto bisogno del loro intervento, e lui voleva parlare un po' con sua cognata.

Stare con Hannah era un balsamo corroborante, per lui, e sapeva quanto lei adorasse fare la parte della sorella maggiore.

Appoggiatosi al muro del corridoio – dove si potevano scorgere stampe di mille e più riviste – Brandon la osservò con apprezzamento e disse: «Ribadisco, mio fratello è fin troppo fortunato. Ma come fai ad essere sempre perfetta?»

Hannah rise sommessamente, dandogli una pacca affettuosa sulla spalla.

«Piantala, Bran. Sono tutto tranne che perfetta. Oggi mi sono pure smagliata una calza, nel caricare Stark sull'auto.»

Con fare da cospiratrice, sollevò un poco l'orlo del pantalone per mostrare il misfatto e Brandon, ridacchiando, annuì comprensivo.

«Quel bricconcello ha pensato bene di darmi una zampata affettuosa, e questo è stato il risultato. Ma, visto che ero in ritardo marcio, non ho perso tempo e sono venuta qui dopo aver lasciato Dom e Cam a tuo padre.»

Bran rise di gusto e Hannah, unendosi a lui pur se più moderatamente, dichiarò: «Stai pur sicuro che, se hai fretta, ne succedono di tutti i colori.»

«Penso sia una legge di Murphy, o di uno dei suoi soci» assentì Brandon, asciugandosi una lacrima di ilarità.

«Già. Ho anche un suo libro, a casa, ma stai sicuro che, se provo a cercarlo, non lo troverò.»

«Altra legge di Murphy.»

I due risero di gusto, scambiandosi assiomi e commi alla legge uno più spassoso dell'altro finché, ai limiti del pianto, Brandon non si appoggiò a Hannah, esalando: «Abbi pietà di me, Hannah, non ce la faccio più.»

«Sei tu che hai cominciato» replicò lei, stringendolo affettuosamente in un caloroso abbraccio. «Povero, povero fratellino... bistrattato dalla sua sorellona.»

«Ecco, brava, consolami. Sei stata cattiva con me» protestò lui, mettendo un finto broncio, a cui Hannah rispose con un bacetto sulle labbra.

Ma, come la legge di Murphy dice sempre, se una cosa può andar male, lo farà, e nel peggiore dei modi.

In quel momento, i due ascensori posti su quel piano si aprirono quasi contemporaneamente e, dalle due porte aperte, uscirono altrettante persone.

A destra comparve Phillip assieme ad Irish, tenuta diligentemente al guinzaglio, mentre a sinistra apparve una fotomodella in abiti di pelle e sguardo mozzafiato.

Peccato che, la fotomodella in questione, fosse anche la persona più improbabile che le persone presenti potessero aspettarsi di incontrare in quel momento.

Gli occhi attenti e bellissimi della modella registrarono in un attimo la scena del bacio, la presenza di due persone a lei più che note e, come una furia, scattò.

Anni e anni di rabbia repressa, si focalizzarono nell'unico pugno che la donna levò in direzione di Brandon che, staccatosi da Hannah per sorriderle, si ritrovò però a baciare un genere di superficie imprevisto.

Serena colse proprio quel momento per fare capolino dallo studio fotografico e, con uno strillo pari solo a quello di Hannah, osservò il pugno della fotomodella centrare l'occhio di Brandon.

Hannah si scostò, spaventata e colta di sorpresa mentre Serena, terrorizzata, gridava all'indirizzo della sua fotomodella.

Fu Phillip, però, a prendere in mano le redini della situazione e, prima che la donna pugile spaccasse la faccia a Bran, si affrettò ad avvicinarsi per bloccare un secondo assalto.

«Jolie, calmati, va tutto bene!» esclamò il giovane, trattenendola per i polsi.

Gli occhi furenti e colmi d'ira, la donna replicò inviperita: «Pensavo che gli anni lo avessero fatto tornare in sé... invece lui bacia una donna davanti a te?! Perché mai dovrei fermarmi!?»

Hannah e Serena, ancora basite e a bocca aperta, fissarono dapprima Brandon – che stava tentando di mettersi a sedere dopo essere planato a terra – poi Phillip, impegnato a trattenere la donna.

Che evidentemente conosceva entrambi, e pareva avere un conto in sospeso con Bran.

«Ehm... qualcuno ci può dire che succede?» mormorò Hannah, timorosa.

«Te lo dico io che succede! Hai appena baciato l'uomo di cui il mio amico è innamorato da anni! E il pugno che ho dato a Brandon è più che meritato! Non dovrebbe comportarsi così, e davanti a Phill!» sbottò Jolie, ora gli occhi colmi di lacrime che non voleva versare.

Sbattendo le palpebre con aria scioccata e vagamente confusa, Hannah replicò pacata: «Lo so che Phill ama Brandon. Ma è una cosa reciproca.»

A quel punto fu il turno di Jolie di apparire confusa e, nel rilasciare le braccia lungo i fianchi, esalò: «E allora... perché lo stavi baciando?»

«E' mio cognato» asserì tranquilla Hannah, scrollando le spalle. «Non è insolito che io dia un bacio a Brandon, ma sia mio marito che Phill sanno che è del tutto innocente. Lui è come un fratello, per me, come lo è Phillip.»

Jolie cominciò ad apparire più che in imbarazzo; sembrava davvero contrita.

Serena a quel punto aiutò Bran ad alzarsi e, con un mezzo sorriso, disse: «Non sapevo che tu conoscessi questi due ragazzoni, Jolie.»

«Amicizia vecchia» ammise lei, lasciandosi andare a un risolino teso.

Massaggiandosi la faccia pesta, Brandon fissò la vecchia amica e ammise: «Il pugno è meritato, comunque. Anche se non pensavo che picchiassi così duro.»

La donna sorrise spiacente e, nell'osservare il quartetto nel corridoio, mormorò: «Mi sa che dobbiamo qualche spiegazione.»

«Già» asserirono all'unisono Brandon e Phillip.

Hannah e Serena si dichiararono più che d'accordo.

§§§

Dopo aver raccontato i loro trascorsi, e la non proprio edificante dimostrazione di idiozia perpetrata da Brandon, Hannah e Serena esplosero in una risata liberatoria quanto allegra.

Jolie, che si trovava lì a L.A. per un servizio fotografico per conto di Cavalli Jeans, sorrise ai due vecchi amici, lieta che finalmente stessero insieme.

Si dichiarò stupita nello scoprire cosa fosse successo a Isabel, e si congratulò con Hannah per il suo matrimonio con Nick e per i bambini.

L'occhio tumefatto, coperto da un sacchetto di ghiaccio istantaneo, Brandon sorrise all'amica di vecchia data e ammise: «Stamattina stavo giusto pensando a te, a dove fossi finita e a quale fosse il modo giusto per rintracciarti, per farti sapere che io e Phill stavamo insieme. Ma non avrei mai pensato di trovarti qui, e in veste di modella.»

«Beh, di sicuro non mi avrai vista sulle riviste patinate, visto che finora mi sono solo occupata di servizi fotografici dove prendevano di mira solo le mie mani o i miei piedi» ridacchiò Jolie. «Non essendo molto alta, non andavo bene per un certo genere di pubblicità ma, per questa campagna, Cavalli ha voluto di proposito una persona più in linea con i canoni femminili normali

Nel dirlo, sorrise a Hannah, che scosse una mano con simpatia.

«Ti capisco bene, Jolie. Due tappe in un mondo di giganti» ironizzò Serena, dando un buffetto sulla mano a Hannah.

«Ehi, voi due! Mica l'ho deciso io che mi stirassero su una ruota, a tempo debito» sottolineò la donna, ridacchiando.

«Io vi trovo egualmente splendide» replicò Phillip, guadagnandosi tre sorrisi soddisfatti.

Jolie rise sommessamente e, nel guardare Brandon – gli occhi sereni e limpidi – ammise: «Ora sei bellissimo, mon petit

«Grazie, Jolie. Mi sento anche benissimo. A parte l'occhio» assentì lui, facendola poi arrossire nel menzionare l'occhio gonfio.

«Dio, scusa!» esalò la donna, coprendosi colpevole il viso. «E' che vederti lì, dopo tanti anni, tra le braccia di una donna, e con Phillip come testimone, mi ha fatto sbarellare.»

«A testimonianza di quanto mi hai sempre voluto bene, e non hai mai smesso di volermene nonostante io ti abbia trattata di merda» sottolineò Brandon, allungando una mano per stringerla attorno al suo braccio sottile.

Lei gli sorrise, tornando ad essere la Jolie dolce e gentile di tanti anni prima, non solo la fotomodella stupenda e perfetta.

Un quieto bussare interruppe le loro chiacchiere e, mentre l'addetto luci conduceva i cani all'interno dell'ufficio dove il quartetto si era rifugiato, il fotografo sorrise e disse: «Lavoro completato. Sono stati bravissimi.»

Jolie osservò sorpresa i tre cani ora presenti nella stanza e, quando un cocker nero si avvicinò scodinzolante a Brandon, domandò: «E' tuo?»

«Tua. E' una femmina. Si chiama Kahleesi, ed è mia e di Phillip così come Irish, il setter irlandese. Il golden retriever è di Hannah, invece, e si chiama Stark.»

Poggiata la cagnolina sulle cosce, Brandon non si stupì più di tanto nel notare la sorpresa di Jolie e, in cuor suo, ne fu felice. Ricordava.

Portandosi una mano alla bocca tremante, la donna mormorò commossa: «Le... le hai dato... quel nome...»

Un po' confusi, gli altri fissarono curiosi Bran che, con una scrollata di spalle, ammise: «Anni fa, dissi a Jolie che mi ricordava molto Daenerys Targarien, Kahleesi del Clan Dotraki. Divenne il suo nomignolo, perché la ritenevo una donna forte e determinata esattamente come il personaggio inventato da Martin.»

Rivolta poi all'amica, aggiunse: «Quando acquistai Kahleesi, mi innamorai dei suoi occhi. Erano così dolci! Mi ricordarono i tuoi, così gentili e premurosi. Pensai di darle quel nome in tuo onore.»

«Oh, Bran!» singhiozzò Jolie, tappandosi la bocca per non scoppiare in singhiozzi.

Kahleesi allora balzò dalle gambe di Brandon e, accoccolatasi ai piedi della donna, scodinzolò a muso levato, pronta a farsi accarezzare e dispensare coccole.

Ridendo, il suo padrone disse: «Ho dimenticato di dirti che ha un forte istinto protettivo e, quando vede qualcuno giù di morale, tenta subito di rimediare.»

«Ma che cara!» mormorò, tirandosela in braccio per stringerla al petto.

Kahleesi fu ben felice di quella pronta risposta e la leccò in viso, mugolando soddisfatta.

Anche Stark e Irish si unirono alla cagnolina e Jolie, scoppiando a ridere, carezzò anche loro.

«Sono davvero un bellissimo gruppo di sostegno.»

«Il migliore» assentì Hannah.

§§§

La risata sguaiata di Nickolas riverberò nel salotto della villa di Malibù mentre Brandon, non proprio divertito dalla sua ironia, mugugnò in risposta.

Jolie, sorridendo ai piccoli Dom e Cam, seduti sul divano e impegnati a giocare, replicò modesta: «Dai, Nick. Mi fai sentire un'idiota, a sentirti ridere così.»

«Scusa, Jolie, non è mia intenzione, ma quell'occhio nero gli sta benissimo» esalò Nick, passandosi pollice e indice sotto gli occhi per asciugare lacrime d'ilarità.

Anche Hannah stentava a non ridere, a voler essere onesti.

«Me lo meritavo, okay, ma ora piantatela. Penso di aver già dato a sufficienza» brontolò Bran, accogliendo con favore la limonata fresca che Phill gli passò.

«Non lo so. Devo ancora decidere» storse il nasino Jolie, facendolo tremare.

«Beh, vorrà dire che ti starò alla larga e mi rifugerò tra le braccia forti del mio uomo» brontolò a quel punto Brandon, poggiando la testa sulla spalla di Phillip, che ridacchiò.

Jolie sorrise alla coppia e, sorseggiando il suo ginger, mormorò: «Ben lieta che tu lo faccia, amico mio. Ben lieta.»

«Anch'io sono felice di poterlo fare, credimi.»

Ciò detto, si scostò il necessario per dare un bacio sulle labbra a Phillip.

Nick e Jolie si scambiarono un sorriso d'intesa e Hannah, nel sollevare in braccio Cam, disse sommessamente: «Qui, la legge di Murphy ha toppato in pieno.»

«Concordo» assentirono tutti.

Domenic scelse quel momento per emettere un ruttino, scatenando l'ilarità generale.

Jolie aveva sempre temuto di non poter mai più ridere assieme all'amico.

Era felice di essersi sbagliata.

 

 

 

____________________

N.d.A: Per chi non avesse letto le “Cronache del Ghiaccio e del Fuoco” di G.R.R.Martin, Daenerys Targarien è una dei pretendenti al Trono di Spade, da cui è stato tratto anche il telefilm “Game of Thrones”, trasmesso dalla HBO.

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Capitolo 14
*** Fast & Reckless (2018) ***







«Papà...»

«Aaron? Che succede? E perché diavolo chiami alle undici di sera?»

La voce di Michael si trascinò a fatica fuori dalla bocca mentre Cécille, al suo fianco, lo fissò con aria molto più che addormentata.

«... ehm... dovresti venire a prendermi.»

«Perché? Se ben mi ricordo, ti abbiamo fatto le gambe. E hai un'auto superaccessoriata, se anche ti facessero male i piedini.»

«Sì, beh, già,... la macchina.»

Tossicchiò e, un attimo dopo, borbottò: «Sono alla Centrale di Polizia di Ventura, papà. Dovresti venire a pagarmi la cauzione.»

«Cosa?!» sbottò a quel punto Michael, risvegliandosi di colpo, e sul serio stavolta.

 
Atto I°
Cowboys and Kisses*

 
Se c'era una cosa che sapevano fare, a L.A., era divertirsi, anche quando si trattava di una piccola fiera nell'hinterland dell'enorme metropoli.

Aaron ne era più che convinto.

Hannah, Nick, i piccoli Cam e Dom, Phillip e Brandon si erano uniti ad Andrea e Helena per la loro scampagnata fuori città, ed i cugini erano stati così gentili da invitarlo.

Chris si era dileguato poche ore prima, desideroso di visitare un museo, ed il fratello l'aveva lasciato andare con un risolino e una battuta.

Suo fratello minore era troppo serio, per i suoi gusti.

Ma lui compensava egregiamente.

E lì a Filmore, c'era davvero di che divertirsi.

La Filmore & Western Railroad aveva organizzato una festicciola in stile Far West, proprio sui set utilizzati in vari film d'epoca e, nel vedere quell'ambientazione perfetta, Aaron si era divertito un sacco.

Adorava l'America, quel suo certo je ne sais quoi che  la rendeva speciale e folle ai suoi occhi.

Riallacciare i rapporti con i cugini era stato bello, così come conoscere Hannah, Serena, suo marito Beau e la loro piccola Sophie, di due anni più piccola dei gemelli.

Si divertiva a fare avanti e indietro tra l'Europa e l'America, soprattutto quando poteva mettere mano alla Ford Mustang GT Coupé del 2010.

Nick si era offerto di tenerla al calduccio e ben curata nel suo garage ma, ogni qual volta si trovava su suolo americano, lui e la sua bella si facevano un giretto assieme.

Alla fiera, era per l'appunto venuto con la sua Mustang nera.

Ed ora era impegnato a guardare con occhio attento i due gemelli di sei anni che, protettivi e attenti, tenevano per mano Sophie, dai riccioli castano rossicci e gli attenti occhi color giada che studiavano i dintorni.

Di sicuro, alla ricerca di qualche guaio da combinare.

Da quel poco che aveva capito, Sophie era famosa per cacciare nei guai sia lei che i gemelli.

«Se anche non li tieni d'occhio ogni secondo, non scappano» lo tranquillizzò Nick, offrendogli un cestino di patatine fritte e hot-dog.

«Siete tutti così tranquilli. Non so come fate. Io andrei in iperventilazione a ogni minuto» ironizzò Aaron, sedendosi su una balla di fieno per poter mangiare quelle leccornie calde e zuppe di ketchup.

Suo cugino sì che lo conosceva!

«Ci fai l'abitudine, credimi. O muori. I casi sono due, e devi scegliere in quale infilarti» scrollò le spalle il cugino, richiamando i tre bambini per dare loro un succo di frutta e delle mele caramellate.

Subito, Cam e Dom si avvicinarono al padre e Sophie, con il suo consueto sorriso da fata, fu la prima a essere servita.

Nick le consegnò la mela più piccola e lei, allungandosi verso di lui – che era seduto come Aaron su una balla di fieno – mormorò: «Puoi venire giù, zio Nick?»

«Certo» assentì l'uomo.

Sophie allora si aggrappò con la mano libera alla manica della sua camicia, stampandogli un bacio sulla guancia.

Un attimo dopo, gli sedette al fianco e iniziò a sbocconcellare la mela con aria soddisfatta.

Aaron rise. Quella piccola peste avrebbe fatto ammattire gli uomini, una volta adulta.

Cam e Dom la fissarono schifati e, dopo aver ritirato le loro mele, dissero in coro: «Noi, il bacio non te lo diamo.»

«Non avevo dubbi, piccoli mostri» ghignò il padre, facendoli ridere. «Andate a vedere se vostra madre e gli altri sono sopravvissuti alla fila.»

Con uno strillo corale, i due gemelli corsero verso il chiosco delle cibarie, da cui proveniva un poco salutare profumo di fritti e dolciumi.

Aaron li osservò divertito.

«Come ti senti ad essere padre già da sei anni?»

«Mi sento come un uomo pronto ad affrontare una guerra. A fine agosto cominceranno la scuola, e solo allora saprò di che morte dovrò morire» ironizzò Nick. «Saranno così in gamba da imparare tutto e subito, o di quegli studenti così zucconi da dover infilare loro le nozioni in testa tramite una trivella? Non lo so davvero.»

«La seconda» mormorò Sophie, indaffarata con la sua mela. Le dita erano già colorate di caramello, oltre che tutte appiccicose.

I due uomini risero di gusto e, quando tornò Beau con la moglie, Aaron esalò: «Adoro tua figlia. Me la regali?»

Sophie sfoderò un sorriso tutto fossette, e si appoggiò ad Aaron come un gattino amorevole.

Beau, di fronte alle moine manifeste della figlia, lanciò un'occhiata significativa a Serena e borbottò: «Tutta sua madre.»

«Ha buon gusto, che vuoi farci?» scrollò le spalle Rena, ammiccando ad Aaron.

Uno dopo l'altro, i vari componenti dell'imponente gruppo si riunirono assieme per il pranzo e, mentre le musiche si frapponevano tra loro in un corale caos allegramente gestito, Aaron sorrise giubilante.

Chi se lo sarebbe aspettato, solo qualche anno prima, di poter vivere così serenamente con quel ramo della famiglia?

Zia Isabel era sempre stata una strega e, anche se non gli faceva piacere sapere che avrebbe passato un bel po' di anni in galera, era indubbio quanto la sua assenza avesse sollevato il morale collettivo.

Era così difficile credere che lei e suo padre fossero fratello e sorella!

Eppure, l'anagrafe non mentiva.

I geni, forse.

«Voglio assolutamente farvi una foto e...» iniziò col dire Aaron, levandosi in piedi. «... ovviamente, la fotocamera è in macchina. Torno subito.»

«Sei il solito» ridacchiò Nick, dandogli una pacca sul braccio.

Aaron ghignò e si allontanò di corsa per raggiungere il vicino parcheggio, dove aveva lasciato la sua bambina.

Già con il portachiavi in mano, pronto ad aprirla al volo per tornare dalla sua famiglia, si bloccò a metà di un passo quando incrociò con lo sguardo una scena che mai avrebbe voluto vedere.

Specialmente sul cofano della sua Mustang.

Un cowboy abbigliato alla perfezione, con tanto di speroni agli stivali e chaps1 in pelle a coprire gli sdruciti jeans che indossava, stava divorando la sua donna usando il cofano come appoggio.

La tipa, in top di cotone rosso e cortissimi shorts di jeans, sembrava gradire la superficie liscia e lucida, ma Aaron non fu dello stesso avviso.

Avvicinatosi a passo di carica, si piantò a braccia conserte accanto a loro e sbottò: «Ehi, dico! Questa è la mia auto

Niente. Neanche avessero avuto ovatta nelle orecchie.

Sul piede di guerra, Aaron afferrò il cowboy a una spalla e ringhiò con maggiore enfasi: «Ehi, vuoi starmi a sentire?!»

Questi, dopo un attimo, si volse molto lentamente per squadrarlo con i suoi cupi occhi neri e la ragazza, presagendo guai, sgattaiolò via non vista.

«Che cazzo vuoi, damerino?» gli sputò addosso il tipo, apparentemente già avanti con le birre, a giudicare dall'alito.

Aaron non vi badò e, da bravo Van Berger, fece quello che gli riusciva meglio.

Ficcarsi nei guai.
 

 
Atto II°
Same old story*
 

Come fuoco nella steppa, la voce di una possibile scazzottata nel parcheggio fece il giro della fiera nel breve corso di pochi minuti.

E giunse anche all'orecchio di Nick e soci che, messi in allarme dall'assenza prolungata di Aaron, decisero all'unisono di andarlo a cercare.

Muovendosi in branco – erano così tanti da parerlo a tutto a tutti gli effetti – raggiunsero lo spiazzo inghiaiato poco distante dalla fiera e lì, già circondati da un folto capannello, trovarono Aaron e il suo avversario.

A giudicare dall'aria furente del cugino, Nick suppose che fossero già volati dei paroloni. Restava da capire perché.

Helena, a braccetto di Andrea, borbottò: «Non è che uno di voi dovrebbe intervenire?»

Gli uomini del gruppo soppesarono la sua domanda, Beau addirittura si mise a massaggiarsi il mento, meditabondo.

E guadagnandosi così una gomitata nel fianco da parte di Rena.

Nick fu il primo a parlare.

«Mi sembra che se la stia cavando bene. Vediamo come va a finire.»

Un attimo dopo arrivò la seconda gomitata di giornata, stavolta per opera di Hannah.

Beau e Nickolas si fissarono dolenti, massaggiandosi i rispettivi fianchi mentre Andrea, più diplomatico, disse: «Forse dovremmo informarci su cosa ha scatenato questo diverbio.»

Brandon indicò con aria serafica la brunetta poco distante, oltre al cofano ammaccato della Mustang e, corale, un sospiro di comprensione si levò come un'onda.

«Siamo alle solite. Quando gli toccano la macchina, non capisce più niente» brontolò Nick, scuotendo il capo.

«Senti da che pulpito. Se ti toccassero la lambo, daresti di matto» sottolineò Hannah, sorridendogli divertita.

«Qui ce n'è un'altra che diventerebbe She-Hulk, se le sfiorassero la Viper con un dito» aggiunse Beau, guadagnandosi un'occhiataccia da parte della moglie.

«Deve essere un vizio direttamente proporzionale ai cavalli dell'auto. Più ne ha, più il padrone è nevrastenico» convenne Phillip, ritrovandosi a dover affrontare un attimo dopo due paia d'occhi molto risentiti.

Helena ridacchiò di quel quadretto e, sorridendo ai gemelli – che le stavano al fianco – chiosò: «Come vedete, anche gli adulti possono fare i bambini.»

Cam e Dom ghignarono, lasciandosi sfuggire un'uguale risatina complice, ma fu Sophie quella che attirò l'attenzione di tutti, raggelandoli.

Seduta a cavalcioni sulle spalle di Phill, levò un pugno verso l'alto e gridò: «Fallo nero, zio!»

Il brusio generale si azzittì al suono di quella voce sottile e trillante ma, soprattutto, di fronte a quel messaggio piuttosto truculento, specialmente perché uscito dalla boccuccia a cuore di una bimba.

Tutti si volsero verso il loro folto gruppo e, mentre Aaron levava un pollice in segno di vittoria, Rena gracchiò sconvolta: «Ma dove l'hai imparata, questa?!»

Cam e Dom, prudentemente, si nascosero dietro il nonno.

Aaron, tornando poi a rivolgersi al suo sfidante, disse: «L'hai sentito, l'angioletto. Vuole che io ti faccia nero. Come la mettiamo?»

«La tua contro la mia. Chi vince, si prende l'auto del perdente.»

«Ci sto» acconsentì l'uomo, stringendo la mano del cowboy.

Grida di giubilo per l'imminente gara si levarono dal capannello e Nick, disgustato, borbottò: «Sempre la solita storia.»

«Perché?» si informò Hannah, sorpresa.

«Aaron ci va a nozze, con cose simili» scosse il capo il marito, seguendo la mandria di curiosi con passo strascicato.

Avrebbe dovuto sapere che, portarlo a una fiera del genere, avrebbe voluto dire correre questo rischio.

Perché non collegava mai questo genere di cose?
 
Atto III°
Don't Stop (Doin'it)*
 

La Dodge Charger bianca e rossa del cowboy era allineata alla Ford Mustang nera di Aaron che, pronto al volante, attendeva impaziente che la brunetta desse loro il via.

Sapeva di stare correndo un bel rischio, visto che le gare in auto erano notoriamente illegali.

Sapeva di non conoscere quelle strade come, invece, il cowboy sicuramente conosceva a menadito.

Sapeva di aver preso di petto tutta la situazione, forse esagerando davvero.

Ma era così emozionante!

Il motore rombava sotto di lui, facendo vibrare la lamiera dell'auto ed il sedile della Sparco su cui era seduto.

La gente avvolgeva il punto di partenza come una barriera naturale, gridando e incitando i due contendenti a gran voce.

Prima di salire in auto, Nick si era raccomandato su un paio di punti in particolare del tracciato, e lui l'aveva ringraziato.

Di sicuro, suo cugino aveva testato più di una volta quella strada.

Già percorrendola quella mattina, gli era parsa splendida.

Ora l'avrebbe percorsa come voleva lui.

La brunetta levò il fazzoletto colorato, ondeggiando le curve con fare sinuoso e Aaron, ingranata la marcia, si preparò a rilasciare di colpo la frizione per dare gas.

I giri del motore aumentarono, al pari della tensione al di fuori degli abitacoli.

Un ultimo sguardo alla sua famiglia gli confermò che erano tutti lì, pronti per guardarlo, e questo lo ringalluzzì.

Probabilmente, avrebbe preso dell'idiota, al suo arrivo vittorioso in fondo al percorso, ma quello poco contava.

Doveva solo pensare a vincere e divertirsi.

Il fazzoletto sventolò e, con precisione chirurgica, Aaron mollò la frizione e pigiò sull'acceleratore.

Strisce nere di gomma bruciata vennero lasciate a terra nel momento della partenza, un vero e proprio burnout con i controfiocchi.

In mezzo a un coro festante ed eccitato, i due bolidi si lanciarono lungo Santa Clara Avenue, rombando come due caccia pronti a dare battaglia.

Da lì, si sarebbero gettati sulla 126ima ed il vincitore sarebbe stato chi, tra loro, avesse oltrepassato per primo i confini di Ventura.

Aaron non aveva dubbi su chi sarebbe stato, anche se il cowboy, già dalle prime manovre, si rivelò essere un tipo ostico da battere.

Ghignando, lo fissò per un momento – affiancato a lui nella discesa verso l'oceano – e si disse che sarebbe stata una gran gara, quella.

Nel frattempo, a Fillmore, tutti i presenti si affrettarono a raggiungere le loro auto e Hannah, nel salire assieme al marito e ai figli, domandò: «Siamo sicuri che Aaron non si andrà a sfracellare? Non credo che zio Michael e zia Cécille sarebbero molto felici.»

«Non ti preoccupare. E' un diavolo, alla guida» ghignò Nickolas, accodandosi al mare di auto che stavano spingendosi verso valle per scoprire il vincitore della gara.

Hannah lo fissò disgustata e celiò: «Ammettilo che avresti gareggiato anche tu, se non ci fossimo stati io e i bambini.»

Nick esplose in una grassa risata, che coinvolse anche i gemelli e, strizzando l'occhio alla moglie, motteggiò: «Non mi avrebbe fermato nessuno. Ovvio che l'avrei fatto!»

«Uomini» borbottò esasperata Hannah.

 
Atto IV°
The way I see it*
 

Cristo!

Quel cowboy era un diavolo di pilota!

Aaron non avrebbe mai pensato di poter essere messo in difficoltà da un tizio con indosso degli abiti da bovaro, ma a quanto pareva si era davvero sbagliato a giudicarlo.

Ad ogni buon conto, era una sfida ancor più degna di essere vinta, perciò la sua bravura non faceva altro che ringalluzzirlo di più.

Con un drifting perfetto in curva, e tenendo freno a mano e volante al tempo stesso, Aaron passò in vantaggio dopo diverse miglia di tampinamento assiduo.

Un ghigno gli sorse subitaneo sul bel viso, incorniciato dai leggeri riccioli castani.

Subito, diede fondo al pedale del gas per aumentare il suo vantaggio.

Le ultime miglia erano praticamente diritte, se non si contava qualche correzione di tiro ogni tanto, perciò avrebbero fatto testo il motore e il fegato di andare a tavoletta.

Cosa che non parve preoccupare il cowboy, che rimaneva saldo dietro il posteriore della vettura di Aaron.

Dio e gli angeli avevano voluto che nessuno incrociasse la loro strada – la giornata di festa e il bel tempo invogliavano a lasciare l'auto a casa – perciò, con loro sommo diletto, si erano potuti sfogare ampiamente.

Nessuno di loro aveva badato al vago e lontano rumore delle pale di un elicottero: poteva essere il classico riccone in cerca di svago.

Nessuno di loro aveva badato alle poche persone presenti sul ciglio della strada, tutte munite di cellulare... e fotocamera.

Nessuno di loro aveva badato alla loro folle velocità, che forse avrebbe potuto attirare l'attenzione di qualche personaggio coscienzioso e ligio alle regole.

Aaron ed il cowboy avevano ben altro per la mente, in quel momento e, quando finalmente intravidero il cartello di Ventura, diedero fondo agli ultimi cavalli del motore per tagliare per primi il traguardo.

Solo mezzo cofano, niente di più, niente di meno.

La Mustang tagliò per prima il traguardo immaginario posto all'arrivo a Ventura e Aaron, bloccata l'auto poco più in là, balzò fuori dall'abitacolo tutto ringalluzzito.

Il cowboy, più mogio, uscì a sua volta e Aaron, a mano tesa, esclamò: «Ehi, amico, gara impareggiabile!»

«Guidi da paura, amico... mai visto piantare l'auto in curva come hai fatto tu» ammise il cowboy, regalandogli un sorriso.

«Tutto merito di un costante allenamento» ridacchiò Aaron, dandogli una pacca sulla spalla. «E non voglio la tua auto... mi è bastato gareggiare. Era da un sacco che non mi divertivo così tanto.»

Il cowboy fece per replicare ma, all'improvviso, impallidì alla vista di un paio di volanti della polizia, apparentemente interessate a loro.

Anche Aaron si accorse della loro presenza e, persa del tutto la voglia di fare dello spirito, borbottò: «Oh-oh...»

«Aggiungine diversi, di oh-oh» sbuffò il cowboy, levando prudenzialmente le mani in alto.

Non essendo pratico di polizia americana – quella europea era tutt'altro affare – Aaron pensò bene di imitarlo e, quando il primo poliziotto si avvicinò, li squadrò arcigno per poi dire: «Non sapete che è vietato correre come pazzi per la statale?»

I due giovani si guardarono vicendevolmente, non sapendo bene che dire ed il poliziotto, non contento, proseguì nell'arringa.

«Pensavate di essere sul set di Fast & Furious, per caso? Non mi sembra che ci siano troupe o cameramen a riprendere le vostre imprese

«Ehm, agente, vede...»

Aaron venne azzittito immediatamente dall'occhiata fulminea del poliziotto, che estrasse il suo blocchetto per le contravvenzioni come se dovesse iniziare a scrivere la Divina Commedia.

Buttò giù una sfilza di contravvenzioni che fece impallidire i due eroi, sempre meno lieti per la gara e sempre più preoccupati per i loro portafogli.

Non contento, il poliziotto fece cenno a due suoi colleghi, muniti di manette, e disse: «Bene, e ora vi portiamo in centrale per il disbrigo delle pratiche e per farvi provare una nuova emozione. La galera.»

«Ma... veramente...»

«Fossi in lei, terrei la sua versione dei fatti per l'avvocato. Tutto quello che dirà qui potrà essere usato contro di lei in tribunale e...»

La manfrina continuò per tutto il tempo che impiegarono per salire sulle auto e, quando Aaron e il cowboy si ritrovarono sui sedili della volante, Van Berger borbottò: «Volevo solo esprimere il mio punto di vista.»

«Meglio evitare, con loro» sussurrò complice il compagno di disavventura.

«Mi sa di sì» sbuffò scocciato Aaron.

 
Atto V°
Same song*
 

Poche persone potevano essere più furiose del Michael Van Berger che fece capolino alla stazione di polizia di Ventura, tutto rosso in viso per la rabbia e l'autocontrollo prossimi a esplodere.

La vista di nipoti, amici e cognato non migliorò la situazione, perché un sorriso collettivo quanto divertito era dipinto su tutti i loro volti.

All'appello mancavano Hannah e Serena, con i relativi figli. Forse, almeno loro avevano pensato bene di occuparsi qualcosa di utile come i pargoli.

Per una volta, vedere la sua famiglia allargata gli diede fastidio.

«Allora, il quoziente intellettivo generale è finito sotto le scarpe, forse? Nessuno di voi ha pensato bene di ricordargli che, forse, finire in galera è una scemenza?»

Poi, fissando stizzito Andrea e Helena, proseguì dicendo: «Voi, poi, che dovreste essere da esempio, pensate che starvene qui tutti ghignanti sia utile?»

Andrea ascoltò pacato fino alla fine poi, non potendone più, esplose in una calda risata di gola, cui seguì quella di Helena.

Un attimo dopo, anche il resto della ciurma si unì all'ilarità generale, facendo vacillare le già esigue difese di Michael.

«Che diavolo avete da ridere?!» sbottò a quel punto l'uomo, fissandoli bieco.

Da un corridoio laterale, tranquillo e pacifico pur se ancora ammanettato, fece capolino Aaron che, di passaggio, disse al padre: «Perché è la solita solfa di famiglia, papino.»

Un attimo dopo, il secondino che lo stava accompagnando – e che stava faticando non poco per non ridere – lo fece entrare in una stanzetta per gli interrogatori.

Lì, legò Aaron al tavolino con una manetta e, a mezza voce, mormorò: «Mi sa tanto che la tua macchina non la vedrai per un po'.»

«Ne sono consapevole. Grazie per il caffè di prima» replicò Aaron, tutto sorridente.
Il poliziotto non ce la fece più e ghignò, affermando con sicurezza: «Non mi è mai capitato un prigioniero come te. Poco ma sicuro.»

«Lo prendo come un complimento» asserì lui, sorridendo spontaneamente a Grace Brown, avvocato di grido che Michael aveva subito interpellato dopo la sua chiamata.

Era l'una del mattino.

«Ehi, Mrs Ingleton! Buonasera... no, buongiorno. Insomma, è un piacere vederla.»

Grace sorrise all'incrollabile Aaron e, mentre si sedeva al suo fianco, annuì educatamente al poliziotto, che iniziò a descriverle tutti i capi di imputazione.

Quando ebbe finito, sul viso dell'avvocato si dipinse un sorrisino divertito, in tutto identico a quello dell'imputato, che sottolineò: «Mr Robinson, qui, è stato preciso al centesimo. Non ha sbagliato nulla. Solo, volevo dire che non mi sarei mai permesso di fare del male a qualcuno. Poco ma sicuro.»

«Una gara di velocità su strada non è esattamente il modo migliore per asserire una cosa del genere, Aaron» sottolineò Grace, prima di dire al poliziotto. «Tengo comunque a sottolineare che il mio assistito ha la fedina penale pulita, non è mai incorso in sanzioni amministrative ed è un caro ragazzo dedito alla beneficenza. E' uno stimato lavoratore, oltre ad essere un valido supporto per l'azienda di famiglia. Insomma, non è di certo un delinquentello.»

Aaron sogghignò a quell'ultimo commento e sollevò – per quel che poté – una mano per battere il cinque con Grace.

Lei lo fissò strabiliata per alcuni attimi, cui seguì una risatina e il cinque tanto agognato.

«Ma prendi mai nulla sul serio?»

La domanda dell'avvocato fece sorgere una risatina al poliziotto che, serafico, asserì: «Sono diverse ore che il suo assistito ci diletta con le sue scorribande. Non so se inorridire o scoppiare a ridere.»

Grace preferì non esprimersi, dicendo soltanto: «Quant'è la cauzione, comunque?»

«Sono tremila dollari di cauzione, e per l'auto dovrete attendere il dissequestro, previsto per dopodomani. L'udienza in tribunale si svolgerà il giorno dodici del corrente mese, nel tribunale locale di Ventura. Lì verrà stabilita l'ammenda. Direi che siamo a posto. Vuole sapere altro?»

«E' arrivata la contabile del bonifico che ho fatto fare per il mio amico?» intervenne a quel punto Aaron.

Ancora, Grace lo fissò senza capire e l'agente, con l'aria di non riuscire a star serio, ammise: «Ha voluto pagare la cauzione all'altro contendente. Certe cose non le capirò mai.»

Nell'alzarsi, il poliziotto sciolse le manette e aggiunse: «La prossima volta, andate in pista... è meglio

«Sicuro, agente. Poco ma sicuro. Ammesso e non concesso che mio padre non faccia diventare la mia Mustang un fermaporte» assentì Aaron, stringendogli la mano.

Il poliziotto rise sommessamente e, nell'uscire dalla piccola stanza per gli interrogatori, salutò brevemente il folto gruppo e tornò al suo lavoro.

Michael, per niente divertito e meno ancora propenso a rilassarsi, fissò accigliato il figlio e borbottò: «Ebbene? Che diavolo hai combinato?»

«Te l'ho detto, papino. La solita musica, in famiglia.» Poi, fissandolo malizioso, aggiunse: «O devo pensare che tu abbia la memoria corta?»

Quel commento fece impallidire Michael che, borbottando, andò al bancone per pagare la cauzione mentre Aaron, tutto ghignante, lo fissò trionfante.

Nick, a quel punto, si avvicinò al cugino e gli domandò: «Com'è che, di colpo, da feroce mastino è diventato un tenero cagnolino?»

«Oh... lui lo sa. Lo sa eccome» ciangottò Aaron. «L'ho detto. È la solita vecchia musica, in casa Van Berger.»

Michael, nel tornare dalla sua famiglia, che ora lo stava fissando con aria inquisitoria, arrossì copiosamente e borbottò: «Non mi metterò certo a parlare di cose simili in un commissariato!»

Nick scoppiò a ridere e, nel prendere il telefono, messaggiò alla moglie dicendo a mezza voce: «Hannah ci deve essere... è troppo forte, questa cosa.»

Michael scosse il capo e, nell'uscire assieme al figlio, gli rinfacciò: «Ma dovevi proprio mettere loro la pulce nell'orecchio?»

«Se posso salvarmi il culo, ed evitare che tu mandi dallo sfasciacarrozze la mia Mustang? Canterò come un usignolo, papà» rise Aaron, avviandosi come un eroe verso l'auto del padre.

Sempre più disgustato, Michael lo seguì. «Sapevo che, prima o poi, quella maledetta gara mi si sarebbe ritorta contro.»

«Quale gara, caro cognato?» ironizzò Andrea, prendendolo a sorpresa sottobraccio.

Esasperato, l'altro bofonchiò: «Non ti ci mettere anche tu, Andrea, ti prego...»

«Andiamo, Mich, siamo una grande famiglia felice. Non devono esserci segreti, tra noi» insisté per contro Andrea, sempre più ghignante.

«Sai... a volte rimpiango i tempi in cui ci parlavamo a stento» replicò caustico Michael, facendo scoppiare a ridere l'intero gruppo.

A volte, era difficile essere così uniti.

 

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* Tutti i titoli dei vari atti sono tratti dagli album musicali di Anastacia.
 
 

 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 15
*** Solo con te (Luglio 2030) ***


Tutte le passioni ci fanno commettere errori,
ma l’amore ci induce a fare i più ridicoli.
-François de La Rochefoucald-
 
 
 
 
Lago Tahoe.

Il piccolo cottage, in tronchi di legno levigato, che Hannah e Nick avevano acquistato qualche anno addietro per sfuggire alla ressa di Los Angeles, era immerso nella pineta che circondava Tahoma.

Situato in Chamberland Road, era affiancato da una miriade di piccole casupole a uno o due piani, in tutto simili al grazioso villino che Sophie stava osservando con occhi rapiti.

Sorrise a Hannah, che l'aveva invitata lì per festeggiare il diploma dei figli, e mormorò: «E' davvero grazioso! E che pace!»

Gli alti abeti rossi stormivano lievemente allo scorrere del vento, proveniente dal lago. Alcuni picchi ticchettavano nel vicino bosco, mentre avventurosi scoiattoli balzavano da un ramo all'altro, danzando nell'aria.

Sophie li ammirò estasiata... prima di infuriarsi come una belva quando Cam, passandole accanto, le coprì gli occhi con il cappuccio della sua felpa.

Dom scoppiò a ridere, scappando in ritirata prima di essere preso in mezzo a quella lite, mentre Hannah sorrideva indulgente all'altro figlio rimasto.

Cam, impassibile, poggiò una mano sulla fronte di Sophie, quest'ultima impegnata nel vano tentativo di afferrarlo per strangolarlo.

Cosa non facevano due braccia lunghe!

Stancandosi quasi subito, Sophie rinunciò al tentativo, ma solo per scagliare un calcio negli stinchi di Cameron, che si piegò in due per lagnarsi della sua violenza.

Soddisfatta, la ragazza fece la linguaccia in direzione di Hannah, che scrollò le spalle, indulgente.

Non vedeva nulla d nuovo. Cam e Phie si azzuffavano da che avevano sette anni l'uno, e cinque l'altra.

Dom si era sempre tenuto ai margini delle loro liti, preferendo giocare alla Playstation, piuttosto che riempirsi di lividi e graffi.

Alcune volte, però, stanco dei loro strepiti, si era ritrovato costretto a gettarsi nella mischia per placarli, ma dacché avesse memoria Hannah, non era successo spesso.

«Coraggio, discoli. Entriamo in casa. Potrete malmenarvi dopo. Prima, dovete sistemare le vostre cose.»

Il tono di Hannah fu pacato, ma così incisivo che Cam e Phie smisero immediatamente di guardarsi in cagnesco.

Subito, presero le loro valige e Dom, seguendo dappresso la madre, le domandò: «Papà ci raggiungerà domani?»

«Probabile. Ammesso e non concesso che riesca a liberarsi dei carissimi ospiti della Tashida Groups.»

Cam rise e, nello strizzare l'occhio a Dom, replicò: «Scommetto che avresti voluto rimanere a L.A. con papà. Yuki-necchan1 è diventata davvero carina, eh?»

Dom storse il naso, ma ammise: «E' sicuramente una bella ragazza, ma non sono così superficiale da fermarmi a guardare solo il suo bel visino.»

«Come se io lo fossi» borbottò contrariato il fratello, dandogli una spinta.

Dom non replicò, ma lo fissò malissimo e Hannah, con cipiglio militare, prese immediatamente le redini del comando, chiosando: «Il primo che litiga, non mangerà le lasagne che preparerò più tardi.»

Immediatamente, Cam e Dom si azzittirono e Phie, ghignando al loro indirizzo, dichiarò spavalda: «Siete degli autentici fifoni.»

I gemelli la fissarono con eguali espressioni irritate, ma si astennero dal fare commenti. Hannah, allora, le sorrise complice e ammise: «Tendenzialmente, è un metodo che funziona sempre.»

«Buono a sapersi» sentenziò Sophie, prendendo a braccetto Hannah.

Non appena furono all'interno dello chalet, interamente ammobiliato in stile country, con tonalità del giallo e dell'azzurro pallido, la ragazza sospirò deliziata.

Aveva sempre amato quelle ambientazioni montane, e più di una volta aveva chiesto ai genitori di comprare qualcosa di simile per le vacanze invernali.

Forse, dopo questa visita al lago Tahoe, sarebbe riuscita a presentare ancor più validi motivi perché la accontentassero.

Indicando le scale in legno chiaro, Hannah mormorò: «Le camere sono al piano superiore. La tua è quella in fondo al corridoio.»

«Bene» annuì Sophie, correndo su per le scale con il suo trolley alla mano.

Dietro di lei, Cam e Dom la seguirono silenziosi, ancora memori della ben poco velata minaccia della loro gentile, quanto irremovibile madre.

 
***

Sdraiata su un lettino prendisole sul retro del cottage, Phie non si rese conto di essere osservata.

Era troppo impegnata a godersi la pace e la tranquillità di quei luoghi, per rendersi conto dello sguardo pensieroso di Cameron, che la stava guardando dal balcone della sua stanza.

«Lo sai che è da maleducati guardare di nascosto la gente?» mormorò una voce alle sue spalle, quasi identica alla propria.

Cam si volse a osservare ombroso il gemello, che aveva smesso i più sobri camicia e pantaloni per puntare a un più sportivo completo da marinaio.

Indossava una polo bianca a righe blu sul colletto, pantaloni di cotone color sabbia e mocassini dall'aria vissuta.

Era evidentemente pronto a scendere al molo, per fare un giro sulla loro piccola barca a vela.

«Non la sto guardando di nascosto. Sa che sono in casa» borbottò Cam, allontanandosi dal parapetto per rientrare in stanza.

«Ma non sa che la stai guardando come un cucciolo innamorato» ironizzò il gemello, dandogli una pacca sulla spalla.

«Smettila, idiota.»

Domenic non si diede per vinto, e ritentò. «Scusa la domanda idiota, non io, grazie, … ma perché, molto semplicemente, non le dici che ti piace?»

Cam sgranò gli occhi grigio ghiaccio, che aveva ereditato dalla madre – come il gemello aveva ereditato le profondità marine del loro padre – ed esalò: «Perché non glielo dico?! No, scusa, ma ricordi chi sono i suoi genitori?»

«Che io sappia, Rena è la mia madrina di battesimo e Beau è il nostro zio onorario. Quindi? Non vanno bene?» replicò serafico Dom, scrollando le spalle.

Proprio non capiva. Cam scosse il capo, disgustato, e mugugnò: «Sono i nostri migliori amici, e se sapessero che io penso anche solo lontanamente a Phie come a qualcosa di più di una cara ragazza da proteggere come un fratello fidato, Beau mi taglierebbe le palle su un ceppo.»

Domenic scoppiò in una risata sguaiata e il gemello, fissandolo basito, si chiese se per caso il fratello fosse ubriaco. O completamente impazzito.

Non gli era sembrato che avesse bevuto, a pranzo, ma tutto poteva essere.

«Ribadisco. Sei un idiota.»

Ciò detto, Cam si avviò per scendere verso il pianterreno, tallonato dal gemello che, ghignante, ribatté: «E tu sei un fifone.»

«Non è vero che sono...» iniziò col difendersi Cameron, bloccandosi a metà della frase quando vide Phie in piedi, accanto alla staccionata... e in compagnia di Damien Lawrence, il figlio ventenne del loro vicino di proprietà.

Dom seguì il suo sguardo rabbuiato, commentò mentalmente il fisico slanciato ed elegante di Phie e, a mezza voce, disse soltanto: «Sta intrattenendo rapporti di buon vicinato. Che c'è di male?»

«Di male c'è che lui ha quattro anni più di lei! Ed è un disgraziato!» sbottò Cam, avviandosi a passo di marcia verso le ampie porte-finestre.

Era ben deciso a mettere un freno a qualsiasi tipo di disastro potenziale vi fosse, oltre quella barriera di vetro e legno.

Il gemello, sospirando esasperato, levò in aria le mani con rassegnazione, borbottando: «Guai in vista.»

 
***
 
Quando aveva sollevato gli occhi dal libro che stava leggendo sul suo kindle, si era stupita nel ritrovarsi addosso due occhi color cannella e un sorriso solare a darle il buongiorno.

Levatasi in piedi, aveva raggiunto la staccionata e lì si era presentata al loro vicino, Damien Lawrence.

Ora, poggiata contro i tronchi lisci e color sabbia dello steccato che delimitava la proprietà dei Van Berger, Phie stava ascoltando assorta i racconti di Damien sulle feste della zona.

Fu in quel momento, del tutto presa dalla voce baritonale del giovane e affascinante vicino, che fece la sua comparsa Cam, rovinandole il divertimento.

Come sempre, del resto.

Fissò accigliata il suo amico d'infanzia, poggiò le mani sui fianchi quando, quasi di peso, si interpose tra lei e Damien e, irritata all'inverosimile, gli sentì dire: «Vai in casa, Phie. Dom ti sta cercando per una gita in barca. Non vorrai farlo aspettare, spero?!»

Sophie fu sul punto di dargli un pestone sul piede – immaginando che quella fosse una bugia bella e buona – ma, non volendo apparire cafona al pari di Cam, assentì e disse solo: «Scusa, Damien. Scappo. Spero di rivederti presto.»

«Sarò qui tutta l'estate, perciò non ne dubito» replicò il giovane, passandosi una mano tra la folta chioma bruna.

Lei lo salutò civettuola, ancheggiando nel rientrare in casa, ben sapendo che lui avrebbe apprezzato lo spettacolo.

Non appena fu all'interno dello chalet, però, smise la sua esibizione e, con un diavolo per capello, si diresse verso le scale, trovando ad attenderla Dom.

In effetti, lui era davvero abbigliato per andare in barca quindi, forse, era vero che lui la stesse cercando per uscire sul lago.

Ma quando glielo chiese, ricevette un no in risposta.

Questo rinfocolò subito la sua rabbia e, determinata a farla pagare a Cam, si mosse per uscire di nuovo, ma Dom la bloccò a un braccio con gentile fermezza.

Fulminandolo con lo sguardo da sopra una spalla, gli sibilò contro come un cobra. «Lasciami subito andare, Dom, se non vuoi che ti spezzi un braccio.»

«Stai buona, Principessa Xena. So bene che sei brava nel karate tanto quanto quell'idiota che c'è là fuori, e non voglio ritrovarmi a mangiare la polvere del tappeto» replicò bonario il ragazzo, lasciandola andare. «Quello che voglio evitare è che entrambi facciate dal figura degli imbecilli.»

«Dubito che potrei mai farla. Quanto a tuo fratello, è nato imbecille» brontolò velenosa Phie, osservando i due giovani nel cortile.

Dom ridacchiò, non smentendo le parole della ragazza.

«Cam è solo protettivo, Phie, e parlando di Damien, ha fatto bene a uscire. Quello, colleziona ragazze come i bambini collezionano le figurine dei giocatori di football.»

Piccata, lei fece per ribattere, ma Dom la zittì con un'occhiata ammonitrice.

«Non voleva che potesse adescarti, come fa di solito con tutte le belle ragazze che incontra.»

«Poteva anche trovare un modo meno... meno stupido di comportarsi, però.»

Il borbottio di Sophie fu solo un sussurro, e Dom sorrise tra sé. Ora si sentiva in colpa, la poverina.

«Sai che è Cam quello impulsivo, e io quello che prima ragiona e poi agisce» ironizzò Domenic, dandole una pacca sulla spalla. «Vieni con me in barca, e lascia a lui Damien. Gli spiegherà per filo e per segno che non sei merce su piazza.»

Phie storse la bocca, si incamminò su per le scale per indossare un abito più adatto del suo bikini ma, raggiunto il primo piano, si volse a guardare Dom e disse: «Voi maschi sapete essere disgustosi.»

«Te lo concedo.»

 
***

Le caviglie sul parabordo levigato e bianco, le mani intrecciate dietro la nuca e lo sguardo imbronciato, Phie osservava Dom alle prese con la vela latina della barca.

L'imbarcazione non era molto grande, poco più di sei metri ma, per delle brevi gite sul lago, era perfetta.

Facile da manovrare, nelle mani di Dom volava sull'acqua come se fosse stata il vento stesso e Phie, nel sorridere all'amico, glielo disse.

Lui le sorrise, grato per il complimento.

Quando infine raggiunsero una caletta sassosa, circondata da alte sponde rocciose, abeti sitka e larici dalle chiome brillanti, Dom mise l'ancora e si accomodò, imitando la posa di Phie.

Dondolati dalle onde calme del lago, il leggero venticello frizzante che ne carezzava la pelle, i due giovani ristettero a lungo in silenzio, ammirando il panorama mozzafiato offerto da quella posizione privilegiata.

Alcuni picchi si stavano dando fare nel bosco, accompagnati dallo stridio di un'aquila in lontananza, e dalle più vicine ghiandaie azzurre, che volavano leggere sopra di loro.

Fu il singhiozzo lieve di Phie a spezzare quell'apparente idillio e Dom, volgendosi a mezzo per capire cosa stesse succedendo, mormorò spiacente: «Ehi, piccola... cosa c'è?»

Lei fu lesta a tergersi il viso dalle poche lacrime che erano sfuggite ai suoi occhi, e borbottò soltanto: «Niente. Solo polvere negli occhi.»

Dom sorrise a mezzo, allora, e si avvicinò a Phie per sfiorarle la spalla con una mano.

La ragazza non resistette oltre. Si alzò come una furia e, simile a un vento impetuoso, si gettò su Dom, abbracciandolo con foga.

Il ragazzo fece fatica a non cadere lungo riverso sull'assito della chiglia e, trattenendo l'amica ora tremante, esalò: «Phie, Phie, calmati. Dimmi cosa c'è che non va.»

«Perché con te è tutto perfetto, e con Cam non lo è mai? Mi detesta così tanto?» piagnucolò la ragazza, stringendosi ancor più al giovane Van Berger.

Dom temette gli avrebbe spezzato una costola.

Se Serena era una donna minuta e delicata, Phie aveva preso più da suo padre. Era alta, per essere una ragazza, sul metro e settantacinque, e anni di sport l'avevano temprata a fondo.

Tutte le attività più pericolose erano rientrate, presto o tardi, nel curriculum di Phie, così come le arti marziali.

Dom si era sempre chiesto il perché di quelle scelte, ma forse ora ne capiva i motivi.

Non aveva mai visto tanta insicurezza, in lei. E tutto dipendeva da Cameron che, da una vita, aveva sempre condiviso con Phie tutti quegli sport estremi.

Possibile che...

«Phie... c'è qualcosa che vuoi dirmi?» mormorò Dom, scostandola da sé per tergerle il viso con i pollici.

Lei tirò su con il naso come avrebbe fatto una bambina, e l'amico le sorrise.

Forse, lo scoppio di pianto era finito.

«Tu non lo dirai a Cam, vero?» borbottò in risposta l'amica, storcendo la bocca.

«Ho sempre mantenuto i tuoi segreti, mi pare. E se tu mi dirai di non dire niente a mio fratello, io non lo farò.»

«Ma tu, a Cam, dici sempre tutto!» protestò Phie, accigliandosi.

A ben vedere, era vero.

Non aveva mai saputo dire con certezza se centrasse il fatto di essere gemelli monozigoti, ma la sostanza rimaneva.

La loro affinità era praticamente perfetta e, anche se avevano interessi diversi, le loro menti lavoravano spesso e volentieri in sincrono.

Non c'erano mai state rivalità, tra loro, e le liti erano sempre state rare quanto frivole.

I segreti non erano mai esistiti, nel loro piccolo mondo, e ognuno sapeva dell'altro praticamente tutto.

Ma qui la faccenda era diversa. Maledettamente diversa.

«Per te, manterrò il segreto» le promise Dom, facendosi una croce sul cuore.

Phie lo fissò dubbiosa per un altro minuto buono, ma alla fine annuì.

Si strinse le gambe al petto, poggiò il mento sulle ginocchia e alla fine disse in un sussurro: «Sono innamorata di lui.»

«E quindi anche di me?» ironizzò Dom, indicandosi la faccia.

Phie ridacchiò, dandogli una spintarella con la mano.

«Sai che non parlo della vostra faccia!» protestò la ragazza, pur apprezzando il suo tentativo di farla rilassare.

«E di cosa parli, allora?»

Phie nascose il viso contro le ginocchia e iniziò a parlare di Cam, spiegò a Dom cosa l'avesse attratta, nel corso degli anni, e come avesse finito col provare gelosia nei suoi confronti.

«Anche se mi fa sempre i dispetti, è buono e gentile, con me, e sempre premuroso. Mi ha sempre aiutato, quando avevo paura di fare qualcosa, e c'è sempre se qualcuno tenta di darmi fastidio.»

«Mi offenderei, se dicessi che io non faccio la stessa cosa» sottolineò Dom, facendola ridacchiare.

«No, hai ragione. Anche tu sei così. Tranne per i dispetti, che tu non mi hai mai fatto. Ma Cam... non so, è uno spirito irrequieto, sempre alla ricerca di qualcosa, sempre pronto a lanciarsi in nuove sfide.»

«Vuoi dire che io sono noioso?» replicò Dom, fingendosi piccato.

Sophie allora levò il viso a fissarlo male e borbottò: «Stiamo parlando di me, o di te

Dom scoppiò a ridere, divertito dal suo scoppio di rabbia.

«Desidero solo capire a fondo cosa vedi in lui, e capire se la tua è solo una cotta o qualcosa di più.»

«E perché desideri saperlo?»

Tornando serio, Dom le sfiorò il viso con il dorso della mano, mormorando: «Perché la nostra è una bellissima amicizia, e non vorrei si incrinasse per una sciocca cottarella adolescenziale.»

«Hai ragione» sospirò lei, tornando a poggiare il mento sulle ginocchia. «Sai che una volta ti ho baciato, mentre dormivi?»

Dom a quel punto strabuzzò gli occhi, avvampò in viso e gracchiò: «C-cosa hai fatto, scusa?!»

Phie scrollò le spalle, ammettendo con candore: «Volevo vedere cosa si provava, ma non ho avuto il coraggio di farlo con Cam. Sapevo che, se anche lui era addormentato, non ne sarei stata capace.»

Pur trovando la cosa assurda – quando cavolo era successo? E come aveva fatto a non accorgersene? – Dom borbottò: «E cos'hai risolto, facendo la parte del principe ne La Bella Addormentata

«Che con te mi sento a mio agio, sono sicura, tranquilla e rilassata. Con Cam no, neppure quando dorme. Sento il bisogno, la necessità di volere cose che non dovrei volere, e le vorrei da lui.»

«Oookay, qui stiamo andando su un terreno pericoloso. Non devo spiegarti nulla, spero...»

Phie sorrise di fronte al suo imbarazzo, ma scosse il capo. «Sono ampiamente svezzata in merito, almeno a livello teorico.»

«Va bene. Anche perché non sarei stato certo io a spiegarti cose simili. Beau mi ammazzerebbe già adesso, se sapesse che ne stiamo anche solo velatamente parlando» brontolò Dom, passandosi una mano tra la folta capigliatura biondo castana.

Cam gliel'avrebbe pagata cara, poco ma sicuro.

Ma perché c'era andato di mezzo lui, che non c'entrava niente?

 
***

Hannah e Sophie stavano sorseggiando una bibita fresca sotto la veranda, quando Cam si presentò con le chiavi dell'auto in mano.

Era perfettamente in tiro, con camicia grigio ghiaccio in raso, pantaloni di un tono più scuro e lucide scarpe nere.

La madre lo fissò con apprezzamento, esalando: «Tesoro... dove vai così agghindato?»

Il ragazzo fissò Phie con l'aria vagamente aggrottata, non sapendo bene cosa dire, o come esprimersi. «Stasera c'è una festa, giù in paese. Accompagno Phie.»

La ragazza in questione si guardò con espressione divertita e, nel sollevare il leggero tessuto del suo chemisier, replicò: «Ti sembra che io sia in tenuta adatta?»

«Vai a cambiarti, allora.»

Cam lo disse con così tanta naturalezza, e supponenza, che Hannah scoppiò a ridere, e Sophie si passò una mano sul viso, esasperata.

Parlando con estrema calma, come se si stesse relazionando con un bambino molto piccolo, Phie gli domandò: «E perché, di grazia, dovrei venire in paese con te? E se non volessi proprio andarci, a quella festa?»

Cam allora si accigliò, ribattendo: «Stando a quello che mi ha detto Damien oggi pomeriggio, sembravi entusiasta all'idea di andarci, ma col cavolo che ci andrai con lui. Ti accompagnerò io, così saremo sicuri che nessuno proverà a infastidirti.»

Hannah a quel punto si alzò, diede una carezza sul viso al figlio e celiò: «Detto da bravo uomo di Neanderthal.»

Ciò detto, se ne andò in casa con il suo passo elegante, lasciando che a far loro compagnia fosse solo il canto delle cicale e, in lontananza, lo sciabordio delle acque del lago.

Phie non fece neppure l'atto di alzarsi dalla sua sdraio e Cam, indispettito, si accomodò sulla sedia che, in precedenza, aveva occupato la madre.

«Si può sapere che ti prende? Non hai detto che volevi andarci? Andiamo, allora!»

«Perché?» si interessò Phie, vagamente preoccupata. Che Dom, dopotutto, avesse spifferato tutto sui suoi sentimenti?

Dalla faccia aggrottata dell'amico, però, non sembrava. Appariva irritato, ma non certo in imbarazzo, o lusingato.

Cam si accigliò ancora di più e, fissandola malamente, replicò: «Che razza di domanda è, Phie? Chi ti dovrebbe accompagnare, scusa? O preferisci che sia Dom, a farlo? Mi ha detto che oggi vi siete divertiti molto, in barca.»

Nel dirlo, quasi si strozzò, tanto aveva i denti digrignati e Sophie, fissandolo sconcertata, si chiese se per caso Cam... non fosse geloso del fratello.

La sola idea la portò a sorridere, dando così un'idea del tutto sbagliata a Cameron che, accigliandosi, borbottò: «Oh, a quanto vedo è vero. Allora, sarà il caso che vada a chiamare lui. Avrei dovuto pensarci prima. Dopotutto, siete sempre andati d'amore e d'accordo.»

Phie lo guardò a bocca spalancata mentre, come una furia indomita, si levò dalla sedia, i pugni serrati e l'aria di voler spaccare qualche faccia.

Forse, proprio quella del fratello.

Fu a quel punto che si mosse.

Si levò in piedi alla svelta, lo raggiunse poco prima che raggiungesse la porta e, lasciando perdere le sue paure, lo abbracciò da dietro, poggiando il capo contro la sua schiena, le mani ben serrate sullo stomaco di Cam.

Lo sentì irrigidirsi tutto, il cuore che batteva a mille e, di getto, esalò: «Non fare del male a Dom! Non abbiamo fatto niente, oggi!»

Cameron si rilassò appena, ma disse: «E' comunque evidente che tu ti trovi bene, con lui, e il contrario. Sarà meglio che chiami Dom.»

Sophie rinserrò la presa e sibilò contrariata: «Piantala di fare l'idiota e rimani qui con me! Voglio te, qui! Non lui!»

«Phie...»

Raccogliendo il coraggio a due mani, lei mormorò: «Dom è come il fratello che non ho mai avuto, ma tu... tu...»

Cam allora poggiò le mani su quelle di Phie, che ancora lo stringevano e, con fermezza, le scostò per potersi voltare.

Lei levò il viso a guardarlo, le rade luci a led della veranda che illuminavano l'alone dorato dei suoi capelli e, dopo essersi lappata le labbra, aggiunse: «Con lui mi trovo bene, Cam, ma non potrei mai vederlo diverso da quello che è. Un buon amico, il mio fratellone onorario, il mio imparziale confidente.»

Si passò le mani tra la folta chioma bruna, rilasciata sulle spalle, e concluse il suo soliloquio. «Tu non sei mai stato solo questo, per me. C'è sempre stato qualcosa, in te, che mi spingeva a starti accanto. A volerti accanto.»

Cameron le sfiorò le spalle con dita leggere, massaggiandole come per eliminare eventuali tensioni, e Sophie sospirò. Si sarebbe ben presto sciolta, sotto quelle mani.

«Come Dom è la brezza mattutina in una bella giornata di sole, con un panorama mozzafiato a fare da scenario, tu sei il temporale tra i flutti, l'uragano dirompente che si abbatte sulla costa.»

Cam sorrise a mezzo, carezzandole il viso con un dito. «Un uragano, eh?»

«Il mio uragano. Sei come un uragano dentro di me. E se io cerco Dom, è solo per riprendermi dai tuoi flutti terrificanti. Se io sto con Dom, è solo per non cadere vittima della tua forza dirompente... se io parlo con Dom, è solo perché mi sento al sicuro, con lui.»

Quelle ultime parole fecero aggrottare il viso di Cam che, vagamente piccato, ritirò la mano e si allontanò di un passo.

Phie allora annullò di sua volontà la distanza che li separava e, afferrata la camicia di raso di Cam, che frusciò sotto le sue dita, mormorò: «Con te non mi sento al sicuro per un solo motivo, Cam. Perché vorrei da te delle cose che non potrebbero essere sicure per me. Almeno, non agli occhi di mio padre.»

«Ti trovi su un sentiero pericoloso, Phie. Io mi allontanerei, fossi in te» mormorò roco Cam, reclinando il viso verso di lei.

Era più alto di una buona decina di centimetri, ma gli parvero molti di più in quel momento... e molti di meno.

«Sono dove voglio essere adesso» replicò lei, mordendosi il labbro inferiore, come a smentire la sicurezza del suo dire.

«Avresti fatto meglio ad andare da Dom, prima. Io non posso tenerti al sicuro, ora...» ansò lui, aderendo le sue labbra a quelle della ragazza un attimo dopo aver proferito quelle parole.

Quante volte aveva sognato di farlo? Più di quante ricordasse.

Quante volte si era dato del disgraziato per aver anche solo pensato di toccarla con un dito? Più di quante avrebbe mai ammesso.

Quante volte aveva sperato che quel sentimento si annullasse, sparisse per sempre? Più di quante il suo cuore volesse rammentare.

Non era possibile cancellare Phie dalla sua mente, dal suo cuore, dalla sua anima.

Lei era così. Ti prendeva completamente, e non ti lasciava più andare.

Con lui era stato così.

Un pomeriggio di primavera di un anno prima, nell'andare a prenderla a scuola, l'aveva vista sorridere a un'amica, e quel momento aveva segnato la fine e l'inizio di tutto, per lui.

Non aveva fatto nulla di diverso dal solito. Si era avvicinata a lui, era salita sul sedile posteriore della sua motocicletta, aveva messo il caso e gli aveva avvolto la vita con le braccia.

Tutto come sempre, con la sola differenza del mezzo di trasporto.

Anni addietro, l'aveva sempre accompagnata a casa standole accanto con la bicicletta, o con lo skateboard, che lei tanto amava.

Sempre assieme, sempre al fianco l'uno dell'altra, come buoni amici d'infanzia.

Fino a quel momento.

Ma quel sorriso aveva cambiato tutto. Quel sorriso l'aveva fatto quasi stramazzare a terra.

Perché, quell'affetto incondizionato, aveva desiderato averlo per lui solo e, da quel momento, era peggiorato tutto.

Perché, col tempo, l'affetto incondizionato si era trasformato in amore.

Era quello che aveva iniziato a desiderare di vedere nei sorrisi di Phie, e questo l'aveva spaventato.

Per sé, per l'amicizia che li legava, per una serie di altri motivi legati alle loro famiglie.

C'erano troppi legami tra loro, troppe cose che avrebbero potuto andare male.

E così aveva taciuto, aveva lasciato che il suo amore per lei crescesse nel silenzio, che gli aspetti di Phie che, negli anni, aveva sempre e solo apprezzato, diventassero catene intorno a lui.

E ora quella confessione, quel confuso tentativo di ammettere che anche lei sentiva le stesse cose. E che Dom sapeva ogni cosa anche dei sentimenti di Phie.

Il viso stretto tra le sue mani, Cam non le diede scampo, divorando quelle labbra a cuore che tanto aveva guardato con bramosia.

Gli scherzi, le battute, l'ironia continua, nulla era servito a tenere a bada il suo cocente sentimento.

Ora era lì tra le sue braccia, malleabile come creta e pericolosamente indifesa.

Ma niente di quanto si disse per fermarsi, ebbe effetto.

Continuò nel suo assalto, la sentì ansimare sotto di lui, afferrare come meglio poteva il suo corpo irrigidito dalla passione esplosa all'improvviso.

E un attimo dopo il suo viso andò in fiamme.

Un colpo di cannone gli sarebbe sembrato meno forte, meno straziante.

Volò a terra, giù dal patio, per finire lungo riverso sul prato del giardino, mentre Phie esalava un sospiro di sorpresa e terrore e Dom lo fissava livido, il pugno ancora levato.

Ansante e col volto percorso dalla rabbia più nera, Domenic lo raggiunse con un balzo e, presolo per il colletto della camicia, lo fece rialzare solo per ringhiargli in faccia il suo disgusto.

«Che diavolo ti è preso?! Ma non ti sei neppure reso conto di quello che stavi facendo?!» sibilò il gemello, ben intenzionato a non attirare l'attenzione di Hannah, che si trovava in salotto, sull'altro lato dello chalet.

Cam fece per ribattere alle accuse del fratello, ma un'occhiata a Phie gli bastò per azzittirsi.

E per farlo sentire un mostro.

I primi due bottoni dello chemisier erano slacciati e, cosa peggiore, lei appariva fin troppo scarmigliata, con gli occhi spalancati e confusi, le labbra tumide di baci.

E tutto per colpa sua.

«Che ho fatto?» esalò Cam, fissando il fratello in preda al panico.

«Per fortuna, nulla di irreparabile. Ora vai via, però. Vai!» gli intimò Dom, sospingendolo verso casa perché uscisse di scena senza ulteriori drammi.

Cam obbedì silenzioso e, senza neppure avere il coraggio di guardare Phie, si avviò verso l'uscita per prendere l'auto.

Qualche attimo dopo, udirono il rumore del motore mentre prendeva vita.

Phie scelse quel momento per crollare a sedere sulle assi del patio e Dom, subito da lei, le risistemò premuroso lo chemisier, borbottando: «Stai bene, Phie? Ti ha fatto male?»

Lei scosse il capo, pur tremando, e Dom le avvolse le spalle con un braccio per stringerla a sé, cullandola come se fosse stata una bambina.

«Ma che gli diceva la testa? Dio, ti stava divorando

Imprecò, si scusò per l'imprecazione e per averla spaventata, e aggiunse: «Non avrebbe dovuto comportarsi così.»

Phie levò i suoi lucenti occhi di un verde ambrato a fissare il viso di Dom, che mai come quella sera appariva diverso da quello di Cam, e mormorò: «Cos'è successo, esattamente?»

Dom allora ridacchiò nervoso, e replicò: «Quell'idiota di mio fratello non si è smentito, ecco cos'è successo. E' più di un anno che è ossessionato da te, Phie, ma non ha mai voluto aprire bocca per paura di rovinare tutto.»

Lei sbatté le palpebre, confusa, e il ragazzo si vide costretto a spiegarsi meglio.

Ma perché toccavano tutte a lui?

«Mi disse di non riuscire più a vederti solo come un'amica e, anche se in principio pensai si trattasse solo di una cotta – insomma, sei bella da far paura, Phie – capii ben presto che era qualcosa di più.»

Si interruppe per un attimo, decidendo quanto dire, e alla fine parlò.

«Ti ama davvero, Phie, e forse avrei dovuto dirtelo già oggi, ma così avrei tradito la sua fiducia. Insomma... sai com'è...»

La ragazza diede una pacca sul braccio all'amico, comprendendo pienamente ciò che Dom stava cercando di dirle.

Aveva sempre invidiato il loro cameratismo, e il desiderio di stare sempre in loro compagnia era nato anche da questo. Voler far parte di qualcosa di così speciale.

E Dom e Cam erano sempre stati grandiosi, in questo. L'avevano sempre fatta sentire parte del loro piccolo mondo.

Dom, con le sue gentili premure, e Cam, con i suoi scherzi e le sue battute.

«Che gran casino...»

Domenic si passò una mano tra i lunghi capelli biondi, che portava appena sopra le spalle, e aggiunse: «Non pensavo che avrebbe perso il controllo fino a questo punto. Ti sei spaventata?»

«Per un momento. Poi...»

Phie arrossì, e così pure Dom che, passatosi una mano sugli occhi, esalò: «Non dirmelo, ti prego. Preferisco restarne fuori, per quanto possibile. Ora vado a cercarlo, prima che si impicchi al pensiero di averti fatto male.»

«Ci penso io» replicò la ragazza, sorprendendolo.

«Non preferiresti...»

Phie lo azzittì con un semplice diniego e, nel sollevarsi appena, lo baciò su una guancia e mormorò: «Sai essere un fratello stupendo. Per tutti e due.»

Detto ciò, si fiondò in casa, salì al piano superiore e ne discese qualche minuto dopo con pantaloncini, camicetta e scarpe da tennis.

Dom la guardò sfrecciare oltre le scale, affacciarsi in salotto e salutare Hannah, pregandola di non aspettarla alzata, perché avrebbe passato la serata a Tahoma senza Cam.

Domenic ascoltò la risata di sua madre, le scuse per il comportamento da dittatore del figlio e la risata di Phie.
Il suo contegno gli parve esemplare.

Quando, però, si fermò dinanzi a lui, i suoi occhi esprimevano tutta la paura e i dubbi che stava provando.

«Dove lo trovo?»

«L'imbarcadero di McKinney Creek... sai, dove c'è anche la piscina?»

Al suo assenso, Dom proseguì. «Di solito, quando vuole stare solo, se ne va lì, dove c'è la casupola della rimessa delle barche a nolo. Di notte, non ci va nessuno.»

«Ci andrò in bicicletta» assentì Phie prima di tappare la bocca a Dom, già pronto a protestare.

Gli mostrò il cellulare che teneva in tasca e strizzò l'occhio. «Se entro un'ora non ti mando un sms, sentiti pure libero di venire a cercarmi, okay?»

«Stai attenta. Di notte, c'è gente matta in giro.»

«Ne sto andando a cercare uno» ironizzò la ragazza, andandosene dopo un ultimo sorriso.

Dom sperò non si cacciasse nei guai.

***

Era forse impazzito? Che gli era saltato in mente, per aggredirla a quel modo?

Perché, in sostanza, l'aveva aggredita, e in grande stile!

Per l'amor di Dio, Phie non aveva esperienza di queste cose! Perché si era comportato così?!

Cam si passò le mani tra i capelli, ormai simili a una zazzera scomposta, e imprecò.

E dire che pensava di essere un ragazzo maturo.

Eccome!

Mamma e papà sarebbero stati davvero orgogliosi, una volta che Phie fosse scappata a piangere da Hannah, come avrebbe dovuto giustamente fare.

Accartocciato su se stesso, la schiena poggiata contro le assi logore dell'imbarcadero, Cameron non riusciva a venire a patti con ciò che aveva fatto a Phie.

Si era comportato da villano, non tenendo minimamente conto dei sentimenti di lei, della sua fragilità, delle sue paure... di niente!

Cosa c'era di tanto diverso da quel che faceva Damien con le sue vittime? Niente.

Si era comportato da porco esattamente come lui.

«Che idiota...»

«Non potrei essere più d'accordo di così, con te.»

Sobbalzando, Cam sbatté la testa contro la parete e Phie, scoppiando in una risata argentina, poggiò la bicicletta contro la ringhiera di legno e si avvicinò.

A quel punto, il giovane balzò in piedi come una molla, allungò le braccia per tenerla a distanza ed esclamò: «Che diavolo ci fai qui?! No, non avvicinarti, Phie!»

Lei allora inclinò il capo, la massa ribelle di onde brune le solleticò la spalla destra e, con voce quieta, mormorò la sua risposta.

«Non voglio affogarti, sai? Non c'è bisogno che mi tieni a distanza.»

«Ti ha detto Dom dove trovarmi, vero?» brontolò per contro l'altro, fissando caustico la bicicletta. «E ti ha permesso di venire qui da sola, di notte, su quel trabiccolo?! Dovrei strozzarlo!»

Phie arricciò le labbra in una smorfia, a quel commento, e replicò: «So pedalare, Cam. Non sono imbranata, e sono ancora capace di attraversare una strada. Per chi mi hai presa?!»

Lui preferì non aprire bocca.

«Non c'era bisogno di scappare, Cam. Mi hai solo colta di sorpresa» continuò a parlare la ragazza, avanzando di un altro passo.

Cameron indietreggiò, andando a urtare la ringhiera lignea che delimitava l'imbarcadero.

Phie sogghignò.

«Non avrei dovuto comportarmi così. In nessun caso» scosse il capo Cam, reclinando colpevole il capo. «Mi sono lasciato trasportare, senza tenere minimamente conto delle tue esigenze, dei tuoi desideri. E' stato imperdonabile.»

«Cam...»

La voce di Phie era vicinissima, ora, e il giovane poteva vedere con chiarezza il contorno delle sue scarpe da tennis, delle ginocchia messe in evidenza dai pantaloncini che indossava e...

...del dito che giunse a sollevare il suo mento, riportando i suoi occhi chiari a galleggiare nelle verdeggianti profondità di quelle di Phie.

Gli erano sempre parsi occhi strani, occhi da gatta. Come quelli del padre, ma con un tocco in più che li rendeva più esotici, più singolari.

Del colore delle giade, ma dall'aureola chiara, quasi gialla, come se fossero illuminati dall'interno dalla luce stessa del sole.

«Phie...»

«Perché non mi hai detto nulla? Perché ho dovuto saperlo da Dom?»

Cameron crollò. Reclinò il capo, lo poggiò contro la spalla della ragazza e, a occhi chiusi, inspirò il suo dolce profumo di mele candite.

Gli era sempre piaciuto, fin da piccolo, ma solo nell'ultimo anno era diventato la sua ossessione. Diurna, e notturna.

«Non volevo rovinare tutto, la nostra amicizia, il nostro cameratismo, ogni cosa...» ammise a quel punto, contrito. «Ma... quando mi hai detto di provare dei sentimenti per me, non ho più tenuto a bada i miei, di sentimenti. Sono esplosi da sotto gli strati protettivi in cui li avevo riposti... e ti ho aggredita.»

La mano di Phie andò a carezzare la zazzera di capelli corti di Cam, muovendosi lenta, leggera, delicata come la brezza che stava sommovendo le acque del lago.

Cam sospirò, chetandosi un poco.

Solo lei, a parte sua madre, era sempre stata in grado di calmarlo a quel modo. Nessun altro, neppure papà.

«Ti ho sorpreso, tutto qui. Ma non mi hai fatto male, Cam. Non potresti mai.»

«Ti stavo spogliando, Phie. Non è esattamente una cosa carina da fare, a una ragazza. Soprattutto, a una ragazza non abituata a questo genere di situazioni» protestò lui, levando il viso per fulminarla con lo sguardo.

Lei, per contro, sorrise birichina.

«E ti sei preso un pugno in faccia, per questo. Come sta, l'occhio, tra l'altro?»

Cameron se lo tastò. L'aveva sentito pulsare fino a quel momento, gonfiarsi sotto le sue dita esitanti, ma l'aveva trovato un giusto prezzo da pagare, per quello che aveva fatto.

«Fa male. Ma mi sta bene.»

Phie si levò in punta di piedi per baciarglielo e Cam, immobile, lasciò che lei si appoggiasse al suo petto con i palmi delle mani.

Non toccarla, si disse imperioso.

Le mani restarono sul raso liscio, giocherellarono con i bottoni, distratte, curiose, divertite al pari del mezzo sorriso che aleggiava sul viso di Phie.

Cam non seppe che fare, né dire.

«Sei stato con altre ragazze, vero?» mormorò lei, scrutando con attenzione uno dei bottoni della camicia di Cam. Il suo sguardo gli era precluso.

«Phie, ti prego...»

«Rispondi.» Non fu una gentile richiesta, ma un ordine vero e proprio.

«Due ragazze. Contenta?»

Lei scosse il capo, e proseguì nel terzo grado.

«Ci hai fatto sesso?»

«PHIE!» gracchiò, avvampando in viso.

La ragazza allora levò due iridi di fuoco su di lui, e a Cam non restò che rispondere.

Con un sospiro esasperato.

«Con una. E adesso basta. Non risponderò ad altro, è chiaro?»

«E' stato bello?» domandò l'altra, in barba alle richieste del giovane.

Cameron sbuffò, imprecò, cercò di divincolarsi senza toccarla, ma alla fine capitolò.

«Niente di che, Phie. Ero a una festa organizzata da un paio di miei amici, eravamo entrambi ubriachi persi e siamo finiti a letto assieme. La mattina dopo, non sapevamo dove guardare. L'abbiamo presa in ridere, quando abbiamo capito di non sapere bene come fosse successo – neanche la conoscevo granché, tra l'altro – e ci siamo salutati. Ogni tanto, ne ridiamo ancora, a dirla tutta.»

«La conosco?»

«Phie, la smetti? Perché sei così morbosa?!»

«La mia prima volta, dovrà essere speciale. E voglio che sia con te» sottolineò la ragazza, mandandolo al tappeto.

Letteralmente, le gambe di Cam cedettero di botto, mandandolo a schiantare il didietro sulle assi dell'imbarcadero.

Sorpresa da quella reazione, Phie scoppiò a ridere quando lo guardò in viso, lui pallido come un cencio e gli occhi sgranati per il panico.

Inginocchiatasi accanto a lui, gli carezzò una guancia e aggiunse: «Non ho detto stasera, Cam. Ma so che sarà con te. Quindi, hai tutto il tempo di preparare qualcosa di meraviglioso. E credimi, lo farai da sobrio

Con un sorriso, si chinò poi sulla sua bocca per un bacio leggero.

Cameron sospirò, le sfiorò la nuca con la mano per trattenerla vicino e giocare con le sue labbra e, quando fu certo di riuscire a parlare con chiarezza, mormorò: «Sei sicura?»

«Se la smetterai di farmi tutti quegli scherzi, sì.»

Lui allora scoppiò a ridere, si rialzò assieme a lei e, presala in braccio a sorpresa, le fece fare un mezzo giro prima di rimetterla a terra.

«Dovrò continuare, invece, o i nostri genitori sospetteranno sicuramente qualcosa, e non ci permetteranno mai più di viaggiare assieme da soli

«Oh... una relazione clandestina?» ironizzò Phie, trovando l'idea assolutamente divertente.

Cam le afferrò il viso, carezzandone gli zigomi con i pollici e, dopo averle baciato il naso e le labbra, assentì.

«Solo per poter stare assieme come ora. Ma non perché io desideri tenerti nascosta al mondo.»

«Vedremo come va. Se ci scopriranno, amen» acconsentì Phie.

Lui le sorrise, la strinse in un caldo abbraccio e, poggiato un bacio sui suoi capelli, le domandò: «Quanto ti ha detto, Dom?»

«Solo che mi ami.»

«Solo? Mi sembra già piuttosto importante!» protestò Cam, scostandosi per guardarla vagamente piccato.

Lei allora rise, gli saltò con le braccia al collo ed esclamò: «Hai ragione. Scusami tanto. Non è 'solo'... è l'unica cosa importante.»

«Ora va meglio» sussurrò lui, già pronto a baciarla.

Phie, però, lanciò un urletto, si scostò in fretta da lui e, armeggiando febbrilmente con il cellulare, inviò in tutta fretta un sms.

Confuso, Cam le domandò: «Beh? Era proprio il caso di rovinare un momento romantico con uno sciocco sms?»

Per diretta risposta, Phie gli mostrò il messaggio, e chiosò: «Se non lo avessi inviato per tempo, Dom si sarebbe fiondato qui per darti una lezione. Preferivi l'alternativa?»

Cameron allora si massaggiò l'occhio, scosse il capo e ammise: «No, per stasera ho dato.»

«Il più sarà spiegarlo a tua madre, domattina.»

Sogghignando malizioso, lui le avvolse la vita con le braccia, se la strinse al petto e, nell'avvicinarsi alla sua bocca a cuore, mormorò: «Le dirò che mi sono battuto onorevolmente per difenderti da dei galletti presuntuosi.»

Lei sorrise e, poco prima di baciarlo, sussurrò: «Ne vedo solo uno, ed è qui con me.»

 



__________________________________________
1 Yuki-necchan: "necchan" è un suffisso giapponese, e nel caso specifico è un vezzeggiativo. Significa, grosso modo, sorellona, e si usa quando si ha in confidenza una persona, che può anche non essere della famiglia. E' sempre qualcuno più grande di chi parla.

L'idea di scrivere una storia su Cam, Dom e Phie mi sta ronzando in testa da un po' ma, trattandosi di un futuro prossimo, devo vagliarla bene per non scadere troppo nella fantascienza e poco nel realistico. Ci penserò sopra. Voi, eventualmente, fatemi sapere cosa ne pensate. Grazie ^_^

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Capitolo 16
*** Decisioni (Dicembre 2028) ***


Asahikawa – Isola di Hokkaido (Japan)
Dicembre 2028.
 
 
 
Il freddo era importante, ma poco contava, in quel momento.

La vista del palazzo a due piani della famiglia Tashida, in quel momento imbiancato dalla neve, bastò a chetare i tremori di Domenic.

I classici e caratteristici tetti a pagoda portavano senza apparente sforzo non meno di mezzo metro di neve, neve che era stata tolta nel cortile e nel viale d'ingresso.

Tutt'attorno, le piante da giardino erano sommerse non meno del boschetto poco distante. Persino il laghetto, appena visibile dall'entrata, era uno specchio ghiacciato e bianco.

Tutto era mono colore, eppure era splendido e perfetto, agli occhi di Domenic.

Ma sapeva bene il perché di quell'effetto, e tacerlo era ormai divenuto stancante quanto doloroso.

Ugualmente, lasciò correre quel pensiero finché non svanì, preferendo non fissarsi troppo con il rischio di lasciar trapelare i suoi dubbi.

Non era venuto lì per sospirare melanconicamente, ma per godersi le festività assieme alla famiglia e ai suoi amici.

Lanciando un'occhiata ai suoi parenti, Dom sorrise nel guardare le mani allacciate di  nonno Andrea e nonna Helena. La vecchiaia non sembrava pesare a nessuno dei due e anzi, sembravano ringiovanire a ogni giorno che passava.

Cosa non poteva fare, l'amore!

Poco distanti, zio Phill e zio Brandon stavano commentando con Beau e Serena sui vantaggi di un caldo copricapo invernale, mentre Cam se la rideva con Phie.

Quei due erano sempre stati come cane e gatto, pur volendosi un bene dell'anima, eppure qualcosa non gli quadrava.

Cam la guardava in un modo diverso dal solito, pur se Phie sembrava non accorgersene.

Avrebbe chiesto lumi al gemello, prima o poi, ma di certo non durante una vacanza.

Lanciato un sorriso ai suoi genitori, Dom si avvicinò a sua madre, le mani infilate nel cappotto, e disse: “Sei sicura di non avere freddo? Ti prendo la sciarpa in auto?”

Hannah gli tributò un sorriso tutto fossette e, scuotendo il capo, replicò: “Sto bene, tesoro. Tranquillo. Tu, piuttosto. Sei tu a essere reduce da una settimana di febbre da cavallo. Sei certo di sentirti bene?”

“Forte e sano, mamma. Tra te e la nonna, mi avete imbottito di cibo, medicinali e coccole. Ne ho a sufficienza per combattere ben di più di un'influenza” la tranquillizzò lui, facendo spallucce.

Nick sorrise al figlio, chiosando: “E ti sei salvato per il rotto della cuffia, visto che Glenn è a New York.”

Dom ghignò, annuendo. “Solo perché l'ho scongiurata di non prendere un aereo solo perché avevo l'influenza. Altrimenti, sarebbe venuta anche lei.”

Il trio rise e Cam, nell'avvolgere le spalle del gemello, domandò: “Posso ridere anch'io?”

“Parlavamo di nonna Glenn.”

“Oh” assentì il gemello, ridacchiando. “Se tu non l'avessi fermata, si sarebbe catapultata al JFK per prendere il primo charter di passaggio.”

“Che ci volete fare... siete i suoi nipoti adorati. E sapervi lontani le fa venire nostalgia” scrollò le spalle Hannah.

Quando Pavel, circa dieci anni addietro, era stato elevato a chef – nella catena dove lavorava – si era visto costretto a trasferirsi nel nuovo ristorante a lui designato.

Glenn, a quel punto, l'aveva seguito senza se e senza ma e, nel giro di un mese, aveva trovato una graziosa casetta nell'hinterland della Grande Mela.

Tutto si era svolto così in fretta, che Hannah non aveva quasi avuto modo di prendere fiato e, quando aveva salutato la madre all'aeroporto, era scoppiata a piangere.

Glenn l'aveva rabbonita con un bacio, e le aveva promesso di vedersi il maggior numero di volte possibili, cosa che poi era puntualmente avvenuta.

“Potremmo andare da loro, al ritorno dall'Hokkaido. Faremo loro una sorpresa” propose Cam, tutto giulivo.

“Vi farete accompagnare dai nonni. Io, purtroppo, devo rientrare già il tre gennaio, per cui...” sospirò Nicholas, prima di guardare la porta d'ingresso del palazzo e chiosare: “Forse, se suoniamo il campanello, qualcuno verrà ad aprirci.”

Scoppiando a ridere, Phie si mosse prima degli altri e, dopo aver pigiato il pulsante, si rivolse a Helena e le domandò: “Kyle, Sarah e il piccolo Keath sono ancora in giro per la Novergia?”

“Quei ragazzi!” sbuffò Helena, scuotendo il capo. “Portare un bambino di sei anni in giro per dei fiordi congelati. Andrà ancora bene se non tornerà con la broncopolmonite!”

Andrea le batté una mano sulla spalla, tranquillizzandola. “E' stato proprio Keath a chiedere di andarci, però.”

“E se avesse chiesto di andare sulla Luna, ce l'avrebbero portato?” protestò la donna.

Serafico, Andrea replicò: “Lo sai che i minorenni non possono salire sulle navette.”

Helena lo frizzò con uno sguardo raggelante, ma il marito non disse altro, dimostrando di essere persona saggia e accorta.

Nessuno ebbe il coraggio di ridere apertamente, ma molti sorrisi comparvero sui volti di tutti.

In quel mentre, uno dei servitori dei Tashida fece la sua apparizione all'entrata e, dopo essersi inchinato cerimoniosamente, sorrise a Nickolas e disse: “Sono lieto di vedervi tutti, Van Berger-san. Il viaggio è stato piacevole? Abbiamo saputo che le strade non erano poi così pulite come speravamo.”

Nickolas rispose all'inchino con uno meno formale e, annuendo, ammise: “Il vento ha causato più danni del previsto, lungo le strade, ma non abbiamo avuto problemi degni di nota.”

Indicando poi i Van con cui erano giunti, aggiunse: “Li abbiamo sistemati lì. Se preferite spostarli, ti lascio le chiavi, Todewaki-san.

“Vanno benissimo lì, non tema. Mancano solo un paio di auto all'appello, perciò non ci sono problemi. Se intanto volete seguirmi, vi accompagnerò nel salone principale. Alle valige penseranno i membri della servitù.”

Abituati al genere di trattamento riservato agli ospiti, e in particolare ai Van Berger, nessuno si stupì di tanta sollecitudine e il gruppo seguì in silenzio il domestico.

L'interno della villa, lussuoso e in linea con il tradizionale gusto giapponese, presentava interminabili pareti di shoji in carta di riso e muri in legno laccato.

Tutto profumava di rose e fresia, l'illuminazione era in parte naturale e in parte ottenuta grazie a  led dai toni caldi, che si confondevano alla perfezione con la struttura.

All'esterno, visibile attraverso lunghe vetrate, si estendeva la veranda che circondava la villa, in quel momento ripulita da uno stuolo di domestici.

Non appena raggiunsero il salone principale della villa, situato nel suo mezzo, il domestico li pregò di accomodarsi su comodi divani.

Servito loro alcuni stuzzichini e delle bevande calde e fredde, si inchinò compitamente e scomparve in silenzio per avvertire il padrone di casa del loro arrivo.

Neppure tre secondi dopo fece il suo ingresso Yuki Tashida, la minore dei figli di Noboru, capostipite della famiglia

I lunghi e fluenti capelli neri le scivolarono sulle spalle mentre, con un inchino, salutava i suoi ospiti.

“Benarrivati, amici miei. Mio padre e Nobu-san arriveranno subito. Stanno terminando una noiosissima quanto importante video conferenza con un diplomatico cinese” esordì lei, ammiccando all'indirizzo dei tre giovani amici, che cercarono in ogni modo di non ridere.

“Non ci sono problemi, Yuki-chan. Attenderemo piacevolmente qui il loro arrivo” replicò Nicholas per tutti. “Ekaterina si unirà a noi, quest'anno?”

“Giungerà a breve. Ha telefonato giusto un'ora fa, dicendo che il suo aereo era appena atterrato a Sapporo.”

Yuki sorrise a mezzo nel pensare alla madre di origine russa e, tra sé, si domandò se avrebbe portato anche il suo nuovo compagno.

Sapeva per certo che stavano insieme da almeno un anno e che, da quello che le aveva detto la madre, sembravano piuttosto compatibili.

Avrebbe voluto verificarlo di persona, a ogni modo, perché non si fidava molto dei gusti della madre.

Separatasi dal marito Noboru sei anni prima, era rimasta in ottimi rapporti con tutta la famiglia Tashida e, non di rado, aveva passato le festività assieme a loro.

Anche in compagnia dei suoi compagni del momento.

Noboru non era mai stato irritato dalla cosa e, anzi, aveva lodato la ex moglie per le sue conquiste.

Erano rimasti amici, nonostante tutto, e questo aveva reso più semplice ai loro quattro figli venire a patti con il divorzio dei genitori.

Yuki in particolare, ne aveva sofferto. Come unica donna della famiglia, aveva sentito molto la mancanza della madre, i primi tempi, e solo la sua tata l'aveva fatta sentire meno sola.

Crescendo, però, e constatando quanto Ekaterina e Noboru non si fossero separati in odio, questo dolore si era sopito fino a scomparire.

E ora era normale, per lei, veder giungere sua madre con un uomo che non fosse il padre. Così come era normale vedere il padre parlare tranquillamente con i compagni della ex moglie.

“Se mi posso permettere, ruberei alla vostra compagnia i vostri figli, così che possa mostrare loro la nuova sauna” asserì a quel punto Yuki, lasciando perdere i pensieri sulla madre.

Cameron non si lasciò sfuggire l'occasione e, balzando in piedi, si affrettò a raggiungere Yuki, chiosando: “Non possiamo certo intristire la nostra ospite dicendo no, vero papà?”

Domenic, con maggiore contegno e meno sfacciataggine, offrì il braccio a Sophie per aiutarla ad alzarsi dal divano e aggiunse: “Torneremo sicuramente in tempo per salutare degnamente Noboru-san e suo figlio.”

“Non ho dubbi, Dom. Andate pure” assentì il padre, trattenendo a stento un risolino.

Il gruppo fu così lesto a uscire dal salone che quasi lo shoji rimbalzò contro la parete, per la fretta di chiuderselo alle spalle.

Ridacchiando, Yuki allora prese Sophie sottobraccio e mormorò con aria da cospiratrice: “Parleranno di politica ed economia per almeno un'ora, e onestamente ne faccio volentieri a meno. Forse, dopotutto, avrei dovuto chiedere a Hannah-san, Serena-san e Helena-san  di partecipare alla nostra spedizione. ”

“Non sai quanto sono d'accordo con te, Yuki-necchan” assentì Cameron, ghignante. “Ma non preoccuparti per mamma e le altre. Hanno più capacità di sopportazione di noi.”

“Mi rincuora saperlo, Cameron-kun” asserì a quel punto lei, ammiccando con gli originali e rarissimi occhi grigi, retaggio della madre.

Domenic, più compassato, aggiunse: “Dubito avrebbero avuto interesse nel sentire i nostri commenti, comunque. Siamo troppo giovani e inesperti, per poter dire qualcosa di interessante.”

“Ehi, voi sarete giovani e inesperti, ma la sottoscritta ha già diciotto anni, perciò è l'unica matura del gruppo” ironizzò Yuki, sorridendo simpaticamente.

“Solo perché ci separano tredici mesi sul calendario, non vuol dire che puoi comandarci a bacchetta, sorellona. Potremmo sempre far valere la nostra superiore forza in battaglia” ghignò per contro Cam, tutto baldanzoso.

“Sono mesi che non ti vedo su un tatami, Cameron-kun ma, se vuoi proprio sfidarmi, non hai che da dirlo” lo minacciò bonariamente Yuki, facendo ridere l'intero gruppo.

Conoscendosi fin da quando i gemelli avevano avuto sei anni, la loro complicità e amicizia era cresciuta negli anni.

I Tashida e i Van Berger, oltre a essere uniti dal punto di vista economico – le rispettive aziende avevano diversi progetti in comune – erano anche amici di vecchia data.

Ma se con Nobu, il maggiore dei figli di Tashida, i gemelli e Phie non avevano mai legato molto, con Shunsuke, Kaneda e Yuki la cosa era stata diversa.

In quel momento assenti, Shunsuke e Kaneda avevano comunque promesso di giungere in tempo per festeggiare con familiari e amici. Gli impegni di lavoro non li avrebbero mai tenuti lontano da casa, e proprio in quei giorni.

Era ormai molto tempo che, alternandosi di anno in anno, le due famiglie passavano quella festività assieme e, anche quell'anno, l'usanza sarebbe stata mantenuta.

Raggiunta una scaletta esterna, che conduceva direttamente a un capanno in legno nei pressi del laghetto – ora ghiacciato – Yuki sorrise e salutò un giovane poco lontano.

Lanciata poi un'occhiata ai suoi ospiti, disse: “Quello che ci aspetta laggiù è Shinichi Moroizaki, il mio ragazzo. Non credo lo abbiate conosciuto, quest'estate.”

“No, infatti” negò Domenic, lanciando un'occhiata curiosa in direzione del giovane, infagottato in un parka lungo fino al ginocchio.

I caratteristici capelli neri e lisci erano tagliati a spazzola e solcavano un viso sottile ed elegante, quasi efebico.

Di struttura esile ed elegante, Shinichi appariva molto giovane, ma Domenic dubitò concretamente che potesse essere più piccolo di Yuki.

“Studia con te?” si informò a quel punto, guardando l'amica.

Hay. Sì. Nel mio corso al primo anno di informatica, all'università di Tokyo. E' molto intelligente” gli spiegò lei, indicando poi agli altri di incamminarsi verso le scale.

Le mani infilate in tasca, Domenic la squadrò ancora per un secondo, prima di riportare la sua attenzione verso il ragazzo di lei.

“Mi sarei stupito del contrario.”

“In che senso?” volle sapere Yuki, bloccandolo a un braccio prima di scendere.

Domenic le tributò un sorriso tenero, asserendo: “Nessun ragazzo potrebbe reggere il tuo confronto, se fosse meno che intelligente.”

“Dici sempre cose carine, Domenic-kun” gli sorrise di rimando lei, riprendendo la discesa.

“Difficilmente, dico quello che non penso” replicò lui, spallucciando. Anche se ho anch'io le mie eccezioni, pensò poi, irridendo se stesso.

“Lo so” assentì Yuki, tributandogli una calda occhiata da sopra la spalla prima di raggiungere Shinichi e gli altri.

 
***

Sorseggiando un tè caldo mentre, in giardino, era in pieno svolgimento una battaglia a palle di neve, Domenic si volse a mezzo quando sentì i passi attutiti di qualcuno.

Accigliandosi leggermente quando vide un volto del tutto nuovo, quanto inaspettato, accennò un saluto col capo prima di tornare a guardare i suoi amici battagliare.

“Non ti unisci a loro?” esordì l'uomo, di chiara origine europea.

Alto, biondo, dal fisico tonico e atletico e con occhi azzurro ghiaccio velati da un sorriso, l'uomo squadrò per un attimo Domenic prima di volgersi verso il giardino.

“Lascio a loro l'idillio di finire congelati. Ho appena passato un'influenza orribile, e non voglio bissare” chiosò Domenic, allungando la mano libera. “Domenic Van Berger, molto piacere.”

L'europeo replicò al saluto, asserendo: “Byron Lodge. Sono una delle guardie del corpo di Nobu-san. Non ci siamo mai visti, prima di oggi, perché sono stato assunto solo alcuni mesi fa.”

Dom digerì la notizia prima di fare tanto d'occhi e mormorare: “Il tentato sequestro. Ora ricordo. Mio padre mi disse che Nobu-san fu salvato da un ex soldato britannico. Devo supporre fossi tu.”

“Esatto. E, visto che la famiglia Tashida ha apprezzato il gesto, hanno pensato di assumermi” spiegò succintamente l'uomo, ammiccando.

“Visto quello che hai fatto, non posso che essere d'accordo con loro” dichiarò Domenic, rilassandosi un poco. “Quindi... ex militare? Stanco di sopportare gli ordini di qualche incompetente?”

Byron rise con aria vagamente cinica, e Domenic ebbe il sospetto di aver centrato il problema al primo colpo.

Se un uomo ne salvava un altro in sprezzo del pericolo, e senza averlo mai neppure conosciuto, non poteva essere un vile.

E gli uomini coraggiosi sono anche buoni soldati. Perciò, perché allontanarsi, se non per disaccordi con i superiori?

L'inglese fissò con una certa ironia Domenic e ammise: “Nobu-san mi aveva decantato la tua sagacia, ma pensavo scherzasse.”

Domenic si limitò a sorridere.

Tornato serio, Byron allora aggiunse: “Ritengo un dovere di ogni buon soldato raggiungere con ogni mezzo il buon esito della missione per cui si combatte. Ma c'era chi pensava solo al profitto, utilizzando le missioni per lucrare sugli stanziamenti. Lo scoprii, e mi radiarono per farmi tacere.”

Non disse come riuscì a trovare le prove di quel furto su larga scala, ma questo al giovane Van Berger non doveva interessare.

“Lavorare per i Tashida ti darà sicuramente più soddisfazioni e forse, meno problemi. Sono un'ottima famiglia” convenne Dom, lanciando un'occhiata alle persone presenti nel parco.

Shunsuke, Kaneda e Yuki avevano formato una squadra, che ora se la stava vedendo con Phie, Cam e Shinichi. Metà di loro erano già ricoperti ampiamente di neve.

“Con me, sono sicuramente stati generosi” assentì Byron, prima di lanciare un'occhiata a Domenic e sorridere sornione. “Non piace neppure a te, vero?”

“Cosa?” dichiarò il giovane, sobbalzando confuso.

Byron lanciò un'occhiata a Shinichi, in quel momento finito a terra in un cumulo di neve.

Compreso cosa volesse dire, Domenic si fece imperscrutabile in viso e replicò: “Perché non dovrebbe piacermi Moroizaki-san? Praticamente non lo conosco e, per quel poco che gli ho parlato a pranzo, mi sembra una persona cordiale e gentile.”

“Ma non la persona adatta a una ragazza come Yuki-san” sottolineò l'inglese, infilando le mani in tasca con aria pensosa. “Forse non la conoscerò come te, Domenic, ma per l'idea che mi sono fatto di lei, Yuki-san ha bisogno di qualcuno con maggiore spina dorsale, e Moroizaki-san non è proprio il tipo.”

“Però piace a lei, ed è questo l'importante” replicò Domenic, pur trovandosi d'accordo con l'inglese. Yuki aveva fin troppo carattere e tenacia, per potersi accontentare di un ragazzo così morigerato.

Ma questo non l'avrebbe mai detto ad alta voce. Rispettava troppo Yuki per criticarla, anche di fronte a una scelta – a suo modo di vedere – sbagliata.

Byron si fece malizioso in viso e mormorò per contro: “Credimi, Domenic, ti fa onore essere così generoso nel proteggere i sentimenti della tua amica, ma quando una cosa è sbagliata, rimane sbagliata. E Moroizaki-san è la persona sbagliata. Spero solo per la giovane Yuki-san che se ne accorga a sua volta, e non commetta l'errore di legarsi a una persona che non fa per lei. Questo le porterebbe solo dei dolori inutili.”

“Yuki-necchan ha un discernimento raro, e dubito potrebbe mai commettere un errore” si limitò a dire Domenic, pur sperando a sua volta che l'amica aprisse gli occhi su Shinichi.

Non era il ragazzo adatto a lei.

 
***

“Non hai freddo, qui fuori?”

La voce di Yuki giunse alle sue orecchie come velluto morbido e Domenic, nel volgersi a mezzo, le sorrise.

Poggiato al parapetto della veranda che circondava la villa, Dom era impegnato a contemplare il lento cadere della neve dal cielo.

Per la mattina seguente, ne sarebbero caduti non meno di venti centimetri, e tutto il paesaggio avrebbe mutato ancora aspetto.

L'Hokkaido, e i suoi inverni così nevosi, gli erano sempre piaciuti molto anche per questo.

Certo, se avesse voluto vedere dei paesaggi imbiancati, avrebbe potuto recarsi ad Aspen, o al Lago Tahoe, ma quei luoghi avevano una bellezza unica, senza tempo.

Poco lontano, nel boschetto che circondava la villa, si udirono di suoni soffusi, un tramestio di rami e qualche protesta.

“Scimmie. Quasi sicuramente. Hanno ripopolato la zona, negli ultimi anni, e sembra che si siano adattate bene a questi boschi” gli spiegò Yuki, appoggiandosi al parapetto a pochi centimetri da lui.

Dom le sbirciò il profilo morbido ed elegante e, sommessamente, mormorò: “Non dormi, Yuki-necchan?”

Lei lo fissò dubbiosa, indecisa su cosa dire ma, alla fine, asserì: “Posso contare sulla tua discrezione? E su un consiglio del tutto spassionato?”

“Mi conosci da molto tempo, sorellona, e penso proprio di non averti mai fatto mancare il primo, né tanto meno il secondo.”

Yuki accennò un sorrisino, e annuì. Si passò una mano tra i lunghi capelli e, nel giocherellare con una ciocca, ammise: “Ho litigato con Shinichi-san.”

Un sopracciglio di Dom si levò interrogativo e la giovane, poggiando la fronte contro la spalla dell'amico d'infanzia, aggiunse: “Parlando del più e del meno, gli ho chiesto cosa ne pensasse di voi, e la sua risposta mi ha fatta infuriare.”

Vagamente ironico, Domenic dichiarò: “Non siamo di suo gradimento?”

“Ha detto che siete dei gaijin e basta. Niente affatto interessanti.”

“Stranieri, eh? Non si è accorto che, per la metà del tempo, abbiamo parlato con lui in giapponese?” sbuffò sarcasticamente l'amico, fissandola accigliato.

Yuki sospirò, replicando a mo' di scusa: “Forse non avrei dovuto dirtelo, ma l'ho sgridato, in ogni caso. Solo, volevo parlarne con qualcuno... e tu mi ascolti sempre.”

Domenic emise un lungo sospiro per calmarsi – già, lui era un asso nell'ascoltare le persone, forse anche troppo.

Nel tornare a sorriderle, si limitò a dire: “Yuki-necchan, siamo abbastanza grandi per sopportare le antipatie di qualcuno e, se tu tieni a Moroizaki-san, è giusto che lo frequenti. Indipendentemente dalla sua stima, o meno, nei nostri confronti.”

Gli costò parlare a quel modo, e le parole di Byron suonarono profetiche nella sua mente.

Era giusto mentire per salvaguardare i suoi sentimenti? Non era più corretto dirle cosa ne pensava di quel bell'imbusto?

Ma, a conti fatti, lui ne aveva il diritto?

La giovane storse il naso, tornando a scrutare la nevicata e il bosco, ora silenzioso.

“Siete miei amici, e non mi piace che si offendano i miei amici.”

Pur sorridendo dentro di sé a quelle parole, Dom si sentì in dovere di dire: “Ma devi ascoltare anzitutto il tuo cuore, e niente altro.”

“E tu, Cameron-kun e Sophie-chan lo accettereste, anche se lui vi disprezza perché siete gaijin?” esalò Yuki, fissando l'amico con aperta sorpresa.

Accettarlo? No, almeno per quel che lo riguardava non l'avrebbe mai accettato, e non perché Shinichi li considerava degli stranieri, non degni di stare con lui.

No, non l'avrebbe mai accettato perché aveva qualcosa che lui desiderava e che, ora, stava correndo il rischio di perdere perché non aveva mai avuto il coraggio di parlare.

Di ammettere, con se stesso e con Yuki, i suoi veri sentimenti.

Ma non voleva mettere l'amica nella scomoda situazione di dover decidere. Non l'avrebbe mai messa di proposito in difficoltà e, soprattutto, non si sarebbe giocato la sua amicizia a quel modo.

Teneva troppo a lei per causarle un dispiacere, o anche solo qualche dubbio.

Doveva fidarsi di Yuki, del suo discernimento e, se avesse deciso di rimanere con Moroizaki, sarebbe stata solo una decisione sua.

A quel punto, sarebbe spettato a lui mandare giù il rospo, sopportare – accettare, mai – di vederla assieme a un ragazzo che non fosse lui.

Perché era inutile che ci girasse tanto intorno, il problema era solo questo.

Non voleva che stesse con altri ragazzi, ma con lui.

Peccato che non avesse il coraggio di dirglielo, che non volesse affrontare il rischio di perdere anche la sua amicizia, qualora lei non fosse stata disposta ad accettare i suoi sentimenti.

“Il tuo cuore deve venire prima di tutto, Yuki-necchan. Noi veniamo dopo” riuscì in qualche modo a dire, accennando un sorriso per tranquillizzarla.

Lei sospirò, annuendo e, nel levarsi in punta di piedi per deporgli un bacio sulla guancia, mormorò: “Torna dentro. Si sta facendo davvero freddo e la tua pelle è gelata.”

“Tra poco” le promise, osservandola correre via lungo la veranda, per poi inforcare uno shoji e sparire in casa.

Fu a quel punto che Domenic si piegò su se stesso, rattrappendosi fino a scivolare a terra, stringendosi le ginocchia al petto.

Dondolò per un po', il mento poggiato sulle ginocchia e, con un sospiro, afferrò il cellulare nella tasca del suo giubbotto e digitò un numero.

Attese per poco meno di tre secondi prima che una voce atona e femminile, all'altro capo, gli rispondesse.

“Ufficio del Dottor Eriksson, posso esserle d'aiuto?”

Domenic sorrise a mezzo. Non aveva dubbi che, a qualsiasi ora del giorno e della notte, quell'ufficio sarebbe sempre stato a sua disposizione.

Così gli era stato detto, e così era infatti avvenuto.

“Dovrei parlare con il dottore. Sono Domenic Van Berger.”

“Oh, Mr Van Berger. So che il dottore attendeva una sua chiamata. Glielo passo subito” mormorò la donna, cambiando radicalmente tono di voce.

Evidentemente, l'entusiasmo di Bryan Eriksson si era esteso a macchia d'olio anche ai suoi collaboratori.

Paziente, attese perciò che qualcuno rispondesse all'altro capo finché, quasi avessero acceso uno stereo a tutto volume, la voce stentorea del dottore raggiunse le sue orecchie.

Sorridendo divertito, nonostante in quel momento si sentisse uno straccio, Domenic mormorò: “Buongiorno, dottore. O buonasera. Non ho controllato il fuso, prima di chiamare, mi scusi.”

“Oh, no, ragazzo. Fa niente. Fa niente. Per te, ci sono sempre!” esclamò l'uomo, abbassando il volume della musica fino a un quieto mormorio.

Requiem di Verdi, dottore? Non è un po' drammatico, come brano?”

L'uomo scoppiò a ridere di gusto e, con il suo gran vocione, replicò: “Mi sentivo in vena, ragazzo. Ma dimmi, dimmi... come mai questa telefonata? Hai infine deciso?”

Domenic tornò a guardare il punto in cui Yuki era scomparsa e, annuendo tra sé, asserì: “Intendo partecipare. Ho proprio bisogno di qualcosa che mi tenga occupato, in questo momento. E la sua idea di base mi piace molto.”

“Oh, questo progetto allora è proprio quello che fa al caso tuo” assentì l'uomo, tornando mortalmente serio. “Non debbo ricordarti che tutto questo è coperto dal massimo riserbo, vero?”

“Ne sono consapevole, e la cosa non mi disturba affatto. Sono abituato a mantenere segreti” dichiarò Domenic. Specialmente, quelli che riguardano i miei sentimenti.

“Hai parlato di fuso, quindi ne deduco che tu sia all'estero. Dove, se posso sapere?”

“In Giappone. Nell'Hokkaido.”

“Giappone, eh? Allora, se non hai impegni pressanti, vorrei darti il tuo primo compitino a casa, ragazzo. Nel frattempo, avvierò le pratiche per mettere ufficialmente ai blocchi di partenza la tua squadra.”

Sospirò per un attimo, e il dottore aggiunse: “Va da sé che, d'ora in poi, il tuo lavoro sarà controllato e supervisionato da una persona diversa da me. Questo lo sai, vero?”

“Ne sono consapevole. E' stata una delle prime cose che mi ha detto, dottore.”

“Purtroppo, visto con chi avrai a che fare, non si può fare diversamente. Ma spero tu abbia la pazienza necessaria per sopportare un po' di attrito, specie all'inizio. Non tutti erano d'accordo con me.”

Il suo tono fu speranzoso, ma Domenic ebbe la netta sensazione che il dottore si aspettasse più di qualche attrito, nell'avvio di quel progetto su larga scala.

Beh, lui avrebbe dimostrato quanto poteva essere cocciuto un Van Berger e quanto, quel progetto, fosse valido.

“Non ho problemi a picchiare la testa contro qualcun altro, se necessario. Cosa devo fare, quindi, dottore?”

“Cerca di contattare un certo Yu Morizawa. Risiede a Tokyo, e in rete è conosciuto con il nome di Blue. Non devo dire a un Summa con laude al MIT come deve comportarsi, vero?”

La sua voce divertita portò un sorriso sul volto di Domenic che, levatosi in piedi con un movimento elegante, assentì.

“Credo che un Q.I. di 186 sia sufficiente per non finire nei guai. Quanto devo espormi, per ora?”

“Contattalo e basta, per adesso. Sonda le acque. Nel frattempo, ti farò avere le password e gli access code.

“Andata” assentì, salutando il dottore prima di raggiungere uno shoji per rientrare.

Quel progetto lo avrebbe tenuto impegnato a sufficienza per non impazzire e, nel frattempo, avrebbe tenuto d'occhio da lontano Yuki.

Sperando che il suo cuore non la tradisse, e non facesse perdere il senno a lui.

 
 
 
 
 
 
 
 
Note: L’uso della parola “sorellona”, in giapponese, è un vezzeggiativo in uso non solo tra parenti, ma anche tra amici stretti. E’ usato nei confronti di persone a noi maggiori d’età. Così come il suffisso –necchan dopo il nome, che ha il medesimo significato.  Il soffisso –kun significa “fratellino”, ed è usato tra famigliari e tra amici stretti. Il suffisso –chan è un vezzeggiativo in uso tra amici, mentre il suffisso –san indica rispetto verso l’altrui persona o poca confidenza.
Gli “shoji” sono le porte in carta di riso che si vedono spesso nei film. Il “tatami” è sia il pavimento in paglia intrecciata – e trattenuta da fili di passamaneria – che il ‘ring’ di combattimento, che si trova di solito in un “dojo”, o palestra.
Ciò detto, tenete a mente questa OS, perché farà da Incipit al racconto che poi posterò sui due gemelli. Quello che è avvenuto in Hokkaido darà il via a una serie di eventi che prenderanno corpo nella storia intitolata “Sakura”, che posterò prossimamente e che avrà come protagonisti, per l’appunto, Domenic e Cameron Van Berger. Ultima nota: come avrete visto, ho citato una certa Sarah e un certo Keath, legati a Kyle, il figlio di Helena. Ebbene, sono rispettivamente la moglie e il figlio, di cui parlerò sempre nel racconto dei due gemelli Van Berger.

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Capitolo 17
*** Destini incrociati (Luglio-Settembre 2032) ***


Note: Poiché la coppia Cameron-Phie è molto apprezzata, ho pensato di dare una sbirciatina nel loro passato, e spiegare quanto accennato da Domenic nei primi capitoli di "Sakura". Qui si fa riferimento ai famori tre mesi in cui Cameron e Sophie sono rimasti separati, e a cosa è dovuta questa separazione. Spero davvero possiate apprezzare. Buona lettura! 





 




Atto 1 - Guai
 
Non era del tutto sicuro che fosse la scelta giusta, o la più sicura, ma le loro urla stavano diffondendosi per la villa come uno sciame di locuste in caccia.

Se i loro genitori fossero tornati prima che tornasse la calma, sarebbero stati guai.

In barba alle più elementari regole sulla sicurezza, quindi, Domenic bussò alla porta della stanza del fratello.

Ringalluzzito dall’aprirsi della porta – se gli aprivano, era buon segno – Dom si maledisse un attimo dopo quando, all’improvviso, un kindle gli giunse addosso come un caccia bombardiere.

Riuscì a schivarlo di un nulla, ma la manovra gli costò uno scivolone, con successivo ruzzolone a terra.

Mentre l’apparecchio tecnologico finiva contro il muro del corridoio, sbriciolandosi nell’impatto, la voce di Phie giunse terrorizzata e spiacente.

“Oddio, Dom, scusami!”

Un attimo dopo, la diciottenne Sophie Shaw fu da lui, gli occhi verde giada colmi di rimorso e dolore.

Cameron, nel frattempo, imprecò e Phie, nell’aiutare l’amico a rialzarsi, ringhiò: “E’ tutta colpa tua, se ho quasi ammazzato tuo fratello!”

“Colpa mia?! Sei tu che sei pazza da legare! Lanci oggetti neppure fossimo a una partita di baseball, e pretendi che nessuno si faccia male!” sbottò per tutta risposta Cameron, sbracciandosi nervosamente.

Massaggiandosi il fondoschiena dolente, Domenic fissò i due contendenti con aria sofferta e, sospirando, domandò loro: “Qual è il motivo della disputa? Dalle urla non si capiva molto, visto che parlavate l’uno sull’altra.”

I due lo fissarono spiacenti e Cam, chetandosi in parte, replicò cauto: “Papà e mamma?”

“Ancora fuori. Ma non li avreste comunque sentiti tornare, con quegli strepiti” asserì Domenic, accomodandosi sul letto sfatto del gemello.

Preferì non chiedersene i motivi. Non voleva sapere fino a che punto si fossero spinti lui e Phie.

Sapeva che avevano già fatto sesso – Phie se l’era lasciato sfuggire qualche mese addietro – ma non voleva conoscere altro.

Sophie era troppo simile a una sorella, per lui, perché non gli saltasse la mosca al naso al solo pensarci.

E visto che Cameron era il suo gemello, sarebbe saltato fuori un parapiglia.

No, meglio soprassedere.

Scrollando le spalle come in attesa di spiegazioni, Dom guardò dapprima Phie, che appariva mogia e scontrosa, dopodiché puntò lo sguardo su Cam, che borbottò: “Non vuole capire che è assurdo che voglia venire a Yale solo perché ci sono io. Deve andare al MIT, come ha sempre voluto.”

“Oh… argomento università” assentì pacato Domenic, rammentando che l’affaire ‘ateneo’ aveva già visto scontrarsi i due innamorati.

“Dom, ti prego, digli che ho ragione. Non può pensare che io passi anni interi separata da lui!” sbottò Phie, lanciando un’occhiata inferocita al fidanzato.

Per tutta risposta, Cam si impuntò, piantando le mani sui fianchi e, fissato malamente il gemello, replicò: “Non osare darle ragione, Dom! E’ assurdo che lei anteponga il nostro rapporto ai suoi studi. Ne va del suo futuro!”

La lite riprese con notevole vigore, come un uragano che riacquista forza dopo un momento di cedimento.

Domenic scosse il capo di fronte a quegli strilli sempre più feroci e, quando vide Phie afferrare un cuscino, la bloccò, strappandoglielo di mano.

Non contenta, la ragazza lanciò un urlo degno di un’aquila e, con occhi colmi di lacrime che mai avrebbe versato dinanzi ai gemelli, strillò: “Tu non mi ami abbastanza, Cameron Andrew Van Berger, ecco cosa!”

Ciò detto, si diresse verso la porta della stanza e, dopo averla guardata aprirsi con calma – i sensori erano insensibili all’umor nero delle persone – uscì a spron battuto.

Già pronto a lanciarsi al suo inseguimento, Cam venne bloccato dal gemello che, scuotendo il capo, mormorò: “Lascia che si sfoghi. Ora come ora, non ammetterebbe neppure che una Golden Delicious ha la pelle gialla.”

La resistenza di Cameron durò un secondo, secondo in cui piantò i suoi gelidi occhi di colomba in quelli color blu marino del fratello.

Un attimo dopo, però, cedette alle parole di Dom e si lasciò andare a sua volta sul letto, sospirando affranto.

“Non mi dire che avete litigato dopo… beh, dopo…” Domenic indicò le lenzuola con un gesto del capo, lasciando in sospeso il resto.

“No, per niente. Anzi, stavamo scambiandoci delle coccole, quindi eravamo ben lontani dal fare sesso, depravato che non sei altro” ghignò Cam, lasciandosi andare lungo riverso sul letto.

Domenic ne imitò la postura e, intrecciate le mani dietro la nuca, asserì: “Quindi, eravate ai preliminari, e uno di voi due ha sollevato l’argomento sbagliato.”

“Colpito e affondato” mugugnò Cameron, annuendo. “Pensavo che, facendo il carino con lei, avrebbe accettato meglio la mia proposta, ma lei ha dato di matto.”

“Cioè, fammi capire… tu volevi blandirla col sesso perché ti desse ragione?” esalò Dom, risollevandosi a sedere di colpo, lo sguardo ricolmo di domande e sì, di biasimo.

Arrossendo suo malgrado, Cam replicò piccato: “Non mi guardare così! Non ho tentato di farle del male, o che altro!”

“No, ma hai cercato di ingannarla, facendo leva sul suo amore per te” gli fece notare il fratello, comprensivo.

“Non volevo… ingannarla. Volevo farle capire che la distanza non sarebbe stata un problema, per noi, e che io, in fin dei conti, avrei terminato gli studi prima di lei, trovandomi libero di andare a trovarla ogni santo giorno, se lei lo avesse voluto” bofonchiò Cameron, mogio.

L’amore tra Cam e Phie era sbocciato pian piano, cresciuto come amicizia e accesosi di passione sfrenata nel diciottesimo anno di età del fratello.

Dom li aveva visti innamorarsi, scambiarsi i primi timidi baci all’ombra del segreto che entrambi avevano voluto custodire con le rispettive famiglie.

Lui era stato l’unico a essere stato messo a conoscenza di quella relazione: sia Cameron che Sophie avevano temuto le reazioni di Beau e Serena, alla notizia.

Amici fin da giovani, i Van Berger e Serena Ingleton avevano condiviso gioie e dolori e, quando Hannah e Beau si erano uniti alle suddette famiglie, i loro legami si erano fatti ancora più saldi.

La nascita dei gemelli e, successivamente, della piccola Phie, li aveva infine resi quasi un unico gruppo familiare.

La scoperta di una storia d’amore tra Cameron e Sophie, con tutta probabilità, avrebbe destabilizzato come una bomba quel legame consolidato negli anni.

Tacere era parso a entrambi il miglior prezzo da pagare, e Domenic si era accodato a loro, mantenendo il segreto.

Rialzandosi dal letto, Dom fissò pensieroso il fratello e, con un mezzo sorriso, gli consigliò: “Non correre da lei con la rabbia che ora hai in corpo. Lascia che si prenda il tempo di capire, di scoprire cosa vuole davvero. Non penso sia così sciocca da mandare tutto all’aria per una lite così banale.”

“Phie, a volte, può sorprenderti per le stupidaggini che riesce a concepire” brontolò Cameron, coprendosi gli occhi con l’avambraccio.

Ridacchiando, Dom si incamminò per uscire, e ribatté: “Mi ricorda qualcuno…”

“Vai al diavolo…”

Domenic rise e, quando si ritrovò in corridoio, raccolse i cocci del povero kindle, pensando a come tributargli una degna sepoltura.

Era morto incolpevolmente, e gettarlo solo nei rifiuti sarebbe stato un gesto irriguardoso.

Chissà se, mettendoci le mani accanto, non riuscisse a rimetterlo in sesto?

 
***

La risata gorgogliante di Yuki gli giunse limpida e chiara, attraverso le casse audio dell’impianto domotico della sua stanza dei computer.

Suo sancta santorum per eccellenza, quel laboratorio costruito nel seminterrato della Villa di Malibù - dove abitava coi genitori e il fratello - era il suo luogo di perdizione.

Lì si trovavano i suoi computer, le sue ricerche, i backup della V.B. 3000, … insomma, era una sorta di magazzino, mescolato a un centro benessere per la sua mente.

Almeno ai suoi occhi.

L’immagine a figura intera di Yuki si mosse sull’emettitore di fotoni, formando una leggera scia di pixel dietro di sé.

“E così, Sophie-chan e  Cameron-kun hanno litigato ancora per l’università?” esalò divertita l’amica di famiglia, ammiccando all’indirizzo di Domenic.

Forse Cam si sarebbe infuriato, se avesse saputo che Yuki era a conoscenza della loro storia d’amore, ma a qualcuno aveva dovuto dirlo.

E chi meglio di Yuki Tashida, loro vecchia amica d’infanzia? Conosceva sia Cameron che Phie, perciò era la persona più adatta a fargli da confidente.

Inoltre, per capire anche i punti di vista di una donna, doveva pur chiedere a un’altra donna.

Essendo il confidente anche di Phie, non voleva commettere errori.

Il fatto non secondario di gradire come poche altre cose i suoi interludi con Yuki, non gli era indifferente, comunque.

Sapeva benissimo che, in parte – o per la maggior parte – il motivo per cui si era confidato con lei era il suo interesse per Yuki.

Negarlo sarebbe stato sciocco, così come l’ammetterlo con lei.

Inoltre, ora come ora, condividevano fin troppe cose oltre all’amicizia e a quel sordido segreto suo Phie e Cam, e complicarle la vita non era tra i suoi imperativi primari.

No, meglio lasciare le cose come stavano, per il momento.

“La loro lite stava per frantumare i vetri di casa” ironizzò Domenic, sorridendo a quell’immagine a lui così cara.

Quel giorno, Yuki indossava una tuta da ginnastica, e i capelli bagnati le ricadevano sulle spalle, coprendole i seni.

Nel vederla così, le aveva chiesto lumi, e lei gli aveva detto di essere appena tornata da un allenamento in palestra.

“Posso immaginare, visto il carattere focoso di entrambi” sorrise dolcemente Yuki, accomodandosi alla scrivania.

I contorni del mobilio si poterono notare con facilità, nell’ologramma dinanzi a lui. Quel congegno potenziato funzionava alla grande, e Domenic ne era moderatamente fiero, visto che l’aveva perfezionato lui.

“Hanno entrambi ottime motivazioni, ma sono propenso a dare ragione a Cameron. Tu che ne pensi?”

“Penso che dovrebbero sbrigarsela da soli, anche se capisco quanto tu ti senta coinvolto” replicò Yuki, facendo spallucce. “Non ti piace vederli soffrire, e vorresti dar loro una mano ma, dopotutto, sono una coppia, e devono risolvere da soli i loro problemi. Non puoi sempre essere tu a salvare la situazione.”

“Ci sono abituato” ammiccò Domenic, facendola ridere.

“Oh, lo so. Mi ricordo bene quando, e come, mi hai difesa egregiamente da quell’idiota di Johansson. Sappi che hai tutto il mio rispetto e la mia gratitudine, Domenic-kun” replicò Yuki, accentuando il suo sorriso.

Dom ammiccò, rammentando bene a cosa si riferisse l’amica.

Poche settimane addietro, si era spinto a colpire un loro superiore, e tutto perché era stato scortese con Yuki.

Solitamente, non si comportava a quel modo e, ai pugni, aveva sempre preferito le parole.

Era Cam l’uomo d’azione, non lui.

Ma, in quell’occasione, si era sentito ribollire il sangue di fronte all’aperta maleducazione dell’uomo, e la sua reazione era stata istantanea quanto istintiva.

Aveva rischiato di essere sbattuto fuori dal programma, se non addirittura messo in galera per aggressione a un agente.

Alla fine, grazie all’intervento del loro mentore – e creatore del Programma Elite – , il Dottor Eriksson, si era salvato da grattacapi non da poco.

Yuki era stata inserita nella squadra supervisionata da Jason Tyler, il suo stesso supervisore e, da quel momento, non avrebbe più avuto a che fare con Johansson.

Il fatto che quell’agente ci avesse provato con Yuki, e le sue avances fossero state registrate da un paio di telecamere di sicurezza, era stato d’aiuto.

“Se lo meritava. Punto” si limitò a dire Domenic.

“A me ha fatto comunque piacere” replicò Yuki. “Ma resto della mia idea. Lascia che se la sbrighino da soli, Domenic-kun. Se non superano questo esame, vuol dire che non sono fatti per stare insieme.”

“Già” sospirò a quel punto il giovane, reclinando il capo.

Yuki, sorridendo mesta, allungò una mano fatta di luce e colore e tentò invano di sfiorare il viso dell’amico.

Non appena la sua immagine uscì dall’inquadratura del trasmettitore, la sua mano svanì e, spiacente, lei la ritrasse.

“Non devi essere triste, Domenic-kun. Non puoi aggiustare tutti i mali del mondo, pur se lo vorresti.”

“Lo so, Sakura1. Ma mi piacerebbe molto” ammiccò il giovane, sfiorando con le dita il fascio di luce entro cui era racchiusa l’immagine di Yuki.

Questo tremolò per un attimo, prima di riprendere la forma originale.

“Piacerebbe a tutti noi, Shield, ma è impossibile per chiunque” mormorò l’amica, utilizzando a sua volta il suo nome in codice.

Non era un caso se Domenic aveva scelto quel nome, come nickname.

Lui, scherzando, aveva sempre detto di essersi ispirato al nome S.H.I.E.L.D., che compariva in diverse storie a fumetti della Marvel, tanto amate dalla madre.

Il ragazzo aveva pensato fosse carino usare un nome preso dagli albi dei suoi supereroi preferiti, e così si era appuntato il nome di Shield.

Yuki, però, pensava che il motivo fosse diverso. Shield significava anche ‘scudo’, e lui lo era stato per ogni nuovo membro della squadra.

Si era sempre eretto a fiero protettore di tutti i suoi compagni, non aveva mai mancato di proteggerli dai pregiudizi dei membri dell’Intelligence.

Era stato il loro scudo. Di questo, nessuno l’avrebbe mai convinta del contrario, neppure lo stesso Domenic.

 
***

Mangiucchiando distrattamente dinanzi al computer, una mano che correva veloce sulla tastiera, mentre l’altra sorreggeva un sandwich, Domenic sobbalzò, quando vide entrare Cam come una furia.

Solitamente, nessuno osava entrare nel suo laboratorio – era stato lapidario, sulla sua necessità di non avere intrusi in quel posto – , se non su suo espresso invito ma, quel giorno, il gemello ignorò la prassi.

Aprì la porta a scomparsa con una gran manata sul pulsante di apertura e, scrutando il fratello con occhi spiritati, avanzò simile a un panzer e ringhiò: «Tu e le tue idee geniali

Volgendosi completamente verso Cam, Domenic poggiò il sandwich sul tovagliolo a fianco della tastiera toutchscreen e, flemmatico, replicò: «A cosa ti riferisci, precisamente

«All’idea idiota di lasciare a Phie i suoi spazi!» sbraitò a quel punto il gemello, sbracciandosi come un ossesso.

E meno male che quelle pareti erano insonorizzate…

Domenic si passò una mano sui capelli biondo castani – bisognosi ormai di un barbiere – e, levandosi in piedi, domandò ancora: «Sii più preciso, o anche il mio cervello iperattivo non capirà un’acca di quello che stai dicendo. Cos’è successo?»

«E’ successo che, dopo averle lasciato una settimana di tempo, Phie ora esce con un suo compagno di scuola, ecco cos’è successo!»

Levando un sopracciglio con evidente sorpresa – Phie era famosa per i suoi colpi di testa, ma non pensava avrebbe mollato Cam su due piedi – Dom ribatté: «Ne sei sicuro? Assolutamente sicuro?»

Sbuffando, Cameron cominciò a passeggiare nervosamente in lungo e in largo, andando da un angolo all’altro dell’ingombro laboratorio del gemello.

Fu solo dopo una decina di andirivieni nervosi e sbuffanti, che afferrò una sedia a levitazione e vi si lasciò cadere sopra, facendola dondola pericolosamente.

Con gesti più fiacchi di prima, mormorò: «Ha telefonato Beau, poco fa, chiedendomi se, per caso, conoscessi un certo Pete Van Houen. Visto che io e te usciamo spesso con Phie, pensava potessi conoscerlo.»

«Ebbene?» lo incitò Domenic, tornando a sedersi.

«Non solo lo conosco, ma so anche che è un idiota che si diverte troppo con le auto sportive del padre, e non lesina con alcolici e droga. Naturalmente, questo non l’ho detto a Beau, perché gli sarebbe venuto un collasso. O meglio, prima avrebbe ammazzato Pete, e poi gli sarebbe venuto un collasso.»

Dom si lasciò andare a un sorrisino, annuendo.

Se c’era una cosa che sapevano bene entrambi, di Beau, era il suo amore spropositato per la figlia.

Anche per quello, Cam e Phie non se l’erano mai sentita di parlargli del loro rapporto.

Rapporto che, a quanto pareva, ora era messo in serio pericolo da questo Pete.

Ancora, però, Domenic non volle credere che Sophie fosse stata così superficiale da aver lasciato l’amato, e per una semplice litigata.

C’era sotto dell’altro.

«Ho detto a Beau di non preoccuparsi, che l’avrei tenuta d’occhio per un po’ e, nel frattempo, l’avrei messa in guardia sul rischio che può correre una ragazza con un tipo come lui.»

«Beau non vuole interferire in prima persona, a quanto pare.»

Cameron allora se ne uscì con una risatina, asserendo per contro: «Oh, no. Lo ha già fatto, e Phie lo ha mandato al diavolo, dicendogli che lei può vedere chi vuole, visto che è maggiorenne.»

Domenic si ritrovò a ridere con il gemello, trovando quell’uscita molto da Phie.

Raramente litigava con il padre ma, le volte in cui erano in disaccordo, si potevano vedere i fulmini levarsi dalla villa della famiglia Ingleton-Shaw.

«Rena che dice?»

Scrollando le spalle, Cam mormorò: «Lei mi ha mandato un video da New York. Forse non sapeva che Beau mi aveva già chiamato. Comunque, anche lei mi ha pregato di tenere d’occhio Phie. Penso che, a breve, ripeteranno la cosa anche con te.»

Domenic annuì e, intrecciate le mani in grembo, mormorò: «Senti, fratellino, sono ancora convinto che Phie non ti abbia mollato, e che questa sia solo una messa inscena per provarti qualcosa. Lasciami indagare un attimo, ti va?»

Annuendo, Cam asserì mogio: «Sarà anche come dici tu, ma questa tirata non doveva farmela. Non credo proprio di meritarmelo.»

Ciò detto, si levò dalla sedia e, sbattuto come un tappeto, se ne andò mesto, uscendo con molta meno rabbia di quando era entrato.

Una volta solo, Domenic sospirò, ammettendo con se stesso che no, non se lo meritava davvero un trattamento del genere.

Ma non voleva incolpare Phie di superficialità, prima di aver capito cosa le stava frullando per la testa.

 
 
Atto 2 – Rivelazione
 


Non era stato difficile rintracciare il cellulare di Phie e, anche se si sentiva un po’ in colpa all’idea di pedinarla, non poteva fare altro, per capire cosa stava succedendo.

Parlare con la fonte del problema era l’unica soluzione.

Fu per questo che si incamminò senza timore alcuno verso il gruppo di ragazzi dinanzi a lui – almeno una decina – e, nel cui mezzo, si trovavano alcune ragazze.

Tra cui Phie.

Il suo arrivo venne visto con immediata irritazione, e un paio dei ragazzi più imponenti si mossero per allontanarlo, ma Domenic non vi badò.

Sapeva come sbarazzarsene, ma non era il momento di mostrare le sue abilità, rischiando di farsi notare più del necessario.

Lanciò un’occhiata significativa a Sophie che, immediatamente, mormorò: «Tranquilli, è un mio amico. Mi allontano un attimo.»

«Chiamaci, se hai bisogno» le raccomandò una delle ragazze, squadrando poi Domenic dall’alto in basso, con evidente interesse.

Phie sbuffò, prendendo Dom sottobraccio per allontanarsi dal suo gruppo di una ventina di metri, lontano dalla portata delle loro orecchie.

All’ombra di una palma, che cresceva sinuosa lungo la Ocean Boulevard, la ragazza fissò arcigna l’amico e borbottò: «Che c’è? Cameron ti ha mandato in avanscoperta per chiedermi scusa?»

«Per la verità, neppure sa che sono qui. Volevo solo capire cosa stessi facendo, e se il cervello ti stesse funzionando ancora» replicò serafico Domenic, fissandola con aria pacifica.

Phie indietreggiò di un passo, sorpresa da quell’atteggiamento così compassato e assai diverso dal solito Dom.

Per tutta la vita, Domenic era stato il suo protettore, colui che prendeva sempre le sue difese, a volte anche a discapito di suo fratello Cam.

Che stava succedendo, ora?

«Se sei qui solo per farmi sentire in colpa, allora tornatene pure a casa. Non ho bisogno di un altro Van Berger che mi dice cosa devo fare

Il suo tono sembrò lacrimoso, alle orecchie di Domenic, ma lui non si lasciò ingannare, né prendere dal sentimentalismo.

Voleva bene a Phie, ma non doveva lasciarsi fregare dai suoi occhioni da cerbiatta.

«Cam non sta cercando di dirti cosa fare, ma ti sta solo consigliando per il tuo bene. Non pensi che soffra anche lui, all’idea di saperti lontana da lui? Credi che sia così superficiale da non pensare a te ogni attimo del giorno? Soffre, Phie, e tu lo sai.»

Lei si morse il labbro inferiore, reclinando colpevole il capo, ma non cedette.

«Lo so. Ma devo sapere se io posso resistere come fa lui.»

«Come?» esalò Domenic, ora del tutto frastornato. Cosa voleva dire?

Aggrappandosi all’improvviso alla camiciola di lino dell’amico, Phie esclamò sconfortata: «Ma non capite che sono io che non so se riuscirò a essere forte come lui? So che è giusto quello che dice, che dovrei seguire le mie inclinazioni e andare al MIT come hai fatto tu… ma ho paura

Phie venne scossa da un brivido e Domenic, stringendola a sé in un abbraccio, la cullò dolcemente, mormorando: «Di cosa hai paura, zus

Lei sorrise appena, nel sentirsi chiamare ‘sorella’ in olandese.

Sapeva che Domenic, nel tempo libero, aveva imparato l’olandese grazie allo zio e ai cugini e che, di tanto in tanto, si dilettava a migliorarne la pronuncia.

Secondo lei era già bravissimo, ma per Dom esisteva solo l’eccellenza, lo sapeva.

«Ho paura di non avere la forza di stargli lontano, di non riuscire a essere abbastanza coraggiosa da allontanarmi da lui. So che Cam mi è fedele, e non farebbe mai nulla per ferirmi, ma…»

«… ma non sai se questo ti basterà» terminò per lei l’amico, cominciando a capire cosa, nel cervello caotico di Phie, si fosse scatenato.

Sorrise, dandole un bacetto sulla fronte e, nello scostarsi da lei per guardarla negli occhi, aggiunse: «Dovresti comunque parlarne con lui, Phie.»

«Ma io pensavo che…» esalò la ragazza, chiaramente sorpresa.

«Ci sarò sempre, per te e per lui, ma non posso essere io a risolvere le vostre diatribe. Non sei fidanzata con me, zus, ma con mio fratello e, in questo caso, non posso esservi di alcun aiuto.»

Sophie sorrise mesta, ma annuì. «Ti scarichiamo sempre addosso le nostre rogne, eh?»

«Non sono mai rogne, se le portate voi, Phie. Stavolta non posso fare nulla, per voi.» Il solo ammetterlo, però, lo fece rabbrividire.

Ma Yuki aveva ragione. In questo caso, doveva fare un passo indietro.

E così fece anche fisicamente. Si allontanò di un passo da lei e, nel lanciare un’altra occhiata al suo gruppo di amici, aggiunse soltanto: «So che non sono tremendi come vorrebbero far sembrare, perciò mi allontano tranquillo, ma non far attendere troppo Cam.»

«Cercherò di fare del mio meglio, e  non ti chiederò come sai di poterti fidare dei miei amici, visto che neppure li conosci» assentì Phie, lanciandogli un sorriso birichino.

«Ho le mie fonti. Prometti di stare comunque attenta, zus

«Sempre.»

Ciò detto, si allontanò per raggiungere i suoi amici e Domenic, non avendo altro da fare, se ne tornò a casa.

Da lì in poi, sarebbe rimasto in disparte.

 
 
Atto 3 – Destini incrociati
 


Tre. Mesi.

Phie non si faceva sentire da tre mesi.

Certo, Domenic gli aveva assicurato che i suoi amici non erano così terrificanti come si poteva pensare a un primo sguardo.

Quel Pete, in particolare, era effettivamente finito nei guai per droga, ma soltanto perché era stato incastrato dal fratello maggiore.

In verità, era più pulito di un bambino e, a parte qualche birra ogni tanto, non aveva commesso alcun reato grave.

Anche la faccenda delle auto, era stata più una bravata, che una vera corsa sulle colline losangeline.

D’accordo, non erano dei delinquenti, anche se giravano vestiti come Hell’s Angels.

D’accordo, Phie non aveva improvvisamente cambiato bandiera e si era tramutata in una goth.

D’accordo, non si stava preparando per scappare a Las Vegas per un matrimonio riparatore.

Però…

Però, lui stava malissimo e, ormai, il suo umore intrattabile era divenuto motivo di screzio persino con suo padre.

Non potendo ammettere i motivi di tale sensazione di malessere, Cameron se ne era inventate di tutti i colori ma, alla fine, Nickolas lo aveva pregato di non menarlo per il naso.

E come dargli torto? Suo padre mica era tonto!

Hannah, da gran signora quale sapeva essere, se n’era sempre stata in disparte, minacciando il figlio una sola volta.

Si era limitata a dirgli, con tono gentile ma ferreo che, se non fosse venuto fuori da solo da quella incomprensibile depressione, ci avrebbe pensato lei.

Ora, Cam adorava sua madre e tutto quanto, ma l’idea di essere ripassato da lei lo terrorizzava.

Carezzando la schiena ampia e scura di Gamora, il cui testone enorme e squadrato di labrador riposava sulle sue ginocchia, Cameron sospirò per la centesima volta.

La brezza proveniente dall’oceano solleticava i suoi corti capelli biondo castani e il viso, corrucciato da quei pensieri non proprio idilliaci, appariva smunto e stanco.

Quel giorno, i genitori erano partiti per Vancouver per una serie di convegni, e non sarebbero tornati che tra due settimane.

Giusto in tempo per vederlo ripartire per Yale.

L’estate era ormai terminata, eppure lì, sulla costa Ovest del paese, sembrava non dovesse terminare mai.

Il calore del sole sul suo viso era innegabile, così come le verdeggianti piante che circondavano la proprietà, del tutto indifferenti al calendario.

Settembre inoltrato pareva non pesare affatto, su di loro che, ancora brillanti e rigogliose, non parevano interessarsi dell’approssimarsi dell’autunno.

«Dio! Sono patetico, Gamora! Mi struggo come un idiota, e penso alle piante e alle stagioni, invece di agire!» brontolò a mezza voce Cameron, accarezzando con entrambe le mani il musone del labrador nero, che uggiolò partecipe.

Un attimo dopo, però, il cane si volse curioso e Cam, seguendone lo sguardo, trattenne il fiato, incredulo di fronte a ciò che gli stava di fronte.

Lì a pochi passi da lui, in piedi e con il volto percorso da mille dubbi, stava Phie.

Appariva strana, con i capelli tagliati appena sotto le orecchie, con ciocche ribelli che le solleticavano le guance e il collo.

Lui aveva sempre amato la sua chioma bruna ma, anche così, era adorabile.

Si alzò lentamente, quasi non volesse spaventarla e Phie, nell’accogliere con un sorriso l’arrivo trotterellante di Gamora, si piegò su un ginocchio per carezzarla.

Gli shorts che indossava mettevano in evidenza le lunghe e snelle gambe, la pelle abbronzata dal sole, la totale assenza di difetti.

La maglia, qualcosa di non meglio identificato riguardante un gruppo rock, si allargò un poco, quando lei si piegò in avanti, mostrando un top nero al di sotto.

Cameron deglutì a vuoto.

Non doveva guardarla come un qualsiasi maschio in calore, però…

Però era stupenda e, per quanto si sentisse disgustoso ad ammetterlo con se stesso, gli era mancata anche da quel punto di vista.

«Sei stato carino a concedermi i miei spazi, non un idiota, Cam…» mormorò a un certo punto Phie, risollevandosi.
Gamora le si strusciò contro le gambe dopodiché corse a giocare con Rocket, che se la stava spassando poco lontano, vicino al sicomoro.

Cam scrollò le spalle, preferendo non aprire bocca e Sophie, sorridendo timida, gli si avvicinò, abbracciandolo con calore.

Solo allora Cameron si permise di tirare un sospiro di sollievo e, nello stringerla a sé, inspirò il suo dolce profumo di fiori.

Le baciò i capelli soffici e, sorridendo, gliene sfiorò una ciocca, mormorando: «Ti stanno bene.»

«Grazie» sussurrò di rimando, lasciando che il suo corpo si riscaldasse al tepore del suo amore.

Era stato orribile rimanere lontana da lui per tutti quei mesi, ma i suoi amici l’avevano aiutata a resistere, a fortificarsi.

Non era un caso se si era affidata a loro, per riuscire in quell’impresa.

Pur se mal visti da molti, a scuola, Phie sapeva bene cosa si celasse dietro le apparenti espressioni da duro di molti di loro.

Famiglie disastrate, alcuni casi disperati e tanta, tanta solitudine.

Sophie aveva sempre cercato di essere un collante tra loro e gli altri membri della classe perché, cresciuta negli agi e nel lusso, aveva sempre tentato di infondere parte della sua fortuna anche agli altri.

Era stato difficile, agli inizi, sradicare le diffidenze del gruppo ma, alla fine, era riuscita nell’intento di farsi accettare, e aveva trovato un posto anche nel loro mondo.

Non le era mai spiaciuto dover aiutarli e, più di una volta, sua nonna era stata d’aiuto a più di uno di loro.

Grace Brown Ingleton, pur se ormai anziana, continuava a essere uno squalo, nel Foro, e i casi pro-bono continuavano a essere i suoi preferiti.

Quando, però, lo scontro ideologico tra lei e Cam le aveva fatto dubitare di se stessa, erano stati loro ad aiutarla, a non lasciarla sola.

Per una volta, i ruoli si erano invertiti.

Le avevano consigliato tutti di prendere le distanze, di abituarsi a un mondo in cui non vi fosse sempre e solo Cameron.

Loro sapevano come vivere con quello che passava il convento, soprattutto a livello emotivo, e l’avevano aiutata a temprarsi.

A essere più forte e meno dipendente dall’amore di Cameron.

Quello sarebbe rimasto sempre in lei, ne era consapevole a ogni suo respiro, ma ora avrebbe potuto viverlo con meno timori.

Sempre che lui, a questo punto, la volesse ancora.

«Dom ti ha detto qualcosa?»

«Mi ha solo detto di non preoccuparmi per te, che non stavi diventando la compagna di un pazzo drogato, o di un centauro tatuato.»

Il tono di Cam fu ironico ma, nei suoi occhi, Phie scorse la paura, e se ne rammaricò.

Se fosse stata più forte fin dall’inizio, non avrebbe mai sottoposto entrambi a una simile prova.

Ma tant’era, ed era il momento di vuotare il sacco anche con lui.

«Volevo sapere se avrei potuto starti lontano senza impazzire» mormorò a quel punto Phie, notando lo sbalordimento crescere sul volto dell’amato.

«Che cosa? Sei entrata… in una gang per questo

Lei sorrise divertita, replicando: «Non è una gang. Non proprio, almeno. Sono ragazzi un po’ strani, con un sacco di problemi alle spalle, ma sono fidati e solidali.»

Cam non fu convinto dalle sue parole, così dovette spiegargli per filo e per segno come e perché si conoscessero, e quale ruolo avevano avuto nel suo test.

Quando, infine, Phie si accomodò su una sdraio di fronte alla piscina, mormorò: «Dovevo sapere se sarei stata in grado anche solo di pensare, senza di te. Sono troppo abituata ad averti sempre vicino, e l’idea di un cambiamento mi ha terrorizzata a morte. Il solo pensiero di essere sola mi spaventava.»

«Phie…» sussurrò spiacente, inginocchiandosi accanto a lei.

Prese le sue mani tra le proprie, Cameron gliele baciò con tenerezza, asserendo con semplicità: «Pensi davvero che io non abbia sofferto la solitudine, il primo anno che sono andato a Yale senza di te?»

Lei lo guardò confusa, e lui scoppiò a ridere sommessamente.

«Chiedi a Dom. Lo subissavo di telefonate, sms, video e chi più ne ha, più ne metta. C’è mancato poco che mi ammazzasse» ammiccò Cameron, sorridendole.

Phie accennò un sorrisino e lui proseguì nel suo racconto.

«E’ stato difficile anche per me, ma sapevo bene che era del tutto naturale sentirsi così spaesati, specialmente avendo appena iniziato la mia relazione con te. Ero spaventato da mille dubbi, da mille incertezze e, soprattutto, avevo paura che le mie visite a casa non bastassero mai. Non volevo lasciarti sola troppo a lungo.»

«L’hai affrontata decisamente meglio di me» mugugnò Phie, mettendo il broncio.

Cameron le sorrise, dandole un bacetto sulle labbra.

«Ognuno ha il suo metodo… il mio è stato tartassare Domenic e scervellarmi nel prendere mille aerei diversi, per essere qui il maggior numero di volte. A un certo punto, i miei genitori si sono chiesti se fossi per caso diventato mammone tutto di colpo!»

Rise, nel dirlo, e Phie si unì a lui nella risata.

Le paure e le tensioni che l’avevano attanagliata fino a quel momento scemarono e, quando Cam la abbracciò con calore, seppe di essere pronta.

Prese il viso del suo amato tra le mani e, nel baciarlo sulle labbra, mormorò: «Non avrò più paura. Te lo giuro.»

«Quando e se l’avrai, io ci sarò. A costo di rubare un’auto e farmi l’intero tragitto a tutta birra per raggiungerti» le promise Cameron.

Phie ridacchiò, replicando: «Una telefonata basterà. Davvero. Ora ne sono sicura.»

«Lo credi?»

«Sì. So come fare, adesso, e so che sbagliavo ad avere timore di sentirmi sola. Il tuo calore, il tuo cuore, sono sempre con me. Non potrebbe essere diversamente, visto che sei mio.»

Il sorriso che le illuminò il viso mise la parola fine alle paure di Cam che, strettala a sé, assentì.

«Certo che sono tuo, sciocchina.»

«Bene… speravo lo dicessi, perché ho intenzione di rivalermi su di te per i tre mesi che non ho potuto averti» sottolineò lei, incuneando una mano sotto la maglietta di Cameron.

Lui si irrigidì immediatamente e, ridendo nervoso, esalò: «Ehi, piccola, guarda che non è colpa mia se hai partecipato al tuo personale campo di addestramento pre-università.»

«Ho il diritto di essere sciocca, ogni tanto… ma questo non vuol dire che debba sacrificarmi per sempre, ti pare?»

Rise un attimo dopo quando, a sorpresa, Cameron la afferrò alla vita per sollevarla, permettendole di avvolgergli la vita con le gambe.

In fretta, Cameron si diresse verso la villa, ora completamente deserta – se non si teneva conto dei droidi domestici – e, con un sogghigno truffaldino, mormorò: «Te la sei cercata, piccola.»

«Lo so» replicò roca, chinandosi a baciarlo sul collo.

Cameron ansimò, perdendo l’equilibrio per un attimo e finendo contro il muro dirimpetto alla sua stanza.

Phie sorrise, ma non smise di stuzzicarlo e, quando finalmente Cam riuscì a entrare nella sua stanza, mormorò roco: «Tu mi vuoi morto, vero?»

«No, mi servi vivo… molto vivo.»

Cam rise di fronte al suo desiderio del tutto evidente e, nel togliersi la maglietta con un gesto secco delle braccia, asserì: «Fai di me quello che vuoi. Hai carta bianca.»

«Speravo lo dicessi…»

Con gesti naturali, tolse i pantaloni a Cameron prima di spogliarsi e, più dolcemente, mormorò: «Speravo mi rivolessi con te… anche se ti ho fatto soffrire così tanto.»

Nello sdraiarsi con lei a letto, prese a carezzarle dolcemente la curva dei seni, i fianchi snelli, l’arco dei fianchi e, nel depositare un bacio sul suo ombelico, asserì: «Ti avrei sempre voluto con me, Phie… il mio amore non si spegne così facilmente… anche se sono stato malissimo, in questo periodo.»

Lei gli accarezzò i capelli corti e, baciandolo, sussurrò: «Facciamo divampare il nostro amore, allora, così potrò cancellare il tuo dolore e il mio.»

Cameron non si lasciò pregare.

Discese con la bocca sulla sua pelle di pesca, mentre le mani disegnavano scie di fuoco sulle cosce, dietro le ginocchia, vicino al centro della sua femminilità.

Phie si inarcò sotto di lui, mugolando il suo nome e, quando Cam la penetrò, sospirarono entrambi di sollievo e partecipazione.

Lui fu tenero, si mosse lento, volendo riappropriarsi di quei momenti poco alla volta, desiderando non finissero mai.

E fu a quel punto che Phie pianse. Silenziosa, con un sorriso sulle labbra e il cuore gonfio d’amore, ma pianse.

L’aveva fatto soffrire, si era comportata da sciocca insensibile, con lui, e aveva perso mesi interi a ficcarsi in testa una cosa semplicissima.

La distanza non avrebbe mai spezzato il loro legame. Solo lei avrebbe potuto farlo.

Cameron non le chiese nulla, si limitò a baciarla sul viso, lavando via quelle perle salate e, con un’ultima spinta, mormorò roco: «Ti amerò sempre, Sophie Ann Shaw.»

Phie non ebbe la forza di replicare a quella confessione accorata.

Il piacere esplose dentro di lei come una piena e, in quel momento, ogni cosa andò a posto.

Il mondo divenne perfetto ai suoi occhi, in quel momento e, anche quando fosse stata lontana, nulla sarebbe cambiato.

Cameron l’amava, e questo amore sarebbe sempre stato dentro di lei, a riscaldarla nei momenti di bisogno.

Lo baciò teneramente, sentendolo tremare sopra di sé e, quando Cam si scostò da lei per scivolare al suo fianco, sussurrò: «Ti amo, Cameron Andrew Van Berger, e non permetterò mai più alle mie paure di separarci. Diventerò la donna degna di stare al tuo fianco.»

«Lo sei già» replicò lui, carezzandole dolcemente il fianco.

Lei sorrise, preferendo non ribattere alla sua frase.

Sapeva già cosa avrebbe dovuto fare, per diventare la donna perfetta per Cameron, e si sarebbe impegnata con tutta se stessa per ottenere quel risultato.

Il primo passo sarebbe stato andare al MIT e laurearsi col massimo dei voti.

Il secondo… beh, il secondo sarebbe stato affrontare suo padre e sua madre,  ammettendo con loro ogni cosa.

Di sicuro, laurearsi sarebbe stata la cosa più semplice.

Ma, con Cameron al suo fianco, sapeva già che ce l’avrebbe fatta. Ormai, era sicura di sé, non più divorata dalla paura.

Tutto si sarebbe risolto e, insieme, avrebbero affrontato i problemi che, di volta in volta, si sarebbero succeduti.

Lei e Cameron. Uniti.
 
 
 

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Capitolo 18
*** Una piacevole trasferta -1- (ottobre 1975) Grace e Barthemius ***


Una Piacevole Trasferta 


Ottobre 1975 – Cambridge University
Museum of Classical Archaeology

 
 
 
La luce che scivolava sul marmo eburneo era liquida, carezzevole.

Dava l’idea di voler sfiorare con reverenziale affezione quelle curvilinee sporgenze, quei mirabili tratti ricavati dalla fredda roccia, quasi a volerli riscaldare.

Di certo, riscaldava Grace Angelica Brown che, immersa nella contemplazione di quella mirabile statua, godeva del tocco del sole al pari del marmo.

Il viaggio era stato lungo, stressante e anche vagamente inquietante.

Non che risiedere per un anno in un college inglese le pesasse – studiare non le pesava mai – ma era l’idea di un luogo interamente femminile, a sgomentarla.

Abituata com’era all’aria di liberalismo schietto e prepotente di Harvard, il pensiero di vivere dodici mesi circondata unicamente da donne, la rendeva un po’ perplessa.

Studiare al seguito del professor Grantham, però, l’aveva fatta capitolare. Nessuno meglio di lui, poteva darle ciò che voleva.

Si sarebbe abituata ai veleni del genere femminile – dubitava che le inglesi fossero migliori delle americane – e, alla peggio, se ne sarebbe stata per i fatti suoi.

Non aveva bisogno di fare amicizia con nessuno. Le bastava rimediare quel Master in Sociologia, poi avrebbe pensato a come sfruttare la sua Laurea in Giurisprudenza.

Entrare nello studio del padre era da escludersi a priori. Ci lavorava già suo fratello, e lei non voleva essere vista ancora come la cocca di famiglia.

No, sarebbe avanzata con le sue gambe, avrebbe fatto gavetta e si sarebbe beata dell’aria contrariata di suo fratello Edward.

Il fatto che lei avesse terminato con un anno di anticipo rispetto a lui gli studi, ancora gli pesava.

Ormai, comunque, ne aveva fatto un punto d’onore, quello di irritare il fratello e, tra sé, sapeva che il padre gongolava all’idea che i figli fossero sempre in competizione.

Come era solito dire loro, la competizione porta all’eccellenza.

Peccato che, a quel modo, lei ed Edward non fossero mai andati d’accordo.

“Questa statua del periodo miceneo deve piacerti molto… è quasi mezz’ora che la osservi assorta” mormorò una voce baritonale alle sue spalle, facendola sobbalzare per la sorpresa.

Volgendosi a mezzo, Grace si ritrovò ad affondare in due calde profondità color smeraldo, che la stavano osservando con curiosità.

“Ah… disturbavo la vista? Scusa. Tendo ad andare in trance, quando vedo qualcosa di particolarmente bello” asserì Grace, scostandosi appena.

“Anch’io” replicò con tono vagamente malizioso il giovane alto e dai capelli bruni che le aveva parlato.

Lei accennò un sorrisino divertito, non avendo avuto difficoltà a cogliere il doppio senso.

D’altra parte, che c’era di male a flirtare un po’ con un bel ragazzo, in terra straniera, e che dava l’idea di essere anche interessante?

Di certo, non avrebbe trovato un poco di buono, in un museo, e nel bel mezzo del campus di Cambridge, no?

O sì?

Ammetteva di non capirne molto, di ragazzi – poteva contare solo su tre esperienze dirette – ma non le sembrava che quel giovane avesse cattive intenzioni.

Indossava un maglioncino leggero a coste, dal collo a V, con lo stemma di Cambridge ricamato sul cuore.

La camicia bianca sembrava di alta sartoria, così come i pantaloni scuri con la piega e i mocassini di pelle nera.

“Studente qui?” lo interrogò Grace, mettendosi al suo fianco nel continuare a rimirare la statua.

“King’s College. E tu? Non ti ho vista, gli anni addietro, perciò ne deduco che sei nuova… e americana.”

“Colpita e affondata” ammise lei, con una scrollatina di spalle. “Vengo da Boston.”

Sporgendo una mano, sorrise e aggiunse: “Grace Brown, molto piacere.”

“Bart Ingleton, piacere mio” replicò lui, sollevandole compitamente la mano per farle un baciamano di gran classe.

Non certo abituata a simili smancerie, Grace rise debolmente – erano pur sempre in un museo, e non era il caso di fare baccano – e mormorò: “E questo?”

“Scusa. Forza dell’abitudine. Immagino che, in America, una stretta di mano basti” ironizzò il giovane, mostrando un sorriso pieno e sincero.

“Decisamente. Ma è stato carino” lo rassicurò lei, sistemandosi distrattamente la tracolla della borsetta.

“Tra mezz’ora ci butteranno fuori… posso offrirti qualcosa al bar?” le propose Bart, speranzoso.

Grace ci pensò sopra un attimo. L’alternativa era rientrare subito in collegio e chiudersi in camera con un sandwich, cosa che non la allettava molto.

Il coprifuoco era per le dieci e, visto che anche Bart risiedeva lì in zona, poteva anche accettare.

Dopotutto, un bar era un luogo pubblico. Cosa avrebbe potuto mai succedere?
 
***

Situato proprio all’entrata della King’s College Chappel, il Rainbow Vegetarian Coffee era un localino modesto, con tavoli in legno, luci calde e grandi poster alle pareti.

In qualche modo, Bart sembrava fuori posto in quel luogo, ma Grace non seppe spiegarsene il motivo.

Sembrava non averci mai messo piede, eppure aveva puntato in quella direzione con passo sicuro, neanche fosse stato un cliente abituale.

Quando infine una delle cameriere si avvicinò per servirli, Grace ebbe le sue conferme. Non lo conoscevano affatto.

Il locale brulicava di studenti dell’ateneo, ed era chiaro chi era un cliente abituale e chi no.

L’atteggiamento stesso dei camerieri parlava a chiare lettere.

Grace, quindi, si domandò perché avesse scelto proprio quel posto.

Dopo aver ordinato una Cesar Salad e una bottiglia d’acqua – Bart prese un burrito vegetale e una birra media – Grace gli domandò: “Visto che sono nuova, puoi dirmi come passare il tempo, tra una lezione e l’altra?”

Bart parve sorpreso dalla domanda, ma ci pensò seriamente sopra.

In quel mentre, giunsero le loro bibite, così Grace sfruttò quel momentaneo silenzio per servirsi da bere e studiare il viso piacente di Bart.

Quei magnetici occhi verdi sapevano spiazzarla ogni volta che la sfioravano.

Eppure aveva visto occhi altrettanto belli, così come per i volti. Cosa c’era, in Bart, a incuriosirla tanto?

Forse, i suoi modi eleganti, nascosti dietro atteggiamenti apparentemente normali?

Forse, l’aura di sapere che galleggiava attorno a lui? (Aveva un debole per gli intellettuali, non poteva negarlo).

Non ne era del tutto certa ma, quando uno studente di Cambridge entrò assieme a una decina tra ragazzi e ragazze, comprese almeno in parte i suoi dubbi.

Quello studente in particolare riconobbe Bart, sorrise sornione a lei e, nel dare una pacca sulla spalla all’amico comune, esclamò: “Ehi, visconte! Finalmente ti vedo con una donna!”

Il viso di Bart divenne purpureo, mentre mandava candidamente a quel paese l’amico, che strizzò l’occhio a Grace prima di sillabare un ‘sorry’ all’amico.

Quando il gruppo si fu allontanato, Bart tornò finalmente a guardare Grace e, con una scrollatina di spalle, ammise: “Ci sarei arrivato, comunque. Diciamo che non è la prima cosa che dico, se voglio intavolare un discorso con una donna.”

Grace poggiò il mento sul palmo aperto e, fissando curiosa Bart, replicò: “Cosa? Il fatto che sei un nobile titolato? Che male c’è?”

“Scoraggia i rapporti di amicizia con il gentil sesso, a quanto pare” ironizzò Bart, ma non più di tanto.

Sempre più sconcertata, la giovane esalò: “Non mi dire che, nel 1975, devi ancora chiedere il permesso per vedere chicchessia, soprattutto una donna!”

“Non arrivo a questi livelli, ma mia madre è molto… rigida, quanto ad amicizie. Non importa di che genere siano, se con uomini, o con donne” sospirò Bart, ingollando un po’ di birra. “Come il mio caro amico Samuel ha sottolineato, è una rarità vedermi con una donna.”

Grace a quel punto sorrise benevola, e replicò: “Siamo in un bar e stiamo per mangiare la nostra cena. E’ lecito… visconte? O devo aspettarmi uno chaperon?”

“Direi che è lecito,… sì” assentì Bart, rilassandosi un po’.  “E niente chaperon.”

Forse, pensò Grace, aveva temuto che lei si alzasse per andarsene mentre, il suo ironizzare per stemperare la tensione, lo aveva chetato.

Quella novità, dal suo punto di vista, invece, metteva pepe alla cosa, e la incuriosiva assai.

Dopotutto, quante altre volte le sarebbe capitato di incontrare un nobile inglese, e di cenarci assieme in un bar del centro città?
 
***

I lampioni, che illuminavano il selciato della passeggiata che conduceva al Newnham College, erano così antichi da sembrare reperti di epoca Vittoriana.

E forse era così, pensò Grace, mentre passeggiava tranquilla al fianco di Bart.

No, Barthemius.

Alla fine, con una buona dose di imbarazzo, il giovane studente ventitreenne del King’s College aveva ammesso con lei il suo vero nome.

Grace ne aveva riso. Non tanto per il nome antiquato, quanto per la sua paura di ammettere la verità.

Lei lo aveva trovato intrigante, oltre che bello.

Le aveva parlato con una buona dose di ironia dei suoi studi alla scuola pubblica – cosa che l’aveva stupita – e che erano serviti a riportarlo con i piedi per terra.

Ridendo, lei gli aveva chiesto se l’avessero obbligato perché troppo pomposo e Bart, con naturalezza, aveva ammesso le sue colpe.

Grace ne era rimasta colpita. Erano poche le persone che ammettevano con tanto candore di avere sbagliato, nella loro vita, e di aver fatto qualcosa per migliorare.

Suo fratello Edward si sarebbe morso una mano, piuttosto che farlo.

Quando raggiunsero infine l’entrata del collegio, uno stabile in mattoni rossi alto tre piani, con sottili guglie che si inerpicavano verso il cielo, Grace si appoggiò al tronco di una pianta e disse: “Quindi, tuo padre ha insistito per farti studiare con le persone comuni, passami il termine, mentre tua madre era in disaccordo.”

“Totalmente. Pensava che questo mi avrebbe rovinato la vita… e il pedigree” sorrise Bart, infilando le mani in tasca.

Grace lo trovò affascinante quanto intrigante.

Era un connubio perfetto di eleganza british, mescolato a un tocco di mistero, legato al suo tentativo di allontanarsi dal suo status di nobile titolato.

“Pensava saresti diventato un delinquente?” ironizzò Grace, trovando la cosa assurda. “O che avresti messo incinta una donna?”

Avesse frequentato una scuola di Harlem, forse,… ma una distinta scuola pubblica di York? Dubitava fossero allo stesso livello di quelle americane.

“Probabile. Tutt’ora adesso, ancora crede che abbia subito danni irreparabili, visto che ho portato a casa un paio di amici plebei per le ultime vacanze di Natale” sorrise Bart, cercando di rendere quell’evento più leggero di quanto, in realtà, non fosse stato evidentemente per lui.

Grace immaginò senza fatica le liti sussurrate – non fosse mai che qualcuno li sentisse urlare! – e le reprimende lanciate solo con sguardi più che espressivi.

Pur essendo nata e cresciuta in una famiglia non nobile, Grace comprendeva bene gli istinti ribelli di Bart.

I Brown di Boston erano considerati da almeno sei generazioni una delle famiglie più influenti della East Coast, e suo padre era forse l’imprenditore più famoso della zona.

Potevano contare su un patrimonio a nove zeri, e possedimenti in vari Stati del nord America.

Le loro industrie manifatturiere spaziavano dal pellame puro e semplice alle calzature di classe, alle case di moda più quotate.

Dal sottobraccio in pelle di canguro di un noto imprenditore di Mumbai, al mocassino di un famoso skipper inglese, i pellami dei Brown erano venduti in tutto il mondo.

Forse, anche i mocassini che indossava Bart erano stati fatti con i loro pellami.

Sorridendo di quell’idea, Grace asserì: “Se tua madre indossa pellicce, è probabile che il produttore abbia fatto affari con mio padre.”

Bart si stupì un poco, di quell’uscita, e replicò bonario: “Niente pellicce… ora. Mia madre è in fase ecologica. Credo si sia ispirata a Brigitte Bardot e, da quando l’attrice ha dato l’addio alla carriera,  lady Ingleton si è fissata nel voler essere come lei.”

Grace non riuscì a figurarsi la madre di Bart, della stessa idea della ribelle Brigitte Bardot.

Da quel che aveva capito, faceva parte di quella stirpe di nobili ancora legati alle mode desuete e al rispetto rigido dell’etichetta di Corte.

Possibile che le interessasse tanto il gossip? O apparire come un qualsiasi personaggio famoso?

Forse ipotizzando i pensieri della giovane, Bart aggiunse: “Sono amiche da anni, e le è spiaciuto molto che abbia rinunciato alla carriera, perciò ha deciso di dare un nuovo slancio alla sua vita, imitandola.”

“Oh… amiche, eh?” esalò costernata Grace, non sapendo che dire.

Suo padre conosceva diversi atleti, soprattutto di football americano - il suo sport preferito - ma lei personalmente non poteva dire di conoscerli veramente.

Si era sempre tenuta alla larga, visto che avevano il brutto vizio di allungare le mani durante le serate di beneficienza.

“Ho una vita strana, lo so” ammise Bart, contrito.

“Non tu, i tuoi genitori, direi” replicò Grace, allungando una mano per carezzargli la guancia, lievemente punteggiata di barba. “Quanto ti ha condizionato quell’ingombrante ‘visconte’ stampigliato davanti al tuo nome?”

“Più di quanto voglia ammettere” asserì lui, trattenendo contro la sua guancia la mano calda e gentile di Grace.

Sorridendo appena, lei mormorò: “Dovrei rientrare. Mancano cinque minuti alle dieci.”

“Maledetto coprifuoco” brontolò Bart, lasciandole a malincuore la mano.

“Vai sempre al museo, per caso?” gli domandò allora Grace.

“Settimanalmente. Sarà noioso, ma mi piace osservare le statue con i differenti toni di luce che riserva la giornata. Il marmo acquista tonalità diverse ogni volta” ammise Bart, prima di sorridere imbarazzato. “Non è molto mascolino, lo so.”

Grace ammiccò maliziosa, e replicò: “E’ molto mascolino, invece, ammettere che ti piace l’arte. Alcuni lo negherebbero, dicendomi che preferiscono correre dietro a una forma di formaggio, giù per un pendio. Personalmente, lo trovo idiota, ma so che è molto in auge, qui in Inghilterra.”

Bart scoppiò a ridere di gusto, annuendo e, nel tergersi una lacrima di ilarità, ammise: “Ho partecipato anch’io.”

“E hai vinto?” mormorò lei, a stento in grado di trattenere una risata sguaiata.

“Due volte” dichiarò Bart, orgoglioso.

“Voi inglesi siete matti da legare” asserì a quel punto la giovane, lasciandosi andare a una risata liberatoria.

“Probabile… ma anche voi non scherzate, con i rodei e il vostro fallace tentativo di domare dei tori inferociti, semplicemente cavalcandoli” ribatté Bart, sempre ridendo.

“Va detto che i texani sono gente strana” ammise Grace, prima di sollevarsi in punta di piedi e dare un bacio sulla guancia a Bart.

Stupito, lui si azzittì immediatamente e Grace, lieta di averlo sorpreso, si avviò verso la porta del collegio e, una volta raggiuntala, si volse per dirgli: “Domani, dopo le lezioni, possiamo trovarci al bar. O puoi portarmi dove ti va di andare davvero. Non mi interessa se sarà très chic, o se potrà sembrarmi snob. Portami dove ti piace sul serio, non dove pensi che mi possa piacere l’ambiente.”

Bart assentì, sfiorandosi la guancia, dove il calore delle labbra di Grace stava ancora indugiando.

La osservò entrare di corsa, mentre alle sue spalle il clangore delle campane della Saint Mary’s Church si espandeva per tutto lo studentato.

Con un sorriso idiota sul volto, si mise perciò a correre.

Il coprifuoco valeva anche per lui, dopotutto, e il King’s College era sul lato opposto del parco dell’Università.

Sarebbe stato un colmo se avesse ricevuto una punizione per aver portato fuori una ragazza.







Note: Dopo diversi mesi di silenzio, sul fronte Honey, eccomi di ritorno con una OS su Barthemius e Grace, i genitori di Rena. Mi era stata fatta una richiesta speciale, per loro due, e questo è il risultato. L'inizio della loro love story.
Visto che ora il Vaso di Pandora è stato aperto, giungeranno altre OS su di loro. Non so quante, ma alcune di sicuro. Non si sa mai quando possono venirmi in mente dei particolari nuovi su questi personaggi.
Spero di avervi fatto cosa gradita.

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Capitolo 19
*** Una piacevole trasferta -2- (Novembre 1975) Grace e Barthemius ***


Una piacevole trasferta – 2 –

Novembre 1975

 

 

Correre sotto il nevischio non era mai piacevole ma chiunque, a Boston, aveva vissuto quell’esperienza, prima o poi.

Peccato che Grace non si trovasse a Boston, in quel momento, e che non stesse correndo per le vie dell’affollata città americana, ma tra i sentieri ghiaiosi del campus di Cambridge, in Inghilterra.

Quando infine raggiunse il museo archeologico – con netto anticipo rispetto all’orario prestabilito con Bart –, si scrollò di dosso un po’ del nevischio e infine entrò.

Salutò con un cenno la receptionist all’entrata, consegnando la sua tessera studentesca poi, di filato, corse verso la sala dei marmi per accaparrarsi un posto sulle panchine per i visitatori.

Quel che però la sorprese, fu trovare già lì Bart, e intento in un’attività che mai si sarebbe aspettata, in tutta onestà.

Si avvicinò silenziosa per non farsi scoprire e, con occhi strabiliati, fissò i tratti a carboncino sulla carta ruvida A4 su cui stava lavorando.

Erano precisi, quasi scolpiti, e ritraevano alla perfezione luci e ombre del volto che Bart stava ritraendo con perfezione maniacale.

La sua mano sinistra correva rapida sul foglio, tenendo il carboncino quasi come se fosse un’estensione del suo stesso arto.

Le poche persone presenti a quell’ora lo ignorarono, per lo più, forse abituati a vederlo lì, forse disinteressati a un giovane alle prese con una riproduzione su carta.

Dopotutto, anche Grace ne aveva visti diversi, in quei due mesi, adoprarsi nel replicare le bellezze presenti nel museo.

Bart, però, sembrava avere quel qualcosa in più che differenzia un’opera mirabile dal capolavoro autentico.

Aveva il tocco. La mano dell’artista.

Quando si interruppe per starnutire, Grace sorrise e, rendendo finalmente nota la sua presenza, lo salutò.

Lui si volse a mezzo, sorridendole dopo essersi spazzolato il naso col fazzoletto e, nel levare a mezzo una mano, esalò: “Stai indietro. Sono raffreddato all’inverosimile, e non voglio attaccarti il più brutto caso di raffreddore che la storia ricordi.”

Grace rise del suo tono infagottato e, accomodandosi accanto a lui sulla panchetta imbottita su cui si era seduto, replicò: “Un brutto raffreddore potrebbe darmi la scusa per evitare la visita dei miei genitori, prevista per domani.”

Vagamente sorpreso, Bart poggiò il suo blocco sulle gambe e domandò: “Non ti fa piacere vederli?”

Levando un sopracciglio con espressione scettica, Grace borbottò: “Se fossi sicura che mio padre non sta venendo qui per controllare se mento o meno, riguardo ai miei risultati scolastici, allora sarei felice. Ma lo conosco troppo bene, e vuole solo assicurarsi che sua figlia non gli stia raccontando un mare di panzane, perciò interrogherà i miei professori finché non estorcerà loro la verità… cioè, ciò che gli ho detto io.”

Sospirando, Grace lanciò un’occhiata al disegno di Bart e tornò a sorridere.

“Ora, so perché vieni qui così spesso. Con il cambio delle ombre, dovuto alla variazione della luce proveniente dai lucernai, le opere assumono uno spessore diverso ogni volta, vero?”

“Esatto” assentì Bart, ponendole in mano il blocco da disegno. “Che ne pensi?”

“Che è molto bello e che, secondo me, potresti mollare tutto e darti all’arte. Ci guadagneresti un sacco” lo lodò Grace, restituendoglielo dopo aver ammirato orgogliosa i suoi schizzi.

Lui sorrise sornione e, nel rimettere il blocco nella sua borsa di pelle – poggiata a terra accanto a un ombrello – disse a mezza voce: “In effetti, sto già facendo qualcosa del genere.”

Sorpresa, Grace sgranò gli occhi per fissarlo al colmo della sorpresa e Bart, con un sorrisino furbo, la prese per mano e le disse: “Vieni con me.”

Subito, lei accettò l’offerta, senza chiedersi minimamente dove intendesse portarla, o perché.

Insieme, uscirono dal museo e, sotto l’ombrello di Bart, raggiunsero l’uscita del campus e l’auto del giovane, dove salirono in tutta fretta.

Dopo aver messo in moto la sua MGB gt convertibile nera, Bart la immise nel traffico congestionato di quel pomeriggio novembrino e, guidando con attenzione, le spiegò: “Ho scoperto di avere un discreto talento quando un’amica di mia madre, vedendo una delle mie opere, dichiarò di volerne acquistare un paio.”

“Ma dai?” esalò Grace, ammirando l’abilità con cui Bart svicolava tra un’auto e l’altra, neanche prevedesse le mosse degli automobilisti dinanzi a lui.

Fosse stata lei al volante, sarebbe andata decisamente più piano, ma le piaceva il modo in cui lui affrontava il traffico, senza alcuna paura di sbagliare.

Aveva scoperto insospettabilmente che, nonostante l’aria apparentemente tranquilla, Bart era tutto tranne che un giovane noioso o pantofolaio.

Dopo le prime volte in cui erano usciti, visitando i più bei ristoranti della zona, Bart si era arrischiato a chiederle se le piacesse la campagna.

Al suo assenso, erano partiti una domenica mattina di ottobre inoltrato e, complice una rara giornata di bel tempo, si erano recati nella zona di Little Offley.

Muovendosi per quei sentieri immersi nei boschi come se lo avesse fatto da sempre, le aveva mostrato scorci segreti, panorami stupendi e angoli di paradiso inaspettati.

Pur se erano tornati con le scarpe zuppe di fango, Grace ne era stata felicissima.

Erano anni che non si concedeva di essere semplicemente Grace, e non solo la figlia dei Brown, sempre perfetta, sempre sulla cresta dell’onda.

Aveva immaginato che, anche per Bart, quelle passeggiate nel verde equivalessero a una sorta di evasione dal suo status di nobile titolato.

E ora questo, la scoperta della sua vena artistica… e un segreto.

Quando, però, Bart fermò l’auto di fronte a un’agenzia di cambio, il suo stupore si mescolò alla confusione.

Senza dire nulla, la accompagnò all’interno e, dopo aver salutato un paio di uomini con cui aveva una certa familiarità, le domandò con un mezzo sorriso: “Vedi quei dati, che scorrono sul monitor?”

“Sono i dati della borsa di Pechino, giusto?” gli rispose lei, non del tutto digiuna da cose come queste.

Non era il suo campo, ma aveva visto troppo spesso suo padre con diagrammi di flusso e statistiche alla mano, per non riconoscere un mercato flottante quando lo vedeva.

“Vedi quel titolo… il terzo dal basso, che ha la freccia verde e un più zero virgola nove?”

“Sì… ebbene?”

“Sono il possessore di circa cinquemila azioni di quel titolo, e tutto grazie ai miei lavori artistici” le sorrise lui, poggiando le mani sui fianchi con aria soddisfatta.

Tornando a fissare il monitor – ora, il titolo aveva guadagnato un quarto di punto – Grace esalò: “Spiegati meglio, scusa. Vendi i tuoi quadri… per giocare in borsa?”

“Non proprio” le spiegò lui, portandola fuori per infilarsi in un vicino bar, per lo più visitato da personaggi in giacca e cravatta.

Dopo aver ordinato un paio di caffè caldi e due croissant, Bart intrecciò le mani sul tavolo e, del tutto serio, disse: “La mia idea è raggiungere una quota abbastanza ragguardevole per poter parlare in consiglio, durante le assemblee ordinarie. Non ho nessunissima intenzione di limitarmi a gestire il patrimonio di famiglia, e so già che i miei genitori mi impedirebbero di usare la mia rendita personale per acquistare azioni di una acciaieria americana… ma io voglio farlo.”

“E perché?”

“Ho studiato approfonditamente il lavoro svolto dalle Acciaierie Mason, e trovo che non solo stiano lavorando bene sul territorio, ma anche all’estero, e con progetti innovativi, che daranno i loro frutti col tempo.”

“Non l’hai scelta a caso, vero?” si informò a quel punto Grace, intrecciando le mani per poggiarvi il mento.

Il viso di Bart era acceso di aspettativa e interesse, e Grace lo trovò affascinante.

Quando qualcosa lo interessava davvero, era difficile resistere all’istinto di accarezzarlo… o peggio.

Veniva voglia di lasciarsi avvinghiare dalla sua passione, per non sfuggirne mai più, il che la poneva maggiormente nei guai di quanto non avesse pensato fino a qualche tempo addietro.

Aveva trovato Bart un giovane interessante quanto intelligente e, forte del suo spirito di ribellione, si era lanciata in questa nuova amicizia con leggerezza.

Con il passare del tempo, però, si era resa conto che Barthemius Ingleton era molto di più di un nobile titolato dalla mente brillante.

Era un giovane affascinante, dai molteplici interessi, dai modi di fare impeccabili, e sapeva sempre come stupirla, o divertirla.

Insomma, era il tipico uomo che avrebbe potuto farla scivolare lungo la china dell’amore, finendo con l’irretirla.

Il punto era un altro; lei voleva questo? Voleva mollare la sua libertà e invischiarsi con la sua famiglia, i suoi problemi legati al titolo, il suo mondo così diverso da tutto ciò che conosceva?

Bart valeva quel rischio?

Nel sentirlo parlare delle sue analisi di mercato, di come si fosse sobbarcato diversi viaggi in giro per gli Stati Uniti – all’insaputa dei genitori – e tutto per controllare come lavorasse la Mason, capì.

Capì che quella mente le piaceva, che quell’uomo le piaceva e che, forse, valeva la pena di rischiare, per una volta, di farsi veramente male.

La libertà? Certo, era piacevole, soprattutto vista la sua indipendenza economica.

Sapere di non avere vincoli? Chi non l’avrebbe sognato?

Ma era felice, alla fine dell’opera? Non le sembrava… per lo meno, finché non metteva nell’equazione Bart.

Sorridendo sorniona, si allungò sul tavolo – mentre ancora lui stava parlando – e lo baciò.

Fu una cosa veloce, visto che erano in un bar, ma mise in quel tocco tutta la sua convinzione, la sua sicurezza.

Quando si scostò, un attimo dopo, Bart la fissò stranito per un istante, prima di domandarle: “Era per farmi capire che dovevo stare zitto?”

Grace scoppiò a ridere e, quando arrivarono le loro ordinazioni, non poté non chiedersi che sapore avrebbero avuto, le sue labbra, dopo aver mangiato il croissant.

Non occorse molto per scoprirlo.

Con un’insolita fretta, Bart divorò il suo croissant, terminò il caffè e, dopo aver pagato il conto, condusse fuori Grace, accompagnandola fino all’auto.

Ora, stava diluviando.

Quando, finalmente, riuscirono a sedersi sui comodi sedili di pelle della MGB, Bart la afferrò alla nuca e la attirò a sé per un bacio divorante, senza freni.

Grace rispose subito, avvolgendo il suo viso con le mani, mentre la tempesta sopra di loro infuriava, isolandoli dal resto del mondo.

Nessuno avrebbe potuto scorgere nulla, oltre quei finestrini ricoperti da strati e strati d’acqua scrosciante e, forse, nessuno ne avrebbe avuto il tempo.

Con un temporale del genere, meglio non farsi trovare all’aperto.

Spezzando il bacio ogni tanto per prendere aria, Bart le affondò la mano nei capelli bruni, ora bagnati e profumati di pioggia.

Quel bacio nel bar aveva azzerato la sua capacità di controllarsi in sua presenza, e fuggire da quel luogo pubblico era divenuto un imperativo vitale.

Fin da quando l’aveva conosciuta, aveva provato il desiderio di scoprirla, di scoprirsi assieme a lei, per lei, di provare sulla pelle cosa volesse dire essere solo Bart.

Tutti lo conoscevano come il visconte Barthemius Amedeus Ingleton, figlio di una ricca e distinta famiglia di York, con una parentela risalente fino alla regina Elisabetta I.

Se il padre aveva tentato di renderlo migliore, mandandolo alla scuola pubblica, aveva però messo tragicamente in evidenza la sua diversità.

Non era mai stato veramente come gli altri, nessuno lo aveva mai veramente visto come uno di loro.

Per quanto si fosse fatto degli amici sinceri – e provato sulla pelle cosa volesse dire impegnarsi davvero per raggiungere uno scopo, non solo ottenerlo a causa del proprio nome – non aveva però mai scoperto la vera libertà.

Questa, gli era sempre stata negata, in un modo o nell’altro.

Finché quel maledetto visconte si fosse frapposto fra sé e il mondo vero, nessuno lo avrebbe veramente visto per quello che era.

Eppure, Grace lo aveva visto. Lo aveva toccato e, in barba a tutto, lo aveva conquistato.

Sarebbe stato un inferno farlo capire a sua madre, ma Grace era la donna giusta per lui e, in un modo o nell’altro, l’avrebbe avuta.

Ammesso e non concesso che lei la pensasse allo stesso modo.

Quando, infine, il bisogno d’aria ebbe il sopravvento sulle rispettive pulsioni, Bart si scostò dalle sue labbra tumide e, sorridendole, mormorò: “Non dovevi farlo, prima… ecco cosa succede a scoperchiare il vaso di Pandora.”

Lei rise, rise di puro piacere, il viso rosso di eccitazione e gli occhi che brillavano come stelle.

“Dovrò farlo più spesso, invece, perché mi piace quando succede” replicò la giovane, carezzandogli il viso.

“A tuo rischio e pericolo” asserì Bart, sfiorandole il labbro inferiore con il pollice.

Lei sospirò, socchiudendo gli occhi, e mormorò: “Non voglio perdere la mia libertà, ma… ma credo che, stando con te, potrebbe essere bello lasciarsi incatenare almeno un po’.”

Bart rise, trovando ironico che Grace pensasse questo, visto soprattutto che lui considerava lei la sua porta verso la libertà.

Glielo disse, perché non voleva che vi fossero segreti simili tra loro e Grace, ora colma di dolce stupore, gli carezzò le guance e sussurrò commossa: “E’ bellissimo ciò che hai detto.”

“Come quello che hai detto tu. Che saresti disposta ad affrontare il mio personale inferno, per stare con me. Non credere che sia poco…” replicò il giovane, sfiorandole con un dito il contorno del viso.

“I rischi vanno corsi solo per qualcosa di importante” motteggiò lei, tornando a baciarlo.

Lui la lasciò fare, e stavolta il bacio fu più dolce, stemperato dalla consapevolezza di pensarla allo stesso modo, pur se osservando la cosa da due punti di vista diversi.

Fu solo a tarda sera che rientrarono, dopo aver brevemente cenato in un localino di campagna, poco fuori Cambridge.

Il temporale era ormai lontano, disperso all’orizzonte, e l’aria in quel momento era fredda e umida.

Nel lasciare Grace di fronte al suo collegio, Bart si incamminò per tornare al King’s College con un sorriso stampato in viso.

L’indomani avrebbe telefonato al padre per dirgli di aver conosciuto Grace, così da sondare un poco le acque.

Per la Vigilia di Natale, sperò davvero di poterla portare a York per farla conoscere ai genitori.

Non sarebbe stato male, vedere come Grace avrebbe affrontato sua madre. Era certo che sarebbe stato un incontro… col botto.

***

Col botto, di sicuro, vi fu la caduta da letto di Grace, febbricitante e col peggior caso di raffreddore che si fosse mai visto.

Bart non scherzava, il giorno prima, quando diceva di aver preso un virus piuttosto potente.

Non si era mai sentita così male. E quel giorno, arrivava la sua famiglia!

Forse, questo li avrebbe spinti a non rimanere troppo a lungo a Cambridge, convincendoli che non fosse il caso di disturbarla, visto che stava così male.

Quando, però, Miss Siebert la chiamò dal centralino della portineria del collegio, seppe di non avere scampo alcuno.

Non solo c’erano suo padre e sua madre, ma anche Edward.

Ed Edward non avrebbe perso l’occasione di massacrarla, vedendo che era in condizione di svantaggio.

Le voleva bene, e lei a lui ma, quando si trattava di competere, nessuno dei due si tirava indietro. Erano dei Brown fin nel midollo.

Facendosi forza, perciò, si risollevò dal pavimento, fissò torva la sua compagna di stanza – che stava tentando di non ridere – e borbottò: “Un aiutino sarebbe gradito.”

“Scusa, Grace, scusa” rise Charlotte, sgusciando fuori dal letto per raggiungerla e tirarla praticamente in piedi di peso. “Ma che hai fatto per ridurti così?”

“Bart mi ha attaccato il raffreddore più brutto che la storia ricordi” brontolò Grace, caracollando verso il bagno come uno zombie.

Charlotte la seguì per ogni evenienza e, stando ritta sulla porta, le domandò: “Non devo chiedere come, vero?”

“Immaginalo” bofonchiò Grace, sciacquandosi il viso. Sì, era pesto da far schifo, ma non poteva farci nulla.

La sua compagna di camera ridacchiò divertita, esalando: “Hai un bel coraggio, a frequentarlo. Da quel che mi hanno detto alcune ragazze, sua madre è un vero mastino!”

“Conosco ottimi addestratori… e so come mettere una museruola, se necessario” chiosò Grace, spazzolandosi energicamente i capelli.

Dopo essere rientrata e aver infilato la porta della stanza, la notte precedente, Charlotte l’aveva fissata curiosa, e Grace le aveva parlato della sua uscita con Bart.

Non aveva comunque fatto alcun accenno ai loro precedenti appuntamenti, sperando di chetare con poche parole la curiosità della sua compagna.

Charlotte, però, non era affatto stupida, e aveva subodorato qualcosa ma, con un sorriso, si era limitata ad augurarle la buona notte.

La situazione attuale, invece, richiedeva un po’ di aiuto esterno, perciò Grace decise di darle un po’ di fiducia e, nel volgersi a mezzo, disse: “Mi piace. Davvero tanto. Ma non voglio assolutamente che i miei lo sappiano, perché romperebbero così tanto le scatole da far impallidire la ‘mastinaggine’ di Mrs Ingleton.”

Charlotte gorgogliò sgomenta e assentì in fretta, dichiarando lesta: “Farò un giro di voci con le altre ragazze, allora. Non si sa mai che qualcuna usi più lingua del necessario, e nel momento sbagliato.”

“Grazie… visto che mio fratello è qui, qualcuna potrebbe sentirsi in obbligo di essere più gentile del dovuto” grugnì Grace, facendola scoppiare a ridere.

“E’ così carino?” esalò la compagna di stanza, asciugandosi lacrime di ilarità.

“E’ un Brown” sentenziò l’amica, ammiccando.

Charlotte, allora, afferrò in fretta la sua vestaglia di ciniglia, se la legò in vita e disse: “Vado in missione. Tu, cerca di non morirmi qui, se possibile.”

“Farò del mio meglio… e grazie ancora” replicò a quel punto Grace, fissandola con estrema gratitudine.

Tornando seria, Charlotte mormorò: “Conosco Bart da quando era poco più che un ragazzino con i calzoncini corti. Merita di essere felice, credimi, così come suo fratello che, viva Dio, è sfuggito dal carcere in cui viveva già da un paio d’anni. Se una ragazza gli fa battere il cuore, io starò dalla sua parte, sempre e comunque.”

“Buono a sapersi” ammiccò Grace, scrutandola mentre usciva di corsa dalla stanza.

E chi l’avrebbe mai detto che Charlotte avrebbe potuto essere una sua alleata?

Era proprio vero che doveva dare un po’ più di fiducia alle persone. Non erano tutte calcolatrici e arriviste come suo fratello Edward.

Ghignando allo specchio, Grace si disse: “Il tuo fascino funzionerà poco, oggi, fratellone. Mi spiace.”

L’attimo dopo, starnutì così forte che, per un attimo, temette di essersi spezzata il collo.

Anche Bart, però, poteva evitare di attaccarle un raffreddore simile!

***

Alla fine dell’opera, la visita dei Brown non fu così tremenda come Grace aveva temuto ed Edward, nel vederla così costipata, si era anche trattenuto nelle battute.

Anzi, alla sorella era addirittura parso che fosse preoccupato seriamente per lei.

Sua madre Anne aveva per forza di cose voluto vedere la camera che divideva con Charlotte e, quando aveva saputo che la ragazza era di discendenza nobile, ne era rimasta colpita.

La nobiltà, in America, era vista come un’autentica – quanto affascinante – bizzarria.

Impegnati in quel momento a visitare il museo nei pressi del collegio dove soggiornava, Grace colse quegli istanti di pace per un pisolino.

Si era scusata, preferendo riposare un poco in vista della loro cena, e la famiglia aveva accettato di lasciarla tranquilla in camera sua.

Un crepitio alla finestra, però, la spinse a sollevarsi di scatto dal letto e, accorrendo a vedere, sorrise nello scorgere Bart, dabbasso, armato di sassolini.

Non era la prima volta che usava quella tecnica e, stavolta in particolare, le parve divertente.

Aperta la finestra, si affacciò dal primo piano e disse a mezza voce: “Untore! Sto malissimo!”

“Lo temevo… hai anche la febbre?” le domandò, sorridendole contrito.

“Qualche linea.”

“Com’è andata la giornata? Tremenda, o fattibile?”

“Neanche male, in tutta onestà, ed Edward è stato gentile, visto che stavo malissimo” ammise Grace, appoggiandosi al davanzale. “Tu come ti senti?”

“Chiedimelo tra una settimana. E’ meglio” ironizzò lui, facendola scoppiare a ridere.

“Sei stato carino a passare, ma ora è meglio se defili… i miei sono ancora in zona. Cenerò con loro, stasera” mormorò spiacente Grace, restia a lasciarlo andare.

“Non avrei problemi, anche se li incontrassi… o non vuoi?” le domandò dubbioso.

“Più che altro, non mi va di rispondere a domande di cui ancora non conosco la risposta” dichiarò lei, passandosi una mano tra la folta chioma bruna.

“Ottima risposta, miss Brown. Neppure io saprei cosa dire loro, al momento, a parte che sei una ragazza splendida” le sorrise lui, sapendo di dire solo in parte la verità.

Non voleva però metterla a disagio, specialmente ora che stava male.

Grace gli sorrise, gli mandò un bacio con lo schiocco e, l’attimo seguente, starnutì.

Bart allora rise, le intimò di tornare a letto e, quando la vide chiudere la finestra, si avviò per allontanarsi.

Un giovane alto e bruno, dai lineamenti eleganti e belli, però, gli bloccò la strada e, con un mezzo sorriso, esordì dicendo: “Quindi, te la fai con mia sorella?”

Addio alla segretezza e all’impegno di starmene in disparte, pensò tra sé Bart, sospirando leggermente.

“Sei Edward Brown?” domandò Bart, pur non avendo bisogno di molte conferme.

A ben guardare, assomigliava molto a Grace.

Le mani infilate nelle tasche dei pantaloni dalla piega perfetta, Edward assentì con un mezzo sorriso e, ironico, replicò: “E tu saresti…?”

“Bart Ingleton” dichiarò lui, allungando una mano verso il giovane americano.

Dopo un istante, Edward accettò quella mano, stringendola con forza, e trovando all’altro capo una stretta altrettanto decisa.

“Mmh, bene. Non è una stretta da damerino. E’ già qualcosa” assentì Edward. “Ergo, cosa ho involontariamente ascoltato, prima?”

“Il raffreddore gliel’ho attaccato io” si limitò a dire Bart, con tutto quello che poteva voler dire un’affermazione simile.

Il giovane Brown levò curioso un sopracciglio ma, a sorpresa, non fece altre domande e, nel lanciare un’occhiata alla finestra della stanza della sorella, mormorò: “Sai che nessuna delle ragazze del dormitorio mi ha detto nulla di te? Neppure la sua compagna di stanza.”

“Charlotte? Le dovrò una birra, allora” ironizzò Bart. “Se anche ti avessero detto che la frequento, sarebbe cambiato qualcosa?”

Edward si passò un dito sullo zigomo, grattando leggermente, forse indeciso su cosa dire e come dirlo.

Alla fine, comunque, borbottò: “Vedi, Bart, tra me e mia sorella c’è uno strano rapporto. Litighiamo spesso, perché siamo assai competitivi, e io non manco di essere piuttosto pungente, con lei, lo ammetto. Ma su una cosa non transigo; nessuno deve farle del male, in nessun modo possibile. E’ mia sorella, e il primo che le torce un capello, è un uomo morto. Defunto.”

Il tono lapidario di Edward sorprese un poco Bart che, istintivamente, corse alla cinta dei pantaloni del giovane, come a volersi assicurare che non portasse una pistola.

Brown lo comprese al volo e sorrise, replicando: “Qui non si può girare armati.”

“Non si sa mai” sottolineò per contro il visconte. “Comunque, non è mia intenzione farle alcun male. Tutt’altro.”

“La fai ridere, e sembrava onestamente felice di vederti, perciò ti crederò… per ora. Ma non pensare che la cosa possa tranquillizzarmi per molto. Ti terrò d’occhio, in un modo o nell’altro e, se capirò che sei un pericolo per Grace, ti affetterò come bacon e ti mangerò a colazione” lo minacciò Edward.

Bart sorrise divertito, onestamente sorpreso da tanto livore e, preferendo calmare i suoi bollori, disse soltanto: “Mi reputo avvisato. Lo dirai ai tuoi, ora?”

“Non ci penso neanche. Ricatterò Grace per il mio silenzio. Sarà più divertente, e più in linea con il mio carattere” ironizzò Edward, ammiccando al suo indirizzo.

Sarebbe stato ugualmente in silenzio, anche senza il ricatto alla sorella ma, a quanto pareva, il loro strano rapporto funzionava meglio così.

E chi era Bart per lagnarsi?

“E’ bella, mia sorella, quando sorride, vero?” mormorò alla fine Edward, con aria orgogliosa.

“Sì, molto” assentì Bart, restando in silenzio a osservare il college ancora per qualche istante, prima di separarsi con un muto saluto.

Come primo approccio alla famiglia Brown, dopotutto, non era andato neanche male, pensò tra sé Bart, prima di starnutire per l’ennesima volta.

Ma che razza di raffreddore aveva preso?!

 

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Capitolo 20
*** Una piacevole trasferta -3- (Dicembre 1975) Grace e Barthemius ***




Una piacevole trasferta – Parte 3 –


(Dicembre 1975)


 


La neve cadeva fitta e copiosa dal cielo plumbeo, ma questo non toglieva minimamente bellezza a ciò che le stava innanzi, maestoso e splendido nonostante tutto.


Grace osservò abbagliata la struttura solida del palazzo che le stava innanzi, con le sue finestre ad arco, le balconate sul tetto, le scalinate all’ingresso e il giardino ora innevato.


Era indubbiamente un palazzo degno di tale nome, e rispecchiava in toto la discendenza millenaria di Bart.


Vedere alcuni turisti uscire dall’entrata principale fu, perciò, assai anacronistico, per gli occhi di Grace, anche se non affatto strano, a onor del vero.


La nobiltà aveva sempre permesso, anche in tempi lontani, di far visitare i propri palazzi al popolino.


Ora, era solo diverso per via delle macchine fotografiche.


Quando Bart infine parcheggiò l’auto sul retro del palazzo, sotto un porticato ad archi che forse, un tempo, aveva contenuto delle carrozze, il giovane sospirò e disse: “Ebbene… questa è casa mia.”


Grace trovò assai divertente il suo tono contrito, così come la sua aria disturbata.


Era evidente quanto trovasse tutto questo imbarazzante, perciò Grace tentò subito di tirarlo su di morale.


“Sai, onestamente, pensavo fosse più grande. Mi ha un po’ delusa” ammiccò lei, dandogli una pacca sulla mano, che ancora riposava sul cambio della sua auto sportiva.


Bart mimò un sorriso, che però non raggiunse mai gli occhi.


Grace sapeva che non era ancora del tutto convinto di non averla sconvolta, ma la ragazza era ben decisa a smentirlo.


O, quanto meno, a farlo smettere di preoccuparsi.


Era ovvio il suo sbalordimento, ma avrebbe dovuto essere cieca e col cuore di pietra, per non rimanere abbagliata da un simile splendore.


Il fulgore della sua casa, così come la sua ricchezza, però, non la mettevano a disagio come lui poteva temere.


Per quanto diversa potesse essere la sua vita, a Boston, Grace conosceva comunque il peso della ricchezza, e non se ne sentiva schiacciata.


In Inghilterra, era solo vissuta in maniera diversa.


Quando infine discesero dall’auto, un uomo di mezza età munito di ombrello giunse da loro e, nell’osservare solo parzialmente Grace, disse subito: “Ben arrivato, Mr Ingleton. Miss…”


“Buongiorno” mormorò Grace, accennando un sorriso.


Aprendo un secondo ombrello, lo consegnò a Bart prima di offrire il proprio a Grace, che però prese sottobraccio il domestico, asserendo: “E’ abbastanza ampio per coprire entrambi.”


“Concordo, Miss…”


“Grace Brown, molto piacere” dichiarò la ragazza, allungando una mano all’uomo.


Questi la strinse, assentendo.


“Bernard Show. Al suo servizio, Miss Brown.”


“E’ tutto sistemato, in casa?” si informò Bart, avviandosi verso la porta di servizio da cui era uscito Bernard.


“Sì, Mr Ingleton. La camera degli ospiti è già pronta, e Lory e Michael verranno a ritirare subito i bagagli. Nel salottino degli arazzi abbiamo preparato un piccolo aperitivo di benvenuto, e sua madre vi sta aspettando lì. Suo padre è nello studio. Vi raggiungerà appena si sarà liberato.”


Bart sospirò leggermente, all’idea di affrontare la madre in solitudine, ma Bernard sorrise disponibile, asserendo: “Se preferisce, ci dilungheremo un po’ nel servire il tè.”


“Non fa nulla, Bernard. Affronterò Madama Squalo da solo.”


Bernard cercò di non sorridere di fronte a quel nomignolo tutt’altro che lusinghiero, e Grace si domandò quante altre volte lo avesse sentito usare da Bart.


E, forse, dal fratello maggiore, Andrew.


Quando infine si ritrovarono all’interno del palazzo, Bernard ritirò i due ombrelli e si accomiatò dalla coppia, lasciando che fosse Bart a fare gli onori di casa.


Curiosa, Grace ascoltò il vociare lontano di alcune persone e il giovane al suo fianco, sorridendo appena, disse: “Turisti. Gli ultimi della giornata, a giudicare dall’orario.”


“Il palazzo è completamente aperto alle visite?” si informò la ragazza, guardandosi intorno con espressione ammirata.


L’interno rispecchiava in toto le premesse offerte dall’esterno.


Tutto era tenuto ottimamente, dagli stucchi alle modanature, e ogni cosa era di ottimo pregio e gusto.


I quadri raffiguranti scene campestri non stonavano affatto, se messi a confronto con i ritratti degli antichi membri della famiglia Ingleton.


La fattura era parimenti eccellente.


Così come il mobilio, che spaziava per epoche, ma che rifletteva molto bene la ricchezza della famiglia e la sua buona gestione del patrimonio.


Non sembravano aver mai avuto flessioni, nel corso dei secoli.


“Resta aperto tutto l’anno, il sabato e la domenica, e fa aperture speciali durante le varie festività. Ma sono visitabili solo le ali in cui non abitiamo, e dove abbiamo sistemato la maggior parte delle opere d’arte” le spiegò Bart, vedendola sollevare le sopracciglia con aria sorpresa.


Indicando ciò che la circondava con aria ironica, Grace domandò: “Queste, allora?”


“Qualcosa dovremo pur guardare anche noi, no?” celiò lui, facendola sorridere apertamente.


Imboccata una scala a semicerchio in legno di noce verniciato a specchio, risalirono fino al primo piano e lì Bart, con un mezzo sorriso, si avviò lungo il corridoio a destra.


“Siamo arrivati?” mormorò Grace, stringendogli per un attimo la mano.


“Già. Prendi un bel respiro e preparati a venire soppesata, scandagliata, radiografata e, forse, gettata dalla finestra. Con Andrew lo fa sempre, con me un po’ meno.”


“Lo fa anche con voi?” esalò sorpresa Grace, facendo tanto d’occhi.


“Nessuno può essere allo stesso livello di Leonard Ingleton, agli occhi di mia madre, men che meno i figli… figurarsi gli estranei” ammiccò lui, non dando troppo peso alla cosa.


“Okay. Sarà come avere a che fare con mio nonno” brontolò Grace, facendolo sorridere.


“Io eviterei la parola ‘okay’, giusto per evitare sguardi accigliati” le fece notare lui, prima di bussare alla porta.


Grace si tappò per un istante la bocca, come a volersi scusare, poi si preparò all’inevitabile.


I giorni precedenti la loro partenza per York, dove avrebbero passato le vacanze di Natale – in previsione di partire per Boston per festeggiare il Capodanno – erano stati un susseguirsi di consigli.


E ammonimenti.


E cambi di programma.


Alla fine, Grace si era dovuta impuntare, per evitare che Bart annullasse la sua presenza alla casa natale per festeggiare le festività.


Era chiaro quanto il giovane fosse terrorizzato all’idea che, non solo la madre non accettasse Grace come sua fidanzata, ma che la ragazza si spaventasse, di fronte a tanto astio.


Grace, comunque, non aveva nessunissima intenzione di farsi mettere i piedi in testa da nessuno, per quanto questo nessuno fosse titolato, o dotato di denti da squalo.


Nell’entrare infine nel salottino, la ragazza comprese subito il perché del nome – degli Arazzi – e, nell’osservarli per un istante, li lasciò per poi puntare lo sguardo sulla donna ivi presente.


Ritta e silenziosa dinanzi alla finestra, si volse a mezzo per scrutarli con attenzione, il volto serioso e circondando da una corona di capelli neri, raccolti in un modesto chignon.


Abbigliata con un semplice abito blu e lungo appena sotto il ginocchio, aveva una graziosa spilla di diamanti appuntata sopra il seno sinistro.


A Grace, ricordò molto la regina, per stile e postura.


Scostandosi finalmente dalla finestra, Gwendolin De Winter Ingleton si avvicinò al figlio levando entrambe le mani e, con voce tranquilla, disse: “Ben arrivato, Bartemius. Temevo che la nevicata potesse rallentarvi.”


“Buongiorno, mamma” mormorò lui, baciandole le guance con affetto dopo averle stretto gentilmente entrambe le mani. “No, il viaggio è andato bene. Abbiamo trovato la neve solo nei pressi di York.”


“Tuo padre è impegnato con una telefonata da Londra. Assai noiosa, per quel poco che mi è parso dalla sua espressione” asserì a quel punto la donna, prima di volgersi verso Grace e dire con un sorriso: “Mi presenti alla tua amica?”


Bart assentì e, cercando di non irritarsi per quel modesto ‘amica’, mormorò: “Lei è Grace Brown, di Boston. Studia al Newnham College. Ci siamo conosciuti al museo del Campus.”


“Non ho chiesto il suo curriculum, Bartemius” replicò indulgente la madre, allungando una mano perfettamente curata in direzione di Grace. “Molto piacere, Grace. Io sono Gwendolin.”


“Il piacere è mio, Mrs Ingleton” dichiarò Grace, stringendo quella mano delicata e femminile.


Aveva il sentore che, nella sua vita, non avesse sollevato più di una tazzina di porcellana, ma era presto per farsi delle idee chiare su di lei.


“Bartemius mi ha detto che hai una laurea in Legge, e che sei qui per un Master in Sociologia” asserì poi Gwendolin, invitandoli con un cenno ad accomodarsi.


Nel fare lo stesso, la donna suonò un campanellino e, subito, la servitù si presentò con il tè.


“Sì, Mrs Ingleton. E’ mio parere che, per esercitare al meglio la professione di avvocato, conoscere anche il lato strettamente umano delle persone che dovrò difendere, sia importante. Così come comprenderne il retroterra, o il luogo in cui vive e da cui proviene” le spiegò Grace, osservando solo distrattamente il via vai di domestici, armati di servizi di porcellana finissima, suppellettili in argento sterling e vassoi bulinati da mani raffinate.


“Avvocato. E’ questo di cui si occupa la tua famiglia?”


“La mia famiglia possiede una vasta gamma di attività nel settore manifatturiero ma, soprattutto, si occupa di pellami. Dalla materia prima, al prodotto finito. In tutte le sue declinazioni” asserì Grace, accettando la tazza di tè che le venne offerta.


Congedati i domestici, Gwendolin assentì pensierosa e, con un leggero sorriso, domandò: “Quindi, se curiosassi il sottobraccio di Leonard, potrebbe esservi inciso il logo delle vostre aziende?”


“Dovrei darle un elenco dei nomi. Non tutte hanno ‘Brown’ nella dicitura. Molte, sono acquisizioni di società in fallimento, cui mio nonno e mio padre hanno voluto mantenere il marchio, poiché sinonimo di qualità. Noi ci siamo limitati a dar loro nuova linfa vitale, mantenendone gli standard elevati e di classe” si limitò a dire Grace, trovando quella faccenda quanto mai divertente.


Le sembrava quasi di dover passare un colloquio di lavoro.


Gwendolin fece per domandare altro ma, a quel punto, Bart intervenne e disse piuttosto accigliato: “Se è un’altra domanda sul suo tenore di vita, ti pregherei di astenerti. Penso che Grace sia stata fin troppo disponibile.”


“E’ solo per fare conoscenza, caro!” esalò la donna, sinceramente sorpresa. “Non hai mai portato una ragazza a casa nostra, e potrai ben capire la mia sorpresa quando mi hai parlato di lei come della tua fidanzata. La mia sorpresa è stata enorme!”


Grace cercò di trattenere la risata che le galleggiava ai lati della bocca – la mimica drammatica di Mrs Ingleton era eccezionale – e, convenendo con la donna, intervenne dicendo: “Bart, tua madre ha ragione. Lei non mi conosce affatto. E’ giusto che capisca chi sono e, di solito, si parte parlando della famiglia e degli interessi personali.”


Lui non parve molto convinto, ma si chetò e Gwendolin, sorridendo affabile a Grace, asserì: “Grazie, cara. Non ti stavo angustiando, vero?”


“Affatto, Mrs Ingleton. Non mi turba parlare della mia famiglia. Ne sono orgogliosa. I miei trisavoli lavorarono sodo per ottenere ciò che, ora, mio padre e mio nonno stanno gestendo per portarlo ancora più in alto. Siamo persone dedite al miglioramento di noi stessi, e siamo anche piuttosto competitivi, ma non penso sia un difetto.”


“Mirare all’eccellenza non è mai un difetto” assentì Gwendolin. “E così, hai parlato di trisavoli. Brown. Sai da dove venissero?”


“Mamma!” esclamò una voce nuova sulla porta del salottino.


Abbigliato con un completo chiaro maglione-pantaloni, un giovanotto sui ventisei anni entrò tutto sorridente e, nell’avvicinarsi alla madre, la baciò sulla guancia, dichiarando: “Non stai esagerando con il terzo grado?”


“E’ questo il modo di presentarsi? Esclamando come un pescivendolo?” brontolò la donna, fissando il figlio maggiore con riprovazione.


Il figlio, però, rise senza ritegno e, dopo aver aggirato la poltrona della madre, allungò una mano verso Bart, che la strinse con forza, prima di affrontare Grace e dire: “E’ un vero piacere conoscerti, Grace. Io sono Andrew, come avrai capito da sola. La pecora nera di casa Ingleton.”


Gwendolin lo fissò come se desiderasse bruciarlo vivo, ma non disse nulla e la ragazza, trovando subito simpatico il figlio maggiore degli Ingleton, mormorò: “Piacere mio, Andrew. Bart mi ha parlato molto di te.”


Accomodandosi sulla poltrona accanto a Grace, Andrew invece ritorse ironicamente: “Lui, invece, si è dimenticato di dirmi quanto fossi carina. Ma lo perdono. Capisco quanto possa essere geloso di te e, visto che io sono il più bello della famiglia…”


“Andrew!” esalò a quel punto Gwendolin, scandalizzata.


Grace lanciò un’occhiata divertita a Bart, che si limitò a fare spallucce come se la cosa fosse normale, quando si trattava del fratello.


Evidentemente, il figlio primogenito giocava con il suo ruolo di scapestrato molto più di quanto piacesse alla madre.


Soprattutto, con ospiti in casa.


L’arrivo del patriarca sedò un po’ gli animi, e Grace dovette ammettere che, come capofamiglia, Leonard Ingleton faceva la sua figura.


Alto e imponente per aspetto, il patriarca degli Ingleton aveva una capigliatura sale e pepe di taglio militare, ma indossava un completo molto casual, come il figlio maggiore.


Se per uno, la scelta era caduta sul bianco panna, per il patriarca era caduta sul blu, che faceva risaltare il candore della sua camicia bianca così come i limpidi occhi verdi.


“Bene. Vedo che Andrew ha già dato prova di sé e del suo spirito faceto…” esordì Leonard, sorridendo al figlio maggiore, che ebbe la decenza di arrossire. “… e che la mia Gwendolin se ne è risentita. E dire che vi conoscete da tempo, voi due.”


La moglie gli sorrise grata, come se il suo intervento fosse stato pari a quello di San Giorgio con il drago e, nell’allungare una mano verso di lui, disse: “A volte, sa essere così maldestro nei modi!”


Leonard ammiccò a quel commento e, nel rivolgersi a Grace, asserì: “Chissà che idea ti sarai fatta di noi… io sono Leonard. Molto piacere.”


“Grace Brown, e il piacere è mio” sorrise lei, osservandolo mentre si accomodava sulla poltrona accanto alla moglie.


“Si sarà fatta l’idea che siamo una famiglia assai noiosa e convenzionale” ironizzò Andrew, ritrovandosi addosso gli occhi accusatori della madre.


Leonard sorrise ancora e dichiarò: “Mio figlio Andrew. Il prossimo comico più famoso d’Inghilterra.”


Grace sorrise gioviale, e replicò: “Per lo meno, i vostri figli vanno d’accordo. Se dovesse vedere me e mio fratello Edward durante una riunione di famiglia, vedrebbe qualcosa di molto simile a una guerra fratricida. Non andiamo d’accordo quasi su nulla.”


“Opinioni divergenti?”


“Ambizione” ammiccò Grace. “Edward è geloso dei miei successi scolastici, io sono gelosa del fatto che mio nonno abbia una predilezione per lui, e così via…”


“Bartemius mi ha detto di aver conosciuto tuo fratello durante una sua visita, a Cambridge” le fece notare Leonard, servendosi un po’ di tè.


Grace sorrise a Bart, che si limitò a dire: “Ho detto solo cose belle.”


“Perché, ce ne sono?” ironizzò Grace, facendo scoppiare a ridere Andrew.


“La adoro, fratello. Posso prenderla in prestito?” ghignò il fratello maggiore, rivolgendosi a Bart.


“Neanche per idea” protestò con eleganza quest’ultimo, poggiando una mano su quella di Grace, che riposava sul bracciolo della poltrona.


Gwendolin sospirò impercettibilmente e Grace, nel notarlo, si spiacque un po’ per lei.


Era evidente che, un tale irrispettoso comportamento, la stesse mettendo a disagio.


“Mrs Ingleton, non ho potuto fare a meno di notare che alcune ali del vostro palazzo sono visitabili dai turisti. Mi farebbe da Cicerone, mentre i suoi uomini dialogano tra loro?”


Se Bart fu sorpreso dalla sua uscita, lo fu anche Gwendolin che, però, mascherò abilmente la cosa, limitandosi a dire: “Ne sarò lietissima, cara. Quando sono insieme, tendono a essere un po’ irrispettosi, perciò capisco il tuo bisogno di estraniarti un poco. Vieni pure con me.”


“Grazie infinite” assentì Grace, lanciando poi uno sguardo rassicurante a Bart, già pronto a seguirla.


Dubbioso, il giovane osservò le due donne lasciarli per altri lidi e, quando la porta fu chiusa alle loro spalle, Leonard chiosò: “Una mossa assai ardita.”


“E suicida. La tua fidanzata ha per caso questo genere di pulsioni?” celiò Andrew, afferrando un pasticcino per mangiarselo in un colpo solo.


“Chiedetelo a lei. Ha sorpreso me, quanto voi” esalò Bart, passandosi una mano tra i capelli. “Chissà che le è venuto in mente?”


“Forse, vuole affrontare tua madre in separata sede” ipotizzò Leonard, intrecciando le braccia sul torace. “Mentre a te spetta tuo padre. Ebbene?”


“Ebbene, cosa? Vuoi davvero farmi il terzo grado anche tu?” esalò Bart, vagamente sorpreso.


“Ragazzo, mi hai chiamato una settimana fa dicendomi che, primo, saresti venuto a casa per Natale, secondo, saresti tornato con una ragazza e terzo, cosa non da poco, che quella ragazza era la tua fidanzata. Vorresti perciò rendermi edotto su chi ho appena salutato?”


“Sei nei guai, fratello” celiò Andrew, sforbiciando una gamba sopra il bracciolo della poltrona.


Leonard lo fissò male e dichiarò: “Se ti vede tua madre, ti scotenna. Rimettiti seduto.”


“Mamma sarà impegnata per ore, con Grace, perciò non corro pericoli.”


Mr Ingleton a quel punto sospirò e, guardando Bart, domandò: “Non potevi lasciargli un po’ di buona creanza?”


“Mica le ho fatte io le spartizioni di cervello, quando siamo nati” precisò Bart, ghignando in direzione del fratello. “E poi, sono nato tre anni dopo!”


“Torniamo a noi, è meglio” esalò esasperato Leonard. “Che mi dici del fatto che vi siete conosciuti solo a ottobre di quest’anno? Non è un po’ presto pensare a cose come fidanzamenti e quant’altro?”


“Passa mezza giornata con lei, papà, poi ne riparleremo. Stando così le cose, potrei elencarti i suoi pregi, e i motivi per cui sono innamorato di lei, e tu diresti solo che sono perso dietro a Grace perché è una bella donna” sottolineò Bart, irritandosi un poco.


“E non è vero? Che è una bella donna, e che il rischio di perdere la testa è presente?” sottolineò Leonard, con sagacia.


“Solo un cieco direbbe che non è bella, o forse neppure lui. Ma Grace è molto più di questo e, solo per come si sta comportando con mamma, dovresti convenire che ha carattere, e da vendere.”


“O vuole il tuo nome, e il tuo patrimonio, molto più di altre ragazze che hai conosciuto” gli fece notare il padre, con tono pacato.


Per Bart fu troppo.


Si levò in piedi come una furia e, affrontando a muso duro Leonard, sbottò: “Come ti permetti di etichettarla come una cacciatrice di dote, se neppure la conosci?! Inoltre, se proprio vogliamo essere onesti, a lei neppure serve, visto che ha un patrimonio personale a sei zeri. Forse, dovrebbe essere lei, a preoccuparsi di una cosa simile, non il contrario.”


Leonard allora gli sorrise indulgente, affermando: “Ah, quindi, quando vuoi, gli artigli li sfoderi.”


“Come, prego?” gracchiò Bart, fissandolo stranito.


“Mi chiedevo se, dopotutto, mandarti alla scuola pubblica non fosse servito a questo granché. Sì, ti aveva un po’ ringalluzzito, ma non come speravo. Quando si tratta di Grace, invece, tiri fuori le unghie e ti fai caparbio. Bene. E’ un buon segno” dichiarò il padre, assentendo compiaciuto.


“Sai di essere un folle, vero?” brontolò Bart, ancora guardingo.


“No, figliolo. Desidero solo che tu mi dimostri quanto ci tieni e, per ora, direi che va bene” assentì il padre. “Bartemius, non metto in dubbio i vostri sentimenti, quanto piuttosto la loro forza. Pochi mesi bastano per capire se siete fatti l’uno per l’altra?”


“Parlale. Capirai tutto” ripeté Bart, andando alla finestra e chiedendosi come se la stesse passando Grace.


***


“… e, come potrai ben capire, è stato difficile ammettere che il pro-prozio di Leonard si fosse dato al contrabbando di liquori con la Scozia” dichiarò con un sorrisino Gwendolin, indicando un quadro che stava alla loro destra.


Ammirare la collezione d’arte degli Ingleton era stato illuminante.


Non solo erano riusciti a mantenere un livello elevatissimo di pregio, ma li avevano redistribuiti in maniera esemplare all’interno delle ali a disposizione del pubblico.


E Gwendolin ne andava molto fiera, essendo lei stessa la curatrice della Galleria d’Arte sita lì a palazzo.


“Credo che, se andassi a spulciare nel nostro albero di famiglia, potrei trovare qualcosa del genere” ammise Grace, sorridendole gentilmente.


Mrs Ingleton la studiò forse per l’ennesima volta, in quell’ora e mezzo che avevano passato assieme e, ancora, si ritrovò a perdersi nel dubbio.


Era indubbiamente intelligente, acculturata, spigliata e divertente e, anche se a volte scadeva in modi di dire tipicamente americani, questo non guastava il suo fascino.


Il punto era proprio questo; il suo fascino.


Come poteva sapere che Bartemius non fosse stato irretito dal suo indubbio magnetismo ma che, alla fine dei conti, non vi fossero reali legami tra loro?


Non poteva dire nulla, sulla ragazza, ma il dubbio le restava.


Perciò, decise di essere del tutto onesta con lei, pur se lo trovava assai strano e poco consono ai suoi standard.


“Non vorrei apparirti screanzata, Grace, ma ho un pensiero che continua ad arrovellarmi.”


“Dubito potrebbe mai essere screanzata, Mrs Ingleton. Neppure se volesse farlo” replicò Grace, scuotendo il capo.


“Oh, posso eccome, cara. Ne possiedo le capacità” ribatté con ironia Gwendolin. “Nel caso specifico, però, non lo desidero davvero.”


“Allora, mi dica cosa la turba.”


“Forse, avrei preferito tu fossi meno affascinante. E non mi riferisco solo al tuo aspetto fisico che, indubbiamente, è meritevole di lode” le fece notare la donna, cercando di non apparire maleducata.


Grace, però, non diede adito di essersela presa e, sorridendo affabile, replicò: “Potrei girare il dubbio su suo figlio. Come faccio a non pensare che, il mio interesse per lui, non dipenda solo dal suo fascino? E’ difficile dirlo, visto che con me si è sempre comportato in maniera affascinante e lui è, indubbiamente, un giovane molto bello.”


“Bartemius sa esserlo, in effetti” ammise orgogliosa la donna. “Quanto al resto, sono di parte, perciò non ribatterò.”


“Desideravo venire qui anche per questo. Di solito, quando una persona è a casa propria, si comporta in maniera più naturale. L’invito a casa mia vale allo stesso modo per Bart. Desidero che lui mi veda come sono solitamente. Voglio davvero che le cose funzionino, tra noi e, per esserne certa, desidero che ogni dubbio venga fugato.”


Grace si guardò attorno, lanciò occhiate ammirate a tutto ciò che la circondava e infine aggiunse: “Bart è come questa galleria. E’ splendido, perfetto, ma costruito ad arte. So che all’esterno, all’università, lui deve tenere un certo tipo di comportamento. Anch’io lo faccio. Immaginavo che, vedendolo nel suo ambiente naturale, avrei potuto cogliere qualcosa di differente in lui. E lui in me.”


Assentendo pensierosa, Gwendolin mormorò: “Ci hai pensato sopra molto, mi pare di capire.”


“Solo una sciocca non vedrebbe quanto Bart è bello, o intelligente, o speciale in mille modi diversi. Ma voglio essere certa di non essermi solo invaghita di lui per quanto di bello mi ha mostrato fino a ora. Vederlo qui, forse, mi aiuterà a chiarirmi le idee. E venire in America, forse, le chiarirà a lui. Se dovesse averne bisogno, s’intende.”


“Per quanto possa apparire antiquato, voglio per lui una moglie degna di tale nome. E non parlo di titoli o quant’altro. Voglio per Bartemius una donna di cui andare orgoglioso” ammise Mrs Ingleton, arrischiandosi a dare una pacca sul braccio a Grace.


“Se fossi madre, vorrei la stessa cosa. Mi irriterei molto se mio figlio sposasse una sciocca” ironizzò Grace. “O peggio, una sciocca con una bella faccia.”


Gwendolin sorrise appena, annuendo e, nel proseguire lungo il corridoio con lei, mormorò: “Intendi davvero lavorare, dopo il matrimonio?”


“E’ un punto su cui non potrei transigere. Indipendentemente da chi fosse mio marito” assentì Grace, lapidaria. “Ho la facoltà di scegliere perché provengo da una famiglia ricca, e il mio appannaggio personale è più sufficiente a farmi vivere nell’agiatezza per tutta la vita, ma non sono una persona che ama crogiolarsi, e amo davvero legge. Desidero con tutto il cuore mettere il mio sapere e la mia passione al servizio di chi ne ha bisogno.”


Sorridendo appena, Grace mormorò subito dopo: “Mi scuso per quest’arringa, ma è un argomento che mi coinvolge molto.”


Mrs Ingleton assentì, replicando: “Come ti dicevo, non amo le donne deboli e, di sicuro, non ne vorrei una al fianco di mio figlio.”


Grace si limitò ad annuire.


***


Irritato come una serpe, Bart strinse in un abbraccio Grace non appena la vide apparire nelle sue stanze e, affondando il viso tra i suoi capelli, ansò: “Ti porto immediatamente via. Non se ne parla di passare un altro giorno sotto questo tetto. Sono stati odiosi!”


Grace comprendeva bene a cosa si stesse riferendo.


Pur se il pomeriggio passato con Gwendolin non era andato affatto male, Leonard non si era risparmiato nelle domande, a cena, e Bart si era alterato al punto da azzittirsi.


Sapeva ormai bene che, quando perdeva l’uso della parola, era per non dire così di cui, in seguito, si sarebbe pentito.


Quello che, però, l’aveva intenerita al punto di volerlo abbracciare dinanzi a tutti, era stato il suo sguardo.


Pur portando rispetto verso i genitori, oltre che amore incondizionato, aveva sperimentato il dolente sentimento della rabbia.


Rabbia perché stavano tentando di mettere lei, la sua Grace, in difficoltà.


Quell’abbraccio forte, caloroso, possessivo, ne era il diretto risultato.


“Calmati, Bart… non c’è bisogno di scatenare una guerra per causa mia” mormorò lei, pur apprezzandone l’ardimento.


Scostandola da sé, lui la fissò iroso e replicò: “Non permetterò più a nessuno di metterti a disagio come è successo stasera! Neppure a loro! Me ne andrò di casa, se necessario! Al diavolo loro e al diavolo il titolo, i miei soldi, l’università!”


Grace gli sorrise, ma lui non vi badò. Gesticolò, irritandosi sempre di più, perdendo poco alla volta la patina di perfezione che soleva mostrare al mondo.


Le espose i suoi piani, le parlò dei soldi che aveva da parte, che gli sarebbero serviti per dare a entrambi una base solida da cui partire per vivere assieme.


Si dichiarò più che disposto a rinunciare alle sue quote azionarie per farla vivere più che dignitosamente e, in tutto quel lungo monologo sul loro futuro, Bart brillò.


Ogni sua parola, pur se ponderata, era piena di brio, di spirito, di ricerca di un’avventura da vivere assieme.


Eccolo, finalmente, mormorò tra sé la giovane, scorgendo per la prima volta il volto più segreto di Bart.


Se il ragazzo affascinante e un po’ impacciato che aveva conosciuto, l’aveva incuriosita, questo uomo pronto a tutto per lei, la stava facendo capitolare.


Stava gettando alle ortiche tutto, titoli, onori e gloria, per lei. Solo per lei.


E mostrava lui, i denti da squalo, pur di difenderla dalle domande sibilline dei genitori.


Accostandosi a Bart per bloccarne l’arringa, Grace strinse il suo volto tra le mani, lo baciò e disse: “Ti amo.”


Lui si bloccò immediatamente – non era una semplice asserzione, ma un dato di fatto – e, guardandola in quei profondi occhi chiari, mormorò: “Ti amo anch’io. E proprio per questo, ce ne andremo subito.”


“Proprio per questo, rimarremo” replicò lei. “Non ho paura delle loro domande, tra l’altro molto giuste, Bart. Posso combattere questa battaglia al tuo fianco, e non dietro il tuo scudo, perché anch’io voglio difendere l’amore che provo per te.”


“Vorrei prendere a pugni mio padre” ammise suo malgrado Bart, stringendola in un abbraccio più calmo, consolatorio.


“Lo immagino e, in un certo qual modo, la cosa mi fa piacere” sorrise Grace, carezzandogli la schiena con lentezza. “Ma il pugno lo sferreremo assieme, okay?”


“Okay” assentì lui, baciandola con dolcezza. “Resti da me, stanotte?”


“Sì” disse soltanto lei, mettendo mano al primo bottone della camicia di Bart.


***


Doveva essere l’alba o poco più, quando Grace sgattaiolò fuori dalla stanza di Bart per tornare nella propria.


Avevano fatto l’amore con passione, senza freno alcuno e, forse per la prima volta, Grace aveva desiderato che le lancette dell’orologio si fermassero.


Desiderava che i momenti passati con Bart durassero in eterno, e questo era un chiaro sintomo che la sua non era infatuazione, era amore.


Non aveva mai desiderato legami così destabilizzanti, ne aveva sempre avuto paura.


Ora, invece, non solo lo bramava, ma avrebbe lottato con le unghie e con i denti, pur di averlo.


Bart, invece, era stato più veloce di lui nel capirlo. Sorrise nel trovare la cosa umiliante.


Lei che si vantava di essere così sveglia, aveva dormito su una cosa così importante come l’amore per lui.


“E’ proprio vero che, su certe cose, si è davvero ciechi” mormorò tra sé prima di trattenere a stento uno strillo di paura, quando si ritrovò innanzi la figura di Leonard.


Portandosi una mano al cuore, che tamburellava furioso nel petto, Grace impallidì visibilmente, prima di avvampare in viso di fronte all’evidenza dei fatti.


Lei, in giro a un orario antelucano, con i capelli in disordine e i vestiti stazzonati del giorno prima.


“Mr Ingleton… b-buongiorno…” balbettò Grace, arrossendo – se possibile – ancor più di prima.


Leonard le sorrise affabile e, nell’indicarle di seguirla, mormorò: “Visto che siamo entrambi svegli, posso offrirti un caffè?”


“Oh. Sì, grazie” assentì lei, proseguendo lungo il corridoio assieme all’uomo.


Quando raggiunsero l’enorme cucina di palazzo, dove già alcuni domestici stavano iniziando a lavorare, Leonard chiese un paio di caffè e qualche pasticcino.


Fatto ciò, indicò a Grace di seguirlo e, dopo aver raggiunto la vicina serra coperta, si sedette a uno dei tavolini in ferro che si trovavano lì.


Imitatolo, la giovane si guardò attorno circospetta, mentre i primi lampi di luce si intravedevano all’orizzonte.


Leonard rimase in silenzio finché non venne servita loro la colazione e, dopo aver sorseggiato il primo goccio di caffè, sospirò e le sorrise.


“Volevo scusarmi per ieri sera. Bartemius è molto arrabbiato?” esordì l’uomo, offrendole una tazza di caffè.


Lei lo sorseggio pensierosa, prima di decidere di affrontare di punta l’intera situazione.


Avrebbe lottato, per lui.


“In effetti, voleva andarsene.”


“E tu lo hai convinto a rimanere?”


“Io l’ho convinto a combattere assieme. Ma non a proteggermi” replicò lei, afferrando un pasticcino.


“Mi ha detto di parlare da solo con te.”


“E avete pensato di venire a cercarmi da lui?” gli ritorse con un pizzico di ironia, vedendolo a sorpresa arrossire.


“Per la verità, stavo passeggiando avanti e indietro da un po’ di tempo, indeciso su come approcciarti. Il nostro è stato un incontro… fortuito.”


“Aveva bisogno di pensare a come approcciarmi? Non credo di essere una persona così difficile da affrontare” esalò Grace, sinceramente stupita.


“Gwendolin mi ha detto perché hai accettato l’invito di Bart, e perché desideri che lui venga con te a Boston” la mise al corrente lui. “Volevi essere sicura. Non saltare a conclusioni affrettate.”


Annuendo una sola volta, Grace asserì: “E’ facile apprezzare e provare affetto per Bart. Ha tutte le qualità per affascinare una donna. Per questo, volevo vederlo assieme a voi. Per capire come fosse realmente, al di fuori dell’aspetto patinato che tiene di solito.”


“E cosa ne hai ricavato?”


“Che lo amo” disse con onestà Grace, affrontando Leonard senza paura. “E sono pronta a farvi la guerra, se non mi permetterete di stare con lui, ma spero davvero che non succeda mai, perché lui vi ama profondamente, e il vostro comportamento lo ha ferito davvero.”


“Lo temevo” sospirò Leonard, annuendo. “Desideravo che mostrasse la forza che io so che lui ha dentro di sé perciò, a suo tempo, lo mandai nella scuola pubblica perché si facesse le ossa, per così dire. Era troppo assuefatto da ciò che lo circondava, e rischiava di diventare un damerino senza nervo… cosa che non volevo affatto per mio figlio. Per nessuno dei due.”


“Solo che Andrew è più spigliato nel parlare, rispetto a Bart, che è più contegnoso. Vero?” ipotizzò Grace, vedendolo annuire.


“Sì, Andrew non rischiava di diventare uno sbarbatello, anche se pure lui ha avuto giovamento dall’essere andato alla scuola pubblica. Vedere Bart sostenere il mio sguardo per tutta la durata della cena, e fulminarmi ogni volta che ti chiedevo qualcosa, è stato illuminante. Non lo aveva mai fatto. Così come non si era mai rivoltato contro di me come ha fatto ieri pomeriggio, quando te ne sei andata con Gwendolin” le spiegò Leonard, sorridendo orgoglioso.


“Sa che gli ci vorrà del tempo per perdonarvi, vero?” lo mise in guardia Grace, pur comprendendo in parte gli scopi di Leonard.


“Lo so. Ma volevo che mostrasse di che pasta era fatto, e mi facesse capire quanto tiene a te” ammise lui, sospirando nel servirsi dell’altro caffè. “E tu, potrai perdonarmi? Perdonarci?”


“Non mi sono sentita offesa, Leonard. Mio padre ammazzerebbe chiunque tentasse di fare del male a me o a Edward, perciò capisco benissimo quanto foste prevenuti nei miei confronti” sorrise appena Grace, prendendo un altro pasticcino. “Tengo solo a dirvi che non mi interessa nulla se, di fronte al suo nome, è stampigliata la parola conte.”


Leonard, allora, rise sommessamente, assentì e dichiarò: “Mi dovrò scusare con mio figlio. Aveva davvero ragione nel dire che, parlando con te, mi si sarebbero chiarite le idee.”


“Perché sto mandando al diavolo lei e il suo altisonante titolo?” ironizzò Grace.


“Perché hai il coraggio di farlo” ammise lui, ora sorridendo con maggiore enfasi. “Penso diventerai un ottimo avvocato.”


“Non ho dubbi in merito. Sono una Brown, e i Brown sanno solo primeggiare” ammiccò lei, passandogli un pasticcino.


Leonard lo accettò e, dopo averlo messo in bocca, lo mangiò con gusto prima di domandarle: “Rimarrete per Natale, quindi?”


“A costo di legare Bart al letto” assentì Grace, con sussiego.


“Grazie. Ci fa piacere avervi entrambi qui.”


Grace si limitò ad assentire e, dopo aver terminato il caffè, si levò in piedi e disse: “Ora, vado a curiosare le scuderie. Visto che sono sveglia, tanto vale che faccia qualcosa.”


“Ti accompagno, se ti va.”


Lei annuì e Leonard, nell’offrirle il braccio, le domandò: “Credi che mi piacerebbe tuo padre?”


“Credo che potreste trovarvi vicendevolmente simpatici… dopo aver litigato per almeno mezza giornata. Siamo irlandesi, dopotutto” ammise a quel punto lei, facendolo scoppiare a ridere.


Battendo una mano su quella della ragazza, poggiata sul suo braccio, esalò: “Oh, cielo! Sì, avremmo davvero di che discutere. Ma penso sarebbe esaltante, se hai preso da lui.”


“Sono una Brown nel midollo. Siamo tutti così” assentì lei, facendolo nuovamente ridere.


“Ottimo. Davvero ottimo” dichiarò Leonard, scordandola fuori dalla serra e, da lì, in direzione delle stalle.


Sì, Grace Brown era davvero degna di nota, così come gli aveva detto il figlio.


 

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Capitolo 21
*** Una piacevole trasferta -4- (Dicembre 1975) Grace e Barthemius ***


Una piacevole trasferta – 4 –

(Dicembre 1975)

 

 

 

 

 

Il volo era avvenuto senza problemi e, quando erano atterrati al Boston Logan International Airport, avevano trovato una straordinaria giornata di sole, ad accoglierli.

Certo, tutt’intorno la neve abbondava e le temperature si aggiravano intorno ai – 10°C, ma Grace non ci fece affatto caso.

Bart, invece, rimase colpito dalle sferzate di vento gelido e, quando salirono su un taxi per raggiungere la casa dei Brown, il giovane mormorò: “E’ sempre così freddo?”

“Siamo nella norma. Va anche detto che sono solo le otto e mezza del mattino, e il sole si è appena alzato. Nel giro di qualche ora, dovremmo aggirarci attorno ai due, tre gradi sottozero” replicò con naturalezza lei, prima di aggiungere per il tassista: “Ci può portare al civico 11 di Graystone Way, nella contea di Southborough?”

“Subito, signorina” assentì l’uomo, di chiare origini indiane, facendo partire il tassametro.

“Come mai non sono venuti i tuoi, a prenderci?” le domandò Bart, curioso.

“Gliel’ho vietato. Non volevo che ti subissassero di domande quando ancora non avevi messo piede su suolo americano” ironizzò Grace. “Inoltre, così, possiamo chiacchierare ancora un po’ per conto nostro. Quando saremo a Walden House, sarà impossibile.”

“Walden… House?” ripeté sorpreso il giovane, facendo tanto d’occhi.

Sorridendo, Grace gli disse: “Mio nonno è sempre stato un estimatore di Henry David Thoreau, così ha voluto chiamare la casa di famiglia come il suo libro più famoso. Comunque, abbiamo anche una Brown House, se proprio ti mancano i nomi altisonanti. Si trova a Beacon Hill, nel centro di Boston.”

“Molto spiritosa” ironizzò Bart, dandole un pizzicotto affettuoso su una mano.

Lei ammiccò divertita, gli diede un colpetto spalla contro spalla e alla fine chiosò: “Sai, so quanto i nobili tengano alla loro discendenza.”

“Fai, fai la spiritosa” mugugnò lui, pur sorridendole. “Devi ancora spiegarmi cos’hai detto a mio padre, per tranquillizzarlo. Sulla mamma non sono ancora del tutto sicuro, perché lei è notoriamente lunatica, ma papà…”

Arrossendo suo malgrado – l’essere stata pizzicata fuori dalla stanza di Bart, le pesava ancora – Grace distolse lo sguardo e mormorò: “Beh, gli ho solo detto di non ficcare il naso nei tuoi affari privati, perché avrebbe trovato me a difenderli.”

Ridendo sommessamente, Bart esalò: “E tu gliel’hai detto con queste esatte parole?”

“Diciamo che il discorso è stato più ampio di così ma, nella sostanza, ha capito che io tengo a te, tu tieni a me, e non si tratta di un colpo di testa.”

“Mi preoccupa, però, non aver saputo in anticipo il nome della tua casa natale… c’è altro che mi hai nascosto?” le fece notare lui, prima di ridere di fronte al suo apparente sconcerto.

Storcendo appena la bocca, Grace borbottò: “Non pensavo fosse necessario approfondire una scemenza simile ma, se vuoi, ti elencherò tutti i nomi dei miei parenti fino al sedicesimo grado… poi, vedremo se saprai ricordarteli tutti.”

“Mettimi alla prova” ammiccò lui, sorridendole sempre più divertito.

Accigliandosi un poco, la giovane mormorò: “Che intendi dire, Bart? Che davvero… te li ricorderesti?”

“Forse, non saprei associare nomi a volti, visto che non li ho mai incontrati, ma ho una memoria ferrea, Grace, e posso dimostrartelo quando vuoi.”

“Cosa indossavo il giorno in cui ci siamo visti per la prima volta?” gli domandò a quel punto.

“Facilissimo. Un dolcevita bianco con camicia color perla. Pantaloni scuri con la piega e decolleté dal tacco basso, nere” scrollò le spalle lui, mentre Grace faceva tanto d’occhi.

“Oookay. Non ti scoccia, vero, se io non me lo ricordo?” ironizzò a quel punto Grace, accennando un sorrisino.

“No. Mi basta solo che ti ricordi del nostro primo bacio serio” la stuzzicò Bart, allungandosi verso di lei per baciarla.

“Oh, questo è semplice. Come potrei dimenticarlo? E’ stato anche il giorno in cui noi…”

Bart la azzittì con un altro bacio, prima che proseguisse con quel discorso fin troppo privato e, mentre il tassista sorrideva sornione, Grace gli descrisse tutto ciò che comparve alla loro vista.

Impiegarono quasi un’ora, a causa del traffico e della presenza di diversi spartineve sulle strade ma, verso le nove e trenta, si ritrovarono infine di fronte alla villa di famiglia.

Grace sorrise spontaneamente nel vedere la sua forma massiccia, dalle pareti chiare, le finestre ampie e il rosone sopra la porta d’ingresso.

Il giardino, completamente ricoperto di neve, lasciava solo intendere le sue bellezze, così come l’ampia terrazza di fronte a casa dove, solitamente veniva montato il gazebo.

“E’ un luogo bellissimo in cui crescere” mormorò ammirato Bart, sorridendo a Grace.

“Non è Ingleton Manor, ma ci accontentiamo” ammiccò Grace, avviandosi verso la porta.

Non fece però neppure in tempo a mettere i piedi sul primo gradino in cotto che, la lucida porta rosso carminio, si aprì di botto, mostrando sull’entrata una figura di donna.

Alta, slanciata ed elegante, Magdalen Buchanan Brown accolse figlia e fidanzato con un sorriso entusiastico e, raggiuntili sui gradini, esclamò: “Dovete perdonarmi, ma non ho potuto fare a meno di essere la prima ad accogliervi. Bentornata, cara!”

Maggie – come veniva chiamata da tutti, in famiglia – si affrettò ad abbracciare la figlia, che venne letteralmente stritolata dalla madre, dopodiché si scostò e, allungata una mano, esclamò: “Io sono Magdalen, ma puoi chiamarmi Maggie. Lo fanno tutti, Bart. Posso chiamarti Bart, vero? O preferisci Bartemius? E’ un nome così nobile ed elegante!”

Letteralmente travolto dalla verve di quella donna, che sprizzava energia da tutti i pori, Bart strinse la sua mano protesa e disse: “Va… va benissimo Bart… Maggie.

“Oh, bene!” esalò eccitata la donna, battendo le mani prima di sospingere i due giovani all’interno della villa.

Subito, Bart ne notò l’eleganza e il gusto per il mobilio, così come i colori caldi e le strutture morbide, ad arco.

La prima impressione che ebbe il giovane, fu che non v’erano spigoli, in quell’enorme casa padronale.

La seconda impressione fu che era molto accogliente, così come vissuta.

Non sembrava un museo, ma un posto in cui i bambini avevano corso avanti e indietro per anni, magari facendo anche qualche danno.

Tenendo sia Bart che Grace sottobraccio, Magdalen disse loro: “Papà ci sta aspettando nella veranda chiusa, mentre il nonno è impegnato in città assieme a Edward. Pare che sia successo un mezzo disastro con un progetto ma, a volte, il nonno esagera.”

Rassegnata a sorbirsi la parlantina irrefrenabile della madre, Grace si limitò ad annuire a tutto ciò che la donna le disse.

Si era aspettata un agguato di quel genere fin da quando avevano preso l’aereo, ma aveva preferito non dire nulla a Bart per vedere come si sarebbe comportato.

Sua madre sapeva essere esasperante, quando ci si metteva, ma la amava anche per l’attenzione con cui trattava i figli, e il suo costante interessamento nei loro confronti.

Bart, però, non la deluse e, non solo le sorrise affabile, ma rispose a tutte le sue domande un po’ folli, così come assentì a tutte le sue informazioni ‘di servizio’.

Quando infine raggiunsero la veranda, chiusa da una serie di vetrate e da cui si poteva intravedere la piscina – ora vuota – , un uomo robusto e alto si levò da una poltrona di vimini per accoglierli.

Avvicinandosi al trio, si rivolse subito a Bart, allungando una mano per poi dire: “Ben arrivato, Bart. Spero che il viaggio non sia stato troppo pesante. Grace ci ha vietato di venire e, visto che non volevamo finire l’anno con uno spargimento di sangue…”

“Tutto bene, Mr Brown. E neppure io avrei voluto assistere a una guerra intestina” ironizzò Bart, ammiccando a Grace, che scosse il capo all’indirizzo del padre, il quale sogghignò.

“Chiamami pure Oscar, ragazzo…” poi, rivolgendosi alla figlia, aggiunse: “…ed è del tutto inutile che mi guardi così, ragazzina. Sai bene che sarebbe finita in un bagno di sangue. Sai essere estremamente testarda, quando ti ci metti.”

Un attimo dopo, però, la abbracciò con una certa energia e Grace, sospirando esasperata, lo strinse a sua volta, chiosando: “Se non fossi così, non sarei una Brown.”

“Poco ma sicuro, ragazza!” rise il padre, invitandoli ad accomodarsi.

“Allora, Bart… Grace mi ha detto che sei un nobile. E’ vero, o ci ha presi per i fondelli?” esordì Oscar, accavallando con naturalezza le gambe.

Magdalen, nel frattempo, si accomodò su un divanetto e sorrise gentile al giovane.

“Per quel che vale, sì. Sono un visconte, anche se onestamente è un orpello piuttosto fastidioso, più che un vantaggio sul piano sociale” ammise Bart.

Non si era aspettato tanta familiarità, un ambiente così leggiadro e informale, eppure sapeva bene che, pur quanto Oscar fosse tranquillo e pacifico, lo stava studiando con attenzione.

Dopotutto, stava con la sua ragazza.

Oscar rise, assentendo come se comprendesse benissimo e, battendosi una mano sul ginocchio, esclamò: “Più si hanno titoli e più la gente ti subissa di richieste, vero?”

“Abbastanza.”

“Spero che la mia Grace non ti abbia tormentato troppo, per questa cosa. Sa punzecchiare come non mai, quando ci si mette.”

“Ha punzecchiato nel modo giusto” chiosò Bart, sorridendo alla ragazza, che stava ascoltando il padre con aria accigliata, quasi furiosa.

“Non saremo dei nobili titolati, ragazzo, ma i Brown possono vantare una storia familiare assai lunga… e molto variegata.”

“Tra gli Ingleton c’era un contrabbandiere” intervenne Grace, ghignando furba. “Me lo ha raccontato sua madre. Era anche un bell’uomo, a giudicare dal quadro che gli avevano fatto.”

Oscar fece tanto d’occhi, a quella notizia e, sorridendo divertito, replicò: “Niente a che fare con il nostro pro-prozio pirata, ti pare?”

“Non è detto. Dovremmo sapere a quanto ammonta il maltolto, per sapere chi è stato più bravo” ribatté Grace, allungando gli avambracci sulle cosce, lo sguardo tutto per il padre.

Oscar, allora, ne imitò la postura e soggiunse: “Dimentichi, ragazza, che non è la quantità, che conta, ma la qualità.”

“Oh, lo so. Infatti, gli Ingleton contrabbandavano ottimo whishy scozzese.”

“E il prozio contrabbandava in splendide stoffe provenienti dal Canada. Pura seta olandese!” ritentò Oscar, già pronto a dar battaglia.

Bart li guardò curioso, domandandosi dove volessero andare a parare con quella specie di diatriba ma Magdalen, nel sorridergli, mormorò: “E’ normale, per loro due. Devono sempre primeggiare. Stavolta, poi, Grace vuole primeggiare per te.”

“Per me?” ripeté sorpreso Bart.

Battendogli una mano sul braccio, la donna assentì, asserendo: “I Brown sono gente orgogliosa e tengono molto al buon nome di famiglia… anche dei membri non proprio limpidi, come avrai potuto notare. Grace vuole fargli capire che anche la tua famiglia è degna di lode e ha personaggi bizzarri e curiosi… anche se è inglese.”

Sorridendo, Bart assentì. “Oh, sì, la faccenda della discendenza irlandese. Mio padre me ne ha accennato con gran divertimento, tra l’altro. È ansioso di conoscere Oscar, per la verità.”

Magdalen allora rise, mentre i due contendenti proseguivano nel loro dibattito, e chiosò: “Questa sì che sarebbe una disfida da guardare con interesse!”

“Cos’è che sarebbe interessante?” sbottò Oscar, interrompendo la diatriba con la figlia per guardare curioso la moglie.

“Mr Ingleton sarebbe interessato a conoscerti, caro.”

“Ah! Un nobile inglese interessato a me?!” rise l’uomo, battendosi una mano sul ginocchio. “Dovevate portarlo con voi, ragazzi. Sarebbe stato un Capodanno davvero col botto, a quel punto!”

Grace ammiccò spiacente all’indirizzo di Bart che, però, scosse il capo e rise a sua volta.

La famiglia Brown era davvero sopra le righe, ma gli stava già piacendo.

***

Sistemando la cravatta attorno al collo del marito, che si stava ammirando allo specchio, Magdalen mormorò: “Mi sembra un giovane con la testa sulle spalle. Non è un damerino come temevamo.”

“Tu, forse, lo temevi. Io di certo no! Mia figlia non ci avrebbe mai portato a casa uno sciocco vanesio dalla mano flaccida!” protestò orgoglioso Oscar, sistemandosi la giacca dal taglio impeccabile.

“Vero, verissimo, caro” sorrise affabile Magdalen.

“Va pur detto che è piuttosto silenzioso, e non so se riuscirà a sopravvivere a una serata con noi. Diciamo pure che, se riuscirà a farsi sentire almeno una volta, potrò ritenerlo un partito papabile per la mia ragazza. Diversamente, Grace dovrà scordarselo.”

“Anche se ne è innamorata?”

“Puah. Si può innamorare solo di un uomo degno di lei, altrimenti nisba” borbottò Oscar, passandosi una mano tra i capelli sale e pepe.

“Non sei nel cuore di tua figlia, caro.”

“Ma la conosco. Ed è una Brown. E i Brown non sbagliano mai” sentenziò lui, dandole un bacetto. “Lo dimostra il fatto che io ho sposato te.”

“Oh, sì, certo, questo è un ottimo metro di misura…” ammise la moglie, dandogli una pacca sul sedere scolpito. “… ma voglio rammentarti il tuo prozio Sebastian, che sposò una spogliarellista dopo due sole settimane dall’averla conosciuta. Dopo sei mesi, questa fuggì con il maggiordomo, portandosi dietro un cospicuo capitale in gioielli.”

“Era adottato” brontolò Oscar, avviandosi verso la porta.

Sorridendo sorniona, Magdalen mormorò: “Certo, caro. Certo.”

“Ti stai burlando di me, Maggie?” borbottò l’uomo, fissandola burbero.

Fingendo un’aria angelica, la moglie replicò: “Io, caro? Non mi permetterei mai.”

Oscar la fissò ancora per un istante con aria accigliata ma, alla fine, scoppiò a ridere e decretò: “Quando mamma mi disse di farmi ingannare dalla tua aria tranquilla, non le volli credere. Eppure, ha sempre avuto ragione.”

“Perché mamma Bernadette è sempre stata una donna furba e in gamba” chiosò Magdalen, avviandosi lungo il corridoio assieme al marito.

“Poco ma sicuro” assentì tronfio il marito. “Vedremo cosa dirà stasera, vedendo quello sbarbatello di Bart.”

“Solo perché è educato e cortese, non puoi dargli dello sbarbatello.”

“Se vuole sopravvivere ai Brown, deve tirare fuori gli attributi” le ricordò l’uomo, ghignando.

“Ora, sembri davvero un pirata” sottolineò la moglie, levandosi in punta di piedi per dargli un bacetto. “E io amo i pirati.”

Un luccichio malizioso passò negli occhi verdi di Oscar che, ammiccando, mormorò a Maggie: “Vedremo più tardi, se sarai all’altezza di questo pirata.”

“Quando mai non lo sono stata?” replicò serafica la moglie, allontanandosi dal marito per poi lanciargli un’occhiata di fuoco da sopra la spalla.

Oscar desiderò tornare subito in camera, ma sapeva bene che quella benedetta cena andava affrontata.

La famiglia doveva conoscere l’uomo che Grace aveva portato a casa, con la chiara intenzione di intraprendere una relazione più che seria.

Era la prima volta che lo faceva, perciò avrebbero dovuto dedicare alla cosa tutta l’attenzione possibile.

Dopotutto, si stava parlando della sua Grace.

***

Sorseggiando del buon brandy invecchiato alla perfezione, Edward lanciò un’occhiata divertita all’aria pensierosa di Bart e, serafico, disse: “Io non mi preoccuperei più di tanto. Hai detto che l’ami, no? Salterà fuori l’evidenza dei fatti, e tutti si daranno pace.”

“Ne sei convinto? Io sono quasi sicuro che la tua famiglia mi calpesterà come uno scendiletto. Mi ero aspettato dei personaggi volitivi – Grace mi ha detto che siete piuttosto… competitivi, tra di voi – ma non pensavo fino a questo punto.”

Edward scoppiò in una calda risata, dandogli una pacca sulla spalla e, nell’osservare le trenta e più persone presenti nel salone, tutte impegnate a parlare cacofonicamente, ammise: “Siamo un branco piuttosto caotico, e vogliamo sempre avere l’ultima parola. Temo dovrai abituarti, se hai intenzioni serie con Grace.”

“Togli pure il ‘se’. Ho intenzioni serie con tua sorella, ma non so se sarò in grado di piacere a tutto il vostro… branco. Non sono abituato a una simile … beh, esternazione liberale delle proprie idee” ammise Bart, ancora un po’ frastornato.

Quando la villa aveva cominciato a riempirsi di cugini, zii e parentato vario, Bart aveva iniziato a preoccuparsi.

Certo, rammentava alla perfezione i nomi e i gradi di parentela, ma ora che aveva avuto la possibilità di abbinare nomi a volti, la cosa aveva preso i contorni dell’assurdo.

Sembravano tutti entusiasti e curiosi di conoscerlo, e tutti – proprio tutti – avevano un’opinione sull’intera faccenda, e volevano fargliela conoscere.

Senza sconti.

Davano l’impressione che, per nessuno di loro, vi fosse stata l’occasione di avere un po’ di privacy, al momento opportuno, e ora si stessero prendendo una piccola soddisfazione personale.

Il tutto condito da affetto e confidenza, ma Bart aveva notato come, alcune cugine già maritate, avessero sottolineato la ritrosia di Grace a impegnarsi davvero nei rapporti amorosi.

Gelosia? Semplici lingue velenose?

Non che Grace non gliel’avesse mai detto.

Era stata chiara, su questo punto. Aveva sempre aborrito l’idea di legarsi a qualcuno e, per questo, non aveva mai avuto un fidanzato fisso.

Con lui, invece, si era dichiarata disposta non solo a correre il rischio, ma a battersi per difendere ciò che stava crescendo tra loro.

Quando infine la vide arrivare, bellissima nel suo tubino nero e con una splendida parure di diamanti e smeraldi a completare l’insieme, Bart sorrise sollevato, lasciandosi alle spalle quei tetri pensieri.

Si avviò spontaneamente verso di lei e Grace, in barba alle occhiate curiose di tutti, strinse le mani sulle sue braccia e si sollevò appena per baciarlo sulle labbra.

“Sei splendida” mormorò lui, lasciandola andare.

“E tu sei agitato… oltre che bellissimo” sorrise lei, carezzandogli il bavero del doppio petto che indossava con grazia innata.

Era inutile. Per quanto Bart odiasse il suo titolo, gli usciva da tutti i pori della pelle. Era nato per essere un nobile, non solo nel portamento, ma anche nell’animo.

Non aveva emesso un solo lamento, da quando erano arrivati, nonostante il fuoco incrociato di cugini e parentato più o meno ficcanasante.

Lei aveva parlato in modo molto sbrigativo e lapidario con suo padre Leonard, a York, e aveva avuto a che fare solo con i suoi genitori e il fratello.

Bart, invece, si era ritrovato subissato da una quantità esorbitante di parenti curiosi e pestiferi, eppure non aveva mostrato la minima flessione, il minimo cedimento.

Grace, però, sapeva che era nervoso all’idea di conoscere i nonni, i veri giudici di quella disputa silenziosa.

“Andrai benissimo, vedrai.”

“Mi divoreranno… e tu lo sai. Ma morirò con onore, portando con me il maggior numero di nemici” replicò stoicamente Bart, sorridendole.

Un’improvvisa pacca sulla spalla tolse il fiato al giovane, mentre Oscar Brown si intrometteva tra loro due, esclamando: “Ecco il nostro inglese! Ti sei già presentato a tutti, Bart?”

Cercando di recuperare l’uso della parola – e dei polmoni – il giovane assentì, replicando: “Ho già conosciuto tutti, grazie, Oscar.”

“Bene, ragazzo… allora, lascia che ti presenti i miei genitori” sentenziò l’uomo, volgendo a forza Bart perché lo seguisse.

Rivolgendosi poi alla figlia perché non si accodasse a loro, le domandò: “Perché non vai a prepararmi un vodka martini con tre olive, cara?”

Mettendo il broncio, Grace assentì di malavoglia e lasciò che Bart affrontasse da solo i capofamiglia dei Brown.

La coppia, appena giunta sul fondo del salone, ammirò con un sorriso i suoi parenti riuniti – chi di loro erano riusciti a intervenire – e, quando videro il loro primogenito, si fecero attenti.

Accanto alla figura di Oscar notarono un giovane alto ed elegante, dal portamento naturalmente nobile e lo sguardo attento, intelligente.

Sapevano trattarsi del giovane che Grace aveva condotto lì come suo fidanzato, ma conoscevano ben poco di lui, a parte che era un titolato inglese.

Willard Brown aveva storto il naso, al solo sentir parlare di inglesi e titoli nobiliari, ma sua moglie Bernadette lo aveva redarguito, ricordandogli che non erano più in guerra da anni.

Certo, c’erano stati gli scontri della Bloody Sunday nel ’72, in Irlanda del Nord, ma non si poteva certo imputare la stupidità della corona a quel giovane.

Quando infine la coppia giunse da loro, Oscar batté una mano sulla spalla di Bart e disse: “Papà, mamma, lui è Bart Ingleton. Bart, loro sono Willard e Bernadette, i miei genitori.”

“E’ un vero piacere fare la vostra conoscenza” dichiarò il giovane, stringendo la mano di Willard e facendo un baciamano di prim’ordine a Bernadette, che sorrise.

Il vecchio Brown, a quella vista, bofonchiò una battuta e, rivolgendosi al giovane, gli domandò: “Fai il baciamano a tutte, ragazzo?”

“Solo alle donne più affascinanti, signor Brown” replicò Bart, con naturalezza.

Bernadette sorrise ancora di più e chiosò: “Questo è fascino inglese, mio caro.”

Willard bofonchiò ancora una volta qualcosa di incomprensibile ma la moglie, nel dargli un colpetto sulla pancia, ammise con Bart: “Devi sapere, ragazzo, che ero fidanzata con un ragazzo inglese, all’epoca, ma mio marito fece il tutto e per tutto per avermi. E ora sono qui.”

“Posso solo dire che ha agito per il meglio, e mi duole pensare che quel giovane inglese non abbia avuto la stoffa per tenerla stretta, Mrs Brown” soggiunse Bart, sorridendole cordiale.

Bernadette allora rise, gli batté una mano sul braccio e, con dolcezza, mormorò: “Solo Bernadette, caro. O nonna Bernie.”

Willard storse il naso, a quella concessione, ma la moglie non vi fece caso e, dopo aver preso sottobraccio Bart, si allontanò con lui per raggiungere la nipote.

Rimasti soli, i due Brown si guardarono vicendevolmente e Oscar, ghignando furbo, dichiarò: “Ha capito come prenderla.”

“Bernie adora essere vezzeggiata” brontolò il padre, pur annuendo. “Come diavolo faceva a saperlo? Glielo ha detto Grace?”

“Non credo. Quel che so, è che quel ragazzo ci darà del filo da torcere, anche se non alza la voce come noi” sghignazzò Oscar, allungando una mano quando vide Maggie con il suo martini. “Lo ha dato a te, cara?”

“Me lo ha quasi lanciato addosso, per la precisione” sottolineò la moglie, consegnandoglielo. “Cattivo Oscar, che non le hai permesso di venire qui assieme a Bart.”

“Come vedi, se l’è cavata anche da solo” ironizzò l’uomo, indicando Bernadette al braccio di Bart, e Grace che parlava allegramente con loro.

“Già” assentì Maggie, sorridendo sorniona. “Stai a vedere che ha capito come arginare l’uragano Brown.”

“Non siamo un uragano!” protestò Oscar, aggrottando la fronte.

La moglie lo fissò con autentica ironia e replicò: “Caro, siamo una delle famiglie più caotiche e disturbanti che io abbia mai conosciuto, ammettilo. Metteremmo a disagio un branco di squali, se ci mettessimo dell’impegno, eppure quel ragazzo se ne sta lì, adocchiato da tutti come se fosse un pesciolino pronto per essere divorato, e non fa una piega.”

“Che brutta metafora, Maggie…” borbottò Willard, scuotendo il capo.

“Papà Will, è verissimo. Lasciatelo dire da una che viene da fuori. La prima volta che Oscar mi portò qui, tremavo come una foglia.”

“Siamo davvero così indisponenti?” esalò Oscar, a metà tra il sorpreso e lo sconcertato.

“Siete solo voi stessi e, se ho capito come è fatto Bart, lui è abituato a un ambiente sicuramente più tranquillo” precisò Maggie, osservando il giovane mentre preparava un cocktail per Bernadette. “Oh, bene. La prova del drink. Mamma è spietata.”

Scoppiando a ridere, Oscar chiosò: “Nessuno si immagina che lei lo voglia come James Bond. Agitato, non mescolato.”

“Perché nessuno si immagina che la cara Bernie sia stata nei servizi segreti” ghignò Willard, osservando a sua volta mentre Bart si dava da fare con lo shaker.

Oscar fece per aggiungere altro ma, quando vide Bart lavorare con maestria al cocktail della madre, per terminarlo con una scorzetta di limone, borbottò: “Okay, Grace ha parlato. Per forza.”

Maggie sorrise divertita e, nel dare una pacca sul braccio al marito, chiosò: “Ho idea che il nostro bell’inglese azzittirà tutti, stasera.”

Ciò detto, si allontanò per unirsi alla suocera e ai due fidanzati.

Willard affiancò il figlio, lo squadrò preoccupato e disse: “Non mi va l’idea di avere un rampollo della nobiltà inglese in famiglia.”

“E vuoi dirglielo tu, a Grace, il perché?”

“Non c’è un perché! E’ solo l’idea, che mi urta i nervi” brontolò il vecchio Brown, intrecciando le braccia sul torace.

Oscar ghignò divertito, replicando: “Tua nipote ti divorerà un pezzo alla volta, se ti sentirà dire una cosa del genere.”

Rabbrividendo suo malgrado, Willard brontolò: “Gracie è spietata, quando ci si mette. Ma non potevi crescerla più docile e mansueta?”

“E’ una Brown” sentenziò orgoglioso Oscar.

***

Sorseggiando il buon drink preparato da Bart, Bernadette fissò sorniona la nipote – che resse bene lo sguardo – e domandò: “Quanto ti ha parlato, di noi, la mia cara Gracie?”

“Non siamo scesi nel particolare e, lo devo ammettere, la vostra famiglia mi ha colpito molto” ammise Bart. “A casa mia, siamo in pochi e, soprattutto, siamo molto legati a rigidi schemi comportamentali. Insomma, siamo un po’ noiosi. Stare con Grace, per me, è stato come imparare nuovamente a respirare. E ora, onestamente, non potrei più farne a meno.”

Annuendo compiaciuta, nonna Brown asserì: “Mi hai dato l’idea di un ragazzo educato e per bene, ma ora scopro che non esiti a essere anche umile, o a elencarmi i difetti della tua famiglia. Non pensi che potrebbe essere un tuo discredito, dirmi tutto ciò?”

“Penso che l’onestà venga sempre ripagata. Inoltre, Grace già sa come siamo e, a parte l’aver scoperto che mio fratello è uno scapestrato Casanova, penso che niente l’abbia veramente sconvolta” ammiccò Bart, sorridendo a Grace, che assentì.

“Andrew ti divertirebbe molto, nonna Bernie. E il nonno lo caccerebbe fuori a pedate, sentendosi minacciato nell’onore” chiosò la nipote, facendo ridere la nonna.

“Oh, un giovanotto così intraprendente?” ironizzò Bernadette. “Mi piacerebbe conoscerlo, così come la tua famiglia. Se non hanno impegni, puoi chiamarli perché festeggino con noi il Capodanno, Bart.”

“Telefonerò per sapere che impegni hanno, Bernadette” assentì il giovane.

“Bene, bene…” mormorò la donna, battendogli affettuosamente una mano sul braccio. “… e grazie per il drink. È davvero ottimo.”

“Grazie a lei per avermi fatto capire che ha un debole per James Bond” ironizzò lui, ammiccando.

Sorridendo sorniona, nonna Brown replicò: “Ci vuole un orecchio attento, per cogliere le citazioni di un film all’interno di un discorso.”

“Si dà il caso che ami a mia volta il personaggio” le confidò lui, facendola sorridere compiaciuta.

Quando la governante entrò per informare la signora che la cena era pronta, Bernadette batté un paio di volte le mani, azzittendo tutti e, preso sottobraccio Bart, esclamò: “D’accordo, gente! Tutti a tavola, e il primo che si azzarda a dare fastidio a questo ragazzo, lo butto in mezzo alla neve del giardino, è chiaro?!”

Tutti risero e Bart, venendo praticamente trascinato verso la tavola dall’intraprendente nonna, si sentì dire da Edward, poco distante da lui: “Benvenuto in famiglia!”

Grace sorrise, gli si affiancò e, quando nonna si accomodò al posto di capotavola, fece sedere Bart accanto a sé, sussurrandogli: “Con l’accenno a James Bond, l’hai conquistata. Sai che era una spia della CIA, tra gli anni cinquanta e sessanta?”

“Che cosa?” esalò Bart, fissando sorpreso nonna Brown, che sorrise maliziosa.

Quando Willard si accomodò al fianco della moglie, fissò a sua volta il giovane inglese, sorrise bonario e dichiarò: “Fatti raccontare di quando scovò una spia russa nel bel mezzo di Times Square, ragazzo. Sarà esilarante.”

“Non mancherò” assentì Bart.

“E tu, ragazza, smettila di fare quel sorrisino tronfio. Non ho ancora detto se mi piace o meno” brontolò poi nonno Brown, rivolgendosi alla nipote.

Grace, però, non se la prese e replicò: “Piace alla nonna. Tanto mi basta. Tu hai meno potere di lei.”

“Oh, tu, piccola…” sbottò l’uomo, prima di scoppiare in una grassa risata assieme alla nipote.

Certo, forse Bart avrebbe impiegato ancora un po’ a comprendere tutte le sottigliezze di quella strana famiglia ma, di sicuro, una cosa era certa.

Si stava divertendo un mondo e, quando anche Andrew e i genitori fossero stati lì, ci sarebbe stato da ridere.

 

 

 

 

 

(per chi non conoscesse Henry David Thoreau, scrisse Walden-Vita nei boschi, da cui è tratto un famoso scritto, che vi lascio)

 

“Andai nei boschi perché volevo vivere con saggezza e in profondità e succhiare tutto il midollo della vita, sbaragliare tutto ciò che non era vita e non scoprire in punto di morte che non ero vissuto.”

 

Per quanto riguarda la Bloody Sunday, citata nel testo, mi riferisco ai fatti di sangue avvenuti il 30 gennaio 1972 nella cittadina di Derry, in Irlanda del Nord, dove un reggimento dei Paracadutisti inglesi sparò su una folla di manifestanti, colpendone 26.

Tredici morirono e, anche grazie ai testimoni oculari (tra cui un giornalista italiano) si seppe che i manifestanti erano tutti disarmati. Fu una delle pagine più brutte della storia moderna del Regno Unito.

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Capitolo 22
*** Una piacevole trasferta -5-(dicembre 1975) Grace e Barthemius ***


Una piacevole trasferta – Parte 5 –

(Dicembre 1975)

 

 

Stringendosi sotto il mento il colletto di morbida lana del cappotto, Gwendolin Ingleton lanciò un’occhiata al figlio maggiore e mormorò: “Non ti sembra che quella giacca sia troppo leggera?”

Scrutando l’impermeabile blu che indossava, Andrew replicò pacifico: “Sei tu a essere freddolosa, mamma. Ci sono solo due gradi sottozero, non venti.”

“Sono già troppi per me” sospirò la donna, avanzando sul marciapiede perfettamente ripulito dalla neve.

Leonard preferì evitare di commentare il battibecco tra moglie e figlio e, quando vide giungere una limousine nera e lucidata a specchio, sorrise appena.

Che i Brown avessero…

Si interruppe subito, quando vide scendere Bart e Grace dai sedili posteriori e, tra sé, assentì.

Quello era un buon inizio, soprattutto per l’esigente moglie.

L’autista li salutò compito e caricò le valige in auto, mentre Bart e Grace li facevano accomodare sulla limo calda e accogliente.

Sospirando di sollievo, Gwendolin sorrise grata a Grace e disse: “Un solo minuto di più su quell’aereo, e avrei urlato disperata. Non so davvero come possiate apprezzarlo, come mezzo di trasporto.”

“E’ stato un viaggio così brutto, Gwendolin?” le domandò preoccupata Grace, un po’ sorpresa.

Leonard ne dissipò subito le paure, replicando: “Quel che vuol dire la mia esigente moglie, cara, è che non le hanno fornito una poltrona reclinabile.”

“Oh” esalò la giovane, ancor più sorpresa.

“Se avessimo saputo per tempo di questo viaggio, avremmo potuto prenotare una prima classe VIP, ma così…” brontolò Gwen, con lesa maestà e aria affranta.

Andrew cercò di non ridere, ma un ghigno pestifero salì sul suo volto affascinante, mentre chiosava: “Sì, è stato orrendo sedersi assieme alla plebe, su poltrone che io mi sognerei la notte, quando giro da un angolo all’altro del globo con la mia Canon.”

Mentre l’auto si metteva in moto con gradevole morbidezza, la madre replicò al primogenito: “Nessuno ti ha mai obbligato a infilarti dietro a quei… quei gruppi di hippies che frequenti abitualmente. Sei un autentico scandalo, lasciatelo dire.”

“Ma Grace mi ama lo stesso, vero?” ironizzò a quel punto Andrew, facendo arrossire di vergogna la madre e sorridere divertito il padre.

Chiamata in causa, Grace gli sorrise e ammise: “Ovviamente, Andrew. Ma mi scuserai se amo più Bart. Niente di personale, è chiaro.”

“Certo, lo so. E’ l’imprinting. Il pulcino lo ha sempre con il primo essere con cui viene in contatto” celiò Andrew, sorridendo furbo al fratello, che nicchiò.

“Mi hai appena dato del pulcino bagnato, Andy?” esalò Grace, facendo tanto d’occhi.

“Credo di sì… ma un pulcino bellissimo” la rassicurò Andrew, facendola ridere.

Gwendolin, per contro, scosse offesa il capo e mormorò: “Giuro, sembra che tu sia stato allevato dai lupi. Mi chiedo davvero da chi tu abbia preso, Andrew.”

“Potrei annoverare diversi nostri avi con un fascino simile al mio, mamma, ma non annoierò Grace con il nostro pedigree d’eccezione.”

“Non siamo cani, Andrew!” sospirò sconvolta Gwendolin. “Cielo, cara… non so davvero cosa gli sia preso. Le troppe ore di volo, credo.”

Grace le sorrise comprensiva sapendo bene quanto, il comportamento irrispettoso del figlio, la mettesse a disagio.

Gwendolin Ingleton non era una cattiva persona, affatto, ma era cresciuta con rigidi precetti a farle compagnia, e in essi lei credeva fortemente.

“Volevo mettervi in guardia su una cosa, ed è per questo che siamo venuti entrambi all’aeroporto…” iniziò col dire Grace. “…mio padre e mio nonno vorranno parlare con lei, Leonard e, suppongo, anche con Andrew. Ci fu un piccolo screzio, ai tempi dell’emigrazione dei Brown dall’Irlanda agli Stati Uniti, tra un membro della mia famiglia e un nobile titolato inglese. Da quel momento, non li vedono di buon occhio, e temo vorranno saggiare le vostre… difese.”

“Sì, me lo avevi accennato, cara, e ammetto di non vedere l’ora di confrontarmi con tuo padre” ammise Leonard, sorprendendo un poco la moglie. “Sono curioso di sentire cosa dirà.”

“Più che altro, sarà come lo dirà. Tendono ad alzare la voce, in casa mia. Siamo tutti piuttosto… caotici” mormorò Grace, sorridendo contrita.

“So già che mi divertirò da matti” sentenziò Andrew, strofinandosi le mani.

“Sarò messa anch’io sotto torchio?” esalò Gwendolin, sinceramente preoccupata.

Grace allora scosse il capo e replicò: “Oh, cielo, no! Lei sarà esentata da simili spettacoli di machismo, mi passi il termine. Starà in compagnia mia, di mia madre e di mia nonna che, come può confermare Bart, non sono pazze.”

Bart sorrise alla madre e quest’ultima, nel sorridere incerta a Grace, mormorò: “Ma siamo sicuri che si tratterà solo di parlare?”

La giovane rise sommessamente, annuendo, e dichiarò: “In casa mia amano competere a parole, non a pugni, stia tranquilla. Oh, e si aspetti una buona dose di confidenza, da parte di mia madre e mia nonna. Spero non le spiacerà.”

“Se posso evitare una lite, apprezzerei anche di passare una giornata a spalare letame di cavalli” sentenziò Gwendolin, facendo ridere tutti.

***

Quando la limo si fermò dinanzi alla porta d’entrata di Walden House, Maggie era già sulla porta di casa per attenderli.

Il cielo si era rischiarato, lasciando uscire un pallido sole che, in quel momento, faceva brillare la neve tutt’attorno.

Gwendolin ammirò il bosco che circondava la villa e il giardino ricoperto di neve e, con un sorriso, si avviò verso la padrona di casa.

Subito, Maggie annullò la distanza tra loro e le strinse la mano con entrambe le sue, asserendo: “E’ un vero piacere vedervi. Lei deve essere la madre di Bart. Gwendolin, giusto?”

“Il piacere è mio, Magdalen. La casa è davvero molto bella. E’… intima. E adoro quel rosone. E’ antico?”

Maggie seguì lo sguardo della donna e annuì, asserendo: “Diciassettesimo secolo, artigianato di Murano, in Italia. Non le so dire di più, ma Bernadette conosce ogni mattone della casa, perciò sarà più esaustiva di me. Mr Ingleton, benvenuto.”

“Mi chiami pure Leonard” asserì l’uomo, stringendo la mano della donna, che sorrise affabile.

“E io sono Andrew” soggiunse il primogenito degli Ingleton, facendole il baciamano.

Maggie sorrise, ammiccando a Bart, e disse: “Non potevi che essere il fratello di Bart. Entrambi così affascinanti ed eleganti. Spero che Grace vi abbia avvisati del piccolo… inconveniente che dovrete affrontare. Me ne scuso in anticipo, ma avere a che fare con un Brown vuol dire, spesso e volentieri, dare testate contro i muri.”

“Ci ha avvisati, non tema e, in tutta onestà, non vedo l’ora” la rassicurò Leonard, entrando in casa assieme all’intero gruppo.

Lì, fece la sua apparizione Edward che, dopo aver salutato Bart con un cenno, si presentò alla famiglia Ingleton e scortò Leonard e Andrew verso lo studio del padre.

“Che dici, devo andare anch’io?” si informò Bart, rivolgendosi a Maggie.

Lei lo prese sottobraccio con naturalezza e, battendogli una mano sul braccio, replicò: “Oh, no, caro! Tu sei già passato sotto il tritacarne dei Brown, e Bernadette ti ha eletto a suo pupillo. Lascia pure che si scannino tra di loro… in senso figurato, ovviamente, Gwendolin.”

“Ma certo” annuì dubbiosa la donna, al fianco di Grace.

Maggie sorrise maggiormente e, quando raggiunsero uno studiolo in legno di ciliegio e ricco di librerie ricolme di tomi, lì trovarono la matriarca di casa Brown.

Bernadette si levò dalla scrivania dove era rimasta assisa in loro attesa e, dopo aver stretto la mano a Gwendolin, dichiarò: “Non si preoccupi, cara, per ciò che succederà. Mio marito e mio figlio sono come tacchini. Gonfiano tanto il petto, ma sono innocui… e un po’ stonati.”

Grace rise divertita di quel commento ben poco lusinghiero e Bernadette, per dare credito alle sue parole, scostò lo schermo che aveva fissato fino a quel momento, mettendo in mostra qualcosa di inaspettato.

Sorridendo sorniona a una sorpresa Gwendolin, la donna asserì: “I miei cari pensano di essere furbi, ma io so sempre tutto quello che succede in questa casa. Questa è una telecamera a circuito chiuso collegata con l’ufficio di mio figlio. Vedremo tutto ciò che succederà, così lei sarà più tranquilla.”

“Nonna, sei diabolica” esalò Grace, neppure lei a conoscenza di quel particolare.

“Lo so, cara. Cosa ti aspettavi, da un’ex spia della CIA?” ironizzò la donna, sorprendendo ulteriormente Gwendolin, in silenziosa ammirazione di ciò che stava avvenendo nello studio dove si trovava il marito.

“Niente di meglio, nonna Bernie” sospirò divertita Grace.

A quel punto, Gwendolin, scrutando speranzosa Bernadette, domandò: “Si può avere anche l’audio?”

Tutte le donne Brown scoppiarono a ridere e, mentre Maggie offriva una poltrona alla loro ospite, Bernadette accese il microfono, lasciando che le voci degli uomini giungessero a loro nitide e chiare.

Bart, divertito a sua volta da quello spettacolo, si accomodò sul divano accanto a Grace e celiò: “E’ vero… sono stonati.”

“Come campane, figliolo. Come campane” rincarò la dose, Bernadette, guardandolo con affetto.

Gwendolin se ne compiacque silenziosamente. Le fece piacere scoprire quanto, le donne Brown, fossero affascinate da suo figlio.

Restava solo da capire se gli uomini Brown fossero altrettanto disponibili a lasciarlo entrare in famiglia.

***

Quando Edward chiuse la porta dello studio alle sue spalle, Oscar si levò dalla sua poltrona di pelle scura e lucida e, possente, avanzò verso Leonard a mano tesa.

“Benvenuti a Boston. Io sono Oscar, il padre di Grace.”

“Grazie per l’invito, Mr Brown, lo abbiamo apprezzato molto. Io sono Leonard, e lui è mio figlio Andrew” replicò Ingleton, stringendo quella mano forte e ruvida.

Una mano che aveva lavorato sodo, anche fisicamente, temprata con l’acciaio, esattamente come il corpo dell’uomo statuario che aveva di fronte.

Grace non aveva esagerato nel definire suo padre un colosso. Non tanto per la statura, che non sovrastava la sua, ma per l’aura che si accompagnava al suo incedere.

Suo padre Willard non era da meno, notò Leonard e, quando il patrono dei Brown gli domandò senza tanti giri di parole se avesse della servitù irlandese alle sue dipendenze, sorrise.

Sì, sarebbe stato divertente avere a che fare con loro.

Edward e Andrew, nel frattempo, si erano spaparanzati sul divano, salatini e birra dinanzi a loro, quasi fossero pronti per una partita di football.

O un match di lotta libera.

“Due contro uno… che dici, dovrei scommettere contro mio padre?” mormorò Andrew all’indirizzo di Edward, che ghignò divertito.

Grace lo aveva messo in guardia; il primogenito degli Ingleton era uno spasso, e niente affatto borioso.

“Non so… mi sembra che tuo padre abbia spina dorsale. Letteralmente. Ha fatto lotta libera, per caso?” gli ritorse contro Edward, curioso.

“Mio padre? Era nell’esercito!” sussurrò per contro Andrew. “Nella seconda guerra mondiale ha fatto parte di una quadra di pazzi che si sono sparpagliati per la Francia per affrontare i tedeschi. Se non erro, aveva sedici anni, o giù di lì.”

“Diciassette” sottolineò Leonard, volgendosi a mezzo verso il figlio con un ghigno divertito.

Andrew gli sorrise spudoratamente, infischiandosene di essere stato ascoltato e Oscar, scrutando curioso il suo ospite, replicò: “In quale reggimento?”

“Special Air Service. La SAS. La conosce?” gli domandò Leonard, ghignando a mezzo nel notare la sorpresa di Oscar.

“Nella Francia del ’44?” si informò allora Oscar, adombrandosi in volto.

Anche Leonard si fece ombroso in viso e, assentendo, dichiarò roco: “Ci spedirono lì per andare a recuperare i tedeschi che uccisero dei nostri commilitoni, durante l’operazione…”

“Bullbasket…” terminò per lui Oscar, vedendo Leonard annuire grave.

“Oh, oh…” borbottò Edward, fissando Leonard con occhi diversi, più seri.

“Che succede?” si informò allora Andrew, comprendendo che non era più il tempo per le buffonate.

Fu Willard a parlare, e la sua voce suonò pesante, strascicata, come riportata fuori dalla tomba.

“Il figlio più grande di mia sorella… faceva parte della SAS. Era amico di Paddy Mayne e… beh, si arruolò a sua volta per fare la festa a Hitler, come era solito dire lui” sospirò l’uomo, infilandosi le mani in tasca, forse per nascondere un tremore rivelatore del suo stato d’ansia.

Oscar terminò per il padre, asserendo: “Faceva parte delle trentuno vittime uccise dai tedeschi, in Francia, facenti parte della missione Bullbasket…”

“Il suo nome?” mormorò Leonard, deglutendo a fatica.

“Cobie O’Reilly” disse Oscar con voce roca, gli intenti bellicosi ormai sepolti.

Leonard sospirò, assentendo, e mormorò stanco: “Non ebbi il piacere di conoscerlo personalmente. Mi ero arruolato da poco, e il gruppo di Cobie era in Francia già da tempo, sulle tracce di alcuni gruppi di tedeschi di stanza nella zona del Massiccio Centrale. Ricevemmo la richiesta di intervenire quando scoprirono il massacro… e non ci fermammo finché non riuscimmo a trovare anche l’ultimo di quei bastardi.”

A quell’ultima parola si lasciò andare a un sorrisino contrito, aggiungendo: “Scusate il francesismo.”

Oscar rise brevemente, scuotendo una mano come se non l’avesse neppure sentito e Willard, nell’osservare cupo il suo ospite, domandò: “Li avete solo processati?”

“No” si limitò a dire Leonard, lasciando che la frase morisse lì.

I due Brown non dissero nulla per alcuni secondi finché Oscar, fissando il figlio, non disse: “Che stai lì seduto a fare? Offri del buon whiskey irlandese al nostro ospite, Edward.”

“Niente rissa” sussurrò a quel punto il giovane Brown all’orecchio di Andrew che, con aria vagamente sorpresa, guardò il padre come se non l’avesse mai visto prima.

Non era insolito che il padre non parlasse del suo breve periodo in guerra – raramente, anche i suoi amici parlavano di quei momenti – ma ora iniziava a capire perché.

E il fatto di sapere che avesse vissuto momenti così tragici e pericolosi, glielo fece rivalutare molto.

Lui si era sempre divertito a prendere la vita molto poco sul serio e, soprattutto, a non dare molto peso al proprio nome altisonante.

In quel momento, comprese di aver sbagliato e, più di tutto, di aver denigrato un nome che, invece, suo padre aveva tenuto alto, e nel momento più basso per la razza umana.

***

Spegnendo l’audio quando Edward servì a Leonard del whiskey, Bernadette sorrise comprensiva a Gwendolin, chiosando: “Direi che la disfida può dirsi conclusa.”

“Leonard non parla mai volentieri di quel periodo, anche se ancora adesso, a volte, si sveglia con degli incubi” mormorò lady Ingleton, sorridendo appena quando sentì la mano di Grace poggiarsi sulla sua spalla.

“Sono sicura che Shemain sarà felice di sapere che suo figlio è stato vendicato da una persona di famiglia” asserì Bernadette, sorridendo a Bart. “Caro, che ne diresti di andare a recuperare gli altri uomini per portarli alla veranda coperta? Penso che ora serva a tutti un po’ di tè con dei pasticcini.”

“Vado subito, Bernadette” assentì Bart, dirigendosi verso la porta.

“Nonna Bernie, caro… nonna Bernie” lo redarguì bonaria la donna, facendolo ridere mentre usciva dallo studio.

Rimaste sole con Gwendolin, le donne Brown la invitarono a prendere una dose generosa di whiskey per riprendersi dallo shock.

Era evidente che, di quella storia in particolare, non avesse mai saputo nulla.

“Non vorrà di certo che suo marito la veda pallida e preoccupata, no?” la incoraggiò Maggie, sorridendole. “Sa, i nostri uomini non sanno di questo piccolo… stratagemma, e non vorremmo di certo che venissero a scoprirlo.”

Lady Ingleton trovò la forza per sorridere divertita e, assentendo, chiosò: “Non sarò certo io a tradire questo segreto.”

Sorridendo alla nipote, Bernadette aggiunse: “Cara, vai anche tu a vedere come se la cava Bart. Non vorrei che Willard facesse il bisbetico con lui, non avendo potuto farlo con suo padre.”

“Corro” ammiccò la giovane, correndo via.

A quel punto, Bernadette scrutò Gwendolin e dichiarò: “Sia chiaro, Mrs Ingleton. Suo figlio non lascerà questa casa senza una fede al dito.”

Quella frase lapidaria, così come lo sguardo adamantino della donna, portarono Gwen a scoppiare a ridere di sgusto. Dignitosamente, ma di gusto.

***

Quando Bernadette, Maggie e Gwendolin raggiunsero infine la veranda coperta, Oscar stava ridendo sguaiato di fronte all’espressione collerica di Grace.

Bart, pacifico e sorridente, la tratteneva gentilmente alla vita perché non aggredisse il padre e Leonard, suo malgrado divertito, esalò: “Spero di non dover intervenire anch’io. Che dici, ragazzo?”

“Io lascerei stare, papà… se la sanno cavare da soli” ironizzò Bart, sorridendo al padre.

“Ecco… cavare è un verbo che non userei ora” deglutì a forza Leonard, quando Oscar prese ancor più in giro la figlia. “Non vorrei che Grace ti prendesse in parola, e cavasse un occhio al padre.”

“Non gli occhi… la lingua!” sbottò Grace, artigliando l’aria proprio mentre Bernadette apriva le porte della veranda.

“Oh cielo” esalarono le tre donne appena giunte, ma con toni diametralmente opposti.

Se per Bernadette fu strascicato e quasi esasperato, per Gwendolin fu sconvolto, mentre per Maggie assai irritato.

Grace si bloccò immediatamente e così pure Oscar che, quasi, si strozzò tra una risata e l’altra, apparendo paonazzo per l’imbarazzo di essere stato colto sul fatto.

“Ah… buongiorno” gracchiò Oscar, tossicchiando per riprendere un contegno.

“Buongiorno” replicò Gwendolin, accennando a un sorriso compito.

“Divergenze d’opinione. Mi scusi, Gwendolin” sospirò Grace, poggiando le mani sul braccio di Bart perché la lasciasse.

Lui ammiccò, allentando la presa e, sorridendo alla madre, disse: “Lascia che ti presenti Oscar e Willard. Sono sicuro che andrete d’accordo.”

Perfettamente padrone della situazione, Bart prese per mano la madre e la presentò a un ancor imbarazzato Oscar – frustrato all’idea di essere stato pizzicato a discutere con la figlia.

Willard venne subito dopo di lui e, imitando Bart con un esemplare baciamano, diede il benvenuto a Gwendolin a Walden House, offrendosi di farle fare un giro per la villa.

Strizzando poi l’occhio alla nipote, informò la loro ospite di essere a conoscenza della sua passione per le arti, dando il via a un dibattito d’opinione sui pittori fiamminghi.

Questo diede il la a lady Ingleton per lanciarsi in una sperticata difesa delle arti di quel secolo, cancellando di fatto le ultime paure residue dovute a quell’incontro.

O almeno, così sperò Grace.

***

Il freddo era intenso, quella notte, complice anche il cielo terso e il vento proveniente dal Labrador.

La luna splendeva brillante, nel manto oscuro di quella nottata dicembrina, ultimo giorno prima di Capodanno, che avrebbero festeggiato tutti assieme a Walden House.

Assieme alla prozia Shemain.

Sarebbe stato interessante come, la vecchia e arzilla irlandese tutta d’un pezzo, avrebbe ringraziato un lord inglese per i suoi meriti di guerra.

Aveva idea che molti loro parenti avrebbero dato di stomaco. Metaforicamente, sperava.

“Pensieri profondi, Grace?” esordì Andrew giungendo sulla terrazza con passo silenzioso.

La giovane si volse a mezzo, sorridendo allo scapestrato primogenito degli Ingleton.

Indossava un pesante maglione blu scuro a coste intrecciate, su un paio di pantaloni bianchi, dalla piega perfetta.

Ai piedi, calzava dei mocassini di fattura elaborata, ma senza marchi in evidenza. Fatti su misura, probabilmente, da un artigiano di fiducia.

Come Bart, anche Andrew portava il suo titolo con innata eleganza, pur se lui sembrava irridere il proprio nome e la propria genia.

Da quando, però, il fattore ‘Bullbasket’ – come lo aveva soprannominato lei nella testa – era venuto a galla, Andrew le era parso assai pensieroso. Quasi contemplativo.

Anche in quel momento, dopo una buona cena a base di crostacei e tanto buon vino californiano, sembrava avere la mente altrove, ma non in senso negativo.

“Temo che tua madre sia rimasta sconvolta dalla mia lite con papà… ma è più forte di me. Certe cose non posso lasciarle correre” ammise Grace, tornando a osservare il profilo scuro del bosco che circondava la proprietà.

Poggiando le mani sul parapetto in pietra della balconata, Andrew si sporse un attimo per scrutare dabbasso, dove si intravedevano le luci provenienti dalla sala da pranzo.

Evidentemente, i domestici non avevano ancora terminato di lavorare.

La pendola nel corridoio segnò la mezzanotte e Andrew, sorridendo a Grace, mormorò: “Trentun dicembre. Ora, mancano poco meno di ventiquattrore ai botti. Letteralmente.”

Sorridendo appena, Grace assentì e, nello stringersi le braccia attorno al corpo, mormorò: “Amo tuo fratello, e non mi è mai capitato prima… ma ho un terrore folle di ferirlo, di fare qualcosa che possa allontanarlo da me.”

“E perché ti sarebbe venuta in mente una sciocchezza simile?” la irrise bonariamente Andrew, passandosi una mano tra la folta capigliatura.

Sì, era bello e forse, per certi versi, aveva più fascino di Bart, ma Andrew non lo aveva colpito come il fratello.

Si trovava bene, con lui, ed era certa che, col passare del tempo, gli avrebbe anche voluto un bene dell’anima – non poteva che essere così, con lui – ma no, non avrebbe mai potuto innamorarsi di Andrew.

“Ho paura che la mia esuberanza, la mia grinta, potranno un giorno dividerci. Siamo così diversi!” sospirò Grace, turbata.

“E così simili, Grace… Bart ha i tuoi stessi timori, pur se in senso inverso. Lui si ritiene troppo tranquillo, e ha paura che tu ti annoierai, con lui.”

“Ma non è noioso! Tutt’altro!” sbottò Grace, trovando assurdo credere che Bart pensasse questo, di sé.

Andrew allora le sorrise e, nel poggiare gli avambracci sul parapetto gelido, mormorò: “E tu non sei un tornado che sta per abbattersi sulla nostra casa, Grace. Sei una donna meravigliosamente briosa, ma non sei maleducata o prevaricatrice. E, per quanto questo possa essere lontano dal nostro stile di vita, non è negativo.”

“Ma tua madre…”

Andrew la interruppe, replicando seriamente: “Ti fai davvero spaventare dai sospiri di mia madre? Lei è melodrammatica per natura, ma non avrebbe accettato di venire qui, se non ti avesse implicitamente accettata in famiglia. Avrebbe inventato mille scuse, e non sarebbe venuta. Lasciatelo dire da uno che convive con lei da una vita.”

“Ah” esalò confusa Grace.

“Quanto a papà, l’hai conquistato. E credimi, non è facile colpirlo. Poi, il fatto che ci sia questo legame indiretto tra le nostre famiglie, smusserà parecchi spigoli. Certe cose uniscono più di mille parole” ammise Andrew, sospirando.

“Non lo sapevi, vero?”

Lui scosse il capo e, fissandosi le mani come se non le conoscesse, asserì: “Ho sempre pensato che mia madre si prendesse troppo sul serio, e mio padre non fosse che un magnate della finanza pronto a mettere la parola ‘conte’ ovunque. Mi hanno sempre insegnato a rispettare il mio nome e io, per contro, lo sbeffeggiavo, fregandomene, e mettendo in imbarazzo la famiglia.”

“A volte è difficile convivere con un simile peso…” lo rabbonì Grace, dandogli una pacca sulla spalla.

“Bart non lo hai mai fatto, pur se neppure lui ha mai apprezzato il nostro titolo nobiliare. Ci teneva a distanza dalle persone e, anche se papà ha tentato di colmare il gap mandandoci alla scuola pubblica, questo piano ha funzionato solo a metà. E io mi sono intestardito a rendere il tutto ancor più difficile” replicò Andrew, sospirando.

“Edward e io litighiamo sempre, pur di primeggiare agli occhi del nonno… o di papà. E’ più forte di noi. Gli voglio bene per il novanta percento delle volte, ma le restanti dieci vorrei strozzarlo” ammise Grace, scrollando le spalle.

“Sentir parlare di ciò che è successo in guerra… e credimi, papà non lo fa mai… mi ha fatto capire quanto poco gli abbia portato rispetto, in questi anni” mormorò contrito il giovane Ingleton, rimettendosi diritto.

“Ho idea che tu voglia redimerti, pur se non lo ritengo necessario. Non sei un cattivo ragazzo, Andrew” sottolineò Grace.

“Ma sono stato superficiale. Ora, vorrei non esserlo più, se possibile” replicò lui, accennando un sorriso. “Tornerò a Katmandu, ma stavolta lo farò per uno scopo meno ludico e più altruistico. C’è tanto da fare, e io comincerò a farlo.”

“Sono sicuro che la mamma ti strapperà i capelli uno a uno… e poi si congratulerà con te per la scelta etica” intervenne a sorpresa Bart, comparendo a sua volta sulla terrazza.

Andrew ammiccò al suo indirizzo e Grace, nell’accoglierlo accanto a sé, mormorò: “Scusa. Non riuscivo a dormire e così sono uscita.”

“Quando non ti ho trovata, mi sono preoccupato. Trovandoti poi assieme ad Andrew, ho pensato di intervenire prima che lui ti abbindolasse con la sua parlantina sciolta” ironizzò Bart, dandole un bacetto sulla tempia.

“Quanto sei idiota, fratello… è la tua donna. Non ci proverei neppure tra cento anni!” sbottò Andrew, pur sorridendo divertito.

“Non si sa mai…” borbottò Bart.

“Sarà meglio se rientriamo tutti. Stiamo straparlando, segno che è ora di chiudere le tende e dormire” ironizzò Grace, sospingendo verso casa il suo fidanzato.

“Posso unirmi a voi?” ghignò allora Andrew, ricevendo per diretta conseguenza due occhiatacce perfettamente identiche.

Il primogenito degli Ingleton, allora, batté in ritirata e, nel rientrare in camera sua, sorrise sornione e mormorò tra sé: “Andrà benissimo, tra loro… non devo più preoccuparmi per Bart.”

 

 

 

 

 Innanzitutto, mi scuso per il tremendissimo ritardo, ma la storia mi si è completamente arenata in testa, non arrivava più niente. Il che, per chi scrive, è un autentico inferno.

Secondariamente, vi prometto un ultimo capitolo col botto, visto che riguarderà Serena... e il suo avvento. Con quel capitolo, penso di chiudere questa breve avventura nel passato degli Ingleton.

Spero di aver risposto ad alcune vostre domande, finora... e ancora scusa per questa attesa, ma sembrava proprio che non volessero più parlarmi. T-T

Un appunto storico: per quel che riguarda Paddy Mayne, la SAS e l'operazione svolta in Francia denominata Bullbasket, è tutto vero, sono notizie storiche reali.

 

 

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Capitolo 23
*** Una piacevole trasferta -6- (febbraio 1976) Grace e Barthemius ***


Una piacevole trasferta – parte 6 –

Febbraio 1976

 

 

 

Non sapeva bene perché ma, quella mattina, si era ritrovata a sfogliare l’album delle fotografie riguardanti il passato Capodanno.

Era stato un momento assai strano, con la sua famiglia e quella di Bart, riunite sotto lo stesso tetto, assieme a mezzo clan dei Brown.

La prozia Shemain aveva stretto la mano a Leonard e gli aveva battuto una mano sulla spalla, quasi dislocandogliela, tanto aveva colpito forte.

Ma non per procurargli dolore. Tutt’altro.

Piuttosto, per fargli capire quanto, l’aver saputo della sua caccia agli assassini del suo figliolo, l’avesse resa orgogliosa di conoscerlo.

Nonostante fosse un inglese e, oddio, nonostante fosse un nobile inglese!

Leonard aveva accettato i ringraziamenti – un po’ meno la pacca – e, per tutta la serata, Shemain aveva parlato con Gwendolin, rammentandole quanto dovesse essere orgogliosa del marito.

La madre di Bart e Andrew aveva preso quel bombardamento ininterrotto di parole – la prozia parlava per sei – con stoicismo, e Bernadette aveva gongolato fiera.

Ancora adesso, Grace non sapeva bene per cosa. Perché Gwendolin aveva resistito? Perché la prozia aveva fatto capire di che pasta erano fatti i Brown? Perché ora non volevano più sparare agli Ingleton in quanto inglesi?

A saperlo!

A ogni buon conto, quando i fatidici fuochi d’artificio erano stati sparati dietro la villa – illuminando a giorno il bosco e facendo brillare la neve – le due famiglie avevano brindato liete.

Il loro fidanzamento repentino era quasi passato sotto silenzio, per un giorno.

Era pur vero che, la mattina del primo di gennaio, sua madre l’aveva svegliata alle sette del mattino con un catalogo di abiti da sposa in mano, e un block notes nell’altra.

Dove, in nome di Dio, dove aveva potuto prendere, un simile catalogo, il primo dell’anno?

Se l’era sempre chiesto, da quel giorno e, nel rammentare alla madre che nulla era stato stabilito, e che non era neppure detto che lei e Bart si sarebbero sposati a breve, l’aveva lasciata fare.

Le era parso subito chiaro quanto, quel giocare alle liste per la sposa, le piacesse.

Non era mai stata una femmina ‘classica’, e lo sapeva bene.

Era stata più un maschiaccio, in verità e, forte della sua costante competizione col fratello, era cresciuta a suon di cazzotti, per così di dire, invece che di pizzi e merletti.

Sapeva sparare bene quanto Edward – il poligono di tiro non aveva segreti, per lei – ed era un’eccellente skipper, se la necessità lo esigeva.

Poteva cambiare una ruota a un’auto senza l’aiuto di un maschio, e sapeva anche cosa c’era sotto il cofano di una macchina.

Per lo meno, in teoria.

Di contro, non era affascinata dalla moda quanto alcune sue amiche, ma non disdegnava un paio di belle scarpe coi tacchi, o un completo da cocktail di Dior.

Afferrato l’ennesimo biscotto al cioccolato mentre scorreva con lo sguardo l’album, un quieto bussare alla porta la riportò al presente.

“Sì, chi è?” disse lei, levando il capo per fissare la porta.

“Sono Becky. Ti cercano al telefono, giù in portineria” le disse la centralinista, addetta a quel genere di mansioni.

Sorpresa, Grace balzò dal letto e si volse per sistemare la scatola dei biscotti, scoprendo costernata che era completamente vuota.

Facendo tanto d’occhi – aveva mangiato più di trenta biscotti al cioccolato, di fila? – la giovane preferì non soffermarsi troppo, per scendere dabbasso assieme a Becky.

Era inutile che la linea rimanesse impegnata per così tanto tempo. Le telefonate che potevano essere passate alle studentesse erano rare, perciò conveniva muoversi.

Afferrata una felpa pesante, vi si immerse prima di uscire nel corridoio – gelido – e, seguendo Becky, discese le scale e raggiunse in fretta l’ufficio della portineria.

Lì, Becky le indicò l’apparecchio e, subito, Grace lo afferrò, dicendo: “Pronto? Chi parla?”

“Buongiorno, ragazza mia! Come va, lì?” esclamò suo padre all’altro capo, pimpante e allegro come sempre.

Sgranando gli occhi, Grace borbottò: “Ehm… bene, papà. Dimmi, cosa succede? Come mai hai chiamato?”

“Ma per fare quattro chiacchiere con te, è ovvio. Manchi da casa da due mesi, ormai, e chiami talmente di rado…”

“Forse perché le chiamate intercontinentali costano una fortuna?” ironizzò lei, ma neppure più di tanto. “Ti ho scritto una lettera anche l’altro giorno. Aspetta che arrivi, no?”

“Non è la stessa cosa” brontolò il padre, scocciato.

“E io non posso occupare questo telefono, se non è strettamente necessario” lo rimbeccò Grace, grata che attorno a lei vi fosse una cabina che attutiva i rumori.

Era il massimo della privacy concessa a chi telefonava da lì.

“Quante storie…” cominciò col dire Oscar, prima che la moglie intervenisse per rimbrottarlo.

“C’è anche la mamma?”

“Già. Mi sta sgridando come stai facendo tu” sbuffò l’uomo, contrariato.

Sorridendo comprensiva, Grace disse più gentilmente: “Papà, capisco che ti manco, ma non posso tenere occupata la linea per troppo tempo. Questo telefono serve solo per le urgenze.”

“Beh, io avevo urgenza di parlarti” sottolineò lui, testardo come un mulo.

“E perché mai?” volle allora sapere lei, cercando di non scoppiare a ridergli in faccia.

“Non voglio che sposi Bart…” buttò lì allora Oscar.

Grace si accigliò immediatamente, a quelle parole, e borbottò: “Ne abbiamo già parlato. Non sarà oggi, o domani, ma sarà. Punto. Lui è il mio uomo, lo amo e tu non potrai fare nulla per togliermelo.”

“Maledizione, coccinella, stammi ad ascoltare… e non interrompermi. Non avevo finito!”

Il fatto che il padre avesse usato il suo nomignolo da bambina la fece desistere dall’attaccarlo… almeno per i successivi due minuti.

Schiarendosi la voce, con in sottofondo i brontolii di Maggie, Oscar borbottò: “Volevo dire… non voglio che sposi Bart senza prima avergli dato i gemelli di famiglia.”

“Papà, avrà i suoi, anche quanto. Tu che dici?”

“Beh, se ti vuole sposare, userà i miei! Punto!” sbottò Oscar.

Pur trovando assurda tutta quella telefonata, Grace si ritrovò a sorridere e, conciliante, disse: “Gliene parlerò, va bene? Ma, se vorrà usare quelli della sua casata, tu starai zitto e glieli lascerai usare. Potrà portarli in seguito, ti pare?”

“Non sarebbe la stessa cosa!” ringhiò Oscar.

“D’accordo, papà, ora metto giù e tu non richiamerai, altrimenti io non verrò a rispondere. Ti chiamerò io quando saprò qualcosa, va bene?” lo mise in guardia Grace, sentendolo smoccolare senza ritegno.

Ridendo, la giovane mise giù la cornetta, uscì dalla gabina e ringraziò le segretarie.

A passo leggero, poi, tornò in camera mezza congelata – come facevano a non rabbrividire, dentro quell’ufficio? – e lì, non appena ebbe chiusa la porta, si portò le mani al ventre e impallidì.

L’attimo successivo, corse in bagno e diede di stomaco, rimettendo i biscotti e tutto ciò che aveva mangiato quel giorno.

Charlotte tornò in camera giusto in tempo per sentirla rimettere anche l’anima e, subito preoccupata, la ragazza si fiondò in bagno, esalando: “Ma che succede?!”

Afferrato un asciugamani per pulirsi la bocca, Grace si volse a mezzo, pallida e incazzata, e borbottò: “Secondo te, che succede?”

Scuotendo una mano nel non dare peso al suo dire, la compagna di stanza si appollaiò sulla cesta dei panni sporchi e disse: “Lo vedo da me che stai per rivoltare il tuo intestino tenue nel water, ma la mia domanda era rivolta al ‘perché’.”

“Sarà perché ho svuotato una scatola di biscotti in venti minuti, o perché ho mangiato messicano a pranzo. Che ne so…” brontolò Grace, rigettando nuovamente.

Con un sospiro, Charlotte le diede una mano coi capelli e, nel frattempo, bagnò un secondo asciugamano perché si tergesse il viso umido di sudore.

Quando quel massacro ebbe termine, e Grace – appollaiata sul pavimento – si pulì il viso sfatto, gracchiò: “Grazie. Questo è amore vero…”

“Lo so, lo so… ma non facciamo troppa pubblicità. Bart potrebbe essere geloso di noi” sorrise comica Charlotte, strizzandole l’occhio.

“Già… se sapesse che abbiamo avuto questo tète-à-tète in bagno, potrebbe risentirsene” ammiccò Grace, massaggiandosi l’addome. “Dio… mi sembrava di morire. Non so davvero che mi sia preso. E dire, che non amo il chili. Eppure ne ho preso un piatto intero. Per non parlare dell’enchilada, e della frittata.”

Charlotte la fissò basita prima di balzare in piedi, controllare lo stipetto del bagno e fissare l’amica con aria torva.

“Beh, che c’è? Hai trovato da mangiare, lì dentro? Non ce l’ho messo io, giuro” si discolpò subito Grace, levando alte le mani.

“La tua scatola di assorbenti, Grace. Non l’hai iniziata.”

Grace sbatté le palpebre nel fissarla dubbiosa, chiedendosi cosa c’entrasse con il suo mal di pancia quando, con un ansito strozzato, cominciò all’improvviso a contare sulle dita delle mani.

Lo fece in modo frenetico, sempre più sincopato, finché Charlotte non la bloccò, mormorando: “Te l’ho detto perché so che, di solito, sei precisa come un orologio svizzero e, sul calendario, hai segnato i giorni d’oro in cui star male…”

Quell’ironia stentata non calmò Grace che, volgendosi a osservare stralunata il piccolo calendario che tenevano in bagno, gracchiò un’imprecazione prima di esalare: “Ohsignoresantocielo!”

“Già, qualcosa del genere” scrollò la testa Charlotte, aiutandola gentilmente a rimettersi in piedi. “Ce la fai? Lo stomaco regge?”

Grace assentì senza riuscire a parlare e, lasciandosi accompagnare in camera dall’amica, si buttò a sedere sul letto come un peso morto.

Trentanove giorni. Come diavolo aveva fatto a non accorgersene?

Semplice. Le sessioni d’esame.

I suoi frequenti appuntamenti con Bart.

Gli impegni nei comitati.

Insomma, la vita frenetica che svolgeva lì al campus.

E quei maledettissimi trentanove giorni.

Undici in più del normale, stando alla sua tabella di marcia sempre precisa come un orologio svizzero, esattamente come aveva detto Charlotte.

“Grace?” mormorò l’amica, sfiorandole una spalla.

Lei sobbalzò, nel panico più completo, e mormorò sconvolta: “Che devo fare?”

“Prima di tutto, respirare. Stavi diventando verde. Secondariamente, devi dirlo a Bart. Terzo, devi andare assolutamente da una ginecologa. Quarto… a Bart piace la Legione Straniera?”

Grace scoppiò a ridere assieme all’amica, sapendo bene a cosa si stesse riferendo.

Per quanto fosse terrorizzata, per quanto l’intera situazione fosse assurda, l’idea di dirlo a suo padre era allucinante e divertente al tempo stesso.

Come l’avrebbe presa, Oscar Brown? Sarebbe partito col primo aereo per strangolare Bart o, peggio, gli avrebbe sparato appresso?

Lo avrebbe costretto con la forza ad andare all’altare? Quello non serviva. Se fosse stato per Bart, si sarebbero già sposati.

Era lei a tentennare, a volere che lui fosse assolutamente sicuro di volerla.

Per questo, si era impegnata tanto perché vedesse i suoi molteplici – e non facili – aspetti.

Per questo, i loro appuntamenti si erano fatti così assidui.

Per questo, forse, ora si trovava nei guai.

Quando lo scoppiò d’ilarità si spense, Grace mormorò: “Devo dirglielo. Subito.”

“Al coprifuoco mancano ancora quattro ore. Hai tutto il tempo” le ricordò Charlotte, sorridendole. "Vuoi che ti accompagni? Giusto per scongiurare che tu svenga lungo la strada?”

“Mmh… sarà meglio di sì. Se mi sentissi di nuovo male, non rantolerei a terra come una tartaruga ribaltata sul carapace.”

“Solo tu puoi trovare delle similitudini simili, Brown” ironizzò Charlotte, levandosi in piedi per prelevare dalle stampelle i loro due cappotti.

***

Quando lo avevano avvisato di una visita, Bart se n’era stupito. Quel giorno, Grace le aveva detto che non sarebbe potuta passare, perché doveva studiare.

Dando per scontato che, la visita, fosse da parte sua.

Diversamente, non aveva idea di chi potesse cercarlo. I suoi amici erano tutti lì allo studentato, perciò…

Non appena mise piede nell’atrio, disponibile per le visite di amici e parenti, Bart si sorprese nel vedere sia Grace che Charlotte.

Era insolito, per non dire rarissimo, che la lontana cugina si presentasse lì assieme a Grace.

Ergo, che stava succedendo?

Avvicinatosi in fretta, Bart si rese finalmente conto del pallore della fidanzata e, turbato, le domandò: “Grace, che succede?”

“E’ la domanda del secolo, oggi” ironizzò lei, sorridendo a Charlotte.

“C’è un posto un po’ più privato in cui parlare?” domandò a quel punto Charlotte, guardandosi intorno.

Troppi occhi e, ahimè, troppe orecchie pronte a cogliere cose non di loro competenza.

“Temo dovremo uscire, visto che non potete entrare nelle zone più interne dello studentato” sospirò Bart, carezzando preoccupato il viso di Grace. “Te la senti?”

“Sì, sì. Usciamo. Ho caldo” assentì lei, avviandosi lesta verso la porta.

Charlotte fece spallucce, come se quel comportamento così strano non la sorprendesse e Bart, non potendo fare altro, corse in camera a recuperare una giacca e infine uscì a sua volta.

Quando si trovarono fuori dallo stabile, Grace guardò un preoccupato Bart negli occhi e, senza preamboli, mormorò: “Mi sa che sono nei guai.”

“In che genere di guai?” replicò lui, ancora confuso.

“Guai grossi. Sono in ritardo” sbuffò lei.

“Ehm… in ritardo per cosa?” borbottò Bart, ancora non comprendendo.

“Mi spiego meglio. Ho un ritardo” sottolineò allora Grace, sperando che capisse. Perché non ci arrivava?

Bart, allora, guardò Charlotte, che ammiccò come a dire ‘dai, è chiaro, no?’ e lui, cominciando a vagliare alle varie ipotesi nella sua mente, giunse a una che lo fece ansare sgomento.

E lo fece impallidire di brutto.

“Okay, ha capito” sintetizzò Charlotte, laconica.

“Ohsignoresantocielo” ansò lui, fissando Grace in cerca di conferme.

“E due. Questo lo ha imparato da te di sicuro” ironizzò la loro amica, dando una pacca sulla spalla a Grace, che assentì.

“Sicuro come l’oro” ammiccò la giovane americana.

“E’ quello che penso?” borbottò allora Bart.

“Cosa pensi?”

“Che… che sei… incinta?” gracchiò lui, trovando la sola idea del tutto destabilizzante.

“Già” mormorò soltanto lei, non sapendo bene che altro aggiungere.

E meno male che voleva dargli il tempo di abituarsi a lei, ai suoi atteggiamenti spesso contraddittori, alla sua famiglia sopra le righe… insomma, al suo mondo!

Bel modo di farlo, gettandogli in faccia una verità del genere!

Bart annuì un paio di volte, muto, si passò le mani tra i capelli e si guardò intorno come alla ricerca del Santo Graal.

Alla fine, però, tornò a guardare Grace, le sorrise ed esclamò: “E’ splendido!”

L’attimo seguente, Bart la strinse così forte da strapparle il respiro e la sollevò da terra per farle fare un mezzo giro, prima di rimetterla a terra.

“Okay, è contento” sentenziò Charlotte, ora sorridendo tutta giuliva.

“Bart, ti senti bene?” esalò Grace, ancora stretta nel suo abbraccio.

“Se mi sento bene? Certo che mi sento bene. Benissimo!” esclamò lui, dandole un bacio sonoro sulla bocca, facendo così ridere Charlotte.

L’attimo seguente, però, frenò il suo entusiasmo e borbottò: “Tuo padre mi ammazzerà, vero? Verrà qui e mi strangolerà… o peggio, mi sparerà.”

Grace e Charlotte si guardarono vicendevolmente prima di scoppiare a ridere e Bart, piuttosto contrariato, dichiarò piccato: “Non c’è niente da ridere, sapete? Vedrà la cosa come un autentico oltraggio, visto che non siamo sposati!”

“Non… non ridiamo per questo…” riuscì in qualche modo a dire Charlotte. “… ridiamo perché l’abbiamo… l’abbiamo pensato anche noi.”

“La cosa non mi fa sentire meglio, credimi” sottolineò Bart prima di sorridere sornione e aggiungere: “Ma la cosa si può risolvere alla svelta, in effetti.”

“Che intendi dire?” asserì Grace, vagamente dubbiosa.

“Prima di tutto, ti accompagnerò da una dottoressa per essere certi che tu sia veramente incinta…” cominciò col dire lui, sorridendo a ogni parola. “… e poi troveremo un prete che ci sposi.”

“Che?!” esclamarono all’unisono le due giovani, basite.

“Sì, lo so, faremo impazzire entrambi i rami della famiglia, ma non voglio che mio figlio cresca al di fuori del matrimonio, perciò ci sposeremo quanto prima. E non diremo nulla a nessuno.”

“Mio padre mi ucciderà… ci ucciderà…” esalò Grace, pur trovando quella faccenda assai divertente.

Non sarebbe stata come una fuga d’amore, ma quasi.

“Ragazzi, ragazzi, calma… non vi eccitate prima del tempo…” cercò di chetarli Charlotte, vedendo come i loro occhi si stessero illuminando di aspettativa. “Non potete scherzare su una cosa simile. Inoltre, se Grace fosse veramente incinta, non potrebbe rimanere allo studentato. Le regole lo vietano.”

“Troverò un appartamento a Cambridge. Non c’è problema” scosse le spalle Bart, noncurante.

“E credi che tuo padre non si accorgerà che non sei più al dormitorio del King’s College? Conosce tutti, lì dentro!” sbottò Charlotte, sperando di riportarli a più miti consigli. “Ragazzi, sono contentissima per voi, ma non potete tagliare fuori le famiglie a questo modo. Sono sicura che, dopo l’iniziale shock, vi daranno una mano. Sarà peggio, se verranno a scoprirlo a cose fatte.”

Sia Grace che Bart la guardarono dubbiosi e Charlotte, ormai certa di averli in pugno, aggiunse: “Magari stiamo favoleggiando per nulla, e Grace non è incinta. Sentite, io mi informo presso la mia ginecologa e prendo appuntamento, così possiamo fare questa benedetta visita e, solo dopo, deciderete sul da farsi. Okay? Niente colpi di testa.”

I due soppesarono le sue parole così attentamente che, per un momento, Charlotte temette di dover ricorrere alla forza bruta, per sottometterli ma, alla fine, entrambi assentirono.

“D’accordo. Datemi un giorno, va bene? Nel frattempo, vedete di non acquistare già i corredini e quant’altro” sospirò lei, correndo via a gambe levate.

Rimasti soli, Bart sorrise a Grace nel darle un bacio sulla fronte e, in un mormorio, le disse: “Se è vero, la tua idea di protrarre all’infinito il fidanzamento, andrà all’aria.”

Storcendo la bocca, la giovane replicò: “Non si trattava di protrarlo all’infinito per un mero capriccio, ma per darti il tempo di conoscermi tutta. So benissimo di essere un concentrato di contraddizioni fatto persona.”

Carezzandole il viso col dorso della mano, Bart allora le disse: “Perché hai così paura che possa cambiare idea, su di te?”

“Forse, perché fino a ora nessuno mi ha trovato così interessante da spendere più di qualche settimana, in mia compagnia” cercò di ironizzare Grace, pur non riuscendovi molto bene.

Sospirando, poi, aggiunse: “Insomma, neppure io mi sono mai messa d’impegno, ammettiamolo, ma con te… con te…”

“Sì?” la sollecitò Bart, sorridendo. Per certe cose, Grace dimostrava una timidezza davvero tenera.

“Con te mi sento spinta a volerti sempre e comunque, e mi sembra di prevaricarti, di non darti mai il tempo per fare le cose come vanno fatte. Ti sto troppo addosso?” domandò dubbiosa.

Bart allora rise, le diede un bacio molto impegnativo e, quando infine si scostò da lei, disse: “Non pensarlo mai, Grace. Amo tutto di te e, anche se non so ancora come preferisci le uova, se sode, o fritte, o alla coque, non mi importa nulla. Quello che conta, lo conosco già.”

“Okay” mormorò lei, un po’ più tranquilla.

“Ah, e adoro come dici ‘okay’, per la cronaca” ammiccò Bart, avvolgendole le spalle con un braccio.

Lei rise e, con Bart al fianco, tornarono verso il suo studentato. Avevano tempo, dopotutto, anche se così poteva non sembrare.

***

Oookay. Ora sapevano.

Quando Bart e Grace erano usciti dallo studio della dottoressa Windam, Charlotte era balzata in piedi dalla poltroncina e, ansiosa, li aveva raggiunti in pochi passi.

Grace l’aveva abbracciata stretta e Bart, con un sorriso un po’ sciocco, aveva assentito alla sua muta domanda.

Sì, aspettavano un bambino, e aveva più o meno tre settimane.

Il punto, ora, erano un altro.

Erano più di quaranta minuti che, tutti assieme, stavano fissando una cabina telefonica poco distante dal Campus, e nessuno si decideva a partire.

A un certo punto, Charlotte estrasse una monetina e disse: “D’accordo. Testa o croce. Per chi chiama per primo. Non spossiamo stare qui tutto il giorno, e Grace deve cominciare a prendere le vitamine.”

Sbuffando, ben sapendo che l’amica aveva ragione, Grace fece per muoversi verso la cabina ma Bart la precedette, lanciandole un sorriso da sopra la spalla.

Entrato che fu, inserì alcune monete, attese che nell’ufficio del padre rispondessero e, quando se lo fece passare, prese un gran respiro e disse: “Ciao, papà.”

“Bartemius… buongiorno. Come mai chiami oggi? Solitamente, ci chiami nel week-end, quando sono a casa… è successo qualcosa a te o a Grace?”

Pur rincuorato dal fatto che il padre avesse pensato anche alla sua fidanzata, Bart mormorò: “Beh, ecco, qualcosa in effetti è successo.”

“Parto per Cambrigde e vi raggiungo” dichiarò lapidario Leonard.

“Ahhh, no, papà. Non è necessario. Vedi, io e Grace stiamo…” tentennò il giovane, non sapendo bene come esprimersi.

“State pensando di convivere? Oddio, non so se tua madre approverebbe. Io non ci vedo nulla di male, e so che alcuni giovani, ora, lo fanno, ma la mamma…” lo bloccò Leonard, mandandolo in tilt.

Se pensa questo della convivenza, cosa penserà del bambino?, pensò tra sé il giovane, imprecando mentalmente.

“No, papà. E’ un’altra cosa. Grace aspetta un bambino. Da me.”

Lo disse di getto, serrando gli occhi quasi a non voler vedere cosa lo circondava, neanche si aspettasse di veder comparire il padre di punto in bianco.

Silenzio.

Silenzio totale.

Poi un ‘oh’ piuttosto sorpreso, cui seguì un ‘cavolo’ assai sentito.

Per il momento, comunque, nessun insulto.

Ciò che venne, anzi, lo sgomentò.

Suo padre emise un risolino e disse: “Suo padre ti ammazzerà. E io dovrò piangere sulla tua tomba, ragazzo.”

“Ma perché date tutti per scontato che Oscar mi ucciderà?” si lagnò Bart, trovando quella cosa abbastanza inquietante.

“Perché io lo farei, se una mia ipotetica figlia fosse stata messa incinta fuori dal matrimonio” tornò serio Leonard, lasciandosi andare a un sospiro lungo e pesante. “Ma non siete stati attenti?”

“Credevamo di sì” sottolineò Bart, disgustato all’idea di ricevere una reprimenda come uno scolaretto. Ma se l’era aspettato, comunque.

“D’accordo… il fatto che siate fidanzati migliora un poco le cose. Non molto, ma un poco” disse a quel punto Leonard, cercando di riordinare le idee. “Immagino che la mamma non lo sappia. Non ho ancora sentito pianti disperati…”

“No. Ho pensato fosse meglio dirlo prima a te” sospirò a sua volta Bart.

“E’ molto in là con la gravidanza?”

“Tre settimane, secondo quel che dice la dottoressa.”

“Bene, non è molto. Si può organizzare qualcosa prima che il tutto appaia evidente, cosa che tua madre troverebbe inaccettabile. I conti li faranno tutti comunque, ma questo è un altro argomento. Ora, dobbiamo pensare a Grace.”

“E quindi?”

“Parlerò con l’Arcivescovo per sveltire un poco le pratiche, e permettervi di sposarvi alla svelta. Di solito, ci vogliono mesi e mesi, perché diano le licenze, ma non possiamo permettercelo” gli spiegò Leonard, pratico e formale.

“In tutta onestà, non mi interessa molto se anche la gente avrà qualcosa da ridire. Voglio solo che Grace abbia quello che vuole” sottolineò Bart, con un certo puntiglio.

“Allora, avresti dovuto evitarle questo imbarazzo, perché sarà lei che ne pagherà lo scotto più alto, figliolo” gli fece notare Leonard, con tono fermo ma senza voler essere crudele. “Voglio agire così per proteggerla.”

“Hai ragione, scusa” mormorò il figlio, sospirando.

“Bart, ascolta, non sono arrabbiato. L’idea mi piace, credimi. Ma questa situazione complica le cose, perciò dovrò muovermi in fretta, anche se non ne apprezzi i motivi. La gente non è interessata al vostro amore, né lo capirebbe, perché è limitata, per la maggiore, ma guarderà solo al fatto che Grace è incinta e non è sposata.”

“D’accordo” assentì Bart, prima di aggiungere: “Davvero, ti va l’idea di diventare nonno?”

“Sì” disse dopo un attimo Leonard. “E ora ti lascio. Devo pensare a come dirlo a tua madre. E’ la cosa che mi terrorizza di più, lo ammetto.”

Ciò detto, chiuse la comunicazione e, quando Bart uscì dalla cabina, disse: “Non è andata neanche male. Organizzerà tutto papà… per evitarti imbarazzi.”

“Oh… beh, grazie” esalò Grace, sfiorandosi l’addome ancora piatto. “Ma siamo sicuri che va bene? Hai una faccia…”

“Mio padre ha solo detto delle cose giuste, perciò mi devo tenere la lavata di testa e pace” scrollò le spalle Bart. “E’ vero, non sono stato protettivo a sufficienza, con te, ma rimedierò. Nessuno potrà mai dire nulla di brutto, su di te.”

“E pensi che mi interessi?” ironizzò Grace, stupendolo un po’. “Bart, asfalterò chiunque abbia qualcosa da dirmi di meno che carino. Impareranno presto che non si parla male di una Brown senza avere un mitragliatore per difendersi… e uno stuolo di marines a fare da corollario.”

Charlotte scoppiò a ridere e Bart, nel darle un bacio, asserì: “Giusto, vero. Dimentico sempre che i Brown non si fanno mettere i piedi in testa da nessuno.”

“Verissimo” assentì lei, pur sorridendo grata. “Comunque, è carino e dolce che tuo padre abbia pensato a me. A suo tempo, lo ringrazierò come merita. Lo farò vincere a scacchi.”

Bart scoppiò a sua volta a ridere, a quel punto e, con lui, si unirono le due giovani.

Forse, dopotutto, non sarebbe andata così male come temevano.

 

 

 

 

Note: Vi avevo promesso Serena, ed ecco che si è palesata... più o meno. ^_^

Che dite, come la prenderà Oscar Brown? Ci sarà veramente il rischio che ammazzi Bart? O saprà sorprenderci? Di sicuro, si farà riconoscere... perché i Brown non passano mai inosservati.

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Capitolo 24
*** Una piacevole trasferta -7- (Febbraio 1976/Agosto 1981) Grace e Barthemius ***


Una piacevole trasferta – 7 –

Febbraio 1976/Agosto 1981

 

 

 

 

Come dire a un Brown che qualcosa è sfuggito al suo controllo?

Non era un’impresa esattamente facile, e Grace non aveva la più pallida idea di come suo padre – e suo nonno – avrebbero preso la cosa.

La mamma e la nonna sarebbero state incondizionatamente dalla sua parte, questo lo sapeva.

Le donne Brown si spalleggiano sempre e comunque, anche quando combinano guai.

Ma il resto della famiglia? Suo fratello?

Oddio, con Bart si era dimostrata molto coraggiosa e pronta ad affrontare i benpensanti inglesi – di cui, onestamente, non le importava nulla.

Ma la sua famiglia era altra cosa. Come ostracizzava lei, nessuno poteva.

D’altra parte, Charlotte aveva ragione. Non potevano puntare a un matrimonio riparatore senza averlo prima detto anche a loro.

Quando alzò la cornetta del telefono, perciò, si assicurò di avere una buona scorta di monetine e, preso un bel respiro, chiamò suo padre in ufficio.

“Brown Associated Inc., chi parla?”

“Ah, Bethany, ciao… sono Grace. Mio padre è libero?” domandò la ragazza, sorridendo appena nel sentire la voce della segretaria.

“Oh, Grace, cara. Ciao! Sì, te lo passo subito” trillò la giovane, mettendola un attimo in attesa.

Dopo aver ascoltato Bach per circa quattro secondi e mezzo – o quattro minuti, non aveva le idee chiare, al momento – suo padre esordì dicendo: “Ehi, tesoro! Qual buon vento?! Mi hai dato retta, allora!”

“Riguardo a cosa?”

“Al chiamarmi più spesso.”

“Ah, oh, sì. Certo” assentì Grace, giocherellando nervosamente con gli alamari del parka.

“Ebbene? Hai notizie dei miei gemelli? Bart li indosserà?”

“Aaahhh, senti papà, prima di parlare dei gemelli, dovremmo affrontare un altro argomento” tentennò lei, storcendo la bocca.

Come avrebbe lanciato la bomba?

“E cosa può esserci di più importante, al momento? Ah, la mamma ha detto di averti preso un velo da sposa, e vorrebbe che tu lo provassi, il mese prossimo, quando verrai per Pasqua. Non chiedermi com’è, perché io non so la differenza tra un tulle e uno strass, quindi rinunciaci in partenza. Però mi sembra bello.”

Se solo fosse esistito un sistema per azzittire suo padre…

Dal velo, passarono alle scarpe, che Oscar descrisse come pericolose armi di distruzione di massa.

Grace ipotizzò che avessero un tacco piuttosto importante, vista la descrizione.

Quell’inizio di telefonata perdurò per circa cinque minuti finché Grace, all’ennesima monetina infilata nel telefono, sbottò dicendo: “Aspetto un bambino, papà!”

Oscar si fermò di botto, ridotto al silenzio da quell’autentica bomba atomica gettata nel bel mezzo della sua vita e, con un tossicchiare confuso, borbottò: “Che hai detto, scusa?”

“Che. Aspetto. Un. Bambino” scandì per bene Grace.

“Da quel damerino impomatato del tuo fidanzato?!” sbottò Oscar con tono stentoreo.

“Da chi altri, scusa? Con quanti uomini pensi che io mi veda?” strillò Grace, preoccupando un poco Bart e Charlotte, fuori dalla cabina.

Lei scrollò la mano per chetarne i timori, ma aggiunse irritata: “Non sono una farfalla che vola di fiore in fiore, papà. Sto solo su uno!”

“E molto bene, a quanto pare” la prese in giro Oscar, sorprendendola e lasciandola a bocca aperta per alcuni secondi, secondi di totale, sconcertante incredulità.

Osava anche prenderla per i fondelli, quel disgraziato?

“Ma hai capito cosa ti ho detto?!” ringhiò la giovane, la paura molto ben sostituita dalla rabbia.

“Eccome. Fino a prova contraria, le orecchie mi funzionano benissimo. L’avete fatta grossa, eh?”

Ancora quel tono derisorio. Ma cos’aveva bevuto, suo padre, quella mattina? Whiskey corretto grappa?

Passandosi una mano sulla fronte come per darsi una calmata, Grace disse più pacata: “Papà, se non te lo ricordassi, io e Bart non siamo sposati.”

“Ebbene?”

“Fingi di non capire il problema? NON SIAMO SPOSATI!” urlò allora Grace, chiedendosi quando, suo padre, sarebbe tornato in sé.

“Bambina…” cominciò col dire Oscar, con tono finalmente serio. “… pensi davvero che la cosa mi preoccupi? Edward è nato fuori dal matrimonio. Io e la mamma ci siamo sposati dopo, perché voleva mettersi quel bell’abito che ha nelle foto e, quando abbiamo scoperto che era incinta, i tempi sarebbero risultati troppo stretti, per fare qualcosa prima.”

“Cosa?” esalò Grace, incredula. Non l’aveva mai saputo!

“A nessuno è interessato e, anche se la stampa ha chiacchierato per qualche mese, non è importato a chi veramente contava. Ergo, dimmi … dov’è il problema? La famiglia di Bart non è contenta?”

“No, beh, ecco… Leonard ha detto che è felice di diventare nonno, ma ha anche detto che parlerà con l’Arcivescovo per farci sposare quanto prima. Vuole proteggere il mio nome. Bart ha detto proprio così. Il mio nome.”

“Perché sa che quei bigotti di inglesi suoi pari guarderanno a te come a colei che ha irretito il figlio di un conte, l’americana arrivista che vuole entrare in una famiglia nobile” borbottò Oscar, ora vagamente irritato.

“Già, Bart mi ha anche detto che si è preso una lavata di testa, per questo, perché ha messo me in una posizione scomoda” sottolineò Grace.

Oscar allora rise sommessamente, replicando: “Quel ragazzo avrà una bella gatta da pelare quando lo saprà sua madre, ma mi fa piacere che Leonard si sia preoccupato di te.”

Poi, liberandosi in una vera, grassa risata ‘alla Brown’, aggiunse: “Quel ragazzo è più focoso di quanto pensassi. Mi dovrò congratulare con lui, per avermi reso già nonno!”

“Papà…” sospirò Grace, scuotendo il capo.

Oscar continuò ancora per un minuto buono a ridere, finché Grace minacciò di mettere giù.

A quel punto, Oscar disse: “Alla mamma penso io… ma tu devi dire a Bart che ora pretendo che indossi i miei gemelli. Lo considererò un pegno per averti messa incinta.”

“Ma se hai detto che ti fa piacere?!” sbottò lei.

“Sì, ma questo glielo dirò dopo che li avrà indossati” sottolineò Oscar. “Ricordatelo sempre, i Brown…”

“… vincono sempre” terminò per lui Grace, sorridendo nonostante tutto. “A presto, papà.”

“Aspetterò la tua chiamata sulla data del matrimonio, allora” disse lui, salutandola con un’altra risata.

E lei che si era aspettata liti e strepiti… era proprio vero che i Brown erano imprevedibili… anche per una Brown.

Quando uscì, quindi, levò i pollici verso l’alto e disse: “Non ti ammazzerà, Bart, ma vuole che indossi i suoi gemelli, al matrimonio.”

“Tutto quello che vuole, non c’è problema” sospirò di sollievo Bart, baciandola con trasporto. “Ma perché urlavi? Non abbiamo capito granché.”

“Perché mio padre è pazzo” sospirò Grace, scrollando le spalle.

“Amen” sorrise allora Charlotte, dandole una pacca sulla spalla.

“Già… amen” sorrise a sua volta Bart, dando un bacio sulla fronte alla fidanzata.

***

Se Grace immaginò anche solo per un attimo che Leonard potesse non riuscire nell’impresa, dovette ricredersi alla svelta.

Tre giorni dopo la ‘famosa telefonata’, come ormai lei e Charlotte avevano soprannominato quell’episodio, Leonard chiamò il figlio allo studentato per dargli la data.

Si sarebbero sposati a York, nella cattedrale, e avrebbero celebrato il pranzo di nozze a Ingleton Manor, alla presenza di almeno quattrocento invitati.

Da quello che Bart le aveva riferito, sua madre e Maggie si erano già sentite per stilare una prima lista di invitati, e quello era il numero che avevano raggiunto.

Bart non le aveva però detto come l’avesse presa sua madre e, pur con tutte le sue richieste, nulla era giunto dalla sua bocca.

Stranamente, anche chiedendo a sua madre, Grace non aveva ottenuto alcunché, solo la promessa che si sarebbero viste entro la fine della settimana assieme alla modista.

L’idea che sua madre prendesse un aereo assieme all’amica Philomena, e solo perché lei non era stata abbastanza attenta, la fece sentire più in colpa che mai.

Lei, che di solito organizzava tutto alla perfezione, che era sempre attenta a ogni cosa, era caduta su ciò a cui teneva di più.

Il suo rapporto con Bart.

Forse, in quel momento, Gwendolin la odiava per il gran guaio in cui aveva messo il figlio, e nessuno voleva dirglielo per non ferirla.

Fu per questo che, dopo una settimana di tentennamenti, Grace uscì di buon’ora dallo studentato e prese il treno per York senza dire nulla a nessuno.

Neppure a Bart.

A Charlotte aveva lasciato un biglietto, spiegandole che sarebbe stata via tutto il giorno e pregandola di non dire nulla a Bart, solo che lei non poteva vederlo.

Aveva bisogno di parlare con Gwendolin, prima che il dubbio la uccidesse, ma non voleva farlo per telefono.

Non con lei.

Lasciò quindi che il treno la accompagnasse fino a quella brillante e vivace cittadina del nord, e lì prese un taxi per raggiungere il palazzo degli Ingleton.

Essendo un giorno di apertura, Grace trovò diverse comitive pronte per entrare nella parte espositiva del palazzo, ma lei sapeva già come evitare quell’ingorgo.

Aggirò il maniero, si fece notare da uno dei domestici – che la riconobbe subito – e, pregandolo di accompagnarla da Mrs Ingleton, entrò all’interno.

Il freddo del viaggio le scivolò di dosso non appena il calore di quei luoghi le scaldò le carni e, lasciata ad attendere in uno dei salottini, Grace si sedette e sospirò.

Non aveva la più pallida idea di quello che si sarebbero dette, ma aveva sentito il desiderio di parlare con Gwendolin, e a questo si era attenuta.

Quando, però, la vide entrare nel salottino, turbata e sorpresa dalla notizia del suo arrivo, Grace poté solo alzarsi in piedi e, senza poterle fermare, le lacrime iniziarono a scivolare sul suo viso.

Gwendolin si affrettò a chiudersi la porta alle spalle e, mentre Grace crollava a sedere sulla poltrona dietro di lei, la donna la raggiunse e le batté una mano sulla schiena.

Scossa dai singhiozzi, Grace si coprì il viso con le mani e, spiacente, mugolò: “Oddio, mi spiace, mi spiace davvero tanto… non avrei mai voluto…”

“Grace, prendi un bel respiro e dimmi dov’è il problema. Così, non riesco a capire cosa stia succedendo. E poi, dov’è Bart? Perché sei qui da sola?”

“Lui… lui non sa che sono venuta qui in treno, e…” balbettò lei, sempre nascosta dietro il velo offerto dalle mani premute sul viso.

Gwendolin inspirò a fondo, sgomenta, ed esalò: “Oh, cielo, bambina… ma perché ti sei sobbarcata un viaggio simile, e da sola? Avrei potuto venire io e…”

“NO!” strillò Grace, liberandosi finalmente dalle mani per guardarla. “Le ho già causato un disturbo enorme, oltre che un imbarazzo degno di tale nome!”

“Oh” mormorò soltanto Gwendolin, scostandosi da lei per accomodarsi sulla poltroncina a fianco. “Pensi io sia arrabbiata? O rattristata?”

“Bart non mi dice nulla, e neanche mia madre mi ha detto alcunché. Così, ho deciso di venire da lei per chiederle scusa. Di solito, sto attenta a ogni cosa, sono scrupolosa, eppure, dove avrei dovuto mettere più impegno…”

La donna batté una mano sul braccio di Grace, offrendole un debole sorriso e, scuotendo il capo, replicò: “So bene che sei attenta e scrupolosa, Grace. Anzi, a dir la verità, io penso persino troppo. Per questo, quando Leonard mi ha parlato del bambino, mi sono sorpresa. Ma non in negativo.”

“Come?” esalò Grace, più che mai sorpresa.

“Non fraintendermi…, questa cosa non passerà sotto silenzio, e dovremo stringere i denti diverse volte, prima che il parentado la smetta di porsi domande tendenziose sul piccolo che porti in grembo” ammise Gwendolin, seria in viso pur se non irritata.

“E’ per questo che volevo scusarmi” sospirò Grace, reclinando il viso.

Gwendolin, però, glielo risollevò con un dito e, granitica, le disse: “Sarai una Ingleton, tra poco più di un mese, Grace. Non dovrai mai chiedere scusa per le tue decisioni, anche se questa è stata più una sorpresa, che altro.”

Addolcendo un poco il tono della voce, poi, aggiunse: “Inoltre, non credo che i Brown siano da meno, no?”

“No, non siamo da meno” assentì con un leggero sorriso la giovane.

“Bene. Perché riceverai delle critiche, ci saranno delle frecciatine più o meno velate, ma io so che potrai tenere loro testa, se mi dimostrerai che i Brown sono tosti come dicono di essere.”

Grace la fissò senza parole – soprattutto quando la udì dire la parola ‘tosti’ – e, limitandosi ad annuire, ritrovò finalmente il sorriso.

“Naturalmente, mi aspetto che sia una femmina, perché ho davvero speso tutta la mia pazienza con due maschi, e non voglio ripetermi con mia nipote” sottolineò Gwendolin, con una certa alterigia.

“Oh… non vuole un erede maschio?” esalò sorpresa Grace.

“Come direste voi giovani, Dio ce ne scampi e liberi. Il mio primogenito ha deciso che vuole dedicarsi alle attività pro bono e, pur se apprezzo il gesto, temo possa cacciarsi nell’ennesimo guaio. Quanto al mio secondogenito, ha messo incinta la sua fidanzata senza neppure avere il coraggio di dirmelo di persona. Da qualche parte, ho sbagliato di sicuro, perciò evitiamo i maschi, per questa volta, per favore” ironizzò a suo modo Gwendolin, dandole una pacca sul braccio con affetto.

No, Gwendolin Ingleton non sarebbe mai stata come Maggie Brown, che dispensava amore con ogni stilla del suo essere.

Forse, non era stata educata a farlo, forse era timida per natura, ma sapeva come far capire alle persone il suo apprezzamento.

E a Grace bastò questo.

Le sorrise con maggiore convinzione e, poggiando le mani sul ventre ancora piatto, dichiarò lapidaria: “Sarà femmina, a costo di spezzare il mondo in due e, se lo dice una Brown…”

“Una Ingleton…” sottolineò Gwendolin, facendola ridere.

“Una Ingleton-Brown…” concesse a quel punto Grace, notando il divertimento negli occhi della donna. “… se lo dice una Ingleton-Brown, allora può star certa che avverrà.”

“Ne sono convinta. Ma ora è meglio se mangi qualcosa, e poi tornerai a Cambridge assieme a Leonard” dichiarò a quel punto Gwendolin, levandosi in piedi con aria quasi militaresca.

“Oh, ma no… riprenderò il treno…”

“Leonard deve comunque scendere a Cambridge per vedere Bart. Non gli cambierà nulla avere una persona che gli tenga compagnia durante il viaggio. Anzi, gli farà bene. Era un po’ in ansia per te.”

“Ma io sto bene” sottolineò Grace, levandosi in piedi.

Gwendolin, allora, le sfiorò il viso con una mano e disse: “Bartemius ti ha messa incinta, e spettava a lui badare a che non succedesse. E’ questo che abbiamo insegnato ai nostri figli. Leonard si sente in qualche modo in colpa e, se vedesse che tu stai bene e non sei in qualche modo irritata con nostro figlio… beh, si sentirebbe meglio.”

“Oh, ma tu guarda…” brontolò a quel punto Grace, piazzando le mani sui fianchi con espressione risoluta. “… lo sfiancherò di chiacchiere e, alla fine, non baderà più a queste sciocchezze. Anzi, dovrebbe essere felice che io e Bart abbiamo combinato questo guaio, se così si può definirlo.”

“In che senso?” volle sapere la donna.

Sorridendo con amore quando tornò a sfiorarsi il ventre piatto, Grace mormorò: “Significa soltanto che siamo così innamorati che tutto il resto, anche il nostro giudizio, è passato in secondo piano. Non è una bella cosa?”

Gwendolin vi rimuginò sopra un attimo e, nell’accompagnarla nella saletta dove pranzavano solitamente, sorrise e asserì: “Sì, è una bella cosa. Ma sarà meglio che tu glielo dica. Certe cose, i maschi vogliono sentirsele dire.”

“Lo sfinirò, promesso, e… grazie.”

“Come hai detto tu, lo ami così tanto che tutto il resto è passato in secondo piano” disse solennemente Gwendolin, prima di domandarle: “Posso osare di sperare che, una volta avuta la bambina, tu rinunci alla carriera da avvocato?”

Scoppiando a ridere sommessamente, Grace scosse il capo e replicò: “Ah, no, mi spiace. La mia bambina avrà un grande avvocato come madre, e un imprenditore come padre.”

“Poteva capitarle di peggio” sorrise a quel punto lady Ingleton, e con lei Grace.

***

Sorseggiando del succo di mela – non potendo bere vino, aveva optato per quello – Grace sorrise al suo Bart, seduto accanto a lei, e mormorò: “Tutto sembra andare per il meglio, non trovi?”

“Se intendi dire che tuo padre non ha ancora litigato con uno dei miei parenti, direi di sì” sussurrò per contro Bart, facendo un gran sorriso.

Lei assentì, ridendo piano e lui, spinto dall’esigenza, si allungò per baciarla sulle labbra con un certo entusiasmo.

Grace replicò al bacio, ma solo per un attimo, non volendo mettere in imbarazzo Gwendolin o Leonard.

Non sapeva ancora esattamente quanto li avrebbero tartassati i parenti, e non voleva dare loro troppe frecce al loro arco per punzecchiarli.

Quando si scostò, però, non poté fare a meno di divorare Bart con lo sguardo, splendido e perfetto nel suo frak da cerimonia nei toni del grigio e dell’argento.

Il ricordo le tornò a poche ore prima, quando lo aveva visto nei pressi dell’altare, alto e fiero, la tuba in testa e il bastone nella mano destra.

Al suo fianco, Andrew le aveva sorriso estasiato, mentre Edward le aveva dato un bacetto sulla guancia, quando era giunta accanto a lui.

Damigelle d’onore e garçon d’onneur si erano allineati alla perfezione ai loro lati – tre per parte – mentre i testimoni erano rimasti leggermente in disparte.

Tutto si era svolto nel migliore dei modi, e i complimenti per il suo abito principesco, dalla lunga e ampia gonna con lo strascico e il corpetto a cuore ricoperto di perline, si erano sprecati.

Raggiungere Ingleton Manor su una carrozza le era parso assurdo e stranamente divertente e, quando infine Bart l’aveva scortata nel salone, Grace si era sentita davvero una principessa.

E il principe al suo fianco l’aveva fatta sentire tale per tutto il tempo, pur se aveva idea che avrebbe continuato anche negli anni a venire, conoscendo il carattere di Bart.

Sorrise lieta, si volse a scrutare tutti i loro invitati e, quando raggiunse Charlotte con lo sguardo, levò entrambi i pollici in segno di vittoria, e lei con Grace.

Se si fossero affidati a quel loro colpo di testa, non avrebbero riunito per sempre le loro due famiglie, né avrebbero avuto tutto questo.

La pace, l’armonia, e solo qualche punzecchiatura ogni tanto.

No, tutto sarebbe stato molto peggio, senza di lei, senza Charlotte e, prima o poi, Grace si sarebbe sdebitata con l’amica.

In un modo o nell’altro.

***

“Okay, Charlie, se avevi in mente questo, quando pensavi che io mi sarei sdebitata con me, dovevi aver bevuto più whisky di mio padre e mio nonno messi assieme…” brontolò Grace, lanciando un grido disperato subito dopo, quando l’amica quasi le massacrò una mano.

Soffiando dalla bocca come una locomotiva a vapore, Charlotte la fissò malissimo e replicò: “Non è colpa mia se mio figlio ha deciso di nascere adesso, nel bel mezzo delle montagne rocciose, in uno sperduto alpeggio circondato da boschi…”

Altra contrazione, altra stretta di mano, altro urlo.

A quel punto fu Grace a sbuffare distrutta, e ribatté: “E io cosa ne sapevo che avrebbe deciso di nascere con due settimane di anticipo! Volevo che ti godessi un po’ di frescura, tutto qui!”

Bart fissò le due amiche, il marito di Charlotte – Richard – che stava controllando la situazione e, dubbioso, domandò: “Come andiamo?”

“Male!” sbottò Charlotte.

“Direi bene, vista la situazione” rettificò Richard, sistemando bene il telo sopra le gambe della moglie.

Ripulendosi le mani con un telo pulito, l’uomo sorrise fiducioso alla moglie e aggiunse: “Sei dilatata di otto centimetri e le contrazioni sono piuttosto frequenti. Tra poco ti chiederò di spingere, tesoro…”

“Se non fosse che sei mio marito…” cominciò col dire lei, furiosa.

“… e un ginecologo…” aggiunse Grace.

“… ti picchierei seduta stante” terminò di dire Charlotte, lanciando un altro urlo furioso, e Grace con lei.

“Molto bene” disse soltanto Richard, imperturbabile agli insulti della moglie.

Bart sorrise di fronte alla flemma dell’amico – lui si era innervosito ben di più, all’epoca, ma andava detto che la loro piccola era nata con un parto davvero difficoltoso.

“Papà?” mormorò alle sue spalle la piccola Serena, attirando l’attenzione di Bart.

Lui le sorrise subito, la accolse in braccio e le carezzò la folta chioma riccia di capelli bruno-ramati.

“Cosa succede, Rena? La zia e la mamma ti sembrano due oche starnazzanti?” ironizzò Bart, ricevendo per diretta conseguenza due occhiate raggelanti.

“Sì” ammise con candore la bimba, prima di allungare il suo lecca-lecca a Charlotte. “Vuoi? E’ buono.”

“Oh, tesorino… sei davvero…” cominciò col dire Charlotte, senza mai arrivare alla fine della frase.

Lanciò un urlo tale che Serena lasciò andare il lecca-lecca per tapparsi le orecchie e Richard, assentendo, disse pacifico: “Spingi pure, cara. Più forte che puoi.”

“Ti strangolerò, Rich… sicuro come l’oro. Farò questo figlio poi ti ucciderò…” lo minacciò Charlotte.

Inattaccabile, lui le sorrise flemmatico e replicò: “Tutto quello che vuoi, cara.”

“Uccidilo tu per me, Grace… ti prego…” si lagnò Charlotte, dando un’altra spinta.

In lontananza, si udivano le sirene di un’ambulanza in avvicinamento.

“Penso che mi assenterò per un attimo… giusto per non far impressionare Rena” dichiarò a quel punto Bart, levandosi in piedi per raggiungere la porta d’ingresso.

Un ‘sei solo un cordardo’ lo seguì fino alle scale di legno del cottage e Rena, ridendo divertita, disse: “La zia ti prende in giro… la zia ti prende in giro…”

“Eh, già, piccola… pare proprio di sì.”

Quando si udì il primo vagito, Bart baciò Serena sul nasino, salutò con un cenno i paramedici smontare dall’ambulanza e disse: “Pare vi spetterà il compito più semplice… forse.”

“E’ molto irritata?” ironizzò il dottore, entrando con lui nel cottage.

“Io mi armerei di pazienza…” lo mise in guardia Bart, entrando nel salotto dove avevano approntato una sala parto d’emergenza.

Richard stava tenendo tra le braccia il suo piccolino, perfettamente sano e urlante, mentre Charlotte e Grace erano stese sul pavimento, distrutte entrambe ma molto soddisfatte.

Quando i paramedici sollevarono la prima per metterla sulla lettiga, Charlotte allungò una mano aperta in direzione di Grace che, battendole il cinque, disse: “Debito pagato.”

“Ci puoi scommettere, sorella” sorrise Charlotte, lasciandosi portare fuori senza strepiti.

Bart, allora, sorrise a Richard – impegnato in una fitta conversazione con il dottore – e aiutò Grace a rimettersi in piedi.

Ciò fatto, la baciò e le domandò: “Stai bene?”

“Se mai recupererò l’uso della mano, potrò dirmi soddisfatta” ironizzò Grace, con gli occhi lucidi di commozione.

Richard, in quel mentre, li avvisò che sarebbe sceso a valle con il piccolo e Charlotte e Bart, assentendo, gli disse: “Chiudiamo casa e vi seguiamo. Voi andate pure avanti.”

“Grazie, amico. Ci rivediamo in ospedale” li salutò Richard, uscendo di gran carriera.

Quando la casa fu nuovamente avvolta nel silenzio, Bart si guardò intorno al pari di Grace e Serena ma, con una scrollata di spalle, sentenziò: “Metteremo a posto un’altra volta. Ora, dobbiamo pensare a Charlotte, Richard e al piccolino.”

Grace assentì con un sorriso e, nel baciare Serena sul nasino, asserì: “L’ultima volta che abbiamo trasgredito le nostre stesse regole, ci è andata bene. Credo che lasciare questo casino alle nostre spalle non ci farà finire nei guai.”

“Solo se mia madre piombasse qui di colpo… ma dubito possa succedere” ironizzò Bart, avviandosi verso la porta per uscire di casa e raggiungere gli amici.

“Che guaio avete fatto?” si informò allora la piccola Serena.

“Il guaio più bello del mondo. Tu” sorrise Grace, prendendola in braccio per farla volare.

Rena rise e allargò braccia e gambe e, quando Bart tornò con l’auto per scendere a valle, le trovò strette in un abbraccio mamma/figlia che gli aprì il cuore.

Sì, era davvero il guaio più bello del mondo.

 

 

 

 

 

 

Note: E con questo capitolo, termina il viaggio assieme a Bart e Grace che, spero, vi abbia divertito. 

Per il momento, non mi resta altro da dire, sul mondo di Honey ma, se vi venisse in mente qualcosa di speciale, non esitate a chiedere. Forse, potrei sfornare qualcosa.

Vi ringrazio per aver pazientato e avermi seguita fino a qui! Alla prossima (non si sa in quale avventura, ma ci sarà)

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Capitolo 25
*** Quel pizzico d'amore in più - Parte 1 - (Agosto 2028) Phill e Brandon ***


Quel pizzico d’amore in più – Phill e Bran – Parte 1
(Agosto 2028)

 
 
 
 Kartdromo Atlanta


 
C’era di tutto, in quel garage convertito a box.

Olio motore, lubrificanti per le parti mobili, manicotti in gomma, ricambi più o meno riconoscibili, pneumatici di ogni genere e forma.

Ma, più di tutto, Bran poté notare il fervore dei genitori, Kyle e Sarah, e l’eccitazione del piccolo Lawton, Keath.

Da ormai due anni, da quando ne aveva compiuti quattro, aveva iniziato a farsi strada tra i cuccioli del kart e, da quel momento, ogni week-end era stato speso per la passione di Keath.

Fin dall’inizio, si era dimostrato un piccolo asso del volante e, anche se Sarah tremava ogni volta che vedeva il figlio in sorpasso, neppure lei aveva trovato motivazioni sufficienti per farlo smettere.

E ora quella gara, la prima all’interno del campionato nazionale per la sua categoria.

Keath sembrava un autentico pilota in miniatura, con la sua tutina colorata e ignifuga, il casco scintillante e gli occhietti determinati.

Nulla lasciava pensare che avesse solo sei anni. Solo la sua statura, rivelava la sua età e il suo essere un bambino.

Diversamente, nessuno dei presenti avrebbe pensato che i partecipanti a quella gara fossero dei ragazzini.

Nell’accostarsi a Kyle, che stava controllando la telemetria assieme a uno dei tecnici del team – la V.B. Racing Team – Brandon gli diede una pacca sulla spalla, sorridendo al fratellastro.

“Ehi, ciao! Benarrivato! Vedo che sei riuscito a districarti in mezzo al caos che sta qui dietro!” rise Kyle, tutto sorridente ed emozionato.

Ridendo a sua volta, Bran replicò: “In effetti, mi sono fatto accompagnare da una gentile signora munita di scooter. Credo sia la madre di un rivale di Keath, perciò mi scuso in anticipo se mi sono fatto aiutare dalla concorrenza.”

“Ah, nessun problema, Bran. Qui ci si aiuta, anche se si è avversari” scrollò le spalle Kyle. “Phill non è riuscito a venire? Quel complesso residenziale a Catalina lo tiene veramente impegnato.”

“Stavolta è un altro lavoro. E’ a Mosca per incontrarsi con i capi russi di una multinazionale petrolifera; vogliono costruire una succursale a Sacramento. Dovrebbe tornare domani, se non ricordo male il memo che mi ha mandato” gli spiegò Brandon, lanciando un’occhiata veloce all’orologio.

Mancavano quaranta minuti all’inizio della gara.

“Caspita. E’ sempre più internazionale. Prima, quel progetto a Dubai, poi il cantiere a Pechino per quella nuova passerella pedonale stratosferica… ricordamelo un’altra volta; filtra l’aria satura di smog per i passanti che vi passano all’interno?”

“Esatto. Essendo tubolare, i pedoni sono protetti dagli agenti atmosferici e dallo smog e, oltretutto, i filtri alle pareti purificano l’aria per chi è all’interno. Non male, per quella città così inquinata” assentì Bran, orgoglioso del proprio compagno.

“Un genio, davvero un genio” asserì Kyle, annuendo più volte.

Avvicinandosi al trotto, Keath abbracciò Brandon alle gambe ed esclamò: “Ciao, zio! Phill non c’è?”

“No, mi spiace. Ma gli farò seguire la gara in streaming, te lo prometto” lo rassicurò Bran, prendendolo in braccio.

Keath si strinse a lui tutto allegro e, per l’ennesima volta, Brandon si chiese cosa volesse dire avere un figlio tutto suo da accudire e crescere.

Lui e Phill ne avevano parlato varie volte, nel corso degli anni, e una delle sorelle di Phillip si era anche offerta di fare da madre surrogata per loro.

Alla fine, però, tra i molteplici impegni di Phillip, e il ruolo di primaria importanza nelle pubbliche relazioni per la V.B. 3000 di Bran, tutto era stato lasciato andare per un altro momento.

Brandon, però, cominciava a sentire il tempo scivolargli dalle mani.

Vedere Keath diventare grande alla velocità della luce, oltre a constatare quanto fossero diventati ormai adulti Cameron e Domenic, lo faceva sentire vecchio.

Non che a quarantasette anni lui lo fosse realmente, ma cominciava a sentire l’esigenza di qualcosa in più, nella sua esistenza a due.

Phill era l’amore della sua vita, sarebbe stato sempre così, e adorava alla follia i suoi nipoti.

Eppure…

Il suono della sirena all’interno del kartdromo lo distolse da quei pensieri melanconici e, con un sorriso alla sua famiglia, uscì per trovare un posto sulle tribune.

Avrebbe fatto riprese splendide, per Phill.

 
***

L’orfanotrofio statale di Mosca.

Com’era possibile che quel delizioso bambino fosse finito proprio lì, con la famiglia altolocata e ricca che si ritrovava?

Molto semplice, dopotutto, pur se atroce come risposta.

I suoi genitori non solo avevano perso tutto, investendo nel modo più sbagliato possibile, anno dopo anno, senza alcuna tregua.

Si erano anche invischiati in affari non proprio leciti per salvare il salvabile, e la loro fine era stata delle più miserevoli.

Un colpo alla nuca per entrambi, in una fredda notte d’aprile.

Il bimbo di quattro anni era stato lasciato illeso nel suo lettino, solo e addormentato, in balia di ciò che sarebbe avvenuto in seguito.

Quella storia lo aveva tormentato per settimane, da quando ne era stato messo al corrente da alcuni suoi colleghi russi, e ora si ritrovava con un documento in mano e una domanda in mente.

Come dirlo a Bran?

In fondo, per un passo così importante, avrebbero dovuto discuterne insieme, vagliare le varie ipotesi, scegliere magari un caso più semplice da gestire.

Un luogo più semplice in cui avviare una pratica simile.

Ma quel bambino biondo, con quegli occhi simili a pezzi di cielo, lo aveva fatto innamorare al primo sguardo.

L’avvocato che Phill aveva assoldato per seguire l’iter per l’adozione era stato chiaro.

Non sarebbe stato affatto facile, per una coppia omosessuale – e americana – ottenere l’affidamento di un bambino russo.

Certo, le cose si erano evolute, nel corso degli anni, e la deriva omofobica di Putin, messa in piedi nel decennio precedente, si era un tantino allentata.

Essere omosessuale in Russia non era tutt’ora semplice, e una coppia straniera e omosessuale non aveva un accesso facilitato agli orfanotrofi, in quelle lande.

Phillip, però, non aveva voluto sentire ragioni, e aveva delegato Natasha Graviljiuk di gestire il suo caso.

Ora, però, a mente fredda e con il contatto Skype attivo nell’attesa di vedere la gara di Keath, Phill si sentiva decisamente in colpa.

E anche assai nervoso.

Brandon non sapeva nulla, di quel suo colpo di testa e, pur sapendo quanto Bran amasse i suoi nipoti, non era detto che avrebbe accettato di iniziare quell’iter lungo e niente affatto semplice per ottenere la custodia di un bambino venuto dal nulla.

Come spiegargli ciò che l’aveva mosso, se non lo sapeva neppure lui?

Phillip sapeva soltanto che avrebbe dovuto essere Eric – era questo il nome del bambino orfano – o nessun altro.

Quando infine il viso allegro ed eccitato di Brandon comparve nello schermo del suo palmare, Phill si sentì mancare come sempre.

Per quanti anni fossero passati, l’effetto che Bran aveva su di lui era sempre lo stesso.

Quel momentaneo mancamento, quella stretta al cuore, quei sudori freddi alle mani.

Lo amava al punto tale da non riuscire quasi a respirare, quando era lontano da lui… eppure, aveva agito alle sue spalle.

L’avrebbe mai perdonato?

 
***

Keath aveva vinto.

Alla sua prima partecipazione al campionato di massima serie, lui aveva vinto con un margine di tutto rispetto.

E ora se ne stava lassù, sul gradino più alto del podio, reggendo una coppa che era quasi troppo grande per lui.

Phillip non avrebbe potuto essere più felice, e anche Brandon lo era, almeno a giudicare dalle sue urla sperticate.

Eppure, quando la telecamera si allontanò dal palco e i rumori si attenuarono, Phill capì che il compagno si era allontanato dalla confusione per parlargli.

Non appena rivide il suo volto, ora serio e pensoso, Phillip capì di essere nei guai.

“Ora che la gara è finita, vorrei sapere da te che succede. Ti ho guardato per tutto il tempo, Phill e, Skype o non Skype, si vede quando hai dei pensieri per la testa” lo redarguì gentilmente Brandon, accomodandosi su una panchina.

“Possiamo parlarne quando tornerò a casa. Non è necessario farlo ora” sottolineò Phill, facendo irrigidire di colpo Brandon.

“Che intendi dire?”

Sospirando, Phillip mormorò: “Bran, non guardarmi come se dovessi abbandonarti da un momento all’altro. Non succederà mai, e questo lo sai. Possibile che, dopo tanti anni, soffri ancora di sindrome dell’abbandono?”

“Prendi pure in giro finché vuoi, Phill ma, quando ti vedo con una faccia pesta come quella che hai adesso, i pensieri galoppano in tutte le direzioni” protestò Bran, sospirando. “Dovresti saperlo che ho una fantasia sfrenata.”

Era mai possibile che la sua contrizione si vedesse tanto?

Brandon era sempre stato più sensibile rispetto alla media, ma era anche possibile che Phillip si sentisse così in colpa da non riuscire a mascherare i suoi sentimenti.

Passandosi una mano sui capelli cortissimi e neri, Phillip allora disse mestamente: “Temo di aver fatto una cosa che potrebbe irritarti a morte, Bran,… ma sentivo di doverla fare. Per noi due.”

Accigliandosi leggermente, Brandon si sistemò meglio sulla panchina e brontolò: “Le due cose vanno in contraddizione tra loro, te ne rendi conto, vero? Perciò, sii esplicito, o io penserò alle cose peggiori possibili finché non sarai tornato.”

“Non c’è altro modo per dirtelo, perciò te lo dico così. Ho avviato le pratiche per l’adozione di un bambino” sospirò Phillip, già pronto al peggio.

Brandon, però, non parlò, non si espresse in alcun modo, il suo volto divenne di pietra e, accennando soltanto un assenso, si scusò con lui e chiuse la chiamata.

Phillip non tentò neppure di richiamarlo. Quando faceva così, Brandon desiderava rimanere da solo coi propri pensieri.

E lui l’aveva fatta davvero grossa, stavolta.

Non sarebbe stato facile farsi perdonare da lui.

 
***

Kyle batté una mano sulla spalla del fratellastro e, sospirando, iniziò a sistemare i vari pezzi di ricambio negli scatoloni, aiutato da Brandon.

Keath e Sarah erano in commissione gara, per degli accertamenti riguardanti il comportamento scorretto di uno dei concorrenti.

Nulla che riguardasse Keath personalmente, ma era stata sollecitata la sua presenza come testimone della scorrettezza.

Questo aveva permesso a Brandon di parlare in tutta sincerità al fratellastro che, dopo l’iniziale sconcerto, si era messo a rimuginare sul problema.

Comprendeva bene cosa potesse voler dire, per Bran, ricevere una notizia del genere così di colpo.

Brandon era sempre stato sensibilissimo e, nel corso degli anni, la cosa si era solo trasformata, ma non era scemata in lui.

Adorava il modo in cui trattava Keath, e lo aveva visto crescere Cam e Dom come se fosse stato lui, il genitore dei gemelli.

No, non si poteva certo dire che Brandon fosse privo delle qualità adatte per fare il genitore, perciò Kyle capiva come dovesse sentirsi ora.

Dubitava, comunque, che Phillip fosse arrivato a quella decisione a cuor leggero, e non voleva avercela con lui solo perché Bran era suo fratello, e lui l’aveva fatto soffrire.

Gli doveva il beneficio del dubbio, anche se era difficile, in tutta onestà, concederglielo.

D’altra parte, Brandon amava alla follia Phillip, perciò non poteva neppure sperticarsi in insulti, anche se un bel ‘coglione’, in privato, non gliel’avrebbe tolto nessuno.

“Aspetta che arrivi a casa e, nel frattempo, non fasciarti la testa prima di essertela rotta, Bran. Phill ti ama, e non avrebbe fatto quello che ha fatto, senza una ragione” si concesse perciò di dire Kyle, cercando di metterci tutto il suo affetto incondizionato.

Dov’erano, Nick e Hannah, quando servivano? Lui faceva schifo, nella parte del consolatore.

Se c’era da asfaltare qualcuno, nessun problema, ma così… si sentiva più goffo di un elefante zoppo e cieco in una cristalleria.

Brandon, però, gli sorrise grato e mormorò: “Gli darò il beneficio del dubbio, visto che stiamo insieme da diciassette anni, ma stavolta l’ha fatta grossa.”

“Non posso replicare a questo” assentì Kyle, sorridendo quando infine vide tornare la moglie, Sarah, assieme al loro campioncino. “Allora, tutto bene?”

“Tutto ooookay!” esclamò Keath, mettendosi nella sua posa preferita, quella di Hulk arrabbiato.

Kyle rise, e così pure Brandon ma Sarah colse subito lo sguardo combattuto dei due uomini e, quando fu abbastanza vicina al cognato per sussurrargli all’orecchio, mormorò: “Se vuoi parlarne con me, ci sono sempre, ricordalo, Bran.”

“Lo so, Sarah. Grazie” assentì lui, dandole un buffetto sulla guancia.

Più giovane di Kyle di quasi otto anni, Sarah dimostrava una maturità davvero rara e, fin da quando era entrata nella vita del marito, Bran aveva approvato la sua scelta.

Kyle era sempre stato uno scapestrato per natura, e il suo vero amore era infatti giunto tardi, così come Keath, ma tutto ciò non era stato un problema, per il figlio di Helena.

Lui aveva saputo compensare al meglio gli anni passati a divertirsi in giro, costruendo un rapporto davvero splendido, con la sua Sarah e Keath.

Nessuno avrebbe potuto trovare una coppia più affiatata, se non con l’eccezione di Nick, Hannah e i ragazzi.

Quanto a Bran e Phill, beh, … in quel momento, Brandon era troppo furioso e deluso per pensarci.

Doveva comunque il beneficio del dubbio al suo compagno. Lo amava troppo, per non concederglielo, e così avrebbe fatto.

Sperando che avesse una buona scusa, una buonissima scusa per redimersi.

 
***
 
Non era solito scendere nell’antro semi-segreto di Domenic ma, visto che Brandon non era a casa e, dei coniugi Van Berger, non v’era l’ombra, gli era parso il caso di indagare.

Nessuno di loro aveva risposto alle sue chiamate e, quando era giunto al LAX, Phill non aveva trovato nessuno ad aspettarlo.

Non che si fosse aspettato una reazione diversa, da Bran – stavolta, l’aveva fatta grossa – ma aveva comunque sperato di parlargli.

Nella loro villa di Bel Air, invece, non aveva trovato nessuno e, anche chiedendo ad Andrea e Helena, non aveva ottenuto informazioni utili.

Già pronto a bussare alla porta della ‘stanza dei giochi’ di Dom, vide scomparire il battente scorrevole dinanzi a lui, mentre la voce del nipote lo accoglieva allegra.

All’interno di quello stanzone enorme, dove i computer la facevano da padroni, Phill trovò Domenic, Cameron e Phie.

Questi ultimi due sembravano intenti a combattere una sorta di gioco virtuale grazie ai loro guanti e visori 3D, mentre Dom controllava il tutto dal suo PC stratosferico.

Messo in pausa il programma, Domenic si volse a mezzo sulla sua poltroncina e guardò lo zio, dichiarando: “Bentornato. Pensavo di trovarti già con la testa mozzata o robe simili ma, a quanto vedo, zio Bran non ti ha ancora intercettato con la sua motosega.”

Phillip sospirò allarmato e Cameron, nello sfilarsi il visore al pari di Phie, ghignò all’indirizzo del gemello prima di aggiungere: “L’hai combinata grossa, eh, zio? Non ricordo di aver mai visto zio Bran così furioso… tranne forse quella volta in cui gli ho rubato l’auto, fracassandogliela contro un albero.”

“Quella volta, avevi esagerato” assentì Phie, pur con tono comprensivo.

“Quanto sapete, ragazzi?” domandò loro Phillip, non sapendo quanto dire.

“Ogni cosa” disse allora Domenic, accavallando le lunghe gambe all’altezza delle caviglie. “Lo zio urlava così forte che, anche a porte chiuse, abbiamo sentito tutto. Scusa.”

“Non è colpa vostra. Il colpo di testa è venuto a me” sospirò allora Phill, accomodandosi sulla prima poltroncina libera.

Phie gli si avvicinò saltellando, facendo dondolare la morbida chioma bruna e, nel sorridere amorevolmente allo zio putativo, disse: “Sono sicura che zio Bran capirà, e si calmerà. Le cose che vengono dal cuore, sono sempre le più belle, perciò immagino che sia successo qualcosa di simile, per spingerti a un passo simile senza consultarlo.”

“Credo proprio di sì, tesoro” assentì Phillip. “A proposito… dove sono, tutti? Non ho trovato nessuno, quando ho chiamato.”

Domenic strinse le mani in grembo, asserendo: “Beh, da quel poco che abbiamo capito, papà, mamma e lo zio sono andati a Sacramento. Dalle tue sorelle.”

Impallidendo suo malgrado, Phill esalò: “Allora, sono spacciato. Se non sarà Bran a staccarmi la testa, lo faranno loro per procura.”

“Non sarei così pessimista. In realtà, lo zio voleva vedere Nicolette perché dovevano discutere del regalo da fare a Regina, per il suo matrimonio. Dopotutto, Bran le farà da testimone” replicò Cameron, appoggiandosi disinvoltamente contro la scrivania principale.

Già. Sua nipote si sarebbe sposata a breve, e Brandon sarebbe stato il suo testimone.

Regina aveva sempre adorato Brandon.

Passandosi una mano tra i capelli cortissimi, Phillip asserì: “Credo proprio che dovrò raggiungerli là. Non posso procrastinare oltre.”

“Hanno detto che sarebbero tornati in un paio di giorni. Volevano rimanere un po’ là per stare con Regina, poi sarebbero tornati” lo informò allora Domenic, fissando lo zio con aria dubbiosa. “Sei sicuro di volerti mettere in auto, quando sei chiaramente in stato di agitazione?”

Phill sorrise nonostante tutto, niente affatto stupito che Domenic fosse così percettivo e maturo. Lo era sempre stato.

“Non devi preoccuparti per me, Dom. Inserirò il pilota automatico nell’auto, così non commetterò sciocchezze” lo rassicurò lui.

“Beh, se permetti, preferisco dargli un’occhiata, prima. I GPS hanno avuto alcuni problemi, in questi mesi, e non vorrei che l’auto ti portasse a Bar Harbour, invece che a Sacramento” dichiarò a quel punto Domenic, levandosi in piedi non prima di aver lanciato un’occhiata al gemello, che assentì.

Non appena il fratello se ne fu andato, Cameron disse: “Senti, zio… io e Dom, e anche Phie, volevamo dirti che a noi piacerebbe se voi adottaste un bambino. Sarebbe carino avere un cuginetto piccolo da accudire. Oltre a Keath, ecco…”

Phillip sorrise al nipote e alla giovane che lui considerava tale, pur non essendola e, annuendo, mormorò: “Grazie, Cameron. Mi fa piacere saperlo. Ora, dovrò solo convincere Bran che non ho voluto lasciarlo fuori da questa decisione di proposito.”

“Beh, diciamo che hai scelto la strada più difficile per farlo, zio, ma non credo che tu sia uno che si arrende al primo ostacolo, no?” ironizzò Cam, levando una mano per battere il cinque con Phillip.

“No davvero” sentenziò l’uomo, sorridendo a entrambi.

Si sarebbe scusato con Brandon, anche strisciando ai suoi piedi, se necessario ma, alla fine, gli avrebbe fatto capire cosa lo avesse spinto a quel gesto improvviso.

Eric ne valeva la pena, e lui avrebbe lottato con le unghie e con i denti per averlo.

Per entrambi loro.







Note: Prima parte di questa doppia OS dedicata a Phillip e Brandon, e al momento in cui Eric fece i primi passi per diventare un membro effettivo della famiglia Van Berger. Come potete vedere dalla data - 2028 -, l'iter si protrarrà per diverso tempo (mi riferisco agli eventi di "Sakura" [anno 2034] dove si specifica che Eric fa parte della famiglia da due anni) e, in questo periodo, Phillip e Brandon dovranno lottare contro ipocrisie, burocrazia e disguidi per avere il loro bambino.
Spero che questo ritorno a due personaggi molto amati della storia, possa accompagnarvi verso un - si spera - meraviglioso 2017.

 

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Capitolo 26
*** Quel pizzico d'amore in più - Parte 2 - (Agosto 2028-Aprile 2032) Phill e Brandon ***


 
Quel pizzico d’amore in più – Parte 2 –
Phillip e Brandon (Agosto 2028 – Aprile 2032)
 
 
 
 
Sacramento – California
 

 
Rivedere le sue adorabili e premurose cognate, era sempre un piacere. In particolare stavolta, visto il lieto evento che stava approssimandosi.

Anche grazie alla presenza di Nick e Hannah, la riunione di famiglia si era svolta nel migliore dei modi.

In ogni caso, Bran aveva preferito non fare menzione di ciò che Phillip gli aveva detto via Skype, poiché desiderava parlarne con lui in prima persona.

Lasciarlo in pasto alle sorelle gli sembrava una punizione davvero esagerata, anche se per un attimo ci aveva pensato.

Bran era più che certo che, di fronte alla bomba che gli era piombata in testa di colpo, sarebbero esplose come tante piccole atomiche, cercando poi di fare la pelle al fratello.

No, meglio evitare spargimenti di sangue, prima di un matrimonio.

Sarebbe stato assurdo portare all’altare Nicolette, mentre Rochelle, Colinne e Prudence erano ammanettate ad altrettanti agenti.

Il solo pensiero lo portò a sorridere e, quando si fermò nei pressi di un campo da calcio ormai dismesso, lanciò un’occhiata all’orizzonte e sospirò.

Il cielo era del color del sangue e dell’oro, e il sole aveva ormai lambito le acque dell’oceano calmo, tingendole di mille colori diversi.

L’aria era immota, profumata di ginestra selvatica e di resina e, in quella viuzza semideserta e tranquilla, nessuno turbava la sua passeggiata solitaria.

Aveva lasciato fratello e cognata all’albergo, con la promessa di rientrare in tempo per la cena e, con calma, si era messo a camminare a caso lungo le vie.

Non aveva fatto caso alla distanza percorsa, né tanto meno a ciò che lo circondava, immerso com’era nei ricordi di lui e Phillip, di come si fosse arrivati a quell’impasse.

Lo aveva amato subito, al primo sguardo, pur se all’epoca aveva avuto molti problemi ad accettarlo, un po’ a causa di sua madre, un po’ per la semplice paura.

Sistemandosi su una vetusta panchina di cemento, ripensò a quel dialogo a due avuto in un luogo molto simile, tanti, tantissimi anni addietro.

Phillip aveva centrato nel segno senza neppure conoscerlo, solo guardandolo negli occhi e Bran, quando li aveva veramente affondati nei suoi, era stato perduto per sempre.

Quelle dense, calde profondità color cioccolato lo avevano fatto sentire apprezzato, capito, e lui aveva cominciato a sperare.

Sperare in un futuro, in una vita che non fosse solo una pantomima, in una possibilità d’amore che, fino a quel momento, aveva bramato ma mai realmente creduto di poter avere.

Il trillo del cellulare lo fece sobbalzare di sorpresa e, quando accettò la chiamata, mormorò: “Bonsoir, Jolie. Comment ça va?”

Bonsoir, mon p’tit bijoux. Scusa se ho potuto risponderti soltanto ora, ma hanno liberato Seb dal dentista solo adesso” sospirò contrita la sua dolcissima amica, mentre in sottofondo si udivano i commenti strambi del figlio undicenne. “Non so cosa gli danno, come anestesia, ma sembrano strafatti, quando escono…”

Brandon rise debolmente di quel commento e Jolie, tornando seria, asserì: “Dimmi tutto, tesoro. Cosa succede. Dal tuo messaggio di casella vocale, sembravi piuttosto alterato. Devo venire lì a picchiare Phill?”

“Venire qui da Toronto? No, cara, non è davvero necessario, ma avevo bisogno di sentire la tua voce, tutto qui.”

“Beh, mi hai a tua disposizione per i prossimi… quaranta minuti” disse lei, come se stesse controllando l’orologio.

In sottofondo, si udì un cinquanta!, urlato chiaramente da una voce maschile e Brandon, nel sorridere, disse: “Ringrazia Leroy da parte mia.”

“Sai che ti vuole bene, e capisce quando è il momento di cedere la sua amata mogliettina per una sana chiacchierata” ironizzò Jolie. “Ebbene?”

“Phill ha avviato le pratiche per un’adozione… senza dirmelo” ammise senza peli sulla lingua, facendo sospirare di sorpresa l’amica.

Merde,… questa sì che è davvero grossa. E ti ha detto perché si sarebbe spinto a tanto, e senza fartene parola?”

“Onestamente, gli ho chiuso il telefono in faccia e non ho più risposto alle sue chiamate. Ero un tantino alterato” asserì suo malgrado Bran, sapendo di non essersi comportato in maniera molto matura. D’altra parte, però, non aveva desiderato urlargli addosso la sua rabbia.

“Oh, beh, poco male. Io lo avrei scannato, quindi…” chiosò l’amica con la sua solita flemma.

Scoppiando in una risatina più rilassata, Bran replicò: “Credo che le sue sorelle potrebbero darti una mano.”

“Oh… non gliel’hai detto. Solo per questo, dovrebbe idolatrarti a vita. Conosco quel trio di valchirie, e so che di fronte a una cosa simile darebbero di matto” ironizzò Jolie, scoppiando in una dolce risatina.

Brandon si appoggiò completamente allo schienale della panchina, ora più tranquillo, e mormorò: “Mi fa sempre bene parlare con te, mia Kalheesi.”

Con tono vagamente altezzoso, lei replicò: “Ne sono consapevole, caro. La tua regina dei draghi è sempre disponibile per renderti felice. Dimmelo, se vuoi che sguinzagli Drogon per te1.”

“Penso che, per stavolta, il tuo drago preferito potrà rimanere al caldo. Non desidero che divori Phill, dopotutto” sorrise Bran.

Tornando seria, Jolie mormorò: “Lo so, tesoro, e credi in questo. Phill è così innamorato di te, che neppure la fine del mondo potrebbe fargli cambiare idea, perciò, se si è spinto a tanto, quello che provava per quel bambino doveva essere davvero potente.”

“Già. Penso tu abbia ragione.”

“Sarò qui, se avrai ancora bisogno di parlare… o di un abbraccio. Prendo il primo volo e ti raggiungo, ovunque tu ti trovi” gli promise Jolie.

Ma Brandon non afferrò le sue ultime parole perché, nel suo campo visivo, era comparso qualcuno che lo aveva del tutto distratto. Rapito.

“Ti chiamerò io, cara. A presto” sussurrò Brandon, chiudendo la chiamata prima di levarsi in piedi. “Phill…”

Lui accennò un mezzo sorriso, si guardò intorno e disse: “Ci siamo parlati davvero in un luogo molto simile, la prima volta. Ricordi?”

Brandon assentì e Phill, avvicinandosi, mise piede sull’erba secca del campo in disuso, calpestandola con le sue scarpe da ginnastica.

Appariva stanco, con pesanti borse sotto gli occhi, e un’ansia sempre crescente brillava in quello sguardo di cioccolato che tanto amava.

Anche Bran si guardò intorno, ammettendo tra sé la somiglianza con quel luogo di tanti anni prima.

Era lieto che lo avesse notato anche Phillip, pur se questo non bastava a chetarne il disagio.

“Era Jolie?” domandò allora l’uomo, e Brandon assentì.

“Come mi hai trovato?” gli domandò a quel punto Bran, infilando il cellulare nel taschino dei pantaloni.

“GPS” ammise Phillip. “Ho seguito le coordinate del tuo cellulare.”

“Come?” esalò Bran, vedendolo sorridere contrito.

“Dom ha giocherellato con il mio smartphone, un po’ di tempo fa, e mi aveva inserito anche questa applicazione. In teoria, doveva servire per trovare in tempo reale i miei capicantiere ma, vista la situazione…”

“Oh. Sei passato in albergo?”

“Già. Nick mi ha detto che eri uscito per una passeggiata, così sono venuto a cercati. E’ stato anche troppo gentile che non mi ha staccato la testa a morsi” ammise Phillip, sedendosi sulla panchina, accanto a lui.

Bran emise un risolino, asserendo: “C’era Hannah. Ti ha salvato questo.”

“Credo sia vero il contrario. Lei non mi ha rivolto la parola” replicò Phill, sorprendendo il compagno. “Ce l’ha a morte con me perché ti ho fatto soffrire.”

“Oh… questa non me l’aspettavo. Pensavo che sarebbe stata dalla tua parte.”

“Non stavolta” sospirò Phillip, passandosi una mano tra i corti capelli. “Stavolta, ho fatto il passo più lungo della gamba, per lei, e ora mi ritiene un traditore.”

“E lo sei?” gli ritorse gentilmente contro Brandon, sorridendogli mesto.

Phillip, per contro, estrasse il suo cellulare, aprì la cartella delle immagini e gli mostrò Eric.

Bran ebbe un fremito, nel vederlo, e Phill assentì.

“Sei tu. O meglio, so che non sei tu, visto che sei un adulto e tutto il resto… ma sei tu. I tuoi occhi, i capelli biondi, quel visino tondo e un po’ triste. Ammettilo. Potrebbe essere tuo figlio, o il tuo clone, se è per questo, tanto somiglia al bambino che vidi nel tuo album d’infanzia” asserì con forza Phillip, mostrandogli altre immagini.

“Dio onnipotente…” ansò Brandon, osservando con avidità quelle fotografie, che sembravano riprese nel suo passato, in un tempo in cui gli orrori della vita non l’avevano ancora sfiorato.

Per questo, doveva essere lui. Per questo, mi sono spinto senza prima dirtelo. Per questo, il cuore mi si è aperto solo per Eric. Deve essere lui, o nessun altro” aggiunse con veemenza Phillip, sfiorandogli un braccio. “Capisci perché ho agito d’impulso?”

“Parlami di lui” mormorò senza forze Brandon, continuando a scrutare il visore dello smartphone di Phill.

“E’ orfano di entrambi i genitori, e non ha parenti in vita che possano prenderlo con sé. I suoi sono stati vittime della mafia russa… affari finiti male, per farla breve, ma i sicari hanno lasciato lui in vita, perché troppo piccolo per sapere qualcosa” gli spiegò sommariamente Phillip. “Ha quattro anni appena compiuti, e ora si trova nell’orfanotrofio comunale di Mosca.”

“Come… come hai saputo di lui?” volle sapere Brandon, guardando finalmente in viso il suo compagno.

“Alcuni colleghi della nostra consociata russa, conoscevano la famiglia. Mi raccontarono della vicenda, mostrandomi poi una loro foto. Giuro che, per poco, non svenni lì sul momento” gli raccontò Phill, sospirando.

Brandon emise un tremulo sospiro, assentendo.

“Posso capirlo. Sarei ammattito io, di fronte a una simile somiglianza” mormorò Bran, passandosi le mani sul viso. “Dio… sembra tutto così assurdo, ma… sì, per la somiglianza che ha con me, potrebbero aver davvero prelevato il mio DNA per farne un clone. Roba davvero assurda.”

“Hai per caso fatto delle donazioni alla Banca del Seme?” buttò lì Phillip, vedendolo scuotere il capo.

“Affatto. Questo è semplicemente… il caso.”

“O il destino” aggiunse Phillip, sorridendogli timidamente. “Quante possibilità c’erano che io venissi a conoscenza di Eric?”

“Nulle” ammise Brandon.

Il sorriso di Phill, allora, si fece più sicuro e aggiunse: “So di avere sbagliato a non dirtelo ma, quando l’ho visto, ho avvertito le stesse sensazioni che avvertii quando vidi te per la prima volta. Amore a prima vista, Bran. Ho amato quel bimbo a prima vista, e sapevo che avrebbe dovuto diventare parte della nostra vita.”

Brandon assentì lentamente, mormorando: “Come quella volta, eh?”

“Sì, come quella volta. Per me, per te e per lui. Sarà difficile, perché siamo una coppia americana e omosessuale, un’accoppiata non certo vincente, in Russia,… ma ti va di provare?” sussurrò Phillip, prendendolo per mano.

Bran, allora, si volse verso di lui, annuì e lo attirò a sé per un bacio.

Fu delicato, privo del fuoco divorante del loro primo bacio, ma rassicurante e caldo, figlio della loro ormai ventennale storia d’amore.

Sì, Phill lo aveva ferito, ma in buona fede, ora capiva il perché.

E, proprio perché lo capiva, avrebbe lottato al suo fianco, per quel miracolo più unico che raro che era capitato sulla loro strada.

Non importava quanto tempo avrebbero aspettato per averlo. Ci sarebbero riusciti.

Se il Fato lo aveva messo sul loro cammino, loro non lo avrebbero più lasciato andare.

 
***
 
Mosca – Aprile 2032
 
La parola ‘logorroico’ aveva assunto tutto un altro aspetto, in quegli interminabili quasi quattro anni.

Lottare contro la legislazione russa non era stato facile, e i viaggi a Mosca si erano sprecati, in quell’estenuante, lunghissimo periodo di tempo.

Il loro avvocato, però, non solo aveva perorato la causa, ma aveva portato prove fisiche ai giurati perché prendessero in causa non solo la legge, ma anche il cuore.

La prima volta che Brandon e Phillip si erano recati assieme all’orfanotrofio, l’incontro tra Erin e Bran era stato filmato dall’avvocato per essere messo agli atti.

Anche la donna era rimasta stupita dall’incredibile somiglianza tra i due, nonostante l’uno fosse un bimbo, e l’altro un adulto.
Inoltre, il bambino aveva subito fatto amicizia con lui, e allontanarli era stata una sofferenza quasi fisica.

Da quel giorno, le visite si erano succedute con scrupolosa regolarità – sempre sotto la supervisione dei servizi sociali – e, nel frattempo, l’avvocato aveva lavorato senza sosta.

V’erano stati rimpalli di responsabilità, delle battute d’arresto, persino dei passi indietro e il rischio concreto di perderlo ma, ogni volta, l’avvocato non aveva ceduto.

Durante una lunga cena di briefing per preparare l’ennesima sessione in tribunale, Phillip le aveva chiesto come mai non avesse mollato la presa sul caso.

Era successo sei mesi prima del loro successo ormai insperato.

Natasha, allora, aveva appoggiato sul tavolo il suo palmare, gli aveva sorriso e si era limitata a dire: “Le immagini parlano chiaro, no?”

Ciò detto, aveva fatto partire uno dei tanti video che ritraevano Eric in loro compagnia, e la donna aveva aggiunto con serietà e forza: “Un bambino merita due genitori così, e io farò il tutto e per tutto per ottenere questo risultato, a costo di lottare anche vent’anni.”

Non era servito giungere a tanto e, quando la sentenza finale era giunta, anche Natasha si era ritrovata con le lacrime agli occhi per la gioia.

Aveva abbracciato sia Phillip che Brandon con calore e, non appena il giudice aveva fatto consegnare loro la documentazione, aveva detto loro: “Non avrei potuto essere più felice di così. Quel bambino avrà una vera famiglia, ora, grazie a voi.”

“E a te” aveva replicato Brandon.

Ora, dinanzi alle porte dell’orfanotrofio, Phillip, Brandon e Natasha sembravano ancora increduli, pur se determinati a portare a termine la loro missione.

Quando entrarono, la direttrice si avvicinò loro con la speranza negli occhi – anche la donna aveva perorato la loro causa – e Natasha, annuendo, disse soltanto: “Da.

“Grazie al cielo!” sospirò di sollievo Elena Antonova, stringendo poi le mani a entrambi gli uomini. “Eric ne sarà felicissimo. E’ di là che gioca con i suoi amichetti. Venite.”

Phill e Bran assentirono all’unisono e Natasha, unendosi a loro, li seguì lungo lo stretto corridoio fino a raggiungere l’ampio salone dei giochi.

Lì, Eric levò il capo per salutarli con un ampio gesto della mano e, quando la direttrice lo chiamò, lui si avvicinò obbediente, fissandoli con espressione seria e curiosa.

Elena lo abbracciò con calore e mormorò: “Mi mancherai moltissimo, dorogoy, caro… ma so che andrai a star bene…”

Eric si irrigidì un attimo, a quelle parole – Elena aveva preso ormai da tempo a parlargli in inglese perché si abituasse, perciò aveva paura di aver capito male – e mormorò: “Vado… vado via?”

La direttrice si scostò da lui, annuendo felice ed Eric, nel levare finalmente lo sguardo verso coloro che aveva ormai da tempo cominciato a considerare come i suoi due papà, esalò: “Vengo… con voi?”

“Sì, tesoro. Sei nostro, ora” assentì Brandon, inginocchiandosi a terra per abbracciarlo con forza.

Eric scoppiò in lacrime di gioia, intervallando frasi in russo a frasi in inglese, mentre Natasha si tratteneva dal piangere e Phillip li osservava con amore.

Quelle due teste bionde, così simili e vicine l’una all’altra, stavano quasi per spezzargli in due il cuore per la gioia.

Quando, infine, si separarono, Brandon si rialzò in piedi tenendo Eric per mano e, nell’osservare Phill, disse: “Penso che si possa partire fin da oggi. I suoi documenti sono validi per l’espatrio, no?”

“Temi possa succedere qualcosa?” ironizzò Phillip.

Bran scosse il capo, limitandosi a dire: “No, voglio solo cominciare questa nostra nuova vita a tre. Tu che ne dici, Eric? Vuoi andare subito?”

Eric, ancora una volta, scrutò dubbioso la direttrice che, per anni, le aveva fatto anche da mamma e, nel vederla annuire con gioia, asserì: “Andiamo subito, papà.”

Brandon si illuminò, al suono di quella parola – Eric l’aveva usata altre volte, nel corso degli anni, ma stavolta aveva un peso del tutto diverso – e assentì, prendendo per mano anche Phillip.

Quest’ultimo, nell’osservare le due donne artefici di quel successo, disse loro: “Senza di voi, tutto questo non avrebbe potuto diventare realtà. Sarete per sempre parte della nostra vita.”

Elena carezzò il capo biondo di Eric, replicando: “Quando puoi salvare uno di loro da un futuro incerto, non esiste gioia più grande. E so che voi lo renderete felice.”

“Lo stesso vale per me” assentì Natasha. “Nessun altro avrebbe potuto avere Eric. Il destino stesso ha scelto per voi.”

Fu con quelle parole che la coppia, assieme al bambino, si accomiatarono dall’orfanotrofio e da Mosca.

Utilizzando il jet privato della V.B. 3000, rientrarono in patria dopo diversi scali per il rifornimento e, quando finalmente videro la sagoma del LAX all’orizzonte, Brandon disse: “Lascio l’azienda.”

“Come?” esalò Phillip, sorpreso.

“Avevo già iniziato a delegare ad altri da tempo, in effetti. Calvin sarà eccezionale, nell’occuparsi delle pubbliche relazioni dell’azienda, e saprà fare un lavoro di prim’ordine, al fianco di Nick, e mio fratello è d’accordo con me” gli spiegò Brandon, sereno e pacifico.

“Ne sei sicuro? Ti è sempre piaciuto occupartene” replicò dubbioso Phillip.

Bran gli sorrise, ammiccò poi a Eric e infine disse: “Mi piacerà doppiamente occuparmi di Eric mentre tu sei in giro per cantieri. Penserai tu a portare a casa la pagnotta.”

Phill scoppiò a ridere – come se avessero problemi di liquidità! – e, nel carezzare i capelli di Eric, gli domandò: “A quanto pare, papà Bran ti starà sempre alle calcagna. Sei pronto a sorbirti le sue attenzioni?”

Eric parve soddisfatto della cosa, perché assentì con vigore e Bran, nel chiudere gli occhi per un istante, mormorò: “Sarà più facile che coi gemelli. La fase dei pannolini è già andata da tempo.”

Tutti e tre scoppiarono a ridere, a quel commento – Eric, ormai, aveva otto anni – e, quando finalmente l’aereo toccò terra, scesero con passo leggero per raggiungere il lounge del LAX.

Lì, l’intera famiglia Van Berger li stava aspettando con striscioni di benvenuto e regali ed Eric, nel vederli tutti assieme, si strinse un poco a Brandon, mormorando: “Sono… tutti lì per noi?”

“E’ la nostra famiglia, Eric. La tua famiglia.”

“E mi vorranno bene? Come voi?” domandò dubbioso il bambino, continuando a camminare stando al fianco dei suoi due papà.

Phillip rise divertito, e chiosò: “Ti stancherai del loro affetto, credimi. I gemelli non vedevano l’ora di avere un altro cuginetto, per non parlare degli zii e dei nonni.”

“Sono tanti” sussurrò il bambino, prima di notare un bimbo più o meno alto come lui.

Sorridendo timido, chiese: “Lui chi è?”

“Tuo cugino Keath. E’ un pilota di kart” gli spiegò Brandon, vedendolo sgranare gli occhi per la sorpresa.

Come sentendosi interpellato, Keath lasciò il fianco dei genitori per correre loro incontro e, quando si ritrovò di fronte a un timido Eric, allungò la mano e disse: “Ciao, Eric. Io sono tuo cugino Keath. Benvenuto in questa gabbia di matti.”

Phillip e Bradon risero sommessamente, a quel commento ed Eric, sorridendo più sicuro, strinse quella mano, replicando: “Piacere, Keath. Ma… sono matti davvero?”

Keath rise di gusto, gli avvolse un braccio attorno alle spalle e lo condusse dalla loro famiglia allargata, presentandolo a ognuno di loro con piglio sicuro e vagamente protettivo.

Phill e Bran lo lasciarono fare. Tra bambini, ci si intendeva alla grande e, se Keath si era voluto fare personale carico di essere il suo protettore, meglio ancora.

Sarebbero diventati grandi amici.
 
***

Il capo biondo di Eric sulle cosce e la mano affondata nei suoi capelli sottili, Hannah sorrise amorevole nel guardarlo dormire dopo quell’intensa giornata.

Alla fine, era crollato addormentato sul divano del salone della villa di Phill e Bran, e ora Hannah se lo stava coccolando con amorevole attenzione.

Era stata una giornata davvero assurda, fatta di mille presentazioni, scoperte susseguenti, risate e lacrime e, alla fine, tutto si era normalizzato, come se Eric fosse sempre stato nelle loro vite.

“Avevo visto le foto mille volte ma, quando è comparso assieme a te, Bran, giuro che mi sono quasi cedute le gambe” ammise Nick, osservando moglie e nipote con occhi leggermente sgranati.

“Fa questo effetto anche a me, ogni volta che lo guardo. E’ anche per questo, che commisi quella follia, quattro anni addietro” asserì Phillip, sorridendo al cognato.

“Mai follia fu foriera di risultati tanto buoni” dichiarò Brandon. “Non potrei amare di più nessun altro bambino. Lui è nostro.

“E voi siete suoi. E’ chiaro che il bambino vi vuole un mondo di bene, e non potevo sperare in niente di meglio, per voi” sorrise Hannah. “Però, ogni tanto, potrò coccolarlo come se fosse mio, vero?”

I tre uomini risero sommessamente, e i due papà di Eric assentirono.

Per la loro sorellona, avrebbero fatto questo e altro. E l’amore non poteva mai essere un danno, se dato con così tanta generosità.




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1 Drogon: Parlo di uno dei draghi di Daenerys Targaryen, signora dei draghi de Il trono di Spade.
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Spero che questa breve storia sull'entrata di scena di Eric vi sia piaciuta. Ho preferito evitarvi l'iter burocratico, saltando direttamente all'arrivo di Eric a L.A. e dalla famiglia Van Berger.
Avviso per tutte/i: la prossima storia che posterò riguarderà i figli di Christofer e Kathleen, già comparsi in "Una pennellata di felicita'"
Spero di farvi cosa gradita... voi tenete d'occhio la mia bacheca. La nuova storia potrebbe comparire da un giorno all'altro. 
A presto!

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