Animi inversi

di Amartema
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I - Prologo ***
Capitolo 2: *** II - Il CdC ***
Capitolo 3: *** III - Il Rifugio ***
Capitolo 4: *** IV - Onora il padre e la madre. ***
Capitolo 5: *** V - Il Potere dell'Alcool ***
Capitolo 6: *** VI - Lo straniero ***
Capitolo 7: *** VII - Sfogo ***
Capitolo 8: *** VIII - Io: il tuo rifugio ***
Capitolo 9: *** IX - Chiamami Abraham ***
Capitolo 10: *** X - Segreti ***
Capitolo 11: *** XI - Salvami ***
Capitolo 12: *** XII - Guerra aperta ***
Capitolo 13: *** XIII - Per noi. ***
Capitolo 14: *** XIV - Una sola cosa ***
Capitolo 15: *** XV - Il segreto svelato ***
Capitolo 16: *** XVI ***



Capitolo 1
*** I - Prologo ***


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Animi inversi




« Buck, ti prego, se devi vomitare non farlo qui. »

Le undici di mattina e Buck era già ubriaco, accovacciato contro il bancone del bar; una fedele compagnia, peccato che concludesse ogni incontro dando di stomaco ogni singola goccia di liquido ingerito. Potevo avvertire il suo sguardo offuscato su di me, troppo impegnata ad asciugare l’immensa pila di bicchieri per ricambiare anche una sola occhiata. Buck: l’escluso, l’ubriacone, colui che si sarebbe venduto l’anima al diavolo per una sola goccia della peggiore birra sul pianeta, o almeno così veniva definito dagli altri. Nessuno si era mai preoccupato di sedersi al fianco di quell’uomo e ascoltarlo, credo di essere stata l’unica ad averlo fatto in questa cittadina d’ipocriti. Buck aveva anche l’enorme sfortuna di essere lo straniero, lo sconosciuto e questo lo poneva già in una posizione di svantaggio; il suo passato che nascondeva una moglie e una figlia assassinate e l’ipocrisia di una cittadina nuova, l’avevano condotto a sedersi ogni mattina al suo fedele sgabello per crogiolarsi nell’unica cosa che lui reputava amico: l’alcool. Era un uomo sulla cinquantina, magro e alto, una pelle olivastra e un viso smunto, nascosto da una barba lunga ma bastava osservarlo nei suoi occhi chiari e verdi per comprendere quanta sofferenza ci fosse in lui.

« Jes, dammi un’altra birra. »

Si mosse, movimenti incerti e lenti con i quali cercava di trovare le tasche, nascoste dalle pieghe del tessuto della sua giacca.

« Te lo scordi, Buck. Sei qui dalle nove e io non ho la minima intenzione di pulire il tuo vomito, i bicchieri mi tengono già molto impegnata e dato che tra mezz’ora apriamo le porte per il pranzo, direi che te lo puoi scordare. »
« Ti do una buona mancia, lo sai. Dammi questa birra, non farti pregare… te l’ho detto che oggi sei più carina del solito? »
« Buck, ti offro solo due minuti esatti per alzare le chiappe dallo sgabello e andare a casa. Fatti una bella dormita. »

La sua voce era bassa, stanca, le parole uscivano biascicate, toccate dalla stanchezza e dall’alcool. Non rispose ma sorrise e con movimenti lenti si alzò dal suo sgabello, recuperando al contempo il berretto dallo sgabello vicino.

« Sei una brava ragazza, tu. Per questo vengo a trovarti ogni volta. »
« Bugiardo, tu non vieni a trovare me, vieni solo per bere. Va', ora. »

Le mie parole bastarono per convincere definitivamente Buck ad andare; alzai lo sguardo per osservarlo, lo facevo ogni volta: studiare la sua andatura bastava per determinare con precisione il suo stato d’ebbrezza. Lo lasciai andare, sicura che il suo livello di alcool in corpo non era troppo alto. La sua uscita determinò l’ingresso di Jeremy, il volto del giovane nascosto da tre casse sorrette con fatica, riconoscerlo era semplice ogni volta, grazie a quei pantaloni strappati all’altezza delle ginocchia.

« Idiota, sei in ritardo. »
« Invece di commentare perché non vieni a darmi una mano? Non credo di farcela ancora per molto. »

La sua voce risultava ovattata, sintomo provocato da una delle casse che andavano a schiacciargli il volto, naso e labbra soprattutto. Abbandonai i miei bicchieri per soccorrerlo, liberandolo dalla cassa più in alto, proprio quella che andava ad opprimergli il viso. Quando lui avvertì il peso alleggerirsi si concedette un sospiro lungo e soddisfatto ma al contempo stanco.

« Fammi lasciare queste casse prima che mi veda Robert. È già arrivato? Dimmi di no, ti prego. »
« È già arrivato e si è accorto del tuo ritardo. »
« Merda! Questa volta mi licenzia. »
« Gli ho già detto che mi avevi chiamato avvisandomi che ritardavi, colpa dei fornitori. »
« Sei un angelo. Ti sei meritata un bacio e un appuntamento galante. »
« Magari nella prossima vita. »

Jeremy ed io, siamo sempre stati legati sin dall’infanzia; due ragazzi che sin da bambini, insieme, cercavano di rimettere insieme i cocci dei loro animi, distrutti da famiglie altrettanto disastrate. Un fratello mancato: lui, con una madre sottomessa e un padre violento che ogni tanto imprimeva ricordi sui corpi di sua moglie e di suo figlio. Un bruto simile, incontrastabile solo per paura di ritrovare una madre morta; una situazione invalicabile, compromessa ulteriormente dal fatto che il bruto fosse anche lo sceriffo. Dall’altra parte c’ero io, con una madre che potrei definire la versione femminile e degenerata di Buck, lei vittima di uno stupro e costretta a mantenere il frutto di quella violenza: me. Ero ormai abituata ai suoi sguardi, ogni volta che mi osservava, sapevo che in me vedeva il suo stupratore, sapevo che era costretta a rivivere all’infinito quell’evento, conoscevo ormai il suo odio, palpabile sulla mia pelle. Io che involontariamente le facevo ritornare alla mente l’inferno, un inferno che puntualmente mi ritornava addosso triplicato in potenza.
Era questo che univa me e Jeremy: la sofferenza.





NOTA DELL'AUTRICE: E' stato scritto proprio in maniera spontanea e di getto.
Il prossimo capitolo è già in mente ma in realtà non so quanto sarò costante,
dato che il mio obiettivo principale è sempre "Qui, dove tutto ha avuto inizio".
E' una storia particolare questa, reale in tutto e per tutto, niente sovrannaturale.
Vediamo se porterà a qualcosa. Vi avviso che l'ho scritta e neanche riletta,
quindi ogni minimo errore, segnalatemelo :*


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Inoltre, la mia mente malata e quella di Malaria, ricordano che:



E vi lascio il video della storia:

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Capitolo 2
*** II - Il CdC ***


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Animi inversi




Trovarsi di turno durante l’ora di pranzo, era come subire le più atroci pene dell’inferno. Significava subirsi, inevitabilmente, il club della chiacchiera con i loro sguardi indagatori e critici ei loro sussurri scambiati a voce non troppo bassa, per non parlare delle loro occhiate bramose nei confronti di Robert e Jeremy, i quali, preferivano rinchiudersi prontamente in cucina.
Io e Jeremy finimmo presto di svuotare ogni cassa, il rumore prodotto dal vetro che cozza contro altro vetro, richiamò l’attenzione di Robert che fece la sua comparsa, giungendo dall’ufficio.

« Come sempre ringrazia Jessica: è sempre pronta ad inventarsi una scusa per i tuoi ritardi. »

La voce di Robert fece trasalire Jeremy e far emergere un debole sorriso sulle mie labbra. Robert era il tipico uomo in grado di farti pesare per giorni anche il più piccolo sbaglio, senza vergognarsi di sbraitare o sbattere porte, all’occorrenza; era incapace di fare una sola cosa: licenziarti, ma era palese che ci considerasse la sua famiglia, un po’ come noi consideravamo lui. Questo suo aspetto lo si poteva leggere su quel volto incorniciato da una chioma morbida e striata di grigio e il suo sguardo castano, incapace di nascondere i suoi sentimenti.
Jeremy si portò la mano alla sua lunga chioma scura, scostandola nervosamente indietro e mentre io e Robert ci scambiavamo sguardi complici, lui incominciò a mugolare nervosamente, era chiaro stesse cercando una scusa credibile o una supplica adeguata per non subirsi l’ennesimo rimprovero.

« Ti giuro su Jessica che ho cercato di fare il più in fretta possibile, Rob. »

La frase di Jeremy mise fine a quegli sguardi complici con l’altro, venendo colta totalmente all’improvviso dall’idiozia del ragazzo. Potrei definire la mia occhiata nei riguardi di Jeremy piuttosto gelida, reazione che fece comprendere al ragazzo di aver complicato la situazione.

 « Fammi capire, vuoi vedermi fulminata qui, all’istante Jer? »

La scena proseguiva sotto gli sguardi divertiti di Robert, seppur venne interrotta quasi subito dal suono del piccolo campanello che segnava l’ingresso di qualcuno nel locale. Le reazioni di Jeremy e Robert mi fecero comprendere all’istante chi fosse il nuovo avventore. La signora Parker faceva il suo ingresso, lei e la sua fidata mole di grasso, labbra rosse, abiti dai colori accecanti e una chioma con addosso chili di lacca. Recuperai velocemente uno dei menù mentre un ultima occhiata dedicai ai due uomini che in silenzio scivolavano verso la cucina, sfuggendo dalle grinfie della nuova presenza. La loro fuga era paragonabile a quella di un poveretto che tenta di scappare dal diavolo in persona. Sofia Parker, potrei definirla il Capo del “CDC”, ovvero il famoso club della chiacchiera, composto naturalmente da sole vedove o vecchie divorziate. Una donna sulla sessantina e una voce sottile e stridula, in perfetto contrasto con la sua corporatura robusta.

« Oh, Jessica, buongiorno. Tanto lavoro, oggi? Non ho potuto far a meno di notare la fuga di Robert e Jeremy verso la cucina. »
« Effettivamente si, oggi abbiamo parecchi ordini. »
« Bene, una soddisfazione per Robert, immagino. Dimmi, sta facendo grandi affari, eh? »
« Si vive, Signora Parker. »
« E la sera? C’è tanta gente? »
« Quella che basta, Signora Parker. »
« E nonostante le serate piene, il povero Robert è ancora solo? »
« Non saprei, è un uomo riservato, Signora Parker. »
« Dimmi, Jessica... »

Iniziò a muoversi verso il suo solito tavolo, uno naturalmente ben sistemato vicino alla finestra, in modo tale che lei e le sue compagne avessero una visione globale dell’interno e dell’esterno, così da non farsi sfuggire nulla e trovarsi sempre pronte a qualsiasi evento o notizia. Era palese che non le piacessi, proprio perché non era mia indole soddisfarla, non le fornivo mai risposte complete o che potessero dare sfogo alla sua chiacchiera, e le sue smorfie lasciavano trapelare ogni volta il suo disappunto nei miei confronti. Dopo, stranamente, le poche domande, il suo tono cambiò, divenendo più basso e saccente. Ecco che la pugnalata vendicativa stava per giungere, lo sapevo, la conoscevo troppo bene o meglio era troppo prevedibile.

« … Tua mamma come sta? »
« Potrei definirla una rosa in sboccio, Signora Parker. »

Mi allontanai dal tavolo, abbandonando lei e il menù e qualsiasi replica che la Parker era pronta ad offrire, proprio come una serpe velenosa sarebbe stata pronta ad offrire il suo morso. Il campanello segnò nuovamente altri ingressi, le comari erano giunte, il loro cinguettio fatto di pettegolezzi bastava per riconoscere le identità di quelle due, simili fisicamente alla loro amica Parker. Risposi ai loro saluti con un cenno del capo, muovendomi velocemente altrove, così da evitare ulteriori interrogatori.
La giornata proseguì come tante altre, era difficile che in quella piccola cittadina della Louisiana succedesse qualcosa di eclatante, la noia le era una fedele compagna, al punto tale che la gente trovava il suo passatempo preferito nei fatti altrui, cercando di scovarli con una morbosità tale che definirei quasi malata; i tradimenti erano gli argomenti preferiti e quando la novità scarseggiava, in quel caso c’ero sempre io, mia madre e la nostra storia, elementi sufficienti per allietare i momenti di noia e di scarsa notizia.
 




NOTE DELL'AUTRICE: Lo so, è breve ma credo conosciate ormai le premesse di questa storia.
Per Robert ho scelto il volto di Gerard Butler in tenuta
chioma mossa e brizzolata, un bel vedere.
Lo si accennava nel primo ma credo che qui
si comprenda meglio di che tipo di cittadina parliamo.
Se trovate errori, segnalate.
Come sempre grazie a chi mi sostiene e mi invoglia a scrivere.
:*


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Capitolo 3
*** III - Il Rifugio ***


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Animi inversi




La giornata era ormai passata in compagnia dei soliti volti; nell'ora di pranzo, il locale si riempiva non solo del club della chiacchiera ma anche di lavoratori che costretti ad aver passato la giornata sotto la cocente estate della Louisiana, venivano a rifugiarsi da noi. Effettivamente il Paradise Circus era ormai punto di riferimento per ogni membro di quella piccola cittadina, una fuga per ognuno di loro dalla vita sempre uguale e priva di stimoli. Erano le quattro, il turno era finito e ormai avevo alle spalle il locale, in attesa del solito ritardatario, Jeremy. Il ragazzo fece la sua comparsa presto, i soliti jeans e una maglia nera  che lasciava trasparire quel fisico asciutto ma ben delineato; tra le dita tratteneva per il collo, due bottiglie di birra che con soddisfazione sventolava.

« Robert ci manda la mancia. »

Trionfante e soddisfatto mentre tratteneva quelle bottiglie come se fosse il più prezioso dei bottini. I suoi movimenti vennero imitati da me, ma io al posto delle bottiglie sventolavo un piccolo gruzzolo stropicciato composto da banconote di un dollaro.

« Questi invece li mettiamo nel solito barattolo. »

Risposi prontamente, prima di riportare il piccolo gruzzolo nella tasca posteriore dei jeans chiari e non troppo attillati. Iniziai a muovermi verso il nostro prezioso compagno di vita: una vecchia Harley Davidson, più disastrata di noi. Il tempo aveva divorato lo smalto, facendo diventare la vernice nera, una volta magnifica e splendente, opacata, sporca e arrugginita; il faro centrale presentava un vetro scheggiato e in parte mancante ma nonostante il suo aspetto acciaccato e per nulla affidabile era più volte stata la nostra salvezza, ogni volta, all’occorrenza, lasciava vivere il suo rombo basso per portarci altrove.

« Solito posto, no? O vogliamo andare al lago? »
« Sei pazzo? Ho già visto abbastanza facce per oggi, risparmiamene altre, ti prego. Ah…la Signora Parker ti porge i suoi saluti, credo si sia un po’ offesa per la tua fuga fulminea verso la cucina. Quindi, per farla breve, oggi me la sono sopportata io, domani starai tu al banco ed io in cucina con Robert. »
« E te saresti capace di lasciarmi tra le grinfie di quelle tre donne allupate? »
« Se vuoi cercare di far emergere qualsiasi senso di colpa, sappi che sprechi il tuo tempo. Dammi qua…»

Presi velocemente le due birre di Jeremy, così da lasciargli entrambe le mani libere ed entrambi ci sistemammo sui sellini della nostra fedele Grace, l’Harley Davidson disastrata. La sua vecchiaia non le concedeva mai una partenza fulminea ma l’accensione risultava sempre piuttosto lenta e trascinata, direi quasi sofferente. Chiunque ormai era in grado di riconoscerci al nostro passaggio, semplicemente grazie alla nostra Grace e il suo rombo sofferente. Non si smentì neanche questa volta, pronta a portarci lontano – non troppo – dal luogo. Jeremy alla guida ed io dietro, poggiata contro la schiena del ragazzo.


Il “solito posto” era una tenuta abbandonata appena fuori dalla cittadina, un’enorme magione circondata da porticati in legno ormai traballanti e nascosti da rampicanti. Era il nostro rifugio dal mondo, il luogo dove potevamo dar libero sfogo a noi stessi, alle nostre personalità senza la preoccupazione di pensare alle conseguenze. La tenuta era grande ma una porta marcia e traballante sul retro, ci permise da bambini di addentrarci all’interno e da quel momento capimmo l’opportunità che ci venne concessa; era una fuga dalle nostre vite che cercavamo e il silenzio insieme alla decadenza di quella casa, ce l’aveva permesso.
Abbandonammo Grace, proprio al fianco di quella porta cigolante ma rattoppata in svariati punti e impreziosita da un’enorme catenaccio che impediva l’ingresso ad ulteriori abusivi. Jeremy, velocemente liberò il passaggio dopo aver liberato il legno dalla catena. L’enorme stanza che si presentava, era semplicemente un ampio ripostiglio, presentava ancora svariate cianfrusaglie ammassate negli angoli, un luogo buio dove l’odore d’umidità era quasi opprimente, un qualcosa a cui, tuttavia, ci eravamo abituati. In tutti quegli anni non ci eravamo mai permessi di andare oltre quella sala. Non cercavamo eleganza, la sfarzosità, come neanche la comodità. Ciò che ci importava era avere un luogo nostro, dove nessuno sarebbe mai riuscito a trovarci e quella sorta di cantina, per quanto umida e lugubre, riusciva perfettamente ad accontentare le nostre esigente. L’avevamo riempita con qualche piccolo elemento: un vecchio divano appartenuto a Robert e salvato in tempo dalla discarica, due lanterne e una piccola cassa contenente qualche abito per le emergenze.

« Questi soldi dovremmo metterli da parte per comprare questa casa e non per andare via. »
« Jess, ti prego, non ricominciare con il solito discorso, ne abbiamo parlato tante volte. »
« Dico davvero, non me ne frega niente di scappare, qui stiamo bene. »
« E tu resteresti qui, in mezzo a loro, vicina a tua madre? »
« Il mondo è pieno di merda, almeno quella che è qui la conosciamo bene, partiamo avvantaggiati. »
« La colpa è di Buck, vero? »

Non si risposi, lui mi conosceva abbastanza bene da conoscere i miei pensieri e i miei ragionamenti. In silenzio mi addentrai, fermandomi per un istante davanti ad uno specchio sistemato in un angolo della sala. Adocchiai velocemente il mio volto, scrutando nell’oscurità quella chioma scura che incorniciava un viso dalla pelle chiara e tempestata da poche lentiggini. Arricciai il naso dopo aver notato malamente due belle occhiaie che andavano a conferirmi un’aria più stanca del solito. Ripresi a parlare mentre iniziai a muovermi verso il divano, seguita da Jeremy.

« Insomma, guarda Buck, è scappato dalla sua vecchia vita cercando di farsene una nuova e guarda ora in che stato si trova! »
« Buck è diverso da noi, Jess. »
« No, anche lui ha avuto una vita del cazzo, non è diverso. »
« Jess, è diverso. Buck, si è ritrovato improvvisamente a cinquant’anni con un simile dramma. Noi, il dramma lo viviamo da quando siamo nati. Lui era impreparato, noi no. »

Nuovamente non risposi, aveva nuovamente colpito nel segno seppur le sue parole non erano in grado di convincermi, non del tutto. Mi lasciai cadere contro il divano, schiena contro il bracciolo e gambe distese sui cuscini. Jeremy, si apprestò a fare lo stesso: lo accolsi su di me, la sua schiena andava a poggiare contro il mio petto e la sua testa contro la mia spalla mentre le nostre gambe andarono ad intrecciarsi, così da trovare una posizione strategica e comoda per entrambi. Gli offrii le due birre, per ritrovarmene in mano solo una, debitamente stappata da Jeremy.

« In realtà non ha molto senso il luogo, l’importante che diventi tutto normale. »
« Jess, siamo soli, buttati su un divano a rilassarci con una birra, vuoi realmente opprimere e deprimere entrambi con discorsi simili? Cazzo, basta. »

Jeremy, l’uomo perfetto per sdrammatizzare, l’uomo in grado di non lasciarsi deprimere da nulla, non ci riuscì neanche un naso rotto e tre costole incrinate. Sorrisi, compresi che quello era il momento dei silenzi e a quello mi dedicai mentre con la mia mano libera iniziai a far scorrere le dita tra la lunga e folta chioma di Jeremy. Eppure il suo volto con quel sorriso sempre accennato, se osservato bene, lasciava trasparire il suo vero animo. Anche lui provvisto di occhiaie, procurate da innumerevoli notti insonne e pensieri, quelle piccole cicatrici, regalate da una mente insana e quelle piccole rughe, sorte dalla troppa preoccupazione che in realtà lo opprimeva e che cercava di mantenere nascosta.
Era il momento del silenzio: con lui, nessun silenzio era imbarazzante, non lo era mai stato
.




NOTE DELL'AUTRICE: Inutile che lo ripeta, conoscete le premesse della storia.
Stanotte, oltretutto, se non torno esausta,
posto anche il nuovo di:
"Qui, dove tutto ha avuto inizio"
Grazie alle solite : *


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Capitolo 4
*** IV - Onora il padre e la madre. ***


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Animi inversi




« JESSICA! »

Il richiamo improvviso di Jeremy mi fece sobbalzare, un risveglio violento, fastidioso. Impiegai veramente poco a realizzare la situazione mentre osservavo il ragazzo che velocemente recuperava i suoi oggetti, infilandoli disordinatamente in una sacca. Il nostro rifugio aveva una sola regola: mai addormentarsi, mai. Guardai nervosamente l’orologio al polso e in un attimo fu il panico ad avvolgere anche me: l’una di notte, quello che non sarebbe mai dovuto accadere, era appena successo.

 « Jess, muoviti, cazzo. Muoviti! »

Il nervosismo avvolgeva l’aria, oltre a un’enorme serie di imprecazioni di Jeremy che rendevano la situazione ancora più soffocante, preoccupante. Scattai subito in piedi, il sonno era passato con un battito di ciglia, ero nuovamente sveglia e lucida, sin troppo. Recuperai la borsa, solo quella e iniziai a muovermi verso l’uscita, provvista di chiavi.

« Lascia perdere il resto, Jeremy, passo a prenderlo io. »
« No, credo di aver preso tutto. »
« Prendo io Grace, accompagno prima te. Chiudi, io intanto metto in moto. »

Mi sistemai su Grace, rigirando velocemente la chiave per mettere in moto; naturalmente si presentò la solita situazione: la vecchiaia di Grace non le permetteva di avere un’accensione fulminea. Questo dettaglio, aggiunse alle imprecazioni di Jeremy, le mie suppliche verso quel vecchio mezzo di trasporto, il quale decise di prendere vita ben cinque minuti dopo. Ci avviamo velocemente, accompagnati esclusivamente dalla notte e dal rombo fastidioso della nostra, nonostante tutto, fedele amica. Io alla guida, Jeremy alle mie spalle. Era nuovamente calato il silenzio, questa volta però non era pregno di complicità e unione, questa volta, entrambi eravamo divorati dai pensieri più disparati e angoscianti. Ero preoccupata, non per me stessa, sapevo che al mio ritorno ciò che avrei trovato sarebbe stata la pura indifferenza ma lui, probabilmente, avrebbe trovato sin troppe attenzioni. Arrivammo davanti casa di Jeremy, una deliziosa villetta provvista di un piccolo porticato al cui interno sostavano un paio di sedie a dondolo, una casa che a chiunque, vedendone la facciata, era in grado di donare un vago senso di tranquillità, una di quelle case che ci si aspetterebbe di vedere in quegli spot pubblicitari che mostrano famiglie unite e felici. Peccato che la casa di Jeremy fosse un silenzioso complice di angoscianti segreti. Carl era accomodato su una di quelle sedie a dondolo mentre con severità attendeva il ritorno del suo “figlio perfetto”, il modo in cui lui parlava di Jeremy agli altri. Entrambi riuscimmo ad avvertire lo sguardo severo e adirato di Carl. Lui, con quelle sopracciglia folte e aggrottate, continuava a dondolare, ancora vestito con la sua divisa e la sua bella spilletta che lo identificava come agente.

« Cazzo, è ancora lì. »
« Jeremy, vieni da me, non mi va di lasciarti qui. »
« Sono sopravvissuto venticinque anni e poi, ciò che non ti uccide ti fortifica, no? »
« Merda, Jer, ti odio. Te e il tuo macabro umorismo. »

Non rispose, salutandomi solo con un avventato e premuto bacio sulla fronte mentre mi tratteneva il capo con la sua mano destra e le sue dita forti immerse nella mia chioma nera. Quel gesto, svelò in tutto e per tutto ciò che Jeremy cercava di nascondere, la sua paura, la sua preoccupazione per suo madre, quel semplice gesto era stato in grado di trasmettermi quel miscuglio  prepotente di emozioni che provava. Non attesi il suo ingresso e dieci minuti dopo ero davanti la porta di casa. La mia, simile strutturalmente a quella di Jeremy, osservandola bene trasmetteva sensazioni totalmente diverse. Il tempo l’aveva logorata, divorando le assi in legno del portico, piante secche adornava quel dondolo a due posti, fermo da anni. Quella casa era triste e non nascondeva alcun segreto, al contrario, urlava la situazione che al suo interno si celava. Lo scatto della serratura era bastato per attirare l’attenzione della presenza all’interno, o meglio mia madre.

« Renditi utile in questa tua vita e portami da bere. »
« Ed io che ero pronta ad un tuo rimprovero per essere rientrata tardi. »

Era uno dei soliti bentornati: renditi utile, portami da bere, datti da fare, sei inutile, e potrei continuare all’infinito con la lista. Ormai ero talmente abituata alla questione che ogni volta mi scivolava addosso senza procurarmi il minimo effetto. Questa volta, però, si presento un inconveniente: a quanto pare mia madre era piuttosto lucida, perché mi rispose.

« Non mi è mai interessato nulla di te. Perché dovrei farlo ora che hai venticinque anni? Dovrei preoccuparmi di un eventuale ragazzino che ti sfila le mutande in un vicolo? »

Chiusi la porta alle mie spalle, ad accogliermi, oltre il bel discorso, c’era il caos totale. Quella donna, in una sola giornata, era stata in grado di disseminare il salone con ogni genere possibile di immondizia: bottiglie vuote, piatti sporchi, bicchieri ovunque, per non parlare di una sfilza di abiti ammassati sul pavimento. Lei era lì, al suo solito posto, sistemata su ciò che amava di più nella sua vita subito dopo l’alcool: il divano. Una camicia da notte sgualcita e macchiata, nascondeva il suo corpo magro e decadente. Le donai le spalle per dirigermi verso il frigo, il mio unico scopo era accontentarla per rintanarmi subito nella mia stanza, feci solo un enorme sbaglio: risponderle.

« Vedo che ti ricordi ancora la mia età ma hai ragione, mamma. »
« TU. Lo sai che non devi chiamarmi in QUEL MODO! »

Sobbalzai, non per colpa del suo urlo o del significato delle sue parole, a quello ero abituata, ma a causa di una bottiglia di whisky che mia madre si preoccupò di scagliarmi addosso con una certa violenza. Un lancio che si concluse non contro di me ma a circa venti centimetri di distanza, contro la parete; una distanza sufficiente per ritrovarmi lì, immobile e pietrificata, con una scheggia di vetro particolarmente spesso, impiantata nella carne, appena sopra il gomito del mio braccio destro.

« Sappi solo una cosa: non sei migliore di quell’uomo. »

Non aggiunsi altro, le donai solo quella risposta prima di abbandonare quella casa per addentrarmi nuovamente nella notte: un posto tetro, pericoloso ma sicuramente più sano per la mia salute mentale. Avevo anche scordato improvvisamente il dolore, il vetro, il sangue, l’unica cosa che mi importava era allontanarmi da quel luogo e anche in fretta. La rabbia fu tale da non ragionare attentamente su quella decisione avventata, ma mi ritrovai presto a prendere coscienza della cosa: seguivo la strada, lasciandomi trasportare da Grace, con un braccio sporco di sangue e la mancanza di un posto da raggiungere. Chiamare Jeremy era inconcepibile, fermarmi da un vicino avrebbe dato ulteriore soddisfazione alla chiacchiera cittadina e la tenuta non era fattibile, Jeremy aveva con lui la chiave del lucchetto. Optai per la scelta meno scomoda: il Paradise Circus.
Sperare che Robert non fosse già andato via, era l’unica cosa che in quel momento riuscii a fare e a quanto pare le mie preghiere furono accontentate: la presenza dell’uomo all’interno traspariva grazie a quella debole luce che filtrava attraverso le serrande chiuse.
Parcheggiai Grace proprio vicino l’ingresso e lì, proprio mentre mi apprestai a bussare con violenza, sentii ogni forza abbandonarmi. La coscienza di aver trovato un posto e qualcuno a cui affidarmi, fece crollare la mia sicurezza, ritrovandomi presto sommersa non solo dal pungente dolore al braccio ma anche con un prepotente flusso di emozioni che andavano mescolandosi, manifestandosi presto in un pianto incontrollato. Robert, trovandosi quella scena davanti, non riuscì a fare a meno di accogliermi subito all’interno.

« Merda. »

L’unica parola che lui riuscì a dire mentre mi trascinava all’interno del locale, verso il suo ufficio, dove una volta raggiunto si preoccupò di versare velocemente del Whisky in un bicchiere. Era palese il suo nervosismo, dato che si scolò non uno ma ben due bicchieri di quel liquido con due semplici sorsi che lo costrinsero a tossire data la voracità del gesto. Alternava lo sguardo tra me e il mio braccio ormai coperto di sangue mentre cercava di mettere un chiaro ordine alle idee; idee che prestò espose mentre riempiva nuovamente il bicchiere di Whisky.

« Bene, tu ora resti qui a bere questo, ti calmerà un po’. Io mi preoccuperò di levarti quella roba dal braccio. Quando ti sarai calmata mi dirai cosa diavolo è successo. »

Il tono di Robert era calmo, troppo calmo, era palese che stesse fingendo, un comportamento attuato solo per creare una maschera fasulla, con il chiaro e lampante scopo di tranquillizzare me.

« Rob, promettimi che non lo dirai a Jeremy. »
« Oh no, io non dirò proprio un bel niente a Jeremy, perché lo farai tu. »
« No. Non posso farlo. »
« Jessica, sappiamo tutti perché lui vive quell’inferno e quando capirai che il tuo chiedergli aiuto, potrebbe essere anche la sua salvezza, sarà troppo tardi. »
« Ti ho detto che non posso farlo. »

La voce sicura di Robert contrasta con la mia, simile più ad un biascicare tremolante, interrotto da quel pianto che man mano diveniva più controllato, più lento, sino a presentarsi con dei semplici singhiozzi. Non dissi altro e lui fece altrettanto, troppo impegnato nel cercare di estrarre quel frammento di vetro dal mio braccio ed io, troppo impegnata a soffocare il dolore in quel whisky.





NOTE DELL'AUTRICE: Come al solito, scritto di getto, quindi
se vedete qualcosa di "storto", ditemelo.
Sto andando veloce, lo so, non odiatemi.
Bacini.


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Capitolo 5
*** V - Il Potere dell'Alcool ***


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Animi inversi




Un bicchiere di whisky e poche gocce di sonnifero bastarono per farmi crollare sul divano in pelle di Robert. Mi svegliai la mattina dopo, in una pozza di sudore; il risveglio, portato da un lieve fitta di dolore all’altezza del taglio era accompagnato da un opprimente mal di testa: il pianto, il whisky e il sonnifero mi portarono un effetto simile ad un pesante post bronza.

« Diavolo. »

Mi alzai, trascinandomi con passo lento e pesante verso il piccolo specchietto poggiato contro la porta; la visione del mio stesso volto, pallido e con occhi arrossati e adornati da occhiaie violacee, impiegarono poco per lasciarmi scorrere alla mente la notte passata. Distolsi lo sguardo dalla mia immagine riflessa e iniziai a muovermi verso il bagno. Potevo sentire la voce di Robert e quella di Michael, il vecchio cuoco, provenire dalla cucina; non era mia intenzione attirare i loro sguardi su di me, così iniziai a rallentare il passo e muovermi con più cautela, cercando di emettere il meno rumore possibile. In bagno non riuscì a far molto per quel volto stanco, se non donargli una veloce rinfrescata e così mi dedicai con maggiore attenzione al cambio di quelle bende ormai macchiate di sangue. Il taglio si estendeva verticalmente per circa dieci centimetri e dato i piccoli punti che lo mantenevano chiuso, compresi che Robert durante la notte aveva chiamato il vecchio Johnson. Il suono del campanello legato alla porta d’ingresso del locale, mi fece riprendere contatto con la realtà, tanto da condurre lo sguardo verso l’orologio: le nove.

Avvolsi la ferita con bene pulite, recuperai le vecchie e velocemente abbandonai la piccola stanzetta. Feci una rapida sosta nel magazzino, solo per liberarmi dei rifiuti e raccolsi una delle camicie in jeans di Robert. Era larga, sin troppo ma il come sarei apparsa in questo senso, non mi interessava, la cosa importante erano nascondere quelle strisce bianche che mi avvolgevano il braccio.

« Dov’è Jess? »

La voce era inconfondibile, Buck con la sua straordinaria puntualità, era già pronto alla sua colazione fatta esclusivamente di birre. Non lo lasciai attendere un solo istante di più e una volta giunta nella sala, lo trovai lì mentre era in attesa di una risposta da parte di Robert.

« Sono qui. »

Fu complicato gestire il tono della mia voce, la stanchezza e un vago senso di apatia trapelavano con una particolare intensità. Attirai l’attenzione di entrambi gli uomini ma solo il volto di Robert attirò il mio sguardo. Osservarlo era come vedere il mio viso, anche lui era schiacciato dalla stanchezza, lui totalmente reduce di una notte insonne. Abbozzai un sorriso, palesemente finto e sforzato, nella speranza di distogliere quei due sguardi indagatori ma naturalmente non ci riuscii. La nota positiva è che nessuno dei due osò fare riferimento al mio stato o lasciarsi andare a domande.

« Buck, da oggi c’è una novità… e Robert, grazie, me ne occupo io. »
« Trattami bene il vecchio Buck. »

Non aggiunse altro, solo un’occhiata a Buck particolarmente comunicativa. Buck se ne stava seduto in silenzio, già accomodato sul suo prezioso sgabello; mi osservava o meglio affermare che mi studiava, con occhiate lente e piuttosto attente, critiche. La sua espressione lasciava trapelare un vago senso di disappunto che si mescolava a una strana e ben più intensa preoccupazione. Era sul punto di smuovere le labbra e prendere parola ma lo precedetti.

« Oggi è un grande giorno, Buck. »
« Con la faccia che ti ritrovi questa mattina, Jèjè, non mi dai molta sicurezza. »
« Infatti io non parlo di me, io parlo di te. »
« Invece dovremmo parlare di te e sul perché te ne vai in giro con quell’orrenda giacca di Robert. »
« Sono seria, Buck. »

Jèjè era un affettuoso nomignolo affibbiatomi da Buck, lo utilizzava soprattutto per destare il mio lato dolce, un modo efficace per convincermi sempre a offrirgli una birra in più. Lui mi ricordava inevitabilmente mia madre: entrambi avevano conosciuto il dolore ed entrambi si erano fatti consolare dall’alcool. C’era, però, una grande differenza tra di loro: mia madre era il mio carnefice, colei che era perennemente pronta a farmi pagare i peccati di un uomo mai conosciuto; Buck, invece, era il genitore mai avuto, l’uomo adulto, da ascoltare con i suoi momenti felici e quelli dolorosi, l’uomo con le sue glorie e i suoi successi, con i suoi fallimenti e i suoi sbagli. E lui era sempre pronto a rivelarmi cosa nascondeva il suo animo. Lui, era sempre pronto ad ascoltare me.
Mi posizionai dietro il bancone, recuperando velocemente una tazza ed una caraffa ricolma di caffè bollente. Non donai subito una spiegazione, concludendo prima quella semplice operazione, ovvero offrire a Buck una tazza di caffè caldo.

« Jèjè, lo sai che preferisco qualcosa di ghiacciato. »
« Ecco, hai colto la questione. »
« Non ti seguo, Jessica. »
« Oggi è un gran giorno perché smetterai di bere. »
« Si. E magari Robert si innamorerà di quell’arpia grassa, la Parker. »
« Buck, non sto scherzando. »
« Neanche io scherzo, quindi dammi il solito. »
« Non ho intenzione di continuare ad imbottirti con quel veleno, quindi le condizioni sono due: o ti bevi questo stramaledetto caffè o ti alzi e te ne vai. »
« Se è questo che comporta, la prossima volta non addormentatevi. »

In quell’esatto momento, in Buck, non riuscivo a vedere altro che il lato peggiore di mia madre, c’era solo una differenza: in lui vedevo anche uno spiraglio di luce, in mia madre l’oscurità di un profondo abisso. Arrivai ad una conclusione semplice, ovvero: se non potevo salvare mia madre, avrei salvato lui. La sua reazione, tuttavia, fu quella che ogni persona realista si sarebbe aspettata, la mia ingenuità invece trovò il perfetto rifiuto da parte di Buck che in silenzio si alzò dal suo sgabello e si allontanò. Il suo saluto arrivò nei panni di una lunga occhiata depressa e ricolma del dolore più puro e fu tramite quell’occhiata che compresi che il mio atteggiamento lo aveva portato a rivivere ciò che più di ogni altra cosa voleva dimenticare: lui e la sua incapacità di intraprendere una vita normale senza le persone che amava. Ancora una volta il potere dell'alcool aveva prevalso, ancora una volta aveva sconfitto me. Il suo sguardo e il suo rifiuto, erano riusciti a farmi sentire in preda ad un atroce senso di colpa, una sensazione che scivolò presto via, quando l’ultima frase di Buck, mi risuonò in mente: “…la prossima volta non addormentatevi”. Come diavolo faceva a sapere? Ma soprattutto, dov’era finito Jeremy?






NOTA DELL'AUTRICE: Non faccio le solite premesse, lo sapete v.v
Se vedete qualcosa di strano, fischiate.
Un grazie enorme a chi segue la storia e
a quelle poche ma buone che sostengono me
e ogni giorno mi invogliano a far di più.
Un abbraccio.


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Capitolo 6
*** VI - Lo straniero ***


Documento senza titolo





Animi inversi




Rimasi immobile, sola e con lo sguardo fisso su quella tazza di caffè, rifiutata pochi istanti prima da Buck. Ogni cosa intorno a me era improvvisamente scomparsa;  la mia mente era attanagliata da due soli elementi: Jeremy e su come Buck facesse a sapere. Non riuscivo a trovare una soluzione coerente e logica per spiegare quelle poche parole concesse dall’uomo. Nessuno conosceva il nostro rifugio e di conseguenza, il resto non poteva neanche essere immaginato dagli altri. Tuttavia mi soffermai a pensare sul suo tono, non risultava come una minaccia ma solo come un onesto consiglio. Una cosa era certa, lui conosceva il nostro nascondiglio e questa consapevolezza mi portò ad un’ulteriore riflessione: quanti altri sapevano?

«Quel caffè è davvero così invitante? »

Una voce mise fine a quel fiume di pensieri, riportandomi inevitabilmente alla realtà. Constatai di non essere sola in quella sala, ritrovando insieme a me, seduto ad uno dei tavoli più distanti, la fonte di quella voce: un ragazzo. Non dimostrava più della mia età, possessore di uno sguardo magnetico, donato da occhi chiarissimi, messi in risalto da una chioma scura. Un volto nuovo, mai visto e dato che in quella città era piuttosto raro incrociare facce nuove, mi accorsi ben presto che le mie occhiate su di lui divennero particolarmente insistenti.

« E’ un nuovo modo per ordinare del caffè? »
« No. E’ solo un modo per attirare la tua attenzione e ordinare la mia colazione. Non siete molto efficienti, vero? E’ da venti minuti che attendo di essere servito. »
« Non posso accontentare chi se ne sta seduto in silenzio in un angolo, semi nascosto. »
« Beh, questione risolta, no? Ho attirato la tua attenzione, quindi che aspetti? Ti risparmio anche l’atroce agonia di consigliarmi qualcosa, ho già scelto… ho avuto abbastanza tempo per farlo.»
« Dovrà rinfacciarmi la questione sino alla fine del servizio? »
« Vogliamo veramente metterci a discutere di questo? Io ho dei pregi che probabilmente in questa piccola ed infelice cittadina, vi riesce probabilmente difficile trovare: dico sempre quello che penso e smetto di ribadirlo quando trovo disponibilità e cortesia. Ma non siamo qui per fare conoscenza, io vorrei solo mangiare ma forse sei abituata ad approcciarti solo ad individui che conosci. Ricominciamo. Mi è sembrato di sentire che ti chiami Jessica, bene Jessica, io sono Logan e potrei avere finalmente le mie uova e bacon? Per il caffè, tranquilla, recupero io stesso quella tazza ancora linda e non toccata dal tuo amico. »

Mi trovai spiazzata, schiacciata dal discorso effettuato da quel giovane dall’aspetto curato e ricercato; non risposi, limitandomi ad osservarlo mentre lui già si muoveva verso il bancone per recuperare quella tazza di caffè. Il suo abbigliamento combaciava egregiamente con i suoi modi sicuri: un completo scuro, unito da una camicia bianca e lasciata un po’ aperta sul petto, oltre ad un paio di scarpe eleganti e prive anche di una sola macchia. Me lo ritrovai immediatamente davanti, con la sua mano che già avvolgeva quella tazza ricolma di caffè; la vicinanza mi permise di studiare al meglio quel volto giovane e dalla carnagione chiara, ricoperta di pochissime lentiggini.

« Spero che la cucina non sia lenta quanto il servizio in sala. »
« Spero che tutta questa fretta non la porterà a mangiare velocemente, rischierebbe di strozzarsi. »
« Touché. »

Un vago senso di sfida era palpabile nell’aria ma la mia mente era già particolarmente stanca per assecondare quel gioco imposto da un signorino altezzoso. Lo accontentai senza replicare, rifugiandomi in cucina dove Michael si preoccupò immediatamente di preparare quanto richiesto. La notte mi aveva provata considerevolmente e la giornata era iniziata male, tutto questo contribuì nel ritrovarmi l’umore sotto i piedi, sentendomi improvvisamente inerme e impotente. Me ne restai chiusa in cucina per tutto il tempo, immersa tra gli odori e i rumori, in compagnia di Michael e degli sguardi di Robert.

« Mangia. »

Mi ritrovai con un piatto in mano ricolmo di frittelle immerse nella panna e crema di cioccolato, era il modo di Michael per starti vicino quando sospettava qualcosa di strano; lui, l’uomo che credeva che un buon piatto potesse far svanire qualsiasi brutto pensiero. Un uomo di colore e sulla sessantina, magrissimo e alto, una barba così bianca da far risaltare maggiormente quella pelle scura. Lui, silenzioso e chiuso, era proprio come noi, solo. Ciò che lo distingueva era la sua felicità, ogni giorno ringraziava Dio tramite vecchi canti spiritual, ogni giorno era entusiasta per poter trascorrere la sua esistenza su questa terra, ogni giorno ci ripeteva che la vita era un dono e che noi eravamo fortunati ad affrontarla, seppur pregna di dolore e difficoltà. Era stato ribattezzato da Jeremy ,“Daddy” e ad esser sinceri, nessun altro nomignolo sarebbe stato più azzeccato per Michael: lui era un padre per tutti noi, anche per Robert.

« Suppongo che far qualsiasi resistenza, sia inutile, vero? »
« Mh, mh.»
« Jessica, devi sempre farti pregare? »

Robert, abbandonò il suo silenzio, intromettendosi nella questione mentre con uno sguardo severo, indicava il piatto di frittelle che trattenevo tra le mani.

« Sai Rob, dovresti cercare di somigliare un po’ di più a Michael. »
« Da Michael dovrei solo farmi prestare un po’ di pazienza per sopportare ognuno di voi. »
« Quella servirebbe a tutti. A proposito di pazienza, chi è il signorino in sala? »
« L’unica cosa che so, è che oggi la Parker si concentrerà su quella carne giovane e nuova. »
« Comunque, indipendentemente da chi sia, mi spieghi perché, porca troia, non l’hai servito appena entrato?»
« Jessica, il linguaggio. »

Questa volta il discorso fu interrotto da Michael e dalla sua inesistente sopportazione verso un determinato linguaggio. Robert, riprese velocemente la conversazione; il suo sguardo non era per me, troppo indaffarato nel riporre i vari alimenti nei giusti contenitori.

« Guarda che è stato lui a mandarmi indietro, troppo impegnato a leggere il giornale o così ha detto.»
« Bene. Siamo al completo, ci mancava lo psicopatico. »

Ogni mio movimento, ogni mia frase, ogni cosa di me era in grado di trasmettere un certo senso di stanchezza, anche il modo con cui iniziai a mangiare quelle frittelle: piccoli bocconi masticati con inerzia; un cibo ingurgitato per soddisfare i due uomini e non la mia fame inesistente. Era proprio quella stanchezza, quel mal di testa e il pungente dolore al braccio che con forza mi riportavano il pensiero alla notte trascorsa e a ciò che ora sarebbe accaduto. Una cosa era certa: avrei preferito andare a dormire sotto un ponte invece di ritornare a casa, da lei.
Fu lo sbattere improvviso della porta posteriore della cucina a riportarmi alla realtà. Il mio sguardo chiaro, proprio come quello di ogni altro, era ora calamitato sulla figura di Jeremy e dal suo ingresso improvviso. Il suo respiro era veloce, affannato, probabilmente reduce di una corsa feroce; il suo volto era oppresso da un’evidente stanchezza marcata da due occhiaie violacee, identiche alle mie e a quelle di Robert.  Ma Jeremy aveva qualcosa in più di noi:  un livido che si accennava proprio sul limite dell’orbicolare dell’occhio destro sino ad estendersi e raggiungere la tempia, una macchia violacea che risaltava su quella carnagione.

« Mi è valsa una corsa frenetica, una caduta idiota ma credo di essere in orario… Sono in orario, vero?»
« Sei in ritardo di mezzora. »
« Sempre meglio di due ore, eh Rob? »

Lasciai a Robert la parola, ero troppo impegnata ad osservare quel livido impresso sul viso di Jeremy; sapevamo tutti che qualcosa di simile non sarebbe potuto mostrarsi nell’arco di dieci minuti, non in quel modo. Ognuno di noi sapeva e lo sforzo nel provare ad intavolare un qualsiasi tipo di conversazione, rendeva lampante il fatto che la storia dietro quell’ematoma non era poi un grande mistero. La stessa leggerezza di Jeremy faceva comprendere che qualcosa non era andato per il verso giusto, era una leggerezza sforzata, ricreata e priva della sua solita spontaneità.

« Cazzo, Jè, hai una faccia…»
« Te invece hai messo nel modo sbagliato l’ombretto, Jer?»
« Ah, siamo anche di cattivo umore. »
« Notte insonne, nulla di preoccupante. »

Un colpo di tosse da parte di Robert, particolarmente finto, riuscì ad interrompere quel piccolo scambio di battute tra me e Jeremy. Sapevo dove Robert voleva andare a parare ma era mia intenzione non cadere in quelle piccole provocazioni: un modo per non destare sospetti in Jeremy.

« Comunque, Michael ha preparato troppe frittelle. Io credo di essere piena. »
« Panna e crema di cioccolato: posso fare questo sforzo. »

Abbandonai il piatto nella mano di Jeremy e chiusi gli occhi nel momento esatto in cui le labbra di lui andarono a posarsi contro la mia fronte e le sue dita ad immergersi nella mia chioma. Era solito salutarmi così, un gesto semplice ma in grado di trasmettermi non solo il suo amore ma anche ogni emozione che lui provava. Quel bacio, in fin dei conti era uno specchio che rifletteva fedelmente il suo stato d’animo.
Lasciai la cucina, attirata dal suono del campanello legato alla porta d’ingresso principale; impiegai realmente poco a riconoscere la nuova cliente, grazie a quella voce sottile e opprimente. Ero pronta ad offrire il mio saluto alla Parker ma una volta raggiunta la sala, una deliziosa scenetta tra la donna e il ragazzo sconosciuto, riuscì ad ammutolirmi:

« Oh, un bel giovanotto mai visto prima. Cosa la porta a Longville? »
« Probabilmente una strada e un mezzo di trasporto, non trova? »
« Mi piacciono i giovanotti con uno spiccato senso dell’umorismo, è così raro trovarli oggi. Mi accomodo vicino a lei, credo che le mie conoscenze su questa città possano rivelarsi piuttosto utili per i suoi affari o qualunque sia il motivo per cui è venuto in questa deliziosa e tranquilla cittadina. »
« Signora, le parlo con tutta la sincerità di questo mondo: lei, la sua invadenza e soprattutto l’accozzaglia sconnessa di colori sgargianti di cui è provvisto il suo abbigliamento, mi creda, mi han già fatto conoscere sin troppe cose per oggi. Detto questo, è bene che i miei occhi non siano costretti a tale tortura ed è bene che lei eviti la mia personalità sin troppo sincera, non vogliamo mica che lei prenda coscienza della realtà, no? »

Quella scena, presentatami davanti agli occhi, era bastata per migliorare considerevolmente la mia giornata, oltre a creare un vago senso di adorazione nei confronti di quel ragazzo spocchioso e dallo sguardo di ghiaccio. Solo una nota negativa stava per giungere: quello scambio di battute avrebbe reso la Parker di cattivissimo umore.






NOTA DELL'AUTRICE: C'è qualche errorino ma lo sapete che io per individuarli bene
devo leggermi il capitolo minimo 3489384 volte.
Quindi se vedete qualcosa, ditelo :*
Come sempre grazie a chi mi sostiene,
e grazie a coloro che seguono la storia.
Ammetto che ogni tanto è difficile,
la voglia passa, non ci si sente all'altezza ma
è proprio grazie a voi cheogni volta trovo lo sprono giusto <3

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Capitolo 7
*** VII - Sfogo ***


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Animi inversi




« E tu! Smettila di osservarmi con quell’espressione soddisfatta! »
« Le pare il caso di sfogarsi su una ragazza che sta facendo solo il suo lavoro? La sua reazione, signora, la sta facendo diventare particolarmente triste… anche se devo ammettere che questa tristezza, in contrasto con quell’accozzaglia di colori, rendono il tutto particolarmente, mh, singolare e divertente. »
« Visto, Jessica? Hai fatto colpo. Stai attenta però, sia mai che il giovanotto ti entri tra le gambe senza il tuo permesso, proprio come è successo a tua madre. »

Bastarono quelle poche parole per farmi ribollire il sangue nelle vene. Il mio cervello aveva improvvisamente smesso di ragionare dato che priva di controllo già mi muovevo verso quella donna bionda e grassa. Un movimento particolarmente lento, in grado di apparire una minaccia per la Parker che inevitabilmente si ritrovò ad indietreggiare. Il mio passo venne bruscamente bloccato da un braccio intorno alla vita, una presa alle spalle, invadente e forte. Sapevo che quel braccio apparteneva a Jeremy, il suo profumo era inconfondibile. Iniziò a trascinarmi indietro con un movimento lento e delicato mentre all’orecchio mi sussurrava ripetutamente: “Non darle questa soddisfazione”.

« Una vittima non si può accusare, Signora ed è per questo che trovo particolarmente meschine le sue parole nei confronti di questa ragazza. Il cercare di ferire qualcuno, facendo leva su eventi incontrollabili, sono sintomo di un animo debole e più simile ad un verme che ad un essere umano. »

Le parole di Logan era riuscite ad immobilizzarmi, a gelare non solo me ma anche Jeremy alle mie spalle. Vidi nella vecchia Parker il più puro senso di sconfitta, accompagnato alla più atroce vergogna. La sua incredulità le concesse di fare solamente una cosa: abbandonare velocemente il locale, lasciando di lei solo una porta chiusa con troppo fervore.

« E questo chi diavolo è? »

Riuscii a sentire nitidamente quel flebile sussurro di Jeremy, al quale replicai solo con una debolissima stretta di spalle, non ero in grado di donargli di più. I nostri sguardi scivolarono velocemente sulla figura di Logan, il quale con aria soddisfatta, sistemava con particolare cura quella giacca scura, cercando di distendere ogni piega di quel tessuto. Ci volle solo un attimo prima che lui riprendesse parola, proprio nei miei confronti.

« Sei in debito con me Jessica: dato che mi hai fatto mancare un pasto, domani sera verrai a cena con me. »
« Non credo che Jessica accetterà il tuo invito, ha già altri programmi per domani. »
« Paura della concorrenza? Se è così non c’è motivo di cui preoccuparsi… forse. In ogni caso, preferirei una risposta da lei, ho già avuto modo di constatare il fatto che sia provvista di lingua, quindi: domani sera alle nove e trenta. Ah, Jessica, fatti carina perché la tua faccia stanca è piuttosto deprimente. »
 
Poche parole da parte di Logan erano bastate per risvegliare la gelosia e una straordinaria aggressività in Jeremy. Quest’ultimo abbandonò la sua posizione per compiere un piccolo scatto e superarmi velocemente, un movimento che venne bloccato dalla mia mano che andò a serrarsi proprio intorno al polso tatuato del ragazzo. Quella scena bastò per determinare l’uscita di Logan dal locale e un suo saluto donato esclusivamente da uno sguardo compiaciuto e divertito.

« Non avrai realmente intenzione di andare a cena con quello spocchioso, vero? »
« Ti sembro forse il tipo? »
« Sappi solo che se hai intenzione di andare, gradirei saperlo subito. »
« Mi spieghi ora perché ti stai comportando in questo modo, nei miei confronti? »
« Semplicemente quel tipo non mi piace. »
« E quindi ti pare giusto sfogare il tutto su di me? »
« Non mi sto sfogando su di te, sto solo cercando di capire. »
« Ma mi spieghi cosa cazzo c’è da capire? »
« Solo cosa intendi fare con questa storia! »
« Sai Jeremy, forse per una buona volta dovresti essere tu a capire cosa fare con tutto questo! »

In un attimo mi ero ritrovata a subire ciò che più odiavo: un Jeremy infastidito e geloso. Quello scambio di battute riuscì a farmi esplodere in un ennesimo pianto furioso che trovò il totale sfogo una volta raggiunto velocemente lo studio di Robert, nel quale mi chiusi all’interno. Io e Jeremy avevamo un solo ed identico difetto: l’incapacità di dare una precisa definizione al nostro rapporto. Entrambi lo sapevamo, io non sarei mai riuscita a vivere senza di lui e lui senza di me. Ci amavamo, era lampante per tutti ed era lampante per noi . Ma esprimerlo, dare una chiara definizione di ciò che provavamo sembrava essere impossibile. La verità è che seppur entrambi cercassimo l’amore, al contempo lo temevamo: una piccola eredità lasciataci probabilmente dai nostri genitori.

Ma le cose improvvisamente stavano cambiando, mi ritrovai per l’ennesima volta a pensare alla notte passata, alla minuscola discussione con Jeremy, a tutta la mia breve vita e compresi che ciò che desideravo era solo la stabilità di una vita normale, di un rapporto normale.






NOTA DELL'AUTRICE: Capitolo breve, ho fatto un po' di fatica con questo capitolo.
Ero davanti ad un bivio e propendere per una scelta o l'altra avrebbe dato
un'impronta totalmente differente alla storia. Ma alla fine ce semo riusciti.
C'è qualche errorino sicuramente, l'ho letto solo una volta e dato
che i miei stessi errori non riesco ad adocchiarli subito,
lo rileggerò tra un paio di giorno e___e
Detto questo, un grande grazie a coloro che fedelmente mi seguono
e a tutte coloro che invece mi sopportano giornalmente.

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Capitolo 8
*** VIII - Io: il tuo rifugio ***


Documento senza titolo





Animi inversi




Ero nuovamente seduta contro quel divano, il tessuto in pelle aderiva fastidiosamente alle parti scoperte del mio corpo. Le voci di Robert e Jeremy che provenivano dall’esterno erano inconfondibili, come era inconfondibile Robert e le sue critiche nei riguardi dell’altro.  Quel chiasso era contrastato dal mio stesso respiro, unico rumore presente nella stanza; un respiro lento e profondo, sforzato per ritrovare la calma e mettere fine a quel pianto. Ero abituata a tutto questo, a ogni aspetto della mia esistenza e ogni suo evento spiacevole ma ora una cosa era sicura: l’unione degli eventi era il mio limite.
Jeremy, con alle sue spalle ancora la voce di Robert, si preoccupò di fare un ingresso particolarmente violento, merito della porta sbattuta contro la parete.

« Alzati, andiamo a fare un giro. »

Nonostante il suo ingresso turbolento e la sua agitazione, la voce del ragazzo era avvolta da una particolare calma, proprio come la sua espressione. Ero ancora preda di quei respiri profondi e di quelle lacrime che incontrollate ancora scendevano, tagliando le mie guance e per questo riuscii a rispondere solo con un cenno negativo del capo.

« Ti ho detto alzati, andiamo al lago. »
« Ed io ti ho detto di no. Mi spiegate perché nessuno di voi riesce a lasciarmi in pace? »

Fu solo un attimo e mi ritrovai praticamente sollevate da Jeremy, come un sacco ero stata caricata sulla sua spalla. Le mie gambe ciondolavano contro il petto del ragazzo mentre la mia faccia era ad un filo dalla sua schiena. Naturalmente non gli resi la cosa facile, condendo tutto con calci e schiaffi, oltre un numero considerevole di insulti: tutto egregiamente ignorato da Jeremy, il quale era concentrato solo sui propri movimenti.
Mi ritrovai presto trasportata lungo il corridoio del locale, sotto gli sguardi di Robert e Michael, ormai arresi alla situazione e a Jeremy. Ma le loro figure divennero presto lontane, come lo stesso corridoio e poi lo stesso locale. Osservavo il pub mentre mi arresi anche io a Jeremy, lasciandomi trasportare proprio come un sacco smorto; a condire quella particolare passeggiata c’era solo il mio respiro e quello affannato del ragazzo, costretto a trasportare il mio peso.
Credo che quei dieci minuti furono i più lunghi della mia esistenza: per la prima volta il silenzio tra me e Jeremy non era complice, era pura tensione.
Venni abbandonata contro le assi marce e cigolanti del vecchio molo, una zona ormai frequentata solo da me e Jeremy, proprio a causa di quella struttura traballante. Ero immobile, ferma come proprio lui mi aveva lasciata: seduta contro quelle assi umide. Sentivo il suo sguardo proprio contro di me, sguardo che non riuscii a ricambiare come non fui capace di dire una sola parola: ero immobile a fissare l’acqua del lago.

« Non sei la solita tipa che per una stupidaggine scoppia a piangere, mi dici che succede? »

Silenzio. Era solo quello che riuscivo ad offrirgli in quel momento: un silenzio pregno di segreti innominabili, pensieri e domande da non porgere. In fin dei conti lo sapeva anche lui, lo percepiva e presto ad unirsi al mio silenzio ci fu anche il suo. La sua presenza bastava per farmi avvertire tutte le incognite che scorrevano nella mente di Jeremy. Non era sua prerogativa arrendersi, così si sedette al mio fianco, talmente vicino da riuscire ad avvertire i suoi jeans che toccavano i miei ma non bastò neanche quel tocco per distogliere il mio sguardo dall’acqua immobile del lago.

« Se è così che vogliamo passare la giornata, sappi che non mi preoccupa, Jessica. »
« E’ così complicato rimanere da soli in questo schifo di città? »
« Vuoi davvero cacciarmi via? Metà del problema l’ho capito, sto solo cercando di capire pazientemente l’altra metà. »
« Jeremy, dammi la chiave del rifugio. »
« Solo se mi dici il problema. »
« Ti ho detto di darmi la chiave del rifugio. Cazzo. »

Allungai leggermente la mano sinistra con il palmo rivolto verso l’alto: un gesto pretenzioso che attendeva di accogliere quella semplice chiave. Il mio sguardo era ancora altrove, sapevo che guardare lui sarebbe significato cedere alla sua richiesta ma in quel momento era l’ultima cosa che desideravo. Non giunse la chiave ma ciò che colpì il palmo fu un tocco morbido e premuto, donato dalle labbra di Jeremy. Un bacio, seguito da un debole sussurro, rilasciato contro la pelle della mia mano, così vicino da riuscire a sentire il respiro caldo del ragazzo impattare contro la carne.

« Una volta eravamo l’uno il rifugio dell’altro. »

Quelle parole erano così vere da riuscire a spiazzarmi. Lui era ancora il mio rifugio ed io ero ancora il suo, con l’aggravante che lui era per me anche la cosa più preziosa della mia insulsa esistenza. Scossi leggermente il capo e accennai un debole sorriso, rifugiando presto il mio volto sotto il mento dell’altro.

« Guarda che non è cambiato nulla, ho bisogno solo di una pausa, Jeremy. »
« In tal caso, prendi le chiavi e vai. Io ti raggiungerò questa sera. »

Niente altro: al posto del suo bacio mi ritrovai presto ad impugnare le chiavi richieste. Lo abbandonai lì, al lago, incamminandomi con calma verso la vecchia e trasandata magione. Evitai la città senza pensarci due volte, preferendo percorrere il sentiero in periferia che spaccava la zona boschiva. Quella lunga passeggiata mi permise di fare ordine ai miei pensieri, di ripensare a mia madre e alla decisione che mai più sarei tornata a mettere piede in quella casa; pensai agli eventi della giornata, arrivando a reputarmi una stupida: non era da me reagire in quel modo, non era da me scoppiare a piangere così facilmente e fuggire senza neanche aver provato a comprendere o chiarire. Arrivai al rifugio con una chiara e limpida decisione: parlare a Jeremy non appena mi avesse raggiunta; non erano ben chiare le parole che avrei usato ma questo al momento non contava, ciò che desideravo fare era solo riposarmi.

Il rifugio mi accolse con la sua complice oscurità e l’ adorabile silenzio. Non mi preoccupai neanche di accendere una delle piccole lampade, il buio era quello che i miei occhi bramavano, oltre a quel malandato divano sul quale mi lasciai presto cadere. Un profondo sospiro determinava ora la sensazione che riuscivo a provare in quell’istante: pace. Sarei rimasta lì per sempre, nascosta in quella sorta di cantina maleodorante e spoglia, ero cosciente che quel poco mi sarebbe bastato per essere felice, per sempre.
Fu un rumore di passi a lasciar scivolare via la tanto agognata serenità. Ero nuovamente tesa, seduta sul bordo del divano e cosciente del fatto che probabilmente qualcuno stava per scoprire il rifugio. Non ci volle molto per comprendere che in realtà quei passi non giungevano dall’esterno ma dall’interno della casa, terminando nel momento esatto in cui la piccola porta in cima alle scale di legno, si spalancò, rivelando un uomo sulla soglia. Osservai quella figura, la luce alle sue spalle mi impediva di studiare i tratti del volto, l’unica cosa cerca era che la paura mi aveva resa immobile e il battito del mio cuore riuscivo ad avvertirlo in gola.

« Tutta questa umidità ti farà male alle ossa. Sali, Jèjè, ti offro qualcosa di caldo. »

Bastò quel “Jèjè” per rivelare l’identità di quell’uomo in cima alle scale: Buck.




NOTA DELL'AUTRICE: Ci sono un paio di cose che modificherò nei prossimi giorni,
si tratta di puri mutamenti nella forma che non mi convincono.
Tuttavia vi lascio il capitolo, oggi non è una giornata
particolarmente positiva e l'unica cosa che posso
reputare tale è questo capitolo.
Come sempre un abbraccio ai miei lettori:
senza di voi, probabilmente non continuerei.

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Capitolo 9
*** IX - Chiamami Abraham ***


Documento senza titolo





Animi inversi




Un flusso incontrollato di domande incominciò ad aleggiare nella mia mente e tutte riguardavano Buck e quella casa. Il suo avvertimento al bar, ora non appariva più tanto misterioso ma solo imbarazzante; da quanto Buck stava lì senza che noi riuscissimo ad accorgercene? Non lasciai scorrere al di fuori della mia mente i miei dubbi, limitandomi ad accogliere l’invito di Buck. Ogni passo su quella scala in legno produceva una sinfonia di scricchiolii inquietanti che riuscivano ad animare quella cantina così silenziosa. Il mio sguardo era verso l’alto, su quella soglia ormai lasciata libera dalla figura dell’uomo, ciò mi permise di scorgere sin da subito piccoli dettagli della nuova stanza che mi apprestavo a raggiungere, una cucina.
Una volta raggiunto il nuovo ambiente, mi accorsi di quanto questo in realtà fosse poco illuminato: le finestre, seppur numerose, erano tutte nascoste da una serie di tende vecchie e sgualcite, pesanti, che con difficoltà filtravano i raggi solari. Nonostante la penombra, non mi era complicato cogliere i dettagli di quella cucina per nulla moderna; la maggior parte degli elementi non era difficile comprendere che avevano almeno cinquanta anni, per non parlare di altri elementi che ricordavano tempi ben più antichi.

« Non preoccuparti, non sono una sorta di maniaco che ti insegue. »

Buck era lì, nei pressi di un enorme tavolo dal legno chiaro e massiccio, deteriorato dal tempo, sistemato proprio al centro della cucina. Con un semplice gesto mi invitò a prendere posto proprio nei suoi pressi, invito che con una particolare titubanza, accolsi.

« Lo sai che di questi tempi non ci si può fidare di nessuno, Buck. »
« Lo so perfettamente ed è proprio questo elemento che ti rende differente, no? Cioè, l’essere svegli. »
« Un aspetto che crea anche qualche problema, non credi? »
« Latte caldo e biscotti, Jèjè? In realtà è l’unica cosa commestibile che ho in casa, a meno che tu non voglia qualcosa di forte. »
« Mi accontenterò del latte. »

Non riuscii a far a meno di osservarlo: il suo volto, le sue espressioni e anche i suoi più piccoli movimenti; ogni cosa fatta da Buck ora appariva fluida, controllata e riusciva ad infondere una sicurezza che in quell’uomo, prima d’allora non ero mai riuscita a cogliere. Buck da sobrio era totalmente differente, anche la sua sola stazza, ora perfettamente eretta, riusciva ad infondere un particolare senso di protezione; i suoi occhi chiari, non offuscati dall’alcool e messi in risalto da piccole rughe d’espressione erano in grado di comunicare con un solo sguardo.
Improvvisamente mi sentii in imbarazzo, quel Buck non era lo stesso che conoscevo, era un uomo forte, sicuro: era un Buck che  fischiettava mentre mi preparava quella colazione a base di latte e biscotti. Seppur la sua malinconia trapelasse spesso sotto la forma di inspiegabili e profondi sospiri.

« Buck, mi dispiace averti trattato in quel modo, questa mattina. Non te lo meritavi. »
« In realtà, se esiste ora qualcuno che può dirmi determinate cose in quel modo, credo sia solo tu, Jessica. Dato che sei l’unica in questa città ad aver subito le lagne di questo povero uomo. »
« In realtà, c’è qualcosa che non mi spiego. »
« Jessica, diciamo che non ti ho proprio raccontato tutto. »

Ero calamitata da ogni suo movimento, non riuscivo a distogliere lo sguardo da quell’uomo, rendendomi conto di avere davanti a me uno sconosciuto, l’unica certezza che avevo era solo quel volto noto, niente altro.

« Diciamo semplicemente che Buck non è il mio vero nome e che nessuno si è mai preoccupato di sapere dove lo straniero ubriacone abitasse. Per quanto riguarda il mio cognome, essere un fantasma, ovvero non interessare a nessuno, ti dona il vantaggio di non utilizzarlo mai. »
« Mi stai spaventando, ora. »
« Ti sto solo raccontando i dettagli che sino ad oggi non ho mai avuto modo di esporre. »

Mi ritrovai presto con un’enorme tazza di latte fumante dinanzi, oltre ad una ciotola piena di biscotti. Osservai entrambi e lentamente allungai la mano per accogliere un piccolo biscotto dalla forma rotonda che andai ad immergere subito nel latte.

« E perché non me l’hai detto prima? »
« Perché ho l’impressione che tu abbia bisogno di aiuto ed è tempo che io ricambi il favore. »
« Buck o qualunque sia il tuo vero nome, ti ringrazio ma non credo sia il caso. E poi, capirai che dopo tutto quello che mi stai dicendo, mi riesce difficile fidarmi di te. »
« Chiamami Abraham e il resto della storia la sai. Ciò che non conosci è che in realtà non sono uno straniero, ho passato la mia infanzia e adolescenza in questa cittadina. »
« Onestamente non comprendo, Buck… Abraham. Perché tutta questa segretezza? »
« Prova a riflettere, Jessica. Sono cresciuto qui, conosco tutti e ognuno di loro è rimasto esattamente come prima, forse solo peggiorati. Semplicemente, raccontare ogni cosa che mi è successa in questi anni trascorsi, era l’ultima cosa che desideravo fare. »
« L’hai raccontato a me, però. »
« Tu e Jeremy siete diversi. Sono cresciuto con i vostri rispettivi genitori e posso dire che da quei due individui poteva solo uscire feccia o dei diamanti; il caso vuole che voi due ragazzi apparteniate alla seconda categoria.  »
« Tu conoscevi mia madre? »
« Affronteremo questo discorso più avanti, ora seguimi. »

Mi lasciai guidare per quell’enorme casa senza più rivangare il discorso, l’espressione di Buck era sufficiente per comprendere che non avrebbe dato soddisfazione alla mia curiosità. Lo seguii prima in un’enorme salone arredato malamente con mobili antichi e oggetti ancora più antichi; la carta da parati tendente all’ocra, arricciata, strappata e ammuffita, contribuiva nel donare a tutto un aspetto ancora più decadente e abbandonato. Dopo il salone venni accompagnata verso il piano superiore dove un ampio corridoio metteva in mostra una serie di porte ben chiuse, delle quali solo una venne aperta: una camera da letto. Osservai l’interno della stanza, l’arredamento delicato, le pareti dipinte con motivi floreali e una serie di tendine in pizzo che nascondevano i vetri luridi di un’enorme finestra; tutto lasciava perfettamente intendere che quella stanza fosse appartenuta a qualche donna.

« Questo cosa significa, Abraham? »
« Significa che se vuoi, puoi trasferirti qui e utilizzare questa camera per tutto il tempo che desideri. Ha anche un piccolo bagnetto riservato. »
« Io non posso accettare, mi dispiace. »
« Jèjè, non si tratta di potere o meno, si tratta di volere o non volere: è più semplice di quanto tu creda. Ti lascio da sola per pensarci, mi permetto solo di ricordarti una cosa: tu e Jeremy avete usufruito della mia cantina per anni, avere un ambiente più comodo non cambierà la situazione.»


Mi abbandonò lì, sull’uscio di quella camera da letto mentre sentivo i suoi passi allontanarsi, sino a scomparire.  Lasciai scorrere qualche secondo prima di addentrarmi nella camera. Ogni aspetta di quella stanza era in grado di emanare femminilità ma non una femminilità matura, al contrario:  potrei definire quasi infantile. La visione di un orsacchiotto impolverato e sistemato su una piccola sedia non fece altro che confermare quella sensazione. Mi bloccai improvvisamente, davanti ad un’enorme cassettiera, risposta su di questa solo la cornice di una foto raffigurante Abraham con sua figlia.
Improvvisamente un pensiero mi balenò in testa: la bambina era stata rimpiazzata e al suo posto, silenziosamente, ero appena subentrata io?

 

 




NOTA DELL'AUTRICE: Bene signore con questo capitolo possiamo dire
che stiamo entrando nella reale trama.
Sono curiosa di sapere i vostri pareri su Buck,
alcune di voi lo amano, altre sono sospettose.
Mi piace alimentare dubbi v.v
Ho scritto con un po' di mal di testa, quindi tra un paio
di giorni lo rivedrò doppiamente, ho paura mi siano
scappati anche errori idioti.
Come sempre vi adoro e come sempre
grazie a chi mi sostiene <3

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Capitolo 10
*** X - Segreti ***


Documento senza titolo





Animi inversi




Mi ritrovai presto seduta sul bordo del letto, capo chino e lo sguardo fisso su quella foto ormai intrappolata tra le mie mani. L’immagine era il perfetto specchio della felicità: Abraham e la sua bambina abbracciati, il sole picchiava su di loro ma ciò che realmente illuminava  quei due volti, erano i sorrisi.
Mi sforzai di porre fine ad ogni mio pensiero, la mia mente era già troppo affollata e l’ultima cosa che desideravo era fomentarla. Abbandonai quindi la foto, stendendomi successivamente sul letto, riposare era il mio obiettivo e il pulsare insistente di un feroce mal di testa non faceva altro che ricordarmelo. Cercai di rilassare il mio corpo, sperando solo che il sonno giungesse presto.


« Jessica…Jè. »
Una voce bassa, debole, fu in grado di interrompere un sonno pregno di incubi. Impiegai del tempo per rimettere a fuoco il posto in cui mi trovavo, sentendomi per qualche istante sperduta. La stanza non era più illuminata, il buio l’avvolgeva, l’unica fonte di luce era quella lunare che delicatamente filtrava dall’esterno. Impiegai anche qualche istante per mettere a fuoco la figura di Jeremy, seduto sul bordo del letto, proprio al mio fianco. La sua presenza stonava in quella stanza, come in fin dei conti stonava la mia.
« Vi lascio soli, credo dobbiate parlare – La terza voce mi fece intercettare anche la presenza di Abraham, fermo sulla soglia, non mi diede tempo di osservarlo dato che in silenzio richiuse la porta, lasciando me e Jeremy da soli. Jeremy rimase in silenzio per una buona manciata di secondi, assicurandosi che l’uomo si fosse prima allontanato.
« Buck… voglio dire, Abraham. Lui mi ha raccontato tutto e ammetto che ho rischiato un infarto quando ho visto la porta che collega la cantina alla cucina, aperta. Non mi piace questa storia, non mi rende particolarmente sicuro, Jessica. »
Il mio corpo era ancora intorpidito dal sonno, proprio come la mia mente, per tale motivo l’unica cosa che riuscii a fare dopo le parole di Jeremy, fu afferrare malamente ma con delicatezza, la sua chioma, invitandolo in tal modo ad avvicinarsi. Non avevo voglia di discorsi, di pensare o semplicemente parlare, desideravo solo rannicchiarmi contro il corpo di Jeremy e in silenzio venni subito accontentata.
Un petto al posto di un cuscino e un braccio ad avvolgermi le spalle, tuttavia l’aspetto più significativo era l’essere in grado di avvertire il battito cardiaco di Jeremy, un suono in grado di infondermi, ogni volta, un profondo senso di pace.
« Tu credi che possiamo realmente fidarci di Buck… Abraham? Ammetto che mi riesce complicato chiamarlo in altro modo. Comunque, il fatto che abbia sempre saputo del rifugio mi mette un po’ di angoscia, mi fa sentire spiato. »
 La voce del ragazzo era bassa, sapeva che l’unica cosa che desideravo era solo avvertire quel suono continuo, ritmico e racchiuso dentro di lui ma come sempre non riusciva a non esternare i suoi pensieri.
Sospirai. Uno dei più grandi difetti o pregi di Jeremy era il cercare di trovare una spiegazione per tutto e naturalmente io venivo sempre trascinata e coinvolta dalle sue elucubrazioni mentali, alle quali era sempre complicato sfuggire.
« Non possiamo dormire e basta? Ti prego, solo questa volta, solo in questo momento. Voglio solo un po’ di tranquillità, Jer. »
« Perché devi sempre prendere ogni cosa alla leggere? Non credo che questa situazione sia da sottovalutare, Jessica. »
« Jeremy, seriamente? Perché non credo che la mia situazione familiare, proprio come la tua, siano così spensierate da sottovalutare, eppure tendiamo a farlo sempre e lo facciamo per non deprimerci ulteriormente. Questa volta non voglio interessarmi di nulla, voglio solo provare a donare fiducia a quell’uomo, in fin dei conti non credo io abbia nulla da perdere e sono sicura che quell’uomo non potrà ferirmi più di quanto sia stata in grado di fare mia madre. »
 Cercai di mettere fine al discorso non solo con le parole ma anche con un debole gesto della mia mano, la quale portai contro la bocca di Jeremy, semplicemente per tappargliela; un tentativo fallito dato che mi ritrovai con il braccio bloccato e afferrato per il polso.
« Non è la stessa cosa. Per quanto la situazione con tua madre sia infelice, la conosci, sai cosa aspettarti, ovvero una valanga di parole offensive. E lo so che quelle parole fanno male ma credo ormai tu abbia una buona corazza contro quelle, una corazza che in realtà non hai per altre cose. »
« Ah bhe. In realtà quella donna sta iniziando ad essere creativa dato che mi ha procurato un bel numero di punti di sutura. »
Il silenzio giunse immediatamente, rendendo l’aria pesante e pregna di tensione, la stessa tensione che subirono i miei muscoli una volta che mi resi conto di ciò che avevo appena detto. Giunse prima un profondo e lungo sospiro da Jeremy, poi un secondo appena più corto. Cercai di allontanarmi velocemente da lui, un movimento che venne però impedito dalla presa che Jeremy aveva ancora sul mio polso. Non avevo paura della sua reazione, ero solo pronta a fronteggiarla. Rimasi immobile, seduta contro il materasso e il busto sporto verso di lui, a causa di quella presa.
« Cosa vuoi dire con quel: “mi ha procurato un bel numero di punti da sutura”? »
 La sua voce giunse calma, stranamente bassa e controllata, al contrario del suo sguardo con il quale ormai mi divorava.
« Mi ha scagliato contro una bottiglia di whisky, tuttavia con la sua mira pessima ha colpito il muro e una scheggia è rimbalzata sul mio braccio, lo stesso che tu stai mantenendo. »
Non attese ulteriormente, andando a sollevare la manica della camicia di Robert che ancora indossavo; il suo gesto rivelò la benda intorno al braccio, una visione che lui accolse con un ulteriore e lungo sospiro.
« Credimi se ti dico che sono particolarmente amareggiato dal fatto che tu non me l’abbia detto subito, Jess. »
« Come le dici tu a me, le cose, Jeremy? Sappi che non mi occorre alzarti la maglietta per sapere che sei pieno di lividi e segni che tuo padre ti ha lasciato ieri notte solo perché sei rientrato tardi. »
« Lo faccio per non farti preoccupare. »
« Ma dai? Credo che tu ti sia appena risposto da solo, Jer. »
Il mio tono divenne improvvisamente astioso, nervoso, il sonno mi aveva abbandonata completamente. Tirai velocemente il braccio indietro, uno strattone con cui riuscii a liberarmi dalla presa ma che fu in grado di procurarmi un intenso bruciore all’altezza della ferita. Cercai di non esternare quella fitta di dolore, voltandomi dalla parte opposta e stendendomi nuovamente sul letto, ora non fissavo più Jeremy ma un angolo buio della stanza.
« Delle volte mi fai incazzare seriamente, ti rendi conto che con te è impossibile parlare quando fai così, Jessica? »
« E di cosa dovremmo parlare? Stiamo giorni e giorni a discutere per cercare di trovare una soluzione a questa storia, sono anni che ci pensiamo ma siamo perennemente bloccati al punto di partenza. La verità è che è davvero tutto inutile. Mia madre che mi lancia bottiglie e mi ripudia, tuo padre ti alza le mani un giorno si e l’altro pure, minacciandoti che se osi scappare fa a pezzi tua madre. Ci abbiamo provato e ti sei ritrovato in ospedale con un bel po’ di costole rotte. E in tutto questo tua madre è talmente sottomessa che non riesce a ribellarsi in alcun modo. Quindi, davvero, dimmi Jeremy, di cosa dovremmo parlare? »
Mi pentii immediatamente di quel flusso incontrollato di parole che mi uscì dalla bocca, ora fui io a sospirare pesantemente mentre Jeremy si chiuse in un profondo silenzio. Lo sentì prima muoversi, non volevo lui andasse via così, non volevo lui andasse via con quelle mie parole che gli sarebbero risuonate infinitamente nella mente, ma quel timore venne subito messo a tacere con il braccio di Jeremy che ora andava ad avvolgermi la vita mentre il suo corpo si affiancava perfettamente al mio.
«Jessica, ti prometto che troveremo una soluzione, davvero. »
« Mi dispiace, non avrei dovuto. »
« Lo so, dispiace anche a me per tutto questo. Comunque, hai detto che volevi dormire, credo sia il caso di farlo realmente, io aspetterò qui sin quando non ti addormenterai, poi andrò. »
La situazione si era improvvisamente invertita, ora ero io a voler proseguire il discorso, ero io a non voler più accogliere il sonno, tuttavia non aggiunsi altro: il tono di Jeremy era chiaro, non voleva parlare ed io lo accontentai. Restammo così, immobili e in silenzio, lui alle mie spalle e il suo abbraccio intorno alla mia vita ed io che disperatamente cercavo di addormentarmi.



La debole luce che filtrava tra quelle tende segnava ormai un nuovo giorno. Ero sola, Jeremy silenziosamente era sgattaiolato via qualche ora prima, subito dopo che io iniziai a fingere di dormire, cosa che mi permise di sentire il suo distacco ma anche il suo saluto, sottoforma di un debole bacio abbandonato sulla mia tempia.
Mi trascinai fuori dal letto, scoprendo così il piccolo bagno indicato il giorno prima da Abraham. Una volta davanti allo specchio cercai di donare un senso alla mia chioma scomposta, proprio come all’ennesimo volto stanco ma fortunatamente non più segnato dal pianto. Il mio stomaco con un prepotente gorgoglio, mi portò alla realtà, spronandomi a muovere i passi verso il piano inferiore, alla ricerca di cibo.
Un bicchiere di latte, biscotti e un piatto ricolmo di pancetta e uova erano ordinatamente riposti sul tavolo della cucina; quella visione, oltre ad alimentare la mia fame, lasciò sorgere in me un pensiero: nessuno prima d’ora mi aveva mai preparato una colazione in casa, fu strano nel comprendere quanto quel piccolo gesto riuscisse a farmi sentire realmente presente, quasi importante.
Non mi preoccupai di cercare Abraham, come di accertarmi che tutto quello fosse per me, ormai eravamo solo io ed il cibo, il quale iniziai a divorare con una certa voracità.
« Jeremy ha lasciato la moto qui, ha detto che ti sarebbe servita. »
 La voce di Abraham, giunta all’improvviso e alle mie spalle non mi portarono troppo lontano dal soffocarmi con un boccone, cibo mandato giù con l’aiuto di due colpi di tosse e un necessario sorso di latte.
« Ti prego, non farlo mai più. »
« Mi dispiace, non volevo spaventarti. Spero che la colazione sia di tuo gradimento. »
« Scusami, non mi sono neanche accertata che fosse per me, avevo fame. Ne preparo un’altra se vuoi.  »
Mi voltai dopo aver posato il bicchiere e la forchetta con un atteggiamento simile a quello di un ladro colto in flagrante. iò che mi ritrovai davanti non era l’uomo che conoscevo e mi meravigliai di come una semplice barba fosse in grado di infondere un aspetto totalmente differente ad un uomo. Abraham si era liberato della sua barba, il suo volto non aveva più un aspetto trasandato e invecchiato ma chi avevo ora davanti, oltre ad avere anche un particolare fascino nonostante l’età, era in grado di trasmettere anche un senso di sicurezza.
« Credo che tu ti sia appena liberato di dieci anni, stai bene senza barba. »
« Spero non ti dia fastidio, in fin dei conti sei abituata a vedermi in un certo modo. »
« Non preoccuparti, stai bene. Ora devi solo rimediarti dei vestiti decenti e potresti sembrare un uomo d’affari e pieno di soldi. »
Con un cenno del capo indicai gli abiti dell’uomo, una maglia e un paio di jeans sgualciti, loro erano ancora in perfetto stile “Buck”. Mi soffermai ad osservare le sue mani, le stesse  che cercava di ripulire in uno straccio pieno di macchie nere, macchie simili a quelle che ricoprivano la sua pelle.
« Qualche lavoro in casa, Abraham? »
« Non proprio, mi sono permesso di dare un’occhiata alla moto di Jeremy, ora non dovrebbe più creare problemi nell’accensione o almeno spero. »
« Con questo potresti guadagnarti la sua fiducia, ti ringrazio tuttavia. »
Tornai a voltarmi verso quel piatto ancora pieno, riprendendo a mangiare con più calma mentre Abraham ancora cercava di ripulire le sue mani dal grasso scuro del motore.
« Vuoi dire che non si fida di me? »
« Tu ti fideresti di un uomo che si rivela essere un altro e che ha sempre saputo che due ragazzi si nascondevano in casa sua? »
« Effettivamente è abbastanza ambigua come situazione. »
« Effettivamente chiunque si sentirebbe un po’ spiato in questa situazione, Abraham. »
 Lo osservai, curiosa di cogliere la sua espressione alle  mie parole, ciò che ricevetti fu solo un sorriso ed un debole cenno del capo con cui mi indicò il piatto.
« No, spiare no, vi ho solo affittato gratuitamente e tacitamente una parte della mia casa e poi conosci le mie condizioni, anche solo provare a cercare un modo per origliare sarebbe stato sin troppo impegnativo. Comunque basta, così mi fai sentire una sorta di pervertito o ancor peggio un serial killer. »
« Sai, è proprio quello che un serial killer direbbe.
« Jèjè, solito caratterino, eh. »
« No, in realtà cerco solo di capire e poi hai detto che conosci i nostri rispettivi genitori. »
Mi donai qualche altro boccone prima di terminare definitivamente il pasto. Osservavo ancora attentamente l’uomo, studiandone volto e movimenti, era piuttosto strano accettarlo in quelle vesti e ancor più strano accettare quelle informazioni che l’uomo aveva tenuto gelosamente nascoste.
« Io, tua madre e i genitori di Jeremy eravamo una sorta di quartetto, naturalmente non avevamo un legame simile a quello che esiste tra te e Jeremy ma eravamo amici. »
«Siete cresciuti insieme? »
« Si, infanzia, adolescenza e anche un altro bel po’. Parleremo di questo più avanti, manca un quarto alle nove e credo che Robert ti stia aspettando. »
« MERDA! »
Balzai velocemente in piedi e dopo aver salutato in fretta l’uomo, scivolai al di fuori della casa, dove trovai ad attendermi Grace, subito dopo il porticato. Le chiavi erano ancora inserite nella fessura e le girai velocemente dopo essermi ben posizionata sul sellino dell’Harley Davidson. Non pregare Grace e sentire quel rombo animarsi subito fu una strana sensazione, era come se anche lei avesse recuperato improvvisamente anni di vita, proprio come quell’ubriacone che per anni si era fatto chiamare Buck.




NOTA DELL'AUTRICE: Capitolo più lunghetto e un ulteriore indizio su quest'uomo
che si fa chiamare Buck, sono curiosa di leggere le vosre impressioni xD
Dunque, come al solito lo rileggo tra qualche giorno
per sistemare eventuali errori, mi conoscete,
sapete il mio difetto -__-
Grazie alle bimbe che mi sostengono, sempre : *

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Inoltre, la mia mente malata e quella di Malaria, ricordano che:

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Capitolo 11
*** XI - Salvami ***


Documento senza titolo





Animi inversi




Non impiegai troppo a raggiungere il Paradise Circus, nonostante fossi in ritardo di circa quindici minuti, il piccolo viale antecedente al locale era spoglio di auto, segno che probabilmente all’interno avrei trovato solo Robert e il vecchio Michael, forse anche Jeremy. Mi apprestai a parcheggiare Grace proprio vicino l’ingresso del locale, ovvero il suo solito posto, concludendo così definitivamente il viaggio e mettendo fine a quel rombo singhiozzante.
Il mio ingresso venne bloccato dal rumore di ruote che viaggiavano sulla ghiaia di un terreno non asfaltato, un auto in avvicinamento e desiderosa di attirare la mia attenzione con un insistente suono del clacson. Quando riconobbi l’auto, il mio sangue si congelò all’istante, lasciandomi scorrere lungo la schiena una sorta di brivido. Ciò che avevo davanti era l’auto dello sceriffo.
Se esisteva qualcosa che reputavo peggiore a mia madre, era proprio lo sceriffo, ovvero il padre di Jeremy.
Quell’uomo era in grado di infondere paura, la più pura, utilizzando un solo sguardo, solo piccoli gesti. Inutile affermare che non mi piaceva, non mi era mai piaciuto e non solo per ciò che faceva a Jeremy: era viscido e spietato, la sua vena sadica non era sconosciuta in città, soprattutto per me e per suo figlio, il quale era costretto ad affrontare ogni giorno della sua vita un tremendo calvario.
« Jessica, tesoro. »
Il suo saluto giunse subito dopo aver bloccato l’auto ed essere sceso da questa. Quelle parole giungevano solo in un unico modo: false e viscide; proprio come l’espressione fissa sul suo volto adornato di un ampio sorriso. Iniziò ad avvicinarsi lentamente, il  suo sguardo fisso su di me e le sue mani poggiate contro la cintura, assicurandosi di segnalare con un semplice tamburellare, quelle dita risposte contro la pistola d’ordinanza, nascosta all’interno di una fondina naturalmente slacciata. C’era realmente qualcosa di insano nella mente di quell’uomo, il suo sorriso e il suo modo di accarezzare quell’arma letale, erano in grado di mandare un chiaro ed intenso messaggio, era come se mi stesse chiaramente dicendo: “devo solo trovare la giusta occasione per utilizzarla su di te.”
« Sceriffo, buongiorno. »
« A quanto pare sei in ritardo. Mi auguro che Robert sia in grado di farti un’adeguata strigliata. In fin dei conti, come dico sempre: è bene smorzare l’anarchia sul nascere. »
« Robert è un eccellente titolare, sa come farsi rispettare e sa quali sono i metodi efficaci perché il suo personale dimostri interesse e rispetto nei riguardi dell’attività. Ma non credo che lei debba preoccuparsi di questo, essendo appunto competenza di Robert. »
Ero improvvisamente in balia di due forti sentimenti: paura e odio. La mia sfortuna giunse nell’esatto momento in cui l’odio iniziò a vincere sulla paura, lasciando in tal modo trapelare l’astio tramite i miei sguardi, le mie parole e il mio stesso tono di voce. Sarei dovuta apparire come un piccolo uccellino ferito dinanzi a lui, piegarmi davanti la sua personalità e assecondarlo ma mi ritrovai a fare l’esatto opposto, come se il mio corpo e il mio cervello improvvisamente si siano ribellati al sano buonsenso.
« Come sta tua madre, Jessica? »
Il suo tono improvvisamente mutò, era chiaro che avesse percepito il mio atteggiamento restio, tuttavia non ricevetti ciò che mi aspettavo. Il suo sguardo risultava particolarmente curioso ma altrettanto indagatorio, come se dietro quella domanda ci fossero ben altri interrogativi tenuti celati alla mia attenzione.
« Direi come sempre e come sempre rispondo: una rosa in fiore, sceriffo. »
« Chiamami Signore Sceriffo. »
« Come lei preferisce… Signore Sceriffo. »
Era chiaro che stesse iniziando a giocare con me, non solo era in grado di aggrapparsi alla divisa che indossava ma sapeva che il modo migliore per attaccarmi era ben altro, ovvero Jeremy. E questo per lui bastava come a me bastava per ritrovarmi l’animo accartocciato come una foglia, costretto ad accontentare e portare rispetto a quel tiranno.
« Comunque, hai detto che sta bene? Eppure è strano dato che proprio oggi ho avuto modo di incontrarla. Mi ha riferito che sei scappata di casa. Si è dimostrata particolarmente addolorata per l’accaduto, ti vuole a casa. »
« Scappata? La trovo una parola azzardata, diciamo che invece sono stata costretta alla porta o mi sarei probabilmente ritrovata uccisa. Oltretutto era comunque tempo di trovare la mia indipendenza; come dicono: ad un certo punto i figli devono spalancare le ali e spiccare il volo lontano dai genitori, no? »
« Lascia che ti dica io una cosa, Jessica…»
Me lo ritrovai improvvisamente vicino, potevo sentire il suo volto sfiorare il mio e il suo respiro pesante impattare contro il mio orecchio. Quella vicinanza portò immediatamente un cambiamento nel mio stato d’animo: l’astio era stato surclassato dalla paura, la più pura. E quella vicinanza era talmente rifiutata che un forte senso di nausea iniziò prepotentemente a schiacciarmi. Quei capelli sporchi e unti, l’opprimente odore di sudore, il suo respiro incostante e i suoi denti ingialliti dal fumo erano un qualcosa che il mio corpo rifiutava, concentrando il tutto all’altezza del mio stomaco.
«…Ti conviene tornare presto a casa prima che quelle ali te le spezzi definitivamente, Jessica. Non costringermi a riportarti di peso da tua madre. »
Quella minaccia arrivò come una sorta di pugnalata proprio al centro del petto: improvvisa ma soprattutto incompresa. Non riuscivo a muovermi, non riuscivo a capire, non riuscivo a trovar alcun senso logico a quella richiesta.
« Non capisco perché debba interessarle un argomento simile. »
« Fai come ti dico, il resto non deve fregarti. Conviene che tu faccia quanto ti ho comandato, altrimenti oltre a spezzare le tue ali, spezzerò anche quelle di mio figlio. Lo so quanto siete attaccati voi due, l’un l’altra siete come delle zecche attaccate al culo di una vacca. »
« Onestamente? Non me ne frega un cazzo di quello che pensa. Non me ne frega un cazzo di quello che lei vuole. Tu… non puoi comandarmi e di certo non potrai avere per sempre Jeremy sotto il tuo volere. E tanto per anticiparle la cosa, io non tornerò da quell’alcolizzata, preferisco vivere sotto un ponte per il resto della mia vita, rischiando di morire di fame. »
Mi ero appena distrutta con quelle ultime parole e cosa peggiore avevo distrutto Jeremy, peggiorando inevitabilmente il suo inferno. Ma non compresi letteralmente cosa avevo fatto sino a quando non mi ritrovai scaraventata indietro; difatti lo sceriffo abbandonò presto la sua adorata pistola solo per rispondere alle mie parole con una sorta di pugno ben assestato contro la mia guancia sinistra. Il colpo seppur non troppo potente, non solo diede vita ad un dolore pungente ma mi fece perdere l’equilibrio, ritrovandomi sbilanciata indietro. La mia schiena trovò subito un appoggio: ero finita su qualcosa di non particolarmente duro, non una parete come nemmeno una porta ma l’appoggio si preoccupò di rivelarsi presto da solo.
« Posso dire che ultimamente ho modo di fare conoscenze piuttosto interessanti in questa cittadina. Lo sceriffo mi mancava. »
Quel timbro sicuro e piuttosto sarcastico mi fecero comprendere immediatamente a chi apparteneva quella voce: Logan. Mi scostai velocemente, solo per posizionarmi alle spalle del ragazzo, utilizzando istintivamente il suo corpo come una sorta di scudo: un divisorio tra me e il padre di Jeremy.
« Non credo di conoscerla, giovanotto. Da quanto tempo è in città? »
« Quello che basta per accorgermi che questa città è piena di abomini, compreso un rappresentante della legge che ha manie di potere e adora picchiare le ragazze. »
Il tono di Logan era diverso, in lui non c’era il medesimo disprezzo che aveva dimostrato in passato nei riguardi della Parker, ciò che ora mostrava era qualcosa di peggiore, come se avesse concentrato ogni sentimento negativo in quella sua solita sincerità tagliente. Me ne restai particolarmente zitta, la mia mano contro la guancia colpita e lo sguardo su quella scena insolita. Afferrai il polsino della camicia di Logan, iniziandolo a strattonare con leggerezza; volevo farlo smettere, ritrovandomi a mostrare un particolare senso protettivo nei suoi riguardi, non volevo andasse incontro ad una sorte simile alla mia.
« Ma cosa abbiamo qui? Un giovane che si crede di sapere tutto. Un giovane che non conosce le buone maniere e non sa mettere a freno la lingua quando si ritrova davanti la legge, proprio come quella zoccoletta che si nasconde. Lo sai cosa facciamo qui ai giovanotti come te? Li raddrizziamo con la forza. »
« Ah. Vogliamo davvero parlare di legge? Perché quella che conosco io spacca la schiena a chi osa mettere le mani su una donna. Cosa abbiamo qui? Uno sceriffo anche idiota e ignorante, oltre che violento? »
« Logan, non farlo. »
Mi intromisi in quello scambio di battute. L’aria iniziava realmente ad essere pesante, seppur c’era un qualcosa di meraviglioso nell’osservare l’espressione adirata del padre di Jeremy scontrarsi con quella perfettamente rilassata e quasi apatica di Logan. Erano puro istinto contro la gelida ragione.
« Come mi hai chiamato? »
Il tono come l’avvicinamento dello sceriffo stavano preannunciando un finale non particolarmente idilliaco, tanto che iniziai ad alternare il mio sguardo tra il suo volto e la fondina che accoglieva la sua pistola d’ordinanza.
« Idiota. Ma esiste una lunga lista di sinonimi. Preferisce fesso? Oppure imbecille? O deficiente? Anche se io la definirei direttamente… sottosviluppato. »
Non riuscii a far a meno di sorridere alla risposta di Logan, sarei potuta morire in quel momento, consapevole che sarei morta felice. Ma La mia attenzione venne presto distratta da un tocco improvviso, giunto dalle mie spalle, una presa al polso sinistro veloce e inaspettata e che mi costrinse a voltare lo sguardo, ritrovandomi presto Robert ad osservarmi.
« Muoviti ed entra. »
Le parole di Robert giunsero a bassa voce, un sussurro dedicato solo a me, come se non volesse disturbare quella situazione, in fin dei conti lui conosceva il padre di Jeremy e come me sapeva che era sempre meglio non avere a che fare con quell’individuo, in alcun modo. Non opposi resistenza, iniziando ad indietreggiare verso l’interno del locale ma fu proprio la replica dello sceriffo a distrarmi.
« Questo è abbastanza, dammi le mani. Ti porto in vacanza, all’interno di una cella accogliente. »
« Maddai? E’ la prima volta che mi arrestano. Si rivelerà sicuramente un evento emozionante! »
Logan non si oppose in alcun modo a quell’arresto, anzi sembrava quasi bramarlo con un ansioso sorriso stampato su quelle labbra carnose. Giunse presto il rumore dello scatto di quelle gelide manette che si richiudevano contro i polsi del giovane, un rumore che rese ancora più reale il tutto. Io e Robert ci bloccammo, ritrovandoci ad osservare increduli proprio la reazione di Logan e presto, proprio quest’ultimo si voltò verso di me, dedicandomi poche parole prima di essere portato via.
« E’ la seconda volta che ti salvo, Jessica. Questo significa che hai un altro debito nei miei riguardi. Per quanto riguarda la cena, tieniti pronta per questa sera, com’era nei patti. Questo contrattempo non l’annullerà, stai tranquilla. »
A quelle parole giunse solo l’incredulità, nulla di più, nulla di meno.




NOTA DELL'AUTRICE: Non ci posso credere, ce l'abbiamo fatta!
Ho aggiornato con un ritardo assurdo, lo so.
Ma ultimamente ho sbalzi di umore sconvolgenti
e questo mi rende difficile le cose.
Ma come dicono: meglio tardi che mai, no?
Un grazie speciale a chi mi supporta e mi segue,
soprattutto alla family.
Solito discorso, conoscete il mio difetto,
in caso di errori, fischiate.
Vi adoro.

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Capitolo 12
*** XII - Guerra aperta ***


Documento senza titolo





Animi inversi




« Cosa diavolo è successo? »
La voce di Robert mi fece improvvisamente ricordare che il mio polso era ancora intrappolato dalle sue dita. Eravamo immobili, due statue, fermi sulla soglia del Paradise Circus mentre increduli cercavamo entrambi di dare un senso a quella scena vissuta pochi istanti fa. Sentivo lo sguardo di Robert oltrepassare la mia figura, il suo era posizionato proprio nel punto esatto in cui si trovava il mio, ovvero contro quell’auto che velocemente si allontanava.
« Io… io non lo so, credimi, ormai inizio a capirne sempre meno. »
« Cosa voleva da te? »
« Mi ha minacciata. »
Voltai velocemente lo sguardo su Robert, imprimendolo sul suo volto. Lui aveva già la sua attenzione su di me che si accompagnava ad un’espressione perplessa quanto sorpresa; era evidente che stesse cercando una spiegazione, un qualcosa che non potevo offrirgli poiché anche io stavo cercando proprio la medesima cosa.
« Entra dentro. »
Il mio corpo non rispose immediatamente al comando di Robert e quindi venni quasi trascinata da lui all’interno del locale dove Michael ci aspettava con quel volto pregno di rughe contorte in una smorfia preoccupata; aveva ancora una padella in mano e all’interno di questa, l’olio, stimolato dal calore, ancora sfrigolava, distribuendo qualche schizzo innocuo contro il pavimento.
« Per favore, ditemi che Jeremy è già arrivato. »
Il silenzio che ricevetti e gli sguardi che Michael e Robert si scambiarono, bastarono per farmi trovare una risposta a quella supplica: Jeremy non era ancora arrivato ed io non necessitavo di altre prove e quindi immediatamente mi mossi verso il bancone, dove il telefono riposava.
« Jessica, aspetta! Non fare pensieri affrettati perché se Jeremy sta bene, lo farai solo preoccupare inutilmente. »
« Onestamente, Robert? Preferisco farlo preoccupare che avere io questa immensa quanto tremenda sensazione addosso. »
« Jessica, aspetta. »
Ad assecondare Robert si unì presto anche Michael seppur con un approccio ben più dosato e calmo. Il rombo del motore, appartenente al furgone che parcheggiava alle spalle del locale, bastò per fermare le mie dita contro i tasti del telefono. Ci ritrovammo presto tutti e tre immobilizzati e con lo sguardo diretto verso la cucina. Fu l’espressione di Michael che presto tranquillizzò i nostri animi, segnalandoci che Jeremy aveva appena oltrepassato la soglia dell’ingresso posteriore.
Il ragazzo raggiunse la cucina con quel suo solito atteggiamento sereno, quella chioma lunga semi scompigliata e un furbo sorriso sulle labbra che scomparve nel momento esatto in cui raggiunse il salone e si accorse delle nostre facce.
« …Mh, mi son perso per caso qualcosa? »
Jeremy sembrava improvvisamente caduto dalle nuvole, un segno che tuttavia fece tranquillizzare ognuno di noi, ma in fin dei conti era risaputo, l’ingenuità di Jeremy, in momenti simili, era particolarmente adorabile.
« Tuo padre ha incontrato Jessica, non so cosa volesse ma le ha praticamente tirato un pugno e oltre questo ha arrestato anche quel ragazzo nuovo in città, solo perché ha osato difendere Jess. »
La rivelazione di Robert giunse inaspettata, osservai presto Jeremy cambiare rapidamente atteggiamento, il sorriso non era più sul suo volto ma al posto di questo esisteva solo il chiaro specchio del suo turbamento interiore.
« Robert che cacchio fai? »
La mia voce uscì istintivamente, battendo immediatamente contro la rivelazione dell’uomo. Robert aveva rovinato tutto, ma soprattutto aveva scelto il modo peggiore per farlo.
« Faccio quello che è giusto. Mi sono stancato di questa situazione, non fraintendetemi, ragazzi: io vi voglio bene perché siete gli unici che ho ma è proprio per questo che mi sono stancato. E Jeremy, non me ne frega un cazzo, lo so che passi le pene dell’inferno ma hai ventisei anni ed è tempo che cacci le palle come si deve. Non ti dico che devi farlo da solo ma devi solo fare una scelta e quando l’avrai fatta, allora potrai avere anche il mio pieno sostegno. »
Lo sguardo di ognuno era praticamente poggiato sulla figura di Jeremy, cercavamo una risposta, una reazione, qualunque cosa da parte di quel ragazzo che invece ora se ne stava immobile e con un’espressione indecifrabile sul volto; non sembrava riuscire ad ascoltare ciò che Robert gli diceva, il suo sguardo era calamitato su di me, come se per lui, in quel momento non esistesse niente altro.
L’aria diventò improvvisamente pesante, una strana tensione aleggiava nell’ambiente, la stessa tensione che avvolgeva i miei muscoli.
« Jer… ti prego, non rimanere in silenzio. »
Il silenzio di Jeremy risultava atroce, doloroso, come se braci ardenti scivolassero contro il mio corpo, offrendomi una tortura spietata. Mi ritrovai a supplicare con una voce sottile, schiacciata, pregna di quel dolore. Conoscevo Jeremy e sapevo che il silenzio da parte sua non era mai un segno positivo. Mai.
« Ti ha minacciata e ti ha dato un pugno? »
Finalmente parlò ma la sua voce risultava fredda, distaccata come se improvvisamente al mio cospetto si fosse trasformato in uno sconosciuto. Michael, Robert ed io ci guardammo ma fu proprio Robert a prendere nuovamente parola, mentre con entrambe le mani offriva un semplice gesto al ragazzo, un modo piuttosto semplice per trasmettere calma. Riuscii ad intravedere nel volto di Robert il più chiaro pentimento, si era appena reso conto che la sua tattica non si era presentata sbagliata ma completamente catastrofica.
« Jeremy, mi rendo conto di essere stato particolarmente brusco ma ora tutti e tre ci sediamo e troviamo una soluzione definitiva al problema. Pensiamo bene alla questione, agire d’impulso non aiuta. »
Le parole di Robert non furono particolarmente convincenti e presto avvenne ciò che più temevamo. L’impulsività di Jeremy prese il sopravvento, prima che noi tutti ce ne rendessimo quasi conto, lui aveva ormai abbandonato il locale e messo in moto il suo furgone.  Inseguirlo non servì a nulla, se non a farci soffocare dalla polvere innalzata dalle ruote del furgone che ormai si allontanava su quel tragitto malmesso. Bastò osservare quel mezzo allontanarsi per comprendere cosa presto sarebbe successo: Jeremy stava per dare il via ad una guerra, probabilmente la più brutale e spietata.
« Cazzo, Robert. Sei un’idiota! »
Mi ritrovai in quel piccolo spiazzo ad inveire contro Robert, il quale non proferì replicare, come se sapesse che contraddirmi non era propriamente saggio, come se sapesse che in fondo quelle parole se le meritava; seppur non intenzionalmente aveva dato lui il via a tutto. In pochi secondi cercai di mettere in ordine l’afflusso di pensieri che opprimevano la mia mente, senza grandi risultati in realtà ma fu la prontezza di Robert e il suo spirito deciso a farmi prendere posto nella sua auto. In pochi secondi ci ritrovammo all’inseguimento di quel furgone e non impiegammo troppo per comprendere dove il ragazzo fosse diretto. Mi ritrovai a supplicare in silenzio, nella speranza che Jeremy non stesse correndo da suo padre ma quella muta preghiera scivolò via nel momento esatto in cui la visione di quell’incubo temuto si presentò dinanzi ai miei occhi. L’auto di Jeremy era accostata nei pressi dell’ufficio di suo padre e noi ci apprestammo a fare la medesima cosa.
Notai l’auto dello sceriffo parcheggiata all’esterno, al suo interno, con quel sorriso da schiaffi, si trovava ancora Logan, abbandonato praticamente lì, all’interno della vettura,  con i polsi bloccati da fastidiose manette.
Eravamo ormai fuori dall’auto, Jeremy che si muoveva a piedi, diretto proprio verso quell’ingresso dove suo padre sostava all’esterno, intento a sorseggiare un caffè e donare direttive ai suoi agenti.
« Robert, placcalo. Cazzo, muoviti. »
Alle mie parole, entrambi ci ritrovammo a correre, cercando di divorare in fretta quella decina di metri che ci separavano dal ragazzo. Troppo tardi: Jeremy raggiunse suo padre salutandolo con un pugno ben assestato in volto. Presto fu il caos e io compresi che d’ora in avanti, il vero inferno avrebbe accompagnato tutte le nostre vite. Carl, o meglio lo sceriffo, cercava di soffocare il suo sguardo pieno di ira, incurante del suo naso ormai rotto e del sangue che scorreva copiosamente, andando ad imbrattare non solo i suoi abiti ma anche il terreno. Due agenti si accostarono immediatamente a Jeremy, cercando di bloccare ogni altra iniziativa da parte del ragazzo.
« Lasciatelo pure, sono solo piccoli battibecchi familiari e finalmente mio figlio ha capito come si cacciano le palle. »
Al comando dello sceriffo, i due agenti si allontanarono immediatamente dal giovane, lasciandolo libero e lui non esitò a puntare il dito contro suo padre, sventolando una chiara minaccia racchiusa in quel semplice gesto. Io e Robert, istintivamente, rallentammo il passo, spettatori increduli di una scena che dettava la fine di una vita sottomessa ma che preannunciava l’inizio di un potente uragano che prima o poi si sarebbe abbattuto sulle nostre vite con una feroce violenza..
« Sappi che hai trovato il modo migliore per perdere tuo figlio. Non aspettarmi, non cercarmi, d’ora in avanti considerami morto. Prova a posare il tuo sguardo su di me o Jessica e giuro che te ne pentirai. »
« Figliolo, ti dico solo che se questa notte non ti vedrò tornare a casa, mi riterrò offeso. Tremendamente offeso, oltre al fatto che tua madre non la prenderà bene. »
« Fottetevi, tutti e due! »
Ecco. Jeremy non solo aveva appena dichiarato guerra, ma aveva emesso due sentenze di morte, per me e per lui. Robert ed Io ci ritrovammo presto ad affiancarlo, le mie dita si strinsero contro il polso tatuato del ragazzo. Mi sentì immediatamente schiacciata, non solo dallo sguardo dello sceriffo che era letteralmente piantato su di me, offrendomi in tal modo tutto il suo disprezzo ed odio, ma stranamente anche da Jeremy. In venticinque anni , per la prima volta, scorgevo un suo nuovo lato, aveva abbandonato il suo carattere remissivo per ribellarsi al suo carceriere; perché Jeremy in quel momento appariva come un leone dallo sguardo famelico, potente e orgoglioso e il suo ruggito sottolineava ormai che la paura non era più un qualcosa che gli apparteneva.
Il ragazzo si liberò velocemente dalla mia presa , mi ritrovai così avvolta per le spalle dal braccio dal suo braccio e una stretta forte. Quella presa e la forza trasmessa in essa fecero cedere ogni mio pensiero, improvvisamente ogni cosa non mi importava più, non mi interessava se da oggi avrei vissuto nell’inferno più buio, non mi interessava se in futuro avrei sputato sangue o urlato dal dolore: la mia vita sarebbe stata determinata da un solo sentimento, lo stesso che mi aveva condotto sino a li.
« Andatevene immediatamente via, io cerco di sistemare le cose. »
Robert si rivelò il salvatore, come sempre, ci spinse via, spronando Jeremy con una sola occhiata, prevenendo in tal modo il disastro totale. Lo abbandonammo lì con quel mostro mentre Jeremy mi spingeva via, facendo leva ancora su quella presa imposta sulle mie spalle. Il mio sguardo era ancora per Robert che si addentrava nell’edificio,insieme ai vari agenti. Lasciarlo lì era l’ultima cosa che desideravo ma sapevo che tentare qualsiasi mossa sarebbe stato inutile, conoscevo abbastanza bene Robert per sapere che si sentiva in qualche modo responsabile e proprio per questo sapevo che avrebbe provato a sistemare ogni cosa.  M’incamminai silenziosamente, ancora accompagnata da una presa vigorosa e forte da parte di un Jeremy scompigliato e teso.  

« Complimenti, voi si… che sapete come migliorare le situazioni. »

Il commento sprezzante di un Logan ancora rinchiuso nell’auto mise violentemente fine a quel silenzio per un solo istante. Non ricevette alcuna risposta ma quella semplice frase, risultò come un’affilatissima lama che si contorceva in una ferita vecchia quanto  tremendamente profonda.

Ci allontanammo in silenzio, parlare era un qualcosa che non riuscii a fare e di rimando mi lasciai guidare in silenzio, godendo solo di quella stretta. Non prendemmo il furgone ed io non feci domande, Jeremy voleva evidentemente camminare ed io lo accontentai senza far alcuna pressione.
Eravamo insieme, l’uno stretto all’altra ma in realtà era come se fossimo soli: entrambi rinchiusi nei propri pensieri, entrambi a lasciarsi divorare da quei demoni così tremendamente simili.
Mi ritrovai a camminare senza interessarmi al luogo che mi circondava: voci, rumori, clacson, tutto mi giungeva ovattato come se quei pensieri gridassero nella mia testa, offuscando ogni altro elemento; eppure è ironico come il silenzio che accompagnava solo noi, risultò dannatamente deleterio e soffocante, al punto tale da ritrovarmi ad essere avvolta dallo sconforto più totale. Avevo sempre desiderato una chiara dimostrazione d’affetto da parte di Jeremy, l’avevo appena ricevuta. Avevo appena ricevuto la più grande dimostrazione che Jeremy potesse offrirmi ma non riuscivo a gioirne, mi sentivo terribilmente egoista, mi sentivo totalmente cieca: avevo preteso per tutti questi anni senza rendermi conto pienamente dei fatti, senza rendermi conto che lui già da troppo affrontava la sua battaglia silenziosa anche per me. Lui mi aveva appena dimostrato e spiattellato in faccia tutto quanto ed io, ora, mi ritrovavo incapace di parlare, il solo dire un semplice “grazie” mi risultò praticamente impossibile.

« Credo che andare da Buck, sia la cosa migliore per adesso. Ho bisogno di schiarirmi un attimo le idee e soprattutto bere qualcosa da solo. Chiama Michael e digli che va tutto bene, seppur per oggi sia il caso di chiudere il Paradise. »

La voce di Jeremy giunse talmente inaspettata da destarmi violentemente dai miei pensieri. Non avevamo più intorno la città ma il desolato viale che precedeva la tenuta trasandata di Buck. Non riuscii a parlare, neanche questa volta, limitandomi così ad annuire solamente.
Con lo stesso silenzio affrontammo quel poco tragitto rimasto, l’uno legato all’altra: lui con il suo braccio intorno alle mie spalle ed io con il mio volto schiacciato contro il suo petto, a ricercare insistentemente il battito di quel cuore.

 




NOTA DELL'AUTRICE: Finalmente è vivo.
D'ora in avanti entraremo sempre di più
nel vivo della storia v_v
Baci a coloro che mi seguono sempre.
Per gli errori, sapete ._.

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Capitolo 13
*** XIII - Per noi. ***


Documento senza titolo





Animi inversi




Il tuo cuore lo porto con me
Lo porto nel mio
Non me ne divido mai.
Dove vado io, vieni anche tu, mia amata;
qualsiasi cosa sia fatta da me,
la fai anche tu, mia cara.
Non temo il fato
perché il mio fato sei tu, mia dolce.
Non voglio il mondo, perché il mio,
il più bello, il più vero sei tu.
tu sei quel che luna sempre fu
e quel che un sole sempre canterà sei tu
Questo è il nostro segreto profondo
radice di tutte le radici
germoglio di tutti i germogli
e cielo dei cieli
di un albero chiamato vita,
che cresce più alto
di quanto l'anima spera,
e la mente nasconde.,
Questa è la meraviglia che le stelle separa.
Il tuo cuore lo porto con me,
lo porto nel mio.

Edward Estlin Cummings

Abraham era all’interno della sua enorme casa malridotta, lo trovammo steso all’interno della sua cucina, con la testa e le mani nascoste sotto il lavabo, destreggiandosi tra i vari tubi idraulici. Era come se volesse tenere la sua mente occupata in qualsiasi modo, solo per mantenere le sue preziose birre lontane. Jeremy aveva abbandonato la sua stretta su di me ormai da tempo ed io, oltre al mio stato d’animo praticamente schiacciato, avvertivo sempre di più la mia faccia essere avvolta da uno strano bruciore e bastò solo quello per farmi comprendere che silenziosamente la mia faccia si stava gonfiando.

« Mi avete fatto venire un colpo! »

Le parole di Abraham accompagnarono perfettamente la sua reazione, ovvero uno scatto veloce con il quale si mise subito a sedere. Quel suo atteggiamento tuttavia rilassato scomparve immediatamente quando vide le nostre facce, in particolare quella di Jeremy che, oltretutto, se ne stava ancora in silenzio, come se il suo attuale passatempo preferito fosse donare solo sguardi vuoti.

« Non avete buone notizie, vero? »

Non parlai, quasi desiderosa fosse Jeremy a parlare; speranzosa che si sfogasse e lasciasse emergere ogni suo pensiero. Ma il silenzio di Jeremy fu più pesante del mio, al punto tale da ritrovarmi presto costretta a parlare.

« Posso avere nel frattempo qualcosa per la faccia, Bu…mh, Abraham? Possibilmente qualcosa di gelato. »
« Non ho del ghiaccio ma…»

 Iniziò velocemente a rovistare nel frigo, uscendo ben presto tre bottiglie di birra dall’aspetto ghiacciato, me ne offrì subito una che immediatamente portai alla parte colpita.

«…credo che questo dovrebbe andare altrettanto bene. Queste altre due invece, dalle facce che avete stampate in viso, credo sia il caso di berle. »  

« Grazie. » Fu l’unica parola che Jeremy riuscì a far uscire dalla sua bocca, un parola così debole che fu difficoltoso solo percepirla ma il suo labiale non mentiva mentre si apprestava ad afferrare la bottiglia scura offerta dall’altro uomo.

« Stavo per entrare al Paradise’s Circus quando il padre di Jeremy inspiegabilmente mi blocca. Mi dice che devo tornare da mia madre, mi dice che se non lo faccio sarà costretto a farmi sputare sangue… insomma mi minaccia in ogni maniera possibile. Il problema è che io non sono riuscita a star del tutto zitta, cosa che mi ha fatto meritare un bel pugno assestato in faccia. Il ragazzo nuovo in città è stato anche arrestato solo perchè ha osato difendermi! Robert assiste alla scena e ormai stanco della situazione che va avanti da anni, decide di prendere l’iniziativa e dice ogni cosa a Jeremy. Jeremy a sua volta prende l’iniziativa e va ad assestare un bel pugno in faccia a suo padre. »

Mi ritrovai a parlare velocemente, riassumendo il tutto in maniera sin troppo semplice mentre combattevo contro il dolore provocato dal gelo della bottiglia contro il gonfiore del mio zigomo.  L’espressione di Abraham rimase quasi immutata, come se sapeva, come se fosse cosciente che un qualcosa di simile, prima o poi sarebbe accaduto. Non ebbi il coraggio di guardare Jeremy durante e dopo il mio racconto, neanche quando con un semplice gesto della mano libera si congedò, abbandonando me e Abraham in favore di un’altra stanza.
Abraham attese l’uscita di Jeremy per parlare e la sua voce risultava stranamente bassa, come se non volesse farsi sentire dal ragazzo.

« Credo che sapevamo tutti che prima o poi sarebbe successa una cosa del genere, Jèjè. »
« lo so, o meglio non credevo che sarebbe successa in questo modo e soprattutto non credevo che sarebbe successa così in fretta. Oltretutto non mi spiego perché Carl desideri così ardentemente che io torni da mia madre. »

Mi fermai improvvisamente. Le mie stesse parole mi lasciarono comprendere che probabilmente ogni risposta che cercavo era nascosta in Abraham ed infatti la sua espressione per un attimo sembrò non riuscire a celare il fatto che in realtà lui sapesse.

« Tu lo sai, vero? »
« Sei una ragazza intelligente, sai perfettamente che lo so. Ma come la situazione ha colto impreparata te, la stessa cosa ora fa con me. Non fraintendermi ma è troppo presto, ho paura che la questione non venga presa nei migliori dei modi e onestamente tale discorso non dovrei essere io a fartelo. »
« Il tuo discorso non mi piace per niente, Abraham. »
« Ne sono consapevole, Jessica. Ma al diavolo, tutta questa suspance direi che è altrettanto inutile, avevo in progetto di dirtelo in altro modo e non in queste condizioni. Secondo te perché il padre di Jeremy vuole che ritorni da tua madre, hai provato a ragionarci? »
« Sinceramente? Non riesco a trovare un motivo logico che non sia per i soldi, sono l’unica che porta a casa uno stipendio. Ma il problema è che non capisco perché la questione stia tanto a cuore a quell’uomo. »
« Semplicemente perché tua madre ha un legame particolare con Carl. Da giovani ebbero una storia e da lì in poi sono rimasti in qualche modo legati, forse sin troppo e questo porta quell’essere schifoso a donare sempre un occhio di riguardo verso tua madre…»
« Aspetta…non stai dicendo che Carl è mio padre, vero? »
Porsi quella domanda istintivamente,  colta improvvisamente da uno strano timore, una paura che tuttavia Abraham affievolì con un semplice sorrisino vagamente divertito.
« No. Carl non è tuo padre e tu e Jeremy non siete assolutamente fratelli, puoi star tranquilla. »
« E allora perché vuole che torni a tutti i costi da lei? »
« Per i soldi ma non per quelli che sei tu a portare a casa. Tua madre ogni mese riceve un assegno ma tale donazione verrà mandata sin quando tu sarai in quella casa con lei. Quell’assegno è strettamente legato alla tua presenza. »
« No aspetta. Mia madre non riceve alcun assegno. »
« E con quali soldi credi riesca a comprarsi tutti quei liquori? »
Abraham smise di parlare, quasi volesse fossi io, da sola, a giungere all’ovvia conclusione che prevedeva quel discorso. Improvvisamente mi sentii idiota perché in quel momento non riuscii a trovare una particolare conclusione. Ero cresciuta con un solo racconto e la situazione con mia madre, durante gli anni, mi portò a non voler approfondire qualunque cosa riguardasse lei o la mia famiglia. Rimasi quindi in silenzio, a supplicare con un semplice sguardo la pura verità da parte dell’uomo.
« Non credo ti stupirai venendo a sapere in realtà che non esiste alcun stupratore. Esiste solo un uomo che silenziosamente e forse ingenuamente trattiene le distanze, sperando che i soldi che versa ogni mese, vengano sfruttati per sua figlia. »
Quelle parole mi travolsero con una particolare prepotenza, ancora una volta venni accolta da una miriade di emozioni contrastanti tra di loro. Non riuscivo a dar ordine ai miei sentimenti, non riuscivo a dar ordine ai miei pensieri e così, quasi immediatamente fu uno strano odio a colpirmi.
« Io non so se sia meglio avere uno stupratore come padre o uno che si è disinteressato di sua figlia. »
« Disinteressato è una parola grossa, Jèjè. Credo sarà abbastanza strano da sentire ma sappi che ogni sua scelta è stata effettuata per il tuo bene. Senza contare che come detto, ogni mese si preoccupa di mandare dei soldi. »
« Come può un uomo farmi del bene lasciandomi con quell’essere di donna, me lo spieghi? »
« Questo è più complicato da spiegare e non credo in realtà stia a me dirlo, come in fin dei conti non stava a me svelarti tutto questo. »
Le ultime parole di Abraham mi fecero letteralmente diventare furiosa. Abbandonai velocemente quella bottiglia di vetro, ormai non più gelida e iniziai a gesticolare senza un controllo.
« Cazzo, spero tu stia scherzando! Ti rendi conto di cosa stai per fare? Mi sveli che ho un padre, mi sveli che la verità con cui ho vissuto per tutti questi anni in realtà era una menzogna… mi sveli che mio padre è vivo e sa della mia esistenza! E tu ora non intendi terminare il tuo discorso? Intendi veramente lasciare questo discorso a metà? Spero che tu capisca che è un qualcosa che non puoi permetterti! Ma la cosa peggiore sai qual è? E’ che tu sapevi tutto di questa storia e non ti sei mai permesso di dirmi nulla! »
La sola espressione di Abraham rivelò la verità delle mie parole. Lui sapeva tutto da tempo, lui non aveva intenzione di dirmi altro. Il suo volto oppresso dal rammarico e il suo scuotere lentamente il capo furono le uniche cose che riuscì a donarmi.
« Io mi sono sempre confidata con te. »
« Jessica, non devi prenderla così. »
« E come cazzo dovrei prenderla, me lo dici? »
Senza accorgermene mi ritrovai nuovamente in piedi e ad urlare praticamente contro il volto di Abraham. La mia agitazione era in perfetto contrasto con la calma quasi innaturale di Abraham.
« Non ti permetto di parlarmi n questo modo. Ti ho sempre sostenuta, ho permesso a te e a Jeremy di nascondervi nella mia casa per anni, ho sempre sorvegliato su di te e sul ragazzo, assicurandomi nei limiti che le vostre condizioni fossero eccellenti. Vi sto trattando come le persone più care a me,  su questo mondo, quindi ribadisco: non ti permetto di parlarmi in questo modo. Oltretutto lascia che ti offra un consiglio: sei qui a cercare una verità che ora come ora non ti sarà utile, invece di essere vicino a Jeremy. Quel ragazzo ha distrutto ogni cosa del suo mondo per te e tu sei così egoista da interessarti al passato invece di riporre le attenzioni su chi dovrebbe realmente meritarle. Stabilisci le tue priorità, Jessica, poi riprenderemo il discorso. Ti auguro una buona giornata.»
Il suo flusso di parole riuscii ad ammutolirmi, lo osservai muoversi verso l’esterno della cucina per poi sentir sbattere con forza la porta d’ingresso. Quelle parole risultarono come un potente schiaffo in faccia e il lato peggiore era che lui aveva maledettamente ragione.




Trovai Jeremy nella mia camera, steso sul letto ed intento a fissare con sguardo vuoto quella bottiglia di birra ormai privata del suo contenuto; neanche il mio ingresso riuscì a distogliere il suo sguardo dall’oggetto.
Mi sistemai su quel letto,al suo fianco, senza dir una parola, ritrovandomi ad assecondare inconsciamente quel pesante silenzio che opprimeva la stanza. Rimasi immobile, distesa sulla schiena proprio come lui mentre la mia mente si affollava di pensieri, all’atroce ricerca delle parole giuste, impossibili da trovare dato che la mia mente rivangava ancora su quella figura paterna esistente ma a me del tutto sconosciuta.

« Finalmente qualcosa ti ha ammutolita una volta per tutte. Non so se prendere questo tuo gesto bene o male, Jessica. »

Con mia grande sorpresa fu lui a mettere fine a quel silenzio pesante, con quella voce che accoglieva una triste ironia.

« Semplicemente non me lo aspettavo. Questi ultimi giorni sono stati strani: troppi avvenimenti, troppe novità, Jeremy.  »
« Non te lo aspettavi? E’ un modo per dire che non credevi riuscissi a fare qualcosa di simile? In fin dei conti era quello che desideravi e ora non mi concedi neanche una parola, improvvisamente sei incapace di parlare. »
« Non intendevo questo, Jeremy. Lo sai anche tu. Ma hai ragione su una cosa, per una volta non sono capace di dire qualcosa di sensato o giusto. »
« Vieni qui. »
Si concesse una semplice pacca contro il petto, proprio all’altezza del cuore. Non esitai ad accogliere il suo invito e silenziosamente mi rifugiai in fretta sotto il suo abbraccio, accostando il mio orecchio proprio al suo petto. Le mie dita scivolarono presto contro il suo braccio tatuato, ritrovandomi a seguire con i polpastrelli i contorni di quell’inchiostro sottopelle.
« Credo solo di sentirmi in colpa, Jeremy. »
« Per quale motivo? »
« Perché sono consapevole del fatto che da questo momento tutto cambierà, tutto diventerà un inferno. »
« Smettila di dire idiozie, Jess. Voglio solo che almeno per una volta…una sola, tu possa lasciarti andare realmente. Al diavolo tutto, al diavolo la paura. Tu non hai più una madre a cui tornare, io non ho più un padre. Ho passato l’inimmaginabile e per cosa?... Almeno se dovrò continuare a subire questa merda sarà perché io l’ho deciso, reagendo in un modo. Quindi puoi mettere da parte ogni tuo contorto pensiero perché non l’ho fatto solo per te, l’ho fatto anche per me stesso. »
« Io ti ...»
La mia voce non riuscii a pronunciare la terza parola, la più importante, come se la mia lingua si fosse immobilizzata, proprio come ogni muscolo del corpo, quasi la verità di quelle parole si fosse bloccata proprio in questi, irrigiditi e improvvisamente tesi. Osservai Jeremy sorridere e scuotere lentamente il capo, prima che il suo sguardo si incrociasse con il mio.
« Sei proprio idiota, Jessica. Lo sapevo, l’ho sempre saputo, ma io, al contrario di te, non ho mai voluto una palese dimostrazione, tuttavia…»




NOTA DELL'AUTRICE: Lo so, è stata un'infamata chiudere il capitolo così v.v
Ma prometto che l'aggiornamento non tarderà.
Probabilmente c'è qualche errorino, seli avvistate, fischiate!
Baci a chi mi segue!

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Inoltre, la mia mente malata e quella di Malaria, ricordano che:

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Capitolo 14
*** XIV - Una sola cosa ***


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Animi inversi




Calò il silenzio. Non ci fu un seguito a quel “tuttavia” ma il tocco delicato delle dita di Jeremy contro la mia guancia, sembrò riuscire a non farmi desiderare altro. Era come se improvvisamente e dopo tutti questi anni trascorsi insieme, io e lui, ci fossimo realmente trovati e compresi, pronti ormai ad oltrepassare un muro altissimo per condividerci, finalmente, in tutto e per tutto. Misi da parte ogni paura, ogni pensiero, ogni titubanza e lui sembrò fare lo stesso, dandomi dimostrazione di questo proprio quando le sue labbra scivolarono contro le mie, ricercando un bacio dapprima delicato, ingenuo forse, ma man mano sempre più vorace, intenso. Era come se quel solo bacio fosse in grado di farci recuperare tutti gli anni trascorsi, l’esserci privati dei nostri reali sentimenti ,così potenti, solo a causa di altre influenze esterne.

« Jer, ti amo. »

Sussurrai improvvisamente, ritrovando una forza che sino a quel momento mi era sconosciuta e che sorprese me stessa. Parole basse e dette occhi negli occhi, con le mie labbra che sostavano ad un soffio da quelle di lui. E per la prima volta mi lasciai andare, accogliendo Jeremy come prima mai ero riuscita a fare, seppur una parte di me l’avesse sempre desiderato. Non ci fu solo quel bacio ma scoprii presto il piacere di avvertire le dita di Jeremy contro la mia pelle: tocchi leggeri che scorrevano prima lungo il mio collo, poi al di sotto della mia maglia, privandomi lentamente di questa; un solletico in grado di lasciarmi avvertire piccoli brividi che risalivano lungo la spina dorsale solo per espandersi su tutto il mio corpo.
Ci ritrovammo presto entrambi privi dei nostri abiti, l’uno legato all’altra in un’opera che ormai era divenuta perfetta e ben assemblata. Non c’era alcuna parte di me che non fosse unita a lui, eravamo in quel momento una sola entità, una sola persona, una sola anima. Ogni parte di me lo ricercava, e potevo avvertire ogni parte di lui, invece, ricercare me; entrambi, insieme, ci completavamo: le mie gambe rilassate si intrecciavano alle sue tese e rigide, le sue dita serrate, richiudevano in una morsa gelosa, le mie molli e delicate; il tutto mentre i nostri bacini erano concatenati l’uno all’altro, unendoci definitivamente. Gemiti e respiri bassi erano l’unica sinfonia presente ad animare la stanza e ad accompagnare quell’atto intimo e delicato, quanto a tratti più animato e coinvolto.
Ci ritrovammo, alla fine, stesi l’uno vicino all’altra, i nostri corpi ancora nudi e intrecciati. Il mio capo contro il petto di Jeremy, solo per ricercare quel battito cardiaco in grado di infondermi sempre una strana pace.
Trovai strabiliante come una stanza ormai silenziosa e pregna del profumo di un atto consumato e così intimo, fosse in grado di farmi improvvisamente trovare quella felicità che forse mai in vita mia ero stata in grado di provare. Le dita di Jeremy tra i miei capelli, il suo respiro, il suo corpo… ogni cosa di lui, riuscì a farmi sentire al sicuro.
Non volevo smuovermi da lì per nessuna ragione al mondo, avrei trascorso volentieri la mia intera vita in quella stanza insieme a lui, passando il tempo a parlare e tracciare con le mie dita i contorni dei suoi tatuaggi che imprimevano il suo petto e tutto il suo braccio destro.
Mi abbandonai al sonno, risvegliandomi quando ormai nella stanza il sole filtrava in maniera decisamente più debole, segno che parecchie ore erano trascorse. Donavo le spalle a Jeremy ma lui era lì, ad abbandonare il suo pesante respiro assonnato, contro la mia spalla; il suo petto toccava la mia schiena, il suo braccio era intorno alla mia vita e le nostre gambe erano sempre intrecciate tra di loro. La stanza presentava ancora il profumo dei nostri corpi, seppur fosse ormai una scia pronta a scomparire definitivamente. Mi stiracchiai appena per destare quei muscoli indolenziti a causa di quella posizione trattenuta per troppo tempo, movimento che svegliò Jeremy.

« Vuoi stare un po’ ferma? Anche perché se hai voglia di alzarti, sappi che non ho proprio intenzione di lasciartelo fare. »

La sua voce impastata dal sonno giunse direttamente contro il mio orecchio, mentre la sua presa si serrò appena, stringendomi ulteriormente a lui, quasi fosse una conferma alle sue parole.

« In realtà non ho voglia neanche io di alzarmi. »
« Vieni qui. »

Si voltò, posizionandosi con la schiena contro il materasso e si donò un piccolo colpetto contro il petto, regalandomi in tal modo un invito a sentire nuovamente quel battito, come se sapesse cosa provavo ogni volta che il mio orecchio poggiava contro quel punto. Mi voltai, adocchiando il suo viso assonnato e incorniciato da una chioma lunga e scompigliata, visione che mi lasciò sfuggire un sorriso compiaciuto; sorriso che lui ricambiò nel medesimo modo dato che il mio stato probabilmente era esattamente simile al suo.

« Credo sia pomeriggio, ormai. Dovremmo alzarci e onestamente inizio ad essere un po’ preoccupata per Robert. »
« Cazzo, Robert. »

Non feci in tempo a posare il mio capo contro il suo petto che lui portò la sua mano a nascondere gli occhi, mostrando improvvisamente un’espressione più sveglia e oltretutto preoccupata. Sollevò le spalle, invitandomi tacitamente ad alzarmi e ritrovandoci qualche secondo dopo, entrambi in piedi, intenti a vestirci frettolosamente.
Il momento di pace era trascorso e la realtà ci aveva nuovamente affogato nella nostra triste e complicata esistenza. La pace era passata con un veloce battito di ciglia, ritrovandomi improvvisamente con una macigno sul cuore: avevamo abbandonato Robert nelle mani di un carnefice, ma l’aspetto realmente negativo era che l’avevamo dimenticato.
Una volta divenuti nuovamente presentabili, abbandonammo la nostra stanza, dirigendoci verso la cucina, a cercare la presenza di Abraham. Con nostra particolare sorpresa non trovammo solo lui, ma seduto composto a sorseggiare una tazza di tè, insieme ad Abraham, c’era Logan, il cui sguardo ricolmo di disapprovazione sembrò quasi trafiggermi.

« A quanto pare la cena di questa sera è annullata, tuttavia non per il motivo che tu credi, Jessica. »

E fu proprio Logan a spezzare quel silenzio imbarazzante, era chiaro che sia lui che Abraham sapessero cosa era successo tra me e Jeremy, eppure nei loro sguardi sembrava celarsi qualcosa di più, qualcosa che entrambi non desideravano comunicarci, costringendoci ad una stancante curiosità.

« Allora la prossima volta credo che sia il caso che si prenoti per tre. Quattro se anche Abraham desidera aggiungersi. »

La risposta di Jeremy giunse velenosa quanto spontanea, era palese che tra i due scorreva una strana tensione, in entrambi potevo vederlo: si annidava quasi una prepotente gelosia. Una gelosia che non riuscii tuttavia a spiegarmi da parte di quello sconosciuto. Rimasi al fianco di Jeremy, in silenzio, non avevo il minimo desiderio di intromettermi tra il bisticcio velenoso di due uomini, mi ritrovai solo a ricacciare un pesante sospiro che uscì con prepotente spontaneità. Tuttavia, quel sospiro riuscì ad essere colto da Abraham che prese immediatamente l’iniziativa, mettendo a tacere sul nascere ciò che stava per sorgere.

« Non è il momento per queste idiozie da maschio dominante, ragazzi. »

Esordì Abraham, il quale nel frattempo mi rivolse una lunga occhiata; non c’era disapprovazione o curiosità nel suo sguardo, solo un bagaglio di segreti che il suo cuore teneva ben serrati al suo interno; come se tutti quei segreti, per lui iniziassero realmente a pesare e se volesse liberarsi di quel fardello, condividendolo con qualcun altro.

« Aspettate. Voi due vi conoscete? »

La mia domanda sorse spontanea, incitata in parte dal comunicativo sguardo di Abraham; ma non la indirizzai a Logan, il mio sguardo era esclusivamente per l’uomo maturo ed era proprio da lui che aspettavo una risposta chiara, precisa.

« Lo so che inizio ad essere ripetitivo, Jessica ma ora ci sono questioni più importanti da risolvere, dato che in città le cose si stanno evolvendo in una maniera particolarmente insana. Per rispondere immediatamente subito alla tua domanda, sì, io e Logan ci conosciamo. Non è tuttavia il momento di metterci a scavare nel passato. Dobbiamo andare in un posto e proprio Logan ci offrirà un passaggio. »

Il tono di Abraham non sembrava permettere alcun tipo di protesta. Ormai conoscevo la sua determinazione e la sua sincerità, non osai insistere ritrovandomi inevitabilmente a tacere. Tuttavia, così non fu per Jeremy che al contrario di me, iniziò a far uscire un flusso incontrollato di parole.

« Ci stai dicendo che lo conosci e ce lo riveli così? Perché cazzo non ci hai detto niente? Perché tutti credono, in questa deprimente cittadina che io e Jessica siamo solo delle marionette da manovrare? Siamo stanchi di questa situazione. Siamo stanchi di essere trattati come degli idioti a cui si nascondono le cose, quindi diteci cosa c’è sotto, diteci come mai vi conoscete e soprattutto perché non ce lo avete detto! »

Jeremy concluse il discorso con un pugno ben assestato contro il tavolo dal legno grezzo; un colpo che fece vibrare non solo quella struttura ma anche ogni piccolo oggetto che era sistemato su di esso. Per la prima volta vidi Logan abbassare il suo sguardo: non sembrava essere più avvolto da quella sicurezza con cui l’avevo conosciuto ma la sua espressione improvvisamente contrita metteva in risalto un suo lato sensibile che lasciò vacillare i miei pensieri, seppur per pochi secondi.
Fu Abraham a replicare all’impulsività di Jeremy:

« Robert ha tentato di difenderti questa mattina. La notizia ufficiale è che una volta che si è trovato in ufficio con tuo padre, Robert sia diventato violento per cercare di appellarsi ad ogni ragione possibile, portando lo sceriffo ad effettuare una drastica autodifesa. Naturalmente sappiamo di che uomo stiamo parlando per sapere che i fatti non sono andati proprio in questo modo. Il risultato è che ora Robert è ricoverato in ospedale, in terapia intensiva; i medici l’hanno costretto ad un coma farmacologico dato che le percosse sono state così violente da averlo ridotto veramente molto male. »




NOTA DELL'AUTRICE: Ed è giunto finalmente anche Animi Inversi.
Qualche errorino c'è, ma inutile che ripeta sempre le stesse cose, no? ù_ù
Direi che siamo ad una svolta con la trama, mie adorate... non odiatemi <3

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Capitolo 15
*** XV - Il segreto svelato ***


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Animi inversi




Il rumore dei nostri passi risuonava lungo quel corridoio ampio e lungo. Le pareti bianche e sterili di quell’ospedale sembravano quasi una sorta di cliché sin troppo scontato e presente in qualsiasi film drammatico degno di nota. Ritrovai un’insana ironia in quella determinata situazione, almeno sin quando non arrivai a metabolizzare seriamente che ogni piccolo dettaglio era sin troppo reale. Troppo.
Apparvero un fastidioso cliché anche le parole di quell’uomo alto e vestito da un camice bianco; ci osservava rinchiuso nella sua altezzosità, palesata da uno sguardo disinteressato e stanco, addirittura annoiato.

« Se non siete dei parenti non posso farvi entrare, come non posso fornirvi alcun tipo di notizia sullo stato di salute del paziente. »

Mi trovavo immobile tra Abraham e Jeremy, costretta ad accogliere in silenzio ma soprattutto impotente, la scontata legge sulla privacy imposta dal medico. Taciturna, consolata solo da una mano di Abraham posta sulla mia spalla sinistra, una stretta leggera ma nella quale non fui in grado di trovare alcuna sorta di sostegno.

« Logan Flint Howlett, posso sapere quel è il suo nome, Dottore? Fortunatamente si trova davanti all’assistente del legale del suo paziente, Robert Garner. In realtà ad accompagnarmi c’è anche la mia collega. »

Le parole di Logan giunsero inaspettate, tanto da far emergere meraviglia anche sul volto di Abraham, il quale, insieme a me e Jeremy, tentò subito di lavare via il suo stupore. Ci ritrovammo tutti e tre vittime ma allo stesso tempo complici di quella situazione imposta dal ragazzo,  in particolare io che venni additata come sua collega.
Mi ritrovai ad annuire immediatamete, reggendo quel gioco malsano, sperando dentro di me che non si sarebbe ritorto contro di noi.
Assistemmo ad un repentino mutamento nel medico: il suo atteggiamento ben più aperto e disponibile era rivolto solo a me e Logan.

« Chris Meyers, sarei il medico che ha preso in cura il vostro cliente. E gli altri due signori chi sarebbero, Signor Howlett? »
« Il signore è un affezionato cliente ed io sono un dipendente di Robert. Siamo stati noi ad avvertire l’avvocato che ha di conseguenza mandato i suoi assistenti. Noi ci siamo solo preoccupati di accompagnarli nel luogo esatto, dottore. »

Fu Jeremy a rispondere velocemente alla domanda del medico, esponendosi anche lui in quel gioco. Abraham non fece altro che annuire, confermando in tal modo le parole del ragazzo al mio fianco.

« Molto bene. Lei e la signorina potete seguirmi, gli altri sono costretti ad attendere nella sala d’attesa. Tuttavia, solo uno di voi due assistenti può entrare nella camera del paziente o meglio, potete farlo uno alla volta »

Rimasi stupita nel vedere giungere il successo così velocemente ma mi ritrovai quasi pietrificata sul mio posto, come se improvvisamente non ero più in grado di muovere un solo muscolo.
Ricevetti una piccola spinta da Jeremy, proprio all’altezza del fianco; un gesto che mi donò la forza necessaria per iniziare a muovermi seppur con un passo lento ed insicuro.
Un altro corridoio, occupato solo da noi tre, ci separava dal reparto di terapia intensiva. Per un’inspiegabile motivo mi ritrovai a temere l’ampia porta a due ante, dalla quale, tramite due vetrate alte e rettangolari, si poteva già intravedere il verde ospedaliero dei lenzuoli.

« Entrerà la mia collega dal paziente, io invece mi soffermerò con lei per conoscere un po’ lo stato del nostro cliente. Non avendo alcuna famiglia, siamo noi gli unici a doversene interessare, naturalmente. »

« Signorina, appena entrata troverà mascherine e un apposito camice monouso che potrà indossare, oltre naturalmente ai rivestimenti per le sue scarpe. Cerchiamo di mantenere a qualsiasi costo l’ambiente totalmente sterile. I pazienti in quel determinato stato sono sensibilissimi a infezioni e altre influenze che potrebbero introdursi dall’esterno, quindi la pregherei di seguire tale procedura alla lettera.»

Furono le parole di Logan che riuscirono a distogliere il mio sguardo da quelle vetrate, seguite poi dalla spiegazione del medico al quale risposi con un celere cenno del capo, nulla di più. Mi resi conto in quel momento di aver perso momentaneamente l’uso della parola, trasmettere qualsiasi tipo di risposta o suono, diventò improvvisamente complicato. Tuttavia il mio atteggiamento non sembrò destare dei sospetti in quel medico che prestò si dimenticò della mia presenza per dedicarsi esclusivamente a Logan.

Un soffitto bianco e mura ricoperte da piastrelle di un colore verdastro. In realtà nella zona occupata dai pazienti di terapia intensiva, tutto era verde, anche le porte erano verniciate nel medesimo colore. Mi vestii come richiesto, avvolgendomi in quel camice in tnt, completando con una piccola cuffietta del medesimo materiale, mascherina e parascarpe. Mi ritrovai al centro di quella lunga sala che vagamente ricordava la navata di una Chiesa: al centro uno spazio libero mentre ai lati erano posizionati i vari letti su cui erano risposti i pazienti.
L’opprimente silenzio nella stanza risaltava l’irritante rumore emesso dai macchinari, questi sembravano creare una singolare sinfonia che non faceva altro che accentuare l’esistenza di tutti quei pazienti immobili in uno stato bloccato tra la vita e la morte.
Iniziai a percorrere con estrema lentezza il centro di quel corridoio, costretta alla vista di esseri apparenti dormienti ma tutti bloccati in un coma profondo.
Riconoscere Robert fu difficile: il suo stato gonfio, livido aveva mutato considerevolmente i tratti del suo volto, rendendolo quasi irriconoscibile. La sua vista mi paralizzò. Il suo battito cardiaco, segnato dal fastidiosissimo “bip” di un macchinario, si mostrava particolarmente lento, proprio come il suo respiro non più spontaneo ma artificiale, sostenuto da un’ ennesima macchina che rilasciava ossigeno.
Mi ritrovai senza rendermene conto al fianco del suo letto; un lenzuolo nascondeva il suo corpo nudo, lasciandolo scoperto solo dalla vita in su, a rivelare non solo un viso deformato dalle percosse ma anche un busto gonfio e segnato da ematomi.
Allungai la mano timidamente verso quella scoperta di Robert, offrendogli un tocco non premuto, leggero, impaurita da quella fragilità che il suo corpo sembrava essere in grado di urlarmi.
Iniziai a sentirmi soffocare, il pianto coperto da quella mascherina fu in grado di rendermi seriamente difficile il respiro, costringendomi di tanto in tanto a prendere delle pause solo per concedermi profonde boccate d’ossigeno.

« Non puoi morire, sappi solo che non puoi morire. »

Fui in gradi di sussurrargli solo quelle poche parole dato che il pianto divenne più agitato e incontrollato. Strinsi appena quella mano prima di scappare letteralmente via dal reparto. Strappai  via quel camice e gli altri componenti, liberandomene subito e senza curarmi di riporli nell’apposito contenitore.
Nonostante il mio volto non era più oppresso da quella mascherina medica, nonostante non fossi più tra quei letti, l’aria continuava a mancarmi, rendendomi presto conto di essere preda di una sorta di sensazione claustrofobica che era l’intera struttura ospedaliera a donarmi. Corsi via, guidata solo da quello che altro non era che un attacco di panico. Abbandonai quei corridoi, oltrepassando anche l’ala d’attesa, ritrovandomi presto fuori, oltre le porte scorrevoli dell’ingresso. Una volta all’aperto iniziai ad accogliere ampie boccate d’aria con la sola speranza di ritrovare il respiro e normalizzarlo, cosa che avvenne solo quando una mano si posò contro la mia schiena chinata in avanti.

« Calmati, è passato. E’ passato tutto. »

Il tocco e la voce di Jeremy contribuirono a normalizzare il mio respiro ma non a calmare il mio stato d’animo, il quale esplose una volta che adocchiai Abraham e Logan raggiungerci. Fu proprio sull’ultimo che mi avventai, colpendo il petto del ragazzo con una ferocia che mai prima di quel momento aveva fatto parte del mio essere.

« Non è passato proprio niente! Robert è in coma! Come potrebbe essere passato. E tu! chi diavolo sei? Che cosa vuoi da me, da tutti noi? Perché cazzo ti intrometti in delle vite che non ti interessano minimamente? Chi cazzo sei, dimmelo! Perché tutto sembra essere peggiorato proprio da quando sei comparso tu! »

Scaraventai tutta la mia frustrazione contro Logan, il quale si sbilanciò appena sotto i miei colpi ma non osò bloccarmi in alcun modo, subendo quell’attacco sia fisico che verbale. Furono Abraham e Jeremy ad intervenire e allontanarmi dal ragazzo, il quale immediatamente con una strana calma iniziò a sistemare il colletto stropicciato della propria giacca, con l’inutile intento di appiattire quelle pieghe.

« Jèjè, cerca di calmarti, dare spettacolo è l’ultima cosa che dobbiamo fare in questo momento. »

Ero bloccata fra le braccia di Jeremy, busto e braccia erano serrate nella sua morsa, impedendomi qualsiasi altra azione nei riguardi di Logan. Le parole di Abraham scivolarono su di me senza sorbire alcun tipo di effetto, proprio come il suo volto contrito dal dispiacere.
La tensione dei muscoli scivolò presto via, ritrovandomi con un paio di gambe tremanti in grado di sostenermi a malapena; mi ritrovai così sorretta soprattutto da Jeremy che non allentò in alcun modo la presa, anzi, la rafforzò.

« Ti prego. Dimmelo. »

Questa volta il mio tono non fu imperativo ma mi ritrovai letteralmente a supplicare, abbandonandomi poi ad un nuovo pianto incontrollato. Potevo avvertire lo sguardo di Logan impresso su di me, da questo trapelava uno strano coinvolgimento, rivelato da occhi arrossati. Sospirò profondamente, talmente tanto che riuscii ad avvertirlo nonostante il mio pianto. E mi rispose, proprio a seguito di un mio ulteriore sguardo supplichevole, rivelando una verità che smise di far battere per alcuni istanti il mio cuore stanco.

« Sono tuo fratello. Fratello gemello a dir la verità. »







NOTA DELL'AUTRICE: Abbiate pietà di me, l'ho scritto alle quattro di notte e pubblicato
dopo due letture. Domani lo rileggo bene per correggere eventuali errorini.
E comunque... io ve l'avevo detto che d'ora in avanti ci sarebbero
stati scossoni nella trama e che ogni puzzle sarebbe
andato al suo posto.
Ve lo aspettavate?

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Capitolo 16
*** XVI ***


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Animi inversi




« Sono tuo fratello. Fratello gemello a dir la verità. »
Non avrei mai immaginato che una semplice frase, riuscisse a farmi sentire letteralmente il cuore in gola. Ero abituata in fin dei conti al peso delle parole ma ingenuamente mi resi conto di essere immune solo a quelle pronunciate da mia madre.
Mi ritrovai immobile, incapace non solo di muovermi ma anche di parlare. Rendendomi conto di essere in grado solo di respirare: un respiro incontrollato, veloce e che si univa al battito decisamente incostante e accelerato. Scostai lo sguardo da Logan, aggrappandomi alle figure di Jeremy e Abraham, cercando una spiegazione da loro. Non trovai nulla dal primo: come me era immobile, impegnato ad osservare interrogativo ed incredulo Logan. Soffermai quindi lo sguardo supplicante su Abraham che quando si rese conto di essere protagonista anche lui per mia volontà, tese le mani verso di me, muovendole lentamente, invitandomi a calmarmi.
« Jessica, tranquilla. C'è una spiegazione a tutto. » La voce di Abraham tentava di essere rassicurante ma allo stesso tempo fui in grado di riconoscere una strana colpevolezza in quelle note.
Aggrottai la fronte, preda della confusione e di due gambe tremanti. « Devi solo stare calma e ti spiegheremo tutto. » Non bloccò le sue parole, continuava ad avvicinarsi mentre le sue mani ancora si muovevano, ammonendomi di rimanere immobile.
« Io... » Biascicai. Ero incredula. Iniziai a indietreggiare, ormai padrona del mio stesso corpo seppur vittima ancora di un respiro agitato.
« Jessica. Cerca di stare calma. » Le improvvise di parole di Jeremy furono un'intromissione che presi ulteriormente male. Sapevo che lui non era coinvolto, sapevo in cuor mio che anche lui, proprio come me, stava facendo i conti con quella verità. E sapevo che lui, per entrambi, stava tentando di tenere le redini della situazione, di fare il forte. Eppure, l'avvicinamento lento dei tre uomini mi fece sentire come un animale in trappola. L'unico desidero che avevo era proprio quello di attaccare e scappare.
« Io mi fidavo di te. » Conclusi quella frase, biascicata e bassa, rivolta ad Abraham che ancora osservavo incredula, sconvolta. Quell'uomo sapeva tutto di me, avevamo trascorso giornate al bar confidandoci ogni cosa, ogni dettaglio della nostra vita e mi sentii tradita quando mi resi conto che lui, al contrario di me, celava un segreto così enorme. « IO MI FIDAVO DI TE! » Mi ritrovai presto a gridare, mettendo da parte il vittimismo e passando alla rabbia che mi invase.
Le mie urla riuscirono ad attirare lo sguardo dei passanti, costringendo i tre uomini ad un avvicinamento decisamente più celere.
« Ora smettila di gridare. Stai attirando l'attenzione e questo è l'ultimo elemento che desideriamo. » Fu la prima volta che vidi la vera faccia di Logan, la sua preoccupazione e il suo improvviso fastidio riuscirono a scalfire quella difesa di ghiaccio, lasciando emergere, seppur malamente, le sue emozioni. Mi afferrò il braccio, la sua forza non voluta ma causata probabilmente dal suo trasporto, provocarono un lieve pizzicore ai punti di sutura che vennero tirati appena.
« Davvero credevi di essere figlia di uno stupratore? Lo credevi davvero? » Mi ritrovai presto il volto di Logan ad un soffio dal mio; lui, proprio come me, preda di un'insolita rabbia dalla quale venni involontariamente investita.
« Lasciala stare, adesso. » Sentii la voce di Jeremy, mossa con un istinto protettivo, rivolgersi a Logan. Non lo osservai, sin troppo attirata dal volto di quello che si era appena rivelato mio fratello. Non volutamente studiai i tratti di quel viso che per un motivo insolito risultarono sin troppo familiari. Il colore dei suoi occhi, la forma delle sue sopracciglia, i suoi lineamenti squadrati ma non eccessivamente... ogni tratto di quel volto mascolino furono improvvisamente in grado di ricordarmi il mio di viso. Smossi le labbra, investita da quella somiglianza che liberò il mio cuore da ogni dubbio, lasciandolo tuttavia alla consapevolezza che stranamente aveva un peso maggiore, più opprimente.
Mi ritrovai incapace di distogliere il mio sguardo dal suo volto anche quando lui venne strattonato via da me, grazie ad Abraham. Jeremy allungò subito la sua mano verso di me, premuroso come sempre, ma lo rifiutai con un brusco cenno della mia mano; non volevo più essere toccata, non in quel momento. Non volevo rassicurazioni, non volevo comprensione, volevo solo la verità.
« Lo credevo. Sì. Era l'unico motivo per cui mi spiegavo il comportamento di quella donna. » Risposi secca con un tono vagamente più alto di quanto in realtà avessi voluto. Le mie parole bloccarono simultaneamente i tre uomini che dovettero fare i conti con le mie parole, con i miei sentimenti.
Corsi via, abbandonandoli lì, incurante delle loro urla e il loro invito a fermarmi, era evidente che sapessero dove avevo intenzione di andare.
Mi immersi in una corsa frenetica, sforzata, che mi costrinse sin troppo presto ad avvertire un sempre più crescente dolore agli arti inferiori. Il fiato già corto si velocizzò, proprio come il mio battito cardiaco ed un lieve dolore all'altezza del petto. Non feci caso alla fatica della corsa o ai suoi dolori; come non feci caso ai vari passanti e ai vari sguardi che inevitabilmente attiravo. Mi rinchiusi nella mia mente, non per mio volere, ma il peso dei ricordi e del dolore emersero con foga, accumulandosi e lasciandomi rivivere anni e anni trascorsi al fianco di quella donna che non solo aveva scaricato su di me ogni sua infelicità ma mi aveva mentito, giustificando in tal modo ogni violenza che mi serbava giornalmente.
Quando giunsi davanti la mia vecchia casa avevo ormai il fiato realmente corto; riusciva a graffiarmi la gola ad ogni singolo respiro provocandomi un lieve fastidio, incrementato anche dal cuore che sembrava voler scoppiare da un momento all'altro. Jeremy, Logan e Abraham erano già lì, a borbottare tra loro nei pressi della loro macchina. Non risultai sorpresa, la loro intuizione giusta su dove sarei giunta tuttavia non bastò a bloccarmi dato che velocizzai la corsa, oltrepassando i tre uomini velocemente che tentarono di corrermi dietro e bloccarmi.
Aprii la porta, ritrovandomi in un luogo dalle condizioni ben conosciute.
La prima cosa ad investirmi fu il fetore provocato dalla pila di piatti sporchi e abbandonati malamente nel lavandino, dove uno sciame di mosche banchettava indisturbato. Mi bloccai, tentando di abituare la mia vista a quel disordine decisamente peggiorato: non c'erano solo abiti sparsi per il pavimento ma anche rifiuti, bottiglie di alcolici ormai vuote e chissà cos'altro. L'incuria regnava ovunque in quella casa. E non mi sorpresi nel vedere che i frammenti di vetro, che avevano rischiato di colpirmi solo qualche notte precedente, riposare ancora in un angolo.
Il mio ingresso turbolento contribuì nel farmi trovare Susan, ovvero mia madre, seduta sul suo fidato divano, intenta ad aprire un ennesima bottiglia di scadente whisky e il suo sguardo puntato proprio verso di me. Mi sorprese vederla abbigliata con una sgualcita e scadente maglia dalla triste tinta leopardata, e dei vecchi e macchiati jeans. La sigaretta accesa le penzolava dalle labbra, costringendola a mantenere gli occhi semichiusi per combattere la sottile scia di fumo.
« Arrivi tardi. Non ho la minima intenzione di darti un posto in cui dormire... a meno che tu non sia disposta a pagarmi il doppio dell'affitto per la stanza. » Le sue parole dure non erano ancora biascicanti a causa dell'alcol, ma rivelavano una mente in bilico tra la lucidità e uno stato di ebrezza.
Alle sue parole, mi fu naturale increspare le labbra in una smorfia disgustata, ma trovarla in uno stato ben più lucido e non quasi comatoso, mi bastò per spronarmi ad avanzare.
« Tu sei una puttana. Una gran figlia di puttana. » Fu così che risposi, incurante del fatto che lei stesse maneggiando nuovamente del vetro, indifferente nei riguardi di una probabile reazione violenta che avrebbe potuto animare la stanza. Lo biascicai a denti stretti, una semplice frase con cui scaricai tutta la rabbia che avevo represso per anni e anni: una risposta ad ogni suo trattamento ostile che mi aveva dedicato.
Fu palese che la mia frase non era ciò che si aspettava dato che il suo sguardo si serrò contro di me; abbandonò la sua preziosa bottiglia per sollevarsi e avanzare minacciosa. Non mi mossi, accogliendo il suo avvicinamento e presto anche le sue parole « Ti ho nutrita. Ti ho dato un tetto sopra la testa. Ti ho vestita. Eppure lo sai quanto la tua visione mi provocasse una certa repulsione. Ma io sono una brava madre e ho fatto il mio ruolo. Avrei potuto buttarti in mezzo alla strada o in un orfanotrofio ma non l'ho fatto, ho adempito al mio compito da madre. » Per la prima volta le sue parole mi misero dinanzi ad una consapevolezza sin troppo chiara: non potevano esserci altri motivi, mi trovavo dinanzi ad una pazza che sin da troppo tempo aveva perso il contatto con la realtà; o ciò che avevo davanti era un'esemplare piuttosto raro di una grandiosa bugiarda.
In realtà non rimasi immobile e quando fui abbastanza vicina la mia risposta giunse con un movimento non controllato: un sonoro e potente schiaffo che andò ad assestarsi contro la sua guancia sinistra. La vidi tentennare ed indietreggiare al seguito del colpo, incredula di quanto aveva ricevuto; eppure nel suo sguardo riuscii a cogliere una maledetta lucidità che diveniva quasi inquietante con la ferocia che andava a palesare.
« Credo tu abbia dimenticato di raccontarmi la verità. » Aggiunsi a bassa voce, avanzando ancora lentamente contro di lei. La vidi indietreggiare nuovamente, rendendomi conto che fra le due, per la prima volta, la vittima non ero io ma proprio lei. E oltre alla ferocia nel suo sguardo riuscii a cogliere la paura, la consapevolezza di un bugiardo di essere appena stato rivelato.
« Chi è mio padre? » Aggiunsi nuovamente.
« Se osi toccarmi ancora, sappilo ragazzina: renderò la tua vita un vero inferno. » La sua minaccia non fece l'effetto che lei sperava. Ero abituata ai suoi toni, troppo. Avanzi ancora, sperando di annullare totalmente la distanza che ci separava.
« Davvero, Jessica: osa toccarmi ed io ucciderò chiunque tu ami realmente. A partire da quel ragazzino impotente che ti sta sempre attaccato al culo. » E fu ora che scattai, lasciando emergere totalmente la mia rabbia. Persi il contatto con la ragione, al punto tale da ritrovarmi faccia a faccia con lei; le mie mani prima che me ne rendessi realmente conto, le stringevano e le strattonavano quella maglietta dal tessuto sintetico. « Osa parlare così di Jeremy e sarò io ad ucciderti, hai capito? Ora, ti ho fatto una domanda: chi diavolo è mio padre? » Le urlai contro il viso, scacciando in quelle urla non solo la rabbia ma la mia totale frustrazione che lei negli anni aveva provveduto così minuziosamente a far crescere. E quando ero ormai in procinto di urlare nuovamente, due braccia mi avvolsero per la vita, stringendomi in un abbraccio forte e saldo che andò a tirarmi indietro. Fui costretta ad abbandonare la presa su Susan per lottare contro la presa serrata che mi costringeva lontano.
« Shhh. » Un sibilo portato al mio orecchio si aggiunse alla morsa, riuscendo a calmarmi appena. Lo sguardo di mia madre improvvisamente mutò; era chiaro che ora non sapeva più come reagire.
« Logan? » Tentennò lei.
Quel nome mise fine anche al più piccolo dubbio che albergava nel mio cuore, oltre a farmi voltare e accogliere un velocissimo sguardo proprio il volto di Logan, lui che ancora mi avvolgeva il corpo. Restammo in silenzio mentre grazie al petto del ragazzo che toccava la mia schiena riuscii ad avvertire una sua insolita agitazione, trapelata anche da un suo respiro appena più accelerato.
« Siete bellissimi. Siete identici. » Commentò ancora mia madre. Sembrava avesse subito un'improvvisa mutazione. Non appariva più come la donna violenta e dipendente dall'alcol: il suo tono appariva amorevole, proprio come quello di una normalissima madre.
« Oh. Risparmiami, Susan. Le tue parole non mi toccano in alcun modo. Mi hanno raccontato veramente tanto di te perché io possa cadere nelle tue insulse trappole. Però devo ammettere, un'emozione me la fai emergere: il disgusto. » Rabbrividii alle parole di Logan e alla sua superiorità in quel confronto. Lui che per la prima volta vedeva sua madre non sembrava essere in alcun modo coinvolto emotivamente, o meglio non nel mondo che chiunque si aspetterebbe.
Susan sorrise appena a quelle parole, ma di un sorriso amaro, insoddisfatto e che venne seguito da un gesto arreso e stanco del capo. Non rispose, non subito, preferendo prima tornare a recuperare la sua sigaretta e la sua bottiglia di whisky: i suoi veri amori della sua vita.
« Non ho amato lei che è cresciuta per anni vicino a me... cosa ti fa credere che le parole di un ragazzino presuntuoso e sconosciuto possano realmente toccarmi? Oltretutto, già lei somiglia troppo a vostro padre, ma tu, diavolo... sei la sua copia. Oserei definirvi raccapriccianti insieme. » La risposta di mia madre suscitò in Logan una debolissima risata. Lo avvertii scuotere lentamente il capo, mentre io, incredula, non potei fare a meno di osservare la donna e a cercare una spiegazione logica a tutto quello. « La sua copia? Ho da darti una deliziosa notizia a tal proposito: LUI ha saputo tutto ciò che gli hai tenuto segreto e ammetto che è particolarmente infastidito. Talmente infastidito che ha deciso di mettersi in viaggio per venire qui. Sei anche libera di avvertire quell'insetto che si definisce essere umano: lo sceriffo. Credo che molte cose qui cambieranno d'ora in avanti, Susan. Ora, Jessica, ormai non hai più nulla da spartire con questa donna. Andiamo, non pretendo di essere io la tua famiglia ma hai altre persone fidate che ti vogliono realmente bene. I parassiti meglio lasciarli marcire. » Non riuscii a replicare, non riuscii a reagire, mi ritrovai in una battaglia alla quale non riuscivo a prendere più parte. Venni così trascinata fuori, malamente e controvoglia da Logan mentre riuscivo ancora ad avvertire le urla della donna all'interno che inveiva contro noi due.
Mi ritrovai all'esterno dove il mio sguardo andò a posarsi immediatamente su Jeremy e Abraham. Venni liberata da Logan e presto dovetti fare i conti con uno scontro nuovamente inconcludente, nuovamente insoddisfacente. Mi ritrovai con uno sguardo arreso ed una smorfia amara che avvolgeva le mie labbra: specchio di una stanchezza che risiedeva direttamente nell'animo.
« Jessica, ti diremo tutto io e Logan. » La voce di Abraham attirò il mio sguardo su di lui. Mi osservava con occhiate colpevoli e uno strano rimorso che mi parse maledettamente sincero.
Scossi lentamente il capo, iniziando a muovere lentamente i miei passi non solo lontano dall'abitazione ma da tutti loro. « Voglio stare per conto mio, ora. » Li abbandonai lì, o meglio tentai di farlo poiché a pochi metri da me, alle mie spalle ero in grado di sentire i passi di Jeremy seguire i miei.







NOTA DELL'AUTRICE: Probabilmente anche qui c'è qualche errore.
Ma diamine, preferisco postarlo o passo altri mesi per non aggiornare.
Ammetto che ho riscritto tante volte questo capitolo, credo sia giunto il momento.
Riscrivere questa storia mi ha un po' "uccisa" ma allo stesso tempo
mi ha fatto ricordare quanto ne fossi affezionata ed innamorata.
Che dire? Ringrazio voi ragazze/i che avete aspettato tanto, sperando che io continuassi,
attendendo così pazientemente il nuovo capitolo.
Cercherò di procedere più velocemente, approfittando di questo periodo pieno di ispirazione.
E per concludere, pensavo di ingrandire un po' il font, non sono più abituata a questo minuscolo.

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