The Only Woman, The Only Queen di fiammah_grace (/viewuser.php?uid=76061)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1: la bambola camuffata ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2: una mendace commedia ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3: acta est fabula ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4: giochi di ruolo e maschere vaganti ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5: un palco arrancato nel buio ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6: il teatro dei folli ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7: un ostinato burattinaio ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8: sogno (ma forse no) ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9: l'uomo dal fiore in bocca ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10: la giostra delle maschere ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11: trovarsi ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12: la bella addormentata nel bosco ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13: soliloquio di un cuore serrato ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14: l'ombra dagli occhi rossi ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15: la caduta delle maschere ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16: attori in crisi di ruolo ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17: giochi pericolosi ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18: improvvisazione teatrale ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19: essere o non essere ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20: destino di un sipario scarlatto ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21: la storia di un ingenuo re e della sua cattiva regina ***
Capitolo 22: *** La Regina: capitolo 01 ***
Capitolo 23: *** La Regina: capitolo 02 ***
Capitolo 24: *** La Regina: capitolo 03 ***
Capitolo 25: *** La Regina: capitolo 04 ***
Capitolo 26: *** La Regina: capitolo 05 ***
Capitolo 27: *** La Regina: capitolo 06 ***
Capitolo 28: *** Capitolo 28: Nec sine te, nec tecum vivere possum ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1: la bambola camuffata ***
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The
Only Woman, The Only Queen
La
sola donna, La sola regina
Capitolo
1: La bambola camuffata
“Siamo tutti
costretti, per rendere sopportabile la realtà, a coltivare
in noi qualche
piccola pazzia.”
(Marcel Proust)
-
Lettera accartocciata –
In
uno specchio è riflesso ciò che è
concreto e tangibile. Uno
specchio riflette esattamente quel che è davanti ai nostri
occhi.
Se
questo è vero… allora anche quel che io vedo
è reale!
Alexia….ci
sei tu dietro questo specchio?
Non
vedo più il mio volto. Non vedo più me stesso in
questa
immagine
specchiata. Di fronte a me vedo i tuoi occhi di Regina, il
tuo sorriso
dominatore,
il tuo sguardo vittorioso, il tuo genio inaccessibile….
Quell’inconfondibile
luce complice che solo l’uno negli occhi dell’altro
può vedere.
Oh
Alexia, mi manchi disperatamente…
Ma
sopporterò. E’
solo per te
che affronto questa incessante agonia.
Son
lieto e onorato di donarti la mia vita.
- … in
attesa di te, mia amata sorella,
Alfred
Ashford -
Non
è la realtà quella che si proietta nei nostri
occhi, ma allo stesso tempo non è una menzogna quello che
crediamo sia vero.
Allora cos’è davvero reale?
La
risposta è Nulla. Nulla, al di là delle
emozioni che viviamo.
Son
loro che dettano quel che crediamo sia vero.
E son esse che ci consentono di dire cosa amare o meno.
Ma
non pensiamo di essere liberi di poter
scegliere, perché sarebbe rovinosamente erroneo.
Siamo
tutti, infatti, vittime di una dura e inconsapevole
prigionia mentale che ci imbriglia e ci opprime fino a indurci a
dipendere
inesorabilmente a essa per non cadere nell’oblio.
Tutto
è solo un’ombra. Nulla esiste davvero.
Quindi
l’unica cosa che possiamo fare è vivere
nella nostra pazzia, l’unica a dare un senso al nostro
universo.
Una
giovane donna era adagiata sul suo
regale e imponente trono rivestito da un purpureo velluto pregiato. Un
bagliore
era riflesso nei suoi occhi e le impediva di focalizzare la stanza che
aveva di
fronte a sé, della quale scorgeva a stento i contorni
tramite confuse e
impalpabili ombre offuscate. Un tripudio di ansie faceva agitare il suo
corpo,
senza che potesse capire effettivamente da cosa fosse scaturito tale
affanno
interiore. Tuttavia in suo potere vi era l’unica
facoltà di aprire e
socchiudere gli occhi, mentre il resto del suo corpo era come se fosse
stato
riempito di piombo.
La
testa inclinata verso il basso le stava
provocano la nausea, eppure rimase immobile in quella posizione per
ore, concedendosi
soltanto dei lievi dondolii col capo che fecero oscillare i suoi lunghi
capelli
biondi, i quali cascarono prontamente davanti ai suoi occhi.
In
quello stesso istante una pallida mano le
accarezzò la guancia, facendo scorrere le sue dita attorno
al suo orecchio,
liberandola così dal sipario formato da quei sottili fili
dorati che pendevano
dalla sua fronte.
Ella
alzò faticosamente gli occhi,
schiudendo la sua bocca rosa intorpidita.
Un
uomo vestito di rosso comparve davanti
ai suoi occhi. Era piegato verso di lei, e le sorrideva.
La
sua pelle bianca ricordava una finissima
porcellana dalla bellezza quasi irreale. Poteva esistere un candore
simile?
Consapevole
di star concependo un pensiero
assurdo, li per li si chiese seriamente se accanto a lei ci fosse una
bambola.
I
sottili capelli dorati, luminosi,
delicati, e poi i suoi occhi color cristallo… tutto faceva
di quell’uomo
l’essere che più si avvicinava alla perfezione di
una bellezza botticelliana.
Eppure
nel suo sguardo albergava qualcosa
di dubbio, qualcosa di nascosto, qualcosa che non rifletteva la
realtà. Un
qualcosa di complesso e disturbante, che le faceva intuire
perfettamente che
c’era qualcosa di sbagliato,
anche se
non sapeva ancora cosa.
Quell’emozione
fuorviante le fu
d’improvviso familiare. Sentiva di conoscere la
verità da qualche parte, di
sapere che era vero: c’era qualcosa di oscuro e sbagliato in
quell’uomo.
Una
parte remota del suo inconscio reagì
prima ancora che si appropriasse di quel ricordo al momento annebbiato,
ma non
fu in grado di fare altro. Abbassò solo ancora di
più la testa, sentendo il suo
corpo sempre più pesante…
“Sorellina,
sei ancora stanca? Avevo fatto
preparare del tè da prendere insieme in giardino.”
Il
ragazzo dall’aspetto aristocratico
rimase in silenzio, attendendo invano la risposta. Sorrise dolcemente,
accorgendosi che la sua dama voleva dormire ancora un po’.
Fece
scorrere lentamente il suo sguardo su
di lei, godendo di ogni angolo che componeva il suo corpo.
Dai
suoi piedi rivestiti dalle scarpe col
tacco, perfettamente allineati all’estremità della
poltrona su cui era
adagiata; al suo vestito viola scuro, che lasciava scoperte le spalle,
e che si
posava leggiadro su ogni sua curva delineando il suo corpo longilineo,
accarezzandolo con le sue tenue balze di seta.
Sul
suo collo troneggiava un girocollo
nero, ove ergeva incastonata una pietra scarlatta, simbolo della sua
famiglia.
Simbolo del suo destino. La pietra che apparteneva alla sua Regina, di
cui lui
era il mite e devoto servitore.
Inginocchiato
ai suoi piedi, fece cadere la
sua mano su quella di lei, sfiorando il gancio di ferro che incastrava
i suoi
polsi.
Egli
le accarezzò il dorso con le dita,
massaggiando le nocche della sua mano. La strinse per un attimo,
rievocando nella
sua mente quanto fosse bello il tempo in cui anche lei gliela stringeva
a sua
volta.
Affogato
nella visione di quel ricordo,
improvvisamente sul suo viso si disegnò una smorfia. Egli
aprì la sua bocca e
dalle sue corde vocali uscì una voce angustiante, una voce
inquietante, una
voce che non gli apparteneva…la voce di qualcun altro.
La
voce di una donna.
“Grazie,
fratello mio. Vorrei però rimanere
qui ancora un po’ se non ti dispiace.”.
Lui,
quasi senza rendersi conto di star
parlando da solo, annuì alla sua stessa affermazione,
reimpostando il suo reale
timbro di voce maschile.
“Ma
certo, Alexia. Riposa pure ancora un
po’… a più tardi.”
Un
tacito “ti voglio bene” si disegnò sulle
sue labbra.
Egli
rimase inginocchiato ancora un po’, osservando
silenziosamente gli occhi spenti della donna e le sue labbra che in
realtà non
avevano proferito alcuna parola.
Dopodiché
si alzò, mettendosi in piedi di
fronte a lei. La mano della fanciulla dai capelli biondi incatenata al
suo
trono rosso scivolò via dalle sue dita. L’uomo si
allontanò, camminando con una
postura perfettamente eretta ed elegante che fece oscillare
delicatamente i
gradi militari posti sulle sue spalle.
Giunto
sulla soglia del corridoio esterno,
mise un piede indietro in modo trasversale, e con un giro veloce su se
stesso
fu di nuovo rivolto verso di lei.
Prese
dunque fra le mani, rivestite da
vellutati guanti bianchi, le maniglie dorate e chiuse il possente
portone di
legno rinchiudendo la sua Marionetta Addormentata.
***
Il
magistrale portone di legno scuro era
stato appena chiuso. Il movimento tenue con cui la porta era stata
serrata non
impedì al rimbombo di propagarsi nell’ambiente.
La
penombra ombrò i colori di quella
stanza, come fosse il triste velo grigiastro di un sipario oramai
calato, e la
ragazza dai capelli biondi, col viso ancora chinato, guardò
attorno a sé. Il
suo sguardo scivolò sui suoi polsi ancorati a quella
poltrona regale rivestita
di rosso.
Quelle
morse rugginose, inquietantemente in
contrasto con la preziosità del trono su cui erano montate,
erano chiuse a
chiave, e non ricordava assolutamente quando vi era stata imprigionata.
Allo stesso tempo un
pensiero invase la sua
mente. Un pensiero scaturito dal nome con cui quel ragazzo dai capelli
pallidi
l’aveva chiamata.
………………………..Alexia…………………………
era
quindi
questo il suo nome?
Strinse
gli occhi riavvertendo dentro di sé
quell’emozione provata poco prima al cospetto del biondo.
Quella sensazione
disturbante, di chi si è accorto che qualcosa non quadrava.
Questo
perché era sicura di diverse cose,
che man mano stavano riemergendo dal suo inconscio:
Era
infatti sicura di non chiamarsi Alexia.
Era
sicura che quell’uomo non fosse suo
fratello.
Ed
era sicura di non avere i capelli
biondi.
Erano
in suo possesso queste sole certezze,
di cui l’ultima abbastanza superflua. Eppure sapeva che fosse
un dettaglio
importante, sebbene la sua mente non le permettesse ancora di
focalizzare al
meglio le sue attenzioni. Tuttavia ancora qualcosa la confondeva, e di
nuovo
quella strana sensazione la pervase. Perché aveva il vago
ricordo di avere
davvero un fratello.
Allora
forse si sbagliava? Forse quel
ragazzo altolocato era davvero suo fratello e lei la sua bionda
sorellina?
Forse
era davvero solo stanca?
La
donna chiuse gli occhi, sfinita da tali
taciti ragionamenti. Sebbene di natura non particolarmente contorta,
quei dubbi
ebbero su di lei un effetto devastante data la fiacchezza che aveva in
corpo. Così
si addormentò, abbandonando per qualche ora quella
realtà di cui lei al momento
era solo un’inconsapevole marionetta.
Mentre
si placava, i suoi ricordi si
focalizzarono su quel viso candido e delicato. Su quei tratti ben
definiti e
muliebri. Su quell’uomo la cui finezza rievocava una cerea
porcellana.
Su
quella occulta ma palpabile agonia nascosta
dietro i suoi occhi…
***
“Oh,
Alexia.”
L’uomo
dall’apparenza regale sgattaiolò nel
corridoio, imboccando velocemente le scale. Si voltò di
scatto verso una parete
vuota ed estrasse dalla tasca della sua elegante divisa militare rosso
cremisi
uno strano emblema d’ottone. Lo fece roteare fra le sue mani
disponendolo nel
modo corretto, poi lo incastrò in una zona non ben definita
del muro,
impossibile quasi da scorgere per chi non sapesse dove guardare
esattamente.
Tale azione fece tremare per un istante l’ambiente che lo
circondava, ma lui
non si smosse essendo padrone di quel castello e conoscitore di tutti
suoi
segreti.
In
quello stesso istante, la parete sparì
scorrendo verso il basso, rivelando così un passaggio
nascosto, oltre il quale
era preservata una stanza buia, dissimile dalle altre.
Dentro
erano ubicati dei monitor accesi
sparsi un po’ ovunque, che mostravano tutti la stessa stanza
che lui aveva
appena lasciato.
Si
trovava in una piccola zona di
monitoraggio.
Egli
si aggrappò quasi con disperazione al
tavolo posto sotto uno degli schermi, puntando non solo lo sguardo, ma
tutto se
stesso sull’immagine della donna tenuta prigioniera.
La
luce cerulea dello schermo si rifletté
su di lui, rendendo la sua figura ancora più pallida. I suoi
occhi illuminati
da quel bagliore non sbatterono mai le palpebre, estasiati di poter
vedere
finalmente in carne e ossa la Donna. La sua Donna.
D’un
tratto però i suoi occhi si strinsero,
e con essi anche i pugni si serrarono. Il biondo digrignò i
denti deformando la
sua espressione, e con afflizione batté la testa sul tavolo,
prostrandosi verso
la sua mentale interlocutrice.
“Perdonami…”
sussurrò devastato. “Lo sai
che non potrei mai tradirti, Alexia.”
Disse
credendo davvero di parlare al
cospetto della sua Regina.
“Solo
a te devo la mia devozione, nessuno
potrà mai separarci. Ci sarò sempre al tuo
fianco, non lascerò che alcuno t’intralci.
Sarò al tuo fianco sempre, sempre,
sempre….”
Sbatté
un pugno, addolorato e oramai sul
punto di crollare.
Egli
aveva dimostrato la sua fedeltà
incondizionata per tutti quei lunghissimi anni. Aveva sofferto la
solitudine
più buia, illuminato dal solo e semplice ricordo di colei
che era la più
importante per lui.
Questo
da quando Lei aveva deciso di
ibernarsi per fare di se stessa la cavia del suo più grande
esperimento in vece
del suo inutile padre, che non era stato capace di riportare alla
gloria la
nobile famiglia dalla quale discendeva. Nemmeno nel momento della morte
egli
aveva saputo rendersi utile, condannando così Alfred Ashford
in un’insopportabile
attesa devastante.
Questo
perché Alexia fu costretta a
sacrificarsi al suo posto.
La
rabbia cominciò a crescergli in corpo,
torcendo le sue viscere in quel tormento che sembrava non avere
più fine. Quel
baratro che l’aveva condannato e aveva gettato nella
dannazione la sua realtà.
Alfred
aveva cercato di opprimere in tutti
i modi la frustrazione di quella solitudine non ancora cessata. La
solitudine
di quell’attesa devastante. La solitudine che lui avrebbe
colmato proteggendo
la sua bella Principessa Addormentata.
Ma
era una solitudine folle, una solitudine
al limite dell’inumano. Una solitudine che covava in corpo
oramai da quasi
quindici anni. Quindici anni…
Seppur
la non fisicità della sua adorata e
perfetta Alexia, la sua presenza era infatti rimasta come un alone
costante
nella vita dell’uomo che abitava oramai da solo quel vuoto
castello.
Una
costante fittizia, ma così viva e
forte…così
tanto che a un certo punto lui stesso l’aveva resa reale
continuando a dare un
nome, un volto e un ruolo alla sua venerata e lontana sorella, muovendo
uno
spaventoso gioco di ruolo mentecatto in cui ella esisteva e non lo
aveva mai
lasciato.
Alfred
nascose infatti la sua assenza,
ingannando persino il suo stesso io che l’agognava
follemente, incapace di
vivere senza di lei. Eresse una formidabile commedia ove alcuno avrebbe
mai
potuto sospettare che ella non si trovasse davvero lì,
attualmente, a solcare
le mura del loro castello.
A
tal scopo, il biondo aveva curato il loro
luogo sacro, ucciso i loro oppositori, fatto tacere chi osava guardare
troppo,
insegnato cosa significava varcare le soglie del loro castello,
nutrendo le sue
insignificanti formiche col sangue di chi aveva avuto l’onore
di partecipare al
loro gioco perverso.
Tutto
questo recitando sempre l’illusoria
presenza di Alexia Ashford, il fantasma che regnava quel mondo assieme
a lui.
Alfred
aveva fatto sì che ella rimanesse
sempre al suo fianco, gettando il dubbio sulla sua presenza,
confondendo ruoli
e personaggi fino a creare un suo personale universo in cui lei era
accanto a
lui.
Ma
nonostante ciò, qualcosa ancora lo
turbava.
Il
solo alone della sua Regina non era
bastato.
Ancora
non si era reso conto, infatti, del
reale potere della solitudine più ombrosa di cui era vittima
in realtà.
Il
giovane uomo dai sottili capelli dorati
aveva provato di tutto pur di trovare la sua Adorata in qualche parte
remota al
di la di quel vetro dietro il quale ella era ibernata. Ma nulla era
valso
davvero. Nulla aveva potuto alleviare le pene di quell’attesa
interminabile.
Né
il sorvegliare il suo viso addormentato,
né la vita militare, né il centro
d’addestramento, né il sangue versato sui
suoi prigionieri, né la morte dei suoi nemici, né
i successi dei suoi
esperimenti...
Neppure
se stesso, che possedeva l’unico
viso al mondo che potesse ricordargli la sua amata gemella. Un volto
che,
mascherato, gli rammentava il calore di avere qualcuno accanto.
Ma
non bastava…non bastava mai nulla…
Nulla
colmava davvero la lontananza di
Alexia.
Alzò
quindi il viso verso lo schermo,
ancora fisso sull’immagine della ragazza bionda ancorata sul
suo trono. La sola
donna da lui tanto agognata.
La
sola donna che poteva amare.
La
sola donna che esisteva ai suoi occhi.
La
sola donna che lo comprendeva.
La
sola donna che lo amava.
Si
alzò quindi in piedi e in posa solenne
giurò ancora una volta sulla fedeltà che avrebbe
avuto verso la sua sovrana,
che mai avrebbe tradito, alla quale aveva donato la sua intera
esistenza.
“Alexia,
tu sei l’unica che può esistere
per me. Tu…sei la mia unica Regina. Alexia… mia
amata Alexia.”
Si
abbandonò in seguito a una fragorosa
risata, che lo costrinse a coprire la sua fronte con una mano.
Un’insana
sensazione pervase la sua
ragione. Una conosciuta e ignota consapevolezza allo stesso tempo. Una
verità che
possedeva, ma non voleva ammettere.
Una
realtà da cui egli stava consapevolmente
scappando: la realtà di star prendendo in giro oramai
persino se stesso.
Perché
quella donna al di là dello schermo… non
era la sua Alexia.
***
Villa
Ashford (luogo sconosciuto) – prime ore del pomeriggio
Giardino
La
ragazza dai capelli biondi sollevò molto
lentamente la delicata tazzina da tè che aveva fra le sue
mani. Essa era bianco
avorio decorata con delle sottilissime rifiniture dal tema floreale,
contornata
dai bordi dorati.
Il
sole batteva forte a quell’ora del
pomeriggio, ma l’ombra dei portici sotto i quali era seduta
per fortuna la
allietava con il suo fresco.
Ella
era seduta su un tavolino circolare
bianco, dalla forma bucherellata. Su di esso vi erano poggiati un
cestino ricco
di deliziosi biscotti in stile british, e la preziosa teiera
appartenente allo
stesso servizio da tè della tazza che aveva in mano.
Il
prato che la circondava era perfettamente
tagliato, poteva sentirne ancora il tenue e dolce profumo albergare
nell’aria.
Attorno al vialetto di pietra che accompagnava i passeggeri da un
angolo
all’altro del giardino, vi era un piccolo condotto
d’acqua artificiale che
richiamava l’immagine di un ruscello. I raggi solari si
riflettevano sul quel
cristallo, creando dei luccichii simili a delle pietre preziose.
Era
un’atmosfera splendidamente piacevole,
rilassata, silenziosa. Una pace intensa, che stava perdurando ai limiti
dell’inquietudine.
Alzò
delicatamente gli occhi oltre il fluido
ramato contenuto nella sua tazza e il suo sguardo cadde inevitabilmente
su
quella costante e unica seconda presenza che negli ultimi giorni
accompagnava i
suoi spenti risvegli. Il ragazzo aristocratico vestito di rosso era
infatti di
nuovo lì, di fronte a lei.
Egli
aveva finito di sorseggiare il suo tè
da un bel po’, così se ne stava semplicemente
seduto a guardarla, con una mano
adagiata sul tavolo, e l’altra che sorreggeva la testa sulle
sue nocche.
Seppure
la bionda non lo guardasse in
faccia, ma tenesse appositamente lo sguardo vago verso la sua tazzina,
avvertiva
la costante sensazione che lui la contemplasse. Sempre, con insistenza,
con
ossessione.
Nonostante
la pacatezza che la circondava e
che sentiva nel suo corpo, era sempre più inquieta. Le
sensazioni
d’inadeguatezza provate il giorno prima erano ancora correnti
e insistenti nel
suo animo. Sperava che quella spiacevole percezione sparisse quanto
prima
illuminandola con una risposta.
In
quell’istante la sua mano tremò inconsapevolmente,
probabilmente perché ancora infiacchita, nonché
distratta da quei pensieri. Il liquido
contenuto nella porcellana oscillò appena oltre i margini,
ma ancora una volta,
prontamente, quell’uomo le sorresse la mano. La ragazza a
quel punto alzò il
viso verso di lui.
L’uomo
fu costretto così a specchiarsi nei
suoi profondi occhi blu oltremare. Un contatto visivo che
durò pochi secondi,
un istante forse, e nel quale la ragazza ebbe il tempo di vedere
addirittura
sgomento, se non paura.
Egli,
infatti, discostò lo sguardo per
qualche motivo, preferendo avvicinarsi verso di lei alzandosi dalla
sedia,
interrompendo quel contatto visivo. Sembrava non sciolto nei suoi
movimenti.
“Forse
sei ancora un po’ stanca, Alexia.
Vuoi dormire ancora un po’?”
Chiese
con una gentilezza che oramai aveva
palesemente dell’anomalo.
Quel
morboso interesse, quella patologica
attenzione che lui aveva verso di lei, quasi come fosse la sua piccola
bambola
preziosa…in contrasto tuttavia col terrore di guardarla.
Era
strano.
Egli
le asciugò lo spigolo della bocca con
la punta di un fazzoletto di stoffa, curando la sua meravigliosa
Alexia, la sua
potente sorella impeccabile.
In
seguito le porse la mano, aiutandola ad
alzarsi. La ragazza, sconcertata, non poté far altro che
allungare anch’ella la
sua mano verso di lui. Il vestito viola scuro ondeggiò
mentre si scostava dalla
sedia. I suoi lunghi guanti bianchi che la coprivano lungo tutte le
braccia si
posarono su quelli anch’essi bianchi di lui.
Il
ragazzo così mise sotto braccio la
fanciulla, ed insieme si incamminarono per il piccolo viale di pietra,
dirigendosi verso il portone principale, pronto a mettere al sicuro la
sua
preziosa bambola nella sua teca di cristallo.
Ignara,
la bionda guardò dritto dinanzi a
se, mentre sempre più dubbi si affollavano nella sua mente.
Sbirciando
ancora una volta verso di lui,
poté scorgere la sua espressione silenziosa ed assorta.
Che
anche lui fosse vittima di qualche
ambiguo complotto come lei, si chiese.
Lo
vide camminare lentamente, rispettoso del
suo passo incerto dovuto all’intorpidimento che non voleva
abbandonarla. Egli
si prendeva seriamente cura di lei.
Allora
perché era così ambiguo il suo
comportamento? Perché aveva paura di guardarla? Cosa stava
nascondendo in
realtà?
Mentre
salirono i pochi gradini che erano ai
piedi del portone di legno massiccio, gli occhi del ragazzo scivolarono
per un
istante verso di lei.
Una
parte di lui era altamente desiderosa di
vederla in viso, ma qualcosa glielo impediva. Qualcosa chiamata
razionalità,
coscienza, che sapeva che non avrebbe mai visto ciò che lui
sperava di vedere.
Ma
oltrepassò ugualmente quella soglia,
incuriosito dalla preziosa donna legata al suo braccio.
Spiò
quindi verso di lei, la quale era in
quel momento voltata in altra direzione. Tuttavia il cieco fato era
sempre
pronto a mostrare con crudeltà l’inganno che lui
voleva raggirare.
Facendo
per aprire il portone, infatti, le
sue attenzioni non andarono sul volto di lei. Quel che si
focalizzò nei suoi
occhi fu altro. Qualcosa cui una persona comune non avrebbe mai dato
grossa
importanza.
Perché
quel che egli scorse di sfuggita, fu
un semplice e quasi invisibile filamento rosso che pendeva sulla spalla
di lei.
Un particolare marginale, ma che inesorabilmente catturò
tutte le sue attenzioni,
depennando tutto ciò che lo circondava in quel momento.
A
quella visione, infatti, lo sguardo
dell’uomo altolocato mutò drasticamente, come se
quell’insignificante dettaglio
avesse rovinato uno splendido quadro.
Nonostante
fosse costantemente intontita,
persino la “così chiamata Alexia”
sbirciò anch’ella in quella direzione, ma lui
la precedette, prendendo quel filo fra le sue mani, staccandolo dal
tessuto del
vestito sul quale era impigliato.
Quel
filo che mascherava la realtà.
Quel
filo che simboleggiava l’inganno
costruito.
Quel
filo che raggirava una solitudine
repressa che l’aveva fatto soccombere alla pazzia.
Quel
filo… che in realtà era un capello. Un
semplice capello rosso.
***
Qual
è esattamente il momento nel quale
sprofondiamo nella follia?
Spesso
non siamo in grado di focalizzare
quell’istante, perché esso si traccia attraverso
un lento percorso… …così lento
che spesso dimentichiamo quando tutto è cominciato
esattamente. O
forse, semplicemente, siamo sempre stati
folli. Sempre ciecamente e inconsapevolmente folli.
Ma
nel nostro mondo anche la follia ha un senso.
Nel mondo che solo noi abitiamo e nel quale soltanto noi sappiamo
trovare le
strade da percorrere.
Se
solo non fossimo lasciati da soli a cercare
quelle strade….
Il
sottofondo di un triste motivetto di un
antico carillon risuonava per le mura di una buia camera da letto,
echeggiando
senza fine, ripetendosi senza sosta, martellando quelle pareti.
L’oscurità
nascondeva i perimetri di quella
stanza, divorando nelle tenebre tutto ciò che la componeva.
La
costruzione di un mondo buio e perfetto,
di una piatta tavola nera in cui non esiste null’altro che il
ricordo dei tempi
che furono. Tutto può essere nascosto dal Nulla. Meglio il
Buio, che la triste
realtà della Luce.
Quel
che in fondo non si vuole mostrare, o
ricordare, può essere facilmente avvolto col manto nero
dell’ombra, ma nulla
può essere occultato del tutto. Perché i contorni
si delineano sempre una volta
abituati ad esso.
Così
l’oscurità poteva nascondere chi era
rifugiato in quella stanza, e chiunque avesse cercato di entrarvi
avrebbe
certamente arrancato a muoversi nel nero più assoluto. Ma
quel che componeva
quella stanza non avrebbe mai potuto sparire.
Tuttavia
questo non era attualmente
importante per lui. Non era suo intento sparire. Quel che gli
interessava era
essere proprio lì, da solo, nelle tenebre più
intense, coccolato dal ricordo di
quando non era solo, di quando era felice.
La
porta d’ingresso era stata chiusa a
chiave dall’interno, sperando di bloccare con essa anche
tutto ciò che era
fuori, che era estraneo a quel ricordo. Essa era stata sigillata con
rabbia,
con disperazione, come per nascondere il suo padrone dal resto del
mondo. Un
mondo crudele, sbagliato. Un mondo che lo aveva solo sfruttato. Un
mondo che
senza la sua Alexia non aveva alcun senso.
Solo
nella sua stanza, il biondo strinse
quel capello rosso che era ancora fra le sue mani. Lo strinse
fortemente in un
pugno di collera che scavò quasi nella sua carne.
Il
luogo che lo circondava venne lentamente
a delinearsi nell’oscurità.
Egli
era seduto sul suo letto a baldacchino,
rivestito dalle lenzuola dall’apparenza molto pregiata. Il
soffitto era
decorato con un affresco angelico che si distingueva a stento per i
suoi colori
vivaci. Posto di fronte a lui vi era un armadio di legno scuro, a
fianco del
quale era posta una specchiera magistralmente rifinita dalle splendide
onde
barocche intagliate nel legno.
Un
angolo dello specchio era riuscito a
inquadrare parte del viso del giovane, mostrandone le labbra marmoree,
le quali
stavano serrando i denti in un ghigno enigmatico per chi lo osservava.
“Claire
Redfield….”
Ringhiò
a denti stretti, maledicendo nella
sua mente quel nome.
Il
nome della donna dai capelli rossi che
aveva osato invadere il suo cammino nel momento più
prezioso.
Il
nome dell’Infima donna che aveva sporcato
l’universo Perfetto di lui e Alexia, portando scompiglio nel
loro territorio.
Nel
contorcimento di quei mentecatti
pensieri scaturiti da chi aveva vissuto tutta la sua vita al servizio
di
un’unica e adorata persona, quel capello rosso rappresentava
invece tutto ciò
che era estraneo al suo mondo. Era un piccolo simbolo di altre
verità, ai suoi
occhi spregevoli e indegne delle sue attenzioni.
Tuttavia
esso era gelosamente stretto fra le
sue mani, in una morsa d’odio e di disprezzo, ma che
trapelava un nascosto
disturbo interiore.
Generava
in lui un indefinibile corpo
estraneo, che vagava disturbando i suoi sensi, costringendo il suo
animo a
serrarsi… a serrarsi sempre di più, obbligandolo
ad aggrappandosi a quell’unica
certezza che dava ancora un senso alla sua vita: Alexia.
Perché
più il suo cuore refrigerava in quel
confuso adulterio, scaturito dalla volgare e spregevole
curiosità verso colei
che era l’Altra Donna, più egli si aggrappava a
Lei…. la sua crudele e perfetta
Regina.
Perché
le sue attenzioni potevano
appartenere a una e una sola.
L’altra
donna doveva morire.
Nonostante
ciò, il disdegnato cimelio era
tuttavia ancora ancorato nelle sue mani, stretto come se volesse
distruggerlo.
Stretto come se volesse possederlo.
Non
ebbe il coraggio di disfarsene per la
deviata ragione che voleva reprimere.
Ma
l’oscurità poteva nascondere ogni cosa,
persino i suoi reali pensieri. Lì nessuno
l’avrebbe visto, o lo avrebbe rimproverato.
Quasi
come se fuggisse dalla sua coscienza
grazie alla discrezione del buio, custodì quel capello,
segregandolo in
modalità in realtà velatamente simili alla stessa
donna che egli venerava.
Perché
anche la stessa Alexia era stata
segregata nel suo cuore, rinnegando ogni realtà a lei
dissimile in suo onore e
per sua fedeltà, questo fino a logorate e distruggere se
stesso, costruendo una
realtà in cui lei fosse davvero accanto a lui.
Lo
stesso, in qualche modo, era per quel
rifiutato capello rosso, di cui egli smentiva la sua
identità, ma di cui allo
steso tempo desiderava la sua ignobile conoscenza. Lo
conservò ugualmente, come
fosse uno sporco cimelio prezioso… nascondendolo
egoisticamente in quella
stanza conoscitrice della sua maturata follia e incolmabile solitudine.
***
Sala
della Musica - mattina
Brano:
Studio Op. 10 n. 3 – Fryderyk Chopin
*
Il
componimento echeggiava per il salotto, chiamato Stanza della Musica
perché luogo utilizzato dagli Ashford per dilettarsi
ascoltando composizioni
classiche, meditando sulle loro misteriose e armoniche note fino ad
abbandonarsi completamente ad esse.
Esso
aveva un aspetto ricco e barocco. I colori del legno e del rosso la
facevano da padrona donando a quella stanza un aspetto vivace e
ingombro.
Due
paia di divani dall’aspetto rigonfio erano posti gli uni di
fronte
gli altri, rivestiti di un tessuto a righe bordò e bianco
papiro. Fra essi vi
era un tavolinetto di vetro, ove erano poggiate un paio di statuine di
porcellana. L’ampia e vaporosa tenda rendeva fioca la luce, e
riempiva
l’ambiente di una calorosa accoglienza con la sua imponente e
voluminosa
presenza. I tappeti rivestivano quasi interamente la pavimentazione,
rendendo
quella camera un piccolo gioiello prezioso, ove ovunque ci si voltasse,
ci si
poteva perdere nei suoi secenteschi dettagli.
Ancora
una volta, accomodati insieme nella stessa stanza, vi erano le
medesime figure dai capelli platinati.
Alfred
Ashford e la
“così chiamata Alexia”.
Tuttavia
qualcosa si era spezzato.
Nonostante
la soavità delle note di Chopin
che risuonavano armoniosamente dal grammofono alle sue spalle, il
biondo non
riusciva quasi più a reggere la bambola fittizia che celava
l’Altra Donna sotto
il suo trucco.
Riaffiorata
appena il giorno prima, la sua
presenza era oramai nell’aria. Per quanto l’avrebbe
ignorata, per quanto
l’avrebbe camuffata e nascosta….
l’inganno non avrebbe potuto perdurare.
Perché
Lei non era Alexia Ashford, la sua amata sorella.
L’unica
manifestazione esterna del rifiuto
categorico verso l’accettazione di quella realtà,
era rappresentata
dall’incessante battere del suo piede sul pavimento, che
movimentava tutta la
sua gamba sinistra. Le sue labbra invece erano premute fortemente
contro il
dorso della sua mano.
Dall’altra
parte, di fronte a lui sul
divano, la ragazza chiamata Alexia era assorta, immersa e alienata
nell’ascoltare quella musica. I suoi muscoli erano
intorpiditi, esattamente
come negli altri giorni.
Si
chiedeva perché tale fiacchezza non
avesse mai fine. Era esausta sempre, sempre, sempre…
Oramai
le veniva il voltastomaco per tutta
quell’inerzia. Una straziante e sfiancante
passività che la stava facendo
sprofondare in un turbine di rassegnazione e dimenticanza.
Osservò
il giovane di fronte a lei e sorrise
mentalmente, costatando che oramai il suo esperimento andava
puntualmente a
segno.
Ella
infatti giocava mogiamente a cercare il
suo sguardo, che prontamente rifuggiva. Un atteggiamento insolito e
piuttosto
contraddittorio, perché stranamente alla riverenza che lui
dimostrava nei suoi
riguardi, egli non osava guardarle il viso. Oppure lo faceva molto di
rado, in
modo spesso riservato e occultato.
‘Perché
tale disagio?’, si chiedeva ogni
volta, ma senza trovare la volontà di rispondersi.
Era
davvero stanca… tanto stanca….
Doveva
trovare una soluzione, nonostante non
avesse più alcuna forza in corpo.
Nell’insofferenza
e nell’intorpidimento dei
suoi sensi, aveva capito da tempo che egli le stesse somministrando
qualcosa
per tenerla a bada. Era tutto troppo confuso e annebbiato, e
l’unica cosa che
poteva fare, ora come ora, era muovere a stento le braccia e le mani, o
dondolare la sua testa. Ma dentro se stessa, vibrava forte la
consapevolezza
che doveva liberarsi, che quello era il male, che c’era
qualcosa di
assolutamente sbagliato, che lui non era chi diceva di essere.
Che
lei non era la fantomatica Alexia.
Senza
che se ne accorgesse, Alfred intanto
era tornato a guardarla di nascosto, mentre la sua mente cercava sempre
più di
scappare da quella morbosa paura verso quella giovane donna che non era
chi
bramava in realtà.
La
paura di ammettere quella realtà, di
tornare ad essere solo….
Egli
avrebbe fatto qualsiasi cosa per
soppiantare tutto ciò, così cercava
disperatamente le sue risposte nella figura
di quella ragazza, che osava essere dannatamente bella come la sua
Alexia…
Fece
scorrere il suo sguardo dalla sua
fronte, fino al mento, passando per i suoi occhi rotondi, per il suo
naso a
virgola, per la sua bocca carnosa…
I
suoi occhi si abbuiarono, contorcendosi
nelle sue paranoie e ossessioni incolmabili.
Perché
nella sua mente era logico adorare
solo e soltanto Alexia. E se la donna di fronte a sé era la
sua adorata
sorella, allora poteva felicemente soccombere al peccato di
quell’attrazione,
senza essere ferito dall’ignobile e vergognosa colpa del
peccato.
Avrebbe
così colmato finalmente la sua
insostenibile solitudine dopo quindici anni di sofferta attesa.
Era
una folle e inconcepibile soluzione che
però salvava la sua mente, in realtà
già in balia della pazzia.
Era
forse un peccato quello di costruirsi la
realtà che si preferiva credere?
Alfred
Ashford non se ne sarebbe mai reso
conto, cullato com’era nella consolazione di avere finalmente
Alexia di fronte
a se. Consolato dalla vicinanza di quel meraviglioso volto che aveva
cercato in
tutti i modi di rimpiazzare.
Si
alzò dunque dal divano, e con passo lento
si affiancò alla sua amata. La guardò estasiato,
con la tenerezza negli occhi,
felice di essere al suo cospetto. I suoi occhi quasi si commossero, non
potendo
credere di averla davvero accanto.
Desideroso
del conforto che solo le sue
braccia potevano dargli, egli distese la testa sulle sue ginocchia,
portando le
mani di lei sulla sua nuca, facendosi accarezzare dal suo lento e
delicato
tocco.
Sentì
le sue dita muoversi fra i suoi
capelli ingellati, le quali riuscirono a rasserenare le sue angosce.
Chiuse
le palpebre beandosi di quel momento,
appagato finalmente dopo tanta e disperata emarginazione.
Se
solo Alexia non lo avesse mai lasciato
solo…
Ma
lui non l’avrebbe mai incolpata di nulla.
Per
lei avrebbe fatto volentieri qualsiasi
cosa, perfino sopportare quella tremenda ed estenuante attesa.
Adesso
però che era lì, accanto a lui,
poteva tornare a essere felice.
La
donna dai capelli biondi intanto muoveva
la sua mano sul suo capo, condizionata nell’assecondare i
desideri del suo
strano fratello. Incerta e confusa, stette ancora una volta in silenzio.
Fu
imbarazzante e difficile per lei
interpretare quel gesto, quelle pretese carezze con cui
l’aveva pregata di
cullarlo. Provava una strana morsa al cuore.
Chi
era realmente Alexia per lui? Perché la
temeva e la desiderava tanto?
Dire
che fosse la sorella non era esaustivo…
più di qualcosa le era ancora ignoto.
Sentiva
intanto il capo di lui premere sulle
sue cosce, abbandonandosi sempre di più alle sue ricercate e
amorevoli cure.
Sporgendosi, poteva scorgerne parte del profilo al di la degli zigomi,
e il suo
viso sembrava veramente disteso…come fosse in pace, avrebbe
potuto osare dire.
Come
se non fosse desideroso di null’altro
che di quel piacevole inganno.
Questo
mentre La Tristezza di Chopin
continuava a produrre la sua
armoniosa melodia, che si diffondeva sempre più nella
stanza, irradiandosi nel
silenzio tormentato delle loro menti, concentrati su quella menzogna
che entrambi
internamente sapevano di vivere.
***
NOTE:
*
Lo Studio
Op. 10 n. 3 -
o Étude
Op. 10 n. 3 , conosciuto anche con il titolo apocrifo di Tristesse o Tristezza ,
è una composizione musicale per pianoforte scritta
da Fryderyk
Chopin nel 1832.
(Font.
: Wikipedia)
NdA:
Salve!^^
Grazie
per aver scelto di
leggere il primo capitolo di questa fan fiction, che vedrà
come protagonisti
Claire Redfield e Alfred Ashford. Il contesto in cui ho deciso di
ambientare la
storia è quello di Re: Code Veronica X, leggermente
modificato in modo da creare
un lasso temporale in cui svolgere la narrazione.
Ci
tengo a precisare che farò
riferimento solo e soltanto a
re:cvx! Non terrò minimamente presente Darkside Chronicle.
Faccio tale precisazione
perchè tengo al fatto che il lettore abbia ben presente il
contesto a cui
faccio riferimento in quanto reputo che questi due giochi siano
assolutamente
diversi pur trattando della stessa storia. Vi annoierò ora
con solo qualche
piccola riga introduttiva^^:
Il
mio intento, con questa
storia, è quello di rendere omaggio a un personaggio molto
conosciuto della
saga, ma probabilmente poco approfondito come dovrebbe essere, e che mi
ha profondamente
affascinata ultimamente. Parlo di Alfred Ashford.
Un
ragazzo enigmatico,
visibilmente disturbato, succube di un mondo che l’ha reso
folle. Vittima di
una depressione che l’ha morbosamente attaccato alla figura
della geniale
sorella Alexia.
Ho
scelto questo titolo,
infatti, poiché riassume in pillole il rapporto di Alfred e
Alexia, ove per lui
la bionda è la sola donna al mondo, l’unica donna
della sua vita, l’unica donna
che lo comprende, la donna perfetta, la donna alla quale sacrifica la
sua vita,
la donna che deve proteggere, la donna che può cambiare il
destino… la sua Regina.
In contrasto con questo suo
malato micro universo che ruota attorno ad Alexia, ecco però
che farò
subentrare un altro personaggio: Claire Redfield.
Claire
che invece è solo una
donna. Una donna che non somiglia per nulla alla sua Regina. Eppure osa
essere
dannatamente bella ed attraente, forte e coraggiosa….ma non
può però esistere
un’altra donna per Alfred all’infuori di Alexia.
Sebbene
il pairing insolito,
spero di riuscire a coinvolgervi e a comunicarvi il fascino di Alfred
Ashford,
assieme alla meravigliosa Claire Redfield. Preciso che non
costituirò una
AfredxClaire nel vero senso della parola, ma voglio sicuramente provare
a
stuzzicare e a perseguitare un po’ la mente del biondo.
Se
durante tutta la vicenda
riuscirete a sentire la follia e il tormento che alberga nelle mura del
Castello Ashford, allora sarò riuscita nel mio intento! ^^
Al
momento è tutto! Spero che
la lettura sia stata piacevole! ^^
Rendetemi
partecipe dei
vostri pensieri, mi raccomando. Le recensioni sono il carburante dello
scrittore, e conoscere i vostri pareri mi sosterrà e mi
aiuterà moltissimo alla
costruzione di questa storia! ^o^
Un
ringraziamento speciale va a mia
sorella, la mia sempre prima sostenitrice, che mi ha spinta a
cimentarmi in
questa scrittura; e alla mia amica Astarte90, che mi ha caricato e dato
tanta,
tanta motivazione!! *O*
Grazie
ragazze!!!!! Questa fic è
dedicata a voi!
A
presto,
Fiammah_Grace
Ps:
A proposito! Se voleste
votare Alfred e Alexia nell’elenco dei personaggi che devono
essere aggiunti
alla categoria di Resident Evil, ve ne sarei davvero grata. ^^
|
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Capitolo 2 *** Capitolo 2: una mendace commedia ***
Capitolo
2: una mendace commedia
Certi
sogni si infrangono contro lo spiraglio di una porta che
vorremmo invano chiudere a chiave e attraverso cui, speriamo di
ritrovare
qualcosa di indefinito.
E’
un po’ come aprire uno Scrigno per riassaporare il gusto di
certe Emozioni, o entrare in un Giardino per respirare quel nostalgico
profumo
di Amore e di Vita…
Una
forza indipendente dalla nostra volontà che ci spinge a
cercare ancora, ciò che abbiamo lasciato in un sogno rimasto
al di là di quella
porta: la parte più bella di noi, che si è persa
per sempre.
(
Imma Brigante )
Delle
risatine distanti si udivano sullo
sfondo di un ricordo offuscato. Echeggiavano in modo disturbato e
instabile,
come una pellicola malandata i cui suoni non si distinguono
più e rassomigliano
a un eco nostalgico e incomprensibile. Il rumore dei passi che
correvano si
accavallava con i risolini infantili di due bambini che si tenevano per
mano.
Essi sgattaiolavano ridenti solcando il fogliame posatosi sul prato
verdissimo,
trascurato e lasciato crescere in modo selvaggio, ma non abbastanza
folto da
impedire loro di avventurarsi. Essi, affannati e ancora sorridenti, si
fermarono solamente quando si assicurarono di essere soli.
Sghignazzarono
fra di loro, dopodiché uno di
loro tirò per il braccio l’altro, forzandolo a
sedersi su quel verde.
Strattonato con quella veemenza, il secondo cascò a terra,
ma fu lieto che la
sua compagna avesse avuto quell’iniziativa; questo
perchè adorava essere al suo
fianco. Era felice quando poteva guardarla in quegli occhi
così chiari e
luminosi, ricchi di fascino e bellezza.
Sorrisero,
non avendo bisogno di proferire
alcuna parola per comprendersi. Intrecciarono le loro dita le une nelle
altre,
trasmettendosi quel calore affettivo che nessuno aveva mai comunicato
loro. I
due così avevano colmato quel vuoto aggrappandosi
l’uno all’altro, costruendo
un legame inscindibile che nessuno avrebbe mai potuto comprendere.
Qualcuno che
non fosse nato in quello stesso mondo, con quegli stessi occhi
complici.
Entrambi
marmorei e dai tratti sottili, con
occhi celesti e divini, avevano dei morbidi e sottili capelli biondi,
nell’uno
tagliati a caschetto, nell’altra lasciati lunghi. Identici e
quasi
indistinguibili, essi condividevano non solo la condizione di vita
tipica dei
gemelli, loro erano molto di più.
Una
coppia unita dalla nascita, un principe
e una principessa che si erano congiunti fin dal primo momento in cui
avevano
aperto gli occhi. Un’anima sola divisa in due corpi.
Era
forse stato il destino a farli nascere
in due, consapevole della vita solitaria che altrimenti avrebbe
condannato
l’uno o l’altra, lenendo così la
sofferenza di quell’esistenza travagliata.
Sentivano entrambi dentro di loro qualcosa che trascendeva le loro
conoscenze,
come se non fosse un caso che l’uno colmasse le mancanze
dell’altro. Perché se
i due non avessero avuto che se stessi, nulla avrebbe avuto un senso, e
le loro
intere esistenze sarebbero state come un oggetto dimenticato e lasciato
a
morire. Per questo il fato era intervenuto, scindendo
quell’anima in due:
perché così non sarebbero mai, mai, stati soli.
La
ragazza dai capelli lunghi abbassò il
viso e il suo sorriso divenne più spento. Suo fratello
sentì quello stesso
turbamento anche dentro di se, pur non conoscendone la causa; ma per
lui era
spontaneo sentire il dolore di colei che era una parte di lui. Era
questo che
significava possedere un’anima sola.
Si
avvicinò alla fanciulla, facendo scorrere
lo sguardo dalle sue ginocchia premute sull’erba, coperte dal
suo bellissimo abitino
bianco, alle sue spalle rivestite da una elegante giacchina grigio
scuro che si
chiudeva sul busto lasciando scoperto soltanto il colletto bianco del
vestito
su cui era spillata la pietra scarlatta che contraddistingueva sua
sorella.
Si
avvicinò sempre di più, arrivando a
trafiggere con i suoi occhi le iridi azzurre di lei, che volentieri
concesse il
suo sguardo al suo unico e prezioso fratello.
Non
avevano bisogno di dirsi altro.
Il
loro mondo era perfetto così.
I
gemelli Ashford avevano creato i loro
equilibri in quell’esistenza malata e violenta, e
finché quel filo non si fosse
spezzato, bastava ad assicurare loro la felicità.
Eppure…
…quello
stesso fato magnanime fu più crudele di quanto non avrebbero
mai potuto pensare…
Le
loro vite già devastate presto sarebbero state
sconvolte….
Se
soltanto non fosse mai stata svelata la verità, trasmettendo
in quei bambini un
senso di frustrazione, una brama di potere… e un’
ossessione che mai avrebbero potuto
colmare. In realtà vittime di un destino spietato che aveva
già dannato in modo
irreversibile ogni loro certezza, innestando in loro l’idea
che non esistesse traguardo
più ambizioso che portare a termine la loro missione.
L’esperimento
di quella che sarebbe diventata la dannazione e l’ossessione
di Alexia Ashford.
***
Camera
di “Alexia” - Sera
Cos’è
peggiore dell’oblio?
Quella
devastante ed estraniante sensazione che
allontana il nostro corpo sempre più dalla
realtà, rendendoci delle marionette
assenti di un mondo che scorre inarrestabile davanti ai nostri occhi.
L’inerzia
uccide quanto un colpo d’arma da fuoco.
Ci devasta e ci piega ai suoi piedi, imponendoci di prostrarci alla sua
ubbidienza e facendoci inutilmente credere che non vi sia nulla attorno
a noi
eccetto il buio opprimente di un mondo vuoto e privo di forma.
Pensare
a un mondo nero, tenebroso, crudele,
spietato…
Un
mondo vuoto.
Un
mondo che non esiste. Un mondo che non ci
vuole. Un mondo regnato dal caos, dalla disperazione, da un senso di
rifiuto e
indifferenza. Un mondo cupo e triste che non ci lascia altra scelta se
non di
cadere nell’oblio. Decidiamo così di non vivere,
di assecondare le sorti che
quel destino ci ha assegnato, soccombendo in questo vortice vuoto e
debilitante.
Una
disgrazia che non lascia scampo e ci accoglie
nel suo freddo e spietato petto, non concedendoci di intravedere altre
vie…. nulla
è al di fuori di quel nero.
Il
Niente è il padrone assoluto dell’oblio.
Muori;
muori a furia di aspettare, a furia di
sperare di sciogliere quelle catene che in verità hai sempre
saputo essere
senza lucchetto.
Non
esiste la chiave, non esiste una combinazione
che possa lenire quel dolore. Una prigionia senza fine che ingloba
l’intero
universo che ruota attorno a noi. E’ una condizione di vita
quella che avvolge
colui che è caduto nell’oblio.
Di
fronte tale condizione di vita, se così
vogliamo ancora chiamarla, non è forse meglio la morte?
La
morte non diventa forse un caldo abbraccio, a
confronto?
La
morte dell’anima che cade in balia dell’
oscurità, del silenzio, della dimenticanza più
tetra, è forse la vera e
temibile morte.
La
morte dello spirito.
E’
questo che accompagna le mie notti. E’ questo
che non mi dà pace. E’ questo che mi impedisce di
credere a quel che ho davanti
ai miei occhi.
Quello
che mi circonda è il vuoto di un mondo che
non mi appartiene.
Perché
ne sono certa?
Non
lo so….
E’
il cuore che mi parla.
Un
cuore che nonostante l’oblio che mi ha
assorbito, non ha smesso di battere.
Voglio
vivere…non voglio che questa sensazione di
abbandono porti via una parte di me. Non voglio che laceri e devasti la
mia
mente, che già non fa che ripetermi e ripetermi che non
c’è nulla a cui possa
aggrapparmi.
La
mia anima che si corrode, che si lacera, si
consuma, brucia, si disperde. Si disintegra fino a sbriciolarsi proprio
davanti
ai miei occhi, dileguandosi come se stessi afferrando un pilastro
composto di
cenere, che aggrappandomi, sporca il mio corpo e scivola vai dalle mie
mani
senza che io abbia neanche potuto toccarlo.
Quello
che chiedo è solo di avere la possibilità
di vivere.
Lasciami
vivere.
Lascia
che questo male mi abbandoni.
…Alexia…
…Alexia…
…Alexia…Alexia…
Quel
nome si espandeva nella sua mente ripetendosi
con paranoia ossessiva, in un delirio alienante che annullava ogni suo
significato
a furia di essere rievocato, divenendo un suono lontano ed estraneo che
non
sentiva appartenerle. No…
Non
era una sensazione. Sapeva, infatti, per
certo che esso non le apparteneva.
Questo
perché più ripeteva nella sua mente
quel nome, più non si capacitava di essere quella donna.
Più
ripeteva nella sua mente quel nome, più
ricordava di non aver mai indossato in vita sua un abito lungo e
raffinato come
quello. Più ripeteva nella sua mente quel nome,
più sentiva reale quella
tormentata presa in giro che annullava il suo io. Più
ripeteva nella sua mente
quel nome, più ricordava di non avere i capelli
biondi…
Seppur
l’oblio in cui era precipitata, una parte
della sua anima era riuscita ad aggrapparsi a qualcosa, non permettendo
che
essa venisse perduta per sempre. Così nella sua mente
facevano a cazzotti
quelle due realtà: una che rievocava la vita, una vita che
un tempo sapeva di
aver conosciuto, e voleva riemergere nonostante fosse bloccata da
qualcosa nel
suo inconscio che non le permetteva di arrivare a lei; e
l’altra che le
imponeva di abbandonarsi alla dolce indolenza che impigriva i suoi
sensi,
cedendo a quell’inganno che lentamente stava diventando la
sua vera realtà
imposta.
Voleva
vivere, voleva scacciare
quell’angoscia, eppure essa era più forte e la
schiacciava come se avesse preso
il pieno controllo del suo corpo e delle sue debolezze; la dominava
come
conoscendola palmo a palmo, premendo sui suoi impulsi e gettandola
ancora più
in profondità in quel mondo vuoto che la inghiottiva
prepotente e che lei
cercava di contrastare con tutta se stessa.
La
giovane donna alzò il viso, sudato e
angosciato. Il respiro era calmo, ma sentiva l’affanno
crescere dentro di sé e
che le impediva di prendere beatamente sonno. Generalmente si assopiva
in
seguito allo sfinimento di quella perpetua sensazione di stordimento
che la
perseguitava ormai da giorni. Si addormentava pur di non dover sentirsi
così
tutta la giornata, pur di mettere la parola fine a
quell’agonia.
Il
vomito, dovuto alla fortissima nausea che
aveva in corpo, le saliva disgustosamente in gola. Era insopportabile,
come se le
stesse prosciugando l’anima, la sua intera essenza vitale,
opprimendola in
quell’agonizzante condizione di squilibrio e confusione, che
disorientava i
suoi sensi fino ad annullarli, non permettendole di riconoscere
più qual era il
mondo reale.
Era
questo che accompagnava i suoi giorni; era
questo che la sopraffaceva e la ingabbiava, facendola sprofondare in un
caos
sbagliato e riluttante, privo di forme e strutture, condannandola a
galleggiare
in un etere buio e ostile, che voleva annientarla conducendola alla
perdita del
suo spirito.
Nel
buio della sua ragione, guardò
fugacemente attorno a sé, sperando che in quella stanza
fosca e ombrosa ci
fosse qualcosa che l’aiutasse a fare chiarezza
sull’assurda situazione in cui
si trovava e dalla quale non riusciva a più uscire. Qualcosa
che parlasse d
lei, che le confermasse che era solo un incubo, che le comunicasse un
qualsiasi
senso della realtà che al momento le sfuggiva e la faceva
sentire male.
Purtroppo
però l’unica cosa che la
circondava era soltanto la triste e indifferente oscurità
della notte, che non
voleva venire incontro alla sua tormentata e disperata condizione, che
gridava
aiuto, che implorava di tornare alla luce.
Girando
gli occhi assonnati e speranzosi,
che cercavano ossessivi i segni di una vita che sentiva estranea alla
sua
persona, riuscì lentamente a scorgere la sagoma del
baldacchino su cui era
adagiata.
Era
maestoso, e molto ampio. Sembrava quello
di una persona regale, e si accorse solo in quel momento di essere
avvolta dalle
sue soffici lenzuola di seta, il cui colore era indistinguibile
nell’ombra. Di
fronte a se vedeva in modo precario un soffitto variopinto, sembrava un
affresco angelico. Facendo invece scorrere il suo sguardo verso il
basso,
intravedeva un mobile scuro, accanto al quale era posizionato uno
specchio…anzi, una postazione da trucco. Parte di quel vetro
risplendeva
nell’oscurità, riflettendo una luce tenebrosa che
non proiettava alcuna immagine,
come simbolo di un mondo che non era pronto ad essere rivelato.
Quando
la ragazza fece per sollevare il
busto, trovò inaspettatamente resistenza
all’altezza dei polsi. Sbirciò in loro
direzione e delle tenaglie la tenevano ancora una volta bloccata sulla
sua
posizione.
Strinse
gli occhi, accigliata. Quelle catene
intrecciate dietro lo schienale del letto cadevano sul materasso e
imprigionavano entrambi i suoi polsi in due morse ferrose e pesanti,
maleodoranti di vecchio e di ruggine.
Con
estrema fatica riuscì a fare mente locale.
Quel
risveglio le fu presto familiare e alla
fine ricordò nitidamente che non era la prima volta che
accadeva. Anzi…era una
constante.
Perchè
lei era sempre incatenata. Lei era
sempre prigioniera. A
meno che non c’era
lui…
Era
solo in presenza dell’altolocato ragazzo
dai capelli pallidi che lei era libera di alzarsi dal suo letto, o
dalla sua
poltrona, sui cui era generalmente costretta a sedere.
L’incoerenza
notata nei giorni precedenti si
fece sempre più oggettiva, fino a tramutarsi in
un’insistente voce interiore
che cominciò a sussurrarle.
Era
un richiamo forte, che le urlava nelle
orecchie e che da giorni pretendeva il suo ascolto, ma che solo adesso
era
riuscita finalmente a sentire.
Era
la voce della sua coscienza che
implorava il suo corpo di risvegliarsi.
Prese
così a ragionare tacitamente,
riflettendo su quella situazione paradossale e spaventosa. Su quel
ragazzo
vestito di rosso; sul perché lui la teneva incatenata al suo
letto; perché non riusciva
a riconoscere il suo viso; e quel posto…perché
non riconosceva casa sua?
Era
tutto così visibilmente illogico…persino
lei stessa oramai non sapeva più chi fosse.
Chi
era Alexia? Perché la chiamava così?
Se
era la sorella di quell’uomo, allora
perché la teneva imprigionata?
Doveva
ricostruire il quadro della
situazione e riappropriarsi della propria capacità di agire
il più in fretta
possibile, prima di perdersi ancora di più nel
raccapricciante labirinto della
follia che albergava in quella villa.
***
(…nello
stesso tempo)
Stanza
di monitoraggio - Sera
Alfred
Ashford guardava nervosamente verso
il monitor. La tensione poteva sentirsi a fior di pelle.
La
sua gamba non smetteva di muoversi. Egli agitava
il piede in modo che il tacco andasse su e giù, su e
giù.
Anche
la sua mano aveva preso a picchiettare
nervosamente contro il tavolo sul quale era appoggiato già
da diversi minuti.
Lo sguardo vago, la pelle fredda, il cuore in tormento, la frenesia che
agitava
il suo corpo, l’angoscia che lo innervosiva…
Questo
era quello che gli accadeva da una notte
in particolare.
Da
quella notte in cui aveva incrociato il
suo sguardo con un altro essere umano.
Un
altro essere umano…che non fosse Alexia.
Alfred
aveva certamente conosciuto altre persone
nella sua vita. Era ovvio fosse
così.
Era
andato a scuola, frequentato l’università,
era stato comandante di un campo dell’Umbrella di cui
attualmente dirigeva il
Centro di Addestramento, prima che la sua base venisse inspiegabilmente
attaccata.
In
quei contesti aveva incontrato molte
facce nuove, e tantissimi volti erano passati passivamente al suo
cospetto, ma
a nessuno lui aveva mai dato importanza. Essi erano ai suoi occhi
immagini
prive di significato, assolutamente riluttanti, diversi….
Diversi
da lui, diversi da Alexia.
Egli
era oramai irrimediabilmente a disagio,
se non disgustato, dal contatto di chiunque non fosse lei, sua sorella
gemella.
Aveva sempre prediletto la solitudine del suo castello, tenendosi a
debita
distanza dai suoi colleghi. Quel mondo così lontano dal suo
lo spaventava…
L’essere
cresciuto in completa solitudine,
fra quegli esperimenti inumani, in quel contesto malato e perverso, con
la sola
ed esclusiva complicità della furba e vincente Alexia, lo
aveva completamente
staccato dalla realtà in modo ormai irreversibile. Non avrebbe mai
più potuto far parte del mondo
comune. La solitudine e la depressione in cui era caduto fin da
ragazzino avevano
inesorabilmente deviato la sua mente, rendendolo incapace di uscire
dalla sua
cattività.
La
sua gabbia era divenuta la sua tana, un
posto che poteva condividere solo con una persona, l’unica
che con lui aveva
condiviso quello stesso crudele destino.
Accanto
a lui c’erano sempre stati due soli
occhi complici che rispecchiavano il suo stesso animo, la sua stessa
eccentricità, il suo stesso essere
‘diverso’, le sue stesse macabre
ossessioni…
Alexia
Ashford
Era
lei l’unica che avesse al mondo. L’unica
della quale si potesse fidare, in un mondo che aveva voltato loro le
spalle,
che li aveva infangati e marchiati con l’indelebile segno
dell’inganno. Strumentalizzati
e demonizzati dalla loro stessa famiglia, che li avevano voluti e usati
solo per
i loro comodi, costringendo le loro vite a una dannazione eterna; i
biondi
gemelli avevano toccato con mano la crudeltà di quel mondo
nefasto dove
vivevano i ‘normali’ esseri umani.
Alfred
ed Alexia Ashford erano divenuti così
l’uno il sostegno dell’altro. Gli unici che
valessero il significato della
vita. L’uno era l’unica spalla sulla quale
l’altro potesse contare.
Loro
erano il Re e la Regina.
In
quel destino crudele e deviato, che aveva
mirato a schiacciarli e a sfruttarli, un morboso attaccamento si
sviluppò nei
due, ed in Alfred in particolar modo.
La
bionda era una continua fonte
d’ispirazione, un esempio da amare, seguire, venerare con
tutto se stesso. Forte
e meravigliosa, aveva da sempre avuto più scaltrezza e
intelligenza rispetto al
disturbato Alfred. Era lei, infatti, la vera perla della famiglia, che
avrebbe
riportato gli Ashford al loro antico splendore.
Era
su di lei che vertevano le aspettative di
tutti.
Così
Alfred era solo un puntino rispetto al
suo genio. Dotato anch’egli di una spiccata perspicacia e un
ingegno certamente
fuori dal comune, rimaneva tuttavia in ombra rispetto la promessa della
famiglia che aveva ereditato al meglio le qualità
intellettive della loro
stirpe.
Il
ragazzo era così divenuto un “diverso”
persino in quel contesto. Un ostacolo per l’intelligenza di
sua sorella.
Al
contrario, però….la frustrazione
dell’essere secondo, l’agonia di essere
perennemente oscurato dalla possente
luce di Alexia, generò in lui il complesso di un umile
servo, che avrebbe fatto
qualsiasi cosa per assicurare il successo e il benessere della sua
Regina.
Perché
era a lei che doveva quel poco di
buono che aveva avuto dalla vita. Era grazie a lei che leniva le pene
di quella
vile esistenza dimenticata.
Alexia
divenne qualcosa di più di una
sorella. Qualcosa di più profondo di un’anima
gemella.
Ella
diventò un’ossessione.
Lei
divenne La Donna. L’unica Donna che
potesse esistere per lui.
La
sua Unica e Perfetta Regina, oltre la
quale non vi era nessuno.
Di
conseguenza, ciò fece maturare in Alfred
una dipendenza mentale, immettendogli nella testa la folle idea che
quel mondo,
senza la sua adorata, non aveva significato di esistere.
Era
un mondo che doveva proteggere
esclusivamente per lei. La Donna e la sua Regina.
Con
l’assenza di Alexia, conseguentemente, questi
disturbi si trasformarono in sadismo, psicopatia, follia…
La
ragazza, infatti, si ibernò all’età di
dodici anni, al fine di essere lei stessa l’esperimento che
avrebbe dato di
nuovo gloria agli Ashford, lasciando quindi da solo il giovane Alfred a
vegliare su di lei, in quel lugubre e desolato castello.
Gettato
nel dolore e nella solitudine più
profonda, il ragazzo sapeva che mai sarebbe potuto sopravvivere senza
quell’importante e fondamentale parte di sé,
rappresentata proprio dalla sua
amata sorella.
Egli
quindi realizzò ben presto che l’ unico
modo per continuare a dare un senso alla sua vita era quello di
proteggere
l’unica cosa cara che avesse: ovvero, ancora una volta,
Alexia.
Nulla
dunque avrebbe avuto importanza per
lui. Nulla avrebbe avuto alcun valore se non rispecchiava gli interessi
della
sua somma sorella.
Avrebbe
sacrificato ogni cosa al fine del
benessere e del successo della sua Regina. Persino se stesso.
Ma
la follia già aveva devastato la sua
mente, incapace di contenere il suo reale malessere.
Un
dolore incommensurabile, atroce,
insostenibile, insopportabile….
Nulla
avrebbe potuto lenire quella tragica
ferita, che non avrebbe potuto che allargarsi in quindici anni di
attesa.
Così,
se da una parte dedicava la sua
esistenza al progetto T-Veronica di sua sorella, dall’altra
ricercava il modo
per dar sfogo al suo dolore, tramutatosi presto in perversione,
divertendosi
con giochi di torture sadiche e violente, che macchiavano di sangue i
suoi
prigionieri, cavie inconsapevoli di quella giostra esangue.
Il
Centro di Addestramento dell’Umbrella
divenne per lui un universo macabro ed appagante, in cui riversava
tutta la sua
sofferenza su quei corpi privati della stessa anima che oramai era
stata
strappata anche a lui con l’assenza di Alexia.
Era
quello il suo mondo, era quella la sua
unica via di fuga.
Era
questo che appagava il suo senso di
disperazione e che traduceva la sua reale personalità
disturbata.
Poi…improvvisamente
qualcosa era cambiato.
Qualcuno
aveva osato penetrare e disturbare
la sua macabra attesa di Alexia.
La
sua isola a Rockfort era stata attaccata
ed era apparsa tempestivamente lei….
La
misteriosa e conturbante Altra Donna, che
si era insinuata nel suo Centro di Addestramento, portando nello
scompiglio i
suoi piani.
Inizialmente
aveva trovato divertente vedere
come quell’insignificante formica riuscisse a fuggire e a
nascondersi nei
meandri del suo castello. Come uno sporco topo di fogna conscio della
morte in
agguato nell’oscurità, di cui egli era il padrone
assoluto.
Perché
era lui che possedeva il potere della
vita e della morte nel suo lugubre e gotico territorio.
Era
un gioco che lo esaltava, che aveva
riacceso i suoi sensi e la sua natura eccentrica.
Claire
Redfield avrebbe certamente dato un
po’ di brio a quella devastante attesa, soppiantando
quell’incolmabile
solitudine che aveva in corpo. Di questo, in effetti, avrebbe dovuto
essergli
grato, e l’aveva fatto. Aveva, infatti, mosso per lei tutta
la crudele
“accoglienza” che la sua dimora potesse offrire.
Sarebbe
stato un soggiorno indimenticabile.
Ma
quella formica gli aveva dato del filo da
torcere…persino troppo. Più di quanto potesse
sopportare.
Così
tanto che presto smise di divertirsi.
Giunse
il momento in cui quella formica
dovesse essere schiacciata.
La
rabbia che covava in corpo, l’angoscia
che non lo abbandonava, si riversarono d’un botto tutte su di
lei, che divenne
ai suoi occhi l’Altra Donna. La donna impura e ignobile,
spregevole e
insignificante.
Un
nemico di cui sbarazzarsi al più presto.
Eppure…
eppure c’era qualcosa che l’aveva
inesorabilmente sedotto di lei.
Qualcosa
che a lui mancava…
qualcosa che un tempo lo completava...
Tornò
a guardare lo schermo, oltre il quale
la sua meravigliosa donna dai lunghi capelli biondi giaceva dormiente.
Ella
si agitava nel suo letto. Stava
indubbiamente per svegliarsi.
Il
biondo osservò minuziosamente ogni sua
movenza, ogni tremore del suo corpo: le sue gambe che si sollevavano
sotto il
lenzuolo, il respiro che gonfiava il suo petto, le maniglie di ferro
battuto
che le ancoravano i polsi e costringevano i suoi movimenti, i suoi
meravigliosi
capelli biondo platino che si arricciavano sul cuscino…
Quell’immagine
lo ipnotizzò, rendendolo
incapace di vedere altro.
Viva,
corporea, palpitante…ella era una
presenza reale, tangibile, qualcosa che da tempo oramai non scaldava le
porte
del suo castello. Qualcosa che gli mancava e lo confondeva.
Ella
si muoveva davanti ai suoi occhi,
tormentandolo e beandolo allo stesso tempo, rimembrandogli ricordi
lontani di
felicità assoluta e d’incolmabile nostalgia, verso
quell’amore che aveva conosciuto
ma che non poteva possedere.
Non
era soltanto Alexia che ricercava in
quell’immagine. Fra quelle lenzuola di seta, luminose e
leggiadre, in quel
volto disturbato, oscurato dal buio della stanza, egli cercava
inesorabilmente
l’essenza della fisicità di una persona, qualcosa
che gli mancava follemente e
che solo Alexia aveva sempre colmato.
Ingabbiato
così in quegli oscuri desideri,
scrutava colei che era nascosta sotto quella maschera, come se volesse
scorgere
le ombre di quel mondo che invece aveva rinnegato e rifiutato, che non
aveva mai
avuto alcuna importanza per lui. Egli esaminava quella donna cercando
di
riesumare quel qualcosa che lui stesso aveva celato. Quel desiderio
fisico
verso un altro essere umano, che gli fu negato dopo la scomparsa della
sua
meravigliosa sorella e che aveva impedito a chiunque di colmare
chiudendosi in
una solitudine buia e terribile.
Tutto
ciò che l’aveva portato in quel
baratro ossessivo, reprimendo quel suo bisogno d’affetto che
veniva appagato
soltanto al cospetto della sua amata, lo metteva adesso a disagio, in
quanto
non abituato a vivere senza di Lei. Eppure desiderava Alexia a tal
punto da
ignorare tutto questo, ed ergere mille stratagemmi che riesumassero il
suo
corpo lontano e che da anni lo aveva abbandonato al suo destino.
Così
tanti, che quel ricordo aveva
cominciato a violentarlo e disturbarlo, fino a fargli ricercare ovunque
quell’affetto che un tempo conosceva, e che adesso poteva
rivivere solo nei
suoi sogni dimenticati.
Era
qualcosa che niente poteva sostituire, e
che nessuno avrebbe mai potuto comprendere…
Dunque
osservava quella donna al di la dello
schermo con quell’ossessione di chi è follemente
innamorato di un sogno; di chi
disperatamente cerca qualcosa che razionalmente non sa che non avrebbe
mai
potuto trovare.
La
bionda fanciulla dormiente rimaneva infatti
distante dal suo universo. Ella era un elemento di disturbo nella sua
mente,
discorde con i suoi precari equilibri che stavano vacillando e
l’avevano
condotto alla pazzia a furia di aspettare eternamente la sua Alexia.
La
sua stessa marionetta adesso lo stava attirando
nella sua tela mortale, ove le sue armi non bastavano per proteggerlo.
La sua unica
difesa, che consisteva nella rievocazione di un mondo che da quindici
anni non
gli apparteneva più, che lo stava ingabbiando in qualcosa
che avrebbe affondato
ancor più la sua mente già morbosamente ancorata
a quell’illusione che sfuggiva
dalle sue mani.
Eppure,
più osservava quel corpo, più qualcosa
si scioglieva nel suo cuore….
Un
tacito e dolce peccato si delineava.
Un
peccato inconfessabile….
Perché
non ne poteva più di aspettare…non ne
poteva più di quell’atroce agonia…
In
quegli attimi in cui ella si stava
risvegliando dal sonno, egli sapeva che presto avrebbe dovuto
somministrarle la
quotidiana ‘medicina’, capace di elevare la comune
donna e trasformarla in Lei,
la Regina, Alexia…
Un’
‘espediente’ che gli permetteva di
realizzare il suo sogno e dare vita a quell’ingannevole
commedia che amava
vedere sul suo palcoscenico.
Un
piccolo rimedio che aiutava la sua
giovane attrice a esibirsi in modo esemplare nella parte di colei che
era la
più importante; un modo subdolo per soddisfare i suoi
desideri, ma che appagava
i suoi sensi, la sua solitudine, il suo disperato desiderio non di un
calore
umano qualsiasi….ma dell’amore più
puro, profondo e autentico.
Senza
quella maschera, la ragazza avrebbe
rivelato l’attore nascosto dietro il personaggio, disgrazia
assoluta in uno
spettacolo teatrale perfetto come il suo. Sarebbe stato riluttante se
questo
fosse accaduto, rovinando la sua scena eccellentemente costruita.
Lei
intanto si stava svegliando, e anzi,
forse era già cosciente oramai. Alfred avrebbe infatti
dovuto somministrale la
medicina più di un’ora prima; eppure lui stava
appositamente ritardato quel
momento.
Desisteva,
rimanendo inerme, fermo a
contemplarla.
Non
fece nulla che potesse impedire la presa
di coscienza della giovane, come se non gli importasse.
Egli
in quel momento bramava soltanto vedere
quel corpo muoversi sotto le sue coperte.
Quell’immagine
lo stava stregando a tal
punto da fargli commettere quell’imperdonabile errore che
presto gli si sarebbe
ritorto contro, compromettendo la sua atroce e folle commedia.
Era
conscio che non avrebbe mai visto ciò
che voleva vedere, oppure semplicemente era riluttante verso
l’ammissione di
quella colpa; quell’inconfessabile piacere che non gli
avrebbe arrecato che
dolore se si fosse concesso ad esso.
Per
questo l’ammirava da lontano, in quel
tacito idillio che alcuno avrebbe mai conosciuto.
Rimase
quindi immobile, adagiato sulla
scrivania della stanza di monitoraggio, senza dar voce a nulla dei suoi
piaceri
o turbamenti, affogando nei desideri di un Es trascurato e represso,
che fece
tacere le ragioni del suo Super io devastato, in attesa di invadere
quella stanza
per dare di nuovo inizio a quella commedia che in realtà non
aveva mai smesso
di essere in atto.
***
Camera
di “Alexia” – Notte fonda
“Ugh…!”
Il
lamento di una donna interruppe il
silenzio che albergava nella buia e tetra camera da letto.
La
padrona di quella preziosa stanza,
arredata con il miglior mobilio della casa, era incatenata al suo
letto,
stretta in delle dolorose e rugginose morse che le segavano i polsi. Il
bruciore era incessante, ma nonostante ciò, ella continuava
a tirare.
La
posizione in cui era costretta, la paura
di essere vittima di qualche assurdo complotto, ma soprattutto
l’essere
obbligata a soccombere in quella prigionia, camuffata da quei
bellissimi
fronzoli eleganti e sfarzosi che distoglievano dalla realtà
il comune
spettatore, era diventato insostenibile.
La
sua mente era annebbiata come il solito, ma
per qualche motivo qualcosa stava lentamente cambiando.
Una
causa sconosciuta aveva permesso al suo
intelletto di riattivarsi e così una parte remota del suo
inconscio aveva
riesumato la sua determinazione, conferendole uno scopo finalmente:
perché adesso,
nonostante la sua mente ancora confusa, bramava liberarsi da quella
ferraglia e
riconquistare la sua libertà.
Si
rifiutava categoricamente di essere ancora
usata e ingannata. Non ora che quella parte combattiva di se stava
cominciando ad
animarla, facendola finalmente lottare contro quel destino che ancora
non
riusciva a decifrare.
Ma
che sentiva fosse sbagliato; ingiusto;
deplorevole.
Perché
Lei non era padrona di quel castello,
era solo un mero prigioniero. Un prigioniero per qualche motivo ben
accolto,
ben nutrito, curato… ma il tutto non era altro che una
messinscena. Un’assurda
e mentecatta recitazione che nascondeva la sua reale condizione.
L’aveva
sempre saputo, eppure non ne aveva
mai ancora preso davvero coscienza, alienata e debilitata
com’era.
Non
ebbe il tempo di chiedersi altro, però. Era
ancora troppo stordita e non aveva ancora recuperato la completa
capacità
d’intelletto. Qualsiasi cosa aveva intorpidito i suoi sensi
fino a quel
momento, doveva essere forte.
La
sua fattività fu invece la prima cosa che
aveva ripreso coscienza di lei.
I
suoi polsi si fecero incandescenti, erano
così rossi e lividi che sembrava li stesse sfregando da ore.
Strinse i denti, spinta
dalla sua determinazione, ma alla fine dovette cedere alla sconfitta
nonostante
il fuoco che le ribolliva dentro. Era impossibile per lei liberarsi.
Nel
momento nel quale abbandonò le mani sul
materasso, queste presero a pulsare dolorosamente, fino a tremare.
Osservò
la catena che univa quelle maniglie
al letto. Con quell’esigua lunghezza, l’unica cosa
che poteva fare era muovere
a stento il busto. Soffiò cacciando via dai polmoni
l’ansia accumulata; doveva
meditare un piano, perché in questo modo non sarebbe
riuscita a far nulla.
Nello
stesso momento in cui cercò di alzarsi, sfruttando al meglio
quei
trenta centimetri della catena, un tenue bagliore esterno apparve da un
angolo
della stanza.
Quella
luce rigò la camera con il suo bagliore in un singolo punto
del
pavimento, eppure bastò a catturare tutte le attenzioni
della giovane, il cui
cuore prese a battere incessantemente.
Esso
si era introdotto dalla porta d’ingresso che, aprendosi,
aveva fatto
penetrare la luce del corridoio esterno. Ma non fu quella
l’unica cosa che
apparve al di la della porta.
Con
la coda dell’occhio, sbirciò oltre e vide presto
avanzare dall’uscio
due slanciate gambe affusolate, rivestite da dei pantaloni bianchi, il
cui
candore spezzò violentemente quel buio intenso.
Subito
la ragazza affondò la testa sul cuscino, sperando che il
solito ragazzo
biondo che le faceva visita non si accorgesse di lei.
Il
Falso Fratello avanzò silenzioso nella stanza. Aveva una
lanterna fra
le sue mani, che appoggiò sulla cassettiera di legno.
Vi
soffiò sopra, aprendo lo sportellino di vetro che proteggeva
la fiamma.
Così la stanza ritornò nel buio.
Quel
silenzio così invadente, e la presenza del biondo
nell’oscurità,
mise la ragazza incatenata in allarme.
Erano
pochi i motivi per cui un uomo avrebbe potuto introdursi
così in
una camera da letto, così rimase in attesa, mentre il suo
cuore prese a battere
all’impazzata.
L’uomo
dal suo canto era molto rilassato.
Si
muoveva nel buio come se conoscesse alla perfezione ogni angolo di
quella stanza. Il suo sguardo si posò su quelle poche zone
illuminate del corpo
della ragazza. Rimase in piedi di fronte al letto per qualche
interminabile
istante, mentre la giovane nascondeva sempre di più il viso
sotto i suoi lunghi
capelli biondi. Tenne tuttavia gli occhi semichiusi, non avendo il
coraggio di
fingere totalmente di dormire. Non se la sentiva di chiuderli. Doveva,
infatti,
osservarlo attentamente e cogliere quanto prima le sue intenzioni,
prima che
tutto precipitasse.
Era
l’istinto che glielo imponeva.
Improvvisamente
il ragazzo si voltò, e quel gesto la fece sbandare data
la tensione che aveva in corpo. Fortuna volle che lui non se ne
accorgesse, essendosi
girato di spalle, intento ad avvicinarsi a un antico soprammobile. La
ragazza
lo vide posare le pallide dita su quello che sembrava un giradischi o
qualcosa
di simile. Solo dopo che lui lo mise in funzione si accorse che era un
carillon.
La
musica che ne fuoriuscì sembrava una ninna nanna. Un
melodico e dolce
motivetto, breve, e che prese a ripetersi all’infinito.
Prima
rapita da quel suono, lentamente quelle note si fecero sempre
più
angustianti e quasi non riuscì più a sostenerle.
Era
come una lullaby diabolica e triste, che sembrava voler straziare il
cuore di chi l’ascoltava. Compreso non solo il
suo…ma anche quello del biondo
Alfred.
Il
biondo prese posto sulla sedia posta di fronte la specchiera, e
poggiò
la testa fra le sue mani, come se quel motivetto facesse riaffiorare in
lui dei
tormentati ricordi. Seppur non potesse vedergli il viso, era sicura che
egli si
stesse struggendo dentro.
Se
gli provocava tanto dolore, allora perché aveva messo in
funzione quel
carillon, si chiese.
I
suoi pensieri tuttavia tacquero in fretta. Questo perché
lui,
silenziosamente, si alzò dalla sedia e fece per avvicinarsi
a lei. Fu presto
vicinissimo, prima di quanto si aspettasse.
La
donna s’immobilizzo, non sapendo cosa fare. Reagire o
aspettare? Cos’era
meglio date le circostanze?
Intanto
lui era già al suo canto.
Egli
poggiò un ginocchio sul materasso, piegando le candide
lenzuola
sulle quali si era appoggiato. Inclinò il busto ponendo le
sue mani ai lati
della fanciulla addormentata, intrappolandola fra le sue braccia. La
ragazza
non ebbe il coraggio di alzare il suo sguardo, consapevole che se lo
sarebbe
ritrovata di fronte. Immaginò tuttavia nitidamente il suo
viso marmoreo,
bianchissimo, il suo prezioso completo rosso, e i suoi occhi color del
ghiaccio
che la trafiggevano, con quel sorriso sincero e deviato che la turbava
fino
alla follia.
Ciononostante
non resisté, e la paura ebbe il sopravvento.
Perché era
nella natura umana dare un volto al pericolo ormai in agguato, temendo
le ombre
nascoste alle proprie spalle. Così girò gli occhi
e mosse impercettibilmente la
testa, ritrovando così, a un braccio di distanza, la precisa
immagine che si
era figurata:
L’uomo
dai capelli biondi era infatti lì, di fronte a lei, e la
osservava
con il suo solito tormento nascosto negli occhi.
Lui
sorrise e le sue labbra si mossero formulando ancora una volta quel
falso nome che la perseguitava e che non le apparteneva.
“Alexia.”
Quel
nome fu come un fulmine in una tempesta, il quale trafisse in pieno
la giovane che, presa dalla frustrazione accumulata da giorni, subito
sollevò il
busto come riflesso condizionato. Tuttavia la catena che la
imprigionava bloccò
il suo movimento, ovviamente, così si ritrovò
costretta a discendere violentemente
sul materasso. L’urto fu devastante. Compressa contro il
materasso, tutto il
peso gravava sui gomiti, mentre i morbidi capelli presero a scendere
sul suo
viso, coprendolo quasi interamente.
Il
ragazzo parve indubbiamente scosso da quel gesto improvviso, e si mise
quindi in allarme.
Aveva
certamente posticipato di qualche ora la somministrazione del
farmaco che usava per calmarla, ma non immaginava che ella conservasse
ancora
un carattere così impetuoso.
La
rabbia scaturita dall’umiliazione di quell’azione
che, seppur non
andata a segno, era volta in modo molto evidentemente a fargli del
male, lo
costrinse a digrignare i denti, inducendolo a desiderare visceralmente
di
colpirla a sua volta. Ma quell’intimo istinto brutale
svanì rapidamente in
quello stesso istante in cui era nato, in quanto all’ira
funesta si sostituì
con altrettanta velocità alla paura.
I
suoi occhi tremarono e la sua anima prese ad angosciarsi.
Guardava
la bellissima donna dai lunghi capelli biondi, con il suo viso
angustiato, la collera che pulsava viva dentro le sue vene, e i suoi
occhi
complici, adesso invece colmi di rancore verso di lui.
Scendendo
lo sguardo, poi, le sue spalle nude, ricoperte dal tessuto del
pigiama in modo trasversale, sciupato; le sue gambe di fuori da sotto
la veste,
i capelli scompigliati, le occhiaie sul suo viso…
Quell’immagine
lo angustiava… lo addolorava profondamente. Era come se
qualcuno avesse osato rovinare un suo possedimento veramente prezioso.
Come
se la sua preziosa bambola di porcellana fosse stata tragicamente
manomessa da uno scellerato.
Così,
tremante, il suo primo pensiero fu quello di rivestire e mette in
ordine la sua amata e bellissima bambola perfetta.
Avvicinò
dunque le mani al viso della fanciulla, pronto a liberarle la
fronte, ma la sua la marionetta reagì non assecondando i
fili del burattinaio.
Ella
infatti mosse velocemente i polsi, usando le tenaglie stesse come
arma, colpendo violentemente in viso il suo carceriere.
Stavolta
riuscì a colpirlo.
L’urto
fu più forte di quanto ella stesso avesse premeditato. Dopo
averlo
picchiato, infatti, cascò in avanti e una spalla prese a
bruciarle terribilmente
per via di quel movimento violento e doloroso. Strinse i denti sperando
che non
le fosse uscita fuori dall’osso, tuttavia prima di tutto
volle scrutare l’uomo
che aveva colpito, pronta alle conseguenze di quella sua brutale
reazione.
Il
biondo intanto aveva portato immediatamente la mano sulla bocca, ferita
da quella robusta ferraglia.
L’estremità
posta fra bocca e mento si fece velocemente livida, e dal suo
labbro scesero delle gocce di sangue che colarono dalle sue mani.
Rimasto
inizialmente attonito, non comprese immediatamente la crudele
ingiustizia appena accaduta, ove la sua magnifica bambolina aveva per
davvero
colpito il suo buon padrone.
Astrusi
e psicopatici pensieri affollarono la sua mente sotto shock.
Lui
che voleva
solo aggiustarla…
Lui
che voleva
solo prendersi cura di lei…
Lui
che l’aveva
servita, riverita, le aveva dato la stanza più bella.
Lui
che….l’aveva resa
al pari della sua Regina...!!
Preso
di nuovo dalla frustrazione, da quella rabbia repressa da fin
troppi anni, dal disonore scaturito da quell’insulsa donna,
si voltò di scatto
verso di lei con una mano già tesa. La ragazza, ancora
imbrigliata alla catena
che le impediva anche solo di alzarsi, non poté far altro
che indietreggiare
quanto più potesse per evitare di essere colpita.
Incassò istintivamente la
testa nel collo, e seppur ancora dolorante per il colpo che aveva
inferto al
ragazzo, e dall’ansia e la paura che provava in quel momento,
riuscì comunque a
lanciarsi debolmente all’indietro, sfruttando a malapena quei
stentati trenta
centimetri che la catena le lasciava di autonomia.
Non
riuscì tuttavia ad evitare che la mano di Alfred arrivasse a
colpirla, e l’impatto fu così inevitabile.
Tuttavia la ragazza riuscì ad
indietreggiare abbastanza da allontanare il viso dalla sua gittata,
così il
palmo del giovane finì soltanto per sfiorarle violentemente
la parte superiore
della testa.
Ma
nessuno dei due avrebbe potuto aspettarsi che il peggio non era stato
affatto evitato.
Perché
le conseguenze furono addirittura più devastanti.
Fu
un attimo, un battito di ciglia, ma che cambiò
irreversibilmente ogni
cosa si credesse fosse reale.
La
scacchiera si capovolse ed altre verità si alternarono tra
loro,
rivelando il lato oscuro di quella folle messa in scena che andava in
realtà
avanti da giorni.
Questo
perché una marea di lunghi capelli biondi volarono oltre il
letto,
sbattendo sul pavimento drappeggiato dagli eleganti tappeti ricamati. Essi si posarono
disordinatamente a terra,
mantenendo tuttavia intatta la forma dello scalpo. Ma quelli che erano
volati
non erano davvero capelli….
Erano…
…una
parrucca?
Alfred,
accorgendosi che la ragazza avesse evitato il suo colpo, si
ritrovò a cadere sul materasso, ma si sorresse per tempo
appoggiando l’altra
mano su di esso.
I
suoi occhi si pietrificarono quando si rese conto di quel che aveva
appena fatto, di come da solo avesse messo a nudo il suo inganno e la
sua
follia. Disperato, il suo cuore prese a sbattere impaurito, sconvolto.
Non era
pronto, infatti, ad accettare l’immagine che aveva cercato di
fuorviare fino a quel
momento; era impreparato al dover vedere con i suoi occhi il vergognoso
aspetto
del suo manichino, spogliato del suo trucco principale. Il
trucco…che la
rendeva simile al suo ‘sogno’, alle sue speranze,
alla donna bionda che adorava
con tutto il suo cuore.
Era
turbato e incapace di vedere la fine del suo sogno ad occhi aperti.
Quel sogno in cui una meravigliosa parrucca bionda aveva potuto
trasformare una
donna qualsiasi in Lei.
Alfred
sembrava quasi sul punto di urlare, di voler scappare via. Avrebbe
fatto qualsiasi cosa per tornare indietro nel tempo ed evitare quel
dolore
incommensurabile.
Questo
mentre la visione dei lunghi e arruffati capelli rossi della donna
di fronte a lui adesso dominavano sulle sue spalle.
Confusa,
la ragazza intanto serrò gli occhi su di lui, impaurita
dall’espressione
del biondo, incapace di intendere quel che lo stesse tanto spaventando.
Ad
un tratto le loro iridi s’incrociarono ed ella
sbandò spaventata, accorgendosi
che lui si stava avventando verso di lei.
“Come
hai potuto?! Profanatrice! Stupida… stupida e sacrilega
Redfield!”
Egli
strattonò per le spalle la giovane, costringendola ad urlare
per il
dolore e lo sgomento. Al contempo la bloccò con le sue
braccia e fece per
raggiungere con una mano la parrucca ai piedi del letto. Ponendosi
sopra di
lei, cercò invano di risistemarle quella chioma bionda sul
capo, ma la rossa
era oramai in stato di panico e di totale agitazione. Ella muoveva di
continuo
la testa, rifiutandosi categoricamente di essere sottoposta a qualsiasi
cosa
lui volesse imporle.
“Aah!!”
Urlò
impaurita, cominciando a scalciare irrefrenabile, disfacendo oramai
del tutto le lenzuola. Il biondo così non riuscì
in nessun modo a rassettare la
sua ‘bambolina’ che, al contrario, si disordinava
sempre di più, e l’immagine
della sua somma e straordinaria sorella svanì velocemente e
inesorabilmente sotto
i suoi occhi. Disperato da quell’inaccettabile addio, egli
prese a scuotere la
ragazza.
Ma
per quanto avesse cercato di rievocarla, oramai Alexia Ashford era
inesorabilmente svanita da quel volto. La parrucca era
irreversibilmente
rovinata, ingarbugliata a fianco al suo capo che si agitava
continuamente,
avvolto invece dai suoi naturali capelli scuri e scarlatti.
Il
suo viso non era più quello disteso e raffinato che aveva
cercato di
duplicare. Così come il suo corpo e il suo portamento
altolocato e rilassato,
che adesso era impetuoso e bellicoso.
Il
vestito era completamente smesso, la sua eleganza non avrebbe
più fatto
riaffiorare la bellezza della donna che avrebbe dovuto indossarlo.
Così,
mentre lo sguardo di Alfred scrutava ogni parte che componeva quel
corpo, ricercando con ossessione un rimasuglio della sua adorata
Alexia,
inevitabilmente il suo animo pulsò, turbato dalla visione
scompigliata e seducente
di quelle gambe scoperte, di quelle spalle nude, di quella scollatura
disordinata.
Inspiegabilmente s’immobilizzò, tenendo lo sguardo
fisso su di lei, incapace di
accettare a livello inconscio il velato piacere di quella visione.
La
ragazza intanto smise di agitarsi, accorgendosi del silenzio e della
quiete appena instauratasi.
Aprì
meglio le palpebre, incerta, mentre l’uomo con la divisa
militare
era ancora sopra di lei e la bloccava contro il materasso. La sua presa
era
tuttavia visibilmente più lenta, e qualcosa lo aveva
improvvisamente calmato…o
distratto.
Alzò
lo sguardo verso di lui, e solo allora, seguendo gli occhi del
biondo, si accorse dell’effettivo stato del suo aspetto.
Rabbrividì
ed inorridì a quegli occhi insistenti sul suo corpo. Le si
gelò il sangue dalla vergogna e dall’irritazione.
Così si girò di lato, ponendo
di profilo tutto il suo fisico.
“Non
dovresti essere una sorta di fratello tu per me, hai detto?!”
Disse
con rabbia, sentendo il suo viso infuocarsi, desiderando di
togliersi a morsi le catene che la tenevano imbrigliata al letto per
dargliele
di santa ragione.
L’uomo
tuttavia non reagì d’impulso, o con collera, a
quella sua
asserzione. Al contrario, sembrava seriamente turbato, ugualmente
inorridito.
Egli
la scavalcò inaspettatamente con le gambe e si
alzò dal letto,
desideroso soltanto di mettere la parola fine a quell’incubo.
Incapace si
sostenere il peso di quell’assurda situazione. Disperato
dalla possibile idea
di essere stato deviato dall’immagine del corpo di una
volgare donna.
Premette
d’improvviso la testa fra le mani, stringendo le dita su di
esso
quasi fino a graffiarsi. Inclinò il busto contorcendolo
inumanamente, poi prese
a urlare, oramai in balia di un insostenibile crollo psicologico.
“A-Alexia..!
Aaaah!! Alexia!!”
L’uomo
scappò via dalla stanza, sotto gli occhi attoniti della
rossa, la
quale rimase a osservarlo tremante dal letto che ancora la imprigionava.
Egli
sbatté la porta con rabbia, sperando di chiudere oltre
questa anche
tutta la sua frustrazione, tutta la sua rabbia, le sue paure, le sue
deviate
ossessioni. Sperando al contempo che la sua Alexia non lo avesse visto,
che non
le avesse arrecato dolore…. che presto avrebbe potuto
scusarsi con lei e
redimersi dalle sue colpe.
Corse
così nella sua camera,
disperato, delirante, confuso.
Alfred
Ahsford era un
uomo folle; perseguitato e martellato dai fantasmi della sua angosciata
esistenza
che lo avevano oramai condotto verso l’oscurità
più buia, nella più tormentata
pazzia della depressione.
***
NdA:
Se
con la lettura di questo capitolo avrete avvertito la perenne e
martellante presenza di Alexia, onnipresente nonostante la sua assenza
non solo
nella mente distorta di Alfred Ashford, ma anche in ogni meandro della
villa,
allora avrò raggiunto il mio scopo.^^
Una
piccola “chicca” per chi l’avesse colta.
Nel
secondo paragrafo che compone questo capitolo, cioè le
riflessioni
riguardo all’oblio, le righe finali sono una piccola e
discreta citazione alla
canzone dei Queen “Let Me Live”, titolo tra
l’altro cucito sulla giacca di
pelle di Claire in re:code veronica x.
Rappresentando
il testo della canzone, ho pensato che ci fosse un motivo
perché la rossa indossa proprio questa giacca, e dunque ho
colto l’occasione
per cominciare a citare questo bellissimo testo, cosa che
farò anche più avanti
nel corso della storia.
Al
momento è quindi solo una velata citazione.^^
Grazie
per aver letto! ^O^
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Capitolo 3 *** Capitolo 3: acta est fabula ***
Capitolo
3: acta
est fabula
Un
tenue e appena
percepibile vapore lentamente prese ad annebbiare la camera da letto
della
marionetta mascherata da regina, sdraiata sul suo morbido letto a
baldacchino.
Intrappolata nelle morse di ferro ossidato che la ancoravano allo
schienale del
letto, non poté fare altro che restare a guardare di fronte a
sé quella scia
opaca che fuoriusciva dalla piccola grata per l’areazione
posta sul soffitto.
Nonostante
il buio
della notte, si distingueva nitidamente ora che si era finalmente
accorta di
essa; di quel micidiale e narcotizzante fumo che inibiva i suoi sensi,
rendendola
la bionda bambola del mentecatto padrone di quel castello, Alfred
Ashford.
Tuttavia
qualcosa
era cambiato e la parrucca arruffata al fianco del capo della giovane
donna
imprigionata ne era la testimonianza tangibile.
I
capelli scuri
che accarezzavano il suo viso e scendevano sul suo petto sfiorandola
poco sopra
lo sterno, i quali contrastavano meravigliosamente con la sua pelle
chiarissima; ma soprattutto i suoi occhi, che
ora facevano
la differenza. Essi finalmente davano un’anima a quel corpo
fino a poco tempo
prima quasi inanimato. Adesso erano ravvivati, vigili e mostravano
un’espressione mai vista.
Lo
sguardo vago, la bocca schiusa, la fronte rilassata…era
stato tutto
sostituito da un volto determinato e cosciente, pronto a vederci chiaro
una
volta per tutte.
La
consapevolezza finalmente aveva preso il possesso di lei. Quella
cognizione che, senza, le aveva fatto perdere il senno. Quella
confusione e
quella fiacchezza che le avevano impedito di capire chi fosse
Alexia… chi fosse
lei…
Era
come se tutto fosse stato spazzato via e prima che potesse cadere
di nuovo nell’oblio, annebbiata da quella droga, volle
rimarcare a se stessa la
consapevolezza appena raggiunta.
Guardò
dritto dinanzi a sé, quindi, puntando lo sguardo non su
qualcosa, ma direttamente verso un punto immaginario della sua mente,
pronta a
ristabilire le regole di quell’assurda trappola mortale che
aveva annullato il
suo io.
Perché
adesso lo sapeva.
Lei…
era Claire Redfield.
Lei…
era Claire Redfield.
Quando
focalizzò nella sua mente queste due parole, questi due
semplici
vocaboli corrispondenti alla sua identità ritrovata,
sentì il cuore sussultare,
felice di rivederla. Il suo animo si rasserenò, la coltre di
nebbia che la
confondeva si dissipò, e tutti quei dubbi che non le
tornavano presero a
scomparire uno dopo l’altro. Si sentì rinata,
forte, combattiva.
Era
meraviglioso essere tornata proprietaria di se stessa, libera dai
vincoli imposti sulla sua mente, che l’avevano annullata fino
a renderla un
involucro vuoto privo di consistenza, da riempire con i fronzoli che
più si
preferiva mettere…così come aveva fatto il folle
uomo vestito di rosso,
convinto di averla trasformata in Alexia, la fantomatica e incorporea
figura
femminile che dominava quel maledetto Centro dell’Umbrella
dove era finita.
Ben
presto vennero delineandosi pensieri sempre più concreti e
fattivi,
ma la rossa Claire si accorse amaramente che la sua memoria faceva
cilecca,
ancora una volta. Questo perché nuove domande affollarono
presto la sua mente,
adesso coscienziosa; interrogativi ovvi e che avrebbe dovuto porsi
molto tempo
prima, se soltanto si fosse riappropriata prima di quella casuale presa
di
coscienza.
Cosa
era successo? Come
diavolo era finita in quel posto? Anzi…dove si trovava
esattamente?
La
sua testa prese a girare vorticosamente, oppressa da quei
ragionamenti e da quelle ansie che la stavano assalendo
così, tutte assieme; ma
non volle per nulla al mondo interrompere quel flusso di pensieri che
lentamente stava tornando ad animarla, facendola tornare a essere una
persona e
non una stupida marionetta.
Tuttavia,
per quanto si sforzasse, non riusciva proprio a ricordare
l’anello di congiunzione tra lei imprigionata e vestita in
quel modo alla mercé
di un folle psicopatico e la sua fuga assieme a Steve a bordo
dell’aereo che….
Si
fermò.
La
sua fuga, l’aereo,
Steve!
Dove
si trovava il ragazzo dai capelli castani? Cosa era successo quel
giorno!?
Come
un fulmine a ciel sereno, numerose immagini si accavallarono
davanti ai suoi occhi, ristabilendo velocemente l’ultimo
punto di ripristino a
cui la sua mente riuscì a collegarsi.
***
Rockefort
Island
Centro
di addestramento dell’Umbrella Inc.
Notte
Gli
allarmi risuonavano per tutto l’edificio. Una fluorescente
luce
rossa prese a pulsare per tutto il centro d’addestramento,
disorientando i suoi
ospiti insieme al fastidioso stridulo che segnava l’inizio
del countdown del
sistema di auto-distruzione.
Immersi
ancora nelle loro ricerche e spinti dallo spirito di
sopravvivenza che li aveva indotti a investigare sui raccapriccianti
enigmi che
coinvolgevano i due macabri gemelli Ashford, un uomo e una donna si
guardarono
intorno spaesati.
Claire
Redfield, un’attraente ragazza di diciannove anni,
spostò lo sguardo
dietro di sé. Strinse nel pugno l’ultimo stemma
della marina, ritrovato
esattamente qualche istante prima. Il suo cuore pulsò,
consapevole che quel
suono martellante poteva significare solo una cosa, cioè che
presto quel posto
sarebbe saltato in aria. Era
la sua
ultima possibilità per uscire viva da lì.
Il
suo destino adesso dipendeva soltanto dalle insidie che si celavano nel
il tragitto che andava da lì al sottomarino, dove avrebbe
usato l’emblema che
teneva serrato fra le sue dita, l’unico lasciapassare che
avrebbe potuto
condurla alla tanto agognata libertà. Almeno sperava con
tutta se stessa che
così fosse.
Doveva
farsi coraggio e correre, soprattutto correre.
Cercò
lo sguardo di Steve Burnside, il ragazzo che aveva incontrato in
quel lugubre ambiente e con il quale era riuscita a collaborare dopo le
prime
incomprensioni. Egli aveva ancora tra le mani la parrucca bionda che
aveva
appena smascherato l’identità fittizia di Alexia
Ashford.
I
due ragazzi erano, infatti, ancora sconcertati per
quell’inquietante
scoperta quando era scattato l’allarme. La cruciale e
imprevedibile rivelazione
che aveva appena capovolto le carte che avevano avuto in tavola fino a
quel
momento; perché avevano appena scoperto che il loro nemico
era sempre e stato uno
soltanto, non c’era mai stata alcuna Alexia.
La
fantomatica donna dal genio insuperabile altri non era che proprio
il suo eccentrico fratello, Alfred, travestito da donna. Era stata
architettata
una messinscena che aveva dell’inquietante e
dell’incredibile allo stesso
tempo, confondendo le loro giovani menti in quel momento topico
dell’esplorazione.
Rimasti
attoniti di fronte al viso sconvolto dell’uomo dai capelli
biondi che li aveva ingannati, non avevano potuto prevedere lo
sconvolgimento
psicologico che egli avrebbe provato una volta rivelata la sua doppia
personalità, convinto com’era di poter davvero
rivestire il duplice ruolo di se
stesso e sua sorella.
Egli
era scappato via, disperato, quasi inorridito dalla visione di se
stesso mascherato da Alexia. Evidentemente doveva essere andato su
tutte le
furie per essere stato smascherato nelle indecorose spoglie di una
donna; aveva
quindi deciso di far saltare in aria quel posto pur di fargliela
pagare, pur di
dimostrare quanto potesse schiacciare in un secondo quelle fastidiose
formiche
che avevano distrutto la sua armoniosa doppia esistenza.
Claire
e Steve avevano toccato un punto troppo dolente della sua
psiche, sebbene non l’avessero fatto consapevolmente.
Avevano
umiliato il suo onore e quello di sua sorella. Non sarebbero
mai usciti vivi da lì.
Ignari
dei reali complessi esistenziali celati dietro quel
travestimento, i due prigionieri poterono soltanto guardare spaesati il
loro
nemico con il viso truccato urlare a squarciagola e scappare via da
quella
stanza.
Presi
dai mille punti interrogativi riguardanti quella parrucca bionda
gettata sul carillon della camera da letto di uno dei due gemelli,
improvvisamente le loro analisi erano state bruscamente interrotte da
quell’allarme, che li aveva subito riportati alla
realtà: dovevano fuggire di
li e alla svelta!
Non
sarebbero morti in quel maledetto posto.
“Forza
Steve! Dobbiamo andare!”
Urlò
la rossa prendendo il ragazzo per mano, incitandolo a muoversi. Steve
osservò quelle dita che avevano delicatamente sfiorato le
sue nocche. Gli ci
volle un istante per concentrarsi sulle parole che aveva detto.
Imbarazzato,
scosse la testa e la guardò dritto negli occhi.
“Il
sottomarino, il jet è lì!”
Disse
carico, deciso come non mai.
Steve
aveva da tempo lasciato le sue speranze in quella isola; una
parte di sé aveva inconsciamente accettato che sarebbe morto
fra quelle
polverose macerie.
Da
giorni e giorni non vedeva i suoi genitori e altri esseri umani; da
giorni non vedeva che distruzione attorno a sé; da giorni
non faceva che
combattere mostri pronti a divorarlo voracemente; da giorni non poteva
abbassare la guardia se voleva risvegliarsi con gli occhi ancora
impregnati di
vita.
Ma
in verità, nonostante quella lotta per la sopravvivenza,
dentro di
sé non nutriva alcuna speranza per il futuro.
Aveva
giocato fino a quel momento, godendosi il presente, sfogando la
sua rabbia, la sua paura, il suo reale stato d’animo, sulle
misteriose entità
che vagavano per quel luogo funesto. Aveva combattuto e lottato. Tutto
questo,
però, senza la reale illusione di salvarsi. Non era mai
stato quello il suo obiettivo.
Il
suo era solo un continuo e inutile gioco di resistenza
finché prima
o poi non avrebbe più avuto la meglio. Un piano molto
semplice, senza alcuna
finalità, ma d’altronde oramai non gli importava
più nulla.
Si
sarebbe difeso finché avrebbe avuto un’arma con
sé, tutto qui.
Perché non sarebbe mai fuggito da lì, non sarebbe
mai più tornato a casa.
Lo
sapeva…da sempre.
Perché
infatti avrebbe dovuto essere diverso da coloro che non aveva mai
più incontrato su quell’isola?
Era
abbastanza cinico da realizzare di non essere differente dagli
altri prigionieri, e il numero inciso sulla sua giacca, 0267, era
quello che
gli ricordava il suo destino ogni istante.
Troppo
sangue accompagnava quei giorni di prigionia, troppa
disumanità
lo aveva inasprito, troppa desolazione lo aveva logorato…
Per
questo oramai aveva accettato di morire a Rockfort Island. Se
intanto se la fosse almeno spassata, dunque non ci vedeva niente di
male. Gli
bastava così.
Poi
qualcosa era cambiato.
Dal
nulla era apparso un altro essere umano che come lui aveva conservato
la capacità di intelletto. Per di più una
ragazza…e una ragazza molto carina.
Lei
fu la prima persona dopo tanto tempo che gli rivolse la parola. Parole
vere, non gemiti di fame e urla disperate.
La
voce di quella ragazza dai lunghi capelli legati dietro la nuca era
autentica.
Formulava frasi, pensieri, opinioni…
Sentire
un altro essere umano fece rianimare qualcosa in lui. Qualcosa
che lo emozionò internamente, facendo riaffiorare nella sua
mente dei ricordi a
metà dolci, a metà disturbanti: i ricordi di una
vita che gli era stata negata.
Una vita cui lui aveva rinunciato da tempo, in quanto prigioniero
rassegnato di
quel posto.
La
ragazza, a differenza sua, era invece ricca di voglia di vivere.
Aveva
degli obiettivi, voleva combattere, fuggire da lì e
ricongiungersi col suo amato fratello per riappropriarsi di una vita
normale
accanto ai suoi cari.
Steve
poteva leggere nei suoi occhi la piena sincerità di questo:
ella
credeva davvero di poter
sopravvivere
in quel posto.
Ma
lui era oramai rassegnato e molto arrabbiato. Aveva demolito in
tutti i modi le sue speranze di salvezza. Così aveva
rinunciato a prescindere
di collaborare con lei, sicuro che prima o poi anche la giovane sarebbe
morta,
così come tutti, compreso se stesso. Era inutile nutrire
false speranze.
Se
il suono di una pistola poteva farlo sentire ancora vivo, avrebbe
lottato finché avrebbe avuto a sua portata un caricatore. Ma
nulla di più. Non
ci sperava affatto.
Aveva
dunque cercato di far tornare realista anche quella splendida
ragazza dai capelli rossi, spiattellandole in faccia la cruda
verità celata
dietro quell’isola.
Non
aveva tuttavia fatto bene i suoi conti; questo perché una
luce si
era riaccesa in fondo al suo cuore. Un bagliore che credeva morto da
quando
aveva messo piede su Rockfort, ed era stata proprio lei, Claire, ad
averlo
acceso di nuovo.
Steve
infatti, grazie alla ragazza, perse la voglia di morire.
Perse
la voglia di giocare a quell’eterna caccia tra gatto e topo.
Perse
quell’inguaribile spirito pessimista che lo aveva
intrappolato mentalmente in
quell’isola nefasta. Riprese invece a nutrire speranza:
lei…lo aveva salvato da
se stesso.
Quella
strana pulsione che aveva ripreso a scorrere nelle sue vene
cominciò a farlo sentire a disagio, ma non in senso
negativo. Il suo cinismo
era scomparso e quindi si sentiva inopportuno adesso per ciò
che dichiarava
precedentemente.
Al
contrario, però, Claire Redfield non si era mai importata di
quanto
lui l’avesse disprezzata, delle tante noie che le avesse
dato. Era invece sempre
corsa in suo aiuto e lo aveva sempre incoraggiato a resistere in quella
battaglia per la vita. Lei aveva veramente e concretamente riattivato
il suo
cuore.
Così,
senza che neanche se ne accorgesse, nuovi scopi maturarono
velocemente in lui, cosa che prima mai avrebbe creduto possibile.
Lui
l’avrebbe salvata e sarebbe usciti da
lì…...…vivi.
“Vivi”.
Quella
parola risuonò strana nella sua mente. Da quanto non si
sentiva
così. Era come se nulla potesse andare storto.
Recuperata
la determinazione di un tempo, era tornato finalmente a
considerarsi un essere umano. Non si era nemmeno reso conto di quando
aveva
cominciato a dimenticarlo.
Così,
combattivo più che mai, strinse a sua volta la mano della
ragazza, pronto ad affrontare con lei l’ultimo capitolo di
quella sua prigionia.
Corsero
all’impazzata, schivando e buttando all’aria quegli
stessi
mostri che precedentemente avevano evitato con tanta cautela. Invece in
quel
momento vi passarono avanti non badando nemmeno alle loro movenze, cosa
che
prima avrebbe potuto costare loro la vita. Ma non avevano il tempo di
badarci.
L’istinto era un qualcosa di davvero potente ed in quel
momento urlava loro di
muovere solo e soltanto i muscoli delle gambe.
In
quell’istante, esistevano solo quelle: due mani unite e due
paia di
gambe.
Dopo
una serie di rocamboleschi giri nei meandri di quel castello, che
data l’adrenalina oramai neanche ricordavano, in qualche modo
si erano
ritrovati nel sottomarino e tramite i tre stemmi nautici raccolti
durante la
loro esplorazione, poterono finalmente solcare la soglia di
quell’aeroplano che
da ore aveva rappresentato la loro unica e concreta via di fuga.
Sembrò
un gesto surreale quando aprirono finalmente il portellone.
Assieme all’allarme e alle luci che lampeggiavano, anche i
loro cuori erano
nell’agitazione più completa.
Claire
fu la prima a salire a bordo, ma fu Steve a prendere il posto di
guida. Non sapevano bene come avrebbero mosso quell’aggeggio,
ma ce l’avrebbero
fatta. Ne erano sicuri.
O
la va o la spacca, come si vuol suol dire. E
per fortuna…andò.
Assieme
all’aereo che si sollevava, anche qualcos’altro
cominciò ad
alleggerirsi: furono le loro paure, le loro ansie,
l’adrenalina che adesso li
stava lasciando tremare, per sfogare l’agitazione che fino a
quel momento li
aveva animati.
Anche
se non era ancora detta l’ultima parola, essere
lì, in quel
momento, assieme su quel jet, li fece sentire felici come non si erano
mai
sentiti fino a quel momento.
Anche
se era un’imprudenza, non importava, perché in
quel momento ce
l’avevano fatta.
Steve
guardò Claire dritto negli occhi e le sorrise. Lei fece lo
stesso.
“Ora
che abbiamo quest’affare, dimmi Claire, dove ti piacerebbe
andare?
Posso portarti ovunque tu voglia.”
“Ovunque
tu voglia…………”
“…………………………….ovunque
tu……”
“Dove
ti
piacerebbe…………………”
“Dimmi,
Claire……”
Vuoto
assoluto.
A
quel punto i suoi ricordi si andarono a confondere. Tutto le
sembrò
annebbiato. Ricordava solo la paura, l’aereo impazzito, il
suo corpo che
sbatteva da tutte le parti, oggetti che le finivano addosso, tutto che
girava
vorticosamente attorno a lei… e una voce….
Una
voce stridula e fastidiosa…la voce camuffata da donna di
Alfred
Ashford.
Il
resto fu avvolto dal nero più completo e quel ricordo
rievocato a
occhi aperti, terminò.
***
Camera
di Alexia - Notte
Cosa
era successo dopo..?
Dov’era
finito Steve?
Una
fitta nebbia confusa avvolse la sua mente ed ogni tentativo di
dissiparla fu del tutto inutile. Sentiva una forte agitazione, il cuore
le
sbatteva in petto rievocando il terrore di quella colluttazione che non
riusciva a ricordare nel dettaglio. Doveva essere ovviamente svenuta
dopo…dopo
quel qualsiasi cosa fosse successo e che aveva fatto impazzire
l’aereo.
L’ultima
immagine che riusciva a visionare erano soltanto le vaghe
sembianze della rossa divisa militare di Alfred, piegato appena verso
di lei.
Nulla di più.
Ma
a quando era ascrivibile quel ricordo? Quando era entrato nel jet?
Lì
per si sentì nel panico per quel vuoto di memoria che la
stava
logorando internamente come una serpe velenosa, tuttavia non demorse.
Doveva
invece mantenere viva la lucidità, ora che aveva finalmente
ripreso coscienza.
In
quel momento si sentì ancora più determinata a
liberarsi in qualche
modo e tornare presto sui suoi passi: ovvero fuggire da lì.
Era quello il suo
punto di partenza e il suo punto di arrivo finale, assieme
all’intento di ritrovare
Steve.
L’unico
problema era Alfred Ashford, ancora una volta.
Il
ragazzo era certamente abbastanza esperto in campo militare, ma
aveva avuto modo di costatare che fosse più debilitato di
quanto sembrasse, a
partire dal suo strano modo di agire. Poteva quindi escogitare qualcosa
per
riuscire a ingannarlo e liberarsi, doveva solo aspettare la sua
occasione.
Improvvisamente,
però, altri pensieri la distolse dall’elaborazione
del
suo piano di fuga.
Il
viso di Claire, infatti, cambiò drasticamente espressione;
esso si
fece inquieto, perplesso, come colpito da una rivelazione inaspettata.
Questo
perché, avendo da poco ripreso coscienza, la sua mente era
un
caos irrefrenabile di pensieri ingarbugliati, e lei non aveva ancora
riflettuto
su quegli ultimi tre giorni in cui era stava Alexia
Ashford.
Osservò
i lunghi capelli biondi arruffati a fianco del suo capo, fece poi
scorrere gli occhi sull’elegante vestito di seta che aveva
addosso. Alfred…l’aveva
scambiata per Alexia?
Scosse
subito la testa. Non era possibile una cosa simile.
Rappresentando
le circostanze, il fatto che la tenesse incatenata e la
narcotizzasse, rendeva molto chiaro il fatto che lui sapesse benissimo
che non
era Alexia Ashford.
Inoltre
era nel suo modus operandi comportarsi così: lo aveva visto
lei
stessa travestirsi da Alexia e parlare con voce femminile con una
credibilità
inconcepibile. Quindi era assolutamente plausibile che
l’avesse camuffata di
proposito in sua sorella per… per quale motivo?
Un
brivido percorse la sua schiena, il quale fece sbandare il suo corpo
infastidito da quel formicolio.
Non
aveva alcun parametro per poter comprendere la motivazione dietro
una perversione simile, però la sua mente fu certamente
condizionata da tale
domanda. Perché ai suoi occhi la spiegazione era soltanto
una, solo che le sembrava
assurda: ovvero che Alfred avesse cercato di rimpiazzare sua sorella.
Nella
semplicità di quella risposta, essa le sembrava
l’unica che
avesse senso alla luce del fatto che lui stesso si mascherasse da lei,
alla
disperata ricerca di una sorella che non esisteva.
Claire
strinse gli occhi, chiedendosi perché fosse in una
situazione
tanto deviata.
Doveva
uscirne fuori al più presto e dare la priorità a
cercare Steve,
era questa la sua nuova missione.
Non
doveva farsi distrarre da menti mentecatte come quelle.
Tuttavia
doveva essere cauta. Alfred aveva dimostrato che dietro la sua
goffaggine fosse più astuto di quanto dimostrasse. Doveva
quindi riesaminare il
suo piano di fuga e stringere i denti finché non avesse
studiato bene la
situazione in cui si trovava.
Questo
mentre oramai i fumi avevano riempito la sua stanza, i quali
lentamente condussero il suo corpo e la sua mente nel dolce abbandono
del sonno
profondo, preparando il ritorno della bella Bambola Camuffata.
***
Camera
di Alexia - Mattino
“Alexia,
ti prego,
perdonami…”
Le
pallide mani
rivestite di bianco di Alfred Ashford aggiustavano il girocollo nero
sul collo
della sua elegante dama e regina. Il suo sguardo era etereo,
completamente
opposto a quello impazzito della notte precedente. Tuttavia una nota di
malinconia pervadeva i suoi occhi, sinceramente affranti.
Egli
le sistemò il
vestito sulle spalle, rendendolo perfettamente simmetrico. Il lungo
abito viola
che caratterizzava la sua Alexia e che le donava come non donava a
nessun’altra.
Si
piegò lentamente
ai suoi piedi posando un ginocchio a terra e con una mano
sollevò delicatamente
il tallone della ragazza, come attento a non farle alcun male. Lei era
la sua
dolce bambola preziosa.
Rivestì
i suoi piedi
con delle raffinate scarpette nere che le davano slancio e bellezza.
Stette
infine
qualche istante inginocchiato al suo cospetto, godendo di quel
meraviglioso
contatto. Al suo sguardo corrispondevano sia note di
felicità e ammirazione
estrema, che di angustia e dolore profondo. Sollevò il viso
verso di lei; i
suoi occhi brillavano sia commossi che prostrati e afflitti.
Il
suo volto
leggermente femmineo s’impresse in modo indelebile nella
mente della ragazza da
lui riverita, la quale non aveva mai visto una raffinatezza simile nel
volto di
un uomo. Fu letteralmente rapita da quell’immagine.
I
capelli pallidi e
sottili tirati indietro, le sopraciglia appena disegnate, i suoi occhi
chiarissimi e quei tratti facciali così delicati da essere
quasi inesistenti.
In
quell’istante si
accorse del perché non si fosse mai accorta che
l’Alexia da lei incontrata in
villa Ashford fosse in realtà un uomo.
Alfred
possedeva,
infatti, una bellezza androgina; i suoi tratti erano soavi e tenui, e
le sue
movenze erano molto leggere e armoniose. Egli era elegante e molto
raffinato.
Era
un tipo di uomo
decisamente opposto a quelli da lei frequentati, anzi. Per dirla tutta
non
aveva mai visto qualcuno così.
Ragazzi
del genere
si vedevano solo nelle riviste di moda e in verità credeva
che tale delicatezza
fosse tutto frutto del lavoro di un bravo truccatore.
Forse
semplicemente
non l’aveva mai osservato così da vicino, o non
aveva mai visto il suo volto
così disteso dato che egli aveva sempre un fucile da caccia
carico puntato contro
di lei. Fatto stava che fu una visione che la spiazzò
notevolmente.
Mentre
era immersa
in quelle riflessioni, improvvisamente sentì la mano del
biondo scivolare sul
suo ginocchio. A quel gesto Claire sussultò appena,
certamente non a suo agio
al contatto così intimo di colui che non solo era un
completo estraneo ai suoi
occhi, ma anche un nemico… e un uomo.
Sentì
tempestivamente
l’adrenalina scorrere sulle sue gambe, fino a scaricarsi sul
pavimento. Non si
aspettava per nulla un gesto simile. L’intestino si contorse,
non potendo
accettare tale irriverenza. Nessuno inoltre l’aveva mai
toccata in quel modo, con
quella delicatezza e quel visibile ardore… e con quella
spiazzante
disinvoltura. Possibile che recitasse? Possibile che non si accorgesse
che sotto
le spoglie con cui l’aveva travestita non ci fosse Alexia, ma
un’altra donna?
Cosa aveva quel tipo?
Quell’inadeguato
e
indiscreto contatto per fortuna durò pochissimi istanti. La
mano del biondo,
infatti, si spostò lentamente più in alto,
scivolando delicatamente tra il
tessuto del suo vestito. Poté sentire ogni sua movenza sulla
sua pelle, mentre
si muoveva su di lei in quel modo molesto e seducente. Questo
finché egli non
raggiunse le nocche delle dita della fanciulla, posate morbidamente
sulla sua coscia.
L’uomo
non si
accorse dei sentimenti della donna che aveva avuto l’onore di
trasformarsi
nella sua Alexia, così rimase immerso in quella beata
sensazione di amore e
devozione verso la sua adorata, ignorando tutto ciò che lo
circondava in
realtà. Persino la ragione, persino la sua
razionalità che sapeva del suo
inganno.
Perché
quando era
con la sua Regina, nulla aveva più alcuna importanza.
Nemmeno se stesso.
Nemmeno quel vago ricordo che lui rinnegava, in cui aveva dovuto vedere
con i
suoi occhi la sua ‘falsa bambola deturpata’.
Una
volta sfiorate
quelle pallide dita, egli prese a sfregarle dolcemente il palmo della
mano, in
una tenera carezza assimilabile a quella di chi desiderava ardentemente
una
persona cara.
Tuttavia,
costernato
e umiliato dal comportamento avuto la sera precedente, egli
abbassò nuovamente
lo sguardo, sapendo di meritare l’indifferenza della sua
Regina.
“Sono
mortificato
per averti addolorata tanto, non sai quanto mi dispiace. Il
comportamento che
ho avuto la scorsa notte non ha giustificazioni.”
Continuò,
inginocchiato al suo cospetto, mentre la sua commedia preferita aveva
cominciato già da un po’ il suo nuovo atto.
Egli
oramai aveva
rielaborato ogni cosa di quel che era accaduto il giorno prima.
Tutto
in modo da
giustificare la presenza della sua amata Alexia, la quale adesso era di
nuovo
lì: con i capelli biondi, il vestito viola scuro, i guanti
bianchi che
rivestivano le braccia e quell’espressione vuota stampata sul
volto...
Era
come se quel
che era successo la notte prima non fosse mai accaduto.
Anzi….
“Mi
occuperò presto
di quella donna che rovina la nostra quiete.”
….era
come se fosse
accaduto a qualcun altro.
Aveva
rielaborato
tutta la faccenda, in modo da permettere l’esistenza di
quell’incantevole e
potente fantasma.
Perché
quando
Alfred parlava con Alexia esisteva un mondo tutto suo, da lui stesso
costruito.
In
quel mondo Claire
non esisteva, era solo un indesiderato ospite che vagava
fastidiosamente nella
sua dimora come un parassita. Evanescente e insignificante, come tutto
ciò che
era estraneo al suo ‘sogno’.
Eppure
al contempo
lei era anche il manichino che lui rivestiva con gli abiti di Alexia,
materialmente quindi Claire Redfield faceva parte di quel sogno.
Tuttavia
era come
se lui non fosse per niente a conoscenza del fatto che le due, invece,
fossero la
stessa persona, e che anzi: in realtà, delle due, solo una
fosse reale: ed era
proprio l’odiata donna dai capelli rossi. L’insulsa
formica in quel momento
vestita da libellula.
Claire
lo guardò
accigliata sotto quell’espressione assopita per via del fumo
aspirato la sera
precedente.
La
sua mente e i
suoi ricordi erano rimasti tuttavia inalterati, non sapeva dire
però se ‘fortunatamente’
o ‘sfortunatamente’.
Questo
perché
trovava fastidioso come lui la riverisse e la trattasse come una dolce
principessa. Quel garbo le stava dando sui nervi.
Avrebbe
voluto
alzarsi di scatto, togliersi quella ridicola parrucca e mostrargli
chiaramente
quella surreale e ingannevole messinscena che tra l’altro lui
stesso stava
giostrando.
Ma
la cosa che la
spiazzava ancora di più era quella mano che accarezzava la
sua, la prostrazione
della sua posa ai suoi piedi, e ancora…il fatto che lui si
stesse scusando, che
stesse cercando un chiarimento con la stessa donna che lui aveva
aggredito la
notte prima; eppure adesso fingeva che fosse un’altra persona
solo perché aveva
i capelli biondi?!
Era
fuori da
qualsiasi logica, da qualsiasi comprensione.
Improvvisamente
sentì la mano del biondo scivolare via dalla sua.
Se
ne sorprese in
quanto, presa da quei pensieri, ebbe la sensazione che i suoi stessi
dubbi
avessero raggiunto anche lui e lo avessero indotto a mollare la presa.
La cosa
la lasciò inquieta, seppur nella sua assoluta
improbabilità.
Nel
momento nel
quale quel contatto finì, si sentì sollevata, ma
anche molto incerta. I suoi
sentimenti erano notevolmente confusi in quel momento.
Come
se ricercasse
delle risposte nei suoi occhi di cristallo, lo seguì con lo
sguardo mentre leggiadramente
egli raddrizzava le gambe e si alzava da terra, ponendosi in piedi di
fronte a
lei.
Il
biondo si spostò
alle sue spalle e finché poté, la ragazza
seguì ancora la sua figura, ma lui
non ricambiò per nulla il suo sguardo.
Egli
prese dal
comodino una spazzola rivestita di avorio decorata con degli intagli
circolari
e si riavvicinò a lei. Come se nulla fosse,
cominciò a spazzolare la lunga parrucca
bionda che indossava, accarezzandola soavemente, come se davvero
credesse di
maneggiare i capelli di una persona reale. Non si rendeva conto
assolutamente
di nulla.
Non
era possibile
fingere fino a quel punto, costatò ancora una volta Claire.
Era un pensiero che
non riusciva ad abbandonarla, aveva dell’assurdo.
Lui
stesso, la sera
prima, le aveva fatto accidentalmente cadere dal capo quella finta
chioma bionda.
A che gioco stava giocando quindi?
Quella
situazione
la stava ingarbugliando mentalmente sempre di più. Era
qualcosa che superava
l’umana comprensione ed ormai cominciava a temere che per lui
la finzione
stesse superando la realtà. Fu una consapevolezza triste,
che fece stringere il
suo cuore in un momento di compassione.
Nella
sua mente si
proiettò il viso sconvolto che egli aveva assunto quando
aveva dovuto vedere
lei, Claire Redfield, sotto quelle spoglie.
Quell’immagine
era rimasta
indelebile nella sua mente. Essa si ripeté al rallentatore
come se quell’attimo
fosse durato per un’ora intera; come se ne avesse scattato
una fotografia
mentale.
Quel
che vedeva era
un animo distrutto, arrabbiato, come quello di un bambino che in tutti
i modi
cerca di occultare la realtà tangibile, preferendo dar vita
al mondo dei suoi sogni,
abitato dai suoi giocattoli preferiti.
Più
analizzava quel
ricordo, più il suo animo si logorava e un infinito senso di
smarrimento la
pervase tutto d’un botto.
Era
così importante
per lui credere che ci fosse un’Alexia nella sua vita, in
quel palazzo?
Quel
ragionamento
rievocò il tempo in cui persino lei aveva creduto a quella
commedia ed era
cascata nel suo tranello quando, sbirciando da una finestra, lo aveva
addirittura
visto conversare con la suddetta donna. O peggio…
Perché
lui, fino a
quel momento, aveva portato avanti da
solo quella commedia.
Alfred,
infatti,
aveva sempre impersonato assieme sia Alexia sia se stesso, sviluppando
una
credibile vita parallela in cui entrambi abitavano quel posto; ed era
stato
così bravo che nessuno si era mai accorto di nulla, grazie
all’estrema
somiglianza dei due gemelli, nonostante fossero di sesso opposto.
Il
biondo aveva
portato avanti una commedia che aveva dell’inconcepibile.
Poi,
però, aveva
urlato…
La
notte quando lei
e Steve avevano tentato la loro ultima fuga, i due avevano smontato il
suo
piano e smascherato quel travestimento. Lui, quando ciò era
accaduto… era come
impazzito.
Una
volta vista la
sua immagine allo specchio, era scappato via, disperato, inorridito,
esattamente
come era successo la sera precedente con lei. Cosa collegava quindi
questi due
episodi?
Alfred
cercava un
rimpiazzo di sua sorella, era oramai evidente. La sua scomparsa doveva
aver
fatto impazzire quei pochi neuroni che si ritrovava.
Eppure
ripensandoci,
non c’era niente in quel castello che testimoniasse la vita
di una reale
Alexia, a parte il video che trovò nello studio del centro
di addestramento.
Quella
fu l’unica
volta, in effetti, dove vide un giovanissimo adolescente biondo, che
altri non
poteva essere che Alfred da bambino, in compagnia di una ragazzina con
i suoi
stessi lineamenti.
Ma
quella pellicola
a parte, non c’era altra prova sulla sua reale esistenza.
Quindi
fino a che
punto Alfred fantasticava e inventava quella storia?
Alexia
esisteva
realmente o era anche lei frutto della sua immaginazione?
Rievocando
nella
sua mente il suo volto impazzito dopo essersi rispecchiato truccato da
Alexia,
Claire si ritrovò a riflettere su un altro elemento.
Se
Alfred, infatti,
disprezzava se stesso se “si riscopriva” sotto le
spoglie della sua gemella,
figuriamoci se faceva questo con lei.
Cioè,
non
sopportava il suo stesso travestimento, non aveva senso che quindi
usasse la
rossa per avere l’illusione di avere Alexia accanto a
sé. Non avrebbe mai
funzionato.
Cosa
lo aveva
spinto quindi a rapirla e costringere proprio lei a diventare Alexia?
Era
questo che non le quadrava…
Quel
“riscoprirsi
sotto le spoglie di Alexia” poi la inquietava…
Perché
era lui che
si travestiva a quel tempo; possibile che non se ne rendesse conto
mentre lo
faceva? E allo stesso modo, era sempre lui che travestiva anche lei,
adesso.
Perché allora inorridiva se la vedeva nuovamente come
Claire?
Doveva
sapere per
forza che Alexia, l’Alexia che vedeva in quel momento, era
Claire Redfield. Era
impossibile affermare il contrario.
Mille
erano le
domande che poteva porsi, centomila le incongruenze e le forme di
squilibrio
incontrate, ma ad ognuna di quelle la risposta era sempre la stessa:
Alfred
Ashford era un folle psicopatico.
Non
era una persona
verso la quale poteva ragionare in termini normali e questo non doveva
dimenticarlo. Era lì la chiave di lettura di tutto, si stava
alienando in
quelle assurde supposizioni per nulla.
Questo
mentre lui
pettinava ancora i suoi finti capelli biondi, curandone ogni ciocca,
come un
adorabile fratello devoto. Perché ai suoi occhi, egli
davvero stava umilmente
servendo la sua tanto agognata Alexia, la sua altra metà, la
sua unica e amata
donna. Il sole che dava vita al suo universo.
Una
volta chiusa la
porta, la finta Alexia si ritrovò sola nella sua stanza.
Alfred
le aveva
baciato la mano sfiorando con le labbra i suoi vellutati guanti
bianchi, poi
aveva lasciato la camera terminando la sua visita; così, in
quel momento, Claire
era finalmente libera di pensare più liberamente senza la
pressione della sua
presenza.
Osservò
le tenaglie
che la tenevano bloccata alla poltrona. Il biondo si premurava sempre
che lei
non scappasse. Era qualcosa di paradossale, qualcosa di assurdo e
d’inquietante.
Alfred
l’aveva
vestita da Alexia.
Lui
la credeva
Alexia e la trattava come se fosse Alexia.
Ma
consapevole che
non fosse Alexia, la drogava e la incatenava.
Che
senso c’era in
tutto questo?
Sapeva
o non sapeva
che fosse Claire, in definitiva?
Scosse
la testa:
era ovvio che lo sapesse, non doveva tornare indietro e rivalutare quel
punto
già esaminato.
Tuttavia,
nonostante fosse il fautore di quell’inganno, era come se
preferisse negarlo a
se stesso, fino a credere a quella realtà.
Non
che le
importasse davvero risolvere quell’enigma perché,
come aveva già valutato
mentre lui pettinava i suoi lunghi capelli, cambiando gli addendi, il
risultato
sarebbe stato comunque uguale.
Qualunque
risposta fosse
riuscita a darsi, infatti, rimaneva un dato di fatto: il biondo era un
uomo
privo di alcun senno. Poco avrebbe importato cosa si celava dietro la
sua
psicopatia e la sua morbosa ossessione verso la fantomatica Alexia; la
risposta
non avrebbe cambiato le carte in tavola. Doveva dunque focalizzarsi su
quel che
era meglio per lei e darvi la priorità assoluta.
La
sua vita era la
sua priorità, così avrebbe potuto trovare Steve e
lasciare quel posto…. sperando
che dopo avrebbe potuto ricongiungersi con Chris, finalmente.
Chris…
Era
passato così
tanto tempo dall’ultima volta che aveva pensato a lui che in
quel momento sentì
una forte fitta nel petto. Un dolore dettato dalla nostalgia, da quella
devastante e insopportabile paura di non averlo accanto, di non sapere
dove fosse,
di aver continuato a cercarlo per mesi, di aver visto Raccoon City
distrutta,
la sua gente ridotta a un ammasso di carne in putrefazione, puzzolente
e
rivoltate, tenuta in vita dalla sola e irrefrenabile fame…
violenta e
insaziabile….e non sapere se lui stesse bene.
Perché
lei, Claire
Redfield, era tra le uniche sopravvissute di Raccon City, testimone di
quel
tremendo incidente. Una consapevolezza che aveva cambiato per sempre la
sua
vita.
Era
scampata a quel
pericolo, ma un senso di devastazione la pervadeva ancora. Era giunta
in quella
città proprio per cercare lui, ma non lo aveva trovato. Era
sopravvissuta a
quel tragico incidente, ma non lo aveva trovato. Aveva continuato a
cercarlo
dopo, ma non lo aveva trovato. Era giunta in Europa, inseguendo quei
pochi
indizi lasciatole, e che l’avevano portata ad insidiarsi in
una delle basi
dell’Umbrella. Tuttavia era finita a Rockfort, rapita da quei
cani
dell’Umbrella, che l’avevano nuovamente condannata
a far parte di quell’incubo
famelico dal quale era miracolosamente sopravvissuta pochi mesi prima.
Alzò
gli occhi
verso il soffitto, stringendo i denti.
La
sua lotta non
era ancora finita. Non poteva finire. Non dopo che era sopravvissuta a
tutto
questo. Era sicura che avrebbe riabbracciato il suo amato fratello.
Lui
era vivo,
esattamente come lei.
Lui
lottava e non
demordeva mai; era da lui che aveva imparato quello che sapeva. Lui non
l’avrebbe mai tradita, non l’avrebbe mai lasciata
sola al mondo. Non era una
bugia, non si stava ingannando.
Chris
era vivo, lo
sentiva, lo sapeva…
Chris
e Steve
sarebbero stati la forza che l’avrebbero aiutata a resistere
e a conservare la
sanità mentale che quella droga che Alfred le faceva inalare
voleva annullare.
Stavolta
era
pronta, nessuno poteva sapere il passato che si portava alle spalle e
che in
pochi mesi aveva stravolto la sua tranquilla vita da ragazza
universitaria
amante delle motociclette. Era distante da quella ragazza oramai; dopo
quello cui
era sopravissuta, non avrebbe ceduto tanto facilmente la sua vita.
***
Altrove…
Luogo
sconosciuto…
Un
uomo fremeva nel
suo tormento. Si angustiava, si lamentava, bisbigliava affannati gemiti
di
dolore, come se il suo corpo non potesse contenere le
atrocità che lo stavano
distruggendo.
Egli,
nel buio più
completo di una stanza ombrosa, affondava le dita nel legno di una
vecchia e
logora scrivania. Essa era già stata graffiata
precedentemente e nuovi tagli
incisi da quelle stesse unghie si stavano aggiungendo a quelli
già impressi in
passato su quel legno; i segni indelebili di un disturbo psicofisico
che
martoriava quella mente.
I
suoi occhi erano
arrossati, spalancati. Il busto incurvato, le braccia tese, le mani
contorte e
rigide, infine il freddo…il sudore freddo che inumidiva la
sua pelle biancastra.
I
suoi capelli,
stavolta lasciati distesi nella loro forma naturale, posavano liberi,
leggiadri
sul suo capo. Ricoprivano la sua fronte con una forma incurvata
dandogli un
aspetto diverso dal solito, che rimandava alle immagini che lo
ritraevano da
ragazzo. La riga di lato, la frangia lunga e quel biondo lucentissimo
lo
facevano apparire più giovane e molto raffinato; ma anche
lontano ed
irraggiungibile.
Gli
spasmi facevano
gonfiare il suo torace, compresso nell’elegante e rigida
divisa militare che
indossava, l’unica maschera che aveva di se stesso, della sua
vita come Alfred
Ashford vissuta negli ultimi quindici anni.
Affondò
le unghie
ancora più internamente nella scrivania, imprimendovi la
loro precisa forma
arcuata, mentre la frangia oramai copriva completamente il suo volto;
dopodiché,
in preda alla pressione oramai raggiunta, cacciò un urlo
liberatorio, stridulo
e fastidioso, che risuonò per tutta la stanza.
Con
la testa
rivolta ora verso l’alto, sul suo volto abbuiato dallo scuro
di quella stanza,
risplendevano i suoi occhi tormentati colmi di lacrime amare e
inconsolabili.
La
sua espressione dolorante
si distese lentamente, oramai stanca e affranta, mentre sprofondava
sempre di
più nella sua agonia.
Cadde
quindi sulle
ginocchia, continuando a tenere la testa alzata, mentre l’eco
dei suoi incubi
continuava a rimbombare silente e martellante nella sua mente.
Insaziabile,
incontentabile, crudele, devastante.
Questo
mentre la
sua malattia mentale cercava di preservare il suo padrone da un
ulteriore
dolore, celando il volto che lo aveva gettato in quel nuovo sgomento.
Un
volto bellissimo
e ammaliante, contornato da soffici capelli rossi. Un volto che aveva
cercato
di rivestire da una folta chioma bionda, in modo da mascherare
quell’ indecorosa seduzione,
dandole sembianze a lui più accettabili, ma invano.
Cosa
significava?
Cosa che stava annebbiando la sua mente? Perché non riusciva
a dimenticare?
Cos’era
quella
ragazza?
“A-Alexia…”
Mormorò
il biondo
seduto a terra con gli occhi al cielo, alzando tremante una mano verso
l’alto.
Egli
allungò le
dita, come per afferrare simbolicamente un appiglio, una qualsiasi
speranza,
l’unica che avesse ancora... quell’unica che
l’aveva sempre salvato.
La
sua Sovrana, la
sua Donna, la sua meravigliosa, unica, ingegnosa e affascinate Regina
vittoriosa.
Alexia…Alexia…
Ma
nessuno strinse
quella mano, nessuno corse in suo aiuto. Alfred era solo; solo e
sperduto in
quel mondo privo di ragione.
Impaurito
e
affranto, cercò ovunque quel volto a lui familiare, ma non
c’era. Non c’era,
non c’èra, non c’era da nessuna parte.
Alexia! Dov’era Alexia?!
Non
c’era, non
c’era, non c’era, non c’era, non
c’era, non c’era, non c’era, non
c’era, non
c’era ….!!!
“ALEXIA,
SALVAMIIII….!!!”
Il
suo sguardo si
contorse terrorizzato.
Nella
disperazione
di quella solitudine interminabile, evocò
quell’unico nome cui poteva
rivolgersi, che chiamava in suo aiuto inutilmente da quindici
anni… ma che era
l’unico che potesse chiamare.
Lo
chiamò in modo
da scacciare ancora una volta dalla sua mente
l’inconfessabile tormento di
avere nel suo castello qualcuno che non era la sua Donna. Colei che
odiava e
che continuava a rivedere davanti ai suoi occhi, senza tregua.
L’avrebbe
mascherata quanto voleva, lei riappariva sempre crudelmente, intenta a
indurlo
a tradire la sua Unica e Perfetta Regina.
Ma
non sarebbe
caduto in quel tranello. L’avrebbe schiacciata prima ancora
che potesse fare un
passo verso quella distruzione. Era arrivato il momento di farla finita.
Quella
formica
aveva scocciato anche troppo.
Doveva
schiacciarla…
Doveva
eliminarla…
Doveva
cancellarla…
Come
illuminato da
un’oscura presa di coscienza, l’uomo si
alzò. Il suo corpo sembrava leggero
come una piuma, ma i suoi passi erano pesanti come il piombo.
Egli
avanzò nella
stanza buia con il volto che sembrava posseduto. Se non fosse stato per
i
colori vivaci, composti dai capelli biondo platinato, la giacca rosso
fuoco e i
pantaloni bianchi, avrebbe potuto sembrare un’immagine
infernale.
Egli
si muoveva con
la gravezza di un golem inarrestabile.
L’uomo
raccolse
dalla scrivania deturpata dai tagli della follia, un grosso e brillante
anello,
su cui era incastonata una preziosa pietra cerulea. Un cimelio lasciato
scivolare via dal suo dito quando era entrato in quella stanza
concedendosi un
attimo di abbandono, ma del quale si stava subito riappropriando come
rappresentante del suo casato, come simbolo del suo essere tornato a
presiedere
il suo palazzo come padrone assoluto.
Lo
infilò
lentamente, facendo risplendere il blu intenso di quella gemma,
contemplando il
suo valore e la sua bellezza dannata.
Animato
dalla forza
occulta che risiedeva in quell’oggetto, uno dei tre simboli
della sua famiglia,
egli riadagiò la sua mano verso il basso, tornando sui suoi
passi, fremendo
verso i suoi scopi.
Si
fermò un attimo vicino
una cabina di vetro che scintillava nell’oscurità
di quella stanza. Questo
riflesse l’immagine della sua mano mentre si avvicinava alla
serratura su cui
era incastrata la chiave che chiudeva lo sportello. La fece scattare e
il suo
semplice e comune suono si propagò nella stanza, come fosse
l’inquietante segno
che autorizzasse l’esecutore e mettere in atto la pena.
Così,
una volta
aperta l’anta di cristallo, egli estrasse un’arma a
lui molto cara e molto
familiare: un fucile da caccia.
Spostò
quindi i
capelli dal viso, ammaccandoli sulla fronte, in modo da rimettere in
ordine la
sua figura aristocratica, onorando il decoro della famigerata famiglia
Ashford.
Dopodiché,
imbracciando fermamente il fucile, si avviò nel tetro
corridoio oltre quella
stanza.
***
Piccola
nota!
Ho
appositamente
cambiato la scena della fuga da Rockfort Island per agevolarmi la
narrazione.
In
realtà il
giocatore avrebbe dovuto affrontare un Tyrant, poi alzare il ponte per
permettere al jet di volare e infine riaffrontare il Tyrant. Ma sarebbe
stato
un giro troppo lungo da descrivere e avrei perso il pathos della
narrazione,
quindi ho preferito cambiare la narrazione originale e fare che una
volta
raggiunto l’aereo, Steve e Claire riescono direttamente a
metterlo in moto per
fuggire dall’isola.
Anche
il seguito è
stato cambiato, ma è un punto che fa parte della narrazione
della storia. Sarà
tutto spiegato a tempo debito.
Grazie
per aver
letto anche questo capitolo^^
A
presto!
Fiammah_Grace
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Capitolo 4 *** Capitolo 4: giochi di ruolo e maschere vaganti ***
Capitolo
4: Giochi
di ruolo e maschere
vaganti
“
La mia maschera è pronta.
Comincia
la giornata.
Passano
i giorni, gli anni.
-sorriso
perenne-
sguardo
sempreverde.
Il
sole della mia espressione
scalda
coloro che mi stanno intorno.
I
conti tornano, la vita avanza.
Va
bene così.
Rientro
in casa, passo oltre le stanze
dotate
di specchio.
Il
sipario è calato, sono sola.
Poso
la maschera, piango. ”
(Anton
Vanligt,
Mai troppo folle)
Corridoio
dell’ala est della magione Ashford – tramonto
Silenziosi,
i fasci
oscuri delle tenebre si proiettavano sulle pareti, arredando il lungo
corridoio
con un mobilio fatto di ombre, che ridisegnavano fedelmente
l’immagine di ciò
che era materiale in quegli spazi colpiti dalla luce. Buio e luce
spesso si
uniscono in un tutt’uno poiché, dove
c’è l’uno, non può mancare
l’altra. Quanto
è più forte la luce, quanto più
profonda sarà la sua ombra, in un meschino e
curioso gioco di sensi, che alimenta la dicotomia fra falso e reale,
fra
chiarezza e oscurità, fra bene e male. Un rapporto
proporzionale incostante e
irreversibile, fondato su regole che nessuno avrebbe potuto
sconvolgere, che
alcuno avrebbe potuto dissipare…nemmeno la luce
più intensa.
Le
brune scie che
provenivano dal lato adiacente del muro rigavano anche il pavimento,
decorandolo con sprazzi sia di bianco iridescente, che di nero pece. Un
nero
cangiante, che danzava assecondando il movimento della luce che lo
colpiva, la
reale padrona dell’ombra. La luce che dominava le ragioni
della follia.
Il
tappeto rosso,
adagiato al centro e che accompagnava quegli eleganti fasci, sembrava
intimidito dalle ore diurne che stavano per dissiparsi.
Incapace di scindere le due parti, accettava di
buon grado il fatto di essere offuscato dalla magnificenza della follia
che
albergava in quel castello. Come se volesse spegnere il suo colore per
non
brillare, come se stesse rinunciando a lottare in quello scontro tra
bianco e
nero, ove era infelicemente coinvolto. Inconsapevolmente vittima.
Quel
colore
scarlatto dunque si fece contagiare dalle tenebre e presto divenne
parte di
essa, e la luminosità delle sue vesti fu presto sostituita
dal manicomio che in
realtà era celato dietro quegli sfarzosi arredi.
Perché quel luogo era il finto
teatro di un’opera che non esisteva; era tutto una mera
menzogna creata
affinché quella vita fosse possibile.
Di
là del maestoso
sipario d’apertura, vi era il teatro dei folli, costruito
attorno al mito di
una crudele Regina, al fianco della quale il suo umile e devoto Re
muoveva i
suoi loschi burattini, in modo da compiacere la sua amata. Uno
spettacolo folle
e inutile come l’arte nella sua essenza, costruita
dall’uomo soltanto per
allietare le sue giornate.
Un
tal Wilde diceva
che l’artista è il creatore di cose belle e che
è una virtù vedere la Bellezza
nelle cose belle. La moralità o
l’immoralità non conta, perché
l’opera deve
essere soltanto scritta bene oppure male…questo è
tutto. Sciocco è colui che si
avventura al di là di questo, perché
l’arte è bella ed è inutile al tempo
stesso.
In
quella rappresentazione
ingannevole e dissente dalla realtà, in balia di un
equilibrio affidato alla
pazzia, giostrava l’uomo che per notti e notti aveva
costruito le basi di
quello spettacolo che sarebbe stato il suo patibolo, ideandolo seguendo
il suo
gusto perverso e malato, ricercando una perfezione intrinseca che aveva
reso
quel luogo il suo magico castello.
Morale
o immorale,
giusto o ingiusto, vero o menzognero… erano tutte inutili e
fugaci parole. Commenti
inopportuni e superflui. Perché la sua opera era perfetta.
Nella
sua opera
ognuno aveva la sua parte. Vi erano il Re, la Regina, i sudditi, gli
oppositori. Tutte le parti erano ben caratterizzate in quella commedia
mandata
avanti dallo straordinario burattinaio, che aveva saputo trasformare da
solo
quella scena nella vita reale, muovendo uno spettacolo di illusioni,
bello e
ben scritto. Era questo che contava nell’arte, era questo che
compiaceva
l’artista.
Ed
Alfred Ashford
era stato un architetto perfetto, fautore di un mondo che non esisteva
e che
aveva impregnato non solo le mura del suo palcoscenico, ma anche se
stesso e
tutto ciò che incrociava il suo cammino, costituendo una
realtà alternativa che
aveva fatto disperdere e scappare via quelle luci che un tempo
distinguevano
oggettività da fandonia.
Tutto
era menzogna
e tutto era realtà allo stesso tempo;
s’intrecciavano e si confondevano in un
gioco che nessuno avrebbe più distinto. La realtà
era oramai perduta.
La
sua opera era
diventata davvero perfetta.
Tuttavia,
quando
quelle ombre s’incrociavano con quelle di un mondo a lui
dissimile; quando esse
si contorcevano e si deformavano alla vista di realtà
provenienti dall’esterno
e che guardavano con occhio critico e distante quel capolavoro, senza
comprenderne l’intenso significato; estranei che valutavano
con cieca
obbiettività quel mondo che altro non era che una commedia
ridicola e fasulla,
gettando nel tormento quell’opera perfetta….ecco
così che nasceva il caos.
L’imbroglio
delle
ombre faticosamente equilibrato, era violentemente sconvolto e la luce
riprendeva
a battere su quelle pareti illuminando ciò che era stato
nascosto per mantenere
vivo quello spettacolo teatrale.
Ma
chi siamo noi per dire cosa sia reale?
Chi
siamo noi per obbligare qualcuno
a venire nel nostro mondo, perché è
più giusto, più vero?
E
se invece i pazzi fossimo noi? Dei
folli che vivono in un mondo allo stesso modo falso e crudele, eppure
ci illudiamo
che la commedia sia questa: quella del Re che aspetta la sua Regina.
Tutta
l’umanità è
impregnata dalla pazzia. Folle è colui che lo nega.
Allora
perché costringere
qualcuno a uscire fuori dal manicomio che lui chiama
‘casa’? Perché cacciarlo da
un mondo che è il solo capace di appagarlo?
Forse
la realtà non
è soltanto una….forse tutti abbiamo bisogno della
nostra opera d’arte, della
nostra ingannevole commedia che manda avanti la nostra breve e triste
vita.
Se
così fosse,
allora sono tutti dei deliranti ipocriti, capaci solo di puntarsi il
dito l’uno
contro l’altro. Dita crudeli e accusatorie verso concezioni
della vita che
saranno sempre dissimili, perché ognuno abita il suo
personale universo. Ognuno
vede e crede nella realtà in cui riesce a vivere, in cui
riesce ad essere
l’attore di se stesso, finché va avanti la
commedia.
Così
è la vita in
fondo: una giostra in cui più parti protagoniste si
mescolano e si rimescolano,
creando un caos che si equilibra nel suo disordine, assecondano i
contrappesi
di una follia incomprensibile.
Questo
mentre le nostre
ombre s’intrecciano e si scontrano sul piano della
realtà che ci accomuna e su cui
ognuno di noi porta avanti la sua mendace commedia. Il palco
principale, che è
la realtà scaltra e oggettiva, che vuole fondere questi
universi distinti fra
loro, queste parti contrapposte e articolate, costringendole ad una
lotta
eterna fra bene e male…fra giusto e sbagliato….
La
commedia della
vita, la commedia dei buoni e dei cattivi, ove ognuno è il
protagonista del suo
spazio e lotta per la supremazia del suo universo.
Ed
era per questo
che Alfred Ashford camminava deciso per quel corridoio, solcando i
fasci di
luce che si proiettavano dai mobili per via del tramontare del sole.
Perché il
suo mondo era stato invaso, lo spazio su cui recitava era stato violato
ed egli
doveva affermare il suo dominio e difenderlo dalla confusione che
l’Altra Donna
aveva arrecato.
Perché
per lui
quello era il male.
Un
male che andava
combattuto, che andava castigato.
Due
erano le
commedie in atto; due gli attori che si contendevano lo stesso palco.
Lui
era il
burattinaio che doveva scegliere per il bene del suo spettacolo e
doveva
gettare via le bambole che rovinavano la sua scena.
***
Il
rumore cadenzato
del tacco di legno che batteva sulla superficie del pavimento risuonava
regolare, echeggiando nel corridoio illuminato dagli ultimi bagliori
del sole. Il
tappeto scarlatto attenuò quei rintocchi, che si ripetevano
uno dopo l’altro
presagendo la presenza di una persona fisica in
quell’ambiente malato e
desolato, non abituato alla vita.
Un
castello abitato
da sogni e da spettri,
da immagini che non esistevano ma che impregnavano
l’abitazione con la loro eterea presenza. La vita, la
realtà, l’oggettività…
ciò non faceva parte di quelle mura, erette soltanto per
poter dare sfogo alla
pazzia di un’esistenza distrutta oramai da tempo.
Alfred
Ashford
camminava con passo deciso sul sentiero della morte, avanzando senza
sosta per
quel vuoto e malinconico corridoio. Il suo sguardo, fisso davanti a
sé, era
imperscrutabile.
La
luce dorata
batteva sulla sua figura, colorandola con tinte sgargianti e ammalianti
che
esaltavano la sua eleganza, ma che al contempo ombrava
sempre di più la sua
figura. Data l’altezza del sole, infatti, più la
sua effige era colpita da quei
forti raggi, più le ombre che si proiettavano sul suo corpo
erano ampie e cupe,
oscurandogli il viso fino a renderlo crudele e spaventoso. Le tenebre
erano
trafitte esclusivamente dall’intenso colore dei suoi occhi di
ghiaccio, che
spezzavano in modo spettrale quel nero che offuscava il suo volto.
Non
batteva ciglio
di fronte quella fastidiosa luminosità accecante. Egli si
muoveva
irrefrenabile, determinato a recidere i rami secchi che stavano facendo
deteriorare l’intera pianta da lui tanto curata. Marciava
dunque senza sosta,
muovendosi da un’ala all’altra del castello,
illuminato e poi oscurato in modo
alternato dai bagliori violenti della luce, mentre lasciava alle spalle
le
varie finestre che contornavano il corridoio.
Un
luccichio attirò
l’attenzione sulla lucente canna del suo fedele fucile da
caccia, l’arma che
stringeva fra le braccia. L’arma che usava per le esecuzioni,
che deteneva per
dare la caccia alle fiere che infestavano il suo terreno.
La
sua mente, quindi,
guidata da quell’irrefrenabile senso di vendetta, aveva
accecato la ratio che
teneva a freno la sua rabbia e il suo rancore. Dolori incolmabile ed
inestinguibili, che ribollivano ora che la crudele realtà
era stata mostrata
turbando ancora di più la sua psiche.
Era
questo il
delitto compiuto da Claire Redfield e che andava punito: aveva messo
alla
berlina il suo palcoscenico, aveva disonorato lui e la sua Regina.
Quel
che voleva vedere
era il sangue…il rosso organico della morte che sgorgava
dalle sue vene e che
sporcava il petto di quell’ignobile presenza ostile che aveva
trafugato fra i
suoi ricordi, fra le sue preziose memorie accanto a colei che amava,
macchiandole
con le sue indecorose e meschine spoglie.
L’avrebbe
uccisa…uccisa…uccisa…uccisa…
Come
una libellula
privata delle sue ali e data in pasto alle affamate formiche che,
spolpandola
viva, l’avrebbero punita per essere caduta nel loro
territorio.
L’avrebbe
uccisa…uccisa…uccisa….uccisa…
Avrebbe
così
riconfermato la sua lealtà e il suo devoto amore verso la
sua amabile e
perfetta Regina.
Solo
così il suo
cuore sarebbe stato in pace, finalmente.
Il
passo rallentò e
l’incessante battito del tacco di legno sparì,
gettando nel silenzio più
tormentato il corridoio posto in quell’ala del castello.
L’aria
si fece
malata, pesante, irrespirabile. Sembrava voler soffocare e portare alla
pazzia
coloro che la respiravano, come se avesse assorbito la
crudeltà e la
perversione del suo padrone.
Alfred
unì i piedi,
che risuonarono un’ultima volta davanti all’uscio
della massiccia porta di
legno che costituiva il varco, ben conosciuto, attraverso il quale si
celava Lei:
la donna ingannevole, la donna
imperfetta, la donna che lo aveva indotto in quel losco inganno.
Con
fermezza, pose
la canna verso l’alto poggiandola sulla sua spalla,
dopodiché con la mano
libera girò la chiave d’ottone che sigillava
quella porta, pronto a ritrovarsi
davanti alla donna che doveva punire per il bene suo e di Alexia.
Spalancò
quindi la
porta e con rabbia funesta puntò il fucile davanti a
sé, dove sapeva di averla
lasciata, dove era certo fosse rintanato il suo topo in fuga. Dove
quella
marionetta aveva osato colpire e ferire il suo padrone.
La
luce del
corridoio penetrò dalla porta trafiggendo la sua figura alle
spalle. Essa colpì
anche la giovane che sorpresa alzò i suoi occhi verso di
lui.
Ella
era lì, esattamente dove l’aveva lasciata.
Sul
suo trono, ancorata alle maniglie di ferro che segavano i suoi polsi
rivestiti di bianco.
Con
il volto delicato e aristocratico, che era quello di sempre:
bellissimo, gentile, soave…
Con
il vestito viola che accarezzava il suo esile corpo…
…i
lunghi capelli biondi che scendevano sottili sul suo petto….
….e
l’inestimabile dolcezza e magnificenza che rendevano
splendida e
ammaliante la sua Dama.
La
grazia e l’inflessibilità della Regina che amava.
Le
iridi pallide di
Alfred Ashord si strinsero. I suoi capelli, lasciati liberi nella loro
forma
naturale, scesero sul suo viso coprendo una buona porzione della
fronte, quasi
fosse un sipario che voleva impedirgli di prendere la mira e sporcare
quell’immane immagine celestiale la cui morte
l’avrebbe perseguitato.
Egli
tremò, mentre
la realtà sfuggiva ancora una volta dal suo controllo.
Sapeva che la sua
marionetta era stata costruita in modo perfetto, così tanto
da ingannarlo.
Sapeva del fascino che scaturiva in lui; del tormento che gli provocava
e che
non riusciva a scacciare; della menzogna di cui lui era il fautore e
che gli si
era ritorta contro.
Ella
non era la sua
regina, era solo erbaccia da estirpare, un parassita da schiacciare,
una vile e
illusoria marionetta da lui costruita. Eppure…
Eppure…
Eppure…
Eppure
gli mancava…
Eppure
la
desiderava disperatamente…
E'
davvero follia scegliere di credere alla realtà che
più ci fa stare
bene?
Quale
male si sarebbe potuto scaturire dalla felicità, seppur
falsa e
menzognera?
In
fondo, cosa interessava al mondo se lui amava e desiderava una falsa
Alexia?
Era
questo un peccato?
Il
suo cuore prese
a battere sempre più forte. Il panico prese il sopravvento.
Egli era incapace
di lottare contro la donna che aveva dato senso alla sua vita. Seppur
non fosse
lei, seppur non potesse essere lei. Era lui che aveva costruito quel
fantoccio,
era lui che l’aveva resa rassomigliante ad Alexia.
Lo
sapeva! Lo
sapeva!
Lo
sapeva, lo
sapeva, lo sapeva, lo sapeva, lo sapeva, lo sapeva, maledizione!!
Ma
ella era pur
sempre Alexia…l’Alexia che gli mancava, che da
quindici anni attendeva in un
tormento senza fine. L’unica persona che gli desse
l’amore di cui aveva
bisogno, che appagasse la sua esistenza. Ed era lì, di
fronte a lui. Ma era
solo un…pupazzo.
Ma
era Alexia!
Alexia!
Devastato
da quella
straordinaria visione, la sua mente andò in panne, incapace
di scindere realtà
da finzione. La sua fronte s’inumidì e le sue
gambe presero a traballare
impercettibilmente. Stava vacillando sempre di più di fronte
al viso sconvolto
della giovane dai capelli biondi che era intrappolata di fronte a lui,
incapace
di scappare via.
Alfred
sospirò e
spostò violentemente il ciuffo di frangia dal viso,
determinato a compiere
quello che era giusto.
Avrebbe
premuto il
grilletto, l’avrebbe fatto per la sua donna. Avrebbe
cancellato quell’orribile
manichino che voleva prendere il posto della sua Alexia. Non avrebbe
indugiato.
Chiuse
un occhio e
prese dunque la mira. Tremante, adagiò il suo indice sul
grilletto. Pochi
secondi, un singolo istante e poi tutto sarebbe finito,
ripeté dentro di sé,
mentre un punto rosso si focalizzava sulla fronte dell’amata
e falsa Alexia.
Ella era nel mirino, non poteva sbagliare.
Il
respiro si
fermò, le sue gambe s’immobilizzarono.
Doveva
solo
sparare….soltanto abbassare il grilletto…
“F-Fratello…fratello…!”
Quella
voce
tremante lo spiazzò. Era un dolce tono femminile, impaurito,
che era appena
fuoriuscito dalla rosea bocca della sua donna…della sua
vittima.
“Cosa
stai
facendo...? Ti prego, non farlo!”
Disse
ancora
quell’agognata voce. Ella lo guardava con due occhi
speranzosi e distrutti, due
iridi che stavano vedendo davanti la meschina macchina della morte che
presto
avrebbe messo la parola fine ai suoi giorni di vita.
L’immagine
di
quella donna si stampò nella sua mente. L’immagine
di sua sorella che lo
supplicava.
Ma…come…?
Lui…
Lui
la stava
proteggendo… stava eliminando coloro che intralciavano il
suo cammino… stava
svolgendo il suo compito perdurato quindici anni…
Stava…
Alfred
Ashford
sbandò e non fu più capace di reggersi in piedi.
Ebbe il disperato bisogno di
poggiare la schiena contro la parete alle sue spalle.
Indietreggiò, tenendo
ancora il fucile puntato contro la donna del suo destino.
Sconvolto,
lacerato, distrutto…cosa….cosa stava facendo?!
Che diavolo stava succedendo?!
La
nebbia avvolse
la sua mente e improvvisamente cominciò a non vedere
più nulla.
La
voce di quella
donna echeggiò martellante dentro di sé, come
fosse una lava incandescente che stava
facendo crollare le fondamenta che costituivano l’unica base
che lo aveva sorretto
in quella vita senza la sua Alexia che chiamava il suo nome.
Perché
nessuno lo
cercava, nessuno lo accarezzava quando aveva bisogno di aiuto, nessuno
rispondeva al suo dolore, nessuno curava le sue ferite, nessuno
ricordava che
esistesse…
Nessuno
da oramai quindici
anni…
“Fratello”
Da
quanto non sentiva questa parola…
Da
quanto qualcuno non gli si rivolgeva
in modo familiare, in modo autentico, tangibile.
Da
quanto non sentiva la voce di una
donna, della Donna, che lo cercava.
Nessuno
lo aveva
mai più chiamato, nessuno aveva anche solo cercato Alfred
dopo che Alexia si
era criogenata. Alcuno aveva dimostrato affetto verso di lui per troppo
tempo, creando
una voragine buia e nera che con gli anni si era fatta sempre
più profonda e
incolmabile.
Tuttavia
quella
voce sembrò rimarginarne quegli argini in un singolo istante
e distrusse in un
lampo la sua determinazione. Quella voce reale…una voce
umana….una voce viva.
Da
quanto la vita non permeava
quelle mura abitate da spettri e menzogne?
L’uomo
strinse gli
occhi e si rispecchiò in quelli della meravigliosa e unica
donna che dava senso
alla sua vita dimenticata, devastata dalla solitudine. Quegli unici
occhi
complici che lo avevano spinto a vivere, ad affrontare quelle atroci
sofferenze. Quell’amata presenza umana che allietava il suo
cuore e lo faceva
sentire amato e desiderato.
Ipnotizzato
e
abbandonato agli spasmi del suo animo che si scioglieva di fronte
l’amore che
gli mancava e che lo aveva abbandonato, Alfred abbassò il
fucile. Pesante e
quasi insostenibile, esso era sorretto a stento fra le sue braccia
intorpidite,
collassate per l’effetto di quella voce agognata.
“Alexia…?”
Sussurrò
e una
ciocca di capelli scese nuovamente sul suo viso.
“Sì.”
Rispose
la donna.
Sapeva
che non era
vero. Sapeva che era un inganno. La sua amata Alexia non
c’era, non si era ancora
risvegliata. Non era accanto a lui, né ci sarebbe stata
ancora per molto. Lui
era ancora il suo fedele guardiano che l’avrebbe protetta
fino al giorno del
suo risveglio quando il virus T-Veronica si sarebbe perfezionato.
Eppure
la sua mente
oscurò ognuna di queste consapevolezze, perché il
suo cuore voleva credere a
quell’inganno.
Ognuno
ha bisogno
di qualche follia per sopravvivere, ognuno necessità di
qualcosa per vivere. E
quel che mancava ad Alfred Ashford, quel che lo completava…
in quel momento era
lì, di fronte a sé, e non voleva perderlo.
Così
quel fantoccio
divenne reale ai suoi occhi e credé nella magia che la
follia aveva creato.
Abbandonò
il fucile
che avrebbe eseguito la libellula privata delle sue ali e si
lanciò ai piedi
della sua amata sorella, cadendo sulle ginocchia e incrociando le
braccia sul
suo grembo. Sprofondò la testa e strinse i lembi del tessuto
che la
rivestivano, non potendo contenere la gioia e il dolore di averla
finalmente
accanto. Mentre si abbandonava a quel cieco amore incontenibile del suo
cuore,
la sua mano accarezzò i ferri che la bloccavano sul suo
trono. La guardò negli
occhi, oramai in balia della schizofrenia che aveva completamente
annebbiato la
sua percezione della realtà, preferendo cullarsi nei beati
sogni ingannevoli di
una verità alternativa che non esisteva.
“Mi
dispiace,
Alexia…perdonami, ti prego!”
Disse
commosso, amareggiato,
oramai devastato e caduto nello stesso tranello elaborato dalla sua
mente, che
fece scomparire ogni consapevolezza riguardante Claire Redfield celata
sotto
quelle spoglie.
Ella
infatti lo guardò
attonita, sconvolta da quella reazione disperata. Questo mentre
comprendeva che
egli era caduto nella trappola che lei aveva escogitato.
***
Qualche
minuto prima….
Camera
di Alexia – tramonto
Claire
Redfield
chiuse gli occhi, cercando di scacciare l’intorpidimento che
alienava i suoi
sensi. Non doveva cedere, non doveva lasciarsi andare; doveva invece
rimanere
vigile, o sarebbe potuta soccombere ancora in quella tortuosa recita
che voleva
cancellare chi ella fosse. Nelle mani di Alfred Ashford si sentiva
tutt’altro
che sicura. Egli era un mentecatto capace soltanto di rievocare
l’esistenza di
una donna mai vista in quel posto e che pur di averla era stato
disposto a
vivere una menzogna come quella, che lo aveva gettato nella paranoia e
nella
pazzia più tetra e profonda.
Presto
tuttavia si sarebbe
accorto che quella recita non stava in piedi, perché una
parte di lui sapeva…doveva
sapere di questo assurdo complotto; e quando avrebbe preso coscienza di
ciò, l’avrebbe
uccisa, era questione di tempo.
Queste
consapevolezze avevano alimentato il suo spirito, adesso combattivo e
determinato. Doveva agire il prima possibile e la sua unica speranza
era
approfittarne subito, non appena lo avrebbe rivisto. Quel teatro
ingannevole e
perverso stava perdurando anche troppo e se lui voleva giocare
sporco…anche lei
non avrebbe esitato. Avrebbe sfruttato l’inganno in cui lui
stesso si era
ingabbiato.
Che
fosse corretto
o meno, sarebbe stato da stupidi interrogarsi o angustiarsi su questo.
Era
della sua vita che si stava parlando e non le importava ritorcere
contro Alfred
quel destino che lo aveva fatto impazzire.
Era
la sua unica
possibilità per sopravvivere e fuggire da quel manicomio,
per poi
ricongiungersi con Steve e suo fratello Chris…
Il
suo piano era
semplice: Alfred voleva Alexia e allora… avrebbe avuto
Alexia.
Era
nervosa e
inquieta per quel che stava per compiere, per le probabilità
di successo e
insuccesso, ma non vedeva altre possibilità. Sebbene sapesse
quanto fosse
impossibile interpretare una sorella agli occhi di un affezionato
fratello, e
valutasse altissima l’eventualità di essere
smascherata, doveva fare quel
tentativo.
Si
chiese che tipo
di donna fosse la bionda gemella Ashford, in modo da rendere credibile
la sua
interpretazione, ma non avendo elementi sufficienti per determinare la
sua
personalità, decise di optare per la soluzione
più semplice: ovvero la “brava
sorellina”.
Non
era nel suo
stile essere tenera e femminile. Nonostante lei stessa avesse un
fratello
maggiore, quindi poteva lontanamente immaginare la relazione dei due
fratelli,
notava come le loro esperienze e il loro legame fosse assolutamente
diverso se
non addirittura imparagonabile a quello che aveva con Chris.
Il
rapporto di
Claire e Chris, infatti, non era certo zuccheroso e amorevole. Con il
ragazzo
dai capelli scuri, lei era molto naturale, si divertiva a stuzzicarlo,
prenderlo in giro, essendo un soldato le piaceva apprendere le sue
mosse di
combattimento e nozioni sulle armi...
Lei
era un vero
maschiaccio, non proprio un soggetto dolce. Con lui smontava motori,
faceva
gare di resistenza, giri in moto, andavano ai poligoni di tiro,
lottavano nel
corridoio di casa e spesso si avventurava con lui nei boschi di Raccoon
City.
Non
le apparteneva quindi
un modo di fare raffinato e ingenuo verso un fratello; con gli uomini
in
generale parlava in modo diretto ed anche per questo le sue conoscenze
erano per
lo più a prevalenza maschile. Questo proprio
perché interagiva meglio con un
modo di fare più fattivo e schietto, tipico della stragrande
maggioranza degli
uomini.
Non
le mancava
certo quel tatto e quella premura femminile che faceva fuoriuscire
spesso il
lato tenero del suo carattere. Claire sapeva essere anche comprensiva e
materna
essendo una ragazza che si era cresciuta da sola, data la scomparsa in
giovanissima
età dei suoi genitori.
Si
era presa cura
di se stessa e di Chris, crescendo molto in fretta rispetto alle sue
coetanee,
maturando così un modo di pensare diverso, dedito
più alla risoluzione di
problemi reali e concreti della vita, disinteressandosi delle tipiche
difficoltà
adolescenziali. Questo non rinunciando alla sua natura solare e
positiva, che
spesso faceva breccia in coloro che la conoscevano, sebbene negli
ultimi tempi
quest’aspetto di sé era andato a scemare data la
piega che aveva preso di
recente la sua vita. Ma niente aveva mai soppiantato la sua fiducia e
il suo
spirito bonario verso la vita.
Perché
in fin dei
conti era questo che caratterizzava Claire: la sua tenacia e la sua
forza
d’animo, che comunicava speranza e calore umano.
Mentre
i suoi
pensieri avevano preso a divagare, si figurò nella sua mente
un netto paragone
fra Chris e Alfred. Un paragone che aveva dell’inquietante,
poiché Chris era
tutt’altro tipo di fratello, come appena analizzato.
Virile,
ribelle,
forte…era imparagonabile a un fratello così
sottomesso e servile come Alfred,
che più che una sorella, sembrava riverisse una regina. Egli
era anche una
mente complessata, fragile e instabile… come avrebbe mai
potuto essere una
sorella credibile?
Decise
di decidere
sul momento e sperare che le rotelle che mancavano al biondo
l’aiutassero a essere
verosimile. Claire supponeva, infatti, che egli fosse così
disperatamente
ammaliato da questa ‘Alexia’ che il solo fatto che
si sarebbe finta lei sarebbe
bastato a ingannarlo…e ad ottenere aiuto dalle sue mani
stesse.
Era
azzardato,
forse addirittura incosciente, ma doveva sperarci se voleva liberarsi
da quelle
morse e fuggire.
Furono
questi i
pensieri che la rossa stava elaborando, da poco lasciata sola nella sua
stanza
dopo la visita del suo eccentrico “fratello”
mentecatto, non aspettandosi
minimamente che quella quiete sarebbe durata ben poco. Questo
poiché Alfred
invece stava già marciando nel corridoio adiacente,
illuminato dalle forti luci
rossastre del tramonto, pronto a dare sfogo alla sua schizofrenia.
Quando
egli
spalancò la porta della sua stanza, ella
sobbalzò, impreparata a quella visita
già così presto. Si erano lasciati meno di
un’ora prima, infatti, e le ci
vollero una manciata di interminabili secondi prima di realizzare nella
sua
mente che la sua opportunità fosse già giunta.
Alfred
arrivò
rabbioso, ribaltando la porta in modo violento e irrefrenabile.
Ancorò i piedi
a terra e puntò un pericoloso fucile da caccia dritto verso
di lei, con un’aria
sconvolta e tormentata che poteva leggersi nitidamente nei suoi occhi.
Sembrava
essere sul
punto di sparare da un momento all’altro, come se qualcosa lo
avesse
inspiegabilmente ferito e sconvolto. Eppure, quando lo aveva visto in
precedenza, sembrava essere tornato un ragazzo mite, almeno come quando
era al
cospetto di Alexia.
In
quel momento
invece si era trasformato nell’uomo violento e addolorato che
l’aveva aggredita
la precedente notte, quando aveva recuperato conoscenza. Cosa aveva
quel ragazzo?
Aveva una doppia personalità o qualcosa di simile!?
Quel
rancore la
fece rabbrividire, ma quello spavento scaturito dalla sua improvvisa e
furente
comparsa, si trasformò presto in compassione. Cosa gli era
accaduto, si chiese
infatti.
Osservò
la sua
acconciatura, decisamente disfatta in quel momento. Solitamente Alfred
si era
sempre presentato in perfetto in ordine, sul limite della perfezione,
con i
capelli rigorosamente tirati indietro e un portamento altolocato.
Proprio
di recente
era rimasta ammaliata da tale androgina bellezza, non comune da vedere
in un
uomo. Una perfezione che sembrava renderlo addirittura finto e che
invece
adesso era stravolta dalla capigliatura ribelle, dal corpo tremante,
dalla
fronte corrucciata e rabbiosa.
Era
assurdamente diverso
con quell’aria scomposta, che rimembrò nella sua
mente l’immagine del cupo
ragazzino che premeva la sua fronte contro quella di una amata e
complice
sorella dai lunghi capelli biondi. Quel filmato che rappresentava i due
gemelli
Ashford in età giovanile e del quale adesso Alfred aveva le
nitide sembianze,
con quella capigliatura scesa, liscia, che pendeva sulla sua fronte.
Ma
di quel
ragazzino squilibrato e psicotico, eppure stranamente felice nella sua
rocca
che soddisfaceva ogni suo bisogno, non c’era
traccia…e al suo posto vi era la
sua versione cresciuta, impazzita e arrabbiata, che viveva nel doloroso
ricordo
di quei giorni gioiosi.
Un’immagine
che la
spiazzò e le comunicò un infinito senso di
angoscia.
Questo
mentre le
loro iridi, le une vitree e le altre blu intenso,
si incrociavano riflettendosi l’una
nell’altra. L’espressione sconvolta di Claire
sembrò andare in collisione con
la mente desolata di Alfred, il quale cominciò a tentennare,
come se
improvvisamente fosse diventato incapace di sopportare quel dolore.
Lo
vide tremare, perdere
velocemente ogni fiducia in se stesso; qualcosa lo stava sconvolgendo
visibilmente, facendo vacillare la sua rabbia e la sua determinazione
che si
sforzava di mantenere viva, puntando il mirino contro di lei.
La
rossa dovette
tornare prontamente alla realtà, abbandonando i
sentimentalismi se voleva salva
la vita. Perché se avesse continuato ad alimentare
quell’attimo di pietà e
coinvolgimento emotivo, presto il puntino del laser puntato contro di
lei
sarebbe stato sostituito dalla scia irrefrenabile della polvere da
sparo.
Dovette quindi stringere i denti e allontanare ogni pensiero
introspettivo
dalla sua mente.
Egli
era
visibilmente impazzito; lasciarsi soggiogare proprio in quel momento
avrebbe
significato morire.
Il
suo istinto di
sopravvivenza si riattivò quindi velocemente, non accettando
di soccombere per
mano di uno psicopatico simile. Avrebbe venduto cara la pelle, se era
questo
che Alfred voleva. Non doveva lasciarsi prendere dal panico, non poteva
cedere
ora.
Torturò
le labbra con
gli incisivi prima di trovare la determinazione idonea per cominciare
la sua
farsa. La crudele messinscena che sapeva avrebbe ferito la sua mente e
che per
certo l’avrebbe fatto crollare definitivamente, almeno
sperava.
Fu
quindi costretta
dalle circostanze a mirare la sua arma contro di lui, a sua volta.
Un’arma
diversa da quella del biondo, ma altrettanto potente e devastante.
L’arma che
lui stesso aveva creato inconsapevolmente e che lei gli stava per
ritorcere
contro. Non faceva parte del suo carattere torturare la mente;
sconvolgere e
giostrare con le vite altrui, usando le loro debolezze per far loro del
male…ma
era troppo tardi per tornare indietro. In quella trappola di reciproci
inganni,
a quel punto una sola cosa aveva importanza: ‘mors
tua, vita mea’. E Claire non aveva alcuna
intenzione di
morire.
“F-Fratello…”
Sussurrò
in modo incerto,
impreparata psicologicamente a divenire una travisatrice. Per la
propria
sopravvivenza ci si poteva trasformare in carnefici a propria volta?
Qual era
la risposta giusta? Cos’avrebbe dovuto fare per salvarsi?
L’unica
cosa che
sapeva è che non doveva cedere… non doveva cedere
per nessun motivo.
“….fratello!”
Ripeté,
stavolta
con più determinazione, accettando la parte che le era stata
assegnata da tempo
e che stava mettendo in atto, consapevole che in quella commedia
risiedeva la
sua unica speranza di sopravvivenza.
Era
fatta…anche il
suo inganno era appena cominciato.
Era
stata issata
una nuova commedia, di cui lei era adesso il burattinaio. Ora doveva
solo attendere
la reazione di Alfred, ignaro di quel capovolgimento di ruoli che non
poteva
aver previsto.
Una
reazione che
non tardò a venire perché, seppure immobile,
taciturno e ancora rabbioso,
qualcosa cambiò negli occhi dell’uomo vestito di
rosso. Qualcosa stava
crollando. Una dopo l’altra le sue certezze e i suoi tormenti
si stavano accavallando
e distruggendo fra loro, disorientandolo e sconvolgendolo.
Egli
vacillò ancora
prima di quanto si aspettasse, e in poco tempo cadde ai suoi piedi,
come un
maestoso albero dall’immane corteccia secolare che, investito
dallo sfregiante
passaggio di un fulmine tempestoso, viene abbattuto inesorabilmente,
cadendo
nonostante le forti radici che l’ancoravano al suo terreno.
Il
ragazzo dai
capelli platinati si disperò in modo incondizionato,
improvvisamente lacerato
da quel che stava per compiere, dal viso che stava per ferire.
Claire
ce l’aveva fatta: si era trasformata in Alexia…
Con
quella semplice
parola, con quel semplice viso complice e speranzoso.
Spiazzata,
tremante
e ancora troppo coinvolta da tale situazione, lì per
lì si sentì inadeguata di
fronte a quel volto disperato. Senza che ebbe neanche il tempo di
realizzare il
tutto, egli si fiondò su di lei, inginocchiandosi al suo
cospetto. Sprofondò
sul suo grembo, bisognoso di un gesto d’amore, della
vicinanza del suo pilastro
più importante. Egli stringeva fra le dita la sua gonna,
scacciando dalle sue
viscere l’angoscia scaturita dalla disperazione di quella
vita senza la sua
Alexia.
Claire
sentì il
senso di colpa devastarla. Era a disagio con se stessa
perché era notevolmente
troppo per lei avere fra le braccia il suo nemico; quel folle e
mentecatto castellano
fautore di perversioni e atrocità incommensurabili.
Sentì il peso di quella
contraddittoria realtà in cui lei e gli altri prigionieri
stavano lottando per
la loro vita proprio per colpa di quello stesso uomo che adesso,
sconsolato,
l’abbracciava senza ritegno.
Fu
sconvolta da
quella vicinanza, dal fatto che la stringesse e cercasse il suo aiuto.
Cosa
avrebbe dovuto
fare? Cosa poteva fare per allontanarlo e deviare quel disagio
incommensurabile?
Lei
non era davvero
sua sorella…né aveva intenzione di aiutarlo.
Erano nemici, inoltre lei non
avrebbe mai potuto fare qualcosa per lui. Voleva solo fuggire da quel
posto e
dimenticarsi di quell’assurda storia quanto prima.
Non
era chi credeva
che fosse e non avrebbe mai ricevuto da lei l’amore che
cercava.
Tuttavia...
era il
suo preciso piano quello. Era un bene quella disperazione, doveva
ricordare a
se stessa.
Doveva
essere
felice di essere riuscita nel suo intento di ingannarlo.
Egli
credeva che
fosse Alexia in quel momento. Almeno secondo una deviata logica era
assurdamente così.
Eppure
non riusciva
a sentirsi compiaciuta.
Mentre
lo
osservava, con il cuore torturato tra le dolorose morse della
coscienza, era tristemente
consapevole che per assicurarsi la libertà doveva giocare a
quel gioco
sfruttando le ingiuste e folli regole che lo disciplinavano.
Doveva
continuare
il suo spettacolo, solo così avrebbe avuto salva la vita.
“Perdonami,
Alexia..!!”
Il
sipario era già
alto, la commedia era oramai in atto. Doveva essere imperscrutabile.
Non doveva
dimenticare che in quel gioco era lei la vittima: era la sua vita che
sarebbe
stata ingabbiata per sempre.
“Alfred…perché sei così
angosciato?”
Pronunciò
d’improvviso la giovane, trovando profondamente anomalo e
controverso chiamarlo
per nome con tanta dolcezza; ma ciò era necessario per
apparire disinvolta.
Una
sorella doveva
essere così: diretta, confidenziale e in quel caso dolce.
Doveva fingere di
essere preoccupata per lui, di volergli bene, come lui visibilmente ne
voleva a
lei; interpretando così al meglio la malata
complicità che li legava e che
aveva potuto intuire da quel video visto nello studio del Centro di
Addestramento dell’Umbrella di Rockfort.
Alfred
intanto alzò
il viso verso di lei dopo aver udito quella domanda inaspettata, come
se anche
lui trovasse ovviamente qualcosa di ambiguo nelle reazioni della sua
falsa
sorella. Eppure era come se per davvero fosse sul punto di credere in
quell’assurdo miracolo in cui Claire Redfield era divenuta la
sua Alexia
Ashford.
“Io…”
sussurrò
incerto “Non sono riuscito a…ucciderla. Perdonami
sorellina….perdonami!”
Concluse
il
ragazzo, confuso dai suoi sentimenti, in balia di emozioni controverse
che
l’avevano intrappolato mentalmente, rendendolo incapace di
tornare lucido. Egli
era visibilmente fiducioso di poter confidarsi finalmente con la sua
amata
sorella.
Impercettibilmente,
Claire fece un ghigno, non smettendo di sorprendersi di fronte tanta
ipocrisia.
Sospirò, dopodiché, leggiadra, allungò
le dita verso la sua mano appoggiata
proprio sulle tenaglie di ferro che la intrappolavano. Il biondo
reagì a quel
tocco, e a sua volta unì le sue dita a quelle della sorella,
estasiato da quel contatto,
quasi incredulo di essere ricambiato…
Il
calore di un
altro essere umano…
Di
un essere umano
che lo amava…
Alexia…
“Non
affliggerti
fratello. Porremo insieme la parola –fine- a questa
situazione.”
Le
parole della
donna sorpresero il giovane che, accoccolato in quel tenue ma intimo
contatto
delle loro mani, non subito intese cosa sua sorella stesse insinuando.
Ella gli
sorrise e quel volto sembrò dapprima inquietarlo, poi, dopo,
coinvolgerlo.
“Facciamolo
assieme. Liberami da queste morse e uccidiamola. Otteniamo la nostra
vendetta.”
Disse
la donna infine,
con un’espressione crudele, temibile…quella della
regina che lui adorava e
rispettava. Cosa stava accadendo? Cosa aveva fatto tornare la sua
Alexia?
Cosa
aveva animato
la sua “bambola manomessa”?
Alfred
non volle
rispondere a quelle cruciali domande, non adesso che il suo animo si
stava
rasserenando avendo finalmente davanti a sé il volto della
donna che venerava.
La
sua Donna, la
sua Regina, la sua Perfetta e Unica metà che lo
completava…e che lo richiamava
a sé, onorandolo di stare al suo fianco.
Così,
lentamente,
il biondo si sollevò da terra.
Mentre
il suo busto
si alzava, Claire lo vide improvvisamente avvicinarsi. Non potendo
fermarlo per
rendere la sua interpretazione credibile, lo lasciò fare,
mentre il suo cuore
prese a battere all’impazzata. Sentì il calore del
viso di Alfred farsi sempre
più vicino al suo e presto la sua fronte arrivò a
premere sulla sua.
Le
loro bionde
frange si unirono, confondendosi fra loro, solleticando la pelle
sottostante. Poté
sentire nitidamente il respiro del ragazzo, trattenuto eppure intenso,
che
soffiava sul suo viso.
Tuttavia
il biondo
non arrestò i suoi movimenti a quel punto, ma ridusse ancora
di più la stretta
vicinanza con colei che credeva Alexia. Egli continuò ad
avvicinarsi, solcando
un universale limite che automaticamente si imponeva fra persone
normali,
arrivando a sfiorare il naso della giovane. Quando il calore delle sue
labbra si
fece vicino, arrivando fino a sfiorare le sue, Claire si fece prendere
dal
panico.
Cosa
stava facendo
Alfred? Non era così che si comportava un fratello!
Prima
che tuttavia
soccombesse all’agitazione, si accorse che egli si era
fermato, finalmente.
Egli
si era
fortunatamente limitato a quella strettissima e irriverente vicinanza,
fissando
i suoi occhi di ghiaccio, ammalianti, verso i suoi. Ella lo
ricambiò, inquieta,
non riuscendo tuttavia a sincronizzarsi con lui. Non riuscì
in nessun modo a
rivolgergli uno sguardo complice, quello che probabilmente lui
ricercava da
lei.
Si
rasserenò comunque,
comprendendo che non l’avrebbe baciata; era questo infatti
che l’aveva messa in
agitazione, ma ciò non tolse che fu in preda al completo
imbarazzo per il fatto
di ritrovarselo così intimante vicino. Un solo movimento, un
piccolo dondolio
della testa fatto anche inconsapevolmente, ed avrebbe potuto
congiungere le sue
labbra sulle sue.
Era
spaventoso,
inquietante…sentiva il suo corpo immobilizzarsi sempre di
più, costringendosi a
diventare di pietra. Trattenne addirittura il respiro pur di non
compiere alcun
movimento che avrebbe potuto alterare quella minima distanza che
c’era fra
loro.
Mentre
il suo cuore
batteva all'impazzata e cercava di tenere a freno quel senso
di inquietudine
insopportabile, improvvisamente
egli abbassò lo sguardo e un
rumore metallico attirò la sua attenzione.
Il
cigolio di una ferraglia, di un meccanismo che scattava.
Clank
La
ragazza rivolse
tempestivamente il viso verso il basso, facendo scivolare la sua fronte
da
quella di Alfred, scompigliando la sua bionda frangia. Così
poté guardare con i
suoi occhi la chiave infilata nella fessura delle maniglie di ferro che
la
ancoravano a quel trono rosso.
Con
il cuore in
tormento, attese che lui la sciogliesse anche dall’altra
tenaglia, mentre il
respiro si bloccava per la seconda volta consecutiva.
Clank….clank…
Un
debole suono…
Un
debole e
liberatorio suono…
Il
vincolo era stato
sciolto.
Fu
una sensazione
strana, quasi trascendente. Aveva dell’inverosimile, tanta
l’emozione che provò
in quel momento. Era come se il suo corpo non fosse costituito da
altro, se non
dai suoi polsi, adesso finalmente liberi di muoversi.
Tralasciò
quei
sentimenti di intimo imbarazzo scaturiti dall’avere di fronte
a sé il viso di
Alfred Ashford; così vicino da essere praticamente unito al
suo. Oramai si era
completamente dimenticata di lui, animata da quelle nuove e vive
speranze.
Dal
canto suo, il
ragazzo dai capelli platinati rimase al suo fianco, incantato di
contemplare la
soave bellezza di sua sorella. Accarezzò i suoi polsi
feriti, come desiderando
di alleviare quella sofferenza.
Il
suo cuore si
strinse e mentre fece per toccarla e aiutarla ad alzarsi,
tempestivamente vide
il ginocchio di lei colpirlo violentemente all’altezza dello
stomaco.
Con
uno scatto
improvviso, infatti, la ragazza lo colpì in pieno,
provocandogli un dolore quanto
allucinante, quanto inaspettato.
L’uomo
cadde
all’indietro, sbattendo pesantemente sul pavimento. Mentre
portava una mano
sull’addome, vide la sua amata alzarsi, sollevare il vestito
scoprendo le gambe
e poi scappare via, scavalcandolo ingiustamente e impunemente.
“A…Alexia!
Alexia!!”
Urlò
lui, attonito
e incapace di comprendere cosa fosse accaduto. Improvvisamente qualcosa
si
risvegliò in lui e, come se si fosse ripreso
dall’assopimento di un lungo sonno,
si alzò. Raccolse da terra il fucile che precedentemente era
caduto e si lanciò
in quell’inseguimento.
Partì
un
proiettile, il cui rumore fece voltare la ragazza, che già
aveva messo una
buona distanza fra i due, se solo non avesse avuto
quell’ingombrante vestito
che limitava i suoi movimenti.
“Alexiaaaa..!!”
Udendo
per
l’ennesima volta quel nome, Claire non ci vide
più. Si girò di scatto puntando
i piedi a terra e aspetto di vedere Alfred sbucare
dall’angolo del corridoio.
Egli
non tardò a
venire. La sua ombra, colpita dagli ultimi bagliori del sole,
presagì il suo
imminente passaggio. Essa si proiettava a terra allungando la sua
longilinea
figura, tramutandola in sottili linee offuscate che lentamente si
ribaltarono
sul muro adiacente; e presto, in concomitanza, sbucò lui.
Sotto
un cielo che
aveva assunto toni violacei e che ombravano l’atmosfera
diurna che oramai stava
lasciando velocemente il posto alla notte, i due nemici si ritrovarono
l’uno di
fronte all’altra, ai poli estremi della passerella del
corridoio. Seppur la
cospicua distanza, essi potevano guardarsi dritto nei loro occhi colmi
di
rancore.
Alfred
si fermò,
squadrando da capo a piedi l’immagine della brutale Alexia
che l’aveva
aggredito ed era fuggita da lui, dopo averlo tratto in inganno come una
splendida
eppure terribile sirena.
Non
smise un attimo
di stringere il fucile da caccia che aveva fra le braccia,
anzi…lo inforcò
meglio all’altezza degli occhi e il red
dot si proiettò sulla figura della giovane dai
finti capelli biondi.
La
ragazza lo
guardò con disprezzo, in balia delle sue furenti emozioni.
Si era fermata per
un preciso motivo, per compiere qualcosa che da molto si era prefissata
di fare
e mettere così la parola fine a quell’assurda
commedia che lui stava ergendo, in
cui l’aveva coinvolta con la forza arrivando a privarla della
sua identità.
Perché
quella che
credeva una semplice marionetta era una donna che non avrebbe mai
ceduto di
fronte tale pazzia ed era ora che lo sapesse anche lui. Lei sapeva di
quel
gioco perverso, della pazzia che lui voleva raggirare.
Che
fosse una mossa
crudele, insensibile, troppo umiliante e atroce per lui, non ci
pensò
minimamente. Volle soltanto sfogare davanti al signor Ashford la sua
amara
frustrazione e sfasciare la sua oramai insopportabile commedia.
“Razza
d’idiota,
non sono Alexia!”
Urlò
con rabbia
Claire. Così
afferrò con fermezza la parrucca che la
camuffava e la tirò via, gettandola con disprezzo sul
pavimento, in un gesto di
completo odio e disdegno verso quello che stava passando; verso quella
menzogna
e quell’assurdo dramma che lui era convinto davvero di
poterle far credere.
I
folti e ribelli
capelli rossi naturali della ragazza si rivelarono,
esattamente come
era successo la notte prima. Ignobili e scandalosi, rovinarono la
perfetta e
gloriosa immagine della maestosa regina che lui bramava.
Alfred
osservò
spiazzato quella scena, come se il suo cuore fosse stato frantumato
brutalmente. I suoi occhi tremarono e un ghigno d’ira funesta
si disegnò sul
suo volto, deformando completamente la beatitudine che prima lo aveva
rianimato. Strinse di nuovo il fucile fra le mani, bramoso di vendetta,
perdendo
oramai completamente il controllo su se stesso; ferito
nell’orgoglio, non solo
suo, ma anche di sua sorella e della sua intera famiglia.
“MALEDETTA!!”
Mentre
l’eco della
sua voce rabbiosa tuonava per il castello, Claire aveva già
ripreso la sua
fuga.
Liberata
dai
vincoli in cui quella bieca parrucca l’aveva imprigionata,
sentì qualcosa
alleggerirsi nel suo spirito. Era tornata se stessa e il vento soffiava
sul suo
capo, finalmente libero di respirare non più costretto sotto
quei folti e finti
capelli d’oro.
Contenta
e appagata
dall’essere finalmente qualcosa di diverso, se non
completamente opposto da
Alexia, non riuscì quasi a contenerne la soddisfazione che
stava provando.
Imboccò
le scale e
scese i gradini velocemente, realizzando in quel momento che
l’ambiente che
stava percorrendo non era il Centro di Addestramento di Rockfort, il
luogo in
cui supponeva di trovarsi ancora. Dove diavolo si trovava quindi?
Non
aveva il tempo
per indagare sulla sua precisa ubicazione, nonostante questo la
mettesse in
netto svantaggio con il padrone di casa. Corse comunque
all’impazzata, sperando
di trovare quanto prima un luogo dove rifugiarsi, questo mentre i passi
di
Alfred si facevano sempre più distanti. Sapeva che non lo
avrebbe seminato
facilmente, sebbene l’ampia distanza che era riuscita a
stabilire, così gettò
via le scarpe con il leggero tacco che indossava e decise di procedere
a piedi
nudi, ottenendo presto un’andatura più veloce e
attenuando allo stesso tempo anche
il rumore dei passi.
Mentre
muoveva le
gambe all’impazzata, sentì d’improvviso
tendere sotto i suoi piedi. Un brusco
strattone la tirò all’altezza della vita e la fece
cadere violentemente a
terra, ferendosi così sulle ginocchia.
Seppur dolorante, Claire si sforzò di
rimettersi subito in piedi, realizzando
ben presto che doveva disfarsi di quel vestito quanto prima; inciampava
troppo
frequentemente in quell’ampio e lunghissimo strascico e non
poteva rischiare di
fallire per un intoppo simile.
Così
spalancò la
prima porta che ritrovò davanti a sé e la fortuna
per la prima volta sembrò
sorriderle: si trovava in una cucina.
Non
udendo i passi
di Alfred, frugò velocemente fra le stoviglie appese lungo
le barre
d’acciaio poste sopra le postazioni da lavoro ed
incappò nell’oggetto affilato
che cercava: delle forbici.
Con
il cuore che
batteva a mille, le raccolse e afferrò
la gonna del vestito. Tremava
all’impazzata, l’adrenalina scorreva impetuosa
nelle sue vene. Guardò un’ultima
volta verso la porta da cui era entrata per assicurarsi di essere
ancora al
sicuro, dopodiché cominciò a tagliuzzare
velocemente quel prezioso tessuto
violaceo, che cadde elegante ai suoi piedi. Trasformò
così il maestoso abito di
Alexia in un abbigliamento più consono a una fuga,
accorciato in modo sfrangiato
all’altezza delle cosce.
Quel
che le
occorreva adesso era un’arma, ma non aveva più
tempo da perdere. I passi del
folle padrone di quel castello si facevano vicini, adesso poteva udirli
nitidamente. Afferrò così il primo coltello
contundente che fu alla sua portata
e lasciò quella stanza, oltrepassando la porta di servizio
che l’avrebbe
condotta nei meandri di quella sconosciuta magione.
Intanto
il ferito castellano
posò la sua mano sulla porta, la quale oscillò ed
assecondò il suo movimento, generando
uno stridulo e penetrante cigolio che sembrava quasi volesse avvertire
del suo
ingresso le eventuali presenze che si celavano oltre quella soglia.
La
luce batteva
alle spalle del giovane, il che spezzò il buio che ombrava
completamente quella
grigia e abbandonata cucina.
Egli
camminò lento
e i suoi passi risuonarono pesanti. Osservò il disordine che
la ragazza aveva
provocato, sintomo della sua indecenza e scostumatezza verso quella che
era la dimora
di un uomo altolocato e rispettato come lui. Quel senso di profanazione
lo
stava soffocando, quasi non poteva credere a tanta insolenza, eppure
non era
solo questo ciò che lo angustiava.
Questo
perché una
parte di lui era stata corrotta da quell’ignobile individuo
che osava penetrare
nei suoi incubi e nel suo amaro dolore. Sedotto e ammaliato da quella
donna
ribelle e volitiva, non le avrebbe mai perdonato di aver provato a
sostituire
quel posto che lui riservava unicamente ad Alexia. La sua unica e sola
regina.
Non
le avrebbe
permesso di toccare il suo prezioso tempio, immolato esclusivamente a
una
singola persona, sebbene il suo cuore non cessasse di palpitare, oramai
stanco
di quei continui e fuorvianti giochi mentali che lui barcamenava a
mantenere in
atto.
Improvvisamente
sentì qualcosa di soffice sotto i suoi piedi.
Era
una consistenza
insolita che lo incuriosì e lo portò ad abbassare
gli occhi verso il pavimento.
Erano degli stracci ed erano stati visibilmente gettati a terra.
Tuttavia avevano
una forma strana e il loro colore acceso e vivace non rispecchiava la
fisionomia tipica di quelli utilizzati in gastronomia. Così
si piegò sulle
ginocchia e ne toccò un pezzo, sfregando fra le sue mani
quel tessuto e
analizzandolo accuratamente.
Solo
allora lo
riconobbe.
I
suoi occhi si
disperarono, infuriandosi nuovamente di fronte quell’ennesima
usurpazione dei
suoi possedimenti, di tutto quel che riteneva più caro.
Digrignò
i denti e
pronunciò rabbioso quel nome che oramai da troppo tempo era
presente nella sua
mentale lista dei morti.
“Claire
Redfield………..me
la pagherai.”
Disse,
come
sigillando a se stesso quella promessa, volta a rivendicare le
umiliazioni con
cui quell'infima donna l’aveva infangato; questo mentre la follia e
la sua natura
perversa prendeva drasticamente il sopravvento, accendendo il suo lato
assassino,
alimentato dal desiderio di vendetta.
Un
nuovo gioco era
appena cominciato e stavolta il sipario si sarebbe abbassato soltanto
dopo che
sarebbe stato versato il sangue di colei che aveva osato ferire il suo
orgoglio.
“E’
una promessa…”
Concluse
mentalmente, stringendo quel che rimaneva del vestito di Alexia. In
seguito si
alzò, proseguendo a passo spedito e seguendo le tracce del
passaggio della
donna che doveva punire.
***
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Capitolo 5 *** Capitolo 5: un palco arrancato nel buio ***
Capitolo
5: un
palco arrancato nel buio
Villa
Ashford- Sera
“There was a
friendly but naive king, who wed
a very nasty queen. The king was loved but the queen was
feared…”
Una
dolce e melodica voce echeggiava fra le pareti del tetro corridoio del
maniero Ashford. I candelieri accesi affissi alla parete accompagnavano quel percorso; ma il loro bagliore
era
tuttavia troppo fioco perché potesse dare luce all'ambiente.
Fra
essi, una figura passava nella penombra, procedendo con passo lento
sul lungo tappeto scarlatto. La
sua pallida bocca si muoveva aggraziata mentre cantava quella meravigliosa, eppure
malinconica
storia d’amore: quella di un amato e ingenuo Re e della sua
perfida Regina.
Le
fiamme pulsavano tenui avvolte nel proprio alone dorato fiacco e
indebolito, ma continuavano comunque a danzare, mosse dal debole
sospiro
dell’aria, come se volessero assecondare l’amabile
melodia che in quell’istante
allietava quel triste crepuscolo oramai finito. Tuttavia, a differenza
dell’elegante e soave canzone, chi interpretava quelle
infelici note era
l’anima corrotta di un uomo devastato, il quale stava
percorrendo stregato
quell’ala del suo palazzo alla ricerca di qualcosa che mai
avrebbe trovato.
Sui
suoi occhi non si rifletteva nulla, solo le ignote ed oscure
immagini che alcuno avrebbe mai potuto vedere.
L’uomo
si muoveva nell’ombra alternando lentamente le gambe,
strascicando sulla superficie del pavimento la punta della canna del
fucile da
caccia che sorreggeva nella mano destra. La luce lunare illuminava la
sua
effige, facendo risplendere i colori pallidi che componevano la sua
figura.
Egli
continuava a cantare quella mesta melodia finendo sempre più
nel
baratro della finzione e della pazzia, intonando quella voce femminile
e
artificiale, a tratti sgraziata e sempre meno credibile, in cui erano
riposte
tutte le sue angosce e i suoi turbamenti che allo stesso tempo sia lo
dannavo, sia
lo ammaliavano, costituendo assieme l’unica realtà
in cui lui riuscisse a
essere felice.
“ …..'till
one day strolling in his court an
arrow pierced the kind kings heart. He lost his life and his lady
love…”
Continuò
il biondo, avanzando cieco per quel lungo passaggio,
non badando a nulla di ciò che lo circondava, raccontando
con la sua canzone il
triste finale di quella ambigua e troppo breve storia, in cui
l’amore veniva
perduto per sempre, lasciando in vita soltanto l’odio e la
perversione della malvagia
Regina.
La
notte intanto calava sempre di più,
impadronendosi prepotentemente dell’ambiente tinteggiandolo
di un blu profondo
e tenebroso, che offuscò definitivamente
l’immagine di Alfred Ashford che si
allontanava lento lungo la passerella.
***
Ala
ovest di Villa Ashford
Piano
terra - luogo
sconosciuto
L’odore
nauseante e fastidioso di chiuso aveva
impregnato non soltanto quell’accumulo di merci sparse un
po’ ovunque, ma
persino le pareti e ogni centimetro quadro di quella stanza.
Quel
senso di sporco le mise i brividi, tanto da
indurla a chiedersi da quanto quella stanza non veniva aperta. Dalle
numerose
scatole d’imballaggio e dall’industriale
quantità di riserve alimentari, Claire
dedusse di
trovarsi nella dispensa della cucina, una sorta di magazzino dove erano
conservati i viveri, purtroppo scaduti. Era una stanza buia e per nulla
confortevole. Stretta e oppressa dalle scaffalature di ferro
arrugginito, quasi
non si ci poteva muovere per il caos che la governava. Più
che disordine, era
l’accumulo di scatole su scatole che la rendevano una stanza
inguardabile; ma
non era questo quello che la scoraggiava, in realtà.
Quel
che invece
aveva arrestato la sua fuga era l’essersi ritrovata in quello
sporco e inutile
vicolo cieco, perché quel magazzino non conduceva da nessuna
parte.
Quando
era entrata
nella cucina correndo a perdifiato e si era liberata
dall’ingombro della
voluminosa gonna che intralciava la sua fuga, aveva dovuto intrufolarsi
dentro
la prima porta a sua disposizione, in quanto il lugubre e mentecatto
Alfred
Ashford era alle sue calcagna.
Si
sentì nel panico
quando, chiudendosi dentro quella porta, aveva subito notato di essersi
nascosta in un vicolo cieco e non avrebbe avuto la
possibilità di scappare se
lui fosse entrato in quel deposito con lei.
Così
aveva stretto
fra le mani il coltello da cucina reperito precedentemente e,
schiacciandosi
contro la parete, aveva atteso pazientemente che il biondo entrasse e
facesse
la sua mossa. Come se le sue sfortune non bastassero ancora, la porta
di quella
stanza era persino rotta e non si chiudeva nemmeno del tutto. Uno
spiraglio
rimaneva comunque aperto, facendo passare il fioco bagliore della luce
esterna.
Claire
così si
avvicinò a quella fessura, osservando da lì la
porta d’ingresso della cucina,
attendendo con il cuore a mille e il fiato bloccato; e come non poteva
che
aspettarsi, ad un tratto un sonoro “clank” irruppe
quel cupo silenzio.
Passo
dopo passo,
la longilinea figura del ragazzo dai capelli platinati fece il suo
ingresso
nella cucina, muovendosi ad agio, eppure con una spaventosa e
agghiacciante
oscurità negli occhi.
Quello
sguardo la
fece rabbrividire e rinvigorì ancora di più la
tenacia dentro di lei; quella
forza che era l’unica cosa che potesse aiutarla.
Lo
osservò
rimanendo immobile, trattenendo definitivamente il respiro, come se
esso avesse
potuto mandare all’aria ogni suo piano. Il biondo
girovagò per quella stanza
per un tempo che sembrò infinito.
A
un certo punto
Claire si sentì così esasperata da avere il
fortissimo istinto di scappare,
tanta l’ansia che stava accumulando.
D’improvviso
poi lo
vide piegarsi sulle ginocchia, come attirato da qualcosa. Quel
movimento la
incuriosì e fu in quel momento la ragazza capì e
si maledisse per aver lasciato
un indizio tanto evidente sul suo passaggio in quella stanza.
Alfred,
difatti, raccolse
fra le mani un pezzo del tessuto della gonna che lei aveva tagliato,
scrutandolo attentamente, e non ci fu alcun dubbio sul fatto che fosse
in grado
di riconoscerlo.
L’espressione
che
in quel momento si stampò sul suo viso rimase indelebile
nella mente di Claire
e i suoi occhi rimasero impauriti di fronte la devastazione che poteva
leggersi
nel suo animo.
Le
iridi di Alfred,
così vitree e chiare da sembrare un frammento di specchio
rotto, si
pietrificarono di fronte lo scempio che la donna dai capelli rossi
aveva osato
commettere al prezioso abito che rappresentava la sua regina.
La
ragazza sentiva
nitidamente le vibrazioni negative che partivano da
quell’uomo, il quale vedeva
profanato uno dei suoi ricordi più preziosi.
Quel
che angustiò
ancora di più Claire fu vederlo lì, immobile,
senza compiere alcun movimento o
commento. La sua pazzia e il suo senso di frustrazione erano
già sufficientemente
trasmessi dall’espressione del suo volto, lo specchio della
sua anima corrotta
e deturpata: un’immagine che la colpì
profondamente e dalla quale non riuscì in
nessun modo a divincolare lo sguardo.
Quando
egli
riacquistò una posizione eretta, Claire si mise di nuovo in
allarme come
risvegliatasi da quell’incanto maligno, tuttavia il suo
mettersi in guardia fu
del tutto inutile. Questo perché l’uomo con
l’elegante divisa rossa girò i
tacchi e uscì da quella stanza.
Incredula,
la
ragazza si affacciò di più oltre la porta
semichiusa, decisamente frastornata.
Alfred era rimasto così sconvolto da aver lasciato perdere
l’inseguimento?
Dapprima
intenta a
interpretare quell’insensata decisione da parte del suo
nemico, subito dopo
scosse il capo comprendendo che era assurdo interrogarsi sulle
decisioni
investigative di quello che rimaneva il suo avversario. Si era
eclissato e al
momento lei era quindi libera di pensare a come agire.
Almeno
per un po’.
Dunque
le sue
attenzioni tornarono velocemente al deposito in cui era al momento
imprigionata. Passò una mano fra i lunghi capelli arruffati,
scostandoli così dal
viso, in seguito si sforzò di riprendere in mano il
controllo sulla situazione e
valutare le sue alternative: era bloccata in quella stanza, ma non
poteva
tornare indietro perché la possibilità di
incapparsi nel biondo Ashford era fin
troppo alta; inoltre si ritrovava nella pericolosa e infelice
circostanza in
cui lui era armato, e non con un’arma qualsiasi, ma con un
fucile da caccia.
A
quel proposito,
rimproverò se stessa per non aver avuto la
lucidità di prendere quel fucile
quando ne aveva avuta l’occasione.
Esso
era, infatti,
caduto dalle mani di Alfred quando la rossa aveva messo in atto la sua
interpretazione di Alexia. Il biondo era collassato in quel momento di
sconforto emotivo, e così aveva
incautamente lasciato cadere a terra la sua preziosa e letale arma da
fuoco;
tuttavia in quel momento la ragazza non ebbe prontezza di spirito e
trascurò
quel dettaglio fondamentale che avrebbe potuto capovolgere la partita.
Il
suo animo
completamente coinvolto in quella situazione angustiante le aveva
impedito di
vedere quella circostanza da un punto di vista tattico e oggettivo.
Turbata,
angustiata, tormentata nel tripudio di emozioni che albergavano nel suo
cuore
confuso e voglioso soltanto di ritornare alla sua vita normale, quel
che la
tradì fu il volto ormai devastato dell’uomo dai
capelli pallidi.
Non
aveva mai visto
due occhi così tristi,
malinconici,
distrutti…eppure speranzosi
di
fronte quella remota possibilità che la sua prigioniera
potesse essere divenuta
Alexia.
Era
come se egli
avesse messo a tacere la sua razionalità per abbracciare un
sogno che lo
affliggeva e lo distruggeva. Claire poté sentire il suo
ardore, la sua
speranza, la sua distruzione mentale ed emotiva, in un vortice di
emozioni che
arrivarono a toccarla nell’intimo…molto
più di quanto pensasse di poter
sostenere.
Fu
trafitta a tal
punto da rischiare di rimanere soggiogata nella commedia in cui Alfred
aveva
deciso di vivere la sua esistenza, finendo per nutrire una profonda
compassione
per la sua desolazione e le sue angosce.
Era
già stato
straziante per lei trasformarsi in una donna crudele e ingannatrice,
che per la
sua sopravvivenza aveva dovuto ferire l’animo di
un’altra persona usando le sue
debolezze contro di lui.
Come
poteva quindi,
oltre a beffarsi di lui e usare il suo evidente trauma per
avvantaggiarsi,
pensare anche a disarmarlo e appropriarsi dell’arma che aveva
fatto cadere e
che l’aveva reso indifeso in quel momento?
No….semplicemente
non ci aveva nemmeno pensato a farlo.
Era
un colpo basso
che non era stata disposta a compiere, afflitta com’era dallo
sconforto che
albergava in quegli occhi fragili e devastati. Anche se quella persona
le aveva
fatto del male, anche se quella persona aveva cercato di annullare la
sua
esistenza, anche se quella persona era Alfred Ashford.
Così
Claire aveva
finito per limitarsi soltanto a scappare quando aveva avuto la sua
occasione, fuggendo
anche da quel peso, da quelle angosce.
Con
la lucidità del
momento, una parte di lei molto istintiva le rimproverava la
compassione che aveva
provato verso colui che non doveva dimenticare essere un nemico.
Quella
parte
primitiva che le ricordava che ogni essere umano avesse la sua storia,
i suoi
drammi, le sue paure e le sue debolezze…anche Alfred.
La
sua crudeltà e
dissociazione mentale erano dovute a evidenti traumi del suo passato,
che
ovviamente non potevano che colpire nel profondo un animo sensibile
come quello
della giovane donna da capelli rossi. Ma lei non doveva confondere
tutto ciò
con l’opposizione delle loro posizioni sul campo.
Era
quella la dura
legge della sopravvivenza: in battaglia bisogna essere lucidi e sempre
pronti a
cogliere i vantaggi e gli svantaggi di una situazione; saper leggere il
campo,
osservare ogni cosa con profondo spirito analitico, dominando le
proprie paure con
un temperamento freddo e distaccato.
Principi
che Claire
conosceva fin troppo bene dato che suo fratello maggiore era un soldato
già da
diversi anni e da una vita addestrava implicitamente la ragazza, la
quale aveva
sempre ascoltato giocosamente le sue lezioni, non potendo immaginare
minimamente che un domani sarebbero state per lei la sua
unica
speranza di salvarsi dall’inferno in cui era precipitata.
Tuttavia,
sebbene
si fosse dimostrata una ragazza determinata e volitiva, molto
più capace di
qualsiasi altra persona, ella rimaneva comunque una persona comune, una
civile.
Fino a pochi mesi prima era solo una studentessa universitaria.
Non
poteva detenere
la forza e la lucidità di un militare ben addestrato, non
era abituata a
mantenere costantemente il sangue freddo in qualsiasi situazione.
Perché
in
situazioni come quelle non si trattava più solo di vincere o
perdere…il prezzo da pagare era molto più alto:
la decisione di un singolo attimo
significa infatti vita oppure morte.
Per
questo non
avrebbe più dovuto cedere a quella compassione.
Alfred
Ahsford era
il nemico e lei avrebbe dovuto trattarlo da tale.
Se
la sarebbe
cavata, si ripeté fiduciosa, decisa come non mai a uscire da
quella situazione
in cui un singolo errore l’avrebbe potuta portare al
fallimento.
Strinse
quindi il
coltello, che al momento significava la sua unica
possibilità di proteggersi di
fronte i suoi nemici e le creature fameliche che si celavano fra i
meandri di
quella villa, e si guardò intorno, alzando lo sguardo verso
le mensole del
deposito.
Una
luce attirò la
sua attenzione, un fenomeno alquanto strano dato che si ritrovava in
una stanza
sprovvista di finestre.
Indietreggiò
di
qualche passo e fu in quel momento che si accorse di
un’apertura sul soffitto,
che sembrava affacciare in una qualche camera del piano di sopra.
Rifletté
che poteva
essere vantaggioso per lei risalire al primo piano, soprattutto se il
biondo l’aveva
inseguita e ora indagava per il piano terra convinto di trovarla
lì. Sarebbe
stata quindi un’ottima mossa per far perdere le sue tracce
per un po’ e avere
il tempo di indagare per quel castello e capire dove si trovasse.
Si
guardò intorno
in quel putiferio impolverato. Era in una dispensa piena di mobili e
punti di
appoggio, poteva arrampicarsi con estrema semplicità per
raggiungere quel
varco.
Tuttavia,
non
appena appoggiò un piede sulla scaffalatura di ferro
arrugginito che sosteneva
i vari prodotti alimentari, questa traballò emettendo uno
spaventoso cigolio
non troppo rassicurante.
Sebbene
Claire avrebbe
potuto scalarla abbastanza velocemente, valutò
irresponsabile rischiare di
ribaltare quella vecchia ferraglia che difficilmente avrebbe sostenuto
il suo
peso, né quello di qualcun altro. Doveva quindi
semplicemente trovare un altro
modo per arrivare al soffitto.
Notò
dunque una
grossa scatola di cartone, nascosta sotto varie scartoffie e utensili
per
imballaggio. Buttò tutto a terra e provò a
muoverla, sperando che qualunque
cosa contenesse al suo interno le permettesse di spingerla in qualche
modo.
La
fortuna volle che
non fosse pesante a tal punto da non riuscire a strascinarla,
così caricò tutto
il peso sulla spalla, che premette contro l’ingombrante
scatolone. Aiutandosi
con le gambe, spinse con tutte le sue forze per portare
l’oggetto in prossimità
del passaggio sul soffitto.
Il
prurito
scaturito dalla polvere che si sollevò nel momento nel quale
prese a spostare
l’oggetto fu insopportabile. Naso, mani e pian piano tutto il
corpo reclamarono
urgentemente una copiosa quantità d’acqua che la
rinfrescassero e facessero
sparire quella seccante prurigine.
Oramai
completamente impolverata, la rossa raddrizzò la schiena
distrutta da quella
fatica, ma non si dette tregua. Si concesse giusto un attimo per
sfregare, in
realtà inutilmente, le mani fra loro, poi subito
ricominciò a cercare altri
recipienti da posizionare sopra il precedente scatolone, disponendoli
in ordine
di grandezza così da colmare quel metro di distanza che le
impediva di
raggiungere la sua meta.
Così
procedette con
il costruire la sua piccola impalcatura.
Una
volta finito
era talmente sporca di polvere che i guanti bianchi che rivestivano le
sue mani
erano divenuti completamente grigi.
Sospirò
riprendendo
fiato, in seguito alzò il ginocchio e si sollevò
sul primo gradino appena
costruito. Continuò la piccola scalata e con le braccia
riuscì a tirarsi in
quell’apertura, fino a scorgere la stanza che prima aveva
intravisto.
Non
riuscì a vedere
molto data quell’oscurità densa ed opprimente
tipica degli ambienti chiusi, ma
quei pochi scorci che la sua vista riuscì a captare
bastarono a farle intendere
che quella stanza fosse assolutamente vuota.
Tirò
forse il primo
sospiro di sollievo da ore, dopodiché premette sulle braccia
e cercò di salire
definitivamente in superficie. Claire non avrebbe mai immaginato che
sollevare
interamente il suo corpo sarebbe stato tanto faticoso. Le sue braccia
dolevano
enormemente, probabilmente anche per l’intorpidimento dovuto
ai narcotici che
doveva ancora smaltire, pensò.
Una
volta in piedi,
la prima cosa che fece fu guardarsi intorno e cercare di far abituare
la vista
a quelle tenebre.
La
stanza sembrava
essere un salone; era veramente molto ampio, arredato accuratamente con
preziosi mobili e divani rivestiti da voluminosi tessuti.
Camminò lentamente
per la stanza, scrutando ogni suo particolare, attenta a non provocare
alcun
rumore urtando accidentalmente qualcosa. Quel salone era ricco di
ninnoli e
gingilli di ogni tipo: da tipici vasi da esposizione, a orologi di ogni
epoca,
porcellane, statuette…
L’arredamento
soffocava l’ampiezza di quella vasta stanza, che era allo
stesso tempo così
grande, ma così piccola per contenere tutti quegli arredi e
mobili di legno
massiccio.
Mentre
avanzava,
incuriosita da quella miriade di elementi, messi tutti assieme in un
ordine
difficile da interpretare, la sua attenzione cadde su un antico mobile
con gli
sportelli fatti di vetro.
Si
fermò davanti quella
cristalliera e, avvicinandosi, notò che dentro erano
conservate delle bambole
molto ben confezionante.
Erano
almeno un
centinaio ed erano tutte disposte l’una affianco
all’altra riempiendo le varie
mensole che componevano il mobile.
Erano
molto
particolareggiate e diverse fra loro; indossavano degli ampi vestitini
ottocenteschi, rifiniti ad arte come fossero veri abiti sartoriali.
Avevano con
sé persino i loro piccoli accessori personali come
cappellini e borsette, e i loro
magnifici visi di porcellana dagli occhi rotondi e dai colori
sgargianti,
contornati dalle loro lunghissime ciglia, sembravano voler trafiggere
la
persona che le osservava; questo seppur avessero degli sguardi vitrei e
assolutamente
vuoti.
Claire
osservò le
loro acconciature, tutte arricciate e mantenute in modo perfetto.
Dovevano
essere certamente bambole da collezione, altrimenti non sarebbero state
così precisamente
ordinate.
Erano
davvero
numerose, costatò di nuovo, ma sebbene a un primo impatto ne
fosse rimasta
affascinata rievocando la sua infanzia nel vedere tutte quelle
bellissime
bambole tutte assieme, subito dopo cominciò a sentirsi
inquieta. Quella visione
cominciò a divenire persino angustiante, tanto che dovette
allontanarsi ed
ignorarle del tutto per non sentire girare la testa.
Non
seppe comprendere
cosa l’aveva tormentata di quella visione; forse erano tutti
quegli occhi
puntati contro di lei, o la semplice suggestione….fatto
stava che cominciò
persino a sentirsi nauseata.
Ogni
meandro di
quel luogo suggeriva la pazzia che aveva ormai impregnato le sue mura,
le quali
sapevano come affliggere il momentaneo spettatore che si avventurava
ignaro nel
suo territorio. In questo modo, Claire si sentì
inconsciamente turbata, non
potendo più sopportare di stare chiusa dentro quella stanza.
Avanzò
quindi verso
una finestra nascosta dietro la tenda, sperando di prendere un
po’ d’aria
fresca per riprendersi da tale senso di oppressione. Roteò
il pomello, ma
questo sembrava essere incastrato. Il meccanismo non voleva girare per
nessun
motivo. La ragazza arricciò le labbra, spazientita,
così prese a muovere
violentemente il pomello fino a far quasi sbattere la finestra.
Quando
finalmente
questa di spalancò, la rossa non fece in tempo a esprimere
la sua soddisfazione
che quel che vide l’inquietò definitivamente,
reprimendo ogni sorta di
sentimento che avrebbe potuto sentire in quel momento.
Questo
perché oltre
la finestra, oltre quel vetro, non vi era nulla.
Il
nulla più assoluto.
Fu
una visione
opprimente, penetrante, impossibile da accettare. Un senso di vuoto e
devastazione prese quasi a soffocarla, rendendo quel nero la cosa
più tremenda
cui avesse mai assistito.
Si
fece prendere
dal panico, non potendo concretizzare nella sua mente la percezione di
quel
vuoto così cupo ed assoluto, così intenso da
sembrare voler cancellare ogni
concetto di libertà e speranza.
Cosa
diavolo era
quel posto? Cos’era quella struttura?
Si
sentì
imprigionata, come se non avesse alcuna via di fuga, sepolta in
chissà quale
posto sperduto del mondo. Era evidente a quel punto, infatti, che
l’intera ubicazione
di quella villa fosse sotterranea, o compresa in una qualche struttura
più
grande.
Si
sentì mancare, fu
una rivelazione persino peggiore di quanto si aspettasse. Ebbe bisogno
di
qualche attimo di pausa per ritrovare la sanità mentale,
sebbene in quel
momento non ne avesse alcuna voglia, sconvolta com’era.
Improvvisamente
quella situazione era diventata più grande di lei, molto
più di quanto già non
fosse. Si appoggiò al muro, incapace di sostenere il suo
stesso peso.
Se
pensava di
essere imprigionata in quella villa, rapita ed inseguita da un maniaco
ossessivo come Alfred Ashford, e per di più sepolta in
chissà quale luogo, si
sentiva soffocare, come se fosse intrappolata in una scatola cinese.
Quella
baraonda di
pensieri stava oramai prendendo il sopravvento, tuttavia ebbe la
lungimiranza
di zittire le sue ansie. La sua mente volitiva e attaccata alla vita
spense
quel violento fuoco impetuoso.
Claire
Redfield era
da sola in quel momento e nessuno avrebbe potuto sostenerla se si fosse
lasciata abbattere. Doveva essere quindi la
forza di se stessa se voleva riabbracciare i suoi cari e
riappropriarsi
della sua vita.
Realizzò
velocemente
che seppur fosse impossibile per lei non pensarci, l’unica
cosa che poteva fare
era cercare di ignorare quella consapevolezza, al momento, e affrontare
uno per
volta i suoi problemi.
Se
li avesse
inquadratati tutti assieme, avrebbe finito per rimanerne imprigionata
per
sempre, questo non solo pragmaticamente, ma anche mentalmente.
Doveva
invece
dividere il problema in problemi più piccoli, esattamente
come si faceva con la
matematica.
Inquadrando
quella
prigione in quell’ottica, riuscì a leggere la
situazione come una lunga
espressione matematica da risolvere, ove la prima cosa da fare era
sciogliere inizialmente
le parentesi tonde, per poi passare alle quadre e infine alle graffe.
Doveva
farsi forza
e credere nelle sue possibilità e nella speranza di riuscire
a scappare, perché
se si fosse abbandonata allo sconforto assillata da quel senso di
sopraffazione,
allora tanto valeva arrendersi subito e morire.
Realizzò
in modo
sofferto, ma risoluto, che al momento doveva lasciare sospesa la
questione e
dedicarsi esclusivamente a mappare quel luogo sconosciuto. Un passo per volta.
Prima
sarebbe
uscita dalla villa, poi avrebbe pensato al resto.
Così
si alzò
rimettendosi in piedi, pronta a uscire da quella stanza ed analizzare
il resto
del primo piano.
Sperava
soltanto
che la porta di quel salone non fosse bloccata. Eppure Jill Valentine,
una
collega di suo fratello, spesso le aveva mostrato come scassinare una
porta,
quindi non avrebbe dovuto essere un problema per lei aprirla. Tuttavia
avrebbe
preferito che quel pomello girasse e potesse cominciare la
perlustrazione
quanto prima.
Quasi
non poté
crederci quando la maniglia si abbassò davvero e con essa la
porta prese ad
aprirsi spinta dal peso della mano di Claire. La ragazza avrebbe voluto
cacciare un urlo di contentezza, ma la razionalità
riuscì a tenere a freno la
gioia di quel piccolo momento di gloria, così si
limitò solo a stringere le
labbra e varcare cautamente quell’uscio.
Sbirciò
prima con
un occhio, cercando di scorgere eventuali mostri o gemelli Ashford in
giro, ma
ancora una volta soltanto il buio dominava l’ambiente.
Avanzò
lentamente,
tenendo stretto fra le sue mani il coltello da cucina. La fioca luce
dei
candelieri accesi illuminava piccole porzioni di quel lungo corridoio,
ma
bastava a evidenziare il cammino che doveva percorrere.
Si
sentì indecisa.
Doveva percorrere tutta la passerella e vedere dove portava, oppure
perlustrare
subito le stanze che vi si affacciavano?
Decise
di optare
per una via di mezzo, ovvero giungere alla fine del corridoio per
vedere cosa
ci fosse dall’altra parte, per poi tornare indietro e
indagare in quell’area.
Quando
tuttavia
aprì la porta che teoricamente avrebbe dovuto portarla in un
qualche nuovo
androne della villa, i suoi occhi si illuminarono vedendo davanti a
sé,
dall’alto della passerella, l’atrio del portone
principale.
***
Villa
Ashford
Primo
piano – androne d’ingresso
A
sua grande e
inaspettata gioia, Claire si trovò nel mezzo di una piccola
porzione di piano
dove si congiungevano le due ali opposte della villa.
Da
quella
posizione, una lunga scalinata conduceva nell’ampio atrio
sottostante, ove era
ubicato il portone d’ingresso principale.
La
ragazza
improvvisamente ricordò di quel percorso, il quale conduceva
nel giardino dove
aveva preso il tè con Alfred, quando ovviamente non aveva
ancora ripreso
conoscenza.
Seppur
sfocato,
tutto sommato cominciò a riconoscere quegli scorci e la
contentezza fu tale che
subito s’inoltrò per le scale. Quasi non si
accorse dell’imponente quadro che
troneggiava sulla parete.
Mentre,
infatti,
prese a correre verso il portone principale, con la coda
dell’occhio scorse le
pallide figure che componevano la grandiosa e regale rappresentazione
alle sue
spalle.
Si
voltò, come se
quell’immagine l’avesse richiamata e
risalì i pochi gradini che aveva
cominciato a percorrere.
Il
quadro
rappresentava un giovane uomo dall’aspetto altolocato, curato
e molto distinto.
Aveva le gambe accavallate ed era seduto su una poltrona con
un’aria sicura di
sé.
Egli
era posto fra
due adolescenti di sesso opposto.
Alla
sua destra, un
ragazzo dai lineamenti delicati, i capelli biondi e un abito scuro.
Sebbene la
giovane età, aveva un’aria molto nobile.
Alla
sua sinistra,
invece, una fine ed elegante ragazza vestita con un lungo abito rosa
antico.
Seppur
quella
rappresentazione fosse composta da tre soggetti, quella ragazza regnava
sovrana
ed era impossibile non essere catturati dal suo sguardo freddo,
saccente ed
imperscrutabile, come se l’intero senso di quel quadro
vertesse sulla sua
figura.
L’uomo
al centro
teneva per mano i due giovani fanciulli e fra i tre vi era una evidente
somiglianza.
Essi
erano
certamente Alfred, Alexia e un loro stretto parente, quasi certamente
il
padre…Alexander Ashford.
Claire
conosceva il
nome di quell’uomo in quanto aveva avuto modo di apprenderlo
quando aveva risolto
l’enigma in quella stanza piena zeppa di quadri di famiglia,
per appropriarsi
della statuetta a forma di formica. In quel modo era risalita ai nomi
più
importanti della famiglia Ashford.
Così
le fu semplice
intuire che quell’opera pittoresca e ben eseguita altro non
poteva essere che
un prezioso e stretto ricordo di famiglia.
Probabilmente
perché suggestionata e coinvolta emotivamente, Claire si
ritrovò ad osservare
in modo quasi ossessivo il volto dipinto di Alexia, sorella gemella di
Alfred,
per la quale quel ragazzo era letteralmente impazzito.
Sebbene
fino a quel
momento la sua esistenza fosse sempre rimasta avvolta da un alone di
mistero,
dovette ammettere a se stessa che il giovane Ashford era stato
incredibilmente
bravo a far credere alla veridicità di quella storia.
Che
Alexia fosse
davvero esistita o no, quel castello era così impregnato
della sua presenza che
quasi non esistevano dubbi circa il fatto che lei solcasse davvero quei
luoghi.
Claire
stessa era
diventata quella donna, seppur in modo erroneo e costrittivo, quindi
l’avere di
fronte a sé l’immagine tangibile di chi
l’aveva condannata in quella condizione
fece smuovere qualcosa nella sua mente. Qualcosa che non
riuscì a ben definire,
ma che provocò in lei un senso sia di rabbia, che di
curiosità.
Era
come se una
parte di lei, arrivata a quel punto, volesse conoscere Alexia, la
famosa Regina
degli Ashford, venerata come una dea.
Le
sue iridi blu scannerizzarono
quell’immagine, scorrendo su tutta la sua figura.
Il
suo sguardo poi si
soffermò inevitabilmente anche sulla sua controparte
maschile, ovvero l’uomo
che aveva dedicato la sua vita a quella donna: Alfred.
Stette
in silenzio,
facendo tacere la sua mente e il suo spirito. Alcun pensiero si
formulò mentre
osservava il volto delicato del suo persecutore versione adolescente.
Rimase
inerme, con un viso serioso e taciturno, finché alla fine
non divincolò
definitivamente lo sguardo e tornò sui suoi passi.
Non
voleva
indugiare ulteriormente; qualcosa la frenava nel perdersi completamente
nel
dettaglio di quell’opera, come se in realtà non
volesse ammettere a se stessa
di essere incuriosita da quei due loschi fratelli dai capelli biondi.
Preferì,
infatti,
abbassare lo sguardo e dare le spalle al quadro, per scendere la lunga
scalinata e aprire il portone d’ingresso.
Passo
dopo passo,
gradino dopo gradino, giunse finalmente di fronte l’enorme e
possente legno
massiccio; appoggiò le mani sulle maniglie di ottone e prima
tirò, poi spinse,
accorgendosi quasi immediatamente che stavolta non era stata fortunata:
il
portone era chiuso a chiave.
Nel
mentre di quel
gesto, una voce sgraziata risuonò nell’atrio,
mettendola subito in allarme,
prendendola completamente di sprovvista.
“Claire
Redfield,
finalmente eccoti! Come hai osato girovagare per la mia abitazione in
modo così
sfrontato e maleducato?”
Immediatamente
la
ragazza si nascose dietro una delle colonne portanti presenti
nell’atrio, le
quali erano disposte formando un porticato adiacente alla lunga
scalinata che
conduceva ai vari piani della villa.
Claire
schiacciò la
schiena contro una di queste, badando bene di nascondersi prima ancora
di
realizzare il quadro della situazione.
La
voce che l’aveva
richiamata era quella dell’unica persona al momento presente
fra quelle mura,
ovvero lo squilibrato e pericoloso padrone di casa dai pallidi capelli
biondi.
Egli
camminava
avanti e indietro per la passerella ove era appeso il quadro della
famiglia
Ashford precedentemente analizzato da Claire,
tant’è che la ragazza si chiese
quando effettivamente egli fosse venuto dato che fino a pochi istanti
prima
anche lei era in cima a quella scalinata.
Alfred
dondolava la
sua pesante arma da caccia come fosse un banale giocattolo fra le sue
mani, e
quel suo atteggiamento infantile, per nulla convenevole, lo rendeva
inquietante
e minaccioso, sebbene oramai la rossa avesse fatto il callo a quel tipo
di
movenze. Egli sembrava riuscire a scrutare oltre la colonna dove la
donna era
nascosta, come se potesse vederla nonostante quell’ostacolo
interposto fra
loro.
“La
mia carissima
sorellina non sarà per nulla felice di come hai ridotto il
suo prezioso
vestito, il suo preferito. Oh, Alexia! Non sai quanto sono dispiaciuto
per non
averlo potuto impedire…!
Sono
stato
ingannato, ma adesso porterò a termine la mia missione. Ma
certo, sorellina. E’
più che ovvio che tu sia arrabbiata.”
Alfred
parlava come
se credesse di interloquire con un’altra persona. Claire,
infatti, sbirciò alle
sue spalle, credendo per un istante a quella farsa, ma ovviamente si
sbagliava.
Egli era da solo, completamente da solo, come sempre.
Sospirò,
trovando
sempre più assurdo quell’uomo.
Intanto
il biondo
continuò a farfugliare fra sé, camminando
irrequieto avanti e indietro, non
staccando gli occhi dalla colonna che proteggeva la ragazza dai capelli
rossi.
Mentre
la scrutava
come un avvoltoio, il biondo tutto a un tratto si acquietò.
Stette immobile
qualche istante, dopodiché appoggiò i gomiti
sulla ringhiera con fare
rilassato.
La
voce con la
quale si rivolse non era minacciosa, ma era chiaro che fosse abbastanza
irritato, pronto a fargliela pagare per come aveva osato affrontarlo.
Assunse,
infatti,
un tono diverso…un tono molto ambiguo e stridulo, simile a
quello di una donna,
imitato a tratti in modo perfetto, a tratti sgradevole e sconcertante.
“Lascia
che la
nostra piccola ospite si diverta nella nostra dimora. E’ da
tanto che non
abbiamo visite e sono sicura troverà indimenticabile
avventurarsi e giocare con
noi, ahahah!”
A
quella frase
seguì un’irriverente e irritante risata che
alterò notevolmente Claire, la
quale dovette stringere i denti per non reagire. Intanto Alfred
continuava
indisturbato la sua commedia, tornando a parlare con la sua voce
naturale, come
se stesse rispondendo alla sua adorata sorella.
“Come
desideri,
Alexia, sebbene avrei trovato più ricreativo ucciderla ora.
Sono stanco di
vederla gironzolare senza senso, ma se il tuo intento è
divertirti, sarò lieto
di trasformare il suo soggiorno nello spettacolo più
allietante che tu abbia
mai visto. La piccola Claire sarà il nostro passatempo
perfetto, il balocco più
interessante da vedere sprofondare sempre di più nel terrore
più profondo e
angustiante….”
Rise
l’uomo sotto i
baffi, picchiettando il fucile contro le aste che contornavano la
ringhiera, emettendo
un rintocco molesto e provocatorio che echeggiò per tutto
l’atrio martellando
la testa della giovane.
A
quel punto, esasperata,
Claire Redfield non ne potette più di
quell’assurda conversazione e sbottò
prima ancora di misurare le sue stesse parole.
“Oh,
ma per favore, Alfred! Piantala! La tua squallida e scarsa attitudine
alla recitazione non è nemmeno paragonabile a quella di
un’attricetta di serie
B!”
Pronunciò
in modo irriverente e sfrontato, alzando un sopracciglio con
fare derisorio verso colui che invece credeva di portare avanti una
commedia
perfetta.
La
reazione del biondo, infatti, non tardò a venie, il quale di
scatto ritirò
le braccia appoggiate al parapetto della passerella, per posizionarsi
in modo
più rigido, pronto a prendere la mira e sparare a vista la
donna che aveva
osato umiliarlo.
“Stai
zitta!!”
Egli
urlò, simulando di far partire un colpo di fucile, senza
però
avere la reale intenzione di sparare al momento, nonostante fosse
fortemente guidato
da un profondo senso di frustrazione. Claire, che per nulla al mondo si
sarebbe
persa la sua reazione, allungò il viso oltre la colonna e fu
così compiaciuta
di aver colpito nel segno che si divertì a mettere ancora di
più il dito nella
piaga.
“Fossi
in te, mi farei vedere da un bravo psicanalista!”
Disse
sogghignando, al che Alfred per davvero fece partire un
proiettile, dal quale la rossa si riparò appena in tempo
comprimendosi prontamente
contro la parete.
Sebbene
la pericolosità di quella situazione, doveva ammettere che
si
stava divertendo parecchio a stuzzicarlo.
Una
volta terminato quel piccolo battibeccò, il ragazzo
abbassò la
guardia e sembrò riflettere su qualcosa. Claire fu
incuriosita da
quell’improvviso silenzio, così sbirciò
di nuovo in sua direzione e scrutò la
sua longilinea figura mentre poggiava il peso su di una gamba in modo
disteso.
Lo
vide infine sghignazzare e portare una mano fra i sottili capelli
pallidi
stendendoli all’indietro, ma non avendo modo di fissarli,
questi caddero di
nuovo avanti il viso.
“Sei
sicura di poterti permettere di prenderti gioco di me, Redfield?
Guardati intorno…la maggior parte delle aree di questa villa
sono chiuse e le
chiavi sono quasi tutte in mio possesso. Dimmi, trovi ancora divertente
la
situazione in cui ti trovi?”
Allargò
le braccia e attese che la donna rispondesse, ma lei non si
lasciò
intimorire. Al contrario, fu lei ad attendere la sua prossima mossa,
cercando
di capire quanto prima dove lui volesse andare a parare. Intanto il
ragazzo
continuò il discorso.
“So
benissimo dove sei nascosta e conosco ogni meandro dove potresti
rifugiarti, potrei infine ucciderti in qualsiasi istante se solo lo
volessi….ma
sarebbe un vero peccato interrompere il divertimento proprio ora che
è appena
cominciato, no? Dunque… cosa ne dici di un patto?”
“Un
patto?” interruppe Claire sorpresa. “Con te? Fossi
matta, tu sei completamente
fuori se pensi che io possa accettare.”
A
quella risposta seguì una sonora risata da parte di Alfred,
il quale
calò la testa all’indietro come volendo
sottolineare quanto trovasse comica
l’immagine della Redfield, cosa che ovviamente subito mal
dispose la ragazza
che lo guardò accigliata.
“Ah,ah,ah,ah!”
Si
fermò e tornò serio, sebbene il tono provocante e
derisorio non scomparve
dalla sua irritante voce.
“Intendo
porgerti un piccolo aiuto. Ti aggrapperai disperatamente alla
tua misera e insignificante vita quando invece le tue speranze non
faranno
altro che ampliare infinitamente le tue sofferenze. Un’atroce
e infinito
supplizio che mi farà dilettare
enormemente…ih,ih,ih!” rise. “E se poi
sopravvivrai,
sarò ugualmente lieto di essere io a porre fine alla tua
esistenza, ah, ah, ah!”
Pronunciò
il biondo Ashford infine, ridacchiando come un’indisponente
donnicciola, esattamente come faceva quando confondeva il suo animo con
quello
di Alexia; dopodiché adagiò a terra un piccolo
oggetto e si allontanò dalla
passerella, oltrepassando la porta e inoltrandosi in qualche zona del
castello.
Claire
rimase esterrefatta, inquietata da quella ambigua e controversa
conversazione. Cosa aveva voluto dire Alfred?
L’unica
cosa che potette fare, dopo essersi assicurata che l’uomo
fosse
uscito dal suo campo visivo, fu di andare a controllare cosa egli le
aveva
lasciato sul pavimento.
Risalì
quindi le scale e ritrovò, esattamente dove lui era
posizionato prima,
una piccola chiave d’argento.
La
raccolse fra le mani, interrogandosi su ogni ipotesi.
Poteva
essere una trappola, o qualsiasi altra cosa…
Fatto
stava che in una cosa il ragazzo aveva ragione: la maggior parte
delle porte erano chiuse, quindi quella chiave rimaneva il suo unico
lascia
passare che avrebbe potuto aiutarla a proseguire le sue indagini.
Nessun
ragionamento razionale avrebbe mai potuto aiutarla in quella scelta che
invece
andava fatta ad istinto, ed ella infatti decise di fare quel tentativo.
Non
aveva altra scelta e se questo significava dimostrare ancora una volta
ad
Alfred che lei era un osso più duro di quanto immaginasse,
allora avrebbe
raccolto la sua sfida. Così anch’ella si
inoltrò per i meandri della villa,
alla ricerca della porta che quella chiave avrebbe aperto.
***
Villa
Ashford – primo piano
Notte
“Dunque….sono
scesa per delle scale, ho imboccato un corridoio, sono
arrivata in cucina e da lì nella dispensa. Mi sono
arrampicata al primo piano e
sono giunta in un salone. Il corridoio di quest’area, situato
nell’area ovest della
villa, porta nell’atrio principale. ”
Sussurrò
fra sé e sé Claire mentre disegnava su un pezzo
di carta
reperito in giro tutto il percorso intrapreso fino a quel momento.
Tenendo
come punto di riferimento la stanza di Alexia, o almeno quella in
cui lei era stata tenuta prigioniera, poté risalire a una
sorta di mappatura di
quel luogo sconosciuto, sebbene mancassero decisamente troppi ambienti
per
definirla una mappa.
Tuttavia
almeno adesso conosceva l’ubicazione dell’area
principale del
castello rispetto le stanze che era riuscita a perlustrare al momento.
Questo
era già un inizio.
Una
delle qualità che aveva particolarmente sviluppato negli
ultimi
mesi era sfruttare il senso dell’orientamento: aveva provato
sulla sua pelle
quanto potesse essere vitale in circostanze simili, letteralmente.
Sapere
dove andare, come muoversi, ricordare ogni dettaglio, immagazzinare
quelle informazioni necessarie per orientarsi…erano stati
tutti elementi che le
avevano permesso di salvarsi dal disastro di Raccoon City. Senza quella
capacità logica, non ce l’avrebbe mai fatta. Le
sole armi e forza combattiva
non bastavano; serviva intuito e molta intelligenza.
Così
sapeva a prescindere già da adesso quanto fosse importante
imparare i percorsi già intrapresi quanto prima. Avrebbero
potuto rivelarsi
utili nei momenti più inimmaginabili, magari quelli in cui
avrebbe visto la sua
vita a repentaglio.
Roteò
fra le dita la chiave che Alfred Ashford le aveva lasciato.
Era
di un colore argento molto luminoso e sui bordi vedeva disegnati
degli ornamenti circolari. Se la serratura aveva le stesse
caratteristiche,
allora aveva qualche probabilità di riuscire a trovare la
porta giusta. Non
sarebbe stata una ricerca tanto impossibile, rifletté,
soprattutto perché la
maggior parte delle porte di quella villa avevano serrature
d’ottone, quindi
tinte più su tonalità dorate.
Una
porta che dunque non avesse avuto quel colore, avrebbe già
di suo
attirato la sua attenzione.
Aveva
già perlustrato l’atrio e il corridoio
dell’ala ovest del primo
piano, il luogo dal quale era venuta, e aveva appurato infatti che di
porte con
caratteristiche simili non ce n’erano molte.
Purtroppo
però, della nuova area nella quale era riuscita ad accedere
tramite il varco nella dispensa, alcuna serratura aveva le sembianze
giuste e
anzi…erano per di più quasi tutte chiuse
dall’interno.
Nel
corridoio dell’ala ovest non aveva trovato
null’altro che saloni.
In
totale c’erano tre porte lì: una era quella dalla
quale era salita
dal magazzino; nella seconda aveva trovato un altro inutile salone,
stavolta
però ricoperto completamente da vecchi teli, poggiati per
preservare
inutilmente i vari arredi; l’ultima invece era un comunissimo
studio, privo di
qualsiasi elemento che attirasse la sua attenzione, ed era
lì che si trovava in
quel momento, adagiata sulla poltrona di pelle posta dinanzi
un’antica
scrivania.
L’unica
cosa interessante che aveva trovato durante la sua perlustrazione
era un accendino dall’aria anche abbastanza costosa,
funzionante, il che poteva
essere utile in un luogo tenebroso come quello.
Giocò
col meccanismo accendendo e spegnendo la fiamma, sperando secondo
una strana logica che anche la sua mente si illuminasse allo stesso
modo, alla
ricerca di una qualsiasi intuizione che la portasse a comprendere dove
usare
quella chiave.
Mentre
quel fuoco danzava vibrante davanti ai suoi occhi, Claire
cominciò
ad avvertire freddo e molta sonnolenza.
Probabilmente
non c’erano riscaldamenti, doveva quindi apprestarsi a
trovare qualcosa con cui farsi calore e magari cercare di riposare
qualche ora.
Soffiò
sulle mani e tirò a sé una coperta di lana
reperita in uno dei
saloni, cercando di scaldarsi. Non era troppo attirata
dall’idea di concedersi
un momento di riposo e perdere conoscenza in balia del sonno, in
verità. Dopo
quel che aveva passato, la spaventava enormemente l’idea di
ritrovarsi
prigioniera ancora una volta.
Dopotutto
però Alfred le aveva proposto una tregua, a quanto aveva
capito. Riflettendo fra sé, arrivo alla conclusione che
doveva esserci qualcosa
in quella stanza che avrebbe aperto con la chiave d’argento,
e lui sembrava
allettato all’idea che lei vi entrasse. Poteva quindi fidarsi
sul fatto che non
l’avrebbe infastidita troppo fino a quel momento?
Purtroppo
il biondo aveva avuto ragione, come già costatò
quando decise
di raccogliere quella chiave: si trovava in un baratro, prigioniera di
quella
villa immensa e, suo malgrado, non aveva altra scelta se non proseguire
e
assecondare il suo gioco. Almeno al momento, sebbene i rischi che
sapeva avrebbe
corso.
Non
aveva altre strade da seguire.
Sarebbe
stata in guardia, attenta a qualsiasi tranello cui sarebbe
potuta incappare; tuttavia quella chiave d’argento rimaneva
comunque l’unico
lascia passare che deteneva in quale momento.
Avrebbe
quindi continuato le ricerche, sperando di usare a suo
vantaggiò quel qualunque cosa avrebbe trovato in quella
stanza che Alfred
voleva che lei aprisse.
Si
prefissò quindi di chiudere gli occhi giusto per qualche
minuto, in
modo da riprendere le forze e continuare quella battaglia.
Il
freddo tuttavia le impediva di rilassarsi completamente,
tant’è che
cominciò a tremare incessantemente.
Mentre
cercava di combattere quei brividi tremendi, continuò
mentalmente a perlustrare quella villa, dovendo per forza distrarsi in
qualche
modo.
Rifletté
che l’unica area che non aveva ancora ispezionato era proprio
quella dove era cominciata la sua fuga: dove si trovava la sua camera
da letto
quando era stata Alexia.
Sospirò.
La sola idea di ritrovarsi in quella stanza la nauseava,
ricordando quei lunghi giorni in cui non riusciva ad essere reattiva e
coscienziosa, narcotizzata dai fumi con cui Alfred la teneva alla sua
mercé. Tuttavia
c’era in gioco la sua vita e non poteva essere schizzinosa,
purtroppo.
Tra
qualche ora sarebbe tornata indietro, decise, verso quella
maledetta camera. Sperò almeno che sarebbe stato un viaggio
proficuo e che vi
avrebbe trovato qualcosa di utile.
Si
rannicchiò quindi dentro la coperta, sperando di riscaldarsi
e dormire
un po’, per poi continuare le sue indagini.
***
Villa
Ashford- sala da pranzo
Notte
Il
caldo tepore del fuoco sfavillante proveniente dal camino posto in
fondo alla stanza rendeva l’ambiente molto confortevole e
rilassante.
Un
paio di divani scuri s’incrociavano davanti al suo cospetto,
illuminati
dal suo colore intenso a metà tra il giallo ed il rosso, i
quali pulsavano vivi
avvolgendo anche il resto di quel salotto.
Alle
loro spalle, un antico orologio a pendolo aveva da poco segnato le
undici di sera ed adesso emetteva solo dei piccoli rintocchi,
percettibili
soltanto se immersi nel completo silenzio di quella notte buia discesa
impetuosa, che aveva gettato nell’ombra tutto il castello.
Quell’armonia
rilassante e confortante fu spezzata improvvisamente
dall’ingresso del ragazzo che abitava fra quelle mura.
Egli
solcò il pavimento leggiadro, sfilando al contempo la sua
giacca
militare.
Slacciò
uno ad uno i bottoni placcati d’oro, muovendosi accuratamente
in modo da non disfare gli ornamenti che rendevano prestigiosa la sua
divisa, che
simboleggiavano la sua vita militare.
Fece
scivolare quindi l’elegante casacca rossa dalle sue spalle,
scoprendo la raffinata camicia bianca che portava al di sotto, un capo
visibilmente sartoriale che accarezzava il suo corpo in modo perfetto.
Nonostante avesse portato la giacca fino a quel momento, essa non
presentava alcuna
piega o increspatura; era invece perfettamente in ordine e rendeva
composta e
raffinata la sua impeccabile figura altolocata.
Il
biondo poggiò la giacca sullo schienale di una poltrona
situata di
fronte una specchiera, ove prese posto per rassettare la sua immagine,
rimasta
in disordine decisamente troppo a lungo rappresentando
l’altissimo standard di
una famiglia prestigiosa come quella Ashford.
Osservò
quindi la sua effige scrutandosi quasi a livello morboso, come
distinguendo ogni difetto di quel viso impeccabile. Aggiustò
il nodo della cravatta
legato in stile “plastron”,
in
inglese conosciuto come “ascot”, realizzato
incrociando le lunghe fasce bianche di seta legate sotto il collo e
fermate
elegantemente con un piccolo spillo.
Alfred
girò il capo sia a destra che a sinistra, non staccando gli
occhi dallo
specchio. Passò infine una mano fra i capelli, che prese a
maneggiare
insistentemente all’indietro, usando una cospicua
quantità del gel che reperì
dal cassetto della specchiera, finché non
riordinò la sua solita acconciatura
da gentiluomo.
Ristabilì
così il suo usuale stile estetico, volto a valorizzare la
sua classe e il suo
prestigio, una perfezione che sembrava quasi lottare contro lo
squilibrio
mentale in cui in realtà egli era ingabbiato.
Eppure
vi era una sottile coerenza fra la sua ordinata e signorile figura, e
il caos
che regnava al suo interno:
la
maschera perfetta di un uomo privo
di certezze e oramai costretto a stare in bilico sul baratro che aveva
decretato la sua pazzia.
Egli
si osservò un’ultima volta allo specchio, avvolto
dal candore
della camicia che aveva spezzato la rigidità che solitamente
gli conferiva la
divisa militare.
Solo
nelle sue stanze private egli si muoveva con fare più
sciolto,
confortato dal calore che solo la sua casa sapeva dargli. Si
sollevò così dalla
poltrona, lasciando la casacca rossa sullo schienale, e uscì
da quel caloroso ambiente,
dirigendosi verso la sala da pranzo.
Essa
era una stanza ampia, cupa, occupata unicamente da un tavolo di
legno scuro, lungo più di tre metri di lunghezza.
Il
tavolo era illuminato da una serie di candelieri, tutti accesi e
posizionati vicino fra loro, un numero sproporzionato rappresentando
che vi era
una sola persona accomodata.
Il
biondo, infatti, era l’unica presenza ivi posizionata; egli
era
seduto a capotavola, come abituato a quel senso di vuoto e a quella
completa
desolazione.
Con
fare naturale, adagiò con garbo il tovagliolo sul suo
grembo. I
piatti erano già a tavola, presentati davanti il loro
padrone in perfetto
orario.
Con
fare lento e rilassato, fece affondare la forchetta nel suo pasto
finemente presentato, curato nei minimi dettagli
com’è consono fare nell’alta
cucina, ed assaporò il tutto con estrema apatia,
mantenendola la sua aria nobiliare.
Seppur
fosse completamente solo in quella lunga tavolata, infatti, era
come se mille occhi lo fissassero; neppure nel momento del pasto
sembrava
libero di essere a suo agio, in quanto la sua rigida educazione
prevaricava sul
suo istinto, così ormai gli veniva dal tutto naturale
conservare una certa
regalità anche quando era da solo.
Avvicinò
la forchetta alla bocca e degustò un tenero pezzetto di
carne,
masticando senza fretta, dopodiché allungò a
sé il calice di vino rosso, che
inclinò in direzione dell’ altro capo del tavolo,
come rivolgendosi ad una
rarefatta presenza che onorava la sua mensa: lo spettro che abitava con
lui in
quelle ampie e desolate mura, la cui presenza non
l’abbandonava mai, arrivando
fino a confondere la sua percezione della realtà e della
menzogna.
Sollevò
il bicchiere e sorrise, poi lo avvicinò alla bocca e ne
bevve
un piccolo sorso.
“Come
sei stata sciocca, Claire. Perdere il lusso che ti era stato
concesso, il favoloso prestigio di cui eri stata onorata e di cui io ti
avevo
fatto dono. Una vera ingrata, vero Alexia, mia cara?
In
fin dei conti, però….peggio per te. Spero sarai
lieta di passare
questa fredda notte negli angoli bui e rigidi di questa casa, lontano
dalle
magnificenze di cui ti avevo circondata. Buon riposo,
dunque…e sogni d’oro.”
Pronunciò
accattivante, infierendo sulla drammatica situazione in cui
in realtà verteva la ragazza dai capelli rossi.
Alfred
parlò come offeso da quel suo tradimento, dal fatto che ella
fosse scappata preferendo nascondersi nel buio e nella polvere pur di
non
godere dei privilegi che lui le aveva concesso.
Figurava
dentro di sé l’immagine rannicchiata di Claire in
qualche
angolo sperduto del suo maniero, come potendola vedere nitidamente con
i suoi
occhi mentre si contorceva nel freddo di quella notte.
Sorrise
divertito, godendo dei rimpianti che secondo la sua logica ella
avrebbe dovuto nutrire.
Un
sorriso in realtà amaro e desolato verso una solitudine che
non riusciva
a soppiantare e che era stata offesa dal gesto compiuto dalla Redfield.
Egli
riprese intanto a consumare il suo pasto, come volendo allontanare
da sé quella consapevolezza, in quanto in realtà
addolorato profondamente da
quella ferita.
Così,
nel calore e nel lusso di quell’immensa sala da pranzo,
assaporò acidamente
le pietanze come volendo trafiggere la donna che aveva usato
rifiutarlo. Questo
mentre altrove Claire Redfield si muoveva in un sonno che non riusciva
a
venire, tremante in quel gelido studio abbandonato, riscaldata
unicamente dal
fioco bagliore della fiamma dell’accendino e dalla coperta
che non faceva che
stringere a sé inutilmente.
***
NdA:
Spero
che la storia vi stia piacendo. So bene di star trattando un
personaggio poco considerato della saga, ma mi auguro apprezziate il
mio
impegno e che riusciate a vedere la passione che sto mettendo in questa
fan
fiction.
Vi
lasciò con un’illustrazione fatta da me. :)
Claire
Redfield con il vestito di Alexia “strappato”.
Siccome ci tengo
che durante la lettura possiate immaginarla perfettamente, ho pensato
che
realizzare una bozza sarebbe stato carino…è un
disegno semplice, giusto per
rendere l’idea.^^
Immaginate
l’abito di Alexia di cove veronica, tuttavia tagliuzzato
all’altezza delle cosce, quindi in modo sfrangiato. Questa
immagine vi sarà
utile per questo capitolo e per il prossimo, durante il quale
recupererà i suoi
vestiti.
A
presto!
Fiammah_Grace
Claire Redfield
Alexia’s dress - ripped
version
Resident
Evil code veronica x
Fanfiction: the only woman, the only queen
By fiammah_grace
!!!ATTENTION!!!
This outfit is made by me, the copyright is of
my
fanfiction “the only woman, the only queen”.
You can’t use it!
A
presto!
Grazie per aver letto!
Fiammah_Grace
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