Chrysantemum Hill

di Ilarya Kiki
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I -prologo- ***
Capitolo 2: *** Capitolo II -La mia vita fa schifo- ***
Capitolo 3: *** Capitolo III -Nel parcheggio dell'autogrill- ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV -Tarja- ***
Capitolo 5: *** Capitolo V -Cypress street n°18- ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI -Lacrime e acqua santa- ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII -L'erede- ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII -A new day- ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX -Fuoco- ***
Capitolo 10: *** Capitolo X -La verità- ***
Capitolo 11: *** Capitolo XI -Angeli- ***
Capitolo 12: *** Capitolo XII -Mostri e ricordi- ***
Capitolo 13: *** Capitolo XIII -Luglio, afoso pomeriggio estivo- ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIV -Inferno, settimo cerchio, terzo girone- ***
Capitolo 15: *** Capitolo XV -L'impossibile, disperata missione della Principessa dei Demoni- ***
Capitolo 16: *** Capitolo XVI -La bottega di Flo- ***
Capitolo 17: *** Capitolo XVII -Alla ricerca di Edvard- ***



Capitolo 1
*** Capitolo I -prologo- ***


Prologo

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Scoccò la mezzanotte, a Chrysantemum Hill.
Rintocchi sordi e lugubri di lontane campane vibravano nell’aria, innalzandosi tra lo stormire degli uccelli notturni sui comignoli
e il frusciare delle nere fronde, su, in alto, oltre il campanile fino al pallido circolo della luna piena.
L’antico villaggio risuonava di lutto, Ogre Lucifer era morto.

Una ragazza era stata chiusa a chiave in una stanza buia, ed il canto funebre delle campane, giungendo a lei attraverso le imposte di noce
sbarrate, le fece scorrere un brivido di gelo per la spina dorsale. Era il momento di andare.
Si avvicinò per l’ultima volta al grande tavolo di legno, e raccolse le poche cose che era riuscita a radunare prima di essere imprigionata in quella stanza,
infilandole con strenuante lentezza nella sua bisaccia di cuoio, come per guadagnare tempo, per allungare fino allo stremo ogni istante, per allontanare il più possibile quel momento fatidico.
Aveva paura, davvero, calde lacrime di terrore le rigavano le bianche gote, ma doveva fuggire.
Doveva fuggire di lì, o adesso o mai più.
Raccolse dalla superficie di legno un vecchio pezzo di carta piegato in due, che aveva appoggiato lì poco prima, lo aprì e lo guardò; questo le diede forza,
la ragazza si morse le labbra, baciò il foglio e se lo infilò in un taschino sul petto, dopo averlo ripiegato.
Avvicinatasi alla pesantissima porta, sussurrò un incantesimo alla serratura, e questa rispose con uno scatto soffocato.

La processione funebre incedeva lentamente al ritmo pesante e sordo del tamburo che scandiva la nenia, voci di creature oscure intonavano il triste e monotono canto, composto di parole sconosciute al linguaggio umano. La luce delle fiaccole illuminava a stento la via principale, e pertanto le sentinelle poste a guardia delle porte della reggia di Lucifer avrebbero dovuto prestare molta più attenzione al loro compito, aguzzando gli occhi indagatori nell’oscurità, piuttosto che starsene a fissare il funerale, grugnendo di frustrazione per il fatto che erano ancora costrette a lavorare anche dopo la morte del loro sommo padrone.
Se la prigioniera, come aveva previsto il Cerimoniere, avesse tentato di fuggire, non doveva assolutamente riuscire nell’impresa, o la punizione sarebbe stata terribile.
Infatti, naturalmente, nessuno si accorse di una ragazza che con movimenti spezzati e tremanti rotolava al di fuori di una delle finestre delle cucine sul retro, sobbalzando per il terribile fracasso che era convinta di aver provocato, e che trattenendo il pianto sgattaiolava oltre gli alti cancelli di ferro ricoperti d’edera attraverso una fessura che aveva notato già molti anni prima, e che aveva conservata nella mente per tutto quel tempo proprio in vista di quel sospirato momento.
Corse a perdifiato tra tassi e querce, con il viso sferzato dai rami, in discesa, giù per la collina, lontano da Chrysantemum Hill, lontano dal suo passato, verso un futuro ignoto, ma con una missione nel cuore.
“Sto venendo a prenderti, mia dolce Cherì!”

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Capitolo 2
*** Capitolo II -La mia vita fa schifo- ***


La mia vita fa schifo

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Erano le undici e mezza di una mattinata uggiosa, e la sveglia di Amy Wong trillò in modo irritante.
Una mano assonnata si abbatté distruttiva sul meccanismo saltellante, e lo squillo si fermò, seguito subito da una serie indefinita di grugniti e imprecazioni da strada.
Il sorriso rassicurante di Serji, come ogni mattina, diede ad Amy il buongiorno, appiccicato al muro sopra il comodino con due grandi strisce di scotch, fissato sempre uguale per l’eternità sulla sottile pellicola fotografica.
Dopo un lungo sospiro, la ragazza si sollevò come uno zombie dal letto, ed andò in cerca del barattolo del caffè nella credenza semi-vuota, maledicendo ogni cosa che toccava: si sarebbe dovuta trovare all’ufficio di call-center entro un ora, possibilmente pettinata e con una parvenza di decoro, e soprattutto con un’ingente dose di caffeina nel sangue.
Trovò il barattolo, lo aprì e scoprì che era vuoto.
Ah…già, che idiota, doveva ancora andare a fare la spesa, perché le avevano ritardato la consegna dello stipendio. Pazienza, si sarebbe fatta mettere in conto un altro espresso nel bar sottocasa.
Si diresse nel suo angusto bagno, dove si sciacquò la faccia un paio di volte per eliminare quella crosta da morta vivente che le abbruttiva i lineamenti appena sveglia, poi rimase a fissare la sua immagine nello specchio crepato, con espressione vacua.
Quei capelli, irsuti e tinti di blu elettrico, le stavano precludendo ogni speranza di promozione da part-time a posto fisso, e quel piercing che le forava il labbro inferiore, appena sopra il mento, si stava infiammando di nuovo.
Inoltre la sera prima si era dimenticata di struccarsi, e tutto quell’eye-liner le affossava gli occhi in due macchie nere e pasticciate, con un deprimente effetto panda.
Che brutta faccia, pensò.
Se le fosse importato qualcosa della sua vita, probabilmente si sarebbe tolta il piercing prima di andare al lavoro, e magari avrebbe cominciato a programmare di tingersi i capelli di un colore un po’ più sobrio, ma si rifiutava ostinatamente di farlo, e poi, con che soldi se la sarebbe pagata, la tinta, dato che non ne aveva nemmeno per comprare il caffè?
Si pettinò i capelli stopposi in una coda di cavallo, camuffò come meglio poté le tracce della notte precedente sul suo viso, infilò la camicetta rosa che le avevano dato al lavoro e uscì di casa, scendendo di corsa le scale del condominio per non dover ingurgitare l’espresso bollente a causa del ritardo.

Leadenville non era poi così male, come cittadina, almeno per quanto riguardava il centro. Era qui che sorgeva il palazzone dove lavorava Amy, che conteneva nel piano interrato quel tugurio pieno di telefoni e computer e muri di cartongesso e cavi e umido e poveracci sottopagati, che certo dall’interno non era un bel vedere, ma almeno da fuori si vedeva la bianca facciata dell’edificio con una bella scalinata in marmo, e lasciava intuire l’agiatezza e il gusto degli uffici ai piani alti, che ad Amy sembravano come un paradiso irraggiungibile e proibito.
Per arrivarci bisognava passare per il centro, percorrere tutta quanta Violet Street con i suoi negozi dalle vetrine ammiccanti e dai prezzi impossibili, oltrepassare il municipio svolazzante di bandiere colorate ed infine parcheggiare il motorino nel pertugio più grande che si riusciva a trovare tra le auto e le biciclette pigiate l’una contro l’altra come cespugli di metallo ramificato.
Dopo aver affannosamente incastrato in qualche modo il lucchetto sul suo scassatissimo mezzo, Amy si precipitò dentro il portone del palazzone bianco, presagendo la bacchettata che avrebbe ricevuto dai suoi superiori per i due minuti di ritardo.

Eh, già, Leadenville aveva proprio un bel centro, Amy ci era vissuta da bambina con la sua famiglia, prima di trasferirsi in quel buco di monolocale nei tristi sobborghi pieni di cemento.
Quando era una bambina…non voleva mai pensare a tutto il suo passato prima del momento del suo trasferimento, senò poi le veniva voglia di ubriacarsi e poi il giorno dopo andava al lavoro col mal di testa e scialacquava in alcool tutto il gruzzoletto che con buona volontà continuava a raggranellare.

Le due ore e mezza lavorative sembravano non finire mai, e quando finalmente finì il suo turno Amy salutò come una benedizione la luce del sole, che le schiarì un po’ la mente confusa e inebetita dall’ininterrotto ed estraniante atto di ripetere all’infinito la formula dell’agenzia assicurativa, ad ogni squillo del telefono, e da tutte quelle parole complicate che scorrevano sul dextop del vecchio pc, che era stata costretta ad imparare a memoria.
Tornò a casa in fretta, di umore leggermente migliore rispetto al solito: finalmente quell’odiosa stitica impomatata della segretaria le aveva consegnato la sospirata busta piena di soldini!
Così almeno avrebbe pagato la bolletta dell’elettricità e finalmente il frigo agonizzante avrebbe ricevuto qualcosa di buono da tenere al fresco, e poi magari le sarebbe rimasto qualcosa d’avanzo per il gruzzolo.
Amy evitava accuratamente di pensarci, al gruzzolo: di solito la gente risparmia i soldi in vista di qualche progetto, ed Amy semplicemente non ne aveva.
Non aveva più sogni, non più, e questo pensiero la deprimeva.

Giunta sotto casa, parcheggiò in fretta il motorino e salì a balzi le scale buie e polverose, fece scattare la serratura della sua porta e stava per entrare, quando una voce allegra la bloccò sulla soglia e la infastidì.
“Ciao Amy! Torni dal lavoro, eh…? Ti va di mangiare qualcosa da me?”
Dall’uscio dirimpetto a quello della giovane Wong era sbucato un ragazzo con una gran massa di capelli rossi piastrati davanti alla faccia, alto e rachitico come un palo della luce; si chiamava Davey e faceva lo studente di filosofia, e aveva la pessima abitudine di provare ogni giorno a fare amicizia con Amy.
La ragazza come tutta risposta sbuffò senza neanche voltarsi e gettò la sua borsa sul divano sfatto
-raggiungibile con un bel lancio dalla porta-
“Non ci sperare, coso, che stasera ho da fare.”
Amy si apprestò ad entrare, ma Davey le si piantò davanti con un balzo improvviso, bloccandola in modo irreversibile, considerando che Amy gli arrivava a stento all’altezza dello sterno con tutta la testa, e mostrando un’invitante fetta di pizza grondante olio e mozzarella tra le mani e un sorriso smagliante stampato sulla metà della faccia libera dai capelli.
“Guarda che lo so che non hai ancora mangiato, e so anche che hai il frigo vuoto, dai, non morire di fame solo per continuare a fare la scorbutica con me!”
“Che fai, mi controlli!? E comunque ti sbagli, ho appena ricevuto lo stipendio e oggi mangerò da regina! Stavo giusto andando a fare la spes…”
Amy tentò di svincolare dalla presa dello studente, ma lui la bloccò di nuovo sul pianerottolo, con l’unico sopracciglio visibile aggrottato di disapprovazione.
“Fai la spesa a quest’ora!?”
In effetti quella della spesa era solo una scusa scema campata per aria per fuggire all’irritante buonumore di Davey, erano già le due e mezza di pomeriggio e Amy stava in piedi con l’espresso scroccato al bar quella mattina, a quel punto, il suo stomaco fu più convincente del suo astio cocciuto.
Afferrò la pizza che Davey le porgeva e con un morso ne fece sparire metà, rivolgendosi poi a lui con la bocca piena e sputacchiante.
“Ok, ti è andata bene perché mi hai beccata in un momento di carestia, ma guarda che ti concederò solo dieci minuti perché ho da fare!”
Lo spilungone esultò con la sua espressione allucinata visibile solo a metà, e poi portò fuori da casa sua i due cartoni di pizza caldi e fumanti, porgendone uno ad Amy.
I due si accovacciarono per terra sul primo gradino delle scale di pietra consunta, con il pranzo sulle ginocchia, e cominciarono avidamente il gustoso banchetto.
Amy si concentrò solo sul masticare, evitando di concedere la benché minima attenzione al ragazzo: le dava già abbastanza fastidio il fatto di essere ceduta alla proposta di quel bietolone, e non aveva minimamente intenzione di concedergli ulteriori soddisfazioni.
Ignorando l’ostinato silenzio di Amy, Davey tentò lo stesso di attaccare discorso con lei in tono amichevole e premuroso:
“Senti, stasera io e un paio di miei amici andiamo al cinema a vedere quel film che continuano a trasmetterne il trailer alla radio, Monstermou…Mustairmau…beh quello lì, e poi passiamo la serata al Green Hat. Ti va di venire con noi? In quel pub fanno una polenta spettacolare…”
“No. Ti ho già detto che ho da fare. E poi non mi piace il Green Hat, è troppo affollato.”
“Non vorrai mica andare di nuovo a bere in quel squallido autogrill tutta sola!?”
La ragazza dai capelli blu squadrò con sguardo truce la parete del vano delle scale davanti a lei, masticando più rumorosamente, in silenzio.
“Non dovresti andare in quel posto! È pericoloso! E poi te ne vorrai ancora andare in giro di notte chissà dove tutta sola, e rientrare all’alba facendo un casino che hai svegliato tutto il condominio!”
“Ero ubriaca!!!”
Davey infervorandosi sempre di più spostò il cartone della pizza sul pavimento e si volse verso la ragazza.
“Ma dove speri di andare vivendo così, fuggendo le persone!? Cosa vuoi fare della tua vita!? Non ti rendi conto che se continui in questo modo finirai in qualche carcere o centro di disintossicazione o…”
Amy si alzò di scatto, con la pizza in mano, e sibilò con espressione monolitica:
“Non sei mia madre.”
Entrò in casa sua e sparì alla vista facendo sbattere la porta, lasciando lo studente sulle scale, solo e sbigottito.

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Capitolo 3
*** Capitolo III -Nel parcheggio dell'autogrill- ***


Nel parcheggio dell'autogrill

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Amy se ne stava tutta sola al bancone del bar dell’autogrill, con un bicchiere vuoto appoggiato davanti a sé.
Non c’era una bella atmosfera, in quel posto: la luce elettrica e una mosca, che ostinatamente sbatteva contro il vetro, erano la due cose che più rappresentavano lo squallore e la sporcizia incrostata caratteristiche del locale.
L’umore di Amy era in perfetta sintonia con l’ambiente, era per questo che continuava a tornarci, e anche perché, a parte l’inserviente brufoloso e qualche vagabondo di passaggio, l’autogrill era sempre deserto, a quell’ora.
Chiese un altro bicchiere, e dopo averlo ottenuto lo fece sparire in un secondo, cercando di sopire la furia fiammeggiante che le aveva acceso Davey qualche ora prima: quello stupido emo aveva oltrepassato ogni limite; si permetteva di ficcare il naso in affari che non lo riguardavano neanche di striscio, faceva paternali sentenziosi da moralista utopistico su fatti che non conosceva e che non avrebbe mai potuto capire, e soprattutto pretendeva che lei lo ascoltasse.

Quella sera, l’unico avventore, oltre ad Amy, era un uomo sulla sessantina piuttosto robusto con un giubbotto di cuoio ed una birra, probabilmente un camionista che faceva la sosta notturna presso l’uscita autostradale di Leadenville, e se ne stava seduto su un tavolino vicino alla porta solo e silenzioso.
Meglio così, Amy odiava le presenze umane attorno a sé.

Un improvviso rumore di porta che viene aperta interruppe il silenzio ronzante di lampade al neon, e l’inserviente in grembiule bianco smise subito di leggere il giornale di gossip, che aveva preso in prestito dal bancone ricolmo di materiale cartaceo a destinazione commerciale all’uscita del locale.
Era entrata una donna molto alta, vestita interamente di nero, piuttosto imbranata, a giudicare dalle movenze imbarazzate e dal tono insicuro con cui si stava rivolgendo all’inserviente, porgendo un foglietto di carta spiegazzato.
“No, mi dispiace, non posso aiutarla” stava dicendo quello, ruminando chewing gum “…lavoro qui ma abito fuori. Chieda pure a quella ragazza, lei è di qui.”
“Oh, nooo…”pensò Amy, affondando la faccia tra le mani, dato che la donna svampita si stava dirigendo a grandi falcate proprio verso di lei.
Odiava avere a che fare con gente del genere, soprattutto quand’era ubriaca: le saltavano i nervi.
“…mi scusi…”
Amy fece strofinare le mani sulla faccia verso il basso, per darsi una svegliata e per prendersi il tempo di far sparire quella faccia disgustata, e quando il viso fu libero alzò lo sguardo sulla nuova venuta.
Non era una donna, non ancora, almeno: il suo viso incredibilmente bianco era ovale, morbido e delicato come quello di una bambina, circondato e seminascosto ai lati da due liste di capelli incredibilmente lunghi e rosso scuro, come legno di ciliegio.
“…mi scusi, non è che potrebbe indicarmi la strada per questo indirizzo?”
Sbatté sotto il naso di Amy il suo foglietto spiegazzato, sul quale era visibile uno scarabocchio e una scritta traballante a matita, dai caratteri infantili: Cypress street n° 18.
Seriamente, Amy in quel momento non era in vena di sforzi mnemonici, soprattutto per una ragazza così strana e patetica.
“Mmm…mi dispiace, non mi dice nulla.”
“Sei sicura!?”
La spilungona si abbatté con le palme aperte sul bancone e piantò in faccia ad Amy due occhioni disperati e quasi deliranti, tremando come se fosse in procinto di scoppiare in lacrime.
“Ti prego, ti prego fai uno sforzo! È molto importante, io sto cercando mia sorella, non la vedo da anni e…”
Non avendo alcuna intenzione di ascoltare vita morte e miracoli di quella esaltata, e spaventata dall’eccessiva confidenza con cui l’aveva aggredita, Amy spostò all’indietro lo sgabello e spinse il foglietto stropicciato indietro al mittente, ritirando poi subito la mano.
“Senti, mi dispiace, ma non mi dice niente. Chiedi a qualcun altro.”
La ragazza in nero abbassò gli occhi sul suo pezzo di carta, afflitta e silenziosa come se le fosse stato appena restituito il suo gatto morto dopo una sgommata sull’asfalto finita male, e con fare luttuoso lo raccolse, lo ripiegò e se lo infilò in un taschino sul petto della lunga giacca nera.

Amy lasciò sbattere la porta a vetri dietro di sé e scappò fuori dal parcheggio dell’autogrill quasi a passo di corsa sull’asfalto maleodorante.
Voleva andarsene di lì, la sua precaria pace di solitudine era stata infranta in modo irreparabile, gli occhi imploranti di quella ragazza vestita di nero le bruciavano stampati nella mente.
Trottò, stringendosi nel giaccone, lungo la via illuminata dai lampioni che rientrava in città, facendo di corsa svolte che di solito percorreva incedendo a passo lento e strascicato, quando provava ad annegare le sue emozioni nell’alcool e nel buio fumoso della notte durante le sue consuete uscite serali.
Emozioni…dannate emozioni, fanno sempre così male! Amy si era ripromessa di rinnegarle tutte, una per una, e di diventare come un sacco vuoto, come un automa che viva una vita miserabile, noiosa, sì, ma almeno sopportabile; proprio ora qualcosa di terribilmente simile all’empatia ed alla pietà le stavano scuotendo l’animo, riportando a galla altre emozioni simili appartenenti alla sua vita passata, quella prima del trasferimento in periferia, che erano collegate a ricordi, ricordi troppo dolorosi…
Da una tasca laterale del giaccone venne estratta una bottiglietta di Jack Daniels, semi-vuota, e una bocca avida e contratta se ne incollò prosciugandola dal liquido rimanente in un secondo con una sola sorsata.
Amy tossì.
“Puttana…oh sì, sei una puttana” sussurrò a sé stessa, gettando via la bottiglia che andò ad infrangersi contro il muretto del cortile della scuola elementare, e scoppiò in una risata macabra.
Oh, sì, davvero una puttana, che lanciava vetri rotti ai bambini, malediceva le orfanelle in cerca della sorellina e danzava sulle tombe dei suoi morti!
Barcollando, la ragazza proseguì il suo cammino, finché la via si inarcò in una leggera salita e si circondò di filari di cipressi: in fondo comparve il cancello di metallo del cimitero.
Era un pezzo d’arte, quel cimitero: ai lati del cancello si ergevano due angeli con le mani incrociate sul petto e le vesti svolazzanti che si fondevano con le alte colonnine, come due sentinelle per la città dei morti; all’interno, l’ombra notturna era fregiata da antichi volti e mani di pietra, e croci imponenti come oscuri incubi.
Quel cimitero era la cosa più antica che esisteva in città, la quale un tempo era stata un monastero di monaci silenziosi, con i campi ed i caseggiati dei loro agricoltori tutt’intorno; il monastero era crollato secoli prima ed il caseggiato si era via via evoluto nell’odierna città. Dell’antica dimora sacra era rimasto solo il vecchio cimitero.
Amy superò il cancello prendendo a calci la ghiaia, e si inoltrò nel buio.

Dopo un arco indeterminato di tempo, la ragazza dai capelli blu decise che aveva bisogno di altro alcool, e dopo aver ritrovato l’uscita di quel labirinto di tombe, si apprestò a tornare all’autogrill su gambe instabili.
Nonostante l’ubriachezza riuscì a non perdersi nemmeno una volta e pose piede nel parcheggio del locale prima di quanto avesse potuto sperare.
Stava proprio pregustandosi il momento in cui si sarebbe seduta e la testa avrebbe smesso di girarle così forte, quando una voce la fermò:
“Ehi bellezza, sicura di stare bene?”
Sollevò lo sguardo dall’asfalto, e con la vista appannata scorse una grossa sagoma scura che si avvicinava velocemente a lei, con un respiro raspante e maleodorante, doveva essere quel camionista che era seduto al tavolino lì dentro prima.
“Ma certo, cosa credi, che non regga l’alcool solo perché sono una donna?”
Quello si affiancò a lei, procurandole una fitta di disgusto e fastidio.
“A me sembri ubriaca fradicia dolcezza, se vieni con me, ti farò stendere un secondo…”
“No! Grazie comunque…”
L’uomo aveva il viso orrendamente butterato, ed i suoi baffoni ispidi puzzavano di fumo e vodka.
“Dai bellezza vieni con me…”
“Ho detto di no!”
L’uomo le si piantò di fronte, insistente.
“Dai vieni stronzetta!”
“Ho detto di n…”
Dalla mano grassa dell’uomo brillò qualcosa, che Amy vide in un lampo, ma seppe riconoscere con un sussulto di terrore solo quando se ne sentì premere la canna fredda contro la nuca, mentre quello l’abbrancava da dietro e le premeva contro il suo corpo disgustoso, cercò di urlare ma la mano grassa le tappò la bocca, e le avvicinò il viso tremante alle labbra umide e ruvide di baffi.
“Ti ammazzo, io ti ammazzo, capito stronzetta? Ora farai tutto quello che ti dirò io…”
Sollevatola di peso, l’uomo la trascinò paralizzata dal terrore nel retro buio del locale, trasportandola senza difficoltà nonostante lei continuasse a dimenarsi come un animale selvaggio, e la sbatté contro il muro sporco accanto all’ingresso dei bagni, pressandola tra la consistenza sudata del suo corpo e la parete di cemento.
Amy sbarrò gli occhi nel vuoto, ormai incapace di qualsiasi reazione che non fosse puro istinto, tentava di urlare con tutto il fiato che aveva nei polmoni ma quel mostro la stava soffocando e nessuno l’avrebbe sentita dimenarsi là dietro in quell’angolo pieno di sudiciume…
All’improvviso, il corpo dell’uomo sobbalzò con uno strano rumore ridondante, rimase immobile un secondo, e poi cadde con tutto il suo peso contro di lei, come un sacco di patate, trascinandola per terra insieme a lui.
Amy si svincolò con movimenti convulsi ed uno strillo, strofinandosi contro il cemento, ma quello non oppose resistenza e lei si ritrovò carponi per terra libera ed ansimante come una bestia fuggita ai segugi del cacciatore, fissando il suo aggressore; il grosso corpo era abbattuto scompostamente a terra, e dalla bocca carnosa tutta storta colava un filo di bava: sembrava che avesse perso i sensi.
Amy sollevò lo sguardo, e vide una figura alta e nera ergersi davanti a lei brandente un ferro per camino tra le mani.
Era quella ragazza di prima, quella che l'aveva importunata con quel suo stupido biglietto scarabocchiato.
Amy si vide porgere una mano in aiuto, e vi si aggrappò come ad un’ancora di salvezza.
“Accidenti, quello è un vero ippopotamo! Come stai amica mia?”
La rossa la squadrò con occhio critico per diversi secondi, considerando che Amy si era rizzata in piedi con mosse innaturali come un robot e la sua faccia era diventata bianca cadaverica.
“Sto…sto bene. Grazie” mormorò con un filo di voce.
Effettivamente, i fumi della sbronza erano stati come soffiati via tutti dal vento tempestoso della paura.
“Ah…meno male, non è da tutti stare bene dopo un tentativo di stupro come quello.”
Amy rimase a fissare la faccia di quella ragazza con un’espressione così inebetita che sarebbe stata più opportuna nei confronti di un alieno, ma lei la continuò a guardarla con occhi ingenui e sollevati.
“Per fortuna che sono arrivata io, o adesso tu non staresti bene per niente!”
Il suo viso pulito si aprì in un sorriso sincero, ed Amy, frastornata, si volse al corpo per terra.
Un rivolo di sangue fuoriusciva nero dal colletto di cuoio, macchiando l’asfalto.
“E’…è morto?”
Amy spaventata si allontanò dal corpo, mentre la rossa, con noncuranza, prese a punzecchiarlo con il suo ferro in corrispondenza dell’enorme deretano.
“…mah…può anche darsi, ma vorrebbe dire che aveva l’ossatura di un lattante.”
“…perciò…è vivo, è vivo, vero? Perché se tu l’avessi ucciso allora…”
“…sì, direi che è vivo.”
Smise il punzecchiamento e si rivolse di nuovo ad Amy.
“Come ti chiami, amica mia?”
Amy esitò per un istante. Era disabituata alle presentazioni.
“Mi chiamo Amy, Amy Wong.”
“Molto piacere, Amy Wong! Io sono Tarja!"

Tarja allungò la sua mano bianca, ed Amy, un po’ in imbarazzo, strinse quella mano, la prima che stringesse da anni.

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Capitolo 4
*** Capitolo IV -Tarja- ***


Tarja

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Amy Wong e Tarja si stringevano la mano nel parcheggio dell’autogrill, accanto al corpo esanime del camionista.
Amy notò solo in quel momento lo strano oggetto che Tarja teneva nell’altra mano, grazie al quale il salvataggio di poco prima aveva potuto avere successo.
“Perché hai un ferro da camino in mano?”
“Oh…”
La rossa sollevò davanti agli occhi la sbarra di ferro nero dalla punta aguzza e curva come un dente di dinosauro, che aveva quasi frantumato il cranio di un uomo solo un paio di minuti prima.
“Sai” rispose con voce malinconica, “mi piacerebbe molto che nella mia nuova casa ci sia un camino, e così ho preso questo per essere pronta nel caso che riesca a trovarne una, ed avere l’attrezzatura idonea.”
Amy trovò la risposta un po’ bizzarra, ma non poté negare di essere infinitamente grata a quella strana ragazza per quello che aveva fatto: era solo merito suo se quel mostro lì per terra non era riuscito a violare il suo corpo.
“Beh…grazie, Tarja…” disse con un certo imbarazzo.
“Ci becchiamo in giro, ok? Ora…forse è meglio che io torni a casa…”
Si girò e fece per andarsene, senza essere neanche riuscita a guardare in viso la sua salvatrice, fece due passi, e non sentì alcun saluto da parte di Tarja.
Si fermò, volgendosi nuovamente all’indietro, e vide che la rossa era rimasta lì dov’era, guardando per terra e giochicchiando con l’estremità puntuta del ferro contro il suo stivaletto, come se ormai non avesse più nient’altro da fare.
“Tu…non torni a casa, Tarja?”
Quella scese come dalle nuvole, e fissò Amy con due occhi allucinati.
“Non ho ancora trovato una casa, almeno per ora. A dir la verità non so dove cercarla, perciò diciamo che non ho nessun posto dove tornare né dove andare a cercare un posto dove tornare. Credo che me ne rimarrò qui.”
Anche se piuttosto frastornato, il cervello di Amy le stava urlando di lasciar perdere quella spostata e di tornarsene a casa al sicuro nella sua amata solitudine, ma qualcosa nella sua pancia le bloccava le gambe.
“…senti…” cominciò a dire, avvampando in volto per l’imbarazzo, “puoi venire a stare da me, stanotte, se non hai un posto dove andare.”
“…davvero!?”
Il volto di Tarja si illuminò come se vi fosse sorto il sole, e subito corse dalla ragazza dai capelli blu, afferrandole le mani e piegandosi in due più volte esclamando formule di gratitudine, e facendo peggiorare drasticamente il rossore di Amy.

“Beh…non è un granché, e il camino non c’è…però…casa!”
Tarja senza fare un complimento si gettò dentro la porta dell’appartamento di Amy, agitando le braccia e gettando gridolini, scaraventò la sua saccoccia di pelle sul divano di Amy e si gettò sul letto di Amy a volo d’angelo, facendo scricchiolare le molle arrugginite di Amy che non erano abituate a tali tuffi (Amy non ne faceva mai).
Amy, rimasta in piedi sull’uscio con le chiavi in mano, trovò il fiato di parlare solo dopo qualche secondo, e chiudendo piano la porta fece gesto di abbassare la voce, perché era molto tardi e tutti i vicini dormivano.
“Oh…scusami”sussurrò Tarja sollevandosi subito dal letto, ed assumendo improvvisamente un atteggiamento pentito e serioso, aggiunse: “Me ne vergogno molto, io non sono molto abituata ad essere ospite di qualcuno, e non sono mai stata in una casa bella come questa.”
Alzò lo sguardo alle quattro mura scrostate del monolocale, l’una, quella dalla parte dei piedi del letto, occupata da una vecchia e minuscola cucina turchese, con un fuocherello a gas, una credenza desolatamente vuota se non per qualche misterioso barattolo e un piccolo lavello ingombro di un cartone unto di pizza, l’altra, di fronte alla cucina, che ospitava la porta -aperta- del bagno ed il divano di finta pelle nera, stracolmo di vestiti in disordine e delle borse, e decorata da un paio di poster di gruppi goth metal; infine, la parete della porta d’ingresso e la parete adiacente al letto, sulla quale si apriva una finestrella dai vetri sporchi, proprio accanto al giaciglio.
Il disordine e l’incuria regnavano sovrane, Amy ne era ben consapevole e se ne stava vergognando nel più profondo dello stomaco, ma a quanto pareva Tarja sembrava apprezzare alquanto tutto ciò.
“E’ così piccola ed intima…come un nido accogliente e vissuto dove tornare dopo che si è volati via per tanto tempo…una vera “casa”!” declamava la rossa appollaiata sul lettuccio sfatto con un sospiro, davanti alla faccia stranita di Amy.
All’improvviso, qualcuno bussò alla porta, facendo sussultare le due ragazze, e poiché non la trovò chiusa a chiave, la aprì; l’imponente statura di Davey occupò il vano dell’entrata, piegata in due per non sbattere la testa e con i pugni chiusi sui fianchi fasciati dalla vestaglia a quadrettoni scozzesi, probabilmente per rimproverare a quella nottambula alcolizzata di Amy l’ennesima sbronza, ma non appena vide quella strana ragazza dai lunghissimi capelli rossi e vestita come una strega seduta nel letto di Amy, il suo unico occhio visibile si aprì a palla per la sorpresa.
“Davey, cosa ci fai qui!?” esclamò Amy seccata, sentendosi giungere in risposta un balbettio confuso e strascicato:“Come mai sei tornata a quest’ora se non sei ubriaca!? Prima ho sentito delle grida e non ti dico cosa ho pensato…e quella chi è!?”
Tarja agitò la manina con un sorriso tirato sulle labbra e le guance bordeaux, e rispose con voce flebile ed intimorita: “…io sono Tarja, ho salvato Amy da un tentativo di stupro.”
“Cosa!?”
“Sì, emh…e visto che non ha una casa l’ho invitata a passare la notte da me.” concluse Amy guardando per terra.
“Come un tentativo di stupro!? Come non ha una casa!?”
Amy stava cominciando sul serio a sentir tornare la nevrosi, e sbottò contro lo studente di tornarsene a letto e di farsi gli schifosi affaracci suoi, ma Tarja lo trattenne con un sorriso divertito: “Ma no, fallo restare, sembra molto preoccupato per te.”
“Sì, come una fottuta mamma anatra” sibilò la ragazza dai capelli blu gettandosi sul divano a braccia incrociate proprio come una figlioletta ribelle, suscitando un risolino di Tarja.
“Mi chiamo Davey , e sono il dirimpettaio.” disse lo studente sedendosi accanto alla rossa e porgendole la mano con gratitudine. “Molto piacere di conoscerti, cavolo, io gliel’ho ripetuto ogni santo giorno a questa spostata che prima o poi le sarebbe capitato qualcosa di brutto, per fortuna che questa volta ha trovato qualcuno come te che l’ha tirata fuori dai guai!”
Tarja arrossì, coprendosi il bel volto con una mano, e poi raccontò per filo e per segno tutto quello che era avvenuto nel parcheggio, con i grugniti di Amy come sottofondo.
“…e così eccoci qui. Sono così contenta di aver trovato una casa!” terminò sorridendo.
Davey e la blu si scambiarono un’occhiata, poi il ragazzo espresse ciò che Amy non aveva ancora avuto il fegato di chiedere.
“Tarja, ma tu perché non hai una casa? Da dove vieni?”
La rossa s’adombrò in un istante, e scattò in piedi incrociando le braccia, a disagio.

“Io non ho una casa, perché non ce l’ho più. Sono scappata da quella dove vivevo prima, ma per me non è mai stata una vera casa, più che altro, una prigione, perciò è come se una casa io non ce l’abbia avuta per moltissimo tempo. Quando ero molto piccola ne avevo una vera, di casa, a questo indirizzo”, estrasse dal taschino il suo foglietto “qui è dove vive mia sorella. Ma purtroppo Madelin, mia madre, mi bandì da quelle mura ed io non potrò mai più tornarci, se non di nascosto.”
Davey ed Amy la seguivano col fiato sospeso, incantati dalla sua voce vellutata, e non ci fu bisogno di nessuna domanda trepidante perché Tarja continuasse la sua storia.
“Questo accadde molti anni fa, tanti che nemmeno ricordo la mia età di allora. Io e mia sorella Cherì vivevamo con i nostri genitori in quella casa immensa, piena di scale, e nella mia memoria non esiste nessun periodo che sia stato più felice di quello…”, persa nei ricordi, strinse le mani sulle proprie spalle, come se stesse rivivendo un tenero abbraccio “ma un giorno, mia padre e Madelin decisero di separarsi per sempre, a causa mia, credo, e mio padre mi disse che io l’avrei seguito e che avrei vissuto con lui. Così io partii, e Cherì rimase con nostra madre. Da quel giorno non l’ho più vista.” Tacque, con gli occhi abbassati sul pavimento.
“La vita con mio padre è stata un inferno, ed io ogni sera prima di addormentarmi mi ripromettevo che sarei fuggita, prima o poi, e che sarei tornata da Cherì ed avremmo vissuto insieme e felici per sempre. Poi, tre giorni fa, mio padre è morto. Ecco perché sono finalmente scappata ed ho intenzione di ritrovare mia sorella, costi quel che costi, e sono qui con voi.”
Dalle labbra di Davey uscì un mormorio di soggezione, ed Amy per sdrammatizzare buttò lì la prima cosa che le passò per la testa: “…cioè, hai i genitori separati e tu e tua sorella siete state separate…cavolo, condoglianze per tuo padre. Mi dispiace moltissimo.”
Tarja sussurrò un “grazie”, senza distogliere lo sguardo dal pavimento.
“Beh…” Amy batté le mani con una sonora schioccata “…ora tutti a nanna, che io domani andrei a lavorare!”

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Capitolo 5
*** Capitolo V -Cypress street n°18- ***


Cypress street n° 18


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Il mattino seguente Amy stava andando al lavoro sul suo motorino scassato, compiendo il solito tragitto attraverso il centro della città, finché l’occhio le cadde su una vecchissima villa disabitata dietro ad un cancello di ferro arrugginito, davanti cui passava regolarmente ogni mattina.
Notò il numero, poi la via, e fu colta da una divina folgorazione.
“Ma quanto sono cretina!?”

Quando rientrò a casa, Tarja se ne stava in piedi sulle punte sul divano di pelle, circondata da tutti i poster staccati dal muro e ben ripiegati, intenta a dipingere viticci e fiori colorati sul muro.
Amy sulle prime rimase immobile a bocca spalancata, indecisa tra furia omicida e sbalordimento, ma poi si ricordò subito qual’era la cosa urgentissima che doveva riferire alla rossa e che le aveva occupato il cervello per tutto il giorno, avendo tra l’altro suscitato diverse rimbeccate dalla sua acida superiore.
“Tarja ho trovato la tua casa!”gridò, gettando la borsa nel lavello della cucina.
Tarja si voltò di scatto con un salto e un urlo, e ci mise così tanta enfasi che perse l’equilibrio e si schiantò sul pavimento, rialzandosi poi con i lunghissimi capelli rossi tutti davanti alla faccia.
“Davvero!? Cypress Street!?” esclamò incredula, e poi, gettandosi a braccia aperte sulla blu“…sei magnifica! Stupenda! Incredibile! Un dono degli Angeli! Cherì, ti rivedrò! Sì! Cavolo, devi averla cercata tutta la mattina, visto che nemmeno tu che vivi qui l’avevi mai vista… ” “Eheheh…già, certo, certo Tarja.” Imbarazzata, Amy si divincolò dall’assalto affettuoso della rossa, e poi, cercando di evitare con lo sguardo il suo muro imbrattato di vernice, cominciò a spadellare per preparare il pranzo.
“Quindi…” cominciò, esitante “…andrai da tua sorella, ora, cioè…”
Tarja interruppe subito i suoi vaneggiamenti, dall’alto del divano sul quale era appena risalita.
“Oh, no, questo è impossibile. Madelin non me lo permetterebbe mai. Io voglio portare via Cherì da quella casa, e poi vivere insieme a lei per sempre in un’altra casa, in qualsiasi altro posto, ma non lì. Sai, non so cosa mi farebbe Madelin se mi rivedesse, e non oso pensare a cosa abbia potuto fare alla mia sorellina in tutti questi anni. ”
Amy sentì si scorrere un tremito lungo la spina dorsale, a quelle parole inquietanti ed indefinite , e si voltò lentamente verso Tarja, per spiare non vista la sua espressione, in modo da poter interpretare meglio tutti quegli enigmi che uscivano dalle sue labbra.

Tarja per lei era un mistero.
Naturalmente le era immensamente grata e riconoscente perché le doveva la sua integrità di donna, ma quella ragazza le sembrava anche incredibilmente strana, insolita, fuori posto: era come se fosse scesa da un pianeta alieno lontanissimo, profondamente diverso dal nostro, ma abitato da creature antropomorfe simili ai terrestri, intrappolati a vivere un’epoca che era una via di mezzo tra l’Inghilterra vittoriana e le scenografie di Tim Burton.
Osservò il bel corpo slanciato di Tarja inguainato nel suo strettissimo corsetto di pelle nera, allacciato lungo la schiena con un nastro sottile che stringeva il cuoio incrociandosi in mille piccole “X” sulla spina dorsale –visibile poiché una crocchia disordinata aveva intrappolato i chilometrici capelli fulvi-, per poi liberare all’altezza delle anche le ampie pieghe di velluto scuro della gonna, talmente lunga da lasciar solo intravedere le punte dei piedi candidi.
Ma dove li aveva trovati quei vestiti!?
Amy ricordava di averne visti di simili indosso solo ad attrici di film fantasy, o a stupide galline che per moda si abbigliavano come le dame inglesi ottocentesche facendosi chiamare Goth Loly, o qualcosa di simile.

All’improvviso la porta d’ingresso si spalancò e comparve Davey di ritorno dall’università, con la tracolla dei libri in spalla e un sorriso a trentotto denti stampato sulla faccia magra.
“Potresti almeno bussare!? Cos’è questo, un ristorante!?” urlò Amy alla sua venuta, arrabbiatissima.
Quello mantenendo il suo buonumore infantile s’accomodò al tavolo e rispose semplicemente: “Ho fame! Che prepari?”
Amy ringhiò come una iena, mentre Tarja saltava di nuovo giù dal divano tutta contenta e si sedeva accanto al nuovo venuto, il quale si mise ad ammirare prima il muro, poi la faccia ed i vestiti della ragazza, tutti macchiati di vernice.
“Wow, hai trasformato questo buco deprimente in un campo fiorito! Ci voleva proprio, farà bene all’umore di Amy!”
“In verità sarebbe edera” sillabò Tarja lusingata, guardandosi le mani “solo che mi sono presa qualche libertà nei colori delle foglie e dei fiori. Quel muro mi è sembrato invocare un po’ di edera che crescesse su di lui per tutta la notte, così io…”
“Il mio muro stava benissimo così com’era!” sbraitò Amy, sbattendo sul tavolo un vassoio ricolmo di sandwich col prosciutto spalmati di maionese, “…e mi aspetto che tu cancelli quegli sgorbi schifosi, quando hai finito di divertirti, perché questa è casa mia e non il muro di un asilo!”
Tarja impallidì per un secondo, ma poi vide l’amica sedersi pure lei sbuffando nel suo modo buffo da bambina capricciosa, e pensò che in fondo un asilo infantile non era poi così tanto sbagliato per una come Amy, anzi, le calzava proprio a puntino, e questo pensiero la fece scoppiare a ridere.
“Dunque, Tarja, come pensi di recuperare tua sorella?” chiese Amy alla sprovvista, con una punta di nervosismo decrescente nella voce.
Tarja smise subito di ridere, e si mise a borbottare: “Oh, emh…io…non credevo che l’avrei ritrovata così presto e…non ci ho ancora pensato.”
“Ouh, perciò hai ritrovato la tua casa!”
“Sì, sì, stamattina…cioè, mi stai dicendo che non hai un piano?” esclamò Amy, allungandosi sul tavolo masticando.
“Emh…no.” Ammise Tarja, imbarazzata.
“Questo non va bene! Se hai un obbiettivo devi concentrarti corpo e anima per raggiungerlo, o non otterrai mai nulla nella vita!”
Amy si ritrovò in piedi, avvampante, ed in un istante si rese conto di avere reagito tale e quale a come una volta faceva lui. Tale quale a Serji.
Quella frase che aveva detto a Tarja, poi, lui gliela aveva ripetuta in continuazione.
“Bene, quale piano proponi, allora?” chiese Davey. Lui e Tarja sembravano non aver notato nulla di strano.
Amy si risedette sulla sedia, con una fitta terribile allo stomaco e una gran voglia di vomitare: “Boh, cosa vuoi che ne sappia, io?” mugugnò.
“Bene, in tal caso, io avrei un’ideuzza.” Proseguì Davey, attirandosi lo sguardo adorante di Tarja:
“dunque, noi prenderemo la mia bibliografia di Hegel, e poi…”

La stanza era molto buia.
Solo qualche raggio di sole polveroso che filtrava dalle finestre sbarrate e la luce tremula di due candele tradivano a stento le alte librerie ricoperte di libri, addossate alle pareti oscure.
Una fanciulla se ne stava accucciata in un angolino, con le ginocchia vicine al petto, tra le quali era appoggiato un immenso libro antico, retto da due fragili manine bianche, che pareva potessero spezzarsi in ogni momento sotto il peso della sua pergamena.
Leggeva, alla luce delle due candele, mormorando i versi del passato, come se desiderasse ascoltarne anche la musica, per penetrare meglio il loro significato profondo.
Una porta si aprì, interrompendo la soave cantilena, ed entrò una donna.
“Sharon, tesoro mio, è l’ora del bagno. Sai che è importante purificare il corpo, oltre che l’anima.”
Sharon non rispose, ma continuò a leggere i suoi versi in silenzio, rintanandosi di più tra le sue ginocchia, come se non avesse sentito nulla.
La donna sospirò e si avvicinò a lei con passi sonori sul pavimento di legno, giungendole accanto.
“Cosa c’è? Vuoi finire il canto? E va bene, ma fai in fretta, perché l’acqua del bagno si raffredda.”
Le infilò le dita tra i soffici capelli rossi, rossi come legno di ciliegio, tagliati cortissimi in un severo caschetto, e continuò ad accarezzarla attirando la sua testa sul proprio grembo.
“Madre…”
sussurrò la ragazza stortando le orbite nere verso l’alto, per guardare il volto della donna:
“…io so già in quale girone dell’Inferno andrò. Tu sai in quale girone dell’Inferno potresti andare?”
La madre si abbassò all’altezza della figlia, severa, per afferrarle un polso e costringerla ad alzarsi.
“Quante volte ti ho detto che tu non andrai all’Inferno, Sharon!? Non devi dire mai più cose simili, la tua anima è intatta e Dio ogni notte accoglie le tue preghiere con gioia, tu sei pura, capito? Quante volte ti ho detto di non leggere più quella parte della Divina Commedia! Ti fa pensare cose sbagliate…”
Sharon si fece passivamente strattonare fino nel corridoio, mormorando sottovoce a se stessa che lei sapeva in quale girone dell’Inferno sarebbe andata, quando, all’improvviso un rumore di campana rimbombò tra le pareti.
Era un suono che le due non sentivano da anni.
La madre sobbalzò e lasciò il polso inerte della figlia, sibilando tra i denti dalla preoccupazione, ordinò alla ragazza di filare in bagno a lavarsi e si inoltrò lungo il corridoio buio a lunghi passi stentorei, mentre Sharon, con sguardo vacuo, tornava a rifugiarsi nel suo angolino con la sua Commedia, e riprendeva la cantilena;
era da moltissimo tempo che qualcuno non si azzardava a suonare alla porta.

La vita era noiosa.
Ogni lento giorno vissuto nel buio era identico al lento giorno vissuto nel buio che sarebbe seguito, tra quelle quattro spesse, oscure mura polverose.
Che stupida, la vita, e che brutta: sarebbe stato meglio morire subito, e scoprire se il proprio destino era quello di precipitare tra le fiamme degli inferi oppure volare in paradiso in mezzo agli angeli nella gloria di Dio, piuttosto che strisciare da una stanza all’altra facendo sempre le stesse cose, pregare, mangiare, pregare, studiare, studiare, pregare…
Sharon non conosceva il mondo, quello vero, quello fuori.
Nel suo cuore riecheggiava come un disperato richiamo alla vita la brama di viverlo, anche se solo l’idea la riempiva di paura. Sua madre le diceva sempre che la stava proteggendo da esso, perché, se fosse uscita, avrebbe corrotto la sua anima e l’avrebbe imprigionata nei suoi abissi di peccato e lussuria, oltre che infliggerle ferite inguaribili nel corpo e nel cuore, deturpandola come un niveo bocciolo di rosa strappato e calpestato nel fango.
Lo ripeteva giorno e notte e Sharon, solo ad udire quelle parole, se le sentiva sprofondare dentro come macigni acuminati, almeno finché era ancora piccola, perché poi, col tempo, quelle spine l’avevano lacerata a tal punto che non le facevano più male: il dolore annegava in una densa nebbia che le riempiva il petto, la stordiva, una nebbia indefinita dove aveva imparato a rifugiarsi quando il tedio, che si annidava nella lucidità della sua mente fuori dal grigiore, minacciava di farsi troppo prepotente e strangolarla.
Poi, quando leggeva, la nebbia prendeva la forma di selve e fiumi e mari in tempesta e cieli infiniti, nei quali Sharon si perdeva come una bambina ed immaginava di corrervi senza sosta fino a perdere il respiro…
finché sua madre non la chiamava per andare a fare il bagno.
Sharon, in realtà, odiava sua madre: dai lembi nebulosi della sua mente nei quali si rifugiava la odiava, perché era capace di raccontarle solo menzogne.
Menzogne.
Erano riflessioni che sfioravano solo vagamente il suo pensiero torbido, perché nella loro spietata consapevolezza erano così taglienti da uccidere di disperazione, ma Sharon sapeva benissimo che sarebbe finita all’Inferno e non in Paradiso, era inevitabile, e sapeva anche che non era vero che Jaja era dannata, e, soprattutto, che non l’avrebbe rivista mai più.
Nei brevi momenti in cui si concedeva di uscire dalla nebbia e di pensare a lei, Sharon veniva trafitta da un lontanissimo ricordo di gioia perduta, non senza una certa, timida punta di invidia.
Papà era “dannato” e anche Jaja lo era, e così se l’era portata via.
Lei sì che doveva averlo visto, il mondo…
Lei invece era bloccata lì, soffocata dalla noia del dentro ed incapace di affrontare il fuori, per sempre.

Quando Sharon riemerse dal canto e sollevò per un attimo lo sguardo, si accorse che davanti a lei si era accesa con un boato silenzioso la luce del Paradiso, ed un Angelo vi si stagliava in tutta la sua celeste bellezza.
Un vago sorriso le comparì sulle labbra, ed i suoi occhi si riempirono di lacrime: era venuto a prenderla.

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Capitolo 6
*** Capitolo VI -Lacrime e acqua santa- ***


Lacrime e acqua santa

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Amy era sicura che quella trovata fosse pessima, oltre che orrendamente imbarazzante.
Lei e Davey aspettavano ormai da quindici minuti, in piedi impettiti di fronte a quella porta vecchissima, vestiti con due camice azzurre identiche –ma dalla taglia tragicamente sbagliata- e un sorriso fintissimo che faceva dolere le guance.
Di fianco a loro gemeva con stridii rugginosi il povero motorino della blu, sovraccarico di una quantità indicibile di libri impacchettati in qualche modo con spago e carta velina rosa, i quali avevano il compito di far credere alla proprietaria di casa di essersi imbattuta in due improbabili e petulanti venditori di bibliografie.
“Te l’avevo detto che non era una buona idea…” mugolò Amy tra i denti.
“Abbi un po’ di pazienza, se continueremo a suonare così dovranno uscire per forza, quanto meno per tirarci una schioppettata!”.

La casa era davvero imponente, ma afflitta da una pesante, deprimente decadenza: le alte finestre dai polverosi vetri frantumati erano state sbarrate in malo modo con assi di legno da cantiere e chiodi arrugginiti, fazzoletti, sigarette, sacchetti di plastica e sporcizia di ogni genere gettata da qualche maleducato impestavano il cortile incolto, piante rampicanti selvagge ricoprivano i muri, imbrattati dai colori innaturali di bombolette spray.
Mai ad Amy sarebbe venuto in mente che qualcuno potesse ancora vivere là dentro, e la cosa comunque sarebbe stata da pazzi –ma, ripensando a quella matta di Tarja, Amy non faticava ad immaginare quale poteva essere lo stato di salute mentale di sua madre-.
In ogni modo, stare in piedi dentro il giardino di quell’edificio desolato conciata in quel modo assurdo la faceva sentire una perfetta idiota.

Mentre Amy stava scagliando contro se stessa maledizioni impronunciabili per essersi fatta coinvolgere in quella pagliacciata, l’immenso portone d’ingresso, dopo un sonoro schiocco sinistro, cominciò lentamente ad aprirsi verso l’interno.
“Santo cielo collega, è proprio una bella giornata!” esclamò Davey a voce troppo alta, prima di intrufolarsi nella fessura buia e inquietante che si era appena aperta.
Amy lo seguì, esitante.
Si ritrovarono in una sala oscura dal sapore vago e pregnante di polvere e forse di naftalina, dalle dimensioni sconosciute ma sicuramente immensa, a giudicare dal fatto che tutte la pareti erano immerse nel buio più assoluto: ai loro occhi era visibile solo il pavimento di parquet consunto sotto i loro piedi ed un vago profilo di candelabro sul soffitto, grazie ai nuvolosi raggi autunnali che entravano alle loro spalle dalla porta, unica fonte di luce.
Tutta quanta la situazione era parecchio strana, e non appena la porta si richiuse con un improvviso CLAK! in completa autonomia, spegnendo anche quella fievole luminosità e lasciandoli completamente al buio in preda alla loro immaginazione impazzita, i due ragazzi provarono entrambi con un brivido di ghiaccio la pessima sensazione di essersi cacciati in un film dell’orrore.
“Pe…pe…permesso?” domandò Amy al buio, facendo sibilare le parole al di fuori dei denti che sbattevano frenetici.
Ok, brutta stramaledetta idiota, perché aveva deciso di rovinarsi la vita in quel modo!? Come se non facesse già abbastanza schifo di suo. Aveva giurato a se stessa anni prima che avrebbe evitato di lasciarsi coinvolgere in altre follie da qualunque altro pazzoide nel quale si fosse imbattuta durante il suo cammino, ed invece eccola là, con quel cretino di Davey rinchiusa nella casa di “Non aprite quella porta”, probabilmente in procinto di essere fatta a pezzi a suon di motosega da qualche barbone tossicomane psicopatico pluri-omicida!
Doveva essere impazzita, anzi! Era stata Tarja a contagiarla con le sue patologie mentali, stupida Tarja!
-Si ripromise di cacciarla di casa e/o strangolarla, una volta usciti di lì, sempre se mai sarebbero riusciti ad uscirne incolumi, s’intende.-
Il pensiero che quella casa fosse davvero abitata da un barbone pericoloso e che Tarja si fosse inventata tutto quanto dal contorto mondo alieno che stanziava nella sua testa cominciò a farsi pericolosamente strada nella mente della ragazza, la quale percepiva ormai il terrore come una consistenza solida che la soffocava pressante con il suo puzzo gelido.
Davey sentì le dita di Amy artigliargli la stoffa della manica della camicia e percepì i suoi respiri spezzati dal terrore: sarebbe stata un’ottima occasione per confortarla, per riuscire finalmente ad averla più vicina…se non fosse stato anche lui paralizzato dalla paura nell’oscurità.

All’improvviso, il buio parlò.
“Chi siete voi, stolti che avete osato porre piede in questa casa!?”
I due ragazzi, balzando l’uno addosso all’altra in una stretta strangolante dallo spavento, balbettarono istericamente i loro nomi:
“A-Amy Wong, signora…”
“Davey! Davey Hawk!”
“Sappiate che questo è un luogo di meditazione e preghiera, e le anime impure non possono entrarvi! Confessate i vostri peccati!”
La voce era femminile, vellutata, ma stonava per un’evidente solennità troppo forzata.
“Emh…noi in realtà vorremmo proporle l’acquisto di una bellissim…”
Confessate i vostri peccati ho detto!” I due deglutirono all’unisono, un po’ allibiti, e Davey appoggiandole le mani sulle spalle spinse Amy in avanti con uno strattone, come se stesse pronunciando un galante “prima le signore”. Lei, dopo aver trovato il piede dello studente ed esserci saltata sopra, cominciò a scandire il suo confessionale:
“Io…emh…ho rotto una bottiglietta di Jack Daniels contro una scuola elementare l’altro giorno…poi insulto un sacco il mio vicino e…”
“Che fai, non parli dell’alcool, vicina!?” la interruppe Davey acido, con un accento isterico nella voce.
“Ah già…a volte mi piace bermi un goccetto e…”
“E’ un’alcolizzata!”
“Sì è vero lo ammetto ho il vizio del bere!” esclamò l’ubriacona in un impeto sconsolato di pentimento, con gli occhi inumiditi dal grande ardore sacro e le gambe che traballavano.
“Ed ora è il tuo turno, vicino!”
“Io…io non sono come lei lo giuro! Sono un bravo ragazzo io! Vado a letto presto ogni sera e studio un sacco e non dico mai le bugie e la prego signora non ci faccia del male noi vogliamo solo…”
La voce di Davey si incrinò sempre più fino a diventare un guaito acuto cagnesco, e all’improvviso cacciò un urlo degno di una grassa soprano inseguita da una pantegana: erano stati investiti da qualcosa di liquido e dal puzzo pungente di incenso, probabilmente lanciato dalla donna misteriosa che si nascondeva nel buio.
La doccia di acqua santa purificò la loro anima orrendamente corrotta dai peccati.
“In nomine patris et filii et spiritus sancti.” sentenziò la voce, ponendo fine al rito.
Finalmente, dopo quegli attimi di puro terrore, la luce si accese.

“Santo cielo collega, è proprio una bella giornata!”
Tarja udì il segnale, strillato da Davey dal cortile davanti all’ingresso, dal suo nascondiglio tra le sterpi incolte del retro, e seppe che era giunto il momento di agire.
Facendo il più piano possibile, si districò tra i rami e riuscì a raggiungere il muro umido e ricoperto di vegetazione della casa, dove cominciò a frugare con le mani tra viticci e foglie secche in cerca di una finestra. La trovò presto. Troppo presto.
Non appena le sue mani sfregarono contro il legno scheggiato che barricava per intero l’antica finestra, il suo cuore fece un tuffo, e cominciò a rimbombarle nelle orecchie: Cherì era da qualche parte là dentro e presto l’avrebbe riabbracciata, al diavolo sua madre e tutti i patti stabiliti tra le Stirpi e la Regola che le era stato imposto di venerare.
Prese un grosso respiro, ed un istante dopo la finestra stava esplodendo con un innaturalmente silenzioso schianto di fuoco.

Un Angelo era venuto a prendere Sharon.
I contorni dell’enorme buco nel muro erano ancora accesi di fiamme purpuree quando l’Angelo saltò sul pavimento e si guardò intorno scuotendo la magnifica chioma ondulata, ed infine la vide, lì, accovacciata in un angolo con la Divina Commedia sulle ginocchia, lei infima creatura del buio.
Lentamente l’Angelo si avvicinò a lei e, quando i suoi occhi uscirono dalla cecità causata dalla troppa luce, Sharon si rese conto che quell’essere celeste aveva il volto di sua sorella.
“Cherì…”mormorò Tarja.
“Jaja…”
L’una allungò la mano verso l’altra, il libro cadde e furono subito in piedi viso a viso, mute ed incapaci di lasciare la presa delle dita della sorella, intrappolate in quel momento magico che entrambe avevano sognato per anni ed anni, separate e straziate dalla nostalgia.
Nessuna parlò, ma d’altronde non c’era alcun bisogno di parole.
Negli occhi di sua sorella, Sharon sentì qualcosa spezzarsi nel petto:
“Jaja!” gridò, e le gettò le braccia attorno al collo stringendola a sé come un pezzo di anima ritrovato dopo una vita di dolore, e sentì Tarja che faceva lo stesso ripetendo il suo nome e baciandole gli occhi e le gote; piangendo come bambine si riunirono alla loro metà perduta in quel tempio decadente, dimentiche di ogni altra cosa al mondo che non fosse la loro amatissima sorella.
Quando l’impatto potente dell’emozione fu un poco svanito, permettendole di schiarire l’animo e di rendere di nuovo almeno in parte efficiente il suo cervello, Sharon fu invasa da un’ondata di domande:
“Dove sei stata!? Dov’è papà!? Come hai fatto a convincerlo a farti venire qui!? Lui… la mamma…”
Tarja accarezzò le labbra della sorella e le sfiorò con un bacio per tranquillizzarla ed interrompere quel fiume impetuoso di parole, e guardandola negli occhi le disse:
“Papà è morto, sorellina, ed io sono riuscita a scappare durante la sua processione funebre. Sono venuta a prenderti, ti porterò via da qui e da oggi staremo sempre insieme e nulla potrà mai più separarci.”
L’incredulità si mischiò a fiumi di gioia nel sorriso di Sharon, un sorriso bellissimo perché dotato di una dolcezza rara come una perla nell’oceano, un sorriso che da anni non faceva capolino sul suo volto pallido.
“Allora sbrigati, dobbiamo andarcene prima che nostra madre si accorga che sono qui.”
Tarja la tirò gentilmente per la stretta delle mani che non avevano mai sciolto, ma Sharon puntò i piedi.
“Aspetta” disse. Si volse indietro e raccolse dal pavimento ligneo il pesante volume di poesia, lo spolverò e lo strinse sottobraccio, pronta a partire.
Stavano per incamminarsi, quando un nuovo dubbio le bloccò le gambe:
“Ma…cosa faremo se la mamma ci scopre?”
“Non preoccuparti” la rassicurò Tarja “ci sono degli amici che la stanno tenendo occupata…”

La donna che si ritrovarono davanti non era alta come sua figlia.
A dir la verità, quanto a statura superava di poco Amy, però i capelli sì, quei capelli rossicci raccolti in un’acconciatura all’antica un po’ scomposta erano gli stessi di Tarja.
In linea di massima, trovarsi davanti un tipo del genere lasciava decisamente spaesati, infatti era avvolta da una severa veste nera con un colletto immacolato di pizzo in perfetto stile puritano, ma nello stesso tempo le tremavano visibilmente le gambe, assieme alle guance un po’ afflosciate per l’età ricoperte da goccioline di sudore, e stringeva convulsamente la bottiglietta di ceramica a forma di Madonna di Lourdes con la quale li aveva appena innaffiati di acqua santa.
Però, pensò Amy, rimaneva pur sempre una bella donna come sua figlia.
La signora Madelin svettava tremante accanto allo stipite di una porta altissima, nella parete di fronte dell’enorme salone nel quale i due ragazzi si trovavano, che rispetto all’esterno in via di disfacimento mostrava di essere stato pulito, lucidato e messo in ordine con perfetta regolarità.
I due ci misero un tempo che Amy giudicò di una lunghezza troppo sospetta per ricomporsi, ma in qualche modo riuscirono a tirare di nuovo la faccia nei sorrisi da copione della loro parte di venditori ambulanti.
“Buongiorno signora.” cominciò Davey, con una tranquillità poco verosimile, “Siamo qui oggi per proporle un’occasione unica, la bibliografia di Heg…”
La signora Madelin lo interruppe, secca: “Ci sono già moltissimi libri in questa casa.”
“Oh, ma l’edizione che le proponiamo noi è…”
La donna lo interruppe nuovamente, -che maleducata, pensò Amy- e sentenziò: “Non è buon costume discutere in piedi nel salone d’accoglienza”-sì, che bella accoglienza, pensò Amy-
“Prego, potete seguirmi nel salottino degli ospiti. Vi offrirò una tazza di the.”
Percorsero dietro alla donna due lunghi corridoi privi di qualsiasi decorazione amena, tranne per il fatto che essendo di foggia antica aleggiavano di una vaga atmosfera da castello delle fiabe, illuminati da candelieri e adornati da qualche rara croce in ferro battuto.
Furono accolti in una stanza più piccola rispetto al salone, al centro della quale si trovava un tavolino circondato da due divani foderati in lana pregiata, e piena di librerie alle pareti: non sarebbe stata malaccio, se tutte quante le finestre non fossero state sprangate.
La signora li invitò a sedersi e se ne andò lasciandoli là a guardarsi attorno storditi per qualche minuto, per poi fare ritorno nella stanza reggendo un vassoio con teiera e tazzine; non c’era traccia della zuccheriera.
Tutte queste operazioni erano state svolte in un opprimente silenzio imbarazzato, ed Amy cercò in sé il coraggio di non sembrare troppo maleducata:
“E’ molto gentile da parte vostra offrirci questo the, signora.”
“Non dire sciocchezze. E’ il minimo che posso fare per due viandanti come voi, avrete patito un sacco di freddo là fuori ed è mio dovere morale ristorarvi. Sarei io a dover ringraziare voi per aver tollerato la mia assenza, ma d’altronde sono anni che non mi avvalgo più della servitù, poiché è un vezzo peccaminoso che rende la vita indolente e pigra.”
“Beh…grazie.”
Davey allungò la mano verso la sua tazzina fumante, ma qualcosa di molto simile ad un frustino di legno si abbatté sulle sue dita con uno schiocco improvviso, ed un sonoro “AHI!” da parte dell’interessato.
“Alt! Che fai, bevi senza aver prima ringraziato il Signore!? Scellerato!”
Amy stava pregando. Pregava che Tarja si sbrigasse e che li portasse via da quella pazza scatenata.
“Ed ora uniamo le nostre mani in preghiera.”
I due ragazzi furono costretti a prendere le mani ossute della signora Madelin, e sopportarono un quarto d’ora di borbottio in latino, mormorando “Amen” quando le unghie della donna stringevano dolorosamente la loro stretta.
Dopodiché, bevvero il the: era amarissimo.
Giustamente aggiungerci del latte o dello zucchero sarebbe stato peccaminoso.
“Di cosa volevate parlarmi, cari ragazzi?”

Davey aprì la bocca, ma la signora lo zittì all’improvviso con un sibilo minaccioso ed un’occhiataccia.
Nel corridoio fuori dal salottino risuonavano dei passi in corsa.
“Cosa sta facendo quella disobbediente!? Le avevo detto di andare a farsi il bagno!”
Amy e Davey furono attraversati all’unisono da un brivido di paura: dovevano tenere occupata la madre di Tarja a qualsiasi costo, o le conseguenze sarebbero state tremende –così aveva spiegato la rossa-: dovevano impedirle di uscire dalla stanza.
“D…di chi state palando, signora?”
“Della mia bambina.” La signora si alzò in piedi: “Devo vedere cosa sta combinando.”
“Ma no, ma no…starà sicuramente giocando…non crede?” cinguettò Amy con un sorriso fintissimo.
“Sciocchezze. Le ho proibito di giocare, induce al peccato.”
La donna fece per incamminarsi verso la porta, ma Davey le si piazzò davanti con la sua formidabile statura e la fermò.
“Non ci farà la scortesia di lasciarci di nuovo soli, vero? Avanti resti ancora per…”
“Come osi metterti fra me e mia figlia, scriteriato!? Lasciami passare!”
Davey, in un impeto di stupidità, afferrò la signora per le spalle per impedirle di superarlo con fare minaccioso, e lei avvampò all’improvviso di furia e strillò, strillò come impazzita ed il suo volto si fece terreo di rabbia e terrore.
Vi ha mandati LUI! Ora è chiaro! Non avrete la mia bambina, vi impedirò di portarmela via!
Davey, piuttosto sbalordito da quelle strida senza senso, fu scaraventato da parte con forza sovrumana e vide la signora precipitarsi fuori in corridoio, mentre Amy si alzava per inseguirla, strattonava in corsa un braccio dello studente per tirarlo su e gridava:
“Sei un idiota! Dobbiamo fermarla o finiremmo sicuramente nei guai! Ci denuncerà per sequestro di persona!”
Corsero a perdifiato dietro alla signora Madelin che seguiva il rumore veloce di passi davanti a lei attraverso i corridoi, fino a che si accorsero di essersi diretti verso l’uscita.
Appena entrarono nel grande salone d’ingresso, fermarono la loro corsa: la signora era impietrita davanti a loro, con gli occhi alla porta.
Fuori, alla luce del sole, due ragazze dai capelli rossi si tenevano per mano, bloccate anch’esse per lo spavento.
“TU!?” sibilò la donna, come un’accusa.
Tarja piantò in sua madre due occhi feroci.
Troppo tardi…

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Capitolo 7
*** Capitolo VII -L'erede- ***


L'erede

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Tarja, tenendo stretta a sé sua sorella Sharon, fronteggiava con uno sguardo di fuoco sua madre, immobile alla porta dell’antica villa.
“TU!” ripeté Madelin, con una smorfia di orrore atroce che le sfigurava il volto.
La ragazza dai lunghi capelli fulvi non emise parola, ma i suoi occhi si fecero ancora più rabbiosi, accendendosi quasi di una selvaggia bestialità.
Amy, dalla sua posizione arretrata, avrebbe giurato di vedere le labbra della ragazza snudarsi in un basso ringhio ferino: non si sarebbe mai aspettata di vederla così, ed una strana sensazione le pervadeva le membra, immobilizzandole, e le artigliava il cervello in una morsa di ghiaccio impedendole qualsiasi pensiero tranne questo: la fuga.
Da quel giorno Amy capì che cosa fosse davvero la paura.

Mostro! Non avrai mia figlia! Non te lo permetterò! DEMONIO!
Le strida di Madelin riempirono l’aria: erano urla di disperazione e terrore, perforarono dissonanti i timpani di Amy e lei atterrì ancora di più; la donna era scossa da un tremito potente, urlava annegando in un pianto di frustrante impotenza e allungava le unghie verso la sua bambina alla luce del sole, incapace di oltrepassare il varco della sua casa.
Non me la porterai via! Non me la porterai via!

Sharon, udendo sua madre strillare in quel modo, si spaventò.
Il sole la accecava, ma percepiva accanto a sé la rassicurante stretta di Jaja, e capì che accanto a lei non avrebbe più avuto nulla da temere.
Sarebbe stato bello.
La mamma avrebbe sofferto, ma il suo desiderio di vivere era troppo forte per potersene rammaricare.
Un sorriso tenue le scaldò il viso, ed alzò una mano in cenno di saluto alla sua mamma.

Madelin, notando l’addio della sua bambina, si sentì morire.
Tarja l’aveva corrotta, quel demonio l’aveva presa e l’aveva corrotta.
Con l’impeto di coraggio di una madre spaventata per la sua prole, la signora Madelin infilò la mano ossuta all’interno della sua veste, e ne estrasse una grande croce di legno di betulla, che portava appesa al collo sotto il pudico tessuto nero.
La elevò davanti a sé e con lente falcate uscì alla luce, imponente e solenne come un sacerdote.
La stava imponendo contro Tarja.
Vade retro Satan!

Il basso ringhio di Tarja si modulò in terribili parole.
Madre, sciocca!
Avanzò anch’essa, lasciando la mano della sorella, ed incedette verso sua madre, la quale traballò ed impallidì come morta, ma proseguì imperterrita il suo rito.
Vade retro Satan!
Tarja sollevò la sua mano, artiglio predatore di un rapace carnivoro, ed agguantò la croce.
Le unghie sprofondarono nel legno.
Maledetta!” gridò straziata la madre.
Per un momento, parve che il mondo si offuscasse all’improvviso, e che fiamme infernali avvolgessero il corpo di Tarja incoronandole il capo scarlatto di un’aureola di potere.
La croce si frantumò, disgregandosi in polvere.

Madelin urlò di nuovo, e si accasciò tra l’erba crollando in se stessa, in un pianto disperato.

Amy si rese conto di aver appena assistito ad un evento incredibile, anche se esattamente non riusciva a capire che cosa fosse accaduto.
Quando la signora aveva liberato il vano della porta, si era ricordata di possedere un paio di gambe per camminare e si sbrigò a strattonare Davey per uscire da quella casa, ma la cosa non fu semplice come si aspettava: era paralizzata.
Non si era mai sentita così.
Quando finalmente raggiunsero l’amica fuori, la signora era inginocchiata per terra e piangeva, e vedendoli arrivare li maledì con strane parole in latino, per poi rialzarsi e scappare in casa come un animale ferito, sbattendo la grande porta.
Amy ebbe la strana sensazione che non sarebbe uscita mai più.
“Emh…cosa è successo?”
Tarja si volse verso l’amica, sorridendo solare, come se non fosse accaduto nulla.
“Beh? Cos’è quella faccia pallida? Non ti senti bene forse?”
“Diamine, cos’è successo!? Dov’è la croce che aveva in mano Madelin? Io…mi sembra di aver visto…l’hai sbriciolata?”
“Ma che dici?” rispose la rossa, piegando un sopracciglio: “L’ha semplicemente riposta. Deve averti ingannato la distanza…”
Davey deglutì.
“A proposito…vi presento Cherì, la mia sorellina!”
Amy solo allora si ricordò della sorella di Tarja, anche perché questa durante tutta la conversazione si era nascosta dietro le spalle della sorella, come per paura di essere vista.
Erano identiche, realizzò la blu, due gemelle omozigote, ma anche profondamente diverse.
Innanzitutto, i capelli di Cherì erano corti, cortissimi: un caschetto con frangetta che lasciava intravedere la dolce curva della nuca, con la pretesa di essere severo, ma tuttavia tutto scompigliato a causa delle lievi onde della chioma, identiche a quelle di Tarja.
Inoltre era più magra, quasi denutrita, e teneva le spalle cadenti in avanti come un topo di biblioteca dando l’impressione di essere più bassa di quel che realmente era: la veste nera le fasciava i fianchi ossuti, ed il colletto di pizzo faceva intuire un collo lungo e sottile come quello di un cigno.
E poi, gli occhi. Neri come la notte come quelli di Tarja, ma circondati da ombre azzurrine di buio e tristezza, segnati profondamente da una vita passata al lume di candela: sembravano molto più grandi di quelli della sorella, e più profondi, come due opachi pozzi neri.
Tremava come una foglia, Cherì, da dietro la spalla di Tarja, e quando Amy le porse la sua mano, sussultò. “Ouh, ma come sei tenera!” pigolò la voce di Davey, che spostò di peso Tarja ed afferrò la mano di Cherì, presentandosi.
“Ciao Cherì! Io sono Davey Hawk! Molto piacere di conoscerti, tua sorella ci ha parlato molto di te.”
“I-i-i-io m-mi chiamo Sharon…”
“Wow, hai un nome da vamp. Cherì allora dev’essere un diminutivo, no? Lei invece, questa ubriacona coi capelli blu che ti fa così tanta paura, si chiama Amy Wong!”
“Ehi! Mi stai descrivendo come un mostro, scemo!”
Tarja scoppiò a ridere:
“Sono tutti e due bravissime persone, sono loro che ci hanno aiutato.”
Alle parole della sorella, il volto di Cherì sembrò illuminarsi, e per un attimo le due furono assolutamente indistinguibili.
“Andiamo a casa, ora.”
“Ehi, si starà sicuramente parlando della mia casa, vero…?” sospirò Amy, pensando allo scarso spazio vitale del suo monolocale mentre afferrava con due mani il manubrio del suo motorino, rimasto parcheggiato là per tutto il tempo.
Tarja e Davey scoppiarono a ridere, Cherì accennò un sorriso insicuro e Amy sbuffò, mentre uscivano tutti insieme dal cancello arrugginito.

Il rapace attraversò con il suo volo silenzioso l’alto salone, volteggiando come ombra assassina tra le colonne di marmo, per andare ad appollaiarsi con un fruscio di piume sulla spalla di Diodor, facendogli ondeggiare le lunghe ciocche bionde sparse sulla schiena.
“Quel pennuto insudicia il castello.” disse il Cerimoniere, storcendo la bocca sottile in una smorfia di disgusto. “Se lui se ne va, me ne vado anch’io. E comunque mi sembra molto più pulito e garbato di certe guardie che ho visto là fuori, vero, Kokoschka?”
Il grosso barbagianni garrì con soddisfazione socchiudendo gli enormi occhi gialli, mentre Diodor gli solleticava le piume sotto il becco, accompagnando il gesto con uno sguardo affettuoso.
Il Cerimoniere emise un verso schifato, guardando oltre e risistemandosi gli occhiali tondi dalla montatura d’oro sul naso, dall’alto del trono di pietra che occupava con tutta la sua pesante veste violacea.
“Dicevamo. Voi Arcidemoni vi siete ridotti così in basso da chiamare un sicario come me per compiere i vostri lavoretti sporchi, e…”
“Silenzio! Ci avvaliamo dei tuoi servigi perché è andata a nascondersi in mezzo agli umani, quella faina, e naturalmente non è possibile alcun intervento da parte della nostra Stirpe.”
Una schiera di denti d’avorio brillò sul viso di Diodor.
“Non è vero, e tu lo sai, Cerimoniere. Da quando è morto Lucifer questo posto va a catafascio.”
“Come osi, umano! Non ti ho incenerito solo perché il tuo intervento è maledettamente prezioso.”
Il sorriso si allargò.
“Questo lo so bene.”
Diodor aveva il predominio della situazione, e ne era piacevolmente consapevole: avrebbe spremuto ogni più piccola goccia di soddisfazione da quella faccenda, gongolando sull’impotenza mostrata dall’Arcidemone: non era certo un privilegio comune quello di avere il destino di una delle due Stirpi stretto tra le proprie mani.
Era una cosa che lo esaltava.
“D'altronde, se non avessi avuto la certezza assoluta che non potevate fare a meno di me, non vi avrei nemmeno degnato della mia presenza, considerando il trattamento che di solito riservate agli umani.”
“La tua sfacciataggine è intollerabile!” il Cerimoniere scattò tra vampe di fiamme viola in piedi, sputacchiando dall’ira “Cosa ti fa pensare che la Stirpe dipenda da un verme mortale come te!?”
“Beh, non mi hai ancora incenerito, no?”
“Potrei farlo ora!”
“Non potrei più riportarti a casa la tua pecorella smarrita.”
Il Cerimoniere, succube suo malgrado, riprese posto sul trono, sibilando.
“Ma no, non preoccuparti, lo farò, questo lavoretto per voi. Mi pagate troppo bene per poter rifiutare, ed inoltre dicono che questa Lady Lucifer sia davvero molto bella.”

Tutti a Chrysantemum Hill conoscevano la storia di Lady Tarja Lucifer, ma in pochi erano riusciti a vederla poiché Ogre, sovrano della Stirpe Demoniaca e suo padre, ne era molto geloso.
La vicenda risaliva a diciotto anni prima, quando l’Arcidemone era rimasto ammaliato dalle grazie della giovane iniziata Madelin e tra lo scandalo generale dei sussurrii di corte aveva deciso di venire a nozze con quella semplice mortale.
Per cinque anni il signore dei Demoni si era allontanato da Chrysantemum Hill, lasciando l’incombenza del comando al suo sovrintendente il Cerimoniere e facendo perdere completamente le sue tracce, come se si fosse dissolto nel nulla.
Al suo ritorno, dopo tutti quegli anni, aveva portato con sé una bambina dalla tenerissima età annunciando che era sua figlia e che l’avrebbe resa sua degna erede, nonostante nelle sue vene non scorresse puro il sangue della Stirpe, trasmettendole la sua sapienza e sviluppando il suo potere latente.
Di Madelin non si seppe più nulla, ma corsero voci che si fosse votata al Nemico e che, impazzita, avesse deciso di isolarsi dal mondo.
Infine, qualche giorno prima, la morte di Ogre.
Il potente sovrano era infine mancato, certamente in modo valoroso, ma era mancato, e il lutto aveva paralizzato tutta la Stirpe per il grande compianto.
E Lady Tarja era fuggita.
Nel momento più atroce del bisogno l’unica erede di Ogre Lucifer era scomparsa, lasciando nel caos il popolo demoniaco.
Il Cerimoniere non poteva tenere il trono per sempre,
e Lady Lucifer doveva essere ritrovata.

Quando Diodor uscì dalle grandi porte di tasso fregiate da antichi decori in ferro, respirò a pieni polmoni il vento notturno e lasciò con piacere che le folate gli si infiltrassero nella chioma d’oro, facendola ondeggiare.
Kokoschka sfrecciò come un proiettile fuori dal portale sfiorandolo su una guancia con piume veloci, puntando in alto alla luna pallida nel cielo.
Kokoschka era i suoi occhi, il suo volo la sua libertà.
Abbassò la falda del cilindro di cuoio con un gesto deciso e cominciò a scendere la scalinata della reggia a passo di marcia, sotto lo sguardo bieco delle guardie.
Aveva una missione da compiere.

La luce mattutina filtrava tra le fessure della tapparella scassata, quando Amy si alzò dal letto soffocando la sveglia al primo squillo e si infilò ai piedi le pantofole per fare minor rumore possibile.
Doveva riuscire a prepararsi per il lavoro in assoluto silenzio, la domenica con il suo carico di emozioni e seccature era solo un ricordo, e sul suo divano dormivano le sorelle dai capelli rossi.
Profondamente addormentate, Tarja e Cherì se ne stavano accoccolate una sull’altra, con indosso le t-shirt di gruppi metal taglia extra large che Amy aveva prestato loro e tutte avvoltolate nella coperta dell’inverno, tirata fuori dall’armadio per l’occasione.
Amy sospirò: di solito la domenica si riposava e quelle due avevano infranto la sua routine di relax solitario, però si accorse che in fondo non le dispiaceva così tanto.
Tarja sapeva riempire il suo tempo in modo decisamente bizzarro, ma sicuramente mai noioso, e Cherì la riempiva di curiosità.
Inoltre, a pensarci, erano già ben due notti che non beveva.
Lo sguardo le cadde sui viticci colorati sul suo muro, mimetizzò in uno sbadiglio il sorrisetto idiota che le era spuntato sulle guance, prese la borsa ed uscì.

Mentre scendeva le scale, un dubbio le assalì la mente: Tarja la sera prima le aveva spiegato che Madelin si era leggermente fissata con la religione “delle croci e degli esserini con le alucce piumate”-che gran rivelazione-, e che aveva provato a fermarle con una preghiera, ma che quando si era accorta che Cherì desiderava davvero andarsene da quella catapecchia allora si era arresa e le aveva lasciate andare.
Però, c’era qualcosa che non tornava.
La rossa aveva avvertito che sarebbero avvenute conseguenze gravissime nel caso che fossero stati scoperti, ma infine si era risolto tutto in modo piuttosto semplice, tanto che Amy si era perfino chiesta che bisogno ci fosse stato di architettare quel piano così complicato e losco.
Perché preoccuparsi così tanto, se poi Madelin avrebbe opposto così poca resistenza?
Forse Tarja aveva sopravvalutato sua madre, o forse no.
E poi, c’era quella sensazione: quel gelo terribile che scottava, sì, qualcosa di rovente e contemporaneamente ghiacciato, la cosa più spaventosa che si potesse immaginare.
Se l’era solo sognata? O, forse, era solo il suo cervello che cominciava a risentire di tutto l’alcool che si era scolata? O, forse…
Aveva uno stranissimo presentimento.

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Capitolo 8
*** Capitolo VIII -A new day- ***


A new day

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Cherì non si era mai sentita così spaventata ed insieme emozionata in vita sua,
il cuore le palpitava a mille nel petto ed aveva paura che da dietro ogni angolo sbucasse un mostro o peggio, ma nel frattempo scariche di eccitazione le tenevano il volto bianco acceso di gioia e non riusciva in nessun modo a smettere di sorridere scoprendo i denti da una guancia all’altra.
Il sole era accecante, non lo ricordava così luminoso, tanto che quando camminavano all’aperto lei era in grado di vedere solo macchie variopinte, nere o bianche a seconda di quanto riusciva ad evitare di strizzare gli occhi, e sarebbe sicuramente finita sotto uno di quegli aggeggi puzzolenti con le ruote che Amy aveva chiamato “automobili” se Tarja non l’avesse condotta pazientemente entro i confini del marciapiede, tenendola stretta per mano.
La brezza d’autunno che le scompigliava i capelli era fresca e piacevole: trascinava foglie rosse, gialle e marroni tra le mura di cemento delle case popolari, e poi le spingeva sul marciapiede facendole danzare in mucchi fruscianti che era divertente far esplodere in una nuvola colorata con un calcio ben assestato, e in quel momento, se nei dintorni c’erano dei piccioni, allora anche loro spiccavano il volo tutti insieme ed era magnifico ascoltare il battito veloce delle loro ali e vedere tutti quei colori che s’innalzavano vitali nella luce.
Le sembrava di essere tornata bambina.
Tarja, poi, era bravissima a prendere a calci le foglie, ed era anche molto, molto bella, con i jeans che le aveva prestato Davey –infatti quelli di Amy erano troppo piccoli per due spilungone come loro due-: Cherì sentiva un forte calore sanguigno affluirle nelle guance quando la guardava: il tessuto blu metteva in risalto le sue curve morbide e sinuose, così diverse dagli spigoli che spuntavano ossuti dai suoi fianchi patiti, ma lei non la invidiava, anzi: con un corpo del genere si sarebbe sentita tremendamente a disagio per l’imbarazzo, e per di più avrebbe attirato su di sé pericolosi sguardi grondanti lussuria.

Erano uscite loro due, loro due insieme da sole, perché dovevano portare a termine un compito importantissimo: “fare la spesa”.
Amy aveva indicato loro la strada per il negozio, aveva messo nelle mani di Tarja una mazzetta di banconote verdi ed aveva enunciato una lista di cose da comprare, che però avevano scordato subito, prese com’erano dalla novità dell’occasione.
Una volta giunte al mercato, erano state confuse da una miriade di oggetti colorati tutti impilati uno accanto all’altro, e da persone di ogni genere che si aggiravano frettolose tra gli scaffali e poi si mettevano tutte in fila sgomitando, come formiche arrabbiate.
Loro due si erano fatte delle gran risate in quel posto così buffo, e poi, quando si erano stancate di prendere in giro gli avventori del negozio, avevano scelto tra quei mucchi di oggetti e strani cibi quelli che più catturavano la loro curiosità ed il loro gusto estetico, ed infine si erano avviate verso casa.

Con i sacchi di carta marrone pieni di delizie stretti in braccio, le due parlottavano ridendo di argomenti frivoli sulla via del ritorno, quando all’improvviso da un angolo più buio saltò fuori una ragazza con una divertente espressione corrucciata che sbarrò loro il passo, puntando una pistola in un punto indefinito tra lo stomaco di una e la testa dell’altra.
I suoi vestiti erano tutti stracciati, e le braccia erano ricoperte da complicati disegni colorati.
Tarja le sorrise, benevola.
“Ciao, possiamo aiutarti?”
“I soldi! Datemi tutti i soldi che avete o sparo!”
“Soldi?”
Tarja si accorse che Cherì era corsa a nascondersi dietro le sue spalle, probabilmente spaventata dall’irruenza della nuova venuta, o forse intimorita da quegli strani ghirigori sulle sue braccia, così inusuali, ma poco importava: Cherì non si era ancora abituata al mondo esterno e Tarja si rendeva perfettamente conto che doveva essere molto difficile per lei trovare il coraggio di avventurarsi per strada, e così la prese per mano, con dolcezza, per rassicurarla: insomma, sorellina, è solo una ragazza come me o te, cosa c’è da avere paura?
“Sì! Soldi, brutta deficiente!”
“Beh amica mia, temo di non averne. Li abbiamo appena usati per fare la spesa, mi dispiace davvero moltissimo. C’è qualcos’altro che io possa fare per te?”
“Mi prendi per il culo!?”
“Accidenti, come sei nervosa, devi avere avuto una pessima giornata. E sembri anche stanca. Senti, i soldi li ho finiti, ma se vuoi posso offrirti un po’ di questo budino che ha un profumo così buono…magari con la pancia piena ti sentirai meglio!”
Tarja estrasse dalla busta retta dalle braccia ancora un po’ tremanti di sua sorella una bottiglietta di plastica tutta colorata, che emanava il fantomatico profumo appetitoso, e la porse alla giovane ladra, la quale un po’ confusa tentennò con l’arma in mano, per poi afferrare ciò che le veniva porto con uno scatto felino.
Sbarrò i grandi occhi guardandone l’etichetta, e poi più furiosa di prima ripuntò l’arma contro la ragazza dai lunghi capelli rossi:
“Cos’è questo scherzo!? Questo è shampoo alla vaniglia!”
“Ah…perché, non si mangia?”
“Certo che no! Sei handicappata, forse?”
“Oh cavolo, mi dispiace…aveva un profumo così invitante…Devo rimediare assolutamente. Ho un’idea, ti piacerebbe venire a casa con noi? Sarai nostra ospite, tanto da mangiare ce n’è abbastanza per tutti!”
La ladruncola rimase per un secondo immobile, con i muscoli facciali bloccati in un’espressione perplessa, poi abbassò l’arma.
Tutte e tre ripresero il cammino, dirigendosi verso la casa di Amy.

Amy, irritata dalla sua ennesima visita, lanciò un piatto crepato contro l’uccellaccio dai tondi occhi gialli che si era appollaiato di nuovo sui rami dell’albero davanti alla sua finestra, e quello se ne volò via sbattendo le ali candide con uno stridio acuto.
“Ma no, dico, vicino” continuò la ragazza ritornando a volgersi verso Davey, piuttosto infervorata dopo il lancio, “che avresti fatto se quella matta di Madelin i tuoi libri se li comprava sul serio? Costeranno un occhio della testa.”
“Sciocchezze.” rispose Davey serafico, dopo aver assistito allo sfogo omicida della blu contro quel povero barbagianni fuori, tranquillamente seduto al tavolo in attesa del pranzo.
“Nessuno sano di mente comprerebbe la bibliografia di Hegel, e se io ce l’ho è perché mio zio che me l’ha regalata mi odia. Leggerla tutta indurrebbe al suicidio.”
“Ma quella sul serio ti sembrava sana di mente?”
“Ouh…”
Mentre Davey si perdeva nel vuoto inquietante della consapevolezza di aver rischiato di perdere uno dei tesori più preziosi che possedeva, la porticina del monolocale si spalancò ed entrarono gridando Tarja e Cherì con le borse degli acquisti, più…una completa sconosciuta.
Con una pistola nella tasca dei jeans.
Dunque, Amy aveva previsto che affidare l’incombenza della spesa alle due gemelle avrebbe potuto significare andare in contro a risvolti “interessanti”, ma questo, proprio…
“Eeemh…e tu saresti…?”
La nuova venuta, perfettamente a suo agio, entrò a grandi falcate nella stanza, spiccò un balzo e si sedette languidamente sul tavolo, seguita a ruota dalle sorelle che sembravano felicissime per la nuova amicizia che avevano stretto per strada.
“Si chiama Annette! Ha detto che è nata in Brasile!”
“Sì! È vero è vero!”
“E poi ha detto che è capace di mangiare tre hamburger in venti secondi senza vomitare!”
“Oooh…è vero! È vero!”
“E poi…e poi ha detto che si è fatta fare ben quindici tatuaggi, non è pazzesco?”
“Sì pazzesco!”
Gli occhi delle due luccicavano di ammirazione, e la diretta interessata sembrava accettare tutti quei complimenti con la naturalezza di chi sa che gli sono dovuti.
“Quando si mangia, tesoro? Le due ragazzine qua mi hanno promesso un pranzo.”
Aveva un tono di voce basso, sfacciato, accompagnato dal ruminare senza sosta delle mandibole impastate di chewing-gum: un’aureola di riccioli neri come il petrolio le circondava il volto ambrato e pienotto, adornato da strani occhi a mandorla blu dalle lunghe ciglia e da due labbra di rubino.
Inoltre le braccia, il ventre ed il seno prosperoso stretto in un’esuberante scollatura erano ricoperti da tatuaggi colorati di ogni genere e sorta.
“Oh, emh…ok…tanto oggi offre Davey!”
Senza aver dato segno di aver ascoltato, la mora si piegò sullo studente seduto sulla seggiola di fianco al lei, piantandogli il decolté in faccia.
“Ma che carino che sei Davey, dì un po’, tu ne hai tanti, di soldi…?”
Amy spinse giù dal tavolo quella stracciona con una certa irruenza annunciando di dover apparecchiare, e lanciando a Tarja un’occhiataccia furibonda.
Cherì era sparita da qualche parte con la sua Divina Commedia, e Davey fu strattonato da qualche mano che lo fece uscire dallo stato catatonico in cui lo avevano gettato le tette di Annette.

Il pranzo a base di lasagne confezionate provenienti dal frigo di Davey con vagabonda raccattata dalla strada fu l’ennesimo regalo che Tarja riservò per la monotona –ma Dio, tranquilla!- vita di Amy.

Erano calate le tenebre già da un po’, ed a giudicare dalla luce il vespro doveva essere passato già da un bel pezzo, calato oltre l’orizzonte aguzzo di tetti insieme al tramonto.
Annette se ne era finalmente andata dopo un pomeriggio di stressante ospitalità forzata, Davey era tornato a casa sua e tutti dormivano nei loro giacigli.
Accoccolata sul pavimento ai piedi del letto di Amy, raccolta in sé stessa e nascosta come un cucciolo nella sua tana, Sharon stringeva forte il grano del suo rosario d’avorio, cantilenando lievemente le strofe dell’Ave Maria tra le labbra.
La sua mente era frastornata, il suo cuore confuso, ma la sua anima, quella era piena di gioia, tanto piena che si sentiva come sul punto di scoppiare.
Dondolando dolcemente avanti ed indietro recitava la preghiera con profonda devozione, e sentiva la pace divina invaderla e darle ristoro come una rassicurante mano tiepida sui capelli, carezza che solo la Madonna o sua sorella erano mai state in grado di riservarle.
“Ehi, ciao.”
Era tanto concentrata nel suo mormorio, che non si era neanche accorta che la proprietaria del letto era scesa dal suddetto e si era accucciata accanto a lei.
Sharon avvampò in un secondo, e nascose tra le ginocchia il suo rosario.
“Oh, scusami, ti ho disturbato? Stavi pregando?”
“No…no non importa, Amy…”
Amy le faceva un po’ paura, non sapeva bene perché.
Forse era per quei capelli così ispidi e così blu, o forse per quella sferetta argentea che faceva capolino sotto il labbro carnoso e ben disegnato, o forse per la sua espressione, sempre così finta come una maschera di cartapesta tutta piena di crepe, fessure buie che facevano trasparire qualcosa che oltrepassava la tristezza, il volto terribile della noia di vivere.
“Ti manca la tua mamma?”

Amy non sapeva perché glielo aveva chiesto.
Era una domanda scema.

“Beh…sì, sento un po’ la sua mancanza, ma lei mi lasciava spesso da sola, e poi adesso ho Jaja…”
Cherì arrossendo volse per un attimo lo sguardo alla sua incredibile sorella, dormiente sul divano.
“Davvero Madelin ti lasciava da sola? Ma perché, visto che vivevate chiuse là dentro da sole…?”
“Perché dovevo concentrarmi nello studio.”
“Oh.”

Il silenzio imbarazzato che seguì, Amy lo sentì aspirarle le frasi fuori dalla gola come un aspirapolvere, con una fastidiosa sensazione di soffocamento, in modo da impedirle di trovare qualcosa di sensato da dire.
Ma perché era venuta a parlarle? Lo sapeva benissimo di terrorizzarla per qualche oscura ragione.
Perché non aveva accettato il suo ruolo di mostro spaventoso e non aveva risparmiato la sua vista a quel fragile e devoto esserino?

“Amy, tu in quale girone dell’Inferno andrai?”
Sharon lo aveva chiesto così, all’improvviso.
Per qualche oscura ragione, era convinta che anche Amy sarebbe andata all’Inferno, lo leggeva nei suoi occhi.
“Che? Beh, credo che finirò nel reparto “alcolizzati cronici”, o forse nella sezione “miscredenti eretici-che-sputano-sulle-scale-delle-chiese”…ma io punterei di più sulla prima!”
La faccia di Amy si era stiracchiata in malo modo in uno di quei suoi sorrisi un po’ forzati, e Sharon si sentì lusingata per la risposta.
Nessuno le aveva mai risposto, prima.
“Io…io so già in quale girone andrò.”
“Davvero, Cherì? Ma perché una tipa tutta riservata e carina come te dovrebbe andare all’inferno, scusa?”
Questa volta fu Sharon a stiracchiare la faccia, imbarazzata.
Nessuno era mai stata ad ascoltarla, prima, ma ora si rendeva conto che forse non si sentiva pronta a rivelare una cosa del genere.
Amy accettò il suo silenzio, e spostò lo sguardo al cielo stellato fuori dalla finestra, assorta.
Quello stupido barbagianni era tornato ad appollaiarsi sui rami del suo albero.
Sbuffò con quel suo fare da bambina, e Sharon sorrise.

“Senti, Amy, chi è quel ragazzo su quel ritratto che c’è appeso sopra il comodino?”
Sharon lo aveva notato quel pomeriggio, il ragazzo dai capelli color carota con quel sorriso così accalorato e sincero, stampato sotto la sottile pellicola della fotografia, appiccicato sopra il comò con una buona dose di scotch.
Alla domanda, Amy impietrì.
Stringendo le mani sulle ginocchia fino a far diventare bianche le nocche, si solidificò come una statua di marmo, con gli occhi sbarrati fissi al cielo, immobili, pietrificati.
Fu allora che Sharon capì che Amy non era destinata a finire all’Inferno,
lei ci viveva già dentro.

DRRRRRRIIIIIIIIIIIIIN!
“Maledizione! Chi diavolo suona il campanello a quest’ora?”
Riscuotendosi, Amy balzò in piedi sotto lo sguardo curioso e vagamente intimorito di Cherì, si gettò il giubbotto sulle spalle ed uscita di casa fece le scale di corsa.
Alla porta trovò un ragazzo molto avvenente, dai lunghi capelli biondi.
Quando parlò, Amy percepì un vago accento russo.
“Buonasera. Sono un amico di Tarja, sai se per caso è in casa?”

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Capitolo 9
*** Capitolo IX -Fuoco- ***


Fuoco

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Amy si affrettò a risalire le scale col cuore che le batteva in gola, in preda ad una smania frenetica che faceva correre le sue gambe, generata dalla brutta, bruttissima sensazione che in tutto ciò ci fosse qualcosa di tremendamente sbagliato.
Entrata nell’appartamento, svegliò Tarja scuotendole le spalle con un gesto che avrebbe voluto essere delicato ma che infine si rivelò una scarica brusca e prepotente di ansia malcelata.
“Ehi, ehi Tarja svegliati! C’è giù uno che ti cerca!”
“Mgh…”
La rossa grugnì il suo disappunto e storse la faccia in un impastato addio all’abbraccio del sonno, ma non appena le parole di Amy giunsero alle sue orecchie sembrò attraversata da una scarica elettrica e si aggrappò ad Amy per tirarsi a sedere, con gli occhi pesti di stanchezza ma già incredibilmente freddi e concentrati.
Amy, già abbastanza agitata di suo, si preoccupò alla sua reazione, e la sua angoscia crebbe ancora di più quando notò le mani bianche e le spalle sottili di Tarja scosse come foglie al vento d’inverno: tremava.
“Uno che mi cerca chi?”
“Non lo so…non ho idea di chi sia!”
“Me lo descriveresti?”
Il respiro mozzo della fanciulla dai lunghi capelli di ciliegio gettò Amy nel panico più incontrollato.
“Lui…avrà più o meno vent’anni…biondo, non troppo alto, vestito normale, direi…e poi ha una cadenza europea nella voce, russa, forse…”
Mentre la blu parlava, le sopracciglia di Tarja si arcuavano sempre di più nello sforzo della visualizzazione, o forse del ricordo, e quando la descrizione fu terminata scosse nervosamente la testa.
“Non lo conosco.”
Amy giurò di intravedere un frustrato “maledizione!” sfuggire tra le labbra dell’amica mentre lei balzava in piedi rigida e scattante come un fuso e si dirigeva a grandi passi ad aprire l’antina sotto il lavandino, dove era stata nascosta le sua arma: il glorioso ferro da camino.
“Perché prendi quello? Cre…credi che il tipo di sotto possa essere pericoloso?”
Tarja in tutta risposta strinse il pezzo di metallo e ricacciò in gola un sospiro, per poi inscenare subito dopo un sorriso rassicurante, quando vide che Cherì si era alzata dal suo cantuccio e la fissava tremando con tanto d’occhi, stringendo ancora fra le dita il suo rosario d’avorio.
“Sorellona che succede? Non sarà mica…”
“Shhh! Non è nulla, voglio solo prendere delle precauzioni. Stai tranquilla.”
Si volse ad Amy, accentuando la sua mimica sorridente e rendendola ancora meno convincente di prima:
“Amy, amica mia, probabilmente è solo un rompiscatole notturno che mi ha vista questo pomeriggio per strada. Non preoccuparti, ora vado giù, gli parlo e lo mando via. Voi restate qui, non è necessario che mi seguiate e vediate certe scene.”
Detto questo si voltò e veleggiò come uno spirito incorporeo fuori dalla porta di casa, lasciando Amy e Cherì lì paralizzate in piedi, in preda al panico: entrambe non avevano potuto fare a meno di notare le strisce luminose di lacrime di paura che si erano materializzate sulle guance terree della loro giovane compagna.

Diodor aspettava alla porta del condominio col braccio stancamente appoggiato sullo stipite di legno, quando qualcosa di gelido e metallico gli premette all’improvviso sulla gola strattonandolo all’indietro, aderente ad un corpo caldo e dalla forza sovrumana.
“Chi sei? Chi ti manda? Il Cerimoniere?”
Un alito caldo al sapore di cannella gli sfiorò la guancia, ed un sorriso largo e sornione si spalancò sul suo viso, sprezzante nella pessima situazione, -strozzato da un qualche pezzo di metallo-, nella quale si trovava.
“Lady Tarja? ”
Il respiro si fece spezzato, ma la pressione del metallo incrementò la sua stretta.
“Può darsi di sì, può darsi di no.”
“Sai,” disse il biondo, con voce soffocata: “ti facevo più furba, per essere riuscita a scappare da quel cimitero di Chrysantemum Hill. Eppure, ti sei praticamene gettata tra le mie braccia!”
Troppo facile.
Come minimo, Diodor si sarebbe aspettato di cercarla tutta la notte fra i viottoli oscuri, di inseguire il suo vago profumo soprannaturale tra torbe di umani innocenti, di stanarla dopo ore di una sottile gara di astuzia tra cacciatore e preda che lui infine avrebbe vinto…
Ma così, era quasi una delusione: si vede che la fama che circondava la Lady era un po’ esagerata.
“Sei pazzo, per caso!? Non lo sai che siamo in una città di umani!?”
Di nuovo, la sua voce di cannella.
“Sai benissimo anche tu che non devono scoprire la Nostra esistenza! Ora dovrò per forza ucciderti qui, in silenzio, e disperdere le tue ceneri. Stupido!”
La voce singhiozzò e la pressione del metallo tremolò sulla sua gola, come se l’erede al trono della Stirpe demoniaca si fosse messa a piangere: Diodor trovò la cosa esilarante.
“E perché dovresti uccidermi? Non sono mica un Demone come te. Sei tu la pazza che è scappata tra gli umani infrangendo la Regola, non certo io.”
“Che cosa!?”
Con uno strattone, Diodor fu calciato in avanti e liberato dalla presa metallica, con un movimento agile riacquistò l’equilibrio e si voltò a fronteggiare la sua nobile preda: si trovò davanti una spilungona, con i capelli rossicci raccolti sulla nuca e tutti scompigliati a causa di un’alzataccia, gli occhi pesti di sonno e paura, vestita unicamente di una maglietta nera abbellita da un logo spigoloso e di cattivo gusto che lasciava scoperte le gambe bianche e tremanti, ed infine con un ferro da camino tra le mani impugnato a foggia di spada.
Non esattamente la fanciulla leggiadra e bellissima che tutti descrivevano.
“Sicura di essere Lady Tarja Lucifer?”
Diodor scoppiò a ridere, no, non era possibile che fosse davvero lei, perché se quello fosse stato solo un abile travestimento da umana allora non avrebbe svelato la sua identità con tanta ingenuità, né tantomeno sarebbe scoppiata in lacrime all’idea di farlo fuori.
Sempre sorridendo, il giovane si tolse i guanti consunti che portava, e mostrò a Lady Tarja due palmi completamente ricoperti di cicatrici, sfregi impossibili da ottenere per la pelle di titanio demoniaca, a conferma della sua precedente affermazione.
“Sei umano!”
“Proprio così. Perciò, per favore, smettila di frignare e di minacciare di uccidermi, e ascoltami.”
Lady Tarja, appresa la vera natura del biondo, sembrò tranquillizzarsi e lentamente abbassò il ferro e si mise ad osservare Diodor, curiosa.
“Dunque, milady. È il Cerimoniere che mi manda, visto che prima me lo hai chiesto, ed il mio compito è quello di riportarti a casa alle tue responsabilità. Hai idea del disastro che hai provocato? Sono tutti quanti disperati nella reggia e nessuno sa cosa fare. Sei stata davvero una bambina cattiva.”
Agitò in aria l’indice con aria di rimprovero senza far sparire dalla faccia quel suo sorriso beffardo, prendendosi gioco della creatura e godendo nell’aspettativa della sua reazione infuriata.
Invece lei rimase perplessa, ed anzi sembrò leggermente divertita.
“Dimmi se ho capito bene.” gli disse, appoggiandosi sulla sua strana arma con tutto il peso come si fa con un bastone: “Il Cerimoniere di corte, l’Arcidemone secondo solo a me e a mio padre in potere ed autorità, ora momentaneo sovrano di Chrysantemum Hill, ha inviato a recuperare me, l’erede al trono, un umano?”
“Già.”
“Oooh…allora è la tua giornata sfortunata, biondino.”
“Mi chiamo Diodor, se permetti.”
“Piacere, allora. Ora, per cortesia, dato che di solito sono contraria alla violenza contro i mortali, torna a casa, umano.”
“Perché mai dovrei farlo? Mi hanno pagato per portarti via da qui.”
“Davvero? Provaci, allora.”
Diodor, divertito, infilò la mano nella borsa che portava appesa alla cintura dei pantaloni, ed afferrò qualcosa.
La ragazza continuava a fissarlo con un sorriso ilare, rasserenato dalla sua schiacciante superiorità, ed abbassò il volto per nascondere una risata quando nel palmo martoriato dell’umano comparve quella che sembrava essere una piccola bomba di fattura antica, senza neanche la miccia.
“Cosa credi di fare, con quella? Non lo sai che i Demoni sono invulnerabili?”

“Beh…esistono solo due cose che possano danneggiare un Demone.” Cantilenò l’altro, sprezzante.
“La prima è un Demone più potente, e la seconda…un Angelo!”
Scagliò la bomba, che esplose di luce accecante come un secondo sole in Terra ed abbacinò il mondo rendendolo un unico infinito bianco. Tarja gridò e la luce sembrò ritirarsi in un grappolo sempre meno luminoso ma sempre più rovente di fiamme candide ai suoi piedi, e quando la vista tornò il fuoco ardeva sparso tra gli anfratti dell’asfalto, sul ferro da camino incandescente gettato prontamente per terra e sulla pelle bianca della ragazza, accartocciandola come pergamena antica sotto le sue mani che tentavano convulsamente di spegnerla.
“Fiamme Angeliche!?”
“Può darsi di sì, può darsi di no. Dimmi mia cara, non le trovi bellissime?”
Diodor rise, assolutamente incolume assieme a tutto il resto dell’ambiente, ed estrasse un'altra bomba, ma all’improvviso si vide avvolto anch’esso da fuoco oscuro e rossastro, che gli sgorgò all’improvviso da sotto i piedi e lo fece cadere in ginocchio.
“Non mi avrai!”
Le fiamme si estinsero appena in tempo per permettergli di vedere il Demone che come una saetta schizzava sopra il tetto del palazzo di fronte, ardendo di luce propria come una meteora ed imponendo le mani contro di lui.
Il mondo tremò e si incrinò ed il potere circondò Lady Tarja Lucifer lassù come un manto vibrante, attorcigliandosi attorno al suo capo vermiglio incoronato da due neri corni ricurvi in ardenti aureole serpentine.
Diodor si rese conto in un attimo che tutto il creato si stava contraendo su di lui con la forza di mille mari e di mille montagne, e grazie alla sola forza dell’istinto lanciò in alto la sua bomba appena in tempo, che esplose a metà strada dieci volte più abbagliante della prima, sprigionando lingue di fuoco bianchissimo ed annullando l’oscurità infernale, che gli diede un attimo di tregua.
“Maledizione…” mugugnò, tremante.
Kokoschka sfrecciò vibrando sul tetto dove Tarja si contorceva avvolta dall’ardente candore della bomba appena scoppiata, e per poco fu incenerito quando, annunciato da un grido bestiale, sotto la giovane si spalancò un baratro fiammeggiante e da questo uscì una colonna di lingue nere.
Innalzandosi verso il cielo, i fuochi la avvolsero e spensero le fiammate bianche neve, per poi concentrarsi tra i suoi artigli tesi ed essere dirette verso Diodor, il quale ora correva attraverso la via nascondendosi tra le mura dei palazzi e gli alberelli, scagliando una bomba dietro l’altra, che esplodeva all’incontro con i dardi di Tarja in una sublimazione di luci bianche nere e rosse che si soffocavano a vicenda illuminando a giorno la strada come un eccezionale spettacolo pirotecnico.
Inaspettatamente una delle bombe, per abilità del tiratore o più probabilmente per puro volere della sorte, raggiunse l’obbiettivo ed esplodendo scaraventò Tarja giù dal tetto, infiammandole i vestiti ed i capelli, per poi farla rotolare con un tonfo sul duro cemento.
Diodor, ansante e ricoperto di bruciature sanguinanti, corse sopra di lei prima che avesse il tempo di riprendersi e con un balzo si inginocchiò sul suo torace per tenerla ferma, facendole sputare un rantolo sofferente.
Estrasse una delle sue bombe, la puntò reggendola in mano davanti alla faccia di Tarja ricoperta di sangue, attaccata al naso, e sorrise beffardo.
Tarja vacillando sul limite della sua coscienza ne sentì il contatto freddo ed udì una voce odiosa che le diceva qualcosa come “ti ridurrò così male che a casa ci tornerai in un cucchiaino”: seppe che era tutto finito, quando…

BANG!

Diodor tossì, trafitto da un dolore lancinante al polmone destro.
Sangue.
Qualcuno lì dietro gli aveva sparato.
Sentì un manto ovattato premergli nelle orecchie ed oscurargli la vista mentre cadeva, e poi il grido di Kokoschka.
E poi nero.

Quando riprese conoscenza, Tarja era sola in strada.
Al posto di quell’odiosissimo umano, macchie di sangue ancora caldo sull’asfalto e sul suo ventre, come un campo di piccoli papaveri tiepidi, ma lui non c’era più.
Quando alzò gli occhi al palazzo, vide i due volti pallidi di Amy e Cherì alla finestra.

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Capitolo 10
*** Capitolo X -La verità- ***


La verità


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Dappertutto vigeva un gran trambusto.
L’appartamento era raggiunto da ogni genere di rumori e movimenti: Davey, per qualche motivo, trottava percorrendo circoli dalla porta al divano alla finestra, indossando il suo pigiama scozzese, con la faccia contratta e la bocca incessantemente aperta in frasi inutili; Cherì piangeva e si lamentava come un’ossessa, piegata sul corpo adagiato sul divano, in un modo così fastidioso che se avesse continuato ancora per solo cinque minuti Amy l’avrebbe buttata fuori a calci.
Dalle fessure della tapparella calata sulla finestra provenivano ad intermittenza flash di luci rosse e blu, che illuminavano la stanza a cui era stata spenta la luce, accompagnate dal canto stonato delle sirene delle gazzelle della polizia e da un vociare di folla confuso ed infuriato, trafitto talvolta da strilla di terrore:
“All’attentato!” “Sparatoria!” “Piromani!”
Amy se ne stava ferma seduta sul letto lasciandosi scorrere addosso tutte quelle sensazioni senza essere in grado di collegare il cervello ed assorbire l’accaduto, lasciando che il suo corpo fosse mosso da scatti meccanici dettati unicamente dall’abitudine o dagli ordini di Davey.
No, non l’avrebbe mai accettato.
La sua mente era sospesa in un limbo lontano mentre osservava il corpo martoriato di Tarja sul divano, cosparso di amorevoli calde lacrime gocciolanti dal viso bianco della sua gemella.
“Perdonami amica mia, se ti ho mentito…io non sono umana. Erano venuti per riprendermi…”
Parole mormorate e smozzicate, irreali.

“Amy, diamine! Ti ho detto di chiudere quella fottuta finestra!”
“Sì…sì Davey.”
Amy finì di abbassare la tapparella e le luci diminuirono, rendendo l’ambiente ancora più buio.
“Fai piano Cristo! È già un miracolo che io mi sia svegliato e che siamo riusciti a portarla su prima che i condomini scendessero a vedere cos’era successo, vuoi proprio che vengano tutti qui e la portino via!? Dobbiamo chiamare il 118…”
“No! No!” singhiozzò Cherì.
“Ma è ustionata!”
“No…no…non devono vederla…non adesso…”
“Cosa facciamo allora!?”
In tutta risposta Cherì pianse ancora più forte, stringendo con una mano il rosario e con l’altra quella di Tarja.
“Dici che si accorgerebbero che non è umana?”
“…s…sì…”
“Amy, svegliati! Vieni qui ad aiutarmi, hai un asciugamano?”
“Emh…sì, eccolo.”
“Dammi una mano, qui…che almeno le tamponiamo un po’ le ferite.”

Eppure, l’aveva vista.
L’aveva vista ardere come un meteorite incoronata da corna ricurve di caprone, circonfusa da fiamme spaventose e con le mani protese come artigli, ed aveva sentito la vita congelarsi scricchiolando nelle sue vene, ghiaccio e fuoco, esattamente come quella volta in Cypress Street.
Il suo cervello aveva staccato la spina dal mondo, ed ora viveva in un sogno ovattato, disturbato dalle parole di Davey e dal pianto di Cherì.
Non l’avrebbe mai accettato.

Tarja si mosse faticosamente, ed aiutata dalle braccia di sua sorella si issò in posizione semi-seduta sul divano mugolando per le fitte di dolore, riuscendo finalmente a svegliarsi del tutto dopo che Davey le aveva messo sulla fronte un panno inzuppato di acqua gelida.
“Come stai, Jaja?” chiese Cherì, con gli occhi e le guance luccicanti.
“Fa malissimo…ma non preoccupatevi, entro domani mattina sarò guarita.”
Accennò un sorriso sbilenco: il suo viso era percorso da una orribile striscia più scura che le attraversava mezza bocca, tutto il naso e buona parte della fronte, dove la pelle pareva essersi accartocciata come la carta quando brucia, lasciando intravedere al di sotto la carne marronastra; sfregi di questo genere le percorrevano più o meno tutto il corpo, deturpandolo in modo impressionante: non erano ferite che un umano potesse tollerare.
Davey si inginocchiò davanti a lei mantenendo un silenzio pieno di domande, e Cherì abbassò la testa.
Le percezioni di Amy le suggerirono che era un momento importante e che doveva anche lei mettersi ad ascoltare, così si posizionò atona a gambe incrociate di fronte al divano, accanto al suo dirimpettaio.
“Cosa sei?” chiese semplicemente Davey.
Tarja respirò lentamente prima di cominciare, e strinse più forte che poté l’incoraggiante presa tiepida della mano di Cherì, per darsi la forza di parlare.

“Io non avrei mai voluto che accadesse, speravo di riuscire a lasciarmi per sempre alle spalle la mia Stirpe, tornando a vivere tra gli umani come prima, per poi fare…beh, fare una certa faccenda che ho in mente. Ma purtroppo ora voi avete visto le mie corna, e c’è una sola cosa da fare per poter rimediare.
Quello che sto per dirvi è celato agli umani da una Regola stabilita secoli e secoli fa, perciò, da oggi, voi due sarete iniziati. Ora capirete che voglio dire. Io sono…”

“Un Demone! Tarja si sta trasformando in un Demone! È inutile che continui a nascondermelo, Ogre, credi che sia ceca!?”
Jaja e Cherì sobbalzarono quando mamma Madelin alzò la voce, e per un secondo ebbero l’istinto di staccare subito le orecchie dalla porta di legno e sgattaiolare furtive in camera loro, scappando da quel grido doloroso; ma il discorso di mamma e papà era troppo importante per non essere origliato dall’inizio fino alla fine, perciò rimasero al loro posto.
“E’ così, Madelin.” La voce di papà, sempre così profonda, tranquilla e rassicurante:“ Come vuoi, te lo dirò, anche se avrei preferito non farlo. Finalmente l’essenza demoniaca ha cominciato il suo risveglio in Tarja, e la sta trasformando in ciò che è e dovrebbe essere la sua vera natura: una figlia della Stirpe”
“Mi avevi promesso che non sarebbe successo!”
“Non dipende dalla mia volontà, purtroppo. A quanto pare è un processo irreversibile.”
“Irreversibile!? Vuoi dire che diventerà una di quelle odiose creature!?”
“Madelin! È tua figlia, oltre che la mia.”
“Tu eri esattamente come loro prima che io ti sposassi! Quella non è più mia figlia! È un mostro!”
Cherì si volse appena verso sua sorella, ammutolita a quelle parole e con la faccina schiacciata contro il legno della porta:
“Jaja, cosa vuol dire?”
“Non lo so…” Jaja si mise ha piangere, singhiozzando in silenzio. “Forse è per quelle cose che ho imparato a fare…ma…io…non volevo far arrabbiare la mamma, non volevo essere un mostro…”
“Non sei un mostro, sei la mia sorellina Jaja. Forse la mamma crede che sei una strega come quella di Hansel e Gretel. ”
Cherì diede un bacino sulla guancia di Jaja, e lei parve tranquillizzarsi un pochino, mentre nell’altra stanza la discussione infuriava.
“ Avevamo detto di aver tagliato tutti i ponti con l’Inferno, dovevamo essere una famiglia felice! E invece non solo mio marito è ancora quel Demone schifoso che era prima, ma mi ha anche portato un nuovo demonio tra le mura di casa! Maledetto!”
“Madelin, non posso infrangere l’ordine della natura, né rinnegare la mia Stirpe, ne avevamo parlato, ricordi?”
“Ma avevi promesso che le bambine non sarebbero diventate come te!”
“Ti ho già detto che non posso farci niente, semplicemente non l’avevo previsto. Ma questo non cambia nulla, possiamo essere comunque felici.”
“Sciocchezze! Sei un vile e bugiardo! Non voglio vederti mai più! Vattene!”
“Calmati, troveremo una soluzione…”
“Vattene! Esci dalla mia casa, e portati via quel mostriciattolo di tua figlia.”
Il corridoio risuonò lugubre per il silenzio che seguì, e le due bambine, pur non avendo appieno compreso tutte le parole che avevano ascoltato, avevano però capito che stava per succedere qualcosa di molto grave e triste, e per darsi coraggio si erano abbracciate, come facevano sempre quando qualcosa le spaventava.
La porta si aprì ed uscì papà Ogre, con una preoccupante espressione mesta sul volto bianco: non sembrò stupito quando vide le sue figlie che si nascondevano dietro lo stipite.
Si chinò su di loro, ed appoggiò una mano sulla testa di entrambe: “Tarja, dì alla cameriera di prepararti una borsa con i tuoi vestiti.”
“Perché papà?” mormorò Cherì. “Dove deve andare Jaja?”
Ogre si alzò e se ne andò senza rispondere.
(…)
“Tarja” disse Ogre, tenendo la mano sulla testa di sua figlia, sulla strada per Chrysantemum Hill.
“Da oggi, tu devi dimenticarti tutto quello che hai appreso come“regole degli umani”, ed imparare che cosa significhi essere un Demone. Ti devo raccontare molte cose, ma vedrai che ti piacerà l’idea di essere la prossima regina della Stirpe”
Tarja lo ascoltava a malapena, seduta accanto a lui nella carrozza e tutta intenta com’era a piegare alla meglio in quattro il disegno che le aveva dato Cherì come dono d’addio, con disegnate loro due, la casa e l’indirizzo, per non dimenticarsi mai di lei.
“Da questo giorno, Tarja, tu sarai la mia erede.”


“Sei…un Demone?”
Tarja annuì, e Cherì si asciugò gli occhi per l’ennesima volta, di nuovo umidi di ricordi.
“Papà era il sovrano dei Demoni, ed ora io dovrei diventare regina, per questo mi hanno attaccata, per portarmi via.”
Davey, ammutolito dalla semplice inverosimilità di quelle frasi così vere, emise un verso comprensivo, sentendosi una marionetta nel teatrino delle fiabe.
Amy rimase in silenzio.
“La mamma è diventata insopportabile, dopo che papà e Jaja se ne sono andati via.” mormorò la gemella dal caschetto ribelle e lo sguardo triste: “Ha scacciato tutta la servitù e mi ha detto che loro erano andati all’Inferno, e poi mi ha fatta battezzare. Diceva che dovevo dimenticarmi di loro, ha cominciato i suoi discorsi sull’anima che deve essere purificata e il Paradiso e Dio e…e…” senza aver la forza di terminare la frase, Cherì si gettò al collo di sua sorella, di nuovo in lacrime.
“Strano, però. Tu non mi sembri per niente un Demone.”
“E’ perché ti sei perso il mio spettacolino di prima!” mormorò Tarja, a metà fra un tentativo di sdrammatizzare e un’amarezza profonda.
Amy rimase in silenzio.
“Ora che sapete tutto, devo imporre l’Iniziazione su di voi e rendervi iniziati. O tutti gli Angeli e i Demoni di questo mondo faranno a gara per assalire le vostre carni e farne spezzatino.”
Davey deglutì, mentre Tarja appoggiava le sue mani sulla testa di lui e di Amy seduti a terra, preparandosi ad enunciare l’Iniziazione.
Ma le parole le rimasero strozzate in gola: Amy le aveva afferrato il polso con uno scatto imprevisto e le aveva piantato le unghie nella carne.
“Sei una Bestia di Satana?”
“Come…?” Tarja, stupita dalla reazione dell’amica, trattenne un fremito davanti ai suoi occhi di pietra, e tentò dolcemente di liberare la mano.
“Sei una Bestia di Satana!? Rispondi!”
“Beh…” Tarja, terrorizzata, intavolò la spiegazione più pacata che le venisse in mente, con gli occhi di tutti, chi allibiti e preoccupati, chi mortalmente duri, puntati addosso.
“Satana, o Lucifero, è il fondatore della mia Stirpe ed il mio avo, perciò, in teoria…”
“Lo sei!?”
Amy scattò in piedi, furibonda, e strappò via la mano di Tarja dai suoi capelli blu come se fosse stata ricoperta di veleno.
“Fuori di qui! Tutti! Fuori da casa mia!”
Con calci e spintoni strattonò le gemelle via dal suo divano, e poi li buttò tutti fuori di casa urlando insulti e bestemmie, impazzita e posseduta da una furia sconvolgente ed inspiegabile che la rendeva forse più spaventosa di Tarja quando era sul tetto circonfusa di fiamme.
I tre sfrattati si videro sbattere la porta in faccia.
E poi silenzio.
“Ma che le è preso?” sibilò Davey, allungando prontamente un braccio a sostegno di Tarja, che lentamente aveva cominciato a scivolare per terra, stremata e ferita.
“E’ solo colpa mia…” mormorava, mentre Davey e Cherì si affrettavano ad aiutarla a sedersi sul pavimento di marmo freddo del pianerottolo del condominio, nel tentativo di darle un po’ di ristoro nel tempo che lo studente ci avrebbe messo a cercare nelle tascone di flanella le chiavi del suo appartamento.
“Davey, perché si è arrabbiata così?” chiese timidamente Cherì, appoggiando la gota pallidissima e velata di umido spavento contro i capelli di Tarja, come se sentisse anche lei la forza mancarle nelle gambe.
“Non lo so.” Rispose lui sottovoce, aprendo la porta di casa sua. “Ma ho paura che ci sia stato un malinteso, le Bestie di Satana…” esitò, e continuò con un’intonazione stranita nella voce “…non credo che centrino molto con voi. Sono un gruppo di “umani” che commettono i crimini più efferati nel nome del diavolo. Sono solo dei criminali. O no…?”
Lo sguardo perplesso della stanca erede dell’autentico Principe delle Tenebre levò dalla mente di Davey ogni sospetto su presunti rapporti di quella ragazza adorabile con dei pazzi maniaci sanguinari.
“In ogni modo…” mormorò lei, appena prima di addormentarsi stremata dal dolore tra le braccia dello studente che l’aveva sollevata per adagiarla su un giaciglio morbido dentro casa,
“…dobbiamo farla uscire di lì, per imporvi l’Iniziazione, o saranno guai…”

Sharon non riuscì a dormire quella notte, il suo cuore non poteva permetterglielo.
Aveva visto sua sorella, la sua amatissima sorella, ardere di luce diabolica: esattamente come lo aveva descritto la mamma. E la visione l’aveva sconvolta. Ma tutto ciò non cambiava nulla perché sua sorella era la stessa di sempre, lo sapeva, ne era certa, lo sentiva.
Tarja non le aveva raccontato molte cose, e lei non gliele aveva chieste: era un argomento che non avevano ancora affrontato, come se scottasse, come se fosse qualcosa di marcio tra loro, qualcosa che è meglio non toccare, non ora, per paura, vergogna, amarezza.
“Cosa vuol dire essere un Demone, sorellina?” le chiedeva ogni ora con lievi sussurri tra una preghiera e l’altra, sfiorandole i capelli, sdraiata accanto a lei nel grande letto che era stato loro prestato.
Lei era umana, Tarja un Demone.
Questo cambiava tutto, e nulla.
Non riusciva a sopportare l’attesa della venuta del nuovo giorno, per poter domandare, conoscere, capire…
ora come non mai, con Tarja tra le braccia, ferita e dolente a causa del suo destino crudele, a causa di quel peso insopportabile che era stato sobbarcato a lei e solo a lei da quel loro strano padre e da quello stupido sangue demoniaco, avrebbe voluto capirla fino in fondo ed averla più vicina, unita a sé in una sola anima come quando erano bambine. E nel frattempo, vegliava, e pregava per lei.
Saranno state le quattro del mattino, quando notò attraverso una finestra delle persone che occupavano il marciapiede davanti al loro condominio. Chissà chi erano? Sharon per un momento ebbe paura che fossero altri Demoni venuti a prendere Tarja, ma poi si tranquillizzò subito, ricordandosi che la persona contro la quale la sua gemella aveva scagliato le maledizioni più offensive e disgustose, poco dopo essere stata soccorsa, era un umano. Perché i Demoni non possono farsi vedere dai mortali. Il perché Tarja avesse infranto questa Regola era una delle domande che si era programmata di fare quando sarebbe sorto il sole, ma era sicura che la giustificazione sarebbe stata più che valida. Poi, c’erano altri dubbi che voleva chiederle, ad esempio: perché quell’umano era riuscito a ridurla così? E perché poi era sparito senza traccia e l’aveva lasciata lì per terra senza portarla via? Cosa succede se un umano vede un Demone e non è iniziato? Ma le corna spuntano solo quando si lanciano fiammate? Ma non ci si scotta…?
Il suo incontrollato flusso di pensieri fu arginato all’improvviso da una visione che rapì il suo sguardo perso al di là del vetro, ed evanescente si dissolse nello stupore insieme al vago chiarore dell’alba, che cominciava a tingere il cielo. Fuori dalla finestra, là, sul marciapiede,
due occhi verdi come il mare.

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Capitolo 11
*** Capitolo XI -Angeli- ***


Angeli


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“Ciao anche a te! Come ti chiami?”
La ragazza dagli occhi verdi le sorrise, e tese una mano in segno di saluto.
“Io…sono…sono Sharon.”
“Molto piacere Sharon! Io mi chiamo Andrea.”
Ebbe paura a stringere quella mano, e quando si decise a toccarla da quel contatto soffice scaturirono delle scariche elettriche che le accesero il cuore come un motore a scoppio e le guance di bollente rossore. Oh Signore, e se se ne fosse accorta?
“E’ un piacere anche per me.”
Sharon doveva sicuramente essere impazzita, per essersene scesa tutta sola a quell’ora così fredda del mattino, con le pantofole e la vestaglia di Davey sulle spalle, solo perché era curiosa di sapere chi erano quelle persone sul marciapiede davanti al condominio, anzi, quella persona; ce n’erano altri due prima, infatti, ma erano andati via poco prima che lei aprisse il portone per uscire.
Adesso c’era solo Andrea.
“Tu vivi qui?” le chiese lei, sorridendo alle sue pantofole esageratamente grandi.
“Emh, sì…sono ospite di un amico. E tu, invece? Vivi anche tu qui vicino?”
“Non proprio.”
“Sei qui per la sparatoria di ieri sera…?”
“Oh, già, la sparatoria…ma no, non sto facendo nulla in particolare, aspetto solo i miei compagni.”
Era molto piccola, Andrea: avrà avuto sì e no quindici anni, ma il suo fisico esile ne suggeriva tre in meno, semi nascosto da un enorme giaccone punk di cuoio tutto consunto che faceva sembrare le gambe che ne spuntavano al di sotto due esili fili d’erba avvolti in calze a rete.
I suoi occhi, però, contenevano l’oceano.
“I…i tuoi compagni?”
“Sì, torneranno fra un po’.”
“Oh…”
“No, aspetta, dove vai Sharon!? Dai, resta ancora un po’ con me. Mi fa molto piacere fare un po’ di conversazione con qualcuno!”
Sharon bloccò le gambe e si fermò sul gradino del portone, con il cuore che le martellava assordante nelle orecchie. E se fosse morta lì di infarto? Meglio, meglio che girarsi ed affrontare di nuovo quel meraviglioso viso. Ma perché era scesa? Per dover sopportare quella tortura? Quella dolcissima tortura?
“Ehi, ti sei impalata?” la mano che le si posò sulla spalla e la fece girare quasi la fece anche svenire.
“Scu…scusa…è che non volevo disturbarti.”
Andrea sorrise, con tenerezza, vedendo la faccia imbarazzata di quella strana ragazza che era scesa solo per salutarla, come se la cosa più importante del mondo fosse quella semplice gioia che dà l’affetto per il prossimo, come un saluto ad un perfetto sconosciuto.
“Tu non mi disturbi affatto!”
“O…ok, allora. Resterò ancora un po’.”
Sharon si arrese ai brividi peccaminosi che le scorrevano sotto la pelle, e tentò di sembrare il meno ridicola possibile mentre rispondeva al sorriso.
Ora non c’era assolutamente più alcuna via di scampo: sarebbe sprofondata all’Inferno lì dove si trovava da una voragine aperta apposta per lei sotto i suoi piedi, cadendo giù tra le grinfie ed i denti affilati delle tre teste del Cerbero.

“CHERIIIIIIIIIIIIIIIIIIII’!”
Tarja, in piedi sul pianerottolo, si sgolò in direzione della tromba delle scale, udendo il rintocco rimbombante del suo urlo ribalzare da un piano all’altro del condominio, in modo tale che Cherì lo udisse, dovunque si trovasse in quel momento –e tutti i coinquilini addormentati insieme a lei.-
Non ricevendo risposta, riprese a bussare più nervosamente di prima alla porta di Amy, con violenza crescente, finché la voce di Davey, giungendo da dietro, la fermò appena prima che cominciasse a creare crateri sospetti nel legno.
“Lascia perdere cara, quella è una testa di legno, non ti aprirà mai.”
“Ma deve aprirmi! Devo compiere l’Iniziazione! È importante!”
Sbuffò, avendo capito l’antifona, e si sedette sconsolata sul primo gradino della scalinata marmorea, con la faccia tra le mani.
Quella mattina si era svegliata completamente guarita, forse solo ancora un po’ rintronata per la caduta dal tetto del palazzo di sei piani della notte precedente e con la pelle ancora sensibile dove prima c’erano le ustioni, ma al momento del risveglio sua sorella era svanita, e quella testona di Amy era ancora chiusa in casa.
“Uffa!”
“Jaja!” Cherì comparve all’improvviso sul pianerottolo, tutta trafelata, come se avesse salito in corsa le scale di dieci piani e non di due: “scu…scusatemi se sono scesa, ma…”
Tarja si alzò subito e le corse incontro, abbracciandola: “Cherì! Oh, non preoccuparti, tanto non sei tu il Demone che tutti cercano di far saltare in aria…”
Seguì un silenzio un po’ pesante, raggelato dalla risata forse un pochino troppo isterica che Tarja azzardò per infrangerlo ed alleggerire l’atmosfera, che però ebbe l’effetto diametralmente opposto.
“Jaja, dov’è Amy?” chiese allora Cherì, ancora un po’ affannata.
“Non vuole uscire di casa.”
“Ma…e l’Iniziazione?”
“Non si può fare se lei non c’è! Scema cretina!”
Tarja ricominciò molto poco educatamente a sbattere sulla porta di Amy, continuando la serie di insulti con una tale fantasia che veder muovere quelle labbra graziose al suono di quegli epiteti sembrava il playback di una sfuriata da camionista.
“Emh…smettila ti prego…” Davey le afferrò il braccio, un po’ intimidito, “Amy è fatta così…ma è poi così importante questa “Iniziazione”?”
“Scherzi!?” Gridò quasi Tarja, infervorata.
“Perché?”
“Uff…” Tarja si arrese con la porta, e si voltò verso lo studente a braccia incrociate.
“Vedi, non è così semplice la convivenza tra Angeli, Demoni e umani. Esiste una Regola, che fu pattuita dopo il primo scontro che Lucifero condusse contro coso…il capo degli Angeli, ecco, dopo che si fu ribellato. Questa Regola stabilisce che la Guerra tra le due Stirpi sarebbe rimasta oscura agli umani e che sarebbero stati esclusi da ogni conflitto. Perciò oggi quasi nessuno sa della nostra esistenza. Mio padre mi ha insegnato che fu lui…il “Nemico”, che insistette per stabilirla: da quel giorno, se un umano scopre la nostra vera natura, viene…”
“…ucciso?” chiese Davey, traumatizzato.
“Emh…in pratica sì. E ritieniti fortunato che questa Regola esiste, perché in caso contrario la mia Stirpe avrebbe fatto strage anche degli umani…” Tarja stortò la faccia, disgustata. “…perché loro venerano il grande Amicone…no cioè, sono io che lo chiamo così, in realtà gli altri Demoni lo chiamano Nemico.”
“Parli del Signore?” chiese Cherì, che si era avidamente bevuta ogni parola della sorella, la quale però contrasse la faccia, un po’ infastidita: “Sì, lui, ma per favore, non chiamarlo così. Mi disturba.”
“Scusami…ma sorellina, io sono stata iniziata allora?”
“Certo. Io e te siamo state iniziate alla nostra nascita, anche se nel il mio caso si è rivelato poi essere un bell’assurdo.”
Disse Tarja, in risposta alla trepida domanda.
Davey, un po’ seccato, le riportò al discorso precedente. “Ok, ma quest’Iniziazione cos’è!?” “Beh…” Tarja fece spallucce. “E’ una sorta di esonero alla Regola: la possono imporre solo Angeli o Demoni di un certo livello, e solo se ritengono l’umano in questione davvero meritevole oppure utile e affidabile. Esistono diverse sette umane di iniziati. Però a me sembra un nome stupido. Insomma, che significa “iniziati”? E’ come se doveste concludere qualcosa, ma siete umani, dove volete andare? Ahah…siete iniziati ma non finirete mai. “Iniziati-mai-finiti”…ahahah…”
Un’occhiataccia perplessa del ragazzo riportò Tarja giù dai suoi labirinti mentali, e lei smise di ridere, con un versetto imbarazzato.
“In ogni modo, se non vi inizio subito, saranno guai. Capisci, ora, Davey?”
Lo studente, pur faticando ancora visibilmente a ritenere verosimili quei discorsi, annuì, pallido.
“Non puoi iniziare me subito?”
“Preferirei di no. È una cosa molto complicata ed impegnativa per me, preferirei farlo una volta sola.”
“Chiaro. Allora, diamoci dentro!”
Davey si buttò con pugni e calci contro l’ingresso sbarrato di Amy, e le due sorelle lo imitarono subito, bussando e chiamandola a gran voce su quella povera porta che per poco cedette all’impeto del loro entusiasmo.
“Ehi, se cercate la tipa depressa, se n’è andata. L’ho vista scendere le scale ore fa.”
Tutti si interruppero all’improvviso, e si volsero verso la sorgente di quelle parole masticate insieme al chewing gum.
Annette, la stracciona che aveva scroccato ben tre delle confezioni di lasagne surgelate di Davey, era comparsa sulle scale, ondeggiando compiaciuta.
Tarja sbiancò all’improvviso, tingendosi di terrore:“Che!? Dove!?” gridò.
“Il cimitero!” gridò a sua volta Davey. “Di notte va sempre là!”
“Corriamo! Potrebbero averla già trovata! Brutta pazza!”
Tarja artigliò Davey e Cherì e li trascinò con sé giù dalle scale in una corsa folle, sfrecciando davanti ad Annette.
“Dio.” Sospirò lei, appoggiandosi alla ringhiera delle scale.“Che stressati, avrebbero bisogno di una bella scopata.”

Ad Amy non fregava niente di nessuno, sarebbe morta lì tra quelle tombe, di fame, tristezza, rabbia, fulmini caduti a ciel sereno o altro…non le importava più nulla di niente.
La luce del sole mattutino era uno spietato coltello inflitto nella sua anima rovente di dolore, e lei non faceva altro che andare avanti ed indietro tra le lapidi, maledicendo i vivi, giunti con qualche fiore finto e con preghierine ipocrite a disturbare il suo regno, ed invidiando i morti.
Si accorse degli uomini vestiti di nero solo quando se li trovò a bloccare entrambe le direzioni del vialetto di ghiaia tra i sepolcri, impedendole i suoi circoli tormentati: maledisse anche loro, ma quelli non se ne andarono, attorniandola sempre più vicino, come se non volessero lasciarla scappare…
All’improvviso, accadde qualcosa di strano.
Amy udì qualcuno gridare a squarciagola, e si accorse che gli uomini neri si volgevano entrambi –erano in due, infatti- verso l’urlo, ed ecco apparire quella schifosa assassina insieme con la sua patetica sorella disturbata e quell’idiota odioso di Davey, che correvano come pazzi verso di lei.
Che diavolo volevano quei maledetti?
Da lei non avrebbero avuto più nulla, nulla, nulla se non odio e rabbia, disgustosi bastardi, come potevanocercarla ancora, come osavano chiamarla ancora!?
La rabbia la gonfiò fin quasi a darle la nausea, alla vista di quei tre, ma con sorpresa si accorse che l’assassina non stava urlando per farsi sentire da lei.
Dopo aver fermato il passo, la rossa avanzò eretta incontro ai due uomini vestiti di nero, serena e pacata ma con una determinazione che velava un’intima e mortale minaccia: uno dei due indietreggiò quasi con un balzo accanto all’altro, il quale invece piegò solo un po’ le ginocchia senza muoversi, ed Amy pensò che era come se si stesse preparando senza farsi notare ad una fuga improvvisa.
“Non toccatela.” proferì Tarja, e la sua voce era simile a quella che aveva ringhiato nel cortile del n° 18 di Cypress Street, e risuonato dal tetto del condominio davanti al suo la notte precedente: imperiosa e potente come se fosse fuoriuscita dai meandri di una caverna profonda.
“C’è stato un errore. Mi prendo ogni responsabilità.”
Amy all’improvviso si sentì attratta da una forza invisibile che la avvolse come dita d’acciaio, calde ma non dolorose, che la afferrarono e di peso la trascinarono davanti a Tarja. Accanto a sé trovò Davey, dal quale ricevette un’occhiata che era indecisa tra rimprovero e doloroso smarrimento.
Poi, sentì la consistenza rovente di una mano sopra la sua testa, come la sera prima: tentò di opporsi a quell’odioso contatto, ma questa volta c’erano quelle immense dita di fuoco invisibili che la tenevano con forza immobile lì dov’era, e non poté fare altro che stringere i denti e rodersi dentro, consumandosi il fegato in bile acida.
Allora, risuonarono delle parole.
Non riuscì a capire che cosa dicevano, anzi, si chiese addirittura perché avesse pensato che fossero parole: erano strani suoni composti da mille voci che intrecciavano la musica delle onde dell’oceano, del frusciare delle fronde di alberi secolari, canti di uccelli e crepitio di fuochi sacri…
Sembravano voci da oltretomba, ed Amy ne fu confusa e spaventata, sentendole fluire da dietro la sua testa come un fiume arcano, come se le stessero danzando tra i capelli, volteggiando poi verso l’alto dei cieli.
Come erano cominciate, le parole si zittirono.
La presa invisibile lasciò il corpo di Amy e lei si riscosse all’improvviso, stravolta dalla rabbia e dalla paura, ed ancora prima di poter articolare un qualche pensiero compiuto sentì le mani di Davey stringerle le spalle ed attirarla a sé come un confortante sostegno, al quale lei non trovò le forze di opporsi.
“Ecco fatto, signori. Ora potete anche rinfoderare le spade e fare un po’ di conversazione amichevole, no?” Tarja avanzò passando di fianco ad Amy, non curandosi assolutamente né di lei né del fatto che la sera prima le era stato sputato addosso ogni genere di insulti, tendendo amichevolmente la mano ai due sconosciuti vestiti di nero: aveva reindossato il suo abito vittoriano –fresco di lavanderia condominiale-, e con i capelli sciolti sopra la schiena sinuosa e scarlatti alla luce del sole pareva una regina di ere perdute.
“Voi avete una gran bella faccia tosta, Lady Tarja Lucifer.” Amy tremò fin nelle ossa nel sentirla chiamare così. “Tutto ad un tratto si viene a sapere della vostra scomparsa, le Bestie si affannano in un gran compiangere ed accusano la nostra Stirpe divina di rapimento, nessuno sa dove in realtà voi siete nascosta, se siete morta oppure no, e poi eccovi qui, a farvi vedere dagli umani per poi inseguirli per rimediare con una affrettata Iniziazione, per evitare di creare eccessivo clamore. Ed infine volete fare “conversazione amichevole” con noi. Se posso permettermi, si può sapere cosa avete in mente?”
“I…io…” a parlare era stato il più alto dei due uomini, quello che si era piegato sulle ginocchia in vista di una probabile fuga: aveva lunghi capelli corvini raccolti in una lunga coda sulla nuca, la pelle del volto olivastra ed uno sguardo penetrante, segnato da un’esperienza forse un po’ troppo precoce, a considerare l’età che dimostrava.
Alle sue parole, Tarja era impallidita sempre più, pur tentando di non darlo a vedere, ed aveva cominciato a sudare freddo: Amy poteva distintamente vedere i mille pensieri e le mille risposte che si rincorrevano nella mente della rossa, mentre l’altro parlava, e quando il discorso fu finito si trovò spiazzata.
“C…c’è stato un errore…il Cerimoniere ha accusato voi di avermi rapita!? È una bugia! Io ho deciso di andarmene.” Detto ciò, Tarja sembrò ricomporsi, e riacquisì l’atteggiamento principesco che aveva adottato prima.
“Inoltre, ho iniziato questi due umani perché sono miei amici, non per evitare clamore. Non mi importa se le Stirpi vengono a sapere che sono qui, i Demoni lo sanno già ed hanno anche già inviato un sicario, ma non me ne importa niente. Se ho rincorso questi due umani…” la rossa lanciò uno sguardo fugace ad Amy, brevissimo ma abbastanza loquace da metterle i brividi, “…è solo perché un contrattempo mi ha impedito di farlo subito.”
“Non pensavo che ci avrebbe risposto, Milady.” L’uomo corvino sembrava sinceramente stupito, ed allargò il viso ed i suoi occhi sottili in un’espressione meno dura e severa. “Voi dunque ci confermate che di vostra volontà vi siete sottratta al trono di Chrysantemum Hill?”
“Confermo.” Rispose Tarja, con un sorriso.
“Se è lecito, per quale motivo?” chiese di nuovo il moro, dopo essersi consultato col compagno, il quale sembrava più giovane di una decina d’anni ed aveva anch’egli una chioma piuttosto lunga e setosa, ma innaturalmente candida come la neve.
“I tempi sono immaturi, amico. Ma avrete presto mie notizie, puoi giurarci. Ora, addio.”
I due si scambiarono un’occhiata, poi voltarono le spalle e se ne andarono per i fatti loro, in silenzio, come due ombre nere nella luce del mattino.
Amy solo allora si ricordò di essere stata afferrata e quasi abbracciata da Davey, e si divincolò da lui, seccata.

“Chi erano…quelli?” chiese Davey dopo essere stato spintonato da Amy, con la voce tremante e secca di paura.
“Angeli.” Rispose Tarja, dopo aver emesso un lungo sospiro e aver rilassato i muscoli contratti dalla tensione del dialogo, voltandosi verso i suoi amici. “Erano venuti per prendere Amy ed ucciderla senza pietà, perché gli umani non possono vedere i membri di una delle due Stirpi nelle loro autentiche vesti se non sono stati iniziati. Così saresti morta e il fatto che eri a conoscenza della nostra esistenza sarebbe stato normale. Per fortuna che siamo arrivati in tempo.”
“U…uccidermi?” mugolò Amy portandosi le mani attorno al collo, senza riuscire a rendersi ben conto della situazione, ma avvertendo distintamente il brivido sottile del pericolo scampato per un pelo che la trapassava freddo come una lama di ghiaccio.
“Sì.”
“Angeli!?” esclamò allora Cherì, saltando fuori da dietro la schiena di Davey, eccitatissima.
“Già.”
“Ma…e le ali?”
“Non possono mica portarsele dietro, quando vanno tra gli umani.”
“…e l’aureola?”
“Idem.”
“…ma non erano così belli come li descrive Dant…emh, la Bibbia!”
“Sai, cara, in realtà noi Demoni siamo incredibilmente più belli degli Angeli. Devi sapere che Lucifero, prima di tradire l’Amicone, era l’Angelo più bello ed affascinante di tutto l’Eliso, ed è proprio per questo, perché siamo i suoi discendenti, che siamo così splendidi! E poi, come faremmo a sedurre gli umani viziosi, se non fossimo molto attraenti?” Tarja emise un risolino vanitoso, evidentemente compiaciuta da questo particolare aspetto della sua discendenza. “Anche se devo dire che alcuni di noi si tengono così male…sembrano veri e propri maiali…”
“Emh, Tarja” la interruppe Davey, che stava cominciando a non sopportare più i suoi incontrollati viaggi mentali. “Perciò, tu…quella cosa, era l’Iniziazione?”
“Esatto!” la rossa sorrise, e poi aggiunse, posizionandosi di fronte ad Amy che istintivamente arretrò, ancora carica del doloroso e brutale peso dell’odio. “Per quanto riguarda la domanda che mi hai fatto ieri sera, amica mia, adesso posso finalmente risponderti con sicurezza. No, non sono una Bestia di Satana. Davey mi ha spiegato che sono solo un gruppo di umani stramboidi, ed io nemmeno li conoscevo. Mi dispiace di non averti chiarito prima questa cosa, ti sei arrabbiata e sei stata male, ed è solo colpa mia e della mia ignoranza.”
Un pugno improvviso la raggiunse in pieno viso, scagliato da Amy che era rimasta ad ascoltarla attonita e pallidissima per tutta la sua spiegazione ingoiando le sue emozioni fino all’esplosione finale, incontrollabile.
“Brutta idiota! Sei un’idiota!!!”
“Amy! Che fai!” Davey la afferrò da dietro per le spalle, quasi sollevandola per trattenere la sua furia distruttiva, ma poi la strinse tra le braccia allo scoppio di un pianto liberatorio, sfinito, che la scosse in tremiti convulsi e le fece colare dagli occhi una lunga cascata nera di lacrime mischiate ad eye-liner.
“Sei sconvolta. Torniamo a casa.”
“E lasciami! Scemo!”
Il ragazzo non lasciò la presa e lei smise i suoi patetici tentativi di liberarsi, troppo distrutta per continuare la sua parte di sprezzante ed orgogliosa solitaria, e così finì col rintanarsi contro il suo petto, nascondendo il viso tra i singhiozzi sempre più forti. Cherì osservava preoccupata la scena, intimorita dalle reazioni smodate della blu, e dopo aver rinunciato ad un timido tentativo di consolarla, con una carezza incerta rimasta sospesa a mezz’aria per qualche secondo, corse da sua sorella.
“Ti fa male?” le chiese, preoccupandosi anche per lei e toccandole la guancia di marmo.
“Un po’” Mentì l’altra, ma poi, a voce più bassa. “No, sto bene. Spero solo che lei non si sia fatta troppo male alla mano.”
Tarja mantenne lo sguardo rivolto a terra parlando con sua sorella, quasi vergognandosi di non aver sentito nemmeno un po’ del dolore del riscatto che Amy aveva voluto prendersi sulla sua inadeguatezza.
“Scusala.” Disse Davey, ancora stringendo Amy.
“Non preoccuparti, me lo meritavo. Ma, per fortuna, è andato tutto bene, voi siete salvi e questo è l’importante.”
“Tanto li avresti sconfitti! Tu sei fortissima, sorellona! Stavano per mettersi a correre a gambe levate quando sei arrivata tu! Li ho visti! Li avresti stesi come hai fatto con quel sicario che è venuto a cercarti!”
“Cosa?” Tarja sollevò di scatto lo sguardo, facendo ondeggiare sul volto bianco la chioma fulva, con un’espressione perplessa e un po’ spaventata. “Credevate l’avessi sconfitto io!? No, non sono stata io a stendere quel bastardo schifoso di un umano… anzi, ora che mi ci fate pensare, non so nemmeno perché non sia riuscito a portarmi via, io ero a pezzi. Non ricordo bene, non ero ben cosciente.”
Tutti spalancarono gli occhi stupiti, folgorati dalla pericolosa rivelazione, anche Amy, che si era un po’ tranquillizzata.
Ma allora, cos’era successo quella sera, davvero?
“Forse posso risponderti io, dolcezza.”
Quella stracciona di Annette comparve avanzando a grandi falcate al cancello del cimitero, facendo roteare con nonchalance la sua pistola tra le dita.

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Capitolo 12
*** Capitolo XII -Mostri e ricordi- ***


Mostri e ricordi

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Il buio invadeva la piccola ed umile stanza simile ad una cappa oscura ed opprimente, era un buio spaventoso, fatto di mostri neri e visioni demoniache che si nascondevano frusciando nell’incavo della porta, dietro il vecchio armadio, sotto il letto…tutto si muoveva con spire sinuose, nell’immobilità della notte, occhi lampeggianti lo osservavano dalla finestra, affamati, pronti a saltargli addosso e mangiarselo, strappando via lentamente la sua carne martoriata brandello dopo brandello, fagocitandolo come uno sciame di insetti viscidi e striscianti.
Sudava, steso sul duro lettuccio ricoperto di paglia.
Doveva calmarsi, era solo la febbre.
Gli occhi erano quelli di Kokoschka, quei grossi occhi tondi e gialli da mostro, che lo sorvegliavano attenti dal davanzale della finestra, fedeli come quelli di una sfinge a guardia del suo tesoro.
Sì, era tutto a posto, doveva stare tranquillo.
Diodor gemendo di dolore tentò di cambiare posizione sul suo giaciglio, spostando la paglia sozza di sangue lontano da sé per non sentirne più la puzza penetrante, e per staccarla dalla ferita sulla schiena, che gli procurava un immenso fastidio quando i filamenti vegetali essiccati gli si incollavano alla pelle infetta, come se oltre alla ferita avesse anche una bestiaccia molesta che gli mordicchiava la carne.
Nonostante si fosse strappato la camicia per farsi una bendatura più efficace di quella che sarebbe stata possibile con l’uso della poca garza che aveva, il piccolo buco rosso che gli penetrava il torace e fuoriusciva dietro la schiena si era infiammato ed il sangue aveva continuato a fuoriuscire per ore, dopo che grazie all’aiuto di Kokoschka era riuscito a tornare alla sua casetta tra i campi, al sicuro.
Ore terribili.

Kokoschka bubbolò quieto, prima di sbattere le palpebre, occultando le sue due tonde lanterne gialle per meno di un secondo, e poi spiccare il volo con un lievissimo fruscio di piume;
doveva fare la guardia alla casetta per i campi tutto attorno, pieni di spighe mietute aguzze e profumate, sorvolando silenzioso appena sopra le cime delle rade querce e cipressi senza farsi notare ed osservando tutto ciò che si muoveva al di sotto: infatti, i mostri onirici che popolavano gli anfratti della povera stanzetta nel tormento delle febbri di Diodor non erano gli unici di cui il giovane doveva aver paura.
Aveva deluso il Cerimoniere.
Aveva deluso la stirpe demoniaca, e non sapeva quali sarebbero state le conseguenze.
Lo avrebbero incenerito? Forse, a giudicare da tutte le minacce che aveva ricevuto mentre faceva lo sbruffone col sovrano dei Diavoli. O lo avrebbero solo punito per la sua incapacità, lasciandolo in vita, deformato in modo orrendo? O lo avrebbero maledetto in qualche modo, prendendosi la sua anima…? In ciascuno di questi casi, lui avrebbe trovato il modo di salvare la pellaccia e menate varie, come faceva da quando era nato, in fondo.
Il volo di Kokoschka nel frattempo procedeva tranquillo su una campagna deserta, Diodor poteva vedere le immagini dei campi riflesse negli occhi gialli del rapace come se stesse guardando in un binocolo dietro i suoi veri occhi chiari, nello specchio che si trova appena dietro le palpebre, dove di solito compaiono le meraviglie ed i desideri quando si sogna ad occhi aperti: vedeva con Kokoschka sentieri accarezzati dalla luce della luna e dal vento di ottobre, volpi che sgattaiolavano tra gli arbusti a cercare qualche preda indifesa per i propri cuccioli, nuvole argentate che solcavano il placido cielo notturno…
Queste visioni di pace lo distrassero dal costante dolore al petto, ed i suoi sensi cominciarono ad arrendersi alla stanchezza che lo opprimeva come una gogna da quando era tornato a casa, rallentando il suo respiro e sprofondandolo in un sonno ristoratore.

“Buongiorno, signor Kalashnikov, ha lasciato in giro il suo pollame, ci sembrava poco educato non riportarglielo a casa.”
La voce stridula gli perforò le orecchie come uno stridio acuto di unghie sulla nera ardesia e Diodor sobbalzando scattò in posizione seduta in preda al panico, con il cuore che gli scoppiava dentro a causa dell’improvviso strappo al sonno profondo. Una fitta lancinante al torace che lo piegò in due mozzandogli il respiro.
Quanto tempo era passato da quando si era addormentato? Come erano riusciti ad entrare?
I suoi occhi chiarissimi faticarono ad individuare la provenienza della voce nel buio, appannati e brancolanti com’erano, finché alle sue orecchie giunse un grido acuto, stridulo e strozzato…
“Kokoschka…!”
Dall’oscurità della stanza presero forma tre figurette scure, simili a bambini cornuti, dalle membra sottili e gli occhi scintillanti: uno di loro teneva per il collo il barbagianni candido e dimenante, tutto arruffato come una gallina che sta per essere strozzata.
“Che accoglienza maleducata. Sai perché siamo qui, vero?” disse il più alto, in posizione centrale, con un sorrisetto sinistro che snudò i suoi piccoli canini affilati.
“Maledetti…” sibilò il biondo tra i denti iniziando a tremare violentemente, sentendosi giungere in risposta sghignazzi divertiti.
“Che simpaticone. Non fai più tanto lo spiritoso, adesso, vero?”
“Già, vero?”
“Hihihi…con un buco addosso come lo spioncino di una porta…” e via risate, risate e risate.

Demoni.
Demoni di basso rango, a giudicare dall’aspetto da marmocchi, ma erano in tre, e lui era ferito.
Il suoi peggiori incubi si erano appena avverati sotto i suoi occhi torbidi di delirio: i figli della notte erano riusciti a materializzarsi dentro al suo rifugio approfittandosi del suo sonno, avevano catturato Kokoschka togliendogli anche l’ultima possibilità di difendersi ed infine lo stavano deridendo, lui, che prima aveva incusso così tanto timore tra le schiere di quei mostriciattoli solo con uno sguardo, ed aveva assaporato come nettare l’odio che aveva visto dipinto in quegli occhietti gialli nascosti dentro le fessure di Chrysantemum Hill, ad ogni sua visita. Per il fatto che alcuni Demoni, seppur poco importanti, si erano ritrovati a tremare al cospetto di un umano.
Ora lo schernivano, e si prendevano la loro vendetta: il Cerimoniere aveva avuto un’idea azzeccata ad inviare dei diavoletti pescati dalle schiere più basse, si ritrovò a pensare Diodor, con un amaro sorriso che gli si dipingeva sul volto terreo per il terrore crescente. Erano infatti riusciti a coglierlo nel suo unico tallone d’Achille: era umano, quindi vulnerabile. Avrebbero potuto fargli tutto quello che la loro insana sete di vendetta avrebbe voluto, e, perdipiù, avevano catturato Kokoschka.
La sua unica fonte di potere.
Rimase muto, paralizzato dalla paura, lasciandosi scorrere addosso le loro risate irritanti e le loro provocazioni, e tentando di dominare il panico che cresceva inesorabile e gli annebbiava la mente.
“Ripeto, sai perché il Principe delle Tenebre ci ha inviato, vero!?” Proseguì imperterrito il piccolo Demone, facendo brillare gli occhi folli: “Certo che lo sai, o non te ne staresti là a guardarmi con quella faccia ebete! Dopo tutti quei discorsi con cui ti vantavi così tanto, ti sei fatto sconfiggere come un fesso da un colpo di pistola. Hai fallito, umano! Ti sei lasciato scappare Lady Lucifer quando ce l’avevi stretta tra le mani, e sono tutti molto delusi. Cosa dovremmo fare, secondo te?”
Si avvicinò piano ai piedi del letto, come un incubo, come la morte che arriva strisciando e si porta via la tua anima mentre tu dormi nel tuo lettuccio inerme, pensò Diodor nella sua mente delirante, e ad ogni piccolo passo del Demone bambino in lui cresceva insopportabile la paura ed l’impotenza che gli si cristallizzavano pressanti nel petto e gli soffocavano il respiro già mozzo. Era inerme, inerme! Sapeva che la fine era vicina e che non poteva fare nulla, avevano preso tra gli artigli come un pollo a cui tirare il collo il suo tesoro più prezioso e la sua unica speranza di salvezza; sentì il suo organismo ferito e debilitato tendersi allo spasimo per il terrore fino a sfiorare il collasso, la vista gli si annebbiò tra le pulsazioni assordanti che gli rimbombavano nelle orecchie e crollò di nuovo, sdraiato, sul duro letto.
L’alito freddo del Demone gli sfiorò la fronte bollente, come alito di morte.
“Il Cerimoniere è molto arrabbiato.”
Era sopra di lui, i riccioli fanciulleschi gli accarezzavano la pelle. Aprì gli occhi in una fessura e vide quelle iridi gialle e maligne scintillare vicinissime a lui, chinate fino al suo capezzale. Seppe che era la fine… “Ma, nella grandezza del suo fine intelletto, ha deciso che per noi è più conveniente che tu viva. Infatti, pur conciato male, puoi ancora rimetterti e ritentare nel tuo compito. Lady Tarja sarà sicuramente convinta che sei morto, e non si aspetterà di certo che tu riprovi a prenderla! Inoltre, il Cerimoniere è dell’idea che sia necessario evitare di inviare Demoni finché sia possibile, per evitare di infrangere la Regola e perché…hai conosciuto la signorina Lucifer, solo un diavolo molto potente potrebbe tenerle testa, e con molto clamore…ci sarebbero dei disguidi nella Guerra…quello che serve per domarla è un Angelo, e tu sei la cosa più vicina ad un Angelo che noi possiamo sfruttare.”
Ghignò, soddisfatto.
“Quindi, vedi di rialzarti in fretta e di non fallire di nuovo, perché, in tal caso…”
Il piccolo Demone si allontanò sghignazzando con lievi passi all’indietro, riavvicinandosi ai due compagni più piccoli e tenendo lo sguardo fisso sul suo interlocutore. Si leccò le labbra pallide con il guizzo di una lingua sottile, rossa come il sangue “…non avremo pietà.”.
La mano artigliata del carceriere di Kokoschka si aprì, ed il rapace garrendo come impazzito sbatacchiò le ali e volò lontano da quelle unghie letali e minacciose.
Dopodiché, i tre scomparvero dal buio che li aveva generati, silenziosi e veloci proprio com’erano apparsi.

“Cosa!? Gli hai sparato!?” esclamò Tarja con un tono di voce troppo alto, tanto da oltrepassare il limite dell’indecoroso e penetrare quello dell’imbarazzante, considerato il luogo di riposo eterno dove si trovavano.
“Beh…sì.” Rispose Annette, soffiando gongolante sulla canna della sua pistola, anch’essa esibita in modo fin troppo inopportuno. “Ero nei paraggi, pensavo che visto che eravate stati così carini con me magari mi avreste ospitato un’altra volta…poi c’è stato tutto quel casino di petardi ed ho visto quel bastardo seduto sopra di te, sai…così ho deciso di aiutarti.”
Amy voleva fuggire via di lì.
Quella situazione stava diventando una gabbia di pazzi, Tarja si era rivelata ancora di più per quella stupidissima idiota che era, e perdipiù Davey non la smetteva di toccarla e lei presto avrebbe tirato un pugno anche a lui, da tanto la stava irritando. E poi, di nuovo quella ladruncola fastidiosa ed approfittatrice…
“Ma perché l’hai fatto!?” chiese la rossa urlando, sconvolta dalla notizia.
“Mi hai offerto un pranzo. Non potevo mica lasciarti in una situazione del genere.”
Il sole stava raggiungendo il suo apice sopra il cimitero di Leadenville, accendendo i colori tenui ed i profumi dei fiori votivi, e i cinque ragazzi erano ormai rimasti soli tra le tombe a causa della tarda ora di pranzo, o forse più probabilmente perché tutti erano scappati via dalle strida e dalla pistola delle due leggiadre fanciulle.
Amy pensò che aveva solo voglia di gettarsi nel suo letto, sola, e dormire dodici ore di fila.
Cherì elevò una silenziosa preghiera di ringraziamento alla Madonna, in onore del pronto intervento della brasiliana della notte precedente.
“A proposito di pranzo…” proseguì Annette, battendosi con molto poca grazia femminile la mano sul ventre nudo, ricoperto di disegni colorati. “Sarebbe anche ora di mangiare, il mio stomaco canta. Non è che vi avanza ancora qualche lasagna, che vi faccio compagnia?!”
Scoppiò in una grassa risata, infilò la pistola nella tasca sgualcita dei jeans larghi e con molta sorpresa e disappunto da parte dell’interessata, dopo esserle balzata davanti, circondò con una presa energica il collo di Amy, trascinandola di qua e di là con fare compagnone.
“Su, tutti a casa della depressa!”
“…lasciami…”
Davey suo malgrado scoppiò a ridere, e Cherì sorrise, prendendo per mano la sua sorellona e dirigendosi verso l’uscita del cimitero dietro all’esuberante passo di Annette, che si trascinava dietro una Amy stanca, arrabbiata e di nuovo costretta ad aprire a nuovi sconosciuti il suo piccolo monolocale.
Tarja raggiunse la mora con qualche passo di corsa.
“Annette…” disse,
“…grazie.”
“Ma figurati!” rispose quella sorridendo tra le labbra di rubino. “Adesso vi toccherà solo ospitarmi a vita per riconoscenza!”

La sera era ormai calata da un po’, tingendo il muro dipinto di edera colorata dietro il divano di una calda tonalità aranciata, ed infiammando le chiome rosse di Davey e delle due gemelle come fiammelle di un falò.
Amy si era stesa sul letto con le braccia incrociate dietro la testa, appoggiata sul cuscino e sulla coperta ben ripiegata, respirando la pace del tramonto ed osservando con le palpebre semi-abbassate il chiassoso quadretto dei suoi “ospiti”, che finivano in quel momento di sparecchiare. Sospirò.
Si sentiva stanca, terribilmente stanca.
Quella giornata per lei era stata tremenda, nonostante poi si fosse risolto tutto: Tarja le aveva fatto riemergere ricordi di un passato che lei aveva lavorato per anni per seppellire, giorno dopo giorno, lacrima dopo lacrima, fino ad ricoprire con un denso strato di indifferenza tutto quel dolore e quelle emozioni che lo avevano provocato.
Aveva seppellito la speranza, perché tanto non viene mai esaudita e fa solo star male.
Aveva seppellito l’amicizia, perché quella vera tanto non esiste.
Aveva seppellito l’amore, perché se lo perdi, è meglio morire.
Questi pensieri le scorrevano dietro le palpebre come un lento fiume silenzioso, reso dolce dai raggi dorati del sole morente. Erano anni che non le si presentavano alla mente, ed ogni volta che avevano fatto capolino Amy se ne sentiva terrorizzata e li scacciava via, schiacciandoli con il peso oblioso dell’alcool. Quella sera, invece, forse per il dolce tramonto, forse per tutta quella gente vociante davanti ai suoi occhi insieme a lei, li lasciò fluire e li osservò quasi con distacco, guardandosi appassire come un fiore a cui sono state strappate tutte la radici.
Si voltò, senza farsi notare da nessuno, verso la fotografia appesa sopra il comodino, con quel volto giovane ed eterno che le sorrideva.
“Ehi, Serji,” mormorò, “quella scema di una Tarja mi aveva fatto credere di essere una Bestia di Satana. Ti pare possibile?”.

Nel frattempo Davey si era messo al lavabo per lavare tutte le stoviglie arretrate, dato che Cherì aveva sempre paura di rompere qualche piatto solo toccandolo e Tarja non aveva mai visto un detersivo in vita sua, e naturalmente non si prendeva mai la briga di imparare a fare qualcosa di utile, impegnata com’era ad abbellire la casa di Amy ed a star dietro a sua sorella.
Annette si era letteralmente svaccata sul divano, con la pancia ben piena, a far conversazione con le gemelle, coinvolgendo talvolta Davey, il quale rispondeva voltandosi appena, per non bagnare il pavimento di acqua insaponata. “E così, tu saresti la figlia di Lucifero?”
“Sì.” Rispose la rossa, annuendo. “Non mi aspettavo che anche tu fossi stata iniziata, Annie. Davvero! E’ una cosa incredibile…”
“Non hai idea di quanti siamo, cara. Anche se a dir la verità a me è capitato per caso, perché mi sono imbattuta in un gruppo di iniziati per strada, che mi hanno ospitato per qualche mese nella loro casa comune –un vero tugurio, sapeste…-, ed allora hanno iniziato anche me. È stata una cerimonia strana…asserivano di aver evocato un Angelo, boh…non mi ha mai convinto molto.”
“Oh, davvero? Perciò sai delle Stirpi e della Guerra.”
“Che?” Annette si issò sui gomiti, con espressione interrogativa. A cena aveva asserito di essere anche lei un’iniziata, provocando lo stupore di tutti e deviando di conseguenza tutti i discorsi, i quali si erano incentrati vorticosamente si di lei. Anche se stava dimostrando di non essere troppo preparata sull’argomento.
“A me hanno spiegato che ci sono gli Angeli di Dio che sono buoni e i Diavoli di Lucifero che sono cattivi come dice la Bibbia, e basta.”
“Oh…” Tarja sorrise, compiacente. “Siete così semplici, voi umani…è così, più o meno. Ti spiego meglio. All’inizio, prima del tempo, c’era l’Amicone con le sue schiere splendenti di Angeli, che dettò le leggi per il mondo. Per esempio, affidò un piccolo angelo a ciascun anima, per proteggerla, stabilì la durata della vita di ciascun essere vivente, decise in che modo le anime potessero incarnarsi e reincarnarsi, e così via.
Tra le sue fila aveva anche un braccio destro, che era anche l’Angelo più splendente di tutto l’Eliso, ossia il loro regno, il quale assecondava l’Amicone in tutto e per tutto. Quell’Angelo era Lucifero. Un giorno, però, Lucifero cominciò a provare risentimento verso il suo signore, poiché secondo lui le leggi che erano state stabilite erano ingiuste, e l’Amicone le faceva rispettare severamente e senza nessuna replica, sopprimendo con forza ogni errore e punendo duramente i colpevoli. Così, Lucifero prese sotto di sé altri Angeli che la pensavano come lui, e si ribellò.
Da quel giorno nacque la Stirpe Demoniaca ed ebbe inizio la Guerra.”
Cherì si era inginocchiata ai piedi del divano, ad ascoltare la storia come una bambina; Davey aveva lasciato perdere i piatti pieni di schiuma e persino Amy sembrava interessata, essendosi svegliata dal suo dormiveglia.
“E’ come c’è scritto nella Divina Commedia!” esclamò Cherì, con un filo di voce vibrante di esaltazione. “E poi, alla fine della Guerra, Dio ha scagliato Satana sulla terra conficcandolo così a fondo che è nato l’Inferno, e dall’altra parte per lo spostamento del terreno è sorto il monte del Purgatorio! Poi ha relegato i Diavoli nei gironi infernali, ad occuparsi delle anime peccatrici, e sulla terra è nato il regno di Dio!”
“Agli uomini piace pensarla così, sì.” Tarja sorrise a sua sorella, che aveva assunto all’improvviso la faccia più funerea e delusa del mondo a quelle parole, le tese una mano e la fece sedere accanto a sé sul bracciolo del divano di pelle nera, unica zona lasciata libera da Annette sdraiata.
La circondò con un braccio e la strinse a sé, protettiva.
“In realtà la Guerra non è mai finita. Lucifero non è stato sconfitto, e l’Amicone lotta ancora per la sua supremazia. Ci sono state delle tregue e degli accordi, sì, come la Regola di cui vi parlavo ieri, quando sul mondo sono apparsi gli umani, che ci somigliano, ma sono così fragili e mutevoli che l’Amicone credette bene di difenderli dal conflitto. Inoltre, gli Angeli hanno la loro base nell’Eliso, mentre i Demoni a Chrysantemum Hill, perché è lì che soggiornano i due capi: sono due città esistenti nella vostra realtà, poiché siete stati voi, per volere dell’Amicone, a credere che l’Inferno ed il Paradiso di trovassero in Cielo e nelle profondità della Terra…ma non crediate che sia così facile trovarle! In realtà, infatti, gli Angeli ed i Demoni sono sparsi dappertutto, mimetizzati, e portano avanti la loro guerra di nascosto dagli umani, nascondendosi nei luoghi più insospettabili. Io avrei dovuto prendere il comando delle fila della mia Stirpe, e portare avanti gli scontri come papà prima di me, per sconfiggere la supremazia dell’Amicone, però…”
“...però?” chiese Annette, trepidante.
Il volto di Tarja si era offuscato all’improvviso. “ In realtà non voglio farlo, non ho mai voluto. Anzi, ha lasciato Chrysantemum Hill proprio per questo, perché ho in mente un progetto. Sapete, io penso che…no, non ho molta voglia di parlarne.”
Un silenzio pesante calò nel piccolo monolocale, carico di domande. Amy si chiese tra sé e sé cosa diavolo avesse Tarja contro l’investitura a regina, cosa che a lei sembrava irreale ma anche bella come una favola, pur comportando, probabilmente, anche molte responsabilità.
Forse era solo un po’ codarda, forse il potere la spaventava e lei non si sentiva all’altezza, o forse le faceva semplicemente schifo essere dalla parte dei cattivi. Mah.
“Piuttosto,” riprese la rossa, infrangendo l’atmosfera, “come mai vivi per strada, Annie? Non hai una casa?”
“Ce l’avevo.”
Il volto della brasiliana si stortò in un ghigno amaro mentre rispondeva, ed una risata lugubre attraversò l’aria.
“Ce l’avevo prima che mio fratello diventasse un assassino. È tutta colpa sua, e di nessun altro.”
Fece una pausa e sospirò.
“Ha fatto fuori mia madre e mio padre sotto i miei occhi, e stava per sparare anche a me. È successo in una notte in cui era fatto di brutto, perché probabilmente aveva speso tutti i soldi che aveva rubato a mio padre in droga. Ha ucciso lui la mia famiglia, e poi è fuggito.”
Rimase un attimo in silenzio.
“I carabinieri mi avevano detto che sarei andata in una casa-famiglia, ma io mi sono rifiutata e così sono scappata, cominciando a vivere dove mi capitava. Avevo quattordici anni. Mio fratello poi ha continuato a fare il criminale, e un anno dopo l’hanno arrestato, ma io da quel giorno ho solo un pensiero in mente.”
Afferrò la pistola appoggiata sul tavolo allungando il braccio, la portò davanti agli occhi e la accarezzò languidamente, osservandone intensamente la canna mentre parlava.
“Gli farò provare sulla sua pelle il male che ha inflitto, con questa. Sto solo aspettando che esca di prigione: non potrà mai esistere una punizione abbastanza pesante per ciò che a fatto, tranne che questa.”
Tutti erano ammutoliti, nel sentire la tragica storia della ladruncola brasiliana, Tarja e Davey si misero in coro a mormorare condoglianze e Cherì si mise a pregare per l’anima di tutti quanti.
Amy invece si era sollevata sul letto con gli occhi spalancati, con espressione stupita ed interessata.
“Come si chiamava tuo fratello, Annie?” chiese Cherì, per avere qualcosa di intelligente da dire in un simile circostanza.
“Chester Dos Santos, Ches.”
“Che...Chester Dos Santos?” balbettò allora Amy, sbiancata in volto all’improvviso come se avesse appena visto la morte in faccia, con labbra tremanti, un cambiamento tanto spaventoso e repentino che Tarja si preoccupò e la raggiunse ai piedi del letto, mettendole una mano sulla spalla.
“Stai bene, amica mia? Cosa c’è?”
“Ches…Dos Santos…” continuava a ripetere, come una pazza, finché finalmente riuscì ad articolare una frase compiuta.
“Chester Dos Santos…è l’assassino anche dei miei genitori!”



Salve a tutti! Sono tornaaata! ^^
Chiedo umilmente perdono per la mia lunghissima assenza -dovuta a cause quali trasloco/maturità-
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, fatemi sapere quello che pensate, e naturalmente grazie a chi già stava seguendo la mia storia e l'ha commentata! E'sempre molto costruttivo e piacevole leggere i commenti di chi legge...
Da oggi tornerò più attiva che mai! PUSS!
Kiki

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Capitolo 13
*** Capitolo XIII -Luglio, afoso pomeriggio estivo- ***


13 Luglio, afoso pomeriggio estivo.

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“Amy, corri! Niente cena sennò!”
La voce di sua madre attraversò il giardino bonaria, in pieno contrasto con l’allegra minaccia che stava pronunciando.
“Mamma! Un secondo, è successa una cosa!” rispose la voce di Amy, mentre la ragazza scendeva di volata dal motorino, facendo quasi rotolare giù sull’asfalto della strada davanti al cancello il suo altro occupante, e correva a perdifiato sul vialetto fino ad affacciarsi alla finestra spalancata della cucina, dietro la quale sua madre armeggiava tra i fornelli e le stoviglie.
La madre sorrise, vedendo la figlia tutta trafelata.
Era un afoso pomeriggio estivo, o più precisamente fine pomeriggio, poiché in realtà l’ora era piuttosto tarda –più o meno le 19 meno un quarto-, ma il sole vivo e brillante persisteva a scaldare come in pieno giorno, forse solo un po’ più obliquo, come accade in ogni assolata giornata d’estate.
Era quell’ora insomma in cui tutto il mondo comincia progressivamente a tingersi d’oro caldo, l’ora in cui nel cuore di tutti si fa strada il desiderio di godersi le ultime mezz’ore di luce, di stare accanto ai propri cari, il vago e tenero sentore di essere in pace col mondo, stringendosi al proprio innamorato.
La luce d’oro entrava calda nella bella cucina, ed accarezzava l’erba un po’ ingiallita ed i cespugli del giardino.
“Allora? Cos’è successo di così eclatante?”
“Serji mi ha invitata a cena fuori stasera! Adesso!”
La donna spostò lo sguardo sul ragazzo a cavalcioni del motorino davanti al cancello, il quale sorrise un po’ imbarazzato e salutò con la mano. Come al solito, storse un po’ il naso guardando i suoi jeans rattoppati ed i suoi piercing, ma poi sospirò, sorridendo e simulando una resa giocosa.
“Sai mamma, oggi facciamo tre mesi, e…”
“Ma sì, ma sì. Dai, sbrigati, non vorrai mica farlo aspettare tutta la notte, eh.”
“Grazie mamma!”
“Guarda però che stasera c’era la torta-gelato. Ma sia, scelta tua.”
“Tenetemene da parte una fetta!” gridò Amy mentre già correva verso il cancelletto, andandosi a scontrare precisamente di faccia contro suo padre, di ritorno dal lavoro. L’uomo lanciò un imprecazione a mezza voce nello scontro, ma poi mutò umore quando vide la faccia gioiosa di Amy, e la salutò allegramente con una pacca sulla spalla.
Serji aveva già inforcato il manubrio ed acceso il motore quando Amy saltò sul sellino minuscolo, non adatto realmente ad ospitare più di una persona, agganciandosi la fibbia del casco sopra la folta chioma.
Il motorino scoppiettò e partì sgommando, lasciandosi alle spalle la bella casa inondata di sole, e la ragazza circondò il ragazzo con le braccia, reggendosi a lui per non cadere durante il breve tragitto fino al parco ed i suoi prati.
Aveva 18 anni, era innamorata, ed era felice.

Il parco di Leadenville era ancora pieno di ragazzini che prendevano a calci palloni, a quell’ora, ma Amy e Serji sapevano che presto sarebbero tutti fuggiti via dall’ombra e dal vento fresco della sera per correre a cenare dalle loro famiglie, ed il prato sarebbe finalmente stato tutto per loro.
Serji smontò dal vecchio motorino e lo incatenò ben bene ad un palo della luce appena fuori i cancelli del parco, facendo sferragliare il lucchetto, e poi si tolse la vecchia cartella che portava indossata al contrario e se la rimise addosso nella sua giusta posizione, dietro le spalle –per permettere ad Amy di salire sul motorino infatti aveva spostato la sacca sul davanti, e la sua ragazza lo aveva preso in giro perché sembrava che fosse “incinto”-.
Stesero la coperta di plaid che si erano portati sull’erba, lontano dalle radici scomode e dure degli alberi vicino al sentiero, ed Amy prese ad armeggiare dentro lo zaino, per scoprire cosa le aveva preparato Serji per quel picnic estivo. Mentre estraeva una vaschetta di plastica, notò che il suo ragazzo si era seduto sull’erba, invece che sul telo.
“Cosa ci fai lì?” chiese, alzando un sopracciglio.
“Assorbo l’energia della terra.” Rispose lui, sorridendo in modo complice e cominciando a togliersi scarpe e calzini –spaiati-. “Camminare con le scarpe su strade ricoperte di cemento ci fa male, perdiamo il contatto con la nostra terra. Non lo sapevi?”
“Sei un fricchettone del cazzo.” Amy sorrideva. Amava quel suo essere fricchettone del cazzo.
“Credi che sia roba da fricchettoni? E allora secondo te perché quelli che praticano le arti marziali vanno in giro a piedi nudi, perché gli puzzano?” Mimò con un gridolino in stile Bruce Lee una mossa di cunfù, finendo per rotolare sul prato e per scagliare con una scarica di calci innocui i suoi piedi non proprio puliti davanti alla faccia di Amy. Lei simulò una faccia schifata, senza però riuscire a trattenersi dal ridere.
“Fa bene a volte tornare in contatto con la terra, ti disintossica.”
“E tu ti rotoli nell’erba? In mezzo alle cacche di cane?”
“Ehi, ma che schifo! Non avrà mica cagato qualche cane, qui in giro!”
Serji si rialzò in piedi di scatto, cominciando a controllarsi i vestiti nell’eventualità di aver pestato qualche “ricordino”, tra le risate di Amy.
“Scherzavo, dai! Vieni qui!”
Il ragazzo finalmente si sedette accanto ad Amy, ma prima che lei potesse accorgersene le aveva afferrato i fianchi ed aveva cominciato a farle il solletico, facendola ridere e dimenare fino alle lacrime, e gridando “Tiè la cacca di cane! Sporcati, sporcati!”. Qualche passante si voltò verso la coppia, arricciando il naso.
La luce del sole stava lentamente morendo, infiammando i capelli pel di carota del ragazzo ed illuminando di riflessi miele quelli della ragazza, castani.
“Allora, quando pensi di tingerli?” chiese Serji, stendendosi sul telo con le braccia incrociate dietro la nuca, con la testa appoggiata sul grembo di Amy.
“Dai, finiscila! Te l’ho detto un milione di volte che mia madre m’ammazzerebbe!”
“Ma cosa gliene frega a lei? I capelli sono i tuoi, mica i suoi.”
Amy accarezzava il sogno di tingersi i capelli con qualche striscia di un colore assurdo già da qualche tempo, ma era perfettamente consapevole dell’impossibilità della cosa e di tutte le possibili, tremende conseguenze che questa avrebbe portato. Chiusa in casa per un mese, come minimo.
Serji però non si faceva problemi a farle proposte del genere, non aveva di questi pensieri, lui: era libero. Se n’era andato da casa sua già da un paio d’anni –una facoltosa famiglia di industriali- dopo aver litigato con suo padre. Amy aveva ascoltato quella storia almeno un milione di volte: suo padre pretendeva che si iscrivesse alla facoltà di economia, ma lui aveva tutt’altre idee, e così era uscito di casa ed era diventato attivista di Greenpeace. Sembrava avere in mente solo di salvare il mondo dai quei capitalisti come suo padre che inquinavano il mare, il cielo e la terra, quel fricchettone.
Amy sorrise tra sé e sé, poi vide il tramonto e pensò che era una luce perfetta per una bella fotografia.
“Ehi, che fai!?”
“Dai, sorridi! Cheeese…”
Amy aveva tirato fuori dalla tasca la sua polaroid e l’aveva piantata in faccia al suo ragazzo steso sopra di lei, oscurandogli la visuale, e lui rotolò fuori da quell’inquadratura oscena mettendosi a ridere.
“Se vuoi fare una foto, falla bene!” ma non aveva finito di parlare che Amy aveva gia scattato.
“Mi sa che sei venuto con la bocca aperta.”
“Dai! Ma ti stavo parlando!”
“Domani la faccio sviluppare e scopriremo se sei davvero così brutto.”
Serji non era per nulla brutto, anche se non tutti riuscivano ad apprezzarlo: la sua carnagione chiara era macchiata qua e là da qualche vaga ombra di lentiggini, i suoi capelli “arancioni” erano folti, sempre indomabili e spettinati sopra la sua testa, ed Amy adorava infilarci le mani in mezzo e scompigliarli ancora di più. Inoltre, aveva un gran bel fisico –grazie a tutto il moto che faceva, sempre in prima linea con i suoi compagni del circolo ambientalista di Leadenville- anche se la cosa che attirava maggiormente l’attenzione erano sicuramente i piercing: ben due gli bucavano il labbro inferiore, uno da una parte ed uno dall’altra, aguzzi e luccicanti come i canini metallici di un vampiro, ed un altro perforava la radice del naso, tra le due sopracciglia. Per non parlare della sfilza di orecchini più un espansore di legno scuro che ornavano le sue orecchie.
Amy era convinta che stesse cercando di trasformare anche lei in una specie di puntaspilli vivente, ma la cosa non le dispiaceva per niente, anzi, la eccitava: per lui avrebbe fatto qualsiasi cosa, e voleva sentirsi anche lei un po’ ribelle, in guerra contro l’umanità per difendere il mondo dalla sua stessa stupidità.
La stava quasi convincendo a farsi fare un piercing al labbro.
“Ho fame. Dai, apri la scatoletta!”
Amy si decise finalmente a tirare fuori il cibo, e scoprì che Serji le aveva preparato le sue polpette speciali, così si misero a mangiare semi-sdraiati sul prato, scherzando ed imboccandosi a vicenda.
Fu una serata speciale, incantata dalla luce soave e magica della luna piena.
Quando furono più o meno le due e mezza, decisero che era ora di tornare a casa.

Le luci delle sirene della polizia e dell’ambulanza furono visibili già dall’inizio della via.
Amy e Serji le trovarono parcheggiate attorno alla bella casa di Amy: carabinieri e medici correvano dappertutto, e qualche vicino impiccione era sceso con una vestaglia sulle spalle.
Duplice omicidio: il signore e la signora Wong erano stati uccisi da ripetuti colpi di pistola, che li avevano colpiti alla testa ed al cuore.

Amy non ricordava molto, di quella sera.
Aveva pianto, sì. E poi c’era Serji.
Ricordava bene un volto, un ragazzo dalla faccia feroce, gli occhi annebbiati e pesti, capelli neri e labbra carnose, spinto a forza in manette in una gazzella. Ed un nome: Chester Dos Santos.
Una sentenza troppo lieve: sette anni di carcere, per duplice omicidio colposo ed appartenenza al circolo delle Bestie di Satana. Erano delinquenti che asserivano di fare sacrifici in nome del diavolo, e sotto l’effetto di droghe pesanti compievano i più efferati omicidi. I suoi genitori erano stati scelti come vittime sacrificali, le avevano spiegato i carabinieri, ed il loro omicidio avrebbe dovuto far parte di uno di quei terrificanti ed assurdi rituali.
La sua vita finì con l’esistenza dei suoi genitori.
Quella fu la prima delle due grandi “fini”.

“Poi…andai a vivere con Serji…finii la scuola e mi unii anch’io al suo circolo…mi tinsi i capelli e mi feci il piercing…”
“E poi?” chiese Cherì, con un sussurro.
“E poi…due anni dopo siamo riusciti ad unirci ad una spedizione nel pacifico, su una barchetta, contro le baleniere giapponesi…Serji ha preso il tetano…e poi…”
Amy singhiozzava, stretta tra le braccia di Tarja e Davey, che si erano seduti accanto a lei sul letto. Cherì le stringeva una mano, accoccolata sul pavimento davanti a lei. Tutti restavano in un profondo e rispettoso silenzio, mentre lei raccontava.
“Quella foto…” continuò la blu, indicando il sorriso immortalato in pellicola appeso sopra il comodino “…è quella che gli ho scattato con la polaroid quella sera.”
Allungò la mano e la staccò dal muro, stringendola al petto.
“Dovevamo salvare il mondo…”
Scoppiò in un pianto ancora più disperato, liberatorio, sentendo uscire dal suo cuore quel dolore tremendo, vivo, mai cancellato, che usciva come un torrente irrefrenabile, una volta distrutta la diga.
Erano passati cinque anni, tre dalla morte di Serji.
Tre anni passati ad ingoiare la vita amara, acida di solitudine, vuota, lacerata, senza scopo. Che scopo avrebbe avuto vivere, se tutto ciò che aveva amato le veniva strappato via dal destino crudele?
Ma che razza di vita era?
Aveva affondato tutto con l’alcool e la solitudine, aveva provato a diventare insensibile come una scatola vuota, ad isolarsi da quelle emozioni che avrebbero potuto ricordarle la sua vita di prima, ad allontanarsi da tutto ciò che avrebbe potuto perdere di nuovo, a non soffrire più in un alternarsi di giorni tutti vuoti come il suo cuore, tutti ugualmente inutili e odiosi…
Ma quel dolore non era mai scomparso, anzi, forse era cresciuto, ed ora stava sgorgando fuori dalle sue lacrime e dalle sue urla facendola a brandelli.
Cristo, se faceva male.
Sentì le braccia di qualcuno che la stringevano forte, che le impedivano di disfarsi in mille pezzi, che la tenevano in piedi e le ricordavano che, in realtà, in fondo adesso non era così sola.
“Puoi ancora salvare il mondo.” Disse la voce di Davey.
Annette era ancora sul divano, e guardava la scena in silenzio.
“Basta che continui a crederci.”

Amy pianse per diverso tempo, poi si calmò un po’ ed affermò di avere un urgentissimo bisogno di sonno e riposo, che non ce la faceva più. Tutti furono d’accordo e con lei e così si ritirarono a dormire. Davey le rimboccò le coperte.
Amy si addormentò quasi subito: stava malissimo, ma si sentiva dentro qualcosa di nuovo. Come se il masso pesantissimo che portava nel cuore si fosse sciolto tutto, lasciando una ferita aperta.
Si addormentò così, leggera, mentre nel suo petto sanguinante già cominciava a nascere tenera pelle nuova.

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Capitolo 14
*** Capitolo XIV -Inferno, settimo cerchio, terzo girone- ***


Inferno, settimo cerchio, terzo girone.

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Andrea quella mattina sembrava molto agitata, più del giorno recedente, quando l’aveva conosciuta.
Era tornata.
Strano, aveva pensato Sharon, quando l’aveva vista comparire sotto il portone del condominio, sola questa volta, a differenza del giorno prima. Strano, ma intanto il suo cuore aveva ripreso a battere come un motore lanciato al massimo dei giri.
Perché era tornata?
“Sono tornata per te.”
Andrea sorrideva: Sharon era di nuovo scesa tutta trafelata, tutta rossa come un peperone, avendo ormai preso possesso di quelle pantofole verdi di quattro numeri troppo grandi per i suoi piedi. Era un po’ ridicola, ma non avrebbe mai potuto prendersi il tempo di vestirsi decentemente e far aspettare Andrea là in piedi…
“…per me…?”
“Sì Sharon. Mi piace molto parlare con te. Sei così diversa dalla gente con cui ho a che fare di solito…”
Era agitata, continuava a sistemarsi i ciuffi biondo-cenere della frangetta sulla fronte ed a sbattere i grandi occhi verdi, scalpitava come un cavallino. Indossava come il giorno prima quella pesante giacca di cuoio nero, che faceva un così strano effetto sul suo corpo esile…
“Senti, Sharon, ti fa di fare un giretto? Ho una tremenda voglia di parlarti.”
Cosa diavolo avrebbe dovuto fare? Sapeva di star peccando, pensò sentendo salire vampate di calore rovente nel sangue fino al viso. Quell’emozione così intensa e piacevole non poteva essere pura.
Forse per Andrea era diverso, anzi, sicuramente, ma lei era pienamente consapevole delle sensazioni che le provocava la vista di quella creatura meravigliosa, quei brividi, quei pensieri strani…era sicuramente peccato. Non avrebbe dovuto accettare il suo invito. Sapeva che era tremendamente sbagliato.
Eppure, lo accettò.
Era una debole, e si disprezzò.
Si incamminarono sulla via di case popolari, una che continuava a parlare, l’altra in pantofole, che la ascoltava. Giunsero ad un minuscolo spazio verde con un paio di panchine, poco distante dal super-market, e si sedettero.
“Sai…non li sto sopportando più i miei compagni. È successa una cosa, ieri mattina…hanno scoperto qualcosa di importante. E Ville è dovuto correre a dirla al capo. Una buona notizia, per fortuna…”
“Ville…?”
“Oh, sì. Ville è quello alto, con la coda, che quando ti guarda sembra che riesca a farti una radiografia…”
“Oh.”
Sharon rinunciò a chiedere che cosa fosse una radiografia.
“Sì, beh, Ville se n’è andato ieri sera, ma prima di andarsene non sapeva parlare d’altro che della loro incredibile scoperta…che era una cosa importantissima, che avevano sbagliato tutti i calcoli, eccetera eccetera. E Tony ha continuato a parlarne per tutta la mattina! Non ne posso più!”
“Tony è l’altro?”
“Sì, quello albino.”
“Che cosa hanno scoperto?”
“Emh, noi tre lavoriamo insieme per un’associazione, chiamiamola così, molto simile ai servizi segreti. Eravamo venuti qui perché due persone avevano infranto le regole…e poi abbiamo scoperto che una cert’altra persona, che credevamo morta, invece è viva. In sintesi questa è la scoperta. Non posso certo dirti di chi sto parlando,o non sarebbe più un segreto…”
“Sei un Angelo, Andrea?”
La ragazzina si zittì all’improvviso, bloccando le mani a mezz’aria ed impallidendo drasticamente.
Sharon trattenne un sorriso, suo malgrado. L’aveva proprio spiazzata.
D’altronde, come poteva sapere Andrea che lei Ville e Tony li aveva proprio incontrati di persona, la mattina precedente, mentre scoprivano che Jaja era viva e che era scappata di sua volontà dal trono della Stirpe Demoniaca?
Comunque, la reazione di Andrea alla sua domanda le rivelò che aveva fatto centro.
“Tranquilla, non lo dirò a nessuno.”
“Ma…come hai fatto a capirlo? Sei un’iniziata?”
“Sono la sorella di Tarja Lucifer.”
Andrea rimase ancora più stupita di prima, ed i suoi occhi si riempirono di terrore.
“Sono solo un’umana.”
“Non sei un Demone anche tu!? Come mai nessuno sapeva niente di te!? Insomma, Tarja è parecchio famosa, e tu…?”
“Sono solo un’umana. Ho vissuto qui tutto il tempo. Io e mia sorella siamo state separate. Non sono importante come lei…”
Andrea sembrò calmarsi, ma mantenne l’espressione esterrefatta. Si avvicinò un po’ a Sharon, e lei la lasciò fare. Non sapeva che cosa avrebbe dovuto provare: metà della sua anima le gridava che era sbagliato, che sarebbe stata catapultata vergognosamente nell’Inferno, l’altra metà era invece felice e luminosa come non lo era mai stata; le due metà si stracciavano e combattevano violentemente tra di loro, lasciandola in un vago stato di stordimento doloroso. Dio, un Angelo! Andrea era un Angelo, ecco il motivo della vaga aura di luce che sembrava emanare dai suoi occhi e da tutta la sua persona, di quella strana sensazione di gioia che la pervadeva ogni volta che la vedeva: l’idea di avere accanto un Angelo non faceva che fargliela adorare ancora di più…
Le sarebbe piaciuto abbracciarla, avendola così vicina. Il suo vago profumo le dava alla testa.
“Forse è meglio che io non dica ai miei compagni chi sei. Credo che si scatenerebbe un putiferio inutile, visto che sei umana…”
“Credo che se ne accorgeranno, Andrea. Siamo identiche.”
“Oh, non lo sapevo…io non l’ho mai vista…comunque non è necessario che glielo dica io. Non sanno nemmeno che vengo a parlare con te…”
“No?”
“No, sarà il nostro segreto.”
“Quanti segreti…”
“Già! Non ti piace l’idea? Sarà divertente!”
“D’accordo, Andrea.”
Sharon avvampò, scaldandosi in uno dei suoi rari sorrisi che accese il suo viso bianco come la luna di sfumature scarlatte.
“Sarà divertente…”

Dio, un Angelo!
Erano rimaste là a parlare per un tempo che Sharon giudicò infinito, ed ora si sentiva eccitata, piena, felice. Era una felicità strana, perché solo il fatto di esserci le causava un dolore stracciante in fondo allo stomaco, che la stordiva e la faceva sentire un’inetta per esservisi abbandonata. Era una felicità sbagliata, lo sapeva fin troppo bene.
Sua madre Madelin le aveva proibito di giocare con le bambole quando aveva otto anni, la prima volta che l’aveva vista organizzare un matrimonio tra le sue due preferite, due belle bambole di ceramica vestite con abitini gialli, rosa e blu.
L’aveva sgridata severamente, le aveva raccontato tutta una serie di storie bibliche e di punizioni divine a tal riguardo, le aveva parlato di Sodoma e Gomorra, di piogge di fuoco, l’aveva mandata a letto senza cena e aveva requisito tutte le sue bambole.
Sua madre si convinse che la storia fosse finita lì, ma Sharon sapeva bene che non era così.
Crescendo, infatti, si ritrovò a sognare estasiata le chiome d’oro delle eroine innamorate dei romanzi alessandrini, a rileggere avidamente tutte le descrizioni dei gesti e delle bellezze delle dame dei poemi cavallereschi di Orlando, a piangere amaramente leggendo la triste morte di Ofelia e di Giulietta nelle tragedie di Shakespere…
La Divina Commedia, poi –il suo libro preferito-, a tal riguardo era chiarissima: per i sodomiti era previsto il settimo cerchio, terzo girone, categoria “violenti contro la natura”.
La punizione consisteva nel correre eternamente sotto una pioggia di fuoco, proprio come era successo anche alla città di Sodoma. Lei non era certa di poter essere definita “sodomita” –infatti a quanto aveva intuito quello era un discorso che riguardava solo gli uomini-, ma sapeva che quello era il destino a lei riservato perché le sue emozioni erano contrarie alla natura, lo sapeva da quando aveva otto anni, da quando sua madre le aveva detto che un matrimonio tra due femmine andava contro il volere di Dio.
Ma non poteva farci nulla, oltre che star male. Adesso che c’era Andrea, poi, non sapeva più come comportarsi. Avrebbe resistito alla dannazione totale, o come una debole peccatrice avrebbe ceduto?
Il solo pensiero le fece correre un brivido intensissimo per tutto il corpo, e non capì se era di paura o di lussuria. Probabilmente entrambi. Le veniva da piangere.
Facendo questi pensieri stava risalendo le scale di casa, raggiunse sospirando il pianerottolo ed aprì la porta.

“Cherì!” gridò Tarja, seduta al tavolo già apparecchiato.
“Si può sapere dove sei stata? È già mezzogiorno! Stavo cominciando a preoccuparmi!”
“Emh…ho fatto un giretto…oh, Dio, finirò all’Inferno!”
La ragazza si mise la mani tra i capelli, corse a prendere il suo rosario e sparì con quello in bagno, dove aveva riposto anche la sua Divina Commedia, nell’armadietto accanto al latte detergente e all’aspirina. Amy, che stava preparando da mangiare, sbuffò.
“Ma si può sapere che le prende, a volte?”
“Secondo me è pazza” commentò Annette, stesa a tappeto sul divano. Non se n’era mai andata, proprio come aveva promesso il giorno prima.
“Non è pazza! È solo un po’ strana…” mormorò Tarja.
“Credo che chiunque diventerebbe strano, dopo aver passato un quarto d’ora con una come vostra madre…”
Tarja e Amy scoppiarono a ridere, mentre Annette spostò il suo peso dal divano al tavolo apparecchiato. Nel frattempo Amy metteva in tavola degli spaghetti conditi con un sugo pronto, per la gioia dei loro stomaci affamati.
Sembrava un po’ cambiata, Amy. Non si capiva bene perché, ma era come se fosse più disposta del solito a scherzare, e sbuffava molto meno di prima quando Tarja partiva con i suoi discorsi strani. Quella mattina era dovuta correre al lavoro, giustificando l’assenza del giorno precedente con la balla di essersi presa un virus intestinale, e poi, con la scusa di stare ancora male, era uscita in anticipo ed era andata a fare la spesa. Aveva giurato a se stessa che le gemelle non ce le avrebbe mandate mai più, a fare compere, a giudicare dalle conseguenze impreviste che il fatto comportava e dal mare di roba inutile che avevano portato a casa l’ultima volta.
Aveva anche comprato il quotidiano. Erano ben tre anni che non comprava il quotidiano.
Cherì non si presentò a tavola, e le tre divorarono tutto lasciando da parte una razione anche per lei, per poi spreparare le stoviglie ed impilare i piatti nel lavello in vista di quella sera, quando Davey si sarebbe preso la briga di lavarli.
Tarja rimase seduta al tavolo, mentre Annette si stravaccò di nuovo sul divano, chiudendo gli occhi e sprofondando in un profondo coma da pancia piena sotto lo sguardo irritato della padrona di casa. Amy infatti la stava squadrando con occhio ostile, mentre passava la spugna sul tavolo per eliminare le ultime briciole, e stava pensando ad un modo per liberarsi di lei nei giorni futuri. Poi però all’improvviso si spostò ed afferrò risolutamente il quotidiano, appoggiato sul mobiletto d’ingresso. Lo sbatté sul tavolo, davanti al muso esterrefatto di Tarja. La rossa fissò stupita la sua padrona di casa, facendo tanto d’occhi e sbattendo le lunghe ciglia. Amy sbuffò e incrociò le braccia.
“Ok, Tarja, chiariamo le cose. Se hai intenzione di vivere qui con me, allora trovati un lavoro. Non ho intenzione di mantenere te e tua sorella per sempre, con quella miseria di stipendio che ho.”
“…c-cosa?”
“Hai sentito. Devi trovarti un lavoro.”
Tarja prese il giornale con due dita come se non ne avesse mai visto uno, senza nemmeno aprirlo.
“Ma…io…non posso…io devo fare una cosa, prima…sai, Amy, quello di cui parlavo ieri, riguardo al motivo per cui ho lasciato Chrysantemum Hill…”
“Non mi interessa.” Amy incrociò le braccia e lanciò all’amica un’occhiata decisa. “Prima di fare qualsiasi altra cosa, devi portare a casa dei soldi. Non ammetto discussioni.”
Aprì il giornale alla pagina delle offerte di lavoro e lo piazzò sul tavolo davanti a Tarja, dopodiché se ne andò a dare una scopata al pavimento, che ne aveva decisamente bisogno.
Tarja rimase allibita a fissare quelle pagine scritte fitte fitte, tutte grigie, senza capacitarsi di quello che aveva appena sentito pronunciare ad Amy: eh sì, in quella ragazza era davvero cambiato qualcosa.

La notte era di nuovo calata, e di nuovo tutti si erano addormentati.
Nessuno era venuta a disturbarla, e Sharon ringraziò in silenzio sua sorella per questo: lei riusciva a capire che aveva un disperato bisogno di stare sola, ed anche se non poteva intuirne il motivo, l’aveva rispettata e per tutto il giorno aveva fatto in modo che nessuno si avvicinasse a lei.
La luna la rasserenava, semi-nascosta dalle nubi e dal riflesso sul vetro della finestra, ed i grani del rosario scorrevano veloci tra le sue dita sottili: Sharon si era accoccolata nel suo angolino notturno prediletto, ai piedi del letto di Amy, con la finestra che lasciava la luce lunare entrare ed illuminare soffusamente tutto il monolocale. Questa volta c’era anche Annette, stesa su un improvvisato materasso di trapunte sul pavimento tra la cucina ed il divano, ed anche se la sua presenza la disturbava un po’, le sue russate lasciavano intendere che non avrebbe causato problemi fino alla mattina successiva.
Pregava per la sua anima, per trovare finalmente un po’ di pace.
All’improvviso qualcuno comparve alla sua vista, sul marciapiede davanti al portone del condominio: era avvolto in un giaccone di cuoio nero, aveva capelli biondo cenere, ma da tutta la sua figura sembrava essere emanata una vaga aura di luce d’oro.
Sharon non riuscì ad attendere nemmeno un secondo, mise al collo il rosario d’avorio e corse giù.
Andrea, appena la vide, le circondò il collo con le braccia, riscaldando la sua pelle sottile coperta solo dal leggero tessuto della t-shirt.
Avvicinò le labbra al suo orecchio e sussurrò : “Mi manchi…”
Sharon sentì il sapore caldo e umido della bocca di Andrea, e si abbandonò al suo bacio.
Settimo cerchio, terzo girone.

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Capitolo 15
*** Capitolo XV -L'impossibile, disperata missione della Principessa dei Demoni- ***


L'impossibile, disperata missione della Princpessa dei Demoni.

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Amy quella mattina si svegliò di buonumore, cosa che ormai le accadeva piuttosto spesso, a dire il vero. Ma il discorso valeva particolarmente per quella speciale mattina, infatti era domenica.
Finalmente domenica!
I faticosi giorni di lavoro e le alzatacce erano finite, e per una mattina almeno lei poteva attardarsi tra le coperte al calduccio, visto che non riusciva a non svegliarsi dopo le sei mezza a causa dell’abitudine, e godersi il suo meritato riposo in un dolce dormiveglia.
Nel piccolo monolocale tutti ancora dormivano: Annette stesa a stella sul pavimento e mezza avvolta nelle trapunte che le facevano da letto, Tarja tutta accoccolata sul divano e Cherì, poverina, stretta a sua sorella e quasi al punto di cadere giù per terra per la mancanza di spazio.
La blu richiuse gli occhi e si voltò su un fianco, abbracciando il cuscino.
Si lasciò cullare dal lento scorrere dei suoi pensieri.
Da quando aveva detto alle sue inquiline ed a Davey dei suoi genitori e di Serji, Amy si sentiva molto più in pace con il mondo: certo, Tarja era sempre insopportabilmente strana, Cherì negli ultimi tempi era ancora più tormentata ed assente del solito e Annie, sinceramente, non vedeva l’ora di sbatterla fuori da casa sua a calci, ma si sentiva un po’ più compiacente nei loro confronti.
Davey, poi, aveva smesso di essere pressante e noioso come al solito e la lasciava in pace, anche se in effetti in quella settimana era sempre venuto a trovarla. Probabilmente per vedere Tarja, con la quale aveva sviluppato una certa affinità di pensiero. Che dire, erano entrambi due geni dell’idiozia, si trovavano bene. Amy pensò che era meglio che non si riproducessero, perché altrimenti Green Peace avrebbe avuto un altro temibile nemico da combattere per salvare il mondo.
Sorrise e lanciò un’occhiata alla foto di Serji sul comodino.
Si trovava meglio con quei ragazzi, perché in fondo aveva rivelato loro quello che non aveva mai detto a nessun’altro, quello che si era ripromessa di cancellare.
Ora non poteva più fingere che loro ignorassero chi lei era davvero.
E nemmeno lei poteva più ignorarlo.

A colazione c’era molto silenzio, nonostante il buonumore di Amy: Cherì se ne stava in un angolo con la sua Divina Commedia, e come al solito non era di molta compagnia, Annie era troppo insonnolita per fare più di tanto rumore ed il suono più frequente erano lo sgranocchiare dei cornflakes ed i suoi ampi sbadigli, emessi a brevi intervalli di qualche minuto. Insomma, mancava il solito caos. Amy si accorse presto della motivazione di tutta questa innaturale quiete: Tarja infatti se ne stava mogia mogia al tavolo, con la tazza di tè ancora piena ed una guancia appoggiata al palmo. Con l’altra mano seguiva i fogli di giornale, stesi come una tovaglietta sotto i suoi occhi spenti, facendo danzare la punta di un dito tra le righe grigie delle offerte di lavoro. Non proferiva parola.
Amy si stupì della differenza che poteva fare la mancanza della sua voce argentina e delle sue risate, era come se l’interruttore dell’allegria si fosse spento.
Le si accostò, in un rarissimo momento di solidarietà.
“Che c’è? Non trovi niente?”
“No, ci sarebbero delle cose, ma…”
“E allora?”
“Non credo di essere capace di fare qualcosa di utile nella società degli umani…”
“Ah, sciocchezze. Non ci vuole tanta arte a fare la cameriera.”
“Mmm…ma poi come mi sposterei…?”
“Ci sono i pullman.”
“Ma poi…e se rompessi qualcosa…?”
“Ma smettila.”
“…e se…”
“Oh cavolo, si può sapere qual è il problema!?”
Amy non si sarebbe mai aspettata la reazione di Tarja al suo sbottare scocciato: la rossa all’improvviso sbatté le mani sul tavolo con violenza facendo ballare tutte le tazze che vi erano appoggiate, destando l’attenzione anche di Annette e Cherì, che sussultarono allo schianto improvviso.
Gli occhi della principessa dei Demoni lanciavano saette, il suo volto era di pietra. Il tavolo per poco non s’era spezzato in due.
Amy si sentì trafiggere dal gelo della morte ed il fuoco dell’Inferno insieme, non appena quei due pozzi oscuri e roventi le si puntarono addosso. Le sembrò in un secondo che la sua fine fosse arrivata.
Ma velocemente com’era iniziato, tutto finì subito.
Lo sguardo della rossa si addolcì un pochino, e poi si nascose la faccia tra le mani.
“…oh, scusa Amy…non volevo spaventarti.”
Amy ricominciò a respirare, e si sentì ricoperta di sudore gelido. Stiracchiò un sorrisetto di comprensione e prese questo appunto mentale: mai più, mai più dimenticarsi che si aveva a che fare con una discendente di Satana…
“…ma proprio non posso. Non posso mettermi a cercare adesso qualcosa di inutile come un lavoro tra i mortali…”
“Beh…inutile…” tentò di negoziare la blu, mettendo le mani avanti. Cherì era sbiancata come un cencio, ed Annette era sparita non si sa dove dalle parti del bagno insieme a ciò che restava del giornale.
“No, non posso.”
Amy si accorse che in Tarja sembrava essersi acceso qualcosa di nuovo, come se ogni ombra di esitazione fosse scomparsa dal suo sguardo sempre vagante e incerto. Sembrava aver deciso di rompere tutti i compromessi delle buone maniere, ed avesse finalmente snudato le sue vere decisioni, e la sua nuova risolutezza filtrava dallo sguardo deciso e dal tono serio.
“Ragazze…è il momento di dirvi una cosa. Amy, Cherì…”
La giovane lettrice dal caschetto arruffato, un po’ tremante, si sedette al tavolo con le altre due. Aveva capito che il discorso stava diventando importante.
“Voglio dirvi perché non posso perdere tempo. E perché sono fuggita da Chrysantemum Hill.”
“Oh…” disse Amy, sentendo improvvisamente nascere in sé un impertinente moto di curiosità. In effetti, Tarja sembrava aver voluto nascondere qualcosa riguardo alla sua fuga fin dal momento in cui le aveva svelato la sua vera natura, e le idee che si era fatta Amy erano solo pure supposizioni.
“…ma…” la voce di Cherì tremava, e le sue mani si tormentavano l’un l’altra sotto il tavolo, “…io pensavo che fossi scappata per me…”
“Sì, sorellina.” Tarja rivolse alla sorella un sorriso dolce, vedendo la sua anima fragile vacillare all’improvviso come una foglia al vento freddo di novembre.
“Ho sempre voluto ricongiungermi alla mia metà lontana dal momento stesso in cui siamo state separate. Non ho mai desiderato il fato che mi era stato imposto. Tu mi sei mancata tantissimo.”
Le due sorelle congiunsero le mani sul legno consumato del tavolo, per un lungo istante.
Amy si sentì un po’ in imbarazzo.
“…ma non avrei mai avuto la forza di alzare la testa e fuggire se non avessi avuto un ideale più forte che mi spingesse ad agire. Io…sono una codarda.”
Ci fu un momento di silenzio.
Tarja codarda…? Pensò Amy. Beh, in effetti, quella rossa svitata avrebbe anche potuto dirglielo subito che non aveva nessuna intenzione di guadagnare qualche soldo…
“…sono una codarda. La prova è il fatto che non ho ancora combinato niente…non ho fatto altro che rimanere qui come una parassita, a scroccare cibo ed alloggio a te…”
Amy si sentì presa in causa e fece un gesto noncurante, memore dello spavento di poco prima.
“…vi ho anche messo in pericolo di vita con la mia presenza, visto che i Demoni hanno cominciato a mandare sicari per riportarmi a casa, e poi non sono nemmeno capace di lavare i piatti…”
Amy cominciò, nonostante tutto, a sentir crescere il nervoso. Abbandonò il suo atteggiamento finto di compiacenza e decise di tirare fuori un po’ di sane palle, ignorando il timore che le rodeva lo stomaco.
“Hai finito di auto-commiserarti, Principessa dei Demoni? Dicci cosa vuoi fare e basta!”
La rossa si morse le labbra. Sembrò riscuotersi un po’ e si decise.
“Voglio abbattere Chrysantemum Hill, il regno dei Demoni, e porre fine alla Guerra.”

“…cosa?”
Amy stentava un po’ a capire le parole che aveva appena ascoltato. Cherì aveva spalancato gli occhi all’inverosimile, stringendo convulsamente le mani della sorella sul tavolo.
Tarja si morse di nuovo il labbro inferiore, abbassando lo sguardo, come se non riuscisse a sopportare a testa alta il peso eccessivo di ciò che aveva appena pronunciato. Stiracchiò la faccia in un sorriso incerto.
“…beh…mi sento in dovere di farlo.”
Le due ascoltatrici rimasero in silenzio, ancora troppo stupite per riuscire a spiccicar parola: Amy provò la sensazione di aver ascoltato la frase più assurda della sua vita, neanche in un film con una trama scritta da una scimmia sarebbe apparsa un’affermazione così banale e impossibile! E nonostante tutto continuava ad avere sotto gli occhi quella giovane donna che si tormentava le labbra, e che sembrava non credere nemmeno lei alle cose che aveva appena detto, e che di questo si doleva.
“Scusa, Tarja, ma dici sul serio? Cioè…tu, da sola, far vincere i “buoni” nella battaglia cosmica dell’eternità?”
“Certo che dico sul serio!”
La rossa tornò decisa, e fissò Amy con un cipiglio che le incurvava le sopracciglia sottili.
“Io devo farlo! Lo so, l’ho capito mentre vivevo in quell’inferno! Io ho sopportato tutto ciò che mi ha insegnato mio padre solo avendo fisso in mente il pensiero che tutto il potere che mi stava dando l’avrei ritorto contro di lui, e non usato per continuare la Guerra per quegli stupidi ideali!”
Amy e Cherì erano di nuovo senza parole, imbambolate.
“Io so che cosa vogliono fare i Diavoli, che cosa farebbero se li aiutassi a prevalere e vincessimo la guerra! Vogliono distruggere l’ordine imposto da Dio e fare quello che vogliono, regnare su tutto! Vogliono male agli umani, li odiano perché sono fedeli a Dio e lui li protegge! Probabilmente la distruggeranno la vostra razza, se non gli sembrerà più divertente corrompervi fino a che non vi distruggerete a vicenda!”
“Quello lo facciamo già, mi pare…” mormorò Amy in un filo di voce, ma Tarja non la sentì.
“Vi trasformeranno in animali miseri e feroci e stravolgeranno il mondo in una anarchia senza senso! Io…io dovrei essere la loro regina…”
Il fiato le venne a mancare tra le labbra, mentre il tono si abbassava e la disperazione cresceva. Fece una pausa, mentre tentava di governare il tremore che aveva cominciato a scuoterla al suono delle sue stesse parole.
“Io sarei dovuta essere la loro regina…ma non sono adatta. Io sono umana per metà, e questo non si può cancellare. Mio padre era convinto di aver spazzato via tutta la mia umanità nel mio corpo…ma non ha mai accettato che potessi esserlo rimasta nel cuore. Deve essere stato questo il suo errore, con me.”
Fece un’altra pausa, senza riuscire ad arrestare i tremiti che percorrevano le sue membra. Un pallore sconcertante le aveva svuotato le guance dal colore.

“Io…mi sono convinta che se un Demone dal cuore umano come me si è ritrovato a possedere il potere del Principe Oscuro…non può essere un caso. Io sono la persona che deve fermarli, perché sono l’unica che ne ha il potere e la volontà. Non esiste nessun’altro come me…sono stata scelta dal fato, non ci sono dubbi. Sono talmente potenti che solo il loro esponente peggiore può distruggerli.”
Smise di parlare.
Amy si ritrovò in piedi dietro di lei, con una mano sulla sua spalla, ancora tremante.
Non riusciva ad assimilare le parole appena dette dalla rossa, come ogni cosa seria che le usciva dalla bocca, d’altronde: tutto quel casino le sembrava uscito da un romanzo di basso rango, ma doveva fare uno sforzo e capirla. Sì, ce l’avrebbe fatta, in fondo Tarja era stata ad ascoltare lei e la sua storia patetica. Si sarebbe comportata da amica, come minimo, glielo doveva.
“Tu…intendi salvare il mondo, dunque.”
“Se la vedi così…”
Non erano molto diverse, in fondo, loro due…almeno, non molto diverse da come era Amy prima che morisse anche Serji. Ah…fanculo! Il mondo aveva sempre bisogno di essere salvato, con o senza Serji…
“E quindi? Cosa pensavi di fare?”
Non lo so!”
E qui Tarja scoppiò in lacrime, gettando il viso tra le mani e singhiozzando penosamente. Amy non seppe che fare, se non sentirsi in un incredibile, impietoso disagio: si trovava all’improvviso davanti ad una ragazza disperata, senza punti di riferimento a cui sostenersi in un’impresa che si era auto-convinta di doversi sobbarcare, e nemmeno quel briciolo di spina dorsale necessario a darle forza.
Le sembrò una poveretta, e lei non aveva idea di come farla sentir meglio: era impotente.
“E’ questo il problema! Non so neanche da che parte iniziare! Mi ero fatta qualche piano mentre mio padre mi teneva reclusa, ma in realtà non so nulla di come funzionano le difese di Chrysantemum Hill, non abbastanza da impedire di farmi ammazzare almeno! So solo combattere, ma sono da sola… E ho paura, cavolo!”
Cherì, senza farsi notare, si era alzata e si era accucciata accanto a sua sorella. Le circondò le spalle con un braccio e le appoggiò il capo nella piega del collo, senza dire nulla. Amy, in preda all’imbarazzo più totale e sentendosi terribilmente fuori posto, staccò la mano dalla spalla della rossa in lacrime e arretrò di qualche passo, assistendo a quella profonda comunione tra sorelle.
Non si dicevano nulla, ma i singhiozzi di Tarja si calmarono un poco.
Infine, Cherì le diede un bacio sulla guancia, e lei smise di piangere.
“Ti aiuterò io, Jaja. Troveremo un modo. E anche Amy, vero?”
“Eeeemh…”

In quel preciso istante la porta del bagno si spalancò con violenza ed una voce trillante e cristallina invase il piccolo monolocale.
Apparve Annette in tutto il suo splendore, sventolando la carta igienica con una mano e il giornale con l’altra.
“Eeeeehi!” disse, raggiante: “Forse ho trovato il lavoro che fa per te, rossa!”

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Capitolo 16
*** Capitolo XVI -La bottega di Flo- ***


La bottega di Flo

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La pioggia si scaricava impietosamente come una mitraglia giù dal cielo, quella mattina, rendendo grigio e indistinto il già triste panorama della città ricoperta di cemento. Veri e propri fiumi in piena scorrevano gorgogliando ai lati del marciapiede, e schizzi di acqua sporca innaffiavano i vestiti degli sventurati pedoni ad ogni sgommata dell’automobile di turno. Gli stivali di gomma di Amy, poi, erano troppo piccoli per i suoi piedi, e inoltre le giunture delle suole non tenevano bene ed il potere impermeabile delle calzature era andato simpaticamente a farsi fottere già da un buon quarto d’ora. Maledetti saldi.
Tre ragazze arrancavano nella bufera, quella mattina, ed una di loro senza alcun dubbio si sarebbe buscata un gran raffreddore.
Almeno, pensava la blu, se andava tutto bene questo disturbo sarebbe stato ripagato con nuove entrate, uno stipendio in più: infatti, quella mattina Annette ed Amy stavano accompagnando Tarja a rispondere all’annuncio che aveva trovato la mora sul giornale il giorno prima.
La principessa dei Demoni, incurante del freddo, saltellava nella pioggia, mentre le altre due arrancavano fianco a fianco nel tentativo di ripararsi sotto l’unico ombrello disponibile, pestandosi i piedi a vicenda.
“Coraggio!” stava dicendo Annette, avendo notato l’umore cimiteriale di Amy, “manca ancora pochissimo alla Bottega di Flo!”

“La Bottega di Flo sta cercando un aiutante, è il lavoro per te, rossa!”
Nessuno aveva capito l’entusiasmo nella voce di Annie, la sera prima, tanto che l’intervento risultò imbarazzante e inopportuno.
“Beh?” aveva storto il naso Amy, mentre le due gemelle si erano mantenute in un silenzio confuso.
“Conosco Florence, è una come noi, una che conosce la storia degli Angeli e dei Diavoli! Ha un negozio poco lontano dal centro di Leadenville, e sono sicurissima che sarebbe molto interessata ad assumere una come te! Magari può anche darti qualche dritta sul tuo problema di distruggere quel posto, la città dei crisantemi…”
Tarja aveva spalancato gli occhi, e la decisione era stata presa.

“Che mi dici di Florence, Annie?” cinguettò Tarja, attirando l’attenzione di due passanti fradici, stupiti della totale assenza di percezione del freddo della ragazza, che passeggiava tranquillamente in mezzo al diluvio in canottiera e gonna lunga, con l’unica protezione di un golfino di cotone. Non si era nemmeno parlato di lasciarla andare da sola, anche perché lei non si sarebbe mossa di casa se non ci fosse stata la blu a darle sicurezza. In fondo, non aveva mai vissuto in mezzo alle persone in tutta la sua vita, e, conoscendola, avrebbe potuto generare ogni genere di disastri, da sola. Inoltre, Annette aveva insistito per guidarle fino alla bottega e mettere una buona parola per Tarja, dato che lei, Florence, la conosceva benissimo.
“Non è che ci abbia parlato un granché, in realtà,” rispose la brasiliana (Amy cacciò un sospiro), “ricordi quando vi ho raccontato che sono stata iniziata da un gruppo di persone che avevo incontrato per strada? Ecco, lei era il loro capo spirituale, per così dire. Quindi credo che sia abbastanza esperta di queste cose…”
“Chissà se può aiutarmi…”
“Intanto, ti farà lavorare.”
“Oh, Amy tesoro, sei così venale.”
“Anche tu potresti trovarti un modo per far soldi, Annie! Ti ricordo che stai continuando a depredare la mia dispensa.”
“Ehi, e dove sono finiti i tuoi ideali di ospitalità…?”
Dopo qualche minuto e molti tentativi di omicidio da annegamento nelle pozze da parte di Amy, le tre ragazze raggiunsero una viuzza laterale che si apriva accanto ad un alto ed imponente palazzo dismesso, difficilissima da notare per chiunque non ne avesse conosciuto già da prima la collocazione. Dal muro di questa stradina, un po’ infondo, sporgeva un’insegna di legno all’antica sulla quale spiccava il disegno sbiadito di una coppia di gigli bianchi e purpurei, e la scritta “Bottega di Flo” in caratteri arzigogolati.
“Credo che siamo arrivati.”

La vetrina era ingombra di numerosissimi libri e varie chincaglierie polverose che si arrampicavano in azzardate piramidi fin sopra i muri, e all’apertura della porta d’ingresso si udì una cascata di tintinni lievi, causati da una composizione di conchiglie appese sopra lo stipite, ed una ventata di calore di stufa, odore di chiuso e incenso investì le tre giovani clienti.
Amy si ritrovò a guardarsi attorno con la bocca spalancata: il locale, minuscolo per metratura, era completamente ricoperto di artefatti provenienti da ogni parte del mondo, le pareti erano densissime di mensole ricolme di libri, scatolette e statuine. Camminare era difficile, dato l’eccessivo numero di tavolini ricoperti di centrini colorati con oggetti esposti: perfino il soffitto era denso di strani lucernari, uccellini di legno e altri aggeggi appesi. La blu, poi, notò che sopra la porta dell’ingresso erano esposti due lunghi coltelli di fattura orientale, incrociati, che più che coltelli le sembravano due lunghi spiedini ricoperti di cuoio all’altezza dell’impugnatura; sorrise, pensando che la prima cosa che le facevano venire in mente erano le tartarughe ninja.
Tarja avanzò fino al banco della cassa –anch’esso ingombro di oggettini e cartoline decorate da piante rinsecchite- e appoggiò le mani sul bancone, guardandosi intorno senza una parola.
Il locale sembrava deserto.
“Ehi…” chiamò, timidamente.
Dietro al bancone vi era un piccolo spazio delimitato dal muro dietro, sul quale si apriva una porta chiusa da un pesante drappo di velluto vermiglio. Tarja si sporse in avanti, verso la porta, facendo scricchiolare il legno del banco col suo peso: se qualcuno c’era, doveva trovarsi per forza sul retro.
“Ehi, di casa…”
“E tu chi cavolo sei?”
Una vocina da bambino di non più di sei anni pigolò pungente poco prima che una testolina arruffata spuntasse da dietro il drappo, seguita da un corpo magrolino che reggeva con due mani uno scatolone probabilmente molto più pesante di lui.
Tarja sobbalzò, Amy soffocò una risata con un pugno.
“Ermh…”
Tarja deglutì. “Distinti saluti, sono qui per l’annuncio di lavoro che c’è sul gior…”
“Ciao pequeno! C’è la mamma in giro?”
Annette spinse via la rossa dal bancone sul quale stava appoggiata e ci si appollaiò lei, mentre il bambino sgranava gli occhi con aria ostile, come se tutta quella confidenza gli desse fastidio, dopo il primo “distinti saluti” che aveva ricevuto.
“E tu chi sei?” chiese, storcendo il naso con aria sprezzante.
“Non ti ricordi di me? Sono Annie! Certo, eri un po’ più piccolo quando…”
“Gregory! Non stai di nuovo parlando con la maschera di Nana Buruku, vero? Guarda che potrebbe arrabbiarsi…”
Il drappo rosso si scostò di nuovo, e apparve una signora sulla quarantina con una incredibile quantità di capelli color sabbia raccolti in cima alla testa in ciuffi disordinati e un viso che ispirava benevolenza. Appena uscita, notò le ospiti entrate nel suo negozio e sorrise, e poi ammiccò in modo un po’ più severo al bambino di nome Gregory.
“Spero che sia stato educato!” la donna appoggiò a terra gli scatoloni che anch’essa portava in braccio, e poi rispedì il bambino sul retro, generando una serie di sospiri e qualche occhiata gelida nei confronti di Annette e Tarja. “Sai, credo che sia stato una specie di principe spocchioso nella sua vita precedente…perdonalo!”
Nuovo sorriso, e nuova ondata di simpatia che avvolse Amy.
Le sembrò strano trovare una persona così rassicurante in un posto del genere, e la cosa le mise un po’ l’animo in pace, dato che comunque a lei avrebbe dovuto affidare quel disastro ambulante di Tarja.
“Sono qui per l’annuncio di lavoro che avete messo sul giornale.”
Disse allora la rossa, estraendo dalla borsa a tracolla il quotidiano e sventolando la pagina interessata, sulla quale il piccolo riquadro era stato circondato numerose volte con un evidenziatore rosa fluo rubato dall’astuccio di Davey. “Ah, ma certo cara. Sono contenta che qualcuno sia arrivato così presto…ho un disperato bisogno d’aiuto in negozio, in questo periodo. In giro c’è il delirio.”
Florence aveva un viso rotondo, chiaro come una luna piena, e indossava uno scialle traforato sopra ad un lungo vestito verde, ma Amy notò qualcosa di strano, non appena si soffermò sugli occhi: erano chiusi, come aveva fatto a non farci caso prima?
“Aspetta, però, prima di dirmi come ti chiami: non sei sola, vero?”
Ci fu un secondo di silenzio. Eh, già, come non aveva fatto a non accorgersene subito?
Annette alzò la voce: “Ehi no! Ci sono anche io!”
“Oh, ciao cara. È da un po’ che non ti incontro.”
“Eh, ehm, salve…”
“Ah, e c’è anche la zitella depressa!”
“Annie!”
“…siete in tre, quindi.”
Florence sorrise ancora benignamente, tenendo gli occhi chiusi, e calò di nuovo il silenzio.
“Lo immaginavo. Ma un attimo, non ditemi ancora i vostri nomi, c’è un’altra cosa. Tu, che dici di volere il posto di lavoro, in realtà sei qui per un altro motivo, vero? Qualcosa legato alla Setta. Non sei una persona qualunque, sento vibrazioni nell’aria.”
Il silenzio rimase tale, ed Amy e Tarja si scambiarono uno sguardo sgomento, impressionate dalle percezioni fuori dal comune della mercante dagli occhi chiusi. Non fecero in tempo a ricomporsi e rispondere, che Florence parlò di nuovo, con voce compiaciuta.
“Non ho dubbi. Tu devi essere in qualche rapporto con gli Angeli, vero, cara? Magari riesci a vederli, a parlarci, a toccarne la luce? E magari ti hanno dato della pazza per questo? Ah, lo so.”
E la cieca sorrise di nuovo benevola, con il sopracciglio alzato di chi sa di aver fatto perfettamente centro.
“Ehm, veramente…” cominciò Annette, ma una mano di marmo bianca le tappò subito la bocca con una certa violenza, e “Emh…” disse la voce di Tarja “…in effetti, sì, già. Ahah…che acume, signora!”
“Ma-che-cavolo-fai!?” sillabò Amy tra lo scompiglio, spalancando la bocca più che poteva e non riuscendo a capacitarsi della situazione.
“Sì, in effetti parlo con gli angeli, signora Florence, e speravo anche di avere il suo aiuto, Annie mi ha detto che è il capo spirituale di una setta di iniziati, sa, e quindi ho pensato che…”
La rossa si girò verso Amy, che si era infilata le mani nei capelli, e distorse la faccia in una smorfia che probabilmente stava a significare “poi ti spiego”, dopodiché liberò Annette, che aveva continuato a trattenere con la sua stretta ferrea.
“…ecco, potesse darmi una mano.”
“Ma certo cara! Qual è il tuo nome?”
“Ehm…”
Tarja cominciò a guardarsi attorno febbrilmente, in cerca d’ispirazione.
“Simo…Simonetta.”
“Simonetta…?”
“ehm…Simons.”
Amy si spiattellò il palmo della mano in faccia, senza nemmeno curarsi di evitare il rumore sospetto.
“Simonetta Simons.”
“Ok, Simonetta, ti aiuterò in qualunque cosa tu abbia bisogno.”
“Ehi, no! Lei deve soprattutto farla lavorare!
La signora Florence scoppiò a ridere, bonaria, strizzando le palpebre ancora di più.
“Ma certo, ma certo. D’accordo, Simonetta, se per te non è un problema, cominciamo subito. Così vediamo un po’ quello che sai fare.”

La pioggia ed il vento freddo accolsero il suo corpo- ormai abituato al caldo eccessivo della stufa aromatizzata del negozio- con un gelido benvenuto, non appena Amy si ritrovò ad arrancare per le vie verso casa insieme ad Annette.
“Ma Cristo, Simonetta Simons, si può essere più idioti di così!?”
Annette si scansò evitando per un pelo la manata teatrale che Amy aveva inferto all’aria, piuttosto pericolosa considerato il fatto che sotto a quel minuscolo ombrellino erano costrette a stare una attaccata all’altra come i pinguini al polo sud.
“E poi ad una cieca…l’abbiamo lasciata ad una cieca! Perché diavolo non mi avevi detto che era una cieca!? Quando verremo a prenderla stasera al posto di quel negozio sarà rimasto solo un cratere fumante!”
“Eeeh ti preoccupi troppo tu, rilassati…”
Amy sospirò e si schiaffò la mano sulla faccia per l’ennesima volta, trascinandosi poi verso il basso tutti i connotati e deformandosi la faccia.
“Non capirò mai cos’ha in mente quella pazza…spero solo di poter contenere i danni…”
“Massì, che vuoi che sia…Flo è in gamba.”
“Speriamo…”
Una volta arrivate sottocasa, dopo un quarto d’ora di camminata al freddo, le due videro una strana ragazzina bionda sgattaiolare fuori dal portone del condominio, e nel salire le scale notarono che aveva sporcato con i suoi stivali sporchi di fango tutti i gradini, con terribile disappunto di Amy, che progredì il suo umore da “nervosismo-pre-catastrofe” a “incazzata-come-una-iena”.
In casa c’era Davey che si faceva interrogare da Cherì su Schopenhauer, il quale scoppiò a ridere e servì prontamente alla padrona di casa una bacinella di camomilla.
Ottimo rimedio contro la pioggia e le fanciulle in procinto di esplodere e distruggere il mondo come una carica atomica.

Tarja si trovò molto bene insieme a Florence.
La pimpante signora le fece in primo luogo riordinare tutti gli scaffali del negozio –che in effetti erano ancora più disordinati delle ante dell’armadio di Amy, ed è tutto dire-, dopodiché le fece rinnovare completamente la vetrina, dandole istruzioni precisissime su dove posizionare gli oggetti, e poi fu il turno dell’inventario in magazzino, che se possibile era ancora più stracarico e incasinato di quanto Tarja avesse mai potuto presagire.
Andò tutto bene, più o meno, anche perché in quell’occasione Tarja non avrebbe mai trovato il coraggio di fare di testa sua e di “interpretare” gli ordini dati dalla padrona: voleva a tutti i costi fare una buona impressione, e soprattutto aveva l’inquietante presentimento che se avesse sgarrato anche un minimo, la cieca se ne sarebbe accorta subito.
Si morse le labbra tutto il tempo, mentre lavorava. Non disse quasi nulla.
Florence le aveva promesso che avrebbero parlato della Setta non appena avesse finito il suo lavoro, ma ogni volta che finiva uno di quegli interminabili compiti, fremente d’impazienza, la donna gliene ordinava subito un altro ancora più lungo, e tutto questo finché non arrivarono le sette di sera, quando finalmente finì di compilare l’ultima lista di forniture di incensi.
Sbuffò, esausta, e appoggiò il registro sul bancone dietro il quale la cieca stava seduta lavorando all’uncinetto –come facesse senza vista, non si sa-.
“Bene Simonetta.” Disse, senza che le sue dita smettessero il loro lavoro veloce e preciso,
“Sei stata molto brava, ti ho fatto fare tutto il lavoro di due settimane. Direi che hai superato la prova, sei decisamente assunta!”
“Oh, grazie…”
La voce di Tarja era un rantolo, non era abituata a fare lavori così monotoni ed estenuanti per la pazienza, ed il timore che l’aveva assalita non appena Amy aveva varcato la soglia dell’uscita non se n’era ancora andato. Già, aveva paura.
Non era nemmeno molto sicura che fosse stata una buona idea quella di non dire subito la sua vera identità, ma di farsi passare per umana: non lo aveva deciso prima, era una cosa che le era venuta istintiva, non voleva che Florence sapesse fin da subito con chi aveva a che fare.
Magari aveva paura che l’avrebbe cacciata via a calci, che si sarebbe spaventata, che non l’avrebbe più aiutata, magari... Aveva paura e basta, meglio essere prudenti.
“Ora, se vuoi, parliamo.”
“…sì.”
In quel momento uscì Gregory, il bambino che le aveva accolte appena arrivate, portando un vassoio con due tazzine ed una teiera che emanava un profumo esotico e rilassante, che fu appoggiato su uno dei tanti tavolini. Tarja gli sorrise e lo ringraziò, ma lui sparì veloce come una lippa, lasciando dietro di sé l’ombra di un sorrisetto imbarazzato.
“Com’è timido tuo figlio!” esclamò, versando il tè verde dentro le tazzine, tanto per dire qualcosa.
“Oh, Gregory non è mio figlio, e non è nemmeno timido, proprio per niente.”
Florence afferrò una delle tazzine che Tarja le porgeva, e la invitò con un cenno a prendere posto su uno sgabello davanti a lei, dietro al bancone del negozio.
“Ma sai…a volte la vita ti riserva certi mostri che ti fanno dubitare di tutto ciò che ti circonda, ed è molto difficile superare questa paura, soprattutto quando si è un bambino.”
Florence ammiccò mestamente e Tarja deglutì, dispiaciuta.
“Poverino…un po’ capisco.”
“Già…ho deciso di adottarlo perché vagabondava dalle parti dei raduni della Setta da un po’ di tempo, e poi perché mi sento sola, probabilmente.” Florence sospirò “…ma ora parliamo di te, cara!”
Appoggiò da un lato il suo lavoro ad uncinetto, ed incrociò le mani sul grembo.
“E’ da molto che parli con gli Angeli?”
“Emh, sì, da sempre, direi.”
“E cosa ti dicono?”
“Emh…”
Il demone dai capelli rosso ciliegio sospirò, rendendosi conto che si era andata ad impelagare in un discorso inutile. Raccolse tutto il suo coraggio e continuò.
“Non è questo il punto, signora Florence. Io ho piuttosto un problema di Demoni.”
“Oh!” Florence aprì la bocca per la sorpresa, corrucciando poi le sopracciglia.
“Sono stata iniziata da bambina, conosco alla perfezione tutta la storia. Sto cercando qualcuno che mi aiuti a trovare delle informazioni sul mondo dei Demoni, sul loro sistema di difesa, su come contrastarli…qualcuno esperto nell’ambito, insomma. Puoi aiutarmi?”
Tarja si morse il labbro, consapevole che se avesse dovuto scendere ancora un po’ di più nel dettaglio, avrebbe sicuramente dovuto svelare la sua piccola farsa. Florence era sbalordita, man mano che la rossa parlava si era fatta sempre più cupa in volto.
“Se questo è il tuo problema, ti sei invischiata in qualcosa di molto pericoloso, cara, con in Demoni non si scherza, soprattutto quando si parla della salute della tua anima. Non so se voglio chiederti per quale motivo tu hai a che fare con tali creature, ma suppongo che sia colpa di una qualche maledizione, sbaglio?”
“Sì, ecco…qualcosa del genere.”
Tarja ormai aveva capito che non era molto difficile continuare a mentire, anche perché Florence continuava a fare supposizioni aspettandosi che fossero esatte, e quindi non doveva far altro che assecondarla.
“Beh, sono tempi duri nella Guerra tra Angeli e Demoni. Il re Ogre Lucifer è morto da poco più di un mese, e quella che dovrebbe essere la sua discendente, una specie di mostro ibrido nato con il contributo di una donna umana, è scomparsa nel nulla.”
Tarja deglutì sentendosi chiamare “mostro ibrido”, e si decise intimamente ad ammettere che dare un nome falso era stata un’idea magnifica.
“Tutto ciò sta creando un sacco di scompiglio in entrambe le schiere, sia perché gli Angeli stanno cercando di approfittare della disorganizzazione dei Demoni per annientarne il più possibile, sia perché tra i Demoni vige il disordine più totale. Ma non è un buon momento per intromettersi a danno dei Demoni, perché sono sì senza un capo, ma proprio per questo ancora più agguerriti e carichi di odio.”
Florence fece una pausa, e Tarja dovette ammettere che era molto più informata di lei. Si appuntò mentalmente di farle domande più precise sulla Guerra, in seguito.
“Quindi…puoi aiutarmi?”
“No.”
Tarja si morse le labbra, e inveì mentalmente con tutte le peggiori maledizioni che conosceva. Ecco, ora era d’accapo. Maledizione.
“Non voglio intromettermi nella Guerra, né mettermi a litigare contro un Demone: la Setta a cui faccio capo intrattiene unicamente rapporti con gli Angeli, e non di quelli guerrieri.”
La rossa sospirò, afflitta.
“…però, cara, non ho certo intenzione di lasciarti al tuo destino!”
Flo sorrise, quell’ampio sorriso rassicurante che le illuminava spesso il volto lunare.
“Io non posso aiutarti, ma forse conosco la persona che fa al caso tuo! Si chiama Edvard, e non si è mai fatto tutti gli scrupoli che mi faccio io.”
Tarja alzò il volto di scatto, sorpresa, e sorrise anche lei, raggiante.
“Davvero!? E dove lo trovo questo Edvard?”
“Oh, bella domanda, sono anni che non ho più notizie di lui.”
Nuova caduta nel baratro della disperazione.
“Ma se ci sono Demoni in questione, non ti sarà difficile incontrarlo! Quel genere di cose lo attirano come le mosche al miele. Ti aiuterò a cercarlo se vuoi.”
Risalita veloce all’euforia.
“Sì, grazie mille! Ma in che senso “queste cose lo attirano”, che tipo è?”
“Oh, è un vecchio pazzo con la fissa delle piume delle ali degli Angeli. Guarda, Simonetta, sulla mensola dietro di te ci sono un po’ di foto incorniciate, prendi quella dell’uomo col colbacco.”
Tarja protese la mano verso la foto, e vide un uomo già stagionato da tutti i suoi inverni in piedi al centro di una piccola piazza cittadina, avvolto da un pesante cappotto e con un cappello di pelliccia calcato in testa. Guardava in un punto lontano, l’orizzonte forse, con cipiglio fiero e un po’ malinconico. Al suo braccio stava appollaiato un volatile bianco (una colomba, forse), poco riconoscibile anche perché la foto era in bianco e nero.
“Edvard Arcibaldovic Kalashnikov, l’uomo che si era convinto di potersi appropriare del potere degli Angeli. Sai cara, era convinto che la sua giovane moglie, dopo la sua morte per malattia, fosse stata uccisa a causa di un patto col demonio. Non chiedermi se è vero –probabilmente no-, ma di fatto cominciò a fare di tutto per vendicarsi, compresa la smania di volersi appropriare di piume delle ali di un Angelo, convinto che con quelle sarebbe riuscito ad appropriarsi si una goccia del loro potere divino. Ora, io non so se sia mai riuscito a combinare qualcosa, ma di fatto conosce molto bene il mondo dei Demoni, e sono sicura che potrebbe aiutarti molto meglio di me.”
“Grazie Florence!” esclamò Tarja al settimo cielo, alzandosi in piedi di scatto.
“Oh, figurati cara. È un piacere per me…basta che non mi porti dei Demoni dentro la mia bottega!”
Appena finite di dire queste parole, la porta del negozio si aprì ed entrò Annie, per portarla a casa.
“Ci vediamo domani alle 8.00, cara!”

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Capitolo 17
*** Capitolo XVII -Alla ricerca di Edvard- ***


Alla ricerca di Edvard

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“..e quindi Florence mi ha detto che mi avrebbe aiutato a cercare questo Edvard Qualcosa Kalashnikov, che è un esperto dei Demoni e sicuramente può darmi una mano ad organizzare il mio piano!”
Appena finito di parlare, la rossa principessa demoniaca fece un ampio respiro, avendo parlato per un quarto d’ora tutto d’un fiato, e pure saltellando sulla sedia. Amy sbatté le palpebre e si ficcò in bocca una grossa cucchiaiata di brodo, stiracchiando le labbra sottili in un malcelato sorrisetto.
Sì, era decisamente soddisfatta, ed era una bellissima sensazione di calore che riempiva lo stomaco, insieme con il brodino anti-raffreddore di Davey. Non sapeva se era dovuto al merito del fatto che era finalmente riuscita a far guadagnare qualche soldino alla sua ospite, oppure solo perché era riuscita a farle trovare una linea d’azione. E non le desse più quella fastidiosa impressione di essere una bambina inerme senza spina dorsale.

In quel momento, la porta si spalancò ed entrò Davey, reggendo tra le braccia il suo aerosol, e sorrise notando che Tarja era finalmente tornata dal suo primissimo giorno di lavoro.
Si era praticamente trasformato in un corridoio di casa, il pianerottolo, visto che lo studente passava la maggior parte del suo tempo libero insieme alle sue amorevoli vicine, soprattutto quando una delle suddette di buscava una bronchite per eccesso di freddo e pioggia –ovviamente, la suddetta era Amy ed i suoi stivali bucati-.
“Allora Tar-Tar, com’è andata in quel negozio esoterico?” chiese allegro, “…tutto bene?”
Benissimo!” cinguettò la rossa, balzando in piedi, e ricominciò daccapo tutto il dettagliatissimo racconto del pomeriggio, causando un ingente dose di sbuffi ad Annette ed Amy, che avevano appena tirato un sospiro di sollievo per la fine del primo lungo, lunghissimo resoconto.
Era una serata tranquilla, quella: Cherì se ne stava accovacciata sul divano con il suo libro sulle ginocchia, leggendo assetata, ed Annette era seduta a terra che ripuliva tutti i pezzi della sua pistola, così per passatempo. C’era una piacevole atmosfera familiare.
“…e poi, Davey, Florence mi ha indicato una persona. Ah, ma tu non lo sai…”
“…non so cosa?”
“Quello che ho detto ieri sera alle altre.”
Davey rimase un po’ perplesso, vedendo che l’espressione di Tarja si era fatta un po’ più seria e più complice.
Naturalmente nessuno aveva detto nulla al ragazzo dal ciuffo piastrato sugli occhi, per discrezione, e anche perché non ne avevano avuto il tempo materiale, dato che aveva passato tutta la giornata in università.
“Cioè?”
“Tarja vuole distruggere tutti i Diavoli!” esclamò Annette finendo di montare il caricatore, senza permettere a Tarja di finire la frase, “…perché vogliono corrompere l’umanità! E così renderà il mondo più puro, e la guerra tra peccato e virtù finirà! Alleluja! Non è bellissimo?!”
Terminò la frase gettando le braccia al cielo e gridando, mentre Amy le intimava voce bassa soffiando tra le labbra, ma nel contempo sorrideva anche lei.
In effetti era un obbiettivo estremamente nobile, soprattutto visto sotto quest’aspetto così religioso, si ritrovò a pensare: era come se nelle mani di Tarja si stesse materializzando una sorta di “giorno del Giudizio” in positivo…la finale sconfitta del male. Non l’aveva ancora pensata sotto questo punto di vista.
“Ma…si può fare una cosa del genere?”
Davey non sembrava entusiasta come le ragazze, piuttosto era ancora più perplesso di prima. Aveva afferrato il bordo del tavolo e lo teneva stretto, sbiancandosi le nocche delle dita magre.
“…beh, è quello che spererei!” disse finalmente Tarja, con gli occhi che le brillavano.
“Tu non sai come sono i Demoni, Davey, e non sai che cosa farebbero se dovessero per caso vincere la guerra…è terribile. Per l’umanità sarebbe la fine.”
“Immagino di sì.” Convenì Davey, “…ma…comunque mi sembra strano.”
“Fidati di me! Florence mi ha indicato una persona che potrebbe aiutarmi, ora bisogna solo riuscire a contattarla.” Tarja sorrise, ed Amy trovò che il suo sorriso fosse davvero bellissimo, illuminato di speranza e fiducia.
“D’accordo.” Disse Davey, ancora non molto convinto. Il discorso finì lì, e non fu più ritirato fuori per quella sera.

Il giorno seguente iniziò presto per tutti, con Amy e Tarja che si recavano al lavoro facendo un pezzo di strada insieme, e Davey che spariva per le sue solite sei ore nella biblioteca della sua università. Annette e Cherì rimasero a casa da sole, per la prima mattina di quella serie che a quanto sembrava sarebbe presto diventata un’abitudine, almeno per un po’.
Il campanello non tardò a suonare, e alla porta di casa si presentò una ragazzina bionda vestita di nero, che non dimostrava più di quattordici anni, con i capelli raccolti in due codini in cima alla testa. Annette non si stupì di trovarla, dato che era arrivata anche il giorno prima, alla stessa ora, precisa.
“Ciao Andrea, vado subito su a chiamarti la tua amica. Ma per favore, la prossima volta asciugati gli stivali prima di salire, perché quella rompipalle della padrona di casa se no fa di nuovo una scenata!”
La mora corse di sopra, e trovò Cherì che stava finendo di spazzolarsi i capelli, tentando di tenere a bada le ciocche ondulate e sbarazzine del cortissimo caschetto, inutilmente. Sembrava molto frustrata da ciò. Annette le tolse di mano la spazzola con una certa rudezza, le infilò la mano in testa e strofinò, rendendo vani tutti i precedenti tentativi della povera fanciulla inerme. In un secondo Cherì si voltò e riversò un’occhiataccia di furia gelida contro la mora, con gli occhi neri e silenziosi che lanciavano saette.
“C-così sei molto più carina, Cherì…”
La rossa rimase a fissarla infuriata ancora per qualche secondo, poi sembrò riscuotersi ed il suo sguardo volò a terra, mentre scattava verso la porta ed afferrava la maniglia. Probabilmente le era sovvenuto che c’era Andrea ad aspettarla davanti al portone.
“Emh…” farfugliò Annette, bloccandola mentre apriva la porta, “…scusami. Devi tenerci molto ad apparire graziosa.”
Cherì sembrò avere un singulto silenzioso, e si voltò lentamente verso la mora. Si stava tormentando il labbro inferiore, in quel modo così simile a quello di sua sorella, e le sue palpebre scattavano nervose, cercando di nascondere un’espressione irritata.
“Ti p-prego di non dirlo a nessuno, Annie.” Nonostante tutto, la sua voce era quella dolce e gentile di sempre. “Ma per favore, lasciami in pace. Tu mi s-stavi facendo arrabbiare e arrabbiarsi è peccato. Non voglio essere dannata più di quello che sono già.”
E sparì giù per le scale, dopo essersi chiusa la porta alle spalle.
Annette rimase lì in piedi basita, con la spazzola ancora in mano, a cercare di sbrogliare gli echi che le strane parole di Cherì le avevano lasciato nella testa. Certo che quella era proprio una pazza, era inutile tutto quello che diceva Tarja per giustificare le sue strambe convinzioni. Decise di fasi un caffè.
Una tazza con qualcosa di caldo dentro era proprio quello che ci voleva, per togliersi via dalle ossa quell’inspiegabile terrore, freddo come la morte, che le avevano lasciato addosso gli occhi terribili del furore di Cherì.

La carta frusciava veloce fra le dita, accumulandosi pian piano in pile di foglietti sul tavolo di legno chiaro, illuminato a malapena dalla luce poco soddisfacente dei molti strani lampadari appesi al soffitto del retro del negozio. Erano le dieci del mattino, e Tarja aveva sonno.
Florence quel giorno le aveva affidato un incarico più veloce –a suo dire- di quello del giorno prima, ossia rimettere un po’ in ordine tutta la parte burocratica della sua attività, che era stipata in un armadietto chiuso a chiave in un angolo dell’ampio salone pieno di roba che fungeva da magazzino dietro al negozio. Aveva detto che sarebbe stata una cosa leggera, perché tanto c’era solo da impilare fatture e infilarle in cartellette.
Peccato che non appena il fatidico armadietto fu aperto, una specie di valanga cartacea aveva investito la principessa demoniaca non dandole nemmeno il tempo materiale di salvare qualcosa del precedente “ordine”, che si era sfracellato completamente sul pavimento.
Che idiota, aveva pensato, cos’altro avrebbe potuto aspettarsi da una cieca…? E a proposito, come diavolo aveva fatto per tutto quel tempo a cavarsela senza un’assistente…? Da quanti anni continuava a ripetere l’annuncio senza che nessuno avesse il coraggio di presentarsi…? Bah. Probabilmente si faceva aiutare dai suoi poteri paranormali a rimettere a posto le carte. Bello schifo, facevano un po’ cilecca, allora. In effetti, lei, proprio la discendente vivente di Lucifero, era stata scambiata per un’umana capace di parlare agli Angeli…chissà quali altri disastri aveva combinato, allora, magari casa sua aveva tappeti al posto della carta da parati e nella sua vasca da bagno navigavano ranocchie…
Scosse la testa e sbatté le palpebre, riportandosi alla realtà.
Stupida, stava divagando di nuovo, e non poteva farlo, nonostante la penombra ed il silenzio e il sonno. Allungò la mano verso il mucchio di fatture in fondo al tavolo per prenderne un’altra, e la sua mano incontrò solo la superficie liscia del tavolo. Aveva finito prima ancora di accorgersene, ed esultò mentalmente, facendo un piccolo saltello sulla sedia. Prese un paio di cartellette di plastica trasparente, le aprì con delicatezza e dopodiché imbustò le ultime due pile che aveva fatto. Poi si alzò e andò a sistemare tutto dietro le ante del piccolo armadio, dove tutti gli incartamenti sembravano finalmente contenti di aver trovato qualcuno che si occupasse di loro, tutti belli impacchettati e in fila.
Mise via le cartelle, chiuse le antine e girò la chiave nel lucchetto, soddisfatta.

“Ottimo lavoro cara!” Esclamò Florence, non appena Tarja comparve da dietro il drappo vermiglio, come se avesse sentito i suoi passi avvicinarsi dal momento in cui aveva chiuso l’armadio.
“Ed ora passiamo a quello che ci interessa di più, il vecchio Edvard! Credo proprio di sapere dove iniziare a cercarlo!”

Una seconda valanga cartacea investì Tarja, non appena la signora Florence aprì la credenza.
“Ops! Temo di non averle sistemate bene, cara!” attestò con una risatina, mentre la rossa si toglieva i fogli dalla faccia e li respingeva indietro nel loro vano con una certa insofferenza. Ne prese uno a caso e lo esaminò.
“Sono lettere!”
“Sì, io ed Edvard abbiamo tenuto una corrispondenza per un certo tempo, ma neanche per così tanto. E’ un tipo volubile e si è stancato presto di me che tentavo di mettergli la testa a posto.”
“Poco tempo, già…” mormorò Tarja raccogliendo il mucchio di lettere che era caduto per terra.
La signora Florence aveva accompagnato la sua nuova dipendente nella sua abitazione, che si era rivelata essere un piccolo appartamento al piano di sopra del negozio. Non c’erano tappeti alle pareti né rane nella vasca da bagno, ma l’arredamento un po’ all’antica e la miriade di soprammobili ricordavano molto l’atmosfera disordinata del negozio.
Il piccolo Gregory sonnecchiava sul divano sotto una copertina ricamata.
“Di solito me le facevo leggere da uno degli adepti della nostra congrega, e dettavo le risposte. Direi che è un buon punto per cominciare a cercare informazioni, magari trovi scritto qualcosa tra le righe. Di tutte le discussioni che ho fatto con lui, sinceramente, non ricordo tutti i particolari, solo il fatto che continuava a non ascoltarmi quando gli dicevo che le sue ricerche erano blasfeme, e che mi riportava un sacco di giustificazioni inutili. Non mi ha mai parlato molto di sé nel privato, d’altronde, quindi non posso dirti molto di più di quello che ti ho detto già. Ma direi che è meglio dare bando alle ciance, e darsi alla lettura!” Florence sorrise. “Ah…e se sei così gentile da riordinare un po’ anche qui, quando hai finito, mi faresti un favore graditissimo!”
“Sì, certo…” sbuffò Tarja, riempiendosi le braccia di carta e preparandosi a scendere le scale per tornare alla sua scrivania.

Le ore passarono lente nella totale immersione nella lettura. Edvard Arcibaldovic (Tarja aveva finalmente imparato a dirlo) Kalashnikov era un sedicente ricercatore dell’occulto, testardo e decisamente invasato.
La maggior parte delle righe che Tarja scorreva col dito trattavano infatti di esperimenti strani e concetti pretenziosi per giustificarli: in particolare, Edvard sembrava convinto di essere entrato in possesso di un paio di piume di Arcangelo (cioè un Angelo della schiera dei guerrieri), ed aveva intenzione di applicare a queste piume candide ogni sorta di rito o incantesimo che gli venisse in mente per sfruttare il loro “potere benefico”. Si era dimenticata tutti i particolari delle prove che aveva fatto, ma le era rimasta impressa quella con gli uccelli, che a quanto pareva sembravano particolarmente adatti allo scopo. Era rimasta inorridita quando aveva appreso che Edvard era arrivato a strappare tutte le bianche piume di una colomba, per vedere se reagivano con la vicinanza di quelle d’Angelo, asserendo come scusa qualcosa riguardante lo Spirito Santo o chissà cosa…
A quanto pare l’esperimento era fallito, e la giustificazione era che le piume perfette sarebbero state quelle di Albatros. Le tornò in mente la foto che le aveva mostrato Florence, con quell’uomo e quella colomba. Sperò che quel triste destino non fosse stato il suo…
Per il resto, Edvard passava il tempo a difendersi dicendo che per sconfiggere il “male” era necessario qualsiasi sacrificio. A volte citava una donna, Galina, invocandola come si fa con qualcosa di sacrosanto: doveva essere sua moglie. Diceva che gli era stata portata via da Satana, e Tarja pensò che molto probabilmente tutta la sua ossessione doveva nascere da quella morte.
Ma a parte questo e poche variazioni, Tarja continuava a non trovare nulla d’interessante.
Ed erano già passare due ore, si stava annoiando a morte, nonostante l’impegno. Ed era anche frustrata, ecco.
Staccò gli occhi dall’ennesima manfrina svitata e ripose la lettera nella sua busta sbuffando. Poi l’occhio le cadde sul retro liscio di carta ingiallita della suddetta, e si accorse di non aver tenuto conto della cosa più ovvia: l’indirizzo.
“Cretina!” esclamò a voce alta, dandosi una pacca sulla testa, e lesse attentamente la dicitura: “Torre est, Berryfield.”
Le sembrò molto strano come indirizzo, anche perché non c’era scritto assolutamente nient’altro.
Ripescò altre buste e scoprì e avevano tutte indirizzi simili: “Torre ovest, Berryfield”, “Veranda, Berryfield”, “Salone, Berryfield”, “Segrete, Berryfield”…
C’erano anche indirizzi più normali, con nomi di città e vie, ma la maggior parte rimandava a quella misteriosa “Berryfield”.
Decise di andarlo a chiedere a Florence, se per caso sapesse di cosa si trattasse, e si diresse con passo deciso verso il bancone del negozio, chiedendole spiegazioni.
“Oh” rispose lei, “Non saprei proprio dirti. Non pensavo nemmeno che ci fosse scritto un indirizzo…di solito le lettere arrivavano via volatile.”
“…cosa?!” esclamò la rossa con gli occhi fuori dalle orbite. “Si usa ancora quel metodo medievale da queste parti? Pensavo che fosse superato…e non pensavo che tutti quei piccioni per le strade fossero adibiti alla posta, ora capisco…”
“Ohohoh, Simonetta cara, no, non si usa più. È che il vecchio Edvard è un po’ strano, tutto qui!”
A quel punto, qualcuno bussò alla porta di vetro del negozio e dopodiché si udì il rombo allegro e scoppiettante del motorino di Amy, venuta a portare a casa Tarja all’ora di pranzo.
“Temo che tu debba andare, cara…ci vediamo domani mattina!”

Il sole illuminava fiocamente il pallido pulviscolo vicino alla finestra, danzando a ritmo con le folate di brezza che entravano dalle imposte spalancate. La stanza necessitava di un po’ d’aria fresca, perché ad ogni giorno che era passato l’aria si era fatta sempre più irrespirabile, ed ora il puzzo di chiuso, sudore e sangue se ne stava volando fuori insieme con il ricordo della sofferenza passata lì dentro.
Diodor respirò il venticello, stiracchiandosi con precauzione.
La sua ferita continuava a fargli male, ma era più che sicuro che il peggio era passato, e principalmente si considerava quasi guarito. Coi mezzi di cui disponeva lui, era abbastanza normale che un foro da proiettile si fosse già per la maggior parte cicatrizzato.
Si volse verso l’uscita ed acchiappò il suo giaccone nero appeso di fianco alla porta, gettandoselo poi sulle spalle a coprire la pelle, coperta solo dalle rudimentali fasciature fatte coi pezzi strappati dalla camicia. Aprì la porta ed il sole lo accecò.
Non era più abituato alla luce del sole, era la prima volta che usciva, di giorno.
Si affrettò a dare un’occhiata intorno a sé, spaziando la vista nei vasti campi che lo circondavano: campi deserti, con un po’ di boscaglia in fondo, ad ovest. E poi ad est, al centro della proprietà, il lontano maniero velato dalla nebbia che esalava dalle spighe mietute. Bene, non c’era nessuno.
Doveva affrettarsi.
Cominciò ad incedere velocemente sul sentiero trascinandosi un po’ i piedi, ancora deboli, strizzando gli occhi chiarissimi all’orizzonte, e lasciandosi alle spalle la sua casetta di legno.
Doveva muoversi, aveva una missione da portare a termine: sapeva che i loro occhi, quegli occhi gialli e demoniaci, lo stavano osservando, e seguivano ogni suo passo. Se li sentiva addosso, gli incidevano la pelle. Non poteva fallire questa volta, c’era in gioco la sua anima.
Quelle presenze minacciose l’avevano accompagnato in tutti i suoi incubi di malattia, lo punzecchiavano ogni secondo, e lui sapeva di non potersi permettere di sprecare nemmeno un secondo: doveva catturare Lady Tarja Lucifer.
Stava andando a prepararsi, non avrebbe mai potuto affrontarla in quello stato.
Un barbagianni volò fuori dalla boscaglia ed emise il suo acuto grido nel vento.
La prossima volta, la principessa non avrebbe avuto scampo.


Buonasera a tutti! ^^
Chiedo perdono per l'immane e smisurata pausa, causata da eventi di forze maggiori (mancanza di ispirazione, khem khem...)
Da oggi riparto!
Al prossimo capitolo!

Kiki

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