The curtain rises

di Lauren_Mkenneth
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capito Uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo Due ***
Capitolo 3: *** Capitolo Tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo Cinque ***
Capitolo 6: *** Capitolo Sei ***
Capitolo 7: *** Capitolo Sette ***
Capitolo 8: *** Capitolo Otto ***



Capitolo 1
*** Capito Uno ***


The curtain rises

“Le gioie violente hanno fine violenta, e muoiono nel loro trionfo come il fuoco e la polvere che si consumano in un bacio” … cit.

Silenzio.
E’ tutto quello che voglio!
Silenzio.
E’ tutto quello che chiedo!
Silenzio, è tutto quello che c’è intorno a me. Compagno della mia sorte è solamente il rumore del mio respiro, mi conforta sentire che è ancora stabile il battito del mio cuore; sempre con lo stesso ritmo scandisce i miei pensieri, nella solitudine del mio camerino.
Tra qualche istante tutto cambierà: non ci sarà più silenzio, lo percepisco già dai bisbigli e fruscii che riescono a passare sotto l’uscio della porta.
Gli abiti lunghi e impreziositi di perle che sfiorano il legno del pavimento, le vecchie scarpe dorate con il piccolo tacco quadrato che corrono velocemente sulle scale, le voci confuse che ripetono sempre le stesse battute nervosamente e il continuo e inquieto legno scricchiolante, che alle mie orecchie appare come una dolce musica; mi rilassa, mi tranquillizza, mi acquieta, come una mamma che canta la buona notte alla sua bambina spaventata.
Guardo il mio riflesso nello specchio: sono già pronta, il mio viso e roseo, il mio trucco è intatto, il mio abito è immacolato e splendente, pronto per incantare chiunque mi guardi proprio come le mie parole ed i miei gesti, come il mio sguardo, le mie risate e la mia lingua tagliente.
Alzo una mano e la guardo alla luce delle lampada, le mie lunghe dita sapranno trasportare gli spettatori, la mia candida voce e i miei occhi tentatori li faranno cadere in un vuoto senza fine per farli tornare con gli applausi finali.
La porta rimane chiusa.
C’è grande agitazione! Guardo l’ora e tiro su un sospiro, i battiti del mio cuore sono finalmente divenuti irregolari.
Stringo quei pochi fogli di carte che ancora ho potuto leggere e attendo.
Prima del mio ingresso sul bel balcone adorno di finti fiori colorati ci vorrà qualche atto!
Si alza il sipario, lo sento nel suo lento scorrere lungo tutto il bel palco di legno. Immagino il suo rosso cupo che incanta tutto il pubblico, tutti seduti sulle loro sedie, fermi nel buio della platea con un sospiro che attende di scappar via insieme al coro di applausi!
Ed eccoli, fragorosi ed eccitanti applausi, la migliore carica di autostima cha ognuno possa desiderare. Più di cinquecento persone che si alzano per noi, sorridono gioiose e credono nella nostra magia!
Perché noi siamo dei maghi, con la nostra danza ammaliatrice incantiamo la gente e streghiamo i bambini, per fargli sognare le nostre novelle di notte e farli ritornare da noi, ogni sera, carichi di nuove speranze!
 

“L’azione si svolge nella bella Verona,
dove fra due famiglie di uguale nobiltà,
per antico odio nasce una discordia
che sporca di sangue le mani dei cittadini.
Da questi nemici discendono i due amanti,
che, nati sotto contraria stella,
dopo pietose vicende, con la loro
morte, annientano l’odio di parte.
Le tremende lotte del loro amore,
già segnato dalla morte, l’ira spietata dei genitori,
che ha fine soltanto con la morte dei figli,
ecco quello che la nostra scena vi offrirà in due ore.
Se ascolterete con pazienza, la nostra fatica
cercherà di compensare qualche mancanza.”

continua...

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Capitolo 2
*** Capitolo Due ***


"Poi dormimmo abbracciati per un'oretta. Era in un certo qual modo anche meglio che far l'amore."… cit.

«Ti prego, resta ancora un po’ con me!» lo incitai stringendo i fogli del copione, ma nello stesso tempo, abbandonando le braccia tra le mie esili gambe.
Seduta a fior di loto, guardavo il mio collega mentre stava raccogliendo le sue cose dal pavimento impolverato.
Eravamo rimasti soli nel piccolo teatro buio e pieno di spifferi gelati, man mano, dopo lo spettacolo tutti gli altri attori andavano via!
Uno dietro l’altro marciavano come una lunga e solitaria carovana, gonfi di sciarpe e cappotti, con i loro ombrellini colorati e i loro volti stanchi e carichi di sonno.
Solo io mi fermavo fino a tardi, seduta a gambe incrociate sul palco, a guardare le scenografie, gli abiti di scena, le luci spente e accantonate in un angolo con i fili sparsi ovunque e il sipario aperto e maldestramente arricciato; in un disordine così famigliare da farmi quasi piacere.
Non avrei permesso mai a nessuno di risistemare il mio teatro!  
 Anche quella sera ero rimasta sola con il mio compagno di battute e le ore erano volate inesorabilmente. E mi ritrovavo come ogni sera a pregarlo di rimanere ancora qualche istante con me a provare, per non distaccarmi da quell’atmosfera che tanto amavo.
«Lauren, qualche sera dovresti uscire dopo il lavoro.» scosse la testa, ma sapendo di avere poca presa su di me, con questi discorsi, posò di nuovo il suo vecchio borsone a terra e prese dalle mie mani i versi che avrebbe dovuto recitare.
Io alzai di poco lo sguardo dalla bella carta stampata che accarezzavo con le dita: «Lo sai che per me non è mai stato lavoro! Incomincio io?»
«Già, tu sei nata in una culla di drappi color porpora!» mi disse con un sorrisetto prima di concedermi un ampio inchino e, con gesto teatrale, incominciare a recitare una parte non sua.
 

Romeo: Ecco parla. Oh, parla ancora, angelo splendente!
Tu in questa notte appari a me, dall’alto,
di forte luce come alato messaggero
agli occhi meravigliati dei mortali, quando
varca lente nuvole e veleggia nell’aria immensa.

 
Lo guardai un istante. Recitava come se gli avessero messo in bocca quelle frasi e non come se ci si ritrovasse ogni giorno, come se facessero parte di lui da sempre, come se convivesse con lo spirito dell’uomo che c’era dietro quelle righe. Lui non era Romeo!
Guadai altrove per mascherare senza sforzo la mia tristezza; cosa ci faceva una povera Giulietta sperduta come me, in una gelida Londra senza il vero Romeo?
Eppure ne avevo incontrati di attori che riuscivano con la loro voce a sradicare l’inchiostro dal foglio, semplici parole sussurrate nel vuoto del teatro, che si trasformavano in musica che danzava sul mio corpo e riuscivano a farmi continuare senza che nemmeno me ne accorgessi...
Mi alzai diritta, in piedi distesi la schiena e mi rivolsi al pubblico invisibile che ci stava osservando. Quelle semplici parole erano quelle più conosciute di quel dramma internazionale, ed io mi rivolgevo al mio pubblico per farle sentire ancor più chiaramente.
 

Giulietta: O Romeo! Romeo! Perché sei tu Romeo?
Rinnega dunque tuo padre e rifiuta quel nome,
o se non vuoi, legati al mio amore
e più non sarò una Capuleti.

 
«Devo ammetterlo, anche se sono rimasto fino all’una di notte in questo piccolo e freddo teatro... ogni volta che ti sento recitare questa battuta, penso a quello che avrebbe detto il buon vecchio William! E’ davvero meravigliosa!»
«Ti ringrazio Jason» gli sorrisi incominciando a sistemare anche le mie poche cose.
«Vuoi che ti accompagni?»
Ma prima che avessi il tempo di rispondere, la grande porta taglia fumo che avevano sistemato in cima alle scale si aprì con un cigolio sinistro.
Mi voltai di scatto verso il ragazzo ponendogli la prima domanda logica che mi venne alla mente:
«Tu hai controllato che tutto fosse chiuso prima di rientrare nel teatro, vero Jason!?» chiesi in un filo di voce e vedendo l’indecisione sul suo volto socchiusi le labbra cercando di farne uscire un qualche suono.
Gli diedi una piccola spinta, per farlo riprende dallo shock in cui era palesemente entrato e corsi a spegnere l’unico faro che, fino a quel momento, aveva illuminato il palco.
Tutto calò nell’oscurità.
Dopo esserci nascosti tra le finte mura di cartongesso che facevano parte della piccola collezione di scenografie del teatro, attendemmo che l’ospite indesiderato si svelasse ai nostri occhi.
«Hai trovato qualcosa che gli posso gettare in testa?» mi sussurrò Jason.
Io mi voltai sconcertata, aggrottando la fronte, scossi la testa immediatamente e lo ammonii costringendolo a starmi dietro e fare silenzio.
 
«Mi dispiace tantissimo, di solito ci sono sempre degli attori che rimangono a recitare fino a tardi... volevo farle vedere il nostro teatro, e i nostri talenti, poiché era interessato!» distinsi nettamente la voce del proprietario del teatro.
Mi girai verso il mio collega per cercare di avvertirlo, ma nel buio non vidi più nulla.
«Dovrebbe esserci un interruttore generale, qui da qualche parte. Lei stia attento, non vorrei inciampasse da qualche parte, il teatro è un po’ vecchio!» la voce pareva più vicina, ma in quella macchina indistinta di pece nera, l’unico rumore sicuro erano le gocce di pioggia che battevano sulle vetrate illuminate dai lampioni cittadini.
Un rumore secco ruppe quella monotonia. Si accese una luce così forte da accecarmi per qualche istante.
I nuovi fari, che aveva istallato una nuova ditta, meno di un mesetto fa, erano troppo potenti per l’ambiente che dovevano illuminare!
Mi coprii la faccia con i palmi delle mani, ferita da getto di luce così intenso.
«Signorina, ma allora è rimasta anche questa sera!» la voce del proprietario del teatro mi colse di sorpresa.
Feci scivolare le mani lungo il viso, ma di fronte a me non vidi nulla se non il mio familiare palco di legno e il sipario arricciato ai due estremi.
Poi sospirai voltandomi, perché avevo la sensazione di avere qualcuno accanto!
Mi ritrovai di fronte un uomo, giovane, e mi bloccai direttamente a fissare i suoi occhi, forse perché lui mi stava fissando già da prima.
Chiusi velocemente le palpebre per due o tre volte per capire chi fosse, sicuramente la mia mente macchinò qualche cosa.
L’avevo già visto! Forse era venuto già a teatro, ma in quel momento non riuscivo proprio a ricordare il suo nome.
Aprii la bocca per parlare, ma il mio superiore m’interruppe subito.
«Ma che maleducato che sono! Lauren questo bel ragazzo saprai benissimo chi è…» io guardai con gli occhi sbarrati il ragazzo sorridente e sorrisi a mia volta, fingendo brillantemente di ricordarmi tutto di lui.
«... mentre Mr. Hiddleston questa è Lauren Kenneth, una delle nostre attrici!» lui piegò leggermente il viso e mi fece un cenno di consenso, palesemente divertito.
«Il piacere è tutto mio!» gli feci, imbarazzata per non aver capito chi fosse.
Non aveva proferito ancora una sillaba. Mi guardò con uno sguardo alquanto divertito e socchiuse gli occhi, poi, dopo alcuni istanti le sue labbra si distorsero in un sorriso!
Si sistemò il pesante cappotto, con cui aveva affrontato il freddo di Londra, per arrivare fino a qui e dopo una finta mossa, in cui avevo creduto se ne stesse già andando, si allungò verso di me.
Le sue labbra mi sfiorarono l’orecchio: «Mi chiamo Thomas William Hiddleston, adesso hai capito chi sono!»

continua...

Angolo d’Autrice ≈ 

Ciao a tutti. Vorrei iniziare nel ringraziarvi se avete letto la mi Fanfic e nello scusarmi se il primo capitolo è molto piccolo, ma per mia scelta l’ho voluto dedicare interamente alle sensazioni della protagonista e del suo amore per il suo mestiere: l’attrice teatrale! Visto che recito anche io so cosa significa la paura del palcoscenico e le continue prove e volevo darne un assaggio a tutti voi...Secondo punto, non vi scoccerò più con Shakespeare, all’inizio mi piaceva inserire qualcosa di più romantico nella storia, ma sono gli unici capitoli in cui troverete interi versi, lo giuro! (c’è qualcuno a cui può scocciare). Invece intendo continuare con le citazioni, ad ogni capitolo ce ne sarà una, questa era di C. Bukowski, per chi lo conosce!Buona lettura e chi vuole mi faccia sapere cosa ne pensa! Ciao!

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Capitolo 3
*** Capitolo Tre ***


"Il mio cuore era come un'arpa, e le parole e i gesti di lei come dita sulle sue corde." … cit.

Ogni mattina affrontavo il gelo che attanagliava la città addormentata. Mi sistemavo la sciarpa intorno al collo, fasciandolo parecchie volte, e chiudevo prudentemente il cappotto per proteggere i miei delicati polmoni; le mie armoniche d’oro!
Mi guardavo allo specchio per pochi istanti, giusto il tempo che le mie mani impiegavano a cercare le chiavi nella borsa, ma non vedevo nulla; se non due occhi rotondi, verde muschio, e il piccolo nasino, che cercavo disperatamente di evadere dalla cascata di capelli castani dorati che ricadevano da ogni lato bloccati dalla sciarpa.
Qualcosa tintinnò sotto le mie dita, tra i vari strati di oggetti, contenuti nella mia borsa; ero riuscita finalmente a trovare le chiavi.
Mi chiusi la porta alle spalle e scesi velocemente le scale infilandomi i guanti e pensando già all’ondata di freddo, che mi avrebbe avvolto, non appena girata la maniglia del portone!
La strada era sempre la stessa, il paesaggio sempre uguale, come le architetture e i negozi che aprivano e chiudevano precisamente al solito orario: la mia solita caffetteria, la mia panchina nel parco, l’omino delle ciambelle, sembrava che ogni mattina si ripetesse alla stessa maniera... all’infinito!
Mentre camminavo a passo svelto verso il teatro, con il cappuccino in una mano e il giornale sotto il braccio pensai a come la mia vita era fin troppo regolare e mi nauseai di me stessa!
 
La neve era morbida quella mattina e scricchiolava leggermente sotto la suola degli stivali. Mi fermai per sbattere un po’ il cappotto e i capelli, sembravo caduta in un mucchio di cartoni da imballaggio; ero ricoperta da piccoli pallini bianco latte, che si stavano sciogliendo lentamente sui miei vestiti.
Buttai il bicchiere del cappuccino e mi ressi ad un lampione per non scivolare sul tratto ghiacciato del marciapiedi.
Qualcuno urlò il mio nome. La prima volta non fui tanto presuntuosa da credere che l’unica “Lauren” presente nella via fossi io, ma l’insistenza di quella voce portò la mia curiosità a voltarmi.
Tra i fiocchi di neve che cadevano insistenti, potevo distinguere qualcuno che si stava avvicinando, anche lui coperta fino al collo con un cappotto grigio scuro e una bella sciarpa chiara per dare contrasto!
Mi trattenni al lato del marciapiede fin quando non mi fu vicino e il suo sorriso affannato non mi riportò con la mente a quella sera a teatro.
«Tu!» qualche nuvoletta di ossigeno mi uscì dalla bocca insieme alle parole, e quasi mi concentrai di più sull’intensità della temperatura, che sull’immagine dell’uomo che avevo di fronte.
«Buongiorno! Fa freddo non trovi, io adoro le mattine d’inverno a Londra. Quando c’è il sole, la città con la neve acquista un nuovo volto!» mi fece notare con un sorriso.
«Quindi tu non hai problemi con il freddo?» gli chiesi senza mezzi termini. Dal guardarlo, così com’era tutto imbacuccato, non mi pareva che non soffrisse il freddo.
Apparve quasi sorpreso dalla domanda, come se non fosse inverno e non stesse nevicando in quel momento, ed io non fossi coperta da piccoli fiocchetti bianchi! Sollevò il suo caffè e ne bevve qualche sorso per poi buttarlo nel cestino.
«Stavo cercando il tuo teatro! Ho rifiutato l’aiuto del proprietario, Nicholas, ma penso di essermi perso! Mi accompagni?» mi chiese infilandosi una mano nei capelli per evitare che la neve gli si sciogliesse in testa.
Io sospirai l’aria ghiacciata e mi trattenni dal mollare un piccolo urlo per il dolore.
Uff..
«Ok, siamo praticamente arrivati!» gli sorrisi mente indicavo la strada da prendere.
«Perché ti interessi ad un teatro come il nostro, è piccolo, rovinato, pieno di spifferi... non è decisamente il teatro adatto a grandi opere! E’ “modesto”...» forse quel termine era un po’ crudo, ultimamente avevamo fatto qualche aggiusto e la facciata era ritornata quella di un tempo.
Era rifiorito come un bocciolo in primavera e i suoi più assidui frequentatori avevano trascinato con loro amici e parenti, insomma eravamo una piccola compagnia, ma durante i nostri spettacoli nessun posto rimaneva libero!
«Anche io ho incominciato da piccoli teatri, hanno un fascino particolare... non è forse così? Non vorresti cambiare nulla della loro essenza, sono perfetti nella loro caotica bellezza, ti fanno assaporare il profumo di altri tempi, ti portano indietro in un’altra epoca...» si fermò, poco più avanti di me e in tutta la sua elevata postura si voltò eccitato e sorridente, con gli occhi limpidi e brillanti.
«...sono, forse, gli unici luoghi dove ti puoi sentire davvero un attore! Dove comprendi la fatica di recitare, ma nello stesso tempo non la senti, perché lo ami» concluse.
Ero immobilizzata: forse dal suono così caldo della sua voce, forse dalle sue stesse parole, dal modo così simile al mio di vedere quella vecchia struttura e di ribaltarne completamente l’aspetto grezzo e abbandonato, e il significato antico.
Avrei voluto ripete ogni parola! Gridandole nella fredda aria di quella mattina; felice, eccitata, stupita ed anche un po’ malinconica e stordita...
Il cappuccino stava avendo un bruttissimo effetto sul mio organismo.
Tom puntò i suoi occhi chiari sulla mia persona, per la prima volta, guardandomi chiaramente dall’alto in basso.
Sentivo il suo sguardo strisciare tra le ciocche di capelli, fino a sfiorarmi il viso, la pelle pallida e inebetita dal gelo, il naso nudo e inerme alle intemperie... si bloccarono nei miei occhi, e vi si sciolsero completamente.
Quel gioco di pennelli colorati; celeste, grigio e verde, uniti distrattamente sulla tavolozza di un pittore pazzo, con un tocco di bellezza e di stupore, erano rivolti verso di me e lambivano ogni parte del mio corpo... ogni centimetro di pelle, ogni sospiro!
«Sei proprio un’attrice piccolina!» mi sorrise.
E certamente si stava riferendo alla mia altezza, perché come età non poteva dirmi nulla, visto che avevo solo qualche anno meno di lui.
Non la trovai una frase dispettosa, anzi tutto il contrario... mi parve che le sue labbra sapessero solo pronunciare parole affettuose e dolci nei confronti degli altri!
 
Sorrisi.
Aveva smesso di nevicare e Londra incomincia lentamente a stiracchiarsi, tutto si metteva in moto, la gente si svegliava e le macchine finalmente ingombravano le strade sghiacciate.
Splendeva il sole.
Guardai il parco illuminato e la neve che splendeva di una luce accecante, i palazzi chiari che godevano del calore ritrovato dopo una notte di gelo e i loro vetri infuocati dalla luce del mattino.
Gli alberi avevano assunto un colore talmente intenso che sembravano finti, come le scenografie mobili che usavamo per le scene di campagna. E tutto pareva permeato da un’aurea dorata, quasi mistica!
«Avevi ragione Hiddleston!» gli rivolsi un luminoso sorriso.
«Chiamami Tom!» 

continua...


Angolo d’autrice ≈

Sono riuscita a scrivere velocemente anche il terzo capito. Non voglio che la storia decolli troppo in fretta, perdonatemi se non penso che l’amore scoppi all’improvviso, ma l’attrazione si.
Tutte troveremmo attraente Tom al primo colpo, eheheh!! Voglio precisare che alcune descrizioni e comportamenti dei personaggi sono soggettivi e autobiografici, mentre per quanto riguarda Mr. Hiddleston, siccome nessuno di noi può vantare di conoscere il suo carattere, cercherò nella storia di farlo assomigliare a com’è nella realtà e non a come vorrei che fosse, ne a come lo immagino!
(dimenticavo di dirvi che la citazione questa volta è di James Joyce)...
Buona lettura! Ciao!  

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Capitolo 4
*** Capitolo Quattro ***


“Sai quel luogo che sta fra il sonno e la veglia, dove ti ricordi ancora che stavi sognando?
Quello é il luogo dove io ti amerò per sempre.” ... cit.

Ero in ritardo.
Difficilmente nella vita ero in ritardo. Eppure, tutto, quel pomeriggio sembrava ritardarmi oltre il limite del ridicolo e della pazzia.
Non trovavo le chiavi per chiudere casa, chissà dove, gettate nella confusione del mio caotico appartamento. Le piccole scale del palazzo erano affollate da gente che saliva e scendeva, con ingombranti scatoloni tra le braccia.
Un trasloco, a fine stagione, forse due novelli sposini! La mia, era una zona in continuo cambiamento, frequentata spesso dalle coppie che cercavano una piccola casa, poco costosa, da comprare velocemente per poter finalmente incominciare la loro splendida vita matrimoniale.
Ma quel giorno non riuscivo a sorridere pensando a come sarebbero stati felici nel riscoprire quel nuovo mondo, a cercare con gli occhi il volto di lei, allegra ed eccitata, mentre indicava agli operai dove posizionare il mobilio e abbracciava calorosamente il suo compagno.
Dovevo correre!
Alla metropolitana fui fermata da alcuni segnali luminosi, che attirarono la mia attenzione, per qualche istante, in cui mi sentii del tutto spaesata.
Mi rifugiai sotto una capannina di plexiglass e cercai di allungarmi il più possibile, per leggere la striscia di lettere lampeggianti che scompariva velocemente nello stesso pannello.
Dalla mia bocca uscì un sospiro arrendevole che sfociò in un piccolo lamento. Quella stazione era stata chiusa per problemi tecnici!
Era davvero raro che la linea metropolitana avesse problemi evidenti, tali che la imponessero all’arresto per controlli; Londra gestiva la sua rete di mezzi pubblici con un’efficienza mai vista in altre città europee...
Eppure, quel pomeriggio pareva non finire mai.
«Ha bisogno d’aiuto?».
Una voce gentile mi obbligò a voltarmi per prestarle ascolto.
Guardai il volto dell’uomo, nascosto tra la giacca e il cappello scuri. «Tra quanto sarà in grado di partire?» chiesi.
«Penso resterà chiusa per tutta la giornata, doveva andare molto lontano? Posso indicarle la strada...» incominciò a formulare delle frasi, che per me non avevano molto senso, nella situazione in cui ero capitata.
Sorrisi. «Grazie lo stesso. Ma non può fare più nulla per me!».
Risalii le scale della metro e mi fermai sulla strada a guardare le macchine che passavano.
Avrei potuto prendere un taxi.
Ma sapevo già quanto mi sarebbe costato fino al teatro e questo rendeva la cosa complicata visto che non mi ero portata così tanti contanti.
Dovevo andare a piedi, come ogni mattina, quando mi svegliavo preventivamente in orario per evitare la calca della gente, che ogni giorno portava con se valigette e trolley, carrozzine e biciclette a seconda dello stile di vita.
Avrei potuto farmi anche io una di quelle belle bici in resina, leggera e veloce, così sarei arrivata ancora prima!
Alzai il polso per guardare l’orario, scostai la manica del cappotto, le cinque passate. Sarei arrivata con le prove già iniziate da un pezzo.
Magari avrebbero dato la mia parte a qualcun’altra, solo per colpa di questi maledetti contrattempi, capitati per un amaro scherzo del destino...
Avrei perso l’occasione di recitare in maniera più professionale, per il progetto di quell’attore, quel... quel...
Non sarei mai riuscita a chiamarlo per nome, non perché mi vergognassi in qualche maniera; non perché volessi essere impeccabilmente corretta; non perché avessi qualcosa in contrario verso di lui o nel suo modo di rivolgersi a me, agli altri...
Tom era il nome di mio padre. E mio padre era morto...
Con lui era morta una piccolissima parte della mia anima e dalla mia mente, ma il suo spirito amante delle arti e del teatro, che mi aveva inculcato fin da piccola, insinuandole in me come veleno in una ferita, si era salvato; aggrappandosi con tutte le forze alle mie credenziali e facendomi divenire la donna che sono.
Sarebbe stato fiero di sapere che la figlia recitava, e avrebbe voluto vederla più in alto delle stelle, ma sempre composta nel suo posto nel firmamento!
Ecco perché, non riuscivo a chiamarlo per nome... faceva troppo male resuscitare questa valanga di ricordi pronunciando semplicemente tre lettere.
Anche se associate ad una così bella persona!
Presa com’ero dai ricordi, non sentii nemmeno le vibrazioni costanti che provenivano dalla mia borsa.
Riuscii ad prendere il cellulare all’ultimo, prima che la chiamata si concludesse.
Risposi senza nemmeno vedere chi fosse l’interlocutore! Con voce chiara e senza alcun accenno al dolore che avevo provato pochi istanti prima; chiesi chi fosse e aspettai la risposta.
«Dove sei finita?».
«Sono in ritardo. Non è colpa mia, forse si... insomma due sposini stavano traslocando nell’appartamento accanto al mio, poi la metro è bloccata e adesso dovrei prendere un taxi se non voglio arrivare con le prove già terminate! Perdonami Jason...».
Mi interruppe, subito. «Non sono Jason. E le prove non sono nemmeno iniziate, non posso dare le parti se manca l’attrice principale! Dove sei?».
Rimasi con il cellulare a pochi millimetri dall’orecchio. In silenzio. Per capire chi altro si potesse preoccupare della mia scomparsa, poiché ero una delle prime ad arrivare in teatro!
Deglutii e con un po’ di timore posai di nuovo l’apparecchio vicino alla pelle. Socchiusi le labbra per parlare e solo allora mi resi conto che, effettivamente, quella non era la voce roca di Jason.
«Ma chi parla?» chiesi.
«Sono Tom Hiddleston! Mi stavo preoccupando, non sei arrivata all’orario stabilito, e quindi se adesso cortesemente mi vuoi dire dove sei, ti vengo a prendere!» disse con tono calmo, ma anche con un certo ordine e con la temperanza di un capo.
Ci pensai un attimo.
«T... Thomas, grazie, non è necessario! Troverò un autobus che si ferma da quelle parti...».
«Lascia stare, mi hanno già detto dove abiti, tra qualche minuto starò lì da te!» seguì qualche attimo di silenzio in cui temetti che avesse già agganciato.
«...riparati da qualche parte, che fa troppo freddo per te!» furono le ultime parole che sentii, prima del rumore ripetitivo della linea interrotta.
 

***

 
Me ne stavo su di una panchina. Con le gambe vicine al petto, sfruttando tutto il calore possibile, scaturito dal mio piccolo corpo e dal cappotto di lana che indossavo.
Anche se la primavera era ormai alle porte, il freddo pungente non si apprestava a dare segni della sua ritirata, e la povera città di Londra e insieme i suoi cittadini, si sentivano ancora oppressi dalla morsa di gelo che li accoglieva ogni mattina.
Quel pomeriggio le nuvole grigie che sfumavano nel cielo, trascinate dal vento, erano così fitte da non lasciare nemmeno il passaggio a qualche flebile raggio di sole, per riscaldare un po’ il tetro paesaggio che ricopriva tetti, strade e giardini.
Mi infilai i guanti, facendo in modo che ogni dito entrasse senza problemi nel suo spazio, e puntai lo sguardo sull’asfalto bagnato.
 
Finalmente una macchina si fermò a pochi passi dalla seduta, il finestrino si abbassò con un sottile sottofondo meccanico e due occhi turchesi mi guardarono con aria di rimprovero.
Tom Hiddleston si sporse quanto bastava per sentire l’aria fredda pizzicargli il viso e mi rivolse un falso sorriso. «Ti avevo detto di ripararti da questo freddo».
«Vedi qualche riparo nelle vicinanze?» chiesi ancora stordita e preoccupata dalla sua mancanza di allegria.
Cercò con gli occhi, scrutando attentamente, come solo un artista sa fare, tutto l’isolato per potermi contraddire in qualche maniera, ma dopo poco si arrese all’evidenza che in quel luogo non c’era nulla in cui avrei potuto ripararmi, ed aspettarlo.
Mi fece un veloce cenno con il volto. E i suoi occhi scintillarono di nuovo, rideva, come un bambino che ha appena sepolto un tesoro prezioso e ne conosce solo lui le coordinate per dissotterrarlo!
«Entra...» .
L’aria calda mi colpii in pieno viso, scongelandomi le guance e il naso, che oramai credevo trasformatosi in un ghiacciolo.
Posai la borsa accanto ai piedi e strofinai le mani tra di loro, nel punto in cui partiva il getto di aria calda. Mi sistemai la sciarpa e il cappotto, per non sembrare un disordine completo di fronte ad un bellissimo uomo che personificava l’eleganza e il buon gusto nel vestire.
E, di fatti, anche quel pomeriggio era vestito con un bellissimo maglione blu notte, pantaloni scuri a sigaretta e comode scarpe sportive ma eleganti, a completare tutto una piccola sciarpa color ghiaccio per dargli lucentezza al volto, ma nello stesso tempo calore, in questi freddi e ultimi giorni d’inverno.
«Perché mi stai fissando?» mi chiese con il sorriso stampato sulle labbra.
Guardava la strada, con attenzione, concentrato ad ogni minimo movimento della gente intorno a lui; nei suoi occhi persi oltre il vetro si specchiava il piccolo paesaggio cittadino, come un lago verde di vegetazione in cui si affaccia una bellissima villa e si specchia vanitosa, in quello stupendo riflesso argenteo.
Ingranò la marcia con un movimento fluido delle dita e posò di nuovo la mano sul volante di pelle nera.
Si voltò un attimo a guardarmi e poi accelerò per ritornare sulla strada principale.
Scossi la testa, un po’ stordita. «Non ti sto fissando!» mentii.
«Sono abituato alla gente che mi fissa. Succede in continuazione...».
«E non ti piace! Essere al centro dell’attenzione, intendo? Infondo sei un attore».
«Mentirei, se ti dicessi che essere un uomo ammirato non è bello. Che essere amato e lavorare in un campo così vasto, che ti permette di raggiungere così tanta popolarità non mi attrae, non mi eccita...» mi stava parlando con sincerità, come se fossimo amici da tanto tempo.
Eppure, in quell’ultimo mese, l’avevo visto solo qualche altra volta a teatro, mentre discuteva con Nicholas gli ultimi preparativi per il suo grande progetto.
I nostri sguardi si erano incontrati, mentre provavo, e avevo taciuto solo per lui; per rivolgergli un breve cenno, per sorridergli mentre passava sotto il palco e mi guardava intensamente, quasi per penetrare dentro il mio pensiero e far parte della scena.
Avrei voluto tanto recitare con lui, sentire qualche verso venir fuori da quelle labbra così sottili, con quella voce così intensa e calda, intenta quasi ad avvolgermi come le spire di un serpente.
Sorrisi.
Infondo un attore come lui, era un scelta perfetta per il ruolo di un cattivo crudele e spietato come “Loki”.
I suoi lineamenti erano dolci, ma aveva la mascella marcata, e i suoi occhi di certo erano capaci di uguale dolcezza e malignità in egual misura.
Avevo fatto qualche ricerca su di lui, e il ricordo delle sue immagini, acconciato con quella meravigliosa chioma corvina e l’armatura da bel Dio rinnegato, mi facevano ancora sorridere.
«...sono abituato ad essere fissato da tutti, ma non da te!» quella frase interruppe il filo dei miei pensieri.
«Perché?» gli chiesi semplicemente.
La macchina si fermò dolcemente, vidi il semaforo di fronte a noi, le persone che attraversavano e la simpatica luce a forma di omino verde che indicava il passaggio dei pedoni.
«Sento uno strano disagio quando mi fissi...».
Posai le spalle sul sedile, volevo sistemarmi nella posizione più comoda possibile e fissare solo la strada di fronte a me, per dimenticare le parole che avevo appena sentito.
Mi aveva ferita.
Mi sentivo stranamente vulnerabile quando parlava quell’uomo, accanto a lui non potevo replicare, non ero sul mio palco e non sapevo che battute recitare, mi metteva davanti ad un vita che, con tutte le mie forze evitavo di vivere, nascondendomi nel buio del sipario, e mi gettava in faccia la realtà, colpendomi in pieno viso con un copione vuoto di parole.
Rimasi in silenzio.
«Perdonami. Forse ho detto qualcosa che ti ha offesa, io non intendevo...».
«Non mi hai offesa!» risposi fredda, anche se dal mio volto si poteva perfettamente capire tutto il contrario.
Che pessima attrice.
«Lauren, io mi sento a disagio... solamente perché mai nessuno mi aveva guardato con l’intensità con cui mi scruti tu. E non avevo mai incontrato nessuna con i tuoi stessi occhi».
Mi voltai con attenzione, per capire se mi fossi inventata tutto quanto, eppure lui era lì, seduto a pochi centimetri da me e mi sorrideva come sempre.
Per un attimo fui tentata di guardare i miei stessi occhi nello specchietto retrovisore, per capire cos’avessero di tanto speciale in confronto a molti altri sguardi che si incontrano in giro.
«...sei una ragazza singolare, tu mi guardi anche da un punto di vista “tecnico”» rise subito dopo aver pronunciato la parola.
«Anche questo sarebbe un complimento?».
«Non ti direi mai qualcosa di brutto, non adesso che stiamo incominciando a lavorare insieme. Ci aspetta un lungo periodo di prove... e spero sarai puntuale» ironizzò la risposta.
Risi, ero molto sollevata e non mi accorsi nemmeno di prendere la situazione troppo sul personale.
Non mi arrabbiai nemmeno con me stessa per essere stata troppo precipitosa nel giungere alle conclusioni, ne con lui per essere stato troppo schietto.
«Infondo, non mi hai ancora detto, perché mi stavi fissando?» aveva trovato un posto a due passi dal teatro e si stava preparando a fare manovra per entrarvi comodamente.
Risi.
«Sono costretta a rispondere?».
Spento il motore prese la giacca e se la sistemò sulle spalle, preparandosi ad uscire. Io feci lo stesso, imitandolo, coprendomi accuratamente la gola e rinfilandomi i guanti.
«Potrei abituarmici!» disse aprendo lo sportello.
 

***

 
«Scusate per il ritardo, io e la signorina Kenneth abbiamo avuto degli imprevisti che ci hanno trattenuto!» disse a voce alta perché tutti potessero sentirlo.
Chiusi all’istante gli occhi e cercai di nascondermi il più possibile, scivolando nella poltroncina di velluto rosso, tra la platea deserta.
Poteva essere benissimo frainteso, e dal sorriso compiaciuto che gli spuntò sulla faccia capii che era giusto quello che voleva.
Tutto il teatro mi stava fissando, mentre ero io stessa che fissavo lui, forse, con l’espressione più ridicola del secolo.
Storsi il naso e mi immersi a capofitto nella lettura del copione che ci avevano distribuito un attimo prima, evidentemente il suo grande progetto voleva partire da lì.
Lessi il titolo con la mente, scritto con eleganti caratteri in corsivo, e subito cambiai espressione, mutandola in pieno stupore: “Casa di bambola” di Henrik Ibsen.
«Spero che dalla prossima volta ci ritroveremo tutti qui all’orario stabilito, per provare insieme le parti che ho deciso per voi... Questo potrà sembrarvi nuovo, spero che non ci siano troppe perplessità o incongruenze tra l’attore e la sua parte, voi sapete meglio di me quanto sia importante far parte del personaggio, quasi rivedersi in esso. Non troppo ovviamente...» rise insieme ad un piccolo coro vicino al palco.
Aprii alla prima pagina per leggere la lista dei personaggi.
Erano pochi, Ibsen non riuniva mai molti personaggi nelle sue opere teatrali, ci sarebbero stati più sostituti o comparse, che attori principali.
Ne seguii circa un quarto d’ora di presentazione del progetto da parte di Mr. Hiddleston, che sembrava essere conosciuto da tutti i miei colleghi, con continui applausi ed interruzioni per motivi davvero futili.
Ma lui annuiva, sorrideva e con un cenno andava avanti, anche ripetendo all’infinito sempre le stesse cose per i più perplessi e antiquati che si volevano tirare indietro.
«...vorrei specificare che nessun cambiamento verrà fatto allo stile del vostro teatro, è così bello, così caratteristico...».
«Così decadente!» lo prese in giro Jason, seduto sugli scalini che portavano alla platea.
Io mi sporsi per guardarlo meglio. Poi guardai l’attore, fermo sul palco, immobile di fronte all’affronto del più giovane.
Rise. Abbandonò il braccio con cui teneva il copione e incominciò a camminare avanti e indietro, forse per concentrarsi.
«...si, Jason, ed è la ricchezza migliore che abbia questo teatro. E’ decadente, ma la sua anima è antica, proprio per questo la gente viene a vedere le vostre opere, si sente protetta, si sente a casa... quasi in famiglia.
Sarà pur vecchio, pieno di spifferi e il palco e fatto con assi di legno che scricchiolano, ma la magia che create intorno a questo luogo quando recitate, non riuscirete mai a regalarla in un teatro moderno...»
Ero contenta, avevo riso, coprendomi la bocca per non dare nell’occhio, quando aveva fatto scricchiolare apposta le assi del parquet vicino a Jason, rosso dalla vergogna.
«Ho detto che ci saranno grandi cambiamenti, ma non trasformerò mai il tuo teatro, lo giuro!» disse improvvisamente, rivolgendosi solo a me.
Io deglutii a forza e annuii, facendo segno con la testa.
«Ora! Per quanto riguarda le varie parti, ho deciso di unirmi a voi, mi sono permesso di interpretare Torvald Helmer, penso sia l’unico personaggio che non troverete nell’elenco; per il resto avete tutto scritto nelle vostre mani».
Stava per aggiungere dell’altro quando venne interrotto da Nicholas, che lo convinse a scendere giù dal palco, per poi trascinarlo in un’animata conversazione.
...avete tutto nelle vostre mani.
Guardai i fogli bianchi che tenevo tra le dita, poi il palco, poi di nuovo il copione. Incominciai a sfogliarlo tutto fino ad arrivare all’ultima pagina, dove c’era una piccola lista di personaggi: primari e secondari, seguiti dai nomi degli attori.
Cercai il mio, solo il mio nome, per il momento volevo solo vedere quelle lettere rassicuranti.
Lauren Kenneth.
Ok, potevo tirare un respiro di sollievo, almeno c’ero, nella lista degli attori principali. Spostai lo sguardo a sinistra per leggere il nome del mio personaggio...
«In verità, non so perché sono così triste; è una cosa che mi strugge, e tu dici che strugge te pure; ma come ho colto, trovato o acquistato una tale tristezza, di che sostanza è fatta, dove è nata, debbo ancora impararlo; e la tristezza mi fa così stupido, che ho gran pena a conoscere me stesso...» una voce mi colse alla sprovvista.
Oramai quel bellissimo suono mi era quasi familiare, mi era entrato dentro, raccogliendo in me qualcosa andato da tempo perso.
Mi voltai verso di lui.
Mi osservava, seduto sulla poltroncina accanto alla mia, fece spallucce aspettando una mia risposta.
«William Shakespeare, Il mercante di Venezia, Atto I scena I» gli sorrisi.
«Ho scelto bene. Sei pronta, mio scoiattolino?».
«Vedo che ti stai già immedesimando benissimo nella parte… Ne sei certo? Sei sicuro che io sia la donna adatta per fare Nora?».
«Più ti guardo e più lo penso. Sei forte, proprio come lei... se mi segui, porteremo avanti questo progetto, insieme» mi porse la mano.
Io la guardai per qualche secondo, per poi intrecciarla con la mia.
«Affare fatto! Insieme, come due professionisti, come Nora e Torvald...».
Come risposta, mi mostrò due file di luminosi denti bianchi. Aveva un bellissimo sorriso, di quelli che ti lasciano senza fiato, senza parole, oppure te le strappano di bocca mentre stai per parlare.
 
«Sai perché ti stavo fissando, Hiddleston?» gli dissi prima che se ne andasse, il teatro era buio e vuoto ormai, eravamo rimasti solo io e lui, e per la prima volta da quando lavoravo in quel posto, restavo sola ad ascoltare i rumori di quelle mura con qualcun altro che non era Jason.
Stava già camminando verso la porta taglia fumo che si apriva in cima alle scale, oltre la platea. Si fermò, perplesso.
Aveva le mani in tasca, la pesante giacca chiusa e la sciarpa stretta intorno al collo.
Io mi avvicinai, prendendo finalmente coraggio nelle mie azioni.
«Perché mi piace molto di più questo taglio di capelli, di quello che avevi qualche anno fa... i capelli corti e il pizzetto, ti donano molto più fascino».
«Non ti piacciono i miei capelli ricci, color miele?» scherzò lui.
«Anche adesso sono ricci, sono solo un po’ più corti, e per quanto riguarda il colore... bè c’e molto più contrasto con i tuoi occhi, ti stanno molto bene!».
Mi guardò sospirando.
«Ti senti ancora a disagio con me?» chiesi.
Si girò di scatto. Allungò una mano per sfiorarmi il viso, ma le dita si fermarono a mezz’aria, come tirate dai fili invisibili di un burattinaio dispettoso.
Eppure, io continuavo a guardarle e a pensare a come sarebbe stato essere sfiorata, accarezzata, toccata... da quelle bellissime mani, da quelle dita così sottili e curate.
Scostai il viso, sperando con tutta me stessa di non essere arrossita.
«Mi sentirò sempre a disagio con te...».
Incominciai a sbattere le palpebre, perplessa dalle risposte che ricevevo ogni volta da quell’uomo, così schietto e diretto.
Perché dovevo metterlo così a disagio? Forse era la stessa sensazione che provavo io nei suoi confronti, era un’incongruenza che non si poteva scavalcare?
Proprio in quel momento, che avrei potuto recitare con lui...
«...e ne sono davvero felice! Era da tanto tempo, che non mi sentivo più a disagio con qualcuno».
Non potevo non ridere, l’assurdità delle sue parole era davvero terrificante.
Alzai il volto, per poterlo guardare diritto negli occhi, visto che poteva almeno portare 20 centimetri buoni più di me.
«Sarò sempre lieta di essere un disagio per lei, Mr. Hiddleston!».

continua...

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Capitolo 5
*** Capitolo Cinque ***


“L'amore è così multiforme che esso medesimo ed esso soltanto è pura immaginazione.” ... cit.

«C’è un po’ di Iago in tutti noi, un’anima dedita al tradimento, un caloroso amante, un servo devoto... e c’è una parte di noi che rimane legata a Romeo: dolce, romantica, lasciva!».
La voce calda e rassicurante dell’attore, riempì il teatro in poco tempo, grazie all’acustica eccellente di quelle vecchie pareti di legno e della cassa di risonanza creata appositamente sotto il palco, dove prima si posizionavano i musicisti con i loro fidati strumenti.
Rimase qualche istante in silenzio, per guardarsi intorno, quasi come se potesse vedere le sue parole rimaste sospese nell’aria, tra la piccola platea e gli spalti; più in alto.
Io ero seduta a pochi passi da lui, e non potevo evitare di guardalo con la coda dell’occhio, cercando di farmi notare il meno possibile. Osservavo il copione, cercando di sembrare interessata solamente alle mie battute e ai movimenti della scena, ma infondo avrei voluto puntare gli occhi sulla sua schiena e non staccarli più.
C’era qualcosa di strano in “Thomas William Hiddleston”, qualcosa che non riuscivo a comprendere fino infondo.
Ed anche questo mio desiderio costante di osservarlo, di incrociare il suo sguardo, di sentire la sua voce, di percepire i suoi pensieri; tutto questo non era da me, o almeno non lo era stato fino a quel momento.
Non provavo quelle sensazioni da molto tempo e credevo di ricordarne il loro calore solo in pochi momenti della mia vita, e con pochi uomini che mi avevano davvero rapita, rendendomi immune alle percezioni del mondo, e trasportandomi  nel loro universo personale.
Sorrisi, pensando a come diventavo stupidamente emotiva, quando c’era quell’uomo nei paraggi.
«Non hai ascoltato una sola parola di quello che ho detto, vero?» mi voltai di scatto, arrossendo vistosamente quando mi ritrovai a pochi centimetri dal suo volto.
Fissandolo negli occhi, non seppi cosa rispondere. Era seduto accanto a me, non avevo percepito la sua presenza quando mi si era avvicinato, e nemmeno mentre mi osservava, persa com’ero nei miei pensieri.
Pensai subito che si fosse offeso e scossi la testa, pronta a riversargli frettolosamente, un migliaio di scuse differenti:
«Si... cioè no! Ho sentito, ma non tutto. Ero immersa nella lettura della sceneggiatura, molto interessante, un bel lavoro...».
Chiusi gli occhi, arrendendomi all’evidenza, stavo solo peggiorando la situazione. Il nervosismo mi portava, inevitabilmente, ad accavallare le parole, stravolgendone il senso, balbettando e quindi rendendomi alquanto ridicola.
Cosa assurda, davanti all’uomo che mi aveva scelta come protagonista della sua opera!
«Perdonami. Avevo la testa altrove...» mi giustificai.
«A cosa stavi pensando?» mi chiese incrociando le braccia e alzando un sopracciglio.
Dall’ultima volta che ci eravamo parlati, sempre da soli, sempre in quel teatro; che sembrava l’unico posto in cui potevamo avere un minimo contatto, l’unica culla delle nostre reciproche emozioni e, fino a quel momento, l’unico elemento che potevamo dire di avere in comune.
Si, forse era passata una settima, forse qualche giorno di più; chissà cosa faceva Mr Hiddleston nei giorni in cui non veniva a teatro, quali oscuri progetti si celavano dietro quel bel visino?
Assunsi un’aria sospettosa e socchiusi le labbra per parlare.
«Mi domandavo cosa facessi durante il tempo libero!», l’avevo posta male, avevo davvero posto la domanda in una maniera troppo equivoca.
Vidi il suo viso rilassarsi e gli occhi farsi più lucidi, in un’espressione che non mascherava un misto di sorpresa e incredulità.
Davvero gli avevo chiesto così spudoratamente cosa facesse quando non lavorava? Non intendevo affatto quello...
Avrei tanto voluto avere accanto una botola, aprirla e sparirci dentro per sospirare di sollievo nell’oscurità fresca di quel nulla. Ma, non c’era che Tom Hiddleston accanto a me, e dovevo guardare quell’espressione meravigliata su quel volto incredibilmente bello.
Per qualche minuto, un tempo che a me parve infinito, ci guardammo rapiti da una strana sensazione di disagio. Fissandoci negli occhi, come due bambini attratti da piccole luci colorate; l'uno perso a studiare lo sguardo dell'altro, cercando di captare il minimo accenno di attrazione o, ancor meglio, desiderio.
Non quel desiderio passionale e travolgente, quel sentimento insano, quasi doloroso, che prende gli amanti all'improvviso e li trasporta lontano dal mondo e fuori dallo spazio!
Io stavo cercando di trovare in lui, un desiderio diverso, più intimo, più spontaneo, più tenero. Avrei giurato che quell'uomo fosse davvero molto romantico nel suo intimo, forse troppo, magari così tanto romantico da diventare addirittura stucchevole!
Però non mi sarei tirata così facilmente indietro, nemmeno con un uomo che era cresciuto a "pane e Shakespeare".
«Se lo vuoi proprio sapere, durante il mio tempo libero, cerco di allontanarmi dai problemi del lavoro. Stacco la mente il più possibile, mi rilasso, non esco quasi mai! Sto a casa».
Sorrisi lentamente. Avrei voluto sapere cosa faceva fuori da questo teatro, ma sempre tenendomi sul vago, chiedendo su cosa stesse lavorando in quel momento, oltre che a questo assurdo progetto, magari con quali altre celebrità si stava confrontando, quali registi conosceva, quali attrici; forse aveva un storia in atto con qualche bellissima ragazza che lavorava con lui a qualche film, che presto avrei visto nelle sale dei cinema di tutta Londra.
«E adesso a cosa pensi?» mi chiese avvicinandosi ancora e posando le mani sul legno liscio e rovinato.
«E' così evidente che sto pensando a qualcosa?», gli chiesi a mia volta, sorpresa che mi avesse colto un'altra volta alla sprovvista con i miei intimi pensieri, sempre rivolti a lui.
Mi guardò con un'aria interessata. «Quando pensi, forse non te ne sei mai accorta, arricci sempre le labbra… e ti perdi nel vuoto di uno sguardo che non ti appartiene! Sei troppo seria» la sua mano si avvicinò al mio viso, in direzione delle labbra, per cercare di sfiorarle; ma anche questa volta a pochi centimetri del suo percorso decise di abbandonarsi sulla sue gambe.
Senza alcuna motivazione, lui cercava sempre di toccarmi, di avere un contatto con me, però cedeva negli ultimi istanti, quando quel contatto sarebbe stato inevitabile!
Deglutii e ripresi a respirare, dopo aver trattenuto anche troppo il respiro, sentendo il suo tocco così vicino, ed inevitabile, sulla mia pelle.
«Vorresti insinuare che, in altri momenti, non sono una persona seria?» chiesi ridendo, un po' affannata.
Non riuscì a darmi una risposta sensata, perché fu interrotto da un uomo, che si presentò davanti a noi, scusandosi per aver interrotto la conversazione, che stava continuando animatamente.
Solo allora mi accorsi, che il teatro era quasi deserto e che, come al solito, ero rimasta da sola fino a tardi in quel luogo vecchio e dimenticato da tutti, tranne che da me… e forse anche da quello strano attore!
L'uomo era alto quasi quanto Thomas e vestito rigorosamente con giacca e cravatta, anche se sembrava non apprezzare, visto il suo continuo gesticolare con il collo della cravatta e i poveri polsini della camicia, e portava un delizioso taglio corto, che gli metteva in risalto il viso dall'aria molto simpatica.
Non mi sembrava un attore, almeno non che io conoscessi, quindi attesi che il mio "collega" facesse le presentazioni.
Con cortesia mi feci da parte e lasciai che i due uomini parlassero da soli per qualche minuto, in privato, poi Thomas si girò verso di me e dando una rapida occhiata all'altro uomo, sorrise come suo solito.
«Lauren, ti presento Luke, è il mio amico fidato e il mio manager! Luke… questa è Lauren, la mia attrice teatrale, la ragazza di cui ti ho parlato al telefono».
Il ragazzo mi strinse la mano con energia, poi si rivolse immediatamente all'attore, come se si fosse dimenticato una cosa importante.
Ed io scoprii con inaspettata gioia, che Tom Hiddleston, parlava di me al telefono con il suo agente!
«Tom, è arrivato quell'invito! Mi dispiace, sbagliano sempre a scrivere, avrò mandato un centinaio di e-mail per avvertirli, ma perso che non finirò mai…».
Ma lui lo interruppe, dandoli un'amichevole pacca sulla spalla. ≪Non ce n'è bisogno Luke, te lo ripeto ogni volta! L'hai portato? Voglio vedere cos'hanno scritto questa volta…≫ chiese con aria arresa, prendendo dalle mani del manager, un piccolo foglio di carta bianco, piagato in diverse parti.
Di colpo mi sentii anche di troppo, in quel bel quadretto lavorativo, e pensai che fosse arrivata davvero l'ora di andare per ritirarmi in solitudine nel mio appartamentino a rileggere qualche battuta.
≪Sono felice di averti conosciuto Luke, spero che verrai anche tu a teatro questi giorni per vederci. Adesso è meglio che vada, voi due siete molto occupati…≫ dissi senza dare molte spiegazioni, presi la sacca che avevo abbandonato a terra e scesi giù dal palco con un piccolo salto.
Stavo per salutare Mr. Hiddleston e prendere la via per le scale, quando lui stesso mi trattenne con la sua voce.
≪Ho una proposta da farti!≫.
Mi voltai, per capire se stava davvero parlando con me. Vidi il suo volto, stranamente serio, ancora concentrato nella lettura del foglio di carta che aveva tra le mani.
Alzò lo sguardo, cercando di incuriosirmi ulteriormente, porgendomi quello strano "invito" che aveva ricevuto. Scesi qualche gradino, titubante, e mi trovai vicino a Luke, che guardava a sua volta il suo amico con aria contrariata.
≪Vuoi passere, un po' del "mio tempo libero", con me? Ti propongo un'uscita inusuale, oserei dire assurda…≫ mi chiese, restando sempre sul vago.
Guardai prima il manager e poi lui, incerta se prendere dalle sue mani quel foglio ed accettare, insomma, non era da tutti i giorni uscire con una personalità come la sua, e questo implicava tutta una serie di situazioni spiacevoli in cui non mi sarei mai voluta trovare.
Ebbi qualche attimo di esitazione, per poi decidere senza alcun ripensamento!
≪Non mi porterai mica a teatro, vero Hiddleston?≫chiesi mentre accettavo. Presi quel piccolo foglietto e lo aprii con i due indici delle mani, cercando di leggere sotto la poca luce rimasta, le righe scure che colmavano il bianco intenso della carta.
Mi fermai dopo aver letto le prime tre righe. Guardai l'attore perplessa, ma prima che potessi chiedere qualunque spiegazione, lui aveva già incominciato a parlare.
≪No, molto meglio. Ti porto al cinema! E' un'anteprima di un film, prodotto da Joss Whedon, lostesso regista che ha realizzato "The Avengers", penso tu ne abbia sentito parlare… se non l'hai visto!≫.
Avevo già sentito quel nome, sicuramente qualche gigantesca locandina pubblicitaria, lungo le strade del centro, mi doveva aver incuriosita. Ma i film con super-eroi che salvano il mondo da cattivi impazziti e mostri famelici, non erano il mio genere, quindi non ero corsa al cinema per vederlo.
Scossi la testa.
≪Si, devo aver visto la locandina da qualche parte. Non sapevo avessi partecipato, qual era la tua parte?≫ chiesi continuando a leggere.
"Caro Mr. Hiddleston e compagna…" non era carino da scrivere ad un uomo solo, a meno che, chi aveva scritto questo invito, sapeva qualcosa che io ancora non conoscevo, della vita di quell'uomo.
Thomas incrociò lo sguardo di Luke, sorridendo compiaciuto, si poggiò alla cassa armonica del palco, guardandomi divertito.
≪Lo capirai. Allora vieni con me? Dopo ci sarà anche un piccolo rinfresco… è una serata tra amici, non ti preoccupare, niente telecamere o roba del genere!≫.
Diedi un ultimo sguardo alla carta d'invito, a giudicare da come era stata scritta, non sembrava un ritrovo di vecchi compagni di scuola.
Sorrisi, pensierosa. Ci potevo provare,≪Va bene, se me lo assicuri, non voglio ritrovarmi ad un after-party pieno di Vip, che parlano di lavoro e si salutano a vicenda. Io non conosco nessuno. Mi sentirei completamente a disagio!≫.
Forse ero stata un po' troppo diretta.
Luke mi posò una mano sul braccio e un leggero sorriso si allargò sul suo viso,≪Puoi contattare me per qualsiasi problema. Se vuoi ti passo a prendere io…≫ disse facendo un cenno a Thomas.
Mi porse un piccolo biglietto da visita e così facendo si allontanò, salutandomi di nuovo, e spiegando all'attore che lo aspettava fuori con la macchina.
≪Conosci me!≫la sua voce mi prese alla sprovvista, facendomi perdere la concentrazione.
Era così vicino che potevo sentire il suo profumo; mentre mi guardava dall'alto della sua possenza,ero completamente incapace di alzare lo sguardo, presa da continui crampi allo stomaco, pietrificata e terrorizzata, dal pensiero di incrociare i suoi occhi e di tradirmi così stupidamente!
Sorrisi, pensando a come, con così poche parole, era riuscito a farmi completamente perdere cognizione di quello che stavo facendo e farmi cadere in quel vortice di emozioni.
Quell'uomo mi avrebbe complicato la vita, in quel momento, ne fui più convinta che mai…


Angolo d'Autrice 

Ciao a tutte! Sono sempre più contenta quando vedo che le persone che leggono la mia Fanfic, mi seguono costantemente, sarei anche più contenta se leggeste l'altra mia storiella, che mi sta davvero appassionando "Eyes of the world".. Magari solo per sapere cosa ne pensate! 

Questo capito è un po' più corto, lo so, non disperate.. vuol dire che arriverà subito il sesto, perché voglio dare molta importanza a quello che accadrà dopo e all'evolversi della storia. Spero che non mi critichiate per aver fatto così "incompetente" la protagonista sull'aspetto Avengers, ma mi piace questa sua completa inconsapevolezza delle caratteristiche d'attore di Tom. :)  

 

Un saluto particolare a Red_sayuri (la mia fedelissima correttrice di bozze, che segue costantemente il mio lavoro), Thanks my dear!!  e JaneNoire, la mia dolcissima ammiratrice, che mi sprona a continuare senza sosta questo lavoro! Grazie, siete bellissime! 

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Capitolo 6
*** Capitolo Sei ***


"Non si può dettar legge sulle decisioni del cuore. Meglio essere criticati ed essere vivi, che essere rispettabili
e camminare come morti viventi." … cit.

 
Ero seduta, a gambe incrociate, sul divano dalla trama a fiori, un po' vintage.
Guardavo, come ipnotizzata il telefono stretto tra le mie mani, senza muove un dito per pigiare nessun tasto.
Sospiravo, non sapendo cosa fare, a disagio con me stessa e i miei pensieri. Il profumo dell'incenso che avevo acceso, appena arrivata nell'appartamento, aveva in poco tempo preso il possesso della casa, profumandola di vaniglia e fiori di ciliegio.
Vedevo il fumo bianco salire dalle bacchette rosse, poggiate sulla piccola asticella di legno intagliato, un piccolo souvenir del mio viaggio in India.
In accordo con me stessa, presi la sottile agenda di pelle rossa, e sfogliai le pagine fino ad arrivare a leggere il nome che stavo cercando e scorsi velocemente con gli occhi, il numero che volevo chiamare.
Mi infilai il telefono tra la spalla e l'orecchio e incomincia a premere lentamente i vari numeri, che emisero un rumore famigliare e stridulo, man mano che pigiavo i vecchi tasti consumati del quadrante.
Lasciai cadere il piccolo libretto accanto al lume, e mi affrettai a prendere tra le mani quell'invito che mi faceva sentire così stranamente inadeguata, ogni volta che mi capitava sotto gli occhi. Lo stavo rileggendo, forse per la milionesima volta, senza rendermi conto di quanto stessi lasciando squillare il telefono, non riuscivo nemmeno a pensare lucidamente se chiudere e provare a richiamare più tardi.
Tutto ruotava in torno a quelle parole, che mi apparivano così strane, così estranee, scritte su quella bella carta color panna e destinate ad una persona che pensavo di conoscere; in parte.
≪Pronto? Mi senti, Lauren?≫la sua voce così squillante, mi arrivò gracchiando, alterata attraverso la cornetta.
Ripreso subito possesso di me, ≪Ciao sorellina! Pensavo non mi avresti mai risposto, troppo presta a spalare fieno e…≫ mi interruppe prima che potessi completare la frase.
≪Evita di dirlo, per cortesia!≫alzò la voce, per sembrare più autoritaria, ma mi sembrava di vederla sorridere, proprio lì davanti a me.
≪Ti sento cambiata, non ti piace più la tua vita felice e colma di tranquillità, tra i campi di granturco e… bietole!?≫la presi in giro, scherzosamente, come quando eravamo bambine.
Sbuffò. Il suo respiro gracchiò dentro la cornetta, per arrivare fino a me come un sottile vortice di piccoli scricchiolii. Ed io sorrisi, aspettando il momento in cui avrebbe incominciato a sfogarsi, lamentarsi e blaterare parole senza senso, sulla sua vecchia-nuova vita; per poi trovare qualcosa di gradevole per tirarsi su il morale da sola.
≪Insomma. Questo posto è davvero troppo COLMO di tranquillità! Non c'è mai nessuno, ieri ho visto passare una macchina moderna per la prima volta dopo tre settimane. Tre settimane! Non voglio lamentarmi con te, tu sei la maggiore e quando mi sposai mi avvertisti, dicendomi che questo cambiamento di vita mi avrebbe sconvolta e all'inizio è stato così, poi mi sono abituata.
Dopo sono caduta di nuovo in depressione, poi il paesaggio tranquillo della campagna inglese mi ha aiutata, adesso mi sento di nuovo oppressa da tutta questa maledetta TRANQUILLITÀ. Amo Christopher, non vorrei nessun altro che lui, lo sai che l'ho sposato perché non riuscivo a stare lontano da lui… Già, è per questo che non me ne andrò mai da questo posto stupendo, perché lo amo≫disse cinguettando, forse perché presa da vecchi ricordi di matrimonio.
≪Sono contenta per te, Sarah. Quindi anche se ti propongo di venirmi a trovare…≫.
≪Vengo subito, quando?≫disse, forse alzandosi di scatto, sentii diversi rumori di fondo e qualche lamento.
Scoppiai a ridere, cercando di non farmi sentire dall'altra parte della cornetta, avevo sempre trovato mia sorella un po' goffa e impacciata nei lavori domestici.
≪Volevo chiederti un consiglio, da sorella a sorella. E un sincero aiuto≫dissi cercando di farle comprendere il mio stato d'animo.
Spero veramente, che avesse capito i miei sentimenti, la mia richiesta di attenzioni e che avesse accettato subito di partire, per ritornare dalla campagna sperduta; riunendosi alla civiltà moderna.
Per qualche minuto la conversazione cadde nel silenzio. Sentii le sue labbra che si distendevano in un sorriso, lo stesso dolce suono di nostra madre.
≪Dimmi tutto sorellina! Verrò da te con il primo treno… intanto se vuoi, puoi dirmi cosa succede, tu non hai mai avuto bisogno di aiuto fino ad ora, soprattutto da me≫.
Questo era vero, ed un po' me ne dispiacevo. Avevo abbandonato la famiglia da quando era morto papà e la mia vita si era ristretta al mio appartamento, il teatro e la drammaturgia in generale. Tutto era iniziato da quel maledetto funerale e da tutte quelle persone che mi guardavano come se fossi io la responsabile della sua morte.
Li odiavo! Odiavo chiunque mi avesse stretto la mano quel giorno, sorridendomi con amarezza e pentimento, e dandomi le condoglianze senza nemmeno conoscere mio padre e il grade uomo che era stato.
Odiavo anche i miei stessi parenti: i primi ad organizzare quella buffonata ed a chiudere le porte agli ospiti per la piccola "festa", che c'era stata dopo la cerimonia funebre, e gli ultimi a portare i fiori sulla sua tomba per ricordarsi che, pur non essendoci più fisicamente, lui era ancora presente dovunque nella nostra vita.
≪Allora?≫mi incitò, tranciando la corda dei miei pensieri.
Forse era per quello, che non avevo mai chiesto aiuto a nessuno.
≪Sono stata scelta per un nuovo progetto: un'opera, una commedia, di Henrik Ibsen. Il teatro si sta modernizzando, e un attore vuole proporre queste nuove opere, così un pubblico più fasto potrà apprezzare la nostra compagnia≫dissi tutto d'un fiato.
Sarah ammutolì, comprendendo quello che anche io avevo temuto fin dall'inizio di tutta questa storia. Restai in attesa di una sua risposta, ma non sentendo nulla, cercai di tranquillizzarla, facendole capire che le sue paure erano infondate.
≪Non cambierà nulla nel teatro di papà. Te lo prometto, ci tengo quanto te, forse di più, a farlo rimanere lo scricchiolante teatro di quando eravamo bambine…≫.
Le sue risate mi divertirono, riportando i miei ricordi a quando eravamo fanciulle e giocavamo tra le travi del palcoscenico, nascondendoci per non farci trovare da nostro padre, che ci cercava senza successo, per riportarci a casa.
≪…sono stata scelta per la parte di Nora, ti ricordi "Casa di bambola"? Era una delle commedie preferite della mamma≫.
≪Recitava insieme al papà in cucina, mentre ci preparava la colazione, la mattina, prima di andare a scuola≫la sua voce aveva assunto uno strano tono: tra la malinconia e la gioia, era quasi un sussurro che si mischiava ai pensieri, che le dovevano scorrere come un rullino di fronte agli occhi.
≪Dovresti essere felice, adori quel personaggio, ti ricorda la mamma. E poi penso che ti calzi a pennello: una donna solare, allegra e devota!≫sull'ultima parola, mise un po' troppo sarcasmo per i miei gusti.
≪Non è quello il problema. Il mio nuovo "capo", se posso chiamarlo veramente così… l'attore di cui ti ho parlato prima, il promotore del progetto, bhè, lui…≫ mi trovai stranamente assente di parole, e completamente a disagio.
Boccheggiai, cercando di esprimermi come meglio potevo, ma mia sorella fu più brava di me.
≪Lauren, per caso quest'uomo ti piace?≫.
Forse per la prima volta, da quando l'avevo conosciuto, incominciavo a pensarci seriamente. In quell'istante mi posi una specifica domanda: veramente poteva piacermi Thomas Hiddleston?
≪Si chiama…≫ mi fermai, leggendo il nome che avevano scritto, con bella calligrafia scura, sull'invito posato tra le mie gambe.
"Partecipazione per il Sign. Tom Hiddleston"…
Deglutii e presi un lungo respiro, prima di continuare la frase e pronunciare il suo nome.
≪…si chiama Tom Hiddleston, forse l'avrai sentito nominare, o l'avrai visto in televisione, sta avendo molto successo per merito di un film che è uscito ultimamente nelle sale≫.
≪Tom… si chiama come papà. Non vedo molto spesso la televisione, l'antenna è stata distrutta dalle nevicate di questo inverno. Però mi piacerebbe conoscerlo, se è l'uomo che desideri≫.
Chiusi gli occhi, pensando a cosa aveva detto. Forse era davvero l'uomo che desideravo.
≪Vieni a Londra sorellina. Torna da me per un po', ho bisogno di te, per uscire fuori viva da questo dilemma!≫recitai un po' la parte della vittima, usando un tono lamentoso.
La sua risata si espanse nelle mie orecchie.
≪Sarò da te il prima possibile, ti chiamo per farti sapere gli orari del treno≫disse poi salutandomi e chiudendo mentre il marito rientrava in casa.
 

∗∗∗

 
A ventisei anni, mia sorella era già sposata, aveva completamente sconvolto il suo lavoro, i suoi sogni, gli ideali e la sua vita; si era trasferita nel nulla assoluto della campagna inglese, perché il marito era figlio di un ricco agricoltore e amava coltivare la terra e stare a contatto con gli animali, forse anche più di lei.
Sarah Kenneth, la viziata biondina che era cresciuta tra le comodità e le coccole dei genitori -fin quando era stato possibile- adesso andava camminando nel fango, con stivaloni alti fino alle ginocchia, raccogliendo carote e accudendo i cavalli del marito.
Era stata capace di stravolgere se stessa per un uomo, per amore, io sarei stata altrettanto coraggiosa?
Sarei stata capace di mollare tutto, cambiare la mia vita e le mie aspirazioni, lasciare il teatro che tanto amavo, per inseguire l’amore di un uomo, che forse non mi avrebbe mai voluta intensamente come il suo lavoro.
La voce del capostazione, che m’intimava di spostarmi, mi fece ritornare alla realtà, ero lì, in quel luogo affollato e caotico: una delle numerose stazioni di Londra, la “London Bridge Station”, per prendere mia sorella, in arrivo dalla sua proprietà nel Kent.
 
La vidi sbracciarsi, così da farmi capire la sua esatta posizione, in mezzo alla folla, verso la fine del binario su cui era appena scesa.
Mi trovai a sorridere senza ragione, e una gioia immensa mi avvolse improvvisamente, come una dolce coperta, calda e accogliente, non appena vidi il suo viso luminoso spuntare tra la gente che si accalcava per raggiungere l’uscita più vicina.
Era sempre la mia sorellina: con i suoi riccioli biondi e i bellissimi occhi verdi di nostro padre, quel sorriso sempre stampato sulle labbra e le guance dal bel colore rosso come quello di due mele, il tempo non scorreva mai per lei; anche se da giovane ragazza si stava trasformando in piccola donna, non sarebbe mai cambiata. Non eravamo poi così diverse.
Almeno nell’aspetto avevamo moltissimi caratteri comuni, per questo chiedevo sempre aiuto a lei, quando sentivo franare il terreno sotto i piedi, sapevo che potevo benissimo guardarmi allo specchio senza essere giudicata.
Posò due pesanti borse accanto alle caviglie e allungò le braccia ridendo e stringendomi in un lunghissimo abbraccio.
«Abbraccio da orso!» gridò, facendomi dondolare a destra e sinistra.
«Ben tornata a Londra, sorellina pazza…» ironizzai mentre mi lasciavo sbatacchiare come una bambola e rispondevo al suo abbraccio con altrettanta foga.
«Non vedevo l’ora di arrivare. Il tempo sembra non passare mai quando si viaggia in treno».
Sorrisi, doveva sempre trovare un lato negativo di ogni cosa, non era proprio cambiata in nulla!
Senza farmelo ripetere due volte, sollevai la valigia di mia sorella e mi incamminai verso l’uscita. Lei stessa mi seguiva, chiamandomi ripetutamente per chiedermi di aspettare e di rallentare, per il peso delle altre borse che si era caricata in spalla, e la facevano rallentare parecchio.
Appena fuori la stazione, fermai un taxi e aiutai l’autista a sistemare i bagagli nel portabagagli, per poi dargli le indicazioni e l’indirizzo in cui sarebbe dovuto andare.
«Adesso mi devi spiegare bene: perché mi hai fatta venire qui, e chi è quest’uomo misterioso!» disse contando le varie motivazioni sulle punte delle dita, non appena fummo entrate nell’auto.
Mi voltai, per osservarla divertita dal suo atteggiamento. 
«Ti ho fatta venire perché mi serva il tuo aiuto e un consiglio sincero e senza doppi fini. E per farti concedere una vacanza dalla campagna… forse ho fatto bene» scherzai, ricordando la nostra telefonata.
Mi guardò con il sorrisino sulle labbra, appena accennato, ma visibile proprio lì, al lato della bocca, sfociava però nell’aria di serietà che stava cercando di darsi, per affrontare quel discorso con me.
Avevo fatto bene ad allontanarla per un po’ da suo marito, le avrebbe fatto bene stare con me in città e prendere un po’ dell’aria caotica che aveva respirato per anni da ragazzina.
«…e per quanto riguarda Tom, te ne ho già parlato al telefono, non c’è nient’alto da dire sull’argomento».
Poi inspirai, sentendo il suo sguardo scettico, puntato addosso. Ed incominciai a raccontarle l’intera storia, d’inizio, da quando l’avevo conosciuto a teatro fino al giorno in cui mi aveva chiesto di andare con lui a quel “ritrovo”.
Terminato il racconto, non mi voltai neppure ad osservare il suo volto, persa com’ero nelle mie stesse parole.
Speravo solo che avesse capito.
«Allora, credo che la cosa migliore da fare, a questo punto, sia andare in qualche negozio e comprare un bel vestito… che ne pensi?» pronunciò le ultime parole con calma, quasi come se potessi esplodere da un momento all’altro, dopo averle udite.


continua...

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Capitolo 7
*** Capitolo Sette ***


I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno, sono altrove, ben più lontano della notte.”
… cit.

 
Era solo un incontro informale tra un gruppo di vecchi amici: tutti rappresentanti del mondo dello spettacolo o attori, comunque abbastanza conosciuti, registi, produttori e vari manager teatrali.
Dovevo essere completamente rilassata, serena, tranquilla, senza nessun rimorso per aver accettato la generosa offerta di Tom Hiddleston; a imboscarmi in questa marea di celebrità.
Quindi la domanda parve subito logica: perché ero così dannatamente nervosa?
Mia sorella mi diede uno schiaffo sulle mani, per farmi mollare la presa sulla piccola pochette -costretta da lei stessa a comprare il giorno prima in un bel negozietto stile vintage- lentamente distrutta dalle mie dita, che si muovevano nervosamente.
«Lauren Kenneth, ti ordino di stare con le mani apposto…» la sorpresi a guardarmi con stupore, per qualche secondo, per poi sorridermi soddisfatta e strizzare l’occhio convinta del lavoro che aveva compiuto su di me, come uno scultore con la sua statua.
«Sorella sei bellissima, un incanto. Voglio proprio vedere la sua…» le misi delicatamente una mano sulle labbra, per fermare il flusso di parole incontrollato, che sapevo ne stava per uscire.
«Grazie Sarah!» completai la frase accarezzandole la guancia.
Presi un ultimo grande sospiro, prima di guardare il piccolo orologio, che mi impreziosiva il polso stretto e poi mi voltai verso il lungo specchio ovale dal corridoio.
Non mi vestivo così da quando ero ragazzina, ma effettivamente, dovevo ammettere che Sarah era riuscita a compiere un bel lavoretto sul mio corpo.
Indossavo un bellissimo abitino nero, senza spalline, che evidenziava le mie forme e il mio seno. Il petto era avvolto dal piccolo corpetto di fasci di tessuto lucido e seta e il seno era nascosto da altrettanti strati di tessuto che formavano delle piccole coppe.
Lo sentivo così costretto che mi pareva stesse per scoppiare, ma mia sorella aveva insistito così tanto per stringere i lacci e togliermi il respiro, che infine avevo smesso di replicare per ogni minimo dettaglio: con orecchini o senza, braccialetti o anelli, capelli scioli o raccolti.
Aveva deciso tutto lei.
Mi guardavo, ancora stupida di quanto potessi cambiare con indosso un vestito, un paio di tacchi e i capelli curati alla perfezione, pur se lasciati cadere morbidamente sulle spalle; il campanello suonò, facendo sobbalzare tutte e due.
Sarah mi guardò con la coda dell’occhio, la sua faccia sembrava più un gigantesco punto interrogativo, che quella della graziosa biondina che conoscevo.
«Non guardarmi con quell’espressione da stupida, dovrebbe essere Luke, il manager. Aveva detto che sarebbe passato lui…» enfatizzai sull’ultima parola per farle venire un po’ d’invidia.
Mentre il suono deciso, continuava a ripetersi nella stanza, io ripescavo gli ultimi accessori, sparsi per la casa e, quando finalmente acciuffai il copri-spalle abbandonato sulla poltroncina del salotto, e chiusi la borsetta con innaturale eleganza, sentii la vocina di mia sorella trasformarsi in uno squittio.
Non capivo cosa stesse dicendo a Luke, ma dalla velocità con cui le parole le stavano uscendo dalle labbra, trasformandosi in suoni più o meno comprensibili, doveva essersi presentato davvero bene.
Sorrisi, parlando ad alta voce per farmi sentire da entrambi.
«Sarah, controllati sorellina, ricordati che sei una donna felicemente sposata!» ridacchiai, dopo aver unito le labbra, per far sì che il rossetto si espandesse in maniera uniforme, su tutta la parte.
In fondo questo cambiamento non mi dispiaceva, era da tanto tempo che non mi sentivo più così donna.
Soppressandomi allo specchio, sentii una nuova sensazione nascere nella mia mente: un ritorno al passato, ricordi ormai sbiaditi, scoloriti e macchiati che venivano tirati fuori da un cassetto troppo velocemente, come denudati, strappati via al buio della polvere che li aveva protetti per anni.
Ero tornata ragazzina, quasi senza accorgermi del mio cambiamento, lento e irriconoscibile; persino da me stessa.
E tutto questo, solamente per lui. Quasi senza rendermene conto, sgranai leggermente gli occhi, perché quella convinzione tanto limpida mi balzò in viso così improvvisamente.
Ero tale e quale a mio padre.
Esattamente come mia sorella, anch’io, un giorno, avrei potuto lasciare tutto ciò che amavo, cambiando completamente per un uomo!
 
«Non ho intenzione di rapire tua sorella questa sera, ma te…».
Alzai lo sguardo, accarezzando lo strato d’argento che abbracciava lo specchio. Guardai oltre il mio riflesso per posare gli occhi su quella sagoma alta e snella, che illuminava l’ambiante con la sua eleganza; distribuita correttamente in più di un metro e ottanta di altezza.
«Tom!?».
Rimasi immobile, di fronte a quel sottile strato di vetro, che mi dava la possibilità di vederlo, anche se gli davo le spalle.
«Devo aver capito male, pensavo che sarebbe venuto Luke».
Il suo volto si rilassò, smontandosi, per la prima volta da quando l’avevo conosciuto da quel sorriso quasi costretto che mostrava a tutti.
Sembrava quasi… dispiaciuto? Possibile che ero così imbecille, da riuscire a far intristire un uomo, ancor prima di uscire dall’uscio della porta!
Chiusi lentamente gli occhi e mi maledissi due volte, per aver fatto volare via quella luce, così bella e spensierata, dai suoi occhi chiari.
«E sorridi un po’ Hiddleston, stiamo andando ad una festa» dissi, camminando lentamente verso di lui.
Quando gli fui così vicina, da sentire il freddo respiro che scaturiva dalle labbra, alzai lo sguardo per incrociare i suoi occhi e mi lasciai andare ad un solare sorriso.
Cercai il suo braccio, accarezzandolo con le dita e lo strinsi istintivamente quando i miei polpastrelli ebbero trovato il tessuto della sua giacca.
Il mio braccio si era incrociato al suo, e la mano stava scivolando verso la sua, per intrecciarsi con quelle belle dita affusolate e immobili.
Il suo sorriso mi sconvolse, così bello e luminoso; prima comparse timido nell’angolo delle labbra sottili, per poi allargarsi in una bellissima risata che mi contagiò all’istante.
Mi accarezzò la mano, senza alcun ripensamento, ne alcun timore e si portò il dorso alle labbra, posandole delicatamente sulla mia pelle diventata di colpo rovente.
«Andiamo. Non vorrei mai sentire i tuoi colleghi che parlano male di me…».
«E perché mai dovrebbero?» chiese lui accigliato.
«Perché sicuramente non avrai mai fatto ritardo in vita tua, ed invece, se continuo a tenerti bloccato a casa mia, non mi potrai rapire per portarmi alla festa».
Ridendo mi cinse la vita e mi trascinò verso la porta.
 
«Prima mi hai chiamato Tom…» la sua voce irruppe nel silenzio nell’abitacolo scuro e mi distrasse dalla mia attenta osservazione della strada.
Lentamente mi voltai per guardarlo. Eravamo seduti l’uno di fronte all’altra e pur se buio e profondo, riuscivo a vedere benissimo i suoi occhi di ghiaccio che mi fissavano in attesa paziente di una risposta.
«Ti sarai sbagliato» dissi senza perdermi in inutili preamboli.
Sorrise.
«Sono stata sgarbata, scusa!».
«Mi ha fatto piacere. Se per te non è un problema, magari potresti chiamarmi più spesso “Tom”. Lasciando stare il mio cognome».
Sgranai gli occhi quando sentii la sua presenza troppo vicina al mio corpo. Non avevo capito più nulla da quando aveva sorriso nel buio emettendo un piccolo gemito.
Si era alzato e riseduto accanto a me, e voltandomi, riuscii a guardare il suo volto illuminato dalle luci della città che continuava la sua corsa fuori da quel piccolo mondo che avevamo creato all’interno dell’auto, solo per noi stessi.
«Posso tentare!».
«Mi sembrerebbe davvero strano continuare a chiamarti: “Signorina Kenneth”. Trovo così spontaneo e intimo chiamarti per nome».
Mi voltai per osservarlo nel buio, illuminato a tratti, solo dalle luci dei lampioni che incontravamo sul nostro percorso.
«Siamo colleghi e presto compagni di scena…» contai le lettere nella mia mente, ognuna pesava come un macigno nella mia mente e nei miei ricordi.
Lo fissai, per vedere subito il suo sguardo indagatore che strisciava tra le mie insicurezze e accarezzava i miei pensieri, cercando il nascere delle mie incertezze, per capire finalmente da dove scaturiva tutta questa esitazione.
Respirai, come se fino ad allora l’aria mi fosse stata negata, e dissi: «…siamo colleghi Tom, mi puoi chiamare come più ti piace».
Non sorrise, non dimostrò la sua felicità in nessuna maniera, rimase a fissarmi nella penombra.
Bastava così poco. Veramente il sedile posteriore di una bella macchina riusciva a rendermi estranea agli avvenimenti del mondo? Mi sentivo come rinchiusa in una bolla di sapone, troppo piccola e fragile, come se per troppo tempo e troppe persone ci avessero giocato e adesso, al minimo tocco anche il più tenero e leggero, si sarebbe potuta rompere.
«Adesso sei tu che mi fissi».
«Non voglio farti sentire a disagio, se vuoi, smetto...», la portiera si aprì inondando l’abitacolo di luce, Luke irruppe nella macchina e trascinò dietro di se Tom senza dagli spiegazioni per poi chiudere la porta prima che io potessi uscire.
Ma cosa…pensai irritata dal modo di fare dei due uomini. Se qualche istante prima un solo pensiero dolce mi aveva sfiorato la mente, adesso ero infuriata e volevo solo uscire per urlargli in faccia.
Afferrai la maniglia e tirai con forza, sentii il rumore del sensore che avvertiva l’apertura e spinsi leggermente per vedere cosa stava succedendo.
Il corpo di Tom bloccò il mio gesto, impedendomi di aprire completamente la portella e oscurandomi la visuale.
«Non vuoi farmi uscire?» gli chiesi tirandogli un angolo della giacca e costringendolo a girarsi verso di me, per prestarmi attenzione.
Era visibilmente scosso, ma non aveva nemmeno per un istante perso la calma, al contrario di Luke, che sentivo lamentarsi rumorosamente al telefono.
In effetti, c’era un gran chiasso là fuori!
Si sporse su di me, entrando solo in parte nella macchina e appoggiando i polsi sul sedile di pelle nera e lucida. Non sapeva cosa dire, era imbarazzato e nella sua mente contava ogni lettera soppressandola con estrema accuratezza.
Infine il celeste dei suoi occhi si mischiò allo scuro dei miei, mi sorrise, muovendo semplicemente le labbra per variare la loro posizione dal broncio preoccupato di pochi istanti prima.
«Ti giuro che non ne sapevo nulla…».
Dovevo avere un grosso punto interrogativo stampato sulla fronte, perché la mia espressione variò tanto velocemente da farlo scoppiare a ridere.
Ma cosa poteva essere successo, di così grave, che mi doveva tener rinchiusa in macchina?
«…ti giuro che io non ne sapevo nulla! Ti fidi di me..».
Doveva essere una domanda?
Tom Hiddleston mi porse la mano senza nemmeno aspettarsi una risposta. Sorrisi, mentre suggellavo quel contatto, senza rendermi conto di quanto il mio corpo e la mia mente lo avesse desiderando.
Intrecciai le mie dita alle sue, cercando il giusto modo per non perdere mai quella stretta così salda che mi stava trascinando fuori dall’auto.
Guardavo le sue spalle che diventavano sempre più vicine, man mano che mi teneva nascosta e al sicuro dietro di se.
La stretta si fece mi sicura, mi sussurrò qualcosa che non riuscì a capire, ma francamente poco importava in quel momento perfetto in cui eravamo io e lui e tutto il resto chiuso chissà dove alle nostre spalle.
Poi, il lampo accecante e straordinariamente reale di un flash, mi strappò con brutalità da quel sogno ad occhi aperti che mi stavo costruendo, come una piccola barriera per proteggermi dall’evidente realtà.

continua...

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Capitolo 8
*** Capitolo Otto ***


“Era uno di quei rari sorrisi dotati di eterna rassicurazione, che s'incontrano quattro o cinque volte nella vita. Fronteggiava, o sembrava fronteggiare, l'intero mondo esteriore per un istante, e poi si concentrava su di te con un irresistibile pregiudizio a tuo favore. Ti capiva fin dove volevi esser capito, credeva in te fin dove ti sarebbe piaciuto credere in te, e ti assicurava di aver ricevuto esattamente l'impressione migliore che speravi di dare.”
 
 
Un mese.
Era da un mese che non vedevo Tom Hiddleston.
Era passato esattamente un mese da quando mi aveva invitata ad andare con lui alla prima di “Much Ado About Nothing”, il film di Joss Whedon.
Quella mattina, appena avevo aperto gli occhi, appena la luce aveva raggiunto il mio viso, passando attraverso le tende e svegliandomi d’improvviso… avevo realizzato che non vedevo il suo volto da un mese.
Mi ero messa a sedere sul letto, scoprendo leggermente le ginocchia per riscaldarle con i raggi rassicuranti del tiepido sole che si faceva forza e, senza chiedere permesso, entrava nella mia camera e inondava tutto con la sua luce.
Distesi le gambe e mi stiracchiai, come una bambina, sorridendo a quella tranquilla mattinata primaverile, che si apriva su Londra come un sipario di diverso colore e spessore; lavato e pulito, che profuma di fresco e fiori, migliorato dai ricordi e dalla tristezza invernale.
Scostai la tenda in tempo per vedere un uomo, dal palazzo di fronte al mio, che salutava la moglie prima di andare a lavoro, con un cenno del capo e il lento movimento della mano.
Piegava la giacca, sistemava la valigia sul sedile del passeggero e si metteva alla guida della sua monovolume.
Senza nemmeno capire il modo, in cui riuscivo a connettere i pensieri dal mio tempo, a quei momenti già vissuti, ero ritornata con la mente a quella sera.
Quell’assurda serata, di cui le immagini mi ritornavano agli occhi come orrendi incubi ricorrenti.
Non avrei mai dovuto accettare, quel maledetto invito…
Il ricordo del suo sguardo vuoto e confuso, la rassegnazione con cui sorrideva imperterrito ai colleghi e mi ignorava completamente per tutta la serata, era già abbastanza.
Almeno di una cosa ero certa: dopo quella sera ero diventata una grandissima donna o forse una grandissima attrice, o una bugiarda… imitatrice, sciocca, stupida, ingenua.
Ogni volta che ci pensavo l’aggettivo che mi attribuivo cambiava, ora in meglio, ora in peggio.
Avevo creduto davvero di poter uscire con una personalità come “Tom Hiddleston” senza rimanere ferita?
Ingenua.
 
***
 
Non vedevo una pioggia così fitta da parecchio tempo.
Almeno non in primavera! Solo da bambina ricordavo un giorno di maltempo in cui ero rimasta tutto il tempo alla finestra, incantata, ad osservare le gocce di pioggia cadere sul verde prato della villa di fronte. Avevo aperto la porta, camminando in punta di piedi, per non farmi sentire da mamma e papà e mi ero seduta sulle grandi scale del portico, inspirando a pieni polmoni quel profumo, che solo dopo un acquazzone si può percepire: l’odore della natura, della libertà.
 
Quel giorno il cielo era divenuto un turbinio di nubi scure e in poco tempo l’acqua era scesa giù dal cielo senza lasciar tregua a chi stava camminando lungo Oxford Street.
Io mi ero nascosta in un bar poco frequentato per bere del tè e rimanere più lontano possibile dalla gente che popolava la città.
Continuavo a fissare la macchina scura, perfettamente tonda, che il contorno della tazza aveva lasciato sul giornale, abbandonato sulla superficie lucida del tavolino, dal cliente che l’aveva consultato prima di me.
Non riuscivo a finire di leggere il titolo stampato a grandi caratteri sulla pagina, eppure era facile, era lì davanti ai miei occhi, tenevo stretto quel giornale da ore.
 
“Fotografata misteriosa ragazza in compagnia dell’attore del momento: il cattivo di “The Avengers, Tom Hiddleston”.
 
Fissavo i caratteri senza capirne davvero il significato, perdendomi nelle linee cariche d’inchiostro che riempivano le pagine bianche del quotidiano.
I giornalisti di Gossip… sempre a caccia di notizie, si dovrebbero informare prima di scrivere cose del genere.
Era passato più di un mese, ma ancora si potevano leggere titoli del genere, sia sui giornali, che su quelle stupide riviste di gossip.
La gente non era mai stanca di sapere i fatti degli altri?
Sei una stupida! pensai gettando il giornale sull’altro tavolo, senza nemmeno guardare se qualcuno vi fosse seduto.
 
«Posso prenderlo? Lo stava leggendo?» era una voce familiare, ma non ci feci caso, ero troppo impegnata ad riappropriarmi della rivista più velocemente che potevo.
«NO! Cioè… si, prego!» dissi non appena ebbi strappato, davanti agli occhi di tutti i presenti del bar, la pagina che parlava di me.
«Lauren, ma che fai!?» alzai il volto, spaventata.
Non volevo essere additata e divenire improvvisamente “importante”, solo perché mi ero fatta vedere in pubblico con un attore abbastanza famoso.
«Jason…» gli feci cenno di stare zitto, portandomi subito un dito alle labbra e guardandolo con sguardo severo.
«…siediti e abbassa la voce».
«Agli ordini!».
Spostò la sedia senza far nessun rumore, girandola al contrario, e si sedette a cavalcioni appoggiando le possenti braccia sullo schienale di legno. Mi fissò per qualche istante, prima di posare le labbra sulle mani incrociate.
Sospirai, prima di mostrargli il pezzo di giornale che avevo appena strappato. Lui lo prese in mano e senza nemmeno guardarlo lo appoggiò sul tavolo coprendolo con quello che rimaneva della rivista.
«So di cosa parla, l’ho letto qualche giorno fa. Mi è capitato sotto gli occhi in una rivista sportiva» alzò un sopracciglio quando vide la mia espressione esterrefatta.
«E cosa diavolo ci faceva un articolo del genere in una rivista sportiva?».
Lui fece spallucce e mi sorrise.
«Dai. Non ti abbattere, non mi sembra la fine del mondo... io posso capire come ti senti in questo momento, ma te lo dovevi aspettare».
«Hai ragione, sono stata una stupida. Eppure non mi sono mai ritenuta una sprovveduta!» dissi appoggiando una mano sotto il mento.
Bevvi un altro sorso di te caldo e i miei nervi si distesero nel sentire il profumo di lamponi che scaturiva dalla bevanda.
«Vedrai che questa ragazza è solo un’amica, o forse una ragazzina carina che si è portato dietro ad un incontro con gli “amici” per fare bella figura e mostrarla un pò».
Ironizzò per qualche minuto, aggiungendo qualche finta virgoletta qua e là, sperando di farmi ridere e muovendo le dita in continuazione.
Peccato che la “ragazzina carina” fossi io!
Mentre parlava il mio mondo si era bloccato, nel locale tutto si muoveva a rallentatore ed io ero l’unica stupida che ancora sapeva come si facesse a compiere gesti alla velocità normale.
Posai la tazza sul tavolo, osando guardare solo il poco liquido rimasto.
Dicono che gli istanti si fermano quando ci si innamora, quando si incontra l’uomo o la donna della propria vita; con il colpo di fulmine... allora perché tutti i momenti belli della mia vita sono passati in un lampo e queste orrende rivelazioni sono talmente lente nello scivolare via?
Un mese.
Un mese senza vederlo, un mese senza sue notizie, senza una chiamata. Forse Jason aveva ragione, ero solo una bella bambolina da mostrare!
«Scusami, ora devo andare, ci vediamo…» la frese mi uscì in maniera più fredda e distaccata di quanto mi fossi aspettata.
Mi soffermai a contemplare lo sguardo, sempre troppo intuitivo di Jason, e poi gli porsi i soldi che dovevo per il tè.
«Puoi pagare tu, io sono davvero stanca. Vado a casa!».
«Cosa gli dico?».
Mi accigliai, guardandolo con sospetto, prima di recuperare il mio l’ombrello in mezzo agli altri.
Scocciato, con l’aria di un padre che guarda la figlia, prima di inoltrarsi in un discorso serio, disse: «Non sei mai mancata ad una prova...»
Ormai ero con un piede fuori dal locale.
Mi voltai, uno sguardo di sfida mi balenò negli occhi. Non mi importava nulla del suo progetto oramai, andavo alle prove solo per correttezza professionale, per una volta mi sarei potuta prendere un giorno di ferie.
Sorrisi.
«Digli che sono malata. Ho la febbre, infondo comincio a non sentirmi tanto bene» conclusi uscendo e chiudendomi rumorosamente la porta alle spalle.
 
Le ultime gocce ti pioggia, giocavano sulle grondaie del teatro fingendosi compositori di sinfonie improvvisate. Battevano sui vetri, alternandosi a momenti di vuoto, e scivolavano giù per i muri accarezzando i vecchi mattoni e stucchi che non accennavano a dare segni di invecchiamento.
Tutto questo era normale per gli attori, che lavoravano in quel posto da tempo; erano abituati agli spifferi e all’orchestra creata dal vento, quando d’inverno si insinuava prepotentemente, sempre negli stessi buchi o piccoli anfratti, e ululava, parlava e cantava, facendo parte della scena insieme ai personaggi.
Ma tutto questo non era ancora abitudine per Tom Hiddleston, la cui pressione e nervosismo, veniva aumentato ogni istante di più dal più piccolo suono o spiffero che gli giungeva all’orecchio.
Braccia conserte, mento rivolto verso il basso, occhi chiusi e mascella contratta, poteva benissimo assomigliare al suo contrario personaggio Loki, se non fosse stato per i corti capelli rossicci.
Il rumore della porta taglia fumo, in cima alla platea, attirò la sua attenzione, facendogli aprire gli occhi, limpidi e chiari come il ghiaccio.
Era abbastanza chiaro e fastidioso, e nel completo silenzio della sala vuota, risuonò tre volte più forte.
Jason si guardò intorno sospettoso, per poi sorridere verso i suoi colleghi, salutarli e  scendere le scale con agilità, per dirigersi verso il palco.
«Jason…» un voce autoritaria lo interruppe prima che fosse riuscito ad arrivare.
«Tom» fece lui voltandosi e mostrandosi in tutta la sua simpatia.
«Dov’è Lauren?» chiese guardandolo con l’intenzione di ricevere una risposta chiara.
Jason fece spallucce, con la faccia esplicita di quel qualcuno che sa perfettamente di cosa e chi si sta parlando.
Tom sospirò lentamente, fece un passo avanti e lo guardò diritto negli occhi.
«So che vi siete visti. Dov’è?».
«Cosa fai mi spii? Devo stare attento quando vado al bagno!» rise il ragazzo, mentre posava lo zaino per terra.
«Non verrà alle prove, tranquillo. E’ malata...» e gli accennò un saluto con la mano.
«E’ malata veramente, o questa è solo una scusa che ti ha chiesto di usare per coprirla? Jason… non vuole venire?».
Strinse il pugno e trasse un profondo respiro.
Non si faceva mai cogliere dalla rabbia, non era un soggetto irascibile, era sempre composto e impeccabile, anche in situazioni in cui un altro avrebbe dato di matto.
Si posò una mano sulle tempie, massaggiandosi per capire cosa fare.
«Possiamo incominciare?» delle voci gli giunsero alle orecchie.
Incominciare? Senza l’attrice principale?
Si voltò verso tutti quegli occhi che si sentiva puntato addosso e annuì, sorridendo come faceva di solito.
Stette a guardare mentre ognuno prendeva l’iniziativa, con in mano il suo copione, e incominciava a recitare la parte senza esitazione, padrone del proprio ruolo e del proprio personaggio.
Era tutto così meccanico, programmato; scherzando si poteva immaginare che qualcuno dall’alto avesse scritto un copione per la vita di ognuno di loro.
Tom li guardava senza che i suoi pensieri volgessero veramente al lavoro che doveva svolgere.
I suoi occhi vedevano solo una ragazza seduta sul divano di bel tessuto scuro, posto appositamente al centro della scena, che sorrideva e gesticolava con i fogli del copione in mano.
Quella creatura che faceva parte della scena come se ci fosse nata. Un animale nel suo ambiente naturale, che si muove sapendo esattamente dove stava andando, che pronuncia ogni sillaba nel momento giusto e con la giusta intonazione.
Senza di lei, tutto pareva scoordinato, anche lui era fuori posto… senza Lauren la sua presenza non aveva senso.
E allora decise...
«Io… io vado via, voi continuate...» disse allungando le mani verso il palco quasi per catturare la scena.

continua... 

 

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