Il profumo della Morte

di Lisaralin
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Schiller del Cancro non ha ricevuto un buon trattamento in Saint Seiya Omega: compare per due misere puntate ed e' il primo dei nuovi Gold Saint a morire. Tuttavia, a me questo personaggio piace. Oltre ad avere un character design estremamente figo (XD), ha anche una storia che secondo me offriva degli spunti interessanti (la guerra, il passato traumatico..), se non che purtroppo sono stati sfruttati malissimo dai creatori della serie. Insomma, un vero spreco di quello che poteva diventare un bel personaggio!
Fantasticando sul suo nome (Schiller, il celebre poeta tedesco...), sul pochissimo che sappiamo del suo passato e sulle caratteristiche dei Cavalieri del Cancro... e' venuto fuori questo. Tre brevi capitoletti, tre episodi in cui ho cercato di immaginare la sua infanzia e come e' venuto a conoscenza dei Saint e del Santuario.
Buona lettura!

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Il profumo della Morte




"[La natura] ci diede in dono l'inventiva
e ci depose miseri e nudi sulla riva di questo grande oceano del mondo -
Nuoti chi sa nuotare e chi e' troppo impacciato vada a fondo!
A me non diede nulla; e quel che voglio fare di me stesso riguarda ora solamente me."

(Friedrich Schiller, I Masnadieri).




Capitolo 1


Berlino, dicembre 1944



Appiattito contro il muro ruvido e freddo del cortile esterno, Schiller aspettava.
Il suo respiro si condensava in soffici nuvolette di vapore, e i pochi stracci che indossava, logori e troppo larghi per il suo corpicino smunto, non lo proteggevano in alcun modo dal freddo della notte invernale. Si strinse le braccia intorno al corpo, muovendo i piedi su e giù per non finire congelato.
Doveva tenere duro. Un'occasione del genere non sarebbe ricapitata. Una rara notte di quiete, in cui il cielo terso era solcato solo dalle scie delle stelle e non dal rombo terrificante degli aerei che venivano a vomitare fuoco e morte sulla città.
Il piano era semplice. Una volta fuori dalle mura dell'orfanotrofio avrebbe cercato l'accesso più vicino alla metropolitana e si sarebbe nascosto lì. Aveva sentito dire dagli istitutori che le linee sotterranee ormai non funzionavano quasi più, paralizzate dai continui bombardamenti, e che centinaia di persone avevano trovato riparo nelle stazioni sotterranee. Nei tunnel sarebbe stato al sicuro dal freddo e dalle bombe, e per mangiare poteva andare a caccia di ratti. Non dovevano essere più difficili da catturare degli uccellini che acchiappava sul tetto dell'orfanotrofio, quando i pasti miseri e scadenti che riceveva lo lasciavano con lo stomaco ancora dolorante per la fame.
Acchiapparli gli riusciva facile perché lui poteva sentirli. Non nel senso che udiva i rumori che facevano muovendosi; non sapeva bene come spiegarlo. Semplicemente, se si concentrava abbastanza, poteva capire in ogni momento dove si trovassero. E non solo gli uccelli e i piccoli animali; con le persone funzionava ancora meglio. Era come se ogni creatura vivente avesse in sé una piccola parte di energia, e lui quell'energia riusciva a percepirla. Ci aveva messo un po' a capire che gli altri bambini non ne erano capaci.
Anche in quel momento li sentiva: i due guardiani, il brutale Georg e il viscido Hans, troppo vecchi per andare al fronte, che pattugliavano il cortile come ogni notte. Schiller si appiattì ancora di più contro il muro, aspettando che entrambi fossero sufficientemente lontani. Quando sentì la loro energia farsi più distante si staccò dal muro come una saetta e raggiunse l'imponente cancello di ferro. Era talmente magro che passò senza sforzo tra le sbarre, e presto l'orfanotrofio fu solo un'ombra scura alle sue spalle.
Correndo da solo per le strade ghiacciate della città, per la prima volta da quando lo avevano portato a Berlino Schiller riuscì, almeno per un attimo, a sorridere.



Aveva sette anni quel giorno.
Diversamente da altri compagni della sua età, Schiller non era arrivato all'orfanotrofio da piccolo. Non era un figlio non voluto, abbandonato da neonato alla carità delle istituzioni. Lui i suoi genitori li ricordava. Ricordava la bella casa ai margini del bosco in cui avevano abitato tutti insieme prima che il padre partisse per la guerra. Ricordava le torte di mirtilli della mamma e le corse a perdifiato sulle rive del lago insieme all'adorato cane Fritz. Lo ricordava, anche se sembrava appartenere a un'altra vita.
Soprattutto, ricordava una mattina d'estate limpida e serena, quando l'erba del giardino era stata imbrattata dalle orme di decine di soldati che avevano fatto irruzione sfondando la porta e si erano portati via la mamma. Fritz, il fedele Fritz, aveva abbaiato e morso la caviglia di uno di loro prima di cadere con un guaito raccapricciante, abbattuto da un colpo di pistola.
Anche la mamma aveva urlato e si era ribellata, ma smise di lottare quando un soldato gridò con la sua vociaccia cattiva che il papà era stato fucilato.
Fucilato.
Schiller all'epoca non conosceva bene il significato di quella parola, ma dalle lacrime della mamma aveva capito subito che non lo avrebbe più rivisto.
I soldati la trascinarono via semi svenuta, senza nemmeno lasciarle il tempo di mettersi qualcosa sopra la camicia da notte, e lui fu spedito all'orfanotrofio, lontano dalla casa al limitare del bosco, nella città grigia e piena di macerie.
Non rivide più nemmeno la mamma. Nessuno le disse cosa ne era stato di lei, e Schiller aveva troppa paura per chiedere agli istitutori cosa volesse dire “fucilare”. Ma doveva essere qualcosa di orribile, di brutto e sbagliato come l'erba tinta di rosso dal sangue di Fritz.
Anche l'orfanotrofio era brutto e sbagliato. Il cibo era disgustoso e sempre razionato; dopotutto, ripetevano gli istitutori, che diritto avevano degli stupidi bambini di mangiare quando i coraggiosi soldati del Reich pativano la fame al fronte per la gloria della nazione? Con il gas che non arrivava più il freddo ti divorava fin nelle ossa, ma niente era peggio di quando suonavano le sirene. Niente era peggio delle notti passate raggomitolati nelle cantine con le mani premute sulle orecchie, piangendo in silenzio e sobbalzando a ogni boato, mentre in cielo si scatenava l'inferno e la terra tremava come scossa dalle mani di un gigante.
E se la vita dietro quelle mura grigie era dura per tutti, per lui lo era in modo particolare.
Gli altri bambini lo evitavano, nessuno parlava con lui. Era sempre escluso dai giochi. Ogni tanto qualche nuovo arrivato provava a fare amicizia, ma subito accorrevano i più grandi a sentenziare con disprezzo: “è figlio di traditori”, e Schiller rimaneva di nuovo solo.
Traditori. Un'altra parola che non conosceva.
I suoi genitori erano traditori.
Doveva essere anche quella una cosa brutta e sbagliata, perché gli istitutori lo picchiavano sempre. Molto di più che gli altri bambini, sicuramente. Se succedeva qualcosa e non saltava fuori un colpevole, era sempre con lui che se la prendevano. Una volta li aveva sentiti parlare, mentre giaceva con la faccia contro il pavimento, dolorante per le botte ricevute:
“E dire che suo padre aveva davanti una carriera promettente nell'esercito. E invece è andato a invischiarsi nel complotto di quel criminale di Von Stauffenberg.”
“Ha avuto quel che meritava per aver tentato di assassinare il nostro Führer.”
Allora aveva capito cosa voleva dire “traditori”. Voleva dire che era colpa loro. Avevano sbagliato, e lui ne pagava le conseguenze. Lo avevano abbandonato.
Era solo. Nessuno sarebbe venuto a tirarlo fuori da quella prigione grigia.
Nessuno.
Fu in quel momento che decise di fuggire.

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Nota: Claus Schenk von Stauffenberg (1907-1944) fu l'ufficiale tedesco ideatore e principale autore del famoso attentato contro Hitler. Venne fucilato come traditore insieme ai suoi complici dopo il fallimento dell'attentato.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Ed ecco il secondo capitolo. Avviso subito che per il terzo e ultimo potrebbe volerci un bel po' visto che al momento non sono molto ispirata a scrivere, anche se ho tutto in mente :(


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Capitolo 2

Berlino, aprile 1945



Si combatteva strada per strada, casa per casa.
Il Reich che doveva durare mille anni alla fine aveva ceduto: i nemici si riversavano da ogni parte per le vie della capitale, ma i difensori ancora si ostinavano, contro ogni logica, a combattere.
Stupidi. Moriranno tutti.
Che senso aveva dare la vita per difendere un ammasso di rovine annerite dal fuoco?
Ormai non restavano più nemmeno i ratti da mangiare. Schiller andava avanti da giorni bevendo l'acqua delle pozzanghere, scappando ogni volta che vedeva una divisa nemica e nascondendosi tra le macerie quando gli aerei passavano a distribuire il loro carico di morte. I giorni si confondevano l'uno nell'altro in una spirale di paura e stanchezza, in un eterno trascinarsi, sempre più stremato, da un rifugio all'altro.
Aveva visto qualche disperato cibarsi dei cadaveri che si ammassavano per le strade, ma lui non ci riusciva. Per qualche ragione inspiegabile quei corpi straziati gli facevano quasi più paura dei soldati nemici. Nei morti non c'era nessuna energia, solo un vuoto profondo e assoluto, e lui non riusciva a sentirli. L'odore che aleggiava intorno a loro gli invadeva le narici, gli penetrava fin nella gola come un artiglio e lo faceva piegare in due dalla nausea. E non si trattava semplicemente della puzza di decomposizione che normalmente accompagna i cadaveri. No. Era come... sembrava... come se fosse la Morte stessa a emanare quell'odore. E allora Schiller correva via, scappava ancora più veloce per mettere più distanza possibile tra sé e quell'orrore.
Quel giorno però aveva avuto fortuna. Tra le macerie di un palazzo aveva trovato, un po' schiacciato e impolverato ma ancora commestibile, un filone di pane. A giudicare dalla consistenza doveva essere di due o tre giorni prima, probabilmente conservato gelosamente dagli sfortunati che avevano abitato la casa bombardata. Ad ogni modo, a loro non serviva più. Tenendo il bottino nascosto nella camicia sdrucita Schiller si insinuò tra detriti e calcinacci fino a raggiungere una casa miracolosamente rimasta in piedi, ad eccezione del soffitto crollato. Pregustando il primo pasto decente da giorni si accoccolò con la schiena contro una parete, scostando rifiuti e detriti con i piedi per mettersi comodo, e tirò fuori il pezzo di pane.
“Aiutami... “
Sussultò, bloccandosi nell'atto di dare il primo morso. Un'ombra grigia si mosse strisciando da dietro un cumulo di macerie, avanzando verso di lui. Schiller si alzò di scatto, appiattendosi contro il muro.
“Ti prego... ho fame... “
Era un uomo di mezza età, magro e cencioso, con una coperta di colore indefinibile sulle spalle che gli ricadeva fino ai piedi a mo' di mantello, e lo fissava con un sorriso sdentato. Dove avrebbe dovuto esserci il suo occhio sinistro si apriva una voragine incrostata di sangue rappreso. Schiller rabbrividì, rafforzando la stretta sul pezzo di pane.
“Non ti faccio male, ragazzino... “ la voce dello sconosciuto ricordava il raschiare del legno contro la pietra, come se non la usasse da tantissimo tempo. “Voglio solo un pezzo del tuo pane... un pezzo piccolo piccolo mi basta... ti prego, non mangio da giorni... “
Anch'io non mangio da giorni, avrebbe voluto rispondere, ma la voce non gli uscì. Paralizzato, non riusciva a staccare gli occhi dal pozzo di sangue sul volto dell'uomo, terrorizzato e affascinato allo stesso tempo.
L'uomo si fermò a poca distanza da lui e sollevò le braccia, mostrandogli i palmi vuoti per indicare che non aveva cattive intenzioni.
“Anche tu sei rimasto solo, eh?” continuò, incurante del fatto che Schiller non gli rispondesse. “Avevo un bambino più o meno della tua età, sai? Andato, anche lui. Non hanno trovato nemmeno un'unghia né di lui né della mia Nina quando la bomba ha distrutto la nostra bella casa a Dresda... nemmeno un'unghia... vivevamo bene, ma adesso... adesso ho tanta fame...“
Lentamente, senza staccare lo sguardo dal viso sfigurato dello sconosciuto, Schiller staccò un pezzetto di pane e lo tirò verso l'uomo, senza avvicinarsi. Quello lo raccolse e lo divorò in due bocconi, il volto trasfigurato da un'espressione di beatitudine.
“Aaaah... grazie... avevo quasi dimenticato che sapore avesse... all'inizio noi dell'esercito avevamo pane ogni giorno, ma poi... io ero un soldato, sai? Ho dato tutto per la patria e per il Führer, tutto me stesso... e cosa ci ho guadagnato alla fine?” si indicò l'occhio mancante. “Solo questo... solo e soltanto questo... “ la sua voce si spense, e per un attimo l'uomo sembrò perdersi in qualche buio recesso della sua mente.
“Ma tu sei stato molto gentile” disse infine, di nuovo presente a se stesso. “Grazie. Grazie di cuore”. L'ex soldato sorrise, e Schiller, timidamente, si ritrovò a ricambiare.
“Mi chiamo Klaus” disse l'uomo tendendogli la mano. “Klaus Spiegelberg.”
“Schiller...” mormorò porgendogli la sua.
“Schiller” ripeté l'altro. “Come il poeta. Un nome importante.”
La stretta di Klaus era forte e sicura. Schiller gli strinse la mano a sua volta... e tutto d'un tratto si ritrovò per terra. Prima che avesse il tempo di capire cos'era successo il soldato si stava già allontanando a grandi passi, il resto del filone di pane stretto tra le mani.
“Mi dispiace ragazzino, ma tanto tu non ce faresti comunque!”
Era successo tutto in pochi attimi. Il pane... il suo unico cibo...
La risata del soldato, aspra e stridente, risuonò gelida tra le macerie.
Tu non ce la farai comunque...
Non ce la farai...

Schiller si rimise in piedi e gli corse dietro mentre lacrime di rabbia gli rigavano le guance.
“RIDAMMI IL MIO PANE BASTARDO!!”
Era come se una diga si fosse rotta dentro di lui. Con un urlo immane cacciò fuori tutta la rabbia accumulata in mesi di miseria e sofferenze, tutta la furia contro quel mondo maledetto che gli aveva tolto ogni cosa, e caricò il soldato sferrandogli un pugno con ogni briciolo di energia che aveva in corpo. Tra le lacrime che gli appannavano lo sguardo vide una luce brillare sul petto dell'uomo, nel punto esatto in cui lo aveva colpito. Qualcosa di caldo e vischioso gli schizzò in faccia mentre Klaus si afflosciava a terra con un tonfo sordo, gli arti scomposti come quelli di una marionetta rotta.
Schiller ritirò pian piano la mano, che ancora splendeva di una flebile aura luminosa. La sentiva pulsare di vita e di un'energia incontenibile, come mai aveva percepito prima di allora in nessun essere vivente.
Poi il familiare odore della Morte gli aggredì le narici e lo fece cadere in ginocchio, travolto dalla nausea.
A pochi metri da lui Klaus giaceva riverso, l'occhio sano sbarrato e rivolto verso il cielo e un buco grande quanto un pallone da calcio aperto in mezzo al petto. Intorno al suo corpo una pozza di sangue si allargava pian piano.
Poi Schiller vide qualcosa sollevarsi dal suo corpo martoriato, una nebbia diafana che sembrava sorgere direttamente dalla ferita sul petto. La nebbia prese forma e assunse braccia e gambe, e due occhi – due! - fissarono Schiller con uno sguardo pieno di tristezza da un viso spettrale che emanava una tenue luce azzurrina. Ma era il viso di Klaus, su questo non c'erano dubbi.
Schiller vomitò, lo stomaco contratto da crampi lancinanti. Si rimise in piedi su gambe che lo sorreggevano a stento e fuggì barcollando, con il cuore che gli martellava nel petto come se volesse sfondare la gabbia toracica e scappare via sua volta. Corse fino a che non gli mancò il fiato e cadde a faccia in avanti tra i resti di un'automobile sventrata. In ogni ombra gli sembrava di scorgere gli occhi tristi del fantasma che lo perseguitavano.
Si rialzò, e corse ancora.
Stavolta però non riuscì a lasciarsi alle spalle l'odore della Morte. Da quel giorno gli rimase sempre appiccicato addosso, come una seconda pelle, e divenne in qualche modo parte di lui.



Già la seconda volta fu molto più semplice.
Gli spari lo svegliarono prima dell'alba, nel palazzo semidistrutto dove si era rifugiato la sera prima. Rapido si insinuò tra due pezzi di un cornicione crollato e sgattaiolò nel vicolo sul retro con l'intento di allontanarsi alla massima velocità dalla zona dello scontro.
Si accorse dei soldati nemici soltanto quando finì loro addosso. Erano solo in due e avevano le divise sporche di sangue; uno di loro si appoggiava alla spalla dell'altro con tutta l'aria di non poter muovere una gamba. Probabilmente si erano rifugiati lì per riposare o medicarsi le ferite; ma a tutto questo Schiller fece caso solo dopo. Il soldato che sorreggeva il compagno cacciò un'imprecazione nella sua lingua strana quando Schiller gli inciampò addosso, e mosse una mano come per colpirlo o schiaffeggiarlo.
Stavolta il corpo di Schiller si mosse d'istinto. In un solo, fluido movimento si abbassò per evitare il colpo e sferrò un pugno verso l'alto, contro la mascella dell'uomo. Nella caduta il soldato si trascinò appresso il compagno ferito, ed entrambi rotolarono tra la polvere del vicolo invaso dalle macerie.
Come quando aveva colpito Klaus, Schiller sentì l'energia nel suo corpo guizzare esuberante e incitarlo a colpire ancora, ansiosa di essere liberata. Fece un passo verso i nemici abbattuti e il suo piede urtò contro qualcosa.
Schiller sollevò l'oggetto, uno zaino mimetico che doveva appartenere ai due sfortunati soldati. Dentro c'era un piccolo tesoro: bende, medicine una borraccia d'acqua, razioni di cibo in scatola.
Mentre contemplava quel ben di dio Schiller si ricordò che quando aveva colpito... no, quando aveva ucciso Klaus era scappato via senza riprendersi il suo pane. Aveva dormito davvero male quella notte, assalito da immagini da incubo e dai crampi allo stomaco.
Guardò i soldati che si stavano rialzando con fatica. Uno di loro sopra la divisa indossava un cappotto militare che dava l'impressione di essere molto caldo e confortevole.
Il soldato con la gamba ferita lo fissava con sguardo terrorizzato, incredulo che in un semplice bambino potesse nascondersi una forza tanto devastante.
“Per... favore... “ supplicò in un tedesco stentato. “Noi non volevamo... “
No. L'ultima persona che aveva implorato il suo aiuto gli aveva rubato l'unica cosa che aveva.
Schiller aprì il cuore all'energia che gli fluiva nelle vene, abbandonandosi totalmente a quel potere inebriante che veniva da dentro di lui.
Il suo pugno colpì preciso e rapido come il fulmine, lasciandosi dietro un'incredibile scia di luce che cancellò i volti dei nemici, le loro urla, ogni cosa. Per un attimo il mondo di Schiller fu avvolto dalla luce. Calda, rassicurante, amichevole.
Poi uno, due tonfi sordi, e l'odore di Morte piombò sul vicolo come un rapace affamato. Schiller lottò contro la nausea, piegato in due con le mani premute contro il naso e la bocca.
Strinse i denti e impose alle sue gambe di non muoversi, sopraffacendo l'istinto di fuggire. Stavolta sapeva cosa stava per succedere, e non aveva intenzione di abbandonare di nuovo ciò che si era guadagnato con fatica.
I due spettri di nebbia diafana emersero lentamente dai corpi senza vita dei soldati, che giacevano riversi l'uno sull'altro. I loro occhi erano tristi come lo erano stati quelli di Klaus, e Schiller sollevò i pugni, guardandoli minaccioso.
“Andatevene! Non ho paura di voi!”
Uno dei due – quello che in vita era stato ferito alla gamba – fluttuò verso di lui, e Schiller non volendo fece un passo indietro.
“Andate via!!” ripeté con un urlo, e lo colpì in mezzo al petto.
Il suo pugno fendette l'aria. Lo spettro si disfece come una nuvola dispersa dal vento, e quello del suo compagno lo seguì subito dopo, svanendo con un sospiro.
Schiller si ritrovò solo in mezzo alla polvere, alle macerie e ai residui di lamiera.
Respirò a fondo per calmare i battiti del cuore impazziti. Nelle vicinanze non percepiva la presenza di nessuno. Il vento gli portò una lontana eco di spari e grida, ma i soldati che avevano combattuto nella strada accanto ormai si erano allontanati.
Solo la Morte restava padrona di quella strada. La Morte, e Schiller.
Raccolse lo zaino e strinse le cinghie in modo che si adattassero alle sue spalle; poi svestì il soldato morto del cappotto e perquisì i due cadaveri alla ricerca di tutto quello che poteva essergli utile. Prese entrambe le loro cinture, un coltello a serramanico, una torcia e gli stivali di uno dei due, anche se erano troppo grandi per lui. Stipò tutto nello zaino e se lo caricò in spalla, soddisfatto.
Solo mentre si allontanava con lo zaino stracarico che gli ballonzolava sulla schiena si accorse che l'odore della Morte aveva smesso di dargli fastidio.
Quella notte, dopo tanto tempo, dormì sereno, al caldo e con la pancia piena.


La crepa si era allargata. Di pochi centimetri, ma si era allargata.
Schiller ne percorse la lunghezza con le dita, gli occhi chiusi per aumentare la concentrazione. Senza aprirli arretrò di qualche passo e fece un respiro profondo, pronto a sferrare il colpo successivo.
Chi lo avesse visto in quel momento lo avrebbe preso per pazzo: un ragazzino che di sua volontà si metteva a prendere a pugni un muro? Voleva forse rompersi una mano?! Ma a Schiller il parere degli altri non interessava. Quella zona periferica della città, ormai rasa al suolo e abbandonata dagli abitanti, da giorni non era più teatro di scontri; e se anche qualcuno fosse venuto a mettergli i bastoni tra le ruote... beh, se la sarebbe dovuta vedere con lui.
Il palazzo che aveva scelto per allenarsi era uno dei pochi miracolosamente rimasti in piedi. La crepa che ne attraversava la facciata esterna non era frutto delle bombe o degli spari, ma della forza delle sue braccia. Pugno dopo pugno, i denti stretti per sopportare il dolore e ignorando il sangue che gli colava lungo il polso gocciolando fino a terra, Schiller colpiva sempre lo stesso punto metodicamente, ossessivamente, ripetutamente.
E il muro, pugno dopo pugno, scricchiolava e cedeva.
Andò avanti per due giorni, con poche pause per mangiare e riposare. Quando infine la parete cedette con uno schianto Schiller si lasciò cadere esausto tra la polvere e proruppe in una risata liberatoria, quasi isterica. Sopra di lui, nel cielo grigio, le scie degli aerei da guerra sbiadivano pian piano, sfilacciandosi tra le nuvole.
Si sarebbe allenato ancora, e presto nemmeno le loro bombe lo avrebbero più spaventato. Sarebbe diventato più forte di qualsiasi esercito, più letale di qualsiasi fucile, e non avrebbe più sofferto la fame o il freddo. Stringendosi al petto la mano dolorante, Schiller sorrise.
Due giorni dopo la bandiera rossa del nemico sventolava vittoriosa sulla cima del Reichstag.


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Nota: ho ripreso il fatto che Schiller e' in grado di vedere i fantasmi delle persone dal gaiden di Manigoldo di Lost Canvas, dove sia il Cavaliere del Cancro che una bambina originaria di Death Queen Island ne erano capaci (e anzi, potevano anche parlare con gli spettri). Ho immaginato quindi che fosse un potere di tutti i Cavalieri del Cancro.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Terzo e ultimo capitolo. Scusate l'attesa! :)


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Capitolo 3

 

Berlino, luglio 1948



Da più di mezzora camminavano per le strade infuocate dal sole estivo.
La benda che gli copriva gli occhi era di stoffa grezza e gli faceva salire un fastidioso prurito per tutta la faccia, ma non gli impediva di muoversi con sicurezza come se avesse avuto entrambi gli occhi aperti. Si lasciava guidare dagli altri sensi, e soprattutto dall'energia vitale dei cinque ragazzi che percepiva pochi passi davanti a lui. Bastava seguire le loro mosse, e il gioco era fatto.
A giudicare dalle numerose svolte e dai passaggi stretti e tortuosi lo stavano conducendo lungo una serie infinita di vicoli. Spesso erano costretti a districarsi tra ruderi e macerie che i conquistatori non avevano ancora trovato il tempo di rimuovere, e Schiller sentiva con un certo compiacimento gli altri trattenere il fiato e scambiarsi commenti stupefatti sulla sua agilità. Di certo non si erano aspettati tanta bravura da parte del novellino, il membro più giovane della banda.
E non avete ancora visto niente.
“Ci siamo quasi” la voce di Konrad, il capo, arrivava leggermente ovattata da sinistra. Poco più avanti doveva esserci l'ennesima svolta, o un ingresso.
“Attenti al cornicione caduto” avvertì Thomas. “Ce la fai, piccoletto?”
Schiller non si degnò nemmeno di rispondere. Un salto, un solo fluido salto e fu al di là dell'ostacolo, atterrando graziosamente su un tratto di strada sgombro da detriti. I mormorii di ammirazione aumentarono.
La guerra era finita da quasi tre anni, ma ciò che era venuto dopo non si poteva definire “pace”. I nemici che si erano riversati nella città distrutta portavano divise e bandiere di tanti colori e parlavano lingue diverse, e ben presto avevano cominciato a litigare su come spartirsi la conquista. Il Führer, la guida che avrebbe dovuto portare il loro popolo alla grandezza si era suicidato in un bunker come un topo in trappola, dicevano, anche se Konrad non era d'accordo. Secondo lui si era solo nascosto, e attendeva il momento propizio per rivelarsi e partire al salvataggio della sua patria oppressa.
A Schiller non importava. Che governassero i sostenitori del Führer o le forze degli alleati per lui era indifferente, così come non gli interessava sapere in che modo gli schieramenti nemici si erano spartiti la città. Lui andava dove voleva, faceva quello che voleva, e non era fedele a nessuno se non a se stesso.
“Eccoci” la voce di Thomas interruppe i suoi pensieri, e una mano gli sfilò la benda dagli occhi. Schiller sbatté le palpebre. Si trovavano in un vicolo talmente stretto che la luce del sole filtrava a stento, di fronte a un palazzo abbandonato ma in buone condizioni a parte i vetri rotti alle finestre e il portone sfondato. Konrad indicò una scala polverosa che probabilmente portava in uno scantinato, e gli fece cenno di seguirlo.
Due rampe di scalini e sbucarono in un ambiente ampio dal pavimento di pietra grezza, illuminato da due finestre sottili sulla parete di fondo, al livello della strada.
Nel covo li aspettavano altri quattro ragazzini sui dodici o tredici anni, vestiti di stracci e con le facce sporche, che ridevano passandosi una pipa di mano in mano stravaccati su una pila di casse di legno.
“Ehi, Konrad! Guarda un po' cosa abbiamo fregato al vecchio Oswald” esclamò uno in segno di saluto, agitando in aria la pipa e spandendo fumo tutto intorno.
“E quel nanerottolo chi è?” fece un altro.
“Schiller è un nuovo membro della nostra banda” rispose Konrad, e tutti si fecero immediatamente attenti. Il capo si rivolse direttamente a lui, assumendo un tono solenne: “Hai superato tutte le prove e dimostrato il tuo valore, Schiller, e per questo ora sei degno di essere uno di noi. Ti nomino membro a tutti gli effetti delle Aquile di Fuoco.” Con aria grave, Konrad gli tese la mano.
Aquile di Fuoco. Un nome davvero troppo altisonante per una banda di orfani straccioni che vivevano alla giornata, barcamenandosi tra scippi, furtarelli e accattonaggio. Non erano troppo diversi da lui, in fondo: figli della guerra senza più un posto nel mondo, avvoltoi sulla carcassa di una città già consumata dal fuoco delle bombe.
Ma io ho un potere che loro non hanno. Loro sono deboli, e i deboli meritano solo di essere prede della Morte.
Schiller non strinse la mano che gli veniva offerta.
“Mi sono dimenticato di dirvi una cosa” disse invece, fissando Konrad dritto negli occhi. “E cioè che io non faccio squadra con nessuno.”
Non videro partire il pugno, non videro nemmeno Konrad volare via, scagliato verso il muro. Un attimo prima era là, in piedi con la mano tesa nel gesto di amicizia, e un secondo dopo era dall'altro capo della stanza, accasciato contro la parete come una marionetta a cui hanno tagliato i fili. Solo, inconfondibile, il rumore raccapricciante di ossa che si spezzano riempì la stanza.
Per qualche secondo nessuno parlò. Gli stupidi ancora non avevano capito cos'era successo. Schiller si godette lo spettacolo delle emozioni che si susseguivano rapidissime sulle loro facce, passando dalla confusione all'incredulità e infine alla paura. Poi, come in risposta a un tacito segnale, ognuno iniziò a gridare in modo incoerente, e in un battito di ciglia li ebbe tutti addosso.
Thomas si fece avanti brandendo un coltellino a serramanico e tentò un goffo affondo in direzione del suo collo.
Patetico.
Gli afferrò il polso, torcendolo fino a che le sue dita si aprirono con uno spasmo e il coltello cadde a terra tintinnando. Thomas lanciò un urlo di dolore, subito strozzato da una ginocchiata in pieno petto che lo scagliò addosso ad altri due attaccanti. I tre rovinarono a terra in un groviglio di gambe e braccia mentre Schiller roteava su se stesso evitando pugni e calci da ogni direzione e colpendo a sua volta con rapidità, precisione e violenza.
Uno degli avversari ebbe la stupidissima idea di provare a colpirlo da lontano con una fionda. Schiller se ne accorse solo dal formicolio vicino all'orecchio destro, e si voltò in tempo per vedere il sasso cadere a terra in briciole e il terrore negli occhi sgranati dello sfortunato tiratore. Si liberò degli altri con un salto aggraziato e atterrò alle spalle del ragazzo, che aveva lasciato cadere la fionda e stava tentando la fuga verso l'esterno. Lo raggiunse sulle scale e lo sbilanciò con uno sgambetto, afferrandolo per il collo e sollevandolo da terra. Le dita di Schiller affondarono con goduria nella carne del malcapitato, che annaspò disperatamente e scalciò con furia mentre la sua faccia andava tingendosi pian piano di viola. Pochi attimi, un ultimo spasmo violento, e non si mosse più. Schiller lo gettò lontano con disprezzo.
Evidentemente però la lezione non era servita, perché le Aquile di Fuoco sopravvissute ebbero un'idea ancora più stupida. Di una stupidità veramente abissale.
“Ci arrendiamo!” gridò uno, e alzò le mani, imitato dai compagni.
Due minuti dopo nessuno era rimasto vivo.
Il profumo della Morte dominava nella stanza, impregnando l'aria e i muri della sua fragranza ricca, penetrante. Seducente, e al tempo stesso distruttiva. Dopo lunghe riflessioni Schiller era arrivato a determinare che sapeva di rose; un campo di rose dai petali violacei e spine aguzze come pugnali, attorcigliate tra le ossa di una distesa infinita di scheletri. Se chiudeva gli occhi vedeva questa immagine apparirgli nella mente, ogni volta che sentiva quell'odore.
Inspirò a fondo, riempiendosi i polmoni del profumo inebriante. Era buono, se imparavi ad apprezzarlo. E presto iniziavi a non poterne fare a meno.
Non degnò di uno sguardo gli spiriti, che come ogni altra volta avevano iniziato a sollevarsi dai cadaveri. Da tempo aveva capito che non potevano fargli alcun male, e presto si sarebbero dissolti da soli. Si diresse verso le casse di legno, sicuro che gli averi delle Aquile di Fuoco fossero nascosti lì. Con un po' di fortuna avrebbe messo le mani su vestiti della sua taglia, e magari anche su un po' di soldi...
Un movimento vorticoso alle sue spalle lo distolse dal contenuto delle casse.
Arriva qualcuno... ?!
Non percepiva la presenza di esseri umani, ma un brivido gelido gli percorse la schiena, una sensazione imminente di pericolo che lo scosse fin nelle viscere. Si voltò.
Erano gli spiriti.
I fantasmi dei ragazzi morti si erano staccati dai corpi e avevano iniziato a roteare intorno al soffitto, sovrapponendosi, confondendosi tra loro in una spirale di luce azzurrina. Poteva udire il loro lamento, un sibilo lugubre come il vento invernale che soffia in mezzo ai rami secchi.
Non gli era mai capitata una cosa del genere, e rimase paralizzato a fissare la danza degli spettri nonostante una voce nella sua testa continuasse a urlargli di fuggire.
Presto gli spiriti si ridussero a una massa indistinta di luce azzurra che volò in direzione delle scale, come risucchiata da una forza insostenibile. Il bagliore illuminò una figura alta che emerse lentamente dall'oscurità delle scale, facendo rilucere strani ornamenti dorati che portava tra i capelli. La figura sollevò l'indice e per un attimo la luce degli spiriti si raccolse tutta sulla sua punta, simile a una fiammella blu, e brillò più intensamente prima di estinguersi di colpo.
Perché non l'ho sentito arrivare... ?!
L'uomo giunse ai piedi della rampa e si fermò. Era avvolto dalla testa ai piedi in un mantello bianco, e tra i capelli scuri portava un curioso diadema d'oro che ricordava la forma delle chele di un granchio. Anche ora che si trovava a pochi metri di distanza, Schiller non riusciva a percepire nessuna energia in lui, nessun segno di presenza vitale. Era come se l'uomo davanti a lui non esistesse, come se...
… come se fosse morto.
Il familiare profumo di rose e ossa gli invase le narici.
Lo straniero ne era completamente impregnato. Anzi... era lui a emanarlo.
“Chi sei?!”
L'uomo non si prese la briga di rispondere. Continuava a squadrarlo con un sorrisetto a metà tra il divertito e il pensoso, sfregandosi la punta del naso con l'indice.
Schiller iniziava a credere che fosse davvero un'illusione, un tipo diverso di spirito che non aveva mai visto prima. Il pensiero gli ridiede coraggio, perché gli spiriti erano qualcosa che conosceva, con cui era abituato ad avere a che fare.
In fin dei conti c'era solo un modo per scoprirlo.
Lo caricò.
Divorò in pochi passi lo spazio che li separava e spostò il braccio all'indietro, caricando il pugno. Mirò dritto al petto... e si ritrovò a colpire l'aria. Perse l'equilibrio e incespicò, ma con un colpo di reni riuscì a restare in piedi e a voltarsi, pronto a sferrare un altro attacco...
L'avversario era dall'altra parte della stanza, comodamente seduto sulla pila di casse con le gambe accavallate.
Impossibile... Un secondo prima lo aveva davanti, e poi... Era come se si fosse mosso alla velocità della luce.
“E così il Grande Sacerdote mi ha fatto fare tutta questa strada per un ragazzino. E io che mi aspettavo qualche brutto mostro mitologico dalle molte teste!”
Schiller sussultò. La voce dello straniero era del tutto umana. Parlava tedesco con un fastidioso accento da mangiaspaghetti, ma si faceva capire.
“Questo ovviamente complica un po' le cose” aggiunse con un sospiro, e saltò giù dalle casse con uno svolazzo del mantello bianco. Schiller faticava a seguire i suoi movimenti, ma quello che vide dopo che lo straniero si fu posato a terra lo lasciò senza fiato. Sotto il mantello, il suo corpo era completamente rivestito di un'armatura d'oro.
“Chi sei?” chiese ancora, sulla difensiva.
L'uomo sbuffò: “Non sai dire altro? Pensavo di essere io quello scarso a parlare, qui. Anzi, dovresti ringraziare che conosco la tua lingua di merda. Il mio maestro era un crucco come te, sai?”. A un tratto Schiller si ritrovò lo straniero vicinissimo, la testa china vicino al suo orecchio: “In tutta confidenza, un rompicoglioni mostruoso. Sbraitava un po' come quel vostro capo con i baffetti ridicoli.”
Schiller fece un salto all'indietro, cosa che lo straniero dovette trovare divertente perché scoppiò a ridere. Schiller invece aveva davvero paura ora. Il cuore gli martellava a mille nel petto, ma qualcosa dentro di lui gli diceva che scappare non sarebbe servito a niente.
“Comunque ti accontento, prima che ti pisci sotto dalla paura.” Lo straniero iniziò a declamare in tono solenne: “Io sono Death Mask, Gold Saint del Cancro, custode della Quarta Casa, cavaliere di Atena, e bla bla bla. Sono stato inviato dal Grande Sacerdote perché in questa città è stato percepito un Cosmo ostile, che si è rivolto contro gli esseri umani facendo molte vittime. Perciò io, da bravo Saint, mi sono messo in marcia, pronto a prendere a calci in culo il nemico in questione... pensa che sorpresa quando mi sono ritrovato davanti un mocciosetto di dieci anni!”
Schiller non capiva metà delle cose che diceva lo straniero. Death Mask? Gold Saint? Quarta Casa? Una sola cosa era certa: l'uomo dall'odore di Morte non si trovava a Berlino per caso. Era venuto a cercare proprio lui.
“E questo è un bell'impiccio per me. TU sei un bell'impiccio. Vedi, quattro calci e un mostro schiatta, e io me ne torno in Grecia a godermi il sole. Ma uno come te... un ragazzino dal Cosmo potente, e per giunta con il mio stesso potere sulla Morte... tu lo senti, vero? Il suo odore... e sei in grado di vedere gli spiriti, non è così?”
Lentamente, Schiller fece cenno di sì con la testa, e per un attimo la paura dentro di lui lasciò il posto a un miscuglio di sensazioni diverse. Curiosità, eccitazione, disappunto. Aveva sempre creduto di essere solo, di essere l'unico a possedere un potere speciale, e ora dal nulla saltava fuori un mangiaspaghetti con un granchio in testa e un nome assurdo che sapeva fare lo stesso...
Un uomo misterioso, avvolto da un'armatura d'oro come quella degli antichi cavalieri e dal profumo velenoso della Morte, capace di raccogliere sulla punta di un dito l'essenza degli spiriti.
Lo straniero – Death Mask o come si chiamava – incrociò le braccia dietro la nuca e proseguì: ”Vedi, secondo il regolamento io adesso dovrei farti un sermone mostruoso su quanto sia sbagliato andare in giro ad ammazzare la gente per sport, magari rifilarti quattro sculacciate a scopo educativo, e poi portarti in direttissima al Santuario dove, sicuro come la morte, ti appiopperanno a me perché ti faccia da maestro. Ora, a parte che un sermone sul non uccidere da parte mia sarebbe davvero ipocrita, ma io non ho nessunissima intenzione di prendere allievi. Troppe grane. Quindi... penso proprio che ti lascerò a marcire in questa topaia.”
L'affermazione punse Schiller sul vivo, molto più di quanto avrebbe immaginato. “Vuoi dire che io non valgo abbastanza per te? Ma se mi avete percepito fin nel vostro paese!”
Cosmo, ricordò. Così lo straniero aveva chiamato l'energia vitale delle persone.
“Ooh, allora non hai perso la lingua. Ma tu sei un tipo che preferisce far parlare i pugni, vero? La tua performance di prima mi ha colpito, te lo concedo. Avanti... perché non mi fai vedere di cosa sei capace? Forse potresti farmi cambiare idea.”
Death Mask assunse una posa difensiva e lo invitò a farsi avanti con un gesto della mano e un sorriso di sfida. I raggi del sole, attraverso le finestre ricoperte di polvere, giocavano con gli intarsi della sua splendida armatura accendendoli di un'infinità di bagliori dorati.
Schiller esitò. Caricarlo un'altra volta a testa bassa sarebbe stata una sciocchezza, e non gli avrebbe portato nessun vantaggio. Non era il suo modo di agire. Era abituato a scegliere lui le proprie vittime, e sempre tra coloro che sapeva di poter sopraffare senza difficoltà...
“Che c'è?” lo derise l'altro. “Andiamo in pappa al primo problema serio? E tu vorresti davvero essere l'allievo di un Saint?”
Lo voleva?
Io non faccio squadra con nessuno, aveva detto a Konrad e ai suoi tirapiedi. Era un animale che cacciava in solitudine; attaccava le prede, evitava i predatori più grandi di lui. Era quello l'unico modo per sopravvivere.
Quegli sciocchi delle Aquile di Fuoco avevano commesso l'errore di fidarsi del predatore più forte, e ne avevano pagato le conseguenze.
Ma chi era adesso il predatore più forte?
Death Mask sbuffò d'impazienza: “Beh, visto che tu non ti decidi... inizierò io.”
Lo spostamento d'aria. Riuscì a sentire lo spostamento d'aria, per un millesimo di secondo. Poi ci fu solo il dolore, improvviso, lancinante, una scarica elettrica che dallo stomaco si propagò in tutto il corpo togliendogli il respiro, oscurandogli la vista. Le botte che prendeva all'orfanotrofio erano carezze con guanti di seta in confronto a questo... Sentì un rombo sordo salirgli nelle orecchie mentre la bocca si riempiva del sapore metallico del sangue, e cadde a terra prono.
Un pugno, un calcio, non aveva idea di cosa lo avesse colpito.
Lo straniero rideva, e per la prima volta nella sua voce affiorava una nota di crudeltà: “Tutto qui? Certo, fare fuori patetici ragazzini di strada è facile. Ma è uno spreco per il potere che hai. Perché continuare a strisciare in questa fogna quando potresti avere il mondo nelle tue mani?” Un peso terribile si abbatté sulla sua schiena e gli mozzò di nuovo il fiato in gola. Il pavimento scricchiolò sotto il suo corpo mentre il piede dello straniero lo spingeva senza pietà nella polvere.
“Ti credi forte, ragazzino, ma sei solo un topo che gioca a fare il re con gli altri topi. La vera forza è un'altra cosa. I nemici che riusciamo a sconfiggere, i veri nemici, accrescono la nostra forza e ne sono la prova. Tu invece sei solo un debole.”
Un calcio dato con noncuranza lo mandò a sbattere contro la pila di casse. Riverso a terra, incapace di alzarsi, Schiller sentì lacrime di rabbia e umiliazione bruciargli negli occhi, e premette il viso contro il pavimento per nascondere allo straniero la sua vergogna.
Ma erano le parole a fare male come e più dei colpi. Nella sua mente sconvolta dal dolore vorticarono inseguendosi le immagini di Klaus, il disertore pazzo, dei due soldati russi... le sue prime vittime. Allora non aveva combattuto per scelta, ma per necessità, per salvarsi la vita. Nel momento del bisogno aveva saputo attingere a un potere più grande, e aveva vinto.
I veri nemici accrescono la nostra forza...
Si impose di rialzarsi. Ogni fibra del suo corpo si ribellò e gemette in protesta, ma Schiller si concentrò sulla rabbia che aveva provato quando Klaus gli aveva rubato il pane, sull'odio per lo straniero maledetto che lo aveva umiliato, e lasciò che fossero quei sentimenti a dargli la forza che il suo corpo non riusciva a trovare. Lentamente, si rimise in piedi.
“Ohhh, ma che bravo” nel tono dello straniero era riapparsa la consueta sfumatura canzonatoria. “Che luce battagliera negli occhi! Se fossi un mio allievo a questo punto ti direi che hai superato la lezione numero uno.”
“NON PRENDERMI IN GIRO!!”
Si affidò completamente all'abbraccio dell'ira. Ignorando il dolore spiccò un salto e tentò un attacco dall'alto, ma a Death Mask bastò afferrarlo per un braccio per scagliarlo con facilità lontano da sé. Schiller riuscì ad atterrare in piedi con una goffa capriola, ma appoggiò male il peso su una caviglia e si piegò in ginocchio con un gemito di dolore.
Intanto Death Mask ridacchiava: “Ma mi chiedo... sarai in grado di superare la lezione numero due?”
Schiller si limitò a restituirli uno sguardo carico d'odio.
Con un gesto elegante lo straniero si liberò del mantello. “Mi hai incuriosito, ragazzino. Quindi... perché no?”
Una luce azzurrina si sprigionò dalla punta dell'indice di Death Mask, come quando aveva bandito gli spiriti. Ora li richiamò a sé, e quelli eruppero obbedienti dal suo dito, riversandosi nella cantina. Death Mask sollevò in alto il braccio mentre le anime dei morti gli volteggiavano intorno ridotte a puri filamenti di luce, sempre più veloci in un'ipnotica spirale blu trasportata da un vento che sembrava provenire da un altro mondo.
Adesso, soltanto adesso Schiller riusciva a percepire il Cosmo del suo avversario, un'onda di energia immensa e schiacciante come non ne aveva mai sentite prima. Un fiume in piena che finalmente ha infranto la diga che lo teneva imbrigliato, ansioso di riversarsi liberamente su case e terre.
Lo teneva nascosto... ?
“Buona fortuna, ragazzino. Ne avrai bisogno.”
Death Mask abbassò il dito.
“SEKISHIKI MEIKAI HA!”
Il dolore esplose nella sua testa in un milione di scintille di fuoco. Il sopra e il sotto si confusero in un vortice senza senso e il corpo di Schiller venne sballottato via come un pezzo di legno in balia della tempesta. Il suo urlo si mescolò al lamento dei morti mentre gli spiriti gli si avvinghiarono alle gambe e alle braccia e lo trascinarono in fondo, sempre più in fondo in un abisso di oscurità.



Il profumo della Morte ora non gli è di nessun conforto. Anzi, per la prima volta dopo anni lo disgusta. Lo opprime, lo costringe in ginocchio sulla roccia nuda e tagliente di cui è fatto quel mondo oltre il tempo e lo spazio. Roccia color ferro solcata da vene di lava sotto un cielo senza sole né stelle.
“Benvenuto oltre l'ultimo orizzonte!” lo schernisce la voce del suo aguzzino, e sembra provenire da tutte le direzioni simultaneamente, onnipresente come il profumo soffocante di rose e ossa.
Lo disgusta la marea dei morti. Falene attratte verso la luce, gli vengono incontro barcollando e tentano di afferrarlo con mani scarnificate, assetati della scintilla di vita che risveglia in loro ricordi del tempo passato. Decine di orbite vuote lo fissano, e anche se ormai quei volti putrefatti hanno perduto quasi tutto ciò che avevano di umano, a Schiller sembra di riconoscerli uno per uno.
Konrad. Klaus. I tutori dell'orfanotrofio. I soldati.
Deve alzarsi, fuggire. Più di ogni altra cosa, teme che i morti lo tocchino.
Chiude gli occhi, ma le immagini di orrore non scompaiono.
Quartieri avvolti dalle fiamme. La distesa grigia e sterile della città distrutta. Il fumo denso delle esplosioni che oscura il cielo.
I corpi mutilati dalle bombe, le facce deformate dal dolore e dalla fame.
Neve macchiata di sangue.

Persino la voce dei morti non ha nulla di umano. Il loro urlo di dolore è quello di una bestia condotta al macello.
Si tappa le orecchie, ma i suoni terrificanti non si attutiscono.
Il suono lacerante delle sirene, il rombo minaccioso degli aerei.
Boati che scuotono le viscere e fanno sanguinare le orecchie.
Crolli, spari, urla. Pianti e inutili preghiere.

Freddo. Tutta quella lava, tutto quel fuoco, eppure fa un freddo maledetto nell'anticamera dell'inferno.
Il gelo delle notti senza gas, senza cibo nella pancia, con i lividi e le escoriazioni che non vogliono saperne di guarire.
La sua corsa si arresta sul ciglio di un immenso cratere, dove confluisce anche la lunga processione dei morti. Uno ad uno si lasciano cadere nella voragine, contorcendosi e gridando. Non sono grida di liberazione: eppure nessuno di loro ha il potere di decidere. E' una forza troppo grande e inesorabile a spingerli.
L'abisso lo guarda spalancando le sue fauci oscure. E Schiller sa, con assoluta certezza, che una volta varcata quella soglia non può esserci ritorno.
“Vuoi guardare più da vicino?”
Death Mask gli è apparso alle spalle all'improvviso. O forse è sempre stato lì a osservarlo.
“Aspetta, ti aiuto io.”
Non ha il tempo di reagire. Il calcio lo centra in pieno, e per un attimo agghiacciante Schiller resta sospeso sopra le tenebre dell'abisso, un senso di vuoto vertiginoso che gli afferra la bocca dello stomaco.
Poi inizia a precipitare.
Le mani sfregano contro la parete rocciosa alla disperata ricerca di un appoggio. Sangue sgorga sui palmi e cola per tutta la lunghezza delle braccia, ma Schiller stringe con caparbietà le dita intorno allo spuntone che gli permette di restare aggrappato tra la vita e la morte. Accanto i lui, i morti continuano a cadere e gli sfiorano la spalla prima di sparire nell'abisso.
L'edificio colpito esplode e i detriti schizzano in tutte le direzioni. Corpi in fiamme precipitano in strada, alcuni già morti, altri in un vano, disperato tentativo di salvarsi. Solo lui resta aggrappato al cornicione che lo ripara dalle fiamme, mentre tutto intorno il mondo va in pezzi.
L'Inferno dentro si confonde con quello fuori.
Tutto il mondo va in pezzi, ma lui sopravvive.
Lentamente solleva la mano libera, la sinistra, con fatica cerca di innalzare il braccio al di sopra della testa. Com'è che aveva fatto Death Mask?
“Un ragazzino dal Cosmo potente, e per giunta con il mio stesso potere sulla Morte... “
Stringe i denti. Le dita della mano destra sono rese scivolose dal sangue e indolenzite dai crampi, ma non può mollare. Non deve mollare.
Solleva l'indice della mano sinistra. Tutto il corpo trema per la fatica e lo sforzo. Non può indugiare: deve farlo subito.
Non voglio morire.
Non voglio morire.
Non... voglio... morire!!

“Brucia... BRUCIA, MIO COSMO!!”
Il Cosmo risponde al richiamo ed erompe attraverso il suo corpo dolorante, lungo il braccio e la mano fino a scaturire in una spirale luminosa dalla punta dell'indice.
L'ultima cosa che vede prima di precipitare nella luce è la danza frenetica e vorticosa degli spiriti.



Spalancò gli occhi di colpo.
Giaceva supino su una superficie grezza e irregolare. Sbatté le palpebre più volte prima di mettere a fuoco un comunissimo soffitto di scantinato, polveroso e annerito dal tempo.
Sono ancora vivo...
Inspirò con gratitudine l'aria che sapeva di chiuso e di stantio. Gli sembrava di essere appena riemerso dopo un lungo, lunghissimo periodo di apnea.
“I miei complimenti.” La voce del nemico lo mise in allarme, ma non aveva la forza di muoversi. Aveva prosciugato ogni singola briciola di energia. Con fatica sollevò le mani e le portò davanti agli occhi: sanguinavano, i palmi delle mani squarciati.
La faccia di Death Mask entrò nel suo campo visivo, attraversata da un lato all'altro da un ghigno divertito.
“Sarò sincero, non avrei scommesso su di te. E invece hai superato anche la lezione numero due. Hai la stoffa, ragazzino.”
“Schiller” mormorò. “Mi chiamo Schiller.”
Muovendosi con cautela riuscì a sollevarsi su un gomito. “Questo significa che... ?”
“Significa che hai superato la prova numero due. Ma io continuo a non avere voglia di prendere allievi, sai. Non sono mica un baby sitter!”
Era talmente distrutto da non sentire nemmeno la delusione. Si lasciò cadere di nuovo a terra.
Era vivo. Solo questo contava, adesso.
“Però mi hai fatto divertire. Se non altro grazie a te il mio viaggio nella terra dei crucchi è stato interessante. Perciò... ho deciso che ti insegnerò un trucchetto. Un giochino facile facile che ti sarà parecchio utile, te lo garantisco. Dopotutto, tu sei come me.” Gli strizzò l'occhio, gesto che a Schiller sembrò più inquietante che amichevole. I sorrisi di quell'uomo erano lame a doppio taglio.
“Hai presente gli spiriti? Bene, non sono solo inutili lucine blu. Sono tutto ciò che resta del Cosmo delle persone che muoiono. Sono forza vitale, energia. Reclamali per te. Impossessati del loro Cosmo e usalo per accrescere la tua vita. Capisci perché è importante fare fuori nemici sempre più forti? Così potrai vivere per sempre.”
“Vivere... per sempre?”
“Cerca di non diffondere il segreto. Sai com'è, al Santuario queste cose non vengono prese molto bene.”
Lo afferrò per un braccio e lo rimise in piedi a forza. La sua testa vorticava paurosamente, ma riuscì a non cadere di nuovo. La rivelazione dello straniero gli aveva dato nuova forza.
Death Mask si avvolse nel mantello, nascondendo l'armatura d'oro, e fece per accomiatarsi.
“E se tra un po' di anni sarai ancora vivo e ti capiterà di passare per la Grecia... beh, diciamo che sarei più che propenso a offrirti una rivincita. Un duello come si deve, ad armi pari. Il vincitore prende tutto. In effetti mi attira l'idea di aggiungere un mio simile alla mia collezione... “
Le ultime parole gli arrivarono che Death Mask aveva già imboccato la scala.
“Non ti preoccupare, prenditela pure comoda. Quelli come noi hanno tutto il tempo del mondo.”
Puoi scommetterci, pensò Schiller mentre l'eco dei passi del Cavaliere si spegneva nella distanza.
Nella sua mente si formò un'immagine. Vide se stesso adulto, alto e forte, rivestito della splendida armatura d'oro del Cancro con un ampio mantello bianco che gli cingeva le spalle.
Un Cavaliere aggraziato e letale capace di chiamare a raccolta gli spiriti con un solo movimento delle dita.
“Puoi scommetterci” ripeté.
Ci rivedremo al Santuario.


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Note: non so quanto il concetto di impossessarsi dello spirito/Cosmo di qualcuno per allungare la propria vita sia canonico nell'universo di Saint Seiya, ma lo spunto me l'ha fornito una frase pronunciata dallo stesso Schiller in Saint Seiya Omega. Affermava di aver scelto di servire Mars perche' questi gli aveva concesso di sfruttare il Cosmo delle sue vittime: "I shall steal their Cosmo and live forever... ", dice nei sottotitoli. Io l'ho interpretata cosi'.
"Mangiaspaghetti" (Spaghettifresser) e' un termine dispregiativo con cui i tedeschi chiamavano gli italiani, soprattutto gli immigrati in Germania negli anni Sessanta e Settanta. Non so se fosse gia' in uso nel primo dopoguerra, ma mi piaceva l'idea di accennare in modo indiretto alle origini italiane di Death Mask.
Il maestro "crucco" di Death Mask ovviamente e' una mia invenzione. Mi serviva una scusa per far parlare a lui e Schiller la stessa lingua e rendere la comunicazione possibile XD

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