Il sentimento é reciproco. di ___Ace (/viewuser.php?uid=280123)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. Forse dovrei provare anche gli altri alcolici. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1. Vietare l'entrata ai coglioni. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2. Hangover. Hang-che? ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3. Datti una calmata, Eustass-ya. ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4. Odio queste stronzate. ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5. Un letto sfatto e un tacito accordo. ***
Capitolo 7: *** Speciale Halloween. Ora tu, se lo vuoi, canta la Ballata della Zucca con noi. ***
Capitolo 8: *** Capitolo 6. L'officina era come una seconda casa. ***
Capitolo 9: *** Capitolo 7. Sorridere é per le persone insignificanti. ***
Capitolo 10: *** Capitolo 8. Se c'era qualcuno più bastardo di mio padre, quella era mia madre. ***
Capitolo 11: *** Capitolo 9. La stagione degli amori. ***
Capitolo 12: *** Capitolo 10. Le malsane idee di Rufy. ***
Capitolo 13: *** Capitolo 11. Forse potevo davvero essere forte e senza paura. ***
Capitolo 14: *** Capitolo 12. Un appartamento troppo piccolo per tutti. ***
Capitolo 15: *** Capitolo 13. Piccolo e dolce Eustass-ya. ***
Capitolo 16: *** Capitolo 14. Una cosa che capita. ***
Capitolo 17: *** Capitolo 15. Un Rosso Natale. (Speciale Natale). ***
Capitolo 18: *** Capitolo 16. Disastro, Inferno, Paradiso e Buon Compleanno. ***
Capitolo 19: *** Capitolo 17. Tutto ciò che mi metteva in imbarazzo. ***
Capitolo 20: *** Capitolo 18. Mentre tutto scorreva. ***
Capitolo 21: *** Capitolo 19. La promessa di una vita. ***
Capitolo 22: *** Capitolo 20. Non ti avrebbe mai lasciato. ***
Capitolo 23: *** Capitolo 21. Chi non muore si rivede. ***
Capitolo 24: *** Capitolo 22. Poi il buio. ***
Capitolo 25: *** Capitolo 23. O si chiamavano sentimenti? ***
Capitolo 26: *** Capitolo 24. Il drago nel corridoio. ***
Capitolo 27: *** Epilogo. Un bel modo per perdersi. ***
Capitolo 1 *** Prologo. Forse dovrei provare anche gli altri alcolici. ***
Prologo.
Forse dovrei provare anche gli altri alcolici
«Ehi, Killer, spiegami cosa ci facciamo in questo posto per fighette»
Odiavo quei buchi per topi, dove tutti se ne stavano ammassati in mezzo ad una pista da ballo, gli uni addosso agli altri, senza possibilità di respirare o di rialzarsi se mai si aveva la sfortuna di inciampare in qualche lattina gettata a terra.
Tra tutti i posti del mondo, perché proprio quello? Se ci provavo con qualcuno mi denunciavano per violenza su minore.
Infatti, come a voler confermare le mie ipotesi, la maggior parte dei presenti erano ragazzini con gli ormoni a mille che giravano per il locale con in mano bicchieroni stracolmi di Dio solo sapeva quale superalcolico e si atteggiavano da duri, gonfiando il petto come galletti.
Ci penso io a far abbassare la cresta a questi qui, pensai scocciato, mentre mi sedevo stancamente su uno sgabello libero davanti al bancone del bar, seguito a ruota dal mio migliore amico.
«Non ti piace? E’ una delle discoteche più frequentate qui a Sabaody» si giustificò il biondastro.
«Frequentata da poppanti, a quanto pare» gli feci notare, indicando con un cenno del capo un ragazzino che ci era appena passato accanto, il quale aveva i pantaloni abbassati sotto al sedere e una maglietta attillata rosa. Il tutto completo di cappellino da baseball e occhiali da sole fosforescenti.
Ma a cosa cazzo gli servono gli occhiali a quello sbandato?
Killer si fece pensieroso, continuando a fissare quell’idiota montato, riflettendo sul da farsi.
«Beh, prova a guardarti intorno» insistette.
Sbuffai, alzando gli occhi al cielo e ordinando una birra al barista per distrarmi e annacquarmi un po’ il cervello, sperando che, con l’alcool in circolo, mi risultasse più semplice apprezzare quella topaia dove le ragazze ballavano mezze nude sul palco.
Dopo il primo abbondante sorso, mi tornò alla mente un particolare che mi ero lasciato sfuggire.
«Ti faccio notare che, a parte il bimbetto di prima, indossano tutti una fottuta camicia» feci, allargando le braccia come a voler abbracciare tutta la sala e sottolineando quello che avevo appena detto. In qualche modo, tutti i ragazzi avevano una camicia che, anche se sgualcita o macchiata, spiccava da sotto i cappotti o dalle giacche.
«Io ti avevo detto di non vestirti come al solito» disse Killer, trattenendo un sorriso e sorseggiando la sua vodka.
Digrignai i denti offeso, notando come anche lui si fosse reso presentabile per l’occasione, anche se la sua camicia a pois lasciava parecchio a desiderare.
«Mi stai dando del pezzente?».
«Non ho detto questo».
Non me ne fregava niente se per entrare bisognava essere abbigliati in un certo modo, non dopo aver visto che razza di gente girava per la pista. I miei vestiti erano perfetti e comodi, non c’era altro da dire.
«Certo che anche tu avresti potuto darmi ascolto! Insomma, guardati: anfibi, jeans strappati, giacca in pelle e quei cosi in testa».
Assottigliai lo sguardo, fissandolo minaccioso e pronto a scattare come una molla.
«Cos’hanno i miei occhiali che non vanno?» chiesi velenoso.
Sembrò calmarsi e ricordarsi all’improvviso di un patto importante della nostra amicizia: non erano permessi commenti di cattivo gusto sui miei occhialoni da aviatore, qualunque cosa fosse successa.
Si prese un minuto per tranquillizzarsi e lasciar perdere il suo discorso sul mio modo di vestire, sapendo che sarebbe stata una battaglia persa come al solito.
«Niente, amico, ti risaltano i capelli» concluse alla fine, con un gesto disinteressato della mano per poi tornare a scolarsi il suo drink.
Ecco, così andava meglio.
Lo imitai e bevvi un'altra sorsata di quella birra chiara e costosa che mi avevano servito. Tutto sommato, anche se il posto lasciava un po’ a desiderare, il servizio e le bevande non erano male, anzi.
Forse dovrei provare anche gli altri alcolici, così, tanto per essere sicuro che non siano scadenti.
Mentre programmavo una sbronza da paura, tipica del venerdì sera, la mia attenzione venne attirata dagli incitamenti della folla alle mie spalle, perciò mi voltai incuriosito, cercando di distinguere le figure che si davano addosso a suon di pugni.
Wow, una rissa!
«Sembra che ci sarà da divertirsi» constatò il ragazzo accanto a me, passandosi una mano tra i capelli e scompigliandosi la lunga frangia che gli ricadeva davanti agli occhi.
Ghignai divertito, finendo la birra nel bicchiere e ordinando alla svelta qualcosa di più forte.
Se dovevamo buttarci nella mischia, allora era meglio darsi da fare in grande stile.
«Pronto per sballarti?» chiesi al mio amico, prima di scolarmi quello strano liquido blu che brillava nel bicchiere di vetro che mi avevano appena consegnato.
Per tutta risposta, Killer non aspettò oltre e bevve di schiena il cocktail esplosivo, imitato subito dopo da me.
Mi concessi un attimo per lasciar passare il classico e conosciuto bruciore alla gola e un brivido di eccitazione lungo la schiena per l’imminente divertimento.
Appoggiai con forza il bicchiere vuoto sul banco in legno davanti e me e mi tolsi la giacca nera, adagiandola malamente sullo sgabello, schioccandomi le nocche subito dopo.
Killer scoppiò a ridere, incespicando sui suoi passi e indicando la mia maglietta.
«Che c’è?» feci, mentre un sorriso idiota si dipingeva sul mio volto in risposta all’effetto dell’alcool.
«Non ti sei nemmeno cambiato quando sei tornato da lavoro, vero? Hai una macchia di olio di motore sulla maglia».
«Oh, si, esilarante» tagliai corto, dirigendomi verso la massa di gente che se le suonava di santa ragione per qualche futile motivo.
Se proprio ci teneva a saperlo, avevo anche una chiave inglese che mi aspettava ansiosamente, abbandonata nella tasca del giubbotto alle mie spalle.
Angolo Autrice.
Oggi sono in vena di strafare. A quanto pare l’aver finito la scuola mi da un sacco di tempo che sfrutterò al meglio fino a che non troverò un lavoretto.
Anyway, un nuovo inizio, una nuova storia e indovinate un po’ chi abbiamo come protagonisti.
Se ci sono alcuni dubbi chiedete pure, ma tutto verrà spiegato con il seguito dei capitoli, quindi non preoccupatevi!
Che altro dire, tutto viene raccontato dal punto di vista di Kidd e, come vedrete, di Law.
Un abbraccio e un grazie a tutti, anche a chi legge in silenzio.
See ya,
Ace.
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Capitolo 2 *** Capitolo 1. Vietare l'entrata ai coglioni. ***
Capitolo 1.
Vietare l’entrata ai coglioni
Do you ever feel like breaking down? Do you ever feel out of place?
Ma tu guarda questi ragazzini in fase ormonale. Se la smettessero di tenere il cervello tra le gambe e iniziassero a ragionare seriamente non succederebbero questi casini.
Davanti ai miei occhi si stava svolgendo una delle classiche risse da quattro soldi tra diciottenni che, per gelosia o a causa del vasto e incauto uso degli alcolici, visti come un modo per attirare l’attenzione ed essere trasgressivi, iniziavano ad urlarsi contro, spintonarsi infastidendo le altre persone e prendendosi a cazzotti. Certo, era uno spettacolo da non perdere, ma ormai iniziavano a stancare.
Se qualcuno prendesse l’iniziativa di vietare l’entrata ai coglioni questo posto sarebbe anche passabile, pensai irritato, bevendo un altro sorso di vodka e fissando malamente uno dei bambocci che si atteggiava da duro.
Tsk, puzzeranno ancora di latte.
La storia era sempre la stessa: uno si avvicinava a una ragazza, le faceva la corte, ballava un po’ con lei e poi restava fregato quando il fidanzato di questa se ne accorgeva. Iniziava così il putiferio e la maggior parte delle liti.
Se fosse toccato a me avrei semplicemente consigliato al suddetto ragazzo di aprire gli occhi e tenere più sotto controllo la sua puttana, tutto qui. Si sarebbe incazzato? Meglio, voleva dire solo una cosa: avevo ragione io.
Mi guardavo a destra e a sinistra e quello che vedevo non mi piaceva per niente. I presenti superavano a fatica i vent’anni e quelli che lo facevano erano per lo più quarantenni bifolchi in cerca di qualche svago e di rimorchiare qualche oca ubriaca.
Poggiai il bicchiere vuoto sul bancone. Me ne sarebbe servito un altro se volevo almeno sperare di dimenticare dove mi trovavo e rilassarmi un po’.
Ma che razza di postacci frequentano Penguin e Bepo?
Proprio mentre li nominavo col pensiero, ecco apparire tra la folla intenta a ballare un tipo strambo con in testa il solito cappello con scritto il suo soprannome.
«Allora amico, ti piace il posto?» chiese entusiasta.
Sarebbe stata la prima e ultima volta che ci avrei messo piede spendendo i miei soldi per pagare l’entrata.
Feci una smorfia disgustata. «E’ orrendo. La prossima volta andiamo al Moby Dick come avevo proposto fin dall’inizio».
Mi guardò storto per qualche istante, giusto il tempo necessario per riprendersi e trovare il modo di ribattere.
«Hai ragione, è una merda» accordò infine, dopo averci pensato su con aria grave.
«Mi fa piacere che te ne sia accorto. Raduna gli altri, ovunque siano».
«Non so con quanta facilità riuscirò a trovarli, poco fa hanno intravvisto un gruppetto di ragazze e si sono lanciati in una delle loro mai riuscite imprese».
«Ovvero portarsele a letto?» azzardai annoiato.
«Esattamente» rispose con un’alzata di spalle.
Fa niente, pensai, tanto ormai era chiaro che avremmo dovuto passare il resto della serata in quella sottospecie di asilo per bambini, tanto valeva tentare di divertirsi.
Like somehow you just don’t belong and no one understands you.
Ebbi una folgorazione.
«Dì un po’, Penguin, ti ricordi l’ultima volta che ci hanno buttato fuori da un locale?» chiesi ghignando.
Sembrò cadere dalle nuvole, ma poi una lampadina si accese nella sua testa vuota e l’espressione stupita si trasformò presto in un sorriso malizioso.
«Eravamo talmente ubriachi che siamo saliti sul palco fingendo di essere lo spettacolo forte della serata e ci siamo spogliati completamente».
«Che ne dici di rifarlo?» domandai ammiccando.
Si sfregò le mani, «Offro il primo giro».
Quando fu chiaro che eravamo abbastanza allegri entrambi, dopo vari bicchieri di vodka e altre sostanze ignote di cui non ricordavo il nome, abbandonammo giacca e cappello in quello che era stato il nostro tavolo prenotato in precedenza e ci dirigemmo verso la pista.
Certo che ci stavano dando dentro con la rissa che avevano iniziato. Al centro della sala si era formato un gruppo indistinto di ubriaconi che agitavano i pugni per aria, colpendo chiunque capitasse a tiro o intralciasse i loro movimenti.
Il mio obbiettivo era raggiungere uno dei palchi presenti ai lati della console che sparava musica a tutto volume facendomi vibrare la testa e battere il cuore a ritmo, anche se tutto ciò era solo una sensazione. Per farlo, però, dovevo passare in mezzo alla bolgia di corpi sudati e ansanti, distrutti dalla fatica e dalla spossatezza che portava tutto l’alcool ingerito.
Almeno io ero ancora nel pieno delle mie forze.
Mi voltai alla ricerca del mio fedele compagno di avventure, ma non lo trovai alle mie spalle come avrebbe dovuto essere.
Con orrore, invece, mi accorsi che stava discutendo animatamente con due elementi dall’aria poco cordiale che continuavano a spintonarlo a destra e a sinistra, passandoselo a intermittenza come se fosse una palla.
Mi schiaffai una mano sul volto, esasperato dalla piega sbagliata che stava prendendo la serata.
Ritornai così sui miei passi e mi affiancai al mio compagno, mettendo fine allo stupido gioco che avevano iniziato i due ragazzi dall’aria sfatta che ora ci guardavano dall’alto in basso.
«E tu chi ti credi di essere?» fece il primo, faticando a tenere gli occhi aperti.
«Non ti deve interessare, marmocchio» sputai freddo. Sembravano più piccolo di noi e lo sovrastavo in altezza, perciò bastò un’occhiata di fuoco e un tono intimidatorio per farli sparire dalla mia vista e lontano dalla pista da ballo.
Bene, due idioti in meno a cui pensare.
Do you ever wanna run away? Do you lock yourself in your room?
«Penguin, erano due bambini. Per l’amor del Cielo, fatti rispettare!» sbuffai, riprendendo la mia avanzata verso un cubo libero, poco lontano da noi.
«Non volevo fargli male…» si stava giustificando lui, ma fu interrotto a metà frase da un idiota con i capelli rossi e un brutto muso corrucciato da schiaffi che, spintonato da qualche ignoto, era finito con l’urtare di spalle il mio povero e innocente amico.
E questo colosso da dove sbuca? Guarda com’è conciato, sembra appena uscito di galera. Ma lo sa che carnevale è passato da un pezzo?
Il diretto interessato si voltò a fissare con astio Penguin il quale, un attimo dopo, si ritrovò sollevato da terra e con il viso vicinissimo a quello minaccioso del suo aggressore, rosso di rabbia in tutti i sensi.
«Come cazzo ti permetti di venirmi addosso, microbo?» urlò minaccioso per sovrastare la musica che continuava a riempire le orecchie di tutti senza tregua, mentre la sfera stroboscopica e le luci psichedeliche illuminavano a ritmo la scena che si stava svolgendo indisturbata in mezzo alla sala, dove tutti avevano preso ad incitare i coinvolti e a ballare a determinati metri di distanza.
With the radio on turned up so loud that no one hears you screaming.
D’accordo, avevo mantenuto la calma e superato il fatto di trovarmi in un posto veramente squallido e poco serio; ero riuscito ugualmente a trovare il modo di passare sopra a tutto e a darmi alla pazza gioia ed ora mi si voleva privare addirittura di questo piacere?
No, decisamente non avrei tollerato altri intoppi, soprattutto non avrei permesso a nessuno di trattare così uno dei miei amici, nemmeno a quell’invasato.
«Non è serata, Evidenziatore, torna un’altra volta» dissi serio, afferrando saldamente il polso del ragazzone e iniziando a stringere, gelandolo con un’occhiata omicida.
Si voltò a guardarmi, sostenendo il mio sguardo senza la minima intenzione di cedere e sfidandomi a fare di meglio.
Mi stupì il suo comportamento coraggioso; non tutti riuscivano a tenermi testa, ma quel tipo doveva essere abituato alle minacce, perciò avrei dovuto impegnarmi e fare di meglio per convincerlo a togliersi di mezzo.
Osservai quell’energumeno che avevo avuto la sfortuna di incontrare: i capelli in disordine e un orrendo paio di occhiali con le lenti spesse era appoggiato sulla fronte, tenendo quei ciuffi rosso vermiglio alzati verso l’alto; la maglia sporca di nero, pantaloni neri, scarponi neri. Praticamente avevo davanti a me l’Uomo Nero in persona.
Avrebbe potuto spaventare i mocciosi qui intorno.
Sospirai, ormai era chiaro che non ci sarebbe stato nessun spogliarello gratuito, tanto valeva intrattenersi in un modo più sportivo e gratificante.
«Molto bene» sussurrai pacato, prima di sferrargli una ginocchiata sulla bocca dello stomaco, costringendolo a mollare la presa sul povero Penguin, il quale stramazzò al suolo riprendendo fiato e sistemandosi il colletto stropicciato della maglia.
Il brutto ceffo si massaggiò la pancia sorpreso, ma non così dolorante. Doveva essere uno di quelli super palestrati o abituati a ricevere colpi forti, dato che il mio ginocchio sembrava aver sbattuto contro un muro.
«Non avresti dovuto farlo» mi avvisò, avvicinandosi minaccioso e caricando un destro micidiale.
Alzai gli occhi al cielo, aspettando con calma che facesse la sua mossa.
Fantastico, ora devo pure sistemare questo esaltato. Per fortuna prima di iniziare ho bevuto, almeno non mi sentirò troppo in colpa quando gli spezzerò qualche osso.
«Ti spacco la faccia» affermò, preparandosi a colpire ancora dopo che ebbi schivato facilmente il primo colpo.
Ghignai, «Non preoccuparti, se ti faccio male ti ricucirò alla perfezione».
L’avrei usato come cavia da laboratorio per portarmi avanti con la pratica. Studiare medicina si era rivelato un vero spasso e svuotare quella sua testaccia rossa sarebbe stato un piacere immenso.
Persi di vista Penguin nell’esatto istante in cui iniziammo a picchiarci senza esclusione di colpi.
Quando mi abbassavo per schivare uno dei suoi pugni, approfittavo per recuperare dal pavimento qualcosa di utile da lanciargli addosso e il più delle volte il mio piano andava a segno, dandomi il tempo di reagire e colpirlo all’improvviso.
Riuscii a fargli un bell’occhio nero, ma in cambio mi ritrovai con un labbro rotto. Pazienza, non era nulla di grave, ma gli sarebbe costato caro questo affronto.
Rise sguaiatamente quando notò la mia espressione furibonda e in sangue che mi colava sulla camicia che fino ad allora era rimasta immacolata.
Sputai a terra, fissandolo con odio. Solo guardarlo mi faceva prudere le mani.
No you don’t know what it’s like when nothing feels alright. You don’t know what it’s like to be like me.
Scattai in avanti cogliendolo di sorpresa e, dopo una finta per distrarlo, lo colpii dove meno si aspettava, mettendolo fuori gioco.
Che ne dici, Albero di Natale? Fa male in mezzo alle gambe, vero?
Cercò in tutti i modi di non cedere al dolore, reggendosi a stento in piedi, ma alla fine fu costretto a crollare in ginocchio e a tenersi con delicatezza il cavallo dei pantaloni, mentre io mi godevo tutta la scena, sorridendo vittorioso.
«Cancellati quel ghigno dalla faccia, bastardo!» mi ordinò, tra un respiro e l’altro.
Trattenni una risata solo per non renderlo più ridicolo di quanto già non fosse. «Non prendo ordini da nessuno, Capelli di Fuoco. E ora scusami, ma devo andare».
A quanto pareva, all’entrata erano apparsi alcuni uomini della sicurezza e i gestori del bar stavano indicando la pista dove la rissa continuava a svolgersi regolarmente, attirando tanti spettatori quanti nuovi partecipanti. Di li a poco sarebbero stati sbattuti tutti fuori.
Non appena individuai Penguin dall’altra parte della mischia, mentre si teneva a debita distanza da possibili attacchi e coinvolgimenti, mi affrettai a raggiungerlo, sorpassando il mio dolorante avversario a terra e suggerendogli di mettere un po’ di ghiaccio sull’occhio pesto non appena fosse tornato a casa.
Mi mandò bellamente a quel paese, aggiungendoci vari e coloriti insulti, ma non avrei perso altro tempo prezioso con lui e, soprattutto, non mi sarei fatto buttare fuori dal locale per un casino che non avevo combinato io.
«Tutto bene?» mi sentii chiedere, una volta raggiunto Penguin.
«Tutto a posto» lo tranquillizzai, «Chiama gli altri e usciamo di qui. Digli che non mi importa se stanno scopando».
Il ragazzo si lasciò scappare una risata e, mentre recuperavamo le nostre giacche diretti verso l’uscita, mi accorsi con divertimento che il nostro rosso amico aveva preso a litigare con uno dei buttafuori.
Scossi piano la testa.
Razza di esaltato.
Welcome to my life.
Angolo Autrice.
Beh, a quanto pare i nostri ragazzi si sono incontrati finalmente e hanno già iniziato a fare scintille.
Ho voluto introdurre il testo di alcune canzoni, anche se non sarà così per tutti i capitoli, credo. Però mi piace troppo scrivere con l’idea di avere un sottofondo musicale e se avete qualche suggerimento da darmi o commenti da fare sapete dove trovarmi!
La canzone è Welcome to my life dei Simple Plan.
Grazie a tutti, recensori e lettori.
See ya,
Ace.
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Capitolo 3 *** Capitolo 2. Hangover. Hang-che? ***
Capitolo 2.
Hangover. Hang-che?
I got a hangover, wo-oh!
Sabato.
Adoravo il sabato.
Meglio ancora, veneravo il sabato, soprattutto la mattina.
La lenta e tranquilla mattina, durante la quale passavo le ore a dormire fino a tardi o a vomitare l’anima, liberandomi dall’alcool assorbito la sera precedente in circostanze che ricordavo a malapena e di cui non mi fregava un emerito cazzo.
Quel giorno, invece, le cose erano andate diversamente.
Avevo dormito male durante la notte a causa di un mal di testa pazzesco che mi martellava nel cervello senza sosta. Partiva dal sopracciglio sinistro e mi prendeva tutto il lato della testa, pulsandomi nella tempia e facendomi impazzire. In aggiunta avevo inzuppato le lenzuola con gli impacchi per il ghiaccio che mi ero premuto sull’occhio, sperando vivamente che il colpo ricevuto non fosse troppo evidente una volta passato il gonfiore. Come se non bastasse, mi era toccato camminare a gambe aperte dall’inizio della via del mio quartiere fino a casa, dove mi ero stravaccato sul divano, finendo per alzarmi immediatamente come se i cuscini fossero fatti di spilli.
Avevo l’inguine in fiamme, e non in senso buono o piacevole, al contrario.
Dopo una nottata infernale fui felice di svegliarmi alle dieci e mezza, anche se per i miei standard era dannatamente presto, notando con piacere che almeno la parte che più mi interessava sembrava essere guarita senza effetti collaterali sul mio fisico.
Quel maledettissimo figlio di puttana, pensai, mentre mi dirigevo silenziosamente in cucina, preparandomi ad una disperata ricerca delle cialde per fare il caffè. Ne avevo un assoluto bisogno se volevo affrontare la giornata senza scoppiare in scatti d’ira o di violenza.
Da quando Killer mi aveva iscritto a quel patetico corso di yoga le cose sembravano andare meglio del solito. Niente lamentele da parte dei vicini a causa di rumori molesti, niente visite di controllo indesiderate della polizia, niente animali zoppi. Tutto regolare.
Per quanto odiassi infilarmi una tuta e uscire di casa per presenziare a quelle lezioni noiose ed eterne, dovevo ammettere che avevano dato i loro frutti.
Quando ero a lavoro contavo fino a dieci prima di mandare a fanculo un cliente piuttosto esigente o assillante; nei luoghi pubblici mi trattenevo una volta su tre a fare gesti osceni o a spaventare un passante e mi ubriacavo solo il fine settimana, senza presentarmi all’officina di Franky ubriaco fradicio. Quello me lo concedevo solo in rare occasioni.
I've been drinking too much for sure.
Per questo tutta la rabbia che accumulavo e che mi trattenevo dal sfogare la liberavo i venerdì e i sabato sera, mentre ero fuori a festeggiare con qualche amico. L’occasione per tenersi in allenamento e fare un po’ a pugni si presentava sempre, come era successo quel venerdì.
Notando di sfuggita il mio riflesso sullo specchio del corridoio tornai sui miei passi per confermare i miei timori. Un segno violaceo spiccava come un’insegna al neon sulla mia faccia, facendo quasi pendant con i miei capelli aggrovigliati e in disordine.
Oh, giuro che lo ammazzerò per questo.
Strinsi i pugni e presi a respirare profondamente, calmando l’istinto omicida che iniziava a scorrermi nelle vene.
Calmati, forza, respira. Se lo rivedrai non dovrai ucciderlo. Pena la galera. Ricordatelo bene. Non devi ucciderlo, Kidd.
Non. Devi. Ucciderlo.
Tirai un pugno secco al muro.
Lo ucciderò eccome!
Con poche falcate raggiunsi la dispensa e cercai alla cieca qualcosa di consistente per fare colazione, oltre al mio più che meritato caffè che, forse, mi avrebbe aiutato a calmarmi.
Fortuna che Killer aveva fatto la spesa il giorno prima, ricordandosi di prendere qualcosa anche per me, dato che odiavo andare nei centri commerciali.
Un muffin al cioccolato mi sembrò l’ideale e, dopo averne agguantati due per sicurezza, mi avviai già più tranquillo verso la cucina.
Mentre la macchinetta si dava da fare per soddisfare i miei bisogni, aprii le finestre del soggiorno e illuminai anche le altre stanze, lasciando che i timidi raggi di sole che spiccavano da dietro alcuni nuvoloni scuri mi accecassero per qualche istante.
Non potevo fingere oltre, ero consapevole del fatto che avrei dovuto fare i conti con le conseguenze del mio comportamento sconsiderato.
Dopo che quello stronzo mi aveva messo al tappeto, giocando sporco chiaramente, erano arrivati quelli della sicurezza.
Che divertimento, avevo fatto a botte anche con loro, ignorando il dolore e la stanchezza, spalleggiato da Killer e da un altro paio di ragazzi che non conoscevo, ma che avevano l’aria di chi sapeva da che parte schierarsi. Mi erano stati simpatici da subito, il che era una cosa rara dato che io odiavo qualsiasi forma vivente sulla terra e non ero il classico tipo che faceva amicizia facilmente. Ma quei due, soprattutto quello con la zazzera verde, sembravano a posto.
Infatti, come se il Destino volesse darci l’opportunità di conoscerci meglio, quando arrivò la polizia, entrando nel locale a spada tratta, venimmo additati come causa principale della rissa e passammo una buona ora e mezza fuori al freddo, interrogati dagli agenti e da quell’impiastro di Smoker, il quale non ci lasciò andare tanto facilmente.
Mi conosceva da tempo ormai, per questo sprecava il suo tempo con me, ero il suo teppistello preferito, anche se non appena mi vedeva mi riempiva le orecchie di insulti su mia madre e sul Dio che aveva permesso la mia nascita.
Avevo iniziato all’età di quindici anni, lanciando uova addosso a macchine e case e incendiando le siepi dei vicini, usando la classica scusa del ‘dolcetto o scherzetto?’
Bei tempi quelli. Allora potevo cavarmela con una lavata di capo da parte di mia madre, ma a partire dalla maggiore età avevo passato le mie memorabili nottate in cella con l’accusa di disturbo della quiete pubblica e offese ad un pubblico ufficiale.
Tutto sommato mi volevano bene quelli della caserma, ne ero sicuro anche se non lo davano a vedere. Non che me ne importasse, ma mi piaceva pensarlo ridendoci sopra.
Zoro e Sanji, ecco come si chiamavano! Mi ricordai i loro nomi dopo il primo sorso di caffè.
I got an empty cup, pour me some more.
I due ragazzi, ubriachi marci, si erano presentati dopo che le forze dell’ordine se ne erano andate, stringendoci calorosamente la mano senza smettere di ridacchiare e spintonarsi tra di loro.
Quello biondo, Sanji, lavorava in un noto ristorante di Sabaody, un posto dove non avrei mai messo piede dato che il cibo costava un occhio della testa e tutti quelli che ci andavano erano ricconi. Zoro, la testaccia verde, studiava scienze e motoria all’università e insegnava scherma nel tempo libero.
Dopo un paio di battute sul pessimo abbinamento dei nostri capelli ci eravamo salutati con la promessa di ritrovarci quell’esatto sabato sera con i rispettivi amici.
Se evitavo di pensare al casino in cui mi ero cacciato per colpa di quel moccioso da strapazzo la serata non sarebbe stata affatto male.
Ma non ero capace di passare sopra agli affronti che mi venivano fatti e quelli come lui, quelli che si credevano superiori, non mi piacevano affatto.
Quel bastardo. Quando quel suo amichetto mingherlino mi era venuto addosso, o ero io che ero andato a sbattere contro di lui? Beh, poco importava. Quando mi aveva trattenuto dal disintegrare il moccioso avrei voluto incenerirlo in quel momento, ma qualcosa mi aveva stupito parecchio.
Ci eravamo guardati con sfida, ma nessuno dei due aveva abbassato lo sguardo.
Il che è parecchio strano, pensai, ingoiando in un boccone il secondo muffin, tutti hanno paura di me e con lui non dovrebbe essere diverso.
Non avrei mai creduto che con quelle manine da femminuccia potesse farmi del male invece, quando mi aveva conficcato le sue dita ossute nel polso mi aveva creato parecchio fastidio, tanto che avevo allentato la presa sul suo piccolo amico di poco.
Ma il colpo di grazia me l’aveva risparmiato per un secondo momento. Devo dire che, se non fossi stato il doppio di lui, con quel calcio mi avrebbe steso, ma aveva fatto male i conti con la mia stazza e la mia forza.
Ghignai divertito, sicuramente il suo ginocchio ne avrebbe risentito e poi potevo permettermi di esultare anche per un altro motivo: gli avevo rotto un labbro. Un passo avanti verso il mio malefico e perfetto piano per spaccargli del tutto la faccia.
In quel momento il telefono di casa decise di riempire l’aria con le sue note acute, facendomi tornare il mal di testa.
Imprecando sonoramente andai a rispondere, alzando la cornetta e grugnendo un infastidito ‘pronto?’.
«Buongiorno Kidd, com’è stato il tuo hangover?» fece Killer tutto allegro dall’altra parte.
«Hang-che? E buongiorno un cazzo» mi premurai di fargli sapere.
Mi sembrò quasi di poterlo vedere sospirare e alzare gli occhi al cielo mentre borbottava qualcosa riguardo alla mia scarsa conoscenza dell’inglese, ma gli badai poco perché sembrò ricordarsi il motivo per il quale mi aveva disturbato, evitando così di essere sommerso dai miei insulti. No, non li avrei mai trattenuti a quell’ora del mattino e con un mal di testa che minacciava di diventare sempre più pesante se non avessi trovato un rimedio al più presto.
«Volevo avvisarti che stasera ci aspettano tutti da Shakki, d’accordo?».
«Mpf. Si, va bene. Passo a prenderti?» gli chiesi. Quei gesti di cortesia non erano da me, ma per lui potevo anche fare un’eccezione.
«Ehm, non te lo ricordi?» fece titubante.
«Cosa?». Un brutto presentimento iniziò a farsi strada nel mio stomaco e non era perché dovevo andare a vomitare.
«Non devi dare in escandescenza, va bene? Ieri sera Smoker, per far si che ti dessi una calmata, ti ha ritirato la patente. Sei tornato in taxi».
O. Mio. Dio.
Rimasi immobile a fissare il muro di fronte a me, stringendo convulsamente il bordo del ripiano in legno sul quale era appoggiato il telefono. Mi accorsi distrattamente delle nocche che diventavano bianche a causa della pressione che stavo esercitando.
«Ehi, Kidd? Kidd, ci sei? Calmati amico, ricordati le lezioni per contenere la rabbia…».
«Io lo ammazzo!» urlai, sfogando la mia ira addosso al mobiletto che prese a vibrare sotto ai miei colpi insistenti.
«Ecco, appunto».
E di chi era la colpa di tutto questo? Di quel maledetto ragazzino strafottente.
I wanna keep it going, come on!
Angolo Autrice.
Ecco quello che ho deciso di definire capitolo chiave. E’ ciò che anticipa l’evento, la bomba, il momento tanto atteso. Comunque si, Kidd fa yoga e aspettate di vedere come si veste per l’occasione. E si, nella storia saranno introdotti dove più conviene altri personaggi conosciuti. Sanji e Zoro, come vedrete, sveleranno la loro utilità nel prossimo capitolo nel quale si entrerà nella storia e finirò di girarci tanto intorno dato che sono più ansiosa io di voi.
Basta parlare, vi lascio un piccolo spoiler del prossimo capitolo:
“Ti chiami Eustass, giusto?” chiesi. Gli occhi nascosti dal frontino del cappello e il viso riparato dalle mani incrociate e appoggiate al mento.
Per tutta risposta, un grugnito arrivò alle mie orecchie e un cenno di assenso non sfuggì alla mia visuale protetta.
“Dimmi un po’”, iniziai, sciogliendo le dita e lasciando trapelare un ghigno malefico, “Come te lo sei fatto quel brutto livido?”.
*
Che strano colore, mi ritrovai a pensare, notando per la prima volta quelle pupille grandi e ambrate. Mi ricordarono stranamente casa mia e la sensazione di benessere che provavo a ritrovarmi tra quelle pareti con l’unica differenza che, in quel preciso istante, ero fra le braccia di quell’esaltato che non ci avrebbe messo molto a spezzarmi le ossa.
See ya,
Ace.
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Capitolo 4 *** Capitolo 3. Datti una calmata, Eustass-ya. ***
Capitolo 3.
Datti una calmata, Eustass-ya
In the middle of the night.
Fuori aveva iniziato a piovere, una pioggerellina leggera, ma fitta, di quelle che ti fanno pentire di non aver portato con te l’ombrello e che si insinuano nei vestiti facendoti provare caldo e freddo allo stesso tempo perciò, quando entrai, mi sentii subito meglio percependo il calore accogliente del riscaldamento e dell’atmosfera particolarmente gradevole.
Il locale non era grandissimo, ma era provvisto di grandi vetrate che lo rendevano arioso e illuminato di giorno. Sotto le vetrate erano allineati una serie di salottini con divanetti in pelle sintetica, mentre a ridosso delle pareti erano stati posizionati dei tavoli con panche ai lati. Il bancone del bar era infondo alla stanza e le pareti piastrellate, con rappresentazioni colorate e tappezzate di quadri e manifesti, con volute e tralci floreali. I mobili erano di un legno scuro come il pavimento. L'ambiente e l'atmosfera sembravano piuttosto piacevoli, con musica di sottofondo e non invadente; gruppi di giovani ai tavoli e una buona birra per chiunque ne facesse richiesta.
Praticamente era il posto perfetto per incontrarsi a bere qualcosa prima di passare la notte fra divertimenti di vario genere, in base alle preferenze.
Ero sicuro che mi sarei divertito quel sabato sera. Rufy aveva un modo tutto suo di intrattenere le persone e le sue trovate erano sempre le migliori. Non ci si annoiava mai con lui, poco ma sicuro. Suo fratello, Ace, condivideva l’appartamento con me, così aveva esteso l’invito anche agli altri due miei compagni di studi: Bepo e Penguin.
Era stato molto gentile da parte sua e, non appena eravamo arrivati, tutti ci avevano accolti a braccia aperte, facendoci posto al tavolo e scambiando i soliti convenevoli. Mi piacevano quei ragazzini. Nonostante fossero ancora al liceo e arrancassero per portare avanti gli studi erano sempre sorridenti e pronti a dare una mano. Mi stupivano e mi facevano sentire in imbarazzo che ero pronto a celare con un certo contegno a volte, ma li lasciavo fare, godendomi i loro bisticci, le sfuriate delle uniche due ragazze, ascoltando i resoconti delle loro spericolate avventure stradali, Usopp stava prendendo la patente in quel periodo e Rufy era stato bocciato per la seconda volta, e notando come tutti riuscissero a farmi sentire allegro, anche se continuavo sempre a mantenere un certo distacco.
Non era da me mettermi al centro dell’attenzione. Apprezzavo il loro interesse nei miei confronti, ma tutto aveva un limite e preferivo non lasciarmi coinvolgere troppo dai rapporti d’affetto. Come stavano le cose in quel momento mi andava benissimo.
«Ragazzi ordiniamo? Io ho fame!». Come al solito, Ace iniziò a far valere le proteste del suo stomaco brontolante, seguito subito dopo dal fratello, tale e quale a lui.
Mi permisi di lasciarmi scappare un sorriso. Non sarebbero mai cambiati quei due.
«Aspettate ancora un po’, tra poco dovrebbero arrivare altre due persone» si intromise Sanji, guardando distrattamente l’ora sul display del suo cellulare.
Nuovi individui da studiare, perfetto.
Se c’era una cosa che mi piaceva fare era mettere sotto interrogatorio le persone, soprattutto i nuovi arrivati. Psicologia era una delle mie materie preferite e mi divertivo sempre a indovinare il carattere e i gusti delle persone. Bastava un’occhiata attenta per capire tutto quello che mi serviva sapere della loro vita.
Mentre aspettavamo pazienti, osservai Bepo arrossire di fronte ai commenti di Nami e Robin le quali, ogni volta che incontravano il ragazzone accento a me, non la smettevano un attimo di accarezzare i suoi capelli, continuando a ripetere quanto fossero soffici e quanto lui sembrasse un orsetto adorabile.
La prima volta che le avevo sentite dire una cosa del genere avevo represso un brivido lungo la schiena. Povero Bepo, io non sarei mai riuscito a resistere ad una cosa del genere.
Il diretto interessato se ne stava mogio mogio tra le loro braccia, senza protestare e godendosi imbarazzato quelle attenzioni, mentre un Sanji piuttosto geloso gli lanciava occhiate assassine dall’altra parte del tavolo.
«Oh, eccoli» disse Zoro ad un certo punto, interrompendo le mie riflessioni e sbracciandosi per farsi notare da qualcuno alle mie spalle.
Mi voltai di poco, giusto quel tanto che bastava per vedere con la coda dell’occhio di che razza di individui si trattava e dovetti stringere i denti e reprimere un moto di rabbia non appena riconobbi quell’orribile testaccia rossa alla quale avevo dato una bella lezione la sera precedente.
When the angels scream.
Ripensandoci bene, forse non era poi una situazione così tragica, al contrario, mi avrebbe permesso di stuzzicare quell’invasato e vendicarmi del labbro rotto che mi aveva procurato al quale ero stato costretto a mettere qualche punto la notte scorsa per evitare che la ferita si rimarginasse malamente.
Ci sarà da divertirsi, pensai, calcandomi con forza il cappello in testa, mentre Sanji e Zoro si alzavano e aggiravano le panche sulle quali erano stati seduti per dare il benvenuto ai nuovi ospiti.
«Ragazzi, loro sono Killer Slaughtering e Eustass Kidd. Ci siamo conosciuti ieri» spiegarono alla folla che li fissava sorpresi.
Trattenni una risata alla vista di quelle facce stupite e incuriosite.
Certo, é difficile non notare la chioma indomabile che si erge sopra a quella emerita testa di cazzo di, come si chiama, Eustass Kidd. Basterebbe anche solo il nome stesso a lasciare le persone a bocca aperta.
Ci stringemmo un po’ tutti e, quando mi ritrovai di fronte al poveraccio con l’occhio nero, capii che non avrei potuto rimandare l’uragano che era in arrivo, rovinando così il bel quadretto famigliare e il momento idilliaco. Così, prendendo un profondo respiro e gettando un’occhiata fuggente all’energumeno che avevo davanti, assicurandomi che fosse veramente lui, mi schiarii la voce, pronto ad usare il mio solito tono strafottente. Avevo il dono di far sembrare tutto quello che dicevo una presa in giro. E la cosa mi divertiva, mi divertiva parecchio.
«Ti chiami Eustass, giusto?» chiesi. Gli occhi nascosti dal frontino del cappello e il viso riparato dalle mani incrociate e appoggiate al mento.
Per tutta risposta, un grugnito arrivò alle mie orecchie e un cenno di assenso non sfuggì alla mia visuale protetta.
«Dimmi un po’», iniziai, sciogliendo le dita e lasciando trapelare un ghigno malefico, «Come te lo sei fatto quel brutto livido?».
Con queste parole mi levai il cappello e piantai i miei occhi nei suoi, leggendovi la sorpresa e subito dopo la rabbia, quella che animò i corpi di entrambi facendoci scattare in piedi pronti ad usare le mani per darci addosso, se necessario.
«Tu, rognoso bastardo!» tuonò con ira, sbattendo le mani sul tavolo e facendo rovesciare uno dei bicchieri dei ragazzi. Si trattenne dallo sferrare un pugno solo perché il suo compagno gli bloccò il braccio, intimandogli di calmarsi e di non fare troppo casino, altrimenti l’avrebbero sbattuto fuori.
Nel frattempo Penguin, che si era alzato nello stesso istante in cui lo avevo fatto io, percependo il pericolo, si rimise seduto, sempre tenendo lo sguardo fisso sul ragazzo imbestialito davanti a noi, il quale non la smetteva di dimenarsi per togliersi di dosso le mani dell’amico.
«Non capisci, quel moccioso mi ha preso a pugni» insistette, cedendo infine alle suppliche di Killer e sedendosi scomposto sulla sedia.
Il resto della compagnia era ammutolito e prestava attenzione allo scambio di battute con interesse malcelato e uno strano divertimento da parte di quell’incosciente di Rufy, seguito da suo fratello e da Nami, mentre Chopper, un ragazzo assieme al quale frequentavo alcuni corsi all’università, e Usopp sembravano sconvolti dalla ferocia del nuovo arrivato.
«E anche a calci aggiungerei. A proposito, come stanno i bassifondi?» sfottei, allontanandomi dal bordo del tavolo appena in tempo per non venire afferrato dalla morsa delle braccia di Kidd, il quale si era lanciato attraverso il tavolo per agguantarmi e mettermi a tacere.
«Bada a come parli o questa volta al posto della bocca ti spacco tutta la faccia» sibilò, ritornando al suo posto.
«Provaci» lo sfidai, sperando segretamente che lo facesse sul serio. Non vedevo l’ora di fargli rimangiare tutta quell’arroganza che dimostrava. Sarebbe stato un piacere metterlo fuori gioco. Di nuovo.
I want to live a life I believe.
Quando fu chiaro che non ci saremmo sopportati affatto in quelle condizioni, fu deciso che ci saremmo seduti ai lati opposti del tavolo, in modo da non darci fastidio e non azzannarci alla gola. Peccato, avrei tanto voluto riempirlo di botte fino a farlo svenire per poi amputargli un arto e darlo in donazione ai bisognosi in lista di attesa all’ospedale dove facevo il tirocinio.
Non mi risparmiai però nel dedicargli tutte le peggiori frecciatine di cui ero capace. Infatti, dopo aver ordinato qualcosa da mangiare, ovvero tutto ciò che la cucina offriva a causa dell’appetito dei due fratelli e di Zoro, passò una mezz’ora durante la quale non feci altro che sostenere lo sguardo omicida di quel buzzurro senza cervello. Nessuno dei due parlò o fece un movimento; restammo seduti e in silenzio, lui appoggiato allo schienale della sedia e con le braccia incrociate ed io nella stessa posizione iniziale, quella che usavo per concentrarmi meglio quando escogitavo qualcosa di meravigliosamente offensivo verso qualcuno.
Quella sera le mie attenzioni sarebbero state tutte per lui.
Appena arrivarono le prime pietanze sondai tutti i piatti presenti, trovando lo spunto per i miei commenti sarcastici, ma comunque apprezzati dalla maggior parte dei presenti, dato che i meno svegli scoppiarono a ridere senza ritegno.
«Ehi, Usopp, i tuoi pomodori hanno lo stesso colore dei capelli di qualcuno dei presenti. Che coincidenza».
Dopo aver notato un dito medio rivolto nella mia direzione, sorrisi beffardo e non mi feci scrupoli, sfottendolo senza pietà. Mi dispiaceva solo per il suo amico, Killer, il quale sembrava temere per la sicurezza di tutti mentre cercava di distrarsi, chiacchierando del più e del meno con gli altri per conoscerli meglio e intavolare una conversazione civile, scusandosi anche per il comportamento del suo amico.
Andai avanti così per tutto il tempo, senza tregua, fino a quando non venne deciso per voto unanime che la serata si sarebbe conclusa in un locale poco distante dove, da quello che avevo potuto capire, si esibiva Brook, un membro della compagnia di Rufy. Un altro scapestrato, fissato con la musica e determinato a sfondare come cantante e musicista.
Fuori, per bontà Divina, aveva smesso di piovere, ma in compenso si era alzato un venticello autunnale fastidioso, tanto che mi vidi costretto ad alzare il bavero del mio cappotto nero.
«Allora, ci troviamo tutti al pub?» chiese Nami, tirando fuori dalla sua borsa firmata le chiavi della macchina e avviandosi verso il parcheggio seguita poco dopo da Robin, Sanji e Zoro.
«Si, ci vediamo li tra poco» accordarono gli altri e poi anche Usopp e Chopper andarono a recuperare la loro vettura, se così si poteva chiamare una Mini verde bottiglia con il paraurti arrugginito.
Li guardai scettico, sicuro che, prima o poi, si sarebbero schiantati addosso a qualche albero o peggio, qualche pedone.
«Vi serve un passaggio? Posso fare due giri» si offrì Ace, vedendo che Killer e il balordo idiota non accennavano a muoversi.
«Non preoccupatevi, siamo in moto» affermò il biondino, sorridendogli grato per l’offerta, «A lui hanno ritirato la patente ieri se…». Un sonoro scappellotto si abbatté sulla sua testa, impedendo al ragazzo di spiegarsi, mentre l’irascibile rosso gli intimava di starsene zitto.
Mi lasciai scappare una risata e venni subito deliziato da un’occhiataccia maligna che non mi fece ne caldo ne freddo. Se voleva giocare a chi incuteva più timore che si accomodasse pure. Aveva già perso in partenza.
«Bada a non fare tanto lo spiritoso, Trafalgar» mi ammonì serio, lasciandomi perplesso nel constatare che aveva abbastanza neuroni per ricordare come mi chiamavo.
«E tu datti una calmata, Eustass-ya, o quei capelli te li faccio diventare neri a suon di calci nel culo».
Non appena pronunciai quelle parole mi ritrovai a terra, sopraffatto da un peso eccessivo e serrai gli occhi per la fitta subita alla tempia.
Mi sentii strattonare per la collottola della giacca e mi ritrovai rialzato all’altezza della faccia di Kidd, il quale mi fissava furente digrignando i denti come un animale.
Che strano colore, mi ritrovai a pensare, notando per la prima volta quelle pupille grandi e ambrate. Mi ricordarono stranamente casa mia e la sensazione di benessere che provavo a ritrovarmi tra quelle pareti con l’unica differenza che, in quel preciso istante, ero fra le braccia di quell’esaltato che non ci avrebbe messo molto a spezzarmi le ossa.
Invece, con mia grande sorpresa, si limitò ad urlarmi in faccia quanto mi trovasse stronzo e altezzoso, bestemmiando ogni tre parole e senza smettere un attimo di sbatacchiarmi a destra e a sinistra come un pupazzo.
Gli artigliai i polsi e strinsi forse, sapendo quanto le persone si infastidissero a contatto con la mia pelle fredda, sentendo le mie dita bloccare il flusso sanguigno nelle vene. Il trucco funzionò, facendo si che Kidd mollasse la presa su di me e si allontanasse scosso di qualche passo, imprecando nuovamente e assalito poi da Killer e da Rufy, il quale, in un momento di serietà, gli chiedeva gentilmente e con le buone maniere di non aggredire mai più uno dei suoi amici o se la sarebbe vista con lui.
Alzai gli occhi al cielo. Doveva sempre fare l’eroe quel ragazzino.
Bepo e Penguin mi aiutarono ad alzarmi, chiedendomi se fosse tutto a posto e tastandomi le gambe per controllare che non ci fosse nulla di rotto. La testa pulsava, ma non perdevo sangue. Mi sarei trovato con una forte emicrania il giorno seguente, niente di grave.
Ace, con tutta la diplomazia di cui era capace, si mise in mezzo con le braccia e i palmi rivolti verso due lati opposti, come a volerci tenere sotto controllo.
«Ragazzi, per favore» iniziò supplichevole, «Non so perché non andiate d’accordo, ma fate un piccolo sforzo e piantatela di comportarvi come due bambini».
Tsk, non è certo colpa mia se questo qui non sa contenersi, pensai scocciato. Tuttavia, dobbiamo raggiungere gli altri, ormai saranno già arrivati e non ho intenzione di rimanere qui al freddo in compagnia di quello svitato. E poi posso sempre sfotterlo quando Ace non è nei paraggi.
«E va bene, per me è tutto sistemato» affermai accomodante, sperando che anche il mio avversario intuisse il mio piano, rimandando il nostro scontro ad un momento più propizio.
Sembrò cogliere al volo il mio piano, il che mi fece ricredere sul fatto che non fosse dotato di un cervello funzionante e affermò lo stesso, calmandosi visibilmente.
«Mi fa piacere sentirvelo dire. Ora stringetevi la mano». Ace, per quanto fosse un bravo ragazzo, a volte era troppo pacifista e di conseguenza stupido.
Guardai schifato il rosso di fronte a me e lui fece altrettanto.
«Avanti o non ci muoveremo da qui fino a che non vi sarete decisi a trovare un accordo e sapete tutti quanto Rufy sia impaziente» minacciò, indicando il fratello minore alle sue spalle mentre si infilava le dita nel naso beato, seduto sul cofano di un furgoncino.
Sbuffai sonoramente, avvicinandomi di qualche passo, imitato dopo qualche attimo di esitazione da Kidd e, quando fummo faccia a faccia, lo vidi allungare controvoglia la mano verso di me, borbottando qualche imprecazione e fissandomi con gli occhi ridotti a due fessure.
Misi a dura prova la sua pazienza, sputandomi sul palmo della mano destra e stringendo la sua ghignando. Poi, senza dargli il tempo di replicare o insultarmi, gli voltai le spalle e mi avviai verso la macchina, affiancato in un lampo da Penguin e gli altri, lasciando quell’imbecille a cuocere nel suo brodo.
Time to do or die.
Angolo Autrice.
Fuoco e fiamme dato che, ogni volta che si incontrano, non riescono a fare a meno di scontrarsi, ma sono così fottutamente adorabili quando lo fanno. Passando alle spiegazioni che forse saranno utili: Sanji e Zoro servivano a questo, far si che i due ragazzi interessati si incontrassero e si mandassero a quel paese fin dal primo momento. Volevo dare un cognome a Killer. Non mi piaceva presentarlo solo come Killer, stonava, quindi, come avrete immaginato, Slaughtering in inglese vuol dire Massacratore. Non ho messo Butchering perché significa Macellaio, lol.
Detto questo, la canzone in questo capitolo è Do or Die dei Thirty Seconds to Mars.
Vi lascio anche stavolta uno spoiler dato che il prossimo capitolo è già pronto:
“Ehi Kidd, tu non vieni?” mi sentii chiedere.
“Odio queste stronzate” grugnii in risposta, deciso a non farmi coinvolgere in quelle sciocchezze per bambini.
“Hai paura di perdere, Eustass-ya?”.
Inarcai un sopracciglio scettico e squadrai la fonte del mio nervosismo, notando che batteva con divertimento la mano sul bordo del tavolo, indicandomi il posto libero accanto a lui.
Cosa stava insinuando? Che non avevo il coraggio di battere tutti e ubriacarmi gratuitamente?
Per commenti, consigli, idee e quant’altro, tutto ben accetto, sapete dove sono e grazie infinite a chi legge, recensisce o da anche solo un’occhiata! *_____________*
See ya,
Ace.
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Capitolo 5 *** Capitolo 4. Odio queste stronzate. ***
Capitolo 4.
Odio queste stronzate
Sfrecciavo per le strade a bordo della mia fantastica, stupenda e amata moto con Killer che mi implorava in tutte le lingue che conosceva di andare più piano o, almeno, di non passare tutti gli incroci con il semaforo rosso, rischiando di fare un incidente a detta sua mortale.
You and I will never die.
Non lo ascoltavo. Non sentivo nessuna delle sue parole cariche di paura e terrore. Se mai ci fossimo schiantati la colpa di tutto sarebbe stata solo e unicamente di quel moccioso saccente.
Chi si crede di essere? Gli faccio vedere io chi comanda, parola mia! La prossima volta non la passerà liscia e nemmeno i suoi patetici amichetti riusciranno a tenermi buono e a salvargli la pellaccia.
Quell’impiastro.
Qualche ora prima ero uscito di casa con tutti i buoni propositi per non fare casino e non prendere a pugni nessuno, tranquillizzando Killer e propenso a cercare di allargare le mie conoscenze ed essere un po’ più sociale. Quello era il compito della settimana datomi da quella svitata che mi ritrovavo come insegnante di yoga. Insisteva nel dire che circondarsi di persone amorevoli era una bella cosa e risultare cordiali era importante per instaurare le basi di un rapporto.
Per quel motivo avevo accettato di buon grado l’invito di Sanji e Zoro, sperando in una serata tranquilla e in una sbronza in compagnia ma, ovviamente, doveva andare tutto a rotoli.
La colpa non era mia quindi, io almeno ci avevo provato.
Non appena mi ero seduto al tavolo assieme a quei ragazzini mi ero subito sentito nervoso, come se qualcosa non andasse ed era bastato alzare gli occhi per ritrovarmi di fronte ad un tipo piuttosto smilzo, con un assurdo cappello in testa e una felpa gialla e nera. Non riuscivo a vedergli bene la faccia perché sembrava voler fare di tutto per nascondersi, forse per timore avevo pensato. L’avevo liquidato con disinteresse fino a che non aveva deciso di farsi avanti e parlare. Aveva qualcosa di famigliare, solo non capivo cosa e poi…
Accelerai ulteriormente e il contachilometri schizzò ad una velocità piuttosto sostenuta.
Si era tolto quel colbacco e aveva aperto bocca. Mi era bastato vedere quel ghigno da schiaffi e sentire quelle parole velenose per scattare, dimenticandomi di essere in un luogo pubblico. Anche la sera precedente non eravamo soli, per cui mi sentivo liberissimo di aggredirlo e finire quello che avevo iniziato e lasciato in sospeso, aggiungendo una bella dose di vendetta e soddisfazione personale per la sua insolenza.
Da una parte ero contrariato dall’averlo incontrato di nuovo, ma dall’altra continuavo a ripetermi che adesso avevo un nome e una faccia da ricordare così, se mai avessi deciso di organizzare un omicidio, avrei saputo chi cercare per poi farlo sparire nel nulla.
L’avrei fatto sul serio se non avesse smesso di comportarsi come se fosse migliore e superiore a me, prendendosi la libertà di sbeffeggiarmi davanti a tutti e ridicolizzarmi. E che schifo, avevo toccato la sua bava. Probabilmente aveva la rabbia o altre malattie incurabili.
In effetti sembrava malaticcio, con quelle occhiaie profonde e quell’aria perennemente pacata. Anche quando l’avevo atterrato sembrava non voler reagire. Forse si, era malato e probabilmente ora mi aveva contagiato.
E il mio nome é Eustass Kidd. Non Eustass-ya. Eustass-ya sto cazzo.
Mentre rimuginavo tra me e me, raggiunsi finalmente la periferia di Sabaody, un quartiere piuttosto malfamato e dove la sicurezza era solo una parola priva di vero significato. Le forze dell’ordine non mettevano mai piede da quelle parti, solamente quando avveniva un omicidio, ma per il resto non si scomodavano.
Il luogo ideale per far sparire qualcuno.
Scesi dalla moto con un cipiglio incazzato, ignorando le proteste del mio amico, il quale prese subito a lamentarsi e ad urlarmi dietro per il mio inesistente rispetto delle norme stradali e noncuranza del pericolo.
Quante storie, andavo solo a qualche chilometro sopra la media stabilita e, tanto per essere pignoli, non era successo nulla di grave. Almeno, non fino a quel momento perché, non appena ci ricongiungemmo agli altri, i quali ci aspettavano sotto al tettuccio spiovente della bettola malandata, il mio sguardo si incrociò per sbaglio con quello di quell’insopportabile moccioso e dovetti ricorrere a tutto il mio autocontrollo per non esplodere e dargli addosso come una furia.
Lo squarto. Lo eviro. Offrirò il suo corpo come sacrificio e ballerò intorno ai suoi resti, pensai macabro, mentre oltrepassavo la soglia, attento a non stargli troppo vicino e a non dargli le spalle. Per quanto ne sapevo avrebbe potuto aggredirmi o giocare sporco come l’ultima volta. Soprattutto, quegli occhi così, come dire, scuri non promettevano niente di buono. Al contrario, sembravano volermi risucchiare l’anima e trascinarmi nell’oblio.
It’s a dark embrace.
Il bar non era quello che si poteva definire lusso. Completamente fatto di travi di legno massiccio e ferro; il bancone degli alcolici spiccava al centro della sala mentre tutt’attorno stavano lunghe panche restaurate alla meno peggio e qualche tavolino sbilenco e mangiato dai tarli. In fondo alla sala era stato allestito un misero palcoscenico dove un ragazzo con i capelli afro, tutto pelle e ossa e con un paio di pantaloni a fiori stava accordando la sua chitarra elettrica, sostenuto da qualche curioso che lo interrogava sul suo operato.
Pazienza io che non mi ero mai interessato all’aspetto estetico e a come dovevo apparire agli occhi della gente, ma quello non aveva il minimo gusto in fatto di vestiti.
Ad ogni modo fu contento di vederci ed esultò entusiasta quando i suoi amici andarono a salutarlo e ad assicurarlo che sarebbero stati seduti in prima fila a fare il tifo per lui.
Ignorando quell’allegria generale e tenendomi in disparte, fulminando chiunque osasse avvicinarsi o urtarmi, persino i camerieri, aspettai che la smettessero di fare tutto quel baccano e che decidessero di accomodarsi da qualche parte, per quanto le sedie fossero sgangherate o traballanti. Alla fine optarono per un tavolo di medie dimensioni poco lontano dal palco e, agguantati un paio di sgabelli dalle postazioni vicine, riuscimmo a trovare tutti una comoda seduta.
Questa volta fummo ben attenti dal mantenere le distanze, lanciandoci comunque, di tanto in tanto, occhiate di puro odio a distanza, ma non persi tempo restandomene con le mani in mano. Raccolsi invece un paio di informazioni che mi sarebbero tornate utili, prima o poi, se mai avessi deciso di diventare un serial killer. Sorseggiando con finta noncuranza una birra ebbi modo di ascoltare parte della conversazione fra Killer e un idiota che si faceva chiamare Penguin, il quale andava in giro con un cappello che recava il suo nome. Stando a quello che diceva, lui e il bastardo, Trafalgar, frequentavano il terzo anno alla facoltà di medicina all’università.
Ecco perché il labbro che gli avevo rotto durante quella squallida rissa non era messo così in evidenza come avrebbe dovuto essere. Doveva esserselo fatto curare e medicare dai suoi colleghi, felici di poter mettere mano su della carne viva.
Repressi una smorfia schifata e mi scolai un altro sorso, lasciando vagare lo sguardo per la stanza e notando con stupore che il musicista, Brook, aveva appena iniziato a suonare e quello che prometteva il suo repertorio non era affatto scadente, anzi.
Reprimendo la fastidiosa sensazione di essere osservato e lottando con me stesso per non sbottare e mandare all’inferno quel medicastro, iniziai ad osservare curioso Rufy, una bomba ad orologeria che sprizzava energia da tutti i pori e che non stava ferma un minuto. Il ragazzino si era appena appollaiato su di una botte li vicino, parte integrante dell’arredamento, con la scusa di non riuscire a vedere bene l’esibizione dell’amico scheletrico. Si alzò in piedi varie volte, incitandolo ed urlando a squarciagola la sua approvazione, ottenendo in risposta svariati pollici sollevati da parte del diretto interessato.
«Ehi, Eustachio, ti stai divertendo?» mi chiese ad un certo punto, facendomi pulsare pericolosamente una vena sulla tempia.
Gli risposi con un ringhio che scambiò per un cenno di assenso, dato che mi batté una mano sulla spalla, felice della mia partecipazione.
Decisi di ignorarlo e di lasciarlo alle sue convinzioni, dopotutto andava ancora a scuola e sembrava non brillare di intelligenza propria perciò, per quella volta, l’avrei lasciato in pace. E poi era un tipo innocuo, non faceva altro che mangiare e ridere. Addirittura fu ben contento di salire sul palco con altri due suoi compagni, uno con un naso enorme e ingombrante e l’altro piccolino e di bassa statura con una faccia tonda e infantile, assieme ai quali improvvisò una danza oscena e imbarazzante che sembrò divertire i presenti, animandoli a fare il tifo e a brindare alla loro salute.
«Fanno sempre così, non vi preoccupate» spiegò Zoro, svuotando il terzo bicchiere, seguito a ruota da una delle due ragazza più ubriaca di lui.
«Ehi, tu non devi guidare?» biascicò, accortosi del suo stato e guardandola stranito.
«Nah, ci pensa Robin» lo tranquillizzò lei, ammiccando poi in direzione dell’amica in fondo al tavolo.
«Propongo una gara di bevute» se ne uscì il mio vicino e notai con orrore che si trattava nientemeno che di Killer. «Chi vince non paga il conto!» propose infine.
Cosa ci fa con una corona di fiori in testa? Quando gliel’hanno messa?
Troppo impegnato ad osservare ad occhi aperti quel suo strano ed insolito comportamento, non prestai attenzioni a coloro che si offrirono ben volentieri di partecipare, accomodandosi tutti in fila sulla stessa panca e lasciando i giudici dall’altra parte. La maggior parte di loro era già alticcia, ma sembravano ben intenzionati ad andare fino in fondo e vincere.
«Ehi Kidd, tu non vieni?» mi sentii chiedere.
«Odio queste stronzate» grugnii in risposta, deciso a non farmi coinvolgere in quelle sciocchezze per bambini.
«Hai paura di perdere, Eustass-ya?».
Inarcai un sopracciglio scettico e squadrai la fonte del mio nervosismo, notando che batteva con divertimento la mano sul bordo del tavolo, indicandomi il posto libero accanto a lui.
Cosa stava insinuando? Che non avevo il coraggio di battere tutti e ubriacarmi gratuitamente? Sciocchezze, io e l’alcool eravamo amici di vecchia data e il mio organismo ormai lo reggeva benissimo e senza troppa difficoltà. Avevo praticamente la vittoria in pugno.
Mi alzai dall’angolo in cui mi ero isolato, aggirai Rufy, attento a non urtare l’equilibrio precario della sua botte, e raggiunsi scocciato quell’imbecille, non risparmiandogli una meritata gomitata alle costole.
«Oh, scusa. Non ci stavo» mi giustificai, senza preoccuparmi del fatto che si capiva benissimo che l’avevo fatto a posta.
Assottigliò gli occhi e mi dedicò uno sguardo gelido, ma quel ghigno che gli incorniciava spesso la faccia non tardò ad arrivare, più malefico che mai.
Giurai che gliel’avrei fatto sparire a suon di pugni.
«Non giocare troppo col fuoco, Malpelo».
«Pronti?» domandò Robin, la ragazza mora, attirando l’attenzione su di sé e osservando tutti con aria tranquilla, sicuramente abituata a quelle scene.
Portai la mano al bicchiere che avevo di fronte. Non sapevo cosa ci fosse dentro, ma ero più che propenso a battere quel so-tutto-io e fargliela pagare a qualsiasi costo.
«Tappati quella boccaccia, Trafalgar!» sussurrai minaccioso.
«Via col primo round!».
In the beginning was a life, a dawning age.
Come ci ritrovammo a dover fronteggiare un gruppo di scocciatori che non la smettevano di provocarci a fare la prima mossa non lo ricordo bene.
Stavamo bevendo ininterrottamente da circa tre quarti d’ora e alternavamo boccali di birra con bicchierini di gin, vodka e rum, trovando sempre più divertente qualsiasi cosa ci capitasse di vedere.
Persino quello stronzo di Trafalgar mi risultava, se non simpatico, almeno più accomodante.
Sanji, imitando l’altro pagliaccio travestito, Penguin, era crollato da poco e se ne stava sdraiato sul ripiano del tavolo, lamentando un forte capogiro e una nausea crescente, con tanto di crampi allo stomaco. Il gruppetto di medici gli aveva assicurato che sarebbe bastato mettere la testa nel water e aspettare un po’, poi sarebbe passato tutto nel giro di cinque minuti.
Nel frattempo, Ace, Zoro, la ragazza disinibita, Killer, il medicastro ed io continuavamo ad ingerire litri e litri di alcool senza preoccuparci minimamente delle conseguenze.
Non avevo tenuto d’occhio la situazione come avrei dovuto e non mi ero accorto che quell’incosciente di Rufy aveva volontariamente offeso un membro di un altro gruppo poco distante dal palco. Stando a quello che diceva in nostro ragazzino, continuando a infierire e a farlo innervosire, l’altro aveva preso in giro Brook e la sua musica, facendo versi e sghignazzando con i suoi compagni.
Probabilmente era quello il motivo più plausibile per il quali li stavamo fronteggiando fuori dal locale, reggendoci in piedi a malapena e urlandoci contro qualsiasi tipo di insulto.
Mi girava leggermente la testa, ma riuscivo ancora a vederci bene e ad avere i riflessi pronti e i muscoli scattanti, pronto a usare le mani e la forza se fosse stato necessario. Lo stesso valeva per il resto degli sbandati che mi spalleggiavano. Ace non vedeva l’ora di difendere il suo amato e stupido fratellino; ovunque ci fossi io era ovvio che ci fosse anche Killer; la causa del battibecco, ovvero Rufy e un ghignante Trafalgar, senza la minima traccia di titubanza e tremolio alle gambe, perfettamente padrone della situazione.
Alzai le spalle, indifferente a quella sua mostra di autocontrollo e tornai a concentrarmi sui volti di quei guastafeste. Se non si fossero messi in mezzo avrei sicuramente vinto la gara, poco ma sicuro, ormai era chiaro che tutti stavano per cedere.
«Bene gente, ci penso io a sbarazzarmi di questi qui e vi farò il favore di darvi una mano in caso di bisogno» affermai, facendo un passo avanti e assumendo un’aria spavalda. Era chiaro che il più grosso ero io, il resto erano tutti piuttosto smilzi, perciò mi sembrò una buona azione prendere le loro difese e riservare tutto il divertimento per me. A conti ben fatti, non ero così egoista, mi preoccupavo solamente per la loro salute.
«Non ci pensare nemmeno! Li sistemo io!». Come se non ci fosse nulla di più importante al mondo, Rufy si precipitò al mio fianco, trattenuto a fatica dal fratello, e si tirò su le maniche del maglione rosso di due taglie più grandi, mostrando i pugni in segno di sfida.
«Non sperare di prenderti tutto il merito» aggiunse poi il medicastro, ghignando sadicamente in direzione dei nostri avversari, i quali non aspettavano altro che iniziare una classica rissa da bar, sperando forse di metterci al tappeto e lasciarci a marcire per terra. Peccato per loro che le cose non si sarebbero risolte così facilmente.
«Vi ho detto di farvi da parte» ripetei stizzito. Possibile che nessuno mi desse mai ascolto? Non avevano nessuna possibilità contro di loro, chiaramente abituati ad attaccar briga ma, evidentemente dovevano sbattere la testa più volte prima di imparare la lezione.
«Dammi ancora degli ordini Eustass-ya e giuro che sarai il primo ad essere preso a calci».
Stavo quasi per colpirlo e frantumargli le ossa, ma c’era qualcuno di più impaziente di noi che, a quel punto, decise che era arrivato il momento di smetterla di parlare e passare all’azione. Rufy prese l’iniziativa di sua spontanea volontà, cogliendo di sorpresa anche i brutti ceffi di fronte a lui i quali, stupiti che un adolescente così minuto e dall’aria infantile potesse avere tanto coraggio, si ritrovarono a ricevere pugni in faccia in pochi secondi.
Quello fu il segnale per tutti e presto diventò difficile distinguere i cattivi da i buoni, se si voleva metterla in questi termini. Noi, o meglio, la maggior parte, combatteva per il rispetto mancato all’amico musicista. Killer ed io eravamo solo gli imbucati, ma accettavamo con piacere una sana competizione, qualunque fosse la causa scatenante. Eravamo tipi spericolati, io soprattutto, e metterci alla prova ci divertiva e ci dava una scarica di adrenalina di cui non potevamo fare a meno. E poi, più eravamo capaci di difenderci, meno venivamo coinvolti e presi di mira da bulli da quattro soldi o ladri, rapinatori e quant’altro. La solita gentaglia che si incontrava frequentando spesso brutti posti.
Ad un certo punto udii un inquietante crack e un urlo straziato, girandomi appena in tempo per vedere un ragazzo crollare a terra sofferente, stringendosi un polso al petto, mentre l’autore del suo male lo fissava dall’alto, con le mani nelle tasche della giacca e un’espressione compiaciuta.
Quando si accorse di essere osservato, sollevò il capo piantando un paio di occhi grigi e soddisfatti nei miei, facendomi deglutire a fatica.
Cosa gli ha fatto quel bastardo? Con quello sguardo sarebbe anche capace di averlo ammazzato. Guarda che occhi da pazzo! E’ posseduto dal Demonio, senza dubbio.
Si strinse nelle spalle, indicandomi poi con un dito di fare attenzione a chi mi stava dietro, salvandomi appena in tempo dal ricevere una pesante sprangata sulla schiena data da un bidone della spazzatura dentro al quale ci feci finire, pochi istanti più tardi, il malcapitato che aveva osato anche solo provare a rendermi inoffensivo.
Con quel colpo si concluse tutto. Li avevamo battuti senza troppa difficoltà e senza subire pesanti danni. Rufy, a discapito di tutto, non aveva nemmeno un graffio. Ace, al contrario, era ansimante e piuttosto stanco per aver fatto il doppio del lavoro nel tentativo che sulle spalle del fratello più giovane non gravassero troppi uomini con l’intento di prendere di mira il più piccolo e, secondo loro, debole. Zoro e Sanji si sostenevano a vicenda, dandosi delle confortevoli pacche sulle spalle, ma sani e senza nulla di rotto a parte qualche ematoma violaceo che spuntava già sulla superficie delle loro facce. Killer, dopo un’attenta occhiata, sembrava ancora carico e deciso a continuare se ce ne fosse stato bisogno e continuava a ripetere a Penguin-nanerottolo, il quale sembrava essersi ripreso dal malessere precedente, che il taglietto appena accennato sopra al sopracciglio non aveva bisogno di nessuna sutura.
Era andata piuttosto bene alla fine.
Mi schioccai le nocche e feci un respiro profondo sentendomi subito più leggero. La tensione accumulata durante la settimana si era affievolita e mi sentivo già più propenso a calmarmi e a non farmi prendere la mano dagli scatti d’ira. Nessuno avrebbe potuto scalfire la mia apparente tranquillità, ero troppo rilassato e contento di aver rotto qualche setto nasale.
«Ehi, Eustass-ya, speravo in qualcosa di meglio da parte tua».
Chiusi gli occhi e digrignai i denti.
A quanto pare c’è qualcuno che può farmi incazzare anche in questo momento.
Time to be alive.
Angolo Autrice.
Quarto capitolo arrivato! Anche qui continua Do or Die dei Mars. Comunque si, Kidd ha come mezzo di trasporto un bolide nero super cattivo che venera e che ama spingere al massimo. Ovviamente una bella rissa non poteva mancare e se avete notato qualche similitudine tra questa scena e quella dell’incontro tra questi tre personaggi a Sabaody, quando litigano per eliminare i marines, beh ci avete visto giusto. Le parole si sono scritte da sole in realtà. Poi, quanto carino non è Penguin che, anche se ubriaco marcio, fa il suo dovere e si preoccupa per Killer?
Law ha rotto il polso ad uno degli avversari. Si, è sadico, ma figo.
Kidd ha gravi problemi di autocontrollo come vedremo nel capitolo 5.
Passiamo al piccolo spoiler, giusto per non rovinarvi tutto:
Allungai una mano e scostai un poco le coperte per vedere in faccia la realtà che, con forza e brutalità, si stava facendo strada dentro di me.
Dio, ti prego, prendimi adesso.
*
Non riuscii a trattenermi dal lanciare un imprecazione colorita, sussultando e scattando a sedere, urtando involontariamente il corpo accanto a me e facendolo piombare con un sonoro tonfo a terra.
“Cosa cazzo ci fai a casa mia, razza di imbecille?”.
Sapete dove trovarmi per qualsiasi cosa. E grazie sempre a tutti, dal primo all’ultimo, davvero.
See ya,
Ace.
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Capitolo 6 *** Capitolo 5. Un letto sfatto e un tacito accordo. ***
Capitolo 5.
Un letto sfatto e un tacito accordo
Sospirai beato, rigirandomi nel letto con un mugolio soddisfatto, grato del calore che fornivano le lenzuola felpate e il piumone di mezza stagione. Anche se era solo ottobre faceva già abbastanza freddo fuori e il tempo preannunciava un inverno gelido e nevoso.
Affondai il viso nel cuscino morbido e ignorai la sveglia, sperando di ritornare a dormire ancora un po’. Anche il dormiveglia non mi sarebbe dispiaciuto. Senza riflettere aprii gli occhi e sbattei più volte le palpebre per abituarmi alla luce fioca presente nella stanza, fissando lo sguardo sul comodino accanto al letto. Era tutto insolitamente silenzioso e dalle altre stanze non giungevano rumori molesti come pentole che sbattevano o le note di una radio accesa. Regnava la calma nell’appartamento che condividevo con i ragazzi, il che era strano, ma ipotizzai che forse erano solo tutti stanchi e troppo sbronzi per svegliarsi e girare per casa.
Decisi così che avrei passato la mattinata a poltrire, approfittando di quella splendida occasione per dormire fino a tardi, cosa che mi concedevo di rado, addormentandomi spesso ad improponibili ore della notte sulla scrivania con un volume di anatomia e una lampada a vegliare su di me.
Quando mi risvegliai, rendendomi conto di essermi riaddormentato senza accorgermene, potevo distinguere meglio le fattezze della camera da letto dato che, molto probabilmente, il sole era già alto nel cielo.
Guardandomi meglio intorno corrugai la fronte, chiedendomi quando avevo fatto tingere il soffitto di grigio. Forse era solo un gioco di luce. Il problema era che io non avevo nemmeno un piumone a scacchi rossi e neri, tantomeno il mio comodino consisteva in un’enorme cassapanca in legno d’ebano.
Mi stropicciai gli occhi con una mano per cercare di vederci meglio. Magari stavo ancora sognando e mi ero immaginato tutto ma, quando ormai mi ero deciso ad alzarmi e verificare tutto sotto un attento studio, qualcosa si mosse sotto alle coltri e mi fece immobilizzare sul posto.
Ma cosa diavolo…?
Quando un corpo rotolò verso di me e un peso che non avrebbe dovuto esserci fece pressione sulla mia schiena, schiacciandomi bellamente la faccia sul materasso mi sentii mancare il respiro.
Ero sempre stato un tipo calmo e capace di tenere la situazione sotto controllo, ma in quel momento qualcosa era sfuggito ai miei calcoli per la prima volta, lasciandomi interdetto.
Ma dove cazzo sono finito?
Un leggero russare arrivò alle mie orecchie, così sbuffai e alzai gli occhi al cielo, incapace di fare altro, stupito e ancora stordito dalla bizzarra ed inaspettata piega che aveva preso la giornata.
Andiamo, quanto dovevo aver bevuto la scorsa notte? Talmente tanto da ritrovarmi a casa del primo sconosciuto che mi aveva fatto il filo? Mio Dio, come ero caduto in basso. Pazienza, dovevo solo alzarmi lentamente e senza movimenti bruschi, raccogliere la mia roba e svignarmela il prima possibile per evitare situazioni imbarazzanti e spiegazioni che avrei preferito non dover dare. In un altro momento me ne sarei altamente fregato e avrei indossato la solita maschera da menefreghista, ma non ero dell’umore adatto. Sentivo che qualcosa non andava e avevo la netta sensazione che, se avessi scoperto la faccia di colui che mi dormiva addosso, mi sarei autopunito duramente.
Con tutta la calma e la gentilezza di cui ero capace feci forza sulle braccia, come faceva Ace quando decideva di mettersi a dieta e fare flessioni a caso, sollevandomi un centimetro alla volta e scrollandomi più piano che potevo di dosso quello che non poteva definirsi peso piuma.
Lo sentii sbadigliare e spostarsi di sua spontanea volontà, brontolando qualcosa di incomprensibile per poi beccarmi un calcio su un fianco, rischiando anche di finire fuori dal bordo del letto che scoprii essere da una piazza e mezza.
Mi passai una mano sul volto e poi fra i capelli, tirando leggermente le ciocche e digrignando i denti, dandomi mentalmente dello stupido per essermi cacciato in un guaio come quello.
Devo essermi lasciato andare parecchio per non ricordare nemmeno cosa é successo dopo la rissa.
L’unico ricordo che mi sembrava chiaro e non troppo sfocato era di aver accettato la proposta di uno dei ragazzi a bere ininterrottamente e gratis. Probabilmente Brook doveva essere stato entusiasta dell’esibizione e del successo ottenuto e aveva deciso di offrire lui per tutti. Si, mi ero dato alla pazza gioia per quel motivo, ne ero quasi certo.
E poi che ho fatto? Ho bevuto come un dannato, ma oltre a questo? Ah, la testa mi gira e ho le gambe bloccate da quelle di questo balordo che se non la smette di agitarsi gli amputo un braccio.
Mi voltai verso l’essere umano che mi respirava affianco per fulminarlo con una delle mie occhiate micidiali che, se avesse potuto vedere, l’avrebbero fatto dormire per sempre, ma dovetti cambiare un’altra volta le mie intenzioni non appena notai degli orribili ed inquietanti ciuffi rossi spuntare da sotto al lenzuolo.
No, maledizione! Non può essere…
Allungai una mano tremante e scostai un poco le coperte per vedere in faccia la realtà che, con forza e brutalità, si stava facendo strada dentro di me.
Dio, ti prego, prendimi adesso.
Invocai la morte appena mi resi conto effettivamente in che razza di casino mi ero cacciato.
Quella testaccia rossa di Eustass Kidd dormiva profondamente e senza la minima traccia di turbamento in volto, sfoggiando invece una perfetta espressione rilassata e soddisfatta.
Non riuscii a trattenermi dal lanciare un imprecazione colorita, sussultando e scattando a sedere, urtando involontariamente la massa informe accanto a me e facendola piombare con un sonoro tonfo a terra.
Se prima avevo pensato di darmela a gambe, ora desideravo ardentemente sparire, specie dopo averlo sentito proferire le prime bestemmie rivolte a qualunque entità in ascolto.
Fissai con orrore una mano spuntare oltre il bordo di quella sottospecie di branda da quattro soldi e aggrapparsi con forza ai primi stracci di stoffa che le capitarono a tiro, arrivando poi a sollevare il busto, le spalle, una faccia incazzata e una chioma fulva indomabile.
Non appena quegli occhi spiritati incrociarono i miei e capirono la situazione iniziò il delirio che avrei tanto voluto evitare più di ogni altra cosa al mondo. Ma ciò non era possibile, per cui tanto valeva che mi rimboccassi le maniche e che mi buttassi a capofitto in quella bufera per divertirmi e uscirne vincitore, come sempre.
«Cosa cazzo ci fai a casa mia, razza di imbecille?» urlò quel brutto muso da schiaffi davanti a me, alzandosi in piedi e lanciando per aria uno dei cuscini, sollevando una nuvola di piume.
Grazie al Cielo indossava i boxer.
Sfoggiai il mio ghigno più fastidioso, incrociando le braccia al petto e osservandolo mentre faceva una classica scenata da malato di mente, ergendosi minaccioso sotto il mio sguardo.
«Me lo sono chiesto anche io, Eustass-ya, anche se le circostanze parlano chiaro» dissi calmo, adocchiando le condizioni precarie del letto e alcuni vestiti lanciati a caso addosso ai ripiani presenti nella stanza. Per quanto avessi cercato di non pensarci, non appena mi ero reso conto di non trovarmi a casa mia, dove avrei dovuto essere, avevo capito che svegliarsi in un letto che non era il mio, ma quello di uno sconosciuto, in questo caso della fottuta testa rossa, voleva dire solo una cosa.
«Non mi verrai a dire che io e te abbiamo fatto sesso!» fece sconvolto senza tanti giri di parole, allargando le braccia in modo teatrale e lasciandole ricadere lungo i fianchi quando gli diedi la risposta che temevamo entrambi di sentire.
«Per quanto mi faccia schifo pensarlo, si». Non perdere l’autocontrollo e mantenere un certo distacco erano le soluzioni migliori.
Il silenzio che seguì fu parecchio imbarazzante e il fatto di non sentire le sue patetiche e prevedibili frasi da pazzo non mi diede quella dose di sicurezza di cui avevo bisogno. Insomma, se lui sclerava e dava di matto potevo benissimo gestirlo e trovare una soluzione, ma se si comportava diversamente, come una persona razionale, allora non avevo idea di come reagire di conseguenza.
Mi era bastata un’occhiata per capire con che tipo avevo a che fare e per spere come agire nei suoi confronti, come rispondere e come atteggiarmi. Lui e la tranquillità non andavano d’accordo, era ovvio. Preferiva le maniere forti, ma in quel momento sembrava deciso ad andarsene avanti e indietro per la stanza, passandosi convulsamente le mani fra i capelli, scompigliandoli ulteriormente. Il tutto davanti al mio sguardo sorpreso, mentre me ne stavo ancora seduto e al caldo.
All’improvviso decise di aprire bocca, sbottando infastidito.
«Non mi ricordo niente» ammise, sedendosi ai piedi del letto e dandomi le spalle, sbuffando come una locomotiva.
«Nemmeno io» sospirai, «E per fortuna, aggiungerei, probabilmente resterei traumatizzato dalla tua performance».
Si voltò per dedicarmi uno sguardo omicida e infastidito oltre ogni limite.
«Vedi di sparire al più presto dalla mia vista» sibilò acido, indicandomi la porta.
Sorrisi sornione, «Con piacere». Così dicendo mi liberai delle lenzuola e, senza curarmi del fatto di essere osservato, mi alzai e mi stiracchiai con tutta calma come un gatto, allungando le braccia verso l’alto e inarcando la schiena. Sapevo che mi stava studiando, ma mettere a disagio le persone faceva parte del mio carattere.
Raccolsi i pantaloni da terra e li infilai, cercando con lo sguardo la mia felpa e trovandola adagiata malamente su una sedia poco distante.
Mentre la raddrizzavo notai con la coda dell’occhio che quell’idiota non si era mosso dalla sua postazione e osservava la scena con una smorfia divertita che si allargava sempre di più sul suo viso. Il che mi fece scattare come una molla perché l’unico che poteva permettersi di ridere a costo degli altri ero io, perciò non gli avrei permesso di continuare a ghignare a mie spese.
«Che c’è Eustass-ya, non riesci a staccarmi gli occhi di dosso?» chiesi malizioso, con l’intenzione di farlo arrabbiare e perdere le staffe, così da poterlo beffeggiare ancora un po’ prima di andarmene.
Ignorando totalmente i miei commenti scosse la testa con finta esasperazione, decidendosi poi ad alzarsi e, con mia sorpresa, avvicinarsi e strapparmi con decisione la maglia dalle mani, lasciandola ricadere dove l’avevo recuperata poco prima.
Tornò serio e ci fronteggiammo per qualche istante, durante il quale non gli risparmiai un’occhiata furente di sfida.
Entrambi sostenemmo una gara di sguardi, scavando a fondo per cercare di capire le reciproche intenzioni e sperando di ricordare qualcosa, un minimo particolare magari, della notte trascorsa.
Non so cosa di preciso fece scattare entrambi, ma ad un certo punto ci lanciammo uno sulle labbra dell’altro in una lotta per la supremazia fatta di morsi e baci roventi.
Non era il momento di essere responsabili, per niente, e più tardi, quando ci avrei ripensato seriamente, avrei dato la colpa all’alcool ingerito ancora in circolo per avere una spiegazione plausibile e abbastanza credibile che giustificasse le mie azioni.
Non so se mi sconvolgesse di più il fatto di trovarmi di nuovo sdraiato a letto con quel bastardo esaltato o di dover ammettere che quei baci e quelle carezze così rudi e fatte per mettere in chiaro chi dei due comandava erano il mix migliore che avessi mai provato sulla pelle.
Mi sentii tirare i capelli e in risposta gli morsi una spalla, deciso a non farmi sopraffare e a fargli capire che non l’avrei lasciato vincere, non quella partita.
«Non provarci nemmeno, Trafalgar. A questo gioco comando io» sussurrò ghignando, ma potei benissimo percepire la sua determinazione e la promessa che quelle poche parole celavano. Non avrebbe ceduto e non ero intenzionato a farlo nemmeno io.
Sarebbe stata una battaglia alla pari.
Ormai ricordavo sempre più con chiarezza la dinamica di quell’insolito sabato sera. Avevamo bevuto tutti quanti, tanto che Kidd non ce la faceva nemmeno a salire in moto e a mantenersi in equilibrio, così avevo finito per accompagnarlo a casa a piedi, camminando in modo precario sulle mie gambe mentre lui si teneva appoggiato alla moto che spingeva con fatica tra una risata e l’altra. A quanto pareva gli alcolici e la birra avevano favorito l’intesa tra di noi e la simpatia reciproca, la stessa simpatia che era scomparsa non appena ci eravamo guardati negli occhi quella mattina, riscoprendo quel sentimento di fastidio nel ritrovarci nello stesso posto allo stesso momento. E per giunta sotto le stesse lenzuola.
Sentimento che persisteva, anche se stavamo disfacendo il letto più di quanto non avessimo già fatto poche ore prima.
Ricordavo vagamente che Ace, uno dei meno brilli, aveva portato a casa il suo piccolo fratellino, Bepo e Penguin, dando un passaggio anche all’amico del rosso con il nome da omicida, Killer. Per quel motivo mi ero ritrovato da solo, senza un mezzo di trasporto e ubriaco marcio assieme a quel demente, arrivando a seguirlo fino a casa sua, senza nemmeno aspettare di arrivare alla porta d’ingresso prima di baciarlo senza un valido motivo, cogliendolo alla sprovvista e venendo ricambiato subito dopo.
Perché me lo ricordavo perfettamente, era tutto nitido. Avevo iniziato io quel delirio, ero stato io a baciarlo. Ogni azione era partita da me e sperai vivamente che avesse dimenticato quel particolare e che avesse prestato più attenzione a quello che era successo dopo, dentro casa, dal corridoio fino alla sua stanza. Ricordavo anche quello.
«Alzati» ordinò ad un tratto, interrompendo la scia di morsi che mi stava lasciando sul collo e scendendo dal letto, strattonandomi per un braccio.
«Non avrai intenzione di sbattermi addosso al muro spero, perché non te lo permetterò» affermai categorico, avvisandolo per tempo che non avrei fatto la parte della bambola nelle sue mani di nuovo. Poteva dimenticarselo. Quella notte era stata solo un’eccezione.
Ghignò prima di darmi le spalle, trascinandomi dietro di sé, «Te lo ricordi allora».
«Togliti quell’espressione compiaciuta dalla faccia, Eustass-ya. Non si ripeterà».
«Tu dici?».
* * *
Psichiatria: mosaico di nozioni articolate che si arricchisce continuamente di nuove tessere, recitai mentalmente.
La biblioteca dell’università era sempre stato un luogo perfetto per studiare, soprattutto il mercoledì pomeriggio, quando era praticamente deserta dato che quasi nessuno si fermava dopo i corsi a ripassare qualche materia per recuperare degli esami o semplicemente per portarsi avanti col programma. Per quanto mi riguardava era piacevole quel silenzio e quella tranquillità gratuita, senza gente che ti correva intorno litigando per il telecomando e senza sentire i pugni continui che sbattevano sulla porta del bagno per incitare chi era dentro a muoversi e uscire. Era esattamente ciò che succedeva in appartamento e non potevo lamentarmi: se volevo fare economia e non spendere troppo, arrivando all’università in poco tempo la mattina e vivere in modo indipendente dovevo sopportare in silenzio e accettare la confusione che creavano i miei tre coinquilini.
Il peggiore era Penguin. Sembrava che nelle sue vene scorresse un fiume di energia rinnovabile, facendo si che il diretto interessato avesse sempre voglia di fare qualcosa di eccitante, come correre per la casa con i pattini; imparare il karate seguendo lezioni su internet e sferrare colpi ai soprammobili presenti nel salotto; ascoltare musica alle tre del mattino e cucinare ogni giorno ricette di altri paesi, rischiando di far venire una gastroenterite a tutti.
Quello era uno dei motivi principali per cui spesso saltavo il pranzo o la cena, mangiando solo qualcosa a colazione e un frutto durante il giorno con alcune eccezioni quando uscivamo a prendere una pizza in compagnia.
Si, avevo un leggero disordine alimentare, ma potevo gestirlo e fino ad allora non avevo avuto problemi gravi. Potevo resistere benissimo in quelle condizioni.
Mi spaventava a volte, non era sempre stato così iperattivo, al contrario. Era, come dire, un tipo responsabile. Adorava i bambini, piaceva agli adulti e per questo era sempre lui quello che manteneva le relazioni con i vicini e andava alle riunioni di condominio ma, da quando era cambiato, dovevamo fare a turno. Insomma, non avevo ben capito cosa gli fosse accaduto, lui diceva solo che nella vita non voleva essere colto impreparato, ma da un anno sembrava deciso ad essere aggressivo e pronto all’azione in qualsiasi istante.
Bepo era il più tranquillo forse. Aveva un’indole calma e accondiscendente e ci sosteneva sempre nelle nostre imprese o nei nostri progetti, aiutando chi aveva bisogno e dimostrandosi sempre cordiale e gentile. Anche lui aveva preso a seguire Penguin nella sua assurda idea di fare karate, dimostrandosi molto disciplinato e portato per lo sport, tanto che aveva preso a seguire un corso serio e utile in una delle palestre di Sabaody, poco fuori dal centro della città.
Per quanto riguardava Ace non sapevo bene come descriverlo. Era come un fratello maggiore per tutti: pacifico, protettivo, affezionato ai suoi amici e frequentava l’ultimo anno all’università. Insegnava kick boxing nel tempo libero e la cosa lo appassionava molto e gli dava soddisfazione. Durante le feste, invece, si improvvisava piromane, procurandosi una numerosa scorta di fuochi d’artificio che, la maggior parte delle volte, esplodevano prima di venire accesi, ma non mancavano mai di fare scintille e luci colorate.
Ci chiedevamo spesso dove li trovasse o chi glieli vendesse, ma era sempre stato zitto su questo punto e dava a tutti risposte vaghe e ambigue per mantenere un velo di mistero in tutto ciò. Ci avevamo fatto l’abitudine ormai, bastava solo che non si facesse troppo male rischiando di perdere una mano, un braccio o sfigurarsi la faccia. In quel caso avrebbe avuto tre medici in casa ad occuparsi di lui.
A concludere il quadretto c’ero io e, per quanto mi trovassi bene in loro compagnia, cercavo sempre di non intralciarli e lasciare che svolgessero le loro attività senza intoppi, stando spesso all’università per studiare, senza disturbare o venire disturbato.
Andava bene, ci trovavamo spesso d’accordo e in sintonia, ognuno era libero di andare e venire quando voleva e a qualsiasi ora e se c’erano problemi eravamo pronti a darci reciprocamente un aiuto. Dalla nostra parte avevamo un’amicizia che durava da molti anni ormai: Bepo, Penguin ed io ci conoscevamo da quando eravamo piccoli e Ace si era unito a noi solo da un pezzo ormai, legando subito con tutti e conquistando anche la mia solita diffidenza per gli sconosciuti, sopportando senza fastidi il mio cinismo e il senso dell’umorismo sarcastico che sfoggiavo di solito. Non si sentiva a disagio tra di noi e la mia solita freddezza non lo disturbava. Si sentiva un po’ inquieto quando ero infastidito.
Non arrabbiato, figuriamoci. Arrabbiarsi significava perdere il controllo e a me non succedeva mai. Per il resto andava tutto bene.
Chiusi il libro di medicina e finii di annotare gli ultimi appunti, ammucchiando le mie scartoffie, penne e matite e mettendo tutto nello zaino notando che l’orologio appeso alla parete segnava le sei passate. Non era tanto tardi, forse potevo arrivare a casa con gli ultimi raggi di luce, prima che il sole tramontasse all’orizzonte.
Salutai un paio di studenti del quarto anno che stavano ultimando un progetto e uscii dall’edificio, chiudendomi il cappotto e alzando il bavero, pronto per tornare a casa. Feci per calcarmi il cappello in testa, ma ricordai che l’avevo perso durante il fine settimana. Dovevo ritrovarlo al più presto o non sarei più riuscito a dormire la notte.
Era stata una giornata tranquilla, come al solito. Niente intoppi o contrattempi; il sole era insolitamente alto e rendeva l’aria autunnale meno gelida rispetto agli ultimi giorni; lungo la strada alcuni venditori ambulanti offrivano cibi e specialità calde e le persone si affrettavano per le strade a tornare a casa da lavoro.
Era un giorno stupido il mercoledì. Noioso ed inutile.
L’appartamento in cui abitavo non distava molto dalla facoltà, perciò ogni giorno facevo una passeggiata all’aperto, senza bisogno di usare l’auto. Meno la sfoggiavo, meglio era e a nessuno passava per la mente l’idea di rubarmela.
Ero piuttosto geloso delle mie cose e difficilmente le prestavo agli altri.
Svoltai a sinistra seguendo il marciapiede e raggiungendo il mio quartiere dove quattro stabili e un paio di casette si fronteggiavano, affiancati da un modesto parco e da una serie di negozi di alimentari e cianfrusaglie.
Attraversai la strada e raggiunsi l’edificio di tre piani che ospitava il mio appartamento, preparandomi ad una doccia calda e rilassante, una cena a base di cibo da asporto per poi stravaccarmi su una poltrona a leggere qualcosa.
Era una bella immagine e, mentre vagliavo i possibili libri da sfogliare salendo le scale, il telefono iniziò a vibrare nella tasca posteriore dei jeans.
«Pronto?» risposi, senza controllare il display e tenendo il cellulare tra l’orecchio e la spalla mentre cercavo di infilare la chiave nella toppa. Era una delle regole principali della convivenza con gli altri: chiudere sempre la porta a chiave, anche se in casa c’era qualcuno. Per farla breve, Bepo aveva una specie di fobia degli estranei e malintenzionati.
«Ho trovato il tuo dannato cappello» fece una voce scocciata dall’altro capo.
Un piccolo sorriso fece capolino sul mio viso, nascosto dal collo alto del giubbotto, mentre sospiravo sollevato alla buona notizia ricevuta.
«Come sei stato gentile a dirmelo, Eustass-ya» sfottei. Un modo come un altro per ringraziarlo senza doverlo fare apertamente e in modo diretto. Non era nel mio stile e di certo non gli avrei dato quella soddisfazione.
«Vaffanculo. La prossima volta che ci vediamo dovrai pregarmi per riaverlo» grugnì stizzito, riattaccando subito dopo.
Alzai gli occhi al cielo ghignando, lieto del fatto di aver ritrovato una delle cose a cui tenevo di più al mondo, anche se l’idea di doverlo lasciare nelle mani di quello scapestrato fino alla fine della settimana mi lasciava un po’ a disagio. Per quanto ne sapevo avrebbe potuto decidere di farmi uno scherzo di cattivo gusto e farmelo ritrovare a pezzi. Se così fosse stato avrei ridotto in brandelli lui stesso.
Entrai in casa e chiusi la porta, lasciando le chiavi sulla mensola appesa al muro e tolsi cappotto e sciarpa prima di adagiare lo zaino a terra. Odiavo il disordine e mai avrei fatto come Penguin ed Ace, ossia lasciare le scarpe davanti all’ingresso e cartelle e abiti sparsi per il corridoio. Non abitavamo in un porcile ed ero ancora sicuro che i miei compagni non fossero maiali, non del tutto almeno, anche se stavo iniziando a riconsiderare l’ipotesi mano a mano che il tempo passava.
«Ciao Traffy!» urlò una voce alta e allegra che conoscevo troppo bene. A quanto pareva avrei dovuto dire addio alla tranquilla serata che avevo programmato dato che Rufy era venuto a farci visita per salutare il fratello e passare un po’ di tempo in sua compagnia.
Rispondendo al saluto e sorvolando sul fatto che il ragazzino stesse facendo uno spuntino seduto comodamente sul divano in soggiorno, spargendo briciole ovunque, notai un nuovo messaggio sullo schermo del telefono che adagiai sul tavolino in centro al salotto.
Vedi di riportarmi i joystick per la playstation. So che li hai presi tu, bastardo.
Ghignai e ignorai la richiesta, lasciando il povero Eustass in preda alla rabbia per non poter giocare e passare il tempo a bruciarsi quei pochi neuroni che gli rimanevano nel cervello.
Era passato più di un mese ormai da quella fottuta sera, quando avevo dormito da lui. Successivamente, senza sapere di preciso come, avevamo stabilito con un tacito accordo che una volta alla settimana ci incontravamo e passavamo qualche ora assieme. Praticamente, la maggior parte delle volte, il weekend lo passavamo a scopare e a entrambi stava bene così. Gli insulti non erano diminuiti, forse erano addirittura aumentati e peggiorati, ma la cosa non mi creava problemi. Era un gioco malsano, ma estremamente divertente.
Scrissi una risposta veloce per poi spegnere il telefono e godermi la serata senza le lamentele di quell’idiota.
Cercali su eBay. Potrei guadagnare qualche soldo se li vendessi, Eustass-ya.
Angolo Autrice.
Eccolo in orario perfetto, come vi avevo promesso. E, per la prima volta, ho deciso di dedicarlo a qualcuno. Quindi Grazie FlameOfLife, questo è per te.
Basta smancerie, adesso vi chiedo un attimo per spiegarvi una cosa. Allora, qui si passa per uno spazio temporale. Law si risveglia a casa di Kidd dopo una soddisfacente serata e i due iniziano una relazione malsana. E’ troppo presto per chiamarla così, quindi sono, in poche parole, diventati amici di letto. Da quel risveglio è passato più o meno un mese, quindi da inizio ottobre siamo alla prima metà di novembre, e la cosa va ancora avanti e continuerà ad essere così.
Per adesso.
Spero di essermi spiegata bene e che il capitolo sia piaciuto ^^ niente canzoni questa volta, non ci saranno sempre.
Ora vi lascio miei seguaci, andate in pace e buona serata! Oh, e un Grazie a tutti, nessuno escluso!
See ya,
Ace.
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Capitolo 7 *** Speciale Halloween. Ora tu, se lo vuoi, canta la Ballata della Zucca con noi. ***
-Speciale Halloween-
Ora tu, se lo vuoi, canta la Ballata della Zucca con noi
Bimbi e bimbe di ogni età, ecco qualcosa che vi stupirà!
Tutti credevano che quel vestito fosse osceno, scontato, da pezzenti. Una vera e propria sciocchezzuola.
Io lo trovavo carino. Si, semplicemente carino. Non troppo ingombrante o complicato, ma semplice, facile da mettere e da togliere. In più si accompagnava in modo impeccabile al mio soprannome.
Penguin.
Mi chiamavano così perché a volte dondolavo sui talloni come un pinguino. E anche perché i miei colori erano il bianco e il nero. Oh, quasi dimenticavo, il pinguino era anche l’animale che mi piaceva più di tutti in assoluto, nonché il mio totem, come mi era stato confidato da uno sciamano quando ero un adolescente credulone. In più avevo un cappello con su scritto a caratteri cubitali Penguin e un altro con le alette del suddetto essere vivente, completo di occhi e becco che indossavo durante le mie uscite di tanto in tanto in inverno.
Così, quella sera, non avevo voluto essere originale, ma bensì banale e prevedibile, indossando un fottuto costume col petto bianco, le pinne al posto delle maniche, scarponi neri e una deliziosa codina nera che scendeva dalla base della schiena e lungo le gambe. Più il cappello.
Armato di lanterna, buonumore e una bizzarra borsa di pezza arancione a forma di zucca, iniziai a fare il giro dell’isolato per il classico ‘dolcetto o scherzetto?’, incontrando gli altri bambini del quartiere e unendomi a loro, dividendoci il bottino in parti uguali e sporcandoci la faccia di cioccolato.
Da quando mi ero trasferito li, dividendo l’appartamento con i miei compagni di corso, nonché migliori amici, avevo preso il vizio, ogni anno, di passare parte di quella festa con i miei vicini e, anche se mi ritrovavo seduto sulla veranda di una casa a raccontare storie dell’orrore a dei bambini delle elementari che mi guardavano con occhi adoranti, mi andava bene.
Gli altri andavano sempre e solo in discoteca a rimorchiare e ubriacarsi e spesso tornavano con qualche setto nasale rotto, nocche sbucciate e una sbronza colossale, ma non potevo costringerli a rinunciare al loro divertimento. Perciò era stato deciso di comune accordo che, non appena i bimbi venivano richiamati per il coprifuoco dai genitori, ben felici di lasciarli in custodia ad un ragazzo all’apparenza responsabile, io mi sarei disfatto di ogni vestito imbarazzante e li avrei raggiunti ovunque si trovassero. In questo modo tutti eravamo felici.
E funzionava alla grande l’organizzazione.
Quell’anno, stanco di vestirmi da Stregone, Cavaliere Nero, Scheletro e atre cavolate, avevo scelto di essere me stesso.
«Un fottuto pinguino» aveva constatato Law con sarcasmo, guardandomi dall’alto in basso e sperando che stessi scherzando e che non avessi sul serio l’intenzione di andare in giro conciato in quel modo.
Avevo alzato le spalle e l’avevo salutato, uscendo di casa e scendendo in strada dove una decina di bambini tra cui Streghette, Batman, Uomini ragno e Fantasmini mi attendevano impazienti con quei faccini allegri ed entusiasti.
Su, venite è proprio qui! E' il paese di Halloween!
Ed ora stavamo gironzolando lungo il marciapiede, poco distante dalle nostre abitazioni, mentre tutt’attorno a noi brillavano zucche decorate con facce spaventose, sorridenti e tristi. Disegni erano appesi alle finestre delle case e alcuni spaventapasseri erano stati piantati fuori in giardino con abiti stracciati per incutere timore e fare scena. Il posto più terrificante rimaneva il parco poco distante dal quartiere, giusto dall’altra parte della strada. Un posto incantevole durante l’anno, ma nessuno si azzardava ad andarci durante la notte di Halloween da quando un vicino aveva giurato di aver visto svolazzare un fantasma. Che fosse vero o no poco importava, da quel momento era diventato off limits la notte del trentuno ottobre di ogni anno. Qualcuno gironzolava con i genitori; i più grandicelli andavano in giro ridendo e scherzando e noi, povere anime, cercavamo un modo per convincere una vecchia signora bisbetica a darci qualche cioccolatino o caramella al posto di frutta andata a male.
«Signor Penguin! Signor Penguin! La nonnina non vuole aprirci» si lamentò una bimba con dei lunghi boccoli biondi e con un paio di occhi azzurri, risaltati dalle guance paffute e rosee che gonfiò arrabbiata mentre mi strattonava per un lembo del vestito per attirare la mia attenzione.
«Calma bambini, forse la Signora è andata a dormire. Possiamo provare più avanti, che ne dite?» cercai di spiegare nell’intento di calmarli.
«Ma la luce è accesa!».
«Lanciamole le uova come nei film!».
«Si! Oppure bruciamole la casa!».
Questo è Halloween, spaventoso Halloween. Dacci un dolce o il terrore ti attanaglierà.
«Ragazzi, ma dove le imparate queste cose?» chiesi allibito e preoccupato. Se non li tenevo buoni una volta cresciuti avrebbero potuto farli a me scherzi del genere.
«Sentite, facciamo così: lasciamo la nonnina in pace e continuiamo per un altro po’ e al ritorno vi darò i dolci che ho a casa. Va bene?».
L’idea sembrò piacere molto dato che i piccoli monelli, con qualche lamentela, si incamminarono verso l’abitazione seguente, dimenticandosi presto di quell’inconveniente e tornando ad essere sorridenti e a sgranocchiare qualche lecca lecca o dolciume.
Sospirai sollevato, seguendoli e tenendoli d’occhio, soprattutto due maschietti dall’aria troppo vispa e furba. Dovevo tenerli sotto costante controllo, ero sicuro che nascondessero delle uova marce o carta igienica, anche se continuavano a fare finta di nulla deliziandomi con sorrisi angelici.
Non mi fregano, sono stato giovane prima di loro. Quei due non me la raccontano per niente giusta…
Meditando sul modo migliore per far vuotare il sacco a quei mocciosi non mi accorsi che si erano fermati in mezzo alla via, così finii per inciampare su uno di loro che, fortunatamente, si scansò all’ultimo momento prima che gli finissi addosso, ruzzolando a terra sull’asfalto.
Mi sbucciai i palmi delle mani, ma non era grave, solo qualche piccolo graffio, e cercai di mettermi seduto per togliermi di dosso i granelli di polvere e i sassolini che si erano appiccicati al vestito, alzando il capo per chiedere spiegazioni per quell’improvvisa fermata.
Solo allora notai che i piccoli si stringevano gli uni addosso agli altri, vicinissimi a me e guardando un punto fisso davanti a loro dal quale provenivano risatine e parole bisbigliate. Seguii il loro sguardo e vidi un gruppo di ragazzi, più o meno della mia età, farsi avanti nel buio, dritti verso di noi.
Urla anche tu! Fuggi via da qui! Lì, davanti a te, dentro quel bidone c'è una brutta faccia che ti assalirà.
Mi rialzai con disinvoltura, mantenendo la calma per non innervosire ulteriormente i bambini e raccolsi la borsa da terra, osservando con la coda dell’occhio il gruppo farsi avanti, illuminato a poco a poco dalla luce di un lampione poco distante.
Non sembravano avere cattive intenzioni, ma i loro costumi facevano venire i brividi e addosso a loro sembravano ancora più minacciosi, specie quello del ragazzo biondo in prima fila, il quale indossava una maschera che gli nascondeva tutto il viso a strisce blu e bianche con dei forellini per respirare e vedere. Sulle mani aveva attaccate delle protesi ben costruite di metallo, finto e non pericoloso sperai, che si divideva in lame splendenti ed inquietanti. Un costume ben fatto, molto realistico, ma non era un po’ troppo per una stupida festa? Dove credevano di andare conciati in quel modo? A uno di loro non serviva nemmeno un travestimento, bastava guardarlo in faccia per iniziare a tremare, mentre gli altri vestiti da zombie metallari era meglio lasciarli perdere del tutto.
Continuando a mantenere il mio sangue freddo feci spostare i bambini sul lato del marciapiede, sussurrando loro di non preoccuparsi e di comportarsi bene e in modo educato.
«Forza, fate spazio, lasciateli passare» intimavo, mentre il gruppo di sbandati ci passava accanto, guardandoci dall’alto in basso e sghignazzando in modo poco educato. Un po’ di cuore per i miei seguaci non ce l’avevano? Erano così piccoli ed indifesi che avrebbero potuto smetterla di fare i gradassi per un momento.
Ad infrangere le mie speranze fu il tipaccio il cui viso era l’esatto ritratto della crudeltà, accompagnato da una chioma rossa come il fuoco, che con una manata scansò uno dei due Fantasmini, facendolo cadere col sedere a terra. I suoi amichetti corsero subito ad aiutarlo e si strinsero in cerchio attorno a lui, guardandomi imploranti affinché facessi qualcosa.
Deglutendo a vuoto presi un respiro profondo e mi schiarii la voce, attirando l’attenzione del rosso e dei suoi compagni e fermando la loro andatura menefreghista.
E adesso che faccio? Sono da solo e non mi va di morire davanti a queste povere creature, li scandalizzerei a vita. E poi, ammettiamolo, non sono di certo io quello più coraggioso qui.
«Scusami, potresti chiedere scusa al bambino? Immagino tu non l’abbia fatto a posta», sarcasmo pesante, «Ma l’hai fatto cadere».
Il diretto interessato mi lanciò un’occhiata assassina e iniziò ad avvicinarsi di qualche passo con un cipiglio misto tra l’essere incazzato e infastidito dalla mia insinuazione. Non prometteva affatto nulla di buono e più si avvicinava più mi sentivo piccolo e impotente, anche se cercavo di fare di tutto pur di apparire impassibile e perfettamente a mio agio.
A mio agio un cazzo! Per fortuna i bimbi non possono sentirmi, non sono termini adatti a loro ma, diavolaccio! Sono messo male! Questo mi ammazza!
Questo è Halloween! Putrido! E macabro! Hai paura? Se tu vuoi scappar via qui si rischia la pazzia ed un attacco di licantropia!
«Vuoi ripetere, microbo?» sussurrò a pochi centimetri dal mio viso, mentre alle sue spalle i suoi amici se la ridevano osservando la scena con le mani in mano.
Deglutii a fatica mentre pensavo a qualcosa di diplomatico da dire, senza grandi risultati.
«Il b-bambino. E’ c-caduto…» balbettai.
«E allora?».
Stava già alzando un pugno grosso come un mattone ed io avevo già chiuso gli occhi, pronto e rassegnato a ricevere il colpo, quando qualcosa, o qualcuno, venne in mio soccorso, salvandomi da quell’inferno.
«Avanti amico, autocontrollo. Ricordi?».
Il rosso si fermò con il braccio a mezz’aria e tentennò per qualche istante prima di sbuffare sonoramente, fulminarmi nuovamente con lo sguardo e girare i tacchi per allontanarsi con falcate veloci, seguito subito dopo dalla sua combriccola.
Li fissai sbalordito mentre sentivo i ragazzini dietro di me sospirare e rilassarsi.
«Ti prego di scusarlo» fece una voce metallica accanto a me.
Troppo preso dalla paura non mi ero accorto che il tipo con la maschera e le falci attaccate ai polsi si era avvicinato per controllare il mio stato di salute e mi ritrovai faccia a faccia con lui, se così si voleva dire.
L’uomo che mi stava di fronte mi superava con la sua stazza e avrebbe potuto facilmente mettermi al tappeto. Oltre agli accessori alquanto esagerati vestiva con un’orrenda camicia a pois anni Sessanta e con dei jeans sbiaditi e strappati in più punti, mentre un ciuffo di capelli biondi gli ricadeva sulle spalle larghe e sicuramente palestrate.
Mi sentii strano, come in imbarazzo. La stessa sensazione di insicurezza, mista a timidezza che si provava di solito quando ci si trovava davanti a qualcuno che segretamente ti piaceva.
Troppo vicino, troppo vicino. Oddio, che succede al mio stomaco? Eh? Ma cos… No. No! Il basso ventre no, dai, pensai.
«Sai, a volte è molto impulsivo, ma non ti avrebbe mai fatto del male».
Incapace di rispondere mi limitai ad annuire, incuriosito da quella personalità nascosta e, soprattutto, non del tutto sicuro delle sue parole. Sapevo riconoscere un bullo quando lo vedevo, e quello era esattamente il classico tipo attaccabrighe e amante delle risse e del casino. Esattamente ciò che detestavo.
«Bene, sarà meglio che vada prima che mi lascino troppo indietro. Buona serata piccoletto». Con queste parole e un’aria scherzosa se ne andò anche lui, lasciandomi perplesso e con l’idea che, sotto a quella maschera, lui stesse sorridendo divertendosi a mie spese.
Strinsi i pugni e digrignai i denti una volta che si fu allontanato e che l’effetto anestetizzante che mi causava fu svanito, ridandomi il possesso della mia lucidità.
Maledizione! La prossima volta non vi andrà così bene. Ve la farò vedere io, parola mia!
«Signor Penguin, sei stato forte a non svenire davanti a quei bruti». Il bambino vestito da Batman diede iniziò ad una serie di complimenti che fecero salire la mia autostima ad un livello spaventoso e che avrebbe rischiato di farmi diventare l’essere più vanitoso presente sulla terra.
«Si, si è verissimo! Sei il mio eroe!».
«Da grande mi fidanzerò con il Signor Penguin».
Decisi che era meglio godersi la serata con i bambini e finire il giro degli isolati con il sorriso sulla faccia e gongolando per le loro attenzioni. Poi avrei raggiunto gli altri e mi sarei ubriacato fino a svenire.
Chissà se avrei mai rivisto quel tipo.
Beh, anche se mi capiterà l’occasione non lo saprò. Non ho visto la sua faccia.
«Signor Penguin lanciamo i sassi addosso alle macchine?».
«Ma insomma, ma come vi vengono certe idee?».
Quanti orrori attorno a te. Senza ribrezzo che vita è? Tutti qui viviamo così nel paese di Halloween.
Angolo Autrice.
Ritardo di un giorno, ma ieri ho dovuto organizzare una festa, immaginate di cosa lol, e non ho avuto il tempo per fare nulla! Questo è un pezzo speciale per Penguin e Killer e mi è sembrato carino metterlo. Praticamente nell’ordine cronologico questo avvenimento è successo un anno prima del loro ufficiale incontro, compreso quello in discoteca di Kidd e Law. I due, così vestiti non si sono riconosciuti al bar, ma il piccolo Penguin ha già iniziato a preoccuparsi della salute di Killer.
Da notare che la chioma rossa colpisce ancora e ha chiamato Penguin con il nomignolo microbo, come è successo anche in discoteca, quando tutto è iniziato. La canzone è This is Halloween dal film Nightmare Before Christmas.
Penso sia tutto. Domani arriva il Capitolo 5, promesso. E per chiarimenti, incomprensioni o altro mi trovate sempre.
Grazie a tutti e un abbraccione, spero abbiate passato un Halloween da paura, lol.
See ya,
Ace.
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Capitolo 8 *** Capitolo 6. L'officina era come una seconda casa. ***
Capitolo 6.
L’officina era come una seconda casa
«Bravo Kidd, ottimo lavoro!».
«Mpf, grazie» grugnii imbarazzato, non sapendo bene come comportarmi e decidendo di dare le spalle al mio capo e tornarmene a lavorare. A quanto pareva un coglione ubriaco aveva sbandato ed era andato a sbattere con la sua Lotus contro il muretto di un ponticello in periferia, sfondandolo e rischiando seriamente di finire nel fiume dove si sarebbe di sicuro schiantato dato che la portata d’acqua non era così voluminosa.
Così toccava alla miglior officina della città rimetterla in sesto, se così si voleva dire. Era ridotta veramente male, quasi quanto il proprietario che non avrebbe più potuto usarla.
Confiscata dalla polizia per guida in stato di ebbrezza, più ritiro della patente. Sfigato, pensai ghignando e girando attorno a quell’ammasso di ferraglia verde militare.
Sarebbe stato un lavoraccio rimetterla a nuovo, ma adoravo i casi disperati. Erano una sfida e più difficili e malconci erano, più mi divertivo a cimentarmi, imparando dai miei sbagli e migliorando le mie abilità.
La meccanica mi era sempre piaciuta, era la mia materia preferita a scuola e grazie al lavoretto part time che mi aveva offerto Franky quando ero solo un ragazzino mi ero potuto permettere di frequentare i corsi all’università per tre anni, ottenendo una laurea breve e venendo assunto poi a tempo indeterminato. Lavoravo in mezzo ai motori, sostituendo pezzi, apportando modifiche, impegnandomi nell’unica cosa che mi piaceva davvero fare e che mi dava soddisfazione a differenza del mondo schifoso che mi circondava.
L’officina era come una seconda casa e i colleghi erano la mia unica famiglia. Il gestore, un tizio un po’ svampito, ma pieno di vitalità, dagli strambi capelli azzurri che acconciava ossessivamente con tonnellate di gel, era sempre allegro e non si arrabbiava quasi mai, fatta eccezione per quelle volte che mi presentavo a lavoro ubriaco marcio, quando mi sembrava che la vita non avesse più senso.
Aveva sempre chiuso un occhio e mi accoglieva tra quelle mura come un figlio adottivo di cui occuparsi. Lui ci viveva in quella topaia, rappresentava tutto quello che possedeva e a cui teneva moltissimo. Si curava di tutto e di tutti, come un bravo capo e, sotto sotto, con profondo affetto.
E poi c’era Killer.
Il bambino che giocava con me per le strade sterrate e polverose di un paesino di campagna e che riusciva sempre a stupirmi con le sue trovate geniali, come quando aveva installato un motore a scoppio su una vecchia bicicletta. Il risultato non era stato dei migliori, ma l’idea era buona. Ricordavo ancora la sua faccia piena di sogni e speranze quando aveva visto per la prima volta un motorino. E ancora più contento lo era stato quando ne aveva comprato uno tutto suo.
Eravamo cresciuti insieme, lui ed io, e da buoni amici ci eravamo trasferiti in città in cerca di fortuna e arrangiandoci come potevamo. Per un periodo avevamo condiviso un appartamento, poi lui aveva instaurato una relazione affettiva e avevamo deciso di vivere ognuno per conto proprio per comodità, ma sempre a pochi chilometri di distanza. Giusto un centinaio di metri se volevamo essere precisi.
Anche se alla fine le cose non erano andate bene con la sua persona, non si era abbattuto, come sempre. Era forte e si era presentato il giorno dopo in officina invitando tutti a bere e a festeggiare il suo stato nuovamente single.
Era uno a posto lui, forse l’unico sulla faccia della terra che riuscivo a sopportare e che non trovavo insulso come gli altri esseri viventi.
Eravamo come fratelli.
I crashed my car into the bridge, I watched I let it burn!
«Ehi, alza il volume. Mi piace questa canzone».
Spostandomi la chiave inglese da una mano all’altra andai ad alzare il volume dello stereo adagiato sopra al tavolo da lavoro dove tenevamo tutti gli attrezzi, sghignazzando per i gusti commerciali del ragazzo biondo la cui testa spariva dentro al cofano di una vecchia carretta parcheggiata accanto al mio ammasso di ferraglia. La mia sfida del giorno.
«Che hai? Racconta praticamente la storia di quell’auto. E’ perfetta» constatò, lanciando un’occhiata a quello che rimaneva di una fiammante e veloce Lotus, ora con il motore a pezzi come il povero cuore del suo disattento proprietario.
La osservai meglio, indeciso da dove cominciare.
Dovrò ricostruirla da capo, immaginai rassegnato, pronto a rimboccarmi le maniche e a passare i prossimi mesi a ricongiungere i pezzi di quel puzzle fatto di cilindri, candele, marmitte e quant’altro.
Era un peccato che una macchina del genere dovesse subire certi trattamenti. Sarebbe stato molto meglio spingerla al limite della sua velocità in una strada dritta e spremerle il motore fino a farla esplodere. Quella sarebbe stata una fine gloriosa per un’auto che si rispetti.
«Amico, quella non è la tua Golf?».
Richiamato all’attenzione da Killer, guardai ad occhi sbarrati l’arrivo di una Golf nera e in ottime condizioni, anche se si trattava di un vecchio modello, entrare nel parcheggio in ghiaia sul retro dell’officina riservato ai dipendenti, sollevando una nuvola di polvere e seguita a ruota da una volante della polizia.
Mi passai nervosamente una mano sul viso, respirando profondamente per non dare di matto e trattenermi dal mandare a quel paese il commissario più stronzo di tutte le caserme di Sabaody: Smoker.
La cosa si fece più difficile quando notai che uscì dall’abitacolo con un sigaro in mano e con il solito cipiglio incazzato che non gli spariva mai dalla faccia. E poi quello violento ero io. Se c’era qualcuno che aveva bisogno di fare yoga quello era lui, altro che storie.
Mollai la chiave inglese a terra, giusto per evitare di averla a portata di mano se mai avessi perso la pazienza, e mi pulii le mani con uno straccio prima di andargli incontro, fulminandolo con lo sguardo per poi aggirarlo e fiondarmi sulla mia adorata macchina.
Ci avevo speso tutti i miei risparmi e doverne fare a meno per più di un mese mi era costato molto. Usare la moto non era sempre una buona idea, nonostante il brivido della velocità. Quando pioveva era una palla.
«Spero tu abbia imparato la lezione, mocciosetto» mi avvertì il poliziotto alle mie spalle, mentre aprivo le portiere per far uscire tutto il fumo passivo che, come temevo, era rimasto dentro per imbrattarmi i sedili che avevo rivestito in pelle per completare il design super aggressivo di quella vecchia amica.
Lo guardai in cagnesco, ricevendo in cambio un’occhiata ammonitrice mentre un dito della mano che reggeva quel sigaro di marca scadente era puntato contro di me.
«Abbiamo notato anche alcune modifiche. Ne sai qualcosa?».
Provai a trarlo in inganno con uno dei miei falsi sorrisi angelici, roba che non mi si addiceva per niente e che mi faceva sembrare un coglione. Ma per salvarmi il culo e per ingraziarmi il piedi piatti ero pronto a fare questo sacrificio. Mi avevano detto più volte che non funzionava e che sembrava piuttosto che avessi inghiottito una fetta di limone, ma tentare non nuoce.
«Non so davvero di che parli» risposi, anche se era ovvio che quel bastardo non si sarebbe di certo bevuto le mie stronzate.
I threw your shit into a bag and pushed it down the stairs.
Alzò gli occhi al cielo e poi gettò a terra il mozzicone rimastogli in mano, schiacciandolo con disinvoltura con la punta del piede.
«Ti faccio fare questa fine se ti becco oltre il limite. Chiaro?».
«Fottiti» sussurrai stizzito, dandogli le spalle e tornando a controllare lo stato di salute della Golf, infischiandomene altamente delle sue minacce e lasciando che raggiungesse il suo collega che lo stava aspettando nell’altra macchina.
Quando se ne fu andato mi rilassai e mi permisi di lasciarmi andare ad un sospiro di sollievo, lieto per il ritorno della mia fidata compagna di scorribande. Rappresentava tutti i miei risparmi fatti con anni di sacrificio, lavoro e studio e adesso potevo permettermela e mantenerla con lo stipendio per il lavoro di meccanico.
Mi ritenevo abbastanza soddisfatto e in pace con me stesso. Se da una parte ero un disadattato sociale, dall’altra mi mantenevo in modo onesto. Andava bene, tutto sommato.
«Vedo che è ritornata» fece Killer alle mie spalle, asciugandosi il sudore dalla fronte con la manica della tuta grigia e logora che indossava, scompigliandosi la frangia bionda e lunga che gli ricadeva sugli occhi vispi.
«Già, più in forma che mai» assicurai, impaziente di provarla su strada, cosa che avrei sicuramente fatto una volta finito il turno, correndo tutta la notte se fosse stato necessario per recuperare il tempo perso.
«Mi fa piacere» disse sincero, «Ora diamoci da fare con la Lotus e magari più tardi vediamo se riusciamo ad aggiungere al tuo motore qualche incentivo in più» propose ammiccando, rientrando nell’officina dove lo seguii poco dopo, allegro e di buonumore come non lo ero da tanto.
«Sai Killer? Oggi penso proprio che sia una giornata positiva».
Praticamente ogni settimana aveva le sue giornate e le mie si dividevano in positive e negative. Solitamente le negative comprendevano tutti e sette i giorni e quelle in cui mi sentivo meno propenso alla violenza e soddisfatto della vita erano rare. Forse una al mese o anche più. Era difficile per me mantenermi calmo quando ero propenso ad odiare tutti e ad agire di impulsi e istinti, fermandomi a riflettere solo dopo aver combinato un casino.
Per questo Killer mi aveva iscritto a yoga, nonostante le mie proteste e si era offerto per farmi da supporto per aiutarmi a sviluppare un ferreo autocontrollo.
Avevo difficoltà a contenere la rabbia, era vero, solo che dal mio punto di vista non era una cosa tanto grave. Insomma, bastava solo che la gente non mi provocasse facendomi scattare come una belva. Il problema era che, anche se le persone non si avvicinavano a me per paura, bastava che mi guardassero dall’alto in basso o che mi giudicassero per come apparivo e il danno era fatto. Non mi era mai interessato dell’opinione degli altri, in effetti, mi andavo bene così com’ero, solo non volevo essere deriso.
I don´t care! I love it!
Ma, e non solo secondo il mio amico, era arrivato il momento di farmi aiutare se volevo evitare di finire al fresco per un periodo di tempo indeterminato dato che per le risse e per il disordine pubblico ero portato.
«Questa è una buona notizia, vediamo di non rovinarla».
Ci rimettemmo a lavoro, ognuno concentrato a svolgere il proprio compito e chiacchierando di tanto in tanto per non annoiarci troppo, anche se cercare di sistemare quel catorcio era una vera impresa che portava via tempo e pazienza. Tanta pazienza.
Mantenni comunque la calma e cercai di fare del mio meglio, smontando i pezzi e facendo un inventario di tutto quello che era da rottamare e quello che poteva essere salvato, annotando in un foglio con la mia scrittura disordinata e incomprensibile tutto quello che mi serviva per lavorarci e renderla nuovamente un gioiello da mettere sul mercato.
A pomeriggio inoltrato il lavoro procedeva regolarmente e, tra una pausa caffè e l’altra, si avvicinava la sera e il mio meritato riposo.
«Buongiorno Signore, posso aiutarla?».
Dall’ufficio la voce di Franky arrivava forte e chiara mentre si presentava gentilmente ad un cliente dell’ultimo minuto.
«Chi è stavolta?» domandai sovrappensiero da sotto alla Lotus.
«Non ne ho idea, non l’ho visto perché ero in magazzino, ma quando sono tornato ho notato una R8 parcheggiata davanti all’ingresso».
«Porca puttana!» mi lasciai scappare, schivando per un pelo uno schizzo di olio per il motore dritto in faccia.
«Dev’essere uno pieno di soldi» ipotizzò Killer, sbirciando dalla porta che dava sull’area riservata e all’ufficio del capo e degli affari amministrativi e burocratici.
«Ehi ragazzi! Mi serve uno libero per fare una revisione!» urlò Franky.
«Vado io, tu finisci pure».
Non fui sicuro di aver sentito bene le parole di Killer per via della musica, ma non ci badai e, con un’alzata di spalle, continuai il mio lavoro sdraiato a terra sotto all’auto, canticchiando di tanto in tanto il ritornello della canzone che ormai davano alla radio per la terza volta in quella giornata.
Guarda qua che macello! Ci sono perdite ovunque. Ma chi gli ha dato la patente a quell’idiota? Guida peggio di me e di mia nonna che ha novant’anni e che sgomma comunque meglio di un diciottenne! Roba da distruggerlo interamente il ponte, altro che buttare giù il muretto.
Sbuffando per tutte quelle complicazioni chiesi al mio collega di passarmi una chiave particolare per vedere se riuscivo a salvare e fissare alla bell’è meglio un pezzo non del tutto distrutto, ringraziandolo quando mi passò l’attrezzò senza farmi aspettare troppo.
«Mi passeresti anche lo straccio sopra al cofano? Qua sotto è un disastro».
Sentii i passi spostarsi e per un secondo mi sembrò di notare un paio di Vans nere aggirarmi, ma si trattò solo di un istante, tanto che ignorai la cosa, sicuro di aver confuso le stracciate Converse di Killer.
La pezza mi arrivò dritta sul muso e sentii chiaramente una risata soffocata, cosa che mi indispettì parecchio dato che nessuno la dentro, conoscendo il mio carattere irascibile, si permetteva di farsi beffe di me. Non mi piacevano nemmeno i piccoli scherzi innocenti, li detestavo. Semplicemente non volevo essere oggetto di scherno. Mica ero un fottuto clown, anche se da piccolo tutti mi prendevano in giro per il colore dei miei capelli che richiamavano l’aspetto tipico di quei stupidi pagliacci da quattro soldi.
«Vedi di non fare troppo lo spiritoso» avvisai, certo di farlo smettere. Sapeva quanto fossero importanti le giornate positive ed era il primo ad incitarmi a continuare quello stupido corso per casalinghe disperate e con problemi esistenziali.
«Così è qui che lavori, Eustass-ya».
Al suono di quella voce strafottente lanciai un’imprecazione, dimenticandomi dov’ero e alzandomi di scatto da terra, sbattendo in pieno la fronte contro i cilindri di quell’auto infernale, lanciando ulteriori maledizioni verso la madre di ignoti e ricordandomi questa volta di scivolare sul pavimento e uscire.
Appoggiato bellamente alla fiancata della Lotus si ergeva la figura inconfondibile di quello stronzetto altezzoso di Trafalgar, il quale mi stava rivolgendo uno sei suoi più odiosi ghigni strafottenti, guardandomi con aria divertita.
«Che cazzo ci fai tu qua?» sbottai, ormai incazzato e con il malumore che saliva alle stelle.
Era maledettamente sconcertante il modo in cui quel ragazzino viziato riuscisse a farmi perdere le staffe anche solo con una delle sue occhiate saccenti. Se poi apriva bocca per graziarmi di uno dei suoi soliti commenti allora non c’era più scampo per nessuno. Andavo semplicemente fuori di testa, impossessato da un istinto omicida nei suoi confronti. Sembrava che sapesse perfettamente come fare per farmi imbestialire e la cosa lo divertiva assai. Doveva per forza essere di un altro mondo, quello dei demoni magari.
You´re on a different road, I´m in the Milky way.
«Ho portato la mia auto a fare alcuni controlli. Sai, le solite cose» spiegò distrattamente, mentre si guardava intorno incuriosito.
«Mi stai dicendo che l’Audi parcheggiata fuori è tua?» chiesi, mascherando il mio stupore nonché vivo interesse per qualsiasi macchina con un alto numero di cavalli.
E quel bastardo quando pensava di dirmelo che aveva un bolide del genere per le mani? Ormai era un po’ che mi girava attorno, facendomi infuriare e pagandone le conseguenze a letto, ma una cosa del genere e per giunta di mia competenza poteva anche avermela detta.
«Direi di si» confessò semplicemente, per niente toccato dalla mia reazione.
«Fammi capire, come mai non ho mai visto il tuo brutto muso qui prima di oggi?» gli domandai, massaggiandomi la fronte dove percepivo chiaramente pulsare il sangue.
Possibile che ogni volta che era nei paraggi io dovessi ritrovarmi con qualche livido o ematoma sparso per il corpo? Al diavolo lui e tutta la sfiga che si portava appresso.
«Beh, quando Penguin mi ha detto dove lavoravi ho pensato di cambiare carrozziere e venire a farti visita. Non sei contento?» fece malizioso, sondando il mio aspetto dall’alto in basso e soffermandosi sul colletto della giacca che indossavo per lavorare aperto sul petto.
Fui tentato di ghignare per quella sua debolezza, ma qualcosa in particolare nelle sue parole mi aveva colpito ed ero intenzionato a fare chiarezza visto che ragionavo bene solo quando avevo tutta la situazione sotto controllo.
«Aspetta, cosa centra il nanerottolo? Che ne sa lui di che cazzo faccio per vivere?».
Si strinse nelle spalle. «L’ha saputo da Killer-ya e poi l’ha detto a me» chiarì, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
Rimasi spiazzato a fissarlo per un minuto buono, sbattendo le palpebre e ripensando a quello che mi aveva appena detto con una faccia da fesso.
«Puoi ripetere?» mi decisi a dire, incapace di prendere in considerazione l’ipotesi che mi si era formulata nella mente dopo la sua rivelazione. Andiamo, non poteva proprio essere che Killer se ne andasse in giro a raccontare i fatti miei, per giunta all’imbecille col cappello che viveva sotto lo stesso tetto del medicastro che veniva regolarmente sbattuto dal sottoscritto senza lamentarsi troppo.
You want me down on earth but I am up in space.
Sorrise sghembo, «Non lo sai? Quei due ogni tanto escono per una birra».
«Brutto bastardo!» imprecai allora, tirando un pugno al fianco dell’auto senza preoccuparmi minimamente della carrozzeria ormai a brandelli.
«Io o lui?».
«Tutti e due!» risposi, «Perché non me l’ha detto?».
«Forse perché voleva evitare la scenata che stai facendo ora» precisò sarcastico, «E poi, a dir la verità, Penguin non l’ha detto nemmeno a me».
Inarcai un sopracciglio, forse Killer non era andato del tutto perduto.
«E allora come fai a dire con certezza che…».
«Conosco il mio coinquilino e capisco quando mi nasconde qualcosa. E’ bastato metterlo un po’ sotto pressione per farlo vuotare il sacco» spiegò, non lasciandomi finire la frase e schiodandosi dalla sua posizione per avvicinandosi a braccia incrociate fino ad arrivare a fronteggiarmi, dovendo comunque alzare il capo per guardarmi in faccia dato che lo superavo con la mia stazza.
«Ce l’ho ancora con te per la botta di poco fa» precisai ringhiando, scoccandogli un’occhiata torva che lo fece alzare gli occhi al cielo, infischiandosene della minaccia mortale che incombeva su di lui.
Incosciente, sei nel mio territorio. Mi basta una chiave inglese o una spranga per smaltarti al muro.
«Ci vediamo più tardi per una botta come si deve, ti va?».
Rimasi spiazzato e a bocca aperta, incapace di abituarmi a quella sua sfacciataggine. Certo che era proprio fuori dal comune quel medicastro. Se ne andava in giro con quell’aria pacata e controllata, senza curarsi degli altri e pensando solo a fare il suo dovere. L’esatto mio contrario. Serio, all’apparenza educato, cordiale, tranquillo, sicuro di sé e col sangue freddo. Poi, appena poteva, si trasformava e diventava un lurido pezzo di merda, con la lingua biforcuta peggio di quella di un serpente e di sicuro più velenosa. Con un’occhiata poteva gelarti e farti venire i brividi, con una frase poteva farti crollare il mondo addosso o abbatterti l’autostima, rivoltando tutto il tuo essere e sfottendoti fino alla morte come se non ci fosse un domani. Non si arrabbiava, non perdeva la calma, ma forse era questo ciò che più odiavo di lui. Quel suo modo di essere sempre un gradino al di sopra degli altri. Al di sopra di me. Nonostante tutte le mie minacce riusciva sempre a tenermi testa e zittirmi con quei sui insulti velati e con quel tono di voce che faceva sembrare tutto una presa per il culo.
E a proposito di questo, altro aspetto che non capivo era come si permettesse di darmi le spalle quando se ne andava da casa mia, mostrandomi fiero quel fondoschiena che si portava in giro nei pantaloni e che spesso e volentieri mi veniva voglia di sfondare. Non solo a suon di calci a dire il vero.
E poi era così diretto e schietto da mettermi in imbarazzo, ma su questo ci somigliavamo, solo che io non ero portato per le chiacchiere. Quello che volevo me lo prendevo senza troppe cerimonie.
Con un sopracciglio alzato lo guardai sollevarsi in punta di piedi e sfiorarmi le labbra con le sue prima di salutarmi e avviarsi verso l’uscita, diretto a vedere come stava andando il lavoro con la sua auto.
«Ehi, stronzo» lo chiamai, afferrandolo per la manica del giubbetto nero che indossava prima che fosse fuori dalla mia portata e sbattendolo malamente contro la vecchia carretta sfasciata.
Mi chinai su di lui e gli intrappolai le labbra in un bacio famelico, bloccandolo tra il peso del mio corpo e quello che rimaneva del cofano della Lotus, godendomi quella sua visita inaspettata, ma tutto sommato piacevole.
Lo lasciai andare poco dopo, assicurandomi che ricevesse un morso piuttosto significativo.
«Questo è un bacio, non quella roba di prima. Ricordatelo» dissi, voltandomi dalla parte opposta alla sua e tornando al mio lavoro.
Cazzo, erano tempi moderni quelli, nessuno si stupiva più nel vedere due uomini a contatto, poteva benissimo darci dentro e non fare tanto il prezioso come suo solito.
Lo sentii ghignare ma lasciai perdere. Mi sarei occupato di lui più tardi, questo era certo.
You´re from the 70´s but I´m a 90´s Bitch!
Angolo Autrice.
Si, lo so, aspetto sempre l’ultimo minuto prima di pubblicare, portate pazienza, non so se cambierò mai. Comunque, questo racconta una parte della vita quotidiana di Kidd e ci dice qual cosina su di lui, ma scaveremo più a fondo mano a mano che la storia continua. In poche parole dovete continuare a starmi dietro per scoprire le stranezze che si celano dietro a questi due.
Beh, se avete domande o qualcosa non vi è chiaro vi prego di farmelo notare e provvederò ad illuminarvi.
Basta, me ne vado e, stavolta, un piccolo spoiler ve lo lascio:
“Non ti facevo così capace, ragazzino” disse ghignando e i suoi occhi scivolarono per un istante a fissare le mie labbra, svelandomi la via che stavano prendendo i suoi pensieri e le sue intenzioni.
Lo capivo, era ciò a cui non avevo smesso di pensare da quando mi ero ritrovato intrappolato tra lui e la cucina, ma che avevo abilmente nascosto. Però era anche vero che avevo fame e che il timer del forno stava scattando proprio in quel momento, segnando la fine della cottura e annunciando a tutti che era pronto.
Così dovetti calmare i suoi bollenti spiriti e ricordargli che avevo ancora io il coltello dalla parte del manico.
“Ho fatto molta pratica con i cadaveri, Eustass-ya. Vuoi offrirti volontario per una prova su carne viva?” proposi con innocenza.
Grazie a tutti, dal primo all’ultimo. Grazie, grazie, grazie!
See ya,
Ace.
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Capitolo 9 *** Capitolo 7. Sorridere é per le persone insignificanti. ***
Capitolo 7.
Sorridere è per le persone insignificanti
Guardai per l’ennesima volta la mia immagine riflessa nello specchietto retrovisore dell’auto e, più mi osservavo con occhio indagatore, più non riuscivo a capire da dove spuntasse quella strana smorfia che non voleva saperne di scomparire dalla mia faccia.
Non aveva nessun senso. Nonostante le mie labbra fossero serrate in una linea sottile, continuava ad esserci una piccola increspatura tendente a sinistra, come se fosse un ghigno trattenuto. Infatti, quello che cercavo di fare era cancellarlo, estinguerlo, estirparlo alla radice perché non era umanamente possibile una cosa del genere.
Eppure era li, sul mio viso, a darmi un’aria da imbecille suonato. Lo guardavo e non mi riconoscevo tanto la cosa era assurda. Quella inconsueta posizione della bocca non riuscivo proprio a concepirla, per quanto mi sforzassi.
E non voleva saperne di andarsene.
Pensavo al sangue visto durante il tirocinio in ospedale, ai pazienti morti, agli incidenti mortali e ai casi disperati che arrivavano in pronto soccorso dandomi modo di vedere cose improbabili e traumi mai visti prima su cui, un giorno, avrei messo le mani e fatto l’impossibile per riuscire dove tutti fallivano.
Ma niente. Non c’era verso che quel, quel…
Che quella cosa scomparisse dal mio volto.
Non stavo increspando le labbra, come quando ero indeciso se deliziare qualcuno con le mie perle di sarcasmo e non era nemmeno un ghigno, quell’espressione che tanto mi caratterizzava e che mi veniva così spontanea ogni volta che iniziavo a sfottere o a far notare cose ovvie a persone stupide, dimostrando di essere scaltro, intelligente e un fottuto maniaco perfezionista, convinto di meritare tutta l’attenzione e la ragione del mondo.
Forse era un blocco facciale.
Si, decisamente.
Perché era totalmente fuori discussione che potesse anche lontanamente trattarsi di…
Un sorriso.
No, no, no. Non esiste. Io non sorrido. Mai. Sorridere è per le persone insignificanti, per quelli che si accontentano di tutto e che sprecano le loro risate per qualsiasi stupidaggine, senza rendersi conto che dovrebbero custodire gelosamente una tale espressione per qualcosa di veramente speciale. Invece non lo capiscono e sorridono sempre. Sorridono ad uno sconosciuto, cosa che non si dovrebbe fare; sorridono al momento del saluto, quando dovrebbero dire semplicemente ciao o arrivederci; sorridono quando non sanno cosa dire o sono in imbarazzo. Ma che mentalità è? Se sei in imbarazzo ti limiti a fissare malamente quello che ti sta davanti per spaventarlo e spostare l’attenzione su qualcos’altro! Ma non si può sorridere sempre.
Come facevo io. Non sorridevo e tutta la mia vita scorreva senza problemi o intoppi. Dimostravo serietà, disciplina e rispetto all’università e con i miei docenti; evitavo di dare ascolto alle sciocchezze dei miei compagni ed amici e mi limitavo a commentare con cinismo tutto ciò che gli altri trovavano buffo.
Il sorriso era per le persone che ancora credevano in qualcosa, che non avevano perso la speranza nei loro sogni e nei loro idoli, qualunque essi fossero. Cosa potevo pretendere io, dopo aver visto morire mia madre e dopo aver aiutato la polizia a spedire in galera mio padre con l’accusa di omicidio e spaccio di droga? Dove potevo trovarla la forza di sorridere ancora? Cosa poteva valere così tanto per smuovermi dalla mia bolla di ghiaccio e scaldarmi abbastanza da farmi dimenticare il torpore che mi avvolgeva l’anima?
Nella vita non c’era niente che valesse un sorriso, a meno che non fosse speciale oltre ogni dire.
Per questi motivi in quel momento mi sentivo preoccupato e impreparato ad una cosa del genere. Non riuscivo ad accettare il fatto e non mi era facile scendere a patti con questa nuova circostanza, ma dovevo farlo per forza, dato che era già la terza volta che mi scoprivo a, come dire, sghignazzare tra me e me quando nessuno era nelle vicinanze.
Perciò dovevo affrontare la questione e accettare che tutta questa allegria fosse frutto di quello che mi stava capitando in quell’ultimo periodo.
No, non ce la faccio. Non ci credo, è inammissibile. Cazzo!
Il problema?
Quello scalmanato di Eustass Kidd. Quell’essere che era piombato nella mia tranquilla e pacata vita come una bomba ad orologeria, esplodendo e sconvolgendo la mia esistenza, rivoltando come un calzino le mie sicurezze.
Quando mi rendevo conto che lui era nei paraggi mi sentivo ardere. E non di passione o di voglia di scopare, no, quello accadeva dopo qualche bicchiere di vodka liscia, ma di impazienza. Esatto, impazienza nel prendermi gioco di lui e di vederlo perdere il controllo, diventando una bestia indomabile e impazzita, pronta a tutto pur di dimostrare la sua forza, la sua virilità, il suo orgoglio che non ammetteva battutine, insulti o sconfitte. Ed era così facile farlo scattare. Bastava una parola, uno sguardo derisorio, un ghigno appena accennato e subito credeva di essere preso in giro. La faccia che faceva era impagabile. Si voltava a guardarmi con occhi sbarrati e increduli davanti a tanta sfrontatezza, boccheggiava per qualche istante, come se non trovasse le parole adatte e poi scoppiava il finimondo. Si alzava di scatto e mi afferrava per la collottola della maglia se era seduto; mi spintonava facendomi cadere a terra se stavamo camminando; mi fronteggiava stringendo i pugni e puntandomi contro l’indice ammonitore se eravamo in presenza di altri; insomma, così tante sfumature e modi di fare da studiare e tanti comportamenti, sensazioni, stati d’animo da capire. Era tutto così interessante e…
E basta.
La maggior parte delle volte lo importunavo apposta, giusto per notare quella scintilla di rabbia e offesa accendersi nei suoi occhi e renderli ardenti.
Come i baci che ci scambiavamo.
Non c’era niente di lento, timido, dolce. Erano aggettivi che nemmeno lontanamente mi sognavo di aspettarmi e, sinceramente, mi avrebbero fatto sentire fuori posto. Si trattava, invece, di tutto uno scontro, una lotta per la supremazia, una danza di morsi, spintoni, graffi e strette micidiali che toglievano il respiro.
Kidd toglieva il respiro.
Anche solo con uno sguardo. Minaccioso o non.
Per quegli occhi ambrati passavano un sacco di emozioni e di pensieri. Non si fermavano mai, nemmeno per fissare il vuoto come succedeva spesso a me, quando mi perdevo nelle mie riflessioni. Erano attenti, all’erta, scocciati, incazzati la maggior parte del tempo, maliziosi e divertiti. E ammonitori quando mi dava un ultimatum, avvertendomi di non provare ad insultarlo oltre, altrimenti avrei subito la sua furia.
Stronzate, fargli perdere le staffe era il mio obbiettivo primario ogni volta che lo incontravo, perciò andavo fino in fondo senza esitare.
Pazienza che poi mi sbattesse al muro, non era così male.
Cosa aveva di tanto particolare lui da non riuscire a fare a meno di stuzzicarlo, cercarlo, infierire sul suo umore sempre scorbutico e sui suoi modi di fare così bruschi, maleducati ed incivili? Era una persona qualsiasi, normale, comune. D’accordo, si vestiva in modo del tutto particolare e che incuteva timore ai passanti, pieno di borchie, lacci in cuoio e cazzate moderne varie, per non parlare di quella chioma rosso fuoco. Come se avesse appiccato in testa un incendio indomabile. Forse poteva essere definito un po’ fuori dal comune, ma non era niente di speciale.
Non era così importante da meritare un sorriso. Un mio fottutissimo sorriso. Niente lo valeva, perché quella testaccia rossa si? Perché cazzo stavo sorridendo ora?
Le labbra si erano schiuse in un sorriso sincero e faticavo a frenare i sussulti di qualche risata. In parte ci stavo riuscendo bene, non fosse stato per lo sguardo che brillava di qualcosa di nuovo, qualcosa a cui non volevo dare un nome e che non avevo voglia di sondare come facevo di solito fissando le altre persone.
Non morivo dalla voglia di sapere cosa ci avrei trovato perché temevo di scoprirlo. Avevo paura, paura che il gioco non valesse la candela, che tutto sarebbe sparito, che il Destino si sarebbe preso quella cosa che aveva meritato un mio piccolo ed innocente sorriso e che se la portasse via, come aveva fatto nella mia infanzia. Prima o poi tutto sarebbe svanito nel nulla. Lo sapevo, ne ero convinto, ma continuavo a sorridere.
Mi morsi l’interno di una guancia per non andare oltre.
Va bene sorridere, ma ridere no. Assolutamente.
Parcheggiai l’auto in uno spiazzo di terra dietro la modesta casetta a un piano di mattoni rossi, attento a non avvicinarmi troppo allo steccato che delimitava il canale che scorreva a pochi metri di distanza. Spensi i fari e scesi dalla macchina, inspirando l’aria fresca di novembre a pieni polmoni e godendomi la vista che si aveva da quella posizione.
Certo che per essere un poveraccio, quel deficiente si era scelto un posto proprio carino in cui vivere. In un quartiere non troppo malfamato, appena in periferia e circondato dal verde e da alberi secolari infinitamente alti e frondosi che in quel periodo dell’anno sembravano dare vita a tutte quelle case in laterizi con i vari colori delle foglie secche. Niente male davvero.
Camminai fino ad arrivare alla porta d’ingresso. L’auto mi premuravo di lasciarla sempre sul retro, nascosta da sguardi indiscreti dato che volevo evitare qualsiasi furto o danneggiamento. Al diavolo me e la mia passione per quel ferro vecchio e la velocità.
Non bussai e non suonai il campanello, come avevo preso il vizio di fare, sicuro di trovare aperto e così fu. Entrai con calma, venendo subito accolto dal calore del riscaldamento acceso, chiudendomi la porta alle spalle e scrollandomi di dosso il freddo che si era insinuato attraverso i vestiti. Mi tolsi le scarpe e il cappotto, appendendolo all’attaccapanni all’ingresso e salendo i tre scalini che portavano in una piccola, ma accogliente, entrata. A sinistra c’era il salotto arredato con mobili semplici, ma di buon gusto, cosa parecchio strana conoscendo il proprietario, e si notava perfettamente un enorme televisore collegato a molteplici cavi e un paio di joystick posizionati con cura sul ripiano del tavolino in legno chiaro situato al centro della stanza e circondato da due divani ad angolo in pelle beige.
Ghignai al pensiero di poterli rivendere su internet come avevo già tentato di fare, venendo poi costretto ad usarli come merce di scambio per avere indietro il mio cappello preferito. Quella sera, per evitare disastri, l’avevo direttamente lasciato a casa, di conseguenza ora non c’era niente che potesse obbligarmi a restituirli una volta rubati.
Stavo valutando la possibilità di farlo, quando qualcosa, o meglio, qualcuno ebbe la brillante idea di bestemmiare ad alta voce, facendomi alzare gli occhi al cielo e scuotere il capo sconsolato.
Concedendomi un respiro profondo e armandomi di tanta pazienza, svoltai a destra verso l’ampia cucina dove il colore predominante era il bianco che la rendeva piena di luce, nonché molto apprezzata secondo i miei gusti. Non mi piacevano le stanze buie e quella era la mia preferita in assoluto in tutta la casa.
Appoggiandomi a braccia conserte allo stipite della porta osservai divertito una scena che non avrei mai creduto di poter vedere.
Il buon vecchio Eustass se ne stava chino sui fornelli, intendo a litigare con la manopola del gas e con in mano una presina da forno e un coltello da macellaio che stonava con l’ilarità della situazione.
Sopra alla maglia bianca a maniche corte, dalla quale spuntavano definite le scapole e la forma slanciata della schiena, e ai pantaloni osceni a macchie gialle su uno sfondo nero, indossava un grembiule con raffigurate delle carote. Il senso di tutto ciò non mi era chiaro, ma mi era bastata un’occhiata per capire che il fumo che usciva dal forno non prometteva niente di buono. Soprattutto con il gas acceso. E questo non lo dicevo solo perché dividevo la casa con un dinamitardo che si divertiva a far esplodere fuochi d’artificio sul tetto dell’appartamento.
«Eustass-ya vuoi per caso far saltare in aria baracca e burattini o sei semplicemente un cuoco negato?» feci, annunciando la mia presenza con tutta la disinvoltura di cui ero capace, come se la cosa che avevo davanti agli occhi fosse normale.
Colto alla sprovvista il ragazzo sobbalzò e si voltò di scatto, rovesciando sul ripiano della cucina un sacchetto di farina e facendo rotolare a terra due cipolle. Il tutto si concluse con l’accendersi del fornello che con una fiammata andò a bruciacchiargli un avambraccio, facendolo sussultare e allontanarsi di qualche centimetro, urtando poi una sedia e inciampando sui suoi stessi passi, finendo finalmente a terra.
Io non sorridevo mai. Non era nella mia indole, non lo facevo e non volevo cominciare a farlo. Soprattutto, ero sicuro che nulla meritasse la mia completa attenzione.
Ero convinto, ma alla luce degli ultimi avvenimenti, combattendo con me stesso, avevo dovuto ricredermi.
Perché in quel momento ero piegato in due, con le lacrime che pungevano sugli occhi serrati e che cercavo di aprire con fatica, mentre tentavo inutilmente di trattenermi, senza riuscirci e ridendo a crepa pelle per l’orribile figuraccia che stava facendo morire di vergogna il povero ragazzone poco distante da me.
Non ricordavo nemmeno da quanto tempo non ridevo così, senza pensieri, per il solo gusto di farlo, e mi sentivo così bene che nemmeno feci caso alla faccia stupita e sorpresa di Kidd, il quale mi fissava da terra con due occhi spalancati e grandi quanto il piattino di una tazza, incredulo nel vedermi così normale, diverso, semplice, da come ero di solito.
Non riuscì a resistere neppure lui e si unì a me dopo poco, ridendo ancora più sguaiatamente mentre mi accasciavo al suolo, appoggiato alla porta e intento a cercare di calmare gli spasmi e di asciugarmi gli occhi umidi con la manica della maglia che indossavo.
Non ci credevo, quel figlio di puttana aveva fatto crollare una delle certezze che mi accompagnavano da anni in pochissimo tempo e per una stupidaggine.
«Non ti credevo capace di ridere, Trafalgar» fece ansimando, rotolando su un fianco e mettendosi seduto, massaggiandosi distrattamente il braccio scottato.
Sospirai e guardai il soffitto con ancora l’ombra di un sorriso sulle labbra.
«Nemmeno io, a dire il vero, ti credevo così maldestro» scherzai, incapace di trattenermi e senza preoccuparmi del fatto che, forse, avrebbe potuto arrabbiarsi davvero questa volta.
Non mancò di mandarmi a quel paese in effetti, ma non la tirò per le lunghe e, dopo essersi alzato con un abile movimento, tornò ad occuparsi della sua cucina. O meglio, del tentativo di cucinare.
«Non stare sulla porta, non ti mangio se entri» accennò distratto, recuperando le cipolle da terra per poi lavarle ed iniziare a tagliuzzarle in modo esperto, stupendomi non poco.
«Per adesso» aggiunse poi, ghignando malizioso.
Ignorando quella sua frecciatina lo raggiunsi, restando comunque a distanza di sicurezza. Più volte il bastardo aveva minacciato di uccidermi e vederlo con un coltello in mano mi faceva temere per la mia incolumità.
«Non ti ho sentito arrivare».
«Non mi sono annunciato».
«Avresti dovuto farlo».
«Mi sarei perso tutto questo» dissi ammiccando. Come risposta si mise a tagliare il secondo ortaggio con forza e precisione, come se stesse immaginando di avere la mia testa in quel tagliere.
Decisi che era meglio allontanarsi per dargli tempo di calmarsi, così andai a controllare il forno, aprendolo giusto un po’ per far uscire tutto il calore e abbassando la temperatura, facendo si che un buon profumo di lasagne si disperdesse nell’aria.
Dall’aspetto non sembra male, pensai, osservando attentamente il cibo nella teglia mentre cuoceva e diventava sempre più invitante, come può saper cucinare un’idiota come lui?
«Spostati» grugnì, scostandomi con una mano e andando ad aprire il frigorifero per recuperare due pomodori maturi.
Lo osservai mentre iniziava a tagliare il primo, stando attendo a non sporcarsi troppo.
Più lo guardavo e più mi sembrava impossibile. Eppure appariva sicuro di quello che stava facendo. Le mani non tremavano, il taglio era preciso e pareva che conoscesse bene i vari passaggi. E il comportamento non lo tradiva, dato che io ero un bravo lettore. Non stava fingendo, era davvero capace di preparare un’insalata.
«Che hai da fissare?» domandò, lanciandomi un’occhiata veloce per poi tornare a concentrarsi sul cibo che stava preparando evidentemente per cena.
Alzai le spalle e guardai altrove senza rispondere, trovando molto interessante la tavola imbandita per due e sentendomi stringere immediatamente lo stomaco da una sensazione decisamente estranea.
Mi morsi un labbro, ritrovandomi a disagio per il casino psicologico che si stava creando nella mia mente. Prima mi riscoprivo capace di ridere e mi rendevo conto che la chiave di tutto era proprio quello stronzo, aggressivo e insopportabile Eustass Kidd, poi mi accorgevo che stava preparando la cena per due persone. E quella sera ero solamente io a ritrovarmi li in sua compagnia. Quindi, se non avevo fatto male i conti, stava cucinando per me. Non l’aveva mai fatto prima. Anzi, prima non avevo nemmeno mai avuto il tempo di mettere piede in stanze che non fossero la sua camera da letto o il corridoio dell’entrata.
Credetti di sentirmi male, invece mi scoprii solo un po’ imbarazzato e, in un certo senso, lusingato. A casa era Penguin a cucinare, ma non era la stessa cosa dato che lo faceva per tutti e in modo discutibile, causando spesso attacchi di vomito e mal di stomaco pazzeschi. Adesso era diverso. C’era qualcuno che si stava dando da fare unicamente per me e tutto ciò era così inaspettato e alquanto difficile da credere, tenendo presente che ogni volta che andavo da lui non rimanevo per più di qualche ora e, soprattutto, non passavamo mai la notte assieme. Una volta ci era bastata, mi ripetevo quando me ne andavo.
«Sai cucinare». Non era una domanda la mia, solo la risposta che avevo deciso di dare a tutto ciò. Lui sapeva preparare da mangiare e in un momento di pazzia aveva deciso di darmene prova, forse per dimostrarmi che non era un completo disastro come spesso sostenevo.
Borbottò qualcosa di incomprensibile prima di far scivolare i pezzetti rossi della verdura nel contenitore che aveva preparato davanti a lui e dove erano andate a finire le cipolle in precedenza, passando poi al secondo pomodoro prima di giustificarsi dicendo che si era sempre arrangiato, anche da piccolo.
Rimase con il coltello a mezz’aria, mentre sul suo viso appariva un’espressione indecisa, valutando qualcosa che a me sfuggiva, come una delle sue solite insensate e assurde idee.
Quando si voltò a guardarmi capii che avrei dovuto aspettarmi di tutto dalle parole che stava per pronunciare.
«Vuoi provare?» chiese, animato da chissà quale buonumore.
Mi rifiutai categoricamente, ammettendo senza vergogna di non essere molto bravo e che alla cucina ci pensavano sempre i miei coinquilini mentre io ero solo in grado di prepararmi un piatto di pasta.
«Sbaglio persino a dosare il sale» mentii. Tutto pur di evitare quell’offerta, o invito, o presa per il culo per avere l’opportunità di beffeggiarmi come avevo fatto io prima, ma non volle sentir ragioni.
Con la sua solita e discutibile gentilezza mi agguantò per un braccio e mi trascinò davanti al bancone, incurante delle mie lamentele, posizionandosi dietro di me e poggiando le mani sul ripiano in modo tale da non farmi scappare.
«Ora prendi il coltello» ordinò, avvicinando il viso alla mia spalla per supervisionare il mio operato.
Sbuffai, ma feci comunque come aveva detto, trattenendomi dall’infilzargli un arto con la lama, ideando di usare come scusa la mia goffaggine e incapacità di cucinare. Non se la sarebbe comunque bevuta dato che avevo una mano incredibilmente ferma ed ero già capace di fare una sutura completa senza problemi. Avrei persino potuto squarciarlo e poi ricucirlo in modo perfetto, rimettendo insieme i pezzi, ma per il momento avrei evitato.
«Con una mano tieni fermo il pomodoro e con l’altra inizi a tagliarlo a fette» spiegò, abbandonando quell’aria scocciata che aveva sempre quando si trovava a discutere in modo quasi civile con me, sostituendola con un tono più calmo e rilassato.
Potrei fare te a fette, pensai, ma non con cattiveria. Infatti, ad accompagnare i miei pensieri fu un maledetto sorriso che non riuscii a frenare. Avrei dovuto abituar mici, era chiaro.
«Così?» chiesi, tagliando di netto l’ortaggio. Scoprii che non era così impegnativo e che era esattamente come il lavoro di un chirurgo, solo non su un corpo umano. Incoraggiato da questa scoperta continuai, riducendolo in fettine sottili che con maestria gettai nella terrina di fronte a noi assieme al resto, poggiando poi con ordine il coltello e il tagliere e osservando con la coda dell’occhio la sorpresa farsi strada negli occhi di Kidd.
Con uno sbuffo che doveva sembrare una risata sarcastica mi bloccò le braccia con fermezza e mi fece voltare in modo da ritrovarmi faccia a faccia con lui, impossibilitato a sottrarmi a quello sguardo penetrante e divertito.
«Non ti facevo così capace, ragazzino» disse ghignando e i suoi occhi scivolarono per un istante a fissare le mie labbra, svelandomi la via che stavano prendendo i suoi pensieri e le sue intenzioni.
Lo capivo, era ciò a cui non avevo smesso di pensare da quando mi ero ritrovato intrappolato tra lui e la cucina, ma che avevo abilmente nascosto. Però era anche vero che avevo fame e che il timer del forno stava scattando proprio in quel momento, segnando la fine della cottura e annunciando a tutti che era pronto. Avrebbe dovuto aspettare, anche per il semplice fatto che io non vedevo una cena del genere da parecchio, a parte la pizza da asporto che ordinavo e che segretamente mangiavo in camera mia in compagnia di un libro.
Così dovetti calmare i suoi bollenti spiriti e ricordargli che avevo ancora io il coltello dalla parte del manico.
«Ho fatto molta pratica con i cadaveri, Eustass-ya. Vuoi offrirti volontario per una prova su carne viva?» proposi con innocenza.
«Ah, va’ al diavolo, stronzetto». Detto questo tornò ad essere il solito brusco, impaziente, capriccioso ed insopportabile Kidd, minacciandomi di mettere del veleno nel mio piatto e sotterrarmi in giardino dove nessuno mi avrebbe trovato. Poi avrebbe dato fuoco alla macchina e l’avrebbe gettata nel fiume che scorreva accanto a casa sua.
Nel frattempo, ascoltando i suoi sproloqui e immaginandolo con una tanica di benzina in mano mentre appiccava il fuoco e ballava attorno all’auto, mi sedetti a tavola, puntando il gomito sulla superficie di legno e appoggiando la testa sulla mano, osservando quell’impiastro mentre finiva di tagliare l’insalata per poi condirla e sbattermela davanti agli occhi con poca grazia, tornando ad occuparsi delle lasagne e sfornandole.
Ero sempre stato una persona schiva, convinta di non sorridere e permettendomi solo dei ghigni strafottenti e adatti a qualsiasi occasione.
Forse, da quel momento in avanti, avrei potuto concedermi qualche piccolo attimo di tregua per lasciare che un sorriso mi si dipingesse sul volto, come in quel momento, mentre quella testa rossa si dava da fare per non rompere qualche piatto con i suoi modi decisamente poco adatti in un contesto simile.
«Cazzo. Trafalgar, dammi una mano!».
«Perché mai, Eustass-ya? Te la stai cavando così bene nei panni dell’adorabile mogliettina».
Angolo Autrice.
Sabato. Adoro anche io il sabato come Kidd, ma passiamo alle cose importanti. Mi sono innamorata di questo capitolo e immagino la risata di Law come un qualcosa di anormale da associare a lui, ma tremendamente adorabile. Si limita a qualche sorrisetto beffardo quando è in compagnia, o ad un classico ghigno sadico, ma stasera si lascia andare e scoppia a ridere.
Kidd sa cucinare e, non appena vi svelerò qualcosa sulle sue malsane origini, capirete perché. Praticamente nel prossimo capitolo. E ce lo vedo davanti ai fornelli con quella chioma vermiglia.
Ho introdotto un po’ il passato di Law, turbolento, burrascoso, incasinato, ma scenderò nei dettagli più avanti, spiegando anche alcuni problemi e disagi a lui associati.
Che altro dire, spero di avervi strappato un sorriso con questa scena quotidiana tra i due e spero vi sia piaciuto **
Per qualsiasi cosa sapete dove sono e ringrazio sempre tutti quanti. Grazie!
Va bene, piccolo spoiler:
Le avevo tollerate nel migliore dei modi durante i mesi passati ma, quando una di loro mi aveva dato uno schiaffo malizioso sul culo, mi ero schiarito la voce e avevo messo un punto a quelle sceneggiate, dicendo in modo che tutte capissero e trattenendomi dal dare di matto, che mi piacevano gli uomini, che si, ero quello che si definiva gay e che non avrei portato a letto nessuna di loro.
Quasi dimenticavo, chiarii anche che volevo che la smettessero di rifilarmi banconote nella tasca della giacca sperando che mi accorgessi dei loro sguardi arrapati.
See ya,
Ace.
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Capitolo 10 *** Capitolo 8. Se c'era qualcuno più bastardo di mio padre, quella era mia madre. ***
Capitolo 8.
Se c’era qualcuno più bastardo di mio padre, quella era mia madre
Avevo imparato ad arrangiarmi e ad essere più o meno autosufficiente all’età di dieci anni, quando, secondo il parere degli adulti, ero abbastanza grande per rimanere a casa da solo, arrangiarmi nei compiti e comportarmi bene senza cacciarmi nei guai. Facevo del mio meglio, all’epoca, rinchiudendomi nella mia stanza a leggere riviste d’auto e a giocare con le costruzioni quando era brutto tempo e uscire a giocare, infischiandomene del resto, quando in campagna splendeva il sole e i ragazzini del quartiere uscivano in strada per ritrovarsi tutti assieme.
La mia infanzia l’avevo passata così, a costruire e smontare macchinine giocattolo, a creare robot con i bulloni delle vecchie auto, a montare e truccare il mio primo motorino e a sbucciarmi le ginocchia quando correvo in bicicletta su una ruota sola. Avevo imparato a gestirmi, a cucinare, a prendermi cura della casa, a difendermi se i bambini più grandi provavano a rubarmi la merenda a scuola; mi tenevo in forma correndo, sollevando pesi, sviluppandomi e crescendo a vista d’occhio.
Mi arrangiavo ed ero piuttosto bravo.
I miei genitori lavoravano tutto il giorno ed erano a casa solo la domenica, momento sacro in cui dovevo fare il bravo, non mangiare come un selvaggio, aiutare in cucina quando preparavo la cena per loro tutte le sere, sparecchiare, andare a trovare l’unica vecchia nonna decrepita che mi era rimasta e che stava a dieci metri da casa, non dire parolacce, non litigare con i cugini e ‘accidenti, Kidd, porta rispetto per tuo padre’.
Poi ero cresciuto, diventato maggiorenne e avevo trovato un lavoro, potendomi così permettere di trasferirmi nella casetta che mi aveva lasciato in eredità una vecchia bisnonna, troppo gentile e con il prosciutto sugli occhi per non rendersi conto di stare lasciando il suo patrimonio ad un perfetto coglione, vivendo da solo, andando a scuola e mantenendomi orgogliosamente con le mie forze.
Mi si poteva dire tutto, ma nella vita quello che avevo me lo ero guadagnato senza l’aiuto di nessuno, dei miei soprattutto.
A mia madre si illuminavano gli occhi quando mi vedeva o parlava di me. Era fiera di avermi come figlio, anche se i suoi modi a volte mi lasciavano in imbarazzo nonostante il legame di sangue che mi scorreva nelle vene, mentre mio padre era un fottuto stronzo. Avevo preso più da lui che da mamma, il mio carattere scorbutico e facilmente irritabile lo dovevo solo a lui e ai suoi modi poco affettuosi. Certo, non era tipo da perdersi in convenevoli, abbracci e carezze, ma aveva sempre lavorato per potersi permettere il meglio e non far mancare niente alla sua famiglia.
Su questo dovevo dargliene atto, ma non glielo avrei ma e poi mai detto o si sarebbe vantato per il resto della sua vita, facendomi sentire inferiore.
Ormai ero abituato a vivere da solo, pensando a me stesso, senza pensieri e preoccupazioni inutili e facendo quello che più mi andava tra quelle quattro mura di casa.
Cucinavo, giocavo, tenevo la musica alta, mi ubriacavo, apportavo modifiche all’abitazione costruendo muretti per delimitare il mio territorio, aggiungendo un caminetto nel soggiorno, ridipingendo i muri e altri lavoretti che avevo imparato a fare negli anni e che non mi pesavano, dato che sapevo arrangiarmi al meglio.
Rientravo quando volevo, giravo nudo per casa se non mi andava di vestirmi, lasciavo tutto in disordine, spostavo mobili e nelle occasioni speciali si festeggiava tra amici.
Vivevo da Dio, in poche parole.
E potevo permettermi di scopare in santa pace senza dovermi rifugiare in qualche buco o ritrovarmi a casa di uno sconosciuto con cui accidentalmente decidevo di passare la notte. Per questo, quando quell’inquietante individuo di Trafalgar Law arrivava da me, non c’erano problemi e la serata, o pomeriggio che fosse, passava tranquilla, senza fretta o intoppi, dandoci l’opportunità di avere tutto il tempo a nostra disposizione, dato che una volta non mi bastava mai.
Anche in quell’occasione era andata così, solamente che avevo deciso di mangiare qualcosa prima di divertirmi.
Non si trattava di un invito a cena come aveva insinuato lui tra un boccone e l’altro, facendomi infuriare parecchio, assolutamente. Avevo trovato la pasta per le lasagne e gli ingredienti necessari per caso e avevo deciso di consumarli una volta per tutte visto che avevo qualcuno con cui condividere il cibo. Cioè, io mi dimostravo, per una volta tanto, gentile e lui che faceva? Trovava il coraggio di aprire bocca per far uscire un sacco di stronzate. Perfetto, potevo ritenermi offeso.
Un invito, che stupidaggine. Gli avevo chiesto di venire prima solo per evitare che si raffreddasse tutto, dovendo poi buttare via e sprecare una specialità delle mie. Era difficile da capire, o ero io che sbagliavo? Non mi era minimamente passata per la testa un’intenzione del genere. Così sdolcinata poi da far venire il voltastomaco.
Disgustoso.
«Eustass-ya, non avrei mai detto che fossi un tipo da cenette romantiche» aveva detto quel miserabile, facendomi incazzare talmente tanto che in un secondo avevo afferrato il coltello per la carne da dentro al cassetto della cucina e gliel’avevo puntato contro minaccioso, trovandolo in posizione di difesa con in mano la teglia ormai vuota delle lasagne e un’espressione che non prometteva nulla di buono.
Ci eravamo guardati in cagnesco per un po’, studiandoci attentamente e registrando ogni nostra mossa, pronti a scattare se uno dei due avesse dato segno di voler iniziare una battaglia senza fine, dove non c’era mai un vero e proprio vincitore. O forse si, c’era in realtà, ma non poteva definirsi tale, dato che, odiavo pensarlo, era come se fossimo due metà di un intero.
Dio mio. Dio mio, che… Che schifo!
Non in quel senso, per carità, semplicemente, per giustizia, lui aveva il potere di zittirmi e vincermi con quelle sue battutine pungenti, mentre io mi potevo sbarazzare di lui e atterrarlo in un attimo, se parlavamo di prestazioni fisiche. Andiamo, ero il doppio, abituato a fare a pugni, anche se il piccoletto, dovevo ammetterlo, se si impegnava sapeva menare abbastanza. Da non dimenticare che, come avevo immaginato, aveva dislocato il polso a uno di quei ragazzi fuori dalla taverna la prima notte che avevamo passato assieme e dalla quale poi era iniziato tutta quella scocciatura.
A proposito di questo.
Se ne stava andando, di nuovo.
Dopo esserci calmati e aver abbassato le armi e finito di cenare, aveva insistito per aiutarmi a sparecchiare, spiegandomi che a casa sua si davano il turno e che non gli piaceva restare con le mani in mano. Dopo avergli dato un consiglio su come poteva passare meglio il tempo, ovvero intrattenermi con un lavoretto di bocca mentre io finivo di sistemare i piatti e dopo aver schivato un coltello volato, a detta sua, casualmente, verso la mia direzione, lasciai perdere e lo lasciai fare. Senza motivo, per dire qualcosa, mi aveva raccontato alcuni aneddoti sui suoi coinquilini e su quello che di solito facevano la sera per passare il tempo. Inutile dire che in una gabbia di matti come la loro non avrei mai voluto metterci piede.
Poi mi aveva chiesto dov’era il bagno e mi sembrò strano, dato che passava per casa mia tutte le settimane, ma mi resi conto solo in quel momento che lui, in realtà, la casa non la conosceva affatto se non per la camera da letto. Senza dire una parola gli avevo fatto strada, indicandogli la porta e, quando stava per entrarci, si era voltato a guardarmi con la testa leggermente inclinata e incoraggiandomi con lo sguardo a seguirlo.
«Tu non vieni?» aveva sussurrato.
Senza derisione, senza ghigni, senza sbuffi e senza proteste da parte di entrambi, l’avevo raggiunto e, poco dopo, avevo lasciato scorrere l’acqua della doccia fino a farla diventare calda sulle nostre pelli già bollenti.
E adesso, come ogni volta del resto, raccolse le sue cose in silenzio, con movimenti calcolati e attenti a non fare rumore per svegliarmi. Non stavo dormendo in realtà, ma mi sentivo stanco e assonnato, probabilmente in dormiveglia. Doveva essere tardi, forse le due di notte, e mi chiesi per la millesima volta perché non restava a dormire e ripartiva la mattina dopo. Per l’università? Per non far preoccupare i suoi amici? Sicuramente no, quei tizi erano uno peggio dell’altro e Trafalgar era un tipo che sapeva badare a se stesso, di certo lo sapevano.
Solo, ero curioso di sapere perché continuava a scappare nel bel mezzo della notte come se fosse un ladro.
* * *
Sabato. Il sabato non lavoravo e, anche se era il giorno che veneravo più di tutti, facevo una cosa che solamente pensarla mi faceva incazzare. L’aspetto comico era che ero costretto a farla proprio per evitare di perdere il controllo nei momenti più tesi e stressanti in cui non volevo fare altro che prendere e spaccare qualcosa.
Yoga.
Fanculo Killer che mi aveva convinto a iscrivermi a quel dannato corso che, secondo me e tutti coloro a cui lo chiedevo fingendomi disinteressato, non volevo di certo che tutto il mondo lo sapesse, era un’enorme cagata.
Attraversai la strada dopo aver parcheggiato poco lontano dalla palestra e mi calcai bene in testa il cappuccio del piumino nero e pesante che indossavo per non venire riconosciuto, affrettandomi ad entrare dalla porta sul retro dello stabile acanto all’edificio con su scritto Sabaody’s Energym.
Il corso, grazie al Cielo e per bontà Divina, si teneva in un luogo diviso dalla sede centrale, per comodità e perché gli svariati corsi che si svolgevano erano parecchi e non c’era spazio per tutti in un unico edificio, inoltre, organizzare e far combaciare tutti gli orari, doveva essere sicuramente un calvario.
A me andava benissimo, in questo modo non rischiavo di incontrare gente che conoscevo e mantenevo al sicuro il mio vergognoso e umiliante segreto.
Raggiunsi lo spogliatoio maschile e appoggiai lo zaino logoro e rattoppato alla meglio da mia madre, la quale lavorava come sarta per una delle più importanti case di moda dell’Isola, ma non si degnava di perdere tempo a ricucire gli stracci del suo figlioletto, la stronza.
Estrassi una bottiglia d’acqua e una fascia azzurra che mi passai tra i capelli per evitare che mi ricadessero sulla fronte e mi cambiai i pantaloni.
Una persona normale sarebbe venuta direttamente in tuta, ma nemmeno morto mi facevo tutto il tragitto, anche se si trattava di pochi metri a piedi da dove mi trovavo al parcheggio, con addosso quell’orrenda tenuta. Era un obbrobrio e una mancanza di rispetto persino per i gay.
Ma quelle erano le regole, quindi mi trovavo costretto a portare un paio di pantaloni di cotone, troppo, troppo stretti, con un motivo floreale e una canottiera tinta unita che si intonava alla calzamaglia. Inutile dire che sembravo un emerito idiota, per non parlare dei miei capelli che si intonavano perfettamente al bordeaux della maglia.
La prima volta che mi avevano messo tra le mani quella roba avevo deciso che lì non ci avrei mai più messo piede, ma Killer mi aveva tanto pregato di provare a resistere almeno un mese che, alla fine, avevo accettato, ingoiando bestemmie e improperi. Inutile dire che, col tempo, ero stato costretto a continuare, dato che mia madre lo era venuto a sapere e adesso avrebbe fatto carte false affinché non smettessi.
Entrai nell’ampia stanza con il pavimento in legno e le pareti rivestite di specchi dove un gruppo di signore sulla quarantina chiacchierava fitto fitto, lanciando qualche risolino acuto.
Assottigliai lo sguardo e avanzai lentamente, attento ai loro movimenti e fissandole circospetto. Loro erano stato il mio più grande incubo. All’inizio credevo di diventare lo zimbello del corso, essendo l’unico uomo presente, invece, non appena quelle arpie mi avevano visto, si erano avvicinate mestamente, sondandomi con uno sguardo profondo e sfacciato e, come per magia, me le ero ritrovate addosso, incapace di togliermele di torno.
Non appena mi videro si voltarono a salutarmi, chiamandomi ad alta voce affinché le raggiungessi.
Maniache, pensai, mentre mi sentivo le guance andare a fuoco sotto quei loro sguardi adoranti. In poche parole, quelle casalinghe, donne insoddisfatte, non facevano altro che guardarmi il pacco, facendomi sentire nudo anche con i vestiti addosso.
Sono peggio di Trafalgar, queste qui, ne sono certo. Sarebbero disposte a tutto pur di una scopata. Altro che lui che fa tanto il prezioso prima di lasciarsi andare, sto stronzo.
Le avevo tollerate nel migliore dei modi durante i mesi passati ma, quando una di loro mi aveva dato uno schiaffo malizioso sul culo, mi ero schiarito la voce e avevo messo un punto a quelle sceneggiate, dicendo in modo che tutte capissero e trattenendomi dal dare di matto, che mi piacevano gli uomini, che si, ero quello che si definiva gay e che non avrei portato a letto nessuna di loro.
Quasi dimenticavo, chiarii anche che volevo che la smettessero di rifilarmi banconote nella tasca della giacca sperando che mi accorgessi dei loro sguardi arrapati.
Mi avevano guardato sbalordite e, per un primo momento, deluse, ma poi si erano riprese ed erano diventate, se possibile, più assillanti, affascinate dall’idea di avere un amico maschio con cui sfogarsi e al quale raccontare tutta la loro vita e la delusione che provocavano i loro mariti.
«Kidd, caro, che bello rivederti! Devo raccontarti un sacco di cose» iniziò una, seguita poi dalle altre.
Sbuffai sonoramente, alzando gli occhi al cielo. Io andavo lì per migliorarmi e plasmare il mio animo combattivo in qualcosa di più pacato e loro mi rendevano la cosa estremamente difficile per i miei nervi già propensi alla violenza.
Fortunatamente arrivò il nostro insegnante, altro essere vivente insopportabile che ci aveva provato con me.
Insegnava danza, soprattutto, ma nel tempo libero di dedicava anche alla yoga e ad altre discipline insulse, così ero capitato sotto il suo insegnamento e, non appena mi ero dichiarato dell’altra sponda, come dicevano quelle donne sessualmente frustrate, aveva preso a farmi il filo fino a quando, una sera, era entrato in sala tutto contento dicendo di essere innamorato, smettendo di darmi noia e di rischiare di essere tirato sotto dalla mia auto in un moto di stizza.
Si faceva chiamare Mister Two, quel cretino, si truccava ed era pignolo oltre ogni dire.
«In posizione gente, forza, forza!».
Strinsi i pugni e feci un respiro profondo, contando, per sicurezza, fino a venti. Lo facevo ogni volta prima di iniziare, pregando qualsiasi entità per non andare fuori di testa.
Le lezioni duravano un ora e mezza e si tenevano due volte la settimana, ovvero il sabato e il martedì, dopocena. Mi andava bene, almeno non perdevo ore importanti durante il giorno e non dovevo saltare il lavoro, anche se avevo i miei dubbi sull’utilità di tutto ciò, dato che nell’ultimo mese mi ero ritrovato più volte a voler spaccare la faccia a qualcuno.
Probabilmente, anzi, senza dubbio, la colpa era di Law, il quale sembrava godere di un assurdo divertimento quando mi vedeva reagire male alle sue battute sarcastiche. Sembrava che la sua esistenza consistesse in questo: urtarmi i nervi. Ed ero sempre più convinto che fosse stato mandato dal Diavolo in persona per rovinarmi la vita. Quello non era un uomo, ma una maledizione. La peste, una spina nel fianco, anzi no, nel culo.
Il Malocchio, cazzo! Il Malocchio, un Demone, un, che ne so, una testa calda! Ancora peggio, è una catastrofe. La mia catastrofe, quello che mi farà finire in manicomio, ne sono certo. Ecco qual è il suo piano.
«Piega di più quelle gambe, Kidd» fece Mister Two, passeggiando per la sala e controllando l’impegno che tutti stavano mettendo nel piegare le gambe dietro al collo. Inutile dire che era una cosa imbarazzante oltre ogni dire e che stavo tentando in tutti i modi di non assumere quella posizione. Non mi sarei più potuto guardare lo specchio altrimenti.
Una baldracca è, altro che storie. Una baldracca, bagascia e sgualdrina.
«Kidd, si può sapere dove hai la testa oggi?».
Grugnii un seccato 'niente' come risposta e cercai di fingermi il più esausto possibile, beccandomi così dieci minuti di pausa ed evitando di far crollare ulteriormente il mio già minato orgoglio. Presenziare a quelle lezioni mi abbatteva l’autostima in un modo incredibile e mi costava molto abbassarmi a fare tutto ciò, ma Killer insisteva tanto e continuava ad assicurarmi che avrebbe funzionato. Mi fidavo di lui, perciò avrei continuato e ce l’avrei messa tutta per arrivare fino alla fine, ma tutto aveva un limite e mettermi con le chiappe al vento, per giunta rese in bella vista da quei pantaloni attillati non l’avrei di certo sopportato.
Quando Dio decise che il tempo della mia ultima lezione settimanale era scaduto, mi affrettai a raggiungere gli spogliatoi, iniziando a spogliarmi durante il tragitto in modo da potermi infilare di fretta la felpa, la giacca e i jeans e volatilizzarmi da quella gabbia di matti ai quali, secondo il mio sincero e schietto parere, serviva solamente una bella notte di puro e gratificante sesso per risolvere i problemi e tornare ad essere allegri.
Cosa che sarebbe piaciuto fare anche a me, ma quella figa d’oro sembrava troppo pigro per chiamarmi e vederci qualche volta in più e io, di certo, non sarei mai andato a cercarlo, abbassandomi a lui e dandogli l’occasione di rinfacciarmelo fino al giorno della mia morte, quando mi sarei finalmente liberato del suo ghigno.
Uscii dalla porta di servizio giusto quando quelle vecchie svitate raggiungevano lo spogliatoio in compagnia di quell’insegnante stravagante, sempre intento a ripetere e mostrare passi di danza classica.
Roba da non credere.
Raggiunsi l’auto, la mia amata, fidata e venerata auto, salii e accesi il riscaldamento, preparandomi a partire e tornare a casa dove avrei potuto rilassarmi, svagarmi e fare quello che più mi piaceva: giocare ad Assassin’s Creed.
Quando il telefono prese a squillare ancora non avevo messo in moto, perciò mi sembrò normale rispondere, dato che non avevo altro da fare, così estrassi il cellulare dalla tasca e, senza riflettere o pensarci due volte, risposi animatamente, aspettandomi che fosse Killer oppure Zoro per sapere se quella sera avessi intenzione di uscire.
L’ultima persona che mi aspettavo di sentire, invece, pensò bene di scombinarmi i piani e farmi gelare il sangue nelle vene.
«Biscottino, ceni con noi stasera, vero?».
In un primo momento rimasi spiazzato, sentendomi improvvisamente senza aria e incapace di reagire. Poi ringrazia il Cielo perché, se avessi deciso di partire, a quest’ora sarei già finito fuori strada e avrei causato un incidente mortale per altre persone. Poi ebbi la tentazione di tirare giù il Paradiso, ma tenni a mente che ero appena uscito da yoga e che lo scopo era quello, ridurre gli scatti d’ira.
Eh no, fanculo il mondo, è una congiura contro la mia sanità mentale!
«Ehm, veramente devo uscire più tardi, sai com’é…» provai a dire, grattandomi convulsamente la testa e scompigliandomi i capelli per l’ansia.
«Non voglio sentire scuse. Ti aspetto per le otto, intesi pasticcino?» fece una voce categorica che non ammetteva repliche dall’altro capo e udii dei distinti rumori di pentole e piatti che sbattevano. Stava già preparando da mangiare a quanto pareva.
«Va bene, a dopo allora» mormorai sconfitto, «Mamma».
Se c’era qualcuno più bastardo di mio padre, quella era mia madre.
Una donna esuberante, appariscente, che non si dimenticava facilmente quando la si vedeva. Sicura di sé, imponente, scassa palle come qualsiasi altra madre sulla faccia della terra. Dire che in casa comandava lei era un eufemismo. Lei era la sovrana, l’imperatrice, la regina incontrastata, colei che dettava legge e che impartiva gli ordini, non accettando scuse o risposte negative. E guai a chi disobbediva.
Me ne ero andato di casa appena ne avevo avuto l’occasione non perché fosse un cattivo genitore, ma per il semplice fatto che vivere sotto il suo stesso tetto era soffocante e impensabile. Appena mi vedeva mi stritolava in un abbraccio e non mi lasciava andare fino a quando non ricambiavo come si doveva. Che imbarazzo. Mai nessuno avrebbe dovuto vedermi fare una cosa del genere. La mia reputazione sarebbe andata a farsi fottere assieme al mio orgoglio.
Io ero un duro accidenti, non era possibile che mia madre pretendesse ancora di essere abbracciata, baciata, venerata e, soprattutto, insistere nel vedermi presenziare almeno una volta al mese alla sua stupida cena di famiglia.
Mi passai una mano sul volto esasperato, imboccando una stradina di ghiaia lunga un chilometro prima di intravvedere un paio di casette spuntare tra i rami frondosi di alcune querce che delimitavano la tenuta dei miei, lontana dalla strada principale, dal centro città e dalla fastidiosa presenza di vicini e curiosi.
Parcheggiai di fronte all’entrata, preparandomi al peggio e recuperando le ultime energie e l’ultimo spiraglio di calma che mi era rimasto, sperando di non impazzire e di superare la tortura che mi aspettava al di là della portone.
Scesi dall’auto e mi avviai lungo il vialetto con lo stesso entusiasmo di un detenuto che si appresta a salire sul patibolo per la sua esecuzione, guardandomi intorno e notando come il giardino fosse sempre ben curato, le aiuole in ordine e i cespugli di rose rigogliosi anche se il tempo non era dei migliori.
Tutto merito della nonna, pensai, scuotendo il capo e ricordando all’improvviso che, molto probabilmente, ci sarebbe stata anche la vecchia quella sera.
Angosciato e ormai arreso all’idea di un’imminente serata infernale con i miei parenti, suonai il campanello e attesi qualche istante, curioso di scoprire quale uragano sarebbe piombato ad aprire, investendomi in pieno e intrappolandomi in una stretta ferrea, ma allo stesso tempo famigliare.
«Tesoro sei arrivato!» sentii urlare all’interno attraverso i muri, ascoltando come la voce si facesse sempre più vicina e acuta.
«Mamma» ghignai, nell’esatto istante in cui la porta si aprì e sull’uscio apparve una massa di capelli ricci e voluminosi che accompagnavano una donna alta e dai lineamenti fieri e marcati sul cui viso risaltavano un paio di occhi grandi, evidenziati dal trucco nero e pesante come il rossetto viola che spiccava sulle sue labbra schiuse in un sorriso amorevole.
«Oh, il mio piccolo bambino! Finalmente sei arrivato!» fece con voce nasale, stritolandomi tra le braccia come avevo previsto e scompigliandomi i capelli, facendomi temere che li volesse strappare via, tanta era la forza esercitata.
Incapace di parlare, soffocato da tutto quell’affetto rivolto unicamente a me, aspettai con pazienza e sacrificio che la smettesse di esprimere tutto il suo sentimento e amore materno per il suo unico e viziato figlio per poi divincolarmi e sfuggire alla sua presa, riprendendo a respirare e sistemandomi alla meno peggio i ciuffi che mi ricadevano sulla fronte.
«Guarda come sei dimagrito! Forza, entra e aiuta la mamma a cucinare. Stasera ci penso io a rimetterti in sesto». Con queste parole mi spinse dentro casa, togliendomi dalle mani la giacca e appendendola distrattamente all’attaccapanni posizionato all’ingresso, iniziando a farmi una serie di infinite domande sulla mia salute, sulla casa e sul lavoro, lasciandomi a malapena il tempo necessario per riflettere e formulare una frase concreta, dato che si rispondeva da sola alla maggior parte dei quesiti che lei stessa poneva.
Così la lasciai fare, percorrendo il corridoio d’entrata con le pareti tappezzate di quadri e foto, raggiungendo l’ampia e spaziosa cucina al centro della quale spiccava un lungo tavolo in legno scuro, apparecchiato per tre. Mi sedetti sul ripiano accanto ai fornelli e la guardai trafficare con il pollo e con tutte le pietanze in fase di preparazione che aveva davanti a lei.
Mentre si aggirava per la stanza intenta e indaffarata, come se dovesse cucinare per un reggimento e non per tre persone soltanto, mi lasciai avvolgere dalla familiarità dell’ambiente accogliente e pieno di ricordi. Quella donna aveva ragione nell’insistere a volermi a casa per cena qualche volta, così mantenevo vivo il contatto con quello che era legato alla mia infanzia che con piacere mi ricordava ogni volta che la incontravo o che veniva a farmi visita. Almeno tutta la sua insistenza non era dettata solo dal suo desiderio di non perdermi di vista e di continuare a tenermi d’occhio, anche se cercava di nascondere quell’aspetto dietro alla scusa della facciata affettiva.
La osservai infornare le patate, con quelle calze a rete che sempre l’avevano caratterizzata e la collana di perle che papà le aveva regalato per il loro anniversario di matrimonio allacciata ed esibita orgogliosamente al collo.
Era sempre lei, la donna che quando ero piccolo mi portava a lavoro con sé e mi lasciava disfare tutti gli abiti fuori moda che non le servivano più. Mi proteggeva con le unghie e con i denti ed era gelosa, molto gelosa. E possessiva. E anche sempre più difficile da sopportare mano a mano che gli anni passavano. Inutile dire che aveva fatto una strage quando avevo deciso di rendermi indipendente e andare a vivere con Killer prima di abitare da solo in città.
Ormai era passato, ma continuava ad essere la solita donna risoluta, intraprendente e forte.
La Grande Ivan, pensai, sorridendo per il soprannome che colleghi, amici e ammiratori le avevano dato e con cui ancora si riferivano a lei quando la nominavano o la incontravano per caso. Era il suo carattere buono e disponibile che aveva contribuito a renderla famosa, oltre al lavoro e alla causa da lei sostenuta per i diritti e l’accettazione da parte della società nei confronti degli omosessuali e dei, come venivano chiamati, travestiti.
Aveva combattuto duramente e alla fine aveva raggiunto un buon traguardo e continuava tutt’ora a portare avanti quel suo progetto, sostenuta da un gran numero di persone volontarie e affezionate a lei e al suo buon cuore.
Mi chiesi per un attimo come avrebbe reagito quell’insolente di Trafalgar nel conoscerla e avere a che fare con una stronza quasi quanto lui. Quasi, perché nessuno superava il livello di quel ragazzino. Nessuno.
«La nonna? Non viene questa sera?» domandai, dimenticandomi certe idee e accorgendomi solo allora che una presenza ingombrante e la solita voce gracchiante mancavano nella stanza.
«Ha prenotato un volo all’ultimo minuto diretto chissà dove. Ha detto che voleva svagarsi un po’» spiegò Ivan, arrotolandosi le maniche dell’abito per essere più agevolata nei movimenti senza rischiare di sporcarsi.
«A novant’anni?» le feci notare, alzando un sopracciglio sarcastico e guardandola stupito. Anche se non poteva vedere la mia espressione fu come se l’avesse immaginata. Scoppiò a ridere e scosse la testa, come a voler dire che quella vecchia era piena di energie e nessuno l’avrebbe fermata. Non per niente l’avevo rinominata nella mia mente con il nomignolo di Vecchiarda.
Lasciai perdere l’argomento con un’alzata le spalle, guardando l’orologio appeso al muro e chiedendomi quando sarebbe arrivato l’ultimo componente della famiglia.
«Tuo padre arriverà presto. Sa bene che non gli conviene tardare» mormorò, seguendo il mio sguardo fino alla parete di fronte, celando una minaccia nelle sue parole, ne ero certo. E, anche se quell’uomo era un emerito bastardo, non si sarebbe mai azzardato ad incappare nelle ire di quella donna dall’aspetto gentile e intimidatorio allo stesso tempo. Avevo provato una volta a non presentarmi in orario ad una delle sue cene e non era finita nel migliore dei modi.
Quando ormai mancavano pochi minuti all’ora stabilita e Ivan stava per scaldarsi, infastidita dal possibile ritardo di suo marito, il rumore delle gomme di un’auto che avanzavano fuori in cortile la fece rilassare all’istante, mentre io scattavo in piedi, serrando i pugni e preparandomi ad uno dei soliti battibecchi con quell’uomo autoritario e scassa palle.
Mamma mi lanciò uno sguardo ammonitore, pregandomi silenziosamente di comportarmi bene e di mantenere la calma, mentre la porta d’ingresso si apriva e il rumore dei passi pesanti accompagnati dagli scarponi di mio padre arrivava forte e chiaro alle nostre orecchie.
Apparve in cucina pochi minuti dopo, con i capelli bianchi e il solito cipiglio incazzato a disegnargli la faccia; la camicia aperta sul petto allenato come d’abitudine e la giacca della divisa in mano, gettata poi in malo modo su una sedia. Anche se vigeva la regola che in cucina non si fumava, l’odore passivo di sigari mi arrivò ugualmente alle narici.
«Moccioso» mi salutò con un cenno del capo, passandomi accanto per andare a sedersi a capotavola e urtandomi volontariamente con una spallata.
«Stronzo» grugnii a denti stretti, sedendomi il più lontano possibile da lui. Quando ero piccolo gli ero sempre accanto e lo seguivo ovunque, venendo addirittura sgridato a volte per intrufolarmi in caserma all’età di otto anni solo per salutarlo prima di andare a scuola.
Adesso, invece, era una lotta continua. Non perché avessimo litigato o per qualche torto subito, semplicemente il suo caratteraccio l’avevo ereditato tutto e adesso difficilmente passavamo qualche secondo senza insultarci o punzecchiarci a vicenda.
«Kidd, porta rispetto a tuo padre» fece mamma, continuando a darci le spalle e controllando se la pasta fosse cotta.
L’altro allora ghignò vittorioso mentre io, per tutta risposta, gli mostravo il dito medio e lo mandavo bellamente a fanculo, facendogli perdere quella pazienza che anche in lui scarseggiava.
«Te la faccio vedere io, razza di mascalzone!» iniziò a dire, slacciandosi i polsini della camicia e mostrando i pugni con fare minaccioso e totalmente incazzato, imitato all’istante da me.
«Smoker, tocca mio figlio e non arriverai a domani!».
Angolo Autrice.
I’m back! Allora, cosa dite? Piaciuta la sorpresa barra scandalo barra infarto? Si, perché nemmeno io riesco a capacitarmi del fatto di aver veramente accoppiato Smoker e Emporio Ivankov. Potrei aver storpiato per sempre questi personaggi, ma ho le mie motivazioni!
Innanzitutto, la strettissima somiglianza di Kidd con Smoker. Avanti, sono perennemente incazzati e pronti a scattare in qualsiasi momento, così mi sono presa la libertà di creare tra loro un grado stretto di parentela. E Smoker, secondo me, ci può anche stare come padre.
Ivan. A parte che adoro il suo personaggio, mi piaceva l’idea che Kidd potesse avere come madre qualcuno che lo chiamasse con nomignoli affettivi imbarazzanti e che se lo spupazzasse in ogni momento. Daaaaaai, non è così male.
Detto questo passiamo al resto, per esempio alla lezione di Yoga! Finalmente l’ho descritto e, data la stranezza della situazione, mi è sembrato simpatico creare una situazione imbarazzante tra Eustass-ya e le sue compagne di corso arrapate. Si, loro volevano portarselo a letto e mangiarlo vivo, sia chiaro, come l’intento iniziale di Mister Two, personaggio che mi è simpaticissimo e contro di lui non ho proprio niente.
Che altro dire? La parte iniziale riguardante Kidd spiega il motivo per il quale lui sappia cucinare ed arrangiarsi, cosa che aveva lasciato Law perplesso la sera prima. E ho anche lanciato le basi per un qualcosa che si evolverà nei prossimi capitoli. Intanto Kidd si chiede perché Trafalgar faccia di tutto per attenersi alle regole da loro mai stabilite. Piiiiiccolino.
Grazie a tutti coloro che mi lasceranno un ricordino e a quelli che leggono tranquilli, spero che questo vi abbia fatti divertire.
Abbraccioni e spoiler:
“Sapete, credo che lui sia coinvolto in loschi affari, al contrario di voi con problemi di cuore” ipotizzò Bepo.
“Ma dai? Sul serio?” fece sconcertato l’idiota di turno con la faccia dentro al frigo, mentre io, con le braccia incrociate e il viso corrucciato, fulminavo qualsiasi cosa con lo sguardo.
“Lo sapete quanto lui ami le esplosioni. Potrebbe essere passato al lato oscuro”.
“In questo caso piloterà un aereo e si farà esplodere andandosi a schiantare contro un monumento famoso? Magari la prigione di Impel Down, sai che figata!”.
Mi schiaffai una mano sul viso, incapace di sopportare oltre.
“Smettetela di blaterare. Ace ha la ragazza, punto. Non c’è nessun attentato sotto e non è un terrorista!” sbottai.
“La ragazza? Ma stai scherzando?”.
“Non ha mai avuto una ragazza”.
“Gli sarà venuta voglia” rifletté allora Penguin, seduto a terra e con il mento appoggiato alla mano in una posa pensierosa.
*
“Presentati allora” feci con tono ovvio. Qual’era il problema? Dove stava la difficoltà?
“Come se fosse facile” farfugliò da sotto la stoffa, prima di scaraventarla a terra in un moto di stizza. “Non capisci Law, lui è così…”.
“Non lo voglio sapere”.
“E’ da perdere la testa”.
See ya,
Ace.
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Capitolo 11 *** Capitolo 9. La stagione degli amori. ***
Capitolo 9.
La stagione degli amori
E’ una verità universalmente riconosciuta che uno scapolo provvisto di un ingente patrimonio debba essere in cerca di moglie. Per quanto al suo primo apparire nel vicinato si sappia ben poco dei sentimenti e delle opinioni di quest’uomo, tale verità é così radicata nella mente delle famiglie dei dintorni, da considerarlo legittima proprietà dell’una o dell’altra delle loro figlie.
«Bepo! Dove diavolo ti sei cacciato razza di orso con due zampe!».
«Oh Dio mio» mormorai esasperato, alzando gli occhi al cielo e sprofondando ulteriormente nella soffice poltrona gialla che i miei coinquilini mi avevano regalato il natale scorso, approfittando del fatto che il colore delle pareti dell’appartamento, dipinte di un arancione tenue, non stonassero con la stoffa di quella che era diventata la mia seduta preferita.
Era domenica sera, il giorno dopo avevamo tutti lezione al mattino e ci saremo ritrovati per giunta nella stessa classe, come se vivere sotto allo stesso tetto non bastasse.
Considerando che mi ero preso molto avanti con lo studio e che fossi dotato di una preparazione e di una conoscenza di gran lunga superiore a quella dei miei docenti, avevo deciso di dedicarmi un po’ di svago per leggere uno dei miei libri preferiti, sorvolando sul fatto che la famosissima opera di Jane Austen fosse stata scritta in quell’epoca per sollevare il morale alle povere ragazze zitelle e per dare loro un po’ di speranza per il futuro roseo che non avrebbero mai avuto a quei tempi. Sul serio, non mi toccava minimamente e quella era la decima volta che lo iniziavo da capo.
Capii che avevo fatto male i miei conti quando Penguin entrò nel salone con i capelli bagnati che gli ricadevano sugli occhi e all’altezza delle spalle, solleticandogli il collo e costringendolo a grattarsi, gocciolando ovunque.
«Penguin, bagni il tappeto» gli feci notare, mostrando il mio disinteresse per i suoi problemi con un cenno annoiato della mano e tornando a leggere da dove avevo lasciato.
«Cosa? Ah si, scusa. Bepo!» riprese a chiamare.
«Ora la moquette» sospirai, girando pagina e lasciando scorrere lo sguardo sulle frasi scritte su quella carta ruvida che ormai conoscevo a memoria.
«Cazzo» brontolò tra i denti, scomparendo nel corridoio che portava alle camere da letto e ritornando poco dopo con un asciugamano rosa in testa. Non volli nemmeno soffermarmi a pensare da dove sbucasse quella cosa improponibile. Era un insulto persino per lui.
Iniziò a girare per l’appartamento sbattendo le porte, aprendo cassetti, sbuffando come una furia e rischiando di scivolare a terra, rompendosi l’osso del collo quando passò sopra all’acqua che era colata sul pavimento davanti al divano e sotto il mio sguardo che cercavo di mantenere concentrato.
Solitamente non perdevo mai il controllo. Succedeva solo quando mi ritrovavo chiuso in casa con l’unica compagnia di quel’esaltato che poteva fare concorrenza ad Eustass Kidd in persona.
Beh, forse non proprio, pensai sarcastico, mentre mettevo un segnalibro fra le pagine e riponevo con cura il volume sul tavolino in vetro al centro della sala.
Mi passai stancamente una mano sul volto, scompigliandomi i capelli già in disordine e costatando che era da parecchio che non mi radevo la barba. Più tardi ci avrei pensato, sempre se non mi fossi incazzato nel frattempo.
«Penguin, dimmi cosa stai cercando prima di distruggere la casa».
Il ragazzo si fermò nel bel mezzo della sua andatura indaffarata, voltandosi e fissandomi con un paio di occhi grandi e inquieti, nei quali iniziò a farsi strada la speranza che, forse, avrei potuto aiutarlo.
«Bepo ha nascosto la roba. Sai dove l’ha messa?» chiese, avvicinandosi pericolosamente con uno sguardo da pazzo e le fauci spalancate con una lingua rossa a penzoloni. Per un istante sembrò un cane con la rabbia ed io dovetti trattenermi dalla voglia di dissezionarlo. All’università ci avevano fatto fare pratica solo su una rana e mi sarei rifiutato di farlo su qualsiasi altro animale, ovvio, ma Penguin non lo era, perciò niente mi tratteneva dall’agire, solo un forte senso di giusto e sbagliato.
Anche se non ero più tanto convinto che fosse sbagliato eliminare una spina nel fianco.
Bastò un’espressione seria e un’occhiata gelida e ammonitrice per far si che si desse una calmata e che si scusasse per la reazione esagerata. A volte superava il limite e dava di matto quando, per il suo bene e per fermare quella sua insana dipendenza, i ragazzi gli nascondevano il ricettario che utilizzava la maggior parte delle sere, quando non riuscivamo a farci trovare con il cibo da asporto già in cucina, per preparare dei piatti di diverse origini e sapori. In sé non mi sarebbe nemmeno dispiaciuto assaggiarli, non fosse stato che quell’incosciente non seguiva mai le istruzioni e le dosi, creando così dolci ipercalorici, manicaretti troppo salati e zuppe con ingredienti di dubbia provenienza. Diceva che gli piaceva dare un tocco personale a tutto.
Grazie tante per il pensiero, ma vaffanculo lo stesso.
Così Bepo aveva iniziato, quando riusciva a sottrarre il libro maledetto dalle grinfie di Penguin, a nasconderlo in posti noti a tutti tranne che al diretto interessato e si premurava di cambiare il nascondiglio ogni giorno per evitare che l’altro lo scoprisse troppo presto.
Il libro delle ricette era passato alla storia quando Ace aveva tentato di dargli fuoco con un accendino, riuscendo a distruggere solo l’introduzione. Un risultato piuttosto negativo e misero, ma fu abbastanza per darci modo di vedere la fissazione di Penguin per quell’affare. Sembrò impazzire quando se lo ritrovò tutto bruciacchiato tra le mani e non ci rivolse la parola per un mese intero, rifiutandosi persino di cucinare. Inutile dire che quello fu il periodo in cui mangiai il cibo migliore della mia vita, alternando pizzerie e ristoranti.
Poi gli era passata, ma ormai eravamo tutti convinti che la sua fosse una vera e propria dipendenza, così il ricettario era stato soprannominato ‘roba’, per ricordargli che, anche se in modo molto diverso e più sano, era un drogato.
«No, non so dove sia» mentii. Sapevo benissimo dov’era nascosta. In un posto dove Penguin non si sarebbe mai sognato di andare a guardare per timore di non rivedere mai più la luce del sole.
Camera mia.
«Balle. Avanti, dimmelo» insisté, portando le mani ai fianchi e battendo impaziente un piede a terra.
Per tutta risposta gli dissi che avevo già ordinato la cena e che sarebbe arrivata di li a poco, quindi avrebbe fatto meglio ad andarsi a vestire perché io non avevo la minima intenzione di scomodarmi dal mio posticino caldo e accogliente. Per sottolineare meglio le mie parole, agguantai un cuscino e una coperta dal divano e mi coprii, dipingendo in pochi attimi l’immagine del relax, iniziando a poltrire.
Quando aprì la bocca per insultarmi e mandarmi a quel paese, alzai l’indice nella sua direzione e lo feci zittire all’istante, facendogli morire le parole in gola.
«Sai cosa succede se lo fai» cantilenai con un macabro sorriso.
Mi lanciò un’occhiata truce per poi darmi le spalle e ritirarsi in camera sua sbattendo la porta con violenza. Mi sembrò di avere a che fare con un’adolescente in fase ormonale e con problemi relazionali, ma lasciai perdere e tornai a ghignare soddisfatto per la vittoria.
Penguin era da sempre uno dei miei migliori amici, ma aveva imparato a sue spese cosa succedeva quando qualcuno tirava troppo la corda con me perché se decidevo di dire no, era no e basta. Gli scocciatori non li sopportavo, per questo, quando non otteneva quello che voleva da me, se ne andava sempre imbronciato. Era tipico del suo carattere e il fatto che fossimo amici gli bruciava ancora di più, visto che sperava ogni tanto di spuntarla usando un qualche immaginario bonus affettivo. Il problema era che non aveva ancora capito che per me non c’erano eccezioni.
Una massa di riccioli biondi, talmente chiari da far sembrare il proprietario un albino, spuntò dalla porta semi aperta dello sgabuzzino vicino all’entrata dove tenevamo scope, aspirapolvere e scarpe.
«Se n’è andato?» sussurrò una voce bassa e tremolante, mentre un sorriso si faceva strada sul suo volto quando annuii verso la sua direzione.
Bepo uscì con tutta la sua stazza dall’armadio delle scope, dentro al quale era costretto a nascondersi fingendo di essere fuori casa quando Penguin decideva di assillarlo con qualche sua trovata, e si spolverò la felpa bianca e morbida, raggiungendomi in soggiorno e sedendosi sul divano accanto alla mia poltrona.
«Grazie per non aver parlato. L’ultima volta che ha cucinato non ho dormito per tutta la notte» si lamentò disperato, toccandosi d’istinto la pancia al ricordo dell’orribile esperienza vissuta.
«Potresti rifiutarti di mangiare» provai a dire, cosa che facevo sempre io per evitare problemi.
Mi lanciò un’occhiata sarcastica e allo stesso tempo preoccupata. «Come fai tu?».
«Touché» feci, con l’ombra di una smorfia sul viso, «Ma evito tanti problemi, ammettilo».
«Ti fai del male, Law, e lo sai. Da quanto non mangi in modo sano e decente?».
«L’altra sera ho cenato da Eustass-ya» mi difesi, stringendomi nelle spalle, come se la cosa non fosse così grave come la stava facendo sembrare. Sorrisi impercettibilmente davanti a quel ricordo.
«Si, e hai vomitato tutta la notte perché il tuo corpo non è riuscito a digerire tutto quel cibo, dato che ti nutri con poco e male» mi sgridò, «Inoltre stai sempre a studiare e dormi, si e no, cinque ore se tutto va bene».
«Questo non è vero» feci glaciale, guardando altrove. Forse solo in parte, ma non sopportavo quando ricevevo la ramanzina dai miei compagni sul modo in cui decidevo di tirare avanti. Per le cose secondarie come dormire e mangiare potevo fare a meno, l’obbiettivo primario era eccellere negli esami e darmi da fare con i corsi all’università per laurearmi e coronare il mio sogno diventando un chirurgo di fama mondiale, impeccabile, all’avanguardia e capace di sfidare la Morte e batterla al suo stesso gioco.
«Spero tu sappia quello che stai facendo» si limitò a dire, vedendo che, come al solito, non stavamo andando da nessuna parte e non mi avrebbe convinto di certo a fare come diceva. Non ci riusciva mai e se non avevo io un motivo per farlo, allora non sarebbe mai stato capace di farmi cambiare.
In quel momento arrivò Penguin a completare il quadretto, entrando in salotto con una vestaglia e un paio di pantofole dei Simpson, con la faccia di Homer ad avvolgergli i piedi. Improponibili, ma i suoi gusti erano sempre stati a dir poco strani, quindi non mi stupii e lasciai che si fiondasse addosso a Bepo, inchiodandolo sul divano e minacciandolo di morte se non gli avesse rivelato dove tenesse nascosta quella sua fottuta roba.
Quando suonò il campanello stavano ancora litigando come due bambini, così fui costretto ad alzarmi e a raggiungere l’uscio dove una ragazza con un berretto da baseball in testa e i capelli tinti di rosa aspettava per fare la sua consegna.
«Sono venti in tutto» disse allegra e con un sorriso smagliante.
Pagai il conto usando il portafogli di Penguin, così, giusto per vendetta personale per essermi dovuto scomodare dalla mia postazione e per avermi fatto passare la voglia di leggere, lasciandole addirittura la mancia, e la salutai educatamente prendendo con me le tre pizze che ci avrebbero sfamato quella sera.
Per fortuna che Ace è fuori, aggiunsi mentalmente, altrimenti avrei dovuto ordinarne tre solo per lui. Beh, ma che problemi mi faccio, tanto pagavano gli altri.
Svoltai a sinistra e ignorai quei due mocciosi troppo cresciuti che dal divano erano passati al pavimento, e mi diressi in cucina dove apparecchiai il tavolo, distribuendo il cartone su ogni posto e iniziando a mangiare la mia parte con gusto, accendendo la televisione e sintonizzando il canale sulle ultime notizie.
I due ragazzi, non appena si accorsero della voce del giornalista sopra le loro teste, smisero di litigare e osservarono prima l’uomo sullo schermo, poi me ed infine la mia fetta di pizza.
La cucina dava sul salone e potevamo guardare comodamente i canali restandocene comodi a colazione, pranzo e cena.
«Ehi, non si offre?» chiese un indignato Penguin, il quale liberò Bepo all’istante e si fiondò a tavola. Non voleva ammetterlo, ma anche lui si sentiva sollevato e tranquillo quando non doveva trovarsi ad affrontare temperature del forno, fornelli e grammi di farina da dosare per preparare le sue stranezze culinarie. Il perché si ostinasse a farlo non era chiaro a lui come non lo era a noi.
«Buon appetito!» disse a bocca piena, ingoiando in un sol boccone un intero pezzo, mentre l’altro ragazzo iniziava a tagliare la sua cena con calma e senza fretta.
Passammo vari minuti in silenzio, ognuno perso nei suoi pensieri e dovetti ricorrere più volte al mio autocontrollo per ignorare gli sguardi preoccupati che mi lanciava di tanto in tanto Bepo con la coda dell’occhio. A suo modo cercava di prendersi cura di me, ma non era grave come pensava, davvero. Io mangiavo, e parecchio anche, solo non in modo regolare. Se saltavo il pranzo recuperavo al pomeriggio e se non cenavo, pazienza, mi rifacevo a colazione il giorno seguente, passando alla caffetteria dell’università. Insomma, non ero bulimico o anoressico, semplicemente a causa dei corsi e dello studio avevo dovuto riorganizzare i miei orari e arrangiarmi come potevo.
«Che fine ha fatto Ace?» chiese ad un tratto Penguin, accorgendosi solo allora che qualcuno mancava all’appello, «E’ già la terza volta che non cena con noi».
Dovrebbe fare più attenzione, pensai, fingendomi indifferente all’argomento, questi due iniziano a sospettare qualcosa. Mi toccherà metterlo in guardia se tiene così tanto alla sua riservatezza. Certo che poteva inventarsi una scusa migliore quando l’ho beccato a sgattaiolare fuori di casa la prima volta.
«In effetti è strano» aggiunse Bepo facendosi pensieroso, «Spero solo che non stia combinando qualche guaio.
Io, invece, spero si sia reso conto che non ho creduto minimamente alla sua trovata geniale. Andiamo, chi andrebbe mai ad uno spettacolo di poesia? Ace no di certo, si addormenterebbe ancor prima di entrare nel locale.
«Ora che ci penso è da un po’ che tutti si comportano in modo strano. Non trovi anche tu, Law?». Penguin, con la sua solita sfacciataggine, mi lanciò un’occhiata eloquente, sollevando le sopracciglia fino all’attaccatura dei capelli e lasciandomi intendere che voleva avere delle risposte riguardo un certo argomento: gli stramaledetti affaracci miei.
«E cosa ci sarebbe di strano?» domandai, stando al gioco. Sapeva che non ero solito parlare della mia vita privata, tanto meno di come passavo il mio tempo libero e, sopra ogni cosa, non andavo a dire in giro che mi vedevo con quel disadattato sociale di Kidd.
Lui e Killer, quel simpatico e benedetto capellone che sembrava sopportarlo Dio solo sapeva come, avevano preso l’abitudine di presenziare alle nostre uscite i sabato sera, invitati una volta da Sanji, un’altra da Zoro, una da Penguin e, addirittura, da Rufy stesso. Erano, per qualche misteriosa ragione, entrati nelle sue grazie, così me li dovevo sorbire ogni volta che decidevamo di passare una serata tutti in compagnia. In quelle occasioni tutto era come la prima volta: ci fulminavamo con lo sguardo; io mi dedicavo al mio sport preferito, ossia farmi beffe di lui e causare le risate generali, sempre discrete per paura delle sue reazioni, e trovavo sempre nuovi nomignoli da affibbiargli, giusto per non farlo sentire ignorato o in disparte. Ero gentile, dopotutto, ed educato. Che a fine serata, chissà come, mi ritrovassi, volente o non, a casa sua quello era un caso a parte e non un’anima faceva domande.
Non sapevo bene quale fosse il termine adatto da usare e per il momento non avrei mai parlato o anche solo pensato a verbi impegnativi come frequentare. Troppo pesante, troppo intimo, troppo…
Troppo serio.
Andiamo, erano tempi moderni, nessuno mai si sarebbe andato a legare le mani in una relazione stabile e duratura che, in realtà, non sarebbe mai stato facile mantenere con un testardo come quel rosso incandescente.
A dire la verità non avevamo mai parlato di questa cosa, semplicemente lasciavamo la questione come stava e non affrontavamo l’argomento. Gli accordi erano questi: andavo da lui, scopavamo e ritornavo a casa. Semplice, facile da fare, non richiedeva grossi cambiamenti nel mio orario settimanale e, soprattutto, mi permetteva di tenermi il più lontano possibile dal venire coinvolto sentimentalmente. Mantenevo le distanze per questo motivo.
Una relazione non era ciò che volevo.
Avevo paura che, se avessimo iniziato a passare più tempo insieme, se ci fossimo incontrati per caso o se ci fossimo dati appuntamento così, senza uno scopo, ma soltanto per il bisogno di vederci, di sapere che eravamo un qualcosa di concreto e non solo un semplice e sporco piacere fisico, non ce l’avrei più fatta ad allontanarmi una volta scomparso tutto.
Non eravamo destinati a durare, niente durava, ed io avevo già le mie cicatrici da sopportare; non avevo bisogno di altro a cui pensare e per cui soffrire. Ero stanco.
E forse, continuando così, avrei smesso di sperare inconsciamente di essere considerato più che un oggetto da quell’invasato.
Perché quel bastardo mi piaceva. Mi piaceva più di quanto mi potessi permettere e volessi ammettere.
«Oh niente, solamente il fatto che una sera a settimana sparisci dall’appartamento e torni a casa con un sorriso grande da un orecchio all’altro. E la prima volta che ti ho visto con quell’espressione non ho creduto ai miei occhi. Diciamocelo, tu non sorridi mai. Aggiungiamo anche che dietro tutto questo c’è Eustass Kidd e la cosa diventa a tutti gli effetti incredibile!».
Fulminai Penguin con la peggiore occhiata assassina per tutto il suo discorso da saputello, meditando sulle varie possibilità che avevo di fargli soffrire le pene dell’inferno prima di ucciderlo e sbarazzarmi di lui per sempre.
Per un momento pensai che anche Bepo avrebbe potuto fare la stessa fine, quando provò a dare ragione all’altro ragazzo ma, accortosi che il mio umore non era dei migliori, preferì restarsene zitto e abbassare il capo, concentrandosi sul suo piatto e finendo la cena. Si salvò per un soffio.
Quando Penguin si decise a guardarmi con la faccia di chi sa di avere la situazione in pugno, gli dedicai un ghigno malefico, sfoderando il mio asso nella manica per punzecchiarlo a mia volta nel vivo.
«Parliamo di te ora» iniziai, facendogli intendere che non aveva via di scampo, «Tu e Killer-ya avete già concluso o hai fatto come tuo solito, comportandoti da ragazzino timido e impacciato, presentandoti solo come un buon amico e incapace di volere di più? Perché finirà come al solito di questo passo: lui se ne andrà con un altro e tu rimarrai a bocca asciutta».
Godetti nel vedere la sua faccia sbiancare e l’espressione vittoriosa che aveva lasciare spazio ad uno sguardo perso e una smorfia di pura tristezza.
Penguin era così. In un certo senso eravamo simili perché entrambi avevamo paura di quello che i sentimenti potevano causare, l’unica differenza era che io mi tenevo alla larga da questi dandomi comunque da fare, mentre lui non riusciva mai ad esprimersi come avrebbe voluto, perdendo così l’occasione di trovare una persona con cui stare bene.
Parlando in quel modo sapevo di averlo ferito, ma non ero riuscito a sopportare l’idea che tutti in quella casa si stavano facendo, ossia che il fatto di passare del tempo con Kidd mi rendesse felice.
Era sbagliato. Era tutto sbagliato, non avevano capito niente.
«Questa potevi risparmiartela» mormorò sommessamente, giocherellando con gli avanzi sul cartone della pizza.
Sbuffai e risposi con un’alzata di spalle, «Potevi evitare di provocarmi».
«Siete patetici, tutti e due!» sbottò allora Bepo con un furore che ne io ne l’altro ragazzo gli avevamo mai visto usare.
Brandì una forchetta come se fosse un’arma micidiale e la puntò verso di noi con aria importante.
«Penguin dovresti darti una svegliata e tirare fuori le palle, dato che sei la persona più fuori di testa che conosca. Andiamo, voi due siete stata l’attrazione nudista in un locale, ve lo siete dimenticato? E tu, Law, sei un povero illuso se speri di andare avanti così senza innamorarti!».
Lo guardammo allibiti per un tempo indeterminato. Non riuscivo a trovare nulla da ribattere e, per la prima volta, Bepo aveva saputo farsi rispettare e zittire due delle persone più difficili da sopportare e con la battuta acida sempre pronta e a portata di mano.
Quando si rese conto della sua sfuriata si sentì in imbarazzo, le guance si tinsero di rosso e, ricomponendosi, ci guardò con occhi desolati, iniziando a profilarsi in una serie di scuse per quanto riguardava il suo comportamento maleducato e indelicato. Davanti a quella scena Penguin iniziò ad urlare, insistendo sul fatto che non poteva prima sgridarci e poi scusarsi, mentre io ero semplicemente troppo impegnato a pensare ai miei problemi per dare ascolto alla loro pazzia.
Che avesse ragione il ragazzo bonaccione accanto a me?
Innamorarmi.
Odio Eustass-ya. Odio tutto di lui. E’ scorbutico, impaziente, senza cervello, pazzo, Malpelo, stronzo e senza un minimo di autocontrollo! Insopportabile oltre ogni dire. Ed io sono un emerito coglione visto e considerato che non riesco a troncare i rapporti. Perché diavolo gli ho lasciato il mio numero poi? Perché continuo ad andare da lui quando mi chiama? Da quando faccio quello che gli altri mi dicono?
«Scusa, scusa, scusa!» ripeteva nel frattempo Bepo.
«Dammi la roba e poi ne riparliamo» propose allora Penguin, salendo sopra al tavolo per raggiungere il suo coinquilino e ottenere ciò che voleva.
«Non stavamo parlando di Ace?» provai a ricordargli, tanto per cercare di sviare l’argomento e riportare un po’ di calma in quella casa che ormai ne aveva viste di tutti i colori. Nel vero senso della parola dato che una parete del soggiorno era coperta da impronte di mani, piedi, una faccia spiaccicata e schizzi verdi, blu, rossi e viola. Ognuno aveva lasciato la sua firma in una calda giornata estiva, quando avevamo deciso di ridipingere le pareti. Il nostro capolavoro, però, era uno smile stilizzato, fatto nel tentativo di creare un Jolly Roger tutto nostro, piuttosto originale.
«Può saltare in aria! Datemi la mia roba!» piagnucolava Penguin, infischiandosene di tutto e iniziando a girare per la cucina, aprendo tutti gli scomparti e rovistando dietro le pentole dove avevamo nascosto una volta il ricettario maledetto.
«Sapete, credo che lui sia coinvolto in loschi affari, al contrario di voi con problemi di cuore» ipotizzò Bepo, rimettendosi seduto e sistemandosi il colletto della camicia che l’altro ragazzo aveva spiegazzato a furia di saltargli addosso nel tentativo di farlo parlare.
«Ma dai? Sul serio?» fece sconcertato l’idiota di turno con la faccia dentro al frigo, mentre io, con le braccia incrociate e il viso corrucciato, fulminavo qualsiasi cosa con lo sguardo.
Problemi di cuore un paio di palle. Non siamo ragazzine in fase adolescenziale, nonché la peggiore.
«Lo sapete quanto lui ami le esplosioni. Potrebbe essere passato al lato oscuro».
«In questo caso piloterà un aereo e si farà esplodere andandosi a schiantare contro un monumento famoso? Magari la prigione di Impel Down, sai che figata!».
Mi schiaffai una mano sul viso, incapace di sopportare oltre.
«Smettetela di blaterare. Ace ha la ragazza, punto. Non c’è nessun attentato sotto e non è un terrorista!» sbottai.
«La ragazza? Ma stai scherzando?».
«Non ha mai avuto una ragazza».
«Gli sarà venuta voglia» rifletté allora Penguin, seduto a terra e con il mento appoggiato alla mano in una posa pensierosa.
«Sembra che sia iniziata la stagione degli amori anche se è inverno ormai».
«Bepo, dacci un taglio» mormorai minaccioso. Era il mio ultimo avvertimento, dopo di che non avrei più risposto delle mie azioni e, quando Ace avrebbe fatto ritorno, avrebbe avuto il suo bel da fare nell’aiutarmi a seppellire quei due in giardino.
Deglutì a fatica e fece segno di chiudersi la bocca con la zip, alzandosi per ripulire, lavare i bicchieri e le posate e mettere in ordine quello che l’iperattivo Penguin aveva ribaltato.
Io me ne tornai in salotto, diretto verso la mia poltrona e con tutta l’intenzione di estraniarmi dal mondo.
Ovviamente, se volevo sperare in una cosa del genere, dovevo per forza rinchiudermi in camera e chiudermi a chiave. Solo allora sarei stato sicuro di essere lasciato solo e in pace. Purtroppo per me il Destino non voleva così e il televisore di fronte a me si oscurò mentre un DVD veniva inserito e le luci si spegnevano.
«E’ tanto che non giochiamo a costruire les barricades con il sottofondo de Les Miz» ammiccò Penguin, prendendo posto sul divano e ammucchiando accanto a sé vari cuscini e coperte che avrebbero servito a fare da barricate, il tutto impilato in equilibrio precario sopra ai divani dai quali avremmo finto di cantare per poi crollare a terra senza vita quando i francesi avrebbero sparato.
La prima volta che l’avevamo fatto era successo per caso, durante il film, e da allora, ogni volta che decidevamo di rivederlo, era d’obbligo rifare la stessa scena. L’avevamo ripetuto talmente tante volte che era diventata una tradizione, tanto che lo consideravamo addirittura un gioco. L’ideale quando non sapevamo cosa fare a casa.
Una volta avevamo provato persino a imitare il film Fight Club. Inutile dire che non era finito molto bene.
Alzai gli occhi al cielo e lasciai che le canzoni del film riempissero la stanza, attirando l’attenzione di Bepo e facendolo correre per non perdersi l’inizio. Lui adorava quella nostra trovata un po’ infantile ma, in un certo senso, divertente.
Ho a che fare con degli idioti, pensai, prima di sbattere un bracciolo rimovibile della poltrona in faccia a Penguin e iniziare così un’imprevista battaglia di cuscini.
* * *
L’appartamento era silenzioso e buio a quell’ora tarda della notte; i erano balconi chiusi, la televisione spenta, il soggiorno miracolosamente non distrutto e in ordine, fatta eccezione per qualche cuscino ancora sparso qua e la sotto al tavolino e al divano. I cartoni delle pizze erano stati gettati nella spazzatura, i piatti lavati e rimessi al loro posto, non una virgola fuori luogo.
Tutto calmo e tranquillo come succedeva di rado e solo quando i coinquilini più vivaci erano a letto a dormire un sonno profondo popolato di sogni.
O fuori per un appuntamento.
Il classico tintinnio delle chiavi e lo scattare secco della serratura mi risvegliarono dal mio dormiveglia, facendomi tornare lucido all’istante e non più avvolto nel torpore. Feci un respiro profondo, stiracchiandomi lentamente e rendendomi conto di aver perso del tutto la sensibilità a entrambe le gambe a causa della posizione rannicchiata che avevo assunto per diventare un tutt’uno con la mia poltrona.
Avrei dovuto chiacchierare con Ace da li, non c’era altra soluzione.
Lo sentii aprire lo sgabuzzino e riporre il cappotto e le scarpe prima che una luce si accendesse ed illuminasse la stanza, rivelando la sua figura infreddolita e assonnata, ma in ogni caso entusiasta e di buon umore.
Ghignai. A quanto pareva le cose si erano fatte interessanti.
Quando attraversò il salotto per dirigersi verso la sua camera sobbalzò nel vedermi davanti a lui, intento a indicargli il divano accanto a me, invitandolo con una mano a sedersi e guardandolo con un’espressione diretta a fargli capire che non l’avrei lasciato andare fino a che non mi avesse raccontato tutto.
«Law, che ci fai ancora in piedi?» chiese guardingo, ma avvicinandosi comunque, sapendo che con me non aveva speranze di filarsela a nascondersi e lasciare le cose in sospeso.
«Pianificavo un omicidio. Come è andata la tua serata? Ti sei divertito ad ascoltare poesie?» feci sarcastico, calcando bene l’ultima parola e curioso di vedere quanto avrebbe retto quella farsa. Sapeva che non me l’ero bevuta la sua più grande, insulsa, pessima e patetica balla. Se mi avesse detto che usciva per trafficare illegalmente fuochi d’artificio forse non ci avrei dato così tanto peso ed interesse. Ma poesie? Per l’amor del Cielo, quello si che andava oltre l’inverosimile.
«D-direi di si» mormorò, visibilmente in imbarazzo e consapevole di essere stato scoperto, «E’ stato molto interessante ed istruttivo. Sai, i miei professori vogliono che mig...».
«Ace».
Mi guardò per un istante negli occhi, mordendosi un labbro indeciso, ma poi si arrese.
«E va bene, ti dirò tutto».
«Ti ascolto». Mi accomodai meglio, lasciando che riordinasse le idee e che iniziasse a raccontarmi di quelle sue capatine segrete che tanto aveva cercato di nascondere al mio intuito allenato e infallibile.
«Vado davvero in un locale dove danno spazio a quella roba noiosissima, ma in quel posto, ecco, c’è una persona che mi fa piacere vedere e così approfitto per parlarle» confessò.
Ci avevo visto giusto quindi. Quante storie per una ragazza, avrebbe potuto dirlo subito, di certo nessuno avrebbe avuto nulla da ridire.
Forse l’aveva fatto per Penguin, quell’idiota. Temeva che sarebbe andato in giro a dirlo a tutti, specie al suo piccolo e adorato fratellino, il quale non avrebbe di certo evitato di pretendere di conoscere immediatamente la persona con la quale il maggiore si frequentava. Sarebbe successo il finimondo, come tutte le volte.
«Sai, lui lavora lì come barista e chiacchieriamo molto quando ci sono questi eventi, dato che i clienti sono tutti concentrati ad ascoltare quelle quattro parole scritte a caso, dimenticandosi di ordinare da bere» disse, accennando ad un sorriso e, sicuramente, ricordando qualche buffa scena alla quale aveva assistito durante quegli incontri che di casuale da parte sua non avevano nulla. Mi domandavo solamente se si potessero considerare veri e propri appuntamenti dato che il mio coinquilino fingeva di andare in quel locale per caso, tanto per non destare sospetti sul ragazzo che gli interessava.
Perché mi ero accorto di quel lui che aveva usato, quasi sussurrato per paura o vergogna, ma non ci avevo dato peso. Nessuno lo avrebbe mai giudicato per i suoi sentimenti o per il suo modo di essere, io per primo.
«E da quanto vi frequentate?» domandai. Se volevo avere delle risposte dovevo porre le giuste domande e quella mi avrebbe permesso di capire se si trattava di qualcosa di serio oppure no, almeno per il momento.
«In realtà lui non sa nemmeno chi sono. Certo, mi riconosce, parliamo del più e del meno, ma tutto finisce qui» ammise abbattuto, sdraiandosi per tutta la lunghezza del divano e afferrando uno dei cuscini ancora a terra per coprirsi il volto.
Non bastavano le scenate di Penguin, il quale, quando una sua relazione mai iniziata andava a finire male, era l’esatto ritratto della disperazione e passava giorni e giorni in depressione, chiedendomi aiuto come se fossi uno psicologo. Adesso ci si metteva pure Ace a fare la parte del complessato pieno di paranoie.
«Presentati allora» feci con tono ovvio. Qual’era il problema? Dove stava la difficoltà?
«Come se fosse facile» farfugliò da sotto la stoffa, prima di scaraventarla a terra in un moto di stizza. «Non capisci Law, lui è così…».
«Non lo voglio sapere».
«E’ da perdere la testa».
Parlammo all’unisono, io con gli occhi rivolti al cielo, stanco di sentire sempre le solite cose uscire dalla bocca di quei poveri cuori infranti, mentre lui aveva un’aria sognante e perfettamente idiota.
«Almeno sai come si chiama? Così possiamo dare un nome a questa tua nuova fissazione».
Ignorando la mia solita acidità e il mio intento di sfotterlo, come facevo con chiunque, scattò a sedere, appoggiando i palmi sulle ginocchia incrociate sul divano e sfoggiando un sorriso carico di speranze e sogni e dondolandosi avanti e indietro come un malato di mente.
«Si chiama Marco, ma tutti lo chiamano La Fenice» confessò con gli occhi che brillavano e accompagnando la frase con un sospiro sognante.
«E viene soprannominato in questo modo perché è rinato dalle ceneri?» ipotizzai scherzando, appoggiando il mento ad una mano e fissandolo incuriosito e divertito da quella stranezza.
«A dire il vero è l’unico sopravvissuto ad un incendio che ha raso al suolo l’orfanotrofio in cui viveva».
Ci guardammo in silenzio per un lungo istante.
«Solo una persona con un passato del genere può avere una relazione stabile con un dinamitardo come te, amico mio».
«E’ quello che ho pensato anche io!» sbottò, saltando in piedi e prendendo a girare per la stanza, animato da chissà quale forza malefica interiore.
Sono uno peggio dell’altro. Penguin non ha il fegato di fare il primo passo con qualsiasi ragazzo verso il quale prova interesse e ora Ace. Non lo facevo un tipo che rimaneva a guardare, lo credevo più coraggioso e pronto all’azione.
«Sai, dovresti presentarti e chiedergli di uscire. Le persone normali fanno questo» decretai, dandogli la soluzione che cercava, che tutti cercavano quando decidevano, o venivano obbligati, di parlare con me, «Lascia perdere la poesia e passa ai fatti. Scommetto che accetterà».
«Tu dici, Law? E se dovesse dire di no?».
«Almeno non dovrai più ascoltare sonetti» gli feci notare, alzandomi per sgranchirmi le gambe e il resto del corpo prima di dirigermi verso la mia camera per concedermi qualche meritata ora di sonno. Anche quella sera avevo fatto tardi. Fantastico.
Mi seguì anche lui, continuando a blaterare su quanto gli piacesse il taglio di capelli del ragazzo, sui suoi occhi, i modi di fare pacati, le sue battute, e altre sciocchezze simili.
Sperai di riuscire a prendere sonno dopo tutto quello che avevo dovuto stare ad ascoltare, cercando vivamente di farle entrare per un orecchio e poi lasciarle uscire immediatamente dall’altro.
Delle ragazzine. Io ho a che fare con delle sciocche ragazzine, pensai rassegnato.
Prima che mi chiudessi la porta alle spalle, Ace decise che quello era il momento migliore per ricordarsi di qualcosa di importante, sotto il suo punto di vista, e richiamò la mia attenzione porgendomi una domanda che mi rese impossibile prendere sonno.
«A proposito, non te l’ho nemmeno chiesto, il tuo appuntamento dell’altra sera con Kidd come è andato? Tutto bene?».
Non lo disse con voce derisoria o con cattive intenzioni, si preoccupava solo per me data la natura violenta di quell’essere. Era comprensibile sotto un certo aspetto, ma non potei fare a meno di digrignare i denti e sentirmi punto nel vivo del mio orgoglio e della mia personalità fredda e ghiacciata.
Dannazione, come gli vengono certe idee in mente?
«Non era un appuntamento» sibilai, sperando di essere chiaro e di non doverlo più ripetere a nessuno e sentire sparate del genere su quell’argomento.
«Avete cenato insieme, pensavo che forse …».
«E tu come lo sai?» chiesi, voltandomi di poco e scoccandogli un’occhiata glaciale da sopra la spalla, trattenendo a stento l’irritazione per quelle insinuazioni.
«Beh, Penguin ha accennato qualcosa a riguardo, quando non c’eri» si giustificò, rendendosi conto di aver detto troppo e facendosi piccolo piccolo, inoltrandosi sempre più all’interno della sua stanza per paura della mia reazione e dell’espressione omicida che si era appena dipinta sul mio volto.
Dimenticai Ace nell’esatto istante in cui fece il nome di quell’emerito idiota che mi ritrovavo come amico e come compagno di corso, nonché coinquilino e, con poche falcate, raggiunsi la camera del diretto interessato, spalancando la porta con appesi alcuni poster di cantanti e facendola sbattere addosso alla parete.
Lo sentii sussultare per lo spavento sotto ad un ammasso di coperte, ma non fece in tempo a fare domande o a rendersi conto del guaio in cui si trovava perché mi fiondai su di lui con l’intendo di soffocarlo con il suo stesso cuscino o con qualsiasi altra cosa mi fosse ritornata utile.
Di solito mi limitavo alle minacce e ad incutergli timore dato che non mi abbassavo ad usare le mani, consapevole del pericolo di potergli fare male davvero e deciso ad evitarlo. Il fatto era che ero sempre stato un tipo calmo e convinto che passare alle maniere forti fosse solo l’ultima possibilità da prendere in considerazione, ma in quel momento il mio autocontrollo sembrava essersi azzerato del tutto, lasciandomi solo con un forte prurito alle mani.
Praticamente il mio solito modo di essere e la mia personalità erano stati messi a dura prova in quegli ultimi tempi. Prima sorridevo e adesso mi lasciavo andare agli istinti. Tutto ciò, però, invece che farmi piacere mi faceva preoccupare. Se fosse successo un anno prima o anche solo un paio di mesi fa, la cosa non mi avrebbe minimamente toccato, anzi. Quello che mi preoccupava, invece, era il fatto che il motivo per il quale ero scattato come una molla, oltre alla scoperta di saper ancora come sorridere, era sempre a causa quell’invasato, montato e arrogante Eustass-ya.
«Dì un’altra volta che io e Kidd usciamo assieme e sarò costretto a farti molto male, Penguin!» lo minacciai, tra una cuscinata in faccia e l’altra.
Fu solo quando cadde dal letto e riuscì a sfuggire alla mia presa, gattonando verso l’uscita, che trovò il fiato e il tempo di ribattere.
«Adesso vi chiamate anche per nome? E’ una cosa seria allora» scherzò, fiondandosi fuori dalla stanza non appena si accorse del mio sguardo, mettendo un piede in fallo nel calpestare il tappeto e scivolando a terra lungo il corridoio.
«Ma che succede?» sbadigliò un assonnato Bepo, disturbato dai rumori molesti che stavamo facendo, mettendo appena la testa fuori e stropicciandosi gli occhi.
«Penguin ne ha combinata una delle sue facendo arrabbiare Trafalgar» fece Ace con voce monotona, abituato a quello scenario, appoggiato al muro con le braccia incrociate e osservando divertito la scena, indeciso se intervenire in soccorso del ragazzo che stavo immobilizzando a terra e minacciando di morte istantanea, incurante delle sue proteste e deciso a ricorrere alla mia arma segreta.
Avevo sempre un asso nella manica, o meglio, nei pantaloni, ed ero pronto ad usarlo con maestria e senza esitazione, come in sala operatoria.
«Tutto normale quindi» asserì Bepo.
«Tutto normale».
«Non restate a guardare, questo psicopatico ha un bisturi in tasca!».
Angolo Autrice:
Okay, Buon qualsiasi cosa a tutti! Spero stiate bene e che il capitolo riguardante la vita casereccia dei quattro coinquilini vi sia piaciuto e vi abbia strappato qualche sorriso.
Che dire, il capitolo inizia con le prime righe del capolavoro di Jane Austen: Orgoglio e Pregiudizio. Venerate questa donna e il suo genio, grazie.
Come avrete immaginato e da quello che vi ho spiegato nel capitolo precedente, Law non segue un’alimentazione tanto giusta, nonostante studi medicina, ma, come ci tiene a sottolineare, lui mangia, solo a orari differenti e per la maggior parte schifezze.
Penguin è ossessionato e malato di mente. Nah, poveretto, non così tanto, ma ce lo vedo attivo e un po’ fuori dal comune :D
Bepo è coccoloso e non esce mai dalle righe, a parte nei casi estremi per far valere le sue ragioni come a tavola! Bravo ragazzo, continua così!
Aaaaaaace! Ace che si finge un cliente di passaggio e si sorbisce poesie e sonetti romantici solo per poter vedere Marco e parlarci. E poi fa di Trafalgar il suo consigliere personale. A qualcuno doveva pur dirlo di essersi preso una cotta.
QUASI DIMENTICAVO: les barricades sono le barricate nel musical meraviglioso di Les Miserables, appunto Les Miz. Non so cos’altro dire, come sempre se ho dimenticato qualcosa potete farmelo sapere o chiedere.
Ringrazio tutti quanti, dal primo all’ultimo, vi meritate tanti abbraccioni **
Spoileeeeeeer:
“Eustass-ya, non mi saluti nemmeno?” mi pungolò, vedendo che non ero intenzionato a voltarmi.
“Ciao?” feci, stringendomi nelle spalle e fissandolo interrogativo, non capendo bene cosa si aspettasse che dicessi dopo la scenata di poco prima. Che diavolo voleva ancora da me? Mi aveva esasperato abbastanza per quel giorno.
Rimase fermo a guardarmi, l’indecisione dipinta sul suo volto mentre si mordeva un labbro, forse mentre vagliava le varie battutine acide del suo repertorio da piaga della società.
“Se non hai altri commenti, io avrei di meglio da fare” conclusi, prima di lanciargli un ultima occhiata tagliente e dirigermi verso l’uscita.
“Non mi è dispiaciuto vederti”.
See ya,
Ace.
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Capitolo 12 *** Capitolo 10. Le malsane idee di Rufy. ***
Capitolo 10.
Le malsane idee di Rufy
Il lunedì, per quanto lo detestassi, era arrivato e aveva trascinato con sé un tempaccio da lupi che preannunciava l’inizio di un inverno dannatamente e fastidiosamente freddo e nevoso, come di consuetudine.
Avevo passato la mattinata in officina con il riscaldamento al massimo alle prese con quell’auto sfasciata che mi causava parecchi grattacapi da quando era arrivata. Fino a quel momento ero riuscito solamente a smontare tutti i pezzi del motore e a ordinare l’occorrente necessario per i ricambi e le modifiche. Non lo credevo possibile, ma era ridotta ad un rottame. Era persino inutile sistemarla, tanto valeva comprarne una nuova. Ad ogni modo, quello era il desiderio del proprietario e finché aveva i soldi per pagare io eseguivo gli ordini senza lamentarmi. O meglio, senza farlo in modo diretto perché con Killer avevo la possibilità di sfogarmi e pronunciare tutti gli improperi che volevo contro chiunque.
Quel giorno, però, il mio compagno fidato d’infanzia e gioventù era ammalato e non era venuto a lavoro. Tutta colpa dell’uscita dello scorso sabato sera, quando avevamo dovuto aspettare per una buona mezz’ora Zoro nel punto che avevamo accordato per il ritrovo. Mi stava simpatico, nulla da dire, ma non aveva il minimo senso dell’orientamento, bisognava ammetterlo. Eppure avrebbe dovuto conoscere la città ormai, come faceva a perdersi ancora per le vie del centro?
Così Killer si era beccato un raffreddore con i fiocchi e aveva deciso che, per rimettersi al più presto, avrebbe saltato uno o due giorni in officina per riposare e trovare un modo efficace per guarire e tornare in pista assieme a me. Anche perché senza di lui mi ritrovavo solo e avevo tutto il tempo per annoiarmi e rischiare di incazzarmi per un nonnulla piuttosto facilmente.
La pausa pranzo era iniziata da poco e avevo due ore e mezza da riempire. Solitamente la passavo al bar assieme al mio migliore amico e a Franky, o qualche altro collega, ma quel giorno sembrava che tutti avessero altro da fare, lasciandomi solo con un panino e una birra. Di restarmene chiuso in carrozzeria non se ne parlava proprio, così avevo deciso di prendere la giacca e uscire a fare quattro passi nonostante tirasse un vento freddo, giusto per non morire di noia, cercando un posto nuovo dove svagarmi e passare il tempo che scorreva lento e inesorabile.
Senza prestare attenzione alla strada che facevo, camminai per un po’ con le cuffie nelle orecchie e un po’ di sano e rilassante alternative rock come base musicale, visto che non mi sentivo particolarmente cattivo in quel momento, guardandomi attorno senza troppo interesse alle persone o agli edifici che superavo con calma e senza fretta.
There you go. You're always so right, it’s all a big show, it's all about you.
Fu senza rendermene conto che raggiunsi il quartiere universitario dove da entrambi i lati della strada si affacciavano scuole, istituti e facoltà nei pressi dei quali di aggiravano ragazzi che per la maggior parte erano studenti e professori.
Passai affianco ad uno dei primi palazzi e constatai che si trattava senza dubbio della facoltà di ingegneria, quella che tanto mi sarebbe piaciuto frequentare in modo completo. Rimasi a guardare l’ingresso dal quale usciva un via vai di gente diretta al bar poco lontano o a casa dopo aver terminato i corsi e mi chiesi cosa si provasse ad aggirarsi tra quelle mura e presenziare alle lezioni, avendo a che fare tutti i giorni con la meccanica. Non sarebbe stato affatto male, decisi poco dopo, riprendendo a camminare e lasciandomi alle spalle quel piccolo sogno che richiusi prontamente nel cassetto. Non avevo tempo per lo studio e lavorare all’officina mi impegnava tutti i giorni della settimana. In più mi serviva lo stipendio se volevo continuare a mantenermi e a permettermi una casa e qualche sfizio. Un sacrificio dovevo pur farlo.
Estrassi il lettore musicale dalla tasca del giubbotto e cambiai brano, distogliendo per un attimo gli occhi dal marciapiede e ritrovandomi ad andare a sbattere addosso a qualche mocciosetto l’istante successivo, pestandogli i piedi e ricevendo in cambio una gomitata accidentale al fianco.
Bene, la mia calma andrà a farsi fottere in questo esatto momento.
«Eustachio! Ma sei tu!» constatò una voce allegra e acuta, mentre un paio di braccia mi artigliarono le spalle e mi strinsero in un abbraccio improvvisato e ossuto. Riconoscendo il proprietario di quel corpo mi sentii gelare il sangue e feci di tutto per allontanarlo e riprendere il controllo.
«Ragazzino, che ci fai da queste parti? Non dovresti essere a scuola?» chiesi scocciato, superandolo e riprendendo la mia strada, ma venendo comunque affiancato da un saltellante Rufy pieno di energia, completo di paraorecchie, guanti e un sorriso enorme sul viso.
Ghignò divertito prima di spiegarmi che quel giorno non era andato al liceo perché aveva dormito fino a tardi, decidendo così di prendersi una giornata di pausa dai libri, che mai apriva, e approfittare del tempo libero per andare a salutare uno dei suoi più cari amici e chiedergli aiuto con le materie che non riusciva a capire.
Law.
Repressi un moto di rabbia nel sentirgli pronunciare quel nome e, con un cipiglio ancora più incazzato, mi strinsi nelle spalle e aumentai la velocità, senza però riuscire a distanziare quel piccolo rompiscatole, il quale sembrava deciso a seguirmi e a starmi attaccato come una sanguisuga.
«Anche tu stai andando a trovare Traffy?» domandò sorridente, «Possiamo andarci insieme».
«No» grugnii in risposta, «Non so nemmeno dove si trova». Ed era vero, non avevo idea di quale fosse la sua università, sapevo solo che studiava medicina ma il resto non mi interessava minimamente. Non parlavamo molto della nostra vita, non ci raccontavamo aneddoti o le esperienze fatte prima di conoscerci, non eravamo… Insomma, non avevamo quel tipo di rapporto, ecco. E poi, mi trovavo da quelle parti solo di passaggio, alla ricerca di un posto dove pranzare quindi, a conti fatti, incontrare quel saccente non mi interessava affatto e non era nei miei piani. Per cosa poi, sentirmi rinfacciare a vita il fatto che ero andato a fargli visita a scuola? Giammai.
«Lo so io. Vieni, da questa parte!». E, afferrandomi per un gomito, ignorando le mie proteste e non facendosi impressionare dal fatto che avevo puntato i piedi a terra, deciso a non muovermi, mi trascinò lungo la strada fino ad un paio di edifici più avanti, in uno spiazzo circondato da una siepe ben curata all’interno del quale spiccavano in tutto il loro splendore le mura bianche della facoltà di medicina.
Cosa ho fatto di male oggi, cosa? Non ho ancora investito nessuno e non ho nemmeno avuto il tempo di litigare con Killer, quindi perché il Karma deve punirmi?
Nervoso e con le labbra stirate in una smorfia contrariata, lasciai che quel marmocchio, così diverso dal fratello maggiore, continuasse a tirarmi da una parte all’altra, chiedendo informazioni ai ragazzi di passaggio per scoprire se qualcuno di loro sapesse indicargli la classe di Trafalgar. Fino a quel momento, grazie alla Provvidenza, nessuno aveva saputo aiutarci.
«Che strano» mormorò Rufy, imbronciandosi e fermandosi in mezzo al cortile davanti alle scalinate dell’ingresso dell’edificio. Si guardava attorno, fissando una ad una le finestre sulla facciata principale, decidendo cosa fare per portare a termine la sua missione di ricerca.
Accanto a lui continuavo a battere il terreno con la punta di un piede, fremendo per la voglia di fare dietrofront e andarmene da quel posto al più presto, evitando figuracce e situazioni imbarazzanti. Perché ne ero certo, quel medicastro non avrebbe perso un minuto del suo tempo per sfottermi e fare battutine sul fatto che mi fossi presentato lì senza l’intento di scopare, come di comune accordo.
You think you know what everyone needs. You always take time to criticize me.
«Entriamo!» decise ad un tratto, partendo spedito verso l’entrata e obbligandomi ad inseguirlo se non volevo restarmene da solo in mezzo a quel branco di studenti dalle facce inquietanti e tutti vestiti uguali come forse dettava il regolamento.
Se da fuori l’università sembrava grande, l’interno lo era ancora di più. L’ampio atrio dava su una hall illuminata dalla luce artificiale sul soffitto e subito a sinistra c’era quella che dedussi essere la segreteria con un cartello in bella mostra che recava la scritta ‘ Informazioni’.
«Potremmo chiedere a quella donna se sa qualcosa» bofonchiai, indicando a Rufy la segretaria con i capelli verdi e un paio di occhiali tondi abbassati sugli occhi che, da dietro il bancone, rovistava un pacco di scartoffie con l’aria di chi non ne può più di fare quel lavoro.
«Si, forse hai ragione» accordò il piccoletto, facendomi segno di seguirlo prima che qualcuno bloccasse il nostro cammino deciso verso la ragazza.
Davanti a noi apparve una faccia che ormai avevo imparato a riconoscere e Rufy, una volta resosi conto di chi si trattasse, alzò le braccia in aria e, con una risata, salutò un ragazzo dall’aria pacata e gentile, anche se un po’ stupita nel ritrovarsi davanti due suoi conoscenti che non facevano affatto parte del corpo studenti della facoltà.
«Bepo! Finalmente una faccia famigliare!».
Alternando lo sguardo da me alla palla di vita davanti a lui, Bepo ci chiese cosa ci facessimo lì durante la pausa pranzo e per giunta insieme.
Certo, anche io al suo posto sarei rimasto di stucco nel vedere un energumeno con i capelli rossi e una faccia che prometteva solo guai, desideroso solo di sparire da quelle mura e con lo sguardo intento a fulminare qualsiasi persona gli passasse accanto fissandolo con occhi sgranati e curiosi, in compagnia di uno studente del liceo con una massa corporea tre volte inferiore a quella del compagno e con un’espressione spensierata e leggermente idiota. Chiunque ne sarebbe rimasto toccato.
«Stiamo cercando Traffy» esclamò energicamente Rufy e in quel momento mi resi conto che ormai ero fregato, dato che sicuramente il coinquilino di quel bastardo sapeva esattamente dove si stesse nascondendo. Magari in un’aula dimenticata dal mondo intento a dissezionare cadaveri.
Disgustoso, pensai, ignorando un brivido di freddo lungo la schiena.
Scossi energicamente il capo, cercando di far intendere allo studente di medicina che non doveva rispondere a quel ragazzino e gli feci addirittura segno che gli avrei torto il collo se solo avesse fatto una parola, ma non fui abbastanza svelto o esplicito.
«E’ al secondo piano, aula centotrentacinque. Prendete le scale, sono laggiù» spiegò Bepo, sorridendoci gioviale e contento di esserci stato utile, salutandoci mentre quell’esaltato di Rufy si dirigeva a gran velocità su per le scale con me al suo seguito, più frustrato che mai e con la mente impegnata a maledire quel ragazzo che, ignaro del male che mi stava causando, ci aveva fornito le indicazioni che stavamo cercando da venti minuti buoni. Sapevo che non era cattivo e che era votato al bene, ma non potei fare a meno di odiarlo in quell’istante.
«Sappi che non la passerai liscia, orsetto» minacciai, passandogli accanto e vedendo come sbiancava, iniziando a scusarsi chinando il capo.
«Eustachio, muoviti! Sei così lento!».
Sospirai rassegnato, cercando di ignorare quell’infantile con il giubbetto rosso e i capelli neri che faceva due gradini alla volta per andare più veloce, tanto era impaziente e su di giri per la situazione.
Raggiunto il secondo piano non fu difficile localizzare la presunta classe di Trafalgar e, giusto un attimo prima di varcare la soglia con la porta aperta e il numero centotrentacinque attaccato sulla parete accanto, pregai qualsiasi entità esistente in ascolto che il ragazzo non fosse in classe, dandomi la possibilità di potermene andare il più in fretta possibile da quel posto.
Ovviamente pregavo troppo poco e non ero un bravo e fedele credente per poter pretendere che la mia grazia fosse esaudita all’istante.
Riuscii a scorgerlo anche da lontano, seduto in ultima fila e appoggiato comodamente allo schienale con un pacchetto di biscotti in una mano e un libro nell’altra. Indossava una camicia grigia, al contrario di tutti gli altri che la portavano bianca, e la cravatta blu a righe allentata sul colletto aperto con i primi bottoni sbottonati. E io che lo facevo uno studente modello. In quel momento si stava spostando qualche ciocca scura e spettinata che gli ricadeva sugli occhi, disturbando la sua lettura. Aveva l’aria stanca, o forse lo sembrava solo per le occhiaie più marcate del solito, ma per il resto appariva abbastanza in forma.
A volte, quando mi capitava di osservarlo senza che se ne accorgesse, mi chiedevo cosa gli passasse per la testa quando se ne rimaneva in disparte e in silenzio, lasciando vagare lo sguardo nel nulla, senza rendersi conto di estraniarsi dal mondo. Più il tempo passava e più avevo l’impressione che qualcosa in lui non andasse. Ovvio, l’avevo pensato fin dall’inizio che quello la non era umano, ma c’era qualcos’altro, ne ero certo. Era come se stesse male, ma faceva di tutto per non darlo a vedere. Ero capace anche io di accorgermi quando qualcuno non funzionava bene, insomma, alternava un colorito cadaverico due giorni si e uno no ed era magro, forse troppo.
Il perché mi facessi tutte quelle domande sulla sua salute non me lo sapevo spiegare, forse temevo di venire contagiato, ma ormai era tardi per tirarmi indietro dato che con lui ci andavo a letto da un pezzo. Magari era per questo, mi sembrava normale, dopotutto, notare certe cose quando si viene a contatto per un certo periodo di tempo con una persona.
«Traffy!».
Rufy, urlando e attirando l’attenzione di buona parte degli studenti che passeggiavano nei corridoi pranzando e chiacchierando animatamente, attraversò la classe fino all’ultimo banco accanto alla finestra allargando le braccia e saltando praticamente sopra al banco del povero studente che sembrava aver appena visto un fantasma, tanto era impallidito nel sentirsi chiamare all’appello.
Sogghignai divertito. A quanto pareva Trafalgar non era solito ricevere visite e, sapendo com’era fatto Rufy, temeva che potesse combinare qualche guaio irreparabile, mettendo lui stesso nei casini.
Dopo un attimo di esitazione, però, davanti ai mille sorrisi del ragazzino, Law sembrò calmarsi e tranquillizzarsi, riprendendo la sua espressione pacata, abbandonando il libro e puntando i gomiti sul tavolo per appoggiare il mento alle mani, dedicando al suo amico un sorrisetto carico di domande e curiosità.
«Rufy, come mai da queste parti?» chiese, osservando come l’altro afferrasse una sedia dalle postazioni vicine e si sedesse a gambe incrociate, dondolandosi avanti e indietro e spiegando l’andamento della sua mattinata e di come gli fosse venuta l’idea di andare a fargli compagnia durante la sua pausa pranzo. A quelle parole, anche restando a debita distanza appoggiato allo stipite della porta, sentii chiaramente il suo stomaco brontolare e, animato da una nuova eccitazione, lo vidi aprire lo zaino che fino a quel momento si era portato sulle spalle e che era passato inosservato, estraendo un paio di sacchetti contenenti entrambi due panini imbottiti al massimo con carne e altre schifezze varie.
Ricordai solo allora che l’intestino di Rufy, come quello del fratello, era un pozzo senza fondo, visto e considerato quanto fosse difficile sfamarli. La maggior parte delle volte un pasto completo non bastava affatto.
«E’ venuto anche Eustachio con me» si ricordò, tra un morso e l’altro, indicandomi distrattamente con una mano e facendomi smettere di respirare, mandando in frantumi la mia ultima possibilità di risultare invisibile.
Non appena pronunciò quello che nella sua mente bacata era il mio nome storpiato, l’espressione di Law si trasformò in un ghigno di puro divertimento, mentre i suoi occhi sfrecciavano nella direzione indicatagli fino ad incontrarsi con i miei nei quali infiammava la frustrazione e la rabbia per quella situazione così scomoda alla quale non ero riuscito a fuggire.
«Toh guarda, Eustass-ya» fece con il chiaro intendo di deridermi, sollevando un sopracciglio e osservandomi dall’alto in basso.
So shut up, shut up, shut up! Don't wanna hear it. Get out, get out, get out! Get out of my way. Step up, step up, step up! You'll never stop me. Nothing you say today is gonna bring me down.
Strinsi i denti. Ormai il danno era fatto e andarmene avrebbe significato segnare e sottolineare la mia sconfitta, perciò mi staccai di malavoglia dalla porta e mi avviai tra i banchi, sempre fulminando con lo sguardo quella seccatura e sfidandolo a prendersi ancora gioco di me con una delle sue solite frasi canzonatorie.
Afferrai la prima sedia che mi capitò a tiro e me la trascinai dietro fino a quando non li raggiunsi, facendo stridere le gambe di ferro sul pavimento di proposito in modo da rendere chiaro quando tutto ciò mi desse fastidio, ignorando le occhiate curiose e sconcertate dei pochi studenti presenti nella classe. Bastò dedicare loro un’occhiataccia e un ringhio basso per spaventarli e farli uscire da lì all’istante.
Li raggiunsi e voltai la sedia al contrario, in modo tale da potermi sedere a gambe aperte e appoggiare i gomiti sullo schienale, lanciando malamente il sacchetto di carta contenente il mio pranzo nel banco vuoto vicino al suo.
«Qual buon vento» disse, osservando la scena con la solita aria impassibile, senza premurarsi di nascondere nel tono di voce tutto il divertimento e la malsana allegria che provava nel vedermi nell’ultimo luogo sulla faccia della terra dove si aspettava di trovarmi.
«Vedi di non farti strane idee, Trafalgar» precisai furente, «Sono qui solo perché questo impiastro mi ci ha costretto». Misi subito in chiaro le cose, prima che potesse anche solo passargli per la mente il pensiero che io avessi deciso di mia spontanea volontà di andare a fargli una cordiale visita.
«Non ho insinuato niente» rispose, imitando Rufy e riprendendo a mangiare, ignorandomi bellamente e comportandosi come se tutto ciò non lo toccasse minimamente. Come se il fatto che mi trovassi lì o meno non cambiasse nulla.
Questo mi fece incazzare oltre ogni maniera e riversai tutta la tensione sul panino che mi ero portato a casa, divorandolo come un disperato e facendo concorrenza alla poca grazia di Rufy, il quale era appena passato al secondo giro.
Io spreco il mio tempo e metto a dura prova la mia pazienza e lui che fa? Se ne frega? Razza di ingrato presuntuoso! D’ora in poi passerò la pausa pranzo rinchiuso in officina, così evito di imboccare strade sbagliate e incontrare gente che meno vedo meglio sto.
Perché ero l’unico al quale tutto ciò sembrava strano e inaccettabile? Nonché altamente offensivo. Era come se non mi prendesse sul serio in considerazione, come se ciò che facevo e dicevo gli interessasse meno di zero. Quando si trattava di me tutto appariva più attraente, mentre io passavo in secondo piano, ad aspettare che quello stronzo si decidesse a guardarmi e a stare a sentire tutti gli insulti che meritava. Invece no, mi liquidava con uno sguardo, con un ghigno, con un’espressione di sufficienza o disinteressata e tornava ad occuparsi di altro. Persino quel bamboccio di Rufy, intento a sporcarsi il viso di salsa senza smettere di parlare e di ripetere quanto fosse contento di essere lì invece che a scuola, appariva degno di nota in confronto a me.
Probabilmente anche avere davanti agli occhi un qualcosa di morto sarebbe stato più interessante in quel momento, come in qualsiasi altro del resto. Quando avevo a che fare con quel moccioso era sempre così: a lui non importava quanto potessi arrabbiarmi e urlargli contro quanto lo odiassi perché tutto ciò non lo toccava neanche di striscio, anzi, per qualche strana ragione nota solo a lui e alla sua mente contorta sembrava trarne divertimento. Era di sicuro la prima persona che, dopo avermi conosciuto, non avesse cercato in tutti i modi di evitarmi o non rivedermi mai più. Non lo spaventavo e non aveva paura di essere preso a pugni e venire disintegrato, come il ragazzino spavaldo di fianco a lui. Erano persone fuori dal comune, come me. A pensarci bene tutta la loro compagnia aveva qualcosa di diverso dalla gente normale. Andavano sempre e continuamente alla ricerca di guai, non avevano il minimo rispetto per nessuno ritenuto inferiore o cattivo e punivano qualsiasi bruto che arrecasse offesa a qualsiasi membro del loro gruppo. Si proteggevano a vicenda, erano rumorosi, strambi, diversi. In qualche modo, forse, anche speciali.
You think you're special, but I know and I know and I know and we know that you're not.
«… ed è stato mentre cercavo l’università che ho incontrato Eustachio, così gli ho chiesto se voleva venire con me e ha acconsentito subito» stava finendo di spiegare Rufy, apportando senza rendersene conto alcune modifiche nella sua versione dei fatti, mettendomi nei guai fino al collo, tanto che, non appena udii le sue parole, il boccone mi andò di traverso.
«Ma davvero?» fece Law, guardandomi di sottecchi. Il ghigno perennemente presente sul volto. Se la stava spassando da matti, ne ero certo, ed io non potevo fare altro che negare, negare fino alla morte nonostante fosse ormai chiaro a entrambi che avevo poco da ribattere. Ci aveva già pensato Rufy a continuare ad aggiungere il resto, ovviamente cambiando tutti i fatti e volgendoli a mio sfavore.
«Abbiamo incontrato Bepo e ci ha detto dove potevamo trovarti. Poi abbiamo preso le scale e ci siamo fiondati qui immediatamente!». Parlava al plurale, dimenticando che io avevo combattuto fino all’ultimo per evitare quell’incontro, e mi chiesi se lo stesse facendo apposta, anche se guardandolo bene non ci avrei poi giurato. Avevo capito ormai che quel piccoletto agiva d’istinto e non faceva mai male a nessuno di proposito. Preferiva invece soccorrere tutti i poveri reietti, deboli ed indifesi alla disperata ricerca di aiuto. Un buon samaritano, ecco cos’era, perciò quello che stava dicendo lo diceva solo perché gli mancava qualche rotella nel cervello poco sviluppato che si ritrovava nella testa molto probabilmente vuota.
«Eustass-ya, spero tu non abbia spaventato troppe persone».
«Potrebbero morire di paura se vedessero quello che sono capace di farti, Trafalgar» ribattei piccato, mentre lui colse al volo il doppio senso che avevo creato senza volerlo.
«Non ti facevo così portato per l’esibizionismo, ma non importa, mi adatterò».
«Ti spacco la faccia, brutto moccioso!». Scattai in piedi e, dopo essermi tolto bruscamente di mezzo l’intralcio della sedia, sovrastai Law con i pugni alzati, pronto a colpirlo e infischiandomene altamente dell’espressione che da stupita passò ad una tremendamente seria sul viso di Rufy, stonando molto con il suo tipico comportamento infantile.
La fonte dei miei problemi sospirò esasperata, alzandosi lentamente e con movimenti calcolati, sollevando poi il capo e piantando un paio di occhi assurdamente grigi nei miei con così tanta sfrontatezza da urtarmi ulteriormente i nervi già tesi. Oltre a questo, ebbe la faccia tosta di mostrarmi il dito e farmi capire dove potevo andarmene.
«Provaci e in pochi secondi ti butto fuori di qui a calci» mormorò con un tono apparentemente pacato, ma che sapeva fortemente di minaccia.
Vedendoci uno di fronte all’altro e intenti a fronteggiarci con le peggiori intenzioni in mente, Rufy decise di abbandonare momentaneamente il suo spuntino per alzarsi e avvicinarsi a noi, facendo schioccare le nocche per farci intendere che, se mai avessimo deciso di colpirci, lui non si sarebbe tirato indietro e non si sarebbe fatto pregare prima di sferrare uno dei suoi pugni.
Così vicini e pronti a scattare al primo movimento dell’avversario potevo sentire l’aria carica di elettricità circondarci, mentre una dose di adrenalina mi scorreva veloce nelle vene.
Prima di iniziare la zuffa, però, volle almeno provare a calmare le acque per evitare una litigata che sarebbe finita male per tutti. Di certo non potevo aspettarmi che i presenti di fronte ad una rissa non andassero a chiamare i professori e avvisassero la sicurezza. Mi avrebbero sbattuto fuori, impedendomi di ritornare e Trafalgar sarebbe stato sospeso per un po’.
Sorrisi sghembo, quella si che era una bella soddisfazione, non ché una piccola rivincita personale per tutto quello che avevo dovuto sopportare da quando l’avevo conosciuto.
Una vera e propria disgrazia quella fatidica e maledetta sera.
«Ragazzi io sono pronto, ma sarebbe meglio se vi calmaste, altrimenti le condizioni in cui usciremo di qui non saranno tanto gradevoli» disse, sghignazzando tra sé davanti a quell’idea.
Law assottigliò lo sguardo, fulminandomi per qualche altro istante, decidendo poi che non valeva la pena rischiare così tanto quel giorno. Di occasioni ce ne sarebbero state tante e molto presto.
«Dovremo rimandare la nostra discussione ad un momento più propizio, a quanto pare» ghignò, i canini in bella vista come se avesse voluto ringhiarmi contro.
Grugnii qualche insulto verso la madre di ignoti per poi rimettermi a sedere, imitato subito dopo dagli altri due ragazzi.
«E’ stato divertente» mormorò Rufy quando le acque si furono calmate, spostando lo sguardo da me al suo amico e cercando il nostro sguardo e il nostro appoggio.
Lo guardai scettico, chiedendomi come potesse trovare eccitante arrivare a fare a pugni con delle persone che conosceva. Probabilmente il suo cervello doveva lavorare al contrario del normale, altrimenti non avrei saputo spiegarmi quel suo modo di fare spensierato e incapace di capire quando una situazione si faceva delicata. Per lui tutto era un gioco.
Trafalgar roteò gli occhi al cielo, scuotendo il capo, ma sorridendo davanti ai comportamenti privi di logica di quel ragazzino pelle e ossa, ma forte e carico di energia con una probabile fonte infinita che gli permetteva di restare attivo ventiquattro ore su ventiquattro.
«Dobbiamo rifarlo e vedere chi vince!» propose entusiasta e senza la minima traccia di scherzo negli occhi. Ovviamente doveva prendere tutto come se fosse una sfida, mentre io non avevo smesso un istante di guardare Law con il vivo intento di commettere un omicidio e ucciderlo. Prima o poi l’avrei fatto se avessimo continuato in quel modo.
«Perché no» sussurrò il diretto interessato, sostenendo il mio sguardo con l’intento di mettermi a disagio e farmi cedere. Aveva sbagliato persona se credeva che mi fossi arreso lasciandolo vincere a quel giochetto.
Eh certo, assecondiamo le malsane idee di Rufy, non c’è niente di meglio che prenderci tutti a cazzotti in faccia! Deficienti!
«Venerdì prossimo allora, è deciso!».
Pazzi, ve la farò vedere io. Avete appena segnato la vostra condanna.
«Tu che ne pensi Eustass-ya? Te la senti?».
«Ridi pure fino a che hai tutti i denti» sbottai stizzito.
«Come siamo nervosi».
Non riuscivo a credere che per lui fosse tutta una presa in giro. Ma come faceva? Come riusciva a mantenere il controllo in ogni momento senza mai scoppiare? Avrei fatto di tutto pur di vederlo impazzire e quel giorno giurai che, prima o poi, sarei riuscito a costringerlo a perdere le staffe.
Fosse l’ultima cosa che faccio, mi ripromisi.
La tensione sembrò allentarsi quando una campanella iniziò a suonare come un ossesso, facendo si che gli studenti ritornassero nelle rispettive aule e che i padroni delle sedie che Rufy ed io avevamo preso in prestito tornassero a reclamarle, anche se si mantennero a debita distanza per non rischiare troppo.
«Traffy ciao, ci vediamo domani se non è un problema, dovrei studiare per una verifica di fisica» fece Rufy, grattandosi imbarazzato la zazzera di capelli neri e ricordandosi solo in quel momento il motivo per il quale aveva deciso di venire a trovarlo, oltre a l’intento di scombussolare irrimediabilmente la mia giornata. «E salutami Ace!».
«Certo, non preoccuparti» asserì l’altro, senza perdermi di vista un istante.
Feci altrettanto, deciso a non mollare sul più bello, ma quando Rufy sparì dal mio campo visivo mi vidi costretto a dargli le spalle e dirigermi a grandi passi verso l’uscita, ignorando alcuni ragazzi entrati in quel momento che si spostarono impalliditi nel vedere uno sconosciuto farsi largo tra di loro senza il minimo tatto, più che intenzionato a lasciarsi dietro parecchi metri di distanza.
Il ragazzino aveva già raggiunto le scale che portavano al piano di sotto e feci appena in tempo a vedere il suo giubbetto rosso sparire dietro l’angolo, prima di sentirmi richiamare in mezzo al corridoio ormai deserto.
Fermai la mia andatura e raddrizzai le spalle, ma non mi voltai, curioso di vedere fino a dove si sarebbe spinto quel bastardo che aveva deciso di uscire dalla classe all’ultimo momento per attirare la mia attenzione e dirmi quello che non aveva avuto il tempo, o non aveva voluto, dire prima.
«Eustass-ya, non mi saluti nemmeno?» mi pungolò, vedendo che non ero intenzionato a voltarmi.
Mi lasciai scappare un piccolo sorriso che non vide, dandomi il tempo di nasconderlo subito dopo e sostituirlo con un ghigno strafottente che esibii non appena mi girai a guardarlo.
«Ciao?» feci, stringendomi nelle spalle e fissandolo interrogativo, non capendo bene cosa si aspettasse che dicessi dopo la scenata di poco prima. Che diavolo voleva ancora da me? Mi aveva esasperato abbastanza per quel giorno.
Rimase fermo a guardarmi, l’indecisione dipinta sul suo volto mentre si mordeva un labbro, forse mentre vagliava le varie battutine acide del suo repertorio da piaga della società.
«Se non hai altri commenti, io avrei di meglio da fare» conclusi, prima di lanciargli un ultima occhiata tagliente e dirigermi verso l’uscita. Ormai a quell’ora Rufy doveva essere già fuori ad aspettarmi e non avrebbe lasciato passare tanto tempo prima di venirmi a cercare per trascinarmi fuori di peso, così come aveva fatto per portarmi fino a lì.
«Non mi è dispiaciuto vederti».
It's like I'm the one you love to hate. But not today.
Quella frase ebbe il potere di stordirmi più di quanto volessi, arrivandomi dritta alle orecchie anche se era stata pronunciata in tono sommesso e veloce, forse per evitare di proposito che la comprendessi ma, a quanto pareva, avevo sentito tutto perfettamente ed ero certo di non essermi sbagliato per quanto sembrasse assurdo il fatto che fosse uscita proprio dalla sua bocca.
Girai di scatto la testa per guardarlo mentre un sorriso carico di aspettativa si faceva strada a forza sul mio viso, ma tutto ciò che feci in tempo a vedere fu il profilo delle sue spalle prima che scomparisse dentro all’aula, chiudendo la porta e celandosi a me.
Rimasi a fissare il punto in cui era sparito, fuggendo per l’ennesima volta davanti ad una situazione scomoda e in sospeso, lasciandomi con un turbinio di mille domande in testa. Il perché si comportasse in quel modo non mi era chiaro, ma ero deciso a scoprirlo e a rinfacciarglielo dato che ogni volta che non ci trovavamo a litigare lui prendeva e se ne andava, come se avesse paura di ritrovarsi senza armi efficaci per irritarmi e rimanere scoperto, senza la sua solita facciata strafottente e sarcastica.
Avrei risolto la questione molto presto, deciso ad ottenere almeno una vittoria morale contro di lui, dato che sembrava un abile oratore e mettermi nel sacco gli riusciva facilissimo.
Proprio mentre avevo deciso di volatilizzarmi da lì, un uomo sulla cinquantina e i capelli radi si stava dirigendo verso la classe centotrentacinque e stava per entrare, quando scelsi all’ultimo minuto di fermarlo e chiedergli un piccolo favore.
«Mi scusi, lei chi sarebbe?» provò ad informarsi l’uomo, studiandomi dall’alto in basso e facendo un’espressione contrariata di fronte al mio abbigliamento poco elegante.
Lavoro in un’officina, coglione. Che ti aspetti?
Ignorando quel suo atteggiamento schizzinoso, mi avvicinai a lui per dargli un incarico semplice e veloce che avrebbe potuto portare a termine non appena varcata la soglia.
«Riferisca a Trafalgar che, a causa dei miei impegni, mi vedo costretto ad anticipare il nostro incontro e lo aspetto per dargli ripetizioni oggi stesso» ordinai, cercando di incutergli quel po’ di timore che gli serviva per convincerlo a non dirmi di no e a fare come gli avevo detto.
«C-certo, sarà fatto» promise balbettando, afferrando la sua valigetta e affrettandosi ad entrare in classe, richiudendomi subito dopo la porta in faccia.
Ghignai, quello era esattamente l’effetto che avevo sperato e quello stronzetto nemmeno immaginava cosa lo aspettava quella sera.
Non è stato poi un totale spreco di tempo. Questa volta ho vinto io, pensai tra me e me, iniziando a fischiettare allegro e tornandomene, finalmente, a lavoro.
Don't tell me who I should be. Don't try to tell me what's right for me. Don't tell me what I should do. I don't want to waste my time, I'll watch you fade away.
Angolo Autrice.
Yep, sono qui e sono ancora viva, anche se stanca morta e con gli occhi che si chiudono, ma abbastanza in forze per non abbandonare questa long.
Well, inizio col citare in questo capitolo i Simple Plan con la canzone Shut up.
Qualcuno in questo capitolo comincia a lasciarsi un po’ andare? Che dite? Era ora? Si, anche secondo me e vi prometto che sono previste taaante coccole a breve u.u quindi preparatevi, mettetevi comodi e attendete, il bello deve ancora cominciare.
Spero che l’allegria del tornado Rufy vi abbia coinvolti, ovviamente non pensa mai prima di agire, storpia tutti i nomi e fa sempre quello che gli passa per la testa, mietendo una lunga serie di vittime di cui ne viene a fare parte anche Eustass-ya.
(Seriamente, quanti lo ritengono un figo da paura? Io si!).
E così vanno a trovare Law, il quale non si aspetta di certo una visitina così improbabile e assurda, invece è quello che succede e sembra apprezzare la cosa, nonostante i vari battibecchi e soliti disguidi. E che fa Kidd? Come pensate abbia reagito nel sentirsi dire che la sua visita non è stata un completo dispiacere?
Mi auguro che il capitolo con la compagnia di Rufy vi sia piaciuto, davvero. Un grazie a tutti, recensori e lettori e tanti abbracci ^^
Spoileeer:
Perché dovevano mettersi a ballare Gangnam Style sopra al bancone del bar? Con i baristi che, invece di essere sconcertati e cacciarli a calci, li lasciavano fare perché i clienti sembravano apprezzare lo spettacolo e li incitavano a continuare. C’era la pista con le casse, l’impianto stereo, le luci, una console e tanta gente sudata, ubriaca e sballata che ne faceva buon uso. Allora, perché esibirsi in quel modo, quando potevano mischiarsi con il resto dei presenti? E senza nemmeno essere sbronzi!
*
“Non sei nessuno per potermi dire cosa fare. E ora vattene, lasciami in pace!”. L’ultima frase mi uscì più come un lamento e mi morsi forte un labbro per non cedere, non in quel momento, non davanti a lui.
Dannazione, perché non se ne andava come facevano tutti?
“E se lo fossi?” sbottò, prendendomi alla sprovvista e facendomi spalancare gli occhi per lo stupore che quella domanda mi aveva provocato.
“Se fossi quel nessuno” aggiunse con un filo di sicurezza in più, avanzando di un passo sulla ghiaia e avvicinandosi ulteriormente, “Che faresti?”.
Abbastanza interessante?
See ya,
Ace.
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Capitolo 13 *** Capitolo 11. Forse potevo davvero essere forte e senza paura. ***
Capitolo 11.
Forse potevo davvero essere forte e senza paura
Dunque è così che stanno le cose? E tutto l’entusiasmo di pochi giorni fa, che fine ha fatto? Non avevamo deciso di fronteggiarci e spaccarci la faccia a suon di pugni, sbucciarci le mani a furia di colpirci e stramazzare al suolo sfiniti e senza un vero vincitore? Dove sono finite tutte quelle chiacchiere sul fatto di vedere chi é il migliore? Sparite tutte in un istante davanti ad un boccale di birra e ad un doppio cheeseburger? Sul serio, ragazzi? Magnifico, davvero magnifico. E io che speravo di sfogare la tensione con della sana competizione.
Fissavo annoiato e leggermente seccato come, davanti ai miei occhi e sotto il mio sguardo disgustato, Rufy stesse animatamente divorando il suo terzo panino con tanto appetito da farmi venire il sospetto che il suo intestino non avesse affatto fine o una capacità massima da rispettare. Ingeriva tutto, tutto. E ancora aveva il coraggio di chiedere al cameriere un’altra porzione e guai a chi provava a rubargli il cibo dal piatto!
Accanto a lui, Ace era a un passo dall’imitarlo e iniziare ad ingozzarsi come un pazzo da un momento all’altro, assecondando la caratteristica principale della loro famiglia, attirando curiosi che piazzavano scommesse su quanto avrebbero resistito prima di sentirsi male e finire all’ospedale per intossicazione o gastroenterite, diabete e quant’altro. Sciocchezze, quei due avevano uno stomaco di ferro e nulla poteva scalfirlo, nemmeno una bomba.
Sospirai rassegnato, calcandomi il cappuccio della felpa nera e anonima in testa nel tentativo di eclissarmi perché quella era una situazione estremamente imbarazzante e superava il limite del normale. Mi premurai anche di spostare la sedia un po’ più lontano dai due fratelli ingordi, lasciando che Robin si divertisse a fotografarli di tanto in tanto, abituata a vedere quello scempio e non stupendosi più davanti a certe scene. Era troppo persino per loro che di figure di merda ne facevano a palate e certo, anche io avevo contribuito a volte, ma adesso esageravano.
E gli altri. Gli altri!
Oppa Gangnam Style. Gangnam Style.
Perché dovevano mettersi a ballare Gangnam Style sopra al bancone del bar? Con i baristi che, invece di essere sconcertati e cacciarli a calci, li lasciavano fare perché i clienti sembravano apprezzare lo spettacolo e li incitavano a continuare. C’era la pista con le casse, l’impianto stereo, le luci, una console e tanta gente sudata, ubriaca e sballata che ne faceva buon uso. Allora, perché esibirsi in quel modo, quando potevano mischiarsi con il resto dei presenti? E senza nemmeno essere sbronzi!
Usopp, Chopper, quel piccoletto perdeva la testa quando beveva e faceva qualunque cosa gli venisse proposta, Bepo e Brook stavano imitando, piuttosto bene anche, quello stupido balletto che ultimamente stava spopolando in giro, mentre le note della canzone avevano raggiunto fama internazionale. Saltellavano sul legno del banco, muovendo le braccia a ritmo prima davanti a loro e poi in aria, assumendo pose assurde e ridendo come pazzi senza la minima vergogna.
Non li conosco. Non li conosco, mi ripetevo come un mantra. Perché devono fare queste scenate? Uno con un cappello a forma di renna in testa, l’altro con le bretelle ai pantaloni, un altro con i capelli afro e… Bepo, Dio mio, come ti sei ridotto!
In pista, invece, Sanji stava dando il meglio di sé ballando sopra ad uno dei cubi posti ai lati dell’enorme e sofisticata console, facendo roteare sopra ala sua testa la giacca nera che si era tolto e venendo accerchiato da un gruppetto di ragazze che gli giravano attorno come facevano le api con i fiori. Mandava baci a destra e a sinistra, felice come un bambino a cui viene fatto il regalo più bello del mondo. Ai miei occhi, invece, sembrava solo un damerino con la testa in mezzo alle gambe, pazienza che sapesse cucinare divinamente.
Al contrario di lui, Zoro era un tipo più serio e meno espansivo, almeno fino a quando non alzava il gomito, cosa in cui era un vero maestro, e si metteva a bisticciare con la sua compagna fissa di bevute con la quale era meglio non avere debiti. Lui e Nami erano seduti al bar proprio sotto ai loro amici ballerini ed erano impegnati a bere, incuranti degli sguardi stupiti dei presenti che non credevano possibile che una donna riuscisse a resistere così tanto dopo una serie infinita di shots, bicchierini, boccali e fiumi di alcool. Giù di schiena, un bicchiere dietro l’altro mentre osservavano la scena davanti a loro e si reggevano la pancia per le risate. I visi arrossati e le lacrime agli occhi. Zoro provava a ripetere le parole della canzone, ma finiva per ingarbugliarsi e scoppiare a ridere nel bel mezzo della frase, provocando altra ilarità e facendo mancare il fiato a Nami. Se c’era qualcuno capace di reggere gli alcolici senza svenire, vomitare o andare in coma, quelli erano loro due.
Quella non è una femmina, ma una spugna e lui una botte.
Mi guardai attorno di nuovo, ignorando meglio che potevo le due teste vuote che non facevano altro che masticare e indicare i loro amici sparsi per il locale, ridendo di tanto in tanto e mantenendo quell’aria allegra e spensierata che sempre li caratterizzava. Erano riusciti a contagiare persino Bepo, il quale non mi abbandonava mai e non si lasciava andare troppo alle distrazioni, mantenendo sempre un’aria composta, anche se sorridente. Purtroppo quella sera avevo perso pure lui. Non sapevo come, ma aveva iniziato a bere sempre di più, ascoltando le stronzate che gli rifilava Penguin sul fatto che gli sarebbero bastati quattro passi all’aria aperta per sentirsi meglio; invece, il bastardo lo sapeva e lo aveva fatto apposta, non era affatto vero. Così aveva messo nel sacco il povero ragazzo albino e se l’era trascinato dietro, lasciandolo in balia della confusione e facendolo montare sopra quel bancone assieme a quegli sconsiderati senza un minimo di rispetto per la loro reputazione.
Fu quando lo vidi muovere il bacino avanti e indietro che capii che la stima che nutrivo per lui era appena andata perduta, evaporata in meno di un secondo.
Mi schiaffai una mano sul volto per non guardare oltre quello scempio. Quel poveretto si sarebbe ritrovato il giorno dopo a dover fare i conti con un’amnesia da dopo sbornia ed io non avevo intenzione di essere presente quando avrebbe ricordato tutto, sentendosi morire per i gesti compiuti. Non sembrava, ma era parecchio timido e pudico, il signorino.
Altro che orsetto adorabile come dicono Nami e Robin, è diventato un maniaco!
Sbirciai tra le dita per assicurarmi che quello strazio fosse giunto a termine non appena la canzone toccava le ultime note, ma mi sbagliavo di grosso se credevo che avessero smesso solo per farmi un piacere. Come a volersi prendere gioco di me, nessuno smise di fare quello che stava facendo e, partito un nuovo brano, tutti ripresero da dove avevano lasciato, ballando, bevendo e mangiando.
Erano una causa persa, ormai, dovevo farmene una ragione. Quella serata sarebbe scivolata via così, nel divertimento, e nessuno avrebbe fatto a botte o rovinato l’atmosfera con litigi inutili. Un po’ ero contento, almeno mi sarei risparmiato una perdita di tempo e una scocciatura per sopportare l’eccitazione di Rufy e le sparate colossali di Eustass-ya.
A proposito, che fine aveva fatto quello stronzo?
Il luogo dove avevamo deciso di ritrovarci quella sera era il famoso Moby Dick, gestito da una delle famiglie più ricche e potenti della città, nonché di proprietà del sindaco, il Signor Edward Newgate. Un brav’uomo, assolutamente, ma forse un po’ troppo festaiolo. Si diceva che aveva avuto molti figli, alcuni anche adottati, e che fosse di animo buono e di cuore e gentile, interessato ai problemi della città e vicino ai cittadini. Nessuno lo metteva in dubbio e tutti lo amavano e rispettavano per questo.
All’interno sembrava di essere catapultati nella nave di un pirata: pareti e pavimenti rivestite da assi in legno scuro o chiaro, spesso e ben lucidato; tavoli massicci come le sedie e lunghe panche per chi decidesse di festeggiare in compagnia; quadri, ritratti, oggetti antichi, reperti storici di tutti i tipi erano appesi alle pareti e un’ancora vera e piuttosto grande faceva la sua bella figura davanti all’entrata, accogliendo i visitatori. Si divideva, inoltre, in due parti: una adibita e organizzata per servire da mangiare e l’altra, ampia e capace di contenere un gran numero di persone, era stata trasformata in una discoteca a tutti gli effetti.
Data la grandezza del Moby Dick e capendo che standomene seduto al tavolo con quei tre non avrei risolto niente e avrei rischiato di essere riconosciuto da qualcuno, decisi che era meglio dileguarsi finché ero in tempo e, magari, trovare un posticino tranquillo e isolato dall’altra parte del banco bar, lontano da dove quegli idioti si stavano esibendo facendo andare di traverso i drink a quelli che se li ritrovavano davanti al naso.
Alzandomi di tutta fretta e avvisando Robin che andavo a farmi un giro, approfittai per lanciare qualche occhiata nei dintorni, alla ricerca di tre persone che non vedevo da un po’ e che mi facevano stare in pensiero, conoscendo la loro natura scatenata.
Appena eravamo arrivati, incontrandoci tutti nel parcheggio del locale a qualche centinaio di metri di distanza, la situazione non si era prospettata delle migliori. Questo perché, non appena avevo messo piede fuori dall’auto, quella di Ace per la precisione, non avevo nemmeno avuto il tempo di alzare la testa e salutare tutti che mi ero sentito strattonare per il bavero del cappotto, ritrovandomi un paio di occhi infuocati a fissarmi e a rimproverarmi silenziosamente, mentre una serie di imprecazioni facevano da sottofondo a quello che quello sguardo voleva veramente dirmi.
Con calma e non senza un certo fastidio avevo afferrato il polso che mi teneva addossato alla fiancata dell’auto e me l’ero scostato di dosso poco dopo, raddrizzando le spalle e fronteggiando quella massa di capelli fulvi dai quali spuntavano un paio di occhialoni con le lenti spesse adagiati sopra ad una fascia nera.
E poi quello con problemi esistenziali sarei io, avevo pensato, ricordando per un momento le ramanzine di Bepo sul fatto che non mangiassi regolarmente. Era un aspetto che si poteva curare, il mio, il suo cattivo gusto nel vestire, invece, no.
Davanti a me, come mi ero aspettato, c’era quell’invasato di Kidd il quale, per la prima volta, aveva tutte le ragioni per essere incazzato o offeso con me, anche se, per quanto mi riguardava, non era un problema mio.
Non ero obbligato a fare niente e nessuno si poteva permettere di dirmi come essere.
Per cui non mi sentivo in colpa a non aver colto il suo invito, rifilatomi dal professore di anatomia quel lunedì scorso, quando aveva deciso di sconvolgere l’equilibrio delicato della mia già instabile vita, venendo a salutarmi all’università.
Rufy l’aveva fatto altre volte e, quando accadeva, non mi dispiaceva. Mi faceva sempre piacere quando i miei compagni di classe rimanevano a guardare quell’idiota che non faceva altro che ingozzarsi e parlare come stava facendo a tavola in quell’esatto momento.
Ma, quando mi aveva indicato la porta, facendomi notare che non era solo e che con lui c’era qualcun altro, qualcuno di impensabile e con una faccia che rivelava che avrebbe preferito essere sotterrato all’istante, piuttosto che trovarsi lì, per un attimo non ci avevo creduto ed ero rimasto a guardarlo, incapace di capire per quale assurdo motivo fosse venuto anche lui. Non lo aveva mai fatto, il patto non lo prevedeva. O ero solo io a insistere nel voler mettere un freno a tutto?
Lui non era esattamente il tipo che prendeva decisioni del genere, non faceva visite di cortesia, preferiva scopare e basta e a me stava bene. Niente contatti, niente legami, liberi di fare ciò che volevamo.
Perché allora le cose stavano cambiando precipitosamente? Prima la cena e adesso pranzare insieme? No, non potevo permetterlo, era troppo.
Mi serviva del tempo per prendere le distanze e iniziare a non cercarlo, smettere di andare da lui, non accogliere i suoi inviti e evitare di starci assieme mi sembrava un buon inizio. Non mi ero semplicemente fatto sentire e l’avevo lasciato in pace, come volevo stare io. Per quel motivo era incazzato quella sera, era ovvio, chiunque lo sarebbe stato.
No invece, una persona a cui non fregava niente dell’altra non se la sarebbe mai presa, anzi, avrebbe fatto finta di nulla e lui, per quanto ne sapevo, non si lasciava coinvolgere da certe cose. Se ne fotteva altamente, non si abbassava a chieder spiegazioni, a parte quando i suoi piani andavano storti e finiva col non ottenere ciò che voleva. Eppure l’aveva presa male, ma male davvero.
Infatti mi aveva evitato tutto il resto del tempo, dandomi le spalle nel parcheggio, stando in compagnia di quei ragazzini che sembrava voler sopprimere ogni volta che li incontrava, spaventandoli in un primo momento, ma venendo poi accettato, preso in considerazione e introdotto nei loro argomenti. Era arrivato persino, anche se con i suoi soliti modi da psicopatico che ce l’ha col mondo, a parlare con Penguin, persona che, da quel che avevo capito, non gli andava a genio per ragioni a me non chiare.
Solo una volta avevo provato a cercare il suo sguardo per capire cosa gli passasse per la testa e, vedendo come mi evitava, come sembrava interessato alle chiacchiere di chi gli stava vicino, quando invece, ci avrei giurato, non gliene fregava un emerito cazzo, lasciai perdere e non ci provai più. Era stato già abbastanza difficile abbassarsi a trovare un contatto, figuriamoci tentare di nuovo. Io non ero di certo una persona che si sbatteva troppo per gli altri. Se voleva tenere il broncio come i bambini affari suoi, io non avevo nessun tipo di obbligo nei suoi confronti e se avevo deciso di starmene a casa tutta la settimana senza passare da lui per una misera e squallida scopata avevo tutto il diritto di farlo senza rendere conto a nessuno, tanto meno a lui. Cosa si aspettava da me? Eravamo stati chiari anche se non ne avevamo mai discusso apertamente: niente legami, niente appuntamenti, niente di niente. Solo sano sesso e poi ognuno per la sua strada.
Perché, allora, lui sembrava intenzionato a non rivolgermi la parola e io non avevo quasi toccato cibo, quando potevo approfittare del fatto che non cucinasse Penguin?
Ero rimasto a pensarci e ripensarci per tutta la cena, senza prestare attenzione al resto e, quando Killer aveva deciso di andarsi a sgranchire le gambe in pista, chiedendo chi avesse voglia di fare altrettanto, la testaccia rossa e il mio coinquilino erano stati i primi a dire di si e ad aggregarsi a lui, alzandosi da tavola e avviandosi verso la bolgia di gente che sembrava sprizzare energia da tutti i pori.
Affondai le mani nelle tasche dei jeans chiari che avevo indossato e mi diressi apparentemente tranquillo verso il bar, alla ricerca di qualche sgabello vuoto e rispondendo con un cenno di diniego al saluto di Zoro e all’invito di Nami ad unirmi a loro e agli innumerevoli brindisi che stavano facendo in onore di chissà cosa. Forse alla Divinità greca del vino e degli ubriaconi.
Alzando gli occhi al cielo superai i quattro ragazzi, grandi, vaccinati e coglioni, che si erano improvvisati ballerini e, per mio sconcerto e orrore, erano sulla strada giusta per fare anche da spogliarellisti, ma sperai si fermassero molto prima di levarsi anche solo i pantaloni. Lasciatimeli alle spalle sondai il terreno, adocchiando poco lontano un posto libero, giusto al terminare del ripiano bar, isolato, senza nessuna presenza inquietante, pericolosa o troppo ubriaca vicino.
Mi lasciai cadere con un sospiro stanco sullo sgabello, appollaiandomi sopra ad esso e stringendomi nelle spalle, iniziando a fissare le nervature del legno d’ebano con il quale era stato fatto il bancone, notando come qualche piccolo delinquente ci aveva inciso un nome, una data o altre sciocchezze simili.
I've been up in the Air, out of my head. Stuck in a moment of emotion I've destroyed. Is this the end I feel?
Ordinai qualcosa da bere, non troppo forte, ma nemmeno tanto leggera. Se volevo arrivare ad alleggerire il peso sullo stomaco, liberare la mente e sorridere come un deficiente dovevo pur iniziare da qualcosa, e quello di ubriacarmi era il modo migliore e meno dannoso che conoscevo per dimenticare un po’ di problemi e buttare nel cesso il senso di oppressione che provavo.
Che m’importa se è incazzato, continuavo a pensare, sperando di auto convincermi che stavo facendo la cosa giusta. Quante persone mi detestano per vari e inutili motivi? Tante, e allora? Una in più deve per forza fare la differenza? Non penso proprio. Io non gli devo niente, tantomeno delle scuse! Figuriamoci poi, non mi sognerei mai di fargliele. A uno come lui nemmeno morto, mi amputo una mano piuttosto che passare il resto dei miei giorni a sentirmi rinfacciare il fatto di aver ceduto.
Il drink arrivò veloce e altrettanto velocemente finì giù per la mia gola, infiammandomi e dandomi una scossa lungo tutto il corpo. Ecco cosa ci voleva, un altro paio di bicchierini e tutto si sarebbe sistemato, per il momento almeno, permettendomi di rilassarmi un po’ e mandare a fanculo i miei problemi. Quella sera si stavano divertendo tutti, perché io non potevo lasciarmi alle spalle il mio personale casino e fare lo stesso? Non ero costretto a rovinarmi l’umore solo perché avevo preso la decisione migliore per me stesso.
Appoggiai il bicchiere sul bancone e mi voltai verso la pista, senza sapere bene dove guardare, vedendo che Sanji non si era mosso da dove l’avevo mollato l’ultima volta e che le ragazze erano aumentate, così come i giovani che avevano deciso di iniziare a ballare e saltare come canguri, urlando a squarciagola.
Tonight, we are young! So let's set the world on fire, we can burn brighter than the sun!
Woooaaah!
Guarda dov’è finito quell’essere.
Mi sentii quasi sollevato nell’inquadrare il cappello di Penguin aggirarsi sopra alla passerella improvvisata con i tavoli ai lati della sala, illuminato a intermittenza da luci colorate, soffuse, bianche e nere, mentre una sfera stroboscopica simile alla luna girava sopra a tutte quelle teste.
Si stava divertendo parecchio a giudicare dall’espressione che sfoggiava e, dopo qualche minuto che lo osservavo, mi accorsi che non era da solo nell’incitare la folla ad agitarsi sempre di più. Ad aiutarlo c’era Killer-ya con una massa di capelli biondi che ondeggiavano in tutte le direzioni, ricadendogli sugli occhi e coprendogli più volte la faccia esaltata e divertita. Rimasi a fissali mentre, con qualche sforzo, attiravano l’attenzione del cuoco situato dall’altro lato rispetto a loro e lo invitavano a raggiungerli, venendo esauditi dopo poco. Ora erano in tre a darci dentro, facendo segno al dj di alzare il volume e continuare a fare il suo mestiere, volgendo le braccia verso il soffitto, saltando e cercando di parlare tra loro mettendo una mano al lato della bocca per riuscire sovrastare tutto quel chiasso.
Perché dovessero mettersi sempre in mostra non lo capivo, ma almeno loro non erano caduti così in basso come gli altri quattro al bar. Diedi le spalle alla zona discoteca e mi arrischiai a guardare verso il bancone, pentendomene subito dopo quando scoprii che a fare altra scena si era aggiunto pure Rufy.
Ora la banda di idioti è al completo, pensai sarcastico, bevendo un altro sorso e fissandoli in malo modo.
Cominciavo a sentirmi più leggero, ma non bastava. Mi serviva un altro giro, al massimo due, per essere sicuro di essere sulla strada giusta. Non ero ai livelli di Nami e Zoro, ma sapevo reggerlo anche io l’alcool e di certo un paio di bicchieri non erano sufficienti a stendermi. Per quello ci voleva ben altro.
Certo, magari qualcuno che offre per tutti e la giusta compagnia. Un paio di risate, qualche drink più pesante, poi birra, ancora superalcolici, altra birra e il gioco è fatto. Fatto e strafatto, tanto da non ricordare nemmeno come si cammina e chi si ha davanti, finendo col commettere un errore madornale dietro l’altro e andare a letto con…
«Fammi spazio, stronzo».
«Eustass Kidd» mormorai, quasi sorridendo nel sentire lo sgabello accanto al mio spostarsi bruscamente e ricevendo una gomitata dritta sul fianco, fatta per incitarmi a spingermi più in là e lasciare spazio al corpo robusto del ragazzo alto due metri che sembrava aver appena deciso di ricordarsi che esistevo.
Giocherellando col bicchiere che tenevo tra le mani voltai di poco la testa e lo osservai mentre si ordinava da bere una vodka liscia.
Aveva i capelli scompigliati, tanto che, dato il loro insolito colore, sembravano prendere fuoco, ed era in maniche corte. Probabilmente veniva dalla pista dove era stato a saltare come un marsupiale dell’Australia assieme al resto dei decerebrati senza neuroni che continuavano indisturbati la in mezzo. Il petto si alzava e abbassava velocemente, calmandosi via via che i minuti passavano e un ginocchio fasciato da un paio di jeans scuri fremeva a ritmo della musica.
Era difficile e altrettanto strano immaginarsi quell’essere mentre ballava. Più ci provavo, più mi sembrava bizzarro e impossibile, eppure il suo aspetto parlava chiaro, nonché la sete che aveva visto e considerato che si scolò l’alcool in pochi secondi come se fosse acqua fresca.
Aggrottai le sopracciglia, rendendomi conto che non avrebbe mai smesso di stupirmi con la sua stramberia.
«Dì un po’, che cazzo te ne fai inchiodato qua?» domandò ad un tratto, mantenendo un tono distaccato e piuttosto scocciato, voltandosi però a guardarmi stranito, appoggiando un gomito al bancone e sostenendosi il capo con la mano.
«Bevo» fu la mia unica ed immediata risposta, mentre mi portavo alle labbra il bicchierino di vetro e lasciavo che le ultime gocce di rhm mi scivolassero sulla lingua. E quel gesto, per quanto mi riguardava, poteva interpretarlo come voleva, ma era dato semplicemente per provocarlo.
Eustass Kidd era una persona semplice sotto un certo punto di vista. Se qualcuno non faceva come diceva lui, si incazzava e riempiva di cazzotti la suddetta persona. Aveva difficoltà a relazionarsi con la gente comune e sembrava odiare chiunque si dimostrasse capace di tenergli testa ma, allo stesso tempo, apprezzava l’impegno dell’avversario, volendolo comunque vedere morto. Aveva strane manie omicide, vero, ma a parte questo sembrava parecchio legato ai pochi amici che gli stavano intorno. Fino ad allora l’avevo visto andare d’accordo solo con Killer, se si escludevano gli insulti che a volte i due non si risparmiavano. Non sapevo se potevo considerarlo amico di Rufy e della nostra allegra combriccola, ma per il momento non si era rifiutato di deliziarci con la sua presenza durante le nostre uscite per cui avevo dedotto che, per quando potessimo stargli sulle scatole, sopportarci non era così difficile. Ad ogni modo, quando trovava un degno rivale, non perdeva occasione per attaccar briga e, non so se per mia fortuna o sfortuna, aveva deciso che io ero un degno grattacapo e meritavo la sua attenzione, in quanto moccioso viziato, chirurgo del cazzo, saccente e stronzo, appellativi che mi affibbiava spesso quando mi minacciava di morte.
C’erano solo due problemi: il primo era che, quando iniziava una guerra, non era contento fino a che non vinceva e distruggeva il suo avversario; il secondo, e questo riguardava la sua salute in primo piano, era che aveva scelto me come avversario. Scelta sbagliata che l’avrebbe condannato.
Perché anche io, quando qualcuno mi dava sui nervi, ero deciso a schiacciarlo. E non come faceva lui, no, molto peggio. Non serviva dare di matto per essere forti, nemmeno saper come tirare un pugno ben assestato. Per fare male bastavano e avanzavano le parole, l’arma peggiore che l’uomo aveva. Una frase poteva distruggere moralmente una persona e lui, per mio sommo divertimento, era uno che se la prendeva subito anche solo per un ghigno, figuriamoci quando iniziavo a parlare.
«Questo lo vedo anche io» abbaiò stizzito, ordinando una birra e spaventando un cameriere per il tono rabbioso in con cui lo disse.
«Preferiresti che ti dicessi che ho intenzione di esibirmi pure io sopra al bancone del bar?» gli chiesi allora, anche se la faccia schifata con cui mi espressi servì a fargli capire che non avevo la minima intenzione di rendermi ridicolo e fare una scenata del genere, al contrario di qualcuno di mia conoscenza.
«Non eri tu quello che si era spogliato davanti a tutti dopo aver bevuto come un bastardo?» mi sentii domandare allora, ritrovandomi davanti una faccia divertita e un sorriso malizioso quando mi voltai di scatto a guardarlo.
E lui come cazzo lo sa?
Roteai gli occhi nell’istante successivo, mentre mi rendevo conto dell’evidenza e la consapevolezza si faceva strada dentro di me. Eustass-ya veniva dalla pista e, di certo, era stato fino a poco prima in compagnia di quello sciagurato di Penguin e Dio solo aveva idea di che cosa quell’infame gli fosse andato a raccontare su di me e sulle nostre bravate.
«Penguin» sussurrai, notando come Kidd annuiva vivacemente. Avrei dovuto fare una chiacchierata a quattrocchi con il mio coinquilino e minacciarlo con le cattive, dato che non aveva ancora recepito il messaggio di non andare a raccontare in giro i fatti miei.
«Sai, Trafalgar, se decidessi di rifarlo, a me farebbe piacere» disse con noncuranza, marcando però l’ultima parte della frase per lasciarmi intendere dove voleva andare a parare. Non poteva riferirsi altro che a quello che gli avevo detto alla facoltà prima di salutarlo e rientrare in classe. Il mio primo e madornale errore in assoluto, dopo essermi risvegliato a casa sua e non essermene andato immediatamente, si intende.
Non volevo dirlo ad alta voce. Inizialmente avevo formulato tutto come un semplice pensiero, lasciandolo vagare a briglia sciolta nella mia mente, mettendomi poi nel sacco da solo. Avevo aperto la bocca e lasciato che quelle parole che mi ronzavano in testa da un po’ formassero un’affermazione di senso compiuto, raggiungendo il suo finissimo udito, cosa che funzionava solo quando gli faceva comodo, ovvero ogni volta che qualcuno dava l’impressione di voler condividere qualche informazione imbarazzante sul mio conto, informazioni che gli servivano per ribaltare la mia indifferente facciata da vincitore che tanto detestava. Avrebbe fatto di tutto per abbattermi.
Avevo parlato velocemente, esprimendomi in un modo incasinato, ma abbastanza spontaneo, chiaro e tondo da permettergli di riuscire a raccogliere ogni singola sillaba. Che altro avrei dovuto fare, quindi, se non togliermi subito da quell’impaccio? Allora la classe era stata la mia salvezza, ma quando il professore era entrato, avvisandomi che uno strano tizio dai capelli rossi mi aspettava per darmi ripetizioni quello stesso giorno, beh, avevo deciso che no, non gli avrei permesso di avermi a sua disposizione per sentirmi rinfacciare quello che mi ero pentito di aver detto e anche solo pensato subito dopo che il danno era stato fatto.
Ero salito al settimo cielo quando mi aveva offerto su un piatto d’argento la scusa per sfotterlo fino alla morte, dato che era venuto a trovarmi, di sua spontanea volontà come sosteneva Rufy, portandosi dietro il pranzo per farmi compagnia. Nulla di ciò era vero, lo immaginavo, ma ricamarci sopra lo avrebbe fatto incazzare ancora di più, rendendomi euforico nel vederlo rodersi il fegato.
E poi tutto era andato in fumo, rivoltandosi contro di me. Ma se pensava di avermi in pugno si sbagliava di grosso e gliel’avrei fatto capire in quell’esatto istante. Nessuno mi metteva i piedi in testa. Nessuno.
«Cosa stai insinuando, Eustass-ya?» feci calmo, sfoggiando la mia solita maschera pacata e intoccabile.
«Lo sai benissimo. O vuoi forse negare di aver detto, piuttosto chiaramente, che ti ha fatto piacere vedermi alla tua facoltà l’altro giorno?» sghignazzò, «Non ti facevo un tipo così sentimentale» aggiunse anche, soddisfatto per come si stava volgendo la conversazione. Peccato per lui che non sarebbe durata quella positività che girava apparentemente a suo favore.
«Ho detto che non mi dispiaceva averti visto, non che mi aveva fatto piacere. C’è differenza, caro Eustass, impara a prestare attenzione alle parole degli altri. Sai, potresti fraintendere». Dopo questo smacco, conclusi il tutto dedicandogli un sorrisetto strafottente che lo fece zittire e trasformò la sua allegria in frustrazione.
«Lo so io cosa hai detto!» si inalberò, «Puoi negare quanto vuoi, ma tienilo a mente» ghignò, avvicinandosi e riducendo gli occhi a due fessure, «Io ho sentito benissimo».
«Pensala come vuoi» gli dissi educatamente, o lo sarei stato, se solo non gli avessi rivolto un mio tipico sorriso di autosufficienza che lo fece scuotere il capo e riprendere a scolarsi il boccale di birra sotto al mio naso.
Fremeva e stava cercando di mantenere la calma, fulminando qualsiasi cosa su cui gli capitasse di posare gli occhi. Una mano era chiusa a pugno con così tanta forza che le nocche stavano diventando bianche mentre con l’altra stringeva convulsamente il bicchiere, come se volesse frantumare il vetro in mille pezzi. Si stava trattenendo e il luccichio infuocato nel suo sguardo ne era la prova.
Perché quella faccia? Perché controllarsi? Ormai lo conoscevo bene, sapevo come reagiva quando le cose andavano per il verso sbagliato. Quindi che iniziasse pure ad insultarmi o anche aggredirmi, non mi sarei di certo stupito e nemmeno tirato indietro. Almeno così avrei sfogato una parte di quel tormento che mi portavo dietro dall’inizio della settimana.
Ma qualcosa non andava. Per la prima volta Kidd sembrava intento a riflettere sul da farsi e questo, per qualche strano motivo, non mi faceva sentire tranquillo. Lui non pensava, agiva e poi rifletteva su ciò che combinava. Si lasciava andare, senza eccezione, senza costrizioni, era libero. Adesso, invece, sembrava quasi combattuto, indeciso sul da farsi.
Perché? Perché deve essere così difficile? Colpiscimi e basta e facciamola finita!
Bevve l’ultimo sorso, scolandoselo di schiena tutto d’un fiato e poi sbatté malamente il bicchiere sul bancone, lasciando trapelare un po’ di quell’agitazione che sembrava bloccarlo e mandarlo in confusione.
Si alzò in piedi e, dopo aver lasciato una banconota accanto al contenitore delle salviette, finalmente si decise a guardarmi.
Combattei con me stesso per non lasciar trapelare la marea di sensazioni che provai non appena i nostri occhi si incrociarono, iniziando una piccola guerra privata, mentre quelle pupille ambrate e decise sondavano le mie, grigie, interdette e tempestose, alla ricerca di qualcosa, un accenno al mio tentennamento magari.
Non potevo permetterglielo, non aveva alcun diritto di sondarmi così a fondo, di scavarmi nell’anima e di mandare in frantumi quella facciata di indifferenza che con tanta fatica e sacrificio, dolore e tristezza avevo costruito. Non era possibile che, con uno sguardo, riuscisse a leggere così in profondità quello che volevo nascondere, che non volevo ammettere, che temevo di affrontare. Non poteva e non glielo avrei lasciato fare.
Prima ancora che potessi aprire bocca per freddarlo e allontanarlo da me con uno dei commenti più offensivi e crudeli che conoscevo, mi precedette, lasciandomi per un attimo senza parole.
«Sai che penso? Penso che tu stia scappando da questo come un codardo senza nemmeno provare a combattere».
But just because it burns doesn’t mean you’re gonna die. You’ve gotta get up and try, try, try.
Ed ecco qui come una frase può essere così tagliente da arrivare dritta al petto e mozzarti il respiro senza la minima pietà.
Detto questo mi superò e si incamminò verso la pista, lasciandomi a fissare il vuoto mentre il respiro si faceva irregolare e un’onda di insicurezza mi investiva, trascinandomi via, lontano.
Io. Io sto scappando? Io sono un codardo? No, no questo non dovevi dirlo, non dovevi proprio.
«Che diavolo ne sai tu?» trovai la forza di ribattere, anche se la voce sembrava essere scomparsa e la gola era secca e arida come il deserto, ma feci abbastanza affinché mi sentisse prima di allontanarsi troppo, riuscendo ad attirare la sua attenzione. Anche se non potevo vederlo perché tenevo il capo chino, fisso sulle mia mani abbandonate in grembo, potevo percepire che mi fosse vicino, forse al mio fianco.
«Non sai niente» continuai glaciale, «Niente, chiaro? Perciò non permetterti mai più di giudicarmi in questo mondo dove tutti sono imputati e peccatori».
Senza attendere una risposta da parte sua, desideroso solo di andarmene e restare solo e con una gran voglia di urlare fino a sentire la gola bruciare, le corde vocali stridere e i polmoni esplodere, scesi dallo sgabello e partii spedito verso l’uscita, infilandomi tra i cumuli di gente e facendomi strada a spintoni, ignorando gli insulti e i mormorii scocciati di coloro che si sentivano spingere di lato all’improvviso. In poco tempo riuscii ad aggirarli tutti e mi ritrovai fuori, dove uno schiaffo di aria fredda mi colpì brutalmente il viso, facendomi rabbrividire all’istante mentre si insinuava sotto ai vestiti, sotto la pelle e fin dentro le ossa.
Pensai distrattamente al cappotto ancora dentro, abbandonato in una delle sedie al tavolo assieme ai documenti, portafogli, soldi e quant’altro, ma lasciai perdere. In quel momento avevo di peggio su cui riflettere. Innanzitutto dovevo allontanarmi. A piedi sarebbe stata una bella scarpinata fino a casa, soprattutto con quel freddo maledetto, pungente come lame affilate che si insinuavano nella carne.
Strinsi i denti e serrai la mascella per non esplodere proprio lì, dove ancora tutti potevano vedermi. Quando tutto il mondo mi era contro, quando davvero non ne potevo più, quando anche io volevo essere una persona normale, quando non esisteva più una minima goccia di autocontrollo, solo allora anche io mi lasciavo andare come chiunque altro. Mi arrabbiavo, urlavo, distruggevo qualsiasi cosa, iniziando dalla mia espressione calma e pacata. Non ne rimaneva nulla, se non un volto sfigurato dal dolore, dalla frustrazione, dall’ingiustizia e da tutto quello che ero costretto a portarmi dentro.
E nessuno mai doveva vedermi. Vedere quanto fossi debole e vulnerabile, come non riuscissi a rimettere in ordine i tasselli di quel puzzle che era la mia vita incasinata. Quei momenti di delirio erano rari. Una volta erano più frequenti, mi aggredivano in qualsiasi ora del giorno, all’improvviso, facendomi sentire male, a pezzi, e mi lasciavano vuoto, senza nulla a cui aggrapparmi. Col tempo, crescendo, avevo imparato a controllarmi, a farmi scivolare tutto addosso, a non pensare. A chiudere tutto in un cassetto e dimenticarlo.
Funzionava, le cose andavano meglio e potevo permettermi di stare tranquillo.
Ultimamente, però le mie sicurezze erano state messe a dura prova, il mio mondo stava cambiando, qualcosa di nuovo si stava creando uno spazio nella mia vita e tutto ciò non ero capace di gestirlo. Quel qualcosa era troppo forte, troppo travolgente e improvviso, irruento e difficile da allontanare per poter mantenere salda la presa e tenere a bada la paura.
Era vero, tutto vero. Avevo paura e perciò scappavo. Scappavo ed evitavo di affrontare i problemi che si presentavano con tutte quelle novità.
Era una cosa troppo grande e non potevo reggerla. Per quanto mi sarebbe piaciuto non ne avevo la forza. Continuavo a ripetermi che, se avessi provato a sostenerla, tutto mi si sarebbe rivoltato contro, avrei sbagliato e anche quel, quel… Quell’affetto sarebbe svanito. Quella complicità, quella sfida continua, quella voglia di vedersi, provocarsi, cercarsi, quello che avevo con Eustass-ya non ci sarebbe più stato. Perché tutto, prima o poi, doveva finire. Nulla durava, così come la famiglia, anche l’amore aveva un suo termine e, la maggior parte delle volte, era doloroso. Ed io non avevo intenzione di avere un’altra cicatrice da aggiungere al mio cuore, ne avevo troppe e non c’era posto per i tentativi o per le prove.
Non c’era più spazio per nient’altro, per questo motivo non volevo approfondire quel complicato rapporto che avevamo iniziato. Andava bene fino a che le nostre vite non iniziavano ad intrecciarsi l’una con l’altra, quello che stava appunto succedendo in quei giorni.
Mi sarei spezzato. E rimettere assieme me stesso non era facile. Sapevo di essere un tipo complicato, nemmeno io avrei voluto avere a che fare con me, figuriamoci gli altri. Appena capivano che razza di persona ero se ne andavano e come poterli biasimare? Chi mai lo vorrebbe un disadattato sociale? Dovevo rassegnarmi all’inevitabile.
Preferivo restarmene da solo, lontano da tutti, almeno mi proteggevo ed evitavo sofferenze inutili e che non avrebbero fatto altro che distruggermi definitivamente.
Avanzai rapidamente verso il parcheggio, non sapendo bene dove andare, volendo solo allontanarmi il più possibile, quando udii un trambusto alle mie spalle, gente che si lamentava e porte che sbattevano. Ignorai tutto, infossando la testa nelle spalle e concentrandomi sui miei passi, uno dopo l’altro, veloci e silenziosi. Passi che scappavano.
«Stai fuggendo di nuovo» mi fece notare una voce stranamente calma dietro di me, tanto che mi vidi costretto a fermarmi e concedermi un respiro profondo prima di rispondere e togliermi di mezzo quell’impiccio una volta per tutte.
«Non sono affari tuoi, Kidd» soffiai, più freddo del vento, rimanendo immobile e voltando solo la testa, quel tanto che bastava per osservarlo con la coda dell’occhio da sopra la spalla. Era più vicino di quanto pensassi e solo allora percepii il suo respiro arrivarmi alle orecchie. Quell’idiota era uscito senza nemmeno prendersi la briga di coprirsi e ora tendeva i muscoli per ignorare il gelo della notte.
«Non sei nessuno per potermi dire cosa fare. E ora vattene, lasciami in pace!». L’ultima frase mi uscì più come un lamento e mi morsi forte un labbro per non cedere, non in quel momento, non davanti a lui.
Dannazione, perché non se ne andava come facevano tutti?
«E se lo fossi?» sbottò, prendendomi alla sprovvista e facendomi spalancare gli occhi per lo stupore che quella domanda mi aveva provocato.
«Se fossi quel nessuno» aggiunse con un filo di sicurezza in più, avanzando di un passo sulla ghiaia e avvicinandosi ulteriormente, «Che faresti?».
«Cosa stai dicendo?». Lo sguardo fisso davanti a me, nemmeno mi resi conto di aver parlato.
Ignorando la mia voce e il tono incrinato con cui gli risposi, mi afferrò saldamente per un braccio e mi costrinse a voltarmi, facendomi ritrovare davanti ad un paio di occhi caldi e determinati come non li avevo mai visti prima.
«Sappi che io non fuggirò» disse semplicemente e, con poche parole, riuscì a fare breccia nel mio animo distaccato e solitario, smuovendo quella massa ghiacciata che mi intorpidiva e riscaldandomi nel profondo.
Do you know that there’s still a chance for you cause there’s a spark in you.
In quel momento un barlume di speranza si fece prepotentemente strada nel mio cuore, strappandomi un timido sorriso così genuino che non avrei mai pensato di potergli rivolgere.
«Hai una vaga idea di quello in cui ti stai imbarcando?» gli chiesi, giusto per precauzione, tormentandomi le mani e non sapendo bene come comportarmi. Bastò un’occhiata per capire che nemmeno lui era tanto pratico in questo genere di circostanze, ma rimanere li impalati a guardarci, fremendo per creare un contatto, mi sembrava sciocco, così sollevai le braccia con l’intenzione di avvolgergliele attorno al collo mentre anche lui decideva il da farsi e mi attirava con un veloce movimento contro il suo petto, facendomi sentire come se tutto potesse aggiustarsi, mentre tutte le insicurezze che mi avevano attanagliato lo stomaco svanirono non appena ci stringemmo in un abbraccio un po’ impacciato, ma sincero e spontaneo.
Forse potevo davvero essere forte e senza paura.
«Sarai anche un bastardo» ammise, appoggiando il mento tra i miei capelli e allacciando le dita dietro alla mia schiena, «Ma so di non essere così docile nemmeno io».
«Tu sei molto peggio, è questo che volevi dire» lo corressi, sentendomi di conseguenza stringere più forte e beandomi di quel piccolo e inaspettato istante di benessere gratuito di cui non credevo che una persona violenta come Eustass Kidd fosse capace di farmi provare.
«Non pensare che questo cambi le cose, ho ancora intenzione di ucciderti» chiarì, anche se tutta quella situazione e i nostri gesti dicevano il contrario, ma non glielo feci notare.
Per una volta avrei lasciato a lui l’ultima battuta.
And I have finally realized what you need.
Angolo Autrice.
Allora, non voglio annoiarvi o strafare, ma ho davvero tante cose da dire e quindi cercherò di riassumere come posso. Partiamo con le canzoni che probabilmente avrete riconosciuto, per ordine abbiamo:
Gangnam Style, PSY.
Up in the Air, Thirty Seconds to Mars.
We are young, Fun.
Try, Pink.
Firework, Katy Perry.
Madness, Muse.
Passando al capitolo adesso: cosa ne pensate?
Mi sono mangiata le unghie scrivendolo e sono un po’ sclerata nel cercare di mantenere la vicenda e le reazioni in linea con il carattere e la personalità dei personaggi. Quindi, in poche parole, vi chiedo gentilmente un’opinione, soprattutto sull’ultima parte, quando i nostri ragazzi escono dal loro guscio di indifferenza e si espongono, trovandosi davanti ad una decisione da prendere e a un rapporto da chiarire. Ci terrei molto a sapere cosa ne pensate, se è troppo o troppo poco; se dovevo evitare oppure no, insomma, qualcosa.
Come spiegazione al loro avvicinamento, che secondo me era anche ora, povere anime, vi dico che un po’ di tenerezza? Dolcezza? Ci stavano a mio parere. Non troppo sdolcinati, ma nemmeno così distaccati da fare fatica a guardarsi. Kidd già da un po’ sospettava qualcosa e voleva vederci chiaro, mentre Law, anche se faceva di tutto per mentire a se stesso, i cambiamenti nella sua vita li vedeva eccome. Bastava solo una spinta per togliersi il magone e, che cazzo, abbracciarsi e smetterla di fare i preziosi orgogliosi.
Ad ogni modo, sta a voi giudicare il tutto, io sono qui e se avete qualcosa da farmi notare sarò felice di ascoltarvi per migliorare.
Ora mi sembra più che giusto passare alle cose ruffiane e dedicare il capitolo ad una persona così gentile, paziente e adorabile che non smetterò mai di ringraziare per tutti i consigli e la costanza con cui mi vizia. G R A Z I E, FlameOfLife, sono sempre in debito.
Un grazie, ovviamente e con la stessa intensità, va anche a tutti coloro che leggono e che recensiscono!
Anyway, ho notato che alcuni, me compresa, adorano Ace, (Come si fa a non amarlo?), perciò dal prossimo capitolo vi prometto una bella entrata in scena di lui e qualcun altro e cercherò anche di inserirlo più spesso, dato che questa long coinvolge più personaggi. E’ un casino, ma li ammiro tutti, quindi non riesco a fare a meno di regalare loro un qualche spazio.
E’ un po’ tardi per dirlo, ma le coppie, per chiarezza, sono: Kidd/Law; Ace/Marco; Penguin/Killer. Per ora queste sono quelle definite, mentre Zoro/Nami è solo accennata dato che, come amici, si stanno divertendo un sacco. Non so cos’altro succederà, probabilmente aggiungerò qualcosa, ma vedrò andando avanti a scrivere.
Uhm, penso sia tutto. Vi lascio quattro spoiler adesso, visto che il prossimo capitolo è un po’ particolare: i punti di vista sono differenti.
1.
Mi era sembrato un miracolo, un’apparizione per la precisione, intravvederlo a pochi metri di distanza, in mezzo alla bolgia di gente scatenata e piena di energie, mentre chiacchierava con alcune persone tenendo in mano un bicchiere pieno di chissà che cosa e gesticolando con l’altra. Per un minuto buono ero rimasto in totale contemplazione, con la bocca aperta, gli occhi spalancati e immobilizzato davanti al bancone del bar.
Oh, Dio mio, pensai tra me e me mentre non riuscivo a staccare gli occhi dal suo profilo, quell’uomo sarà la mia rovina, ne sono certo.
2.
Ecco, lui sembrava infiammato. Costantemente. Sembrava sempre avere qualcosa da dire, da fare o da vedere; non stava mai fermo e si muoveva in continuazione; a volte sembrava calmarsi ed essere colto da un’improvvisa quiete e sonnolenza, ma si riprendeva subito dopo; adorava i fuochi d’artificio e il fuoco lo affascinava. Diceva che era caldo, e quindi apprezzato dalle persone, ma allo stesso tempo temuto perché poteva bruciare e fare del male. Questi aspetti contrastanti gli piacevano immensamente, tanto da suscitare anche la mia curiosità e facendo si che, ogni volta che passava, mi ritrovassi chino sul bancone ad ascoltare le sue stramberie per nulla annoiato.
Ace era certamente così: bello, scoppiettante e caldo. Era il fuoco.
3.
Avanti, facciamo presto. “Penguin, mi dispiace, sei un bravo ragazzo, ma non sei il mio tipo. Non prendertela, non è colpa tua, sono io che non me la sento di andare oltre, scusami. Possiamo rimanere amici se ti va”. La solita frase programmata, nulla di nuovo e ora forza, il colpo di grazia.
Cosa avevo di sbagliato che non andava? Certo, ero fissato con certe cose, avrei dato l’anima pur di fare qualche sutura, ma non ero cattivo. E non ero da buttare via, come tutti invece facevano e continuavano a fare. Mi sentivo uno straccio a volte e l’unica cosa che volevo era un’occasione, una speranza, qualcosa o qualcuno che non mi mettesse da parte e che capisse che con me erano gli altri a dover fare il primo passo. Quella sera era stata un’eccezione e mi era costata cara. L’unica volta che mi buttavo dovevo perdere un amico.
4.
“Ace esce con qualcuno” dichiarò allora uno dei miei migliori amici, nonché ragazzo che stimavo molto e di cui mi fidavo.
Lo guardai a bocca aperta, assimilando le informazioni ricevute e voltandomi a rallentatore quando un ragazzo con i capelli corvini e scompigliati, lo sguardo assonnato e i vestiti stropicciati fece il suo ingresso in salotto, salutando tutti e sbiancando poi di fronte alla mia espressione apatica.
“Rufy, che ti succede?” mi chiese Ace, visibilmente preoccupato.
“Ace, perché non mi hai detto che ti sei innamorato?”.
E qui concludo e vi auguro un buon fine settimana.
See ya,
Ace.
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Capitolo 14 *** Capitolo 12. Un appartamento troppo piccolo per tutti. ***
Capitolo 12.
Un appartamento troppo piccolo per tutti
Come fosse successo tutto ciò ancora non ne ero certo e non riuscivo a capacitarmene, ma l’essermi ritrovato davanti agli occhi proprio quel ragazzo aveva contribuito a mandarmi il cervello in blackout totale, facendo apparire le due birre che mi ero scolato in precedenza come un semplice analcolico.
Mi era sembrato un miracolo, un’apparizione per la precisione, intravvederlo a pochi metri di distanza, in mezzo alla bolgia di gente scatenata e piena di energie, mentre chiacchierava con alcune persone tenendo in mano un bicchiere pieno di chissà che cosa e gesticolando con l’altra. Per un minuto buono ero rimasto in totale contemplazione: con la bocca aperta, gli occhi spalancati e immobilizzato accanto al bancone del bar, dimentico di mio fratello e del resto dei miei amici. Non mi importava più nulla e, se li avessero sbattuti fuori per il troppo esibizionismo, non sarei corso in loro aiuto perché ero troppo impegnato a tentare di calmare il battito accelerato del mio cuore che sembrava aver preso vita propria galoppando a tutta birra nel mio petto.
Oh, Dio mio, pensai tra me e me mentre non riuscivo a staccare gli occhi dal suo profilo, quell’uomo sarà la mia rovina, ne sono certo.
Fino a pochi attimi prima stavo ridendo a crepapelle davanti al teatrino che quel pazzo di Rufy e gli altri suoi subordinati, i quali lo seguivano sempre e ovunque come se fosse il loro Capitano, stavano portando avanti, esibendosi come fanno i ballerini professionisti. L’unica differenza era che loro erano scoordinati, incapaci e tremendamente divertenti e buffi, tanto da ottenere la simpatia del caposala e il permesso per continuare a fare scena davanti ai clienti che, richiamati dal gran baccano e dal numero di persone ammassate al bar ad osservare lo spettacolo, si facevano avanti numerosi. Quella sera il locale avrebbe fatto il botto, poco ma sicuro.
Ero in piedi di fianco a Zoro, intento a scolarsi l’ennesimo bicchiere, quando mi ero voltato a dare un’occhiata in giro, giusto per vedere come procedeva la situazione altrove, in mezzo alla pista. E allora l’avevo visto, con quel ciuffo biondo simile ad un ananas che lo caratterizzava e che lo rendeva, senza ombra di dubbio, unico, e con uno sguardo vispo e interessato a quello che gli stavano dicendo le persone che gli stavano affianco, facendolo sorridere di tanto in tanto.
Ero rimasto a fissarlo come un idiota, ma non mi importava di come potevo apparire agli occhi degli altri, solo non riuscivo a fare a meno di guardarlo dato che non l’avevo mai visto al di fuori del locale dove lavorava come barista, quindi senza la solita divisa composta da maglia nera e pantaloni che raramente scorgevo al di là del bancone che ci separava. Quella sera, per mia fortuna, potevo rimirarlo libero dal grembiule e dagli impegni lavorativi, notando come gli donasse quella camicia viola chiaro con il colletto aperto e un paio di jeans che gli fasciavano i muscoli tonici delle gambe. Se mi avessero chiesto cosa avevo da fissare con così tanto coinvolgimento avrei fatto il suo nome senza pensarci due volte.
Fin dal primo momento in cui ero capitato nel suo bar mi ero subito sentito fremere davanti a lui e a quel viso così serio e concentrato a dare il meglio di sé, ma capace di contagiarti con il suo buonumore e quella particolare espressione, un misto tra il divertito e l’interessato quando stava a sentire le mie lamentele sull’università e sui miei coinquilini. Mi era venuto spontaneo, le volte successive, chiacchierare e lui non si tirava di certo indietro. Faceva domande, sorrideva e stava attento e se arrivavano altri clienti li serviva e poi ritornava da me, facendomi riprendere da dove avevo lasciato. All’inizio era stato piuttosto distaccato, sulle sue diciamo, ma col tempo io avevo preso coraggio e non mi ero dato per vinto e lui aveva finalmente iniziato ad aprirsi.
E basta.
La sera, se non passavo di lì al pomeriggio, restavo al bancone a parlare per un paio d’ore e poi me ne andavo, salutandolo ed esultando dentro di me quando mi diceva che mi avrebbe aspettato per la prossima serata di poesie o per un caffè. Perché, secondo lui e a detta di quello che mi ero inventato come scusa, mi recavo nel suo locale dopo cena solo per quello.
Certo, potevo passare per un perfetto cretino, ma era l’unico modo per non fargli capire che, in realtà, l’unica ragione per cui presenziavo e mi sorbivo tutta quella salsa di sonetti e frasi senza un filo logico era perché dovevo vederlo e assicurarmi che si, non me l’ero sognato e che esisteva davvero.
Ero patetico e me ne rendevo conto, inoltre avrei tanto voluto dare ascolto ai consigli di Law, ma non ero sicuro che invitarlo a uscire fosse l’idea migliore da prendere in considerazione. Insomma, Marco mi aveva dimostrato di essere più grande di me e di conseguenza più maturo, figuriamoci se non aveva di meglio da fare oltre che ad accettare l’invito del primo ragazzino che passava. Farmi tutti quei complessi non andava bene, lo sapevo, e se Law mi avesse visto avrebbe sicuramente alzato gli occhi al cielo e poi sarebbe andato lui stesso dal ragazzo in questione e lo avrebbe avvisato del fatto che qualcuno di sua conoscenza era interessato ad uscirci assieme. Conoscendolo sarebbe anche stato capace di fare il mio nome e di trascinarmi a forza davanti a lui, facendomi fare la figura dell’idiota.
Però ne varrebbe la pena, mi dissi, guardalo, è così attraente. Con quel modo di fare così disinvolto e sicuro. E quegli occhi poi! D’accordo, i capelli sono strani, ma non gli stanno male, sono carini, ci ho fatto l’abitudine. Non l’ho mai visto così libero, ha un sorriso da un orecchio all’altro e come cammina… Dio, potrei saltargli addosso. No, aspetta, perché è sempre più vicino? E con chi sta parlando ora? Ma che cazz…?
«Ace?» mi sentii chiamare, mentre davanti ai miei occhi un paio di dita schioccavano nell’intento di attirare la mia attenzione e sottrarmi dal turbinio dei miei pensieri dentro al quale ero piombato.
«M-Marco!».
Sbattei le palpebre e capii all’istante che quella in cui mi trovavo era una situazione a dir poco imbarazzante, inoltre avevo appena fatto una figuraccia.
Figuraccia è troppo poco. Ho fatto una figura di merda, punto.
«Va tutto bene?» fece il ragazzo davanti a me, sollevando un sopracciglio curioso e accennando ad un sorriso mentre nella sua mente raggiungeva sicuramente conclusioni sbagliate, «Sei ubriaco?».
«N-no, no, certo che no. Ecco, mi ero solo, ehm, distratto» farfugliai, passandomi nervoso una mano tra i capelli e grattandomi la nuca. Solo io potevo rendermi ridicolo in quel modo, persino Rufy avrebbe saputo fare di meglio senza rischiare di sembrare completamente suonato.
«Capisco» disse e, per mia fortuna, cambiò discorso, come se non fosse successo nulla e per questo gli fui immensamente grato. «Mi fa piacere vederti, non avrei mai pensato di incontrarti qui».
Una seconda possibilità! Dio, grazie!
«Già, che coincidenza, vero? Nemmeno io l’avrei mai detto» mormorai. Per quanto cercassi di risultare calmo e indifferente non ci riuscivo e le frasi mi uscivano sconnesse e impacciate, mostrando il mio nervosismo.
«Sei qui in compagnia?». Marco, invece, era completamente calmo e dava mostra di saper esattamente cosa dire e come comportarsi, come sempre del resto, mantenendo gli occhi puntati sui miei che, costantemente, lasciavo vagare attorno a noi in un disperato tentativo di non arrossire. Le mie reazioni, nonostante tutto, sembravano divertirlo e non scocciarlo come temevo.
«Si, con alcuni amici. Loro sono qui dietr…». Stavo per voltarmi e indicargli il gruppo di sbandati che continuava a ballare indisturbato sul bancone a pochi centimetri di distanza, ma all’ultimo ci ripensai, decidendo che forse era meglio non tirare troppo la corda e rischiare di farlo scappare a gambe levate nel vedere che razza di gentaglia frequentavo. A complicare le cose bastava la timidezza che si era appena impossessata di me.
«A dire il vero li ho persi di vista» mentii, «Saranno in giro da qualche parte».
Sono esattamente alle mie spalle, meglio filarsela finché sono impegnati ed evitare di essere interrotto sul più bello.
«Tu invece?» gli chiesi, staccandomi dal ripiano al quale ero appoggiato con la schiena e facendo qualche passo più lontano, verso la pista, fingendo indifferenza e cercando di nascondere le mie vere intenzioni.
«Oh si, anche io, ma sembra che tutti mi abbiano abbandonato» confessò, bevendo un sorso dal bicchiere che aveva in mano, ma per niente dispiaciuto di essere rimasto solo, «Meglio così, i miei amici sono persone un po’ particolari» sogghignò.
«Ti capisco benissimo» ammisi sospirando.
Non saranno mai peggiori di mio fratello, i miei coinquilini e un paio di ragazzini del liceo messi assieme. Quelli sono pazzi, nessuno li batte.
«Vieni spesso qui?» domandò.
«Qualche volta. A mio fratello piace il posto».
«Hai un fratello? Davvero? Non me l’avevi mai detto» fece stupito, «E come si chiama?».
Merda. Che gli dico? Si, ho un fratello minore che ha rischiato più volte di finire al riformatorio per la sua mania di difendere gli indifesi e picchiare i bulli. E’ un completo disastro a scuola; mangia per dieci, anzi, venti; è infantile, spensierato e senza una briciola di attenzione per il pericolo. Vuole comprare una barca e girare il mondo per arricchirsi, come facevano i pirati, ma non ha ancora capito che il suo sogno è piuttosto complicato, ed io non ho cuore di farglielo notare. Abbraccia chiunque e fa amicizia in fretta, ma trascina nei guai tutti quelli che gli danno corda. Per il resto cosa posso dirti? E’ meglio che tu non lo conosca, altrimenti potresti decidere di non avere più niente a che fare con la mia famiglia e con me.
«Si chiama Rufy, è più piccolo di me ed è piuttosto imprevedibile come persona, non so se mi spiego».
«Anche io ho dei fratelli, perciò so benissimo cosa vuoi dire, non ti preoccupare». E, nel consolarmi, mi diede una pacca sulla spalla, facendomi salire la pressione e accelerare i battiti cardiaci. Stavo andando a fuoco, completamente. Faceva caldo la dentro o ero io che non stavo bene? E Marco, accidenti a lui, era così dannatamente sexy. Non poteva, doveva essere illegale apparire in quel modo e fare un effetto così devastante sulle persone con cui si approcciava.
«Ah, beh, allora siamo sulla stessa barca». Non sapevo che altro dire e non sapevo cosa fare, come muovermi, e se mi azzardavo a guardarlo in faccia mi sentivo fremere dalla voglia di mandare al diavolo tutto il mondo e le buone maniere per un secondo, baciarlo e poi fare finta di niente, magari beccandomi un rifiuto, ma almeno mi sarei sentito bruciare il sangue nelle vene. Me lo sarei fatto bastare, anche se ciò avrebbe significato non vederlo più.
Per un attimo Marco sembrò indeciso su cosa dire, ma poi finì quello che era rimasto del suo drink e appoggiò il bicchiere vuoto su uno sgabello dietro di sé, voltandosi a guardarmi e sfregandosi le mani.
«Allora, ti va di farmi compagnia? Andiamo a fare un giro in pista, magari riusciamo a ritrovare qualcuno dei nostri compagni» propose, prendendomi alla sprovvista e facendo quello che io non avevo il coraggio di fare, ossia invitarlo a fare un giro.
«Volentieri!» accettai con entusiasmo mal celato e lo vidi trattenere una risata. Rosso in viso, abbandonai la mia birra a metà, sicuro che qualcun altro se la sarebbe scolata senza troppi scrupoli, e lo seguii dove tutti stavano ballando spensierati, ringraziando Dio e tutti i suoi Angeli per la piega che stava prendendo la serata e per la botta di fortuna che mi era capitata.
* * *
Vista e Thatch sembravano due bambini al parco divertimenti. Si aggiravano per il locale con occhi luccicanti e sorrisi grandi da un orecchio all’altro, intenti a salutare gente a destra e a manca, cosa del tutto naturale visto e considerato che erano le persone più sociali e amichevoli che avessi mai incontrato. Non c’era quindi da stupirsi che avessero una lunga lista di amici e conoscenti alle spalle. Ad ogni modo, oltre a regalare convenevoli ai presenti, si divertivano un mondo a cercare di attaccare bottone con le belle ragazze che incrociavano durante i loro giri di ricognizione, le quali, dopo essere state abbordate, non potevano fare a meno di cadere ai piedi delle galanterie del più robusto, Vista, e scoppiare a ridere di fronte alla simpatia di Thatch che, con il suo savoir-faire e i suoi modi sempre spontanei e coinvolgenti, le faceva cadere tutte ai suoi piedi.
Per quanto di compagnia fossero, però, non riuscivo a capire del tutto quel loro smaniare per il posto, la musica, le donne e tutto quel divertimento dettato più dall’alcool assunto in precedenza che dal resto. Sarà che mi ero un po’ stancato di tutto ciò lavorando come barista e costantemente a contatto con quell’aspetto di vita, ma non mi facevo condizionare di certo dalla noia e cercavo di godermi la serata che, tutto sommato, si stava svolgendo per il meglio assieme ai miei due amici, nonché fratelli acquisiti.
«Ragazzi non so voi, ma io me la sto spassando alla grande!» trillò Thatch una volta attraversata tutta la pista, non senza una certa difficoltà, e aver raggiunto un punto abbastanza tranquillo poco lontano dalla zona bar dove si poteva parlare senza il rischio di non essere capiti per via della musica alta.
Sorrisi davanti a quella sua allegria e mi passai distrattamente una mano tra il ciuffo di capelli, ravvivandoli e scuotendo il capo come facevo di solito per scacciare via la stanchezza. Non sembrava, ma io avevo lavorato fino a tardi la notte scorsa e, avendo dormito poco, la pesantezza agli occhi cominciava a farsi sentire, ma ero deciso a resistere. Come avevo detto, non volevo rovinarmi il mio momento di pace.
«Senti un po’, ananas ambulante, stavamo pensando di attaccare con un karaoke di gruppo. Ti unisci a noi?».
Ignorando l’orrendo nomignolo che mi era stato affibbiato da quando avevo deciso di tagliarmi i capelli in quel modo, inorridii a quella proposta, ricordando le orrende figure fatte negli anni passati, quando avevamo appena compiuto la maggiore età e ci davamo alla pazza e sfrenata gioia senza preoccuparci delle nostre reputazioni. Ora eravamo tutti più grandi e maturi e mi andava bene gironzolare per i locali notturni e ubriacarmi qualche volta, ma l’era delle cazzate mi sembrava giusto lasciarla ai più giovani e svampiti con la voglia di strafare.
«Declino l’offerta, andate voi» affermai categorico, senza la minima intenzione di lasciarmi convincere e coinvolgere in quella stupidaggine.
«Oh, andiamo!» si lamentò il ragazzo bruno, «Solo una canzone. Non possiamo permettere a quei novellini di rubarci la scena!» insisté poi, alzando un braccio e indicando un punto alle mie spalle da dove proveniva un gran vociare e un rumore di applausi alternati a incitazioni.
Mi voltai con sguardo scettico, seguendo la sua indicazione e, lo ammetto, rimasi forse un po’ spiazzato davanti ad un gruppo di bizzarri ragazzini che si stavano divertendo come matti a saltare e a ballare in modo scomposto sopra al bancone del bar, facendo facce buffe e sberleffi ai presenti e infilandosi cannucce nel naso, scatenando altre risate.
E lui vuole rendersi ancora più ridicolo? Non esiste proprio.
«Scordatelo» risposi, tornando a guardarlo con l’ombra di un sorriso divertito in viso e alzando gli occhi al cielo, facendo finta di nulla davanti alla sua espressione delusa e interessandomi a ciò che mi stava intorno alla ricerca di uno spiraglio di salvezza. Magari qualcuno che conoscevo e non vedevo da tempo mi avrebbe servito la scusa giusta per levarmi di torno quei due impiastri.
Non ero molto speranzoso a riguardo, e già mi stavo immaginando sopra al palco a cantare a squarciagola un motivetto idiota, per questo fui sorpreso e sollevato nell’intravvedere al bancone una figura famigliare che sembrava essere stata messa lì apposta solo per salvarmi.
Salutai Thatch e Vista, liberandomi di loro con poche parole e lasciandoli a bocca aperta per poi dirigermi con passo svelto verso la persona in questione, più che intenzionato a intavolare una conversazione normale e sentendomi all’improvviso pieno di forze e sveglio come non mai. Non avrei mai pensato di incontrarlo fuori dall’ambiente lavorativo; Sabaody era grande e piena di luoghi alternativi dove passare la serata in compagnia, quindi ritrovarsi nello stesso posto allo stesso momento poteva essere considerato un colpo di fortuna e la cosa non mi dispiaceva per niente.
Dopotutto, quel ragazzino mi era simpatico.
Si era presentato al pub un tardo pomeriggio anonimo e qualunque, entrando dalla porta principale facendo scattare il campanellino che annunciava l’arrivo di un nuovo cliente e scrollandosi di dosso l’acqua piovana che l’aveva sicuramente colto di sorpresa mentre se ne tornava a casa a piedi e senza l’ombrello. Si era tolto il cappotto pesante e bagnato, sbuffando sonoramente e imprecando tra i denti mentre si avvicinava a grandi passi verso il bar dietro al quale me ne stavo comodamente adagiato io. Si era seduto su uno degli sgabelli posizionati li di fronte e aveva sospirato stancamente, poggiando pesantemente i gomiti sul banco e sostenendosi il viso con le mani. Aveva l’aria stanca e scoraggiata, tanto che mi ero impietosito davanti a quello sguardo scuro e fisso a terra, decidendo così di smuovermi dalla mia posizione a braccia conserte e andando alla macchinetta del caffè per offrirgliene una tazza bollente. Era ciò che gli serviva, ne ero sicuro.
Infatti, dopo avergliela messa sotto al naso, calda e fumante, il ragazzo sembrava essersi accordo di stare in un luogo pubblico e aveva alternato lo sguardo da me alla bevanda senza capire, così gli avevo rivolto un sorriso complice, assicurandogli che quello lo offriva la casa.
Sembrava caduto dalle nuvole, tanto che passò qualche secondo di troppo prima che si decidesse a concentrarsi sul caffè e non su di me, iniziando a sorseggiarlo con calma, ancora stupito e preso alla sprovvista.
Mi aveva lanciato occhiate di sfuggita per tutto il tempo ed io non avevo smesso di sorridergli cordiale, divertendomi a immaginare cosa gli fosse successo per sembrare così scosso e circospetto. Era un gioco che facevo spesso e che mi aiutava a passare il tempo, quello di indovinare la vita dei vari clienti che si presentavano al bar. Mi divertiva e a volte mi stupivo della mia fantasia troppo fervida.
Una volta finita la bevanda, se l’era scolata tutta senza troppe storie, mi aveva rivolto uno sguardo diretto finalmente, al quale avevo risposto con altrettanto interesse, attendendo un qualche tipo di reazione da parte sua. Come mi aspettavo, poco dopo comparve sulle sue labbra un sorriso appena accennato, seguito da un grazie che mi fece sentire pienamente apprezzato.
Capitava spesso che qualche povera anima arrivasse al locale con una faccia da morto e mi faceva sempre piacere darmi da fare per risollevare il morale di tutti. La vita era più bella se vissuta con allegria, così cercavo di dare a quelle persone un motivo per non essere tristi e spesso ci riuscivo, sentendomi bene per aver fatto una buona azione.
Da quel giorno il ragazzo aveva preso a passare di lì regolarmente, almeno una o due volte la settimana, quel tanto che bastava per ricordarmi la sua faccia e conoscerlo meglio, anche se difficilmente si dimenticava un tipo come lui.
Sul serio, non avevo mai conosciuto nessuno di più allegro, spensierato, frenetico e goloso, e sicuramente la lista di aggettivi che avevo in mente per descriverlo era lunga, ma questi mi sembravano i principali. Forse solo un altro particolare poteva rappresentare meglio il suo essere, ma non sapevo bene per quale motivo. Ecco, lui sembrava infiammato. Costantemente. Sembrava sempre avere qualcosa da dire, da fare o da vedere; non stava mai fermo e si muoveva in continuazione, anche se risultava allo stesso tempo gentile e niente affatto scortese; a volte sembrava calmarsi ed essere colto da un’improvvisa quiete e sonnolenza, ma si riprendeva subito dopo; adorava i fuochi d’artificio, dato che non parlava d’altro e il fuoco lo affascinava. Diceva che era caldo, e quindi apprezzato dalle persone, ma allo stesso tempo temuto perché poteva bruciare e fare del male. Questi aspetti contrastanti gli piacevano immensamente, tanto da suscitare anche la mia curiosità e facendo si che, ogni volta che passava, mi ritrovassi chino sul bancone ad ascoltare le sue stramberie per nulla annoiato, anzi, forse mi faceva persino piacere averlo lì.
Ace era certamente così: bello, scoppiettante e caldo. Era il fuoco.
Gli arrivai di fronte, tagliando le distanze tra noi con pochi passi, e lo salutai cordialmente, non riflettendo sul fatto che, effettivamente, non ci eravamo mai presentati in modo ufficiale e il suo nome lo sapevo solamente perché un giorno aveva ricevuto una telefonata e dall’altra parte del telefono una voce acuta e tremendamente alta aveva urlato il suo nome come se dovesse consumare tutta l’aria che aveva in corpo. A parte questo, un giorno avevamo iniziato a rivolgerci l’uno all’altro con i rispettivi appellativi e da allora non avevamo smesso.
Rimase a fissarmi inebetito, con gli occhi spalancati e la bocca leggermente aperta, assomigliando ad un pesce che si ritrova improvvisamente sul banco del pescatore e non più in acqua.
Evitando di pensare al fatto che, molto probabilmente, il ragazzo poteva avere un qualche interesse particolare nei miei confronti e trattenendomi dal metterlo ulteriormente a disagio facendoglielo notare, mi costrinsi a limitarmi a chiamarlo schioccandogli le dita davanti agli occhi per farlo tornare in qualche modo tra i vivi, riuscendo nell’impresa e ritrovandomi di fronte ad un volto rosso per l’imbarazzo e dallo sguardo nervoso e inquieto.
«M-Marco!» biascicò, quasi strozzandosi con le sue stesse parole e tastandosi freneticamente i capelli corvini.
A quel punto sorrisi, incapace di farne a meno. Ace era così genuino e a volte aveva l’aria talmente innocente e infantile che era impossibile non restarne colpiti.
«Va tutto bene?» gli chiesi cortesemente. Quanto mi costava mantenermi distaccato senza poter uscire dalle righe. Anche durante i nostri primi incontri non gli prestavo molta attenzione, ma col tempo era riuscito ad attirare completamente il mio interesse per i suoi sproloqui e le sue strambe idee. Se non fosse stato così giovane avrei potuto chiedergli di uscire qualche volta; non che in quelle circostanze non potessi farlo, ma temevo che le cose non sarebbero state semplici e basilari come era di consuetudine per me. E poi, probabilmente, quello che sentiva era semplicemente curiosità e attrazione fisica.
Tornando con la mente alle sue spiegazioni e mettendo da parte il mio groviglio di pensieri, ascoltai come cercava di togliersi dai guai, affermando di essersi distratto e dandomi la possibilità di conversare un po’, giusto per rilassarci. Non vedevo l’ora di scoprire cosa aveva da raccontarmi di nuovo e di interessante.
A quanto pareva era lì con alcuni amici che aveva perso di vista e aveva pure un fratello più piccolo, cosa che mi sorprese visto che non ne aveva mai fatto parola prima di allora, ma mi fece piacere saperlo e notare come gli fosse affezionato. Anche se non fece un gran discorso su di lui, il fatto che fossero molto legati si vedeva benissimo. Non mi stupii nel constatarlo, avevo già immaginato che fosse un ragazzo piuttosto amichevole e socievole, bastava vedere come non si faceva problemi a lasciarsi andare e chiacchierare fino allo sfinimento, senza annoiare comunque nessuno. Il carattere ideale per passare una serata a divertirsi.
«Allora, ti va di farmi compagnia? Andiamo a fare un giro in pista, magari riusciamo a ritrovare qualcuno dei nostri compagni» proposi infine, decidendo che, dopotutto, non c’era niente di male se passavamo un po’ di tempo assieme come amici e trattenni una risata davanti al suo entusiasmo mal celato nell’accettare la mia offerta, evitando di farlo sentire troppo in imbarazzo e avviandomi con lui verso la pista, chiacchierando e commentando la serata e trovandomi d’accordo con il suo punto di vista su parecchi aspetti.
Fortunatamente non trovammo traccia dei miei amici, altrimenti sarebbe stato molto difficile dover mettere loro in testa che lui ed io eravamo solo conoscenti e non qualcos'altro come, sicuramente, avrebbero preso ad insinuare vedendoci assieme e vicini nel tentativo di farci strada in mezzo alla bolgia di persone impegnate a ballare.
Quella sera mi divertii davvero. Ace era una compagnia fantastica: spensierato e coraggioso al punto giusto, ma non esagerato come lo erano Thatch e tutto il resto della mia famiglia. Non aveva paura di mettersi in mostra, ma nemmeno fremeva per avere tutti gli occhi puntati su di sé, cosa che apprezzai molto, sentendomi in linea con i suoi pensieri e potendomi sentire libero di essere me stesso senza dovermi preoccupare di non accontentare qualcuno. Potevo sentirmi vivo.
Love you every minute cause you make me feel so alive. Alive.
Era tutto perfetto. Non sentivo la stanchezza, non avevo la minima voglia di andarmene a casa, non avevo sonno; preferivo invece restare lì a godermi quella nuova amicizia che, nonostante tutto, ero contento di aver instaurato, constatando che anche al di fuori del mio baretto riuscivamo ad intenderci.
Dopo aver passato parecchio tempo a saltare come disperati in mezzo alla pista, rubammo una bottiglia di vino che era rimasta abbandonata su uno dei tavoli imbanditi in precedenza per una cena numerosa e ce la scolammo tutta, decidendo poi di finire in bellezza al bar, incontrando per caso un amico di Ace, un certo Zoro, e fermandoci a bere in sua compagnia, dovendoci poi interrompere quando capimmo che contro di lui non avevamo speranza di vincere nessun tipo di gara alcolica.
Alla fine avevamo barcollato, tra una risata e l’altra, fino all’uscita e, una volta recuperate le giacche, uscimmo nel parcheggio a prendere delle profonde boccate d’aria per dare la possibilità alle nostre povere e pesanti teste di ritornare a funzionare nel modo giusto, permettendoci di ragionare e di smettere di ridere per delle vere sciocchezze.
«D’accordo Ace, ora basta, siamo seri» dissi, cercando di assumere un’aria all’apparenza pacata e convinta, riuscendoci solo per pochi secondi perché, contagiato dalla poca volontà del moro accovacciato a terra accanto a me, ripresi a ridere immediatamente, dandogli delle scherzose pacche sulla testa, sperando di obbligarlo a smettere di fare l’idiota.
Si alzò in piedi a fatica, cercando di difendersi e rispondendo al mio attacco con altrettanto entusiasmo, chiedendomi comunque di finirla di giocare per lasciargli il tempo di riprendere fiato e asciugarsi gli occhi che minacciavano di lacrimare da un momento all’altro.
«E piantala, razza di scemo» mormorava affannato, usando per difendersi entrambe le braccia e prendendo a spettinarmi quel ciuffo biondo che tanto adoravo, facendomi scattare e rinsavire all’istante, dandomi la giusta motivazione per bloccargli i polsi che agitava in aria e intimargli di non toccarmi i capelli. Volevo risultare minaccioso, ma l’effetto fu del tutto nullo e sprecato con lui e la sua indole disobbediente e testarda.
«Sei peggio di una femmina» mi prese in giro con un sorriso canzonatorio e un sopracciglio alzato a mo’ di sfida. Da ubriaco, quella sua particolare espressione, mi costrinse a mordermi un labbro per non morire dalla risate.
«Ah, la metti così?» domandai una volta ripreso il controllo, sfidandolo a mia volta e avvicinandomi ghignando, impedendogli di liberarsi le mani e stringendogli più forte le braccia con l’intento di metterlo al tappeto.
Vedendosi in trappola, ma non sentendosi in pericolo, alzò il mento per fronteggiarmi, nonostante fossi più alto, e puntò lo sguardo nel mio assumendo un’espressione fiera, o lo sarebbe stata se non avesse avuto quel sogghigno a storpiargli le labbra sottili.
Furono queste ultime ad attirare la mia attenzione, facendo si che mi concentrassi un secondo di troppo su di esse per poi agire all’istante senza pensare minimamente a un bel niente.
E, anche se per poco, anche se con la mente annacquata dall’alcool, anche se non era una mia reale intenzione, anche se c’erano un sacco di motivi contro e nessun pro, quando Ace ricambiò il bacio mi sentii ardere completamente, come se un fuoco vivo mi stesse bruciando dall’interno.
And we gonna let it burn, burn, burn, burn.
* * *
«Forza, più forte! Più forte!».
Mi stavo divertendo da pazzi a saltellare, camminare e ballare su quei tavoli messi in fila a mo’ di passerella improvvisata e tutto ciò era reso migliore dal fatto che non ero solo. A pochi centimetri da me un sorridente Killer animava la folla e cantava senza sosta le canzoni che, a quanto pareva, conosceva a memoria, muovendo le braccia e molleggiandosi a ritmo sulle gambe.
Quel ragazzo era pieno di vita, sicuro si sé e travolgente. Ecco, si, l’aggettivo giusto per descriverlo era proprio quello: travolgente. Riusciva a coinvolgere tutti nelle sue idee e nelle sue proposte, persino quella testaccia vuota di Kidd, garantendo il divertimento e buttandosi sempre per primo nella mischia, pronto a prendere per un braccio e a trascinarsi dietro chiunque.
Per questo mi era facile, in quel momento, fare quello che faceva e lasciarmi andare completamente, ritrovandomi di tanto in tanto addosso a lui e sentendomi il suo braccio attorno alle spalle quando voleva che saltassimo assieme, rischiando di cadere uno sull’altro, ma ciò non importava. La sala sembrava girare ininterrottamente, il pavimento sembrava fatto d’acqua ed eravamo entrambi piuttosto allegri per gli shots di poco prima e tutto ci risultava divertente, ma non mi sarei allontanato da lì nemmeno se cadere significava rompersi l’osso del collo.
«Avanti Penguin, fammi vedere che sai fare» mi urlò ad un tratto nelle orecchie per sovrastare la musica alta che proveniva dalle casse che accerchiavano tutta la pista.
Sfruttando la base di quel momento improvvisò qualche passo di danza, facendomi intendere che quello che voleva era una sfida all’ultimo passo. Dire che vederlo ballare era imbarazzante era dire poco, ma io, di certo, non mi sarei tirato indietro. Da quando, un anno prima, ad Halloween un gruppo di brutti ceffi mi aveva quasi fatto morire di paura avevo smesso di recitare la parte dell’indifeso e mi ero dato da fare per non dovermi più trovare in una situazione del genere, rischiando magari che qualcun altro si facesse male per la mia inettitudine. Così avevo iniziato a fare karate, a modo mio, s’intende, perché se avessi seguito un corso vero e proprio non avrei potuto giocare sporco. E per strada i cattivi di certo non rispettavano le regole. Avevo anche smesso di essere timido e, se avevo qualcosa da dire, lo dicevo e basta. In questo aspetto Law era stato un vero maestro e modello da imitare, anche se non mi spingevo mai oltre il limite come faceva lui praticamente sempre. Anche volendo non avrei mai raggiunto il suo livello.
Oltre al mio cambiamento interiore mi ero cimentato in diverse discipline, sviluppando un interesse nel provare qualsiasi cosa nuova mi si presentasse di fronte. Una di queste era stata la danza moderna che, quella sera, mi tornò utilissima.
Ghignai in risposta alla performance del biondo, capace ma non troppo, e mi sistemai il frontino del berretto in testa, prima di iniziare la mia esibizione, smontando e ricomponendo nella mia testa tutte le coreografie che avevo imparato durante i mesi estivi.
Accanto a me Sanji applaudiva ed esortava i presenti sotto di noi a fare il tifo mentre Killer rimaneva spiazzato e sorrideva tra sé e sé, rendendosi conto di non avere speranza davanti alle mie piroette e Moon Walk che imitai, scatenando il putiferio nella sala.
Quando esaurii il mio repertorio avevo il fiatone, ma mi sentivo soddisfatto e sicuro di poter fare qualsiasi cosa, persino superare l’ostacolo dell’insicurezza che mi frenava dal chiedere a Killer di uscire con me non solo per una birra, ma lasciandogli intendere quello che tutti avevano capito, cioè che ero talmente cotto di lui da pendergli praticamente dalle labbra.
L’effetto della vincita e dell’euforia, però, durò solo pochi minuti perché, non appena si avvicinò per congratularsi, visibilmente colpito, mi ritrovai con la gola secca e i polmoni senza l’aria necessaria per respirare.
«Niente male, davvero».
Killer era una persona unica. Aveva una pazienza infinita visto il modo in cui sopportava il caratteraccio del suo amico, Kidd, ed era anche molto socievole, nonché simpatico e una serie infinita di aggettivi con cui avrei potuto tessere le sue lodi. Inoltre, per essere entrato nelle grazie del rosso e perennemente col ciclo, doveva avere qualcosa di speciale.
Lo so io cos’ha: è perfetto. Anche con questa orribile maglia a pois e quei capelli lunghi, sta benissimo in ogni caso. Posso morire felice quando mi prende in considerazione.
In quel momento mi stava parlando, ne ero sicuro. Mi aveva messo una mano sulla spalla e aveva avvicinato il suo volto al mio per farsi capire meglio, ma non me ne stavo rendendo conto. Il problema era che mi sentivo come ipnotizzato da quel viso nel quale, di tanto in tanto, appariva un sorriso così contagioso che era difficile non ritrovarsi a ridere come babbei senza nemmeno un motivo, ma solo per l’allegria che infondevano.
Sono quasi sicuro che stia aspettando una risposta, ma non so che dirgli. Non ho capito niente. Forse dovrei scusarmi, chiedergli di ripetere, ma sembrerei ancora più stupido di quanto già non dimostro. Avanti, ora gli parlo, magari lo invito a uscire di nuovo per bere qualcosa con la solita scusa di essere preoccupato per Law e quel suo psicopatico amico. Nah, forse dovrei baciarlo e basta. Si, penso che potrei. Anzi, lo farò! Si, lo farò…
Impossessato da una determinazione sconosciuta, ignorai lo sguardo preoccupato del ragazzo e, con un rapido movimento della mano, gli afferrai il colletto della maglia e gli stampai un forte bacio sulla bocca, alzandomi in punta di piedi per riuscire a raggiungerlo e assicurandomi di mordergli un labbro prima di staccarmi e riprendere fiato.
Mi resi conto di quello che avevo fatto solo quando vidi lo stupore e la sorpresa farsi strada nei suoi occhi nascosti dalla lunga frangia e desiderai con tutto me stesso che un baratro si aprisse sotto i miei piedi per inghiottirmi all’istante.
Penguin, coglione! Che cazzo hai fatto? Sei fuori di testa?
«I-io… Io…».
Me ne devo andare e di corsa! Via, devo sparire. Dannazione, cosa ho fatto? Cosa? Come ho potuto essere così stupido! Cosa mi hanno messo nel bicchiere per indurmi a fare questo? Droga? Sedativo per cavalli? No, quello no, altrimenti starei dormendo ora. Oh, ma che cazzo!
Mi divincolai dal braccio che pesava ancora sulla mia spalla e saltai giù dal tavolo, dal lato opposto della pista, perciò evitai di cadere sopra alle persone ammassate, e mi defilai tra la folla lungo le pareti che circondavano la sala, deciso a scomparire del tutto, magari diventando un tutt’uno con il muro.
Dovrei sbattere la mia testaccia addosso al muro, invece! Sono fottuto. Fottuto, non c’è altro da fare. Ho combinato un casino.
Raggiunsi un angolo del locale piuttosto tranquillo, appena dietro alla console dove la musica sembrava addirittura più forte e dove c’erano solo un paio di tavoli vuoti, piatti e bibite abbandonate dalla cena precedente. Mi sedetti sul bordo di uno di essi e mi tolsi il cappello, passandomi una mano tra i capelli scompigliati e sudati, nascondendomi il viso.
L’ho baciato. Davanti a tutti. E c’era persino Sanji e chissà chi altro. Ho baciato Killer, l’ho fatto davvero. Che coglione, che coglione!
Alzai la testa verso il soffitto, facendo un respiro profondo per calmarmi e tenere a freno l’ansia, chiudendo gli occhi e pregando che tutto fosse solo un sogno, tentato dal prendermi a pugni da solo.
Sono finito. Law mi sfotterà a morte, Kidd mi spezzerà le ossa, per non parlare degli altri! Mi prenderanno in giro senza sosta e Killer non vorrà più parlarmi. Eravamo amici, mi sembrava di stargli pure simpatico e andava bene tutto sommato. Invece che faccio? Lo bacio. Bene, bravo, applausi. Sei un folle, Penguin, hai vinto il premio per il più coglione dell’anno!
Intento com’ero nel mio momento di autocommiserazione mi accorsi di non essere solo nell’esatto istante in cui mi sentii sfiorare la mano con cui reggevo il cappello.
Feci un balzo, colto impreparato e urtando con un fianco il legno del tavolo, ritrovandomi davanti e a pochi centimetri di distanza Killer, il quale, ignorando la mia reazione spaventata e il mio goffo tentativo di svignarmela da lui aggirandolo, mi intrappolò tra il tavolo e il suo corpo, poggiando deciso le mani ai lati e costringendomi a rimanere lì, ad attendere la mia fine a capo chino per non dargli a vedere il mio sguardo rassegnato e abituato a venire rifiutato.
Avanti, facciamo presto. «Penguin, mi dispiace, sei un bravo ragazzo, ma non sei il mio tipo. Non prendertela, non è colpa tua, sono io che non me la sento di andare oltre, scusami. Possiamo rimanere amici se ti va». La solita frase programmata, nulla di nuovo e ora forza, il colpo di grazia.
«Penguin…» iniziò a dire, stranamente calmo e cercando i miei occhi sfuggenti.
Lui è buono, cercherà di non farmi rimanere troppo male. E’ sempre così gentile con tutti, pensai tristemente, mentre attendevo inesorabile il momento in cui mi avrebbe abbandonato.
Cosa avevo di sbagliato che non andava? Non ero un brutto ragazzo e non ero impossibile da trattare come Law o incorreggibile come Rufy. Certo, ero fissato con certe cose, avrei dato l’anima pur di fare qualche sutura, ma non ero cattivo. E non ero da buttare via, come tutti invece facevano e continuavano a fare. Mi sentivo uno straccio a volte e l’unica cosa che volevo era un’occasione, una speranza, qualcosa o qualcuno che non mi mettesse da parte e che capisse che con me erano gli altri a dover fare il primo passo. Quella sera era stata un’eccezione e mi era costata cara. L’unica volta che mi buttavo mi ritrovavo a perdere un amico.
«Si, lo so» lo interruppi, volendogli alleggerire il peso visto che lui non era come gli altri. E poi non volevo dimostrarmi troppo deluso. L’avrei presa bene, gli avrei sorriso e gli avrei assicurato che non sarebbe più successo, che ero ubriaco e che non doveva sentirsi in obbligo con me per nessuna ragione. Avrei salvato il salvabile. Non volevo allontanarlo per un errore, mi sarebbe dispiaciuto troppo, anche se continuare a vederlo avrebbe reso più difficile tutto quanto. «Non preoccuparti, ti capisco e non devi dire nulla, davvero. Non accadrà più. Scusami, ma non so cosa mi sia preso, deve essere stato per quello che ho bevuto, le luci, il casino e…».
E mi ritrovai zittito dalle sue labbra e imprigionato tra sue braccia che mi avevano artigliato i polsi così, senza preavviso, lasciandomi senza parole e incapace di reagire. Anche se avessi potuto muovermi, non l’avrei mai fatto in ogni caso, non quando era Killer a baciarmi di sua spontanea volontà, non quando mi passava una mano sulla base del collo per avvicinarmi di più a lui e approfondire quel contatto che mi stava sciogliendo le gambe e togliendo le forze.
«Questo non è stato perché sono ubriaco, sia chiaro» mormorò, per poi riprendere da dove aveva lasciato.
Penguin sei un fottuto genio! Sul serio, ti meriti un monumento, una statua, una targa in tuo onore. Benedetto quel momento di vuoto in cui la tua mente ti ha abbandonato e hai deciso di baciarlo. Benedetti gli stupefacenti e tutte le schifezze che ti hanno messo nel bicchiere. Gloria agli spacciatori!
«Pensi che ora potremo uscire per altro, oltre che per prendere una birra?» domandai, staccandomi a fatica da lui per guardarlo in faccia e vedere come sorrideva divertito, con una punta di malizia nello sguardo.
«Non vedo l’ora, piccoletto».
* * *
Mi sono divertito un sacco! Dobbiamo ritornarci assolutamente in questo posto, è unico! E come cucinano bene! E c’è tanta carne buona e non ci hanno nemmeno sbattuto fuori per il casino e per i balli! Che bello! E poi tutti sono rimasti contenti, viste le loro facce allegre! Nami dice di aver vinto un sacco di soldi ed è felice; Sanji ha l’aria sognante; Chopper e Usopp sono crollati a dormire, ma hanno un sorriso enorme sulla faccia! Robin è sempre contenta e gli amici di Traffy sono euforici! A proposito, Traffy dov’è? Non c’è nemmeno Eustachio a dire il vero. E Ace? Fratellone!
Guardai a destra e a sinistra, ma non c’era traccia dei tre ragazzi. Sinceramente l’unico che riuscii a trovare fu Zoro, addormentato al bancone del bar con un bicchiere di birra ormai vuoto mentre russava rumorosamente, incurante dei camerieri che iniziavano a ripulire per chiudere il locale.
Era tardi, forse le quattro del mattino, e tutti iniziavano ad andarsene a casa. La musica si faceva sempre più bassa e si iniziavano ad intravvedere i primi segni di sporcizia lasciati cadere per terra.
Era ora di andare e, dato che non riuscivo a trovare nessun’altro dei miei compagni, capii che avrei dovuto fare una bella passeggiata per il ritorno, magari mi sarei fermato a dormire da Ace visto che il suo appartamento non era poi così distante.
«Forza Zoro, è ora di andarcene» feci allegro, afferrando il ragazzo per un braccio e iniziando a strattonarlo per svegliarlo e trascinarlo fuori. Il mio intento non risultò facile, ma continuai con impegno ad urlargli nelle orecchie e a prenderlo a ceffoni in testa sperando di riuscire a fargli aprire almeno un occhio. Tutti sapevano quanto il suo sonno fosse a prova di bomba.
«Gneh, che vuoi?» biascicò con la voce impastata e guardandomi stralunato.
Gli sorrisi ampiamente e poi lo aiutai ad alzarsi e a reggersi in piedi, passandogli un braccio dietro alla schiena e conducendolo fuori dal locale dove una ventata di aria fredda ci investì in pieno e contribuì a fargli riacquistare un po’ di lucidità.
«Rufy sono stanco, non possiamo riposarci un po’?» mormorò Zoro, socchiudendo gli occhi sotto alle palpebre pesanti e sbadigliando come un leone stravaccato sotto al sole della savana.
Ghignai tra me e me, avviandomi lungo il quartiere per raggiungere la strada principale dalla quale sarebbe bastato dirigersi verso nord per circa un kilometro e poi svoltare a sinistra e poi a destra, tagliare per un campo di papaveri, saltare un fosso, scavalcare un muretto e proseguire per un centinaio di metri. E il gioco era fatto!
Ace sarà felice di ospitarmi, non mi dice mai di no. E poi hanno un sacco di spazio in quell’appartamento. Io posso dormire con lui e lasciare Zoro comodamente sul divano, dove non disturba. E quando ci svegliamo possiamo fare tutti colazione assieme! Magari Penguin può cucinarci qualcosa di buono, è sempre così bravo e all’avanguardia! Ovviamente, nessuno batte Sanji, mi spiace.
Di buonumore e per niente stanco riuscii a coprire buona parte della distanza che mi separava dall’abitazione di mio fratello, chiacchierando con Zoro che rispondeva a monosillabi, ma era comunque una compagnia, significava che non era del tutto perduto e, anche se inconsciamente, muoveva le gambe arrancando un passo alla volta sul marciapiede illuminato.
Me la ricorderò per sempre questa serata! E’ stata la più bella in assoluto! E che salto che ho fatto per attraversare il fosso! Devo assolutamente riprovarci e chiamare anche Chopper e Usopp!
Percorsi gli ultimi metri con il buonumore alle stelle, avanzando a grandi falcate e immune alle sferzate del vento invernale che cercavano senza successo di scalfire la mia espressione allegra.
Arrivai davanti all’edificio ed entrai dalla porta di servizio trovando la chiave dentro ad un vaso di fiori finti li vicino. Ace diceva che potevo usarla quando mi trovavo in difficoltà. Quello era uno di quei momenti infatti, dato che per arrivare a casa del nonno ci avrei messo un eternità e almeno così avremo passato del tempo insieme.
Salii le scale e persi cinque minuti a recuperare Zoro che, messo un piede in fallo, era scivolato sugli scalini ed era finito sul pianerottolo del secondo piano, rotolando come un sacco di patate, ma non si preoccupò minimamente di lamentarsi, anzi, continuò a mormorare frasi sconnesse rimanendo inerme sul pavimento freddo.
Quando raggiunsi il terzo piano tirai un sospiro di sollievo e, sempre sorridente, suonai due volte il campanello, fremendo per l’attesa e non vedendo l’ora di saltare in braccio a Ace o al primo coinquilino che avrebbe aperto la porta.
E, anche se venne ad aprirmi una persona che non mi aspettavo di vedere, non mi lasciai intimorire comunque e abbracciai Eustachio con la stessa energia e affetto che avrei riservato a qualsiasi altro amico. Ormai potevo comportarmi così anche con lui, era di famiglia da un pezzo, quindi meritava lo stesso trattamento di favore che serbavo a tutti. L’unico problema era che non riuscivo a capire bene come si chiamava, ma non mi aveva mai corretto, quindi avevo dedotto che il modo in cui mi rivolgevo a lui andasse bene e gli piacesse anche se non era esatto.
«Levati di torno, moccioso!» iniziò a inveire, posando le braccia sulle mie spalle e facendo forza per cercare di allontanarmi, ma tutti sapevano che era impossibile fuggire dalle mie strette, dato che era come venire intrappolati in un groviglio di gambe, mani e piedi. Infatti, nonostante i suoi sforzi, nemmeno lui riuscì a liberarsi.
«Buongiorno Rufy» fece Law, spuntando dalla cucina con una tazza di caffè in mano, un’espressione sorniona e una voce all’apparenza tranquilla ma con una punta di divertimento che non riuscì a nascondere del tutto.
«Trafalgar! Toglimelo di dosso!» continuava a inveire l’altro.
«Non ti agitare e facci l’abitudine Eustass-ya, Rufy è un tipo espansivo».
«Si può sapere perché abbraccia tutti questo qui?».
«Perché gli va di farlo».
«Ciao Traffy!» urlai ad alta voce e, abbandonando il corpo simile ad un armadio di Eustachio, partii diretto verso di lui, più che deciso a saltargli addosso e a stringerlo forte, ma mi fermò quando ero a pochi passi di distanza, mettendo una mano in avanti con il palmo aperto e spiegandomi pacato che non stava tanto bene.
«Non è un cazzo vero!» si infervorò il ragazzo alle mie spalle, «Stai benissimo, stronzo!».
Lo ignorai. Se Traffy diceva che stava male allora io gli credevo e lo rispettavo. L’avrei abbracciato un’altra volta.
«Dì un po’ Rufy, perché Zoro è a terra a dormire davanti all’ingresso?» mi chiese poco dopo, sorseggiando la sua bevanda fumante e indicando con un cenno del capo il peso morto di cui mi ero dimenticato e che avevo lasciato cadere non appena si era aperta la porta.
«Oh, già, l’ho portato qui per farlo riposare. A dire la verità anche io volevo dormire, ma non ho più visto nessuno alla festa e così mi sono incamminato» raccontai, mentre trascinavo Zoro per un piede fino al divano, dove lo adagiai alla meno peggio e, puntualmente, lui iniziò a russare come un carro armato.
«Non ti ha accompagnato Ace?».
«Uh? No. Credevo fosse a casa. Non è qui?» chiesi perplesso, sgranando gli occhi e fissando lo sguardo in quelli grigi di Traffy, il quale negava con la testa, appoggiandosi alla parete del muro e rivolgendosi poi al nostro amico in comune che da qualche mese aveva iniziato ad uscire con noi facendomi sempre sbellicare dalle risate per le litigate tra lui e il moro.
«Eustass-ya, tu l’hai visto per caso?».
Eustachio grugnì un seccato no come risposta e si diresse verso il salotto borbottando improperi per quanto riguardava lo storpiamento del suo nome, gettandosi di peso nel divano opposto a quello di Zoro e facendolo sbattere contro al muro con un rumore sordo.
«Manca anche Penguin» notò allora Traffy, spostandosi per farmi spazio e lasciare che mi dirigessi in cucina ad aprire il frigo a caccia di uno spuntino prima di mettermi a letto.
«Come mai voi siete qui a casa?» domandai sovrappensiero, prendendo al volo il cartone del latte e iniziando subito a rovistare dentro alla dispensa per trovare anche i biscotti che a casa di Ace non mancavano mai. In realtà non mancava mai nulla e non si moriva mai di fame considerando tutto il cibo che consumavano il mio fratellone e i suoi coinquilini.
«Tra poco ce ne andiamo anche noi».
Trovai i biscotti e li raggiunsi in salotto dove c’era Eustachio intento a cercare di afferrare una gamba di Traffy per farlo cadere, il quale gli passava davanti per andare ad accomodarsi sulla sua poltrona gialla che mi piaceva tanto.
«E dove andate?» insistei, spostando lo sguardo da uno all’altro. Quei due erano in costante lotta e non smettevano mai di punzecchiarsi a vicenda. O meglio, Law non perdeva occasione per provocare quel tipo tutto muscoli e con i capelli rossi il quale, senza pensarci troppo, iniziava ad innervosirsi e a ringhiare minaccioso. Tutto sommato, ne ero certo, non si odiavano affatto. Erano amici, si vedeva, non potevano fare a meno di starsi lontani, come se uno fosse il pianeta e l’altro il suo satellite che gli gravita attorno.
Queste cose le so perché le ho studiate l’altro giorno. Per essere dei bravi navigatori e saper seguire le rotte giuste sfruttando le stelle bisogna conoscere certe cose sugli astri, pensai orgoglioso.
«A fare un giro».
«A scopare».
Risposero in coro per poi lanciarsi reciprocamente delle occhiatacce: Capelli Rossi era divertito e ghignava di fronte allo sguardo severo che gli lanciava l’altro.
«Non credo di aver capito bene» ammisi, grattandomi la testa e sedendomi con il cibo in mano nell’angolino del divano dove Zoro riposava ormai beato.
«Meglio così» affermò Law con un cenno svogliato della mano.
Sospirai, lasciando perdere il discorso e sgranocchiando i biscotti di cioccolato, bevendo di tanto in tanto una sorsata di latte direttamente dal cartone.
Chissà dov’è Ace, di solito ritorna sempre con noi. Spero non gli sia successo nulla di male. Strano però, tutti si sono volatilizzati, la prossima volta dovremo cercare di non perderci di vista. Magari possiamo legarci con una corda!
Per passare il tempo durante l’attesa, presi il telecomando e cominciai a vedere cosa facevano per televisione a quell’ora, tenendo il volume basso su richiesta di Traffy perché, a quanto pareva, Bepo era già nella sua stanza a dormire pacifico.
Ad un certo punto degli strani rumore provenienti dal corridoio attirarono la nostra attenzione, risvegliandomi dal dormiveglia in cui ero caduto e incuriosendo anche Law e Eustachio, il quale si alzò dal divano e si avvicinò alla porta d’ingresso, appoggiandoci sopra un orecchio e corrugando la fronte.
Lo raggiunsi con un paio di falcate veloci, scavalcando il tavolino del salotto e schiantandomi contro di lui, beccandomi uno sguardo infastidito al quale risposi con un sorriso e un’alzata di spalle. Sembrava che qualcuno stesse battendo con una mano addosso alla parete esterna, ridendo sommessamente e parlando a bassa voce.
«Forse è arrivato Ace» ipotizzai, affrettandomi ad aprire senza riflettere sul da farsi.
Prima che Eustachio riuscisse a fermarmi mi ritrovai davanti agli occhi Penguin e Killer mentre si baciavano abbracciati a pochi centimetri di distanza da me. Quando si accorse della mia presenza e di quella di Eustachio alle mie spalle, Penguin, preso alla sprovvista, fece un salto all’indietro diventando un tutt’uno con il muro di fronte mentre, accanto a lui, il suo amico pieno di capelli iniziava a ridere come un matto, inginocchiandosi addirittura a terra.
«Ma guarda un po’ qui». La voce inconfondibile di Traffy mi giunse alle orecchie e, voltandomi verso di lui con mille domande che mi ronzavano in testa, lo vidi sogghignare mentre fissava il suo coinquilino in un modo che mi inquietò parecchio. Appoggiato allo stipite della porta, invece, Kidd guardava la scena dall’alto della sua stazza con un sopracciglio alzato e un sorriso canzonatorio, divertito da quello che si stava volgendo sotto i suoi occhi attenti e svegli.
«N-non farti strane i-idee, Law» balbettò Penguin, avvicinandosi lentamente e venendo affiancato subito dopo da Killer, il quale, come a voler contraddire quello che era appena stato detto, gli cinse la vita con un braccio attirandoselo contro.
Inclinai il capo, osservando com’era bello vederli così affiatati e affezionati l’uno all’altro. Si vedeva chiaramente che si volevano bene.
Penguin si coprì il viso con una mano, lamentandosi del fatto che ci fossi pure io a guardarli, così cercai lo sguardo di Traffy per chiedergli spiegazioni e lui, con pazienza, mi aiutò a capire che i nostri amici, come avevo immaginato, andavano molto d’accordo, ma erano timidi e si vergognavano a farsi vedere così vicini.
«Ma Casco di Banane sembra contento di abbracciare Penguin» feci notare, ignorando il tono incazzato e minaccioso con cui il diretto interessato chiese dei chiarimenti riguardo al soprannome che gli avevo appena affibbiato.
Eustachio scoppiò a ridere in quell’esatto istante, dandoci le spalle e rientrando nell’appartamento; persino Law trattenne a stento uno sbuffo simile ad una risata, mentre faceva cenno agli altri di entrare e non rimanere sull’uscio con quell’aria imbarazzata.
«Immagino vi siate divertiti parecchio stasera» disse con noncuranza quando i due ragazzi ci superarono diretti verso le camere da letto. Penguin guidava Killer tenendolo per mano.
«Buonanotte» riuscì a dire Eustachio tra una risata e l’altra, quando i due sparirono dentro ad una stanza e si chiusero la porta alle spalle.
Dormono anche loro assieme come me e Ace. Devono per forza essere amici per la pelle, tanto da considerarsi addirittura fratelli! Nessuno ha amici come i miei, nessuno. Sono i migliori!
Gongolando davanti all’idea di una grande famiglia felice all’interno della quale tutti si volevano bene ed erano pronti ad aiutarsi reciprocamente non mi accorsi dello scambio di sguardi allusivi tra Eustachio e Traffy, i quali avevano preso a sghignazzare malignamente, pensando a chissà cosa.
«Sembra che dovremo trovare un altro posto dove rilassarci e stare in pace» stava dicendo il rosso, massaggiandosi pensieroso il mento.
«Soprattutto quando anche Ace deciderà di uscire allo scoperto» concordò Traffy, facendomi drizzare le orecchie.
«E’ un appartamento troppo piccolo per tutti» continuò Kidd, ma fu costretto a interrompersi perché mi intromisi nella loro conversazione chiedendo spiegazioni su quello che avevano appena detto di mio fratello che non mi era chiaro.
«Non lo sai?» ghignò Law con uno strano luccichio sinistro negli occhi. Sicuramente il riflesso delle lampade accese sul soffitto.
Lo fissai spaesato. A cosa si stava riferendo?
«Ace esce con qualcuno» dichiarò allora uno dei miei migliori amici, nonché persona che stimavo molto e di cui mi fidavo. Lui ed io avevamo fatto un accordo che avremo onorato per sempre: avevamo deciso che non avremo permesso a nessuno di fare del male al mio amato fratellone, il quale era anche un suo caro amico, e ci eravamo impegnati a fare di tutto per vederlo felice.
Mi fidavo di Traffy, era buono e sicuramente sarebbe diventato il chirurgo più bravo e forte del mondo!
Lo guardai a bocca aperta, assimilando le informazioni ricevute e voltandomi a rallentatore quando un ragazzo con i capelli corvini e scompigliati, lo sguardo assonnato e i vestiti stropicciati fece il suo ingresso in salotto, salutando tutti e sbiancando poi di fronte alla mia espressione apatica.
«Rufy, che ti succede?» mi chiese Ace, visibilmente preoccupato.
Io? Io sto benissimo!
«Ace, perché non mi hai detto che ti sei innamorato?».
Angolo Autrice.
Well, well, well. Io spero vivamente che vi sia piaciuto perché mettermi nei panni di quattro persone completamente diverse tra di loro e una più particolare dell’altra è stato un vero suicidio, sappiatelo. Forse Rufy potevo evitarlo, ma non ho resistito, anche se provare a pensare con la sua testa è estenuante. Avrei dovuto scrivere solo la parola CARNE! Anyway, io ci ho provato, sta a voi decidere. Che fatica comunque, però mi sono divertita molto dato che li adoro tutti.
Poi, beh, le canzoni sono due. Alive e Burn, che stavo ascoltando mentre scrivevo la parte di Marco e l’ho trovata adatta per quel momento.
Ora, per chi cade dalle nuvole ho iniziato una raccolta che racconta degli incontri al bar di Ace e Marco che qui non vengono descritti (Troppi, sono davvero troppi e tutti diversi!), quindi se avete voglia dateci un’occhiata, magari accadono cose che non vi aspettate *O* alla fine si congiungeranno ai fatti che accadono nella long, ma per ora sono solo all’inizio. Quindi, se avete tempo, voglia, pazienza, cercate It’s all about you.
Uhm, non ho altro da aggiungere, forse uno spoiler magari:
L’avevo guardato in faccia e l’unica cosa che avevo visto nei suoi occhi era stato il gelo.
Non era l’unico con gli scheletri nell’armadio ed io di certo non ero uno stinco di santo, considerando l’alto numero di persone che avevo spedito all’ospedale in condizioni poco buone per la loro salute, perciò ero l’ultimo che lo potesse giudicare. Inoltre, l’unica cosa che mi stava facendo prudere le mani era il senso di rabbia che provavo nei confronti di quel figlio di puttana che gli era capitato come padre.
*
Mi sentivo la testa leggera, senza brutti pensieri, senza difficoltà e problemi; ogni cosa era al suo posto. Io mi sentivo al mio posto. Stavo bene. Non c’era nulla di sbagliato, niente che potesse scalfirmi in quei momenti di pura follia. Noi eravamo la follia stessa. Tutto di noi gridava di starci lontano, eravamo uno l’opposto dell’altro, così diversi eppure così simili, vicini, segnati. Speciali.
Un abbraccione da orso e un graaazie grande grande a tutti!
See ya,
Ace.
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Capitolo 15 *** Capitolo 13. Piccolo e dolce Eustass-ya. ***
Capitolo 13.
Piccolo e dolce Eustass-ya
«Ace, perché non mi hai detto che ti sei innamorato?».
Le cose si stavano facendo più interessanti di quanto avessi mai potuto immaginare. Eppure, dopo tutto quello che era successo con Trafalgar, pensavo che le sorprese fossero finite, lasciandomi tranquillo con il tempo di dormire fino a tardi e poi, beh, iniziare quel qualcosa che, senza dubbio, si stava creando tra me e quel bastardo sadico.
Si era divertito come un matto a farmi sputare il rospo e sentirmi dire a voce alta il motivo per il quale insistevo così tanto per essere quel nessuno di cui aveva bisogno. Non aveva smesso un secondo di fissarmi e di ghignare mentre, seduto sul divano di casa sua accanto a me, i piedi comodamente distesi sulle mie gambe, aspettava con impazienza che mi decidessi a parlare e a spiegarli il perché del mio comportamento di quella sera.
«Perché non mi hai semplicemente lasciato andare? Sarebbe stato tutto più facile» mi chiedeva, e poi ancora «Perché, Eustass-ya. Dimmi perché».
Perché. Perché. Perché.
Maledetto stronzo, avevo tanto desiderato strozzarlo e farlo sparire dalla circolazione, ma quello che mi aveva promesso per il giorno seguente mi aveva talmente lusingato da trattenermi dal commettere qualche pazzia.
Il perché era semplice e chiaro nella mia testa, solo non volevo dirglielo per nessun motivo al mondo. Troppo imbarazzante e smielato, non era di certo da me una roba del genere così schifosamente dolce da far venire il diabete.
Fu con enorme sforzo, alla fine, che sotto tortura arrivai ad ammettere a me stesso che forse c’era la remota possibilità che mi stessi affezionando a lui. Questo era il massimo che potevo permettermi e se non era abbastanza affaracci suoi, non era un problema mio. Era certo, però, che non mi sarei mai espresso in modo tale, assolutamente, dovevo pur mantenerla una punta di orgoglio e dignità.
«Non voglio dividere le mie cose con nessuno, è questo il motivo» avevo grugnito in risposta, venendo subito messo alle strette dalle sue insinuazioni che, sicuramente, si era già preparato in precedenza per mettermi a disagio.
«Quindi, stando alle tue parole» aveva detto mellifluo e con una faccia da schiaffi, «Sei geloso, possessivo e mi ritieni di tua proprietà?».
Chiariamo che io non avevo detto niente di tutto ciò e che lui non aveva fatto altro che ricamarci sopra e piantare castelli in aria, fare viaggi mentali e pare assurde. Come poteva una persona fraintendere così tanto? Da dove le tirava fuori tutte quelle insinuazioni senza fondamenta? Il suo cervello doveva per forza funzionare al contrario, doveva essere così, altrimenti non avrei saputo spiegarmi tutte quelle pare che si stava facendo venire in mente solo per provocarmi.
Non gliel’avrei permesso, non in quel momento, non quando, per una volta, le cose sembravano andare per il meglio su tutti i punti, senza eccezioni, senza litigi, senza frecciatine o altro. Tutto era tranquillo, soprattutto lui, e quel velo di tristezza che sembrava essere piombato sui suoi occhi e sul suo umore era sparito senza lasciare traccia, sostituito da un perenne sorrisetto che di gioviale non aveva niente, ma almeno non era il suo solito ghigno strafottente e di superiorità. Era qualcosa di innocente, qualcosa di mai visto e che mai gli avrei associato. Gli dava un’aria contenta.
E questo mi bastava. Mi bastava davvero.
Se c’era una cosa che mi ero ripromesso di fare e mantenere quella sera, era l’intenzione di non lasciare che quello spiraglio di buonumore lo abbandonasse. Per nessun motivo lo avrei permesso, anche a costo di tatuargli quell’espressione con l’inchiostro indelebile. Doveva sorridere e, per quanto la mia indole fosse malvagia, ero certo che se lo meritasse, soprattutto dopo quello che aveva passato.
Ed io che mi chiedevo come mai fosse sempre così schivo nei miei confronti. Ora che conoscevo i fatti capivo che chiunque avrebbe reagito come lui, io per primo, forse anche peggio e, se avessi avuto una vaga idea di quello che aveva dovuto subire, forse mi sarei deciso ad agire prima.
Non appena mi aveva dato contro, uscendo in tutta fretta dal locale con una faccia che dire distrutta era dire poco, non ci avevo pensato due volte a mollare tutto e seguirlo per impedirgli di fare qualche cazzata, vista la sua reazione alle mie parole. Certo, un po’ era colpa mia che l’avevo pungolato sul vivo dandogli del codardo, ma era quello che pensavo dopotutto. Una persona che evitava coinvolgimenti, che si teneva a distanza, che non si esponeva anche quando tutto di lei diceva il contrario era da considerare codarda. E, di questo ne ero certo, Trafalgar non era il tipo che scappava di fronte alle difficoltà, anzi, le fronteggiava a testa alta e con un dito medio alzato per far capire meglio le sue intenzioni a chiunque si ritrovasse davanti. Era combattuto e aveva deciso di nascondersi perché il suo passato lo obbligava a farlo, non perché lo volesse. Anche uno stupido se ne sarebbe accorto, infatti mi era stato chiaro fin dall’inizio che ciò che desiderava non era andarsene, ma restare. Questa verità avrei potuto sbattergliela in faccia, se solo ci avessi pensato prima.
A prima vista Trafalgar Law dava l’idea a chiunque lo incontrasse di essere un ragazzo normale. Era piuttosto alzo e smilzo, ma solo all’apparenza da quello che avevo potuto constatare perché, a quanto pareva, il bastardo nascondeva la sua buona dose di fasci muscolari che potevano reggere benissimo ai miei colpi. I capelli erano neri, come il lieve accenno di barba e il pizzetto sul mento, senza sfumature, nessuna tonalità più chiara, solo semplici fili neri e morbidi al tocco. Non che mi ci soffermassi più di tanto ad accarezzarli, lo sapevo e basta.
«Hai caldo, Eustass-ya, o devo dedurre che tu stia arrossendo?».
Aveva una vista da far invidia a un falco e non gli si poteva nascondere niente, nemmeno quell’improbabile e tenue rossore che mi aveva imporporato il viso per neanche un secondo. Lui l’aveva notato, come sempre. Il viso era definito e regolare, con una bocca sottile e un piccolo naso al centro mentre, a dare il tocco finale alle sue espressioni e a svelare la piega dei suoi pensieri, erano quegli occhi grigi come l’inverno, a volte circondati da delle lievi occhiaie, ma spesso vigili, attenti, intimidatori, scettici. E caldi. Nonostante tutto, riuscivano ad essere caldi, anche se non voleva darlo a vedere.
E i tatuaggi. Law aveva una serie inquietante e macabra di tatuaggi sulle falangi delle dita e sulle braccia. Sulle nocche si era fatto scrivere ‘DEATH’, morte, davanti al quale avevo represso un brivido la prima volta che me l’aveva spiegato, mentre gli altri non erano così male. L’enorme cuore tribale che aveva sul petto poteva avere una miriade di significati e molto spesso mi soffermavo ad osservarlo, arrivando alla conclusione che non me ne sarei mai fatto uno, anche se a vedere i suoi non sarebbe stata una scelta orribile.
A conti fatti e nonostante l’apparenza, di normale, invece, non aveva proprio niente. Possedeva il potere di riuscire a mantenersi serio e pacato per la maggior parte del tempo, infatti dovevo ancora vederlo perdere le staffe e arrabbiarsi, cosa che, a detta sua, non faceva mai. Spesso si concedeva un ghigno canzonatorio e malizioso che annunciava l’arrivo di una delle sue velenose battutine che rivolgeva volentieri verso coloro che non gli andavano a genio. Oltre a questo nelle risposte era molto schietto e non perdeva tempo in inutili giri di parole. Probabilmente non gli stavo ancora del tutto simpatico, visto che continuava a punzecchiarmi e a deliziarmi dei suoi commenti aspri, ma non mi cambiava la vita. Dopotutto, il sentimento era reciproco.
Una cosa che non sembrava sopportare era prendere ordini, per questo non faceva mai quello che gli dicevo e si comportava come se nessuno gli fosse superiore, facendomi incazzare e obbligandomi a dargli una lezione che sembrava non voler imparare. In poche parole, era una spina nel fianco, una maledizione.
La mia maledizione, considerando gli ultimi avvenimenti.
Si, ero possessivo e non mi andava che la gente toccasse le mie cose. Lui ci scherzava sopra, ma non aveva idea di quanto potessi essere possessivo e ossessionato, ma anche su questo rimasi zitto, altrimenti avrebbe iniziato una serie di sproloqui insistendo nel dire che ero geloso di lui e stronzate simili.
Per essere precisi e voler citare una frase che aveva detto lui stesso: ero geloso delle mie cose, non di lui, c’era differenza.
Così l’avevo raggiunto, convinto di poterlo fermare, e così avevo fatto. Vederlo lì, intento a tremare, la testa stretta nelle spalle, disperatamente solo, aveva contribuito a smuovere qualcosa dentro di me e a farmi agire senza rimanermene da una parte e con le mani in mano. Le parole mi erano uscite di bocca da sole, di getto, senza riflettere, come se fossero già state pronte e attendessero solo di essere pronunciate, liberate.
Aveva un disperato bisogno di qualcuno che restasse, che fosse vero, che non se ne andasse, che fosse reale e che riempisse quel vuoto che aveva dentro di sé e che lo stava logorando pezzo dopo pezzo. Quel qualcuno ero io. Io ero il suo nessuno.
Afferrarlo per un braccio e stringermelo contro mi era sembrata la cosa più giusta da fare in quel momento, nascondendo il viso tra i suoi capelli in modo da celargli un sorriso soddisfatto che non ero riuscito a trattenere quando l’avevo sentito ricambiare il gesto, lasciandosi finalmente andare e decidendo di rimanere e affrontare tutto. Non ci eravamo mai abbracciati in quel modo, per il semplice bisogno di farlo, per affetto, e forse non l’avremo rifatto tanto presto, tenendo conto che a certe cose ero allergico.
Dopo di che eravamo rientrati al Moby Dick giusto il tempo di recuperare i nostri cappotti e andarcene in un posto tranquillo. Non appena avevo messo in moto la macchina ero più che convinto di filare dritto a casa mia, ma ad un tratto iniziò a farmi da navigatore fino a che non arrivai in un quartiere piuttosto illuminato e pieno di casette e giardini ben curati. Mi fece parcheggiare in un parcheggio riservato di fronte ad un edificio di medie dimensioni e, senza aggiungere altro, aveva estratto un mazzo di chiavi dalla tasca della giacca e mi aveva fatto entrare e salire le scale fino al suo appartamento dove non ero mai stato.
Era spazioso più di quanto avessi immaginato, adatto alle esigenze di quattro ragazzi, uno più bizzarro dell’altro, e non mi stupii di ritrovarmi davanti ad una parete piena di colori, impronte di mani e piedi, il profilo di una faccia e una sottospecie di smile giallo che, da quello che mi aveva detto Trafalgar, era considerato come il loro simbolo di famiglia, una specie di Jolly Roger fatto male, ecco.
Si era diretto in cucina, lasciando la giacca all’entrata e facendomi cenno di seguirlo per poi accomodarmi in una delle sedie in legno con i cuscini azzurri a scacchi, ritrovandomi a pensare che quel posto non era male. Si era sistemato bene, quell’impiastro.
Dandomi le spalle aveva iniziato a trafficare con una moca e le cialde per il caffè, tenendosi occupato mentre, con un respiro profondo, iniziava a raccontarmi quella parte della sua vita che ancora lo spaventava e lo faceva fuggire.
Ascoltai in silenzio come, da bambino, fosse stato costretto ad assistere alle scene in cui suo padre picchiava la madre, lasciandola spesso senza sensi e svenuta a terra con solo lui accanto a cercare di risvegliarla con l’angoscia sempre crescente di non riuscire a farle aprire gli occhi.
«Ogni volta avevo il terrore che fosse l’ultima. Temevo che non ce la facesse più» aveva sussurrato, riempiendo due tazze con gesti meccanici.
L’uomo era immischiato in un giro losco di affari e manteneva la famiglia con denaro sporco, spesso macchiato con sangue di altre persone, e, quando il piccolo Trafalgar era cresciuto abbastanza, aveva provato ad inserirlo nel giro della malavita, ricevendo immediatamente dal ragazzo una risposta negativa. Aveva riprovato altre volte e senza successo, fino a quando era arrivato a minacciare di fare molto male alla madre. Allora Law aveva ceduto subito, chinando il capo, tutto pur di non perdere quella donna che l’aveva sempre protetto con tutta se stessa, ma aveva fatto male i conti.
Dopo aver studiato per bene gli affari e i movimenti del padre e dei suoi complici, aveva deciso di andare alla polizia e denunciarli tutti, dal primo all’ultimo, accordandosi con i poliziotti che li avrebbe tenuti informati sui movimenti di quel verme e che, non appena si sarebbe introdotto meglio nel giro, avrebbe dato l’allarme per aiutarli a cogliere tutti con le mani nel sacco. Era un buon piano, mi aveva detto con un sorriso amaro sul volto, appoggiato con le braccia incrociate al bordo del ripiano della cucina, tutto calcolato nei minimi particolari, niente lasciato al caso. Suo padre, però, sospettando qualcosa, l’aveva fatto pedinare da uno dei suoi uomini e aveva scoperto tutto. Così, quando Law era arrivato a casa, aveva trovato quel maledetto ad aspettarlo con la vita di sua madre tra le mani, uccidendola con un colpo di pistola al cuore nell’istante in cui il ragazzo correva in suo aiuto.
Non avevo detto una parola durante il racconto ed ero rimasto a guardarlo immobile, incapace di fare o dire qualcosa. In effetti non c’era niente che potesse alleviare il suo dolore, non una parola, non un gesto, nulla avrebbe cancellato il passato.
«Non ci ho pensato due volte e l’ho aggredito buttandolo a terra» aveva detto con tono piatto e senza nessun sentimento, «Ha reagito in tutti i modi: sfregiandomi il viso, spezzandomi le ossa, cercando di uccidermi, ma non gli è servito». Un ghigno soddisfatto gli solcò il viso per qualche secondo, «Ho resistito fino a che non l’ho immobilizzato contro una parete, iniziando a colpirlo forte, sempre più forte. E poi tutto si è fatto buio, come se la mia mente fosse andata in standby. Non ricordo nulla di quegli attimi, solo che quando riaprii gli occhi vidi le mie mani e i vestiti imbrattati di sangue».
L’avevo guardato in faccia e l’unica cosa che avevo visto nei suoi occhi era stato il gelo.
Non lo uccise, ma lo conciò male e poi chiamò la polizia che arrivò entro pochi minuti, portando l’intera famiglia all’ospedale, anche se per la madre era troppo tardi. Il padre finì in carcere e Law passò un lungo periodo in convalescenza, poi in un collegio fino alla maggiore età, iscrivendosi all’università non appena ne ebbe l’occasione e dividendo l’appartamento con gli amici d’infanzia che non l’avevano abbandonato e con quelli che aveva conosciuto negli anni.
Oltre a questo mi aveva anche spiegato che, non appena era diventato maggiorenne, l’avevano informato di un fondo intestato a nome suo che sua madre gli aveva lasciato prima di morire. Con quello e con l’assicurazione dei suoi era riuscito a trovare un buon appartamento abbastanza economico e a riscattare una vecchia auto di suo padre, rivendendola e ottenendo in cambio quella che teneva gelosamente nascosta in garage. Dopotutto, un po’ stronzo e approfittatore lo era stato, ma nulla di male se confrontato con il lavoraccio del genitore.
Alla fine del racconto mi aveva guardato finalmente, studiando la mia reazione e, immaginavo, aspettandosi di trovare ribrezzo, terrore o disgusto nei miei occhi ma, a giudicare dal sorriso che gli increspò le labbra dopo alcuni minuti, non trovò nessuna traccia di tutto ciò.
Infatti non era l’unico con gli scheletri nell’armadio ed io di certo non ero uno stinco di santo, considerando l’alto numero di persone che avevo spedito all’ospedale in condizioni poco buone per la loro salute, perciò ero l’ultimo che lo potesse giudicare. Inoltre, l’unica cosa che mi stava facendo prudere le mani era il senso di rabbia che provavo nei confronti di quel figlio di puttana che gli era capitato come padre.
E fu in questo modo che passammo le ore successive in salotto a parlare di quella marea di problemi che ci avvolgeva, impedendoci di vivere e andare avanti con la nostra vita e iniziare a pensare solo al meglio, invece che continuare ad essere legati al passato. Non sarebbe stato facile, soprattutto con un tipo come lui, ma almeno avevamo fatto il primo passo, l’uno verso l’altro, il resto poi sarebbe venuto da sé.
«Eustass-ya, pensi di baciarmi o aspettiamo che i tuoi capelli cambino colore?» mi aveva chiesto ad un tratto, appoggiando la terza tazza di caffè della serata sul tavolino di fronte a noi e mettendosi seduto sul divano, in attesa che facessi la prima mossa.
L’avevo guardato con un misto di stupore e fastidio per il fatto di dovermi subire quelle sue frecciatine di cattivo gusto, ma non avevo perso troppo tempo prima di passargli una mano dietro al collo e attirarlo verso di me con l’ombra di un ghigno sul volto e incollando le sue labbra alle mie, dimenticando tutti i casini di cui avevamo parlato fino ad allora e pensando che da quel momento in poi le cose avrebbero potuto migliorare parecchio.
Baciare Trafalgar era come una sfida: un continuo scontrarsi di baci frenetici e morsi. Opporre resistenza fino all’ultimo, quando il piacere prendeva il sopravvento e l’unica cosa che aveva importanza era il bisogno quasi disperato di sentirsi uniti, vicini, completi. Che vinca il migliore, dunque.
Se fosse dipeso da me l’avrei preso volentieri sul divano e all’istante, ma appena provai a sbottonargli i pantaloni venni scaraventato a terra nel giro di pochi secondi, ritrovandomi a fissare dal basso il ghigno di quel bastardo mentre mi spiegava che presto sarebbero arrivati anche gli altri e che quello non era il posto migliore per lasciarsi andare.
Al diavolo lui e i suoi coinquilini, era tutta la sera che parlavamo di superare le barriere, affrontare tutto a testa alta e, per l’appunto, lasciarsi andare, e adesso mi chiedeva di aspettare solo perché non voleva dare spettacolo? Cosa credeva, che i suoi amici non avessero mai visto un film porno?
Così aveva lasciato che mi rialzassi da solo mentre lui andava a preparare dell’altro caffè e a riempire per la quarta volta le nostre tazze. Di certo, quando saremo arrivati a casa mia, dormire non sarebbe stata la nostra priorità assoluta, non dopo tutta quella caffeina che avevamo bevuto, alternando discorsi, baci, qualche insulto e una cuscinata in faccia che, per la precisione, mi ero beccato io.
Fu in quel momento che il campanello dell’appartamento aveva iniziato a suonare ininterrottamente, attirando la nostra attenzione e facendo alzare gli occhi al cielo a Trafalgar che, probabilmente, aveva già capito di chi si trattasse, chiedendomi poi di andare ad aprire. Dandogli le spalle e avviandomi verso la porta non avevo notato il suo sorrisetto malefico, perciò ero stato colto totalmente alla sprovvista quando quell’impiastro di Rufy mi saltò addosso con l’intento di abbracciarmi, anche se la sua stretta sembrava più la morsa di un boa affamato.
Credevo che le acque si fossero calmate dopo la sua apparizione, invece il livello di incredulità tocco l’apice quando, aprendo la porta d’ingresso, trovammo Killer e Penguin-nanerottolo appiccicati e impegnati a baciarsi senza pudore. Quella vista mi aveva tolto dieci anni di vita, mentre Law aveva un’aria che dire sadica era dire poco. Dio solo sapeva cosa gli stava passando per la mente.
Credevo di averle viste tutte, invece adesso ero proprio curioso di scoprire come si sarebbe risolta la situazione tra i due fratelli, ora che Ace aveva fatto il suo ingresso con l’aria sfatta e Rufy lo fissava in attesa di una qualche risposta.
«M-ma di che cosa stai parlando?» fece il maggiore, visibilmente in imbarazzo e cercando di sorridere spensierato per mascherare l’evidente nervosismo che l’aveva colto in pieno davanti a noi.
«Traffy mi ha detto che ti vedi con qualcuno» si giustificò il più piccolo con uno sguardo innocente, indicando colui che aveva dato inizio a tutto e che, accanto a me e con le braccia conserte, si godeva divertito la scena e il disagio causato al povero Ace.
Quest’ultimo, infatti, lo fulminò con uno sguardo accusatorio prima di negare tutto con tanto sentimento da rendere fasulla ogni singola parola e di questo se ne rese conto anche Rufy, dato che iniziò a sorridere senza sosta, sghignazzando davanti ai vani tentativi del fratello nel cercare di convincerlo dell’assurdità della cosa.
«Stava solo scherzando» disse, ostentando indifferenza, «Non è vero?».
Trafalgar, per tutta risposta, si strinse nelle spalle prima di dirne una delle sue che, per una volta, non erano dirette a punzecchiare me.
«Come è stato il bacio, Ace?».
Il ragazzo sbiancò davanti a quella insinuazione, mentre io ero troppo occupato a capire da cosa l’avesse dedotto. Inutile dirlo, gli esseri umani erano come libri aperti per Law: non gli si poteva nascondere niente. Gli bastava un’occhiata attenta e sapeva farti un resoconto della personalità di chiunque, persino i suoi gusti e le sue preferenze, orientamento sessuale e religione compresi. Poteva essere un vantaggio in certi casi, ma anche una tremenda seccatura se si avevano segreti da tenere al sicuro.
«E tu come diavolo lo sai?» sbottò sconcertato il povero ragazzo, tappandosi subito dopo la bocca con entrambe le mani quando capì di essersi messo nel sacco da solo, dando la certezza di cui il moro accanto a me aveva bisogno. Infatti ghignò vittorioso subito dopo.
«Come immaginavo» sussurrò, «Quanta lingua ci ha messo?».
«Per l’amor del Cielo, Law! Non davanti a lui!», si lamentò, indicando il piccoletto che, con una faccia da schiaffi, inclinava la testa di lato con l’aria di chi non sta capendo niente.
«Fratellone, mi dici di chi si tratta?».
«Senti un po’, Trafalgar, penso sia ora di andare» affermai a quel punto, fissando allibito il piccolo Rufy attaccarsi alle gambe del fratello e pregandolo con una faccia speranzosa di raccontargli tutto, non disturbato dal fato che Ace tentasse in tutti i modi di scrollarselo di dosso, aggirandosi per la stanza con passi pesanti e trascinandoselo dietro.
«Per una volta sono d’accordo con te, Eustass-ya» mormorò, soddisfatto del suo operato e scomparendo lungo il corridoio verso il quale si erano diretti poco prima anche Killer e l’altro idiota, ritornando poco dopo con uno zaino in spalla e un giubbotto tra le braccia.
«Andiamo?».
«Law, non credere di svignartela così facilmente!» stava dicendo in quell’istante Ace, trattenuto a terra dal fratello che gli stava seduto sul petto, impaziente di sentire la sua storia e di saperne di più sulla sua vita privata.
«Buon riposo» lo sfotté il medicastro, mentre si dirigeva verso l’uscio e mi faceva cenno di seguirlo, lasciandomi passare per primo, «Ciao Rufy».
«Ciao Traffy! Ciao Eustachio!» rispose il ragazzino, salutandoci allegramente con una mano prima che la porta si chiudesse alle nostre spalle.
«Sei proprio un demonio, Trafalgar» gli feci notare, scendendo con calma le scale e compatendo un po’ Ace, il quale, sicuramente, avrebbe avuto una bella gatta da pelare ora che quel moccioso chiacchierone sapeva della sua relazione.
«Ce n’è anche per te, Eustass-ya, non preoccuparti» mi avvisò sorridente.
Non sia mai che si dimentichi di farmi incazzare, pensai sarcastico, prima di illuminarmi di un’idea niente affatto malvagia.
«Tra poco ti farò passare la voglia di scherzare, parola mia».
«Lo spero vivamente».
* * *
«Dove diamine sono finite le chiavi!».
«Impaziente?».
«Chiudi quella cazzo di bocca e cancellati quel ghigno dalla faccia».
Rovistai freneticamente tra le tasche per l’ennesima volta, deciso a riguardare anche in macchina se necessario.
«Eustass-ya?».
«Che vuoi?».
Law sollevò un dito davanti ai miei occhi dal quale pendevano un mazzo di chiavi argentate e tintinnanti e me lo sventolò sotto al naso, inarcando un sopracciglio e sorridendomi beffardo.
«Le chiavi» disse semplicemente, godendosi la mia reazione nel togliergliele di mano e dargli le spalle nuovamente per aprire la porta di casa mia, facendo scattare la serratura ed entrando finalmente al caldo.
«Dovresti scriverti un promemoria o uno di questi giorni ti ritroverai chiuso fuori e sarai costretto a chiedere a me dove trovare la chiavi di casa tua» sfotté, mettendomi fra le mani il cappotto e lo zaino per poi superarmi, dirigendosi in salotto e lasciando cadere dietro di sé la sciarpa che aveva al collo e la felpa che aveva indossato quando eravamo arrivati a casa sua per stare più comodo. E, come a voler evidenziare il tutto, prima di girare l’angolo mi lanciò uno sguardo malizioso con la coda dell’occhio, cosa che mi fece fremere per l’eccitazione.
Sorvolai sul fatto di essere stato usato come attaccapanni solo perché aveva già iniziato a spogliarsi da solo e, se prima di sparire dalla mia visuale era già a torso nudo, chissà cosa avrei mai trovato quando l’avrei raggiunto.
Ha capito chi comanda, era ora. Ci è voluto un po’ ed è stata una battaglia estenuante, ma alla fine gli è entrato in quella testaccia che con me non deve tirarla tanto lunga. E’ così estenuante quella sua testardaggine.
Sogghignando soddisfatto lasciai tutto all’ingresso, scarpe comprese, e chiusi a chiave, affrettandomi a raggiungerlo e restando deluso e interdetto nel trovarlo con ancora addosso i pantaloni mentre si rannicchiava comodamente sul divano.
«Qualcosa non va?» chiese con un’espressione angelica, cosa che, a differenza di me, a lui riusciva benissimo, anche se sapeva esattamente qual’era il problema
Le mie sopracciglia saettarono verso l’alto di fronte al suo comportamento, poi sbuffai, raggiungendolo con poche falcate e sovrastandolo, bloccandolo in un angolo del divano più che deciso a obbligarlo a spogliarsi all’istante. Cosa che, ovviamente, non fece dato che il signorino mi ripeteva sempre che non prendeva ordini da nessuno e bla bla bla, una mazzata in testa e via. Così fui costretto a gettarmi di peso addosso a lui e prendere l’iniziativa.
Chi fa da sé fa per tre. Proprio vero, se solo stesse fermo…
«Al diavolo, Trafalgar! Piantala di divincolarti».
«Non puoi obbligarmi, lo sai» mormorò a denti stretti, guardandomi torvo e opponendo resistenza in ogni modo, firmando la sua condanna e non lasciandomi altra scelta che passare al contrattacco sfoderando la mia arma segreta.
«Ah no?» dissi, mantenendo con una mano la pressione sul suo petto per impedirgli di alzarsi e cercando con un braccio dietro di me e alla cieca l’arma di cui avevo bisogno, trovandola qualche istante dopo e colpendolo di sorpresa, lasciandolo esterrefatto con gli occhi sgranati e increduli.
«Non l’hai fatto sul serio» sibilò minaccioso, scandendo le parole una ad una.
Per tutta risposta e con una faccia divertita gli tirai un’altra cuscinata in pieno viso, lasciandolo senza fiato e iniziando a ridere davanti alla sua reazione inerme.
Poi fu il delirio.
Non potevo di certo sperare che il mio gesto rimanesse impunito, perciò Trafalgar, con i suoi trucchetti e le sue mani gelate riuscì a liberasi e ad appropriarsi di un cuscino per poi partire all’attacco e prendermi a cuscinate senza tregua, ricevendone altrettante e scoppiando a ridere quando qualche piuma scappata dall’imbottitura si posò sui miei capelli scompigliati e diretti in tutte le direzioni. Inutile dire che aveva iniziato a prendermi in giro, facendomi montare la rabbia e prendere sul serio quella partita, più che intenzionato a distruggerlo. Per quanto tentassi di metterlo alle strette, però, riusciva sempre a defilarsi all’ultimo momento, colpendomi alle spalle e mirando sempre più spesso alla mia testa. L’unico modo per liberarmi di quella situazione scomoda era ingannarlo, perciò, quando mi colpì per l’ennesima volta, mi sdraiai sul divano, lasciandogli il tempo di salirmi sullo stomaco ed esultare con un ghigno e uno sguardo altezzoso per essere riuscito a battermi. Fu in quell’esatto istante che gli bloccai le braccia lungo i fianchi, ribaltando le posizioni e imprigionandolo tra me e i cuscini.
«Hai perso» cantilenai, godendomi quell’attimo di vittoria e congratulandomi con me stesso per metterlo sempre alle strette negli scontri fisici. Poteva essere più intelligente e più scaltro di me, ma non sarebbe mai riuscito a battermi nel corpo a corpo, poco ma sicuro e lo sapeva anche lui. Chissà poi quanto gli rodeva questa consapevolezza.
«Tutto muscoli e niente cervello» mormorò per niente abbattuto e, non appena mi accorsi di una scintilla sospetta nei suoi occhi, fu troppo tardi. Era riuscito a liberarsi un braccio e a recuperare uno dei cuscini sparsi per terra, ricominciando a colpirmi in viso e, nel tentativo di difendermi da quel colpo basso, scivolammo dal bordo del divano finendo a terra.
Giusto un attimo prima di toccare il pavimento e rischiare di rompergli qualcosa con tutto il mio peso, con uno strattone lo riportai sopra di me e irrigidii le spalle non appena sentii l’impatto, sbattendo la testa e lasciandomi scappare una serie di improperi coloriti e poco educati.
«Merda, che male!» inveii con una smorfia di dolore, massaggiandomi la nuca e ignorando il formicolio che sentivo alla spalla sinistra. Non era nulla di grave, ma cazzo se era fastidioso. Fortuna che con tutte le volte che ero caduto dalla moto mi ero irrobustito e ormai non mi spaventava più il pericolo, ma se al posto mio avessi lasciato quel moccioso, sicuramente non sarebbe stato lo stesso risultato considerato il suo mucchietto d’ossa.
Aprii gli occhi per controllare che tutto fosse a posto, ritrovandomi quelli seri e immobili di Trafalgar a pochi centimetri intenti a scrutarmi a fondo, alla ricerca di qualsiasi accenno di complicanze. Ignorò la mia mano che aveva preso, senza un preciso motivo, ad accarezzargli i capelli e continuò a sondarmi, talmente attento e concentrato da sembrare di aver smesso di respirare.
«Stai bene». Non sembrava una domanda, ma nemmeno una convinzione.
Increspai le labbra, indeciso se ghignare o sorridere davanti alla sua preoccupazione, «Ci vuole ben altro per mettermi al tappeto».
«Beh, in realtà ci sei appena finito» fece ironicamente, riferendosi all’enorme tappeto che rivestiva parte del pavimento del salotto sopra al quale ero sdraiato, abbandonando quell’aria scrupolosa da saputello dell’università e ritornando ad essere il solito stronzo approfittatore.
Per quanto riguardava il mio gesto altruista, probabilmente la caffeina doveva avermi fatto un brutto effetto, qualcosa come scatti improvvisi degli arti o la perdita del controllo delle articolazioni, altrimenti non mi sarei mai sognato di prendere il suo posto e beccarmi una botta in testa, rischiando di restarci secco.
«Fottiti» risposi, cercando di scrollarmelo di dosso, ma senza riuscirci. Non ne avevo tutta l’intenzione e dopotutto sembrava stare comodo su di me.
«Potevi lasciarmi dov’ero» mi fece notare, incrociando le braccia al petto e facendomi gelare il sangue nelle vene quando capii che stava per iniziare con i suoi soliti sproloqui e castelli in aria. Cosa stesse immaginando in quella mente diabolica non lo sapevo e non ci tenevo nemmeno a scoprirlo, sinceramente.
«Il caffè mi rende iperattivo. Sai com’è, mi muovo involontariamente» cercai di spiegare corrucciato, sapendo fin dall’inizio che non sarebbe servito a niente dato il modo in cui sulle sue labbra si allargava un sorriso carico di divertimento e aspettativa davanti alle mie patetiche scuse nel tentativo di cambiare discorso e sviare l’attenzione altrove.
Indifferente al mio continuo blaterale, si avvicinò nuovamente al mio viso fino a sfiorarmi il naso con il suo e, scompigliandomi gentilmente i capelli già disastrati mi deliziò di una delle sue solite trovate che avrebbero messo in imbarazzo chiunque, senza la minima eccezione.
«Piccolo e dolce Eustass-ya» gongolò sornione, zittendo la serie di insulti che stavo per rivolgergli per quell’affermazione smielata con un bacio a fior di labbra, prima leggero, poi sempre più ipnotico, facendomi dimenticare il motivo per cui volevo ammazzarlo e ricordandomi quello che avevo intenzione di fargli nell’esatto istante in cui eravamo arrivati a casa.
Senza interrompere il contatto, mi puntellai sui gomiti per rialzarmi, trascinandomi dietro anche il ragazzo sopra di me e lasciando che avvinghiasse le gambe attorno ai miei fianchi mentre, una volta in piedi, mi dirigevo euforico verso la mia stanza.
Aprii la porta socchiusa con una spinta e avanzai deciso verso il letto, lasciandoci cadere Law senza troppa grazia e delicatezza, godendomi la sua espressione corrucciata e l’occhiata infastidita che mi scoccò prima che aggredissi di nuovo le sue labbra. Mi costava una certa fatica stargli lontano quando nelle nostre vene prendeva a scorrere l’adrenalina; era più forte di me ed era essenziale toccare ogni parte del suo corpo, baciare ogni lembo di pelle, sfiorargli le mani, il viso, i capelli, tutto pur di rendermi veramente conto che ciò era reale, che quella persona mi stava accettando davvero senza pregiudizi e senza rabbrividire davanti al mio essere.
Mi sentivo la testa leggera, senza brutti pensieri, senza difficoltà e problemi; ogni cosa era al suo posto. Io mi sentivo al mio posto. Stavo bene. Non c’era nulla di sbagliato, niente che potesse scalfirmi in quei momenti di pura follia. Noi eravamo la follia stessa. Tutto di noi gridava di starci lontano, eravamo uno l’opposto dell’altro, così diversi eppure così simili, vicini, segnati. Speciali.
«Kidd» sussurrò Law, mordendomi un labbro ed intrappolandomi il viso tra le sue mani che andarono poi a stringersi sul collo, come se volesse togliermi il respiro, come se volesse impedire tutto quel contatto.
«Sta zitto per una volta» dissi, azzannandogli la gola e sentendolo fremere sotto il mio tocco.
Quello era per me tutto ciò che mi era sempre mancato. Non per il sesso, non per lo sfogo, non per una distrazione, ma per quella strana cosa, sensazione o sentimento che mi scaldava fin dentro l’anima e mi lasciava con il sorriso, facendomi sentire non più solo, non più incompreso, al buio, senza una luce, ma accettato, voluto. E desiderato.
E ne lui ne nessun altro avrebbe mai dovuto sapere che era esattamente ciò che volevo. Ciò di cui avevo bisogno.
I vestiti sgualciti, strattonati per essere tolti e venire lanciati lontano, da qualche parte nella camera; la frenesia nei gesti: piccole carezze, lievi, veloci, baci a fior di labbra, tenerezza e gentilezza mascherati dalla fretta, dall’imbarazzo, dalla stranezza perché tutto ciò stonava incredibilmente con le nostre personalità. Eppure c’era dolcezza. Nascosta, ma c’era.
All’inizio non avrei mai immaginato di potermi ritrovare in quel letto proprio con lui, con quel presuntuoso, ma era così, era ciò che succedeva da mesi ormai. E lui mi guardava, cercava il mio sguardo con il suo, scavandovi affondo alla ricerca di chissà cosa, leggendovi ogni mia emozione, nonostante facessi di tutto per evitare quel contatto per paura di lasciar trapelare troppo.
«Eustass-ya, guardami».
No, non chiedermelo.
Era la sua frase preferita. La diceva sempre, ogni volta che entravo in lui e che mi lasciavo sfuggire un gemito soffocato, affondando il viso nella sua spalla e ascoltando come, sotto di me, cercasse inutilmente di fare lo stesso, ma senza grandi risultati. Proprio come in quel preciso istante.
Me lo diceva una volta sola ed io non gli davo retta, mai. Lo evitavo, portando l’attenzione altrove, su altri gesti, movimenti, e lasciando inesaudita quella sua unica e all’apparenza innocente richiesta.
Quella volta, però, mattina o notte che fosse, mentre fuori albeggiava, con un sospiro tremante allacciai i miei occhi con i suoi e trattenni il respiro davanti a quella grigia tempesta di tuoni e fulmini rossi come il fuoco che animava entrambi. Perché il piacere bruciava.
Non avrei creduto di averne il coraggio, invece lui era lì, ed io non avrei voluto essere altrove se non in quella stanza non più fredda, ma accogliente.
Lo guardai ma non vidi una persona persa, fatta a pezzi da un rapporto dettato solamente dall’istinto e dal bisogno, ma un carattere nuovo, solido, che sarebbe stato forte e capace di continuare a durare.
Comunque, anche se continuavo a ritenerlo solo un sadico stronzo, anche se sapevo che la nostra guerra non sarebbe mai finita, anche se tutti e due eravamo ormai al limite, stanchi e stremati, non mi fermai perché a quello che avevamo in quel momento ci tenevo davvero.
E quando chiuse gli occhi, inarcando la schiena e stringendo le braccia attorno alle mie spalle, abbracciandomi stretto e affondando le unghie nella pelle, capii che quel ragazzo per me era troppo e temetti per un istante di non meritarlo, sentendomi perso e spaesato.
«Va tutto bene, Kidd» sussurrò sommessamente, strofinando il viso addosso al mio collo, come se volesse nascondersi e non essere osservato mentre pronunciava quelle parole, affondando le dita tra i miei capelli e accarezzandoli lentamente, calmandomi e rasserenandomi.
Sospirai, stringendo nei pugni le lenzuola e tendendo i muscoli, rovesciando la testa all’indietro e sentendo fremere ogni nervo, tendine o parte del corpo quando raggiunsi l’apice, capendo che, anche se all’inizio appariva tutto come un gioco, dopo quella sera potevo smettere di cercare di trovare una risposta plausibile a quella situazione e iniziare a sperare che quel momento non finisse perché il tutto diveniva niente quando lui se ne andava.
Cosa volevo dire con questo?
Sorrisi, rilassando le membra e cercando i suoi occhi come lui aveva fatto molte altre volte in precedenza, trovandoli poco dopo socchiusi e sfuggenti, ma pieni di vita. Quel moccioso poteva avere tanti aspetti fastidiosi ma, nonostante tutto, era inutile continuare a prendere in giro persino me stesso: non volevo che se ne andasse. Avevo trovato qualcuno di simile a me, capace di mandarmi in bestia e, allo stesso tempo, tenermi testa e darmi del filo da torcere. Combattevamo sempre, ogni minuto, ogni ora passata in compagnia era dedicata agli insulti più ingegnosi e originali, rischiando l’esaurimento nervoso. Eppure era lui quello di cui avevo bisogno.
«Che hai da ridere?» chiese, fingendosi indifferente. Purtroppo per lui l’espressione rilassata e il tono stranamente calmo e privo della sua tipica sufficienza lo tradirono, facendomi ghignare ulteriormente, al che si rassegnò, roteando gli occhi e sbuffando, ma accennando ad un piccolo sorriso anche lui, giusto per assecondarmi.
«Sono distrutto» confessò stancamente dopo esserci dati una sistemata e accomodati meglio nel letto sfatto e ridotto in pessime condizioni. Pensandoci bene, forse potevamo stare un po’ più attenti le prossime volte.
«Meglio se dormi un po’» proposi, fissando distrattamente il soffitto con un braccio adagiato sotto alla testa e l’altro avvolto attorno alla sua schiena, intento ad attirarlo contro il mio petto. Era una cosa del tutto normale per me, pensavo solo a farlo stare comodo dato che il materasso non era così grande, ma evidentemente doveva sempre dire la sua e rovinare ogni momento con la sua linguaccia.
«Ti stai proprio rammollendo vedo» sfotté, «Pensavo volessi ricominciare da capo invece che fare il ruffiano».
«Sono stanco anche io, cosa credi?». Certe volte mi risultava molto difficile trattenermi dal soffocarlo con le mie stesse mani. Aveva la capacità di essere insopportabile quando voleva e non doveva nemmeno impegnarsi tanto. Massacrare mentalmente le persone sembrava la sua dote naturale.
Sollevò di poco il capo, inarcando un sopracciglio e guardandomi sardonico, «Povero Eustass-ya, inizi inevitabilmente a perdere colpi».
«Trafalgar, ti avverto, non risponderò delle mie azioni».
Dovevo immaginare che non si sarebbe lasciato intimidire e che avrebbe continuato a farsi beffe di me con le sue insinuazioni da quattro soldi che non facevano divertire nessuno. Nessuno tranne lui a quanto pareva, dato che sembrava esserci nato con la battutina pronta per ogni occasione.
«Eppure ti credevo più resistente, lo sai?».
Digrignai i denti prima di ignorare quelle che sarebbero state le sue ultime frecciatine sarcastiche e sovrastarlo, cogliendolo alla sprovvista ed esultando di fronte alla confusione momentanea che sostituì il suo cipiglio altezzoso quando gli immobilizzai i polsi sopra alla testa.
«Ti farò rimangiare ogni singola parola, Trafalgar» soffiai, vicinissimo al suo viso e intenzionato a fargli capire che con me non si scherzava.
Così, infischiandomene della sua stanchezza e delle sue inutili proteste e tentativi di fuga, lo costrinsi a rimare a letto per tutto il resto della mattinata, domandandomi se saremo mai riusciti a stabilire un vincitore e un vinto tra le nostre dispute.
Angolo Autrice.
Beeene, sono tornata e, beh, spero che anche questo vi sia piaciuto dato che avrei preferito sotterrarmi anziché pubblicarlo, ma va bene così.
Allora, cosa dire? Se non è chiaro, all’inizio, le frasi che Law e Kidd si rivolgono sono in corsivo perché sono avvenute in un lasso di tempo che non ho descritto, ma che ho riportato alla luce come ricordo del nostro adorato Malpelo. Trafalgar gli racconta il suo passato, non bello, non facile da digerire, ma decide comunque di esporsi e sperare in meglio. Infatti Kidd supera la prova e si merita tanti bacini.
Per la seconda parte, dopo i bisticci adorabili di Ace e Rufy, tesori belli, i nostri ragazzi complessati se ne vanno a casa e, dopo estenuanti lotte con i cuscini, Kidd decide di essere cavaliere e sacrificare la sua schiena come scudo al povero e indifeso un paio di palle Trafalgar, il quale si scopre improvvisamente ruffiano e definisce quello sbandato dolce. Scusate, ma io l’ho trovato adorabile oltre ogni limite, anche se spero di non essere scivolata nell’OOC quando ho deciso di lasciare che si coccolassero amorevolmente a nanna.
Penso sia ora di chiudere, ma grazie a tutti coloro che passano, leggono, sbirciano e recensiscono. Se mi lasciate un ricordino vi sarò grata ^^
Uno spoiler lo meritate:
“Abbiamo un po’ di regali da fare”.
Ci fu un momento di silenzio e per un attimo credetti che se ne fosse ritornato in camera. Alla fine, invece, era rimasto lì, immobile e con una faccia incredula, fissandomi come se avessi appena detto un’eresia.
“Col. Cazzo”.
*
“Andiamo, che ti dovrei dire? E’ stato solo un bacio, dannazione!”.
“Appunto!” urlai, ritrovandomi faccia a faccia con lui in pochi secondi e fronteggiandolo senza timore nonostante fosse più alto di qualche centimetro, tirando fuori il vero Ace, quello che non temeva nulla.
*
“Che fine ha fatto la mia maglia? Avevi così tanta fretta di farla sparire?”.
Sentendomi preso in causa e cercando di nascondere la pelle d’oca negai categoricamente di aver avuto quell’intenzione e passai i cinque minuti successivi a cercare il suo straccio colorato. Se mai avessimo deciso di uscire insieme gli avrei fatto un discorsetto riguardante l’abbinamento dei colori e la poca eleganza delle maglia e pois. Andiamo, facevano pena!
Un abbraccione grande!
See ya,
Ace.
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Capitolo 16 *** Capitolo 14. Una cosa che capita. ***
Capitolo 14.
Una cosa che capita
Si potrebbe scrivere un poema o addirittura un intero manuale sui benefici che comporta il fatto di rimanere a letto a poltrire per ore o anche tutto il giorno. Il cuscino morbido su cui si affonda la faccia; le lenzuola, felpate magari; coperte su coperte e il piumino per non rischiare che nemmeno un centimetro di pelle rimanga scoperto e al freddo durante i gelidi mesi invernali. Sotto le coltri, al caldo, a lasciare vagare la mente nell’infinito sistema nervoso, ponendosi mille e più domande, facendo supposizioni, meditando ed estraniandosi completamente dal resto del mondo. Oppure si può semplicemente dormire, cosa che stava facendo quel montato dato che aveva voluto fare di testa sua e non lasciarmi nemmeno un momento di tregua per tutta la mattinata. Poi era crollato, ed io con lui, stremati fino alle ossa. Sarei volentieri rimasto a sonnecchiare, ma un cellulare aveva preso a squillare come un tormento e, piuttosto che incappare nelle ire del rosso, mi ero alzato per rispondere, trovando l’aggeggio poco dopo sotto all’armadio assieme ai miei pantaloni.
Dovevano essere le quattro o le cinque del pomeriggio, ma poco importava, a lui bastava continuare a rimanere in modalità larva; poi si sarebbe sicuramente alzato e avrebbe preteso la colazione, o la cena, mentre io mi ero ritrovato a decidere come continuare la mia apparentemente perfetta esistenza non appena avevo avuto modo di realizzare il tutto.
Dicevo apparentemente perché non mi piaceva esagerare e nemmeno vantarmi quando le cose giravano per il verso giusto. Bastava un nonnulla per mandare tutto a puttane, perciò preferivo ritenermi nel normale e non eccessivamente felice. E poi, il fatto di essermi sentito come se avessi trovato il mio posto nel mondo quando mi ero risvegliato stretto e soffocato dal petto di Kidd e con la sua faccia rilassata accanto, preferivo tenerlo per me.
Dovevo tenermi pronto a tutto anche perché, ammettiamolo, portare avanti un rapporto con un elemento imprevedibile come lui non era di certo facile. Per essere precisi, lui non rappresentava l’icona della tranquillità e della stabilità di una coppia.
Infatti, come a voler sottolineare quell’aspetto, quando gli strappai il piumino con forza dalle mani e la luce fioca che prima non era presente e che illuminava quelle quattro pareti gli colpì il viso, facendogli bruciare gli occhi e costringendolo a nascondersi sotto al cuscino, radunò il resto delle coperte rimaste e le strinse con forza per evitare di perdere anche quelle. Un simpatico e repentino dito medio fu poi indirizzato verso di me.
«Avanti stronzo, è ora di alzare il culo» ordinai, poggiando le mani sui fianchi e fissandolo dall’alto.
Se avesse potuto mi avrebbe volentieri dato un pugno per il modo aggressivo e barbaro con cui avevo deciso di reclamarlo dal mondo dei sogni, ma la stanchezza era ancora presente nel suo corpo addormentato, quindi rinunciò e si limitò a borbottare insulti da sotto tutta quella stoffa.
«Non ho capito» ammisi, non troppo interessato sinceramente, privandolo delle coperte e lasciandolo al freddo. Quando poi gli tolsi dalle mani anche il cuscino non resistette oltre e mi diede il buongiorno che mi meritavo per il mio comportamento, con aggiunta di interessi.
«Vai a farti fottere, stavo dormendo!» urlò inviperito.
«Qualcuno si è svegliato male» ghignai, dandogli le spalle e intimandogli di vestirsi alla svelta senza perdere altro tempo. Avevamo un paio di commissioni da fare e non ero intenzionato a lasciarlo a casa. Che gli piacesse o no, doveva venire con me senza fare troppe storie e senza nemmeno pensare di iniziare a lamentarsi come suo solito. Era una cosa che andava fatta e non avrei accettato un no come risposta solo perché era troppo pigro per muoversi.
«Maledizione» imprecò a denti stretti, alzandosi svogliatamente dal letto e seguendomi in corridoio, volgendo le braccia verso il soffitto per enfatizzare il suo umore poco paziente mentre io non lo degnavo nemmeno di uno sguardo e andavo dritto in cucina a preparargli un po’ di caffè nella speranza di corromperlo.
«Cosa diavolo vuoi?» sbottò impaziente, appoggiandosi allo stipite della porta e passandosi una mano sul viso stanco per stropicciarsi gli occhi. I capelli, invece, erano un disastro. Sorvolai sul fatto che non si fosse nemmeno preoccupato di mettersi addosso una maglia o, almeno, un paio di pantaloni e che preferisse gironzolare allegramente con un paio di boxer addosso.
«Tra poco è natale» dissi semplicemente, come se quell’unica frase bastasse a spiegare il mio comportamento.
Mi guardò storto e con una smorfia sarcastica. «E allora?».
Gli rivolsi un occhiata con la quale gli feci capire che dubitavo fortemente della presenza di un cervello funzionante dentro quella sua zucca rossa, tornando poi a concentrarmi sulla moca.
«Abbiamo un po’ di regali da fare».
Ci fu un momento di silenzio e per un attimo credetti che se ne fosse ritornato in camera per chiudersi a chiave e darmi a intendere che non aveva la minima intenzione di ascoltare oltre. Alla fine, invece, era rimasto lì, immobile e con una faccia incredula, fissandomi come se avessi appena detto un’eresia.
«Col. Cazzo» sillabò seccamente e regalandomi un sorrisetto beffardo da schiaffi.
Sorrisi. Avevo immaginato una reazione del genere, per questo mi ero già preparato un piano di scorta per convincerlo.
«Va bene. Allora niente sesso per tutto il periodo natalizio» minacciai con leggerezza, fingendo indifferenza. «Nemmeno a capodanno» aggiunsi, per essere sicuro di rendere chiaro il mio messaggio.
Il pugno scocciato che diede alla porta mi fece capire che avevo appena ottenuto un’uscita al centro commerciale.
* * *
If I had to I would put myself right beside you. So let me ask would you like that?
Mi sentivo un po’ idiota in quel momento e, se non mi fossi deciso ad entrare all’istante, probabilmente non l’avrei più fatto e me ne sarei tornato a casa con la coda tra le gambe come un perdente, dovendomi subire le battutine di Law, quel maledetto traditore, e le innumerevoli domande di Rufy. Quindi, per salvaguardare la mia sanità mentale, era meglio se mi davo una mossa e compievo quei passi fatidici che mi mancavano per varcare la soglia e affrontare faccia a faccia il problema che mi affliggeva da un po’ di tempo.
Marco.
Presi un bel respiro profondo, sistemandomi meglio il berretto di lana e la sciarpa che portavo al collo per proteggermi dal freddo pungente di quel pomeriggio, avanzando a scatti come un robot e lasciando che l’ansia si mangiasse il mio stomaco già in subbuglio senza tentare di contrastarla.
Entrare al caldo e venire investito dal profumo di dolci e cioccolata con panna fu un vero sollievo e servì a calmarmi almeno in parte, tanto che riuscii addirittura a sorridere quando notai dietro al bancone il motivo della mia presenza lì, il quale mi dava le spalle tutto intento a preparare un’ordinazione per poi portare a termine il suo compito e accorgersi finalmente di me.
Vederlo agitare la mano nella mia direzione come se tutto fosse normale, inoltre, mi diede un briciolo di speranza in più, tanto che mi rilassai visibilmente e mi avvicinai senza farmi attendere oltre, prendendo posto come d’abitudine davanti a lui e non potendo fare a meno di arrossire quando il mio sguardo si posò per errore sulle sue labbra, scatenando una serie di vividi ricordi della sera precedente.
«Speravo proprio di vederti passare oggi» disse con il solito tono gentile, indicando con un cenno del capo la macchinetta dietro di lui. «Caffè?».
«Si, grazie» ribadii, ancora su di giri per l’effetto che le sue parole mi avevano causato. Tutto ciò era sicuramente un buon segnale, ora non restava altro che tastare il terreno e chiedergli di uscire. Ormai il passo più difficile era fatto, quello di rompere le barriere, anche se non era previsto, però avevo praticamente risolto il mio incognita più grande.
Quel giorno, però, tutta la fortuna che mi aveva assistito negli ultimi mesi aveva deciso di abbandonarmi al mio Destino.
«Volevo parlarti» fece ad un tratto, dopo un minuto buono di silenzio durante il quale aveva cercato di mantenersi il più calmo possibile, anche se avevo notato il nervosismo che trapelava dai suoi gesti e dal suo sguardo poco convincente e combattuto.
Questo tono non mi piace, riuscii a pensare, sentendomi stringere lo stomaco, non mi piace per niente.
Cercando di non agitarmi lo intimai a continuare, mordendomi l’interno di una guancia e piantando lo sguardo dentro alla tazza non appena me la porse, osservando come la bevanda bollente fumava e immaginando di immergermi e annegarci dentro quando iniziò a scusarsi per il suo comportamento avventato, assicurandomi oltretutto che non l’avrebbe fatto mai più.
«Davvero, mi sento così stupido» stava dicendo, «Spero tu possa dimenticarlo, di solito non sono così impulsivo con le persone che conosco appena. E ti prego non sentirti in imbarazzo, l’unico che dovrebbe vergognarsi sono io con la mia testaccia vuota».
Non era arrabbiato, nemmeno offeso, dispiaciuto o altro. Si spiegava in un modo fastidiosamente pacato e per giunta il nervosismo aveva lasciato spazio al divertimento, come se tutto fosse un’enorme barzelletta da raccontare agli amici e scherzarci sopra. Perché si scusava? E, soprattutto, perché insisteva nel ribadire che dovevo dimenticare tutto? Qualcosa non andava. Qualcosa mi stava sfuggendo.
And I don’t mind if you say this love is the last time. So now I’ll ask do you like that?
No, sinceramente mi era tutto perfettamente chiaro, solo che mi rifiutavo di crederci, di accettarlo e di ammettere che, dentro di me, l’avevo sempre saputo che sarebbe andata a finire in questo modo schifoso.
Le pareti sembravano improvvisamente volermi schiacciare e mi sentivo mancare l’aria, quasi come se soffocassi così, senza rendermene conto e desiderando solo di volatilizzarmi, mi alzai dallo sgabello, cercando freneticamente nelle tasche del giubbotto che nemmeno avevo tolto qualche spicciolo che lanciai sul bancone per poi dirigermi dritto verso la porta, uscendo in strada e ignorando la leggera nebbiolina che si era alzata e che ora circondava l’ambiente, senza comunque sconfiggere la lucentezza delle lucette colorate e delle varie decorazioni natalizie che pendevano dai negozi, dagli edifici e dalle case. Le finestre, addirittura, sembravano vomitare costantemente lumini rossi e verdi mentre un Babbo Natale ciccione salutava i passanti con un braccio meccanico, appeso all’insegna del bar.
Sospirai, notando come il respiro si condensava a contatto con il freddo e ripetendomi che, dopotutto, non potevo di certo aspettarmi altro, anche se continuavo a chiedermi il perché di tutta quella scena ieri sera per poi finire con un bacio che, per quello che mi riguardava, non mi era dispiaciuto affatto. Ovvio, io non avevo aspettato altro nonostante fossi consapevole che non potevo pretendere subito tanta confidenza dato che, per essere pignoli, non ci conoscevamo così bene. Ero stato felice, però, quando aveva annullato le distanze tra di noi e nemmeno a lui, ne ero certo, dicesse pure tutto quello che voleva, era andata tanto male, mica ero così inesperto. A conti fatti, però, era ovvio, lo era sempre stato, solo che non avevo voluto vederlo: ero stato un diversivo, un qualcosa di nuovo. Un cazzo di passatempo, se così volevamo metterla.
«Sono proprio un cretino» borbottai, udendo poi il campanello della porta che si apriva e distinguendo dei passi che scendevano svelti le scale.
Non ebbi nemmeno bisogno di voltarmi a controllare, sapevo benissimo di chi si trattava.
«Ace» chiamò Marco, cercando di essere gentile e allo stesso tempo convincente, «Avanti, dimmi cosa c’è».
Mi morsi un labbro, indeciso. Non volevo dirglielo, sarebbe stato come ammettere tutto ed espormi troppo, anche se dopo quella scenata avevo poco da nascondere, ma ormai non avevo molta scelta e forse, se mi avesse spiegato per quale ragione aveva deciso di allontanarmi nonostante fosse chiaro a entrambi che assieme riuscivamo ad andare d’accordo e che provare a conoscerci seriamente non costava nulla, avrei potuto capirlo e mettermi l’anima in pace. Quello che volevo era una valida spiegazione.
Così mi voltai a guardarlo, deciso a fare chiarezza.
«Perché mi hai baciato?» sputai fra i denti, stringendo i pugni lungo i fianchi, «Perché quel bacio? Cosa significava?».
Mi guardò spaesato, corrugando la fronte ed esitando qualche istante durante il quale mi sembrò di vedere l’indecisione scorrere nei suoi occhi, ma poi riprese il controllo e mi rispose, mandando in frantumi con una sola frase tutto ciò che di meglio mi ero aspettato e avevo sperato.
«Beh, era un bacio come un altro» spiegò, non capendo che il tono di voce spensierato con cui aveva pronunciato quelle parole era come una lama infilzata in profondità nel petto. Il colpo di grazia, però, arrivò dopo.
«C’era l’alcool, la musica, il casino e poi là fuori tu eri così vicino ed è successo. Cose che capitano alle feste, no?».
Lo fissai, immobile e con la netta sensazione che tutto ciò era sbagliato. Mi ero illuso, avevo immaginato tutto e frainteso ogni suo gesto. Quel bacio non era stato niente. Una cosa che capita.
Una cosa che non dovrebbe succedere per nulla al mondo, invece! Al giorno d’oggi la gente dispensa baci a destra e a sinistra come se non avessero alcun valore, solo per il gusto di scambiare la loro saliva con quella di sconosciuti. Perché è di questo che si parla. Divertimento. Divertimento e mononucleosi, ecco cosa. Ci si bacia così, senza motivo, senza pensare al male che si può causare e ai sentimenti dell’altra persona che, magari, sognava quel momento da una vita. Il modo giusto per rovinare tutto.
«Ho capito» feci gelido e impassibile, guardandolo dritto negli occhi e accennando a un sorriso amaro che di amichevole non aveva nulla. Se Law fosse stato presente sarebbe stato fiero di me e del mio sangue freddo. Dopotutto, avevo avuto un buon maestro.
Gli diedi le spalle e ritornai sui miei passi, deciso a mettere più distanza possibile tra me e lui. Non volevo più vederlo ne sentire la sua voce. Non sarei più andato al pub a cercarlo e se l’avessi incontrato per caso l’avrei evitato come la morte. Non poteva pretendere che lasciassi perdere, non quando era chiaro come il sole quello che provassi nei suoi confronti. Persino un idiota come Rufy aveva capito quanto quel ragazzo mi piacesse senza conoscerlo di persona e quanto tenessi al rapporto che stavamo instaurando. Troppo forse, e per questo mi ero lasciato andare, dimenticandomi di non abbassare la guardia, lasciandomi prendere la mano e smettendo di avere sempre la solita aria coraggiosa e spavalda che mi caratterizzava in qualsiasi situazione e relazione. Quello, invece, era riuscito a smontarmi e a mettermi nel sacco solo con uno sguardo e un paio di sorrisi. E i modi di fare, il carattere, il calore che emanava. Tutto.
«Aspetta, Ace» iniziò a dire, «Ace, dai, non volevo dire questo…».
Lascia perdere, lascia perdere, lascia perdere, mi ripetevo, serrando la mascella a affrettando il passo. Non potevo continuare a farmi illusioni e a permettergli di condizionarmi in quel modo quando era ovvio che per lui ero solo un ragazzino con una cotta idiota per uno più grande. Perché era questo che rappresentavo: un moccioso. Ed era così frustrante sapere che di certo lui aveva di meglio da fare: una compagnia di amici, ragazzi maturi e non come me, magari addirittura un fidanzato, mentre io speravo tutte le sere che, prima o poi, si accorgesse della mia esistenza.
«Ace, fermati!». Mi sentii afferrare per un braccio ma mi divincolai alla svelta dalla presa, girandomi verso di lui e alzando le mani in segno di difesa, come a volergli indicare di fermarsi e di non andare oltre.
«Marco, davvero non preoccuparti. Va tutto bene. Io ho capito e non ho nessun problema» gli assicurai distaccato, guardandolo da sotto il frontino del cappello e notando come scuoteva il capo in un gesto di diniego, sospirando esasperato.
«No invece, altrimenti perché avere questa reazione?» fece a sua volta, lanciandomi un’occhiata sarcastica.
Avrei tanto voluto fare buon viso a cattivo gioco, essere superiore, ma proprio non ce la facevo, non potevo. Per quanto poco ci conoscessimo mi ero spinto troppo oltre per dimenticare e fare finta di nulla come invece avrei dovuto. Volevo dimostrargli di non essere infantile, ma in quel momento desideravo solo spaccare la faccia a qualcuno, lui compreso.
«Senti, lasciami stare, okay?» gli intimai, indietreggiando e iniziando a voltargli di nuovo le spalle per andarmene.
«Andiamo, che ti dovrei dire? E’ stato solo un bacio, dannazione!».
Something’s getting in the way, something’s just about to break. I will try to find my place so tell me how it should be.
«Appunto!» urlai, ritrovandomi faccia a faccia con lui in pochi secondi e fronteggiandolo senza timore nonostante fosse più alto di qualche centimetro, tirando fuori il vero Ace, quello che non temeva nulla. «Non hai ancora capito che per me non si è trattato solo di questo? Sul serio non ti è mai passato per la mente che delle poesie non me ne fregasse un emerito cazzo e che mettessi piede in quel tuo fottuto locale unicamente per vederti? Sei così cieco, Marco?».
L’espressione stupita che lo colse lo fece anche zittire all’istante e boccheggiare nel non sapere cosa rispondere di fronte alla mia schiettezza, nonché cruda verità.
Respirai profondamente, ma ciò non mi calmò affatto e, anche se sbattergli in faccia la realtà dei fatti, la mia realtà, era servito a farmi sentire più leggero, continuavo ad essere arrabbiato.
«Ace, io… Io non so…» provò a dire, ma preferii tagliare corto e mettere fine a quella scenata che era andata anche troppo oltre. Mi ero già reso abbastanza ridicolo per quanto mi riguardava e tutto ciò era così frustrante e odioso.
«Lascia perdere, non ha importanza. Dopotutto, sono cose che capitano» feci velenoso. Con queste parole mi avviai e non mi voltai indietro, incamminandomi per la strada e allontanandomi il più in fretta possibile e dimenticarmi di quell’orribile giornata, sperando disperatamente di non doverlo riaffrontare mai più perché non avrei retto un’altra volta ad un confronto del genere.
As I burn another page, as I look the other way. I still try to find my place so tell me how it should be.
* * *
«No».
«E questo?».
«Neanche».
«Allora quello. Non sembra male».
«Nah».
«Eustass-ya, smettila di fare lo stronzo e impegnati, stiamo parlando del regalo per Killer-ya. Quel simpatico metallaro con i capelli lunghi che ti sopporta tutti i giorni senza mai chiedere di essere risarcito, ricordi?».
«Sta zitto Trafalgar».
Alzai gli occhi al cielo, ormai al limite della sopportazione. Convincere Kidd ad accompagnarmi a fare spese per natale non era stato difficile; avere la sua attenzione e far si che gli piacesse qualcosa, invece, si stava rivelando arduo e complicato: non gli comodava nulla! I regali per i miei coinquilini, anche se non li meritavano affatto per i loro comportamenti da impiccioni curiosi degli ultimi giorni, avevo dovuto sceglierli tutti io mentre lui se ne andava in giro tranquillo e indisturbato, curiosando qua e la e perdendosi per una mezz’ora buona dentro al negozio di videogiochi, fissando con intensità l’ultimo capitolo di Assassin’s Creed e, ne ero sicuro, meditando nella sua mente di rubarlo e tornare a casa con quel fottuto dischetto per play station.
«Potresti almeno dirmi cosa gli piace, così mi arrangio a trovargli io qualcosa?» gli chiesi esasperato, afferrandolo per un lembo del giubbetto bordeaux con una pelliccia di chissà quale animale come girocollo e facendogli fare un passo indietro per far si che si ritrovasse faccia a faccia con il mio sguardo scocciato e al limite della sopportazione.
Mi dedicò un ghigno di scherno, facendomi notare che me l’ero cercata da solo quella situazione e ricordandomi che lui avrebbe preferito rimanere a casa a dormire invece che ‘rompersi il cazzo’, testuali parole, e vagabondare per negozietti come i vecchi pensionati.
Mollai la presa e gli scoccai un’occhiata ammonitrice, pensando già ad un modo per vendicarmi di lui e di quel suo comportamento irrispettoso ed infantile, nonché capriccioso. Non mi sembrava di chiedere troppo, inoltre era di un suo caro amico che stavamo parlando. Se per lui non si interessava minimamente, allora io dove finivo? Nell’ultimo gradino della sua scala di interessi?
Tornai a guardare le vetrine, infischiandomene della sua presenza e lasciandolo indietro quando ebbi un’illuminazione e mi fiondai all’interno di un negozio dall’aria bizzarra, trovando esattamente quello che stavo cercando e che sarebbe stato adatto e gradito dal nuovo fidanzato di Penguin. Un set di coltelli da macellaio che si accompagnava al suo particolare cognome, adatti per qualsiasi cenone di natale o festicciole simili mi sembrava il pensiero perfetto e migliore che potesse venirmi in mente. A proposito, quei due avevano da spiegarmi un paio di cosette ora che ci pensavo meglio.
Arrivai alla cassa e aspettai il mio turno con un malsano sorriso stampato in faccia fino a quando non vidi un energumeno incazzato che sbuffava come un toro entrare e farsi largo tra i clienti per raggiungermi e piazzarsi accanto a me con uno sguardo feroce.
«Perché cazzo sparisci senza dire niente, coglione?» urlò, senza curarsi di abbassare la voce e non prestando attenzione alle persone comuni che gli lanciarono sguardi incuriositi, stupiti e sconcertati, tornando a farsi i propri affari quando il rosso chiese loro ‘cosa cazzo avevano da fissare’.
Rimanendo impassibile e sordo davanti ai suoi insulti, sorrisi cordialmente alla commessa e le chiesi se gentilmente poteva farmi un pacchetto regalo. Nel mentre, Kidd, prese a giocherellare con i portachiavi esposti.
«Possiamo andarcene dopo? Mi sono stufato di gironzolare a vuoto» brontolò stizzito quando era evidente che la ragazza alla cassa non aveva ancora terminato di incartare il regalo con un’adorabile carta a pois che mi ricordò le camicie improponibili del biondo.
«Eustass-ya, piantala» feci categorico, non ammettendo repliche e scambiandomi un’occhiata complice con la simpatica signorina dai buffi vestiti alternativi ed estroversi e con il trucco agli occhi pesante.
Lei sorrise e, con l’intento di conversare e rendersi disponibile, chiese:
«Siete fratelli? Io il mio a volte faccio fatica a sopportarlo» mi confessò, riferendosi ai nostri bisticci continui e accompagnando la frase con una risata particolare, ma del tutto normale se consideravo le voci che ero costretto a sentire stando in mezzo a Rufy e alla sua allegra combriccola di pazzi.
«In realtà è il mio ragazzo, quindi è doppiamente rompi coglioni» dichiarai disinvolto, godendomi l’espressione sorpresa della ragazza e ancora di più quella scandalizzata di Kidd.
Perona, così c’era scritto sul suo cartellino appuntato alla camicia nera e viola, si congratulò nello stesso istante in cui Eustass-ya dava in escandescenza, chiedendomi se fossi diventato matto all’improvviso.
«Ora calmati, tesoro» sogghignai malefico, prendendolo a braccetto e facendo il ruffiano per metterlo alle strette e in imbarazzo, prendendomi anche la mia piccola vendetta personale per il modo in cui se ne era fregato dei regali, «O chissà cosa penserà la venditrice».
«Ma vaffanculo tu e la commessa!» urlò di nuovo, facendo zittire tutti e scrollandosi di dosso il mio braccio come se avessi la peste, dirigendosi svelto verso l’uscita accompagnato dalle canzoncine natalizie in sottofondo e facendomi pensare con divertimento ai vari modi in cui avrei potuto prenderlo in giro visto il modo in cui i suoi capelli intonavano perfettamente con l’atmosfera festosa e tutte le lucette che ci andavano dietro.
«La prego di scusarlo».
«Ma si figuri. E se posso permettermi: siete così carini» trillò lei, sorridendo come un’esaltata e porgendomi il pacco.
Ringraziai e salutai, augurando a tutti un buon natale e uscendo per mettermi alla ricerca di quello svitato che trovai seduto su una panchina lungo la galleria del centro commerciale a qualche metro di distanza mentre fulminava qualsiasi cosa con lo sguardo torvo e un ringhio trattenuto in una smorfia minacciosa. Un bimbo che provò a sedersi accanto venne terrorizzato e fatto scappare via nel giro di qualche secondo.
Lo raggiunsi gongolante e poggiai le borse lasciandole cadere pesantemente sulla seduta, attirando la sua attenzione e facendo si che mi guardasse in faccia, mostrandomi il suo disappunto e la confusione che gli avevano causato le mie azioni.
«Credi di spaventare anche me?» chiesi sarcastico, sedendomi vicino a lui e fissandolo da sotto il cappello.
Tornò a guardare di fronte a sé, pensieroso, cosa del tutto anormale nel suo comportamento, ma aspettai con pazienza che mi spiegasse cosa lo aveva turbato tanto. Era vero, non avevamo ufficializzato niente, ma era stato lui a farsi avanti la sera prima, impedendomi di andarmene e offrendosi come valido motivo per farmi restare. Per quanto assurdo potesse sembrare, quel gesto e lui stesso erano abbastanza per convincermi a smettere di scappare.
Reprimendo l’idea che si fosse pentito di tutto e che in quelle ore successive ci avesse ripensato, continuai ad aspettare un qualcosa da parte sua.
«Hai davvero intenzione di presentarmi al mondo come tuo fidanzato?» chiese ad un tratto, senza guardarmi direttamente in faccia. Fino a qualche mese prima avrei fatto una smorfia nell’udire quella frase e quello che essa implicava.
«E tu?» domandai retorico a bassa voce, «Vuoi che lo faccia? Anche dopo quello che ti ho raccontato?».
La paura che non mi accettasse non se ne era andata e forse mai lo avrebbe fatto, nonostante io continuassi ad apparire spavaldo, sicuro e deciso. Sarebbe sempre rimasta in un angolino, nascosta magari, o dimenticata, ma ci sarebbe stata comunque. Era dunque sbagliato cercare di avere delle certezze? In quel modo lo avevo messo alla prova per assicurarmi che tutto fosse a posto, come lo avevamo lasciato, senza la presenza di novità scomode o dolorose da dover sopportare dopo essere passato dalla solitudine alla compagnia di qualcuno che mi capisse e che non rabbrividisse di fronte al mio lurido passato, a volte troppo pesante persino per me. Tutto quello che gli avevo raccontato a riguardo, tutto quello che avevo dovuto sopportare e soffrire in silenzio, era una cosa che non avevo mai detto ad anima viva, eccetto le persone che mi conoscevano da anni. Non aveva senso rispolverare vecchie ferite tanto profonde a persone che andavano e venivano e che non avrebbero durato più di un mese con me. Mi sembrava un argomento troppo personale per condividerlo con gente estranea.
Eustass-ya, invece, era stato l’eccezione alla regola, perciò dovevo esserne sicuro, dovevo sentirmelo dire chiaramente che era tutto sistemato e che non mi disprezzava per il modo in cui avevo agito in uno scatto d’ira e desolazione. Volevo solo sentirmi accettato, per una volta. Una sola.
Sentii un braccio appoggiarsi sulle mie spalle e una mano afferrarmi la nuca per voltarmi e farmi ritrovare faccia a faccia con un divertito e ghignante Eustass-ya che, con un’espressione che mi diede i brividi, incollò le sue labbra alle mie, dettando le regole del bacio e prendendo lui il comando.
Quando si staccò e vide che una coppia di vecchiette ci stava indicando con fare scandalizzato, scuotendo il capo in segno di diniego, rivolse loro un gesto osceno con la mano, indicando dove andare a farsi fottere con un sorriso folle che nascondeva l’emozione di quella nostra consapevolezza.
«Che avete da guardare? E’ solo il mio ragazzo».
* * *
Fuori il sole stava lentamente calando, lasciando piano piano che la sera fredda e piena di stelle avvolgesse Sabaody come in un lento e inesorabile abbraccio. Probabilmente tra pochi giorni avrebbe nevicato e le strade sarebbero state impraticabili per un po’, mentre le case, gli alberi e qualunque altra cosa si sarebbe tinta di bianco. Personalmente non vedevo l’ora. Adoravo la neve, forse addirittura la amavo. Era soffice, scendeva sotto forma di fiocchi leggeri che svolazzavano nell’aria e ti si appiccicavano sui vestiti di lana. Ti arrossava le guance e il naso e il divertimento che portava non aveva eguali. Quante battaglie avevamo fatto io e i ragazzi negli anni scorsi? Quante volte eravamo scivolati a terra per una lastra di ghiaccio invisibile? Quante risate avevamo scatenato? Speravo davvero che iniziasse a nevicare, soprattutto ora che il natale si stava avvicinando.
Tutte le mie riflessioni passarono in secondo piano quando un movimento sotto alle coperte attirò la mia attenzione, svegliandomi completamente dal dormiveglia e facendomi sbattere le palpebre più volte per orientarmi all’interno della stanza.
Ero quasi sicuro che si trattasse di camera mia, quasi però, perché il groviglio di lenzuola dentro al quale ero intrappolato non mi permetteva di muovermi come invece avrei voluto fare. Mi sentivo solo al caldo e stavo stretto, mentre il suono famigliare di respiro regolare mi giunse chiaro alle orecchie e mi costrinse a voltarmi verso la fonte del rumore. Già immaginavo di chi si trattasse, ma volli ugualmente controllare e un sorriso gioioso si fece strada sul mio volto quando notai dei lunghi capelli biondi sparsi sul cuscino. In quel momento mi sembrò quasi di scoppiare dalla felicità che, finalmente, mi era stata concessa.
Se me l’avessero detto qualche settimana prima non ci avrei mai creduto, ma i ricordi della sera passata erano chiari nella mia testa: avevo baciato Killer. L’avevo baciato, mi ero dato del coglione e poi era stato lui a cercarmi e a riprendere quello che io avevo iniziato. Tralasciando il fatto di essere stato beccato in flagrante dalle ultime persone che avrei mai voluto incontrare al ritorno, era stata la nottata più bella della mia vita. Una volta rinchiusi in camera non avevamo fato altro che baciarci, baciarci e baciarci, come se il mondo dovesse finire e noi non avessimo altre occasioni per farlo. Poi ci eravamo addormentati per la stanchezza, vicini, con le gambe incrociate e i visi che si sfioravano. Non avrei potuto chiedere di meglio come inizio e risvegliarmi con lui accanto mi sembrava un sogno vero e proprio. Addirittura faticavo a crederci.
Un mormorio indistinto mi fece chiudere gli occhi all’istante e affondai la faccia nel cuscino quando una mano strinse più forte e in modo possessivo la mia schiena, facendomi rotolare sul materasso e scontrarmi con un petto nel quale vibrò una leggera risata.
La luce sul comodino si accese con un piccolo clic ed io mi arrischiai a dare un’occhiata timida da sotto al lenzuolo che mi ero agilmente tirato sopra alla testa, percorrendo con lo sguardo le spalle del ragazzo e risalendo fino ad incontrare i suoi occhi sotto alla frangia scompigliata e disastrata.
«Buongiorno» sorrise Killer.
«Ehm» provai a dire, ma per qualche strana ragione le parole mi rimasero incastrate in gola, abbandonandomi nel più completo imbarazzo e facendomi arrossire di botto, ne ero certo. Lo capivo benissimo quando non ero a mio agio: sentivo caldo e le guance mi andavano inevitabilmente a fuoco.
«Dormito bene, piccoletto?».
«Ehi, non chiamarmi in quel modo!» ribattei, animato da chissà quale coraggio e richiudendo subito dopo la bocca, sentendomi ancora più sciocco.
Killer rise davanti alla mia confusione e, senza darmi il tempo di reagire, mi strinse in un abbraccio da orso rischiando seriamente di soffocarmi. Poteva fare concorrenza a Bepo in fatto di effusioni affettive. Ad ogni modo risposi al gesto, abbracciandolo a mia volta come potevo e sentendomi così bene fra quelle braccia che desiderai non dovermi più alzare per continuare a sentirlo così vicino e tutto per me.
«Devo dire che mi hai stupito ieri» disse ad un tratto, disegnandomi distrattamente con le dita dei cerchi sulla spalla, «Non avrei mai pensato che fossi tu a prendere l’iniziativa. Credevo di dover penare un altro po’ prima di poterti anche solo avvicinare in quel modo».
«Oh beh, sinceramente sono rimasto colpito da me stesso persino io» confessai.
«Sul serio, cosa ti ha spinto a farlo?».
Ci riflettei per un attimo, vagliando le risposte e cercando di ricordare cosa aveva dato il via a tutto. Non ero più tanto sicuro di essere stato drogato, quindi poteva essere colpa, anzi merito, solo dell’alcool, o l’eccitazione per la gara di danza, oppure, molto probabilmente, il fatto che fossi riuscito a smettere di pensare alle conseguenze e mi fossi semplicemente deciso a fare un passo nel vuoto senza sapere cosa aspettarmi.
«Forse ero stanco di sentirmi invisibile» risposi invece, con una calma e una semplicità disarmanti.
Restammo in silenzio per alcuni minuti, ognuno perso nei propri pensieri, fino a quando dei rumori molesti provenienti dalla cucina attirarono la nostra attenzione dandoci un valido motivo, anche se con dispiacere, per alzarci dal letto e cercare di renderci presentabili.
Liberarci delle coperte fu un piccolo problema, ma alla fine riuscimmo a disfarci completamente delle lenzuola arrotolate attorno ai nostri corpi e potemmo alzarci, venendo immediatamente colpiti entrambi dalle vertigini e dal senso di nausea che comportava un classico dopo sbornia con i fiocchi. Non credevo di aver bevuto così tanto; forse la mia intraprendenza e l’abbassamento delle mie inibizioni era davvero merito dell’alcool. Se così fosse stato avrei dovuto diventare un alcolista molto tempo prima.
«Che fine ha fatto la mia maglia?» stava chiedendo Killer, accucciato accanto al letto e intento a spiare sotto al materasso se ci fosse qualcosa di suo per poi rivolgermi una scherzosa frecciatina. «Avevi così tanta fretta di farla sparire?».
Sentendomi preso in causa e cercando di nascondere la pelle d’oca negai categoricamente di aver avuto quell’intenzione e passai i cinque minuti successivi a cercare il suo straccio colorato. Se mai avessimo deciso di uscire insieme gli avrei fatto un discorsetto riguardante l’abbinamento dei colori e la poca eleganza delle maglie a pois. Andiamo, facevano pena!
Una volta trovato il suddetto indumento, finito chissà come e per caso nel cestino dell’immondizia che tenevo accanto alla scrivania, gli feci strada con l’intento di uscire dalla stanza, ma venni fermato prima di abbassare la maniglia della porta dalla sua mano che si posò cautamente sopra alla mia.
«Penguin» mi chiamò con calma, al che io risposi alzando lo sguardo verso il suo in attesa che continuasse.
Seguì un breve silenzio, spezzato solo dal nostro respiro e da un sonoro tonfo proveniente dall’altra parte dell’appartamento che mi fece domandare cosa diavolo stavano combinando gli altri. Quello che causava disastri domestici, di solito, ero io o Ace, a seconda di come ci girasse la giornata.
«Potremo uscire qualche volta, che ne dici?» chiese a bruciapelo, prendendomi alla sprovvista ma dandomi un altro motivo per sorridere e sentirmi al settimo cielo.
«So che ci siamo baciati e che, dopo che abbiamo dormito assieme, la situazione non dovrebbe essere difficili da capire» spiegò, «Ma vorrei, insomma…».
«Fare le cose con calma» conclusi per lui, alleggerendo l’atmosfera e facendo si che si rilassasse e che la smettesse di stringermi convulsamente il polso per il nervosismo.
Sembrò sollevato e, dopo avermi posato un casto bacio sulle labbra, mi incitò ad uscire e a fargli strada, tanto che approfittai all’istante dell’occasione per dargli le spalle e impedirgli di notare l’espressione idiota che mi stava possedendo in quell’istante per la dolcezza del suo gesto nei miei confronti.
C’era poco da fare, ero euforico e niente poteva farmi smettere di sorridere ed esultare interiormente, nemmeno Zoro che, in mezzo al salotto, stava dormendo con la faccia spiaccicata a terra e le gambe stese sul divano con Bepo accanto a lui che pareva appena uscito da una tomba vista l’aria da zombie che aveva.
Angolo Autrice.
D’accordo ragazzi, sono di fretta e prometto che correggerò tutti gli errori stanotte o domani mattina!
Solo qualche parola sul capitolo.
Dunque, ci tengo a citare il nome della canzone che accompagna il pezzo tra Ace e Marco. Il titolo è The Diary of Jane, Breaking Benjamin. Ad ogni modo, si, tra i due non andrà tutto rose e fiori, mi dispiace. Li amo tantissimo, ma non ce la facevo proprio a rendere tutto arcobaleni e unicorni rosa. Un po’ di tristezza, stallo, strazio, come volete, ci stava e loro sono state le vittime.
Kidd e Law sono ghdyuagvdfyuik. Grazie ai commenti di Perona. Grazie alle vecchie bifolche. Grazie a Oda che spero mi regali i diritti sui personaggi così fantasticamente bastardi e fottutamente innamorati, anche se preferirebbero scannarsi vivi piuttosto che ammetterlo.
Killer e Penguin sono cuccioli, non hanno fatto niente, lol. So che Penguin di solito è visto come un piccolo maniaco, ma portate pazienza, almeno ha tolto la maglia al suo ragazzo xD
Beh, sicuramente domani aggiungerò qualcosa, ora filo!
Un grazie a tutti, siete troppo meravigliosi e io sono troppo… insomma, non vi merito!
Un abbraccione!
See ya,
Ace.
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Capitolo 17 *** Capitolo 15. Un Rosso Natale. (Speciale Natale). ***
Capitolo 15.
Un Rosso Natale.
-Speciale Natale-
«Allora, riprendiamo da capo. Chi si offre?».
Il problema era il solito tutti gli anni: chi si sarebbe vestito da Babbo Natale?
Questa tradizione, imbarazzante, straziante e orribile tradizione per essere chiari, aveva preso vita all’incirca quattro anni prima quando, per sfortuna di tutti, durante una cena di Natale, Rufy aveva guardato fuori dalla finestra e aveva visto un uomo vestito di rosso e con la barba folta e bianca girare per le case del quartiere distribuendo regali ai bimbi che vi abitavano. Non c’era stato verso di fargli capire che quell’uomo non avrebbe mai accettato di unirsi a noi per festeggiare e che non ci avrebbe fornito nessun tipo di dono, non a dei ragazzi maggiorenni e mezzi sbronzi. Il ragazzo aveva ignorato tutti i nostri avvertimenti ed era sceso in strada a parlare con il povero travestito che cercava solo di fare il suo lavoro al meglio, ovvero portare gioia ai piccoletti del vicinato, e di certo non si aspettava di venire importunato da un adolescente con il moccio al naso e le idee stravaganti ed infantili. L’uomo era rimasto tanto scandalizzato da giurare che non avrebbe mai più rimesso piede in quella parte di città, lasciando i figli dei vicini nella piena tristezza e causando a noi non pochi problemi. Per non beccare qualsiasi tipo di denuncia per disturbo della quiete e, soprattutto, per evitare anche che Rufy venisse portato via dagli assistenti sociali, avevamo pattuito con il resto degli abitanti di quella via che ci saremmo presi noi la responsabilità ogni anno di fare Babbo Natale e portare regali ai più piccoli. Ovviamente mio fratello non l’aveva passata liscia per la sua marachella ed era stato il primo, l’anno successivo, a dover indossare il costume e fare il lavoro più duro. Non erano passata nemmeno mezz’ora che qualcun altro era stato costretto a prendere il suo posto, dato che il giovane non aveva intenzione di dividere i suoi dolci e il resto del contenuto del sacco con gli altri.
Vestirsi come il vecchio era il minimo, la seccatura più grande e che ci preoccupava, invece, era il fatto che Rufy si fosse innamorato talmente tanto dell’idea da pretendere che, durante la cena della vigilia di Natale, dopo aver distribuito tutti i doni, il povero malcapitato dovesse rimanere vestito e continuare la sua parte persino dentro l’appartamento dove eravamo soliti festeggiare.
Quell’anno, in quell’esatto momento e a meno di due giorni dalla vigilia, stavamo cercando di scegliere chi avrebbe dovuto patire le pene dell’inferno, anche se nessuno era disposto a sacrificarsi, nemmeno se in palio c’era il più bello dei regali.
«Penguin? Tu non l’hai ancora fatto» feci notare al ragazzo col berretto davanti a me, il quale stava seduto su una sedia della cucina con i piedi incrociati sopra al tavolo. Avevamo appena finito di addobbare l’appartamento, le stanze e la porta d’ingresso. Pure l’albero era al suo posto, così come il presepe con le pecore giallo fosforescente e le statuine che avevano visto tempi migliori di quelli.
Non appena pronunciai il suo nome iniziò subito a scuotere il capo in segno di diniego, fornendoci come scusa il fatto di essere appena riuscito a fare passi da gigante con Killer e che per quel motivo non voleva di certo rischiare di ‘mandare tutto a puttane’, come disse espressamente, vestendosi come un ‘dannato vecchio pedofilo’.
Bepo alzò gli occhi al cielo, già fuori dalla lista nera per essersi tolto da quell’impiccio l’anno precedente. La sua performance era stata una delle migliori e quella con meno incidenti considerando il suo carattere paziente e troppo malleabile.
«Law cosa ne pensa?».
Bastò un’occhiata eloquente da parte mia per mettere a tacere la proposta di Penguin, facendogli tornare alla memoria la strage che aveva combinato quel sadico. Trafalgar era stato quello che il primo anno aveva preso, stranamente di sua volontà, il posto di Rufy. Inutile dire che dopo quel Natale nessuno aveva più osato lasciare gironzolare a briglia sciolta per il quartiere i propri animali domestici, cani o gatti che fossero.
Potevamo chiederlo al resto di liceali incalliti che presenziavano al cenone ma, a parte il fatto che Sanji e Zoro avevano già fatto la loro parte, non ero tanto sicuro che domandarlo a quelli che restavano servisse a toglierci dai guai. Rimanevano sempre uno peggio dell’altro e, per quanto noi universitari con un po’ di cervello in più desiderassimo evitare la maggior parte dei problemi, non uscivamo mai del tutto indenni dalla notte di Natale.
«Ace, avanti, fallo tu, ti prego!» implorò allora il ragazzo, unendo i palmi e cercando disperatamente di convincermi, senza ottenere nemmeno un cenno affermativo. L’avrei fatto volentieri, sul serio, ma non ero proprio dell’umore adatto per stamparmi in faccia un sorriso, nemmeno finto, e andare a suonare campanelli cantando canzoncine allegre. Tutt’altro, volevo solo mandare tutti a quel paese, infilarmi un cappotto e andare a fare lunghe e infinite passeggiate con la musica nelle orecchie pur di sentirmi lontano dal mondo. Per quanto cercassi di non pensarci e di lasciar correre, le parole di Marco erano state dure da digerire e, a dire il vero, bruciavano ancora un po’.
Ma chi voglio prendere per il culo, non faccio altro che darmi dello stupido da giorni ormai. Dovevo reagire diversamente, o almeno aspettarmelo e prepararmi in anticipo. Dio, se solo ripenso a quello che mi ha detto mi prudono le mani. ‘Una cosa che capita’. No, non potevo fare finta di niente, non dopo tutto quel tempo passato in quel maledetto bar a parlare e straparlare con lui! Come ha potuto essere così indifferente? Come ho potuto io essere così coglione!
«Ehi, mi stai ascoltando?».
Ah, fanculo Marco!
«No, cosa c’è?» feci, leggermente infastidito. Mi dispiaceva rispondere male e comportarmi da ragazzina mestruata, ma sapevano benissimo che non erano loro il mio problema e mi capivano senza fare troppe domande, per questo Bepo non si lasciò scoraggiare dalla mia risposta acida e continuò con il suo discorso, riformulando la domanda.
«Chiedevo se quest’anno non potevamo evitare tutto questo».
«Sai quanto ci tiene Rufy» dissi con tono arrendevole e rassegnato al peggio, «Farà il diavolo a quattro se non lo accontentiamo».
Se non fosse stato per quella peste con il mio stesso sangue, a quell’ora avremmo già smesso di fare cazzate da un pezzo, ma lui era onnipresente e se non lo accontentavamo finivamo per rovinarci tutte le feste, capodanno compreso. Ancora ricordavo quando, su consiglio spassionato, ma non troppo, di Law, avevo rivelato a Rufy che Babbo Natale non esisteva per davvero. Il disastro, le piaghe d’Egitto e la fine del mondo mi ero aspettato, invece, a discapito di tutto e alla faccia del mio coinquilino, il piccoletto non era impazzito e non ci era nemmeno rimasto male. Aveva semplicemente detto che finché l’avrebbe visto aggirarsi per le strade di Sabaody avrebbe continuato a crederci. Sapeva benissimo che ogni anno uno della compagnia era obbligato a vestirsi, ma non gli importava e continuava a sorridere come un bambino innocente ogni volta che vedeva il cappello rosso e un regalo sotto l’albero con su scritto il suo nome a caratteri cubitali. A lui bastava e, dopotutto, quella sua gioia la trasmetteva in parte a me che avrei tanto voluto essere come lui in quei momenti: spensierato e felice per qualsiasi cosa, anche per una singola risata.
Perciò decisi che sarei stato io a scarpinare sotto la neve quella volta. L’avrei fatto per mio fratello e per l’affetto e la devozione che mi dimostrava ogni giorno, senza sosta e gratuitamente.
«Fermi tutti!» urlò Penguin all’improvviso e nell’esatto istante in cui stavo per aprire bocca e rassegnarmi alla malasorte che mi aveva preso di mira in quel periodo. A quanto pareva gli era venuta una brillante idea a giudicare dal contorto sorriso che gli apparve sul volto.
«Ho l’uomo che fa per noi!» proclamò solennemente, alzandosi di scatto e rovesciando la sedia sul pavimento. Non perse tempo a rimettere in ordine perché corse in salone a recuperare il suo cellulare e a digitare alla velocità della luce un numero sul display, portandosi poi l’apparecchio alle orecchie e attendendo che la persona dall’altra parte a noi sconosciuta rispondesse.
«Killer? Sono Penguin».
«Conosce già il numero a memoria?» mi sussurrò Bepo, chiedendo spiegazioni.
Lo guardai stringendomi nelle spalle, «Lo conosce dal primo momento in cui l’ha ottenuto».
«Ascolta, secondo te abbiamo qualche possibilità di convincere Kidd a vestirsi da Babbo Natale?».
«Cosa?» chiedemmo in coro Bepo, io e persino Killer dall’altro capo del telefono, la quale voce ci giunse chiara e forte fino in cucina. Che idee venivano in mente a quell’idiota? Ovvio che Eustass non avrebbe mai accettato di rendersi ridicolo scendendo così in basso. Già faticava a comportarsi civilmente, figuriamoci se lo mettevamo a distribuire regali ai più piccoli. Li avrebbe spaventati a morte con i suoi modi rozzi. Non che avessi qualcosa contro di lui, ormai era un amico, anche se leggermente inquietante, ma non ero nessuno per giudicare e poi, volendo vedere la cosa da tutti i punti di vista, nessuna persona normale avrebbe potuto instaurare una relazione seria con Law. L’unica pecca era che la sua natura violenta non era la cosa migliore da mettere in mostra e non ero sicuro che obbligarlo ad accettare fosse una buona idea e il modo adatto per tenerlo buono e tranquillo. In quello ci riuscivano solo Killer, conoscente suo di vecchia data e Trafalgar. E il metodo in cui quest’ultimo riusciva a corrompere il rosso non volevo saperlo per nessun motivo al mondo.
«Ci sarà pure un modo per convincerlo! Lo conosci meglio di tutti noi e certamente sai anche qual è il suo punto debole». Ci fu un attimo di pausa, poi la discussione riprese. «Pensaci bene, so che c’è qualcosa, deve esserci, quindi parla!».
Dopo una decina di minuti fatta di insinuazioni, domande, leggere e velate minacce e promesse di risarcimento danni, Penguin sorrise vittorioso e salutò quel benedetto ragazzo, assicurandogli che non avrebbe dovuto preoccuparsi di niente e che ci avrebbe pensato lui a fare il lavoro sporco. Riattaccò e si voltò verso di noi con un luccichio sinistro negli occhi.
«So come convincere il fidanzatino di Trafalgar» dichiarò orgoglioso, sporgendo il petto come un gallo nel pollaio.
Alzai un sopracciglio scettico mentre Bepo si preoccupava di far notare al nostro coinquilino che, se mai Trafalgar l’avesse sentito parlare in quel modo, non avrebbe avuto vita lunga.
«Sciocchezze» liquidò la faccenda con un cenno della mano, «Tornando alle cose serie: Killer mi ha assicurato che Kidd accetterà sicuramente di vestire i panni di Babbo Natale».
«Posso sapere come? Non sembra esattamente il tipo di persona che si fa mettere i piedi in testa tanto facilmente, soprattutto per certe cazzate» gli feci notare, poggiando stancamente il mento su una mano e guardandolo in modo scettico. Avevo bisogno di un po’ d’aria e il modo in cui mi osservarono i due ragazzi, leggermente preoccupati, mi diede la conferma. Stavo uno schifo, senza dubbio.
«Fidatevi e aiutatemi a tirare fuori gli scatoloni con il necessario per vestirlo» ghignò, nascondendoci qualcosa di troppo, «Sarà senza dubbio un Rosso Natale per tutti».
* * *
Quel pomeriggio stava per diventare perfetto.
Ero a casa mia, al caldo e in vacanza; avevo appena finito di mangiare un mega panino e una bottiglia di birra vuota faceva la sua bella figura sopra al tavolino del salotto. Tutto tranquillo e tutto come doveva essere, soprattutto con la compagnia giusta.
«Kidd» mormorò Trafalgar, mentre subito gli tappavo quella sua boccaccia con un bacio frenetico e affamato. Sapevo che se l’avessi lasciato parlare avrebbe trovato il modo di smontarmi e rovinarmi l’umore buono con cui avevo deciso di concludere la giornata.
«Il telefono» riuscì a dire, facendomi notare solo allora una suoneria che strimpellava da qualche parte nella stanza.
Sbuffai seccato, lasciandolo scivolare malamente sul divano e mettendomi alla ricerca di quel maledetto cellulare con la sua risata divertita in sottofondo. Se la telefonata non fosse stata di estrema importanza avrei ucciso chiunque ci fosse stato dall’altro capo con le mie stesse mani.
«Pronto?» risposi con tono minaccioso e scazzato, sentendo poi la voce di Killer e imponendomi di calmarmi.
«Come va, amico?» chiese. La sua voce mi risultò stranamente incrinata e nervosa, ma pensai di essermela solo immaginato.
«Vieni al sodo, ho da fare» chiarii, lanciando un’occhiataccia significativa e infuocata a Law che, alle mie spalle, mi fissava il fondoschiena con due occhi maliziosi e il volto appoggiato al bracciolo del divano.
«Ehm, ecco. Non so come dirtelo. Vedi, la cosa è che…».
«Killer muoviti o ti butto giù. Cosa cazzo c’è?».
«DevivestirtidaBabboNatalelavigilia» sputò tutto d’un fiato senza che io capissi un accidenti.
«Parla più piano, non ti capisco» grugnii infastidito e ormai al limite.
«Devi vestirti da Babbo Natale la vigilia» scandì infine, dopo un respiro profondo.
A quelle parole non mi degnai nemmeno di rispondere e riattaccai con un’alzata di spalle, pensando che doveva essere tutto matto oppure ubriaco fradicio anche solo per pensare di farmi fare una roba del genere. Stava sicuramente scherzando.
«Ci sono problemi, Eustass-ya?» mi chiese Law con finto interesse.
«Killer ha blaterato qualcosa riguardo al fatto che io dovessi vestirmi da Babbo Natale» spiegai, rendendomi conto di quanto la cosa risultasse assurda e impensabile, nonché impossibile. Mai, e mi ripetei, mai avrei accettato una simile proposta. Era fuori discussione.
Mentre perdevo tempo a cercare di trovare un senso alla chiamata del mio migliore amico non notai l’espressione ambigua, ma preoccupante, che fece quel bastardo che era riuscito da poco a coinvolgermi in una relazione stabile. Io, il grande Eustass Kidd ridotto ad avere un fidanzato. Qualche tempo fa sarebbe stata la barzelletta del secolo.
Il telefono squillò ancora e, su sua precisa e insolita richiesta, mi ritrovai a rispondere e a sentire nuovamente la voce di Killer che, questa volta, andò al sodo come gli avevo chiesto in precedenza, spiegandomi senza tanti giri di parole la sua proposta e facendomi immobilizzare all’istante e digrignare i denti per lo squallore della sua maledetta minaccia. Come si permetteva di farmi ciò dopo tutti quegli anni di amicizia?
«Non oserai» sibilai seccamente.
«Scusami Kidd, ma non mi lasci scelta. Accetta o dirò a tutti del tuo corso di yoga».
«Figlio di puttana» ringhiai, attirando l’attenzione di Law che si alzò dalla sua postazione per saltellare vicino a me e osservarmi attentamente, mentre una mano scivolava languida dentro i miei pantaloni.
«Lo prendo come un si?».
«Sappi che questa me la paghi, stronzo!» detto questo riattaccai e scaraventai il telefono da qualche parte contro il muro sotto lo sguardo stupito e accigliato del moro al quale non diedi nemmeno il tempo di fare domande perché mi avventai su di lui, trascinandolo di peso sul pavimento e riprendendo da dove avevo lasciato, solo con più fretta e rabbia.
«Cattive notizie?» provò a scherzare, anche se immaginavo che già sapesse di cosa si trattava.
«Per te sicuramente».
* * *
Light me up with me on top lets falalalalalalala. Light me up with me on top lets falalalalalalala.
Era la notte della vigilia di natale, uno dei giorni che preferivo in assoluto anche se nessuna anima era vissuta abbastanza da poter raccontare questa mia particolare preferenza in giro. Come ogni anno il nostro appartamento si era trasformato in una piccola fabbrica di decorazioni di ogni genere come luci colorate; tre alberi di natale di diverse grandezze e bizzarre stelle appese; un presepe antiquato; una tavola stracolma di dolci, cibo e schifezze varie come panettoni, torte e stuzzichini; numerosi regali erano ammassati in un angolo del salotto e tutti si aggiravano per le stanze provvisti di cappello rosso e bianco e una birra in mano, intenti a sghignazzare o a cantare a squarciagola delle fastidiosissime canzoncine natalizie che lo stereo stava riproducendo in quel momento.
Era così ogni anno: dato che io e gli altri tre ragazzi che vivevano sotto il mio stesso tetto eravamo gli unici ad avere una casa propria senza dover sottostare alle regole di adulti o genitori, il resto della compagnia, capeggiati da quello squilibrato di Rufy, si sentivano in dovere di auto invitarsi a passare le feste da noi e a darsi alla pazza gioia senza sentirsi in trappola, liberi di fare tutto il chiasso che desideravano e accampandosi con i sacchi a pelo nel soggiorno fino all’arrivo del nuovo anno. Come dargli torto, probabilmente avrei fatto lo stesso pure io, ma quelli esageravano e non avevano affatto il senso di ciò che era lecito o no. Ad ogni modo erano comunque i benvenuti essendo persone che conoscevamo da tempo e verso i quali avevamo sviluppato una sorta di pazienza e capacità di sopportazione infinita.
In quel momento mi trovavo in terrazzo assieme a Brook, Bepo, Nami e Robin e stavo osservando con un ghigno divertito come Rufy scortava un ragazzone alto e muscoloso il doppio di lui verso ogni casa del quartiere con l’intento di aiutarlo a portare regalini ai figli dei vicini e interpretare la parte dell’elfo aiutante. Il tutto era così incredibile che non mi stupii nello scorgere il resto dei miei amici con il viso incollato alle finestre del soggiorno mentre guardavano la scena con altrettanto divertimento. Certo, non era cosa da tutti i giorni vedere quell’esaltato e scorbutico di Eustass Kidd vestire i panni di una delle leggende più belle e vecchie della terra. Il diretto interessato stava appunto scarpinando in mezzo al metro e mezzo di neve caduto la sera prima e gli abiti sembravano un tutt’uno con i suoi capelli, coperti per il momento da un buffo cappello lungo e morbido che gli ricadeva costantemente davanti agli occhi. Mi sembrava di sentirli i suoi insulti e tutte le maledizioni che lanciava per spostarselo e trasportare, nel frattempo, un vecchio sacco con all’interno i regali che i genitori delle piccole pesti che abitavano li vicino ci avevano portato affinché fosse il vero Babbo Natale a consegnarli per loro. Questa era una parte del patto stipulato alcuni anni fa dopo il disastro combinato da Rufy.
Come se fosse stato chiamato, il ragazzino voltò il capo verso l’alto nella nostra direzione e fece ciao con la mano a tutti, sghignazzando felice e attirando l’attenzione dell’energumeno per niente contento che stava qualche passo indietro rispetto a lui. Incuriosito dal gesto di Rufy, si mise anche lui a guardare verso l’appartamento e ciò che vide non gli piacque affatto dato che in un secondo scaraventò a terra il sacco con i regali per dirigersi a passo di marcia verso casa, tenendo sempre uno sguardo minaccioso e che prometteva terribili e imminenti torture puntato verso di noi, in particolare verso una delle finestre dove stava appoggiato Killer. Come lo avesse convinto a farsi deridere in quel modo non l’avevo ancora capito.
A quel punto, il più piccolo iniziò a rincorrerlo per poi saltargli in groppa, aggrappandosi stretto al suo collo e obbligandolo a fermarsi, nonostante Kidd tentasse in tutti i modi di ribaltarlo senza però riuscirci. Non gli era ancora chiaro che quando Rufy puntava la sua preda per gli abbracci nessuno gli scampava, mai.
Dopo vari minuti passati a battibeccare, tra insulti, risate, urla, minacce e preghiere, Eustass-ya ritornò sui suoi passi dandoci le spalle e riprendendo da dove aveva lasciato con il suo accompagnatore ricoperto di neve al seguito. Perché tutti riuscivano a convincerlo con poco, mentre io ero costretto ad usare le maniere forti e tragiche?
Restammo a goderci il teatrino per un altro po’, scoppiando a ridere quando i due attaccarono a canticchiare Jingle Bells davanti a due gemelli all’inizio sorridenti, poi sempre più impauriti ed infine nascosti dietro alle gambe dei loro genitori, i quali ringraziarono e presero i regali di fretta, sbattendo la porta in faccia all’elfo troppo cresciuto e a Babbo Natale troppo incazzato per i loro gusti. Immaginando come sarebbe finita, e dopo aver scattato qualche foto incriminante seguendo il consiglio di Robin, rientrammo in salotto al caldo per continuare a festeggiare nell’attesa della mezzanotte e del rientro dei due avventurieri.
«Ehi Zoro, i tuoi capelli intonano perfettamente con l’albero» sfotté Nami ad un certo punto, quando il ragazzo in questione si sedette accanto al pino finto che avevamo comprato, suscitando le grasse risate di Usopp e Chopper.
«Che hai detto?» rispose l’altro piuttosto infastidito e pronto ad usare le mani, dimentico forse che avrebbe dovuto scontrarsi con una donna, e per giunta non una qualunque, ma la più aggressiva in circolazione.
«Fatti sotto, ti accendo come una lampadina» lo sfidò per l’appunto lei, per nulla impaurita dal tono minaccioso appena rivoltole e già pronta a suonargliele come al solito.
The only place you wanna be is underneath my Christmas tree. Light me up with me on top lets falalalalalalala.
Mi allontanai da loro prima di venire preso in causa e, soprattutto, per evitare che chiedessero a me di separare quei due che ormai la stavano tirando un po’ troppo lunga con le loro inutili liti. Se Zoro fosse stato un po’ più sveglio e attento, avrebbe sicuramente notato che l’interesse che entrambi avevano l’uno per l’altra non era così invisibile, anzi, forse se ne erano accorti tutti, ma pazienza, non erano cose che mi riguardavano.
In cucina, intanto, Penguin si stava dando alla pazza gioia nel regolare il timer del forno nel quale aveva appena piazzato a cuocere un vassoio di velenosi e micidiali biscotti fatti da lui, ma questo il suo caro amico, o come voleva definirlo, Killer non lo sapeva e guardava con ammirazione la pasta frolla scaldarsi, emanando un profumo invitante, ma dalla sostanza nociva per lo stomaco di chi non era abituato a bombe caloriche del genere. Per un attimo fui tentato di avvisarlo, ma vedere il primo così orgoglioso e contento del suo operato e l’altro tanto ansioso di assaggiare i manicaretti in fase di preparazione smontarono il mio sarcasmo e le mie intenzioni poco gentili, così me ne tornai in salone dove trovai due ragazzi imbarazzati, capitati per caso sotto al vischio, rossi come pomodori.
Forse dovrei dire: rossi come Eustass-ya. Si, suona meglio, pensai sogghignando e godendomi l’espressione imbronciata di Nami che faceva di tutto pur di non guardare il suo cavaliere negli occhi. Inutile ripeterlo, Zoro era proprio una causa persa.
Oltre a loro, gli altri stavano piazzando scommesse sulle possibilità di vita che avrebbe avuto Rufy una volta tornato e quanto fosse stato arrabbiato il rosso da uno a dieci.
«Cento» dissi senza nemmeno riflettere e ottenendo il consenso del resto dei partecipanti. Solo allora notai che quasi tutti erano in maniche corte o con addirittura la camicia sbottonata. Faceva così caldo? Intercettando e capendo il filo dei miei pensieri, Robin si premurò di rispondermi gentilmente, spiegandomi che qualcuno doveva per sbaglio aver alzato il riscaldamento e, ora che me lo faceva notare, mi resi conto che faceva più caldo del solito li dentro. Meglio così, nessuno avrebbe patito il freddo e quando i due impiastri sarebbero rientrati non ci avrebbero messo molto scaldarsi e a dimenticare il gelo. Per non sentirmi fuori luogo, mi tolsi il maglione che indossavo e rimasi in camicia pure io.
Passammo una mezz’oretta tranquilli, approfittando dell’assenza momentanea del fratellino di Ace per mangiare il più possibile e lasciando che l’atmosfera natalizia ci avvolgesse. Questo non stava ad indicare che diventavamo magicamente tutti buoni, affatto, perché Zoro e Sanji non persero mai l’occasione per mettersi a bisticciare; io non mi risparmiavo battutine sarcastiche nei confronti degli ospiti e Penguin, in un momento di astinenza, si mise a correre per la casa in cerca della sua roba. Semplicemente, i più esibizionisti come Brook e Usopp, iniziarono a raccontare storielle assurde con un sottofondo di chitarra mentre tutti ascoltavano con il sorriso sulle labbra quelle sciocchezze che il nasone credeva di darci a bere.
Tutto sembrò precipitare quando Killer volle assaggiare per primo i biscotti appena sfornati di Penguin, rischiando seriamente di strozzarsi e rimanerci secco se Bepo ed io non fossimo intervenuti con un’aspirina a portata di mano e un capiente bicchiere d’acqua per farlo rinvenire. Lo avevamo previsto, quindi non fu difficile evitare il peggio anche se, quando Penguin dichiarò, trattenendo i singhiozzi, che non avrebbe mai più messo a rischio la vita di qualcuno cucinando, io e gli altri due miei coinquilini ci guardammo come se fosse appena avvenuto un miracolo. Così, dopo aver rimesso in piedi il povero malcapitato, gli stringemmo a turno calorosamente la mano, ringraziandolo davanti alla sua espressione sbigottita. Ovvio che non stava capendo quanto il suo sacrificio dettato dall’affetto ci aveva favorito l’esistenza, così mi presi la briga di spiegargli per filo e per segno quello che lo aspettava se mai avesse deciso di fare sul serio con quella mina vagante e senza controllo di Penguin.
Impegnato com’ero nel descrivere una delle cene più disastrose mai preparate in quell’appartamento, non mi resi conto del trambusto proveniente dal salotto fino a quando Rufy non volò in cucina con le guance rosse e un sorriso enorme stampato in faccia per fiondarsi come un animale sulle pietanze che Sanji si era premurato di preparare per tutti. A quell’entrata ebbi la certezza che, se lui era tornato, ciò significava che anche Capelli di Fuoco non avrebbe tardato a fare in suo ingresso più incazzato che mai, ma mi sbagliai perché nessun altro mise piede in quella parte della casa.
«Rufy dimmi un po’» feci curioso, «Che fine ha fatto quello squinternato di Babbo Natale?».
Il moro, con il viso completamente dentro ad un sacchetto di patatine, mi indicò il salotto dicendo qualcosa a bocca piena che non capii, perciò mi scusai con Killer-ya e seguii le indicazioni fino a trovarmi davanti ad un Bepo indaffarato nel pulire le impronte di neve lasciate all’ingresso mentre Ace, con il suo amato e vecchio cappello da cowboy arancione in testa, si dilettava con un ghigno che non prometteva nulla di buono ad accendere il fuoco nel camino, come se non fosse già abbastanza caldo. Oltre a questo e agli altri membri della compagnia intenti a svuotare il sacco e ad accaparrarsi i regali rimasti, non c’era traccia dell’irascibile rosso per quel che potei notare.
Mi strinsi nelle spalle e pensai bene di andarmi a sedere nella mia poltrona rimasta intaccata fino a quel momento, pensando che, molto probabilmente, Kidd doveva aver scoperto che l’idea di farlo travestire era partita proprio dal nanerottolo, come lui lo chiamava, e aveva quindi deciso di ammazzarlo, andandolo a cercare. Meglio così, mi avrebbe fatto solo un favore sbarazzandosi di lui, anche se non ero così sicuro che il metallaro in cucina l’avrebbe presa bene.
Il fuoco nel camino si accese con una fiammata piuttosto potente e pericolosa per chiunque si fosse trovato li vicino, ma non per quel piromane di Ace che, a petto nudo e su di giri come un bambino, batteva le mani e riponeva il suo inseparabile accendino in una tasca posteriore dei jeans con le ginocchia strappate. Il moro si voltò alla ricerca dell’approvazione di qualcuno e fu contento di vedere che condividevo i suoi intenti di incendiare l’appartamento mostrandogli una mano con il pollice sollevato.
«Posso sapere perché non indossi una maglia?».
«Perché, per dato di fatto, sono troppo sexy per indossarne una» rispose ammiccando.
«Ti trovo piuttosto scoppiettante stasera» dissi allora, quando si sedette per terra rivolto verso di me a gambe incrociate sopra al tappeto che avevamo messo apposta per quell’occasione.
«E non sono l’unico che va a fuoco a quanto pare» ghignò, indicando un punto alle mie spalle.
La cosa mi preoccupò parecchio quando, prima di voltarmi, vidi Killer e Rufy con due facce sbalordite e gli occhi ormai fuori dalle orbite fissare il corridoio che sapevo stare alle mie spalle, esattamente dove c’erano le nostre camere da letto. Capii il perché dei loro sguardi e del divertimento di Ace quando anche io li imitai, voltandomi pigramente per vedere l’ultima trovata della serata.
Ho ho ho, under the mistletoe yes everybody knows we will take off our clothes.
Mi aspettavo Usopp in mutande o Brook con un occhio nero per aver importunato le due ragazze, ma nulla di tutto ciò era successo e faticai a mantenere totalmente la calma nel vedere chi si stava godendo tutte le attenzioni in quell’istante.
Kidd se ne stava appoggiato allo stipite della parete con un ghigno da far invidia al peggiore dei diavoli. Si era liberato del cappello che lo infastidiva, della sciarpa pesante, della barba finta e ispida e di qualsiasi altra cosa in quel contesto inutile. Quanto inutile fosse l’uso di una camicia normale non lo sapevo ed era un’altra storia, dato che indossava la giacca rossa del costume con i risvolti bianchi aperta sul petto per mettere in risalto il torace scoperto. Le braccia abbandonate lungo i fianchi e le mani nelle tasche dei pantaloni rossi che finivano spiegazzati all’interno di un paio di anfibi neri che non aveva voluto togliere e sostituire con quelli vecchi del completo da Babbo Natale. I capelli scompigliati e una fascetta nera poggiata sulla fronte per evitare che alcune ciocche gli finissero sugli occhi attenti che studiavano con particolare interesse la mia reazione.
Mi morsi forte un labbro per non dargli nessun tipo di soddisfazione. Quel bastardo, oltre a mettere in dubbio l’orientamento sessuale degli etero presenti, praticamente sprizzava sesso da tutti i pori.
Buon natale a me, pensai.
«Per fortuna sono impegnato, altrimenti avrei avuto un bel da fare stasera» si esaltò, indicando con un cenno del capo tutti i presenti in sala, soprattutto le ragazze che, sentendosi prendere in causa, si schiarirono la voce e, come gli altri, tornarono a fare finta di nulla.
Alzai gli occhi al cielo davanti a quella frecciatina e ignorai volutamente il commento riguardante la sua situazione sentimentale per non fermarmi a pensare se il fatto di avergli sentito dire di essere impegnato mi avesse fatto piacere o meno. Lui non riusciva a non essere al centro dell’attenzione e nessuno si era di certo risparmiato di scannerizzare per bene quella sua apparizione. Certo, del suo aspetto si poteva dire tutto ma non che fosse sprovvisto di fascino. E questo, purtroppo, lo sapeva e usava la cosa a suo favore, spesso contro di me, ogni volta che ne aveva l’occasione.
«Pensi di restartene in posa come un cretino per tutta la sera o ti unisci a noi?» chiesi seccamente, alzandomi dalla poltrona per andargli incontro a braccia conserte, squadrandolo da capo a piedi e cercando di mantenere un certo contegno. «Che fine ha fatto la barba? Ti donava» sfottei.
«Oh, falla finita» disse sorridendo, «Ammettilo che non vorresti fare altro che scoparmi».
«Potrei averci pensato» ribattei, stando al gioco e arrivando ad una spanna dal suo viso. «E comunque, scoparti è troppo poco». Mi scocciava parecchio dover alzare il capo per guardarlo dritto in faccia, ma era più alto di me ed io non potevo fare niente in questo caso.
«E’ già qualcosa. E ora dimmi: non mi merito un premio per essermi sottoposto a questa cazzata?».
Sgranai gli occhi e attribuii il calore che sentii irradiarsi nelle guance al riscaldamento acceso e al camino a pochi passi da noi. Vedendo però il suo divertimento per il mio ormai evidente imbarazzo decisi di sfidarlo per non perdere la partita.
«E io non ne merito uno per averti risparmiato di indossare un finto naso rosso e le corna da renna che si illuminano? Anche se, lascia che te lo dica, saresti stato uno spettacolo».
Per tutta risposta, ignorando le mie battutine acide, i suoi occhi individuarono le mie labbra per poi attirarmi a sé con un movimento veloce del braccio.
«Assolutamente si» sussurrò vittorioso prima di baciarmi con decisione davanti a tutti.
Risposi al bacio con altrettanta enfasi e, quando mi lasciò andare, un ghigno piuttosto inquietante e maligno increspò le labbra di entrambi quando notammo che i nostri amici si erano rifugiati in cucina per evitare di assistere alla scena. Solo allora mi ricordai che Rufy era piuttosto tonto riguardo all’argomento; sicuramente Ace aveva provveduto ad attirare la sua attenzione sul cibo e così avevano fatto anche gli altri.
Proprio quando Eustass-ya aveva deciso di approfittare del momento e spintonarmi addosso alla parete per intrappolarmi e togliermi qualsiasi via di fuga, il campanello alla porta suonò, attirando la nostra curiosità e mandando a monte le intenzioni del rosso che sbuffò un’imprecazione a mezza voce.
Gli rivolsi un’occhiata interrogativa prima di chiedergli se avesse invitato qualcuno a mia insaputa.
«Non ho chiamato nessuno» grugnì in risposta con un’alzata di spalle prima di abbandonarmi in entrata per togliersi dall’impiccio e dirigersi in cucina a mangiare, o meglio bere, qualcosa.
Indugiando con un’occhiata al suo fondoschiena andai ad aprire, immaginando di dovermi scusare per il baccano con uno dei vicini del piano di sopra, invece mi ritrovai davanti un perfetto estraneo che ero certo di non aver mai visto prima, nemmeno per caso, neanche quando Bepo ed io avevamo pedinato Penguin per scoprire con chi si vedesse i pomeriggi che spariva da casa.
«Buonasera» feci, lasciando libero sfogo ad un’espressione poco amichevole, dandogli comunque del lei visto che il tipo che mi stava di fronte aveva tutta l’aria di essere qualche anno più vecchio di me. «Posso aiutarla?».
L’ignoto sembrava in imbarazzo, ma non pareva avere cattive intenzioni, soprattutto non era vestito come un assistente sociale, quindi non era di certo lì per Rufy, così mi rilassai e cercai di rimediare alla scortesia del mio comportamento andandogli incontro vedendo che sembrava non sapere cosa dire.
«Non credo di conoscerla, ma se mi dice di cosa ha bisogno forse potrei esserle utile».
«Ehm, ecco io sto cercando una persona» disse finalmente, passandosi nervosamente una mano fra i capelli corti, «Ace abita qui?».
Sbattei le palpebre, ma non feci domande. Mi limitai piuttosto a lasciarmi scappare un sorrisetto malizioso quando capii cosa stava succedendo e come stavano le cose, chiamando a gran voce il nome del ragazzo e informandolo che alla porta c’era qualcuno che lo cercava.
«Arriva subito» assicurai al ragazzo sulla soglia, rientrando e scontrandomi con il mio inquilino in questione una volta girato l’angolo alla cui domanda su chi ci fosse alla porta risposi ammiccando, consigliandogli vivamente di coprirsi e lasciandolo ad affrontare il suo, ne ero certo, più bel regalo di Natale.
* * *
«M-Marco!».
Ace apparve davanti ai miei occhi con addosso un buffo cappello arancione, una maglietta a maniche corte, dei bizzarri jeans strappati in più punti, come se qualcuno avesse appena finito di farci dei tagli con le forbici e delle Converse altre e nere con alcune cinghie attaccate.
Incapace di trattenermi davanti al suo strano abbigliamento e alla sua espressione sorpresa, tornai con la mente ad un nostro particolare incontro avvenuto in maniera molto simile. «E’ la seconda volta che mi saluti così» ricordai, sorridendo dolcemente.
Rimase immobile davanti alla porta, guardandomi come se avesse appena visto un fantasma ed io ebbi il tempo di chiedermi se non avessi sbagliato a presentarmi a casa sua senza nemmeno avvisarlo per…
Per cosa? Cosa pensavo di ottenere così? Il suo perdono? Dopo il modo meschino in cui mi sono comportato? Cosa mi è passato per la testa dieci minuti fa, dannazione!
Non sapendo cosa dire e vedendo che nemmeno lui sembrava incline a dare inizio alle spiegazioni, l’unica cosa che mi rimaneva da fare era scusarmi immensamente per il disturbo per poi tornarmene alla macchina e andarmene, lasciandogli l’opportunità di godersi il natale con la sua famiglia e non con mille pensieri per la testa. Sicuramente gli avevo già causato troppi problemi e capitargli davanti la porta di casa era stato un gesto egoista da parte mia dato che alla sua possibile reazione e alla sua felicità non avevo minimamente pensato, concentrato com’ero sui miei sensi di colpa e sul desiderio di rivederlo.
Stavo appunto per sparire dalla sua vista dopo essere rimasto a fissarlo per quei lunghi minuti di imbarazzo, quando decise di sciogliere quel silenzio così pesante e fastidioso per entrambi, anche se l’unico che aveva il diritto di essere infastidito dalla mia presenza e da quello che essa comportava era solo lui, giustamente.
«Come mi hai trovato?». Una domanda lecita, dopotutto, ma non c’era tempo per le spiegazioni di poco interesse.
«Non ha importanza» risposi di getto. In quel momento, davanti alla sua espressione indecifrabile, non ero più tanto sicuro di potermi permettere una seconda possibilità. Cosa volevo ottenere alla fine? Non mi ero forse ripetuto fino allo sfinimento che Ace non faceva per me, che era troppo giovane e che era solo un ragazzino? Per quale motivo allora avevo deciso di presentarmi a casa sua senza preavviso, lasciando la mia famiglia a festeggiare senza di me una delle feste più importanti dell’anno?
Here, here, here, the best time of the year.
Improvvisamente, quando mezz’ora prima ci avevo riflettuto, tutto ciò che lo riguardava mi era sembrato così urgente che mi ero ritrovato in auto senza nemmeno rendermene davvero conto.
«Io credo che…» iniziai a dire, vedendo come si fece attento all’istante, alzando il capo e guardandomi negli occhi con quelle sue iridi scure e intense. Non c’era traccia dello sguardo allegro, vivace e amichevole che tante volte mi aveva rivolto e che tanto mi mancava. «Credo che ora dovrei andare» decretai infine, accennando ad un sorriso di scuse e indietreggiando di qualche passo.
«Uh? Ehi, ma tu sei Marco!».
Una testolina nera accompagnata da una voce allegra ci colse di sorpresa e, mentre Ace impallidiva e sembrava cadere dalle nuvole, un ragazzino che riconobbi come suo fratello sbucò alle sue spalle e si fece spazio per passare, spintonando il maggiore di lato con una gomitata accidentale alle costole e spingendolo contro la parete.
«Ciao Rufy» feci cortesemente sotto lo sguardo allibito del più grande che sembrava aver capito come avevo fatto a scoprire l’indirizzo del suo appartamento non appena Rufy mi afferrò per le maniche della giacca, iniziando a tirare per trascinarmi all’interno con forza.
«Sapevo che saresti venuto! Vieni entra, ci sono tante cose buone da mangiare e poi magari puoi farmi uno dei tuoi deliziosi waffle!» trillò senza smettere di tirare.
«Voi due vi conoscete?».
Ace sembrava aver appena ricevuto uno schiaffo, tanto che non tentò nemmeno di fermare il fratello che continuava imperterrito con la sua impresa, mentre io avevo solo bisogno che si calmasse per potergli spiegare la situazione e dirgli tutti i bei discorsi che mi erano venuti in mente durante il tragitto, ma che avevo completamente dimenticato non appena mi era apparso davanti con quella maglia spiegazzata, segno che forse l’aveva appena indossata di fretta, che lasciava intravvedere pochi, ma sufficienti, centimetri di pelle di un fianco. Abbastanza per mandarmi in confusione.
Cercai in tutti i modi di fermare il flusso di discorsi che stava uscendo dalla bocca del più piccolo, tanto che mi aggrappai persino allo stipite della porta per impedirgli di trascinarmi all’interno con lui, ma alla fine non ci fu modo di zittirlo e di rifiutare quel suo invito, anche se aveva tutta l’aria di essere una pretesa, e fui costretto così a seguirlo dentro casa, passando per un breve corridoio e ritrovandomi all’interno di un salone abbastanza ampio da contenere un consistente gruppo di persone. Non immaginavo, però, che ce ne fossero così tante.
Successe tutto velocemente, tanto che faticai a seguire tutta la scena, soprattutto, avevo perso di vista Ace e nelle mani del fratello non mi sentivo per niente tranquillo. Infatti il piccoletto lasciò andare la stoffa del mio giubbotto e, saltellando felice e spensierato, urlò a squarciagola per farsi sentire dal resto dei presenti.
«Ehi, ragazzi! E’ arrivato Marco, il futuro ragazzo di Ace! Ha detto che passerà la serata con noi!».
Sospirai rassegnato e cercando di contenere l’imbarazzo nell’ascoltare quelle sue insinuazioni, ma sorrisi ugualmente e, dopo che Rufy sparì dalla mia visuale, inghiottito da una serie di volti nuovi e dall’aria fin troppo allegra per essere ritenuta sobria, i quali si presentarono uno alla volta stringendomi la mano e sorridendomi in modo malizioso, enigmatico, amichevole e inquietante, mi sentii freddare nell’incontrare finalmente gli occhi seri di Ace che mi osservavano da un angolo della stanza per capire le mie intenzioni.
«Sa cucinare davvero bene!» stava dicendo Rufy ad un ragazzo biondo che fumava tranquillamente una sigaretta e mi osservava con occhio critico.
«Che strani capelli».
«Non sapevo che Ace frequentasse qualcuno, sono davvero contenta!».
«E così saresti tu la famosa Fenice».
Quelle parole catturarono la mia attenzione ma, non appena intercettai lo sguardo del mio interlocutore mi sentii gelare davanti a quegli occhi che sembravano intenti a farmi uno scanner completo. Il tizio che mi aveva aperto la porta aveva l’aria vagamente minacciosa solo per il modo sicuro e leggermente strafottente con cui mi guardava. Non superava, però, l’aria minacciosa di un rosso a pochi passi da noi, il quale guardava tutta la scena con una faccia schifata, anche se il suo abbigliamento attutiva un po’ la sua aggressività. Certo, erano persone che a prima vista impressionavano abbastanza, ma ero abituato a vedere di tutto, perciò, scrollando le spalle e scacciando quel senso di estraneità, gli rivolsi un sorrisetto appena accennato e gli porsi la mano.
Il moro ghignò altrettanto e rispose al gesto quasi subito.
«Non sembri sapere quello che stai facendo, ma non sembri nemmeno uno stupido» disse senza mezzi termini, «Meglio così, forse hai una qualche speranza di rimanere vivo dopo una serata in nostra compagnia».
Un lampo di pazzia di attraversò gli occhi, ma riuscii a mantenere comunque una facciata piuttosto composta. Dopotutto, loro non sapevano di cosa fossero capaci i miei fratelli e una banda di ragazzini potevo benissimo gestirla.
Una volta individuato Ace, l’unico che si manteneva lontano da tutto, sgusciai via dal gruppetto che si era creato attorno a me e mi avvicinai a lui quel tanto che bastava per parlargli e dargli pure la possibilità di buttarmi fuori a calci.
«Tuo fratello si è presentato al bar» chiarii immediatamente e questo bastò per scagionarmi.
«Dovevo immaginarlo» fece rassegnato, passandosi stancamente una mano sul volto per coprire un sorriso tutto sommato amorevole nei confronti del piccolo. «Ti chiedo scusa se ti ha creato problemi, ma non lo sapevo».
«No, non preoccuparti. E’ stato divertente» gli assicurai.
Calò di nuovo il silenzio, spezzato soltanto dagli schiamazzi e dalle risate provenienti da qualche parte nell’appartamento. Quelli che avevo sentito poco dopo erano rumori di vetri infranti?
Ero andato da lui con l’intenzione di dirgli che mi dispiaceva per quello che gli avevo detto, ma che c’era un valido motivo per tutto ciò. La verità era che all’inizio non mi faceva ne caldo ne freddo vederlo nel mio locale; lui era come un qualsiasi altro cliente, nulla di più. Col tempo, però, con quella sua perenne spensieratezza e quel sorriso a labbra serrate così carico di simpatia, voglia di vivere e amicizia mi aveva messo al tappeto. Non c’era niente di male nell’ essere amici, mi ero detto, quando avevo deciso di assecondare quel suo carattere così aperto e socievole, e non me ne ero pentito affatto. La sua compagnia era piacevole, chiacchierare con lui mi veniva spontaneo e più lo conoscevo più lo trovavo interessante e particolare. Non era un semplice giovane qualsiasi, no, era molto più di quello che dava a vedere. E poi avevo iniziato a notare i particolari che in un primo momento mi erano sfuggiti, come le lentiggini, le onde leggere dei capelli che gli solleticavano il collo infastidendolo, le spalle larghe, l’altezza e il fisico sviluppato che mi ricordava costantemente che Ace, in realtà, non era più un ragazzino. Ace era un uomo ormai e a me piaceva. Piaceva da impazzire.
Questa scoperta mi aveva sconvolto. Non che non volessi andare oltre, ma per il semplice fatto che una persona fosse riuscita a farmi un tale effetto come nessuno prima era riuscito. Solitamente non ero mai preso così tanto da qualcuno e non mi invaghivo facilmente. D’accordo, forse non mi invaghivo affatto e l’essermi trovato così attratto da lui mi aveva fatto fare marcia indietro, costringendomi a insistere che quel bacio non aveva significato niente quando invece non ero mai stato così tentato di continuare fino a farlo supplicare di smettere. Allora l’avevo allontanato di mia spontanea volontà, restandoci doppiamente male quando avevo visto che il mio interesse era ricambiato da parte sua e sentendomi un completo schifo quando non l’avevo più visto mettere piede al pub. Speravo sempre che il campanello annunciasse il suo arrivo, invece, quando alzavo lo sguardo speranzoso, lui non c’era mai.
Prima che iniziassi a spiegargli le mie motivazioni venni preceduto sul tempo, e di nuovo, da Rufy.
«Marco vieni, Brook sta per iniziare a cantare!».
Non potendo dire di no ad un entusiasmo del genere venni strappato nuovamente dai miei intenti, mentre alle mie spalle Ace sembrava voler incenerire qualsiasi cosa attorno a lui.
Andare lì era stata la cazzata peggiore di tutte.
Oh, oh a Christmas, my Christmas tree is delicious.
Angolo Autrice.
Dio, questi capitoli diventano sempre più lunghi, ma non riesco a spezzarli a metà, perciò scusatemi, spero di non annoiarvi troppo e di rendere le vicende abbastanza interessanti da non farvi sbadigliare ogni tre righe! Dunque, cosa dire? Beh, il Natale è passato ormai, ma non potevo anticipare nulla perché qui le cose se non hanno un minimo di filo logico non mi piacciono, perdonatemi. Spero che sia valsa la pena farvi aspettare, di certo Eustass-ya non immaginava di finire vestito da Babbo Natale con Rufy come Elfo e tanto meno Ace si aspettava una visitina di Marco ** Trafalgar, invece, oltre ad essere il più fiol in assoluto, sono certa che sapeva fin da subito che la notte di Natale l’avrebbe passata sotto le coperte. GRAZIE a tutti e un abbraccione!
See ya,
Ace.
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Capitolo 18 *** Capitolo 16. Disastro, Inferno, Paradiso e Buon Compleanno. ***
Capitolo 16.
Disastro, Inferno, Paradiso e Buon compleanno
Il Disastro. Ovunque guardassi l’unica cosa che mi saltava agli occhi era il disastro che regnava nell’appartamento da giorni ormai. Cuscini sparsi ovunque, alcuni con le piume che fuoriuscivano dalle cuciture; tende usate come coperte improvvisate; il tappeto dell’ingresso appeso al muro in una scarsa imitazione di un arazzo orientale; sacchi a pelo in ogni angolo, persino sotto al tavolo in cucina; vestiti sparsi per le stanze e biancheria intima di dubbia provenienza penzolava dalla lavatrice nel bagno, la quale sembrava vomitare stoffa da quanto era ricolma. Una serie di bottiglie di birre differenti, vuote per l’appunto, era esposta in equilibrio precario sul balcone di una delle finestre in soggiorno; il lavello pieno di piatti da lavare; bombolette spray colorate quasi finite, quasi perché i proprietari non avevano ancora terminato il loro lavoro artistico che faceva mostra di sé sulla parete opposta a quella già dipinta; cartoni di pizza e cibo da asporto in ogni angolo e persone umane che si aggiravano come se niente fosse in mezzo a tutto quel caos. L’unica cosa che sembrava intaccata era il frigorifero.
Almeno i miei fuochi d’artificio erano ancora integri e aspettavano solo me per esplodere e ammaliare chiunque avesse avuto la fortuna di vederli quella notte. Fino ad allora, però, sarebbero rimasti nascosti abilmente dentro un sacco per l’immondizia ben posizionato dentro allo sgabuzzino. E guai a chi avrebbe osato metterci le mani!
«Ciao Ace».
«Buongiorno Killer».
A quanto pareva gli ospiti erano saliti di numero quell’anno e sembravano anche loro ben disposti a passare tutte le vacanze nel nostro appartamento assieme ai restanti diavoli per i quali, ormai, tutto ciò era diventato una specie di rituale, abitudine o sacra tradizione. Intendiamoci, a me non dispiaceva affatto, anzi, più eravamo e più il divertimento era assicurato, soprattutto con elementi come, appunto, Killer, un metallaro davvero simpatico e molto paziente, e Kidd, un po’ meno paziente, ma abbastanza pazzo da andarci perfettamente d’accordo dato che condivideva il mio punto di vista sulle esplosioni e sembrava parecchio interessato quando parlavo dei miei progetti per i fuochi d’artificio dell’ultimo dell’anno. Erano ragazzi particolari, senza dubbio, ma chi non lo era in quella casa di matti? Almeno mi tenevano piuttosto indaffarato e difficilmente mi ritrovavo senza far niente e con la mente libera di andarsene per i fatti suoi e pensare.
Avevo passato un Natale piuttosto movimentato e abbastanza difficile, sotto un certo aspetto, da superare. Come avrei potuto reagire altrimenti, ritrovandomi davanti la porta dell’appartamento, proprio la notte della Vigilia, nientemeno che Marco in persona? Un po’ di tensione da parte mia era stata ovvia e più che giusta, anche perché non avrei saputo come altro comportarmi.
Quell’impiccione di Rufy l’aveva pagata cara non appena il biondo se ne era andato, con la promessa fatta a quell’impiastro e agli altri idioti che mi ritrovavo come amici di passare a farci visita anche a capodanno, ovvero quel giorno stesso. A quanto pareva, nonostante l’imbarazzo iniziale, era riuscito a cavarsela benissimo e aveva tenuto testa a tutti con il sorriso sulle labbra, persino Law non era riuscito a metterlo alle strette o a farlo scappare a gambe levate con le sue occhiate e i suoi commenti sadici e, a volte, piuttosto velenosi verso chiunque si dimostrasse più stupido di quanto già non era. Mi aveva stupito molto, a dir la verità, quella sua calma e quello sguardo che mai sembrò sorpreso o schifato davanti alle trovate non proprio geniali e ai comportamenti poco maturi di mio fratello e della sua compagnia. Al contrario, sembrava voler costantemente scoppiare a ridere, anche se cercava di trattenersi come meglio poteva.
Per tutta la serata, da quando era arrivato e fino a quando se ne era andato, verso le due del mattino circa, con un cappello rosso in testa e un vassoio pieno di dolci in mano, gli ero stato a debita distanza, anche se non avevo potuto evitarlo del tutto come avrei voluto invece.
Allo scoccare della mezzanotte ero stato costretto dalla buona educazione e dallo spirito natalizio che Rufy andava decantando come un ossesso a stringergli la mano, augurandogli con lo sguardo basso un sommesso ‘Buon Natale’, mentre la mia mano libera si stringeva in un pugno nervoso. Non so se l’aveva notato, non lo guardai in faccia, udii solo il suo augurio in risposta e poi le sue dita che scivolavano via dalle mie, lentamente, senza fretta. In quel momento avevo desiderato di apparire distaccato e sciogliere subito quel contatto, ma non ne ero stato capace e avevo lasciato che tutto finisse con lentezza esasperante. Quanto ero stato idiota, quanto!
All’inizio mi ero sentito come in trappola. Non volevo vederlo, ma un’altra parte di me era contenta di saperlo lì la notte di Natale, invece che con la sua famiglia. Doveva essergli costato molto lasciare i suoi fratelli per venire da me e questo aveva contribuito un po’ a farmi sentire meno ferito quando ci avevo riflettuto. Infatti, non appena il venticinque dicembre era ufficialmente arrivato, avevo smesso di estraniarmi e avevo lasciato che il calore del momento ci riavvicinasse, anche se non parlammo più di tanto.
Mi ero sforzato, davvero, e avrei fatto del mio meglio se davvero ci fossimo rivisti, ma non sarei stato io ad andare a cercarlo, non più. L’avevo fatto abbastanza e per troppo tempo senza ottenere niente in cambio e non avrei commesso lo stesso errore. Avrei continuato per la mia strada e, se lui avesse voluto incrociarla, non l’avrei allontanato, ma nemmeno mi sarei messo in gioco per primo.
Così avevo passato le ore successive visibilmente più calmo e meno teso e di questo, i più svegli, se ne erano accorti. Law per primo, dato che non perse l’occasione per avvicinarsi silenziosamente a me e darmi una scherzosa gomitata su un fianco, indicando con il capo e un sorriso malizioso la figura slanciata di Marco che, abilmente, prendeva la mira e sparava con una pistola a pallini contro alcune bottiglie di plastica e varie lattine vuote allineate sul balcone, centrandole tutte e facendole ricadere a terra.
«Hai intenzione di restartene qui tutto imbronciato o pensi di lasciarti andare?» mi aveva detto, appoggiandosi al muro e incrociando le braccia al petto, imitandomi.
Avevo alzato gli occhi al cielo e avevo scosso il capo, rispondendogli che non ero in vena di festeggiamenti, non quando mi trovavo sotto al naso il centro dei miei problemi. Fu lui ad aprirmi gli occhi e a farmi prendere in considerazione il fatto che Marco avesse sacrificato la sua famiglia per stare con me. Per un’altra opportunità. E, forse, non l’avrei nemmeno mai capito se non fosse stato per il brillante coinquilino che mi stava di fianco. Infatti bastarono poche sue frasi per alleviare un po’ quel macigno che mi opprimeva il petto, dopo di ché era andato tutto migliorando gradatamente, se così si voleva dire.
Kidd e Rufy, stranamente alleati, si erano organizzati per attentare alle nostre vite e avevano approfittato della distrazione di tutti per riempire qualsiasi recipiente o contenitore con dell’acqua, miracolosamente calda, che avevano poi avuto la grazia di spruzzarci addosso senza pietà. Quelli che subirono di più furono Brook, fradicio fino ai calzini; Nami, per niente contenta della piega che aveva preso la situazione; Rufy stesso, incapace di difendersi quando Zoro e Sanji si erano impossessati di una bottiglia per vendicarsi; Usopp e la mia maglia.
«Dammela, vado a prendertene un’altra».
Senza riflettere sul fatto che Trafalgar non faceva mai gentilezze del genere se non per qualche subdolo scopo o per avere qualcosa in cambio, mi tolsi la maglietta senza pensarci troppo e gliela porsi, passandomi distrattamente le mani sulle braccia umide e dirigendomi automaticamente accanto al camino per asciugarmi almeno un po’, dato che freddo non ne avevo. L’appartamento era praticamente un forno.
«Dì un po’, hai intenzione di cavare un occhio a qualcuno?».
«Come scusa?».
«Oh, ora è tutto chiaro».
Quello era stato il discorso più contorto e incomprensibile che avessi mai avuto con Kidd, dato che non avevo capito cosa intendesse e a cosa si stesse riferendo, ma quando affermò di aver capito quel non so cosa di cui stava parlando guardò davanti a sé e annuì comprensivo, mettendosi a sghignazzare e allontanandosi verso Law che gli stava dando le spalle. Guardando nella direzione che mi aveva indicato notai che Marco aveva appena distolto lo sguardo da me, iniziando a grattarsi imbarazzato quell’assurdo ciuffo di capelli biondi e, anche se credevo di sbagliarmi, mi sembrò di vederlo arrossire. Che Kidd si stesse riferendo al fatto che fossi a torso nudo e che qualcuno se ne fosse accorto? Preferii non pensarci per non dovermi arrovellare il cervello con strane ipotesi e per proteggermi dal farmi inutili illusioni.
«Scusami il disturbo, non era mia intenzione venire qui a creare scompiglio» mi aveva detto Marco prima di andarsene, una volta sulla soglia della porta e con la punta bianca del buffo cappello che gli ricadeva da un lato del collo.
«Non preoccuparti, scusaci tu se ti abbiamo traumatizzato» gli avevo risposto, trovandomi di nuovo solo con lui e stranamente meno arrabbiato o triste di quello che avevo immaginato e che mie ero aspettato.
«Niente che non abbia già visto» scherzò, «Ora sarà meglio che vada. Grazie per, beh, per…». Non aveva aggiunto altro ed era rimasto in silenzio lasciando la frase a metà, anche se dal suo sguardo capivo benissimo che stava cercando le parole adatte da aggiungere. Così eravamo rimasti a guardarci e, anche se solo per un misero istante, i suoi occhi si erano posati sulle mie labbra ed io mi ero sentito un brivido scorrere come un fulmine lungo tutta la schiena. Solo allora, anche se nessuno dei due pareva voler rompere quel silenzio, prese un profondo respiro per poi salutarmi.
«Buonanotte Ace». E lo aveva detto in un modo così semplice, così dolce, così bello che mi aveva fatto male, male perché mi ero maledettamente innamorato di lui, nonostante sapessi che non sarebbe cambiato nulla tra di noi.
«B-buonanotte» gli avevo risposto, maledicendomi per il mio tentennamento e guardandolo allontanarsi.
Sospirai stancamente, scompigliandomi i capelli per impormi di non ripensarci più e sbadigliando sonoramente mentre entravo in cucina dove Sanji si stava dando da fare con lo spremiagrumi e la colazione. Una cosa buona nel passare le vacanze con loro era il fatto che tutti facevano qualcosa di utile per gli altri. Ci prendevamo cura a vicenda, come una grande famiglia e, sapendo che quella sera saremo stati tutti assieme a festeggiare l’inizio di un nuovo anno, uniti come sempre, sorrisi rinfrancato, permettendo all’eccitazione generale che aleggiava nell’aria e negli animi di chi era già sveglio di coinvolgermi e darmi un motivo per tornare ad essere allegro. Non importava se Marco ci sarebbe stato o meno, quelli che contavano erano mio fratello, i miei amici e la mia famiglia, coloro che mi volevano bene per quello che ero, coloro per i quali valevo qualcosa e che non mi avrebbero mai abbandonato.
«Ace?». La testolina di Rufy fece capolino da dietro la porta e i suoi occhi profondi e imploranti si posarono sui miei, «Sei ancora arrabbiato con me per la storia di Marco? Perché se è così vado a dirgli che stasera non facciamo nulla».
A sentire le sue parole scoppiai a ridere. Primo perché in quei giorni gli avevo tenuto un po’ il muso per fargli capire che doveva smettere di fare sempre di testa sua, anche se sapevo che era difficile fargli cambiare idea, e secondo perché non sarebbe stato cortese ritirare l’invito fatto ad una persona. Pensandoci bene, anche se mi costava molto ammetterlo, perciò cercavo di non farci troppo caso, covavo ancora la piccola speranza che le cose si potessero risolvere per il meglio.
«Vieni qui, idiota» feci scherzoso, venendo investito all’istante dall’abbraccio stretto e affettuoso di quello scalmanato, sentendomi amato e al mio posto.
«Mi farò perdonare, vedrai» promise Rufy con entusiasmo, «Farò capire a quella testa d’ananas quanto sei speciale e cosa si sta perdendo!».
Prima che potessi dargli uno scappellotto in testa, arrivò anche Law a dargli man forte con addosso i pantaloni del pigiama e una maglia piuttosto grande per essere sua.
«Rufy ha ragione» disse, iniziando a ghignare già di prima mattina, «Se solo sapesse cosa si perde sotto le coperte».
«Dannazione, dateci un taglio!».
* * *
L’Inferno. Quella giornata era stata niente meno che l’Inferno. Il modo peggiore di vivere l’ultimo dell’anno era toccato proprio a me, che di pazienza e buona volontà non ne avevo affatto.
Ero stato scelto per accompagnare il gruppo destinato agli acquisti per la festa imminente, nonostante sapessero benissimo che io odiavo letteralmente i centri commerciali. Troppa gente stupida, troppi vecchi e, soprattutto, troppi mocciosi. L’unica cosa buona che era successa era stata la possibilità di scegliere gli alcolici per la serata, quindi mi ero dato alla pazza gioia assieme a Killer mentre gli altri pensavano alle quantità industriali di cibo che avrebbero dovuto comprare se non volevano rimanere a stomaco vuoto per colpa di Rufy, un impiastro senza precedenti. Il mio compare ed io non avevamo badato a spese e avevamo preso tutto il necessario per dimenticare persino i nostri nomi e ritrovarci il giorno dopo dentro ad una vasca da bagno con un sombrero in testa. Sicuramente quella notte sarebbe successo l’impensabile.
Infatti, in quell’esatto momento, sembravano già tutti più che intenzionati a strafare. L’appartamento aveva mantenuto le decorazioni natalizie e vi era stato aggiunto solo qualche festone in più, oltre ai coriandoli, trombette fastidiose e gadget a tema, mentre quel pomeriggio, assieme a Ace e Zoro, avevo terminato i graffiti su una parete libera del salotto. Un capolavoro, per la precisione, dato il mio talento innato per imbrattare le strade con disegni, simboli, scritte e quant’altro.
Sanji stava finendo di preparare la cena e, per fortuna di tutti e sotto richiesta esplicita di Bepo e Trafalgar, aveva bandito Penguin-nanerottolo dalla cucina; le due ragazze in abiti che avrebbero dovuto essere illegali tanto erano succinti, stavano discutendo con Brook per scegliere la musica; Usopp e Chopper, consigliati da Rufy, decidevano a cosa sfidarsi dopo cena sfogliando una lista infinita di giochi di dubbia moralità e per niente sicuri. Guardandomi ancora attorno notai Killer che metteva a disposizione del cuoco il suo tanto apprezzato regalo di natale, ovvero il famoso set di coltelli per il quale tanto mi aveva ringraziato, anche se non era tutto merito mio, dovevo ammetterlo.
Il campanello suonò in quel momento e, sapendo già di chi si trattasse, mi schiodai dal divano, assicurandomi di mettere in pausa la partita a cui stavo giocando, diretto verso la porta. Quando la aprii mi ritrovai davanti un completo idiota, anche se non potevo di certo dirglielo in faccia, con degli occhiali da sole stile vintage e un ciuffo di capelli azzurri brillantinati che avrebbe fatto impallidire tutto il cast di Grease. Sapendo che il mio capo era solito passare le feste da solo, non avendo famiglia o parenti vicini, l’avevo invitato non appena avevo ottenuto il consenso da parte dei padroni di casa e lui, per ringraziare tutti, stava sulla soglia con una cesta enorme di vivande e bottiglie di vino che, sicuramente, sarebbero state svuotate nel giro di qualche ora.
«Ciao Franky» lo salutai, incitandolo ad entrare, «Come te la passi?».
«Sto Suuuper, fratello!». Quell’uomo, quando non era a lavoro, aveva un modo piuttosto espansivo e amichevole con cui relazionarsi, per questo ero certo che non avrebbe avuto problemi a fare conoscenza con il resto dei presenti. Infatti, dopo solo una mezz’ora da quando erano avvenute le presentazioni, stava già ridendo e scherzando con tutti mentre io me ne ero tornato a giocare con il mio nuovissimo videogioco.
«Non avevi detto che non ci avresti mai giocato perché ti faceva schifo?».
«Chiudi il becco, Trafalgar» grugnii stizzito. Quell’impiastro mi aveva regalato per natale Assassin’s Creed Black Flag, cosa che avevo desiderato non appena avevo saputo della sua uscita, ma di certo non avrei potuto dirgli che quello era stato il regalo più bello che avessi ricevuto da quando avevo dieci anni e avevo trovato sotto l’albero un robot da costruire. Figuriamoci, si sarebbe dato un sacco di arie, mi avrebbe preso in giro e non avrebbe smesso un secondo di assillarmi e soffocarmi con quelle sue dannate frecciatine. Ero stato tentato di regalarmi dei tappi per le orecchie per non starlo a sentire, solo che alla fine avevo lasciato perdere, sicuro che me ne sarei pentito.
«Eustass-ya?».
«Ma che vuoi? Non vedi che sto squartando quel pezzente di un ammiragl…».
Protestare non sarebbe servito a niente perché quell’insolente fastidioso mi aveva afferrato per i capelli, tirandoli leggermente, e mi aveva zittito con un bacio piuttosto esplicito, tanto che decisi di abbandonare momentaneamente la missione suicida che stavo conducendo per sentire cosa aveva da proporre con quel gesto.
«Non è ancora mezzanotte» gli feci notare, afferrandogli il mento tra le mani e scostandolo un po’ per guardarlo in faccia mentre ghignava divertito.
«E allora?».
«D’accordo, andiamo ad anticipare i botti».
«Ehi Rufy, fai un’imitazione di Kidd!».
«Si, si, fallo!».
A quelle parole Law sembrò perdere totalmente l’interesse nei miei confronti e, appoggiando il volto allo schienale con l’aria di chi sapeva esattamente quello che stava per succedere, si voltò a guardare il gruppetto di ragazzi che si erano riuniti accanto al camino e che, su richiesta di Usopp, incitavano il più matto di tutti a fare una mia imitazione.
Li fulminai con lo sguardo uno ad uno mentre Rufy annuiva convinto e chiedeva al nasone di prestargli i suoi occhiali, mentre si leccava una mano per passarsela tra i capelli in modo da sollevarli in aria nell’intento di farli assomigliare ai miei. Come se non bastasse, anche se non potevo vederlo in faccia, ero certo che quel bastardo di Trafalgar stesse godendo come una puttana nel vederli prendermi in giro così apertamente. Per poco non distrussi il joystick lanciandolo contro la parete. Intanto Rufy si era messo tra le dita forchette e coltelli e, evidenziandosi le labbra con il rossetto prestatogli da Robin, assunse un’espressione che voleva essere omicida e iniziò a sfottermi senza ritegno, facendo scoppiare a ridere tutti, Law compreso il quale, ignorando il mio scatto d’ira, affondò il viso nei cuscini per trattenersi.
«Ucciderò chiunque riderà di me» disse quel babbeo, con una smorfia malefica e una voce rauca e profonda che servì solo a rendere il tutto più comico e assurdo.
«Infatti adesso ti ammazzo, moccioso!» tuonai, afferrando il piccoletto per la collottola della maglia e alzandolo da terra con l’intento di lanciarlo fuori dalla finestra. Il quel momento arrivò Sanji dalla cucina con le mani che trasportavano vassoi pieni di buon cibo e, non appena vide la scena che si stava svolgendo, non mancò di dire la sua.
«Ohi, Rufy, non giocare con le posate!».
«Sanji, non assomiglio a Eustachio?» rispose invece l’altro.
Dopo un’attenta occhiata da parte del biondo, anche lui fece un cenno di assenso trattenendo un sorrisetto ilare per poi dirigersi verso il tavolo e continuare il suo servizio.
«Ace, posso frantumare le ossa a tuo fratello?» domandai ad uno dei ragazzi che meno mi stava antipatico. Tra loro, lui sembrava il più propenso a mettersi nei guai, nonostante fossero tutti delle teste calde. Mi diede il permesso con un’alzata di spalle e un’espressione allegra mentre il minore non faceva altro che sghignazzare non sentendosi minimamente in pericolo.
«Ti credi tanto spiritoso?».
«Fatti avanti, tanto ti polverizzo, wowowo» ebbe il coraggio di ribattere, sempre imitando il mio tono aggressivo e continuando ad essere fonte di risate. La mia faccia, invece, era furibonda e fremevo d’impazienza per la voglia di prenderlo a pugni come un sacco da boxe.
Proprio quando stavo per perdere ogni briciolo di lucidità la cena fu annunciata e tutti si affrettarono a sedersi a tavola con l’intenzione di non rimanere con il piatto e lo stomaco vuoto. Persino Rufy si divincolò dalla mia presa con un’abilità innata e si fiondò a sedersi, iniziando ad afferrare carne a destra e a manca sotto i sorrisi e la spensieratezza di tutti.
Sbuffando senza sosta li imitai anche io e il mio nervosismo si abbassò di qualche punto quando, una volta finito di mangiare, il clown improvvisato riprese a fare l’imitazione dei presenti, Trafalgar compreso. Quello si che servì a farmi tornare il ghigno in faccia mentre, accanto a me, il diretto interessato se ne stava imbronciato con le braccia incrociate al petto e un cipiglio che prometteva solo guai.
«Eustass-ya è un idiota» stava dicendo il piccoletto con il cappello del chirurgo in testa e solo allora Law diede segno di apprezzare la cosa, anche se, ovviamente, questo non fece altro che indispettirmi di nuovo. Assomigliava anche troppo a quel sadico stronzo che continuava a sghignazzare senza ritegno e la frase era così famigliare che non mi stupii nel constatare che non la diceva solo in mia presenza ma ogni volta che poteva screditarmi. Quando però mi stavo arrendendo all’inevitabile tortura che quel ragazzino stava portando avanti, quest’ultimo se ne uscì con una battuta piuttosto interessante se si teneva conto che stava ancora continuando ad imitare Trafalgar, il quale si zittì all’istante.
«Quel rosso isterico di cui stai parlando è il mio ragazzo, quindi tieni a freno la lingua, Penguin».
Sulle mie labbra prese forma un sogghigno soddisfatto mentre Ace, seduto davanti a me, tossicchiava per nascondere un l’imbarazzo e lanciava occhiate preoccupate prima a Law e poi a suo fratello che, inconsapevole del guaio in cui si stava cacciando, non sembrava capire la gravità della situazione e continuava a mettermi al corrente di certi discorsi piuttosto interessanti.
Allora mi voltai con il busto verso Trafalgar che aveva tutta l’aria di voler essere inghiottito dal pavimento, anche se, ovviamente, orgoglioso com’era, mantenne fino alla fine una faccia seria e uno sguardo di ghiaccio, nonostante le sue labbra, sebbene serrate, fremessero lievemente.
«Il tuo ragazzo, eh?» dissi semplicemente in modo fintamente casuale e guardandolo in attesa di una sua qualche risposta velenosa o tentativo di smentita.
Non disse nulla invece e si limitò solo a sospirare in modo teatralmente esasperato per poi spiegare più pacato possibile che, come ogni volta, Rufy aveva frainteso e storpiato tutto ciò che era arrivato alle sue orecchie, stuzzicando la sua attenzione.
«Veramente io avevo detto ‘in un’altra vita quel rosso isterico di cui stai parlando, Penguin, non era un ragazzo, ma una Drag Queen’» spiegò, riacquistando un po’ di quella spavalderia che lo caratterizzava e ammiccando in direzione del suo amico nanerottolo che rispose al volo con un cenno affermativo del capo, come se volesse confermare le parole del moro.
Quello esasperato dovevo essere io, altro che lui.
Una volta che tutti si furono alzati ed ebbero spostato i loro interessi altrove e non più soltanto sulla capacità piuttosto carente di Rufy nell’imitare i suoi amici, soprattutto dopo che osò troppo nell’imitare Nami e la sua fissazione per i soldi, infilandosi addirittura due arance dentro la maglia per evidenziare meglio la sua femminilità e beccandosi in risposta un violento ceffone, io potei seguire indisturbato quel demonio da strapazzo e bloccargli la strada una volta nel corridoio che dava alle camere da letto.
«Hai qualcosa di non stupido da dire, Eustass-ya?» sfotté il bastardo, voltandosi a guardarmi con le mani in tasca e l’aria rilassata, per niente toccata dalla mia iniziativa e dall’espressione poco cordiale che stavo sfoggiando.
Chiusi la porta del bagno che stava aprendo, tenendola bloccata con un braccio, e gli fui a meno di un centimetro di distanza, chinandomi un poco per essere faccia a faccia con lui e lanciargli un’occhiataccia torva, davanti alla quale, come al solito, non fece una piega. Se possibile, il suo ghigno si allargò ulteriormente.
«Non mi sembra di averti dato il permesso di sfottermi quando ti pare e piace» gli feci notare seccamente. Quel discorso lo avevamo affrontato migliaia di volte e mai ero riuscito a ficcargli in testa che con me non doveva tirare troppo la corda. Col fuoco non si giocava, ma sembrava intenzionato ad infischiarsene e a non volerlo proprio capire.
«E di fotterti si, invece?» domandò malizioso, o lo sarebbe stato se sono non avesse inarcato un sopracciglio in modo sarcastico e non mi avesse scoccato uno sguardo derisorio. Non smetteva di prendersi gioco di me per il semplice motivo che le mie reazioni lo divertivano ed io, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a mantenere la calma e schizzare male era più forte della mia buona volontà.
Mi schioccai le nocche e digrignai i denti, «Vedi di darci un taglio, moccioso» ringhiai, «Oppure…».
«Oppure cosa?» sibilò in risposta, guardandomi con due occhi di ghiaccio velatamente minacciosi.
«Finirò per farti a pezzi io».
«Ti ho già massacrato una volta, Eustass-ya, non farmelo rifare».
«E’ passato un po’ di tempo da allora».
Si passò lentamente una mano fra i capelli neri, scompigliandoli leggermente, «Se insisti tanto…» iniziò a dire, ma non concluse mai la frase perché, fingendo indifferenza, mi indirizzò ad un tratto un calcio che, se non avessi fermato, mi avrebbe fatto sbattere violentemente la testa contro il muro.
«Non male, ma non è abbastanza». Gli afferrai la caviglia con suo stupore e diedi uno strattone deciso che lo sbilanciò e lo fece cadere in avanti, direttamente addosso a me e, come avrebbe detto qualsiasi antagonista in un film, tra le mie grinfie.
«Va’ al diavolo» imprecò, cercando, inutilmente, di liberarsi, cosa che non gli sarebbe risultata per niente facile e non ci sarebbe riuscito nemmeno tanto presto.
«Che fretta c’è? Abbiamo un conto in sospeso tu ed io». Così dicendo lo spinsi senza tante cerimonie nella prima stanza che trovai e chiusi a chiave. Il bagno sarebbe rimasto occupato per un bel po’.
* * *
In Paradiso. Io sarei sicuramente finito in paradiso per la mia infinita pazienza.
Sapevo che non era una buona idea, le idee di Thatch non erano mai buone per l’esattezza e non avevano nemmeno un buon finale, ma questa volta non era tutta farina del suo sacco, dato che l’invito di passare da quelle parti anche la sera di capodanno mi era stato fatto da Rufy e dalla sua allegra compagnia al completo, quindi ero leggermente propenso a sperare per il meglio. Che poi la decisione di accettare o rifiutare fosse stata solo mia questo era vero, ma qui entrava in scena quell’impiastro e, prima che me ne potessi rendere conto, mi ero ritrovato in macchina con lui diretto nientemeno che a casa di Ace con una faccia che dire corrosa dall’ansia e dal dubbio era dire poco. Accanto a me Thatch, al contrario, era radioso come un fiore in primavera e non faceva altro che canticchiare le canzoni che davano alla radio e ripetere quanto ci saremo divertiti quella sera. Non aveva ancora capito che lui se ne sarebbe ritornato a casa sua e non avrebbe contribuito a mettermi nei casini con la sua linguaccia e la sua presenza. Mi stava accompagnando solo perché non ero riuscito a togliermelo di dosso e a fargli abbandonare il suo proposito di guidare perché, secondo lui, io avevo bevuto troppo per non rischiare di fare un incidente. Due birre non avevano mai ucciso nessuno, almeno così credevo, e se avessi saputo cosa mi aspettava quella notte mi sarei sicuramente scolato due bottiglie di vodka liscia da solo.
«Piantala con quel muso lungo, mica stiamo andando a morire» si lamentò ad un tratto, guardandomi con la coda dell’occhio mentre faceva un sorpasso piuttosto rischioso in curva. Per scaramanzia e per abitudine mi portai distrattamente una mano al basso ventre. Con lui al volante non si poteva mai sapere.
Per grazia di qualche entità che non aveva ancora determinato la mia ora, arrivammo sani e salvi nel quartiere giusto dove parcheggiammo poco distante dall’appartamento in questione. Decidermi a scendere dalla macchina, però, fu un bel paio di maniche.
«Dio mio, Marco, sei proprio un rotto nel culo!».
«Tu sei un palo nel culo, invece» ribattei con sarcasmo per evidenziare quanto fosse impossibile.
«Beh, modestamente» iniziò a vantarsi con fare malizioso, così decisi che, piuttosto di aspettare che iniziasse uno dei suoi discorsi sulle prestazioni sessuali di tutta la famiglia, uscii dall’auto sbattendo scocciato la portiera e mi diressi a passo svelto verso l’edificio dove, al terzo piano, si potevano scorgere luci multicolore e dei coriandoli volare fuori da una delle finestre aperte. Notai, però, che Thatch seguitava a starmi dietro e camminava a pochi passi da me con l’aria allegra e festosa, tanto che fece finta di nulla davanti alla mia faccia interrogativa. Dove credeva di andare?
Fermai la sua avanzata premendogli una mano sul petto prima che mi sorpassasse e gli chiesi che razza di intenzioni aveva. Sarebbe dovuto tornare diretto a casa dopo avermi accompagnato e non esisteva che rimanesse anche lui. Non erano i patti.
«Ti accompagno su, mi assicuro che tutto sia normale e poi me ne vado» assicurò sorridente e con due occhi innocenti che non mi incantarono minimamente. Sapevo che non me la raccontava giusta, ma non avevo tempo da perdere a litigare con lui, così lasciai che mi seguisse fino al terzo piano con la speranza che mantenesse la sua parola e che non mi scombinasse niente. Non avevo tenuto conto, però, del fattore Rufy.
Ad aprire quella sera fu proprio lui e si presentò a noi con un cappello di paglia in testa, un paio di occhiali ai quali erano attaccati un naso, dei baffi e delle sopracciglia finte che lo facevano sembrare un vecchietto rachitico. Non appena mi riconobbe si tolse tutto e mi dedicò un sorriso ampio, trattenendosi a stento dal saltarmi in braccio perché alle sue spalle spuntò la faccia curiosa di Ace, il quale sembrò impallidire quando ci vide, anche se non ne ero del tutto certo perché si trovava in penombra a causa della poca luce nel corridoio d’entrata. Quella volta la maglia aveva proprio dimenticato di indossarla.
«Marco!» stava dicendo intanto con entusiasmo il più piccolo, guardandomi come se fossi un’apparizione e, per mia sfortuna, attirando l’attenzione di Thatch vicino a me che ebbe la bella idea di rivelare la sua presenza entrando in scena con una risata tutt’altro che tranquillizzante. Una cosa in cui sembrava essere un mago era capire al volo come stavano certe cose.
«Uh? E tu chi sei?» chiese Rufy con aria perplessa, grattandosi una guancia e fissando il castano che, con le mani sui fianchi, si chinava su di lui con un ghigno divertito.
«Sono Thatch, il fratello di Marco che, per la cronaca, vuole portarsi a letto quello che immagino essere il tuo fratellone».
Fu così che Thatch e Rufy divennero amici inseparabili.
Ace si precipitò ad agguantare il piccoletto per le spalle e lo spinse con energia nell’altra stanza dove tutti sembravano concentrati in una gara di tiro a segno a giudicare dal rumore di spari, mentre io mi limitavo a fulminare quello che si definiva uomo accanto a me con un’occhiata che di amore fraterno non aveva proprio nulla, anzi, se solo gli sguardi avessero potuto uccidere!
«Ehm, ehilà ragazzi!» improvvisò Ace, grattandosi convulsamente la testa e cercando di non dare a vedere l’evidente imbarazzo che stavo provando pure io, «Che piacere vedervi».
«Oh, lo immagino» ammiccò Thatch, non capendo che l’unica cosa che doveva fare era starsene zitto come un morto.
«Ace falli entrare! Thatch ti va di giocare con noi? Si? Dai, vieni!». E, per mia immensa sfortuna e con grande piacere di quello che non avrei più chiamato fratello, Rufy riuscì ad afferrare un braccio dell’imbecille che mi aveva accompagnato, tutto felice per l’andamento della situazione, e lo trascinò all’interno dell’appartamento dove lo presentò al resto dei presenti con il suo solito entusiasmo, mentre il nuovo arrivato salutava tutti e spiegava il suo grado di parentela senza sentirsi fuori luogo.
«Si, sono il fratello di Marco e, con ogni probabilità, il futuro cognato di Ace».
«Quindi tu ed io saremo in qualche modo imparentati?».
«Puoi dirlo forte ragazzino! Sempre che tuo fratello sia intenzionato a stare con il mio».
«Sicurissimo! Non parla d’altro ormai!».
Mi schiaffai una mano sul viso, sospirando disperato, tanto che un lamento mi uscì di bocca mentre, sulla soglia, Ace scaricò la tensione tirando un pugno seccò al muro e sembrava andare a fuoco tanto era arrossito.
Quando l’attenzione nelle altre stanze si spostò altrove trovai il coraggio, dopo la difficile scelta tra rimanere o andarmene all’istante, di aprire bocca e cercare di sistemare almeno un po’ le cose, anche se sembrava un’impresa impossibile dopo la più grande e colossale figura di merda che avevo mai fatto in vita mia. E, con una famiglia come quella in cui vivevo io, ne avevo fatte veramente tante.
«Io…» iniziai, per poi sospirare affranto, scuotendo il capo, «Non so cosa dire».
«Nemmeno io a dire il vero» farfugliò Ace, allibito quanto me, «Vorrei sotterrare mio fratello minore».
«Credimi, io non voglio fare altro da una vita» gli assicurai, riuscendo a strappargli un piccolo sorriso e alleggerendo un pochino la tensione causata dalle insinuazione che i due nuovi e grandi amici avevano fatto su di noi.
«Senti» disse, dopo qualche altro minuto di pesante silenzio durante il quale ci eravamo guardati i piedi, indecisi su come affrontare il tutto, «Visto che ci sei approfitterò per chiarire una cosa».
Deglutii a fatica, cercando di ignorare lo stomaco in subbuglio. Gli feci comunque cenno di continuare e, dopo un profondo respiro, riprese da dove aveva lasciato.
«So che probabilmente mi ritieni un semplice ragazzino con la testa fra le nuvole e senza il minimo senso del dovere e la giusta percezione del mondo» disse pacato, ma deciso, «Ma sappi che non sono uno stupido e che il mio interesse nei tuoi confronti non è, scusa, non era una cosa passeggera o semplice curiosità, altrimenti avrei smesso di passare al bar e cercare con tutte le mie forze di farmi notare da te parecchio tempo fa».
Dire che rimasi spiazzato nell’udire il suo discorso, il primo, vero e serio discorso che gli avevo mai sentito fare, era dire poco. Mi lasciò completamente senza parole e senza la minima idea su cosa ribattere per fargli capire che se ero lì quella notte era per una buona causa, anche se doveva averlo capito. Nessuno avrebbe mai fatto tanto se non per una valida ragione. Quello che mi tratteneva, però, erano le sue parole pronunciate al tempo passato, nonostante il lieve tentennamento che mi era parso di percepire.
«Ma sei stato molto chiaro nell’esprimere quello che pensi a riguardo» aggiunse, mordendosi un labbro e abbassando per un momento lo sguardo, «Ed io ti rispetto. Il mio comportamento è stato esagerato e fuori luogo, ma ti assicuro che non si ripeterà. Puoi stare tranquillo, davvero». Quando rialzò gli occhi mi rivolse un sorriso che mi sembrò costargli parecchio, anche se fece di tutto per non darlo a vedere. Non ci riuscì, purtroppo. I suoi sorrisi erano ciò che più mi avevano colpito di lui, sapevo quindi riconoscere quando erano sinceri e genuini. Questo, invece, aveva tutt’altro sapore.
«Amici?» chiese, ostentando allegria, quando in realtà tutto di lui gridava tristezza. Era l’esatto riflesso dell’umore triste e abbattuto che aveva la prima volta che ci eravamo visti ed io, per risollevargli il morale, gli avevo offerto un caffè. Per quanto in quel momento volessi fare l’impossibile per fargli tornare quella solarità che sempre lo caratterizzava, non presi nessuna iniziativa. Se il suo desiderio era di rimanere amici allora l’avrei rispettato. Dopotutto, non potevo pretendere altro dopo il modo in cui mi ero comportato e alla fine saremo rimasti dei semplici conoscenti, anche se non era ciò che volevo, non più almeno. Se l’amicizia mi fosse bastata avrei smesso di pensare a lui molto prima di allora.
«Amici» sussurrai, cercando di risultare contento e stringendogli la mano.
«Ma dove sono finiti quei due?» farfugliò qualcuno nel salone.
«Si stanno chiarendo, ne avranno per un po’ quindi». Ovviamente Thatch non sembrava ancora intenzionato a chiudere il becco.
«Cosa intendi dire?». Sperai almeno che non si mettesse a spiegare per filo e per segno le sue insinuazioni poco caste al fratellino di Ace, altrimenti non sarebbe passato molto tempo prima che ci sbattessero fuori casa. Lui, di certo, se lo meritava per tutto il casino che aveva combinato.
* * *
«Buon Compleanno!» urlammo tutti non appena scoccò la mezzanotte e i fuochi d’artificio di Ace iniziarono a sfrecciare con un sibilo alti nel cielo scuro, illuminando il buio della notte e il tetto dell’appartamento dove ci eravamo recati per festeggiare l’inizio del nuovo anno e, soprattutto, il compleanno di uno dei nostri scapestrati amici. Per la precisione il piromane di turno che ci fissava sorpreso e con un sorriso che andava via, via allargandosi davanti agli applausi e ai festoni che gli lanciammo addosso, per non parlare della bottiglia di spumante che venne stappata in suo onore e che lo investì come un’onda dalla testa ai piedi rendendolo fradicio. A giudicare dalla sua espressione non se lo aspettava e, dopo essersi stropicciato gli occhi ci rivolse uno sguardo carico di ringraziamenti e di affetto, tanto che fu difficile persino per me mantenere il mio solito cipiglio ghignante. Dopotutto, Ace era forse una delle persone migliori che avessi mai conosciuto.
«Tantissimi auguri fratellone!» urlò Rufy, saltando al collo del fratello nonostante fosse gocciolante e mezzo arrostito a causa degli unici due fuochi andati a vuoto. Inutile dire che ciò non tenne a bada nessuno e, uno dopo l’altro, addirittura tre o cinque alla volta, gli si fecero attorno per abbracciarlo e, in questo modo, rischiarono anche di soffocarlo.
Nami e Robin lo riempirono di baci; Franky, con il quale aveva subito legato, e Killer gli diedero un’amichevole pacca sulla spalla e Kidd fece altrettanto, rischiando però di mandarlo a sedere per terre data la forza che mise in quel gesto all’apparenza affettivo. Non voleva fargli male intenzionalmente, era solo il suo modo per esprimere la sua amicizia. Chopper, Usopp e Brook gli girarono attorno e gli strinsero la mano, destra e sinistra contemporaneamente; Zoro e Sanji lo presero un po’ in giro e tentarono di tirargli le orecchie, mentre Bepo Penguin ed io, quando fu il nostro turno, ci avvicinammo a lui con un pacchetto regalo ben incartato che gli porgemmo sotto agli occhi, incitandolo ad aprirlo.
Insistendo nel dire che non c’era bisogno di disturbarsi e che a lui bastava la nostra amicizia, era sempre stato un tipo piuttosto semplice e sentimentale e, ripeto, per questo un po’ stupido, scartò il regalo con imbarazzo dato che tutti gli sguardi erano puntati su di lui e la sorpresa fu tanta che temetti di vederlo piangere per la felicità.
«Questa… Questa é… E’ davvero…» faticò a dire.
«Penso proprio di si» concluse Penguin per lui allegramente, sollevando i pollici fasciati dai guanti in segno affermativo. «Sapevamo che ci tenevi molto, così abbiamo chiesto a Rufy di trovarla e l’abbiamo riparata».
Si trattava nientemeno che di una grossa collana con delle perle lisce e rosse che Ace portava con sé fin da quando era bambino. Avendolo noi conosciuto quando ormai era già un ragazzo fatto, finito e spericolato, non avevamo potuto vedergliela attorno al collo perché, stando a quello che ci raccontò, si era rotta e lui non era più riuscito ad aggiustarla. Non l’aveva comunque buttata via e l’aveva tenuta a casa di suo nonno per tutto quel tempo, dimenticando però dove l’avesse nascosta e rattristandosi ogni volta che ci pensava. Allora avevamo ingaggiato Rufy chiedendogli di impegnarsi in quella ricerca dato che viveva ancora sotto lo stesso tetto del vecchio Garp essendo ancora minorenne e, dopo un paio di tentativi andati a vuoto, l’aveva trovata in cantina sotto alle assi del pavimento e ce l’aveva portata in gran segreto.
«Volevamo farti una sorpresa e Law sapeva che ci tenevi molto» aggiunse Bepo, annuendo dolcemente, cosa tipica del suo carattere gioviale, mentre Ace alzò lo sguardo, puntandolo verso di me e l’amicizia che mi trasmise valeva più di mille parole.
Mi strinsi nelle spalle e sorrisi spavaldo, rispondendo al suo ringraziamento silenzioso. «Non c’è di che».
La indossò subito e non smise un attimo di ridacchiare fra sé, rigirandosi tra le dita le pesanti perle con gli occhi che brillavano per l’emozione. Gli altri non potevano saperlo, tranne forse Rufy, ma quella collana era l’unico ricordo che gli era rimasto di sua madre, per questo ci era così affezionato.
I fuochi d’artificio, nel frattempo, esplodevano sopra le nostre teste grazie al congegno da lui inventato, l’Automatic Fire Due, il secondo prototipo spara-fuochi che aveva programmato dopo il fiasco di quello che ci aveva presentato l’anno precedente. A quanto pareva sembrava aver capito cosa era andato storto e aver sistemato i difetti dato che filava che era una meraviglia e migliaia di scintille si frangevano nell’oscurità.
Anche se non erano affari miei, non potei fare a meno di notare come Thatch, il famoso fratello di Marco di cui Ace mi aveva accennato lo stesso giorno in cui lo aveva conosciuto per caso al bar dove lavorava il biondo, abbracciasse il festeggiato senza esitazioni, sollevandolo da terra di qualche centimetro e stritolandolo tra le sue braccia come se fosse stato una piovra. Dietro di lui stava Marco, il quale aveva un’espressione sperduta. Infatti, quando il moro smise di soffocare il mio coinquilino, questo si fece avanti e chiese spiegazioni. Evidentemente non era al corrente del fatto che il primo giorno dell’anno fosse anche il compleanno di quel piromane.
«Non hai nulla da dirmi?» lo sentii chiedere in tono scherzoso.
«Ecco, beh, a proposito di questo…».
Ormai ero sempre più convinto di essere destinato a condurre una vita circondata da persone dalla personalità imprevedibile e assurdamente strana e particolare, insomma, erano uno peggio dell’altro. Per non parlare di quell’esaltato di Eustass-ya. A proposito, dov’era?
Adocchiare una chioma fulva non fu difficile e fu solo questione di secondi. Il diretto interessato era intento a girare attorno all’affare infernale di Ace, guardandolo e studiandolo con aria critica e interessata. Non era la prima volta che lo vedevo così attratto da qualcosa che riguardasse la meccanica, non per niente lavorava in un’officina, ma ero convinto che il suo interesse fosse più profondo.
«Dì un po’, non hai mai pensato di seguire un corso a riguardo?» chiesi disinvolto quando gli fui alle spalle, facendolo sussultare anche se non mi degnò nemmeno di un’occhiataccia.
«Che diavolo stai dicendo?».
«Semplicemente che saresti ancora in tempo per studiare la materia, se ti piace».
Ci rifletté per qualche minuto, continuando a gironzolare in tondo e stupendomi parecchio dato che lui non si fermava mai a riflettere su quello che gli altri dicevano o sui consigli che riceveva, soprattutto se le proposte venivano da me. Iniziai a sperare che forse l’anno nuovo stava portando dei cambiamenti positivi in lui.
«Nah, non ho tempo da perdere con libri e stronzate varie come fai tu» sbottò infine, mandando in frantumi le mie speranze anche se, a giudicare dallo sguardo vagamente indeciso che colsi in lui, non ne era del tutto convinto. Questo mi permise di non darmi subito per vinto.
Ora la sua attenzione era totalmente rivolta verso di me e il buonumore sembrò tornargli all’istante dato il sorriso che gli si dipinse in volto mentre, con le mani nelle tasche del giaccone, mi raggiungeva con poche falcate arrivandomi vicino e sovrastandomi con la sua stazza, sapendo benissimo che dover alzare il capo verso l’alto per guardarlo mi dava un certo fastidio, nonostante non volessi ammetterlo.
In quel momento, con sorpresa di tutti, ricominciò a nevicare dopo due giorni di stallo e nuvoloni grigi che avevano ricoperto sole, luna, stelle e tutto quello che gli andava dietro. I fiocchi scendevano inesorabili e piuttosto frequenti e, sicuramente, di lì a qualche ora sarebbe stato tutto ricoperto di bianco e il giorno seguente si sarebbe presentata l’occasione ideale per una battaglia a palle di neve epica.
«Beh» borbottò Kidd, spolverandosi il naso sul quale si era posata un po’ di soffice neve, «Alla fine l’anno nuovo è arrivato».
«Davvero? Non me ne ero accorto» scherzai, vedendolo sbuffare e adocchiando un certo rossore imporporargli le guance. Se gliel’avessi fatto notare avrebbe sicuramente dato la colpa al freddo anche se era avvolto dal giubbotto, dai guanti e da una sciarpa pesante.
«Stai cercando di farmi gli auguri, Eustass-ya?» ipotizzai, venendo al dunque per lui e rendendogli le cose facili una volta tanto. Non era mai stato bravo ad esprimere certe cose e, molto spesso e per mio divertimento, ero io a completare le frasi per lui mettendolo inevitabilmente in imbarazzo.
«Più o meno» mugugnò, spostando lo sguardo altrove e strofinando la punta di un piede sul cemento.
«E vorresti anche dirmi che sei contento di iniziarlo con me?».
«Tzé, ti piacerebbe!» sbottò, non tollerando le mie insinuazioni e infervorandosi, mentre io non la smettevo di sghignazzare davanti ai suoi scarsi tentativi di essere gentile. Tentativi che, quando metteva in atto, mi facevano stranamente piacere.
«Ragazzi! Buon anno! Vi voglio tanto bene!». Rufy, con tutto l’entusiasmo di cui era capace, si tuffò tra noi e passò le sue braccia sulle nostre spalle, ridacchiando contento e ripetendo quanto contassimo per lui e come lo rendessimo sempre allegro e sorridente.
«Siete i migliori e non conosco nessuno più innamorato di voi due!».
«Ma che cazzo dice questo!» iniziò a urlare Eustass-ya con orrore, staccandosi subito dall’abbraccio improvvisato e dandoci le spalle, venendo poi inseguito da Rufy che prese ad imitarlo e a sbuffare come un treno, scalciando la neve appena caduta e sollevando polvere bianca suscitando le risate di tutti.
«Moccioso, sul serio, finiscila!» sbraitava intanto Kidd, minacciandolo puntandogli un dito contro.
Alzai gli occhi al cielo e scossi il capo, mentre un sorrisetto faceva capolino sul mio volto. Mi abbassai il frontino del cappello in modo da celarlo agli altri.
«Proprio un bel modo per iniziare l’anno nuovo» sussurrai, sinceramente convinto di quello che dicevo.
Angolo Autrice.
Ma ciao :D
Allora, il primo è Ace che fa una bella panoramica sull’appartamento, gli amici e la serata movimentata di Natale. Marco è andato li senza preavviso e questo, poco da fare, è un bel gesto. Cioè, ha lasciato in ballo Barbabianca&Co per Ace, dai, un po’ tregua se la merita! E poi Ace è innamorato, ma quanto caro è ** Però le cose non si sono del tutto sistemate, ma vedremo più avanti.
Entra in scena Franky oggi, mi dispiaceva lasciarlo in disparte :D
Kidd. Kidd, io ho seri problemi con te, sul serio. Nessuno ti eguaglia, nessuno! Questo fantastico Rosso Malpelo gioca a Black Flag. Ovviamente non prende bene l’iniziativa di Rufy :D vi è piaciuta? Ma almeno ha una piccola rivincita quando si rinchiude nel bagno con Trafalgar per… niente, giocare a nascondino.
La parte che mi sono divertita da matti a scrivere è stata quella di Marco e Thatch. Scusate, ma stavolta hanno il primo premio, cioè, dai, sono perfetti. Parliamo di Thatch, parliamone vi prego! E’ un genio. Un. Fottuto. Genio. Tra lui e Rufy non so chi sia meglio, o peggio :D vi sono piaciute le battute? Spero di aver strappato sorrisi stavolta ^^
Marco si trova ad ascoltare il discorso di Ace che non fa una piega e che, ancora una volta, gli sbatte in faccia che il sentimento che provava non era una stupidaggine o qualcosa di passeggero. Lui, ovviamente, ci rimane male, ma non disperate, se avete notato o anche solo immaginato bene la scena, avrete capito che ad Ace, parlare al passato, costa tanta fatica e dolore.
Tocca a Law. Ce n’è anche per te! Beh, è stato davvero un bel pensiero il regalo fatto a Ace, io credo, e ho voluto far capire quanto, anche se non lo da a vedere, il ragazzo tenga i suoi amici. E anche a Kidd, awww ** ma questi son particolari. Infatti il Rosso è contento di passare capodanno con lui, si si ^^ poi arriva Rufy e manda tutto in fumo, ma pazienza, va bene così :D
Che dire, non posso mettervi gli spoiler perché il capitolo non è pronto. Ecco, l’ho detto, ma lo sarà! Accontentatevi di sapere che, beh, l’ho iniziato e tipo sarà molto imbarazzante.
E per farmi perdonare vi dico anche questo: ho deciso come concludere la long. So cosa accadrà e so anche come arrivare alla fine. Quindi, beh, pazientate ancora un po’ e sarete ricompensati **
Con questo vi saluto e vi ringrazio infinitamente per tutto, dal primo all’ultimo, recensori e lettori. Grazie davvero.
See ya,
Ace.
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Capitolo 19 *** Capitolo 17. Tutto ciò che mi metteva in imbarazzo. ***
Capitolo 17.
Tutto ciò che mi metteva in imbarazzo
«Ma vaffanculo, coglione!» urlai dal finestrino abbassato dell’auto, con una mano furiosamente incollata al clacson e intento a maledire in più lingue l’idiota che mi aveva appena tagliato la strada rischiando di venirmi addosso e sfasciarmi l’auto. Inutile dire che se ci avessi trovato anche un singolo e minuscolo graffio l’avrei scovato in qualunque nascondiglio e gli avrei spezzato le gambe con una mazza da baseball. Se solo Trafalgar non avesse insistito per fare la parte della principessina, obbligandomi ad andarlo a prendere all’università, a quell’ora sarei stato già a casa a rilassarmi e a godermi il mio meritato riposo del lunedì sera.
Dopo le feste non era stata poi una gran cosa ricominciare da capo a lavorare tutti i giorni ed io mi ero abituato troppo bene a poltrire a letto fino a mezzogiorno passato. In più, gennaio era ormai agli sgoccioli, ma la neve non ne voleva proprio sapere di andarsene, artigliandosi invece sempre più alle strade, ai tetti delle case e a qualsiasi superficie esterna. In tutta la città nevicava praticamente da due giorni.
Sbuffai infastidito mentre parcheggiavo dall’altra parte della strada, lanciando occhiate torve a tutti coloro che uscivano dalla facoltà con l’obbiettivo di individuare quel bastardo saccente e desideroso di tornarmene al caldo della mia dimora il prima possibile e, magari, lui avrebbe potuto anche farmi compagnia.
Ah no, aspetta, mi ricordai improvvisamente, alzando gli occhi al cielo e imprecando, deve studiare per il prossimo esame, ma che cazzo. Quei libri glieli faccio ingoiare prima o poi.
Smisi di borbottare tra me e me quando adocchiai una figura magrolina avvolta in un cappotto nero scendere la scalinata che portava all’entrata principale e riconoscendo all’istante il dottorino da strapazzo per il suo insulso, e perennemente presente nella sua testa, cappello a macchie. Che stronzata, anche quello avrei dovuto farlo sparire, giusto per vendicarmi di tutti i colpi bassi che aveva subito il mio orgoglio in quegli ultimi tempi.
Proprio nel momento in cui lo vidi alzare gli occhi verso di me notai, con un certo fastidio, che un ragazzino più basso e di qualche anno più piccolo richiamò la sua attenzione, raggiungendolo di corsa e fermandosi accanto a lui con il fiatone. Portava uno stupido berretto con il frontino e un paio di occhiali da sole, a detta mia inutili con un tempaccio come quello che c’era. Ad ogni modo, l’intruso iniziò ad attaccare bottone e a chiacchierare animatamente con Law sotto il mio sguardo e la mia pazienza che si andava esaurendo molto in fretta, tanto che mi ritrovai ad artigliare il volante per impedirmi di scendere e portare il culo di quel bastardo in macchina di peso.
Dopo dieci minuti buoni di attesa, lunghi ed interminabili, finalmente il piccoletto decise di congedarsi saltellando via con un sorriso soddisfatto stampato in faccia, non prima di aver dato un’amichevole pacca sulla spalla a Trafalgar che, in risposta, lo salutò sventolando la mano e ridacchiando tra sé.
Quando mi raggiunse i miei capelli e il mio nervosismo stavano andando a fuoco, tanto che non gli diedi nemmeno il tempo di sedersi e chiudere la porta, investendolo di domande.
«Si può sapere chi cazzo era quello e che cosa voleva?». Ovviamente non pensai minimamente di calmarmi e interrogarlo con pacatezza, no, praticamente gli scaraventai addosso un sacco di insulti mentre guidavo per le strade in un modo per niente diligente, ma che per me era normale, soprattutto non trovavo sbagliato accanirmi come un dannato per fargli sparire quel cipiglio divertito che stava sfoggiando senza la minima preoccupazione.
Quando smisi di urlare improperi, dandogli tre secondi esatti per rispondermi, pensò bene di farmi pentire del mio comportamento avventato e niente affatto controllato, come invece avrebbe dovuto essere e che non mi premuravo mai di adottare. Forse, se l’avessi fatto, a quell’ora non mi sarei ritrovato così nella merda.
Mi rivolse un’occhiata maliziosa e accompagnò il tutto con una singola parola pronunciata in tono burlone e strafottente. «Geloso?».
Rimasi spiazzato e zittito, tanto che rischiai di andare dritto e non fare una curva perché ero impegnato a fulminarlo con lo sguardo mentre lui se la rideva tutto contento.
«Non è come sembra, d’accordo?».
«Certo che no, Eustass-ya».
«Andiamo, ti sembro forse geloso?».
Il mezzo sorrisetto che fece e il luccichio nei suoi occhi bastarono come risposta alla mia domanda.
«Non sono geloso! Non me ne può fregar di meno di te e delle tue stronzate!» ribattei seccato, cercando di risultare il più convincente possibile. Sapevo che era inutile, ma ci avrei sempre provato ugualmente a smentirlo, nonostante quella sua odiosa faccia da schiaffi che sembrava capire sempre tutto prima e meglio degli altri.
«Si chiama Shachi ed è venuto a ringraziarmi per averlo aiutato in anatomia. Ora non ha più problemi come all’inizio dell’anno» spiegò sogghignando e continuando a guardarmi, anche se io stavo facendo di tutto per concentrarmi sulla strada e fare finta che lui non esistesse e che non fosse così maledettamente stronzo.
«Devo ammettere che quel ragazzino ci sapeva proprio fare quando gli davo ripetizioni» fece con noncuranza, stiracchiandosi e punzecchiandomi con un’orribile frecciatina maliziosa, giocando con i doppi sensi. Cioè, a me diceva che doveva studiare per un esame e che non aveva tempo di fare sesso e poi se la spassava in giro? No, non gliel’avrei permesso e fanculo tutti i suoi studi, quella sera non avrebbe letto nemmeno una riga di anatomia, squartamento, sangue e schifezze varie.
Ridi fin che puoi, razza di battona con un culo illegale. Aspetta di vedere dove ti porto adesso e cosa ti faccio. Non dimenticherai mai questa giornata, mai, nemmeno tra cent’anni! Ma pensa, pur di tapparti quella boccaccia sono disposto a sacrificare pure la mia sanità mentale!
Feci inversione di marcia in una piccola stradina, passando sopra a qualche marciapiede o giardino che fosse e tornando indietro per la strada principale, diretto nientemeno che il più lontano possibile da casa sua. Questo gesto gli fece corrugare la fronte e lo fece stare zitto e pensieroso per un po’, lasciandomi il tempo di godere per la bella idea avuta e decidere come fargliela pagare per quell’orrendo quarto d’ora che mi aveva fatto passare e per la battuta infelice. Perché scherzava, era ovvio. Doveva stare scherzando.
«Eustass-ya» disse dopo un po’, «Io abito dall’altra parte della città».
«Lo so» ghignai, imitando il suo tono da sapientone e facendolo sbuffare, «Ma noi andremo da un’altra parte».
«Ah si? E dove di grazia?». Si stava scocciando e il tono sarcastico e poco gentile che usò mi diede la conferma. Ancora non immaginava cosa lo aspettava quella sera; gli avrei fatto passare l’inferno e, dato che ero convinto che lui fosse un demonio, ero sicuro che non ci sarebbero stati problemi nel presentargli il Diavolo in persona. Dopotutto, si sarebbe sentito a suo agio in un ambiente così ostile.
«Eustass-ya» mi chiamò categorico, pretendendo una spiegazione. Ormai avevamo passato anche casa mia, quindi doveva aver capito che non era quella la nostra destinazione, ma un’altra, ben diversa e ben lontana dalle sue idee.
Ghignai sadicamente e, per una volta, fui felice di vederlo leggermente preoccupato di non avere la situazione sotto controllo. E non l’avrebbe avuta per il resto della serata. Dunque era così che ci si sentiva a dirigere le vite degli altri stando sempre un passo avanti a loro? Uhm, potevo anche abituarmici; la sensazione mi dava un senso di potere che mi avrebbe annebbiato la mente nel giro di poco tempo.
Gli rivolsi un’occhiata inquietante, ma non tanto quanto la frase che ne seguì. «Preparati bastardo, stai per conoscere i miei».
Il quasi incidente che seguì non mi fece demordere dai miei intenti e, una volta constatato che le ruote della macchina non avessero subito nessun danno, essendosi ritrovare a inchiodare di colpo e a slittare su per un marciapiede, ripartimmo a tutto gas verso la dolce e tranquilla dimora della mia malata e difficilmente sopportabile famiglia.
Trafalgar aveva avuto un mezzo infarto e per la prima volta il suo viso si era contratto in una smorfia di puro odio mista a sbigottimento quando aveva capito dove stessimo andando e, senza preoccuparsi delle conseguenze, aveva guardato in faccia la Morte e si era aggrappato al volante, facendomi sbandare pericolosamente. Se non avessi tirato prontamente il freno a mano, a quell’ora potevamo già esserci rotti l’osso del collo entrambi.
«Eustass-ya, apri questa cazzo di porta!». Stava impartendo quell’ordine da circa una mezz’ora, ma non avrei mai acconsentito a togliere il blocco automatico alle portiere per dargli modo di scendere e tornarsene indietro a piedi. Anche se l’idea di vederlo saltare dall’auto in movimento a quella velocità non mi sarebbe affatto dispiaciuta.
«Cos’è moccioso, hai paura?» sfottei, riprendendomi la mia personale rivincita e gonfiando il petto con orgoglio e malcelata soddisfazione personale. Come mi sentivo potente!
Ero certo che mai si sarebbe aspettato da me una decisione del genere, considerando che non ero affatto il classico tipo di persona che, non appena poteva, faceva conoscere il fidanzato ai genitori. Per la verità non avevo nemmeno mai avuto un vero e proprio fidanzato, cioè, che schifo. Ma con Trafalgar era stato diverso, tutto, letteralmente. E avevo anche la vaga sensazione che il bastardo avesse pianificato tutto per mettermi nel sacco, conoscendo la sua indole malvagia, ma non avevo le prove, quindi mi toccava vivere col dubbio. Ad ogni modo, nonostante il mio cervello mi stesse urlando di non commettere quell’enorme e colossale cazzata, non lo ascoltai e continuai deciso per la mia strada, più che intenzionato a vendicarmi. Si poteva dire che subirmi una serata all’insegna dell’imbarazzo fosse un sacrificio necessario se dall’altra parte potevo godermi la faccia devastata di quello stronzo sommersa di domande e indecisa su cosa rispondere. Oh si, sarebbe stato un vero spasso!
L’unica cosa che mi preoccupava e che cercavo di ignorare era la sconosciuta e imprevedibile reazione di mia madre. Dio solo sapeva se avrebbe dato in escandescenza o meno! Conoscendola non avrebbe fatto storie, insomma, non per niente era una sostenitrice dei diritti degli emarginati sociali. Un figlio gay non poteva farle ne caldo, ne freddo, no?
Lo spero proprio, pensai dubbioso.
Smoker, invece, non avrebbe rotto il cazzo, ne ero certo; al contrario non avrebbe perso tempo a sfottermi e a punzecchiarmi, ma quello lo faceva da una vita, quindi potevo anche sopportarlo. Quanto lo potesse sopportare Law, invece, non lo sapevo e non vedevo l’ora di scoprirlo.
La mia vendetta sarebbe arrivata e se credeva che questa cena di famiglia improvvisata significasse qualcosa di schifosamente romantico, beh, si sbagliava di grosso.
Digrignò i denti e l’occhiata furente che mi scoccò sembrava promettere una terribile tempesta di insulti o insinuazioni velenose in arrivo. «Sai, non pensavo che il nostro rapporto contasse tanto per te» sibilò aspro, «Mi presenti addirittura i tuoi genitori, che tenero».
Ecco, appunto.
In quel momento dovetti lottare contro me stesso per non fermare la macchina, scendere, staccare un pezzo del paraurti per prenderlo a mazzate, ucciderlo, rinchiuderlo nel baule per poi seppellirlo dietro casa e fare come se niente fosse. Prosciugai tutta la mia forza interiore per limitarmi a masticare bestemmie e ingoiare qualsiasi tipo di maledizione, indirizzandogli occhiate assassine alle quali lui rispondeva con altrettanto astio e ira. Alla fine, però, avevo ancora io il coltello dalla parte del manico e, grazie al Cielo, me ne ricordai prima di commettere sciocchezze e permettergli di riprendere il comando della situazione.
«Intanto preparati a passare una serata in compagnia di mamma e papà, tesoro» ringhiai, facendo una faccia disgustata nel pronunciare l’ultima parola, ma poco importava, «E per la cronaca: non conti proprio un cazzo!». Non riuscii a non fare chiarezza su quel piccolo particolare. Era impossibile, per quanto mi sforzassi, ogni volta che Trafalgar mi pungeva sul vivo con le sue battute, dovevo per forza ribattere e negare tutto. Sapevo che così non facevo altro che divertirlo, ma, sul serio, non riuscivo a controllarlo.
«Oh, non dire così, ferisci i miei sentimenti» fece l’altro, fingendosi offeso e imitando una crisi isterica, sbuffando subito dopo e rivolgendomi un chiaro e comprensibile invito ad andare a fanculo alzato il dito medio.
«Brutta bagascia!» sbottai.
«Metallaro mestruato».
«Ti odio, Trafalgar!».
«Il sentimento è reciproco, Eustass-ya».
Matto. Io sarei diventato matto e, se prima ero fermamente convinto che con il mio comportamento e le mie azioni poco altruiste non avrei nemmeno visto in lontananza le porte del Paradiso quando sarei trapassato, ora iniziavo a credere che sopportare quell’essere diabolico fosse sufficiente a farmi meritare non solo il Purgatorio, non unicamente il Paradiso, ma niente meno che il seggio alla destra del Signore. Santo Dio, di certo dovevo stargli parecchio sulle palle se mi aveva affibbiato alle calcagna quella vipera di dottore.
«Me la pagherai Kidd» soffiò letale mentre entravo nella stretta stradina di sassi, «Giuro su tua madre che me la pagherai cara».
In lontananza si potevano notare le luci accese della casa dei miei e di quelle adiacenti. Fortunatamente per me, anche se non lo diedi a vedere, la macchina di Smoker ancora non c’era.
«Aspetta di conoscerla» ghignai sadicamente, parcheggiando l’auto, spegnendo il motore e lasciandolo libero di scendere, anche se ormai non poteva più scappare.
Uscì all’aperto con un diavolo per capello e, seguendo i miei movimenti con uno sguardo assassino, aspettò che lo affiancassi prima di incamminarsi con me lungo il vialetto in ghiaia che portava all’ingresso sotto un portico dove ancora alcune lucette natalizie facevano mostra di sé. Non disse nulla e, nel momento in cui suonai il campanello, sfregandomi le mani nei guanti, l’aria omicida che gli era aleggiata attorno fino ad allora scomparve e i lineamenti del suo viso si rilassarono. Tutto ciò non mi fece sentire affatto tranquillo e un dubbio si insinuò nella mia mente.
Esattamente un secondo prima che la porta si aprisse fece in tempo a dedicarmi un ghigno sadico, come a volermi dire ‘te la sei cercata, idiota’.
«Chi è?» stava dicendo intanto una voce squillante e dal timbro nasale mentre l’uscio si apriva di qualche centimetro e un occhio esageratamente truccato spiava attraverso la fessura.
Sbuffai, «Mamma son…».
«Tesorooo!». Non feci in tempo a finire la frase che un uragano vestito di viola uscì di casa e mi saltò addosso, stritolandomi in una morsa d’acciaio e riempiendomi di baci umidicci che mi lasciarono sicuramente l’impronta del rossetto. Alle mie spalle giurai di poter sentire Trafalgar trattenere una risata.
«Pasticcino, ma potevi avvisarmi! E che bello, mi hai fatto una sorpresa, come sei dolce!».
Strinsi i denti e sperai di non arrossire: quello era esattamente ciò che avrei voluto evitare. «Mamma, ti prego…» feci in tono lamentoso.
«Ma chi c’è lì con te? Vieni avanti su. Oh, ma come sei giovane e bello! Sei un amico di Kidd? Piacere caro, io sono sua madre, mi chiamo Ivan».
Se quella donna avesse potuto, avrebbe stritolato anche il moccioso tra le sue spire, ma si trattenne solo per buona educazione, ne ero certo. Sperai solo che le presentazioni tra loro avvenissero nel modo meno imbarazzante possibile.
Il moro avanzò di un passo, mostrandosi meglio alla luce del portico e, porgendo la mano a Ivan, le sorrise amabilmente. Cosa che, per la precisione, non gli avevo mai visto fare e che gli riusciva dannatamente bene, tanto da apparire un bravo e rispettabile ragazzo, quando invece era un fottuto e maledetto impiastro. Quello era un diavolo che giocava a fare la parte dell’angioletto.
«Molto piacere Signora» disse in modo gentile, «Io sono Trafalgar Law, il fidanzato di suo figlio».
Sbarrai gli occhi e lo guardai come se mi avesse appena vomitato addosso coriandoli. Era impazzito? Gli sembrava il modo di dire una cosa del genere senza prima avvisare la vecchia? E con quella fottuta calma poi!
Infatti Ivan rimase in silenzio a guardarci con sorpresa, spostando lo sguardo da me a lui e boccheggiando come una trota. Sperai solo che non decidesse di avere un infarto proprio in quel momento, sarebbe stato troppo per i miei poveri nervi.
A discapito di tutto reagì piuttosto bene, forse anche troppo perché iniziò ad urlare contenta come un ossesso e, dato che prima si era trattenuta dal farlo per rispetto delle buone maniere, saltò in braccio a Trafalgar congratulandosi con lui e abbracciandolo come se fosse suo figlio, dimenticandosi di me e pregandolo di accomodarsi in casa e di mettersi a suo agio perché loro avevano molte cose di cui parlare.
Fu la serata più orribile, imbarazzante e da suicidio della mia vita, tanto che più volte mi chiesi se ne fosse valsa la pena, dato che potevo inventarmi qualcosa di meno tragico per i mio orgoglio per vendicarmi di quel pezzente che si stava lavorando mia madre peggio di uno strizza cervelli. Sul serio, ero rimasto allibito e sconvolto dalla facilità con cui erano diventati amici quei due, entrando in perfetta sintonia e mettendosi persino a cucinare assieme sotto alla mia faccia sconvolta e incazzata, ignorando i miei improperi, i miei sbuffi seccati e persino i pugni che tirai contro il muro uscendo dalla stanza per ritirarmi in salotto e allontanarmi il più possibile da loro.
Quando era rientrato Smoker, poi, avevo toccato il fondo.
Aveva fatto il suo ingresso come di consuetudine facendo un baccano assordante e, non appena aveva saputo che avrebbe avuto ospiti, aveva subito assunto un’espressione scazzata e poco cortese, ma gli era bastato stringere la mano a Trafalgar, che nemmeno in quel momento batté ciglio, e il suo umore prese tutta un’altra piega. Inspiegabilmente sorrise in un modo inquietante e non fece altro per il resto della serata, alleandosi con mia madre, cosa che non accadeva praticamente mai, e aiutandola a ricordare aneddoti stupidi e, sotto il loro punto di vista, divertenti sulla mia infanzia e le sciocchezze che avevo combinato da piccolo assieme a Killer. Insomma, una classica cena con i genitori dove tutti i segreti più imbarazzanti della mia vita vennero rispolverati a mie spese, rivoltandosi contro di me e facendomi rischiare un serio esaurimento nervoso. Trafalgar, invece, era tutto contento, ne ero certo, perché stava facendo scorta di informazioni per sfottermi non appena l’occasione gli si fosse presentata. Dovetti quindi rassegnarmi all’inevitabile, sicuramente aveva abbastanza notizie per prendermi per il culo e minacciarmi a vita. Se avesse voluto avrebbe anche potuto ricattarmi.
In quel momento, grazie a qualche divinità in ascolto nel Cielo, la grande stronza di Ivan ci aveva spediti fuori al freddo e sotto la neve che non voleva saperne di smettere di imbiancare la città in attesa del dolce, così approfittai per prendere una boccata d’aria e sbollire la rabbia, sperando con tutto me stesso che quel bastardo che mi seguiva a pochi passi di distanza non si azzardasse ad aprire la bocca.
«Quindi tu da piccolo…» iniziò a dire con voce strafottente.
Mi voltai verso di lui con un indice ammonitore alzato e in bella vista, «Sta zitto, Trafalgar! Sta. Zitto».
Ghignò sadicamente e con gli occhi che brillavano per il divertimento, così cercai di ignorarlo dandogli le spalle e sbuffando sonoramente. Alla fine quella che mi era parsa un’ottima idea si era rivoltata contro di me, obbligandomi a sopportare tutto ciò che mi metteva in imbarazzo senza potermi salvare.
Mentre alzavo lo sguardo verso la notte scura e dominata dalle stelle, nonostante la neve che cadeva lenta e inesorabile, qualcosa di freddo e compatto si abbatté sulla mia testa e dei fiocchi gelidi e bagnati finirono per scivolarmi attraverso i vestiti e lungo la schiena, facendomi rabbrividire.
Mi voltai lentamente, pregando Dio di mantenermi calmo perché, se quell’idiota aveva anche solo osato colpirmi con una maledetta e insulsa palla di neve, non ci avrei pensato due volte a spezzargli tutte le ossa, una ad una.
Non feci nemmeno in tempo a minacciarlo che subito un altro colpo mi investì, in piena faccia questa volta, accompagnato da una risata sfacciata e da un commento sarcastico da parte di Trafalgar.
Sospirai stancamente, accucciandomi a terra e iniziando a fare un bel mucchio, ghignando quando il ragazzo che fino ad allora si era divertito a punzecchiarmi smise di ridacchiare, facendosi di colpo serio e avvisandomi con un tono serio di non provarci nemmeno a colpirlo. Inutile dire che non lo ascoltai minimamente, continuando il mio lavoro e formando una massa consistente di neve che raccolsi tra le mie mani, puntando poi lo sguardo nel suo e calcolando nel frattempo le distanze. Non dovevo mancare il bersaglio e la mia concentrazione gli fece aggrottare la fronte per la preoccupazione. Gliel’avevo ripetuto spesso che con il fuoco non si scherzava.
«Eustass-ya, no» fece categorico, intimandomi a desistere dalla mia intenzione.
Continuai a fissarlo fermamente e determinato, cercando di farlo innervosire, ma la fortuna era dalla mia parte perché sull’uscio della porta apparve mia madre, richiamando la nostra attenzione e, quindi, anche quella di quel subdolo traditore che godeva nel colpirmi alle spalle.
«Ragazzi, il dolce vi aspetta. Ma che? Kidd! Cosa diavolo ti passa per la testa? Incivile!».
«Dannazione, questa me la paghi!» sbraitò nello stesso istante Law, il quale aveva distolto l’attenzione da me per voltarsi verso Ivan e prestarle ascolto. Un errore che gli era costato caro perché non ci avevo pensato due volte a sommergerlo di neve, centrandolo in pieno e rendendolo fradicio. Per uno scherzo del Destino aveva dimenticato il cappello dentro casa, così che i suoi capelli si inumidirono nel giro di qualche secondo, finendo per scompigliarsi in tutte le direzioni e dandogli un’aria da animale abbandonato e spelacchiato.
Ovviamente non prese bene la cosa perché digrignò i denti e, prendendo la rincorsa, mi piombò addosso con tutta la forza che aveva, cogliendomi di sorpresa perché non mi aspettavo di certo una reazione del genere, dopotutto non schizzava mai in quel modo, così finimmo a terra in un groviglio di braccia e gambe. Per qualche strana ragione mi ritrovai con il viso premuto sulla neve mentre la risata isterica di mia madre andava via, via scemando, scomparendo dietro alla porta. Doveva aver capito che in quelle condizioni il dolce per noi avrebbe aspettato.
«Ti piace tanto la neve, Kidd? Bene, eccoti un incontro ravvicinato!» stava dicendo intanto quel piccolo insolente, azzardandosi persino a infilarmi cumuli di neve dentro al cappotto. Che cazzo aveva intenzione di fare? Congelarmi per studiare l’animazione sospesa di un corpo?
Con uno scatto di reni riuscii a togliermelo di dosso, mettendomi seduto e rialzandomi il più in fretta possibile per evitare di essere atterrato di nuovo. Lui fece lo stesso, ma nell’istante in cui alzai lo sguardo per vedere dove fosse, un’altra palla di neve mi colpì in faccia. Di nuovo.
Quel ragazzo avrebbe avuto vita breve, questo era sicuro perché avrei provveduto io a farlo scomparire dalla mia vita e da quella degli altri; infatti, non appena lo individuai, gli scagliai contro altra neve. Il tiro non andò a segno perché lo stronzo si spostò all’ultimo secondo e la lastra di ghiaccio andò a infrangersi contro la fiancata della mia auto.
Una risata aleggiò nell’aria e la mia ira raggiunse il limite. Iniziammo così una battaglia senza esclusioni di colpi, bagnandoci da capo a piedi, ma non importava, non sentivamo nemmeno il freddo pungente della sera tanto eravamo impegnati a combattere. Con mio sommo piacere ripagai Trafalgar con la stessa moneta, afferrandolo per le spalle durante un suo tentativo di allontanarsi e mettersi a riparo e facendolo finire a terra con un solo movimento del braccio per poi sopraffarlo e coprirlo di neve fresca.
«Oh si, adoro la neve» sfottei con sarcasmo, intento ad allargargli il colletto della maglia dopo avergli sbottonato con un po’ di fatica il cappotto e infilandogli quei fiocchi bianchi in modo tale da metterli a contatto con la sua pelle.
Rabbrividì più volte, tentando di liberarsi e non ci sarebbe riuscito tanto presto se non fosse stato per l’interruzione di Smoker che, con poca grazia, ci chiedeva di smettere di fare i ragazzini ed entrare in casa perché, a detta sua, sembravamo dei poppanti.
«Ti è andata bene, bastardo, ma non farlo mai più» sussurrai minaccioso mentre mi alzavo, spingendolo indietro e facendolo finire nuovamente con il culo a terra quando tentò di fare altrettanto. Mi lanciò un’occhiata furente, maledicendomi in modi piuttosto originali, aspettando che mi allontanassi di qualche passo per poi rimettersi in piedi agilmente. Mi parve di sentire il suo cellulare squillare, ma quando lo estrasse dalla tasca alzò le spalle e lo spense senza rispondere. Probabilmente era Penguin-nanerotto, quindi niente di importante. Allora si spolverò un po’ la giacca, affiancandomi poi lungo il vialetto verso casa e, anche se le dita non si intrecciarono mai, lasciammo comunque che le nostre mani continuassero a sfiorarsi.
* * *
Ormai il peggio era passato, avevo sostenuto praticamente l’intera sessione di esami e potevo finalmente concedermi un po’ di tempo libero per stare con mio fratello e i miei amici con cui praticamente non ero più uscito a causa dello studio. I miei coinquilini ed io avevamo passato un mese piuttosto duro, in effetti, ritrovandoci tutti e quattro relegati in appartamento, ognuno nella propria stanza, a studiare con costanza. Grazie al Cielo quel periodaccio stava volgendo al termine per tutti.
Per cui, in quel momento, mi stavo godendo una più che meritata cioccolata con panna al mio solito posto nel locale di Marco che avevo ripreso, all’inizio con un po’ di titubanza, ma poi sempre più con convinzione, a frequentare. Dire che i tasselli stavano tornando lentamente al loro posto era dire poco perché, con mio stupore, stava andando tutto per il meglio. Certo, c’erano state situazioni piuttosto imbarazzanti, ad esempio quando ero caduto dallo sgabello per la sorpresa di vederlo spuntare dal nulla davanti a me e venendo soccorso all’istante, ritrovandomi le sue mani a vagare libere sul mio viso e sentendomi arrossire per il calore che emanavano. Da non dimenticare poi l’enorme figuraccia che avevo fatto quando gli avevo praticamente confessato che conoscevo il posto di tutti gli oggetti, tazze, bicchieri, canovacci e vassoi perché lo osservavo e lui, con nonchalance, mi aveva risposto dicendomi che non mi credeva così interessato a ciò che lo riguardava. In quel momento avevo tanto voluto sotterrarmi vivo, ma ciò era stato impossibile, così mi ero limitato ad arrossire, di nuovo, e a lasciare che i nostri sguardi sostituissero le parole non dette. Il limite lo avevo toccato quando, in risposta ad una sua domanda innocente, gli avevo detto che di me o con me poteva fare tutto quello che voleva. Ovviamente aveva frainteso completamente il significato delle parole, ma dettagli.
Sospirando con un mezzo sorriso, scuotendo leggermente il capo nel ricordare tutte le situazioni tremendamente imbarazzanti che avevo vissuto in quelle ultime settimane, sorseggiai la mia adorata bevanda, circondato dal piacevole chiacchiericcio delle voci dei presenti che quel giorno affollavano la caffetteria, facendo fare i salti mortali alla povera testa d’ananas che si trovava costretta a correre da un tavolo all’altro senza un attimo di tregua, raccogliendo ordinazioni e servendo da mangiare e da bere nello stesso tempo.
Che lavoraccio, pensai, infilando in bocca una cucchiaiata di panna, certo che potrebbe farsi aiutare da qualcuno almeno in giornate come queste.
Il barista in questione ritornò dietro al bancone camminando a passo spedito e rispondendo all’occhiata dispiaciuta che gli rivolsi con uno sbuffo stanco e quasi disperato. Era ufficiale: non sapeva più come mandare avanti la baracca e gli ci voleva una pausa.
Stavo appunto per entrare in scena con una delle mie solite stupidaggini, giusto per strappargli con le pinze una risata e risollevargli il morale, ma, con un’imprecazione a mezza voce piuttosto colorita che arrivò chiara e comprensibile alle mie orecchie, sparì in cucina dove Thatch si stava facendo in quattro per cucinare una serie infinita di piadine, panini e sfornare contemporaneamente dolci, biscotti e una lunga lista di altre pietanze. A quanto pareva i clienti dovevano aver patito la fame per essere affamati in quel modo.
Dopo cinque minuti Marco non era ancora ritornato e la cosa iniziava a preoccuparmi. Non perché non potessi vivere senza averlo sotto agli occhi, intendiamoci, anche se sarebbe stata un’idea allettante, mi preoccupavano però le facce scocciate di un paio di persone che attendevano alla cassa per pagare il conto e andarsene.
A fare in culo, aggiunsi mentalmente, infastidito dalla poca educazione che sembravano mostrare, borbottando tra loro con delle facce da schiaffi. Fu in quel momento che decisi di prendere in mano la situazione e salvare il fondoschiena a quel pennuto da strapazzo, alzandomi dal mio posto, aggirando il bancone e appropriandomi senza permesso di un grembiule di scorta che sapevo stare in uno scomparto sotto al lavello. Lo indossai di fretta e mi presentai alla cassa con un sorriso tirato e la voglia matta di far pagare doppio a quei due impiastri che, non appena mi videro, mi squadrarono da capo a piedi con aria scettica e chiedendomi lo scontrino trattenendo a stento un tono burbero.
In qualche misericordioso modo riuscii ad arrangiarmi e, una volta consegnato loro il resto, aggiunsi persino uno dei cioccolatini in esposizione assicurandogli che era un omaggio della casa. La reazione fu istantanea e passarono da una faccia scazzata ad un’espressione allegra nel giro di un secondo, ringraziandomi con mille sorrisi e dandomi del bravo ragazzo. Poco mi importava dei loro complimenti, la buona notizia era che in quel modo il locale non aveva subito danni, evitando malelingue e non perdendo due clienti, anche se racchie e bisbetiche.
Ripetei l’operazione per alcuni altra gente successiva fino a che non ci fu un fugace momento di stallo durante il quale mi accorsi di una presenza alle mie spalle. Già immaginando di chi si trattasse, mi voltai, pensando ad una buona scusa da fornirgli, incontrando lo sguardo sorpreso di Marco con un mezzo sorriso a dipingergli il volto. A giudicare dalla sua posa tranquilla non sembrava arrabbiato o offeso dal mio tentativo di soffiargli il posto, aspettava però una risposta.
«Ehm, ecco, due vecchie ti stavano maledicendo, così ho pensato di salvare la tua reputazione e il locale» gli spiegai, cercando di rendere la cosa comica, il che mi riuscì anche abbastanza bene, «Spero non ti dispiaccia».
Scosse il capo con convinzione e, accennando al grembiule arancione che avevo indossato, trovò il modo di farmi sentire ulteriormente nel giusto.
«Ti sta bene, sai?».
«G-grazie» mormorai, mordendomi un labbro e passandomi una mano fra i capelli, ricordandomi all’improvviso che avevo una cioccolata da finire così iniziai a sciogliere i nodi dei laccetti in stoffa, ma venni bloccato a metà del mio operato da Marco che, cogliendomi impreparato e lasciandomi totalmente spiazzato, pensò bene di uscirsene con una delle proposte più improbabili che mi sarei mai aspettato.
«Potresti lavorare qui» disse, inconsapevole di stare provocando un’esplosione dentro di me, «So che con l’università devi stare dietro allo studio, ma potresti farlo durante i tuoi giorni liberi e le sere in cui il bar è aperto» spiegò con calma, come se stesse scegliendo le parole adatte per convincermi. Nella mia mente intanto spiccavano solo le parole lavoro, Marco, insieme.
«Prendilo come un lavoretto par time» stava dicendo senza staccare gli occhi dai miei che continuavano a guardarlo increduli, «Ovviamente non sei obbligato, ma mi servirebbe una mano e, beh, di te mi fido e poi sei cliente fisso da un pezzo ormai».
Dio, lavorare con lui, nel suo locale, tutte le volte che voglio. Praticamente avrei l’occasione di vederlo tutti i giorni, parlare, scherzare e ridere fino a star male. E tutta la cioccolata che posso bere clandestinamente!
«Pensa, avresti la cucina a tua disposizione» scherzò, come se mi avesse appena letto nel pensiero.
Cazzo, si! Accetto, va benissimo, non potrei chiedere di meglio!
Volevo rispondere, cercavo di trovare le parole esatte ma ero come bloccato, incapace di emettere persino un singolo suono. Era tutto così nuovo e inaspettato che ero rimasto completamente senza nulla da dire. Avrei dovuto ringraziarlo, stringergli la mano, abbracciarlo, fare i salti di gioia, ma non riuscivo a fare altro che restarmene lì, immobile e in silenzio davanti al suo sguardo speranzoso che si stava, via, via spegnendo. Gli stavo dando l’impressione sbagliata, quel tentennamento mi stava uccidendo. Dovevo reagire, fare qualcosa, qualsiasi cosa.
«Ma se non puoi non preoccuparti, ti capirei» fece, accennando ad un sorriso e grattandosi imbarazzato la nuca, cercando di nascondere la delusione che non sfuggì alla mia attenzione. Marco poteva anche essere bravo a celare le sue emozioni dietro ad una facciata pacata e all’apparenza disinteressata, ma l’avevo osservato per troppo tempo per non capire quando qualcosa non andava in lui, inoltre vedere che quella proposta l’aveva fatta con interesse e sincera convinzione mi fece prendere la decisione che ormai si era già fatta strada nella mia mente, solo che non avevo ancora avuto il coraggio di dirla ad alta voce per timore di… di cosa?
Ci eravamo conosciuti per caso; col tempo avevamo sviluppato una simpatia reciproca e avevamo imparato ad andare d’accordo, sempre e comunque, con i nostri battibecchi e discorsi assurdi; incontrarci in quel bar era diventata una specie di abitudine, così come studiare da lui, le chiacchiere, gli sguardi, i sorrisi; mi ero innamorato; avevamo litigato; l’avevo odiato e perdonato; mi aveva dimostrato che a me, dopotutto, ci teneva; eravamo diventati amici e i nostri sguardi bruciavano di pura passione ogni volta che avevano l’occasione di incrociarsi. Avere paura non aveva più senso ormai, sarebbe stato come non vivere la vita per timore di morire.
«Accetto» risposi con sicurezza e determinazione, sorridendo davanti all’espressione stupita e successivamente sollevata e contenta che fece, trovandosi lui nella posizione di non saper bene cosa dire.
«Perfetto» disse alla fine, porgendomi la mano che strinsi con decisione e trattenendo a stento l’emozione. Sentivo di volerlo stupire e aiutare; volevo rendermi utile e farlo impallidire davanti alla mia bravura. Non avevo mai fatto il barista o il cameriere, ma imparavo in fretta. Sicuramente sarebbe stata una passeggiata.
«Ho un po’ di tempo libero, se sei d’accordo posso iniziare subito» proposi, guardandolo speranzoso ed esultando davanti alla sua risposta affermativa.
«Ho visto che sai già tutto praticamente» commentò, ammiccando in direzione del mio grembiule e della cassa. Il riferimento al fatto che l’avessi osservato talmente tante volte da sapere dove teneva le cialde per il caffè e i pacchi di scorta dello zucchero ero sicuro che fosse sottointeso in quella frase.
«Si, beh, ho tirato a indovinare» mentii spudoratamente, giusto per salvare le apparenze ed evitare l’imbarazzo che avrei dovuto mettere in conto dato che da quel giorno in poi ero ufficialmente un suo dipendente e, di sicuro, di situazioni assurde ce ne sarebbero state a valanghe.
Marco mi dedicò uno sguardo piuttosto scettico, il quale sembrava dire a caratteri cubitali e lampeggianti ‘non mi incanti nemmeno se ti impegni, ragazzino’. In quel momento decise di fare la sua immancabile apparizione anche Thatch che, inconsapevole di tutto, era appena diventato il mio collega.
Il moro si fermò a metà strada, osservandoci con occhio critico e accorgendosi di un fatto piuttosto strano, ovvero il grembiule che indossavo.
Con l’aria di aver capito vagamente come stavano le cose e con un sorriso leggermente inquietante da psicopatico fece la sua fatale domanda.
«Lasciami indovinare: ti ha offerto un lavoro» decretò, azzeccando in pieno e impazzendo non appena Marco ed io annuimmo affermativamente con il capo.
Fece appena in tempo ad appoggiare sul ripiano un vassoio ricolmo di biscotti al cioccolato per poi afferrarmi per le spalle e abbracciarmi come un orso, soffocandomi con la sua stazza e, passandomi un braccio dietro al collo, strofinò convulsamente un pugno fra i miei già disastrati capelli, facendomi stringere i denti mentre mi arrivavano alle orecchie tutte le sue congratulazioni.
«Grazie a Dio una buona notizia! Ci pensi? Lavoreremo assieme e ci vedremo praticamente sempre! Pensa a quanto ci divertiremo! E magari quando hai il turno al mattino la sera prima potresti fermarti a dormire da Marco, tanto a lui non dispiace, vero fratellino?».
«Thatch» disse solamente Marco e il tono minaccioso che usò non me l’ero di certo immaginato, ma fui felice di constatare che servì a far si che il suo amato fratello mi lasciasse andare e, dopo una serie di insinuazioni di dubbia moralità, se ne ritornò tutto allegro e felice in cucina dove sarebbe rimasto per un bel po’, lasciandomi il tempo di riordinare le idee e abituarmi a quella nuova occupazione.
«D’accordo, allora: da dove vuoi cominciare?» chiese il pennuto, passandosi una mano sul viso per i disastri che combinava sempre quel cuoco sfacciato tanto simile a Rufy sotto quell’aspetto.
«Non saprei». Poi ci pensai su e decisi che avrei fatto pratica con i vassoi quando il locale sarebbe stato vuoto per evitare di rompere qualcosa già il primo giorno. «Potrei prendere le ordinazioni e stare alla cassa quando serve per adesso».
«Mi sembra una buona idea. Allora muoviti, fila a lavorare!» fece categorico e in quel momento mi resi conto che si sarebbe divertito un sacco a farmi sgobbare come uno schiavo. Avrei dovuto prevedere che avrebbe abusato del suo potere per punzecchiarmi.
«Certo vecchietto, tu riposa nel frattempo» sfottei con un ghigno e, dopo aver aperto un cassetto da dove estrassi un bloc notes, mi avviai verso i tavoli, sorridendo quando Marco mi minacciò di dimezzarmi la paga.
* * *
Lo sporco segreto di Ace non era durato nemmeno ventiquattro ore all’interno delle mura domestiche e il giorno dopo tutta l’allegra e balorda compagnia di sbandati e reietti della società di cui, ancora non mi ero reso conto come, ero entrato a far parte pure io era al corrente della novità che causò non poco scalpore negli animi di tutti.
Portuguese D. Ace era un ragazzo adorabile, forse un po’ spericolato, ma dall’animo nobile, coraggioso e gentile. In un’altra vita ero sicuro che fosse stato un eroe a tutti gli effetti, ma aveva un unico difetto: era uno stupido. Non perché mancasse di intelligenza, ma per il semplice fatto che si fidava troppo delle persone, non riflettendo prima di agire. Infatti aveva sbagliato completamente a mettere al corrente Penguin del suo nuovo lavoro perché, nel giro di qualche ora, metà dei nostri amici era stata informata e l’altra metà ne era venuta a conoscenza intorno e non oltre le dieci del mattino seguente rispetto alla sera del fatidico annuncio. Povero stolto, non avrebbe mai dovuto fare una confessione del genere a una delle persone più pettegole che conoscevo, ma il problema era suo ed io, oltre ad avergli dato del completo idiota, mi ero dichiarato disinteressato alla cosa e avevo semplicemente seguito la massa, ovvero Rufy che, una volta appreso il tutto, aveva deciso di nominare il bar di Marco il nuovo punto di ritrovo della nostra combriccola. Niente da ridire su questo e, dopotutto, il posto non era affatto male e rispecchiava abbastanza la personalità di Marco all’apparenza simile alla mia, pacata e annoiata, anche se ero certo che non appena ne aveva l’occasione si lasciava andare senza troppi problemi.
Era un venerdì sera e, come d’accordo, stavamo tutti sorseggiando qualcosa seduti a due tavoli che avevamo unito per l’occasione e guardavamo divertiti il nostro amico prendere le ordinazioni e svolgere i suoi compiti con il sorriso più allegro che gli avessi mai visto sfoggiare stampato in faccia. Nonostante lavorasse lì da poco, notai che Marco non gli dava alcuna dritta e non aveva nemmeno bisogno di riprenderlo o fargli notare alcuni errori perché, semplicemente, non ne faceva. Era come se lavorasse in quella caffetteria da mesi e non da giorni, il che mi fece intuire che doveva esserci qualcosa sotto perché, conoscendo quel pollo del mio coinquilino, era impossibile che svolgesse le sue mansioni in un modo così impeccabile.
Oltre a questi particolari l’atmosfera era abbastanza piacevole.
Tra tutti avrei osato dire che Rufy era il più felice dato che, ogni volta che lo sguardo gli cadeva sul fratello maggiore e su quell’assurda testa d’ananas, sorrideva con devoto affetto verso i due, entusiasta della bella notizia per la quale aveva telefonato a casa nostra alle tre del mattino, insistendo fino a che Bepo non era andato a rispondergli tutto assonnato e pretendendo di parlare con Ace, tirandolo giù dal letto e tenendolo al telefono per un’ora buona.
«Questi waffles sono fantastici» disse Nami ad un tratto mentre Zoro, che per caso si trovava seduto accanto a lei, faceva scomparire in un boccone il suo dolce, concordando pienamente con la ragazza.
L’idiota con i capelli rossi, un paio di occhialoni assurdi, una camicia a quadri con le maniche arrotolate fino ai gomiti e un paio di anfibi neri borchiati vicino a me fece il suo apprezzamento imitando il tizio con i capelli verdi, leccandosi persino le dita sporche di cioccolato.
«Eustass-ya sei proprio un animale» sospirai esasperato, inarcando un sopracciglio e guardandolo con uno sguardo misto tra lo scettico e lo schifato.
Mi rispose con un’alzata di spalle e un’occhiata per niente amichevole, «A letto non ti lamenti mica però».
Dovevo aspettarmela una sparata del genere, ma su questo punto non potevo ribattere, dopotutto lo scherzetto della battaglia a palle di neve me l’aveva fatto pagare con gli interessi, anche se tutto sommato non mi era andata così male se consideravo che una notte come quella che mi aveva fatto passare era stata senza dubbio una delle migliori. Ovviamente, questo non l’avrebbe mai saputo.
Qualcuno dei presenti si schiarì la voce in imbarazzo davanti al nostro scambio di battute, ma non ci feci molto caso, ormai le nostre dispute erano un classico e quasi nessuno si stupiva più di tanto, tranne quando iniziavamo a prenderci a pugni o a fare riferimenti sessuali abbastanza espliciti. In poche parole quando sparivamo dalla circolazione per un po’ era sempre la cosa migliore che potevamo fare, così nessuno rimaneva scioccato. Mi riverivo al povero Chopper che, essendo considerato il più innocente della compagnia, si trovava spesso a impallidire davanti a certe scene o insulti piuttosto pesanti e coloriti. Fortuna che ci pensava Robin a portarlo il più lontano possibile o a tappargli le orecchie in quelle occasioni. A proposito di lei, mi sbagliavo o il mio nuovo carrozziere di fiducia aveva preso a farle il filo?
In ogni caso non importava, la cosa bella era che quella sera eravamo tutti insieme appassionatamente e tutta l’attenzione e le domande curiose e decisamente poco caste di tutti erano rivolte a Ace e a quello che avevo definito il suo quasi-fidanzato o mezzo scopamico, anche se non era ancora chiaro a nessuno se quei due avessero effettivamente una relazione o si divertissero semplicemente a tirarla per le lunghe e a fare finta di nulla.
In quel momento, ad interrompere le mie riflessioni senza un filo logico, fu un deficiente patentato che rispondeva al nome Thatch, appena sbucato magicamente dalla cucina con in mano un vassoio in cui spiccavano degli invitanti manicaretti e diretto tutto sorridente verso di noi. Non appena ci raggiunse mise il tutto al centro del tavolo sotto le facce affamate dei presenti e, sfregandosi le mani, ci augurò un buon appetito, cogliendoci alla sprovvista e sedendosi assieme a noi dopo aver preso una sedia altrove.
«Posso unirmi a voi, vero?» chiese, quando ormai si era già sistemato tra me e quel pozzo ambulante di Rufy, il quale si dimostrò ben felice di fare spazio al nuovo arrivato, invitandolo persino a passare il resto della serata in nostra compagnia.
Alzai gli occhi al cielo, quello era esattamente ciò che avrei voluto evitare ma, ovviamente, il moccioso doveva sempre fare di testa sua.
«Uh, che c’è amico? Qualcosa non va?» mi sentii chiedere e mi vidi costretto a rivolgere al castano, con i capelli cotonati da far concorrenza a Franky, un’occhiata poco gentile. Non lo conoscevo bene e quelli troppo vivaci faticavo a ritenerli simpatici. Persino con Rufy, quando l’avevo conosciuto, le prime volte cercavo di tenermelo alla larga, allergico a tutto quel buonumore. Erano passati anni da allora, probabilmente la costante compagnia del piccoletto mi aveva fatto bene perché non mi sentivo poi così ostile, ma preferivo mettere subito in chiaro le cose. Forse, col tempo, l’avrei accettato con meno fatica, ma per il momento non se ne parlava.
«Non sono tuo amico e non ho intenzione di perdermi in chiacchiere. Tutto chiaro?» feci on disinteresse, dimostrandogli la mia poca voglia di stringere amicizia.
Mi fissò per qualche istante senza perdere l’aria allegra e, facendo andare di traverso il boccone a la maggior parte dei ragazzi, dimostrò di essere a tutti gli effetti la versione troppo cresciuta dell’imprevedibile, sboccato, infantile e impossibile Rufy.
«Con tutto il sesso che fai con quel tizio dall’aria instancabile non dovresti essere così acido, ma immagino sia solo perché non mi conosci. Fa niente, lo terrò a mente, amico».
Eustass-ya si piegò in due dalle risate, sporgendosi poi verso Thatch e scambiandosi con lui un pugnetto complice, seguito a ruota da quei traditori di Penguin e Bepo. Pure Rufy, il quale era parecchio all’oscuro di determinati argomenti e stili di vita, si mise a sghignazzare, mentre Chopper si tappava le orecchie e Sanji faceva di tutto per tenere la testa nel piatto. Per quanto riguardava la mia reazione, invece, fu piuttosto indescrivibile. Quel bastardo aveva appena segnato la sua condanna.
Prima che potessi fargli rimpiangere di essere nato, per sua maledettissima fortuna, arrivò Ace che, toltosi il grembiule, avvisò tutti che il suo turno era terminato e che, per quella sera era libero dagli impegni, assicurandoci che potevamo partire quando volevamo.
Ovviamente dovemmo aspettare che tutti finissero di mangiare, in questo modo anche Marco si ritrovò libero di mandare tutti a casa e chiudere il locale.
«Oh no, caro mio» sbottò Thatch categorico, strappando le chiavi dalle mani del fratello e mettendosele in tasca, «Non pensare nemmeno di squagliartela, tu adesso vieni via con noi».
«Noi?» sibilai seccato. Da quando quell’impiastro era stato invitato ad aggregarsi al nostro già numeroso gruppo? E poi, a dirla tutta, di idioti ne avevamo abbastanza, non avevamo bisogno di teste calde in più, per quello bastavano Eustass, Killer, Ace e Rufy. Riflettendoci potevamo aggiungere anche Penguin, Zoro e Sanji. D’accordo, si faceva prima a dire tutti.
Il mio commento non sfuggì alle sue orecchie perché mi dedicò un’altra delle sue battutine.
«Non preoccuparti, se vuoi tu e il rosso potete starvene qui a divertirvi. Mi sa che ne hai bisogno».
«Hai trovato qualcuno che ti tiene testa» sussurrò Kidd soddisfatto, afferrando il suo giubbotto e dandomi una spallata prima di uscire a prendere una boccata d’aria con Killer che ghignava sotto i baffi. Bastò un’occhiata truce per farlo impallidire e ciò mi calmò abbastanza. Vedere che incutevo ancora timore fu una buona cosa per il mio orgoglio appena scalfito.
«Non serve» stava dicendo intanto il biondo, «Sono piuttosto stanco». Lamentarsi e inventare scuse, o verità che fossero, non bastò a convincere Thatch e Rufy; così, dopo una decina di minuti, eravamo tutti in strada a chiacchierare, avanzando proposte su dove andare a passare la serata.
«Potremo andare da papà, che ne dite?» fece la mia nuova spina nel fianco, attirandosi addosso sguardi incuriositi e interrogativi. Accanto a lui, invece, Marco si schiaffò una mano sul viso, cercando inutilmente di pestargli un piede per farlo tacere. La cosa suscitò la mia curiosità, cosicché mi misi in ascolto, aspettando di sentire il seguito.
«Il Moby Dick, non lo conoscete? Si? Bene, in poche parole il gestore è il nostro adorato babbo» spiegò con noncuranza e parlando come se la cosa fosse la più ovvia e prevedibile del mondo.
Le bocche dei presenti toccarono il pavimento, me compreso, dovetti ammetterlo, dato che fu una bella sorpresa fare due più due e trarre le conclusioni alle quali giunse pure Ace.
«A-aspetta» fece sbiancando, rivolgendosi direttamente a Marco, il quale sembrava avere tutta l’aria di chi non desiderava altro che sparire, «Il sindaco di Sabaody è tuo padre?».
Bingo! Pensai sarcastico, godendomi la scena imbarazzante tra i due.
«Ehm, si?» mormorò il poveretto interrogato, accennando ad un sorriso timido e insicuro.
«Non ci posso credere!» sbottò Ace, alzando le braccia al cielo e arrivando ad un passo da una crisi isterica. Un’occhiata d’intesa a Penguin e Bepo bastò per farli scattare e affiancare il ragazzo, calmandolo e incitandolo a fare profondi respiri per calmarsi e non dare di matto. Certo che le sorprese non finivano mai in quell’ultimo periodo.
«Questi due sono figli della massima autorità del paese e tuo padre è il capo della polizia. Che coincidenza, non trovi, Eustass-ya?» dissi, pensando ad alta voce, rivolgendomi principalmente al rosso che, irrigidendosi a quelle parole, si ritrovò con gli occhi di tutti addosso quando si voltò a guardarci visto che era di spalle quando l’avevo interpellato.
«Sei il figlio di Smoker?».
«Ma dai, Fumoso è tuo padre? Sai che è il mio poliziotto preferito? Mi fa stare sempre davanti quando mi riporta a casa dalla centrale».
«Potresti chiedergli di annullarmi una multa?».
«Tenere chiusa quella tua boccaccia è troppo difficile per te, Trafalgar?» sputò Kidd, ignorando le domande degli altri e scoccandomi un’occhiata incazzata con quei suoi occhi di un insolito color ambra che, dannazione, tanto mi piacevano.
Mi strinsi nelle spalle, ghignando indifferente, «Mi è scappato» mi scusai, per niente dispiaciuto in realtà, ma questo per lui era ovvio, ormai mi conosceva. Anzi, ci conoscevamo entrambi abbastanza da capirci al volo.
«Ehi, anche voi vi spogliate con lo sguardo come fanno Marco e il ragazzino? Wow, che alchimia» constatò Thatch, facendo vergognare di esistere i due ragazzi chiamati in causa e ottenendo, a sua insaputa, la mia approvazione per la giusta intuizione. Eustass-ya ed io combattevamo le nostre battaglie private in silenzio, ma con tanta intensità che chi ci vedeva era costretto a spostare lo sguardo altrove. Restavamo solo lui ed io. Sempre.
«Tutto questo è così romantico» si intromise Brook con aria sognante.
«Forza allora, tutti al Moby Dick!» esplose Rufy, avviandosi verso le auto e trascinandosi dietro tutti quanti.
Kidd ed io ci ritrovammo presto alla fine della coda, uno di fronte all’altro e senza interrompere il contatto visivo.
Fu lui a rompere il silenzio, avvicinandosi un po’ per prendermi il viso tra le mani e, con lentezza esasperante, chinandosi a baciarmi leggermente. Non era un gesto che faceva spesso perché implicava l’essere gentili, calmi, pazienti e una diabetica dose di dolcezza, cosa che stonava parecchio col suo carattere, ma quello era il suo modo per esprimere quel qualcosa che avevamo. Una volta ogni tanto poteva permetterselo ed io potevo accettarlo.
Eustass Kidd era un maledetto stronzo, psicopatico e intrattabile, con grossi problemi di autocontrollo ma, nonostante tutti quei difetti, era l’unica persona che mi aveva accettato per quello che ero veramente, senza chiedere nulla in cambio. Lui mi aveva fatto smettere di scappare, costringendomi ad affrontare la Vita faccia a faccia e ad andare avanti lasciandomi tutto il resto alle spalle.
Lui era il mio tutto e il mio nessuno.
Puntualmente dovette rovinare quel momento, mordendomi a tradimento un labbro e incamminandosi poi per raggiungere il resto degli sbandati con un ghigno vittorioso in faccia. Quella volta era stato più svelto di me.
Sospirando esasperato iniziai a seguirli, corrugando la fronte quando il telefono iniziò a squillarmi nella tasca dei pantaloni. Un’occhiata al display mi mostrò un numero che non avevo salvato in rubrica, ma che continuava a chiamarmi da qualche giorno a quella parte. Così, per togliermi l’impiccio, decisi di rispondere una buona volta e mettere fine a quella seccatura.
«Pronto?» domandai seccato.
Dall’altro capo una risata che mai avevo dimenticato mi gelò il sangue, mozzandomi il respiro e immobilizzandomi sul posto.
In quell’esatto istante il mondo sembrò perdere metà della sua bellezza.
«Ciao Law».
Angolo Autrice.
Buonsalve a tutti ^^ spero stiate bene e siate pronti per leggere alcune note che fanno sempre bene.
Dunque, oggi iniziamo con Kidd, eterno bastardo super fiol che, con l’intento di vendicarsi di Trafalgar, pensa bene di portarlo dalla cara Ivan e da Smoker, commettendo il suo errore più madornale, ma dettagli. Era ovvio che Law non si sarebbe di certo fatto intimorire da un poliziotto e da una donna eccentrica. Figuriamoci! Oltre al danno la beffa perché il nostro rosso non poteva non essere investito da una pioggia di palle di neve! Oh, quanto li ho amati, non potevo non mettere la scena! Soprattutto quando si sfiorano le manine **
Anyway, passiamo ora a Ace! Ecco la novità: il suo nuovo lavoretto a stretto contatto con Marco. Oh si, io non oso immaginare cosa combineranno la dentro! E si, ormai penso sia chiaro che tra loro le cose si stanno facendo interessanti, lo spiega bene Ace stesso che, ogni volta che può, non perde l’occasione di mangiarsi il barista con gli occhi e viceversa. Devo tenerli buoni. Devo. Poi, ovviamente, chi non vorrebbe avere Thatch come collega?
Passando a Law. Ecco, forse lui non vorrebbe trovarsi nello stesso luogo con quel pazzo ch sembra avere la lingua abbastanza lunga da mettere in difficoltà pure uno con la sua abilità nello sfottere le persone. Ma perdoniamolo, sono tutte insinuazioni simpatiche e, da una parte, abbastanza vere dato che lui e Kidd passano più tempo a letto che fuori casa, ma va bene! A me va benissimo!
I due hanno i loro momenti di litigio dove si insultano, cose che capitano e più che normali per loro, ma a volte si ritagliano un piccolo attimo per, beh, come si può dire? Mi vengono in mente verbi troppo impegnativi. In poche parole si dimostrano qualcosa. il tratto dominante del loro carattere è il peggio del peggio, ma, secondo me, a volte ritengo sia normale lasciarsi andare a piccole cose, quindi ho inserito quel bacio che, per la precisione, è finito per diventare una disputa a chi morde l’altro per primo.
Ultima cosa: chi ha telefonato a Law?
Ringrazio tutti per essere passati, per continuare a seguire e per le recensioni. Siete tutti essenziali e Grazie, Grazie per tutto.
See ya,
Ace.
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Capitolo 20 *** Capitolo 18. Mentre tutto scorreva. ***
Capitolo 18.
Mentre tutto scorreva.
Nothin' goes
as planned. Everything will break.
Qualcosa non
andava,
qualcosa mi sfuggiva da un po’ di giorni, solo non riuscivo a capire cosa di preciso. Dire che era cambiato
tutto nel giro di un istante
era dire poco e, per quanto mi sforzassi di essere attento, di prendere
in
considerazione ogni singola situazione, non trovavo nessuna soluzione a
quella
strana sensazione di malessere che si era annidata dentro di me,
nascondendosi
nel profondo, ma senza andarsene e facendosi sentire nei momenti meno
opportuni.
Da un
po’ Trafalgar si
comportava in modo strano, più
strano, e non sembrava avere l’intenzione di dare spiegazioni
a nessuno,
mantenendosi distante e piazzando ridicole scuse sullo studio e
l’università
per non uscire, rispondere al telefono o anche solo parlare. Si
rinchiudeva in
camera e da lì non usciva se non per strette
necessità, così almeno mi aveva
detto Killer, informato da Penguin, il quale era ancora più
preoccupato. A
detta sua, il medicastro non aveva mai avuto problemi nel prendersi
avanti con
i progetti scolastici e gli esami li aveva passati con ottimi voti.
Ma allora,
perché
allontanarsi e isolarsi in quel modo?
Mi passai
stancamente
una mano sul viso, scompigliandomi i capelli e cercando di riprendere a
mangiare il mio pasto, ma la verità era che non avevo
affatto fame e l’idea di
ingozzarmi per forza mi dava la nausea, così gettai tutto
nei rifiuti e misi il
piatto nel lavello. Più tardi l’avrei lavato,
quando sarei tornato da lavoro
dato che la mia pausa finiva tra circa un’ora.
Quel giorno ero
tornato
a casa perché avevo un brutto presentimento e, quando stavo
in quel modo, non
mi sbagliavo mai. C’era una strana elettricità
nell’aria e mi sentivo
costantemente irrequieto, come se i miei nervi percepissero il
pericolo. Mi
sembrava di essere osservato a volte, ma poi mi guardavo attorno e mi
riscoprivo solo, al sicuro, e allora mi domandavo per quale maledetta
ragione
non riuscissi ad essere del tutto rilassato e menefreghista come al
solito.
Mi chiedevo che
razza
di fine avesse fatto Trafalgar e cosa cazzo gli stesse passando per la
testa,
soprattutto cosa significavano tutte quelle balle che mi rifilava per
evitare
di vedermi.
L’ultima
volta che
eravamo stati assieme era stato lo scorso venerdì, quando ci
eravamo ritrovati
tutti per la prima volta nel locale dove Ace aveva iniziato a lavorare
e non mi
sembrava che ci fossero stati problemi, anzi, aveva sempre mantenuto la
solita
faccia da schiaffi e l’atteggiamento da irriverente bastardo,
ma oltre a questo
tutto mi era apparso in ordine e a posto. L’unica
possibilità poteva essere stato
il bacio che ci eravamo scambiati, diverso dal solito, ma non nuovo.
Insomma,
non era certo il genere di gesto che ci si aspettava da uno rude e poco
fine
come me, ma ormai avrebbe dovuto conoscermi e capire che, nonostante
tutto, non
ero completamente un insensibile e a volte, rare per chiarezza, non mi
dispiaceva dimostrarglielo, ricordandogli che di me poteva fidarsi.
Poi era accaduto
tutto
di fretta: mi ero allontanato un attimo per raggiungere gli altri e,
quando
anche lui si era avvicinato, avevo capito che era successo qualcosa di
brutto.
Andiamo, era impallidito e non gli avevo mai visto
un’espressione seria e
impenetrabile come quella che aveva sfoggiato in quel momento. Sembrava
aver
eretto un muro invalicabile di ghiaccio. Aveva detto di sentirsi poco
bene e
tutti gli avevano creduto, io compreso data la faccia cadaverica che
aveva, ma
non ne volle sapere di farsi riaccompagnare da nessuno, nemmeno da me,
preferendo chiamare un taxi e salirci a bordo senza salutare o
aggiungere altro
oltre che un misero ‘starò
bene’.
People say
goodbye in their own special way.
Allora avevo
creduto
che non volesse farsi vedere debole o qualche altra stronzata legata al
suo
orgoglio e amor proprio, ma poi la situazione era andata complicandosi
ed ero
ormai convinto che non si trattasse di una malattia, al contrario,
sembrava che
tutto fosse molto più grave. Me lo confermava il suo
silenzio di quei giorni:
non mi aveva mai cercato, nemmeno per avvisarmi che stava meglio o per
chiedermi scusa. Si, perché ero anche piuttosto incazzato
dato il suo
comportamento idiota ed egoista. Che cazzo, contava così
poco la mia opinione?
Non ero forse una delle persone che più gli erano vicine? E,
per essere chiari,
non ero io quel suo stramaledetto
fidanzato che tanto si era divertito a presentare in giro?
Volevo sapere che
diavolo stava accadendo e capire come mai, tutto d’un tratto,
decideva di
ignorarmi e fare come se non esistessi; come se non fossi un dannato
nessuno,
quando era chiaro che per lui ero quel tipo
di nessuno. Soprattutto volevo proprio che venisse a dirmi le
cose
chiaramente e direttamente in faccia, senza rinchiudersi nel suo
silenzio e
mutismo e lasciarmele intendere.
Perché,
per quanto
assurdo potesse sembrarmi e per quanto cercassi di scacciarla a forza
dai miei
pensieri, l’idea che Trafalgar avesse deciso di non voler
avere più niente a
che fare con me, lentamente, si stava facendo sempre più
presente nella mia
mente e mi stava logorando semplicemente perché non vedevo
altra motivazione
plausibile per il suo comportamento da stronzo. Perché
avrebbe dovuto ignorarmi
così? Perché andarsene in quel modo senza dire
una sola e maledetta parola?
Perché non mi cercava? Cosa avevo fatto di sbagliato?
Non lo sapevo e
questo
mi tormentava giorno e notte. L’insicurezza, il fatto che
potesse essersi reso
veramente conto di tutti i miei difetti, che potesse essersi stancato
di avere
a che fare con un testardo e miserabile come me. Dopotutto era lui
quello
intelligente, quello bravo, quello bello e pieno di soldi,
perché perdere tempo,
quindi? Non ero altro che un vandalo, un pezzente se confrontato con
lui.
Ma non volevo
ancora
arrendermi del tutto a quella teoria, doveva esserci per forza una
valida
spiegazione a tutto quel casino, senz’altro c’era
ed io, come al solito, ero
troppo cocciuto e stupido per vederla. Allora, perché
Trafalgar non mi sfotteva
e mi spiegava la questione come sempre? Perché quella volta
doveva essere così
diverso? Se solo pensavo alla brutta piega che avrebbe potuto prendere
quella
storia nella peggiore delle ipotesi mi sentivo vagamente male, non
riuscivo a
concentrarmi e ad immaginarmi come avrebbe potuto essere. Era come se
tutto
quello che avevo programmato, dato per scontato, tutto ciò
che fino a poco
tempo prima avevo creduto possibile, in quel momento avrebbe potuto
sgretolarsi
in briciole davanti ai miei occhi e risultare falso, irraggiungibile.
All that you
rely on and all that you can fake.
Forse era colpa
mia. Forse
era per qualcosa che avevo fatto tempo addietro e che non era
più riuscito a
sopportare, decidendo di darmi una lezione e lasciarmi da solo a
riflettere, ma
non capiva che in quel modo non faceva altro che irritarmi di
più e mandarmi
fuori di testa? Non era esattamente la soluzione migliore quella, lo
preferivo
quando mi faceva entrare in zucca le cose a suon di battutine acide,
insulti e
schiaffi. Oh si, il bastardo usava gli artigli quando voleva, a suo
rischio e
pericolo, e senza troppi scrupoli.
Non ricordavo di
aver
mai fatto niente che potesse creare problemi, a parte gli improperi che
gli urlavo
dietro quando ero incazzato; i dispetti; le vendette attuate uno contro
l’altro; il sale nel caffè e l’acqua del
water nel bicchiere dello spazzolino,
questa era stata una sua idea, tutto era regolare. Per noi comportarci
in modo
orribile era normale, quindi non mi capacitavo del perché
del suo comportamento
così assurdo.
Certo, non ero
perfetto, non lo ero mai stato, ma se volevamo dirla tutta nemmeno lui
era
l’icona della meraviglia. Andiamo, io sarò anche
stato un disadattato sociale,
un incivile, ma lui era uno psicopatico, malato con la medicina. Tra i
due chi
era quello preso meglio?
Nonostante tutto
doveva
essere successo qualcosa che l’aveva in qualche modo turbato,
non c’era altra
risposta. Dopotutto non era strano solo nei miei confronti, persino i
suoi
coinquilini, per quanto stupidi, si erano accorti che qualcosa era
cambiato e,
nel giro di una giornata, mi avevano tutti telefonato chiedendomi
spiegazioni,
scoprendo che persino io non sapevo cosa cazzo avesse quella prima
donna col
ciclo.
Avevano quindi
capito
che la colpa, quella volta, non era mia e la scoperta aveva complicato
ulteriormente le cose dato che nessuno aveva la minima idea di come
comportarsi
e come fare per tirarlo fuori da quella stanza prima che decidesse di
lasciarsi
morire.
And nobody
here's perfect. Oh, but everyone’s to blame.
Il telefono di
casa
suonò in quel momento, riscattandomi dai miei pensieri e dal
torpore che mi
aveva assalito le membra quando mi ero sdraiato sul divano a rodermi il
cervello, così, inciampando nel tappeto e bestemmiando tanto
da far impallidire
tutte le religioni esistenti, raggiunsi l’apparecchio e
risposi con stizza.
“Passo
da te tra dieci
minuti” mi avvisò una voce fin troppo famigliare
dall’altro capo, cogliendomi
di sorpresa e lasciandomi senza parole per un minuto buono, durante il
quale
cercai di riprendermi il prima possibile per ribattere per le rime.
“Cosa
ti fa pensare che
sia a casa?” risposi burbero, stringendo la cornetta nelle
mani. Finalmente si
era deciso di ritornare tra i vivi.
Bene,
si innalzino cori di Alleluia!
“Hai
risposto al
telefono” spiegò in tono saccente, “A
tra poco”. E riattaccò senza dire altro,
lasciandomi nella completa confusione per quelle sue stramberie che non
avrebbero smesso mai di stupirmi.
Avrei dovuto
essere
sollevato da quella notizia, ma non mi sentivo affatto tranquillo.
Qualcosa nella
sua voce mi aveva allarmato: non stava bene, era chiaro e il tono che
aveva
usato per informarmi era lontano anni luce da quello canzonatorio e
spensierato
con cui soleva sfottermi in casi come quello. Un tempo saremmo rimasti
a
battibeccare per una buona mezz’ora, invece in quel momento
era bastato neanche
un minuto per concludere.
Presi un respiro
profondo e mi preparai ad aspettarlo con le braccia incrociate e un
cipiglio
decisamente poco cordiale, il mio tipico assetto da battaglia, quello
con cui
praticamente andavo in giro prima di conoscerlo, quando ancora le
persone, per
quanto buone fossero, non mi stavano affatto simpatiche.
Così aspettai il suo
arrivo, intenzionato ad andare fino in fondo in quella faccenda e a
vederci
chiaro.
Scacciai per
l‘ennesima
volta il pensiero che quella fosse la fine. Non avevo motivo per
crederlo, lui
non era il tipo che si comportava in quel modo per una sciocchezza. Era
uno
stronzo, ma non mi avrebbe mai fatto una cosa del genere, non in quella
maniera,
non quando ci eravamo spinti così oltre, non quando avevo
preso una decisione
così importante. Non poteva farlo.
Oh you're in
my veins and I cannot get you out.
* * *
Quella sera mi
sentivo
proprio stanco, tanto che avrei potuto prendere sonno sul bancone e non
mi
sarei stupito affatto se fosse successo davvero dopo una giornata
pesante come
quella che avevo passato.
All’università
avevo
avuto lezione le prime ore del mattino, dovendomi alzare abbastanza
presto per
presenziare e non perdermi il nuovo argomento; all’ora di
pranzo avevo fatto in
tempo a mangiare solo una mela perché poi ero schizzato di
tutta fretta, a
piedi per la precisione, alla caffetteria per non arrivare tardi a
lavoro. Era
stato tutti inutile, cinque minuti di ritardo, di nuovo, non me li
levò nessuno
e, nonostante Marco non mi rimproverasse mai per così poco,
mi dispiaceva non
riuscire ad essere efficiente in tutto. Ad ogni modo il pomeriggio ero
stato
totalmente immerso tra i clienti, per la maggior parte ragazzi, dato
che la
notizia del mio nuovo impiego si era sparsa a macchia d’olio
tra le mie
conoscenze e tutti avevano preso a passare da quelle parti per
salutarmi e
curiosare in giro, affezionandosi al posto accogliente, al servizio
impeccabile
e all’ottimo menu, diventando automaticamente nuovi clienti.
Quindi non avevo
fatto altro che volare da un tavolo all’altro con le
ordinazioni, battere
scontrini ed evitare le insinuazioni sessuali di Thatch quando mi
rifugiavo in
cucina per mangiare un boccone di nascosto. Oltre a questo, Marco aveva
ben
pensato di mettermi ai lavori forzati e riordinare l’ala
dedicata alle poesie
in previsione dell’imminente evento che, in quel momento,
stava avvenendo sotto
al mio sguardo annoiato. Fortunatamente non c’era
così tanta gente quella sera
e, con mia grande felicità, nessuno sembrava intenzionato a
ordinare da bere,
lasciandomi il tempo di riprendere le forze nell’angolino
remoto del bar, dove
mi sedetti, appoggiando i gomiti al bancone e accoccolandomi con la
testa su di
essi, sbadigliando sonoramente. Se mi concedevo un riposino di cinque
minuti
non sarebbe morto nessuno, figuriamoci e, se ero fortunato, non si
sarebbero
nemmeno accorti di niente.
And
that I find my corner.
Maybe tonight
I'll call you.
Il sonno mi colse
non
appena chiusi gli occhi e da quella posizione non mi schiodai per un
pezzo,
inconsapevole dei tentativi di Thatch di spremermi la panna sulla
faccia o di svegliarmi
di soprassalto, tentativi che, per la precisione, vennero tutti
impediti
dall’animo troppo gentile e altruista di Marco che, vedendomi
così esausto,
aveva deciso di lasciarmi riposare e arrangiarsi da solo, tenendo sotto
stretta
sorveglianza il fratello irrequieto fino a quando non fu sicuro di
averlo
sbattuto fuori non appena il bar si fu svuotato.
Per quanto mi
riguardava, non avevo fatto altro che dormire placidamente e senza
pensieri.
Dei leggeri, ma
insistenti, colpetti alla schiena mi strapparono dal mondo dei sogni,
facendomi
mugugnare qualcosa di indistinto e sbattere le palpebre per scacciare
gli
ultimi residui di sonno, in modo da vederci meglio. La prima cosa che
notai fu
Marco che, sempre tenendomi una mano sulla spalla, mi sorrideva
gentilmente,
blaterando qualcosa riguardo l’ora. Prima di ricollegare il
cervello, mi consessi
un attimo per immaginare come sarebbe stato svegliarmi sempre col suo
sorriso affianco.
Notando la poca
luce
all’interno della sala e non udendo il classico
chiacchiericcio delle persone o
il monotono ritmo di quelli che leggevano poesie, una brutta
consapevolezza si
fece strada nella mia mente e fu così che indirizzai lo
sguardo verso
l’orologio appeso alla parete davanti a me, scoprendo che il
mio pisolino era
durato la bellezza di due ore.
“Dio,
sono quasi le
tre” mormorai, passandomi le mani sul viso fino ad arrivare
ai capelli,
spostandomeli dalla fronte nel vano tentativo di riprendere almeno un
po’ di
contegno. Se volevo farmi licenziare quella era la strada giusta.
Dormire a
lavoro, fantastico, mi mancava solo quella.
“Veramente
sono le tre
e un quarto” mi corresse Marco, appoggiandosi con la schiena
al bancone in modo
da guardarmi in faccia mentre parlava. Non sembrava arrabbiato, non lo
era mai
quando combinavo qualche guaio ma, nonostante tutta la sua pazienza, mi
sentii
veramente uno schifo. Insomma, lui mi offriva un lavoro in cui mi
chiedeva
semplicemente di aiutarlo quando ce n’era più
bisogno ed io che facevo?
Poltrivo, ecco cosa e non volevo che si facesse idee sbagliate su di me
perché
ci tenevo davvero a rendermi utile e a fare del mio meglio per non
deluderlo.
Sembrava però che, per quanto mi impegnassi, il Destino mi
remasse contro.
“Sono
un idiota”
dichiarai, guardando dritto di fronte a me perché non sapevo
ancora come fare
per affrontarlo e chiedergli di perdonarmi. Per l’ennesimo
pasticcio.
Ridacchiò
prima di
rispondere, togliendosi intanto il grembiule e appoggiandolo dietro di
sé,
“Nah, eri solo stanco, non c’è niente di
male. Non sei ancora abituato a fare
turni del gen…”.
“Marco,
ti prego” feci
acido, zittendolo e prendendolo alla sprovvista. Non ce
l’avevo con lui, ma con
me stesso, “Smettila di difendermi, così
è peggio”.
Rimase in
silenzio per
un attimo, rispondendomi alla fine con la solita calma. “Va
bene. Che vuoi che
faccia?”.
Baciami.
“Ma che
ne so!”
sbottai, “Insomma, guarda, non c’è
più nessuno e tu hai già sistemato tutto,
spento le luci, abbassato le serrande e hai persino pulito tutte le
stoviglie!
Quello dovevo farlo io! E a quest’ora avresti potuto essere
già a letto, invece
sei qui a farmi da balia per un mio errore” conclusi,
sentendomi
incredibilmente più leggero, anche se stupido. Dovevo essere
impazzito per
avere una reazione del genere, probabilmente ero ancora mezzo
addormentato o
quello era un brutto sogno. Come poteva anche solo passarmi per la
testa di
rispondere in modo così irrispettoso al mio capo?
D’accordo che, ormai, più che
il mio datore di lavoro era un amico, ma questo non implicava che
avessi il
diritto di comportarmi come uno schizzato.
Eppure non mi
sembrava
di aver bevuto, quindi non potevo nemmeno dare la colpa di tutto a una
sbornia
con i fiocchi perché in servizio non mi azzardavo a bere.
Festeggiamenti
indetti da Thatch a parte e indimenticabili figure di merda.
After
my blood turns into alcohol.
“Dovresti
arrabbiarti”
sussurrai, più a me stesso che a lui, “Me lo
meriterei, dopotutto”.
Lo sentii
sbuffare e mi
voltai appena in tempo per vederlo alzare gli occhi al cielo prima che
mi
scompigliasse i capelli con una mano, ridendo della mia espressione
sorpresa e
dandomi dell’idiota.
“Sei
proprio un
ragazzino” aggiunse poi, sapendo quanto detestassi quel
nomignolo. Ancora non
gli era chiaro che doveva smetterla di chiamarmi in quel modo. In ogni
caso
rimandai le discussioni perché ci tenevo a chiarire una cosa
che ritenevo
piuttosto importante.
“Senti,
sto solo
cercando di dire che non voglio approfittare della tua pazienza,
davvero, e non
voglio nemmeno che tu pensi questo di me. Cioè, puoi pensare
quello che vuoi,
ovvio ma, quello che cerco di spiegarti è che,
praticamente…”.
“Ace,
sta zitto” disse
Marco, sorridendomi e guardandomi come se fossi la cosa più
buffa sul pianeta.
Di certo dovevo esserlo per forza dato che quel sorrisetto non gli era
mai
scomparso dalla faccia da quando avevo aperto gli occhi.
“Io non
penso affatto
che tu stia approfittando della nostra amicizia, ci mancherebbe, e
credimi
quando ti dico che non hai fatto nulla di grave. Sul serio, se dovessi
scegliere chi sgridare, il primo della lista sarebbe Thatch”.
Sorrisi
involontariamente e lui sembrò sollevato, assicurandomi che
era tutto a posto e
che dovevo smetterla di preoccuparmi per sciocchezze come quelle.
“Grazie”
feci,
sinceramente grato per tutta la disponibilità che dimostrava
nei miei confronti
e per un sacco di altre cose. In quei giorni avevo scoperto che
lavorare lì mi
piaceva da matti, mi divertivo e non mi annoiavo mai, soprattutto
perché, se
non c’erano clienti, potevo chiacchierare tranquillamente con
Thatch o con
Marco e con loro le risate e il buonumore erano assicurati.
Fece un cenno
disinvolto con la mano, “Non c’è di che,
figurati”.
E poi avevo
l’opportunità di poterlo guardare ogni volta che
ne avevo voglia; bastava che
mi voltassi a destra o a sinistra e lo trovavo sempre, in alcuni casi
non se ne
accorgeva, mentre in altri lo ritrovavo intento a fissarmi pure lui.
Era come
una specie di calamita: non potevo evitare di cercarlo e di sorridere
ogni
volta che mi rendevo conto che avevamo un sacco di tempo a nostra
disposizione.
Non gli avevo mai
detto
quanto mi faceva piacere passare a salutarlo quando ancora non
conoscevo il suo
nome, non ne avevamo mai parlato. A pensarci bene, non sapeva nemmeno
che mi
programmavo tutti i pomeriggi in modo da tenermi libero la maggior
parte del
tempo per riuscire ad andare a trovarlo. Per non parlare di quanto
adorassi la
sua cioccolata o i waffles, ma quelle erano solo piccole cose. Avrei
dovuto
dirgli di come mi ero sentito la prima volta che ci eravamo visti,
quando mi
aveva offerto quella tazza di caffè che ormai consideravo
solo ed
esclusivamente mia. Infatti, da quando lavoravo lì, avevo
pensato bene di
tenerla da parte, come se fosse un qualcosa di speciale. E per me lo
era
davvero, proprio come lo era lui. Mi aveva praticamente stravolto la
vita con
quella espressione apparentemente disinteressata, si poteva dire che
era stato
proprio quel suo comportamento distaccato a mettermi in moto con
l’intento di
riuscire a strappargli un sorriso, una parola, qualsiasi cosa pur di
avere la
sua attenzione, pur di arrivare a valere qualcosa per quel ragazzo che
celava
tutto dietro una facciata di menefreghismo. Forse avrei dovuto anche
spiegargli
com’era stato bello e dannatamente perfetto quel nostro
bacio, anche se aveva
portato con sé un effetto devastante. Avrebbe dovuto sapere
che avevo persino
creduto di odiarlo e mi sembrava carino metterlo al corrente di tutte
le maledizioni
che gli avevo lanciato prima di capire i miei sbagli. Avevo compreso
che le
cose si sarebbero sistemate da sé e così era
stato. Aveva mai provato a
immaginare come mi ero sentito lusingato quando aveva deciso di sua
spontanea
volontà di passare la vigilia di Natale e capodanno con
persone che con la sua
famiglia non c’entravano nulla? Aveva una vaga idea di cosa
aveva significato
per me quell’abbraccio sotto la neve? E chissà se
si era accorto come e con che
occhi lo guardavo a volte.
Forse in quel
momento
avrei dovuto essere io ad abbracciarlo. Un semplice gesto per
ringraziarlo come
meritava.
No,
I just wanna hold you.
Dopo tutto quello
che
avevamo passato, però, ancora non ero abbastanza coraggioso
e così sospirai,
guardando altrove e interrompendo il contatto visivo che, fino ad
allora, era
rimasto intatto. Probabilmente aveva avuto tutto il tempo di leggermi
l’anima,
dato che mi ripeteva spesso che per lui ero un libro aperto. Meglio
così, mi
sarei risparmiato un discorso impacciato e incomprensibile.
“Sarà
meglio che vada”
esalai infine, accennando ad un sorriso e alzandomi dallo sgabello,
stiracchiandomi con le braccia verso l’alto e venendo colto
all’improvviso da
un altro sbadiglio mentre il pennuto sghignazzava con ironia.
Rivolgendogli
un’infantile linguaccia mi avviai verso la porta e, quando
fui a metà strada,
pensò bene di farmi notare un particolare piuttosto
interessante e necessario
alla mia intenzione di ritornarmene in appartamento.
“Ace”
cantilenò, “Il
tuo cappotto”.
Cercai di
ignorare
l’effetto che mi fece quella sua espressione da sbruffone e,
a testa bassa, lo
raggiunsi in poche falcate, determinato a non guardarlo per nessuna
ragione al
mondo e a recuperare in fretta la giacca abbandonata nello sgabello
accanto al
mio che prima non avevo notato. Probabilmente prima di svegliarmi aveva
anche
provveduto a lasciarmela a portata di mano.
“Allora
b-buonanotte”
borbottai appena gli fui accanto, sporgendomi per prendere il cappotto,
ma non
arrivandoci mai.
Proprio in
quell’istante Marco si staccò dal bordo del
ripiano bar, afferrandomi per un
braccio e facendomi fare un passo indietro, verso di lui. Credetti che
il suo
intento fosse quello di abbracciarmi e ne fui sinceramente contento,
quello che
non mi aspettavo, invece, era di sentire le sue mani accarezzarmi
gentilmente
il viso prima che le sue labbra si posassero dolcemente sulle mie,
straziandomi
lentamente mentre si muovevano calme, ma decise.
Non era un bacio
prepotente, non mi stava trattenendo, non mi stava nemmeno
costringendo; ancora
una volta si preoccupava per me, lasciandomi libero di colpirlo, di
allontanarlo; lasciandomi la possibilità di scegliere,
di decidere cosa fare. Mi stava dando il tempo per reagire, continuando
a
baciarmi, ma senza pretendere nulla in cambio, infatti la mia
espressione era
ancora stupefatta e incredula, anche se tutto il resto del mio corpo
fremeva
nel desiderio di avere di più. Perché ormai non
mi bastava vederlo due o tre
volte la settimana; non mi bastava parlarci assieme; le nostre
chiacchiere non
mi soddisfavano e i nostri sguardi non erano mai abbastanza. Lavorare
assieme
si era rivelata una bella novità e credevo che sarei stato
contento, invece mi
ero ritrovato a volere, a pretendere
sempre di più. Sempre.
Nonostante mi
fossi
ripetuto mille volte che le piccole cose mi sarebbero andate bene, in
quel
momento quello che avevo non era abbastanza, ormai era chiaro, e
ignorare il
fuoco che sentivo bruciare dentro di me ogni volta che ci trovavamo
vicini mi
stava divorando piano, piano. Come in quell’attimo: quel
bacio mi stava distruggendo,
o meglio, l’avrebbe fatto sicuramente se l’avessi
fermato.
Give
a little time to me, we'll
burn this
out.
Mi
sentii male quando sciolse il contatto, trovandomi ancora
immerso nei miei pensieri e con l‘aria di chi non ha del
tutto realizzato la
situazione. Aprii la bocca per pronunciare anche solo una sillaba, ma
dovetti
chiuderla. E riaprirla. E chiuderla di nuovo. Probabilmente credette
che il mio
comportamento fosse dovuto da un rifiuto, così
lasciò scivolare le braccia
lungo i fianchi e, non senza un certo imbarazzo, tentennò
qualche secondo nello
scegliere cosa dire. Alla fine chiuse gli occhi, volgendo il capo verso
il
soffitto, e sussurrò un’unica parola, sorridendo
amaramente.
“Scusami”.
“Mi
stai chiedendo di mostrarmi indifferente dopo questo?”
gli domandai in un mormorio sommesso. Temevo di rovinare
tutto se avessi alzato la voce, quando attorno a noi l’unico
rumore erano i
nostri respiri e il battito impazzino del mio cuore che mi rimbombava
in testa
incessantemente. Una cosa era certa: la situazione tra noi era cambiata
di
molto e quella volta non gli avrei permesso di nascondersi,
assolutamente.
Ormai eravamo in bilico, da una parte o dall’altra dovevamo
pur cadere. Perché,
allora, non farlo assieme?
Non
sostenne il mio sguardo e lo spostò altrove come faceva
quando ci
trovavamo improvvisamente troppo vicini per sembrare solo
impegnati a conversare. Succedeva spesso quando parlavamo e, non
appena ci accorgevamo di aver superato le distanze stabilite dalla
buona
educazione, non riuscivamo mai a risultare disinvolti.
“Non
ci riesco” decretai, non stupendomi nel vederlo fraintendere
le mie
parole, “Non ci riesco proprio”.
Prima
che potesse rendersene conto, gli presi il volto tra le mani e lo
baciai, provando di nuovo la fantastica sensazione di ardere.
Una
strana euforia esplose dentro di me quando mi sentii afferrare per i
fianchi e avvicinare ulteriormente al suo corpo. Dio, quanto
l’avevo sognato
quel momento.
Poi,
quando fu Marco a riprendere il contatto e a renderlo più
profondo,
corsi ad afferrare le sue spalle e pensai semplicemente che quello che
provavo
era fuoco vivo senza ogni dubbio.
We'll
play hide and seek to
turn this
around.
Tutto
ciò era il
delirio totale, mi sentivo quasi in estasi. Quante volte mi ero chiesto
che
effetto facesse abbracciarlo? Quante? Talmente tante che avevo perso il
conto.
Quel corpo era perfetto, Marco era perfetto, non c’era altro
da aggiungere. Mi
teneva in considerazione, mi ascoltava e non sminuiva le mie trovate, a
detta
mia geniali, ma che al resto del mondo risultavano stupide. Mi
incoraggiava a
mettermi in gioco, a non mollare mai. E così avevo fatto con
lui, nonostante
tutto, non avevo mai smesso di sperare che qualcosa cambiasse, che si
accorgesse di me, che mi considerasse. Solo allora mi ero reso conto
che, in
realtà, l’aveva sempre fatto.
Mi allontanai di
qualche centimetro per riprendere fiato e venni investito da uno
sguardo carico
di significati e parole non dette, tanto che ne rimasi incantato.
Intanto le mie
mani non avevano smesso un attimo di stringere il colletto della sua
camicia,
mentre le sue sembravano avere tutta l’intenzione di strapparmela.
“Resta
da me” disse in
un sussurro, stringendomi di più a sé e, quasi
automaticamente, il cavallo dei
miei pantaloni diventò misteriosamente più
stretto, tanto che mi ritrovai senza
fiato e risposi con un cenno affermativo del capo per evitare ulteriori
inconvenienti.
Dopo aver chiuso
a
chiave l’entrata, dato che io non me ne sarei andato,
spegnemmo le luci
rimanenti e poi lo seguii farmi strada lungo un corridoio sul retro,
arrivando
davanti a delle scale che portavano direttamente al secondo piano.
“Beh,
puoi permetterti
il lusso di dormire fino all’ultimo minuto”
scherzai, tanto per alleggerire la
tensione. Sinceramente stavo solo cercando di calmarmi dato che non
escludevo
la possibilità di essere colto da un improvviso infarto,
tanto il mio battito cardiaco
era su di giri. Non sapevo bene come comportarmi e mi sentivo
esattamente come
spesso si divertiva a descrivermi: un ragazzino.
“E’
piuttosto comodo,
in effetti” concordò Marco, aprendo la porta di
casa sua e invitandomi ad
entrare con la sua solita tranquillità, perfettamente
padrone di se stesso.
Con il cuore in
gola
misi piede dentro l’appartamento, gradendo infinitamente il
calore che emanava
il riscaldamento acceso e sentendomi subito a mio agio, nonostante
l’entrata
fosse buia e priva di illuminazione. Il pennuto provvide subito a
questa
mancanza e fece scattare l’interruttore, illuminando
immediatamente la stanza; dopo
di che mi prese il cappotto e, assieme ad un mazzo di chiavi e alcuni
telecomandi per l’allarme, lo ripose in uno stanzino poco
lontano, incitandomi
a precederlo e ad accomodarmi pure in salotto.
Mi piaceva quel
posto,
ce lo vedevo perfettamente aggirarsi tra quelle mura bianche con il
soffitto di
un azzurro sfumato e tutto il resto in ordine, rispecchiava parecchio
la sua
personalità posata e calma. Quanto fosse calmo a letto,
però, ancora non lo
sapevo e mi risparmiavo dal prestare ascolto ai pettegolezzi di Thatch
per
rispetto nei suoi confronti e perché, spesso, erano rivolti
a far arrossire me.
Ah,
maledizione, devo smetterla di ascoltare quell’idiota e le
sue storie! pensai,
scuotendo il capo e afferrandomi
il viso con le mani, cercando di non lasciarmi prendere dal panico e di
tranquillizzarmi. Non c’era niente di cui preoccuparsi, ero
con Marco e sarebbe
andato tutto bene. Non era quello che avevo sempre desiderato? Era
arrivato il
mio momento, quindi perché essere nervoso? Davvero non
riuscivo a capirlo e più
ci pensavo più mi sentivo inadeguato.
E
se non gli piacessi? Pensa che casino! Magari non, cioè,
forse dovrei, che ne
so, comportarmi in un determinato modo? E domani che
succederà? Dovrò
andarmene? Sul serio, dovrò farlo? Io non…
“Ehi”.
Come riuscisse
sempre
ad apparire dal nulla ancora non mi era del tutto chiaro, probabilmente
era una
sua dote naturale, come l’essere dannatamente attraente,
nonostante un taglio
di capelli assurdo. Ad ogni modo non c’era spazio per le
battute, non in quel
momento, non quando cercava di capire se mi sentissi bene o se fosse il
caso di
fermarsi prima di andare troppo oltre.
Sapevo che, se
solo
gliel’avessi chiesto, mi avrebbe lasciato andare, ma,
davvero, era l’ultima
cosa che volevo. Quello che mi premeva, in quel momento, era poterlo
baciare
ancora, e ancora, e ancora.
And
all I want is the taste that
your
lips allow.
Oh,
fanculo tutto.
Smisi
di
pensare e crearmi problemi dove non ce n’erano e agii
d’istinto, voltandomi
verso di lui e circondandogli il collo con le braccia senza dargli
tempo di
aggiungere altro, assaggiando di nuovo quelle labbra su cui tanto avevo
fantasticato.
“Ace”
mugugnò, cercando di riprendere fiato, “Ne sei
proprio
sicuro?”.
“Che
domande!” sbottai, alzando gli occhi al cielo e togliendomi
la maglia da solo, facendolo ridere per la frenesia dei miei gesti.
“Hai
così tanta fretta?” scherzò, imitandomi
e sorridendo davanti
alla mia aria sognante quando anche la sua camicia finì alle
sue spalle.
“Chiudi
il becco, ti prego”
quasi lo implorai. Non c’era nulla che valesse tanto quanto
quel momento,
nulla. E di certo non avevo intenzione di rinunciarvi.
Mi
attirò a sé, portandosi a un soffio dal mio viso,
“Sai una
cosa? Non vedevo l’ora” mi confessò
prima di riprendere da dove avevamo
lasciato.
Non
arrivammo mai alla sua camera da letto quella notte, ma non
aveva importanza. Avrei fatto il giro turistico della casa il mattino
seguente,
o quando saremo stati in comodo perché, per quel momento,
avevamo cose ben più
interessanti da fare. Soprattutto, dovevo pur dimostrargli che non ero
affatto
un ragazzino.
My
my my my give me love.
* * *
“No”.
“No?”.
“No,
semplicemente non
ci credo” dichiarò, incrociando le braccia al
petto senza muoversi di un passo
e fissandomi così intensamente da insinuarsi nella mia testa
e scavarmi fin
dentro nell’anima. Cosa che dovevo assolutamente impedirgli
se volevo togliermi
da quell’impiccio una volta per tutte.
“Non
è possibile che
dopo tutto quello che abbiamo passato tu adesso…”.
“Passato
cosa, Eustass-ya?” gli
chiesi con voce calma
e distante miglia da quel luogo, risultando comunque il più
sarcastico
possibile, “Abbiamo semplicemente continuato a vederci per
scopare, che altro
c’è da dire? Ti mancherà il sesso? Non
preoccuparti, troverai di sicuro qualcun
altro che sappia soddisfarti”. Doveva pur esserci un modo per
sbarazzarmi di
lui e smetterla con quella storia durata ormai troppo a lungo. Ci
avevamo
provato e d’accordo, era stato divertente
all’inizio, ma ero arrivato al
limite. Ogni cosa finiva, prima o poi.
When you try your best but you don't succeed.
“E
per quale motivo dovrei andare in cerca di un’altra
puttana, sentiamo?” ribatté scettico, poggiando le
mani sui fianchi e
scoccandomi un’occhiata furente. Perfetto, finalmente si
stava arrabbiando e,
quando questo accadeva, significava che avrebbe presto perso le staffe
e smesso
di ragionare prima di parlare.
Ci
avevo riflettuto a lungo su quello che stavo
per fare ed ero arrivato alla conclusione che fosse tra tutte la
soluzione
migliore per ognuno. Certo, non avevo chiesto l’opinione di
nessuno e avevo
deciso tutto da solo, non curandomi affatto di quello che gli altri
avrebbero
avuto da dire, ma facendo semplicemente ciò che mi pareva
più giusto e adatto
alla mia situazione. Dopotutto, non ero mai stato bravo con i rapporti
a lunga
durata.
Così
quel giorno avevo deciso che era arrivato il
momento di chiarire bene le cose una volta per tutte e avevo chiamato
quell’idiota montato di Eustass-ya in tutta fretta
perché temevo che, se ci
avessi pensato meglio, mi sarebbe mancata la determinazione per farlo.
Quindi
mi ero precipitato da lui nel giro di qualche minuto, trovandolo
all’ingresso
ad aspettarmi dove, per l’appunto, ci trovavamo in quel
preciso istante,
intenti a scannarci con lo sguardo, uno di fronte all’altro,
come di
consuetudine. C’era, però, una sola e importante
differenza quella volta: non
si trattava dei nostri soliti litigi, più adatti ad una
coppia sposata che a
dei ragazzi della nostra età, ma bensì di
qualcosa di più difficile da
inculcare in testa a quello svitato.
“Perché
mi sono stancato” ammisi, trattenendo a
stento l’esasperazione e non curandomi dei suoi occhi
innaturalmente fuori
dalle orbite per lo stupore delle mie parole. Tutto ciò non
mi toccava
minimamente, non mi importava nulla se gli sembrava assurdo o uno
scherzo, perché
non lo era affatto. Quei mesi erano stati uno spreco di tempo prezioso,
l’avevo
capito solo allora e troppo tardi. Mi era tutto indifferente, lui
compreso, e
le sue accuse mi scivolavano addosso senza scalfirmi minimamente. Se la
sarebbe
cavata, senza dubbio, e mi avrebbe dimenticato nel giro di poco tempo
come
avrei fatto io.
“Stronzate,
Trafalgar! Dimmi che cazzo significa
tutto questo!” sbottò, intestardito a voler
trovare un significato plausibile a
tutto ciò. Possibile che fosse così ottuso? Non
c’era nulla da capire, a parte
il fatto che, semplicemente, non volevo più continuare quel
malsano rapporto
che era venuto a crearsi tra di noi. Ne avevo avuto abbastanza ed ero
arrivato
al punto in cui stargli dietro era diventato tremendamente stancante.
Era
peggio di un moccioso.
Tutto
quello, però, sembrava non volerlo capire.
Quanto a fondo ci eravamo spinti in quella relazione per trovarmi
così in
difficoltà a metterle fine? Non chiedevo altro, solo
concludere in fretta quella
tortura.
When you get what you want but not what you need.
“Eustass,
fattene una ragione” sputai secco, “Per
me non conti più niente”.
Il
colpo fu così veloce e inaspettato che non me
ne resi conto fino a quando non sbalzai contro la parete, ritrovandomi
con uno
zigomo dolorante e due occhi fiammeggianti di rabbia piantati nei miei
senza
lasciarmi via di fuga. Era sempre così, un violento e un
manesco. Ed io,
maledizione, ero così
debole.
“Non.
Ti. Credo” sillabò minaccioso. Era
determinato a non accettare le mie decisioni e, se volevo avere la
possibilità
di scrivere una volta per tutte la parola fine,
ero praticamente costretto a sbattergli in faccia la cruda e vera
realtà dei
fatti, sicuro che in quel modo l’avrei ferito
irrimediabilmente e nel modo
peggiore di tutti.
Pazienza,
c’erano cose peggiori di un cuore
spezzato.
Gli
dedicai il mio ghigno più maligno, mentre il
mio viso assumeva un’espressione di pura sufficienza e
menefreghismo. Volevo
che vedesse chiaramente quanto poco mi importasse di lui e delle sue
stupide ed
inutili lamentele. Così, dopo essermi assicurato di avere
tutta la sua
attenzione, gli rovesciai addosso un’occhiata di disprezzo.
“Sono
stato a letto con un altro, caro
Eustass-ya” scandii lentamente e in modo chiaro, con voce
quasi derisoria,
sottolineando il fatto che non me ne importasse minimamente, anzi,
tutto ciò mi
divertiva, “E di te non ho più bisogno”.
Il
tempo sembrò fermarsi, scandito solamente dal
suo respiro ansante e dal mio cuore che, incontrollato, batteva a
briglia
sciolta nel mio petto, come se volesse uscire.
La
sua espressione era illeggibile, come se il
suo viso fosse stato di pietra e la luce che fino ad allora aveva
brillato come
una fiamma viva nei suoi occhi si spense nell’esatto istante
in cui smise di
tenermi affisso al muro, lasciandomi quindi scivolare con i piedi per
terra
mentre mi dava le spalle, stringendo convulsamente e con forza i pugni
lungo le
braccia.
Il
solito
sentimentale.
Quando
si voltò quasi mi sentii sprofondare
nell’oblio per la scarica di disgusto che mi rivolse con uno
sguardo micidiale
e carico d’odio, rancore, risentimento e
qualcos’altro di più profondo e
personale. Abbandono, forse? Rifiuto? Mi liberai di quella sgradevole
sensazione con una scrollata di spalle, sentendomi comunque vagamente
stanco e
spossato. Mi ripetevo che quella era la cosa migliore, che non potevo
essermi
sbagliato. Non ero nel torto, non dovevo e non potevo esserlo.
When you feel so tired but you can't sleep. Stuck in
reverse.
“Vattene”
sussurrò, apparentemente calmo, ma con
l’aria di chi è appena stato svuotato di qualsiasi
emozione o sentimento, “E se
oserai rimettere piede nella mia vita giuro che ti ucciderò
con le mie stesse
mani”.
Senza
smettere di ghignare, senza smettere di
apparire intoccabile come sempre, senza perdere il mio disinteresse e
senza
abbassare lo sguardo dal suo, intenzionato a vincere quella partita
fino
all’ultimo, raccolsi la mia giacca e mi avviai verso la porta
a passo lento,
maledicendomi per la debolezza del mio cuore che, incurante delle mie
decisioni,
continuava a battere impazzito, tanto che, da un momento
all’altro, avrei
potuto benissimo ritrovarmelo tra le mani, pulsante, vivo e carico di
sofferenza.
Non
una parola uscì dalla sua bocca, tanto meno
dalla mia e, dandogli le spalle dopo un ultimo sguardo, uscii da quella
casa e
raggiunsi l’auto, mantenendo un’espressione
ghignante e uscendo dal quartiere,
immettendomi nella strada principale.
Non
sarei tornato subito in appartamento, no,
prima avevo un’altra tappa da fare così, nel giro
di una quindicina di minuti,
raggiunsi un parco pubblico in periferia, spesso molto tranquillo e
silenzioso,
soprattutto a quell’ora in cui tutti se ne stavano a casa a
mangiare o a fare
un pisolino.
Solo
dopo che ebbi parcheggiato poco lontano
dalle fronde sempreverdi dei pini ancora innevati, incamminandomi fra
quei
sentieri con le mani affondate nelle tasche nell’intento di
scaldarle,
raggiungendo una vecchia panchina abbandonata, mi permisi di smetterla
con quel
sorriso che tanto mi era costato sfoggiare, facendomi serio e
togliendomi il
cappello, in modo da non celare più i miei occhi al resto
del mondo e sperando
di trovare conforto nel lieve venticello invernale.
Solo
allora abbassai completamente le mie difese,
lasciando che la valanga di desolazione che mi ero tenuto dentro fino a
pochi
istanti prima, permettendole di straziarmi nel profondo, mi investisse
senza
pietà, soffocandomi con la sua pesantezza. Ed era
così opprimente, così
dolorosa che persi totalmente il controllo sul mio corpo e sulle mie
emozioni.
And the tears come streaming down your face.
Le
mie mani tornarono gelide a contatto con
l’aria fredda e, tremanti, corsero a coprire i miei occhi.
Nonostante i miei
sforzi, però, non passò molto prima che mi
ritrovassi con le ciglia, le dita e
le guance inondate d’acqua salata. Un gusto amaro e
famigliare.
Mi
sentivo morire, tanto che mi ritrovai accasciato
a terra, senza nemmeno sapere come ci ero finito, con le braccia
intente a
stringermi con forza il petto per la desolazione che provavo e per
cercare di
alleviare almeno in parte quel dolore infernale che sentivo bruciarmi
nell’amina, nei polmoni, nel cuore fino alla testa.
Ero
un mostro, un essere orribile e avevo appena
allontanato per sempre dalla mia vita l’unica persona che
avesse mai dimostrato
un po’ di umanità nei miei confronti,
l’unica che non era scappata davanti al
mio passato, l’unica che mi aveva accettato e che non si era
tirata indietro
anche quando aveva saputo quanto schifo facessi come esse umano, come
uomo, e quanto
fossi incapace di esprimermi quando si trattava di sentimenti.
L’avevo
abbandonato nel peggiore dei modi e non l’avrei
riavuto mai più. Avevo appena rinunciato a tutto, tutto
ciò per cui valesse la
pena sorridere. Io, che di sorrisi non sapevo nulla, ma che avevo
imparato come
mi facessero sentire bene ogni volta che quel capelli
rossi me ne rivolgeva uno, anche se per un attimo, anche se
poi mi mandava a fanculo.
Avevo
perso Kidd e niente avrebbe mai preso il
suo posto. Niente e nessuno.
When you lose something you can't replace.
Non
avrei mai pensato di ritrovarmi in quelle
condizioni, inginocchiato a terra e appoggiato ad una misera panca,
intento a
piangere tutto il dolore che mi ero portato dentro quei giorni. Non uno
solo,
ma tutti gli sbagli di una vita, della mia vita, a partire
dall’infanzia. Ne
avevo fatta di strada da allora e, crescendo, avevo imparato che al
mondo solo
poche cose meritavano davvero la mia attenzione, o anche un minimo
accenno di
interesse. Fino ad alcuni mesi prima la mia esistenza gravitava
unicamente
attorno alla medicina, alla scienza, al diventare il miglior chirurgo
di tutti
i tempi, ma poi le cose erano cambiate nel giro di una notte,
stravolgendo la
mia vita, me compreso, e ricostruendomi da capo.
Perché
era questo che Kidd aveva fatto: mi aveva
svuotato di tutta la merda che mi portavo appresso con una forza e una
determinazione
invidiabili e difficili da attribuire a uno come lui e mi aveva rimesso
a
nuovo, un poco alla volta, con impazienza e con modi alquanto
discutibili, ma
ce l’aveva fatta. Si era offerto come ancora di salvezza ed
io mi ci ero
aggrappato con tutto me stesso nella speranza che forse mi ero
sbagliato, forse
anche io mi meritavo uno spiraglio di felicità dopotutto e
non ero destinato a
vivere nell’oblio del passato. Avevo davvero creduto di
potercela fare, di
poter respirare a pieni polmoni una boccata d’aria pulita e
cancellare con essa
tutto ciò che mi inquinava.
Purtroppo,
però, non era così che doveva andare.
Probabilmente qualcuno lassù mi odiava e aveva deciso che
per me era arrivato
il momento di smetterla di vivere in un miraggio, in un qualcosa che,
prima o
poi, doveva svanire e riportarmi alla realtà.
Il
risveglio da quel sogno che tanto avevo
desiderato potesse essere vero, sfortunatamente, era avvenuto nel modo
più
orribile, traumatico e pauroso di tutti. Il mio incubo personale aveva
trovato
la via per infettare anche il mio presente con il suo veleno e questo,
questo
era ciò che più mi spaventava.
“Sai,
Law, ho riflettuto molto durante questi anni passati in quel buco dove
mi hai
spedito, e ho anche pensato a come distruggerti. Oh, non ti
preoccupare, lo
farò nel modo più divertente e doloroso
possibile, mi conosci. Ho saputo che
condividi un appartamento con Penguin e Bepo, vero? Me li ricordo quei
ragazzini, erano sempre così timidi e impauriti quando mi
incontravano. L’altro
ragazzo, invece, non lo conosco. E’ un tuo nuovo amico? Ho
scoperto che si
chiama Ace e che è il nipote di un ex agente della polizia,
uno di quelli che
spesso venivano a ficcanasare nei miei affari oltretutto. Da quel che
ho
sentito suo fratello è una mina vagante, ma sono entrambi
così giovani! Che
peccato sarebbe se succedesse loro qualcosa. Tu che ne pensi? Non ci
sono
troppi incidenti e troppe vittime al giorno d’oggi? Quante
disgrazie accadono.
Ma non pensiamo al peggio per adesso e raccontami un po’ come
stai, figliolo.
Oh? Non rispondi? Beh, al tuo posto anche io sarei rimasto di pietra,
ma lascia
che ti dica che muoio dalla voglia di conoscere questo Eustass Kidd di
cui ho
tanto sentito parlare. Stando a quello che si dice in giro è
il tuo fidanzato.
Sbaglio? No? Chi tace acconsente. Ho qui alcune sue foto e a prima
vista sembra
proprio un piantagrane. Ha l’aria del tipico rissaiolo, con
quell’espressione
sempre corrucciata. Mi domando come vi sopportiate. Immagino comunque
che
eliminarlo non sarà semplice, ma… Come dici? Devo
stargli lontano? Bingo!
Finalmente una reazione da parte tua, figliolo! Quindi è
proprio vero: hai
ancora un cuore tenero e debole. Molto bene, molto bene! Ora ascoltami
attentamente: se non vuoi che al tuo ragazzo capiti qualcosa di brutto,
come
una bella pallottola in testa, dovrai allontanarlo da te. Fallo uscire
dalla
tua vita, feriscilo, spezzagli il cuore e, di conseguenza, calpesta il
tuo,
Law. In questo modo, con te già distrutto per
metà, la mia vendetta sarà ancora
più godibile”.
Questo era il
patto che
avevo stretto col Diavolo quella sera.
Dovevo
assicurarmi che
arrivasse ad odiarmi a tal punto da non volermi più vedere,
ne sentire
nominare. Doveva detestarmi e disprezzarmi, cancellarmi per sempre
dalla sua vita.
Doveva dimenticarmi e non cercarmi mai più. E tradire la sua
fiducia, anche se
per finta, era l’unico modo per assicurarmi la sua salvezza,
per tenerlo al
sicuro e lontano dai guai. Non doveva per forza sapere come stavano
realmente i
fatti, non avrebbe mai dovuto scoprirlo; era meglio se mi credeva un
maledetto
bastardo, piuttosto che vederlo prendere parte alla causa e mettersi in
mezzo
in affari che non lo riguardavano. Perché sapevo che
l’avrebbe fatto, sapevo
che avrebbe insistito per starmi vicino e aiutarmi ad affrontare la
cosa, ma
non potevo permetterglielo. Non potevo rischiare di metterlo in
pericolo
continuando a stare con lui, ci tenevo troppo per essere
così egoista e,
soprattutto, non volevo un’altra morte sulla coscienza.
Kidd non avrebbe
dovuto
morire, non per colpa mia; io non lo meritavo, non valevo
così tanto come lui
che con quel suo comportamento da stronzo era arrivato a significare
tutto per
me. E questo, quel figlio di puttana che credevo morto,
l’aveva capito e aveva
sfruttato la cosa a suo vantaggio.
Se non avessi
preso le
distanze da tutti quelli che amavo lui
li avrebbe uccisi uno ad uno sotto ai miei occhi.
When you love someone but it goes to waste.
E
faceva male, malissimo sapere di non avere
altra scelta se non quella di arrangiarmi, come avevo sempre fatto.
Affrontare
i demoni del passato di nuovo, più solo che mai, senza
nessuno a cui
appoggiarmi. Ma era un sacrificio che ero pronto a fare. Lui voleva me,
gli
altri non c’entravano. Kidd
non
c’entrava e, ora che non aveva più niente a che
fare con me, sarebbe stato in
salvo, lontano da ogni pericolo. Così doveva essere,
così doveva andare.
Sarebbe andato avanti con la sua vita, sarebbe finito in galera un paio
di
volte, certo, ma sarebbe stato felice e, chissà, forse si
sarebbe innamorato di
nuovo, un giorno, e sarebbe stato felice. Se lo meritava per aver
sprecato il
suo tempo con una causa persa come me.
Mi
morsi un labbro con forza per soffocare un
gemito di dolore, ma fu tutto inutile e il respiro mi uscì
come un lamento
straziante. Tremavo, tremavo e non riuscivo a smettere, nemmeno se mi
concentravo e cercavo di tranquillizzarmi. Quella sensazione che per
anni era
stata lontana ora mi sembrava così famigliare che, per un
doloroso istante,
credetti di ritrovarmi nella mia vecchia casa con mia madre senza vita
davanti
ai miei occhi ancora troppo giovani e innocenti per sopportare quella
vista.
Non
avrei permesso per nessun motivo al mondo che
accadesse di nuovo. Nessuno avrebbe più dovuto morire per
me.
Separarmi
da Kidd era stata la decisione più
difficile che avessi mai dovuto affrontare e, se non fossi stato
così un bravo
attore, non ce l’avrei fatta a sopportare il suo sguardo
duro, ma avrei ceduto
molto prima, raccontandogli tutto e chiedendo perdono,
perché da solo non
potevo farcela. Alla fine ci ero riuscito, l’avevo messo in
salvo, anche se in
quel modo mi ero spezzato a metà e privato di qualsiasi
emozione.
Che
cosa strana era l’amore, ti calpestava e ti
lasciava a terra fulminato.
Avevo
sempre creduto di essere al di sopra di
certe cose ma, a quanto pareva, nemmeno io ero sfuggito a quel
sentimento così
complesso, eppure capace di scaldarmi il cuore.
Could it be worse?
Poteva
andare peggio. Presto sarebbe tutto finito
e allora avrei smesso di pensare, di sentire dolore, di soffrire. Il
mio cuore
non avrebbe più battuto all’impazzata per uscirmi
dal petto, si sarebbe
semplicemente fermato una volta per tutte.
Sapevo
a cosa andavo in contro, dopotutto quello
che stavo passando era il frutto di una vendetta appena messa in atto
contro di
me e, alla fine, l’ultima punizione sarebbe stata la morte
stessa.
Ma
andava bene, davvero, se c’era una cosa che
non mi preoccupava minimamente in quel momento era la Morte.
Figuriamoci,
quello era il minimo e l’avrei accettata a braccia aperte,
accogliendola come
una vecchia amica o come una benedizione, avrei accettato tutto pur di
avere la
certezza che i miei amici e Kidd fossero al sicuro.
Respirai
profondamente e una fitta al pezzo mi
mozzò il fiato, tanto che mi strinsi ulteriormente tra le
braccia per placare
quello strazio che sembrava essere solo all’inizio.
Ci
si sentiva così quando si perdeva qualcosa? Era
quello l’effetto che facevano i sentimenti? Mi stavo davvero
spezzando come il
mio cuore?
E
così, mentre tutto scorreva, io mi sentivo
morire.
Lights will guide you home and
ignite your bones. And
I will try to fix you.
Angolo Autrice:
Va bene,
ehm, iniziamo dalle cose
semplici. Per fare chiarezza, stavolta mi sono basata tanto sulle
canzoni, sono
state il mio pane quotidiano per una settimana perché ho
tipo scritto tre
capitoli per prendermi avanti.
Uhm,
dunque, partiamo
con Kidd che è preoccupato. Si, preoccupato. Avete presente
quelle brutte
sensazioni che vi prendono lo stomaco e che non riuscite a scacciare?
Quelle che
avvisano l’arrivo di qualcosa di brutto. Ecco, lui si sente
così. E, credetemi,
parlo per esperienza, quelle sensazioni non portano mai niente di
buono. E’
come se sapessi già che tutto sta per andare a puttane. Il
peggio è che, alla
fine, non puoi farci niente. Ed è orribile. Quindi lui sta
passando un
momentaccio e, quando Law chiama, si sente peggio perché
nota il cambiamento.
Alleggeriamo
un po’ il
tutto e passiamo a Ace? Che dite? Si, dai. Allora, ripetiamo i botti di
capodanno dato che, FINALMENTE, è successo qualcosa!
Ow, yep, non avete letto male e le vostre menti poco caste possono
immaginare
tutto ciò che vogliono ** spero solo di avervi soddisfatti,
come ho già detto,
ho un blocco e non riesco a scendere troppo
nei particolari, mi dispiace, scusatemi immensamente. Ad ogni modo
spero solo
che le emozioni compensino, mi affido a quelle. Mhm,
c’è altro? se dimentico
qualcosa fatemelo sapere, va’ ^^
Ritorniamo
alle note
dolenti.
Law.
Ascoltate
la canzone
che ho scelto per lui, vi prego e pensateci. Pensateci
perché c’è una frase
che, mentre scrivevo, mi ha distrutta e avrei voluto prenderlo e
abbracciarlo
fino a farlo smettere di stare in quel modo ma, odiatemi pure, ho
dovuto
lasciarlo così: spezzato.
Chi
credeva che all’inizio
fosse serio, a proposito, quando allontanava Kidd? Volevo mettere la
spiegazione nel prossimo capitolo, ma poi veniva fuori un casino,
quindi eccola
e, sorpresa! Ve lo ricordate il padre che Law ha spedito in carcere?
Bene, è tornato
per vendicarsi, Capitan Ovvio, e la sua idea è quella di
isolare suo figlio per
poi, beh, vedremo per cosa.
A
proposito, è la prima
volta che mi cimento in una cosa del genere perché di solito
sono tutta
farfalle e arcobaleni e unicorni rosa, so
gay **, quindi volevo chiedervi un parere generale sul tutto
perché,
insomma, non vorrei pasticciare ^^
Altro?
Uhm.
Yup, gli
Spoiler Free:
Cercai di capire
cosa stavo provando
in quel momento, muovendomi nella desolazione che mi aleggiava attorno,
scrutando in ogni meandro della mia testa e andando alla ricerca in
mezzo ai
mille pezzi in cui tutto il mio essere era stato dilaniato dal male.
Guardai in
ogni angolo, setacciai ogni buco della mia coscienza, ma non trovai da
nessuna
parte quel sentimento che sembrava sparito.
In me non vi era
la benché minima
traccia di perdono.
*
“Se
gli dovesse…” si bloccò, scuotendo il
capo e correggendosi, “Se vi dovesse
succedere qualcosa, allora quel bastardo avrebbe davvero la vittoria in
pugno e
questo non glielo permetterò anche a costo della mia stessa
vita”.
“E
q-quindi che vuoi f-fare?” balbettai, tirando su col naso e
abbassandomi il
frontino del cappello sugli occhi.
“Gli
darò quello che vuole” concluse atono, alzandosi e
avviandosi per ritornarsene
in camera, lasciandomi con un infinito senso di tristezza e impotenza.
“Me”.
*
Come
potevo, quindi, rischiare che venisse fatto loro del male? Avrebbe
voluto dire
mettere in pericolo anche le vite dei loro cari, come quella di Rufy,
di Zoro e
Sanji, le ragazze e il resto di sbandati che, ne ero certo, non
meritavano la
fine. E poi c’era Kidd nella lista e avrei fatto di tutto
purché non gli
accadesse nulla.
“Siete
dei completi idioti, ma è anche vero che come amici siete i
migliori”.
Spero
davvero di aver
reso l’effetto che volevo, in caso contrario prometto che
cercherò di fare del
mio meglio la prossima volta.
Grazie a
tutti per il
sostegno e per qualsiasi altra cosa. Grazie ai vecchi e ai nuovi
lettori. Grazie.
Un
abbraccio grande e
restate sintonizzati,
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 21 *** Capitolo 19. La promessa di una vita. ***
Capitolo
19. La promessa di una vita.
Attorno
a me regnava un fastidioso e opprimente silenzio. Nulla si
muoveva, nulla faceva sentire la propria presenza, non riuscivo nemmeno
a udire
il mio respiro. Ero come estraniato dal mondo, tagliato fuori in
un’altra
dimensione. A quanto pareva il corso di yoga era servito in parte a
qualcosa di
positivo: evadere con la mente dal corpo per non sentire.
Ci
stavo riuscendo, davvero, e all’inizio non mi era sembrata
così
scadente come cura al mio problema, ma poi le cose avevano iniziato a
complicarsi, rendendo tutto più difficile.
Sdraiato
a terra al centro del salotto, circondato dal casino dei mobili
ribaltati e di tutti gli oggetti sparsi per la stanza, frantumati in
mille
pezzi, vagavo con la mente a miglia e miglia di distanza, pensando a
tutto e a
niente nello stesso istante, cercando con tutto me stesso di non
perdere la
testa, di lasciar correre, ripetendomi che andava bene, che non doveva
importarmi, che, infondo, me l’ero sempre aspettato e che da
quel momento in
poi sarei stato libero per sempre da una piaga immonda.
La
terapia funzionava, era come essere rinchiusi in una bolla,
sottovuoto, ma non mi salvava dal dolore che stavo provando e che mi
scorreva nelle
vene in un flusso continuo, passando dal cuore e avvelenandomi
lentamente,
artigliandomi le viscere e scavandosi un rifugio per non abbandonarmi e
continuare indisturbato a distruggermi piano, piano,
dall’interno.
Alla
fine era successo davvero, per quanto ancora non ci credessi. Tutto
si era spezzato, rotto, andato in pezzi. Il sipario era calato su tutta
quella
farsa e, per quanto avessi lottato, per quanto avessi cercato di essere
forte,
mi aveva distrutto dentro.
Cosa
avevo fatto di sbagliato per dargli motivo di tradirmi in quel
modo? Non ne avevo idea, ma ero sicuro di non aver meritato quella
punizione.
Ero un maledetto bastardo, lo sapevo, ma non poteva avermi riservato un
trattamento del genere; non ero uno straccio, ma una persona come tutte
le
altre anche io, con dei sentimenti, per quanto potesse sembrare
impossibile.
E
lui, senza la minima pietà, li aveva calpestati. Stracciati.
Se ne era
completamente fregato e ci aveva sputato sopra con noncuranza, come se
contassero meno di zero. Come se io
stesso non avessi alcun valore.
Continuare
a cadere in trance ormai non aveva più effetto
perché la mia
testa aveva ripreso a funzionare così, lentamente, mi alzai
dal pavimento
freddo, vagando per i corridoi come un fantasma, muovendomi con gesti
automatici
e ritrovandomi nel giardino sul retro che confinava con il piccolo
fiumiciattolo che attraversava quella zona della periferia.
L’aria era fredda e
il terreno era ancora coperto dalla neve mentre gli alberi spogli
davano una
triste visione di se stessi con i rami secchi e irrigiditi dal gelo.
Non
sentivo nemmeno il vento sfiorarmi la pelle delle braccia scoperte e
insinuarsi
dentro i vestiti, non rabbrividii neanche per un istante. Mi scivolava
tutto addosso senza
scalfirmi minimamente.
Ma se fuori
potevo
apparire semplicemente come uno che cercava di prendersi la polmonite,
dentro
di me una tempesta di dolore, sofferenza e odio mi stava dilaniando.
I have fallen
to my knees.
Mi
cedettero le gambe e mi ritrovai inginocchiato a terra appena fuori
l’uscio
della porta e, in breve tempo, i pantaloni iniziarono a inumidirsi a
contatto
con la neve.
Avevo
odiato Trafalgar fin dal primo momento in cui l’avevo
incontrato. Silenzioso,
spaccone e con l’atteggiamento da difensore dei deboli; solo
dopo avevo scoperto
che, in realtà, a lui piaceva schiacciare le persone non
appena ne aveva
l’occasione. Già all’inizio aveva subito
dato segno di volermi mettere i
bastoni tra le ruote e ci era anche riuscito oltretutto ma, a quanto
pareva,
non gli era bastato. Per qualche assurdo scherzo del Destino me
l’ero ritrovato
tra i piedi ed ero stato costretto a sopportare la sua brutta faccia
tosta,
quel caratteraccio da saccente e le arie da superiore che si dava come
se tutti
dovessero baciare la terra su cui camminava. Alla fine, poi, per colpa
di
qualche bicchiere di troppo, mi ero ritrovato con lui nel mio letto e
fra le
sue gambe.
Strinsi
i pugni, pensando a denti stretti che quello era stato senza ombra di
dubbio il
peggior errore della mia vita. Avevo agito da completo idiota,
ammaliato da
nemmeno io sapevo cosa perché non riuscivo più a
trovare un aspetto positivo di
lui; non aveva niente, non provavo niente, solo un gran desiderio di
colpirlo
fino a vederlo stramazzare a terra in fin di vita, esattamente quello
che avrei
dovuto fargli quella maledetta sera, quando aveva lui messo in
ginocchio me
durante una stupidissima rissa da quattro soldi.
E
l’aveva appena rifatto a giudicare dalla mia attuale
situazione.
Un
sorriso amaro si affacciò sul mio volto mentre stringevo con
forza i pugni fino
a far sbiancare le nocche. Non sapevo proprio cosa avrei fatto da quel
momento
in poi, come avrei passato le mie serate e il fine settimana. Sarei
ritornato a
bere come un dannato? Probabilmente si e anche peggio di prima. Avrei
lavorato
fino a tardi per far passare il tempo senza avere più il
desiderio di ritornare
a casa, come facevo quando avevo la consapevolezza che presto sarebbe
arrivato
qualcuno a farmi visita. Sarebbe tutto cambiato, io stesso sarei
diventato un
essere diverso, volgendo al peggio e ritornando a condurre una vita
spericolata. Dopotutto, era da tanto che non mi mettevo nei guai
finendo per
fare una visitina inaspettata in caserma al mio vecchio genitore.
Sentivo
la rabbia montare ad ogni minuto che passava, l’orgoglio
ferito bruciava peggio
del fuoco e l’umiliazione per essermi spinto così
oltre e così a fondo in
quello schifo di rapporto mi faceva sentire un vero scarto. Ero stato
rifiutato, nel peggiore dei modi, messo da parte come qualcosa di usato
che ha
perso l’importanza.
Mi sentivo
così: ero
stato rifiutato, anzi no, peggio, abbandonato come un cane senza la
possibilità
di dire la mia, senza l’opportunità di difendermi,
di capire, di parlare, di
ammazzarlo di schiaffi e fargli recuperare la ragione perché
no, non mi
capacitavo e non riuscivo a credere che tutto quel tempo trascorso e
condiviso
assieme l’avesse messo da parte nel giro di pochi giorni. Era
impossibile che
mi avesse snobbato senza il minimo rimpianto perché, dicesse
pure quello che
gli pareva, io per lui ero stato tutto.
As I sing a
lullaby of pain.
Mi stavo
crogiolando
nel dolore. Tutto attorno a me sembrava fermo, immobile, solo io
sembravo
l’unico pezzo che stonava in quella scenografia. Magari si
fosse trattato di
tutta una messa in scena, allora il mio stato d’animo non
sarebbe stato reale.
Invece, a conti fatti, per Trafalgar era stato davvero tutto un gioco
di cui,
alla fine, si era stancato. Io non gli servivo più, non
sapeva che farsene di
uno come me, di un violento e stupido ragazzo immaturo che non avrebbe
mai
potuto competere con lui e la sua schiera di amichetti perfetti.
Io non ero
così, non
ero il tipo che passava gli anni migliori della vita sui libri per
arrivare in
alto, non lo ritenevo necessario. Mi accontentavo di quello che avevo,
non
vivevo sotto i ponti e stavo bene così. Di
cos’altro avrei avuto bisogno?
Sarebbe tornato tutto come prima.
Mi morsi forte un
labbro al pensiero che la mia esistenza da quell’ora in
avanti sarebbe stata
estremamente vuota perché, dentro di me, da qualche parte
ben nascosta, sapevo
esattamente non di cosa, ma di chi
avevo bisogno.
Perché
Trafalgar mi era
entrato nelle vene come un virus e mi aveva infettato il sistema,
arrivando a
raggiungere il cuore, quell’inutile muscolo di cui avrei
fatto volentieri a
meno in quell’istante, quando una fitta di dolore mi trafisse
senza preavviso,
facendomi sussultare e spalancare gli occhi come se mi fosse appena
stata tolta
l’aria.
Quanto avrei dato
per
potermelo strappare via e lanciarlo lontano, per non sentire, per non
provare
niente. Dannazione, era assurdo il modo in cui i sentimenti e le
emozioni
fossero collegate ad un organo pulsante e piccolo. A pensarci bene, la
vita di
chiunque dipendeva da quel minuscolo muscolo; se quello smetteva di
funzionare
andava tutto a puttane. Come il mio mondo, il quale era appena
diventato
nient’altro che cenere.
C’era
stato un tempo di
stabilità tra noi e, nonostante la strana e contorta
routine, le cose andavano
bene. Voleva che fossi il suo nessuno, non voleva scappare e andarsene;
mi
rivolgeva soltanto ghigni sadici, ma sapevo che quando mi dava le
spalle era perché
voleva celarmi i suoi sorrisi; mi guardava negli occhi quando lo facevo
mio e
nel silenzio di quegli attimi mi permetteva di leggergli
l’anima.
E poi mi aveva
buttato
via.
Battei i pugni
sul
terreno ghiacciato e indurito dalla stagione fredda, sentendomi
cogliere da una
scossa di rabbia che mi investì come un’onda
anomala, impossessandosi di me e
annebbiandomi la mente.
Così
iniziai a gridare
con tutto il fiato che avevo, liberando tutta la mia frustrazione e
sentendo
come tutto il peso che avevo in corpo mi abbandonasse. Urlai, urlai
contro il
cielo, contro la vita, contro il fato che mi aveva riservato quello
schifo.
Tutto il dolore, tutto l’odio che provavo, tutta la
sofferenza che mi stava
opprimendo si mescolarono e mi fecero impazzire per un attimo. Quella
era la
triste canzone che mi accompagnava, tutto ciò che mi
riempiva le orecchie,
l’unico rumore che mi stava facendo esplodere la testa.
I'm feeling
broken in my melody.
Stavo andando in
mille
pezzi, ogni parte di me era come se si stesse staccando per
allontanarsi. Avrei
tanto voluto che succedesse davvero, avrei tanto voluto poter fermare
quel
momento, bloccare quello scoppio che mi stava rovinando, fermare
quell’attimo,
ma non sapevo come fare e non potevo. Forse nemmeno volevo. Forse me
l’ero
meritato. Doveva essere la giusta punizione per farmi imparare
ciò che mai
avrei dovuto dimenticare: l’amore non esisteva. Era solo una
storia che
raccontavano gli stolti. L’unico pregio era il sesso, il
resto era spazzatura.
Ti coinvolgeva per un po’ di tempo e poi ti abbandonava tutto
d’un tratto,
lasciandoti all’improvviso senza una ragione per andare
avanti. Ti uccideva in
mille modi diversi.
Io ero stato
tradito.
Tradito come non mi era mai successo prima. Tradito e ferito nel
profondo come
nessuno mai aveva osato fare, nemmeno per sbaglio. Questo andava oltre
una
spalla lussata, un labbro rotto o le nocche sbucciate. Era peggio delle
costole
incrinate, di un colpo alla testa, di un incidente. Questo era persino
peggio
di un proiettile.
Era una vera e
propria
pugnalata alle spalle.
Ed io mi sentivo
maledettamente morto dentro.
Continuai a
urlare e
quando sentii il fiato mancarmi allora mi fermai un istante per
ricaricarmi e
ricominciare da capo perché non trovavo altro modo per
sfogarmi. L’aria mi
bruciava nei polmoni, le corde vocali erano sul punto di strapparsi
esattamente
come era successo al mio animo e tutto sembrava sul punto di incrinarsi
e
rompersi in modo irrimediabile. Di certo al mio cuore era appena
successo
questo dopo aver resistito a lungo. Un colpo secco, un sussulto che mi
mozzò il
respiro ed ecco la fine. Un brivido di freddo mi percorse violentemente
la
spina dorsale e arrivò al cervello dove ogni pensiero
correva a briglia sciolta
senza un ordine preciso, proiettando immagini a caso e spezzoni di
ricordi che
avrei dovuto cancellare e dimenticare per sempre. Quando nella mia
mente rividi
l’immagine di Trafalgar piegato in due dalle risate nella mia
cucina mi sentii
mancare e una fastidiosa sensazione iniziò a premermi e a
pungermi gli occhi,
inumidendoli.
As I sing to
help the tears go away.
Con
un gesto stizzito mi passai una mano sugli occhi e scacciai la
tristezza. Non
mi sarei abbassato a tanto per un verme, non mi sarei reso
ulteriormente
ridicolo e mai più l’avrei ricordato con affetto.
Da quel momento, per me,
Trafalgar Law era morto. Rimaneva solo il ricordo di un vile, di un
codardo e
di un traditore della peggior specie.
Mi
rialzai con un cipiglio scuro in volto, respirando pesantemente e
stringendo i
denti per non riprendere a urlare.
Cercai
di capire cosa stavo provando in quel momento, muovendomi nella
desolazione che
mi aleggiava attorno, scrutando in ogni meandro della mia testa e
andando alla ricerca
in mezzo ai mille pezzi in cui tutto il mio essere era stato dilaniato
dal
male. Guardai in ogni angolo, setacciai ogni buco della mia coscienza,
ma non
trovai da nessuna parte quel sentimento che sembrava sparito.
In
me non vi era la benché minima traccia di perdono. Non
c’era un briciolo di
affetto, di compassione o di ragione alla quale appellarsi per tentare
di
rimettere in sesto le cose. Mi sentivo completamente vuoto, stanco e
indifferente.
Per
il resto non c’era spazio, non v’era più
nulla.
Then I
remember the pledge you made to me.
Pensavo
che le cose sarebbero andate diversamente, credevo che insieme avremo
potuto
farcela, tra alti e bassi, ma che gli ostacoli non avrebbero
rappresentato un
problema per due caratteri come i nostri. Eravamo qualcosa di unico, di
mai
visto, di schifosamente speciale. Eravamo noi, avevamo un nostro qualcosa e stavamo bene.
A
quanto pareva, però, non era bastato. Trafalgar non ci
sarebbe più stato per
me, avrei continuato da solo per la mia strada, come al solito, come
ero stato
abituato, senza l’aiuto di nessuno. Non ne avevo bisogno, me
la sarei cavata
benissimo con le mie forze. Mi sarei rimesso in piedi e avrei
continuato a
camminare a testa alta senza paura di niente e di nessuno. Non mi sarei
più
fatto abbindolare come uno sciocco, non avrei più dato
interesse a chi non lo
meritava, nessuno sarebbe più riuscito a colpirmi. Una volta
era bastata. Avevo
visto come erano destinate a finire le cose e non volevo rivivere mai
più una
sensazione del genere. Mai, mai più.
I hear the
words you say.
Non
sarebbero bastate le parole per riaggiustarmi, a nulla avrebbero
servito le
scuse, le preghiere, niente mi avrebbe riportato a com’ero
una volta dopo che
la promessa di una vita era stata infranta. Sarei tornato ad essere
quello di
un tempo, un bastardo piantagrane a cui non fregava un emerito cazzo
del resto
del mondo con un’unica differenza: non mi sarei
più fidato di nessuno e non
avrei permesso ad anima viva di avvicinarsi troppo a me. Sarei stato il
Diavolo
in persona, dopotutto, avevo avuto un buon maestro, no?
Inconsciamente
avevo sperato di potercela fare, di arrivare ad ottenere quello che la
maggior
parte delle persone aveva e che le rendeva felici. Mi ero sentito bene
in quei
mesi, a modo mio s’intende, ma mi era parso che qualcosa
fosse cambiato in
meglio e ero arrivato persino a credere che insieme avremo
potuto…
Cristo, quanto
sono stato coglione!
Non avremo mai vissuto così vicini. Non avrebbe mai
accettato ed io non avrei
mai avuto il coraggio di chiederglielo. A cosa sarebbe servito? Ad
ammazzarci
prima nel sonno?
Mi
passai stancamente una mano tra i capelli, ritrovandoli fradici di
neve. Alzai
così lo sguardo verso il cielo e scoprii che aveva appena
iniziato a nevicare.
Meglio così, il freddo, magari, avrebbe attutito in parte il
mio dolore. Avevo
proprio bisogno di qualcosa che lo lenisse perché continuare
a sentirmi male mi
ricordava che tutto ciò non era stato un brutto sogno, ma
che Trafalgar era
davvero riuscito a rubarmi e a strapparmi il cuore.
E’
stato meglio così, dopotutto,
almeno mi sono risparmiato il disagio di mettermi in imbarazzo e i
soldi che
avrei dovuto sborsare per riprendere gli studi.
To never walk away from me and leave behind the
promise of a lifetime.
Credevo davvero
che non te ne saresti
mai andato.
* * *
Tornare a casa a
piedi
dall’università a quell’ora mi faceva
sempre un certo che. D’accordo, le
giornate avevano iniziato ad allungarsi grazie al Cielo, ma la neve non
voleva
saperne di lasciarci in pace e grossi nuvoloni grigi e scuri
sorvolavano la
città e gettavano ombre sulle strade, sui vicoli bui e
nascondevano la tiepida
luce del sole.
Rabbrividii e mi
strinsi nella giacca, calcandomi bene il cappello in testa e
sistemandomi la
sciarpa davanti al viso per tenere almeno bocca e naso al caldo mentre,
accanto
a me, Bepo si divertiva a lasciare impronte dove il bianco rivestimento
del
marciapiede non era ancora stato calpestato.
Lo osservai per
qualche
istante con una faccia dubbiosa e pensierosa: quel giorno mancava una
persona
all’appello e non era mai accaduto che saltasse un corso
pomeridiano se non
fosse stato strettamente necessario. Forse nemmeno in quel caso avrebbe
dato
buca a un paio d’ore di lezione. Per questo non riuscivo a
mettermi l’anima in
pace davanti al fatto che Trafalgar fosse rimasto a casa sia quella
mattina che
quel pomeriggio. Molto probabilmente, se si fosse trattato di una volta
nella
vita non avrei fatto storie, ma era successa la stessa cosa il giorno
prima e
quello prima ancora. Una sera era tornato a casa con una faccia che
dire
cadaverica era dire poco, aveva fulminato chiunque gli si era piazzato
davanti
chiedendogli cosa fosse successo e poi si era chiuso nella sua stanza e
da lì
non era più uscito. Ne per mangiare, ne per andare
all’università, ne per
altro. Se metteva piede fuori da quella sua specie di laboratorio che
chiamava Room lo faceva di notte
quando tutti
dormivano per farsi una doccia o per bere qualcosa. Poi si eclissava di
nuovo.
In un primo
momento avevo
creduto che gli fosse andato male un esame, ma avevo scartato subito
l’ipotesi
quando avevo visto i suoi voti: il massimo in ogni test, quindi non
poteva
trattarsi di quello, ma di qualcosa di più grave. La seconda
opzione a cui
avevo pensato grazie al consiglio di Bepo era che, probabilmente,
doveva aver
litigato con Kidd, così avevo approfittato della scusa per
chiamare Killer e
fargli il quarto grado sul suo compare, scoprendo che anche lui si
comportava
in modo strano, più
strano del
solito, bestemmiando contro chiunque e rischiando di sfasciare un auto
invece
di aggiustarla ma, a detta sua, quelle cose non erano del tutto
anomale, se non
per il fatto che avesse smesso di parlare. Stando a quello che mi aveva
detto,
il rosso apriva bocca solo per insultare la madre di qualcuno o per
ricordare
la sua presenza a suon di parolacce, improperi e quant’altro.
E guai a chi gli
chiedesse della nostra compagnia o di Law.
A quel punto
avevo
dedotto che i due avevano litigato di brutto, ma non mi sembrava
così grave
all’inizio. Trafalgar era una persona matura, di certo
avrebbe trovato il modo
per sistemare le cose, mi ero detto, invece non era cambiato nulla e in
tre
giorni mi sembrava che la situazione fosse degenerata.
Com’era possibile che
uno come lui reagisse in quel modo quasi esagerato? Tra tutti era
sempre stato
quello meno isterico e teatrale, per cui doveva per forza esserci
qualcos’altro
sotto, solo che non riuscivo proprio a capirlo.
Nel frattempo
avevamo
raggiunto il nostro quartiere tranquillo e non corrotto dal bullismo, o
meglio,
non ancora, perché avevo la certezza che, non appena i
bambini che abitavano
lungo la via fossero cresciuti un po’, avrebbero pensato bene
di combinare
qualche guaio e animare le vite degli abitanti della zona con scherzi
di
cattivo gusto. Ad ogni modo avevamo ancora qualche anno di pace
assicurata,
quindi potevo starmene tranquillo e non temere l’attacco
improvviso di alcuni
teppistelli appostati in qualche angolo nascosto dietro casa.
Attraversammo la
strada
principale ed entrammo in quella secondaria che portava agli
appartamenti,
affrettando il passo per raggiungere l’atmosfera calda e
accogliente che ci
stava aspettando per ripararci dal freddo pungente della sera che
iniziava a
farsi sentire.
Fu quando ci
trovavamo a
circa un centinaio di metri dalla porta d’ingresso
dell’edificio che notai una
cosa che, in qualche modo, attirò particolarmente la mia
attenzione. Le case
del vicinato erano tutte costruzioni modeste, così come le
palazzine nei
dintorni, compresa la nostra, anche se gli appartamenti erano piuttosto
spaziosi, ma ero certo che tutti coloro che vi abitavano fossero
persone con un
reddito nella norma e non tanto spropositato da potersi permettere
un’auto
lussuosa come quella che stava parcheggiata poco lontano da noi. Era la
prima
volta che la vedevo, quindi non poteva essere di qualche parente dei
nostri
vicini; troppo appariscente, costosa e nuova per avere a che fare con
la coppia
di vecchietti del secondo piano e con la padrona di casa del primo,
quella che
allevava gatti randagi, a meno che non avesse vinto alla lotteria.
Perciò
la fissai
incuriosito, dando una gomitata al mio compagno e indicandola con un
cenno
curioso del capo. Il ragazzone, dopo una lunga occhiata,
alzò le spalle e
ipotizzò che forse si trattava di qualcuno che aveva perso
la strada.
In un altro
momento gli
avrei dato ragione e avrei liquidato la faccenda nel giro di un attimo
se non
fosse stato per un particolare che, per fortuna o altro di simile, non
sfuggì
al mio sguardo incuriosito e sfacciato. Uno dei finestrini posteriori
era
abbassato e, mentre stavamo superando la vettura, riuscii a scorgere
chi vi
fosse a bordo, restando di sasso, tanto che Bepo fu costretto a
strattonarmi
per una spalla per trascinarmi via il più in fretta
possibile perché mi ero
inchiodato sul marciapiede e da lì non sembrava che avessi
intenzione di
muovermi. Proprio mentre varcavamo la soglia di casa la macchina mise
in moto e
si allontanò, lasciandomi con un sacco di domande in testa e
un’orrenda
sensazione di disagio.
“Penguin,
non si
fissano le persone, lo sai, è da maleducati” stava
dicendo il ragazzo mezzo
albino, salendo le scale e sgridandomi in modo pacato come faceva
sempre.
“Senti
un po’” lo
interruppi, “Tu hai visto chi c’era
dentro?”.
“Di
sfuggita, perché?
Lo conosci?” mi chiese, raggiungendo il terzo piano e
estraendo le chiavi dalla
tasca dello zaino.
Mi morsi un
labbro con
lo sguardo perso nel vuoto. Erano passati talmente tanti anni che mi
sembrava
assurdo, ma era anche vero che io non dimenticavo mai una faccia,
soprattutto
se questa apparteneva a qualcuno che non mi piaceva per niente.
D’altra parte,
però, anche solo pensare a quel nome mi sembrava
impossibile. Law aveva risolto
il problema molto tempo addietro e da allora non avevamo avuto
più notizie di
quella gente. Per quanto ne sapevamo potevano anche essere morti tutti,
quella
si sarebbe stata una liberazione.
“No,
non lo conosco
proprio” mentii infine, convincendomi che probabilmente mi
ero sbagliato e mi
ero lasciato influenzare dai brutti ricordi e dall’umore
tetro del nostro
coinquilino che, per l’appunto, se ne stava ancora rinchiuso
in camera.
La serata
trascorse
come di consuetudine, con l’unica differenza che eravamo solo
in tre a cena e
mangiavamo in religioso silenzio quello che Ace aveva preparato. Da un
po’
avevamo stabilito la regola di cucinare a turno, evitando il
più possibile che
io mettessi mano ai fornelli e la cosa, sinceramente, non mi
dispiaceva.
Cucinare non mi era mai piaciuto, lo facevo più per svago o
per passare il
tempo ma, da quando avevo conosciuto Killer e avevo quasi rischiato di
intossicarlo con i miei biscotti, avevo preferito mollare tutto e
trovare altro
con cui intrattenermi.
“Non
pensate sia il
caso di portargli qualcosa? Sono giorni che non mangia”
propose Ace con l’aria
preoccupata e lanciando di tanto in tanto occhiate in direzione della
zona
notte.
Bepo
sospirò affranto,
scuotendo il capo. Tra tutti lui era quello che più si
preoccupava di più per
il nostro compagno e saperlo in quello stato lo faceva stare male. Per
quanto
riguardava me, invece, avrei buttato giù la porta e
l’avrei trascinato in
cucina per le orecchie se solo non avessi avuto la certezza che mi
avrebbe
steso nel giro di poche mosse.
“Quando
vorrà qualcosa
da noi, uscirà” affermai infine, sicuro di quello
che dicevo, convincendo gli
altri e chiudendo l’argomento, anche se la brutta sensazione
che sentivo
andava, via, via intensificandosi e ciò non mi piaceva
affatto perché il mio
sesto senso era infallibile.
Una volta finito
di
cenare aiutai a spreparare e, quando fu chiaro che se avessi continuato
a stare
davanti al lavello non avrei fatto altro che rompere tutte le
stoviglie, mi
spedirono a calci in salotto. Non riuscivo a concentrarmi e continuavo
a
rivedere nella mente la faccia dell’uomo nella macchina,
ripercorrendo la sua
figura elegante e composta e lo sguardo nascosto da un paio di occhiali
da sole
scuri e impenetrabili. Non potevo esserne sicuro, speravo di
sbagliarmi, ma le
fattezze combaciavano e, anche se era invecchiato, assomigliava
terribilmente a
una delle persone che più mi avevano spaventato quando ero
piccolo e giocavo
sotto casa di Trafalgar assieme ad altri ragazzini. Al solo pensiero mi
venivano ancora i brividi.
“Penguin,
si può sapere
che hai? Sei così distratto!” si
lamentò Ace, lanciandomi addosso un cuscino,
ma sorridendo davanti alla mia espressione sperduta e dispiaciuta.
“Lascia
perdere” fece,
agitando una mano e afferrando al volo la sua giacca, “Io
esco, ci vediamo più
tardi”.
“E dove
vai?” cantilenò
Bepo, sporgendosi dalla cucina con un bicchiere e un canovaccio in
mano, anche
se entrambi sapevamo benissimo qual’era la destinazione del
moro che,
arrossendo davanti a quella domanda, borbottò qualcosa di
incomprensibile a
mezza voce.
“Salutami
Marco” urlai,
prima che si chiudesse la porta alle spalle e sentendo Bepo ridere
divertito.
Per fortuna c’era ancora qualcuno di spensierato e allegro
dentro quella casa,
altrimenti non sapevo proprio come avrei fatto a sopportare tutto quel
senso di
depressione che aleggiava nell’aria ultimamente.
Contrariamente a
quello
che speravo, anche Bepo mi lasciò presto da solo, andando a
dormire più o meno
verso le dieci. Quanto a me, invece, rimasi sveglio senza la minima
traccia di
stanchezza fino a mezzanotte passata, quando decisi di imbrogliare il
tempo e
prepararmi una tisana nella speranza di venire colto dal sonno e
potermene
andare a letto, dimenticando quella giornataccia.
Trafficando con
il
pentolino dell’acqua l’atmosfera attorno a me
cambiò improvvisamente e tutto si
fece più silenzioso in conseguenza all’arrivo di
una persona che, Dio solo
sapeva come, riusciva ad apparire dove voleva senza avvisare nessuno
con il
minimo rumore, cogliendo chiunque di sorpresa. Con mio piacere,
però, convivere
con essa mi era servito ad abituarmi alle sue stranezze, tanto che
avevo
imparato a prestare più attenzione a ciò che mi
circondava e ad usare i sensi a
mia disposizione per rendermi conto dei cambiamenti. Se fossi stato
distratto,
per esempio, non mi sarei accorto che la televisione in salotto era
stata
spenta, segno che qualcuno era passato di lì.
Non fu difficile
quindi
immaginare chi si fosse appoggiato allo stipite della porta alle mie
spalle.
“Giusto
in tempo per
bere qualcosa. Avanti, siediti”.
Poco dopo il
rumore di
una sedia che veniva spostata mi arrivò alle orecchie e,
dopo aver riempito due
tazze di tisana fumante, mi voltai per metterle sul tavolo, trovandomi
davanti
esattamente la persona che mi ero aspettato che, con le mani incrociate
a
sorreggere il mento, mi fissava con un ghigno stampato come di
consuetudine
sulle labbra. Personalmente lo preferivo quando sorrideva.
“Devo
parlarti” disse,
circondando con le dita la tazza davanti a lui e fissandola pensieroso,
scegliendo con cura le parole con cui iniziare il suo discorso.
“Anche
io” lo avvisai,
attirando la sua attenzione e intuendo in suo invito a parlare per
primo così,
con un respiro profondo, mi accomodai meglio e gli esposi i miei dubbi,
sperando vivamente che smentisse tutto e che trovasse una spiegazione
logica
alle mie paure come aveva sempre fatto.
“Forse
mi sono
sbagliato, ma i-io credo di aver visto Vergo” mormorai a
bassa voce per timore
che tutto ciò potesse essere accaduto sul serio ma, quando
vidi il ghigno di
Law allargarsi, capii che stava per abbattersi su di noi un uragano di
guai.
Fu
così che Trafalgar
mi svelò il segreto che l’aveva tenuto lontano da
noi tutti quei giorni. Suo
padre era tornato e aveva l’intenzione di creare un gran
casino, tutto in modo
teatrale e dannatamente drammatico, come piaceva a lui. Era uscito di
galera
alla fine, solo il Diavolo sapeva come, e aveva raccolto informazioni
su di noi
negli ultimi anni, rintracciandoci e studiando il modo migliore per
sbarazzarsi
di noi. O meglio, di suo figlio.
Gli
altri, me compreso, erano solo punti deboli che poteva usare a suo
piacimento
per piegare Law al suo volere.
“Probabilmente
ha
incaricato Vergo di tenerci d’occhio” stava
spiegando in quel momento con una
voce fastidiosamente calma, “Non mi stupisce più
di tanto, sinceramente. E’
sempre stato il suo braccio destro”.
“E si
può sapere cosa
pensi di fare adesso? Da quello che mi hai detto ti vuole morto. Io
direi di
chiamare la polizia e…”.
“No” sibilò prima
ancora che finissi la frase. “L’ho già
fatto una
volta e non ha funzionato. Non perderò altro tempo con
quegli incapaci. Mi
arrangerò”.
“E
come, facendoti
ammazzare?” sbottai, alzandomi in piedi e fremendo per la
rabbia. Se aveva
intenzione di fare tutto da solo e prendersi la
responsabilità anche per noi si
sbagliava di grosso. Non gliel’avrei lasciato fare, ne io ne
nessun altro,
soprattutto una persona piuttosto irascibile. Di certo lui non gli
avrebbe mai
permesso di mettersi in pericolo in quel modo così azzardato
e da pazzi. Per
quanto mi riguardava non volevo avere un amico martire.
“Kidd
non sarà mai
d’accordo!” affermai vittorioso, sicuro delle mie
idee e all’oscuro di tutto
quello che era successo in quei giorni bui.
“Lui ed
io non stiamo
più insieme, Penguin” sussurrò,
abbassando per un istante lo sguardo e
lasciando trapelare una punta di dolore nel pronunciare quella poche
parole, “E
non dovrà sapere nulla. Chiaro?”.
“Perché?”.
Non riuscivo
a capacitarmi di tutto ciò. Si trovava in serio pericolo con
un pazzo mafioso
psicopatico che gli dava la caccia giocando al gatto e al topo e tutto
quello
che gli veniva in mente di fare era allontanare tutti coloro che
potevano
aiutarlo? Che ragionamento contorto e insensato era?
“Credi
che se ne
starebbe con le mani in mano?” domandò retorico al
quel punto, trattenendo a
stento l’irritazione e la preoccupazione che gli leggevo
negli occhi, “Non
capirebbe e preferisco che rimanga all’oscuro di tutta la
faccenda, almeno così
sarà al sicuro. Capisci, Penguin? Non posso rischiare la sua vita, se dovesse morire io non avrei
più niente per… Beh, lo
sai, no?”. Mi rivolse un piccolo sorriso davanti al quale mi
sentii male. Male
perché Law stava facendo tutto quello per noi, per le
persone che amava. Si
stava sacrificando per permetterci di vivere, di essere al sicuro e di
non
correre pericoli. Si stava offrendo volontario alla Morte per
risparmiarsi il
dolore di altre perdite a lui troppo care e importanti.
Mi morsi un
labbro per
trattenere le lacrime.
“Se gli dovesse…” si
bloccò, scuotendo il
capo e correggendosi, “Se vi
dovesse
succedere qualcosa, allora quel bastardo avrebbe davvero la vittoria in
pugno e
questo non glielo permetterò, anche a costo della mia stessa
vita”.
“E
q-quindi che vuoi f-fare?”
balbettai, tirando su col naso e abbassandomi il frontino del cappello
sugli
occhi.
“Gli
darò quello che
vuole” concluse atono, alzandosi e avviandosi per
ritornarsene in camera,
lasciandomi con un infinito senso di tristezza e impotenza.
“Me”.
* * *
La sveglia nella
camera
affianco suonò come da copione alle dieci in punto e poco
dopo i passi di chi
balzava giù dal letto o di chi direttamente rotolava con la
faccia a terra
arrivarono alle mie orecchie sottoforma di leggeri tonfi attutiti dalle
pareti
della mia camera.
Era arrivata
l’ora di
alzarmi anche per me e, con la mia solita calma, emersi da sotto le
coperte,
sospirando e avvertendo la vaga sensazione di non sentirmi affatto
rigenerato,
come se l’aria non arrivasse ai polmoni e li lasciasse vuoti
e secchi. Poco importava,
se le cose sarebbero andate come avevo previsto, presto non avrei avuto
più
bisogno di respirare.
Mi tolsi il
pigiama che
avevo indossato solo per abitudine, anche se non avevo chiuso occhio
nemmeno
per un minuto durante tutta la notte, e indossai le prime cose che mi
capitarono a tiro, sparse sul pavimento da giorni nel caos che regnava
sovrano
tra quelle quattro mura. Certo che avevo proprio dato libero sfogo al
peggio di
me dopo gli ultimi avvenimenti.
Una felpa e un
paio di
jeans furono il meglio che riuscii a trovare, poi mi misi un paio di
vecchie
Vans bucherellate e con la stoffa ormai sbiadita, ma che non mi
decidevo a
buttare per affetto e, soprattutto, perché quelle scarpe mi
avevano portato
parecchia fortuna. Sembrava assurdo, ma era così e
sostituirle con un paio di
nuove mi dispiaceva.
Un’occhiata
allo
specchio affisso alla parete mi diede modo di notare un paio di
profonde
occhiaie, ma non ci badai molto, sarebbe bastato lavare il viso con
dell’acqua
fredda e ogni traccia di stanchezza sarebbe sparita e così
feci, ignorando gli
sguardi stupiti dei ragazzi quando mi videro uscire dalla mia stanza
tutto
vestito e intenzionato a comportarmi come al solito. Quel giorno,
però, non
sarei andato all’università, non avrei passato il
pomeriggio con loro e, per
quanto mi riguardava, da quella sera in poi non li avrei nemmeno
più rivisti.
Li raggiunsi
più tardi in
cucina dove stavano tutti in silenzio, intenti a mangiucchiare qualche
biscotto
inzuppato nel latte e tenendo gli occhi bassi fino a che non mi
schiarii la
voce per attirare la loro attenzione e compiere l’ultimo
gesto di gratitudine e
amicizia nei loro confronti, ovvero metterli in salvo e assicurarmi che
avrebbero continuato a stare bene, sempre.
“Ragazzi,
voglio che
facciate una cosa per me” dissi pacato, guardandoli uno ad
uno e soffermandomi
per qualche istante sugli occhi umidi di Penguin che, con prontezza,
pensò bene
di passarsi una mano sul viso per darsi un contegno, immaginando quello
che
avrei detto.
“Per un
po’ di tempo
evitate di tornare qui” imposi, cercando di risultare chiaro
e deciso, “Andate
dove volete, passate qualche giorno dai vostri parenti; Ace, torna da
Garp e
tu, Bepo, sono sicuro che potrai stare con Penguin a casa di Killer-ya,
ma mi
raccomando: non mettete piede nell’appartamento”
conclusi categorico e serio.
Le proteste che
seguirono furono solo un breve intoppo che avevo messo in conto e che
riuscii a
soffocare nel giro di breve tempo. Dovevano fare come avevo detto, non
c’era
altra soluzione. Quel luogo non era più sicuro e Penguin me
ne aveva dato la
conferma mettendomi al corrente del fatto che gli uomini di quel
criminale ci
stavano sorvegliando. Dio solo sapeva da quanto tempo lo stessero
facendo e, a
conti fatti, dovevano aver studiato bene la zona e tutto il resto,
quindi avevo
ragione di credere che andarsene per qualche giorno fosse la cosa
migliore per
tutti. Forse, se avevo fortuna, una volta tolto di mezzo me, quel
bastardo li
avrebbe lasciati in pace e se ne sarebbe andato all’Inferno.
“Per
quale ragione
dovremmo andarcene? E si può sapere tu cosa hai in
mente?” si stava lamentando
Ace, trattenendo a stento il fastidio di essere all’oscuro
del mio piano.
“Vi
spiegherà tutto
Penguin” gli assicurai, lanciando un’occhiata
significativa al diretto interessato
e aspettando che annuisse con un cenno arrendevole del capo.
“Ora devo andare”.
Diedi loro le
spalle e
mi avviai verso l’entrata, sentendo un gran trambusto in
cucina mentre
recuperavo giacca e cappello dallo sgabuzzino, ritrovandomi poi
sull’uscio
della porta con Bepo a sbarrarmi la strada e Ace a braccia conserte che
mi
squadrava dall’alto in basso con l’aria di chi non
ha la minima intenzione di
scendere a compromessi.
“Law,
dicci cosa
succede” fece minaccioso e quasi scoppiai a ridere davanti
alla sua espressione
ferma e convinta. Non c’era che dire, gli avevo davvero
insegnato bene a come
farsi rispettare e ascoltare. Per quanto riguardava Penguin, invece,
lui se ne
stava con le braccia abbandonate lungo i fianchi e la testa bassa,
consapevole
che non avrebbero ottenuto nulla in quel modo perché avevo
preso la mia
decisione già da un pezzo.
Sospirando in
modo
teatralmente esasperato aggirai il ragazzone moro che, come mi ero
aspettato,
non fece nulla per fermarmi e impedirmi di aprire la porta; non
mancò, però, di
tentare il tutto e per tutto.
“Qualunque
cosa sia noi
possiamo aiutarti, lo sai! Perché non vuoi
fidarti?”.
Chiusi gli occhi
e
provai a immaginare a come sarebbero andate le cose se solo gli avessi
permesso
di starmi accanto. Forse sarei riuscito a guadagnare un po’
di tempo, ma non
molto. Se avessimo avvisato la polizia si sarebbero messi tutti in
allerta e
quel maledetto non ci avrebbe pensato due volte a sparire
nell’ombra, ideando
un nuovo piano d’attacco. Allora, non appena avremo abbassato
la guardia, lui
sarebbe tornato, colpendoci uno alla volta, ovviamente tenendomi per
ultimo
come punizione per non averlo ascoltato, uccidendo gli altri senza
pietà nei
modi più crudeli possibili. Cosa avrei ottenuto, quindi?
Sarei morto lo stesso,
solo con la consapevolezza di aver perso qualsiasi cosa, qualsiasi
persona
importante per me e non potevo permetterlo. Non di nuovo, non ce
l’avrei fatta.
Sospirai,
voltandomi
verso di loro e ricordando come, da piccoli, Bepo, Penguin ed io
avevamo fatto un
patto, ovvero essere amici per la pelle. Io non volevo abbassarmi a
fare una
simile sciocchezza, ma loro avevano insistito tanto e con degli sguardi
da
cuccioli bastonati che alla fine avevo ceduto, accontentandoli e dando
inizio
ad un nuovo e stupido gioco nel quale io ero il Capitano e loro i miei
subordinati e assieme combattevamo il male e le ingiustizie.
Dichiaravamo di
essere pirati buoni e forti, i Pirati del
Cuore ci chiamavamo. Crescendo, però, eravamo
diventati più simili ai
corsari che saccheggiavano città per divertimento, essendo
tutti e tre amanti
dei guai, ma non avevamo mai dimenticato quei giorni in cui tutto era
bello e
luminoso. Ace, invece, si era unito a noi più tardi, ma
aveva presto
conquistato la nostra simpatia e si era integrato benissimo, come se
avesse
sempre avuto a che fare con noi, come se ci conoscesse da una vita.
Come potevo,
quindi, rischiare che venisse fatto loro del male? Avrebbe voluto dire
mettere
in pericolo anche le vite dei loro cari, come quella di Rufy, di Zoro e
Sanji,
le ragazze e il resto di sbandati che, ne ero certo, non meritavano la
fine. E
poi c’era Kidd nella lista e avrei fatto di tutto
purché non gli accadesse
nulla.
Rivolsi loro il
mio
classico ghigno di sufficienza, l’ultimo per quanto ne sapevo.
“Siete
dei completi
idioti” mi premurai di chiarire, scuotendo il capo e
sfottendoli, anche se
quello che pensavo delle loro scarse facoltà mentali non era
affatto una
novità, ma mi sentivo in dovere di ringraziarli in qualche
modo per tutto
quello che avevano fatto per me e per l’affetto che mi
avevano dato nonostante
avessi messo in dubbio più volte il fatto di meritarlo.
Un’eccezione potevo
farla, gliela dovevo.
“Ma
è anche vero che
come amici siete i migliori”.
Furono le mie
ultime
parole e, dopo che la porta si fu chiusa dietro di me, mi avviai
giù per le
scale fino a raggiungere il garage a noi destinato dove la mia auto era
rimasta
parcheggiata troppo a lungo. Era arrivato il momento di fare un giretto.
Salii in macchina
e
misi in moto, sicuro che i kilometri e le due ore che mi separavano
dalla mia
destinazione sarebbero volati nel giro di poco tempo a bordo di quella
vettura
che custodivo con gelosia.
Sorrisi per la
prima
volta dopo giorni quando ripensai al compleanno di Eustass e alla sua
faccia
sbalordita non appena gli avevo lanciato le chiavi dell’Audi,
lasciandogli il
posto del conducente libero e dicendogli che per quel giorno aveva il
permesso
di divertirsi quanto voleva, ovviamente senza fare o causare incidenti.
Quella giornata
era
stata epica e dire che mi era mancato il respiro per le risate era un
eufemismo. Decisamente era stata una delle migliori in assoluto, per
non
parlare della sbronza che avevo preso la sera a casa sua assieme a
tutti gli
altri. Non mi ero mai ubriacato tanto e il disastro che avevamo
combinato non
lo ricordavo nemmeno, ma era meglio così, di certo non avrei
più avuto il
coraggio di guardarmi allo specchio se mi fosse venuto in mente.
Le cose da allora
erano
cambiate in fretta, ma almeno avevo un paio di ricordi piacevoli da
conservare
e rivivere durante il tragitto verso il porto, situato
dall’altra parte
dell’arcipelago. L’ultimo mio viaggio, per la
precisione, dato che le speranze
di ritorno erano estremamente basse.
Ad ogni modo
smisi di
pensarci. Non avevo rimpianti e sapevo che fino ad allora avevo vissuto
al
meglio le mie giornate con persone che non avrei mai creduto di
incontrare, ma
di cui ero grato al Cielo per avermele fatte conoscere. Lo facevo per
loro,
solo per l’amicizia e l’affetto che mi avevano
dimostrato. Meritavano il meglio
e l’avrebbero ottenuto, ne ero certo. Quindi no, non mi
dispiaceva affatto
andare incontro alla Morte, nemmeno mi spaventava. Saperli al sicuro
per me era
abbastanza.
Schiacciai
l’acceleratore e uscii dalla città, diretto ad
affrontare una volta per tutte
il mio incubo peggiore e a mettere un punto al mio passato.
“Doflamingo, sto arrivando”.
Angolo Autrice:
Salve
ragazzi, come
state? Mi dispiace, ma la depressione continua anche per questo
capitolo, I’m
sorry.
Ma
andiamo con ordine.
Il
titolo è tratto dalla canzone stessa, ovviamente, e anche
oggi tutto
inizia con Kidd e con il suo stato d’animo. Non
l’ha presa bene, ma proprio no.
E come avrebbe dovuto reagire altrimenti? Riflettiamo un attimo. Stai
con una
persona da tempo, ti abituai alla sua presenza, inizi a capire come
vanno le
cose, tutto diventa normale, tutto inizia a far parte della tua vita e
non ti
aspetti che qualcosa possa andare storto. Poi, senza preavviso, senza
avere la
possibilità di capire, di spiegare, di dire qualcosa, di
lottare, ti ritrovi da
solo, senza niente in mano. E, credetemi, non poter scegliere, non
poter
decidere per se stessi è la cosa peggiore. E’ come
una porta sbattuta in
faccia, tutto finisce. Punto. Spero di essermi spiegata. Tornando a
Kidd,
conoscendo il suo carattere e aggiungendo tutto questo, una reazione
disperata
mi sembra giusta, anche se lui, giustamente, decide di non aver
più nulla a che
fare con i sentimenti e l’affetto, (non parlo volutamente di
Amore perché è una
parola azzardata nella Kidd/Law, anche se noi sappiamo che si vogliono
bene).
Quindi, dopo aver provato la terapia dello yoga, sempre in mezzo sta
cosa
assurda, non riesce più ad arginare il dolore e si prende un
momento per
lasciarsi andare, per abbassare le sue difese, da solo, senza nessuno
che lo
giudichi. Urla, si arrabbia, si sfoga e decide che no, non
c’è perdono in lui.
Per quanto gli riguarda, Trafalgar è morto. Alla fine, se
avete notato, fa
riferimento in modo un po’ ambiguo a qualcosa.
Gli studi, intanto, che forse avrebbe voluto riprendere, come aveva
pensato
anche Law a capodanno, notando la sua passione per la meccanica, e
un’altra
cosa, vivere vicini. Che volesse ridurre ulteriormente le distanze tra
loro?
Magari ci aveva pensato solo una volta e poi aveva messo da parte
l’idea ma,
chissà, se le cose avessero continuato ad andare bene,
magari, in un futuro…
E
poi c’è Penguin. Penguin che, oltre a tutte le sue
preoccupazioni, si impegna
per capire cosa succede a Law. E, come se non bastasse, il suo occhio
acuto si
accorge di una cosa molto importante ed essenziale: una macchina
sospetta,
troppo lussuosa e mai vista. Grazie a Dio è un curiosone e
non indugia nel dare
una sbirciatina all’interno, trovandoci dentro…
si, nientemeno che lui, Vergo.
Momento
Commento: personalmente ho goduto
come non so cosa quando Law l’ha ridotto in mille pezzi,
cioè, che smacco.
A parte
questo, Penguin
inizia a farsi mille pare e, fortunatamente, ha la
possibilità di parlarne col
diretto interessato e capire cosa diavolo sta succedendo. Come la
prende? Beh,
schizza un po’ male, insomma, il suo migliore amico
è in pericolo e non vuole
l’aiuto di nessuno e lui non sa che fare per aiutarlo.
Insomma, Trafalgar non è
certo un caratterino facile visto che quello che decide è
legge, risulta quindi
difficile contraddirlo. Ovviamente non vuole tirare in ballo la polizia
perché,
se ben ricordate, quando ha collaborato con loro, da piccolo, le cose
sono
finite male per la madre, anche se il padre è finito i
galera. Si, va bene,
adesso è uscito, quindi non ha risolto proprio niente
affidandosi a loro.
Poi Law
si sveglia, il
grande giorno è arrivato e qui, mi dispiace dirlo,
inizierà il conto alla
rovescia. Poche parole ai suoi compagni per spiegare brevemente la
situazione e
ordinare loro di andarsene perché, se ha visto giusto,
l’appartamento è
controllato e chi può dirlo, magari qualche trappola
è stata piazzata in quel
tempo, quindi meglio non rischiare. Dehehe, mi sento già
male, scusate.
‘Come
amici siete i migliori’.
Una cosa del genere non l’ha mai detta, ma mi sembrava carino
vederlo
ringraziare i suoi compagni per tutto quello che hanno fatto per lui in
quegli
anni. Sarà un bastardo, ma un cuore, come tutti, ce
l’ha anche lui. Salta in
macchina e via, verso il porto, luogo dell’appuntamento dove
tutto si deciderà.
Una serie di dolci ricordi come compagnia, non so voi, ma mi sento
straziare.
E ora si,
potete dirlo
e urlarlo ad alta voce quello che avete insinuato per due settimane
perché,
dannazione, DOFFY IS COMING! OMG!
Il
miglior cattivo a
mio avviso di tutto One Piece fino
ad
ora, con una mente fottutamente geniale e maledettamente crudele.
Bisogna
dargliene atto, è un vero boss. Non sto dicendo che sto
dalla sua parte, per
carità, che muoia male, ma ha un comportamento, un
atteggiamento e un
portamento da far impallidire chiunque. E’ una specie di
Joker di Batman.
Fantastico come antagonista. Ovviamente è un mio parere ^^
Quindi
si, Doffy e
tutti i suoi amici Dofflaminchioni dovevano starci, LOL.
Ora vi
lascio gli Spoiler Free e me ne
vado che ho parlato
abbastanza ^^
“Cerca
di convincerlo” disse, prima che scendessi
dall’auto, “Conoscendo Kidd, se
quello che gli ha fatto Law per metterlo al sicuro è vero,
non sarà facile
convincerlo”.
“Lo
so, ma dovrà ascoltarmi per forza”.
“Non
la prenderà bene”.
“Non
mi interessa, qui c’è in ballo la vita del nostro
amico ed io non ho intenzione
di lasciarlo morire, nemmeno se devo beccarmi qualche pugno in
faccia”.
*
Ma
era a questo che servivano i super eroi, no? E guarda caso io ero
proprio
quello che faceva al caso suo: bello, forte e incazzato oltre ogni
limite.
Mi
alzai dalla panca nella sala d’attesa e raggiunsi i due
ragazzi che erano a un
passo da ingaggiare una rissa con dei poliziotti e, spintonando tutti
di lato
con un paio di spallate ben assestate, mi parai davanti al vetro della
portineria e fulminai con lo sguardo un ragazzino mingherlino con degli
orrendi
capelli rosa e gli occhiali tondi.
“Chiama
quel bastardo di Smoker e digli di portare immediatamente qui il
culo!”.
*
Se
ripenso a quando Rufy gli ha rubato il cappello io… Oh,
cazzo! Rufy!
“Marco
devo tornare indietro!” feci tutto d’un fiato,
invertendo la marcia in mezzo
alla strada il prima possibile e ripercorrendo la strada al contrario,
diretto
all’appartamento.
“Cosa?
Ace, non fare cazzate, mi hai appena detto che potrebbe essere
pericoloso!” mi
richiamò Marco dall’altro capo del telefono, ma
non l’avrei di certo ascoltato,
non quando in pericolo c’era pure la vita di mio fratello.
“Mi
dispiace”.
Come
sempre un
ringraziamento speciale a tutti, sul serio, non riesco nemmeno a
trovare le
parole adatte, quindi vi basti sapere che vi apprezzo e vi adoro
tantissimo!
Spero di avervi soddisfatti anche questa volta e di non avervi annoiati
^^ per
qualsiasi cosa sapete dove trovarmi.
Un
abbraccione a tutti!
Cala il sipario e restate sintonizzati!
See ya,
Ace.
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