II ciclo di Fheriea - La Ragazza del Sangue

di TaliaAckerman
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 27: *** Capitolo 26 ***
Capitolo 28: *** Capitolo 27 ***
Capitolo 29: *** Capitolo 28 ***
Capitolo 30: *** Capitolo 29 ***
Capitolo 31: *** Capitolo 30 ***
Capitolo 32: *** Capitolo 31 ***
Capitolo 33: *** Capitolo 32 ***
Capitolo 34: *** Capitolo 33 ***
Capitolo 35: *** Capitolo 34 ***
Capitolo 36: *** Epilogo ***
Capitolo 37: *** Combattenti & Sfide ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PROLOGO.




Alzò gli occhi e scrutò la folla. Voleva vedere bene in faccia la gente che la stava applaudendo, che l'aveva etichettata come un modello da seguire, come la regina delle Combattenti. Voleva godersi appieno il proprio trionfo.
Fu allora che lo vide.
Un ragazzo.
Un ragazzo che portava un lungo mantello nero, nonostante il caldo.
Un ragazzo che la fissava immobile, incurante degli spintoni della folla.
Era come se la stesse chiamando. Solo con lo sguardo. Uno sguardo più limpido del cielo di primavera. Ebbe l'impressione di averlo già visto qualche altra volta.
Sentì svanire tutta la sicurezza che l'aveva pervasa fino a un attimo prima. Chi era quel ragazzo, perché la stava fissando a quel modo? Ma soprattutto, che cosa voleva?
... L'avrebbe scoperto molto presto.





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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


1




CHEXLA, STATO DEI RE


Dubhne e gli altri Combattenti seguirono Malcom Shist attraverso le vie di Chexla.
Dubhne camminava in fondo, cercando di ripararsi dagli sguardi diffidenti degli altri ragazzi.
Tu cammina. Pensa solo a camminare.
Non era la prima volta che si ritrovava sola in mezzo agli sconosciuti. In qualche modo, le sembrava di aver già vissuto quell’esperienza. L’abbandono dei genitori, la sartoria di Célia, gli altri apprendisti, persino il signor Tomson sembrava assomigliare a Malcom Shist. Solo che ora era peggio. Molto peggio.
D’un tratto, la ragazza con i capelli neri le si avvicinò.
– Ciao - la salutò sorridendo. Dubhne sobbalzò e la guardò con curiosità. Era molto graziosa: il viso candido era coperto di minuscole efelidi e, come i capelli, anche gli occhi brillavano di un nero assoluto. La ragazza rimase a guardarla, attendendo una risposta. Poi, dal momento che Dubhne non pareva aver intenzione di aprir bocca, continuò:- Era la tua famiglia quella?
Dubhne si riscosse. – No - rispose automaticamente. – Non la mia vera famiglia, almeno.
L’altra aggrottò la fronte. – Uhm… adottata, vero?
Dubhne annuì, addolorata. La ragazza le porse la mano. – Io mi chiamo Claris - annunciò. – Tu sei Dubhne, vero?
La ragazza annuì di nuovo, ma non le strinse la mano. Non ce la faceva. – D'accordo... - mormorò Claris, ritraendola lentamente. Guardò Dubhne con sincera pietà negli occhi. – Mi dispiace che ti sia andata così - disse.
Dal suo sguardo Dubhne comprese che non mentiva, eppure non riuscì a risponderle. Quella ragazza non aveva idea di come lei dovesse sentirsi. Le due rimasero in silenzio per qualche secondo, poi Dubhne non ce la fece più e chiese:- Da quanto tempo sei nella squadra?
- Tre anni - rispose con disinvoltura Claris, arrotolandosi con un dito una ciocca di splendidi capelli neri. – Ma me la sono sempre cavata. E l'anno scorso… sono arrivata in semifinale - spiegò con fierezza. – Ma poi…- continuò, notando lo sguardo interrogativo di Dubhne. – Sono stata battuta. Il mio avversario non era alla mia portata.
– E quindi… sei ancora viva?- chiese Dubhne col fiato sospeso. Claris la guardò aggrottando le sopracciglia. – Beh, direi di sì - sorrise. – Altrimenti non sarei qui, no?
- Non intendo questo - la interruppe in fretta la ragazza. – Insomma… il tuo avversario ti ha risparmiata?
- Esatto - rispose Claris con semplicità. – Credo che avesse scoperto appena prima dello scontro di essere un mio lontano parente, o roba simile…- fece poi pensierosa. - Una vera fortuna non trovi ?
Dubhne tirò un sospiro di sollievo. – Ma quindi…- azzardò timidamente. – Non tutti i perdenti devono morire?
Claris scoppiò a ridere. – Certo che no!- esclamò, dandole una pacca sulla schiena. – Altrimenti, beh… morirebbero tutti tranne uno. Malcom e gli altri dovrebbero trovarne di nuovi ogni anno per rimpiazzare i morti, cioè quasi tutti. Non avrebbe senso.
Leggermente rincuorata, Dubhne sospirò.
Malcom Shist li condusse per qualche minuto fra le strade della città, finché non raggiunse una sorta di grosso carro. Un paio di cavalli ben piazzati di un color biondo sporco vi era assicurato per mezzo di redini robuste. Dubhne, al momento di salire, non riuscì più a muoversi; aveva camminato per le vie di Chexla, allontanandosi dalla sua famiglia, ma ora sarebbe partita sul serio. La ragazza si voltò un’ultima volta in direzione della casa dei Farlow. Non riusciva più a scorgerla, ma sapeva che doveva essere là da qualche parte. Le salirono le lacrime agli occhi.
– Allora, ci sei?- Una voce interruppe i suoi pensieri. Claris era salita sul carro, e le stava porgendo una mano. Guardandosi intorno, Dubhne si accorse che quasi tutti gli altri Combattenti avevano fatto lo stesso, mente Malcom si era sistemato come cocchiere. Imbarazzata e decisamente spaventata, la ragazza lasciò che Claris l’aiutasse a salire e si sistemò accanto a lei.
– Quanto… quanto durerà il viaggio?- chiese con voce tremante, mentre il carro si apprestava a partire. Il più lungo possibile, speriamo…
- Circa due o tre giorni - rispose Claris disinvolta, e Dubhne fu colta da un pensiero sgradevole. Non aveva visto nessuno caricare provviste. – Due o tre giorni? Senza mangiare?- chiese con voce allarmata.
– È sempre così - Claris alzò le spalle. – Non è poi così dura alla fine, basta farci l’abitudine…
Dubhne deglutì; anche alla sartoria del signor Tomson le era capitato di restare a digiuno anche per qualche giorno, ma ora sarebbe stato diverso. Allora era già abituata a nutrirsi poco e male, mentre i Farlow l’avevano trattata decisamente bene, e ormai la ragazza era abituata a tre-quattro pasti al giorno. Sarebbe stata dura…
- E poi c’è sempre qualche trasgressivo. Quasi tutti, cioè…- sorrise poi Claris a sorpresa. Dubhne la guardò con aria interrogativa, mentre la Combattente cominciava a sfilare dalle tasche tozzi di pane secco. Ne porse uno a Dubhne. – Hai fame?- le chiese con gentilezza.
– Grazie…- rispose lei stupita, prendendolo e addentandolo. Quella ragazza era davvero strana…
- Fai attenzione, Claris - le interruppe d’un tratto una voce profonda. Le due ragazze si voltarono; uno dei Combattenti più adulti del gruppo le stava guardando. Ammiccò a Malcom Shist. – Se vi vede la pagheremo tutti noi…- Presa alla sprovvista e arrossita, Dubhne fu tentata di sputare il proprio pane in una mano, ma l’altra la bloccò. – E dai, James, lo fanno anche gli altri…
- Già, ma almeno hanno il buon senso di non farsi scoprire – fece lui di rimando. Claris si chinò è abbassò la voce:- Insomma, non vedi che è nuova? Anche tu mi hai dato da mangiare, quando sono arrivata qui… Lei non è abituata a questa vita.
Non sai quanto hai ragione.
James rimase in silenzio, poi sbuffò, dandola vinta a Claris. Dubhne lo fissò, affascinata: il suo volto era duro, segnato da una profonda cicatrice. Le sopracciglia scure e ben delineate creavano un netto contrasto con gli occhi di un verde intenso. Era forte e slanciato, e i muscoli delle braccia apparivano tesi e possenti. Sembrava un vero guerriero, uno di quelli che si incontrano fra le pagine dei racconti di avventura.
Finendo in fretta il proprio pane, la ragazza sbirciò in direzione di Malcom, e trasse un sospiro di sollievo nel constatare che l’uomo non si era accorto di nulla.
– Tu ti chiami Dubhne, non è vero?- le chiese osservandola il giovane interessato. Lei annuì timidamente, e l’altro le porse la mano.
– Io sono James. È un piacere conoscerti - annunciò sorridendole. Anche lei accennò un piccolo sorriso, stringendola. Quando poi James si voltò dall’altra parte, si rivolse a Claris:- Lui… chi è?
- Uno dei nostri Combattenti migliori. L’orgoglio di Malcom Shist, James Sangster; è nella squadra da otto anni, o roba simile. Va tutti, ma dico tutti gli anni in semifinale. Non ha ancora vinto nulla… ma una volta ha addirittura visto la finale - spiegò Claris in tono saccente. – Diciamo che quest’ anno potrebbe essere la più grande minaccia per Jackson Malker…
- Jackson Malker?
Claris la guardò, e la sua fronte fu attraversata da una ruga di preoccupazione. – Jackson Malker… è il campione di Peterson Cambrel - disse seriamente.
– Il campione? Ma io credevo che una volto vinto si potessero abbandonare i combattimenti… Non avevi detto che…
- Lui è diverso. Dubhne, quell’uomo è una macchina per uccidere. Strano che tu non lo conosca, è praticamente una delle persone più famose di Fheriea dopo Will Cambrest e il Re delle Cinque Terre…
- E quindi… ha deciso di restare anche dopo aver vinto i Giochi una volta?
- Sei sveglia Dubhne. Ma lui non ha vinto una volta. Ormai sono quattro anni che regna indiscusso nell’Arena. Non c’è nessun Combattente che possa tenergli testa. E se esiste, beh… Malcom non l’ha ancora trovato.
Agghiacciata, Dubhne non riuscì a dire nulla. – Ed è per questo che allena James giorno e notte. Vuole a tutti i costi che vinca lui, quest’anno. Ma non so se basterà, Jackson non vuole perdere il primato. Sarebbe il primo uomo nella storia ad ottenere il titolo di campione per cinque volte. Non so chi sia più ricco tra lui e Peterson… - Vedendo l’espressione perplessa di Dubhne, la ragazza si interruppe e spiegò:- Peterson Cambrel è la nemesi di Malcom Shist. È il più grande padrone di Combattenti del mondo, dicono. Jackson Malker è uno dei suoi, come ti ho detto…
Mentre l’ansia si faceva nuovamente strada in lei, Dubhne si guardò intorno per tentare di non pensarci. Il paesaggio ora era cambiato: le distese pianeggianti che circondavano Chexla era sparite. Verso est, la ragazza vedeva estendersi un immenso bosco, e i prati che contornavano la strada si erano tinti di verde smeraldo, segno che si stavano dirigendosi sempre più a nord. A occidente, cominciavano a prendere forma all’orizzonte aguzze cime montuose. Nel complesso, la veduta era mozzafiato.

Claris, intanto, la fissava preoccupata. Quella ragazzina non aveva la minima idea di a che cosa stesse andando incontro. Aveva la stessa aria sconvolta e spaurita che si era dipinta sul suo volto quasi quattro anni prima, quando Malcom l’aveva trovata e reclutata. A quel tempo Claris era un’orfana sola e scapestrata, continuamente in spostamento per cercare cibo e un tetto. I suoi genitori erano morti quando lei era piccola , ma uno zio si era preso cura di lei fino ai suoi dodici anni; era stata una fortuna essere accudita da lui, in effetti. Per un lungo periodo la ragazza poteva sostenere di aver vissuto un’esistenza quasi… felice. Non aveva ricevuto un’educazione ufficiale – privilegio riservato ai nobili soltanto – ma suo zio Dowin le aveva insegnato a leggere e a scrivere, nei pochi giorni in cui non era impegnato con il suo lavoro di mercante. All’epoca Claris passava molto tempo da sola, con l’unica compagnia della cagna randagia che si aggirava sempre nei dintorni dell’abitazione. Nomah, così l’aveva chiamata. A volte capitava che suo zio stesse via anche per intere settimane, e la ragazzina era costretta a restare a casa. Nomah non era certo come una sorella o una amica, ma peraltro l’aveva aiutata a non impazzire dalla solitudine. E ora, ripensando a quegli anni a loro modo spensierati, Claris provava un senso di incontenibile malinconia. Dowin si era ammalato, e per sfuggire al contagio la ragazzina era stata costretta ad allontanarsi. Aveva vagato per mesi in giro per lo Stato dei Re, e alla fine aveva incontrato Malcom a Grimal. In un certo senso era stato un bene, dato il proprio talento nell’utilizzo delle armi. I pugnali in particolar modo la affascinavano: piccoli, pratici e letali. E sapere di essere una delle uniche Combattenti al mondo ad utilizzare tali armi nei duelli la lusingava non poco.

- Fermiamoci qui - annunciò Malcom al calare della sera. Dubhne, che per tutto il pomeriggio aveva dormicchiato scomodamente appoggiata alla spalla di Claris, si riscosse. Il qui era una radura ampia e spaziosa, circondata da abeti. – Dove siamo? Chiese bisbigliando a Claris . L’altra aggrottò la fronte. – A dir la verità non lo so, non sono mai stata qui. Malcom deve aver scelto un’altra strada…
Imitando gli altri, Dubhne scese con un salto dal carro, ma subito si pentì di averlo fatto. Atterrare fu più doloroso del previsto; i muscoli sembravano non risponderle. La ragazza passò a rassegna con lo sguardo gli altri Combattenti. Accanto a lei c’era una giovane donna un po’ più alta di Claris – doveva avere circa vent’anni - con lunghi e lisci capelli castani stretti in una crocchia, tratti sottili e appuntiti. Più in là scorse James conversare con un paio di ragazzi più giovani, e seduto appoggiato ad un albero c’era un uomo giovane e di bell’aspetto. Era magro, e il volto pallido e serio era contornato da un ciuffo di capelli bruni.
– Lui è Phil - spiegò Claris, prendendola da parte. Mentre quei due con cui sta parlando James sono Socka e Liens. Socka è qui da poco, meglio per te, avrai qualcuno con cui imparare no? Mentre quella ragazza è Mia – credimi, non parlarle mai...
– Perché?- Dubhne trattenne a stento un sorrisetto. – Perché è determinata a diventare la prima donna a vincere i Giochi Bellici. – rispose la ragazza con un sospiro infastidito. - Odia qualsiasi Combattente che potrebbe ostacolarla. O almeno così dicono. Comunque, sul serio, se cerchi rogne, va’ da lei e sarai di sicuro accontentata.
- Tu che dici?
- Tanta scena e poca sostanza - Claris arricciò il naso, poi assunse un'espressione di superiorità. - Non è mai arrivata ai quarti.
Dubhne guardò i volti magri dei Combattenti, e nervosamente chiese:- C’è qualcun altro di… inesperto diciamo?
- Vuoi dire che è appena arrivato?- rispose Claris disinvolta. – Beh, c’è Socka, come ti ho detto, poi Camin, Drembow e… basta, direi. – Mosse rapidamente il volto di qua e di là. – Sì, solo loro.
– E… chi sarebbero?- la incalzò timidamente Dubhne, curiosa. L’altra indicò due ragazzini seduti sull’erba, a poca distanza dal carro. Uno era rossiccio di capelli, esile quanto un fuscello, con gote candide coperte di efelidi di un intenso color marrone. L’altro sembrava leggermente più in salute, ma dimostrava forse ancora qualche anno in meno. Dubhne tentò di frenare la tremarella. Bambini.
– Quello rosso è Camin, deve avere qualche anno in meno di te. L’abbiamo trovato a Zerla quattro mesi fa mi pare, mentre l’altro è Drembow. È il più piccolo, quest’anno. Undici anni compiuti dieci giorni fa, dice. – Dubhne ebbe un tuffo al cuore e, suo malgrado, chiese:- Quanti anni aveva l'avversario più giovane con cui hai combattuto?
Claris inarcò un sopracciglio sottile, pensierosa, e Dubhne pensò che fosse veramente affascinante. Poi la ragazza rispose:- Beh… due anni fa è arrivato un ragazzino di dieci anni, dall’Ariador. Ed era anche niente male, sinceramente. Non ho mai visto uno scricciolo del genere combattere in quel modo! Certo, l’ho battuto senza difficoltà agli ottavi di finale, ma comunque… tanto di cappello.
– L-lo hai ucciso?- sussurrò Dubhne, temendo ciò che la Combattente avrebbe potuto rispondere. Ma lei scosse la testa. – Certo, Dubhne, come no…- disse sarcastica. – Ti sembro la tipa che va in giro ad ammazzare bambini?
- No, no…- si affrettò a rispondere la ragazza. In realtà non aveva idea di che genere di persona Claris potesse essere. E scoprirlo non era fra le sue priorità: era stata gentile con lei, questo bastava.
Il silenzio calò fra loro; poi, a disagio, Claris si alzò per raggiungere un paio di ragazze giovani lasciando Dubhne di nuovo sola. La ragazza, presa dallo sconforto, si strinse forte le ginocchia fra le braccia e chiuse gli occhi.




Note: salve a tutti, ci ho messo un po' a terminare la stesura di questa capitolo, ma spero ne sia valsa la pena :) È il primo che scrivo secondo la mia nuova prerogativa: NON ANNOIARE IL LETTORE. xDxD Spero che abbia funzionato, se sì recensite^^ Se non vi è piaciuto lasciate comunque un'opinione magari, ricevere consigli mi è sempre molto utile :)

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


2




OTTO ANNI PRIMA

STATO DEI RE ORIENTALE


Dubhne era seduta sulla sua roccia, tutta intenta a pettinarsi i lunghi capelli castani come suo solito. Intanto guardava di fronte a sé, e il suo sguardo si perdeva all'orizzonte, immaginando gloriose avventure ai confini del mondo.
Lo faceva spesso, di recente; le piaceva stare lassù da sola. Non avere nessun altro intorno che non fosse uno scoiattolo o una rondine canterina. Poteva concentrarsi solo su se stessa, sui propri sogni e i propri segreti più profondi, per quanto potessero essere profondi i segreti di una bambina della sua età.
Levò lo sguardo al cielo; quel giorno non vi si scorgeva una nuvola. Cosa piuttosto insolita, visto che si trovava al confine con lo stato di Tharia, probabilmente il luogo più umido e piovoso del pianeta. In quell'occasione Dubhne aveva avuto fortuna.
Rimase ancora un attimo a scrutare quell'oceano di blu infinito, gli occhi scuri sgranati.
- Dubhne vieni. Io e tuo padre dobbiamo parlarti - una voce secca interruppe il filo dei suoi pensieri. Dubhne si voltò di scatto, e vide dietro di sé il profilo esile e smunto di Camlias, sua madre.
- Ma...- provò a protestare la bambina. Non le andava di tornare a casa. Non proprio adesso.
- Fa' come ti ho detto - tagliò corto sua madre perentoria, poi le voltò le spalle. Sbuffando, Dubhne si affrettò a seguirla.
Camminarono per circa dieci minuti, attraverso campi fioriti e piccole pozze paludose. Così era lo Stato dei Re in prossimità di quello di Tharia: una massa prospera di fiori, insetti, paludi e prati che parevano giungle. I genitori di Dubhne non facevano che lamentarsene, ma alla bambina, che aveva appena più di nove anni, piaceva. Stuzzicava la sua fantasia. Le sembrava di vivere in un sogno.
Camlias dovette richiamarla in più di un'occasione, mentre lei si attardava ad ammirare un ranocchia in uno stagno, il volo di una rondine o un fiore particolarmente bello.
- Vieni, non perdere tempo - la freddava ogni volta.
- Andiamo, mamma! Che cosa c'è?- domandò Dubhne dopo un po', ma Camlias non si fermò.
- Non è il caso di parlarne qui. Vieni... vieni e saprai tutto.
Dubhne avvertì una nota di tristezza nel tono della madre, ma decise di non darci peso. E così continuarono a camminare.

Raggiunsero la catapecchia dove vivevano poco tempo dopo. Ad attenderle sulla soglia c'era il padre di Dubhne, un uomo alto e dall'aria malaticcia. Accanto a lui c'era anche un tipo piuttosto basso, con unti capelli castani e un fisico tarchiato. I due stavano discutendo animatamente, e a Dubhne parve di cogliere le parole "bambina" e "lavoro duro" mentre si avvicinava.
Anche se Dubhne era ancora troppo piccola per capirlo, lei e i suoi genitori rischiavano di morire di fame un giorno sì e uno no. Era cominciato tutto qualche anno prima, quando l'economia di Tharia e regioni confinanti era definitivamente andata incontro al declino. Il terreno estremamente umido era stato ulteriormente danneggiato dalle continue alluvioni verificatesi in quel periodo, e come se non bastasse negli ultimi tempi si era diffusa un'epidemia che aveva colpito pecore e bestiame. E i genitori di Dubhne, agricoltori come tanti altri, avevano perso tutto.
- Avanti, Dubhne. Ti devo parlare - attaccò Michael serio. La bambina sbuffò. - Sì, sì, questo l'ho capito... allora, che cosa c'è?
Suo padre non sorrise, e Dubhne si chiese se era il caso di iniziare a preoccuparsi.
Michael continuò:- Dubhne, vedi... Tua madre ed io stavamo pensando... insomma, ormai sei troppo grande per stare sempre qui confinata in casa quindi... Beh, innanzi tutto lui è il signor Tomson - disse indicando l'uomo a suo fianco. Questo le porse la mano sorridendo, mostrando canini particolarmente appuntiti*.
Dubhne si ritrasse dietro la madre, intimorita, e Tomson scoppiò a ridere. Michael tentò di imitarlo, ma gli uscì solamente una specie di nitrito.
- Siamo un po' maleducati, eh ragazzina?- chiese il signor Tomson asciugandosi gli occhi con una mano. E giù a ridere.
Dubhne, a disagio, non trovava nulla di divertente in quella situazione. Si strinse più forte a sua madre.
- Il signor Tomson è il proprietario di una sartoria della città di Célia e... avrebbe proprio bisogno di un'altra assistente. Quindi... quando è passato di qui ieri mattina e mi ha parlato dei suoi problemi... ho proposto te. Partirai appena sarai pronta.
- No!- gridò Dubhne, ancora prima di comprendere appieno le parole del padre. Non capiva che cosa stesse succedendo. Perché all'improvviso i suoi genitori volevano separarla da tutto ciò che aveva amato?
Quasi senza accorgersene scoppiò a piangere, e non seppe che fare per frenare le lacrime. Sua madre, che fino a quel momento non era intervenuta, si chinò su di lei e le accarezzò la testa, parlando velocemente:- Per favore, tesoro... fa' come ha detto tuo padre. Vieni a prendere le tue cose...- e la accompagnò dentro casa.
Dubhne continuava a singhiozzare. - Io proprio non capisco!- balbettò. - Ma che cosa sta succedendo?
Camlias la abbracciò. - Non fare domande Dubhne. E' per il tuo bene che lo stiamo facendo. Il signor Tomson si prenderà cura di te, va bene? E poi noi ti verremo a trovare! Célia non è così lontana, sai?
Dubhne pianse più forte, stringendosi a lei. Poi sua madre la prese per mano e la condusse in camera sua. - Avanti, asciugati gli occhi tesoro. E preparati.
- Non voglio andare mamma. Non voglio andare!- gridò Dubhne.
- Sssst Dubhne. Stai calma. Là a Célia starai molto meglio che qui, te l'assicuro. Avrai pasti caldi ogni giorno, e un letto vero in cui trascorrere la notte. Vedrai, andrà tutto bene.
Dubhne non annuì, e non tentò nemmeno di asciugarsi il viso. A che sarebbe servito?
Camlias le preparò un fagottino, che conteneva tutti gli averi della bambina: una coperta, una bambolina di pezza e un paio di sandali per le giornate estive. Poi uscirono in giardino.
- Oh, ecco qui la nostra apprendista prossima a partire!- esclamò il signor Tomson, quasi la partenza della bambina fosse una cosa da festeggiare.
- Su, Dubhne, vai a salutare tuo padre...- la incitò dolcemente Camlias, spingendola in avanti con una mano. Ma lei si puntellò a terra con i piedi, non muovendosi d'un passo. In quel momento odiava suo padre per quello che le stava facendo, per ciò di cui non le aveva mai fatto accenno prima. Michael parve mortificato, ma la bambina non se ne curò. Se proprio doveva andarsene tanto valeva farlo subito.
Mosse qualche passo in direzione del signor Tomson, poi non ce la fece più e tornò indietro. Con due ampie falcate raggiunse sua madre e le si gettò in braccio, piangendo come una disperata. - Aiutami mamma, ti prego! Non voglio andarmene di qui, non posso andarmene! Giuro che lavorerò, farò qualsiasi cosa, ma ti prego fatemi restare!
Mentre il signor Tomson sbuffava infastidito, il padre di Dubhne dovette avere pietà di quella creaturina spaurita, perché si avvicinò a Camlias e prese in braccio la bambina.
- Coraggio, Dubhne - le disse per calmarla. - Se ci pensi bene non è una cosa così grave, no? Guarda il lato positivo...
Ma lei ne aveva abbastanza. I suoi genitori non avevano fatto altro che ripeterle sempre le stesse cose. - Non ci sono lati positivi!- ululò, con una voce così acuta da sfiorare la follia. - Voi... mi state abbandonando, ecco che cosa state facendo!
Ma Tomson non la lasciò lì a dibattersi ancora a lungo. Con di sottofondo i singhiozzi di sua madre, la strappò a forza dalle braccia del padre, che inutilmente tentò di stamparle un ultimo bacio su una guancia. Tuttavia, portare via Dubhne si dimostrò un'impresa molto più difficile del previsto. Per quanto il signor Tomson fosse un uomo grosso circa il triplo di lei, la bambina si divincolava con una furia tale da sembrare impazzita, senza contare che tutti quei capelli color della terra bagnata consentivano una visuale a dir poco penosa.
Sarà meglio tagliarglieli al più presto, pensò l'uomo mentre la trascinava tentando di farle meno male possibile. L'uomo e la bambina fecero tutto il tragitto verso Célia, lui insultandola e menandole schiaffi di avvertimento, lei ad urlare e a maledire ogni cosa che le passava davanti.
- Aiuto! Aiuto, aiutatemi!- strillava ad intervalli di circa mezzo secondo, rivolta a nessuno in particolare, ma con la vaga speranza che qualcuno di caritatevole venisse a salvarla.
- Allora, vuoi o no star zitta?- tuonava il signor Tomson con altrettanta rabbia, praticamente tirandosela dietro per i capelli.
E alla fine, quando finalmente apparvero le prime case di Célia, Dubhne capì che non avrebbe mai potuto tornare indietro. Al pensiero si sentì irrimediabilmente affranta, tanto da cessare all'istante di muoversi. Il signor Tomson fu così sorpreso dal repentino cambiamento che quasi mollò la presa sulla sua collottola.
Asciugandosi con rabbia le lacrime, Dubhne alzò lo sguardo su quella città estranea che di lì in avanti sarebbe stata la sua casa.


*Oddio non è un vampiro!



Note dell'autrice: che dire? Questo era il primo capitolo, spero vi sia piaciuto:) Ci vorrà un po' perché la vicenda si colleghi pienamente al titolo (un bel po'). Per chi se lo stesse chiedendo, il nome si pronuncia Dabne. Se vi è piaciuta lasciate una recensione, se non vi è piaciuta... beh, anche. Sarò lieta di ricevere consigli, ammonizioni e opinioni. Timidi saluti, Joanna Lannister^^

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


3




Dubhne fu sbattuta in una stanza squallida e quasi priva di mobilio, con una piccola finestra che permetteva alla luce di illuminare una ristretta porzione di pavimento e, in una angolo, un piccolo e scrostato vaso da notte.
- Questo è perché tu ti metta bene in testa come funzionano le cose qui! - aveva sbraitato il signor Tomson, rinchiudendola lì dentro di persona. Per tutto il resto della giornata Dubhne non aveva fatto altro che piangere. A volte un pianto sommesso, altre così rabbioso da trasformarsi quasi in un ringhio; per qualche minuto magari si interrompeva, ma poi finiva sempre con le lacrime disperate che le bagnavano le guance.
Poi, al secondo giorno di prigionia, avevano cominciato a farsi sentire la fame e, soprattutto, la sete. Il periodo di castigo – o, almeno, così lo aveva definito il signor Tomson – sarebbe durato tre giorni. Alla bambina era parsa di più una tortura: tre giorni di totale astinenza da cibo e acqua. Beh, per Dubhne erano troppi.
- Ehi! Ehi, c'è qualcuno qui fuori? Vi prego... vi prego portatemi qualcosina da magiare, vi prometto che starò buona... Io qui muoio! - gridò disperata la bambina, ma per l'ennesima volta non ottenne risposta. Sconsolata come mai prima d'allora si accucciò sul freddo pavimento di pietra e, per l'ennesima volta, pianse. Ma questa volta fu diverso: non erano più lacrime di dolore, o rabbia. No, adesso lei piangeva solo per paura; paura semplice e pura, paura di morire. Era come essere chiusa in una gabbia, unica prigioniera di sbarre invisibili, vittima della fame, della sete e della deliberata crudeltà del signor Tomson. Ricordò le parole di sua madre:
"Il signor Tomson si prenderà cura di te."
- Certo, come no! - bisbigliò con rabbia la bambina, rannicchiandosi su se stessa e cercando disperatamente di frenare le lacrime.
- Bambina... ehi bambina, dico a te! Vieni qui! - sussurrò all'improvviso una voce dietro di lei.
Dubhne, spaventata, alzò di scatto la testa e si voltò. L'angusto spazio della finestrella era interamente occupato dal volto chiaro e dolce di una ragazza.
Incuriosita e speranzosa, Dubhne si alzò, si avvicinò alla finestra e, tenendosi a distanza di sicurezza, chiese:- Chi sei?
- Mi chiamo Alesha - rispose piano la ragazza. - So come ci si sente appena arrivati, anche per me è stata dura. Ho saputo che è da giorni che non mangi, per cui ti ho portato qualcosina...
Dubhne, muovendosi svelta come un animaletto, scattò verso Alesha, afferrò il sacchetto che le porgeva e lo aprì. Quel che vide le riscaldò il cuore: c'erano una fetta di pane, una mela matura e persino un trancio di formaggio!
- Grazie mille! - disse alla giovane, riempiendosi la bocca di mollica. Alesha sorrise e i suoi occhi brillarono. Solo allora Dubhne si rese conto che erano di un insolito color azzurro chiaro. O almeno, insolito per un'abitante dello Stato dei Re. Ma allora quella ragazza era, era...
- Esatto - fece Alesha divertita, intuendo al volo i suoi pensieri.- Sono un'Ariadoriana.
Un'Ariadoriana. Incredibile! Un'Ariadoriana come le grandi Guerriere Kalya e Jesha, ma soprattutto, un'Ariadoriana come Will!
Da sempre Dubhne aveva adorato le storie e le leggende che narravano le vicissitudini dei numerosi popoli di Fheriea, ma nessuna come quella di Will Cambrest, il ragazzo che per la prima volta nella storia aveva raggiunto il Bianco Reame per poi tornare indietro! Si era fatta raccontare da suo padre quella storia per decine e decine di volte, seguendo la narrazione sempre col fiato sospeso come se fosse la prima volta. Ricordava alla perfezione le numerose serate in cui, stesa sul suo giaciglio di paglia e coperta da un telo di lana, aveva sentito Michael raccontare le gesta memorabili di Will, Jesha, Kalya e tutti gli altri eroi.
Ad interrompere i suoi pensieri fu proprio Alesha, porgendole una brocca colma d'acqua. La bambina, ritornando con un sussulto nel mondo reale, biasciò un - grazie - sommesso, prima di avventarvisi.
- Cavoli, allora è proprio vero che il signor Tomson ti ha tenuta a digiuno! - esclamò Alesha ridendo. Dubhne annuì, anche se sinceramente non trovava nulla di spassoso nelle parole della ragazza ariadoriana.
- Beh - concluse Alesha dopo poco - domani mattina tornerò qui per riprendere la brocca e il sacchetto con gli avanzi, magari riuscirò anche a portarti la colazione. Ma non ci spererei, già oggi ho rischiato di farmi scoprire mentre rubavo dalla dispensa...- Sorrise allegramente a Dubhne con aria complice, e la bambina seppe di aver trovato un'amica.


L'indomani, sul presto, Dubhne fu svegliata da piccoli colpi alla finestra. Con suo grande sollievo, al suo sguardo rispose quello limpido di Alesha, e la bambina si affrettò ad andare ad aprire, portandosi dietro la brocca e il sacchetto ormai vuoti. In cambio, la ragazza le consegnò una pagnotta avvolta in un tovagliolo e un bicchiere di latte.
- Oggi mi hanno premiata - ammiccò alla bevanda. - Sai, per la mia...
buona condotta. - spiegò rivolta a Dubhne. - Ed è stato facile nasconderla e portartela.
La bambina divorò tutto in meno di un minuto, poi restituì il tovagliolo alla ragazza ringraziandola sentitamente.
D'un tratto qualcuno in lontananza richiamò Alesha con voce severa.
- Vado, ora - si affrettò a bisbigliare lei, allontanandosi dalla finestrella e salutando Dubhne con la mano.
Verso sera, il signor Tomson in persona si degnò di farle visita. Entrò nella stanza con passo pesante, quasi volesse intimorirla.
Dubhne, che per tre giorni aveva atteso quel momento, alzò il capo. Quale espressione doveva portare? Contrita e rispettosa, oppure fiera e ostile come una vera eroina? Avrebbe nettamente preferito la seconda opzione, ma il dolore procuratogli dagli schiaffi del signor Tomson continuava a farsi sentire, e preferiva non ripetere l'evento, se possibile. Provò una sorta di malsano piacere nel constatare che anche i graffi che lei gli aveva procurato durante il tragitto non erano ancora spariti del tutto.
Alla fine, decise che non guardare negli occhi il suo nuovo padrone sarebbe stata la scelta migliore.
- Allora, ci siamo calmati, signorina? - le chiese Tomson con la solita voce fintamente divertita. Dubhne riflettè su cosa rispondere, poi annuì lentamente.
- E...? - la incalzò l'uomo.
- Mi... mi dispiace. Per aver creato problemi - balbettò incerta la bambina, mantenendo gli occhi ben piantati sul pavimento. Tomson parve attendere un seguito. - Non... non lo farò più. Ci proverò - disse Dubhne, sempre senza osare guardare in faccia il suo padrone.
- Voglio che questo ti sia ben chiaro: in casa mia non esiste il "ci proverò", Dubhne. Esistono solo il "fare" e il "non fare". Spero che tu abbia capito - rispose Tomson, serio.
Dubhne si stupì nel sentirgli pronunciare il proprio nome. Ma annuì nuovamente.
- Bene! - fece il signor Tomson, rallegrandosi all'istante. Era incredibile quanto quell'uomo sapesse passare da un umore all'altro in meno di due secondi. Poi si guardò rapidamente intorno e chiamò:- Richard? Sì ragazzo, dico a te. Vieni qui, e porta Dubhne al dormitorio, che possa sistemare le sue cose.
Alla porta si affacciò un ragazzetto che doveva avere qualche anno in meno di Alesha, alto e allampanato, con disordinati capelli di un color castano rossiccio. Dubhne scattò in piedi, raccolse il proprio fagotto e praticamente si gettò fuori dalla stanza, alla ricerca di aria pulita dopo giorni di prigionia. Ma rimase delusa: se nella stanza l'aria era viziata e puzzolente, lì era densa e fortemente odorosa di vernice. In signor Tomson era improvvisamente sparito da davanti a loro e la bambina si ritrovò sola con Richard.
- Vieni, da questa parte - fece lui in tono svogliato, e le fece segno di seguirla su per le scale. Camminarono per qualche minuto, poi il ragazzo si fermò davanti a una consunta porta di legno. Con un ampio gesto della mano la spalancò.
Dubhne poté così vedere una brutta stanza rettangolare, stracolma di piccoli materassi spiegazzati; sul fondo, un'ampia finestra lasciava entrare la poca luce di quella sera nuvolosa. Una scarsa trentina di persone, tutti ragazzi e ragazze compresi tra gli otto e i quattordici anni, alzarono la testa, e tutti gli sguardi si posarono su di lei. La bambina arrossì per l'imbarazzo e cercò di tirare dritta senza dire nulla, seguendo il suo accompagnatore.
Dopo che Richard le ebbe mostrato l'unico letto libero, uno dei ragazzi proruppe con un:- E questa chi è?
Il tono non era dei più amichevoli.
Dubhne avvampò ancora di più, senza sapere dove posare lo sguardo, quando qualcuno rispose:- È una nuova apprendista. Si chiama Dubhne.
Il cuore della bambina fece un balzo. Alzò di scatto la testa e si guardò intorno: con immenso piacere, vide Alesha dall’altro capo della stanza, che le sorrideva. Allora anche lei lavorava per il signor Tomson!
Adesso che la vedeva per intero, si rese conto di quanto la ragazza fosse alta. Doveva almeno avere quattordici anni. Quasi stordita dal sollievo, Dubhne si lasciò cadere sul letto, sprofondando di alcuni centimetri.
Si sta comodissimi, pensò. A casa sua – pensarci le diede comunque una stretta allo stomaco – lei dormiva su un giaciglio di paglia disposto alla meglio, ma solo i suoi genitori potevano permettersi un materasso vero, anche se rigido e consunto. Quello invece era morbido, bianco e, anche se non proprio pulitissimo, accettabile.
D’un tratto, Dubhne si sentì toccare una spalla. – E così sei nuova eh? Da dove vieni? - le chiese qualcuno.
Lei si voltò e vide la faccia di un ragazzo sempre più grande di lei, ma decisamente meno alto di Richard. Pensando che la sua fosse una semplice domanda di curiosità, rispose:- Io... Vengo da una piccola casetta su quella collina... Forse la potete scorgere se guardate verso sud...
- Ma tu lo sai - la interruppe il ragazzo - perché sei qui vero?
Molti risero. Dubhne notò con stupore che Alesha aveva assunto una strana espressione. - Beh... - fece esitante. - Il signor Tomson aveva bisogno di un assistente e...
- Aveva bisogno di un assistente? - ripeté in tono divertito una ragazza dai ricci capelli nerissimi. - E noi che cosa saremmo secondo te? Mangime per uccelli?
Le risate risuonarono più forti, stavolta. Dubhne, pur sentendosi imbarazzata e un po' intimorita, si sforzò di imitarli.
Alla fine, il ragazzo che aveva parlato per primo riprese:- No, Dubhne. Intanto, lui non è
il signor Tomson , d'ora in avanti dovrai chiamarlo il Padrone, hai capito? E che avesse bisogno di un assistente... questo te l'avranno detto i tuo genitori per non ferirti. Tu lo sai chi ci finisce veramente qui?
S'interruppe, e Dubhne attese trepidante che riprendesse a parlare. L'altro sorrise malevolo. - È qui che finiscono i ragazzi che non sono amati da nessuno, che fin dal giorno della loro nascita hanno creato solo problemi. Siamo tutti così in questo posto, oppure miseri orfani. Non è vero Charlons?
- Giusto - confermò con un mezzo sorrisetto un tipo basso e piuttosto robusto dagli stopposi capelli castano chiaro. Dubhne istintivamente indietreggiò. - Ma no... non...
- Ma andiamo... tu davvero pensavi che i tuo genitori ti avessero mandata a lavorare perché uno dei più ricchi proprietari di sartorie di Fheriea aveva bisogno di un assistente? Quando aveva già tutti noi su cui contare?
Dubhne già stava per scoppiare in lacrime, quando Alesha intervenne in modo duro:- Adesso basta Dills. Piantala, lasciala in pace.
La bambina rimase sul suo letto a singhiozzare e Dills le lanciò uno sguardo di fuoco, ma poi le voltò le spalle. Dubhne affondò il viso nel cuscino. Adattarsi a quella nuova vita sarebbe stato tutt'altro che facile.





Note: finalmente l'ho finito, questo capitolo non terminava mai^^ Spero vi sia piaciuto, e un grazie particolare a Endless che ha recensito tutti e tre i capitoli:) Il quarto arriverà al più presto. Baci, Joanna^^

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Alesha (Taylor Hickson)

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


4




Dubhne alzò il viso dal proprio lavoro a maglia e guardò fuori dalla finestra, per quella che doveva essere la milionesima volta. Il sole era ormai all'altezza delle colline; stava per tramontare. Finalmente.
La bambina si stiracchiò le gambe intorpidite e sbadigliò forse un po' troppo sonoramente, beccandosi un'occhiataccia da parte di Alesha. Frettolosamente, Dubhne ricominciò ad intrecciare ago e filo, ma sul suo viso c'era l'ombra di un sorrisetto.
Infatti pochi secondi dopo Heixa, la sorvegliante del loro reparto, batté le mani annunciando:- Portate qui i tessuti da ricamare, finiremo domani il lavoro. Avanti, svelti.
Dubhne e Alesha si alzarono portando la tovaglia su cui avevano lavorato sul tavolo in fondo alla stanza, e uscirono parlottando.
Quello era per Dubhne il quinto giorno come apprendista sarta. Inutile dirlo, era un lavoro faticoso. All'alba dovevano essere sempre tutti in piedi, già vestiti e pronti per i turni di inizio giornata. La mattina Dubhne lavorava al telaio assieme a Richard, Johanna, Norik e altri ragazzi di cui non conosceva ancora i nome. Invece di pomeriggio, fortunatamente, incrociava Alesha nelle ore di ricamo. La "classe" era composta perlopiù da ragazze, e il loro compito era quello di abbellire e rifinire tovaglie, fazzoletti e abiti con fili e spaghi colorati. Le dita della bambina si erano presto riempite di taglietti e piccoli fori, provocati dagli aghi appuntiti. Aveva avuto solo una mezza giornata per imparare tutto sul lavoro dei sarti, e di certo non poteva ancora considerarsi un'esperta.
- Mi fanno male i polsi...- si lamentò con Alesha, mentre le due si avviavano verso il refettorio.
La ragazza annuì gravemente. - Lo so Dubhne, me lo ripeti tutti i giorni... ma devi abituartici. Questa ormai è la tua vita.
Dubhne avrebbe voluto risponderle di essere meno pessimista, ma proprio in quel momento dietro di loro comparvero Dills e Charlons che correndo urtarono bruscamente la bambina, facendola inciampare a terra. - Ahia!
- Quei due imbecilli!- inveì Alesha sottovoce, aiutandola a rialzarsi. Dubhne si tastò un ginocchio, dove presto sarebbe comparso un vistoso livido violaceo. - Non li sopporto più...- piagnucolò, stringendosi al braccio dell'amica. - Ma perché ce l'hanno con me? Che cosa gli ho fatto?
- Mmm, non credo che sia una questione di
cosa - rispose Alesha pensierosa. - Semplicemente hanno trascorso qui praticamente ogni singolo giorno della loro infanzia e, diciamocelo, non è stata un'esperienza propriamente felice. E così adesso che sono loro i grandi, vogliono che per tutti i nuovi arrivati qui sia un inferno.
- Un inferno?- ripeté Dubhne, più nervosa di prima. - Davvero non smetteranno mai di darmi fastidio?
Alesha inaspettatamente scoppiò a ridere. - No Dubhne, stai tranquilla. Forse per i primi mesi le cose andranno così, ma vedrai che col tempo verrai accettata dal gruppo, come tutti gli altri.
- Dici?- fece Dubhne poco convinta.
Deglutì. Odiava quel posto, odiava il signor Tomson e odiava gli altri apprendisti. Persino i sorveglianti parevano avercela con lei.
L'unica persona con un po' di rispetto e amicizia era Alesha. Sì, in pratica da quando Dubhne era arrivata erano diventate inseparabili. Una coppia piuttosto strana: lei, Alesha, la più anziana e matura apprendista della sartoria e Dubhne, l'ultima arrivata, bambina fragile e incerta presa di mira da tutti. Per lei, Alesha era la cosa più vicina ad una famiglia che avesse, in quel luogo così estraneo e inospitale.
E infine giunse l'ultimo giorno del mese. Finalmente Dubhne avrebbe potuto rivedere i suoi genitori. La bambina non era ancora sicura di averli perdonati per ciò che le avevano fatto, ma comunque aveva bisogno di rivederli. Le erano mancati terribilmente in quelle poche settimane di permanenza a Célia, e a volte la bambina aveva versato qualche lacrima di solitudine, stesa nel suo letto quando tutti gli altri dormivano. Quello d'altronde era l'unico momento che aveva per se stessa. Per il resto, gli orari erano talmente fitti e faticosi che a malapena la bambina aveva tempo per mangiare fra un lavoro e l'altro. Non era una bella vita. Lei non era più felice che a casa sua. Affatto. Era vero, aveva pasti caldi e un letto tutti i giorni, ma avrebbe scambiato tutto all'istante con piacere, pur di ricevere un po' di calore.


- Dubhne, bambina mia, quanto mi sei mancata!- strillò Camlias abbracciando la figlia in lacrime per la commozione. Dubhne rispose a quella stretta, cercando disperatamente di trattenere il pianto. Anche suo padre la abbracciò forte, e le sussurrò con affetto:- Ci sei mancata tanto tesoro.
Quando poi si separarono, però, calò il silenzio. Dubhne non aveva idea di cosa dire per rompere l'imbarazzo. Avrebbe voluto piangere, tempestare i suoi genitori di calci, pregarli di riportarla a casa. E invece non aprì bocca.
- Allora, ehm... come ti sembra il tuo nuovo lavoro?- fece suo padre esitante, incerto quanto lei.
Come mi sembra? Come mi sembra? pensò Dubhne infuriata, ma non lo disse, e si costrinse ad alzare le spalle con enorme fatica.
- Hai trovato qualche nuova amica?- chiese Camlias timidamente. La bambina fece di nuovo spallucce. - Mah sì... qualcuna...- mentì. Non le andava di rivelare che in realtà in quel maledetto posto l'unica a rivolgerle la parola in modo gentile era Alesha. Seguì un silenzio imbarazzato. Poi all'improvviso, Dubhne scoppiò a piangere. - Oh mamma!- esclamò, buttandosi fra le sue braccia. - Non ce la faccio, non ce la faccio più! Non voglio restare in questo posto!
- No no Dubhne... non piangere, ti prego...- cercò di tranquillizzarla Camlias, accarezzandole i capelli. Poi la fece sedere sul suo grembo. - Ascoltami, ascoltami. Lo so che è dura... ma è l'unico modo, capisci? Devi stare tranquilla. Qui sarai al sicuro dalle malattie, dalla fame. Non dovrai mai preoccuparti di nulla, va bene?
Ma come faccio a non preoccuparmi se il signor Tomson è così esigente, se gli altri apprendisti mi odiano e l'unica a trattarmi con un po' di decenza è Alesha?
Suo padre la guardò con occhi carichi di comprensione, e per un attimo lei pensò che avesse compreso come stessero veramente le cose. Ma allora, perché la costringeva ancora a rimanere lì?
Nonostante tutto, il resto del pomeriggio trascorse serenamente. Dubhne ottenne addirittura il permesso di uscire dalla sartoria con i genitori per qualche ora.
Camminarono per le viuzze affollate di Célia, sederono sulle panchine della piazza centrale e Michael comprò alla bambina persino un pezzo di focaccia integrale, comprata dal fornaio. Era da settimane che la bambina si sentiva così in pace con se stessa e gli altri. Il sole - oh, se le era mancato!- le scaldava le gote rosee da bambina, e i suoi genitori la tenevano per mano.
Più di una volta, scorgendo le colline dietro i tetti delle case, la bambina fu presa dalla tentazione di scappare, fuggire da quel luogo tanto orribile. Ma, in cuor suo, sapeva di non avere molte speranze. Il signor Tomson sarebbe venuto a riprenderla personalmente, e allora tanti saluti al suo già precario filo di sopportazione. Per non parlare delle visite periodiche dei suoi genitori.
Così, appena il sole cominciò a tramontare all'orizzonte, Dubhne fu costretta a tornare a malincuore alla sartoria, e dire arrivederci ai genitori fino al mese seguente. Congedandosi da loro, la bambina avrebbe voluto piangere, ma decise che era tempo di piantarla con tutte quelle lacrime: aveva Alesha. Aveva i suoi genitori. E aveva ancora la speranza che quella non sarebbe stata la sua vita.





Note: per chiunque stesse seguendo la mia storia, ho da poco modificato la struttura della fan fiction; i capitoli che avete letto finora appartengono al passato della protagonista, mentre d'ora in avanti essi si intrecceranno con quelli del suo presente Il primo capitolo (che diverrà il secondo), verrà sostituito da un nuovo capitolo che parla del presente. I capitoli sul passato li differenzierò scrivendoli interamente in corsivo. Spero che questa revisione contribuisca a rendere la storia più coinvolgente e scorrevole.
Come al solito, spero che questo capitolo sia stato di vostro gradimento, recensite in tanti:) Bye bye.

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


5




CITTÀ DEI RE, CAPITALE DI FHERIEA


- Dubhne, Dubhne svegliati!- un sussurrio entusiasta la destò improvvisamente. Ancora assonnata, la ragazza tentò di abituarsi all’improvvisa luce del sole.
– Che… che cosa c’è, Claris?- chiese un po’ intontita. Ma avrebbe dovuto capire. Ormai era da giorni che il loro viaggio continuava. La ragazza esclamò:– Siamo arrivati! È lei, Dubhne… Città dei Re!
Dubhne si fece d’un tratto sveglissima. Il nodo che le serrava lo stomaco da giorni parve rafforzarsi fino a farla esplodere, mentre con ansia si volgeva a guardare davanti a sé. Rimase letteralmente folgorata: la capitale di Fheriea era lì, si stagliava contro il limpido cielo primaverile. Torri, bastioni, palazzi immensi e altissimi. E le mura, spesse quasi cinque metri, che percorrevano l’intero perimetro della città. Mentre il carro oltrepassava gli imponenti portoni, Dubhne represse a stento un brivido di timore quasi reverenziale. Dunque è questa la grande capitale… pensò, guardandosi attorno ammaliata.
Al loro ingresso, una folla di persone si era disposta ai lati della strada per accoglierli con ammirazione. Ma Dubhne era così esterrefatta da non accorgersi delle grida, gli applausi e i commenti delle persone. Almeno finché Claris non le batté una mano su una spalla.
– E dai, Dubhne. Sono qui per noi, non vedi? Avanti, salutali!
Dubhne impiegò qualche secondo per comprendere le parole della Combattente. Poi, lentamente, posò di nuovo gli occhi sulla gente a terra. C’erano uomini, donne, anziani e una miriade di bambini. Applaudivano entusiasti, come se stessero accogliendo i loro eroi. La ragazza si alzò in piedi, imitando gli altri, e timidamente iniziò a muovere le mani in segno di saluto. Una bambina si divincolò dalle braccia della madre e si avvicinò ancora di più, lanciandole un fiorellino di campo. Dubhne lo afferrò al volo un attimo prima che sprofondasse nel fango e alzò la testa stupita; la bambina rideva, sembrava felice. Guardandola, la ragazza avvertì lacrime di panico e disperazione salirle agli occhi, mentre un nodo le serrava la gola impedendole di parlare.
Grazie, avrebbe voluto dire. E invece rimase lì in piedi, ferma in mezzo agli altri ragazzi. Claris accanto a lei rideva e si sbracciava, salutando conoscenti, vecchi amici e ammiratori. Fissandola, Dubhne avrebbe disperatamente voluto essere come lei: forte, imperterrita e determinata. Così coraggiosa da poter affrontare con leggerezza persino i Giochi. E invece si ritrovava se stessa, intrappolata in quel corpo che mai aveva visto battaglie, ancora presa dai ricordi e dal terrore per il futuro. Ma doveva rassegnarsi.
Rimase lì in piedi a salutare ancora per molto tempo.


Peterson Cambrel camminava spedito, in volto un’espressione soddisfatta. Malcom Shist era arrivato, finalmente. E con lui tutto il suo seguito di Combattenti. Trattenne a stento una risata; era curioso di scoprire quali bestie il rivale avesse reclutato pur di tenere testa al suo Jackson Malker.
I corridoi del palazzo riservato agli schiavisti erano deserti, non c’era ancora traccia né di Carly Tohr, né tantomeno di Allison Pets.
Bifolchi, pensò acidamente Peterson, cominciando a scendere le scale. Era possibile che quell’anno gli unici padroni di Combattenti a presentarsi fossero lui e Malcom Shist? Non che fosse un gran problema, ovviamente, lo avrebbe spazzato via, ma la presenza di altri contendenti rendeva la cosa più eccitante. Dopotutto, c’erano ancora quattro mesi di allenamento che li separavano dai Giochi. Sì, qualcuno sarebbe arrivato.
Face un rapido cenno ai soldati che erano di guardia al portone e lo spalancò. Immediatamente gli giunsero alle orecchie gli schiamazzi della folla in lontananza, radunata nella via centrale per accogliere i Combattenti della squadra di Malcom Shist.
Peterson percorse le strade della città a memoria, d’altronde la capitale di Fheriea era diventata come una seconda casa per lui. Da anni ormai non tornava a far visita a Sasha, la sua città natale, nonché capitale di Tharia. Non che lo desiderasse, ovviamente: Città dei Re era più spettacolare, più grandiosa, più adatta al suo nome e alla sua fama. Ormai Peterson era abbastanza ricco da considerarsi agiato quanto un nobile. Parziale merito di Jackson Malker, ovviamente.
Camminando velocemente verso le mura, l’uomo abbozzò un sorrisetto. C’erano momenti in cui ancora non si capacitava della fortuna che aveva avuto incontrandolo. Erano passati quasi cinque anni da quel giorno, eppure Peterson ricordava tutto alla perfezione. Non c’era voluto molto per capire che Jackson Malker poteva significare un svolta nella storia dei Giochi. Apparteneva al Popolo Rosso, una delle etnie che abitavano le terre al di là del mare. E questo spesso già rappresentava una garanzia. Tutti nel continente settentrionale sapevano che quegli uomini avevano una naturale predisposizione all’utilizzo delle armi. Dote dettata dalle loro leggi di sopravvivenza: confinati dalle propaggini del grande deserto a vivere sulle aride rive a ovest dello stretto di Bakar, fino all’arrivo di Will Cambrest i Malajoros si erano mantenuti vivendo di caccia, qualche sporadica coltivazione e guerra. Decisamente molta guerra. Fino alla loro sconfitta da parte delle Cinque Terre e del Bianco Reame, avevano mantenuto le loro tradizioni e usanze sanguinarie. Successivamente alla guerra la loro ferocia era stata mitigata dalle unioni matrimoniali con i numerosi coloni che avevano cercato fortuna in quelle terre, non avendola trovata altrove. Alcune generazioni di meticciato, unite alla presenza minacciosa dei soldati di Fheriea che per cento anni avevano sorvegliato i popoli del sud per prevenire nuove guerre, avevano fatto in modo che i rapporti con le Cinque Terre si distendessero progressivamente. Con il passare dei decenni era andato formandosi addirittura una sorta di primitivo ceto mercantile. Ma il dono della morte era rimasto nel sangue di alcuni e Jackson Malker era decisamente uno di quelli. Era figlio di un signore della guerra del deserto e come tale era stato cresciuto.
Peterson raggiunse infine il corteo che aveva festeggiato l’arrivo dei Combattenti. La calca era così rumorosa che neppure lui, alto più di un metro e ottanta, riuscì a scorgere molto. Malcom doveva essere lì da qualche parte, lo si capiva dal rumore che le ruote del carro emettevano strisciando sul terreno. Irritato, si sollevò un poco aggrappandosi alla colonna di pietra di un porticato e aguzzò lo sguardo. E allora li vide. Più di venti Combattenti, tutti fieramente in piedi sul grande carro che li aveva trasportati, attorniati dalla folla. Scorse James Sangster in prima fila, mentre con la solita aria altera osservava gli abitanti di Città dei Re. Accanto a lui c’era la ragazza dei pugnali, che più volte in passato aveva dato problemi ai suoi ragazzi. Più in là scorse facce nuove, qualche giovane uomo già visto in passato e alcuni ragazzini. Non gli sembrò di scorgere nessuno di potenzialmente pericoloso. Meglio così.
D’un tratto, la sua attenzione fu attirata dalla giovane che accanto a Claris – ricordò il suo nome all’improvviso – stava salutando timidamente. Non aveva un aspetto ordinario per una Combattente. Aveva il viso morbido e pieno, anche se non paffuto, un corpo ancora armonioso, non magro e scattante. Anche i vestiti curati e in ordine non suggerivano un passato particolarmente turbolento. Peterson Cambrel ridacchiò sottovoce: non sarebbe durata neppure un istante nell’Arena. Soddisfatto, l’uomo balzò di nuovo in strada e si avviò verso i propri alloggi.
Era come se Jackson avesse già vinto. Come se lui avesse già vinto.


Dubhne aveva sempre pensato che Chexla fosse una città rispettosamente grande. Ora capiva di essersi sbagliata. Città dei Re, quella era una grande città. Non un semplice agglomerato di case e palazzi. C’erano piazze, monumenti, fontane, botteghe, locande, armerie, ogni sorta di emporio o negozietto alimentare. Non fosse stato per il motivo della sua permanenza nella capitale, Dubhne sarebbe stata piuttosto entusiasta di dare un’occhiata in giro. Claris le aveva raccontato che si poteva incontrare qualsiasi tipo di persona in quelle immense vie, dai nobili delle Isole Crimsief ai cugini dei regnanti di Tharia. Luoghi in cui Dubhne mai aveva messo piede e, alcuni, di cui non aveva mai nemmeno sentito parlare.
Mentre il carro si apprestava a raggiungere gli alloggi dei Combattenti, la ragazza scorse persino dei ragazzini appartenenti alla Gente Bianca correre di qua e di là.
– È bella, vero?- le chiese Claris con un sorriso soddisfatto. Dubhne non rispose; era senza parole.
Malcom, appena ebbe deciso che il popolo si fosse goduto abbastanza la vista dei suoi guerrieri, spronò i cavalli ad andare più veloce. Dubhne quasi inciampò per il repentino cambio di velocità.
– Ma ora… dove andiamo?- chiese ansiosamente.
Claris spiegò:- A palazzo Cerman. È là che stanno tutti i Combattenti. Ci sono cinque piani, uno per ogni squadra, anche se quasi mai tutte e cinque partecipano contemporaneamente ai Giochi...
Dubhne deglutì.
– Ci sarà anche quella di Peterson?- domandò con un fremito.
– Certamente – il tono di Claris era rilassato. – Loro arrivano primi tutti gli anni e si sistemano sempre all’ultimo piano. Cioè quello più grande - sbuffò. Dubhne si chiese come facesse a restare così calma. Poi si rese con stupore conto di una cosa. – Ma quindi… ogni Combattente avrà un alloggio per sé?- chiese curiosa.
– E certo!- confermò Claris. – I Giochi Bellici sono prestigiosi, cosa credi? Che penserebbe la gente se scoprisse che i Combattenti dormono stipati tutti assieme?
Dubhne non replicò. Avrebbe potuto stare un po’ da sola, almeno. D’un tratto Claris interruppe i suoi pensieri:- Ah, credo che ti taglieranno i capelli quando arriviamo. È una tradizione, sai…
Dubhne ci mise qualche secondo a registrare quelle parole. Poi lo stomaco le si chiuse. Istintivamente si passò una mano sui lunghissimi capelli castani.
No, pensò.




Note: allora, beh... so di non aver ancora spiegato cosa siano realmente i Giochi, ma presto (più o meno) lo scoprirete, non l'ho dimenticato. Grazie a chi ha già lasciato recensioni e, sì, anche a chi si è limitato a leggere silenziosamente. Spero che la mia storia vi appassioni:) Baci, Joanna^^

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


6




Salutati Camlias e Michael, Dubhne uscì in corridoio e si diresse tristemente verso la sua camera. Sarebbe stata dura non rivederli per un intero mese. Molto dura. Avrebbe dovuto aggrapparsi più che poteva all’amicizia di Alesha; cercare di ignorare Dills, Charlons e gli altri. Aveva appena fatto in tempo a formulare questo pensiero, che andò a sbattere dritta dritta contro il petto di qualcuno.
– Scusi!- si affrettò a blaterare, temendo che la persona di fronte a sé potesse essere il signor Tomson o una delle sorveglianti.
– Sai, Dubhne? Non credo che ti perdonerò di fronte ad un tale…
reato. – rispose una voce gongolante, e la bambina ebbe un tuffo al cuore. Non era il signor Tomson. Era molto peggio.
Terrorizzata, alzò il viso, e si ritrovò la strada bloccata dai volti sogghignanti di Dills, Charlons e altri due ragazzi della sartoria: Norik e Jay, i migliori amici dei due.
Cercando di tenere a bada la paura, Dubhne balbettò:- C-che cosa volete da me?
- Ma sentitela!- esclamò Charlons, deliziato. – Cos’è, cerchi di fare la coraggiosa? Non so se l’hai notato, ma noi siamo in quattro, tutti più grandi di te, mentre tu sei sola…
Gli altri tre ridacchiarono. – Cosa volete fare, picchiarmi?- fece Dubhne, tentando di mantenere saldo il tono della voce. Dills guardò i compagni, poi si chinò s di lei e sussurrò:- Direi di sì. Sai, dato che tu…- ma non fece in tempo a finire la frase, perché Dubhne gli aveva appena sferrato un pugno in pancia, per poi cominciare a correre disperatamente verso le uscite.
– Prendetela!- ordinò Dills da terra, e gli altri si gettarono al suo inseguimento. La fuga della bambina non durò molto; in men che non si dica Norik le fu addosso, placcandola da dietro. Lei non riuscì più a trattenersi:- Aiuto, aiuto! – gridò disperatamente, ma l’altro le tappò la bocca con una mano e le urlò in faccia:- Non c’è nessuno che possa sentirti! Sono tutti al refettorio! Credevi davvero che fossimo così scemi?
Piangendo, la bambina venne trascinata ai piedi di Dills, che cominciò a colpirla con calci e pugni.
– Vuoi sapere perché ce l’abbiamo con te, eh?- sbraitava mentre la colpiva. – Beh, sai una cosa? È che siamo stanchi di questo lavoro di merda, anche senza una stupida bambinetta che viene a rovinare tutto con i suoi "sì sì sì", "per favore per favore", "voglio la mamma e il papà!" Almeno tu ce l’hai una famiglia!
- E poi arrivi qui, e ti becchi subito il letto del vecchio Cole. Lo sai cosa gli è successo, eh? È morto, a forza di respirare quello schifo di aria della tintoria gli sono esplosi i polmoni. Tu vorresti prendere il suo posto, non è vero? – continuò Charlons, unendosi al compagno nel picchiarla.
– Basta! Basta, lasciatemi stare! – gridò Dubhne fra le lacrime. – Vi prego, lasciatemi! – ma le sue parole furono soffocate da un tonfo. Dubhne fu scaraventata addosso ad una parete.
Credette di essere sul punto di morire. Le girava la testa, e qualcosa di copioso le bagnava la fronte. Sangue. Il suo sangue. La bambina urlò, sconvolta, e i quattro ragazzi continuarono a colpirla, massacrandola di botte. Finché…
- DUBHNE!- urlò una voce, inorridita.
Lei, Dills e gli altri si voltarono all’unanimità: in fondo al corridoio c’era Alesha, con un’espressione a dir poco feroce in viso. – Che cosa diavolo state facendo?- ruggì, correndo infuriata verso di loro.
– Avanti, andiamo!- fece Jay a Dills, tirandolo per un braccio. I quattro corsero via, ma Alesha non provò nemmeno a inseguirli; si chinò su di Dubhne, orripilata. – Santo cielo… che cosa ti hanno fatto, Dubhne?
Lei non rispose, ma le gettò le braccia al collo, ululando per la disperazione.
Sebbene molto scossa, la ragazza provò a rassicurarla:- Tutto bene, tutto bene. Vedrai, Dills e Charlons non la passeranno liscia. Vieni, adesso ti porto in infermeria. Ehi, no, no! Non piangere, va tutto bene…
Dubhne però non ci riusciva. Fiumi di lacrime continuavano a sgorgarle dagli occhi, inarrestabili.
– Li odio! Li odio!- fu tutto ciò che riuscì a dire tra un singhiozzo e l’altro. Era troppo, la bambina ne aveva abbastanza. Era da quando aveva messo piede a Célia che Dills e Charlons non le davano pace, ma non si sarebbe mai immaginata che potessero arrivare fino a quel punto. Fino a picchiarla a sangue. Facendosi forza, Alesha la prese in braccio, accarezzandole la testa come una mamma.
– Tutto bene, tutto bene…- le ripeteva intanto con voce dolce. Piano piano quella litania ebbe il potere di calmarla, e dopo qualche minuto la bambina perse coscienza.


- È INACCETTABILE IL COMPORTAMENTO DI QUEI BASTARDI!- urlò Alesha, fuori di sé. Il signor Tomson, seduto alla sua scrivania, sembrava preoccupato.
– Mi hanno disobbedito, su questo non c’è dubbio - disse in tono cupo.
– Disobbedito? DISOBBEDITO? Hanno liberamente preso a botte una bambina che ha ancora il latte in bocca!- protestò la ragazza, senza riuscire a controllarsi. – Se non fossi intervenuta io avrebbero potuto ucciderla!
- Questo non lo sappiamo - la freddò Tomson, intrecciando le dita sotto la punta del naso. – Ma – aggiunse poi vedendo l’espressione infuriata di Alesha. – Verranno comunque puniti.
– E lo credo bene!- fece l’altra, sedendosi su una sedia e sbuffando vapore dal naso come un toro. In quel momento, non le importava di essere rispettosa delle regole, non le importava di aver appena trattato il proprio padrone come un soprammobile. L’unica cosa che contava era che la sua migliore amica giaceva inerte in un letto d’infermeria, coperta di lividi e tagli.
– Già, ma ora, Alesha, credo che anche tu verrai punita. Sei entrata nel mio studio senza il permesso, mi hai urlato contro e hai insultato i tuoi compagni di corso davanti a me. Questo non deve più succedere – disse poi Tomson a sorpresa.
– Ma cosa, cosa…?
- Heixa – chiamò Tomson, ignorando la domanda di Alesha. – Vammi a prendere Johanna, per favore. Dille di accompagnare la signorina qui in una delle celle della cantina. Ci starà per due settimane, e compito di Johanna sarà portarle pane e acqua due volte al giorno.
Heixa chinò rapidamente il capo e obbedì. Alesha si sentì chiudere lo stomaco. Due settimane di isolamento. Questo significava che non avrebbe potuto stare al fianco di Dubhne durante la sua convalescenza.
La ragazza rimase in silenzio, mentre il signor Tomson riordinava pigramente una pila di fascicoli caduti dalla scrivania. Tutto quello era ingiusto; e dopo pochi minuti la ragazza non riuscì a trattenere la domanda che le premeva:- E Dills e gli altri che l’hanno picchiata? Quale sarà la loro punizione, signore?
- Dieci frustate sulle mani a testa. Più un mese di lavori forzati per tutti e quattro, senza contare ovviamente l’isolamento.
La parte più meschina dell’anima di Alesha esultò a quella notizia: avrebbero avuto ciò che si meritavano, dunque.
– Signore?- fece una voce sottile dietro di loro. – Sono qui, sono arrivata.
Alesha si voltò, e vide davanti a sé il volto pallido di Johanna. Persino lei, che da anni era amica di Dills e Charlons – soprattutto Dills – sembrava turbata.
– Sì, sì mia cara. Porta subita Alesha nelle cantine, e chiudila a chiave in una delle celle. Domani a mezzogiorno e al tramonto le porterai una micca di pane e una brocca d’acqua per i pasti, e ripeterai per tutta la settimana. Mi hai capito?
Johanna si affrettò ad annuire, e lei e Alesha uscirono.
Camminarono silenziosamente fino all’inizio delle scale, poi Johanna esplose:- Senti, Al. Lo so che ce l’hai con me, che da quando Dubhne è arrivata non l’ho mai trattata molto bene. Ma voglio solo che tu sappia che… beh, anch’io ammetto che Dills, Charlons e i loro amici hanno esagerato. Sono stati degli idioti. Sono degli idioti. E quindi ho pensato…
Ma Alesha la bloccò posandole una mano sulla spalla. – No – disse – Non devi scusarti. È tutto a posto.
– Davvero?
- Sì - Alesha sorrise.
Prima che Johanna chiudesse la porta della sua cella, la ragazza le raccomandò:- Ti prego, tieni d’occhio Dubhne. Solo che non faccia… cose strane.
Cioè che non le passi nemmeno per la testa l’idea di scappare, pensò, ma non lo disse.
– Tranquilla, lo farò – rispose sorridendola ragazza. – Allora…- aggiunse poi esitante. – Amiche come prima?
- Sì Jo, amiche come prima.


Dubhne rimase in silenzio ad ascoltare la conversazione tra Alesha e il signor Tomson. Fremette quando udì Tomson parlare della punizione per Alesha, ma si sentì immediatamente più leggera quando seppe cosa aspettava Dills, Charlons e gli altri due. Almeno per un po’ non avrebbe dovuto sopportarli al lavoro e nei corridoi. E poi era giusto che patissero almeno una parte del dolore che aveva sofferto lei.
Nonostante tutti gli ultimi avvenimenti, la bambina riuscì a sorridere nel buio dell’infermeria.




Note: so che a molti di voi il comportamento di Dills, Charlons e gli altri parrà un po'... esagerato diciamo, ma volevo esprimere quanto quello fosse l'unico modo per esprimere la loro frustrazione, dolore e, sì, invidia verso l'innocenza e la "fortuna" di Dubhne. Cioè attraverso la crudeltà che li caratterizza. Mi auguro di non aver esagerato :) Il prossimo capitolo lo pubblicherò fra poco, a presto :)

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


7




- Chi… chi c’è? – fece Dubhne nell’oscurità, fra l’intimorito e l’assonnato. I passi che l’avevano svegliata cessarono. – Chi c’è? – ripeté la bambina, cominciando a sentirsi agitata.
Udì altri passi, ma poi una voce femminile la rassicurò:- Tranquilla, Dubhne. Sono io, Johanna.
Johanna? E da quando in qua Johanna mi rivolge la parola?
Il volto della ragazza, incorniciato dai ricci capelli corvini, emerse dall’ombra. Aveva un’espressione stranamente mesta.
- Senti, io…- esordì sedendosi accanto a lei. – Volevo… insomma, chiederti scusa.
Dubhne alzò gli occhi, sorpresa, e riuscì a scorgere il volto di contrito della ragazza anche oltre il buio.
– Scusa?- fece la bambina, certa di non aver capito bene. Johanna non le aveva mai fatto o detto nulla di particolare, ma non si era mai dimostrata amichevole nei suoi confronti, un po’ come tutti gli altri del resto; al contrario, era sempre la prima a ridere delle battute e frecciate che Dills le lanciava e spesso Dubhne l’aveva vista sedersi con lui e il suo gruppo, in refettorio.
– Sì… vedi… - pareva che parlare la mettesse non poco a disagio. - Non sono stati solo Dills e Charlons a trattarti male. Neanch’io mi sono mai comportata proprio da amica con te e… mi dispiace. E comunque, ti giuro, io non centro niente con ciò che ti hanno fatto quei quattro. Sono stati dei, dei… dei codardi e… hanno davvero esagerato.
- Va bene – disse subito Dubhne, quasi incredula per ciò che aveva appena ascoltato. - Sì, ho capito. Beh… grazie.
Le due sorrisero imbarazzate, poi Dubhne appoggiò la testa sui cuscini sentendosi all’improvviso più leggera. Finalmente, Alesha non era più l’unica su cui la bambina potesse contare.
– Adesso però, riposa, finché puoi. – Johanna le strizzò l’occhio. – Ne hai bisogno.
L’altra annuì. – Grazie,
Jo.
Aveva usato il nomignolo con cui a volte aveva sentito gli altri apprendisti rivolgersi a lei. Per un attimo temette di essersi presa una confidenza fuori luogo, ma si rincuorò quando vide la ragazzina sorriderle di rimando.


- Perché fai tutto questo per me?- chiese Dubhne una sera, mentre Johanna le passava uno straccio bagnato sulla fronte. In effetti, da quando Dills e gli altri l’avevano picchiata, la ragazza era diventata più che mai premurosa con Dubhne. Ogni giorno, dopo la cena, al posto di godersi il riposo assieme agli altri apprendisti, si precipitava sempre all’infermeria, si informava sulle condizioni della bambina e, quando ce n’era bisogno, le cambiava le fasciature sulla fronte e sulle braccia.
– È stata Alesha a chiedermelo, mentre la portavo alle cantine – rispose lei. - Mi ha detto che dovevo tenerti d’occhio. E comunque… l’avrei fatto lo stesso.
– Grazie di tutto – le disse la bambina, grata nel profondo del cuore.
Ma nonostante le cure di quella nuova amica, Alesha le mancava terribilmente. Erano solo quattro giorni che non la vedeva, ma già la bambina rimpiangeva le lunghe chiacchierate con l’amica, il loro sostenersi a vicenda. Era un po’ come aver perso una parte di sé.
Tranquilla. Tra pochi giorni la rivedrai.
Ma d’altra parte, stare in infermeria le piaceva. Se non altro, non era costretta a lavorare. La bambina si era guardata spesso intorno: più che un infermeria, quella era più che altro una stanza un po’ più grande delle altre, con una fila di letti arrangiati contro una parete e, sul fondo, un vecchio armadio di legno contenente bende, stracci e il minimo indispensabile per curare ferite di basso livello: erbe mediche e qualche unguento. Inutile dirlo, era un ambiente squallido e scarsamente illuminato, come tutte le altre stanze della sartoria. Dubhne non aveva idea di dove vivesse il signor Tomson, ma sicuramente non aveva nulla a che fare con quella miseria.
Il giorno dopo, Dubhne fu dimessa.
– Sarai perfettamente in grado di lavorare - aveva detto Deka con la sua voce insopportabilmente stridula.
Certo, come no. Al massimo sarò in grado di farvi guadagnare tanti bei soldoni…
E così per la bambina era ricominciata la vita di sempre. Il lavoro era, se possibile, ancora più faticoso del solito, e il signor Tomson sempre più esigente. Nonostante questo comunque, la notizia dell’aggressione era dilagata, e gli altri apprendisti, ben lungi dall’essere gentili con Dubhne, almeno si sforzavano di ignorarla.


Qualche giorno dopo accadde una cosa. Una cosa che, seppur minima e del tutto ininfluente, diede a Dubhne un piccolo motivo di evasione da quel modo altrimenti duro e tedioso.
Quando era arrivata a Célia, Alesha le aveva spiegato che agli apprendisti era permesso lavarsi una volta ogni due mesi. Era passato poco più di un mese da quando lei aveva messo piede nella sartoria, ma fortuna volle che l'ultimo lavaggio risalisse a circa due mesi prima. Così, per tutti i giorni che seguirono il suo abbandono dell’infermeria, la bambina non aveva fatto altro che attendere il momento di potersi finalmente dare una ripulita. Dubhne, Johanna e tutte le altre ragazze della sartoria vennero condotte nello squallido cortile interno, dove le attendeva una tinozza in ferro colma di acqua insaponata e grigiastra.
– Avanti, vieni - fece Deka, prendendola per un braccio. Versati l’acqua addosso con questa.- e le porse una grossa brocca. – Poi strofinati un po’ con la spugna e quando hai finito passala alla compagna dietro di te.
– Ma… i vestiti dove li metto?- chiese la bambina sconcertata.
– Non so, tu che dici? Vorresti un attaccapanni? Arrangiati. E sbrigati- la liquidò Deka in fretta.
Un po’ imbarazzata, Dubhne si sfilò la gonna, la camicetta e il grembiule da lavoro depositandoli in un mucchietto a terra; immerse i piedi nella tinozza e con mano malferma si rovesciò l’acqua addosso. Questa la investì gelida come la pioggia invernale, e la bambina lasciò cadere a terra la brocca con un salto.
– Ma è ghiacciata!- esclamò, scossa dai brividi. Tutte scoppiarono a ridere, indicandola con il dito e bisbigliando critiche incomprensibili. La bambina si guardò intorno, sull’orlo delle lacrime. Ecco come dovevano vederla le altre apprendiste: una bambinetta piccola, minuta, con le guance rosee tremanti e il mucchietto di vestiti sporchi ai piedi. Arricciò le labbra per controllarsi, raccolse i propri vestiti e corse via.
– Grandioso! – fece Johanna irata, guardando le altre. – Grazie per essere sempre così simpatiche… - e corse dentro, seguendo Dubhne.
– Avanti, non è successo niente…- provò a dirle, ma l’altra spalancò la porta di uno sgabuzzino, vi si infilò e non permise all’amica di entrare.
– Dubhne, vieni fuori! Dai, per favore, non è così grave…
- Non è così grave?- ripeté Dubhne combattendo con rabbia per frenare le lacrime. - Facile da dire per te, Jo: tu sei accettata e ammirata da tutti, non hai nemici, non hai ragazzi che desiderano picchiarti o renderti la vita impossibile! Ma non capisci? Speravo che, dopo di te, anche altre mi avrebbero accettata, offerto la loro amicizia, o almeno il loro rispetto… e invece no! No! Ma cosa ho fatto per meritarmi un simile trattamento, eh? Cosa?
Johanna sospirò, cercando di trovare le parole giuste per consolare l’amica. Poi alzò gli occhi, e si voltò. - Mi spiace, Dubhne. Ci vediamo stasera.
La bambina rimase chiusa nello sgabuzzino per qualche istante a singhiozzare. Poi, lentamente, cominciò a rinfilarsi i vestiti. Doveva andarsene da lì al più presto, per precedere le compagne già nella sala dei ricami. Spalancò la porta e, silenziosamente, ripercorse i corridoi della sartoria. Finché sentì una voce. Una voce che non aveva mai udito prima: era una voce vellutata, gradevole, appartenente ad un uomo di mezza età.
– D’accordo, Jel, tu aspettami qui, va bene? Devo solo scambiare due parole col signor Tomson, poi potremo andare.
– Ma che noia! Non posso fare un giro per la sartoria? – questa era una voce diversa, più stridula, appartenente ad un bambino poco più grande di lei, probabilmente.
Dubhne si avvicinò e vide, davanti all’ufficio del signor Tomson, un uomo e un ragazzino pressappoco identici, in piedi a discutere. Erano entrambi alti, con un ciuffo di ribelli capelli corvini e i tratti appuntiti. Ma se gli occhi dell’uomo erano ambrati e la carnagione leggermente abbronzata, il bambino aveva il viso bianchissimo, candido, e gli occhi di un color azzurro che neanche quelli di Alesha avrebbero potuto eguagliare. Dubhne rimase un istante a guardarli, affascinata, poi l’uomo entrò nello studio e il ragazzino - Jel - rimase solo. Con aria disinvolta, si guardò intorno, e appena adocchiata una sedia traballante, ci si sedette senza esitazioni. Solamente allora Dubhne si rese conto che il ragazzino indossava una tunica meravigliosa: elegante, lunga fino a terra, di uno splendido color blu scurissimo, e ornata ai lati da decori dorati.
– Com’è bello… - sospirò la bambina senza riuscire a trattenersi, ma appena l’altro si voltò verso di lei, sparì dietro l’angolo prima che questi potesse vederla. Con un piccolo sorriso, schizzò verso la sala dei ricami. Non vedeva l’ora di raccontare tutto ad Alesha.
– Scusate per il ritardo! – proruppe rivolta alla sorvegliante Heixa non appena ebbe messo piede a destinazione.
Sostenne uno sguardo contrito e continuò:- Per ripagare… mi offro volontaria di sostituire Johanna nel portare il pasto giornaliero all’apprendista Alesha, nelle cantine.
Johanna, che aveva sostituito Alesha nel turno nella sala dei ricami, fece cenno di no freneticamente con la testa, e Heixa guardò la bambina perplessa. – E perché mai?- chiese con la solita voce dura.
– Io… io… sono disposta a non pranzare, perché… - ci pensò su qualche secondo. - … perché è quello che mi merito. – Sì, accusarsi da sola era stata un’ottima idea.
E infatti, Heixa sembrò soddisfatta. – Brava, Dubhne, vedo che cominci a capire come le cose funzionano qui. Hai il permesso accordato. Se il signor Tomson avrà qualcosa da ridire, provvederò io a spiegargli tutto. Ma ora siediti al tuo posto e riprendi i tuoi lavori: sei parecchio indietro rispetto alle altre e, come hai detto, sei in ritardo.
Cercando di trattenere un sorriso trionfante, la bambina si affrettò ad obbedire.
– Ma cosa ti è preso? Perché vuoi saltare la cena?- le chiese l’amica, non appena si fu seduta.
– Niente, Jo. Avevo solo voglia di fare quattro chiacchiere.




Note: eccomi, sono tornata come al solito con un nuovo capitolo. E come alò solito sono gradite recensioni positive, negative o neutre, i consigli sono per me miniere d'oro. La trama va avanti... Baci, Joanna:)

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


8




Vennero nella stanza al calar della sera.
Dubhne aveva tentato di scacciare la consapevolezza che quel momento sarebbe arrivato, ma quando udì alla fine bussare alla porta, la colse un tuffo al cuore.
Posso sempre far finta di essere morta.
Che diavolo di idea era? Mettersi in cattiva luce fin dall’inizio, mostrare a tutti la propria fragilità, la propria ingenuità e la propria codardia. No, decisamente non era il caso. Eppure i suoi capelli, così lunghi, splendenti…
Cercando di non piangere proprio il primo giorno di permanenza a Città dei Re, saltò giù dalla propria brandina e andò ad aprire. Sulla soglia c’erano Claris e Xenja. Claris sembrava un po’ dispiaciuta per lei, Xenja aveva un’aria assente, come se il trovarsi lì non le facesse né caldo né freddo.
– Dubhne, mi dispiace ma…- cominciò Claris indicando i suoi capelli con un vago gesto della mano. Sforzandosi di non apparire debole, lei scosse la testa. – Io… va bene. Fate quello che dovete.
Forse Malcom si era aspettato che opponesse più resistenza, pensò Dubhne mentre si sedeva sulla seggiola di legno nell’angolo. O almeno, questo avrebbe suggerito la decisione di mandare da lei due Combattenti esperte con la sola “missione” di tagliarle i capelli. Sorrise amaramente a quel pensiero.
Xenja estrasse un coltello dall’aria piuttosto affilata, mentre Claris sollevava le ciocche da recidere tenendole tese. Al primo taglio, una lacrima spuntò silenziosa in uno degli occhi di Dubhne. Vide alcuni capelli cadere a terra. Chiuse gli occhi.
Non pensarci, si disse. Xenja continuò con noncuranza ad accorciarle i capelli, fino a lasciarglieli cadere appena sotto le orecchie.
– Ho finito - annunciò. Dubhne riaprì gli occhi, e si passò una mano fra i capelli, che si erano ridotti a una zazzera ispida e disordinata. Fece di tutto per trattenere un singhiozzo. Xenja si avviò verso la porta, rinfilando il coltello nel fodero. Prima di sparire però si voltò verso le altre due.
– Domani gli allenamenti cominciano all’alba. Vedi di arrivare in orario, o pagheremo tutti - avvisò Dubhne, il tono improvvisamente minaccioso. Poi uscì.
La ragazza rimase zitta.
– Ehm, Dubhne…- fece Claris esitante. – Se vuoi puoi… insomma, ho portato questo. – sollevò un piccolo specchietto che Dubhne non aveva notato. – Vuoi… guardarti?
Dubhne continuò a tacere, poi lo prese dalle mani della giovane. Facendosi coraggio, guardò il proprio riflesso. Dovette ricorrere a tutto il proprio controllo per non scoppiare in lacrime. Le ciocche un tempo morbide e setose si erano ridotte a ciuffi ritti e disordinati. Non c’era più niente di lei in quell’immagine.
– Ma è… è…- balbettò sconvolta. Claris le prese una mano e la fissò negli occhi. – Lo so. Ma devi farti coraggio. Ricresceranno.


Il sole non era ancora sorto del tutto. Le vie di Città dei Re erano ancora quasi deserte, e quell’opprimente silenzio conferiva alla capitale un alone strano.
Nell’immensa piazza che si apriva davanti al palazzo Cerman, il frastuono delle armi che cozzavano l’una contro l’altra era l’unica fonte di rumore. Decine di Combattenti erano impegnati negli allenamenti, e quello era solo il minimo. Claris le aveva detto che probabilmente presto sarebbero arrivate almeno altre due squadre.
Dubhne teneva in mano una spada dalle dimensioni ridotte. Davanti a lei, Socka aveva un’aria spaventata quasi quanto la sua e brandiva una piccola sciabola. A supervisionare il loro primo combattimento con armi vere sarebbe stato Malcom Shist in persona. Seduto sugli scalini della facciata, squadrava i due neo Combattenti con aria impaziente.
Claris e una giovane di nome Agnes, che avrebbero dovuto duellare lì vicino, si fermarono per osservarli. L’ansia di Dubhne non fece che aumentare.
Avanti, muoviti. È solo un allenamento. Il tuo avversario è Richard. E tu lo hai sempre battuto. Avanti, muoviti!
Solo che quelle non erano armi di legno. A guardarli non erano gli occhi entusiasti di Camm.
“Fa’ qualcosa!” parevano dirle gli occhi scuri di Claris, sempre puntati su di lei.
Dai, che sei brava!
Dubhne alzò la spada prima che Shist avesse il tempo di rimbrottarla, e gettando all’aria ogni prudenza si gettò su Socka. Questi, costretto a reagire, intercettò il colpo con la lama della sciabola. I due ragazzi rimasero un attimo in quella scomoda e faticosa posizione, senza sapere come continuare. Il loro sguardo saettava dalle lame luccicanti agli occhi dell’altro. Alla fine, con un balzo il ragazzo si staccò dall’avversaria.
– Dovete muovervi!- esclamò Malcom, irritato. – Credete che un vero Combattente perderebbe così tanto tempo? Sareste già morti tutti e due, se questa fosse l’Arena!
Dubhne si sentiva umiliata e, ormai, gli sguardi di Claris e Agnes non erano i soli ad essere puntati su di loro. Un’antica rabbia tornò a bruciare dentro di lei.
Strinse più forte l’impugnatura della propria arma, e si fece coraggio.
È ciò che devi fare.
Si lanciò nuovamente su Socka, martellando la sua lama di colpi. Imprecisi, certo. Ma poderosi. Il ragazzo, intimidito, cercò di parare come poté, mentre affannosamente indietreggiava sempre di più.
– Smettila di tentare di colpirlo. Colpiscilo! – tuonò Malcom Shist, alzandosi in piedi. Claris notò un lampo pericoloso brillare negli occhi dell’amica. Dubhne caricò un ultimo colpo, e mentre il piatto della lama si abbatteva sul polso dell’avversario e la sciabola gli volava via di mano, la ragazza puntò la propria spada dritta sul suo petto, nel punto in cui batteva il cuore.
Ho vinto.
– Ragazzo, lasciatelo dire: sei imbarazzante. – sbuffò Malcom, avvicinandosi - Dubhne, vedi di non montarti la testa. Non c’è nulla di glorioso nel battere un incapace. Adesso vieni, vediamo come te la cavi con Mia.
– Ehm… e io? - fece Socka timidamente. La risposta dell’uomo fu impietosa:- Vai ad allenarti con Camin e Drembow.
Drembow era il più giovane membro della squadra; Camin doveva avere un paio di anni in più di lui, ma era esile quanto un fuscello. Entrambi si allenavano ancora con bastoni e armi di legno.
Mentre seguiva il proprio padrone fra gli altri Combattenti, Dubhne non si sentiva soddisfatta. Certo, nel momento in cui aveva disarmato Socka aveva sentito qualcosa dentro di sé, l’ombra di quell’ardore che la caratterizzava negli scontri con i figli di Archie. Ma la fiammella si era estinta in fretta; ora era tornata la paura. Mia, ricordava ciò che Claris le aveva detto su di lei: l’avrebbe uccisa? Avrebbe spezzato la vita di qualcuno in allenamento solo per dimostrare quanto fosse brava? Al solo pensiero, la ragazza rabbrividì.
Alla fine Malcom si fermò e interruppe il duello che la Combattente aveva intrapreso con un giovane circa della sua età.
– Mia - chiamò Shist. – Dai una bella lezione a questa ragazzina.
La donna annuì con una smorfia annoiata sul viso. Dubhne quasi si sentì mancare, mentre tremante impugnava l’elsa della spada.
– Prima però…- interruppe Malcom a sorpresa. – Prova con questa - sorrise malignamente mentre prendeva una spada regolare dalle mani del Combattente con cui Mia si era allenata fino a poco prima. Dubhne avrebbe voluto protestare, ma pensò che contraddire Malcom sarebbe stata una cattiva idea. Facendosi forza, gli cedette la propria arma e prese con la mano destra quella che l’uomo le porgeva.
Dovette fare uno sforzo per non farsela cadere su un piede. Era troppo pesante per lei. Dovette ricorrere a entrambe le mani per riuscire a tenerla sollevata. L’imbarazzo tornò a farsi sentire più forte di prima; Malcom Shist la stava fissando con qualcosa di simile al disprezzo negli occhi mentre Mia si stava pulendo le unghie, tanto per sottolineare quanto la ragazzina fosse lenta.
E dai… forza…
Con un’enorme fatica si mise in posizione da combattimento. – Io sono pronta!- esclamò, cercando di mantenersi salda. Mia roteò la spada come se fosse leggerissima. Non disse nulla. Solo, si avventò su di lei con la furia di un Letjak. Istintivamente, Dubhne alzò la lama per difendersi, ma quando le due spade si incrociarono, il peso divenne insostenibile. La ragazza lasciò mollò l’impugnatura sull’elsa della propria e cadde a terra; fulminea l’avversaria le fu sopra, puntandole la propria lama alla gola.
– Battuta - mormorò soddisfatta tra i denti. - Ora posso tornare ad allenarmi seriamente?- chiese poi rivolta a Malcom, rimettendosi in piedi e lasciando andare Dubhne. Questa si massaggiò la gola. Era viva.
Shist parve valutarla un attimo, poi le strappò di mano la spada e la restituì al ragazzo. – Continuate pure – annunciò rivolto a Mia. Poi fece cenno a Dubhne di seguirlo.
– È evidente che Mia sia ancora troppo per te. Vediamo se con Jim te la cavi meglio…
Dubhne avrebbe voluto rispondere che no, era solo una povera ragazzina spaurita, che era impensabile farla battere con ragazzi più grandi di lei, tutti inferociti e abili nel combattimento… E invece non parlò. Ancora una volta, tenne la bocca chiusa.
– Ed è anche palese – continuò Malcom, continuando a camminare. – Che le spade vere per te sono come macigni. Prova con questo. – Estrasse dalla propria cintura un pugnale e glielo passò. Dubhne lo guardò con occhi interrogativi, mentre lui si fermava accanto ad un ragazzo dai capelli castano chiaro. La giovane notò con piacere che aveva un’aria leggermente più mite di Mia, e i suoi occhi nocciola trasmettevano un certo calore. Non era particolarmente alto o imponente, ma si vedeva che possedeva una certa agilità. Le gambe snelle erano pronte e scattanti, e il modo di muoversi sicuro, anche se ancora un po’ inesperto. Non era lì da troppo tempo, glielo si leggeva in volto.
– Un Combattente può utilizzare qualsiasi tipo di arma, nell’Arena – spiegò Malcom Shist. - A parte arco e frecce, naturalmente. Non sono in molti ad utilizzare i pugnali, ma qualcuno c’è. La tua amica non te l’ha detto?
Amica? Ah, già. Claris.
– Lei da sempre si batte con i pugnali. È una delle poche, ma ti assicuro che il risultato è piuttosto letale. Basta saper utilizzarli.
Jim intanto aveva impugnato la propria ascia ad unico taglio, e Dubhne si chiese come diavolo avrebbe fatto a cavarsela solamente con un pugnale. Doveva rischiare e lanciarlo? Oppure limitarsi a schivare e colpire nel momento più opportuno? Come se fosse facile, pensò infuriata e intimorita.
– Cominciate - fece Malcom. Come Dubhne aveva immaginato, Jim non colpì subito. Le probabilità di farsi molto male in quel caso erano alte per entrambi. Dubhne soprattutto.
Dopo aver valutato attentamente le proprie possibilità, il ragazzo si lanciò all’attacco.




Note: questo era il primo capitolo d'azione, finalmente ci sono arrivata^^ Spero come sempre che vi sia piaciuto. So di aver molte volte fatto riferimento ad avvenimenti/persone non ancora citati, ma a suo tempo andrà ogni cosa al suo posto. Recensite se avete voglia; ricevere complimenti, consigli e opinioni fa sempre piacere. Al prossimo capitolo, Joanna Lannister^^

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***


9




Dubhne scese le scale che portavano alle cantine con il sorriso sulle labbra. Non avrebbe potuto mangiare cena, quel giorno, ma al momento la cosa non le importava. Avrebbe parlato con Alesha. Finalmente avrebbe potuto risentire la voce della sua migliore amica. Le avrebbe raccontato del curioso incontro di quel mattino, della divisa indossata dal ragazzino e di quanto fossero brillanti i suoi occhi. Non era gente di Célia, la bambina l’aveva capito subito. Ma allora, da dove venivano? E chi erano? Era la prima volta che Dubhne riusciva a scorgere dei clienti del signor Tomson e non aveva idea del popolo a cui potessero appartenere lineamenti tanto aggraziati. Forse Alesha le avrebbe fornito qualche risposta.
Quando giunse nei locali sotterranei della sartoria, la bambina realizzò con orrore che anche Dills, Charlons e gli altri due si trovavano laggiù, probabilmente. Si fermò un istante, il vassoio contenente il pranzo di Alesha in mano. E se quei quattro l’avessero udita? Sarebbe sicuramente stato un ottimo pretesto per prenderla ulteriormente in giro, una volta usciti dall’isolamento. Riusciva quasi ad immaginarsi la scena.
Un ragazzetto con gli occhi blu e una mantella scura? Stai attenta, Dubhne, poteva essere un demone! fece nella sua mente la voce maligna di Dills, e la bambina riuscì persino ad udire gli altri apprendisti ridere di gusto. Ci mancava solo più quello. Poi, però, un pensiero le attraversò la mente. O meglio, una certezza: Dills, Charlons, Norik e Jay erano dei bastardi, subdoli e codardi, ma non erano di certo stupidi. Una volta assaggiata la severità delle punizioni di Tomson e la lealtà di Alesha avrebbero abbassato la cresta. Già.
La speranza si fece strada nel cuore della sventurata ragazzina e così, leggermente più decisa, riprese a camminare fino alle porte delle celle. Bussò alla prima e domandò, con voce sottile: - Al? Alesha, ci sei? Sei qui?
Nessuna risposta. Dubhne andò avanti, e pregando che a risponderle non fossero i quattro ragazzi, ripeté la domanda alla stanza successiva, e a quella dopo ancora. Alla fine, la voce dolce di Alesha le rispose dal buco di una serratura.
– Dubhne? Dubhne, sei tu? Ma… cosa ci fai qui?
Dubhne sorrise, felice più che mai, e attraverso una fessura apposita consegnò il cibo all’amica. – Ma… aspetta un attimo - fece Alesha sorpresa. – Come mai non è venuta Johanna? Non ti sarai cacciata in qualche guaio, spero…
- Stai tranquilla, non è successo niente – Dubhne pronunciò quelle parole senza troppa convinzione, ripensando all’episodio verificatosi nel cortile quel giorno. Poi proseguì:- Mi sono semplicemente offerta di saltare il pasto per portarlo a te e parlarti.
Il vassoio del pranzo rispuntò da dietro la porta. – Allora prendi metà del pane - disse risoluta la giovane Ariadoriana. Dubhne sorrise, un po’ triste per l’amica, ma poi spezzò a metà il pane. Dopo essersi assicurata di lasciare la porzione più grande all’amica, fece scivolare di nuovo il vassoio verso di lei. – Dai, ora mangia e ascolta, Al. Ti devo raccontare una cosa.
– Cosa?- chiese l’altra curiosa, addentando di gusto il proprio pane. Dubhne sospirò, poi cominciò a raccontare:- Vedi, oggi, dopo la… ehm…
lavata…
- Ah, era oggi? – la interruppe subito la ragazza in tono deluso. – Dunque dovrò aspettare un altro mese prima di levarmi di dosso questo lezzo…
- Sì, sì Al, ma… non ci pensare. Non vuoi sentire quello che ho da dirti?- Dubhne non voleva che l’amica si intristisse. -Allora, mi sono assentata un attimo, e mentre tornavo verso il refettorio ho visto… ho visto... non so…
Alesha, che cominciava ad avvertire un lieve disagio, chiese:- Cosa? Cos’è che hai visto, Dubhne? C’era qualcosa che non andava? Riguarda il signor Tomson?
- No, no, lui non centra. È… qualcosa di diverso.
– Avanti, racconta! – dal tono di voce, Alesha sembrò rincuorata. Dubhne cercò di trovare le parole giuste, e si guardò intorno.
– Tranquilla – la rassicurò Alesha come intuendo i suoi pensieri. – Loro non ci sono. Stanno pulendo i pavimenti su al secondo piano.
Sollevata, Dubhne si appoggiò alla porta della cantina, poi disse:- Proprio vicino allo studio del Padrone, c’erano un uomo e un ragazzino. Ma… non erano come me, o Dills, o Johanna, o il signor Tomson… non erano neanche come te.
– Sai che novità…- fece Alesha ironica. – Non è che ci siano poi tanti Ariadoriani da queste parti - sbuffò.
– Non avevo mai visto niente di simile.- riprese Dubhne sovrappensiero. – Non sono riuscita a vedere bene in faccia l’uomo, ma il bambino… aveva il viso pallido, chiarissimo, e gli occhi ancora più limpidi. Azzurri, bellissimi. E non era impacciato come me, o gli altri bambini della mia età. No, era elegante, silenzioso… aveva una voce strana. Leggera, sottile. E…ecco… - non seppe come terminare la frase. Non riusciva a spiegarsi.
Alesha non rispose subito. Dubhne avrebbe scommesso che l’amica si stesse grattando il mento in quel momento, come faceva sempre quando era pensierosa. Alla fine, con tono esitante, arrivò la risposta. Ma non esattamente quella che la bambina aveva sperato.
– Non ho idea di chi possano essere - disse la ragazza in tono piatto. – Di certo non erano Ariadoriani, se avevano i capelli scuri. Però… non hai pensato che il bambino potesse essere un mezzosangue?
- Un mezzosangue?- ripeté Dubhne senza capire. Non aveva mai sentito quella parola.
– Sì, un meticcio – continuò Alesha. – Un figlio di genitori di razze diverse. In Ariador… - e il suo tono si fece d’un tratto sognante – si dice che i mezzosangue abbiano incredibili poteri magici.
– Davvero? – fece Dubhne sgomenta, sgranando gli occhi. – Ed è la verità? Voglio dire, tu che pensi?
- Non saprei – rispose la giovane tornando mesta. – Non so nemmeno se i maghi esistano veramente o se siano solo materiale da leggenda…
- Ma Will Cambrest, lui ha riportato la magia nel continente, duecento anni fa! – esclamò la bambina; quella era la sua storia preferita in assoluto. – Se la sua storia è vera, devono essere veri anche i maghi e le streghe!
- Lo so, ma è passato così tanto tempo… - sospirò Alesha. – E in ogni caso a me non è mai capitato di incontrarne uno.
– Nemmeno a me.
Dubhne tirò su col naso, delusa. Nella sua mente si riaffacciò, ancora vividissima, l’immagine di quel bambino angelico. In quale angolo del pianeta era nato? Chissà… quanti territori, quanti luoghi a lei sconosciuti si estendevano oltre Célia, oltre lo Stato dei Re, oltre Fheriea? Non lo sapeva, ma in cuor suo si promise che avrebbe abbandonato quella città, che appena fosse divenuta abbastanza grande avrebbe viaggiato, girando per paesi remoti, lontana da Célia e dalla crudeltà di quella vita
– Che c’è?- le chiese Alesha ad un tratto. – Sei diventata silenziosa…
Quelle parole riportarono la bambina bruscamente alla realtà. Sorrise sconsolata. Tutte quelle immaginazioni non erano altro che sogni irrealizzabili.
Va bene, si disse, va bene, non è successo niente. Stai calma Dubhne. Piedi per terra.
– Non ho niente - rispose la bambina ad Alesha, forse in modo un po’ più scortese del dovuto. La giovane, tuttavia, sembrò non essersene accorta perché fece finta di niente. Passarono alcuni istanti, poi Dubhne scattò in piedi.
– Cavolo! - esclamò. – Tra poco tempo inizia il mio lavoro pomeridiano! Accidenti, Al, dammi il vassoio! - Fulminea, la ragazzina agguantò il vassoio da sotto la porta, e salutando Alesha corse verso le scale.
– Ci vediamo tra due giorni, Dub!- gridò l’amica. – Non fare sciocchezze, va bene?
– Contaci! - rispose lei da lontano.
Come se fossi così stupida, pensò poi, sorridendo debolmente. Alesha per lei era tutto in quel momento. Contava persino più di Johanna, più dei suoi stessi genitori. Era l’unica che poteva capirla veramente. Era la prima vera amica che avesse mai avuto in tutta la sua breve vita. Con Johanna andava d’accordo, certo, ma solamente ad Alesha poteva rivelare i suoi segreti, raccontarle le proprie paure, e i propri desideri. Mentre raggiungeva la stanza dei ricami, anticipando Heixa e le altre apprendiste di qualche minuto, passò davanti ad una stanza scarsamente illuminata. In ginocchio, sul pavimento, c’era Dills, intento a passare uno straccio bagnato sul pavimento. Non sembrava aver notato la bambina e per questo Dubhne fu molto grata al fato. Rimase un attimo a squadrarlo, guardandolo con odio e disprezzo. E un filo di paura. Poi, delle voci la fecero sobbalzare, e prima che il ragazzo potesse scorgerla, si unì alle altre sarte che si apprestavano ad entrare nella stanza dei ricami.
Mentre intrecciava pigramente i fili del proprio operato, i pensieri di Dubhne vagarono altrove, e nella sua mente riapparve il bambino misterioso. Anche se non aveva idea di chi fosse, provava un certo timore misto ad interesse per la sua figura, e non riusciva a pensare ad altro. Alla fine, l’ago le punse un dito in quel momento di distrazione, e lei fu costretta a concentrarsi sul proprio lavoro. Ancora non era abituata al dolore che le provocavano le dita sanguinanti, ma dopo le sofferenze che le avevano inflitto i quattro ragazzi, un semplice taglietto appariva come una cosuccia da niente. La ragazzina sospirò tristemente.




Note: non ho molto da dire: questo era il decimo capitolo. So che alcuni di essi (riferiti al passato) sono un po' di stallo, ma comunque... Vabbè. Siete sempre invitati a recensire, sia positivamente che negativamente. Se c'è qualcosa che non va nei miei testi ditelo, e proverò a migliorare:) Joanna :3

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 ***


10




Il giorno in cui Alesha uscì dall’isolamento fu uno dei più felici dell’intera seppur breve esistenza di Dubhne. Le due amiche si abbracciarono, finalmente, dopo due settimane di separazione, e anche Johanna si unì alla loro gioia con entusiasmo.
Quella notte, Dubhne e Alesha parlarono a lungo.
- L’altro giorno non ho avuto il tempo per chiedertelo ma… com’era l’isolamento? È stata dura? - chiese Dubhne in tono leggermente triste.
- Lo sai - rispose l’amica a bassa voce. - Ci sei stata anche tu.
- Già, ma solo per tre giorni.
- Tu però non potevi nutrirti… “Niente cibo né acqua”, così aveva detto il Padrone.
- Ma a questo hai provveduto tu, no?
- Sì, ma…
- Al. Non c’è bisogno. Stai tranquilla, non è stato poi così terribile per me - mentì la bambina. - E poi io sono finita in isolamento perché me la sono cercata, tu invece stavi soltanto cercando di difendermi.
Alesha la guardò comprensiva.
- Sai… - disse lentamente. - Io sono arrivata qui a dieci anni, ero appena più grande di te.
Dubhne si fece attenta: era la prima volta da quando si conoscevano che l’amica citava qualche avvenimento del proprio passato.
- Ci siamo trasferiti qui dall’Ariador quando ero molto piccola, perché mio padre aveva ottenuto lavoro dal signor Tomson. Sai, all’epoca non c’erano ragazzini a lavorare in questo posto. Ma poi… gli affari hanno cominciato ad andare male, il signor Tomson ha cominciato a pagare sempre meno e la mia famiglia si è ritrovata praticamente a fare la fame. Così…- la ragazza s’interruppe per qualche istante e chinò il capo. - Così mio padre ha dovuto chiedere al suo capo denaro in più, per poterci sfamare tutti. Ma… - rise amaramente. - Il signor Tomson non è esattamente un uomo magnanimo e gli ha fatto giurare che, in cambio, appena lui avesse raggiunto un’età troppo avanzata per lavorare… io e i miei fratelli avremmo preso il suo posto. Credo sia stato in quel momento che ha capito che facendo lavorare per lui dei bambini avrebbe potuto sfruttarli in qualunque modo e avrebbe dovuto spendere molto meno…
Ma Dubhne era rimasta ferma su una parola e, senza pensarci, chiese:- Fratelli? Ma che… che fine hanno fatto? Non…- ma si rese conto di ciò che aveva detto con appena un secondo di ritardo: infatti gli occhi di Alesha si stavano riempiendo di lacrime. Ma la ragazza continuò a parlare:- Erano in due, si chiamavano Ollest e Jack, avevano qualche anno in più di me, ma…
- Al – la interruppe a quel punto Dubhne con voce ferma. – Non… non devi dirmelo per forza.
- Oh, Dub!- bisbigliò l’amica sottovoce, e allungò la mano per accarezzare una delle gote rosee della bambina. Poi riprese:- È successo… è successo tre anni fa. I nostri genitori ci stavano riaccompagnando alla sartoria dopo l’incontro di quel mese e…- la ragazza strinse i denti, rievocando quell’avvenimento che aveva segnato per sempre la sua infanzia. – Stavamo passando sotto una balconata di legno in costruzione e… Oh, non avrei dovuto farlo!
- Cosa? Fare… che cosa?
- Ho dato un colpetto sulla schiena ai miei fratelli, e gli ho detto di guardare in su. Loro erano interessati alla costruzione e si sono avvicinati per guardare il lavoro dei mastri costruttori. Quel tipo di lavori gli piacevano, sognavano di diventare mastri muratori un giorno, magari persino di costruire qualche palazzo. Dopo qualche minuto, mio padre gli si è avvicinato per dire loro di sbrigarsi, quando, quando… - alla ragazza sfuggì un singhiozzo. – Non so cosa sia successo, cosa sia andato storto... Le impalcature sono crollate, e hanno preso in pieno mio padre e i miei fratelli. Sono morti sul colpo. Pochi giorni dopo il signor Tomson mi convocò nel suo studio e mi disse che mia madre era stata trovata impiccata ad un albero. Io non... non lo dimenticherò mai. È stata colpa mia, tutta colpa mia.
Dubhne taceva. Non riusciva a trovare una sola parola per consolare l’amica. Era sconvolta, in parte per le parole di Alesha, un po’ per il modo secco con cui le aveva pronunciate. E lei che pensava di essere l’unica ad avere una triste storia alle spalle! No, a quanto pareva lì a Célia praticamente tutti se la passavano male,
soprattutto i bambini. Orfani, miserabili che mai avevano conosciuto i propri genitori. Forse, dopotutto, Dubhne aveva di che essere grata: se non altro aveva ancora una famiglia, nonostante non potesse trascorrervi tutto il tempo che avrebbe desiderato. I volti di sua madre e suo padre, ben lungi dallo sbiadire nella sua memoria, apparivano sorridenti nei suoi sogni a volte, ed era così che avrebbe voluto ricordarli per sempre.
Alla fine, la bambina strinse forte la mano di Alesha e le sorrise con affetto.
– Non è stata colpa tua – disse risoluta. - Mi hai capita? Non è stata colpa tua.


Passò il tempo e, quando per la seconda volta Michael e Camlias vennero a farle visita, Dubhne sentiva di essere cresciuta molto nelle ultime settimane. Aveva lavorato, aveva sudato e si era impegnata tanto, e con Alesha e Johanna al proprio fianco era persino riuscita a sopportare la prospettiva del termine della punizione per Dills e gli altri. Erano stati giorni pesanti, molto pesanti, ma Dubhne aveva imparato il fatto suo, e era riuscita a non cacciarsi nei guai con i sorveglianti e ad evitare qualsiasi tipo di rapporto spiacevole con gli altri ragazzi della sartoria. Aveva obbedito alle regole del signor Tomson, a volte controvoglia, a volte con fatica, ma era riuscita a superare il mese con il sorriso sulle labbra.
Quel giorno fu particolarmente felice di rivedere i suoi genitori.
Dopo averla tenuta stretta a sé per qualche minuto, sua madre le accarezzò la testa, orgogliosa di lei. – Brava, Dubhne. Sei davvero… davvero stupenda. Hai visto? Adesso stai bene qui, giusto? Non è più tanto difficile no?
- Già…- rispose la bambina, per la prima volta senza mentire del tutto. Ancora stentava a crederci, ma la vita alla sartoria aveva assunto uno strano senso di equilibrio. Allora Michael le scompigliò i capelli.
- Ci manchi da morire - disse sorridendo, anche se un po’ tristemente. - Non ho nessuno a cui raccontare storie, adesso…
Fu allora che Camlias notò una cosa.
- Aspetta un attimo… - fece preoccupata rivolta al marito. Si avvicinò alla figlia e le alzò la frangia di capelli ribelli. Il sorriso scomparve dal suo viso. Dubhne rimase disorientata, poi ricordò: Dills.
- Che cosa ti è successo, bambina mia? - chiese sua madre, indicando l'ematoma e il taglio cicatrizzato sulla tempia della ragazzina. Lei si affrettò ad indietreggiare, sottraendosi allo sguardo di sua madre.
- Niente di importante - mentì, anche se con un leggero fremito. - Sono… sono caduta dalle scale.
- Santo cielo, Dubhne… - Camlias la abbracciò di nuovo. – Sempre disattenta a dove metti i piedi… Ricordi quella volta al torrente, quando scivolasti in acqua e rischiasti di affogare?
La bambina si lasciò andare a un risolino, ma Michael non sembrava convinto.
- Va tutto bene, cara? – domandò sospettoso alla figlia.
- Sì sì… - rispose subito Dubhne, asciugandosi in fretta la lacrima che le era spuntata all’angolo dell’occhio destro. Cercò di continuare a sostenere un’espressione allegra. - Mi comprate qualcosa da mangiare? Io sto morendo di fame…
I suoi genitori risero.
- Sei sempre tu, comunque… - mormorò Michael, con aria rincuorata. I tre camminarono lungo la strada principale di Célia senza parlare, più che altro guardandosi intorno. Dubhne si teneva stretta alle mani dei genitori, come se lasciarle fosse significato perderli per sempre. Michael comperò alla figlia la solita focaccia da uno dei panettieri del mercato, e tutti insieme trascorsero il resto del pomeriggio seduti sulle rocce che circondavano il laghetto ai margini occidentali della cittadina.
- Sai, sulle colline i fiori sono quasi tutti avvizziti. – disse ad un certo punto Camlias, rivolta a Dubhne. Questa non distolse lo sguardo dall’acqua. – Davvero? - chiese distrattamente.
- Mh - fece sua madre. - Presto anche i tuoi cari uccelletti cominceranno a migrare…
La bambina si voltò verso di lei.
- Com’è la vita adesso, per voi? Io vi ho raccontato della sartoria, voi ditemi come si sta senza di me. È bello?
- Ma figuriamoci! - esclamò Camlias, sorridendo indignata e accarezzando il viso della figlia. Dubhne sembrò soddisfatta.


Quando però la bambina tornò alla sartoria, la aspettava una brutta sorpresa. Alesha la attendeva sulla soglia del refettorio, in viso un’espressione seria.
- Dub…- cominciò, ma la bambina giudicò da sola. Soli, lontani dagli altri, visibilmente dimagriti e con un espressione feroce in volto, c’erano Dills, Charlons, Norik e Jay. Dills si voltò verso di lei appena la vide.
- Non finisce qui - lo vide sillabare la bambina in lontananza.
Deglutì.
Non finisce qui.




Note: salve a tutti! Prima di tutto vorrei ringraziare in particolar modo ElePotter, che ha inserito la mia storia nelle preferite, Deni99 nelle ricordate e le quattro persone che l’hanno inserita nelle seguite. Davvero, grazie mille ^^ Se la mia ff vi piace però siete invitati a recensire, mi farebbe davvero piacere. Arrivederci al prossimo capitolo :)

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 ***


11




- Ma che ha Johanna in questo periodo? È strano…- fece un giorno Dubhne rivolta ad Alesha, mentre l’amica passava loro davanti senza neanche salutarle. Era la seconda volta di fila che a tavola non si sedeva vicino a loro; ma se la sera prima pareva esserci stato un motivo – la ragazza aveva fatto tardi dal turno pomeridiano e i posti accanto a loro erano già stati occupati – quella volta non c’erano spiegazioni apparenti: Johanna si era sistemata in un tavolo distante da loro senza dire una parola.
Alesha aggrottò le sopracciglia in modo insolito. Poi la ragazza alzò le spalle. – Non lo so, Dub, ma adesso vieni, avremo tutto il tempo per parlarle stasera.
Dubhne guardò preoccupata la sagoma di Johanna che si allontanava verso la tintoria, ma poi decise di lasciar perdere e raggiunse la sala dei ricami con Alesha.
Mentre svolgeva controvoglia il proprio lavoro, la bambina rifletté: secondo Alesha era soltanto una questione da niente, ma lei non si sentiva tranquilla. E aveva la netta sensazione che Dills e Charlons c’entrassero qualcosa. Cosa le avevano fatto? L’avevano minacciata? Oppure, semplicemente, Johanna non era un’amica come Dubhne la riteneva? Il pomeriggio passò lentamente e faticoso e, quando finalmente Heixa congedò le apprendiste per la cena, Dubhne era sul punto di scoppiare in lacrime.
– Oh, insomma… Ma si può sapere che ti succede?- sbottò Alesha preoccupata, mentre insieme camminavano verso il refettorio.
– Niente - mentì Dubhne. – Voglio soltanto parlare con Jo.
– Ehm… non credo che avrai bisogno di andarla a cercare - la interruppe Alesha. – Sta venendo proprio da questa parte…
La bambina si voltò appena in tempo per vedere Johanna avvicinarsi a lei e prenderla per un polso.
– Ti devo dire una cosa, Dubhne - disse questa in tono serio. Prima che lei potesse rispondere, però, Alesha le mise una mano sulla spalla con fare protettivo. – Che c’è, Jo?
- D-devo parlare con Dubhne - ripeté l’altra con voce agitata, quasi spaventata. La bambina comprese che c’era qualcosa che non andava nelle parole dell’amica e disse:- Tranquilla, Al. Tarderemo solo di qualche minuto.
La ragazza le guardò dubbiosa, ma Dubhne cercò di sorriderle di rimando. Poi si affrettò a seguire Johanna, che si stava dirigendo verso le cantine della sartoria.
– Ma dove vai?- le chiese Dubhne, che cominciava ad essere sinceramente inquieta. La ragazza però non rispose; scese le scale con la bambina al seguito e si fermò solo quando il rumore degli altri apprendisti che andavano a cena si fu spento.
– Senti… - cominciò Johanna dopo qualche secondo. – Io… non posso più esserti amica.
– Cosa?!- esclamò Dubhne sbalordita. Avrebbe potuto aspettarsi di tutto, ma non questo. – Cosa vuol dire che non
puoi?
- Io… Cerca di capirmi…
- No, invece proprio non capisco! - alzò la voce Dubhne, che cominciava ad essere arrabbiata. – Prima non mi parli per due giorni e poi te ne esci con questa storia? Cosa cavolo vuol dire?
- Che ho paura, va bene? - gridò Johanna, e inaspettatamente scoppiò in lacrime, accasciandosi sul pavimento. Dubhne non seppe come rispondere. – Ma che cosa vuoi dire? - chiese infine alla ragazza, sedendosi vicino a lei. Joanna si asciugò le lacrime dagli occhi, poi rispose:- Io qui me la sono sempre cavata bene perché ero amica di Dills. Ci conosciamo fin da quando eravamo bambini, e siamo arrivati alla sartoria insieme. Lui ha conosciuto Charlons, Norik e Jay, e io mi sono unita a loro. Ma ho paura che… se scoprissero che sono diventata tua amica…
- Cosa?
- Non voglio finire per essere picchiata! - esclamò Johanna, piangendo. – Non voglio che tutti mi etichettino come una traditrice!
- Traditrice? - ripeté Dubhne, che davvero non riusciva a capire. – Ma di che cosa stai parlando?
- Del fatto che ho abbandonato Dills e gli altri tre per stare con te! E finché loro tre stavano in cella la cosa poteva anche andare bene, ma adesso non più! Non con quei quattro in giro.
Dubhne aggrottò la fronte, dispiaciuta, e prese la mano dell’amica. – Vedrai Jo, andrà tutto bene.
Quelle parole, pronunciate da lei, suonavano davvero strane.
– Anche Alesha corre gli stessi tuoi rischi. Sempre se così li possiamo chiamare. Ma comunque non credo che loro combineranno altri guai, non dopo le punizioni che gli ha inflitto il Padrone.
– No Dubhne - ribatté la ragazza, allontanandosi di colpo da lei. – Mi spiace, ma questa volta no.
E si rialzò, lasciando Dubhne in uno stato di pura disperazione.


- Si può sapere dove ti eri cacciata? - la accolse Alesha in tono teso, dopo che Dubhne si fu seduta vicino a lei. – Ho visto Jo ritornare senza di te e…
- Per favore – ringhiò Dubhne. – Non. Chiamarla. Jo.
L’amica la guardò, perplessa. – Che cosa è successo?- chiese, alzando in modo quasi impercettibile un sopracciglio.
– Niente. Non è successo niente - rispose la bambina, rigirando il cucchiaio nella minestra di porri e patate talmente forte da schizzarsi i vestiti.
Alesha sembrò leggermente irritata, ma lasciò perdere e disse:- Avanti, sbrigati, tra poco dobbiamo tornare nel dormitorio.
Dubhne terminò la propria cena in fretta e furia, per poi seguire la fiumana di ragazzi che si dirigeva verso la stanza per la notte. La bambina si sfilò il grembiule da lavoro e si infilò sotto le coperte senza mai guardare né nella direzione di Alesha, né in quella di Johanna.
Stesa nel suo letto e avvolta dal buio, Dubhne pianse per la prima volta dopo settimane.
Il giorno dopo, al telaio, Dubhne e Johanna non scambiarono una sola parola. Si limitarono a svolgere il loro lavoro nel modo più accurato possibile, sotto lo sguardo severo di Kall.
Kall era sempre stato il sorvegliate più simpatico a Dubhne, o se non altro, era il più
umano. Era un uomo d’età compresa tra i trentacinque e i quarant’anni, alto e piuttosto magro, dagli ispidi capelli biondicci e sopracciglia ben disegnate. Aveva una voce calma e moderata, e – cosa incredibile – che a Dubhne non suonava fastidiosa.
Una o due volte Dubhne cercò di incrociare lo sguardo di Johanna, ma non ottenne i risultati sperati: la ragazza non alzava gli occhi dal proprio operato. La bambina sbuffò sonoramente, ma non disse nulla. Alla fine, quando Kall diede l’ordine di fermarsi, Dubhne si allontanò dal telaio così bruscamente che questo traballò, ribaltandosi su un fianco e ingarbugliando tutti i fili del tessuto.
– Oh, no! - esclamò Dubhne, ma troppo tardi: il guaio era fatto. Tutti gli apprendisti della sala posarono lo sguardo su di lei, e Kall la fulminò con gli occhi.
– Ma che diavolo ti è… - cominciò adirato, quando la porta si spalancò. Tutti i ragazzi balzarono in piedi quando videro il signor Tomson irrompere nella stanza.
– Kall, devo chiederti un favore…- fece questo ma , appena notò il disastro combinato da Dubhne, si interruppe. – Che cosa hai fatto?- scandì rivolto alla bambina, infuriato.
– Io… ecco io non… - balbettò lei, terrorizzata. Era finita, morta. Che cosa le sarebbe accaduto? L’avrebbero frustata? Messa a digiuno per due settimane?
La bambina si preparò a subire…
- Non è stata colpa sua - intervenne a sorpresa Richard, prima che Tomson potesse scagliarsi su Dubhne. Questa lo guardò con occhi interrogativi, sbalordita.
– E che cosa vorrebbe dire questo? - chiese Tomson, respirando pesantemente.
– Che per sbaglio la ragazzina è inciampata su un’asta del telaio che avevo disposto male... Errore mio – venne inaspettatamente in loro aiuto Kall. Lo sguardo della bambina schizzò su di lui. Ma che cosa diavolo stava succedendo?
– Oh, in questo caso… - disse Tomson, spiazzato. Poi cercò di riprendere in mano la situazione.
– Beh, che non accada più Kall, intesi?, o sarò costretto a ridurti la paga di questo mese.
Il sorvegliante annuì, e fece un piccolo cenno di rispetto mentre il signor Tomson usciva. Dubhne guardò Richard che, inaspettatamente, le rivolse un piccolo sorriso.
Mentre tutti gli apprendisti uscivano Dubhne si avvicinò a Kall.
– Perché mi avete aiutata? - chiese ancora stupita.
– Perché, se ti fossi beccata la colpa, il signor Tomson ti avrebbe praticamente fatta torturare. Anche Richard lo sa; lui è qui da più tempo degli altri. E, sinceramente, ne hai già viste abbastanza da quando sei arrivata.
– Torturare? - ripeté Dubhne sconvolta.
– No, ragazzina, era soltanto un modo di dire. Ma di certo non te l’avrebbe fatta passare liscia - rispose l'uomo stancamente. - In quanto al telaio, domani chiederò a Celes di ripararlo, è lei l’artigiana più esperta in questo campo. Questo lavoretto mi costerà metà della paga del mese, se va bene, ma non importa. E ora vai.
Dubhne uscì dalla stanza quasi ridendo dalla contentezza. Era riuscita a uscire dai guai senza riportare neanche un graffio. E soprattutto, Richard le aveva sorriso. Questo non voleva dire che sarebbero diventati amici, ma almeno ora aveva la certezza che lui non la detestasse come Dills e gli altri. E Kall era stato addirittura buono con lei! Incredibile.
La bambina sorrise, saltellando verso il refettorio.




Note: salve a tutti :D So di aver impiegato un po' tanto ad aggiornare stavolta, ma sono stata in vacanza per qualche giorno, per cui non ho avuto molto tempo. Spero di essermi fatta perdonare con questo capitolo non breve ;) Ne arriverà un altro al più presto, nel frattempo leggete e spero che questo vi piaccia^^ Bye, Joanna.

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 ***


12




Stesa sulla propria brandina, Dubhne stava cercando disperatamente di controllare la tremarella. Il gomito dove l’ascia di Jim l’aveva colpita le doleva terribilmente, e tutt'attorno al taglio irregolare e sanguinolento la pelle era gonfiata a dismisura. Strinse i denti con rabbia, mentre il ricordo della mattinata le riaffiorava nella mente.
Quello con Jim non era stato un lungo scontro. Forse leggermente più combattuto rispetto al duello contro Mia, ma comunque doloroso e umiliante. Il lungo taglio che ora la stava facendo impazzire se l’era procurata quasi subito, al primo attacco del giovane. Armata solamente del pugnale che Malcom le aveva consegnato, la ragazza non aveva potuto fare nulla per parare. Il panico l’aveva attanagliata, impedendole di muoversi, e istintivamente aveva tentato di proteggersi alzando il braccio sinistro sopra la propria fronte. Se Jim non avesse bloccato appena in tempo il colpo, probabilmente sarebbe morta; ma per ricordo la lama del ragazzo l’aveva comunque segnata dolorosamente.
Con stupore di tutti, se stessa per prima, Dubhne non aveva pianto. Sicuramente in tutta la propria vita non aveva mai provato un dolore simile, ma in quel caso il sollievo di non essere morta era stato più forte della sofferenza. Malcom Shist doveva averlo intrepretato come un buon inizio, perché non aveva obiettato nulla. Dubhne e Jim si erano separati e la ragazza aveva tentato di trovare un modo per combattere alla pari. Non ci era riuscita. L’avversario si era nuovamente gettato su di lei, e la giovane non aveva potuto far altro che limitarsi a schivare, con qualche difficoltà. Il teatrino era andato avanti per qualche interminabile attimo, poi Jim si era stufato di giocare. Con un unico movimento le aveva fatto volare via dalle mani il pugnale inutilizzato, e l’aveva costretta ad arrendersi, cosa che Dubhne aveva fatto con piacere. Il vero dolore era arrivato solo allora.


La squadra di Ellison Pets giunse nella capitale due giorni dopo. Una ventina scarsa di combattenti; anche agli occhi poco esperti di Dubhne era chiaro che paresse decisamente meno competitiva di quella di Peterson Cambrel. Della squadra appartenente alla – almeno fino a quel momento – solo leggendaria Carly Tohr non c’era ancora traccia. Dubhne non aveva indagato a proposito, ma un giorno aveva sentito Malcom sentenziare, parlando con James, che a quel punto della stagione era ormai improbabile che si presentasse.
Gli allenamenti continuarono per settimane ogni giorno più duri, più faticosi e impegnativi. Dopo i primi giorni, in cui Malcom li aveva messi alla prova per capire quanto i nuovi arrivati se la cavassero con le armi e verificare quale fosse lo stato di forma dei veterani, era iniziata la componente fisica dell’addestramento. Ogni mattina, prima dell’alba, i Combattenti venivano svegliati e costretti a compiere dieci giri di corsa attorno alla piazza di fronte al palazzo Cerman – la prima volta Dubhne era stramazzata a terra a metà del terzo giro – dopodiché, prima di iniziare a esercitarsi nel combattimento, la squadra, dopo un’esigua colazione, si recava nella palestra del palazzo per una sessione di un’ora di addominali, flessioni ed esercizi per sciogliere i muscoli. E quella non era che la parte facile.
Se nei duelli contro Richard e Camm Dubhne si era illusa di avere talento con la spada, ora capiva di essersi sbagliata. Malcom aveva cominciato a farle utilizzare lame regolari piuttosto presto, anche dopo il vistoso fallimento nello scontro con Mia. E la ragazza aveva capito che tra armi di legno e vere c’era non poca differenza. Persone come James sembravano essere nate per maneggiarle, ma lei decisamente no. Non sapeva quante volte se lo fosse ripetuto. Erano troppo pesanti. E veloci, e letali. Affilate come e più di lame di rasoi, bastava una piccola distrazione e sulle braccia le si disegnavano tagli di un rosso luccicante. All’inizio si era detta che sarebbe bastata un po’ di pratica. Eppure, duello dopo duello, ferita dopo ferita, le doti spadaccine di Dubhne non accennavano a migliorare. I riflessi si erano sviluppati in lei, questo sì. E poi erano cominciati gli addestramenti mirati con asce a doppio taglio, coltelli e scimitarre a lama larga.
Solo allora nel cuore di Dubhne si era fatta strada la speranza. Le era bastato impugnarne una per comprendere che le scimitarre erano la sua arma. Tutto dimostrato dall’istantaneo duello con Elis. Bionda, più grande di lei di otto anni e dal talento discutibile, la donna aveva dato il tutto per tutto nel duello con Dubhne, ma alla fine la ragazza aveva avuto la meglio. C’era anche da dire che Malcom aveva armato la sua avversaria solo di un pugnale, ma per Dubhne battere una Combattente esperta era già qualcosa. Piano piano la ragazza affinò le proprie tecniche. Allenandosi quasi sempre con Claris e Agnes, finì quasi col divertirsi in quegli scontri lunghi e appassionanti. Sapeva che nell’Arena sarebbe stata tutta un’altra storia, ma per il momento non voleva pensarci. Non poteva pensarci.


Un giorno, Dubhne raggiunse come al solito i compagni alla scalinata principale. Lì trovò Claris ad attenderla con volto stampato un sorriso da trentadue denti.
– Oggi andiamo a scegliere le armi – la accolse tutta soddisfatta.
Senza capire, la ragazza la guardò con aria interrogativa. Claris sembrava essere sul punto di saltare dall’entusiasmo. – Oggi andiamo a scegliere le armi – ripeté con maggiore enfasi. – È una tradizione. Le regole vogliono che a un mese esatto dall’inizio dei Giochi ogni Combattente scelga la propria arma.
Dubhne, tutt’altro che interessata alla cosa, sentì le proprie viscere accartocciarsi. Una mese, un arco di soli trenta giorni la separava dalla morte certa. Eppure s’impose di rimanere calma, e lasciò che la ragazza continuasse a spiegare:- Ci portano nelle armerie del palazzo, proprio qui. Oh, Dubhne, devi vederle. Ti piaceranno!
Ne dubito sentitamente, pensò lei, ma non lo disse. Se non altro avrebbe potuto prendersi una scimitarra a lama larga.
– I Combattenti avranno solo un’arma a disposizione? – chiese poi, rivolgendosi a Claris. La giovane annuì.
– Sì, ma se dovesse andare distrutta durante gli scontri il concorrente verrebbe eliminato…
Questo sì che era interessante. Ci avrebbe fatto un pensierino una volta nell’Arena. Distruggere la propria arma nel primo combattimento. Provocare le ire di Malcom Shist senza dubbio, ma almeno rimanere viva e fuori pericolo per un altro anno. L’unico dettaglio era che spezzare una lama in acciaio non sarebbe stato particolarmente facile, e la ragazza si costrinse a non pensarci.
Una volta che tutti i Combattenti della squadra di Malcom le ebbero raggiunte, quest’ultimo fece loro strada verso le segrete del palazzo Cerman.
– Consideratevi fortunati – annunciò così facendo. – Quest’anno saremo i primi, quegli arroganti dei ragazzi di Peterson non avranno il tempo di fregarci le lame migliori.
Claris e qualcun altro rise, ma Dubhne non mosse le labbra di un centimetro. In lei era tornata ad aleggiare la nausea che l’aveva accompagnata nei primi giorni.
Scesero una ripida scala a chiocciola, sprofondando sempre più giù, sotto il livello della strada principale. Alla fine, un’ampia sala si spalancò davanti a loro.
– Non avevi parlato di armi? – domandò Dubhne, perplessa.
Claris rise.
– Tranquilla, sono nella stanza qui accanto. Prima, però, sarà meglio che tu prenda qualcosa per proteggerti, quando sarai nell’Arena. I Combattenti non indossano armature, ma ci sono molti tipi di protezioni che possono fare la differenza.
Dubhne abbassò lo sguardo sul proprio abbigliamento e dovette ammettere che, effettivamente, non era necessario essere degli esperti per capire che, conciata così, non sarebbe andata molto lontana. I suoi vestiti erano tali e quali a quelli che era solita indossare a casa dei Farlow: una blusa di cotone, un paio di calzoni e sandali di cuoio.
A ridosso delle pareti della stanza dove si trovavano c’erano tre tavolate: sopra erano adagiati paramenti per gambe e braccia, cinture e qualunque altra cosa potesse servire a un guerriero impegnato a combattere. C’erano anche vari manichini di metallo con busti e pettorine di cuoio.
– Scegliete con attenzione e prendete tutto ciò che vi serve – proferì Malcom ad alta voce. – Non avrete altre occasioni per farlo.
Senza sapere da dove cominciare, Dubhne si avvicinò ai manichini. Cercò un corpetto che fosse della misura adatta a lei e, un po’ dubbiosa, lo prese. Avrebbe dovuto chiedere a Claris come si indossasse.
Si avvicinò a uno dei tavoli e notò che, al di sotto, c’erano stivali e anfibi di ogni misura. Ne provò un paio troppo grandi per lei poi, al terzo tentativo, ne trovò un paio in pelle che arrivavano fin quasi al ginocchio; la suola era spessa e la trama di lacci incrociati la convinse che fossero quelli adatti: avrebbe potuto stringerli e allentarli a suo piacimento.
Rialzandosi, gettò uno sguardo sui pezzi esposti sul piano di legno di fronte a lei. Che altro le serviva? Non era sicura che procurarsi dei paramenti in metallo le avrebbe giovato: già faceva fatica a sopportare il peso delle armi, avere altro ferro addosso l’avrebbe resa ancora più goffa e accaldata.
Prese ancora una cintura che, a differenza di quella che era solita portare, portava assicurato un fodero per quella che doveva essere una scimitarra.
– Ti consiglio di prendere un paio di quelli – Claris era riapparsa al suo fianco. Stava indicando dei guanti di cuoio senza le dita. – La guardia dovrebbe proteggerti, ma la prudenza non è mai troppa: non c’è niente di più scomodo di una bella ferita alla mano, soprattutto se è quella con cui reggi la tua lama…
– La guardia? – ripeté la ragazza senza capire.
– La parte che separa l’impugnatura dalla lama – spiegò l’altra con semplicità. – Quasi tutte le armi da taglio ce l’hanno, ma a volte non basta.
Dubhne annuì, grata per tutto l’aiuto che quella ragazza le stava offrendo.
– Grazie – disse piano, afferrando un paio di guanti.
– Allora, avete finito? – li imbeccò Malcom impaziente. – Non abbiamo tutto il giorno.
In pochi minuti tutti avevano radunato l’arsenale prescelto e lo avevano disposto lungo la parete dove si trovava la porta d’ingresso. Claris aveva spiegato a Dubhne che, una volta scelte anche le armi, la servitù si sarebbe occupata di portare tutto nelle stanze di ognuno.
Malcom aveva appoggiato le mani sui battenti di una seconda porta.
Quando li spinse in avanti, persino Dubhne rimase senza fiato. Tutti gli altri Combattenti entrarono nell’armeria riservata ai Giochi.
La ragazza mosse qualche passo in avanti, esterrefatta. Non aveva mai visto una tale varietà di armi. Spade, pugnali, coltelli di ogni forma e misura erano ordinatamente incastrati in una elegante struttura di metallo posizionata nel centro della stanza. C’erano anche accette, lance di dimensioni ridotte e persino un’ascia a doppio taglio. A colpirla maggiormente fu subito una spada, affusolata, argentea, letale…
Sottile e lunga più di un metro, possedeva un’elsa estremamente di classe, impreziosita da zaffiri e persino un minuscolo frammento di quello che sembrava Cristallo Bianco. Era meravigliosa. Quasi con riverenza, la giovane Combattente allungò una mano e la strinse attorno all’impugnatura. Si sentì pervasa immediatamente da un senso sconfinato di potere, e provò a sollevarla. Rimase delusa; era troppo pesante, l’unico risultato che avrebbe potuto raggiungere sarebbe stato quello di farsela cadere su un piede. Fece un passo indietro. Chi voleva ingannare? Le non sarebbe mai riuscita a padroneggiare un’arma di tale magnificenza.
Claris, che teneva già stretti in mano due pugnali, le si avvicinò.
– Bella eh? È il sogno di ogni Combattente.
Dubhne non si voltò neppure: non riusciva a staccarle gli occhi di dosso.
– È straordinaria – ammise. – Chi l’ha usata l’anno scorso?
Claris aggrottò la fronte, cercando di ricordare. Alla fine rispose:- Una donna. Di circa trent’anni o giù di lì. Sì, ora ricordo. Immaginati una Xenja con i capelli biondi e uno sguardo più altero. Apparteneva alla squadra di Carly Tohr, una guerriera formidabile. È stata la finalista insieme a Jackson Malker.
– In finale? – Dubhne pronunciò quelle parole con riverenza. – Ed è… è morta, vero?
– Già – confermò l’altra in tono tra il grave e il rassegnato. – Jackson ha pensato bene di eliminare la minaccia, una volta battuta.
Dubhne strinse i pugni con odio.
Jackson. L’aveva visto allenarsi un giorno. E aveva capito quanto le dicerie che circolavano su di lui fossero fondate.
Se Malcom Shist era un uomo muscoloso ed imponente e James lo era ancora più di lui, Jackson Malker li batteva entrambi senza difficoltà. Ruvido, alto quasi due metri, il volto segnato dalle cicatrici. La pelle era così scura e segnata da parere quasi bruciata e sul volto, somigliante ad una maschera di indiscutibile crudeltà, spiccavano due profondi occhi scuri, che parevano più che altro Diamante Nero liquefatto. Il giovane con cui Dubhne l’aveva visto allenarsi era anche lui piuttosto poderoso, ma l’avversario l’aveva costretto alla resa in meno di cinque minuti. Cambor, le pareva fosse quello il suo nome.
Con un brivido la giovane ritornò nell’armeria, dove Claris le domandò tranquillamente:– Quale ti piace di più?
Teneva davanti a lei due pugnali stupendi, dall’elsa riccamente elaborata e la lama chiara e decisamente affilata. Trovandoli assolutamente indifferenti, Dubhne alzò le spalle e poi li prese in mano. Scelse quello più leggero.
– Questo – annunciò restituendolo alla Combattente.
– Sai una cosa?– Claris rise. – Mi sa che hai ragione.
La ragazza si sforzò di sorridere, poi si allontanò leggermente, esaminando con attenzione le altre armi. Trovò ciò che cercava dopo qualche secondo.
Attorno alle sciabole e scimitarre non c’era quasi nessuno, solamente Phil e Camin. Phil ne reggeva tra le mani una molto semplice, con lama leggermente ricurva e l’elsa in bronzo, come per saggiarne la forza. Camin, l’aria spaesata, pareva essere capitato lì per caso.
Dubhne squadrò con attenzione le scimitarre a lama larga. La differenza tra esse e quelle usuali non era minima: la lama argentea era sì piegata e tondeggiante, ma al posto di volgersi lunga e sinuosa si allargava appena oltre l’impugnatura, e nel punto più ampio il piatto poteva arrivare a misurare quasi dieci centimetri.
Alla fine, la giovane Combattente ne prese in mano una. Era perfetta: non troppo pesante, elegantemente lavorata e dall’elsa impreziosita da un frammento di pietra immacolata, ma con sottili venature grigiastre. Impugnandola, pensò che sembrasse fatta apposta per lei. La roteò nell’aria per saggiarne l’aerodinamicità e il peso effettivo e quando, infine, la rimirò nuovamente prese la propria decisione. Ad accompagnarla durante i Giochi sarebbe stata quella lama.




Note: sono tornata con un altro capitolo ^^ So che per adesso i capitoli sul passato superano quelli del presente, ma man mano che mi avvicinerò all'inizio dei Giochi la vicenda prenderà più importanza, state tranquilli ;) Spero che la mia storia vi piaccia, continuate a recensire se vi va :)

scimitarra-Dubhne
Ah, e questa è la scimitarra di Dubhne come me la sono immaginata. Che ne pensate?

Baci a tutti i lettori, TaliaFederer :3

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Capitolo 14
*** Capitolo 13 ***


13




Erano passati cinque mesi dal giorno in cui Dubhne aveva messo per la prima volta piede nella sartoria del signor Tomson. Cinque, lunghissimi mesi.
Dopo il patito abbandono dell’amica Johanna, la vita era comunque proceduta tranquilla. Ogni trenta giorni si ripetevano, regolari, le visite dei genitori, e nonostante l’approccio non tanto piacevole fra Dubhne e gli altri ragazzi della sartoria, la bambina era riuscita a tenersi fuori dai guai. Alesha era il suo punto di riferimento, come sempre. Alla fine, dopo il momento di tensione dovuto al litigio con Johanna, Dubhne era riuscita a riappacificarsi con l’amica, spiegandole finalmente cosa fosse successo nelle cantine tra lei e la ragazza. E da quel giorno, se possibile, erano diventate ancora più inseparabili.
Alesha ne era ben consapevole: all’interno di quelle mura, la bambina aveva solo lei. E prendersi cura della propria amica in miniatura le piaceva. Era una bella sensazione quella di poter rendere felice una persona così sventurata; occuparsi di lei le davo uno scopo nella vita.
Dubhne, d’altra parte, aveva finalmente accettato la propria condizione ,e visto che Dills e i suoi compagni avevano finalmente terminato di tormentarla, la ragazzina aveva cominciato a guardare la sartoria quasi come una casa. Alesha era sua mamma, e tutti gli apprendisti suoi fratelli, anche quelli con cui non aveva mai scambiato una parola. Sapeva che era un pensiero infantile, ma era l’unico modo per non sentirsi tanto sola. Aveva persino cominciato a giudicare Dills e Charlons in modo diverso: forse era solo per la paura di essere nuovamente puniti, ma né i due ragazzi, né Jay e Norik le aveva più torto un capello. Nel cuore della bambina, finalmente aveva trovato posto la speranza. Quanto a Kall, dopo che lui l’aveva salvata dalle ire del signor Tomson, i due erano quasi finiti col diventare amici. Non proprio nel vero senso della parola, ma se non altro il sorvegliante era meno duro con lei che con gli altri ed evitava di rimproverarla per leggere sciocchezze, cosa che invece Heixa avrebbe fatto con piacere.
Ma poi, in una gelida serata invernale, quando Dubhne aveva compiuto otto anni da soli dieci giorni, avvenne la tragedia. Suo padre arrivò con l’oscurità, vestito di scuro, e bussò freneticamente alla porta della sartoria per molte volte, finché Deka gli venne ad aprire. Michael fu condotto nell’ufficio del signor Tomson, e pochi minuti dopo Dubhne fu costretta a rinunciare alla propria cena, convocata da Deka in udienza dal Padrone. La bambina entrò nel salottino privato di Tomson con la paura in viso, ma quando scorse suo padre si rallegrò. Fece per correre ad abbracciarlo, allegra e stupita per la visita inaspettata,, ma l’uomo la bloccò, tenendola a distanza. Non c’era ombra di un sorriso sul suo volto magro. I suoi occhi erano colmi di lacrime.
– Dubhne – cominciò il signor Tomson. La bambina si voltò verso di lui, spaventata, e questi proferì. – Mi spiace. Tuo padre mi ha appena riferito… Tua madre è morta.
A Dubhne, colpita alla sprovvista da quelle parole terribili, sembrò che il mondo le stesse crollando addosso. Troppo sconvolta per parlare, indietreggiò, scuotendo la testa. – No - balbettò. – No, lei non può essere morta. È venuta a trovarmi. Il mese scorso stava bene! – Guardò in direzione del padre in cerca di aiuto. Ma Michael taceva, in piedi e fissando il muro, senza riuscire a proferire parola.
– È morta, le cose stanno così, mi spiace. È stata attaccata da una malattia dei polmoni, e non è riuscita a riprendersi.
– continuò Tomson, imperterrito. Dubhne scoppiò in lacrime.
– No, non è vero!- urlò in tono folle, disperata. E senza aspettare risposta si voltò, sgusciò fra Deka e l’apertura della porta e corse, corse quanto le gambette corte le permettevano. La sorvegliante non ci mise molto ad acciuffarla, ma prima di riuscire a domare la furia della bambina si prese un poderoso calcio in faccia. Con la bocca sanguinante, Deka agguantò la bambina per i polsi. – Sta’ ferma!- urlò. – Senti, capisco che tu sia disperata per tua madre, ma se continui così sarò costretta a chiuderti in una cella per il resto del mese!
- Non temere, Deka - fece dietro di loro un voce glaciale. – Con il suo comportamento Dubhne si è appena guadagnata tre settimane di reclusione nelle cantine. Quattro se continuerà ad agitarsi.
A quelle parole, la bambina cessò definitivamente di dibattersi. Per un attimo pensò che suo padre sarebbe intervenuto, che sarebbe corso in suo aiuto strappandola dalle grinfie di Deka per riportarla a casa e piangere insieme sua madre. Ma non accadde niente di tutto ciò: Michael rimase immobile dov’era, come impietrito. A quel punto Dubhne si accasciò a terra e, stremata, pianse.


- Dubhne…
- Vattene.
– Dubhne, ti prego…
- VATTENE! – urlò la bambina a pieni polmoni, afferrando il vaso da notte e scagliandolo con violenza verso la parete. Pianse con rabbia. Alesha, dall’altra parte della porta sospirò tristemente, facendo scivolare il vassoio del pranzo sul pavimento della cella di Dubhne.
– Mangia. Ti prego, o finirai per morire di fame. – disse con voce sconfitta, e si voltò per tornare al proprio lavoro del pomeriggio. Dubhne rimase immobile, sperduta nel proprio dolore. Sapeva di stare commettendo un terribile errore trattando Alesha con così tanta crudeltà, ma davvero non riusciva a fare altrimenti. Non riusciva più a ragionare. La sua mente girava vorticosamente, e riusciva a formulare una sola frase. Risentiva la voce di Tomson, fredda, insensibile, terribile, che nella testa continuava a ripetere:
tuo padre mi ha appena riferito… Tua madre è morta. La bambina rimase per qualche interminabile minuto immobile, seduta sul freddo pavimento della stanza umida. Poi, piano, esitante, scivolò verso il pasto non più tanto caldo che Alesha le aveva portato.
Oh, Alesha, pensò. Al, mi dispiace tanto. Ti ho trattato malissimo, quando tu sei davvero l’unica persona che mi voglia veramente bene, qui dentro. Ti prego, scusa!
Dubhne trattenne a stento l’ennesimo singhiozzo, consumando a fatica il proprio pranzo. In effetti, era da quasi tre giorni che non mangiava. Nonostante l’insistenza di Alesha, la ragazzina davvero non era riuscita ad assaggiare neanche una crosta di pane. Il corpo di Dubhne, stremato da quei continui sbalzi di energie, si era ridotto ad un mucchietto di ossa e carne, pieno di lividi e graffi. La bambina tentava di non pensare al viso di sua madre, ma invano. Le immagini di tutti i momenti trascorsi insieme non le davano pace. La sua figura esile. La voce dolce e sottile. Le visite alla sartoria dei mesi precedenti. Il suo saper sempre le parole giuste da dire per rassicurare la figlia. Scossa dai singulti, Dubhne non riuscì a ingurgitare altro e rotolò sul pavimento, fino a ritrovarsi con il viso rivolto verso il soffitto.
Il resto della punizione Dubhne lo trascorse tremando dal freddo. Le giornate si accorciavano sempre di più, e la temperatura calava rapidamente. Stava iniziando l’inverno dello Stato dei Re, una stagione breve eppure così gelida. Un giorno, tossendo, la bambina si alzò dal proprio angolino per assicurarsi che la finestra fosse ben chiusa, visti i continui spifferi che provenivano da essa,, quando d’un tratto sentì bussare sommessamente alla porta. Pensando che si trattasse di Alesha, Dubhne non rispose. Aveva paura che l’amica fosse venuta per dirle che non potevano più essere amiche, proprio come aveva fatto Johanna, o per coprirla di insulti per il modo in cui lei l’aveva trattata negli ultimi tempi. E così rimase ferma, appiccicata al muro, senza osare fare rumore. Finché una voce non la scosse:- Dubhne? Dubhne vieni qui. Ho una cosa per te.
Non era Alesha. E – per fortuna – non erano neanche Dills o Charlons. No, la bambina fu sommamente sorpresa nel capire che quella voce maschile apparteneva al sorvegliante Kall. Timorosa, si avvicinò alla porta. – C-chi sei? – chiese per sicurezza, pur conoscendo già la risposta.
– Sono io, Kall – confermò l’uomo sussurrando. – Ma adesso fai silenzio.
La ragazzina udì scattare la serratura, e la porta della cantina si aprì leggermente. Kall, più magro ed emaciato che mai, le stava porgendo una coperta di lana. – Tieni - le disse in fretta. – Al termine della tua punizione ci penserò io a farla sparire.
Dubhne, troppo grata per parlare, afferrò subito la coperta e se la avvolse attorno al torace. – Grazie mille - tossì.
Kall sorrise debolmente e, dopo un attimo di impacciato silenzio, richiuse la porta; la povera ragazzina si ritrovò nuovamente sola.




Note: un minuto di silenzio per la morte di Camlias... Bene! Rieccomi con un nuovo capitolo. Non è un granché, lo so... Ma se vi è piaciuto fatemelo sapere con una recensione :) A presto, aggiornerò il prima possibile :D

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Capitolo 15
*** Capitolo 14 ***


14




L’Arena, immensa, si stagliava davanti a loro.
In tutta la sua vita, Dubhne non aveva mai visto nulla di simile. Alta più di una quindicina di metri, era dotata di spessi muraglioni di pietra magnificamente levigata, tanto da sembrare ricoperta di metallo.
Nessuno sapeva con esattezza quando o chi avesse ordinato di costruirla, ma le leggende che gravavano su quel teatro di morte erano parecchie. C’era chi sosteneva che un tempo fosse stata destinata ad un possibile ordine di Guerriere dello Stato dei Re, alcuni che l’antico Re Johnson avesse ordinato di ergerla in onore di Will Cambrest.
A Dubhne Archie Farlow aveva raccontato che un tempo in quella maestosa costruzione non erano stati gli uomini a scontrarsi, ma i Draghi da competizione giunti dal Sud.
Malcom li aveva condotti lì in tarda mattinata, dopo aver concesso loro, in via del tutto eccezionale, qualche ora in più di riposo. Per gli allenamenti ci sarebbe stato tempo nel pomeriggio. Era uno degli ultimi giorni prima che i Giochi iniziassero, e Shist aveva pensato fosse un bene far conoscere anche ai nuovi arrivati il luogo ove avrebbero dovuto combattere. Dubhne era rimasta senza parole a quella vista.
E non era ancora finita. Gli organizzatori avevano preparato tutto nei minimi dettagli. Sulla parete accanto all’ingresso dell’Arena era stata recata una gigantesca incisione. La ragazza fu stupita ne leggere nomi familiari come quello di Claris, poi comprese: era il programma della prima eliminatoria dell’anno. Prima ancora che se ne rendesse conto, i suoi occhi corsero alla ricerca del proprio nome. Lo trovò al decimo posto da destra, accanto a quello di un puro sconosciuto.
Goresh (19)
Si trattava della sua età. Fu scossa da un brivido. Si sarebbe battuta con un ragazzo, più grande di lei per giunta. E da quale squadra proveniva? L’unica cosa che sapeva era che non si trattava della propria. Non aveva nulla a cui aggrapparsi, per cui strinse i pugni così forte da farsi male. Controlla la paura. Tutti i Combattenti intorno a lei guardavano le incisioni con altrettanto interesse, curiosando, leggendo, scommettendo. Nel leggere il nome del proprio avversario, Claris deglutì.
A malincuore , Dubhne volse gli occhi verso di lei e chiese:- Con chi ti scontrerai?
Anche se aveva paura, la ragazza cercò di non darlo a vedere. Guardò Dubhne e rispose:- Neor. E’ della squadra di Peterson da cinque anni.
– Ed è... bravo?
- Sì - Claris non perse tempo a mentire. – Ho combattuto contro di lui una volta, tanto tempo fa. Ero al mio primo anno, allora. Mi ha risparmiata, ma solo perché ero giovane. Quest’anno non sarà così clemente.
– Sempre che non sia tu a vincere.
– Sempre che non sia io a vincere - ripeté Claris, e i suoi occhi tornarono alla sicurezza di sempre. Dubhne si guardò i piedi. – Tu… sai niente su un certo Goresh?- domandò.
L’altra scosse la testa. – Non molto - disse. – Solo che è arrivato quest’anno, non l’ho mai visto prima.
Dubhne non riuscì a reprimere un sospiro di sollievo. Forse avrebbe avuto qualche speranza. Fece mentalmente un rapido calcolo, e guardò le proprie chance. Se avesse vinto, allora sì che le cose si sarebbero messe male. Avrebbe dovuto confrontarsi uno di due altri Combattenti, entrambi maturi ed esperti. Un certo Nekam, dalla squadra di Cambrel, oppure Carl. Sperò con tutto il cuore che a passare il turno fosse quest’ultimo; apparteneva alla sua stessa squadra, d’altronde.
Malcom Shist la richiamò bruscamente alla realtà. – Dubhne - chiamò irritato. – Vieni, dobbiamo tornare al palazzo. Gli allenamenti vi aspettano.
Conscia del fatto che ogni passo da lei mosso la conduceva sempre più vicino all’inizio del massacro, la ragazza si affrettò ad ubbidire. Non aveva impiegato molto a comprendere che tipo di uomo fosse il proprio nuovo padrone. Un uomo che era meglio non contraddire. Il gruppo percorse nuovamente le strade affollate di Città dei Re, cercando di richiamare il meno attenzione possibile. Indossavano tutti i mantelli scuri che avevano ricevuto dagli organizzatori, con lo scopo di non farsi riconoscere da troppa gente. Dubhne, che in tutte quelle settimane non si era mai stufata di ammirare la capitale in tutto il suo splendore, camminava distrattamente, volgendo lo sguardo di qua e di là. A tal punto da non accorgersi di star andando dritta dritta contro il petto di un passante.
– Scusi…- si affrettò a dire, mentre le guance le si tingevano di uno sgradevole color prugna.
– Nessun problema, nessun problema…- rispose tranquillamente la voce di un uomo. Voce che la giovane riconobbe all’istante. Alzò lo sguardo intimidita, e davanti a lei vide Peterson Cambrel in persona. Aveva avuto modo di sentirne parlare, scorgerlo di sfuggita durante gli allenamenti, ma ora che lo fissava da vicino si sentì rabbrividire.
Era alto e magro – era evidente che non avesse un passato da Combattente – e un ciuffo di capelli castani leggermente brizzolati gli scendeva sulla fronte. Le rughe avevano solo cominciato a sfiorare i lineamenti di quel volto affascinante, dove spiccavano due calcolatori occhi di un tenue color grigio verde. Nella sua figura c’era qualcosa che metteva freddo.
– Oh, una delle Combattenti di Malcom vedo…- sussurrò in tono tutto meno che accattivante. Dubhne avvertì gli occhi dell’uomo su di lei, come a valutarla. Si sforzò di non apparire debole.
- Se non è spiacente…- balbettò. – Dovrei tornare con gli altri…
- Ma certo - Peterson Cambrel non sembrò essere urtato dall’affermazione. Sorrise leggermente, mentre continuava a guardare la ragazza. Lei tuttavia non riuscì a muoversi.
– Che succede qui?- irato, Malcom Shist si stava avvicinando. – Dubhne, mi sembrava di aver detto di sbrigarci… - ma si interruppe nel notare l’uomo che aveva accanto.
– Peterson…- bofonchiò come saluto. L’altro ridacchiò, e gli porse la mano. – Malcom, amico mio…- ridacchiò. – E così questa ragazzina è uno dei tuoi ultimi acquisti?
Anche gli altri ragazzi si erano fermati, ora. Alcune persone si avvicinarono per ascoltare. L’espressione che si stava dipingendo sul volto di Shist era contratta dalla rabbia. Dubhne comprese quanto dovesse detestare quell’uomo che per anni aveva tolto gloria alla sua squadra.
– Proprio così - rispose, la mascella serrata. Sempre con in viso quel sorriso poco lusinghiero, Peterson guardò un’ultima volta Dubhne. Alzò un sopracciglio. – Beh… buona fortuna.
Senza più nascondere lo scherno rivolse un breve inchino a Malcom Shist, e poi si allontanò fra la folla.
– Quel fottuto bastardo…- ringhiò lui sottovoce, riprendendo a camminare e tirandosi Dubhne dietro. – E tu vedi di stare un po’ più attenta, la prossima volta!- abbaiò poi rivolto alla ragazza. Ma a lei, per la prima volta, non importava. Il volto di quell’uomo così gelido e sprezzante era ancora vivido nella sua mente. Non c’era da stupirsi che Jackson Malker fosse uno dei suoi. Si intuiva dalla sua espressione.
Peterson Cambrel era uno abituato a vincere.


- Avanti Dubhne, tieni il ritmo - la esortò Agnes, mentre per la seconda volta consecutiva la ragazza si faceva disarmare.
Anche durante la prima sessione di allenamento in cui i Combattenti avevano condotto contando sulle proprie nuove armi personali si era scontrata con Agnes, dopo che con Claris. In quell'occasione aveva avuto modo di constatare che la scelta attuata quella mattina si era rivelata azzeccata: la sua scimitarra a lama larga era del peso giusto, e c'era qualcosa nella curvatura e nello spessore della lama che gliela faceva percepire perfettamente adatta a lei.
Inizialmente, nello scontro di allenamento con Agnes, la ragazza si era sentita stranamente fiduciosa delle proprie capacità, ma la baldanza era venuta meno con il sopraggiungere della stanchezza. La migliore amica di Claris era più avanti di lei di un paio d'anni ed era riuscita a difendersi da suoi attacchi senza spendere troppe energie.
La giovane dello Stato dei Re aveva tre anni in più di lei ed era appena più alta di Claris; il caschetto arruffato di capelli castano chiaro le conferiva un'aria dolce e un po' infantile, ma gli occhi scuri, specie in allenamento, erano determinati e maturi come quelli di Claris. Aveva scelto per sé una spada regolare, anche se decisamente meno maestosa di quella che Dubhne aveva ammirato il giorno prima.
La giovane donna raccolse la scimitarra e la porse a Dubhne.
- Ancora - proferì. - Sei migliorata, dobbiamo sfruttare al massimo le ultime giornate di allenamento.
Dubhne avrebbe preferito potersi allenare anche con Claris, ma la ragazza, che - come Dubhne aveva avuto modo di scoprire tardivamente - era uno dei membri della squadra su cui Malcom più puntava dopo James, Liens e Nimes, dopo aver saputo il nome dell'avversario era stata praticamente costretta da Malcom a confrontarsi solo con i migliori di loro. In quel momento era impegnata in un duello proprio insieme a Liens.
Obbedendo alle parole della sua compagna, Dubhne si rimise in posizione di difesa. Le tremava il braccio dalla fatica nel tenere sollevata la scimitarra; doveva essere quasi un'ora che le due ragazze duellavano a ritmo quasi serrato. Ogni due ore Malcom concedeva loro una pausa per rinfrescarsi nell'ampio lavatoio che sorgeva ai margini della piazza e recuperare un po' di energie, ma Dubhne ancora faceva fatica a reggere così tanto sotto il sole cocente di Città dei Re.
Agnes si gettò su di lei con la spada alzata, colpo che Dubhne intercettò con abbastanza forza da allontanare la lama avversaria dalla sua. Anche se sapeva che il suo corpo avrebbe protestato dolorosamente, menò lei stessa un colpo di scimitarra che Agnes schivò senza difficoltà. Per evitare il suo successivo attacco, invece, Dubhne perse l'equilibrio e crollò a terra. Prima che l'avversaria potesse puntarle l'arma alla gola, però, rotolò si lato e si rialzò. Il sudore grondava dalla sua fronte in tante piccole goccioline che andavano ad addensarsi in un piccolo buco nella pavimentazione della piazza.
Agnes sembrò stupita che la ragazza avesse ancora abbastanza forze per schivare quell'attacco, ma superò lo stupore rapidamente e tornò ad attaccare. Come altre volte le era capitato, nell'incrociare la sua lama con quella dell'avversaria, Dubhne volò con il pensiero ai tempi, che sembravano ormai lontanissimi, in cui lei e i figli di Archie duellavano in giardino, quando ancora non c'erano arene, padroni, morti...
- Ahia!
Senza rendersene conto Dubhne si era fatta trascinare dall'entusiasmo e, nella foga, aveva inferto un lieve taglio all'avversaria al braccio. Agnes reagì d'istinto, allontanandola con un calcio in pancia che la mandò nuovamente a terra.
- Scusami! - si affrettò a dire porgendole una mano, dopo essersi guardata lo strappo nella manica della blusa. Dubhne si rialzò notando che la giovane aveva assunto uno sguardo più severo. - Ti sei distratta. Che è successo?
Dubhne si diede della stupida; ma certo, in allenamento era convenzione che, per evitare di farsi male inutilmente, i colpi venissero sempre assestati di piatto. - Scusami, mi sono lasciata trasportare - borbottò, sperando che Malcom non stesse guardando nella loro direzione. Si sentiva stanca e, per l'ennesima volta, terribilmente frustrata. Era riuscita a disarmare Agnes soltanto due volte, contro le sei dell'avversaria. E proprio quando era riuscita ad eludere la sua guardia colpendola al braccio, lo aveva fatto in modo irregolare.
- Fine del turno! - tuonò Malcom rivolto a tutti i presenti.
Dubhne sussultò: era passata un'ora dal momento in cui lei e Agnes avevano iniziato a duellare, questo significava che avrebbe dovuto cambiare avversario come tutti gli altri. Era una regola che Malcom aveva imposto loro a partire da quel giorno, e sarebbe valsa fino all'inizio dei Giochi.
- Non devi scoraggiarti - le si rivolse Agnes a sorpresa. - Ti sei battuta bene. Nell'Arena non sarai contro di me, ma contro un ragazzo alle prime armi, come te.
Dubhne le fu sinceramente grata per quelle parole, ma la sensazione di speranza durò solo qualche istante; non appena Agnes le ebbe voltato le spalle i nuvoloni che ingombravano la sua mente tornarono ad occuparla più densi di prima.
La ragazza si guardò intorno: se voleva evitare Mia e i combattenti nettamente più forti di lei, ma anche di impegnarsi in duelli completamente inutili con Camin o Drembow, non restavano molte scelte. Xenja era a pochi passi da lei.
Superando la soggezione che le incuteva quella ragazza alta e dallo sguardo freddo, si schiarì la voce, al che lei si voltò.
- Avete tutti un compagno? - chiese Malcom a voce alta. - Chi ancora non ce l'ha si sbrighi, non voglio perdere tempo.
- Combatteresti con me? - chiese Dubhne facendosi coraggio.
Contro le sue aspettative, Xenja la guardò come se fosse un membro della squadra come tutti gli altri e annuì.
- Ricominciate! - ordinò Malcom.
Ancora un'ora, poi potrai riposarti un po', si disse Dubhne cercando di concentrare tutte le proprie forze. Doveva procedere per piccoli obiettivi o sarebbe crollata seduta stante, sotto i colpi del caldo, della stanchezza e, soprattutto, della paura per il futuro.
Xenja si parò davanti a lei brandendo la sua spada.
- Quando vuoi, Dubhne.


Il pomeriggio trascorse accompagnato dal rumore del ferro incrociato, degli ansiti, i gemiti, gli urlacci di Malcom che si aggirava tra le coppie di Combattenti.
Dubhne riuscì a tenere testa a Xenja per un po', benché questa la superasse fisicamente di gran lunga. Per buona parte degli scontri la situazione si era mantenuta circa in parità, con parecchi colpi andati a segno da ambo le parti e un numero simile di volte in cui le due si erano disarmate a vicenda. Avevano perso molte energie entrambe, ma verso la fine dell'ora prestabilita Dubhne avrebbe giurato di stare per crollare, mentre Xenja pareva solo provata. Nonostante tutto, terminata la serie di scontri, la ragazza potè dirsi, per la prima volta da quando era arrivata a Città dei Re, vagamente fiera di se stessa. Alla fine dell'allenamento Xenja le aveva stretto la mano.
- Bel lavoro - le aveva detto con un sorriso.
Dopo i dieci minuti concessi loro per riprendersi un po' – in cui Dubhne aveva letteralmente tuffato la testa nell'acqua del lavatoio – aveva duellato ancora con Socka e, infine, aveva trovato il coraggio di chiedere a Phil di combattere con lei. Il bilancio dei due scontri era stato in equilibrio. Socka, sebbene fosse migliorato notevolmente rispetto al primo incontro, si era dimostrato nettamente inferiore a lei, soprattutto nell'agilità, mentre Phil, combattente esperto e dalla buona tecnica, aveva dominato pressoché ogni scontro.
Dubhne, come molti altri, era arrivata a fine pomeriggio praticamente a pezzi. Quando finalmente Malcom aveva decretato che anche per quel giorno poteva bastare, era così esausta da non avere voglia nemmeno di mangiare.
Per un paio d'ore la stanchezza le aveva quasi fatto dimenticare l'angoscia che le serrava costantemente le viscere, ma con il sopraggiungere della notte un pensiero si era insinuato nella sua mente, crescendo cupo e insistente fino a trasformarsi in un progetto.


Dubhne si alzò che non era ancora l’alba, il mattino seguente. Veloce, e cercando di essere più silenziosa possibile, sgattaiolò davanti alle camere degli altri Combattenti e percorse i corridoi del Palazzo Cerman. Aveva pensato più volte di fuggire. Ma alla fine, la ragione aveva avuto la meglio. Città dei Re non era Célia, lei non sarebbe mai riuscita a lasciarsela alle spalle prima che Malcom se ne accorgesse. Lui conosceva molto meglio di lei la capitale e, una volta trovatala, non sarebbe stato molto indulgente. Dubhne non voleva neanche immaginare la punizione che le avrebbe inflitto.
A quell’ora non c’era quasi nessuno per le vie della città. La giovane percorse la prima strada con il cuore in gola, cercando di non farsi notare. Faceva insolitamente freddo per quella stagione, e Dubhne si strinse nel proprio mantello per far passare la tremarella.
Dopo alcuni minuti, giunse all’ingresso dell’Arena. Voleva ammirarla ancora una volta; vederla così grande e imponente, stagliata contro il cielo notturno le diede un tremito che non aveva nulla a che fare col freddo. Esitò un istante, poi entrò.
Il campo centrale le parve ancora più ampio della prima volta e gli spalti minacciosi, quasi incombenti. Prima che la ragazza potesse fermarla, l’ansia la assalì alla gola, e prese a respirare affannosamente. Non c’è speranza, pensò. Morirò. Fra pochi giorni morirò.
Fu scossa da un conato di vomito: non ce la faceva più a restare lì. Voltò le spalle all’Arena e corse via.


Cinque giorni dopo la trentaquattresima edizione dei Giochi Bellici di Città dei Re ebbe inizio.




Note dell'autrice: salve a tutti ^^ Scusate per l'immenso ritardo, ma sono appena tornata da qualche giorno di vacanza in Germania, e là non mi funzionava il wi-fi. Spero di essermi fatta perdonare con questo capitolo :)
Vorrei ringraziare Marty_598, che ha recensito tutti capitoli della mia storia, e anche tutti coloro che si limitano a leggerla :D Aggiornerò presto,
TaliaFederer.

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Capitolo 16
*** Capitolo 15 ***


15




Per il primo scontro dell’anno, ad affrontarsi sarebbero stati proprio Neor e Claris.
Le regole volevano che i duelli cominciassero all’alba nelle fasi eliminatorie e così lei, Dubhne, James, Agnes e tutti gli altri si alzarono che il sole non era ancora sorto. Al loro gruppo, guidato da Malcom, si unirono anche gli altri due. Peterson Cambrel era in testa alla propria squadra, in viso quell’espressione superba e altezzosa che l’aveva sempre in parte infastidita, in parte attratta. Ma, soprattutto, accanto a lui c’era Neor, l’uomo con cui avrebbe dovuto combattere. Claris non aveva mai avuto l’onore di inaugurare i Giochi con la prima battaglia e se, parzialmente, questa consapevolezza la intimoriva, insieme le procurava un leggero senso di importanza. Emozione che non le dispiaceva affatto. Lei era una vera Combattente e quel giorno avrebbe dimostrato a tutti il proprio valore.
Appena dietro di loro, anche il gruppo di Ellison Pets si affrettava a raggiungere l’Arena.
Città dei Re era praticamente deserta quella mattina. D’altronde, nessuno sano di mente si sarebbe perso l’inaugurazione della più maestosa competizione della storia.
Le tre squadre, come accadeva ogni anno, fecero il loro ingresso nell’Arena, rivolgendo inchini alla folla circostante. La gente sugli spalti urlava, si sbracciava, salutava i propri beniamini. Tutta Città dei Re era lì per ammirarli. Claris sentì Dubhne accanto a sé tremare come una foglia; allungò una mano e strinse quella della ragazza. - Andrà tutto bene - sussurrò.
– Benvenuti! – esclamò in tono fiero il sovrano delle Cinque Terre. Ogni anno accadeva e, ormai, Claris era così abituata al discorso del Re da non prestarci più neanche attenzione. Dubhne al contrario pareva paralizzata dall’emozione. La ragazza sorrise: dopotutto si trattava pur sempre dell'uomo più importante del continente, no?
- È per me come sempre… un grande onore - tuonò con solennità il sovrano, ben visibile a tutti gli spettatori e ai Combattenti, in piedi nella Tribuna d’Onore - dare il pubblico consenso all’apertura dei Giochi Bellici di Città dei Re!
La folla, che fino a quel momento sembrava aver fatto uno sforzo per restare in silenzio, esplose in applausi sfrenati ed entusiasti. Il Re non vi badò, anzi, sul suo volto comparve un sorriso divertito e continuò:- Quest’anno, le squadre ad essersi presentate sono tre!
Il clamore si fece sempre più intenso. - Salutate quindi… i Combattenti della squadra di Peterson Cambrel!
Jackson, Clia, Neor, Mitch e tutti gli altri si fecero avanti, rivolgendo rapidi inchini e cenni al pubblico, che esplose letteralmente.
Era sempre così, pensò Claris con un sorrisetto. Ogni anno il momento dell’inaugurazione si trasformava in un’autentica baraonda. Non che la cosa le desse fastidio, anzi, per lei era piuttosto piacevole. Dopo che la prima squadra si fu fatta da parte, toccò a quella di Ellison Pets. La donna, divenuta padrona di Combattenti solo due anni prima, aveva un’aria al limite della commozione mentre guardava i suoi ragazzi salutare con onore il pubblico.
Claris li guardò di sfuggita, come per valutarne il potenziale: in prima fila c’erano l’abile Nimal, una delle guerriere più mature e capaci, Wesh – giovane ma sveglio – e poi una miriade di persone che non conosceva, o di cui non ricordava il nome. C’era persino una bambina che non poteva essere troppo più grande di Drembow.
Quando poi il sovrano chiamò a gran voce la squadra di Malcom, Claris si aprì in un gran sorriso e avanzò assieme agli altri. La gente urlò e si sbracciò almeno quanto aveva fatto per il gruppo di Peterson, e la giovane lo ritenne un buon segno: il favore del pubblico poteva sempre tornare utile. Alla fine, dopo che l’ondata di chiasso si fu leggermente calmata, il Re esclamò:- Bene e ora… posso dire, per la trentaquattresima volta nella storia della competizione… Che i Giochi abbiano inizio!
Con di sottofondo un pubblico sempre più esultante, Claris si preparò a combattere.


Mentre i Combattenti della squadra di Ellison Pets si ritiravano fuori dal campo per sistemarsi sugli spalti, i ragazzi di Malcom si diressero verso la galleria d’entrata. Tutti gli altri si sedettero a terra o su panche di legno, ma Claris no. Era il suo turno, dopotutto. Nella luce fioca del tunnel di pietra, Shist la prese da parte.
- Sei pronta?- le chiese. Era preoccupato, lo era sempre negli ultimi tempi, ma non lo diede a vedere. Claris annuì, anche se a stento represse un piccolo brivido.
- Neor sarà duro da battere, ma tu puoi farcela. Dimentica il combattimento che hai disputato tre anni fa. Levatelo dalla testa, capito? Questa volta devi vincere.
- Lo farò - adesso la Combattente era risoluta.
- Signore e signori, è venuto il momento di presentare i due Combattenti che daranno inizio alla gara!- la voce gaia di Rodrick, il commentatore ufficiale, sostituì quella del Re. - Allora… dalla squadra di Peterson Cambrel ecco a voi… NEOR!
Neor era sempre stato ben voluto dal pubblico. Alto e attraente, si batteva di solito con una spada regolare di medie dimensioni, e sapeva quando era il caso di uccidere e quando no. Era un avversario decisamente temibile, ma non si distingueva per crudeltà. Fece il suo ingresso nell’Arena sorridendo con piglio deciso, il solito ciuffo di capelli bruni che gli scendeva in fronte. Claris lo fissò dal tunnel opposto, attendendo con trepidazione di venire annunciata.
- Mentre l’altra contendente è… Claris, dal gruppo di Malcom Shist!
Claris avanzò con il cuore in gola.
- Vai - la esortò Shist. - E seppelliscilo!
La ragazza accelerò andatura, e in pochi secondi si ritrovò di nuovo all’aperto. Per la quarta volta nella sua vita si ritrovò sull’orlo del proprio primo duello. Neor le rivolse un breve inchino come saluto; lei si limitò a fare un cenno col capo.
- Signore e signori... LA SFIDA PUÒ COMINCIARE! - tuonò il commentatore, e la battaglia iniziò.
Claris e l’avversario non si scagliarono subito l’una contro l’altra, ma attesero trepidanti il momento giusto, girandosi attorno come lupi affamati. La folla ora taceva. Accadeva sempre così…
Neor si lanciò all’attacco e la ragazza non poté far altro che schivare il fendente, scattando di lato. Veloce, tentò di contrattaccare e colpire l’uomo col pugnale, ma questo si scansò appena in tempo, menando nuovi colpi con la propria lama.
Uno dei notevoli vantaggi che consentiva l’utilizzo di un pugnale era quello di poter contare molto sull’agilità. Claris schivò quasi tutti i colpi senza troppe difficoltà, balzando a destra e a sinistra con la grazia di uno Shirin. Provò anche a stuzzicare il rivale con attacchi a sorpresa, ma Neor non era uno sciocco, e aveva molta più esperienza di lei. Riuscì a volgere un suo attacco in proprio favore, colpendo l’avversaria ad un fianco con la propria spada, e infliggendole un doloroso taglio. All’inizio il dolore fu lancinante, poi lei si riscosse. Valeva per tutti i combattimenti. Dopo la prima ferita si prendeva coraggio. Claris ricominciò a duellare con più foga di prima, saltando, correndo, colpendo l’avversario con colpi di striscio. Doveva tentare di stancarlo, aspettare che fosse più debole per poi finirlo… ma nel tentativo si sarebbe indebolita anche lei. Non era la prima volta che si batteva con un guerriero di forza fisica superiore alla propria, ma in più Neor era anche dannatamente abile. Il pugnale non era arma facile da utilizzare contro di lui. I due dopo qualche minuto si separarono, ansimanti. Neor non aveva ancora cambiato espressione. I suoi occhi castani rimanevano impassibili e le sue labbra non erano contratte in alcuna smorfia di dolore. Se era stanco, di certo non lo dava a vedere.
Devo trovare il modo di disarmarlo…
Il pubblico seguiva ogni loro mossa minuziosamente, talvolta con il fiato sospeso, talvolta lanciando urla di spavento o approvazione. Claris non era ancora riuscita a capire chi dei due la maggior parte della gente appoggiasse, se lei o Neor. Ma al momento non le importava un granché.
Tornò all’attacco gettando all’aria ogni prudenza e menando affondi, con la speranza che l’avversario si sarebbe distratto perdendo la propria lama.
Non fu facile. Lui riusciva sempre a spuntarla e un paio di volte fu in grado non solo di schivare, ma anche di colpirla lui stesso. Le braccia e il petto della giovane si riempirono in fretta di sfregi. Non stava andando affatto bene…
Maledizione!
Con un calcio, Neor la spinse malamente a terra, e il pugnale le volò via di mano. Disperata, tentò di indietreggiare, ma l’uomo colpì ancora. Furono solo i suoi riflessi e il desiderio di vivere a salvarla. Fulminea si girò su un fianco un secondo prima che la spada di Neor le perforasse il ventre, si gettò sul proprio pugnale e, prima che l’altro potesse fare qualunque cosa, si tirò su e glielo conficcò in una gamba.
Il sangue sgorgò all'istante dalla ferita e le grida di dolore furono terribili, ma durarono solo pochi istanti. Disperato ma ancora pericoloso, Neor tentò nuovamente di colpirla mentre lei faceva del suo meglio per immobilizzarlo. Prima che lei gliela strappasse dalle mani, la spada dell’uomo le sfregiò la fronte, e anche Claris gridò dalla sofferenza. Infuriata, gettò via l’arma del rivale e gli puntò la propria alla gola. Lui si immobilizzò.
- Arrenditi - sussurrò, il viso a pochi centimetri dal suo. Neor la guardò con una sorta di gelido furore negli occhi, ma non aprì bocca. La ragazza aumentò la pressione del pugnale sulla sua gola. Alla fine, poco prima che la sua pelle si squarciasse, lui urlò:- Mi arrendo!
Il fragore esplose da ogni lato degli spalti. Quasi tutti si alzarono in piedi, applaudendo come in preda alla follia. Claris sorrise ferocemente, ma non si mosse. La sua arma era ancora al suo posto.
- Avanti, fallo - la sfidò Neor, senza un’ombra di paura nello sguardo. – Uccidimi. Fa’ ciò che io avrei dovuto fare a te l’ultima volta…
Per un istante lei fu tentata di accontentarlo, ma poi si fermò. Era la sua unica occasione per saldare quell’antico debito. Doveva a Neor la vita, dopotutto. Era dura accettarlo, ma era la verità. Si rialzò e rinfilò il pugnale nel fodero della cintura.
- Solo per stavolta - intimò all’avversario, che sembrava incredulo per il fatto di essere ancora vivo. Poi la giovane si rimise in piedi e alzò un pugno in segno di vittoria.




Note: non ci posso credere, sono arrivata al primo combattimento ^^ Spero di essere stata abbastanza abile nel scriverlo tanto quanto basta per coinvolgere... Come sempre comunque sono graditissime tutti i tipi di recensione :)
Isabelle-Furnham-x-efp Finalmente sono riuscita a dare un volto a Claris, che ne pensate, Isabelle Fuhrnam ci sta?
Aggiornerò appena avrò tempo. Baci, TaliaFederer <3

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Capitolo 17
*** Capitolo 16 ***


16




Quando finalmente a Dubhne fu permesso di uscire dall’isolamento, il carattere della bambina era definitivamente, irrimediabilmente cambiato. Benché si sforzasse in tutti i modi di non pensarci, la morte della madre l’aveva segnata come nessun avvenimento mai accadutole. Nemmeno l’essersi dovuta trasferire alla sartoria di Célia. Nemmeno il fatto di essere stata brutalmente picchiata da Dills, Charlons e gli altri. Davanti a quella terribile perdita, ogni altro avvenimento perdeva importanza.
Quanto ad Alesha, le due ragazze non erano più riuscite ad avvicinarsi, non dopo l’episodio che era avvenuto nelle cantine. Dubhne non riusciva a parlare con nessuno, nemmeno alla propria migliore amica per chiederle scusa.
E così la bambina era di nuovo sola.
La vita in solitaria era più dura di quanto ricordasse. Non aveva nessuno con cui sedersi a pranzo per fare quattro chiacchiere. Non aveva un’amica con cui confidarsi. Non aveva qualcuno che la proteggesse dalla disperazione che aleggiava nel mondo. Non sentiva neanche più la fatica per i faticosi turni di lavoro. Il proprio corpo non le apparteneva più. Per la bambina esisteva solo più il dolore.
E poi accadde.
Era una giornata di sole, una delle poche splendide giornate invernali. Con la scusante di avere un leggero mal di pancia, Dubhne aveva ottenuto da Kall il permesso di saltare il pranzo. La bambina stava distesa sul proprio lettuccio, gli occhi fissi al soffitto. Quel giorno, dopo tanto tempo di pura disperazione, la sua mente si era beatamente svuotata. La ragazzina provava solo una terribile voglia di riposare.
– Dubhne – chiamò ad un tratto una voce fredda. Triste. Rassegnata.
La bambina capì al volo che si trattava di Alesha, ma non guardò dalla sua parte. Non ci riusciva. – Voglio restare sola.- disse con voce atona, rivolta al muro.
– Non tenterò di farti cambiare idea. – fece Alesha tristemente. – E credo che fra poco tempo sarai accontentata - Fece una pausa.
Dubhne non parlò. Cercava di sembrare disinvolta, ma in realtà pendeva dalle labbra dell’amica.
- Tra due giorni me ne vado.
La bambina spalancò gli occhi, inorridita.
– E per andare dove? – esclamò voltandosi di scatto dopo pochi secondi. Ma non ottenne risposta.


Dubhne si precipitò in corridoio. Dov’era finita Alesha?
Non è possibile! pensò con rabbia la bambina. Non è possibile. Non anche questo!
Dopo qualche minuto di inutili ricerche, passò davanti alla sala dei telai. Ma certo! Kall le avrebbe sicuramente dato spiegazioni.
– Che cosa vuol dire tutto questo? - proruppe la ragazzina infuriata, letteralmente catapultandosi nella stanza. Il sorvegliante alzò lo sguardo dal proprio lavoro e sorrise:- Ah, vedo che sei ancora viva allora…
- Che cosa vuol dire?
- Ma tu non dovresti essere di là con Heixa?
- Che cosa vuol dire?- urlò lei, sull’orlo di scoppiare a piangere.
Kall allora cambiò espressione, si alzò e le si avvicinò. Per la prima volta da quando si conoscevano l’uomo la guardò negli occhi con affetto paterno. Poi, senza preavviso, si chinò sulla sua figuretta smilza e la abbracciò.
Per un istante, Dubhne fu così stupita da non riuscire a muoversi ma poi, esitante, circondò le spalle del sorvegliante con le braccia, mentre le lacrime cominciavano a sgorgarle dagli occhi.
– Piangi, piangi finché vuoi... – la rassicurò lui a bassa voce, dandole dei leggeri colpetti sulla schiena.
La bambina si separò leggermente da lui. – Dove porteranno Alesha? – chiese con un filo di voce.
– Non le faranno niente di male, tranquilla. – rispose Kall con voce rassicurante. – E’ stata trasferita in una filiale del signor Tomson nell’Ariador. Ormai è abbastanza matura per questo. La decisione è stata presa proprio ieri.
Nell’Ariador. Così lontano.
Dubhne tentò in tutti modi di frenare le lacrime, poi crollò di nuovo fra le braccia del sorvegliante.
- Ma non possono mandarla via! – mugolò. – Non possono! Era l’unica cosa che mi tenesse legata a questo posto!
- Lo so, lo so…- rispose Kall, sempre tenendola stretta a sé. Poi le scostò una ciocca di capelli dal viso. – Ma adesso vai alla sala dei ricami. Vai, o ti ritroverai nei guai con Heixa.
Dubhne annuì, ma una terribile consapevolezza la colpì: non avrebbe potuto parlare all’amica, quel pomeriggio. Già, perché “disturbare la quiete” sotto la sorveglianza di Heixa significava restare a bocca asciutta per l'intera giornata. E, visto che la bambina era già dimagrita abbastanza negli ultimi periodi, infrangere un’altra volta le regole avrebbe potuto significare anche la morte.
Disperata, Dubhne uscì dalla stanza e si diresse a tutta velocità verso la sala dei ricami. Nel frattempo, la sua mente girava vorticosamente.
Alesha. Sua madre. Lentamente, la ragazzina stava perdendo tutto.
Trattenendo per miracolo le lacrime, arrivò a destinazione, sotto l’occhio attento di Heixa.
– Sei in ritardo. – le fece notare questa in tono irritato appena la vide. – Che cosa ti è preso?
Dubhne strinse rabbiosamente i denti ma non rispose, sedendosi per terra e afferrando un fazzolettino di stoffa da ricamare.
Cercando disperatamente di non guardare nella direzione di Alesha, intrecciò ago e filo per due, tre, quattro, cento volte.
Intanto, Heixa osservava il lavoro delle apprendiste con aria insopportabilmente soddisfatta, muovendo qualche critica pungente ogni tanto. Dubhne tentò di tenere gli occhi posati esclusivamente sul proprio lavoro, ma a volte il suo sguardo semplicemente scattavano sul viso intento dell’amica.
Al, ti prego. Guarda da questa parte. Guarda!
Ma non c’era nulla da fare: la ragazza stava immobile, gli occhi chini sul proprio operato, le guance rigate da minuscole lacrime. A Dubhne cominciarono a tremare le gambe. Non ce la faceva più. Era più di quanto la bambina potesse sopportare. Non solo sua madre era appena morta, lasciandola in uno stato di puro sconvolgimento. No, ora avrebbe perso anche la sua migliore amica. La sua unica amica.
Prima che potesse fermarle, le lacrime di esasperazione cominciarono a scenderle sulle guance rosee da bambina. Non sapeva come avrebbe fatto a resistere lì a Célia senza Alesha a sostenerla. Era stata già abbastanza dura la morte di sua madre. Perché ora il fato aveva deciso di sottrarle anche l’ultima persona che la tenesse coi piedi attaccati a quel mondo?
Eppure, la parte più ingenua e ottimista del suo cuore osava pensare che forse, Alesha non sarebbe stata costretta ad andarsene. Forse… il signor Tomson avrebbe cambiato idea, oppure avrebbe scelto Shosanna o qualcun’altra al posto suo.
Non essere ridicola! ringhiò una voce nella mente della bambina. Alesha se ne andrà e tu non puoi fare nulla per impedirlo! Le sfuggì un singhiozzo sommesso. Grazie al cielo, nessuno se ne accorse. Controllati, pensò Dubhne, infuriata per la propria debolezza.
Quando poi, quasi quattro ore dopo, Heixa concesse alle ragazze di abbandonare il loro lavoro, Dubhne si alzò e attese che Alesha la raggiungesse all’ingresso.
E invece, chissà perché, quando la giovane le passò davanti, Dubhne si rese conto di non riuscire a parlarle. Le sfuggì solo un basso squittio, e Alesha – solo per un istante – si voltò verso di lei Poi proseguì oltre, verso il refettorio.
Mio dio. Mio dio, che mi succede?
Sconfitta e decisamente scoraggiata, la ragazzina seguì le altre apprendiste verso la sala da pranzo.
Coraggio, si disse. Coraggio, devi affrontare l’imbarazzo e la paura. Ne va della tua amicizia con Alesha. Almeno tenta di salutarla come sua compagna.
Ci avrebbe provato.


Mangiando pranzo, il giorno dopo, Dubhne si sentiva così depressa che temette di essere sul punto di vomitare. Per quanto si sforzasse, i muscoli facciali davvero non riuscivano a funzionare. In quel momento Alesha, probabilmente, stava raccogliendo le proprie cose… e poi sarebbe partita. Senza lasciare traccia.
Avanti vai! Vai o te ne pentirai per tutta la vita!
E allora, la bambina scattò. Senza neanche considerare Deka e gli altri sorveglianti, si alzò dalla tavolata e schizzò verso il cortile. Non avrebbe detto addio ad Alesha senza neanche essersi riappacificata con lei. Non lo avrebbe mai permesso.
Percorse i corridoi della sartoria come in un sogno, e quando finalmente intravide il profilo di Alesha, immersa nella gelida luce di mezzogiorno, sorrise. Attorno alla ragazza c’erano il signor Tomson, Kall, e poi una donna alta e robusta che teneva per le briglie due grossi cavalli purosangue. Prima che qualcuno potesse fermarla, o anche solo accorgersi di lei, Dubhne gettò le braccia al collo dell’amica.
– Ti prego, perdonami! – esclamò piangendo la bambina. – Ti prego, scusami! Io non voglio che tu te ne vada!
Il signor Tomson, fra l’imbarazzato e l’inviperito, guardò prima Dubhne, poi la signora dei cavalli.
– Io… sono estremamente mortificato – fece in tono incerto, ma nella sua voce si avvertiva una nota di furore represso.
– Non si preoccupi - ribatté l’altra sorridendo. – So che cosa significa perdere un’amica.
Ma Alesha non ascoltò né l’uno né l’altra. Accarezzando i capelli di Dubhne come una mamma, disse in tono dolce:- Non ti preoccupare, Dub. Parto, ma non ti lascio sola. Sarò con te nei tuoi sogni.
Kall, qualche metro più in là, pareva stesse trattenendo un leggero sorriso.
– Hai capito? Stai tranquilla – continuò Alesha, e la bambina annuì, anche se a fatica.
– Ci proverò, Al. Ma mi mancherai tanto…- singhiozzò affondando il viso nella spalla dell’amica. Lei le accarezzò la fronte e fissò gli occhi limpidi in quelli neri della bambina. – Tu devi resistere, amica mia. Tu ce la farai. Perché hai la passione per la vita, Dubhne. Tu puoi fare molto in questo mondo. Hai la forza e il coraggio per percorrere tanta strada. E non ti arrendere. Non ti arrendere mai.
– Adesso vieni via! – le interruppe Tomson, tirando la ragazza per un braccio.
– No!
- Signore, dia loro soltanto un minuto…
La donna con i cavalli gesticolava, Dubhne piangeva, e Kall tentava inutilmente di separarla da Alesha.
– Tieni duro, Dub! – esclamò Alesha mentre veniva letteralmente trascinata via da Tomson. – Ci rivedremo un giorno, te lo prometto!
- Alesha!
- Vieni via Dubhne, avanti.
L’ultima immagine che Dubhne riuscì a vedere prima di svenire fu quella di Alesha che, montando goffamente il destriero nero, si allontanava sempre di più dalla sartoria, fino a rimanere solo più un piccolo puntino all’orizzonte.
Sarò con te nei tuoi sogni.



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Capitolo 18
*** Capitolo 17 ***


17




Alesha procedeva lentamente, esausta.
Il tramonto era passato da un pezzo, ma Terix continuava a proseguire, in sella al suo magnifico cavallo bruno. Le due donne avevano galoppato per tutto il giorno, anche se Alesha con qualche difficoltà. Era una fortuna per lei aver imparato a montare i cavalli quando era piccola, perché non sarebbe mai stata capace di imparare tutto in una mezza giornata. Di certo non poteva considerarsi un’esperta, ma da sempre con i cavalli aveva una certa dimestichezza. Forse era per l’ammirazione e la passione che la giovane nutriva per loro, ma tutti i cavalli che Alesha si erta trovata davanti non avevano provato neanche una volta a disarcionarla. In verità, per il più delle volte era stata lei con la sua goffaggine a procurarsi i tagli e gli sfregi per le cadute dalla sella.
– Fermiamoci qui – disse infine Terix, con gran sollievo della ragazza.
– Qui? – fece in un secondo momento questa, perplessa. In effetti, la radura dove avrebbero riposato non era proprio quello che si definisce ospitale. L’erba secca e pungente cresceva incolta sul terreno, e gli alberi fitti che le circondavano avevano decisamente un ‘che di inquietante. – Ma… potrebbero esserci dei letjak nelle vicinanze…- tentò di protestare, preoccupata.
– Andrà benissimo – tagliò corto la donna, scendendo da cavallo con noncuranza. – Basterà fare silenzio e non addentrarsi nel folto degli alberi. I letjak temono la luce del fuoco, sai?
- Certo, ma…- cominciò Alesha, ma un’occhiata di Terix la costrinse a tacere. Tesa, la giovane Ariadoriana smontò dal proprio destriero e si sedette a terra. Terix, vicino a lei, armeggiava con pietre e bastoncini. – Che fai?
- Accendo un fuoco no? È a te che fanno paura i letjak…
Alesha arrossì, ma non replicò e si avvicinò alla propria accompagnatrice. – Lascia che ti dia una mano.
Dopo una frugale cena a base di pane e formaggio, Terix lanciò ad Alesha una coperta.
– Tieni. Fatti una bella dormita, se siamo fortunate domani riusciremo a percorrere gran parte dello Stato dei Re. Speriamo che il nostro fuoco continui a bruciare per tutta la notte. Ma se senti dei rumori, non perdere tempo: svegliami e scappa. I Letjak non si fanno tanti scrupoli quando adocchiano una preda.
Alesha rabbrividì. Si stese sull’erba morbida, e all’istante le sue membra si rilassarono. Poi, Terix chiese con voce stranamente dolce:- Era tua sorella quella?
Alesha comprese all’istante, con una stretta allo stomaco, che la donna stava parlando di Dubhne.
– No, non era mia sorella - rispose addolorata. – Era solo un’amica.
La più grande amica di sempre.
L’indomani, la ragazza aprì gli occhi piuttosto presto.
Accanto a lei, Terix aveva già cominciato a prepararsi.
– Ah, vedo che sei sveglia – sorrise la donna. – Ottimo. Allora tra poco possiamo ripartire.
– Ma e… la colazione? – chiese Alesha, allarmata. L’altra la fissò con una punta di commiserazione. – Dove pensi di essere, nella locanda più lussuosa di Città dei Re? Uno: non abbiamo fino al prossimo anno per raggiungere l’Ariador. Due: nella sacca ho messo tutto il cibo che ci entrava, e non è comunque abbastanza. Quindi fammi il favore di non lamentarti.
Alesha alzò le mani. – Va bene, va bene, chiedevo solo… - Terix la scrutò un istante, poi le due risalirono a cavallo per riprendere il viaggio. Alesha non riuscì a trattenere le lacrime. Un’altra fascia della sua vita era terminata.

                                                                                ***

La bambina si svegliò che non era ancora l’alba. Si trovava in infermeria, per la seconda volta da quando era arrivata a Célia. Soltanto che quella volta non ci sarebbe più stata Shosanna a prendersi cura di lei. E di Alesha, ormai le rimaneva solo il ricordo.
La bambina tenne gli occhi fissi su una parete, rivolta con la schiena su un lato del piccolo lettino e cercando di non pensare alla persona cui aveva appena detto addio.
Alesha. La sua più grande e unica amica. La bambina aveva perso tutto.
– Dubhne… - chiamò ad un tratto una voce canzonatoria.
La ragazzina ebbe un tuffo al cuore. Avrebbe desiderato non sentire mai più quel tono deliziato. Esitante ed assolutamente impreparata, rimase immobile.
Fa’ finta di dormire.
– Dubhne, lo so che sei sveglia… - continuò Dills, imperterrito.
Dubhne non rispose, paralizzata dal terrore. Che cosa diavolo ci faceva lui lì?
– Non importa – fece il ragazzo in tono petulante. – Sai, avrei voluto parlare un po’ di quell’imbranata della tua amica. Siamo tutti davvero contenti che se ne sia andata. Insieme a te, stupida piagnucolona, stava diventando davvero insopportabile.
Non fare rumore. Stai calma. Non rispondere. Controllati, Dubhne. Dills non oserà toccarti. È un codardo.
– Ah, va bene, non vuoi parlarne. Ti capisco: perdere l’unica persona che riesce a sopportarti dev’essere un duro colpo…
Visto che la bambina non reagiva, Dills la provocò:- E di tua madre che mi dici?
Controllati.
– Mi piacerebbe davvero sapere di cosa è morta quella sgualdrinella…
- CHIUDI QUELLA BOCCA! – urlò Dubhne, perdendo il controllo. Veloce, la bambina si sfilò da sotto le coperte e si gettò sul ragazzo che le stava di fronte. – Maledetto… bastardo…!- scandiva, scaraventandogli addosso tutta la propria furia. – Non… ti sembra… di… aver già fatto abbastanza?
La bambina riuscì a tirargli un pugno in pancia. Ringhiando, Dills la afferrò per le spalle, e i due rotolarono sul pavimento. - Prendi questo!
La bambina ricevette un ceffone in piena faccia. Non era la prima volta che Dubhne si ritrovava in una situazione simile, ma quella volta era diverso: lei voleva combattere. Desiderava con tutta se stessa di punire Dills per tutto il male che le aveva fatto, desiderava annullarsi nel proprio dolore, colpirlo, colpirlo, infliggergli almeno una parte della sofferenza che lui le aveva provocato.
Il ragazzo urlava, la bambina piangeva per le percosse ricevute, ma nessuno dei due era disposto a mollare l’avversario. E proprio quando Dubhne credette di essere sul punto di svenire, una voce interruppe la zuffa.
- Dubhne, Dills! Mio dio… che state facendo? – esclamò una donna, scandalizzata. I due si interruppero all’istante e Dubhne tremò: Deka.


- È stata Dubhne a cominciare! – dichiarò Dills in tono concitato, appena il signor Tomson ebbe messo piede nell’infermeria.
– Dills ha insultato mia madre! – lo interruppe rabbiosamente Dubhne, guardando Dills con odio. Ma Deka si intromise:- Sentimi bene, ragazzina: quale che sia la ragione, le persone civili non si azzuffano tra loro come animali!
- Lo dica a lui! – urlò Dubhne indicando il ragazzo, che aveva iniziato a sogghignare – Qualche mese fa lui e la sua banda mi hanno quasi ridotta in fin di vita!
- E tu hai provocato solo guai da quando sei arrivata!
- Silenzio! – intervenne ad alta voce Tomson, prendendo Deka per un braccio. – Con Dubhne ne parlo io.
La bambina ebbe un fremito, ma non distolse lo sguardo. – Dills mi ha provocata.
– Zitta – la freddò l’uomo. Poi si rivolse a Deka:- Tu, riporta il ragazzo al dormitorio. Immediatamente.
– Ma cosa, cosa…? – protestò Dubhne, irata. – Volete dirmi che non riceverà punizioni?
- Esatto, proprio così – rispose Tomson in tono gelido.
Prima che Dubhne potesse ribattere, si chinò su di lei, la faccia spaventosamente contratta. – Ascoltami bene, Dubhne. Io non sono più disposto a sopportare te e le tue maniere da psicopatica. Quindi, o tu accetti le nostre regole, oppure giuro che ti sbatto fuori di qui e ti lascio a morire di fame. È chiaro?
- E allora lo faccia! Preferisco crepare piuttosto che rivedere la sua faccia!
Il colpo arrivò forte e improvviso, colpendo la bambina su una guancia. Dubhne barcollò e avvertì pizzicarle gli occhi per il bruciore, ma non si scompose.
– Esci da questa stanza immediatamente – sibilò Tomson. – Heixa! – gridò poi. – Vieni qui subito!

                                                                                ***

Chiusa nella cella d’isolamento per la terza volta, Dubhne cominciò sinceramente ad impazzire. Diversamente dalle due volte precedenti, non si rintanò a piangere in un angolo. No, la bambina camminava in tondo, imprecando di tanto in tanto.
– Maledizione! – esclamò, colpendo la porta con un pugno. Poi, ringhiando, si accasciò sul pavimento. Non ne poteva più. Da quando sua madre era morta, la vita nella sartoria era diventata quasi insopportabile. Un’incredibile quantità di tragedie si era susseguita a ritmo davvero sconcertante. E la ragazzina non era più disposta a tollerarlo.
Fu allora che un pensiero, sciocco, folle, irrealizzabile, le si affacciò nella mente.
Fuga.
– Piantala Dubhne! – gridò la bambina rivolta a se stessa. – Non resisteresti più di due giorni là fuori!
Ed era vero. D’altronde, come avrebbe potuto? Senza cibo, acqua e vestiti pesanti, allontanarsi da Célia sembrava un’impresa impossibile. E per andare dove, poi? Da sua padre? Dubhne non ci pensava neanche. Dal giorno della morte di Camlias, l’uomo si era fatto vedere a Célia soltanto una volta, e l’approccio tra lui e la figlia non era stato dei più calorosi. La bambina si sentiva più abbandonata e sola che mai. Non aveva un posto dove fuggire. Eppure…
Dovunque è meglio che qui.
Dubhne si alzò di scatto, invasa tuto a un tratto da una determinazione nuova. Non avrebbe vissuto in quella prigione un giorno di più.
Spinta da un folle desiderio di libertà, si avvicinò alla finestrella e la spalancò. Era più stretta di quella delle due celle precedenti. Dubhne guardò il proprio corpo, deformato dalla fame e dalle sofferenze. Era abbastanza magra per tentare.
Posso farcela. E, se proprio non dovessi, vorrà dire che resterò qui. Cauta, la bambina infilò la testa nella fessura. Nessun altro apprendista sarebbe riuscito a passare, ma lei doveva provarci. Se un sorvegliante fosse entrato in quel momento, per lei sarebbe stata la fine. Ma ora alla bambina non importava. Con qualche difficolta, riuscì a far scivolare anche le spalle attraverso la finestra. Ma ora veniva la parte più difficile. – Stupida!- esclamò sottovoce.
– Come diavolo farò a non rompermi la testa, cadendo?
Non dire sciocchezze. Non è abbastanza alto perché tu possa farti male. Ormai era arrivata a metà strada. Ma proprio allora, i suoi fianchi s’incastrarono fra i bordi della finestra. No. Oh, no!
La bambina tirò, tirò più forte che poté, reggendosi al davanzale esterno, e poi, finalmente, rovinò a terra con un tonfo. Era nel giardino sul retro della sartoria, dove gli apprendisti ricevevano il permesso di lavarsi.
Sì. Sì, sì, sì! Ce l’ho fatta!
Era libera. Ma non era ancora finita. Furtiva, e senza dimenticare la prudenza, Dubhne sgusciò fra i corridoi deserti della sartoria. Era notte fonda. Soltanto un volta la bambina fu costretta a fermarsi e a nascondersi, cioè quando Heixa spuntò da chissà dove, in direzione della propria camera da letto.
Dannazione! Dubhne cercò di non respirare, e rimase ferma dietro un angolo, immersa nell’oscurità. Quando finalmente Heixa fu scomparsa, prese un gran respiro. Era il momento. Gettando all’aria ogni prudenza, saettò fuori dal proprio nascondiglio, imboccando uno, due, tre corridoi, fino a ritrovarsi alla porta d’ingresso. A quel punto, incredula per ciò che era riuscita a fare, voltò il viso in direzione del dormitorio.
Mi spiace per quello che è successo, Shosanna. Ma sappi che io ti ho perdonata. D’altronde, avevi ragione: Dills mi odia davvero, ora ne sono certa. Mmm… avrei dovuto lasciarle un biglietto.
Non perdere tempo!
Giusto.
Lasciatasi alle spalle ogni dubbio e indecisione, la bambina raccolse le chiavi dall’apposito scaffale, fece scattare la serratura e uscì nella notte.
Quasi frastornata dalla felicità, Dubhne attraversò di corsa le vie buie e semideserte della città, ignorando totalmente gli sguardi sospettosi dei pochi passanti notturni. Quando poi, finalmente, raggiunse il limitare del bosco, la bambina si voltò un ultima volta verso Célia; era pronta ad abbandonare quel luogo per sempre. Dove sarebbe andata non lo sapeva.
Esitò un istante, poi Dubhne sparì fra gli alberi.




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Capitolo 19
*** Capitolo 18 ***


18




Guardando Claris ferma in mezzo all’Arena, che soddisfatta e gioiosa salutava il pubblico sorridendo, Dubhne provava emozioni dolorosamente contrastanti: in parte si sentiva sollevata per la sorte dell’amica, in parte consapevole del fatto che il proprio primo combattimento si stava pericolosamente avvicinando.
Pur essendo rimasta nella penombra del cunicolo, Dubhne era riuscita a seguire il combattimento con attenzione. Claris e Neor erano scomparsi dalla sua vista a volte, ma solo per poi tornare ad essere ben visibili dall’apertura della galleria. La ragazza aveva trattenuto il fiato numerose volte, nel vedere la ragazza malmenata e ferita dall’avversario, e con orrore si era resa conto che gli scontri nei Giochi sarebbero stati molto più combattuti di quanto si era aspettata. Anche il vincitore poteva riportare ferite gravi.
Dopo qualche minuto, Claris rivolse un grazioso inchino alla famiglia reale e poi voltò le spalle agli spalti, dirigendosi a tutta velocità verso i Combattenti rimasti nel tunnel. Superò Malcom, che con piglio quasi affettuoso le mollò una pacca sulla schiena, e si gettò dritta fra le braccia di James. Lui, sorpreso, le sorrise. – Sei stata grande - le disse, e lei non poté fare a meno che arrossire.
Anche Agnes e Xenja le si erano avvicinate.
– Complimenti!- ruggì Agnes allegramente. – Gliel’hai fatta vedere stavolta!
Xenja le sfiorò con un dito la fronte sanguinante con aria leggermente preoccupata. – Stai bene?- le chiese dopo poco.
Claris, ancora frastornata, annuì. Malcom Shist la raggiunse; anche se non sorrideva, sul suo volto abbronzato si poteva leggere distintamente un’espressione di compiacimento. – Ti sei battuta bene – disse – Ma non avresti dovuto risparmiarlo.
Dubhne, che non si era ancora mossa, vide Claris scuotere piano la testa.
Il modo in cui quella ragazza si era comportata l’aveva colpita.
Mentre nella squadra di Malcom Jim si preparava al combattimento seguente in cui si sarebbe visto contrapposto a un certo Damons, proveniente dal gruppo di Ellison Pets, Dubhne scorse Peterson, all’imbocco della galleria opposta, scoccare uno sguardo di fuoco nella loro direzione. Tuttavia, poi, l’uomo si voltò e scomparve nel buio. La ragazza deglutì.
Quella mattina Damons batté Jim senza difficoltà, ma clementemente decise di risparmiarlo. Negli scontri del pomeriggio, invece, la squadra di Malcom riportò una vittoria e una sconfitta; il maturo e astuto Pete, uno dei più valenti Combattenti di Peterson, aveva letteralmente annientato la povera Alliar, decidendo però di non ucciderla all’ultimo momento. Il duello tra Nimes e Grewer invece era stato piuttosto combattuto, anche se alla fine era stata Nimes a trionfare, con grande piacere di Malcom e gli altri. La donna aveva finito l’avversario per necessità, scampando anche lei alla morte per un soffio.
Quando poi tutti si ritirarono al palazzo Cerman al calar del sole, Dubhne fu sicura di essere prigioniera di un incubo. L’indomani avrebbe disputato il proprio primo vero combattimento, che probabilmente sarebbe stato anche l’ultimo. Non le importava di vincere, desiderava solo disperatamente sopravvivere.
Era molto più consapevole del solito della fragilità del proprio corpo, che un solo colpo di spada ben assestato avrebbe potuto spezzare.
Mentre uno ad uno gli altri Combattenti si ritiravano nelle proprie stanzette per riposare, lei non poté far altro che rimanere a misurare a grandi passi la propria. Tentare di dormire sarebbe stato inutile.
La sua sciabola, appoggiata sul piccolo tavolo di legno nell’angolo, non aveva mai avuto un’aria tanto inquietante.
Quasi stordita dalla paura, la giovane si soffermò qualche istante a guardare al di là del vetro della finestra, verso sud-est. Verso Chexla e la casa di Archie Farlow, verso Célia, la sartoria di Tomson, la casa dei suoi genitori. Avrebbe preferito con tutto il cuore trovarsi ancora nelle grinfie di Heixa e Deka piuttosto che essere lì, sull’orlo di quella battaglia che non poteva evitare. Per non parlare poi del folle desiderio di vivere ancora con Archie e la sua famiglia. Parevano passati anni e anni dall’ultima volta che aveva duellato con Richard e Camm. Ovunque sarebbe stato meglio della capitale, in quel momento. La assalì la tremarella, mentre inutilmente cercava di distogliere il pensiero dal proprio destino.
Morirò, ripeté la sua mente per l’ennesima volta. Morirò, e non potrò fare nulla per impedirlo…
Dubhne si impose a fatica di calmarsi. Si era allenata duramente in quei mesi, non doveva dimenticarlo. Le speranze di sopravvivere non erano poi così remote. Non aveva ancora mai visto Goresh, ma se come lei era arrivato a Città dei Re solo quell’anno… forse avrebbe avuto una possibilità in più…
La ragazza si stese sulla branda, e rivolse gli occhi al soffitto. Se solo avesse potuto sprangare le porte del proprio inconscio, scacciare ogni forma di pensiero dalla propria testa, riposare tranquilla…. Sbatté le palpebre per annullare l’effetto delle lacrime che le avevano annebbiato la vista. Ma perché è dovuto succedere? Perché proprio a me?
Dopo molti, interminabili minuti, la ragazza chiuse gli occhi e sprofondò in un sonno agitato.


L’indomani, l’intera squadra di Malcom Shist si diresse verso l’Arena all’alba.
Nell’entrare, Dubhne era così atterrita da non accorgersi nemmeno della gente che si era scomodata ad alzarsi così presto per venire a vedere lo scontro. Le gradinate erano decisamente meno gremite del giorno prima, in parte perché si trattava ancora di una fase eliminatoria, in parte perché ne’ Dubhne ne’ tantomeno Goresh possedevano alcun tipo di fama.
La ragazza seguì Shist nella galleria di presentazione, la sciabola ben stretta nelle mani tremanti. Non riusciva più a pensare, tanto la paura era forte. Il suo sarebbe stato il primo combattimento della giornata, per cui non c’erano più riserve… presto si sarebbe ritrovata a duellare.
– Stai calma - la rassicurò dolcemente Claris, stringendole un polso. – Vedrai, andrà tutto benissimo – e si sforzò di sorridere.
Dubhne non ci provò neppure; era sicura che la ragazza non avesse mai detto niente di più falso.
Rimase ferma, l’arma tra le mani, aspettando che giungesse il momento. Udì distintamente il proprio cuore battere frenetico. Poteva essere l’ultima volta che lo sentiva.
– Pronta? – grugnì Malcom con aria di disapprovazione. Lei si rese conto di avere impressa in viso un’aria tutt’altro che incoraggiante, ma non le importava. Non le importava più di nulla.
Le giunse alle orecchie la voce di Rodrick, il presentatore:- Benvenuti, benvenuti tutti! Signore e signori, la seconda giornata di combattimenti sta per cominciare!
Dubhne credette di essere sul punto di vomitare. Da dietro, James le sorrise incoraggiante.
– E ora la presentazione!
Ce la puoi fare.
- Dalla squadra di Ellison Pets…
Ce la puoi fare…
- Goresh Fais!
Stai calma.
- E poi, dalla squadra di Malcom Shist…
Stai calma.
- … Dubhne!
Forse qualcuno applaudì, ma lei non riuscì ad udirlo. In verità, non riuscì proprio a muoversi.
– Vai! – le sussurrò Claris dandole una spintarella. Dubhne quasi inciampò nei propri piedi per la paura. Mosse qualche passo in avanti e fece tutto il tragitto fino all’ingresso come in un incubo. Poco prima di uscire incrociò lo sguardo severo di Malcom.
Sto per morire, fu il suo ultimo pensiero.
L’atmosfera nel pubblico sembrava rilassata, quasi annoiata. Le gradinate erano quasi vuote.
Goresh era a pochi metri da lei: reggeva in mano un’ascia a doppio taglio e sembrava essere piuttosto teso, ma aveva comunque un’aria minacciosa.
A Dubhne tremavano le gambe; non riusciva a muover un passo per il terrore. Attorno a lei il mondo girò vorticosamente.
Da lontano le giunse remota la voce del commentatore: – Bene… Che abbia inizio la battaglia!
Goresh si lanciò su di lei e Dubhne scattò: cominciò a correre.
Udì gli spettatori fischiare o ridere, sprezzanti, ma non se ne curò. Bastava continuare a correre. Fece più volte il giro dell’Arena, con Goresh alle calcagna, come un piccolo Shirin che fugge dal proprio cacciatore. Era ridicola, lo sapeva, e non riusciva neanche ad immaginare la faccia che probabilmente Malcom Shist aveva assunto in quel momento. Davanti alla possibilità di sopravvivere un altro po’, tutto il resto perdeva qualsiasi importanza.
Scattò di lato quando l’avversario tentò di sorprenderla, e riprese a correre nella direzione opposta. Goresh si gettò nuovamente al suo inseguimento, fulmineo. Si lanciò su di lei, placcandola da dietro e atterrandola. Con foga la ragazza gli assestò un calcio in faccia e si rialzò, atterrita. Con la bocca piena di sangue, il ragazzo la imitò. Si squadrarono un istante, entrambi esitanti, entrambi spaventati. Dubhne pareva essersi dimenticata di reggere in mano una scimitarra.
Goresh agì per primo; abbatté con forza la sua ascia in direzione della giovane, che però scartò di lato appena in tempo per schivarla. Con qualche difficoltà il ragazzo menò un nuovo attacco nella sua direzione, ma per la seconda volta Dubhne fece un balzo all’indietro. Non aveva idea di che altro fare se non schivare. Al terzo fendente poi, la lama di Goresh si abbatté dritta sul suo braccio.
Fu una fortuna che Dubhne avesse tentato inutilmente di schivare il colpo perché quell’attacco, che normalmente le avrebbe come minimo tranciato l'arto, le inferse solamente una ferita appena sotto la clavicola. Solo una ferita, certo, ma maledettamente dolorosa.
Tutto parve immobilizzarsi; sconvolta, la ragazza guardò il proprio sangue imbrattarle il corpetto da Combattente. Per un attimo fu così sbalordita da non provare neppure dolore. Goresh mosse un passo indietro, fra il soddisfatto e l’inorridito da ciò che aveva fatto.
Dubhne alzò lo sguardo, e i loro occhi si incontrarono. Nei suoi balenò qualcosa; un lampo di determinazione, di radicale cambiamento. Non era venuta lì per mettersi a piangere in un angolo. Non si sarebbe piegata alla morte senza neanche battersi. Finalmente comprese.
Attese ancora qualche istante, poi cominciò a combattere. Scaraventò la propria lama sul corpo dell’avversario, che sorpreso dal repentino cambiamento non poté far altro che parare il colpo con il bastone della propria ascia. Dubhne ripeté la mossa, più forte, con più violenza. Più furore.
La gente gridò, eccitata.
La Combattente continuava a menare colpi praticamente alla cieca, posseduta da un’insolita rabbia mista al desiderio di farsi valere. Non avrebbe perso. Non di nuovo.
Ed era brava dopotutto. Molto brava. Costrinse Goresh ad indietreggiare, esattamente come lui aveva fatto con lei un attimo prima. Il commenti esaltati del pubblico e di Rodrick non fecero che far aumentare la sua determinazione. Per ultima cosa, alzò la sciabola e la picchiò con forza nella spalla del rivale, quasi tranciandogli l’intero arto sinistro.
Dalla folla, che era notevolmente aumentata dall’inizio dello scontro, si levò un boato entusiasta. Dubhne sentiva presso di sé il profumo della vittoria come mai prima d’ora. Estrasse la lama dalla spalla di Goresh e gli assestò un ultimo, potente calcio negli stinchi.
Con il fiato mozzato, il ragazzo crollò a terra sputando sangue. Dubhne, ansimante, sentì il nodo che le serrava lo stomaco sciogliersi, fino a scomparire. Ce l’aveva fatta, era viva. E, soprattutto, aveva vinto. Sarebbe andata avanti. Si sentiva talmente stupita da se stessa che ancora non riusciva a crederci. Era impossibile…
Un piccolo singulto la fece ritornare bruscamente alla realtà. Guardò in basso, e poté distintamente notare che Goresh aveva perso parecchi denti nello scontro. La spalla era ormai completamente spappolata, ma il duello non era ancora finito. Lui avrebbe dovuto arrendersi, altrimenti la ragazza lo avrebbe ucciso per terminare la battaglia.
Dubhne gli si avvicinò puntandogli contro la sciabola. Il giovane non esitò. – Mi arrendo!- gridò spaventato. La gente sugli spalti applaudì soddisfatta, e il fragore crebbe. La giovane si rialzò in piedi, il braccio sinistro che le doleva terribilmente. Fece per allontanarsi, ma poi cambiò idea.
Con un unico, fluido movimento si voltò e trafisse Goresh al cuore. Il ragazzo morì senza avere neppure il tempo per sgranare gli occhi; il suo capo ricadde sulla terra battuta, con gli occhi fissi in cui ormai non si leggeva più alcuna espressione.
Pervasa da un senso di feroce soddisfazione, Dubhne alzò il braccio destro in segno di vittoria. La folla intorno a lei urlava e scandiva il suo nome, entusiasta. E la cosa le piaceva.
– Da non crederci! – stava urlando gaiamente il commentatore. – Dubhne non solo ha vinto lo scontro ma ha anche deciso di finire l’avversario! Da non crederci! Signore e signori, ecco a voi Dubhne, la… RAGAZZA DEL SANGUE!




Note: salve gente! Scusate davvero per il ritardo, ma spero di essermi fatta perdonare con questo capitolo un po' più lunghetto del solito :) Non è stato facile descrivere il combattimento, ma mi sono divertita un mondo nel farlo ^^ Fatemi sapere che cosa ne pensate in una recensione, per favore!

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Capitolo 20
*** Capitolo 19 ***


19




Deka irruppe nello studio del signor Tomson come un furia.
– È scappata! – gridò, trafelata. – Dubhne è scappata! Non la trovo da nessuna parte!
Il signor Tomson rimase un attimo a squadrare la sorvegliante, incredulo.
– CHE COSA? - tuonò poi, come se avesse registrato le sue parole con qualche secondo di ritardo.
Deka, muovendo un passo indietro intimorita, balbettò:- Io… sono andata nella sua cella per portarle il pranzo e… lei non c’era più! Lo giuro!
Ricomponendosi un poco Tomson nitrì, più per il fastidio che altro. In effetti, della sorte della bambina non gli era mai importato un granché, ma il fatto che lei gli fosse sfuggita da sotto il naso… beh, sarebbe stato lo zimbello di tutti. Si voltò verso l’imponente libreria del proprio studio, ignorando completamente la sorvegliante. Da quando aveva messo piede nella sartoria, Dubhne non aveva fatto altro che creare problemi. Prima di allora non erano mai accaduti episodi come l’imbarazzante inconveniente che si era verificato al momento della partenza della ragazza ariadoriana, Alesha; per non parlare delle zuffe con gli altri apprendisti. Dopo la colluttazione in infermeria di alcuni giorni prima, Tomson aveva naturalmente preso provvedimenti anche nei confronti di quel Dills o come diavolo si chiamava, benché con Dubhne avesse finto il contrario. Eppure, solo lei aveva avuto la sfrontatezza di rivolgerglisi in modo così privo di qualunque rispetto e sottomissione alla sua autorità. Affondò le unghie nella carne delle mani per la rabbia. Tentava di non darlo a vedere, ma quella ragazzina misera e indomita lo aveva ferito nell'orgoglio. Finora, nessuno dei suoi apprendisti era riuscito a fuggire dalla sartoria. In verità, nessuno aveva mai avuto neanche il coraggio di provarci: nella maggior parte dei casi quei ragazzi non avevano né una casa né una famiglia; li avrebbe attesi una vita per strada, e i boschi attorno a Célia erano selvaggi e pericolosi per chiunque avesse voluto avventurarvisi. Nella sartoria ciascuno poteva contare su pasti caldi e un letto fisso.
– Io… chiamo Kall e gli altri per cominciare le ricerche?- chiese esitante Deka, che era rimasta in silenzio fino a quel momento.
L’uomo tacque, poi prese una decisione. A labbra strette rispose:- No.
– Come, scusate?
- No – ripeté Tomson alzando lo sguardo. – Diremo agli apprendisti che siamo stati noi a cacciarla. Per… cattiva condotta. Qualsiasi cosa succeda, non dovranno mai sapere che è scappata. Mi hai capito bene?
Deka aggrottò le sopracciglia, senza capire. Poi scosse la testa. Meglio non contraddire il signor Tomson. Alzò la testa e proferì:- Come desiderate.


BOSCO HARDIST ORIENTALE


Sola, nella piccola radura, Dubhne aprì gli occhi. Era tarda mattinata. Il sole brillava già alto sopra le cime degli alberi e i fruscii che per tutta la notte avevano tormentato la bambina erano finalmente cessati.
Dubhne tirò sul col naso, poi si alzò lentamente. Ripensando alla notte prima, la ragazzina si chiese dove avesse trovato la follia e il coraggio di fare ciò che aveva messo in atto.
Non ha importanza. Perché ora tu sei libera. Sei libera, finalmente.
Già. Ora né il signor Tomson, né Dills, né Charlons avrebbero più potuto farle del male. Mai più.
Inebriata dall'irrefrenabile desiderio di libertà, aveva messo fra sé e la sartoria più distanza possibile; non si era diretta verso le colline dove sorgeva la sua casa, al contrario, era proceduta nella direzione opposta, addentrandosi nella boscaglia che segnava il confine nord di Célia. L’eccitazione per un gesto così eclatante l’aveva resa temporaneamente immune alla paura della notte, della solitudine, delle belve feroci che potevano attenderla nascoste nell’oscurità della foresta. Solo quando, alla fine, era crollata esausta nella radura dove ancora si trovava la paura aveva iniziato a farsi sentire. Ma a quel punto la stanchezza aveva avuto la meglio e la bambina era sprofondata nel sonno. Al momento non le importava sapere dove sarebbe andata, dove avrebbe vissuto, di cosa si sarebbe nutrita. Il bosco era ricco di ruscelli e ripari, alberi da frutta anche. Con un po’ di fortuna se la sarebbe cavata.
Spazzolandosi via la terra dai vestiti, la bambina ricominciò a camminare. La fatica non era – ancora – un problema per lei: alla sartoria era stata abituata ai ritmi di lavoro più faticosi.
Devo trovare un ruscello per bere un po’ d’acqua.
Procedendo letteralmente a caso, la bambina si mosse fra gli alberi a tentoni per parecchi minuti. E poi, quando già stava cominciando a preoccuparsi, Dubhne udì l’amato rumore dell’acqua che scorreva tra le rocce. Aguzzando l’udito come poteva, la ragazzina seguì lo scrosciare dell’acqua fino a ritrovarsi nei pressi di un fiumiciattolo. Sollevata, intinse le mani unite nel ruscello, e bevve come una spugna finché non si fu dissetata. Poi si lasciò a sedere sull’erba, guardandosi intorno.
Quello dove si trovava era un luogo davvero bellissimo: il rigagnolo d’acqua si allargava in quel punto, formando una sorta di laghetto, e l’erba verde e tenera ovattava i passi della bambina e degli altri piccoli animali della foresta.
D’un tratto, un fruscio e un rumore di rametti spezzati le fecero raggelare il sangue nelle vene. Lì, alla sue spalle, proprio vicino a lei. La bambina si immobilizzò. Potevano essere Heixa o il signor Tomson venuti a cercarla, o peggio.
Avvertì dietro di sé un ringhio sommesso e, terrorizzata, deglutì. Poi, piano, cercando di tenere a freno la paura, si voltò.
Quel che vide la pietrificò: davanti a lei c’era un letjak grande, feroce, glaciale, assetato di sangue. Un letjak come quelli delle storie che le aveva raccontato Alesha. La bambina non aveva dubbi. Era lungo quasi due metri; il pelo castano-dorato sembrava gonfiarsi sulla gobba che gli inarcava la schiena, che nel punto più alto doveva ergersi per un’altezza di almeno un metro e mezzo. Un paio di zanne color dell’avorio pendevano ricurve dalla gengiva superiore. Aveva occhi freddi, chiari, screziati di blu agli angoli. La stava squadrando come fa un cacciatore con la preda e Dubhne capì di essere morta.
Passò un istante, poi la ragazzina cominciò a correre.
La bestia si lanciò al suo inseguimento, famelica e assassina, e quando la ragazzina inciampò comprese che la propria fine era vicina. Ma le lacrime non ebbero il tempo di sgorgarle dagli occhi. Perché il dolore di quelle fauci che si chiudevano su di lei non arrivò mai.
La ragazzina non si era procurata nemmeno un graffio. Aveva del sorprendente, ma era vero.
Incredula, Dubhne abbassò il braccio con cui si era coperta gli occhi. E ringraziò il cielo per la grazia ricevuta. Perché in piedi di fronte a lei c’era la sagoma muscolosa di un uomo, un cacciatore probabilmente, e voltandosi dietro di sé la bambina poté vedere dietro di sé il cadavere immobile del letjak, con una freccia conficcata nel globo oculare.
L’uomo sembrava preoccupato. Fece un passo verso di lei che, istintivamente, indietreggiò.
– Chi sei? – chiese il cacciatore, esitante. – Sei sola? Ti sei persa?
Dubhne non rispose, intimorita. E se l’uomo fosse stato un amico del signor Tomson? L’avrebbe riportata alla sartoria in catene? Oppure l’avrebbe rapita e costretta ad uccidere Letjak come una cacciatrice?
Che cosa devo fare?
Parla!
- Mi… mi chiamo Dubhne. – balbettò la ragazzina. – Io… io… - Non poteva perdere tempo: doveva inventarsi in fretta una bugia. – Io… sono qui con mio fratello maggiore. – mentì spudoratamente.
L’altro aggrottò le sopracciglia. – Ah sì? E lui dov’è? Hai bisogno di aiuto?
Senza sapere da nove le nascesse tutta quella diffidenza, Dubhne scosse la testa.
– No, è che… anche lui è un cacciatore come voi e… beh, un letjak ci ha sorpresi, io mi sono spaventata e sono scappata... grazie per l’aiuto.
– Figurati.
D’un tratto, l’occhio di Dubhne cadde sulla faretra ricolma di frecce del cacciatore e un’idea le colpì la mente.
– Ehm, in effetti mio fratello ha finito poco fa le frecce e… visto che voi ne avete tante… potreste darmene una?
L’uomo spostò lo sguardo dalle frecce alla ragazzina, dubbioso. Poi, lentamente, ne estrasse una dalla faretra. Fece per passargliela, poi aggrottò la fronte: - Siete venuti a cacciare… e lui ha finito le frecce? Idiota! si rimproverò lei, cercando di pensare ad una scusa credibile. – Stava inseguendo uno di quegli animali, ma era veloce e… mio fratello non è ancora esperto e…
– E va bene, tieni. Ma fai attenzione; non è un giocattolo.
– Contateci – Dubhne ostentò il proprio sorriso più radioso, mentre con garbo riceveva la piccola freccia in dono. Il cacciatore fece per voltarsi e andarsene, quando si voltò un’ultima volta e chiese:- Sei sicura di star bene?
- M-ma certo! – si affrettò ad esclamare lei, sorridendo. – È solo che… - l'uomo la stava guardando in modo strano e la cosa la riempiva di disagio. - Oh! Sento mio fratello che mi chiama… dev’essere preoccupato… Vado via, ma grazie per l’aiuto!
- Di niente! – ancora un po' perplesso l’uomo si voltò e la salutò con la mano. – Stammi bene e buona fortuna!
Quando il cacciatore fu sparito definitivamente fra gli alberi, Dubhne tirò un sospiro di sollievo. Non solo era ancora libera, ma era anche riuscita anche ad ottenere una freccia come arma! D'altronde, se avesse voluto sopravvivere nei boschi almeno qualche settimana avrebbe dovuto imparare a cacciare, e alla svelta. Non animali grandi e pericolosi come i letjak, certo, ma avrebbe benissimo potuto accontentarsi di piccole prede come limbos o shirin. Ricordava bene le rare volte in cui suo padre era tornato dal mercato cittadino portandone con sé un esemplare ancora intero sottobraccio che, se cucinato a dovere, rappresentava un ricco pasto per gente come loro. Dubhne sarebbe stata in grado di riconoscerli. Già, poteva farcela. E bacche e corsi d’acqua certamente non mancavano in quella foresta prosperosa.
E ora la bambina aveva anche trovato una meta. Dopo lunghe riflessioni, aveva deciso che avrebbe tentato di raggiungere Alesha nell’Ariador. Sì, l’avrebbe trovata e avrebbero vissuto nella sua stessa città. Trovare una famiglia disposta ad ospitare una povera e sventurata bambina come lei non sarebbe stato poi così difficile. Forse in Ariador le persone non erano tutte orribili come a Célia.
Sì, la ragazzina poteva farcela. Avrebbe dovuto faticare, correre qualche rischio e camminare tanto, ma con un po’ di buona volontà ce l’avrebbe fatta. Dubhne sorrise, felice di non trovarsi più rinchiusa nella sartoria.
Silenziosa come una creatura della foresta, la bambina riprese a camminare.





Note: hola gente ^^ Questo era il diciannovesimo capitolo, spero vi sia piaciuto :) Tra parentesi, vorrei ringraziare sentitamente Mars_16, che ha da poco inserito la mia storia nelle seguite. Grazie! E grazie anche a Marty_598, che sta continuando a recensire :) Mi farà piacere sentire le opinioni di tutti, per cui recensite se vi va :D

Per i Letjak ammetto di esseri ispirata alle tigri dai denti a sciabola; dovrebbero risultare un po' a metà tra questi felini antichissimi e i mannari selvaggi del Signore degli Anelli.

warg tigre-denti-a-sciabola

Alla prossima, Talia.

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Capitolo 21
*** Capitolo 20 ***


20




Come Dubhne scoprì ben presto, adattarsi ad una vita nei boschi si dimostrò molto più difficile del previsto. Se non impossibile.
Dopo lo sconvolgente incontro con il Letjak, le cose si erano fatte più difficili. Nonostante l’essere riuscita a procurarsi una freccia come arma, la bambina non era ancora riuscita a catturare un solo animaletto, e per cinque giorni si era cibata solamente di bacche e frutti strappati dai rami degli alberi. L’acqua almeno non era un problema: il bosco di Hardist meridionale si estendeva in una zona umida e prosperosa e pullulava di torrenti, fiumiciattoli e piccoli corsi d’acqua. Utilizzando il proprio grembiule da lavoro, Dubhne aveva costruito maldestramente una specie di saccoccia in cui conservare il cibo durante gli spostamenti. Sebbene la faccenda si fosse dimostrata complicata come non mai, raggiungere l’Ariador era ancora il disperato obiettivo della ragazzina, che non si dava pace camminando giorno e notte. Il desiderio di rivedere Alesha, unito alla speranza di riuscire a condurre un’esistenza più felice, incitavano la bambina ad andare avanti, e a non cedere alla paura e allo sconforto. Il momento più terribile delle giornate di Dubhne era senz’altro il crepuscolo, quando era costretta a cercare un riparo dove passare la notte. I rumori, gli scricchiolii e i versi degli animali notturni non le davano pace un istante. E quando finalmente riusciva ad addormentarsi, la luce la mattutina la svegliava dopo solo poche ore. E così ricominciava la marcia.
Non fare così, pensò rabbiosamente Dubhne un giorno, mentre una tremarella incontrollabile le assaliva le ginocchia. Puoi farcela. Avanti, svegliati e continua a camminare. Ormai… sarai più o meno al confine con l’Ariador no? Alesha è vicina!
Ma, nonostante le proprie ingenue speranze, la ragazzina non aveva assolutamente la minima idea di dove potesse trovarsi. Sapeva certo che l’Ariador era situato da qualche parte ad Ovest, ma le sue conoscenze geografiche si fermavano lì. Non aveva la percezione del tempo, dello spazio, non capiva quanta distanza percorresse in un giorno.
Alla sera dell’ottavo giorno di marcia, Dubhne si lasciò stramazzare al suolo, sfinita. Le sue forze si erano completamente esaurite, la bambina non ce la faceva più.
Ho… bisogno di… mangiare qualcosa.
Con dita malferme, aprì la sacca nella speranza che fosse rimasta qualcuna delle more che aveva raccolto il pomeriggio precedente, ma rimase delusa. Era vuota.
Dannazione! pensò, mentre l’ansia le assaliva la gola.
– Che cosa ho fatto? – si chiese ad alta voce. – Come ho potuto lasciare Célia? Stupida, stupida, stupida!
Piangendo sommessamente, si piegò su se stessa e affondò il viso fra le ginocchia.
Morirò di fame. O di stanchezza. Comunque vada, io resterò qui. Non raggiungerò Alesha, non ce la farò mai!
Proprio quando la ragazzina temette di essere perduta, un lieve rumore di passi felpati interruppe i suoi singhiozzi. Lei si immobilizzò. Possibile che fosse un piccolo animale da mangiare? Cercando di essere più silenziosa possibile, Dubhne voltò la testa da dietro il tronco d’albero a cui era appoggiata. Dovette tapparsi la bocca con una mano per impedirsi di urlare dalla gioia: davanti a lei c’era uno Shirin di medie dimensioni, peloso, carino, lungo appena tre spanne o poco più.
Visto? Finalmente un po’ di fortuna!
Cauta, Dubhne allungò una mano verso la propria freccia.
– Stai… lì… fermo…- sussurrò, più a se stessa che all’animaletto. – Così. Da bravo… - fece un passo verso di lui; una foglia scricchiolò, e lo Shirin drizzò le orecchie, spaventato. No, non, no! L’animale cominciò a correre nella direzione opposta, ma la bambina fu più veloce: con un tuffo disperato, si avventò sulla sua preda, conficcandogli la freccia nel ventre. Lo Shirin ricadde a terra con un gemito pietoso. Ansimando, Dubhne sorrise, anche se senza riuscire a trattenere qualche lacrima di compassione verso quella povera bestiola.
Ci sono riuscita.
Incredula, raccolse da terra l’animale, e lo depositò accanto all’albero. Bene. Devo accendere un fuoco. Michael le aveva insegnato a domare un fuocherello quando la bambina aveva cinque anni; un grosso vantaggio in quel momento. Dopo aver raccolto qualche piccolo ramo secco, Dubhne armeggiò qualche minuto con sassi e pietre, e in men che non si dica la radura venne riscaldata da un tenue falò. Ora veniva la parte più difficile: aveva visto sua madre scuoiare animali di piccole dimensioni numerose volte, ma non ci aveva mai provato personalmente. Sforzandosi di ricordare la sequenza dei suoi gesti, la bambina si infilò la lingua fra i denti per combattere la repulsione e incise la pelle del collo della bestiola per tutta la sua circonferenza, per poi ripetere il gesto lungo la schiena dell’animale. Si odiava per quello che stava facendo, ma non aveva molta scelta; era allo stremo delle forze, non poteva continuare a nutrirsi solamente di vegetali. Se non avesse messo nello stomaco un po’ di carne non sarebbe riuscita a proseguire il suo viaggio. Infilò le unghie nel taglio che aveva disegnato dietro il collo dell’animale e tirò. I due lembi di pelle si sollevarono insieme alla pelliccia. Dubhne fu scossa da un singulto, ma non si fermò e ripeté il movimento con più energia. Una manciata di minuti dopo solamente la testa dello Shirin era rimasta coperta dalla pelliccia; il resto giaceva abbandonato accanto a un albero.
Dubhne infilzò a malincuore il cadavere dello Shirin con un bastone e, tenendosi a distanza di sicurezza, lo avvicinò al fuoco. Attese per qualche minuto, senza avere un’idea su quanto lasciare a cuocere la propria preda. Ma non erano passati neanche dieci minuti che la fame ebbe la meglio e senza pensarci la ragazzina allontanò la carcassa dal fuoco.
Già, bene. E adesso… che cosa faccio?
Riluttante, riprese fra le mani lo Shirin e, in modo goffo e inesperto, recise la pancia dell’animale con la punta freccia. Le interiora dell’animale si riversarono sull’erba macchiandole di sangue i vestiti, e per la seconda volta quella sera Dubhne si sentì vicina a vomitare. Infilò la mano destra nel ventre dell’animale e lo svuotò da quanto era rimasto dell’intestino e degli organi interni, poi si rialzò e si sciacquò le mani nella piccola pozza d’acqua che si allargava lungo il ruscello presso il quale si era fermata quella sera. Tornata accanto al fuoco, lo Shirin era lì ad attenderla, rigido e ridicolo, privo della pelliccia e infilzato in quello spiedo.
Va bene… ehm…
Disgustata, Dubhne assaggiò con un morso la propria cena. Sebbene la carne fosse dura e cotta non abbastanza, il sapore non era poi così orribile.
Coraggio, dai.
La bambina chiuse gli occhi, e ricominciò a mangiare.



Raggiungere Alesha nell’Ariador non era un’impresa fattibile.
Dubhne se ne rese conto all’improvviso, mentre un giorno camminava speditamente lungo un piccolo lago azzurro.
È impossibile.
Finalmente aveva capito. Attraversare mezzo mondo senza avere esperienza, provviste e protezione? Ma chi voleva ingannare?
Sconsolata, si sedette sulla riva. Aveva percorso tanta, troppa strada da quando era partita. Non riusciva nemmeno ad immaginare dove potesse trovarsi. L’ultima volta che aveva avuto contatti con il mondo civile era stato quando aveva incontrato il cacciatore di Letjak. Erano passate quasi due settimane da allora. Non c’erano più stati incontri pericolosi con quegli animali feroci, o almeno non direttamente, ma la bambina poteva sentirli di notte ringhiare ed emettere versi minacciosi in lontanaza. Fortunatamente, i fuochi accesi da lei sembravano tenerli lontani. Dubhne non sapeva molte cose del mondo esterno a Célia – e del mondo esterno in generale – e la prima regola che la vita solitaria le insegnò fu che i Letjak temevano le fiamme più di ogni altra cosa.
D’un tratto, la ragazzina sentì il desiderio di entrare in acqua. L’inverno era terminato, e lì a sud un sole caldo e rassicurante illuminava gli alberi di tenue luce dorata. Era da tanto tempo che non aveva modo di darsi una ripulita. Spogliatasi dalle vesti della sartoria, Dubhne infilò un piede nell’acqua chiara del lago, e lentamente si immerse fino alla vita. Il tepore era deliziosamente piacevole, e lei si lasciò scivolare con la testa sulla sabbia, tranquilla per la prima volta dopo tanto tempo. Non avrebbe raggiunto Alesha. No, ma non sarebbe neanche mai tornata alla sartoria del signor Tomson. Questa era una certezza, il punto da cui partire. Avrebbe potuto vivere lì, nei boschi, giorno per giorno. Aveva imparato a cacciare e a tenere lontani i Letjak. Perché sarebbe dovuta morire? Anzi, adesso che ci pensava, avrebbe potuto rimanere lì, vicino al lago, riparandosi sotto una della imponenti rocce che lo circondavano. Il desiderio di mettersi alla prova si univa al profondo bisogno di libertà che provava. Avrebbe costruito una capanna, magari anche un arco. Avrebbe imparato a cacciare ogni sorta di animale, a difendersi dai Letjak e dalle altre belve pericolose che si nascondevano nella foresta.
Nessuno avrebbe mai saputo di lei; avrebbe potuto vivere come un'ombra, non conosciuta da nessuno. Si sarebbe trattata di un’esistenza di solitudine, ma in quel momento a Dubhne bastava. Poi… chissà cosa sarebbe accaduto dopo. La bambina non poteva nemmeno immaginarlo.





Note: scusate per il capitolo un po' corto, ma è tutto quello che sono riuscita a scrivere. Se volete sapere come la storia continua continuate a seguirla, aggiornerò al più presto con un nuovo capitolo. Sono sempre gradite recensioni :) Bye!

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Capitolo 22
*** Capitolo 21 ***


21




Mentre la bambina se ne stava tranquillamente semi immersa nell’acqua tiepida, qualche lacrima di solitudine le scese sulle guance.
Dove sarà Alesha adesso? Si chiese tristemente, mentre le piccole onde provocate dalla brezza la cullavano delicatamente. Chissà com’è l’Ariador in realtà…
L’amica le aveva raccontato dei prati color smeraldo, i laghi argentei e le montagne rocciose dell’ovest. Le città scintillanti e marmoree, i fiumiciattoli limpidi… Tutti sapevano che l’Ariador aveva la fortuna di trovarsi in una posizione climaticamente perfetta e Dubhne avrebbe dato qualsiasi cosa per poterlo vedere. E poi c’erano tutte le storie sulle Guerriere… combattenti formidabili, le migliori dell’intera Fheriea, forse… Kalya, Jesha, Misa… tutti nomi famosi. Ragazze straordinarie, abili, coraggiose e… bellissime. Da sempre Dubhne aveva desiderato di poter cambiare il proprio aspetto, far sparire quegli ordinari occhi color nocciola e sostituirli con quelli limpidi degli Ariadoriani. I capelli non erano un problema invece: li aveva sempre amati, tanto da impedire ai suoi genitori di tagliarglieli per molti lunghi anni… Pochi giorni dopo il suo arrivo nella sartoria del signor Tomson Deka glieli aveva accorciati con un paio di grosse forbici, ma non era stato un taglio drastico e i capelli avevano impiegato meno di un mese a tornare come prima.
Per la prima volta dopo tanto tempo, la ragazzina ripensò all’incontro misterioso con quel ragazzino strano, alla sartoria. In particolare, ripensò ai suoi occhi: azzurri, lucenti, così chiari e misteriosi…



Guardando il Limbos che aveva catturato rosolare pigramente su quella sorta di primitivo spiedo, Dubhne avvicinò le mani al fuoco per riscaldarle; c’era vento quella sera, e le fronde degli alberi ondeggiavano paurosamente. La bambina si strinse nei propri abiti. Aveva freddo.
Non pensarci.
Con un pizzico di malinconia, Dubhne volse lo sguardo verso il cielo stellato. Le stelle, così luminose e numerose, l’avevano sempre affascinata. Avrebbe tanto desiderato poter essere lì con loro.
È lì che si trova la mamma, adesso.
La ragazzina rimase un attimo immobile, assorta nei propri pensieri. Poi, con un sospiro, fu costretta a tornare alla realtà; controvoglia, levò il piccolo Limbos da fuoco e cominciò a consumare la propria cena in silenzio. Dopo aver mangiato, si avvicinò al laghetto e con le mani raccolse un po’ d’acqua per dissetarsi. Dopo ripeté l’operazione, ma questa volta la gettò distrattamente sul fuoco, che emise uno sbuffo di fumo. Così non avrebbe rischiato che le fiamme dilagassero mentre dormiva. Dubhne si distese sull’erba morbida e attese che il sonno la portasse via.
Buona notte, mamma.
Fu svegliata poche ore dopo, da un forte odore di bruciato.
– Mmm… ma che succede? – si chiese in tono sonnolento. Poi, con orrore, avvertì una sensazione di calore quasi insopportabile proprio accanto a sé.
Orripilata, la bambina si tirò su a sedere, e quel che vide la terrorizzò. La radura in cui aveva riposato era immersa nelle fiamme. Dopo qualche secondo di puro sconvolgimento, Dubhne comprese: il vento. Doveva aver sospinto il suo fuocherello verso le foglie secche durante la notte. La bambina si maledisse per la leggerezza compiuta la sera prima: avrebbe dovuto accertarsi che il fuoco fosse effettivamente spento del tutto prima di abbassare la guardia e mettersi a dormire. Per un attimo fu presa dal panico, ma capì quasi subito cosa fare. Ansimando rumorosamente, afferrò la propria sacca di tessuto e la freccia e, piangendo dalla paura e per le scottature, si avventò verso l’acqua del lago. Dovette saltare più alto che poté per evitare una pericolosa lingua di fuoco, ma poi si ritrovò immersa nell’acqua scura fino alla vita, salva.
Che cosa… che cosa faccio adesso? La ragazzina non aveva mai imparato a nuotare. Riluttante, e tenendo d’occhio l’incendio che dilagava, Dubhne indietreggiò, fino a sprofondare con i piedi nella sabbia e l'acqua fino alla gola. Respirando affannosamente, la bambina si infilò le mani fra i capelli, disperata. Devo andarmene da qui.
Si guardò intorno e, dopo un istante di puro panico, adocchiò un gruppo di rocce proprio vicino alla riva di est. Correndo goffamente a mollo nell'acqua, Dubhne si lanciò verso quei ripari, sempre tenendo stretta al petto la freccia e la saccoccia. Erano i suoi unici averi; non poteva perderli. Con fatica, la ragazzina raggiunse le imponenti rocce bianche vi si aggrappò, stremata. Intanto, guardò la sponda opposta, che il fuoco stava lentamente divorando.
Devo uscire di qui prima che l’incendio dilaghi.
Gemendo per lo sforzo, Dubhne si issò sul masso più basso con una mano, tirandosi dietro la sacca e la freccia con l’altra. Salì ancora, finché fu al livello della spiaggia. Allora, disperata, balzò giù dallo scoglio e corse via con tutta la forza che le gambe corte le permettevano. Fuggì atterrita, senza neanche rendersi conto di che direzione seguisse.
Le fiamme le erano andate vicino. Molto vicino. Se avesse atteso ancora un po’, la ragazzina sarebbe sicuramente morta bruciata.
Schizzò fra gli alberi come impazzita, e alla fine, quando non ebbe più forza neanche per muovere un passo, crollò a terra, sfinita. Con il petto che si alzava e si abbassava freneticamente, la bambina scoppiò a piangere senza ritegno. Aveva avuto paura, tanta paura, come mai in tutta la sua vita. Aveva rischiato di morire, e in che modo osceno. Alzò gli occhi verso sud, e vide che il cielo rimaneva illuminato dalle fiamme che in lontananza stavano divorando tutta la vegetazione che incontravano.
Il fuoco si espanderà. Non posso restare qui. Morirò se lo faccio. Ma io… sono così stanca… non ce la faccio più a correre…
Fu così lieve che la bambina pensò di esserselo immaginato. Eppure, dopo qualche secondo accadde di nuovo. Una minuscola goccia d’acqua le cadde sul palmo teso della mano. Come in un sogno, Dubhne volse lo sguardo al cielo, dove non si scorgeva più l’ombra di una stella. Ridendo incredula, prima sommessamente, poi sempre più forte, la ragazzina respirò profondamente. Era salva. Piano, dolcemente, l’acqua cominciò a bagnare il terreno della foresta.
Sì, sì… non ci posso credere!
La bambina improvvisò una specie di girotondo in solitaria per la gioia, mentre in lontananza le fiamme cominciavano a sbiadire.
– Grazie, grazie!- ripeté Dubhne sottovoce, senza sapere esattamente a chi o che cosa si stesse rivolgendo. – Oh, grazie!
Mentre si lasciava crollare a terra, rise così forte da sembrare impazzita. Superata la terribile paura, lacrime di gioia le scendevano sul viso, assieme ad una sensazione di sollievo così forte da sembrare innaturale.
Sono viva. Sono viva. Ancora una volta, ce l’ho fatta.
La bambina appoggiò la testa sull’erba e, sfinita, si addormentò.
Al proprio risveglio, la prima cosa che vide fu l’immensa colonna di fumo che si ergeva all’orizzonte. In un solo, vorticoso istante la bambina ricordò tutto: l’incendio, la paura, il trionfo. Dubhne si alzò, stiracchiò i muscoli ed estrasse ed estrasse dei lamponi selvatici dalla sacca; era stata fortunata, la mattina precedente, a imbattersi in un roveto che n’era colmo. Durante la fuga della notte prima si erano un po’ schiacciati riducendosi a una specie di marmellata, ma non importava.
Dopo aver consumato in silenzio l’esigua colazione – la sacca era di nuovo vuota e avrebbe dovuto cercare al più presto qualcosa con cui riempirla - raccolse da terra i propri averi e ricominciò a camminare. Tenendo d’occhio la posizione del sole, era quasi sicura di stare procedendo verso nord. Questa volta però riuscì a mantenersi calma: non doveva farsi prendere dall’ansia per gli avvenimenti che sarebbero accaduti in seguito; in effetti, aveva una mezza idea di scappare verso nord, lontana dalla calura estiva che andava avvicinandosi e da altri possibili incendi.
Avanzò in quella direzione fra gli alberi per tutta la mattina, il cuore carico di speranza. E poi, mentre il sole di mezzogiorno filtrava tra le fronde riscaldando la foresta, senza preavviso accadde: una voce. Una voce limpida di bambino fra gli alberi.
- Tana libera tutti!
Che diavolo significava? Qualcuno era forse prigioniero? Eppure, la voce che aveva gridato quella strana frase sembrava piena di allegrezza. Forse si trattava di una specie di gioco.
Era da settimane che Dubhne non incontrava anima viva. Questo poteva significare una sola cosa: il limitare del bosco era vicino e lei doveva trovarsi nei pressi di una città. Che senza accorgersene non avesse fatto altro che girare in tondo riportandosi proprio a Célia?
Rimase lì immobile, paralizzata e indecisa, mentre la voce, a cui se ne erano aggiunte altre due, si avvicinava sempre di più. Alla fine, dagli alberi emersero tre figurette: erano due bambini e una ragazzina, tutti leggermente più piccoli di Dubhne. I ragazzini avevano occhi e capelli castano chiaro, ma la femmina aveva un aspetto più vivace: bruna e minuta, aveva due grandi occhi di un intenso color mattone, quasi rossi, e la carnagione abbronzata. Dubhne non aveva mai visto persone del genere.
– Chi sei? – chiese all’improvviso uno dei due bambini, mentre anche gli altri due la squadravano con curiosità. Ma lei aveva la gola secca: era da tanto tempo che non rivolgeva la parola con un altro essere umano. Tutto quello che riuscì ad emettere fu un basso gorgoglio. Non aveva idea di cosa dire.
– Da dove vieni? – la incalzò la bambina, sgranando gli occhioni rossi.
L’ansia la assalì alla gola. – Io non…
- Allora parli! – esclamò il secondo ragazzino, scoppiando a ridere. Dubhne li ignorò e, di getto, chiese: -Come si chiama la città più vicina? Venite da lì?
Dopo averla fissata con sguardo tra lo spaurito e il perplesso, la ragazzina fece:- Chexla è proprio qui vicino. Devi camminare in quella direzione solo per qualche minuto e il bosco si dirada.
– Grazie!- esclamò Dubhne, e prima che gli altri potessero fermarla, cominciò a correre nella direzione indicata. In effetti, era da non poche ore che la ragazzina non si nutriva, e ben contrariata all’idea di rischiare accendendo un altro fuoco, aveva deciso di cercare cibo in una qualsiasi città.
Tanto qui sono già lontana da Célia. Non può esserci nessuno che mi conosce. In effetti, non aveva mai sentito nessuno fare il nome di Chexla, alla sartoria.
Mentre spariva fra i cespugli, udì la ragazzina commentare:- Che strana tipa… dai, torniamo da mamma e papà. Saranno preoccupati…





Note: buongiorno, eccomi qui :) Volevo postare stamattina, ma non ce l'ho fatta e ho rimandato ad ora. Spero il capitolo sia stato di vostro gradimento, comincio ora a scrivere il ventiduesimo :D A presto!

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Capitolo 23
*** Capitolo 22 ***


22




Era da mesi che a Dubhne non era concesso di lavarsi. Quella sera, invece, come ricompensa per il modo egregio in cui la ragazza si era comportata nell’Arena, gli organizzatori misero a disposizione per ogni Combattente vincente una tinozza piena d’acqua, profumata con la fragranza di delicati fiori nordici. Togliendosi finalmente di dosso la divisa da combattimento, la ragazza indugiò un istante ad osservare il taglio lungo e slabbrato che Goresh le aveva inflitto al braccio sinistro; durante il pomeriggio aveva assunto un brutto color violaceo. Non era la prima volta che Dubhne si feriva – e anche in modo non tanto superficiale – ma mai nella sua vita aveva provato un simile dolore.
Lentamente, la ragazza fece scivolare a terra il corpetto e i pantaloncini, e si immerse dolcemente nell’acqua profumata. Il picco di dolore al braccio fu lancinante. La ragazza strinse i denti e orripilata guardò il proprio sangue, scuro e copioso, fuoriuscire dalla ferita.
Devo trovare il modo di disinfettarlo, rifletté frettolosamente. Si guardò intorno, poi l’occhio le cadde sulla scimitarra. Fulminea, la ragazza allungò la mano destra verso l’arma, afferrò in pantaloncini in pelle e ne tagliò un pezzetto. Poi l’immerse nella tinozza. Dubhne cominciò a respirare affannosamente. Adesso veniva la parte più dura. Esitante e assolutamente terrorizzata, la ragazza si portò la stoffa bagnata sulla ferita e la strofinò. Le sfuggì un gemito di dolore. Tenendo duro ripeté l’operazione, finché ogni singola briciola di terra e sangue impuro le fu scivolato via dalle vene. L’acqua si era tinta di rosso, e un forte odore di ferro aleggiava nell’ambiente umido. Cercando di fare in fretta, strappò un'altra striscia di tessuto e se lo legò rigidamente attorno al braccio. Avrebbe avuto una gamba del pantalone più corta dell'altra ora, ma in quella stagione cosa poteva importarle. Il dolore diminuì leggermente e la giovane appoggiò la testa al duro metallo della tinozza. Il cuore le batteva ancora a mille dalla paura.
Per la prima volta da quando era uscita trionfante dall’Arena, Dubhne ripensò a ciò che aveva fatto. All’inizio aveva tentato di reprimere quel pensiero, circondata da fiumi di persone che gridavano il suo nome, che si complimentavano con lei per la freddezza mantenuta nello scontro. Ma adesso, che era completamente sola, nulla le impediva di rivedere lo sguardo spento di Goresh che si accasciava al suolo, trafitto dalla sua scimitarra. Quando aveva lasciato il campo tutti i Combattenti l’avevano accolta con ammirazione; persino Malcom si era lasciato sfuggire un niente male. Solo James l’aveva guardata in modo diverso. I suoi occhi chiari si erano soffermati su di lei con dolore. Anche tu ci sei cascata, allora, erano parsi dirle.
La ragazza chiuse gli occhi, tentando di non vedere. Tentando di non ricordare.
Quella sera, stesa nel suo letto, Dubhne non riuscì a dormire.
Passata l’istantanea euforia per la vittoria, ora la ragazza avvertiva dentro di sé solo una terribile sensazione di vuoto. Abituatici, si disse con rabbia. Abituatici. Questo è il tuo lavoro, tu devi uccidere. Non c’è niente di male.
Ma non ne era tanto sicura. Rivedeva di continuo gli occhi di Goresh che la fissavano sconvolti, il sangue che colava dalla bacca semiaperta del suo cadavere.
Mio dio. Che cosa ho fatto?
D’un tratto, la ragazza sentì dei passi avvicinarsi alla sua camera. Claris, non c’era dubbio. Dubhne non si voltò; non aveva voglia di parlare di ciò che era accaduto quel giorno nell’Arena.
– Sei stata brava - disse una voce, cogliendola completamente alla sprovvista. Non era Claris; era Malcom. Stupefatta, lei si voltò di scatto in direzione della porta, ma Shist era sparito.
Sei stata brava. Già, tutti lo pensavano ormai. Anche lei, nel profondo del cuore.
- È il mio destino. Non sono fatta per una vita felice, io - sussurrò a se stessa la ragazza. Ed era vero. Doveva smetterla di piangersi addosso, doveva scrollarsi quell’insopportabile senso di colpa. Malcom Shist aveva ragione. Era duro ammetterlo, ma aveva ragione.
Ormai Dubhne era un’assassina. E non avrebbe mai più potuto tornare indietro.


Dormivano tutti. Le ante del palazzo Cerman erano tutte sprangate, tutte tranne la sua.
Immobile, Dubhne sedeva sui gradini di pietra in fronte alla piazza, reggendo in mano un bicchiere di vetro colmo d’acqua. Il sole non aveva ancora finito di tramontare, all’orizzonte, e ancora irradiava nel cielo un’opaca luce aranciata.
La ferita al braccio, che ancora le doleva, era nascosta alla vista da una fasciatura pulita, che era riuscita ad ottenere da Agnes.
La giovane bevve un sorso d’acqua, rimuginando sugli avvenimenti dei giorni precedenti. Ne erano passati otto dall’inizio dei Giochi, e gran parte dei Combattenti era già stata eliminata o, peggio, uccisa.
Quel pomeriggio era terminata la fase eliminatoria della competizione, e l’ultimo duello era stato un trionfo per la squadra di Malcom: il giovane Liens, che aveva appena due anni più di lei, aveva battuto dopo un lungo confronto Shat, un esperto Combattente della squadra di Ellison Pets. In generale, le cose per la squadra avevano preso una buona piega. Dei dodici eliminati (la metà dei componenti originali) solo in due erano andati incontro alla morte. Kanes, che aveva quarantacinque anni, era stato ucciso da Voxel a combattimento ultimato, poiché non essendosi arreso. Tutt’altra storia era stata invece per Darvis, che dopo un agguerrito scontro con l’audace Nimal era stato finito da lei per salvarsi la vita. Dubhne non aveva pianto per quelle notizie, né si era dispiaciuta come avevano fatto Drembow (passato per miracolo al turno successivo) o Alliar, che era sempre stata una grande amica dei due. Come poteva la ragazza piangere per due persone che mai le avevano rivolto la parola?
Durante la settimana Dubhne aveva assistito anche ad altri combattimenti dalle tribune, ovviamente quelli in cui non erano coinvolti partecipanti della squadra di Malcom. Aveva individuato parecchi avversari decisamente temibili, specialmente dalla squadra di Peterson Cambrel.
Aveva visto il duello di Jackson, ed era stato semplicemente agghiacciante; il suo avversario non aveva resistito ai suoi attacchi che per pochi secondi. L’uomo l’aveva letteralmente spazzato via. Con un solo colpo gli aveva mozzato un braccio, e lui aveva dovuto invocare la morte parecchie volte prima che Malker lo accontentasse, tagliandogli la testa e lanciandola dall’altra parte del campo.
Persino Xenja e Claris erano parse turbate, e Agnes aveva addirittura seppellito il viso fra le mani.
Dubhne no. Anche se dentro di sé aveva avvertito un odio e una paura incontrollabili, si era sforzata di rimanere impassibile. Le lacrime le avevano pizzicato gli occhi, ma la Combattente era riuscita a frenarle. La vecchia se stessa doveva essere lasciata alle spalle. E Dubhne era sicura di stare riuscendo a farlo.
Ma Jackson non era l’unica minaccia. Anche la giovane Clia, di soli vent’anni, si era dimostrata non solo all’altezza di annientare un avversario molto più grande di lei, ma l’aveva anche ucciso senza pensarci due volte. Nell’Arena aveva dimostrato un’agilità e una freddezza che Dubhne non aveva mai visto prima. Gli eleganti coltelli che la Combattente utilizzava rispecchiavano perfettamente la sua personalità spietata. E poi c’erano Mitch e Fargot, due fratelli esperti e forti, e ancora Pete, dalla tecnica fine, e una miriade di altri.
Anche tra le fila di Ellison c’erano persone potenzialmente pericolose, come Nimal e Resh, ma nulla di impossibile... Forse.
– Anche tu qui eh?- una voce rilassata la fece sobbalzare, e il bicchiere quasi le scivolò dalle mani. La giovane alzò il viso, e si trovò davanti una ragazza dai capelli rossi. Non sapeva come si chiamasse, ma l’aveva già scorta nel gruppo di Cambrel.
Meccanicamente, annuì.
L’altra sorrise e allungò una mano. – Io sono Jise - si presentò.
– Dubhne - la ragazza la strinse. Poi tornò al proprio bicchiere.
Jise continuò:- Ti ho vista nell’Arena, l’altro giorno. La Ragazza del Sangue…
- Già - le labbra di Dubhne si incurvarono leggermente nel sentire quel nome.
– Voglio che tu sappia che per me sei stata fantastica. Un po’ diversa da me nel primo combattimento…- fece la giovane amaramente.
- Perché, che è successo?
Jise fece una smorfia. – È stato tanto tempo fa. Avevo quattordici anni allora e… sono stata imbarazzante diciamo...
Dubhne rise. – E quest’anno com’è andata?
Le pareva piuttosto strano essere lì, a discutere tranquillamente con una ragazza appartenente alla stessa squadra di Jackson Malker.
Jise assunse un’aria soddisfatta. – Ho vinto. Ho battuto un mio compagno di squadra, e per fortuna non ho dovuto ucciderlo. Neisy mi ha detto che ho combattuto benissimo.
Ma l’altra non stava già più ascoltando; l’indomani sarebbe cominciato il turno, e lei aveva bisogno di dormire.
Rimase ancora per qualche minuto ad ascoltare il racconto entusiasta di Jise, poi la salutò cordialmente e si ritirò nella propria stanza per riposare.
Si sfilò la divisa in cuoio e la sistemò sullo sgabello, poi si stese sul sottile materasso.
D’un tratto, avvertì il desiderio di combattere di nuovo.




Note: salve gente :) Ecco nuovo capitolo, l'avevo detto che il presente avrebbe preso importanza col tempo xD Spero che vi sia piaciuto come a me scriverlo, fatemi sapere le vostre opinioni con una recensione! E grazie davvero a Miwako Honoka, che ha appena aggiunto la mia ff tra le seguite. Alla prossima :D

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Capitolo 24
*** Capitolo 23 ***


23




Le vie della città di Chexla erano frequentate e rumorose, e la gente si affollava attorno alle bancarelle del mercato mattutino. Dubhne camminava in mezzo alla folla, spaesata da tanto baccano. C’erano signore che si sbracciavano, bambini che si rincorrevano, signorotti che discutevano in mezzo alla strada e bande di venditori che attiravano clienti alle proprie bancarelle.
Maledizione! Ma dove diavolo è il cibo? pensò la bambina, tesa. L’idea di rubare così deliberatamente la turbava, ma se non voleva morire di fame non aveva altra scelta. Quindi, meglio se si fosse sbrigata. Camminò spintonandosi con i passanti per ancora qualche minuto, quando poi finalmente scorse fra la folla un’insegna recante la scritta: “Pane Fresco”.
Sono salva! Era da parecchio tempo che la bambina non aveva modo di assaggiare un solo pezzo di pane, e l’idea di potersene nutrire per una volta le fece venire l’acquolina in bocca. Raggiunse la bancarella in men che non si dica, ma una volta lì si bloccò. Che cosa doveva fare? Rifletti.
La ragazzina si sedette a terra, appoggiata ad un muretto, guardando con ardente desiderio ogni micca di pane che veniva venduta ai compratori. Doveva darsi una mossa, pensò mentre il suo stomaco brontolava ripetutamente. Allora, cauta, si avvicinò nuovamente al venditore.
Devo solo aspettare che si allontani un po’…
L’uomo, un Thariano basso e mingherlino, stava parlando animatamente con una giovane donna dello Stato dei Re, tentando di convincerla a comprare due pezzi della “deliziosa focaccia integrale” invece che uno. Dubhne esitò un istante e poi, appena il venditore ruotò attorno alla bancarella per porgere l’acquisto alla cliente, scattò. Fulminea, allungò un braccio e senza pensarci due volte afferrò la micca di pane più vicina. Fatto questo, si voltò e corse via, cercando di attirare meno attenzione possibile. Poco dopo, seduta su un piccolo muretto lì vicino, si gettò sul proprio pasto con voracità. Era buono, molto buono; Dubhne non aveva mai assaggiato un tipo di pane così morbido e saporito. Forse il Thariano aveva ragione, dopotutto.
– Chi sei tu? – quella voce gentile la fece sobbalzare, e la bambina rischiò di rovinare a terra per la sorpresa. Atterrita, si voltò verso chi aveva parlato. Proprio accanto a lei c’era un uomo alto, di corporatura media. Aveva un aspetto piuttosto ordinario. La carnagione leggermente abbronzata e gli occhi color castano scuro non lasciavano dubbi: Uomo Reale. Aveva capelli ispidi e un po’ arruffati, castani ma striati in alcuni punti di grigio chiaro. Non poteva avere più di quarantacinque anni.
– Allora? – ripeté l’uomo tranquillamente. – Qual è il tuo nome?
Dubhne indietreggiò, nascondendo il pane dietro la schiena. E se l’altro avesse scoperto cosa aveva rubato? Rimase un attimo ferma, poi si voltò e corse via.
L’uomo rimase fermo in mezzo alla piazza, stupito.
Dubhne corse verso la foresta, trattenendo a stento le lacrime. Era da tempo che un uomo adulto le rivolgeva una parola amichevole. In effetti, l’ultimo a cui aveva parlato era stato il cacciatore di Letjak, quasi un mese prima.
L’uomo del mercato sembrava aver notato il pane nascosto dietro la schiena della ragazzina, ma lei – ne era certa – l’aveva visto sorriderle. Allora ripensò a suo padre, che dopo la morte di Camlias l’aveva letteralmente abbandonata, e poi a Kall, che negli ultimi mesi trascorsi alla sartoria aveva fatto di tutto per aiutarla.
Pianse, amareggiata: quello di cui aveva veramente bisogno in quel momento era un genitore: qualcuno con cui potersi confidare, qualcuno che la accudisse e proteggesse. Ma chi mai avrebbe potuto voler bene ad una sciagurata come lei?
Seduta su un mucchietto di foglie secche, Dubhne si asciugò le lacrime con una manica: non ne poteva più di piangere. Era arrivato il tempo di crescere, di smetterla con quei ridicoli piagnistei.
Tu sei in gamba, Dubhne. Molto più di quanto pensi, le tornarono in mente le parole che le aveva sussurrato una sera Alesha. In cuor suo, la ragazzina sperava che l’amica avesse ragione.


Il mercato era, se possibile, ancora più della prima volta in cui Dubhne aveva messo piede a Chexla. Ottimo, così – in mezzo alla confusione – sarebbe stato più facile rubare qualcosa da mangiare.
La mamma non ne sarebbe felice.
Ma sta’ un po’ zitta! Lo faccio per non morire di fame!
Però prima, per nutrirti, non avevi bisogno di rubacchiare qua e là come una stupida ladra!
Non m’interessa!
In realtà, la ragazzina era piuttosto combattuta. Si sentiva in colpa per lo stile di vita che stava cominciando a portare avanti. Avrebbe dovuto tornare nei boschi e tirare avanti con dignità; sarebbe stata quella la cosa più giusta da fare. Ma Chexla era una città così ridente e affollata, così dannatamente normale. Era di questo che la ragazzina aveva bisogno: potersi sentire una persona comune, vivere in mezzo alla gente senza vergognarsene, non dover vivere alla giornata. In quel momento desiderava una casa più di ogni altra cosa al mondo.
Dubhne si avvicinò al bancone dei formaggi, tentando di ostentare un’espressione disinvolta. Guardando l’ingenuo e grassoccio venditore, si sentì leggermente in colpa, ma poi si decise a rigare dritto e rubò furtivamente un quarto di forma di formaggio di montagna.
Anche stavolta ce l’ho fatta.
Aveva appena finito di formulare quel pensiero, quando qualcuno le si parò davanti e le sottrasse il tozzo di formaggio che avrebbe dovuto costituire il suo pranzo.
- Ma che fai, pezzente?
Era un ragazzino poco più grande di lei, non più vecchio di Dills. - Non lo sai che rubare è un reato? Signore!
Prima che Dubhne potesse fare niente per fermarlo, prese a sbracciarsi in direzione della bancarella. - Signore, questa bambina è una ladra!
- Sta' zitto! - esclamò lei avvertendo il panico avvolgerle le viscere. - Sta' zitto, ti prego, se mi lasci andare giuro che te ne lascerò un pezzo...
Ma ormai il venditore li aveva visti. Come molti altri fra i passanti del resto.
Dubhne fece per girare i tacchi e scappare, ma il ragazzino l'aveva già afferrata per un braccio facendole male. Aveva mani grandi e forti per essere così piccolo. La trascinò con malagrazia fino al tavolaccio su cui erano adagiate in bella mostra le forme di formaggio.
L'uomo che li vendeva non aveva più niente di goffo o tenero, ora. Teneva le mani sui fianchi e aveva il volto, se non proprio adirato, almeno decisamente urtato.
- E così vivacchi rubando il cibo dei lavoratori, eh? - la apostrofò afferrando il pezzo di formaggio che il ragazzino gli porgeva con aria soddisfatta. Questi vestiva di stracci come lei, ma negli occhi gli brillava un 'che di furbo e malizioso. Come se lo facesse da una vita.
- Non l'ho rubato! - mentì lei istintivamente. - Era per terra e l'ho raccolto!
Lo schiaffo dell'uomo la colpì con uno schiocco; Dubhne sentì la pelle della guancia farsi bollente e gli occhi riempirlesi di lacrime. Non era stato così forte, ma la vergogna e il ricordo di tutte le volte in cui le erano capitate cose del genere alla sartoria le fecero venire voglia di piangere.
- Secondo te sarebbe ancora in queste condizioni se fosse caduto in questo fango? - sbraitò il margaro sventolandoglielo sotto il naso. - Mi prendi per uno stupido?
- Stavo morendo di fame! - la bambina gettò all'aria ogni tentativo di scagionarsi e sperò che la verità riuscisse a commuoverlo qual tanto da impedirgli di colpirla ancora. O di denunciarla alle guardie cittadine per farla sbattere in una cella. - Ho digiunato per giorni e non ho nessuno che mi procuri del cibo!
- Non è vero - intervenne il ragazzino vicino a lei con aria civettuola. - Eri qui anche ieri. Hai rubato un tozzo di pane alla bancarella del fornaio!
- Non è vero! Sei un bastardo! - perdendo il controllo Dubhne si gettò contro di lui colpendolo al petto con i piccoli pugni serrati, ma l'altro non ebbe neanche bisogno di difendersi perché l'uomo l'aveva afferrata per la collottola separandoli.
Eccetto per un paio di curiosi, non era rimasto quasi nessuno a osservare la scena. Evidentemente situazioni di quel genere dovevano essere piuttosto frequenti al mercato, e la gente aveva cose più importanti a cui pensare.
- Se le cose stanno così allora sei anche una bugiarda - sputò il venditore con disprezzo. - Ti prenderesti una bella ripassata, se non fossi solo una bambina...
Lo sguardo di Dubhne le cadde sulla bancarella alle sue spalle. O meglio, sul bambino che, senza emettere fiato, stava facendo incetta delle forme più piccole infilandole in un sacco. Una gran rabbia prese a bruciare nello stomaco della ragazzina, che gli puntò contro un dito accusatorio.
- Al ladro! - strillò. - Sono d'accordo, mi hanno imbrogliata per rubarvi tutto il formaggio!
Un pugno menato dal primo ragazzino vibrò contro la sua guancia facendola cadere a terra, ma il margaro si era già voltato accorgendosi di tutto. Un attimo dopo aveva afferrato il ladruncolo dietro il bancone per un orecchio. A quel punto l'altro se la diede a gambe.
Sovrastando gli insulti del ragazzino che imprecava contro il compare che l'aveva abbandonato, l'uomo lo spintonò a terra, accanto a Dubhne.
- Dei miserabili - commentò arrabbiato. - Eravate d'accordo tutti e tre non è vero?
- No! - esclamarono i due all'unisono.
- Io non c'entro niente con loro! - si schermì Dubhne in un soffio. - Non ho mentito, avevo solo fame. Non ho mai rubato altro in vita mia!
Bugiarda, bugiarda, bugiarda.
Il margaro li squadrò con volto incagnito.
- Se le cose stanno così credo che vi consegnerò tutti e tre alle guardie cittadine. C'è già abbastanza feccia in città senza che ci si mettano anche i bambini...
No, no per favore...
- Avanti! - Lei e il bambino vennero rimessi rudemente in piedi. - Adesso voi venite con me.
- Un momento, per favore.
Dubhne sentì una mano posarlesi su una spalla. Non osò voltarsi per vedere in faccia colui che aveva parlato, per cui si limitò a continuare a fissare l'uomo davanti a sé.
- Questa bambina è con me.
Le gambe di Dubhne quasi cedettero per la sorpresa. Voltò di scatto il capo e si ritrovò a fissare il volto dell'uomo che aveva scorto il giorno prima e che aveva cercato di parlarle.
Anche adesso la sua espressione era gentile.
- Ho detto io a Mila di scegliere un pezzo di formaggio. Solo che deve aver preso le mie parole troppo alla lettera... - le rivolse una strizzatina d'occhi, poi tornò a rivolgersi al venditore. - Sarei passato subito a pagare, naturalmente. Quant'è per quel quarto? - così dicendo indicò il tozzo di formaggio incriminato, che era stato riappoggiato sul piano della bancarella.
Il margaro sembrava disorientato almeno quanto Dubhne.
- Cinque... cinque
galet di rame.
- Ne darò dieci per il disturbo - disse l'uomo affabilmente estraendo un sacchetto dalla tasca che emise un allegro ticchettio di monete. Con tutta la calma del mondo lo aprì e le contò una ad una, per poi depositarle in mano al suo interlocutore. Poi si avvicinò al banco e prese il quarto di formaggio.
- E quest'altro moccioso? È anche lui figlio vostro?
- No, ma conosco i suoi genitori. Non saranno contenti nel sapere quello che loro figlio ha combinato.
- E quindi che ne faccio?
- Non lo so, ma fino a prova contraria non ha rubato niente.
Il sacco pieno di formaggi era ancora dove il ladruncolo l'aveva lasciato, dietro il bancone.
- Ora, se volete scusarmi, ho delle commissioni da fare.
Prese delicatamente Dubhne per mano e, visto che la bambina continuava a stare ferma a bocca aperta fissando ora il malgaro, ora il ragazzino, ora l'uomo che l'aveva salvata, diede un piccolo strattone per farle capire di muoversi.
Non appena si furono allontanati quanto bastava dalla bancarella, l'uomo lasciò andare la stretta senza dire più una parola. Dubhne gli trotterellò dietro.
- Davvero conoscete quel ragazzino? - chiese alla fine. Era l'unica frase sensata che la sua mente era riuscita a formulare.
- Una ladra educata - commentò l'uomo con un sorrisetto. - Chi ti ha insegnato a dare del "voi" agli sconosciuti?
- Nessuno - mentì Dubhne. Non erano affari suoi.
Sorprendentemente quello non replicò.
Una volta arrivati al solito muretto, vi si sedette e invitò la bambina a fare lo stesso. Diffidente, lei lo imitò. L'uomo le porse il formaggio.
- Che cosa? - Dubhne non riuscì a trattenere la sorpresa. - Ma non... non lo merito, io... sapevate
benissimo che l'avevo rubato...
- Certo che lo sapevo. Ho messo in scena tutta quella recita per te e adesso ti rifiuti di mangiare?
Sempre più disorientata, la ragazzina allungò una mano e furtivamente lo afferrò. La crosta era morbida e l'interno ancora di più. Era squisito.
Chissà cos’è… pensò incuriosita, leccandosi le dita rimaste appiccicose. Sarà una specialità di Chexla… Si guardò intorno, soffermandosi per la prima volta sui dettagli di quella grande città; l’aria odorava fortemente di terra bagnata, e il più delle costruzioni era realizzato in pietra. C’erano giardini attorno alle abitazioni, e la bambina vide persino uno Shirin addomesticato correre appena dietro una staccionata. La strada centrale che conduceva alla piazza era ampia e polverosa, e il vento di quel giorno faceva volare casseruole in legno e altri oggettini provenienti dal mercato. Dubhne tirò su col naso, arricciando le labbra. Quel luogo non aveva niente a che fare con Célia. Con una fitta di nostalgia, ripensò alla capanna dove aveva vissuto con i suoi genitori. Le pareva fossero passati secoli dall’ultima volta in cui vi era stata, il giorno in cui aveva incontrato per la prima volta il signor Tomson. La ragazzina tremò.
Non pensarci.
- Che cosa ci facevi al mercato, se posso saperlo?
Dubhne sapeva che quel silenzio non sarebbe potuto durare per sempre. Ma anche se l'idea la riempiva di agitazione, si sentiva in dovere di rispondere a quello sconosciuto che si era messo in gioco per darle una mano.
- Stavo cercando da mangiare.
- Lo avevo intuito questo. Ma perché qui a Chexla? Non ti ho mai vista in città prima d'ora, eppure sia ieri che oggi ti ho vista aggirarti al mercato.
Lei non rispose.
- È come pensavo... sei da sola, non è vero?
Dubhne fece un cenno di assenso, mesta.
L’altro fece un’espressione strana, quasi compassionevole. A sorpresa si chinò su di lei. – Ma non hai la mamma e il papà? Una famiglia?
Lei scosse violentemente la testa. Poi, senza preavviso cominciò a singhiozzare. – Ehi… - cercò di calmarla l’uomo, posandole una mano sulla spalla. – Va tutto bene…
Dubhne, presa dallo sconfortò, lo abbracciò.
E, di getto, gli raccontò ogni cosa. Dei suoi genitori, la sartoria di Célia, il rancore verso Dills e Charlons e l’amicizia di Alesha. La morte della madre, la fuga e la vita nei boschi. Rievocò tremante ogni singolo momento doloroso della propria vita, confidandosi a quel completo sconosciuto che le ispirava però tanta fiducia…
Alla fine, il suo interlocutore le accarezzò la testa. – Sapevo che in te c’era qualcosa che non andava, l’ho capito subito. Povera bambina, quante cose orribili hai da raccontare… e da così giovane… - Le porse un fazzolettino di seta, e lei si asciugò lentamente gli occhi.
– G-grazie…- mugolò, restituendolo.
Ma l’uomo la bloccò. – No, no… tienilo pure. – Poi la osservò attentamente per qualche istante. Parve riflettere molto intensamente, poi scandì:- Senti… mi stavo chiedendo… Non ti piacerebbe venire a vivere con noi?
Certa di non aver capito bene, Dubhne sgranò gli occhi. – Che cosa?
– I soldi non ci mancano di certo. Mia moglie sarà felice di accudirti… e potrai giocare con i miei figli come se fossero tuoi fratelli. Gli farà piacere un po' di compagnia... e credo farà piacere anche a te.
Dubhne rimase ferma, a bocca aperta. Poi, felice come non mai, si gettò fra le braccia del suo salvatore.
– Oh, grazie!- esclamò ridendo. – Grazie, grazie di tutto! Io ho già preso la mia decisione!
- Bene allora - fece l’uomo, porgendole una mano. – Io mi chiamo Archie Farlow. Benvenuta nella mia famiglia.





CAB4-C03-D-CA05-4850-AA54-40-B65-A373228 Dubhne bambina (Abby Ryder Fortson :)

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Capitolo 25
*** Capitolo 24 ***


24




La mattina del proprio secondo combattimento Dubhne si svegliò con un mezzo sorriso sulle labbra; era una sensazione piuttosto strana per lei, desiderare di battersi nell’Arena rischiando la propria vita. Ma ora che aveva assaggiato cosa volesse dire essere al centro dell’attenzione, ammirata da centinaia di persone che si sbracciavano entusiaste per lei… non vi avrebbe più rinunciato.
Il giorno prima aveva dato uno sguardo alle incisioni nella roccia dell’Arena, per scoprire con chi avrebbe duellato. Si trattava di un certo Nekam, Combattente di mezza età della squadra di Peterson Cambrel. Nel leggere quel nome aveva dovuto reprimere un piccolo brivido, ma poi il pensiero di vincere aveva oscurato tutto il resto.
Claris, passata al terzo turno con una prova brillante proprio quella mattina, non aveva fatto altro che incitarla negli ultimi giorni, e ora lei aveva voglia di mettersi alla prova.
Avrebbe combattuto nel primo pomeriggio, sotto i caldi e insistenti raggi del sole estivo. Chissà se il tepore sarebbe stato un problema…
Dopo la pausa pranzo di tutti i Combattenti, le squadre di Malcom e Peterson si diressero nuovamente verso l’Arena per i duelli pomeridiani.
La sciabola ben assicurata al fodero, Dubhne si sentiva quanto mai diversa dalla prima volta. Non poteva propriamente definirsi sicura di se stessa, ma insieme desiderava mostrare al pubblico ciò che sarebbe stata in grado di fare. E più di tutto, moriva dalla voglia di riprovare il brivido della vittoria. Arriverà.
E in effetti il secondo trionfo non esitò a farsi sentire.
Quello con Nekam fu uno scontro senz’altro impegnativo, ma facilitato leggermente dalla lunga ferita alla gamba che ostacolava non poco l’abilità del Combattente. Ma Nekam non era uno sprovveduto, e con tre edizioni di Giochi alle spalle aveva affrontato il duello con il massimo impegno e serietà; non era bastato.
Dubhne aveva creduto che riprendere in mano la sciabola per uccidere sarebbe stato insolito, se non complicato, e invece non appena aveva messo piede nell’Arena si era sentita sicura. Era la seconda volta che vi entrava, la seconda volta che combatteva, la seconda volta che avrebbe ucciso. Si era battuta lucida e concentrata, senza badare alla folla e ai commenti di Rodrick, o almeno fino al momento in cui aveva costretto l’avversario a terra. E allora, circondata da mille voci che chiedevano entusiaste altro spettacolo, lei non aveva potuto far altro che accontentarli.
Aveva ucciso l’avversario proprio come Goresh, trafiggendolo dritto nel petto. Senza provare il minimo rimorso o disgusto, stavolta.
Il secondo turno di combattimenti continuò per altri tre giorni, e la squadra di Malcom Shist si procurò un discreto numero di vittorie. Dubhne assistette insieme agli altri a parecchi scontri, ma solamente uno la turbò sentitamente.
Fu Clia, non Jackson, quella volta a colpirla con maledetta violenza e spietatezza. Ma ciò era nulla in confronto allo sconvolgimento che travolse Claris.
Agnes morì per mano della Combattente dopo appena dieci minuti di scontro, sotto il suo stesso, orripilato sguardo. Clia la batté con facilità quasi umiliante, e quando con disprezzo mollò un calcio negli stinchi al cadavere della ragazza, Dubhne dovette trattenere Claris per i vestiti per impedirle di intervenire. E così per la prima volta era stata lei, Dubhne, a consolarla e a farle forza, anche se con le lacrime agli occhi e la morte nel cuore.
Agnes era sempre stata gentile con lei. Si erano allenate tanto insieme, lei, Dubhne e Claris, nei mesi che avevano preceduto i Giochi Bellici. Aveva diciotto anni.
Quella sera, stesa come al solito sulla scomoda brandina, Dubhne giurò con tutta se stessa che l’avrebbe vendicata. Ti ucciderò, Clia. Te lo prometto.


Passarono i giorni, e la ragazza si ritrovò passata agli ottavi di finale insieme ad altri quindici combattenti. Il giorno del proprio turno, si avviò verso l’Arena con uno strano senso di vuoto nel cuore. La perdita di Agnes l’aveva segnata più di quanto fosse disposta ad ammettere.
Rassegnati, ringhiò a se stessa, in procinto di entrare in campo. Rassegnati, lei è morta e non tornerà. Concentrati sullo scontro adesso.
Claris, che a pochi passi da lei singhiozzava in silenzio, non le augurò buona fortuna come al solito. Non le rivolse alcun sorriso di incoraggiamento, ne uno sguardo sicuro; a capo chino, tentava disperatamente di trattenere le lacrime. La terribile perdita di Agnes, con cui era sempre stata amica, le aveva impedito di concentrarsi appieno nel duello di quella mattina contro Pete, che aveva approfittato della sua momentanea debolezza per eliminarla.
Se Dubhne avesse vinto quello scontro, avrebbe dovuto combattere contro di lui.
– Vedi di vincere - le intimò Malcom Shist, riportandola bruscamente alla realtà. – La tua avversaria non ha un briciolo di esperienza, per cui non ti azzardare a fare cose strane…- ma Dubhne non lo ascoltava.
Attese impassibile che il commentatore la annunciasse, poi si avviò con passo sicuro verso il campo di battaglia.
Il contendente che uscì dal tunnel opposto era una bambina. Minuta, magra, con folti e ricci capelli rosso scuro e i tratti marcati, da Haryarita. Due piccoli e spauriti occhi azzurri creavano un forte contrasto con la carnagione color mattone, e Dubhne comprese: una Mezzosangue. Qual era il suo nome? Illa, le era parso di capire.
Nel vedere quella creatura terrorizzata e indifesa, si sentì spezzare il cuore e, istintivamente, fece un passo all’indietro. Una certezza le colpì la mente: non farò mai del male a questa bambina. Non potrei mai farlo.
Guardando la sua sagoma esile, Dubhne rivide se stessa a sette anni. Aveva la stessa espressione di Illa, quando era entrata per la prima volta nella sartoria del signor Tomson. Se le avesse torto anche un solo capello, il rimorso l’avrebbe perseguitata per sempre.
Una sensazione così forte di pietà era cosa rara per una Combattente del suo calibro e fama, ma alla ragazza non importava: non avrebbe ucciso un’innocente.
– Pronti? – gridò il commentatore guardando le due Combattenti. Ad Illa tremarono le mani, ma rimase ferma al suo posto. – Allora… la sfida può cominciare!
Dubhne decise di cominciare con qualche colpa facilmente prevedibile per saggiare le reali capacità della sua avversaria. Illa li schivò tutti senza troppe difficoltà, ma non sollevò la spada neanche una volta per pararli. Era veloce, ma era altrettanto evidente che fosse terrorizzata. Doveva portarla a sollevare quel maledetto spadino che si ritrovava per le mani. Se avessero duellato - senza troppa foga - per qualche tempo la bambina avrebbe anche potuto mantenere una certa dignità.
Dubhne cercò volontariamente la lama dell'avversaria con la propria, che a quel punto si riscosse. Il suono del metallo che si scontrava risuonò particolarmente secco nell'arena che si era fatta silenziosa: gli spettatori osservavano quello scontro con occhi stupiti: perché la Ragazza del Sangue non aveva ancora spazzato via un'avversaria così debole?
Dubhne separò il suo acciaio da quello dell'avversaria e menò un nuovo fendente; ancora la lama di Illa intercettò il colpo. Per qualche minuto le due Combattenti duellarono in uno scontro che da lontano poteva sembrare quasi alla pari; in realtà, Dubhne combatteva ben al di sotto delle proprie reali possibilità, come in un allenamento. Illa invece sembrava starcela mettendo tutta.
Non era neanche poi così male, si ritrovò a pensare Dubhne mentre schivava un fendente mosso dalla ragazzina. La forza non era sicuramente il punto forte della piccola Combattente, ma in compenso la spadina da lei impugnata le si adattava perfettamente, e i suoi colpi erano abbastanza precisi e mirati. Un paio di volte era anche andata vicina a colpirla.
Quando poi si decise a contrattaccare seriamente, Dubhne riuscì facilmente ad eludere la guardia dell'avversaria, e la ragazzina fu costretta ad arretrare, fino a ritrovarsi con la schiena addosso ad una delle pareti dell’Arena.
Con lo sguardo, Dubhne tentò di rassicurarla, di spingerla ad arrendersi tranquillamente.
Gli spettatori sembravano sempre più sconcertati. Cominciarono anche i primi fischi di disprezzo.
Spazientita, Dubhne alzò la spada in alto, come pronta a menare il colpo decisivo, quando finalmente, Illa gridò:- Mi arrendo!
La bambina aveva le braccia alzate, e per la paura la piccola spada le era scivolata di mano. Soddisfatta e decisamente più tranquilla, Dubhne sorrise, alzando il pugno verso la folla, per annunciare la vittoria. Qualcuno applaudì, e la giovane lo giudicò un buon segno.
-Ehm, sì…- commentò il cronista, perplesso. – È stato un combattimento… come dire… insolito. E anche piuttosto breve. Comunque, la vincitrice è Dubhne!
Lei fece un rapido cenno di saluto alla folla, e mentre già molti spettatori si dirigevano verso le uscite, guardò Illa con un misto di curiosità e pietà.
La ragazzina, ancora tremante, le restituì lo sguardo. Dubhne, impacciata, le rivolse un rapido sorriso, poi si affrettò ad uscire dall’Arena.
Solo allora Illa si permise di scivolare in ginocchio, tirando un sospiro di sollievo.





Note: ehm... sì. Lo so, ho impiegato un'eternità a postare, e mi rendo anche conto che questo capitolo non è propriamente un capolavoro. Ed è troppo corto. scusate, sul serio, ma era davvero a corto di ispirazione. Comunque recensite se vi va, per favore, è sempre piacevole ricevere opinioni, consigli, ecc.. :)
Posterò il prima possibile un nuovo capitolo. a presto, Xx ^^


CD90-E2-F8-6-DE9-46-C9-BA46-A0792380-F3-E5 Illa (Keira Chansa)

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Capitolo 26
*** Capitolo 25 ***


25




SETTE ANNI DOPO


Archie Farlow interruppe un attimo il proprio lavoro al focolare e si voltò, ritrovandosi a guardare la figura di una ragazza bella e tornita, con stampato in viso un sorriso sereno. Aveva occhi grandi e scuri, e i capelli castani e lucenti parevano non veder l’ombra di forbici da almeno tre anni. Fu osservando quella persona così tranquilla e radiosa che si sentì fiero di sé: erano passati molti anni da quando l’aveva incontrata la prima volta, sola e sporca nel bel mezzo della città di Chexla. Guardando quella figlia adottata eppure così cara, pensò di aver fatto la cosa giusta.
– Buongiorno, Dubhne. Dove sono Richard e Camm?
- Ancora in giardino. Richard è convinto che se si allenerà tutti i giorni, è ancora in tempo per battermi con la spada…. – rispose beffarda Dubhne, mentre si tirava fuori dalla sacca le sei arance e la micca di pane che aveva comprato quel giorno.
- Fossi in te non lo sottovaluterei. Richard è un ragazzo molto determinato. E ha sedici anni.
– Ma non farmi ridere. – la ragazza gli mandò un bacio canzonatorio. – E io ne ho diciassette. Comunque… dov’è Claire?
- È appena arrivata dalla macelleria - li interruppe a sorpresa Camm, il minore dei due figli di Archie. – Sta rimproverando Richard per i suoi “modi di fare indecorosi”…
- Perché? Che cos’ha fatto?
- Conoscendolo avrà la camicia fuori dai pantaloni, o roba simile. – fece Dubhne ridendo. Poi, rivolgendosi a Camm:- Non si è ancora rassegnato ad essere l’eterno secondo?
- Direi proprio di no - rispose direttamente Richard, spuntando dalla porta semiaperta. Dietro di lui entrò Claire, la braccia tornite cariche di sacchetti. – Datemi una mano, ragazzi….
Mentre Archie se ne stava tranquillamente appoggiato al tavolo di legno, Claire dette un’ultima strigliata a Richard:- Non ti devi più permettere di mancare rispetto alla signora Hectaway, mi hai capito?
- Ma è un cadavere che cammina! Insomma mamma, io non la sopporto proprio!
- E non hai tutti i torti… - sbuffò Camm, posando nella dispensa gli acquisti della madre. Archie strizzò l’occhio a Richard. – Forza, ragazzi, lasciateci preparare il pranzo.
I tre non se lo fecero ripetere due volte, e veloci schizzarono nel cortile.
- Che cosa hai combinato per farla arrabbiare così? - lo punzecchiò Dubhne. - La signora Hectaway è passata qui di fronte e le hai fatto la linguaccia?
Quella mattina erano uscite solo lei e Claire: Dubhne per recarsi al mercato e Claire dal macellaio. Andavano a fare la spesa a giorni alterni lei, Camm e Richard; quel giorno i due figli di Archie erano rimasti a casa.
- Una storia vecchia - borbottò Richard sistemandosi la cintura dei calzoni. - Ricordi quell'imitazione che feci di lei davanti a Betlan e Faria? Beh, credo che uno dei due abbia fatto la spia...
- Quell'imitazione era geniale - rise Camm al ricordo.
- Già - disse Dubhne - ma avresti dovuto pensarci: Faria è amica di sua figlia, quella Reslen Hectaway...
Richard alzò le spalle, indifferente, poi afferrò la propria spada in legno e la punto con fare deciso verso Dubhne. – Ti sfido!- gridò per sovrastare il chiacchiericcio della gente che discorreva nelle vie.
– Accetto con piacere! – esclamò di rimando la ragazza, afferrando a sua volta la propria arma. Camm rise, facendo altrettanto.
– Prima però… - cominciò Dubhne, rivolta a Richard. – Dovrai acchiapparmi!
E correndo come una furia si gettò fuori dal cancelletto. Richard e Camm si affrettarono a seguirla, le spade in mano. Dubhne si fece largo tra la folla, senza badare ai commenti infastiditi delle signore e gli anziani.
- Preparati a perdere! – le gridò dietro Richard, seguendo la sua scia. Un signore dall’aspetto nobile lo guardò storto, ma il sedicenne lo ignorò. Desiderava combattere contro Dubhne più di ogni altra cosa al mondo.
Richard era decisamente un bel ragazzo. Niente di troppo appariscente, ma i tratti netti e il sorriso sicuro lo rendevano assai piacente alle ragazze della città. Era alto e forte, e gli occhi ambrati creavano un netto contrasto con la carnagione leggermente abbronzata. Aveva ereditato dalla madre appunto il colore di questi ultimi, ma i capelli erano castani, come quelli di Archie. Camm, invece, che aveva da poche settimane compiuto tredici anni, era praticamente la copia della madre, mezzosangue e figlia di uno degli Uomini del Nord e di una Thariana. Uno dei pochi tratti che aveva ereditato dal padre era la forma del naso, grande e un po’ storto. Gli occhi gialli erano di un color oro più intenso di quelli del fratello, e spiccavano sulla carnagione chiara, quasi bianca. I capelli erano chiari, come quelli di Claire, ma fra le ciocche ne spuntava qualcuna più scura, color nocciola.
Dubhne si fermò, poi si infilò in un vicolo laterale e si guardò attorno: a ridossi di una parete c’era una scala. La ragazza salì in fretta i primi pioli, e appena poté si infilo nella prima finestra aperta.
Speriamo non ci sia nessuno in casa.
– Non è qui – stava commentando Camm, la mano posata sulla spalla del fratello.
– Ti ho detto che c’è, l’ho vista io! – ribatté l’altro ad alta voce. Dubhne attese che i due si voltassero verso lo stradone principale, poi brandì la spada e balzo su di loro, saltando dalla bassa finestra.
Cercando di ignorare il dolore alla caviglia –
Stupida, stupida. Perché hai dovuto saltare? – la ragazza alzò ridendo la piccola spada, incrociandola con quella di uno sbalordito Camm. In pochi secondi la ragazza riuscì ad atterrarlo, disarmandolo e buttandolo a terra con un calcio. Poi si preparò ad affrontare Richard, mentre Camm li guardava ammirati, da terra.
– Vuoi davvero combattere contro di me?- sorrise il ragazzo, ostentando un’aria di sfida. Dubhne, stuzzicata, non rispose, ma partì all’attacco. I due ragazzi certamente non potevano considerarsi degli esperti nell’utilizzo delle armi (neanche di quelle di legno), ma sicuramente utilizzavano un entusiasmo ed una passione piuttosto singolari. Dubhne e Richard duellarono con grinta, provando stoccate e colpi laterali e, in segreto, divertendosi un mondo. Era il meglio che si potesse desiderare: stare lì, senza pensieri e preoccupazioni, a combattere come veri guerrieri.
Devo farcela… devo farcela… ripeteva la mente di Dubhne, mentre metteva tutta se stessa in quello scontro.
Alla fine, con un enorme sforzo, la giovane riuscì a disarmare l’avversario che, disorientato, indietreggiò con le mani alzate.
– Ho vinto. – proferì Dubhne trionfante, in viso stampato un sorriso carico di soddisfazione.
– Non hai ancora vinto. – disse a sorpresa Camm da dietro di lei. Sgranando gli occhi, la ragazza si voltò, ma senza fare in tempo a fermare il colpo che l’altro le infliggeva. Colpita ad un fianco, crollò a terra, mentre una piccola lacrima di dolore le cadeva sulla guancia.
– Non vale!- protestò con veemenza, guardando i due fratelli che, ridendo, si mollavano pacche sulle spalle. Si rialzò, togliendosi la polvere dai pantaloni. – Avete barato!
- Giocare di squadra non è mai stato contro le regole – replicò Camm, sfoggiando il proprio miglior sorriso affabile.
Imbronciata, la ragazza incrociò le braccia. – Fate pena – disse acida.
Richard alzò gli occhi al cielo, ma poi le si avvicinò e le porse la mano:- Siete stata un avversario molto difficile da battere – annunciò, strizzandole l’occhio. Dubhne, suo malgrado , sorrise e restituì la stretta di mano.
– Dai, torniamo a casa, che ho fame - li interruppe Camm, tirandoli educatamente per un braccio.
– E va bene, ma questa me la pagate…- rispose Dubhne in tono scherzoso. I tre ragazzi si avviarono verso casa discutendo animatamente, facendosi largo tra la folla.
- Ho sentito dire che Malcom Shist è qui a Chexla in questo periodo… - fece Richard distrattamente.
– Davvero?- chiese Camm interessato, affiancandosi al fratello. Dubhne lo seguì. – Qui a Chexla?- ripeté.
– Proprio così, i Giochi iniziano tra qualche mese. Avrà bisogno di altre reclute – rispose Richard. Dubhne socchiuse gli occhi:- Cavoli, è… terribile.
Richard annuì con fare grave, ma Camm scosse il capo. – Ma io proprio non capisco! Cosa c’è che non va nei Giochi?
- Camm, ma non capisci? – esclamò Richard. – Quella gente muore! Gente innocente!
- Sì ma… quello non è il loro lavoro? – replicò il ragazzino di rimando. Dubhne vide il maggiore stringere leggermente i denti.
– Lavoro dici tu? - lo riprese. - Facciamo il quadro della situazione: persone normali, anzi già sventurate di loro. Vengono scelte praticamente a caso per partecipare ad una sfida mortale. Ti sembra giusto questo?
Istintivamente, la ragazza pensò a se stessa.
Piantala. Tu non hai una brutta vita. Non più, ormai. Anzi…
- Richard ha ragione. Per cui che non ti venga neanche in mente di chiedere a papà di andare a Città dei Re per vederli, sai cosa ne pensa lui al riguardo… - intervenne in aiuto del fratellastro. Camm fece un gesto stizzito con una mano, ma non parlò più. I tre continuarono a camminare, e quando raggiunsero la casa di Archie era ormai ora di pranzo.

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Capitolo 27
*** Capitolo 26 ***


26




L’atmosfera a tavola quel giorno era leggermente meno serena del solito. Anche se Dubhne, Richard e Camm erano stanchi per il duello e le corse e molto silenziosi, il tono di Archie non suonò molto felice, quando si rivolse sottovoce alla moglie:- Non va bene, Claire, non va bene. I miei mobili, i miei oggetti… non c’è nessuno a cui interessino. La gente si tiene ben stretta quello che ha…
- Puoi andare ad ovest – suggerì Claire in tono pacato, anche se le rughe sulla sua fronte suggerivano una forte preoccupazione. – Sai che là la gente è più ricca…
Archie sospirò, poi riprese:- È un bel disastro… non c’è lavoro… come farei a lasciarvi qui per settimane?
- Non credo che sia un discorso adatto a dei ragazzini – lo interruppe Claire a quelpunto, lapidaria. Scoccò uno sguardo eloquente ai tre ragazzi. – Avanti, uscite pure in giardino quando avete finito. Dei piatti mi occupo io.
Camm si affrettò ad alzarsi, ma Dubhne e Richard rimasero un attimo fermi, dubbiosi. C’era qualcosa nel tono della donna che non li convinceva. – Va… tutto bene?- chiese Richard, aggrottando un sopracciglio.
Archie sorrise paterno. – Tranquilli, non c’è nulla che non va.
I due ragazzi uscirono, anche se ancora non convinti. – Cosa credi che stia succedendo? Non ho mai visto tuo padre così preoccupato… - fece Dubhne, avvertendo un leggero disagio. L’altro alzò le spalle, come per cercare di non pensarci. – Non lo so, Dub. Non lo so.
Raggiunsero Camm nel giardino sul retro, e mentre Dubhne si sedeva tranquillamente sull’erba, i due fratelli, instancabili, raccoglievano da terra le spade, che avevano buttato alla bell’e meglio prima di pranzo.
Sorridendo leggermente, la ragazza rimase a guardare Richard e Camm che duellavano con passione, ma piano piano i dubbi e le incertezze ricominciarono a tormentarla: Archie aveva parlato del proprio lavoro… aveva detto che i compratori in quel periodo scarseggiavano…
Archie Farlow faceva l’artigiano di mestiere: intagliava sedie, tavoli, armadi; costruiva attaccapanni e utensili casalinghi in legno e in terracotta, e a volte i clienti affezionati gli portavano pezzi di mobilio da riparare o che avevano bisogno di essere rilevigati. Fino a qualche mese prima la ragazza aveva sempre visto miriadi di persone ad affollarsi attorno alla sua piccola bottega, poco distante dall’abitazione. L’uomo aveva due aiutanti, Clark Maryson e Wilfred Mit, giovani più grandi di Richard di qualche anno. Era una piccola impresa a conduzione esclusivamente familiare, ma fino a quel momento Archie aveva sempre fatto affari d’oro. E poi, le cose avevano cominciato a cambiare. Dubhne sapeva che Archie aveva dovuto rinunciare all'aiuto di Wilfred qualche mese prima, ma nelle ultime settimane non aveva più visto neanche Clark se non una volta, recandosi in bottega. A volte Richard si assentava per interi pomeriggi per aiutare suo padre con il lavoro, cosa che non era mai successa prima d'allora. Avvolta nella bolla luminosa dei suoi diciassette anni, all'inizio la ragazza non aveva dato peso a quei segnali, sicura che qualunque fosse il problema, si sarebbe risolto prima o poi, ma adesso la sua sicurezza cominciava a vacillare.
Dopo qualche minuto di totale sconforto, la ragazza si costrinse a tornare alla realtà, giusto in tempo per vedere Richard che con mano abile disarmava il povero Camm, e gli puntava la lama di legno sul petto.
– È la terza volta che ti batto in due giorni, fratello - sorrise.
Seccato, l’altro si voltò, puntellando la spada a terra.
– Dai, Dubhne. Se pronta a sfidarmi… di nuovo? - chiese Richard in tono beffardo.
– Pensavo che la lezione di stamattina ti fosse bastata – sogghignò la ragazza.
– Veramente siamo noi che abbiamo battuto te, per una volta - le fece notare Camm soddisfatto. Dubhne, arrossita, stava già per rispondergli per le rime, quando Richard la interruppe:- Allora, accetti?
Le porse la spada di Camm e sorrise, un sorriso decisamente affascinante. Per la prima volta da mesi, a Dubhne tornò in mente il viso dell’
altro Richard che aveva conosciuto, quando lavorava alla sartoria del signor Tomson. E rivedendo nella mente il viso magro e sconfitto di quel ragazzo che, pur non offrendole la propria amicizia, l’aveva quasi salvata da una delle dure punizioni di Tomson, provò uno sconfinato senso di tenerezza e malinconia, assieme ad un brivido sulla schiena. Non era passato un giorno da quando era arrivata a Chexla senza che la ragazza ricordasse i dolori patiti a Célia.
Non ci devi pensare, si disse poi, risoluta. Afferrò la spada di Camm e si mise in posizione.
– Avanti!- esclamò, scagliandosi verso l’avversario. I due amici due amici combatterono felicemente per diversi minuti, correndo, arretrando e saltando nel piccolo giardino dell’abitazione. Dubhne, a malincuore, dovette ammettere che Richard era davvero migliorato in quegli ultimi giorni.
Beh, non ha alcuna importanza. Lo batterò lo stesso.
Ma ad un tratto, successe qualcosa di strano: Camm, seduto su una grossa pietra, alzò gli occhi dal combattimento e guardò oltre la staccionata. Sembrava preoccupato.
Fuori, in piedi nella via centrale di Chexla c’era un uomo sui cinquant’anni, tutto intento ad osservare il duello fra Dubhne e Richard. Aveva un aspetto leggermente insolito: era alto e piuttosto tarchiato, la carnagione scura e coperta di cicatrici. Ciuffi di capelli corvini, striati di grigio sulle tempie, gli incorniciavano il volto serio e dai tratti spigolosi, e gli occhi piccoli brillavano di nero totale. C’era qualcosa nel suo sguardo che aveva un ‘che di arcigno.
Anche Richard rivolse l’attenzione al nuovo venuto, interrompendo di botto il duello. Il ragazzo, Dubhne e Camm rimasero per qualche istante a fissarlo, senza saper bene che fare.
– Avete… avete bisogno di qualcosa?- chiese Richard, esitante. L’uomo non rispose, e dopo qualche attimo fece un piccolo cenno di diniego e si voltò, tornando a mischiarsi tra la folla.
Si era trattato di un mezzo secondo, eppure Dubhne era certa di averlo visto sorridere. Turbata, la ragazza si rivolse agli altri due:- E quello chi cavolo era?- domandò.
Camm non disse nulla, continuando a squadrare il punto in cui l’uomo era sparito, ma Richard posò una mano sulla spalla della ragazza. – Non ne ho idea. Adesso… forse è meglio se rientriamo.
Dubhne annuì meccanicamente, e i tre si affrettarono a tornare in casa. I ragazzi si diressero verso il soggiorno, ma Dubhne non li seguì. Si diresse invece verso la propria camera da letto; aveva bisogno di restare un po’ da sola. Immersa nel silenzio, seduta sul proprio materasso di piume, si concesse finalmente di riflettere. Il lavoro di Archie, i problemi, i soldi… e poi quell’uomo misterioso che li aveva osservati in giardino…
Chi era? si chiese la giovane, avvertendo una sorta di vaga tensione. Non ha importanza. Probabilmente non lo rivedrai mai più… Allora Dubhne ripensò all’espressione di Archie mentre discuteva con Claire quel giorno a pranzo, e i dubbi non fecero che aumentare. Le cose non stavano andando per niente bene. Il lavoro scarseggiava, e la crisi che aveva costretto i suoi genitori ad abbandonarla era arrivata fino a Chexla. Fino ad Archie Farlow.
Nascose il viso fra le mani. Non si poteva certo definire disperata, ma quel senso di oppressione nel petto non le dava tregua. Abitava in quella città da nove anni, e mai le era successo nulla di simile. E come al solito quando era preoccupata, la ragazza pensò ad Alesha.
Alesha, la più grande e fedele amica che avesse mai avuto. E rivedendo nella propria mente gli occhi così dolci e liquidi dell’amica, provò immediatamente un lieve senso di tranquillità.
Oh, Al… tu che cosa faresti al posto mio? Il fatto è che… qui a Chexla mi trovo bene come non mai, e il solo pensiero che la mia felicità si dissolva mi fa male al cuore… So che è stupido, ma non riesco a stare calma.
Dubhne riaprì gli occhi, e subito si sentì un’ingenua. Doveva piantarla di rivolgersi ad Alesha come se fosse una sorta di amica immaginaria. Lei era partita, anni prima, e ora viveva nell’Ariador. Chissà se era riuscita a trovarsi un lavoro migliore… E se invece avesse lavorato ancora per il signor Tomson? Un’altra quantità di dilemmi interiori si aggiunse nel suo cuore. La giovane si sentiva in colpa, anche sapendo che era una sensazione immotivata. Eppure lei ora era lì, amata da Archie e Claire come una figlia; aveva due amici inseparabili, una vita normale. Mentre Alesha…
- Dub, vieni, è ora di cena…- chiamò d’un tratto Camm dall’altra stanza. La giovane alzò di scatto la testa, e guardando fuori dalla finestra si rese conto che le proprie riflessioni dovevano essere durate molto di più di quanto avesse pensato. Fuori il sole era già tramontato da un pezzo. Ombre color indaco si allungavano nel cielo ancora azzurrino, e verso est la luce aranciata del tramonto si era definitivamente spenta. Controvoglia, Dubhne si rimise in piedi e si avviò verso la sala da pranzo.
Stai tranquilla.


L’indomani, Dubhne si svegliò più presto del solito. Ma dieci buone ore di sonno avevano decisamente giovato all’umore della ragazza, che ora si sentiva decisamente rinfrancata. Si alzò dal letto sbadigliando, e avvolgendosi nel proprio scialle uscì in silenzio dalla stanza. Camminò fino alla porta d’ingresso e, una volta nel giardino, si sedette sull’erba. Adorava quel momento della giornata. Il sole, non ancora completamente sorto, irradiava una tenue luce dorata, e il cielo si presentava sempre limpido e leggero. Una brezza leggera accarezzò il viso della ragazza, che inspirò profondamente.
– Ciao, Dubhne. Già sveglia eh? – La voce era quella calma e riposata di Archie. La ragazza si voltò sorridendo, e l’uomo si sedette accanto a lei. – Mi piace la luce che c’è a quest’ora. – replicò, fissando l’orizzonte. Archie la imitò. I due rimasero un attimo fermi, senza parlare; poi Archie riprese:- Ti ho vista turbata ieri.
– Non ha importanza; ora sto meglio.
– E per via di Richard, o Camm?
- No, loro non c’entrano. E’ che… non so. – Dubhne sospirò, e alla mente le si riaffacciò l’immagine dell’uomo misterioso. – Ho una brutta sensazione.
Archie aggrottò la fronte. – Una brutta sensazione?- ripeté. La ragazza rifletté un istante, poi disse:- Riguardo a voi. È che… io ho una paura matta di perdervi.
Appena dopo aver pronunciato quelle parole, Dubhne si sentì molto stupida. Ma a sorpresa, Archie sorrise. – Non succederà, Dubhne. Davvero, non succederà mai.
Lei, rincuorata, annuì. – Non aver paura, Dubhne. – Archie l’abbracciò, e Dubhne si sentì meglio. Ripensando a tutto ciò che Archie aveva fatto per lei, si sentì scaldare il cuore. Poi l’uomo si separò da lei e disse:- Vado a prepararti la colazione, d’accordo? – La ragazza annuì, e lui si allontanò in direzione della casa. – Grazie mille,
papà.
Era una delle prime volte che Dubhne lo chiamava a quel modo. Archie si fermò in mezzo al cortile. Sembrò per un attimo sul punto di volgersi verso di lei, ma poi continuò a camminare. Con un mezzo sorriso, Dubhne tornò a guardare l’alba. Archie era davvero come un padre per lei, anzi, le rivolgeva addirittura attenzione che Michael non aveva mai neanche preso in considerazione. Eppure, ricordando la propria casetta ai confini con Tharia provò una dolorosa fitta di nostalgia. Amava Archie e Claire incredibilmente, ma nessuno mai avrebbe potuto farle dimenticare le sue origini.
Andiamo Dubhne. Non è il momento di abbandonarsi ai sentimentalismi.
La ragazza si rialzò e seguì Archie dentro casa.




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Capitolo 28
*** Capitolo 27 ***


27




Il pomeriggio trascorse lento e noioso.
Richard era uscito dopo pranzo per dare una mano ad Archie con i lavori in bottega mentre Camm, dopo aver tirato un po' di spada con Dubhne, aveva scorto in strada un gruppo di amichetti e aveva ottenuto da Claire il permesso di trascorrere il resto del pomeriggio fuori, a patto che tornasse per cena. Dubhne, che si sarebbe sentita a disagio a bighellonare con ragazzini tutti più piccoli di lei di almeno quattro anni, era rimasta a casa.
Eccetto Camm e Richard, non aveva stretto molte amicizie a Chexla; di certo non aveva un gruppetto di ragazze e ragazzi con cui trascorrere le sere d'estate, andare a fare il bagno al torrente o raccontare storie di paura attorno al fuoco. Nonostante tutto il tempo che era passato, in lei era rimasto qualcosa dell'esperienza che aveva macchiato la sua infanzia: una specie di ritrosia, un istinto a non fidarsi di nessuno al di fuori delle mura domestiche. Se alla sartoria tutti l'avevano odiata o abbandonata, perché a Chexla sarebbe dovuta andare diversamente?
La compagnia dei figli di Archie le bastava. Camm e Richard erano allegri e fedeli, e la ragazza era sicura che per nessun motivo al mondo le avrebbero mai voltato le spalle. Eppure in momenti come quello a volte si chiedeva come sarebbe stato avere un'amica, almeno una, con cui parlare di quelle che Richard avrebbe definito "cose da femmine"; da cui imparare cosa significasse essere una signorina, non un maschiaccio, giusto per entrare in contatto con quel mondo che mai le era appartenuto...
Forse, in parte, ancora una volta era il ricordo di Alesha a bloccarla. Conoscere qualcun'altra con cui aprirsi totalmente come aveva fatto con lei le sarebbe sembrato un "tradimento" nei suoi confronti. Alesha era stata la sua prima e unica amica, e lei non voleva che qualcuno, chiunque fosse, potesse prendere il suo posto.
O forse, semplicemente, non era adatta ad avere delle amiche. Forse le ragazze della sua età, a contrario delle amiche di Camm, la consideravano una poco di buono, una scapestrata che al posto di dedicarsi alle attività da fanciulla si perdeva dietro ai duelli e provava a dare la caccia agli Athros al limitare della foresta...
Dubhne sorrise leggermente a quel pensiero. Pensare che, in fondo, la responsabilità non fosse sua e del suo passato ma degli altri la faceva sentire meglio e, soprattutto, le dava l'impressione di essere
speciale.
I rumori provenienti dalla cucina le fecero venire in mente che avrebbe dovuto dare una mano a Claire. Si tirò su dal letto e gettò uno sguardo fuori dalla finestra: il sole aveva iniziato a tramontare e Archie e Richard non erano ancora tornati. La ragazza immaginò il fratellastro sudare dietro al legno da intarsiare, le gambe rotte di tavoli da sostituire e tutti gli altri lavori che aveva visto compiere da Archie e dai suoi assistenti, e pensò che avrebbe voluto poter dare loro una mano.
Quando raggiunse la matrigna in cucina, la trovò intenta ad affettare una decina scarsa di carote. Sul tavolo c'erano anche un mazzetto di ravanelli e due cipolle. Aveva il volto lievemente corrucciato, ma nel vedere Dubhne si distese in un sorriso.
- Cara, potresti darmi una mano con le verdure? - la accolse affettuosamente.
- Insalata stasera? - rispose Dubhne cercando di non dare a vedere che aveva notato il repentino cambio di espressione sul suo volto.
- Quel poco che riusciamo a ricavare dal nostro orto... - commentò Claire con un pizzico d'amarezza.
- Andrà benissimo - Dubhne le scoccò un bacio sulla guancia. - Taglio le cipolle, poi vado a prendere un cespo di insalata.
Per alcuni minuti, l'unico rumore in cucina fu il secco suono dei coltelli che sbattevano sui taglieri di legno. Gli occhi di Dubhne si riempirono presto di lacrime, prima di trovare il sollievo nel passare ai ravanelli.
- A Richard piace aiutare Archie in bottega? - buttò lì, sperando di dare l'impressione che fosse una curiosità disinteressata.
Lo sguardo che Claire le rivolse prima di rispondere fu eloquente, ma quando parlò la donna lo fece come se non si fosse accorta di dove Dubhne volesse andare a parare.
- Richard impara in fretta. Ha mani forti ed è pieno di buona volontà. Lavorare con suo padre gli farà bene, ed è un buon prospetto per il futuro. - Forse Archie avrebbe bisogno anche di qualcun altro, ora che Clark e Wilfred non lo aiutano più.
Claire inarcò un sopracciglio. - Chi ti ha detto che loro non vengono più in bottega?
- Nessuno - si affrettò a rispondere lei, tornando ai suoi ravanelli. - È che non li ho più visti in giro e ho pensato che...
- Te lo ha detto Richard, non è vero? - Mi ha detto di Clark. Su Wilfred l'ho dedotto da sola.
- Non ti si può nascondere niente, eh? - Claire le diede un buffetto sulla guancia con affetto, ma tornò subito seria. - In questo momento l'aiuto di Richard è più che sufficiente. Archie non vende abbastanza da necessitare di due aiutanti...
- Ma quattro mani sono meglio di due... - azzardò la ragazza, ma Claire la fermò subito.
- Dubhne... - disse prendendole dolcemente il polso. - Sei la figlia migliore che potessimo desiderare. Mi dispiace che tu non abbia potuto ricevere un'istruzione ufficiale, altrimenti avresti potuto andare lontano. E non è ancora detto che tu non lo faccia.
Dubhne arrossì furiosamente a quelle parole: difficilmente Claire si sbottonava in lodi sperticate, sia con lei che con i suoi figli.
- ... ma in questa situazione non devi crucciarti per cose che non dipendono da te. Questo è un periodo difficile, è inutile tentare di negarlo. Ma sono sicura che passerà e tutto tornerà come prima.
Dubhne le sorrise, grata ma non del tutto convinta. - Sei proprio sicura che io non possa fare niente per...
- Dubhne - la riprese Claire strizzandole l'occhio. - Vai a raccogliere l'insalata.
A quel punto la giovane capì che non c'era nulla da fare e si decise a uscire in giardino, nell'angolo riservato al piccolo orticello dei Farlow.


                                                                ***


- Oh insomma… dobbiamo proprio?- sbuffò Camm, mentre i tre camminavano in mezzo alla strada una settimana dopo.
– Comprare il pane, Camm. Comprare il pane - scandì Richard alzando gli occhi al cielo, e cercando l’approvazione di Dubhne al suo fianco. Il fratello fece per dire qualcosa, ma poi sembrò ripensarci. Poi disse:- La verità è che papà ha paura di guardare di nuovo in faccia quel maledetto fornaio.
Dubhne rimase colpita da quelle parole, e accanto a sé poté distintamente sentire un fremito che attraversava la schiena di Richard.
– Piantala Camm, non è il momento - fece il ragazzo in tono stizzito, anche se sulla sua fronte era apparsa una ruga di preoccupazione. Dubhne cominciò a sentirsi a disagio: era evidente che Richard e Camm sapevano qualcosa che Archie non le aveva detto…
- Che succede?- chiese senza girarci intorno, ma mantenendo una gradazione di voce gentile, o almeno tentando di farlo. Richard si grattò la fronte; era evidente che avrebbe preferito parlare d’altro. Ma Camm intervenne:- L’altro giorno nostro padre ha dovuto vendere una delle nostre gemme di famiglia.
– CHE COSA? – sbottò Dubhne allibita, ma Richard le lanciò un’occhiataccia. – Che cosa?- ripeté la ragazza, più piano.
– È così – proseguì imperterrito Camm, apparentemente senza rendersi conto di quanto l’argomento fosse delicato. – Cinque giorni fa papà è andato dal fornaio con la scusa di comprare del pane, ma la dispensa era piena. E quando è tornato ho visto che dalla borsa che aveva a tracolla sono cadute delle monete. Come se non bastasse, dopo, Richard ha visto Claire pulire lo scrigno con le pietre preziose familiari e ha visto che ne mancava una. E mamma e papà non spostano mai quelle gemme. Hanno troppa paura di perderle, non è vero Richard?
– Adesso basta - lo interruppe il ragazzo in tono duro. – Direi che non è il momento adatto per discutere.
– Sì, invece!- proruppe Dubhne, irritata. – Perché io non ne sapevo niente? Eh?
- Boh, papà avrà deciso di non dirtelo…- rispose Camm. E non si rese conto di quanto ciò che aveva appena detto ferì Dubhne.
Archie Farlow le aveva taciuto su un argomento così importante… un delle gemme era anche sua. Archie glie l’aveva regalata per il suo decimo compleanno, e la ragazza la adorava. Era l’unico cimelio di famiglia che sentiva di possedere. Chissà che Archie avesse venduto proprio quella…
- Quale pietra? - proferì meccanicamente. - Quale gemma mancava?
- Non volevo dare l'impressione che la stessi spiando... - rispose Richard sconsolato. - Non sono riuscito a distinguere con chiarezza...
La ragazza percorse di malumore tutta la strada fino alla panetteria, dove lasciò che fosse Richard ad occuparsi dell’acquisto. Le parole di Camm continuavano a risuonarle nella mente:
papà avrà deciso di non dirtelo…
I tre ragazzi uscirono dal fornaio pochi minuti dopo, e Richard reggeva un grosso involucro contenente qualche pagnotta appena sfornata. Camm sembrava sereno, e balzellava qualche metro davanti a loro, ma a Dubhne non sfuggirono le occhiate fugaci che Richard le rivolgeva. Tuttavia, tentò di sostenere un’espressione disinvolta.
Dubhne sapeva che in quel periodo la situazione finanziaria dei Farlow non era decisamente delle migliori, ma non aveva idea che potesse arrivare fino a quel punto. Vendere una delle pietre di famiglia… era incredibile. Archie e Claire tenevano a quelle gemme quasi come se fossero parte della famiglia. Alcune erano state ereditate dai parenti di Claire, che erano Uomini del Nord, e il territorio dove abitavano era ricco di cave minerali. Ve n’erano una ventina, non particolarmente preziose ma comunque eleganti e colorate, e Dubhne ogni tanto si era offerta di spolverarle per mantenerne la brillantezza. Se Archie ne aveva venduta una la situazione doveva essere più grave di quanto aveva pensato.
– Dubhne, questo non vuol dire niente.
Niente - disse ad un tratto Richard, e la sua voce suonò così dura e decisa che la ragazza alzò gli occhi. Aveva marcato l’accento sulla parola niente, pronunciandola con forza. Sconsolata, la ragazza si avvicinò a lui, cingendogli le spalle con un braccio. Deglutì.
– Stai tranquilla…- mormorò lui, fissando anche Camm, che camminava davanti a loro. Dubhne tirò su col naso e fece lo stesso. Il minore dei Farlow sembrava essere così sereno, e per un attimo lei lo invidiò. Rivolse a Richard il sorriso più spontaneo che le riuscì, poi si separarono.
Giunsero a casa che era ormai mattinata inoltrata. Il sole brillava alto nel cielo, e l’aria era calda e afosa. Ma Dubhne comprese all’istante che qualcosa non andava.
Fermo, in piedi davanti al cancello c’era Archie, e li guardava avvicinarsi con in viso un’espressione… inquietante. Aveva la fronte aggrottata, e i suoi occhi parevano lucidi. Doveva aver pianto. Dubhne rabbrividì; quell’espressione non prometteva niente di buono. Richard sembrò preoccupato come lei.
– Ciao, pa'… che succede?- fece Camm stupito, ma il padre non lo ascoltò. – Entrate in casa - disse, e Dubhne fu sorpresa nel sentire la voce dell’uomo tremare. – Devo parlare con te, Dubhne.
Indecisa se essere incuriosita o spaventata, la ragazza non si mosse.
Richard e Camm guardarono prima lei poi Archie, dubbiosi. – Sei… sei sicuro che vada tutto bene papà? - domandò Richard in tono esitante. Dubhne osservò la sua reazione col fiato sospeso. Archie scosse la testa – si vedeva che era piuttosto nervoso – e poi ripeté: - Devo parlare con Dubhne da solo.
La giovane, che cominciava ad essere seriamente preoccupata, lanciò a Richard lo sguardo più rassicurante che le riuscì. – Ci vediamo dopo – disse sforzandosi di sorridere. Camm la guardò sconcertato, ma poi si avviò verso l’ingresso. Richard rimase invece immobile.
– Ti prego, Richard…- lo implorò Dubhne, anche se in realtà avrebbe preferito avere l’amico al proprio fianco. Solo allora, e guardando Archie con un misto di paura e indecisione, il ragazzo si voltò, riprendendo a camminare. Dubhne tirò un lungo sospiro, e si volse verso Archie Farlow. – Allora… che cosa c’è?
- Non qui - disse immediatamente lui, e dopo essersi guardato in torno le prese una mano.
– Seguimi - le ordinò seriamente.
I due camminarono per le vie di Chexla con il cuore in gola. Dubhne era sempre più nervosa. Ma che diavolo stava succedendo?
Alla fine Archie si fermò di fronte allo steccato di una villetta disabitata. Dubhne fece altrettanto, e attese che le parlasse. Archie sospirò profondamente, poi alzò il capo e disse:- Malcom Shist è interessato a te.
Lo sconvolgimento che seguì quelle parole fu indescrivibile. Mille pensieri attraversarono la mente della ragazza. Malcom Shist… lei una Combattente, i Giochi, il sangue… non poteva essere…
No. Non era così. Probabilmente Archie ora era lì per dirle di aver sonoramente rifiutato, che niente gli avrebbe mai portato via la propria amata figlia adottiva. Deve essere così, si rassicurò Dubhne, attendendo ansiosamente che l’altro riprendesse a parlare. E invece…
- Io ho accettato – riprese Archie a sorpresa. Per un istante Dubhne fu così stupefatta da non riuscire a parlare. Non era possibile, aveva già visto quella scena. Tutto questo le era già accaduto un volta…
– No! - esclamò, esattamente come quando Michael le aveva ordinato di seguire il signor Tomson, anni prima. Ma ora non scoppiò a piangere. Restò a guardare Archie, troppo sconvolta per dire altro. L’uomo che le aveva salvato la vita, che le aveva ridato speranza… che la vendeva e la condannava a morire.
– È… per la mia famiglia. – balbettò Archie cercando di trattenere le lacrime. Tirò fuori da sotto il mantello un sacchetto piuttosto pieno. – Lui… l’ho incontrato... Mi ha offerto… più di cento york d'oro in cambio di te… Io non ho potuto rifiutare. È la crisi… Claire, i miei figli ed io rischiavamo di rimanere in mezzo alla strada…
Dubhne alzò gli occhi, inorridita. – Tu…- fece, puntando un dito accusatore contro di lui. – Tu mi hai venduta in cambio di soldi! Per la
tua famiglia! Di cui io non ho mai fatto parte, non è così? O avresti venduto anche Richard, se Malcom ti avesse offerto mille york? E Camm? Eh, dimmelo, dimmelo! - esplose la ragazza in preda al panico.
Archie sembrò non riuscire a parlare. Grandi lacrime rigavano il suo volto un tempo sereno e sorridente. – Io… mi dispiace Dubhne. Non sai quanto – singhiozzò, allungando una mano per accarezzare il viso della ragazza. Ma lei si ritrasse, disgustata e terrorizzata.
– Quando dovrò andarmene? - chiese, cercando di mantenere fermo il tono della voce mentre cominciava a piangere anche lei.
Archie, ferito, rispose lentamente. – Domani. Dovrai partire domani.
Domani. Mio dio… sono morta… fra poco tempo morirò…
- I… Giochi Bellici cominceranno quest’estate. Ma… tu non sarai sola, anche altri della sua squadra sono appena arrivati…
- E TU CREDI CHE ME NE IMPORTI QUALCOSA?- gridò Dubhne, perdendo il controllo e scoppiando in lacrime. Il cuore le batteva a mille. Ormai il suo destino era segnato.
Archie Farlow tentò di risponderle per rassicurarla, ma lei non ce la faceva più. Gli voltò le spalle e corse a più non posso verso casa. Era impossibile…
- Fatemi passare!- urlò addosso ai passanti che la ostacolavano. Qualcuno la guardò storto, altri si chiesero il motivo per la sua disperazione, ma alla ragazza non importava. Schizzò per le strade della città come impazzita, e quando finalmente giunse dentro casa letteralmente volò in camera sua e sbatté la porta. Solo allora si permise di scivolare a terra, affondando la testa fa le braccia e singhiozzando per la disperazione.




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Capitolo 29
*** Capitolo 28 ***


28




Dubhne si diresse verso la galleria della propria squadra camminando velocemente. Qualcosa si era appena frantumato nel suo cuore.
– Si può sapere che diavolo ti è preso?- la accolse Malcom irritato. – Perché hai risparmiato quell’incapace?
Ma Dubhne lo superò senza degnarlo di uno sguardo. Avrebbe potuto ucciderla… avrebbe potuto uccidere una bambina…
Qualcuno la afferrò per la collottola. – E guardami quando ti parlo!
Il tono di Shist era più alto ora. Dubhne si liberò con uno strattone dalla sua presa fremente dalla rabbia. – Perché non l’ho uccisa? Perché non l’ho uccisa? È una bambina, una bambina maledizione!
- Ti sei mostrata debole davanti a tutti!
- Oh, non mi sembra…- rispose a ragazza sarcastica. – Non senti? Là fuori sono tutti ancora entusiasti di quello che ho fatto… Sei il solo che godrebbe a vedere una bambina sventrata...
- Non ti azzardare a parlarmi in quel modo!- mugghiò l’uomo arrabbiato. – Non lo tollero, hai capito?
Dubhne fu sul punto di perdere il controllo; si sarebbe gettata con furia su di lui, se qualcuno non l’avesse trattenuta da dietro.
– Sta’ ferma Dubhne!
Era James. Piccata, la giovane si ricompose. Malcom Shist aveva assunto un brutto color purpureo in volto. Puntò un dito contro di lei. – Provaci ancora una volta, provaci ancora una volta e giuro che ti sbatto fuori dalla mia squadra!
Questa volta aveva fatto centro. Sempre respirando pesantemente, Dubhne si liberò dalla presa di James e abbassò lo sguardo. – Non accadrà più - ringhiò.
– E lo credo bene!- replicò Malcom furente, poi si voltò per rivolgersi a Phil, che sarebbe stato il successivo combattente della squadra a scendere in campo di lì a poche ore, nel primo incontro del pomeriggio.
– Si può sapere che ti è preso?- James sembrava sconcertato. – Non ti ho mai vista così…
Lei non rispose. In verità, stava ancora cercando di comprendere da dove le venisse tutta quella rabbia. Alla fine si costrinse a rispondere: - Lascia perdere. Io… adesso mi sento meglio.
Il giovane la guardò dubbioso, poi si allontanò.
Il gruppo si affrettò a lasciare la galleria per lasciare entrare i Combattenti di Peterson nell’Arena e dirigersi verso il palazzo Cerman.
Durante i primi turni, era accaduto spesso che per le sfide che coinvolgessero membri delle sole squadre avversarie, quella di Malcom vi assistesse dagli spalti dell'Arena. Ma più i turni si facevano rapidi, meno era il tempo che ci si poteva permettere di perdere, ovvero di non impiegare in allenamenti aggiuntivi o di cui approfittare per recuperare le forze.
Mentre uscivano, Dubhne scorse Clia fra gli altri, sempre con in volto stampata quell'espressione superba e provocante, e una nuova ondata di odio la investì. Si voltò, giusto per controllare che Claris non perdesse la testa: ma, stranamente, la ragazza camminava appena dietro di lei a capo chino, senza rivolgere la parola a nessuno.
Dubhne udì Peterson rivolgere una pungente osservazione a Malcom - probabilmente riguardo al combattimento appena conclusosi - ma non se ne curò.
Passandogli accanto, tentò di non fissarlo negli occhi.
Non aveva ucciso Illa. Già, perché l’aveva fatto?
Semplice, una voce arrabbiata proruppe nella sua mente. Io non sono come Jackson, non sono come Clia. Posso illudermi di riuscire ad affrontare tutto con freddezza, ma resto comunque una ragazza. Una ragazza, non un’assassina.
Lo sguardo spaventato di Illa l’aveva ferita, ma più di tutto l’aveva colpita quella terribile realtà che in precedenza, accecata com'era dall'ebbrezza della fama, aveva dimenticato: ai Giochi, anche i bambini erano costretti a combattere. A morire.


La lista dei Combattenti ancora in gara si assottigliava sempre di più.
Erano in molti i componenti della sua squadra ad essere stati eliminati, troppi. Peterson Cambrel non era affatto soddisfatto della piega che gli eventi avevano preso.
Fino all’edizione precedente più della metà dei Combattenti partecipanti agli ottavi di finali erano appartenuti alla sua squadra, ma quell’anno Malcom Shist ne aveva messa su una decisamente forte. James Sangster non era più l’unica minaccia ormai; eliminata Claris, restavano ancora Liens e Phil da battere e - che lo ammettesse o no - quella ragazzina, Dubhne, aveva dimostrato contro ogni aspettativa di valere parecchio. Come aveva previsto, la squadra di Ellison Pets non si era dimostrata troppo pericolosa, fatta eccezione per Nimal, che con la sua esperta sciabola aveva eliminato due suoi combattenti alquanto promettenti, e Wesh, il Thariano che aveva nell'agilità la propria arma più pericolosa.
Jackson, d’altra parte, non lo aveva ancora deluso. Aveva eliminato il suo compagno di squadra Mitch proprio quella mattina; Peterson si era in parte rammaricato di perdere un combattente valido come lui, ma dopotutto Mitch non era più giovanissimo - un anno o due e avrebbe perso gran parte del suo smalto - e la reputazione di Jackson era più i portante: quell'anno più degli altri, niente e nessuno avrebbe dovuto mettere in dubbio la sua superiorità.
Clia però non era stata da meno.
Accomodatosi a gambe incrociate come suo solito all’imbocco della galleria, osservò la ragazza prepararsi all’incontro, la lama del suo affusolato coltello che brillava sotto il sole. Come Dubhne, anche quella guerriera lo aveva stupito: quell’anno più che mai si era dimostrata un’assassina capace e totalmente priva di scrupoli. Il suo modo di combattere era fluido e letale, e più spesso di quanto desiderasse gli occhi di Peterson si posavano su di lei, durante gli allenamenti. Vederla duellare era uno spettacolo.
Lo scontro iniziò nel tumulto generale; Clia e Phil, l’avversario che avrebbe dovuto affrontare, esitarono un attimo prima di cominciare a combattere, come a valutarsi.
Peterson rimase immobile, rilassato, lo sguardo fisso sui due.
Clia schivò con facilità quasi esilarante i primi attacchi del giovane, ma dovette ricredersi in fretta quando la lama dell’avversario le passò pericolosamente vicina all’orecchio destro. Con rabbia contrattaccò e costrinse velocemente l’avversario ad arretrare. Le armi cozzarono l’una contro l’altra ancora per qualche minuto, poi i due contendenti si separarono. Phil ansimava, ma Clia – Peterson si trattenne dal lasciarsi sfuggire un sorrisetto – non dava segno di provare alcuna fatica. Era lì, in piedi, splendida e glaciale nella propria divisa nera. Phil si lanciò nuovamente su di lei, e per parecchio tempo la battaglia parve in un punto di stallo. E poi, proprio nel momento in cui Cambrel cominciò a chiedersi se fosse il caso di preoccuparsi, la lama del coltello della ragazza calò inesorabile sul braccio teso dell’avversario, spezzandoglielo. Phil cadde in ginocchio con un gemito di dolore, guardandosi stupefatto la sagoma irregolare del proprio arto.
Con in viso stampato un sorriso di glaciale trionfo, Clia gli assestò un calciò nello sterno che lo mandò steso a terra. Poi si chinò su di lui, premendo la lama su una tempia. Aumentò la pressione, e dal viso dell’uomo sgorgò qualche goccia di sangue. Phil strinse disperatamente i denti, ma non disse una parola.
– Arrenditi - sussurrò Clia malignamente. – O avrò tutto il tempo che vuoi per torturarti.
La lama scorrette sulla pelle del Combattente, strappandogli un grido di dolore. Il sangue sgorgava con più insistenza, ora. Eppure il giovane continuò a tacere.
Peterson guardò con un certo compiacimento la ragazza che con sadica calma continuava a incidere sfregi al volto di Phil, non così profondamente da ucciderlo, ma abbastanza da farlo contorcere dal dolore.
– Sei morto...- la udì poi bisbigliare Peterson quando si fu fermata. La ragazza alzò la testa per guardare nella sua direzione, aspettandosi forse un cenno affermativo. E invece, Peterson mosse un impercettibile movimento col capo. No.
Clia sgranò gli occhi, sorpresa, ma non esitò ad ubbidire. Diminuì un poco la pressione sulla gola del giovane. – Arrenditi, o lo sarai davvero - gli intimò.
Phil parve esitare, respirando affannosamente e fissandola con rancore, ma poi mormorò:- Mi arrendo.
Peterson Cambrel la guardò mentre si alzava, ma al posto di salutare soddisfatta la folla, la ragazza si diresse dritta verso di lui. Non sorrideva.
– Perché mi hai impedito di ucciderlo?- ringhiò, piazzandosi davanti a lui con le mani sui fianchi.
– Ma non capisci?- fece Cambrel impaziente. – Phil è beneamato dal pubblico, ucciderlo ti avrebbe procurato solo guai.
Clia nitrì, infastidita, ma non replicò.
Mentre gli altri Combattenti si apprestavano ad uscire, Peterson le sollevò il mento con un dito. – L’importanza del favore della folla non è mai da sottovalutare, mia cara. Ricordatelo sempre.
Allontanandosi, l’uomo sorrise.
Molto probabilmente Dubhne avrebbe trovato Clia sul proprio cammino. E allora, quell’insulsa ragazzina avrebbe realizzato di non essere l’unica ad avere un talento nato.
In realtà, le cose non stavano andando poi così male. Bastava saper aspettare.


Nel cuore della notte, qualcuno bussò all’improvviso alla porta di Dubhne, riscuotendola dal proprio leggero sonno. Si era trattato di un colpetto lieve, delicato, ma lei aveva spalancato gli occhi all’istante. Chi poteva essere a quell’ora della notte? La ragazza scivolò sul pavimento silenziosamente, ma poggiando una mano sulla porta si fermò. – Chi c’è?- bisbigliò, abbastanza forte da farsi sentire anche oltre la parete. Le giunse come risposta una vocina flebile, infantile. – Sono… sono Illa.
Illa? E che cosa ci fa lei qui?
La Combattente socchiuse la porta. Davanti a lei stava in piedi proprio la ragazzina che aveva risparmiato il giorno precedente. – Che sei venuta a fare?- le chiese, cercando di ostentare un tono di voce distaccato. Illa, le cui gote si erano tinte di rosso, non rispose subito. Pareva avere paura di lei.
– Io… sono venuta per… insomma… per ringraziarti - farfugliò timidamente.
Avrebbe dovuto aspettarselo. Quasi senza volerlo, Dubhne sorrise. Era da tempo che non le capitava di essere gentile con qualcuno. – Su, vieni…- la invitò addolcendo il tono della voce e spalancando la porta. La bambina parve esitare, poi entrò nella stanzetta. Dubhne tirò fuori da sotto la brandina una piccola brocca e un involucro di stoffa. Li porse alla propria piccola ospite. – È succo di pesca - spiegò. – Mentre questo - e dischiuse l'involucro rivelandone il contenuto - è maiale salato con focaccia croccante. Me lo hanno dato gli organizzatori come ricompensa al mio passaggio ai quarti.
Illa spostò per qualche attimo lo sguardo dalle vivande al viso della giovane, poi allungò le mani e prese in mano la caraffa. Dubhne sorrise: – Bevine quanto ne vuoi. Io ho già avuto la mia parte.
Lei si portò il succo alla bocca, e appena il liquido colorato le scese in gola si aprì in un sorriso di gratitudine. – È squisito - sussurrò, poi volse lo sguardo alle strisce di carne essiccata con evidente desiderio. Dubhne si sentiva lievemente imbarazzata. - Serviti pure - la esortò.
Per qualche minuto l'unico rumore nella stanza fu quello della mandibola della ragazzina che masticava con gusto quello spuntino insperato. Dubhne valutò che effettivamente aveva avuto fegato nel lasciare il piano riservato alla propria squadra infrangendo le regole per venire a ringraziarla.
– Ehm… tu come…- si schiarì la voce. – Come hai fatto ad arrivare agli ottavi?- chiese per rompere il silenzio. L’altra alzò le spalle.
– Pura fortuna - ammise con sincerità. – Mi sono trovata davanti avversari… più scarsi di me - abbassò il capo, mentre il rossore si faceva di nuovo strada sulle sue guance. - Uno era un bambino ancora più piccolo di me. Era della tua squadra.
Drembow pensò la giovane immediatamente.
- Mentre l'altro era troppo vecchio per continuare a combattere probabilmente. Me la sono cavata perchè sono agile a schivare. Si è stancato in breve tempo e non ha retto. Aveva una ferita al costato. È svenuto dopo pochi minuti.
Dubhne allungò una mano e, senza sapere bene cosa fare, le diede una piccola pacca sulla schiena. – Veramente non mi sei sembrata poi così male.
Illa alzò gli occhi, sorridendo amaramente. – Lo dici solo per farmi piacere, eh?
Questa volta fu Dubhne ad arrossire. Meccanicamente annuì; non aveva tempo per rimproverare la propria totale mancanza di tatto. Per un attimo calò il silenzio, poi Illa riprese:- Sarai contro Pete a quanto pare.
– Già - la Combattente non sapeva che altro rispondere. La verità era che la paura, lenta, inesorabile, si stava facendo sentire più di quanto fosse disposta ad ammettere. La bambina la fissò negli occhi. – Ce la farai - disse a sorpresa, decisa. Le labbra di Dubhne si incurvarono appena. – Sì Illa. Vincerò, lo giuro.



Note: salve a tutti! Per prima cosa vorrei ringraziare sentitamente Federverdeen99, che ha recensito gli ultimi due capitoli, e anche Shakira Love, che mi ha appena aggiunta alla sua lista di autori preferiti. Grazie! :D
Come sempre spero che il capitolo vi sia piaciuto, sono fiera di dirvi che l'ispirazione sta ritornando xD A presto ^^

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Capitolo 30
*** Capitolo 29 ***


29


Dubhne rimase in camera sua a piangere per ore.
Tre o quattro volte, Claire o Richard si erano avvicinati alla sua porta per implorarla di uscire; ma alla ragazza non importava. L’unica cosa che aveva preso forma nella sua testa era il pensiero di doversene andare. Di dover abbandonare le persone che amava una seconda volta.
Di nuovo.
Solo che adesso era diverso.
Non stava per partire come apprendista di un sarto. Stava per prendere parte a uno degli eventi più pericolosi del continente. Del mondo.
Le tremavano le mani. Aveva paura, una paura terribile.
La ragazza si lasciò sfuggire un impercettibile singhiozzo, ma ormai non aveva più lacrime da versare. Aveva perso la concezione del tempo, e quasi si aspettava da un momento all’altro che Archie irrompesse nella stanza per condurla di fronte al suo destino.
Passarono le ore. Dubhne restò a terra, senza fiatare e guardando la luce fuori dalla finestra che, con l’avanzare della sera, si affievoliva. Alla fine, quando il sole si fu definitivamente spento e le stelle ebbero preso il loro posto, sentì bussare alla porta. Non rispose.
– Dubhne, sono io - fece cautamente la voce di Claire. – Solo… ti ho portato la cena.
Dubhne esitò, indecisa, ma poi si alzò finalmente dal pavimento e girò la chiave. – Entra pure.- disse alla donna, ostentando un tono tranquillo, o quantomeno umano.
Claire entrò nella stanza con passo insicuro, e la ragazza tornò a sedersi sul proprio lettuccio. La moglie di Archie reggeva fra le mani un vassoio, che depositò ai piedi della figlia adottiva. Dubhne la guardò tristemente.
– Hai gli occhi tutti rossi... – mormorò Claire sedendosi accanto a lei e tirando fuori un fazzoletto. Si vedeva che era piuttosto nervosa. Nervosa, ma anche addolorata.
La donna le strofinò delicatamente la stoffa sul viso, dove qualche lacrima luccicava ancora. Poi si rinfilò in tasca il fazzolettino.
– Ecco fatto – disse. Dubhne alzò il viso, disorientata.
– Da quanto tempo? – chiese con voce roca.
La donna la guardò senza capire. – Da quanto tempo?- ripeté Dubhne. – Da quanto tempo sono una proprietà di Malcom Shist?
Claire respirò profondamente, e proferì:- Shist si è presentato a tuo padre due giorni fa…
Dubhne ebbe un tuffo al cuore.
– Ha detto di averti vista combattere con Camm e Richard. Ha detto che eri brava. Io… io vi ho sempre detto di non duellare. Sapevo che… che poteva essere pericoloso - s’interruppe, e questa volta fu lei a singhiozzare. Guardò Dubhne dritta negli occhi. – Archie ti vuole bene, e tu lo sai. Ma… non ce l’ha fatta. Tu… ti prego, cerca di capirlo. So che è stato un atto terribile, ma lui l’ha fatto per noi…
Un atto terribile? Mi ha condannata a morte. È così.
Claire s’interruppe, poi riprese:- Shist gli ha offerto tanti soldi… lui non aveva scelta. Ma… oh mio dio, tesoro, mi dispiace!- la donna si chinò sulla ragazza e l’abbracciò.
Anche Dubhne le circondò la vita con le braccia, ricominciando a piangere come una bambina.
Non voglio andare mamma. Non voglio andare! così aveva detto a Camlias, quasi undici anni prima.
Adesso era come allora. Nulla avrebbe potuto impedire ai Giochi di distruggere la sua vita.
Claire le passò una mano fra i lunghissimi capelli castani, e si limitò a tenerla stretta a sé senza dire nulla. E per qualche minuto, quell’abbraccio carico di sentimento ebbe il potere di calmarla. La donna si staccò da lei e disse solo:- Perdonaci, Dubhne. Perdonaci ti prego.
Si alzò, le voltò le spalle e chiuse la porta.
Dubhne restò immobile, seduta sul letto. Lentamente, sollevò il vassoio da terra e cominciò a consumare in silenzio il proprio pasto.
L’indomani Dubhne si svegliò con una consapevolezza che le cingeva lo stomaco. Sarebbe partita quella mattina. Insieme ad un gruppo di totali sconosciuti, verso una città sconosciuta, verso un
destino sconosciuto. Archie entrò nella sua stanza che il sole era appena sorto.
– È ora, Dubhne - disse evitando accuratamente di guardarla negli occhi. Tremando da capo a piedi, la ragazza si alzò. Archie rimase fermo davanti alla porta, ma dopo qualche secondo si voltò. Dubhne si guardò intorno per decidere cosa portare con sé. Alla fine, estrasse dall’armadio una casacca di ricambio, un paio di stivali di cuoio e dei pantaloncini di cotone. Li infilò in una sacca insieme al resto e aprì la porta. Cosa sarebbe successo? Malcom Shist – chiunque fosse – sarebbe venuto a prelevarla direttamente a casa? Oppure sarebbe dovuta partire alla volta di Città dei Re per incontrarlo? E gli altri Combattenti… sarebbero stati ragazzi come lei?
Respirando affannosamente, Dubhne attraversò il corridoi della casa di Archie. Passando davanti alla camera di Camm, non udì nulla, neanche un lieve respiro. Ciò significava che il ragazzo era già fuori. Per salutarla. Le prese un groppo alla gola; realizzò quanto la propria partenza fosse vicina e reale. Giunse infine alla porta di ingresso. Era semichiusa, e un raggio di luce filtrava nell’abitazione.
Aiutatemi.
La ragazza premette appena sulla maniglia e spinse. Davanti a lei c’erano come minimo una ventina di persone, tra uomini e donne. Qualcuno sussultò nel vederla, altri non smisero neppure di parlare fra di loro. Dubhne li osservò un istante: erano tutti compresi fra i dieci e quarant’anni. Alcuni erano alti e ben piazzati, ma altri non dimostravano un gran prestanza fisica. Una ragazza poco più grande di lei, con lunghi e lisci capelli neri, la stava guardando con interesse, e qualche passo più in là un bambino che non poteva avere più di dieci anni si stringeva al braccio di una giovane donna. In disparte, in piedi, c’era un giovane alto e muscoloso, in viso un’espressione cupa. Dubhne si sentì strana. Che cosa si era aspettata? Erano persone.
Poi, un uomo si fece avanti. Era scuro di pelle, tarchiato, alto più o meno quanto Archie. Una lunga e inquietante cicatrice percorreva quel volto abbronzato, e ciuffi di stopposi capelli neri, striati qua e là di grigio, gli ricadevano disordinati in fronte. Dubhne lo riconobbe all'istante come l'uomo che giorni prima li aveva osservati al di là del giardino, ma non fece in tempo a chiedersi se fosse davvero lui il leggendario Malcom Shist, che l’uomo le porse la mano.
– Salve Dubhne - disse in tono deciso e in qualche modo, minaccioso. – Io mi chiamo Malcom Shist. Benvenuta nella mia squadra.
Lei si voltò verso Archie e la sua famiglia, che la osservavano da vicino. Vide Archie muovere la testa in modo impercettibile e allungò anche lei la mano, stringendo quella del proprio nuovo padrone. Lui sorrise in modo per nulla lusinghiero. Un sorriso freddo, di circostanza. Archie Farlow si fece avanti, e posò una mano sulla spalla di Dubhne. Sembrava imbarazzato, e con voce tremante disse:- Allora, Dubhne… hai… hai preso la tua roba?
Lei annuì, così spaventata da non riuscire a dire nulla. Archie si rivolse a Malcom:- Ti prego… lascia che saluti la sua famiglia… -
L’altro rispose in tono impaziente: – D’accordo, ma che faccia presto. Dobbiamo partire fra poco.
Dubhne, che aveva ascoltato ogni parola, non se lo fece ripetere due volte e corse verso Claire per abbracciarla. Gli altri Combattenti la osservavano stupiti. Claire le accarezzò un guancia.
– La mia bambina…- bisbigliò con le lacrime agli occhi. Le stampò un bacio sulla fronte. – Ricordati di fare attenzione - balbettò. – Ce… ce la puoi fare. Non cedere alla paura.
– Ci proverò, mamma - rispose la ragazza, stringendola forte. Poi le due si separarono.
– B-buona fortuna - fece Claire singhiozzando.
Camm le prese una mano e si rivolse a Dubhne:- Oh, Dub…- disse addolorato, e si fiondò ad abbracciarla. – Non andare…- piagnucolò, con le lacrime agli occhi. La ragazza avrebbe voluto dire qualcosa, ma non riuscì a spiccicare parola. Non riusciva a trovare le parole per esprimere la propria angoscia. Quando Camm si staccò da lei, Dubhne guardò Richard. Il ragazzo era fermo, in viso un’espressione addolorata. Dubhne gli prese la mano e la strinse forte.
– Allenati - gli disse tremando. – Perché quando tornerò ti farò sudare più di prima.
Richard sorrise debolmente. Non piangeva, ma il suo sguardo era abbastanza sconvolto. – Torna, mi raccomando - disse con voce leggermente incrinata.
– Tornerò, te lo prometto - rispose Dubhne abbracciandolo, anche se neppure per un istante credette a quelle parole. – Te lo prometto - ripeté.
Una mano la agguantò da dietro. – Mi hai sentito? Non abbiamo tutto il giorno!- esclamò Malcom seccato. – Ancora un minuto…
Dubhne si ritrovò di fronte ad Archie. – Dubhne, io…- balbettò lui, mentre le lacrime cominciavano a rigare quel volto un tempo allegro. Dubhne non disse nulla, ma lo abbracciò. E in quella stretta tentò di comunicargli mille cose non dette. Che aveva capito, che non le importava, che era riuscita a perdonarlo. Che era pronta ad andarsene.
Ti prego, cerca di capire.
– Ho… ho finito - proferì poi, rivolta a Malcom Shist. Questo annuì, e fece cenno al gruppo di rimettersi in cammino. Archie, Claire, Richard e Camm rimasero immobili al loro posto, come pietrificati. Dubhne si mise la sacca sulle spalle, fissandoli.
– Avanti, vieni - le giunse secca la voce di Malcom, colpendola come un’accetta. Per qualche breve istante la ragazza non si mosse. Non avrebbe li avrebbe mai più rivisti. Ormai il suo destino era segnato.
Gli altri ragazzi e Malcom avevano già cominciato ad allontanarsi. Con un ultimo sguardo alla famiglia, Dubhne si affrettò a seguirli.



Note: volevo solo dirvi che, come forse avrete già intuito, questo era l'ultimo dei miei capitoli dedicati al passato. D'ora in poi la vicenda si svilupperà solo nel presente. Alla prossima ;)

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Capitolo 31
*** Capitolo 30 ***


30




Sì Illa. Vincerò, lo giuro.
Quelle parole le erano ronzate nella testa per tutta la notte.
E quando venne il momento di presentarsi all’Arena per l’imminente scontro con Pete, Dubhne tentò di convincersi a credervi. Goresh era sto impegnativo da battere, nonostante la scarsa esperienza. Incontrando Illa aveva avuto fortuna. Quello con Nekam era stato sicuramente lo scontro più impegnativo, ma lei era riuscita a cavarsela egregiamente. Contro Pete non sarebbe bastata la sola determinazione e la destrezza con la lama. Lui era un avversario ben più tattico e calcolatore di quelli con cui la ragazza aveva avuto a che fare fino a quel momento. Senza dimenticare che, secondo solo a Jackson e Clia, era uno dei favoriti della squadra di Peterson Cambrel.
Seduta a terra, le gambe incrociate, Dubhne attese con trepidanza di venire annunciata. Una parte di lei desiderava ardentemente combattere di nuovo, ma un’altra avrebbe preferito potersi trovare in qualsiasi altro luogo. Malcom Shist, ancora infuriato con lei per la discussione del giorno prima, non le rivolse alcun cenno di incoraggiamento, o tantomeno un discorsetto per aiutarla a trovare punti deboli nella strategia combattiva dell’avversario. Accanto a lei stava solo Claris; la giovane era riuscita finalmente, se non a superare lo shock per la morte di Agnes, almeno ad accettarlo. Era lì, seduta sulla terra battuta, a pochi centimetri dall’amica. Al momento di entrare in campo la afferrò per un polso.
– Ce la puoi fare – disse solamente, la voce roca. Dubhne avvertì il peso che le opprimeva lo stomaco farsi leggermente più leggero. – Lo so - rispose, cercando di apparire sicura. Uscendo incrociò lo sguardo di Malcom Shist e cercò di apparire più distaccata e altera che mai. Che lo volesse o no, non lo avrebbe deluso. Reprimendo con stizza un brivido di paura avanzò con passo sicuro, o almeno sperò che così paresse, fino al centro del campo di battaglia; Pete l’avrebbe raggiunta a momenti…
Rodrick stava sbraitando qualcosa, agitando le braccia e facendo entusiasmare la folla sempre di più, ma Dubhne non ascoltava. Concentrati sullo scontro. Esiste solo quello.
Dopo essere stato annunciato, Pete entrò nell’Arena; un uomo snello, dal volto serio e incorniciato da ciuffi di capelli rossicci che ispidi gli scendevano fin sulle spalle. La carnagione chiara veniva qua e là interrotta da cicatrici, vecchie o recenti che fossero, mentre le sopracciglia scure e diritte conferivano alla sua espressione un tocco di cupezza e innegabile esperienza, quasi per ricordare a tutti come mai fosse arrivato fin lì.
Avanzò fino a trovarsi a pochi passi dall’avversaria, e con noncuranza fece un rapido inchino di saluto. Lentamente, Dubhne lo imitò; tenne però sempre gli occhi puntati su di lui. Doveva dare l’impressione di essere tranquilla, e soprattutto padrona della situazione.
- Combattenti, siete pronti? – la domanda retorica del commentatore non la infastidì. – Bene, allora… possiamo cominciare!
Come la giovane aveva previsto, Pete non si mosse. Avrebbe sicuramente tentato di indurla ad attaccare, parando e schivando i colpi, e così facendo tendando anche di individuare un blocco, un imprecisione, un movimento ripetuto nel suo modo di combattere. La Combattente avrebbe dovuto finirlo prima che ne avesse la possibilità. Era su questo che doveva puntare, e la pazienza non era mai stata una delle sue doti migliori. Sapeva che così facendo sarebbe caduta dritta dritta nella strategia dell'avversario, ma se fosse riuscita a sorprenderlo in un modo che nemmeno lui si fosse aspettato, allora forse avrebbe avuto una chance.
Respirò a fondo, e stringendo forte il manico della sciabola strinse i denti. Adesso. Vai!
Fulminea, scattò in avanti, picchiando con forza la lama in direzione di Pete, il quale però la schivò fluidamente. Dubhne si raddrizzò appena in tempo per parare un suo fendente, e per alcuni attimi le due armi rimase premute una contro l’altra. Poi, a sorpresa, l’uomo si liberò da quella scomoda posizione e tentò una stoccata diretta alle gambe dell’avversaria; lei saltò appena in tempo per evitare che i piedi le fossero tranciati, e atterò pochi centimetri più indietro. I due si scagliarono nuovamente una contro l’altro, e fu Dubhne ad attaccare per prima. Con tutta la forza che possedeva, cominciò a menare potenti colpi sull’avversario, cercando di variare lo schema del duello, puntando a gambe, braccia, gola.
Ma ad un tratto Pete parve prevedere ciò che la ragazza stava per fare con qualche secondo di anticipo. Mentre Dubhne alzava rapidamente il braccio per caricare un affondo l’uomo agì, piantandole la lama della propria spada appena sotto la spalla sinistra.
Il dolore che la Combattente provò in quel momento fu atroce.
Senza che lo volesse, lacrime sfrenate le sgorgarono dagli occhi, e cercando di indietreggiare inciampò cadendo all’indietro. Pete fece un passo in avanti, roteando la spada pronto a finirla, ma con un lampo di determinazione lei rialzò la sciabola parando il colpo. Stizzito, lui scaraventò nuovamente l’arma su di lei, e Dubhne rotolò disperatamente sul terreno per schivare. Con la parte superiore del corpetto completamente imbrattata di sangue e la ferita bruciante si rimise in piedi.
Il suo avversario pareva stupito dalla tenacia che stava dimostrando. – Sai che non puoi vincere contro di me – le intimò, anche se lo fece con una sorta di rispetto.
– Non ne sarei tanto sicura – ribatté lei in tono duro. Il pubblico stava seguendo col fiato sospeso ogni loro mossa. Dubhne immaginò se stessa vincitrice, le loro urla eccitate, la soddisfazione che oscurava il dolore. – Ti conviene arrenderti adesso - parlò senza volerlo veramente; le parole le uscirono da sole. – Altrimenti ti ucciderò.
Pete rise, e con sfida la incitò ad avvicinarsi di nuovo. Tentando di ignorare quel dolore che la stava facendo impazzire, la ragazza si lanciò nuovamente su di lui, e il combattimento riprese con foga. Le lame delle due armi cozzarono l’una contro l’altra rumorosamente, quel suono metallico e letale che più di tutto entusiasmava la folla… E quando Dubhne cominciò ad avvertire più forte che mai la stanchezza, quando credette di morire per la sofferenza e lo sforzo, Pete commesse l’errore più grave della sua vita.
Si separò da lei, quasi per attendere che si riprendesse un minimo per continuare la battaglia. Ma senza pensare, senza riflettere, completamente d’istinto, lei caricò un nuovo affondo più veloce della prima volta, e senza pietà inferse una ferita mortale al ventre dell’avversario. L’uomo sgranò gli occhi; il sangue, denso e copioso, sgorgò a fiotti dalla ferita che si era aperta nel suo corpo. Mentre, scosso dai singulti, si accasciava a terra, Dubhne estrasse la spada ansimando. Si sentiva svenire…
- Uccidimi…- sussurrò Pete, appena prima di sputare abbondante sangue. La giovane sollevò il capo de Combattente e lo guardò negli occhi prima di finirlo.
– Sei stato un grande avversario - mormorò. Poi fece scorrere la lama sulla sua gola, che con un definitivo schizzo rosso porpora si squarciò.
Le grida tonanti della folla coprirono i commenti fieri e altisonanti di Rodrick, ma la ragazza non riuscì a d udirli. Stremata, si rimise in piedi.
Solo allora si permise di osservare la ferita che Pete le aveva inferto alla spalla. L’odore di ferro che il suo sangue, unito a quello dell’avversarrio emanava era quasi insopportabile. Un conato di vomito la scosse, poi la ragazza crollò a terra.


- Dubhne… Dubhne stai bene? – la voce di Claris le giunse lontanissima e ovattata, come se provenisse da chilometri e chilomentri di distanza. Tentò di aprire gli occhi e una sfocata visione le si parò davanti. Era stesa su qualcosa di morbido; china su di lei c’era Claris, lo sguardo preoccupato, e appena dietro Dubhne scorse le sagome di Jim, Xenja e altri Combattenti della propria squadra.
– Dove… dove sono?- chiese piano, frastornata. Claris sorrise. – Ancora viva, per fortuna. Sei nell’infermeria del palazzo Cerman, e guarda caso ti sei appena lasciata alle spalle un scontro splendido. – La giovane sorrise debolmente. – Ho vinto? – domandò.
– Proprio così – fu Jim adesso a risponderle. Si avvicinò a lei e le sue labbra si incurvarono leggermente. – Sei stata bravissima.
Mentre Xenja e gli altri annuivano ammirati, Dubhne scorse una figuretta smilza correre verso di lei. – Piano!- esclamò Claris allarmata, mentre Illa letteralmente si scaraventava tra le braccia di Dubhne, che gemette leggermente per il dolore. – Oh mio dio, stai bene?
Le guance della bambina erano rigate di lacrime, e mentre affondava il viso nell’incavo della sua spalla, Dubhne le accarezzò i capelli. – Credo di sì - mormorò. Alzò gli occhi e, incrociando lo sguardo di Claris, sorrise. Lei le prese una mano, stringendola forte. – Ci hai resi fieri di te, Dubhne. Illa si separò leggermente da lei, che si abbandonò nuovamente fra i cuscini di piume.
– Malcom dov’è? – chiese in tono lieve.
– Con James, che combatterà fra poco con Wesh. – fu la risposta di Xenja. Solo allora Dubhne si rese conto dell’assenza di James. – Ma per quanto… per quanto sono rimasta svenuta?
- Quasi due giorni.- annunciò Illa tra le lacrime, ma sorridendole con affetto.
Con la testa che le girava leggermente, la ragazza volse lentamente il collo verso la propria sinistra; proprio a poche brandine da lei c’era Phil, che dopo lo scontro con Clia non aveva ancora lasciato il letto. Restava sveglio di rado, e perlopiù del tempo o mangiava o dormiva.
Una donna vestita interamente di bianco gli stava applicando degli unguenti giallognoli sul viso deturpato. Gli sfregi ancora rossi spiccavano sulla pelle, gentile concessione di Clia al termine del loro duello. – Chi è lei? – chiese Dubhne incuriosita, ammiccando alla ragazza che sedeva al fianco del giovane.
Fu Socka a rispondere, stavolta:- Si chiama Lisax. E’ della squadra di Ellison Pets…
- Ha combattuto contro Phil al secondo turno. Lui l’ha risparmiata, e lei si è presa cura di lui dopo che Clia l’ha praticamente ridotto in fin di vita. – aggiunse Xenja.
– C’è chi dice che sia perdutamente innamorata di lui. – Illa strizzò un occhio a Dubhne, tornando allegra. Anche Dubhne si aprì in un piccolo sorriso. – Come mai Malcom vi lascia restare qui?
- Non vuole ammetterlo, ma è dannatamente fiero di te. Si è reso conto che sei stata davvero fantastica, nell’Arena. – la considerazione di Claris le fece avvertire una potente stilettata di orgoglio. La giovane continuò:- E così ci ha concesso di venirti a trovare. Te lo meriti, d’altronde.
Più tardi, dopo che tutti i Combattenti si furono allontanati, Dubhne non poté che riflettere su quando Claris avesse ragione.
Sapeva che cosa l’attendeva; dal momento che Clia era riuscita ad avere la meglio su Fargot in un incontro durato più di due ore, sarebbe toccato a lei fronteggiarla. Per guadagnarsi un posto in finale. E nell’oscurità, la ragazza promise a se stessa che per nulla al mondo avrebbe rinunciato a quella possibilità.



Note: eccomi di nuovo qui, finalmente! Quanto mi era mancato scrivere ù.ù Lo so, avevo detto che avrei aggiornato non prima della fine di settembre, ma grazie all'aiuto di alcune persone e circostanze sono riuscita a rimettermi un po' in sesto ^^ Spero di essermi fatta perdonare con questo capitolo un po' più lungo del solito, e spero anche vi sia piaciuto ;) Aggiornerò il prima possibile questa volta, sono sempre gradite recensioni :D
Un saluto a tutti i lettori :3 Federer_4ever

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Capitolo 32
*** Capitolo 31 ***


31




Era nato in un presidio degli Uomini Reali lungo il confine che separava la terra degli Shevaar dalla grande foresta di Isgaroth, nel continente meridionale. Suo padre, un semplice guerriero al seguito del Lord di Nastavel, gli aveva messo una spada in mano quando era soltanto un bambino. Di sua madre non sapeva molto, e suo padre non la menzionava quasi mai; sapeva solo che apparteneva al Popolo delle Foreste e, quindi, di avere sangue di Darsenar nelle vene. Ma oltre questo, non aveva neppure la certezza che fosse ancora viva.
Gli Shevaar erano un popolo bellicoso, dilaniato da faide interne, nonché da virulenti scontri con i loro cugini del Popolo Rosso: una lotta perenne che si intensifica e si affievoliva senza mai essere sopita del tutto. Ma, fortunatamente, il suo battaglione era stanziato lungo il limitare nord-orientale nel regno degli Shevaar, ed era addirittura più frequente imbattersi nei Darsenar che in membri del Popolo di Pietra.
Ed era proprio nella foresta dei Darsenar che suo padre aveva perso la vita.
Un orso gli aveva squarciato la gola durante una battuta di caccia, prima che altri soldati lo abbattessero.
James era rimasto a vegliare, in lacrime, sul suo corpo anche dopo che gli altri uomini della piccola compagnia se ne erano andati. Non aveva mai saputo esattamente quanti giorni fosse rimasto nella foresta, ma quando ne fu uscito, magro, emaciato e adulto, i soldati di Lord Aimon di Nastavel gli affibbiarono un soprannome: Sangster, che nella lingua dei Darsenar significava “figlio della foresta”.
Aveva dovuto aspettare di avere diciott’anni per vedere la terra natia di suo padre, lo Stato dei Re. Vi era arrivato su una nave piena di schiavi, in catene come lui: tutte le persone che conosceva erano morte in una sommossa scoppiata tra gli Shevaar e una tribù di Darsenar che era arrivata a coinvolgere anche il loro battaglione. Spogliato del proprio debole potere militare e senza più un galet in tasca, Lord Aimon aveva congedato i pochi uomini di cui ancora disponeva, non avendo di che pagarli, e se n’era tornato nel continente settentrionale. James aveva vagato senza una meta nella foresta e attraverso mari di dune desertiche per tre lunghi cicli lunari e, probabilmente, sarebbe morto di fame se non fosse stato trovato da un mercante di schiavi haryarita che faceva affari con il Popolo del Mare. Così aveva rimediato un trasporto che lo conducesse oltre lo stretto di Bakar.
Ma quella di semplice schiavo era stata una condizione transitoria: non era passato neanche un anno quando, fra le strade di Jeckse, Malcom Shist lo aveva visto battersi in una rissa con dei ragazzi di strada. Il giorno seguente Rakr, il suo padrone, gli aveva annunciato di averlo venduto a Shist per la bellezza di quattrocento york d’oro.
Aveva accettato il proprio fato senza opporre resistenza ed era diventato un Combattente.
Si era allenato da allora.


James stava in piedi di fronte all'imbocco della galleria, lo sguardo puntato su quella opposta dove, nell'ombra, lo aspettavano il suo avversario Wesh e il resto della squadra di Ellison Pets.
Claris osservava preoccupata la sua figura altera; poteva immaginare le folte sopracciglia lievemente aggrottate come sempre quando era concentrato, gli occhi verdi fermi e impenetrabili. Tante volte da quando lo conosceva la ragazza si era domandata se al campione di Malcom Shist fosse mai capitato di avere paura prima di uno scontro. La sua mente era divisa, combattuta se rimanere nell'infermeria a palazzo Cerman, a fianco di Dubhne, oppure concentrarsi esclusivamente su James e su quello che, si sapeva, sarebbe stato uno scontro di vitale importanza.
Il silenzio carico di attesa fu interrotto da Malcom, che si era avvicinato al giovane di spalle.
- Allora, James, sei pronto? - chiese con tono quasi paterno - James era l'unico a cui ogni tanto si rivolgesse con un minimo di rispetto e, forse, affetto nella voce.
L'uomo non rispose, ma si limitò ad annuire.
- Il tuo avversario punterà tutto sulla sua agilità: lo abbiamo già visto battersi. Sa di essere più debole di te e di avere meno destrezza con la spada, quindi tenterà di prolungare l'incontro, sfiancandoti per poi colpirti quando sarai stanco.
- Sono cose che so - rispose James, ma senza ombra di sfida nella voce. Sembrava che la sua mente fosse tutta concentrata sull'incontro che stava per disputare, e che le parole di Malcom lo avessero appena sfiorato.
Questi serrò la mascella, ma Claris sapeva che era per nervosismo, non per irritazione verso il suo pupillo. - Beh, vedi di ricordartene allora, e di terminare il duello il più in fretta possibile. Ti sei allenato con i combattenti più agili della squadra per questo scontro, ma quel tipo ha davvero talento. Dovrai stare molto, molto attento.
- Farò quello che devo - proferì James con voce profonda, senza un'ombra di paura nello sguardo.
- SIGNORI!
La voce di Rodrick tuonò così forte da sovrastare la risposta di Malcom.
- ... e signore, naturalmente... Quello che sta per cominciare è l'ultimo duello dei quarti di finale di questa splendida edizione dei Giochi!
Scroscio di urla e applausi come di consueto.
James si voltò verso di lei e Claris avvertì una stretta al cuore, come ogni volta che lo vedeva entrare nell'Arena. Avrebbe voluto dire tante cose, ma il tempo era poco e tutto quello che le uscì dalle labbra fu: - Se vinci, sarete tu e Dubhne. Tu e Dubhne contro Clia e Jackson.
- Lo so, Claris. Ma non è questo il momento di pensare al futuro.
Fece per avviarsi verso l'imbocco della galleria, ma la ragazza lo trattenne per un braccio. - Fai attenzione.
Il giovane sorrise. - Come sempre.
- Credo sia arrivato il momento di presentare i due sfidanti! - stava sbraitando Rodrick con il solito, esagerato entusiasmo. - Ebbene, da una parte abbiamo Wesh, ultimo Combattente rimasto in gara della squadra di Ellison Pets!
Claris e altri si sporsero in avanti per scorgere l'avversario di James uscire dalla rispettiva galleria. Wesh doveva essere più basso di James di tutta la testa, ma era asciutto e dal fisico scattante. Una zazzera di capelli biondo scuro terminava con un ciuffo che gli scendeva sulla fronte conferendogli un'aria sbarazzina. Sembrava più giovane di quello che era in realtà: per chi non lo conoscesse sarebbe potuto passare per un ragazzino.
- Dall'altra parte - riprese Rodrick a pieni polmoni - un volto noto nelle fasi finali dei Giochi, da sei anni sempre almeno in semifinale! Dalla squadra di Malcom Shist... James Sangster!
- Vai in quell'arena e annientalo - lo esortò Malcom con gli occhi ridotti a fessure.
James si chinò come faceva sempre e fece si fece scorrere tra e mani la sabbia del campo di battaglia. Claris osservava ogni suo movimento. Quando si alzò, le nubi dei suoi dubbi si diradarono: avrebbe vinto.
L'uomo entrò nell'Arena con passo deciso, estraendo la spada. Il frammento di Cristallo Bianco incastonato nell'elsa brillò sotto i raggi del sole pomeridiano. Wesh rivolse all'avversario un cenno di rispetto con il capo, e Claris vide James fare lo stesso.
Accanto a lei, Xenja fremeva di eccitazione e di tensione. Malcom stava davanti all'ingresso della galleria senza fiatare, le braccia conserte.
- Combattenti... cominciate!
Non ci furono attese, momenti di studio reciproco o esitazioni. Entrambi i guerrieri si scagliarono l'uno contro l'altro. Wesh reggeva una scimitarra dalla lama più sottile di quella di Dubhne.
Le due lame si scontrarono con forza, ma al posto di tentare un nuovo attacco il giovane si scansò e con una capriola si portò alle spalle di James; questi però era pronto e parò il suo assalto senza neanche bisogno di voltarsi. Lui e Malcom avevano preparato quello scontro nei minimi dettagli.
Per quanto fosse pericoloso, James avrebbe condotto il duello all'assalto. Se avesse tentato di battere Wesh sul suo stesso terreno, l'agilità e la schivata, ne sarebbe uscito senza dubbio perdente.
Menò con forza la propria spada in direzione dell'avversario, che schivò il colpo; quello successivo incontrò la lama della sua scimitarra. Claris si aspettava di vedere il braccio di Wesh cedere da un momento all'altro sotto la superiore forza di James, ma non fu così: di nuovo il giovane si sottrasse al contatto abbassandosi e rotolando di lato. Tentò un colpo alle gambe che James prontamente evitò, approfittandone per assestargli un calcio sui denti. Prima che potesse calare su di lui la spada, però, il ragazzo si era già allontanato con una capriola fulminea all'indietro. Rimessosi in piedi, indietreggiò ancora di qualche passo. Aveva la bocca sanguinante.
James si scagliò contrò di lui e menò una serie di fendenti, ma non riuscì ad ottenere quello che voleva: Wesh sembrava letteralmente danzargli intorno.
Claris era rimasta stupefatta la prima volta che lo aveva visto duellare: sembrava che provenisse da qualche remota e prestigiosa scuola di addestramento, non dalla strada o da qualche miniera come la maggior parte dei Combattenti.
Deve sbrigarsi a far vertere il combattimento a proprio favore. Il caldo era torrido, e per stare dietro all'avversario James stava spendendo troppe energie.
Nella foga dell'incontro, i due Combattenti sparirono per qualche istante dalla visuale della ragazza, spostandosi nella parte sinistra del terreno di scontro.
Ogni rumore di lame che si incrociavano era un battito perso del suo suo cuore. Ogni ansito o gemito di dolore come una fitta in fondo allo stomaco. Da quando il duello era cominciato, la sorte di Dubhne era temporaneamente scivolata via dalla sua mente. Contava solo James in quel momento, e che vincesse. Un aspro lamento li levò ad un tratto dall'arena, una voce che assomigliava pericolosamente a quella di James. Che cosa era accaduto? Ma soprattutto, a chi?
Quando i due uomini riapparvero davanti ai suoi occhi, Wesh non era più il solo a sanguinare: James aveva la parte sinistra del volto imbrattata di sangue, e Claris dedusse l'avversario l'avesse colpito con pomolo della scimitarra sul sopracciglio.
- Maledizione - imprecò Malcom fra i denti. - Ora seguire i suoi movimenti sarà ancora più difficile...
Ma James non pareva essere della stessa opinione. Si pulì il sangue dal viso con la manica e si gettò nello scontro con più foga di prima. Wesh sembrò sul punto di sorprenderlo un paio di volte dopo essergli sfuggito - ed entrambe le volte Claris affondò le unghie nella carne dei palmi - ma tutto ciò che riuscì ad ottenere fu di ferirlo di striscio a un fianco.
Avanti Jack, concludi. Finiscilo in fretta o sarà tardi...
Per l'ennesima volta, il giovane tentò di sgusciare via dopo che la sua scimitarra aveva incrociato per qualche istante la spada di James. Ma allora accadde qualcosa di diverso: mentre il suo avversario compiva l'aggraziata capriola che l'avrebbe portato alle sue spalle, James stese di colpo il braccio sinistro e lo afferrò per il collo da dietro, scaraventandolo a terra. Con un calcio nel costato gli impedì di rialzarsi, e Claris vide il giovane accartocciarsi su se stesso per il dolore. James non era tipo da assestare colpi a casaccio: quel calcio doveva avergli spezzato un paio di costole. Poi, senza perdere tempo, senza dire una parola, conficcò la sua spada nel ventre dell'avversario, inchiodandolo al suolo. Gli spalti parvero trattenere il respiro all'unanimità a quella vista.
Claris non riusciva a staccare gli occhi da lui. Evidentemente si era sbagliata. James non era affatto stanco, forse non era mai stato neanche in seria difficoltà. Aveva solo scelto di aspettare. Se non aveva ferito più gravemente Wesh era stato solo perché troppo impegnato nello studiare la sua tattica, i suoi movimenti, i suoi tempi. A discapito di tutta la tattica che aveva orchestrato Malcom Shist, a discapito degli scontri di allenamento che il giovane aveva disputato anche contro di lei, aveva deciso di fare a modo suo. Implacabile, James premette il piede sul polso della mano che reggeva la scimitarra. Wesh resistette stoicamente per diversi lunghi istanti, ma alla fine mollò la presa sull'impugnatura e James calciò la sua scimitarra lontano. Claris lo vide inginocchiarsi appresso al volto dell'avversario.
- Puoi scegliere, Wesh - disse quasi dolcemente, senza ombra di scherno nella voce. Il suo volto era una maschera da cui non trapelava nessuna emozione. - La ferita che ti ho inferto non è mortale, se ti arrenderai in fretta e ti farai portare subito in infermeria. Se non lo fai, non avrò altra scelta che terminare ciò che ho iniziato.
Wesh sputò sangue. - E dovrei scegliere di vivere in agonia, sapendo che, anche se dovessi guarire, potrei morire esattamente in questo luogo, fra un solo anno?
- Allora non mi dai altra scelta.
Claris vide il giovane a terra annuire.
James estrasse la spada dal suo corpo e la sollevò. Quando calò sulla gola dell'avversario molte delle donne sugli spalti scoppiarono in singhiozzi. Ma Claris, nella penombra della galleria, sorrise fra sé e sé mentre il sollievo si diffondeva nel suo corpo come linfa fresca e rigenerante.


L’indomani, Dubhne si svegliò accompagnata dagli echi del dolore che la ferita alla spalla le aveva procurato. Con leggera sorpresa, si rese conto che la fasciatura era stata cambiata il giorno stesso, e non emanava ancora alcun odore sgradevole. Claris. O Illa, senza dubbio.
Ringraziando mentalmente le due ragazze, si voltò verso il letto di Phil; l’uomo aveva gli occhi aperti, e quando volse lo sguardo verso di lei le sorrise. La giovane fece un cenno col capo, e anche Lisax, che reggeva un piccolo vassoio e lo stava porgendo al Combattente, mormorò un timido: - Ah… sei sveglia, allora.
Sorridendo lievemente, la ragazza depose il vassoio sulle lenzuola bianche di Phil, e si avvicinò a Dubhne. – Sei stata meravigliosa, nell’Arena. – disse vagamente imbarazzata e, forse, intimorita. Dubhne ridacchiò: non era la prima persona che glielo diceva. La guardò, incuriosita: era molto graziosa. Una lunga treccia bionda le scendeva morbida sul petto, tenuta insieme da un sottile spago marrone, e sotto sopracciglia sottili e arrotondate splendevano due grandi e dolci occhi verdi. Doveva essere più alta di lei di almeno una spanna, ma aveva un’aria dolce e premurosa.
– E così tu ti prendi cura dei feriti? – chiese. Lisax annuì:- Da quando sono stata eliminata, sì. Sento di rendermi utile, così. Kala è l’unica infermiera presente, mi piace darle una mano.
Dubhne ricordò la donna in bianco del giorno prima. – È un... gesto gentile – affermò, ma si rese conto un secondo dopo di quanto fossero scontate quelle parole. La giovane di fronte a lei parve non farvi caso; si sedette ai piedi della sua brandina, e diede ancora un fugace sguardo a Phil. – Presto sarà in grado di andarsene. Ma… Clia l’aveva ridotto in fin di vita. Non so come abbia potuto resistere così. – nei suoi occhi chiari balenò un lampo di ammirazione e insolito affetto.
Ricordando le parole di Illa, Dubhne trattenne a stento un risolino. Lisax la fissò, tornando seria. – Clia… non ho mai visto nulla di simile. A parte Jackson, ovviamente.
La Combattente sapeva dove la giovane voleva arrivare. Lei, Dubhne, avrebbe dovuto affrontare quell’assassino. Il tabellone del torneo non ammetteva dubbi. Era scontato che Lisax, come molti altri probabilmente, la considerasse già morta.
– Devi rimetterti in sesto - le disse dopo qualche secondo. – Malcom Shist è riuscito ad ottenere un po’ di tempo suggerendo agli organizzatori di indurre un tiro a sorte. Dal momento che tu, James, Jackson e Clia siete gli unici Combattenti rimasti è una fortuna. Avrai ancora due giorni per riprenderti.
Dubhne ebbe un tuffo al cuore; dunque c’era la possibilità che non dovesse affrontare Jackson in semifinale. Sperò con tutta se stessa di incappare prima in James e Clia con cui, per quanto fosse letale, forse avrebbe avuto una minima possibilità. James non sarebbe stato un problema, non per la propria vita, almeno: che avesse vinto o no, se non altro l’avrebbe risparmiata.
– Vuoi che ti porti qualcosa da mangiare? – la voce lieve di Lisax la distolse dalle proprie riflessioni.
– Grazie – rispose. – Mi andrà bene qualsiasi cosa, sto morendo di fame.
L’altra sorrise, poi le voltò le spalle. Ricadde sui cuscini; aveva bisogno di rilassarsi ancora un altro po’. Aveva tempo, tempo per lasciar riposare la ferita, in modo che una volta tornata in campo non le potesse dare troppi problemi. Diede anche uno sguardo al vecchio taglio che le aveva inferto Goresh: ormai era quasi completamente cicatrizzato.

***

- Come suggerito dal qui presente Malcom Shist, padrone di una delle tre squadre presentatesi quest’anno… per le semifinali della trentaquattresima edizione dei Giochi Bellici le coppie di duellanti verranno tirate a sorte!
Claris ascoltò col cuore in gola le parole di Rodrick, il cronista, mentre in piedi sulle gradinate dell’Arena estraeva dalla tasca un sacchetto di velluto nero. La gente, riunita sugli spalti per assistere all’estrazione dei nomi, gridò eccitata. La tensione era alle stelle. Rodrick infilò una mano nella stoffa, con stampata in volto la stessa espressione curiosa di un bambino petulante. Le sue dita mulinarono per qualche istante fra i quattro pezzetti di pergamena. Poi ne estrasse due. – Clia Devon… con…
Fa' che sia Jackson. Fa' che quei due possano scannarsi fra di loro prima di raggiungere la finale. Fa' che non esca Dubhne o James…
- … DUBHNE!
Claris ebbe un terribile tuffo al cuore, e istintivamente il suo sguardo cercò quello di James. Per un attimo, gli parve di vedere la fermezza nei suoi occhi incrinarsi, ed ebbe paura; era la prima volta che vedeva la sua sicurezza vacillare. Ma forse se l'era solamente immaginato.
Rodrick ignorò il fragore della folla.
– E i secondi finalisti sono quindi James Sangster e Jackson Malker! – annunciò in tono gaio, sorridendo soddisfatto. Agitata, Claris prese Xenja per un braccio.
- Dobbiamo avvertire Dubhne! – esclamò. Xenja la guardò con occhi sbarrati:- Ma Malcom…
- Al diavolo Malcom! – la interruppe lei, e schizzò fra la folla di Combattenti verso le uscite, con Xenja al seguito. Maledizione, morirà… morirà presto…
Le due donne corsero all’impazzata fra le vie di Città dei Re, e in pochi minuti giunsero al palazzo Cerman. Una volta dopo essere state riconosciute dalle guardie si catapultarono all’interno dell’edificio, ricomponendosi un po’ solo dopo essere arrivate di fronte alla porta dell’infermeria. Xenja bussò tre colpi insistenti; udirono la serratura scattare, e un attimo dopo apparve davanti a loro Kala, l’infermiera.
– Sì? – domandò la signora aggrottando un sopracciglio. Claris non perse tempo:- Siamo due compagne di Dubhne. Dobbiamo parlarle.
L’espressione di Kala si addolcì leggermente, e spalancò la porta. Mentre le due entravano, Dubhne si tirò su a sedere.
– Combatterai contro Clia – Claris riuscì a dire solo quello. Non si curò della mancanza di delicatezza. Poté distintamente scorgere un lampo di paura negli occhi della giovane.
– Gli organizzatori… insomma, Rodrick ha già…?
- Qualche minuto fa – completò Claris per lei. Le prese una mano. – Dovrai allenarti Dubhne. Hai un giorno intero per farlo.
– Potresti parlare con Phil – suggerì Xenja. – Lui è l’unico ad essere sopravvissuto dopo aver combattuto contro di lei… - Claris annuì, voltandosi verso il giovane. I suoi occhi erano chiusi. Lisax si avvicinò alle ragazze. – Dovrete aspettare qualche ora temo…- spiegò in tono di scusa.
– Non c’è tempo! – sbottò Dubhne, tirandosi giù le coperte appoggiò i piedi sul freddo pavimento di pietra. Claris l’aiutò ad alzarsi, e si avvicinarono al letto di Phil. Xenja gli diede un leggero colpetto sul braccio. – Phil, svegliati, dobbiamo parlarti…
- Malcom vi ha lasciate tornare qui? – chiese intanto Dubhne a Claris. Lei scosse la testa, arrossendo. – Veramente no. Ma noi… dovevamo dirtelo, insomma… Siamo praticamente scappate via dopo che Rodrick ha dato la notizia.
– Grazie – ribatté Dubhne, conscia del fatto che probabilmente le due sarebbero state punite. – Siete state davvero…
Furono interrotte da Phil, che aveva lentamente aperto gli occhi. – Dobbiamo parlarti - ripeté Xenja. L’uomo guardò Dubhne. – Contro… contro chi combatterai?
La giovane represse un fremito. – Clia. Dovrò battermi con lei.
– Voi due avete già duellato. Ci sarà pur qualcosa che puoi dirci… - fece Claris speranzosa.
Phil aggrottò la fronte, preoccupato. – Non è facile - annunciò. – Lei è… è un’assassina, non dà segno di ragionare quando combatte. Credetemi, anch’io ho tentato di trovare falle nella sua strategia, ma la verità è che sembra non ne abbia una. È maledettamente veloce.
– Tu combatti con i pugnali – considerò Xenja, guardando Claris. – Clia con i coltelli. Il vostro modo di combattere dovrebbe essere simile…
- E allora? – il tono di voce di Dubhne era leggermente angosciato, ora. – Io mi batto con la sciabola, come può essermi utile sapere cosa fare con un coltello?
- Sto solo dicendo che magari scoprire il punto debole di Claris potrebbe aiutarci a trovare quello di Clia – rispose Xenja, al che Phil la guardò interessato. – Questa non è una cattiva idea…
Claris mormorò:- Io… quando combatto… di solito aspetto che sia l’avversario a fare la prima mossa. – rifletté; tentare di ricordare era molto più difficile di quanto pensasse. Simulò mentalmente un proprio duello. – Di solito cerco di stancare chi mi sta davanti. Muovo colpi veloci, non mortali ma difficili da parare. Faccio girare la testa all’avversario…
- Farlo con una sciabola in mano non è molto semplice…- osservò Dubhne. Desolata, Claris alzò la testa. – Io… io non lo so, davvero. Mi dispiace.
– Temo – concluse Phil. – Che tu non abbia molte possibilità.
Claris sentì distintamente Dubhne stringere i denti.
– Invece ce la farò. – la voce della ragazza risuonò carica di odio. – La ucciderò, fosse l’ultima cosa che faccio.




Note: hola a tutti, gente! Son tornata :) Spero che il capitolo (anche se un po' corto forse) vi sia piaciuto :D Un bacio a tutti, aggiornerò appena posso :3

E8-C9-F3-B2-87-B5-45-CA-B146-0-DB78270724-D James (Arnas Fedaravicius)

[EDIT 1.08.2020] Okay, queste parole risultano un po' deleterie visto che ho aggiunto al capitolo una sequenza praticamente più lunga del capitolo originale...

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Capitolo 33
*** Capitolo 32 ***


32




Claris la fissò un istante sentendo quelle parole, e dovette notare il lampo di determinazione che attraversò le calde iridi di Dubhne. Meglio così, almeno avrebbe capito che faceva sul serio. Più una cosa è improbabile, più il desiderio di raggiungerla si fa sentire.
A volte Dubhne si era vergognata dei propri pensieri infantili; da bambina aveva immaginato se stessa come una Guerriera centinaia di volte, lo sguardo sicuro, i capelli chiari che ondeggiavano al vento. Appoggiata alle finestre della sartoria del signor Tomson aveva posato lo sguardo verso ovest per nottate intere, il naso appiccicato sulle gelide lastre e gli occhi lucidi.
Ora, seduta sulla brandina bianca, nella sua mente vorticarono immagini confuse: lei e Clia che duellavano, le ferite, il sangue, la vittoria…
No. Piedi per terra. La giovane si sforzò di apparire tranquilla. Clia doveva essere una semplice avversaria, nulla di più. Era brava, molto brava, ma dicendo a Claris che avrebbe vinto Dubhne non aveva mentito.
– Ce la farò - alzò gli occhi, stupendosi nel constatare che anche gli occhi di Xenja erano leggermente appannati. Claris invece le prese una mano. – Lo so - fu lei a dirlo quella volta. – Ci fidiamo di te.- aggiunse l’altra ragazza, anche se senza riuscire a nascondere un tremito. Phil pareva dubbioso, ma mormorò lo stesso un: “buona fortuna.” Quasi senza esitare, Dubhne si alzò dal bordo del letto su cui era seduta, afferrò la sciabola che pendeva dal comodino di legno e ignorando le parole agitate di Lisax si diresse verso l’ingresso. Kala la bloccò appena prima che uscisse:- Dove credi di andare tu? – chiese in tono duro.
– Ad allenarmi.- rispose lei freddamente. – Se voglio sperare di vincere non posso più rimanere qui.
– Se vuoi sperare di vincere devi aspettare di esserti rimessa del tutto, almeno! Cosa credi che dirà Malcom Shist dopo che sarai crollata dalla fatica, nell’Arena?
Dubhne ignorò la fitta di dolore alla spalla. – Hai ragione. – il suo tono suonò più calmo ma, in qualche modo, più terribile. – Io non voglio sperare di vincere. Io in quella Arena vincerò e basta.
La ragazza non udì neppure i commenti piccati dell’infermiera, e seguita a ruota da Claris e Xenja superò il portone.
Ma evidentemente non era l’unica ad aver avuto l’idea di allenarsi. Nel gigantesco e spazioso cortile di pietra che si apriva davanti al palazzo Cerman, c’era anche qualcun altro.
Peterson. Jackson. E Clia. Più qualche altro Combattente che era rimasto all’aperto per godersi lo spettacolo di quei due assassini che duellavano. Dubhne aveva pensato che Jackson sarebbe stato in grado di spazzare via la ragazza in pochi minuti, eppure Clia era ancora lì, che lottava con le unghie e con i denti. – È… bravissima. – sussurrò Claris suo malgrado, digrignando i denti.
A quanto pare anche Peterson la pensava così. Cambrel stava in piedi a pochi passi da loro, dandogli la schiena. Fissava il combattimento che stava avendo luogo senza un battito di ciglia, ma con un vago sorrisetto arrogante sulle labbra.
– Andiamo via prima che ci noti. – Dubhne non aveva alcuna intenzione di cadere di nuovo in una conversazione umiliante con quell’uomo. Spinse di lato le due ragazze.
– Non hai più niente da invidiargli, Dubhne. – osservò Xenja mentre si sistemavano più in là, sotto i portici. Lei rispose con un lieve moto di stizza:- Non è per quello. Io… non mi importa nulla di quello che fanno in allenamento.
In verità guardare Jackson e Clia l’aveva fatta vacillare pericolosamente; immaginandosi i duelli di Clia, la giovane non le era sembrata troppo brava, ma ora che la vedeva da vicino capiva che poteva arrivare a dare del filo da torcere anche a Jackson. Che l’uomo fosse più esperto e – se possibile – violento di lei non era un segreto, ma il Combattente poteva trovar pane per i suoi denti nella fulminea furia della ragazza. L’idea di una finale tra quei due le mise addosso un’ansia insopportabile. Concentrati, pensò poi mentre Claris estraeva il pugnale. Si mise in posizione d’attacco e si preparò a combattere.


Le gradinate dell’Arena erano gremite. In tutti quei giorni Dubhne non aveva mai visto una simile folla, neanche agli scontri di Jackson. Ma d’altronde, chi si sarebbe perso uno scontro del genere? Da una parte lei, Dubhne, la Ragazza del Sangue. Principiante arrivata alle semifinali stupendo se stessa e il mondo intero.
E poi Clia. Assassina dai modi spietati, gelida, letale. Così maledettamente abile da aver battuto senza difficoltà avversari molto più maturi ed esperti di lei.
Dubhne guardava dritta davanti a sé; la terra battuta del campo era secca, e la leggera brezza estiva di quel giorno trasportava di qua e di là piccole manciate di polvere. I muraglioni di pietra parevano brillare sotto la luce del mattino. Dietro alla ragazza, Malcom stava in piedi silenzioso, così come James, Mia, Socka e tutti gli altri. Tutti? No. Mancavano Xenja e, soprattutto, Claris. Per punirle, dopo la rapida fuga intrapresa dall’Arena il giorno prima, Shist aveva loro categoricamente vietato di assistere al combattimento con Clia, che fosse dagli spalti o dalla galleria. Anche se lievemente rincuorata dalla presenza di James, che avrebbe duellato con Jackson quel pomeriggio, Dubhne si sentiva terribilmente sola.
Da fuori, Rodrick sbraitava praticamente a caso commenti e incitamenti, ma lei era così tesa da non riuscire a comprendere le parole eccitate.
Capì che era il momento. Controllando alla meglio la tremarella, si voltò verso James. – Ce la puoi fare. – le disse lui, le braccia incrociate. Le labbra della ragazza ebbero un fremito.
– Io… lo so. – disse per l’ennesima volta, ma con fare insicuro non resistette; appoggiò il viso su una spalla del giovane e lo abbracciò. Lui le accarezzò la testa, che era scossa da tremiti irrefrenabili. – Vai e falla finita.- sussurrò sorridendole piano. Dubhne si separò da lui e guardò Malcom in volto, il quale, leggermente annuì.
– Buona fortuna. – mormorò timidamente Drembow da dietro. Dubhne sorrise nervosamente e chiuse gli occhi, concentrandosi solamente sul proprio respiro.
Alla fine, udì un solo nome:- … DUBHNE!
Mandando al diavolo ogni insicurezza, la Combattente si affrettò ad entrare nell’Arena. Doveva apparire sicura. Si guardò in torno, e sulle gradinate scorse Illa, Lisax e qualche altro Combattente della squadra di Ellison Pets. Alzò lentamente un mano in cenno di saluto. Il clamore della gente crebbe a quel leggero gesto.
– E dalla squadra di Peterson Cambrel…- la voce del commentatore crebbe d’intensità. - … ecco a voi la splendida Clia!
Lei si diresse in campo con passo sicuro, la folta chioma rossa brillante sotto i raggi solari. Nei suoi gelidi occhi verdi non si leggeva nulla, se non determinazione e una sorta di gelido furore. La giovane fece un leggero cenno di saluto in direzione dell'avversaria. - Dubhne.
- Clia. - fece lei di rimando. Clia si aprì in un mezzo sorriso: - Finalmente ci incontriamo, eh?
Trattenendosi dallo scagliarsi su di lei ancor prima dell'inizio del duello, Dubhne annuì. Clia non abbandonò l'espressione arrogante:- Credimi, sarà un vero piacere battermi con te.
- Anche per me, stanne certa. - ringhiò lei, stringendo i pugni.
Mentre la folla attendeva trepidante che lo scontro cominciasse, Rodrick sbraitò:- E signori e signori, questo è in assoluto il primo anno i cui due semifinaliste sono Combattenti femmine! Ma d’altronde, cosa ci si poteva aspettare da queste due guerriere provette?
Applausi concordanti dalla folla. Dubhne non ce la faceva più ad aspettare. Alla fine, Rodrick annunciò: Bene, la battaglia può… INIZIARE!
Dubhne agì senza riflettere: con furia, si gettò sull’avversaria. Abbatté la sciabola su di lei, sperando disperatamente che i colpi andassero a segno e al contempo cercando di mirare alla meglio. Clia schivò tutto senza apparenti particolari difficoltà, ma se non altro non trovò il tempo per contrattaccare. Dopo alcuni secondi, le due si allontanarono leggermente l’una dall’altra.
Ansimando, Dubhne tentò di ignorare il dolore pulsante che la ferita alla spalla le infliggeva ancora. Va bene. Va bene, stai calma. Clia la stava squadrando con un’ombra di scherno negli occhi chiari, ma Dubhne non si lasciò intimorire. Non avrebbe fatto il suo gioco. Le due cominciarono a muovere lenti passi di lato, senza staccarsi lo sguardo di dosso. Fa’ qualcosa!
La giovane scartò di lato come per tentare un attacco laterale, ma poi deviò all’improvviso cercando di sorprendere Clia da davanti; non servì a nulla. La ragazza rise:- Andiamo Dubhne… credi che basti questo per battermi?
- E tu hai intenzione di fare qualcos’altro che non sia schivare?- rispose lei glaciale, o almeno sperò di sembrare tale. L’avversaria non rispose più, limitandosi a ridere seraficamente. Senza riuscire a controllare l’irritazione, Dubhne si avventò nuovamente su di lei, la lama alzata. Finalmente Clia contrattaccò, deviando il fendente con un colpo di coltello. – Guarda e impara, ragazzina! – esclamò, con in viso stampato un mezzo superbo sorriso. Fulminea, menò un pericoloso fendente nella direzione di Dubhne, e un altro, e un altro ancora. Colta alla sprovvista da una tale velocità, la ragazza si ritrovò costretta a schivare, arretrando sempre di più.
– Andiamo…- la stuzzicò Clia, senza però smarrire la concentrazione. – Non vuoi farmi vedere di che cosa sei capace? Oppure non c’è più niente della Ragazza del Sangue?
Digrignando i denti infuriata, Dubhne parò l’ennesimo colpo della Combattente con il piatto della sciabola, poi attaccò nuovamente mirando alle gambe dell’avversaria. Ma Clia, agile come una gazzella, spiccò un salto praticamente perfetto, portandosi a distanza di sicurezza. Era veloce. Troppo veloce. Anche per lei. Quel pensiero ottenne il risultato di aizzarla ancora di più, e forse fu un bene perché altrimenti avrebbe probabilmente buttato la spugna, arrendendosi e implorando la giovane di finirla in fretta. Le due Combattenti si scontrarono di nuovo, Dubhne picchiando potenti fendenti con al sciabola, Clia schivando e talvolta stuzzicando l’avversaria con lievi colpi al corpo. Le braccia le si riempirono in fretta di tagli; lievi e superficiali, ma brucianti e fastidiosi allo stesso tempo. Era quello lo schema di Clia: stancarla, procurarle dolore un po’ alla volta; in uno scontro che superasse la mezz'ora di tempo la Combattente sarebbe stata senz’altro avvantaggiata, con quel fisico snello ed elegante…
Dubhne riuscì per un attimo ad eludere la guardia della ragazza, infliggendole un doloroso taglio sotto il torace; ma non ebbe il tempo di festeggiare: inviperita, Clia si lanciò all’attacco con più foga di prima e i due fluide e rapide mosse incise sul suo volto due profondi sfregi. Ricordando di ciò che la guerriera aveva fatto a Phil, Dubhne arretrò rabbiosa. Il sangue sgorgava dalle ferite sul suo viso, scivolandole sul corpetto e impedendole un buona visuale. Clia avanzò verso di lei con in volto un’espressione fredda e feroce…
Non voglio morire!
La giovane strinse l’impugnatura sulla sciabola e si preparò a riprendere a combattere. Clia non esitò a tentare di colpirla, ma questa volta anche Dubhne era pronta; con qualche difficoltà schivò tutti i colpi dell’avversaria, e riprese a picchiare il metallo della propria lama in direzione della Combattente. Continuarono a duellare così ancora per alcuni, interminabili minuti, e poi accadde.
Fu un momento. Un istante. Trasportata dalla furia e dal dolore, Dubhne abbatté un colpo potente sul braccio di Clia dal basso verso l’alto, facendole volare via l’affusolato coltello. Le Combattenti rimasero a fissarsi, entrambe stupefatte. Il sorriso si gelò sul viso di Clia. Poi, senza riflettere, così veloce da non permettere all’avversaria di fare nulla, la giovane assestò a Dubhne un potente manrovescio in pieno volto. Dubhne arretrò, quasi inciampò nei propri piedi mentre la sciabola cadeva a terra anche a lei e Clia, guidata dall’istinto e dalla disperazione, continuò a massacrarla di pugni diretti al volto. Cercando di ricordarsi ciò che Malcom le aveva spiegato sui combattimenti corpo a corpo, la ragazza si portò le braccia al petto, tentando di proteggere viso e torace.
Il pubblico stava letteralmente esplodendo dall’entusiasmo, e le sue grida perforavano le sue orecchie come lame ghiacciate. Dubhne mollò all’avversaria un poderoso colpo ai fianchi, praticamente alla cieca, ma mozzandole il respiro. Poi mirò al viso; le sue nocche urtarono gli zigomi di Clia emettendo un suono di ossa spezzate, e procurandole una nuova fitta di dolore. Ringhiando rabbiosamente, Clia reagì colpendola a sua volta in viso. Dubhne sentì il pugno destro della giovane schiantarsi sul suo naso, da cui schizzarono immediatamente abbondanti schizzi rosso porpora. Non era più un duello ormai; era una lotta mortale. Clia tentò ancora di colpirle la faccia, ma Dubhne schivò i suoi fendenti piegando la testa all’indietro, con il sangue che zampillava ovunque. A malapena riusciva a tenere gli occhi aperti. Clia, trionfante, alzò una gamba e con furia le assestò un potente calcio negli stinchi, scaraventandola a terra. Disperata, gemendo per il dolore e con il viso imbrattato di sangue, Dubhne vide qualcosa scintillare davanti a sé. Era una lama. Una lama argentea e affusolata: il coltello di Clia. La Combattente lei si avvicinò fulminea, ma fu troppo tardi.
Senza ragionare, senza averlo premeditato, seguendo solamente il proprio istinto Dubhne afferrò l’arma della sua avversaria e, mentre questa abbatteva ancora una volta il pugno sulla sua schiena, si voltò e con tutta la forza che le era rimasta picchiò il manico del pugnale sulla sua tempia.
Clia ricadde su di lei a peso morto. Incredula e sconvolta, Dubhne ci mise un istante a capire che la battaglia era finita.







Note: Salve a tutti finalmente ho aggiornato ^-^ Lo so, sono in ritardo come al solito xD Grazie come sempre a tutte le persone che hanno recensito, in particolare a Miwako Honoka e The13 che hanno commentato per la prima volta. Grazie! :D Un bacio a tutti i lettori, Talia :3

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Capitolo 34
*** Capitolo 33 ***


33




Ogni uomo, donna o bambino che avesse trovato posto sugli spalti balzò in piedi, chi esultando e applaudendo in modo sfrenato, chi urlando infuriato per la sconfitta riportata da Clia, chi semplicemente acclamando un duello così spettacolare. Il fragore era così forte che Dubhne dovette portarsi le mani alle orecchie prima di abituarsi. Teneva le braccia alzate in segno di vittoria, e sotto la maschera di sangue che era diventato il suo viso si leggeva un gran sorriso. Le doleva ogni singolo centimetro di corpo, ma al momento non le importava; aveva vinto. Aveva vinto. Aveva ucciso Clia e – cosa più importante – si era guadagnata un posto nella finale. Il mondo attorno a lei girò vorticosamente; quel pensiero era insopportabilmente meraviglioso per lei. L’ansia di sapere chi fosse il proprio prossimo sfidante non le importava per adesso. Lì, in piedi nell’Arena, circondata da persone che l’acclamavano, aveva occhi e orecchie solo per l’entusiasmo del pubblico, l’espressione di odio puro che poteva leggere nel volto di Peterson Cambrel, la propria immensa soddisfazione.
Dopo aver fatto due volte il giro del campo salutando la folla sorridendo, si decise finalmente a correre verso il tunnel della propria squadra. Si gettò euforica tra le braccia di James che, sorpreso e fiero allo steso tempo le accarezzò affettuosamente i capelli. Dubhne si separò da lui dopo pochi secondi, e trasportata dall’enfasi per la vittoria, abbracciò anche Socka e Mia. La ragazza, colta alla sprovvista, ci mise un attimo a realizzare cosa fosse successo. Poi lentamente, contro ogni sua prerogativa, circondò le spalle della compagna con le braccia. – Sei stata… eccezionale - disse solo. Le lacrime di commozione le pizzicavano gli occhi; era come se avesse già vinto i Giochi. La giovane si voltò verso Malcom, allungando un amano. L’uomo la imitò, stringendola.
– Ha ragione – ammise, senza riuscire a nascondere il trionfo. Dubhne avrebbe volentieri balzato su e giù dalla felicità, ma riuscì a trattenersi appena. Doveva andare ora… doveva dirlo a Claris e a Xenja…
- Posso…- fece esitante. – Posso andare da…?
Ma non ebbe il tempo di finire, perché Malcom stranamente aveva già annuito distrattamente. I suoi occhi si erano posati su qualcuno aldilà del campo; Dubhne rise. Avrebbe voluto ascoltare la conversazione tra Shist e Cambrel, ma il desiderio di raccontare tutto alle due ragazze fu più forte. Schizzò via, uscendo dall’Arena come impazzita. Svoltò a sinistra, di nuovo, poi corse lungo il breve rettilineo che portava al Palazzo Cerman. Fece per domandare alle guardie di spalancare le porte, ma non ce ne fu bisogno. Queste si aprirono dall’interno, e al visuale della ragazza fu oscurata da una massa informe dia capelli neri. Claris la abbracciò come tenendo stretta una sorella che credeva perduta. – Ce l’hai fatta… ce l’hai fatta… Lisax… è venuta lei a dircelo… oh Dubhne sei stata bravissima! – esclamò emozionata. Anche Xenja era al limite della commozione, e come Claris si gettò fra le braccia dell’amica battendole dei fieri colpetti sulla schiena. – Devi farti disinfettare questi… cosi… - decretò poi seriamente, tirandola per un braccio in direzione dell’infermeria. Kala alzò lo sguardo mentre le tre irrompevano nella stanza. – Ce l’hai fatta allora! – esclamò sorpresa. Anche Phil si tirò su a sedere, agitato. – Hai vinto allora! – esclamò. – E James… ha già iniziato a combattere?
Dubhne scosse la testa; solo adesso il timore per la sorte che avrebbe potuto attendere James cominciava a farsi sentire. – Si batterà oggi pomeriggio - rispose esitante. Phil appoggiò i piedi sul pavimento, verificando di riuscire a camminare. – Io vado, allora – annunciò, rivolto all’infermiera. Kala annuì. – immagino che tu possa riprendere a vivere normalmente. – Phil rivolse un rapido sorriso di congratulazioni a Dubhne, poi uscì più velocemente possibile. Kala fece accomodare la ragazza su uno dei lettini, tirando fuori da un cassetto bende, cotone e un particolare olio disinfettante. – Farà un po' male ora…- la avvertì gentilmente, imbevendo leggermente la stoffa con l’unguento. – Claris, Xenja, tenetele i polsi per sicurezza. Non devi toccarti il volto per nulla al mondo, capito?
Dubhne annuì distrattamente. Se era riuscita a sopportare la lama di Clia che le incideva il viso un po’ di disinfettante non sarebbe stato poi così terribile.
Fece più male del previsto: al primo contatto con il cotone umido le due ferite presero a bruciare più forte di prima, in maniera quasi insopportabile. La giovane strinse i pugni, e dalla sua gola proruppe un basso gemito di dolore. Riuscì a frenare le lacrime appena in tempo. Kala ripeté più volte l’operazione, eliminando ogni goccia di sangue sporco dalle escoriazioni. – Ecco fatto - annunciò alla fine sorridendo. – Sei stata brava…- aggiunse poi ponendole delicatamente le bende sul viso. Gliele assicurò alle spalle legandole l’una con l’altra e facendovi passare in mezzo un laccetto bianco. – Tienilo addosso fino al prossimo scontro, mi raccomando.
Poi le alzò piano un braccio per controllare la ferita sotto la spalla; il corpetto era leggermente macchiato di sangue, ma il grosso del liquido pareva si stesse coagulando alla meglio. Dubhne si sentì immediatamente rincuorata nel vedere l’infermiera sorridere. – Bene… direi che puoi andare.
– Dobbiamo correre da James! – esclamò Claris, rialzandosi di scatto.


Il sole del primo pomeriggio splendeva rovente nel cielo limpido sopra Città dei Re. La terra pareva ribollire sotto quei raggi incandescenti; persino nella penombra dei cunicoli dell’Arena l’aria era densa, pesante, impregnata di afa. I Combattenti della squadra di Malcom Shist erano sudati e tesi, mentre attendevano trepidanti che la seconda semifinale avesse inizio. All’entrata del campo di battaglia stava in piedi James, con il volto decisamente più pallido e preoccupato del solito. Da dietro Dubhne poteva distintamente vederlo fremere, tremiti che nulla avevano a che fare con la temperatura. – Ce la puoi fare – sentì pronunciare Malcom. – Mi hai capito, ragazzo? Tu sei più forte di lui, lo sai. Sei un campione tu, quindi vedi di levargli quell’orrido sorriso dalla faccia!
James annuì, anche se aveva assunto un lieve e sgradevole color verdognolo. – Lo farò.
Ma Malcom lo fermò, afferrandolo per un braccio. - Questo è il tuo momento, eh? Goditelo.
Mentre il pubblico scommetteva e attendeva la presentazione parlottando o esclamando affermazioni a voce altissima, Rodrick – apparentemente ignorato da tutti – urlava: - Benvenuti signori alla seconda semifinale della trentaquattresima edizione dei Giochi Bellici! Dubhne avvertì il proprio respiro accelerare leggermente. Aveva paura; non per se stessa questa volta. Aveva paura per James. Il commentatore annunciò gaiamente.- Ecco a voi i due contendenti! Da sinistra, uno dei pilastri della squadra di Malcom Shist… signore e signori… JAMES SANGSTER!
Il giovane esitò un istante, voltandosi un ultima volta in direzione di Dubhne, Claris e gli altri. Buona fortuna per la finale, lo vide sillabare la ragazza.
Sussultò, certa di non aver capito bene. Ma per quanto tentò di convincersi a sperare, ebbe l’impressione che ogni sforzo di James sarebbe stato inutile. E pareva saperlo anche lui. Dopo l’ingresso in campo di Jackson Malker, vi fu un attimo di semi silenzio. Alla fine, Rodrick sbraitò come al solito che lo scontro poteva iniziare, e Dubhne chiuse gli occhi. Le palpebre abbassate, tentò di immaginarsi cosa stesse succedendo nell’Arena. La folla urlò, applaudì e trattenne il fiato; le spade dei due Combattenti urtavano pesantemente l’una contro l’altra, ma apparentemente senza riuscire ad arrivare al corpo. Poi, niente. Altri colpi, il suono di qualcosa che veniva scaraventato al suolo, una spada che si conficcava nel terreno. Dubhne sentì l’ansia crescere dentro di sé, udendo anche Malcom trattenere il respiro un paio di volte. Ti prego, fa’ che ce la faccia… fa’ che sopravviva, fa’ che vinca…
Si udirono altre urla. Ma questa volta appartenevano a Jackson. Esultante, Dubhne fu tentata di aprire gli occhi, ma li richiuse subito. Altri suoni si aggiunsero alla lotta furibonda: gemiti, bassi ringhi e pesanti tonfi, echi di una sfida mortale che avrebbe potuto concludersi a momenti… Dubhne lo percepì appena un istante prima che accadesse. Lo sentì. – James – sussurrò riaprendo di scatto gli occhi. Mezzo secondo dopo il giovane gridò di dolore, ricadendo a terra.
– NO! – urlò Malcom, trattenendosi a malapena dall’intervenire. Dubhne si rialzò, e anche lei vide: James era in ginocchio di fronte a Jackson, il suo gigantesco spadone conficcato nel petto. Il suo respiro era irregolare, ansiti di una persona da polmoni perforati.
– No… no…- Claris era al suo fianco, inorridita. Jackson Malker impugnò nuovamente la spada, rigirandola nella carne dell’avversario, che lanciò uno straziante urlo di dolore. Dubhne tremò in maniera irrefrenabile. Lo scontro era durato poco più di dieci minuti.
Vide James alzare gli intensi occhi blu sul volto ferocemente soddisfatto di Jackson. – Uc… cidimi…- mormorò scosso dai singulti. Malker ghignò. – Come desideri – e con uno strattone liberò la spada dal suo corpo. Un fiotto di sangue sgorgò dalla ferita, e James Sangster crollò sulla terra battuta senza più muoversi.
Qualcuno urlò. Dagli spalti si levarono singhiozzi e fischi di disapprovazione, mischiati però con le grida e gli schiamazzi eccitati dei sostenitori di Jackson. Claris, impallidita e con gli occhi pieni di lacrime, era di fianco a Dubhne. Malcom Shist si voltò come una furia, ripercorrendo il tunnel verso le uscite con un furore nello sguardo e insieme un tale sconvolgimento che la giovane tremò. Mio dio… contro chi dovrò combattere?


Il corridoio era buio; l’aria densa e calda dell’estate gravava nell’ambiente di pietra, che neppure i lievi spifferi provenienti da fuori riuscivano a rinfrescare. Dubhne guardava fuori dalle finestre ad arco, gli occhi in direzione dell’Arena. Se ne poteva scorgere la gigantesca sagoma anche a quell’ora della notte.
– Immagino che ti stia chiedendo come tu abbia fatto ad arrivare fin qui…
Nella sua vita la ragazza era stata colta alla sprovvista troppe volte per sobbalzare, ma nel sentire quella voce il suo cuore ebbe un tuffo. Peterson Cambrel apparve di fianco a lei, appoggiandosi al davanzale di marmo e scrutando il cielo notturno. – Devo dire che sei riuscita a stupire anche me.
Dubhne non seppe cosa rispondere. Che diavolo ci faceva lui lì? Le ipotesi che avesse per caso deciso di godersi una passeggiatina notturna proprio in quell’ala del palazzo erano piuttosto remote. No, l’uomo doveva averla cercata per un motivo. Alla fine, fece la cosa più sensata. – Che cosa vuoi da me? – chiese in tono duro. Peterson dovette accorgersi del suo atteggiamento scontroso, perché ridacchiò. – Vedo che con la notorietà il rispetto non ti si addice più. Dov’è finito il lei?
Poi tornò con lo sguardo sul cielo stellato.
Dubhne, che oltre all’ansia cominciava ad avvertire un tocco di irritazione, ripeté:- C’è qualcosa che dovrei sapere?
Cambrel non rispose subito. Alla fine, sfoderando uno di quei suoi sorrisi affabili, estrasse qualcosa da una tasca del mantello e lo appoggiò sul davanzale. Con circospezione, la giovane lo squadrò. – Che cos’è?- chiese senza riuscire a nascondere la curiosità.
– Aprilo.
Allungò una mano e sfilò il laccetto che teneva unite le due estremità di stoffa; un brillante luccichio dorato rispose al suo sguardo. Basita, Dubhne alzò gli occhi. – Che significa?
- Sono tuoi – la risposta pacata di Peterson la colse totalmente alla sprovvista. L’uomo sorrise:- Mille york. Quelli che vedi sono solo un centinaio, gli altri ti verranno consegnati a Giochi conclusi. Sono tuoi, se solo accetti di ritirarti dalla competizione.
Dubhne spalancò gli occhi, stupefatta. – Io dovrei… ritirarmi? E perché?
- Pensaci, Dubhne. Tu non hai alcuna possibilità di vincere contro il mio Jackson Malker, lo sai. Puoi anche esserti illusa di essere invincibile, ma lui non è come gli altri. Sarebbe vantaggioso per entrambi; tu avresti la tua libertà, potresti andartene da qui e vivere la tua vita, Malcom Shist verrebbe umiliato e Jackson vincerebbe nuovamente i Giochi senza neanche spargere sangue un’ultima volta.
Attonita, Dubhne non poté far altro che ascoltare le parole del rivale, la bocca semiaperta dallo stupore. Poi, l’uomo le sollevò il mento con due dita fissandola negli occhi. – E detto tra noi, mia cara, sarebbe un vero peccato sprecare questo bel visino in una battaglia che non puoi vincere – mormorò. - Malcom ti lascerà andare, lo sai. Basterà corromperlo anche solo con la metà degli york che ti offro… Per te dovrebbe essere facile.
Dubhne rimase in silenzio, assorta. Il sacchetto di denaro che Peterson le porgeva la attirava come una calamita. Sarebbe stata libera. Avrebbe potuto rivedere suo padre. E Archie, Camm e Richard. Sarebbe andata a cercare Alesha nell’Ariador, l’avrebbe trattata come una sorella. Non avrebbe mai più dovuto combattere. La parola sì le salì in gola, e non seppe resistere…
– No - disse in tono fermo. Peterson sembrò stupito almeno quanto lei nel sentire il suono della sua voce. – Come… come hai detto, scusa?- chiese, sbalordito per la prima volta da quando si conoscevano.
– No - ripeté Dubhne, e questa volta lo fece guardando Peterson negli occhi. Finalmente aveva capito, finalmente aveva compreso appieno il suo destino. – Mi stai chiedendo se desidero abbandonare Claris, Illa, e tutte le persone che sono entrate nella mia vita, con o senza il mio permesso? Mi stai chiedendo di indietreggiare, scappare come una bambina dal tuo prezioso assassino Jackson, eh? Beh, mi spiace ma non ti darò questa soddisfazione. Peterson Cambrel, io vincerò, sarò la prima donna della storia a trionfare ai Giochi. Questa è una promessa.
Rimasero per qualche istante a squadrarsi. Dubhne e Peterson, l’uomo e la ragazza. Poi, Cambrel le scoccò un’occhiata irata, ma le voltò le spalle.
– Non uscirai viva da quell’arena, ragazzina. E questa è la mia promessa – le intimò allontanandosi, e la sua voce suonò carica di odio e rancore represso. Dubhne tremò appena, ma quando il suo avversario scomparve nella notte, sorrise. Ce l’aveva fatta. Aveva vinto.







Note: ehi salve gente eccomi qui con il trentatreesimo capito ^-^ Spero come sempre vi sia piaciuto, aggiornerò il prima possibile (forse anche tra stasera e domani:) Un bacione a tutti i recensori! A presto, Talia :3

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Capitolo 35
*** Capitolo 34 ***


34




La voce del commentatore della trentaquattresima edizione dei Giochi risuonò particolarmente gaia e fiera quella mattina. Le tribune dell’Arena erano stracolme di gente: contadini, mercanti, soldati e signorotti locali. A vederli si erano scomodati persino i gemelli figli dei sovrani delle Cinque Terre, Nimh e Freida, accompagnati da qualche servitore.
Dubhne, seduta appena dietro la galleria che l’avrebbe portata nell’Arena, tremava. Non c’era nessuno con lei, nemmeno Malcom. Avrebbe seguito il suo combattimento dagli spalti, mentre gli altri ragazzi avrebbero atteso fuori. Era sola.
Quel giorno non sarebbe stato come le altre volte. Non si trattava di una semplice sfida. Il suo avversario non era un semplice guerriero. Era una macchina assetata di sangue. Se Dubhne avesse vinto, sarebbe entrata per sempre nella storia, non solo quella dello Stato dei Re, ma dell’intera Fheriea. Un brivido le percorse la schiena. “Dubhne, la Ragazza del Sangue; la prima donna della storia a trionfare nell’Arena di Città dei Re”. Suonava piuttosto bene. Ma se avesse perso… beh, preferiva non pensarci.
Fuori, Rodrick stava commentando:- Non si può dire che Dubhne ci abbia stupiti tutti, eh? Quando è entrata per la prima volta in questa arena, credo che nessuno avrebbe scommesso su di lei neanche mezzo york, e invece…
Dalla folla si levarono risatine e qualche applauso concordante.
– Ma ce la farà contro Jackson, l’uomo che qui ha vinto ben quattro titoli come campione del mondo, e che quest’anno non ha risparmiato neanche uno dei suoi sfidanti? È tutto ancora da vedere, e credo proprio che questo incontro sarà parecchio interessante… Ma ora, penso che sia venuto il momento di presentare i due Combattenti: a destra, dalla squadra di Peterson Cambrel, una leggenda apparentemente immortale su questo campo… Jackson Malker, campione dei Giochi per quattro volte consecutive!
Jackson entrò nell’Arena senza esitare, e rivolse un rapido inchino alla folla circostante. Era un gesto ironico. Strafottente. Dubhne sentì la folla applaudire, o ridere, o gridare il suo nome. Si sentì svenire. Adesso toccava a lei. Dopututto, la stella entrava sempre per ultima no?
Stai calma. Hai sconfitto tutti quegli avversari arroganti. Potrai battere anche lui.
– E ora, signore e signori, la ragazza che appena entrata in questa arena ha fatto conoscere a tutti il proprio nome… Il segreto del suo successo? E’ bella, ribelle e perennemente sporca di sangue. La squadra di Malcom Shist è orgogliosa di presentarvi…Dubhne, la Ragazza del Sangue!
La folla esplose.
Dubhne chiamò a raccolta tutto il proprio coraggio, si alzò e si diresse verso l’ingresso dell’Arena. La luce era talmente forte che la ragazza dovette coprirsi gli occhi con una mano. Entrò.
In un solo, vorticoso istante, nella sua mente si affacciarono i ricordi del suo primo combattimento, la paura cieca della debuttante, il corpo senza vita del suo avversario e gli applausi sorpresi della folla. Aveva fatto tanta strada da quel giorno.
Deglutì, e alzò lo sguardo sul suo avversario. Jackson la stava guardando con occhi imperscrutabili, ancora più neri di quanto ricordasse. La tensione era palpabile, il pubblico improvvisamente aveva smesso di sbraitare. Forse il tempo si era fermato, ma per quanto ricordasse Dubhne, mai quell’arena era stata tanto silenziosa.
Stai calma.
– Che l’incontro… ABBIA INIZIO!- urlò Rodrick, e il combattimento cominciò, tra gli applausi sfrenati della folla.
Dubhne schivò con facilità il primo attacco di Jackson, e per qualche minuto la scimitarra della ragazza e lo spadone di Jackson cozzarono l’uno con l’altro senza riuscire ad arrivare al corpo. Alla fine, dopo una stoccata di Jackson particolarmente difficile da schivare, i due Combattenti si separarono.
– Stanne sicura, ragazzina. Non ti risparmierò solo perché sei una donna. Quindi, ti consiglio di arrenderti subito e farla finita in breve - fece Jackson beffardo, anche se senza togliere gli occhi di dosso all’arma di Dubhne.
– Sei troppo sicuro, Jackson. La superbia è il punto debole di quelli come te - rispose lei. Cercava di apparire tranquilla, ma in realtà non lo era affatto. Con trepidazione, aspettava che l’avversario facesse la sua prossima mossa. L'occhio le cadde sulla coscia destra del Combattente avversario, dove James lo aveva ferito il giorno prima. Nel punto in cui la lama aveva lacerato la pelle, si apriva ancora un taglio largo e circondato da un ematoma bluastro; il tessuto dei pantaloni era strappato in quel punto. Bene, era lì che avrebbe colpito.
– Lo sai, ragazzina? Quando ti ho guardata combattere la prima volta ho pensato che avessi non poco talento. Chissà, forse anche fino arrivare a combattere contro di me. Fino a darmi filo da torcere. Ottimo, così sarà più divertente ucciderti, ragazzina…
- Piantala di chiamarmi… ragazzina!- urlò Dubhne, perdendo il controllo e avventandosi sul nemico con la scimitarra alzata. Jackson, veloce, abbassò la testa e la schivò, e utilizzò la furia della ragazza come punto a suo favore. Infatti Dubhne, presa dalla carica, inciampò nella gamba tesa dell’avversario e cadde malamente a terra. Ma i duri allenamenti avevano sviluppato enormemente i riflessi della ragazza, che si rialzò prontamente portandosi a distanza di sicurezza. Jackson sogghignava.
– Patetico - mormorò. Le labbra di Dubhne tremarono, ma lei si fece forza e tentò un nuovo attacco. Le lame si incrociarono di nuovo, più violente e rumorose della prima volta. Jackson stava blaterando qualcosa sulla netta inferiorità di Dubhne, ma la ragazza non lo ascoltava. Non ascoltava più nemmeno i commenti entusiastici del commentatore.
Concentrata, cercava solo disperatamente di non farsi ammazzare. Era proprio come la prima volta in cui aveva combattuto. Non sentiva nulla. Non riusciva a pensare. Si muoveva meccanicamente. E poi, veloce come un lampo, la lama di Jackson le colpì una spalla, portandosi via un brandello di pelle.
– Ah!- gridò la ragazza, indietreggiando istintivamente e reggendosi la spalla ferita. L’altro non perse tempo, e approfittando della momentanea debolezza dell’avversaria tentò nuovamente di colpirla. Questa volta Dubhne cadde all’indietro per schivare il colpo, e terrorizzata cominciò a gattonare verso le gradinate.
– Oh, andiamo, io pensavo che avresti potuto dimostrare anche qualcosina di più…- la provocò Jackson, fermo in mezzo all’Arena. Pareva annoiato. Dubhne premette la schiena contro la parete di fondo e respirò profondamente, cercando di reprimere le lacrime di dolore. Strinse forte l’impugnatura della scimitarra a larga lama e strinse i denti.
Fa’ qualcosa! ripeté nella propria mente. Ma non riusciva ad immaginare cosa.
Jackson, che sembrava essersi stufato di aspettarla, mosse qualche passo verso di lei.
Oddio. Oddio!
- Avanti, Dubhne. Ce la puoi fare!- gridò qualcuno in mezzo alla folla. Lei si voltò verso gli spalti e, stupefatta, vide il volto preoccupato ma sorridente di Claris. Vedere che quella ragazza dura e forte era venuta lì, infrangendo tutte le regole dei Combattenti per sostenerla le diede una bella carica. Seppe di non essere sola.
Ignorando come poté il dolore alla spalla, la giovane si rialzò, e con passo deciso avanzò verso Jackson. Questo fece un sorrisetto soddisfatto. – Ah, si fa sul serio ora…
Con un urlo, Dubhne si gettò su di lui, menando colpi violenti con la sciabola, e l’avversario reagì con altrettanta potenza. Dubhne riuscì a infierire ulteriormente sulla gamba ferita con un colpo ben assestato, ma in compenso Jackson le inferse una lunga, anche se non profonda, ferita al ventre. I due contendenti si separarono di nuovo. Dubhne ansimava. Non sarebbe riuscita ad andare avanti così ancora per molto.
Concludi in fretta. Concludi in fretta. Ma non era facile farlo. Il sangue che scaturiva dalle sue due ferite aveva già imbrattato metà del suo corpetto, e la fuoriuscita non accennava a diminuire. Anche Jackson, in piedi dall’altra parte dell’Arena, sembrava provato. Respirando affannosamente, teneva le grosse mani premute sulla coscia sanguinante.
– Un attimo di tregua, signori!- sbraitò il cronista rivolto alla folla.- Attenzione, i due Combattenti sembrano entrambi sfiniti… Cosa ci riserverà ancora questo scontro?
Oh sta’ un po’ zitto! pensò Dubhne arrabbiata. Era insopportabile sentire quell’uomo parlare di lei e di Jackson come semplici mezzi di spettacolo, neanche fossero draghi da competizione…
Jackson ripartì alla carica, e lei non riuscì a schivarlo. I due caddero goffamente sulla terra battuta dell’Arena, abbandonandosi ad una zuffa disordinata. Jackson assestò alla ragazza più e più pugni in faccia, e lei contrattaccò ferendogli le braccia con le unghie e con i piedi, disperata. Al decimo cazzotto sul naso, Dubhne scoppiò a piangere come una bambina, e si divincolò furiosamente dalla stretta del nemico. Malferma sulle gambe, si rialzò e corse via, come se stessero giocando a rincorrersi. Jackson la imitò, ma la gamba ferita ostacolava i suoi movimenti, e Dubhne riuscì ad allontanarsi. Piegata in due, la ragazza riprese fiato. Quell’incontro sarebbe mai finito?


Pensa, Dubhne. Pensa.
Era da molti, interminabili minuti ormai che il duello non riprendeva, e già il pubblico aveva iniziato a spazientirsi. Dubhne non riusciva a muoversi; aveva paura.
Devo vincere. Devo farlo. Per Claris, per Illa. Per i miei genitori. Per tutti i miei amici poveri. Per Claire, Richard e Camm. Per Archie Farlow. E per Alesha. Si, devo vincere per lei.
La ragazza alzò la testa, e nei suoi caldi occhi scuri passò un lampo di irrequietezza. Si rese conto di desiderare di combattere ancora. Le sue membra fremevano, ma i suoi denti non battevano più. Il cuore accelerò i battiti. Strinse la scimitarra con entrambe le mani e la sollevò. Era arrivata fin lì da semplice apprendista Combattente. Era arrivata fin lì e non aveva intenzione di rinunciare alla sua gloria. Gloria che le aspettava di diritto.
Ora! Senza preavviso, Dubhne spiccò la corsa, puntando la propria arma in direzione i Jackson, e urlò con quanto fiato aveva in gola. Voleva che per sempre gli spettatori dell’Arena ricordassero quel momento.
Jackson si preparò al contrattacco e puntellò i piedi sul terreno, ma la gamba ferita lo tradì, e l’avversaria gli fu addosso. Per la seconda volta in quel giorno, i due caddero sulla terra battuta dell’Arena, e per la seconda volta in quel giorno Dubhne si ritrovò piegata solo ai propri istinti di sopravvivenza. Strappò d’impeto la spada dalle mani di Jackson e cominciò a menare colpi alla cieca verso di lui. Sentì la lama della sciabola che incontrava la carne dell’avversario, udì le sue urla, le grida eccitate del pubblico, le parole esaltate del commentatore. Non ascoltò, e andò avanti nella sua opera, graffiando, lacerando, mutilando il corpo dell’avversario.
– Maledetta!- gridava Jackson con voce inumana, e quando gli schizzi abbondanti di sangue le macchiarono la faccia urlò, e le sue grida si mescolarono con quelle del nemico, della folla, di Claris, di Malcom e di Peterson, e le parve di annullarsi in tutta quella rabbia, quella disperazione, quel desiderio di vincere.
Infine, quando Jackson Malker cessò definitivamente di muoversi, la ragazza fermò il braccio a mezz’aria, ansimante.
Era finita. Era finita, finalmente. La ragazza ci mise qualche istante per registrare ciò che era appena successo. Poi lentamente, stravolta, si alzò in piedi, la scimitarra puntata verso il cielo.
Ho vinto.
Dopo qualche istante di stupore, come fosse colpita da un fulmine, l’intera folla lì riunita balzò in piedi con un boato, e il clamore fu indescrivibile. C’era chi saltava, chi esultava, chi semplicemente gridava il nome di Dubhne, mentre il commentatore urlava a pieni polmoni:- Incredibile, incredibile! Dubhne ha vinto, ha battuto il campione dei giochi da semplice debuttante! HA VINTO!







Note: non posso credere di essere riuscita a pubblicare questo capitolo! ^^ Oddio, spero che come ultimo combattimento sia stato entusiasmante, se vi è piaciuto fatemelo sapere con una recensione ;) Ho ancora solamente l'epilogo e un capitolo extra da pubblicare, cercherò di farlo al più presto... Scusate, sono ancora spaesata dall'imminente termine della mia storia! xD Per l'ultima volta, a presto :3

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Capitolo 36
*** Epilogo ***


EPILOGO




Dubhne alzò gli occhi e scrutò la folla. Voleva vedere bene in faccia la gente che la stava applaudendo, che l’aveva etichettata come un modello da seguire, come la regina delle Combattenti. Voleva godersi appieno il proprio trionfo. E fu allora che lo vide.
Un ragazzo.
Un ragazzo che portava un lungo mantello nero, nonostante il caldo.
Un ragazzo che la fissava negli occhi, immobile, incurante delle grida e degli spintoni della folla. Pareva la stesse chiamando con lo sguardo, uno sguardo più limpido del cielo di primavera. Ebbe l’impressione di averlo già visto qualche altra volta.
Dubhne sentì svanire tutta la sicurezza che l’aveva pervasa un attimo prima. Chi era quel ragazzo? Perché la stava fissando a quel modo? Ma soprattutto, che cosa voleva?
L’avrebbe scoperto molto presto.












Note e ringraziamenti: non ci posso credere l'ho finita!!!! ^^ Sigh sigh *non riesce a superare la fase in cui è commossa* Spero che come conclusione vi sia piaciuta, ma sappiate che ho tutte le intenzioni di continuare il Ciclo di Fheriea con un secondo romanzo ;) E ne approfitto per ringraziare di cuore:

- N e v e r l a n d, Marty_598, Denisa99, Clarice Hai, RevengeIsComingLion, Shakira Love, Miwako Honoka, The13 e The_Player che hanno seguito la mia storia recensendo e lasciandomi le loro opinioni;

- le undici persone che hanno inserito la mia fic tra le seguite;

- Blacky98, Easter_huit, FullMoonErisHaret, Marty_598, Noemisworld, rem1xaa e Wonderwall_98 che hanno inserito la storia fra le ricordate;

- Aminta, Argentea, Arya373, asukashira, EleFrostHolmesPotter, Ernesto507, Easter_huit, FeelingRomanova, Ridley Jones Stark, sarachan93, Skye Targaryen, The_Player e _iRenee_ che hanno inserito "La Ragazza del Sangue" fra le preferite.

Grazie mille! :D Siete tantissimi!!! Un bacio a tutti i lettori, ci sentiamo alla prossima storia ;)

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Capitolo 37
*** Combattenti & Sfide ***


COMBATTENTI E SFIDE

ELIMINATORIE

Claris vs Neor

Damons vs Jim

Alliar vs Pete

Grewer vs Nimes

Goresh vs Dubhne

Carl vs Nekam

Drembow vs Illa

Mil vs Leston

Michaton vs Tessel

Camil vs Jeann

Darvis vs Nimal

Cambor vs Elis

Socka vs Mitch

Ambran vs Closk

Elmin vs Sett

Jackson vs Metes

Phil vs Hergal

Lisax vs Camin

Clia vs Chen

Agnes vs Stone

Willis vs Fargot

Voxel vs Kanes

Manil vs Jeys

Zlet vs Tralen

Lialel vs Cambrios

Jise vs Miens

James vs Stanlie

Xenja vs Cink

Lin vs Wesh

John vs Stranger

Mia vs Neisy

Shat vs Liens

SEDICESIMI DI FINALE

Claris vs Damons

Pete vs Nimes

Dubhne vs Nekam

Illa vs Leston

Tessel vs Jeann

Nimal vs Cambor

Mitch vs Ambran

Sett vs Jackson

Phil vs Lisax

Clia vs Agnes

Fargot vs Voxel

Jeys vs Tralen

Lialel vs Jise

James vs Xenja

Wesh vs John

Mia vs Liens

OTTAVI DI FINALE

Claris vs Pete

Dubhne vs Illa

Jeann vs Nimal

Mitch vs Jackson

Phil vs Clia

Fargot vs Jeys

Lialel vs James

Wesh vs Liens

QUARTI DI FINALE

Pete vs Dubhne

Nimal vs Jackson

Clia vs Fargot

James vs Wesh

SEMIFINALI

Dubhne

Jackson

Clia

James

TIRO A SORTE

Dubhne vs Clia

Jackson vs James

FINALE

Dubhne vs Jackson


SQUADRA DI MALCOM SHIST

Dubhne (17) 1 🏆 ( campionessa )
Claris (19) 3  (terzo turno)
James (28) 8 (semifinale)
Jim (18) 2  (primo turno)
Alliar (26) 4  (primo turno)
Nimes (33) (secondo turno)
Carl (40) 6  (primo turno)
Drembow (11) 1  (secondo turno)
Michaton (46) 9 (primo turno)
Darvis (38) 5 (primo turno)
Elis (25) 3  (primo turno)
Socka (16) 1  (primo turno)
Sett (34) 7 (secondo turno)
Phil (27) 8  (terzo turno)
Camin (13) 1  (primo turno)
Agnes (20) 2 (secondo turno)
Kanes (45) 6 (primo turno)
Malin (51) 10 (primo turno)
Tranel (30) 5  (secondo turno)
Xenja (30) 4  (secondo turno)
Cink (37) 2  (primo turno)
Mia (24) 7  (terzo turno)
Liens (19) 2  (terzo turno)


SQUADRA DI ELLISON PETS

Damons (37) (secondo turno)
Illa (11)  (terzo turno)
Goresh (19 (primo turno)
Lialel (22)  (terzo turno)
Camil (42) (primo turno)
Nimal (32) (quarto turno)
Ambran (18)  (terzo turno)
Metes (36) (primo turno)
Lisax (26)  (secondo turno)
Chen (31) (primo turno)
Willis (21)  (primo turno)
Jeys (22)  (terzo turno)
Miens (15) (primo turno)
Mil (12)  (primo turno)
Wesh (24) 3 (quarto turno)
Stranger (27) (primo turno)
Shat (47)  (primo turno)


SQUADRA DI PETERSON CAMBREL

Neor (28)  (primo turno)
Pete (35) (quarto turno)
Grewer (17)  (primo turno)
Nekam (27) (secondo turno)
Leston (50)  (primo turno)
Tessel (26) (secondo turno)
Jeann (35)  (terzo turno)
Cambor (41) (secondo turno)
Mitch (39) (terzo turno)
Closk (14)  (primo turno)
Elmin (16) (primo turno)
Jackson (40) (finale)
Hergal (39) (primo turno)
Clia (22) (semifinale)
Stone (30)  (primo turno)
Fargot (44) (quarto turno)
Voxel (38) (secondo turno)
Zlet (27) (primo turno)
Cambrios (34) (primo turno)
Jise (19)  (secondo turno)
Stanlie (31) (primo turno)
Lin (21)  (primo turno)
John (42) (primo turno)
Neisy (25)  (secondo turno)


Ecco come promesso la lista dei Combattenti. I nomi con lo spazio sono di quelli sopravvissuti, e i numeri fuori dalle parentesi le edizioni già affrontate ;)

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