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Era
davvero una splendida notte, nella zona residenziale di Iruma,
alla periferia di Tokyo.
Una notte di primavera, stellata e fresca.
Una notte ideale per cacciare.
In quei remoti quartieri tutto case e poco altro,
ad una cert’ora della sera non si vedeva nessuno in giro neanche a pagarlo,
salvo qualche poliziotto intento a compiere la solita ronda e poco altro.
Ma c’era anche gente, sfortunata lei, che o la
notte doveva lavorare, o che comunque tornava molto tardi, quando tutte le luci
erano spente, e le porte e le tapparelle sprangate.
Una giovane donna che lavorava in città era da
poco scesa alla stazione, e a piedi si stava dirigendo verso casa.
In giro non c’era davvero anima viva, e
l’unico rumore era quello prodotto dai suoi tacchi leggeri.
Tutto quello che voleva era andarsene a letto
il prima possibile, ma era destino che quella notte per lei fosse destinata ad
essere molto diversa da tutte le altre.
Mentre precorreva una strada abbastanza larga
ma completamente deserta, illuminata dalla sola luce dei lampioni, e di qualche
lumicino appeso fuori dai cancelletti delle case, la ragazza ebbe di colpo la
sensazione, sgradevolissima, di non essere più sola, e che qualcuno la stesse
osservando nascosto nel buio.
Cercò di pensare che fosse solo la sua
immaginazione, un’allucinazione dovuta al troppo lavoro, ma più passava il
tempo più quella sensazione si faceva nitida, tangibile.
Sempre più angosciata e spaventata, provò ad
affrettare il passo, senza che però quella sensazione si affievolisse, e anzi
diventò ancora più forte, come se le presenze misteriose, da una, stessero
aumentando ad ogni suo passo.
Un semplice passo di corsa divenne in breve
una fuga disperata: da cosa, non sapeva. Ma sapeva che era lì, dietro di lei,
davanti a lei, tutto attorno a lei.
Chiunque fosse a braccarla, era sempre più
vicino, e forse avrebbe potuto saltarle addosso quando voleva, ma si riservava
il piacere di vederla correre nel disperato tentativo di salvarsi.
La giovane avrebbe voluto urlare, ma il fiato
non le usciva, perché troppo prezioso per mettere nuova vita nella corsa.
Purtroppo, tralasciando il fatto della fatica,
con quelle scarpette da ufficio era dura riuscire a tenere un’andatura veloce.
Di colpo, il tacco destro saltò via, e lei cadde in avanti, rotolando sul
selciato duro e reso scivoloso dalle recenti piogge invernali, inzuppandosi i
vestiti e tagliandosi le mani e le ginocchia.
Come il sangue sgorgò dalle ferite, fu come se
una scarica elettrica si fosse improvvisamente propagata tutto attorno,
generando una specie di frenesia irresistibile che spinse gli inseguitori, come
falene attirate dal fuoco, a rinunciare alla loro invisibilità, facendosi
sempre più tangibili e scorgibili nell’oscurità tutto intorno.
Sembravano fantasmi, o creature
soprannaturali, che apparivano e sparivano in continuazione spostandosi
attraverso il buio.
La giovane donna, piangente di paura, si
rialzò, si tolse le scarpe e fece per continuare a fuggire, ma come risollevò
lo sguardo si avvide, con terrore, che dinnanzi a lei erano comparse una, due,
forse cinque tetre figure, tra le quali spiccava quella di un giovanebellissimo, con capelli piuttosto lunghi e
scompigliati, ma i cui occhi brillavano di una luce innaturale.
Era avvolto in un cappotto, piuttosto pesante
data la stagione, ma ciò non faceva altro che accrescere la paura della sua
apparizione.
«Buonasera, signorina.» disse con voce
suadente, ma terribilmente spaventosa «Avrebbe piacere se la invitassimo a
cena?».
Quello fece qualche passo avanti, mentre lei
lo osservava come paralizzata, i suoi compagni invece rimasero fermi, nascosti
nel buio.
A prima vista sembrava davvero molto bello,
salvo uno strano pallore, ma nell’istante in cui piegò le labbra in uno strano
sorriso la giovane donna vide palesarsi due lunghissimi e spaventosi canini
appuntiti, che spuntavano dall’interno della bocca come i denti di uno squalo.
«Sa, stasera siamo tutti molto affamati.»
disse ghignando e mostrando senza timore le sue zanne spaventose.
La giovane donna, passato il momento di
meraviglia, lanciò nell’aria un grido di terrore, ed alzatasi fuggì
nell’opposta direzione, sentendo quasi subito quell’orda di creatura mostruose
mettersi alle sue calcagna.
Questa volta gridò, gridò con tutta la voce
che aveva, implorando aiuto, ma nessuno la sentiva, o comunque osava
affacciarsi dalle finestre, vuoi per paura vuoi per semplice pigrizia.
Corse, corse con tutto il suo fiato, svoltando
ora da una parte ora dall’altra, nel tentativo disperato di seminare i suoi inseguitori,
i quali però non avevano alcun problema a starle dietro.
Era come una caccia.
Il bravo cacciatore era quello che, oltre alla
cattura, sapeva gustarsi anche il piacere di inseguire e stanare la propria
preda, riempiendola di paura e di quel senso di impotenza che preannunciava la
morte imminente.
La giovane donna continuò a correre; non le
importava di morire di fatica, visto che sapeva che se si fosse fermata per lei
sarebbe stata comunque la fine.
La sua fuga disperata la condusse, ad un certo
punto, nel parcheggio di un piccolo minimarket, lo stesso dove di tanto in
tanto andava a fare la spesa, e dove, nella speranza infondata che come altri
fosse aperto anche la notte, si augurava di trovare aiuto.
Era talmente spaventata che ormai correva ad
occhi chiusi, tale era il terrore di veder comparire da un momento all’altro
davanti a sé uno di quei mostri.
D’un tratto, proprio quando era ormai sul
punto di abbandonarsi sfinita nell’attesa che venissero a ghermirla, il suo
passo sempre più ansimante la condusse a sbattere contro qualcosa, qualcosa che
prima ancora di vederlo riconobbe come un corpo.
Per un attimo, ne fu terrorizzata, temendo che
potesse essere uno di loro, ma poi sentì qualcosa di strano; quel corpo, quel
torace possente, era caldo, e vi sentiva battere un cuore, un cuore forte e
vibrante di energia.
Qualcosa le disse che era una presenza amica,
e ne ebbe la conferma quando, vincendo la paura, trovò la forza di aprire gli
occhi, e guardare sopra di sé.
Davanti a lei, come un ennesimo fantasma della
notte, era comparso un giovane; doveva avere diciotto, forse diciannove anni,
occhi blu come il mare e capelli nerissimi che ondeggiavano al vento. La pelle
era leggermente scura, mediterranea, e non presentava minimamente i tratti
somatici tipici del popolo giapponese; ciò nonostante, assicurata alla cintura
dei pantaloni aveva una katana, una bellissima spada dall’impugnatura e dal
fodero rosso fuoco, impreziosita da legacci bianchi di seta e ideogrammi
dorati.
Ilsuo
sguardo era sprezzante e sicuro, il portamento fiero, quasi da soldato. Lei si
perse un momento nella profondità di quegl’occhi, per poi ricordarsi spaventata
cosa stesse succedendo, e dove si trovasse.
Varcò il giovane, rifugiandosi alle sue
spalle, e quasi nello stesso momento le figure che l’avevano inseguita per
tutto quel tempo si palesarono, rivelandosi ben più di cinque sei; come minimo,
dovevano essere una decina, tutti giovani piuttosto attraenti, tutti con gli
occhi che scintillavano di rosso, e tutti con zanne che sporgevano dalle
labbra.
Di fronte al giovane, però, tutta la loro
spavalderia e sicurezza sembrò scomparire come neve al sole, per essere anzi
sostituita da meraviglia e timore.
«È lui…» disse
qualcuno «È l’Hunter…».
Il giovane fece qualche passo avanti, e di
contro i mostri arretrarono, tranne uno che, al termine di interminabili
secondi di palpabile tensione, con un salto sovrumano tentò di piombargli
addosso. Il giovane restò impassibile, quasi rinunciando a difendersi, ma
all’ultimo istante la sua mano affondò all’interno della giacca, uscendone
armata di un lungo ed acuminato paletto d’argento contro il quale lo sfortunato
aggressore finì praticamente impalato.
Il paletto gli affondò nella bocca spalancata,
sbucando dietro il collo, e prima ancora di poter emettere un urlo o un gemito
di dolore il suo corpo sparì, mutandosi in pulviscolo, e lasciando dietro di sé
solo i propri vestiti.
La giovane donna emise un gemito di stupore e
svenne per la paura, mentre gli altri mostri arretrarono ancor più spaventati.
«E così.» disse il ragazzo «Siete voi i
responsabili di tutte le aggressioni avvenute in questa zona nelle ultime
settimane.» quindi li guardò attentamente, quadrandoli da capo a piedi uno per
uno «Non siete dei Livello E. Quindi dovreste sapere cosa comporta andare
contro le regole.»
«Le regole!?» ripeté ironico il capo
sforzandosi di apparire sicuro di sé «Noi ce ne freghiamo delle regole! Se voi
nobili spocchiosi e arroganti volete fare i gentili e gli accomodanti fate
pure! Ma per noi, la caccia non ha prezzo.»
«Ti sbagli. Un prezzo lo avrà. E molto caro
anche».
Di fronte a tanta sicurezza il capo perse la
pazienza, e forte di tutti i suoi seguaci si preparò ad affrontare il
cacciatore.
Nuovamente, il giovane attese l’ultimo istante
per attaccare, ed un istante dopo che ebbe fatto luccicare nell’aria la lama
della sua spada, un altro vampiro era sparito, decapitato di netto.
Altri due lo seguirono dopo poco, e a quel
punto i superstiti mollarono tutto e si diedero alla fuga, abbandonando il loro
capo.
«Dove andate, conigli!» urlò vedendoli
scappare in ogni direzione, per poi tornare a concentrarsi, infuriato, sul
ragazzo «Bastardo! Vorrà dire che ti ammazzerò da solo!».
Dei cinque vampiri che avevano tentato la
fuga, quattro di essi volarono letteralmente sopra le case del quartiere fino
ad un campetto da baseball, dove però qualcosa li immobilizzò sul posto con gli
occhi sbarrati.
Sulla loro strada, immobile come una statua,
era comparsa una ragazzina; era quasi una bambina, tredici o quattordici anni
al massimo, lunghi capelli biondi e occhietti verde pino. Indossava un curioso
abito nero piacevolmente goth, pieno di pizzi e
ricami, che unito a quella pelle candida e all’espressione timida e composta le
dava un’irresistibile parvenza da bambolina.
Eppure, nessuno dei quatto si fece
abbindolare.
Avevano sentito parlare anche di lei.
Eric Flyer, il leggendario vampiro cacciatore,
aveva una succube, una fedele servitrice pronta a scattare in difesa del suo
padrone, e ad obbedire a qualsiasi ordine o comando le venisse impartito.
Nagisa. Nagisa scarlet roseHidemasa.
I quattro vampiri dimostrarono di aver paura
di lei quanto del mostro che si erano appena lasciati alle spalle, ma forse per
via della sua statura minuta e di quella sua apparente parvenza indifesa ed
innocua, pensarono che forse, data la superiorità numerica, era ancora
possibile riuscire a batterla e a scappare.
Lei si limitò a guardarli, mentre quelli
parevano aspettare solo il momento buono per colpire, poi, lentamente, alzò la
mano destra puntando l’indice contro di loro, che la guardarono increduli;
stette immobile così per qualche altro secondo, quindi affondò l’unghia del
pollice sulla sommità dell’indice, facendo sgorgare una sola, piccola, goccia
di sangue.
La goccia scivolò lentamente nell’aria,
seguita con lo sguardo dai quattro vampiri, e all’improvviso, un attimo prima
di infrangersi a terra, con la velocità e la forza di un proiettile volò
nell’occhio di uno di loro, trafiggendolo da parte a parte ed incenerendolo
all’istante.
I suoi compagni, attoniti, arretrarono ancora
di più, gli sguardi pieni di paura.
Sapevano di essere condannati.
Che fosse Eric Flyer o qualche altro Hunter,
le regole erano chiare: chi trasgrediva moriva.
Ma in ogni caso, non sarebbero morti senza
lottare; visto che era giunta la loro ora, dovevano almeno andarsene con onore.
Per questo, attaccarono tutti insieme, ma
nella foga del momento non si erano accorti che quella goccia di sangue che
aveva ucciso il loro compagno non si era dissolta terminato il suo compito,
rimanendo invece sospesa in aria circondata da uno strano bagliore.
Come i tre superstiti fecero per avventarsi su
Nagisa, quella goccia prese a schizzare da tutte le parti come una scheggia
impazzita, descrivendo orbite e tracciati impossibili lasciandosi dietro quella
strana luce; eppure, ciò nonostante, trapassò tutti e tre gli aggressori con
estrema facilità, mutandoli in cenere prima ancora che avessero avuto il tempo
di accennare una vera resistenza.
La ragazza si guardò attorno: niente altro che
il nulla.
«Bersagli neutralizzati.» disse con un filo di
voce.
Il solo vampiro che avesse scelto di fuggire
in un’altra direzione credeva di avercela ormai fatta, ma da un istante
all’altro si ritrovò anche lui la strada sbarrata da un Hunter; nonostante la
leggera zoppia e l’apparire da straccione, il professor Kogoro Negi era troppo conosciuto per i suoi precedenti per non
far tremare di paura ogni vampiro che lo incontrasse.
«Vai da qualche parte?» disse mentre,
appoggiato ad un lampione, lasciava cadere la sigaretta a terra schiacciandola
poi con un piede.
Anche in questo caso, sapendo di dover
comunque morire, il vampiro fuorilegge non volle rinunciare al proposito di
provare almeno a farsi valere, e caricò a testa bassa il suo avversario.
Kogoro, nonostante l’età e gli acciacchi, si difese egregiamente, e dopo aver
schivato un paio di artigliate portò un diretto al volto del nemico degno dei
suoi anni migliori, facendo letteralmente esplodere la faccia a quel poveretto;
del resto, come poteva immaginare che le nocche dei suoi tirapugni fossero di
puro argento smaltato?
Intanto, in quel piccolo parcheggio, Eric
Flyer stava giocando praticamente al gatto con il topo con quel vampiro di
basso livello, troppo debole per poter rappresentare per lui una vera sfida.
Alla fine, sia stufo di quello spettacolo
penoso, sia nel timore che potesse andarci di mezzo quella ragazza svenuta,
volle chiudere la questione, e all’ennesimo assalto nemico, con un solo
fendente, gli portò via di netto entrambi gli avambracci, lasciandolo indifeso.
Il capo, sconvolto dalla vista di entrambe le
sue braccia mozzate, e del sangue che come un torrente sgorgava dai due
monconi, barcollò all’indietro fino a cadere, mentre quella specie di demonio
gli camminava incontro con la spada in mano.
«Perché? Perché lo fai? Eppure sei un vampiro
anche tu!».
Quell’affermazione parve accendere qualcosa
negli occhi dell’Hunter, che giunto a sovrastare il nemico lo guardò con occhi
iniettati di freddezza e determinazione.
«E non sai quanto vorrei non esserlo.» disse
alzando la spada
«No. Aspetta… ti
prego, non farlo… No!».
Quando
Nagisa, camminando lentamente e composta, arrivò al cospetto del suo padrone,
questi stava finendo di rimuovere dalla mente della giovane donna aggredita il
ricordo di quella orribile nottata.
Il mattino dopo, si sarebbe risvegliata nel
suo letto senza memoria alcuna di quanto le era capitato.
«Tutto sistemato?»
«Ho eliminato i fuggitivi, mio signore.»
«Per favore, basta col mio signore. Ti ho
detto mille volte che è sufficiente chiamarmi semplicemente Eric».
Qualche attimo dopo arrivò anche Kogoro, che
si guardò attorno un momento constatando che tutta le prove e le tracce erano
già state cancellare.
«Immagino non ci sarà bisogno di chiamare
quelli della ripulitura.» osservò avvicinandosi ai due ragazzi «Bel lavoro,
comunque.»
«Se non avessero commesso l’imprudenza di
mostrarsi in questo modo, sarebbe stato molto più difficile riuscire a
stanarli.»
«Gli imbecilli ci sono anche tra i vampiri».
Tutto quello che restava era il cappotto del
capo, ma Nagisa lo bruciò fino alla cenere gettandoci sopra della benzina e
dandogli fuoco. Quanto al sangue che insozzava l’asfalto, si sarebbe sgretolato
come calce secca al sorgere del sole, e tuttalpiù la
gente avrebbe pensato a della strana sabbia rossa.
«Questa è la terza banda di vampiri cacciatori
in meno di due mesi.» osservò la ragazza
«Che ci vuoi fare.» osservò Kogoro «Per questi
idioti emomaniaci le grandi città sono come Tokyo
come delle immense riserve di caccia.» quindi guardò Eric, che sostava ai piedi
di un lampione «Sarà un peccato non poter contare più sul tuo aiuto.»
«Guarda che vado dalle parti di Hakuba, mica sull’Himalaya.»
«Mi domando per quale motivo tua madre ti
abbia costretto a frequentare l’accademia di Cross».
Eric non rispose e guardò in basso; era certo
di conoscere la risposta, ma non gli andava di condividerla, anche perché chi
lo conosceva, come quel finto tonto di un professore, non faticava certo ad
immaginarla a sua volta.
«Certo che quella mezzasega
di Cross è buono solo a creare problemi.»
«Perché dici questo?» domandò Nagisa
«Per mettere in piedi quel suo progetto di
scambio culturale nella sua scuola, l’Associazione e il Consiglio hanno
approvato una momentanea franchigia sui limiti della libera circolazione dei
vampiri in tutto il Mondo. In altre parole, da qui ai successivi dodici mesi
ogni maledetto succhiasangue potrà andarsene a spasso
per il globo come meglio vorrà.
Altrimenti perché saremmo tanto indaffarati,
secondo voi?».
Di nuovo, Kogoro guardò Eric.
«Ad ogni modo, credo che non sarò il solo a
sentire la tua mancanza. Già mi immagino la faccia e i pianti delle ragazze
della Toyama quando sapranno che il prossimo anno non
sarai più a scuola. Al contrario i ragazzi faranno i salti di gioia, visto che
negli ultimi dodici mesi gli avevi praticamente rubato la scena.
Che ci troveranno poi in te di così
affascinante, proprio non riesco a capirlo».
Il ragazzo alzò un momento lo sguardo al
cielo, come soprapensiero, poi, senza dire una parola, si alzò e se ne andò,
seguito un attimo dopo dalla sua fedele succube.
La prospettiva di doversi trasferire
all’Accademia Cross lo rendeva impaziente ed inquieto allo stesso tempo.
Impaziente perché avrebbe avuto finalmente,
dopo due anni, la possibilità di rivedere l’unico vampiro che avesse sempre
considerato come il solo e più importante avversario della sua vita, inquieto
perché, contro le sue stesse previsioni, a frequentare quella scuola non ci
sarebbe andato da solo.
Ed era questo a preoccuparlo maggiormente.
Accidenti a quella ragazza e alla sua
testardaggine, gli venne quasi da pensare.
Kogoro lo guardò mentre si allontanava, e sorridendo,
mentre aspettava la squadra d’ispezione, si portò l’ennesima sigaretta alla
bocca.
«Buona fortuna, pivello.» disse tra sé «Ne
avrai bisogno».
Nota dell’Autore
Salve a tutti!^_^
Eccomi di ritorno, con
il nuovo capitolo delle avventure di Eric Flyer!
Come probabilmente
quasi tutti sanno, questa fanficion, così come lo
stesso personaggio di Eric, sono “figli” indiretti della Round Robin ThreatsOf Fate. Per questo
motivo, ed in accordo sia con l’autrice Lien (nome
provvisorio) sia con i proprietari degli altri vari personaggi che vi
compaiono, ho deciso di ambientare questo sequel parallelamente agli eventi
raccontati in Threatsof
Fate.
Per ragioni di
praticità, alcuni degli eventi già raccontati saranno rivisti sotto un’ottica
differente, ma senza nulla voler togliere alla storia originale.
I personaggi che
appariranno anche in Eric Flyer Threats (titolo
chiaramente in omaggio alla FF originale) sono:
Emma Kreutzer di Flea
CristineLeroy di Kula
Mary Smith diSweetDaisy
Elodie Durand e Pierre RohandiThe Lover
Carmy Evans diThrush
Elisabeth Lizzy
McLane diDidiDirectioner
NivesNightwishdiKramizi
Gabriele Lopez e Derek
Reinari di Thefinalwar
Alexandra Ek diSilvanuccia
JoshTakahashi e LaceyValentine di Lien
Per gli altri personaggi,
sto ancora aspettando l’autorizzazione dei rispettivi proprietari, anche se a
conti fatti questi dovrebbero essere più che sufficienti, tenendo conto che ci
sono anche i membri della Night Class.
Inoltre, poiché tendo
a vedere ToF come una sorta di “realtà alternativa”
rispetto alla storia originale, aspettatevi di veder comparire questo o quel
personaggio per altri motivi o in altre circostanze.
Come ho specificato
nella richiesta a cui avete risposto in così tanti, c’era bisogno di un
traditore. Ora, quel traditore è stato scelto, e il suo “proprietario” già ne
conosce l’identità; ma è solo uno. Ce n’è anche un altro, anche quello già
deciso, ma su chi sia… lo scoprirete solo al momento
giusto! (ndTutti: Tu, brutto…..)
E per rispondere alla
sicura curiosità di molti, no: Yuuki non ci sarà.
La
foresta tropicale che circondava e avviluppava una parte del confine tra la
Cina e la Birmania era un luogo quasi completamente inesplorato, dimenticato da
Dio e dagli Uomini.
Per centinaia e centinaia di miglia in ogni
direzione, non un villaggio, una casa, una traccia di una presenza umana.
Eppure, secondo alcuni sedicenti storici,
quello era uno dei luoghi dove, a saperle cercare, erano ancora presenti le
tracce della Prima Civilizzazione, quella specie di mitica civiltà che stando a
miti e presunte verità scientifiche aveva popolato la Terra prima dell’avvento
dell’Uomo.
Solo favole per creduloni e sognatori, aveva
sempre detto in coro la comunità scientifica mondiale.
Tutto quello che si poteva trovare in
quell’intricato dedalo di liane, alberi, fiumi e montagne erano vecchie rovine
del periodo degli imperi indiani e vietnamiti, ma nulla che si potesse neanche
lontanamente collegare a questa fantomatica Prima Civilizzazione.
Eppure, non sembravano pensarla così di
occupanti di quel grosso accampamento da decine di tende che, con l’autorizzazione
di entrambi i governi, avevano dato il via ad una massiccia opera di scavo ai
piedi di una bassa collina che sorgeva quasi nel punto esatto dove si trovava
la linea di confine; se solo i cinesi e i birmani avessero saputo cosa si
trovava realmente sotto a quel mucchio di terra, alberi e sassi, non si
sarebbero fatti tutte quelle risate quando si erano visti offrire una cifra
così considerevole per i semplici diritti di sfruttamento del terreno, che
avevano concesso senza pensarci due volte.
Su tutte le tende capeggiava lo stemma della
Fondazione Manovic, quel filantropo europeo di cui
tutti parlavano, e all’interno del campo era un trionfo di scienziati,
archeologi, e soprattutto operai.
Gli archeologi erano guidati da un professore
britannico, il professor Martin Evans dell’Università di Monaco, persona
gentile e autorevole, che da quella spedizione sognava di trarre la rivincita
di tutta una vita spesa a farsi ridere dietro dagli ambienti accademici.
A differenza di altri, che sulla Prima
Civilizzazione avanzavano le teorie più astruse e fuori dal comune, come dèi o
alieni, lui sapeva; sapeva benissimo chi fossero stati i primi esseri
intelligenti a camminare sulla Terra, e ora era sul punto di averne la
certezza.
Quell’occasione non sarebbe potuta venire in
un momento migliore; alla lunga le sue teorie lo avevano reso impopolare, e la
sua cattedra non era mai stata così in bilico. Come se non bastasse, non
riuscendo a reperire fondi per le sue ricerche e spedizioni, fino a quel
momento infruttuose, era stato costretto più volte a provvedere di tasca
propria, finendo in pochi anni per dilapidare il considerevole patrimonio di
famiglia.
Poi, alla porta di casa sua aveva bussato una
delegazione della Fondazione Manovic, che gli aveva
fatto una interessante proposta; la decifrazione un antico codice bramino, e,
una volta fatto questo, la guida e la responsabilità degli scavi sul luogo che
quello stesso codice indicava come la Tomba del Quinto Re, Vipalcha.
Nel momento in cui aveva visto quel nome
comparire dalle sabbie del tempo, una vampata di calore aveva scaldato il cuore
del professore.
In tutti quegli anni aveva accumulato più
materiale e informazioni sulla Prima Civilizzazione di qualsiasi altro studioso
della storia, e sapeva che, secondo un mito comune a molte civiltà antiche, la
Prima Civilizzazione, era stata retta nel corso della sua storia da cinque
grandi sovrani, alla morte dell’ultimo dei quali la civiltà si era rapidamente
sgretolata: Viracocha, Kokopelli,
Amaterasu,Valopingius e, in ultimo, Vipalcha.
E se il testo, il Bahī
mūla, o Libro dell’Origine, diceva il vero, quella collina nascondeva in
realtà il tumulo funerario di Vipalcha, che avrebbe
confermato appieno le teorie del professore.
Erano stati molti mesi di attesa e speranza, quand’anche
velati da una certa preoccupazione, e dal timore che fosse l’ennesima falsa
pista, quando un pomeriggio, quasi per caso, uno degli operai si era sentito
mancare la terra sotto i piedi mentre lavorava, precipitando per alcuni metri
dentro un canalone nelle profondità della terra e ritrovandosi così, come per
miracolo, di fronte ad un immenso portone di pietra, chiuso, sigillato e
coperto di iscrizioni, tra le quali il cartiglio di un nome: Vipalcha.
La notizia era stata immediatamente inoltrata alla
sede centrale di Zagabria, che aveva comunicato l’arrivo imminente del
responsabile ai lavori.
Una mattina, quella prevista per l’arrivo del
responsabile e l’apertura della porta, il professore sedeva nella propria
tenda, impaziente ed ansioso come non mai, mentre osservava la foto della sua
famiglia che portava sempre con sé. Raffigurava lui, la moglie e la figlia, all’epoca
dell’ultima volta che erano stati insieme.
Carmilla era tutta
sua madre: stessi capelli biondi, stessi occhi verdi. Da lui aveva preso solo una
cert’aria sbarazzina e sicura di sé, quella che lui aveva sempre avuto prima
che la crudeltà della vita gli venisse sbattuta in faccia togliendogli ogni
speranza.
Ancora poco. Ancora da poco e sarebbe tornato da
loro, coperto di gloria e di fama, ma anche pieno di soldi: 200.000 euro gli
sarebbe valso il suo lavoro in quello sperduto angolo di Indocina.
«Professore!» disse d’un tratto uno dei suoi
giovani assistenti, Fritz, entrando nella tenda «Il responsabile è arrivato!»
«Vengo subito».
Il professor Evans raggiunse il limitare del
campo giusto in tempo per veder scendere a terra l’elicottero che trasportava l’inviato
speciale del Conte Manovic, l’uomo che aveva permesso
al suo sogno di avverarsi.
Come lo vide, ne fu sorpreso.
Sapendo chi e che cosa il conte fosse
veramente, si meravigliò di veder comparire dinnanzi a sé un normale essere
umano, per quanto di bell’aspetto, chiaramente allenato e di robusta
costituzione; i capelli, biondissimi, erano piuttosto lunghi, gli occhi piccoli
e marroni, il fisico ben scolpito. Non era croato o balcanico: probabilmente
veniva dal Nord Europa, forse dalla Danimarca o dall’Olanda.
Non era da solo.
Con lui c’erano altri tre uomini, guardie del
corpo forse, e loro di sicuro non erano esseri umani.
«Benvenuto.» disse il professore porgendo la
mano «Signor…»
«Mi chiami semplicemente Michelle.» tagliò
corto quello «Passiamo subito al sodo. L’avete trovato?»
«Sissignore. Mi segua».
Evans condusse dunque il signor Michelle ed i
suoi uomini al limitare del grosso foro nel terreno che conduceva alla porta
della tomba, che nel frattempo era stato allargato e dotato di una scaletta per
poter salire e scendere comodamente.
«Se posso permettermi.» disse a Michelle mentre
alcuni operai finivano di rimuovere i sigilli «Lei è un essere umano. Come mai
riveste una carica così importante all’interno della Fondazione Manovic?»
«E Lei, allora?» replicò provocatoriamente il
giovane
«Ho scoperto l’esistenza dei vampiri all’età
di dodici anni, quando un Hunter mi salvò dall’aggressione di uno di loro.
Da quel giorno, scoprire quante più cose
possibili su di loro è diventata la mia ossessione.
È evidente che i vampiri esistono sulla Terra
da ben più tempo dell’Uomo, e che millenni prima che noi imparassimo anche solo
ad intagliare la pietra loro avevano già raggiunto un altissimo livello di
civilizzazione.»
«Corretto, professore. E questa tomba potrebbe
custodire ciò che resta di quel sapere così antico e prezioso.
Non c’è che dire, una bella svolta per la sua
carriera».
Dopo qualche istante, finalmente, anche l’ultimo
sigillo cedette, e pur dovendoci mettere la forza congiunta di sei persone il
portone poté essere aperto.
A quel punto il gruppo composto dal
professore, il signore Michelle, le sue tre guardie e alcuni operai, torce alla
mano, si avventurò nel tunnel, sotto gli sguardi sorpresi e un po’ preoccupati
di chi rimaneva in superficie.
Ben presto le fredde pareti di roccia,
intagliate ma spoglie, cominciarono a riempirsi di stupendi bassorilievi,
disegni, raffigurazioni sacre e antiche preghiere.
Se illuminati dalle torce sembravano quasi
brillare, risplendere di una tenue luce rossa, una cosa allo stesso tempo
magnifica ed inquietante.
Il professore si sentiva in paradiso, come se
niente al mondo potesse renderlo maggiormente felice.
«Mio Dio.» disse il professore «Questo sembra
proprio un idioma sconosciuto. Non è bramino.»
«Questa è l’antica lingua dei vampiri.»
osservò Michelle «È talmente antica che neppure loro ricordano più come vada
pronunciata.»
«Incredibile».
Era già abbastanza per vincere più di qualche
Premio Nobel, ma questo al professore e a Michelle non bastava; oro volevano
scoprire per intero il segreto della tomba di Vipalcha,
ed erano sicuri che se fossero andato avanti ci sarebbe riuscito.
L’esplorazione proseguì, e sembrava davvero
che quella grotta fosse destinata a non finire mai. Michelle era ansioso più
che mai di proseguire, ma il professore, rammentandogli che chiunque avesse
costruito quella tomba non era certamente uno sprovveduto, lo aveva messo in
guardia, consigliandogli di essere il più possibile guardingo.
E fu un bene, perché grazie a questo consiglio
Michelle ad un certo punto si avvide in tempo di stare calpestando una specie
di pulsante e riuscì ad evitarlo; il portatore che veniva dietro di lui non fu
altrettanto scaltro, e prima che potesse essere avvertito un getto di fuoco
spuntò fuori dalla parete e investì in pieno quel poveraccio, bruciandolo vivo
nel giro di pochi secondi.
«Dobbiamo stare attenti, questo posto è pieno
di trappole.» disse il professore mentre due uomini, trattenendosi a stento dal
vomitare, coprivano i resti carbonizzati del compagno con una coperta.
La marcia verso il basso dunque proseguì,
molto più attenta di prima; vennero evitate un altro paio di trappole,
rispettivamente una selva di frecce e una seconda lingua di fuoco, e più se ne
evitavano più i portatori diventavano inquieti. Qualcuno suggeriva timidamente
di tornare indietro, e lo stesso professore ad un certo punto disse che forse
era la cosa migliore da fare, ma Michelle non ne aveva la benché minima
intenzione.
All’improvviso uno dei portatori, forse per la
paura, calpestò uno di quei pulsanti infernali, finendo impalato, e un altro,
terrorizzato da un tale spettacolo, cominciò a correre verso il basso urlando a
squarciagola di volersene andare, ma non rendendosi conto di stare inoltrandosi
sempre più nel buio della caverna.
«Aspetta, idiota!» gridò il professore, e come
lo vide calpestare un altro pulsante subito gli corse incontro.
Una pila di massi piovve dall’alto lo
travolse, anche se il professore fece a tempo a gettarsi all’indietro riuscendo
ad evitarli.
Uno dei massi, il più grosso, continuò a rotolare
implacabilmente verso il basso, fino a raggiungere una seconda, enorme porta,
che sfondò senza pietà con la sua enorme forza, attirando l’attenzione dei
membri della spedizione.
Questi, incuriositi ma ancora guardinghi,
lentamente si avvicinarono, facendo attenzione a non imbattersi in altre
trappole.
Fortunatamente non ne incontrarono altre, e quando
arrivarono alla fine del tunnel, dopo aver valicato il portone ormai divelto,
si ritrovarono da un momento all’altro in una immensa stanza di forma
quadrangolare, e come ne calpestarono l’uscio questa fu immediatamente inondata
da quelle che, alla faccia dell’anacronismo, sembravano vere e proprie luci al
neon.
Quando fu del tutto illuminata la stanza,
oltre a rivelare pienamente le sue gigantesche dimensioni, più che una camera
sepolcrale parve rivelarsi una specie di avveniristico laboratorio, pieno di
macchinari e apparecchiature di altissima tecnologia, roba perfino
inconcepibile persino per la moderna civiltà umana.
Il professore e i pochi operai rimasti in vita
restarono sbigottiti, le bocche spalancate e gli occhi fuori dalle orbite.
«Non… non ci posso
credere».
Al centro della stanza, circondata da quegli
strani apparati medico-informatici, stava una specie di capsula, coperta come
tutto il resto da uno spesso strato di polvere accumulatosi nel corso dei
millenni; il professore, sgomento, vi si avvicinò, e come scorse qualcosa al
suo interno rimosse con la mano parte dello sporco, svelando al di sotto il
volto bellissimo di un giovane uomo con lunghi capelli bianchi, apparentemente
immerso nel sonno. Le vesti regali che indossava, immacolate come il suo corpo,
non lasciavano dubbi su chi dovesse essere
«Questo…» disse incredulo
«Questo è…»
«Indovinato.» disse Michelle comparendo alle
sue spalle «Questo è Vipalcha. Lo chiamano il Quinto
Re, ma in realtà fu il primo dell’Ultima Grande Civiltà dei vampiri.»
«L’Ultima Grande Civiltà!?»
«I Cinque Re sono solo alcuni dei sovrani che
nei millenni si avvicendarono alla guida della civiltà dei Vampiri. Vipalcha fu tra i primi.
Lo guardi. È morto da più di trentamila anni, e
sembra che lo abbiano sepolto ieri.»
«Quante cose non sapevo o credevo di sapere
sui vampiri.» disse il professore, che poi si guardò un momento attorno «Ma se
avevano raggiunto un tale livello scientifico e culturale, perché lo hanno
abbandonato?»
«Per l’unico motivo che può spingere anche la
più avanzata delle civiltà a scomparire.»
«La guerra.»
«Come crede che sia scomparsa la Prima Civiltà
di cui tutti favoleggiano?».
Il professore guardò un'altra volta Vipalcha.
Allora la sua teoria, quella che aveva segretamente
elaborato ma che non aveva mai avuto il coraggio di confidare a nessuno, si
stava rivelando corretta.
All’alba della civiltà umana, i vampiri
avevano invece già raggiunto un livello di progresso inimmaginabile; ma poi era
successo qualcosa, che ora sapeva essere una guerra, e buona parte di quella
civiltà era scomparsa, e oltre a perdere quasi tutto ciò che il loro sapere gli
aveva permesso di creare i vampiri, da dominatori del pianeta, erano diventati
invece una risicata minoranza, dando modo agli esseri umani di surclassarli e
dare così vita ad un Seconda Civilizzazione, alla quale i pochi rimasti della
Stipe della Notte avevano dovuto per forza di cose adeguarsi.
Sapendo tutte queste cose, il professore sentì
un brivido alla schiena.
Se davvero tutto quello che c’era in quella
tomba risaliva a prima che la Prima Civiltà scomparisse, che cosa avrebbe
potuto fare se qualcuno avesse cercato di farne l’uso sbagliato?
Di colpo sentì di essere stato ingannato, e i
suoi timori divennero realtà quando vide le tre guardie del corpo che, ad un
cenno di Michelle, misero mano ai loro borsoni, pieni di apparecchiature di
immagazzinamento e registrazione.
«Che state facendo?» domandò incredulo e
arrabbiato
«Non si vede?» replicò tranquillo Michelle.
Gli apparecchi dei tre uomini furono collegati
a quello che doveva essere il nucleo centrale della stanza, una specie di
altare alto circa un metro, e subito presero a scaricare nella loro memoria tonnellate
di informazioni, codici, antichi testi e altro ancora.
«Questo è un sapere che non và usato
impunemente!» sbraitò il professore
«Gli inetti e gli incapaci che hanno avuto la
fortuna di possederlo non hanno saputo farne l’uso più corretto. Molto meglio
farlo nostro che lasciarlo a marcire inutilizzato in questo cimitero del
passato.»
«Quello che c’è qui dentro ha causato la
rovina della Prima Civiltà, e ha portato i vampiri alle soglie dell’estinzione!»
«E ora li aiuterà a sopravvivere.»
«Ma chi siete voi? Qual è il vostro scopo?».
A quella domanda, Michelle piegò le labbra in
uno strano sorriso, volgendo lo sguardo verso il professore.
«Il suo contributo è stato molto prezioso».
Un attimo dopo, la stanza fu riempita del
fragore di uno sparo.
Il professor Evans sgranò gli occhi e
socchiuse la bocca, cercando inutilmente di emettere un gemito di dolore che
non gli uscì; la sua camicia verde mimetico, regalo di sua moglie, si era fatta
di colpo rossa del sangue che sgorgava senza sosta dal foro all’altezza della
milza.
Alla vista del professore barcollante e
insanguinato, e della pistola comparsa all’improvviso tra le mani di Michelle,
i tre operai che erano con loro fecero per scappare terrorizzati, ma le guardie
di Michelle non diedero loro scampo piombandogli addosso con salti inumani e
affondando con forza i denti nei loro colli fino a dissanguarli.
«Ora che ha realizzato il sogno della sua
vita, professore.» disse beffardo Michelle mentre Evans lo guardava incredulo «Può
anche morire».
Il professore ebbe appena il tempo di pensare
un’ultima volta alla sua moglie, e alla sua adorata figlia, quindi si accasciò
a terra e morì stringendo ancora in una mano la loro fotografia, che per tutta
la durata della discesa aveva sempre tenuto stretta per farsi coraggio.
«C…Carmi…».
Terminata quella questione, le tre guardie si
rimisero rapidamente al lavoro.
«Tutto fatto, signore.» disse dopo poco una di
loro
«Molto bene. preparate tutto e andiamocene di
qui».
Dei tre borsoni ne fu lasciato lì solo uno, l’unico
che non fosse stato aperto per tutto il tempo, e dopo qualche minuto Michelle i
suoi erano di nuovo in superficie.
Agli operai e agli assistenti del professore
che li attendevano in superficie dissero che Evans e i suoi sarebbero risaliti
a breve, e prima di andarsene si assicurarono che le casse di birra che avevano
portato con sé, regalo gentilmente offerto dalla Fondazione Manovic
per festeggiare il buon esito degli scavi, fossero state scaricate.
Trenta secondi dopo che l’elicottero fu
decollato, l’intero accampamento fu spazzato via da una sequenza di violente
esplosioni, che tramutarono quell’angolo di foresta in un inferno di fuoco e
distruzione.
Un’esplosione avvenne anche all’interno della
tomba, avvolgendo l’intera camera sepolcrale e facendo sparire tra le fiamme il
corpo ed il ricordo del Quinto Re Vipalcha.
I
genitori di Eric erano tornati in Italia ormai da qualche mese.
Il casato dei Lorenzi era stato ufficialmente
riammesso alla nobiltà nel dicembre dell’anno precedente, durante una breve
cerimonia nel castello di Vaduz durante la quale Serena aveva riavuto
simbolicamente indietro le insegne, le decorazioni e lo stemma di famiglia, che
erano stati requisiti e portati via nel giorno in cui suo padre era sfuggito di
poco alla cattura.
Per lei era stato un momento molto importante,
a cui anche Eric, seppur di malavoglia, aveva presenziato.
Nonostante tutto quello che avevano dovuto passare,
nonostante il suo stesso padre avesse prima cercato di ucciderla e poi
costretta a scegliere tra l’essere uccisa o il consegnargli suo nipote, lei
teneva ancora al buon nome del suo casato, ed era più che fiera del cognome che
portava.
Il castello di famiglia nel sud dell’Italia
era ormai completamente ricostruito, e Serena vi aveva preso stabile dimora con
il suo compagno Hiroki, che ormai era anche prossima
a sposare, anche se appena aveva un momento libero cercava quando possibile di
tornare in Giappone per stare con il figlio.
Per tutti questi motivi, né Serena né Hiroki si trovavano lì quando venne per Eric il giorno di
lasciare la sua casa di Ikebukuro, dove aveva vissuto
nell’ultimo anno e che ora avrebbe abbandonato per trasferirsi alla scuola.
In compenso, gli avevano prenotato un posto
sul diretto per Nagano, e quindi una limousine che dalla stazione lo avrebbe
portato fino alla scuola.
Anche Nagisa avrebbe frequentato la Cross
assieme a lui, ovviamente.
Erano da poco passate le dodici; le valige
erano pronte, e si attendeva solo l’arrivo del mezzo di trasporto che li
avrebbe condotti alla stazione.
Eric scostò leggermente una tendina del
salotto per guardare fuori, verso il cancello; non vide nessuno, e malgrado
l’ora nella strada antistante non passava una macchina.
«Non verrà, mio signore.» disse Nagisa capendo
cosa avesse in mente «L’ultima volta che ci siamo viste, mi ha detto che
sarebbe andata fin laggiù per conto proprio.»
«Capisco.» rispose mestamente lui.
Si guardò attorno, osservando ciò che per
dodici mesi aveva trovato famigliare e confortevole dopo aver voluto ignorarne
l’esistenza per oltre dieci anni.
«Mio signore, il taxi è arrivato.»
«Sì… grazie».
Un’ultima occhiata, un ultimo richiamo della
memoria, quindi Eric recuperò le sue valigie aprì la porta ed uscì,
chiudendosela alle spalle.
Non si sentiva tranquillo.
Izumi
Asakura aveva preso il treno per Nagano già alle dieci di mattina, dopo aver
salutato i genitori che le avevano fatto mille raccomandazioni.
Le dispiaceva aver complottato alle spalle di
Eric, confidando nella capacità e volontà di Nagisa di tenere segreta la sua
partenza anticipata, ma temeva che avrebbe finito per tentare di convincerla
ancora una volta a rinunciare.
E di rinunciare, non voleva neppure sentirne
parlare.
Primo, non voleva stare lontana da lui per un
anno intero.
Secondo, e forse anche più importante, era
seriamente determinata a dimostrare ad Eric che si sbagliata.
Pur capendo la sua situazione, e quello che
sicuramente provava a sentiva riguardo a sé stesso, non voleva che Eric
continuasse a vedere la sua condizione di vampiro come una macchia, un qualcosa
di cui vergognarsi e da combattere in ogni modi.
La verità era che Eric, nonostante tutto,
considerava ancora i vampiri come dei mostri, creature pericolose e cattive per
natura, e per questo non voleva essere in alcun modo collegato a loro.
Doveva fargli capire che si sbagliava.
In quei dodici mesi aveva conosciuto altri
vampiri, capendo come si aspettava che ce ne erano anche di saggi e gentili, ma
questa era una cosa che Eric sembrava non voler accettare.
Sarebbe stato difficile, anche per lei, ma ce
l’avrebbe messa tutta. Sapeva bene quali rischi corresse ad andare all’accademia
Cross, ma non le importava; anzi, se nonostante tutto non le fosse accaduto
nulla, allora era la prova che non tutti i vampiri erano i mostri che Eric
pensava.
Intanto, cercava di godersi il viaggio.
Il super rapido della linea per Nagano
sfrecciava come un fulmine tra le campagne e i monti che caratterizzavano il
centro del Giappone, lontani dalle grandi città così soffocanti e
claustrofobiche, splendeva un bel sole e la primavera era già iniziata.
D’un tratto, una giovane ragazza dai lunghi
capelli biondi, più o meno della sua stessa età, passò accanto alla sua
poltrona, notando l’uniforme scolastica nera riposta in una borsa di carta.
«Scusa.» disse con un leggero accento
straniero «Per caso sei una studentessa della Cross?»
«Come!?» rispose lei confusa alzando gli occhi
dal libro che stava leggendo
«Leggi Byron!?» disse divertita la bionda notando
il titolo del voluminoso tomo
«Beh, ecco…»
«E allora? Vai anche tu alla Cross.»
«Più o meno.» rispose Izumi riacquistando
sicurezza «Inizio quest’anno.»
«Non mi dire.» disse la ragazza bionda
sedendosi accanto a lei «Quindi anche tu sei nel progetto di scambio culturale?»
«Non proprio. Io sono giapponese. Ho chiesto
il trasferimento, e me l’hanno concesso.»
«Vieni da Tokyo?»
«Esatto.»
«Io sono arrivata ieri da Londra.» quindi le
porse la mano «Piacere. Carmilla Evans. Ma tu puoi
chiamarmi Carmy se vuoi.»
«Izumi Asakura. Il piacere è tutto mio.»
«Allora, dimmi. Come mai una studentessa di
Tokyo decide di punto in bianco di trasferirsi in una scuola persa nel nulla!?»
«Beh, ecco… diciamo
che sto seguendo una persona.»
«Una persona?» replicò Carmy
sorridendo sarcastica «Non sarà per caso il tuo fidanzato?»
«Cosa!?» esclamò Izumi saltando sul posto e
facendosi rossa come sedile su cui si trovava «No, niente affatto! Non è come
pensi! Voglio dire, Eric non è il mio ragazzo!»
«Ah, così si chiama Eric.»
«No, ecco! Sì, insomma…».
Poi Izumi si accorse che, a forza di urlare,
aveva attirato l’attenzione dell’intera carrozza, e si raggomitolò imbarazzata
su sé stessa ancora più rossa.
«E dai, stavo scherzando. Sarà un piacere
frequentare la scuola con te.»
«Anche per me.» rispose Izumi calmandosi ed accennando
un sorriso sincero.
Nota dell’Autore
Salve a tutti!^_^
Eccoci dunque con il
primo capitolo.
Lo avevo detto che
sarebbe stato ugualmente pirotecnico.
E ora, un po’ per
volta, cominceranno ad apparire i vari personaggi che i rispettivi autori mi
hanno permesso di utilizzare.
Prometto solennemente
che ognuno avrà il suo spazio, e non sarà affatto una semplice comparsa.
Sarebbe ingiusto e irrispettoso nei loro confronti e nei confronti dei loro
creatori.
Ringrazio i miei
recensori, accorsi così numerosi.
Al
loro arrivo alla stazione di Nagano, Eric e Nagisa trovarono ad attenderli una
limousine a noleggio messa a disposizione dalla madre di Eric, con tanto di
stemma di famiglia sulla fiancata.
«Ma che cosa le è saltato in mente?» domandò
stranito vedendo tutto quello sfoggio di notorietà
«Ho come l’impressione che abbia deciso di
mettersi in mostra.» replicò Nagisa con lo stesso tono.
E non sbagliavano.
Segretamente, intimamente, Serena Lorenzi era
la personificazione della superiorità e della mania di protagonismo. Ora che il
suo casato aveva recuperato tutto il suo potere ed il suo prestigio, e che lei
stessa ne era diventata la reggente, voleva che tutto e tutti sapessero del
loro ritorno, e che mostrassero il dovuto rispetto anche nei confronti del suo adoratissimo figlio.
«Signori.» disse l’autista aprendo il
portello.
Eric si sentiva come un pesce fuor d’acqua, e
lo imbarazzava da morire avere addosso gli sguardi di tutta la stazione, quindi
si gettò letteralmente dentro la macchina nel tentativo di nascondersi, seguito
quasi subito da Nagisa; a quel punto, l’attendente caricò i bagagli che i due
ragazzi avevano con sé e la macchina partì in direzione di Hakuba.
Un viaggio di circa tre ore.
«Avremmo anche potuto prendere il treno.»
osservò Nagisa dopo che all’interno dell’abitacolo era regnato un interminabile
silenzio
«I treni per Hakuba
sono interrotti da due giorni.» rispose rispettosamente l’autista «Una frana è caduta
sui binari la scorsa notte, e la linea è momentaneamente chiusa.»
«Non c’è che dire.» disse Eric «Cominciamo
davvero bene».
A causa di questo contrattempo, arrivarono ad Hakuba che era già quasi il tramonto.
Da quando vi era stata impiantata la scuola
nei boschi circostanti il villaggio era molto cambiato, anche se restava ancora
una rinomata meta del turismo invernale ed estivo.
Molte case erano state rimesse a nuovo, così
come il paese in sé e per sé, e ora rassomigliava quasi ad uno di quei villaggi
da cartolina delle montagne austriache o tedesche, anche se il Japanese Style era in parte ancora evidente.
Il transito per le strade del paese di quella
limousine bianco perla non attirò più di tanto l’attenzione, ma non che la cosa
dovesse stupire, visto e considerato l’estrazione in genere medio alta che
contraddistingueva molti degli studenti della Cross.
Sia Nagisa che Eric erano piuttosto provati
per il lungo viaggio, e si sentivano le gambe atrofizzate dalla forzata ed
insopportabile inattività.
Eric ora non vedeva l’ora di arrivare alla
scuola, tanto più che aveva in mente di fare una bella chiacchierata con il suo
vecchio amico Kaien, ma trovandosi a passare accanto
ad un elegante bar in stile retrò non riuscì a resistere alla tentazione di un
cocktail.
«Ferma qui.» disse, e l’autista obbedì.
Lui e Nagisa trascorsero quindi i successivi
quindici minuti accomodati ad un tavolino all’aperto, sorseggiando
rispettivamente un cuba libre e una bibita analcolica.
«Una città tranquilla, vero mio signore?»
disse ad un certo punto Nagisa
«Ma un po’ troppo piena di brutte compagnie.»
replicò Eric notando i molti vampiri che giravano per le strade, invisibili e
assolutamente comuni per chi come loro due non fosse in grado di riconoscerli.
Tra questi, Nagisa notò una ragazza, quasi una
bambolina, proprio come lei, lunghi capelli neri, occhi blu da cucciolo
smarrito, con un piccolo neo sotto quello sinistro, e pelle candida; se ne
restava seduta, in solitudine, ad una delle panchine di pietra ai piedi
dell’orologio al centro della piazza, leggendo un libro.
L’aspetto era chiaramente europeo: forse era
francese.
Eric invece, dopo poco, notò qualcun altro,
qualcuno che non avrebbe voluto vedere.
«Izumi!» disse scattando in piedi.
Lei e Carmy erano
arrivate al villaggio già da qualche ora, ma piuttosto che dirigersi subito a
scuola erano volute scendere dalla corriera anzitempo per concedersi un breve
giro turistico; e purtroppo, Izumi era talmente presa dal conversare con la sua
nuova amica da non essersi accorta di Eric, al punto di essergli passata
accanto mentre usciva dal locale dopo aver preso un gelato.
«Eric. Nagisa.» disse con tutta la naturalezza
del mondo «Siete arrivati anche voi. Avete fatto buon viaggio?»
«Come sarebbe a dire, avete fatto buon
viaggio!?» replicò Eric un po’ inalberato «Perché sei partita senza dirmi
niente?»
«Perché sapevo che avresti fatto storie.»
«Dunque, sarebbe lui il tuo boyfriend?»
irruppe Carly squadrando il giovane Flyer
«Complimenti per la scelta.»
«Ancora con questa storia! Ti ho detto che non
è il mio ragazzo!».
Izumi lo aveva urlato così ad alta voce che
l’aveva sentita praticamente tutto il locale, e sia lei che Eric, vedendosi
guardati in quel modo, abbassarono gli occhi sognando di scomparire.
Nagisa da parte sua non si era fatta
coinvolgere dalla discussione, perché i suoi occhi erano ancora rivolti alla
giovane ragazza ai piedi dell’orologio. Dopo averla vista la prima volta
inizialmente non ci aveva più fatto caso, ma quando risollevò gli occhi vide
che nel frattempo si era avvicinato a lei un giovane, più o meno della sua
stessa età, aspetto pulito ma velato da quella cert’aria di superiorità propria
dei ricchi figli di papà, arroganti e presuntuosi.
Di nuovo, Nagisa cercò di pensare che quelli
non erano affari suoi, ma poi si era accorta che i due avevano preso come a
litigare, e nel momento in cui aveva visto lui afferrare lei per i polsi, e lei
che cercava inutilmente di divincolarsi, qualcosa nel suo animo si era come
acceso.
«Nagisa, dove vai?» chiese Eric vedendola alzarsi
e allontanarsi a passo spedito.
I due ragazzi stavano proprio litigando, e la
ragazza cercava in ogni modo di liberarsi dalla stretta di lui, più giovane
forse, ma anche chiaramente più forte.
«Pierre, smettila! Mi fai male!»
«Mostrami un po’ di affetto, Elodie.»
«Lasciala andare!» disse d’improvviso, ferma
ma composta, Nagisa, comparendo come dal nulla accanto a loro.
Seguì un momento di silenzio, in cui entrambi
i ragazzi scrutarono la nuova arrivata.
«E tu che cosa vuoi, mocciosa?» disse
sprezzante Pierre «Gira al largo, ti conviene.»
«Ti ho detto di lasciarla andare.» replicò
invece Nagisa.
Pierre allora lasciò andare Elodie e si concentrò su Nagisa, ma questa non si mostrò
per nulla spaventata dai suoi occhi scuri e dai denti che sporgevano leggermente
dalle labbra, né tantomeno da quel suo modo di fare da spaccone.
«Non ci senti? Ti ho detto di sparire?».
Fece per afferrarla, ma lei fu più rapida, gli
prese il polso e lo costrinse a tenerlo basso dopo un breve ma violento scontro
di forza.
«Dannata sgualdrina. Ora mi hai fatto
arrabbiare!».
Anche se era un maledetto snob Pierre restava
pur sempre un sangue puro, e dopo quello smacco non pareva avere intenzione
alcuna di trattenersi, nonostante la presenza di tutti quei testimoni e il sole
ancora presente, anche se ormai quasi completamente scomparso.
Poteva essere una bella seccatura, se non che
all’improvviso Rohan si trovò a tu per tu con un
altro impiccione, e stavolta era un suo parigrado. Se gli occhi di Pierre
mettevano paura, quelli di Eric quando perdeva la pazienza o si minacciava la
sua succube potevano uccidere.
«Dacci un taglio, ti conviene.»
«E tu chi sei, il suo padrone?» disse Pierre
con quel suo tono saccente «Dovresti educarla meglio.»
«E tu faresti meglio a sparire.» replicò Eric
«Chi mi obbliga? Tu?».
Stavolta Rohan aveva
davvero passato la misura, e dovette pentirsene; dopo quello che, secondo la
sua percezione, era meno di un istante, un dolore tremendo gli aveva
improvvisamente infiammato il torace, come se qualcuno gli avesse appena tirato
un poderoso colpo a mano aperta.
Ringhiò, cercando di trattenere i mugolii di
dolore; per qualche motivo, credeva di sapere cosa fosse appena successo.
Guardò Eric, che seguitava a fissarlo, rivolgendogli mentalmente tutte le
imprecazioni che conosceva.
«Vattene.» disse Eric con tono di ordine
Date le circostanze, non era proprio il caso
di insistere.
«Me ne ricorderò.» disse Pierre girando i
tacchi e andandosene via.
Elodie, che
aveva assistito a tutta la scena confusa e senza aprire bocca, fu avvicinata da
Nagisa.
«G… grazie.» mormorò.
Ora Nagisa cominciava a capire il perché di
quella strana sensazione che aveva provato guardandola: forse, in un certo
senso, era come lei. Con la differenza che quella poveretta non poteva contare
su di un padrone onesto e gentile: al contrario.
Eric stette ad osservare Pierre finché non lo
vide intrufolarsi in un vicolo con la coda tra le gambe, quindi, senza
aggiungere altro, girò i tacchi e fece ritorno verso la propria macchina.
«Nagisa.» disse con tono di ordine, e lei gli
andò subito dietro.
Izumi e Carmy lo
seguirono con gli occhi, la seconda incuriosita la seconda quasi preoccupata,
quindi lui e Nagisa risalirono a bordo e se ne andarono.
«Che tipo.» commentò Carmy
Lasciato
il villaggio, la limousine con a bordo Eric e Nagisa si inerpicò lentamente
lungo la strada a tornanti che saliva lungo il crinale di una bassa montagna,
giungendo infine al cospetto dei cancelli dell’accademia, che si aprirono
lentamente al cospetto dei nuovi venuti aprendo loro la strada.
La macchina si fermò davanti al portone, e qui
Eric e Nagisa furono fatti scendere dall’attendente, sotto gli sguardi
incuriositi e increduli di alcuni studenti che si attardavano da quelle parti
attorno all’ora di cena.
In particolare, i vampiri che sostavano nel
cortile non faticarono a riconoscere lo stemma impresso sulla fiancata,
restando più colpiti degli altri, e quando Eric scese qualcuno azzardò anche un
lievissimo inchino, o quantomeno un cenno del capo.
Il ragazzo, tuttavia, non ci fece caso, e
mentre era ancora intento a recuperare i suoi bagagli gli si fece avanti una
vecchia conoscenza.
ShezkaHarker aveva cambiato vita dopo quanto successo durante
l’Incidente della Fondazione Manovic, e adesso
lavorava, per sventura di quel poveretto, come segretaria personale del
direttore; l’accordo raggiunto con l’Associazione per la sospensione della pena
era che non si allontanasse mai da Kaien, suo
supervisore, assistendolo nel suo lavoro di direttore dell’accademia, un
compito che purtroppo assolveva fin troppo bene.
«Shezka.» disse
sorridendole sinceramente
«Ne è passato di tempo, Eric-dono.
Nagisa-sama.»
«Non c’è bisogno di tutte queste formalità.»
«Il direttore Cross la sta aspettando. La
accompagno da lui.»
«D’accordo. Nagisa, tu aspettami qui.»
«Sì…» rispose lei
col suo solito tono.
Prima
ancora di varcare la soglia del suo ufficio, Eric riuscì quasi a sentire la
presenza del direttore Cross, letteralmente, e nell’istante in cui Shezka aprì la porta dopo aver bussato rispettosamente un
paio di volte il ragazzo ritrovò il suo vecchio amico uguale identico a come lo
aveva lasciato.
Kaien era
spaparanzato sulla sua poltrona, una chitarrina giocattolo in mano, e mimava,
senza riuscirci minimamente, la canzone riprodotta dal suo vecchio giradischi,
un Armstrong anni ’50.
«Eric, amico mio!» disse posando il suo
strumento e spalancando le braccia «Benvenuto nella mia umile dimora!»
«Umile, la chiama.» mormorò il ragazzo tra sé
e sé
«Ma prego, non restare sulla porta!
Accomodati! Abbiamo tanto di cui parlare. Shezka, per
favore, portaci del tè.»
«Subito, signor direttore».
Shezka portò
loro due tazze di ottimo tè inglese, e i due Hunter furono quindi lasciati
soli. Eric aveva qualcosa di strano; aveva detto e ripetuto più volte che
appena avesse rincontrato Kaien gli avrebbe fatto
vedere le stelle, eppure sembrava calmo e rilassato come non capitava spesso.
In realtà, era solo la calma che precedeva la
tempesta, nonché la volontà, stretta con le unghie e con i denti, di darsi il
maggior contegno possibile.
«E tua figlia Yuuki?»
«L’ho mandata in Europa, da amici. Con tutti
questi vampiri in giro, meglio per lei stare il più lontano possibile dalla
scuola.»
«Già.» disse Eric fulminandolo «Appunto.»
«Sono felice che ti abbiano scontato la pena.»
disse il direttore come se non si fosse accorto di niente «In fin dei conti,
erano stati anche troppo severi.»
«Non fa niente. È la prassi.»
«Tuo nonno era sul punto di provocare
un’apocalisse con i suoi progetti e le sue ricerche. Tu e Nagisa lo avete
fermato, ma nonostante ciò hanno ritenuto comunque doveroso infliggerti una
punizione per aver disobbedito ad un ordine che, tra l’altro, era venuto da una
mela marcia.
Alle volte mi viene da dubitare della sanità
mentale dei vertici dell’Associazione.»
«Quello che conta, è che si sia riusciti a
fermarlo. E il fatto che negli ultimi dodici mesi non abbia più fatto parlare
di sé mi fa stare tranquillo.»
«Io non dormirei troppo sugli allori.» disse Kaien facendosi serio e portandosi la tazza alle labbra
«Sappiamo bene tutti e due che quell’uomo è come la fenice. Rinasce dalle sue
ceneri. Lo ha già fatto una volta, e non c’è dubbio che lo rifarà, sempre ammesso
che non sia già accaduto».
Poi, quasi a voler sdrammatizzare le sue
stesse parole, il direttore tornò l’ebete di sempre.
«Piuttosto, Eric! Dimmi, dai! Come vanno le
cose tra te e la signorina Asakura?».
Era la domanda che Eric stava aspettando… e che segnò la condanna del direttore.
Da un momento all’altro Shezka,
che sedeva alla propria scrivania subito fuori dalla porta dell’ufficio, udì un
gran fracasso provenire dall’interno, al quale tra l’altro non prestò la benché
minima attenzione, accompagnato da grida ed esclamazioni di dolore.
Un secondo dopo, il direttore era sdraiato a
terra, tutto un livido e bernoccoli, e schiacciato a terra dal piede possente
di Eric che lo premeva senza pietà dietro la schiena.
«Non fare il finto tonto, razza di sciagurato!
Credi che non lo sappia che tutta questa storia è opera tua?»
«Pietà! Ti prego! Ho famiglia!»
«Ti rendi conto di quello che hai fatto? Ti
rendi conto di quello che rischia Izumi a stare in un posto simile?»
«In primis.» disse il direttore rifacendosi
serio e rimettendosi in piedi «È stata un’idea di tua madre, e anche io
all’inizio ero contrario. E in secondo luogo, con che pretesto potrei non
ammettere qualcuno che ha fatto regolare domanda ed ha avuto uno dei risultati
più alti di sempre agli esami di ammissione?».
Eric restò un momento basito, quindi provò a
calmarsi.
Conosceva fin troppo bene Izumi e la sua
testardaggine, e a ben guardare non c’era niente che potesse essere fatto per
impedirle o proibirle di frequentare la scuola, a parte ovviamente legarla al
letto e chiuderla in casa.
«E poi.» riprese il direttore «Se devo essere
franco, non credo che tu debba vederla in modo tanto negativo?»
«Davvero? Dammi una sola ragione per non
farlo.»
«La stessa per la quale lei ha voluto mettersi
in gioco in questo modo. Credi che Izumi non sia consapevole del fatto di
rischiare così tanto venendo qui?».
A quella domanda provocatoria Eric non seppe
cosa rispondere.
«Quello che vuole dimostrare lei a te, è
esattamente la stessa cosa che voglio provare io all’Associazione Hunter e al
mondo intero con questo progetto.
Che tra umani e vampiri possono esservi
dialogo ed amicizia dopo secoli di guerra, e che non tutti i vampiri sono
bestie assetate di sangue.
Se tu stesso cominciassi a vedere i vampiri
come dei tuoi pari, e dei compagni di cui potersi fidare, invece che come un
abominio della natura, forse capiresti i sentimenti di quella ragazza.»
«Questo non me lo puoi chiedere.» replicò Eric
stringendo i pugni «È vero che le mie posizioni sono un po’ diverse rispetto a
poco tempo fa, ma c’è un limite alla fiducia che mi sento di poter riporre in
quelle bestie».
Il direttore guardò un momento il ragazzo, poi
andò ad affacciarsi alla finestra.
«Ad essere sinceri, non è solo Izumi ad avermi
creato parecchi grattacapi. Per avere il permesso a farti frequentare questa
scuola, sia io che Serena abbiamo dovuto venire a molti accordi, e accettare un
gran numero di compromessi.
Il tuo sorvegliante speciale sarà qui a
giorni, e fino ad allora la responsabilità della tua sorveglianza ricade su di
me. Ma comunque vada, sappi fin da ora che alla minima infrazione il castello
di sabbia crollerà, e tutto tornerà come prima.
Per questo motivo, ti pregherei di stare
lontano dai pericoli e dai guai, e di non attaccare briga con nessuno, anche se
so che sarà difficile».
Eric abbassò gli occhi: sapeva benissimo a chi
il direttore si stesse riferendo, e al solo pensarci il sangue sembrò
ribollirgli nelle vene.
«Comunque, per ora non pensiamoci più.» disse
quindi Kaien lanciandogli una coppia di chiavi
«Queste sono le chiavi della tua stanza e di quella di Nagisa. Andateci e
fatevi belli, perché questa sera c’è una festa.»
«Una festa!?»
«La festa di benvenuto, ovviamente. E non
cominciare come tuo solito con i “non ho voglia”, e “non mi interessa”, perché
tanto ci vieni lo stesso».
Eric non poté controbattere; da una parte, per
qualche motivo che ancora non capiva, rispettava ed ammirava il direttore, e
non se la sentì di obiettare.
«D’accordo.» disse girando i tacchi ed aprendo
la porta
«Ti è stata offerta una grande occasione,
amico mio.» disse Kaien mentre il ragazzo usciva «Non
rifiutarla o gettarla via per una questione di odio e di orgoglio».
Il
ricevimento si tenne poche ore più tardi, nel grande salone adibito a
refettorio, e tramutato per l’occasione in una gigantesca pista da ballo.
Tutti gli studenti di entrambi i dormitori
erano presenti, ed erano a tal punto mescolati gli uni agli altri che veniva
quasi difficile credere vederli come appartenenti a due mondi che, oltre ad
essere così diversi, si erano fatti la guerra praticamente da sempre.
Di fronte ad una cosa simile, il sogno
proibito del direttore non sembrava più così tanto un sogno.
C’era molta voglia di cominciare, molto
ottimismo, e tutti si stavano lasciando trasportare.
L’unica persona che proprio non riusciva ad
essere tranquillo e a godersi la serata era Eric; se ne restava in disparte, in
un angolo della sala, schiena al muro e braccia conserte, con un occhio rivolto
a terra e l’altro che, come un mirino, teneva sotto tiro uno solo delle
centinaia di ragazzi e ragazze che affollavano il salone.
Izumi era splendida.
Aveva indossato per l’occasione il vestito
bianco che i suoi genitori le avevano regalato per l’ultimo compleanno, un
abito da cerimonia con una lunga gonna stretta e spalline scoperte, e
conversava amichevolmente con alcuni vampiri come fosse stata la cosa più
naturale del mondo, ridendo e scherzando.
Non sapeva se chiamarla perseveranza,
avventatezza, o semplicemente ingenuità.
Restava il fatto che lui non riusciva ancora a
fidarsi completamente dei vampiri, e non era sicuro che le cose potessero un
domani cambiare.
Anche Eric, però, era osservato.
Tralasciando gli sguardi ammaliati delle
giovani ragazze umane, tutti i vampiri presenti in quella sala, chi prima o chi
dopo, avevano posato gli occhi su di lui, e a poterle udire voci e
considerazioni a bassissima voce si inseguivano l’una con l’altra senza sosta.
«È lui? – Sì, è lui. – L’erede dei Lorenzi. –
È anche un Hunter. – Dicono che abbia combattuto col capo-dormitorio».
Tra tutti, però, fu una giovane umana quella
che parve mostrare il maggiore interesse nei suoi confronti, un interesse che
però non aveva niente a che spartire con quello delle sue compagne.
I tratti erano dell’est Europa, aveva capelli
biondi corti e occhi scintillanti, da felino riottoso, oltre a vari piercing e
tatuaggi che ne accrescevano l’aura aggressiva e battagliera. Lei ed Eric d’un
tratto incrociarono casualmente gli sguardi l’uno dell’altra, e per un attimo
parvero quasi riconoscersi, come una coppia di spiriti guerrieri che riescono
quasi a vedere nell’altro il proprio riflesso.
Fu solo quel momento, poi non si cercarono
più, e ognuno tornò a farsi i fatti propri.
Ad un certo punto, però, sul fare delle dieci,
vi fu un istante di assoluto silenzio, corrispondente all’istante in cui il
capo-dormitorio Kuran, che fino a quel momento si era
fatto desiderare, comparve al portone d’ingresso della sala con al seguito il
suo entourage di fedeli seguaci al gran completo.
Erano gli studenti più in vista e rispettati
della Night Class, nonché tra i pochi che fossero
rimasti alla scuola al termine dell’ultimo anno scolastico, quindi la loro
presenza non passava mai inosservata.
Si presentarono nel salone molto eleganti e
sicuri di sé, catalizzando subito l’attenzione di tutti, o quasi, e come
succedeva praticamente sempre qualche ragazza intraprendente si avvicinò ad
alcuni di loro per offrire regali o qualche pensierino, puntualmente accettati.
Aidou si
comportava, come al solito, da autentica primadonna immatura e narcisista, ma
forse nel suo caso era proprio questo a procurargli tutte quelle ammiratrici.
«Buonasera a tutti!» disse il direttore
comparendo dal nulla sul palco in fondo alla sala, rinchiuso in un abito buono
che Shezka lo aveva costretto ad indossare e che non
vedeva l’ora di togliere «In qualità di direttore di questa scuola, do a tutti
voi un caloroso benvenuto all’Accademia Cross. Spero che vi troverete bene qui
con noi, e che possiate avere la migliore esperienza possibile.
E adesso, divertitevi.» e detto questo scappò
via prendendo a spogliarsi prima ancora di essere uscito.
La maggior parte dei ragazzi del gruppo di Kaname si dispersero, facendo il possibile per riuscire a
mescolarsi tra gli altri studenti.
Kaname era, come
al solito, guardato a vista da Seiren, e anche se
Eric aveva cercato di non darlo a vedere quando era arrivato i due si lanciavano
continuamente delle occhiate provocatrici, come una coppia di falchi pronti a
saltarsi addosso appena uno avesse provato ad entrare nel territorio
dell’altro.
Purtroppo, c’era anche dell’altro.
Ai più, uno come Enrico Lorenzi da Cassino, o
semplicemente Eric, incuteva rispetto, devozione e sudditanza, come si
confaceva ad un sangue puro di nobilissimo lignaggio, ma c’era chi, per propri
motivi, di rispetto nei suoi confronti non voleva neppure sentir parlare.
Da qualche minuto Eric aveva iniziato a farsi
i fatti suoi, fissando il terreno con la testa persa nei propri pensieri,
quando una presenza fredda e minacciosa accanto a lui lo spinse a rialzare gli
occhi, incrociando quelli, blu come i suoi ma pieni di apparente astio e
sufficienza, di AidouHanabusa.
Ad Eric venne quasi da ridere: eccola la vera
faccia di Aidou-sempai, pensò tra sé e sé; altro che
infantile primadonna.
«Tu sei l’erede dei Lorenzi, non è vero? Il
nipote di quel traditore di Augusto».
Per prassi il giovane Flyer non voleva neanche
essere accostato a suo nonno, per qualsiasi motivo, ma nonostante ciò, forse
per non dare spettacolo, in quell’occasione il ragazzo parve voler far finta di
niente, e riabbassò lo sguardo.
Da parte sua Aidou
trovò quel comportamento chiaramente provocatorio.
«Sia chiara una cosa. Non mi importa quello
che gli altri pensano di te. Per come la vedo io, il tradimento è un crimine
che si ripercuote di padre in figlio, e che in alcun modo può essere perdonato.
Visto che sei un mio superiore sono obbligato
a comportarmi in un certo modo, ma voglio che tu sappia che il mio rispetto non
lo avrai mai. E ti posso assicurare che non sono il solo a pensarla così».
Eric si trattenne dal ridergli in faccia. Come
se del rispetto dei vampiri gli importasse qualcosa; e poi, essere odiato da un
lacchè di Kuran era quasi una gratificazione, almeno
per il suo metro di giudizio.
L’apparente insensibilità di Flyer a questa
ennesima provocazione fece andare Aidou ancora più
fuori dai gangheri, ma nonostante ciò il giovane Hanabusa
decise comunque che per il momento era meglio lasciar perdere, se non altro per
non guastarsi la serata.
Nel mentre, Izumi aveva lasciato il salone
attraverso una delle numerose porte-finestre, ed era uscita nel grande terrazzo
panoramico per osservare la stupenda notte stellata che il cielo aveva concesso
dopo giorni di pioggia.
D’un tratto, mentre i suoi occhi erano persi
verso l’alto, ebbe la sensazione che qualcuno le fosse comparso accanto, e
voltatasi alla propria destra si trovò a tu per tu con Kaname.
«Kuran-sempai…» disse
incredula
«È passato molto tempo, Izumi.» le disse con
tutta la gentilezza ed il candore del mondo «Sono felice di rivederti».
Izumi aveva visto Kaname
solo una volta, ma nonostante ciò era letteralmente terrorizzata da lui. I suoi
occhi erano troppo strani, troppo magnetici; sembravano proprio quelli di un
predatore che li sfrutta per individuare ed ipnotizzare la sua preda.
Non che ne avesse paura: semplicemente, a
differenza di quanto accadeva con le altre persone, non riusciva a capire cosa
quel ragazzo avesse dentro, ed era questo a spaventarla maggiormente. Non era
certa di potersi fidare di lui.
Probabilmente Eric lo aveva capito da tempo, e
forse era proprio questa la ragione tanto dell’atteggiamento nei suoi confronti
quanto, peccando di generalizzazione, della sua scarsa considerazione per i
vampiri.
«Dimmi. Come sta Eric? Come è trascorso questo
anno?»
«Abbastanza bene.» rispose Izumi dopo qualche
esitazione «È un po’ cambiato. Maturato.»
«Lo immagino. E forse, dovrei ringraziare te
se questo è stato possibile.»
«Come!?».
La cosa, che già di per sé non era iniziata
sotto i migliori auspici, minacciò di andare troppo oltre quando Kaname alzò una mano come a voler sfiorare quella di Izumi,
senza che lei, troppo impegnata a cercare di capire quegli occhi, o forse
rapita da essi, facesse niente per impedirlo.
Seguì un istante interminabile, e quella mano
si ritrovò d’improvviso a venire afferrata da un’altra, ugualmente possente,
che la costrinse a rimanere immobile.
Fu come se quel semplice gesto avesse attirato
l’attenzione di tutti, perché per un attimo buona parte degli invitati volsero
gli sguardi verso Eric che, comparso come dal nulla accanto a Kaname, stringeva saldamente il suo polso guardandolo in
cagnesco, e ricevendo in cambio un enigmatico sguardo di sufficienza e sfida al
tempo stesso.
I due ragazzi si fissarono per interminabili
secondi, a loro volta fissati da Aidou e gli altri,
oltre che da quasi tutti i vampiri abbastanza vicini da poter assistere alla
scena.
«Che sorpresa.» disse Kaname
gentile ma sfacciatamente provocatorio «Credevo non ti saresti mai accorto di
me».
Eric non raccolse la provocazione, almeno
apparentemente.
«Izumi. Torna dentro.»
«Ma… ma io…» tentò di dire lei tornando in sé
«Izumi.» replicò il ragazzo guardandola e
parlandole in un modo che lei stessa avrebbe ritenuto impossibile «Devo
ripeterlo di nuovo?».
Di fronte ad una simile risolutezza la ragazza
non poté fare altro che obbedire; Eric aspettò che fosse effettivamente
rientrata, e solo allora lasciò andare Kaname, sotto
gli sguardi enigmatici, e nel caso di Aidou
palesemente irati, degli altri studenti della Night.
«Azzardati ad avvicinarti a lei anche solo per
sbaglio» disse nell’orecchio a Kaname mentre se ne
andava «E quanto è vero iddio ti incenerisco. E vale anche per i tuoi
tirapiedi».
E detto questo, il ragazzo se ne andò, sia dal
balcone che dalla sala.
«Ma chi si crede di essere?» ringhiò Aidou vedendolo andare via «Se non fosse che è un sangue
puro, gli darei volentieri una lezione come si deve a quel traditore rinnegato
bastardo.»
«Per il tuo bene, è meglio se non ci provi.»
gli disse Shiki, che Eric lo conosceva meglio di
altri
«Cosa!?»
«Ha ragione.»
«Rima, anche tu!?»
«Faresti meglio a dargli ascolto.» disse Ichijo «Saresti morto prima ancora di avvicinarti.»
«Ma si può sapere che è questa storia. Sembra quasi
che abbiate paura di lui».
Izumi,
piuttosto risentita e colpita per l’atteggiamento di Eric, aveva lasciato la
festa, e ora sedeva in solitudine ai piedi di un albero nei pressi della grande
fontana al centro del cortile, ancora intenta ad osservare la luna piena che si
stagliava nella volta oscura, parzialmente coperta dalle nuvole.
Faceva freddo.
Ad un certo punto, dopo una decina di minuti,
fu raggiunta da Eric; sembrava essersi calmato, ma era chiaro che era ancora
molto nervoso.
«Ma che cosa ti è preso?» gli domandò
alzandosi in piedi
«Che cosa è preso a te, piuttosto. Come ti è
saltato in mente di avvicinarti a lui?»
«Stavamo solo parlando.»
«Hai dimenticato tutto quello che ha fatto? Tutti
i crimini che ha commesso? Se non fosse che è un sangue puro, a quest’ora sarebbe
già cenere.»
«Ma ci ha aiutati. Ha aiutato te.»
«Credi che lo abbia fatto per altruismo? KanameKuran non è un essere
vivente, è una macchina. Non fa mai niente per niente, e anche se cerca di far
credere il contrario non possiede emozioni.
Quelli come lui hanno sempre un secondo fine,
e speriamo di non dover mai scoprire quale sia.»
«Eric, questo odio per i vampiri e per Kaname non ti porterà da nessuna parte.
Perché ti vergogni tanto di essere un
vampiro?»
«Tu non puoi capire.»
«Hai ragione, non posso. Però ho capito da
diverso tempo quanto tu sia buono e nobile. Non puoi lasciare che odio e
rancore intacchino quello che sei, e quello che stai diventando».
Eric guardò in basso, digrignando i denti. Quello
che era successo, dal suo punto di vista, era solo l’ulteriore dimostrazione
che Izumi sarebbe stata in pericolo ogni secondo della sua vita fino a quando
fosse stata alla Cross.
«Non saresti dovuta venire qui. È molto meglio
se torni a Tokyo.»
«Non se ne parla. Non ti lascerò qui a farti
divorare dall’odio per Kaname e per i vampiri».
Per la prima volta da che ne aveva memoria,
Eric sentì di stare perdendo il controllo, e forse dimenticando la sua vera
forza afferrò Izumi per gli avambracci in un misto di rabbia, paura e
frustrazione.
«Izumi, non puoi continuare così! Non puoi
rischiare la vita in questo modo!»
«Eric aspetta. Così mi fai male!»
«Potrebbero ucciderti, lo capisci o no?».
Di nuovo, un istante parve squarciare la
tensione di quel momento, e da un secondo all’altro Eric si ritrovò con una
pistola puntata alla testa, ed il suo aggressore a sua volta tenuto sotto tiro
da Nagisa, comparsa come al solito dal nulla in difesa del suo padrone.
Zero non aveva mai visto Eric Flyer, pur
avendo sentito parlare di lui, quindi dal suo metro di giudizio, ed in base a
quel poco che aveva visto prima di intervenire, quello che stava accadendo era
semplicemente il tentativo di aggressione da parte di un vampiro ai danni di
una ragazza umana.
«Niente vampirismo in questa scuola.» disse
apparentemente indifferente al taglio di mano che Nagisa teneva appoggiato al
suo collo
«No, aspetta.» si affrettò a dire Izumi, visto
che Eric non pareva intenzionato in alcun modo a difendersi «Non ha tentato di
aggredirmi.»
«Non è quello che ho visto io».
Eric e Zero si fissarono per alcuni secondi,
poi, forse in segno di distensione, Eric ordinò a Nagisa di allontanare la
mano, comando che la ragazza, pur riluttante, eseguì.
Nonostante ciò Kiryu
continuò ad essere scettico, ma per fortuna intervenne il direttore a salvare
la situazione.
«Lascia stare, Zero.» disse comparendo da un
boschetto «È tutto apposto. Lui è Eric Flyer, ed è un mio amico».
Nel sentire il nome Flyer Zero, pur con
qualche evidente esitazione, abbassò e rinfoderò la pistola; che Eric Flyer
fosse un cacciatore unico nel suo genere già lo sapeva, ma che fosse addirittura
un vampiro era una cosa che nessuno si era mai preoccupato di dirgli.
Da parte sua, Eric concluse che quella serata
doveva finire quanto prima; era chiaro che nell’aria c’era troppa tensione, e
visto che Izumi non sembrava avere alcuna intenzione di tornare sui suoi passi,
l’unica cosa da fare per il momento era lasciare che gli eventi seguissero il
loro corso.
E poi, nonostante tutto, si fidava del
direttore, sapeva di poter contare su di lui.
«Non si era detto niente problemi?» disse il
direttore quando Eric gli passò accanto.
Il ragazzo non rispose, e dopo aver augurato
un’asettica buonanotte se ne andò, accompagnato con Nagisa e seguito con lo
sguardo dai tre umani.
«Ora.» disse Kaien
ad Izumi «Penso sia il caso che anche tu faccia ritorno in stanza.»
«Sì, capisco.» rispose lei come una bambina
cattiva che viene messa in punizione «Allora…
buonanotte.» e detto questo se ne andò dopo aver fatto un leggero inchino anche
a Zero
«Zero.»
«Sì?»
«Tieni sempre d’occhio quella ragazza. È come
un coniglio succulento in una gabbia di cani da caccia.»
«Cani selvaggi o addestrati?» domandò
provocatoriamente il ragazzo
«Addestrati, credo. Ma anche il cane più
addestrato a volte cede all’istinto».
Nota dell’Autore
Salve a tutti!^_^
Scusate il ritardo
abnorme ed osceno, ma questa settimana ho avuto qualche problemino, e così ho
avuto poco tempo per scrivere.
Ora cominciano le cose
serie, e come vi avevo promesso, un po’ per volta, stanno cominciando ad
apparire i vari OC arrivati fermo posta da ToF.
Inoltre, a tal proposito,
vi informo che ai personaggi già citati nel prologo se ne è appena aggiunto un
altro: si è appena infatti aggiunta, con l’autorizzazione di Harella, anche RavenOhak.
Eric si mette subito
in mostra, vero? Per citare Wasabi “Appena arrivato,
e sei già nella m….”.
E da qui in avanti le
cose si faranno sempre peggio, credetemi.
Per un po’ saranno
capitoli semplici, di presentazioni, ma tranquilli che la situazione
precipiterà in fretta.
Il
giorno successivo, iniziarono ufficialmente le lezioni.
Tuttavia, sia per la DayClass che per la Night Class,
quel primo giorno di scuola era rivolto unicamente agli studenti del primo anno
e a quelli ammessi al programma di scambio culturale, così che imparassero ad
ambientarsi e a prendere familiarità con la scuola.
Di conseguenza, nelle varie classi della
sezione diurna le aule erano praticamente semivuote, tanto che era stato già
deciso di raggruppare tutti gli alunni di tutti gli anni in una sola classe, sì
da fare un primo incontro conoscitivo e fissare i paletti in vista del nuovo
anno scolastico.
Izumi prese posto ad una delle ultime file, e Carmy si sedette accanto a lei; malgrado si conoscessero da
solo un giorno cominciavano già a considerarsi buone amiche, senza contare che
poi le loro camere erano l’una accanto all’altra.
Unica pecca, Izumi era l’unica ragazza ad aver
avuto una stanza singola, cosa che per la verità aveva fatto andare non poco su
di giri la sua nuova, e per certi versi irruente, compagna d’avventura;
sicuramente c’era di mezzo il direttore, anche se il senso di questa scelta non
riusciva a coglierlo del tutto.
Tra i ragazzi c’erano tensione ed attesa.
«Accidenti.» disse Carmy
guardandosi attorno «Vengono proprio da tutto il mondo.»
«Così sembrerebbe. È chiaro che il direttore
ha molto a cuore la buona riuscita di questo progetto.»
«Da come ne parli, sembra quasi che tu lo
conosca.»
«Beh, dire che lo conosco è una parola
grossa.» replicò imbarazzata Izumi sfiorandosi il naso «Però ci siamo già
incontrati in passato.»
«Sei strana. Questo lo sai, vero?».
La prima lezione fu tenuta dal professor Nagumo, il docente di storia nonché il più anziano per anni
di servizio alla Cross, che dopo aver illustrato brevemente, ancora una volta,
ai ragazzi le regole della scuola in merito a orari dei pasti, svolgimento
delle lezioni, etica dei dormitori e altre cose.
Poi, prima di iniziare, il professore informò
i ragazzi che il direttore aveva deciso di sperare entrambi i dormitori, Sole e
Luna, in due gruppi distinti, comprendente uno gli studenti degli anni
precedenti, e in un altro le matricole ed i partecipanti allo scambio
culturale, anche se il motivo di questa scelta non riuscivano a capirlo neppure
gli stessi docenti.
«Per questo motivo.» concluse Nagumo «Dovrà essere nominato un capo-dormitorio della
vostra sezione.»
«Lo dobbiamo eleggere noi?» domandò Carmy
«No, se ne occuperà il direttore. Il candidato
sarà informato personalmente entro questa settimana.
Ora, possiamo iniziare la lezione».
In realtà, la mente di Izumi era ancora
altrove.
Quello che era successo la sera prima era
ancora bene impresso nella sua mente, e non le aveva fatto chiudere occhio.
Una parte di lei si sforzava di pensare che
era scontato che prima o poi sarebbe accaduto qualcosa del genere; conosceva
Eric abbastanza bene da sapere che non sopportava di affrontare situazioni per
lui impossibili da controllare, e saperla in quella scuola di vampiri doveva
rientrare senza dubbio una di queste. D’altro canto però, aveva sempre ritenuto
e riteneva tuttora spropositata, per quanto comprensibile, quella sua naturale
diffidenza per i suoi simili.
Su una cosa però, passato il momento di rabbia
e risentimento iniziali per la reazione esagerata di Eric, sentiva di potergli
dare ragione: di certo c’era che Kaname non era il
genere di persona di cui potersi fidare, e da quel momento in avanti ne sarebbe
stata il più lontano possibile.
Al contrario, il ragazzo con i capelli
d’argento, Zero, che ora non era presente in classe, le aveva fatto
un’impressione diametralmente opposta, anche se, ancora una volta, non era
stata in grado di leggerne le emozioni, il che un po’ la spaventava.
«Signorina Asakura?» sentì dire all’improvviso
«Eh… Sì!?» rispose
lei riavendosi dai suoi pensieri e ributtata a forza nella realtà
«Capisco che i suoi voti siano i più alti tra
quelli di tutte le persone presenti qui, ma le sarei comunque grato se
prestasse un po’ di attenzione.»
«Mi scusi, non accadrà più».
La
lezione durò, almeno per quel giorno, solo fino all’ora di pranzo, e non appena
ebbe fine tutti gli studenti si ritrovarono in refettorio.
Paragonato alle schifezze che propinavano
nella maggior parte delle scuole, la Cross aveva un servizio di cucina degno di
un hotel a 4 stelle, il che giustificava se non altro gli alti costi per la
retta.
Nel caso di Izumi, oltre alle tasse ridotte in
quanto membro del progetto di scambio, era riuscita a scalare ulteriormente le
spese grazie a due borse di studio, una risalente all’anno prima per i buoni
voti negli esami finali e un’altra con l’ottimo test d’ingresso sostenuto per
ottenere l’ammissione al collegio.
I suoi genitori e la sua famiglia non se la
passavano male, con un padre caporeparto in una rispettabile azienda di
componenti per aerei e una madre che insieme a due amiche gestiva da anni un
famoso manga-café ad Akihabara,
ma pesare economicamente sulle spalle dei genitori era una cosa che non le era
mai piaciuta; durante i primi anni delle superiori, in aperto contrasto con le
direttive scolastiche, aveva lavorato part-time in vari esercizi commerciali,
soprattutto locali per famiglie.
«Secondo te chi verrà scelto come
capo-dormitorio?» domandò Carmy mentre si sedevano ad
uno dei tavoli
«Non ne ho idea. Però mi pare una decisione un
po’ affrettata. Voglio dire, affidare una simile responsabilità ad uno studente
appena trasferito.»
«Tu hai detto di aver conosciuto il direttore.
Forse sceglierà te.»
«Ne sarei onorata, ma non sono sicura che mi
farebbe piacere. Puoi credermi se ti dico che già amministrare una classe di
trenta studenti può essere un vero incubo, figuriamoci un dormitorio intero».
Ad Izumi poi cadde l’occhio su di un’altra
ragazza, il cui aspetto e modo di apparire sembravano avere, a voler essere
franchi, ben poco a che vedere con una scuola come la Cross.
Piercing e tatuaggi in bella vista, con
l’uniforme mezza sbottonata e gli anfibi al posto delle scarpine scolastiche, se
ne stava spaparanzata su una sedia con le gambe sul tavolo massaggiando al
cellulare, in barba alle regole che vietavano telefonini e affini in qualsiasi
posto all’infuori dei dormitori.
L’aspetto non si poteva certo dire
rassicurante, ma Izumi non riusciva a scorgere niente di minaccioso o comunque
oscuro nei suoi grandi occhi scuri.
Al contrario, Carmy
non sembrava dello stesso avviso.
«Ma si può tenere un comportamento simile a
scuola?».
Come si suole dire, da che pulpito viene la
predica, arrivò quasi a pensare Izumi.
Forse la sua nuova amica non arrivava a quel
punto, ma tra schiamazzi notturni, ceffoni ai ragazzi che ci provavano con lei
e uno strano e morboso attaccamento verso tutto ciò che considerava suo, tra
cui la stessa Izumi, neanche lei era quello che si poteva definire uno stinco
di santo.
Izumi era così presa dal tentare di capire
quella strana, e per certi versi curiosa, ragazza bionda, da non accorgersi di
essere a sua volta oggetto di sguardi continui da parte di Zero, che obbedendo
alle disposizioni del direttore si era accomodato allo stesso tavolone e teneva
perennemente un occhio sulla ragazza, pronto ad intervenire in qualsiasi
momento.
A prima vista sembrava una persona
assolutamente normale, e gli venne da domandarsi per quale assurdo motivo il
direttore ne avesse apparentemente così tanta paura, al punto da ordinargli di
sorvegliarla di continuo.
Avrebbe voluto chiederglielo, ma guarda caso
quando era andato a cercarlo poco dopo essersi alzato Shezka
gli aveva detto che il direttore era partito quella mattina prestissimo per una
convocazione urgente alla sede dell’associazione.
Dieci ore prima
Loira
Il
castello di Chatres, secolare residenza estiva della
famiglia Rohan persa nelle campagne della Loira,
appariva da lontano come un’aggraziata e maestosa montagna di pietra immersa in
un oceano verdeggiante.
Solitamente, la famiglia vi trascorreva il
periodo tra maggio e settembre, sì da sfuggire alla calura umida e opprimente di
Parigi, ma era comunque abitato per buona parte dell’anno da domestici e
servitori che provvedevano a mantenerlo in piena efficienza.
Tenutario e proprietario del castello per otto
mesi l’anno era il dottor Raoul Durand, uno dei
massimi esperti al mondo di genetica, vampirologia e
studi storici sulla Stirpe della Notte.
A parte il fatto che i Rohan,
i suoi soli padroni, coloro che ne avevano fatto un vampiro ormai secoli
addietro, gli proibivano in ogni modo di incontrare la sua adorata figlia Elodie, era un uomo tutto sommato felice: aveva fondi a
volontà, un laboratorio tutto suo con un intero squadrone di scienziati al suo
servizio, e fino a quando i suoi padroni se ne restavano a Parigi di fatto era
lui a dettare la legge a Chatres.
Eppure, nonostante tutto ciò, negli ultimi
tempi sembrava essere accaduto qualcosa dentro di lui.
Quel feroce ardore e sete di conoscenza che lo
aveva guidato per buona parte della sua vita, spingendolo anche a scelte e
decisioni che più volte aveva segretamente rimpianto, pareva essere scomparso,
distrutto da un male di vivere che a poco per volta gli stava togliendo ogni
stimolo.
O almeno, questo era quello che pensavano i
suoi collaboratori ed il personale del castello.
Non partecipava più agli esperimenti, a malapena
si informava di come procedessero, e anche i vari convegni e seminari in giro
per il mondo si erano drasticamente ridotti.
Qualcuno diceva che, probabilmente, si era
stufato di fare il galoppino per quei nobili tronfi ed arroganti.
Per salvare la vita di sua figlia aveva
venduto la propria ai Rohan, i quali, mascherando l’ipocrisia
e l’avidità dietro la maschera della benevolenza, ora stavano sfruttando
indegnamente il suo genio e le sue scoperte per accrescere di popolarità e
prestigio.
Forse, fu per questo che il dottore, un uomo
così dimesso e gentile, giunse a prendere una decisione simile.
Era una sera apparentemente come tante altre.
Il dottore, da vampiro ex-umano quale era,
preferiva lavorare di giorno e dormire di notte, e come al solito si fece
portare la cena in camera.
Mangiò poco, giusto il minimo necessario a
sentirsi sazio, nonostante avesse ordinato un pasto molto più esotico e
sfarzoso del solito, con pesce ricercato, verdure di stagione e frutti esotici,
quindi, dopo aver speso alcuni minuti camminando avanti e indietro come un’anima
in pena, gettato il vassoio da una parte si accomodò nuovamente sulla sua
scrivania, recuperò un pezzo di carta ed iniziò a scrivere una lettera alla
propria figlia lontana.
Mia dolcissima Elodie
Forse, un giorno, qualcuno ti
racconterà quello che è successo oggi.
Voglio comunque che tu sappia,
qualsiasi cosa ti dicano, che il mio non è stato il gesto folle di una mente
malata.
Quello che ho fatto, e quello che
farò, è destinato unicamente a noi, e al raggiungimento della nostra felicità.
I giorni in cui eravamo schiavi, prima
o poi, dovranno pur finire. E nel mio piccolo, voglio fare quanto è in mio
potere per fare sì che ciò possa accadere.
Siamo sull’orlo di un cambiamento
radicale.
Il mondo che conoscevamo, o che
credevamo di conoscere, sia degli umani che dei vampiri, sta per crollare
miseramente, sotto il peso di una forza e di un potere che non possono essere
fermati.
Probabilmente questo non è altro che
il naturale processo dell’evoluzione, che seleziona i più forti per la
sopravvivenza a discapito dei deboli e degli ottusi, ma se potrà contribuire a
cambiare almeno un pochino la misera condizione di quelli come noi, allora
forse la sua ineluttabilità non sarà poi questa grande tragedia.
Sei sempre stata la luce dei miei
occhi, anche e soprattutto dal giorno in cui questi nostri occhi hanno perso la
possibilità di poterla vedere, e lo sarai per sempre.
In quanto tuo padre sono fiero di te,
e in cuor mio spero che ciò che farò potrà esserti di aiuto.
Addio, amore mio.
Addio, mia sola gioia.
Con affetto.
Terminate
quelle poche righe, quell’ultimo sfogo che mai sarebbe stato visto da alcuno,
il dottore si alzò, appoggiandosi con le braccia al pesante ripiano di legno
per farsi forza e darsi coraggio.
Ciò che stava per fare avrebbe probabilmente
cambiato il destino di molte persone.
Raoul prese un paio di respiri profondi, volgendo
un ultimo sguardo alla foto di sua figlia appoggiata sul tavolo, quindi, alzati
gli occhi in quella direzione, si avvicinò ad una piccola nicchia nel muro,
proprio accanto al grande letto a baldacchino, scostando con gesto rapido la
tendina che lo ostruiva.
Al suo interno, riposto con cura, un grosso
cilindro metallico, come una specie di enorme batteria, con sopra una piccola
tastiera numerica ed un display rosso virtuale.
Il dottore lo guardò, togliendogli gli
occhiali e strofinandosi un momento ora gli occhi ora la fronte, poi, rompendo
ogni indugio, digitò un codice sulla tastiera, e sullo schermo a quel punto
comparve un timer da cinque minuti.
«Perdonatemi.» disse spingendo il bottone d’accensione,
ed iniziando così a far scorrere inesorabili i secondi.
Quasi nello stesso momento, la lussuosa e
prestigiosa limousine di rappresentanza della famiglia Rohan
stava percorrendo l’ultimo tratto di strada che dalle pendici della collina
portava fin sul vasto piazzale antistante il castello, dove il patriarca ed i
suoi congiunti avevano deciso di trascorrere una piacevole settimana di
vacanza.
Madame Rohan e suo
marito Gerard videro con i loro stessi occhi il loro stupendo maniero secolare venire
improvvisamente sventrato da una terrificante, gigantesca esplosione, che come un
tuorlo surriscaldato fece letteralmente sbriciolare il guscio che lo ricopriva
sotto la spinta incontenibile di un mare di fuoco, fiamme ed energia. Detriti e
macerie furono scagliati a migliaia di metri di altezza, per poi precipitare in
ogni direzione come una letale pioggia di meteoriti.
«Ma che diavolo…»
esclamò il patriarca.
Un grosso pezzo di mattone, per poco, non
colpì in pieno la macchina, e anche se l’autista per fortuna fu abbastanza
veloce ed attento da riuscire a schivare la vettura finì comunque sull’erba
accanto alla strada, fortunatamente senza provocare nulla ai passeggeri a parte
un grosso spavento.
I coniugi Rohan e la
loro figlioletta più piccola fecero appena in tempo a scendere dalla macchina,
per poi assistere coi loro occhi alla caduta rovinosa di quella piccola parte
di castello rimasta in piedi dopo lo scoppio, mentre il cielo notturno della
Loira si tingeva di inquietanti e bellissime sfumature vermiglie.
Era
già da qualche anno che il direttore non metteva piede alla sede giapponese
dell’Associazione, e una convocazione così improvvisa poteva significare una
cosa sola: guai in vista.
Il timore che qualcosa stesse accadendo si
tramutò in certezza quando, accolto nell’ufficio della direttrice generale dell’Associazione
Hunter, trovò ad attenderlo, oltre alla direttrice stessa, anche il suo vecchio
e caro amico Yagari.
Erano diversi mesi che Yagari
non metteva piede in Giappone.
Quando, un anno prima, il direttore ed Eric
avevano scoperchiato il vaso di pandora svelando gli intrallazzi e gli accordi
segreti che stavano dietro l’Incidente Manovic, come
era stato rinominato, Toga si trovava negli Stati Uniti, ed aveva perciò ricevuto
l’incarico di fare piazza pulita di tutte le mele marce presenti in Nord e
Centro America, un incarico che l’aveva tenuto impegnato per quasi dodici mesi.
«Yagari. Non sapevo
fossi tornato.»
«Avresti preferito ricevere una comunicazione
scritta?»
«Spiritoso».
Il direttore però, a differenza del solito, si
fece serio quasi subito.
«Allora, che è successo?»
«C’è stato un attentato ai danni della
famiglia Rohan.» rispose secca la direttrice
«Che cosa!?» esclamò Kaien
incredulo
«È così.» disse Yagari
«Qualcuno ha piazzato una grossa bomba a scissione nel loro castello di
campagna, dove stavano andando a trascorrere alcuni giorni di vacanza.»
«E loro come stanno!? Voglio dire, se la sono
cavata.»
«Fortunatamente la bomba è esplosa prima che
raggiungessero il castello.» rispose la direttrice, che subito dopo però si
incupì «Però, ci sono stati oltre trenta morti, soprattutto domestici e
inservienti. E inoltre…»
«Cosa?»
«Tra le probabili vittime dell’attentato ci
sarebbe anche il dottor Raoul Durand, il padre della
signorina Elodie».
A quel punto, Kaien
capì, e un brivido gli corse lungo la schiena; ecco perché era stato convocato.
«Un momento!» esclamò immaginando cosa Yagari e la direttrice dovevano avere in mente «Non starete
mica pensando che il bersaglio fosse proprio lui!?»
«A prescindere da chi gli attentatori
volessero colpire.» disse la direttrice «Resta comunque un fatto di una gravità
estrema. Una delle più importanti famiglie nobili europee, nonché membro del
Consiglio degli Anziani, ha subito un attentato all’interno dei suoi stessi
domini, salvandosene solo per un vero miracolo.»
«C’è qualche idea su chi possano essere i
responsabili?»
«Ancora no, ed è questo il problema. All’interno
del Consiglio c’è chi fa pericolosa insinuazioni.»
«Non staranno mica pensando che siamo stati
noi!? L’Associazione non fa cose simili!»
«Il fatto è che la considerazione del
Consiglio nei confronti dell’Associazione è molto diminuita dopo quello che tu
e Flyer avete scoperto l’anno scorso.» disse Yagari
«Prima di fare i moralisti, dovrebbero
ricordare che anche tra di loro c’erano parecchi elementi degenerati che appoggiavano
il conte Lorenzi e la sua politica.
E adesso che il Conte è scomparso dalla
circolazione, non mi sorprenderebbe se qualcuna di queste schegge impazzite
avesse iniziato ad agire per conto proprio.»
«Può essere.» rispose la direttrice «Ma
dobbiamo tenere in conto anche un’altra possibilità.»
«E sarebbe?»
«La possibilità che l’obiettivo fosse proprio
il dottor Durand».
Al direttore bastò fare due più due per
capire.
«Ora capisco. Se chi ha colpito voleva
uccidere il dottore, probabilmente vorrà uccidere anche sua figlia.»
«Le ricerche del dottore, condotte anche con
il supporto della famiglia Rohan» disse Yagari «Hanno provocato per decenni diverse perplessità tra
le frange più radicali e conservatrici del Consiglio. Può darsi che qualcuno,
per non voler colpire un suo parigrado come il patriarca dei Rohan, abbia comunque deciso di passare dalle parole ai
fatti togliendo di mezzo la fonte del problema.»
«La figlia del dottor Rohan
ha subito parecchie operazioni e sperimentazioni genetiche, che l’hanno resa un
esemplare di vampiro quasi unico nel suo genere. Se chi ha colpito voleva porre
fine alle sperimentazioni e alle ricerche indiscriminate condotte dal dottor Rohan, è verosimile che cercherà anche di far sparire l’incarnazione
stessa dei risultati del suo lavoro.»
«So dove state cercando di arrivare. E col
dovuto rispetto, direttrice, non mi piace per niente. Il mio progetto di
scambio culturale non ha niente a che vedere con tutto questo.»
«Ma sta coinvolgendo molti giovani eredi di
alcune delle più potenti famiglie del mondo, le quali, appena la notizia
diverrà di dominio pubblico, non faticheranno a giungere alle nostre stesse
conclusioni.»
«Conclusioni ridicole, basate sul niente. I
miei ragazzi sono persone pulite, dalla mentalità aperta e molto promettenti. Non
a caso, sono stato proprio io a sceglierli.»
«Non ci siamo capiti. Il problema non è l’integrità
dei vampiri che studiano alla Cross, ma la loro stessa sicurezza. Se le nostre
considerazioni sul dottor Rohan si rivelassero
fondate, cosa accadrà se chi ha assassinato lui volesse tentare di fare la
stessa cosa anche con sua figlia? La sicurezza stessa di tutti quei nobili vampiri
sarebbe in pericolo.
E questo, caro direttore, è un rischio che l’Associazione
non ha alcun interesse ad assumersi.»
«Se è solo questo il problema, sarà
sufficiente implementare la sicurezza.»
«Ed è per questo motivo che l’abbiamo mandata
a chiamare. I vertici dell’Associazione hanno esaminato a fondo il problema, e
abbiamo convenuto che, almeno per ora, la cosa migliore da fare sia assegnare
il qui presente Hunter Yagari alla salvaguardia degli
studenti della Cross.
Inoltre, a breve arriverà alla scuola anche l’Hunter
incaricato di sorvegliare sulla condotta dell’Hunter Flyer, che ad essere
sincera non capisco ancora che cosa ci sia venuto a fare lì da voi.»
«Ero sicuro che saremo giunti ad un
compromesso.»
«Ma si ricordi, direttore. Anche l’Associazione
ha il suo limite di tolleranza. Un passo falso di troppo, e potrà dire addio
sia al suo progetto di Scambio che alla sua scuola».
Al
termine della giornata, Izumi decise di andarsene a letto più presto del
solito.
Avrebbe voluto cercare immediatamente un
chiarimento con Eric, ma sentiva che dopo quanto successo bisognava lasciar
passare almeno un po’ di tempo, se non altro per permettere a quella testa
matta di sbollire un po’ della sua rabbia e del suo orgoglio.
Così, dopo qualche ora spesa a studiare, sul
fare delle undici la ragazza si infilò sotto la doccia, approfittando anche del
fatto, più unico che raro nel Dormitorio Sole, di avere a propria disposizione
un bagno tutto suo, un lusso che tutti i suoi compagni, sfortunati loro, invece
non possedevano.
Fattasi una salutare e piacevole doccia
ristoratrice, Izumi si sistemò i lunghi capelli neri, sciogliendo la coda di
delfino in cui solitamente terminavano, si infilò la camicia da notte e si
preparò per andare a dormire.
Mentre finiva di pettinarsi, osservando la
propria immagine riflessa nel grande specchio ovale, per la prima volta da tre
giorni a quella parte si ritrovò a pensare seriamente a quello che stava
facendo, a dove si trovasse e a tutto il resto.
E allora, l’assalì una strana malinconia.
A ben pensarci, forse non era poi così da
biasimare l’atteggiamento di Eric nei suoi confronti.
Che si volessero un bene dell’anima l’un l’altro
era un fatto che ormai avevano capito da tempo, e anche se in passato aveva
spesso criticato quel suo essere troppo protettivo ora Izumi, alla luce di
tutta una serie di considerazioni prima trascurate, cominciava a comprendere
quante e quali preoccupazioni dovessero starsi agitando nell’anima di quel
ragazzo apparentemente così freddo, ma nella realtà così affezionato a ciò che,
come lei, gli era caro.
Di colpo non seppe cosa fare; non voleva
creare ad Eric più preoccupazioni di quante già non ne avesse, ma non voleva
neanche lasciarlo da solo in un posto che sicuramente odiava, così come odiava
ancora, nonostante tutto, i suoi compagni vampiri.
Decise di prendersi un po’ di tempo per
decidere; sarebbe rimasta vicina ad Eric, almeno per il momento, e se per un
motivo o per l’altro le cose fossero andate male avrebbe eventualmente
riconsiderato le sue posizioni.
Ma il destino, troppo spesso, è beffardo, e
nel modo più crudele possibile volle subito metterci del suo.
Izumi era talmente presa dai suoi pensieri e
dai suoi dubbi da dimenticare di prestare attenzione a ciò che le stava
intorno, e allungando la mano verso il bordo del lavandino per riporre la
spazzola nel suo contenitore sfiorò senza volerlo il bordo spigoloso della
cornice dello specchio, intagliata a formare pregevoli ma pericolosi arabeschi
art nouveau.
«Ahi.» mugugnò lasciando cadere la spazzola.
Dapprincipio pensò di essersela cavata con un
semplice graffietto, ma come si guardò la mano vide una piccola goccia di
sangue sgorgare da un altrettanto minuscola ferita sulla sommità dell’indice
destro e colorare di un rosso vivo e brillante prima il dito, poi il resto
della mano, disegnando un solco come la lava nella roccia.
«Mio Dio!» esclamò con gli occhi spalancati
per il terrore.
Nota dell’Autore
Eccomi qua!^_^
Allora, che ve ne pare
di questo nuovo capitolo?
Adesso cosa succederà?
Scintille di sicuro,
ma condite da parecchie sorprese, e spero anche qualche inatteso (per voi)
colpo di scena.
Mi dispiace solo per
Emma: avevo promesso a Flea botte da orbi tra lei ed
Eric, ma purtroppo, come al solito, ho dovuto fermarmi anzitempo per non
scrivere l’ennesimo capitolo chilometrico.
Mi rifarò con il
prossimo, lo prometto.
Avviso subito che la
settimana prossima sarò fuori casa da mercoledì mattina a giovedì sera, quindi
non sono sicuro di riuscire ad aggiornare prima di sette giorni, anche se
prometto di fare il possibile.
Eric
non era mai stato un assenteista, né aveva mai pigiato la scuola senza un vero
motivo, ma quella sera semplicemente non aveva nessuna voglia di fare lezione.
Già sentire gli schiamazzi delle studentesse della
DayClass appostate fuori
dai cancelli del dormitorio era stato abbastanza per fargli andare il sangue
alla testa, e poi non riusciva proprio ad accettare il fatto di essere
costretto gioco forza a stare in mezzo a tutti quei vampiri.
Izumi avrebbe detto che non era giusto
generalizzare.
Effettivamente, molti dei ragazzi che gli
stavano attorno non sembravano affatto delle cattive persone, al contrario
semmai.
Alcuni li conosceva di fama.
Da una parte, Christine Leroy,
erede della seconda più potente famiglia di Francia dopo i Rohan,
i Leroy di Lorena, lunghi capelli neri e occhi d’ambra;
lo stesso Pierre Rohan, sempre accompagnato dalla sua
succube, pieno di sé e vanaglorioso come tutti i membri della sua famiglia;
Elisabeth dei McLane, i banshee
d’Irlanda, anche lei dai lunghi capelli scuri, seria e composta; RavenOhak, di Anchorage, una dei
dodici tra figli e figlie di una tra le maggiori famiglie americane, e come lo
stesso Eric uno dei pochissimi vampiri arruolati nell’Associazione; e poi Nalani, dalle Hawaii, capelli castani raccolti in una
treccia appoggiata sulla spalla, Mary Smith, di Londra, sguardo vitreo e
ondulati capelli marroni, e LaceyValentine,
americana di New Orleans, capelli scuri e corti ed espressione enigmatica,
seria ma un po’ infantile.
«Mio signore?» disse Nagisa vedendolo girare i
tacchi e fare ritorno nel dormitorio
«Me ne torno dentro. Qui c’è uno strano
sgradevole odore».
In realtà, la cosa che davvero gli dava
fastidio era la vicinanza di Kaname e del suo gruppo;
in base alle disposizioni del direttore, per quel primo giorno i membri della
Night Class sarebbero stati divisi in due classi
distinte, una per i veterani ed una per i nuovi arrivati e gli appartenenti al
progetto di scambio, ma il solo pensiero che già a partire dalla notte
successiva avrebbe dovuto trascorrere metà delle sue giornate al fianco di
quell’individuo lo faceva stare male.
Purtroppo, che lo volesse o no, quella era la
triste realtà, e sapeva che protestare sarebbe stato inutile; per come
conosceva il direttore, sicuramente si sarebbe fatto ammazzare piuttosto che
trasferirlo alla sezione diurna, anche perché se ciò fosse accaduto
probabilmente poi ci avrebbe pensato sua madre ad uccidere prima uno e poi l’altro.
Accidenti a quella donna diabolica.
Sotto quel faccino d’angelo e quel candore
apparente, nascondeva una mente calcolatrice e un lato perverso, oltre che terribilmente
egocentrico.
«Sarà un anno molto lungo.» mugugnò
chiudendosi la porta del dormitorio alle spalle.
Aidou, come al
solito, non prese per nulla bene quell’atteggiamento da parte di Flyer, non
mancando di farlo notare con un digrignar di denti e una fulminata d’occhi;
tuttavia, l’improvviso spalancarsi dei portoni lo costrinse per forza a far
sparire quell’espressione indemoniata, che sostituì con la sua solita parvenza
bonaria ed amichevole.
Le ragazze della DayClass erano già appostate ai margini del viale, e i
guardiani avevano il loro bel daffare per riuscire a tenerle indietro.
Tra di loro c’era anche Izumi, arrivata lì in
parte di propria volontà, in parte perché trascinata letteralmente sul posto dalla
sua amica Carmy.
In mezzo a quel mare di uniformi bianche,
tuttavia, non le riuscì di individuare Eric, e quando incrociò Nagisa questa le
fece un cenno negativo: per quel giorno, non lo avrebbe incontrato.
Anche Zero era impegnato a garantire la
sicurezza e a tenere indietro le ragazze della DayClass, e riconoscendo Izumi in mezzo a loro si preoccupò
leggermente, anche in memoria di quanto successo la notte prima.
Per questo, quando vide Aidou
staccarsi dal gruppo e dirigersi verso di lei, non sapendo probabilmente chi
ella fosse in realtà, e volendo solo fare l’ebete come suo solito, fu pronto a
scattare per tenerlo a distanza, ma sorprendentemente fu colto in controtempo
dallo stesso Kaname, che afferrò Hanabusa
per un polso guadagnandosi un’occhiata perplessa.
«Capo-dormitorio…»
«Non provarci neanche. Quella ragazza non si
tocca».
Kaname incrociò
poi lo sguardo di Zero, che lo fissava con aria quasi provocatoria, seppur
palesemente sorpresa; gli si avvicinò, e i due si portarono viso a viso,
fissandosi enigmatici.
«Un consiglio, Kiryu.
Anche tu, cerca di non starle troppo vicino. O quella parte di te che ti sforzi
di reprimere, potrebbe venire fuori nuovamente».
Punto sul vivo Kiryu
serrò i denti, e colpì con stizza la mano che Kaname
aveva allungato verso di lui.
«Queste sono cose che non ti riguardano, Kuran. A me stesso ci penso io.»
«Come vuoi.» rispose Kaname
tranquillo, quindi la Night Class riprese la strada
verso il collegio.
Eric
si chiuse in camera e si buttò sul letto, cercando di dormire.
Non aveva mai dormito durante il giorno, e il
fatto che riuscisse a stare parecchie ore senza doversi riposare gli aveva
sempre permesso di sopportare una eventuale notte di lavoro come Hunter
recuperando in quella successiva, ma adesso si trattava per forza di cose di
abituarsi a dormire solo ed esclusivamente durante il giorno.
E la cosa, ovviamente, non gli piaceva per
nulla.
Era la manifestazione evidente del suo essere
un vampiro, della sua natura non umana, e il solo pensarci gli faceva nascere
dentro una rabbia incontenibile.
Cercò di non pensarci, e conaria seccata nascose la testa sotto il
cuscino tentando di dormire, ma dopo meno di un’ora capì di essere troppo
nervoso e arrabbiato per riuscire a dormire.
Guardò fuori.
Ormai si era fatto buio, e di sicuro gli
studenti della DayClass
erano già nei loro dormitori.
Anche quello che era successo la notte prima
continuava a tormentarlo.
Appena la rabbia era scemata, una volta rientrato
in stanza, si era fatto un bell’esame di coscienza, rendendosi conto che forse
aveva passato la misura.
Dopotutto, chi era lui per contestare o
criticare le scelte di Izumi.
Come se fosse stata una ragazzina delle
elementari; d’accordo, era piuttosto indifesa, ma spirito e perseveranza non le
mancavano di certo, ed era abbastanza coscienziosa da sapere in prima persona
cosa poteva e non poteva permettersi di fare, soprattutto in un posto simile.
Di colpo, gli venne voglia di andare a
scusarsi.
Chissà, forse era ancora arrabbiata con lui, e
anche se sapeva quello che aveva fatto avrebbe recitato il suo atto di
pentimento con umiltà e orgoglio insieme; riteneva da essere abbastanza maturo
da capire quando era in torto, almeno su certe cose, e altrettanto da sapersi
assumere le proprie responsabilità.
Alla fine, messo da parte ogni indugio, si
alzò dal letto, abbandonò il dormitorio Luna e si diresse verso quello Sole,
attraversando entrambi i ponti e i rispettivi torrioni che ne tagliavano a metà
il percorso bloccando l’ingresso ad elementi indesiderati.
Stava quasi per entrare attraverso una delle
numerose finestre aperte, mentre l’intero edificio era attraversato da un
silenzio irreale ed assoluto, quando uno strano e curioso odore di sangue
attirò la sua attenzione.
Non era particolarmente forte, ma aveva
qualcosa di strano; era molto permeante e corposo, ad un livello di sicuro
impossibile per del comune sangue umano, forse anche troppo, al punto che pochi
vampiri probabilmente sarebbero stati capaci di reggerne il sapore.
Eric capì.
Era sangue di Hunter.
Eppure, non ricordava che vi fossero Hunter
tra gli studenti della DayClass,
quanto al direttore aveva saputo che non si trovava a scuola.
Incuriosito, e dimenticandosi del motivo che
lo aveva condotto lì, Eric si mise sulle tracce di quell’odore, come un segugio
alla ricerca di una preda ferita, inoltrandosi sempre più nel vasto cortile che
circondava il dormitorio, impreziosito qua e là da radi boschetti di alberi
bassi e rigogliosi.
E fu proprio in uno di questi boschetti che lo
condusse la traccia olfattiva, e più l’odore si faceva forte più ad esso si
accompagnavano rumori più o meno forti chiaramente riconducibili ad uno
scontro, o comunque ad un allenamento.
Quella specie di esplorazione inattesa terminò
infine all’interno di una piccola radura formata dal suddetto insieme di bassi
sempreverdi, e fu allora che Eric poté scorgerne il proprietario, non faticando
a riconoscere in lei la ragazza bionda e tatuata che aveva attirato la sua
attenzione la sera prima.
Ecco cosa doveva averlo colpito di lei;
probabilmente l’istinto gli aveva fatto capire di essere di fronte ad una Hunter,
anche se a prima vista non era riuscito a rendersene conto.
La ragazza impugnava una katana, un bell’esemplare
di ottima fattura la cui lama brillava alla luce della luna, a testimonianza
del lungo e paziente lavoro atto a mantenerla lucida e tagliente, ed era
impegnata ad esercitarsi colpendo in sequenza una serie di manichini di stracci
e terra infilati in lunghi pali di legno.
L’abilità e la rapidità non le facevano
difetto, anche se il suo stile di lotta era forse un po’ grezzo, quasi teatrale
per certi versi, e troppo dispendioso di energie; ad Eric ricordò quasi un’orsa,
un grosso grizzly aggressivo e battagliero, più interessato ad ottenere la
vittoria che a farlo senza troppo sforzo.
Con l’ultimo fantoccio la ragazza fu anche più
violenta del solito, riempiendolo di fendenti ed affondi che prima lo buttarono
a terra e poi lo ridussero a brandelli; lo sforzo fu tale che dovette fermarsi
un momento per prendere fiato, e a quel punto Eric non riuscì a non lasciarsi
sfuggire un commento su quanto aveva appena veduto.
«Niente male.» commentò battendo leggermente
le mani.
Quella neanche si preoccupò di chi fosse, e
dopo un attimo di esitazione per essere stata colta alla sprovvista lanciò una
seconda spada, una di quelle armi vecchie e arrugginite che stavano tra le mani
dei fantocci, in direzione della voce.
Per fortuna Eric, che in qualche modo si
aspettava una cosa del genere, riuscì a schivare, pur provocandosi un leggero
taglio ad una guancia, ed afferrata la spada, conficcatasi nel tronco dell’albero
alle sue spalle, senza esitazioni si lanciò contro alla ragazza, che dopo aver
sorriso un momento come beffarda raccolse la sfida.
Comprendendo di avere di fronte un avversario
di tutt’altro livello rispetto a quelli già incontrati, la Hunter ci mise fin
quasi da subito tutta l’esperienza e la bravura di cui era capace; tanto lei
quanto Eric fondavano la propria tecnica schermitrice su velocità e precisione,
ma la ragazza aggiungeva ed esse anche una certa dose di brutale aggressività,
che da una parte poteva essere determinate nel vincere uno scontro di forza,
dall’altra poteva però anche portare a pericolosi sbilanciamenti.
E fu proprio ciò che accadde.
Nel tentativo di aprirsi un varco dopo
numerosi tentativi falliti la Hunter si sporse violentemente in avanti più del
necessario, e come Eric fulmineo si spostò facendo scivolare la lama nemica
sulla propria di lato lei si ritrovò fuori assetto minacciando di cadere;
istintivamente portò avanti la gamba per restare in equilibrio, ma questa
semplice disattenzione fu sufficiente al giovane Flyer per girarle attorno e
arrivarle alle spalle, e quando la ragazza era nuovamente pronta a combattere
Eric le aveva già afferrato il polso armato, girandoglielo dietro la schiena e
costringendola perciò a mollare la spada.
Eric credeva che questo sarebbe stato
sufficiente ad assicurarsi la vittoria, ma quella specie di macchina da guerra
aveva più risorse di quante già non ne dimostrasse.
I suoi anfibi, come Eric scoprì a proprie
spese, non erano solo innocui e discutibili capi d’abbigliamento; le fu
sufficiente sbattere violentemente lo scarpone destro a terra, e dallo spazio
tra la suola ed il tallone sbucarono fuori dieci centimetri di lama larga ed
appuntita, l’ideale per infilzare gli attributi di qualsivoglia aggressore.
Se Eric fosse stato solo un pelino meno
rapido, la capriola con affondo di quella furia scatenata gli avrebbe provocato
qualcosa di ben peggiore di uno strappo sull’uniforme.
Avrebbero potuto continuare ancora per ore per
quanto si stavano divertendo entrambi, ma non era proprio il caso di dare
ulteriormente spettacolo, senza contare che i regolamenti scolastici proibivano
di combattere.
«Sei bravino.»
commentò la ragazza con un leggero accento russo
«Anche tu non te la cavi male».
La ragazza sorrise, quindi rinfoderò la spada,
mentre Eric gettò la propria, ormai ridotta ad un moncone dopo tutte le
tremende pacche ricevute.
«Mi chiamo Emma. Emma Kreutzer.»
«Eric Flyer.»
«Tu sei Eric Flyer!?» esclamò Emma sgranando
gli occhi «Ma lo sai che, per causa tua, l’anno scorso tutte le sedi russe dell’Associazione
sono state rivoltate come tanti calzini?»
«Sono desolato.» rispose ridacchiando Eric.
Si sentiva sollevato; forse era stato il
combattimento, forse l’aver trovato qualcuno come Emma con cui scambiarsi una
sana e genuina rivalità, fatto sta che aveva quasi dimenticato la malinconia e
la frustrazione di poco prima.
«Non fa niente. Quella carogna di Ivanov non mi era mai piaciuto. È un bene che tu lo abbia
tolto di mezzo. Così come è un bene che siano sparite tutte quelle mele marce.
Comunque, sono colpita. Nessuno mi aveva mai
detto che il leggendario Hunter Eric Flyer fosse anche un vampiro.»
«Me lo dicono spesso».
Chissà come, si ritrovarono seduti sull’erba,
uno accanto all’altro, ad osservare la volta celeste che scivolava silenziosa
sopra le loro teste.
«Come mai sei finito qui alla Cross?» chiese
Emma
«Ti prego, non farmelo raccontare. È una lunga
storia, e neanche tanto piacevole.»
«Credo di poterci capire. È quasi la stessa
cosa per me.
Se non altro, ora sappiamo di avere qualcuno
con cui sfogarci se un giorno dovessimo avere la luna di traverso.»
«Credo di sì».
Stettero un po’ in silenzio, poi fu nuovamente
Emma a parlare.
«Il tuo stile di lotta è…
particolare. Chi è stato il tuo maestro?»
«Sono autodidatta. Ma ho avuto modo di
perfezionarmi nel corso degli anni frequentando vari dojo
e palestre in giro per il mondo.»
«Quanti anni hai?» domandò la ragazza quasi
provocatoria
«Reali o apparenti?».
Emma sorrise, ed anche Eric; per quanto
riguardava lui, era da un pezzo che non riusciva a rilassarsi così,
dimenticando completamente i suoi problemi.
«Invece, se posso permettermi» disse «Tu sei
troppo irruenta.»
«Irruenta!?»
«Quando combatti lo fai con determinazione ed
esperienza, questo è ovvio, e mettendoci una grande dose di forza bruta, ma a
discapito della tecnica. Questo ti porta a scoprirti pericolosamente, come è
accaduto un attimo fa.»
«Forse.» replicò Emma indicandosi «O forse no.
Come hai potuto vedere, ho sempre un asso nella manica.»
«Solo se l’avversario ti da il tempo di
usarlo. E questo non sempre succede.»
«In quel caso, mi inventerei qualcosa.»
«Ti inventeresti qualcosa?» rispose Eric a
metà tra l’ironico e il sorpreso.
Era evidente che da quel punto di vista la
pensavano in modi piuttosto diversi, ma forse era anche per quello che si erano
notati l’un l’altra fin da subito.
«Tu piuttosto, non mi sei sembrato
particolarmente ostico, soprattutto chiamandoti Eric Flyer. Avrei potuto
infilzarti in un paio di occasioni, se solo lo avessi voluto.»
«Chissà…».
Poi, di colpo, Eric si bloccò, come fulminato.
I suoi occhi blu divennero rossi per un
istante, mentre un odore terrificante ed irresistibile al tempo stesso arrivava
alle sue narici, propagandosi come uno tsunami per tutta la scuola.
Odore di sangue.
Ma qualcosa di neanche lontanamente
paragonabile a qualsivoglia aroma capace di eccitare la fantasia e la fame di
un vampiro.
Un odore sopraffino, assolutamente magnifico.
Un odore che ben conosceva.
Immediatamente, capì.
A giudicare dalla potenza dell’odore non
doveva essere successo niente di serio, forse giusto un taglietto o una piccola
ferita, ma era più che sufficiente per essere il preludio ad una potenziale
catastrofe.
Se non fosse stato per il fatto che nel tempo
si era abituato a sentirlo, arrivando quasi ad esservi indifferente, altro non
si poteva dire per chi lo assaporava per la prima volta; aveva visto con i suoi
occhi cosa poteva arrivare a fare.
«Maledizione!» esclamò il ragazzo scattando in
piedi.
Subito si rese conto di quello che poteva
succedere; anzi, che sicuramente sarebbe successo.
Destino crudele.
Neanche quarantotto ore dopo il suo arrivo
alla scuola, già si vedeva obbligato a tener fede a quella promessa che aveva
fatto a sé stesso solo pochi giorni prima.
Ma non per questo aveva intenzione di tirarsi
indietro: anzi.
«Aspetta, dove vai?» domandò Emma vedendolo
correre via come solo i vampiri sapevano fare.
Subito
dopo essersi ferita, Izumi aveva immediatamente cercato di bloccare sul nascere
una possibile tragedia immergendo il dito insanguinato nell’acqua per poi
avvolgerlo in tre strati di bende imbevute di disinfettante, così come le aveva
insegnato Eric, ma erano serviti solo quei pochi secondi che aveva impiegato a
rendersi conto di quanto successo perché l’odore del suo sangue si propagasse
nella scuola, fino ad arrivare nei corridoi del collegio.
Nell’aula riservata agli studenti dello
scambio culturale, i ragazzi stavano approfittando di qualche minuto senza il
professore per farsi ognuno i fatti propri.
Quell’aroma irresistibile arrivò come un
fulmine a ciel sereno, catalizzando l’attenzione di quasi tutti i presenti e
risvegliando i lati più oscuri di alcuni di loro.
In particolare, Mary ed Elodie,
in quanto ex-umane, videro emergere prepotentemente il vampiro che era in loro,
mentre i più, come Pierre ed Elisabeth, furono semplicemente folgorati da un
profumo tanto invitante, troppo per restarvi indifferenti.
Le uniche che, bene o male, riuscirono a
mantenere un contegno furono Cristine, Raven e Nagisa; quest’ultima, come il suo padrone,
riconobbe immediatamente quell’odore, ma quando cercò assieme a Raven di bloccare i suoi compagni prima che potessero
compiere qualche sciocchezza parandosi davanti al portone dell’aula vennero entrambe
colpite a tradimento da Pierre, che arrivò alle loro spalle stendendole con due
tremendi colpi alla testa.
Quanto a Cristine,
nella sua semplicità e compostezza era troppo confusa e spaventata per tentare
di fermare Rohan e gli altri, senza contare che
faceva già una fatica del demonio per non cadere a sua volta vittima della sete
selvaggia che quell’odore le stava scatenando.
I giovani vampiri, con Pierre in testa, si
diressero a tutta velocità verso la sorgente di quell’odore, chi di propria
volontà chi reso cieco dalla sete, e raggiunto il ponte che conduceva al
dormitorio Sole presero a percorrerlo come un esercito alla carica.
Erano quasi giunti al torrione centrale,
quando, prima che potessero riuscire a sfondarlo o ad oltrepassarlo, lo videro
al contrario letteralmente sventrato da una specie di tempesta di lame di vento
che giungendo dalla soglia opposta lì investì in pieno, costringendoli a
fermarsi.
Quando il vento si calmò, e la polvere si
posò, Eric era comparso ai piedi del grande arco, tra le macerie del portone da
lui stesso distrutto, gli occhi iniettati di sangue,le zanne di fuori e gli artigli snudati;
sembrava davvero un autentico vampiro sangue puro.
«Sul mio onore, il primo che mette un piede
oltre questa soglia farà i conti con me!».
Di fronte ad una tale manifestazione di
autorità e di potere, molti, quelli mossi più dalla foga che dalla sete,
arretrarono, riacquistando la ragione; persino Elodie,
nonostante fosse un Livello D, riuscì a riprendere il controllo di sé,
arrivando a trafiggersi i palmi con le unghie stringendo i pugni per provocarsi
dolore, costringersi a pensare ad altro e mascherare l’odore di quel sangue con
quello del proprio.
Ma altri al contrario, e Pierre su tutti, non
ne volevano sapere di arretrare, e anzi lo stesso Rohan
si fece anche più spavaldo ed aggressivo.
«E chi ci fermerà? Tu?»
«Se sarà necessario.» replicò Eric senza
tradire emozioni.
In realtà, la situazione non era così
idilliaca.
Pierre rischiava di non essere un avversario
da poco, e dalla sua parte c’erano ancora almeno una decina di vampiri, tra i
quali anche alcuni degni di nota per la loro pericolosità.
Eric invece era da solo, e quello che era
peggio non aveva avuto il permesso di portare con sé la sua fidata Izanami, il che, se le cose fossero precipitate, lo avrebbe
costretto a lottare a mani nude.
C’erano tutti i presupposti perché le cose
rischiassero di mettersi veramente male, con Pierre e i suoi che si rifiutavano
di rinunciare ad un sorso di quel sangue ed Eric determinato ad impedirglielo
in tutti i modi, quando all’improvviso il fragore di uno sparo riecheggiò nel
silenzio della notte.
«Niente vampiri oltre questa soglia.» disse
comparendo alle spalle di Eric con la pistola puntata in direzioni di Pierre e
del suo gruppo.
Aveva da poco terminato il suo ultimo giro di
ispezione e stava giusto per andarsene a dormire, e al malumore per essere
stato buttato a forza giù dal letto si aggiungeva anche quello prodotto da un
raffreddore che lo aveva colto durante il primo pomeriggio e ora non gli dava
tregua; di conseguenza, era decisamente di cattivo umore.
«Un passo e vi incenerisco.»
«Suppongo che dovrei dirti grazie.» commentò
Eric
«Più tardi dovrai spiegarmi cosa sta
succedendo. Per ora sistemiamo questa situazione».
Ora le minacce erano due, il che convinse
qualche altra anima irruente a tornare sui suoi passi; meglio la sete che avere
a che fare con due cacciatori.
«Non fate tanto i gradassi, Hunter!» sbraitò
invece Pierre «Voi siete solo in due!»
«Pierre, ora basta.» tentò di dire Elodie
«Tu fatti gli affari tuoi!».
Dopotutto era anche una questione di onore:
che figura ci avrebbe fatto uno come lui, un Rohan,
se fosse scappato con la coda tra le gambe di fronte ad uno o due Hunter
spacconi? E poi, per come si sentiva in quel momento, avrebbe assaggiato quel
sangue a costo di doverli ammazzare entrambi.
Il colpo di grazie alle sue ambizioni, però,
arrivò quando lui e tutti gli altri sentirono giungere alle loro spalle un
insieme di poteri che, combinati, erano qualcosa da far tremare le ossa.
Da un istante all’altro, un muro di fiamme si
materializzò dal nulla, ponendosi tra i vampiri e il cancello, mentre una
spessa ed impenetrabile parete di ghiaccio si eresse dal nulla ostruendo
completamente il passaggio.
«Basta così.» sentenziò Kaname,
attorniato dai suoi «È durata anche troppo.»
«Capo-dormitorio…»
disse Mary
«Le regole della scuola parlano chiaro. Niente
atti vampireschi, niente aggressioni contro i guardiani, e soprattutto niente
combattimenti.
Sono stato chiaro?».
Lo sguardo di Kaname
mentre pronunciava quelle parole era qualcosa da far gelare il sangue, e Pierre
non si sognò nemmeno di disobbedire.
A quel punto, fortunatamente, la situazione si
acquietò quasi subito, e la ragione tornò a prendere il sopravvento sulla sete
di sangue.
Ancora una volta, pensò Eric con un misto di
rabbia e frustrazione, doveva a Kaname di essere
riuscito a proteggere Izumi da quella massa di bestie.
«Per fortuna siamo arrivati in tempo.» disse Kuran facendo un cenno a Kain e Aidou, che dispersero i loro incantesimi
«Dovresti tenere al guinzaglio i tuoi cani, Kuran.» disse stizzito Zero
«Non prendertela con noi.» disse Aidou «Questo profumo farebbe salire il sangue alla testa a
qualunque vampiro».
Kaname, però,
gli fece segno di stare zitto, ed il biondino obbedì.
«Ti chiedo scusa. Non accadrà più. Dopotutto è
anche nel mio interesse che non accadano incidenti.» quindi guardò Eric «Da
adesso in poi ci pensiamo noi. Questi indisciplinati riceveranno la punizione
che meritano.
Puoi andare».
Il riferimento era quanto mai palese, e dopo
aver rivolto un ultimo sguardo obliquo a Kuran Eric
corse nuovamente verso il dormitorio Sole, senza che nonostante tutto Zero
cercasse di impedirglielo.
Ora Kiryu cominciava
a capire perché il direttore avesse così tanta paura di quella ragazza, e la
cosa lo spaventava non poco; era davvero una fortuna che avesse avuto il
raffreddore. Ma se non fosse andata sempre così?
Sarebbe diventato come quegli esagitati che
solo per miracolo erano riusciti a fermare?
L’idea lo rabbrividì.
Come
un gatto che insegue un tenero uccellino Eric si arrampicò senza difficoltà
lungo le pareti del dormitorio Sole, sempre seguendo quella traccia olfattiva,
fino ad arrivare alla finestra della stanza di Izumi.
Lei, credendo di essere riuscita a fermare il
sangue, aveva provato a mettersi a letto, ma era troppo nervosa per riuscire a
prendere sonno, così si accorse subito di quell’ombra che aveva improvvisamente
oscurato la finestra.
In un primo momento si spaventò, memore di
bruttissime e dolorose esperienze passate, ma quando riconobbe quel volto tanto
famigliare tirò un sospiro di sollievo.
«Eric.» disse aprendo le tapparelle e
facendolo entrare «Mi dispiace molto, io… è stato un
incidente.»
«Tranquilla. Non è successo niente. È già
tutto sistemato».
Izumi guardò in basso, mortificata: forse,
quella era la dimostrazione evidente che la Cross non era il suo posto. Ma anche
Eric aveva qualcosa da rimproverarsi, e sembrava triste tanto quanto lei.
«Senti, io…» si
ritrovarono a dire all’unisono.
Si guardarono, arrossendo.
«Forse avevi ragione.» disse poi Izumi
abbassando gli occhi «Forse è il caso che io me ne vada. È chiaro che qui sarei
solo un problema».
Lui allora la guardò, e dopo qualche attimo le
prese la mano, sfiorandogliela delicatamente, e guadagnandosi un’occhiata
incredula.
«Ti ricordi quello che ti ho detto? Ti ho
promesso che ti avrei protetta, sempre. Ed è quello che intendo fare, che tu
sia qui o da qualunque altra parte.»
«Eric…».
Era un momento bellissimo, come ne avevano
vissuti altri nel corso di quell’anno trascorso assieme, ma vuoi per fatalità,
vuoi per volontà di uno o di entrambi, in quell’occasione l’atmosfera venutasi
a creare, così effimera e leggera, si dissolse prima del tempo, riportando i
due ragazzi alla realtà.
«Ora, diamo un’occhiata alla tua ferita.»
tagliò corto Eric sforzandosi di pensare ad altro.
Si sedettero sul letto, ed Izumi tolse le
bende che aveva messo a coprire il dito, mettendo a nudo un taglietto di meno
di un centimetro, già avviato alla cicatrizzazione.
Veniva quasi difficile pensare che una cosetta
del genere fosse stata capace di creare un tale putiferio.
«Posso provare a guarirla. Ma non prometto
nulla.»
«Lascia stare, Eric. Non è niente. Domattina sarà
già guarito da sé».
Invece, proprio davanti ai loro occhi, accadde
qualcosa di incredibile. D’un tratto, da dentro la ferita, come generata
direttamente dall’interno del corpo di Izumi, giunse uno strano bagliore
azzurro, molto caldo e carico di energia, e come per incanto il taglio, in un
batter d’occhio, si richiuse, lasciando dietro di sé nulla più di un invisibile
segnetto.
I due ragazzi erano increduli.
Una cosa del genere era propria solo dei
vampiri.
«Non credo ai miei occhi!» esclamò Eric
«Ma cosa… cosa è
successo!?».
Nota dell’Autore
Eccomi qua!^_^
Cosa avevo detto?
Ci vediamo tra sette
giorni?
Evidentemente io c’ho
la settimana corta!^_^
No dai, scherzo.
La verità è che, come
già detto nell’ultima nota, queste due parti in origine dovevano essere un
unico grande capitolo, che io ho voluto spezzare in due; di conseguenza, l’idea
su cosa doveva accadere e come ce l’avevo già tutta in testa, e approfittando
della domenica ho avuto tutto il tempo per buttarla giù di getto.
Ora però, sul serio,
dovrete darmi un po’ di tempo.
Non tanto perché non
sappia cosa scrivere nel prossimo capitolo, quanto piuttosto perché come detto
starò via due giorni, e quindi non potrò lavorare.
Consolatevi con
questo, e abbiate (tanta) pazienza.
Il
direttore tornò a scuola quasi una settimana dopo, e durante la pausa pranzo
Eric e Izumi andarono da lui a raccontargli quanto accaduto.
I membri della Night Class
che si erano comportati in modo inqualificabile erano stati puniti con pene
variabili, a seconda di quanto avessero tirato la corda, e ovviamente era
andata peggio a Pierre, che si era visto rifilare un bel quindici giorni di
sospensione.
Ma la cosa più strana ed incredibile restava
quanto successo ad Izumi e alla sua ferita.
«Molto interessante.» disse il direttore
osservando il taglio sulla mano della ragazza, ormai completamente scomparso
«Certo, è stata una bella fortuna. Se il sangue non si fosse arrestato così in
fretta, i problemi sarebbero potuti andare avanti anche più a lungo.»
«Ma che cosa può essere successo?» domandò
Izumi ritirando la mano
«Solo i vampiri possiedono un tale potere
rigenerativo.» osservò Eric «E Izumi…»
«Mi meraviglio, Eric. Davvero non lo
immagini?».
Un sospetto per la verità lo avevano entrambi,
ma ora che anche il direttore sembrava pensarla allo stesso modo stava
diventando una certezza.
«Non dimenticare, ragazza mia, che tu altro
non sei che il fodero in cui è riposta la mitica Izanagi,
una delle armi anti-vampiro più potenti che siano mai esistite.» quindi guardò
Eric «Ti è capitato di estrarre altre volte le spada dall’ultima volta?»
«Solo un paio di volte.»
«Capisco. È chiaro che più passa il tempo, e
più viene utilizzata, più Izanagi rafforza e
fortifica il proprio potere. E vista la portata del potere di cui stiamo
parlando, è ovvio che a questo punto ha raggiunto un livello tale da potersi
manifestare anche senza bisogno che la spada acquisti la sua forma fisica.»
«Io… posso usare Izanagi?» disse Izumi guardandosi la mano
«Non proprio. In un certo senso, come ho
detto, tu ne sei solamente il fodero. Però, fino a quando la sua forma rimane
eterea all’interno del tuo corpo, il potere di cui è costituita scorre
attraverso te come una sorta di secondo flusso sanguigno, donandoti capacità
che trascendono la normale condizione umana, tra cui una guarigione accelerata
simile a quella dei vampiri.
O almeno, questa è la mia teoria».
Seguirono alcuni attimi di silenzio, poi il
direttore volle stemperare la tensione.
«Comunque, per ora non pensiamoci più.
L’importante è che sia finito tutto per il meglio. Quello che conta adesso è
proseguire con l’anno scolastico. Presto inizieranno le prime verifiche, e non
vorrei ch vi faceste trovare impreparati.
Soprattutto tu, Asakura. I tuoi voti
potrebbero garantirci un bel po’ di fondi extra dal ministero, cosa che di
questi tempi non dispiacerebbe affatto.»
«Farò del mio meglio, direttore».
Poi, Eric e Cross si guardarono un momento,
scambiandosi un’occhiata obliqua; ognuno dei due aveva chiaramente qualcosa da
dire all’altro.
«Izumi, ti spiace?» disse il ragazzo
«Sì, d’accordo.» rispose lei capendo e senza
fare domande «Allora, ci vediamo dopo le lezioni. Signor direttore.»
«A presto, cara».
Appena Izumi se ne fu andata, però, il tono
tra i due uomini si fece molto più serio, e per certi versi minaccioso.
«Che è successo?» esordì Eric senza mezze
misure
«C’è stato un attentato ai danni di una
famiglia nobile in Francia, sei giorni fa.» rispose il direttore.
Aveva già informato Kaname
di quanto successo subito dopo il suo ritorno, e ora gli sembrava giusto
mettere da parte anche Eric, se non altro perché, almeno dal suo punto di
vista, poteva c’entrare qualcosa anche quanto accaduto l’anno prima in Croazia.
«I Rohan?»
«Vedo che sai.»
«Quella primadonna di Pierre se ne è vantato
per due giorni interi, di come i suoi siano riusciti a sfuggire all’attentato.»
«Spero non si sia lasciato sfuggire qualcosa
sul padre della signorina Elodie.»
«Di questo non ne sapevo niente. È rimasto
ucciso?»
«Non si sa. Per ora è dichiarato disperso, ma
vista la portata dell’esplosione ci sono ben poche speranze che possa essere
sopravvissuto.»
«In questo caso, non sarebbe opportuno
informare Durand di quanto accaduto a suo padre?»
«Avrei voluto farlo, ma per espresso ordine
della famiglia Rohan e della direttrice
dell’Associazione, la cosa non è ancora stata resa pubblica. Gli unici a
saperlo siamo io, te e Kuran. E così deve restare.»
«D’accordo.»
«Ora però, parliamo di te.» disse Kaien facendosi ancora più serio «Mi hanno riferito che fin
dal tuo arrivo non hai fatto una sola ora di lezione. C’è qualche motivo
particolare dietro a questo?».
Eric distolse lo sguardo e digrignò i denti;
sapeva benissimo che si sarebbe finiti a parlare della sua scarsa
partecipazione alla vita scolastica della Night Class,
così come sapeva che il direttore conoscesse fin troppo bene la risposta alla
sua domanda retorica.
«Da quando sei arrivato, ho cercato di venirti
incontro, se non altro in nome dell’amicizia con tua madre. Ma non dimenticare
che questa rimane pur sempre una scuola. Di conseguenza, se salterai ancora le
lezioni senza motivo, sarò obbligato a prendere provvedimenti».
L’unica cosa che Eric poté fare fu stringere i
pugni per la rabbia; se dopo sette giorni non era riuscito ad accettare l’idea
di spendere tutte quelle ore come un vampiro tra i vampiri, era chiaro che non
sarebbe riuscito a farlo mai.
«Serena ha fatto molto più di quanto immagini
per ottenere la tua ammissione a questo collegio, prendendosi rischi non
indifferenti. Anche l’Associazione è voluta venirti incontro, riducendoti la
condanna. Se non per tua volontà, almeno per rispetto verso quello che gli
altri hanno fatto per te, dovresti cercare di essere un po’ meno testardo.
O in caso contrario, e questo è il mio ultimo
avvertimento, mi basta una telefonata per far tornare tutto come prima».
Eric era di fronte ad una scelta.
In circostanze normali, essere espulso dalla
Cross avrebbe potuto fargli solo che piacere; ma chi avrebbe protetto Izumi se
fosse accaduto? Di sicuro lei sarebbe rimasta in ogni caso, solo per cercare in
tutti i modi di convincere Eric delle sue idee a proposito del suo essere un
vampiro.
E poi, non voleva dare un tale dispiacere a
sua madre, non dopo tutte le sofferenze che le aveva dato inutilmente negli
ultimi anni.
A quel punto, non restava altro da fare che
rassegnarsi.
«D’accordo. Hai vinto.» disse il ragazzo, che
subito dopo se ne andò sbattendo la porta.
Fuori dalla stanza lo attendeva Nagisa, che
gli si accodò seguendolo come un fedele segugio, ma stavolta i suoi occhi erano
rivolti a terra, e sembrava non avere la forza di rialzarli.
Dalla notte dell’incidente, non aveva più
avuto il coraggio di guardare negli occhi né Izumi né il suo padrone.
Per un attimo, per un solo istante, quel
profumo di sangue aveva ammaliato per lei, e forse era proprio per questo che
un branco di vampiri esagitati, quasi tutti alla sua portata, fossero riusciti
ad avere il sopravvento su di lei con così tanta facilità.
«Mi dispiace, mio signore.» disse con vocina
sommessa «Se non fosse stato per la mia inettitudine…»
«Non hai niente di che scusarti. Non è che
potessi fare molto contro una mandria di vampiri esagitati.»
«Questo non mi fa sentire meno colpevole.
E ora che farete?»
«Non lo so».
Quella
sera, alla lezione successiva, gli studenti della Night Class
arrivarono in aula alla loro solita ora, ma il professor Norius
come al solito si fece desiderare, così i più si ritrovarono a trascorrere i
minuti iniziali facendosi ognuno i fatti propri.
Nei giorni seguiti alla prima lezione si era
venuta a creare una sorta di gerarchia all’interno della classe, dettata sia
dallo status che dalla propria appartenenza.
Gli studenti veterani occupavano gli scranni
sulla sinistra, quelli rivolti verso le finestre, mentre i ragazzi dello
scambio culturale si erano raccolti in quelli dalla parte opposta, vicino
all’entrata; tuttavia, se i primi tendevano a riunirsi attorno a Kaname, i secondi, pur considerando l’erede dei Kuran come il proprio capo-dormitorio, non riuscivano a
riconoscere, o almeno non del tutto, la sua autorità di capoclasse; anche tra
di loro, infondo, c’erano dei sangue puro, come Pierre, e per questo non se la
sentivano di recitare l’atto di fedeltà a qualcuno che alla fin fine era nulla
più che un proprio parigrado, per quanto potente e pericoloso.
Forse anche per questo il direttore Cross
aveva fatto sapere che nei giorni a seguire avrebbe nominato un secondo
capoclasse per gli studenti dello scambio, i quali tuttavia erano stati
invitati a riconoscere l’autorità di Kaname
quantomeno all’interno del dormitorio.
A mezzanotte, il professore non si era ancora
fatto vedere, e quando, proprio mentre l’orologio finiva di rintoccare gli
ultimi colpi, la porta dell’aula si aprì, tutti pensarono che Norius fosse finalmente arrivato.
Invece, con grande stupore dei più, a
palesarsi alla loro presenza fu Eric Flyer, o per molti Enrico Lorenzi da
Cassino, sempre seguito dalla propria fedele succube.
Per quella settimana, Eric era stato una
specie di fantasma all’interno della Night Class.
Tutti sapevano che c’era, ma nessuno o quasi
lo aveva mai visto, soprattutto dopo lo spiacevole fatto di quella notte,
neppure durante i pasti o nei brevi incontri occasionali nel dormitorio.
La sua stanza era perennemente chiusa a
chiave, e chi aveva avuto la rara opportunità di sbirciarci dentro aveva
riferito che Eric di giorno non si faceva mai vedere, mentre la notte al
contrario qualcuno giurava di averlo visto o sentito dormire, proprio come un
essere umano.
Questo fatto, ovviamente, aveva irritato
alcuni.
Che un vampiro si comportasse come un umano,
era una cosa che sfidava le leggi del buonsenso e l’orgoglio della Stirpe della
Notte, ma dopo quella dimostrazione di forza sul ponte nessuno si era sognato
di andare a chiedere conto.
Che lo si chiamasse Eric Flyer o Enrico
Lorenzi, restava pur sempre l’erede della più antica famiglia d’Europa,
discendente diretta di uno dei Cinque Re della Notte, cosa che incuteva in
alcuni timore, in altri rispetto, e in altri ancora entrambi.
Senza dire una parola, e sotto gli sguardi di
tutti i presenti, Eric salì le scale dell’anfiteatro, raggiunse l’ultima fila
di banchi e si piazzò come se niente fosse sul fondo del lungo scranno
semicircolare, mentre al contrario Nagisa, quasi a voler rispettare la loro
differenza di grado, andò a sedersi al suo solito posto in prima fila, accanto
ad Elodie.
«E così.» disse Shiki
«Alla fine è venuto.»
«Devo essere sincero, Kaname.»
mormorò Ichijo «Con lui qui non mi sento per niente
sicuro.»
«Guardalo.» ringhiò Aidou
«Così pieno di sé. Quante arie si dà, quello spaccone presuntuoso».
Anche gli studenti dello scambio culturale
osservavano Flyer con un misto di incredulità e naturale diffidenza,
domandandosi il perché di una sua così improvvisa, e per certi versi
inspiegabile, comparsa in mezzo a loro.
«Per quale motivo è qui?» domandò Cris, alias CristineLeroy «Ormai ero convinta che non si sarebbe fatto più
vedere.»
«C’è qualcosa di molto inquietante in lui.»
commentò Mary «Ma anche misterioso.»
«Ho sentito molte storie sul suo conto.» disse
LizzyMcLane «Sono in parecchi
a temerlo, anche all’interno del Consiglio.»
«E hanno ragione.» disse Raven
«Secondo alcuni, il suo potere e le sue capacità sono inferiori solamente a quelli
del capo-dormitorio Kuran.»
«Ora capisco perché quei due non si vedono di
buon occhio.» disse Cris volgendo uno sguardo verso Kaname «Sembrano cane e gatto.»
«Io direi piuttosto che sembrano due cani che
si ringhiano in faccia l’un l’altro.» disse Lizzy.
Dopo qualche minuto finalmente il professore
si degnò di arrivare, trafelato ed ansimante come al solito, tutti corsero a
sedersi e la lezione poté incominciare.
Il professor Norius
insegnava storia dei vampiri, una materia che interessava metà dei giovani
dell’era moderna e faceva storcere il naso all’altra metà, più che altro per la
pochezza e la lacunosità delle fonti storiche sull’argomento.
In base a quello che si sapeva, e che veniva
insegnato nelle scuole, la storia dei vampiri come esseri senzienti, dotati di
intelligenza e capaci di creare una vera forma di civiltà risaliva più o meno a
tre milioni e duecentomila anni prima, molti più dei 10.000 che credevano i
più, credenza dettata più che altro da vecchie dottrine religiose. Quello era
il periodo al quale risalivano le testimonianze più antiche dell’esistenza di
una società vampirica senziente, e già avviata ad una
gerarchizzazione dei suoi individui in base alla purezza e vastità del proprio
potere.
Prima di quella data si supponeva fossero esistiti
vampiri “bestiali”, ovvero privi di intelligenza, e probabilmente più
somiglianti ad animali che ad esseri simili agli umani, anche se le poche
tracce rinvenute e studiate non erano riuscite a confermare questa teoria.
Qualcuno, visionari per lo più, ipotizzavano anche l’esistenza di una civiltà vampirica ancora più antica, risalente ad almeno dieci
milioni di anni prima, culturalmente, scientificamente e tecnologicamente molto
progredita, ma si trattava di leggende senza fondamento.
Anche i Cinque Re, i grandi sovrani della
Stirpe della Notte, erano visti a metà tra il mito e la realtà storica, e anche
se i fatti accaduti dodici mesi prima avevano confermato l’effettiva esistenza
di Valopingius, il quinto di essi, l’intera storia
continuava ad essere considerata più una leggenda che una realtà documentata,
tanto più che era virtualmente impossibile che cinque soli sovrani si fossero
avvicendati alla guida dei vampiri in un arco di tempo così lungo.
Per molti secoli i vampiri erano stati i
dominatori della Terra, ma tutto era cambiato con la comparsa dell’Uomo; questo
nuovo essere senziente, infatti, pur dotato di una speranza di vita media
infinitamente inferiore, pari a circa 1/10 di quella di un vampiro, disponeva
al contrario di uno spirito evolutivo molto più evoluto, che lo spingeva a
cercare costantemente nuovi strumenti per migliorare la propria esistenza.
Era da questo che era derivata la simbiosi tra
umani e vampiri, che si era poi tramutata in conflitto attorno al 1000 a.C. con
quelle che erano passate alla storia dei vampiri come le Guerre del Sangue,
alle quali aveva tuttavia fatto seguito quel clima di distensione che perdurava
ancora oggi.
Poiché la Night Class
svolgeva solo due corsi a notte, ognuno della durata di quattro ore, al termine
della lezione del professor Norius vi fu la
ricreazione, durante la quale come da tradizione un servitore scelto portò ai
ragazzi diversi calici d’acqua e compresse ematiche, servendone a tutti.
«Tutte queste storie sulla mitica prima
civiltà dei vampiri sono solo fandonie.» commentò Aidou
accomodandosi ad una poltrona «Dovrebbero smetterla di insegnarla nelle
scuole.»
«Anche gli umani hanno qualcosa di simile, se
non sbaglio.» osservò Ichijo «Anche alcuni di loro
credono che sia esistita un’antica e gloriosa civiltà che colonizzò e dominò il
pianeta prima di loro.»
«Se fosse stata così gloriosa, perché sarebbe
decaduta?» disse con spirito Rima
«Perché, a volte.» disse Kain
prendendo il suo calice «È proprio l’evoluzione la causa dell’estinzione».
L’inserviente si avvicinò anche ad Eric, ma al
ragazzo bastò uno sguardo per costringere quel poveretto a cambiare aria. Anche
Nagisa rispose picche, e così, a differenza del solito, il vassoio fu riposto
sulla scrivania del professore con due calici e due compresse ancora
inutilizzati.
Ovviamente, questo ennesimo, insolito
comportamento incuriosì e colpì molti dei presenti, i quali invece non
rinunciarono a quel piccolo piacere.
Per Nagisa la cosa non stupiva; essendo una
succube non aveva realmente bisogno di sangue, tranne ovviamente quello del suo
padrone, ma Eric?
«Come fa ad essere così potente come dite?»
domandò Kain, ben sapendo come la potenza di un
vampiro andasse spesso di pari passo con il suo bisogno di sangue
Anche i membri dello scambio erano increduli.
«Ho sentito dire che è per metà un essere
umano.» disse Mary «Forse è per questo che non ha bisogno di bere sangue.»
«Ma se fosse per metà umano, come potrebbe
sviluppare lo stesso potere di un Sangue Puro?» si domandò Cris
«Forse la purezza del proprio sangue vampiro
non è il solo metodo con cui poter stabilire il potere di uno di noi, dopotuto.» ipotizzò Raven
«Il suo potere non deriva dal sangue.» replicò
Kaname ondeggiando il suo bicchiere «Ma da qualcosa
che, probabilmente, nessuno di noi potrà mai possedere».
Aidou
interpretò quel commentò come una sorta di dichiarazione di ammirazione da
parte del capo-dormitorio nei confronti di Flyer, una cosa che lo mandò
letteralmente fuori dai gangheri.
Era quasi sul punto di intervenire,
dimenticandosi forse di dove si trovava, quando incredibilmente Raven lo prese in controtempo. La ragazza raggiunse la
cattedra, raccolse un calice e una compressa, quindi si avvicinò ad Eric.
Il ragazzo dapprima non la degnò nemmeno di
uno sguardo, poi la squadrò di sottecchi, proprio come aveva fatto
l’inserviente; ma stavolta, e a differenza di quel poveretto, lei restò immobile,
risoluta, e gli porse sia l’acqua che la compressa, guadagnandosi un’altra
occhiataccia.
«Non so per quale motivo tu voglia fingere a
tutti i costi di essere un umano.» gli disse severa «Ma che ti piaccia o no,
sei un vampiro. Uno di noi.
Forse dovresti comportarti come tale».
Come se suole dire, la goccia che fece
traboccare il vaso.
A quelle parole, una luce di rabbia si accese
negli occhi del ragazzo, che ringhiando come un animale svegliato nel sonno
scattò in piedi ed afferrò la ragazza per il bavero mentre il calice andava ad
infrangersi sul banco inzuppando i libri ancora aperti di acqua che, al
contatto con la compressa, prese a colorarsi di rosso.
«Non osate paragonarmi a voi, maledetti
mostri.»
«E non sei un mostro anche tu?» gli rispose Raven senza timore «O credi forse che la tua metà umana sia
sufficiente per differenziarti da tutti noi?»
«Raven, ora basta.»
«Cris ha ragione,
stai passando il limite.» disse Mary
«No, affatto. Questa primadonna deve rendersi
conto che non può reputarsi un gradino sopra di noi».
A quel punto, di fronte ad una così palese
mancanza del rispetto che secondo lei era dovuto al suo padrone, anche Nagisa
fece per intervenire, ma a differenza di Aidou
all’ultimo decise di trattenersi, perché sarebbe stato come accendere un
fiammifero in una santabarbara.
Anche Rima e gli altri volevano fare qualcosa,
ma Ichijo li trattenne tutti.
«È una cosa che devono risolvere loro.» disse
il vice di Kaname
«Vedere un vampiro che rinnega la sua stessa
natura è più di quanto io possa sopportate.» proseguì Raven
«Che c’è di male ad essere uno di noi, mi domando?»
«Che c’è di male?» ringhiò Eric fuori di sé
«Perché secondo te essere dei cacciatori di sangue e morte è forse una cosa di
cui andare fieri?»
«E dov’è la differenza? Anche gli umani
cacciano e uccidono gli animali per nutrirsene. Anzi, a volte lo fanno persino
solo per divertimento. Almeno noi non uccidiamo per il semplice piacere di
farlo».
Di fronte ad una simile affermazione Eric si
ritrovò spiazzato, non sapendo cosa rispondere.
«Forse hai ragione quando dici che in noi c’è
qualcosa di distorto, che và contro natura. Il fatto di poter vivere solo
nell’oscurità è solo una delle tante cose che ci differenzia dagli umani.
Se devo essere chiamato mostra dagli esseri
umani mi sta anche bene. Ma essere chiamata mostro da un mio simile, è più di
quanto io possa sopportare.
È pura ipocrisia».
Eric non ricordava di essersi mai sentito così
male, così arrabbiato.
Fu quasi sul punto di incenerirla, e lo
avrebbe anche fatto se lei non avesse continuato a fissarlo con quegli occhi
carichi di sfida e rimprovero.
Lanciato un urlo di rabbia e di dolore,
scaraventò Raven a terra e corse via, proprio mentre
il professor Pintker stava entrando in aula per la
seconda parte della lezione.
«Signor Lorenzi, dove và?» tentò di dire il
docente, ma fu tutto inutile.
Eric
continuò a correre senza meta fino ad arrivare in cortile, ed una volta qui
infilò la testa sotto il getto d’acqua della fontana nel tentativo di spegnere
quel mare di odio che aveva dentro di sé.
Quella era la prima volta che qualcuno gli
sbatteva in faccia la verità in modo tanto diretto.
E adesso che l’aveva davanti agli occhi questa
verità, si sentiva convinto più che mai che per nulla al mondo sarebbe stato
capace di accettare ciò che era.
Non voleva.
Non poteva accettare di essere un vampiro, un
mostro cacciatore che vive nelle tenebre predando esseri umani come animali da
safari.
«Che ci fai tu qui?» sentì dire all’improvviso
alle proprie spalle.
Fulmineo si girò, trovandosi a tu per tu con
Zero che lo guardava severamente.
«Perché non sei a lezione?» domandò nuovamente
Kiryu
«Non solo affari tuoi.» replicò stizzito Eric.
Zero stette un momento in silenzio; di solito
non avrebbe mai permesso ad un vampiro di rivolgersi a lui in simili toni, ma
con Eric era diverso: con lui sentiva quasi una sorta di empatia. Dapprincipio non
era riuscito a capire il perché, poi però il direttore gli aveva raccontato
tutto, e allora aveva capito.
«Il direttore mi ha parlato di te.
Mi ha raccontato quello che avete fatto
insieme. E mi ha detto anche chi e che cosa sei.
Lo sai? Credo di poterti capire.»
«Tu non puoi capire.» rispose Eric stringendo
i pugni «Nessuno può.»
«Ti sbagli. Posso eccome».
A quel punto Zero si scoprì il collo,
lasciando Eric basito; sulla parte sinistra capeggiava un vistoso tatuaggio, ed
al centro di esso erano ben riconoscibili due piccoli segni di natura
inequivocabile.
«Tu…» disse senza
parole «Tu sei…»
«Anch’io so cosa vuol dire vivere nel mezzo.»
rispose Zero «Vivere ogni giorno con il terrore di poter perdere in qualunque
momento la mia capacità di pensare e di provare emozioni come un vero essere
umano.
Lo sai, anche io fino a poco tempo fa credevo
che i vampiri fossero solo delle bestie, e in parte lo penso ancora.
Ma poi mi sono detto che reputandoli animali,
finivo per dare dell’animale anche a me stesso. Perché in fin dei conti, che si
possa accettare o no, io, noi, siamo come loro.»
«E allora cosa dovrei fare?» domandò Eric a
denti stretti «Rassegnarmi?»
«Accettarlo. È l’unico modo per non provare
vergogna di noi stessi ogni volta che ci guardiamo allo specchio. Siamo vampiri
con un cuore umano. Considerala una specie di consolazione. Renderà tutto un po’
più facile.
O almeno, è quello che cerco di fare io».
Eric non riusciva ancora a calmare del quel
moto di rabbia che sentiva dentro, ma le parole di Zero riuscirono se non altro
a calmierarla.
Era vero.
Non poteva smettere di essere un vampiro,
almeno per ora, e anche se doveva imparare ad accettarsi per quello che era,
non avrebbe mai dovuto dimenticare di essere, in parte, anche un umano; finché
lo avesse tenuto a mente, sarebbe stata la prova che non era diventato come
loro.
Poi, forse, un domani, avrebbe imparato, anche
se ne dubitava, che non c’era di che vergognarsi ad essere un vampiro, come
Izumi e il direttore non facevano che ripetergli, ma per ora questa era l’unica
cosa che potesse dargli la forza di andare avanti a testa alta.
Un vampiro con un cuore umano; questa era la
definizione con la quale avrebbe reputato sé stesso da lì in poi. Non era
quello che aveva sempre sognato, ma per ora poteva bastargli.
Calmatosi, si alzò, volgendosi verso Zero.
«Forse è come dici tu. Infondo, vale la pena
provare. Vivrò con loro, parlerò con loro, forse mi comporterò anche come loro,
ma non sarò mai come loro. E di
questo ne vado fiero».
Zero sorrise, quindi mise una mano in tasca,
prendendone fuori una busta da lettera chiusa dal sigillo della scuola.
«Avrei dovuto consegnartela solo alla fine
delle lezioni, ma già che ci siamo.» disse porgendola ad Eric
«Che cos’è?» domandò il giovane Flyer
aprendola e dandoci un’occhiata
«Il direttore ti ha nominato capo-dormitorio degli
studenti della Night Class ammessi allo scambio
culturale. Congratulazioni».
Eric non credette
alle sue orecchie, ma da quello che stava leggendo capì che era la verità.
«Che cosa!?» esclamò con gli occhi spalancati
e la bocca socchiusa.
Nota dell’Autore
Salve a tutti!^_^
Come promesso, sono
ritornato!^_^
La parentesi bolognese
è stata faticosa, anche se interessante, ma ora sono tornato, e fino a giovedì
non avrò quasi impegni, il che significa che potrò scrivere quanto mi pare e
piace!
Allora, che ve ne pare
di questo capitolo?
Spero di non essere
andato OC con i vari personaggi, e se è così ditemelo!^_^
Vogliate perdonarmi se
mi sono preso la libertà di nominare il mio pg
capo-dormitorio, ma posso garantirvi che nel caso di Eric si tratta di una
carica assolutamente simbolica (deve solo ad incentivare Eric a legare con il
gruppo, come è facile intuire), tanto più che vista la “leggendaria” rivalità
tra Eric e Kaname ho pensato che sarebbe stata una
scelta ad effetto (Kaname e Soci Vs. Eric e Soci).
I ragazzi dello scambio si erano riuniti come
al solito nel salone del dormitorio luna al rientro delle lezioni, per fare due
chiacchiere prima di andarsene tutti a letto.
La notizia era già circolata nei giorni scorsi,
ma ora era arrivata l’ufficialità, e proprio per bocca del capo-dormitorio Kuran.
«Ormai non ci sono più dubbi.» disse Elodie, che aveva ricevuto conferma da Kaname
quando gli aveva chiesto cosa sapesse in merito
«Ma che razza di granchio ha preso il direttore!?»
disse Cris «Voglio dire, uno come quello lì…»
«Figuriamoci se intendo dare retta a quel
mezzosangue plebeo.» disse stizzito Pierre «Per me può pure bruciare
all’inferno con tutta la sua boria.»
«Senti chi parla.» bisbigliò Raven tra sé e sé, venendo comunque udita
«Che hai detto?»
«Comunque.» disse Elisabeth «Ultimamente è
venuto sempre a lezione, e non sembra più così distante da noi come prima.»
«E credi che questo possa essere sufficiente?»
domandò Lacey «D’accordo, è un nobile, ma se c’è una
cosa che ci differenzia da Kaname e gli altri, è che
dal nostro punto di vista il rispetto non può essere basato solo sull’essere o
meno un sangue puro. E su questo mi pare che la pensiamo tutti allo stesso
modo, o sbaglio?».
E infatti tutti si guardarono tra di loro,
annuendo.
«Hai perfettamente ragione.» disse Cris ricevendo il consenso di tutti «Forse i vampiri di
questo Paese, e di qualche generazione fa, sono pronti a strisciare ai piedi di
ogni sangue puro alla prima occasione, ma nel resto del mondo è diverso.»
«Potete pensare al Giappone come all’Unione
Sovietica dei vampiri.» disse Raven «Con la scusa che
qui vivono alcune delle famiglie più antiche e conservatrici del mondo, in
questo Paese sopravvivono ancora preconcetti e istituzioni vecchie di secoli.
In Europa, in America, e perfino nel resto
dell’Asia, essere un Sangue Puro o un nobile non basta per garantirsi il
rispetto dei propri sottoposti. Bisogna dimostrare di meritarlo.»
«Evidentemente questo il direttore non lo ha
mai capito.» commentò Pierre «Altrimenti non si aspetterebbe di vederci
scodinzolare davanti a quello lì.»
«Secondo me lo state giudicando troppo
duramente.» disse Elodie «Forse non sarà il più
socievole di tutti, ma…»
«Ma cosa? Hai dimenticato come ci guarda ogni
volta? Per lui valiamo meno di niente.»
«Parla per te.» disse Nalani
«Io personalmente è già da qualche giorno che non mi sento prudere le mani ogni
volta che gli rivolgo la parola.»
«Sta sforzandosi di cambiare.» disse Mary «Di
questo dobbiamo almeno dargliene atto.»
«Può darsi.» osservò Lacey
«Ma in ogni caso…» e si guardò attorno «Qualcuno sa
dov’è?».
Come al solito, infatti, il presunto
capo-dormitorio non si trovava affatto al dormitorio, e nessuno aveva la minima
idea di dove andasse o che cosa facesse ogni alba, al termine della lezione,
quando invece di rientrare in stanza spariva nel nulla per alcune ore.
La risposta era in una radura del cortile, nei
pressi del dormitorio sole, sulla riva del lago.
Più passavano i giorni, più Eric sentiva una
certa affinità ed empatia con Emma.
Quella ragazza aveva un carattere impossibile,
a volte perfino insopportabile, ma perseveranza, abilità e determinazione non
le facevano difetto, e questo ad Eric era più che sufficiente per considerarla
un’ottima compagna di allenamento.
Tutti i giorni, Emma si alzava poco prima
dell’alba, sicura di poter recuperare a lezione parte del sonno sacrificato, e
recuperata la sua spada da allenamento raggiungeva il solito posto, dove
trovava Eric già ad aspettarla.
I loro combattimenti erano molto violenti, ma
mai aggressivi; si rispettavano a vicenda, considerandosi un modo per aumentare
ancora di più la propria esperienza di Hunter e guerrieri.
Quella mattina, però, era diverso.
Non solo Eric era arrivato miracolosamente in
ritardo, addirittura preceduto dalla sua avversaria, ma anche durante lo
scontro ci mise fin fa subito molto meno impegno del solito, risultando
prevedibile e mai davvero incisivo.
Solo al quarto richiamo di Emma, esasperata da
un tale comportamento, il ragazzo si risolse a fare sul serio, ma a quel punto
ormai la disparità aveva raggiunto un livello tale che colmarla era
impossibile.
Era evidente che doveva avere qualcosa a
preoccuparlo, tanto appariva fuori dal mondo, e appena lo scontro ebbe fine,
ovviamente con la vittoria giornaliera della Hunter russa, questa chiese
delucidazioni.
«Si può sapere che cosa ti prende? È quasi più
eccitante colpire uno sparring.»
«Non è niente.» cercò di tagliare corto lui.
Mentiva, e non era neanche bravo a farlo.
Emma recuperò un asciugamano, quindi andò a
sedersi vicino a lui sulla riva del lago.
«Avanti, non raccontare storie. Sono già
alcuni giorni ormai che stai più di qua che di là. È per via della nomina a
capo-dormitorio.»
«In parte sì.»
«E per il resto?».
Eric esitò. O non lo sapeva neppure lui il
motivo di quel turbamento, o semplicemente non voleva parlarne.
«Come preferisci.» tagliò corto Emma
alzandosi.
Fece per andarsene, ma all’ultimo, quasi
prevedendolo, sentì Eric alzarsi alle proprie spalle, correrle incontro e
afferrarle un polso.
«Ci hai ripensato?»
«Hai ragione. C’è qualcosa che mi preoccupa.
Qualcosa di importante.»
«Grazie. Fin qui c’ero arrivata anch’io».
Di nuovo, il ragazzo parve temporeggiare, ma
quando risollevò gli occhi erano quelli motivati e battaglieri di sempre.
«Avrei bisogno di un favore da parte tua. Un
favore importante».
Lei lo squadrò, a metà tra il sorpreso e il
diffidente.
«E sarebbe?».
Non
era ancora sorto il sole, e i boschi tutto attorno ad Hakuba
erano per buona parte ricoperti da una leggera ma spessa cappa di nebbia e
basse nuvole, che avvolgevano la valle come un lenzuolo.
Un elicottero comparve d’un tratto da dietro
un crinale, il fanale anteriore acceso ad illuminare le cime degli alberi
imbevuti di umidità.
Sotto di sé, agganciato alla fusoliera, una
specie di contenitore metallico a forma di cassa, dall’aria molto spessa e
apparentemente indistruttibile.
A pilotare, nonostante fosse un grosso UH-60
ultimo modello, due piloti in abiti civili, mentre sulla fiancata capeggiava
quello che sembrava uno stemma nazionale, un tricolore verticale nero, bianco e
rosso, con uno scudo crociato sul bianco sormontato da una corona.
«Qui Capo Eagle!»
disse uno dei due in una lingua vagamente somigliante al russo «Siamo in
posizione.»
«Molto bene, Capo Eagle.
Procedete.» rispose alla radio una voce maschile
«Ricevuto. Rilasciamo il pacco».
Il secondo pilota a quel punto spinse alcuni
bottoni, e il meccanismo che teneva il cavo assicurato all’elicottero molò
immediatamente la presa, facendo precipitare la cassa in mezzo agli alberi.
Questa, forse a comando, forse essendo meno
solida di quello che si era ipotizzato, si ruppe nell’istante stesso in cui
toccò il suolo, frantumandosi in mille pezzi; dal suo interno, comparve
qualcosa.
Sembrava un essere vivente, perché soffiava e
mugolava come un animale, ed i suoi occhi erano iniettati di sangue.
Dapprincipio, non riuscì a muoversi, forse per
via della lunga immobilità nella sua piccola prigione, poi, faticosamente,
inarcò la schiena dimostrandosi bipede, e la prime cosa che vide alzando lo
sguardo furono le ultime luci di Hakuba che si
spegnevano.
La
lezione della DayClass
andava avanti senza problemi, anche se la comparsa del professor Yagari per la sua prima prova da docente di etica aveva
sollevato un certo vespaio.
Dato che Yagari era
uno dei pochi destinato a fare lezione sia alla Day
che alla Night Class, la sua lezione sarebbe stata
sempre alla prima o alla seconda ora, di modo da dargli la possibilità di poter
dormire durante il resto del giorno e poter essere pronto al tramontare del
sole.
Sia i ragazzi che le ragazze ne erano rimasti
fin da subito molto colpiti, un po’ per quella sua aria così austera e
composta, in gran parte, ed era scontato, per il suo bellissimo aspetto.
Anche Carmy non
aveva perso l’occasione per lasciarsi sfuggire un certo apprezzamento.
«Carino per essere un professore.» mormorò ad
Izumi mentre Yagari spiegava «Non sei d’accordo?».
Da parte sua Asakura quella mattina era un po’
tra le nuvole, anche se non abbastanza da non dover dare ragione all’amica sul
fatto che il professore fosse effettivamente un uomo affascinante e
carismatico, che infatti era riuscito a guadagnarsi quasi subito l’attenzione
di tutti.
Ma quella mattina erano altri i suoi problemi:
infatti, fin dal momento in cui aveva messo piede in classe, aveva percepito la
netta sensazione di essere osservata, e visto che Zero, che sapeva essere stato
incaricato d tenerla d’occhio, come al solito stava dormendo, non poteva
trattarsi di lui.
Due file più in alto, nascosta dietro al
proprio libro di testa, Emma osservava e dominava la classe come un falco dal
suo nido, indecisa se continuare a fissare Yagari o
assolvere al compito che aveva accettato di prendersi sulle spalle.
Accidenti a lei.
Come aveva fatto a lasciarsi convincere così
facilmente?
Eric aveva molta fiducia in Zero, e lo
considerava un buon guardiano per Izumi, ma lo aveva preoccupato non poco
sapere che anche lui era un vampiro, anche se per ora solo per metà grazie al
tatuaggio magico che bloccava il processo di trasformazione.
Se un giorno fosse dovuto accadere un
imprevisto come quella notte, difficile dire che sarebbe stato in grado di
controllarsi, e non se la sentiva di correre questo rischio.
Emma era diversa.
Dopo averci combattuto più e più volte si era reso
conto di quanto fosse determinata, affidabile e degna di rispetto, tutte
qualità che ultimamente facevano difetto in molti Hunter.
«Ma chi me l’ha fatto fare.» mugugnò tra sé e
sé guardando Izumi.
Le era bastato uno sguardo per capire che tipo
di ragazza fosse.
Uno spirito candido, una colombella, di quelle
che cercano sempre di vedere il lato buono di ogni cosa, e che si rifiutano di
concepire il male fine a sé stesso.
Doveva essere cresciuta nella bambagia, di
sicuro; una famiglia presente, un’educazione sana e non troppo severa,
ampiamente ripagata da una forte volontà di mostrarsi sempre degna di quanto
ricevuto restituendo cinque volte tanto.
A Emma venne quasi da ridere.
Se fosse nata dalle parti sue un paio di
secoli prima, o avrebbe fatto la moglie trofeo di qualche nobile allampanato o
sarebbe finita in convento.
Guardarla in viso quasi la irritava: ma era
possibile che esistessero ancora, in pieno ventunesimo secolo, persone così
ingenue da credere che gli esseri viventi, primi fra tutti i vampiri, fossero
buoni per natura?
Però, a pensarci bene, doveva possedere una
certa dose di volontà e carisma, se era riuscita a mettere a cuccia anche uno
come Eric costringendolo ad accettare la sua presenza lì.
La sorveglianza andò avanti anche durante la pausa
pranzo, quando i ragazzi si ritrovarono i refettorio.
Zero ben presto si accorse di non essere più
il solo a tenere d’occhio Asakura, ma capendo che anche Emma era una Hunter non
ci fece troppo caso; anzi, immaginando chi la mandasse, si aspettava che prima
o poi sarebbe successo qualcosa del genere, e la cosa in parte lo sollevava,
perché così avrebbe avuto la scusa buona per svincolarsi da quella patata
bollente e lavarsene le mani.
L’offerta della mensa era piuttosto variegata,
e per giustificare la spesa considerevole si dotava, oltre che di cuochi di un
certo prestigio, anche di piatti esotici o particolarmente ricercati.
Emma, in quanto russa, era abbonata ai pirozhki, una sorta di versione continentale dell’onigiri giapponese, fatti con rotoli di pane riempiti di
vari condimenti che andavano dalla carne alle verdure; ogni volta che li
trovava nel menù ne ingoiava a manciate, senza quasi masticarli, svuotando la
riserva senza ritegno.
«Ma guardala.» commentò Carmy
vedendo Emma che trangugiava tutti i pirozhki prima
ancora di arrivare al tavolo «Un vero pozzo senza fondo».
Ormai era ufficiale: Carmy
aveva preso decisamente in antipatia la giovane studentessa russa. Non le dava
l’idea di una persona raccomandabile.
La sua amica Izumi, invece, sembrava di
tutt’altro avviso, anche se ancora non le era riuscito di capire cosa vi fosse
realmente in lei; i suoi occhi erano come degli specchi, che impedivano a
chiunque di scorgere ciò che vi stava al di sotto.
Emma mangiò senza ritegno, quasi
dimenticandosi del compito affidatole, quando la musichetta dell’altoparlante
annunciò un messaggio del direttore.
«La signorina Kreutzer
in direzione. La signorina Kreutzer in direzione,
prego.»
«Visto, che ti dicevo?» disse Carmy ad Izumi «Chissà che avrà combinato stavolta.»
«Perché sei così negativa nel giudicarla?»
«Negativa? Quella lì ha mandato in infermeria
tre ragazzi dell’ultimo anno. Sono sorpresa che sia ancora qui».
Neanche Emma per la verità capiva il motivo di
questa convocazione, al punto che, come al solito, la prese quasi sottogamba,
concedendosi il piacere di terminare il proprio pasto prima di rispondere al
richiamo.
Quando entrò in ufficio, però, trovò il
direttore estremamente serio, il che, ovviamente, non poteva significare niente
di buono. Stava seduto alla sua scrivania, composto e serio, con le mani
appoggiate sul ripiano e l’espressione ferma, come un vero ufficiale
dell’Associazione.
«Che è successo?» domandò la ragazza capendo
subito
«Ci sono state due aggressioni questa mattina
presto ad Hakuba.» rispose lui consegnandole l’ordine
di caccia «Tracce provano che si tratta dell’operato di un Livello E.
L’Associazione ti ordina di provvedere.»
«Non mi pare che i cacciatori manchino in
questa scuola. Perché proprio io?»
«Yagari è impegnato
in un altro incarico, Flyer ha ordini precisi di non lasciare questa scuola
salvo casi eccezionali, e il suo supervisore non è ancora arrivato.»
«E di tuo figlio che mi dici?»
«Zero è un bravo ragazzo, con la testa sulle
spalle, ma l’associazione ritiene che non sia ancora pronto per il suo
battesimo del fuoco.»
«E così in mezzo al fuoco ci mandate me.»
commentò sarcastica Emma, che poi si infilò la lettera in tasca «D’accordo.
Pagamento anticipato, si intende.»
«Riceverai i soldi sul tuo conto, come al
solito. Ma non aspettarti granché, dopotutto, è un lavoretto da niente.»
«Staremo a vedere. Se fosse così, dove sarebbe
il divertimento?».
Al
pomeriggio, finite le lezioni, Emma decise di assolvere a quella piccola grana
immediatamente, così da togliersi il sasso dalla scarpa e non pensarci più.
Ma doveva aspettare che tramontasse il sole, o
quantomeno che avanzasse il tramonto, e visto che ormai era primavera inoltrata
ci sarebbe stato da attendere almeno fino alle diciannove.
Non si preoccupò troppo di Izumi. Si era
impegnata a tenerla d’occhio solo durante le ore di lezione, poi per la notte
la palla sarebbe passata a Zero in quanto membro della Disciplinare.
Innanzitutto tornò in camera, si liberò di
quella scomoda, e per certi versi imbarazzante, divisa scolastica, ed indossò
abiti più adatti ad un combattimento, inoltre recuperò la sua arma dal suo
armadietto, chiuso ermeticamente e bloccato da un lucchetto.
Era una katana, simile a quella di Eric, con
l’impugnatura bianca ed il fodero rosso sangue, sul quale capeggiava una
scritta in lettere smaltate d’argento.
狂気
Kyoku
La
estrasse un momento, per essere sicura che fosse lucidata e affilata a dovere,
rinfoderandola prima ancora di sguainarla del tutto, quindi uscì subito dopo,
ritornando verso la scuola, per evitare che qualcuno potesse vederla conciata
così facendosi strane domande.
Mentre cercava il modo di ammazzare il tempo,
camminando lungo un porticato del cortile posteriore si ritrovò a passare
accanto ad un’aula di musica deserta, e gettato un occhio all’interno vide che
qualcuno, qualche scellerato, aveva lasciato lì un violino.
Come vide lo strumento, qualcosa in lei parve
scattare, e uno strano impulso che non le riusciva di ignorare la spinse ad
entrare nella stanza.
Posata la spada sulla tastiera coperta del
vicino pianoforte, recuperò il violino dalla custodia, se lo portò alla spalla,
afferrò saldamente ma dolcemente l’archetto, trasse un breve ma intenso
respiro, quindi, chiusi gli occhi, prese ad eseguire il Trillo del Diavolo di Tartini.
Lo suonò magnificamente, con tutta la passione
e la bravura di una violinista navigata, ma era così concentrata ad assorbire
ed assaporare appieno le note che produceva da non accorgersi neppure che
qualcuno, ad un certo punto, aveva iniziato ad accompagnarla al pianoforte,
qualcuno che forse non poteva contare sul suo talento, ma che comunque si
difendeva abbastanza bene.
Solo quando la composizione ebbe fine, e la
ragazza aprì nuovamente gli occhi, si accorse di non essere più sola in quella
stanza, e che la persona che l’aveva accompagnata per una buona metà della
composizione era proprio quella che era stata incaricata di sorvegliare e
proteggere quanto la sua stessa vita.
Rendendosi conto di essere stata vista e
sentita, la passione e l’ispirazione del momento cedettero il passo ad un
imbarazzo sconfinato.
«E tu che ci fai qui?» disse quasi urlando all’indirizzo
di Asakura
«Scusa, mi dispiace.» si giustificò Izumi «Io… passavo di qua, e ti ho sentita. Eri così brava, ed era
una musica tanto bella che non ho resistito, e poi…».
Emma la squadrò, guardandola bene in faccia
per la prima volta; sembrava davvero, usando un eufemismo, una piccola
cerbiatta infilata in una gabbia di lupi affamati.
Niente di che stupirsi, che una ragazza così
composta e di buona famiglia fosse capace di suonare il piano, anche se il
segno del principiante era più che riconoscibile.
«Dove hai imparato?» le domandò guardandola di
sottecchi
«Beh, ecco… mi ha
insegnato mio padre. Lui suonava… una volta».
Di nuovo la fissò enigmatica, guadagnandosi un’occhiata
quasi intimidita, quindi recuperò Kyoku e la infilò
alla cintura.
«Ho notato che mi hai tenuto d’occhio per
tutto il giorno.» disse Izumi vincendo la timidezza
«Infatti.» rispose franca Emma «Il tuo
cavaliere mi ha chiesto di farti da guardia del corpo per tutto il tempo che
sei a scuola.»
«Il mio… cavaliere?»
ma Izumi capì subito «È stato Eric.»
«Ce ne hai messo di tempo. Sfortunatamente Eric
si trova in una brutta condizione, e visto che anche lui deve dormire ha
chiesto a me di tenerti d’occhio quando lui è impossibilitato a farlo.»
«Tenermi d’occhio!? E per quale motivo?»
«Ma proprio non ci arrivi? Dì un po’, hai la
minima idea di dove ti trovi? Qui attorno è pieno di succhiasangue
bastardi pronti ad azzannarti il collo alla prima occasione. Eppure, nonostante
ciò, tu non solo sei voluta venire a studiare proprio qui, ma passeggi per la
scuola sola soletta come se niente fosse.
Lo sai che, dopo quanto accaduto quella notte,
non c’è vampiro nel raggio di cinque miglia che non si sia fatto almeno una
volta un sogno sconcio con te protagonista?»
«Anche tu credi davvero che i vampiri siano
tutti dei mostri?»
«Non è questione di crederci o meno,
ragazzina. È un puro e semplice fatto.»
«Ma perché? Voi siete Hunter, dopotutto. Dovreste
sapere meglio di chiunque altro che non tutti i vampiri sono malvagi e
aggressivi.»
«Forse non proprio tutti, ma di certo la
grandissima parte lo è. E tu sei un’ingenua a credere il contrario. Se offri la
mano ad un lupo finisci sbranata.»
«E dunque dovrei diffidare dei vampiri solo perché
alcuni non sanno controllare la loro sete? Questo non me lo potete chiedere!».
Emma stava diventando matta. Avrebbe quasi
voluto schiaffeggiare quella ragazzina impudente, ma guardandola negli occhi si
sentiva folgorata al punto da non riuscire quasi a muoversi.
Cominciò a capire: ecco come faceva a tenere
Eric al guinzaglio. Una perseveranza così, per un dire una tale ottusità, erano
davvero qualcosa contro cui non c’era argomentazione che tenesse.
A quanto pare, l’unico modo per far capire
qualcosa a quella zucca vuota era farle vedere coi suoi occhi di cosa fossero
realmente capaci i vampiri.
Probabilmente Eric non sarebbe stato d’accordo,
ma se quello era l’unico modo per metterle un po’ di giudizio in corpo, allora
che così fosse.
«D’accordo, ora basta!» e detto questo la
afferrò per un polso, trascinandola fuori dalla stanza
«Aspetta, cosa fai?»
«Guarda caso devo scendere al villaggio per un
incarico. Vedrai tu stessa cosa possono essere realmente i vampiri.» e detto
questo la trascinò fino nelle stalle.
Una volta qui sellò un cavallo, il primo che
le capitò sottomano, montò in groppa e quindi fece salire anche Izumi,
ordinandole di tenersi forte.
«Reggiti forte.»
«Aspetta. Tu come ti chiami?»
«Emma. Emma Kreutzer.»
quindi la Hunter lanciò il cavallo al galoppo oltre il cancello, inconsapevole
di essere osservata, con un misto di preoccupazione e diffidenza, da Eric e
Nagisa, che in quel momento si trovavano sul terrazzo superiore della scuola.
«Vai.» ordinò il ragazzo
«Sì, mio signore.» rispose Nagisa, che
fulminea scomparve.
Lontano
dal centro cittadino, piuttosto trafficato e caotico anche dopo il tramonto, la
periferia di Hakuba poteva rivelarsi davvero
inquietante e spettrale agli occhi di un visitatore occasionale.
Molte case non erano state ristrutturate, o
comunque erano molto trascurate, abbondavano vicoli stretti e angusti, e i
posti dove i vampiri potessero dedicarsi alla caccia senza quartiere certo non
mancavano.
In particolare, la vecchia area olimpica era
già da alcuni anni in uno stato di quasi abbandono, e fu proprio lì che Emma,
seguendo le tracce, arrivò in cerca della sua preda, fermando il cavallo nei
pressi di una piazzetta, abbastanza vicino al centro abitato per attirare
subito l’attenzione del vampiro e abbastanza lontano da non rischiare di
coinvolgere civili o lasciare testimoni.
«Stammi vicino.» disse Emma aiutando Izumi a
scendere.
Oltre alla katana, Emma portava sempre con sé un
bello stiletto europeo del tardo ‘700, un regalo del suo maestro che non aveva
mai usato, reputandolo piuttosto inutile e inadatto al suo stile di lotta.
Izumi se lo vide comparire tra le mani da un
momento all’altro, mentre assieme ad Emma percorreva una stradina sterrata che
aveva da una parte il muro esterno di una casa e dall’altra il bordo più
esposto della foresta, distante una decina di metri lungo il crinale che saliva
verso l’alto.
«Se dovesse succedere qualcosa, usa questo per
difenderti.»
«Cosa… ma io... io
non so usarlo.»
«Tranquilla, è facile. Basta piantarglielo nel
cuore o nel cervello. Un colpo, e sono cenere.»
«Non intendevo questo. Il fatto è che…».
Ma Izumi non ebbe il tempo di finire, perché Emma,
voltatasi di scatto, ebbe a malapena il tempo di spingerla via prima che il
Livello E le piombasse addosso comparendo dall’alto.
«Sta dietro di me!» disse frapponendosi tra
lei ed il nemico.
Come sfoderò la katana, questa parve
circondarsi di uno strano bagliore vermiglio, simile a quello che
contraddistingueva Izanami, ma dalle tinte più simili
a quelle del sangue.
Poi, come per magia, sulla lama comparve una
frase, una scritta in alfabeto cirillico, che per questo Izumi non riuscì a
comprendere, mentre gli occhi di Emma assumevano la stessa colorazione
rossastra, al punto da renderla quasi simile ad un vampiro.
ЯСОЗДАЛМИРИЗКРОВИИСТАЛИ
Ho creato un
mondo di Sangue e di Acciaio
Izumi
quasi si spaventò nel vedere quella ragazza, che nonostante tutto le ispirava
fiducia, cambiare a tal punto, e indietreggiò di alcuni passi mentre Emma si
avventava sul livello E sfoggiando un sorriso di sadica determinazione.
L’avversario si rivelò tuttavia più ostico del
previsto; non attaccava in modo sconclusionato e bestiale, ma sembrava
possedere ancora un briciolo di intelligenza, questo benché non mostrasse
alcuna capacità di parlare o di ragionare in modo sistematico come un Livello D
ormai prossimo alla mutazione.
Di certo era una cosa insolita, ma Emma non si
lasciò impressionare, anzi si eccitò enormemente, perché questo avrebbe voluto
dire maggior divertimento per lei e un premio vittoria con qualche cifra in
più.
Lo scontro si spostò ben presto nella vicina
foresta, con il Livello E che saltava come una scimmia da un ramo all’altro, da
un albero all’altro, ed Emma che gli correva dietro ingaggiando brevi scontri.
Izumi era rimasta indietro, nel villaggio,
troppo spaventata e confusa per andare dietro alla Hunter.
Si sentiva incredula, senza sapere cosa
pensare, e stringeva forte lo stiletto che Emma le aveva dato.
Aveva visto altre volte i Livello E, sapeva di
che cosa fossero capaci, ma ogni volta non riusciva a crederci; come poteva
essere che esistessero vampiri come Kaname ed Eric,
ed altri simili a quelle… cose?
D’un tratto, una sensazione terribile la fece
tremare, accompagnata dal terribile ed improvviso presentimento di non essere
sola.
Uno strano ed inquietante individuo, coperto
da un voluminoso cappotto invernale ed un cappello di lana a coprirgli la
testa, era comparso ad una delle due estremità della strada, e ora se ne
restava immobile con lo sguardo basso e le mani infilate nelle tasche.
Izumi non ebbe bisogno di guardarlo per avvertire
subito un senso di minaccia, e quando quello alzò lo sguardo, scoprendo due
occhi iniettati di rosso ed una bocca armata di denti sproporzionatamente
grandi, la sua paura divenne terrore.
Il suo urlo squarciò il silenzio tutto
attorno, arrivando fino ad Emma, ancora impegnata nello scontro con l’altro
Livello E.
«Izumi!» esclamò.
Intuendo la sua disattenzione l’avversario
pensò di cogliere il momento buono e colpire, ma ci voleva ben altro per
togliere concentrazione ad Emma; la ragazza prima schivò, poi menò un fendente
micidiale che aprì uno squarcio nel petto del vampiro tranciando in due
sicuramente anche il cuore, quindi prese a correre velocissima verso valle
sperando di fare in tempo.
«Che diavolo sta succedendo?» mugugnò
percependo distintamente la presenza di un altro vampiro «Il Livello E non doveva
essere da solo?».
Izumi intanto si era ritrovata con le spalle
al muro, impotente di fronte a quel mostro che ora si preparava a saltarle
addosso.
Istintivamente estrasse lo stiletto,
mettendolo davanti a sé come ultimo baluardo difensivo, ma le mani le tremavano
a tal punto che anche se avesse voluto usarlo non ne sarebbe comunque stata in
grado.
Forse intuendo che si trattava di una preda
facile, il Livello E temporeggiò, nell’attesa di sferrare il colpo fatale senza
prendersi troppi rischi, ma quando si avvide che Emma stava arrivando a tutta
velocità volle passare subito ai fatti, e saltò subito addosso alla ragazza per
nutrirsene.
«Scema, schivalo!» urlò Emma saltandole
addosso e spingendola lontano.
Izumi si salvò per un soffio, ma Emma rimediò
una ferita non da poco ad un fianco che la lasciò riversa a terra mugugnante
per il dolore.
«Emma-sempai!»
«Maledizione!» ringhiò furente la ragazza, che
con rabbia si girò e meno un fendente che tranciò di netto un braccio al
Livello E facendolo urlare di dolore, un grido più simile ad un ringhio
bestiale che ad una voce umana.
Una simile ferita lo avrebbe sicuramente
ucciso in poco tempo, e infatti anche lui si ritrovò riverso a terra intento a
cercare inutilmente di impedire la fuoriuscita di sangue dal moncone. Emma
volendo, pur nelle sue condizioni, avrebbe potuto finirlo, ma voleva che fosse
Izumi a vibrare il colpo di grazia; solo così, si diceva, avrebbe capito
veramente cosa poteva arrivare ad essere un vampiro.
«Forza!» urlò buttandosi sopra al Livello E
per immobilizzarlo col proprio corpo «Uccidilo!».
Ma Izumi non ne aveva la forza, e fissava,
seduta in terra e con la schiena appoggiata al muro, quell’essere mostruoso che
si dimenava come un forsennato, ed Emma che con tutte le sue forze cercava di
trattenerlo.
«Non… non ci riesco…»
«Fallo, maledizione!» urlò di risposta Emma «O
ti ucciderà!».
Ma non c’era verso.
«Io…io…» mormorò Izumi piangendo impotente.
Fu questione di un attimo; indebolita dalla
sua ferita, Emma commise l’errore di allentare un momento la presa, ed il
Livello E immediatamente ne approfittò, scrollandosela di dosso e partendo all’attacco.
Con le ultime forze che aveva il vampiro
spiccò un salto, piombando dritto contro Izumi, che lo osservava immobile e
terrorizzata.
«Asakura!» urlò Emma con tono quasi di ordine.
Allora, e solo allora, Izumi si risolse, ed
urlando a sua volta chiuse gli occhi e alzò violentemente il pugnale davanti a sé.
Il Livello E vi finì praticamente impalato, e
prima ancora di perdere un goccio di sangue divenne subito cenere.
Izumi trovò la forza di riaprire gli occhi
solo dopo molti secondi, e vedendo la lama del pugnale colorata di rosso
immediatamente lo mollò, sgranando gli occhi e spalancando la bocca.
Lei… aveva
appena ucciso un essere vivente. Un mostro forse, ma che un tempo era
sicuramente stato un uomo, e forse un brav’uomo, che aveva avuto come unica
colpa quella di essere stato trasformato in un vampiro e di essere divenuto per
questo una belva cacciatrice di sangue.
Allora, era doppiamente vero.
Non solo non tutti i vampiri erano persone
rispettabili e degne di fiducia, ma anzi, oltre a poter diventare mostri come
quello che aveva appena ucciso, avevano anche il potere di crearli.
Quasi fuori di sé per il dolore ed il senso di
paura, si alzò e cercò di scappare, ma prima che potesse farlo una presa
possente le afferrò il polso, e dopo un attimo lei si ritrovò a sprofondare con
il viso nel petto morbido e caldo di Emma, che la strinse a sé lasciando che
desse libero sfogo al proprio pianto.
«Rilassati.» le disse abbracciandola e
guardandola con estrema dolcezza «È finita. È tutto finito».
Dopo poco, si rimisero a cavallo per fare
ritorno a scuola, in silenzio, ognuna presa nei propri pensieri.
A prima vista sembrava che fosse stata Izumi
ad ucciderlo, ma Emma, pur nel semi-delirio del dolore e nella fatica della
lotta, aveva notato distintamente una specie di proiettile sbucare dall’alto e
piantarsi nella testa del Livello E per poi uscire dall’occhio sinistro e
scomparire subito dopo senza toccare terra. La ragazza ebbe a malapena il tempo
di voltarsi, che vide una specie di ombra nascosta tra i rami di un albero scomparire
nel nulla senza darle il tempo di poterla distinguere.
Alla fin fine, Izumi non aveva fatto altro che
impalare un nemico già morto, ma questo non importava.
Ciò che importava davvero, era che avesse
imparato la lezione.
Sfortunatamente, tra il sollievo di aver
portato a casa la pelle, quello per aver evitato che ad Izumi accadesse
qualcosa, ed il dolore per quella ferita che non vedeva l’ora di medicarsi,
Emma aveva troppe cose per la testa per accertarsi che tutto fosse davvero
finito; in caso contrario, si sarebbe accorta che il nemico da lei ucciso nella
foresta non era affatto morto.
Non era diventato cenere, e dopo qualche
minuto, quando il sole era ormai già tramontato, la sua orrenda ferita, mortale
per qualunque vampiro, lentamente si risanò, fino a lasciare dietro di sé nulla
più che una vistosa cicatrice.
Dopo poco, riaprì gli occhi, all’interno dei
quali, come sul monitor di un computer, comparve quasi subito una frase
lampeggiante.
FUNZIONI VITALI RISTABILITE
DIRETTIVE DI MISSIONE
-- UCCIDERE ERIC FLYER E
KANAME KURAN –
ESEGUIRE!
Nota dell’Autore
Eccomi qua!^_^
Scusate l’assenza più
lunga del normale, ma ho avuto qualche problema nel corso degli ultimi giorni.
Primo, ho voluto
finire un extra che avevo lasciato in sospeso da parecchio tempo, secondo, mi
sono beccato una bella parainfluenza (sembra che ultimamente vada di moda qui
nel fandom).
Comunque, che ve ne
pare? Piaciuto quest’ultimo capitolo?
Ora che il tempo delle
presentazioni è finito, le cose cominciano ad entrare davvero nel vivo.
Già dal prossimo
capitolo, botte da orbi a ripetizione.
Izumi
era così provata e scossa da ciò che aveva visto che si addormentò a metà del
tragitto, abbandonandosi contro la schiena di Emma, che vedendola si lasciò
sfuggire un tiepido sorriso.
Tornarono alla Cross a sera tarda, quando la
lezione della Night Class era già incominciata, e
come Emma si aspettava, raggiunta la stalla, trovò qualcuno ad attenderla.
«Non temere, bel cavaliere tenebroso.» disse
vedendo Eric sbucare fuori da un angolo buio dell’edificio «La tua principessa
è sana e salva.
Per fortuna che il tuo cane da guardia ci
teneva d’occhio.»
«Le hai fatto correre un bel rischio. Lo sai,
vero?»
«Chissà perché, ma non mi pari incavolato come
ci si aspetterebbe».
Eric non fece trasparire emozioni o pensieri,
ma Emma capì di averci azzeccato.
«Beh, dopotutto» disse il ragazzo incrociando
le braccia «È andato tutto bene.»
«E la signorina qui presente ha capito la
lezione. Ora starà un po’ più attenta nel relazionarsi con i vampiri.
Non era proprio quello che volevi?».
Solo allora Eric piegò le labbra in un sorriso
sarcastico.
«Non che possa approvare completamente il
metodo, ma dati i risultati…».
Anche Emma sorrise, e guardò Izumi ancora
addormentata in sella al cavallo.
«La piccolina qui doveva capire quanto i
vampiri possono essere imprevedibili. Ce ne sono di onorevoli e degno di
rispetto, questo è vero, ma ce ne sono anche parecchi di cui è bene diffidare
per natura.
Mi spiace solo che l’abbia dovuto capire in
questo modo».
Eric a quel punto si avvicinò al cavallo e
prese Izumi tra le braccia, osservandone per un momento i lineamenti delicati.
Tra le mani stringeva ancora lo stiletto che Emma le aveva dato, e con il quale
era convinta di aver ucciso il suo primo vampiro; lo prese, restituendolo alla
proprietaria.
«Tenetelo pure.» disse Emma rifiutandolo «Non
sia mai che un giorno le serva di nuovo».
Emma però sembrava preoccupata, o quantomeno
soprapensiero.
«Qualcosa non và?» le chiese Eric
«C’erano due Livello E al villaggio.»
«Era da prevedersi. È la presenza di così
tanti vampiri di sangue nobile ad attirarli da queste parti. E allora?»
«L’ordine di caccia ne menzionava solo uno. È strano,
non trovi?»
«Qualche errore ogni tanto capita. Neanche l’Associazione
è perfetta, dopotutto.»
«Già.» replicò Emma con falsa sicurezza
«Probabilmente hai ragione».
Poi, Eric notò la ferita che Emma cercava
vanamente di nascondere.
«Vai a darti una sistemata. A lei ci penso
io.»
«Come vuoi tu, capo.» rispose ironica la
Hunter.
E a quel punto, i due si separarono, andando
per opposte direzioni.
La
notte scorreva tranquilla, e non era neanche troppo fredda.
Zero svolgeva regolarmente il suo compito di
guardiano perlustrando i giardini esterni della scuola, quelli che davano verso
il cancello principale, volgendo di tanto in tanto gli occhi alle vetrate del
primo piano, dove la Night Class stava usufruendo
della propria ricreazione.
Non c’era nulla da segnalare, e visto ciò Kiryu scelse di concedersi qualche minuto di riposo
accomodandosi ad una delle panchine in pietra lungo il viale principale.
Stava quasi per addormentarsi, come suo solito
del resto, quando una strana sensazione lo fece trasalire, facendolo scattare
sull’attenti; per un istante, un attimo prima di assopirsi, gli era parso di
scorgere qualcosa, con la coda dell’occhio, come un’ombra che si muoveva tra
gli alberi ai lati del cortile.
Voleva pensare di aver visto male, ma poi si
convinse che era comunque il caso di andare a dare un’occhiata: alla peggio,
poteva essere solo l’ennesima studentessa della DayClass a caccia di foto rubate.
Si alzò, e seguendo il proprio istinto si
portò alle spalle dell’edificio principale, nei pressi del ponte che conduceva
al dormitorio luna.
Sembrava tutto calmo, la notte era bene
illuminata e in giro non si vedeva nessuno.
Eppure, nonostante ciò, il semplice sospetto
di aver visto qualcosa, invece che affievolirsi, si rafforzò nell’animo di
Zero, che stette per un po’ a guardarsi attorno cercando di scorgere qualcosa
nel buio circostante, con la strana e fastidiosa sensazione di avere addosso lo
sguardo di qualcuno… o qualcosa.
La sensazione, di colpo, divenne certezza, e Kiryu, con i sensi al massimo, fece appena in tempo ad
estrarre Bloody Rose e a voltarsi di scatto,
gettandosi immediatamente di lato per evitare una poderosa artigliata.
Un’ombra gli passò sopra, oscurando la luna, e
al termine di una lunga falcata precipitò letteralmente a terra sulle proprie
gambe, producendo un urto tale da incrinare il selciato e far tremare
leggermente il suolo.
Anche Zero si rotolò sul selciato, e prima
ancora di rialzarsi aveva puntato Bloody Rose in
direzione dell’aggressore.
Come la vide, ne restò atterrito.
Era una creatura altissima, almeno due metri
di altezza, la pelle grigia di un vampiro, una testa completamente pelata,
occhi piccoli e rossi, un corpo ridondante di muscoli rinchiuso in un
impermeabile nero aperto sul davanti da una vistosa spaccatura ed
un’espressione asettica, svuotata.
«Che cosa sei tu?» domandò Zero come se lo
stesse chiedendo a sé stesso «Un vampiro?».
In realtà, era qualcosa di molto peggio di un
semplice vampiro, come Emma nella concitazione del momento non era riuscita a
rendersi conto; e quello che era peggio, le sue dimensioni e la sua forza erano
quasi raddoppiate, dopo che una forza o una volontà misteriosa lo aveva
riportato in vita nonostante la sua ferita mortale.
Il vampiro, o qualsiasi cosa fosse, rimase in
silenzio, ma in realtà non si stava limitando a fare la statua.
I suoi occhi erano come il mirino di un fucile
di precisione, che una volta inquadrato Zero furono in grado di procurare,
estrapolandole da chissà quale archivio, tutte le informazioni che lo
riguardavano.
SOGGETTO: ZERO KIRYU
POSIZIONE: HUNTER APPRENDISTA
STATUS: OSTILE
PERICOLOSITÀ: MODERATA
-- TERMINARE! --
Gli
occhi del mostro si illuminarono di colpo, e quello senza proferire parola si scagliò
all’attacco mettendosi a correre.
Zero esitò, non sapendo cosa fare, ma poi
quello tentò di mollare un pugno tremendo, oltretutto ad una velocità quasi
incredibile considerata la sua massa, e dopo averlo schivato quasi per miracolo
il ragazzo si decise a rispondere.
Sparò alcuni colpi, dritti al cuore e alla
testa, ben sapendo che quelli erano gli unici punti vulnerabili per un vampiro.
I proiettili, tre in tutto, andarono a segno
uno dopo l’altro appena il mostro si volse nella sua direzione dopo aver
mandato a vuoto il suo attacco, colpendo uno al centro del petto, uno
all’altezza del cuore, e uno dritto in mezzo alla fronte.
Tutti e tre colpi sicuramente mortali, eppure
il vampiro, pur barcollando vistosamente, non morì; anzi, quando rialzò la testa,
Zero vide con i suoi occhi le tre ferite rimpicciolirsi fino a scomparire.
«Ma cosa…» disse
attonito.
L’unico risultato che Zero ottenne fu di far
infuriare ancora di più la creatura, che si lanciò all’attacco con più furia
bestiale di prima. Di nuovo Kiryu riuscì a schivare
il colpo dall’alto al basso con uno spostamento laterale all’ultimo secondo, ma
stavolta il colpo fu talmente violento che non si limitò a produrre solo una
piccola crepa sulle mattonelle del selciato.
Non avendo altra soluzione Zero ci riprovò con
una nuova scarica di colpi, diretti stavolta tutti al cuore, ma il risultato
che ottenne fu sempre lo stesso.
«Ma che diavolo sta succedendo!?» disse
infilando un nuovo caricatore «Si può sapere cosa accidenti è questo… mostro!?».
Il mostro in questione, però, sembrava
terribilmente arrabbiato, e alla terza carica Zero, per colpa anche di un piede
in fallo, si fece trovare scoperto, con il risultato di prendere letteralmente
il volo, colpito in pieno sterno da un pugno che aveva la potenza di una
cannonata.
Per fortuna il colpo produsse un danno molto
inferiore a quanto ci si aspetterebbe, e mentre tornava a terra sulle proprie
gambe Zero ringraziò per un istante di essere in parte vampiro, perché un
normale essere umano come niente sarebbe esploso dopo una bordata simile.
«Che cosa diavolo sei tu?» mugugnò tenendosi
il petto.
Zero non aveva mai sentito di vampiri tanto
resistenti, e di certo non fino al punto di poter guarire da un colpo diretto
al cuore; perciò, o quello era un vampiro davvero coriaceo, oppure, e adesso Kiryu stava iniziando a pensarlo sul serio, non era affatto
un vampiro.
Ma il vampiro, o qualunque cosa fosse, a
differenza di Zero non era per niente stanco, e vedendo il suo avversario in
difficoltà partì nuovamente alla carica come un toro infuriato, menando pugni
che sventravano il terreno; il ragazzo riuscì ad evitarne alcuni, sparando i
pochi colpi che gli erano rimasti nel tentativo di difendersi, ma quasi nello
stesso istante in cui si ritrovò di nuovo il caricatore scarico, e stavolta
senza poterlo sostituire, una seconda bordata lo investì in pieno, sparandolo
contro una colonna e lasciandolo a terra semi-svenuto.
«Ma… maledizione.»
ringhiò sentendosi uno straccio e vedendo la rotaia di Bloody
Rose tirata.
Così ridotto non era più una minaccia, e il
vampiro nemico parve rendersene conto, infatti temporeggiò, anche se solo per
qualche secondo.
Questa piccola esitazione, però, fu più che
sufficiente per salvare la vita a Zero, perché d’improvviso, rompendo la quiete
prima del colpo finale, una selva di punte di ghiaccio emersero dal terreno
come tante stalagmiti, infilzando e trafiggendo il mostro in tutte le parti del
corpo.
In linea teorica, una cosa del genere poteva
risultare fastidiosa persino per un vampiro nobile, eppure ancora una volta
quell’essere ne uscì quasi indenne, e senza neanche lasciarsi sfuggire un urlo
o una esclamazione di dolore; era immobilizzato, d’accordo, ma da come si
dimenava era chiaro che non lo sarebbe stato per molto.
Zero restò basito, e un attimo dopo Ichijo e gli altri comparvero tutto intorno a lui, quasi a
voler assumere le sue difese.
«Guardiano, così mi deludi.» disse Aidou, che mai avrebbe pensato di trovarsi un giorno a
dover salvare proprio Zero «Dov’è finita tutta la tua tracotanza?»
«Che… che ci fate
voi qui?» ringhiò Zero rifiutando l’aiuto di Shiki e
rimettendosi faticosamente in ginocchio
«Bel ringraziamento per averti appena
salvato.» disse Rima
«Il Capo-Dormitorio Kuran
ha avvertito che stava accadendo qualcosa, e ci ha ordinato di venire a
controllare.» rispose Ruka.
L’abominio, intanto, si stava riprendendo, ed
era quasi sul punto di spaccare le punte che lo imprigionavano.
«Coriaceo il nostro amico.» osservò Aidou «Kain, ci pensi tu?»
«Come al solito.» mormorò seccato il rosso
facendo un passo avanti.
Kain alzò la
mano destra, che si circondò di fiamme arancio vivo, e coma la agitò il mostro
venne letteralmente inglobato da un mare di fuoco che lo accese come una
torcia.
Ancora una volta, nonostante il dolore
indicibile che sicuramente doveva provare, non fiatò, anche se prese a dimenarsi
furiosamente nel tentativo di spegnersi, ma quelle fiamme bruciavano senza
pietà, e quando alla fine si dissolsero di lui non era rimasto che un enorme
pezzo di carbone riverso sul selciato annerito dal fumo e dal calore.
«Questi Livello E.» disse Rima «Non sanno
proprio stare al loro posto.»
«Dubito che si trattasse di un semplice
Livello E.» disse Zero
«Strano pretesto per giustificare la tua
scarsa prestazione.» commentò Shiki con insolito
spirito
«Avete mai visto un Livello E incassare tre
pallottole d’argento al cuore e continuare a muoversi?».
Ma Zero aveva fin troppo ragione.
Qualsiasi cosa fosse quell’abominio, non era
di sicuro un normale vampiro, e lo provava il fatto che non fosse ancora
diventato cenere, come nessuno dei ragazzi sembrava aver notato. Allo stesso
modo, nessuno di loro avrebbe potuto notare che quell’essere non fosse altro
che uno strumento, comandato da qualcosa che stava decine di chilometri sopra
le loro teste.
Il
satellite classificato CX-230 Peracelsus, adibito
ufficialmente ad uso meteorologico, gravitava attorno alla Terra già da diversi
mesi, ma nessuno poteva neanche lontanamente pensare quale fosse il suo reale
scopo.
A prima vista era un satellite come tanti
altri, eccezion fatta per l’insolita bandiera che ne decorava la fusoliera e le
vele solari, un tricolore nero, bianco e rosso circondato da scritte in
cirillico, ma la sua antenna principale aveva ben altro scopo che inviare a
terra dati su cicloni e temporali.
Oltre all’antenna di comunicazione, il
satellite possedeva anche un sofisticato telescopio, il quale ad un certo punto
si attivò, arrivando in pochi secondi ad inquadrare con sconcertante nitidezza
prima il collegio Cross, poi il suo cortile, e infine il gruppetto di ragazzi
che sostava nei pressi del cancello del Dormitorio Luna.
Poi, l’obiettivo inquadrò l’ammasso di carne
fumante distante pochi metri, e nello stesso momento anche l’antenna variò la
propria angolazione.
Passarono alcuni istanti, ed il cervello di
quell’essere carbonizzato, qualsiasi cosa fosse, da quasi spento che era fu
violentemente riattivato; i suoi occhi si riaprirono, ed al loro interno
lampeggiò un nuovo messaggio.
FUNZIONI VITALI: 12%
TESSUTO ESTERNO COMPROMESSO AL 92%
PERICOLOSITA’ SOGGETTI OSTILI: ALTA
-- ATTIVARE PROTOCOLLO! --
Dopo
un secondo, quell’ammasso di carne iniziò a pulsare, emettendo
contemporaneamente un rumore come di ebollizione che attirò l’attenzione dei
ragazzi, facendoli accorgere solo in quel momento che il loro nemico non era
ancora diventato cenere.
E stavolta, anche Aidou
dovette rinunciare alla sua tracotanza.
«Ma che diavolo…»
disse sgranando gli occhi.
I vestiti che il mostro indossava erano stati
inceneriti dalle fiamme, e così tutti poterono vedere distintamente la carne
della creatura che non solo si ricostituiva, ma che addirittura sembrava
espandersi, quasi a voler raddoppiare di dimensioni.
Il mostro, senza grossi problemi, si rialzò, e
sotto gli occhi dei ragazzi il suo corpo iniziò a trasformarsi radicalmente: il
busto ed il torace si ingrossarono fino a scoppiare, le gambe si irrobustirono,
e le mani si ingrandirono in modo sproporzionato; ogni dito si indurì e si
piegò, fino a dotare la creatura di dieci sciabole di almeno trenta centimetri,
ricurve e taglientissime. Una porzione di tessuto della spalla si innalzò verso
l’altro, mentre la testa si abbassò leggermente, fino a venire quasi inglobata
dal collo, e riverberi rosso fuoco cominciarono ad apparire qui e là, come
strisce di lava al di sotto di una coltre di roccia.
Appena quella specie di mutazione ebbe fine,
il mostro aveva guadagnato almeno cinquanta centimetri al altezza, e di umano o
vampirico non aveva quasi più niente.
«Beh» osservò Shiki
cercando di non tradire emozioni «Non è una cosa che vedi tutti i giorni».
Sdrammatizzazioni a parte, anche così l’avversario
non dava l’idea di essere troppo ostico, almeno per un gruppo di vampiri nobili
dal grande potenziale.
Il mostro cercò di attaccare, ma di nuovo Aidou lo fermò trafiggendolo in più punti coi suoi spuntoni
di ghiaccio, anche era chiaro che non sarebbe rimasto immobilizzato a lungo.
«Allora?» domandò il biondino «Alla solita
maniera?»
«Non potresti cercare di essere serio, chessò, una volta al giorno?» domandò Rima notando la
palese superficialità di Aidou, salvo poi appoggiarlo
«Io credo che passerò.» disse Ruka «È evidente che il mio potere non sarebbe di molta
utilità in questa situazione.»
«Io invece oggi credo di aver mangiato
troppo.» disse Ichijo col suo sorrisone da ebete «Ma
mi affido a voi».
Ma quattro vampiri erano comunque troppi per
risolvere un problemino di così poco livello, e così i restanti quattro si
sfidarono a morra cinese.
«Accidenti!» sbraitò Aidou
perdendo il confronto con il cugino «E và bene, a te l’onore».
Dall’altra parte, la disputa tra Shiki e Rima si risolse con la vittoria del ragazzo, e a
quel punto il duo per affrontare il nemico era formato.
«Avanti, sistemiamo in fretta questa storia e
andiamocene a dormire.» disse Kain avvicinandosi mani
in tasca.
Dopo qualche attimo il mostro si liberò
sbriciolando le punte di ghiaccio, e come se qualcuno avesse suonato la carica
si avventò contro il gruppo, prontamente ostacolato da Kain
e Shiki.
Shiki prima si
spostò evitando di essere travolto, quindi usò la sua frusta di sangue per
prendere al lazo il nemico ed immobilizzarlo, dando così modo a Kain di prendere bene la mira e scagliare un mare di fuoco
dieci volte più potente del primo.
Persino un vampiro nobile avrebbe faticato a
resistere ad un simile calore, eppure ben presto ci si accorse che tutte quelle
fiamme, per quanto potenti, riuscivano a produrre un danno piuttosto esiguo, e
dopo poco il mostro riuscì persino a liberarsi distruggendo la frusta di Shiki con un colpo di artiglio.
«D’accordo, lo ammetto.» disse Aidou vedendo che i suoi amici stentavano a prevalere
«Forse lo abbiamo un po’ sottovalutato».
Eric
aveva portato Izumi fino al Dormitorio Sole, arrampicandosi come un gatto lungo
i rami di un’edera fino al balcone della stanza.
Una volta qui, aveva aperto la finestra
lasciata socchiusa e deposto delicatamente Izumi nel suo letto.
Stette a guardarla a lungo, come ipnotizzato
da quel viso così gentile e delicato, pensando a cosa dovesse aver provato
quando era stata costretta a colpire quel vampiro per difendersi.
Da una parte lo sollevava che quella testa di
legno avesse capito quanto potevano essere pericolosi i vampiri, e come fosse
un errore illudersi che con tutti fosse possibile rapportarsi normalmente, ma d’altra
parte il pensiero di quello che aveva passato, e che era convinta di aver
fatto, forse erano troppo per lei?
Che fosse il caso di dirle la verità?
Che aveva solo trafitto un cadavere?
Probabilmente non sarebbe servito. Non importava
cosa avesse fatto o non fatto lei, ma ciò che aveva visto ed era stata
costretta a comprendere nel modo più diretto ed impietoso.
«Ti ringrazio.» disse percependo Nagisa nella
stanza
«Ho fatto solo il mio dovere, mio signore.»
rispose la ragazza, ascosta nel buio di un angolo.
Stava per andarsene e lasciarla riposare,
quando Eric avvertì nitidamente un senso di minaccia proveniente dall’esterno;
corse ad affacciarsi al balcone, e volgendo lo sguardo verso il cancello del
Dormitorio Luna poté scorgere distintamente alcuni strani bagliori.
«Ma cosa…» disse
incredulo.
Era evidente che laggiù c’erano problemi, e il
suo primo impulso fu di andare a vedere cosa stava accadendo; poteva esserci
bisogno di aiuto.
«Resta con lei.» comandò a Nagisa, ma prima
che potesse saltare giù la sua succube lo fermò
«Aspettate, mio signore».
Nagisa a quel punto uscì dall’ombra, sbalordendo
Eric: tra le mani, infatti, teneva Izanami, che il
ragazzo era convinto di essere stato costretto, causa direttive dell’Associazione,
a lasciare a casa.
«Nagisa…» disse
guardandola.
Lei sorrise; apposta aveva chiesto una
giornata di libera uscita al direttore, dopo quello che era accaduto quella
notte quando Izumi si era tagliata per sbaglio. Visto che Eric non poteva
lasciare il collegio né tenere con sé armi o equipaggiamento da Hunter, Nagisa
aveva deciso di essere il suo emissario fuori dalle mura della Cross, e
recuperata la spada aveva convinto Izumi a tenerla nella propria stanza, sempre
a disposizione: in questo modo, nessuno avrebbe potuto accusarlo di trasgredire
agli ordini.
«Questo è…» disse
timidamente «Un piccolo regalo».
Eric la guardò ancora, poi, sorridendo
compiaciuto, recuperò la katana.
«Grazie.» le disse, e saltò giù.
Nagisa si sentì scaldare il cuore: ogni volta
che il suo maestro la ringraziava, o semplicemente le sorrideva, lei si sentiva
rinascere.
Poi, le cadde l’occhio su Izumi, ancora
addormentata, e allora quel senso di felicità si spense leggermente, attutito
da un altro come di disincanto; che bello poteva essere, se il suo maestro le
avesse sorriso e l’avesse guardata allo stesso modo in cui faceva con quella
ragazza.
Correndo
il più velocemente possibile Eric raggiunse il campo di battaglia, arrivandovi
giusto in tempo per evitare che Shiki, colto alla
sprovvista, venisse travolta dall’ennesima carica.
Avvedutosi di quello che stava accadendo il
ragazzo richiamò a sé il proprio potere, ed aperto un varco nello spazio e nel tempo
vi scomparve dentro, ricomparendo dopo meno di un istante tra il mostro e Shiki e usando la propria spada per parare l’affondo d’artigli
destinato al rosso.
«E tu cosa ci fai qui!?» disse Shiki vedendoselo comparire davanti
«Ne parliamo dopo, che ne dici?» replicò il
ragazzo a denti stretto per lo sforzo.
Accortosi del nuovo venuto il mostro rinunciò
quasi subito allo scontro di forza, portandosi a distanza di sicurezza ed
eseguendo su di lui la stessa scansione che aveva eseguito su Zero.
SOGGETTO: ERIC FLYER
MINACCIA: ELEVATA
-- MASSIMA PRIORITA’! --
A
quel punto il mostro lasciò perdere completamente Kain
e Shiki e si concentrò su Eric, correndogli contro e
tentando di artigliarlo.
Flyer ringraziò di essersi tenuto in esercizio
con l’aiuto di Emma, altrimenti persino lui avrebbe avuto problemi a
contrastare la furia scatenata di un simile bestione.
Una cosa che Eric notò subito, così come
avevano fatto quasi tutti i membri della Night lì presenti, era che quel
mostro, oltre al fatto di non essere quasi sicuramente un comune vampiro, non
mostrava quel comportamento bestiale e puramente istintivo proprio dei Livello
E.
Si scagliava all’attacco contro tutto ciò che
vedeva, d’accordo, ma sembrava esservi una qualche strategia dietro il suo modo
di agire.
Il problema però era un altro, e cioè che
quell’essere era una specie di carro armato, apparentemente immune a qualsiasi
tipo di ferita, anche a quelle che solitamente avrebbero segnato la condanna a
morte di qualunque altro vampiro.
Eric schivò alcuni colpi e ne parò altri,
riuscendo a portare alcuni buoni colpi e anche a tranciare di netto uno degli
artigli della mano destra, ma nonostante i due colpi al cuore, uno affondo ed
un fendente, quel mostro non voleva saperne di arrendersi.
A quel punto, l’unica era provare a
decapitarlo, ma con quella massa spaventosa e quei nove artigli che tranciavano
anche gli alberi secolari e spaccavano il selciato, cercare di raggiungere il
collo era decisamente un azzardo.
Per fortuna, Shiki e
Kain avevano intuito cosa Eric avesse in mente di
fare, e scambiatisi un’occhiata di intesa passarono a loro volta al
contrattacco.
«Flyer!» urlò Akatsuki.
Eric si avvide dell’arrivo di una vampata di fuoco
e si spostò all’ultimo secondo, lasciando che le fiamme facessero il loro
lavoro.
Come le altre volte, l’attacco apparentemente
non produsse alcun effetto, ma in realtà il suo scopo era solo quello di
distrarre il mostro accecandolo temporaneamente; approfittando del momento, Shiki fulmineo arrivò alle spalle del nemico, che appena
liberatosi del fuoco si vide avvinghiare polsi e collo da una vera e propria
rete di sangue scaturita da tutte le dieci dita di Shiki
che lo immobilizzò completamente.
Tentò di liberarsi, come aveva già fatto nelle
altre due occasioni, ma questa volta Eric lo colse in controtempo, e urlando
per darsi forza gli saltò addosso menando un fendente orizzontale con tutta la
forza che aveva.
La lama di Izanami
si schiantò sulla spalla del mostro come un martello sull’incudine, al punto di
Flyer sentì i polsi tremare come se fossero stati sul punto di sbriciolarsi, ma
dopo un attimo di esitazione l’arma riuscì a penetrare quella spessa pelle di
cuoio, viaggiando all’interno del collo fino a riemergere dalla parte opposta.
Staccata di netto, la testa del mostro volò
via come un fuscello, e quasi nello stesso momento in cui rotolò sull’erba
anche il resto del corpo si infranse a terra senza più vita, cadendo all’indietro
e producendo, col suo peso, un gran fragore ed una fitta coltre di polvere.
Eric, Shiki e Kain attesero che la polvere si posasse, quindi si avvicinarono
cautamente, constatando l’effettiva morte del nemico.
«Si può sapere chi ti ha invitato?» domandò Aidou, che proprio non riusciva a farsi piacere quel
mezzosangue di Flyer
«Anch’io sono felice di vederti, Hanabusa.» replicò acido Eric
«Ad ogni modo, che cos’era quell’affare?»
domandò Ruka
«Gli ho sparato due interi caricatori di
pallottole d’argento, colpendolo due volte al cuore e due alla testa.» disse
Zero sorreggendosi, seppur di malavoglia, a Ichijo «Ma
non è servito a niente.»
«Temo che questo essere fosse tutto meno che
un vampiro.» osservò il vice capo-dormitorio.
Poi, accadde qualcosa che lasciò tutti di
stucco.
«Ehi, guardate.» esclamò Kain
indicando il mostro.
Era passato forse un minuto dalla sua morte,
quando d’un tratto il corpo della creatura, invece di mutarsi in cenere, iniziò
come una specie di calcificazione, rapida ed innaturale; gli artigli e tutte le
parti ossee esterne si staccarono, sbriciolandosi, mentre i tessuti molli si
mutarono in un materiale simile alla pietra con sorprendente rapidità, al punto
che qui e là si aprirono anche delle piccole crepe.
Anche la testa, che Rima aveva raccolto e
teneva ancora tra le mani, subì lo stesso destino, e dopo meno di trenta
secondi quello stranissimo essere, qualunque cosa fosse, era diventato come una
statua.
Ichijo e gli
altri erano sgomenti, e probabilmente lo sgomento si sarebbe mutato in
preoccupazione se avessero saputo che qualcuno, o qualcosa, migliaia di metri
sopra le loro teste, aveva ripreso tutta la scena.
Nota
dell’Autore
Salve a
tutti!^_^
Dopo una
pausa tutto sommato breve, ecco a voi il nuovo, fiammante capitolo di questa
storia.
Ora le
cose cominciano a farsi serie, che ne dite.
Tranquilli,
che siamo solo all’antipasto. Andando avanti sarà anche peggio, ve lo posso
assicurare!^_^
Per ora si
sono messi in mostra solo Aidou e gli altri, ma state
tranquilli che dal prossimo capitolo sarà la volta anche degli OC, che un po’
per volta avranno tutti la loro storia personale.
Ora
dovrete darmi qualche giorno, perché mercoledì e giovedì sarò impegnato e quasi
sicuramente non avrò tempo per scrivere.
L’Accademia
Cross disponeva nei suoi sotterranei di un ambulatorio attrezzato, con tra le
altre cose anche il necessario per eseguire un’eventuale autopsia analitica.
Il direttore lo aveva costruito nella speranza
di impiantare un praticantato di medicina per gli studenti dell’ultimo anno, ma
da quando il suo progetto era naufragato era diventato il “campo dei giochi”
della responsabile dell’infermeria scolastica, la dottoressa JunHimeka, una specie di
versione femminile del dottor Frankenstein.
Giovane, bionda, ufficialmente era una Hunter,
ma a differenza della maggior parte dei suoi colleghi lei i vampiri preferiva
sezionarli ed analizzarli; che si prendesse qualcun altro la fatica di
ucciderli.
Come Cross al sorgere del sole fu informato di
quello che era successo ordinò subito di eseguire un’analisi accurata sul
misterioso mostro mentre la DayClass
era a lezione, ma pur con tutta la forza sovrumana dei vampiri furono necessari
gli sforzi combinati di quattro studenti della Night Class
per caricare quell’ammasso di pietra su di un carrello da spedizioni e portarlo
fino in laboratorio.
«Sarebbe questa la…
cosa?» domandò la dottoressa mentre Eric, Zero, Nagisa e il direttore issavano
a fatica il mostro sul tavolo operatorio, rafforzato per l’occasione.
La dottoressa, oltre che un po’ matta, era
anche incredibilmente metodica.
Prima di iniziare il lavoro si infilò
un’auricolare con microcamera, per registrare e filmare ogni evento e
considerazione in vista di uno studio futuro e più approfondito.
«Beh.» osservò il direttore «Mi sembra
evidente che non si tratta di un vampiro.»
«Forse» replicò la dottoressa «Ma alcune
caratteristiche sembrano corrispondere alla struttura fisiologica tipica dei
vampiri.»
«Per esempio?».
La dottoressa sollevò allora la testa mozzata,
appoggiandola sopra l’ampio torace del mostro perché tutti potessero vederla.
«Osservate la struttura mandibolare.» disse
indicando la bocca semi-aperta, e solo parzialmente pietrificata «Trentasei
denti, proprio come i vampiri. E canini superiori ad alta penetrazione, con
iniettori interni di anestetico e neurotossina per paralizzare la vittima.
Forse non sarà un vampiro, ma è chiaro che
appartiene allo stesso ceppo».
Jun provò ad
incidere la pelle pietrificata della creatura con un bisturi ad altissima
penetrazione, ma era così dura che la lama, per quanto tagliente, non riuscì
neanche a scalfirla; a quel punto, non essendo neanche una campionessa di
pazienza, la dottoressa andò di matto.
«E và bene!» urlò sfoderando una enorme mazza
da fabbro «A mali estremi, estremi rimedi!»
«Aspetta, che fai?»
«Non mi fermare, Kaien!
O me o lui!».
Nonostante la parvenza minuta Jun aveva una forza spaventosa, e usandola tutta menò un
colpo di martello al centro del torace tale da sprigionare la potenza di una
palla da demolizioni; e visto che non esisteva forza al mondo in grado di
resistere alla Mantide Selvaggia, sotto la pressione di quella cannonata, capace
anche di far tremare il pavimento, una parte della copertura in pietra saltò
via, facendo schizzare dal suo interno interiora e sangue come un fuoco
d’artificio.
«Ma che schifo!» disse Kaien
ritrovandosi inondato di budella «Ecco perché ti avevo detto di aspettare.»
«Molto interessante.» disse la dottoressa con
tutta la naturalezza del mondo «Allora, la pietrificazione interessa solo lo
strato esterno dell’organismo.
Anche l’analisi del tessuto e degli organi
interni rivelò sorprese inaspettate.
«Questo essere è dotato di due cuori
sovrapposti.» disse Jun facendolo notare «Il primo è
molto grande, e di solidi strati di muscolo, mentre il secondo è più piccolo, e
rivestito da una specie di placca cartilaginea.
Deve essere spessa almeno mezzo centimetro.»
«Ora mi spiego perché i colpi al cuore non gli
facevano niente.» disse Zero.
Poi, la dottoressa notò qualcosa di ancor più
incredibile.
«Interessante.» disse osservando un campione
al microscopio «Le cellule sono iperattive. Quelle esterne si sono come calcificate,
ma quelle interne, nonostante il decesso, stanno continuando a lavorare.
Si direbbe quasi che stiano cercando di
riparare i danni, e che la pietrificazione non sia altro che un meccanismo di
difesa per proteggere questo processo.»
«Cosa vorrebbe dire?» domandò Eric guardando
il mostro «Che potrebbe essere capace di tornare in vita?»
«Con i danni che ha subito, non credo. Ma è
chiaro che ancora adesso sta provando a rigenerare le proprie ferite.»
«L’iperattività cellulare potrebbe spiegare
anche la sua trasformazione?» domandò il direttore
«È probabile. Le cellule di questa creatura
lavorano ad una velocità doppia rispetto a quelle di un comune vampiro, e
almeno dieci volte superiore rispetto alle cellule umane. È questo alla base
delle sue elevate capacità rigenerative e di trasformazione. Il suo organismo
risponde al problema nel momento stesso in cui si presenta, indipendentemente
da quale sia.»
«Ma che razza di essere è mai questo?» chiese
Nagisa.
Eric per la verità un’idea se l’era fatta, e
così anche il direttore, ma dovette comparire Kaname
a confermare i loro sospetti perché riuscissero a crederci.
«In tutta la Terra, c’è un solo essere il cui
destino è quello di pietrificarsi dopo la sua morte.» disse il capo-dormitorio
della Night Class comparendo sulla soglia del
laboratorio
«Kaname.» disse il
direttore «Quindi tu pensi davvero che…»
«Lo sapevo.» disse Eric «Questo è un
Revenant.»
«Un cosa!?» replicò la dottoressa
«Mio signore, di che cosa si tratta?»
«Anche i vampiri hanno avuto la loro catena
evolutiva.» disse Kaname avvicinandosi al tavolo
«Anche se, nel nostro caso, forse è più giusto parlare di un albero
dell’evoluzione, che nel corso dei millenni ha portato la nostra specie
principale a generare diverse sottospecie secondarie, le quali di volta in
volta si sono messe in contrasto con gli originali per stabilire quale fosse la
più adatta a sopravvivere.»
«Capisco.» disse Jun
riflettendo tra sé «Una specie di corsa all’evoluzione congenita, che spinge
una specie a generare arbitrariamente delle mutazioni al fine di
perfezionarsi.»
«I Revenant furono una di queste categorie
secondarie. Una delle ultime, per l’esattezza. Ma come tutte le altre venute
prima di loro, ben presto il numero esiguo e le scarse capacità intellettive li
portarono all’estinzione.»
«Estinzione non direi, visto che ce n’è uno
proprio qui davanti a te.» commentò Zero un po’ acido
«La maggior parte di loro sono morti o sono
stati uccisi almeno venti secoli fa. So che Valopingius,
il tuo antenato, aveva tentato di clonarli per la sua guerra, ma i pochi
esemplari che era riuscito a creare sono stati distrutti prima di poter essere
utilizzati.
Evidentemente, qualche esemplare della specie
deve essere sopravvissuto fino ad oggi.»
«E come spieghi che sia comparso proprio qui,
e proprio ora?» chiese Eric
«Coincidenze.»
«Sbaglierò, ma non mi sei mai sembrato il tipo
di persona che crede alle coincidenze.»
«Vero. Ma a volte capitano.»
«Forse Kaname ha
ragione.» osservò il direttore «Di questi anelli mancanti quasi-estinti
ne sono già saltati fuori altri nel corso degli anni. Forse questi Revanant erano rimasti rintanati per secoli in qualche
luogo remoto tra queste montagne, e la presenza di tutti questi vampiri
all’accademia ha catturato la loro attenzione.»
«Se posso permettermi.» intervenne la
dottoressa «Ritengo sia il caso di fare una segnalazione all’Associazione ed
informarli di quanto è accaduto.
Eventualmente ci sapranno dire se ci sono
stati altri avvistamenti».
Il direttore storse leggermente il naso
all’idea.
Già il progetto di scambio culturale non era
partito sotto i migliori auspici, con tutte le critiche che aveva suscitato, e
se poi veniva fuori che era accaduta una cosa simile qualcuno avrebbe potuto
cercare di approfittarne.
Poi però, pensandoci bene, Kaien
ritenne che forse non era un’idea così malvagia: se qualche altro Revenant era
ricomparso o ne era stata segnalata la presenza in altre parti del Paese o del
Mondo sarebbe stata la prova che la Cross non c’entrava, e che quindi il
progetto poteva andare avanti.
«D’accordo. Farò una telefonata, e vediamo che
cosa mi dicono.»
«Nel frattempo.» disse ancora Jun «Per quanto mi dispiaccia, ritengo sia il caso di
distruggere questo corpo. È vero che i danni sono così ingenti che una
rigenerazione è quasi impossibile, ma in ogni caso è meglio essere sicuri.»
«Sì, sono d’accordo.» rispose Kaien, che poi si volse verso Kaname
«Puoi occupartene tu?»
«Lasci fare a me, direttore. Non ha motivo di
preoccuparsi».
Il direttore trascorse qualche attimo come
soprapensiero, poi gli cadde l’occhio sull’orologio affisso alla parete.
«Accidenti, è già tardi. Bisogna sbrigarsi.
Zero.»
«Ma si può sapere perché devo andarci io?»
«Perché sei il capo della Disciplinare, e
perché in questo momento non mi viene in mente nessun altro.»
«Che succede?» chiese Eric
«Sono in arrivo quattro nuovi studenti per il
progetto di scambio. Ho ricevuto una richiesta da alcuni amici europei per
farli ammettere anche ora che le iscrizioni sono chiuse.
Due di loro, due nuove studentesse della Night
Class, arriveranno proprio stanotte, e visto che la
linea ferroviaria per Hakuba è ancora bloccata
bisogna che qualcuno vada a prenderle a Nagano.»
«A tal proposito.» ribatté Zero «Se non
sbaglio è lui il capo-dormitorio degli iscritti al progetto nella Night. Perché
non ci và lui?»
«Per il semplice fatto che a lui è proibito
uscire dalla scuola, quindi a cuccia e obbedire!» rispose il direttore con un
tono da padre severo che in realtà lo faceva sembrare solo più ebete
«Ho capito, accidenti.» mugugnò Kiryu andandosene con un diavolo per capelli «Una giornata
davvero stupenda, non c’è che dire».
Il
dottor Iruma dicevano tutti che, quando era nato, era
stato fatto con lo stampo sbagliato, il che per la verità non sembrava essere
poi un’affermazione così falsa.
Bassetto, leggermente gobbo, con quel volto a
metà tra il muso di un rospo e una palla da rugby e quei capelli marroni da
clown sparati a formare una mezzaluna quasi perfetta, aveva proprio le
sembianze di uno scienziato pazzo fatto e finito.
E pazzo, in realtà, qualcuno aveva ritenuto
che lo fosse davvero, non a caso era stato cacciato dall’Associazione per i
suoi studi e le sue ricerche altamente discutibili, sia sul piano degli
argomenti che delle metodologie utilizzate.
Per molto tempo aveva vissuto come un
fuggitivo, un fuorilegge ricercato, poi gli si era presentata una insperata
occasione, e ora, viveva all’ombra del suo generoso protettore nonché
finanziatore, che oltre a garantirgli l’incolumità gli aveva anche permesso di
portare avanti le sue ricerche.
Per dieci anni non aveva avuto rivali, e aveva
potuto godere di una libertà quasi assoluta, ma negli ultimi tempi un nuovo
gallo si era presentato nel suo pollaio, e stava minacciando di portargli via
quel rispetto e quella egemonia che in tutto quel tempo non aveva mai perduto.
Il dottor Durand era
una vera spina nel fianco, sempre pronto a mettere bocca in ogni cosa, ma bravo
quanto bastava per rischiare di adombrare il suo presunto superiore; e quello
che era peggio, il loro datore di lavoro sembrava tenerlo in grande considerazione.
Iruma cercava
di incontrarlo il meno possibile, e ogni volta che accadeva si sentiva male
solo a guardarlo. E purtroppo, quel giorno era destino che gli dovesse venire
un travaso di bile, visto come era andata quella prova pratica che tanto aveva
voluto, e che alla fine si era conclusa con un nulla di fatto.
Se solo ci pensava non riusciva a crederci.
La sua creatura, su cui aveva scommesso tutto,
lo aveva tradito; e adesso, purtroppo, era giunta l’ora di renderne conto.
Nella sala conferenze del laboratorio, lui e
il dottor Durand sedevano ai lati opposti del grande
tavolo rettangolare, con gli sguardi rivolti al monitor sul fondo della stanza,
dove capeggiava l’immagine, parzialmente oscurata, del loro principale, del
quale si potevano notare una leggera barba grigia, capelli ben curati anch’essi
grigi ed un elegante bastone da passeggio appoggiato sul bracciolo della
poltrona dove era accomodato.
«Allora?» esordì il principale come ebbe
inizio la riunione «Come è andata?»
«Il Revenant artificiale da noi sviluppato ha
dimostrato indubbie potenzialità, ma anche parecchi difetti.» rispose lapidario
il dottor Durand
«Un momento, io non sarei così negativo nel
dipingere il quadro generale.» si affrettò a replicare Iruma
«È vero, è stato abbattuto, ma ha saputo dare un certo filo da torcere a quei
vampiri nobili.»
«Ma è stato sconfitto.»
«Era ampiamente previsto. Ma non si può negare
che si sia fatto valere.»
«Forse. Ma onestamente, visto tutto il lavoro
che è stato necessario alla sua realizzazione, mi sarei aspettato qualcosa di
più».
Iruma ringhiò
di rabbia, e come faceva sempre per tentare di calmarsi si sistemò un momento
gli occhiali.
«I Revenant sono indubbiamente delle creature
dotate di grande forza e resistenza.» riprese il dottor Durand
tornando a guardare il monitor «E le loro elevate capacità rigenerative li
rendono discretamente pericolosi, anche per un vampiro di livello medio-alto come gli allievi della Night Class.»
«Appunto, per questo…»
fece per dire Iruma
«Tuttavia.» lo interruppe il dottor Durand «Il problema sta nel loro livello intellettuale. La sua
intelligenza è molto sotto la media, e se non fosse per i comandi che siamo in
grado di impartirgli tramite i biosistemi neuronali sarebbe poco più di una
bestia senza raziocinio.»
«Questo si sapeva fin dall’inizio.» mugugnò Iruma quasi parlando tra sé
«Forse.» gli rispose Durand
«Ma in ogni caso è un limite non indifferente.» quindi si rivolse di nuovo al
principale «Il fatto è che, a mio modesto parere, il rendimento effettivo sul
campo di battaglia di un singolo revenant compensa solo minimamente gli sforzi
necessari a produrne uno in laboratorio».
Di nuovo, il dottor Iruma
ringhiò come un leone in gabbia.
«Per realizzare pochi prototipi ci sono voluti
dei mesi.» incalzò Durand «Realizzarne un’armata
intera potrebbe richiedere anni di lavoro. Il modello genetico è troppo
complicato, e i risultati effettivi troppo limitati per giustificare un tale
dispendio di tempo e risorse.»
«E allora che cosa suggerisce, dottore?».
Il dottor Durand ci
pensò alcuni istanti, massaggiandosi la nuca.
«Signore. Con il dovuto rispetto, avrei un
altro progetto in mente.»
«Un altro progetto?»
«Da qualche tempo ho iniziato a fare degli
studi su altre creature e ceppi evolutivi, e credo di averne individuata una
che potrebbe fare al caso vostro.»
«Che storia è questa?» sbottò il dottor Iruma scattando in piedi «Stai cercando di scavalcarmi.»
«Ho fatto alcune ricerche.» proseguì Durand senza starlo a sentire «Il modello genetico dovrebbe
essere piuttosto semplice, e se i miei studi sono corretti dovrebbe trattarsi
di una specie dalle elevate potenzialità combattive.
Purtroppo, al momento non dispongo di
sufficiente materiale, ma con il suo beneplacito e il suo appoggio, sono sicuro
di poter colmare questa lacuna in tempi rapidi.»
«Tu, maledetto.» ringhiò Iruma
«Questa è ancora la mia ricerca!»
«Basta così.» sentenziò il principale «I
revenant sono senza alcun dubbio un potenziale di buon livello, e realizzarne
alcuni esemplari in laboratorio ha rappresentato una grande conquista.»
«Vi ringrazio, signore.»
«Tuttavia.» sentenziò subito dopo, spietato
«Alla luce dei risultati ottenuti, essi si sono rivelati indubbiamente inadatti
allo scopo per il quale erano stati pensati.»
«Ma, signore…»
balbettò Iruma, stavolta basito
«Dottor Durand. Lei è
convinto della genuinità della sua teoria?»
«Non posso esserlo al cento per cento, ma mi
sento di essere piuttosto ottimista. I primi test hanno dato esito
soddisfacente.»
«Molto bene. In questo caso, proceda pure. Le farò
avere tutto ciò di cui avrà bisogno. Mi aspetto risultati concreti in tempi
rapidi.»
«Sarà così. Contateci».
Il dottor Iruma si
sentiva doppiamente beffato della sorte; non solo il suo esperimento aveva
sostanzialmente fallito, ma oltretutto ora quel dannato ex-umano gli aveva
appena sfilato dalle dita una buona fetta del progetto insieme alla sua
egemonia su di esso.
Avrebbe voluto saltargli addosso e strozzarlo
con le sue stesse mani, ma si trattenne, e appena chiusa la conversazione se ne
andò sbattendo il portone.
«Ricordati che questa me la pagherai!» sbraitò
mentre usciva.
Lasciata la stanza si incamminò lungo un
avveniristico corridoio che procedeva a perdita d’occhio, illuminato da decine
di luci artificiali inserite nel pavimento e nel soffitto, quando dalla tasca
del suo camice giunse una specie di suoneria.
«Dottore, c’è un problema.» rispose dall’altro
capo una voce pacata e composta, da soldato «Abbiamo perso il contatto con Capo
Eagle.»
«Che cosa!?»
«Prima di scomparire, Capo Eagle
ha inviato un segnale di SOS. Riteniamo sia andato perduto da qualche parte sui
monti della prefettura di Nagano.»
«E che ne è stato del pacco numero due che era
a bordo?».
Il soldato temporeggiò, quasi avesse paura di
quello che doveva dire.
«Ecco, veramente…».
Il
treno ultrarapido proveniente da Tokyo, l’ultimo della giornata, raggiunse la
stazione di Nagano poco prima del tramonto.
Tra coloro che ne scesero, una giovane ragazza
dai lunghi capelli nivei, pelle pallida ed occhi chiari, che si portava
appresso una pesante valigia rossa. Sembrava quasi una modella.
Come scese furono in molti a notarla, ma la
cosa non sembrava farle particolarmente piacere, tanto che guardatasi un
momento attorno se ne andò via con aria quasi scocciata perdendosi tra la
folla, e correndo a rifugiarsi in uno dei vari caffè della stazione.
«Un tè nero.» ordinò alla giovane cameriera
venuta a prendere la sua ordinazione.
Per lunghi minuti stette a rimestare il cucchiaino
nella bevanda fumante, osservando quasi soprapensiero le persone che andavano e
venivano attraverso la vetrina del locale.
«Aspetti qualcuno?».
Per lo spavento quasi saltò sul posto, e
rigettata bruscamente alla realtà la ragazza si girò alla propria destra,
incrociando la figura, ugualmente longilinea e ben proporzionata, di una sua
coetanea, per certi versi molto somigliante a lei; i capelli, lunghi come i
suoi, anche se più lisci e setosi, erano un colore argenteo tendente al
turchese, gli occhi grigi e scintillanti, viso austero e semplice, estremamente
maturo.
Con sé aveva un borsone da viaggio.
Le due ragazze non faticarono a riconoscersi,
e dopotutto era stato questo che aveva spinto una a cercare l’altra.
«Tu chi sei?» domandò la celeste
«Quando ci si rivolge ad una persona.» rispose
la nivea riacquistando il proprio contegno e autocontrollo «Di solito ci si
presenta per primi».
Seguì un attimo di silenzio.
«Alexandra.» disse infine la prima «Alexandra Ek.»
«Io sono Nives.» rispose la seconda «Nives Nightwish».
Fin dal primo istante per la verità Nives
aveva trovato famigliare quella ragazza, e ora che ne sapeva il nome e la
guardava bene in volto iniziava a capire perché.
A parte il fatto che provenivano entrambe
dalle due famiglie di vampiri nobili che da sempre dominavano la penisola
scandinava, i Nightwish di Norvegia e gli Ek di Svezia, avevano viaggiato a bordo dello stesso aereo;
era stato in quell’occasione che Nives aveva notato Alexandra, riconoscendola
subito come un proprio simile.
«Posso sedermi?»
«Se proprio vuoi.» rispose Nives quasi
stizzita.
Né Alexandra né Nives erano mai state delle
campionesse di socialità, e lo dimostrava il fatto che nonostante vi fossero
solo pochi chilometri a dividere i loro palazzi non si erano mai conosciute, ma
visto che avrebbero dovuto fare il viaggio assieme tanto valeva cercare di
andare d’accordo, almeno entro i limiti della tolleranza.
Restarono entrambe in silenzio, ognuna immersa
nei fatti propri, fino a quando l’arrivo di un taxi dal quale scese un giovane
dai capelli d’argento che indossava la facilmente riconoscibile uniforme della
Cross non attirò la loro attenzione.
«È arrivato il nostro calesse.» osservò
Alexandra
«Chiamalo calesse.» sbottò Nives «Potevano
almeno mandarci una macchina privata».
Le due ragazze recuperarono quindi le loro
cose e si diressero all’uscita della stazione, puntando a colpo sicuro verso
Zero.
«Nightwish ed Ek?» domandò il ragazzo vedendole avvicinarsi
«Siamo noi.» rispose Alexandra
«Cos’è, di colpo la Cross è scesa di categoria?»
osservò Nives guardando il semplice taxi bianco sporco
«Considerato che non sete voi a pagare.» le
rispose in rima Zero «Io non mi lamenterei».
La ragazza ingoiò il rospo risentita e
stizzita: non era certo normale per lei trovare qualcuno che le tenesse testa.
«Avanti, date a me i bagagli.» disse poi Kiryu, forse nel tentativo di stemperare i toni «Ne abbiamo
di strada da fare».
Dopo poco, il taxi partì.
Come
predetto da Zero il viaggio durò più di due ore, e quando il taxi lasciò Hakuba inerpicandosi lungo la strada stretta e tortuosa che
portava fino alla scuola ormai si era fatta notte.
Di lampioni, manco se ne parlava.
La strada ufficialmente apparteneva alla
scuola, e i fondi richiesti dal direttore per far installare un sistema di illuminazione
erano sempre stati negati, si era detto perché non ce n’era bisogno.
I fari del taxi fendevano l’oscurità,
illuminando di tanto in tanto anche il bosco circostante, immerso a sua volta
nel buio e nel silenzio.
Seduto davanti, accanto all’autista, Zero
ripassava l’ultima lezione di scienze, anche perché il giorno dopo sarebbe
stato test, mentre dietro Nives e Alexandra si facevano ognuna i fatti propri.
Brutta cosa essere degli asociali, venne quasi
da pensare a Zero scrutandole dal retrovisore.
Ma in fin dei conti, si poteva quasi dire lo
stesso di lui; quando Yuki era stata convinta dal
direttore a partire per l’Europa, per un attimo si era sentito mancare la terra
sotto i piedi, ma quasi subito aveva cercato di trovare una nuova ragion d’essere
nel suo ruolo di guardiano e nell’apprendistato da Hunter. Inoltre, ultimamente
aveva incominciato ad intrecciare un buon rapporto con Flyer, con cui sentiva
una forte affinità.
In realtà però, a dominare nella sua mente era
il pensiero di quanto accaduto quella notte.
Essere stato salvato dalla Night Class era un pensiero che lo faceva rabbrividire, inoltre
per la prima volta si era dovuto confrontare con una minaccia reale, e non si
poteva certo dire che il suo battesimo del fuoco fosse stato dei migliori,
anche a sua discolpa avrebbe potuto portare l’eccezionalità dell’avversario.
Doveva migliorare, e su questo non c’erano
dubbi.
Certo, però, non poteva immaginare che il
destino gli avrebbe offerto subito l’opportunità di riscattarsi.
Mancava poco più di un chilometro per arrivare
a scuola, di cui si intravedevano già le luci in lontananza, quando all’improvviso
un’ombra scura attraversò velocissima la strada, illuminata per un istante dai
fari della macchina.
«Ma che…»
Il conducente del taxi, colto di sorpresa,
sterzò bruscamente a sinistra, e a causa del terreno reso scivoloso dalle
ultime piogge perse il controllo della macchina, finendo dritto contro un
albero a lato strada e sfracellandovisi.
Nives e Alex, colte alla sprovvista, furono
violentemente sbalzate contro i sedili anteriori, mentre Zero, che indossava la
cintura, se la cavò con un bello strattone; andò peggio al conducente, che
nonostante l’airbag rimediò una bella botta.
«Che diavolo era quello?» si domandò il
ragazzo, salvo poi dare la precedenza alle condizioni degli altri passeggeri
«Voi due, state bene?»
«Ma che è successo!?» chiese Nives.
Zero si accertò anche delle condizioni del tassista,
appurando che per fortuna era solo svenuto. A tentoni il ragazzo riuscì poi ad
accendere il faretto interno, che per fortuna funzionava ancora, e il suo primo
impulso non appena fu in grado di vederci nuovamente fu di chiamare aiuto.
Prese il cellulare, ma come si aspettava vide
che non c’era campo.
«D’accordo, intanto usciamo di qui.» disse
dando un calcio alla portiera e riuscendo ad aprirla.
Anche Nives ed Alexandra scesero: erano
entrambe un po’ frastornate, ma incolumi.
«Non c’è che dire, un ottimo inizio.» disse
Nives
«E adesso che si fa?» chiese Alexandra
«Mi sembra ovvio, raggiungiamo il collegio. Ormai
non dovrebbe mancare molto.»
«Invece.» rispose Zero «Credo sia molto meglio
restare qui, almeno per il momento.»
«E perché, se è lecito chiedere?».
«Perché» rispose Zero sfoderando Bloody Rose e guardandosi attorno sospettoso «Ho l’impressione
che non siamo soli».
Anche le due ragazze a quel punto si misero
sul chi vive, cercando di sfruttare i loro sensi superiori per cogliere la
minima traccia di pericolo nel buio e nel silenzio tutto attorno.
«Come prima cosa, sarebbe il caso di avvertire
qualcuno.» disse Zero «Solo che il telefono qui non prende.»
«Per questo non c’è problema. Dove si trova il
collegio?»
«Un chilometro circa a nord da qui. Ma come ho
detto, sarebbe molto meglio restare insieme.»
«Questo non sarà un problema. Cinque minuti e
ritorno coi rinforzi.»
«Aspetta, che vuoi fare?».
Alexandra non gli diede il tempo di finire;
messasi a correre, da un istante all’altro il suo corpo si trasformò, mutandosi
in quello di una superba aquila di mare che subito prese il volo alla volta del
collegio.
«Già, è vero.» disse Nives «Dimenticavo che
gli Ek sono famosi per le loro capacità di trasformazione.
E noi intanto cosa facciamo?»
«Ce ne restiamo qui ad aspettare il suo
ritorno.»
«Aspettare il suo ritorno!?» replicò Nives
«Starai scherzando spero!».
Detto questo la ragazza recuperò la propria
valigia dal bagagliaio, aprendola; a prima vista conteneva solo indumenti e quanto
necessario per la permanenza al collegio, ma in realtà disponeva un doppiofondo
segreto, dal quale Zero vide spuntare fuori un vero arsenale di armi da taglio
e da corpo a corpo, soprattutto lame.
«Chiunque abbia avuto la brillante idea di
mettersi sulla mia strada.» disse Nives recuperando un machete, degli aghi da
lancio e un grosso coltello da caccia «Avrà modo di pentirsene.»
«Questo non è un film.» disse Zero
«E io non sono un’attrice.» replicò lei sicura
di sé dirigendosi verso la foresta «Tu resta pure qui se vuoi».
Zero tentò di dissuaderla, ma quella testa di
marmo non voleva sentire ragioni, così il ragazzo non ebbe altra scelta e le
andò dietro inoltrandosi con lei nel folto degli alberi.
Nota
dell’Autore
Eccomi
qua!^_^
Un altro
capitolo fatto e finito!
Dite la
verità, non ve lo aspettavate.
Anche io
onestamente credevo di non farcela, ma il caso ha voluto che una serie di
imprevisti arrivassero a svuotare le mie giornate di ogni impegno, sì da darmi
il tempo per scrivere.
Allora,
contenti?
Le cose
diventano sempre più interessanti.
Come avete
visto sono apparsi altri due OC di Threadsof Fate, e con l’arrivo, a breve, di Gabriel e Derek di Thefinalwar, il gruppo sarà finalmente completo. A quel
punto, le cose diventeranno davvero serie.
Zero
e Nives si addentrarono in profondità nel bosco, e alla vampira non servì molto
perché le sue notevoli capacità di cacciatrice, affinate in anni di pratica nei
boschi della Norvegia, le permettessero di imbattersi in tracce fresche di una
misteriosa creatura bipede, nella fattispecie una enorme orma di scarpa, molto
superiore a quella lasciabile da un normale essere umano o vampiro.
«Un sessanta, come minimo.» ipotizzò
osservando il calco nel fango fresco «E dalle dimensioni e dalla profondità, deve
pesare almeno duecento chili».
Zero non faticò a immaginare a chi, o a che
cosa, potessero appartenere.
«Credo sia davvero il caso di tornare
indietro.»
«Dì un po’, ma sei sicuro di essere un
guardiano?» gli replicò Nives «Ho visto ragazzine più coraggiose di te.»
«Razza d’idiota, non lo capisci? Abbiamo a che
fare con un Revenant!».
Nel sentire quel nome, la ragazza non riuscì a
trattenere una risatina.
«Oltre che codardo, pure credulone. Un
revenant. Come no.»
«Allora dimmi. Secondo che cosapuò aver lasciato un’impronta simile?».
Un’argomentazione convincente e logica, che
avvalorava la tesi.
«Comunque.» disse Nives calma e sicura
nonostante tutto «Non vedo la ragione di avere tutta questa paura.
I revenant sono solo degli animali stupidi e
ottusi. Niente che una vampira sangue puro come la sottoscritta non possa
gestire.»
«Ti sbagli. Tu non hai neanche idea di che
cosa possano essere capaci i revenant.»
«Davvero? Illuminami.»
«Adesso basta!» urlò Zero perdendo la pazienza
«Tu non rendi conto in che situazione ti trovi, razza di…».
In quella, però, Nivest
scattò sull’attenti, come attirata da qualcosa, e fulminea fece segno a Zero di
rimanere in silenzio.
«Lo senti?».
Anche Zero allora tese al massimo i propri
sensi, alla ricerca di qualunque cosa che facesse presagire un pericoloso.
«Odore di fumo.» disse fiutando l’aria
«Misto a sangue.» replicò Nives, che aveva un
olfatto di gran lunga superiore al suo, tanto da identificarne subito la
provenienza «Da questa parte».
Questa volta Zero seguì Nives quasi senza
fiatare, e assieme a lei raggiunse in pochi minuti una piccola radura in mezzo
agli alberi; proprio qui, poco discostato dal centro, i due ragazzi si
imbatterono nel relitto accartocciato di un grosso elicottero, un mezzo
militare sicuramente.
A giudicare dai detriti e da come era ridotto,
doveva essere precipitato, e visto quanto lontano fossero dalla civiltà non
c’era da stupirsi che nessuno se ne fosse accorto, tanto più che non c’erano
tracce di incendi o esplosioni.
«È un blackhawk americano.» disse Nives
«C’è una base militare americana non lontano
da qui. Forse veniva da lì».
Nives si avvicinò, gettando uno sguardo
all’interno ed accertando la morte dei due piloti, entrambi presumibilmente
morti nell’impatto.
Poi, notò il simbolo impresso sulla fiancata,
il tricolore nero-bianco-rosso con lo scudo crociato.
«Questo è lo stemma della Repubblica
dell’Est.» disse riconoscendolo
«La Repubblica dell’Est?» ripeté Zero, che non
era mai stato una cima in geografia, unica materia a fargli difetto
«È una delle Repubbliche ex-Sovietiche nate
dopo il crollo dell’URSS. Si trova sulle coste del Mar Nero.
Perché mai un loro elicottero si trova qui?»
«Se è un alleato degli Stati Uniti,
probabilmente arrivano anche loro dalla base militare».
Poi entrambi avvertirono distintamente un
rumore alle proprie spalle, scattando subito sul chi vive, ma a differenza di
Zero, che si limitò ad affondare una mano dentro la giacca, Nives senza remora
alcuna afferrò uno dei suoi aghi e lo lanciò fulminea alle proprie spalle.
«Chi c’è?» urlò mentre lo scagliava.
Per fortuna il suo bersaglio aveva i riflessi
altrettanto pronti, e riuscì a bloccare la punta tra l’indice e il medio un
momento prima di venire colpita.
«È questo il modo in cui solitamente ti
presenti agli amici, Nives?» domandò Raven uscendo
dagli alberi con l’ago tra le dita e Alexandra al seguito «Non sei cambiata
affatto in tutti questi anni.»
«Raven!?» esclamò
incredula la norvegese «Che cosa ci fai tu qui?»
«La stessa cosa che ci fai tu».
Raven e Nightwish erano amiche di vecchia data; si erano conosciute
durante una missione di Raven in Norvegia, anche se
nell’ultimo periodo si erano un po’ perse di vista. Anche Alexandra aveva già
incontrato la Hunter in un’altra occasione.
«Ho incrociato per caso Alexandra quando è
arrivata alla scuola, e mi ha raccontato quanto era successo. Il direttore ci
aveva mandato a recuperarvi, ma quando siamo arrivate sul luogo dell’incidente
voi non c’eravate.»
«Tutta colpa di questa testa di legno.» disse
malamente Zero indicando Nives
«Non preoccuparti. So ben io che la nostra Nightwish qui presente ha il brutto vizio di voler fare
sempre di testa sua.»
«Sì, ma ogni tanto qualcuna di giusta ne
combino. Abbiamo trovato tracce di un Revenant.»
«Un altro!?» replicò Raven,
che era stata messa al corrente di quanto accaduto la notte prima come tutta la
Night «Ne spuntano come funghi ultimamente.»
«Potrebbe essere stato un Revenant a fare
questo?» chiese Alexandra
«Non credo. Probabilmente è stato solo
attirato qui dal sangue».
Di
nuovo, tuttavia, i ragazzi non potevano rendersi conto di avere un occhio
invisibile sorvegliare tutto ciò che facevano.
Una volta informato di quello che era
successo, il dottor Iruma aveva immediatamente messo
al lavoro i pochi tecnici dei quali si fidava, con l’ordine di inserirsi quanto
prima in tutti i satelliti spia e trovarne uno che inquadrasse i monti attorno
a Nagano, dove era caduto l’elicottero.
Il satellite per le telecomunicazioni della
Repubblica dell’Est che usavano di solito ormai era fuori asse, ma per fortuna
ce n’erano altri a disposizione.
«C’è un satellite spia russo che sta
transitando proprio lì sopra.»
«Molto bene, inseritevi. Ci servono le
immagini.»
«Dottore.» disse un altro agganciando la cornetta
«Ho avvisato la squadra di recupero. Saranno lì in mezz’ora.»
«Dobbiamo localizzarlo per allora».
Iruma si
sentiva sulla graticola; nessuno sapeva cosa ci fosse realmente a bordo
dell’elicottero decollato quella mattina, e se qualcuno lo avesse scoperto per
lui sarebbero stati dolori seri, soprattutto perché ufficialmente tutte le
cavie del Progetto Level 0 erano state distrutte
tempo prima.
Era riuscito a salvarne solo una, e non
sentendosi al sicuro nel tenerla al quartier generale con l’arrivo di Durand l’aveva affidata a persone di fiducia perché fosse
portata nell’avamposto segreto in Giappone, dove erano tutti o quasi sotto il
suo controllo, ma quel maledetto doveva essersi liberato e aver fatto
precipitare l’elicottero, e adesso bisognava ritrovare sia la cavia che il
luogo dello schianto per ripulire tutto.
Il Progetto Level 0
era nato ed era morto quando ancora non era stato possibile clonare interamente
un Revenant in laboratorio, pur avendone a disposizione il codice genetico. Il
codice in questione era stato replicato ed inserito chirurgicamente in alcuni
Vampiri Ex Umani, nella speranza di evitare l’involuzione cerebrale dovuta
all’effetto del virus vermillion, ma il risultato era
stato esattamente l’opposto; le cavie testate avevano ottenuto alcune delle
capacità proprie dei revenant, ma ciò non era servito a impedire l’incancrimento della neocorteccia cerebrale provocata dal vermillion, cosa che ne aveva fatto una sorta di Livello E
ibridi, molto potenti ma assolutamente incontrollabili.
Il principale ne aveva ordinato la
distruzione, ritenendoli inutili e pericolosi, ma Iruma
aveva voluto conservarne uno nella speranza di riuscire un domani a correggere
l’anomalia, ma vista la situazione non restava altro da fare che eliminarlo.
Si trattava solo di inquadrarlo e catturare la
frequenza del circuito biomedico che tutte le cavie e i cloni avevano
impiantato nella testa, poi ci avrebbe pensato il satellite a inviare l’impulso
che lo avrebbe incenerito; e poi bisognava pensare anche all’elicottero caduto,
ma di questo si sarebbe occupata la squadra speciale.
«Dottore, ce l’ho fatta. Sono entrato nella
memoria del satellite.»
«Proietta subito le immagini».
Le immagini apparvero sul monitor principale
della consolle, inquadrando prima le montagne giapponesi e poi la zona dove si
presumeva che l’elicottero fosse caduto, basandosi sulle ultime coordinate
note.
Non era un satellite potente come quello in
dotazione alla Repubblica dell’Est, ma ciò nonostante dopo poco fu possibile
inquadrare la radura dello schianto, e con somma disapprovazione di Iruma furono immediatamente riconoscibili attorno al mezzo
distrutto alcuni studenti della Cross.
«Maledizione! Compaiono sempre al momento
sbagliato! Ma proprio lì doveva precipitare?»
«Dottore. Ho localizzato il segnale della
cavia.»
«Dove si trova?»
«A meno di venticinque metri dal punto
d’impatto, e procede in quella direzione».
Il satellite russo aveva anche un rilevatore
di calore, e attivandolo il dottore e i suoi poterono vedere distintamente una
figura rossa che si muoveva velocemente tra gli alberi verso l’elicottero
precipitato.
«A quanto pare non è ancora sazio».
Nella
radura intanto, Zero e le tre ragazze erano ancora intenti a guardarsi attorno,
cercando di capire cosa potesse essere successo, quando di nuovo avvertirono la
sensazione di non essere soli.
«Non mi piace questo rumore.» disse Zero
riferendosi alle sterpaglie smosse.
Tutti si misero in guardia, pronti a reagire
al primo pericolo, ma quando una figura minacciosa sbucò fuori dalla macchia
saltando addosso al gruppo fu Zero il più veloce nell’inquadrarlo e sparare,
anche se il suo tiro non fu dei più precisi.
Il nemico, sbalzato all’indietro, cadde a
terra colpito ad una spalla, ringhiante di dolore.
Le dimensioni erano di sicuro molto superiori
a quelle di un essere umano, ma già a prima vista non sembrava possedere quella
massa muscolare che Zero aveva visto combattendo con il Revenant la notte
prima; più che altro dava solo l’idea di un normale essere umano afflitto da
gigantismo, per quanto indubbiamente di costituzione superiore alla media.
«Questo sarebbe un Revenant!?» disse Raven sfoderando dalle cinture alle cosce le sue due
mitragliette vz 61 cecoslovacche
«Sembra diverso da quello della scorsa notte.»
disse Zero
«Questo non è un Revenant.» sentenziò Nives
«Solo un comune Livello E».
Invece, qualcosa di un Revenant doveva
possederlo, perché d’un tratto, come per magia, la ferita che Zero gli aveva
inflitto alla spalla guarì miracolosamente, lasciando dietro di sé nulla più
che una piccola cicatrice.
«D’accordo.» disse allora Nightwish
un po’ spiazzata «Forse è davvero un Revenant, dopotutto».
Ripresosi, e decisamente arrabbiato, il nemico
si scagliò di nuovo all’attacco, trovando Raven
pronta ad accoglierlo.
«Mangia un po’ di argento, bestione!» gridò la
ragazza scaricandogli addosso le sue mitragliette.
Quello però si fece scudo con le braccia,
mettendole davanti al viso e incassandovi tutti i colpi, che ebbero un effetto
decisamente secondario rispetto a quanto ci si sarebbe aspettato, quindi
avvicinatosi abbastanza saltò tentando di colpire la ragazza.
«Ma cosa…» disse
vedendoselo venire contro.
Fortunatamente, all’ultimo una selva di aghi
si abbatté sul bersaglio trafiggendolo in più punti, e dando in questo modo a Raven il tempo di spostarsi.
«Tutto bene?» chiese Nives
«Grazie dell’aiuto. Sai ancora come si fa».
Lo scontro era seguito via satellite anche dal
dottor Iruma e dai suoi collaboratori.
Uno di questi, vedendo che la cosa andava
complicandosi, fece per azionare il sistema di autodistruzione che la cavia
aveva nel cervello, ma sorprendentemente fu lo stesso dottore a fermarlo.
«No, lascialo fare.»
«Ma, signore…»
«E registrate tutto. Voglio una documentazione
completa. In futuro questi dati potrebbero servire.»
«Ma, se il conte dovesse scoprirlo…»
«Molto meglio fare la cosa giusta e chiedere
scusa, che non farla e pentirsene quando è troppo tardi.
Procedete.»
«Sì, dottore».
La cavia era indubbiamente un avversario di
alto livello, ma comunque non abbastanza da impensierire sul serio due Hunter e
due vampire aristocratiche forti e combattive, anche se le sue capacità
rigenerative alla lunga potevano diventare un problema.
L’unica cosa da fare era colpirlo nei soliti
punti deboli, cuore e testa, ma quello era abbastanza accorto da proteggerseli
ogni volta, senza scoprirsi, e faceva in modo di non dare mai le spalle a
nessuno dei quattro avversari per non rischiare un attacco a sorpresa.
«Allora non sono solo degli animali,
dopotutto.» osservò soddisfatto Iruma notando una
seppur basilare tattica nel modo di lottare del Level
0, come amava chiamarli.
Alexandra tentò l’assalto decisivo, e mutatasi
in un superbo lupo bianco corse contro al nemico, gli saltò addosso e lo
azzannò ad una spalla, attirando la sua attenzione; subito ne approfittò Nives,
che con il machete in una mano e il coltello nell’altra cercò di infliggere un
colpo mortale approfittando della distrazione della cavia, ma questa non si
fece sorprendere, afferrò Alexandra per la collottola, e con la sua enorme
forza la scagliò contro l’altra ragazza, buttando entrambe a terra.
«Ti spiace levarti?» mugugnò Nives al grosso
lupo che le stava sopra «Ti avverto che sei piuttosto pesante».
Zero e Raven
tentarono una manovra di attacco combinato da due direzioni, nel tentativo di
confondere la cavia e fare in modo che non potesse evitare entrambi gli
attacchi, ma ancora una volta il nemico si protesse i punti deboli con le
braccia scegliendo di schivare i colpi di Raven e
incassare quelli di Zero, assai meno numerosi.
«Questo proprio non vuole saperne di
arrendersi.» disse Raven vedendolo saltare da una
parte all’altra come un grillo aggrappandosi ai rami degli alberi tutto
attorno.
All’inizio sembrava una manovra volta a
confondere l’attenzione, ma all’improvviso il mostro, dandosi la spinta su di
un tronco come su di una molla, scattò fulmineo all’attacco come sparato da un
grosso cannone ad aria compressa.
«Attenta, Raven!»
gridò Zero, che gettatosi su di lei fece appena in tempo a levarla d’impaccio
«Tutto apposto?»
«Più o meno.» rispose lei un po’ frastornata
«Questa te la devo, Kiryu».
Il Livello 0 colpì come un proiettile, e
fallito l’attacco rimbalzò sul terreno come su una parete di gomma per fare
ritorno al sicuro sul ramo di un altro albero; una volta qui ritentò alla
stessa maniera, e così via via per molte volte
consecutive, sempre fortunatamente evitato.
Una sua artigliata poteva risultare molto
pericolosa se presa in pieno, e si muoveva troppo per poter tentare in qualche
modo di contrattaccare.
L’unica era provare a fermarlo, ma era un’incognita
grande come un palazzo: ci volevano grande resistenza, forza fisica, e
soprattutto una quantità eccezionale di sangue freddo.
Alexandra, che aveva ripreso forma umana, si
guardò attorno in un momento di quiete, che precedeva di sicuro l’arrivo di un
nuovo assalto, quindi, senza dire niente a nessuno, si alzò in piedi e corse al
centro della radura mettendosi in bella vista.
«Aspetta, che fai!» urlò Zero «Vuoi farti
ammazzare!?».
Il Livello 0, abilmente nascosto tra le
fronde, la notò, ma fu tanto avventato e poco accorto da cadere nella sua
trappola e senza rifletterci la caricò arrivandole da un fianco.
Ma Alexandra aveva i sensi più affinati di
qualunque vampiro le fosse mai capitato di conoscere, e non faticò a
localizzare la direzione dell’attacco, e quando le piombò addosso il Livello 0
si ritrovò imbrigliato nella stretta d’acciaio di uno spaventoso orso kodiak.
«Ce l’ha fatta, l’ha preso!» esclamò Raven
«Adesso mi hai proprio stufato!» ruggì
Alexandra in quelle forme spaventose, e non appena quello tentò di liberarli lo
scagliò in aria con tutta la sua forza.
Teoricamente in questo modo era vulnerabile,
ma poco dopo essere stato lanciato via tutti si avvidero che stava cercando di
riacquistare una posizione di combattimento.
Nives, però, non aveva alcuna intenzione di
permetterglielo.
«Col cavolo che te lo lascio fare!» urlò
spiccando un altissimo salto.
Con un solo balzò raggiunse il nemico a mezz’aria,
sfoderò gli artigli della mano destra e, come questi si illuminarono di rosso
sangue, glieli piantò con forza al centro del petto, dritto sul cuore.
Ma ancora non bastava; la ragazza infatti lo mise
davanti a sé, e sempre tenendogli gli artigli conficcati in corpo precipitò
insieme a lui verso terra come una meteora, mentre quello, pur devastato dal
dolore, tentava in qualche modo di liberarsi.
L’urto con il terreno fu violentissimo,
abbastanza da produrre un piccolo terremoto e sollevare un tremendo polverone,
ma quando tornò la calma del Livello 0 non restava che la cenere. Del resto,
anche escludendo il colpo indubbiamente mortale che aveva ricevuto, non era
possibile resistere agli artigli di Nives, capaci di incenerire istantaneamente
ogni cosa con cui venissero in contatto, e per questo usati con la massima
attenzione persino dalla loro stessa padrona.
«È finita?» domandò Zero
«Sembra di sì.» rispose Raven.
Anche il dottor Iruma,
nonostante tutto, era soddisfatto.
Aveva perso l’unica cavia che gli fosse
rimasta, ma almeno ci aveva guadagnato la certezza che il progetto Level 0 non era poi da buttare via, come aveva
puntualizzato quella primadonna di Durand fin dal
primo giorno in cui aveva messo piede al laboratorio.
Terminato
quello scontro, i quattro ragazzi fecero per fare ritorno verso il luogo dell’incidente,
per recuperare quel povero tassista prima di rientrare al collegio, dove avrebbero
informato il direttore di quanto accaduto e dei resti rinvenuti.
«Sbrighiamoci a tornare.» disse Zero
rinfoderando la pistola.
Invece, all’improvviso, si udì un rumore
assordante di pale, e dopo pochi secondi Zero e le ragazze si ritrovarono
abbagliati dal faro di atri tre elicotteri blackhawk, stavolta con impresso il simbolo USAF.
«Non muovetevi!» urlò qualcuno all’altoparlante
«Parla l’aviazione degli Stati Uniti!».
Furono gettate delle corde, dalle quali si
calarono una decina di soldati USAF con le armi puntate in direzione dei
ragazzi, che restarono schiena a schiena guardandosi attorno attoniti.
Nives, come al solito, aveva il sangue alla
testa, ben consapevole che insieme avrebbero potuto tranquillamente farli fuori
tutti, ma Raven la fermò come la vita cercare di raggiungere
l’impugnatura del pugnale.
«Sta calma. Hai deciso di farci uccidere?».
Quando poi i tre elicotteri toccarono terra
scese anche il capo della squadra, un capitano, che si avvicinò a Zero e gli
altri con fare minaccioso.
«Chi siete?» domandò severo «Che cosa ci fate
qui?»
«Siamo studenti.» ribadì Zero composto ma
fermo «Ci siamo trovati qui per caso.»
«Studenti?» replicò ridacchiando il soldato «E
di quale scuola, se è lecito chiedere?»
«Della mia!» rispose una voce tonante.
Il direttore Cross fece capolino dagli alberi,
severo e autoritario come Zero non ricordava di averlo mai visto, e con fare
sicuro si avvicinò al gruppo tenuto sotto tiro da alcuni soldati.
«E lei sarebbe?»
«Mi chiamo KaienCoss, e sono il direttore della scuola dove studiano questi
ragazzi. Si trova non lontano da qui.»
«E, se posso permettermi, quale motivo può
aver portato quattro adolescenti in giro per i boschi nel bel mezzo della
notte?»
«Loro» rispose il direttore indicando
Alexandra e Nives «Sono arrivate oggi. Ho mandato mio figlio e un’altra ragazza
a prenderle alla stazione di Nagano. C’è stato un incidente lungo il tragitto, e
tentando di raggiungere la scuola si sono persi e sono finiti qui».
Il sergente squadrò Kaien
come fosse stato un criminale recidivo, ma alla fine, incredibilmente, non
controbatté.
«D’accordo, abbiamo già abbastanza problemi. Non
ho nessuna voglia di averne altri.
Questo elicottero della Repubblica dell’Est proveniva
dalla nostra base militare di Kogashima, ha avuto un
incidente in volo e ci hanno mandato a riprenderlo.
Prenda il suo quartetto di ragazzini, sparisca
da qui, e farò finta di non avervi mai incontrati».
Il direttore non stette a farselo ripetere;
prima se ne andavano e meglio era.
«Forza, andiamo via.» ordinò ai ragazzi
«Ma, direttore…»
tentò di protestare Zero
«Zero.» rispose severissimo Kein «Devo ripeterlo un’altra volta?».
Il ragazzo ringhiò di disappunto; c’erano
molte cose che avrebbe voluto dire, prima fra tutte la questione del Livello E
coi superpoteri che avevano incontrato, ma era chiaro che quello non era il
momento migliore.
Così, con Raven e le
altre al seguito, Zero si mise in coda al direttore e i cinque tornarono sui
loro passi, seguiti con lo sguardo dal capitano americano.
«Signore.» disse l’ufficiale parlando
sottovoce alla sua auricolare «È proprio sicuro di volerli lasciare andar via
così?»
«Non c’è alcun pericolo.» rispose dall’altro
capo una voce gracchiante e acuta, da far venire male alle orecchie «Per loro
era un Livello E come un altro, anche se un po’ sopra la media. Non hanno
neanche la minima idea di cosa abbiano realmente affrontato.
Cancellate le prove e tornate indietro».
Note
dell’Autore
Eccomi
qua!^_^
Ci è
voluto un po’ più del previsto, ma alla fine sono riuscito a completare anche
questo capitolo.
Ora, però,
dovrete darmi un paio di settimane di tregua.
Purtroppo
tra poco dovrò affrontare una prova importante, che non posso assolutamente
permettermi di sbagliare, e finora non ho quasi preso in mano i libri, quindi
sarò costretto a lasciar momentaneamente perdere la scrittura.
La prova
in questione sarà il 16 di questo mese, poi prometto di ridarmi nuovamente da
fare.
Ecco, ho
detto tutto.
Grazie
come sempre ai miei lettori e recensori!^_^
Zero
e le ragazze ricevettero dal direttore una sonora lavata di capo per il macello
che avevano combinato, e per essere stati così avventati da mettersi in
pericolo in quel modo.
Fu aperta un’inchiesta dall’Associazione, e
furono fatte delle indagini.
Il risultato, redatto tramite un rapporto ufficiale,
fu che il mostro affrontato nel bosco era un vampiro ex-umano nato dal morso
del revenant, che aveva portato alla nascita di un Livello E anomalo.
Zero credeva a questa versione come credeva
agli asini volanti, ma non poteva farci niente e dovette ingoiare il boccone
amaro, beccandosi anche un giorno di sospensione e la revoca del titolo di
guardiano per una settimana.
Da quel momento, e per diverso tempo, non
accadde più nulla.
Trascorsero alcuni mesi, e alla primavera
cominciò a fare seguito l’estate, con tutti i problemi connessi, soprattutto
peri vampiri.
Fu adottata, in entrambe le classi, l’uniforme
dei mesi caldi, che eliminava la giacca e introduceva per i ragazzi calzoni più
leggeri, e il numero di ore di lezione degli studenti della Night fu passato da
otto a due, decurtando l’intervallo e passando da cinque a sei lezioni
settimanali, per dare modo ai vampiri di limitare al massimo la presenza alla
luce del sole.
In tutto questo tempo, cambiarono anche altre
cose.
Con il passare dei giorni e delle settimane,
Eric stava scoprendo l’importanza e le responsabilità del proprio ruolo,
immedesimandosi sempre più nella figura di capo-dormitorio, e anche i ragazzi
dello scambio culturale avevano iniziato a trattarlo con il rispetto dovuto e a
fidarsi di lui, o almeno quasi tutti.
Qualcuno, come Raven,
nutriva ancora delle riserve sul suo conto, e non riusciva a fidarsi del tutto
di quello che diceva o faceva, mentre qualcun altro, e soprattutto Pierre, dei
suoi comandi e disposizioni non sapeva proprio che farsene, ed anzi li sfidava
apertamente.
Il suo supervisore, invece, ancora non si era
fatto vedere; una lettera recentemente giunta sulla scrivania del direttore lo
informava che questi era stato coinvolto in una indagine di massima importanza,
e che sarebbe arrivato comunque entro pochi giorni.
Tuttavia, c’era ancora qualcosa di strano
nell’aria.
Anche se non stava succedendo niente, negli
ultimi tempi in particolare avevano preso a circolare sempre più
insistentemente delle voci non confermate di avvistamenti di nuove creature non
vampiresche in varie parti del mondo, e si respirava un’aria come di attesa; i
capi e l’associazione minimizzavano, ma l’impressione, almeno per Eric, era
quella di essere seduti su una bomba a tempo, pronti eventualmente a saltare
via ma senza essere certi di poterlo fare in tempo.
Intanto la vita al collegio procedeva
normalmente.
Fino ad una notte.
La lezione della Night Class
era incominciata da poco, e il professore era appena entrato in classe.
«Flyer!» disse Yagari
«Il direttore vuole vederti. Ti sta aspettando nel suo ufficio.»
«Adesso!?.»
«No, domani. Certo che è adesso».
Probabilmente non era niente di che, visto e
considerato che non ricordava di aver fatto nulla di male, ma comunque, quando
alla porta del suo ufficio, si fece tutta una serie di giri mentali per essere
sicuro di non avere nulla sulla coscienza prima di bussare.
Come al solito Kaien
era intento a godersi il dolce far niente, lucidando il suo maneki-neko
come fosse stato un gioiello prezioso.
«Vedo che sei sempre molto impegnato.» osservò
sarcastico
«Ma che stai dicendo? Questo è un lavoro di
alta precisione e responsabilità. Lo ai vero? Maneki
lucidato, buon lustro assicurato.»
«Cosa volevi dirmi?» tagliò corto il ragazzo
«Niente di particolare. Mi hanno informato che
il tuo supervisore sta finalmente arrivando. Probabilmente sarà qui tra
stanotte e domattina.»
«E mi hai chiamato dalla lezione solo per
dirmi questo?»
«Beh, pensavo ti avrebbe fatto piacere. In base
agli accordi della sospensione della pena, l’arrivo del supervisore ti
conferisce qualche privilegio e libertà in più.»
«Per esempio?»
«Per esempio, sei autorizzato ad andare fino a
Nagano, a condizione ovviamente che il supervisore venga con te.
Tanto più che se ho capito bene è qualcuno che
hai già avuto modo di conoscere».
Nel sentire quella frase, Eric ebbe come un
presentimento.
«Qualcuno che conosco!?» disse mentre una
goccia di sudore gli rigava le tempie «Non sarà per caso…».
D’improvviso, proprio in quel momento, una
specie di esplosione squarciò il silenzio della notte, e i due, affacciatisi
alla finestra, poterono scorgere una piccola nuvola di fumo alzarsi dal
dormitorio sole, all’altezza dei bagni.
«Per la miseria, lui no…»
disse sconvolto Eric.
Oltre
alle docce e ai bagni personali in stile occidentale, i dormitori della Cross
disponevano anche di due bagni giapponesi ciascuno, uno per ogni sesso, anche
se essendoci soprattutto studenti stranieri non erano in molti a servirsene.
Chi non poteva farne a meno, paradossalmente,
era Emma, che in quanto russa amava le saune e le terme come nessun altro.
Aveva l’abitudine di fare bagni di mezzanotte,
quando tutti erano ormai andati a dormire, e ogni tanto, come quella volta,
capitava che si tirasse appresso anche Izumi.
Ormai erano diventate inseparabili; dove
andava una c’era anche l’altra.
Come se non bastasse, mentre faceva il bagno
immersa nella vasca Emma tracannava un bicchiere di vodka dietro l’altro,
attingendo alla bottiglia che portava spesso con sé.
«Ma l’alcool non è vietato?» le domandò ad un
certo punto Izumi
«Basta imboscarlo, e nessuno lo saprà.»
rispose lei già un po’ brilla.
Izumi sembrava più abbattuta del solito, e
restava appoggiata al bordo della vasca con sguardo pensieroso.
«Che succede?» chiese allora Emma «Ti è morto
il gatto?»
«No, niente.»
«Non mentirmi. Si vede che c’è qualcosa che ti
preoccupa. Che c’è, hai litigato col tuo cavaliere?»
«Niente affatto.»
«E allora?»
«Il fatto è che ho parlato con lui, questo
pomeriggio. Sembra che presto arriverà alla Cross il signor Eisen.»
«Eisen!?» esclamò
Emma sgranando gli occhi «Peter Eisen!?»
«Lo conosci?»
«Sì, per mia sfortuna.» ringhiò la russa
stringendo il bicchiere fin quasi a stritolarlo
«Quell’uomo sa essere terribile.»
«L’hai detto. Ma come mai viene alla scuola?»
«Eric era stato sospeso dall’associazione per
due anni per quello che è successo l’anno scorso in Europa. Finora ne aveva
scontato solo uno, ma gli hanno sospeso la pena. In cambio, però, dovrà essere
sottoposto a sorveglianza continua da parte di Peter.»
«Tipico di lui. Ogni volta che sbuca fuori, è
solo per creare problemi.»
«Scusa se ti sembrerò inopportuna, ma come lo
hai conosciuto?».
A quella domanda, Emma parve calmarsi un
pochino, lasciandosi andare nell’acqua per poi appoggiarsi lungo il bordo con
la schiena e rivolgere lo sguardo verso l’alto.
«È successo circa tre anni fa. A quell’epoca
ero solo ancora una principiante, ma erano pochi in Russia a sapermi reggere il
confronto.
Come puoi immaginare, la Russia non è mai
stata un Paese tranquillo, e anche i vampiri ce ne mettono di loro per causare
problemi.
Una volta, fui incaricata di stroncare un
tentativo di ribellione in una base militare. È stato allora che l’ho
conosciuto».
Tre
anni prima
Siberia
Orientale – 150km a nord del confine cinese.
Il
KamovKasakta con le
insegne sia dell’Associazione che dell’esercito russo atterrò nella piccola
base militare persa nel mezzo della tundra siberiana.
Malgrado fosse teoricamente già primavera
faceva ancora un freddo terribile, la terra era coperta di neve, e scoppiavano
di quando in quando brevi ma violentissime tempeste che contribuivano a
mantenere costantemente la temperatura ben al di sotto dello zero.
Emma era stata inviata lì su richiesta, o per
meglio dire su ordine, del governo russo.
Ogni Paese aveva il suo modo di rapportarsi
con l’Associazione, sviluppando la politica che, a conti fatti, si sposava
meglio con le sue esigenze.
Nel caso della Russia, in cambio
dell’anonimato e della possibilità di agire indisturbati, l’Associazione, oltre
a tenere il territorio nazionale al sicuro dai vampiri, doveva anche quando
necessario aiutare il governo di Mosca a preservare la sicurezza nazionale nelle
zone maggiormente instabili.
Si trattava in buona sostanza di fare il
lavoro sporco del governo, un incarico che nessun cacciatore con un minimo di
orgoglio avrebbe mai voluto compiere.
Ma non Emma.
Per Emma un incarico valeva l’altro, almeno
finché la paga era buona.
La giovane cacciatrice scese dall’elicottero,
apparentemente insensibile al freddo pungente che costringeva i pochi soldati
all’esterno a restare rinchiusi nei loro cappotti imbottiti, i quali vedendola
le fecero il saluto come ad un superiore.
Era prassi comune nell’Associazione russa che
ogni cacciatore professionista avesse anche un grado militare, così da potersi
muovere meglio quando si trattava di cooperare nell’esercito. Nel caso di Emma,
il suo grado era quello di Capitano.
Senza perdersi in formalità o giri di parole,
Emma chiese di poter parlare immediatamente con il capitano della base, ma
questi era momentaneamente impegnato, così le fu offerto di aspettare in sala
d’attesa.
«Perché, c’è problema se aspetto qui?» domandò
sprezzante
«N… no di certo…» rispose basito uno dei due soldati «Però… ci sono -20°…»
«E con questo? Ora sparite. Voglio fumare.»
«S… sissignore».
I due soldati, attoniti, se ne andarono, ed
Emma, appoggiatasi alla parete della costruzione principale in attesa di essere
ricevuta, prese fuori da una tasca la sua bella pipa, iniziando a fumarla.
Stava facendosi i fatti suoi, quando un
giovane soldato dai tratti chiaramente nordeuropei le si avvicinò.
Doveva avere sui vent’anni, capelli biondi
lunghi, occhi azzurri da vichingo ed espressione sbarazzina; non era né alto né
basso, anche se un po’ più alto di lei, ben piazzato e di bell’aspetto.
Neanche lui sembrava sentire il freddo, tanto
che girava con indosso solo una vecchia e leggermente sdrucita uniforme da
legionario, con cucito sopra il grado di Sergente Maggiore.
«Scusi.» domandò con un leggero accento
tedesco «Lei è quella cacciatrice di cui tutti parlano. Emma Kretzner.»
«Io sono Emma Kreutzer.»
tagliò corto lei «E che cosa ci fa un crucco come te da queste parti?»
«Noto una scarsa simpatia nei miei confronti,
capitano. Risale forse a vecchi sentimenti patriottici?»
«Non mi piacciono i soldati perditempo e
scansafatiche che sanno solo farsi belli dell’uniforme.»
«Che paroloni. Certo che non si addicono ad
una ragazza così giovane e carina. Quanti anni hai?»
«E a te che te ne frega?».
Emma per la verità si vergognava a dire la sua
età; facendosi forte del fatto di dimostrare più anni di quelli che aveva,
cercava di evitare che la gente sapesse che ne aveva da poco compiuti sedici.
Quanto a quel tipo equivoco, nessun dubbio che
fosse un cacciatore. Altrimenti che poteva starci a fare un legionario nel
cuore della Siberia?
«Capitano, io ho un solo desiderio. Quello di
lasciare al più presto questa tundra desolata dove non succede mai nulla.
Quindi, se potesse gentilmente sfruttare la sua autorità per farmi assegnare ad
altro incarico, io le sarei profondamente ed immensamente grato.»
«Ma che smidollato.» disse tra sé e sé Emma
«Chi ce l’ha mandato qui?»
«Quindi, la prego…».
Di colpo, il ragazzo tedesco parve
trasformarsi; la sua espressione gentile e composta divenne una maschera
tragicomica, e spiccato un salto piombò dritto addosso ad Emma, stringendola
forte e tentando di baciarla.
«Ma cosa…»
«Mi porti via con sé.»
«Che stai cercando di fare, idiota?»
«La prego, qui fa molto freddo. Mi permetta di
scaldarmi a dovere al caldo tepore del suo corpo. Magari con un bel bacio».
A quel punto Emma non ci vide più, diventando
rossa di rabbia.
«Levati di mezzo!» urlò, piazzando un montante
da antologia al centro del mento del tedesco che volò via come un proiettile
per poi precipitare inerte sulla neve, un po’ ammaccato ma fortunatamente vivo
«La… la prego…» disse intontito dal colpo
«E ringrazia di essere sopravvissuto, scemo!».
Poco dopo, per fortuna, un soldato si presentò
dicendo ad Emma che ora poteva essere ricevuta, così la ragazza fu fatta
accomodare nell’ufficio del tenente colonnello Orlof,
capo della base; con lui, come Emma si aspettava, c’era anche il direttore Ivanov, il capo della sede di Pietroburgo. Ad Emma quel
tipo non era mai piaciuto particolarmente, trovava che avesse qualcosa di
strano, ma essendo un superiore si era sempre trattenuta dal fare commenti
imbarazzanti.
«Signorina Emma.» esordì il direttore
«Benvenuta in Siberia.»
«Tagliamo corto. Che cosa ci faccio io qui?»
«Ha proprio dei bei soggetti, signor Ivanov.» commentò sorridendo Orlof
«Le assicuro che sa fare il suo lavoro meglio
di molti altri. Non c’è candidato migliore per questo incarico».
Il tenente colonnello volle crederci, così
iniziò il briefing di missione.
«Il fatto è questo.
Trentadue ore fa, in un’altra base militare
dell’aeronautica a ottanta chilometri da qui, si è appena insediato il generale
Kotieref con tutto il suo entourage.»
«Abbiamo le prove che Kotieref
sta pianificando da anni un grosso colpo di stato.» intervenne Ivanov «È un ex comunista vecchia scuola, un nostalgico
incallito.»
«La sua pericolosità non và presa alla
leggera.» disse Orlof «Fino ad ora lo si era
tollerato perché sapeva fare il suo lavoro ed era rispettato e temuto dai suoi
uomini, ma ora la sua minaccia è diventata troppo grande.
Deve essere eliminato.»
«Il che significherebbe una bella promozione e
opportunità per Lei, vero colonnello?» disse tagliente Emma.
Orlof si
accigliò, ma non commentò.
«Il fatto» riprese Ivanov
«È che il generale si è fatto forte dell’appoggio di molte famiglie di vampiri
sia russe che cinesi. Sono casati minori, della nobiltà semplice, ma pur sempre
pericolosi; crediamo vogliano sfruttare la situazione per acquisire notorietà e
potenza.
Poiché hanno stretto un rapporto con gli
esseri umani il Consiglio degli Anziani non può esporsi in prima persona per
eliminarle, così hanno chiesto a noi di risolvere la questione.»
«E da quando siamo diventati i galoppini dei
vampiri, direttore?».
Di nuovo, i due uomini fecero buon viso a
cattivo gioco alle provocazioni di quella serpe, e ripresero la spiegazione.
«Le nostre spie.» disse il direttore «Ci hanno
informati che, in questo momento, i capi di queste famiglie si sono messi in
viaggio per raggiungere la base militare. Uno di questi pare sia già arrivato.
Si tratta di DinQuiao, la giovane ex erede del casato dei Quiao, che è stato…»
«Sì, lo so. Che è stato distrutto per aver
cospirato coi Lorenzi nel tentato colpo di stato di trent’anni fa.»
«DinQuaio prova grande risentimento per il Consiglio degli
Anziani. Se dovesse arrivare a concentrare nelle sue mani troppo potere,
nessuno sa cosa potrebbe succedere.
Allo stesso modo, non possiamo permettere al
generale Kotieref di instaurare questa alleanza con i
Quiao e gli altri casati. Sarebbe una grave minaccia
sia per gli umani che per i vampiri. Ma se uccidiamo lui, tutta la vicenda
potrà ancora essere risolta con relativa tranquillità.»
«In buona sostanza, mi state commissionando
un’esecuzione.»
«Più o meno.» disse Orlof
«Ma c’è un problema. La base è molto ben difesa, ci sono parecchi soldati a
proteggere il generale.»
«Non mi pare che i mezzi le manchino. Perché
non ve la sbrogliate voi?»
«Non posso mobilitare i miei uomini per
combattere altri soldati russi. Sarebbe la guerra civile in tutta la Siberia.
Molto meglio risolvere la situazione in silenzio, senza fare troppo rumore.»
«Ad ogni modo, non sarai da sola.» intervenne
il direttore «Visto il numero e la pericolosità delle forze nemiche, lavorerete
in coppia.»
«Che cosa!?»
«Ho già fatto venire dall’Europa un
professionista. Un esperto hunter cecchino. L’ho mandato a chiamare, così
potrai conoscerlo».
Proprio in quella infatti la porta si aprì, ed
Emma vide comparire l’ultima persona che avrebbe voluto vedere.
«T… tu!?»
«Ehilà, sorellina. Ci rivediamo.»
«Signorina Kreutzer,
le presento il sergente maggiore Peter Eisen, della
nostra sede di Berlino. Uno dei migliori cecchini che si siano mai visti.»
«Questo…
bellimbusto!? Questo donnaiolo senza speranza!?»
«Il sergente Eisen
ha un curriculum di tutto rispetto, e le sarà di sicuro molto utile in questa
missione.»
«Però… però io…»
«Questo è un ordine.» disse il direttore con
un tono che non ammetteva repliche.
Emma ringhiò come una tigre in gabbia, ma
dovette sottostare alle direttive e se ne andò sbattendo la porta.
La
missione iniziò la notte stessa.
Scortati da due mezzi di supporto, e a bordo
di una jeep, Emma e Peter furono condotti fino ad un chilometro dalla base
militare di Dabukinov, e una volta qui percorsero a
piedi il tratto rimanente fino ad arrivare in vista dell’installazione,
adagiata sul fondo di una bassa vallata circondata da alture coperte di neve.
Dato che c’erano quasi trenta gradi sotto
zero, entrambi erano stati costretti per forza di cose a indossare dei caldi ma
abbastanza comodi cappotti mimetici, che se non altro aumentavano la loro
capacità di passare inosservati.
Per fortuna aveva smesso di nevicare, anche se
la luna e le stelle avevano reso la notte particolarmente illuminata, cosicché
passare inosservati sarebbe stato ancora più difficile.
Giunti in cima ad uno dei pendii più alti, si
appiattirono al suolo, ed Emma prese a scrutare la base con il suo binocolo a
infrarossi.
In tutto dovevano esserci poco meno di un
centinaio di soldati russi, più una decina di vampiri. Probabilmente il grosso
delle truppe del generale si trovava altrove, pronto a muovere al primo ordine.
A giudicare dai pochi vampiri che si vedevano
in giro, tutti dai tratti somatici chiaramente cinesi, gli altri rappresentanti
delle altre famiglie non dovevano essere ancora arrivati.
«Però.» commentò Peter «Ce n’è di gente che lo
sorveglia.»
«Meno di quanto pensassi.» rispose sicura Emma
«Giusto per mettere in chiaro le cose, tu non mi piaci. E spero che la nostra
collaborazione durerà il meno possibile. Quindi restatene qui, e non crearmi
problemi.»
«Ricevuto, capo.» disse il ragazzo facendo
scattare la rotaia del suo psg1 «Ti farò da angelo custode da quassù.»
«Come se ne avessi bisogno.» e detto questo
Emma si lanciò giù dalla collina scivolando silenziosa sul manto bianco.
Nello stesso momento, nell’edificio principale
della base, il generale Kotieref e DinQuiao stavano conversando
amichevolmente tra di loro seduti alle poltrone di un elegante salottino. Din era una giovane molto bella, i capelli neri raccolti
alla maniera delle antiche nobildonne, un cheongsam
bianco panna che esaltava le sue forme generose e un velo di trucco ad
ingentilirne il viso.
La sua famiglia era stata per secoli una delle
più rispettate della Cina Settentrionale, questo fino al giorno in cui suo
padre non aveva deciso di appoggiare il casato dei Lorenzi nel loro tentativo
di sovvertire il consiglio degli anziani e prendere il potere. Il piano era
stato tuttavia scoperto anzitempo, la sua famiglia sterminata, e lei ora viveva
solo per la vendetta.
Appoggiare il generale le avrebbe garantito
prestigio e potere, nonché il rispetto delle altre famiglie dell’estremo
oriente, quanto bastava per tentare un nuovo colpo di stato.
Al contrario, il generale era brutto come la
fame, un inguardabile ammasso di carne di sessant’anni con il viso tondo,
capelli impomatati innaturalmente neri e gli occhiali.
Era tutto merito suo, e delle corde che era
stato capace di andare a toccare, se la ragazza, che dal giorno del fallito
golpe aveva covato segretamente il suo odio senza tuttavia manifestarlo
apertamente, aveva infine deciso di scendere in campo per quell’occasione,
raccogliendo attorno a sé i molti sostenitori che avevano appoggiato e
appoggiavano tuttora la sua famiglia.
«Mi sembrate preoccupata, signorina Quiao.» disse il generale vedendo che la giovane se ne
stava seduta come sovrappensiero, agitando placidamente il bicchiere di sangue
fresco che le era stato offerto
«Nulla di particolare. Solo, mi sembra strano
che l’Associazione o il Consiglio non abbiano ancora cercato di fermarci.»
«Potete stare tranquilla. Questa base è a
prova di intruso. Nessuno potrà entrare».
Le ultime parole famose.
Proprio in quel momento, le due guardie che
sorvegliavano il cancello principale videro emergere dall’oscurità due strani
cilindri che, rotolando placidamente sulla neve, arrivarono fino ai loro piedi,
rivelandosi essere in realtà granate stordenti.
Come le due bombe esplosero si sprigionarono
una luce, un rumore ed un fumo insopportabili, e prima ancora che il loro
effetto si fosse esaurito Emma, armata della sua fidata katana, aveva già fatto
irruzione nella base, seminando a morte in ogni direzione.
I soldati russi e i vampiri, superato lo
smarrimento iniziale, tentarono di reagire, ma Emma era un passo avanti a loro,
e senza troppo sforzo riuscì a tener loro testa facendone scempio.
I vampiri tuttavia si rivelarono ossi
particolarmente duri, forti anche del loro numero considerevole, e anche se non
erano così forti da impensierire Emma potevano essere comunque pericolosi.
All’improvviso, due di loro tentarono di
assalirla alle spalle mentre lei era impegnata a contrastarne un altro, ma nel
tempo che lei impiegò a girarsi e ad accorgersi di loro questi erano già stati
ridotti in cenere, colpiti in pieno petto con un tiro da maestro.
Un doppio centro in ripetizione da seicento
metri e col vento a sfavore; forse, pensò la ragazza guardando verso la
collina, non era poi un tipo solo chiacchiere dopotutto.
C’era un motivo, del resto, se lo chiamavano Falcon.
La mira di Peter era qualcosa di eccezionale;
pur non essendo un vampiro, né possedendo un qualche potere particolare come
altri cacciatori, restava pur sempre un tiratore di livello superiore, capace,
come si era visto, di centrare bersagli a grande distanza pur con tutti gli
svantaggi di questo mondo.
Forte anche della copertura offerta dal suo
partner, Emma fece irruzione nell’edificio principale, e appena ebbe sfondato
la porta ferì gravemente l’unico soldato presente, piantandogli la spada nella
spalla.
«Dove sono?» domandò guardandolo come un
demonio
«Nel… nel salotto.»
rispose quello, troppo provato e dolorante per riuscire a mentire.
Se non altro, ebbe la fortuna di venire
graziato, privilegio che Emma non concedeva molto spesso.
Da lì in poi la resistenza fu molto debole, e
senza troppe difficoltà la giovane cacciatrice arrivò al salotto, sfondandone
la porta con un calcio violentissimo.
Il generale tentò di estrarre la pistola, ma
Emma lo batté sul tempo fulminandolo alla fronte con la propria, e quel punto
rimase solo DinQuiao.
Vedendo comparire quel mostro coperto di
sangue e con quegli occhi spaventosi, la ragazza arretrò spaventata.
«No… non avvicinarti… stai indietro.»
«DinQuiao. Sei pronta a morire?»
«Ti prego…» disse
lei cadendo in ginocchio e con lo sguardo pieno di terrore «Non farlo… non voglio…»
«Avresti dovuto pensarci prima di farti
coinvolgere in tutto questo.»
«No!».
Emma alzò la spada, pronta a colpire, ma
incredibilmente se la vide bloccare nientemeno che dal fucile di Peter,
comparso dal nulla e frappostosi tra di loro.
Incredula, Emma balzò all’indietro.
«Ferma, non ucciderla.»
«Che ti salta in mente, idiota?» ringhiò
«Ormai è finita. La missione è stata
completata. Non c’è alcun bisogno di uccidere anche lei.»
«È la figlia di un traditore. E ha cercato di
cospirare una seconda volta. Se la lasciamo in vita, domani creerà altri
problemi.»
«Che cosa ne sappiamo noi due per giudicarla?
Siamo forse dei vampiri? Inoltre, non ha chiesto lei di nascere nella sua
famiglia. Tutti possono cambiare, se gli viene data l’occasione per farlo.»
«Ti avviso.» disse Emma furente alzando la
spada «Non metterti sulla mia strada, o ammazzerò anche te.»
«Fai pure.» rispose lui puntando a sua volta il
fucile «Ma non sarò da meno».
Seguirono attimi di assoluta tensione, durante
i quali sembrò che in qualsiasi momento che Emma potesse partire all’attacco, e
Peter tirare il dito che teneva sul grilletto, il tutto mentre DinQuiao restava accucciata a
terra tremante di paura.
Peter stava sfoderando uno sguardo che Emma
non gli avrebbe mai attribuito, nonché una fermezza praticamente assoluta,
tanto che alla fine sentì di non poterla reggere ancora a lungo.
Abbassò la spada, sbuffando scocciata.
«In fin dei conti, l’ordine era solo di
uccidere il generale. Di quello che succederà a questa qui non mi importa».
Peter sorrise, abbassando a sua volta il
fucile, ed Emma, rinfoderata la spada, girò i tacchi e se ne andò.
«Meglio che esca di qui. In questa stanza c’è
un idiota di troppo».
Dopo qualche attimo, e sentendo quella
sanguinaria assassina allontanarsi, DinQuiao trovò la forza per aprire gli occhi pieni di lacrime,
e quello che vide fu un bellissimo giovane biondo che le porgeva gentilmente la
mano, sfoggiando un bellissimo sorriso.
«Tranquilla.» le disse, facendola arrossire «È
finita. Ti porto a casa».
A
racconto finito, Izumi era senza parole.
«Non ci posso credere. Allora il signor Eisen non è solo un maniaco pervertito.»
«È esattamente ciò che ho pensato anch’io
quella volta. Quel donnaiolo incallito aveva molto più carattere e qualità di
quanto mi fossi aspettata.»
«E che cosa successe a DinQuiao?»
«Capì il suo errore, e si pentì. Ci aiutò
anche a sgominare le altre famiglie rivoluzionarie. Poco dopo, ottenne il
perdono del consiglio, e poté ricostruire la sua famiglia.
Ho sentito dire di recente che è stata anche
riammessa tra la nobiltà.»
«Sembra che allora abbia imparato la lezione.»
«Puoi dirlo forte.» disse Emma, che subito
dopo cambiò sguardo, volgendo gli occhi verso l’alto «Ma c’è invece qualcuno
che la lezione non la imparerà mai».
La cacciatrice a quel punto lasciò cadere il
suo bicchiere di vodka e recuperò una bacinella.
«Che succede?» le chiese Izumi
«Riconosco questo odore.» replicò Emma, che
con tutta la forza che aveva lanciò la bacinella contro una grata dell’aria
condizionata «Puzza di maniaco».
Sotto il peso extra che la sovrastava la
copertura cedette, ed un giovane uomo dai tratti famigliari ad entrambe le
ragazze piombò giù dal buco con indosso solo un asciugamano a coprirgli le
parti basse.
«S… signor Eisen!?» esclamò Izumi coprendosi il petto
«Ehilà, Asakura. Io, passavo di qui, ed ecco…».
Ma il vero problema era Emma, che senza timori
si era alzata in piedi, rimanendo con le sole gambe immerse nell’acqua della
vasca, i denti serrati, gli occhi assatanati e i pugni stretti con forza.
«K…Kreutzer-san…» disse Peter, sudando freddo nonostante il
vapore «Che bella sorpresa… è passato tanto tempo… come stai? Senti, ti prego…
niente violenza… la violenza è deleteria…
e poi ti rende più brutta…»
Lo so, vi
avevo detto che non mi sarei rifatto vivo prima del sedici, ma in realtà è che
questo non lo si può definire un vero capitolo.
Infatti,
come i frequentatori di ThreadsOf
Fate probabilmente hanno già notato, più della metà di questo aggiornamento è
costituito dall’Extra che nella storia originale serviva a presentare Peter Eisen.
Non mi
venivano in mente altri modi per farlo comparire, così ho deciso di
riutilizzare questo extra,che considero
comunque di buon livello.
Ora, sul
serio, se ne riparlerà più avanti, anche perché dal prossimo capitolo iniziano
i problemi con la P maiuscola.
Il
lunedì successivo, nella DayClass
c’era grande fermento.
Era il primo giorno di lezione del nuovo
professore di tedesco, e chi l’aveva visto fino a quel momento poteva giurare
che era assolutamente bellissimo.
Il corso di tedesco era stato istituito come
corso supplementare per chi avesse avuto interesse ad imparare una lingua
straniera che non fosse i soliti cinese ed inglese, ma era bastata la notizia
sul fascino del professore per riempire istantaneamente la classe, soprattutto
di ragazze.
«Aspettate di vederlo.» diceva qualcuno
«Sembra un attore di Hollywood».
Chi non riusciva per niente a farsi contagiare
erano Emma e Izumi.
Loro, infatti, ben conoscevano questo attore
di Hollywood, e sapevano cosa aspettarsi da lui.
Emma ancora fumava come una locomotiva, e non
era sicura di poter mantenere l’autocontrollo appena quel damerino avesse messo
piede in classe. Se solo quella testa di legno di Izumi non si fosse impuntata
a voler frequentare a tutti i costi quel corso, avendo sempre amato e coltivato
la passione per le lingue germaniche, lì lei non ci sarebbe non ci sarebbe
andata manco sotto tortura.
Lo stesso quasi si poteva dire di Carmy, che invece si trovava lì a titolo di pura curiosità.
Quando le porte infine si aprirono, vi fu
dapprima un istante di silenzio, seguito, al palesarsi verso e proprio del
professore, da esclamazioni di giubilo da parte dei ragazzi e gemiti ammaliati
delle ragazze.
Definirlo bello era un eufemismo.
I capelli, biondissimi, erano lunghi fino alle
spalle, gli occhi blu ammalianti, il viso di una bella ed elegante forma ovale,
ed il portamento sicuro, fiero. Sorrideva, come se si trovasse perfettamente a
suo agio, e come, raggiunta la cattedra, si voltò verso i ragazzi, le
esclamazioni divennero se possibile ancor più assordanti.
«Accidenti, ma quello è bello sul serio!»
esclamò Carmy, che subito dopo però si calmò come
soprapensiero «Eppure, non so perché, mi sembra quasi famigliare.»
«Buongiorno a tutti.» disse il professore «Mi
chiamo Peter Eisen, e a partire da oggi sarò il
vostro nuovo insegnante di tedesco.
Ho ventisei anni, e sono single.
Molto piacere».
Non ci fu neanche bisogno da parte sua di
concedersi ad eventuali domande, perché queste arrivarono a pioggia appena ebbe
finito di parlare.
«Professore, da dove viene?»
«Da Berlino. Ma sono nato a Monaco.»
«È mai stato fidanzato?»
«Ancora no.»
«Ha degli Hobby?»
«Mi piace leggere e pescare. Ho fatto anche un
po’ di tiro al piattello, ma niente di più.»
«Guardalo come si pavoneggia.» mugugnò Emma
«Inqualificabile».
La russa si stava ovviamente riferendo al
motivo per il quale Emma, e non solo lei, avevano trovato famigliari le
fattezze del professor Eisen nel momento stesso in
cui lo avevano visto.
Peter Eisen non era
certo un professore, né aveva alcun interesse particolare a diventarlo, se si
escludeva la possibilità di stare gomito a gomito con un esercito di leggiadre
e innocenti studentesse.
Lui era essenzialmente un hunter, ma come
molti altri hunter era solito arrotondare il proprio stipendio con lavori
secondari o saltuari.
E con un bel faccino come il suo, ed un corpo
che pareva scolpito nel marmo, quale attività poteva fare se non il modello?
In America in particolare era già piuttosto famoso,
avendoci lavorato nei suoi anni migliori, e di recente aveva iniziato a farsi
conoscere anche lì in Giappone.
«Bene ragazzi, basta con le domande. Direi che
possiamo incominciare».
La lezione prese dunque il via, ma per una
buona parte molti degli studenti, e soprattutto le ragazze, si mostrarono più
interessate a spiare le peregrinazioni del professore su e giù per la classe
che a seguire le sue spiegazioni.
Emma e Izumi erano, ancora una volta, le sole
a non lasciarsi distrarre, ma mentre Izumi aveva gli occhi e la mente tutti
concentrati sulla lezione, Emma al contrario teneva sì un occhio su Peter, ma
solo per poter cogliere in controtempo qualsiasi sua mossa strana.
«Dunque, ricapitoliamo.» disse Peter
incamminandosi lungo la scala di sinistra, proprio quella accanto alla quale
stava Emma, seduta al lato più esterno della sua balconata «I numeri da uno a
cinque sono Ein, Zwei, Drei, Vier, Funf.
Chi sa dirmi quelli da sei a dieci?».
Nel mentre Peter era arrivato in cima alla
scalinata, proprio accanto ad Emma. La bionda russa aveva la brutta abitudine
di non abbottonare mai gli ultimi due bottoni della divisa scolastica, perché
la soffocava diceva lei; effettivamente aveva un petto piuttosto generoso, ma
il vero problema era la sua corporatura abbastanza massiccia, abbastanza da
riuscire ad entrare a fatica nell’uniforme femminile di una scuola giapponese.
Peter fece finta di sostare lì per caso, e di
stare ascoltando la titubante traduzione dal tedesco di uno degli studenti, ma
in realtà era molto più interessato ad osservare che ad ascoltare. Per la
precisione, osservava quello che c’era nella scollatura di Emma.
Ma la russa non stava facendosi i fatti suoi,
come Peter pensava, né stava dormendo. E da un istante all’altro, un tallone
d’acciaio si abbatté sul suo povero piede, tanto forte da fargli temere che si
potesse spaccare in due.
«Azzardati a rifarlo e la prossima volta
mirerò al cavallo dei tuoi pantaloni.»
Tremò come una foglia, trattenendo a stento le
grida, ma dovette appoggiarsi al banco.
«Molto… molto bene…» mugugnò a denti stretti «Ora… direi di passare all’alfabeto…» e tornò zoppicando sui suoi passi.
Eric
non era riuscito a dormire quella mattina, e piuttosto che rigirarsi nel letto
sperando di riuscirci aveva preferito alzarsi, vestirsi e andarsene a fare un
giro per la scuola.
C’era un albero, proprio accanto ad una delle
finestre della classe di Izumi, un ginkgo robusto e sano con molti rami e
foglie, e come aveva già fatto altre volte il giovane Flyer vi si arrampicò,
scelse il ramo più robusto e comodo e si coricò, le braccia dietro la testa e
le gambe incrociate.
Da quella posizione poteva scorgere,
attraverso il fogliame, tutto quello che succedeva nella classe, senza però che
i ragazzi potessero scorgere lui.
All’inizio lo faceva tutti i giorni, troppo
preoccupato che Izumi potesse non essere al sicuro neppure alla luce del sole,
ma poi, anche dopo l’arrivo di Emma e Zero, si era tranquillizzato, finendo
addirittura per smettere di pensarci.
Vedendo che tutto andava bene, e cullato sia
dal tepore del primo sole estivo che da un tiepido vento meridionale, Eric fu
quasi sul punto di addormentarsi, quando il suo fine udito di vampiro gli
permise di notare quasi subito una grossa macchina scura che varcava il
cancello della scuola.
Incuriosito la osservò mentre si fermava
davanti all’ingresso, e la sua curiosità divenne stupore quando vide scendere
dal sedile posteriore nientemeno che la presidentessa dell’Associazione Hunter.
«E lei che ci fa qui?» si domandò.
Doveva essere successo qualcosa di molto
grosso per spingere la presidentessa ad agire in prima persona, e quasi subito
Eric fu colto dall’impulso di saperne quanto più possibile. Arrampicatosi di
qualche metro, arrivò proprio di fronte alla presidenza, proprio mentre la
presidentessa entrava.
Sfortunatamente, il direttore già da tempo
aveva avuto la brillante idea di premunirsi contro gli ascoltatori
indesiderati, installando barriere sonore che impedivano anche al più piccolo
sussurro di lasciare il suo ufficio, e dovendo stare nascosto per non farsi
vedere, Eric non poteva neanche leggere decentemente il labiale, tanto più che
dandogli Kaien le spalle le sue labbra non riusciva
proprio a vederle.
A quel punto, e sempre più curioso di capire
che stesse accadendo, il giovane si risolse ad andare a chiedere di persona.
Sceso dall’albero, raggiunse in pochi minuti
la porta dell’ufficio, ma qui trovò Shezka a
sbarrargli la strada.
«Non puoi entrare, mi spiace.»
«Che sta succedendo?»
«Non lo so, ma niente di buono temo».
E infatti, quasi subito, il direttore si era
accigliato, e più la presidentessa andava avanti nel raccontargli il motivo
della sua venuta più lui si faceva cupo, i gomiti appoggiati alla scrivania e
la testa sorretta dalle mani incrociate a rete.
«Capisci ora?» domandò infine la presidentessa
«La situazione è molto seria.»
«Seria è un eufemismo, se tutto quello che mi
avete detto è vero.»
«Gli animi sono estremamente tesi, sia
all’interno dell’Associazione che nel Consiglio degli Anziani. Mi sono già
consultata con i capi del consiglio, e abbiamo convenuto di organizzare quanto
prima una riunione di emergenza per discutere il da farsi.
Visto che molti dei tuoi studenti provengono
dall’alta aristocrazia vampirica, ho ritenuto
doveroso informare anche te.
Guardati le spalle.»
«Capisco. La ringrazio di avermi avvisato.»
«Ci sono alcuni, sia nell’associazione che nel
consiglio, che criticano fortemente sia la tua scuola che il tuo progetto, e
dopo quello che è successo la loro influenza è in continua ascesa. Ma se questa
riunione chiarificatrice dovesse andare a buon fine, le cose potrebbero
nuovamente cambiare in meglio.»
«Me ne rendo conto. Conti pure su di me. Farei
di tutto pur di proteggere i miei ragazzi.»
«Senza dubbio. Allora, buon proseguimento».
La direttrice, seguita da una delle sue
guardie, aprì dunque la porta per uscire, trovandosi a tu per tu col giovane
Eric; non si erano mai visti prima d’ora, ma ciò nonostante ognuno dei due
sapeva bene chi fosse l’altro.
«Ah, Hunter Flyer.»
«Presidentessa.»
«Spero non vorrà tradire la fiducia che
l’Associazione ha deciso di concederle. Contiamo tutti molto sulla sua
competenza e professionalità, e ci auguriamo che possa tornare in servizio
attivo quanto prima. L’Associazione ha bisogno ora più che mai di Hunter del
suo calibro.»
«Senz’altro.» rispose rispettosamente Eric
«Spero di rincontrarla presto. E dica pure a
sua madre che, quando vorrà, sarà sempre la benvenuta nella mia residenza di Klagenfurt. I vampiri nobili che sanno usare il cervello
sono un bene raro di questi tempi.»
«Riferirò sicuramente.»
«Allora, arrivederci.»
«Anche a Lei».
I due si scambiarono un rapido sguardo, poi la
presidentessa se ne andò.
«Quella donna sembra tanto gentile e
disponibile.» commentò il direttore mentre Eric chiudeva la porta «Ancora oggi
non riesco a capire come mai abbia accettato così di buon grado che tu venissi
a studiare qui.»
«Che cosa è successo?» tagliò corto Flyer.
Anche il direttore non volle girarci attorno,
ed Eric non ricordava di averlo mai visto così nero.
«Nelle ultime settimane, due importanti
famiglie aristocratiche, i Kamsievic di Budapest e i Nogiev di Minsk, sono state assaltate e sterminate nei loro
palazzi.»
«Cosa!?» esclamò il ragazzo attonito
«Ancora non si sa di preciso cosa sia
successo. Ma a giudicare dai rapporti, in entrambi i casi deve essersi trattato
di un assalto in piena regola. Non ci sono superstiti, e i luoghi delle stragi
erano ridotti in uno stato agghiacciante.»
«Non ci sono indizi che possano aiutare a
capire chi possa essere stato?»
«Niente di niente. Ed è proprio qui che sta il
problema. Qualcuno pensa che possa trattarsi di faide personali tra membri
dell’aristocrazia, come se ne vedono di tanto in tanto, ma altri invece
arrivano a sostenere che potrebbe trattarsi dell’inizio di una nuova guerra di
potere tra i Livello A, o peggio ancora che vi sia di mezzo l’Associazione.»
«Ma questo è ridicolo. Noi non facciamo certe
cose!»
«È quello che la presidentessa vorrebbe far
capire. Quanto prima sarà organizzato un incontro ufficioso tra le parti per
cercare di raffreddare le acque, nella speranza che possa bastare.»
«Quindi era a questo che Peter stava lavorando
prima di venire qui.»
«Il primo assalto risale a quasi un mese fa.
Peter era stato inviato ad investigare, ma poi il caso è passato nelle mani
della commissione d’inchiesta. Si sperava che fosse un caso isolato. Invece,
cinque giorni fa è stata sterminata anche la famiglia Nogiev».
Un brivido attraversò il corpo di Eric,
accompagnato da un orribile pensiero. Il direttore lo intercettò.
«Non preoccuparti. Tutte le famiglie più in
vista dell’aristocrazia sono già state segretamente informate. Ho parlato con
tua madre l’altro giorno, dopo aver saputo dello sterminio dei Nogiev. In questo momento sono al sicuro in un rifugio
segreto sugli Appennini.»
«Quindi adesso, cosa succederà?»
«Come puoi immaginare, molte famiglie
aristocratiche cominciano ad essere preoccupate nel sapere i propri figli ed
eredi in un posto all’apparenza tanto vulnerabile. La presidentessa ha
rassicurato ognuno di loro, così come il consiglio, e anche se la presenza di
un così elevato numero di Hunter all’interno della scuola costituisce un ottimo
deterrente, mi ha richiesto di attivare quanto prima i nostri sistemi
difensivi.»
«Sistemi difensivi!?»
«Tranquillo. A tempo debito saprai ogni cosa.
Aspetterò ancora qualche giorno per azionarli. Il tempo necessario perché
arrivino alla Cross gli unici due studenti stranieri che ancora mancavano
all’appello. Per ora, speriamo solo che non accadano altri fatti simili».
Da
quando si era sparsa la voce degli attacchi contro i membri dell’Aristocrazia,
la famiglia Kurenai aveva trasformato la propria
residenza sulle montagne di Shikoku in una specie di
fortezza, sorvegliata a vista da decine di guardie, anche mercenarie.
Nessuno doveva avvicinarsi.
Il consiglio aveva minimizzato, sostenendo che
chiunque fosse il responsabile non sarebbe mai stato tanto folle da attaccare
una famiglia di Sangue Puro.
Finché si trattava di massacrare aristocratici
era un conto, ma un’intera stirpe di Livello A era tutta un’altra cosa, e gli
assalitori dovevano per forza saperlo.
Ogni notte, sia l’interno che l’esterno della
villa erano severamente presidiati, ed anche quella notte la sorveglianza era
strettissima.
Nel cortile, le guardie scrutavano l’oscurità,
mentre quelle posizionate a guardia dell’alto muro di cinta e dell’unico varco
di accesso fendevano la foresta tutto attorno alla ricerca del minimo segnale
di pericolo.
Visto che nessuno sapeva chi o cosa avesse
attaccato le altre famiglie, nessuno di conseguenza sapeva neppure cosa si
dovesse cercare o scorgere di preciso, e quindi l’attenzione doveva essere
costante.
Certo, nessuno poteva neanche solo immaginare
la reale portata della piaga che era in procinto di abbattersi su di loro.
Erano da poco passate le due.
Il silenzio era quasi spettrale, e all’interno
della villa la famiglia Kurenai stava consumando il
proprio desinare, sotto l’occhio perennemente vigile dei guardiani.
D’un tratto, uno strano rumore catturò l’attenzione
di quelli che stavano all’esterno.
«Lo senti?» domandò uno ad un suo compagno,
volgendo gli occhi al cielo
«Un aereo?» ipotizzò quello.
Era troppo buio, e comunque stava troppo in
alto perché potessero vederlo, ma si trattava effettivamente di un grosso aereo
da trasporto di fabbricazione russa, con sopra inciso lo stemma della
Repubblica dell’Est, che decollato dalla base militare americana più vicina
stava ora transitando sui cieli di Shikoku.
«Siamo in posizione.» disse l’addetto al radar
«Torre di controllo, sorvoliamo l’obiettivo.»
disse uno dei due piloti «Pronti a sganciare il carico.»
«Siete autorizzati allo sgancio. Procedete.»
«Ricevuto, torre. Sgancio in dieci secondi».
D’un tratto, sulla pancia del velivolo si aprì
un’enorme portello a due ante, dal quale, dopo qualche istante, sporse la parte
inferiore di un altrettanto gigantesco oggetto di forma ovale: sembrava una
specie di missile, o una bomba, ma non aveva né inneschi né sistemi propulsivi,
almeno a prima vista; solo degli alettoni per stabilizzare la caduta, ed una
punta estremamente acuminata all’estremità opposta, forse per permettergli di
potersi conficcare meglio nel terreno.
«Stiva di carico aperta. Contenitore all’esterno.»
disse il secondo pilota
«Bersaglio agganciato.» disse l’addetto al
puntamento inquadrando con il suo mirino il cortile della villa «Tre…due…uno…
sganciare!».
I supporti furono allentati, e l’enorme
ordigno a forma di uovo, almeno dieci metri di lunghezza per tre o quattro di
diametro, fu lasciato cadere sul suo bersaglio.
La bomba precipitò alla velocità di una
meteora, e le guardie non si accorsero della sua presenza fino all’ultimo
momento, quando era ormai ad un tiro di schioppo dal suolo.
«Attenti, via!» urlò il primo che la
riconobbe.
Tutti fecero il vuoto attorno al probabile
punto d’impatto, buttandosi a terra nel disperato tentativo di salvarsi la
vita, ma grande fu il loro stupore quando l’ordigno, infrangendosi al solo come
un gigantesco maglio da guerra, produsse nulla più che un frastuono assordante,
un polverone inestricabile e un leggero terremoto.
Tutto ciò venne udito anche all’interno, in
sala da pranzo.
«Che succede?» domandò il patriarca vedendosi
saltare il piatto davanti agli occhi.
Passata la tempesta, le guardie, timidamente,
si rialzarono, e facendosi strada tra la polvere qualcuna di loro si avvicinò
all’ordigno, che come una freccia si era conficcato per una buona metà nel
terreno producendo un piccolo cratere nel terreno morbido.
«In nome del cielo…»
disse una.
Forse non era esplosa, o forse non era fatta
per esplodere. Ma chi e perché l’aveva scagliata?
Tutti si stavano ancora facendo queste
domande, quando d’un tratto, senza un motivo apparente, la parte superiore del
missile si aprì come i petali di un fiore, espellendo da proprio interno, e
rivelandosi quindi cavo, una strana poltiglia gelatinosa di colore giallo
sporco, e dalla consistenza simile alla gomma.
«Ma cosa…» domandò
una guardia.
Poi, dall’interno del foro parve giungere
qualcos’altro; sembrava un lamento, o comunque un gemito, ma sicuramente non
era un suono naturale.
Una delle guardie, incuriosita, si avvicinò
ancora di più, nonostante gli avvertimenti dei suoi compagni. Per questo, fu la
prima a notare la comparsa, sempre dall’interno dell’ordigno, di uno strano e
terrificante essere mostruoso, che gracchiando e trascinandosi come schiacciato
da una gravità eccessiva si eresse faticosamente oltre il bordo mostrandosi per
interno.
Era abominevole.
La pelle era rossa, tirata allo spasimo, come
fosse stata sul punto di lacerarsi, la bocca sproporzionata e armata di ben
quattro file di artigli acuminati, due per ogni arcata; non sembrava avere
occhi, e nonostante l’apparenza umana camminava su quattro zampe come una
belva, strisciando i suoi sedici artigli ricurvi e taglienti contro la
superficie metallica dell’ordigno.
Dalla bocca semiaperta colava una bava oleosa
ed appiccicosa, ed emetteva un gemito simile ad un roco ronzio. Le zampe
posteriori erano leggermente più corte di quelle anteriori, e piegate ad
angolo, e le sue dimensioni erano molto superiori a quelle di un comune essere
umano.
«Mio dio…» disse la
guardia più vicina.
Essersi voluto avvicinare fu la sua condanna.
Nonostante, teoricamente, non potesse vedere,
la creatura si accorse di lui, e con un salto sproporzionato, che tradiva l’iniziale
parvenza goffa e malaticcia, piombò giù dall’ordigno, si avventò su quel povero
disgraziato e con un solo fendente gli portò via di netto la testa,
uccidendolo.
Le altre guardie, sconvolte, a quel punto
reagirono, chi cercando il corpo a corpo chi mettendo mano alle armi, ma quell’essere,
oltre che agile, era anche di una velocità disarmante, e piombò su ognuno di
loro facendone strage.
Dopo meno di trenta secondi, il cortile del
palazzo era un mare di sangue, interiora e cenere.
Il mostro, compiuto il suo massacro, saggiò l’aria,
accertandosi di non averne lasciato nessuno, quindi con passo veloce corse verso
il palazzo.
Quasi contemporaneamente, il rimbombo di un
elicottero a bassa quota riecheggiò nel silenzio venutosi nuovamente a creare,
e da dietro una collina, agitando le cime degli alberi, sbucò un grosso
velivolo militare, anch’esso con lo stemma della Repubblica impresso sulla
fiancata; il mezzo volò basso fino al centro del cortile, illuminando col suo
faro il mare di morte sotto di sé, ed una volta qui si posò dolcemente a terra.
Poi, prima ancora che le pale di spegnessero,
il portellone si aprì, e dall’oscurità all’interno emerse un ignoto e
gigantesco figuro, così grosso, e all’apparenza così possente, che l’elicottero
sobbalzò sotto il suo peso mentre scendeva.
Doveva essere alto più di due metri,
ridondante di muscoli, con gli occhi ambrati che scintillavano di follia, e
denti affilati come quelli di un animale; portato a spalla, poi, aveva
qualcosa, qualcosa di enorme come lui, con varie dentellature disposte ad
intervalli regolari lungo tutto il perimetro.
Questi, appena sceso, piegò le sue orrende
fauci in un malvagio sorriso, e contemporaneamente guardò verso il palazzo.
All’interno dell’edificio, intanto, il mostro
aveva nuovamente dato il via alla propria mattanza, senza che nessuno riuscisse
a fermarlo, uccidendo chiunque gli capitasse a tiro, compresi gli inermi ed
inoffensivi inservienti, quindi come una marea inarrestabile dilagò fino in
sala da pranzo, dove trovò ad attenderlo, spade alla mano, il patriarca della
famiglia e la sua giovane moglie.
Maria non c’era; era stata portata al sicuro
dalla sua balia.
«Orrenda creatura!» urlò il patriarca
scagliandosi all’attacco «Fuori da casa mia!».
Ma, ancora una volta, il mostro si rivelò
troppo agile, persino per un Sangue Puro; oltre ad essere agile, poi, quella
creatura era dotata di zampe simili a quelle degli insetti, che lo rendevano in
grado di attaccarsi ai muri ed al soffitto come una mosca, il che rendeva molto
difficile riuscire a colpirlo.
Il patriarca e la moglie lo ingaggiarono come
meglio poterono, ma anche in due non riuscirono ad avere la meglio, e più
passava il tempo più il patriarca, vinto dal senso di impotenza, si lasciava
guidare dalla collera. Questo, purtroppo, lo rese prevedibile, e ad un certo
punto il mostro, schivato l’ennesimo assalto, gli piombò addosso dal fianco cogliendolo
alla sprovvista.
«Caro, attento!» gridò sua moglie.
Senza pensarci lei si mise in mezzo, un gesto
d’amore che le costò la vita, poiché l’artigliata che avrebbe dovuto concludere
l’esistenza del marito invece pose fine alla sua.
Fu un colpo letale, senza scampo, ed il
patriarca vide la sua adorata moglie tramutarsi in vetro davanti ai suoi occhi
per poi ridursi in cenere.
A quel punto, la frustrazione divenne rabbia
incontrollabile.
«Maledetto mostro! Muori!».
Infuriato oltre ogni limite, il patriarca
diede fondo a tutto il suo potere, e a quel punto persino quel mostro si
ritrovò in difficoltà; il patriarca prima gli mozzò un braccio, senza che ciò
sortisse apparentemente effetto, poi, approfittando di un momento favorevole,
gli troncò di netto la testa, riuscendo finalmente ad ucciderlo.
«Muori! Muori!» urlò l’uomo in preda all’ira
infilzando più e più volte il corpo ripugnante di quel mostro.
Solo dopo molti secondi il raziocinio tornò a
guidarlo, e tirando dei lunghi sospiri per riprendere fiato estrasse per l’ultima
volta la lama dal mostro, certo di aver finalmente avuto la meglio.
Il pensiero di aver appena perduto la propria
moglie, oltretutto per una propria, imperdonabile leggerezza, lo tormentava, e
forse fu proprio per questo che non riuscì ad accorgersi fino all’ultimo di
essere osservato.
Se ne avvide solo quando, dall’alto, si sentì
colare addosso una strana bava appiccicosa, ed alzati gli occhi si ritrovò a tu
per tu, stavolta impreparato, con un nuovo abominio.
Il suo ultimo pensiero fu per la sua adorata
figlia.
Probabilmente, pensò chiudendo gli occhi, si
sarebbero comunque rivisti presto.
Maria
era chiusa in camera sua, terrorizzata, con la sua balia come ultima linea
difensiva.
«Non temete, signorina.» disse la giovane
governante sentendo avvicinarsi la minaccia «Io vi proteggerò ad ogni costo».
Come le porte furono sfondate, ed il mostro
entrò nella camera, la governante gli si scagliò contro mulinando la sua falce,
ma il suo stupore raggiunse il culmine quando vide quella creatura che, come
per magia, le scompariva davanti agli occhi, quasi fosse stato un fantasma.
«È…. È scomparso!».
Si guardò intorno, cercando di capire se
potesse essersi spostato senza che riuscisse a vederlo, ma nella stanza non c’era
nessuno a parte lei e la signorina.
«Attenta, dietro di te!» urlò all’improvviso
Maria.
Non vi fu il tempo di fare nulla.
Da un istante all’altro, la governante avvertì
un colpo secco, accompagnato da una strana sensazione, e solo in un secondo
momento si accorse di avere quattro artigli che spuntavano dal suo corpo
grondanti sangue.
Il mostro, comparso come era sparito alle
spalle della donna, lanciò un ruggito, e subito dopo sollevò in aria la sua
preda sotto gli occhi atterriti e sconvolti di Maria.
«Signorina! Scappate!» urlò la donna un
istante prima che un secondo colpo d’artigli si abbattesse sulla sua testa con
la potenza di un cannone.
Ciò che Maria vide fu capace di spegnere la
luce del suo animo, lasciandola con due occhi privi di vita piantati sul
mostro, che dopo aver lasciato andare quanto restava della sua giovane balia
rivolse la sua attenzione direttamente contro di lei.
Eppure, nonostante ciò, esitò ad attaccare,
seguitando a rimanere a debita distanza, tenendo quella povera ragazza sotto la
minaccia dei suoi artigli.
Poi Maria, raggomitolata a terra, con il poco
raziocinio che le restava sentì un rumore sordo di passi che percorrevano il
corridoio, e l’essere che da un momento all’altro vide comparire davanti ai
suoi occhi era quasi peggio di quello che aveva visto uccidere la sua balia.
Era un gigante.
Un gigante nero ridondante di muscoli, capelli
rossi raccolti in lunghe trecce rasta e chiusi dietro la nuca da una cordicella
colorata, occhi piccoli e gialli e labbra sottili da cui sbucavano due file di
denti affilatissimi. Indossava solo un paio di pantaloni lunghi ed un gilè
viola senza maniche, il che rendeva ancor più evidente la vastità della sua
muscolatura, e brandiva una motosega dalle misure sproporzionate, che nessuno
essere umano sarebbe stato capace neanche di sollevare.
Per un istante, Maria cercò di pensare che
potesse essere un amico.
«Ti prego…» mormorò
terrorizzata «Aiutami…».
Ma lui, invece, rise, e quando Maria vide l’altro
mostro camminare al suo fianco come un fedele cagnolino, quanto restava della
sua mente realizzò che era davvero la fine.
«Tanta fatica per una mocciosa simile.» disse
il gigante, che subito dopo si avvicinò alla ragazzina, con passo lento e
sicuro.
Maria lo vide sovrastarla, incapace di
muoversi fino al punto di non riuscire a respirare.
Il gigante la guardò, sorridendo malefico,
quindi mise una mano nella tasca del gilè, prendendone fuori una boccetta di
vetro che schiacciò come un uovo sopra Maria, inzuppandola del suo contenuto,
uno strano liquido violaceo dall’odore pungente.
Era come una specie di battesimo. O forse, un’estrema
unzione.
Infatti, un istante dopo, il silenzio venutosi
a creare fu riempito dal fragore assordante della motosega che il gigante aveva
messo in funzione.
«Rilassati. Non sentirai nulla».
Solo allora, di fronte alla fine, Maria
riacquistò la ragione, ma ormai era troppo tardi, e tutto quello che poté fare
fu osservare con occhi pietrificati e bocca spalancata quella lama oscillante
che si avvicinava a lei.
Passò un istante, ed nei corridoi di quella
villa inondata del sangue di chi vi aveva vissuto fino a pochi minuti prima
riecheggiò un urlo spaventoso, che sembrava venire dalle profondità dell’inferno;
poi, più niente.
Nota
dell’Autore
Eccomi
qua!^_^
Sono vivo!
Ci sono riuscito!
Sono passato
indenne per uno dei momenti più angoscianti e sconfortanti della mia carriera
da studente!^_^
Non so
ancora come sia andata, ma sono piuttosto fiducioso circa il buon esito di questa
prova, e appena saprò qualcosa di più preciso non esiterò a condividerlo con
voi.
Allora? Che
vi è parso di questo nuovo capitolo?
Molto splatter
direte voi.
A parte
questa piccola parentesi, non credo vi saranno altre scene simili, ma non prendetemi
in parola.
Nel prossimo
capitolo arrivano gli ultimi due ritardatari, Derek e Gabriele, ma prima che lo
possiate leggere sto preparando per tutti voi una piccola sorpresa.
Pochi
minuti dopo che il silenzio era tornato a dominare all’interno della villa, un
nuovo elicottero, stavolta un grosso mezzo da trasporto, atterrò nei suoi
cortili, accanto al primo, e da esso scesero una decina di uomini armati che
come prima cosa si accertarono che tutti gli ostili fossero morti, mettendo
l’area in sicurezza.
Infine, dal mezzo scese anche Michelle; gli
anni erano passati anche per lui, dall’ultima volta che aveva preso parte ad
una operazione sul campo, ma restava comunque un giovane ventottenne di
indiscutibile fascino, con lunghi capelli castani e profondi occhi marroni.
Si guardò attorno, indifferente a tutto quel
massacro, e quando vide il gigante nero venirgli incontro con la sua arma
gigante coperta di sangue in una mano, e un orrendo moncone di gamba
nell’altra, sorrise tra sé e sé.
«Questa è sufficiente?» domandò il nero
porgendo il suo macabro trofeo
«Ma quando la finirai con queste indecenze, Malik?» disse il giovane quasi divertito «Bastava anche
solo un campione di sangue, o comunque un piccolo campione.»
«Volevo essere sicuro di non prenderlo
“troppo” piccolo.» replicò Malik con lo stesso tono
«Quella roba che mi avete dato è davvero fenomenale. Di solito i vampiri si
inceneriscono prima ancora che abbia il tempo di affettarli a dovere.»
«È un ritardante. A differenza di quanto
accade con gli umani, nei vampiri la disgregazione cellulare post-mortem avviene in modo pressoché istantaneo.
Incenerimento per i vampiri comuni, cristallizzazione o sublimazione per i
Sangue Puro. In questo modo rallentiamo sensibilmente questo processo».
Michelle fece un cenno ad uno dei soldati, che
con un compagno scaricò dall’elicottero una grossa cassa criogenica nella quale
fu riposto il campione.
«Non ho ancora capito che cosa volete farci
con tutta questa roba. Cos’è, avete deciso di aprire una macelleria a base di
carne di vampiro?»
«L’ignoranza è una benedizione, amico mio.»
rispose Michelle prendendo dalla tasca un grosso mazzo di banconote «Non
indagare cose che non hai bisogno di sapere.»
«Figuriamoci, sai quanto me ne importa.»
rispose il nero prendendo i soldi «Finché ci sono questi, potete pure farmi
scatenare la Terza Guerra Mondiale, e non me ne fregherebbe niente».
In quella, altri quattro soldati portarono
all’esterno i corpi dei due mostri che avevano assaltato la villa; uno dei due
era orrendamente fatto a pezzi, tanto che molti altri soldati presenti
vomitarono nel vederlo.
«Ad ogni modo.» osservò Michelle «Sembra che
questi nuovi prototipi funzionino bene.»
«E uno dei due avrebbe continuato a farlo, se
non gli aveste fatto schizzare le cervella fino in Indocina davanti ai miei
occhi.»
«Questi sono animali, fondamentalmente.
Animali molto pericolosi, per quanto utili. Il sistema di assoggettamento
impiantato nei loro cervelli è efficace per un tempo limitato, passato il quale
diventano delle bestie senza controllo e molto pericolose. Per questo, nei loro
corpi è impiantato anche un congegno esplosivo, che si attiva automaticamente
appena il dispositivo di assoggettamento smette di funzionare.
Così evitiamo che possano creare problemi.»
«Ne sapete una più del diavolo, questo ve lo
concedo. Anche se, onestamente, credo avrei potuto cavarmela da solo senza
problemi.»
«Può darsi.» rispose Michelle con tono di
circostanza «Ad ogni modo, il tuo lavoro qui è finito. Puoi rientrare in
Vaticano. Ti contatteremo nuovamente se avremo ancora bisogno di te».
Ormai
mancava poco all’inizio delle vacanze estive, il che stava irrimediabilmente a
significare che il periodo delle verifiche di fine semestre era entrato nella
sua fase più dura.
Quasi tutti gli studenti, fatti salvi i pochi
fortunati che potevano vantare una preparazione o una bravura sopra la media,
passavano le loro giornate chini sui libri, e ogni giorno, o ogni notte nel
caso della Night, era un compito nuovo da dover superare.
Passatempo preferito dei ragazzi era
confrontarsi su domande, preparazione e, soprattutto, su voti, visto che un po’
tutti speravano di sfruttare quelle due o tre settimane di verifiche a raffica
per alzarsi un po’ la media, magari sacrificando qualche materia senza speranza
per concentrarsi su quelle con più possibilità.
Ma non era il caso di Emma.
Lei non studiava, o comunque non dava mai
l’impressione di farlo, ma nonostante ciò i suoi voti erano comunque piuttosto
buoni, anche se non eccelsi.
Lo dimostrava il fatto che quella notte,
mentre Izumi era china sui libri chiusa nella sua stanza alla luce della
lampada da tavolo, la sua migliore amica se ne restava spaparanzata nel letto
lì affianco, dormendo della grossa.
«Non puoi andare a dormire in camera tua?»
domandò ad un certo punto Asakura «Dici sempre che il mio letto è troppo duro.»
«La mia compagna ha chiamato tutte le sue
amiche. Dovranno farsi una nottolata per studiare.»
«È quello che sto facendo anch’io.»
«Ma almeno tu non fai rumore, e posso dormire
in santa pace».
Izumi era talmente concentrata su quei libri
che ad Emma viene quasi da ridere.
«Asakura, dacci un taglio con quelle
stupidaggini. Non capisco perché tu lo faccia. Non ti ho mai vista scendere
sotto il novanta in nessuna verifica, e quella roba la sai già così a menadito
che potresti anche fare la lezione al posto del professore di matematica.»
«Non si è mai abbastanza sicuri. E poi non
voglio correre il rischio di dimenticarmi qualcosa. La verifica di domani è
l’ultima prima dell’inizio delle vacanze, e non voglio sbagliarla.»
«Sei davvero una ragazzina casta e pura senza
speranza. Sempre a cercare il meglio in ogni cosa che fai. Il giorno in cui ti
vedrò folleggiare in discoteca o al karaoke, quanto è vero che mi chiamo Emma
mi faccio crescere i capelli fino a terra.»
«Emma-sempai, senza offesa… ma forse non dovresti studiare anche tu? Chi prende
l’insufficienza domani, avrà l’obbligo di frequentare lezioni supplementari
durante le vacanze.»
«Tranquilla, non c’è alcun pericolo. Ho i miei
assi nella manica.»
«Questi assi.» disse Izumi con un tono ed uno
sguardo insolitamente maliziosi «Si chiamano per caso bigliettini e copiare?»
«Ma quanto sei perspicace.»
«Non ti porterà da nessuna parte.»
«Tanto per cominciare, non ho chiesto io di
venire qui. Mi ci hanno buttata a forza. E in secondo luogo, di certa cultura o
presunta tale non so che farmene, e quindi non vedo ragione per studiarla.»
«Sei incorreggibile.» sospirò infine Izumi.
Nel
mentre, all’esterno, l’accademia era impegnata nella sua quotidiana attività
notturna, e quello che gli allievi della sezione diurna avrebbero fatto solo il
giorno dopo era invece già davanti agli occhi degli alunni della Night.
Logicamente, il questionario proposto a Kaname e agli altri aveva un livello di difficoltà
improponibile per i ragazzi della DayClass, visto e considerato che un vampiro, anche di scarse
capacità, poteva raggiungere un livello intellettivo quasi doppio rispetto al
più intelligente degli esseri umani.
E come accadeva anche tra gli umani, c’erano
vampiri più dotati di altri.
Il compito che fu portato loro durante le due
ultime ore di lezione avrebbe fatto uscire di testa anche il più cervellotico
dei matematici, ma per loro, a parte qualche rara eccezione, era assolutamente
risolvibile.
Kaname, come al
solito, fu il primo a finire, troppo superiore era il suo livello di conoscenza
persino tra i suoi simili.
Vedendolo alzare la mano, consegnare il foglio
e tornare tranquillamente al suo posto, però, fece salire il sangue agli occhi
ad Eric; ormai quei due si consideravano come cane e gatto, e non perdevano
occasione per punzecchiarsi l’un l’altro.
Forse era anche per questo, per questo suo
sfidare all’apparenza la moralità e il conformismo dell’aristocrazia
giapponese, che molti dei ragazzi dello scambio culturale stavano iniziando a
vedere in lui l’unico capo-dormitorio a cui fare riferimento, cosa che
ovviamente irritava molti degli studenti più anziani e conservatori, a cominciare
da Aidou.
Dopo meno di cinque minuti da che Kaname ebbe consegnato, Eric fece altrettanto.
«Ho finito.» disse avvicinandosi a Peter, che
come al solito sonnecchiava sul lavoro, e porgendo il suo foglio
«Sei sicuro di voler consegnare? Hai ancora
tempo.»
«Ho detto che ho finito.» replicò Eric con
voce da far tremare i polsi.
«No… non fare…così…» disse spaventato
Peter, che quindi prese il compito infilandolo nella sua cartellina.
Eric però, a differenza di Kuran,
non aveva intenzione di sprecare il resto della notte chiuso lì dentro ad
aspettare che gli altri avessero finito ed uscì per primo, guardato in
malissimo modo da Aidou e da alcuni altri.
«Dannato presuntuoso.» mugugnò Pierre «Ma un
giorno di questi io…»
«Invece di farti le pippe
mentali, concentrati sull’esame!» fu la risposta a piena voce di Peter, che
suscitò l’ilarità di molti e fece andare Rohan ancor
più fuori dai gangheri.
Eric, lasciata la classe, volle farsi un giro
per il cortile, aspettando l’alba per andarsene a dormire; da qualche tempo non
andava neppure più a vegliare sul dormitorio sole ogni volta che ne aveva
l’occasione, ormai certo che Emma e Zero fossero più che qualificati a fare ciò
che era stato loro chiesto.
Arrivato nei pressi del cancello principale,
l’attenzione del ragazzo fu attratta dall’arrivo, comprensibilmente insolito
per quell’ora, di un taxi, che appena giunto al cancello fu fatto subito
entrare tramite il comando a distanza azionato dall’usciere.
«Chi sarà mai a quest’ora?» si domandò.
Incuriosito seguì la macchina, fino a che
questa non si fu fermata davanti alla scalinata principale; ne scesero due
ragazzi, forse sedicenni o poco più, ma che fisicamente sembravano praticamente
ai due opposti.
Uno era biondo, austero, viso pulito e pelle
chiara, con occhi azzurri ed espressione severa, e un portamento e un
portamento elegante quasi da aristocratico. L’altro, invece, era una specie di
armadio, muscoloso e possente, capelli neri a spazzola e carnagione piuttosto
scura, mediterranea; il suo viso era composto, contornato da due piccoli occhi
scuri, e nonostante superasse abbondantemente il metro e ottanta non incuteva
timore, almeno non a prima vista.
«Finalmente siamo arrivati.» disse il biondo
recuperando il suo bagaglio «Dodici ore di volo, una notte d’inferno in un fatiscente
albergo di Tokyo, poi il treno sbagliato per ben due volte e infine la discesa
una fermata prima di quella giusta.»
«Tu ti lamenti sempre troppo.» replicò il
gigante prendendo a sua volta il proprio borsone «Un viaggio può riservare
sempre degli imprevisti.»
«Imprevisti!? È stata un’odissea! Saremmo
dovuti arrivare stamattina! Sono quasi le cinque!»
«Dovresti migliorare il tuo giapponese.»
«E tu dovresti imparare a leggerlo. Se avessi
interpretato correttamente la carta, non saremmo finiti a Nagoya invece che a
Nagano!».
Poi, i due notarono Eric, che li osservava tra
la curiosità e il sospetto; erano certamente umani, ma c’era qualcosa… di strano in loro. In tutti e due; e il giovane
Flyer non sapeva cosa pensare.
«Scusa la scenata.» disse il gigante «Come
puoi immaginare, siamo a pezzi.»
«Siete nuovi studenti?» domandò Eric
avvicinandosi
«No, siamo turisti di passaggio.» rispose
sarcastico il biondo
«Dacci un taglio.» gli ordinò il suo amico
«Perdonalo. Derek non ama particolarmente viaggiare, e questo è stato un
viaggio a dir poco infernale.
Comunque sì, siamo nuovi studenti della
sezione diurna.» quindi indicò il biondo «Questo è Derek Reinari.
Io invece sono Gabriele Lopez. Ma puoi chiamarmi semplicemente Gabriel.»
«Lopez e Reinari?»
replicò Eric «Ho sentito parlare di voi. Sede di Vienna, giusto?»
«Esatto. Ci hanno trasferiti qui per un corso
di aggiornamento.»
«E tu invece?» domandò Derek «Con chi abbiamo
il piacere di parlare?»
«Eric Flyer.» rispose lui dopo un attimo di
esitazione.
Nel sentire quel nome, i due ragazzi
spalancarono gli occhi, Gabriel il particolare
«Quell’Eric Flyer!?» disse «È un onore
conoscerti. In Europa non si parla che di te, e di quello che hai fatto
diciotto mesi fa.»
«Ormai è storia passata.»
«Non c’è che dire, è un collegio pieno di
celebrità.» commentò Derek «E immagino che tu non sarai l’unico pezzo da
novanta qui dentro.»
«Vuoi darci un taglio?» gli intimò il grosso.
In quella, arrivò Shezka
con in mano una vecchia lampada ad olio.
«È un’ora un po’ tarda per arrivare.» disse
col suo solito tono piatto e inespressivo
«Ci voglia perdonare.» rispose educato Gabriel
«È stata davvero una giornataccia. Contavamo di arrivare prima, ma non
pensavamo che da Nagano a qui ci fossero tutti questi chilometri.»
«D’accordo, non importa. Venite, il direttore
è andato a dormire, ma ha lasciato le chiavi delle vostre stanze.»
«Allora.» disse Gabriel porgendo la mano ad
Eric «È stato un piacere».
Eric la accettò, ma nel momento in cui lo
strinse una stranissima sensazione gli attraversò tutto il corpo; era qualcosa
di famigliare, in qualche modo sgradevole, che lo turbò, riportandogli alla
memoria vecchi ricordi mai del tutto sopiti. Nonostante ciò Gabriel parve non
accorgersene, come non si accorse apparentemente dell’espressione comparsa
negli occhi del suo nuovo compagno di scuola.
Lui e Derek a quel punto se ne andarono, e
rimasto solo Eric si guardò un momento la mano; era da lì che la sensazione si
era generata, e pertanto era sicuro di non sbagliare su chi e perché ne fosse
stato l’artefice.
Ma come era possibile? Gabriel era un essere
umano. Un hunter forse, ma di vampiresco non aveva assolutamente nulla… o almeno, così sembrava.
Cominciarono a tornargli alla mente vecchie
storie che aveva sentito a proposito di quel gigante buono, dicerie alle quali
non aveva mai dato credito, ma ora non ne era più tanto sicuro.
Voleva saperne di più.
Probabilmente si stava preoccupando per nulla,
ma aveva bisogno di esserne sicuro.
Tornò al suo dormitorio, nonostante le regole
vietassero di frequentarlo durante l’orario di lezione, si chiuse nella sua
stanza e sollevò il telefono multimediale installato nel suo portatile.
Dopo qualche secondo, comparve sul monitor un
volto a lui famigliare.
«Tu guarda se questa non è una sorpresa.»
disse la giovane donna sulla trentina con piccoli occhiali da vista e capelli
castano scuri raccolti in una acconciatura da austera responsabile d’ufficio
«Hunter Flyer. Mi domandavo che fine avessi fatto.»
«Buongiorno, direttore Gabrielli.»
«Buongiorno!? Qui sono quasi le nove della
sera. E per l’appunto, stavo quasi per andarmene a casa.»
«Le ruberò solo pochi minuti, promesso.»
«Dal tono.» replicò la direttrice incupendosi
«Non credo tu mi abbia contattata per programmare una partita a tennis.
Avanti, cosa ti serve.»
«Vorrei sapere qualcosa sul conto di un
ragazzo che è arrivato poco fa qui alla Cross. Gabriele Lopez.»
«Lopez? Il siciliano? Lo conosco.
Ufficialmente sta a Vienna, ma qui a Venezia ormai è di casa.
Sapevo che era in Giappone, ma che fosse alla
Cross mi giunge nuova. Che ci fa lì?»
«È qui per uno scambio culturale. O almeno
così ha detto. Ma vorrei qualche informazione su di lui. Tipo, sul suo passato,
e sul suo ruolo nell’Associazione.»
«Ho capito, aspetta un momento».
La direttrice si scollegò per un po’, ed Eric
si ritrovò a contare febbrilmente i minuti finché non la vide riapparire con in
mano alcuni fogli impilati alla meno peggio.
«Ecco.» disse «Ho stampato il suo fascicolo. È
entrato nell’associazione circa da un anno, ma ha già avuto modo di mettersi in
mostra.» quindi cominciò a leggerlo «Accidenti. Non ha avuto una vita facile.»
«Che intende dire?»
«Stando al rapporto, subito prima di diventare
un Hunter pare sia finito nelle mani della mafia. Sembra che lo usassero come
cavia per testare droghe e stimolanti di varia natura, molti dei quali
sperimentali.
Secondo i medici dell’associazione è a ciò che
si deve la sua considerevole forza fisica e la sua stazza imponente. Comunque
gli esami non hanno rilevato anomalie o disturbi di alcun tipo, perciò è stato
ammesso come Hunter dopo l’apprendistato e una lunga disintossicazione.»
«Droghe e stimolanti dice…».
Poi, ad Eric venne un pericoloso sospetto:
poteva anche essere.
«Si sa a quale famiglia mafiosa faceva da
cavia?»
«Un attimo, verifico…
dunque, vediamo… sì, ecco. Erano i Bongianno. I Bongianno di
Palermo.»
«Lo sapevo.» mugugnò il ragazzo tra sé
«Sapevi cosa?».
A quel punto, restava solo da accertare se ciò
che pensava era vero.
Eric sperava con tutto il cuore di sbagliarsi,
perché se avesse avuto ragione ci sarebbe stato da riflettere su parecchie cose
decisamente spiacevoli.
«Senta, potrebbe inviarmi cortesemente una
copia di quei documenti?».
La Gabrielli lo
guardò di sottecchi, squadrandolo come una maestra con un alunno irruente.
«Credevo sapessi che questi documenti non
possono essere distribuiti impropriamente. A rigor di logica non potrei neanche
dirti che cosa c’è scritto.
Solo gli hunter di più alto livello possono
avervi accesso o richiederne copie.»
«Quand’è così, li spedisca al direttore Cross.
In questo modo non dovrebbero esserci problemi.»
«Posso sapere che cosa sta succedendo? Cos’è
tutta questa premura?
C’è forse qualcosa che dovrei sapere?»
«Ancora non lo so. Ho bisogno di esserne
sicuro».
Di nuovo la direttrice lo guardò enigmatica,
poi si sistemò un momento gli occhiali e cominciò ad armeggiare al computer.
«Mi devi un favore, ricordatelo.»
«Beh, le ho salvato la sede e la vita.»
scherzò il ragazzo «Direi che a questo punto siamo pari.»
«Anche questo è vero.» commentò ironica la
donna.
Qualche minuto dopo, il trillare del telefono
fece saltare il direttore Cross giù dal letto, costringendolo a scendere in
salotto per rispondere.
«Eric, ti sembra questa l’ora di telefonare?»
domandò sbadigliando e strofinandosi gli occhi
«Ho bisogno di un favore. Dovrebbe esserti
arrivato un documento via e-mail da Venezia. È necessario che lo stampi.
Riguarda Gabriel Lopez, il ragazzo arrivato poco fa.»
«Ed era proprio necessario dirmelo subito? Non
potevi aspettare domattina?»
«Temo di no. Se quello che penso è vero, è
meglio esserne sicuri il prima possibile».
Il
giorno dopo in classe c’era talmente tanta ansia per il compito di algebra e
geometria analitica che i ragazzi quasi non fecero caso ai due nuovi studenti,
Gabriel e Derek, pur nella loro unicità e particolarità, che li faceva sembrare
una sorta di Davide e Golia perennemente uno vicino all’altro.
Emma, ovviamente, non riuscì a copiare, poiché
non aveva messo in conto che a seguire la prova ci sarebbe stato quella serpe
approfittatrice di Peter, che da parte sua non vedeva l’ora di vendicarsi del
tremendo pestone di piede di qualche giorno prima, e che ben conosceva le
tendenze della sua amica russa.
«La prossima volta lo colpisco più forte.»
mugugnò vedendo che non le staccava un momento gli occhi di dosso.
Per fortuna, alla fine, Izumi ebbe pietà di
lei e le passò il compito sottobanco, permettendole di scampare per un soffio
alle lezioni supplementari.
Quanto a Gabriel e Derek, anche loro fecero
tutto sommato un buon compito, nonostante le ventiquattro ore di viaggio e solo
una cinquantina di minuti di sonno per recuperare, e durante la ricreazione di
mezzogiorno, mentre tutti si dirigevano verso la sala mensa, loro due furono
tra gli ultimi ad alzarsi.
Durante il pranzo, il fisico imponente di
Gabriele attirò infine l’attenzione che gli era sempre dovuta; da qualsiasi
punto della sala si guardasse, la sua figura torreggiava su tutte le altre, ma
gli sguardi increduli e perplessi degli altri studenti, la maggior parte dei
quali gli arrivava giusto alle spalle, sembravano lasciarlo indifferente.
Lo stesso si poteva dire del suo compagno, che
invece si guardava attorno con aria spaesata.
«Ci guardano tutti.» osservò Derek
«E tu non farci caso.» tagliò corto Gabriele.
D’un tratto, l’altoparlante trasmise un
annuncio.
«Lo studente Gabriele Lopez è pregato di recarsi
urgentemente in infermeria».
Pur non comprendendo la ragione di quella
convocazione, quella specie di gigante buono obbedì senza fare storie, e
perennemente tallonato dal suo compagno, che tuttavia fu invitato ad aspettare
fuori, raggiunse l’infermeria dell’accademia, dove lo attendeva la dottoressa Himeka per un prelievo di sangue.
«Di solito questi esami si fanno a stomaco
vuoto.» osservò Gabriele sedendosi allo sgabello e porgendo il braccio
muscoloso «A che cosa serve?»
«Niente di particolare.» gli disse la giovane
donna applicandogli il laccio emostatico e sistemandosi i buffi occhiali tonti
«Solo un controllo di routine».
Il giovane non si oppose, anche se il suo
sguardo parve incupirsi quando vide comparire la siringa della dottoressa, e
fatto il prelievo se ne andò salutando rispettosamente.
«Che ti hanno fatto?» gli chiese Derek mentre
ancora usciva.
La dottoressa salutò a sua volta, ma come la
porta dell’infermeria fu chiusa con fare molto sospettoso e determinato
recuperò la siringa e si defilò per una porticina secondaria, oltre la quale vi
era una lunga rampa in discesa che, percorsa fino infondo, la condusse, sempre
attraverso una specie di ingresso segreto, nel laboratorio nei sotterranei,
dove la attendevano il direttore Cross e l’Hunter Flyer.
«Non ho ancora capito perché hai voluto fare
questa cosa.» domandò il direttore
«Solo per togliermi una curiosità.» tagliò
corto Eric.
La dottoressa iniettò una parte del sangue
prelevato a Gabriele in una provetta, assieme ad un reagente, quindi il
contenitore fu inserito all’interno di una specie di analizzatore che iniziò
subito a lavorare.
«Dov’è la sua cartella?» chiese Eric mentre aspettavano
i risultati.
La dottoressa gliela porse, ed il ragazzo la
sfogliò brevemente.
«Questa è la lista delle sostanze che gli sono
state trovate in corpo?» domandò leggendo uno dei documenti
«Quelle emerse nell’ultimo controllo.» rispose
il direttore
«E il controllo a quando risale?»
«Al suo ingresso ufficiale nell’associazione,
sei mesi fa. E se non è emerso niente allora…»
«Questo reagente non è mai stato testato prima
d’ora. Non mi sorprenderebbe se non fosse emerso nulla nei precedenti esami.»
«Ma perché sei così convinto di avere ragione?»
«Per generazioni i Bongianno
sono stati i faccendieri degli interessi dei Lorenzi in Sicilia. Ti stupiresti
se mio nonno li avesse coinvolti nei suoi esperimenti?»
«Ora che mi ci fai pensare, no.»
«Inoltre, conosci una droga capace di
aumentare in questo modo le abilità fisiche senza effetti collaterali
permanenti?»
«Ma il virus Vermillion
dovrebbe essere incompatibile con gli esseri umani.»
«Appunto. È questo che mi spaventa.»
«Ecco.» intervenne in quella la dottoressa «Ha
finito».
Tutti e tre si avvicinarono allora allo
schermo del computer, sul quale, dopo qualche istante, comparve la scritta
lampeggiante RISCONTRO POSITIVO.
Il direttore ed Eric si sentirono gelare il
sangue, ed anche la dottoressa si incupì.
«Allora, è vero. È tornato.»
«E si è rimesso al lavoro.»
«E noi neanche lo sapevamo».
Ora non restava che la prova del nove; Gabriel
era positivo al Vermillion, ma fatta salva la
corporatura e la forza che gli aveva donato, era capace di sfruttarne anche
altre caratteristiche?
«Dove stai andando?» chiese il direttore
vedendolo andare via
«A togliermi un’altra curiosità.» rispose lui.
Nota
dell’Autore
Eccomi
qui!^_^
Mi
aspettavate, vero? (sì, speraci ndtutti)
Quel
famoso esame che non mi dava tregua è finalmente passato, e come forse potrete
evincere dal mio stato d’animo è andato non bene, di più, il che mi ha messo
addosso un buonumore e una carica incredibili.
Mi sono
voluto prendere qualche giorno per smaltire la fatica e l’ansia, ma ora sono
più carico che mai e pronto a ricominciare con aggiornamenti quotidiani.
Ecco
dunque che la banda è completa!^_^
Con
Gabriel e Derek, tutti i nostri OC sono ormai entrati in scena, e la storia
prende sul serio il via.
Mancano
ancora Lynette ed Ashley, altri due OC miei che
alcuni di voi sicuramente conoscono, ma per loro c’è tempo.
Tra
le varie attività pomeridiane della DayClass c’era anche un club di boxe molto seguito,
soprattutto ovviamente tra i ragazzi, ma c’era anche qualche partecipante
dell’altro sesso.
La loro palestra era in un edificio apposito
in qualche parte del cortile, vicino alla struttura principale, e vi era tutto
ciò che potesse servire, a cominciare da un grande ring al centro dello spazio.
Gabriel capitò lì dentro per puro caso, cercando
un posto dove studiare, e vedendo tutti quegli studenti tirare di boxe o
allenarsi con pesi e sacchi fu pervaso da un qualche senso di nostalgia.
«Ehi, nuovo arrivato.» gli disse il presidente
del club, un tipo tutto muscoli che stava esercitandosi usando una povera
matricola come sparring «Perché non ti unisci al nostro club? Abbiamo giusto
bisogno di nuove leve in vista del campionato extrascolastico.»
«Vi ringrazio, ma la boxe non è roba per me.»
rispose gentilmente il ragazzone italiano
«Con quei muscoli e quelle spalle? Non ci
credo. Sembri nato per questo sport.»
«Sul serio, non mi interessa».
In realtà il rifiuto di Gabriel non era
dettato dallo scarso interesse per la boxe, che invece era da sempre una delle
sue passioni, quanto piuttosto dal timore che, con la forza che si trovava,
avrebbe potuto finire per fare male a qualcuno.
Il presidente del club non insistette oltre e
ricominciò a pestare, sempre osservato con curiosità, e anche un pizzico di
nostalgia, dal gigante buono.
«Sai boxare?» si sentì domandare da un istante
all’altro.
Gabriel si volse alla propria sinistra,
notando l’arrivo inaspettato di Eric.
«Che ci fai tu qui?» gli chiese «Credevo che i
vampiri non potessero muoversi durante il giorno.»
«I normali vampiri forse no.» replicò Eric
guardandolo enigmatico «Ma del resto, normalità è un concetto che non si addice
a quelli come te e me».
Colto sul vivo Gabriel restò un momento
basito, poi girò lo sguardo tornando ad osservare il ring.
«Ho fatto un po’ di pugilato. Ma combattere non
mi piace particolarmente».
Eric lo guardò di sottecchi, venendo notato.
«In questo caso, che ne dici di un round o
due?»
«Come dici!?» disse Gabriel incredulo
«Tranquillo. Questo ring è fatto apposta per
limitare i poteri di Hunter e Vampiri. Una trovata del direttore per facilitare
il confronto ad armi pari tra membri di classi diverse.»
«Ehi, Flyer.» disse il presidente del club,
che ovviamente non aveva udito l’ultima parte del discorso, notando la sua
comparsa «Era qualche tempo che non ti si vedeva. Sei venuto a gonfiare un paio
dei miei un’altra volta?»
«Può darsi.» rispose lui divertito
«Prima o poi dovranno spostarti nella DayClass. Ancora non capisco
cosa ci faccia uno bravo come te a menare le mani nella sezione notturna, con
tutti quei bellimbusti secchioni senza muscoli né capacità.»
«Chissà.» replicò Eric «Forse hanno più
capacità di quante immagini.»
«Che venissero qui a dimostrarmelo. Comunque,
capiti a fagiolo. Stavo appunto cercando di convincere questo gigante a
scambiare qualche colpo.»
«Buffo. Lo stavo facendo anche io».
Era evidente che Eric se la intendeva molto
bene con i ragazzi della DayClass,
per non dire con gli esseri umani, una cosa che colpì molto Gabriel; ora
iniziava a capire perché in Europa fosse così famoso, e perché un po’ tutti ne
parlassero come qualcuno di speciale sotto tanti punti di vista.
Di colpo, il gigante buono sentì la voglia di
metterlo e mettersi alla prova. Se era davvero così speciale, in fin dei conti,
era quasi uno spreco tirarsi indietro davanti alla possibilità di sfidarlo.
«D’accordo.» disse quasi sospirando «Solo
qualche colpo».
Che
si muovesse di giorno, di notte o all’imbrunire, Eric era trattato come tutti
gli altri studenti della Night Class: come un divo
del cinema.
Era impossibile per lui passare inosservato, e
poco importava che la notizia secondo cui la sua storia con Asakura fosse ormai
cosa certa fosse nota a tutti; ovunque andasse, le sue ammiratrici non
perdevano occasione per seguirlo, e quando qualcuno aveva messo in giro la voce
che si trovasse nella sede del Club di Pugilato era stato un po’ come invitare
i bambini in pasticceria.
In breve la palestra fu letteralmente invasa
da studentesse della Day, alcune delle quali per poco
non diedero l’impressione di poter svenire quando videro il loro divo del
cinema personale in tenuta da ring, con quel bel viso rude e quel corpo
scolpito nel marmo lasciato in buona parte scoperto.
La notizia era arrivata anche ad Izumi, che si
presentò sul posto più per curiosità che per altro, trovando la sua amica Carmy già sul posto.
«Che sta succedendo?» domandò vedendo quella
bolgia incontenibile
«Non c’è che dire, il tuo fidanzato ama
attirare l’attenzione su di sé?»
«Ancora con questa storia?».
A forza di sbracciate e spintoni, le due
ragazze riuscirono a raggiungere la base del ring, proprio all’angolo dove Eric
stava finendo di scaldarsi.
«Eric, che stai facendo!?»
«Niente di particolare. Solo un incontro
amichevole».
Ad Izumi cadde quindi l’occhio sullo sfidante,
che metteva paura solo a guardarlo; Eric poteva pure essere forte e ben
piazzato, ma quello era quasi il doppio di lui.
«Hai deciso di suicidarti per caso?» commentò Carmy «Quello ti schiaccia come una lattina, dai retta a
me.»
«Non è detto. Ma se vuoi, puoi scommettere su
di lui.» rispose ironico Flyer «Mori-sempai sta
raccogliendo le quote.»
«Ma dove siamo, in una bisca!?».
E invece le scommesse, un modo come un altro
per il club di finanziare la propria attività, abbondavano, ma mentre le
numerosissime ragazze del gruppo puntavano senza esitazioni sul loro beniamino,
i ragazzi presenti, in parte perché materialisti in parte per la speranza
atavica di vedere un bellimbusto della Night sbattuto come un tappeto, erano
più orientati verso Lopez.
«Eric…» disse Izumi
preoccupata
«Non temere.» rispose lui voltandosi verso il
suo avversario «Sarà una cosa breve.» poi sussurrò tra sé «Almeno spero.»
«Benvenuti, ragazzi e ragazze!» disse il
presidente in veste di arbitro e presentatore «Oggi assisteremo ad un incontro
che rimarrà nella storia di questo istituto e della boxe italiana in terra
giapponese! All’angolo rosso, in rappresentanza della DayClass, la matricola Gabriele Lopez! All’angolo blu
invece, direttamente dalla Night Class, il campione
di questa palestra, Eric Flyer!».
Al nome Flyer tutte le ragazze impazzirono
spaccando i vetri con le loro urla, talmente forti da offuscare i pochi fischi
dei ragazzi.
«Per evitare traumi permanenti e situazioni
spiacevoli, sarà un incontro al singolo round! Combattenti! A voi!».
Il presidente si affrettò a lasciare il ring,
la campana fu suonata e i due ragazzi si avvicinarono cautamente l’uno
all’altro.
Per i primi secondi entrambi si studiarono a
vicenda, assestando colpi innocui diretti ai guantoni; Gabriel, nonostante la
sua stazza, sembrava piuttosto indeciso, e seguitava a tenere alta la guardia
portando attacchi blandi e mai realmente pericolosi.
Così, quando venne il momento di fare sul
serio, fu Eric a portarsi in vantaggio, portando il primo diretto dell’incontro
dritto allo zigomo di Gabriel; il gigante italiano incassò senza particolari
problemi, ma la sua guardia era stata comunque scavalcata, e nei secondi che
seguirono la stessa scena si ripeté più volte.
Dopo un minuto di combattimento, Gabriel aveva
attaccato si e no tre volte, e senza mai riuscire a portare a segno un colpo
davvero pericoloso o doloroso, anche per via dell’agilità di Eric, che schivava
o parava la maggior parte degli affondi.
«Avanti, avanti.» disse Flyer come per
provocarlo «Puoi fare molto più di questo».
Invece Gabriel continuò nella sua strategia
autodistruttiva, e a quel punto Eric, che si era prestato a quella pantomima
solo per mettere alla prova quel gigante, decise di fare sul serio nella
speranza di cavarne qualcosa, assestando un colpo dietro l’altro.
Quel povero gigante buono incassò un diretto
dietro l’altro gonfiandosi come un pallone, e finalmente alla metà del terzo e
ultimo minuto di combattimento qualcosa parve scattare dentro di lui; forse fu
il dolore, forse la comprensione di stare facendo una ben magra figura, fatto
sta che improvvisamente sembrò trasformarsi.
Da un istante all’altro, i suoi colpi
divennero quasi delle cannonate, precisi e potentissimi, tanto che fu Eric a
doversi mettere sulla difensiva, riuscendo, anche se a fatica, a respingerli
tutti, o quanto meno ad incassarli con il minimo danno.
L’ansia andava crescendo assieme
all’eccitazione, e il boato tra gli spettatori aveva poco da invidiare a quello
di un palasport, mentre l’arbitro contava febbrilmente i secondi che mancavano
alla fine.
Gabriel divenne sempre più aggressivo e
pericoloso, e quando mancavano ormai pochi secondi al gong, per un istante, il
suo volto parve trasformarsi: gli occhi si fecero bianchi, come quelli di un
fantasma, e strani simboli arabescati comparvero sul suo volto, inoltre la sua
massa muscolare parve aumentare ancor più di consistenza.
Eric se ne avvide, così come si avvide del
tremendo diretto che gli fu fatto piovere contro, ma stavolta, pur riuscendo a
smorzarne la potenza con una provvidenziale deviazione, il colpo lo centrò in
pieno, scaraventandolo prima contro una colonna e quindi a terra.
«Eric!» gridò Izumi sentendo un colpo al
cuore.
Per fortuna il giovane Flyer era abbastanza
robusto e abituato da non finire al tappeto, e come si rialzò, anche se a
fatica, il giudice suonò la fine dell’incontro. Contemporaneamente, Gabriel
parve tornare quello di sempre, e dallo stupore nel suo sguardo era chiaro che
ciò che aveva appena fatto non era dipeso da una sua scelta, o almeno non del
tutto.
«Mi dispiace.» disse mortificato
«Non fa niente.» lo rassicurò Eric «Nel nostro
lavoro si è abituati a prenderle, o sbaglio?».
Il verdetto fu praticamente unanime. Gabriel
aveva indubbiamente ben figurato, ma eccezion fatta per gli ultimi trenta
secondi per il resto del match Eric aveva praticamente dominato, e così alla
fine il punteggio fu di 7 – 3 per il giovane Flyer.
«Ma cosa ti è saltato in mente?» domandò Izumi
quando il ragazzo tornò all’angolo «Perché questo combattimento?»
«Avevo bisogno di togliermi un dubbio.» disse,
poi guardò Gabriel, che nel mentre era stato raggiunto dal suo amico Derek «E
ora che ho scoperto di avere ragione, credo proprio che sia il caso di
approfondire».
«Vuoi
andare in Sicilia!?».
Il direttore Cross quasi saltò sulla sedia
quando Eric gli spiegò il motivo della sua ennesima visita.
«Gabriele Lopez è contagiato dal Vermillion, e anche se non in modo del tutto consapevole
riesce a controllarne il potere pur rimanendo un essere umano.
In base a quello che si sapeva finora delle
ricerche fatte da mio nonno, non si era mai arrivati a raggiungere un simile
traguardo. Inoltre questi esperimenti su Gabriel hanno avuto luogo dopo la
morte di Valopingius, il che può portare ad una sola
conclusione.»
«E cioè che il conte si sarebbe rimesso al
lavoro.» concluse Cross per nulla convinto «Eric, secondo me tu corri troppo.
Non siamo neppure certi che sia opera sua.»
«E se invece fosse così? Se mio nonno avesse
ricominciato con i suoi esperimenti? Lo sai bene fin dove è capace di
spingersi, e fin dove arrivino le sue capacità economiche e politiche, sia tra
i vampiri che tra gli esseri umani.»
«Vorrà dire che faremo come le altre volte.
Avviserò l’Associazione, e loro faranno delle indagini.»
«L’Associazione.» replicò sarcastico Eric
«Certo, faranno la stessa cosa che hanno fatto quando gli hai parlato del
Revenant. Niente.»
«Ti stai spingendo un po’ troppo oltre.»
obiettò severamente Kaien «Ricorda sempre qual è il
tuo posto. Attaccare a testa bassa gente così potente e mettersi da soli contro
il mondo non è mai una buona idea.»
«Hai già dimenticato quante teste sono saltate
quando la faccenda su Valopingius è venuta alla luce?
L’Associazione è piena di corrotti, e lo sai anche tu. Chi ti dice che non ce
ne sia qualcuno sopravvissuto alla purga di due anni fa che tuttora continua a
lavorare segretamente per mio nonno?»
«La discussione è chiusa.» rispose secco il
direttore, che subito dopo sorseggiò un po’ del tè che Shezka
gli aveva preparato, e che Eric gli aveva portato in sua vece entrando
nell’ufficio come un panzer «Devo ricordarti per quale motivo sei qui? Tu sei
ufficialmente agli arresti domiciliari. Dovrò dare mille spiegazioni anche solo
per lasciarti partecipare alla gita alle terme che sto organizzando per i
ragazzi, figuriamoci che ti lascio e ti lasciano partire per il capo opposto
della Terra per un semplice sospetto.»
«Non ci posso credere.» disse Eric
ironicamente «Davanti a me c’è davvero il leggendario e spregiudicato
cacciatore Cross?»
«I miei trascorsi giovanili non hanno nulla a
che vedere con questa cosa.» rispose Cross sbadigliando vistosamente e
strofinandosi gli occhi «Questa è una cosa che… che
riguarda solo te. Dovresti cercare di…di… di essere più consapevole del…
del motivo per cui sei…sei…qui…».
Il direttore cadde sulla sua scrivania come un
pero dall’albero, rendendosi conto ormai troppo tardi che quel sapore
amarognolo non era dovuto ad una marca di tè diversa dalla solita. Sorrideva
come un pupo, ma prima di addormentarsi pensò tra sé che al risveglio avrebbe
sicuramente strozzato quel ragazzaccio fedifrago.
«Perdonami. Non avrei voluto arrivare a questo
punto».
Passò un attimo, e la porta dell’ufficio si
aprì lentamente; Eric si volse alle proprie spalle, trovandosi a tu per tu con
il suo supervisore Peter Eisen che bloccava l’unica
via d’uscita. I due si guardarono vicendevolmente negli occhi, entrambi con
sguardo piuttosto severo, poi però Peter piegò le labbra in un sorriso
divertito.
«Speriamo non si arrabbi troppo al nostro
rientro.»
«Non è necessario che tu venga con me.»
«I miei ordini sono di tenerti d’occhio
ventiquattro ore al giorno. Quindi, dove vai tu vengo anche io. E poi ho sempre
sognato di crogiolarmi al caldo sole della Sicilia».
Anche Eric, a quel punto, sorrise.
«E allora, facciamo questo colpo di testa».
Peter
aveva un mare di difetti.
Uno su tutti, un amore atavico per le belle
macchine.
E da spendaccione mani bucate quale era, aveva
l’abitudine navigata di scialacquare tutto il suo stipendio di Hunter in
spider, porsche, ferrari e
via dicendo.
La Lamborghini Gallardo
Superleggera con cui era arrivato al collegio era solo una delle tante che
aveva sparse in giro per il mondo, anche se molte altre della sua invidiabile
collezione col tempo erano finite nelle mani delle persone più diverse per
ovviare all’altra sua grande passione, i casinò.
Al tramontare del sole, quando la night non
era ancora uscita e la day si accalcava per buona
parte fuori dal dormitorio luna, Peter ed Eric si prepararono in tutta fretta a
partire, in silenzio e con discrezione, badando bene di portarsi appresso solo
le cose indispensabili.
«Tu sei pazzo.» disse Peter mentre finivano di
caricare i bagagli «Lo sai, vero?»
«L’associazione e il direttore possono pensare
quello che vogliono. Personalmente, non dormirò se non riuscirò a togliermi
questo dubbio.»
«Beh, consolati. Comunque vada, avrai molto
tempo per dormire… dentro ad una cella.»
«Non fare il menagramo, per cortesia.»
«Ehi voi, che state facendo?» sentirono
esclamare d’improvviso alle spalle.
Izumi era dovuta tornare in classe perché si
era scordata il flauto, e accortasi degli strani movimenti al cancello
secondario era voluta andare lì per vedere che succedeva.
«Izumi!?».
La ragazza ci mise un attimo a capire.
«Dove volete andare?»
«Sai com’è, il Giappone ci ha stufato.»
commentò Ironico Peter «Vogliamo sole, mare, e tante belle ragazze in bikini.
Non che qui non ce ne siano, per carità, ma il fascino mediterraneo ha qualcosa
di magnetico.»
«Stiamo andando in Sicilia.» tagliò corto Eric
«È per via di quel ragazzo vero? Allora è per
quello che lo hai voluto sfidare».
Flyer non rispose, ma il suo sguardo parlava
per lui.
«Potrebbero arrestarti.»
«È quello che ho cercato di dirgli anch’io.»
commentò Peter
«Devo fare quello che ritengo giusto.» rispose
Eric guardandola dolcemente ma fermamente «È quello che mi hai insegnato tu,
giusto?».
Lei restò un momento in silenzio, sentendo il
cuore batterle un po’ più forte. Ogni volta che lo vedeva partire,
allontanarsi, aveva sempre la paura che potesse accadergli qualcosa. Con il
tempo aveva cercato di farci l’abitudine, ma l’angoscia e l’ansia per il timore
di non vederlo tornare erano qualcosa che non le riusciva di combattere.
Ciò nonostante, voleva avere fiducia in lui; e
poi, ormai lo conosceva abbastanza bene da sapere che nulla lo avrebbe fatto desistere
dai suoi propositi, soprattutto ora che c’era di mezzo suo nonno. Izumi
ovviamente non sapeva cosa vi fosse dietro a quel viaggio improvviso, ma sapeva
leggere negli occhi di Eric, e sapeva che solo il conto ancora aperto con il
suo passato poteva produrre una simile fiamma.
Eric le si avvicinò, e si guardarono
brevemente.
«Non temere. Tornerò presto».
Era chiaro che non poteva dissuaderlo. Di
nuovo, lo avrebbe visto partire; e di nuovo, avrebbe sperato che quella fosse
l’ultima volta.
«Fa attenzione».
Lui ricambiò con un leggero sorriso, poi, dopo
un’ultima occhiata l’uno all’altra, si separarono.
Eric montò a bordo, la macchina partì, ed
Izumi stette ad osservarla fino a che non ebbe svoltato alla prima curva
scomparendo dalla vista.
Lipova, la capitale della piccola Repubblica
dell’Est, era una bella città di poco più di centomila abitanti affacciata sul
Mar Nero, all’interno di un piccolo golfo.
Durante il periodo della dominazione russa,
molti zar e nobili l’avevano eletta a proprio luogo di vacanza, e per questo vi
abbondavano palazzi signorili e dimore prestigiose che, assieme
all’architettura prettamente europea, ne facevano uno spaccato di cultura
barocca nel cuore della Russia.
Con la caduta dell’Unione Sovietica la
repubblica aveva acquistato l’indipendenza, e a differenza delle altre
repubbliche staccatesi dal blocco aveva goduto di un lungo periodo di relativa
pace, forte di un governo di stampo democratico e di un potere presidenziale
forte, capace di tenere a freno le ambizioni di oligarchi e militari.
Da oltre dieci anni, a capo del Paese vi era
l’austero e moralmente integro AlexeiKuznezov, ultimo rappresentante di una illustre famiglia
che da secoli abitava nella regione, da tre anni al suo secondo mandato da
presidente.
Il cuore di Lipova
era il suo palazzo presidenziale, arroccato su di una bassa collina da dove si
aveva una visuale suggestiva della città e del suo florido porto, e anche se
qui l’influenza di anni di regime sovietico erano evidenti nella forma
quadrangolare della sua piazza principale, circondata di imponenti colonne di
cemento che sorreggevano un alto portico, un sapiente lavoro di rimaneggiamento
aveva permesso di ingentilirne il profilo, ed ora su tutto torreggiava una
statua equestre di NicholaiKuznezov,
antenato del presidente e primo conte della regione, circondata da alte aste su
cui sventolavano decine di bandiere tricolori.
Alexei era un
uomo tormentato.
Di tragedie ne aveva vissute tante nel corso
della sua vita, essendo stato anche un soldato e un ufficiale prima che un
politica, e per un po’ in molti avevano creduto che il suo animo, da tutti
ritenuto forte come una roccia, fosse ormai sul punto di spezzarsi.
E invece, da qualche anno a quella parte,
qualcosa sembrava essere giunto a dargli conforto.
Tutto era cambiato dalla comparsa di un
misterioso ed enigmatico gentiluomo, che di tanto in tanto si vedeva girare nei
pressi del palazzo presidenziale, e da allora il presidente sembrava essere
come rinato.
Inoltre viaggiava spesso, contrariamente a
quanto faceva prima, quando a stento usciva dal palazzo, anche se la sua meta
era sempre la stessa: una base militare segreta fatta costruire da un giorno
all’altro nel cuore delle campagne ad un centinaio di chilometri dalla
capitale, nei pressi delle grandi lagune.
Vi si recava continuamente, almeno una volta
al mese, e tutti coloro che sapevano chi o che cosa vi fosse lì dentro erano
tenuti al più assoluto riserbo.
Quello era il giorno della sua visita
abituale.
Le guardie al cancello, vedendo avvicinarsi la
limousine con le insegne presidenziali, fecero il saluto mentre il cancello
veniva aperto; la macchina passò il varco, inoltrandosi in quella piccola
roccaforte circondata da reti e filo spinato, ma con un numero di installazioni
e strutture piuttosto esiguo, fermandosi davanti all’edificio principale.
Nell’istante in cui il presidente scendeva, da
dentro la costruzione giunsero due uomini dalle fattezze occidentali,
sicuramente europee.
Uno era giovane, di bell’aspetto, capelli
castani un po’ lunghi, l’altro un austero signore elegante e raffinato, di età
avanzata, ma con negli occhi tutta la forza e l’ardore di un animo battagliero
e tenace; vestiva elegante, come un vero nobiluomo, sorreggendosi parzialmente
ad un bastone da passeggio di ottima fattura, e nel suo sguardo, incorniciato
dalle rughe e da un accenno di barba bianchissima, albergava un che di
enigmatico.
«Bentornato, signor presidente.» disse
l’anziano «L’aspettavamo.»
«Voglio vederla.» tagliò corto Alexei
«Naturalmente. Mi segua».
Entrarono nell’edificio, il solo di tutta la
base che l’anziano nobiluomo avesse costruito personalmente, e da qui in un
ascensore che, scendendo, li condusse fin nelle più oscure profondità della
terra, a centinaia e centinaia di metri sotto la superficie.
Qui, le porta si riaprirono su quello che
sembrava un avveniristico laboratorio, pieno di attrezzature e apparecchiature
che sembravano uscite da un film di fantascienza.
Anche la stanza in sé era stranissima, con una
volta dalla forma stranamente triangolare, come i soffitti delle case di
montagna, e tendente leggermente verso il basso man mano che ci si avvicinava
all’estremità dove si trovava l’ascensore, il quale, era evidente, non era
integrato nell’architettura della camera, ma sembrava anzi realizzato apposta
per potervi arrivare dalla superficie.
Al centro del laboratorio, un grande cilindro
verticale di vetro e acciaio, circondato di cavi e pieno di una strana sostanza
bluastra, all’interno della quale era però possibile distinguere i lineamenti
di un corpo rannicchiato in posizione fetale.
Nel vedere quella specie di contenitore, il
presidente sentì uno strano bruciore al cuore, e vi si avvicinò sfiorandolo con
una mano; i suoi occhi tradivano qualche lacrima, rivelando una parte del suo
animo che nessuno probabilmente gli avrebbe attribuito.
«Quanto manca ancora?»
«Come le ho già detto in altre occasioni, non
è un lavoro facile. Ma siamo già a buon punto, e confidiamo di ultimare il
lavoro in tempi brevi.»
«Mi sono stancato di frasi simili, conte
Lorenzi.» replicò severissimo il presidente «Avevate promesso che sarebbe stato
fatto tutto in due anni, e ne sono passati cinque. Avete chiesto attrezzature e
fondi e ve li ho concessi. Ma anche così, di risultati concreti continuo a non
vederne.»
«Rinforzare un corpo a tal punto indebolito
richiede interventi di correzione genetica non da poco, signor presidente.»
ribatté il conte altrettanto severamente, ma comunque con rispetto «Stiamo
facendo il possibile, usufruendo del patrimonio genetico di vampiri sangue puro
o comunque dall’altro livello di potenza, ma è un’operazione che richiede tempo
e denaro».
Alexei
tergiversò; non aveva idea di cosa e come facesse il conte a procurarsi questo
patrimonio genetico di cui parlava sempre, ma la sensazione di complicare le
cose facendo troppe domande lo aveva sempre spinto a tenersi i suoi dubbi. Tutto
quello che gli importava, era che l’esperimento andasse a buon fine.
Se ancora ci pensava gli sembrava incredibile.
Un bel giorno, quando era sul punto di cedere
alla disperazione, quell’anziano nobile italiano si era presentato da lui,
raccontandogli cose al limite dell’inverosimile su vampiri e cacciatori, e prospettandogli
la possibilità di realizzare il suo più grande sogno, la sola cosa per la quale
era pronto a dare la vita.
Quando poi aveva visto cosa potevano fare i
vampiri, e fin dove arrivasse il genio del conte e del suo entourage di
scienziati e ricercatori, non ci aveva pensato due volte a concedergli carta
bianca, ma dopo cinque anni la soluzione sembrava ancora lontana, e lui
iniziava a domandarsi se si sarebbe mai arrivati da qualche parte, e se l’euforia
di quel momento ormai lontano non fosse stata solo una falsa speranza.
Inoltre, sapeva per certo che quella stanza
non era la sola di quella specie di alveare sotterraneo che si estendeva per
chissà quanta superficie sotto il suolo del suo Paese, e non aveva la minima
idea né di che cosa si trattasse né di come il conte ne fosse venuto a
conoscenza.
In buona sostanza, e cominciava a comprenderlo
solo adesso, si rendeva conto di aver consegnato praticamente le chiavi della
Repubblica ad una persona di cui non sapeva niente, e tutto in nome di un sogno
forse irrealizzabile.
«Le do un altro mese.» fu la sua risposta
lapidaria «Non un giorno di più. Alla mia prossima visita, voglio vederla con i
miei occhi. Altrimenti, con me e il mio Paese voi avete chiuso.
Sono stato chiaro?».
Il conte lo guardo dritto negl’occhi, ma non
controbatté, limitandosi ad una risposta di cortesia.
«Ai vostri ordini, signor presidente».
Detto questo, Alexei
se ne andò, e molto più contrariato del solito.
Il conte e Michelle vollero attendere che se
ne fosse andato per parlare.
«Immagino occorrerà affrettare i tempi.» disse
il giovane
«Ovviamente. Contatta Malik.
Digli che deve rimettersi subito al lavoro».
In quella squillò il telefonino di Michelle,
che lo prese dal taschino e rispose.
«Pronto? Sì…sì… d’accordo.»
«Problemi?» chiese il conte
«Le nostre spie nella scuola ci informano che
Flyer ha lasciato la Cross assieme a quel suo supervisore, Eisen.
Sembra siano diretti il Sicilia.»
«In Sicilia!?»
«Potrebbe non essere una coincidenza. A quanto
ne so, l’Associazione aveva in mente di trasferire il Soggetto 19 all’accademia.
Conoscendo tuo nipote, non mi sorprenderebbe se avesse scoperto il segreto».
Il conte tornò ad osservare il cilindro di
vetro, sempre con quella sua espressione austera ed ambigua.
«È davvero un peccato. Mi sono reso conto di
aver valutato male mio nipote. È un giovane vampiro dal grandissimo potenziale.
Peccato che sia così testardo e ostinato.
Comunque, fino a quando il nostro lavoro non
sarà completo, non possiamo permettere che si avvicini troppo a noi.» quindi si
volse verso Michelle «Occupatene tu.»
«Sarà fatto.» rispose il giovane «Ho giusto un
paio di nuove strumentazioni che non sono state ancora testate».
Nota
dell’Autore
Eccomi
qua!^_^
Con un
ritardo mostruoso, ma sono riuscito ad aggiornare.
Non che mi
dispiaccia aggiornare di sabato, anzi, forse dovrei farne un’abitudine, ma la
verità è che anche se mi sono lasciato alle spalle quel famoso esame devo
ancora completarlo con la stesura di una tesina e di una presentazione da fare
in classe, il che occupa le mie giornate in modo direi sfibrante.
Per
fortuna, entro mercoledì dovrei riuscire a togliermi anche quest’ultimo
sassolino dalla scarpa, quindi a quel punto sarò davvero libero.
Entro
natale conto di pubblicare almeno un altro paio di capitoli, mentre per il
periodo delle vacanze non garantisco niente, visto che ho ricevuto un invito
per un capodanno a Lugano.
Alla
luce del sole estivo, Palermo e le sue spiagge risplendevano di vita.
Un normale vampiro non sarebbe stato capace di
resistere ad un simile sole, e questo spiegava perché in Sicilia la popolazione
della Stirpe della Notte fosse in numero così esiguo.
Persino Eric, pur con tutta la sua unicità,
provava un certo fastidio, che lo costringeva a restare chiuso dentro la divisa
scolastica della cross e a indossare un paio di occhiali da sole.
A colpo d’occhio faceva un gran bell’effetto,
ma era peggio che stare dentro una sauna.
«Ti squaglierai prima di sera con quella roba
addosso.» osservò Peter, che invece aveva potuto optare per un abbigliamento
decisamente più consono
«Non fare commenti, ti prego. È già abbastanza
difficile così».
Sul lungomare era un trionfo di turisti, sia
abitanti che stranieri; le spiagge erano che più affollate non si può, e anche
l’area del centro storico traboccava di visitatori.
Ma Eric e Peter non erano certo venuti là per
fare un giro turistico.
«Allora?» chiese Eisen
sistemandosi gli occhiali da sole «Che siamo venuti a fare qui?»
«Quel ragazzo, Lopez, è stato contaminato dal
virus Vermillion. E sono sicuro che dietro tutto
questo ci sia la famiglia Bongianno.»
«E dunque?»
«Ormai sono più di due anni che mio nonno è
sparito dalla circolazione,ma i
trattamenti col Vermillion su Lopez risalgono a poco
più di un anno fa.»
«Ho capito. Se i Bongianno
trafficano ancora col Vermillion, vuol dire che
probabilmente si sono rimessi a lavorare per il conte.»
«Qualsiasi cosa mio nonno stia trafficando,
non può essere certamente nulla di buono.
A conti fatti, non mi stupirebbe se ci fosse
lui anche dietro a tutti quegli avvistamenti di creature sconosciute degli
ultimi mesi.»
«E allora, cosa hai in mente?»
«Fare due chiacchiere con il padrino, Alfredo Bongianno. Lui e il suo clan hanno fatto da leccapiedi alla
famiglia Lorenzi per più di cent’anni. Sicuramente qualcosa saprà, e forse
potrà dirci che altro di nuovo sta progettando quel fanatico.»
«Molto bene. E dove si trova questo Bongianno?»
«Non lo so. Ma so come scoprirlo. Basterà
trovare le persone giuste, e fare qualche domanda in giro.»
«Bene. Quand’è così, andiamo. Non vedo l’ora
di tornare in Giappone per scoprire in che modo intendano castigarci.»
«Con calma. Ci andrò solo io.»
«Che cosa!?»
«Bongianno e i suoi
hanno spie e informatori dappertutto in questa città. Io posso anche passare
inosservato, ma te si vede lontano un chilometro che sei un forestiero. E se
quel codardo avvinazzato mangia la foglia, sparisce e non lo troveremo più.»
«Insomma, se ho capito bene mi stai
scaricando.»
«Cerca di capire. Per queste cose ci vogliono morigerazione e tatto, dovresti saperlo. Un tedesco che
chiede informazioni su un noto malavitoso siciliano.»
«Ma allora io che cosa faccio?»
«E che ne so? Fai il turista».
In quella, Peter notò due belle e conturbanti
ragazze del posto che prendevano il gelato sedute ai tavolini di un bar sulla
spiaggia, cercando sfacciatamente di combattere il caldo in modo troppo
provocante per poter essere ignorato. E quando videro Peter, con quel suo
visetto da attore navigato e quella lunga chioma bionda, i loro sorrisi e il
loro cenno di saluto fu per Eisen come il segnale di carica.
«Lo sai?» disse il giovane tedesco prendendo
ad ignorare totalmente colui che avrebbe dovuto invece sorvegliare giorno e
notte «Credo che dopotutto seguirò il tuo consiglio.»
«D’accordo, allora io vado. Se ci saranno
problemi, mi farò sentire.»
«Sì sì, come vuoi. A dopo.» ma Peter se ne era
già andato.
Eric
si inoltrò nel vecchio centro storico, cuore antico della città, e passò il
resto della giornata a fare domande in giro.
Recuperò i suoi vecchi contatti, ne cercò di
nuovi, e torchiò a dovere qualche picciotto di bassa lega.
Aveva già visitato Palermo in altre occasioni,
aveva ancora degli agganci, ma soprattutto tutti sapevano bene di chi fosse
parente, a cominciare dagli uomini del padrino. E perciò, furono ben pochi
quelli che trovarono il coraggio di rifiutarsi di rispondere, ma che comunque
furono adeguatamente portati a più miti consigli.
Alla fine Eric ottenne ciò che voleva; stando
agli informatori, Bongianno si trovava in una delle
sue tante residenze, un villino a due piani alla periferia orientale della
città, proprio di fronte ad un vecchio cementificio abbandonato di sua stessa
proprietà.
Quando arrivò sul posto si era già fatta sera,
e a giudicare dai tipi loschi che sorvegliavano il perimetro della casa,
delimitata da un basso muretto, l’informazione doveva essere giusta.
Sicuro di sé il ragazzo avanzò, e subito due
picciotti gli andarono contro per bloccargli strada.
«Che vuoi?» gli domandò uno in malo modo
«Voglio vedere don Alfredo.» replicò Eric
cavando fuori il suo miglior siciliano
«Don Alfredo non riceve nessuno.»
«No, a me mi riceve, puoi contarci.»
«Sei in cerca di rogne, per caso?».
La situazione minacciò subito di riscaldarsi,
ed Eric da parte sua non sembrava voler fare nessuno sforzo per calmare gli
animi. Anzi, si tolse gli occhiali da sole che aveva portato per tutto il
giorno, sfoggiando una evidente aria di sfida.
«D’accordo. Io ci ho provato».
Nello stesso momento, nel solarium attiguo
all’abitazione, il don stava intrattenendo alcuni facoltosi ospiti
sudamericani, probabili futuri partner commerciali nel traffico di
stupefacenti.
Le attività mafiose potevano essere molto
lucrative e remunerative, soprattutto per i vampiri, molto più abili degli
esseri umani ad essere sempre un passo avanti rispetto ai propri avversari e
inseguitori, ma occorreva scegliersi gli alleati con molta più cura, più che
altro per essere certi di poterli liquidare senza difficoltà quando non
servivano più; proprio come l’ultimo cartello messicano che i Bongianno si erano trovati anni prima e che, quando avevano
iniziato a fare troppe domande sulla natura dei loro ambigui partner siciliani,
avevano provveduto ad epurare.
Fisicamente non sembrava neanche siciliano,
basso, tarchiatello, capelli a spazzola biondo
scurissimo tendente al marrone, mento squadrato e occhiali per compensare una
vista non più eccellente a quattrocento e passa anni.
«Credetemi, signori.» disse sorseggiando un
po’ del suo vino «Quello che conta al giorno d’oggi è la pragmaticità.
Bisogna essere materialisti e spietati, soprattutto nel nostro lavoro.
Personalmente, nel mio territorio applico da
sempre questo concetto, e non ho mai avuto di che lamentarmi, né problemi di
alcun genere».
Le ultime parole famose.
In quel momento la parete di vetro del
solarium venne letteralmente sfondata da due guardie del padrino che vi erano
stati scagliati contro, e che dopo averla ridotta in pezzi rovinarono sul
pavimento marmoreo dalla stanza incenerendosi.
Tutti, colti sul fatto, fecero per mettere
mano alle armi che ognuno di loro solitamente portava con sé, ricordandosi solo
troppo tardi che erano stati costretti a lasciarle all’ingresso al loro arrivo.
Passò qualche secondo, e dallo squarcio nella
vetrata entrò nella stanza un giovane che, riconoscendolo, lasciò il don un
momento spaesato per l’incredulità.
«Salve, disturbo?» domandò provocatoriamente
il giovane
«Guarda un po’ chi è sbucato fuori dalle
ombre.» commentò ironico Alfredo riacquistando cipiglio e autocontrollo «Il
piccolo Enrico Lorenzi.»
«Don Bongianno».
Il padrino sorrise di soddisfazione, quindi
fece un cenno ai suoi invitati per rassicurarli.
«Signori, se volete scusarmi.» disse, e tutti,
pur comprensibilmente attoniti e preoccupati, abbandonarono guardinghi il
salone, rifugiandosi in casa e lasciando il don da solo. Questi, nonostante
tutto, seguitò a mantenere il proprio autocontrollo, e messa una mano nel
taschino della giacca ne prese fuori uno dei suoi toscani, accendendoselo.
«Allora, qual buon vento ti riporta qui dopo
tutti questi anni?»
«Stai ancora lavorando per mio nonno, non è
così?» tagliò corto Eric.
A quella domanda il don restò un momento in
silenzio, per poi sorridere divertito.
«Ragazzo, hai la memoria corta. Sei stato
proprio tu a troncare il mio… accordo commerciale coi
Lorenzi. Anche se, date le circostanze, credo che dovrei ringraziarti. Dopo
cinquecento e passa anni, quella di tuo nonno stava diventando una presenza
assai fastidiosa.»
«Non raccontarmi balle. So benissimo che
lavori ancora per lui.»
«Davvero? E cosa te lo fa pensare?»
«Gabriele Lopez».
Nel sentire quel nome Alfredo, di nuovo, tradì
qualche emozione, ma cercò di non darlo a vedere.
«Non capisco dove vuoi arrivare.»
«So quel ragazzo è finito in mano tua. So che
lo avete contaminato con il Vermillion. So che tutti,
e dico tutti i campioni di Vermillion scomparsi dal
castello nei Balcani e dalla Zaibatsu di Hong Kong
sono stati recuperati e distrutti, e che quindi non puoi essertelo procurato
sul mercato nero. So che c’è una lista di persone scomparse, umani e vampiri,
lunga così che porta fino a te e alla tua famiglia.
So che sei un bastardo che per soldi farebbe
qualsiasi cosa. So che neanche fra mille anni saresti capace di lavorare a
questi livelli.
So che sei stato, sei e sempre sarai il
leccapiedi di mio nonno».
Gli ultimi commenti erano decisamente poco
lusinghieri e sfacciatamente provocatori, e infatti Alfredo stava iniziando ad
irritarsi.
«Sai un po’ troppe cose per i miei gusti,
ragazzino.» mugugnò sforzandosi di sorridere ma schiacciando nel contempo il
sigaro tra le dita
«Posso andare avanti tutta la notte, se vuoi.
Oppure possiamo smetterla qui e puoi dirmi a
cosa di nuovo sta lavorando mio nonno. C’è lui dietro tutte le mutazioni che
stanno spuntando fuori di questi tempi, non è vero?».
Seguirono lunghi ed interminabili attimi di
silenzio, poi per fortuna il clima parve volersi distendere; don Bongianno si accese un nuovo sigaro e ne offrì uno anche ad
Eric, che però rifiutò.
«L’ho sempre sostenuto. I Lorenzi sanno solo
provocare problemi.
Io speravo di essermi liberato di quel vecchio
fanatico, ma come si dice… le brutte compagnie sono
come gli scarafaggi. Non te ne liberi mai.»
«Che cosa state facendo? Cosa sono questi
esperimenti con il Vermillion, per di più sugli
esseri umani?»
«Cosa stia facendo, non chiederlo a me.»
rispose il don liberando una nuvola di fumo «Lo sai perfettamente che io non
sono solito indagare sugli ordini che vengono dall’alto. Mi limito a eseguirli.
Forse tu potresti aiutarmi a capire che cos’ha
in mente quella mummia fuori di testa. Non hai neanche idea dei problemi che mi
ha causato da quando è sparito dalla circolazione.»
«Prima dimmi che cosa stai facendo per suo
conto.»
«Posso fare di meglio.» rispose Alfredo
alzandosi «Posso mostrartelo».
Accompagnato
da un paio di uomini, Alfredo a quel punto condusse Eric nel cementificio
dall’altra parte della strada, e una volta qui all’interno dell’edificio
principale, insolitamente ben arredato per essere poco più di un cantiere.
«Non credevo che svolgessi i tuoi intrallazzi
in un posto così in bella vista.»
«Credimi, ragazzo. Questa città è in sé il
miglior nascondiglio che si possa desiderare».
Scesero nel seminterrato, dove al termine di
un corridoio Eric si ritrovò a tu per tu con una porta dall’aria
incredibilmente robusta, ben chiusa e protetta da un lettore d’iride e un
tastierino di sicurezza.
Il don la sbloccò, e questa, una volta
spalancata, rivelò una specie di piccolo sgabuzzino, che era in realtà un
ascensore abilmente mascherato, e che solo digitando il codice corretto
permetteva di usufruirne: un piccolo accorgimento per proteggere i molti
segreti che quel posto nascondeva.
«Dopo di te.» disse Alfredo facendo strada ad
Eric, il quale esitò un momento prima di salire per primo.
Una volta che furono tutti saliti il don prese
il proprio palmare, digitandovi un nuovo codice, e a quel punto l’ascensore
iniziò a scendere.
«E questo come me lo spieghi?» chiese Eric
«Non mi pare nelle tue possibilità.»
«Una delle poche cose per cui possa
ringraziare tuo nonno. Questo centro di ricerche fu costruito in gran segreto
durante il tentativo di riqualificazione urbanistica degli anni sessanta.
Ufficialmente servirebbe solo per svolgere il lavoro sporco che mi affida lui,
ma occasionalmente torna utile anche per altri scopi».
Eric ricordò di aver già visto altrove qualcosa
di simile; ad Hong Kong, alla ImagawaZaibatsu; e ancor prima in Giappone, nella Penisola di
Noto.
Quanti altri laboratori e centri di ricerca
suo nonno e i suoi alleati avevano in giro per il mondo?
Duecento metri verso il basso dopo, le porte
dell’ascensore, in realtà solo uno di tanti, si riaprirono su di una sala
circolare che fungeva un po’ da centro nevralgico dell’intera struttura, che
vista dall’esterno poteva rassomigliare ad un albero di natale rovesciato e
strutturato su dieci livelli uno sotto l’altro sempre più piccoli.
Quello dove erano arrivati era il quarto
settore, o come recitava un cartello affisso alla parete il CENTRO DI QUARANTENA – LIVELLO I. Non c’era anima viva, ma
probabilmente solo perché quello era un settore riservato unicamente allo
stoccaggio delle cavie e dei soggetti per le sperimentazioni, e quindi un posto
dove non era necessaria una massiccia presenza umana.
Alfredo condusse Eric attraverso i corridoi,
facendogli constatare che effettivamente anche lì c’erano degli scienziati e
dei ricercatori al lavoro, gli unici probabilmente che non rispondessero
all’autorità del padrino ma solo a quella del conte Lorenzi, che seppur lontano
e nascosto chissà dove era ancora perfettamente in grado di gestire al meglio
tutti i suoi laboratori sparsi nei cinque continenti.
A prima vista sembrava un centro per le
ricerche come qualunque altro di una normale casa farmaceutica; si facevano
esperimenti su cavie, conigli e primati, ma di quel genere di cavie che Eric si
aspettava di trovare non vi era neppure l’ombra.
Certo, occorreva cercare di scoprire che tipo
di ricerche venissero fatte, ma Eric era sicuro che quella fosse solo la punta
dell’iceberg, e che in realtà lì dentro si facesse tutt’altro.
«Lopez non ha mai parlato di qualcosa del genere.»
«Credi che avrei tenuto uno scarto di
laboratorio come quello in un posto simile? Era uno studio alla ceca, uno dei
tanti che il conte ci aveva commissionato, ma vista la pochezza che sembrava
dimostrare lo abbiamo mandato a marcire in uno dei vari edifici satellite che
abbiamo disseminati attorno alla città.»
«Non parlerei esattamente di pochezza, visto
quello che è diventato.»
«È esattamente la stessa cosa che ho detto io
a tuo nonno quando quel gorilla è scappato. Certo, se avesse saputo come sarebbe
andata a finire, forse il vecchio ci avrebbe pensato due volte prima di
reputarlo un fallimento.
Comunque, per fortuna, avevamo avuto la buona
grazia di conservare una copia dei rapporti e delle cartelle inerenti alla
ricerca.»
«Allora è questo che fate qui.»
«E non solo.» replicò beffardo Alfredo.
Fu sufficiente scendere di un solo settore, e
ciò che Eric si ritrovò da un momento all’altro davanti agli occhi era qualcosa
che lasciava inorriditi.
Invece di conigli e scimpanzé, in quel posto
le cavie erano quelle che si era immaginato; praticamente metà dell’intero
livello era un susseguirsi di lunghissime e gigantesche stanze traboccanti di loculi
e gabbie per animali su più livelli dal terreno, perché animali erano gli
esseri che vi erano rinchiusi.
C’erano anche molti vampiri, ma la stragrande
maggioranza erano esseri umani, o almeno quello che ne restava; alcuni erano
ormai irriconoscibili, tanto erano mutati nell’aspetto e nel carattere. O
avevano assunto forme mostruose, diventando una massa di animali affamati e
scatenati, che i vetri super-corazzati di ogni singola cella a stento
riuscivano a contenere, o erano ridotti a vegetali senza vita, attaccati alle
macchine.
Eric, il don e il picciotto che li
accompagnava passarono in uno di questi bracci di prigione proprio mentre le
guardie del centro prelevavano uno di quei mostri per portarlo in laboratorio;
quella bestia si era ingigantita a tal punto che la sua pelle si era strappata
sotto la spinta dei muscoli, ormai quasi completamente scoperti, ringhiava e
sbavava, e le pareti della sua gabbia erano piene delle crepe che aveva
prodotto sfracellandosi i pugni e la testa nel tentativo di liberarsi.
Le guardie, cinque, cercavano di arpionarlo e ingropparlo con dei cappi, ma quello pur già parzialmente incatenato
si dimenava incurante di essersi praticamente già staccato una mano nel
tentativo di liberarla dall’anello agganciato alla parete; alla fine dovettero
ricorrere alle maniere forti, e grazie all’intervento provvidenziale di una di
loro, che attirò la sua attenzione ma che ricevette però un pugno al volo talmente
forte da spararlo letteralmente contro il muro facendolo esplodere, un altro
riuscì a raggiungerlo alle spalle e a piantargli venti centimetri di siringa
nella spalla facendolo crollare a terra svenuto.
«Come puoi vedere, non si tratta di un lavoro
semplice.» disse il don per nulla colpito da ciò che aveva visto
«Ma a che cosa serve tutto questo?» chiese
Eric con tutt’altro tono
«Non chiederlo a me. Gli ordini sono solo di
testare e sperimentare nuovi sistemi per aumentare la forza e le proprietà fisiche
sia degli umani che dei vampiri. Proprio come stavamo facendo con quel tuo
amico gorilla. Ma il perché, e che cosa se ne possa mai fare di tutti questi
animali senza cervello, vallo a sapere».
Poi, venne il momento dell’ultima parte di
quella specie di visita degli orrori, che a detta di Alfredo sarebbe stata la
cosa più sconvolgente di tutte.
Eric fu portato in una grande stanza a cupola,
completamente vuota e poco illuminata, dove però non c’era niente, a parte un
enorme foro al centro di alcuni metri di diametro; sembrava l’entrata di un
enorme pozzo, così profondo da non poterne scorgere il fondo, coperto dall’oscurità.
«Era questo che dovevi farmi vedere?» chiese
il ragazzo con una certa perplessità
«Esattamente.»
«Non vedo che cosa ci sia di strano.»
«Qui è dove ci sbarazziamo delle cavie
diventate inutili, o le cui ricerche non hanno dato gli esiti sperati.»
«Cioè…» disse Eric
gettando uno sguardo nel pozzo «Le gettate… qui
dentro!?»
«Esatto.»
«Ma perché?».
A quella domanda, il don si accese un nuovo
sigaro, sorridendo beffardo.
«Perché a volte possono ancora tornare utili».
Eric non ebbe neanche il tempo di pensare.
D’improvviso, un’ombra scura si materializzò
dal nulla sopra la sua testa piombandogli addosso dall’alto armata di una
spada; il ragazzo fece appena in tempo a girarsi, tentando una reazione
stentata, ma fu colto talmente di sorpresa da riuscire a malapena ad evitare in
parte il fendente, che invece di ucciderlo si limitò a ferirlo al torace, ma
subito dopo un calcio tremendo si abbatté su di lui, scagliandolo dritto all’interno
del foro.
Tutto accadde così in fretta che Eric non ebbe
neppure il tempo di capire chi o che cosa lo avesse colpito, riuscendo a
distinguere solo un guizzare di lunghi capelli marroni.
«Bongianno!» urlò
mentre precipitava «Maledetto!».
Un
essere umano non sarebbe mai sopravvissuto ad una simile caduta.
Per fortuna Eric se la cavò con qualche
lussazione e una breve perdita di conoscenza, ma in tutta sincerità anche lui
rimase sorpreso quando, riaperti gli occhi, si rese conto di essere ancora
vivo.
Al termine del pozzo vi era una seconda stanza
simile a quella che stava più in alto, con la differenza che il foro era nel
soffitto, e a giudicare dai resti chissà quanti altri ci erano stati già
buttati dentro nel corso degli anni.
Forse era in questo modo che la famiglia Bongianno si era sempre sbarazzata di traditori, avversari
e personaggi scomodi, facendoli sparire dal mondo come non fossero mai
esistiti.
A giudicare dalla temperatura e dal buio, a
malapena rischiarato da poche lampade al neon appese al soffitto, quello doveva
essere l’ultimo e più basso livello della struttura, una tomba dalla quale non
si usciva.
Eric, pur acciaccato, alzò gli occhi in cerca
di un’uscita, ma il dolore si trasformò in rabbia quando, lungo le pareti del
pozzo, vide una parete vitrea oltre la quale era sicuro trovarsi quella carogna
che lo aveva gettato lì sotto.
E infatti, don Bongianno
era proprio lì, ben nascosto all’interno di una piccola stanza, un centro di
comando da dove si poteva monitorare tutto quello che accadeva in quella vasca
di scarico, e dove lui era solito recarsi per gustare personalmente la morte
dei suoi nemici.
«Mi avevano detto che saresti arrivato.» disse
attraverso l’altoparlante, per essere certo di farsi sentire «Sei sempre stato
impeccabile nel ficcare il naso nei posti meno consoni».
Di tutta risposta Eric afferrò un cranio,
scagliandolo con tutta la sua forza e mandandolo a fracassarsi contro la
vetrata, che tuttavia essendo a prova di danno ne uscì senza un graffio.
«Non sei affatto cambiato.» commentò il don
ridendo a squarciagola per quel gesto inutile «Sempre irruente e scalmanato. Ma
anche ingenuo.»
«Anche tu sei rimasto quello di una volta! Sempre
a fare il lavoro sporco dei Lorenzi!»
«Tu non hai neanche idea di quanto questo mi
faccia venire il voltastomaco. Ma come ti ho già detto, finché ho il mio
tornaconto sono disposto ad ingoiare».
Alfredo a quel punto si accese il suo terzo
sigaro.
«Che cosa diavolo state facendo? A che scopo
fare tutto questo?»
«Dammi retta, ci sono cose al mondo che è
meglio non sapere.
Prendi te, ad esempio. Se non avessi voluto a tutti
i costi ficcare il naso in cose che non ti riguardavano, forse saresti vissuto
un po’ più a lungo.»
«Ho sempre pensato che fossi un maledetto
viscido rettile. Ora ne ho la conferma.»
«Prendila in questo modo. I miei superiori,
compreso tuo nonno, non sanno più cosa farsene di te.
E per quanto mi riguarda, la tua esistenza non
mi crea alcun beneficio.
Mi basta che muori».
Detto questo, il padrino schioccò le dita, e d’un
tratto una specie di portello prese ad aprirsi lentamente lungo la parete della
prigione.
Dall’interno di quell’androne Eric aveva
sentito giungere per tutto il tempo dei mugolii inquietanti, e quando le porte
si furono sufficientemente aperte, un vero e proprio abominio sbucò fuori da
dietro di esse spalancandole con una tremenda spallata.
Era un gigante; nel vero senso della parola.
Doveva essere alto almeno sette metri, un
corpo ridondante di muscoli, che la pelle spessa e ruvida come il cuoio grezzo a
stento riusciva a contenere, fattezze mostruose da orco su di una testa completamente
pelata, gambe piuttosto piccole ma due braccia che sembravano sul punto di
esplodere, terminanti ognuna in enormi mani con quattro dita ciascuna.
Eric era sconvolto; cosa potevano aver mai
fatto per creare un mostro simile?
«Esperimento di sviluppo fisico.» disse Bongianno attraverso l’altoparlante, quasi avesse carpito i
pensieri del ragazzo «Abbiamo clonato il tuo amico tossicomane e abbiamo
proseguito le ricerche. Quello che vedi, è il risultato.
Forse era davvero un esperimento destinato a
fallire, in fin dei conti».
Quindi, pensò Eric, era questo che Gabriel
sarebbe probabilmente diventato, se non fosse riuscito a scappare.
«E non credere che sia finita qui».
Il padrino fece un nuovo cenno, e al suono
assordante di un allarme, nel centro del pavimento della stanza, si aprì una
nuova, grande botola, dal quale giungevano aria rovente ed un caldo
asfissiante. Eric vi gettò uno sguardo, accorgendosi che un centinaio di metri
più in basso, nel fondo di una specie di canalone, scorreva un fiume di lava.
«Non te l’ho detto?» disse Alfredo «Questo
centro, come l’intera città di Palermo, è costruito proprio sopra ad una faglia
sismica. Un modo come un altro per disfarsi degli scarti di produzione.»
quindi, rise beffardo «Allora, cosa preferisci? Morire schiacciato o bollito?».
Eric era ancora intento a fissare quel mare di
magma, quando il gigante tentò di colpirlo; per fortuna fu rapido a schivare,
ma il doppio pugno di quella bestia non aveva nulla da invidiare alla potenza
dirompente di un meteorite.
«Non c’è che dire.» commentò fissando il
mostro dritto in volto «Una gran bella giornata».
Nota
dell’Autore
Eccomi
qua!^_^
Sono
ritornato.
Chiedo scusa
per il lungo ed imperdonabile ritardo, ma come ho già spiegato alla nostra
amica comune Emma questa settimana ho avuto un blocco dello scrittore di
proporzioni bibliche, dal quale sono stato in grado di venire fuori solo ieri.
Allora,
che vi pare di questo nuovo capitolo?
Per ora
non è niente di che, ma conto di aumentare l’effetto horror nel prossimo.
Non vi
faccio ancora gli auguri di natale, perché spero di poterne pubblicare un altro
prima di allora, ma nel caso (come sempre) finissi per contraddirmi, allora in
anticipo tanti auguri di Buon Natale a tutti!^_^
L’orco
avanzò verso Eric, facendo tremare la terra sotto il peso dei propri piedi
ciclopici, mentre il ragazzo lo fissava in volto con aria apparentemente di
sfida.
Visto che non poteva scappare, l’unica
soluzione infondo era combattere. Non aveva con sé Izanami,
ma con un po’ di fortuna, e contando sulla sua abilità, c’era qualche
possibilità di riuscire a prevalere.
Il mostro lanciò un urlo sordo e assordante,
quindi cercò di schiacciarlo con un pugno a mani giunte, ma anche se Eric
riuscì a spostarsi quel colpo per poco non fracassò il pavimento della stanza,
già fragile di suo in quanto sospeso sul niente.
Peggio di tutto, l’energia sprigionata dalla
faglia tellurica, opportunamente incanalata e usata come fonte per alimentare
l’intera struttura, aveva su Eric e i suoi poteri di vampiro l’effetto di un
potente campo magnetico, che li limitava e li condizionava, un effetto
imprevisto persino per don Bongianno.
Questo fatto divenne evidente quando, cercando
di creare la solita bolla temporale per sorprendere il nemico e averne ragione
facilmente, si accorse che questa aveva ottenuto il potere contrario, di modo
che il tempo rallentava solo per lui; grazie al cielo se ne accorse in tempo,
altrimenti avrebbe fatto la fine di una gomma da masticare venendo schiacciato
sotto uno di quei piedi giganteschi, ma questo non lo metteva in una bella
situazione.
Per fortuna l’orco non sembrava
particolarmente intelligente, e tutto quello che sapeva fare era caricare o
menare pugni che facevano fischiare l’aria, senza impostare una vera strategia.
Eric continuò a schivare e scappare, cercando
di quando in quando di rispondere agli attacchi, ma i suoi pugni potevano fare
ben poco per danneggiare quel mostro, che invece non sembrava sentire per nulla
quel fastidioso campo elettromagnetico.
A quanto pare, si disse Eric guadando verso il
foro, l’unica era cercare di buttare quel mostro di sotto, perché a mani nude
molto difficilmente sarebbe riuscito ad averne ragione, almeno nella sue
attuali condizioni.
Dall’alto della sua stanza blindata, don Bongianno si godeva lo spettacolo con piena soddisfazione,
affiancato ad un certo punto anche dal misterioso figuro dai lunghi capelli
castani che aveva contribuito a far precipitare Flyer in quel pozzo da cui non
sarebbe più uscito.
«Sta diventando monotono.» disse il don
riferendosi al continuo schivare e scappare di Eric «Movimentiamo un po’ la
cosa».
La stanza, oltre che di uno scarico per le
cavie, era provvista anche di un sistema di armamenti teleguidati e
termosensibili per eliminare i soggetti più riottosi e violenti, costituiti da
una decina di lenti al laser a forma di telecamere che sbucavano fuori dalle
pareti.
Eric per poco non venne centrato alle spalle
da uno di questi laser, ma riuscì ad accorgersene in tempo e ad evitare di
finire incenerito; il raggio colpì invece il piede dell’orco all’altezza del
tallone, riuscendo incredibilmente a superare la sua pelle di coccodrillo e
provocandogli, a giudicare dalla sua reazione, un dolore non indifferente.
Forse poteva essere la soluzione al problema;
se quei laser potevano danneggiarlo, se opportunamente usati avrebbero potuto
aiutare Eric ad uscire vivo da quella situazione.
L’unico problema era che si trattava di mirini
termosensibili, tarati a dovere per prendere di mira bersagli che non
superassero i trenta gradi centigradi, temperatura assolutamente standard per i
vampiri ma ben al di sotto di quella di quel mostro.
Eric tentò di agire di riflesso, lasciandosi
prendere di mira per poi spostarsi all’ultimo momento, e per un paio di
tentativi la strategia parve funzionare, permettendogli di infliggere
considerevoli danni alle mani e alle gambe dell’orco, che più veniva colpito e
più sia arrabbiava, diventando ancor più aggressivo.
Poi, però, accadde l’imprevisto.
C’erano almeno una decina di laser posizionati
tutto attorno alla stanza, e riuscire a tenerli d’occhio tutti era quasi
impossibile, anche per lui.
Così, alla fine, proprio dopo essere riuscito
a colpire l’orco di riflesso per l’ennesima volta, un raggio lo centrò, per fortuna
solo di striscio, ad una gamba, mentre era di spalle, e quel bestione fulmineo
ne approfittò, afferrandolo nelle sue mani ciclopiche, sollevandolo per aria e
prendendo a stritolarlo come un uovo sodo.
Eric sentì le ossa scricchiolargli, e
probabilmente se non fosse stato un vampiro si sarebbero anche sbriciolate; per
quanto ci provasse, non gli riusciva di liberarsi, e ogni secondo era
un’agonia, tanto che a stento riusciva ad evitare di urlare come un disperato.
Come se la situazione non fosse già abbastanza
grave, una delle sentinelle laser si preparò a dargli il colpo di grazia
mettendo la sua testa, la sola parte del suo corpo che non fosse inglobata e
stritolata tra le mani dell’orco, proprio al centro del mirino.
Il giovane se ne avvide, e per un attimo pensò
che quella fosse davvero la fine – esattamente lo stesso pensiero, accolto però
con tutt’altro spirito, di don Bongianno –;
all’ultimo, però, gli venne l’idea giusta, pregando di riuscire a trovare in
quel supplizio le forze necessarie a metterle in pratica.
Aveva solo un tentativo; sarebbe stata la
salvezza o la morte.
La telecamera inquadrò il suo obiettivo,
concentrò le particelle, quindi sparò; e nello stesso istante Eric, nonostante
la vista appannata e il dolore lancinante in tutto il corpo, all’ultimo piegò
la testa di lato più che poteva, sentendo la punta dei capelli incenerirsi e
l’orecchio ustionarsi per l’estremo calore del laser.
Il fascio di luce, preciso e letale, centrò in
pieno l’occhio sinistro dell’orco, procurandogli più dolore di tutti gli altri
colpi incassati fino a quel momento messi insieme.
Istintivamente lasciò Eric, che rantolò a
terra tossendo per l’apnea, portandosi le mani sulla faccia e prendendo a
lanciare urla assordanti e colpi alla ceca in egual misura.
«Che cosa!?» ringhiò furente il don.
Eric approfittò subito di quell’occasione
favorevole.
Ripresosi quanto bastava, prese a correre e a
saltare da una parte all’altra come un grillo, sfruttando la confusione
bestiale in cui era caduto il suo avversario per portare attacchi mirati e
potenti lì dove era sicuro che avrebbero avuto il miglior effetto.
Stavolta l’orco incassò senza poter reagire,
grazie anche ad un improvviso, e per certi versi inspiegabile, allentamento del
campo elettromagnetico generato dalla faglia, quindi venne il momento del colpo
di grazia; il mostro era arretrato fin sul bordo del pozzo senza rendersene
conto.
Eric prese una bella rincorsa, spiccò un
salto, si diede la spinta sulla pancia debordante della creatura e quindi,
arrivatogli all’altezza del volto, lo colpì dritto in mezzo agli occhi con un
calcio tremendo, che lo fece cadere inesorabilmente all’indietro, dritto verso
il suo destino.
Rendendosi conto di stare precipitando la
creatura tentò di aggrapparsi, ma le sue mani, per quanto gigantesche, si
rivelarono incapaci di sostenere la sua enorme mole, e dopo pochi secondi perse
la presa, scomparendo urlante nelle viscere della terra.
Eric aveva vinto, ma era così stanco e provato
che dovette sedersi in terra a riprendere fiato.
Ovviamente, la cosa non fu presa per niente
bene da Bongianno, passato in un istante da sadica
soddisfazione a rabbia manifesta.
«Sembra tu abbia puntato sul cavallo
sbagliato.» gli disse sarcastico il giovane castano.
Di certo non gli avrebbe permesso di uscire vivo
da lì.
«Maledetto moccioso!» disse schioccando le
dita.
Al suo ordine, tutti i laser puntarono contro
Eric, che stanco e senza vie d’uscita non poté fare altro che alzarsi
faticosamente in piedi e starli a guardare.
«Muori!».
Invece, accadde il miracolo.
Una volta tanto, la sorte decise di stare
dalla parte giusta. Del resto, nessuno poteva sapere cosa potesse comportare
gettare in una faglia sismica tre tonnellate di gigante, con una pelle tanto
dura da essere resistente persino alla lava e per nulla intenzionato a morire
facilmente.
Nel tentativo disperato di sottrarsi al fiume
di magma che lo stava letteralmente sciogliendo vivo, l’orco aveva preso fin da
subito a tirare pugni a destra e a sinistra contro le pareti, proprio lì dove
si trovavo le apparecchiature della struttura scientifica per l’assorbimento
dell’energia geotermica.
Fu sufficiente spaccarne uno, che subito il
danno si propagò a catena lungo tutta la linea di alimentazione, arrivando fino
a uno dei generatori che, inevitabilmente, andò in sovraccarico per poi
esplodere travolgendo tutti coloro che vi erano nei pressi.
Ne conseguì un tremendo, anche se breve,
terremoto generale, oltre ad un calo di energia che mandò in corto molte
apparecchiature, tra cui il sistema di laser perimetrali.
«Ma cosa…» bofonchiò
il Don cercando di restare in piedi.
Peggio di tutto, l’esplosione del generatore e
i conseguenti danni collaterali provocati dal terremoto ben presto causarono
una serie di altre rotture, di modo che da un istante all’altro l’intera struttura
fu tutta un allarme per sovraccarichi, esplosioni diffuse e corto circuiti
vari.
«Signore, la struttura sta collassando!» gridò
terrorizzato uno dei tecnici prima di venire travolto e ucciso da un cedimento
del soffitto
«Maledizione! Andiamocene di qui!».
Sotto la spinta devastante del terremoto, il
pavimento del pozzo, già fragile di suo, diede segno di stare per crollare.
Eric rischiava di essere condannato in ogni
caso, ma per fortuna ad andare in frantumi un attimo prima del suolo sotto i
suoi piedi fu il vetro della stanza panoramica. Contemporaneamente, con la
caduta del campo elettromagnetico, Eric si sentì ritornare tutte le forze, e
nell’istante stesso in cui la terra gli veniva a mancare, aprendo una
spaventosa voragine sotto di lui, il ragazzo riuscì, con una serie di salti e
rallentando il tempo, a raggiungere la fenditura nella parete.
Sperava di imbattersi subito nel caro amico
che lo aveva gettato lì sotto, ma quando arrivò don Bongianno
se la stava già filando assieme al giovane castano tramite un ascensore di
emergenza che sicuramente conduceva fino in superficie.
Di aspettarlo non c’era tempo, con il pozzo di
scarico che sicuramente sarebbe stato il primo posto a sprofondare appena le
strutture portanti avessero iniziato a cedere, quindi bisognava andarsene in
fretta.
Localizzata una scala di servizio, Eric vi
s’infilò, la percorse il più velocemente possibile, quindi uscì nella stessa
stanza da dove era stato gettato di sotto; come aprì la porta che immetteva nel
resto dell’edificio, però, uno scenario da incubo gli apparve davanti agli
occhi.
Ovunque era un trionfo di fiamme, crolli,
allarmi che rimbombavano a tutto spiano ed energia elettrica che andava a
momenti alterni.
Era come trovarsi in un incubo.
Nel
mentre, Peter era ancora intento ad intrattenersi con le due avvenenti e
procaci locali che aveva rimorchiato quella mattina, del tutto immemore o quasi
del vero motivo che lo aveva portato lì in Sicilia.
Stava prendendo con loro un aperitivo ad un
bar all’aperto sulla spiaggia, sempre forte del suo talento di seduttore e
intrattenitore, quando uno strano botto, come un fuoco d’artificio, catturò
l’attenzione di alcuni, inclusa la sua.
Tutti alzarono gli occhi, immaginando di
vedere lo spettacolo di luce e scintille tipico delle notti d’estate, ma
nessuno vide niente, poi qualcuno notò uno strano rossore vermiglio in
lontananza, proveniente all’apparenza del suolo.
I danni prodotti dall’esplosione, infatti, si
erano propagati dal laboratorio sotterraneo fino in superficie, trovando nelle
cataste di legna e nei contenitori del cemento il combustibile ideale per
svilupparsi.
«Che sarà successo?» domandò una delle due
ragazze, visto che da quella angolazione non era possibile scorgere il
cementificio in mezzo a tutti quei tetti e caseggiati che lo circondavano.
Peter, invece, intuì subito quale dovesse
essere l’origine di tutto quel trambusto.
«Ehi, dove stai andando?» chiese l’altra
ragazza vedendolo andare via
«Mi piacerebbe tanto continuare a farvi
gemere, tesori miei.» rispose lui salendo al volo sulla sua cabriolet con cui
le aveva scarrozzate a destra e a manca per tutto il giorno «Ma ora temo
proprio di dover andare.» e detto questo mise in moto e partì a tutta velocità,
lanciando un ultimo bacio alle sue ennesime conquiste «Omaggi!».
Mentre viaggiava verso il cementificio, poi,
aprì lo scomparto segreto nascosto sotto il sedile del passeggero, pieno di
quanto era riuscito a mettere insieme dalla visita ad un suo vecchio amico: due
9mm, un MP5, un paio di granate, dell’esplosivo al plastico e caricatori quanti
bastavano.
Da sotto il sedile, poi, sembrava sbucare
anche qualcos’altro, come una specie di impugnatura.
«Dovrebbe bastare.» disse tra sé prima di
spingere ulteriormente l’acceleratore.
Facendosi
strada tra fuoco e macerie Eric arrivò nella zona delle celle di contenimento,
e già il fatto che fossero quasi tutte spalancate o divelte non lasciava
presagire niente di buono.
Regnava un silenzio inquietante, rotto solo
dal risuonare intermittente dell’allarme, ma sulle pareti e sul pavimento era
un trionfo di sangue, interiora e cadaveri squartati.
Il corto circuito aveva mandato in tilt i
sistemi di contenimento.
Le creature si erano liberate, e avevano
provveduto a ringraziare i loro aguzzini per ciò che era stato fatto loro in anni
di esperimenti e macchinazioni.
Eric non si illuse neppure per un secondo di
essere solo in quella enorme e lunghissima stanza, piena di gabbie e loculi in
cui poteva nascondersi qualsiasi cosa, ma certo non si aspettava che la
minaccia potesse arrivare addirittura dal soffitto.
Stava camminando lentamente lungo il corridoio
centrale, cercando per quanto possibile di restare indifferente a quell’orrendo
spettacolo, quando uno strano rumore di gocciolio catturò la sua attenzione.
Non era un tubo dell’acqua divelto, o il
frutto di una condensazione prodotta dal fuoco.
A gocciolare, scoprì avvicinandosi, era
sangue, che cadendo ininterrottamente con inquietante cadenza aveva formato una
piccola pozza rosso vermiglio proprio in mezzo alla strada.
Eric la guardò, e prima che potesse deciderlo
autonomamente, uno spaventoso sibilo lo convinse ad alzare lo sguardo sopra la
propria testa.
Appeso al soffitto a testa in giù, col
cadavere di uno degli scienziati parzialmente mangiato stretto tra le zanne, stava
un essere che era a metà tra un rettile e una salamandra, pelle coperta da
squame nere, braccia che erano tre volte quelle di un essere umano a fronte di
gambe sostanzialmente normali, mani quasi o del tutto assenti, fatta eccezione
per cinque artigli che parevano sciabole tanto erano lunghi ed affilati, una
bocca armata di tre file di denti per ogni arcata ed una testa pulsante, color
rosso carne, come fosse sul punto di esplodere per la spinta dall’interno del
cervello.
«Oh, mio Dio…»
mormorò incredulo.
Ma che diamine di esperimenti avevano fatto lì
dentro? Che fine poteva mai avere la creazione di mostri simili?
Il mostro, che si manteneva appeso al soffitto
restandoci attaccato con gli artigli, gettato via il proprio pasto si lasciò
cadere, voltandosi in aria ed atterrando in posizione eretta, già pronto allo
scontro.
Ancora una volta, Eric era a mani nude, ma per
fortuna quel nuovo avversario non si rivelò al livello del precedente; come
scattò, tentando di balzargli addosso, prima schivò, quindi afferratagli la
testa, gliela sfracellò al suolo, facendogliela esplodere vista la sua mollezza
e fragilità.
«Attenzione!» annunciò improvvisa una voce
all’altoparlante «Rischio biologico oltre la soglia critica. Avviare procedura
di sterilizzazione».
Le bocchette antincendio disseminate
dappertutto a quel punto si attivarono, ma invece di acqua presero a spruzzare
senza sosta puro etanolo chimico, mentre dal terreno presero ad emergere, a
distanze regolari, delle colonnine di una trentina di centimetri, ognuna terminante
in quella che aveva tutta l’aria di essere una superficie di accensione.
Peggio di tutto, proprio quando Eric era
convinto che le cose non potessero mettersi peggio, una serie di lugubri rumori
preannunciò la comparsa, tutto attorno a lui, di una miriade di creature
differenti, rimaste fino a quel momento per buona parte rintanate nelle gabbie,
ma che la pioggia di etanolo aveva fatto uscire.
E tutti questi mostri, ben presto si
concentrarono su di un solo obiettivo: lui.
«Oh, merda.» mormorò Eric lasciandosi sfuggire
una delle poche parolacce della sua vita.
Subito dopo, veloce come un fulmine, se la
diede a gambe, prontamente inseguito dalle creature.
Correndo il più rapidamente possibile il
giovane attraversò corridoi, spalancò porte, cercando ogni volta di seminare
ostacoli per rendere più difficile il cammino ai suoi inseguitori.
In qualche modo riuscì a raggiungere l’ultima
parte del tragitto, il lungo e stretto corridoio che conduceva fino
all’ascensore dal quale era arrivato; aveva un certo vantaggio sulle creature,
ma tenendo anche conto dei quindici secondi che mancavano alla
“sterilizzazione” del laboratorio, se l’ascensore non fosse stato lì ad
attenderlo per lui non ci sarebbe stato scampo.
Nell’istante in cui premeva il bottone, le
creature riuscirono a sfondare l’ultima porta, avvicinandosi a lui a passo
spedito e più infervorate che mai; grazie al cielo l’ascensore non si era mai
mosso da quel punto, perché nessuno aveva avuto il tempo di raggiungerlo o era
fuggito per altre strade che Eric non conosceva, così poté buttarcisi dentro e
spingere subito il bottone di risalita.
Il mostro che stava in testa al gruppo tentò
di raggiungerlo con un balzo, ma andò a sfracellarsi la testa contro le robuste
porte di acciaio, le quali si chiusero nel momento esatto in cui il timer del
conto alla rovescia raggiungeva lo zero.
All’unisono, le colonnine piazzate in ogni
dove generarono delle piccole scintille, più che sufficienti visto tutto
l’etanolo che c’era nell’aria e l’ambiente chiuso, e l’intera struttura fu
praticamente sventrata dall’interno da un susseguirsi incontrollabile di
esplosioni che incenerirono ogni cosa.
Eric era consapevole che in questo modo tutto,
comprese le prove di cosa suo nonno stesse davvero facendo, era andato in fumo,
ma ora l’importante era uscirne vivi.
L’onda di fuoco raggiunse anche la tromba
dell’ascensore, risalendola ad una velocità impressionante, ma grazie al cielo
quando arrivò finalmente in superficie Eric fece in tempo a scendere prima che
la cabina venisse letteralmente sparata via come il tappo di una bottiglia,
sventrando l’edificio principale e facendone crollare una buona parte.
In qualche modo, Eric ce l’aveva fatta ancora
una volta.
Il laboratorio era perduto, il cementificio in
fiamme, ma almeno era vivo, e di nuovo all’aperto; i posti chiusi decisamente
non facevano per lui, meno che meno se si trovavano sottoterra.
Stava ancora cercando di riprendere fiato,
quando una serie di passi pesanti e affannosi gli fece capire di non essere
solo.
Fulmineo si alzò, mettendosi in guardia, salvo
poi trovarsi a tu per tu proprio con don Bongianno.
Era da solo, e non sembrava stare bene;
camminava barcollando, attraversato da strani ed inquietanti scatti del corpo
che non pareva capace di controllare, sudava copiosamente, stringeva i denti e
aveva gli occhi fuori dalle orbite.
«Sei ancora qui?» gli domandò prima di
rendersi conto delle sue condizioni
«Perché?» domandò incurante della presenza del
ragazzo «Perché mi hanno fatto questo?».
Cadde in ginocchio, ed Eric gli andò incontro
per tentare di aiutarlo.
«Che cosa facevate qui?» disse strattonandolo
«A cosa sta lavorando mio nonno?»
«Lui…» rispose il
Don con le sue ultime forze, forse nel tentativo di alleggerirsi la coscienza
«Lui parlava di un momento importante. Della resurrezione. Diceva che tutto
sarebbe cambiato».
Solo in un secondo momento Eric si avvide
della siringa che il don aveva piantata nel collo e si alzò, mettendo nuova
distanza tra sé e Bongianno.
«Maledetto! Maledetto per l’eternità!» urlò il
don prima che gli spasimi del corpo diventassero incontrollabili.
Di colpo, tutto il suo corpo iniziò come a
ribollire, poi a gonfiarsi, fino a strappare i vestiti, mentre quel poveretto,
verso il quale Eric per la prima volta sentì di provare un po’ di pena,
assumeva toni sempre più mostruosi, neanche paragonabili a ciò che il ragazzo
aveva visto lì sotto.
Quella trasformazione inarrestabile finì per
tramutare il capo della famiglia Bongianno in un
essere simile ad un gigantesco gorilla, con gambe piccolissime e un busto
sproporzionato, come sproporzionate erano le braccia e le mani, grosse e
potenti come non ne esistevano nel regno animale; le mani, cinque volte quelle
di un normale essere umano, avrebbero potuto fracassare il diamante; anche la
testa era piccola, quasi completamente assorbita all’interno del torace, con
l’occhio destro che si era ingigantito fino ad essere più del doppio del
sinistro.
Il mostro raggiunse una tale mole da risultare
incapace si sostenersi sulle sue piccole gambe, tanto che dovette puntellarsi
al suolo con i pugni per non cadere, ma questo non toglieva nulla alla sua possenza, né al terrore che veniva dal trovarselo di
fronte.
Dall’alto di un edificio poco distante, il
giovane castano assisteva alla scena aiutandosi con un binocolo.
«A quanto pare, questo nuovo Vermillion è ancora parecchio instabile.» disse sorridendo
«Cerca di dimostrare la tua utilità almeno per una volta.» e detto questo salì
sull’elicottero alle sue spalle, già pronto alla partenza.
Eric, di fronte al mostro, indietreggiò, ma
ormai era stato puntato, e provato com’era dalla fuga e dall’essersi salvato
per un soffio non era sicuro di poter affrontare anche quell’ennesimo scontro.
Il mostro lanciò un urlo selvaggio e si
scagliò all’attacco; Eric riuscì ad evitare il primo pugno, ma non il secondo,
che lo sparò come una palla di cannone contro una delle torri del cementificio,
con una potenza tale da incrinarla.
Come precipitò, quel bestione cercò subito di
insistere facendo per caricare, ma prima che potesse anche solo muoversi fu
investito alla schiena dall’esplosione di una granata che lo scaraventò a
terra, e nello stesso momento la macchina di Peter sfondava la recinzione di
semplice fildiferro e compariva nel piazzale.
«Ti sono mancato?» disse spuntando dal
polverone prodotto dalla lunga sgommata con quel suo faccione sorridente e
l’MP5 tra le mani
«Potevi anche arrivare un po’ prima! Te la sei
presa comoda.»
«Avevo del lavoro da fare».
Purtroppo Bongianno,
o quello che restava di lui, impiegò poco a rimettersi in sesto; il colpo di
granata lo aveva danneggiato, ma era ancora più che in grado di creare
problemi.
«Coriaceo l’amico.»
«E per di più ora l’hai fatto anche
arrabbiare».
Ora, pensò Eric, pensare di affrontarlo a mani
nude era un vero e proprio azzardo, tanto più che non si era ancora ripreso
dalle fatiche degli scontri già sostenuti.
«Aspetta, credo di avere quello che fa per
te!» gli disse Peter vedendolo assumere una posa di guardia.
Il biondino affondò quindi una mano dentro la
macchina, prendendone fuori una katana che Eric ben conosceva, e che le
disposizioni dell’Associazione lo avevano costretto a lasciare a casa, in mano
ad una persona fidata.
«Ma quella…»
«Un piccolo regalo del nostro caro amico Negi.» rispose Eisen
lanciandogliela.
Eric la prese al volo, e come l’ebbe tra le
mani poté subito percepirne l’incredibile energia.
«Ora sì che ragioniamo.» disse sfoderandola.
Non aspettò neppure che il nemico si fosse
ripreso per partire alla carica, forte di un ritrovato vigore; con agilità e
precisione schivò due pugni in successione, quindi menò un fendente preciso che
segò di netto la mano destra del mostro.
La creatura urlò per il dolore, ma non diede
segno di volersi arrendere, e anzi reagì con una furia ancor più bestiale;
stavolta però, era Eric ad avere il coltello dalla parte del manico. I suoi
movimenti erano tornati ad essere sinuosi e rapidi, e i suoi colpi precisi,
degni di un vero Hunter e di un ancor più vero vampiro.
Il colpo di grazia, però, lo diede Peter,
approfittando della prima occasione utile, fulminando il mostro in piena fronte
con un solo proiettile 9mm sparato dal suo mitra, un colpo preciso al millimetro
che non lasciò scampo al bersaglio.
La creatura, piegata sotto le ferite e i colpi
subiti, spirò quasi subito, rovinando rumorosamente a terra per poi seguire il
destino di qualsiasi altro vampiro, mutandosi in fredda cenere.
«Ecco fatto.» disse Eisen
soffiando sulla canna del fucile «Se Dio vuole, è finita».
Era finita sì.
Ma, pensava Eric, non certo nel migliore dei
modi.
Il laboratorio distrutto, Bongianno
morto, e quel tipo che lo aveva scaraventato nel pozzo sicuramente già sparito
chissà dove, senza che avesse neppure avuto la possibilità di vederlo
distintamente.
A conti fatti, quel colpo di testa che
sicuramente gli sarebbe costato caro non aveva portato assolutamente niente, né
sollevato in alcun modo il velo su ciò che il conte stava realmente facendo.
Pertanto, di ragioni per festeggiare Eric ne
vedeva ben poche, e sicuramente una volta rientrato alla Cross ne avrebbe avute
ancora meno.
Nota
dell’Autore
Eccomi
qua!^_^
Nel giorno
del mio compleanno, ritorno con un nuovo capitolo tutto per voi!^_^
Vogliate
scusare questa prolungata assenza, ma come sicuramente molti di voi sapranno
durante le feste natalizie sono ben poche le occasioni di starsene in pace con
il proprio computer, tanto più che io dal 24 sto folleggiando stabilmente in
Svizzera, dove resterò fino al tre dell’anno prossimo.
Però,
guardiamo il lato positivo! L’esame che mi aveva tormentato per quattro mesi è
stabilmente e felicemente alle spalle, e l’anno nuovo dovrebbe potermi
garantire molto più tempo libero.
Per quanto
riguarda il prosieguo di questa storia, non escludo una breve sosta di una
settimana o poco più, perché avendo io ricevuto una recensione su di una fic lasciata in sospeso da tempo e povera di lettori, ho
trovato lo stimolo giusto per riprenderla in mano.
Eric
e Peter, una volta rientrati al collegio, si diressero mestamente verso
l’ufficio del direttore proprio come due scolaretti cattivi messi in punizione.
Avevano fatto l’azzardo, e ora dovevano
renderne conto; erano preparati a questo fin dal principio.
«Credi che se la prenderà?» domandò Peter
mentre raggiungevano la porta chiusa dell’ufficio di Cross
«Non è da escludersi. Se poi ci metti anche
faccenda del sonnifero.»
«Eh, hai proprio ragione. Con tutte le
compresse che gli avevo messo nel tè, come minimo sarà rimasto stordito per un
paio di giorni.»
«Speriamo solo che la prenda con filosofia.»
rispose Eric bussando alla porta
«Avanti.» rispose da dentro l’ufficio una voce
pacata e rassicurante
«Certo però, è una bella sfortuna. Dopo aver
fatto tutto questo, ci ritroviamo con un pugno di mosche».
Per fortuna Eric, aperta la porta, fu
abbastanza rapido da abbassarsi, ma Peter, che gli stava subito dietro, tra gli
occhi chiusi e il parlare non se la cavò con la stessa buona sorte, venendo centrato
in piena faccia da un manekineko
che lo lasciò a terra impietrito.
«Tutto a posto?»
«Sì… direi che l’ha
presa proprio bene…».
In realtà il direttore aveva un diavolo per
capello, e anche se quella statuetta nei suoi propositi era destinata ad Eric,
che sapeva essere stato la vera mente di quel gesto sconsiderato, era felice di
aver centrato almeno uno dei due.
«Eccovi qui, razza di maledetti disgraziati!».
Fu una lavata di capo da antologia, con tanto
di ventaglio di carta sbattuto continuamente sulla testa dei due poveri
colpevoli, che consapevoli della loro avventatezza subivano in silenzio e con
umiltà.
«Vi rendete conto o no di quello che avete
rischiato con la vostra bravata? Soprattutto tu!» e indicò Eric «Che avresti
fatto se qualcuno avesse scoperto che eri evaso dagli arresti domiciliari? Hai
forse deciso di farti rinchiudere a vita?
Avete idea di quello che ho dovuto inventare
quando hanno fatto la telefonata di controllo domenica scorsa? Come minimo mi
avrebbero spedito in cima a un monte, e fatto chiudere questa scuola, se si
fosse saputa la verità!
E io non ho intenzione di rischiare tutto
quanto ho faticosamente costruito fino a questo momento per voi due
sconsiderati!».
Passato il momento di rabbia, poi, il
direttore si calmò, traendo un paio di respiri profondi e buttandosi nuovamente
sulla sua poltrona.
«D’accordo, basta così.» disse sospirante,
facendo tirare ai due un sospiro di sollievo «Dopotutto, non posso non
ammettere che l’avete fatto a fin di bene.
Avanti, fuori la voce. Che avete scoperto?».
Eric sorrise.
Conosceva troppo bene il direttore. Se avesse
voluto avrebbe potuto fermarli quando voleva, contattando qualcuno dei suoi
molti amici in giro per il mondo; e invece li aveva lasciati fare, anche a
costo di rischiare in prima persona.
Peccato che il rapporto non fosse altrettanto
radioso e degno della fiducia concessa.
«Purtroppo, non è andata come speravamo.»
disse mestamente Flyer «Ma i nostri sospetti si sono rivelati esatti.
Don Bongianno
lavorava ancora alle dipendenze del Conte, anche a distanza di tutti questi
anni, gestendo per suo conto un progetto di studio messo in piedi in una
struttura di ricerche sotterranea nascosta nel sottosuolo di Palermo.
Conducevano studi genetici e farmaceutici,
testando sperimentazioni ed apparecchiature sperimentali su cavie umane e
vampiri. Gabriele Lopez è stato usato assieme a tanti altri per sperimentare
una versione modificata del Vermillion sviluppata in
quell’istituto.»
«Per sua fortuna, l’esperimento è stato
reputato un fallimento.» proseguì Peter «Il che paradossalmente è stato la sua
salvezza. Dubito che sarebbe fuggito da quel centro con la stessa facilità con
cui è riuscito a scappare dalla baracca dove lo avevano rinchiuso dopo averlo
scartato.»
«In ogni caso, il Vermillion
non era l’unica cosa che veniva testata lì dentro. Quel posto era pieno di
creature frutto di esperimenti genetici. Vere e proprie armi organiche».
Tutte le prove degli esperimenti che venivano
condotti nel centro erano purtroppo andate in fumo, ma Eric se non altro era
riuscito, non visto, a fare alcune foto ai mostri rinchiusi e studiati lì
dentro durante la visita iniziale, subito prima di essere scaraventato nel
pozzo, e le mostrò al direttore.
«Non riesco a capire.» disse Kaien «Che cosa se ne fa il conte di studi simili? Non
credo abbiano molto a che vedere con le sue ricerche sui difetti genetici dei
vampiri.»
«Questa è una bella domanda.» disse Peter «Ma
di sicuro il nostro amico non ha mai brillato per modestia ed umiltà, e d’altra
parte i lussi costano. Simili macchine di morte sono il sogno bagnato di
qualunque signore della guerra.»
«Forse vende queste creature da combattimento
in giro per il mondo per finanziarsi.» ipotizzò Eric «Il suo potere e i suoi
profitti sono crollati dopo quanto successo due anni fa. È probabile che sia un
modo per tornare sulla cresta dell’onda.»
«Questo spiegherebbe anche la comparsa di
queste e altre bestiacce sui teatri di guerra di tutto il mondo.» disse Peter,
che negli ultimi mesi ne aveva ammazzate di creature simili per conto
dell’Associazione».
Il direttore restò in silenzio a lungo,
soprapensiero, poi prese le foto, le impilò con cura e le ripose in un
cassetto, dal quale di contro prese fuori due buste sigillate.
«D’accordo. Non è molto, ma forse riusciremo a
convincerli.»
«Convincerli!?» ripeterono in coro Eric e
Peter.
A quel punto Kaien
allungò le buste ai due ragazzi, fissandoli severamente.
«Avevo una gran voglia di strapparle, sapete?
Ma, nonostante tutto, c’è ancora qualcuno che vi reputa persone affidabili».
Eric e Peter allora presero le missive,
aprendole e leggendole; era un ordine di missione firmato dalla presidentessa
in persona, come guardie di sicurezza per la riunione di emergenza tra
l’Associazione e il Consiglio che si sarebbe tenuta nel prossimo finesettimana.
«La riunione distensiva si terrà la settimana
prossima in una villa di proprietà della presidentessa sulle montagne
dell’Hokkaido. Sia l’Associazione che il Consiglio hanno preteso come
condizione per prendervi parte che entrambi potessero nominare dei propri
addetti alla sicurezza. Tu Peter, sei stato nominato dalla nostra sede centrale
come vice-capo dell’organico Hunter, mentre il qui presente Flyer è stato inserito
dal consiglio in quello dei vampiri. Vogliamo provare ad indovinare per intercessione
di chi?».
Quella era una gran bella sorpresa, senza
dubbio, ed entrambi ne furono colpiti.
«Ognuno di voi due avrà uno o più superiori
nel corso di questa operazione, e stavolta badate bene di fare attenzione al
grado.» disse il direttore con finta severità «E comunque, non crediate di
passarla liscia!».
Infatti, dopo il foglio degli ordini fu il
turno dei biglietti di punizione.
«Per te, due mesi di lezioni supplementari!»
disse ad Eric «E per te invece, sospensione per un mese dalle lezioni!»
«Sai che roba.» mormorò tra sé Eisen, tutto contento «Mi fai quasi un favore.»
«Inoltre, revoca immediata del titolo di
professore di nuoto!»
«Che cosa!?».
Quella sì che era una punizione. Addio alla
possibilità di gustarsi le studentesse dell’ultimo anno rinchiuse nei loro
costumi bagnati senza il rischio di passare per maniaco guardone, come quando
era costretto ad osservarle chiuso in un armadietto degli spogliatoi.
Per non parlare del fatto che come professore
era costretto a darsi un contegno, sforzandosi di essere professionale, il che,
unito all’incanto della sua figura, aveva reso le ragazze sempre molto
disponibili e per nulla imbarazzate nel lasciarsi guardare.
«E ringrazia che ti lascio ancora venire alla
gita alle terme di lunedì».
Beh, era già qualcosa, che se non altro salvò
Peter dalla tentazione di buttarsi dalla finestra.
«Potete andare. La questione è chiusa. E
comunque preparatevi. Si parte per le terme domani mattina».
La
prima cosa che Eric volle fare appena lasciato libero dal direttore fu
raggiungere in tutta fretta il dormitorio sole.
Fin dal giorno della sua partenza, Izumi non
aveva mai smesso di stare in pensiero, passando tutti i giorni a chiedere al
direttore se ci fossero novità, e ricevendo puntualmente la stessa, avvilente
risposta. Per aspettarlo aveva anche rifiutato la proposta di tornare a casa
per la prima parte delle vacanze estive, rimanendo con Emma e pochi altri al
collegio a trascorrere le sue giornate tra la lettura e altri passatempi
improvvisati.
Se non altro, aveva potuto migliorare il suo
repertorio con il flauto grazie all’aiuto della sempaiKreutzer, al quale faceva da accompagnamento ogni
volta che lei suonava il violino o al pianoforte, e ricevere i suoi complimenti
era stato molto gratificante.
Era quasi il tramonto, e visto che quasi tutti
i vampiri, a cominciare da Kaname e i suoi seguaci,
non avevano lasciato il collegio per tornare a casa, Izumi considerò prudente
chiudersi nel suo dormitorio, dove per la verità erano rimasti in pochi, e per
ammazzare il tempo volle fare un altro po’ di pratica col flauto.
Stava provando, quando avvertì un ticchettio
familiare provenire dalla finestra alle sue spalle.
Come se quel suono fosse stata la voce di un
angelo, si girò con gli occhi pieni di stupore, e come vide Eric dall’altra
parte del vetro farle un cenno di saluto, lasciato cadere il flauto gli corse
incontro spalancando l’uscio.
«Eric!» disse abbracciandolo «Sei tornato!
Quando sei arrivato?»
«Qualche ora fa. Sono andato a fare rapporto
al direttore, poi ho pensato di venirti a trovare».
Lei, alzati gli occhi, lo guardò.
«Dove sei stato tutto questo tempo?»
«Avevo una piccola questione da sbrigare.
Peccato che non sia andata come speravo.»
«Ogni volta che chiedevo di te, il direttore
mi rispondeva che non sapeva neppure dove tu fossi.»
«Mi spiace, non ho avuto il tempo di fare le
cose coi guanti. È stata una scelta improvvisa. D’altra parte Kaien alla volte sa essere un vero rompiscatole».
Di certo, Eric non si aspettava che proprio in
quel momento gli arrivasse un ceffone dritto in faccia; per lui era poco più di
una carezza, ma questo non rese l’effetto meno doloroso, né la sua espressione
meno incredula nel vedere gli occhi arrabbiati e risentiti della ragazza che
gli stava di fronte.
«Izumi…»
«Ma lo capisci o no che mi hai fatta stare in
pensiero? Per te sembra tutto un gioco, ma io ero preoccupata da morire!».
Non era mai accaduto che Izumi fosse così
diretta, ed Eric ne rimase spiazzato; e l’incredulità venne un colpo al cuore,
nel momento in cui quei grandi occhi blu solitamente così vivi andarono
riempiendosi di pianto.
«Tutte le volte che ti vedo andare via, è per
andare incontro a qualcosa che potrebbe ucciderti. Perché devi rischiare la
vita in questo modo?».
A quel punto, Izumi non riuscì più ad impedire
alle lacrime di inondarle il viso, ed Eric nel vederle si sentì un verme senza
capire perché; quella era la vita che conosceva, che conduceva da anni e anni,
e gli era sempre andata bene: perché di colpo sentiva che qualcosa, forse, non
andava?
Si era sempre detto che, anche se fosse morto,
nessuno avrebbe mai veramente sentito la mancanza di uno come lui, un sangue
misto mal tollerato da entrambe le parti, e questo nel tempo lo aveva aiutato
più volte ad affrontare le situazioni senza timore e con la ferrea determinazione
a riuscire in ogni circostanza.
E ora invece, per la prima volta, questa
certezza cominciava a venire meno.
E tutto a causa di quegli occhi.
«Ti prego.» disse Izumi lasciandosi andare sul
suo torace forte e caldo «Promettimi che non rischierai inutilmente la tua
vita».
Eric non sapeva che fare, né come comportarsi,
ma il tepore emanato da quella ragazza era talmente avvolgente da annullare
tutte le sue certezze, lasciandolo indifeso e incapace di reagire.
Fino a quel momento non gli era mai importato
molto del giudizio degli altri, né di quello che chiunque potesse pensare del
modo in cui conduceva la sua vita, ma ora di colpo tutto acquistava un
significato diverso.
Se davvero si era promesso di proteggerla,
questo significava anche che era obbligato anche a rispettare i suoi desideri e
la sua volontà.
Incatenato senza catene. Un desiderio, una
richiesta sincera, era tutto ciò che gli fece maturare di punto in bianco la
decisione di voltare pagina, dicendo addio alla condotta sconsiderata e troppo
sicura di sé che aveva tenuto fino a quel giorno.
Non lo ammise, né lo avrebbe fatto: sarebbe
stato troppo anche per lui. Gli bastava che quell’idea fosse bene impressa
nella sua mente.
«D’accordo, Izumi.» disse ricambiando
dolcemente l’abbraccio «Lo farò».
Per entrambi fu un momento molto bello, il
primo forse in cui si fossero parlati l’un l’altro con reciproca sincerità,
mettendo a nudo i rispettivi sentimenti.
Certo, nessuno dei due poteva immaginare di
essere tenuto d’occhio da uno spettro invisibile appollaiato sull’albero di
fronte alla finestra, il quale, già provato severamente da ciò che aveva visto,
arrivò, anche a causa della penombra in cui erano avvolti i due ragazzi, a
confondere un innocente abbraccio, per quanto appassionato e delicato, per un
vero e proprio bacio d’amore.
Il
ritorno di Eric al dormitorio luna fu salutato dai suoi compagni con un misto
di curiosità e finta indifferenza.
Qualcuno, notò Flyer, se n’era andato per le
vacanze estive, per buona parte gli studenti dell’ultimo anno, mentre il gruppo
di Kaname e i partecipanti al progetto di scambio
erano rimasti quasi tutti; anche Pierre aveva fatto le valige, con buona pace
di Elodie e tutti gli altri.
Almeno per un po’ se ne sarebbero restati in
pace.
«Bentornato, capo-dormitorio.» salutò
rispettosamente Lacey, in quel momento nel salotto
all’ingresso insieme a Raven, Elodie
e Nalani
«Grazie.» rispose Eric senza quasi prenderle
in considerazione, tanto confuso e tra le nuvole era, e puntando direttamente
verso la sua stanza.
Le quattro ragazze lo guardarono incredule.
«Che gli è preso?» chiese Elodie
«Sembra su un altro pianeta.» commentò Nalani
«Aspetta!» lo chiamò Raven
quando era a metà scala «Ho sentito che sei stato convocato per partecipare
alla riunione della settimana prossima».
In quel momento, in verità, era l’ultimo dei
suoi pensieri, ma se non altro la ragazza ebbe il merito di farglielo tornare
alla mente.
«Perché me lo chiedi?»
«Perché in questo caso.» rispose Raven sorridendo e sventolando la sua lettera di convocazione
firmata dal Consiglio «Siamo colleghi. Sono stata convocata anch’io.»
«Davvero?» chiese Eric con tono parecchio
disinteressato «E chi altro?»
«Sono stata convocata anch’io.» disse Lacey alzando la mano
«A parte noi tre, nessun altro del dormitorio.
Ma ho saputo che l’Associazione ha convocato anche Kiryu
e Kretzner del Dormitorio Sole, nonché i professori Yagari ed Eisen.»
«Devono essere davvero in ansia per aver messo
insieme tutti questi professionisti.» commentò Nalani
«Piuttosto.» disse sempre Lacey
«Qualcuno di voi ha idea del perché sia stata convocata questa riunione?».
La risposta Eric ben la conosceva, ma non
poteva certo condividerla.
La verità era che non riusciva ancora a
fidarsi del tutto dei suoi compagni, e per questo evitava deliberatamente che
arrivassero a sapere troppe cose su di lui o su cosa fosse coinvolto.
«Ho sentito che tra l’Associazione e il
Consiglio le cose non vanno troppo bene ultimamente.» disse Raven
«Il perché non lo so, ma forse c’è bisogno di stemperare gli animi.»
«Comunque» disse Nalani
«L’unica cosa che conta per me è che domani finalmente si parte per la gita.
Non ne potevo più di restare chiusa qui
dentro.»
«A parte noi quattro, il capo-dormitorio Kuran e pochi altri, se ne sono andati quasi tutti del
Dormitorio Luna.» disse Lacey «Mentre a quanto ne so,
il Dormitorio Sole è praticamente vuoto. Sono rimasti sono Kreutzer,
Asakura, quella ragazzina inglese e Kiryu.»
«Poco male, staremo meglio.» disse Nalani «Che godimento ci sarebbe nell’andare alle terme se
poi devi fare a botte per entrare?»
«Sono d’accordo.» disse Raven
«Dopotutto le terme sono tradizionalmente un luogo di riposo. Non la pensi
anche tu così, signor capo-dormitorio?».
Ma Eric nel frattempo se n’era già andato,
raggiungendo la sua stanza al terzo piano del dormitorio; non fu sorpreso di
trovarvi Nagisa, visto che lei aveva l’abitudine, strana secondo alcuni, di
sorvegliarla quando Eric non c’era, come un cane da guardia che difende
fedelmente la casa del padrone in sua assenza.
E purtroppo, quel soprannome stava ormai
iniziando a prendere piede.
Era stato Pierre, ancora qualche mese prima, a
coniarlo, e da allora si era rapidamente diffuso tra tutti quelli che, pur
rispettando Eric in quanto vice capo-dormitorio, non avevano particolare
simpatia per lui.
Quel suo camminare perennemente alla destra
del suo padrone, pronta a scattare al primo pericolo, certamente aveva
contribuito a farle cucire addosso l’epiteto di Cane da Guardia, ma a conti
fatti non la differiva più dai tanto dai succubi suoi pari.
Quello che davvero Pierre le rinfacciava, e
che aveva cementato e contribuito a diffondere quello sgradevole soprannome,
era il modo in cui si rapportava con il suo padrone, che preferendole un essere
umano sembrava tenere lei in molto poca, per non dire nessuna, considerazione,
proprio come un cane.
Un Cane da Guardia.
Eppure, sembrava non essere quello, o almeno
solo quello, il motivo del malessere che Eric vide in lei quando le si palesò
davanti, raggomitolata su una sedia con gli occhi rivolti alla finestra, da cui
entravano gli ultimi raggi di sole.
«Bentornato, mio signore.» disse sentendolo
entrare
«Ciao, Nagisa.» rispose lui ancora assente «È
accaduto qualcosa in mia assenza?»
«No…».
Dei due era difficile capire quale fosse di
più con la testa tra le nuvole, ma se non altro Eric capì subito che la sua
succube era anche più strana del solito.
«Che ti prende? Qualcosa non và?»
«No.» rispose lei monosillabica.
Era chiaro che mentiva, ma Eric in quel
momento aveva davvero troppi pensieri per la testa e troppe preoccupazioni per
pensare a qualsiasi cosa. Provato dal lungo viaggio e dalla ramanzina del
direttore, si buttò a letto, addormentandosi all’istante, sempre sotto lo
sguardo, vigile e malinconico, del suo fidato Cane da Guardia.
Tutto
era pronto.
Gli ultimi preparativi erano stati espletati,
e ora mancava solo il tocco finale.
Era la notizia che il presidente Kuznezov aspettava da anni; gli fu recapitata nel cuore
della notte, a pochi giorni dalla scadenza dell’ultimatum concesso ai suoi
enigmatici scienziati, ma nonostante tutto come la ricevette si tuffò subito in
macchina, raggiungendo il più velocemente possibile il laboratorio segreto.
Nella sua attesa, il conte e Michelle
restavano ad osservare il grande contenitore di vetro, all’interno del quale,
immersa in quella sostanza bluastra, era ora perfettamente visibile la sagoma
di un corpo, raggomitolato su sé stesso e circondato di tubi.
«Siamo certi che stavolta non ci saranno
problemi?» domandò il conte al dottor Durand,
nominato capo del progetto di ricerca
«Non si preoccupi, eccellenza. Secondo i
nostri calcoli, il dna della famiglia Kurenai era già
di per sé più che sufficiente a garantire la stabilità genetica necessaria, ma
con l’introduzione della nuova versione modificata del virus Vermillion, e la somministrazione del DNA dei Lorenzi, le
percentuali di riuscita sono del 100%.»
«Per fortuna che ho avuto la prudenza di
recuperare i file sulle ricerche dagli archivi della struttura di Palermo.»
disse Michelle «Ma non immaginavo che potessero rivelarsi così utili.»
«Quell’incapace di Bongianno
non ha mai concluso niente nella sua vita.» disse il conte «Ma un’utilità l’ha
dimostrata, alla fin fine.»
«Devo ammetterlo. In un modo o nell’altro, sai
sempre come uscirne con le spalle coperte. Non lasci niente al caso.»
«Non sono vissuto tutti questi anni per
niente, ragazzo. E poi, ho imparato a mie spese che non conviene mettere troppe
responsabilità nelle mani della sorte.»
«Certo, un esperimento simile può significare
molto per la tua ricerca.» quindi Michelle guardò enigmaticamente il conte «O
forse sotto c’è dell’altro?».
Il conte replicò con uno sguardo altrettanto
ambiguo, quindi tornò a fissare il cilindro.
«Queste sono questioni che non ti riguardano. Limitati
a fare la tua parte di lavoro.»
«Come vuoi.» rispose Michelle quasi beffardo.
In quella le porte della stanza si aprirono e
il presidente arrivò tutto trafelato; sembrava che avesse visto un fantasma,
tanto i suoi occhi erano fuori dalle orbite, e la sua espressione sgomenta.
«Bene arrivato, signor presidente.» disse
rispettosamente Michelle
«Ce l’avete fatta? Dov’è?» domandò senza
neanche salutarli
«Aspettavamo giusto lei per completare l’ultima
parte.» disse il conte.
Tutti si volsero a quel punto nuovamente verso
il cilindro di vetro, mentre gli scienziati presero a lavorare alle
apparecchiature tutto intorno.
«Siete certi che funzionerà?» domandò Alexiei, fattosi di colpo più indeciso e timoroso
«Abbiamo risolto il problema della stabilità
genetica.» disse il conte «In questo modo, i rischi dovuti ad anomalie o
squilibri incontrollabili sono praticamente azzerati».
L’equipe di ricerca terminò gli ultimi
controlli, quindi fu lo stesso dottor Durand a
porgere al presidente un palmare già settato e pronto, tramite un semplice
comando di invio, ad iniziare le procedure di risveglio dall’incubazione.
Alexei guardò il
conte, che a sua volta lo fissò dritto negl’occhi.
«Immagino che questo onore spetti a lei».
Nuovamente, il presidente parve titubante,
restando a lungo immobile a fissare il monitor del palmare con le mani che
tremavano e gli occhi sbarrati.
Aveva aspettato quel momento per così tanti
anni, ed ora non era più così sicuro di quello che stava facendo.
Sarebbe stata come la ricordava? La stessa
persona di un tempo? Chi poteva giurargli che non sarebbe stata diversa?
Che non sarebbe più stata un essere umano lo
aveva sempre saputo, ma la cosa fin dall’inizio gli era importata molto poco;
gli bastava riaverla con sé. Anzi, forse la lunga vita che l’attendeva l’avrebbe
ripagata dei lunghi anni trascorsi in quella specie di ibernazione, nell’attesa
che qualcuno riuscisse a liberarla della malattia che altrimenti l’avrebbe
uccisa.
Questo pensiero, quasi subito, scacciò, anche
se non del tutto, i dubbi che per un attimo lo avevano assalito, e tratto un
respiro Alexei sfiorò impercettibilmente il palmare
con la punta del dito.
Il resto fu ordinaria amministrazione.
Uno dopo l’altro, i tubi che ricoprivano il
corpo si staccarono, il liquido bluastro defluì verso il basso, quindi la
copertura di vetro si aprì come un enorme uovo, liberando nella stanza un
vapore denso e freddissimo che fece battere i denti al presidente ed oscurò la
vista per alcuni secondi.
Passarono alcuni secondi, durante i quali l’aria
si ripulì e si riscaldò, e quando volse nuovamente lo sguardo davanti a sé, gli
occhi di Alexei si riempirono di meraviglia. Nel mezzo
di quella nebbia gelida, coperta di tubatura ancora non del tutto staccatisi, emergeva
una figura esile e minuta, inginocchiata al suolo come in preghiera.
Sembrava una statua, immobile e contrita, ma
poi, mentre Alexei ancora si interrogava immerso nei
suoi dubbi, due lampi di luce vermiglia si accesero al centro del suo volto, e
quel corpo apparentemente vitreo acquistò di colpo vita, piegandosi all’indietro,
come una farfalla che si libera di quello che resta del suo bozzolo, pronta a
volare via.
Una farfalla bellissima e a lungo aspettata.
Il presidente non riuscì a trattenere le
lacrime; troppa era la gioia, troppo a lungo aveva atteso quel momento.
Ben altra, invece, era l’espressione sul volto
del conte, irrigidito in quella sua espressione di perenne, ambigua
indifferenza, ma con uno strano bagliore che ora gli illuminava lo sguardo.
Ce l’aveva fatta.
Nota
dell’Autore
Eccomi
qua!^_^
Nel più
puro stile salaryman, finite le vacanze si ritorna al
lavoro.
In realtà
questo capitolo lo avrei aggiunto anche prima, ma sono tornato solo ieri dal
mio eremo in Svizzera, dove ho avuto modo di trarre l’ispirazione dai pregevoli
scorgi del centro storico di Berna, una città che mi ha ufficialmente
catturato.
Inoltre,
la relativa sicurezza universitaria è un altro aspetto che caratterizzerà,
spero, i mesi a venire, consentendomi una più rapida velocità di aggiornamento.
Ancora non
so dirvi con esattezza quanti capitoli occorreranno per concludere la storia,
ma credo si possa dire che siamo nell’ordine della quarantina (inclusi quelli
già postati).
Infine,
esaudendo una richiesta venuta da più parti, preannuncio che prima o poi (forse
anche parallelamente a questa storia) posterò una breve storia dedicata al pairingeric/nagisa.
Le
terme di Okutama, all’estrema periferia della regione
di Tokyo, erano molto apprezzate e frequentate soprattutto dai giovani.
Immerse tra le montagne, offrivano una vasta
varietà di servizi per lo svago e il tempo libero, dall’escursionismo alle gite
in barca, dalla pesca alla semplice opportunità di godersi un pomeriggio
immersi nelle vasche termali, sia artificiali che naturali.
Il direttore, oltre ad aggregarsi come
autoproclamato capo della spedizione, aveva voluto fare le cose in grande,
affittando interamente una delle numerose pensioni che sorgevano lungo i monti Okochichibu, tra le più caratteristiche, dalla cui terrazza
panoramica si poteva godere una delle vedute più spettacolari del Fuji.
Tanto le spese erano a carico
dell’Associazione e del Consiglio, che in base alle norme stipulate all’atto dell’inaugurazione
del collegio coprivano interamente i costi di mantenimento.
La Night Class era quasi al completo. Fatto
salvo Kaname, che all’ultimo era stato convocato nell’Hokkaido per partecipare
ai preparativi in vista della riunione distensiva in quanto sangue puro e
capofamiglia, il suo gruppo di compagni era al gran completo, così come buona
parte dei partecipanti allo scambio culturale.
Nella Day, invece,
spazio soprattutto ai nuovi arrivati; fatti salvi Zero e il capoclasse
Kageyama, tutti gli altri erano membri dello scambio, a cominciare da Izumi,
Carmy ed Emma, oltre agli inseparabili Reinari e
Lopez.
«Che posto fantastico.» fu il primo commento
di Carmy scendendo da uno dei due autobus «Sto cambiando un po’ idea sul
Giappone.»
«Speriamo non succedano imprevisti di sorta.»
disse Raven, che invece aveva fatto il viaggio a bordo del secondo «Con quello
che ci aspetta la settimana prossima, voglio solo rilassarmi».
Tutti erano sovreccitati, ansiosi di godersi
un meritato periodo di riposo dopo tutto quello studiare e quei terribili esami
di fine anno, senza contare che con il secondo semestre le cose si sarebbero
fatte anche più dure.
Alcuni, però, sembravano avere la mente
altrove, riuscendo solo in parte a nasconderlo.
«Izumi, che ti succede?» le domandò Carmy
vedendola assorta
«Cosa!?» chiese lei cadendo dalle nuvole
«È già da alcuni giorni che ti vedo strana. È
forse successo qualcosa tra te e il Flyer-senpai?»
«No…niente… niente di che.» replicò Asakura tutta rossa e con
una strana foga
«Avanti, te lo si legge in faccia.» disse
maliziosa Carmy «Che c’è, avete litigato?»
«Beh, ecco… non proprio…cioè…».
Carmy sorrise divertita, poggiando la mano
sulla spalla della compagna.
«Avanti, non essere così tesa. Vedrai che
tutto andrà per il meglio. Ora pensa solo a divertirti e a rimetterti in forze.
Ci sarà tempo per sistemare queste cose».
Ma non era solo Izumi ad essere in ansia e
preoccupata per la propria, difficile, situazione personale.
Anche Nagisa, il cane da guardia, al di sotto
di quella sua scorza di fredda ed imperturbabile indifferenza, era attraversata
da dubbi, timori e false certezze a cui non credeva, e seguitava a fissare il
sole che scendeva all’orizzonte con uno sguardo stranamente malinconico
stampato sul viso, come un qualcosa bramato ma impossibile da ottenere.
Anche lei si sentiva perduta.
Ma a differenza di quella che, fino a poco
tempo prima, non si sarebbe mai sognata di considerare qualcosa di diverso
dalla sua più grande amica, non c’era nessuno che le tendesse la mano.
I suoi occhi erano però perennemente rivolti,
di sfuggita, ad Eric, che si era fatto tutto il viaggio chiuso in un enigmatico
e pensieroso silenzio, una cosa che alcuni malevoli non mancarono di notare.
«Il Cane da Guardia fa il suo lavoro anche in
vacanza.» mormorò Aidou, l’unico del gruppo di Kaname che avesse preso a
utilizzare anche lui quell’epiteto fastidioso
«Dacci un taglio, Aidou.» lo rimproverò il
cugino «Non è divertente».
Il direttore condusse tutti all’interno, nella
hall della pensione, gestita da una coppia di anziani e simpatici signori,
coadiuvati nel periodo estivo anche dai due figli e dalle nuore che abitavano a
Tokyo.
Sembrava esserci una strana complicità tra
Kaien e Peter, amici di vecchia data, cosa che insospettì e preoccupò non poco
tanto Eric quanto Yagari; entrambi avevano una gran brutta sensazione.
«Bene ragazzi!» disse tutto pimpante Peter
sollevando un grosso scatolone riadattato a urna tipo lotteria «Adesso
assegniamo le camere.
Le stanze possono essere da due, da tre e da
quattro persone.
E come in ogni campeggio estivo che si
rispetti, lasceremo che sia la sorte a decidere gli accoppiamenti.
Avanti, pescate un numero. La vostra camera
sarà assegnata in base al numero che pescherete!»
«Un momento!» esclamò Emma cogliendo subito il
grosso difetto di quel metodo di assegnamento «E se per caso noi ragazze
dovessimo ritrovarci in camera con un ragazzo che succederebbe?»
«Quello che ho appena detto.» rispose Peter
con un sorriso a trentadue denti «Che problema c’è?»
«Ce ne sono eccome!» urlò la Kreutzer
arrossendo come molte sue compagne «Con che coraggio vorreste farci dormire
tutti mescolati!? La chiamate forse una cosa normale?»
«Io parlerei piuttosto di incentivo alla
socializzazione.» replicò il direttore «Suvvia, che male volete che ci sia?»
«Però… però io…».
Purtroppo Kaien si dimostrò inamovibile, e
così non vi fu altra scelta che sottostare ai perversi intenti suoi e di quel
suo gregario di Eisen.
Emma, stoicamente e mestamente, volle andare
per prima; via il dente via il dolore, si disse, e non ci avrebbe pensato più.
Guardò Peter come se volesse incenerirlo,
immaginando che tipo di pensieri sconci si stesse facendo, ma se sperava di
imbrogliarla se la sarebbe vista brutta.
Pescò il numero dodici; una camera da quattro.
Almeno avrebbe diviso quella settimana di noia
assoluta con il minor numero possibile di coinquilini.
«Molto bene!» disse Peter infilando a sua
volta la mano nell’urna «Quand’è così, darò il buon esempio anch’io, pescando
per secondo».
Dapprincipio Emma si sentì quasi sollevata,
perché sapeva che per il calcolo delle probabilità era quasi impossibile
capitare in camera con quel pazzoide, ma grande fu il suo sconcerto quando vide
quell’ebete di un tedesco estrarre un secondo numero dodici.
«Sembra proprio che sia destino questo!» disse
tutto contento «Dodici anche per me!».
C’era però qualcosa di molto strano, e infatti
Emma, passato il momento di sconforto, si fece subito sospettosa; conosceva
troppo bene Eisen, e sapeva cosa aspettarsi da lui.
«Scusa un momento!» gli disse sollevandogli a
forza il braccio che aveva usato per pescare.
Bastò una bella agitatina,
come con le urne della lotteria, e da sotto la maglietta uscirono fuori tanti
bigliettini con svariati numeri, uno per ogni stanza.
Peter sembrava uno stoccafisso, e prese a
sudare freddo vedendosi piantare addosso lo sguardo obliquo della sua tigre
preferita.
«Mi pareva strano.»
«E… Emma, dai… era solo… solo uno scherzo… sul serio. Per ridere…».
Due secondi dopo Emma stava percorrendo tutta
sola il corridoio che portava alle stanze; Peter era a terra, graffiato e
menomato come se fosse stato assalito da un branco di leoni, occupato a
contarsi i denti che gli restavano.
«Be…bene… avanti il prossimo, per cortesia…».
Alla fine, il sorteggio delle camere fu il
seguente.
Stanza 1
Alexandra
Raven
Carmy
Stanza 4
Eric
Nives
Shiki
Stanza 5
Nagisa
Rima
Stanza 7
Eisen
Kageyama
Aidou
Stanza 8
Kain
Lopez
Cross
Stanza 11
Zero
Izumi
Stanza 12
Ruka
Elodie
Ichijo
Kreutzer
Stanza 15
Yagari
Lacey
Nalani
Reinari
Più
altre camere assegnate a studenti minori. Sia Nagisa che Izumi avevano
ventilato di poter essere assegnate in camera con Eric, un pensiero che aveva
fatto arrossire entrambe, ma il destino aveva riservato un’altra sorte a tutti
e tre.
Mestamente, e con anche qualche timore, le due
ragazze si diressero ognuna alla propria camera.
Per
quel giorno nessuno aveva voglia di divertirsi.
Il viaggio era stato lungo, condito anche da
una sosta forzosa nel mezzo del niente per un’avaria a uno dei due pullman.
Tutti, anche i vampiri, vollero andarsene a
letto, e molti non trovarono la forza neppure per cenare. Persino molti vampiri
si coricarono, anche se alcuni, tenendo fede alla loro natura, spesero gran
parte della notte tra vasche calde e partite ai videogame prima di arrendersi e
coricarsi.
Per molti fu un sonno difficile, faticoso come
la giornata che si erano lasciati alle spalle.
Izumi si rigirava nel futon incapace di
dormire, e tenendo sveglio con il suo agitarsi anche Zero, mentre Nagisa,
lasciata in stanza sola da Rima fino quasi all’alba, chiusa in quella stanza,
in quella solitudine opprimente che le cristallizzava i pensieri, fissava il
soffitto immobile come una statua.
Male, si sentiva male.
Ma non quel male a cui era abituata, no, era
un dolore diverso, più interiore, che la dilaniava e la corrodeva peggio
dell’acido.
Contrapposto, mai in perfetto equilibrio, le
teneva le palpebre dannatamente alzate, le faceva tremare le mani, annodare lo
stomaco.
Aveva un nome? Quell’orribile accoppiata di
sensazioni?
Sentiva un buco, all’altezza del cuore, ma per
quanto provasse a sfiorare la pelle in prossimità dello stesso, non riscontrava
nessuna anomalia, la voragine però doleva, doleva peggio di un colpo d’arma da
fuoco,
Si mise seduta, portando le piccole mani al
petto, poi una scivolò sulla gola, che aveva preso a bruciare.
Cadde sul pavimento in ginocchio, stirando più
volte il collo sottile per alleviare quella peccaminosa voglia che infiammava
ogni singolo centimetro del suo essere.
Lo sguardo spietato, i sorrisi appena
accennati, i capelli lucidi e neri come la notte, quelle mani dannatamente
perfette che erano in grado di carezzare e rassicurare tanto quanto di mettere
fine ad una vita, sterminare qualunque cosa.
Inevitabilmente, le si parò nella mente anche
lei.
Nulla più di una ragazzina, che pensava in una
maniera alquanto illusoria e poco realistica.
Cos’aveva Izumi che non potesse possedere
anche lei?
Nagisa era spietata, una combattente, temprata
dalla sofferenza e dalle perdite, capace di servire il suo padrone in tutto e
per tutto.
E allora cos’aveva Asakura? Nulla più che un
sorriso dolce, gli occhi puri e buoni e non da ultimo, un egoismo spietato.
Sì, la definiva egoista, perché non ammetterlo
a sé stessi?
Teneva per sé una cosa su cui non aveva alcun
diritto, era piombata nelle loro vite senza alcun perché, il padrone prima non
aveva bisogno di nessuno, perché ora invece necessitava di stringere quella
stupida ragazzina tra le braccia per riuscire a sorridere?
Avrebbe voluto essere lei quella necessità, sentire
quelle braccia forti avvinghiarle con dolce possessione le spalle e i fianchi,
avrebbe voluto quelle labbra, che sembravano tanto delicate quanto roventi.
La sete si aizzò ancor più, facendola gemere
nel buio.
Solo un pensiero, ebbe il potere di calmare
quella sete.
Quell’epiteto che spesso le veniva affibbiato,
aveva il potere di far naufragare ogni sua speranza.
Era solo un cane da guardia, una difesa, uno
scudo, niente più che un mero oggetto sostituibile.
Più incandescente della sete, una lacrima rigò
la guancia.
Non era dolore, non era angoscia, pura
gelosia, in cui era disciolta anche rabbia.
«Che mi succede?» si domandò stringendosi il
petto.
Non riuscì a chiudere occhio per tutta la
notte, senza immaginare che, proprio nella stanza accanto, qualcuno andava
macchinando un piano diabolico, e che nella foresta tutto attorno, nascosto nel
buio, un pericolo mortale aleggiasse su tutti loro.
La
mattina dopo, con le forze rinnovate e la volontà rinvigorita, fu davvero il
momento per tutti di pensare unicamente alle vacanze.
Il sole non era un problema, tranne per quei
vampiri che proprio non riuscivano a stare svegli durante il giorno; il
direttore Cross aveva fornito a tutti i ragazzi della Night Class uno speciale
filtro solare, resistente all’acqua e dall’efficacia di oltre ventiquattro ore.
Kageyama e Aidou, per quanto diversi tra loro
sotto quasi ogni punto di vista, fecero colazione insieme, ma al loro ritorno
trovarono il loro compagno di stanza, nonché professore, intento a consultare
con estrema attenzione una planimetria dell’edificio, tenendo nel contempo un
orecchio sui suoni che arrivavano alle cuffie.
«Professore, che sta facendo?» domandò Aidou
un po’ sospettoso
«Silenzio.» replicò stizzito lui «Non riesco a
sentire.»
«Sentire che cosa?».
Maliziosamente, Peter si tolse le cuffie
passandole al rappresentante della Day Class, il
quale si sentì svenire quando sentì giungere dall’altro capo le voci di tutte
le ragazze che conosceva.
«Ma che cosa…»
«Divertente, vero? Sono stato qui la settimana
scorsa, e ho piazzato cimici in tutto l’albergo.»
«Ma le sembra una cosa da fare professore?»
sbraitò Kageyama rosso come un peperone «Lei è un docente! Con che coraggio
mette delle cimici nelle camere delle ragazze?»
«E dai, davvero non lo immagini? E sì che sei
un uomo anche tu.»
«Beh, non ha tutti i torti.» commentò Aidou
ammiccando all’idea «Ma sono proprio in… tutte?»
«Anche nei ripostigli. E ho tutti i progetti e
le planimetrie dell’albergo. Ho millantato di essere un delegato del comune in
visita di ispezione.»
«Ma a che cosa ti servono?»
«Non lo immagini?» rispose Peter mettendosi a
frugare nella sua borsa da viaggio «Peccato che il mio fornitore avesse finito
le microcamere wireless, perché altrimenti ci saremmo divertiti anche il
doppio. Ma tant’è, ci arrangeremo in altro modo».
Un pensiero, orrendo ed eccitante allo stesso
tempo, attraversò la mente di entrambi.
«Non starai pensando di…»
disse Aidou.
La risposta arrivò quando Peter prese fuori,
sogghignando malefico, un trapano elettrico e altri attrezzi adatti a creare
buchi e fori di qualsiasi dimensione.
Oltre
alle vasche termali, alla sala giochi e ad altri servizi, l’albergo scelto dal
direttore disponeva anche di un locale adibito a sauna.
Una sauna di quelle tipiche del nord Europa e
dei Paesi alpini, tutta in legno, con un calderone al centro che regolava il
vapore.
Derek era un appassionato della sauna; era il
suo passatempo preferito. Prima di diventare un Hunter, nella sua casa estiva
sul Tirolo, ne aveva una tutta sua, e anche in quella del collegio era un
ospite fisso, con un quarantacinque minuti buoni di seduta al giorno.
Di contro, Gabriel si era sempre rifiutato di
condividere questa passione dell’amico, che anzi reputava inutile e strana,
almeno per lui che aveva trascorso buona parte della vita sotto il caldo ed
asciutto sole della Sicilia.
Questa volta, però, il nerboruto italiano si
era lasciato convincere a provare almeno una prova, ma erano bastati cinque
minuti chiuso in quella specie di forno crematorio per pentirsi di aver ceduto.
Almeno, si diceva, il caldo siciliano era
secco, piacevole.
Lì dentro sembrava di essere in Pianura
Padana, con tutto quel vapore che soffocava il respiro e faceva grondare di
sudore appiccicoso.
Ma come faceva Derek, che invece sembrava un
pesce nell’acqua, a trovare piacevole un simile tormento?
Con loro c’erano anche Ichijo
e Shiki, che come Reinari
sembravano essere perfettamente a loro agio in tutto quel mare di vapore.
«Derek.» disse Gabriel quando non ne poté
davvero più «Posso spartire con te un mio pensiero?»
«Che c’è?» domandò l’amico con il tono e l’espressione
di chi viene interrotto nel mezzo del piacere
«Niente. È solo che io, in Sicilia, da piccolo
abitavo in un condominio stretto e perennemente assolato, che quando veniva
estate mi dicevo “che bello che sarebbe, se potessi restarmene un po’ al fresco
in montagna”. Ora siamo in montagna, se non sbaglio.
E che facciamo?
Ci veniamo a chiudere dentro a questa specie
di calderone!? Ma siamo impazziti o cosa!?».
Derek si tirò su dallo schienale della panca,
sbuffando di disappunto.
«Tutti uguali, voi popoli non emancipati
affacciati sul Mediterraneo. Non riesci a cogliere la tranquillità, la
bellezza, e soprattutto l’utilità di un piacevole momento di relax in una sauna
a quaranta gradi traboccante di vapore.
Il sudore che si porta via tutte le impurità,
i muscoli che si tonificano, il corpo che si asciuga e si riduce alle sue forme
più semplici e appariscenti.
Certo, capisco che per uno della tua
costituzione questi siano concetti pleonastici, ma per quelli come noi è quasi
una scelta obbligata.»
«Tu non me la dai a bere.» replicò Gabriel
squadrando l’amico «Sono pronto a scommettere che c’è dell’altro».
I mugugni e gli improperi di Gabriel non erano
particolarmente graditi da Ichijo e Shiki, che erano andati lì apposta con la speranza di
restarsene un po’ tranquilli e lontani dalla marea di ragazze che
quotidianamente avevano intorno, e che dopo poco manifestarono la loro volontà
di andarsene.
«Basta, me ne vado.» mugugnò Shiki
«Eddai, restiamo
ancora un po’.»
«Non sono venuto fin qui per ascoltare gli
sproloqui di quella torre».
Caso volle che, proprio mentre Shiki si stava alzando, nella sauna entrarono anche Rima,
Nives ed Alexandra, tutte e tre coperte solo da un asciugamano neanche troppo
grande. Nives ed Alexandra, da scandinave quali erano, nella sauna praticamente
ci vivevano, e anche la loro amica acquisita Rima non era indifferente ai suoi
benefici.
Derek si accese come un albero di natale nel
vederle, e anche Shiki non riuscì a restare
indifferente, specie dopo aver visto il corpo della sua amica Rima imperlarsi
di sudore dopo solo pochi secondi.
«Ora mi è tutto chiaro.» disse Gabriel facendo
due più due «Ecco perché eri così impaziente di venire».
Shiki arrossì,
cercando di sfoderare quel poco di coraggio che aveva con l’altro sesso per
chiedere a Rima di sedersi accanto a lui.
«Ecco…» mormorò
tremolante.
Di contro, tutte e tre le ragazze, appena
entrate, sembrarono venire attirate tutte da un’unica cosa, che stava proprio
davanti a loro, e che si rivelò da subito irresistibile.
Quel corpo seminudo imperlato di sudore, quei
muscoli scolpiti, quel volto aggraziato, quella carnagione prestante.
Era una cosa assolutamente sublime.
Gabriel non ebbe neanche il tempo di capire
cosa stesse succedendo, e così neppure Shiki e Derek;
il primo, come al solito, finì per passare inosservato, al secondo, che si era
alzato per dire la sua, fu camminato sopra come con un tappeto.
«Scusa.» disse Rima, arrossendo assieme alle
altre due «Potremmo… potremmo sederci qui con te».
E così Gabriel si ritrovò a fare la parte del
sultano nel suo harem, circondato da ragazze sospiranti, mentre invece Shiki e Derek si ritrovarono l’uno accanto all’altro nell’angolo
più lontano della stanza, rannicchiati in posizione fetale, con gli occhi
bassi, il viso adombrato e fuochi fatui ad aleggiare sopra di loro.
«Era una sfida persa in partenza, temo.» disse
Ichijo col suo solito sorriso ebete.
Ma
la parte del leone, ovviamente, la facevano le vasche termali.
Ce n’erano quattro, due per ogni sesso, ma
visto che quelle più piccole dell’edificio est erano in fase di pulitura il
numero si era ridotto a due.
La maggior parte delle ragazze vi si recarono
al tramonto, sia perché con il sole basso e meno caldo ci si poteva godere
maggiormente il tepore dell’acqua calda, sia per la vista assolutamente
impagabile che si poteva godere dalla terrazza panoramica che costituiva la
vasca della zona femminile, affacciata direttamente sulla valle e il sole
calante proprio di fronte.
Uno scenario da sogno.
Eppure, per qualcuno, neanche uno scenario
così da favola sembrava essere sufficiente per scacciare i propri, confusi
pensieri.
Immersa nella vasca, Izumi se ne restava in
disparte, da sola, indifferente all’armonia e alla spensieratezza delle altre
ragazze; stirò la schiena, lasciandosi andare per un momento sulla
roccia alle sue spalle, guardando con sguardo poco più che assente il fulgore
cremisi del tramonto.
Pochi metri più avanti, Emma stava finendo dilavarsi seduta ad uno degli sgabelli, facendo
sfoggio della sua pelle liscia e levigata, quasi inconcepibile per una che come
lei aveva passato metà della sua vita sui campi di battaglia.
La giovane studentessa si tolse alcuni dei suoi
lunghi capelli oramai privi di nodi da davanti agli occhi, indecisa se parlare
o meno con l’amica del proprio turbamento.
Come a leggerle nel pensiero, la lingua biforcuta
della bionda si mise in moto.
«E allora Asakura, non mi dici nulla, come va col
bel tenebroso?» borbottò la bionda immergendosi nell’acqua calda e schizzando
con un sorriso piuttosto pervertito la ragazza più piccola.
«Non va molto bene, a dire la verità.» iniziò.
L’espressione di Emma mutò immediatamente.
«Che è successo?» chiese la cacciatrice
avvicinandosi.
«Da quando è tornato in accademia mi sembra tutto
diverso.» mormorò Izumi, stringendo le braccia attorno al torace minuto.
«Ma in senso negativo o positivo?» rincarò la
cacciatrice fissandola con comprensione.
«Non lo so, non so più niente, non sono nemmeno più
convinta di essere innamorata, gli ho tirato uno schiaffo, l’ho costretto ad
andare contro al suo stesso carattere»
«E’ normale essere un poco egoisti, sono stata
assieme ad un uomo col triplo dei miei anni ad un’età in cui ancora tu pensavi
a giocare con le amiche.»
«Eri assieme al tuo maestro?!» strillò Izumi a
bocca aperta.
«Fatti gli affaracci
tuoi, ragazzina.»
«Comunque, non so davvero cosa pensare. È tutto
così strano, così confuso.»
«Lo sai.» disse Emma con uno strano sorriso «Ha un
nome quello che stai provando. Si chiama cotta.»
«Co…co…
cosa!? Ma…Emma-senpai!»
esclamò Izumi facendo voltare tutte le ragazze presenti, e immergendo subito
dopo parzialmente la testa nell’acqua per l’imbarazzo
«Si vede lontano un miglio che ne sei innamorata,
da come lo guardi, da come arrossisci, da quanto luccicano i tuoi occhi quando
parli di lui, è tutto normale e non devi stare altro che tranquilla.
Il tempo risolverà ogni cosa».
Emma e Izumi, come pure tutte le altre, non
potevano sapere però di essere oggetto di sguardi minacciosi, e molto perversi,
da parte di una coppia di maniaci sporcaccioni.
I bagni delle donne e quegli degli uomini erano
separati tra di loro solo da una sottile barriera di assi, niente che un buon
trapano ultra-silenzioso non fosse in grado di perforare, usando oltretutto il
rumore prodotto dalle cascatelle d’acqua delle piscine per coprire il sibilo
del legno che si sgretolava.
Un vero e proprio buco dell’amore, che per Aidou e
Peter, che ci infilavano gli occhi a turni, fu come raggiungere il paradiso.
Di solito in questi casi ci si limitava ad
arrampicarsi uno sulle spalle dell’altro, ma con tutte le cacciatrici
infervorate e le vampire assassine che stavano dall’altra parte del muro Peter
aveva preferito un metodo meno discreto, visto e considerato che il vapore
nascondeva anche il buco, piazzato oltretutto in un punto dove era difficile
notarlo.
«Questa sì che è una bella vista.» mormorò
Peter grondando sangue come una fontana
«Spostati, ora tocca a me.»
«Stattene buono, vampiro. È ancora il mio
turno.»
«Aidou.» disse Kain,
presente anche lui assieme a Zero, Yagari e Kageyama «Non ne verrà fuori niente
di buono.»
«Tu pensa ai fatti tuoi. Sono faccende che non
ti riguardano.»
«Toga, perché non dai un’occhiata anche tu?»
disse Peter al collega «È davvero una vista degna del paradiso.»
«Se ti scoprono, temo che invece che in
paradiso Emma e le altre ti spediranno dritto all’inferno, con corriera
espresso.»
«Beh, ma almeno ci andrò sereno e soddisfatto
«Ehi, guarda! Ne arrivano delle altre!»
«Fatti da parte, kartoffel!»
disse Aidou scagliandolo via.
Kageyama, che sulle prime era quasi sul punto
di farsi coinvolgere in tutto quel complotto, ora invece storceva il naso.
«È inconcepibile. È davvero inconcepibile. Un
rispettabile docente di una prestigiosa accademia privata che compie atti
osceni e irrispettosi nei confronti delle sue stesse alunne con la complicità e
l’appoggio di qualche studente degenerato.
Davvero una cosa da far venire ribrezzo. Vi avverto,
ne parlerò col direttore.»
«Oh, guarda!» esclamò d’un tratto Aidou, forse
di proposito o forse no «È arrivata anche Ruka!».
Fu sufficiente quel nome per far evaporare il
cervello a Kageyama, che senza volerlo strinse gli occhiali fino a fracassarli;
nella sua mente apparve subito un’immagine chiara di Ruka
completamente nuda, maliziosa e suadente, che lo mandò in estasi.
«Beh, ripensandoci…»
Un secondo dopo, era anche lui a fare la
guerra per infilare l’occhio nel buco.
«Ci sono prima io!»
«E spostati, quattrocchi!»
«Gli insegnanti hanno la priorità!»
«Ma stai zitto, maniaco di un professore!»
«Basta smettetela!» disse Yagari avventandosi
su di loro nel vano tentativo di tirarli via prima che la situazione
precipitasse.
Poi, il disastro.
Fu sufficiente che uno, in quel caso Aidou,
mettesse un piede in fallo, scivolando su di una saponetta assassina, che
subito una marea di quattro persone si abbatté sulla palizzata di legno, la
quale, per nulla solida come poteva sembrare, crollò rovinosamente.
Le ragazze, per lo spavento, saltarono, ma lo
spavento si tramutò in qualcosa di ben peggiore quando videro quattro ragazzi tutti
nudi comparire tra la polvere e il vapore.
«Ma guarda che avete combinato, razza di
scimuniti!» sbraitò Peter
«Scusa, Peter.» disse Yagari «Temo che ora i
problemi siano altri».
I problemi infatti erano proprio davanti a
loro, e definirli problemi era un eufemismo.
Peter e gli altri infatti, alzando gli occhi,
si trovarono davanti non ad un leggiadro harem di fanciulle, ma ad una selva di
dee della guerra irate e furibonde che sprizzavano fulmini e scintille; Raven
aveva in mano il suo mitra, Emma Kyoku, Ruka sfoggiava i suoi artigli, Carmy e molte altre invece
si facevano schioccare le ossa delle dita.
L’aura nera che emanavano tutte insieme
avrebbe fatto sembrare le profondità dell’inferno un luogo di villeggiatura.
«Ma guarda un po’.» disse Emma a denti stretti
«Quattro scarafaggi belli grossi.»
«Questo posto ha bisogno di una bella
disinfestazione.» disse Ruka
«E quando sono così grossi, c’è un solo modo
per eliminarli.» disse Raven con gli occhi assatanati e un sorriso sadico.
I quattro ragazzi ridevano per non piangere,
ma ciò nonostante era impossibile frenare le lacrime.
«Po… possiamo spiegare…» furono le ultime parole di Peter.
Un istante dopo, rumori di battaglia, o meglio
di massacro, squarciarono il silenzio di quelle montagne.
«Maniaci schifosi!».
Nota
dell’Autore
Eccomi
qua!^_^
Allora.
Piaciuto questo capitolo di intermezzo comico?
Questa è
stata solo una piccola parentesi. Dal prossimo le cose torneranno a farsi
serie.
Vi dirò,
ho esitato a lungo prima di scrivere questo capitolo. Se ben ricordate,
infatti, era proprio qui che ToF si fermava, ma
quando ho visto ch Lien, oltre a non aggiornare, ha
pure cancellato tutto lavandosene le mani, allora ho deciso di fregarmene pure
io e continuare per la mia strada.
E a questo
proposito, dico a chiunque avesse creato il proprio OC per ToF
di non perdere la speranza; essendo nata come uno spinoff,
Eric Flyer Threads seguirà le orme della storia
originale, e quello che non è stato detto allora sarà detto adesso.
A
tal proposito, sentitevi liberi di scrivere tutti gli intermezzi, gli special e
i capitoli extra che volete, che abbiano per protagonisti i vostri OC; non
dovete fare altro che spedirmeli, e io li inserirò.
ToF può anche essere morta, ma per quanto mi
riguarda non ho alcuna intenzione di far morire anche gli OC e il plot che vi
erano nati attorno.
Al
termine del bagno, gli studenti si prepararono per la cena.
Essendo una stazione aquattro stelle, l’albergo poteva vantare un
servizio di ristorazione non indifferente, in un trionfo di piatti tipici e
molto ricercati; buona parte dei ragazzi della Cross venivano da famiglie
agiate e aristocratiche, ma per alcuni di loro quella era la prima volta che
avevano l’occasione di provare qualcosa di così prelibato.
Tutti indossavano i kimono, che alle ragazze
in particolare donava non poco. Peccato che quasi tutti i maschi non fossero lì
a godersi quel momento, troppo occupati a rimettere insieme i propri pezzi dopo
quello che era successo in piscina.
Eric si stupì nel rendersi tuttavia conto che
non c’era neanche Izumi, e chiese lumi ad Emma.
«È scesa al villaggio con Carmy.» tagliò corto
la bionda «Diceva di voler comprare del tè, o qualcosa del genere.
Chi le capisce quelle come lei?».
Anche Nagisa era radunata assieme a tutti gli
altri studenti attorno al tavolo della sala da pranzo, proprio accanto al suo
signore, ma per quanto ci provasse non riusciva neanche ad alzare lo sguardo
per cercare di incontrare, quanto meno, il suo volto.
Una volta non aveva alcun problema a guardarlo
negli occhi, anzi cercava in essi quella forza e quella determinazione che
talvolta le venivano a mancare, ora invece aveva quasi paura di quello che
poteva vedervi riflesso, e di quelle emozioni che continuavano ad agitarsi
dentro di lei, pronte ad emergere alla prima occasione o al primo momento di
debolezza.
Non riusciva neanche a capire perché avesse
tanto insistito per sedersi accanto a lui, scacciando su due piedi Rima che
senza malizia né secondi fini era capitata proprio in quel posto, pur sapendo
intimamente quanto ciò l’avrebbe resa nervosa.
Non capiva nulla.
Alla fine, sforzandosi oltre ogni limite,
porse al suo signore una ciotola di riso che lui aveva richiesto ad Emma,
cogliendola in controtempo.
«Grazie.» le disse lui, gentile ma fermo come
sempre.
Per un attimo i loro occhi si incrociarono, ma
il rossore sulle guance di Nagisa, unito ad un senso come di paura e ad un
imbarazzo quasi incontenibile, spinsero la ragazzina a riabbassare subito lo
sguardo, desiderando di non aver mai dato retta per l’ennesima volta all’istinto
atavico di fare tutto ciò che il suo padrone comandava.
Si era accorto subito che Izumi era assente.
Ormai quella ragazza sembrava condizionare in
ogni cosa la sua esistenza.
Era sempre in cima ai suoi pensieri, e per lei
aveva fatto cose che Nagisa, fino a poco tempo prima, avrebbe reputato
impossibili.
Il suo maestro era sempre stato inflessibile,
calcolatore, razionale. Ora, invece, era diventato imprevedibile, quasi
avventato nella sua determinazione di proteggerla.
E poi il modo in cui stavano insieme.
Solo ricordare quello che aveva visto quella
sera, quando alla notizia del ritorno del suo padrone era corsa a cercarlo per
dargli il bentornato per poi trovarlo lì, insieme a lei, a fare ciò che non
avrebbe mai immaginato, era sufficiente per far montare dentro di lei quel
misto di rabbia e desolazione.
Era brutto anche solo pensarlo, ma in quel
momento quasi rimpiangeva che quella ragazza fosse entrata nella loro vita. Di
più, rimpiangeva la sua stessa esistenza.
Se il maestro avesse sospettato che la sua
adepta pensava una cosa del genere come minimo l’avrebbe disconosciuta come
servitrice, ma era proprio questo a farla maggiormente infuriare. Quando Eric
era cambiato fino a questo punto? Quando aveva smesso di essere il cacciatore
freddo e determinato che aveva sempre ammirato per guidare tutta la sua
esistenza in funzione di lei?
Per un po’ aveva visto in Izumi un’amica, una
confidente, come quelle che aveva sempre avuto accanto prima di smettere di
essere umana, ma ora la cosa stava andando troppo oltre, e l’amicizia stava
cedendo il posto a qualcos’altro.
Un pensiero la fece rabbrividire.
Che fosse… amore?
Nell’infermeria
dell’albergo, il direttore era occupato a medicare le ferite di Peter,
Kageyama, e di quel poveretto di Yagari, rimasto suo malgrado coinvolto in una
bravata di cui non c’entrava assolutamente nulla, ma picchiato nondimeno come
quei tre sciagurati che aveva tentato inutilmente di trattenere.
Per Aidou non c’erano problemi, visto che era
un vampiro, ma nel suo caso le vere ferite erano quelle nell’orgoglio.
Essere picchiato selvaggiamente e senza sosta
dalle stesse ragazze che solitamente svenivano ai suoi piedi era un’umiliazione
troppo grande per uno come lui, egocentrico per definizione, e ora se ne
restava raggomitolato in un angolo a piangersi addosso.
Kageyama e Yagari bene o male se l’erano
cavata con poco, mentre Peter al contrario sembrava una mummia uscita dal
sarcofago; lo avevano affettato, crivellato, pugnalato, bruciato, bastonato,
scalciato e scaraventato giù dal terrazzo, e tutti si meravigliavano del fatto
che in qualche modo fosse sopravvissuto.
«Ahia!» brontolò Toga quando il direttore gli
strinse con forza l’ultimo dei suoi molti bendaggi
«Smettila di lamentarti. Ringrazia piuttosto
che ti abbiano trattato con riguardo.»
«Ma fa un male cane comunque, per Dio.»
«E io allora che cosa dovrei dire?» mormorò
mestamente Peter sorreggendo la propria flebo
«Visto e considerato che tutto questo è
accaduto solo ed esclusivamente per causa tua, al tuo posto io starei zitto,
razza di tedesco maniaco.»
«È finita.» continuava a ripetere Kageyama,
raggomitolato in un angolo come Aidou «Ora Ruka-sama
non mi vorrà più vedere.»
«Se ti può consolare, non gliene fregava
niente di te neanche prima.» rispose lapidario Aidou «Sono io piuttosto che
dovrei essere triste. Chissà quanto mi ci vorrà per riacquistare la fiducia
delle ragazze.»
«Dovevi pensarci prima di fare il guardone.»
commentò Yagari.
Mentre il direttore finiva di mettere via gli
attrezzi da pronto soccorso, poi, l’anziana direttrice della pensione si
presentò in infermeria.
«Chiedo scusa direttore, c’è una telefonata
per lei. Pare sia importante».
Tutti si misero subito sul chi vive.
Il direttore aveva lasciato detto che per
quella settimana né lui né i suoi ragazzi avrebbero dovuto venire disturbati,
se non in casi di vera necessità, tanto più che per alcuni di loro i prossimi
giorni sarebbero stati davvero molto duri.
«La ringrazio».
Liquidato Kageyama con una scusa e allontanato
Aidou, troppo impegnato a rimettere insieme i cocci del suo ego per potersi
preoccupare di qualsiasi altra cosa, Kaien sollevò la cornetta del telefono
dell’infermeria e si fece passare la chiamata.
«Sono il direttore Cross. … Sì … Sì …
Davvero!? … Sì, capisco … D’accordo, faremo attenzione. … Grazie di avermi
avvisato.»
«Che è successo?» domandò Yagari
«Era Kogoro Negi, da
Tokyo. Un Livello E affetto dalla Rabbia è stato avvistato su queste montagne.»
«Che cosa, dalla Rabbia!?» ripeté Peter.
Anche i vampiri potevano contrarre la Rabbia,
e i Livello E in particolar modo.
Non era la stessa malattia riscontrabile negli
animali, anche se il nome era lo stesso, ma i sintomi si assomigliavano:
iperattività, aumento dell’aggressività, e una sete incontrollabile. Un vampiro
affetto dalla rabbia, peggio ancora se di Livello E, era capace di attaccare e
mordere chiunque, e quello che era peggio era in grado di trasmettere il
contagio anche solo con un semplice graffio.
Per fortuna, i vampiri affetti dalla rabbia
erano molto sensibili alla luce, anche quella artificiale, e temevano i grandi
assembramenti, il che permetteva di restare relativamente al sicuro da un loro
attacco a patto di rimanere in gruppo e al chiuso.
«Fino a domani sarà meglio che tutti restino
all’interno dell’albergo.» ordinò il direttore «Peter, controlla che ci siano
tutti.»
«Come fatto.» disse lui avviandosi subito
verso la porta
«Vado a parlare coi proprietari.» disse Yagari
«Dirò loro di tenere le luci accese lungo tutto il perimetro.» e anche lui se
ne andò
«Maledizione.» mugugnò Kaien rimasto solo «Ci
mancava solo questa».
Poco dopo, Eric incrociò Peter mentre stava
recandosi in veranda per fare una partita a ping-pong prima di andarsene a
letto.
«Allora, quante ossa ti sono rimaste dopo
quella bravata?» domandò divertito, salvo poi rendersi conto che Peter non
sembrava per nulla dell’umore adatto per scherzare «Che c’è?»
«C’è un Livello E rabbioso che vaga per questi
boschi. Ce lo ha appena comunicato il tuo amico Negi.»
«Rabbioso!?»
«Il direttore ha dato ordine di restare
nell’albergo e di non uscire fino a domani mattina, quando arriveranno le
squadre speciali.
Sto andando ora ad accertarmi che tutti i
ragazzi siano al sicuro. Puoi confermarlo?».
Eric si sentì sudare freddo.
No che non poteva confermarlo! Perché non era
così!
«Izumi!» esclamò, e senza dire altro spalancò
una porta-finestra lì accanto e corse via.
Mentre attraversava il cortile incrociò
Nagisa, seduta ai bordi di uno stagno con i piedi immersi nell’acqua, in preda
alle sue ansie e ai suoi dubbi. La comparsa del suo signore fu per lei quasi un
sollievo; voleva parlargli, se non altro per cercare di far luce sui suoi
sentimenti, ma era così confusa da non accorgersi dell’espressione sgomenta e
preoccupata di Eric, che in quel momento aveva ben altro per la testa.
«Mio signore…» cercò
di dire, ma lui le passò accanto senza fermarsi
«Non c’è tempo!» disse in modo anche un po’
brusco prima di saltare il muro di cinta con un solo balzo e scomparire alla
vista.
Nagisa restò senza parole, sgomenta e
spiazzata, con gli occhi lucidi sul punto di piangere, e solo dopo alcuni
minuti, per bocca del direttore, venne a conoscenza del motivo per cui Eric si
era comportato in quel modo; la cosa avrebbe dovuto sollevarla, e invece,
sapendo chi doveva esserci di mezzo, servì solo ad avvilirla ulteriormente.
Di nuovo: di nuovo lei aveva la priorità.
Izumi
e Carmy erano scese in paese per comprare dei dolci da spartire con le loro
compagne di stanza, nella speranza di “addolcire” il loro umore dopo quello che
era successo in piscina.
In realtà, almeno nel caso di Izumi, c’era
anche dell’altro.
Aveva bisogno di stare per un po’ lontana da
Eric. Di capire meglio i suoi sentimenti e le sue sensazioni, senza di pericolo
di trovarsi faccia a faccia con lui in ogni momento.
Così, quando la sua amica le aveva proposto
quella gita, non ci aveva pensato due volte ad accettare. Finite le compere si
erano anche concesse di cenare in un piccolo ristorantino tipico a base di okonomiyaki, un piatto che Carmy non aveva mai assaggiato e
che Izumi fu ben felice di farle provare.
«Non avrei mai pensato di dirlo.» commentò
l’inglese mentre percorrevano la strada, stretta e non troppo illuminata, che
attraversando i boschi saliva fin sulla collina dove erano arroccate le terme
«Ma la cucina giapponese inizia a piacermi.»
«Mi fa piacere.»
«Dopo questa mangiata, quando rientreremo al
collegio mi toccherà restare a digiuno.»
«I daifuku di qui
forse non saranno al livello di quelli di Tokyo.» disse Izumi guardando il
contenuto del sacchetto che aveva con sé «Ma se non altro aiuteranno Emma-senpai e le altre a calmarsi.»
«Ne dubito. Dopo quello che è successo temo
gli ci vorrà ben più di un dolcetto per smaltire l’arrabbiatura».
Carmy però si accorse, quasi subito, che la
sua migliore amica aveva decisamente qualcosa per la testa, e non faticò ad
immaginare di che cosa dovesse trattarsi.
Tuttavia, per rispetto a quello che sapeva
stesse passando, non volle girare il dito nella piaga, come la sua malizia
solitamente le suggeriva di fare; anzi, volle darle una sorta di suggerimento,
così, giusto per smorzare la tensione.
«Lo sai.» le disse mentre passeggiavano
avvolte dal silenzio della sera «Mi è capitato di leggere una cosa un po’ di
tempo fa.»
«Che cosa?»
«Dicono che, in questa zona del Giappone,
cresca un particolare tipo di camelia, dai colori molto insoliti. Non è né
bianca né rossa, ma di un colore leggermente rosato. Infatti, lo chiamano il
Fiore Confetto. Si dice che se cogli una di queste camelie in una notte di luna
piena, e pensando intensamente alla persona a cui tieni di più, riuscirai
finalmente ad esternargli i tuoi veri sentimenti.»
«Esternargli… i tuoi
veri sentimenti!?» disse incredula Izumi.
Carmy ammiccò; era certa che la cosa non
l’avrebbe lasciata indifferenze. Alzò il dito ad indicare il cielo.
«E guarda caso, stasera c’è la luna piena.
Potremmo andarne a cercare qualcuno, non sei d’accordo?».
Era un’idea assurda, per non dire
impraticabile, ma tutto quello che Carmy voleva era gettare l’esca; ormai si
era affezionata troppo ad Izumi, e non voleva che il suo rapporto con Eric
rischiasse di naufragare per timidezza o indecisione.
Izumi abbassò lo sguardo, rossa di imbarazzo
ma con il cuore che batteva più forte del solito, e per alcuni minuti continuò
a camminare senza proferire parola.
Poi, da un istante all’altro, si fermò,
bloccandosi in mezzo alla strada deserta.
«Che succede?» le chiese Carmy
«Che stupida, ho dimenticato il telefonino al
ristorante.»
«Il telefonino!?»
«Torno indietro a prenderlo.»
«Aspetta, vengo con te.»
«No, non sarà necessario. Tu ritorna pure in
albergo, e…».
Si bloccò un momento, come imbarazzata.
«E dì ad Eric che le ombre mi spaventano».
Carmy non capì il senso di quella frase, e
Izumi non le diede il tempo di chiedere spiegazione, perché girati tacchi tornò
in tutta fretta verso il villaggio.
«Aspetta!» tentò di dirle, ma era troppo
tardi.
Izumi continuò a procedere a passo spedito
lungo la strada per un centinaio di metri, rigida e statica come un soldato al
passo di marcia, e quando fu certa di essersi allontanata a sufficienza da
Carmy si fermò nuovamente, mentre una riga di sudore che segnava la tempia.
Ci aveva messo un po’ per rendersene conto, ma
poi ne aveva avuto la certezza.
Forse era merito di Izanagi,
che le aveva dato come un sesto senso, fatto sta che a differenza del passato
non le era stato difficile, infine, percepire quella presenza minacciosa che
per tutto il tempo aveva tenuto d’occhio lei e la sua amica.
Per questo aveva fatto allontanare Carmy;
sapeva che, dovendo scegliere, il nemico avrebbe senza dubbio preferito il suo
odore a quello dell’amica.
Si guardò attorno, cercando di intercettare
l’arrivo della minaccia cogliendola in controtempo, e ancora una volta quel
sesto senso le venne in aiuto; un istante prima che fosse troppo tardi,
infatti, dentro di lei si accese come una scintilla, e fulminea si buttò a
terra di lato, giusto in tempo per evitare una zampata che per fortuna si
limitò a sventrare il sacchetto dei dolci.
Rialzatasi, si trovò a tu per tu con un
vampiro non più giovanissimo, sicuramente un Livello E, ma come cercò di fare
qualche passo indietro si ritrovò con la schiena già appoggiata contro l’alta
muraglia che stava ai lati della strada e sorreggeva la montagna soprastante.
Il Livello E esitò, tenendo gli occhi fissi
sulla sua preda, ma prima che potesse pensare di partire all’attacco un’ombra a
sua volta piombò su di lui; riuscì ad evitare a sua volta una zampata
potenzialmente mortale, ma dovette indietreggiare per forza di cose.
«Eric!» disse Izumi vedendolo comparire
davanti a lei
«Stai attenta. Questo vampiro è pericoloso».
Ora la situazione era invertita, ma Eric
sapeva che un Livello E con la rabbia era capace di qualsiasi cosa, anche di
imbarcarsi in uno scontro perso in partenza con un avversario troppo superiore.
Era una battaglia vinta in partenza.
Non ci sarebbero stati problemi di sorta, se
all’improvviso l’attenzione del Livello E non fosse stata attratta da
qualcos’altro.
Da un istante all’altro, come manna dal cielo,
era comparsa una nuova preda.
Carmy aveva capito che qualcosa non andava, e
prima ancora di arrivare in albergo era voluta tornare indietro alla ricerca
dell’amica per capire il perché di quello strano comportamento.
Il Livello E la vide comparire lì, dietro una
curva, immobile per il terrore alla vista della pelle raggrinzita e degli
artigli ricurvi del mostro, che ora aveva puntato proprio lei.
«Carmy, vattene!» tentò di urlarle Izumi «È
pericoloso!».
Ma era troppo tardi; il miraggio di un pasto
facile aveva ormai deviato del tutto l’attenzione del nemico, che ora si preparava
a scattare.
Izumi non ci pensò due volte: doveva
proteggerla.
«Izumi, no!» tentò di dire Eric, ma prima che
potesse fare qualcosa lei era già scattata, e così anche il Livello E.
Eric non sapeva cosa fare, e fece ciò che
nella sua vita, ed in simili circostanze, aveva fatto solo in pochissime
occasioni; tacitata la fredda mentalità calcolatrice, si affidò unicamente
all’istinto, e l’istinto in quel momento gli ordinava di fare una cosa sola:
proteggere lei. A qualunque costo.
Lei aveva la priorità su tutto.
Se avesse voluto gli sarebbe servito un niente
per rallentare il tempo, eliminare il nemico e chiudere la questione, ma in
quel momento la sua mente era occupata da un unico pensiero, e quel pensiero
non gli lasciava né il tempo né il modo di pensare ad altro.
Izumi si avventò su Carmy, stringendola forte
come a voler arrecare un aiuto di cui lei stessa aveva bisogno, ma il Livello E
si era avventato su entrambe.
Di nuovo, Eric si mise in mezzo, comparendo
quasi dal nulla, proprio nell’istante in cui la zampata del nemico calava
impietosa sulle due ragazze, e protette entrambe da quell’unico assalto menò un
colpo d’artigli che non lasciò scampo al nemico, lasciandolo a terra esanime in
un lago di sangue.
Non divenne subito cenere, in quanto il virus
di cui era portatore rallentava la normale disgregazione cellulare, ma lo
sarebbe comunque diventato nel giro di un’ora.
Izumi, che aveva chiuso gli occhi per la
paura, restò di sasso nel vedere nuovamente Eric davanti a lei, e così anche
Carmy, gettata a forza per la prima volta nel sanguigno e spietato mondo delle
creature della notte.
Eric era immobile, come una statua, il braccio
ancora proteso verso il basso.
«E…Eric…» mormorò Izumi.
Lui a quel punto si sollevò, distendendo i
muscoli, e girò un momento gli occhi verso le due ragazze.
«State bene, vero?» disse abbozzando un
sorriso.
Ma i suoi occhi dicevano tutt’altro. In essi,
infatti, Izumi lesse il dolore, che nel giro di pochi istanti divenne per il
giovane impossibile da nascondere.
Digrignando i denti Eric cadde prima in
ginocchio e poi a terra, raggomitolandosi in posizione fetale con le mani
strette a forza sul torace.
«Eric!» disse Izumi cercando di aiutarlo.
Pochi secondi dopo, giunse sul posto anche
Nagisa, tutta trafelata e con un’espressione di sgomento e preoccupazione quasi
inconsueta per lei dipinta sul viso.
«Mio signore!» esclamò attonita
«Nagisa, Eric sta male!».
Quasi gettando via Izumi Nagisa si accostò al
suo padrone, facendolo voltare, e quello che apparve terrorizzò le due ragazze.
Al centro del petto, il kimono era lacerato ed insanguinato, e la pelle segnata
da tre profonde ferite che, nonostante il potere rigenerativo dei vampiri, non
volevano saperne di guarire; non solo, vi erano segni come di cancrena, e il
sangue che fuoriusciva era denso e nero.
Eric capì subito cosa gli era successo.
«Statemi… statemi lontane…» rantolò prima di perdere i sensi
«Mio signore!» disse Nagisa con gli occhi
inondati di lacrime.
Eric
aveva contratto la rabbia.
Nagisa, aiutata da Izumi e Carmy, lo portò in
tutta fretta all’albergo, dove fu lasciato nelle mani della dottoressa Himeka.
Sfortunatamente, non esistevano rimedi certi
contro la rabbia trasmessa dai vampiri. Tutto quello che si poteva fare, se
l’infezione non era grave e veniva presa per tempo, era trattare l’organismo
con farmaci lenitivi ed epurare eventuali ferite infette, poi stava alla
vittima trovare la forza per debellare da sé il decorso del virus.
Non c’era tempo di trasferire Eric in un
ospedale di Tokyo amministrato dall’Associazione, e comunque non sarebbe
servito a niente.
Tutti gli studenti o quasi furono mandati
nelle loro camere, con il divieto assoluto di uscire, ufficialmente perché uno
studente era sospettato di aver contratto una grave influenza, e la stanza dove
Eric fu portato venne interdetta a chiunque.
Solo i professori, Izumi e Nagisa furono
ammessi alla sua presenza; Izumi arrivò per ultima, dopo aver calmato Carmy
ancora scossa per l’accaduto, e ciò che vide la lasciò sgomenta: Eric era
disteso sul futon, coperto da capo a piedi, il volto e i capelli imperlati di
sudore e l’espressione sofferente, di qualcuno che trattiene a stento e urla di
dolore.
Nagisa sembrava anche più sopraffatta, e
restava inginocchiata accanto al suo signore cercando, senza trovarla, la forza
di stringergli la mano.
Un Sangue Puro non avrebbe mai avuto motivo
per dover temere la rabbia, ma Eric era mezzo umano, e questa, una volta tanto,
era stata la sua rovina, per non dire la sua condanna.
«Non sarebbe il caso di portarlo
all’ospedale?» chiese Peter
«Sarebbe inutile.» replicò Yagari «E comunque,
nelle sue condizioni
«Gli ho dato un sedativo.» disse la dottoressa
«Dovrebbe calmare il dolore. Ora è tutto nelle sue mani».
Ma purtroppo, neanche la dottoressa era
ottimista.
«Jun, dimmi seriamente.»
disse il direttore «Quante possibilità ha di cavarsela?»
«Tutto dipende da lui. Ha un fisico forte e
una grande volontà, e questo di sicuro ha un vantaggio. Ma anche così, le
probabilità che il suo organismo riesca ad assorbire e distruggere il virus
sono cinquanta su cento. Forse anche meno».
La notizia gelò tutti; Izumi non volle
crederci, Nagisa sembrava sul punto di piangere, Peter digrignava i denti per
l’impotenza e la collera.
«Dovete essere pronti a tutto.» sentenziò
ancora la dottoressa «Se dovesse raggiungere l’ultimo stadio della malattia, ci
sarebbe una sola alternativa».
L’alternativa peggiore.
Quella che nessuno voleva neanche prendere in
considerazione.
Un vampiro affetto dall’ultimo stadio della
rabbia era comunque destinato a morire entro poco tempo, ma era dovere degli
Hunter assicurarsi di eliminarlo comunque quanto prima, per non dare modo al
contagio di diffondersi ulteriormente.
«Per il momento deve restare isolato. Ho già
eretto una barriera attorno alla stanza che gli impedirà di uscire. In ogni
caso, non dovremo aspettare molto per sapere come andrà a finire.
Se il virus farà o meno effetto, lo sapremo al
massimo per domani mattina. In ogni caso, bisogna essere pronti a tutto».
Yagari aggrottò le sopracciglia, e cercando di
non farsi vedere gettò un’occhiata al fucile che aveva dietro la schiena,
intercettato comunque sia da Peter che dal direttore; una manifestazione più
che ovvia delle sue intenzioni.
Nessuno di loro voleva essere costretto ad
uccidere un amico ed un compagno Hunter, ma se la cosa fosse degenerata non ci
sarebbe stata altra scelta: e comunque, la morte sarebbe stata sicuramente
preferibile a quello in cui l’ultimo stadio della malattia lo avrebbe
trasformato.
Nagisa, ormai incapace di contenere le
lacrime, corse via coprendosi il volto; sapeva anche lei che quella, nella
peggiore delle ipotesi, sarebbe stata l’unica soluzione, ma nonostante ciò non
voleva accettarlo, e poco importava se la morte del suo maestro avrebbe significato,
inevitabilmente, anche la sua.
Corse, corse senza meta attraverso i corridoi
della pensione fino in cortile, fermandosi ai piedi del laghetto dove nuotavano
decine di pesci colorati.
Perché?
Perché doveva finire così?
Almeno le avesse detto cosa stava succedendo. Sarebbe
stata lì, al suo fianco, come sempre, pronta ad aiutarlo, ed anche a
sacrificarsi per lui se necessario.
E invece no, aveva voluto fare tutto da solo.
I suoi sentimenti per quella ragazza lo avevano reso cieco e avventato; non era
più la persona che aveva conosciuto, ma nonostante ciò non riusciva a non… non riusciva a non amarlo.
Ora poteva dirlo.
Ora se ne rendeva conto.
Lei amava il suo signore. Lei amava Eric.
Lo avrebbe voluto urlare, ma a che cosa
sarebbe servito? C’era una probabilità su due che non arrivasse a vedere la
prossima alba, e seguirlo nella morte era solo una ben magra consolazione.
Non era giusto!
Non lo accettava!
E l’ultima persona che avrebbe voluto
incontrare in quel momento non trovò niente di meglio da fare che venire a
cercarla.
Izumi era sinceramente preoccupata, sia per
Eric che per quella che considerava un’amica; sapeva di avere la sua parte di
responsabilità nell’accaduto, una grossissima parte, e poteva capire, o credeva
di capire, come Nagisa dovesse sentirsi.
Per questo le era corsa dietro. Anche lei
tratteneva a stento le lacrime, e per quanto ci provasse non riusciva a trovare
la forza per parlare.
«Nagisa.» disse dopo molte esitazioni «Io, ecco… lo so che non serve a niente dirlo ora, però… mi dispiace.
Mi dispiace sul serio di quello che è
successo. Quel mostro stava per aggredire Carmy. Ma forse, se non fossi stata
così avventata…».
Dovette fermarsi per calmare i singhiozzi, e
intanto Nagisa, distante alcuni passi, continuava a darle le spalle, senza
voltarsi a guardarla e seguitando a tenere gli occhi a terra.
«Però…» disse allora
Izumi sforzandosi di pensare positivo «Però Eric è forte. Lo sappiamo tutte e due.
Sono sicura che ce la farà. Non si lascerà sopraffare da una cosa così. Ha
affrontato e sconfitto prove molto più dure.
E quindi…»
«È colpa tua».
Izumi restò di sasso.
«È tutta colpa tua.» ripeté sommessamente Nagisa.
Nella sua voce c’era una tale cattiveria, ed
un tale odio, che Izumi se ne sentì atterrita.
«Che cosa ne sai tu di Eric?» disse ancora la
succube continuando a darle le spalle «Credi forse di conoscerlo come lo
conosco io?
Prima che arrivassi tu, era una persona
completamente diversa. Non avrebbe mai fatto una cosa così stupida.»
«Nagisa…».
Nagisa a quel punto si girò; i suoi occhi
erano iniettati di collera e odio.
«Sei solo una stupida bambina, tieni per te
una cosa che non ti dovrebbe riguardare, che diritti hai su di lui?
Dopotutto la fortuna ti arride sempre. Tanto Eric verrà a salvarmi. È questo
quello che pensi tutte le volte. Sai che lui ti tirerà sempre fuori dai guai. E
ora guarda cosa gli è successo».
Una simile verità era già difficile da
accettare, ma sbattuta in faccia in quel modo diventava insopportabile.
«Se tu non fossi entrata nella nostra vita
come hai fatto, niente di tutto questo sarebbe mai accaduto.
Sei tu l’unica responsabile di quello che è
successo.
Era una persona così diversa prima di
incontrarti. Ora, certe volte, quando lo guardo, mi sembra di avere di fronte
un estraneo.
Tu lo hai cambiato.»
«I…io…» disse la ragazza trattenendo a fatica le lacrime
«Quelle come te sono abituate ad avere tutto e
subito. Tu non hai la minima idea di quello che lui e io abbiamo passato.
Hai vissuto tutta la vita in una famiglia
felice, senza preoccupazioni né pensieri. Non sai che cosa voglia dire vivere
per davvero. Io ho perso tutto. La mia famiglia, i miei amici. La mia vita. Tutto
mi è stato portato via. Eric era tutto quello che mi restava. Lui e il mio odio
per i vampiri. Mi faceva stare bene il pensiero che lui la pensasse come me.
Ma tu, con le tue moine, i tuoi sogni
infantili, e il tuo ottuso ottimismo, gli hai riempito la testa di fantasie e
false certezze. Gli hai fatto credere che i vampiri possono essere buoni. Che
non dovessero essere considerati a priori una minaccia.
E invece, ora, potrebbe essere proprio per mano
di un vampiro che lui morirà.
E tutto per colpa tua. Non lo conosci nemmeno
per davvero e sostieni di amarlo, mi disgusti».
Izumi, pur nel dolore datole dalla crudeltà di
quelle parole, capì quali fossero i sentimenti che si agitavano nella giovane
succube.
«Tu… tu lo ami…»
«Qualsiasi ragazza che non lo ami è cieca. Ma lui
non potrà mai amarmi. Come potrebbe amare un mostro come me?»
«Ti sbagli Nagisa, tu non sei un mostro.»
«E anche se fosse, che importanza ha? Tanto potrebbe
comunque essere morto in poche ore. Ed è colpa tua. Sei un'egoista, lo sai? Sei
riuscita a sottrarmi la mia unica ragione di vita».
Era troppo.
Nagisa aveva ragione.
Tutto era accaduto per causa sua.
Troppe colpe. Troppe responsabilità aveva in
quanto stava succedendo. Non se ne rendeva conto, ma ora che le erano state
sbattute in faccia non poteva non vederle.
Non aveva idea che Nagisa soffrisse così
tanto, né che fosse proprio lei la ragione del suo soffrire. Chissà per quanto
tempo aveva soffocato e represso i suoi sentimenti, e tutto per poter
continuare a svolgere quell’ingrato ruolo di Cane da Guardia del suo signore,
condannata a stargli accanto senza poter mai confessare le sue vere emozioni.
Izumi non ce la fece più. I suoi occhi erano
inondati di pianto, la sua anima atterrita dal peso di quelle crudeli parole e
delle responsabilità che si rendeva conto di avere.
Schiacciata dal dolore, scappò via, seguita
con lo sguardo da Nagisa, che non fece nulla per fermarla.
Emma, intenta a fumare la sua pipa affacciata
al balcone della sua stanza, vide la piccola Izumi attraversare il cancello e
scappare come inseguita da un fantasma invisibile.
Provò a chiamarla, ma non rispose, e in breve
tempo la vide sparire nei boschi circostanti.
Nota
dell’Autore
Eccomi
qua!^_^
Stavolta
sono stato più veloce del previsto, e sono riuscito ad aggiornare in tempi
rapidi.
Come avevo
promesso, siamo tornati alle tematiche e alle atmosfere dei capitoli
precedenti.
Non male
come salto rispetto all’ultimo, non vi pare?
Col
prossimo capitolo chiuderemo la questione delle terme, e credo di poter dire
con una certa percentuale di sicurezza che siamo già al 40% della narrazione,
se non di più.
Con il
racconto della riunione che si svolgerà ad Hokkaido si entrerà davvero nel vivo
della storia.
Izumi
continuò a correre a correre senza mai fermarsi, perdendosi nel silenzio
spettrale ed angosciante della foresta che circondava le terme, ed i cui
alberi, come un esercito di fantasmi, la sovrastavano, la soffocavano,
sembravano volerla avvinghiare.
Era colpa sua.
Era tutta colpa sua.
Nagisa aveva ragione.
Niente sarebbe mai accaduto, se lei non fosse
mai entrata nella vita di Eric.
Ogni volta che lei si era trovata in pericolo,
lui era accorso per proteggerla mettendo a rischio la sua vita; era stato così
anche quella notte, solo che questa volta rischiava di essere l’ultima.
Era vero quando Nagisa diceva che, dentro di
lei, Izumi in qualche modo aveva sempre saputo che, qualunque fosse stato il
pericolo in cui si fosse venuta a trovare, Eric in qualche modo sarebbe sempre
intervenuto ad aiutarla.
Talmente a lungo si era adagiata su questa
convinzione che aveva finito per darla inconsciamente per scontata, e ora Eric
rischiava di pagare il prezzo della sua impulsività.
Non meritava di stagli vicino.
Di più, non doveva.
Standogli accanto lo avrebbe solo messo in
pericolo.
Dopotutto, era anche colpa sua se erano
successe molte di quelle cose; colpa del suo sangue speciale, del suo potere di
attirare i vampiri.
“Eric. Mi dispiace!” continuava a pensare
addentrandosi sempre più nel bosco.
Le parole di Nagisa le risuonavano nella mente
come le unghie sulla lavagna, riempiendole il cuore di amarezza e dolore.
Perché?
Perché tutto quello che sapeva fare era
mettere in pericolo la persona che diceva di amare?
E ancora di più le faceva male pensare a
quanto Nagisa dovesse avere sofferto per tutto quel tempo, costretta a
mascherare i suoi sentimenti e ad osservare nel frattempo il suo signore che si
scioglieva per un’altra.
Con che coraggio avrebbe potuto guardarla
ancora negl’occhi?
Fu così che, nel momento in cui una malevola
radice interruppe la sua corsa, vedendo un breve ma ripido pendio aprirsi da un
istante all’altro sotto di sé, per un attimo arrivò quasi a sperare che quella
fosse la fine; almeno, così, non avrebbe più arrecato danno a nessuno.
All’albergo,
almeno tra quelli che sapevano, regnava l’attesa.
Eric era stato chiuso in camera sua, guardato
a vista, e almeno per il momento non c’erano segni di miglioramento.
Tutto era nelle sue mani. Stava solo a lui
trovare la forza necessaria per non soccombere al virus. Di tanto in tanto
Kaien, appostato fuori dalla sua porta, lo sentiva mugolare e lamentarsi, segno
che, pur nel delirio del dolore, stava sforzandosi di combattere.
«Come procede?» chiese Peter passando per
l’ennesima volta davanti agli occhi del direttore, ricevendo per l’ennesima
volta lo stesso cenno del capo
Peter gettò quindi uno sguardo a Yagari,
seduto ad un tavolino del salotto accanto; anche se cercava di far credere di
stare ingannando il tempo giocando a shoji contro sé
stesso, i continui sguardi di sottecchi verso la porta erano più che eloquenti,
e non lasciavano alcun dubbio su quali fossero le sue reali intenzioni.
Anche per quello Kaien aveva voluto sostare
tutto il tempo a guardia di Eric; non che non si fidasse del suo vecchio amico
Yagari, ma non se l’era sentita di rischiare a scoprire fino a che punto
potesse arrivare la sua cieca determinazione.
Ma non c’erano solo i tre insegnanti a girare
attorno a quella porta.
Nagisa, subito dopo quel violento diverbio con
Izumi, era tornata indietro per rivedere il suo maestro, ma anche a lei come a
chiunque altro era stato proibito di avvicinarsi per motivi di sicurezza. Così
era uscita di nuovo in giardino, mettendosi in un punto da cui aveva una
visuale chiara di quello che accadeva là attorno e nascondendosi nell’ombra, in
modo da poter vedere e sentire qualunque cosa senza che nessuno si accorgesse
di lei.
Se davvero era un cane da guardia, allora era
suo compito vegliare il suo padrone soprattutto ora che stava soffrendo.
Tuttavia, per qualche motivo, non le riusciva
di svolgere il suo incarico di guardia fedele con la stessa efficienza di
sempre.
La sua mente era troppo annebbiata, troppo
confusa. Ripensava a quanto successo, a tutte le cose che aveva detto, e a come,
per la prima volta dopo chissà quanto tempo, avesse esternato i propri
sentimenti e le proprie emozioni così, senza freni.
Ripensava al volto di Izumi, alla sua
espressione affranta ed incredula, e senza sapere perché iniziò ad essere presa
da un insopportabile ed inspiegabile senso di colpa.
Perché doveva sentirsi così se si era limitata
a dire la verità?
Il suo maestro stava morendo, e se non fosse
stato per lei non sarebbe accaduto. Ma se era così, e se continuava a pensare
che quello che aveva detto fosse giusto, allora perché se si sentiva così male?
Nel mentre il direttore, giusto per tenersi
impegnato, aveva deciso di chiamare Tokyo per informarli dell’abbattimento del
Livello E infetto, e recuperato il suo i-phone chiamò
Negi a casa sua.
«Che vuoi?» domandò bruscamente Kogoro
rispondendo al telefono dopo essere sceso di malavoglia dal letto
«Volevo informarti che il Livello E affetto da
rabbia è stato abbattuto.»
«E non potevi aspettare domattina per
dirmelo?»
«Volevo tenermi impegnato. Ti mando le
specifiche, così puoi stilare il rapporto».
Kaien a quel punto spedì tutto quello che
aveva: foto del corpo, informazioni varie e la sua testimonianza firmata
dell’avvenuta uccisione.
Le informazioni arrivarono per e-mail quasi
subito, e Kogoro staccò qualche secondo per esaminarle; il direttore credeva
che fosse tutto apposto, ma la faccia del suo vecchio amico quando ricomparve
sul monitor lasciava intendere che invece non era così.
«A che gioco stiamo giocando? Non è lui.»
«Come!?» disse Kaien incredulo «Che vuoi
dire?»
«Non si è capito? Non è lui il vampiro che
stavamo cercando.»
«Che cos’hai detto!?».
L’esclamazione del direttore fu udita anche da
Peter e Yagari, e anche da Nagisa, che nonostante la distanza e le porte chiuse
aveva dalla sua l’udito eccezionale di un vampiro.
«Ma sei proprio sicuro? Sei sicuro che non sia
lui?»
«Non vedo come non potrei non esserlo, visto
che il nostro vampiro è una donna.»
«Una donna!? E perché non lo hai detto subito,
razza di professore alcolizzato!»
«Beh, il lato positivo c’è.» commentò
mestamente Peter quando il direttore ebbe riattaccato «Questo aumenta
sensibilmente le speranza di Eric. Contrarre l’infezione in modo indiretto è
sicuramente meglio che contrarla dal paziente zero.»
«Ormai non manca molto al sorgere del sole.»
ordinò Kaien «Teniamo alta la guardia e facciamo attenzione. Con un po’ di
fortuna si risolverà tutto entro l’alba.
Gli studenti sono tutti al sicuro?»
«Li ho contati poco fa.» disse Yagari «Ci sono
tutti».
E invece no.
Loro non potevano saperlo, ma qualcuno non
c’era.
Izumi, istintivamente, guardò alle proprie
spalle, verso la montagna.
Non sapeva perché, ma di colpo la prese un
senso di ansia.
Perché si sentiva così? Perché doveva
preoccuparsi di quello che poteva succederle? Non le aveva appena detto che
sarebbe stato molto meglio se fosse scomparsa.
Così, Eric sarebbe stato tutto suo. Ci sarebbe
voluto del tempo, ma sicuramente l’avrebbe dimenticata.
Ma poi, con che coraggio avrebbe continuato a
stargli vicino? Come si sarebbe giustificata?
Per un attimo ebbe la sensazione di stare
diventando proprio come quegli stessi vampiri che sia lei che il suo maestro
odiavano tanto.
Il suo cuore era una tempesta senza fine.
Non riusciva a pensare. Non riusciva a
decidere.
Che cosa doveva fare?
Le
prime due cose che Izumi sentì riprendendo i sensi furono un rumore di acqua
che scorreva e un dolore tremendo alla gamba destra.
Il pendio da cui era caduta era davvero molto
lungo e ripido, e l’aveva fatta finire sulle sponde di uno dei tanti ruscelli
che scorrevano sul fondo delle vallate circostanti.
Per qualche motivo, forse grazie all’erba, era
sopravvissuta, ma quando provò ad alzarsi il dolore alla gamba fu tale da farle
stringere i denti.
La guardò per capire l’entità del danno; non
si erano aperte ferite, per fortuna, ma la caviglia era rossa e gonfia, segno
che doveva essersela slogata.
Sperò che il potere di Izanami
tornasse ad aiutarla, ma se ci aveva messo quasi un’ora per riparare un
taglietto chissà quanto avrebbe impiegato a risanare una slogatura.
Il pensiero per un attimo la fece quasi
vergognare: ancora una volta contava su qualcosa non suo per uscire dai guai,
non sulle sue sole forze, come avrebbero fatto Eric o Nagisa.
Ma in quel caso, non che ci fosse molto da
fare; non aveva la benché minima idea di dove si trovasse, e non era sicura che
quella luce arroccata in cima ad un pendio fosse la pensione: se non fosse
stato per la notte particolarmente illuminata, si sarebbe addirittura ritrovata
completamente al buio.
Faticosamente, strisciando sulle rocce, si
trascinò fino ad un grosso masso che emergeva dall’acqua, e una volta che vi si
fu appoggiata immerse nell’acqua il fazzoletto che portava sempre con sé,
tirando un paio di respiri profondi prima di appoggiarlo sulla caviglia.
Riuscì a trattenere le urla per un vero
miracolo, ma proprio mentre iniziava a sentire un po’ di sollievo ebbe di nuovo
quella solita, orribile sensazione.
C’era qualcuno che la osservava.
Un brivido le corse lungo la schiena, mentre
si guardava attorno forsennatamente sperando di scorgere la minaccia.
Come avrebbe fatto a cavarsela in quelle
condizioni, sola e impossibilitata a muoversi?
Cercando una soluzione che potesse salvarla,
la mano le passò casualmente nel risvolto dei calzoncini da escursione che
indossava, saggiando qualcosa di duro e levigato che le risultò subito
famigliare.
Lo guardò. Era il pugnale. Il pugnale che Emma-senpai le aveva regalato perché imparasse a
difendersi.
Da quel giorno aveva cercato di non pensarci
più, volendo dimenticare ciò che era accaduto e quello che aveva fatto, ma per
qualche motivo che non le riusciva di scoprire, quasi ogni volta che si era
ritrovata a dover stare da sola aveva sempre finito, quasi inconsciamente, per
portarlo con sé.
Forse era stato l’istinto.
La volontà sottile e segreta di potersi sempre
difendere anche nelle situazioni più difficili, come se dentro di lei ci fosse
sempre stata una parte che, nonostante tutto, voleva crescere e farsi
indipendente.
Si guardò ancora attorno, quindi guardò il
pugnale.
Dentro di lei sentì montare il coraggio.
Aveva sempre deprecato la violenza e
l’omicidio, e sempre lo avrebbe fatto, ma ora si trattava di sopravvivenza.
«Non fuggirò.» disse tra sé e sé «Non questa
volta.» e portatasi con la schiena contro il masso, per avere le spalle
coperte, sfoderò l’arma.
Chiunque l’avesse voluta, l’avrebbe assalita a
suo rischio e pericolo.
Le
condizioni di Eric diventavano sempre più critiche.
Sembrava che tutto stesse andando abbastanza
bene, e l’aver scoperto che le sue ferite erano state provocate da un infetto
di secondo livello aveva accresciuto leggermente le speranze dei suoi compagni
di vederlo guarire, poi all’improvviso, tutto ad un tratto, il giovane aveva
iniziato a lanciare urla strazianti dimenandosi furiosamente nel letto, urla
tali da essere udite in tutto l’albergo terrorizzando gli studenti.
Era la resa dei conti.
La malattia era entrata in fase acuta: Eric
poteva o soccombere o vincere.
Il dolore che provava era immenso, e a questo
si aggiungevano angoscianti visioni ed allucinazioni, che contribuivano ad
accrescere il suo senso di smarrimento ed estraniamento dalla realtà.
In quelle immagini dettate dal dolore il
giovane vampiro rivedeva tante cose; la sua infanzia, la sua famiglia, la sua
vita tormentata, fino all’incontro con Valopingius.
E vedeva lei.
O meglio. Vedeva loro.
Le due persone più importanti per la sua vita,
una piccola ma fedelissima amazzone e una rosa dai petali neri, delicata come
niente altro ma dotata di affilatissime spine grondanti dolcissimo sangue.
Le urla andarono avanti per molti minuti, e
non era un bene: se Eric urlava era perché il virus stava cercando di
raggiungere le sinapsi e i centri umorali del cervello, lì dove si sarebbe
annidato generando il nucleo infettivo.
Kaien si mordeva nervosamente l’unghia del
pollice, Peter sembrava volersi prendere a pugni, e Yagari restava in silenzio,
apparentemente impassibile a quell’urlo disumano.
Poi, d’improvviso, Toga si alzò dalla
poltroncina, dirigendosi a passo spedito verso la porta della stanza.
«Aspetta, che vuoi fare?» domandò Kaien
conoscendo già la risposta
«Ormai non c’è più tempo.» rispose lui
mettendo mano al fucile che aveva dietro la schiena
«Non vorrai ucciderlo!?» ringhiò furente Peter
alzandosi in piedi e mettendosi di traverso davanti alla porta
«Sicuramente anche lui preferirebbe morire che
diventare un mostro impazzito. E tu lo sai.»
«Lui sta ancora lottando! Non lo senti? Sta
combattendo!»
«E sta perdendo. Se non lo facciamo ora, dopo
sarà più difficile. E potrebbero andarci di mezzo degli innocenti.»
«Dovrai passare sul mio cadavere!».
A quel punto accadde ciò che il direttore non
avrebbe mai voluto vedere; due Hunter, due cacciatori, con le rispettive armi
rivolte l’uno verso l’altro, il primo che bramava di entrare in quella stanza
per fare il suo sporco lavoro, ed il secondo che avrebbe fatto di tutto per
impedirglielo.
«Fammi strada, ragazzo.» disse Toga
impassibile «Lo dico per il tuo bene.»
«Dovrai spararmi per riuscire a passare.» replicò
Peter con lo stesso tono «Non ti lascerò ammazzare un mio amico».
Poi, d’un tratto, le urla cessarono così, di
colpo, lasciando dietro di sé solo un preoccupante silenzio che poteva voler
dire tante cose.
Tutti e tre i professori restarono sgomenti,
guardando verso la porta senza sapere cosa pensare.
Eric poteva avercela fatta come aver ceduto
definitivamente, entrando nella breve fase di stasi che precedeva il completo
affermarsi della malattia.
Bisognava entrare, fu il pensiero di tutti e
tre, che si guardarono un momento negli occhi scambiandosi un cenno di assenso.
Ma per farlo, bisognava anche abbattere la
barriera che circondava la stanza.
Non c’era niente da fare; era necessario
essere preparati anche al peggio.
Armi in pugno, e con le mani che tremavano, si
avvicinarono cautamente alla porta, il direttore fece scattare la serratura ed
i tre, timidamente ma fermamente, entrarono.
La stanza era a soqquadro, ma ciò che li colpì
di più fu vedere Eric inginocchiato sul futon, le mani sopra la testa e le
zanne scoperte; tremava e respirava a fatica.
«Eric…» disse Peter
facendo un passo avanti.
Il ragazzo li guardò: i suoi occhi, nonostante
tutto, brillavano del loro solito bagliore oceanico.
Ce l’aveva fatta.
La sua volontà era stata più forte del virus,
e lo aveva debellato.
«Sei davvero tu?» domandò incredulo il
direttore
«Credo… credo di
sì.» rispose il ragazzo, affaticato dalla lunga battaglia e dai postumi della
malattia.
Sembrava che fosse davvero finito tutto.
Peter, dopo aver lanciato un’occhiataccia a
Yagari, aiutò Eric a rimettersi in piedi, e gli fu portato un pasto frugale per
aiutarlo a smaltire la debolezza.
Invece, le brutte notizie non erano ancora
finite.
«Direttore.» disse Zero comparendo da un
istante all’altro «Non riesco a trovare Izumi.»
«Che cos’hai detto!?»
«È così. L’ho aspettata sveglio per tutto
questo tempo, ma non è rientrata in stanza. L’ho anche cercata dappertutto.
Temo che non sia qui in albergo».
I tre professori si guardarono tra loro, e dai
loro sguardi Eric intuì che stava succedendo qualcosa di grave.
«Che è successo?» domandò «Perché siete così
preoccupati?».
Nota
dell’Autore
Eccomi
qua!^_^
Credevate
che fossi sparito, vero?
Purtroppo,
dopo l’ultimo aggiornamento, sono sopraggiunte una serie di complicazioni che
hanno ridimensionato di molto il mio tempo libero, inoltre una notizia inattesa
mi ha spinto a rimettere mano ad un mio vecchio progetto e a pubblicare una
nuova storia fantasy che ora vorrei cercare di portare avanti.
Ma alla
fine, sono tornato.
Come avete
potuto notare questo capitolo è molto più corto della mia media abituale.
Infatti,
ho deciso di variare la mia politica. Da ora in poi, se mi accorgerò che un
capitolo sta diventando troppo lungo, lo spezzerò in due capitoli distinti, ma
piuttosto che numerarli diversamente mi limiterò ad enunciarli, come ho fatto
in questo caso, come Prima e Seconda parte.
Questo dovrebbe
rendere la lettura un po’ più fluida, spero.
Nagisa
non riusciva a spiegarsi quel colpo di testa.
Perché mai doveva rischiare la vita per quella
ragazza, se solo poco prima le aveva quasi augurato di scomparire?
Eppure, nonostante ciò, continuava ad
avanzare, muovendosi con la sua agilità di vampira tra i rami degli alberi
seguendo la impercettibile traccia odorifera lasciata da quella sconsiderata.
Perché?
Perché era dovuta finire così?
Avrebbe voluto prendersi a schiaffi.
Forse una parte di lei si era già pentita di
tutte quelle cattiverie, forse temeva quello che il suo maestro avrebbe pensato
o fatto se avesse saputo che c’era lei dietro a tutto, o forse più
semplicemente era consapevole del fatto che, se fosse successo qualcosa, in
ogni caso la colpa sarebbe stata per gran parte sua.
A ben pensarci, non poteva fare una colpa ad
Asakura per quello che era.
Lei pensava in un certo modo, aveva vissuto in
un certo modo, e in un certo senso non era giusto colpevolizzarla.
Non poteva perdonarle di aver messo in
pericolo la vita del suo signore, ma non poteva né doveva neppure essere così
immatura da addossare a lei ogni responsabilità.
Se avesse mostrato più coraggio fin
dall’inizio, confidando ad alta voce ad Eric i suoi veri sentimenti, forse non
si sarebbe arrivati a tutto ciò.
Anche per questo sentiva di dover rimediare.
Si fermò un momento, per saggiare l’aria tutto
attorno e coglierne gli impercettibili segnali, fino a che non fiutò una
traccia nitida, e neanche troppo distante.
Era lei, senza dubbio.
«Maledizione, a me e alla mia stupidità.»
ringhiò dopo un momento di esitazione e riprendendo a correre.
Izumi
continuava a guardarsi attorno, tenendo il pugnale alzato davanti a sé come
ultima linea di difesa.
La gamba continuava a farle un male tremendo,
e certo non era in condizioni di camminare.
Izanagi poteva
guarirla, ma ci voleva comunque del tempo.
Compatì la propria ingenuità. Forse, se avesse
dato retta ad Emma, che continuava a ripeterle quanto fosse necessario per lei
imparare a cavarsela da sola, forse non si sarebbe arrivati a quello.
Le fronde degli alberi tutto intorno
sembravano mani oscure pronte ad afferrarla, e il rumore dell’acqua del
torrente oscurava tutti gli altri suoni, impedendole di comprendere i movimenti
della presenza che sapeva avere davanti a sé.
Ormai non mancava più niente.
A giudicare da quel poco che riusciva a
percepire, l’aggressore era pronto a saltarle addosso da un momento all’altro.
Probabilmente, chiunque fosse, si era accorto che la sua vittima era quasi
impotente, completamente alla sua mercé, e quindi non valeva la pena di correre
rischi.
Poi, però, decise che era giunto il momento di
reclamare il proprio pasto.
Izumi ebbe il tempo di scorgere un’ombra che
come un dio della morte piombava su di lei, e più velocemente che poteva alzò
il pugnale per difendersi.
Probabilmente l’assalitore non si aspettava
che la sua vittima avrebbe reagito con tale prontezza, e all’ultimo si fece
indietro, toccando terra a pochi metri dalla ragazza.
Era una giovane donna, piuttosto bella, ma i
cui lineamenti erano sconvolti da quell’orrida parvenza che solo i Livello E
possedevano; le unghie si erano fatte artigli, lunghi e ricurvi, e dalla bocca
semiaperta colavano fiotti di saliva maleodorante.
Izumi non faticò a notare una forte
somiglianza tra i tratti animaleschi di quella vampira e dell’altro mostro che
l’aveva aggredita poco prima.
«Anche lei ha la rabbia.» disse attonita e
spaventata.
Le conseguenze già le conosceva, e a quel
punto la paura si fece, se possibile, ancora più grande; sarebbe bastato un
nonnulla, anche solo un graffio, per segnare il suo destino, e questa volta non
era certa che Izanagi la potesse aiutare.
Il mostro si fece avanti, minaccioso e sicuro
di sé, e Izumi altro non poteva fare che tenere sollevato il coltello, ultima e
inutile linea difensiva contro quella creatura aberrante.
Era sul punto di scattare, quando una nuova
ombra apparve alle spalle di Izumi mettendosi in mezzo, e costringendo il
nemico ad indietreggiare nuovamente.
«Na… Nagisa!?»
«Stai bene?» le domandò la ragazza osservando
la sua ferita
«Solo una piccola slogatura».
Nonostante la comparsa di un nuovo avversario,
che oltretutto dava l’impressione di essere davvero forte, il mostro non parve
intenzionato a rinunciare; del resto, era impossibile ragionare a mente lucida
quando si aveva il cervello fritto dalla rabbia.
«Stai attenta.» disse Nagisa concentrandosi
sul nemico «Anche lei ha la rabbia.»
«Me ne ero accorta.»
«Basta un graffio, e per te è finita».
Il Livello E era ormai pronto ad attaccare, e
Nagisa si preparò allo scontro, che comunque sapeva sarebbe stato breve: c’era
troppa disparità.
«Non ti ho ancora perdonata per quello che hai
fatto.» disse la piccola vampira, quasi a voler mettere le cose in chiaro «Ma
di questo parleremo un’altra volta.»
«Nagisa…».
Uno scatto improvviso del Livello E interruppe
sul nascere quella fugace conversazione.
Per essere un vampiro di basso livello si
rivelò subito un osso particolarmente duro. La rabbia lo aveva reso molto più
potente, ed essendoci il fatto che non poteva permettersi neanche un piccolo
graffio per non fare la sua fine Nagisa preferì optare per una condotta
attendista, nell’attesa che l’avversario si scoprisse per poter chiudere la
questione con un solo colpo risolutore.
Il continuo schivare si rivelò più faticoso
del previsto, e Nagisa ad un certo punto volle allontanare il nemico per
concedersi qualche secondo di pausa, e procuratasi da sola una piccola ferita
usò il proprio sangue per creare una selva di piccoli paletti che scagliò con
la forza del pensiero contro il Livello E, scaraventandolo via. Contro un
normale vampiro sarebbe stato più che sufficiente per chiuderla lì, ma quando
si affrontava un nemico affetto da rabbia l’unico punto debole era la testa.
Ciò nonostante, l’attacco funzionò meglio del
previsto, indebolendo notevolmente ilnemico e lasciandolo a terra a contorcersi dal dolore.
Era l’occasione buona per farla finita.
«Torna al tuo creatore, povera anima
infelice.» disse Nagisa avvicinandosi per finirla.
Poi, l’imprevisto.
Da un istante all’altro Nagisa si bloccò,
rimanendo paralizzata. Gli arti le tremavano, i denti si serrarono per un
momento fino allo spasimo, e la gola prese a bruciarle come avesse inghiottito
piombo fuso.
Riconobbe i sintomi. E riconobbe quella
sensazione orribile.
Cadde in ginocchio, tossendo per gli spasimi e
tenendosi la gola.
«Nagisa!».
Trascinandosi, Izumi le arrivò vicino, e
quello che vide nei suoi occhi la lasciò impietrita: erano iniettati di sangue,
quasi come quelli di un Livello E.
«Stammi… stammi lontana…» disse la vampira tentando inutilmente di
cacciarla indietro
Izumi non impiegò molto a capire.
Astinenza.
Nagisa poteva essere un vampiro, ma il suo
sangue portava in sé il veleno dei mostri creati dal conte, e senza sangue
fresco e puro a farle da medicina era inevitabile per lei soccombere al suo
destino. E comunque, in quanto succube, necessitava del sangue del suo signore
almeno una volta ogni due giorni per mantenere intatti i suoi poteri.
Da anni ormai Eric si sottoponeva regolarmente
a delle trasfusioni per creare delle boccette di emergenza che Nagisa doveva
portare sempre con sé per casi come quello, ma con tutto quello che le era
capitato quel giorno si era dimenticata di prendere la sua dose giornaliera,
che oltretutto si trovava in una pochette in camera sua.
Nagisa sentiva di stare perdendo il controllo.
Non era così malmessa da rischiare di
tramutarsi in un Livello E, ma certo non aveva energie per continuare lo
scontro.
Che situazione incredibile, le venne quasi da
pensare.
Izumi si guardò la caviglia: era in via di
guarigione, ma ancora non riusciva a camminare. E intanto quel mostro si stava
riprendendo.
Scappare non era una soluzione. Ma d’altra
parte, era anche consapevole di non potere nulla contro quella creatura, per
quanto di ballo livello potesse essere.
C’era una sola cosa che poteva fare per essere
di aiuto.
Nagisa la vide sbottonarsi la camicetta
scoprendo il collo, un magnifico collo bianco e scintillante che sembrava
chiamarla in modo irresistibile.
«Nagisa.» disse Izumi prendendola
delicatamente ed avvicinandola a sé «Bevi un po’ del mio sangue».
La vampira rimase di sasso.
Non ci credeva. Solo poche ore prima l’aveva
insultata e offesa con tutta la crudeltà possibile, e ora la vedeva offrirle il
proprio sangue.
Per un attimo pensò che fosse solo istinto di
sopravvivenza, la consapevolezza di avere una sola via di salvezza, ma poi
avvertì tutto il calore proveniente dal suo animo, e capì che la verità era ben
diversa.
Arrivò quasi ad odiarla.
Come poteva conservare un animo talmente
nobile, e una simile fiducia negli altri, dopo tutto quello che le aveva detto?
Quel collo era una tentazione troppo invitante,
e la sete iniziò presto a prendere il sopravvento.
Sarebbe bastato un sorso, appena un goccio. E tutto
sarebbe finito.
Aprì la bocca, e contemporaneamente Izumi
chiuse gli occhi, aspettando di sentire i denti penetrarle sotto la pelle.
Era ormai pronta a morderla, poteva già
sentire il tocco della sua pelle vellutata sulla punta dei canini, quando
Nagisa si vide fulminare da un pensiero.
Per un attimo, alla follia e alla sete si
sostituì il raziocinio.
Cosa stava facendo? Non poteva.
Con uno scatto violento, allontanò la ragazza
da sé.
«Nagisa…» disse
Izumi incredula «Perché?».
Era inutile girarci attorno, pensò la giovane
vampira.
La verità era una sola. Poteva combatterla, e
ora sentiva di volerlo fare, ma per farlo doveva anzitutto accettarla.
«Non scherzare.» ringhiò sforzando di controllarsi
«C’è una sola persona legittimata a morderti il collo. Lui e lui solo dovrà
farlo».
Izumi la guardò e capì.
Eric gliene aveva parlato. Lasciarsi mordere
volontariamente non era un’azione che si potesse compiere alla leggera, almeno
secondo l’etica dei vampiri. E nel caso di Izumi, solo una persona sarebbe
stata legittimata a morderla, e quella persona non era certo Nagisa.
«Nagisa…».
Improvvisamente, il mostro riuscì a liberarsi
dei paletti che l’avevano infilzata in tutto il corpo, e scattando in piedi
urlante di rabbia si scagliò contro le due ragazze determinata a finirle.
«Che cosa fai?» urlò Nagisa vedendo Izumi
alzarsi barcollando in piedi e frapponendosi tra lei ed il nemico
«Tu mi hai protetta! Ora io proteggerò te!».
Era una battaglia persa.
Solo poche ore prima Nagisa avrebbe pagato per
vedere quella ragazzina ingenua e illusa morire, ora invece, vedendola
rischiare la vita, un brivido le attraversò tutto il corpo.
Non poteva permetterlo.
«Izumi!» gridò alzandosi in piedi.
Si sfiorarono, ed in quell’istante Izumi,
chiusi gli occhi per la paura, sentì qualcosa esploderle dentro, come una bomba
di energia, che preso corpo nella forma di una luce accecante investì in pieno
il Livello E, accecandolo e costringendolo ad allontanarsi.
Le due ragazze si ritrovarono da sole, immerse
nella luce, l’una di fronte all’altra.
Al centro del petto di Izumi si era aperto una
specie di portale, e da esso sporgeva, in direzione di Nagisa, la sommità di
una lancia a tre punte, bellissima, scintillante d’azzurro e coperta di
arabeschi.
Entrambe la guardarono, per poi guardarsi tra
di loro.
«Questa…» disse
Nagisa «Questa è…»
«Nagisa…» disse
Izumi.
Era evidente.
Solo uno spirito forte poteva brandire l’arma
più potente di tutte. E quale spirito più forte poteva esservi di quello di chi
aveva rischiato la propria vita per qualcuno che fino a poco prima aveva
considerato il suo peggior nemico?
«Izumi…».
Asakura sorrise, quindi le fece un cenno, e a
quel punto Nagisa, messi da parte gli indugi, afferrò l’arma, estraendola con
delicatezza ed impugnandola saldamente mentre la luce attorno a loro si
dissipava.
Nagisa si sentì subito meglio. La sete e la
debolezza erano sparite, e tutto il suo corpo pareva attraversato da un fiume
di energia.
Il potere di Izanagi
era davvero prodigioso.
Comprendendo la portata del nemico che aveva
ora di fronte, il Livello E esitò molto a lungo, ma alla fine la malattia ebbe
il sopravvento e lo fece attaccare.
Ma stavolta, il risultato fu diverso.
Nagisa si sentiva potente come non credeva di
essere mai stata, e con un solo, potente affondo infilzò in pieno il nemico a
mezz’aria impalandolo sul torace. Quello gridò da spaccare i timpani, e quando
Nagisa, impietosita, lo lasciò andare, cercò disperatamente di fuggire.
A quel punto, la giovane vampira si apprestò a
fare ciò per cui esisteva.
«Addio, anima tormentata.» disse fissando
quella poverette negl’occhi «Un giorno ti raggiungerò anch’io.» e con un fendente
preciso le troncò di netto la testa, incenerendola.
Ora era tutto finito.
In quello stesso momento, quella parte di Izanagi che dimorava ancora dentro Izumi finì di
rimarginare la sua ferita, cosicché la ragazza poté alzarsi in piedi e correre
ad afferrare Nagisa nel momento in cui, dissoltasi la lancia, la spossatezza
tornò a prendere il sopravvento.
«Nagisa.» disse sorreggendola
«Sto bene.» mormorò lei «Sono solo un po’
stanca».
La stanchezza sparì quasi subito, anche se i
postumi della sete restavano.
Erano entrambe così spossate che non si
accorsero di come ci fosse qualcun altro a tener d’occhio i loro movimenti.
Il vampiro che avevano appena abbattuto aveva
avuto il tempo di infettare, oltre al Livello E di poche ore prima, anche un
innocente abitante dei dintorni, il quale per sua sventura aveva subito la
stessa sorte degli altri due.
Le due ragazze se lo videro piombare addosso
alle spalle da un istante all’altro, ma prima che potessero pensare di reagire
qualcosa piombò giù dalla parte opposta centrando in pieno l’aggressore, che si
ritrovò inchiodato a terra con una katana piantata nella testa che non gli
lasciò scampo.
«Ma quella…» disse
Nagisa riconoscendo l’arma.
Un istante dopo, dagli alberi emerse una
figura a loro famigliare, che lasciò entrambe di sasso.
«Eric…»
«Mio signore…»
«Ne mancava uno.» disse ironico il ragazzo
«State bene?».
Nagisa lasciò la presa di Izumi, e cercando di
darsi un contegno si avvicinò barcollando al suo signore, per quanto incredula
e senza parole.
«Mio signore, voi…
siete guarito!?»
«Ormai dovresti saperlo che ho la pelle dura. Ci
vuole ben altro che un vampiro rabbioso per farmi la pelle.» disse Eric, quindi
mise una mano nella tasca dei calzoni prendendone una boccetta di sangue
«Immagino avrai sete».
Era una cosa da nulla, eppure Nagisa lo
considerò come il più bel regalo del mondo.
«Eric…» disse Izumi
con gli occhi lucidi «Io… mi dispiace. Se non fosse
stato per causa mia…»
«Non temere.» la rassicurò lui «Non è successo
niente».
Ora era davvero tutto finito.
«Andiamo ora. Questa notte è stata anche
troppo lunga».
La
notte ormai volgeva al termine, e nella pensione erano tornati a regnare la
pace ed il silenzio.
Eric era uscito molto provato da quella brutta
esperienza, e cosa c’era di meglio per risollevare il corpo e lo spirito di un
piacevole bagno in solitaria nell’acqua termale?
Alla luce delle stelle e delle torce da
giardino, che ne illuminavano i lineamenti muscolosi imperlati di acqua e
sudore, il giovane vampiro sedeva in solitudine al centro della vasca, poggiato
contro una roccia sporgente, per metà immerso nella vasca, con gli occhi
rivolti verso l’alto e la testa piena di sogni e pensieri.
Si sentiva in pace.
Sereno.
Certo, non poteva immaginare che le due donne
della sua vita lo stessero osservando, nascoste dietro ad una collinetta artificiale
di sassi proprio come i guardoni che poco prima avevano riempito di botte.
Vedendolo così, entrambe non riuscirono a non
arrossire, e stettero per lunghissimi minuti senza proferire parola, immobili
come statue.
C’era qualcosa di magico, di magnetico nella
sua figura.
Anche se quello che avevano appena vissuto
aveva in qualche modo rinsaldato, per non dire rinforzato, l’amicizia che
infondo non era mai venuta meno tra di loro, ormai entrambe avevano accettato e
compreso i propri sentimenti.
Tutte e due volevano la stessa cosa. Ma era
fuori di dubbio che solo una di loro avrebbe potuto prevalere.
«Nagisa.» disse ad un certo punto Izumi
«Volevo dirti… grazie per quello che hai fatto.»
«Non pensare neanche per un secondo che io mi
sia arresa.» le rispose lei severa e decisa «Questa è l’ultima volta che faccio
qualcosa per te. Da ora in avanti, non mi nasconderò più».
Izumi restò un momento perplessa, poi sorrise.
«D’accordo. Lo stesso vale per me».
Comunque fosse andata, tuttavia, nessuna delle
due avrebbe più rinnegato il legame speciale che c’era tra loro. Dopotutto, non
era un caso se Nagisa era stata capace di impugnare Izanagi.
La magia e la serenità di quel momento furono
interrotte, almeno per quanto riguardava le due ragazze, nel modo peggiore.
Erano entrambe talmente rapite da ciò che
vedevano, da non essersi accorte di non essere le sole a spiare il bagno
notturno del giovane Flyer.
Appostati a loro volta dietro sicuri nascondigli,
coperti da bende per le botte ricevute e armati di telecamere, Peter e il
Direttore stavano filmando ogni particolare del loro migliore amico.
«Questo sì che è materiale che scotta.» disse
Peter
«Mi raccomando, riprendiamo tutto.»
«Puoi scommetterci. Domani sarà il video più
richiesto del nostro negozio virtuale.»
«Se lo mettiamo a diecimila yen a download,
entro una settimana ne avremo abbastanza per un viaggio alle Maldive».
La visuale degli obiettivi venne
improvvisamente ostruita da un’ombra scura, ed alzati gli occhi i due uomini si
ritrovarono davanti una dea della guerra furiosa e sprizzante scintille.
«Na…nagi-chan…» dissero sudando freddo
«Razza di porci schifosi!».
Note
dell’Autore
Rieccomi!^_^
Sono
passati secoli siderali ed astrali, ma finalmente sono tornato.
Il perché di
questa assenza?
Beh,
diciamo che dipende da diversi fattori. Il primo è ovviamente il tempo. Dovendo
a star dietro a due storie (e recentemente sono diventate persino tre) e con
tutto il resto, il tempo come al solito è finito per non bastare mai, ed EFT
inaspettatamente si è trovata a passare al secondo posto nella classifica delle
priorità, anche se spero non sarà più così, almeno non in modo tanto netto.
Il secondo
motivo è di tipo… personale.
Diciamo
che non mi è piaciuta per niente la piega che stanno prendendo gli eventi nella
fase finale del manga, al punto che ne sono rimasto così contrariato da aver
ventilato l’ipotesi di chiudere per sempre con VK lavandomene le mani di tutto
(e non sarebbe la prima volta, è successo già con Assassin’sCreed).
Poi mi
sono detto che non valeva la pena di cadere così in basso, così ho rimesso mano
al lavoro.
Con il
prossimo capitolo le cose iniziano a farsi davvero serie. Ormai si può dire che
siamo a metà della vicenda.
Il resto delle vacanze
estive trascorse senza particolare trambusto, e giusto qualche giorno prima che
riprendessero le lezioni si svolse il meeting tra i vertici dell’Associazione e
le principali Famiglie Nobili provenienti da tutto il mondo.
Scopo
dell’incontro, organizzato nel fastoso Aurora Hotel, nei pressi di Nagano,
cercare di raffreddare gli animi, fattisi roventi dopo gli assalti compiuti nei
confronti di numerose famiglie aristocratiche in varie parti del mondo, e
soprattutto in Europa. L’Associazione, per bocca della presidentessa in
persona, intendeva ribadire una volta di più la propria estraneità all’intera
questione, forte anche dell’assenza di qualsivoglia prova che potesse
incriminarla, ma anche cercare di mettere pace tra le stesse famiglie di
vampiri, che non troppo velatamente si erano più volte accusate a vicenda
nell’ultimo periodo.
Secondo
i più si trattava di cani sciolti, fanatici legati magari alla Congregazione di
San Michele, l’Associazione Gemella che riuniva gli Hunter fedeli alla Chiesa e
al Vaticano, e proprio per questo tra gli invitati vi erano anche alcuni
prelati inviati dal Santo Padre.
del
corpo, portamento fiero, eleganti abiti blu da cavallerizza e alla cintura un
lungo stocco.
Il
servizio di sicurezza era qualcosa di imponente, per quanto si cercasse di
farlo sembrare meno corposo di quanto non fosse in realtà.
All’esterno
personale dell’Associazione, tra i quali Emma, Peter e Yagari, all’interno
alcuni giovani studenti della Night Class e le guardie del corpo dei nobili
presenti.
Fu
scelto di tenere la riunione al tramonto, ma Eric si presentò anche prima del
previsto, conducendo un rapido ma meticoloso giro d’ispezione per assicurarsi
che tutto fosse in ordine.
Dopo
tutto quello che aveva visto nell’ultimo periodo non riusciva proprio ad essere
tranquillo, anche se confidava nel fatto che quella riunione potesse servire a
distendere gli animi.
Tra i
rappresentanti arrivati da Roma vi era sua eccellenza Ludwig, Segretario di
Stato ed ex vescovo di Bruxelles, con al suo seguito una giovane donna dai
corti capelli biondi raccolti in una crocchia, quasi sicuramente la sua guardia
del corpo.
Lei ed
Eric si incrociarono casualmente nella hall dell’albergo, scambiandosi
un’occhiata perplessa.
«Eric!?»
disse lei
«Lynette.
Che ci fai qui?»
«Potrei
chiederti la stessa cosa. Ti hanno assegnato alla sicurezza?»
«Più o
meno. E tu?»
«Accompagno
sua eccellenza Ludwig.»
«Non
sapevo fossero stati convocati anche i Congregati di San Michele.»
«La
questione è seria, come puoi immaginare, e qualcuno cerca di dare la colpa di
quanto sta accadendo al nostro ordine. Siamo qui per dimostrare la nostra
estraneità ai recenti omicidi.»
«Capisco.»
«Come
mai non ti si è più visto in Europa negli ultimi tempi? Sapevo che eri finito nei
guai.»
«Sono
successe un po’ di cose. Ora studio all’Accademia Cross.»
«Lynette.»
la chiamò il suo superiore vedendola tardare
«Arrivo,
eccellenza.»
«Non ti
trattengo oltre. Ci vediamo più tardi durante la ronda.»
«D’accordo,
a dopo».
Zero,
avendo notato i due conversare, si avvicinò ad Eric subito dopo che Lynette se
ne fu andata.
«La
conosci?»
«Lynette
Perrin. Appartiene alla Congregazione di San Michele.
Ci siamo incontrati due anni fa a Belfast nel corso di un’indagine. È molto in
gamba.»
«Lo
spero. Più gente in gamba ci sarà a tenere d’occhio questa adunata di vampiri e
meglio mi sentirò.»
«Credevo
che tu odiassi i vampiri.»
«Infatti.
Ma non a discapito della sicurezza degli esseri umani. Se la tensione dovesse
continuare a salire, potrebbe scaturirne un conflitto di proporzioni
gigantesche.
Ora
però, sarà meglio che ognuno prenda il suo posto».
Prima che la riunione
iniziasse ufficialmente, Eric volle andare a fare un rapido giro anche
all’esterno, dove tra il cortile dell’albergo e la boscaglia limitrofa vi erano
quasi un centinaio di hunter tutti molto esperti.
Emma non
faceva i salti di gioia al pensiero di dover fare da guardaspalle a dei
vampiri, ma faceva buon viso a cattivo gioco rammentando a sé stessa i propri
doveri di Hunter.
Per
questo, quando vide Peter attaccato ad un ramo come un bradipo, armato di
binocolo e intento a sbirciare dalla cima di un albero il decolté delle molte
nobili vampire presenti alla riunione ci vide rosso.
Con la
precisione di un cecchino, raccolto un sasso da terra lo scagliò dritto sulla
fronte del giovane tedesco, che centrato in pieno precipitò al suolo mezzo
svenuto dopo essere rimasto a penzolare qualche secondo come una liana.
«Che
fai, razza di maniaco scansafatiche! Ti sei dimenticato che sei qui per lavorare?»
«Il
lavoro è più dolce se condito con un pizzico di piacere.» rispose Peter con una
faccia da ebete.
Emma
replicò serrando i denti, e piantando nel contempo la punta di Kyoku nel terriccio ad un millimetro dal naso di Peter, che
si ritrasse per lo spavento.
«Un’altra
parola, e io addolcirò il mio con le tue grida di agonia.»
«Sei
troppo violenta, te lo dico sempre.»
«Già. E
indovina per quale motivo».
L’arrivo
di Eric interruppe sul nascere una conversazione dai risvolti potenzialmente
tragici.
«Tutto tranquillo
qua fuori?»
«Niente
da segnalare.» rispose Emma «A parte questo guardone impenitente.»
«Che
posso farci se le donne vampiro sono così seducenti? Sembra quasi che lo
chiedano di venire spiate.»
«Yagari
dov’è?»
«Sta
guidando una pattuglia nella foresta circostante.» rispose Emma «Rilassati e
vai tranquillo, questo posto è a prova di intrusione.»
«Lo
spero.» disse Eric guardandosi attorno «Gli animi sono già roventi, e scaldarli
ancora di più non gioverebbe per nulla».
Yagari aveva preso con sé
altri tre hunter suoi amici, tutti molto fidati e in gamba, e assieme a loro era
salito a bordo di un fuoristrada mettendosi ad ispezionare i dintorni
dell’albergo girando su e giù per le numerose stradine e vie sterrate che
tagliavano la foresta circostante.
Anche a
lui come a molti altri non andava tanto giù l’idea di dover proteggere dei
vampiri, ma facevano buon viso a cattivo gioco pensando a quanto quell’incontro
fosse importante ai fini del mantenimento della pace.
Chiunque
avesse attaccato le altre famiglie nobili avrebbe potuto approfittare di quel
raduno per andare a colpire più bersagli in una volta sola, ma bisognava essere
degli autentici aspiranti suicidi per voler affrontare in una volta sola così
tanti hunter e vampiri nobili.
Eppure
Yagari non si sentiva tranquillo.
Lo
diceva anche il proverbio, l’avventatezza era il pane degli sciocchi. Se
davvero di un folle si trattava, e lui non ne era per niente convinto, poco
importava il rischio che correva nell’attaccare una simile fortezza, lo avrebbe
fatto comunque.
Lui e
gli altri stavano pattugliando la foresta, quando per un attimo, con la coda
dell’occhio, gli parve di scorgere qualcosa che si muoveva tra gli alberi.
«Aspettate,
fermati.» ordinò al conducente.
Quello
obbedì, e Yagari scese un momento dal fuoristrada, scrutando con attenzione la
fitta foresta, con il silenzio rotto solo dal gracchiare del motore.
«Tutto a
posto?» gli domandò un altro
«Sì.»
rispose lui dopo un attimo di esitazione «Sarà stata un’impressione».
Invece,
dopo un momento che la jeep si fu allontanata, tre uomini sbucarono da sotto le
sterpaglie e le foglie secche, portandoognuno con sé degli strani marchingegni circolari dal diametro di una
cinquantina di centimetri.
«Via
libera.» disse uno «Muoviamoci».
A quel
punto i tre posizionarono a terra quei dispositivi, che al semplice tocco di
una levetta presero ad emettere una tenue ed intermittente luce rossastra. A
quel punto coprirono il tutto e rapidamente si allontanarono a piedi,
raggiungendo un luogo più appartato dove non avrebbero corso il rischio di
essere visti.
«Squadra
due, tutto fatto.» disse il solito parlando alla trasmittente.
Dall’altro
capo della linea vi era un suo compagno, appostato assieme ad una dozzina di
altre persone all’interno di un piccolo campo base allestito lungo le pendici
di una delle montagne che circondavano l’hotel.
Da
laggiù l’hotel appariva in tutta la sua imponenza, un monolito giallo oro che
emergeva dal verde degli alberi, circondato da giardini ben curati e collegato
al vicino villaggio da una strada non troppo larga e con molte curve.
«Signore.»
disse l’operatore rivolgendosi a Michelle, intento a rimirare l’imponente
costruzione in piedi sopra una roccia «Anche la squadra due ha terminato il
lavoro.»
«Molto
bene.» rispose lui senza voltarsi
«E ora
che facciamo?»
«Aspettiamo».
La riunione, tenutasi
nell’aula magna dell’albergo, iniziò sotto gli auspici meno favorevoli.
C’era
molta tensione nell’aria, soprattutto tra i vampiri, e poco importava che si
fosse scelto di tenere gli Hunter il più lontano possibile per non creare
soggezione.
Più che
verso gli umani, tuttavia, i vampiri sembravano essere diffidenti verso i loro
stessi compagni.
Le due
fazioni della nobiltà, i moderati e i radicali, si erano accomodate agli angoli
opposti della sala, e non passava secondo senza che si lanciassero frecciate o
sguardi obliqui.
La prima
a parlare fu la presidentessa, ribadendo una volta di più l’estraneità
dell’Associazione Hunter in merito ai recenti massacri e dicendosi rammaricata
per la morte violenta di così tanti vampiri moderati e propensi al dialogo con
gli umani.
Anche il
cardinale Ludwig negò qualsiasi coinvolgimento della Congregazione, benché
delle sue parole vi fosse una generale, e per certi versi comprensibile,
diffidenza.
La
Congregazione di San Michele veniva da un passato torbido, fatto di massacri,
processi sommari ed epurazioni di massa in tutto il mondo, e anche se negli
ultimi secoli il loro modo di agire si era notevolmente acclimatato, facendosi
più conciliante e meno integralista, le vecchie ferite erano ben lontane
dall’essere dimenticate.
All’esterno,
le guardie cercavano di ammazzare il tempo come potevano, e persino i ragazzi
della Night Class avevano iniziato a tranquillizzarsi, lasciando trascorrere le
ore tra conversazioni al bar e passeggiate senza meta nei corridoio
dell’albergo.
Persino Eric
stava iniziando a tranquillizzarsi, quasi si stesse convincendo a propria volta
che nessuno sarebbe stato tanto pazzo da voler assaltare un luogo così
pesantemente fortificato.
Uscito
sulla terrazza panoramica il giovane Flyer incontrò nuovamente Lynette, che a
differenza di molti sembrava ancora tesa e pronta all’azione come una
sentinella al confine.
«Dovresti
cercare di tranquillizzarti.» le disse «Tesa come sei non riusciresti ad essere
lucida.»
«Come
fate ad essere così calmi voi Hunter? Sembra quasi che prendiate tutto
sottogamba.»
«Se è
questa l’impressione che diamo, non potrebbe essere più sbagliata».
Lynette
alzò gli occhi al cielo rossastro.
«Il sole
sta per tramontare.»
«Così
sembra.»
«Preferirei
evitare di stare a contatto con i vampiri dopo il tramonto.»
«Credo
di poterti comprendere. Con il buio la loro vera natura, in qualche modo,
finisce sempre per venire fuori, per quanto si sforzino di nasconderla.»
«Eppure,
sei anche tu un vampiro, o sbaglio?»
«Sì. Ma
almeno io ho una metà umana. Altrimenti, non credo che sarei diverso da loro.»
«Io
invece credo di sì.»
«Come!?»
«Non è
questione di essere o meno mezzo umano. È questione di quello che si è e si
sente di essere nel profondo. I tuoi sentimenti e le tue convinzioni, secondo
me, non ti derivano certo dal semplice fatto di essere per metà umano».
Eric
rimase un momento interdetto, non sapendo cosa rispondere.
«Credo
che andrò a dare un’occhiata nei parcheggi sotterranei. Quel pigrone del nostro
autista non controlla neppure le gomme se non lo si tiene d’occhio.» e detto
questo Lynette se ne andò lasciando Eric da solo.
Michelle guardò un’ultima
volta l’orologio, quindi gettò un occhio al tramonto ormai quasi completo.
Nel mentre,
una coppia di autocarri aveva raggiunto il campo base, che nel frattempo era
stato quasi totalmente smantellato, e dall’interno dei vani simili a grossi e
prefabbricati blindati giungevano continuamente strani ed inquietanti mugolii.
La
lancetta delle ore segnò lo scoccare delle otto.
«Ci
siamo.» disse il ragazzo.
Il suo
attendente a quel punto gli porse un telecomando, e l’aria di colpo si fece
molto più densa. Sembrava quasi che tutti, per la maggior parte personale
militare della Repubblica dell’Est mascherati da soldati della JSDF, avessero
paura, e qualcuno gettò un occhio agli enormi cassoni blindati sudando freddo.
«Ne è
proprio sicuro?» domandò l’attendente «Potrebbe anche non funzionare.»
«È
proprio per questo che siamo qui. Per accertarcene. Considerala una prova
generale».
Vedendo
Michelle mettere mano al telecomando tutti si affrettarono a raggiungere le
macchine o qualunque altro rifugio chiudendovisi dentro, ma non il ragazzo, che
senza apparente timore spinse un interruttore sollevando i cancelli dei
container.
Ne
uscirono in tutto oltre una trentina di Livello E, tutti all’ultimo stadio,
animali da preda in cerca di sangue e senza più un briciolo di raziocinio, che
come videro Michelle immediatamente gli si fecero incontro con aria minacciosa.
Ancora
una volta il giovane non si mosse, seguitando ad osservarli quasi con aria di
sfida, e un attimo prima che uno di quelli gli saltasse addosso spinse un
secondo pulsante del medesimo telecomando.
Subito
dopo, tutti i dispositivi circolari disseminati attorno all’albergo smisero di
lampeggiare, seguitando a rimanere accesi, e immediatamente tutti i Livello E
volsero lo sguardo verso l’edificio, correndovi contro quasi subito e ignorando
completamente il loro primo bersaglio.
Gli
altri presenti rimasero allibiti.
«È
incredibile.» disse l’attendente emergendo dal suo nascondiglio «Allora
funziona.»
«Così
pare.» commentò soddisfatto il ragazzo.
Quasi
nello stesso momento Eric, ancora intento a scrutare l’orizzonte in cima alla
terrazza panoramica, avvertì qualcosa, come una specie di fischio nella testa
estremamente fastidioso.
«Ma cosa…» mugugnò scavandosi nelle orecchie per cercare di
zittirlo.
Gli EDA
corsero, corsero come forsennati, saltando sui rami, artigliando il terreno,
spingendosi e aggredendosi l’un l’altro, e comeMichelle ebbe il sentore che fossero abbastanza lontani usò nuovamente
il comando a distanza, stavolta per disattivare i dispositivi che si auto
distrussero, liberando Eric da quella insopportabile agonia.
«Questa
cosa non mi piace.» disse il ragazzo avvertendo una brutta sensazione.
Ma
ormai, come previsto da Michelle, gli EDA erano arrivati quasi alle soglie
dell’albergo, e anche se l’esca che li aveva attratti fino a lì era sparita
l’odore che proveniva dalla struttura fu più che sufficiente per spingerli a
continuare nella loro corsa.
Yagari
aveva già ordinato all’autista della jeep di fare ritorno in albergo, quando la
loro macchina venne assalita da tre di quei Livello E.
«Ma che diavolo…» disse uno vedendoli sbucare dal nulla cercando di
sfondare i vetri.
Quei
pazzi avevano il cervello talmente fritto da non percepire nemmeno la
pericolosità delle loro potenziali prede. Come uno di loro riuscì ad abbattere
un finestrino Yagari non dovette fare altro che assestargli un pugno, sfoderare
il fucile e aprirgli la faccia con un proiettile piazzato dritto dentro la
bocca.
Gli
altri due, per nulla spaventati, tentarono di ribaltare la macchina, ma furono
rapidamente abbattuti a loro volta dagli altri tre Hunter senza grosse difficoltà.
«Ma che
diavolo erano questi?» domandò uno degli hunter passato il pericolo
«Livello
E impazziti.» rispose preoccupato Yagari «Presto, torniamo all’albergo».
Peter, passata la libido,
si era messo a dormire sul ramo di un albero come una scimmia, ondeggiando la
gamba avanti e indietro mentre russava così forte da spaccare i timpani.
«Ora
comincio ad averne davvero abbastanza di te.» brontolò Emma che non ne poteva
più «Vuoi deciderti o no a fare il tuo lavoro?».
Un
gruppo di quei Livello E saltò loro addosso comparendo dal nulla, ma i loro
riflessi di Hunter gli permisero di non farsi trovare impreparati.
«E
questi che diavolo vogliono?» domandò la Kretzner
afferrando la testa ad uno e sfracellandogliela contro un albero
«Una
cosa è certa, sono senza invito.» replicò Peter infilzandone un altro con la
baionetta in cima al suo fucile.
A quella
prima ondata ne seguì una seconda, e allora entrambi misero mano alle armi pronti
a respingerli.
Quasi
contemporaneamente, altri gruppi più o meno grandi di Livello E presero a dare
l’assalto ai cancelli dell’albergo da varie direzioni, come in un grossolano
tentativo di accerchiamento, ma gli Hunter appostati tutto attorno si fecero
trovare pronti e risposero efficacemente all’assalto.
«E
questi sarebbero avversari?» commentò divertito Peter abbattendoli come birilli
«Sembra di fare il tiro a segno.»
«Non
perdere la concentrazione.» lo rimproverò Emma, che però invece stava
eccitandosi a sua volta sempre di più per la facilità con cui riusciva a farne
scempio.
All’interno dell’albergo,
nessuno si era accorto di niente.
L’aula
magna dove si stava tenendo la riunione non aveva finestre né alcun altro
contatto con l’esterno, mentre il perfetto isolamento termico della struttura
impediva a suoni o odori di penetrare da fuori.
Tuttavia,
i vampiri che pattugliavano la struttura si erano accorti di quanto stava
accadendo, ed osservavano preoccupati gli Hunter battagliare con quella marea
di Livello E, più di quanti chiunque di loro ne avesse mai visti tutti insieme
nel corso della vita.
«Dobbiamo
andare ad aiutarli.» disse Lacey
«Impossibile.»
disse Zero «Se apriamo anche solo una finestra l’odore del sangue e il rumore
della battaglia penetreranno all’interno.»
«Questo
colloquio è molto importante per il mantenimento della pace.» disse Raven,
stranamente e incredibilmente calma «Se dovessero interromperlo i rapporti
potrebbero peggiorare.»
«Ma
siamo sotto attacco…»
«Sono
solo un branco di Livello E impazziti. Niente di impossibile per l’Associazione
Hunter. Mi dispiace solo di non essere lì fuori anch’io a sfogarmi un po’.
Per ora
limitiamoci a tenere le posizioni. Se le cose dovessero farsi più complicate
allora usciremo anche noi a dare man forte, e al peggio suggeriremo l’evacuazione.»
«Ti
ricordo che è Eric il capo del ramo della sicurezza affidato ai vampiri. È lui
che deve decidere».
Tutti allora
guardarono il giovane Flyer, che seguitò a tenere a lungo gli occhi rivolti
oltre il vetro panoramico del salone principale quasi a voler temporeggiare.
«Aspettiamo.»
si risolse infine a dire, stupendo un po’ tutti «Per adesso non c’è pericolo. Come
ha detto Raven, malgrado siano in tanti non sembra essere una minaccia
particolarmente seria. Le difese sono solide, e le guardie ai punti d’ingresso
assicurano di avere tutto sotto controllo.
Possiamo
stare tranquilli.»
«Questo
atteggiamento attendista non è da te.» disse Zero quasi a volerlo rimproverare
«In
questo caso, il buon esito di questo incontro viene prima di tutto. Ora però
torniamo tutti ai nostri posti».
Eric fece
per avviarsi nuovamente verso l’aula magna, quando di colpo si fermò come
fulminato, e alzati un momento gli occhi al cielo con aria inebetita tornò
immediatamente sui suoi passi correndo verso gli ascensori.
«Ma che
gli è preso?» domandò Lacey incredula.
Lynette aveva quasi
completato il suo giro nel parcheggio sotterraneo dell’albergo, un enorme
androne vasto quasi quanto l’edificio soprastante e abbastanza grande da
accogliere al suo interno parecchie centinaia di veicoli.
Per l’occasione
tutti i nobili e i personaggi importanti presenti alla riunione si erano
presentati a bordo delle loro macchine migliori, un modo come un altro per
ostentare fierezza, e girando in mezzo a tutte quelle limousine, quelle
fuoriserie e quei fuoristrada d’alta classe sembrava di trovarsi ad una fiera
del lusso.
Per una
ragazza allenata e pronta all’azione come lei, non fu difficile percepire nel
silenzio di quell’immenso androne l’aria della minaccia.
Un gruppo
di Livello E comparvero dal nulla dopo essere riusciti ad entrare da un
ingresso di sicurezza del garage, l’unico varco che era stato lasciato
incustodito poiché nessuno ne conosceva l’esistenza, trovandola con il lungo
stocco francese laminato in argento già in mano.
La sua
grazia ed eleganza aveva qualcosa di sovrumano, colpiva e schivava con
sorprendente agilità, menando fendenti e affondi di sorprendente precisione.
I Livello
E tentarono vanamente di circondarla, ma nonostante tutto lei ne fece scempio,
abbattendoli tutti e riducendoli in cenere. Quando anche l’ultimo fu sconfitto
si fermò un momento per riprendere fiato, e forse proprio per via della
stanchezza non si accorse della comparsa di un nuovo avversario, che da un istante
all’altro le arrivò alle spalle tentando di assalirla.
Lynette,
percepito il pericolo, ebbe a malapena il tempo di girarsi che una katana sbucò
dal nulla centrando il nemico in piena fronte, e voltatasi nuovamente la
ragazza vide Eric camminare a passo sicuro verso di lei, il braccio ancora proteso.
«Ne
mancava uno.» disse sornione il ragazzo.
Lei
rispose con un sorriso.
«Grazie
dell’aiuto.»
«Ma ti
pare».
La riunione si protrasse
fino a notte inoltrata, ma portò i frutti sperati.
I nobili
vampiri accettarono di riconoscere che né l’Associazione Hunter né la Congregazione
avevano qualcosa a che fare con i recenti omicidi, soprattutto a seguito dell’attacco
all’hotel che essi stessi si erano impegnati a respingere.
Ciò non
impediva loro di diffidare gli uni degli altri, ma per il momento tutto quello
che importava era che le tra grandi potenze avessero deciso di preservare la
propria, fragile tregua.
Quale segno
di buona volontà, poi, fu proposto da parte di sua eccellenza Ludwig l’invio di
un proprio congregato presso l’Accademia Cross, una sorta di atto di
accettazione da parte della Congregazione nei confronti dei tentativi di
integrazione incarnati in quella scuola, una proposta che trovò bene o male
tutti d’accordo, a cominciare dal Direttore Cross.
Inutile dire
che la scelta ricadde sull’unica persona della quale il cardinale sentiva di
potersi fidare più di chiunque altro.
«Sei
disposta a prenderti questa responsabilità?» chiese a Lynette mentre, a bordo
della loro vettura, lasciavano l’hotel per fare ritorno a Tokyo.
Lynette non
era particolarmente entusiasta al pensiero di dover dormire sotto lo stesso
tetto di vampiri dei quali non era certa di potersi fidare, ma come al solito
il suo senso del dovere ebbe la meglio sulle sue personali opinioni.
«Certamente,
vostra eccellenza. Farò come mi chiedete».
Nota dell’Autore
Eccomi qua!^_^
La fenice risorge dalle sue ceneri!
Allora, contenti di rivedermi?
Lo so, è passato molto tempo dall’ultima
volta che ho aggiornato, e di questo mi scuso profondamente.
Il fatto è che, e non sto scherzando, poco
dopo aver inserito l’ultimo capitolo sono stato colto da una tremenda crisi di
iniziativa nei confronti di questa storia, che unita ad una serie di impegni mi
ha spinto a dare la precedenza ad altri progetti lasciando questo totalmente da
parte.
Poi però, un giorno, mi sono detto che non
potevo lasciare da parte un progetto nel quale in qualche modo c’entravano
molte altre persone, non dopo che proprio io avevo criticato a chiare lettere
il modo in cui era andato a finire il progetto ThreadsOf Fate da cui è nata questa idea.
Ragion per cui ho smesso di rimuginarci
sopra, ho ripreso in mano il tutto e ho aggiornato.
Spero che continuerete a seguirmi,
nonostante tutto!
Finite le vacanze estive
riprese la scuola, e con essa la solita routine quotidiana fatta di studio,
lezioni, e qualche breve momento di relax.
Eric
ormai si era adattato alla sua classe e al suo ruolo, e per quanto potesse
sembrare incredibile anche con Kaname le cose sembravano essersi riappacificate
almeno un po’.
Sembrava
tutto tranquillo, ma in realtà gli animi di coloro che sapevano erano ancora
turbati da quanto accaduto durante il meeting all’Hotel Aurora, soprattutto
alla luce delle prove raccolte nei giorni successivi all’incontro.
In tutta
la zona circostante l’albergo erano stati rinvenuti degli strani marchingegni
ridotti in pezzi, di provenienza sconosciuta, simili a grosse mine anticarro.
Non era stato possibile stabilire cosa fossero o quale fosse il loro scopo, ma
il ritrovamento dei resti di una specie di campo base in una radura che
dominava la valle aveva dato a tutti la prova che quella anormale ondata di
Livello E era stata appositamente organizzata.
Il
difficile era capirne le ragioni.
Secondo
alcuni si era trattato di un tentativo di mandare a monte l’incontro di
chiarificazione, ma per gli hunter più esperti, Yagari ed Eric su tutti, le
motivazioni erano altre, per quanto il fine potesse essere simile.
«Se
volete sapere come la penso.» aveva detto preoccupato Yagari «Si è trattato di
una specie di prova generale. Un test.»
«O di
una deliberata dimostrazione di pericolosità.» aveva ipotizzato a su volta
Flyer «Chi è stato responsabile di tutto questo ha voluto farci capire che ha i
mezzi e le conoscenze per fare cose fino ad ora reputate impossibili, come
controllare i Livello E.»
«In ogni
caso.» aveva sentenziato il direttore «Il significato di tutto questo è uno
solo. Sta succedendo qualcosa là fuori. Qualcosa di grosso. E quanto accaduto
all’hotel è stato solo l’antipasto. Un assaggio di quello che deve accadere».
Per
questo motivo, gli animi erano particolarmente tesi.
Nessuno
voleva rovinare quanto la riunione aveva generato, e forse anche per questo la
presidentessa dell’associazione aveva ordinato di non svolgere indagini
ufficiali, probabilmente per non alimentare timori e sospetti in un momento
così delicato.
L’arrivo
di Lynette fu salutato con un certo sollievo da parte di Eric. Ora aveva una
persona di fiducia in più ad affiancare Zero ed Emma nella dayclass, il che lo faceva stare molto più tranquillo.
Per una
volta, nonostante il senso di pace sospesa che pervadeva l’ambiente, sembrava
che tutto stesse andando per il meglio.
Con
l’autunno arrivò anche il tempo delle nuove matricole, e se la Night Class
poteva dirsi ormai al completo, esclusa Lynette la Day
Class aveva ancora bisogno di qualche altro innesto.
In
particolare si vociferava di due prossime ammissioni, due ragazze stando alle
voci di corridoio, entrambe piuttosto attraenti, e la cosa non aveva fatto altro
che accendere come una lampadina le fantasie perverse di Peter.
Essere
circondato da così tante belle ragazze in uniforme era già un sogno per lui, ma
per quante le avesse attorno non gli bastava mai: ne voleva sempre di più.
Un
pomeriggio era in sala professori, assieme a Yagari, lui per smontare dal
proprio turno nella sezione diurna ed il bel tenebroso per prepararsi
all’inizio di quella notturna, quando delle voci di corridoio tra gli studenti
portarono la notizia che le due nuove reclute fossero infine arrivate, e
avessero già preso alloggio nel dormitorio della Day
Class.
«Se vuoi
scusarmi.» esclamò Peter scappando via come un bambino la mattina di natale.
Recuperato
il binocolo dal suo armadietto raggiunse in pochi attimi il dormitorio diurno,
raggiungendo uno dei suoi tanti punti di osservazione in cima ad un albero sul
lato sinistro dell’edificio.
Non fu
una scelta difficile da prendere, visto e considerato che le uniche stanze per
ragazze con dei posti rimasti liberi avevano le finestre affacciate su quel
lato, e sapendo anche quali erano non ebbe problemi a localizzarle.
Rise
sotto i denti nel vedere che una di quelle due imprudenti aveva lasciato le
tende aperte, e già pregustava ciò che avrebbe visto.
Fu
un’attesa abbastanza lunga, ma ciò che vide comparire ad un certo punto fu più
che sufficiente a compensare il tempo speso ad aspettare.
La
ragazza in questione non si era fatta vedere perché era in bagno, e come aprì
la porta rivelandosi in una quasi totale nudità, coperta solamente da un leggero
asciugamano, Peter rischiò un dissanguamento. Non poteva vederla in faccia per
via dell’angolazione, ma quel didietro così sodo e compatto, e così
superbamente e imprudentemente lasciato per buona parte scoperto avrebbe fatto
la gioia di qualunque feticista.
«Sì,
sì.» disseinfilandosi due tamponi nel
naso «Questa sì che è roba buona».
Era così
eccitato che per poco non cadde dal ramo, e posato il binocolo sfoderò la sua
fidata fotocamera con teleobiettivo da 400mm per scattare foto degne della
migliore rivista a luci rosse. Era così acceso dall’idea che impiegò qualche
istante per localizzare nuovamente la finestra giusta, e grande fu la sua già
sovreccitata soddisfazione quando vide il petto della ignota ragazza vicino
come non lo era mai stato.
Stava
per scattare, la bava alla bocca e i tamponi ormai saltati, quando qualcosa
oscurò incomprensibilmente l’immagine; sembrava quasi di stare osservando
l’interno di un lungo tubo, metallico e seghettato.
«Ehi, ma
cosa…».
Per
fortuna era pur sempre un soldato ed un cecchino, e perciò i riflessi non gli
mancavano. Come udì il gracchiare sordo di un tamburo che girava su sé stesso
fece appena in tempo a piegarsi in un ponte da WWE. Il proiettile, uno solo,
non gli perforò la testa, ma sbriciolò il suo gioiello elettronico passandolo
da parte a parte, e lui, per lo spavento, precipitò a terra fracassandosi sul
selciato.
«Ma chi
è che fa scherzi simili…» mugugnò ancora blu per il
terrore
«Non sei
cambiato per niente.» sentenziò una voce dall’alto «Sei sempre il solito
impenitente maniaco».
Peter
spalancò la bocca.
«Questa voce…».
Alzato
lo sguardo, i suoi occhi si posarono su di una lunga e fluente chioma rosso
fuoco, che cingeva superbamente due occhi color smeraldo a loro volta cornice
del volto pulito, ben proporzionato, di una giovane ragazza dai tratti
vagamente anglosassoni.
Aveva il
corpo, su cui dominavano forme generose, coperto da un quadrato di asciugamano,
e in mano teneva un piccolo ma modernissimo revolver ancora fumante.
«Ashley!?».
Era
proprio lei, Ashley Lancaster.
Peter
ricordava ancora l’ultima volta che l’aveva vista, ormai un paio d’anni prima,
nel cortile di un liceo inglese, dopo averla salvata all’ultimo momento da un
attacco di quei Livello E succhiatori di sangue, e per quanto avesse già imparato
a temere il suo carattere talvolta così irruente e di poche parole mai si
sarebbe aspettato di venire accolto a colpi di pistola.
«Criminale!
Ti rendi conto che potevi colpirmi?»
«Figuriamoci.
Uno come te non muore neanche se lo ammazzi».
Rialzatosi,
Peter si arrampicò come un ragno lungo la parete del dormitorio fino alla
stanza di Ashley, che lo guardò con aria di sfida.
«Sono
passati due anni, ma sei sempre lo stesso. Quant’è che ti deciderai a
crescere?»
«Sono io
che faccio le domande. Prima di tutto, che ci fai con una pistola? Non eri
quella che odiava le armi?»
«Un
detective deve sempre avere un’arma con se. E comunque, è caricata con
proiettili speciali anti-vampiro. O forse mi sono dimenticata di avvisarti?»
«Ma
sentila, ogni detective. Ha risolto un paio di casi da scolaretta, e già si
atteggia a nuova Sherlock Holmes.»
«Per tua
informazione, sono stata inviata in Giappone su richiesta del Primo Ministro in
persona. Poi, già che ero qui, ho chiesto a mia madre di fare qualche
telefonata per essere ammessa a questa scuola. Dopo aver saputo tutte quelle
cose sui vampiri mi incuriosiva l’idea di frequentarla.»
«Dì un
po’ ma pensi di essere in uno dei tuoi circoli studenteschi? Qui è pieno di
vampiri.»
«E di
esseri umani. Non vedo cosa ci sia di male.»
«Non
vedo cosa ci sia di male.» ringhiò Peter grattandosi in ogni dove «Questa mi
farà venire l’allergia!»
«Ad ogni
modo, il direttore Cross mi ha incaricato di tenerti d’occhio. Vuole
assicurarsi che tu sia concentrato solo sul tuo lavoro, e ho tutte le
intenzioni di svolgere questo compito con la massima efficienza».
Peter
chinò il capo avvilito. Il suo divertimento era ufficialmente finito.
Però,
per qualche motivo, una parte di lui era quasi felice di aver rivisto Ashley, e
il perché non riusciva proprio a capirlo.
Izumi era in sala musica,
intenta a destreggiarsi con l’arpa celtica.
Emma
gliel’aveva messa in mano perché trovava avesse delle belle dita, lunghe e
sottili, adatte a sfiorare le corde facendole tintinnare giusto quel tanto per
far loro emettere il migliore dei suoni, ma ci era voluto un po’ di tempo per
riuscire a prenderci la mano.
Suonare
le era sempre venuto facile, perché amava la musica e l’aveva coltivata fin da
bambina, anche se non riusciva a ricordare bene il motivo che l’aveva spinta ad
incominciare, visto che nessun altro nella sua famiglia poteva definirsi un
intenditore.
I
consigli di Emma le erano stati molti utili, e grazie a lei aveva potuto
esprimersi come mai nella sua vita, prima nel flauto, sia giapponese che
orientale, poi nel pianoforte ed ora nell’arpa celtica. Ovviamente in nessuno
dei tre era al livello della sua sempai, se non forse
nel flauto, ma Emma non faceva che ripeterle quanto grandi fossero i suoi
margini di miglioramento.
In quel
momento stava eseguendo una partitura che aveva trovato per caso tra una pila
di vecchi fogli già qualche tempo prima, e anche se le ci era voluto un po’ per
memorizzarla ora riusciva ad eseguirla alla perfezione, tenendo gli occhi
chiusi per aiutarsi a tenere il tempo e le note.
Lasciandosi
guidare dal semplice tocco delle corde giunse al termine del testo, e prima
ancora di poter risollevare lo sguardo sentì un singolo batter di mani a
coronamento della sua prima, vera esecuzione all’arpa celtica.
«Sei
brava.» disse una ragazza pressappoco della sua età, forse di un anno più
grande, capelli arancio scuro elegantemente raccolti in una crocchia nobiliare
e occhi blu dolci come quelli di una madre. «Io ho preso delle lezioni, ma non
sono mai stata capace di suonare come te.»
«In realtà
sono ancora solo una principiante.» rispose Izumi un po’ imbarazzata «Devo
impegnarmi ancora molto se voglio sperare di raggiungere un livello appena
decente».
Si alzò
dalla sedia facendosi incontro alla nuova venuta, la quale le porse
educatamente la mano.
Era così
bello guardarla negli occhi: infondeva sicurezza.
«Mi
chiamo Silvye. SilvyeKuznezov. Mi sono appena trasferita.»
«Izumi
Asakura. Felice di conoscerti.»
«Un
giorno mi piacerebbe suonare con te. Sei davvero brava, anche se non te ne
rendi conto.»
«Se
pensi davvero che io sia così brava, aspetta di sentire la mia sempai. Lei è molto più in gamba di me».
Neanche
a farlo apposta in quel momento Emma entrò nell’aula di musica, e prima ancora
di conoscere l’identità della nuova arrivata si accorse subito, solo
osservandola, che doveva essere di origini russe.
«Vengo
dalla Repubblica dell’Est.» disse Silvye stringendo
la mano anche a lei.
Nel
momento in cui la toccò Emma avvertì qualcosa di strano, piegando gli occhi in
una espressione enigmatica, ma cercò di non darlo a vedere.
«Lo
immaginavo.» disse invece «Sai com’è, i russi ormai li riconosco a naso.»
«È stato
un piacere fare la vostra conoscenza. E spero che un giorno mi permetterete di
entrare a far parte del vostro gruppo musicale.» e detto questo se ne andò,
seguita con lo sguardo da Emma
«Qualcosa
non và, Emma-sempai?» domandò Izumi notando la sua
espressione preoccupata
«Sarà
stata solo un’impressione.» tagliò corto lei «Allora? Volevi parlarmi se non
sbaglio. Che cosa c’è?».
Izumi
tergiversò, guardandosi attorno per diversi secondi.
«Ho
riflettuto molto su quello che è successo alle terme, e su quello che ha detto
Nagisa.
Lei ha
ragione. Per tutto questo tempo non sono stata altro che un peso per lui.»
«Un peso
molto piacevole da portare.» ironizzò Emma col suo solito spirito «A giudicare
da come ti guarda.»
«Ha
rischiato di morire per colpa mia! Per proteggermi! Lo capisci, Emma? Ho dentro
di me qualcosa capace di proteggere chiunque mi stia intorno dai vampiri. Io,
una persona come tutte le altre, potrei fare esattamente le stesse cose che fa
Eric. Potrei proteggere le persone, e proteggere me stessa.
Non è
egocentrismo, né ambizione personale. Voglio solo smettere di essere un peso
per gli altri, e fare la mia parte».
Emma
restò un momento sorpresa. Aveva capito da tempo quanto Izumi fosse audace e
caparbia, ma che potesse arrivare a tanto non se lo sarebbe mai aspettato.
«Posso
anche essere d’accordo sulla volontà, ma stai trascurando un dettaglio
importante. Tu non sei Izanagi, ma solo il suo
fodero. Quando si è mai visto un fodero usare l’arma che custodisce? Il tuo
compito è solo quello di tenerla buona per evitare che massacri ogni singolo
vampiro di questo mondo, ma le tue capacità finiscono qui.
Certo,
ti dà indubbiamente delle capacità, come quella di guarire rapidamente da ogni
ferita, ma se lo fa è solo per preservarsi. Perché senza di te, lei
scomparirebbe.
Non la
puoi estrarre. E non la puoi usare».
Di tutta
risposta Izumi alzò il palmo destro, e ad Emma cadde la mascella quando vide un
alonebluastro simile a nebbia comparire
dal nulla tutto attorno alla mano.
Era poco
più di un bagliore, che oltretutto scomparve quasi subito, ma più che
sufficiente a lasciare senza parole persino una hunter navigata come lei.
«Ma cosa…»
«Ha
iniziato a succedere subito dopo il ritorno dalle terme. È ovvio che ogni volta
che qualcuno estrae Izanagi, il suo potere si
rafforza, al punto che ormai il mio corpo non riesce più a trattenerlo.»
«Oh, mio
Dio.» balbettò la Kretzner, per poi sforzarsi di
riacquistare il controllo «E insomma tu che cosa vorresti?».
Di nuovo
Izumi temporeggiò, ma quando tornò a fissare Emma i suoi occhi erano pieni di
una luce che la sua sempai non le aveva mai visto.
«Insegnami
a combattere, Emma-sempai».
Ancora una
volta Emma pensò di aver sentito male.
«Scusa, credo
di non aver capito bene. Tu… vuoi imparare a combattere?»
«Se è
vero che Izanagi diventa sempre più potente man mano
che viene usata, allora significa che più imparerò a controllare il suo potere
maggiore sarà la forza che potrò sfruttare. Hai detto che mi considera solo uno
scudo. Il nostro è un rapporto simbiotico. Finché vivo io, vive anche lei. Allora, se è così, non esiterà a concedermi i
suoi poteri se li userò per difendermi, perché in questo modo difenderò anche
lei».
Emma si
passò una mano sulla fronte come sconsolata.
«Izumi… tu non sei fatta per combattere.» disse quasi con
rassegnazione «Non saresti mai capace di uccidere qualcuno. Non è nella tua
natura.»
«Lo hai
detto tu stessa. I Livello E di fatto sono già morti. Porre fine alle loro
misere esistenze è un atto di gran lunga più umano rispetto al lasciarli
vivere.
E in
ogni caso, io non ho alcuna intenzione di usare questo potere per uccidere. Io voglio
aiutare le persone che ne hanno bisogno. Voglio poter fare la mia parte. Ma privare
qualcuno della vita sarà sempre e comunque la soluzione più estrema, non quella
preferibile. Se esisterà anche una sola speranza di risolvere uno scontro senza
dover privare qualcuno della vita, io non esiterò a correre il rischio».
Emma non
riusciva a capire se quella ragazza fosse molto forte, molto testarda o solo
molto stupida.
Era evidente
che ormai aveva capito che esistevano anche i vampiri pericolosi, eppure una
parte di lei sembrava voler cercare a tutti i costi di convincersi che non
tutti erano malvagi, e che poteva esistere coesistenza.
Probabilmente
Eric si sarebbe tappato le orecchie, ma se lei ci credeva fino a tal punto non
c’era motivo per costringerla con la forza a pensare il contrario.
Giratasi,
si avviò verso la porta, e per un momento Izumi pensò di aver fallito.
«Avanti.»
si sentì invece dire «Vediamo che sai fare».
Izumi
trasalì, poi, al settimo cielo, seguì Emma fuori dalla stanza.
Yori si sentiva sola da quando Yuki aveva lasciato la scuola.
Aveva provato
a convincere sia lei che il direttore che i suoi genitori a far trasferire
anche lei in quel collegio dei monti della Francia, ma per un motivo o per l’altro
non le era stato possibile seguire l’amica, e stando al risultato della sua
domanda di ammissione non le sarebbe stato possibile farlo almeno fino alla
fine dell’anno, il che, rapportando i mesi di studio giapponesi con quelli
europei, le avrebbe lasciato sì e no qualche mese da spendere in compagnia di Yuki.
Troppo poco
per giustificare un simile viaggio, così l’unica scelta era aspettare, nella
speranza che concluso quell’anno di studi Yuki
tornasse.
Nel frattempo
cercava di arrangiarsi come poteva. Si era fatta nominare vicepresidente del
comitato studentesco della Day Class, con Kageyama
alla presidenza, e passava le sue giornate a mediare i vari problemi che
occorrevano talvolta tra gli studenti navigati e i partecipanti al progetto di
scambio.
Ormai erano
quasi otto mesi che quel progetto andava avanti, e bene o male le cose erano
andate sempre bene, ma l’arrivo inaspettato di altre due matricole le aveva
scombussolato i piani.
Trovava impossibile
che due studentesse, oltretutto straniere, potessero riuscire a mettersi in
pari quando mancava meno di un semestre alla conclusione dell’anno.
Da vicepresidente
del comitato aveva intenzione di tenere la media, e con essa il prestigio,
della sezione diurna il più alta possibile, e con la Kreutzner
che ci metteva del suo nell’inanellare votacci uno dietro l’altro non poteva
permettersi altri perdigiorno, soprattutto ora che le prestazioni di Asakura si
erano un po’ abbassate.
I risultati
ottenuti dalle due ragazze agli esami d’ammissione l’avevano tranquillizzata,
ma avrebbe aspettato l’esito dei primi compiti per decidere sul serio.
Neanche a
farlo apposta, attraversando il giardino diretta verso il dormitorio sole Yori si imbatté casualmente in una delle matricole in
questione, Silvye, la ragazza della Repubblica dell’Est.
Era rannicchiata a terra a destra di un viottolo, e le dava la schiena, come
attratta da qualcosa.
In giro
non c’era nessuno, visto che tutte le ragazze si erano già precipitate ai
cancelli della Night mentre i maschi erano corsi nel loro dormitorio a
masticare imprecazioni.
Incuriosita,
si avvicinò.
«Qualcosa
non và?» le chiese, salvo poi scoprire che Silvye
stava guardando solo una farfalla delicatamente posata sullo stelo di una
margherita.
Silvie si
girò verso di lei, guardandola amichevole.
«Scusa.»
si affrettò a dire Yori «Non volevo disturbare.» poi
le cadde l’occhio sulla farfalla.
Aveva le
ali di un colore rosso vivo, quasi sanguigno, e nonostante la presenza di due
umani non sembrava avere alcuna paura, seguitando a lasciarsi guardare senza
quasi muoversi.
«È
davvero bellissima.»
«Solitamente,
le farfalle sono considerate belle e passionali. Agli occhi dei più sono
sinonimo di bellezza, sensualità, sfuggevolezza. È la manifestazione dell’effimero
insito in ogni cosa bella. Tutto ciò che è bello, come le ali di una farfalla,
non dura.
Sarà anche
per questo che, in alcune culture, la farfalla è associata alla morte. Per il
popolo Emishi le farfalle erano le anime delle
creature che attendevano il momento di nascere, ma nella cultura cinese esse
sono in realtà la manifestazione delle anime dei morti».
Silvie si
alzò, volgendosi verso Yori, proprio un attimo prima
che quella delicata farfalla fosse ghermita e divorata da una mantide religiosa
comparsa dal nulla alla base del fiore.
C’era
qualcosa di strano, di magnetico, nei suoi occhi, così chiari e allo stesso
tempo così misteriosi. Yori si rese ben presto conto
di non riuscire ad ignorarli, né, per quanto ci provasse, di non guardarli. Era
come se fossero l’unica cosa esistente in tutto l’universo, l’unico elemento
del creato degno della sua attenzione.
Così come
aveva perso il controllo dei suoi occhi, nello spazio di poco tempo Yori si accorse di aver smarrito anche quello del suo
corpo. La cartellina che aveva in mano cadde a terra, inzuppando dell’umidità
dell’autunno i fogli che si sparsero tutto attorno, la sua bocca si piegò in
una espressione come di stupore, il tutto mentre Silvye
si avvicinava lentamente a lei continuando a guardarla.
«La
mente umana non è poi così dissimile da una fragile e leggiadra farfalla.»
disse carezzandole una guancia «Così meravigliosa, ma allo stesso tempo così
fragile ed effimera.» e detto questo avvicinò le sue labbra a quelle della
ragazza, sfiorandole leggermente, un tocco appena percettibile e fugace come un
bacio rubato ad un’amante fuggevole.
Yori sobbalzò,
ma non si lamentò, né cercò di rifuggire quel contatto mai sperimentato.
Nello stesso momento, Kageyama
procedeva a passo spedito verso il dormitorio luna, con in mano un mazzo di
fiori freschi.
Il brutto
incidente accaduto alle terme gli bruciava ancora, così come gli bruciava l’essere
stato considerato un pervertito guardone dalla sua dolce Ruka.
Voleva farsi
perdonare, e per riuscirci aveva dato fondo al suo fondo cassa, pagando oro per
poter ottenere il bouquet più sontuoso e sfavillante possibile.
Meditava
di andare da lei, porgerglielo e scusarsi, nella speranza che fosse sufficiente
per farsi perdonare.
Non avrebbe
negato quello che aveva fatto, primo perché sarebbe stato inutile, e secondo perché
sapeva di essere nel torto, visto che nessuno lo aveva costretto a sbirciare in
quel buco.
Era talmente
preso dalla paura di quello che lei avrebbe potuto dirgli o non dirgli che
quasi non si accorse di Yori, immobile come una
statua a lato del vialetto che stava percorrendo, un po’ nascosta tra gli
alberi.
«Yori, che ci fai qui? Pensavo fossi già tornata al
dormitorio».
Fece a
malapena in tempo ad avvicinarsi, che quando non le era ancora a portata di
braccio una seconda figura si palesò da dietro di lei, l’espressione
amorevolmente sinistra e le labbra piegate in un sorriso.
Aveva davvero
degli occhi bellissimi.
Nota dell’Autore
Eccomi!^_^
Sono qui!
Sono tornato!
Beh, in effetti è stata un’assenza più
breve rispetto all’ultima, ma un’assenza ciò non di meno. Il che significa che
devo in ogni caso scusarmi, nella speranza che sia sufficiente.
Allora, che ve ne pare?
Con l’arrivo di queste ultime tre figure
abbiamo ormai abbondantemente superato la metà della vicenda, e ci avviamo a
grandi passi verso il clou della storia, fatto di eventi pirotecnici, un po’ di
sano splatter e tanta, tanta azione.
Ancora per un po’ non accadrà nulla di
tutto questo, ma tranquilli, non sarà un’attesa molto lunga.
Ringrazio tutti coloro che seguono questa
storia, nella speranza che le lunghe attese non risultino troppo sfibranti.