Memorie di un Tabarro: a Ritroso nel Passato, nella Memoria di Hoel (/viewuser.php?uid=86957)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Antifona d'Ingresso ***
Capitolo 2: *** Le Tre Figlie di Eva ***
Capitolo 3: *** Piogge di Marzo, Piogge d'Ottobre, Piogge di Vita ***
Capitolo 4: *** Adeste Fideles, cinque minuti prima ***
Capitolo 5: *** Gala ***
Capitolo 1 *** Antifona d'Ingresso ***
B’jour
a tutti!
Voilà una
nuova storia della sottoscritta, l’ennesimo mio esperimento di stile di
scrittura (adoro sperimentare, oh yes) e trattando di un tema che sinceramente adoro:
le saghe familiari. Sì, mi piace molto spettegolare sulle vicende di una o due famiglie,
raccontarne gli altarini e intrecciare le storie di quasi ciascun componente e
il fandom di Naruto me ne offre due di molto interessanti … *risata maligna*
Ovviamente,
essendo un’AU, ci saranno delle inesattezze sull’IC e, proseguendo, delle vere
e proprie modifiche temporali per cercare di conciliare manga e fic. Ai puristi
chiedo già venia.
Inoltre,
chiedo di essere pazienti per i primi capitoli di questa storia, che potrebbero
parere molto confusionari, ma che in realtà sono essenziali per capire l’intera
vicenda, insomma, gettano le basi, introducono l’intero intreccio. In ogni
modo, una piccola dritta ve la concedo, ovvero che la prima parte della storia si
svolge nell’Ottocento, pur essendo narrata a ritroso, nel Novecento. Man mano
che proseguiamo, nelle note introduttive vi fornirò di ulteriori informazioni
atte a non scandalizzarsi troppo per i contenuti, che, cogli occhi di noi,
uomini e donne del XXI secolo, potremmo concepire come indigeribili. Tuttavia, non
scriverò nel dettaglio scene troppo forti, le lascerò in innuendo come mio
solito.
Vi saranno,
soprattutto nella prima parte della storia, molti elementi del “magico”: non
aspettatevi, però, robe alla Harry Potter o Twilight o abracadabra, per “magico”
intendo il sovrannaturale della superstizione, delle credenze popolari e
talvolta ancora pagane legate ai cicli della natura, alla linea labile tra la
realtà e la fantasia. Ma non
compariranno troppo spesso, né saranno così intrusive. Forse. *seconda risata
maligna*
Bien,
non credo di aver altro da dire, se non di augurarvi buona lettura e ringrazio
in anticipo coloro che leggeranno questo mio nuovo sghiribizzo di fanwriter!
Bisous,
H.
*********************************************************************************************
“L’Amore non invecchierà nei ricordi”
(“A Celtic Tale”, M. & J.
Danna)
Antifona d'Ingresso.
Colui
che fin dalla tenera infanzia ho sempre appellato il Benefattore – e che solo in queste straordinarie quanto
tremende circostanze scopro essere mio cugino primo – mi nascondeva spesso,
nelle notti in cui l’insonnia cronica m’impediva di bearmi del giusto riposo,
sotto un tabarro enorme, pezzato di stoffe di ogni sorta e dai diversi colori,
un savio testimone dei tempi perduti e di molteplici storie zittite, che mio
cugino estrapolava dall’ingarbugliata matassa dell’oblio, delineandole con
pennellate linguistiche estremamente vivide, sebbene sconnesse nella linea temporale.
E quando io gli ricordavo in uno stizzito rimprovero di mantenere una certa
logica negli eventi, la mia Sharazade si schermiva, adducendo come spiegazione
che lui non poteva controllare i ricordi del tabarro: essi gli venivano
presentati così, a seconda del suo capriccio.
“Inoltre”,
aggiungeva, infilando la testa dentro il rigido bavero rialzato. “Non puoi
riordinare le divagazioni di un tabarro vissuto per oltre duecento anni!”
E
adesso, che sono in esso avvolto per celarmi ancora una volta dalla realtà
beffarda e crudele, posso sentire i sussurri del tabarro, le sue maliziose
confessioni e le immagini nitide di un passato inalterato dalla convenienza,
dalle amarezze, dalle nostalgie e dai reciprochi rancori. Aspettando qualsiasi
fine mi sia stata riservata assieme a lui e al mio neonato nipote, ascolto di
nascite, di amori, di pazzie, di morti assurde e logiche e di odi tremendi in
questo monologo incredibile; ascolto di nomi ora a me noti ora nuovi, che però
possiedono la vaga famigliarità delle anime incatenate nel processo della
metempsicosi. E anche coloro che io dovrei conoscere, mi appaiono, grazie ai
tocchi romanzeschi di questa pittura da aedo, personaggi dai contorni eroici e
al contempo banali, figure eterne che la vita reale aveva svilito e maltrattato,
annientandoli, e che la memoria caparbia del tabarro mi restituisce epurate dai
pregiudizi della storia a chiunque abbia voglia di ascoltarlo.
Perché
il tabarro, nella sua dualità quasi femminile, avvolge e protegge chi vi si
rifugia, ma allo stesso tempo nasconde e svela in un teatrale svolazzo le
nefandezze che ipocritamente non si vogliono vedere, che non devono essere
viste.
L’eco
dell’ennesimo bombardamento mi distrae per un istante dai fenomenali racconti
del tabarro e allora io lo stringo, chiudendo gli occhi e invocando la sua
protezione dall’apocalisse che si sta scatenando al di là della sua stoffa
variopinta, che divora simil Saturno i suoi stessi figli, ghermendoli anzitempo
e trascinandoli a sé. L’immagine della morte che mi trascinava all’inferno mi
ha perseguitando da molti mesi, specie dopo l’arresto di mio fratello, del suo
amico e della sorella gemella di quest’ultimo e del loro conseguente, seppur in
diversi luoghi e modi, decesso. Lo vedo chiaramente, l’inferno, così com’era
dipinto sulla parete dell’entrata interna nella chiesa di Santa Lucia, un
affresco pennellato dall’allucinata fantasia di un anonimo seicentesco, dove il
Cristo e la corte celeste osservavano leggermente scocciati il bailamme d’anime
dannate scatenatosi sotto i loro santi piedi, una vera bolgia di torture così
macabre che oggigiorno si sarebbero potute additare come le perversioni sadiche
del pittore, il tutto sotto lo sguardo pasciuto da libidinoso magnaccia di un
satana che rassomigliava piuttosto ad un dio Pan biscottato dal sole caraibico.
Nel mezzo, gli angeli ineffabili sollevavano le anime per la gola, per la
pancia, per le ascelle e qualsiasi altra parte del corpo dove le loro forche
arrivassero, come i contadini facevano ammucchiando i covoni di fieno. Questo,
signori, era l’inferno che da piccoli ha spaventato ogni generazione di
Mokuton, nel distretto di Konohagakure. Nessuno ne è stato esente, nemmeno io
che spesso mi sono dichiarato insensibile alle suggestioni perverse di un
pittore di cui s’ignora perfino il nome. Eppure, poiché io le torture le ho
vissute e ad esse sono, grazie al Benefattore, sopravvissuto, non posso non
ripensare a quegli angeli campestri che inforcano le anime malvagie e nel
delirio del dolore e del refrain: “Dov’è il tuo complice?” oppure “Chi sono i
tuoi compagni?”o “Dove si trova la vostra base segreta?” o “Dicci chi è il
capo!” e dei miei “No, no, no, no” senza senso, perché ad un certo punto
neppure io sapevo che cosa stessi negando e per che cosa stessi soffrendo come un
cane, nella confusione generatami dal cervello scombussolato dalle scariche
elettriche, in quel torpore della memoria fatta a brandelli, ebbene in
quell’istante l’inferno della chiesa di Santa Lucia s’animava ai miei occhi
forzatamente ciechi e le facce insulse di quei manichini seicenteschi
assumevano i più nitidi contorni di mio fratello e dei due marchesini deceduti,
mentre la grande statua della vergine martire – ora me la ricordo – coi suoi
occhi strappati e offerti grondanti di sangue e nervi alla nostra vista, si
trasformava nel prozio, la cui morte relegò il nonno nella pazzia e nella torre
campanaria, dove visse e morì fino a qualche giorno or sono ridendosela
letteralmente come un matto.
“Non
preoccuparti”, mi conforta colui che scopro essere mio cugino, cingendo col
braccio il sottoscritto e il piccolo Menma. Forse sto tremando sotto il
tabarro, non so, non sapevo potesse leggermi nei pensieri, anche se più volte
ha dimostrato questa sua valentia. “Sopravvivremo. Non sussiste altra scelta;
lo dobbiamo ai nostri morti.”
Perché
queste parole mi suonano così famigliari? Le ho già sentite? Qualcuno prima di
me le ha già sentite? Il tabarro freme, annuisce.
Ho
paura di morire, cugino, di morire impiccato col filo di ferro o magari davanti
ad un plotone d’esecuzione, dopo avermi nuovamente torturato fino a rigirarmi i muscoli e
frantumarmi le ossa. Per gli invasori si è tutti seguaci del Dittatore, anche
chi ha sofferto per causa sua, come successo a te, a me. Inoltre, poiché so di
aver molto peccato, pur nei miei idealismi, temo follemente di finire
all’inferno prima di poter fare ammenda, nell’inferno barocco della chiesa di
Santa Lucia di Mokuton, distretto di Konohagakure.
E
ancora mi risponde il tabarro, o meglio, per spazzare via questi miei timori
spirituali evoca dal suo magazzino incantato una donna, la mia bisnonna, eterna
e serena nel suo abito rosso pomodoro dai bordi lordi di fango, le babbucce di
corda ai piedi e i capelli color melanzana raccolti da una cuffietta un po’
scolorita, un tempo giallo canarino. Sta accarezzando la zazzera arruffata di
un ragazzino che mi assomiglia vagamente- questo io vedo – un moccioso dalle
gote infiammate per l’ennesimo rimbrotto moralistico del vecchio prete e magari
pure per uno schiaffo ammonitore.
“Ma chi
ti credi di essere, miser puer?”,
tuonava l’anziano, mulinando avanti e indietro il braccio scimmiesco, che pareva più lungo del solito a causa del
bastone puntato contro il petto del preadolescente. “Solo perché ti concedono
di giocare e studiare col padroncino, tu pensi di essere un suo pari? Peccato
di superbia, stultus infelixque,
peccato di superbia! Servo sei nato e servo creperai, così come fece tuo padre
e suo padre prima di lui e come faranno
i tuoi figli e i loro figli, in saecula
saeculorum. Questo è il destino per cui Domine Iddio ti ha fatto nascere e
contestarlo è sovversione, il chaos, la fine dell’ordine! E tu vuoi che l’infernus – e indicava dalla porta l’incubo
metafisico dell’anonimo – venga in terra? È questo ciò che vuoi, miser puer? Allora, che rispondi?”, s’inumidì le labbra secche dal tanto
parlare, stringendole piccato alla vista dello sguardo sì basso del ragazzino,
ma affatto penitente come s’aspettava: al contrario, la bocca serrata caparbiamente dimostrava una voglia
matta di protestare, di piangere e mandarlo a quel paese a suon di sacramenti. “Oh, Kiyora? Com’è che
non risponde? Ma capisce? Benedetto Signore, questo è un indemoniato! Hai
capito, Madara? Sei un indemoniato, un saraceno, un miscredente e finirai
all’inferno, lo sai? All’inferno!” e indicava quella demoniaca mietitura, che
aveva turbato i sonni del giovinetto fin dai tempi della sua nascita.
Ecco:
la bisnonna si alzò dalla seggiola in fondo alla stanza intonacata di bianco e
santità raffazzonata, avanzando verso il figlio ritto davanti al prete, non
dissimile da un eretico al tribunale dell’inquisizione. “Sì, reverendo, ha
capito. È testardo, mica scemo”, dichiarò lei, allargando le braccia coperte
dallo scialle verde smeraldo. Subito, il ragazzino l’abbracciò, celando il
volto nel suo ventre rigonfio di donna incinta per non tradire le lacrime amare
dell’umiliazione. “E tu sciocchino, di che ti preoccupi? La vita è già un
inferno”, sentenziò sardonicamente solenne, sorda alle invettive del parroco
che bollava anche lei come indemoniata, per la parcondicio, perché se la cagna
è ammalata, il cucciolo è moribondo. “Esatto, un fottuto inferno. Per questo,
da morti, si va tutti in paradiso.”
I passi
di mio cugino pongono fine a questa prima dissolvenza, mi par d’essere quasi la
Piccola Fiammiferaia, solo che al posto di fiammiferi io accendo ricordi, ma
sempre con essi mi scaldo. Però non desidero perderli, non mi accontento di
quell’effimero calore destinato a svanire al singolo rumore della realtà
omicida. Il silenzio regna sovrano, ergo non c’è nessuno, ergo mi azzardo a
stendere una mano oltre il tabarro – com’è fredda e tagliente l’aria! – e
reperisco un pezzettino di carta, un lapis lo trovo nella mia tasca, quel che
mi serve per fissare questi ricordi, queste vite che mi confortano nell’ora del
buio assoluto.
Ora mi
puoi dettare, tabarro. Non importa l’ordine, purché tu non taccia mai, mai e
poi mai, finché non tornerà il Benefattore e ci stringeremo in un misero
trifoglio umano. Schiarisciti la gola, ma non farmi morire d’inedia; solo un
pazzo darebbe ascolto ad un mantello, ma denunciare i propri parenti e amici
alla polizia segreta è cosa da pazzi, accettare e seguire le vanità del
Dittatore è stata la pazzia per cui si pagherà amaramente, così come pazzia
sono state le atrocità compiute in nome di alti ideali per celare i vili
tornaconti personali, e pazzia, sì, la più grande pazzia è di nascondersi da
coloro che dovrebbero essere i liberatori e che invece distruggono più dei
pazzi di questo maledetto paese, quindi non mi si giudichi pazzo se io scrivo
questi racconti sostenendo di averli sentiti da un tabarro. Ci sono pazzie
peggiori, la mia è solo eccentricità di fuggitivo e chissà, forse un giorno
Menma, cresciuto libero dalle nostre ombre, troverà queste carte e potrà
giudicare obiettivamente, l’unico sano poiché troppo piccolo per impazzire via
contagio.
L’antifona
d’ingresso è finita, scriviamo in pace per scacciare l’angoscia.
Amen.
To be
continued …
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Le Tre Figlie di Eva ***
B’jour
a tutti!
Eccoci
qua col primo e vero capitolo di questa fic; già immagino, infatti, che il
prologo abbia lasciato leggermente perplessi, confusionario com’era.
(Volutamente confusionario, eh!). Speriamo che, adesso che ci inoltriamo nella
storia vera e propria, i dubbi incomincino a dissiparsi.
Come
scritto nel prologo, gli eventi sono ballerini, si va avanti e indietro, come
quando uno ti racconta una storia, interrompendola di tanto in tanto con aneddoti
e digressioni. È un mio esperimento, vediamo come riesce.
Inoltre,
poiché cerco sempre di adattare la mentalità dei personaggi all’epoca descritta
– seppur tracciata a grandi linee – so che alcuni pensieri potrebbero parere
sciovinisti o poco politically correct: ebbene, sappiate che l’autrice non
condivide tali pensieri, s’immedesima solo ed esprime ciò che una persona dell’Ottocento/Novecento,
a seconda della sua classe sociale, avrebbe detto o fatto. Così come i
pensieri, anche gli atteggiamenti dei personaggi, che spero di rendere il più “grigio”
possibile, né santi né peccatori, uomini e donne con pregi e difetti.
A parte
l’essermi reinventata la carta amministrativa di “Naruto”, ho anche dato al
Regno di Hi (il previo Hi-no-Kuni) una lingua, un esperanto un po’ imbastardito
da altre lingue. Vi sarà anche l’uso del francese, perché si sa, quella era la
lingua dell’aristocrazia, dei diplomatici, degli intellettuali nell’Ottocento
europeo, più dell’inglese che svolgeva funzioni più commerciali. Ma non
preoccupatevi: saranno paroline di qua e di là, facilmente intuibili dal
contesto! Non abuserò di bilinguismo!
Un
sentito ringraziamento ai miei lettori e coraggiosi recensori, in particolare
a: Mary_Uchiha e Sagitta72.
Vi
auguro buona lettura,
H.
P.S. Per
il titolo, “Figlie di Eva”, mi sono ispirata “patronimico” usato nelle “Cronache
di Narnia”, di Lewis.
***************************************************************************************************
Memorie di un
Tabarro: a Ritroso nel Passato, nella Memoria.
Parte Prima:
Genesi
Capitolo Primo: Le
Tre Figlie di Eva.
In
principio ci furono tre donne.
No,
nessun Adamo, nossignore, di uomini ce ne saranno fin troppi in queste memorie,
per questo incominciamo con Eva, che fa una figura più onorevole. Eva e le sue
figlie, che il tabarro chiama Najtine, Kiyora e Anise.
Di
Najtine non si sa un granché, pur essendo
stata la padrona del tabarro – almeno quando fece il suo ingresso in questo
dramma corale. Infatti, esso è restio a svelare le sue origini o a spiegare da
dove provenisse la sua saggezza epicurea, la sua straordinaria longevità ma
soprattutto la misteriosa capacità di fissare i ricordi cucendoli in toppe
arlecchinesche in quella che lei soleva appellare Mia bebo, la mia creatura. La quale mi concede soltanto una parca
descrizione di lei: Najtine aveva i capelli blu con sfumature verdi, che
portava sempre sciolti, incurante del caldo, dei pidocchi e delle forbici del barbiere
e che neppure la vecchiaia avrebbe alterato, umiliando quell’acquatico riflesso
in un grigio di riva sassosa. Alcuni la chiamavano strega, altri santa, altri
gitana, altri ancora curandera e siccome era tutto questo, a Mokuton e nel
mondo lei era la Fata Najtine, sotto il cui prodigioso tabarro si sarebbero
intersecati i destini di due famiglie.
Kiyora
giunse a Mokuton con Najtine.
No, non
era sua figlia, bensì una triste mocciosa dodicenne che la donna, mossa da una
“trascinante” pietà, aveva raccattato durante il suo lungo peregrinare, non
riuscendo appunto a separarsi (letteralmente) da quello sporco scheletro
ambulante che, pur di mangiare un pezzo di pane, s’era aggrappato al suo tabarro,
lasciandosi trainare da esso per la calle, finché non si accorse di aver ormai
da un pezzo abbandonato la sudicia città cannibale e di trovarsi in piena
campagna. Lo dedusse dai vapori asmatici di un misero fuoco attizzato quasi dal
nulla, sotto le cui braci si cuocevano delle patate recuperate chissà dove, ma
di sicuro allettanti nella loro farinosa consistenza. Il vento ottobrino, poi,
favoriva quella naturale acquolina e la piccola mendicante, pur di non lordarsi
il mento già di suo sudicio, morse ferocemente un lembo del tabarro – scorro i
polpastrelli alla sua ricerca; trovato! – spostando febbrilmente avida gli
occhi dalle patate abbrustolite a Najtine, supplicandola di averne almeno un quarto
da masticare.
“Bene, bene,
malgranda mostroccio”, si scrollò la
fata quel sacchetto d’ossa dal mantello, invitandola invece a rintanare la sua
schiena ossuta dentro di esso. “Che farai ora? La urbeto è lontana, lo sai.”
“Non ci
torno”, replicò la giovanissima senzatetto, cui gli stenti e le umiliazioni
avevano già corrotto l’anima, rendendola sfacciatamente schietta. “Non torno
dove crepo di fame.”
“Chi
sono tuo padre e tua madre?”
“Non ho
né l’uno né l’altro.”
“Chi ti
ha dato questo vestito?”
“Qualcuno
dalle … delle … insomma, quel posto dove danno da dormire (pagando) e
all’occasione da trangugiare qualche merda di sbobba (per aiutare noi
sventurati, dicono) ma dove in
realtà, mi creda, si lavora come cani
finché non si schiatta come tali e poi ti buttano nelle fogne a marcire coi
topi … come si chiama ‘sto posto, ecco, avrà capito, no?”
Evidentemente
a Najtine non importava un fico secco del nome specifico di quelle vergognose
case di lavoro, da cui la ragazzetta doveva essere una sfortunata habituée in
odore d’evasione compulsiva. Piuttosto, volle sapere altro. “E come ti
chiamavano lì?”
“Kiyora.”
“Kiyora
cosa?”
La
giovinetta si grattò quella formidabile matassa di capelli color melanzana
arricciati pulciosamente tra di loro, aggrottando la fronte forse alla ricerca
di un cognome degno delle sue incerte origini o forse – cosa assai più
verosimile – nel disperato tentativo di non annusare il fragrante odore di
patata cotta alla brace e di salivare di conseguenza. Strabuzzò quindi gli
occhi troppo grandi dalla piacevole sorpresa di trovarsene una sotto il naso,
infilzata libidinosamente su di un bastoncino, dando così modo a Najtine di
scoprire quanto grande fosse la bocca della marmocchia, che in effetti spalancò
certe fauci da cerbero, inghiottendo mezza patata, con la buccia, in un sol
boccone.
“Bah,
poco male. Te lo darò io il cognome e sarà Yōsei, perché ad una fata ti sei
accodata, a Najtine la Fata. Che ne dici?”
Kiyora,
in tutta onestà, non sapeva cosa dire, anzi, non aveva capito proprio nulla di
quel battesimo pagano e l’unica cosa che le importava era la patata che le sue
mascelle intorpidite stavano maciullando alacremente. Buttò giù silenziosamente
l’ultimo pezzo, leccandosi le dita lerce una per una e magari ripassando là
dove avvertiva indugiarvi il sapore del tubero. A operazione completata, si
leccò le labbra e la punta del naso, fissando la fata piena d’aspettativa.
Prontamente,
Najtine le cedette la seconda patata. “Sto andando a Mokuton, nel distretto di
Konohagakure, nel Regno di Hi. Lo conosci?”
“No”,
sbiascicò a bocca piena la ragazzetta, la cui realtà si circoscriveva al
capolinea del tram 9, ergo la fine della Città Libera di Amegakure e l’inizio
dell’inesplorata campagna. “Cosa c’è lì?”
“Niente
per me. Un futuro per te.”
“Se per
futuro lei mi promette un vestito nuovo, un paio di scarpe comode, uno scialle,
un tetto sopra la testa e almeno due pasti caldi al giorno, beh, mi può anche
portare nel quinto culo del mondo!”
“Non
sarà necessario recarsi così distante”, addentò la fata la gustosa patata. “Il
mondo non è poi così grande, anzi è piccolo. E vedrai come il Regno di Hi sia
ancora più piccolo e Mokuton una cacca di piccione a confronto.”
Parla sempre a sciarade?, cogitò perplessa la dodicenne
udendo questo e pulendosi pensierosa gli spazi dei denti con l’unghia del
pollice. Non che le dispiacesse, risolvere enigmi preveniva la stupidaggine - o
similia per quel che si ricordava - ma quella bizzarra creatura imperturbabile
le si rivolgeva con fare da profetessa e il futuro aveva sempre crucciato non
poco la liscia fronte della mora, indice di rughe precoci. Perciò, alla quarta
patata, chiese a Najtine spiegazioni col medesimo tono scettico e al contempo
pieno di soggezione di coloro che cercavano il responso della Sibilla Delfica o
Cumana, ricevendo come risposta un invito a darle un’opinione sul suo neoacquisito
cognome; allora Kiyora, più disorientata che mai, lo pronunciò con la medesima
ieraticità, assaporandone il suono e, piaciutole subitaneamente, si risolse seppur
un po’ titubante a fidarsi comunque della fata e di seguirla in quel posto che,
a orecchio, le ricordava il muco verde dei poppanti bavosi.
Fece
bene? Chissà, forse che sì, forse che no, ma intanto a Mokuton ci arrivò e
questo a fine ottobre, commettendo una gaffe o errore (a seconda dei punti di
vista), le cui conseguenze avrebbero influenzato per sempre l’esistenza della
mia bisnonna.
Mi sa che dovrò insegnarle un
po’ di buone maniere, fu
l’allora primo pensiero della fata mentre incrociava le braccia al petto,
scuotendo il capo alla vista di Kiyora che, in segno di massimo spregio, sputava
sulle scarpe di tale Natsumi tra gli sghignazzi generali.
(Per la cronaca: è il tabarro che,
generosamente, mi concede un qualche pensiero di Najtine sulla sua protégée,
altrimenti non riuscirei ad immaginarne neanche uno).
Le due
viaggiatrici erano appena arrivate a Mokuton, dopo una settimana di marcia
intensa e di patate e anguille affumicate e rane fritte e di conversazioni più
o meno atte ad una reciproca conoscenza o sopportazione, e già la pestifera
mocciosa si faceva una reputazione - negativa che altro? - e sosteneva,
appunto, di aver ricevuto un pestone sul suo piedino nudo – un lividaccio, sì
sì - dalle incaute babbucce di corda di Natsumi Uchiha, che la terza gravidanza
aveva reso assai antipatica al prossimo per via dei suoi sbalzi d’umore. (Una
vera bestia, oh che bestia!) Calando qualche santo dalla sua corte celeste,
Kiyora aveva inseguito la donna e, le mani ai fianchi, le aveva berciato
dietro:
“Ma
dica, lei, le dolgono così tanto le scarpe, che le va ad ammorbidire sui piedi
altrui? No perché, hundina, mi
permetta d’aiutarla!”e, raschiando ben bene la gola si liberava di tutto il
salivume accumulato durante il viaggio sull’urlante donna, nel frattempo che i
presenti, schiamazzando divertiti,
esclamavano paonazzi in volto dal tanto ridere:
“Ohé ,
Tajima, t’innaffiano la moglie! E magari stavolta il pupo ti viene con un
innaffiatoio così!”
“Akcidentoj! Che getto!”
“Manco
un lama sputa così!”
E se
Najtine non avesse avuto la prontezza di riflessi di pigliare Kiyora per il
braccio e di trascinarla a viva forza sotto il tabarro nella sua nuova casa, di
certo due o tre o mille ceffoni da parte di una livida Natsumi Uchiha non
glieli avrebbe risparmiati nessuno, tantomeno un sonoro calcione sulle natiche
da parte di suo marito Tajima, il quale in futuro avrebbe lo stesso avuto modo
di far una particolare conoscenza di quelle natiche e sicuramente non per
calciarle.
Comunque
sia, lo scalpiccio degli zoccoli del cavallo di uno dei collaboratori
dell’amministratore interruppe l’allegro spettacolino: “Via via, razza di
fannulloni! Al lavoro! Al lavoro! I campi non si lavorano da sé!” e schioccò la
frusta giusto per sottolineare il suo scarso senso dell’umorismo.
“Io
l’ammazzo, quella putina, io
l’ammazzo quant’è vero Iddio!”, digrignava nel frattanto i denti Natsumi,
levandosi stizzita le babbucce vischiose di saliva catarrosa. “E tu”, sibilò al
marito, che continuava a seguire con lo sguardo le due neoarrivate. “Non dici
nulla? Non fai nulla? Mi sputano sulle scarpe e tu lasci correre?”
“Stai
buona, che vuoi che faccia?”, rispose per lui un’altra sua parente. “Che pigli
a calci in culo un merdoso sacco di pulci? Che magra figura ci farebbe! Nah, se
ne andranno via prima degli Ognissanti, vedrai!”, la rassicurò, cingendole le
spalle col braccio e solo perché quelle erano l’unico paio di babbucce che
aveva impedì alla gravida donna di lanciarle lontane, schifata.
Contrariamente,
però, alle ottimistiche previsioni di quest’anonima parente, Najtine e Kiyora
avevano al contrario ogni buonissima intenzione di restare e restate ci
sarebbero, assistendo così all’arrivo della nuova padrona di quelle terre tanto
vaste quante dimenticate da Domine Iddio, come soleva definirle il prozio.
E non
si creda, poi, come succede a certe eroine dei feuilleton cui tutto è concesso
e perdonato, che Kiyora non avesse pagato il fio per la sua liquida bravata e
che anzi fosse stata acclamata da un coro di entusiasti brava! bravissima!
ancora!, visto che, pur avendo suscitato l’ilarità generale, far divertire i mezzadri
di Mokuton non richiedeva infondo un enorme sforzo. Nella casetta di mattoni ai
margini del fiume Naka, i cui tortuosi arabeschi di percorso passavano per le antiche
paludi e sfociavano nel Golfo di Uzushiogakure, Kiyora se le prese, Dio quante
se ne prese! Il salvataggio di Najtine l’aveva preservata dalle sberle altrui,
non dalle sue, che elargì con esuberante prodigalità.
“Avrai
certamente avuto le tue ragioni, deliktula”,
ribatteva ella tra un ritmico tambureggiare di chiappe. “Ma lo stesso non si fa; giocare ai gradassi non porta a
niente, ti crea inutili inimicizie. Pertanto, domani ti recherai dalla
sputazzata e accetterai ogni ceffone e insulto e calcio in culo che lei ti
darà.”
“Al
diavolo, io non ci vado!”, protestò orgogliosa la preadolescente,
massaggiandosi il deretano rosso e pulsante.
“Ci
andrai, eccome se ci andrai.”
E
Kiyora ci andò, presentandosi scura in volto alla porta di casa di una
stupefatta Natsumi Uchiha, ch’era venuta ad aprila barcollando nella sua
grossezza di orsa e in compagnia dei suoi due marmocchi, un maschio e una
femmina, attaccati con una mano alla sottana, l’altra utilizzata o per suggersi
il pollice o per scaccolarsi il naso. Ovviamente, la donna si scaldò
immediatamente le mani callose sulle guance della ragazzetta che sopportò
stoicamente, invitandola poi a prendere un caffè e dei biscotti – le fave dei
morti, tipici del periodo degli Ognissanti – dopodiché la schiaffeggiò ancora,
accettò commossa e piangente il regalo di riparazione fornito da Najtine (un
paio di scarpe di cuoio tirate fuori il tabarro solo sapeva dove) diede un
ulteriore scappellotto alla zazzera nera dai riflessi violacei di Kiyora e,
sempre piangendo, le regalò un nuovissimo scialle verde smeraldo - Povera
infana! Qui l’inverno uccide! - un caldo abbraccio di lana, forse un regalo
del marito, che la ragazzina avrebbe un giorno imbrattato di rosso maledetto,
usandolo per nascondere il corpo mutilato del suo ultimogenito, il mio prozio.
Ma
allora Kiyora non poteva nemmeno lontanamente immaginarlo e pensò, invece, che
la gente si sbagliava a giudicare antipatica Natsumi “Akvumita” Uchiha, la
quale al contrario si rivelò essere una massaia piuttosto simpatica, resa
gonfia e irascibile dall’ennesima gravidanza che le deturpava il viso in
macchie e le ingrossava le gambe in due bluastre zampe d’elefante, ma che soprattutto
digrignava i denti dalla fatica di dover provvedere ai due moccolosi che non le
davano mai requie e peggio di loro era suo marito, perché lui tornando dal
lavoro poteva riposarsi, ne aveva il sacrosanto diritto, diceva, come se lei
facesse la gran signora e poltrisse tutto il giorno su di un morbido canapè,
no, no, lei si dannava nei campi come lui e magari più di lui perché doveva mantenere
pulita la casa e anche i bambini li voleva meno sporchi di quelli dei vicini.
“Che ci vuoi fare, non stanno mai fermi, li pulisci, ti volti e sono già lerci,
ma no, nessuno lo capisce questo, mia madre sostiene che è nostro destino,
china il capo e obbedisci, sei donna e te lo meriti e allora io chino il capo e
bado alla mia casa, perché non sia mai che mi diano della barbona e questo
senza mai un lamento, capisci?, mai un lamento e se ogni tanto, Santissimo
Domine Iddio!, ti viene da sbottare e dire a quel disgraziato del marito: “E
mo’ lasciami un po’ respirare!”, no, sei antipatica! Se per stanchezza dai
delle oche a quelle pettegole delle comari del paesino – sei cornuta! sei
cornuta, sghignazzavano le bastarde – ecco se solo t’azzardi a chiamarle per il
loro vero nome sei un’antipatica e un’isterica e poi pesti per sbaglio il piede
ad un’accattona e questa ti sputa addosso, ma dico, mi volete morta? E allora
creperò, statene certi, sì creperò, così sarete contenti! E mio marito sarà il
più contento di tutti, ché da quando ha scoperto che in passato l’ho
cornificato mio malgrado col padrone mi tratta peggio di una cagna. Ma che ha
da rimproverarmi, insomma? Come se si potesse dire di no al padrone! Mi avrebbe
cacciata, Kiyora, oh sì, me e la mia famiglia e poi chi avrei ringraziato?
Sarei finita a battere il marciapiede, no, no, meglio così, ci ho anche
rimediato qualche vestito nuovo e soldi per costruire una casetta migliore,
eppure quella carogna di Tajima ancora mi fa il muso duro e controlla ogni
giorno il viso dei nostri, eh, nostri!, figli per scorgere una possibile
rassomiglianza col padrone. No, Kiyora, io morirò, l’ho già deciso, o Tajima mi
dà requie o lui canterà il mio requiem, per me, al mio funerale e ben gli
starà, poiché le seconde mogli danno l’inferno, dice il proverbio, e dopo rimpiangi
amaramente quella che hai spedito al Padreterno. Non ti sposare mai Kiyora,
fatti suora e poi diventa badessa, ché se proprio devi servire qualcuno, questi
almeno ti mostrerà un po’ di riconoscenza, aprendoti le porte del paradiso …”
Queste
cose ascoltava attenta e sconcertata Kiyora, la quale si vergognò profondamente
della sua aggressiva e avventata stupidità e abbracciò in lacrime Natsumi,
piangendo con lei, e offrendosi di aiutarla perlomeno coi pupetti, anche se di
bambini non ne sapeva un’acca, ma che importava se poteva in qualche modo
alleviarle un poco la sua pena di vivere e fare conseguentemente ammenda per il
suo gesto inutilmente offensivo.
“Sarò
tua amica, fino alla morte!”, le promise, la mano sul cuore. Allora la donna si
asciugò il volto umido col dorso della mano, sostenendo che no, che non ne
valeva la pena, che però accettava, no, no che assurdità e balbettava,
lusingata di aver trovato in colei che aveva giurato d’ammazzare una spalla su
cui piangere.
“Natsumi
mi ha promesso di insegnarmi a cucinare e a rammendare e a spazzare per terra e
a tenere l’ordine nella dispensa e a pulire i bambini e … e …”, raccontò quella
sera Kiyora a Najtine, mentre si perdeva nei meandri più oscuri del tabarro,
scorrendo i ghirigori di stoffa con la punta dell’indice. “Lei dice che io
imparerò tutto questo?”
“Quando
non fai la sciocca, sei piuttosto assennata e sveglia! Tu sei come il fuoco,
bambina: tanto generosa e calorosa quanto feroce e distruttrice. Jes, kiel fajro.”
Da
sotto il tabarro, la preadolescente schioccò la lingua in segno di scocciata
disapprovazione, tic che i suoi figli avrebbero ereditato, il primo e l’ultimo
in particolare. “Natsumi ha spesso ribadito di voler morire. Mi tolga una
curiosità: si può morire di propria iniziativa?”
Cessando
per un istante di rimestare il brodo, la fata sentenziò in un sussurro:
“Talvolta certi cuori smettono di battere quando l’anima dentro è già marcita”
e altro non aggiunse, ignorando gli inviti a spiegarsi della ragazzina che,
attirata dall’odore della minestra, riemergeva dal tabarro per cenare. “Perlomeno
non si porterà l’infano con sé.”
Infatti,
Kiyora tramite Natsumi ebbe l’occasione di imparare molte cose, tra cui che se
uno è risolto a morire, è assolutamente impossibile scrollarlo dall’allettante
idea dell’eterno riposo, si può solamente rallentare l’inevitabile, ma la volontà
rimane ed è quella che muove il mondo. Natsumi non aveva scherzato in quel suo
sfogo, aveva solo dato finalmente voce a quell’oscuro desiderio che più volte –
vuoi per senso di colpa, vuoi per scrupoli religiosi – aveva forzatamente
represso. L’irriverente vendicativa sputazzata di Kiyora sulle sue babbucce di
corda l’aveva tentata per l’ennesima volta, indubbiamente, ma l’ambasciata di
pace della stessa sputacchina era valsa per lei alla sua tanto agognata
epifania e di fatti, riconoscente alla giovinetta, finché campò le due rimasero
molto amiche, così tanto da nominare la ragazzina sua erede universale di ogni
sua possessione, dai vestiti (tra cui l’abito rosso pomodoro) ai figli e, col
tempo, al marito stesso. In quei momenti in cui l’amica le elencava questa sua
parca eredità, Kiyora, che nel frattanto aveva trovato lavoro come cameriera
presso la sorella del padrone, rideva e
diceva che lei sarebbe sopravvissuta fino a diventare una curva e canuta
nonnetta.
“No, io
creperò. Lo voglio e lo farò.”
Sicché
Natsumi morì e, come commentato da Najtine, non portò nell’aldilà il suo bambino,
una femminuccia dall’aria già stanca nonostante fosse appena nata e che
battezzarono Haruka. Morì dissanguata dopo il travaglio del parto, fregandosene
dei disperati tentativi da parte della levatrice, di sua madre e di sua suocera
di fermarle l’emorragia, anzi, spingendo quasi il sangue fuori dal suo sesso fiaccato,
acciocché, pur lavando il pavimento con l'aceto e arieggiando la stanza con lo
zolfo, ci si ricordasse di lei per almeno una o due settimane dal suo funerale.
“Ti prego, fratina, non c'abbandonare!”,
aveva gridato la preadolescente, tenendole la mano insanguinata. Natsumi volle
morire e morì e al suo funerale fu Kiyora a tenere la bambina, vedendo per la
prima volta i padroni della terre di Mokuton (lei conosceva solo la sorella
zitella e il vecchio padrone) i quali, così si bisbigliò, avevano un bel
coraggio a farsi vedere, o meglio: il padrone ha un bel coraggio a mostrare il
suo muso da porco dopo aver sollazzato con mia moglie, così sibilò Tajima
Uchiha; ma stai zitto scemo, che vuoi metterti a litigare col padrone?; e che
possa crepargli la moglie, quel fantasma bianco imperturbabile a tutto e a
tutti; ma fate silenzio voi e portate rispetto alla povera Natsumi!; ma quale
rispetto, ché se ne starà a poltrire su di una nuvola in paradiso, di noi lei
se ne sbatteva altamente, dei suoi figli poi …
Ciò era
falso. “Prenditi cura dei miei infani, brata”, le aveva confessato la
scomparsa, appena avvertite le prime fitte delle doglie. “Prendi il mio posto
in questa casa, se davvero sei tanto contrita per avermi sputato sulle scarpe!”
Najtine
le aveva detto, sulla strada per Mokuton, che quel villaggio campestre le
avrebbe riserbato un futuro. E lei, con la fierezza delle martiri di cera sotto
gli altari, lo accettò sia per far ammenda della sua pubere stupidità e sia perché tre anni dopo la morte di Natsumi,
la sorella del padrone presso cui prestava servizio, la Sinjorina Tōka Senju, la
cacciò via in malo modo, facendosi per poco venire una crisi epilettica. Suo
padre (il Maljunulo Sinjoro, il vecchio padrone, come lo chiamavano tutti) dopo
averla calmata, raggiunse Kiyora nella sua stanza dove lei stava riordinando il
suo misero fagotto e, datale una lauta manciata di ryo, la rassicurò: “Tornerai
in questa casa e sarà per mia nuora.”
Kiyora,
già di suo scossa dal licenziamento poco ortodosso, pigliò i soldi e se li
ficcò in una piega interna della camicia, ringraziando e ribadendo la sua
intenzione di cercare altrove lavoro a Mokuton. “C’è sempre bisogno di
braccianti, Sinjoro, m’arrangerò”. Il vecchio Senju, sorridendo, scosse il capo
in diniego.
“Cos’hai
combinato stavolta, mizera?”, le chiese serenamente Najtine, che già conosceva
la risposta, rivedendosi ricomparire la sua protetta alla porta di casa e troppo
in anticipo. Non che temesse il peggio: l’impulsiva sputacchina era scomparsa
in una giovane donna più calma e matura, ma non meno attaccabrighe, colpa della
sua natura sanguigna.
Diretta
come suo solito, Kiyora le spiegò concisamente: “La padroncina ha scoperto che
sono incinta.”
“Capisco.
E chi è il padre?”
“E chi
vuoi che sia? Tajima Uchiha, ovviamente.”
I due si sposarono solamente ad aprile
dell’anno successivo, qualche settimana prima del battesimo del loro
primogenito Madara, giacché sua madre, quando tra lo stupore generale lo
partorì in chiesa alla Vigilia di Natale dinanzi all’affresco seicentesco del
Giudizio Universale (da qui il terrore atavico dell’inferno), non possedeva
ancora l’età giusta per maritarsi. Come regalo di nozze, la moglie del padrone
le regalò una graziosa cuffietta gialla in segno di riconoscenza per l’aver
allattato, in contemporanea a Madara, anche suo figlio, come predetto dal
vecchio padrone.
Ma di
questo ne riparleremo più tardi. Passiamo ora ad Anise Howaitogōsuto in Senju, la
terza figlia di Eva e la moglie del padrone delle terre di Mokuton.
***
Anise Howaitogōsuto
sapeva che si sarebbe sposata con Butsuma Senju sin dalla tenera età di nove
anni: glielo aveva comunicato sua madre - Madame la Contessa, una nobildonna di
Kumogakure - e ciò che lei decideva era legge, dunque se si era stabilito che
si sarebbe maritata con lui, le conveniva accettare a capo chino e non
inscenare inutili e grotteschi teatrini di protesta. Anise non avrebbe mai
dimenticato il giorno in cui sua madre la distolse dai suoi giochi per recarsi
in salotto e così riferirle le sue volontà: la Virina Yuki, la sua governante, entrò
nella sua stanzetta dai teneri colori pastello. "La sua Maman ha da
parlarle", le riferì, tendendole la mano, che la piccina afferrò
prontamente. Mano nella mano, le due scesero per le scale, Anise saltando uno
scalino sì e uno no, la sua bambola preferita Nanà stretta al petto. L’allora
bambina comprese immediatamente che qualcosa di inusuale dal solito stava
accadendo, giacché la sua tata divincolò la presa e la condusse oltre la porta
vetrata e, una volta entrata lì, camminò da sola, intimidita, tutta la
lunghezza dell’elegante sala; passò titubante davanti alle vetrine ricolme di tesori,
alle piante delicate e odorose di primavera, ai lunghi specchi dalle cornici
ricamate di vetro soffiato, alle ottomane in stile secondo impero. Giunse a
capo chino al cospetto delle due matrone sedute languidamente sulle sedie
ricamate accanto al tavolino di malachite, sedie troppo piccole per contenere
l'esuberante eccesso di stoffa che straripava dai lati, da sotto il tavolino.
“La mademoiselle
Tōka Senju”, le presentò sua madre la giovane donna che sedeva rigidamente
composta accanto a lei. Col suo viso affilato, reso ancora più severo dalla stretta
crocchia di capelli castani, e l’abito scuro dal taglio sobrio, essa ricordò ad
Anise la badessa del convento dove studiavano le sue sorelle maggiori. Una
donna estremamente intransigente, giudicò, con una certa tendenza a fustigare i
peccati altrui, poiché lei non aveva potuto commetterli. Peccato, concluse, ché
tutto quell'eccessivo rigore non rendeva giustizia alla vera età della
madamigella di venticinque anni neppure compiuti.
Chiudendo
il ventaglio, la sua futura cognata la salutò arricciando appena appena le
labbra sottili e struccate, com'era uso nell'orgogliosa e conservatrice
Konohagakure. Madame la Contessa, ch'era d'origini più frivole, se le truccava
eccome, d'un bel rosso ciliegia, alla faccia delle invettive da parte dei
protettori dei costumi. “Come sta, contessina?”
“Molto
bene, merci. E lei?”
“Ma
chère”, le sorrise la Contessa, intromettendosi, e Anise strinse più forte
Nanà: conosceva bene quel lieve increspare della bocca materna, significava
solamente una cosa, un annuncio che già le sue due sorelle avevano accolto,
volenti o nolenti. “La mademoiselle Senju ed io stavano parlando del suo avvenire,
figlia”, dichiarò, facendole cenno di avvicinarsi. Obbediente, la bambina
avanzò di qualche passo, allungando il collo per vedere ciò che la genitrice
aveva appoggiato sul tavolino, tra le tazze di cioccolata e le pastine.
“Le piace, ma
fille?”, fu la domanda retorica di sua madre, indicando la foto del suo
promesso. “Costui sarà il suo futuro marito.”
“Ha il naso
grosso”, puntualizzò Anise, tracciando con la punta dell’unghia rosea i
lineamenti dell’altro e provocando un feroce rossore nelle gote della Contessa.
Quanto alla Sinjorina Tōka,
ella trattenne il fiato, imbarazzata, replicando in una nervosetta mezza
risatina:
“Che sorta di
risposta è la sua, contessina? Come se fosse cruciale per decidersi se sposarlo
o meno!”, e se non avesse tenuto molto a questo matrimonio, di certo si sarebbe
offesa per quel commento assolutamente ingenuo e diretto, che solo una
pargoletta poteva dar voce con tale sfacciata nonchalance.
“Maman mi ha
chiesto se mi piaceva, mademoiselle, io ho risposto. Del resto, non credo di
aver lo stesso molta voce in capitolo: lei vuole che io lo sposi e non posso far
altro che obbedirle. E ora, col vostro permesso, ritorno ai miei giochi”, le
restituì la foto, recandosi in uno stato leggermente sonnambolico nella sua
stanza, accompagnata dalla governante che l’attendeva sulla soglia del salotto.
Di norma, a
vedere la propria figlia ridotta in un simile stato di depressa rassegnazione,
una qualsiasi madre avrebbe gettato la foto e sarebbe corsa dietro alla
pargola, consolandola con dolci paroline d’incoraggiamento e carezze alla
testa; alas, la Contessa era la donna che era e Anise si rifugiò indisturbata
nella sua camera, chiudendosi dentro a chiave e, sorseggiata la crème de menthe
che la governante si accertava che avesse sempre pronta a portata di mano, aprì
il suo scrittoio. Ma chère sœur, scrisse
d’impeto alla maggiore, aujourd’hui
j’appris que je vais épouser un barbare avec un nez assez gros.
“La contessina Anise”, riferiva invece
Tōka via lettera al fratello diciannovenne “non
mi pare assai intelligente, altrimenti rifletterebbe prima di parlare. In
compenso, possiede un’ottima proprietà di linguaggio per la sua età, ricama con
gusto e sua madre la Contessa mi ha confessato di una sua passione musicale per
il violino: infatti, prima di terminare la mia visita, Madame sa mère la ha
pregata di esibirsi in un piccolo concerto. Bravissima, invero, una piccola
virtuosa, peccato che abbia scelto uno strumento così poco consono ad una
signorina della sua estrazione sociale! In ogni modo, la contessina non è di
natura molto ciarliera, anzi, talvolta ho l’impressione che neppure ascolti
quando ci si rivolge a lei e si chiude di sua spontanea iniziativa in lunghi
silenzi, tutti risibili difettucci che però sono certa spariranno crescendo: il
convento dove sua madre la Contessa ha intenzione di mandarla gode di
un’eccellente reputazione e vedrà, fratello, che fra nove anni, quando vi potrete
frequentare liberamente, troverà pronta per lei una ragazza degna di portare il
titolo di Duchessa di Mokuton e di donare alla nostra famiglia figli sani e
robusti.”
E
rimpinguare il già cospicuo patrimonio dei Senju con una dote all’epoca
portentosa: 5 milioni di ryo, una follia che solo il defunto Conte di Kureha,
il padre di Anise, poteva stabilire nel suo testamento: temendo che le sue
uniche e adorate tre figliole – Akane, Arisa e Anise – rimanessero zitelle,
volle e decise che avessero la dote più allettante di tutto il Regno di Hi e,
di fatti, i mosconi non tardarono a ronzare al portone del loro elegante
palazzo in stile neoclassico nel quartiere di Città Giardino a Konohagakure.
Ronzare? Nah, il tabarro sostiene che ci fu una vera e propria corsa alle
Howaitogōsuto, una frenesia nuziale che spaventò non poco la loro madre, la
quale ricorse ad ogni genere d’informatore, pur di conoscere la rispettabilità e
posizione sociale ed economica degli innumerevoli spasimanti alla mano – e dote
– delle tre sorelle. Contessine che la
vedova rese pressoché inaccessibili al mondo, relegandole o in casa o in
convento, e cui si poteva giungere per vie traverse, sfruttando l’amicizia
dell’amico dell’amico del cugino del nipote del marito del cognato del genero
della sorella della zia del figlio di un parente della famiglia Howaitogōsuto.
Per puro caso Butsuma Senju riuscì ad accaparrarsi, seppur in largo anticipo,
l’ultima sorella rimasta: la Sinjorina Tōka frequentava la medesima
associazione benefica promossa dall’instancabile Contessa, un ente d’amateurs
dell’equità sociale, composto da vedove e zitelle che, nauseate dal troppo,
calmavano i loro spleen esistenziali – o rimorsi di coscienza, come diceva lo
zio – andando nei rioni più malfamati di Konohagakure e dintorni a fare del
bene. E del bene Tōka Senju ne fece di certo, non per i poveri, bensì alla sua
più che agiata famiglia, quando, in una colazione d’inizio marzo, dichiarò a
suo padre che era riuscita a strappare alla Contessa Howaitogōsuto un incontro
per iniziare le contrattazioni di matrimonio.
“A onor
del vero, figlia”, obiettò il vecchio Duca. “Sapevo che le donzelle in età da
marito fossero due e che fossero oramai entrambe maritate.”
“Certo,
padre, ma rimane pur sempre Anise, l’ultimogenita! Sicuro, ha nove anni, però
l’imeneo non deve per forza essere celebrato subito …”
“E
allora temo, figlia, che se la Contessa accetterà la sua proposta, finiremo noi
di educare la bambina”, borbottò l’uomo. “Fidanzata a nove anni … Pensavo di
essere stato uno degli ultimi ad averlo fatto in sì tenera età … Bah! Il mondo
gira e rigira e alla fine si torna sempre al punto di partenza …”
Scrollando
le spalle, sua figlia lo consolò elencandogli tutti i vantaggi che avrebbero
avuto con tale unione, ai miglioramenti delle loro tenute e al prestigio per
aver ottenuto una sposa così nobile e graziosa, ultima esponente di un casato
antico quanto la monarchia; peccato che nulla di questo riuscì a distogliere
l’anziano Senju dalle sue cupe meditazioni, portandolo a rintanarsi nel
giardino d’inverno e fumare immalinconito la sua pipa.
Al
compimento del suo decimo anno d’età, Anise e Butsuma, pur non essendosi mai
visti, erano ufficialmente fidanzati e la prima venne puntualmente
impacchettata e spedita dalle suore nel convento di Santa Marta, nomen est
omen, dove imparò il fas e il nefas della vita coniugale e magari a leggere e a
scrivere in una terza lingua. Annoiatissima, la giovinetta giunse ad impararne
ben cinque, alternandole allo studio “maniacale”, come lo descrivevano le sue
istitutrici, del violino, aprendo la via ai misterici segreti della musica alle generazioni successive delle
nostre – sì, nostre, perché no? - famiglie.
A
quindici anni, sotto dettatura di sua madre, ad Anise venne concesso di
scrivere la prima lettera al fidanzato, infilandovi però dentro fini e
ingegnosi codici per decifrare il vero messaggio criptatovi, per poi scoprire
che il suo capolavoro di spionaggio veniva filtrato a Butsuma dalla sorella, la
quale gliela leggeva con voce sì stentorea che avrebbe addormentato perfino un
predicatore protestante. Inoltre, il giovane Duca aveva delle incombenze più
pressanti su cui concentrarsi, al posto di scervellarsi sui giochini
leggo-non-leggo di un’adolescente. Di conseguenza, incassata la cocente
delusione, la contessina si limitò a mantenere una corrispondenza non formale,
no, gelida piuttosto, un manierismo di distacco affettivo degno di un cadavere
e giustamente Butsuma Senju, dal più conciliante mon fiancé, era ritornato a rivestire il suo antico titolo di le barbare.
Il
barbaro in questione si presentò la settimana successiva al diciottesimo
compleanno della sua promessa e Anise aveva per l’occasione calmato ogni forma
di tristezza nella sua anima, arrivando ad accoglierlo con tale apatia, che
Butsuma Senju si chiese se lei fosse muta o svagata o addirittura scema: sua
sorella Tōka e la Contessa gli avevano descritto Anise come una fanciulla
discreta e docile, incline alla malinconia e dal carattere flemmatico e
saturnino, tuttavia qua si superava ogni limite! Non gli parlò se non il minimo
necessario, sì, molto carino; grazie, che gentile; certo, oggi è una giornata
davvero incantevole; ancora un po’ di crème de cacao? Immaginate, quindi,
l’impaccio dello spasimante nel momento in cui, riuscito ad ottenere un attimo
di intimità dalla futura suocera, le chiese di sposarlo. Da dove incominciare?
Si sarebbe messo in ginocchio o le avrebbe preso la mano o avrebbe potuto
schiarirsi la gola e dire: “In merito ai nostri previi incontri …” Dio del
cielo, concludere un affare, una compravendita, gestire le beghe tra quei
bifolchi dei suoi mezzadri a confronto gli pareva una passeggiata alla marina!
“Anise
… ecco … lei … in questo ultimo periodo, frequentandola, ho sentito crescere in
me un notevole affetto nei suoi confronti … la sua dolcezza, nonché la bellezza
senza pari che ogni volta che la vedo m’acceca, ecco, mi innamorano di lei,
suscitandomi il desiderio di … di … poter vivere assieme e onorevolmente questo
sentimento … Ecco … Contessina Howaitogōsuto non è che … che … vuole …
accondiscenderebbe a divenire mia moglie?”
E
Anise, che fino a quel momento aveva ascoltato in doveroso silenzio la strampalata
confessione del suo fidanzato, cessando di rigirarsi i riccioli di quel biondo talmente
pallido da sembrare argento, posò sull’anello i suoi distratti occhi carminio
e, sbattendo le ciglia lunghissime e seriche, rispose arrossendo lievemente:
“Mi perdoni, mon cher Butsuma, che mi stava dicendo? Temo di non aver sentito
…”, dando prova di essere, similmente alla descrizione di Najtine quando la
incontrò per la prima volta a Mokuton, come l’acqua, così trasparente e
luminosa in superficie, ma oscura e impenetrabile in profondità.
Infatti,
nonostante l’aria d’ingenua freschezza ed apparente estroversione che le
adornava il volto quasi angelico, Anise si trincerò in una spessa corazza fatta
di silenzio e solitudine, una piccola e inespugnabile fortezza interiore
costruita durante il fidanzamento e inaugurata e in seguito esacerbata dal
matrimonio. Salendo sulla carrozza che l’avrebbe condotta nella sua nuova
dimora, la giovane era corsa dalla madre e, trattenendo lacrime di sdegno, le
domandò in un filo di voce: “Adesso è contenta, ma mère?” e la Contessa,
interpretando scioccamente quelle perle salate per contentezza, rispose
giustamente di sì.
Del
resto, prima che le generazioni successive di Senju si adoperassero a rendere
il villaggio di Mokuton un posto vagamente mondano, finire lì corrispondeva
alla morte civile, giacché la vita era scandita a suon di canti di calli, di
Angelus, di Vespri e, in una scala temporale più larga, dalle stagioni. Il più
acculturato era il parroco, pregno di latinorum, di fantasiose quanto
apocalittiche interpretazioni della Bibbia e convinto fino al midollo che satana
e una donna colta s’equiparassero, lo stesso "sant'uomo" che, molti
anni dopo, avrebbe minacciato di far
scomunicare Tobirama, bollandolo come corruttore dei costumi e puttana di
Babilonia, quando questi volle far andare a scuola anche le bambine e non solo
i maschietti di Mokuton. Non v’era nessuno quindi con cui Anise si potesse
confrontare intellettualmente o parlare le sette lingue che padroneggiava
egregiamente, oppure qualcuno che potesse apprezzare i delicati virtuosismi del
suo violino, tranne suo suocero, al quale la sposina faceva sinceramente pena,
in quanto abbandonata dal marito proprio nel periodo cruciale del matrimonio,
quelle prime settimane dove era fondamentale consolidare il rapporto di coppia.
Ma che volete, all’epoca la moglie valeva quanto un vaso di porcellana cinese della
dinastia Ming, un pezzo pregiato dell’arredamento, e poi quando i due si
sposarono era il tempo della mietitura e Butsuma e suo padre dovevano
controllare il loro amministratore e i mezzadri, acciocché non s’azzardassero
ad intascare gli introiti o a rivendere al mercato nero i prodotti dei raccolti.
Abbandonata a se stessa – e alla cognata, ch’era assai peggio - Anise aveva tentato di scacciare la noia e i
brutti pensieri organizzando prussianamente la sua giornata: passeggiata mattutina,
ricamo, disegno, pittura, pranzo, violino, violino, violino …
“E’ una
cosa patologica, esasperante!”, borbottava Tōka Senju, sottraendole un giorno
il suo prezioso strumento e chiudendolo a chiave nel cassetto di un pesante
comò in soffitta. E quando Anise le domandò, torcendosi le dita diafane, dove
si trovasse il suo violino, lei le aveva circondato le spalle, dichiarando:
“Lei è certamente molto brava, sorella, ma deve dedicarsi ad altro, non può
suonare tutto il santo giorno, è cosa maniacale, ossessiva e non fa bene né a
lei, né al bambino che verrà …”
“Ma io
non sono incinta …”, obiettò debolmente la più giovane.
“A Dio
piacendo, lo sarà presto e le troppe emozioni suscitate da questo strumento
potrebbero essere davvero dannose per la creatura!”
Anise
dovette cedere a questa pressante premura, annuendo sconfitta onde celare la
smorfia d’enorme fastidio che le provocava fremiti d’ira lungo la schiena.
La sera
stessa, ritornando dai suoi giri di controllo della vasta tenuta, Butsuma
Senju, accorgendosi dell’assenza di sua moglie a cena, domandandone l’ubicazione,
la ritrovò immersa nel buio della camera nuziale, sdraiata stancamente sul
letto, vestita.
“Si
sente bene?”
“Una
lieve emicrania”, si giustificò lei, girandosi sul fianco. Volendo, avrebbe
potuto confidare al marito i suoi crucci, il violino sotto sequestro e, non
meno importante, la necessità di trovare una qualche forma di distrazione in
quelle lande vaste e ultimo caposaldo del Medioevo. Volendo, avrebbe potuto
colmare, aprendogli il suo cuore, quella distanza abissale che la separava dal
marito. Ma non lo fece, gli preferì il silenzio ermetico e Butsuma altro non
poté fare che augurale una pronta guarigione e riempirle il bicchiere di crème
de menthe sul comodino.
“Che
aveva sua moglie, figlio?”
“Un’emicrania,
padre”, gli rispose l’uomo, riprendendo il suo posto a tavola.
“Un’emicrania”,
ripeté sospirando l’anziano genitore, lanciando un’occhiata significativa alla
figlia, che finse indifferenza.
A
peggiorare la già di suo precaria situazione, s’aggiunse poi la mancata gravidanza
di Anise, nel senso che, un anno dopo le nozze, ancora non dava segni di voler
rimanere incinta. Il vecchio Duca, accorgendosi della crescente depressione
della nuora per la mancata maternità, la consolava spiegandole che lei non ne
aveva colpa se si era ritrovava un deficiente per marito che, al posto di
correre dietro alle sottane delle contadine, si fosse deciso ad onorare in ogni
senso la sua povera moglie. Quanto alla cognata, hé, il tabarro ha scelto
questa particolare conversazione avvenuta tra le due donne per aiutarmi a
capire la portata effettiva della pressione psicologica esercitata su Anise
Senju.
Mokuton,
distretto di Konohagakure, Regno di Hi. Fine luglio.
Il sole
martellante del meriggio s’era un pochino ammansito, diminuendo il biancore
accecante dei muri delle case di Mokuton. Pigre e sfiancate dalla calura insopportabile,
le campane domenicali della chiesa di Santa Lucia annunciavano le due e
trequarti del pomeriggio alla popolazione rinchiusa in casa, nella frescura
delle stanze scure e attraversate dalle correnti d’aria generate dalle finestre
aperte tutte allo stesso tempo. I più fortunati si consolavano sotto le frasche
di un giardinetto interno oppure tamponandosi tempie e collo con panni
inumiditi di acqua fredda. Altrimenti, spogliatisi direttamente di ogni abito
tranne che per l’intimo – sempre che l’avessero
avuto - si distendevano sul letto
purtroppo umido e appiccicaticcio, dormicchiando un poco fintanto che le ore
più terribili non si sarebbero placate, in attesa delle sospirate cinque – sei
del pomeriggio. Uomini fortunati: non in tutte le tenute i mezzadri godevano
del lusso di poltrire la domenica. Ancora oggi mi domando cosa avesse potuto
spingere il Duca Butsuma - o suo padre, a seconda di chi aveva elargito per
primo questa concessione - ad essere così generoso. Molto probabilmente, doveva
aver avuto le scatole piene di spendere quattrini per le bare di semplice pino
per i contadini schiattati per l'ennesimo e fatale colpo di calore.
Intanto
che i fittavoli onoravano a loro modo il giorno del Signore, nel Castello di
Mori, la residenza del padrone che sovrastava arcigna e severa il villaggio di
Mokuton, si scatenava l’uragano Kanako (Kanako era la fantesca) che irruppe
nella stanza della sua padrona, facendo sobbalzare violentemente quest’ultima,
tanto che il libro ch’era in procinto di leggere le cadde dalle belle mani.
“Madame!
Sta arrivando, è qui! E ha una faccia da spaventare un intero branco di
chupacabras!”, avvertì la ragazza praticamente la sua coetanea, i cui occhi carminio
si ingrandirono per la sorpresa e il fastidio, nel frattempo che scendeva
disordinatamente dal letto, ficcando sotto il materasso il libro incriminato.
Ultimo tocco, si lisciò la gonna sgualcita dalla posizione scomposta e affatto
signorile, sistemando i riccioli alle tempie previamente portati dietro le
orecchie. Dopodiché pigliò lesta il libro delle preghiere e il rosario regalatole
dallo zio vescovo, sedendosi vicino alla finestra. Fu così che, entrando da
perfetta estranea nella camera da letto, Tōka Senju trovò la cognata intenta a
pregare, mentre la sua fantesca ricamava discreta al suo fianco, l’immagine
stessa del mutismo più assoluto. Accortasi “casualmente” dell’entrata
dell’austera matrona, la ragazza si levò sorpresa in piedi, inchinandosi
rispettosamente e riponendo il libro sul tavolino accanto.
“Buon
pomeriggio, sorella”, la salutò deferente, avvicinandosi alla donna più anziana
e permettendo che ella le baciasse la fronte a mo’ di benedizione. “Ha riposato
bene?”
“Abbastanza,
mia cara Anise”, concesse l’altra. “L’ ho disturbata?”, le domandò, accennando
con un breve cenno del capo al libro di preghiere.
La
giovane scosse il capo dai ricci di quel biondo pallido, quasi argento. “No, sorella.
Stavo terminando.”
“Me ne
compiaccio: dovevo giusto parlarle”, disse Tōka Senju, prendendo posto sulla
sedia previamente occupata dalla cognata, la quale fece segno a Kanako di
portagliene un’altra. Silenziosa, la fantesca obbedì rapidissima. “Prima però,
gradirei che congedaste la vostra … dama”, pronunciò incerta la donna l’ultima
parola. “E’ una faccenda privata …”
L’indesiderata in questione non si mosse di un
sol centimetro, rimanendo ben ancorata vicino alla padroncina, domandole
tramite una perplessa occhiata se obbedire o meno all’ordine della cognata.
Sorridendole a fior di labbra, Anise la rassicurò con lo sguardo. “Sorella,
conosco la mia Kanako da quando eravamo bambine e posso garantirle che sarà più
silenziosa di una tomba! Le sue orecchie sono le mie, così come il suo silenzio
…”
Tōka
Senju strinse gli occhi: per quanto la ragazza avesse usato un tono mesto e
affatto arrogante, lei percepiva la sfida dietro quelle parole dall’apparenza
concilianti. Intimamente maledì il giorno in cui s’era messa in testa di
promuovere questo matrimonio: più trascorreva il tempo, meno docile e
sottomessa stava diventando Anise, imbastendole una resistenza passiva. Diceva:
sì, sorella; certo, sorella; faremo così; ha perfettamente ragione, sorella;
molto carino; ancora crème de cacao? E
poi faceva l’incontrario. Ma la matrona, sin dal primo giorno in cui l’aveva
accolta due anni addietro come cognata, si era ben ripromessa di ricordare a
quell’allora diciottenne che si credeva la regina di Saba quale fosse il suo
ruolo nella loro famiglia.
“Ho
ricevuto da Konohagakure una lettera, nella quale mi si annuncia che vostra sorella
Arisa ha dato alla luce il suo terzo figlio, un maschietto sano e forte”,
rivelò la donna ad Anise non senza una qualche punta di malignità, molto
probabilmente derivata da una cocente delusione. Nondimeno, non si tolse la
soddisfazione di assistere alla presa convulsa della mano della cognata sul
bracciolo della sedia, malgrado l’espressione di granitica indifferenza sul
viso ancora infantile della ragazza, malgrado i suoi vent’anni.
“Le mie felicitazioni per la cara sorella”,
affermò ella incolore, distogliendo altrove lo sguardo, affatto immune da
quella ch’ella sapeva essere una frecciatina. Kanako, percependo invece il
disagio della padroncina, abbassò il
suo, fingendo di concentrarsi sul ricamo.
“Sì,
questa notizia mi ha riempito di gioia e soddisfazione”, sospirò solenne Tōka
Senju. “Sentimenti, ch’amerei assai provare anche qui. Piuttosto, dove si trova
mio fratello? L’ho cercato dappertutto, senza risultati!”
Incominciando
a giocherellare con il rosario, Anise prese un lungo respiro, inumidendosi le
labbra tumide. “Credo sia uscito”, dichiarò dopo un penoso silenzio. “Dove si
sia recato, tuttavia, lo ignoro. Non parla molto con me” e fu il turno della
ragazza di sputare un malcelato veleno. In parte, a onor del vero, divideva
metà della colpa, poiché ella non gli rivolgeva la parola, se non direttamente
interrogata.
Le vene
del collo di Tōka Senju si gonfiarono impercettibilmente. “Noto che lei non
trascorre molto tempo con lui e la sua completa ignoranza circa le sue
abitudini olezzano molto di totale disinteresse nei confronti di chi lei ha
giurato, davanti a Dio e agli uomini, di amare e onorare con muliebre
discrezione e modestia fin che morte non vi separi!”
“E
appunto perché il mio sesso mi impone di essere discreta e modesta, sorella
mia, che non voglio impormi in maniera oppressiva e invadente nella vita di mio
marito, come solgono fare le donne del popolo”, ribatté soavemente Anise, le
ciglia sempre abbassate, che pareva l’umiltà incarnata.
“Nondimeno,
mia cara, sono trascorsi due anni dal vostro matrimonio e sembrate ancora due
estranei”, argomentò implacabile la donna. Silenzio. “Anise, non vorrei
addentrarmi su certi argomenti privati, ma considerate le circostanze, ho paura
di non avere altra scelta: mio fratello frequenta regolarmente il vostro
letto?”
Gli
occhi carminio della ragazza si dilatarono similmente a quelli di un lemure,
mentre il colorito svaniva dalla pelle alabastrina. Dopodiché un feroce rossore
le tinse le gote ed ella riprese ad attorcigliare nervosamente il rosario tra
le dita. “Tre o quattro volte al mese, sorella …”, mormorò infine in maniera
così flebile, che fu costretta a ripeterlo una seconda volta, acciocché la cognata
intuisse la sua risposta, schioccando in disapprovazione le labbra.
“Come
immaginavo: troppo poco!”, borbottò tra sé e sé Tōka Senju, ignorando come le
sue parole avessero contribuito all’ulteriore afflosciamento di Anise sulla
sedia per il disagio provocatole da tale conversazione.
Della
vita intima di una coppia le era stato insegnato poco niente; al convento
simili nozioni non si apprendevano, non almeno direttamente dalle suore. Sapeva
soltanto, come spiegatole vagamente da sua madre la Contessa di Kureha, che la
passione non doveva concernerla: a quella badavano les femmes de plaisir. Il suo ruolo si limitava a compiere in
silenzio l’atto, evitando possibilmente di guardare il marito negli occhi.
Dopodiché, doveva pregare la Vergine Santissima affinché da quell’unione
venisse concepito un bambino. Docilmente, Anise aveva eseguito alla lettera i
dettami della madre, della badessa e del suo padre spirituale: alla sua prima
notte di nozze si era comportata come la vergine sacrificale qual era,
giungendo alla conclusione quanto l’intimità tra uomo e donna fosse un qualcosa
di assolutamente schifoso e si era
anche stupita che sua madre e suo padre, del quale serbava solo vaghi e teneri
ricordi, si fossero a loro tempo dilettati in simili atti. Nondimeno, non
gliene voleva a suo marito se, talvolta, bussava alla sua porta per chiederle
di trascorrere la notte assieme (all’epoca, chi si poteva permettere più di un
letto, dormiva spesso e volentieri separato dal coniuge) e, per quanto non trovasse
tali incontri gradevoli, si riprometteva di non negarli a Butsuma,
contrariandolo. “So, figlia mia, come certe incombenze matrimoniali possano
risultare imbarazzanti e spiacevoli”, le aveva ripetuto sovente la madre. “Ma
si adegui e non odi suo marito per questo; altrimenti, concepirà figli deformi
e malvagi.” Di conseguenza, fedele al suo giuramento nuziale, Anise si era
sforzata, Iddio le era testimone, di comportarsi da degna sposa e di
“soddisfare” il consorte in ogni suo desiderio. Non che Butsuma le mancasse di
rispetto, al contrario, era la gentilezza fatta persona (se si era alzato col
piede giusto alla mattina). Eppure, dopo due anni di matrimonio, la ragazza
ancora non era rimasta incinta, né s’era avvicinata di più allo sposo:
all’inizio, lei aveva creduto che l’essersi ritrovato maritato ad una diciottenne
vissuta metà della sua vita in convento lo avesse posto in imbarazzo – troppo
vecchia?, troppo bigotta e ignorante? - o che magari gli avesse dato fastidio. Ma ora,
a vent’anni suonati, era una giovane donna, forse non molto formosa né di una
bellezza chissà quanto esotica o ammaliante, per quanto lo stesso Maljunulo
Sinjoro, il suocero, affermasse sincero quanto
il radioso sorriso tutto fossette di Anise, sorriso in seguito ereditato dal suo
primogenito Hashirama, avesse l’occulto potere di sconvolgere perfino un santo,
inducendolo in ogni sorta di tentazione.
“Sorella
… io … io sono mortificata …”, proferì Anise rossa in volto le parole, che lei
sapeva che sua cognata desiderava ascoltare: ovvio, no? la colpa doveva per
forza essere sua. “Lei conosce bene come non desideri altro che compiacere suo
fratello sia in qualità di sposa che di futura madre dei suoi figli …”, le
confessò contrita. Quand’ecco, che un’idea affatto balzana le rischiarò la
mente, così da poter rigirare a proprio favore una conversazione nata con lo
solo scopo di umiliarla. “Ecco …”, esordì la ragazza, esitante, tormentando il
suo rosario. “Mi domandavo, se … se non fosse il caso di … di …”
“Parla,
sorella!”, la incalzò la cognata, tamburellando impaziente le dita sul
bracciolo.
“Ecco …
temo sia il caldo, sorella!”, si sbottonò infine Anise. “E in parte la
malinconia! Mi è stato riferito dal medico, che la malinconia nuoce agli umori
del corpo, impedendo un normale andamento delle mie funzioni femminili”, mentì
ella spudoratamente, sperando di suonare convincente. “Se magari potessi
ritornare a casa per qualche tempo! La serenità dei luoghi della mia infanzia
mi gioverebbe, senza parlare che rivedrei la mia famiglia, la quale ammetto che
mi manchi un pochino …” Le mancava orribilmente, a onor del vero. Come le
mancavano le passeggiate per il boulevard fiorito di Città Giardino dai
marciapiedi in pietra d’Istria assieme alle sue sorelle Akane e Arisa.
Di
nuovo, la fronte di Tōka Senju si aggrottò, presa di contropiede da quella
proposta alle sue raffinate orecchie indecente. “A Konohagakure, mia cara? È
questo quello che vorreste dire? Non è con l’ulteriore lontananza, che lei
risolverà la sua mancata maternità!”, le ricordò perfida.
“Ma
almeno …!”
“No, Anise.
È fuori questione! Ora lei è una donna sposata e come tale detiene diritti come
doveri, molti doveri. E abbandonare
la sua nuova e unica casa non rientra tra di essi!”, ribatté implacabile la
donna, sorda ad ogni compromesso. E così la fraschetta sperava di gabbarla,
così da permetterle di fare i propri comodi? Figurarsi! Essere la cocca di suo padre
non l’avrebbe di certo salvata dal giusto decoro, che quella debole di sua
madre e fannullone delle suore avevano mancato di impartirle!
“Però
…!”
Prima
che la ragazza potesse terminare il suo discorso, Tōka Senju si alzò, segno che
la conversazione era terminata senza possibilità di appello. “E’ la mia ultima
parola, Anise. Lo faccio per il suo bene: ogni giorno mi appare sempre più
pallida, dubito che le gioverebbe rientrare in città, specie con questa
canicola. Ma ne riparleremo, d’accordo? Buon pomeriggio”, si congedò lapidaria,
sgonnellandosene via dalla stanza accompagnata da Kanako e lasciando la cognata
muta, umiliata e offesa a fissare il vuoto dinanzi a sé, la bocca a stento
trattenuta dallo spalancarsi, per quanto il labbro inferiore le tremasse
violentemente, segno che o stava per piangere o imprecare in maniera più
grossolana di un marinaio.
Ma
Anise era una vera signora, nelle cui vene scorreva il sangue più antico e
nobile del Regno di Hi; di conseguenza, si accasciò sul letto, tamponandosi il
naso col fazzoletto, da cui si stava manifestando una piccola epistassi,
disturbo che avveniva sempre quando la giovane si trovava in situazioni
particolarmente stressanti.
“Sta
bene, Madame?”, inquisì preoccupata Kanako, non garbandole l’insolito grigiore
nel viso della padroncina, che si limitò, senza voltarsi, a congedarla
piuttosto scocciata tramite un nervoso svolazzo della mano.
Liberatasi
della presenza della fantesca, la ragazza tentò d’alzarsi, ma il mondo si
cosparse di chiazze giallo-nerastre e prese a girare attorno a lei e Anise,
cercando disperatamente appiglio, rovesciò il tavolino, provocando così la
caduta e rottura della caraffa d’acqua lì previamente appoggiata. Una cameriera
che passava di lì, sobbalzando impaurita, la fissò stralunata, neanche si
trovasse dinanzi ad una bestia rara. Scossasi però dal suo incantamento, la fantesca
acchiappò Anise in tempo e la condusse sul letto, sistemandole i cuscini e
costringendo il sangue a circolare pel verso giusto. “Mon Dieu! Mon Dieu! Non
mi sono mai sentita così umiliata in vita mia! Tutta colpa di quella strega! Mi
odia! Mi sbeffeggia! Mi rende la vita amara, un inferno! Perché mia madre ha
acconsentito alle nozze? Mon Dieu, che ho fatto di male per sposarmi?!”, prese
a mugolare la giovane una volta che il mondo ridivenne più stabile, affondando
il viso nel materasso e lasciandosi andare a stizziti singhiozzi. Sedendosi
accanto a lei, la fantesca dai capelli color melanzana le accarezzò la schiena,
tentando di consolarla.
“Perché
non chiede al Maljunulo Sinjoro il permesso di partire, sinjora Duchessa?”,
interruppe l’adolescente il flusso dei suoi pensieri. Udendo una voce ancora da
bambina, Anise alzò il capo, asciugandosi le lacrime di rabbia. E stranamente, la collera era scemata tanto
velocemente, quanto s’era manifestata.
“Lui l’ha molto in simpatia! Vedrà che a lei non negherà nulla!”, fece
ottimista la fantesca, sorridendo fiduciosa alla giovane donna.
Un
timido sorriso increspò le labbra tumide di Anise, nel frattempo che lei si
alzava, rassettandosi la gonna nuovamente sgualcita e accettando che la mora
finisse di levarle via ogni traccia di sangue dal naso. Guardandola meglio, si
ricordò improvvisamente della ragazzina dinanzi a lei: l’aveva scorta al
funerale di tale Natsumi Uchiha e, se non errava, era la cameriera personale di
sua cognata. “Dovrò prima avvertire mia madre … Tu sei … sei la Kiyora, giusto? La pupilla della Fata. Grazie
per il tuo consiglio.”
“E di
che. Le porto carta, penna e calamaio?”
Anise
annuì in silenzio, progettando mentalmente il discorso onde persuadere il
suocero a concederle di recarsi a Konohagakure. Ah sì, e la formula più
rassicurante per annunciare il suo prossimo arrivo alla sua famiglia: ai loro
occhi doveva apparire una visita normale, non una fuga disperata da un inferno
domestico nel quale la giovane si sentiva inesorabilmente intrappolata. “Si
ricordi, ma fille, lei non ci deve creare alcun scandalo, intesi? Mai!” La
ragazza si massaggiò le tempie doloranti, intanto che i famigliari sintomi
della sua emicrania prendevano a manifestarsi: per un istante, giudicò che
tutto sarebbe più facile se lei si fosse ritrovata da un giorno all’altro
vedova, libera, senza dover rispondere di niente a nessuno.
Sarebbe
invero stato bello.
Come
sarebbe stato bello poter continuare a coltivare la conoscenza di Kiyora – la monella,
per rincuorarla le raccontava, deformandole in scenette gustosamente
grottesche, ogni sorta di aneddoto sulla cognata o l’impressioni che tutto il personale aveva
di lei - ma ancora una volta les autres
si misero in mezzo, scacciandola di casa.
“Perché?
Che aveva combinato di così riprovevole da essere cacciata così, su due piedi,
in pieno giorno come una ladra?”, aveva voluto immediatamente spiegazioni dalla
cognata, irrompendo nel suo boudoir, una delle tante sancta sanctorum dove le
era proibito entrare, alla faccia ch’era la padrona di casa. Tōka Senju, non
attendendosi quell’atteggiamento così bellicoso da parte dell’usuale remissiva
e malinconica cognata, sobbalzò per la sorpresa, ricomponendosi goffamente e
spiegandole assai scocciata:
“Quella
sgualdrina mi ha tenuto nascosto fino ad adesso ch’era incinta! Ha capito,
Anise? Incinta di cinque mesi! Alla sua età! E senza la benedizione della
Chiesa!”, perché figurarsi se tali sciagurate si sposavano! Lei e i suoi simili
vivevano peggio dei selvaggi, altroché!
La
giovane donna dinanzi a lei non parve affatto soddisfatta di tale replica. “E
al piccino non ha pensato? Come lo manterrà?”, appoggiò inconsciamente Anise la
mano sul suo ventre gonfio, lì dove, dopo tre anni di matrimonio sterile,
finalmente cresceva quel bambino tanto desiderato e che per averlo suo madre
s’era sottoposta ad ogni genere di cura, pellegrinaggio ed esorcismo.
“Ci
penserà la Strega, sua madre!”
E
allora, non potendone più, Anise gridò. Gridò così forte che le colò sangue dal
naso e schiumò la bocca di saliva e stramazzò a terra, in preda alle
convulsioni. Un simile ululato vetricida sarebbe stato emulato – e superato –
solamente dal suo secondogenito, Tobirama, per far valere le sue ragioni in una
disputa assai impari. (No, non quella col parroco che lo voleva far
scomunicare). In ogni modo, terrorizzati e mezzi assordati da questo urlo
demoniaco, si chiamò d’urgenza proprio Najtine, poiché il medico non avrebbe
fatto a tempo a raggiungere il castello e perché, tra la servitù, la curandera
era considerata una presenza molto più valida.
“Come
sta il bambino?”, la interrogarono dopo ore che si era chiusa con la gestante.
“Come
può stare uno che è stato tanto così dalla morte”, replicò la fata,
stringendosi il tabarro che frusciò avido d’informazioni per il lussuoso parquet.
Scosse il capo, le sue mani che ancora potevano sentire l'affanno del bimbo
dietro la sottile barriera di liquido amniotico e pelle. “La Sinjora dev’essere
confortata e per confortata dico che il sinjoro marito trascorra del tempo con
lei. Restituitele inoltre il violino, al piccino piacerà, addolcendo un poco la
depressione con la quale sua madre l’ha nutrito.”
“Mi
dispiace avervi causato simili grattacapi”, si scusò invece Anise, quando venne
visitata dal marito e i parenti acquisiti. “E’ che talvolta mi sento così
inutile e voi siete sempre così gentili e mi sopportate …”, sicché quando uno
sta male e ha, in aggiunta, rischiato d’abortire, non sa proprio più quello che
dice.
“Non si
preoccupi, deve pensare soltanto alla sua salute e al bambino. E adesso che
nascerà, lei sarà sul serio una di noi.”
Anise,
in tutta sincerità, non trovò molta consolazione in quelle parole, tormentandosi
invece per il destino di Kiyora e della sua creatura.
To be
continued … |
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Piogge di Marzo, Piogge d'Ottobre, Piogge di Vita ***
B'jour!
Rieccoci
qui col nuovo capitolo!
Volevo
specificare, così da non creare confusione durate la lettura della storia, che
v'è una gerarchia tra gli appellativi di cortesia. Li traduco in inglese per rendere
meglio l'idea:
Sinjoro, Sinjora, Sinjorino,
Sinjorina =
Lord, Lady; travolta padrone/a, padroncino, padroncina (nel vero senso della
parola)
Viro,
Virina, Knabina = Mr., Mrs., Miss
Majstro = Master (inteso come mastro /
padron)
In
questo capitolo ci sarà una scena, come dire, dai contenuti delicati: mi
giustifico prima dicendo che l'ho molto edulcorata, niente di eccessivamente
descrittivo, e secondo, hé, che quelle
cose succedevano moltissimo nell'Ottocento.
Quanto
alla filastrocca che comparirà nel corso
del capitolo, non mi ricordo il nome dell'autore, comunque non è mia, precisiamo!
Un
sentito ringraziamento ai miei lettori e recensori, ad Ame Tsuki in particolare.
Vi
auguro buona lettura,
H.
**************************************************************************************************
Capitolo Secondo:
Piogge di Marzo, Piogge d'Ottobre, Piogge di Vita
Con
ancora l’eco di un bombardamento non distante dal nostro rifugio, rileggo
attentamente quanto scritto e, correggendo di qua e di là mi rendo conto quanto
sia difficile star dietro alla fiumana di nozioni che il tabarro mi vuole dare:
sul serio, a volte mi irrita questo suo andare avanti e indietro nel tempo,
infischiandosene dell’assoluta incomprensione che genera in chi sente questa
storia per la prima volta. Sicché, tentando di dare un ordine riguardo le
circostanze della nascita di mio nonno e dello zio del mio Benefattore (e mio
cugino primo), noto di aver omesso alcuni punti, pur di favorire una sorta di
parallelismo tra le vite delle loro madri: se non lo si era compreso, quando
Anise Senju assaporava la bellezza di una deprimente solitudine matrimoniale,
Kiyora Yōsei incontrava la sua madre adottiva e la sua futura famiglia, il
tutto facendo il suo bizzarro ingresso a Mokuton, distretto di Konohagakure,
Regno di Hi.
E
ancora, cos’è Mokuton, non l’ho spiegato, se non accennandolo in brevi e
imprecise descrizioni. Mi si perdonerà se spendo qualche parolina in suo
favore?
Dunque.
Quando
venni al mondo, Mokuton significava due cose: il paese appellato Mokuton e le terre
sulle quali sorgeva, poiché, durante il Medioevo, esso era stato un feudo e
precisamente del nobilissimo quanto inesorabilmente estinto casato dei Duchi Rikudo,
che vantava parentele perfino con la stessa famiglia reale e dalla quale i
Senju, giusto per impedire che qualche spiritosone li tacciasse di arricchiti
arrivisti lanzichenecchi mercenari figli di donna dalla poca virtù, sostenevano
a viva voce di discendere, seppur per via femminile. Purtroppo per i maligni, i
fatti storici li danno ragione: l’ultima Rikudo, tale Tsuki, aveva
effettivamente sposato un Senju, il cui nome ora mi sfugge, un sedicenne figlio
cadetto senza né arte né parte che per sua (s)fortuna divenne l’oggetto dei
desideri di Sua Grazia la Duchessa Tsuki, un’attempata vedova, senza figli,
dalla formidabile età di trentacinque anni. Niente politically correct: a
quell’epoca a trentacinque anni si era vecchi e la Duchessa Tsuki Rikudo oltre
che vecchia era pure di una bruttezza portentosa e al povero Senju vennero i
sudori freddi quando ella gli palesò le sue ben poco caste intenzioni. Pur
chiedendosi in che modo avesse mancato di rispetto a Dio, alla Madonna, San
Giorgio e San Michele per essersi meritato tale orripilante sciagura bipede, il
suo buonsenso di giovanotto dalle belle speranze gli suggerì, anticipando i
tempi, che Mokuton, il feudo che la Rikudo portava in dote, valeva bene una
Messa e nel suo caso, chiudere gli occhi e soddisfare le brame senili di Tsuki,
la quale era, tra le altre cose, la cugina prima dell’allora Re di Hi, Soma IV,
ergo una donna da non contrariare e Dio ci salvi dall’ira vendicativa di una jolie
femme respinta. To make a long story short, i due si sposarono e Tsuki Rikudo
in Senju rimase perfino incinta di ben nove figli, per poi schiattare al
decimo. Nacque così il casato dei Senju, duchi e signori di Mokuton. In una cappella sulla navata laterale di destra
nella chiesa di Santa Lucia si può (se sopravvive ai bombardamenti) ammirare il
monumento funebre di questa coppia stranamente assortita, entrambi scolpiti
dormienti e oranti e morti sul coperchio di marmo del sarcofago, lui con la sua
bella armatura e la spada e lo scudo, lei coi suoi lussuosi abiti alla moda e
un'acconciatura scomodissima, cagnolino ai piedi compreso. Da piccolo trovavo
un particolare gusto ad arrampicarmi sulle sbarre di ferro lavorato che
circondavano la tomba, volevo vedere bene il volto dell'illustre fondatore e
della sua nobilissima moglie, cosa non facile per la mia bassezza di poppante,
e se prima della guerra mi sono interessato a storia dell'arte, lo devo proprio
a questo gioiellino di scultura marmorea.
"Per
essere morto e pronto per il paradiso, il tuo antenato non ha un'aria molto
felice!", rimarcavo spesso, quando il Benefattore mi staccava dalla
recinzione, riportandomi coi piedi per terra. "Come mai?"
"Hé,
caro mio", sospirava ironico lui "immagina di essere sepolto assieme
alla persona che in vita hai detestato con tutto te stesso; dubito che questo
ti possa mai rendere felice, specie, se te la ritrovi pure nell'Aldilà."
Guerre
tra feudi, matrimoni, appropriazioni indebite, eredità, scambi e acquisti ingrassarono
i possedimenti dei Senju, portando Mokuton, dalla foce paludosa del fiume Naka
che favoriva un commercio diretto sia col Principato di Uzushiogakure sia con
la Repubblica Marinara di Kirigakure, a lambire perfino i confini del Granducato di Yukagakure. Il feudo venne
citato, tra i vari capitoli della tumultuosa storia di Hi, per aver subìto una
devastante razzia alla fine del Cinquecento da parte dei mercenari dell’Impero
dei Quattro Kaze, da qui l’odio perpetuo, fino a sfociare nella follia dei miei
tempi, nei confronti dei sunagacini, i loro abitanti. Meglio un morto in casa, che uno di Sunagakure alla porta, sosteneva
la gente di Hi (e soprattutto Mokuton) da secoli. E i sunagacini: Che Dio ti possa esaudire! Poco o niente
si sa dell’originario aspetto di Mokuton (paese) prima del saccheggio; dalle
litografie si suppone essere stato un fiorente borgo di confine, arricchitosi
spudoratamente coi dazi della dogana. Ad unica testimonianza delle glorie
medievali dei Senju rimase la chiesa di Santa Lucia e la statua quattrocentesca
dell’omonima martire e di S. Giuseppe protettore dei mariti, dei falegnami e
della famiglia Senju. Tutto, perfino l’imponente residenza padronale, il
Castello di Mori, venne ricostruito in seguito a quel secolo horribilis, in cui
le alte e possenti mura del Medioevo crollarono dinanzi alla forza devastatrice
del futuro, rappresentato dalla nuova arma bellica, il cannone.
Il
periodo di massima espansione s’ebbe con il matrimonio tra Butsuma Senju e
Anise Howaitogōsuto, giacché la fanciulla, oltre che a portargli in dote 5
milioni di ryo, ereditava un terzo della contea di Kureha (divisa tra le tre
sorelle, data la mancanza di eredi maschi, cosa inaudita in un paese dove
ancora s'applicava la legge del maggiorascato) che permise a Mokuton, in un
ultimo dolorosissimo stretching, di sfiorare i confini con la Città Libera di
Otogakure, la cui annessione forzata al Regno di Hi avrebbe creato, in futuro,
notevoli tensioni col Regno di Kaminari, secolare protettore di Otogakure. Pertanto,
visti e considerati i notevoli possedimenti dei Senju, un detto molto popolare
ai tempi dell’infanzia di mio nonno era che il casato avesse “più terre che anima”, ma che il
sottoscritto, analizzando spassionatamente i fatti, corregge in “più terre che figli”. Infatti, quando
Anise partorì il suo primogenito, l’orgogliosa famiglia s’era ridotta a Sua
Grazia il Maljunulo Sinjoro e i suoi due figli, di cui uno, Tōka, manco si
sposò per la disperazione dell’anziano Duca, che l'avrebbe voluta maritata e fuori di casa. Malgrado i quattro maschi
donatigli dalla nuora (e che uno solo, però, avrebbe conosciuto di persona,
mentre un altro solo durante la sua gestazione)
il destino aveva stabilito che solo il mio Benefattore avrebbe continuato a
portare il cognome dei Senju, mentre mio nipote Menma si dovrà accontentare di
un altro, meno altisonante, un cognome impostosi solo di recente e tramite i
borghesissimi soldi di mio padre e di mio nonno. Talvolta, quando i
bombardamenti scemano e l’illusione di sopravvivere a questo mattatoio ritorna,
mio cugino ed io ci chiediamo se sarà possibile conferirgli il titolo di
marchese appartenuto a suo nonno paterno, anche se la cosa oramai appare
totalmente improbabile visto che la monarchia non esiste de iure da anni e fra
poco non esisterà neppure de facto.
“Ma le
terre continueranno ad essere nostre”, ribatte stoicamente testardo mio cugino,
“Fintanto che uno della mia famiglia rimarrà in piedi, mai, mai Mokuton
cambierà padrone, mai!”
Gli
credo, troverà il modo per evitare l'espropriazione: i Senju non hanno
posseduto per più di quattrocento anni quelle terre senza averle difese colle
unghie e i denti, anche a costo di macchiarsi di subdola illegalità, allo scopo
di consegnarle con la ieratica gravità di un voto alle generazioni successive,
di padre in figlio, fino a quella del Benefattore, il ventisettesimo Duca di
Mokuton.
Interrompendo
le mie inutili divagazioni – il tabarro vuole seguitare coi suoi racconti –
concluderò dicendo che Mokuton, il paese, all’epoca di mio nonno non
assomigliava minimamente al grazioso, quasi idilliaco, paese rurale (e
sornionamente di villeggiatura) in cui era stato trasformato dallo zio e il
padre di mio cugino a suon di coliche al fegato, notti insonni e pugni in tutti
gli uffici di Konohagakure. Ah sì, e di millantate scomuniche. La piazza del
mercato lastricata dai sanpietrini e con al centro la capiente fontana della
guardiana delle oche zampillante d’acqua freschissima e che nei dì di festa
veniva decorata da nastri e coccarde colorate; il municipio in stile neogotico;
la scuola elementare dove brillai negli studi e al contempo venni bacchettato
per la mia attitudine contestatrice; i negozi dalle grandi vetrate multicolori;
la locanda di Mamma Ichiraku, che alle cinque serviva una torta alle ciliegie e
cannella da svenimento e un caffè che pareva caramello da quanto era dolce,
mentre suo figlio si specializzava più nei piatti salati di mezzogiorno e della
cena; la boutique della sarta, che per volere della Duchessa doveva sempre
aggiornare a seconda dell’ultima moda;
la dolciaria e pasticceria e i waffles e i bignè e le frittelle mattutine;
la farmacia dai mille profumi, un’altalenarsi olfattivo tra disinfettante e
pungenti erbe medicinali; le strade selciate e all’occasione interrotte da
piccoli canaletti sovrastati da graziosi ponticelli decorati da vasi di fiori;
i giardini sempre odorosi delle case tradizionali; i fiori ai loro balconi e
l’ombra degli alberi secolari … tutti posti
che caratterizzarono la mia infanzia, ora, purtroppo in balìa della guerra. No,
quando Anise e Kiyora partorirono i loro marmocchi, Mokuton appariva un
pantano, un vero e proprio villaggio da ultima frontiera – mancava solo la
scritta sulla cartina “Hic sunt leones”
– con la bella quanto inutilmente spaziosa chiesa per le sue cinquanta anime,
la residenza padronale sulla collinetta con un signor giardino romantico e i
resti delle antiche mura e torri medievali, un forno comune, mulini a vento e
ad acqua, un droghiere e il camposanto. E basta. Poi i campi, di ogni genere e
coltura, ma campi. E basta. Il fiume Naka. La foresta. La siluette delle
montagne visibili solo nei giorni chiari senza umidità. E basta. Nella torre
campanaria, tra un’isterica sghignazzata e l’altra, il nonno mi raccontò che la
prima stazione ferroviaria, che non si dovesse raggiungere in mezza giornata di
carro, arrivò durante la sua prima adolescenza e solo su insistenza della
Duchessa Anise, la quale s’era stufata di dover mangiar polvere ogni volta che
da Konohagakure si trasferivano a Mokuton per sfuggire alla canicola estiva e
controllare l’andamento dei raccolti.
Per il
resto, il nulla.
***
Ad un
certo punto della sua inaspettata vedovanza, Tajima Uchiha realizzò che o si trovava
una seconda moglie o che sarebbe stato ben presto impiccato per infanticidio. L’ultimo
marameo di Natsumi, morire di parto, lo aveva sinceramente spiazzato. Gli uomini non sono adatti a crescere i loro
cuccioli, non almeno nei loro primi giorni di vita: li trattano alla stregua
dei cagnolini, due o tre pat-pat sulla testa, qualche mezzora di gioco e poi li
restituiscono sporchi e strillanti e affamati alle rispettive mogli, affinché
se ne occupino. La loro fragilità ed eccessiva dipendenza li confondono,
mettendoli a disagio. E Tajima Uchiha di simili bestiole ne aveva ben tre: Setsuna,
di cinque anni, Saya di tre e Haruka, la neonata.
Da dove
incominciare?
Sua
suocera, tanto per cambiare, lo odiava, ritenendolo il principale responsabile
della morte della sua figliola, perché Natsumi era sempre stata più forte di un
bue e quindi era impossibile che una tale sciocchezza come il parto l’avesse
costretta a cambiare di domicilio. Sua madre, Avina (= nonna) Uchiha, doveva
badare agli altri figli e nipoti e pronipoti e non aveva né il tempo né la
voglia di ammazzarsi per questi tre, figli inoltre di una donna che non aveva
mai digerito. Una vicina generosa e dalle poppe piene di latte – tanto, di
puerpere a Mokuton non mancavano mai – Tajima la trovò, soddisfacendo perlomeno
le esigenze mangerecce della perennemente affamata terzogenita. Ma i figli maggiori?
La casa? Quello rimaneva un territorio assolutamente inesplorato per l’Uchiha,
che sognava di possedere sul serio cento
occhi per star dietro a quelle pesti bubboniche di Setsuna e Saya, ch’erano
tutto tranne che disciplinati - via la gatta-madre, i topi-pargoli ballano.
Finché
un giorno non si presentò, di nuovo, alla porta la tredicenne Kiyora
“Kraĉisina”, raccontandogli di una certa promessa fatta alla morta, ovvero che
si sarebbe presa cura dei suoi piccini, della casa ed eventualmente del marito.
Tajima Uchiha non se lo fece ripetere due volte, anzi, non le permise proprio
di finire la frase che Kiyora venne ufficialmente arruolata e di fatti i risultati
non tardarono a mostrarsi: i due monelli, ricevuto ciascuno una sonora rapsodia
di sculacciate, scoprirono ben presto le gioie dell’obbedienza.
“Ma
come hai fatto? Gliene ho date, credimi, e si comportavano peggio di prima!”
“Perché
lei si trattiene, Majstro Uchiha”, gli spiegò pratica la ragazzina,
massaggiandosi le mani indolenzite. “I bambini sono delle canaglie, avvertono
che lei non ha intenzione di menarli troppo forte. E ne approfittano per fare i
loro porci comodi. Io, al contrario, non ho remore a scuoiarli del loro
deretano se necessario e da me non si
salvano!”
Sculaccioni
a parte, la giovinetta, istruita man mano da Najtine, s’applicò con seria
dedizione al suo fioretto e ben presto la casa ritornò ad essere ordinata,
pulita, col fuoco sempre acceso e la cena pronta in tavola all’ora giusta. Setsuna
e Saya, pur augurandole uno scagotto fulminante tra un Padrenostro e
un’Avemaria alla sera prima di addormentarsi, le obbedivano loro malgrado, un
po’ perché sentivano comunque la necessità di una rassicurante figura materna;
un po’ perché Kiyora, se contrariata, brandiva la famigerata Madama Ferula,
un’inflessibile canna di bambù che aveva martoriato e che martoriò in seguito
il fondoschiena di generazioni di Uchiha, perfino del sottoscritto quando,
ancora in vita la bisnonna, mi ostinavo nei miei puerili capricci. Il
condannato veniva fatto piegare su di un tavolo e, calatigli i calzoni e
talvolta le stesse mutande o se femmina sollevatole le sottane, doveva contare
ad alta voce la dozzina più dolorosa della sua vita.
Kiyora
però aveva detto il vero: i bambini Uchiha erano effettivamente dei piccoli
delinquenti, avevano fiutato gli indizi nell’aria prima ancora del loro ignaro
padre e di fatti la loro iniziale avversione nei confronti della mora derivava
dalla paura matta che si realizzasse uno scenario, per loro, apocalittico: le
seconde nozze. Matrigna. Vi dice nulla Biancaneve?
“La
figlia della Strega sposerà nostro padre, avranno altri figli, dopodiché ci
abbandoneranno nella foresta come Pollicino e Hansel e Gretel!”, confidò Setsuna
a sua sorella sotto le coperte del lettone, una volta accertatosi che Tajima
stesse dormendo profondamente. “Dobbiamo cacciare via la figlia della
Sorcxistinon, prima che sia troppo tardi! Altrimenti, se non ci abbandona nel
bosco, potrebbe chiamare sua madre e trasformarci tutti in rospi!”
Saya si
portò una mano alla bocca, trattenendo a stento un gridolino spaventato. Odiava
i rospi, quelle creature brutte e viscide che i figli dei vicini la
costringevano a baciare per dispetto.
Si
scatenò, dunque, una piccola guerra sotterranea fatta di dispetti e ripicche,
sotto i volti apparentemente sereni e innocui dei contendenti. Figurarsi se si
volevano dare la soddisfazione di riferire tutto a Tajima! No, piuttosto la
lotta all’ultimo sangue!
Trascorsero
così due anni e la tensione bellica si rilassò, più che altro dovuta alla forze
dell’abitudine, la quale si sa, stempera e uccide ogni umana passione:
assuefatti, appunto, alla presenza di Kiyora, Setsuna e Saya la giudicarono non
pericolosa per la loro incolumità, seppellirono l’ascia di guerra, cessando di
conseguenza le ostilità, e accettarono di firmare un simbolico armistizio. Fu in quel periodo
che Tajima prese a corteggiare Kiyora, anche lui per la forza dell’abitudine,
visto che l’aveva sempre sotto il naso e un vedovo con tre figli non è mai un
partito allentante, non senza mononi
sonanti.
Tutto
iniziò quando lui, rincasando leggermente in anticipo rispetto al solito, trovò
Kiyora a carponi per terra intenta a lavare il pavimento. Ora, vi chiederete,
cosa c’è di strano o di conturbante in quella mansione domestica sì faticosa?
Hé, forse galeotta fu la sottile sottoveste umida di sudore, che risaltava le forme
oramai di donna della mora: infatti, non volendo rovinare l’abito sobrio ma di
ottima qualità e le scarpe buone che le servivano per il suo lavoro di cameriera
presso la Sinjorina, Kiyora s’era spogliata di questi, procedendo alla pulizia
scalza e coperta da un discutibile intimo. Non l’aveva fatto apposta,
quindi. O forse sì, giacché il tabarro
mi confida che lei, accortasi della figura pietrificata di Tajima alle sue
spalle, prese perfino ad ancheggiare, dimostrandogli che lei non castigava la
sua prorompente femminilità. E poi Tajima aveva onorato la memoria di Natsumi
per due anni, due anni di astensione carnale, un record per l’epoca, figurarsi
se non era rimasto – piacevolmente – sconvolto da quella vista, perfino sua
nonna in mutande gli avrebbe fatto risalire il sangue alla testa, quindi Kiyora
stava vincendo facile e, per umiliarlo definitivamente con la sua vittoria, gli
venne incontro in queste condizioni, con la scollatura rivelante un seno non
particolarmente prosperoso ma bello sodo ed eretto.
“Permettimi
di accompagnarti a casa!”, le propose quella sera, sentendosi d’un colpo
protettivo nei suoi confronti.
Kiyora
si schermì, divertita da quella premura molto interessata. “Ma no, si figuri, Majstro
Uchiha!”
“Insisto!”
Ma la
ragazza fu irremovibile. Gli concesse di accompagnarla a casa solo una
settimana dopo la prima proposta e solo il mese successivo accettò che lui
incominciasse a tenerla per mano, accomiatandosi da lei con un bacio sulla
fronte, che non tardò a scendere verso territori più morbidi. Si susseguirono piccole tenerezze e carinerie
tra i due, come un regalo qua e una mano là, un favore qui e una palpatina lì e
non si può negare che la giovane non ci trovò il suo gusto, in quanto deve
ancora nascere la donna che non ha mai intimamente goduto nel ritrovarsi
desiderata e corteggiata.
“Il
periodo più bello della mia vita”, soleva ripetere Kiyora ai figli, a se stessa
e a me, rivangando quei ricordi lontani. “Poi, andò tutto a remengo.”
Fin da
piccolo, mi ero sempre chiesto – e forse anche mio nonno lo fece all’epoca sua
– che cosa ci aveva trovato una personalità bizzarra come Kiyora in un totano
(sì, perfino mio nonno aveva rifilato a suo padre questo poco lusinghiero
soprannome) come Tajima Uchiha. Che cosa aveva provato veramente per lui? Il
tabarro risponde: compassione, simpatia, affetto, passione, fintato che il
cuore della bisnonna era rimasto puro da ogni malizia e delusione. Poi,
l’abitudine e altre magagne dell’esistenza ridimensionarono questi sentimenti,
facendoli convergere tutti in un unico: l’indifferenza.
Ma in
quella notte piovosa di marzo, Kiyora non pensava a queste cose, bensì a come
le sue calze le si fossero bagnate nella corsa da casa sua a quella degli
Uchiha. “Le dispiace se le asciugo qui, vicino al caminetto?”, chiese al suo
anfitrione, alzandosi nel frattempo le gonne fino alle cosce, con la stessa
candida naturalezza di quando le sollevava nelle esuberanti danze della
domenica.
“Certo,
fai pure.”
Stranamente,
per una casa dove convivevano quasi quattro famiglie assai numerose, erano
soli. L’Avina Uchiha, i suoi figli con a seguito le loro piccole tribù, Setsuna
e Saya si trovavano in visita ad una loro parente che stava per dare alla luce
l’ennesimo moccioso. Tajima, che possedeva delle validissime ragioni per
astenersi da tale evento, preferì non venire e nessuno gliene volle, poiché a
Mokuton nessuno, manco il padrone stesso, ha segreti e mio nonno e lo zio di
mio cugino avrebbero, crescendo, appurato a loro spese quanta dannata verità
contenessero queste mie parole.
Alzandosi
dapprima baldanzosa, Kiyora si recò verso il caminetto; tuttavia, a ciascun
passo, la sua puerile tracotanza si gelava e l’incertezza e la paura
l’assalirono, aprendole gli occhi: era sola in casa con un uomo. Non giocare alla donna navigata, ché sei
ancora una bimba ingenua! , le risuonarono le parole di Najtine all’orecchio.
La ragazza inghiottì malamente la sua saliva, tremante. Rise nervosamente,
scompostamente, ebbe all’improvviso voglia di piangere, guardò ansiosa il fuoco
scoppiettante, Tajima, le calze bagnate, Tajima, le gocce cadenti che creavano
una piccola pozza d’acqua, Tajima … Si sentì stupida, maledisse la sua ingenua
sfrontatezza, l’hai provocato!, si diceva, ora ne paghi le conseguenze!, si
fustigava. Nascose il viso colle mani, chiuse gli occhi, non voleva vedere,
desiderava rifugiarsi sotto il tabarro, temeva ora l’uomo le cui attenzioni aveva
prima desiderato.
Una
gentile e callosa pressione sui polsi. Le dita che si schiusero. Gli occhi
scuri di Tajima sui suoi.
“Non
c’è nulla di cui vergognarsi”, dacché un uomo in preda all’istinto primordiale sarebbe
capace di spararne non grosse, bensì gigantesche. “Nulla.”
Su
questo punto Kiyora avrebbe avuto molto su cui controargomentare; invece, non
levò una sola parola di protesta quando si diressero al piano superiore, nella
camera da letto. E come batté, quella notte, la pioggia! Tenace,
conquistatrice, insidiò la solida barriera del pudico vetro, inumidendolo della
sua liquida lascivia, rigandolo, macchiandolo, insinuandosi libidinosamente curiosa
tra gli infissi di legno, cadendo, pluff-pluff, goccia dopo goccia: s’irrorò
così il basilico appena seminato nei capienti vasi, bevve e ne godette, vinto
dalla pioggia apportatrice di vita. Fila
triste la vecchierella, che non può più ballare: un tempo ero sì giovine e
bella, d’un giunco palustre più snella e già a quindici anni m’insegnavano a
far l’amore … , cantano le spigolatrici il dì della mietitura, il loro
destino di figlie della campagna.
Sgattaiolando
via furtivamente dal letto dell’amante – le riusciva arduo guardarlo dritto in
faccia – Kiyora rientrò quatta quatta a casa sua, lavando via vergognosa con
l’aceto i segni della sua verginità perduta.
“Sai
che è inutile”, le parlò allora l’ombra di Natsumi, così pallida nella bruma
mattutina, il sangue vermiglio che ancora le colava lungo le gambe. “Hai
concepito. Adesso sei una di noi.” E cosa la defunta avesse inteso con quel noi , la ragazza se lo sarebbe chiesto
fino al letto di morte.
“Taci!
Non mi seccare!”, ringhiò Kiyora, rendendosi d’un tratto conto, che stava
parlando col vuoto. Sbattendo confusa, e un po’ impaurita, le palpebre, la
giovane zoppicò fino al tabarro di Najtine - ch’era sveglia, figurarsi! – vi si
rifugiò sotto in cerca di conforto e protezione. “Se davvero sono rimasta
incinta”, meditava, “Come farò con quella bigotta della Sinjorina? Mi caccerà e
dopo? Come ci manterremo? Ma no, non è possibile! È troppo presto per dirlo,
eppoi sono anche molto giovane … forse …”, si raggomitolò, inspirando a fondo
l’odore centenario del tabarro. “Almeno, mi ha preso su di un letto e non sui
campi o in riva al fiume, come una cagna …”
***
Nel
frattempo, a due mesi di distanza dal suo concepimento, Hashirama, avendo fino
ad allora risparmiato a sua madre quasi tutti i piccoli segnali che tradiscono
una gravidanza, decise che era infine giunto il momento di annunciare al mondo
la sua prossima venuta. Nella tranquillità del ventre materno, progettò con
cura la cosa e scelse con studiata perfidia l’occasione più propizia.
L’ignara
genitrice si trovava quel giorno nel suo boudoir a suonare – ma no! – il suo
adoratissimo violino, trapanando il cranio agli abitanti della casa padronale e
non perché suonasse da cani, bensì per l’incessante esecuzione di brani di ogni
genere musicale, difficoltà e tempo. Anche la bravura, alla lunga, stroppia e
la testa di Tōka Senju stava appunto per scoppiare.
“Tutto
il santo giorno, pardi, tutto il santo giorno! Ma non si stanca mai? Che sorta
di malefica stamina possiede quella donna? E mio padre, poi! Le ha restituito
il violino, dopo che, confiscandoglielo, speravo di aver portato un po’ di
quiete in questa casa di matti!”, si tappava la Sinjorina le orecchie, mentre
la sua cameriera gliele rimetteva al loro posto, altrimenti incapacitata a
pettinarla. “Non lo trovi anche tu, Yōsei?”
Kiyora,
che aveva ben altro per la testa, scrollò le spalle: “Suona bene, la Duchessa”
e, terminato lo chignon della padrona, s’apprestò a servirle la cioccolata per
la colazione, sennonché dal beccuccio non uscì nulla.
“Come!
Ancora! È tutta la settimana che mi porti un bricco da cioccolata vuoto! Sogna
meno, ragazza, e magari combinerai qualcosa di buono!”, la rimproverò Tōka
Senju senza tanti giri di parole, invitandola spazientita a recarsi di filato
in cucina a riempire il bricco.
“Le
andasse di traverso tutta la cioccolata di ‘sto mondo, hundina!”
“Che
hai detto, Yōsei?”
“Niente!”,
esclamò con forzata enfasi Kiyora, voltandosi e sfoderando il più tirato dei
suoi sorrisi. “Che vado, no, corro in cucina a prepararle la sua cioccolata!”
Non ci
andò. Si sedette piuttosto sugli scalini di marmo, il bricco di porcellana alla
sua destra, la fronte appoggiata sul fresco corrimano dai putti di maiolica e le mani giunte sul grembo. Serrò
la bocca, cercando di trattenere la nausea montante, che da un po’ la
tormentava. Le venne allora in soccorso la musica proveniente dal piano
inferiore, quel trascinante arabesco di note che, zigzagando in arpeggi e
accordi talvolta miti, talvolta indomiti, la cullò nella sua arcana nenia.
Avvolgendola pronta a soffocarla nel suo abbraccio di segrete melodie. Kiyora
s’addormentò mentre la Duchessa s’impegnava in un saturnino andante e se non si
buscò l’ennesima lavata di capo, lo dovette a Kanako, la cameriera personale
della padrona, che la trovò per prima.
“Dio
mio, Kiyora! Hai la faccia più verde dell’erba e ancora sostieni di stare
bene?”, sbuffò quella, prendendo posto accanto a lei. La sua collega non
replicò, limitandosi a schioccare la lingua in disapprovazione. “Sul serio, che
cos’hai?”, la incalzò la giovane. “Ti comporti in modo strano …”
“Beata
lei”, mormorò invece Kiyora, lo sguardo fisso su Anise, che intravedeva dalle
scale e dallo spazio concessole dalla porta semiaperta. La Duchessa, suonando,
si dondolava, quasi fosse in preghiera, i riccioli biondissimi dai riflessi
argentei leggermente umidi sulle tempie. “Beata lei che è sterile …”, e sì,
avevano sentenziato i servitori dal primo all’ultimo, tre anni di matrimonio e
ancora niente figli, due più due …
Ah no,
razza di pettegoli, ah no! Nessuno dà della sterile alla mia Maman, men che
meno in mia presenza, cari miei!
Il
trillo s’interruppe bruscamente. Uno stridulo gracidare di rospo fendette
l’aria e menomò la melodia, sopprimendola. Un grido di protesta si sostituì al
gorgheggio del violino e la sua proprietaria, portandosi all’altezza del grembo
sia l’archetto che lo strumento stesso, si piegò, tradita e oltraggiata, in
avanti, per barcollare all’indietro, il volto cinereo e gli occhi quasi fuori
dalle orbite. Infine, seguì un tonfo di corde e carne accompagnato dall’eco del
legno e dei vestiti.
Sua
Grazia la Duchessa era svenuta. Missione compiuta.
“Sinjora!
Madame!”, gridò spaventata Kanako, volando al fianco della padrona e tentando
di rianimarla. “Su, Kiyora, non startene lì impalata! Portami i sali! Presto!”
La mora
corse, certo. Al primo catino reperibile per vomitare, tra lacrime e crampi
atroci, la colazione, il pranzo e la cena del giorno precedente.
“Il
dottore aveva in viso una tale espressione …”, confidò Anise a suo marito al termine della visita. “Spero
che non sia nulla di grave …”
“Oh, no”,
la rassicurò Butsuma Senju, stranamente raggiante. “Lei deve solo riposare, e
anche molto, fino alla nascita, al resto ci penseremo noi.”
“Nascita,
dice lei?”
“Sì, a
ottobre a Dio piacendo nascerà il nostro primogenito.”
Silenzio.
“Ah, je
vois …”
“Non è
contenta?”, aggrottò l’uomo la fronte, interdetto dall’assoluta apatia con la
quale la moglie aveva accolto la notizia.
“Si
sbaglia, mon ami, lo sono, perché so di aver finalmente adempiuto al mio
dovere, rendendo felice sia lei che la sua famiglia” e mentre lei pronunciava
questo accorato discorso di repertorio, lo sguardo inquieto di Anise vagava
alla ricerca del suo violino, sebbene nutrisse numerose remore da informarsi sulla
sua ubicazione.
“Ovvio
che sono felice per il dono che mi ha fatto!”
La
Duchessa gli elargì un tremulo sorriso. Nel frattanto che era rimasta in
deliquio, la sua cognata doveva averle sottratto per la seconda volta il
violino, ci poteva scommettere i mignoli. Sorrise di nuovo, lasciandosi
rimboccare le coperte, baciare la fronte e sprofondare nel buio delle tende
tirate a ritmo di: “Adesso, sarà meglio che lei dorma un poco.”
A
parte, dunque, lo strabiliante silenzio che piombò sul Castello di Mori da quel
giorno, rendendolo un vero e proprio mausoleo, la gravidanza di Anise proseguì
relativamente tranquilla, se per tranquillità s’intende ritrovarsi agli arresti
in camera da letto. L’unico suo alleato in quella premurosa prigionia rimase
suo suocero, il magnanimo approvvigionatore di quei fichi al miele dei quali
Anise non riusciva a farne a meno, ingurgitandone in quantità spaventevole.
Inoltre, sordo alle insistenze della figlia, l’anziano Duca, verso le cinque e
mezza, accompagnava sempre la nuora a passeggiare lungo i vialetti aiuolati del
giardino romantico, facendola sostare di tanto in tanto presso la fontana di
Apollo e Dafne o al laghetto artificiale o a un ninfeo o al gazebo circondato
dai profumati roseti ormai pronti al loro lungo sonno autunnale e invernale.
“Il mio
dev’essere un bambino molto tranquillo”, si accarezzava Anise il ventre
rigonfio, a malapena contenuto dalla vesticciola, retaggio di un settembre
davvero mite. Un mese era trascorso dall’incidente con la fantesca scoperta
incinta e da quel momento si tenne Anise all’oscuro da qualsiasi affare di
famiglia che la concernesse, direttamente o indirettamente. “Scalcia a
malapena. È normale?”
“Segno
che possiederà un carattere migliore rispetto agli altri Senju che lo hanno
preceduto!”, scherzava l’anziano Duca, osservando pieno di malinconica dolcezza
quella rotonda promessa di una nuova vita.
“Lei ha
un buon carattere, mon père.”
“Perché
mi ha conosciuto da vecchio, bambina mia!”
Anise
ridacchiò timidamente. “Secondo lei, sarà maschio o femmina?”
Per la
continuazione del casato Senju, sarebbe stato augurabile un maschio, ma Sua
Grazia il Maljunulo Sinjoro era un uomo di mondo e conosceva la raffinata arte
della diplomazia. “A mio parere, lei ci donerà una splendida bambina, coi suoi
capelli biondo pallido dai riflessi più d’argento che oro.”
La
Duchessa scosse il capo. “Io invece spero sia un maschio, un Senju dalla testa
ai piedi, coi capelli castano scuro e gli occhi anch’essi marroni, acciocché
nessuno gli rimproveri di non essere il figlio del Duca e soprattutto, perché
per gli uomini è più facile sopportare un matrimonio combinato rispetto a noi
donne … Almeno, loro possono permettersi il lusso dell’amante …”, sentenziò
incolore Anise, stringendo gli occhi carminio e puntandoli in una direzione a
lei sola tristemente nota.
“Sua
nuora ha ragione, Maljunulo Sinjoro”, gli confermò Najtine in una di quelle
notti insonni, durante le quali l’anziano Duca, soffocato dal peso della
vecchiaia, vagava in cerca di un po’ di compagnia. No, eh! Non quella compagnia: oramai, alla sua età,
l’unica forma di libido che lui provava si manifestava alla vista di un cannolo
alla ricotta con scaglie di cioccolato e ciliegie candite. In Najtine il
vecchio Senju riviveva quell’antica sensazione di incrollabile sicurezza, che
solo ai tempi dell’infanzia, ancora viva sua madre, aveva provato.
“Su che
punto?”
“Sarà
un maschio e nascerà sotto il segno dello Scorpione.”
“Impossibile,
Najtine: il dottore ha stabilito il parto verso i primi di ottobre, ergo, sarà
un Bilancia!”
“Nah,
non ascolti quello stultaj! Creda a
me, avverrà verso la fine di ottobre. E se avrà bisogno, non esiti a
chiamarmi.”
“Me ne
ricorderò. E la prego di accettare ancora le mie scuse, per il modo ignominioso
in cui mia figlia ha trattato la sua.”
Najtine
liquidò la questione tramite un nervoso svolazzo della mano. “Non me ne cale
poi molto; quello è un affare tra Kiyora e la Sinjorina, noi non siamo i
custodi delle loro anime, ergo non si scusi, padrone, perlomeno non con me.”
“In
ogni modo, vorrei rimediare.”
“Chi
vivrà, vedrà. Il mondo fa tanti giri, Sinjoro, può darsi che un giorno, suo
malgrado, la Sinjorina dovrà riassumere mia figlia. Chissà.”
“Sul
serio, non c’è niente …?”
“No,
niente. Lei mi ha ospitato nelle sue terre, signore, aiutare i suoi nipoti a
venire al mondo è il minimo che possa fare.”
Il
volto dell’anziano Duca si illuminò. “Nipoti? Ne verranno altri?”
Quello
di Najtine, invece, s’incupì. “Jes, tri. Anzi, quattro, ma uno non ce la farà”
Sospirò affranta. “E poco le dovrebbe comunque importare, visto che lei non li conoscerà.
Solo il primo le è concesso. Solo il primogenito.”
Di
norma, sentendo tali discorsi, una persona qualsiasi o si sarebbe spaventata o
innervosita per simile assurdità. Invece, il vecchio Senju accolse serenamente
la notizia, quasi gli avessero comunicato il bollettino meteorologico per
l’indomani. “Mi accontenterò, allora.”
Najtine
convenne con lui.
Terminarono
la nottata parlando d’altro.
Si
racconta che Hashirama Senju nacque incazzato come una bestia e, a parer del
tabarro, aveva ogni sacrosanto diritto ad esserlo: se, alla sera del 22
ottobre, dopo che le doglie erano incominciate la mattina del 21, notando che
la faccenda non andava né avanti né indietro, suo nonno non avesse posseduto la
prontezza di spirito e apertura mentale sufficiente per chiamare Najtine, di
certo le congiunte perplessità del dottore e della levatrice gli sarebbero costate
lo strangolamento con lo stesso cordone ombelicale, che lo aveva fino a quel
momento nutrito.
All’inizio,
quando Kanako, affacciandosi all’entrata del giardino d’inverno, aveva
strillato: “A Sua Grazia la Duchessa si sono rotte le acque!”, tutti supposero
che il parto certamente sarebbe stato lungo, ma non così esasperatamente lento
come invece procedeva.
“E’ il
primo figlio, Butsuma”, cercava Tōka di tranquillizzare l’iper-agitato
fratello, che non cessava nel suo esagitato andirivieni davanti alla porta
della stanza, da cui provenivano urla disumane e spinga! spinga forte! “E’
sempre il più difficile, ma Anise è forte e ce la farà!” e gli accarezzava la
schiena, dimostrando un lato tenero che difficilmente si manifestava nei
confronti di terzi.
Suo
padre, invece, aveva optato per il metodo più antico del mondo, ovvero
riempirgli il bicchiere con del Porto. “Beva, figlio, beva in onore del bambino
e della madre!”, in realtà voleva che se ne stesse fermo per un istante,
giacché gli stava venendo un possente mal di testa. L’assurdo temporale, poi,
che faceva coi suoi tuoni tremare i vetri del castello e illuminava a giorno il
cielo grigio fumo, riempiendo i corridoi di ombre, sicuramente non migliorava
la situazione già di suo tesa e carica di nervose aspettative.
Moltissime
ore dopo, quando Najtine, scortata dall’anziano Duca in persona, entrò nella
stanza della partoriente, la trovò più grigia di un topo e lucente di sudore, il
lineamenti del viso deformati dalla fatica. “Aprite una piccola sfesa, giusto
per cambiare l’aria, qui si soffoca!”, furono le prime parole della donna,
mentre si avvicinava al letto della digrignante e ringhiante Duchessa. “Sinjora,
sia onesta con se stessa”, le prese la mano completamente bagnata,
accarezzandole i capelli umidi incollati sulle tempie. “Lei, lo vuole il
bambino?”
Anise
la guardò a lungo, sbattendo freneticamente le ciglia, che si liberarono delle
ultime pingui lacrime. Annuì, troppo stanca per parlare.
“Perfekto,
su questo punto ci troviamo d’accordo tutti e tre”, commentò più serena
Najtine, passando una mano sul ventre tesissimo. “E lei, Sinjorino, la smetta
di fare lo spiritoso e si decida ad uscire una buona volta: mi occuperò io di
lei, è in buone mani, non la sculaccerò troppo forte né le farò il bagno con
l’acqua bollente. Ma esca, non faccia la primadonna!”, sussurrò a quel pancione
sudaticcio, ignorando le occhiate scandalizzate dei presenti – Kanako, il
dottore e la levatrice – che presero a borbottare contrariati, dandole della
pazza strega. Najtine, per tutta risposta, li relegò nell’angolino, pena
l’essere cacciati via a calci nel sedere.
Hashirama
Senju nacque alle nove del mattino del 23 ottobre, giorno di San Giovanni da
Capestrano sacerdote, nella 43esima settimana dell’anno, luna piena, segno
zodiacale Scorpione. I rintocchi della pendola non avevano ancora finito di
suonare il loro carillon, che le urla isteriche della madre cessarono per
lasciare posto ad un eloquente silenzio, cosicché fossero gli strilli acuti del
tanto sospirato erede a terminare lo stonato gorgheggio materno.
“Dio,
che polmoni!”, esclamò suo nonno, l’anziano Duca, alzandosi incerto sulle sue
gambe e barcollando verso la porta che si apriva.
Butsuma,
leggermente alticcio a causa della medicina paterna, scoppiò in un pianto
liberatorio, nascondendosi tra le mani un volto così stravolto, che sembrò che
avesse partorito lui il suo primogenito e non la moglie. Tōka, per una volta,
non disse nulla e per questo il genitore gliene fu immensamente grato.
Sculacciato,
privato del suo cordone ombelicale, esaminato in ogni sua parte, lavato e
avvolto da morbide coperte, Hashirama venne posto su di una lussuosa culla
rococò, dove i suoi predecessori avevano risieduto prima di lui. La cosa non
gli garbò per niente: voleva il caldo e morbido abbraccio della madre, perdio,
non quel surrogato di seta, pizzi e merletti! Inoltre, cos’erano quegli sguardi
indagatori da bue lessi dei suoi parenti, che gli pendevano col loro viso
enorme e gli occhi ancora più grandi e quell'incessante toccargli il naso, le
manine, le guance, la pancia, i … e no! Pussa via! Voglio la mia Maman! E, per
rafforzare queste sue esigenze di neonato, il piccino strinse i pugni, divenne
rosso ciliegia e ululò peggio di un lupo solitario, mostrando le gengive senza
denti, la linguetta tesa come una corda di violino e perfino l’entrata del suo
esofago. Pianse, scalciò, gridò, si fece dare dell’indemoniato, epiteto che di
certo non scalfì la granitica risoluzione di Hashirama di calmarsi solo quando
il nonno, venendo a trovare la puerpera che nel frattempo s’era un poco ripresa
dal suo deliquio, lo sottrasse delicatamente dalla culla, cedendolo alle
braccia ansiose di Anise, che se lo portò prontamente al petto, cullandolo.
“Ma sarà
un bel matto, lei!”, gli sussurrò la donna, accarezzandogli con la punta del
dito la guancia calda e paffuta. Il pargoletto, soddisfatto, le regalò in segno
di gratitudine il suo primo sorrisone sdentato. "E chissà perché, ma
qualcosa m dice che lei non avrà il naso grosso!" Esatto, crescendo
Hashirama avrebbe avuto un bel naso dritto, interrompendo la tradizione
somatica che tutti i maschi Senju sfoggiassero un solenne naso grifagno, come
testimoniano gli innumerevoli ritratti. I geni generosi di Anise avrebbero
fatto poi quaterna, aggiungendo i figli successivi, tutti col naso dritto, toh!
“Ha un
carattere molto volitivo, senza dubbio!”, sentenziò il nonno, sorridendogli
orgoglioso. Nella stanza erano rimasti solamente loro due, poiché Najtine, a
compito terminato, dichiarò di dover ritornare a casa sua per tener d’occhi sua
figlia, ch’era al settimo mese di gravidanza. Quanto al dottore e alla
levatrice, Butsuma li stava scortando all’ingresso, mentre sua sorella era
corsa in cucina per dare le prossime istruzioni ai servitori.
“Vorrei
chiamarlo come lei, mon père”, ruppe Anise il dolce silenzio instauratosi tra
di loro.
Sua
Grazia il Maljunulo Sinjoro scosse il capo, portando giocosamente le mani in
avanti. “No, no, per carità. Non merito cotanto onore” e, sospirando
malinconicamente, le confessò un piccolo segreto, che però, con l’avanzare
degli anni, gli impediva la notte di dormire bene. “Sa, non avrei dovuto
neppure ereditare il titolo di Duca né tantomeno le terre di Mokuton. Non sarei
dovuto essere nulla.”
“Non
era lei il primogenito?”
“No, lo
divenni grazie alla prematura scomparsa di mio fratello, un uomo d’onore che
avrebbe meritato cento volte rispetto a me l’intera fortuna dei Senju.”
“Che avvenne?”
Aveva
parlato, tanto valeva terminare la sua dolorosa confessione. “S’arruolò al
posto mio.” E altro non ci fu da aggiungere.
Silenzio.
“Come
si chiamava?”
“Hashirama.”
Anise
sorrise. “Dunque, sia Hashirama il nome di suo nipote, cosicché egli cresca generoso,
onorato e fide come lo era suo fratello”, pronunziò ella tali parole con la
solennità di un voto e, guardando amorevolmente il figlioletto, che si stava
succhiando il pollice e si chiedeva a quando il pasto, gli domandò: “Che ne
pensa, mon coeur?”
Il
bambino non assordò nessuno coi suoi ululati, ergo si presunse che gli
piacesse. A onor del vero, a lui sarebbe andato bene perfino il nome di
Ermenegildo, purché sua madre si sciogliesse la liseuse e si decidesse a dargli
la pappa. Invece, dovette sopportare un infinito giro di posso tenerlo in braccio? e, ovviamente, la falsa discussione sul
suo nome, sul giorno del suo battesimo e sui suoi padrini. Hashirama sbadigliò,
a bocca ben larga perché ai neonati tutto è scusato e giunse alla conclusione
che, a neppure ventiquattrore dalla sua nascita, già si pentiva d’essere uscito
dal più rassicurante ventre materno: lì, almeno, non era circondato da adulti
ridicoli, che lo trattavano come un micetto e parlavano di cose astratte e
prive di senso. Senza contare, che lì dentro gli davano da mangiare. Aggrottò quindi
la fronte, arricciò il naso, inspirò aria e s’esibì, per il terrore della sua
famiglia, nell’ennesimo sconquassante do di petto. Solo i tuoni dei fulmini,
che continuavano a dominare il cielo, piovendo che Dio la mandava, gli
arrivavano in quanto a potenza alle caviglie. Se Hashirama non fosse nato
figlio del Duca di Mokuton, una brillante carriera di cantante lirico, viste e
considerate le premesse, nessuno gliela avrebbe negata.
Intanto,
fuori continuava a diluviare.
Vien l’autunno
sospirando,
sospirando alla
tua porta.
Sai tu dirmi che
ti porta?
“Qualche bacca
porporina.
Nidi vuoti, rame
spoglie,
e tre gocciole di
brina
e un pugnel di
morte foglie.”
“Sei
tornata tardi, Panja! Ch’è successo?”
Najtine
s’era appena levata il tabarro, il quale ronronnò soddisfatto sentendo il
tepore di un luogo asciutto, che Kiyora le comparve dinanzi, avanzando
goffamente col suo pancione ben protetto dal caldo scialle verde. Per motivi
che spiegherò più avanti, la ragazza s’era rifiutata di rimanere in casa col
padre del bambino, non date le attuali circostanze: la Canossa di Enrico IV
sarebbe stata niente a confronto del calvario che lei aveva in mente di
sottoporre a Tajima Uchiha, se desiderava rivendicare la sua paternità
sull’infante.
Aiutandola
a sedersi sulla sedia davanti al caminetto acceso, la fata le spiegò
concisamente: “La Duchessa ha partorito un bel maschietto; lo chiameranno
Hashirama, come il fratello di Sua Grazia il Maljunulo Sinjoro.”
“ Pah! Tutto
qui? Un altro aristocratico è nato! E allora? Mica mi cambierà la vita! Né la
mia né quella del mio piccino!”, rise sardonicamente la giovane, pigliando
l’attizzatoio e smuovendo la brace. In tutta onestà, che gliene doveva
importare? Neppure avevano pagato la sua benefattrice, quei taccagni! Se solo
la Sinjorina non l’avesse scoperta … almeno non subito …
“E chi
lo sa!”, ripeté invece enigmaticamente Najtine e Kiyora distolse gli occhi
dalla sua triste contemplazione del fuoco, fissando la donna interrogativamente.
“Chissà … Il mondo fa tanti giri … Chissà, filina mia, chissà … ”
To be
continued ... |
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Adeste Fideles, cinque minuti prima ***
B'jour!
Rieccoci
qui col nuovo capitolo, questa volta in tempo record!
Mi sono
particolarmente divertita a scriverlo, forse perché mi ricorda un certo periodo
dell'anno in cui si è tutti più buoni e felici! XD
Per il
resto, non credo che ci siano degli avvertimenti da fare, in ogni modo
l'universo qui narrato, per quanto "realistico", è pur sempre di
fantasia e quindi qualche licenza poetica ce la prendiamo! XP
Quanto
alla filastrocca che comparirà nel corso
del capitolo, non mi ricordo il nome dell'autore, comunque non è mia, precisiamo!
Un
sentito ringraziamento ai miei lettori e ad Ame Tsuki in particolare, che è stata così gentile da recensire.
Vi
auguro buona lettura,
H.
***************************************************************************************************
Capitolo Terzo:
Adeste Fideles, cinque minuti prima.
Le
origini degli Uchiha, la mia famiglia, sono tuttora avvolte nel mistero, una
nebbia genealogica che neppure l’onnisciente mostro dell’anagrafe poté mai rischiarare.
Nessuno sa da dove siamo venuti. Taluni sostengono da Kirigakure, attraversando
il mare e risalendo per il fiume Naka. Altri da Kumogakure, oltrepassando la
foresta e altri ancora da Iwagakure, scendendo per gli angusti passi di
montagna.
Personalmente,
sono propenso a credere che in un passato ben remoto gli Uchiha avessero fatto
parte della popolazione autoctona di Hi e che, chissà, magari erano stati
perfino i padroni di quelle terre che, ai tempi della nascita di mio nonno,
generazioni dei loro esponenti s’erano spaccati la schiena a lavorare. Secoli
di continue invasioni dai quattro punti cardinali del paese li avevano relegati
dallo status di uomini liberi a quelli di servi della gleba, poi mezzadri e
infine riscattati dalla forza pecuniaria dell’irrequieta e ambiziosa borghesia.
Ma le mie sono solo supposizioni.
Le
ricerche da me condotte e delle quali mio cugino rideva bonariamente – “Vuoi appurare se discendi davvero dalle
scimmie?”; “Taci, patacca! Tu hai già il tuo bell’albero genealogico con tanto
di stemma! Voglio scoprire le mie origini!”; “E’ facile, mio caro: sei uscito
da …”; “Troppe informazioni!” – insomma, da esse sono giunto ad un’unica
certa conclusione, ovvero che a Mokuton v’erano degli Uchiha perlomeno sin dal
Seicento, secolo in cui s’introdusse il registro parrocchiale per tener conto
dei matrimoni, battesimi e funerali.
Ed
eccola qui, la prima testimonianza della nostra esistenza, scritta in un
commuovente quanto impacciato latinorum: Matrimonium
Bakin Uchiwa cum Tara uxor suas, Anno
Domini MDCXIX, Dies Domini XXVII Augustus, Sancta Monicae Mater Sancti
Agostini, Doctor Ecclesiae. Sotto
questa pomposa dicitura, due timide X, tratteggiate col medesimo insicuro e
infantile tratto di chi non aveva mai tenuto un pennino tra le dita. Quasi un
anno dopo, segue il nome di un tale Dayu Uchiwa, probabilmente il figlio della
coppia.
Dunque,
in passato ci chiamavano Uchiwa e continuammo a farlo fino all’inizio del
Settecento, quando un parroco o molto svogliato o molto orbo o entrambi scambiò
la “w” per una “h”, rinominando le generazioni future, le quali non s’accorsero
mai di tale storpiatura, neppure mio nonno, il primo della sua stirpe in duecento anni ad aver
imparato a leggere e a scrivere, neppure lui venne a conoscenza del suo vero
cognome, firmandosi invece Madara Uchiha, così come gli aveva riferito l’allora
parroco di Mokuton, consultando i registri.
Ma il
suo cognome sarebbe stato il più risibile dei problemi che il nonno ebbe con
l’anagrafe. Ve ne fu uno ancora più ostico e al contempo assurdo: stabilire il
giorno della sua nascita.
***
In un
goffo tentativo di modernizzare il disomogeneo Regno di Hi – progresso feroce nelle città, arretratezza sconcertante
nelle campagne - il Parlamento decretò e
il Re Sorato XXI firmò che tutti i suoi sudditi avessero un documento di
identificazione, un confusionario precursore del passaporto. E fin qui –
ovvero: fino alla classe media – nessun problema, alcuni, per motivi di viaggi
d’affari, già ne possedevano uno. Le incomprensioni sorsero nel momento in cui
si scese nei quartieri più bassi, nel labirinto sociale del proletariato, degli
immigrati, dei senzatetto e di altre categorie inclassificabili. Immaginatevi
poi, quando i funzionari degli uffici dell’anagrafe uscirono dalle confortevoli
e organizzate mura di Konohagakure e delle altre città di Hi, per disperdersi e
dare un’identità cartacea agli abitanti delle campagne. Nelle campagne dell’Ottocento! Potete
figurarvi il bedlam che si scatenò? Quei signorini impomatati, cresciuti e già
avvizziti in un sicuro ufficio, coi loro completi troppo sporchevoli per il
fango, troppo caldi per l’umidità e troppo raffinati per lo stile sobrio e
pratico adottato dai padroni stessi delle terre, si scontrarono con una realtà
completamente differente, che avevano solo supposto esistere ai tempi delle jacquerie:
gente cotta dal sole, dalle mani ruvidi e forti che avrebbero potuto
strangolarli come niente; tanti visi giovani, poiché per la legge dell’assurdo
i poveri hanno sempre figliato più dei ricchi e la vita media nelle campagne
era tra i cinquanta e sessant’anni e di fatti, aggrappati alle sottane delle
madri o portati nelle ceste sulle spalle, orde di bambini moccolosi affollavano
in nuclei famigliari simili a tribù casolari sparsi per tutta l'estensione dei
possedimenti, dove il concetto di privacy neppure esisteva nel loro vocabolario,
dove si dormiva tutti nello stesso letto e dove vigeva il postulato, per quel
che riguardava i vincoli famigliari, del "mater semper certam, pater numquam",
in un concetto più spiccio: "Boh, potrebbe anche essere figlio mio, visto
che è uscito da mia moglie!"
Eppoi,
vabbè, puzzavano. Un odore misto di sudore, letame, paglia, fango, erba, latte,
fumo, sangue nei giorni della mattanza delle bestie, tant'è vero che, durante
la compilazione delle carte, più d'un funzionario avvolgeva col fazzoletto un
sacchetto di lavanda essiccata, portandosela alle nari offese.
Tutti i
proprietari terrieri erano stati previamente avvisati - e i Senju con loro -
acciocché si mettessero a disposizione di questi temerari per aiutarli, come se
loro fossero informati su tutte le tresche famigliari dei loro fittavoli.
Certo, forse alcuni potevano dare delle dritte circa la paternità dei bambini,
visto che andare a contadine era più sicuro che a prostitute ... In ogni modo,
i funzionari vennero accolti generalmente bene, anzi, quando uno di questi raggiunse
Mokuton, l'anziano Duca, mentre il figlio leggeva la sua lettera di
presentazione più il fac simile del decreto, gli offrì cordialmente un
bicchiere di vino, battendogli poi una gioviale pacca sulla spalla:
"Bonne chance, mon
vieux", disse sornione. "Bonne chance!"
Il Viro
Morino non si lasciò certo intimidire: assieme ai suoi sottoposti occupò
l'ufficio dell'amministratore e fece mettere in fila indiana i servitori del
Castello di Mori, più i loro famigliari per farsi "esaminare", un
affare mica semplice, poiché alcuni domestici non sapevano con certezza la data
di nascita loro e dei figli e nipoti; altri, le donne in particolare,
ovviamente non gliela volevano rivelare; ci fu chi si finse sordo per non
scucire quelli che definiva "i miei affaracci" e qualcuno manco si
presentò, tentando di disertare, sennonché venne prontamente riacciuffato e,
pena il licenziamento, costretto a parlare. La notizia si sparse a Mokuton tra
i mezzadri, riempiendosi di tinte fosche: vengono a schedarci come criminali, e
quanto sei alto? e quanto pesi? chi era tuo padre? e chi era tua madre? sei
sposato? hai figli? che fai per vivere? poi ti lordano le mani d'inchiostro e
te le premono su di un sudicio pezzo di carta che non so manco leggere; e sì,
ci schedano, amico mio!, così poi, al minimo sgarro, il padrone chiama la sbirraglia
e sanno dove trovarci!; a che pro? il padrone sa a priori dove scovarci, perché
catalogarci come anticaglie?; sentite, è
vero che ti chiedono l'età?; certo che credi?; ma io non gliela voglio mica
dire! altrimenti penseranno che sono vecchia!; piuttosto, suo figlio, in che
anno è nato?; l'anno della grandine per una settimana intera!; grazie, e in
cifre?
Madara,
che all'epoca aveva quattro anni e mezzo, fu scortato a viva forza nell'ufficio
dell'amministratore: siccome sua madre lavorava nelle cucine del Castello e lui
da lei si staccava solo per trovare sua "nonna" Najtine, il piccolo si
trovava nel gruppo delle prime cavie e, siccome la sua mamma lo aveva sempre
ammonito sulla preziosità della vita privata, lui aveva deciso di onorare
questa massima materna e di non presentarsi dal funzionario. Perciò, bisognò
rincorrerlo per tutto il Castello, fin sopra al cedro del Libano su i cui rami
possenti il bambino s'era arrampicato con agilità scimmiesca. Staccatolo unghia
per unghia, lo blandirono, gli diedero una stecca di zucchero alla fragola, ma
no, non ti farà niente! solo un paio di domandine, che vuoi che sia? Guarda, se
vieni, col funzionario ci sono anche i tuoi genitori, li abbiamo chiamati, ti
stanno aspettando! Effettivamente, quando lo gettarono quasi nell'ufficio
dell'amministratore Madara ritrovò la sua Ponja e il suo Paĉjo più i fratelli,
provati da un estenuante interrogatorio, specialmente i genitori visto che il
documento di identificazione serviva più a loro che ai piccini, ancora
minorenni e sotto la patria potestà. Scorta la madre, il bambino le si aggrappò
subito alla gonna, mentre lei gli accarezzava la zazzera corvina.
"Dunque,
stavamo dicendo ... di quante persone è composta la sua famiglia? Sette?"
"Otto,
Viro Morino."
"Ecco,
Virina Uchiha, noi non consideriamo i nascituri", disse, alludendo al
pancione di Kiyora. "Solo una volta nati, i bambini sono, come dire, fisici agli occhi della legge", in
realtà il termine era un altro – soggetto di diritto - ma il funzionario sapeva
ch'era meglio non confondere ulteriormente la psiche già di suo sconvolta di
quella gente tagliata fuori dal mondo e in gran parte ignorante della legge. Anche
perché, spassionatamente parlando, pur riconosciuti de iure come sudditi
esercenti di diritti e doveri, de facto i mezzadri (e pure gli operai) vivevano
come veri e propri schiavi, almeno all’epoca in cui mio nonno nacque e crebbe
fino alla maggiore età.
"Neanche
a qualche mese dalla nascita?"
"No,
virina, poiché tutto potrebbe succedere nel frattempo ...", alluse
cupamente l'uomo, provocando uno sbiancamento sul volto sia di Kiyora che di
Tajima.
"Tié!",
fu la svelta replica della giovane donna, un bel paio di corna a mo' di
scongiuro. Senza darsi pena per quel gesto, il funzionario seguitò:
"Majstro
Uchiha, potrebbe per cortesia dettarmi le date di nascita dei suoi figli?
Partendo da quelli di primo letto, se non le dispiace ..."
"Uhm,
vediamo ... c'è Setsuna, nato il 29 giugno 18 - ... , poi c'è Saya, nata il ...
il ... che giorno è San Francesco d'Assisi? Ah, il 4 ottobre ... del 18 - ...
Poi c'è Haruka" e lì sospiro, dacché se la ricordava molto, troppo, bene
quella data funesta "che è nata 12 maggio 18 - ..."
"Perfetto,
perfetto ... Ora, prosegua con quelli di seconde nozze ..."
Tajima
Uchiha sospirò di nuovo, lanciando un'occhiata obliqua a Madara, il quale,
ignaro delle sue origini, ricambiò arcuando il sopracciglio, passandosi la
lingua là dove lo zucchero gli aveva reso appiccicaticcia la pelle.
"Ebbene,
mio figlio ..."
Nonostante
il tono melodrammatico usato dall'uomo, non sussisteva alcun dubbio sull’appartenenza
di Madara alla famiglia Uchiha, neppure quando il funzionario dell’anagrafe, il
Viro Morino, venne a Mokuton a spargere un po’ di vitalità urbanistica in
quelle lande secolari. Tajima Uchiha, che pur non avendo mai frequentato la
scuola (e chi lo aveva mai fatto, del resto, lì?), sapeva tuttavia fare i suoi
conti e anche in maniera eccellente: il giorno in cui Kiyora si sgravò,
contando a ritroso i mesi, ecco che giunse a quella piovosa notte di marzo in
cui spulzellò la ragazza e lì, signori, v’erano più che valide prove
sull’onestà di Kiyora, giunta invero illibata nel suo letto. Ma questo calcolo
servì solo a confermare ciò che l’uomo sapeva ormai da tempo, visto che i suoi
bravi dubbi li ebbe assai prima, diciamo quando Kiyora era al quarto mese,
controversie risolte a suon di ceffoni da parte di una gestante non arrabbiata,
no, furiosa. Infatti, ancora scottato dal tradimento di sua moglie, Tajima
aveva osato avanzare qualche riserva sulla paternità del bambino, rese
giustificabili dal ritardo col quale gli era stata riferita la notizia:
insomma, se lei non aveva nulla di losco da nascondere, perché non comunicarglielo
prima? A meno che … Kiyora, già di suo
stressata per l’impegnativo tentativo di tenere nascosta la gravidanza alla
Sinjorina, aveva ascoltato tutto in
doveroso silenzio, chiazzandosi di macchie man mano che l’uomo giungeva alla
fine del suo discorso. Dopodiché, sorridendogli a denti stretti, partì all’attacco.
“Buon
pro le faccia, Majstro!” e via con uno Sciaff!,
che avrebbe torto il collo ad un montone, ma non di certo la dura cervice di
Tajima Uchiha, che, reggendosi la guancia offesa, esclamò incredulo:
“Che
schiaffo!”
“Che
schiaffo?! E allora, se le piace, si pigli pure questo! …”
Sciaff!
“ … e
questo! …”
Sciaff!
“ … e
ancora questo! …”
Sciaff!
“… e
quest’altro! …”
Sciaff!
“Ma
stai ferma, femmina isterica … ahia!”
Sciaff! Tonff! Sciaff!
Kiyora
s’era denudata delle sue babbucce e, scambiando Tajima per un tamburo di latta,
lo stava per l’appunto tambureggiando con queste bacchette improvvisate.
“Femmina isterica a chi, razza di furbastro? Tu stai zitto e pigliatele in silenzio come un vero uomo!”
Sciaff!
Tonff! Tonff! Sciaff! Tonf!
“E se
non ne hai abbastanza, te ne do ancora!” e concluse con un virtuoso arpeggio di
Sciaff! Tonff! Tonff! Sciaff! Sciaff!
Tonff-sciaff! “Oh, Sua Eccellenza re dei babbei, ma per chi mi ha preso?
Per una di quelle gran puttane che aprono le gambe a tutti? È questo quello che
credi, Uchiha? Eh? Eh?”, sbraitò, contorcendo il viso in una sinistra smorfia,
per poi scoppiare a piangere, sopraffatta dagli sbalzi d’umore. Sempre il
solito refrain: la ragazza eruttava in crisi di rabbia a dir poco spaventevoli,
per poi scemare in un letargo urside. Calmati,
filina mia, calmati! O l'infano prederà il tuo caratteraccio lunatico!, le
ripeteva saggiamente Najtine.
“Via,
via quelle lacrime!”, volle consolarla Tajima, cercando di abbracciarla,
sennonché lei lo spinse via malamente, berciando:
“Ma
lasciami stare, stultaj!”
“E
smettila d’insultarmi, perdio!”
“Non ne
avrei forse motivo? E’ quel che ti meriti, mizero!”, borbottò Kiyora,
calmandosi un poco e lasciandosi massaggiare la schiena prima, abbracciare poi
dall’uomo. “Cane! Assassino! Tu non vuoi riconoscere il mio bebo, altroché!”
“Non ho
mai detto questo!”
“E
allora, cosa sono tutte ‘ste coglionate su di chi è figlio, deliktulo?”
Tajima
si morse il labbro inferiore: su questo punto, la ragazza non aveva tutti i
torti. Nondimeno, pur essendosi scusato e riscusato e coperto il capo di
ceneri, Kiyora non gliela perdonò tanto facilmente e di fatti, invece di vivere
“nel peccato di concubinato”, gli riferì spietata che sarebbe rimasta con
Najtine la Fata fino alla nascita della creatura – che è un Uchiha, non startelo neppure a domandare! – e fino al
sedicesimo compleanno di lei, l’età consentita dalla legge per sposarsi, benché
nelle campagne, e nei quartieri meno ambienti delle sempre più sovraffollate
città, s’incominciasse a convivere ben prima, figli illegittimi inclusi.
"Ebbene,
mio figlio Madara è nato il 25 dicembre
del 18 - ..., mentre Yakumi il ..."
"Eh
no, qui ti sbagli!", lo interruppe sua moglie appena in tempo, cosicché il
segretario non sbenedettò per la macchia apportata da un'eventuale correzione. "Madara
non è nato il 25, bensì il 24 dicembre, Vigilia di Natale e San Delfino
Vescovo, ultimo quarto di luna calante, 52esima settimana dell'anno, segno
zodiacale Capricorno."
"Ma
no, che dici?", ribatté l'altro, scuotendo il capo. "Se vi ho trovati
durante la Messa di mezzanotte!"
Su quel
punto, Kiyora gli concesse ragione, ma non per questo vacillò nella sua
convinzione. "Esatto, ci hai reperiti, ad opera compiuta! Non mentre mi
trattenevo dall'imprecare per essermi ritrovata a partorire su di un gelido
pavimento di marmo, dietro una colonna, colla gente che mi fissava stralunata!
Tu non c'eri, vigliacco, quando ho lasciato mezze budella davanti al Giudizio
Universale!", e via che si ricominciava cogli sbalzi d'umore. Non che
Kiyora possedesse la cattiva abitudine di tiranneggiare il marito, come forse
si sarà pensato: semplicemente, quand'era incinta la sua natura sanguigna
diveniva collerica ed ecco che diveniva insofferente ad ogni cosa, tranne dei
suoi pargoli, Madara e Yakumi.
Schiarendosi
a disagio la gola, il funzionario Morino propose una soluzione alternativa,
prima che la giovane donna, visibilmente contrariata, non prendesse la nefasta iniziativa
di brandire una sedia e spaccarla in testa al consorte. Era preoccupato perché,
nella concitazione della loro discussione, i due avevano incominciato a parlare
in dialetto stretto e l’uomo, che sbiascicava affettato il nordico konohagakuriano
perfetto, non stava capendo un emerito tubo. "Forse, Virina Uchiha, suo
figlio Madara potrebbe risolvere questo piccolo mistero ...", affermò
conciliante, allungandosi verso il bambino. "Vero, junulo? Ci
aiuterai?", gli sorrise incoraggiante. Il moro, per quel che gliene
concerneva, era assai più interessato alla suzione del suo zucchero. "Allora,
Madara, quando sei nato? Il 24 o il 25 dicembre?"
Stettero
tutti in un religioso silenzio, neanche attendessero il responso della Pizia di
Delfi. E similmente alla profetessa, il bambino smise di succhiare, tolse la
stecca dalla bocca, si leccò le labbra, prese un profondo respiro, chiuse gli
occhi e pronunciò con ieratica solennità la sua risposta:
"Boh."
Fu il
turno del funzionario Morino di arrabbiarsi e tanto, anche. "Mi volete
fare impazzire, voialtri?", ululò così forte, che quelli in fila fuori
dalla porta presero a pigiare sull'uscio per cogliere un frammento di quello
che si preannunciava essere un gustoso alterco burocratico. "Soprattutto,
tu, piccola canaglia! Che razza di risposta è Boh?! Sei così ignorante, disgraziato, da non sapere neppure quando
sei nato?"
"Oh,
ma neanche lei lo sa!", replicò imporporandosi Madara, piccato per
quell'epiteto alle sue orecchie infame.
"E comunque, che vuole che ne sappia, io, della mia data di
nascita?", strillò stizzito la sua protesta, con un'eloquenza invero
straordinaria per la sua giovanissima età. "Mica sono come l'uomo di
Platone, che nasce con le idee già in testa! Mi rende forse più saggio o
intelligente essere nato il 25 anziché il 24? Ma mi faccia il piacere, lei è un
bab- ..." e fu grazie alla pronta mano di Kiyora sulla sua bocca, che al
moro venne impedito di offendere un funzionario pubblico, pregiudicandosi prima
ancora di esercitare i suoi diritti. Per sua fortuna, il Viro Morino non aveva
udito nulla, ancora sconcertato per aver sentito un moccoloso figlio di
mezzadri che parlava dell’innatismo di Platone con la medesima chiarezza di un
adulto. A onor del vero, Madara stesso
ignorava chi fossero Platone e la sua teoria sull’innatismo, avendo infatti
assimilato e riutilizzato a suo piacimento queste informazioni estrapolate da
una conversazione origliata per caso tra la Duchessa Anise e un suo amico, conosciuto in villeggiatura,
il giovane dottore Sasuke Sarutobi. A Madara quest’uomo piaceva, perché lo
trattava d’adulto pur dandogli del tu e soprattutto perché, oltre a non avere
mai argomenti banali da discutere con la Duchessa ergo era un piacere ascoltare
i due conversare, il giovane medico gli regalava ad ogni visita libricini narranti
di storielle certamente semplici, ma che il bambino divorava, interrogandolo
poi su cosa aveva appreso e invitandolo ad esprimere la sua opinione. “Bene, il
tema di oggi è questo”, invitava lui e Hashirama a sederglisi accanto.
“Hashirama supporterà questo argomento, mentre Madara lo osteggerà. Vediamo,
chi dei due riesce a persuadermi, vincendo.” I due marmocchi non se lo facevano
di certo ripetere due volte, arrivando a sparare certe fantasiose teorie pur di
convincere Sarutobi della bontà delle loro idee. La Duchessa, seduta a ricamare
in un angolo, riprendeva giocosamente i tre, il giovanotto in particolare. “Ma
Sasu-ehm, Monsieur le docteur! Che giochi sono mai questi? Lei ha a che fare
con dei pupetti, che opinione vuole che abbiano?” Ma il kuracisto replicava
testardo: “No, no, Madame! Non sottovaluti questi due monellacci: per la loro
età possiedono una maturità di pensiero non comune, lo leggo dai loro occhi!” e
alla fine dava il premio ad entrambi e la Duchessa sorrideva di nuovo, facendo
sorridere per effetto domino anche il figlio. Inutile dire che anche ad
Hashirama piaceva il dottor Sasuke Sarutobi, l’unico assieme al nonno che riuscisse
a far ridere la sua Maman, la quale, dopo aver perso al sesto mese una bambina,
per un periodo era divenuta più apatica di una statua di marmo. Adesso, incinta
della terza creatura, era un sollievo rivederla così rilassata e gioviale con
tutti.
Ma
ritornando all’esterrefatto funzionario dell’anagrafe.
Balbettando,
l'uomo proferì debolmente, asciugandosi la fronte col fazzoletto: "Insomma
... non ... non c'è nessuno che ... che sappia dirmi ... quando è nato questo
demon-ehm, bambino?"
Kiyora,
sistematasi meglio Yakumi sul fianco, gli disse paziente: "E' come le ho
detto io: Madara è nato il 24 dicembre, cinque minuti prima dell'Adeste fideles ..."
E ora,
se il tabarro la smettesse di ingarbugliarmi la vita con questi saliscendi
temporali, vorrei cogliere l'occasione offertami dal sopracitato dilemma
anagrafico per descrivere le circostanze della nascita del nonno.
E l’inverno vien
tremando,
vien tremando alla
tua porta.
Sai tu dirmi che
ti porta?
“Un fastel d’aridi
ciocchi,
un fringuello
irrigidito;
e poi neve, neve a
fiocchi,
e ghiaccioli
grossi un dito.”
Due
mesi e un giorno dopo la nascita di Hashirama Senju, giunse infine il turno di
Madara Uchiha.
Un
inverno come quello in cui il nonno venne al mondo difficilmente sarebbe stato
dimenticato: incominciò, infatti, a nevicare già alla prima domenica d’Avvento
e non dopo Santa Lucia, com’erano abituati, ritrovandosi così in anticipo
ricoperti di neve fino alle finestre del pianoterra, dannandosi l’anima a
spazzarla via per poter almeno uscire di casa e non rimanervi seppelliti fino
allo sgelo. Le strade, rese inagibili dalla neve, tagliarono fuori Mokuton dal
resto della società civilizzata. Non si vedeva, poi, al di là del proprio naso
tanto fitta cadeva la neve. Ad inverno terminato, i bollettini delle vecchie
edizioni del Vespero sarebbero stati
pieni zeppi di drammatiche cifre e melense descrizioni di tragiche morti per
ipotermia, un patetico tentativo di commuovere coloro che invece se n’erano
stati ben al calduccio, fregandosene degli altrui destini. In quel frangente,
devo spezzare una lancia in favore del Duca Butsuma Senju il quale, non
essendogli ancora passata la sbornia della recente paternità, in barba ai costi
decise di donare legna e carbone gratuitamente a tutti i suoi mezzadri, un atto
di generosità che impedì alle pompe funebri di far guadagni anche a Mokuton,
distretto di Konohagakure, e al padrone di scoglionarsi per trovare nuovi
lavoratori: causa l’inarrestabile industrializzazione di Hi, le campagne si
stavano gradualmente spopolando e i contadini con meno prospettive preferivano
cavarsela in qualche modo in città, piuttosto di lavorare come bestie da soma e
aver lo stesso fame in campagna.
La mia
bisnonna sopravvisse a quell’annus gelus standosene rintanata in casa come un’orsa,
tutta rannicchiata sotto il tabarro di Najtine, la quale la incoconava di zuppe
di miso, di cavoli, barbabietole e rassolnik, di medhu (latte di mandorle caldo
con miele e cannella), di spesse palachinke alla ricotta acidula e di qualsiasi
cibo sostanzioso riuscisse a reperire, giacché Kiyora, dovendo nutrirsi per
due, aveva costantemente fame e freddo. I regolari calci da parte di Madara la
rassicuravano che il piccino non s’era nel frattempo assiderato, visto che lei
più volte aveva perso la sensibilità delle mani e dei piedi pur standosene a
momenti dentro il caminetto stesso. Per distrarla, allora, Najtine la spronava
a parlare del più e del meno, evitando però la parola tabù, Tajima Uchiha.
“Ma
sentilo come scalcia! Manco fossi un tamburo!”, rideva la gestante, tra un
morso e l'altro di pane imburrato e salame.“Eh, la knabina è piuttosto
irrequieta, sì sì …”
“Knabina?
Pensi sia femmina?”
“Certo,
così potrebbe farne la sua apprendista: vorrei tanto che da grande divenisse
come lei …”
“Mi
lusinghi. Piuttosto, come la chiameresti?”
“Ho
pensato a Madaleine.”
“Come
la prostituta pentita che divenne santa?”
“Jes …
Neniu! … No, lei non commetterà gli stessi errori di sua madre, sarà una fanciulla
onorata e si sposerà bene, ecco!”, sentenziò solenne, accollandosi
ulteriormente dentro il tabarro.
Najtine
annuì, seppur poco convinta.
La
Vigilia di Natale colse tutti alla sprovvista: il paesaggio circostante bianco
e ovattato, letteralmente congelato in un grigio limbo, aveva tolto alla
popolazione di Mokuton la cognizione del tempo, limitandosi a trascinare le
giornate nell’ozio e nel gelo, scrollandosi talvolta la noia con una sporadica
visita ai vicini, giusto per scroccar loro qualche salsiccia affumicata e un bicchiere
di enzian o di altri liquori casalinghi, nulla a che vedere con le fetenzie
vendute in città, poiché a Mokuton non si rifiutava mai il cibo ad un ospite,
anche a costo di privarsene. Ovviamente, si ricambiava, poi, la visita!
Per questo si evitava di andare troppo spesso dai vicini più benestanti,
coloro che potevano permettersi di offrirti del pane abbondantemente imburrato
cosparso di zucchero e liquore all'anice per meglio gustarlo: il bon ton
esigeva che dopo bisognava contraccambiare in egual misura, ergo ognuno faceva
i suoi calcoli in base alla disponibilità della propria dispensa. Altrimenti,
se proprio quella visita era irrinunciabile, si fingevano crampi atrocisissimi allo stomaco e scagotti apocalittici, pur di
non sembrare scortesi e rifiutare il cibo offerto.
Furono
le campane vespertine delle sei che annunciarono l’inizio della veglia
natalizia, culminante col rombo carillonesco di mezzanotte e da un’abbuffata di
dolci accompagnata da cioccolata calda e vin brulé offerta dal padrone, ragion
per cui i fedeli, richiamati da quel metallico gargarismo, si limitarono ad
ingerire qualche panino di lardo addolcito dallo sciroppo, buttato giù con un
po’ caffè corretto con grappa e via, imbacuccati come cosacchi, si accinsero a
percorrere il faticosissimo tragitto da casa loro alla chiesa. L’aria, infatti, si presentava
irrespirabile da quanto era pesante nel suo gelo, lasciando nelle gole un
retrogusto ferroso, neanche si avesse ingoiato del freddo metallo. Il cielo
plumbeo e vitreo che feriva gli occhi con la sua luce livida per fortuna era
stato sostituito da un buio pesto, reso meno inchiostro dalle lanterne che i
mezzadri si portavano seco, costringendoli però ad ancorarsi sul più
neutro e scricchiolante terreno, tamburellandovi i piedi infreddoliti e
battendo in seguito le mani secondo il rito di auto-riscaldamento più antico
del mondo. Siccome in chiesa faceva leggermente più caldo che fuori, i mantelli
e scialli e tabarri rimasero ben ancorati sulle loro spalle e mai come a Natale
le persone sopportano la reciproca vicinanza, pur di scaldarsi.
Kiyora giunse leggermente in ritardo, verso le
sei e mezza, trascinandosi sfinita ed ansante lungo i muri alla volta di un
angolino seminascosto: sebbene una ragazza incinta fuori dal matrimonio non
fosse per i mezzadri una novità, nondimeno in chiesa loro riassumevano quella
moralità che perdevano nei campi e gente scostumata come la mora non era, ai
loro occhi, degna di comparire al cospetto di Nostro Signore. Kiyora arrivò in
ritardo un po’ per questo motivo, non voleva imbattersi in Tajima, un po’
perché Najtine aveva cercato di trattenerla, non garbandole il colore
grigiastro e sudaticcio del volto. “Non uscire”, le aveva detto. “Anche se non
vuoi parlarmi, so che non stai bene. Resta a casa, è meglio!”
Ma la sua protetta fu irremovibile. “Sto bene,
maljunula, ho voglia di camminare un poco. Eppoi, ho perso un mese di Messa,
quella di Natale non la perdo manco a morire!”, s’era intestardita, afferrando
il pesante scialle di lana e la lanterna, dirigendosi verso la chiesa. Camminando
a passo spedito, si sentì d’un colpo meglio, come se ricominciasse a respirare,
ignorando di conseguenza i segnali di un parto pressoché imminente. Il
travaglio varia da donna a donna, c’è chi impiega meno tempo per sfornare il
pargolo, chi di più; c’è chi prova dolore e chi meno; chi s’accorge d’essere nella
fase clou e chi, come Kiyora, che non se ne accorge finché il pupo incomincia a
scalpitare per uscire.
Complice anche un'infanzia trascorsa tra stenti e
miserie, Kiyora aveva sviluppato crescendo un'alta sopportazione del dolore
fisico, affrontando i dolori generati dalle contrazioni con stoica
indifferenza. Notando che camminando scemavano, aveva trascorso la notte
precedente e tutta la Vigilia di Natale a gironzolare per casa, inquieta e
sofferente e ciononostante, per Dio solo sapeva quale arcano motivo, non volle
mai confidarsi a Najtine, che certamente le avrebbe rivelato in quale fase si
trovava. Sebbene stimasse molto la sua madre adottiva, la ragazza difficilmente
s'affidava a lei o seguiva i suoi consigli, così come funziona appunto
l'autentico rapporto madre-figlia. Najtine, non desiderando che Kiyora
s'agitasse arrabbiandosi, decise di lasciarla fare: avrebbe raggiunto quella
testona al momento opportuno.
Trovata infine una sua mea nascosta tra l'ultima
colonna della navata centrale e il confessionale, la giovane vi si rintanò,
respirando forte, domandandosi se non avesse camminato troppo di fretta. Aveva
una tremenda sete, poi. E crampi non dissimili a quelli che vengono quando la
natura chiama e il pitale risponde. Mezzora dopo, la ragazza avvertì il
pressante impulso di accucciarsi. Una quindicina di minuti più tardi, di
spingere.
Kiyora impallidì. "Mizera! Proprio adesso
vuoi nascere?"
Sì, Madara voleva nascere proprio in
quell'istante, per dimostrarle che tanto femmina non era e solo perché a Natale
si è tutti più buoni, collaborò senza tante storie.
Sollevatasi le gonne e morsicando il velo da
chiesa per non dare spettacolo, la partoriente allora si mise all'opera,
invocando a mente la protezione della Madonna, di Santa Margherita d'Antiochia
protettrice dei parti e ovviamente di Domine Iddio, sperando di non finire come
Natsumi, morta in un lago di sangue e muchi azzurrini. E a proposito della
morta, che ci faceva lì davanti a lei? Dapprincipio, la litania parve aiutarla
poiché la distraeva tramite la sua ossessiva ripetitività; man mano che
s'avvicinava al momento dell'espulsione, Kiyora s'imporporava fino a sbiancare
dallo sforzo, sbuffando come un bue, ringhiando ingolata come un mastino e aggrappandosi
a qualsiasi cosa, in particolare alla tenda viola del confessionale, che
resisteva ai suoi strattoni per puro miracolo.
Non s'accorse neppure delle occhiatacce indiscrete lanciatele dai fedeli
dell'ultima fila i quali, pur non avendo una buona visuale della scena, si
permisero lo stesso di giudicare.
"Ma che sta facendo quella lì?"
"Crede di essere su di un'ottomana?"
"O peggio, su di un pitale?"
"Cosa? Non ditemi che sta cagando in
chiesa!"
"Barbara! Blasfema!"
"Gente come lei una volta la mettevano al
rogo!"
Ed ecco che tra questo gracidare di rospi,
s'elevò la voce della verità, incarnata in una bimbetta di pressappoco
sei-sette anni: "Sta avendo un infano!", esclamazione ben presto
seguita da un coro di increduli: "Eh?", terminato da sconcertati:
"Oddio!" quando, facendo uno strappo al suo codice morale, Najtine
entrò nel sacro edificio e, scivolando nell'ombra col suo tabarro, raggiunse
una pallidissima Kiyora, afferrandola per le ascelle per rimetterla nella
posizione più consona. "Non potevi avvertirmi prima, disgraziata?",
borbottò la fata rancorosa a Natsumi, che scrollò con indifferenza le spalle,
posizionandosi sull'acquasantiera di marmo. Poco dopo una contadina, molto
probabilmente la madre della savia bambina, si risolse ad abbandonare il banco
assieme alla figlia, raggiungendo le due donne.
"Santa vergine martire d'Antiochia!",
mormorò ella, segnandosi velocemente. "Questo ci sta per nascere in chiesa!",
boccheggiò, legandosi lo scialle ai fianchi e arrotolandosi le maniche. Sperò
di non venir tacciata di blasfemia quando, per amor dell'igiene, si ripulì le
mani nell'acqua benedetta, passando attraverso il grembo di Natsumi, che aprì
la bocca in un muto gridolino, indignata.
"Knabina!", si rivolse Najtine alla
piccina, che si mise quasi sull'attenti, eccitatissima da quello spettacolo ai
suoi occhi divertentissimo. "Vieni qui. Premi su questo punto. Brava.
Premi finché non te lo dico io!"
In sincronia perfetta, le tre gentlewomen of
fortune si adoperarono per far nascere il bambino, mentre dalle ultime file la
gente aveva finito da un pezzo di borbottare preghiere, girandosi invece verso
quel curioso quartetto femminile, commentando tra di loro la peculiarità di
quell'evento; di donne partorienti nei luoghi più disparati ne avevano viste a
bizzeffe, ma mai, mai nella casa del Signore ... Che fosse un cattivo presagio?
Che preannunciasse l'Apocalisse? La venuta dell'anticristo? E via discorrendo,
avanzando verso la penultima fila e la terzultima, chetando il brusio di
litanie e invocazioni per un più mondano cicaleggio e un poco decoroso voltare
le spalle dall'abside centrale.
Né anticristo, né tantomeno messaggero
dell'Apocalisse, Madara era solamente uno di quei pochi che non mentiva quando
affermava di aver visto satana coi propri occhi. Lo vide affrescato sulla
parete della chiesa di Santa Lucia, a testa ingiù, tutto sporco di sangue e muchi azzurrini e tenuto per ambedue le
caviglie dalla brava donna che lo aveva aiutato a venire al mondo. Vuoi per
l'impellente necessità di respirare, vuoi per il dolore alle chiappe provocato dal
sonoro ceffone elargitogli dalle ruvide mani della contadina, vuoi per il
terrore provocatogli da quel panzone d'un limbidinoso sileno, ecco che il
neonato strillò peggio d'un invasato tutta la sua perplessità di critico d'arte
su quel modo assolutamente grandguignolesco di rappresentare l'inferno e il suo
padrone. E da quel momento in poi, a livello d'inconscio, Madara avrebbe sempre
avuto una paura matta di quella bolgia metafisica, trasmettendola ai suoi
discendenti, tra cui il sottoscritto.
"Oh, ma che bel maschietto!", cinguettò
la bambina, mentre Najtine, estratto un coltellino dal tabarro, lo separava
definitivamente dalla madre. La sua Ponja, invece, lo ripuliva alla bell'e
meglio dall'unguento azzurrino che lo ricopriva.
"Che?!", esclamò debolmente Kiyora il
suo disappunto, per poi abbandonarsi sul petto della fata, svenendo per la
fatica sopportata. Natsumi, ancora seduta sull'acquasantiera, si mordicchiava
divertita il pollice.
Cinque minuti dopo, senza che nessuno si fosse
minimamente turbato di verificare di persona come stesse la puerpera, le
campane di mezzanotte scossero la terra, l'organo rombò e il coro partì in
quarta con un sconquassante:
Adeste fideles laeti triumphantes
venite, venite in Bethlehem.
Natum videte Regem angelorum.
Venite adoremus, venite adoremus, venite
adoremus,
Dominum.
... interrotto di tanto in
tanto dai Mué! Mué! dei neonati lì
presenti che nel frattanto stavano schiacciando un pisolino. Il resto della
funzione Madara lo trascorse in canonica, portato in braccio dalla stessa
bambina che aveva premuto sulla parte superiore del ventre materno per aiutarlo
ad evacuare la zona. Suo padre Tajima, invece, trasportava una semicosciente
Kiyora in sacrestia: li aveva trovati grazie ai continui bisbigli dei banchi
dietro di lui. A concludere l'allegro corteo, seguivano Najtine e la contadina.
"Che ha? S'è sentita
male?", aveva sgranato gli occhi la perpetua vedendoseli comparire davanti
e accarezzando di riflesso il capo sudaticcio della ragazza.
"Peggio: ha
partorito!", replicò spassionatamente Najtine. "E mi sa che lei dovrà
gettare un po' di segatura tra l'ultima colonna e il confessionale ..."
Trattenendosi dal sacramentare
come il peggiore dei miscredenti, la perpetua li condusse in canonica, dove si
premurò che madre e figlio fossero ben lavati. Fu la prima ad accorgersi che il
neonato ancora non possedeva un nome e quando lo comunicò alla puerpera, che
nel frattempo aveva ripreso il pieno possesso delle sue facoltà cognitive, ecco
imporsi un imbarazzante silenzio. "A dire il vero", ammise Kiyora,
torcendosi le dita, "non ho un nome maschile per il pupo, in quanto ero
così sicura che nascesse femmina ..."
"Puoi sempre chiamarlo Madara, che un po' assomiglia a Madaleine", le suggerì Najtine.
"Che nome strano!"
"Mai sentito!"
"Non sarà leggermente
ambiguo?"
Kiyora ignorò bellamente questi
commenti, allungando invece le braccia per ricevere dalla perpetua il suo
bambino, che già s'agitava inquieto, non essendo le fasce che lo ricoprivano
sufficientemente calde. Gorgogliò di puro piacere al tocco materno, in
particolare quando Kiyora lo strinse al petto, riscaldandolo e offrendogli una
vista molto, molto allettante per i suoi occhi di poppante. Come sempre, però,
bisognava attendere che gli adulti terminassero i loro insulsi discorsi. Quanta pazienza!, aveva dovuto pensare
Madara in quell'istante, cacciandosi tre dita nella bocca sdentata. E che fregatura: prima vedo il diavolo, poi
mi sculacciano a testa ingiù e adesso mi fanno venire i geloni al deretano.
Forse, avrei fatto meglio a ritardare ancora di qualche giorno ...
"E chi se ne cale, se il suo è un nome strano,
inusuale o ambiguo. Meglio! Così non passerà inosservato e coloro che
incontrerà si ricorderanno di lui. Vero, malgrando
trezoro?", esclamò entusiasta la ragazza per quella soluzione. Se lo dici tu, Ponja, significò
quell'infilarsi un quarto dito in bocca da parte del bébé.
"Secondo me, un giorno ti
maledirà per questo nome bislacco!"
"Che ci provi, lo ammazzo
di botte!"
"Kiyora!"
"Scherzavo, dai! Non
alzerei mai un solo dito contro di lui!"
Silenzio.
"Allora, che dire?
Benvenuto a questo mondo, Madara Uchiha!"
"Eh no, signor scaltro!", interruppe la
puerpera l'amante. "Madara e basta, finché tu non mi sposi!"
Senza scomporsi, Tajima replicò: "Quando
compi sedici anni?"
"Ad aprile."
"Bene, ci sposeremo ad aprile" e solo
Domine Iddio sapeva quanto mai vicino alla morte fosse stato l'uomo come in
quel momento e la sua fortuna consistette nel fatto che, oltre ad avere il
neonato tra le braccia, la presenza di troppi testimoni aveva inibito ogni
istinto omicida di Kiyora, che si limitò a ribattere:
"Perfekto: dunque, rivedrai tuo figlio ad
aprile!"
"Cosa?! Ma sei pazza o che?!"
Mi
fischiano le orecchie, ho come l'impressione che stiano parlando di me ... Oh!
E tu che vuoi, mocciosa? Mettimi giù, non sono una bambola, aiuto!
Ma né suo padre né sua madre si resero conto di
come la bambina avesse sfilato Madara dall'abbraccio di Kiyora, per poterselo
portare fino alla sedia accanto alla stufa, cullandolo con eccessivo vigore,
sguarattandogli di conseguenza le budella. "Quanto sei bello, che occhi
vispi che hai!", lo vezzeggiava.
Accortasi dell'innocuo furto, Najtine le requisì
la refurtiva, coprendola con un lembo del tabarro. "Sh, calmati!",
sussurrò all'infante, che scalciava esagitato da sotto la copertina, mulinando
perfino le braccia in una strana danza. "Raffredda quel tuo cuore di
fuoco, o ti uscirà dalla gola!" Solo allora il bébé osò rilassarsi un poco,
appisolandosi, fedele al detto: "Chi dorme, mangia."
E ben fece, giacché non vide il volto cinereo di
Natsumi Uchiha pendere sopra di lui come un avvoltoio, pigliandosi
conseguentemente l'ennesimo spavento. Un seicentesco demonio affrescato gli
bastava, grazie tante.
Riassumendo - i fatti da narrare sono molti, ergo
non ci possiamo troppo soffermare - due verità Madara apprese il giorno in cui
il funzionario Morino, venuto dalla capitale con le sue scartoffie e cinque
impiegati, s'incaricò di scrivere nero su bianco una biografia essenziale sulla
sua famiglia: la prima, che lui era effettivamente nato il 24 dicembre 18
- a cinque minuti dall'Adeste fideles, dunque nel giorno della
Vigilia di Natale e San Delfino vescovo, ultimo quarto di luna calante, 52esima
settimana dell'anno, segno zodiacale Capricorno. La seconda, che non era affatto
fotogenico: la foto scattatagli dall'impiegato del Viro Morino lo avrebbe
perseguitato fino alla vecchiaia..
Ah, il tabarro preme per una postilla e,
ascoltandola, la giudico importante, perciò ve la riporto: la mattina del 1
gennaio dell'anno successivo, una volta ritornata la calma in seguito ai
festeggiamenti della notte di San Silvestro, Hashirama Senju si ritrovò senza
balia. A quanto pareva, il compagno/marito/amante/quel-che-era di lei s'era
divertito ad ammazzarla e a gettarla in un ramo del fiume Naka, il quale, non
volendosi rendere complice di tale misfatto, pensò bene di gelarsi, preservando
il corpo per i gendarmi. Il movente? Lei s'era stufata di lui, della sua natura
grezza e manesca e del suo vizio dell'alcol. Inoltre, la nutrice non aveva
neppure ventun anni, lasciava al mondo un bambino, il cui nome adesso non
rivelo, ma che avrebbe determinato in maniera pressoché mortifera la sorte del
suo fratello di latte. Io lo so per certo: ho conosciuto quest'uomo. In ogni
modo, le indagini si conclusero rapidamente, tanto a Mokuton avevano sempre
sospettato che si trattasse del compagno e di chi altro, sennò? Una giovane
donna così perbene, a modo ... chi poteva ammazzarla se non quello scellerato? Eppoi,
era uno straniero, di Takigakure, ragion per cui lui si presentava doppiamente
sospetto, noi di Hi non commettiamo queste porcherie, ma uno straniero sì,
specie uno straniero proveniente da quella spelonca di ladri e strozzini com'è
Takigakure! Arrestarono il Fremda - un nome bisogna pur darglielo - una
settimana dopo la scoperta del cadavere. Due settimane dopo, pendeva dalla
forca eretta apposta sulla piazza del mercato di Mokuton, mai così gremita di
gente come in quell'occasione: simili a scarafaggi sbucati dal nulla, non solo
i fittavoli, ma anche i vicini dei paesi e città confinanti presenziarono
all'evento; l'ultima impiccagione aveva avuto luogo quando il figlio di Sua
Grazia il Maljunulo Sinjoro, Butsuma Senju, non dimostrava neppure quindici
anni. All'esecuzione assistettero tutti, tranne Najtine e Kiyora e la Duchessa
Anise per ovvie ragioni le ultime due (i pargoli) e la prima perché giudicava
barbarica l'intera messinscena, coi contadini che ridevano, gridavano,
sputavano e ingiuriavano il già malmenato condannato, prendendolo a sassate
mentre rimaneva sospeso nel vuoto, arrivando perfino a percuoterlo col bastone
e a tirargli le gambe da sotto la forca, acciocché il collo si spezzasse, come
facevano loro con le proprie galline, oche, anatre e un qualsiasi volatile da
cortile. Alla fine dell'esecuzione, si discusse se lasciare o meno il morto a
dondolare sulla piazza, mentre i corvi banchettavano ingordi sui suoi occhi e
viscere. Il Duca fu irremovibile: "Non siamo più nel Medioevo",
affermò vivacemente, accondiscendendo però, dietro lauto compenso, a cedere il
cadavere alle aule universitarie di medicina a Konohagakure per le dissezioni
accademiche.
"Che triste, che triste!", aveva
sospirato Najtine il giorno dell'impiccagione del Fremda. "Suggere il
latte di un'assassinata. Povero bimbo; che triste presagio!"
Sbuffando scettica, Kiyora obiettò: "Ma che
presagio e presagio! Hanno fatto fuori la sua balia e allora? Mica volevano
accoppare lui! Non conferirgli tutta questa importanza!"
La fata non s'alterò davanti a questo
scetticismo, anzi, seguitò a fissare stancamente la neve che aveva iniziato ad
ammantare il paesaggio fuori dalla finestra, ovattandolo in un gelido limbo.
"Tu ridi di questo presagio. Tuo figlio piangerà a causa sua!" e non terminò
neanche la frase, che Kiyora aveva stretto protettivamente Madara al seno,
aggrottando bellicosa la fronte.
"Balle! Tutte balle senili! Non giochi
alla savia sibilla, alla lunga è stupido e snervante!", berciò ella,
terrorizzata all'idea che qualcosa di orribile potesse accadere al suo prezioso
frugoletto.
"Dici?", ribatté serafica la madre adottiva.
"Dico!", sibilò velenosa la figlia.
"Eppoi, non vedo come accidenti s'incastri il figlio del padrone col mio
..."
Oh, quanto si sbagliava! Le loro vite si
sarebbero incastrate, oh sì, se si sarebbero incastrate: in un puzzle perfetto,
talora sublime e puro, talvolta perverso e diabolico, sì, si dovevano
incastrare l'un l'altra per formare un unico destino, la storia che vi racconto.
Destino che non tardò a bussare alla porta di
Najtine la Fata, tre giorni dopo questa conversazione. Si preannunciò tramite
lo scampanellio di una slitta, rompendo il silenzio domestico caratterizzato
dallo scoppiettio della legna bruciante, dalla rauca risata dell'arcolaio e da
ruttini soddisfatti.
Andò la fata ad aprire la porta. "Oh, è
lei!", esclamò imperturbabile.
"Mi aspettava, Najtine?"
Riconoscendo quella voce, la giovane madre si
voltò di scatto, sbattendo incredula le palpebre.
"Tutti in questa casa la stavano attendendo.
Prego, entri, Maljunulo Sinjoro!", fece accomodare Najtine l'ospite, il
quale portò con sé parte della neve sulla piccola entrata, che cadde già
bagnata sul pavimento, creando una piccola pozza melmosa.
"Spero di non disturbare."
"Lei non disturba mai, Sinjoro, forse nelle
case dei suoi mezzadri, ma non in questa."
L'anziano Senju annuì, sorridendo a fior di
labbra, enigmatico, lo sguardo indagatore già puntato con la precisione di un
segugio su Kiyora. Ti ricordi, vero,
delle mie parole?, le dissero quelle iridi cioccolata. Quasi cinque mesi fa: “Tornerai in questa casa e sarà
per mia nuora.”
Sì, la
mora se ne sovveniva fin troppo bene. E anche mettendo caso che se ne fosse
scordata, il triangolo visivo del vecchio Duca - la figura nell'insieme della
giovane, il suo seno e Madara che dormicchiava ignaro e beato nella sua culla
improvvisata - spiegarono assai chiaramente lo scopo di quell'inaspettata
visita. Senza voltarsi, inconsciamente, portò la copertina al mento del
bambino, quasi volesse nasconderlo da quell'intenso studio.
"Bambina
mia", le parlò infine l'uomo a quattr'occhi una volta onorati i
convenevoli dell'ospitalità. La fata, dal canto suo, osservava la scena in
disparte, riprendendo il suo lavoro all'arcolaio. "Sii sincera: nutri
abbastanza il tuo piccino?"
"Jes,
Maljunulo Sinjoro. Il mio bebo gode di un eccellente appetito, eppure non mi
..." e si vergognò un poco di dire "svuota" al padrone,
ritenendolo leggermente volgare per le sue raffinate orecchie.
"Capisco",
convenne meditabondo l'anziano Senju, battendo la punta del bastone sul
pavimento. "E dimmi, te la sentiresti di allattarne un altro? Sarai ben
remunerata, ovviamente."
Un
tuffo al cuore. "Un altro?"
"Sì,
bambina mia. Un altro ..."
Silenzio.
Torcersi incerto di dita. Masticazione nervosa del labbro inferiore.
"...
Mio nipote Hashirama."
Madara
che si svegliava, si stiracchiava, sbadigliava e riprendeva a dormire, il
pollice umido rificcato in bocca.
"Allora,
mia cara, accetti?"
To be continued ...
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Gala ***
Rieccoci
qua col nuovo capitolo.
“Gala”, dal titolo, deriva dal greco e
significa “latte”. Come mai? Leggerlo per scoprirlo ...
La
storia adesso incomincia a entrare nel vivo, ora che i due bischeri – Hashirama
e Madara – sono nati, le vicende dei personaggi prenderanno a legarsi tra di
loro. Incrociamo le dita ...
Ah,
mi ero dimenticata di dire nei capitoli precedenti, che per “Najtine la Fata”
non intendo che il personaggio ha le orecchie a punta, bacchetta magica e le
ali, no la “fata” era una curandera, una sorta di strega bianca e questo
termine si trova nella tradizione popolare medievale.
Un
sentito ringraziamento per i miei lettori e recensori, in particolare Ame Tsuki e Sagitta72.
Vi
auguro buona lettura,
H.
****************************************************************************************************
Capitolo
Quarto: Gala
Sfamare
Menma è problematico. Non è rimasto quasi più niente da mangiare, la dispensa
del nostro rifugio patisce come noi la fame, noi, due uomini, inadatti per
natura a nutrire un neonato. Nell'inerzia dell'attesa, pensieri cupi affollano
la mia mente, i quali m'inducono a pensare che se non salteremo in aria,
moriremo d'inedia. O forse sto già crepando di fame, poiché, per quanto la
desideri, la mia bocca non si apre dinanzi al cucchiaio di pappa d'avena
offertomi (come l'avrà reperito?) dal Benefattore. Storco il viso, nauseato.
Mio cugino ne approfitta per riporre il cucchiaio, rimestarlo in quella sbobba
di fortuna, io nel frattanto nascondo quanto dettatomi dal tabarro, lui mi
porge ancora quell'insopportabile pappetta molle. Ostinato filantropo, gran vizio
della sua famiglia paterna.
"Devi
mangiare", mi comanda. "Sembri un cadavere." Parla proprio lui,
i cui zigomi resi prominenti da una quaresima fuori stagione gli ingrandiscono
gli occhi, quegli occhi così belli che, alle feste e serate mondane, ammaliavano
le donne lì presenti. Pallido, ora, estremamente pallido, sporco di polvere
raggrumatasi nel sudore, come lerci e fiaccati si appoggiano i suoi ricci sulla
fronte aggrottata. Conosco quello sguardo. Mi costringerà a mangiare, anche a
costo di forzarmi le mascelle. E mi chiedo: se lui appare così, io quale
mostruoso aspetto sto sfoggiando?
"Tu,
invece, sei l'ottava meraviglia del moooh-gulp!", ecco mi ha gabbato per
l'ennesima volta, infilandomi traditore il cucchiaio in bocca e il sapore di
quella robaccia mi paralizza la lingua. Fa schifo, è fredda e viscida, l'ingoio
a fatica, lo stomaco si ribella, disgustato, grugnisce il suo disappunto, vuole
ricacciarla via. Ma si adegua, sconfitto. E' pur sempre cibo e la fame torna a
rodermi le viscere.
Il
Benefattore mi cede la scodella, appoggiandomela sul grembo e mi sottrae Menma,
destatosi e già frignante e desideroso anch'egli di nutrimento. Mi detesto per
l'arrendevolezza delle mie mani, che non piangono la perdita di quel dolce peso,
l'unico loro interesse consiste nell'afferrare la ciotola e il cucchiaio,
ingozzandomi senza riprender fiato tra una cucchiaiata e l'altra. Stupido
stomaco avido e traditore, accetteresti di nutrirti perfino di topi se te li
offrissero!
"Tieni",
mi allunga il cugino un biscotto leggermente infiappito. "Gli darà un po'
di gusto ..." E mentre io gli divoro in un battibaleno pure quello, egli
estrae un cornetto di mucca traforato, riempiendolo di latte. Menma, affamato,
si serve di esso senza alcun rimorso, suggendo energico, i pugni chiusi e le
nari dilatate quanto gli occhi bicromi.
"Lo
hai bollito?", gli chiedo, leggermente preoccupato delle doti di balia del
mio parente.
L'occhiata
lanciatami è spietata. "Ovvio", dice, provocandomi un feroce rossore
per il mio scetticismo. Avendo ereditato un carattere sostanzialmente
estroverso, amabile e talvolta eccessivamente esuberante e disponibile verso il
prossimo (un po' come lo zio materno di Menma), tutti tendono a dipingerlo come
uno stolto, un pagliaccio, per poi tremare dinanzi ai suoi scatti di collera o
quando quella sua giovialità si sostituisce ad un'inflessibile serietà. Ignorano
che lui si atteggia così per meglio manipolarli, come il toreador che gioca col
toro prima di infliggergli l'estocade finale.
Questo
nei confronti degli altri eper quel che mi concerne, il Benefattore non sa
portarmi rancore troppo a lungo. "Mi prendi per un babbeo?", sorride,
seguitando ad allattare Menma col cornetto, magro sostituto del seno materno.
Ecco che termina il latte, il piccino piange, ne esige ancora, è finito, mio
cugino lo appoggia sulla sua spalla, Menma piange disperato e rutta e piange e
invoca quel latte che non riceverà. Vorrei dargli un po' della mia pappa
d'avena, me è ancora troppo piccolo per digerirla.
Mio
cugino, cullando il piccino, tenta di sopprimere con le parole quella frignante
protesta. "Temo che a breve dovremo abbandonare questo rifugio. A
Konohagakure hanno bombardato il bombardabile. Non siamo più al sicuro, bisogna
procedere verso casa!", si alza, barcolla, la vista gli si offusca,
costringendolo a coprirsi gli occhi con le dita fusiformi ereditate dal padre.
Lo
afferro, prima che sbatta contro il muro o, cadendo riverso sul pavimento,
schiacci il piccolo Menma col suo peso. "Ah, sì?", ringhio, frustrato
dall'apprensione. "E dove speri di andare così ridotto? Hai mangiato,
almeno? O meglio, quando è stata l'ultima volta che l'hai fatto?", bercio
fuori di me, grattando dalla scodella gli ultimi rimasugli della sbobba e
ficcandoglieli ferocemente in gola. Il Benefattore non replica, si limita a
sorbire la pappa in silenzio.
Talvolta
la sua generosità m'irrita a tal punto che vorrei strangolarlo, però desisto,
poiché anch'io ho peccato di simile eccesso e così non posso scagliare la prima
pietra.
Cala
la notte. Abbiamo procrastinato per qualche ora la nostra partenza. Siamo
sfiniti, il sonno nuoce alle nostre ossa ammaccate dal pavimento duro e per
fortuna che c'è il tabarro, che amorevolmente ci copre, riscaldandoci quel
tanto per non rabbrividire nel sonno.
Un
vagito. Di fame. Che posso fare?
"Non
ho niente, tesoro", sussurro a Menma, il cui pianto aumenta di volume ad
ogni secondo che passa. "Non ho niente da darti" e vi giuro che più
le lacrime gli rigano le guance smorte e sporche, più la mia anima s'accartoccia,
sopraffatto dall'impotenza. Per non svegliare mio cugino, il quale dorme
rannicchiato come un gatto pur di cedermi quanta più stoffa possibile del
tabarro, mi metto in piedi col nipotino in braccio e prendo a ballucchiare un
piccolo valzer consolatorio per l'esausto piccino. Ottenuta finalmente la sua
attenzione, oso spingermi oltre, azzardando un'arietta dal Faust di Gounod (la musica, eh!), la stessa che la mia bisnonna
cantava a mo' di ninnananna per i suoi figli, nipoti, pronipoti e a suo tempo
per i figli del padrone ...
C'era una
volta a Tulé un re, fedele
fino alla
tomba, e a lui fu donato,
cara
memoria della sua bella,
un bel
calice d'oro cesellato ...
"...
Eh, no!", s'interruppe Kiyora, chinandosi per terra onde raccogliere la
bianca cuffietta di pizzo che Hashirama, in piena crisi di ribellione
vestiaria, aveva afferrato dalla sua testa e scaraventata giù dalla culla.
Sbattutala contro la coscia, la giovane la rinfilò a fatica al suo legittimo
proprietario, il quale storse il capo neanche avesse voluto svitarselo dal
collo. "Benedetto fanciullo, vuoi gelarti le orecchie?", gli chiese,
sistemandogli il delicato nodino sotto il mento e, dichiarandosi soddisfatta,
lo sollevò dalla culla e lo avvolse nella morbida coperta di lana addolcita da
decorazioni in merletto, cullandolo. "Eppoi, mica vuoi presentarti tutto
sciatto, vero? Che dirà il cappellano?"
Francamente,
Hashirama del cappellano se ne infischiava altamente, soprattutto se
incontrarlo significava agghindarsi peggio di una bambolina di porcellana e coi
suoi occhioni grandi, marroni, dalle ciglia lunghe quasi femminee, hé, ad una
bella pupetta ci poteva assomigliare.
"Allora,
che ne dite? Non l'ho preparato bene? I Sinjori saranno contenti, spero",
volle Kiyora l'opinione di sua madre Najtine e di Haruka, intenta a trattenere
uno sgusciante Madara, insofferente a quel suo tenerlo per la vita alla stregua
d'un gatto. "Hai visto com'è ben vestito il tuo fratello di latte, tesoro
mio? Oggi lo battezziamo, sai? La Sinjora m'ha poi promesso di donarti una
vesticciola simile, quando verrà il tuo turno!", parlò lei dolcemente al
figlio, portandosi assieme ad Hashirama alla medesima altezza. Smettendola di
contorcersi come un fachiro, il piccino osservò attento il volto del Sinjorino,
allungando una manina bavosa verso il nastro, tirandolo a sé in modo da
rubargli la cuffietta.
Il
piccolo Senju poteva, su suo capriccio, denudarsi di tutte le cuffiette di
questa terra, ma guai se qualcun altro osava mettersi in mezzo, guastandogli il
divertimento! Non appena i suoi morbidi capelli castano scuro vennero a
contatto con l'aria leggermente più fredda, egli s'imporporò sdegnato, cacciò
un belluino grido di battaglia e schiaffeggiò in una rapida zampata il naso di
Madara, che rimase a bocca aperta per la sorpresa, prima di sciogliersi
anch'egli in un pianto stizzito. E avrebbe pure ottenuto la sua giusta vendetta
se sua madre, dopo avergli sottratto la cuffietta, non si fosse alzata,
separando i due litiganti. "Cattivi, cattivi, brutti e cattivi tutti e
due!", li rimproverò Kiyora, mentre Najtine sogghignava segretamente tra
sé e sé.
"Ma
come, furbastro? Aspetta di essere più grande per simili giochi ...",
disse al nipotino, alludendo alla strana mania di Madara di sottrarre,tirando, ad
Hashirama un qualsivoglia capo d'abbigliamento, dai calzini, alle fasce-pannolino,
alla copertina e se gli oltraggiati strilli di risposta del Sinjorino avessero
trovato una traduzione, di sicuro sarebbero stati non dissimili ad un "E smettila, lurido maiale ladro pervertito!"
Ma
a parte questo, i due non s'importunavano troppo, o meglio, tutto dipendeva
dall'umore già pestifero del moro - sì, i quattro ciuffi che aveva in testa
avevano ripreso il corvino della madre, solo con sfumature azzurrine invece che
viola - il quale, imparato a stare seduto, tentava ora saltellando sulle
chiappe ora strisciando di afferrare Hashirama, che aveva a sua volta appreso a
gattonare con un mese in anticipo pur di sfuggirgli, nascondendosi sotto il
tabarro di Najtine. Gli adulti, ovviamente, interpretarono la cosa come un
segno di grande precocità da parte di ambedue i pargoli, in particolare quando
Madara, raggiunto il nascondiglio del compagno di poppate, ne sollevava il
lembo alla ricerca del fuggitivo; rapida come la morte, una manina tesa lo
aspettava al varco, una manina che gli rifilava un bel ceffone, costringendolo
ad abbassare stupito e umiliato il tabarro. Allora, dimostrando di essere già
un testardo, il piccolo Uchiha rotolava dalla parte opposta, infilando la testa
sotto il mantello e alla fata cadeva per poco il fuso dell’arcolaio non appena
i suoi timpani sperimentavano l’acuto strillo di Hashirama, presto seguito da
quello di Madara. Prontamente la donna scostava il tabarro dal punto in cui i
due s’erano accampati, rivelandoli intenti in una strana zuffa, il moro che
stava tentando di smutandare – anzi, spannolizzare – il castano, mentre questi
ricambiava il favore tirando vendicativo i pochi ciuffi del suo assalitore.
Solo l’allettante prospettiva della pappa riusciva a calmare le urla ferine che
uscivano impunite da quelle gole nuove di zecca, desiderose d’essere collaudate
quanto prima.
"Ponja
... parlando del ba-battesimo ... Quando ... quando sposerai il Paĉjo
...?", tartagliò ad un certo punto Haruka, riacciuffando Madara e
ritrovandosi di conseguenza la mano sbavata in segno di protesta.
Il
sorriso della giovane s'incrinò in un che di sinistro. "Il giorno in cui
verrà strisciando a chiedermelo, filina mia!" Ed effettivamente, non
mancava giorno che Tajima non insistesse acciocché Kiyora venisse a vivere con
lui, marmocchio compreso. Dal canto suo, la mora era irremovibile: l'Uchiha aveva
promesso di sposarla compiuti i sedici anni? Ottimo, allora avrebbe atteso e
siccome non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca, o Tajima si
pigliava tutti e due con la benedizione della Chiesa o ciccia, senza contare
che l'essere divenuta la nutrice del figlio del padrone le riempiva le giornate
e l'ultima magagna che poteva sopportare erano le lamentevoli insistenze
dell'uomo, sicché, appena lo scorgeva dalla finestra, Kiyora correva in camera
sua, chiudendosi a chiave e cantando ad alta voce per non udire i battiti alla
porta dell'Uchiha.
Talvolta,
però, le richieste di Tajima si facevano così insistenti che neppure i rimedi
della giovane potevano metterle a tacere; di conseguenza, ella balzava giù
dalla sedia a dondolo e, spalancando la finestra, gridava spazientita:
“Ohé,
ma la smetti di rompermi le pigne? I pargoli starebbero dormendo, sai? Santa
Trinità, se mi fai scaturire il Sinjorino, la Duchessa m’impicca con le mie
budella! E allora, chi si prenderà cura di Madara? Tu, razza di totano?”
Sorvolando
sul “totano” nell’ultima domanda retorica, Tajima ribatté ostinato: “Certo,
perché sono suo padre! E in quanto tale è ingiusto vedermelo privato!”
“Aria
fritta con cipolle! Manco te ne cale di lui!”
“Baggianate!”,
sbraitò l’Uchiha, che incominciava a perdere la pazienza. “M’importa moltissimo
di lui, così come dovrebbe importare a te la magra figura che ci stai facendo
fare alla comunità intera! La gente parla!”
“E
lasciali fare, hanno la lingua apposta!”
“Io”,
si batté l’uomo il petto, indicandosi “quando metto su famiglia, non voglio che
nessun possa dire! Capito? Niente chiacchiere! Nessun Uchiha a Mokuton ha mai portato
il titolo di “bastardo” e mio figlio non farà eccezione!”
“Ma
sentilo, sentilo, il gran pater familias!”, roteò Kiyora gli occhi in maniera
beffarda. “E a me non pensi, hundino? Non pensi alla vergogna che potrei
provare giù in paese, sentendomi dare della baldracca? Della concubina? Io
vengo solo se mi sposi, intensi?”
“Non
si può fino ai tuoi sedici anni!”
“E
allora, aspetta! Che fretta c’è?”
“Ma
nel frattempo torna a casa, vivaddio!”
“Sono
già a casa, pirla, a casa mia, di mia madre!”
“Manchi
ai bambini …”
“Forse
ad Haruka, ma agli altri due masnadieri no di certo …”
“Benedetta
knabina, quando ti impunti così avrei voglia di strangolarti!”
“Ecco,
bravo!”, berciò Kiyora, afferrando Madara dalla sua culla e mostrandoglielo
ancora insonnolito dalla finestra. “Strangolami davanti a tuo figlio! Avanti,
strangolami, ch’è la volta buona che t’impiccano e hai finito di scocciarmi!”
Najtine,
filando imperterrita malgrado le grida belluine e la raffica d’insulti
scaraventati a destra e a manca, li giudicò entrambi due cretini.
Quanto
a Madara, egli visse abbastanza serenamente questo braccio di ferro tra i suoi
genitori; a onor del vero, gli importava ben poco. Aveva questioni più pressanti
cui badare: contendersi ad Hashirama il seno di sua madre. Il piccolo Senju,
quando si trattava di poppare, non era un rivale da sottovalutare: complice il
periodo di schifosi surrogati e un inverno assai rigido, il piccino aveva
sviluppato una fame pressoché mostruosa e siccome lo stesso Madarain fatto di
appetito non era secondo a nessuno, la povera Kiyora, appena terminato con uno,
doveva issare lo strillante altro per allattarlo e così via suggendo.
Lentamente, la mora stava incominciando a svezzare Hashirama e le richieste di
poppare presero a diminuire; nondimeno, le prime settimane furono orribili.
Del
resto, quando Sua Grazia il Maljunulo Sinjoro si presentò alla porta di casa di
Najtine, suo nipote versava in condizioni davvero critiche, strappando
un’esclamazione di preoccupato stupore perfino a quella scettica per natura di
Kiyora. Infatti, in seguito alla morte della sua balia, se ne chiamò presto
un’altra, sennonché Hashirama si rifiutava di nutrirsi da lei, neanche avesse
intuito tramite un arcano ragionamento d’infante che la persona che fino a quel
momento l’aveva allattato fosse deceduta, per di più di morte violenta. Non
volle rimpiazzi, anzi, non volle proprio mangiare, per la disperazione di sua
madre la Duchessa Anise che vegliava in lacrime sul figlio, rimpiangendo quel
latte che i suoi seni oramai non potevano più offrirgli. Si temette dunque per
la sorte di Hashirama, dimagrito in un battibaleno da un morbido frugoletto ad un
fragile scheletrino: non solo declinò la poppa della seconda balia, bensì della
terza, della quarta, etc.; prese a vomitare il latte ingurgitato per
disperazione; piangeva e strillava giorno e notte come un ossesso e si rigirava
esagitato nella culla che pareva epilettico.
A
suo modo, Hashirama stava onorando il lutto per la scomparsa della sua nutrice,
visto che neppure un cane aveva presenziato al suo funerale.
Fu
forse per questo motivo che, nel momento in cui l’anziano Duca comunicò ai
figli e alla nuora di voler affidare il nipote per un anno – secondo le usanze dell’epoca
– alla figlia della Fata, nessuno osò sollevare delle obiezioni, neppure Tōka
Senju, la quale si limitò ad annuire tristemente.
“Ve
lo riporterò bello come il sole!”, aveva promesso loro Kiyora, quando Sua
Grazia e la Duchessa vennero a portarle il bambino, il quale dormicchiava
respirando appena appena. “Avete la mia parola.” I due Senju sorrisero a fior
di labbra a mo’ di ringraziamento e non per scortesia, bensì in quanto entrambi
provati da quell’atroce esperienza, assistere al deperimento di un bébé fino a
quell’istante considerato uno splendore di salute. Rassicurati i sinjori con
questa ottimista promessa e congedatasi da loro, Kiyora cedette allora il suo
figliolo a Najtine e riempì il vuoto del suo abbraccio con il Sinjorino, il
quale strabuzzò gli occhi, allarmato da quell’inatteso scambio. Prese quindi a
tirare su col naso, a sforzare la trachea già di suo abbondantemente sfruttata,
ma ecco! Oh, il miracolo della natura! Quali segrete paroline gli aveva
sussurrato la ragazza, mentre prendeva posto sulla sedia a dondolo? Parole
certamente di conforto, come consolanti erano quei ghirigori tracciati col
polpastrello sul visino scavato, gli occhioni sporgenti e le manine ossute, che
Hashirama schiuse e riaprì nel tentativo di afferrare il dito della mora. Con
l’altra mano, lei si slacciava la blusa e la tetta turgida ebbe appena il tempo
di fare capolino, che il piccolo Senju s’attaccò al capezzolo, suggendo vorace,
gli occhi chiusi in apprezzamento e le dita intente in strani esercizi motori.
Non si separò neppure quando Madara, frignando incollerito, gli diede tramite
una serie di singhiozzi-gridolini del porco egoista, specificando in questo
arcano e indecifrabile linguaggio infantile che quella era la sua tetta e che sloggiasse
immediatamente. Hashirama, ineffabile, fece orecchie da mercante, gli rispose
solamente a pasto terminato attraverso un soddisfatto ruttino e fu forse questa
piccola provocazione che istigò in mio nonno il vindice pallino di smutandare
ad ogni occasione il suo fratello di latte, il quale, omettendo i primi problemucci
d’adattamento, riprese a mangiare con regolarità, riacquistando peso e cessando
i suoi estenuanti isterismi con sommo sollievo di sua madre la Duchessa, la
quale malgrado le fosse stato consigliato di sfruttare il periodo di
convalescenza per rilassarsi, non passava giorno che non trovasse un modo per
venirlo a trovare, magari adducendo qualche flebile scusa o portando calzini,
cuffie, vestitini nuovi anche per Madara o sapone o coperte o altro denaro per
pagare ogni spesa aggiuntiva. E spesso, sedendosi accanto a Kiyora, Anise si
fermava assorta a contemplare il figlio che poppava come un matto, mentre
un’espressione d’infinita malinconia le si dipingeva in volto e il fievole e
sempre più saltuario dolore ai propri seni le ricordava maligno quell’arcano
rimpianto, di non aver mai allattato personalmente la sua creatura sia per
motivi estetici che di etichetta. Alla fine della visita, la Duchessa si
raccomandava sempre con voce roca, dopo aver baciato e ri-baciato la testolina castana
del suo bébé, di trattarlo bene e di avvertirla al minimo problema.
“Non
avrei mai immaginato che l’allattamento fosse per i ricchi un qualcosa di
sconveniente!”, confidò una sera Kiyora a Najtine, intanto che cambiava le
fasce ai due marmocchi.
“Non
a caso nelle loro vene, quelle dei nobili in particolare, scorre ghiaccio al
posto del sangue!”, replicò la fata, aiutandola a finire il lavoro e a
sistemare nella semplice culla Hashirama e Madara, entrambi troppo stanchi e
satolli di latte per protestare l’eccessiva vicinanza, in poche parole dormire
nella stessa culla, preferendo invece rimandare a più tardi la loro diatriba
lattea, addormentandosi quasi subito, Hashirama coi pugnetti portati
all’altezza della testolina come le icone bizantine, Madara col suo immancabile
pollice in bocca.
Una
piccola tregua che durò all’incirca quattro ore quando, in sincronia perfetta, i
due ulularono nel cuore della notte la loro fame lupesca.
... Nessun
tesoro tanto gli piaceva!
Se ne
serviva nei giorni solenni,
e ogni
volta ch'egli vi beveva,
i suoi
occhi di lacrime eran pieni ...
Il
29 giugno dello stesso anno, giorno dei Santi Pietro e Paolo, il sovrano di Hi,
Re Sorato XIOotsusuki, impalmava una bella straniera, figlia di un imperatore,
Sua Eccellenza la Principessa Kaguya. La peculiarità di codesto imeneo
risiedeva nelle origini della regale sposa, la quale non proveniva, come le
previe regine, né da Tsuchi, né da Kuminari, né da Mizu, né da Kaze, né da
qualsiasi altra città libera o granducato o principato confinante con Hi. Sua
Eccellenza Kaguya veniva da una nazione lontana (così lontana che solo chi
aveva studiato geografia o viaggiato poteva figurarsela mentalmente) e aveva
conosciuto Sua Maestà quando questi era ancora un Principe
Ereditariosballottato di qua e di là per il globo terrestre su istruzione di
suo padre, il defunto Re Soma VIII.
Il
matrimonio reale, celebrato con uno sfarzo senza pari, galvanizzò l'intero
regno, da nord a sud, da est ad ovest e le casse dello Stato ingrassarono per
la folla di sudditi dalle province o di visitatori, che si prestò a rimanere
pigiata negli angusti marciapiedi o appollaiata alle finestre pur di vedere la
sposa arrivare nel Duomo di Nostra Signora dei Miracoli a Konohagakure o
viceversa, la coppia reale uscire da esso sulla carrozza scoperta e salutare i
festanti sudditi con un artificioso svolazzo di mano di repertorio. L'euforia
generale sconvolse talmente la psiche dei konohagakuriani e hiliani in
generale, che ogni screzio politico venne accantonato; perfino gli oppositori
più accaniti della monarchia - i famigerati repubblicani che avrebbero dato la
mano destra per veder la testa dei reali rotolare nello sterco di vacca -
ebbene pure loro si sciolsero in un esaltato: "Dio salvi il Re! Dio salvi la Regina!"
Insomma,
ci si riscoprì d'un tratto patriottici, perfino i più scettici.
A
Mokuton l'effetto esaltante delle nozze reali venne prontamente assorbito
dall'incrinabile imperturbabilità dei suoi abitanti i quali, un giorno di ferie
e qualche bicchiere di vino gratis a parte, non si ritrovarono né più ricchi né più privilegiati di prima,
anzi, con la scusa che i padroni avevano dovuto lasciare la tenuta per
presenziare alla funzione nel duomo, l'Amministratore ne aveva approfittato per
godersela un poco, angheriandoli ulteriormente con le sue prepotenze e se il
mio prozio simpatizzò con la classe lavoratrice, fino a pagare con la propria
vita tale empatia, lo si deve a suo padre, il bisnonno Tajima, che, eletto a
portavoce di tutti i mezzadri, si rivolse all'ultima autorità rimasta a
Mokuton, quando i Senju erano assenti: il parroco. Col vecchio medico quale
testimone (saranno stati analfabeti, ma mica fessi, eh!) il bisnonno e i suoi
compari obbligarono il parroco a compilare il primo cahier de doléances mai esistito a Mokuton, un dettagliato resoconto
di tutte le malefatte dell'Amministratore, alcune dimostrate, altre solo
ipotizzate. In un appassionato quanto indignato appello al Duca, vi si
denunciavano dopo anni di silenzio le birbonate e prepotenze cui i mezzadri
erano sottoposti, le ladrerie compiute alle sue spalle e lo si invitava a
prendere quanto prima dei seri provvedimenti. Ovviamente, questo quadernino non
giunse mai nella scrivania né del Maljunulo Sinjoro né di Butsuma Senju,
giacché il parroco, temendo ripercussioni da parte dell'Amministratore, lo
nascose ai piedi della quattrocentesca statua di Santa Lucia e lì sarebbe
rimasto per tre lustri, fino ad un suo casuale ritrovamento che avrebbe portato
al giusto licenziamento dell'Amministratore prima, ad una tremenda tragedia
nella famiglia Senju poi, segnando per sempre il destino delle due famiglie e
dei loro componenti.
"Lui
era venuto a punirci per i peccati compiuti dai nostri antenati", avrebbe
confessato Kawarama a suo fratello Tobirama in seguito all'orribile sciagura.
"Dobbiamo rassegnarci a raccogliere quanto seminato."
Intanto
però, l'Amministratore (vi sarete resi conto che non voglio neppure dargli un
nome) si accertò di fargliela pagare a quei disgraziati che lo avevano
denunciato; il parroco, del resto, non ci mise molto a confidargli i loro nomi.
La conseguente rappresaglianon tardò a venire: l'Amministratore e i suoi
sottoposti, cui era stato erroneamente riferito che i mezzadri stavano
organizzando una sommossa ai danni del padrone, irruppero di notte nelle case
dei recriminanti e, strappatili a viva forza dal letto, li menarono a sangue
davanti ai loro atterriti famigliari, ficcando poi la loro testa nel buco sul
retro casa che fungeva da pitale. Lo stesso fato lo avrebbe subìto anche Tajima
Uchiha, sennonché le oche nel cortile, accortesi dei visitatori notturni, similmente
alle loro ave del Campidoglio presero a starnazzare impazzite, svegliando tutti
gli abitanti del casolare, i quali, affacciandosi alla finestra, intuirono il
motivo di quella visita sgradita e di fatti, vestito il parente alla bell'e
meglio, lo fecero uscire di soppiatto dalla cucina. Correndo trafelato nei
campi bui come l'inchiostro, l'uomo si diresse verso il solo posto che avrebbe
potuto dargli asilo: la casa di Najtine la Fata.
"Mi
danno la caccia, nascondimi!", esclamò egli senza fiato alla moglie, che
gli venne ad aprire dopo che questi ebbe per poco sfondato la porta a furia di
disperati colpi. (Pur seguitando a non vivere assieme, Tajima e Kiyora avevano
nel frattempo convolato a nozze).
Senza
neanche dargli il tempo di deglutire la saliva, la giovane lo tirò dentro casa,
spingendolo in camera sua. "Qui!", disse, indicandogli la capiente cassapanca.
"Nasconditi qui! Non muoverti, non respirare! A loro ci penso io!",
lo istruì, per quanto lei per prima non sapeva come accidenti comportarsi,
proprio in quella notte le doveva succedere un tale teatrino, l'unica notte in
cui Najtine non c'era!
Ma
il suo tabarro sì, neanche la fata l'avesse sospettato, e di fatti Kiyora se lo
mise addosso a mo' di sostegno e protezione, sedendosi sopra il mobile, Madara
e Hashirama stretti al collo. Molti anni dopo, poiché il mondo è un Uroboro,
una scena simile si sarebbe ripetuta: sua nipote, mia zia, avrebbe atteso col
figlio in braccio i "difensori dell'ordine" alla ricerca di suo padre
e di suo zio, che lei aveva precedentemente nascosto in casa. Soltanto perché i
capi di questa marmaglia erano amici di vecchia data di suo marito e avevano
colto l'occasione per pareggiare dei conti comunque sbilanciati (il padre del
Benefattore s'era giusto difeso e basta), mia zia sarebbe scampata ad una
caterva di colpi allo stomaco, salvando così il nonno e il prozio.
Similmente,
anche Kiyora la fece scampare a Tajima per intercessione di un Senju,
sfruttando per una volta il suo speciale status a Mokuton. Le servì un enorme
coraggio, però. Un'audacia accompagnata dal tremore delle gambe e dal cuore che
le batteva a mille nel petto, mentre udiva i cani dell'Amministratore abbaiare
verso la sua abitazione, ben presto seguito da un deciso rumore di passi.
"Aprite
questa porta, streghe!", gridarono da fuori.
Kiyora
non si schiodò dal suo posto.
"Aprite
o giuro su Dio che appena dentro vi torco il collo, puttane!"
La
mora strinse di più a sé Madara e Hashirama, i quali neppure fiatavano,
intuendo secondo i loro ragionamenti d'infante che qualcosa di brutto stava
accadendo e che non era il caso di fare storie.
Un
calcio, due calci, tre calci. La porta crollò, sfondata, frantumandosi in un
bedlam di schegge e tavole irregolari al primo contatto col pavimento. Entrarono
come un fiume in piena, invadendo e violando la sacralità domestica coi loro
stivali sporchi di fango, d'orina e sangue, rovistando dappertutto, distruggendo,
dissacrando. In mezzo a questo blasfemo bailamme, la giovane nutrice era
rimasta immobile come il sole, i due pargoletti oramai un tutt'uno con lei e
col tabarro.
"Avanti,
parla! Dove hai nascosto il tuo uomo?", si rivolse brusco l'Amministratore
a Kiyora, dopo un'oretta buona d'infruttuose ricerche.
"In
questa casa gli unici maschi che vi abitano sono questi due bambini."
"Non
fare la furba, troia. Sappiamo che tuo marito è venuto qui a nascondersi! Dove
lo hai ficcato?"
"Non
è insultandomi che mi persuadi a dirtelo! Eppoi, io non so niente, non ho visto
niente, a che pro mentirti?"
"Piuttosto,
perché non eri a letto? Perché sei seduta qui?"
"Stavo
allattando ..."
"Mi
pare che questo qui sia un po' grandicello per poppare ..."
"Non
il mio, però!"
"Suvvia,
carina, poche storie: quella cassapanca è l'unico posto in cui non abbiamo
controllato. Alzati: se davvero tuo marito non è in questa casa, non hai nulla
di cui temere!"
"E
appunto perché questa è casa mia, che mi alzo come e quando ho voglia e adesso
non ne ho!"
"Non
scherzare con me! Alzati o ..." e le puntò con freddezza assassina la
volata del fucile dritto al cuore.
Kiyora
impallidì fino al grigiastro, incominciando poi a gridare isterica: "Cornuto!
Avresti davvero i coglioni di sparare ad una donna disarmata, per di più con
dei bambini in braccio?", ululò, ingobbendosi e torcendosi con busto e
spalle per proteggere i piccini, adesso piangenti e terrorizzati. Gli uomini
dell'Amministratore si mossero a disagio sul loro posto: decisamente il loro
superiore stava sorpassando ogni limite, specie se ancora non aveva intuito la
vera identità di quella donna.
"E
sai quanto me ne frega; una puttana e dei bastardi in meno, come se il mondo vi
potesse mai rimpiangere!"
"Puttana
sarà tua madre e bastardi sarete te e i tuoi fratelli! Lo sai chi sono io? Sai
chi è lui, figlio di scrofa?", strillò ella esasperata dal terrore,
indicando appena Hashirama, riconoscibile dai ciuffi castani che spuntavano dal
tabarro. "Io sono la balia del figlio del padrone! Il figlio primogenito
del Duca! Se gli dovesse mai succedere qualcosa, quant'è vero Iddio, Butsuma
Senju ti farà squartare vivo e getterà le tue viscere merdose ai maiali!"
Una
dolorosa stretta ai capelli la interruppe, piegandole dolorosamente il collo all'indietro.
"Me ne sbatto dei Senju, di quegli ingrati rotti in culo, mangiapane a ufo,
parassiti! Pensi che ti salverai il deretano nascondendoti dietro di loro? Che
siano onnipotenti? Oh no, un giorno dimostrerò quanto essi siano fatti di carne
e sangue e quel giorno gliela farò pagare non cara, no, carissima, salatissima,
li farò disperare, li umilierò e tu sarai la prossima, tu e il tuo bastardo e
quel cacasotto di tuo marito! Ah sì, e la strega che chiami madre!"
"Se
non sarai tu a morire per primo, chi augura la morte ad una persona, accorcia
la sua e l’allunga a quell’altra!", sentenziò serena la padrona di casa,
comparendo alle loro spalle.
Calò
immediatamente un pesante silenzio.
"Che
blateri mai, strega?", la derise l'Amministratore, seppur un poco
titubante.
"La
pura verità", replicò serafica la fata, avanzando verso il gruppetto, che
indietreggiò, impaurito. "E adesso, andatevene via o vi getto il
malocchio!" e in tutta onestà, gli uomini lì presenti non avevano alcunché
da obiettare, anzi, stavano giusto per esaudire il desiderio della donna,
sennonché l'Amministratore li ordinò di restare.
"Che!
Avete paura di questa befana?"
"Chi
insulta senza un valido motivo dimostra di non possedere troppo cervello!"
Per
tutta risposta alla massima di Najtine, l'uomo le elargì un possente
manrovescio, gettandola a terra. "Taci, baldracca, e dimostra di averne un
poco anche tu!"
Di
nuovo calò il silenzio, stavolta mortale.
"Solo
un maiale colpirebbe una donna", mormorò infine la fata ieraticamente,
rialzandosi. All'improvviso, Najtine gli batté le mani davanti agli occhi, a
qualche centimetro dal suo naso. "E allora vai! Vai a rotolarti coi tuoi
simili, porco!", gli ordinò, indicandogli la porta.
L'Amministratore
appoggiò le mani ai fianchi, gettò indietro il capo e si esibì in una grassa e
insolente risata. "Via, vecchia! Il Medioevo è finito da tem- ... Oink!",
si tappò la bocca con la mano incredulo del suono emesso dalla sua gola. Ché
infatti, mescolandosi alle risa, un vero e proprio grugnito maialesco era
eruttato dalle sue labbra, scioccando tutti, tranne i piccini, che ripresisi
dallo spavento iniziale incominciarono a ridacchiare.
Oink, oink!
"Oh
Gesù, Giuseppe, Maria ...", si segnò velocemente Kiyora, portandosi le
ginocchia al petto, tanto l'aveva invasa
la paura della superstizione, mentre osservava l'Amministratore cadere
bocconi sul pavimento, grugnendo e dimenandosi e trotterellando a quattro zampe
verso la porcilaia, dove si gettò tra
gli esterrefatti suini, i quali si domandarono se dovevano contendersi anche
con questo nuovo arrivato le loro ghiotte ghiande.
Oink, oink, oink!
"Vade
retro, Strega!", gridarono terrorizzati i sottoposti dell'uomo, intasando
l'uscita in uno scomposto mucchio, essendosi infatti gettati nella fuga
esattamente nello stesso istante.
Najtine
sogghignò, puntando contro loro due dita e bofonchiando gutturali parole di
minaccia, che si persono nel vento notturno, soppresse dagli ululati dei
fuggitivi.
"Si
è ... si è davvero trasformato in un ... maiale?", le domandò la figlia
sull'orlo dello sconcerto, una volta che nella casa ritornò una certa calma.
"Potresti ripetere anche con lui?", avanzò ella la sua richiesta,
indicando Tajima, che in quel momento stava aiutando ad uscire dalla
cassapanca, dopo aver coricato Hashirama e Madara nella loro culla.
"Senti,
donna, non infierire ..."
Riprendendosi
il suo tabarro, la fata incrociò le braccia al petto, svelando l'arcano: "Neniu,
non l'ho "trasformato". Ho
solo rilassato la sua coscienza d'uomo, visto che èuna bestia nell'animo. In
ogni modo, domani mattina ritornerà in sé e non si sovverrà niente di questa
notte, un po' come se avesse sperimentato una forte ubriacatura. Forse
preserverà una vaga sensazione di aver fatto una figuraccia e di
doversoprattutto stare alla larga dalla mia casa!", disse, massaggiandosi
la spalla indolenzita dal carico di affanno che il tabarro aveva accumulato
dalla figlia e i piccini, passandoglielo e conseguentemente irrigidendole i
muscoli. "Ciononostante, pur conoscendo le dinamiche del futuro, mi
sarebbe davvero piaciuto trasformarlo sul
serio in un porco, coda inclusa!", rimpianse tristemente, dirigendosi
verso il caminetto e lì riprese il suo infinito lavoro all'arcolaio. In
silenzio, dietro di lei, la sua pupilla riaccompagnava Tajima dalla sua
famiglia.
Najtine
possedeva un'incomprensibile, per i non-adepti, chiaroveggenza e appunto per
questo motivo ella aveva previsto il progressivo allontanamento spirituale di
Kiyora nei suoi confronti; l'affetto sincerofinora dimostratole dalla mora da
quel momentosi sarebbe mutato gradualmente in un formale rispetto, più che
altro dovuto al timore di subire la medesima sorte dell'Amministratore, il
quale, come da lei predetto, si chiese nelle successive settimane come
accidenti fosse finito a ruzzolare nel fango e nella merda tra i maiali,
nutrendosi delle loro ghiande. Kiyora, col passare del tempo, avrebbe perfino
smesso di vedere Natsumi Uchiha. Ciò dispiaceva grandemente sia alla fata che
al fantasma, giacché la prima aveva perduto una potenziale apprendista, la
seconda una persona a cui manifestarsi.
"Cinque
anni e quattro mesi", consolò ella il tabarro, che vibrava il suo
disappunto, aderendo al suo corpo da dea mater. "E avrò una persona cui
insegnare ciò che sento, ciò che
vedo."
Sospirò,
appoggiando il fuso e gettando un ciocco di legno nel caminetto.
Non
sempre pagano a questo modo gli atti di misericordia.
...
Quando, sul freddo letto, il passo estremo
della
morte il re sentì arrivare,
per potere
alla bocca avvicinare
la coppa,
fece uno sforzo supremo ...
L'estate
ingiallì nell'autunno e, prima che ci si potesse rendere conto, giunse il 23
ottobre, segnando il momento della restituzione di Hashirama alla sua vera
famiglia, la quale si trovava brevemente di passaggio a Mokuton, giusto per
sbrigare le ultime formalità concernenti l'amministrazione della tenuta, per poi ripartire col bambino alla volta di
Konohagakure, dove avrebbero trascorso l'inverno e il primo mese di primavera,
fino a Pasqua.
Nei
mesi trascorsi tra giugno e ottobre, il Sinjorino aveva dato del filo da
torcere a Kiyora, specie quando, a furia di capriole e strilli frustrati,
imparò a camminare e iniziò dapprima la sua fase di lallazione, in seguito a
spiaccicare le prime pragmatiche paroline: "Mamma ... pappa ..." e se
il suo vocabolario fosse stato più articolato, di certo avrebbe aggiunto
"E pure in fretta, eh!" Poppare latte oramai non lo interessava,
trovava assai più divertente impiastricciarsi le mani di morbido purè di patate
e spalmarlo sulla testa di Madara (o "Dada", come Hashirama lo aveva
ribattezzato, essendo il nome del nonno ancora troppo complicato per la sua
linguetta inesperta) e il piccolo Uchiha, costretto ancora a gattonare, non
poteva competere con la vantaggiosa posizione eretta del Senju, impedendogli
così di rendergli pan per pariglia. Piangere però no, non gli voleva dare
codesta soddisfazione. Sicché, in una mattina ottobrina, Madara decise,
esigette, risolse, stabilì ed eseguì, di sollevarsi dalla sua animalesca
andatura a quattro zampe e di ergersi come i suoi simili homo sapiens sapiens,
camminando sui suoi piedini. Più facile a dirsi che a farsi: al bambino costò
una fatica immane sollevare in alto il sedere e formare una sorta di triangolo
tra salsiccesche gambe e braccia tese. E
quando gli parve di poter raddrizzare la schiena e compiere i primi fatidici
passi, ecco che la testa, più pesante del corpo, onorò le leggi di Newton e si
piantò per terra e in battibaleno il mondo si capovolse e Madara si ritrovò
supino per terra, la veste di lana sporca di terra e sollevata quel tanto da
mostrare al mondo le sue ancora acerbe grazie (Vorrei far notare, che all'epoca di mio nonno, i bambini piccoli
vestivano come bambine, con le sottane, e non calzavano alcun genere di
costrittiva mutanda, acciocché potessero urinare e defecare a loro piacimento,
quando natura chiamava, sollevandosi la vesticciola). Hashirama, che aveva
assistito all'esperimento in doveroso silenzio, alla vista del perplesso Uchiha
spaparanzato per terra gli trotterellò accanto a mo' di sostegno o forse per
tappare la zampillante fontanella tra le gambe del fratello di latte, il quale,
vuoi per la paura del ruzzolone vuoi per la pienezza della vescica, si stava
per l'appunto pisciando addosso e, a quanto pareva, il piccolo Senju si stava
divertendo un mondo ad aprire e chiude con la manina la parabola d'urina, un
po' quando si è alla Fontana delle Tette e si blocca un capezzolo per far
uscire più acqua dall'altro, schizzando i malcapitati attorno a quello
ostruito. "Lalla-la-mah-gah-tat-ta!", strillò Madara, agitandosi come
una tartaruga finita sul dorso, chiaro invito ad Hashirama di scegliersi un
altro passatempo. Togliendo la mano lercia di pipì dalle modestie del moro, il
Sinjorino se la ripulì sulla gonna della sua veste di verde velluto, osservando
attento e senza malizia come Madara si rotolasse prono, gattonandosene via
umiliato e offeso col sedere nudo al vento e, pensando che si trattasse di un
nuovo gioco, si alzò anch'egli la sottane e gli gattonò accanto in simile
maniera, in quanto pure lui privo di intimo.
Una
settimana dopo, Kiyora riportava Hashirama al Castello di Mori.
I
due pargoli, grazie alla loro infantile intuitività, avevano compreso che
qualcosa di strano stava accadendo quella mattina del 23 ottobre: la giovane
balia, vestitati con l'abito della domenica, aveva destato il Sinjorino e
lasciato invece Madara nella culla, che si issò sulle paffute e spellate
ginocchia per meglio studiare quell'inusuale programma, giacché la sua mamma
soleva sottrarli contemporaneamente a Morfeo, senza precedenze. Spiò come Hashirama venne fatto colazionare,
seppur controvoglia, e sottoposto ad una lunga toeletta: con mesta
accuratezza, Kiyora lavò e strofinò ogni
centimetro della sua piccola figura; gli tagliò le unghie delle mani e dei
piedi, più quattro dita di capelli arricciatisi tra di loro in un'arruffata
matassa e infine lo unse di un profumato unguento alla lavanda, vestendolo
infine. Per la prima volta, il piccolo Senju indossò un paio di mutande, poi le
calze bianche di lana lunghe fino al ginocchio, seguite da dei pantaloncini
alla zuava blu di Prussia e nascosti da una lunga blusa del medesimo colore, su
cui spiccava un ampio colletto di pizzo bianchissimo. E vennero le scarpe, quel
gran mistero, fino ad allora Hashirama aveva girovagato per il mondo scalzo o
al massimo con indosso degli spessi
calzettoni. Senza fiatare, fissando in muta partecipazione gli occhi sempre più
umidi e lucidi di Kiyora - E' il fumo,
mio bebo, è il fumo del caminetto, sai? -
il bambino si lasciò pettinare e non osò scendere dal letto imbottito di
paglia, dove la balia lo aveva appoggiato, dedicandosi ora a Madara, attendendo
entrambi in assoluta immobilità. Il piccolo Uchiha si dovette accontentare di
un trattamento più approssimativo, quel tanto da farlo apparire pulito e
decente dalla cesta, in cui sua madre lo depose e che si mise in spalla, allacciandosi
le cinghie alla cintola e incrociandole per sicurezza al petto. Sistemato al Sinjorino la mantellina e un
cappellino alla gavroche, Kiyora s'avviò assieme a Najtine e il carrettiere
Majstro Bourbon (così soprannominato per via della sua fenomenale golosità per
l'omonima crema), venutole appositamente a prendere.
Nessuno
proferì parola fino all'arrivo ai cancelli del Castello.
I
padroni li stavano attendendo nel salottino privato, una confortevole stanza
tappezzata di caldo e avvolgente rosso cardinale, dalle cui pareti innumerevoli
ritratti di Senju di ambo i sessi e vestiti secondo la moda delle epoche più
disparate osservavano vacuamente annoiati i loro discendenti, in particolare la
Duchessa Anise la quale, annunciata Kiyora, balzò dal canapè, gli occhi
spalancati dall’aspettativa, impaziente di riabbracciare il suo bambino.
Rimase
quindi sorda agli inviti di rimanere compostamente seduta al suo posto e di
ricevere imperturbabile la giovane balia, ringraziandola affettata per il suo
servizio: non appena Hashirama, guidato per mano dalla mora, entrò nella sala,
sua madre gli corse incontro, inginocchiandosi davanti a lui. Lo abbracciò
forte, accarezzandogli il capo e cospargendogli il volto di baci, ignara di quanto
quelle effussioni d’incondizionato affetto stessero mettendo in imbarazzo il
marito e la cognata, suscitando invece un sorriso benevolo nel suocero. Anise
studiò a lungo il figlio, scorrendo i polpastrelli sulle guance piene e la
pelle morbida e olivastra, accarrezzando i capelli castani e riprendendo a
stringerlo al petto, ricacciando indietro lascrime sia di gioia che di
disappunto, poichè non le era sfuggita la rigidità del corpo del primogenito né
le sue occhiate confuse. “Ah, mon enfant ...”, sospirò.
Gli
occhi di Hashirama, infatti, non tradivano alcun segno di riconoscimento della
madre uterina; di conseguenza, sentirsi così maneggiato lo metteva a disagio,
incerto se ricambiare o meno l’abbraccio di quell’elegante sconosciuta dai
capelli biondissimi, quasi argento, e dalle iridi carminio. A onor del vero, lo
intimoriva un poco l’intensità di quello sguardo talmente pieno d’amore e
tristezza, che si sentì consumare da esso. Si voltò quindi verso Kiyora,
accennando a sciogliersi da quella dolce gabbia di carne e stoffa e di
raggiungere la sua nutrice, nascondendosi dietro la sua ampia gonna domenicale.
Ma
Kiyora, intuito il desiderio del piccino, indietreggiò di un passo, facendogli
cenno di no col capo, che non stava bene: da adesso in poi lui non sarebbe più
stato il suo bebo, un bimbo qualsiasi, un suo pari, da vestire spartanamente
pratico e lasciar gironzolare come un selvaggio per i campi; Hashirama
ritornava ad essere un Senju, l’erede di Mokuton, il suo futuro venticiquesimo
duca e tutti avrebbero dovuto rivolgersi a lui ossequiosamente, dandogli del
“lei”, del “padroncino”, del “Sinjorino”. Cessava di appartenere al loro mondo,
catturato per sempre da quello di provenienza, per loro inarrivabile, proibito.
Allora,
compreso come quel legame con la balia fosse ormai destinato a dissolversi,
Hashirama si riconcentrò sulla Duchessa sua madre, abbracciandola a sua volta e
permettondole di essere da lei sollevato e tenuto in braccio. Nello stesso
istante, il Maljunulo Sinjoro raggiunse la mora, ringraziandola da parte di
tutta la famiglia, traendola poi in disparte, fuori dalla sala, onde conferire
con lei sul compenso e altre questioni.
Kiyora
non salutò Hashirama, non gli lanciò neppure un’ultima occhiata, per quanto gli
occhi del piccino fossero rimasti attaccati a lei, sperando fino all’ultimo che
la giovane, in un impeto di affetto, lo strappasse dalle braccia della
Duchessa, ritornando assieme nella casetta di mattoni di Najtine, sulle sponde
del fiume Naka. Ne rimase deluso, sgranando però gli occhioni non appena si
accorse di un braccino sporgere dalla cesta: rigiratosi a fatica nel suo
costringente interno, Madara aveva steso il braccio in direzione di Hashirama,
aprendo e schiudendo la manina, come se volesse afferrare e trascinare a sé il fratello di latte, che
imitò ben presto il gesto, allungando il collo oltre la spalla materna quando
Anise, voltandosi, gli impedì di accommiatarsi appropriatamente dall’Uchiha.
Quella
notte la culla parve a Madara terribilmente grande, vuota, fredda.
“Hai
accettato?”, udì la sua nonna adottiva confabulare con la madre, le quali lo
credevano addormentato e comunque troppo acerbo per comprendere i loro
discorsi, Kiyora soprattutto.
“Jes”,
le confermò la giovane, sistemandosi lo scialle sulle spalle. “Incomincierò
dalla prossima settimana.”
“Tuo
marito non ne sarà molto contento”, puntualizzò Najtine, preparando il telaio.
“Potrebbe finire come la povera Natsumi ...”
La
mora rise sarcasticamente. “Come se me ne importasse! Settanta ryo al mese,
voglio ben vedere se ci sputa sopra! Io no di certo! Eppoi, non corro alcun
rischio: lavorerò nelle cucine, non come cameriera, ergo il padrone non mi
ronzerà attorno!”
La
fata mormorò il suo assenso. Che altro poteva fare, altrimenti? Aveva perduto
Kiyora in quella terribile notte di fine giugno, che gliene veniva a litigare
con lei?
“Porterai
Madara con te?”
“Non
oso lasciarlo solo con quei bifolchi”, mormorò cupamente la sua pupilla. “Lo
odiano. Mi odiano. Chissà a quali malagrazie potrebbero sottoporlo, mentre io
lavoro al Castello! Inoltre, sono convinta che lì avrà modo di costruirsi un
destino diverso dai suoi antenati, le occasioni non gli mancheranno! Sono stata
la nutrice del loro erede, i padroni se ne ricorderanno, quando prenderanno mio
figlio a loro servizio. E a Dio piacendo, se la Sinjora Duchessa si dovesse
decidere a sfornarne altri, non mi dispiacerebbe proprio allattare pure quelli
... Nessuno dei miei figli si piegherà a zappare i campi, mangiando polvere
come i serpenti!”
Il
cigolante rumore del pettine del talaio s’interruppe. “Attenta, filina”,
l’avvertì Najtine. “Non permettere che il fuoco dell’ambizione ti consumi,
potresti rimanerne scottata: i servi che si mettono sullo stesso piano dei
padroni, raramente finiscono bene ...”
“Trovi
iniquo il mio desiderio di volere un destino migliore per Madara?”
“No,
ma deve essere lui ad ambire ad esso. Costringendolo, te lo alienerai e l’amore
interessato che finora gli avrai dato sarà ricambiato con l’odio della
recriminazione.”
Kiyora
sospirò, massaggiandosi la tempia.
“Mi
accontenterei anche solo di saperlo un uomo libero, slegato da ogni obbligo
servile. Senza padrone, tranne che di se stesso. E’ troppo domandare?”
“Il
tempo ti darà la risposta che cerchi. Per stanotte, dormi e non ci pensare.”
La
voce di Kiyora tremò, semi-soffocata dalle mani dietro cui la mora aveva
nascosto il suo volto stanco. “Voglio bene a mio figlio, sai?”, singhiozzò.
"Gli voglio bene ..."
“Nessuno
lo ha mai messo in dubbio, filina”, la consolò Najtine, abbandonando il lavoro
al telaio e, raggiuntala, avvolgendola col suo centenario tabarro.
Finalmente,
in onor della sua dama,
egli vi
bevve per l'ultima volta;
tra le sue
dita tremò quella coppa,
ed egli,
dolcemente, rese l'anima.
Fu
così che Madara si trasferì al Castello di Mori.
L’idea
proveniva da Sua Grazia il Maljunulo Sinjoro, il quale ancora ben si sovveniva
del brutale e umiliante licenziamento di Kiyora da parte della figlia e, desiderando
portare la faccenda ad un giusto equilibrio, aveva elaborato quel compromesso:
la mora avrebbe lavorato nelle cucine o meglio, nella terza cucina, quella
riservata alla preparazione dei dolci, acciocché potesse mantenere il figlio e nascondersi
dagli occhi vendicativi di Tōka, le cui
urla ancora riverberavano sia nel Castello che nella loro dimora cittadina a
Konohagakure. Suo padre dovette battere il pugno sul tavolo, alzare la voce e
minacciarla di spedirla in convento se ancora s’azzardava a remargli contro – Butsuma sarà il Duca, però io sono ancora il
padrone di questa casa e soprattutto sono suo padre! Un’altra parola,
signorina, e ne paga le conseguenze! -
per poter giungere evemtualmente ad una parvenza di tranquillità
all’interno dell’aristocratica famiglia. In ogni modo, la sua soluzione si
dimostrò valida, rasserenando l’anziano signore e concedendogli di giocare
finalmente al nonno.
Hashirama
era un amore di bambino: passate le prime settimane di malinconia per il
distacco dalla nutrice, aveva ben presto obliato l’anno trascorso tra i
mezzadri, adattandosi con l’elasticità ingenua degli infanti alla sua nuova vita nel signorile
palazzo della sua famiglia, giostrandosi tra le continue attenzioni
dell’anziano Duca, di sua madre, delle zie e delle cugine. Crescendo, si
delineava un carattere molto vivace eppure dolce, rasserenante, gentile. Non si
esibiva in nessun capriccio e se ogni tanto metteva su un signor broncio, ecco
che la sua espressione alterata si scioglieva in un sorriso radioso tutto fossette,
che faceva innamorare chiunque gli stesse accanto. L’unica pecca in questo
bonbon di creatura si trovava nella sua facile tendenza alla depressione,
ereditata, come asserito da Najtine, dalla madre durante la sua gestazione.
Hashirama si intristiva per un nonnulla, dimostrandosi estremamente sensibile
ai commenti negativi e ai rimbrotti. I cugini lo dileggiavano spesso e
volentieri per la sua reclutanza a tirare la coda al gatto o a spennare i
canarini o con la fionda a distruggere le bambole delle cugine, appellandolo
“mollaccione”, “signorinella”, “frignone”. Allora, il piccolo Senju si
rannicchiava sotto il tavolo, dietro il vaso di selci o della palma nana, oppure
in un angolino nascosto e, portate le ginocchia al petto, si ubriacava della
sua medesima tristezza fintanto che il nonno, scovando sempre e comunque il suo
nascondiglio, lo issava in braccio e, accomodatolo sulle ginocchia, lo invitava
a confidargli i suoi crucci, leggendogli poi le favole dei fratelli Grimm o
poesie e filastrocche, nel frattempo che gli accarezzava il capo e sorrideva
alla vista del visino di Hashirama che si distendeva gradualmente,
addormentandosi poi, la testa appoggiata sulla spalla del vecchio.
Sua
Grazia il Maljunulo Sinjoro a parte, Hashirama crebbe tra le donne nel gineceo
di casa, un mondo segreto e ovattato distante anni luce dalla schietta e
cameratesca competitività che avvertiva ogniqualvolta si relazionava coi cugini
e, nelle rare occasioni in cui s’imbatteva in lui, col padre. Lo preferiva al
mondo dei “veri uomini”, gli era più caro e vicino questo locus amenus pieno di
calda luce, dai colori pastello e morbido come le mani bianchissime della
Duchessa Anise, il cui ventre, notò Hashirama un giorno, incominciava ad
arrotondarsi, come se la sua Maman si stesse gradualmente trasformando in
un’orca assassina. Ne parlò entusiasta col nonno, il quale gli sorrise a mo’ di
conferma, spiegandogli che Anise gli stava preparando un dono molto speciale,
un fratellino o una sorellina con cui giocare e a cui badare, in quanto
primogenito.
“E
quando sarete grandi abbastanza, potrete scorazzare quanto vorrete a Mokuton,
dove altro non sussiste che il cielo, l’acqua e la terra. Non come a Konohagakure,
dove sono le case a farla da padrone!”, gli raccontava e Hashirama lo ascoltava
rapito, fantasticando su queste terre il cui nome ricorreva spesso nelle
conversazioni in famiglia e che la sua mente infantile dipingeva come la
gemella della Camelot arturiana, piena di avventure, magie, misteri. Ogni
giorno insisteva sulla data della partenza, tampinando tutti i suoi famigliari
finché, alzando lo sguardo dal suo ricamo, sua zia Tōka sbuffò snervata all’ennesimo
strattone alla gonna: “Quando nascerà il bambino!”
“Ancora?
Sono mesi che me lo dite!”, protestò il castano.
“Ci
vuole tempo, tesoro, ci vuole tempo ... Bisogna attendere ...”
“Ma
io non posso aspettare!”, frignò Hashirama, scappando via alla ricerca del
nonno. “Quando nascerà il bambino?”, gli chiese ansioso, arrampicandosi sulle
sue ginocchia e costringendo l’anziano Duca a riporre il giornale e la pipa che
stava fumando.
“A
settembre.”
“Eh?
Ma per allora l’estate sarà finita! Come gioco, io?”
“Vero,
però l’estate successiva il suo fratellino o sorellina sarà abbastanza grande per
viaggiare. E’ lunga, da qua a Mokuton!”
Un
anno ancora. Beh, poteva farsi forza e attendere.
Il
viaggio non ebbe mai luogo.
Una
mattina di metà giugno, mentre giocava coi suoi soldatini di piombo, Hashirama
sobbalzò quando le sue giovanissime orecchie entrarono in contatto col primo
vero grido della sua vita: Kanako, la cameriera personale della Duchessa, si
diresse urlando da suo padre Butsuma, spiegandogli concitatamente come sua
moglie fosse caduta in deliquio per terra, inzuppando il tappeto di sangue. Si
chiamò il medico e il piccolo Senju, che naturalmente era corso a curiosare, fu
trasportato via a viva forza dalla zia nella sua cameretta, dove rimase
segregato in compagnia di una fantesca finché questa, appisolatasi, non gli
concesse una ghiotta occasione per sgattaiolare via e scoprire quale male
stesse affliggendo la sua Maman. Nascondendosi dietro le tende, Hashirama
assistette all’uscita del dottore dalla camera di Anise, un’espressione grave
dipinta in volto.
“La
creatura era una bambina”, annunciò cupamente. “Troppo fragile e deforme per
sopravvivere all’intera gestazione. Quanto a Sua Grazia la Duchessa, le sue
condizioni sono stabili, non corre alcun pericolo di vita. Solo, potrebbero
esserci delle complicazioni ... spirituali, ecco.”
Il
Duca accolse stoicamente la notizia, non muovendosi neanche quando Kanako uscì
dalla stanza, recando seco in un pasciuto fagotto il corpicino senza vita della
figlia.
“Dio,
è orribile!”, commentarono schifati i servi nella cucina, attorniando il feto
che la cameriera aveva appoggiato sul tavolo, in attesa che si decidesse il da
farsi.
“Mostruosa!”
“Non
ha neppure le gambe!”
“E
le mani? Hai visto? Sembrano due moncherini!”
“Guarda
la schiena ... E gli occhi?! Un rospo!”
“Come
ha potuto la Sinjora portare in grembo un simile obbrobrio?”
“Sangue
marcio, mia cara, sangue marcio! Così imparano a sposarsi tra di loro, i porci
incestuosi!”
Dall’ombra
del suo osservatorio Hashirama assisteva a tali discorsi, la lenta e
inesorabile fine del suo infantile idillio.
A
Mokuton, similmente nell’ombra delle cucine cresceva Madara Uchiha, una piccola
peste dalla lingua assai lunga, la quale traeva un birbonesco gusto a far
impazzire sua madre, celandosi in ogni angolo oscuro del vasto labirinto e
sparendovi in essi per ore e ore, dall’alba al tramonto. I cuochi, gli
sguatteri e le cameriere gli davano man forte e Kiyora imprecava come un
marinaio quando, concentrandosi su di una pietanza, perdeva di vista il figlio,
che immediatamente ne approfittava per continuare le sue esplorazioni. Ogni cosa
lo incuriosiva, scatenandone un intelletto non comune per la sua età, che lo
portava a tartassare il Majstro Takagi, il guardiacaccia, il quale di tanto in
tanto si presentava nelle cucine per cedere della selvaggina o fare rapporto
all’Amministratore. Attendendolo quatto quatto, Madara gli saltava addosso,
aggrappandosi alla sua schiena e, se voleva liberarsi del suo insignificante
peso, gli intimava di raccontargli questo, quello, tutto. L’uomo rideva,
sconquassandogli il petto col suo timbro possente da basso, afferrandolo per il
coppino come un gatto e, rimettendolo coi piedi per terra, prendeva posto
accanto al camminetto, dove il piccolo Uchiha tosto lo raggiungeva,
accocolandosi per terra, sorreggendosi il viso con le mani. Beveva i racconti,
talvolta esagerati e talvolta pragmatici, del guardiacaccia, immagazzinando i
suoi aneddotti, consigli ed esperienze personali, di amici e di parenti e se
fosse stato per Madara, non avrebbe mai cessato di ascoltare le sue storie,
anche all’infinito, pur di non ritornare alla realtà, quella vacca schifosa e
traditrice che lo attendeva fuori dai cancelli del Castello di Mori.
Non
gli piaceva ritornare a casa, in quello
squallido casolare dove abitavano i suoi parenti, dove egli sapeva di essere a
malapena tollerato. Il padre Tajima lo trattava alla stregua di una bestia, nel
senso che tra il cane e il quartogenito non sussisteva alcuna equa
distribuzione d’affetto, un pat-pat sulla testa e tant’era. Se avesse potuto,
il moro sarebbe scappato da Majstro Takagi, supplicandolo di adottarlo. Oppure
di sposare la sua Ponja, in modo da divenire una famiglia con tutti i crismi. Magari
un giorno gli avrebbe insegnato a sparare ai bracconieri e a preparare le
tagliole.
Madara
percepiva di essere un estraneo in seno agli Uchiha, ma non gliene importò.
Similmente,
non gli importava che gli altri bambini del villaggio, invidiosi dei suoi lindi
abiti seminuovi e della ciccia del bambino sano e nutrito sulle sue ossa, lo
isolassero dai loro giochi, ostracizzandolo; che all'insaputa dei genitori i
suoi fratellastri Setsuna e Saya assieme ai suoi cugini gli tirassero i
capelli, gli strappassero di dosso i vestiti e lo strascinassero nella melma,
urinandoli in faccia e chiamandolo "bastardo" tra un pizzicotto e
l'altro. Non gliene calava un'emerita cippa di queste vere e proprie sevizie:
lui sapeva di essere superiore a loro e la prova stava nella vita che conduceva
al Castello, nel dedalo delle immense cucine sotterranee, dove lui regnava
incontrastato in quel mondo dai mille odori e dal vociare incessante, piccolo
monarca assoluto del continuo viavai di servi e contadini che portavano i
viveri da catalogare, riporre nelle dispense e cucinare. Lì era vezzeggiato,
coccolato, poteva fare e dire ciò che gli saltava in testa e nessuno lo avrebbe
mai punito: l'aver condiviso il medesimo latte col Sinjorino gli conferiva una
sacra aura d'intoccabile agli occhi ancora superstiziosi delle fantesche, le
quali se lo contendevano per lavarlo, giocare con lui, sfamarlo. Madara
ingurgitava giornalmentelatte, biscotti, carne, pesce, verdure mista, frutta in
quantità tale, che i suoi parenti non avrebbero visto neppure in un anno.
All'inizio, aveva desiderato condividere siffatte ghiottonerie, ma poi aveva
riconsiderato queste sue filantropie alla luce della poca bontà e riconoscenza
ricevuta in cambio, giungendo alla conclusione che non si meritassero un bel
niente da lui. Sicché, fu generoso solo con Yakumi, il fratellino nato due anni
dopo, che Madara avrebbe sempre tenuto in braccio quando la madre impastava i
dolci, spezzettando piccoli bocconcini di cibi vari per aiutarlo nella
masticazione, una volta cresciutigli i denti. Divenne il maestro del piccino, iniziandolo ai
segreti delle cucine e raccontandogli le storie di Majstro Takagi, aiutando in
questo modo sua madre a badare al marmocchio durante i suoi turni al forno, in
particolare quando Kiyora si scoprì incinta per la terza volta.
Eppure,
per quanto considerasse Yakumi un suo
vero parente e nutrisse per lui un grande affetto, il fratellino non poteva
alleviare la tremenda solitudine che giorno dopo giorno cresceva nel cuore del
piccolo Uchiha. Il Re si scopriva sempre più solo, incapace di relazionarsi con
qualcuno della sua età, un coetaneo con cui giocare e condividere i biscotti e
le confidenze. Di conseguenza, trascorreva giornate intere ad analizzare ogni
minimo dettaglio delle cucine, dagli scaffali al girarrosto, dalle ragnatele
nelle cantine agli animali morti appesi e in attesa di essere cucinati.
Rovistava perfino nella spazzatura, studiando accorto la testa decapitata di
un'oca, forzandole aperto il becco per appurare se avesse o meno la lingua. E
quando, con una zampata, Kiyora gli sottraeva il giocattolo di fortuna, ecco
che Madara riemergeva dalla fuligginosa penombra delle cucine per rimanere
accecato dalla schietta luce esterna, ritagliandosi un piccolo angolo
dell'immenso parco-giardino che circondava il Castello. Afferrato un sassolino,
tracciava sulla terra con la punta di un bastone la tabella per il gioco della
Campanella, tirando la pietruzza e saltando come un ranocchio e piegandosi come
una gru per recuperarlo e riprendere il gioco.
Il
tutto, canticchiando: "C'era una
volta a Tulé un re, fedele fino alla tomba ... ", pomeriggio dopo
pomeriggio per quasi quattro anni, finché un giorno in cui era stato
letteralmente espulso dall'improvvisa ressa creatasi nelle cucine neanche si
fossero tramutate in vespaio, gli capitò di lanciare il sassolino nell'ultima
casella. Aprendo le braccia per coordinare meglio i balzi, Madara incominciò a
saltare, prima su di un piede, poi su due, poi ancora uno ... "... e a lui fu donato, cara memoria della sua
bella ..." e due ... uno ... due ... l'ultima casella giunse, ma ...
ohibò! E il sassolino? E quel paio di scarpe di nero cuoio sotto il suo naso?
"... un bel calice d'oro cesellato!",
concluse una vocina bianca come la sua, costringendo il piccolo Uchiha a risalire
con lo sguardo la linea degli stivaletti, lungo delle calze nere e un abito
scuro alla marinara, soffermandosi sullanuda, morbida e ombrosa fossetta del
giugulo fino a giungere ad un volto pienotto incorniciato da corti capelli
castano scuro e su cui troneggiava un sorrisone speranzoso. "Piacciono
anche a te le poesie di Goethe? Grand-père me le legge spesso, prima di
coricarmi."
Un
arcano terrore invase l'anima già di suo scossa di Madara: il bambino - o nano,
chissà - davanti a lui gli si parava innanzi come una sorta di indecifrabile
creatura sovrannaturale. Non apparteneva al suo mondo, non almeno quello cui il
moro faceva riferimento. Inoltre, la parlata lineare e pulita da ogni forma di
gergo, l'atteggiamento composto di chi conosceva il proprio status, i vestiti
troppo puliti, troppo costosi e quel viso pieno della compiaciuta serenità di
chi era sempre vissuto in una felice campana di vetro misero il moro in uno
stato di impaurita soggezione, quasi il suo istinto animale - o la tara
genetica d'essere discendente d'una lunga stirpe di servi - lo stesse
avvertendo che, al primo suo passo falso, quel fanciulletto poteva rovinargli
l'esistenza. Emanava una forte aura di potere
che lui, Madara Uchiha, solo in età adulta avrebbe raggiunto, ottenuto dopo
lunghi anni di sacrifici, lacrime, sudore e sangue. Ma allora, in quel
pomeriggio di fine aprile, lui si sentì minacciato da quel bizzarro bambino che
blaterava di assurde chimere. E come ogni brava bestia sotto attacco, si mise
subito sulla difensiva.
"Non
conosco nessun Gheute, io! E tu, sei un suo amico o cosa, che ne parli con
tanta ... famigliarità? E chi è Grammper?", indietreggiò cauto il moro di
un passo, pur mantenendo il contatto visivo col suo opponente, il quale scosse
divertito il capo castano.
"No,
non Gheute. Si pronuncia Goethe, è un
cognome tedesco", lo corresse, senza però dare alcun segno dispocchiosa sufficienza.
"E comunque no, non lo conosco, non di persona almeno, perché è
morto!"
Madara
spalancò la bocca, terrorizzato: Dio santissimo e benedetta Lucia di Siracusa,
questo qui parlava coi morti! Doveva essere un fattucchiere, un eretico, un
posseduto ...
"Allora,
vuoi giocare con me?"
E
siccome il piccolo Uchiha ci teneva all’eterno destino dell’anima sua, in barba
alla corretta pronuncia di quel cognome bislacco e a delle pur allettanti offerte
ludiche, fece dietrofront e corse via alla velocità di un treno, manco avesse
satana in persona alle calcagna.
Il
diavolo no di certo, ma Hashirama Senju sicuramente e di fatti, quest'ultimo
non tardò a lanciarsi all'inseguimento del moro, ridendo come un matto e per
questo spaventando ulteriormente l'altro bambino, il quale fece voto solenne di
mortificare il suo stomaco rinunciando per una settimana ai biscotti, nel caso
qualche santo celeste avesse avuto compassione di lui, salvandolo dalle grinfie
di quell'indemoniato.
Non
ottenne nulla di tutto ciò, la sua fervente petizione rimase assolutamente
inascoltata.
To
be continued ...
*****************************************************************************************************
L’ultima
parte potrebbe sembrare un po’ frettolosa, ma è fatta apposta. Le dinamiche del
ritorno a Mokuton da parte di Hashirama verranno meglio spiegate nel prossimo
capitolo.
Andate
su YouTube e provate a sentire la poesia di Goethe musicata da Gounod nel “Faust”,
in questo modo avrete una colonna sonora per il capitolo! XD
Alla
prossima, ciao!
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=2106922
|