Doctor Who? Doctor Watson!

di Jade Lee
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Follow Doctor's Orders! ***
Capitolo 2: *** Don't Mess with Doctor Watson ***



Capitolo 1
*** Follow Doctor's Orders! ***


Cercate di capirmi e non odiatemi, sono in terribile astinenza da Sherlock e Doctor Who. Non riesco ad impedire alla mia mente di fare certi viaggi mentali e sì, la mia crudeltà intrinseca mi spinge a condividerli con voi...
Questa storia nasce dal profondissimo quesito esistenziale ""Cosa succederebbe se, dopo la finta morte di Sherlock, John incontrasse il Dottore?"
Beh, scopriamolo assieme u.u

Ovviamente i personaggi non mi appartengono *restituisce controvoglia i due dottori*  e non scrivo a scopo di lucro... Altrimenti me ne starei spiaggiata alle Hawaii e non tra le nebbie di Torino...

BUONA LETTURA!



Follow Doctor's Orders


John Hamish Watson è un dottore.

Da due anni e otto mesi la vita del Dottor Watson si è trasformata in quella di un preciso meccanismo ad orologio: la sveglia suona puntuale alle sei e trenta; John, attendendo con gli occhi puntati al soffitto che il molesto suono prenda a spandersi per la stanza, rimpiange amaramente i tempi in cui poteva trascorrere anche solo poche ore a dormire senza che alcun incubo gli straziasse il cervello.
Alle sei e quaranta John apre l’acqua della doccia miscelata adeguatamente e si infila sotto il getto tiepido, lavandosi via dalla pelle frammenti della notte senza sonno e vecchi ricordi incrostati.
La frugale colazione consumata alle sette e l’arrivo alla clinica alle otto concludono la sua mattinata tipo.
Tra un paziente con l’influenza e una vecchietta coi reumatismi pronta a mostrargli la fotografia dell’amato nipote, si fa mezzogiorno, scorre la pausa pranzo e riprendono le visite, fino a sera.

Il Dottor Watson è un buon medico e un brav’uomo. Ha sempre una parola d’incoraggiamento e un sorriso per tutti. Non perde mai la pazienza e mantiene i suoi nervi d’acciaio anche durante le situazioni più critiche.
Il Dottor Watson non guarda mai nessuno direttamente negli occhi.

Ha paura che qualcuno possa accorgersi di quanto è spezzato.

Sono le diciannove e trenta del 15 Ottobre. John si sta infilando la giacca, dopo aver riposto con cura il camice all’appendiabiti situato a sinistra dell’ingresso del suo studio. Raccatta qualche cartella clinica dalla scrivania prima di uscire, giusto per assicurarsi di avere qualcosa da fare una volta tornato a casa.
Il silenzio, alcune volte, si insinua prepotente nelle sue ossa lasciandolo senza fiato e al freddo, nonostante il caminetto scoppiettante a poca distanza dalla sua poltrona.
Una sensazione pungente e gelida, amplificata il quindicesimo giorno di ogni mese.

Il 15 è il giorno in cui John, armato di fiori e profonda tristezza, marcia col suo passo cadenzato sul vialetto di ghiaia che si snoda lungo il cimitero che accoglie la tomba di Sherlock Holmes.
Quella sobria lapide nera dinnanzi alla quale il medico, ex soldato, si ferma completamente soverchiato dalle emozioni.

Ci sono stati giorni in cui John si è sentito devastato, come se una creatura nera e malvagia gli stesse strappando la carne dal petto a viva forza.

Ci sono stati giorni in cui John si è sentito infuriato, così tanto dal ritrovarsi a dover resistere alla tentazione di prendere a calci l’elegante lapide marmorea e gridare al cielo tutta la sua frustrazione.

Ci sono stati giorni in John si è sentito impotente, in costante crisi e sull’orlo della più cupa disperazione.

Poi è arrivato il momento in cui John ha smesso di provare emozioni. Si è semplicemente ritrovato vuoto, intento a stringere tra le dita frammenti di sé che non è più stato in grado di ricomporre.
Sherlock è stato un salto nel vuoto così bello! John si è lanciato nella sua nuova vita piena di crimini efferati e corse nella notte senza paracadute, perché vivere con l’unico consulente investigativo al mondo  è come volare e sentire il vento che sferza il volto, cullati da una sensazione di onnipotenza talmente grandiosa da stordire... Finché c’è stato l’urto.
Il corpo disarticolato del grande detective sul marciapiede, in una pozza di sangue cremisi sbocciata sotto di lui come un fiore del male.
Il cuore di John che si sgretola come vetro, lì affianco.
E poi il nulla.

O peggio, la quotidianità.

John non è un credente.
 Come potrebbe esserlo, dopo aver visto così tante persone pronte ad immolarsi per un qualche Dio? Dopo che un invasato s’è fatto esplodere vicino a metà del suo plotone in nome di chissà che visione deviata della sua religione?
Davanti alla tomba di Sherlock, John non prega. Spiccica qualche parola imbarazzata a mezza voce, cercando sempre di non essere troppo noioso. Si passa le dita tra i capelli, tenta di nascondere gli occhi lucidi e il tremito della mano. Dovrebbe farsene una ragione, dovrebbe sul serio, ma non ci riesce. Il legame è ancora troppo forte. Non è ancora pronto a seppellire i ricordi; loro, però, sono già intenti a seppellire lui sotto strati e strati di dolore.

**

Il 221b di Baker Street non è poi cambiato così tanto. John è molto più ordinato del suo vecchio coinquilino e ciò consente di affermare che salotto e cucina siano davvero pulite e accoglienti. Gli oggetti personali di Sherlock Holmes sono ancora tutti lì: libri, carte, studi per monografie. Il teschio sulla mensola del camino.
Le attrezzature scientifiche, invece, sono state inscatolate da Lestrade - il dottore non ne aveva avuto la forza - e portate in un magazzino del St. Bart’s, custodite in attesa del miracolo tanto chiesto e atteso da John. Sherlock non avrebbe mai neppure lontanamente acconsentito a venderle o donarle, quindi John si è limitato ad allontanarle da lui, per non ferirsi troppo coi ricordi.

La camera da letto del detective è rimasta inviolata ed è tutt’ora chiusa a doppia mandata.
La chiave è infilata nell’orbita sinistra del teschio.

John Watson è rimasto lì, tra quelle mura, a difendere come un ultimo baluardo i ricordi della sua precedente esistenza.

Non ha più voluto un coinquilino. Nessuno potrebbe reggere il confronto.
Ha rinunciato a molte spese extra ed è stato agevolato da Mrs. Hudson, che gli ha praticamente dimezzato l’affitto pur di tenerselo vicino.
Nulla potrà portarlo via da Baker Street.

**

Ciò che ti lascia indelebilmente addosso un addestramento di stampo militare è un continuo e sensibile stato di allerta. In guerra, una distrazione può essere fatale. Un movimento non individuato con la coda dell’occhio può garantirti un biglietto di sola andata per l’altro mondo.
Da quando è uscito dall’ambulatorio, John ha la spiacevole sensazione di essere seguito. E la cosa, anziché spaventarlo o turbarlo, gli mette addosso una strana sensazione di vitalità.

Un’ombra è sulle sue tracce e scivola silenziosa e non vista dietro di lui, favorita dall’ora tarda e dal maltempo di Londra. John però sa che è lì. La percepisce. A meno che non stia diventando completamente pazzo, altro fattore che non si sentirebbe di escludere a priori.

Accelerando il passo, si infila nel sottopassaggio che conduce alla metro, attento a non scivolare sui gradini bagnati di pioggia. La Tube pare un’ottima idea al suo cervello carico d’adrenalina: un eventuale inseguitore difficilmente lo colpirebbe in pubblico. Non lo sfiora più il pensiero che possa trattarsi solo di una sua fantasia, si sente così bene!
Il vagone è semivuoto e lui ne approfitta per sedersi vicino alla porta e scrutare tutti i presenti. Non è in grado di dedurre la professione dell’uomo di mezza età col cappello grigio, la zona da cui proviene il ragazzo con le cuffie dell’Ipod infilate nelle orecchie o la situazione famigliare della donna di fianco a lui. Certo, quest’ultima è circondata da un profumo così vanigliato da fargli storcere il naso per il disappunto, ma questo non è un vero e proprio dato di fatto. Però non importa. Quando la voce femminile registrata annuncia l’arrivo a Baker Street, John si lancia fuori dalla stazione senza neppure attendere il corso delle scale mobili.

Una volta all’esterno, viene investito da grosse gocce di pioggia che cadono dai nuvoloni grigi che hanno coperto la città nel pomeriggio. Respira pesantemente, con la sensazione di essere braccato che piano piano viene trascinata via e sciolta dall’acqua.
Dio, quanto è stato stupido! Davvero ha potuto pensare di essere al centro di un inseguimento? Che qualcuno lo stesse tenendo d’occhio? E’ così grande in lui il bisogno di rivivere certe sensazioni?
Si posa la mano sulla fronte in un gesto sconsolato. Un idiota. Sherlock aveva ragione. Un patetico idiota senza ombrello esposto alle intemperie di Londra e occhieggiato per qualche istante dagli ultimi e frettolosi passanti della sera.

Finché una mano non si posa sulla sua spalla e il dottore si trova a guardare negli occhi una ragazza dai lunghi capelli scuri e gli occhi chiari sbarrati dal terrore.

**

- Va meglio? - domanda John, sedendosi sulla sua poltrona  senza perdere di vista la giovane rannicchiata sul suo divano. Le ha messo una coperta sulle spalle e le ha preparato una tazza di te. I capelli scuri, al riparo ormai da più di mezz’ora, stanno iniziando ad asciugarsi in morbide onde mentre gli occhi saettano curiosi qua e là, seguendo la mobilia e gli oggetti del salotto.

- Sì. Va meglio. - conferma lei, abbozzando un mezzo sorriso dietro alla tazza di te che stringe tra le lunghe dita arrossate dalla ripresa della circolazione dopo l’esposizione al freddo esterno. - Mi spiace di averla seguita, ma non sapevo a chi altri rivolgermi. -

- Non importa - s’affretta a precisare John, sprofondando nello schienale morbido. Non ci capisce onestamente nulla della situazione generale. Una ragazzina che lo segue dal suo studio fino a casa, asserendo di non avere altri, è una di quelle particolari evenienze che succedevano solo quando la vita a Baker Street ruotava ancora attorno al più giovane degli Holmes. - Spiegami solo il motivo per cui l’hai fatto. Come ti chiami? -
A dire il vero, gli pare pure un po’ assurdo, considerati gli ultimi due anni e ormai quasi nove mesi della sua vita, dove nulla è intervenuto a lacerare la sua monotona esistenza ripetitiva e noiosa.
La cosa ancora più strana, però, è il come tutto sia stato spazzato via di fronte a questo evento che sembra così incredibile. Il suo periodo vuoto è improvvisamente scomparso, come se non fosse mai esistito, rimpiazzato da riflessioni rapidissime e concatenate sul da farsi.

La ragazzina si rigira la tazza tra le mani, assorta in chissà quale pensiero, prima di puntare quegli occhi incredibilmente chiari sul dottor Watson e rispondere alle sue domande.
- Mi chiamo Sherry. E non so darle una spiegazione. Sono qui da sola, mi sono persa. Non sono del posto e non ho idea di come tornare a casa. L’ho vista uscire dall’ambulatorio e mi ha ispirato subito fiducia, così l’ho seguita fino a qui. Può aiutarmi, dottore? -

Ok, di male in peggio. Il tutto perde senso ad ogni ulteriore parola e John si ritrova a guardarla con sguardo seriamente perplesso. Si schiarisce la voce, pronto a lanciarsi in mille ulteriori domande, ma il campanello si mette improvvisamente a trillare con insistenza, facendolo sobbalzare sulla sedia e voltare in direzione della porta. Ma che diavolo succede, oggi?

Segue il rumore di passi sulle scale. La Signora Hudson deve aver aperto. I gradini vengono saltati due a due dai piedi di un uomo. Un uomo che, una volta affacciatosi alla porta, John Watson può dire di non aver mai visto in vita sua.

**

- Salve, sono John Smith! Direttore dell’Istituto Medico per Adolescenti di Londra, molto piacere! -
Il tesserino che John Smith sventola con un gran sorriso allegro davanti al naso di John Watson - oh, che confusione, lo stesso nome! - non convince affatto il medico. Non conosce nessun istituto medico per adolescenti e soprattutto non ha idea di come quel tipo sappia di Sherry. E’ stato vittima di un inseguimento a catena?
Fatto sta che i minuti successivi all’entrata in scena del misterioso individuo passano rapidi come millesimi di secondo.

Sherry scatta in piedi con un urlo, mandando in frantumi la tazza ai suoi piedi. Il fuoco del caminetto lancia una luce particolare sulla sua pelle candida e sugli zigomi pronunciati che...

No, un attimo.

John Watson vede la scena al rallentatore, colto da un sempre più intenso senso di puro sgomento.

Capelli neri mossi, occhi di cristallo, lineamenti affilati. Sherry.

Ma una cosa del genere non è possibile, non è neppure vagamente concepibile!

Mentre Watson se ne sta lì, immobile nel suo stato di shock, John Smith balza in avanti puntando una specie di torcia contro la ragazza. Per quanto stordito dallo scorrere degli eventi, John Watson non rimane di certo indifferente di fronte alla scena: per quanto ne sa, lo sconosciuto sta minacciando una ragazzina innocente.
Il volto disteso e il modo di porsi scanzonato dell’individuo, inoltre, rimandano al medico l’immagine ghignante di Moriarty, il maledetto bastardo che ha causato la morte del suo migliore amico.

Questa è la molla che lo fa scattare in direzione dell’intruso, troppo occupato a puntare Sherry per accorgersi di lui. Gli arriva a fianco e gli torce il braccio con forza, facendolo gridare e perdere la presa sullo strumento.
Sherry ne approfitta per infilare la porta e schizzare via, rapida come il vento. Nuovamente inghiottita dalla nebbia londinese.
John Watson è un uomo paziente, sì, ma anche la sua immensa pazienza ha dei limiti.
Schiacciato da emozioni che non è più abituato a provare, colpisce con un pugno lo sconosciuto, che si accascia al suolo con un gemito.

Accidenti a lui.

**

John infila la chiave nella serratura al secondo tentativo. La mano gli trema ancora; se per lo sforzo del pungo o la sofferenza del riaprire la porta della camera di Sherlock, questo non lo sa dire.
Lo sconosciuto riverso nel suo salotto potrebbe riprendere conoscenza a breve e lui non ha intenzione di ritrovarsi contro un potenziale nemico sveglio e a piede libero in casa. E sì, le persone normali non avranno nemici e arcinemici, ok, questo John lo concede. Però la normalità, tra quelle pareti, sembra essere davvero relativa e con limiti tutti suoi.

Sa che Sherlock rubacchiava regolarmente negli uffici della polizia e sta cercando un paio di manette, da utilizzare per precauzione nei confronti dell’intruso.
Sa dove trovarle, procede sicuro e rapido. Le afferra senza toccare altro, senza spostare né guardare nulla, poi si richiude la porta alle spalle. Lascia la chiave infilata nella serratura e assicura il polso del tipo alla gamba del divano - ok, non un granché come mossa, deve ammetterlo, ma non ha altro modo. Poi recupera dal cassetto della scrivania la sua pistola e attende.

Un gemito, poi due. Così il fantomatico John Smith si risveglia, domandandosi a voce alta che accidenti gli è successo. Si mette a sedere e in quel momento s’accorge d’essere ammanettato, nella stanza con un tipo armato ma apparentemente non pericoloso. Perché, in effetti, il volto scavato di John Watson non trasmette terrore a Smith. Solo un senso di profonda e completa tristezza. Una solitudine che anche lui conosce molto bene.

- Chi sei? Che diavolo ci fai a casa mia? E chi è la ragazzina? - John Watson scatta in piedi, esasperato da quella giornata che pare solo uno dei suoi tanti brutti sogni. Cammina davanti al suo prigioniero in modo nervoso, zoppicando lievemente.

- Mi chiamo John Smith e... -

John interrompe immediatamente lo sconosciuto con un brusco cenno della mano.
- John Smith, credi che io sia un idiota? Voglio sapere la verità, smettila di girarci attorno! Chi sei davvero? -

Il tipo sospira, sollevando le mani verso John in segno di resa. Le manette tintinnano lievemente in risposta al movimento.
- E va bene! Io sono il Dottore. Sono qui per aiutare, sul serio. Non ho cattive intenzioni. -

- Il Dottore cosa? Qual è il tuo nome? -

- Il Dottore e basta. -

John si massaggia una tempia, confuso
- Sei entrato in casa mia, sotto falsa identità, minacciando una giovane indifesa con una specie di... - lancia un’occhiata veloce all’oggetto caduto dalla mano del Dottore, che non ha voluto toccare - incrocio tra una penna e una torcia... -

- Ehi! E’ un cacciavite! - protesta l’altro, interrompendolo e ricevendo in cambio uno sguardo perplesso.

- Un cacciavite? Minacci la gente con un cacciavite? - Scuote la testa, è tutto così nonsense che non capisce più cosa vuole maggiormente: ridere o prendere a craniate il Dottore fino a perdere/fargli perdere i sensi. - E sentiamo, in che modo saresti qui per aiutare, Dottore? -

Il Dottore si apre in un sorriso e l’inquietudine di John aumenta a livelli esponenziali.

Adesso sì che ai augura sinceramente che questo non sia un altro degli arcinemici di Sherlock.

**

- Fammi capire: stai dicendo che la ragazzina in realtà è una specie di... alieno in grado di leggere i miei ricordi per sfruttarli a suo favore. Ha assunto una forma che mi risultasse famigliare per approfittare della mia ospitalità e per consumarmi fino al midollo. Giusto? -

- Giusto! - conferma il Dottore, annuendo soddisfatto in direzione di John.

- Certo. E quand’è che l’Enterprise atterrerà davanti al 221b e Spock verrà a prendere il caffè da me? Sono davvero curioso di saperlo, Dottore! Non vorrei trovarmi impreparato...-

Il Dottore non ha idea di chi sia questo amico alieno di John - Spock? Mai sentito... - però dal tono scettico capisce che l’altro non crede ad una sola parola del suo racconto. Ah, Umani! Perché devono opporre sempre così tanta resistenza di fronte alle meravigliose bellezze dell’Universo?

- I Laruth provengono da un pianeta spazzato da potentissime correnti d’aria fredda lontanissimo dalla Terra. Molto spesso inviano capsule con un esploratore in direzione di luoghi che paiono più ospitali. Per integrarsi, adocchiano una persona sola e cercano tra la scia di ricordi che si lascia appresso una forma che possano utilizzare per ricevere cortesia e attenzione. Ma questa forma è solo un’illusione: una volta al sicuro, essa svanisce e loro si prendono direttamente il corpo del padrone di casa. Quindi, caro... - lì il Dottore si accorge di non aver idea di come si chiami il suo interlocutore.

- John... - completa semplicemente il sempre più perplesso dottor Watson - John Watson -

- John - ripete l’altro, soddisfatto - Puoi davvero ringraziarmi per averti salvato la vita! -
E poi lo guarda, con quegli occhi così compiaciuti e il sorriso stampato sulle labbra sottili, in attesa.

John batte le palpebre un paio di volte in rapida successione, stupito.
- Prego? -

- Come prego? Dovrebbe essere un grazie! -

- Dovrei ringraziarti? E per cosa? Per essermi penetrato in casa e avermi riempito di sciocchezze? -

- Per averti salvato! Dico, non ci senti? Certo che sei davvero strano...-

A quel punto, John salta in piedi come una molla, sollevando le braccia al cielo in un gesto esasperato.
- IO? Io sono quello strano, secondo te? - sbotta, al limite della sopportazione.

- Non mi credi, però mi ascolti. Vuoi delle risposte e potresti estorcermele puntandomi addosso quella pistola - il Dottore accenna col capo in direzione dell’arma abbandonata tra i cuscini del divano - eppure preferisci parlarmi. Sì, per gli standard di un normale essere umano sei piuttosto strano, John Watson. -

John sospira, si avvicina alla finestra e guarda giù, in strada. La notte è scesa e ormai le persone che passeggiano sul marciapiede sono pochissime. Ha smesso di piovere.
Poi torna a rivolgere la sua attenzione al Dottore seduto per terra. Raggiunge il cacciavite abbandonato al suolo e lo afferra, porgendolo al legittimo proprietario dopo averlo studiato per qualche istante. Il Dottore lo prende e lo punta verso la piccola serratura delle manette, convinto che John gliel’abbia restituito apposta. E così, in effetti, è. Una volta libero, si alza in piedi con un balzo e poi si getta sul divano, sospirando soddisfatto.
- Allora, andiamo? - domanda poi, infilandosi il cacciavite nel taschino della giacca.

John lo guarda stralunato, ignorando la fitta al petto che gli provoca la vista dell’alta ed elegante siluette sdraiata scompostamente sul divano. La figura sbagliata, la voce sbagliata. La domanda, però, gli pare così terribilmente giusta ed invitante...

- Andiamo dove? - La sua voce trema leggermente.

- A caccia di alieni! Mi pare ovvio! - il Dottore balza in piedi con la stessa velocità con la quale s’è precedentemente sdraiato, indicando a John l’ingresso dell’appartamento. Poi s’avvia proprio in quella direzione a grandi passi.

John rimane immobile, nel bel mezzo del suo salotto, con le braccia abbandonate lungo i fianchi.

Non può farsi coinvolgere di nuovo, non può davvero. E non importa quanto i più bei ricordi della sua vita siano legati ad un sociopatico incline alle avventure pericolose. Semplicemente non può.

Continua a crederlo sul serio, anche mentre s’infila il giubbotto e si annoda la sciarpa al collo.

Si allunga verso il divano, cercando di agguantare la pistola. Riesce appena a percepire la consistenza metallica sotto i polpastrelli quando una voce in mezzo alla porta lo fa sobbalzare.

- Niente armi, non le sopporto - annuncia il Dottore in tono solenne.

John lo guarda, annuisce e lo segue fuori.
 

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Capitolo 2
*** Don't Mess with Doctor Watson ***


Eccoci alla seconda e, per ora, ultima parte. Volevo rendere la storia più lunga, ma così mi sembra di chiudere meglio il cerchio.
La mia mente pullula di nuove avventure per questa improbabile coppia che mi piace assai, quindi credo seriamente che al più presto riprenderò a scrivere di loro!

Voglio ringraziare chi ha recensito, preferito, seguito o anche solo letto questa breve storia, sperando che vi sia piaciuta quasi quanto mi sono divertita io a scriverla ^-^

Buona Lettura!


P.S.: Mi auguro che la mancanza di un Beta non abbia infierito troppo sulla correttezza della FF <-< nel caso notaste e(o)rrori, sentitevi liberi di segnalarmeli. A forza di rileggerla, le cose poi sfuggono!


Don't Mess With Doctor Watson

 
- Allora, chi è? - domanda il Dottore, interrompendo il silenzio che si è creato dal momento in cui sono usciti dal 221 B di Baker Street.
John, completamente perso nei suoi pensieri da allora, si riscuote bruscamente, sollevando poi lo sguardo alla ricerca del profilo dell'altro uomo, come a volersi accertare che effettivamente sia stato proprio lui a parlare.
 
- Chi è chi? - vorrebbe davvero darsi un tono per non apparire così stupido di fronte al Dottore, ma sente di aver fallito miseramente. Il suo cervello è attanagliato da un sentimento che John riconosce come senso di colpa. Nonostante il tempo trascorso dalla morte del detective, John si sente turbato all'idea di seguire un altro uomo alla ricerca dell'adrenalina di cui il suo corpo ha bisogno. Di cui il suo animo si nutre come una droga. E' sciocco: Sherlock è morto e innegabilmente anche John ha smesso di vivere con lui, per questi tre lunghi anni dalla sua scomparsa.
Ha smesso di vivere mentre era ancora in vita. La logica dunque dovrebbe portarlo a supporre che la comparsa del Dottore possa essere un balsamo curativo per il suo animo ferito. Invece... Invece quel senso di colpa non sfuma, non se ne va.
Si sente un traditore.
 
L'immagine della ragazzina tanto somigliante al consulente investigativo, poi, gli ronza insistentemente per la testa, rimbalzando qua e là nella scatola cranica come una pallina del flipper incastonata tra due pistoni. La sua debolezza e il suo desiderio di riavere Sherlock lo sta davvero portando alla consunzione al punto da fargli rischiare la vita contro... un alieno?
Sì, realizza con sgomento. La risposta è sì.
 
Dal canto suo, il Dottore se ne sta buono con le mani in tasca. Conosce benissimo l'effetto che scatena sulle persone quando le coinvolge nella sua vita sfrenata e senza regole, neppure quelle basilari dettate dallo Spazio e dal Tempo. L'uomo al suo fianco - John Watson - emana calore umano solo a guardarlo. E' una di quelle persone che trasmettono istintivamente fiducia e protezione. Il Dottore sta cercando di inquadrarlo da quando s'è svegliato ammanettato al pavimento.
Portamento impeccabile, mani ferme e precise, occhi scavati da tristezza e stanchezza. Quest'ultimo particolare l'ha colpito profondamente. Non ha occasione di scontrarsi spesso con uno specchio - non li ama particolarmente - ma è sicuro che è ciò che incontrerebbe anche guardando a fondo nei suoi. Vivere a lungo è un sogno proibito che molte creature accarezzano con bramosia e feroce desiderio. Di fronte alla prospettiva della morte pare così allettante! Eppure, dopo aver visto i suoi più cari amici morire, indifferentemente per mano del tempo o di un destino crudele, e aver provato la gelida sensazione dell'abbandono, il Dottore sente sempre di più il peso dei secoli sulle sue spalle. Si è spesso accorto di essere più riflessivo, più introverso, più cupo, meno incline a godersi le piccole meraviglie che l'Universo, nonostante le sue enormi conoscenze, ancora gli regala nei momenti meno attesi. John, con la sua tristezza carica d'orgoglio, pare proprio celare qualcosa di speciale.
 
Ecco perché il Dottore non gli mette fretta, nonostante una certa voglia di conoscere almeno qualcuno dei pensieri che si susseguono scarmigliati nella mente di John. Quando riprende a parlare, lo fa in tono premuroso e sinceramente interessato.
- La ragazza. Insomma, l'immagine che hai accolto in casa. Loro assorbono e si ispirano ai ricordi. Chi ti ricorda? -
 
John si ferma, sprofondando le mani nelle tasche del giubbotto. Lui non ha mai parlato a nessuno del suo lutto, non si è mai sfogato. Con chi, poi? Sherlock è diventato immediatamente il centro del suo universo, quando è tornato dall'Afghanistan ferito fisicamente e psicologicamente. John ha escluso il resto dalla sua vita, aggrappandosi a quella fonte inesauribile di sorprese che il consulente investigativo rappresentava. Salvo poi ritrovarsi con il nulla attorno a seguito della Caduta. Prima non ci aveva mai pensato; dopo si è maledetto spesso per quell'incuria.
 
Il Dottore non rappresenta nulla nella sua vita: è un incontro casuale che probabilmente non si ripeterà. Uno svago di qualche ora prima di riprecipitare nel vuoto.
Nulla di male, dunque, nello sfogarsi, giusto? In fondo non è più facile con uno sconosciuto?
 
- E' una sorta di immagine femminile del mio migliore amico. Lui... è stato ucciso, circa tre anni fa. -
Incredibilmente la sua voce non si spezza, le mani non tremano. E' libero di raccontare la sua verità. Perché John non ha mai dubitato di Sherlock e sa che a ucciderlo è stato Moriarty. Non materialmente, certo. Ma quel subdolo manipolatore è la vera causa della sua perdita. Morto con lui, su quel maledetto tetto, poco prima che Sherlock allargasse le braccia come a voler accogliere il cielo e si lanciasse sull'asfalto caldo. Dopo aver lasciato il suo "biglietto" a un impotente John, costretto ad assistere a quell'orrido spettacolo.
In prima fila per la distruzione del suo cuore.
 
Il Dottore annuisce lentamente, fermandosi a sua volta. Segue il profilo di un palazzo davanti a loro con espressione pensierosa. Sulla fronte corrugata si formano lievi fossette. Se l'aliena avesse seguito lui, che aspetto avrebbe assunto l'immagine? Capelli biondi e dolcissimi occhi scuri, molto probabilmente.
- Anche io ho perso qualcuno di molto importante, poco tempo fa. La mia compagna di viaggio, Rose. Lei è... - si interrompe, incapace di trovare le parole adatte a descrivere la situazione nel modo più chiaro possibile. Sospira.
 
John lo guarda dritto negli occhi, rivelando con quel semplice gesto allo sguardo attento del Dottore tutto il dolore che porta schiacciato con insistenza dietro le sue iridi color oceano. Il Dottore sente, in quel preciso istante, di essere davvero compreso fino in fondo.
 
Finché quell'atmosfera carica di ricordi si spezza all'improvviso. Un urlo strozzato porta entrambi a voltarsi in direzione di un vicolo poco distante. Il Dottore estrae il cacciavite sonico e cerca ancora lo sguardo di John, ora acceso di febbrile entusiasmo. Proprio ciò che si aspettava! Ben lieto di lasciarsi contagiare, si apre in un sorriso soddisfatto - o psicopatico, a seconda dei punti di vista - prima di partire di corsa verso la fonte del rumore. John scatta con lui in perfetta sintonia, in un tacito accordo costituitosi immediatamente e segretamente tra loro.
 
**
 
Il vicolo in cui si infilano è simile in tutto e per tutto a quelli che appaiono nei film dell'orrore ambientati in città, dove i malcapitati protagonisti si infilano per sfuggire all'assassino che li segue implacabile. In realtà, a John ricorda anche quello in cui hanno svoltato lui e Sherlock quando, ammanettati, scappavano dalla polizia in quello che pare ormai un passato remotissimo e indistinto. Ma non è questo il punto e il dottor Watson preferisce impedire alla sua mente di divagare, in un momento come quello.
 
Un uomo giace steso a terra, coi lineamenti distorti da un'angosciosa espressione di terrore. John, sconvolto, si lancia rapidamente nella sua direzione, inginocchiandosi al suo fianco per afferrarne il polso abbandonato al suolo. Sa che è morto ancor prima di farlo, ma la sua mente ha bisogno di un ulteriore accertamento per riuscire a capacitarsene. La pelle al tatto è febbricitante, fatto assolutamente inusuale per una persona appena deceduta. Il corpo di John getta ombra sul cadavere, dunque si sposta appena per poter favorire della lieve illuminazione pubblica che filtra dalla strada principale. Sull'avambraccio si ramificano lunghe volute rossastre, che John segue con le dita in tutta la loro lunghezza. Non è un tatuaggio, questo è sicuro; resta il fatto che non ha mai visto nulla del genere in tutta la sua lunga esperienza medica.
 
Il Dottore, intanto, svolazza lì attorno, accompagnato dal penetrante suono del suo misterioso attrezzino. Sta passando in rassegna i muri di mattoni e la pavimentazione sconnessa della stradina, nel tentativo di individuare la direzione presa dalla misteriosa visitatrice inviata sulla Terra in avanscoperta. Solitamente i Laruth non si dimostrano così aggressivi nei confronti degli indigeni del pianeta che esplorano - sono perlopiù dei curiosi, dei viaggiatori - eppure questo ha già ucciso un uomo innocente, dopo aver tentato di fare lo stesso con John. Il Dottore lancia uno sguardo al poveraccio riverso a terra e poi a John che ne sta sorreggendo il braccio, perso nelle sue analisi.
 
Per un lungo attimo, si sente in colpa per non essere riuscito ad impedirlo. Il Laruth deve essere semplicemente spaventato, dopo la sua brusca apparizione nell'appartamento di Watson. Il Dottore ha intenzione di trovarlo al più presto per tentare di parlargli e tranquillizzarlo. Se raggiungessero un accordo, potrebbe rispedirlo sul suo pianeta senza creare ulteriori problemi. Nè gli Umani nè i Laruth ne dovranno uscire danneggiati, se possibile.
 
John continua ad esaminare il corpo esanime, constatando di non aver perso l'abitudine alla ricerca dei dettagli più inquietanti.
- E' morto poco meno di dieci minuti fa, lo abbiamo sentito gridare... Eppure il suo corpo è già in completo stato di rigor mortis. - Solleva il braccio un po' di più, di modo che anche il Dottore possa vederlo chiaramente. - Presenta inoltre questi strani disegni sulle braccia, chiaramente non tatuaggi. Sembrano quasi sottocutanei, se solo la cosa non fosse completamente impossibile. Non c'è alcun rilievo sulla cute che lasci intendere un'incisione, però. L'epidermide è intatta e... bollente. Cristo, questo sì che è impossibile! Più delle tue storie di alieni e navi spaziali... -
 
Il Dottore si volta interessato nella sua direzione, squadrandolo attentamente da testa a piedi. John si sente come un topo da laboratorio sventrato sul tavolo e studiato con attenzione da uno scienziato occhialuto dotato di pinzette. La sensazione, però, non gli dispiace poi così tanto, nello stesso modo in cui gli risulta vagamente famigliare. Sherlock lo premiava sempre con una brevissima occhiata compiaciuta, ogni qual volta si prodigava in un'osservazione profonda in grado di colpirlo.
 
In questo aspetto, il Dottore sembra molto più disponibile di Sherlock. Annuisce con un gran sorriso sulle labbra prima di commentare con un: - Fantastico! Ottimo spirito d'osservazione! - che lascia John spiazzato e al contempo soddisfatto. Non nello stesso modo in cui lo facevano i rarissimi apprezzamenti di Sherlock, ovvio. Però beh, può andare. E' gratificante lo stesso.
 
Il Dottore s'avvicina a sua volta all'uomo, piegandosi sulle ginocchia per esaminare meglio il braccio. Lo tira nella sua direzione, andando ad analizzarlo col cacciavite dal rumorino delizioso. Il movimento provoca una rotazione del capo del morto, permettendo a John di individuare un nuovo dettaglio.
 
- Guarda, manca un pezzo del padiglione auricolare. - La ferita è netta e cicatrizzata, eppure qualcosa porta John a credere che sia assolutamente recente.
 
Il Dottore alza la testa di scatto, occhieggiando ciò che John gli ha descritto.
 
Poi sgrana gli occhi, una strana consapevolezza che si fa strada in lui.
 
- Meglio andare! - dice allarmato, scattando rapidamente in piedi. John, ancora accovacciato, lo guarda dal basso verso l'alto senza capire.
 
- VIA! - urla allora il Dottore, indicando con un ampio gesto del braccio la fine del vicolo, culminante nella parallela della via dalla quale sono giunti John e il Dottore.
 
John a quel segnale violento scatta, come un corridore al fischio dell'arbitro. Anche questo, cosidera una parte remota del suo cervello pervaso dagli stimoli dell'adrenalina, dev'essere un provvidenziale rimasuglio del suo rigido addestramento militare.
 
Fanno appena in tempo ad uscire dal vicolo e lanciarsi nel bel mezzo della strada, fortunatamente chiusa per lavori e sgombra dal traffico, prima di essere investiti dall'onda d'urto della potente esplosione divampata alle loro spalle. Vengono entrambi sollevati dal suolo e lanciati un paio di metri più avanti, con le orecchie popolate da rombi infernali e gli occhi inumiditi dalle lacrime causate dal calore delle fiamme. John tossisce e rotola sul fianco, lasciandosi sfuggire un gemito quando preme sulla spalla ferita. Volta appena la testa verso il Dottore, trovandolo seduto per terra a gambe larghe con stampata sul volto la classica espressione da "bambino impressionato dalle gesta del padre". Davvero da psicopatico, pensa stancamente, abbandonandosi per un attimo al suolo col respiro pesante. Perché toccano tutti a lui? Ok, sì, Sherlock non era psicopatico, ma sociopatico iperattivo. La sostanza non cambia di fronte a certi eventi: il detective gongolava di fronte a brutali ed efferati omicidi, il Dottore gongola di fronte all'esplosione del vicolo in cui fino a due secondi prima stavano esaminando il cadavere di un uomo ucciso da un alieno. Fantastico, no?
 
Una mano lo scuote delicatamente dal suo improvviso stato di torpore. Il Dottore si accerta che non sia ferito - non lo è, si sente solo un po' scosso - prima di dirgli qualcosa che suona tanto come un "so da che parte è andato". Le orecchie ancora gli fischiano, non è in grado di cogliere perfettamente le parole. Si alza, forzando i muscoli delle gambe che non hanno la minima intenzione di reggerlo. E' davvero fuori allenamento! Al contrario, il Dottore pare aver già recuperato ogni energia. Parte di corsa nella direzione di Regent's Park senza ulteriori esitazioni e John si trova nuovamente dietro di lui, trascinato inesorabilmente dagli eventi.
 
**
 
Il Parco è deserto. Persino Londra offre momenti di solitudine e conforto, in certe ore della giornata. Il cielo è sereno, di un bel blu scuro che lascia indovinare la presenza di stelle ben visibili, cancellate ovviamente dalle luci intense della città. Peccato, si trova a pensare John, mentre si abbandona sulla prima panchina che vede. Ha il fiato corto, mentre il Dottore non dimostra neppure il minimo segno di fatica. Eppure non sembra molto più giovane di lui... Deve essere un tipo abituato alla corsa. Non lo perde d'occhio un attimo mentre riposa le sue membra stanche e doloranti. Lo conosce poco ma gli pare così svagato, in certi frangenti, da non sembrare in grado di guardarsi le spalle da solo. John è stato abituato a coprire i suoi compagni usciti in avanscoperta e ad assicurarsi che Sherlock non si facesse sparare dal primo criminale apparso al suo orizzonte, dunque mantiene alto il suo livello d'attenzione. Le orecchie non gli fischiano più, però non è sicuro di aver già recuperato del tutto l'udito.
 
La figura del Dottore scompare un secondo per poi riapparire sotto il cono di luce gettato da un lampione. Alto, con un lungo cappotto dall'orlo pronto ad accarezzare il terreno ogni qual volta si piega sulle ginocchia alla ricerca di tracce sul terreno. Niente colletto alzato, niente capelli ricci. Sono i piccoli dettagli che fanno la differenza, giusto? Questi sono sufficienti a torcergli lo stomaco e ricordargli nuovamente che no, non è con Sherlock. Le sensazioni sono più o meno le medesime, però manca quel plus che rendeva i casi dell'unico Consulente Investigativo al mondo così intriganti all'occhio del suo Blogger. Manca lui, col suo carattere spigoloso pieno di inaspettati punti di luce. E ancora senso di colpa.
 
Come materializzato dal peggiore dei suoi incubi - o dal migliore dei suoi sogni - Sherlock Holmes appare ai margini del suo campo visivo, appena illuminato dalla tenue luminescenza di un'insegna pubblicitaria posta vicino ai cancelli del parco. John salta in piedi nel momento preciso in cui il Dottore si volta a guardare il nuovo arrivato. Mentre il primo è letteralmente terrorizzato e ridotto ad una poltiglia di sentimenti inutilizzabili dalla sua mente in tilt, il secondo si fa avanti, sfoggiando un'aria seria e solenne.
 
- Finalmente ci rivediamo! - esordisce, invitando John a rimanere indietro con un cenno della mano. John non ha comunque la minima intenzione di avvicinarsi a quella visione contraria ad ogni buon senso. Fissa senza fiato gli occhi vuoti eppur vivi dell'immagine del suo migliore amico, squarciato da un acutissimo dolore.
 
L'immagine non proferisce parola né si muove per alcuni istanti, salvo poi puntare la sua attenzione su John e allungare un braccio nella sua direzione, in un tacito invito ad avvicinarsi.
John non si muove, pietrificato in maniera quasi letterale. Stringe i pugni in modo così convulso da conficcarsi le unghie nel palmo della mano e non accorgersene neppure. Le nocche sono bianche dallo sforzo.
L'immagine, allora, pensa bene di gracchiare qualcosa in una lingua stramba con una voce totalmente inadatta alle fattezze di Sherlock, cozzando violentemente con i ricordi che John ha di quella profonda e baritonale del detective.
L'alieno non ha la minima idea della reazione a catena che ha innestato, ingenuo come un bimbo che punzecchia un alveare col bastone perché reputa le api che ci bazzicano attorno "così carine!"
 
John strabuzza gli occhi, sconvolto da un tale affronto. Uno stupido alieno venuto da chissà quale fottutissimo buco nell'Universo si sta deliberatamente prendendo gioco di lui e dei suoi ricordi, infilando un dito ricoperto di sale nelle sue piaghe non ancora sanate! Una cieca furia si impadronisce di lui, facendogli bollire il sangue e pizzicare le dita. Oh, quanto vorrebbe la sua pistola! Perché ha dato retta al Dottore e l'ha abbandonata a casa? Nulla, però, gli impedisce di risolvere la faccenda alla buona e vecchia maniera.
 
I Laruth assumono la forma di un amato ricordo della vittima prescelta per ricevere da questa ospitalità e amore, di modo da infilarsi subdolamente nella sua casa e, in caso di bisogno, nutrirsi del suo corpo senza scrupolo alcuno. Il loro pianeta d'origine, così ostile e aspro, li educa ben presto alla sottile e subdola arte del sopravvivere ad ogni costo. L'ultima cosa che l'extraterrestre si aspetta, dunque, è di venire investito dal travolgente uragano di rabbia in cui si è trasformato il buon Capitano John Watson, medico di formazione militare, rinomato per la sua pazienza e abilità professionale.
Stuzzicato nel profondo e colpito nel suo dolore, John è balzato in avanti, sorprendendo persino il Dottore. I ricordi sono improvvisamente debordati dalla diga in cui li ha rinchiusi per questi due anni e quasi nove mesi, inondandolo con la forza di un fiume in piena. Di fronte al falso volto di Sherlock, non esita a colpire il maledetto impostore dritto sul naso la prima volta con la destra, accompagnando poi con una mezza rotazione del busto un secondo pugno con la mancina, preciso sui denti.
La prima e unica volta in cui ha colpito il vero Sherlock, poco distante dall'abitazione di Irene Adler, John ha lasciato una lieve ecchimosi a pochi millimetri dallo zigomo del detective, evitando con cura quei due punti così sensibili del viso del suo amico.
La Donna ha rimarcato il fatto come palese segno d'amore.
 
Ebbene sì. John può amare Sherlock di un sentimento inspiegabile, con ogni fibra del suo essere, a tal punto da non riuscire a levarselo dalla testa e a farsi una ragione della sua scomparsa. A tal punto da sentirsi in colpa ogni volta che prova il desiderio fare qualcosa senza averlo al suo fianco. A tal punto da sentirsi uno sporco traditore nel vivere un'incredibile avventura ai limiti del paranormale con un misterioso individuo che conosce semplicemente come il Dottore.
Ma John non ama affatto chi si prende gioco del suo grandissimo sentimento, come la malefica creatura che si nasconde dietro un aspetto non suo.
 
Il volto del finto Sherlock, scolpito da un'espressione di genuina sorpresa, prende a screpolarsi davanti a lui, percorso da crepe che vanno via via allungandosi.
Si sbriciola come una maschera di porcellana che si abbatte al suolo, svanendo e lasciando il posto ad una sagoma lattiginosa dalle lunga braccia nodose e la testa calva, su cui spiccano due occhi intelligenti e vigili.
John indietreggia istintivamente di un passo, ancora sconvolto e incapace di elaborare l'accaduto, senza distogliere lo sguardo da quella creatura tanto inconcepibile che lo scruta. Il Dottore lo affianca, ma il Laruth non lo degna della sua attenzione, troppo concentrato sulla vittima che lo ha sconfitto.
Poi, all'improvviso, scompare nel nulla.
 
Il Dottore sorride, poggiando una mano sulla spalla di John.
- Complimenti, John Watson. Sembra che tu non abbia bisogno del mio aiuto per risolvere certi problemi diplomatici con creature provenienti da un altro pianeta! -
 
John non risponde, con lo sguardo ancora fisso davanti a sé.
Ora che l'adrenalina lo sta abbandonando, percepisce chiaramente di tremare.
 
**
 
Il ritorno a Baker Street è silenzioso. John sta ancora sbollendo tensione e adrenalina, accorgendosi di quanto il suo corpo abbia rallentato certi processi durante il lungo periodo di letargo seguito alla morte di Sherlock. E' sicuro che non riuscirà a dormire per almeno un paio di notti. Domani mattina Sarah lo scruterà con piglio critico, analizzando con disapprovazione le sue occhiaie più scure del solito.
Il Dottore, dal suo canto, cammina al suo fianco con le mani affondate in tasca e lo sguardo allegro di chi ha risolto un problema in modo semplice e rapido. Gli è piaciuto il piglio deciso con cui John ha affrontato i suoi fantasmi. Certo, un tantino brusco, però dannatamente efficace. E' certo che il Laruth non scorderà l'umano che l'ha colpito con tanta forza: sono creature sì orgogliose, ma assolutamente rispettose nei confronti di chi le sconfigge.
 
Il portone verde scuro del 221 B si fa sempre più vicino ad ogni passo, assieme alla sottile inquietudine che sta nascendo in John. Si ferma, seguendo con lo sguardo il Dottore. Il misterioso uomo procede ancora di tre o quattro passi prima di accorgersi che John è rimasto indietro. Si volta nella sua direzione, un'espressione interrogativa stampata in faccia.
 
- Dove andrai, adesso? - domanda a bruciapelo il dottor Watson, cercando di cogliere con estrema attenzione le reazioni dell'altro Dottore.
 
Il Dottore scrolla le spalle e si avvia in direzione di una cabina telefonica della Polizia blu.
Di quelle che erano diffuse negli anni '60 e oggi non ci sono più.
Quella cabina non gli risulta affatto famigliare. Non in quel punto di Baker Street, davanti a casa sua. John ne è più che certo. Insomma, ci passa davanti tutti i giorni!
Ormai però non bada più a certe stranezze assolutamente incongruenti, non dopo la serata appena trascorsa. Sarà soltanto l'ennesima bizzarria del Dottore.
 
-  La prossima destinazione è un'incognita anche per me. Non sarebbe divertente, altrimenti! - risponde il Dottore, infilando la chiave nella porta blu. La scosta producendo un lungo cigolio.
 
John annuisce con un gesto mesto del capo. Non è proprio bravo ad affrontare certi momenti. Le separazioni.
- Suppongo sia un addio, Dottore. -
 
Il Dottore alza la mano in un cenno di saluto. John abbozza un sorriso e si volta, lasciandosi alle spalle quella serata che ha tanto il sapore di un sogno.
Non fosse per le escoriazioni alle mani e i vestiti impolverati, assolutamente reali e tangibili, prove incontrovertibili a testimoniare l'accaduto.
 
- Ehi, John! - La voce allegra del Dottore lo coglie quando ha già il piede poggiato sul primo gradino davanti al portone d'ingresso. John si volta, spiazzato dal lampo cospiratorio che sprizza dalle iridi del Dottore. Sta tenendo aperta per metà la porta della cabina blu, accennando allo spiraglio con la testa. - Non vuoi dare un'occhiata? -
 
Stuzzicato dal tono del Dottore e dall'aria inusuale di quella cabina totalmente fuori contesto, John torna sul marciapiede, attraversandolo a passi lenti verso il limitare della strada, dove il Dottore lo attende. Gli rivolge uno sguardo carico di sospetto e dubbio, prima di decidersi a compiere un passo verso l'interno.
Il Dottore, poggiato col fianco al TARDIS, sorride divertito.
 
John esce una manciata di istanti dopo, con gli occhi sbarrati dalla sorpresa; dinnanzi a una tale scena, il Dottore non riesce ad impedirsi di scoppiare in una sonora risata.
- Dovresti vedere la tua faccia, John Watson! Sembra che tu abbia appena visto un'astronave aliena! -
 
John punta la cabina con l'indice della mano destra. Apre la bocca perché DEVE dire qualcosa. Difendersi dalle prese in giro, perlomeno! Al secondo suono inarticolato che gli abbandona le labbra, però, decide che forse è meglio lasciar perdere. Guarda il Dottore, come a volergli chiedere un implicito permesso, poi rientra, sentendosi come un bambino che ha appena scoperto una montagna di regali sotto l'albero di Natale. Stavolta il Dottore lo segue all'interno, chiudendosi la porta alle spalle.
 
- Allora, che ne pensi? - chiede ad un John Watson tutto intento a posare gli occhi qua e là, sovraccaricato di stimoli. - Questo è il mio carissimo TARDIS! - per rimarcare il tono affettuoso, rifila un'amichevole pacca alla consolle centrale che ha nel frattempo raggiunto.
 
- Credo sia lo cosa più incredibile che abbia mai visto! - commenta John, esaltato. Dopo una serata simile gli pare impossibile il riuscire a stupirsi ancora, e invece!
 
- Risposta esatta! - il Dottore prende a volteggiare qua e là, come una brava guida turistica fa per mostrare al suo seguito tutte le meraviglie del posto che stanno visitando. Poi si ferma, in posizione speculare a quella di John, osservandolo da oltre gli strani comandi sparsi un po' ovunque sotto forma di leve, monitor e invitanti bottoni rossi.
- Io viaggio da solo - esordisce il Dottore, tutto ad un tratto, attirando nuovamente su di sé l'attenzione di John. Nella frase vi è un grandissimo "ma" sottointeso che oscilla pericolosamente nella sua testa sotto forma di invitante tentazione. Smette persino di respirare, in attesa che il Dottore termini le sue osservazioni.
- Però anche tu lo sei, John Watson. Solo, intendo. Una persona come te non lo merita. -
Pausa.
John respira piano, giusto perché si tratta di una funzione vitale. Il battito accelerato del suo cuore non si placa comunque con la ripresa della normale ossigenazione.
- Che ne dici di un viaggio con me? Oltre i confini del tuo mondo e, se lo desideri, della tua Galassia! -
 
John s'appoggia al bancone di comando davanti a lui, giusto per non cadere. La prima, stupidissima frase che riesce ad elaborare è:
- Ma io lavoro, insomma, non posso piantare tutto e sparire così... -
 
Nessuna menzione alla sua vita, ai suoi affetti, al suo tempo libero. Il Dottore capisce immediatamente che il buon John Watson dev'essere infinitamente più solo di quanto avesse mai potuto pensare. Ecco perché s'avvicina per posargli una mano sulla spalla.
- Ma io non viaggio solo nello Spazio. Viaggio anche nel Tempo. - Glielo butta lì così, come se fosse una cosuccia da nulla, chinandosi appena un po' per sussurrarglielo come si fa tra bambini per condividere un segreto segretissimo. - Posso riportarti qui, in questa stessa sera del 16 Ottobre, quando lo desideri. - Poi arretra di un passo, per guardarlo meglio negli occhi. - Beh? Andiamo? -
 
A questo punto, John non ha più nulla da ribattere. Non cerca neanche più un motivo per ribattere.
- Andiamo! -
E questa è la sua scelta definitiva.
Il Dottore scatta alla consolle, pronto alla partenza.
 
"Chissà i commenti, se lo scrivessi sul blog!" è l'ultimo pensiero di John, prima di ritrovarsi costretto a sorreggersi per via degli sbalzi bruschi del TARDIS.
 
**
 
- Comunque... - puntualizza il Dottore con tono pignolo, sfoderando una faccina melodrammaticamente triste - la mancanza di un tuo commento sul fatto che il TARDIS sia più grande all'interno mi ha profondamente deluso, John Watson! Sappilo! -
 
Sono appena atterrati ( secondo il Dottore; John utilizzerebbe maggiormente il termine "schiantati", ma vabbé... ) e John è troppo carico di aspettative per prendersela. Ride invece, tanto, asciugandosi una piccola lacrima all'angolo esterno dell'occhio causata dal troppo divertimento.
- Mi è stato insegnato a non constatare l'ovvio, Dottore - ribatte, lasciando l’altro con un leggero broncio.
- Piuttosto, dove siamo finiti? -
 
Il Dottore indica l'uscita con un gesto della mano.
- Perché non vai a scoprirlo? - Nessuna traccia residua delle precedenti espressioni di esagerato disappunto, solo quel fremito sincero che prova quando può sorprendere ancora i suoi compagni di viaggio, nonostante tutto.
 
John si avvia deciso alla porticina blu, spalancandola con un cigolio.
Poi si affaccia su un mondo completamente nuovo.   

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