''Gloomy'' è la giusta parola.

di EvgeniaPsyche Rox
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Le caramelle rubate. ***
Capitolo 2: *** Altrove. ***
Capitolo 3: *** Dietro la tenda. ***



Capitolo 1
*** Le caramelle rubate. ***


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Piccolo avvertimento per gli imbecilli coloro che non si fossero soffermati a leggere l'introduzione.
Ripeto, questa è una raccolta, ovvero una storia formata da capitoli a sé.
In particolare il primo e l'ultimo capitolo non sono propriamente ''horror''; potrebbero addirittura strappare un sorriso e risultare un poco dolci.
Ho deciso di iniziare e concludere la storia così perché... Perché mi andava, ecco.
I capitoli centrali invece saranno di un genere più forte, che potrà andare da una lieve inquietudine ad racconto horror a tutti gli effetti, dipenderà dal mio umore.


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''Gloomy'' è la giusta parola.

1. Le caramelle rubate


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«Io non ci voglio andare!»
«Ma perché? Ti divertirai tanto!»
«No, no! Voglio restare a casa!»
«Ci saranno tutti i tuoi amichetti! Ti piacerà, vedrai!»
«No, perché succede ogni anno!»
«Succede cosa?»
Di fronte alla ruga di preoccupazione che si andò a formare sulla fronte della donna, Roxas storse le labbra e si strinse nel costume cucito da sua nonna.
«Niente.», mormorò poi piano, lanciando una fugace occhiata al corridoio; la madre nel frattempo lo squadrò con aria poco convinta e sospirò, dando mentalmente la colpa alla stranezza di suo figlio. Dunque prese la piccola zucca vuota e la porse al bambino. «Avanti, va' a divertirti. Resta solo d'intorni, mi raccomando.»
Roxas guardò la zucca con fare un po' titubante prima di decidersi ad afferrarla; dopodiché annuì ripetutamente. «Sì, mamma.»
«A più tardi.»
Il bambino udì anche il saluto di suo padre provenire dal soggiorno; successivamente si avviò verso la porta, la spalancò ed uscì in mezzo al vento autunnale di Ottobre.
Quel quartiere era formato esclusivamente da ville di piccole dimensioni; chi non poteva permettersi una casa del genere poteva comunque decidere di affittarne metà e convivere quindi con un'altra famiglia che aveva la medesima situazione.
Roxas lo sapeva perché, nonostante lui abitasse esclusivamente con i suoi genitori e sua nonna, il suo migliore amico, Hayner, viveva insieme alla famiglia di Olette, una ragazzina che si era trasferita nel suo quartiere da qualche mese.
Quasi tutte le villette possedevano un giardino invidiabile; era forse ciò che più contava per gli abitanti di quel quartiere, dal momento che era consuetudine svolgere gare assurde tra chi manteneva il prato più lucente, chi piantava i fiori più incantevoli e chi addobbava l'ingresso con le decorazioni più originali.
Non per nulla quella sera il quartiere Puertomoon traboccava di lanterne a forma di zucca, candele e bastoni conficcati a terra coperti da un lenzuolo bianco che formavano degli strambi fantasmi.
Roxas lanciò un'occhiata attenta attorno a sé; il suo giardino di originale non aveva proprio nulla, poiché i suoi genitori si erano limitati a mettere in due file una decina di lanterne a forma di zucca. Poco male, aveva sentito dire da suo padre, abbiamo in serbo qualcosa di strabiliante per Natale.
Hayner Howard viveva nel secondo piano della villa di fronte a quella di Roxas; proprio in quel momento, infatti, riuscì a scorgere la sua figura ad una decina di metri di distanza dal suo giardino.
Roxas allora alzò il braccio e, quando ebbe avuto la certezza di essere stato visto, si voltò verso l'abitazione del suo migliore amico, curioso di vedere quali addobbi aveva messo il padre.
Certamente più originale della sua famiglia, anche se nulla di straordinario. I signori Howard avevano avuto la fortuna sfacciata di essere stati gli unici ad aver utilizzato un Babbo Natale in versione zombie; per questa ragione poteva apparire come un'idea bizzarra, nonostante, durante gli anni precedenti, fosse già stato visto e rivisto.
Comunque a Roxas non piaceva proprio per nulla. Trovava assai inquietante e triste che quella figura così allegra e natalizia si fosse trasformata in un omaccione dal cappotto rosso strappato, la bava alla bocca, gli occhi bianchi privi di iride e le mani tese in avanti, pronte ad afferrare qualche testa per divorarne il cervello.
Già gli avevano rovinato la festa di Halloween, adesso doveva detestare anche il Natale?
Per un attimo pensò di chiedere ad Hayner di togliere quell'addobbo così raccapricciante, ma poi si accorse che, in fondo, non era colpa sua, senza contare il fatto che i suoi genitori si sarebbero arrabbiati moltissimo.
Dunque spostò gli occhi e notò che Hayner era già di fronte al suo cancello bianco e stava squadrando le sue lanterne a forma di zucca; probabilmente pensò a quanto fossero poco originali e anch'egli fu sul punto di farlo notare, quando decise di mordersi la lingua e di comportarsi da bambino educato, poiché erano davvero rare le volte in cui si dimostrava tale. Così sorrise e fece cenno all'amico di avvicinarsi. «Sei uscito tardi quest'anno!»
Roxas si affrettò a raggiungerlo con passi veloci; aprì il cancello che emise un fastidioso scricchiolio e lo richiuse dietro di sé prima di dedicarsi esclusivamente al compagno. «Sì, lo so, è che non volevo venire.»
Si erano conosciuti alla scuola materna, nonostante la loro amicizia non fosse sbocciata nel migliore dei modi, dal momento che Hayner aveva passato ben due anni a fargli scherzi di cattivo gusto, come nasconderlgi i pastelli o scoppiargli i palloncini alla sua festa di compleanno.
Adesso aveva sei anni, proprio come lui, anche se era leggermente più alto, dettaglio di cui risentiva molto; infatti quando c'era da prendere una decisione facevano sempre ciò che desiderava Hayner dato che si autoproclamava ''il più grande perché i righelli che servono per misurare i miei piedi-testa sono di più di quelli che servono per misurare i tuoi piedi-testa.''
Hayner aveva gli occhi marroni come la nutella che mangiava a colazione e i tronchi degli alberi da cui tirava fuori la resina (Così aveva detto, quando le maestre gli avevano chiesto come si sarebbe descritto) e i suoi capelli, caratterizzati da un biondo tendente al beige scuro, erano tirati quotidianamente all'indietro da sua madre, la quale teneva molto a vedere il suo bambino curato, almeno fisicamente.
Aveva deciso di vestisi da scheletro; indossava dei pantaloni ed una felpa nera su cui vi erano disposte in maniera ordinata le numerose ossa del corpo umano e perfino il volto era truccato a tema.
«Non volevi venire? E perché?», chiese a gran voce Hayner, iniziando a camminare lungo il marciapiede.
«Tanto non assaggeremo neanche una caramella!», fece notare l'altro bambino, stringendo con forza la propria zucca. «Lo sai, succede sempre, sempre 'sta cosa, ogni anno!»
«Ma no, questa volta sarà diverso! Guarda, guarda qui, eh Roxas, ho già preso diec... No, no, dodici, dodici caramelle alla menta! Gliele diamo e poi ne prendiamo altre e le mangiamo.»
Roxas scosse la testa e si fermò di fronte alla villa dei signori Puckett. «Non possiamo mica suonare ancora da tutti e chiedere un'altra volta le caramelle! Ci sgrideranno!»
A quell'osservazione Hayner serrò le labbra per qualche secondo, offeso dal fatto di non aver preso in considerazione quel dettaglio; aprì il cancello ed entrò nel giardino addobbato da ragni e corvi.
I due bambini attraversarono dunque il prato e salirono le tre scale dell'ingresso.
«Non è per niente giusto.», brontolò improvvisamente Hayner, guardando il portone di fronte a sé su cui vi era appeso un cartello dalla scritta ''Happy Halloween''.
Roxas si voltò verso l'amico prima di abbassare gli occhi. «Lo so, non è giusto, però non possiamo dirlo ai nostri genitori. Lui non vuole mica.»
«Lo so.»
«Sì, lo so pure io.», ripeté Roxas e allungò la mano verso il tasto del campanello; lo sfiorò appena con l'indice della mano sinistra, quando da un punto indefinito dell'alto cadde un ragno di plastica di medie dimensioni sulla testa del bambino che lanciò immediatamente un urlo prima di lasciar cadere la propria zucca.
«Vai via! Vai via, HAYNER DIGLI DI ANDARE VIA!», strillò ripetutamente Roxas, non ottenendo però l'aiuto desiderato, dal momento che l'altro presente era scoppiato a ridere e si era addirittura piegato sulle ginocchia.
«Mi vuole mangiare i capelli! I MIEI CAPELLI SONO MIEI E LUI LI VUOLE MANGIARE!»
«E' solo un giocattolo, Roxas!»
«NO, NO, NO!», trillò il disgraziato dopo aver afferrato il ragno; lo lanciò istantaneamente sui gradini e rimase per qualche secondo ad osservare quell'oggetto inanimato, morto sin dalla nascita, e fu sul punto di piangere sia perché il suo migliore amico non lo aveva aiutato, sia perché si era spaventato davvero molto.
Fece per spiegare tutto ciò ad Hayner, quando il portone si spalancò, facendo apparire un uomo sulla quarantina dall'aria perplessa e al tempo stesso infastidita. «Si può sapere che diavolo sta succedendo?»
I due bambini si voltarono di scatto verso la figura adulta; chi ancora tremante e con il battito cardiaco a mille, chi invece divertito.
«Roxas se la stava per fare sotto!»
«Non è vero, sei un bugiardo! E' il ragno che mi voleva mangiare i capelli!»
A quelle esposizioni poco comprensibili il signor Puckett spostò lo sguardo verso l'oggetto in plastica sui gradini; lo squadrò per una manciata di secondi prima di chiamare a gran voce: «Riku, vieni immediatamente qui!»
Roxas nel frattempo si asciugò gli occhi e cercò di trattenersi ónde evitare una figuraccia; si toccò i capelli, sollevato dal fatto che non fossero stati risuchiati dalla bocca di quell'essere malefico, e si concentrò sul bambino dai capelli argentati che era appena apparso sulla soglia della porta.
Si sarebbe dovuto immaginare che lui c'entrava qualcosa, dato che era uno dei bambini più antipatici del quartiere.
«Allora, che cosa ti avevo detto?! Non dovevi farlo! E tu non mi hai ascoltato, come sempre! Per questo potrei anche non farti uscire, lo sai?!». A quel rimprovero il bambino rimase impassibile e non si mosse di un solo centimetro, il che scaturì l'immediata furia del padre. «Chiedi subito scusa!»
«Io non ho fatto niente.»
«RIKU!»
«Okay, okay», borbottò il figlio, voltando appena gli occhi verso Roxas che lo stava guardando male. «Scusa.»
«Fa niente», mormorò il diretto interessato, anche se era una menzogna, dal momento che niente non lo era affatto; si era spaventato a morte!
Riku allora fece un cenno con il capo e tornò in casa con la medesima espressione; il padre ringhiò qualcosa a denti stretti prima di mutare i lineamenti del volto in un attimo, sforzandosi di mostrarsi disponibile e gentile con i due bambini. «Bene, allora per farmi perdonare vi darò più dolcetti del solito, d'accordo?»
A quell'affermazione le iridi di Hayner si illuminarono immediatamente; le sue labbra si aprirono in un sorriso a trentadue denti e disse, con una certa sfacciataggine: «Così la perdoneremo di sicuro, signor Puckett! Grazie mille!»
L'uomo allora sollevò istintivamente il soppraciglio sinistro, incerto sul da farsi; decise comunque di lasciar perdere e accennò una sottile risata prima di rientrare dentro a prendere una manciata di dolcetti.
«Allora lo scherzo di Riku è servito, hai visto? Adesso avremo tante caramelle, magari qualcuna riusciremo a tenercela!»
Roxas non rispose e abbassò le iridi verso la propria zucca vuota.
Non era esattamente sicuro che spaventarsi così tanto per un po' di caramelle ne valesse la pena.





«A chi tocca quest'anno?»
«Non a me, io l'ho già fatto l'anno scorso!»
Kairi lanciò un'occhiata storta ad Hayner e appoggiò la propria zucca traboccante di caramelle sul marciapiede. «Non c'entra, dobbiamo fare la conta!»
«Eh, così non è giusto!», replicò per l'ennesima volta l'altro, incrociando le braccia. «Uscirò io, di sicuro, come sempre!»
«Sempre? Ci sei andato solo una volta!»
«E vabbeh!»
«Vabbeh cosa?!»
Riku nel frattempo stava mimando qualcosa di incomprensibile con le labbra, indicando di volta in volta un bambino diverso; fece il giro un paio di volte e si fermò su Roxas. «Tocca a te.»
A quell'affermazione i due litiganti interruppero la propria discussione e si voltarono verso il diretto interessato. «A chi?»
«A Roxas.»
«Perché io?»
«Sei uscito tu.»
«Nessuno ha sentito la tua conta! Magari hai barato!»
«Non ho barato.», ribatté apaticamente il fanciullo dai capelli argentati, porgendo poi la propria zucca a Roxas che indietreggiò, scuotendo la testa. «Io non ci vado!»
«Dai, non fare il fifone!», lo ammonì il suo migliore amico, allungando il proprio braccio per porgere anch'egli il suo bottino. «Io sono ancora vivo! Devi portare questa roba e via.»
Roxas squadrò le diverse zucche piene di caramelle e deglutì rumorosamente; non gli andava di fare la figura del codardo, ma proprio per niente, soprattutto di fronte alle bambine. In fondo i suoi amati eroi dei cartoni animati riuscivano sempre a sconfiggere il male, quindi ci sarebbe riuscito anche lui.
Senza spada, né scudo, né poteri magici, ovvio.
Rialzò le iridi e afferrò le zucche di tutti i suoi compagni; di Hayner, di Riku, di Xion, di Kairi, di Naminè, di Olette e di Pence.
«Buona fortuna.», gli augurò Olette con un grazioso sorriso che però non aiutò per nulla Roxas, dal momento che udiva già il proprio battito cardiaco accelerare precipitosamente; salutò in un mormorio incomprensibile gli altri e si voltò, avviandosi verso il marciapiede.
Da circa tre anni un bambino dell'altro quartiere, quello delle persone strane che non curavano il proprio giardino, si divertiva a rubare tutti i loro dolcetti. Ad ogni Halloween un ragazzo delle vie Puertomoon era costretto a recarsi nell'altro quartiere per consegnare di persona le leccornie raccolte di casa in casa.
Nessuno aveva mai avuto il coraggio di rivelare la situazione agli adulti a causa di un estremo terrore; Roxas non sapeva esattamente che cosa sarebbe successo se non avessero consegnato le caramelle o se avessero osato dire tutto a mamma e a papà, però gli avevano detto che quel bambino faceva degli scherzi brutti, molto brutti.
Hayner gli aveva spiegato che in realtà Seifer non si era trasferito l'anno scorso, bensì era stato divorato dal cane a due teste del bambino-ruba-caramelle.

Roxas non aveva dormito per una settimana a quel racconto.
Una caramella alla fragola scivolò da una delle zucche e cadde per terra; Roxas la osservò per qualche secondo, indeciso sul da farsi. In fondo era solo una caramella. Magari avrebbe potuto mangiarsela.
O avrebbe potuto lasciarla per terra, sarebbe andato bene lo stesso.
Poi pensò al cane a due teste e scosse la nuca; si chinò, appoggio tutte le zucche, afferrò la caramella, la sistemò al proprio posto e riprese il cammino.
Più andava avanti, più i volti familiari diminuivano e gli pareva quasi che la luce delle lanterne fosse via via sempre più fioca e tremante, come se perfino esse non fossero in grado di illuminare l'altro quartiere.
Alzò la testa in alto e notò la presenza di numerose stelle che riuscirono in qualche modo a rasserenarlo, anche se solo un po'. Forza, coraggio, ce la puoi fare, le sentiva urlare, facevano il tifo per lui.

Non gli sarebbe accaduto nulla. Hayner l'anno scorso aveva consegnato le caramelle ed era tornato sano e salvo. Doveva soltanto porgere le zucche e via. Doveva soltanto salutare i dolcetti e basta. Doveva soltanto arrendersi un'altra volta, dire addio a tutto quello zucchero.
Quel pensiero parve infastidire particolarmente Roxas, poiché corrugò improvvisamente la fronte: non era giusto, non era affatto giusto che ogni anno dovesse rinunciare a quelle delizie soltanto per colpa del bambino cattivo.
Poteva procurarsele da solo, le caramelle. Poteva suonare nelle ville del suo quartiere e avere tutti i dolcetti che desiderava.
Perché rubarle agli altri?
Forse nel suo quartiere era vietato suonare il campanello delle altre abitazioni?
Roxas svoltò l'angolo e si ritrovò in una strada deserta, almeno a confronto del proprio quartiere; al massimo vi erano due o tre lanterne qua e là, nient'altro. Qualche volta sgommava una moto nell'oscurità per poi svanire nuovamente nel nulla.
Gli parve di essere finito in un'altra dimensione e temette addirittura di essersi perso, nonostante l'unica cosa che aveva fatto era stata seguire la scia del marciapiede. 
Era possibile perdersi non molto lontano dalla propria casa?
Era possibile perdersi in luoghi sconosciuti che si trovavano accanto a quelli conosciuti?
Forse.
In fondo ci si perdeva seguendo proprio una strada familiare che però, chissà come, portava verso posti ignoti.
Udì un cane abbaiare e rischiò di far cadere un'altra volta le proprie zucche traboccanti di zucchero; fortunatamente riuscì a mantenere l'equilibrio e si voltò, notando che il verso proveniva da un'animale rinchiuso in un cancello.
Nessun cane a due teste.
Roxas continuò a camminare, ascoltando in sottofondo il proprio battito cardiaco mescolato alle lontane risate dei bambini del quartiere Puertomoon e agli altri rumori della notte.
Dove doveva andare?
Non ne aveva la più pallida idea. Nessuno gli aveva dato un'indicazione ben precisa, tanto meno Hayner. Quando l'anno scorso gli aveva domandato dove vivesse il bambino cattivo, gli aveva risposto con una scrollata di spalle, dicendo che era una cosa che sapevi e basta.
Una volta giunto a metà della strada, si voltò e si sentì in qualche modo in bilico, sospeso su ponte invisibile che collegava il suo quartiere, il senso di familiarità, di competizione tra le famiglie, e il quartiere delle persone strane, una fitta nebbia che avvolgeva l'ignoto, la stessa nebbia che accompagnava i mostri sotto il letto e dentro l'armadio.
Roxas fu indeciso sul da farsi. Non voleva allontanarsi troppo, altrimenti avrebbe rischiato di perdersi veramente, anche perché non era affatto vero che sapeva dove abitava quel bambino cattivo. Non era una cosa che sapevi e basta. Non lo era proprio.
Avrebbe potuto appoggiare tutte le zucche sul marciapiede e scappare via. O magari avrebbe potuto tenersi per sé le caramelle con la scusa che non aveva trovato il bambino cattivo, che poi non era neanche una bugia. Però i suoi compagni avrebbero potuto sgridarlo e magari loro stessi lo avrebbero dato in pasto al cane a due teste.
Roxas si chinò lentamente e appoggiò le sette zucche sull'asfalto in modo da formare un cerchio; dopodiché rimase immobile ad osservare la propria zucca nella mano sinistra. La riconosceva, sapeva che era lei perché era stata sua nonna a tagliare la bocca e gli occhi, quindi le forme erano piuttosto irregolari. Lo sapeva anche perché riconosceva i suoi dolcetti; al cioccolato, alla fragola e alla menta.
Non era giusto.
Lui voleva festeggiare Halloween, Natale, Carnevale e Pasqua come i bambini normali. Lui voleva ricevere regali a Natale, vestirsi a Carnevale, mangiare cioccolata a Pasqua e dolcetti ad Halloween.
Le sue caramelle gli spettavano di diritto. Nessuno se ne sarebbe accorto. Le avrebbe mangiate tornando indietro e avrebbe nascosto la zucca in qualche cespuglio. Non gli interessava del mal di stomaco e delle carie. Voleva che la sua lingua baciasse una volta per tutte quelle caramelle così colorate ed invitanti. Voleva masticare così forte da sentire bruciare le mascelle.
Si alzò, stringendo con forza la propria zucca, e fece per voltarsi, quando una voce gli congelò il sangue nelle vene: «Tu, sottospecie di lenzuolo ambulante, che stai facendo?!»
Roxas desiderò scappare con tutto se stesso, ma non riuscì a muoversi di un solo centimetro. Udì solo il martellare incessante del suo cuore; il suo cuore, sì, l'organo che ora sembrava aver piantato le proprie radici fino ai suoi piedi per poi unirli all'asfalto, impedendogli così qualsiasi movimento.

Il suo cuore era dalla parte del bambino cattivo.
Perché?
«Allora? Che stai facendo?». Roxas voltò lentamente la testa e notò la presenza di un bambino più grande di lui a pochi metri di distanza.
Dalla fioca luce di un lampione riuscì ad intravedere una capigliatura rossa; gli occhi verdi dalla forma felina e un'espressione severa dipinta sul volto.
Era il bambino cattivo e non era vestito da nulla perché lui già sapeva come spaventare gli altri ad Halloween.
Era semplicemente il bambino cattivo. Al massimo gli altri si sarebbero potuto vestire come lui.
«E' toccato a te quest'anno portarmi i dolci?»
Roxas mantenne gli occhi puntati sul bambino cattivo, nonostante avesse voluto spostare lo sguardo altrove. Eppure la paura lo teneva inchiodato lì, con le iridi piantate verso quella figura che gli aveva rovinato la festa di Halloween, così come il cuore lo costringeva a non fuggire.
Erano tutti contro di lui.
«Non chiamare Tobia, per favore», disse poi automaticamente, e le sue parole parvero una cascata che desiderava solo cadere una volta per tutte.
Il cane a due teste si chiamava Tobia, Roxas se lo sentiva.
«Tobia?»
«Sì, Tobia.»
«Non so chi sia.»
«Io ti ho portato le caramelle». Il bambino cattivo si voltò e notò la presenza delle zucche sull'asfalto; allora annuì e tornò nuovamente a guardare l'altro presente, riducendo gli occhi a due fessure. «Non sono mica tutte.»
Roxas strinse con forza la propria zucca e il suo cuore prese a battere più velocemente. «Sono mie queste.»
«E allora?»
«Le voglio io.»
Il bambino cattivo sembrò stupirsi per qualche secondo di fronte al coraggio dell'altro; dopodiché scosse la nuca e gli si avvicinò con aria minacciosa, afferrando con entrambe le mani la zucca. «Devi darmi i dolcetti come tutti.»
«Ma io non voglio!», tuonò improvvisamente Roxas, scostando con rabbia il proprio braccio per allontanare il contenitore di caramelle, rovesciandone così alcune lungo l'asfalto. «Noi siamo stanchi di te! Non vogliamo più il bambino cattivo!»
Quest'ultimo si stupì nuovamente, ma ciò durò soltanto una manciata di secondi dato che successivamente si lanciò in avanti, con le mani ben tese; afferrò i lembi del vestito bianco del bambino e glieli strappò via con forza, lasciando così Roxas con indosso un paio di jeans e una maglietta blu non particolarmente pesante.
«Che hai fatto!», strillò Roxas, e fece per riafferrare il proprio vestito da fantasma accuratamente cucito da sua nonna, quando Axel appoggiò lo stivale sopra di esso, impedendogli di riaverlo. «No.»
«Sei veramente cattivo!»
«Mi chiamo Axel, non bambino cattivo.»
«Non mi importa!». Roxas gonfiò le guance e strinse a sé la propria zucca, accorgendosi che ormai era l'unico oggetto ancora dalla sua parte. E di fronte agli occhi smeraldini del bambino cattivo si sentì in qualche modo spoglio, poiché la veste bianca non gli copriva più parte del volto.
Si sentì nudo, con le gote arrossate a causa del freddo, gli occhi blu cobalto, i capelli biondo cenere sempre disordinati e fuori posto.
Il bambino cattivo, o meglio, Axel, rimase immobile per una decina di secondi, intento a risucchiare il fanciullo di fronte a sé. Successivamente sussultò e riprese le parola: «Guarda che se scappi Tobia ti inseguirà.»
Quella minaccia parve funzionare, dal momento che Roxas assunse immediatamente un'espressione atterrita: si pierificò nuovamente e incastrò la testa tra le spalle. «No!»
«E invece sì. Dammi i tuoi dolcetti.»
Il bambino abbassò leggermente gli occhi verso la propria zucca e titubò per qualche secondo; successivamente allungò un poco le braccia, non ottenendo però la reazione prevista dall'altro presente, poiché quest'ultimo sollevò un soppraciglio. «Non vuoi darmeli, vero?»
Roxas scosse piano la nuca, indeciso se essere sincero o meno.
«Io ho già molte caramelle.»
«Lo so, le hai rubate.»
Di fronte a quell'osservazione Axel corrugò la fronte e parve offendersi, o forse addirittura arrabbiarsi, difficile dirlo, dato che un attimo dopo mutò espressione e accennò un sorriso sinistro. «Sì, lo so.»
La sincerità così nuda e cruda del bambino cattivo turbò in qualche modo Roxas, il quale continuò a mantenere gli occhi bassi, come se avesse voluto cercare consolazione nella terra e in tutto ciò che nascondeva.
«Le vuoi tenere, sì?»
Il biondo annuì e alzò finalmente la testa verso l'altro presente. «Voglio tenere le mie caramelle.»
«Va bene, se vuoi te le lascio.»
«Ma Tobia non mi inseguirà?»
«No.»
«Nemmeno quando mi volterò e tornerò indietro?»
«Forse». A quella risposta il volto del più piccolo si trasformò presto in una maschera del terrore; tornò ad immaginarsi quell'enorme cane a due teste che ora possedeva anche denti aguzzi taglienti come lame, e ripensò a tutte le storie che gli aveva raccontato Hayner sui bambini scomparsi.
«Facciamo così», riprese a parlare il rosso, senza smettere di sorridere. «ti faccio tenere le  tue caramelle ad una condizione.»
«Ma... Ma... Tobia?»
«Se rispetterai la promessa non ti inseguirà.»
Roxas allora assunse un colorito più naturale e annuì, tenendo le orecchie ben aperte alla spiegazione dell'altro che non tardò ad arrivare: «Mi devi baciare.»
«S-Scusa?», balbettò il biondo, spaesato e smarrito. I bacini li aveva dati solo alla mamma e alla nonna, lui!
«Qui.», disse Axel, e indicò la propria bocca rosea.
Roxas abbassò un poco le iridi e si voltò indietro, lanciando una fugace occhiata alla strada: forse Tobia era nascosto tra i cespugli, silenzioso, pronto al segnale del bambino cattivo che gli avrebbe permesso di saltar fuori per sbranarlo una volta per tutte.
Sarebbe diventato cibo per cani. Forse le scatolette dove vi erano disegnati i volti dei cani erano in realtà i resti dei bambini destinati a quella fine tragica.
Quel pensiero mandò nella disperazione più totale Roxas che si affrettò a parlare: «Io... Io non voglio vedere Tobia!»
«Allora mi devi baciare». Più Axel lo ripeteva, più sembrava aver senso. In fondo nei cartoni animati che aveva visto tutto si risolveva grazie al bacio del grande amore. Ma lui non era innamorato, né conosceva bene Axel. E avrebbe dovuto trovarsi davanti ad una fanciulla in pericolo, non ad un bambino cattivo.
«Grrr», interruppe nuovamente il silenzio Axel, tirando fuori i propri denti. «Fa così Tobia, lo sai? Fa grrr, grrr!»
«No!»
«E invece sì, lo conosco io, mica tu.»
Roxas si guardò nuovamente indietro prima di tornare a concentrarsi sul bambino cattivo; deglutì un paio di volte e si alzò in punta di piedi per poter raggiungere l'altezza dell'altro. Dopodiché chiuse gli occhi perché lo aveva visto fare in molti cartoni, si avicinò e premette le proprie labbra tremanti a causa del freddo (e della paura) su quelle di Axel.
Erano calde, screpolate e sapevano di cioccolato: cioccolato fondente, per l'esattezza.
Roxas pensò che forse Axel era il bambino cattivo anche di altri quartieri.
Però non glielo chiese; contò mentalmente fino a sei, dato che poi non sapeva più andare avanti, e si allontanò, senza lasciare la propria zucca. «Ho mantenuto la parola.»
Il rosso sorrise, con le gote più rosee rispetto a qualche secondo prima. «Ho visto. Sei stato bravo e carino.»
Roxas avrebbe voluto domandargli in che senso ''carino'', ma si accorse che ormai era tardi e che gli altri si stavano certamente preoccupando per lui. Così si strinse le spalle e mormorò: «Devo andare via.»
Il bambino cattivo annuì e nel frattempo si toccò un poco le labbra. «Puoi tenerti le caramelle anche l'anno prossimo, se tornerai qui.»
«Io voglio tenere le mie caramelle.»
«E allora torna.»
«Sì.», annuì il biondo, senza però dar troppo peso alle proprie parole; dunque si voltò e corse via verso la strada buia, sperando di non perdersi e di poter attraversare quel mondo che gli era parso come un'altra dimensione.
A metà strada rallentò per poter mangiare in tutta tranquillità i propri dolcetti. Non voleva che i suoi amici gli facessero troppe domande.
Nascose la zucca in un cespuglio, stando ben attento a non trovarvi Tobia, e seguì le risate dei bambini per tornare a casa.
Pensò che invece dare via il primo bacio ne valeva la pena per avere più caramelle con cui riempirsi lo stomaco e cariarsi i denti.

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*Note di Ev'*
Salve a tutti, mi sembra di non pubblicare da una vita, anche se poi è circa un mese, uh-uh.
Anzittutto, mi scuso per non aver più aggiornato le mie long (E non mi riferisco ad ''Insidie Interiori''; per quella storia la voglia ce l'ho, non dovrei metterci molto a pubblicare il capitolo successivo), in particolare ''La Realtà Attraverso Gli Occhi Dell'Immaginazione'' e ''Paradise's Cemetery''. Ci metterò ancora un bel po' ad aggiornarle, sarò sincera, ma speriamo bene, suvvia.
Proprio a causa di tutte queste long in sospeso, pubblicarne un'altra è stata una stronzata di dimensioni bibliche mossa un po' azzardata, ma è un'idea che avevo da un po'. Quest'anno ho proprio voglia di atmosfera stile Halloween, giuro. Non ho mai festeggiato in maniera decente questa festa; sia perché qui non c'è mai un cazzo, o meglio, ci sono solo giochi per bambini, sia perché... Boh.
Ma quest'anno mi impegnerò al massimo, blbl. Nonostante io sia alquanto fifona :c

Anyway, niente, avevo tanta voglia di pubblicare questa long, e in realtà volevo farlo già alla prima settimana di Ottobre, ma non ce l'ho fatta. Per colpa di questa merda di scuola, e per colpa di forze superiori (?). Speravo infatti di pubblicare l'ultimo capitolo per i giorni di Halloween, aggiornando, ad esempio, una volta alla settimana, ma credo che questa raccolta si trascinerà fino a Novembre.
Dunque... I capitoli non credo che saranno tutti così lunghi, anzi, in genere volevo puntare su qualcosa di più corto, ma si vedrà. Questo era appunto il capitolo di apertura che, come quello di chiusura, sarà decisamente più leggero.
Tra gli avvertimenti non ho ancora messo nulla proprio perché non ho ancora scritto niente; non so se verrà fuori un miscuglio di sangue o budella, bbboh. Comunque se ci sarà qualcosa di forte aggiungerò sicuramente l'avvertimento.
Passiamo all'analisi.




Well, il protagonista è il piccolo Roxas, un allegro (?) bambino vestito da fantasma che abita nel quartiere Puertomoon (Non commentate il nome, perché ne vado fierissima. Stavo bevendo il succo scrivendo questa storia, e la ditta di quest'ultimo prodotto si chiama Puertosol, fate un po' voi il conto :c).
E' consuetudine festeggiare le varie celebrazioni in maniera alquanto eccentrica a causa di questa particolare competività che vi è tra le varie famiglie; tutto ciò però non interessa più di tanto i bambini, soprattutto ad Halloween, dal momento che ben altro ha deciso di rovinare (?) le loro tranquille esistenze.
Il bambino cattivo, ovvero quello scassaminchia di Axel. E chi se no? Anche da bambino doveva asfaltare le ovaie.
E niente, a quest'anno è toccato al povero Roxas consegnare tutte le caramelle; dopo le sue solite seghe mentali causate da quel sadico dolce fanciullo di Hayner, incontra finalmente Axel.

In un primo momento Roxas ha paura; successivamente però viene preso da un'improvvisa folata di coraggio causata dalla sua voglia di festeggiare in maniera normale la festa di Halloween e decide di ribellarsi una volta per tutte.
Axel si infuria, scosta il vestito da fantasma del bambino e si innamora perdutamente rimane in qualche modo ammagliato di fronte al suo volto. Quindi approfitta della sua fervida immaginazione e lo minaccia, chiedendogli in cambio un bacio.
Dunque il biondo accetta e se ne torna a casa con la pancia piena.
Conclusione: Roxas è un povero sfigato circondato da sadici.




Oh, e volevo anche parlare un attimo del titolo della storia.
Ehm, ecco, diciamo che ero assai indecisa. Poi ho pensato alla parola ''tetro'' e l'ho cercata in inglese, quindi ho scoperto l'equivalente Gloomy, che significa anche malinconico.
Mi sono innamorata di questa parola, giuro. Il fatto è che ha un suono molto... Come dire, dolce, coccoloso (?), in confronto al reale significato che ha, quindi ho deciso di utilizzarla per il titolo, anche perché il primo e l'ultimo capitolo hanno appunto un po' di tenerezza.
Bom, detto ciò possiamo passare alle cazzate che costellano la mia esistenza.
Devo ammettere che non è un gran periodo. Siamo solo ad Ottobre e lo Scientifico mi sta già massacrando.
Sono già stressata, insomma, il che mi rattrista non poco. E anche il fatto di avere così poco tempo per me stessa, per scrivere, per vivere la mia fottutissima vita, mi fa stare pure peggio. Penso anche di essere abbastanza masochista, dal momento che sono stata nuovamente eletta come rappresentante di classe, il che equivale al dover mantenere a bada ancora una volta una banda di schizzati :c (Nah, scherzo, suvvia, mi fa piacere-)
Poi leggere di tutta 'sta gente che andrà a Lucca, quando la sottoscritta non ci ha mai messo piede, pffh. Io ci andrei solo per comprare tantissimi gadgets, eh
Vabbeh, chiudo qui perché credo di aver già detto abbastanza. Spero di poter aggiornare presto-prestissimo.

E se avete letto questa storia, MI RACCOMANDO, commentate. Insomma, teniamoci compagnia durante questo tetro periodo, uh-uh.
Alla prossima!
E.P.R.

 

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Capitolo 2
*** Altrove. ***


2.Altrove


Aprii lentamente le palpebre, infastidito dall'assordante rumore del silenzio.
Si mise a sedere e si accorse di essere su un terreno pietroso; dunque si guardò attorno e provò il nulla più totale.
Solo un senso opprimente di smarrimento.
Nessun calore, né familiarità.
Alzò gli occhi verso il cielo grigio, di un grigio quasi innaturale, il quale contribuì a soffocarlo ulteriormente. Non vi era alcuna nuvola, soltanto il cielo dipinto di quel grigio così tetro che pareva il soffitto di una cantina.
Si issò sulle braccia e si alzò una volta per tutte, lanciando uno sguardo più attento al luogo circostante: solo pietre, grigio, e qualche albero spoglio qua e là.
Era tutto immobile, maledettamente immobile. Non c'era un filo d'aria e lui pareva essere davvero l'unica forma vivente di quel lugubre deserto grigio.
«Roxas!»
Roxas?
«ROXAS!»
Che cos'era?
Un suono.
Delle sillabe.
Una parola.
Un nome.
Il suo.
Dopo aver ritrovato la propria identità si voltò e vide una figura correre verso la sua direzione.
Sembrava essere davvero di fretta perché muoveva le gambe così velocemente che pareva sul punto di spiccare il volo da un momento all'altro.
E gridava, non smetteva di gridare, di chiamarlo.
«ROXAS!»
«ROXAS!»
Ma Roxas rimase lì, come pietrificato, senza sapere che cosa dire, come parlare, chi chiamare. La voce era familiare, gli martellava il cervello, soprattutto quando notò che l'individuo, una volta più vicino, aveva dei folti capelli rossi come il fuoco più scoppiettante.
«Roxas, eccoti!». Ormai era quasi di fronte a lui e aveva gli occhi bagnati.
Quel dettaglio in particolare provocò una morsa dolorosa al petto di Roxas che d'istinto indietreggiò.
Volle pregarlo di allontanarsi, ma non sapeva proprio come parlare, come emettere un suono comprensibile.
«Roxas, ma che hai? Mi sei mancato, non immagini neanche quanto!». La rossa figura si avvicinò, e Roxas invece indietreggiò ulteriormente.
«Perché non mi parli? Roxas, che cos'hai?!»
Giusto, perché non gli parlava? Perché non gli rispondeva?
Lo conosceva, ora ne era più che sicuro.
Un uomo dai capelli rossi e la voce forte, potente. Pareva quasi rimbombare in quel luogo in cui perfino il silenzio stesso sembrava essere stato sotterrato da qualche parte.
«ROXAS, NO!!!»
A quell'urlo così straziante Roxas si voltò e sbarrò gli occhi, inorridito.
Un'automobile che correva, correva veloce, più veloce della figura rossa, proprio di fronte a lui, pronta a calpestarlo, investirlo, schiacciarlo.
Sapeva che doveva fuggire. Doveva spostarsi. Pochi metri sarebbero bastati. Uno scatto e via.
E allora perché non riusciva a muoversi?
Roxas schiuse le labbra e fece per gridare, tirando fuori in una volta tutta la voce che aveva rinchiuso dentro sé, quando si ritrovò improvvisamente a terra, distrutto.
Un essere umano distrutto.
Una bambina particolarmente sadica che si divertiva a staccare gli arti delle proprie bambole.
Roxas si sentiva così.
Si sentiva proprio così, annegando nella pozza del suo stesso sangue, con le narici piene di quell'odore così pungente e metallico.
Poi chiuse gli occhi, morì, probabilmente, pensò di morire e morì.






Qualcosa gli stuzzicò l'orecchio e lo costrinse ad aprire le palpebre.
Con gli occhi ancora stanchi voltò faticosamente la testa e si accorse di essere sulla sabbia bagnata, a pochissima distanza dall'acqua salata.
Un altro schizzò gli pizzicò le gote e questa volta Roxas decise di alzarsi, barcollando un po'.
«Ehi, Roxas, guarda qui! Ti piace?». Il diretto interessato si voltò di scatto e notò la presenza di un uomo dagli occhi verdi come lo smeraldo più lucente.
Un verde familiare, luccicante.
Roxas appoggiò una mano sulla testa, attontito e spaesato.
Gli parve di vedere dei brevi flash, la voce di quell'uomo che gli rimbombava in testa, un letto, delle immagini sfocate, le coperte, poi la strada, l'aria notturna.
«Roxas? Tutto bene?»
Roxas tremò un poco e abbassò le iridi, notando che l'altro stava reggendo in mano una conchiglia bianca dalle sfumature rosee. «Hai visto che ho trovato? E' particolare, no?»
«Sì», rispose dopo una manciata di secondi Roxas, e la sua voce risuonò nell'aria in maniera strana; parve quasi galleggiare, svanire, come se fosse stata lasciata a metà.
Poi, improvvisamente, una forza.
Roxas fece involontariamente un passo indietro, e poi un altro, un altro ancora.
«Dove stai andando?»
Roxas non parlò, non ne fu in grado. Delle mani invisibili gli afferrarono la voce e la soffocarono tra le corde vocali, insieme alla sua volontà.
«Aspetta, ti prego!»
Ti prego.
Sentì un dolore lancinante al petto. Desiderò con tutto se stesso fermarsi, parlare, ritornare con i piedi sulla sabbia asciutta, ma continuò a camminare all'indietro, passo dopo passo, e in pochi attimi si accorse di avere già i pantaloni completamente fradici.

«ROXAS!»
Roxas sussultò, e parve risvegliarsi da un lungo sonno. Schiuse le labbra, questa volta sembrò ricordare qualcosa, un nome con cui chiamare quell'uomo dagli smeraldi al posto degli occhi, e volle urlare ciò che era riemerso dalla sua mente, ma qualcosa lo trascinò in basso, con forza, con una violenza inaudita, tanto che sbatté la gamba contro la sabbia.
Annaspò, spalancò la bocca per lo stupore, si dimenò, cercò di allargare le braccia nella speranza di ricevere un aiuto dalla vita, ma nulla.
Il martello dell'acqua gli calpestò con forza i polmoni e lui si ritrovò di nuovo a morire, con un nome che non gli era bastato per salvarsi.






«Hai sonno, Roxas?»
Il ragazzo tremò un poco, come in preda ad un brivido, e alzò le iridi sopra di sé, incrociando gli occhi smeraldini di una figura dai folti capelli rossi.
Axel.
«Io... Sì, sono un po' stanco.»

«Si vede». Axel accennò un lieve sorriso, mentre l'altro si mise lentamente a sedere, accorgendsi solo in quel momento di trovarsi proprio sotto ad un salice. Sbatté ripetutamente le palpebre e sbadigliò, quando si sentì avvolgere da un paio di braccia.
Profumo familiare, sapeva di castagne calde.
Axel.
Sapeva che era Axel.
Roxas si strinse maggiormente al corpo dell'uomo e si lasciò sfuggire un flebile sospiro tinto di malinconia e tranquillità.
Ma come si era ritrovato in quel luogo? Quando erano usciti? Da dove erano arrivati? Da casa, forse?
Casa.
Roxas si ripeté mentalmente quella parola e s'accorse tristemente che essa non era collegata a nulla, niente di niente. Era vuota, una definizione strappata dal suo vocabolario.

«Più tardi ci prenderemo un gelato, d'accordo?»
Roxas annuì istintivamente perché sapeva che era una cosa giusta da fare. Improvvisamente capì che prendere il gelato faceva parte della sua quotidianità; della sua quotidianità insieme ad Axel.
Eppure perché c'era qualcosa di lacerato nella sua mente, come se qualche animale feroce gli avesse sbranato con violenza parte del cervello.
Vedeva soltanto dei flash, dei lampi apparire e svanire di tanto in tanto come luci di una discoteca. Vorticavano nella sua testa, lui le tastava un po' con la lingua, poi svanivano, lasciando una scia invisibile.
C'era qualcosa prima. Qualcosa legato al gelato, a lui, ad Axel, alla casa, alla scuola. Qualcosa di continuo, con un senso.
Qualcosa che ora si era improvvisamente spezzato.
Quella non era la realtà.
Si trovava altrove, in un altro luogo, in un'altra dimensione.
«Ma che cosa sta succedendo?». Roxas allora abbassò lo sguardo e si allontanò di scatto da Axel, notando che il terreno sotto di sé stava tremando violentemente.
Un presagio si espanse nel petto del ragazzo che sussultò, abbagliato da un altro flash.
Di nuovo.
Stava per accadere di nuovo.
Sarebbe morto in quel luogo. Altrove.
Era già successo.

Non voleva morire.
«ROXAS!»
Quell'urlo lo aveva già udito, straziato, distrutto.
E allora perché non poteva muoversi? Perché i suoi piedi erano incatenati al terreno, lo stesso terreno che si stava spaccando a metà sotto di lui, trascinandolo nelle viscere?
Roxas fece appena in tempo a realizzare ciò che stava per accadere, quando si ritrovò in un attimo sospeso nel vuoto prima di precipitare rovinosamente verso il basso, sotto gli occhi sbarrati di Axel.
Durò pochi attimi.
Forse svenne, forse no.
Ma si poteva svenire in quel luogo?
Sentì un rumore agghiacciante rimbombare nelle orecchie e solo dopo capì che era la sua colonna vertebrale che, molto probabilmente, si era spezzata in due, spaccata, proprio come il terreno.
Non riuscì ad urlare, e il dolore rimase dentro, una tempesta in un bicchiere, a soffocarlo, ad opprimerlo, e questa volta Roxas sperò di morire, lo sperò con tutto se stesso, una volta che si ritrovò lì, disteso sulla propria schiena a pezzi, con lo sguardo rivolto verso l'alto.
Ma non accadde.
«Aspettami, Roxas, aspettami! Vado a cercare aiuto!»
Non accadde.
Vide Axel correre via e lui rimase lì, immerso nel proprio sangue, con le braccia sporche, i capelli infangati appiccicati alla terra.
Non seppe calcolare con esattezza quanto tempo trascorse. E nemmeno a grandi linee, a dir la verità.
Axel non tornò più.
Nulla si mosse. Né il vento, né gli alberi, né alcuna voce umana.
Né tanto meno lui.
E mentre rimase lì, ad ammirare la morte, capì di trovarsi in un incubo.
Capì di aver vissuto numerosi incubi, uno più atroce dell'altro.
E Axel?
Era sera, una macchina, delle urla, poi del sangue sull'asfalto.
Un lampione in mezzo alla strada.
Ci mise troppo tempo a morire.






Questa volta si svegliò nel bel mezzo dell'inverno, non molto distante da un piccolo lago.
Sapeva che faceva freddo. Lo vedeva dall'ambiente circostante, dai primi fiocchi di neve, dagli alberi spogli.
Vedeva il freddo, eppure non lo sentiva nemmeno un po'.
Si avvicinò allo specchio d'acqua, venendo invaso, ad ogni passo, da una folata di flashback riguardanti principalmente Axel.
Era morto.
Axel era morto in un incidente qualche giorno prima e ora lui stava vivendo in un ammasso di incubi senza capo né coda.
Probabilmente nella realtà si trovava in ospedale, magari in stato di shock. Con la febbre alta o chissà altro.
«Sono un po' in ritardo». Roxas sussultò e si voltò di scatto, notando la presenza di una fanciulla dai lunghi capelli dorati e gli occhi azzurri.
«Chi sei?», domandò istintivamente il ragazzo, e si sentì stupido, molto stupido, poiché era normale sognare anche persone sconosciute. Morfeo a quanto pare si divertiva a giocare strambi scherzi.
Lei sorrise un po', come se trovasse la domanda particolarmente divertente. Si chinò verso il lago e si degnò finalmente di rispondere: «Nessuno, devo soltanto spiegarti ciò che forse avrai già intuito da solo.»
In un primo momento Roxas rimase in silenzio e si accorse che quello era sicuramente l'incubo in cui stava riuscendo ad avere più controllo e lucidità.
Che doveva fare? Rispondere ad una sconosciuta che sembrava dire cose apparentemente senza alcun senso?
In fondo nel caso fosse stata pericolosa si sarebbe svegliato dalla paura.
«Non ti seguo.»
La ragazza continuò a sorridere. «Sai dove ti trovi adesso?»
«In... In un sogno?»
«Esatto.», la fanciulla raccolse una manciata d'acqua tra le mani e guardò per la prima volta dritto negli occhi di Roxas. «Ti prego, segui i miei gesti.»
«C-Cosa?»
«Seguimi.»
Roxas sollevò un soppraciglio, perplesso. Poi si ricordò di trovarsi nel suo stesso sogno e sospirò pesantemente, inginocchiandosi accanto alla ragazza. Dunque prese anch'egli uno spicchio d'acqua tra le mani e attese la prossima mossa di lei che infatti non tardò ad arrivare; la fanciulla si lanciò l'acqua sul volto e chiuse istintivamente le palpebre.
L'altro presente continuò a mantenere un'espressione stranita; nonostante ciò decise di imitarla, sentendo il gelido tocco dell'acqua sulle proprie gote.
Ciò lo rasserenò un poco.
Non sentiva il freddo, ma almeno la sua pelle continuava a tastare l'acqua.
«Hai visto?», chiese lei, questa volta senza sorridere.
«Visto cosa?»
«Sei ancora qui.»
«E allora?»
La ragazza mosse leggermente le labbra in un'espressione indecifrabile; socchiuse nuovamente le palpebre e parve essere improvvisamente triste e assorta nei propri pensieri. «Sei in un sogno, te lo sei dimenticato?»
«No», rispose immediatamente Roxas, senza riuscire a seguire il filo del discorso. «Non me lo sono dimenticato.», ribadì poco dopo, osservando le proprie dita bagnate.
Acqua.
Acqua gelida.

Perché non si era svegliato a quel brusco contatto?
Roxas si voltò verso la ragazza, allarmato, e proprio in quel momento lei riprese a parlare: «Questo è il Destino del dopo, Roxas. Almeno per un po'. Non so per quanto, non so se per sempre. Sono venuta solo per dirti questo, in caso non l'avessi capito. Essere destinati a morire ancora, ancora e ancora.»
Roxas la guardò con aria sconvolta, con la voce bloccata in gola, incapace di emettere qualsiasi suono.
Era tutto così assurdo, surreale, apparentemente privo di senso.
Apparentemente.
«Questa è stata solo una piccola pausa per te. Poi tornerai a morire, Roxas. Nei suoi incubi. Per condividere il dolore con la persona che più ti ama, o forse come punizione, non lo so. Non lo sa nessuno.»
Roxas non rispose.
Pensò ad Axel e si voltò verso il lago di fronte a sé. Poi abbassò gli occhi e non vide altro che l'acqua perfettamente piatta.
Una morsa lo colpì al petto e, un attimo prima di perdere i sensi, Roxas capì una cosa.
Era lui ad essere morto.






Gli accarezzò il voltò con delicatezza e sorrise prima di lasciargli un soffice bacio sulle labbra. «Domani hai qualche verifica?»
Roxas scosse lentamente la testa e mantenne lo sguardo dritto di fronte a sé, verso una piccola piazza che gli sembrava non aver mai visto.
Probabilmente era frutto dei ricordi di Axel.
In fondo si trovava nel suo sogno.
O meglio, nel suo incubo.
«Allora più tardi posso portarti a fare un giro in macchina. Ti va?»
«Sì».
«Perché sei così distaccato?». A quella domanda Roxas si voltò verso l'uomo accanto a sé, incrociando le sue iridi smeraldine improvvisamente severe e preoccupate.
Allora Roxas rabbrividì e divenne più sciolto, gentile, come se fosse stato costretto da una forza superiore.
E purtroppo sapeva bene da chi proveniva quella forza.
«Sono solo un po' stanco.»
«Dovresti riposare di più.», lo rimproverò il più grande, alzandosi. «E devi prenderti più cura di te stesso.»
«Lo farò.»
Axel sorrise e spostò le iridi in alto, verso il cielo grigio. «Credo stia per piovere.»
«Allora pioverà di sicuro.»
Giusto un attimo dopo le prime gocce iniziarono a scendere dal cielo, come macchie colanti da un dipinto ancora fresco su cui un bambino particolarmente vivace vi aveva appoggiato l'indice.
«Merda, non ho l'ombrello». Di fronte a quell'osservazione Roxas tastò quel presagio ormai familiare espandersi nel petto, il quale poi si trasformò in vero e proprio terrore non appena la prima goccia si adagiò sul suo braccio.
Fu a quel punto che Roxas si sentì veramente un quadro ancora fresco appeso in malo modo in qualche museo di poco conto.
Un quadro appeso ad un'altezza facilmente raggiungibile, dato che quei bambini particolarmente vivaci stavano giocando con lui in ogni maniera.
Questo perché Roxas si vide sciogliere.
Letteralmente.
La pioggia aumentò di colpo e, tra le urla di Axel, il rumore dell'acqua, e i primi tuoni in lontanza, Roxas si sentì morire, pezzo dopo pezzo, ad ogni goccia.
Sentì migliaia di frammenti incandescenti piazzarsi su ogni centimetro della sua pelle, la quale si stava sciogliendo, lasciando posto ai primi squarci rossi di carne.
Roxas tremò, poi fu sul punto di piangere, volle gridare, ma niente di tutto ciò gli fu permesso.
Si guardò i palmi e s'accorse che in quel punto la pelle lo aveva completamente abbandonato.
Le dita malefiche di quei bambini successivamente iniziarono a divorargli anche la carne, e poi probabilmente anche le ossa.
Probabilmente.
Roxas non seppe se morì prima o dopo.
Probabilmente prima. Axel doveva essersi certamente svegliato prima.
Poco gli interessava.
In mezzo alla pioggia, mentre decadeva su se stesso, Roxas guardò con odio quella che un tempo era stata la persona più importante della sua esistenza.
La guardò con odio, con tutto l'odio possibile, poi Axel aprì gli occhi e lui morì.






«Soulmates never die, never die... Soulmates never die.»
Roxas scosse leggermente la nuca e sentì un improvviso contatto gelido sulla propria guancia destra; aprì con estrema lentezza le palpebre e vide l'asfalto correre di fronte a sé.
«Amo questa canzone, lo sai.»
Sì, lo sapeva. Eccome se lo sapeva.
Era la canzone che avevano mandato alla radio poco prima della sua morte.
Never die.
Stronzate. Un ammasso di stronzate.

«Ehi, sei bellissimo», Roxas non rispose e si limitò a scostarsi bruscamente una volta che Axel aveva allungato la mano verso di lui per pizzicargli la pelle.
«Che hai, Roxas?»
«Sta' attento alla strada.»
«Rispondimi, cazzo. Che ti prende?»
«Sta' attento a questa fottutissima strada.»
«Tu dimmi perché cazzo ti comporti così.»
«AXEL, STA' ATTENTO ALLA STRADA!», strillò d'un tratto il ragazzo, chiudendo di scatto gli occhi non appena la canzone si concluse, lasciando posto alla voce del condutture.

''E ora passiamo la parola a Billy! Allora, che ci racconti? Com'è andato il concerto?''
''Oh, bene Joe, ti ringrazio. Era praticamente tutto pieno e sono soddisfatto del-

 

Roxas riaprì lentamente le palpebre, stupito di trovarsi ancora nell'automobile di Axel.
Era così sicuro di morire. O meglio, era sicuro che Axel stesse sognando ciò che era accaduto quella notte.
E invece...
Si voltò alla propria sinistra e notò che l'uomo aveva appena accostato, spegnendo il motore prima di dedicarsi esclusivamente a lui. «Ma che hai, la febbre? O ti sei fumato qualcosa?»
Roxas rimase con la bocca semiaperta per qualche secondo, sorpreso. Successivamente si riscosse e spalancò la portiera, ritrovandosi così nel bel mezzo della brezza notturna.
«Dove stai andando?»
«Vaffanculo Axel, stammi lontano». A quella risposta l'altro si adirò immediatamente; Axel spalancò a sua volta la portiera e, dopo essere uscito con furia, la richiuse con altrettanta violenza. Buttò per terra un vecchio accendino che chissà come gli era rimasto in tasca e si affrettò a seguire l'altro tra le tenebre.
«Mi vuoi spiegare o no che cazzo ti prende?»
«Ti ho detto di starmi lontano.»
«Ma perché?!»
«Axel, cazzo, non lo so!». Roxas alzò nuovamente la voce e si voltò verso l'altro, riuscendo a scorgere i suoi lineamenti nonostante fosse notte inoltrata; poi serrò le labbra e rimase lì, in piedi, immerso tra i propri pensieri.
Delle luci che gli abbagliavano di nuovo la mente.
Dei flash. La sua vita passata? No, non lo era.
Altri flash.
Altri momenti.
Ricordò una pioggia, una tremenda pioggia che gli aveva corroso la pelle.
Ridusse gli occhi a due fessure, si concentrò, e ricordò anche una spaccatura nel terreno e lui morente in un buco.
Era morto, morto, morto.
Ancora, ancora, ancora.
Sarebbe morto di nuovo, presto o tardi.
Di nuovo quel dolore lancinante per tutto il corpo. Di nuovo il sapore metallico del sangue, la carne, le ossa triturate.
Roxas impallidì, tremò ed indietreggiò. «Non ti avvicinare. Non ti avvicinare, stammi lontano, non muoverti.»
«Roxas, ma cosa sta-»
«NON TI AVVICINARE! E' COLPA TUA!». Axel sussultò appena e si strinse le spalle, facendo l'opposto di ciò che gli aveva ordinato il suo fidanzato; mosse qualche passo in avanti e corrugò la fronte. «Roxas, ma di che stai parlando?»
«Parlo di... Di...», il ragazzo sgranò le iridi e allungò le mani verso la propria gola. Si schiarì la voce e si sforzò di urlare: «Questo è...!»
Niente.
Gli impedivano di dire la verità.
Gli impedivano di svegliare Axel.
«Ti prego, calmati. Respira e vedrai che andrà tutto bene. Sono qui, tranquillo.», l'uomo dai folti capelli rossi fece un altro passo in avanti, anche se lentamente; Roxas dunque si chinò di scatto e afferrò una pietra di medie dimensioni, assalito da forti brividi. «Stai indietro, Axel, stai indietro porca puttana, non capisci, non capisci niente.»
Axel non badò al gesto dell'altro; sia perché era buio, sia perché si concentrò esclusivamente sulle sue parole.
Altri due passi. Veloci. «Non allontanarti, lì è perico-»
Roxas avvertì un presagio al petto e scagliò istintivamente la pietra di fronte a sé, ricordandosi della puzza del proprio sangue mescolato al terreno sporco e alla pioggia. «VATTENE VIA!»
Sentì un rumore tremendo, orribile: qualcosa che si spezzava. Roxas comunque non guardò; si voltò indietro e tremò violentemente, accorgendosi solo dopo del proprio gesto.
Poi udì l'urlo lancinante di Axel seguita da numerose imprecazioni. «LA BOCCA, CAZZO, CHE CAZZO TI E' SALTATO IN MENTE, DIO IL LABBRO...»
Era finita.
Forse questa volta si sarebbe salvato.
Roxas mosse un poco la nuca e osservò dietro di sé con la coda dell'occhio ; spalancò le iridi non appena si accorse che Axel era ancora lì, con la schiena chinata in avanti, intento a sputare sangue e a cercare di fermare il fiume scarlatto.
Non si era svegliato.
Perché era ancora lì?
Fece spostare nuovamente lo sguardo di fronte a sé, quando notò di essere bloccato, come pietrificato.
Aveva perso completamente il controllo di sé.
Non era il suo mondo, quello.
Era lui l'intruso.
Tremò violentemente, ancora più di prima, se possibile, e dopo pochi secondi udì la voce di Axel espandersi nell'aria: «Questa me la paghi, Roxas. Questo non dovevi farlo.»
Il ragazzo sentì pungere gli occhi ed ebbe il frenetico istinto di piangere, fuggire o gridare, ma non riuscì a far nulla di tutto ciò.
Provò allora a parlare, a spiegarsi, a dire ad Axel che non era stata colpa sua, che voleva solo salvarsi, salvare entrambi, perché quella non era la realtà, era solo un incubo, un suo fottutissimo incubo che lo uccideva di volta in volta.
Nulla. La voce bloccata in gola, i muscoli tesi, irrigiditi.
Soulmates never die.
Lo vide avvicinarsi, passo dopo passo. Sentì i suoi stivali sul terreno, guardò i suoi occhi verdi sprigionare furia, rabbia.

Tentò di pensare che quello era solo uno schifosissimo incubo, l'incubo del suo fidanzato sconvolto dalla sua morte, ma poi si ricordò che per lui non faceva alcuna differenza.
Axel si sarebbe svegliato, lui no.
Lui sarebbe morto, poi sarebbe riapparso in un altro incubo e sarebbe morto ancora.
All'infinito, forse.
«Non dovevi farlo. Questo no.»
Un passo. Un altro.
Roxas tentò in un ultimo gesto, il più disperato; cercò di voltare la testa con tutto se stesso nella speranza di non essere costretto a vedere la persona che più amava, la morte, in faccia.
Gli parve addirittura di sentire i tendini tirare e le ossa scricchiolare, ma poco gli importò; riuscì a muovere un poco la nuca e ciò gli bastò.
Ci riuscì, poi sentì qualcosa di pesante sbattere ripetutamente contro la propria testa.
Allora era quello il destino che lo attendeva?
Si era dunque costruito una vita morendo?
Roxas poi chiuse gli occhi e, un attimo prima di morire, ebbe nuovamente l'irrefrenabile impulso di piangere perché si ricordò di lui, di Axel, di ciò che gli aveva detto quella notte quando lo aveva fatto entrare nella sua macchina:
«Te lo giuro, Roxas, non ti dimenticherò mai. Qualsiasi cosa succeda, non ti dimenticherò mai. Sarai sempre nei miei pensieri.»

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*Note di Ev'*
Oh, wow, ho pubblicato dopo una settimana esatta. Lo zampino di Gesù?
No, vabbeh, ehm, non sono sicura di riuscire ad aggiornare questa storia con altrettanta regolarità durante i prossimi capitoli; il fatto è che comunque ci tenevo ad aggiornarla almeno di un altro capitolo prima di Halloween, uh.

Ma passiamo all'analisi del capitolo in questione, poiché, questa volta, è già più complicato.



I primi due frammenti scorrono in maniera abbastanza confusionaria, poiché tutto ciò che vediamo è un Roxas che finisce nei luoghi più strambi (Prima un deserto grigio, poi davanti al mare) e che, puntualmente, muore, in maniera altrettanta strana e poco comprensibile.
E in tutte le parti, ovviamente, compare anche Axel.
Nella terza parte, invece, si inizia a comprendere qualcosa nelle ultime righe; Roxas ha diversi flashback sulla realtà e intuisce che tutto ciò che sta vivendo è un incubo, un tremendo incubo che, molto probabilmente, è scaturito dal suo shock dopo la morte di Axel a causa di un incidente.
Ipotesi che crolla immediatamente nella parte successiva, ovvero quella dove compare Naminè; questo sogno, se così si può chiamare, è differente dagli altri. C'è soltanto Roxas e questa strana ragazza, e, fortunatamente, non muore in maniera atroce.
Questa infatti è soltanto una ''piccola pausa''; il corso della sua non-vita di merda viene interrotta da Naminè che fa da messaggera e gli spiega la situazione. Le persone, a quanto pare, non si sa se tutti, non si sa se alcuni, sono costrette a ''vivere'' soltanto negli incubi della persona che più le amava. Gran bella merda.
Ed è per questo che Roxas quando si lancia l'acqua in faccia non si sveglia. E' morto, punto. Si sveglia in un altro incubo di Axel, muore quando quest'ultimo si sveglia e buona notte (?).

Non per nulla Roxas non sempre ha il controllo di sé; non può fuggire alla sua morte, non può dire determinate cose perché il sogno, essenzialmente, è di Axel, dunque è il rosso a tenere in mano le rendini, a decidere, anche se inconsciamente, dove andare, com è il tempo, ecc...
Nella quinta parte Roxas realizza di provare una forte rabbia, che forse sfocia addirittura in odio, nei confronti di Axel; in fondo è a causa sua se egli non fa altro che morire, morire e morire.
In parte, ovvio.
Axel non è uno schizzato, né un bipolare, psicopatico o chi più ne ha più ne metta. E' soltanto vittima di un immenso dolore provocato dalla morte del suo fidanzato, il quale occupa ancora i suoi sogni/incubi.
In breve, Axel è una vittima perché soffre, sì, ma contemporaneamente è il carnefice di Roxas. Ma che cazzo sto dicendo?
Dunque abbiamo l'ultima parte, nella quale Roxas si stupisce di non essere morto nell'incidente. Infatti l'incubo si conclude con la sua morte causata da Axel stesso. Già, non era proprio uno schizzato.
E la storia termina con il povero Roxas immerso nella disperazione più totale al pensiero che Axel non lo dimenticherà mai.

Morale: non innamoratevi MAI.



Quest'idea mi è venuta in mente, uh... Giovedì o Venerdì, mi pare. Ero molto indecisa sul secondo capitolo, ma non appena ho pensato a tutto ciò ho deciso di trascriverlo immediatamente.

Parlando di cazzate, bbbuh... Sono abbastanza (?) disperata. Mia madre è partita per due settimane e sento la casa molto più vuota, ohw. Oltre al fatto che impiego una vita a lavare i piatti, pulire e 'fanculo tutto.
A scuola mi sto già rompendo le palle e passo le giornate a domandarmi perché diavolo ho deciso di frequentare il Liceo Scientifico. :C

L'unica cosa che mi impedisce di suicidarmi o scappare via dalle interrogazioni e dalle verifiche è il fatto che Giovedì è Halloween, e poi ci saranno tre giorni di pace. Più o meno.
E nulla, vi auguro di passare un felice Halloween e di spendere bene questo fine-settimana.

Oh, e, come sempre, vi invito caldamente a commentare il capitolo in caso l'abbiate letto, poiché per me il confronto delle opinioni altrui è essenziale.
Vado a parlare con qualche fantasmino-carino-carino.
Alla prossima!
E.P.R.

 

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Capitolo 3
*** Dietro la tenda. ***


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3. Dietro la tenda


 

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Era il suo libro preferito, anche se aveva imparato da poco a leggere e non aveva ancora compreso esattamente in che cosa consistesse la trama.
Era il suo libro preferito, e proprio per questo lo teneva sul comodino accanto al proprio letto; avrebbe potuto così aprirlo in ogni momento della giornata, soprattutto prima di andare a dormire.
Era il suo libro preferito, nonostante si limitasse a sfogliarne le pagine, avanti e indietro, una decina di volte, osservando i disegni stilizzati sotto le brevi frasi scritte in cima.
Aveva sei anni, Roxas, e quando gli domandavano chi preferisse tra la mamma e il papà rimaneva zitto; non sapeva quale fosse il suo cartone preferito, né tanto meno quale canzone gli piacesse più ballare, o quale giocattolo adorasse maggiormente tra quelli che possedeva nel suo enorme scatolone bianco.
Non aveva una fiaba preferita perché gli sembravano tutte uguali. Però aveva un libro preferito, e il suo si intitolava ''Dietro la collina.''
 
 
 
 
 
 
 
 
Chiuse il libro e lo appoggiò sul comodino; dopodiché allungò la mano e spense il piccolo abat-jour a forma di scimmia. 
Si sistemò sul materasso, socchiudendo lentamente gli occhi, con le immagini del suo amato libro che parevano danzare nella sua mente.
Sulla prima pagina c'era una collina lontana, e il cielo era grigio, tutto grigio, sfumato in malo modo. Vi erano anche numerose case, su quella collina, tutte dal tetto rosso.
Nella seconda pagina invece venivano raffigurate le porte di ogni singola abitazione; erano tutte uguali, di un legno che pareva morto, abbandonato a se stesso. Le pareti bianche sgretolate, piene di crepe ovunque.
Erano case differenti rispetto a quelle che venivano costruite nella città di Roxas.
A Roxas piacevano le cose particolari, diverse. Per questo amava addormentarsi con le immagini del suo libro preferito in testa
 
 
 
 
 
 
 
 
Gli era stato regalato da sua zia Sarah; si stava disfando di tutti gli oggetti di suo figlio, poiché era tragicamente scomparso, e a Roxas era capitato quel magico oggetto di cui si era innamorato immediatamente.
Era sottile come qualsiasi altro libro per bambini.
Sulla copertina c'era lo stesso disegno della prima pagina e in stampatello maiuscolo vi era scritto: ''Dietro la collina.''
Nessuno scittore, casa editrice o autore.
Solo un titolo, delle parole che Roxas non riusciva ancora a leggere, e i disegni stilizzati. 
Negli altri libri le immagini invece erano perfette, spesso erano le stesse dei cartoni animati che guardava in Tv e questo faceva nascere in lui una grande invidia. 
Al contrario il suo libro preferito conteneva dei disegni che avevano il suo stesso stile; ciò significava che anche lui avrebbe potuto scrivere un libro o fare il pittore.
Il suo libro preferito gli aveva dato un futuro assicurato, per questo a Roxas piaceva tanto.
 
 
 
 
 
 
 
 
Di notte sognò di galleggiare tra quelle immagini che adorava in maniera così morbosa.
Piovevano pezzi di carta, nella città dal nome misterioso che era posizionata su una collina immaginaria. C'erano le case dai tetti rossi, una ventina al massimo, il cielo grigio, e una piazza in mezzo alla quale spiccava una fontana.
Una fontana guasta probabilmente, poiché era del tutto asciutta.
Roxas non ricordava di aver incontrato qualcuno e questo gli dispiaceva molto perché dalla terza pagina in poi iniziano ad esservi disegnati tanti bei volti tristi: erano i volti degli abitanti della città sulla collina e a Roxas sembravano persone differenti da quelle che lo circondavano. 
A Roxas piacevano le cose diverse, particolari. Lo attiravano in qualche modo.
Proprio come Cappuccetto Rosso era rimasta attratta da quel bosco oscuro da cui avrebbe dovuto stare alla larga.
 
 
 
 
 
 
 
 
Passavano le settimane, e Roxas a scuola si stava impegnando al massimo nella lettura perché voleva decifrare una volta per tutte il suo libro preferito.
Ne aveva parlato con i suoi amici e loro gli avevano detto che volevano vedere a tutti i costi quel libro così particolare.
Lo aveva mostrato anche a sua madre, precisamente aveva aperto il libro alla terza pagina e aveva indicato il disegno che raffigurava una ragazzina dai capelli gialli (''Si dice biondi!'', lo aveva corretto poi la donna) e gli occhi azzurri.
Durante l'ora di arte aveva perfino iniziato a disegnare quella città che tanto lo affascinava e spesso cercava di raffigurare ciò che aveva visto nei suoi sogni.
 
 
 
 
 
 
 
 
Sognò la ragazza dai capelli gialli, il giorno in cui provò a disegnarla di fronte agli occhi un po' perplessi del suo maestro di pittura.
«Io vivo qui», gli disse, e Roxas la capì non dal suono dalla voce, perché non l'aveva, bensì dalle parole che fuoriuscivano dalle sue labbra sottoforma di ragnatele che poi formavano lettere tremanti, le quali infine andavano tristemente ad impigliarsi sulle case, dando loro un aspetto ancora più trasandato.
La ragazzina aveva lunghi capelli gialli, gli occhi azzurri, la pelle chiara, un vestito bianco come la neve e i piedi scalzi. Rimase seduta per tutto il tempo sul bordo della fontana e Roxas dal canto suo non si era avvicinato più di tanto.
Si limitò a guardarla disegnare su un album, in silenzio. Non parlò mai, anche se avrebbe voluto porle mille domande, magari sugli altri abitanti, ma non ne ebbe il coraggio, dal momento che era troppo terrorizzato dal vedere le ragnatele uscire dalla propria bocca.
Talvolta si guardò attorno e capì che gli abitanti della città non dovevano essere molto loquaci, poiché le ragnatele non erano così numerose.
Una in particolare però lo colpì: era appesa sul portone di una casa non molto lontana. Pareva più distrutta delle altre.
Poche parole, lettere tremanti, sul punto di decadere.
Roxas assottigliò gli occhi e si sforzò di leggere:
'''Vat-te-ne-da-qui.''
 
 
 
 
 
 
 
 
Sulla quarta e sulla quinta pagina altri volti. Gli abitanti guardavano sempre di fronte a sé e sembravano davvero fissare Roxas che cercava in ogni maniera di leggere chissà cosa in quegli specchi mal disegnati.
La sesta pagina era tutta bianca, spiccavano solo alcune macchie nere che avrebbero dovuto rappresentare alcuni corvi.
Sulla settima pagina invece c'era solo una frase che Roxas lesse più facilmente perché sapeva di averla già vista da qualche altra parte: ''Vattene da qui.''
Si sentì offeso in qualche modo.
Perché gli abitanti del suo libro preferito volevano cacciarlo via? Che cos'aveva fatto di male?
Ci pensò un po' e comprese che forse si sentivano soli. E Roxas sapeva che quando una persona si abituava troppo alla solitudine poi non voleva vedere più nessuno.
Decise dunque di portare il suo libro a scuola per farlo vedere ai suoi amici come aveva promesso; magari in quel modo gli abitanti della città avrebbero sentito meno il peso della solitudine.
 
 
 
 
 
 
 
 
Roxas passò la fine della mattinata a cercare il suo amato libro nella sua piccola cartella blu. Venne addirittura rimproverato un paio di volte dalla maestra e quando si accorse di averlo perso per davvero, scoppiò a piangere.
Pensò alla fanciulla dai lunghi capelli gialli, alla fontana guasta, alla collina in lontananza, e pianse ancora più forte, enormi gocce d'acqua dai suoi occhi che andavano a bagnargli il grembiulino azzurro, finché improvvisamente il richiamo di un suo compagno lo distrasse: «Maestra, maestra! C'è una ragnatela qui!» 
«Che schifo!»
«Bleah, ma è enorme!»
Roxas si voltò di scatto e scorse una ragnatela sotto il banco del primo bambino che aveva parlato; dietro di essa giaceva il suo amato libro, nascosto da un quaderno di matematica.
Gli occhi blu di Roxas allora si fecero duri, un'espressione adirata, forse troppo per un bambino di soli sei anni, pareva un adulto tremendamente incazzato alla vista della sua auto rigata, e si avvicinò a passi veloci verso il compagno che gli aveva rubato gli abitanti della città sulla collina.
La maestra non fece in tempo a precipitarsi verso i due, che Roxas già lo aveva spintonato, facendogli sbattere la testa contro il banco.
Roxas non sapeva se era ciò che voleva fare. Era partito con l'intenzione di allontanarlo e basta, non di fargli male. Roxas non lo sapeva, non lo sapeva proprio, ma quando, tra gli schiamazzi degli altri bambini e le urla della maestra, si chinò sotto il banco e notò che il suo libro era stato strappato, si accorse che, sì, era quello che voleva, voleva farlo piangere, quello schifoso ladro maledetto.
 
 
 
 
 
 
 
 
La maestra lo sgridò, sua madre lo mise in punizione e suo padre disse che in fondo era solo un bambino.
Ma a Roxas non importò niente di tutto ciò.
Non cenò e passò la serata chiuso in camera propria, cercando di risistemare la collina distrutta.
Il suo compagno aveva stropicciato alcune immagini, ma il danno più grave era la pagina strappata che Roxas stava tentando disperatamente di incollare, nonostante non ricordasse esattamente dove si trovava.
Raffigurava un altro abitante della città, un uomo precisamente: era alto, aveva i capelli rossi che parevano artigli che riempivano il cielo grigio, due strani simboli sugli zigomi, le gambe lunghe, e gli occhi verdi, verdissimi, che guardavano dritto di fronte a sé, verso Roxas, e lo osservavano ancora più intensamente degli altri volti.
Roxas passò un'ultima volta la colla sulla pagina e riuscì finalmente ad attaccarla al libro; dopodiché si lasciò sfuggire un allegro sorriso soddisfatto e si asciugò le mani sul pigiama. Tornò a guardare il proprio lavoro e si stupì, forse più che altro si impaurì, anzi, si spaventò proprio, perché notò che era comparsa una frase in alto, sui capelli rossi dell'abitante della città sulla collina.
Ne era sicuro, prima non c'era quella frase. Era rimasto più di venti minuti ad armeggiare con la colla, quindi aveva imparato perfettamente i disegni, i colori, tutto.
Non c'era quella frase che ora spiccava, non c'era proprio.
''Gra-zie-per-a-ver-mi-sal-va-to.''
«Prego.», rispose Roxas ad alta voce, più tranquillo.
Era felice che ora gli abitanti della città non fossero più spaventati da lui.
 
 
 
 
 
 
 
 
Era un rumore indecifrabile ma persistente, che si espandeva come un sussurro nell'orecchio di Roxas ad intervalli regolari.
Ogni tre secondi un toc.
Altri tre secondi. Toc.
Tre secondi. Toc.
Roxas rimase paralizzato sotto le coperte, la testa sul cuscino, immerso nelle tenebre, ad osservare il nulla.
Tre secondi. Toc.
Quel rumore lo stava torturando, gli impediva di prendere sonno, lo terrorizzava. Lo faceva sudare, era accaldato, ma non aveva il coraggio di togliersi le coperte. Voleva solo addormentarsi e tornare nella città sulla collina.
Pensò di chiamare sua madre, ma era arrabbiato con lei, poiché lo aveva messo in punizione.
Pensò di chiamare suo padre, ma aveva paura di schiudere le labbra e urlare a gran voce.
Tre secondi. Toc.
Roxas rimase così per una decina di minuti e non riusciva a capire se si stesse abituando a quel rumore o se la paura avesse ormai preso possesso di lui. Ogni volta sperava che il Toc si interrompesse, che tacesse una volta per tutte, ma non accadeva mai, arrivava sempre, e talvolta pareva più forte, altre volte più debole, illudendo il bambino che fosse sul punto di spegnersi definitivamente.
Analizzò il rumore nelle sue sfumature e comprese che proveniva di là, verso il comodino, dove c'era il suo libro preferito, dietro la tenda.
Tre secondi. Toc. Tic.
Si aggiunse un altro rumore. 
Tre secondi. Toc. Silenzio. Tic.
Roxas si mise le coperte sulla testa e chiuse le mani in una preghiera, mescolando un po' tutte quelle che conosceva solo vagamente, poiché non era mai riuscito ad impararle a memoria.
Quel giorno non riuscì a tornare dalla ragazza dai lunghi capelli gialli e rimase solo con il rumore proveniente dalla tenda.
 
 
 
 
 
 
 
 
Non volle andare a scuola la mattina successiva. Non voleva rivedere il suo compagno crudele e la maestra che lo aveva sgridato.
Sua madre andò a lavorare e lui si chiuse in camera propria per sfogliare all'infinito il suo libro preferito.
Andò alla pagina che aveva incollato e si stupì quando si accorse che i residui di colla erano completamente scomparsi. Pensò che la sua colla fosse magica e si divertì a rileggere la frase dell'abitante rosso, il suo dolce ''Grazie'', poi si divertì anche a dirgli mille volte ''Prego.''
Dopodiché abbassò lo sguardo verso gli occhi verdi disegnati in malo modo e si fermo lì, a guardarli per minuti interi. 
Gli parve quasi di riuscire a contare tutte le volte che l'autore avesse ricalcato con il pastello verde, talmente tanto intensamente stava osservando quelle pozze smeraldine: successivamente provò un brivido forte alla schiena che in un attimo si espanse in tutto il corpo, come una fredda carezza, e Roxas pensò che fosse una piacevole sensazione, almeno fino a quando il brivido non si trasformò in un tagliente bruciore agli occhi, insopportabile, acuto, pareva davvero che qualcuno gli avesse lanciato del succo di limone sul volto.
Roxas allora urlò forte, chiamò un sonoro ''PAPA'!'', e scoppiò a piangere perché quel bruciore non passava, e più si sfregava gli occhi, più le gocce di limone sembravano penetrargli le orbite.
Continuò a sfregarsi le palpebre finché suo padre non spalancò la porta della sua piccola stanza, allarmato, ed ebbe un sussulto quando, guardando prima il riflesso di suo figlio allo specchio, notò che al posto delle iridi c'erano due voragini nere, come se qualcuno gli avesse strappato gli occhi senza pietà.
 
 
 
 
 
 
 
 
Quella notte dormì con i suoi genitori, rannicchiato accanto al robusto corpo di suo padre.
Si strinse le gambe al petto e quando si addormentò si ritrovò nella piccola piazza della città sulla collina.
Vide ancora una volta la ragazza dai lunghi capelli gialli intenta a disegnare. 
Roxas questa volta le si avvicinò ed ebbe voglia di chiederle un centinaio di domande, ma alla fine dalle sue labbra ne scivolò fuori una soltanto: «Dove sono gli altri?», chiese, e fu sollevato dall'udire la propria voce, almeno fino a quando non s'accorse che dalla bocca gli erano uscite delle falene nere come il carbone che portava Babbo Natale ai bambini cattivi.
Roxas ebbe l'impulso di vomitare, perché l'idea di aver avuto quelle creature nel proprio stomaco gli fece venire una tremenda nausea; poi le vide volare via, e parevano zoppicare in aria, proprio come l'amico di suo padre a cui mancava una gamba, e infine andavano ad attaccarsi sulle pareti delle varie case, formando delle macchie scure.
La fanciulla dai lunghi capelli gialli scosse la testa e lanciò improvvisamente tutti i suoi pastelli nella piccola fontana guasta. Dopodiché schiuse le labbra, e altre falene nere iniziarono a riempire l'aria, andando ad addobbare i numerosi edifici. «Sono tutti occupati a costruire una nuova casa. La città è impegnata in una grande festa.»
Roxas non riuscì ad udire bene la sua voce; era strana, quasi fastidiosa, come due unghie affilate che graffiavano la lavagna, o come il tintinnio della forchetta sui bicchieri. 
Non parlò più perché quelle falene erano troppo disgustose, e allora si concentrò sulla fontana dalla quale iniziò a fuoriuscire una pallida nebbia cadaverica che in poco tempo si espanse per la città.
Roxas si svegliò e i suoi genitori lo trovarono sdraiato sul pavimento a moquette.
 
 
 
 
 
 
 
 
Durante la ricreazione mangiò una merendina alla marmellata e fece per andare a giocare con gli altri bambini, quando una fitta allo stomaco lo costrinse a correre urgentemente in bagno.
Portò con sé il proprio libro, impaurito dall'ipotesi che il suo compagno-ladro avesse potuto rubarglielo una seconda volta, e si inginocchiò davanti al gabinetto per vomitare.
Tremò forte, Roxas, in preda a violenti spasmi, e tremò ancor di più quando si accorse che dalle sue labbra pendeva uno strano liquido nero come il carbone. 
Poi guardò il fondo della tazza e vide altro nero; soffocò a stento un urlo isterico e tirò lo sciaquone, terrorizzato all'idea di vedere per davvero delle falene uscire dall'acqua e attaccarsi alle pareti  del bagno.
Con il battito cardiaco a mille, la pelle sudata, le mani tremanti e gli occhi spalancati dal terrore, si voltò lentamente alla propria destra, verso il suo amato libro che dalla fretta aveva lanciato sul pavimento bianco.
Era aperto ad una pagina che non riuscì a riconoscere. C'erano tante figure, gli abitanti, vide perfino l'uomo che lo aveva ringraziato, e, con le braccia tese verso l'alto in una misteriosa danza, avevano circondato una casa nuova dalle pareti pulite e priva di ragnatele.
Sopra una scritta:
''Gli-a-bi-tan-ti-del-la-cit-tà-so-no-fe-li-ci-per-ché-pre-sto-ve-dran-no-il-nuo-vo-ar-ri-va-to.''
 
 
 
 
 
 
 
 
Si rannicchiò nuovamente sul letto matrimoniale dei suoi genitori, ma sua madre lo rimproverò, dicendogli che quella storia non poteva andare avanti per sempre.
Così Roxas si recò in camera propria e suo padre lasciò la porta aperta, raccomandandolo di avvertirlo in caso avesse avuto davvero tanta paura.
Poi si chinò verso di lui, gli diece un bacio sulla fronte e gli disse: «Non esistono i mostri, Roxas.»
E Roxas ci credette, poiché suo padre non diceva mai bugie: si coricò sul morbido materasso e chiuse gli occhi, senza riuscire però a prendere sonno.
Si girò e si rigirò, poi anche i suoi genitori andarono a dormire e la casa venne immersa dalle tenebre che a Roxas quella notte parvero più dense del solito.
Toc. Tic.
Tre secondi.
Toc. Tic.
Altri tre secondi.
Toc. Tic. Toc.
Il cuore di Roxas iniziò a correre, a cavalcare la paura, più forte che mai. Pensò a suo padre che gli aveva detto che i mostri non esistevano, ma non sembrò più crederci molto.
Toc. Tic. Toc.
Bussava. Era qualcuno che stava bussando da qualche parte.
Toc. Tic. Toc.
Due secondi.
Toc. Toc. Toc.
Passi. Qualcuno forse camminava da qualche parte, chissà dove, chissà chi era.
Roxas chiuse gli occhi, come se la vista e l'udito fossero in qualche modo collegati, ma il rumore, al contrario, diventò ancora più forte, insistente, e parve rimbombare nel suo cervello, cresceva di intensità, come quando aveva sentito gli occhi bruciare, e si stupì del fatto che i suoi genitori non si fossero ancora svegliati.
Suo padre gli aveva detto che i mostri non esistevano, e Roxas sapeva che suo padre non diceva mai bugie. Per questo voleva vederla; voleva vedere l'assenza di mostri per abbracciare suo padre e gridare: «Sì, papà, sì, avevi ragione!»
Si tolse lentamente le coperte con il cuore in gola ed ebbe paura di vomitare anche quello, proprio come gli era accaduto con le falene nere come il carbone; si alzò dal materasso, con il Toc Toc fortissimo che sembrava gridare mentre si mescolava al suo battito cardiaco.
Afferrò il libro della città dietro la collina accuratamente posizionato sul comodino e lo strinse al proprio petto, sperando che in qualche modo gli donasse del coraggio.
Toc. Toc. Toc.
Un secondo.
No, meno.
Assenza di silenzio. La stanza ora era piena di rumori: i suoi pensieri che gli martellavano il cervello, la paura che gli violentava l'anima, i suoi passi, il suo cuore, il toc-toc misterioso del mostro-che-non-doveva-esistere.
Allungò la mano sinistra, lentamente, e afferrò il ruvido tessuto ricamato della tenda. Pensò improvvisamente al suo compagno cattivo e al fatto che forse aveva esagerato a spingerlo in quel modo.
Magari l'indomani avrebbe potuto chiedergli scusa.
Scostò di scatto la tenda e non tentò di chiamare suo padre per dirgli che sì, aveva ragione, i mostri non esistevano.
Quando lo vide dal vivo non riuscì a rispondergli con un ''prego'', nemmeno per una volta. 
Poi Roxas lasciò andare il proprio libro e si tappò le orecchie, come se l'udito fosse in qualche modo collegato alla vista.
 
 
 
 
 
 
La stanza di Roxas non era molto grande, alla fine. 
C'era un armadio di legno, uno specchio, un letto e, accanto, un piccolo comodino. Dietro a quest'ultimo spiccava la finestra e una tenda color crema leggermente scostata.
Per terra un libro aperto sulle ultime due pagine: a sinistra un disegno stilizzato che raffigurava un bambino dai capelli gialli e gli occhi blu cobalto.
A destra una collina lontana, il cielo grigio, tutto grigio, sfumato in malo modo. Vi erano anche numerose case, su quella collina, tutte dal tetto rosso. 
Sopra una scritta:
''C'era una volta una misteriosa città che ospitava degli strani abitanti su una collina immaginaria...''
 
 
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*Note di Ev'*
Temevo che questa raccolta fosse morta, ohw. Cioè, le ispirazioni per l'orrore le ho, sono presenti molte storie interrotte qua e là (?), però buh, nessuna mi incitava a continuarla, e poi... E poi mi è uscita questa. 
Ho avuto ''fortuna'', diciamo. Il fatto è che da queste parti sta piovendo a dirotto da giorni interi, e quindi ieri le scuole sono state chiuse; di conseguenza Non ho fatto la verifica di storia dell'arte, olà! ho avuto molto tempo libero per scrivere questa storia, anche perché l'altro ieri, in piena notte, il mio soffitto ha iniziato a perdere acqua e mi sono presa una paura assurda (Non vi dico quante seghe mentali ho iniziato a farmi :C Avevo pure preparato un cartella con il computer e tutti i miei scritti, in caso si fosse allagato tutto e fossi stata costretta a fuggire per chissà dove (???) ), quindi è nata tutta questa storia. Che non c'entra un cazzo né con l'acqua, né con la pioggia, né con niente.
Ed ecco tutta la mia fortuna per questo racconto. Fortuna, sì, tralasciando le svariate frane e tutti i casini poco simpatici che stanno accadendo.
Ma passiamo all'analisi, che è meglio.
 
 
Anche questo capitolo, un po' come quello precedente, è principalmente un gioco tra l'immaginazione, che racchiude anche i sogni, e la realtà.
Abbiamo un bambino particolarmente sfigato, e quando mai non lo è!, Roxas, il quale è follemente innamorato del proprio libro che gli è stato regalato da sua zia Sarah, una povera donna che ha perso suo figlio (Molto probabilmente a causa di quel medesimo libro).
E quindi la storia si alterna con frammenti piuttosto brevi, i quali o descrivono come la quotidianità di Roxas venga influenzata da quel libro, o i suoi sogni riguardanti la misteriosa città, o ancora gli strani rumori che provengono da dietro la tenda. 
I giorni trascorrono, e le stranezze non fanno altro che aumentare: tra disegni piuttosto inquietanti, gente che per parlare è costretta a vomitare falene e ragni ( :c ), occhi che bruciano come non mai, Roxas continua a non capire che deve disfarsi di quel cazzo di libro, ci avviciniamo verso la fine, nella quale gli abitanti sembrano particolarmente felici per il nuovo arrivato che sta per raggiungerli, il quale, tramite il rapimento di quel simpaticone di Axel, si rivelerà essere Roxas stesso.
E si conclude così l'ennesima storia dove Roxas fa la parte dello sfigato.
 
 
'Orcabbestia, l'ultima storia l'ho pubblicata tipo una settimana fa. Yuppi, sto mandando a quel paese gli studi per scrivere tante /allegre/ storie.
E... Non so che altro dire. Oh, beh, sì, come sempre, vi invito caldamente a commentare se avete letto questo capitolo, poiché per me è essenziale comprendere i pareri altrui. 
Detto ciò posso svanire di scena e andare a divorarmi un bel gelato in pieno Gennaio, con la speranza che le scuole da me rimangano chiuse anche Lunedì, così addio versione di latino, shalàlàlà.
Alla prossima-!
E.P.R. 

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