L'orologio d'oro

di Beatrix Bonnie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Villa McPride ***
Capitolo 2: *** Il potere della corruzione ***
Capitolo 3: *** Aria di cambiamenti ***
Capitolo 4: *** Ritorno a scuola ***
Capitolo 5: *** Un bel ragazzo ***
Capitolo 6: *** Le Forze della Natura ***
Capitolo 7: *** Sempre al tuo fianco ***
Capitolo 8: *** Marcare il territorio ***
Capitolo 9: *** Sibili di razzismo ***
Capitolo 10: *** Lezioni di Materializzazione ***
Capitolo 11: *** La rivelazione ***
Capitolo 12: *** La scoperta dei giochi ***
Capitolo 13: *** La magia del Natale ***
Capitolo 14: *** Pazzie di Capodanno ***
Capitolo 15: *** Il F.I.E. ***
Capitolo 16: *** L'orologio d'oro ***
Capitolo 17: *** La Setta degli Interventisti ***
Capitolo 18: *** Codici segreti ***
Capitolo 19: *** Il laboratorio di Lerwick ***
Capitolo 20: *** L'esperimento ***
Capitolo 21: *** La salvezza dell'innocenza ***
Capitolo 22: *** La forza dell'amicizia ***
Capitolo 23: *** Fuga dalla realtà ***
Capitolo 24: *** Missione di salvataggio ***
Capitolo 25: *** Nelle grotte di Petra ***
Capitolo 26: *** Una nuova alba ***
Capitolo 27: *** Ritorno a casa ***
Capitolo 28: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Villa McPride ***



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CAPITOLO I
Villa McPride






Edmund Burke non si riteneva un ragazzo testardo; più che altro, gli piaceva definirsi una persona con una grande forza di volontà. L'aveva dimostrata quando aveva cercato di capire cosa contenesse la stanza buia al quarto piano, quando aveva tentato di smascherare la setta degli Eletti o quando si era intestardito a voler scoprire chi si celasse dietro gli Extraiures e le lettere gentili di Priscilla. La sua straordinaria forza di volontà si era poi manifestata agli occhi di tutti quando si era iscritto al Torneo Trecolonie e non solo era stato in grado di affrontare le tre prove, ma lo aveva anche vinto.
Tuttavia, temeva che questa sua caparbietà non fosse altro che un riflesso esteriore del vero e unico impulso che lo spingeva ad agire: la volontà di dimostrare agli altri e a se stesso la sua intraprendenza e il suo valore. Odiava l'inattività, odiava aspettare che le cose accadessero per porvi rimedio, odiava non partecipare attivamente alla risoluzione dei problemi. Nonostante passasse buona parte del suo tempo libero chiuso in biblioteca, lui era fondamentalmente un uomo d'azione perché per lui la conoscenza non era semplice nozionismo, non era mai fine a se stessa: il suo obiettivo non era diventare un'enciclopedia vivente, non voleva sapere le cose per il gusto di saperle. La conoscenza era parte attiva della sua esistenza e lo rendeva una persona completa, con una coscienza critica, in grado di fare delle scelte basandosi su un sapere razionale e concreto.
Per questo, sebbene odiasse McPride e il suo sorrisetto falsamente bonario con tutto il suo cuore, temeva che prima o poi si sarebbe piegato a lui. Perché McPride sapeva come usare il suo carisma naturale per affascinare la gente e portarla dalla sua parte, e di questo Edmund ne era tristemente consapevole.
Inoltre, diventare il figlio del Presidente della Repubblica aveva un che di attraente, e non solo per il prestigio che comportava quel nome, ma anche perché questo avrebbe significato completa autonomia e libertà di agire. Avrebbe significato essere liberi di compiere qualsiasi cosa, restando totalmente impuniti. Sfidare chiunque senza essere sfidati da nessuno.
Libertà tanto anelata.
E questa indipendenza per Edmund significava una sola cosa: autodeterminazione. Diventare finalmente una persona completa, non schiacciata dai dettami di un orfanotrofio Babbano, né dalle regole limitanti del Trinity, né tanto meno dal moralismo a volte un po' bigotto del professor Captatio. Il preside gli voleva bene, Edmund ne era certo, ma ogni tanto era così cieco da non capire che un adolescente aveva tutto il diritto di mandare al diavolo il suo restrittivo concetto di Bene e di intraprendere la strada sbagliata, per poi accorgersi sulla propria pelle che era effettivamente quella sbagliata. Un adolescente come lui aveva bisogno di fare esperienze e di sbatterci la testa, non di sottomettersi a regole moraliste. In fin dei conti, erano anni che Edmund non aveva uno straccio di rispetto per le regole. Una cosa così tipicamente Raloi.
Per questo, quando McPride era venuto a prenderlo alla stazione di Dublino, Edmund gli si era presentato con una cupa rassegnazione. Lo odiava, non avrebbe mai voluto cedere, ma in cuor suo sapeva di non poter resistere in eterno alle sue lusinghe.
E questo lo faceva imbestialire ancora di più.
McPride lo condusse verso uno dei metrombini di Dubh Cliathan e, dopo aver fatto un cenno del capo ai due Auror perché si allontanassero, gli intimò di buttarsi gridando come destinazione “villa McPride”.
Edmund fece una smorfia ma alla fine fu costretto ad eseguire l'ordine.
Non aveva la più pallida idea di dove si trovasse la villa del suo patrigno ma, dovunque fosse, lì non pioveva, anche se il cielo era grigio e carico di acqua e l'erba umida. Era una pausa tra una tempesta e l'altra. Il paesaggio circostante era decorato da colline placide, verdeggianti e tranquille.
Edmund non ebbe tempo di contemplare altro perché McPride comparve al suo fianco. «Benvenuto a casa» mormorò.
Edmund si concesse un'occhiata alla villa che aveva di fronte: all'apparenza aveva un che di rustico, con il piano superiore in legno scuro e quel mulino che girava placido sul lato sinistro dell'edificio, mosso da un limpido ruscello; eppure era insieme imponente e quasi regale. Due statue di leoni alati decoravano il portone d'ingresso, scrutando arcigni chiunque si avvicinasse.
McPride gli aprì la porta come se volesse essere galante e gli fece cenno di entrare. L'ingresso, in realtà, non era una vera e propria stanza: due scale di legno scuro, poste una di fronte all'altra, conducevano al piano superiore; oltre ad esse, si apriva un salotto arredato in modo elegante ed essenziale. A destra e a sinistra, prima delle scalinate, si trovavano due arcate che conducevano alle altre stanze della casa.
In quel momento, due elfi domestici si materializzarono in ingresso e si sprofondarono in una serie infinita di inchini. Erano servizievoli come Lappy, l'elfo dei Maleficium, ma questi parevano anche terrorizzati alla sola idea di ricevere una punizione.
«Nelly, porta Edmund alla sua stanza» ordinò mollemente McPride.
La piccola elfa si affrettò ad eseguire il comando, facendo fluttuare davanti a sé il misero baule di Edmund. McPride allora si voltò verso il ragazzo con un sorriso affabile. «Sistema pure le tue cose in camera, poi...» si interruppe, per dare un'occhiata distratta all'orologio d'oro che portava al polso. «Fra circa un'oretta dovrebbe arrivare il mio sarto di fiducia a prenderti le misure; sai, per rifarti il guardaroba» e con quelle parole lanciò uno sguardo eloquente alla sua consumata divisa grigia dell'orfanotrofio Babbano. Dopodiché si ritirò verso l'arcata di sinistra, con un breve cenno del capo.
Edmund rimase immobile in mezzo all'ingresso, cercando di raccapezzare le idee. McPride era maledettamente bravo ad accaparrarsi le simpatie della gente: non c'era arma di difesa che reggesse contro i suoi studiati toni gentili. Certo, Edmund lo odiava, ma con che coraggio si sarebbe comportato male con un uomo che era così premuroso nei suoi confronti?
Nelly pigolò qualcosa nei suoi confronti, come se temesse di ricevere qualche punizione per non aver accompagnato il signorino nella sua stanza.
Edmund rifletté che fare dello stupido ostruzionismo non lo avrebbe portato da nessuna parte, tanto più che il miagolio dell'elfa domestica lo stava realmente innervosendo. Tanto valeva assecondare McPride, almeno per adesso. Prese un profondo respiro e si lasciò condurre dall'elfa verso la sua nuova camera.
Osservò distrattamente le stanze che attraversarono: dopo aver salito una delle due scalinate di legno dell'ingresso (ma era indifferente scegliere una o l'altra, perché entrambe portavano al piano superiore), avevano percorso un paio di corridoi, entrambi con i pavimenti di legno scuro arricchiti da quelli che parevano preziosi tappeti orientali. Uno dei due corridoi dava su un cortile interno, porticato a piano terra, dalla bizzarra forma trapezoidale: al centro si trovava un antico pozzo ormai chiuso, mentre il lato opposto all'entrata era chiuso da uno strano edificio circolare, simile ad una torre di un antico castello medievale.
Tutta la casa era permeata da un sapiente gusto per l'essenziale, dal mobilio coordinato alle pareti color panna, ai raffinati tappeti persiani; dava un'impressione più rustica rispetto all'elegante villa Maleficium, eppure traspariva una certa sofisticata ricercatezza nell'arredamento.
Era davvero una bella casa, si ritrovò a pensare Edmund. Sapeva ammaliare, proprio come il suo proprietario.
Nelly si fermò di fronte ad una porta e gli fece segno con la testa per invitarlo ad entrare. Edmund deglutì, come se temesse di dover affrontare chissà quale mostro nascosto dentro la stanza, poi mise la mano sul pomolo della maniglia e infine entrò.
La stanza era particolare, per via del fatto che seguiva la bizzarra planimetria del cortile trapezoidale: era piena di spigoli, ma nel complesso il sapiente arredamento la rendeva piacevole allo sguardo. Di fronte alla porta si apriva un'ampia portafinestra che dava su un balcone in legno, e, a fianco di questa, un divanetto a due posti di un beige piuttosto neutro, ma vivacizzato da alcuni cuscini a strisce rosse e panna; nell'angolo a sinistra, era posizionato un bel letto a baldacchino con lenzuola e tendaggi di un cupo color cremisi, in tinta con la tenda della finestra, mentre nell'angolo opposto si trovava un'ampia scrivania a semicerchio, sormontata da alcune mensole appese alla parete. A fianco della porta, un raffinato armadio a muro di legno scuro completava l'arredamento della stanza.
«Il signorino vuole una mano a sistemare la sua roba?» domandò Nelly, con quei suoi atterriti occhioni spalancati verso Edmund.
Il ragazzo scosse debolmente la testa e allora l'elfa depositò il baule ai piedi del letto e si affrettò a squagliarsela.
Edmund rimase in piedi in mezzo alla stanza, immobile. Avrebbe voluto ribellarsi a quel pensiero seducente che si stava insinuando nella sua mente, ma non ci riuscì; quella camera era creata apposta per lui e rifletteva i suoi gusti: sembrava che McPride avesse capito esattamente ciò di cui aveva bisogno. Era accogliente ma al tempo stesso essenziale; perfetta, ed era sua.
Non si trattava di occupare temporaneamente la stanza degli ospiti di villa Maleficium o di condividere una camerata con mocciosi Babbani: quella era camera sua.
Ma non doveva pensarci. Lui odiava McPride e tutto ciò che veniva da lui. Voleva maledettamente impossessarsene, ma non doveva cedere. Così se ne rimase immobile in mezzo alla stanza, nella speranza di chissà quale miracolo.
Non seppe bene quanto tempo era passato, quando McPride venne a bussare alla sua porta.
«Avanti» mugugnò Edmund.
Il volto sorridente del suo patrigno comparve sull'uscio, subito seguito dall'omino più buffo che Edmund avesse mai visto: pareva che sul suo viso non ci fosse altro che quel naso enorme e i due baffoni scuri. Gli occhi erano stati risucchiati dentro le cavità oculari, completamente nascosti dalle spesse sopracciglia e dagli zigomi pronunciati. Oltretutto, sebbene l'abito da mago che indossava doveva essergli cucito addosso, dava l'impressione di essere infagottato, forse a causa della scarsa altezza.
Alle sue spalle, era entrato un ragazzo biondo e alto, decisamente troppo curato per i gusti di Edmund, che reggeva in mano una valigetta.
«Buonasera, signor McPride» esclamò il maghetto.
Edmund ci impiegò davvero troppo tempo per realizzare che l'omino stava parlando con lui, tanto che non riuscì nemmeno a rispondere. Fu una sensazione assurda sentirsi chiamare con un nome che non era il proprio, che non sentiva come proprio. Ma avrebbe dovuto abituarsi, purtroppo.
Burke era un cognome che apparteneva al passato.
O, forse, non era mai esistito. Dopotutto, gli era stato appioppato dall'inserviente dell'orfanotrofio e non aveva nessun significato. Edmund Burke non era altro che un'etichetta che gli avevano appiccicato addosso.
Edmund McPride, invece, era il suo futuro.
«Ecco, salga pure qui» esclamò l'omino, facendo comparire con la bacchetta una pedana di legno e uno specchio a figura intera.
Edmund, strappato dai suoi pensieri, eseguì l'ordine con titubanza, nonostante il sorriso incoraggiante del suo patrigno.
«Allora, di cosa ha bisogno, signor McPride?» domandò il sarto, con un velato accento francese, mentre un metro cominciava a prendere le misure a Edmund, che venivano segnate su una pergamena da una piuma d'oca.
«Ehm...» cominciò Edmund, non sapendo bene cosa fosse il caso di dire.
«Il guardaroba completo, D'Arman» rispose McPride, con un cenno d'intesa.
Il piccolo D'Arman squittì estasiato. «Ottimo» proferì, come se si trattasse di dare approvazione ad un importante decreto di stato.
Nel frattempo, il metro magico aveva cominciato a prendere a Edmund le misure più assurde, compresa la distanza tra le orecchie.
«Allora facciamo due abiti da cerimonia, un mantello estivo, qualche completo più casual, un paio di camicie di quell'ottimo lino italiano che mi è arrivato l'altro giorno, e direi anche una vestaglia... seta?» chiese, appuntandosi un paio di cose su un foglio di pergamena.
«Ehm...» boccheggiò il ragazzo, senza sapere bene cosa dire.
«Seta» confermò McPride.
«Bene» appurò D'Arman, con un ultimo svolazzo della sua piuma. «Al, fai vedere i tessuti che ci sono arrivati».
Il ragazzo biondo aprì la valigia, che si rivelò contenere più stoffe di quante potessero materialmente starci: la capienza doveva essere stata ampliata con la magia.
«Se volessimo osare, c'è questa meravigliosa seta orientale che le starebbe d'incanto» lo vezzeggiò, scegliendo un rotolo di tessuto di un improbabile colore a metà tra il porpora e il viola. Il ragazzo lo srotolò e gli drappeggiò la seta sulle spalle. «Valorizza la carnagione e gli occhi».
Edmund si ritrovò a guardare la sua immagine riflessa nello specchio, con indosso quell'assurdo tessuto, mentre un ragazzo biondo gli cinguettava all'orecchio. Era decisamente imbarazzante.
«Cosa ne dice, signor McPride?» domandò D'Arman, come se attendesse il responso di un evento bellico cruciale.
Edmund cercò con lo sguardo l'aiuto di McPride.
Lui gli sorrise. «Io direi che possiamo osare, Edmund. Ti sta bene e, d'altronde, se non lo indossi tu, chi potrebbe?»
«Ok» fu l'unica cosa che riuscì a rispondere Edmund.
D'Arman batté le mani estasiato, mentre il biondo Al riponeva il tessuto nella valigetta, lanciando a Edmund una serie di sorrisi languidi.
«Allora, che modelli preferisce, signor McPride?» cantilenò D'Armand, con quel suo buffo accento francese, andando a recuperare quello che pareva un catalogo di moda.
«Ehm...» si trovò a mormorare nuovamente Edmund, guardando dappertutto tranne che in direzione del sorridente Al. Che diavolo stava cercando di fare? Era un maschio, beato folletto!
«Avanti, D'Arman, sai che genere mi piace» intervenne in suo aiuto McPride. «Elegante, essenziale, ma con quel tuo tocco di raffinatezza che lo rende un capo unico».
Il piccolo sarto francese parve estasiato. «Sarà un piacere dare sfogo alla mia fantasia. Vedrà, signor McPride, ne resterà estremamente soddisfatto» esclamò, anche se questa volta non era chiaro a chi dei due si stesse riferendo.
Dopodiché fece un cenno al suo apprendista e i due, con una serie di inchini e saluti vezzosi (corredati da imbarazzanti sorrisetti languidi da parte di Al), lasciarono la stanza, accompagnati da McPride.
Quando Edmund si ritrovò finalmente solo, aveva la mente in confusione come gli fosse esplosa in testa una Caccabomba. La gentilezza di McPride era disarmante e lui gli stava già cedendo dopo nemmeno un giorno. Che fine avevano fatto tutti i suoi discorsi su “quell'uomo non avrà mai la mia mente e il mio cuore”?
Il vero problema era che quel posto era meraviglioso, la casa bellissima, la sua stanza finalmente solo sua... era difficile odiare un luogo così accogliente e così in linea con i suoi gusti.
Ma, d'altronde, che si aspettava? Che McPride vivesse in un oscuro castello in cima ad una montagna aguzza, dove lui sarebbe stato l'eroico prigioniero?
Odiava quella casa perché era maledettamente facile amarla.
Fu preso dall'irrefrenabile impulso di distruggere tutto. Si trattenne, per una frazione di secondo, poi lasciò che la rabbia frustrante gli incendiasse il corpo, scorrendo nelle sue vene come alcool di bassa qualità. Si aggrappò alle preziose tende della portafinestra e le strappò con violenza, cacciando un urlo lacerante; poi buttò a terra i cuscini del del divanetto e li dilaniò, come se loro fossero in qualche modo colpevoli. Ribaltò il comodino, strappò le coperte dal letto, divelse le ante dell'armadio a muro e ruppe la sedia della scrivania, tutto solo per dare sfogo alla sua rabbia accecante.
Non aveva mai pensato che distruggere le cose potesse farlo sentire meglio. Si accasciò a terra, sul prezioso tappeto della stanza, completamente privo di forze. Non aveva risolto un bel niente con quello sfogo di rabbia, ma almeno adesso sentiva un brivido di potere che gli dava una piacevole ebrezza, come se strappare le tende potesse in qualche modo mostrare tutto l'odio che prova nei confronti di McPride e della sua elegante villa.
«Edmund, c'è pronta la cena» annunciò proprio in quel momento il suo patrigno.
«Non ho fame!» urlò di rimando il ragazzo, anche se sentiva lo stomaco brontolare.
McPride socchiuse leggermente la porta, spiando dentro la stanza, ma si bloccò subito nel vedere com'era ridotta. «Beata Morgana, Edmund, che hai fatto qui dentro?» esclamò, entrando nella camera e guardando quello scempio.
Edmund ghignò, nella speranza che McPride si fosse offeso o arrabbiato, che lo sgridasse, per rendergli più facile il compito di odiarlo.
L'uomo invece si concesse un sorriso comprensivo. «Edmund, capisco come ti senti: non sono facili per nessuno i cambiamenti» gli sussurrò, in tono delicato.
Il ragazzo sibilò come un serpente indignato. Perché continuava ad essere gentile con lui?
«Ma ti assicuro che distruggere la tua stanza non ti aiuterà a sentirti meglio» continuò McPride, agitando la bacchetta in aria per riportare la camera al suo ordine originario con un semplice incantesimo.
«Edmund» lo chiamò, inginocchiandosi di fronte a lui.
Il ragazzo non poté evitare di alzare lo sguardo sul patrigno, fino a ritrovarsi addosso quei suoi occhi blu così intensi e perforanti.
«Non angustiarti per il tuo passato. Quello non può più farti del male: ora c'è solo il tuo futuro e chi tu vorrai essere» gli rivelò, mettendogli una mano sulla spalla con fare paterno.
Edmund represse un brivido di stizza, ma non riuscì a sostenere a lungo il suo sguardo e fu costretto ad abbassare gli occhi a terra.
McPride lo interpretò come un segno di vittoria. Si rimise in piedi in tutta tranquillità, poi, prima di lasciare la stanza, gli rivolse un ultimo sorriso incoraggiante e lo invitò nuovamente a cena.
Non sarebbe venuto, no, non quella sera. Ma ce n'erano ancora tante a disposizione.
Mentre scendeva le scale per dirigersi in sala da pranzo, McPride si concesse uno dei suoi migliori sorrisi da squalo: ripensò a Edmund accartocciato a terra come un animale ferito e seppe che non era tanto lontano dal suo intento.
Era più debole di quanto pensasse. L'avrebbe piegato con facilità, portandolo dalla propria parte. Sarebbe diventato un meraviglioso alleato.
Tieniti stretti gli amici, ma più stretti i nemici.





Eccoci qui!
Benritrovati ai vecchi e benvenuti ai nuovi! Vi confesserò che sono un po' emozionata, perché il quinto racconto è davvero quello centrale (l'ho già detto, forse?) e vitale per l'intera economia della saga. Insomma, mi fa un certo effetto aver cominciato a pubblicarlo!
Comunque, il capitolo si apre con una professione di fede da parte di Edmund che sa molto di superomismo nietzchiano (anche se di Nietzsche Edmund non ha letto nulla!): la sua volontà di autodeterminarsi si nutre di conoscenza, sprezzo delle regole e stupide azioni impulsive. Che volete farci, è un Raloi, dopotutto!
Spero che vi sia piaciuta la descrizione di villa McPride. Insomma, il presidente non è un mostro oscuro e ha un maledetto buon gusto! QUI l'immagine che rappresenta alcune stanze della casa (ovvero il portico centrale, l'ingresso e la biblioteca, che farà la sua comparsa nel prossimo capitolo).
La scena con i due sarti è stata descritta per puro divertimento: volevo mettere Edmund in imbarazzo, un po' per le domande di D'Arman su un mondo completamente estraneo al suo, un po' per le ammiccanti advances del giovane e biondo Al. ahahah!
Infine, spero che vi sia piaciuta la disarmante gentilezza di McPride. Che vi aspettavate, fruste e catene? Non è diventato Presidente della Repubblica facendo leva sul terrore, ma grazie al suo fascino ammaliante. ;-) Ovvio che userà la stessa arma anche con Edmund. Ma non fatevi ingannare: la sua è una pura manovra di interesse "politico". Conosce il potenziale di Edmund, sa che potrebbe diventare non solo un grande mago ma anche un ottimo leader e non vuole per nulla al mondo ritrovarselo contro, visto anche la piega che stanno prendendo gli eventi in seguito al ritorno di Voldemort.

Comunque, ora una nota tecnica: considerando che ho scritto meno di quanto avrei voluto, i capitoli sono più lunghi del solito e la storia ha un'importanza notevole, voglio prendermela con un po' più di calma. Ergo, aggiornerò ogni dieci giorni! Lo so, è tanto, ma abbiate pazienza!
Prossimo aggiornamento: VENERDÌ 9 MARZO

Grazie a tutti, a presto!
Beatrix

EDIT: come promesso, ho aggiunto l'immagine di apertura del capitolo, che è stata gentilissimamente preparata da Dira Real, una bravissima autrice di cui ho letteralmente divorato le storie.
Il tutto (un po' trash, lo ammetto!) è nato dal fatto che nei miei (inutili) e infiniti girovagamenti su internet ho beccato un tizio (QUI l'immagine imputata) che non so assolutamente chi sia né che film abbia fatto, ma mi è parso immediatamente la realizzazione "umana" della mia idea di Laughlin. Ergo, ho cercato un volto anche per gli altri protagonisti: per Edmund la scelta è caduta subito sul ballerino Roberto Bolle (QUI un'immagine) perché è moro, con gli occhi azzurri e (al di là dei suoi più o meno presunti gusti) è decisamente un bel tocco di ragazzo! Quanto a Mairead, ho avuto serie difficotà perché nessuna aveva il colore degli occhi, il taglio del viso e i capelli adatti, ma alla fine ho optato per Emma Roberts (QUI un'immagine), appositamente modificata da me medesima.
Spero che vedere i protagonisti in versione reale vi abbia fatto piacere! ^^

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Capitolo 2
*** Il potere della corruzione ***


CAPITOLO 2
Il potere della corruzione






Edmund si svegliò presto. Aveva scoperto che la porta nell'angolo della stanza conduceva al suo bagno personale: trovava incredibilmente rilassante fare una lunga doccia ancora prima che sorgesse il sole, così aveva preso l'abitudine ad alzarsi presto ogni mattina per chiudersi in bagno per un'ora buona. Meraviglioso.
Quando Edmund tornò in camera, con un asciugamano bianco di lino avvolto intorno alla vita, osservò con aria costernata la sua divisa grigia dell'orfanotrofio: era lurida, perché la indossava da quasi una settimana, sempre quella, per una stupida ripicca contro i costosi, invitanti e puliti abiti di sartoria che McPride gli aveva fatto confezionare.
Si avvicinò al suo baule scolastico, adagiato ai piedi del letto, su cui la sera prima aveva buttato la divisa grigia. Prese la camicia bianca con due dita, disgustato, e la ispezionò a fondo: era lercia e puzzava. Edmund storse il naso e la buttò lontano. Era inutile fare abluzioni in bagno per un'ora, se poi doveva indossare quei vecchi stracci.
Il problema era che non aveva più la divisa di ricambio, avendola lasciata all'orfanotrofio l'estate prima, né era riuscito a convincere gli elfi a lavargli quella, perché i due domestici, alla sola idea di farsi dare un abito dal padroncino, scappavano via come se gli avesse proposto di ingoiare un nido di vespe.
L'occhio gli cadde sul suo armadio a muro: su una gruccia, appesa alla chiave esterna dell'anta, stava una limpida camicia di lino, di taglio quattrocentesco, con un aspetto così invitante. Aveva l'aria di essere fresca e pulita.
Significava cedere a McPride, era vero, ma non poteva andare avanti tutta estate con lo stesso completo.
Era da una settimana che non usciva dalla sua stanza, nemmeno per mangiare, perché si faceva portare dagli elfi domestici qualche avanzo dalla cucina. Per il resto, se ne stava rinchiuso come un maledetto prigioniero. Era stupido, ne era certo, ma meno vedeva il sorriso gentile di McPride e la sua meravigliosa casa, più a lungo avrebbe resistito alle sue lusinghe.
Il suo stomaco scelse quell'esatto momento per brontolare a causa la fame. Sognava da giorni una colazione completa, con fette di toast calde spalmate di marmellata e burro. Socchiuse gli occhi, quasi sentendo il profumo di pane croccante di prima mattina.
Masticò aria, mentre il suo fisico anelava una sola cosa: cibo.
Aveva fame.
Agì d'impulso, perché, dopotutto, era uno stupido impulsivo Raloi.
Indossò la camicia pulita, scelse un paio di calzoncini irlandesi di cotone, corredati di calzettoni bianchi, infilò le scarpe e si catapultò fuori dalla stanza. Era uscito, dopo una settimana di reclusione. Non era stato poi così difficile, in fondo.
Percorse a passo delicato i corridoi, scese le scale di legno fino in ingresso e poi si lasciò guidare in sala da pranzo dalla voce gracchiante della radio che stava leggendo le notizie del giorno.
«Il governo britannico ancora non cede e nega il ritorno di Voi-sapete-chi. Il Profeta insulta e ridicolizza Silente e il suo pupillo Harry Potter».
Edmund comparve in sala da pranzo: c'era davvero profumo di pane appena sfornato, latte caldo e marmellata. L'aria stessa era croccante, la luce del sole limpida e armoniosa: sembrava di essere finiti dentro una pubblicità Babbana di biscotti per la colazione.
McPride era seduto a capotavola e sorseggiava con disinvoltura un caffè. Non appena lo notò, gli rivolse un sorriso sereno.
Edmund scrutò attentamente il volto, alla ricerca di un qualche segno di esultante vittoria, nella speranza di scorgervi quel sorriso da squalo che tanto aveva odiato. Invece McPride sembrava semplicemente tranquillo. Forse aveva davvero sbagliato a giudicarlo? Possibile che avesse travisato tutti i segnali che erano partiti dal patrigno?
«Prego» lo invitò a sedersi.
Edmund si accomodò lentamente a tavola, guardingo. Aveva i sensi vigili, come se temesse di esser finito in una trappola. Ad esaminare i fatti, non c'era alcun motivo logico per cui avrebbe dovuto sospettare di McPride, ma uno stano campanello di allarme lo manteneva in allerta.
«Cosa vuoi per colazione, Edmund?» chiese il patrigno.
Il ragazzo fu strappato dai suoi macchinosi pensieri e riportato alla realtà: davanti ai suoi occhi si estendeva una tavola imbandita di ogni ben di dio. Aveva il mondo ai suoi piedi. Quello dolciario, almeno.
«Un tè, grazie» si limitò a dire. Non era abituato ad avere tutto a sua disposizione: di solito, per ottenere ciò che voleva, doveva combattere con tutte le sue forze. Un'ottima scuola di vita, certo, ma era francamente spiazzante ritrovarsi ora di fronte alla possibilità di avere qualsiasi cosa. Bastava solo sceglierla.
Improvvisamente si rese conto che stava pontificando sul ricco assortimento della colazione. Era patetico.
Era confuso, in realtà. Lo realizzò mentre la teiera incantata da McPride versava il suo liquido ambrato nella tazza davanti al suo naso. Era confuso dalla disarmante gentilezza del suo patrigno, che proprio in quel momento gli rivolse un sorriso incoraggiante.
«Mi spiace di dover andare al lavoro presto, stamattina, Edmund» gli confessò. «Ma sai, con i tempi che corrono...»
Proprio in quel momento il giornale radio annunciò che a Dubh Cliathan erano scoppiati alcuni tafferugli tra Nati Inglesi e maghi irlandesi filo-EIF.
Edmund accennò ad un sì con la testa, meditabondo. Il ritorno di Voldemort stava spingendo l'Irlanda nel panico, proprio come era successo all'epoca della Prima Guerra Magica, stando a quello che gli aveva raccontato Mairead alcuni anni fa.
«Perché non ti fai un giretto della casa, nel frattempo?» gli propose McPride, bevendo l'ultimo sorso di caffè.
«Ehm... ok» mormorò Edmund.
No, certo che no!
Non gli interessava niente della sua bella casa, della colazione abbondante, dei vestiti di sartoria: non voleva le sue gentili attenzioni. Voleva odiarlo, per non cedere.
McPride gli rivolse uno sguardo incoraggiante, poi spense la radio e uscì dalla sala da pranzo.
Edmund rimase lì seduto per parecchio tempo, a fissare la sua tazza di tè ormai freddo. Non ne aveva bevuto che qualche sorso, perché lo stato confusionario in cui si trovava gli aveva chiuso lo stomaco.
Laughlin avrebbe storto il naso di fronte alla sua mancanza di appetito: lui ripeteva sempre che sarebbe morto se l'intervallo intercorso tra il momento esatto in cui si alzava dal letto e quello in cui riusciva a ficcarsi in bocca qualcosa di commestibile fosse stato più lungo di un quarto d'ora, perché quando si svegliava aveva fame.
Ma non faceva molto impressione, la cosa: Laughlin aveva sempre fame, a differenza di Edmund. Lui si nutriva solo per necessità, perché senza cibo non sarebbe sopravvissuto. Fine della storia.
McPride non sarebbe riuscito a corromperlo con abiti di sartoria e tavole imbandite: vestirsi e mangiare erano per lui puri bisogni fisiologici. Ci sarebbe voluto ben altro, per portarlo dalla sua parte.
Ciò che Edmund non immaginava era che McPride sapeva benissimo che cosa avrebbe potuto corromperlo. E aveva già predisposto tutto.
Edmund si alzò mollemente da tavola, deciso a tornarsene in camera, per un'altra giornata di completa nullafacenza, quando una specie di uccellino di carta entrò nella stanza. Lo osservò svolazzare indeciso per la stanza, finché non sembrò ricordarsi improvvisamente la strada e schizzò fuori dalla sala.
Edmund rimase indeciso solo un attimo, poi lo seguì.
L'uccellino di carta volò verso il secondo piano, nel corridoio dove si trovava la stanza di Edmund. Per qualche secondo, il ragazzo immaginò che fosse diretto a lui, ma quello invece si diresse verso il fondo, dove c'era una scala a chiocciola che portava al portico del piano di sotto.
Edmund inseguì il foglietto volante fino ad un grosso portone, che doveva essere l'entrata all'edificio circolare che chiudeva il portico trapezoidale sul lato più corto. Esitò quando vide che l'uccellino di carta si infilò sotto l'uscio e scomparve.
Ma, dopotutto, McPride gli aveva dato il permesso di esplorare la casa.
Mise una mano sulla maniglia, la tirò verso il basso e infine socchiuse la porta.
La stanza che si dischiuse sotto i suoi occhi era la cosa più meravigliosa che avesse mai visto: una biblioteca, illuminata da un'enorme finestra con le intelaiature dorate, attraverso la quale si riversavano fiotti di luce sul luminoso pavimento di marmo. Le pareti circolari erano ricoperte da scaffali stracolmi di libri, ordinatamente disposti in base alla materia di cui trattavano.
Edmund alzò il naso, estasiato, per tentare di cogliere con un solo sguardo tutto quel ben di dio. Il soffitto era affrescato secondo il gusto barocco, con graziose scene di muse, ninfe e amorini che si rincorrevano in un cielo azzurro costellato di morbide nuvole bianche.
A metà esatta degli scaffali, correva una passerella di legno, a cui si poteva accedere tramite due scalette a chiocciola poste al fianco del portone d'ingresso. Un'altra serie si scale a pioli, dotate di rotelle, erano state poggiate contro le pareti, per permettere di raggiungere qualsiasi volume.
L'unico arredamento della stanza, oltre alla tenda magnifica di velluto rosso che copriva parte della finestra, era un tavolo di legno, di fattura graziosa ma semplice, con due sedie coordinate e un candelabro d'oro.
Edmund aveva sempre pensato che la biblioteca del Trinity fosse il non plus ultra, con quel suo assortimento infinito di libri; ma l'enorme stanza che la ospitava era spesso buia e tetra, a causa delle piccole finestre in alto che lasciavano filtrare ben poca luce, la quale non poteva espandersi per tutto l'interno per via delle enormi e imponenti scaffalature che dividevano la sala in sezioni. L'illuminazione era perciò affidata a candelabri e torce, dando l'impressione di trovarsi dentro una biblioteca di un antico monastero, come se il sapere lì custodito fosse in qualche modo oscuro e non accessibile ai più.
Al contrario la biblioteca di villa McPride era luminosa, piena di giochi di luce, ampia e spaziosa. Dava l'idea di essere giunti sulla vetta di una montagna e di poter respirare aria pura e godere di un magnifico paesaggio.
Era il tempio del sapere. Ed era a sua disposizione.

Adolfus McPride tornò a casa tranquillo quella sera. Era certo che il suo trucchetto avesse condotto Edmund proprio dove voleva: nella sua biblioteca. Il ragazzo si era dimostrato più malleabile di quanto avesse sperato e McPride era sicuro che mostrargli quello scrigno del sapere, facendo leva sulla sua curiosità, gli avrebbe dato il colpo di grazia. Dopo quello, portarlo dalla sua parte, sarebbe stato un giochetto da ragazzi.
Entrato in casa, appese il suo mantello estivo al portabiti dell'ingresso e poi si recò in cucina per sgranocchiare qualche bruschetta che Nelly aveva preparato per lui. Non aveva alcuna fretta di trovare Edmund, perché era certo di avere la vittoria in pugno. Annaffiò il suo spuntino con un ottimo bicchiere di vino rosso d'annata, poi decise che era giunto il momento di cercare il suo pupillo.
Senza ombra di esitazione si diresse verso la biblioteca.
«Oh, sei qua, Edmund» disse, così per dire, perché sapeva benissimo che l'avrebbe trovato lì.
Il ragazzo, appollaiato a leggere sul soppalco di sinistra, alzò gli occhi dal libro con aria sorpresa. Il suo sguardo guizzò verso la finestra: fuori c'era buio. Aveva passato la giornata a leggere e non se n'era nemmeno accorto. La biblioteca aveva un saggio impianto di illuminazione che percepiva la presenza di esseri umani e, non appena si faceva troppo buio, accendeva in punti strategici della stanza una serie di fuochi magici dal pacato color ambra.
McPride lo raggiunse sul soppalco, mentre Edmund, per chissà quale motivo, provava la spiacevole sensazione di essere stato beccato a fare qualcosa di losco. Forse era a causa del libro che aveva scelto di leggere. A causa della sezione da cui era stato attratto.
«Ehm... aveva detto che potevo esplorare la casa, signore» si giustificò, con un velo di impaccio.
«Ma certo, Edmund» concesse il patrigno in tutta tranquillità. «Ti piace la biblioteca?»
Edmund si trattenne appena in tempo. «Sì» mormorò in tono dimesso. Avrebbe voluto esclamare qualcosa di entusiasta, ma non era del tutto convinto di volerla dare vinta a McPride, anche se ebbe come la sensazione che il patrigno intuì la battaglia avvenuta nella sua anima.
Gli occhi dell'uomo saettarono verso la copertina del libro che stava leggendo e un sorriso indecifrabile illuminò le sue labbra. «Il Mein Kreig di Grindelwald. Ottima scelta, per cominciare. Peccato che sia rimasto inconcluso, da quando l'autore è stato rinchiuso nella sua cella di Nurmergard» commentò, in un tono apparentemente neutro. «Ora che ne dici di andare a cena? Scommetto che non hai nemmeno pranzato».
Il borbottio sommesso dello stomaco di Edmund sottolineò quelle parole: in effetti, ora che aveva realizzato che si era fatta sera, pensò che il suo corpo avesse tutto il diritto di lamentarsi, visto che da quasi ventiquattro ore non aveva ingoiato nulla di più che due sorsi di tè. Ma c'era una cosa che voleva chiedere, anche se si sentiva imbarazzato.
«Signore?» tentò, con un inusitata gentilezza, per sondare le reazioni dell'uomo.
«Dimmi, Edmund» rispose McPride. L'invito non poteva essere più diverso da quelli che tante volte gli aveva rivolto un sorridente e comprensivo Captatio, eppure Edmund non riuscì a cogliervi nessun segno di malizia.
«Mi chiedevo... ci sono un sacco di libri di magia oscura, qui» mormorò a fatica. Erano lì, in bella vista, sotto la sezione che recava la targhetta “Arti Oscure”, senza nessun incantesimo a proteggerli, nasconderli, occultarli, come se fosse assolutamente normale trovarli in una qualsiasi biblioteca. Al Trinity, per esempio, non c'erano.
Perché allora McPride ce li aveva? Era... un mago oscuro?
Il suo patrigno si concesse un sorriso tranquillo. «Credi che abbia un laboratorio nascosto dove compio riti misteriosi su cadaveri straziati, solo perché una sezione della mia biblioteca è dedicata alle Arti Oscure?» lo stuzzicò divertito.
Solo allora Edmund realizzò quanto fosse stata sciocca la sua preoccupazione.
McPride si inginocchiò davanti a lui, per arrivare a guardarlo dritto negli occhi, visto che il ragazzo era raggomitolato a terra con il libro di Grindelwald sulle gambe.
«Edmund, saprai che prima di darmi alla politica ero un Auror, no? Be', questi libri erano il mio pane quotidiano, perché le Arti Oscure sono affascinanti, hanno le loro leggi complesse ma precise. Sono dei bigotti moralisti coloro che negano la validità di questa magia».
Allo sguardo un po' perplesso e un po' agghiacciato del ragazzo, McPride scoppiò a ridere e poi prese a spiegare: «Edmund, io non studiavo le Arti Oscure per usarle, ma per combatterle. Dovevo capire le armi che avevano a disposizione i miei nemici, dovevo essere preparato ad affrontare le peggiori maledizioni che potessi immaginare. Perché quando tu sei lì, con la bacchetta levata, pronto a lanciare al massimo uno Schiantesimo, devi sapere che genere di malefici è in grado di lanciare il tuo avversario, fino a che punto di depravazione l'anima può giungere per seguire il male, e quanto dolore possa provocare una semplice bacchetta. Devi saperlo per riuscire a combattere, o moriresti al primo duello. Le Arti Ocure sono affascinanti, perché ti dicono chiaramente che non c'è mai fine all'orrore».
Edmund annuì più tranquillo: quel discorso l'aveva rincuorato, come se scoprire che il suo patrigno non era un mago oscuro l'avesse in qualche modo aiutato ad accettare la sua nuova identità di figlio del Presidente.
McPride si alzò da terra con un sorriso incoraggiante.
Edmund si ritrovò a pensare che era sciocco fare sempre il sostenuto, così ricambiò il sorriso con un leggero imbarazzo. Ripose il libro di Grindelwald sullo scaffale e imitò il patrigno mettendosi in piedi.
McPride gli posò una mano sulla spalla con fare paterno.
«Ora che ne dici, Ed, andiamo a cena?»

Nei giorni successivi, la reclusione forzata di Edmund non si modificò più di tanto: invece di starsene chiuso in camera sua, si rifugiava in biblioteca e passava le giornate a leggere qualsiasi cosa stuzzicasse la sua attenzione. Aveva cominciato ad indossare i vestiti che il sarto D'Arman aveva confezionato apposta per lui, così come aveva preso l'abitudine di fare colazione e cenare in compagnia del suo patrigno. La sera, a tavola, discutevano sempre degli eventi della giornata di McPride o delle letture che avevano incuriosito Edmund.
McPride aveva ragione: le Arti Oscure erano affascinanti. Edmund non sapeva dire se quel fascino derivasse effettivamente dalla possibilità di conoscere quali orribili soglie di depravazione potesse varcare un mago per amore del male, come diceva il suo patrigno, o se la magia oscura avesse in sé qualcosa di terribilmente attraente. In fin dei conti, si parlava di compiere imprese al di là delle misere capacità dell'uomo, andare oltre i limiti che la natura ci aveva imposto, per raggiungere un potere che era solo di Dio.
Era qualcosa di terribile e di affascinante, insieme. Agghiacciante, sì, ma grandioso.
Un giorno si ritrovò tra le mani un libro che parlava dei modi per raggiungere l'immortalità tanto anelata dall'uomo e mai raggiunta. Era un tema che lo affascinava moltissimo e si ritrovò a frugare per tutta la biblioteca alla ricerca di altri volumi che parlassero dell'argomento.
Ne trovò uno che era francamente inquietante. O meglio, sarebbe stato inquietante per chiunque altro, ma in quel momento Edmund era troppo preso dall'eccitazione per capire fino in fondo i risvolti più oscuri di quella faccenda.
Si precipitò verso lo studio del patrigno, desideroso di discutere con lui della questione. Non era mai entrato nella stanza privata di McPride, a dire la verità: sapeva solo che si trovava a piano terra, non lontano dall'ingresso. Buttò titubante e quando sentì la voce del patrigno che lo invitava ad entrare, socchiuse leggermente la porta.
Lo studio era avvolto nella penombra, perché l'unica finestra che si apriva nel muro alla sua sinistra era coperta da una pesante tenda di velluto rosso. La stanza aveva un'aria soffocante, a causa della libreria stracolma di volumi che occupava l'ala destra, mentre una cartina della Repubblica Magica d'Irlanda faceva bella mostra di sé sulla parete a fianco della porta da cui era appena entrato.
Ma ciò che rapì il suo sguardo prima di ogni altra cosa fu lo strano meccanismo di legno alle spalle della scrivania di McPride, che cigolava placido al roteare monotono e uniforme di quella che pareva essere una grossa ruota di pietra.
McPride intuì la direzione del suo sguardo e sorrise comprensivo. «È la macina del mulino» spiegò. «Quello che resta del mulino dove lavorò mio padre. Ti ricordi? Tempo fa ti dissi che i miei genitori erano dei mugnai. Quando divenni abbastanza ricco da potermelo permettere, comprai la proprietà dove si trovava il mulino al quale avevano lavorato per lungo tempo i miei e lo trasformai in questa casa. Ma la macina rimase, per onorare il ricordo dei miei cari» disse in un tono stranamente dolce per lui, e in quel momento i suoi occhi indugiarono su una fotografia che ritraeva due maghi contadini, che sembravano essere appartenuti ad un altro secolo.
Edmund si ritrovò invaso da sentimenti di nostalgia che non aveva mai provato: era l'affetto che avrebbe dovuto legarlo al ricordo di avi e parenti ormai defunti che rappresentavano le sue origini.
Ma quel sentimento gli era negato, perché lui non sapeva quali fossero le sue origini. Poteva solo provarlo attraverso il suo patrigno. Quelle persone per lui non significavano niente, ma avrebbe potuto vederle con gli occhi di McPride e amarle.
«Comunque, Edmund, siediti» lo invitò il patrigno in tono tranquillo. «Volevi dirmi qualcosa?»
Edmund ricordò improvvisamente il motivo per cui era lì e si scosse di dosso quella patina di nostalgico auto-compatimento per tornare lucido e vigile.
«Oggi ho letto una cosa strana, in biblioteca. Una magia che si chiama... Horcrux, se non sbaglio» mormorò, anche se era ben visibile il suo entusiasmo.
Il sorriso gentile di McPride si gelò sulle sue labbra. Le letture del figlioccio stavano diventando decisamente preoccupanti. Forse non avrebbe dovuto permettergli di frugare nella sezione dedicata alla magia oscura.
Tuttavia Edmund non si accorse della reazione del patrigno, troppo eccitato all'idea. «È qualcosa di... incredibile! Un mago può davvero rendersi immortale?»
«È magia oscura molto potente, Edmund. Non starai per caso pensando di farti un Horcrux?» mormorò McPride, cercando di sdrammatizzare ma restando comunque sulla difensiva. Gli occhi azzurri del ragazzo avevano uno strano luccichio che lo inquietava.
E Adolfus McPride non era un uomo che si inquietava facilmente.
Edmund si concesse una risata distensiva. «No, certo che no. Erano solo... così, speculazioni» rispose tranquillo. Lo scintillio di brama era del tutto scomparso dai suoi occhi. Forse era solo stato uno strano gioco di luce.
«Ma certo, è naturale che maghi del tuo calibro siano attirati da questo aspetto della magia» concesse McPride, decisamente più sollevato dalla piega tranquilla che aveva preso la conversazione.
«Sì, signore. Quello che non capisco... teoricamente si potrebbe strappare l'anima in più parti, giusto? Qualcosa come... sette, il numero magico più potente! È spaventosamente affascinante, no?» esclamò Edmund eccitato.
McPride rise con un certo nervosismo. Sì, aveva decisamente fatto bene ad adottare Edmund per portarlo dalla sua parte: averlo come avversario sarebbe stato piuttosto spaventoso.
«Già spaccarsi l'anima una volta è disgustoso, sette sarebbe davvero disumano! Diventeresti un mostro, Edmund, e alla gente non piacciono i mostri. La tua faccia non starebbe bene su un cartellone elettorale» decise di buttarla sul ridere, nel tentativo di smorzare lo spiacevole sospetto che il ragazzo sarebbe stato un terrificante mago oscuro, se solo avesse voluto.
Anche Edmund rise. «No, signore, temo proprio di no».
McPride si rigirò la piuma d'oca tra le mani, capendo che era arrivato il momento di forzare un po' i tempi: doveva averlo dalla sua parte, prima che gli sfuggisse di mano. Per nessun motivo avrebbe voluto ritrovarselo contro.
Gli sorrise tranquillo, subito ricambiato dal ragazzo.
«Che ne dici di incominciare a chiamarmi padre, Edmund?»





Ecco arrivato il nuovo capitolo!
Ed è anche successo il guaio... insomma, Edmund ha ceduto, ma, che volete farci? Un'intera biblioteca a sua completa disposizione... McPride sa giocare bene le sue carte!
A proposito di McPride, NON è un mago oscuro: quello che ha detto a Edmund sulle Arti Oscure è la verità. L'esempio più vicino che mi viene in mente è uno psicologo criminale che studia i serial-killer perché, da un lato, sftutta le sue conoscenze per catturarli, dall'altro è affascinato dalla possibilità di scoprire le più profonde soglie di depravazione umana. Ah, e altra cosa: non è un cattivone senza cuore... voleva davvero bene ai suoi genitori (i maghi contandini nella foto del suo studio)! =)
Per quel che riguarda Eddy, sì è un bel ragazzo... QUI l'immagine del capitolo a riprova! Solo che è davvero tardo su queste cose e, anzi, ho un bel capitolo in mano in cui rideremo un po' alle sue spalle in vero, viscido Nagard-style! ;-)
Tra l'altro, il caro Eddy sa essere decisamente inquietante quando ha a che fare con la magia oscusa... e con gli Horcrux in particolare! O.O Qualcuno di voi si ricorda che forma assume il suo molliccio? mhuahahahah! Lo so, sono sadica, ma questa volta avrete tutte le risposte, promesso!
Prossimo aggiornamento: Lunedì 19 marzo
Grazie a tutti voi,
Beatrix

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Capitolo 3
*** Aria di cambiamenti ***


CAPITOLO 3
Aria di cambiamenti






Edmund rimirò la sua immagine riflessa sullo specchio intero che si trovava nell'anta interna del suo armadio a muro. L'insieme non era male, dopotutto.
Aveva indossato il completo da cerimonia che il sarto D'Arman gli aveva confezionato utilizzando quella strana seta dal colore indefinibile, a metà tra il porpora e il viola.
Non sapeva dire con esattezza il motivo per cui lui avrebbe potuto osare, come aveva detto suo padre, se non in virtù del fatto che era giovane, e ai giovani era concesso essere un tantino eccentrici.
Certo, era alto, aveva un fisico asciutto e il vestito non gli stava male ma, andiamo, non era un campione di Quidditch. La sua faccia non ammiccava da variopinti poster attaccati alle pareti delle stanze di adolescenti magiche, abbagliate dal fascino del campione. Quello era Sean Troy.
E presto, ne era certo, lo sarebbe stato anche Bellimbusto Connery.
Loro erano belli, loro erano lo standard delle ragazzine.
E di Mairead.
Al diavolo i campioni di Quidditch!
Lui aveva ben altre qualità rispetto a saper stare in equilibrio su una scopa a lanciare palle di cuoio!
Osservò ancora una volta la sua immagine allo specchio: stava bene, maledizione, e aveva tutto il diritto di osare.
«Edmund, hai finito di farti bello?» lo apostrofò suo padre, bussando alla porta della camera.
Il ragazzo chiuse di scatto l'anta dell'armadio, come se essere beccato ad ammirarsi allo specchio fosse una cosa poco conveniente per il figlio del Presidente. «Sono pronto» gridò di rimando, infilandosi di fretta le scarpe. Dopodiché comparve sull'uscio con un sorrisetto innocente.
McPride gli lanciò un'occhiata divertita, ma decise di soprassedere. «Ti sta bene l'abito» commentò comunque, perché era suo dovere essere obiettivo. Vide Edmund arrossire e mormorare qualcosa che suonava molto come un “grazie”.
Sospirò rassegnato: se suo figlio avesse avuto un minimo di coscienza in più delle sue straordinarie qualità fisiche, avrebbe fatto strage di ragazze.
«Andiamo, o rischiamo di fare tardi» mormorò infine, avviandosi verso il piano inferiore.
Edmund aprì e chiuse i pugni un paio di volte, tanto per fare qualcosa che scacciasse la tensione. Era un po' agitato, e a buon diritto: stava per fare la sua prima uscita pubblica, il debutto in società come Edmund McPride. E non si trattava solo di una cena tra altezzosi maghi purosangue (anche quella, comunque, sarebbe stata in grado di preoccuparlo), ma era una cosa ufficiale: era la cena di Ferragosto del Ministero della Magia. Significava che tutti i Capi dei vari Dipartimenti, con le proprie famiglie, più alcuni altri importanti funzionari si sarebbero radunati sotto lo stesso tetto per pesarlo, misurarlo e giudicarlo. Perché non ci voleva un genio per capire che Edmund sarebbe stato l'argomento principale della serata.
E c'era anche la stampa. Il Corriere del Mago, Il Settimanale delle Streghe e una serie infinita di giornaletti di gossip. Perfino il Profeta si era scomodato.
Così l'intero mondo magico di lingua anglosassone avrebbe avuto modo di leggere di lui.
Pessima cosa. Odiava essere al centro dei riflettori.
Aveva già dovuto sopportare con un certo fastidio gli sguardi incuriositi e affamati di succulente notizie che gli erano stati riservati l'anno scorso in qualità di più giovane Campione del Torneo Trecolonie, ma almeno la cosa era limitata alla popolazione scolastica. Ora invece si trattava di intere nazioni.
E, benedetto san Patrizio!, sapeva benissimo quanto potesse essere pettegolo l'animo umano.
«Edmund, stai tranquillo e vedrai che andrà tutto bene» lo rassicurò suo padre, aprendogli la porta di casa e invitandolo ad uscire.
Il ragazzo si limitò ad un sorrisetto tirato.
Ma poi qualcos'altro rapì la sua attenzione: era un canto melodioso e, in un certo senso, rincuorante. Riempiva il cielo sereno che cominciava ad imbrunire e dava un senso di pace.
«Carmen» mormorò Edmund perché, anche se dell'uccello non c'era traccia, era certo che fosse lei.
Infatti, una manciata di secondi dopo, la fenice entrò nel suo campo visivo e descrisse ampi cerchi sopra la villa.
«Il tuo famiglio è una fenice?» chiese ammirato McPride, osservando il volo aggraziato dell'animale.
Edmund si strinse nelle spalle. «Be', io... non so. Sì, credo» farfugliò a disagio, cercando di sminuire la cosa. «È quella che ho trasfigurato durante l'ultima prova del Torneo Trecolonie».
Carmen, nel frattempo, giusto per chiarire la cosa, planò dolcemente verso di loro e si appollaiò sulla spalla del ragazzo.
«Ciao, piccolina» sussurrò Edmund, accarezzando la testa della fenice, che assecondò i suoi movimenti piegando il capo placida. Edmund divenne improvvisamente più tranquillo, come se la semplice presenza dell'animale l'avesse rincuorato. «Vieni con me, questa sera a tenermi compagnia?» domandò a Carmen. Sapeva di sembrare piuttosto stupido, ma aveva bisogno di un po' di conforto.
La fenice, come per rispondere alla domanda, levò al cielo il suo canto melodioso.
McPride trattenne a stento un cenno soddisfatto: il suo figlioccio avrebbe fatto una gran figura. Edmund era bello, ben vestito e con una dannata fenice come animale da compagnia: gli mancava solo quel sorriso sicuro di sé, marchio Nagard, e sarebbe stato perfetto.
Ma quello, forse, poteva trasmetterglielo.
«Otterrai l'ammirazione di tutti, questa sera» lo incoraggiò e poi gli rivolse il suo migliore sorriso accattivante.
Come un neonato che imita le espressioni facciali degli adulti, così anche Edmund si ritrovò istintivamente sulle labbra lo stesso sorriso del padre.
Ecco, ora era pronto.

***


Mairead Josephine Boenisolius non era tipa da scandalizzarsi facilmente: ne aveva passate troppe nella sua giovane vita di maga sedicenne irlandese per avere ancora la forza di indignarsi di fronte a certe cose. Certo, non aveva l'invidiabile atteggiamento del suo migliore amico Laughlin Maleficium, che prendeva la vita con una distaccata tranquillità, dovuta alla sua naturale propensione a ritenersi sempre all'altezza della situazione, ma non poteva nemmeno dire di essere una che si lascia turbare da chicchessia.
Quella volta, però, era decisamente scandalizzata.
«Dico, ma... ti rendi conto Edmund?» domandò allibita, sventolando il numero del Corriere del Mago davanti al naso del suo amico.
«Che ha fatto?» replicò quello, con un certo disinteresse. In quel preciso momento, il suo problema principale era di riuscire a raddrizzare il nodo al fazzoletto rosso che portava al collo. Un regalo di sua madre, come l'intero completo da mago che indossava, a dire la verità: l'aveva disegnato apposta per lui, perché diceva che il rosso gli donava.
«Ehi, ma sono un vero schianto» commentò, ammiccando verso la sua figura riflessa nello specchio.
«Laugh!» lo richiamò Mairead, visibilmente alterata.
«Un po' di autostima non ha mai fatto male a nessuno» rispose Laughlin, per nulla scosso dal rimprovero dell'amica. Ma, vedendo lo sguardo imbizzarrito che gli riservò lei, fu costretto a capitolare.
«Dimmi».
«Edmund!» strillò esasperata la ragazza, come se quel nome potesse spiegare il motivo della sua irritazione.
«Che ha fatto?» ripeté Laughlin, sedendosi sul suo letto a fianco dell'amica.
Mairead spiegò il giornale sulle ginocchia dell'altro, poi gli indicò l'articolo incriminato, dal titolo “Prima uscita ufficiale del Preside McPride con il figlio Edmund”. Sulla pagina spiccava una fotografia del Presidente della Repubblica, accompagnato da un bel giovanotto con un completo elegante e una fenice sulla spalla; il tutto condito da sorrisetti ammiccanti da parte di entrambi.
Lo sguardo di Mairead era più che esplicito. Era una cosa come: che-diavolo-gli-è-saltato-in-mente-a-Edmund?-io-non-lo-riconosco-più!
Laughlin tentò un sorrisetto veloce, anche se il suo naturale sesto senso per l'universo femminile gli fece capire che non sarebbe bastato.
Infatti Mairead esplose: «Ma dico, ti rendi conto? A che gioco sta giocando?»
Laughlin si strinse nelle spalle.
«Voglio dire, senti che dice riguardo a McPride: “ è un uomo che sa il fatto suo e io non posso che ammirarlo”» lesse Mairead dall'articolo. «Ammirarlo? Ma se fino a ieri lo odiava con tutto se stesso?»
«Be', visto che ora è il suo patrigno, meglio che non lo odi più, no? A te che problema crea?» provò a dire Laughlin, nel tentativo di farla ragionare.
Mairead sbuffò, accartocciando l'angolo del giornale per riflesso nervoso. «Io non ho mai odiato McPride come Edmund, ma certo non condivido le sue scelte politiche. Il fatto poi che abbia cominciato a predicare contro chiunque abbia origini inglesi certo non me lo rende più simpatico. E Edmund non sembra nemmeno accorgersene! Sembra completamente rincretinito: ora lo adora, mentre prima lo odiava! Che gli ha fatto, il lavaggio del cervello?»
Laughlin capì che non ci sarebbe stato verso di far ragionare l'amica: quando partiva a fare ramanzine con quel cipiglio minaccioso, non poteva che significare guai. E quella certezza non era data dalla sua immensa conoscenza del funzionamento dell'altra metà del cielo: era solo buonsenso.
«Dico, non è nemmeno venuto per il tuo compleanno!» sbottò infatti Mairead, in tono risentito. Sembrava decisamente scocciata dal repentino cambiamento dell'amico, come se accettare la sua nuova identità di figlio del Presidente fosse in qualche modo un affronto personale a lei.
Laughlin si alzò dal letto con un gran sorriso: per una questione di solidarietà maschile, aveva il sacrosanto obbligo di spezzare una lancia a favore dell'amico. «Mi ha mandato un gufo con gli auguri e un pacchetto!» annunciò, mostrando il tutto come un presentatore del circo. Il regalo in questione era una miniatura di un'arpa celtica in oro e cristallo.
Mairead sbuffò. Poteva capire che per Edmund era importante riuscire a fare un regalo all'amico, visto che non aveva mai potuto comprare nulla per loro, considerate le sue scarse finanze, ma le sembrava comunque che Edmund stesse cercando di comprarsi il perdono per non essere venuto alla festa.
«C'è pronta la torta!» chiamò proprio in quel momento la signora Maleficium.
Mairead fu costretta a lasciar cadere il discorso, ma Laughlin intuì che l'amica non avrebbe tenuto a freno la sua linguaccia ancora a lungo. Infatti, mentre precorrevano il corridoio per raggiungere la scalinata di marmo che portava al piano inferiore, la ragazza mise una mano in tasca e, quando estrasse una sferetta di vetro molto simile ad una Ricordella, dentro cui aleggiava un leggero fumo grigiastro, prese a fissarla con aria accigliata.
«Quella che è?» colse al volo l'occasione Laughlin, nella speranza di distrarla dai suo pensieri omicidi verso Edmund.
Lo sguardo infuocato che gli lanciò lei non lasciava presagire nulla di buono.
Ok, dal calderone alla brace.
«Questo» decretò Mairead, tenendo la pallina in mano come se volesse ridurla in frantumi con la sola forza del pensiero. «È un Cuimhnim» annunciò, come se il nome potesse dare una definizione chiara e definitiva; a giudicare dalla faccia perplessa di Laughlin, però, sembrava proprio necessaria un'ulteriore spiegazione: «È un aggeggio compreso nel Kit di Sopravvivenza per Innamorati Lontani: quando uno dei due lo prende in mano e pensa all'altro, il fumo diventa rosso».
Laughlin riuscì a trasformare la sua risata strozzata in un colpo di tosse. «È... molto romantico» azzardò, gli occhi che brillavano per un sorriso represso.
«È grigio» replicò invece Mairead, con l'aria di voler sgozzare qualcuno a caso pescato dal mucchio. «Da ben tre giorni!»
«Ma Leonard non era in Bulgaria con la squadra dei Kenmare Kestlers giovanili?» domandò Laughlin, con totale incoscienza. E sì che si riteneva una persona con un certo intuito per le donne.
Ci mancò poco che Mairead non sfogò su di lui la sua frustrazione. «E non ha trovato neanche un secondo in tutta la sua impegnatissima giornata per pensare a me? Nemmeno un minuscolissimo secondo?»
Laughlin boccheggiò.
«Be', se pensa di fare la bella vita da campione di Quidditch e di tornare a casa e trovare la brava mogliettina che lo aspetta ansiosa e gli porta le pantofole, ha proprio sbagliato ragazza!» sbottò infine l'amica, incrociando le braccia al petto.
«Devi trovarne uno davvero santo, Mairead» commentò Bearach con un sospiro saggio, sbucando in quel momento dalla sala della musica e unendosi a loro per raggiungere la sala da pranzo, dove li stavano attendendo gli adulti.
«E tu, com'è che sei diventato maturo tutto d'un colpo?» indagò Laughlin, storcendo il naso.
Bearach si strinse nelle spalle con un certo disinteresse. Ora che aveva ormai dodici anni, si intuiva benissimo che, sotto l'aria da bambino esagitato, si nascondeva in realtà quella pacata nonchalance tipica dei Maleficium. Un giorno sarebbe stata la copia sputata di suo padre.
«Io non me lo sopporto al Trinity, sempre tra i piedi per tutto un anno!» borbottò malamente Laughlin, mentre entravano in sala da pranzo. In realtà, la sua era tutta una posa da fratello maggiore: Bearach era una vera peste, ma i due Maleficium si assomigliavano più di quanto avrebbero mai voluto ammettere entrambi.
Gli adulti in sala da pranzo, in realtà erano solo tre: i signori Maleficium e Reammon; quest'ultimo stava tenendo un animato sermone contro le ultime misure anti-Mangiamorte prese dal Dipartimento degli Affari Esteri.
«Il Ministero ha stabilito che qualsiasi merce proveniente dall'Inghilterra deve essere controllata da una commissione apposita che cercherà qualsiasi possibile influenza delle Arti Oscure. La terrà sequestrata. Per mesi» snocciolò con aria esterrefatta e scandalizzata. «Questa è la morte dell'archeologia oltremare» decretò, battendo un pugno sul tavolo.
«Mi sembrano delle misure un tantino esagerate» concesse Daire Maleficium, passando il coltello al figlio più grande perché tagliasse la torta.
Reammon scosse la testa con rassegnazione. «Diablaiocht sta sguazzando in questa situazione: sfrutta la scusa di imporre misure di sicurezza contro i Mangiamorte per legalizzare il suo razzismo contro gli Inglesi».
«Non mi parlare di Scipio Diablaiocht» intervenne Eoin Maleficium, con un tono insolitamente infastidito. «È l'unica persona sulla faccia della terra che non riesco a sopportare. Meschino arrivista, pronto a calpestare chiunque e qualunque cosa...»
«È che ti rode perché ai tempi della scuola mi faceva la corte» ridacchiò Daire; dopodiché strappò il coltello dalle mani del figlio, arrendendosi all'evidenza delle circostanze: avevano viziato Laughlin decisamente troppo se non era nemmeno in grado di tagliare una torta da solo, senza sembrare un pozionista folle che seziona animali morti.
Eoin emise un sonoro sbuffo.
«Adorabile il mio gelosone!» lo canzonò la moglie, rivolgendogli un sorriso furbo.
«Non è per quello» replicò Eoin, svuotando la sua pipa dalla cenere con un secco movimento del polso. «E comunque non faceva la corte a te ma al tuo titolo».
«Perché, non pensi che qualcuno avrebbe potuto farmi la corte oltre a te?» lo rimbeccò Daire, ma con un tono affettuoso.
Eoin incrociò le braccia al petto. Non ci voleva uno specialista del linguaggio del corpo per capire che la conversazione lo aveva alterato. «Non è quello che intendevo dire» commentò, mantenendo comunque un'apparente tranquillità.
Daire, allora, posò il coltello e gli diede un buffetto sulla guancia. «Sei adorabile quando ti arrabbi» mormorò poi, con un sorrisetto di pura furbizia.
Eoin si ammorbidì al gesto affettuoso della moglie. «Non sono arrabbiato» ci tenne comunque a precisare. «È Diablaiocht che mi indispone».
La faccia contrariata di Eoin ebbe il potere di far ridacchiare tutti.
«Buon compleanno, Laugh!» esclamò Mairead, quando Daire le passò la sua fetta di torta.
Il ragazzo le sorrise di rimando, a mo' di ringraziamento, ma era meno entusiasta di quanto ci si sarebbe aspettati da un ragazzo che compie sedici anni: l'atmosfera della serata era piuttosto rilassata, eppure un velo di tensione aleggiava nell'aria. Qualcosa si era spezzato nelle loro tranquille esistenze di maghi irlandesi: la minaccia di Voldemort era tornata a incombere su di loro e solo il cielo sapeva che terribile tempesta avrebbe portato nell'isola Smeralda. Erano come in tensione, nell'attesa che si scatenasse.
Mairead guardò distrattamente fuori dalla finestra, come se si aspettasse davvero di vedere lampi e fulmini.
Sospirò: qualcosa era cambiato, inutile che lo negassero. Presto o tardi sarebbe scoppiato l'inferno e il professor Captatio aveva avuto ragione: dovevano scegliere da che parte stare. Alla svelta.
«Credo che mi taglierò i capelli» annunciò, con aria distratta, alla sala.
«Come mai, tesoro?» domandò Daire, l'unica che, in quanto donna, capiva il significato sottinteso ad un gesto come quello.
Mairead scrollò le spalle. «Mah... sono pieni di doppie punte» si giustificò, fingendo disinteresse; salvo poi aggiungere: «E poi... il vento sta cambiando. Dobbiamo adeguarci ad esso».





Ebbene sì, la trasformazione di Edmund è ormai terminata: abbiamo a che fare con Edmund McPride! QUI l'immagine che lo rappresenta in tutto il suo splendore, con tanto di completo di D'Arman. Carino, eh? ;)
Allora, chi lo vuole il Kit per innamorati lontani? ahahah! Povera Mairead, ha un diavolo per capello ultimamente e quell'idiota di Laughlin non aiuta! Comunque, per il nuovo taglio di capelli, vi rimando a QUESTA immagine (quella usata per la copertina!).
Eoin e Daire non sono adorabili insieme? Fra qualche tempo dedicherò loro un po' di narrazione, perché li adoro!
Prossimo capitolo, dedicato in buona parte ad un personaggio che piace a molti e che merita un bel po' di spazio... più alcune new entry! Chi indovina di chi si tratta? ;-)
Prossimo aggiornamento: mercoledì 28 marzo
Grazie a tutti,
Beatrix

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Capitolo 4
*** Ritorno a scuola ***


CAPITOLO 4
Ritorno a scuola






Mairead le aveva provate di tutte, con suo padre. Aveva perfino portato avanti tutti gli orologi di casa di un quarto d'ora, a sua insaputa, ovviamente, nel vano e pressoché inconsistente tentativo di farlo arrivare in orario.
Non c'era stato verso, perché -dopo sedici anni di forzata convivenza, l'aveva realizzato con rassegnazione- il ritardo era connaturato nell'animo di Reammon.
«Papaaà!» lo chiamò dall'ingresso della loro villetta a schiera, situata in un tranquillo quartiere della cittadina di Boyle.
«Arrivo!» rispose l'uomo, perso nei meandri del bagno. Doveva aver combinato qualche disastro con le tubature della doccia.
Mairead sbuffò, poi prese a fissare con aria arcigna le lancette della pendola appesa in ingresso, nella vana speranza che potessero restare ferme immobili al loro posto. Ma il tempo scorreva inesorabile.
«Papà!» chiamò ancora, dopo due minuti di totale rassegnazione.
L'uomo comparve sulle scale con i capelli ancora bagnati, spettinati come sempre, e la giacca allacciata al contrario. «Eccomi!» esclamò allegro, come se non stessero per perdere l'Espresso per il Trinity.
Per il quinto anno di fila.
«Oh santa patata bollita!» commentò, nel controllare velocemente l'orario segnato dalla pendola. «Manca cinque alle undici!»
«Già» asserì Mairead, tacendo sul fatto che gli orologi della casa erano tutti avanti di dieci minuti: forse questo le avrebbe dato un minimo di vantaggio. Afferrò il padre per la manica della giacca (un orribile modello irlandese di colore verde acceso), e lo trascinò fuori con un sospiro rassegnato.

Quando Edmund arrivò alla stazione magica di Dublino, accompagnato da suo padre e da un paio di Tiratori Scelti addetti alla loro sicurezza, ebbe la spiacevole sensazione di essere seguito da parecchi occhi curiosi. Che cosa ci trovassero in lui di tanto interessante, proprio non sapeva dirlo: aveva scelto un completo piuttosto sobrio, di una tenue sfumatura di grigio, che non dava certo nell'occhio. Aveva il suo solito baule, nessuna gabbia ingombrante con rumorosi animali domestici, nessuno strano ammennicolo magico in bella mostra. Insomma, avrebbe potuto passare completamente inosservato, come d'altronde era stato per i precedenti quattro anni.
Ma, allora, non si era presentato come figlio del Presidente.
«Forse è meglio se ci salutiamo qui, Edmund» arguì suo padre, ridacchiando alla vista della sua faccia infastidita.
Il ragazzo annuì malamente. Odiava essere al centro dell'attenzione.
«Cerca di comportarti bene e fai valere i tuoi talenti» gli raccomandò McPride, aggiustandogli il collo della giacca con fare paterno.
«Farò del mio meglio» rispose Edmund con sincerità. Di casini ne aveva combinati fin troppi, in quegli anni: forse Mairead aveva ragione nel dire che era ora di stare un po' tranquilli.
«Ci rivediamo per le vacanze di Natale» lo salutò suo padre.
Edmund rispose con un breve cenno del capo, perché i suoi occhi erano già alla ricerca degli amici: individuò subito Laughlin e famiglia, perché Eoin era l'unico mago ad indossare una tuba. Eccentrico, avrebbe detto qualcuno, ma Eoin Maleficium non sarebbe stato lo stesso senza i suoi altisonanti abiti di gusto ottocentesco.
Edmund si diresse a passo svelto verso la famiglia Maleficium, scansando con destrezza un gruppo di starnazzanti ochette che gli lanciavano occhiate ammiccanti.
«Buongiorno, Edmund caro» lo salutò gentilmente Daire.
«Buongiorno a tutti» replicò Edmund, proprio mentre Bearach gli gettava le braccia intorno alla vita.
«Vengo anche io al Trinity!» esclamò il ragazzino, esagitato come non mai per la brillante prospettiva di cominciare la nuova scuola.
«Bearach, lascia in pace Edmund» intervenne Daire, facendo scollare il figlio dal povero ragazzo, con un tocco delicato ma fermo.
Laughlin allora afferrò il braccio dell'amico e lo trascinò verso il treno. «Troviamoci uno scompartimento vuoto, va'» ordinò con un certo fastidio, dovuto con ogni probabilità alla presenza dell'esuberante fratellino.
«Mairead?» chiese Edmund, cercando di dare un tono neutro alla sua voce. Perché, ultimamente, si era proprio fissato con Mairead e non vedeva l'ora di rivederla. Non che ne capisse il motivo, in realtà, ma aveva una gran voglia di ritrovare l'amica.
Laughlin si strinse nelle spalle. «Arriverà in ritardo, come al solito».
Trovarono uno scompartimento libero a metà del treno e vi infilarono dentro i propri bauli, poi scesero nuovamente sulla banchina per salutare i signori Maleficium.
Stavano per risalire, quando furono raggiunti da un'accalorata Mairead che trascinava il suo baule con aria costernata.
«Vedi di non combinare più guai di quanti siano necessari» le raccomandò il padre Reammon, prima che venisse inghiottita dalla calca che si trovava nei pressi del treno.
Mairead sbuffò, ma alla fine si lasciò commuovere dal tentativo del padre di rimediare al suo imperdonabile ritardo. Si voltò verso di lui e gli rivolse un sorriso. «Vale anche per te, papà» gli rispose.
Reammon sorrise di rimando, poi sventolò la mano in aria in segno di saluto.
Mairead allora diede una spallata ad un ragazzino per allontanarlo dall'entrata e raggiungere così i suoi amici. «Ehi, ragazzi» li apostrofò con un tono rassegnato.
«Ciao, Mairead» rispose Laughlin, aiutandola con il baule.
Edmund notò solo allora che Mairead aveva sostituito il suo solito taglio di capelli con un caschetto sbarazzino lungo fin quasi alle spalle. Stava davvero bene: non sembrava più un maschiaccio appassionato di Quidditch, ma una ragazza pienamente consapevole delle proprie qualità femminili.
Una voce dentro la testa di Edmund -quella che parlava come Laughlin- gli suggerì di farle dei complimenti, ma invece gli uscì un più grezzo: «Che hai fatto ai capelli?»
Mairead parve deliziata dal fatto che qualcuno si fosse accorto del cambiamento. «Tagliati» rispose con semplicità, senza tuttavia nascondere il suo compiacimento. «Vi piacciono?» chiese, quando ormai avevano raggiunto il loro scompartimento.
Un complimento, falle un complimento! disse il Laughlin-coscienza nella mente di Edmund.
Il ragazzo aprì la bocca, ma l'amico lo precedette.
«Stai benissimo, Mairead» esclamò, strappando un sorriso deliziato alla diretta interessata.
Maledizione! Di nuovo! pensò contrariato Edmund, reprimendo una smorfia.
«Ehi, ehi, posso sedermi qui con voi?» esclamò in quel momento Bearach, entrando nello scompartimento con un sorriso estasiato stampato sul volto. Vedendo le espressioni arrendevoli dei suoi amici, Laughlin si affrettò a prevenire qualsiasi risposta affermativa. «No» replicò secco, con un tono che non ammetteva ulteriori questioni sull'argomento. «Sparisci».
Bearach gli rivolse una sonora pernacchia, poi uscì in corridoio sbattendosi la porta alle spalle.
«Sei un dittatore con il tuo fratellino» commentò Mairead, ridacchiando.
Laughlin sbuffò. «Non farti ingannare dal suo visino angelico: è un demonio travestito da marmocchio» rispose fingendo un disprezzo verso il fratello minore che tutti sapevano essere solo di facciata. Ma nessuno osava dirglielo.
I tre amici si sedettero sulle poltroncine rosse del vagone e per un po' calò il silenzio.
«Connery come sta?» buttò lì Edmund, per uno strano senso di masochismo. Non appena lo chiese, si morse la lingua: in realtà non gliene fregava proprio niente di come stesse quel cialtrone di Connery. Anzi, avrebbe preferito che sparisse nel nulla, con quel suo odioso sorriso affascinante e gli occhioni blu, inghiottito da una voragine immensa apertasi sotto di lui.
Mairead fece una smorfia. «L'ho mollato appena è tornato dalla Bulgaria» annunciò.
«Davvero?» chiese Edmund, cercando di dare un tono neutro alla sua domanda anche se, a giudicare dal sorrisetto divertito che gli lanciò Laughlin, il suo tentativo non aveva avuto grande successo.
«Mah, sì...» rispose vaga Mairead. «Si atteggiava troppo da grand'uomo, per i miei gusti, e poi non mi andava di condividere il ragazzo con uno sciame di starnazzanti fans che gli sbavano dietro».
Lo disse con un tono disinteressato, ma i suoi occhi tradivano tutt'altra emozione: un certo dispiacere, forse, e anche un po' di nostalgia.
«Ehi, ragazzi!» esclamò proprio in quel momento una voce familiare: sulla porta era comparso Iulius McEwan, un loro compagno Raloi. «Avete saputo la novità?» chiese, mettendo in mostra il petto su cui brillava la coccarda rossa con la spilla dorata, recante la lettera C incisa sopra.
«Sei diventato console?» chiese gentilmente Mairead.
Laughlin approfittò della distrazione dell'amica per sporgersi verso Edmund e sussurrargli all'orecchio: «Levati dalla ghigna quel sorriso beota, o si potrebbero fraintendere le tue intenzioni».
Solo allora Edmund si rese conto che la notizia della rottura tra Mairead e Bellimbusto Connery gli aveva provocato un'involontaria contrazione dei muscoli facciali in un sorriso decisamente ilare. Si riscosse d'improvviso, cercando di scacciare la gioia selvaggia che gli rimbombava nella testa concentrandosi sulla conversazione in corso nello scompartimento.
«Peig Kenneth» stava rispondendo Iulius, forse alla domanda su chi fosse la console femminile dei Raloi.
«E delle altre case?» chiese Laughlin.
«La O'Callaghan e Trimble per i Llapac e la Diablaiocht e Balosky per i Nagard» disse Iulius con gentilezza. «Ora scusate, ma devo andare a pattugliare i corridoi del treno».
I ragazzi lo salutarono, ma solo quando la porta si fu richiusa alle sue spalle, Laughlin osò fare la domanda che tutti si stavano ponendo: «La Diablaiocht console? Quali credenziali ha quella schifosa sanguinista?»
«Sicuramente più di noi» rispose Edmund, con pacata tranquillità. Quando i suoi amici si voltarono verso di lui e gli riservarono occhiate dubbiose, si affrettò a spiegare: «Andiamo, noi da soli ci siamo cacciati in più guai di tutto il resto della popolazione scolastica messa assieme. Nessun professore sano di mente avrebbe proposto la nostra candidatura per compiti di responsabilità e vigilanza».
In effetti, vista dal lato oggettivo, la situazione sembrava piuttosto logica: con tutti i casini che avevano combinato, non erano certamente adatti a diventare consoli.
Ciò non toglieva che a Laughlin avrebbe fatto piacere aggiungere quell'onorificenza ai suoi personali traguardi raggiunti. Suo padre era stato prima console e poi dictator dei Nagard, ai tempi in cui aveva frequentato il Trinity: Laughlin avrebbe voluto tanto eguagliarlo nei suoi meriti. Ma, a quanto pareva, si era scelto le amicizie sbagliate. Andiamo, lui era sempre stato un ragazzo così giudizioso: era evidente che erano stati gli altri due a trascinarlo sulla cattiva strada. Ecco cosa succedeva a chi si faceva trainare da due teste calde dei Raloi.
Ghignò.
«Vado a fare i complimenti a Moira per la sua nomina. Così colgo anche l'occasione per salutarla visto che è tutta estate che non ci vediamo» mormorò proprio in quel momento Edmund.
Laughlin fece un cenno d'assenso con il capo, osservando la figura dell'amico che usciva dallo scompartimento.
Sinceramente, ne avevano passate delle belle insieme, ma non avrebbe mai fatto a cambio con una stupida onorificenza: gli altri potevano pure tenersi la coccarda da consoli, perché lui non avrebbe mai rinunciato alla sua amicizia con quei due stupidi ed impulsivi Raloi che erano Mairead e Edmund.

Bearach riteneva che suo fratello fosse un gran antipatico. Ok, era un tipo ganzo e avrebbe tanto voluto essere come lui, ma spesso si comportava come un odioso egoista. Voleva starsene da solo con i suoi amici, come se lui fosse una fonte di disturbo, come se potesse intralciare i suoi divertimenti. Lo scaricava.
Era proprio antipatico.
Andiamo, non che Bearach ritenesse di aver bisogno di una balia, perché era un tipo intraprendente che sapeva come farsi dei nuovi amici e non naufragare nella tempesta della scuola, anche in virtù delle sue indiscusse doti di simpatia e giovialità, però gli avrebbe fatto piacere presentarsi alla comunità scolastica presentando un tanto illustre fratello. In fin dei conti, Laughlin era al quinto, era un Nagard ed era amico del campione del Trinity: poteva essere un ottimo trampolino di lancio.
Mentre trascinava il suo baule lungo il corridoio del treno, perso in questi pensieri, Bearach cercava di darsi un'aria importante, da vero Maleficium, sebbene la sua divisa ancora grigia lo identificasse drasticamente come uno del primo anno. Individuò uno scompartimento dove erano seduti solo tre ragazzini con le divise grige e chiese di poter entrare con estrema cortesia e dignità.
«Prego» lo invitò una ragazzina con vaporosi capelli biondi.
Bearach non si considerava un appassionato di moda, ma non poté evitare di notare che la sua interlocutrice aveva tra i capelli una molletta fatta a fiore, piuttosto vistosa, e quella cosa colorata che le femmine si mettevano sulle palpebre. Azzurra, come azzurri erano i suoi occhi.
«Io sono Rosalie» si presentò la ragazzina. «E questa è la mia gemella Lily».
Solo allora Bearach notò che affianco alla prima, c'era una seconda biondina: anche lei aveva l'ombretto azzurro (ombretto, ecco come si chiamava quella roba colorata), ma almeno si era risparmiata la molletta floreale.
«Io sono Laurence» aggiunse il terzo ragazzino, un tipo paciotto con la faccia allegra.
Bearach gli si sedette accanto, poi si presentò a sua volta.
«Voi in che casa sperate di finire?» chiese Rosalie, giusto per fare un po' di conversazione.
Man mano che la osservava meglio, Bearach notava dei dettagli sempre più agghiaccianti: in particolare, il suo sguardo si soffermò sugli orecchini a forma di farfalla, tutti ricoperti di cose sbarluccicose. Terrificanti.
«Non lo so, i miei sono Babbani» rispose Laurence, stingendosi nelle spalle.
Troppo pacifico, nessuna ambizione. pensò Bearach, riguardo al ragazzino seduto al suo fianco. Diventerà un Llapac.
Cari vecchi pregiudizi!
Dopotutto, non era colpa sua: era risaputo che i Llapac erano pappe molli.
«Io spero tanto di finire nei Raloi» cinguettò Rosalie con aria sognante. «È la casa degli eroi!»
Bearach arricciò il nasino a punta con evidente disprezzo. Non che non gli piacessero i Raloi -ehi, Ed e Mairead erano tipi a posto!- ma la casa più ganza era senza ombra di dubbio quella dei Nagard.
«Che hai da fare quella faccia?» lo interpellò la gemella, parlando per la prima volta da quando lui era entrato nello scompartimento. I suoi occhi azzurri mandavano fiamme nella sua direzione. Altro che ombretto.
«Ehi, senti...» cominciò a dire Bearach, con un tono studiatamente tranquillo. «Niente contro i Raloi, ma io sarò un Nagard».
«Nagard? Ma lo sai che da quella casa sono usciti più maghi oscuri che da qualunque altra?» gli domandò scandalizzata Lily.
Bearach si strinse nelle spalle. «Chiunque ambisca a diventare qualcuno deve stare tra i Nagard» rispose con semplicità. «E poi i Maleficium sono in quella casa praticamente da sempre».
«Be', ma...» provò a ribattere Lily, quando fu interrotta da un'apparizione paradisiaca: lei non aveva attaccata al muro sopra il letto la sua foto, ritagliata dal giornale, come Rosalie, ma non poté evitare di ammirarlo imbambolata, quando lui comparve nello scompartimento.
Sì, perché Edmund McPride era dannatamente bello.
«Ciao, Bearach» salutò, con un sorriso smagliante. «Tutto bene?»
«Me la cavo» rispose il ragazzino, scrollando le spalle.
«Non sei arrabbiato con Laugh perché ti ha cacciato via, vero?» indagò Edmund, che certo non avrebbe sopportato quella pulce di Bearach per tutto il viaggio, ma un po' era spiaciuto per come l'amico aveva trattato il fratellino.
Bearach fece una smorfia. «Ammetto che è un gran antipatico, ma posso sopportarlo» concesse, stringendosi nelle spalle. «Ma, ehi... solo perché è mio fratello» aggiunse poi, come ripensandoci.
«Ok» rispose Edmund, un po' più sollevato. «A dopo, allora» salutò e poi si affrettò a squagliarsela, perché le due biondine alla sua sinistra lo stavano divorando con gli occhi.
Quando Edmund si fu chiuso la porta alle spalle, ci mancò poco che Rosalie non saltasse addosso a Bearach. «Tu conosci Edmund McPride?» gli chiese, con la voce resa acuta dall'eccitazione. Sembrava che avesse appena incontrato il suo cantante preferito e fosse riuscita a strappargli un autografo.
«Sì» rispose Bearach, senza capire cosa ci fosse di così emozionante. O meglio, senza capirlo subito.
Sorrise.
«Be', sapete... Ed è il migliore amico di mio fratello» aggiunse con l'aria di un dandy consumato della società mondana. «Lui viene a casa nostra molto spesso» specificò, come per rendersi partecipe dell'influente amicizia.
«Davvero?» mormorò Rosalie sognante.
Se Bearach avesse dovuto trovare un colore per il tono di voce che la ragazzina aveva usato, avrebbe scelto di sicuro il rosa. Rosalie era tutta terribilmente rosa.
Lily, al contrario, aveva una strana smorfia dipinta in viso. Sembrava quasi che lo disprezzasse, che trovasse disgustoso il suo modo di sottolineare le amicizie importanti. Che faceva, adesso, la paladina degli eroi onesti, senza macchia e senza paura?
Bearach le scoccò uno sguardo di superiorità, senza farsi tangere dal suo malcelato sdegno. Era proprio una ragazzina antipatica. Quasi quanto suo fratello.
Con quel suo spirito eroico, sarebbe diventata una perfetta Raloi.




Eccoci qui! Il personaggio a cui volevo dedicare un po' di spazio era proprio Bearach, perché se lo merita visto che sta per arrivare al Trinity!
Le new entries sono le gemelle Sharpaty: ombretto, pailettes e poster di Edmund in camera! ahahah! Sono le tipiche adolescenti... ma torneranno, don't worry. Soprattutto Lily! E anche il fatto che si chiami così non ha nulla a che fare con
quella Lily, ma con il fatto che, be', lo saprete, Lily vuol dire giglio. Lo scoprirete!
Intanto, QUI l'immagine che li rappresenta.
Tra l'altro, non so se avete notato, ma Lily dice a Bearach la stessa cosa che Mairead aveva detto a Laughlin, il primo giorno sul treno: dalla casa dei Nagard sono usciti più maghi oscuri che da qualunque altra. E Bearach, degno Maleficium, risponde come il fratello! Io adoro i Maleficium, a qualsiasi livello! ;)
Ah, ho aggiunto la specifica dei Tiratori Scelti, una brutta traduzione dall'inglese: si tratta di un corpo che, se non ricordo male, la Rowling ha identificato con una sorta di Polizia Magica (gli Auror, invece, sono specializzati nella cattura dei maghi oscuri).
Infine, lo so che non c'è bisogno di dirlo, ma io AMO Laughlin! ahahah!

Bene, basta. Prossimo capitolo: venerdì 6 aprile. Prometto grasse risate alle spalle del povero Eddy! ;-)
Grazie a tutti, a presto
Beatrix

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Capitolo 5
*** Un bel ragazzo ***


CAPITOLO 5
Un bel ragazzo






La prima giornata di lezioni si rivelò piuttosto intensa per i ragazzi del quinto anno: tutti i professori si premunirono di ricordare loro che quell'anno avrebbero dovuto sostenere la P.R.O.B.A.T.I.O. (Prova Regolare Ordinara Basata sull'Apprendimento Totale Inizialmente Ottenuto) e per poter accedere all'esame dovevano ricevere una valutazione sufficiente in tutte le materie regolari, ovvero Difesa contro le Arti Oscure, Incantesimi, Pozioni, Latino e Irlandese, Trasfiguarazione, Storia della Magia e Erbologia. In seguito, sarebbero stati esaminati in ciascuna delle materie e avrebbero ricevuto un voto per ogni esame.
Inoltre c'era la questione dei colloqui di orientamento professionale e la scelta dei corsi avanzati da scegliere per il sesto anno.
Insomma, un vero schifo.
Tutti gli studenti sentirono addosso la pressione fin dal primo giorno, per nulla aiutati dai discorsi da terroristi degli insegnanti.
Henry Alabacor, durante la temutissima prima lezione di Trasfigurazione del professor Cumhacht, tenutasi quel lunedì pomeriggio, aveva addirittura preso a tremare. Se n'era uscito dall'aula, alla fine dell'ora, con una faccia da funerale, mugugnando che non c'era una sola possibilità che venisse ammesso agli esami.
Terminate le lezioni di quel giorno, Edmund, giusto per defilarsela dai compagni affranti e da tutti quei pronostici negativi, che a suo parere non facevano altro che peggiorare la situazione, decise di rifugiarsi in biblioteca. Non che avesse qualcosa di preciso da cercare, ma quell'ambiente cupo e silenzioso lo rilassava.
Si incamminò con la testa persa nei propri pensieri, quando una vocetta sottile alle sue spalle esclamò: «Ciao, Edmund!»
Il ragazzo si voltò per trovarsi di fronte una primina dai vaporosi capelli biondi. Notò che aveva l'ombretto rosa: davvero trash.
«E tu chi saresti?» le chiese, dato che ricordava nebulosamente di averla vista nello stesso scompartimento in cui aveva trovato posto Bearach.
La ragazzina cominciò a sbattere le ciglia deliziata. «Sono Rosalie Sharpaty. Sono anche io una Raloi!» esclamò, accennando alla sua divisa verde sgargiante.
«Questo lo vedo» commentò Edmund, che non riusciva a capire che cosa ci fosse di così emozionante. E poi alzò gli occhi da Rosalie e vide che tutti lo stavano fissando. O meglio, tutte, visto che il pubblico era esclusivamente femminile.
Che stava succedendo? Che avevano da guardare?
Proprio in quel momento vide passare Moira e la ricorse come se fosse la sua ancora di salvezza. «Ehi, Moira!»
Parecchie studentesse la scrutarono con astio e invidia, come se lei avesse appena vinto un premio che desideravano da tanto tempo. La ragazza, troppo sovrappensiero per accorgersene, si voltò verso di lui. «Cielo, Edmund! Che succede? Sembra che tu abbia appena visto un Gramo!» esclamò nel vedere la sua faccia.
Edmund si guardò in giro e vide che alcune ragazze li stavano ancora osservando. «Ma che ne so! Che diavolo è preso alla gente? Perché mi fissano tutti?»
A quelle parole Moira scoppiò a ridere divertita. «Non ti sei visto allo specchio, stamattina?» gli chiese con un ridolino.
Edmund si tastò la faccia, preoccupato. «Perché, che ho?»
«Ma no, era così per dire...» rispose Moira alzando gli occhi al cielo.
«Per dire cosa?» domandò Edmund, senza riuscire a capire dove volesse andare a parare quel discorso.
«Che sei un bel ragazzo, Ed. E la “gente” se n'è accorta» gli rivelò Moira, con uno sguardo eloquente.
Edmund, tuttavia, era perplesso. «Tutto adesso?» chiese, scrutando la sua interlocutrice per cercare di carpire il senso nascosto delle sue parole.
Moira lo guardò con accondiscendenza. «Be', anche l'anno scorso eri carino, ma adesso... insomma, sei diventato un uomo. E niente male, anche» spiegò in tono tranquillo. «E poi sei famoso» aggiunse poco dopo, come ripensandoci.
«Famoso?» le fece eco Edmund.
Moira lo guardò con tanto d'occhi. Possibile che non capisse?
«Andiamo, Ed! L'anno scorso eri Campione del Trinity e hai visto il Torneo Trecolonie, ora sei perfino il figlio del Presidente. Ha un certo qual fascino la cosa» esclamò Moira, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Nel frattempo erano arrivati davanti alla porta della biblioteca, vicino alla quale si trovava l'ingresso degli alloggi dei Llapac. Edmund si fermò sulla soglia, a rimuginare sulle parole della sua amica. Non ci aveva mai pensato, non era abituato a quel genere di cose. Ma forse Moira non aveva tutti i torti.
«Ehi, sono un bel ragazzo!» realizzò con soddisfazione, rimirandosi nella pallida figura riflessa sul vetro della finestra.
Chissà se lo pensava anche Mairead.
Moira scoppiò a ridere. «Meglio tardi che mai! E sì che sei un genio!» commentò in tono divertito. Dopodiché varcò la porta blu con disegnato un unicorno bianco, che portava alla sala comune dei Llapac, abbandonando Edmund al suo destino.

«Laugh, sono un bel ragazzo?» domandò Edmund di getto, sedendosi al tavolo dei Nagard in Sala Mor. Ci aveva rimuginato tutto il pomeriggio, su quella storia, ma, lontano dalle rassicuranti parole di Moira, non era più tanto sicuro di poter dire di essere bello. Dovevano pur esistere dei metri di giudizio obiettivi, no?
Ma nessuno glieli aveva mai spiegati, né sapeva dove avrebbe potuto trovarli. Aveva anche cercato dei libri in biblioteca su quell'argomento, senza ottenere grandi risultati, in realtà.
Che cos'era “bello”? E lui poteva definirsi tale?
A quell'assurda domanda, Laughlin alzò gli occhi dal piatto -cosa che accadeva di rado, a voler essere precisi-. Era stranito.
«Ti sembro gay?» chiese in tono allibito.
Edmund si passò una mano davanti alla faccia. «No, è che... cioè, rispondi alla mia domanda: secondo te sono un bel ragazzo?»
«Ma che ne so!» rispose Laughlin, scioccato da quella storia assurda. «Chiedilo a Mairead!»
«No!» rispose Edmund, scandalizzato. «Lei è una ragazza!»
«Appunto!» commentò Laughlin, come se stesse parlando con un idiota.
Dominique, seduto al fianco di Laughlin, soffocò una risata nel tovagliolo.
Laughlin se ne accorse e represse a malapena un sorriso, mentre il Raloi pareva perso nei propri pensieri.
«Moira dice che sono un bel ragazzo» buttò lì Edmund, dopo una breve pausa di silenzio.
Laughlin alzò gli occhi al cielo, ma quando tornò a guardare Edmund, lui sembrava davvero preoccupato dalla faccenda. Allora Laughlin gli piantò gli occhi addosso. «Passare l'estate a casa di McPride ti ha rincretinito?»
«No! È che... niente, lasciamo perdere» rispose Edmund scuotendo la testa.
«Sì, forse è meglio» asserì Laughlin, riprendendo la sua cena interrotta.
Passarono una manciata di minuti di perfetto silenzio, durante i quali Edmund prese a fissare con aria ostinata una coscia di pollo abbandonata sul piatto di servizio.
Laughlin intuì che non si trattava di fame: l'amico sembrava davvero angosciato da quella questione, come se cercasse una delle sue tanto amate soluzioni razionali ad un problema che di razionale aveva ben poco.
E, per quanto il mangiare fosse una delle sue principali ragioni di vita, Edmund sembrava avere decisamente bisogno del suo aiuto. E Laughlin aveva già in mente un piano.
In fondo, chi gli negava di divertirsi un po' alle sue spalle, nel tentativo di aiutarlo?
Finì il più velocemente possibile ciò che aveva nel piatto e, mettendo a tacere con un immenso sforzo il suo stomaco che reclamava ancora cibo, si alzò dal tavolo. «Ed, Dom, riunione straordinaria» annunciò con cipiglio da leader.
Sono nato per comandare! pensò compiaciuto, vedendo l'effetto immediato che avevano avuto le sue parole: Edmund e Dominique si erano alzati di scatto dal tavolo, pronti ad obbedirgli.
Rivolse un ghignetto divertito in direzione di Dominique, che rispose con altrettanta ilarità: erano Nagard, se c'era l'occasione di sfruttare un po' le altrui debolezze, non si tiravano mai indietro. In fondo, avrebbero anche aiutato Eddy.
Laughlin scortò i due amici verso il covo segreto degli Extraiures, il primo luogo tranquillo che gli fosse venuto in mente: lì non c'era pericolo di essere disturbati. L'avevano eletto già l'anno scorso come loro personale covo, ripulendolo dalla polvere, ragnatele e cartacce per riportarlo agli antichi splendori. Un ottimo posto per starsene in pace.
«Wow, Laugh!» esclamò estasiato Dominique, che metteva piede per la prima volta nella stanza segreta. «Che luogo è mai questo?»
«Mah...» rispose Laughlin vago. «Una vecchia scoperta. Almeno qui nessuno ci disturberà».
Edmund si guardò attorno con aria scettica perché, dopo aver accetto con tanto entusiasmo l'invito dell'amico, ora non era più tanto sicuro di aver fatto bene a lasciargli carta bianca.
«Edmund, siediti» ordinò Laughlin, unendo la punta delle dita davanti alla bocca e cominciando a camminare avanti e indietro, come se stesse progettando un piano per rapinare la Gringott.
Edmund e Dominique presero posto al tavolino dove si trovava la scacchiera.
«Ora!» decretò Laughlin, alzando il dito indice al cielo, dopo che gli altri due si furono accomodati. «Analizziamo la situazione da un punto di vista oggettivo» propose con gravità, facendo comparire un ghignetto divertito sul volto di Dominique.
Il ragazzo non sapeva dire se era più divertente il tono solenne che Laughlin utilizzava per quell'assurda questione o il fatto che Edmund stesse prendendo la cosa con assoluta serietà.
«Allora, sei alto, non troppo muscoloso ma piuttosto filiforme» cominciò ad elencare, sottolineando ogni qualità con un passo.
«Alle ragazze non piacciono i tori alla Titus Judge» aggiunse Dominique con tono risaputo, citando come esempio il battitore dei Llapac dell'anno scorso. Un tipo decisamente grosso, in effetti.
«Esatto, Dom» asserì Laughlin, fermandosi in mezzo alla stanza con fare meditabondo. «Inoltre, sei moro e questo è un punto a tuo favore» aggiunse poco dopo, come se ci avesse pensato su. «Anche se il biondo ha sempre il suo fascino, eh» puntualizzò per puro dovere patriottico, visto che lui era chiaro di capelli.
«Ma la chioma bruna è molto caliente. Soprattutto se accompagnata da occhi chiari» continuò, cercando di trattenere la risata che gli era salita sulle labbra nel vedere la faccia attenta dell'amico.
«E tu hai un bel paio di occhi azzurri, luminosi e intensi» specificò Dominique, anche lui preso dal gioco. «Sempre analizzando il tutto dal punto di vista oggettivo» aggiunse, per evitare strani fraintendimenti.
«Ovvio» confermò Laughlin con estrema serietà. «Inoltre, hai un profilo del viso regolare, non troppo mascolino ma nemmeno molle» continuò ad elencare. «Unica pecca, forse, la carnagione un po' pallida».
«Be', ma fa molto fascino del bello e tenebroso» commentò Dominique, senza tuttavia riuscire a trattenere un sogghigno.
«In sostanza...» concluse Laughlin, sedendosi sull'amaca più bassa. «I dati oggettivi ci confermano la tesi iniziale: sei un bel ragazzo, Eddy!» annunciò, allargando le braccia con evidente soddisfazione.
«Dici?» si azzardò a chiedere alla fine Edmund, in tono dubbioso.
Dominique ne approfittò per indirizzare a Laughlin un sorriso smagliante e irriverente. Era assurdo come Edmund prendesse sul serio una cosa tanto stupida.
«Ne sono assolutamente sicuro» decretò Laughlin, sempre con la solita solennità. «E se ne vuoi un'ulteriore riprova, basta vedere lo sciame di femmine che ti corre dietro!»
Questa volta Dominique si lasciò andare ad un'aperta risata, facendo arrossire violentemente Edmund.
Anche Laughlin si concesse un ghigno, ma poi tornò subito serio. «Ora, Ed, alzati in piedi!» ordinò con foga.
I tre ragazzi si alzarono contemporaneamente, in attesa di chissà quale manifestazione divina.
Laughlin si avvicinò alla porta e l'aprì, poi diede uno spintone a Edmund e lo cacciò fuori dal covo. «Va' e, certo della tua bellezza, fa' strage di ignare fanciulle!» gli urlò dietro, mentre Dominique ormai rideva apertamente.
Laughlin assunse una posa da attore consumato, terribilmente dandy.
Lui e Dominique si scambiarono un'occhiata irrisoria, mentre un ghigno beffardo si disegnava sulle loro labbra.
«Lo so» ammise Laughlin senza avere nemmeno il buon gusto di dissimulare un po' di modestia. «Sono un maledetto genio».





Ecco, avevo promesso grasse risate, no?
E visto che è tornata Rosalie? Fra qualche capitolo, poi, sarà dedicato un po' di spazio anche alla sorella Lily.
Comunque, Edmund è mooooooolto indietro su questo genere di cose, per cui aveva bisogno di una bella schiarita di idee.
Anche se, ammettiamolo, Laughlin è un vero bastard inside! Insomma, fanciulli, che pretendevate? Nagard! ;)
Ah, e ho deciso che è ora di smetterla di disegnare il bel Eddy, quindi per questo capitolo mi sono dedicata a Laughlin e Dominique: QUI nella scena finale in cui Laugh ammette di essere un maledetto genio. Io adoro questo ragazzo! XD
Non ho molto da dire su questo capitolo, se non che spero vi siate divertiti.
Prossimo appuntamento: domenica 15 aprile! Ci daremo ad un po' di filosofia! ;)
A presto,
Beatrix

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Capitolo 6
*** Le Forze della Natura ***


CAPITOLO 6
Le Forze della Natura






La sera del primo giorno, Mairead arrivò in Sala Mor per la cena con un discreto ritardo perché era andata a fare un giro nello stadio da Quidditch con la sua Nimbus. Volare le era davvero mancato, visto che per tutta estate non aveva potuto cavalcare la sua scopa.
Notò immediatamente che ai tavoli non erano seduti né Edmund né Laughlin, ma non ebbe tempo di pensare dove si fossero cacciati quei due, perché aveva in mente ben altro.
Il “ben altro” in questione era una persona in carne ed ossa, seduta a metà del tavolo dei Raloi: Beatrix Connery.
La spilla verde che le brillava sulla camicetta della divisa la identificava come la nuova Capitana della squadra di Quidditch dei Raloi.
Mairead le si posizionò di fronte con un sorrisetto tirato. «Ehi, Beatrix» provò ad intavolare la conversazione su toni neutri. Vedendo che la ragazza alzava lo sguardo su di lei con aria piuttosto perplessa, Mairead capì che era il caso di passare subito al nocciolo della questione: «Mi vuoi ancora in squadra, quest’anno?»
Beatrix per poco non si strangolò con il boccone di pollo che stava mangiando. Quando riuscì a riprendersi, dopo aver bevuto un abbondante sorso d'acqua, guardò la ragazza con aria stranita. «Perché non dovrei?»
Mairead si sfregò la punta del naso con un certo disagio. «Be', perché sono l'ex fidanzata di tuo fratello?» tentò.
Beatrix scoppiò a ridere e quello riuscì a sollevare almeno un poco il morale di Mairead, che azzardò un timido sorriso.
Quando finalmente Beatrix tornò seria, fissò negli occhi l'altra ragazza e commentò: «Senti, sarei una pessima Capitana se rifiutassi in squadra la migliore Punta che abbia mai visto solo per uno sciocco motivo come questo» spiegò con tutta la naturalezza del mondo. «E poi tu sei mia amica, prima che essere l'ex di mio fratello» aggiunse poco dopo, come ripensandoci.
Mairead le rivolse un sorriso di gratitudine. Era certa che Beatrix fosse una ragazza ragionevole e anche una buona amica, ma sapeva benissimo a che estremi poteva arrivare l'amore fraterno. Dopotutto, il professor Cuhmhacht ce la aveva con lei perché suo padre Reammon, vent'anni prima, aveva osato mollare la sorella per mettersi con una donna inglese. Se non era follia, quella!
«E lui adesso come sta? Leonard, voglio dire...» domandò poi, sempre con una certa sensazione di disagio. In fondo, non sapeva bene come ci si dovesse comportare con la sorella del proprio ex.
Beatrix si strinse nelle spalle. «Non l'ha presa molto bene. Sai, bello, affascinante e campione di Quidditch: non è abituato a ricevere pixie in faccia» spiegò con un tono di voce abbastanza tranquillo. Non sembrava che ce l'avesse con lei, dopotutto.
«Era davvero preso da te, a quanto pare» aggiunse poco dopo, versandosi un bicchiere d'acqua.
Mairead capì di aver fatto la domanda sbagliata quando si sentì avvampare come una scolaretta beccata a fissare il più carino della classe. Le dispiaceva per Leonard perché, per quanto fosse stata lei a mollarlo quando aveva realizzato che non era il genere di ragazzo con cui voleva stare, le era sempre sembrato un tipo a posto e non era certo sua intenzione farlo soffrire.
«Comunque tranquilla» la rassicurò Beatrix, forse accortasi dell'imbarazzo dell'amica. «Non sto certo qui a rimproverare te per quello che è successo. So che mi fratello sa essere discretamente intrattabile, quando vuole».
«Un po'...» ammise Mairead dopo un attimo, tanto per dire qualcosa.
Beatrix, che aveva ormai terminato la cena, si alzò dal tavolo con uno sbadiglio. «Be', andrò in sala comune» annunciò a nessuno in particolare. «È solo il primo giorno ma i professori ci hanno già messo sotto torchio per la D.I.M.I.S.S.I.O.».
«Immagino» concordò Mairead, che si sentiva ugualmente sotto pressione per i suoi di esami.
«Comunque» continuò Beatrix, questa volta rivolgendosi in tono serio a Mairead. «Fra un paio di settimane voglio cominciare con le selezioni: abbiamo tre giocatori da sostituire e non ho affatto intenzione di perdere il campionato, quest'anno».
«Nemmeno io» le assicurò Mairead, aprendosi finalmente in un sorriso: le era maledettamente mancato giocare a Quidditch.

Era dall'inizio del semestre che Edmund non vedeva l'ora di scoprire come fosse Filosofia della Magia; la lezione sarebbe tenuta venerdì, dopo pranzo, in un'aula nei sotterranei, proprio di fronte alla piccola chiesetta del Trinity.
Così, quando quel venerdì pomeriggio giunse davanti alla porta, capì immediatamente che Filosofia era una materia un po' bistrattata a scuola, non solo a giudicare dalla posizione defilata della classe, ma anche per la scarsa frequentazione da parte degli studenti: tra tutti quelli del quinto anno, erano stati solo in otto a sceglierla come materia opzionale.
Entrando in aula -piccola e un po' soffocante a causa della mancanza di finestre- Edmund andò a sedersi a fianco di Iulius McEwan, l'unico altro Raloi presente, che gli fece posto con un sorriso gentile.
«Mi hanno parlato bene del professor Majestis» commentò Iulius, tanto per fare un po' di conversazione.
Edmund si lasciò sfuggire un sorriso, ripensando a quanto gli aveva raccontato Mairead a proposito di padre Rafael: lui e Reammon erano stati a scuola insieme e la ragazza si era fatta narrare dal padre una serie di aneddoti divertenti sulla loro adolescenza al Trinity, che poi aveva provveduto a raccontare ai suoi amici. Come quella volta in cui, al primo anno, aveva preso a pugni il padre di Faonteroy.
«Sì, è davvero bravo» ghignò divertito.
«Buongiorno, ragazzi!» esclamò padre Rafael, entrando in aula proprio in quel momento. Aveva lo stesso sorriso gentile che Edmund ricordava, ma dopo aver scoperto come fosse stato esagitato da giovane, non riusciva più a vederlo sotto la stessa luce: gli sembrava che quel volto tranquillo nascondesse un vulcano sul punto di eruttare.
«Otto!» commentò il professore, lanciando un veloce sguardo alla classe. «Più del doppio di quelli dell'anno scorso! Nemmeno nelle mie più rosee prospettive...» scherzò divertito, prendendo il registro per fare l'appello.
Terminato l'elenco, il professore si alzò dalla cattedra e si avvicinò alla lavagna.
Fantastico, già si scrive? pensò Edmund con aria annoiata. Sperava che le lezioni di Filosofia fossero un tantino più intellettuali.
«Molto bene» esclamò padre Rafael, afferrando il cancellino e buttandolo a terra. «Qualcuno sa dirmi perché è caduto?»
I ragazzi si scambiarono delle occhiate perplesse. Che razza di domanda era?
«Perché lei l'ha gettato a terra, professore» rispose con ovvietà Sergey Balosky, un biondino di origine slava che faceva parte dei Nagard.
Padre Rafael fece un gesto con la mano, come se volesse scacciare delle mosche moleste. «Sì, sì, certo. Ma io dico... perché non è rimasto sospeso a mezz'aria?»
Con sommo stupore di tutti fu Dedalus Consolatus ad alzare la mano per rispondere: di solito Dedalus diceva cose strane, anche a lezione. Ed erano davvero strane, perfino per un mago.
Quella volta, invece, disse una cosa sensata: «È la forza di gravità che lo attira a terra. Mio papà, che è Babbano, studia fisica».
Padre Rafael si illuminò. «Esatto, Dedalus. Esatto. La fisica Babbana ci può aiutare a capire come funziona la magia. La forza di gravità, per dirla in modo semplice, è quella forza che ci attira verso il centro della terra» spiegò il professore, raccogliendo il cancellino da terra e poggiandolo sulla cattedra. «Ora, qualcuno sa dirmi perché, se io appoggio questo oggetto sul tavolo, la forza di gravità non lo attira a sé con tanta intensità da, che ne so... fargli bucare il piano di legno affinché raggiunga il centro della terra?»
Anche questa volta gli studenti si lanciarono occhiate perplesse. Che centrava tutta quella pantomima con Filosofia della Magia?
Ma forse Edmund stava cominciando a capire dove voleva andare a parare quel discorso. «Perché...» provò a dire. «Il piano del tavolo gli oppone resistenza con una forza di uguale intensità».
Padre Rafael gli sorrise, annuendo compiaciuto. «Non avrei potuto dirlo meglio» asserì con convinzione. «Anche se non ce ne accorgiamo, il tavolo ha una sua forza, che si chiama forza di resistenza, ed è uguale e opposta a quella di gravità» spiegò, prendendo un gessetto e disegnando una linea orizzontale sulla lavagna, con sopra un pallino che doveva essere il cancellino in questione. «Perciò, le due forze opposte mantengono l'oggetto in equilibrio» continuò a illustrare, disegnando, sotto il pallino una freccetta che andava verso il basso e, sopra, una uguale, solo nella direzione inversa.
«Ora, fin qui era semplice fisica, come vi potrà confermare anche il signor Consolatus» riprese il professore, voltandosi verso la sua piccola classe. Estrasse la bacchetta di tasca e la puntò verso il cancellino. «Ma se io faccio un semplice Incantesimo di Levitazione, l'oggetto si solleva. Perché?»
«Perché sta facendo una magia?» bofonchiò Finan Best, l'unico del trio Diablaiocht-O'Hara-Best che avesse deciso di seguire le lezioni di Filosofia. E, a giudicare dal tono sarcastico con cui aveva pronunciato quella frase, doveva essersene pentito.
Impossibile che il professore non avesse sentito quella battutina, ma evidentemente preferì ignorarla. La sua domanda restava ancora senza risposta.
Edmund osservò il cancellino che volava per la classe, e gli venne un'illuminazione improvvisa. Non sapeva come gli fosse venuta in mente, ma era certo che quella fosse la risposta giusta. «Perché... ora l'oggetto non è più in equilibrio. La forza che lo sta facendo muovere è più potente della forza di gravità che lo trascinerebbe a terra».
Il professore interruppe la magia e il cancellino cadde rovinosamente a terra. «Perfetto, Edmund. Dieci punti ai Raloi» sentenziò il professore, rivolgendogli un sorriso incoraggiante. A quella notizia, Iulius gli lanciò uno sguardo di approvazione.
«Ora, la magia, si fonda su questo principio: esistono delle forze, che noi non vediamo (come non vedevamo la forza di resistenza del tavolo), ma che possiamo percepire e che siamo in grado di sfruttare. Queste sono le Forze della Natura» cominciò a spiegare il professore.
Edmund, troppo rapito da quelle parole, si accorse che era il caso di prendere appunti solo quando Iulius gli tirò una gomitata, riscuotendolo dal suo incanto. Allora tirò fuori penna e calamaio e si affrettò a segnare le informazioni.
«Le Forze della Natura sono innumerevoli. Ora, l'Incantesimo di Levitazione, uno dei più semplici che si insegnano al primo anno, sfrutta la forza di resistenza dell'aria, perché anche l'aria, come il tavolo, ha la sua resistenza. Quando voi imparaste a far levitare le vostre piume, sfruttavate questa forza, anche senza saperlo» spiegava padre Rafael, passeggiando avanti e indietro per l'aula. «Tuttavia, non è possibile sfruttare le Forze della Natura senza... questa!» continuò, alzando davanti ai loro occhi la sua bacchetta magica. «Senza questo catalizzatore di energie. È una condicio sine qua non: non si possono fare magie senza bacchetta».
«Mi scusi professore, ma allora come si spiega la Magia Accidentale dei bambini?» domandò Iulius, alzando il naso dalla pergamena su cui aveva preso degli appunti fitti fitti.
«Quella è magia non catalizzata, ma si tratta di scoppi, appunto accidentali, di forza magica che si scontra e reagisce a contatto con le Forze della Natura» spiegò paziente padre Rafael.
I ragazzi scrivevano frenetici tutti gli appunti, nel tentativo di non lasciarsi sfuggire nulla. Perfino quello schizzinoso di Best sembrava essersi ricreduto.
«E le magie dei Lucht Siuil?» intervenne Edmund che si ricordava della lezione di Magicologia Irlandese in cui il professor Saiminiu aveva detto che queste comunità di nomadi erano in grado di compiere le antiche magie druidiche.
«Domanda interessante, Edmund» commentò padre Rafael. «Effettivamente, i maghi Lucht Siuil non usano la bacchetta fino alla maggiore età quando, attraverso un rito di passaggio, se la costruiscono da soli. Ma anche prima di quella soglia, utilizzano dei rudimentali catalizzatori di magia, come amuleti, bastoni sacri o falcetti d'oro» spiegò con tranquillità.
Edmund realizzò che Dominique aveva davvero ragione: per quanto fosse giovane, padre Rafael sembrava avere una cultura molto ampia.
«Ma, attenzione!» riprese il professore. «Non è una condizione sufficiente, perché, se voi date la vostra bacchetta ad un Babbano, non sarà mai in grado di compiere magie. Un Babbano può sapere che esistono le Forze della Natura, ma non potrà mai percepirle, né sfruttarle».
Padre Rafael passò il resto della lezione a catalogare e spiegare le Forze della Magia più comuni e diffuse, che venivano utilizzate dagli incantesimi base.
Quando ormai mancavano pochi minuti al termine della lezione, si posizionò dietro la cattedra e osservò i suoi studenti ad uno ad uno. «Un ultima cosa» decretò in tono serio. «Tutte le magie, anche le più oscure, sfruttano le Forze della Magia. Non esiste un limite al potere di un mago, se non la Prima Legge Fondamentale della Magia, del filosofo scozzese Adalbert Incant».
A quelle parole, una scritta comparve alla lavagna:

Altera i più profondi misteri – l'origine della vita, l'essenza dell'uomo – solo se sei preparato alle conseguenze più estreme e pericolose.

Padre Rafael si spostò, perché tutti potessero leggere la scritta. Dopodiché continuò: «In realtà, più che una legge sembra un consiglio. Voi potreste fare, potenzialmente, qualsiasi cosa con la vostra bacchetta, le magie più potenti ed efferate che riusciate ad immaginare».
Edmund sentì che il suo cuore cominciava a battere più forte, per l'eccitazione. Non c'erano limiti al suo potere! Avrebbe potuto fare... qualsiasi cosa! Come gli aveva detto suo padre!
«Solo...» la voce seria di padre Rafael lo strappò bruscamente dai suoi sogni di gloria. Chissà perché, Edmund ebbe come l'impressione che il professore stesse fissando proprio lui. Il suo volto era una maschera di gravità.
«Dovete essere pronti ad affrontarne le conseguenze».






Santo cielo, ho notato adesso che avevo promesso ieri il capitolo... ma sulla mia agenda avevo segnato di aggiornare oggi! Pardon! ^^
Comunque, dopo il capitolo allegro della volta scorsa siamo tornati seri: questa lezione di Filosofia ce l'avevo in mente da una vita e l'ho scritta secoli fa; mi sembrava giusto che i giovani maghi avessero il diritto di capire come funziona la loro magia... è un po' come usare il pc senza sapere come lavora: puoi sopravvivere benissimo (come faccio io!) ma se sei curioso hai il diritto di studiare informatica! ;)
Spero di essere stata chiara nella spiegazione e che vi sia piaciuta. Ovvio, è solo una mia teoria, nulla di autorizzato né dai siti, né dalla Rowling... al contrario, invece, della frase di Adalbert Incant, che ho copiato pari pari dalle note di Silente alle fiabe di Breda il Bardo. Comunque, non è una speculazione fine a se stessa: mi servirà più avanti per giustificare la teoria dell'ammmmmmore di Silente e anche per un altro paio di cosucce!
Ah, e se nn si era capito, io sono una fautrice della teoria che non si possono fare magie senza bacchetta...
QUI, comunque, l'immagine del capitolo: padre Rafael che fa volare il cancellino!
Prossimo capitolo: mercoledì 25 aprile... ho segnato la data giusta, giuro!
A presto,
Beatrix

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Capitolo 7
*** Sempre al tuo fianco ***


CAPITOLO 7
Sempre al tuo fianco






Il signor Maleficium non era il tipo di persona che si interessava di politica. Troppi sotterfugi, troppi compromessi e sorrisini di circostanza. Lui era un uomo a cui piacevano le cose fatte alla luce del sole, limpide e oneste. Questo non significava che attaccava briga con tutti quelli che non gli andavano a genio, perché cercava di essere rispettoso con chiunque; ma, a conti fatti, la politica non faceva per lui.
Aveva un ideale di società e dava il suo voto al partito che gli pareva fosse più vicino alle sue esigenze. Fine della storia.
Tuttavia, mentre passeggiava per le vie di Dubh Cliathan e osservava certi manifesti propagandistici, si ritrovò costretto ad ammettere che ultimamente il Governo da lui votato (infatti, per quanto non gli piacesse del tutto Adolphus McPride, era comunque il Partito della Tradizione ad essere più vicino ai suoi ideali) stava facendo una spiacevole virata in senso autoritario. Quella era sicuramente una linea migliore rispetto all'ostinato negazionismo del Ministro della Magia Britannico, ma gli pareva comunque che certe leggi, più che essere varate per la sicurezza nazionale, stessero inasprendo l'odio e la paura verso tutto ciò che proveniva dall'Inghilterra.
Reammon aveva ragione nel dire che Diablaiocht stava sfruttando la sua posizione e il clima di tensione per portare all'approvazione disegni di legge che sapevano tanto di razzismo contro i Britannici.
«Ma guarda chi si vede» esclamò una voce proprio alle sue spalle.
Eoin si voltò lentamente perché aveva riconosciuto l'uomo che lo aveva chiamato con quel tono di falsa gentilezza, che nascondeva invece un aperto disprezzo.
«Scipio Diablaiocht» rispose con un sorriso tirato.
«Una bella giornata per passeggiare» introdusse il discorso l'altro, falsamente amichevole.
Eoin non era proprio in vena di convenevoli, ma era costretto a fingere cortesia per non rovinare la sua fama di gentiluomo. «Per essere ottobre, fa ancora discretamente caldo» concesse.
Diablaiocht gli si avvicinò ancora di un passo e, quando fu certo che nessuno potesse vedere la sua espressione facciale oltre al suo interlocutore, fece sparire quel sorriso di circostanza e assunse un'aria insieme seria e provocatoria. «Stai attento a dove metti i tuoi delicati piedini aristocratici, Eoin, perché sta per arrivare il momento in cui non ci sarà più posto per nobili e orgogliose prese di posizione a favore di onestà e perbenismo» gli sussurrò ad un soffio dalla sua faccia. «Fra poco si scatenerà una guerra e dovrai scegliere da che parte stare».
Con quelle parole, si spostò leggermente indietro e assunse di nuovo quel suo sorrisetto dissimulato. «Mettiamo da parte le vecchie divergenze?» propose, allungando la sua mano verso l'antico avversario.
Eoin fece un passo indietro, la faccia ridotta ad una maschera inespressiva. «Grazie, Scipio, ma so scegliere da solo da che parte stare» replicò in tono freddo. Dopodiché gli voltò le spalle e fece per andarsene.
«Nel mondo non ci sarà sempre posto per nobili orgogliosi della propria casta purezza!» gli gridò dietro Diablaiocht, con una punta di risentimento e sfacciataggine.
Eoin si voltò appena verso di lui. «Quando quel mondo arriverà, io non vorrò più viverci».
E con quelle parole chiuse definitivamente la questione, dirigendosi verso il primo Metrombino per tornare a villa Maleficium.
Non appena mise piede in ingresso, ancora scosso dalla conversazione avuta con Diablaiocht, sentì provenire dal salotto degli ospiti una serie di suoni indistinti che difficilmente si sarebbero potuti catalogare come musica. Una voce piuttosto acuta ma quasi per certo maschile, stava cantando (se di canto si poteva parlare) sopra ad un ritmo martellante:

It don't metter if you're black or white!

Eoin entrò in salotto e vi trovò la moglie intenta a muovere i piedi a ritmo con la musica, appoggiata con le braccia che sostenevano il mento al tavolo dove si trovava il grammofono. Indossava già il raffinato abito da cerimonia che aveva disegnato lei stessa per la cena di beneficenza di quella sera.
«Daire, che cos'è questa roba?» domandò Eoin, senza nemmeno il buon gusto di nascondere la propria perplessità.
«Oh, non ti avevo sentito entrare» commentò la donna, rivolgendo al marito un gran sorriso. Dopodiché gli passò quella che pareva essere la copertina di un disco in vinile, su cui era raffigurato un caos indistinto di figure dai colori accesi e sanguigni. «L'ho comprato ad un mercatino Babbano di roba usata» spiegò con naturalezza, come se fosse assolutamente normale che una strega Purosangue acquistasse quel genere di paccottiglia Babbana.
Eoin osservò il disco e lesse il nome dell'album: Dangerous.
Il nome prometteva bene: quella sottospecie di baccano si stava già rivelando pericoloso per la salute dei suoi timpani.
«Mi piaceva il disegno sulla copertina» si giustificò Daire, con un sorriso innocente. «E comunque alcune non sono male» aggiunse poi, muovendo con un tocco delicato la puntina del grammofono per selezionare la canzone.
[NDA: QUI la canzone... consiglio vivamente di ascoltarla mentre leggete questo pezzo! ^^]
Le voci di un coro lirico riempirono la stanza: Eoin si sentì almeno un poco rincuorato. Non era poi così, male, forse.
Daire, vedendo di essere riuscita a rassicurare il marito, gli si avvicinò e gli diede un pizzicotto delicato sul braccio, giusto per stuzzicarlo. «Poi, scusa, tu sei un musicista quindi dovresti essere in grado di apprezzare ogni tipo di musica» lo punzecchiò con un sorrisetto divertito.
«Musica, appunto, non...» Eoin storse il naso, proprio mentre il coro venne lentamente sostituito da suoni più ritmati, forse di una batteria o qualcosa di simile.
Poi la voce maschile di prima cominciò a cantare:

Hold me, like the river Jordan
And I will then say to thee
You're my friend*

«È strano stare a casa senza i ragazzi» mormorò sovrappensiero Eoin, perdendosi con lo sguardo ad osservare i giochi di luce che si riflettevano sul pavimento di marmo. Ora che non c'era più Bearach a riempire l'aria con i suoi acuti schiamazzi, la grande villa Maleficium sembrava vuota e abbandonata.
La vita stessa pareva silenziosa, come se fossero tutti appesi ad un filo ad osservare il vento che cambia, in attesa dello scatenarsi di una tempesta tumultuosa. Era l'incubo di Voldemort e delle reazioni xenofobe che avrebbero sconvolto l'Irlanda.
Il problema maggiore era che Eoin non sapeva dove l'avrebbe portato quel cambiamento. Lui che cosa avrebbe dovuto scegliere?
Non era il tipo che si immischiava nella politica, non era il suo genere di cose, ma l'incontro con Diablaiocht gli aveva reso chiaro che presto o tardi avrebbe dovuto scegliere da che parte stare, oppure ritirarsi nel suo idillio dorato di intoccabile nobile Purosangue. Ma sarebbe stato capace di sopportare tutte quelle ingiustizie intorno a lui senza fare nulla per impedirle?
«Ci sarà una guerra, Daire» rivelò con un sospiro.

When weary
Tell me will you hold me
When wrong, will you mold me
When lost will you find me?*

Daire si avvicinò al marito e gli sfiorò lentamente una guancia con il dorso della mano. Aveva come l'impressione che Eoin avesse bisogno del suo sostegno, quasi come se le parole della canzone che stavano ascoltando si dovessero rivelare profetiche per loro.
«Eoin, dovunque ti porterà a tua strada, io sarò sempre al tuo fianco» lo rassicurò, facendo una leggera pressione sulla sua guancia con la mano per costringerlo a voltarsi verso di lei. «Perché sono tua moglie e perché ti amo».

Will you be there?

«Sempre» rispose Daire alla implicita domanda che brillava negli occhi azzurri del marito, come se vi fossero intrappolate le parole della canzone.
E poi si sporse verso di lui e lo baciò con delicatezza, per suggellare quella promessa.

***



La squadra di Quidditch dei Raloi doveva essere integrata con tre nuovi elementi; anche se non era messa male come quella dei Llapac, alla quale era rimasto solo William Swift, Punta e capitano, trovare tre giocatori e riuscire a integrarli con i vecchi per ottenere una squadra forte e unita non era un'impresa da poco. Soprattutto considerando che avevano da sostituire un buon Cacciatore di Ala (Milo Hook aveva finito il Trinity da ormai due anni), un Battitore (ma questo era più semplice perché, sebbene Seamus O'Sharey fosse stato un buon giocatore, la forza di Era McKonnit era dirompente) e, infine, un ottimo Portiere, anche se probabilmente nessuno sarebbe stato all'altezza di Leonard.
Beatrix sembrava assolutamente determinata a vincere la coppa di Quidditch anche per quell'anno, quindi mise subito sotto pressione i membri sopravvissuti della squadra e i poveri aspiranti giocatori.
Il giorno delle selezioni, un uggioso sabato mattina di metà ottobre, scese in campo a passo di marcia e cominciò a sbraitare ordini a destra e a manca, dimostrando di essere una degna titolare del ruolo di capitano. Per prima cosa fece fare a tutti un giro del campo in volo: colse così l'occasione per scartare alcuni aspiranti giocatori che faticavano perfino a reggersi a cavallo della scopa, consigliando loro, con molta gentilezza, di andare a presentarsi per i provini di Gobbiglie, se proprio volevano darsi allo sport.
Successivamente, fece le selezioni per il ruolo di Battitore e alla fine optò per un ragazzotto del quarto anno, un certo Gabriel Wook, coetaneo di Era.
Più difficile fu individuare un Portiere che fosse almeno all'altezza del ricordo di Leonard. Beatrix diede ordine a Mairead e Gordon di andarci pesanti con i tiri di Pluffa, per saggiare le qualità degli aspiranti giocatori.
Mairead non se lo fece ripetere due volte: le era mancato potersi sfogare giocando a Quidditch, quindi si ritrovò a scaricare tutte le sue energie sul lanci di Pluffa, mettendo seriamente in crisi alcuni ragazzi delle selezioni.
«È bello, per una volta, essere i grandi della situazione» commentò con aria beffarda, rivolta a Gordon, che aveva appena rimandato a casa in lacrime un aspirante Portiere.
Il compagno ghignò. «Non è colpa mia se sono davvero scarsi» rispose, come per giustificarsi di aver eliminato un ragazzo con uno dei suoi fantastici lanci.
Alla fine Beatrix scelse Mark Thein, uno del secondo anno, che era riuscito a parare un tiro in più degli altri, anche se la sua media non era neanche lontanamente vicina alla soglia dell'accettabile. Bisognava ammettere che, povero, doveva reggere il confronto con un vero fuoriclasse, ma anche in una situazione normale non sarebbe brillato per bravura.
Tuttavia, la selezione che più interessava a Mairead era quella per il ruolo di Cacciatore di Ala. Beatrix fece fare un paio di giri in volo ai candidati, alcuni tiri liberi e infine scelse i quattro migliori per tentare la mischia.
«Ora ci divertiamo» esclamò Mairead con una certa soddisfazione, visto che era dall'inizio delle selezioni che aveva voglia di fare una mischia. «Ti sei allenato, quest'estate?» domandò poi a Gordon, ricordando che il compagno non era un asso nel volo in formazione.
«Ti stupirai della mia bravura!» la rassicurò Gordon, con un sorriso ammiccante.
Effettivamente, quando provarono la mischia con il primo candidato (che si rivelò un vero disastro), Mairead poté constatare che Gordon era davvero migliorato. Se avessero trovato un giocatore adatto, la loro mischia sarebbe diventata imbattibile.
«E questa?» sussurrò Mairead all'orecchio del compagno, quando la seconda aspirante Cacciatrice si avvicinò per provare il volo in formazione. Era una ragazzina del primo, massimo secondo anno, con vaporosi capelli biondi e l'ombretto azzurro sugli occhi.
Mairead e Gordon si scambiarono un'occhiata canzonatoria.
«Non dovresti essere così razzista, comunque» la riproverò Gordon, in un tono falsamente serio.
«Io alla sua età mica mi truccavo» constatò Mairead, con una certa stizza. Nemmeno adesso si truccava, per essere precisi: al massimo un po' di matita nera per definire il contorno degli occhi, ma niente di più. Imbellettarsi la faccia non era proprio nel suo stile.
«Ah, non ci sono più le dodicenni di una volta!» sospirò Gordon, in una bellissima imitazione di quei vecchietti attaccati al loro irraggiungibile e casto passato.
«Nome?» chiese Mairead alla ragazzina-con-l'ombretto, quando questa li ebbe raggiunti.
«Lily Sharpaty» rispose con un cipiglio di tutto rispetto.
Mairead cercò di non sembrare ammirata dalla grinta della biondina: forse aveva sbagliato a giudicarla così presto solo perché si era truccata gli occhi. «Va bene, Lily, vediamo che sai fare» ordinò, mettendosi a cavallo della sua Nimbus.
Al fischio di Beatrix, i tre Cacciatori si lanciarono in volo: sia Lily che Gordon riuscirono a tenere il suo passo, affiancati a lei come se qualcuno vi avesse lanciato un Incantesimo di Adesione Permanente. La loro formazione raggiunse per prima la Pluffa posizionata a centro campo e non appena Mairead la agguantò, le due Ali si aprirono a ventaglio per permettere ai compagni di passare in mezzo incolumi.
«Bella prova» si complimentò Mairead, lanciando la Pluffa a Lily.
Lei la afferrò al volo e poi la scagliò con energia verso i pali, centrando l'anello più alto.
Per correttezza, Beatrix fece provare anche gli altri candidati, ma era chiaro a tutti che la scelta pendeva a favore di Lily Sharpaty.
Fu Mairead ad ottenere il permesso di rivelare alla ragazzina che era entrata in squadra: riteneva di aver corso troppo nel giudicarla e annunciarle che era stata presa le sembrava un buon modo per fare ammenda. «Sei la nuova Cacciatrice, Lily. Complimenti» le disse, stingendole la mano.
La ragazzina ricambiò il gesto con una stretta vigorosa.
Sapeva giocare bene: valeva la pena accettarla così com'era, ombretto compreso.




* traduzione ad uso e consumo dei lettori:
Stringimi come il fiume Giordano
E poi ti dirò che sei mio amico;
Quando sarò stanco
Dimmi, mi stringerai a te?
Quando sbaglierò, mi darai direzione?
Quando mi perderò, mi troverai?



In questo capitolo non succede un gran che, lo ammetto, ma i coniugi Maleficium si meritavano un po' di spazio (soprattutto la povera Daire, che fa sempre e solo da cornice) e le selezioni di Quidditche erano necessarie visto che abbiamo perso 3 membri!
Ecco, io nono sono una fan di Michael Jackson, ma alcune canzoni sono davvero stupende e i testi sono impareggiabili! Stavo progettando questo pezzo e nel mentre ascoltavo la canzone del capitolo, quindi ho deciso di sfruttarla! QUI la copertina del disco Dangerous, QUI invece la canzone ascoltata da Daire e Eoin, che vi consiglio assolutamente di sentire, se non l'avete già fatta nel testo! Infine, QUI il disegno di Eoin e Daire (qui in versione bianco e nero).
La prima canzone ascoltata, invece, è Black or White (immagino l'abbiate riconosciuta!) che fa parte dello stesso album. Dai, avevo voglia di far provare al povero Eoin qualcosa di ritmato e babbano! XD
Scipio è il solito simpaticone, le cose si stanno mettendo male per tutti e presto cominceranno i guai anche a scuola.
Nel frattempo, godetevi la cara Lily-ombretto-Sharpaty in versione giocatrice di Quidditch!
Prossimo capitolo, un personaggio semi-nuovo, Edmund in versione geloso e prima partita di Quidditch! Ci vediamo venerdì 4 maggio!
Alla prossima,
Beatrix

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Capitolo 8
*** Marcare il territorio ***


CAPITOLO 8
Marcare il territorio






La sera di Halloween, durante il banchetto, il professor Captatio annunciò come suo solito il calendario delle partite di Quidditch: la prima sarebbe stata proprio Raloi-Nagard e Mairead, osservando lo sguardo combattivo della sua capitana, ebbe la netta impressione che gli allenamenti si sarebbero triplicati.
E non ebbe affatto torto: tra le sere di allentamento e la montagna di compiti per la P.R.O.B.A.T.I.O., Mairead non aveva un minuto di tempo libero. Fu quasi contenta quando arrivò l'uggioso giorno di novembre in cui si sarebbe disputata la partita. Era convinta di avere in mano la migliore mischia della scuola, i suoi Cacciatori erano meravigliosi, Era ricopriva il suo ruolo al meglio e Beatrix ci sapeva fare con il Boccino; l'unico problema era Mark, il nuovo Portiere, che non brillava di luce propria. Però, nel complesso, avevano buone probabilità di vincere contro i Nagard. E poi Mairead non vedeva l'ora di incontrare in mischia Cosimo Brandebelli, nuova Punta della squadra avversaria.
Quel sabato mattina, come al solito, si svegliò presto: erano anni che giocava a Quidditch, ma non era ancora riuscita ad abituarsi all'agitazione pre-partita. Si rotolò nel letto per un'ora intera, ascoltando lo scroscio della pioggia che invadeva l'isola: si sarebbe rivelato uno scontro parecchio bagnato. Dopo essersi preparata, scese a far colazione che non c'era ancora molta gente, ma bastò che passasse poco tempo perché la Sala Mor si riempisse completamente. Molti studenti dovevano essersi alzati presto, nonostante fosse sabato e piovesse a dirotto, solo per assistere a quella che era ritenuta la partita più importante del campionato.
Mairead fu raggiunta dai suoi compagni di squadra, che si sedettero vicino a lei per la colazione. Edmund arrivò poco dopo e, incredibile, aveva il coraggio di tenere già sottobraccio un libro della biblioteca.
«Smamma» ordinò senza troppi scrupoli a Mark, che si era inavvertitamente seduto di fronte a Mairead. Il ragazzino, infatti, non poteva sapere che quello era il suo posto.
«Ehi, mica...» cominciò a dire questo, ma quando si voltò verso chi gli aveva dato il comando di levarsi dai piedi, pensò che non era proprio il caso di disobbedire, né di fare una qualsivoglia rimostranza: semplicemente, se la squagliò.
«Sei un bullo» commentò Mairead, ma stava sorridendo.
«È solo un po' di sano nepotismo» replicò Edmund, servendosi una fetta di torta al cioccolato e un bicchiere di latte freddo. «Mica saremo arrivati al penultimo anno per niente, no?»
Mairead scosse la testa, ma non poté aggiungere altro, perché Beatrix richiamò la sua attenzione, facendo un cenno del capo verso la porta d'ingresso, dove era appena comparso un signore di bell'aspetto, che poteva avere una quarantina d'anni. Indossava un completo da mago semplice e con un taglio sportivo, che avvolgeva un fisico muscoloso e imponente, coronato da un collo taurino. Rivolgeva sorrisi ammiccanti agli studenti, come se dovesse accaparrarsi le simpatie di tutti, mentre avanzava con passo sicuro tra i tavoli.
«Chi è?» sussurrò Mairead all'amica.
Beatrix assunse un'aria complice. «Quello è Augustus MacDivus, il direttore dell'Ufficio per i Giochi e i Divertimenti Magici» spiegò in un sussurro.
«L'Ufficio per i Giochi e i Divertimenti Magici?» le fece eco Mairead. Non l'aveva mai sentito. «Non è uno dei Dipartimenti nel Ministero».
«No, infatti» convenne Beatrix. «È un ufficio pubblico, ma è indipendente dal Ministero» spiegò, giochicchiando con la forchetta, gli occhi puntati su MacDivus. «Strano che non te ne abbia mai parlato: sai, faceva la Punta nei Raloi quando era al Trinity e poi ha giocato per i Falmouth Falcons e ha perfino allenato la nazionale del Giappone».
«Perché, in Giappone giocano a Quidditch?» ironizzò Mairead, pensando che lo sport magico nato in Inghilterra aveva avuto davvero una diffusione a livello mondiale.
«A quanto pare...» concesse Beatrix. «Comunque, quando il vecchio Direttore è andato in pensione, hanno chiamato lui e adesso è MacDivus che regge il gioco».
«E che ci fa qui al Trinity?» si informò Mairead, sorseggiando il suo succo di arancia e osservando di sottecchi l'uomo.
Beatrix sfoggiò uno dei suoi migliori sorrisi. «Per la partita, è ovvio. Cerca fuoriclasse da assoldare».
Mairead quasi si strangolò con la fetta di torta al cioccolato che stava mangiando per colazione. I suoi occhi indugiarono su Edmund, che fingeva con un certo tatto di leggere il libro appoggiato sulle sue ginocchia, per far intendere che non stava ascoltando la conversazione. Infine tornò a guardare la sua amica: gli occhi di Beatrix scintillavano nel vero senso della parola.
«È lui che ha suggerito Lucius e Leonard ai Kenmare Kestrels» spiegò Beatrix in tono eccitato.
«Speri che noti anche qualcuno di noi?» le chiese Mairead in un sussurro. Lei non era del tutto sicura di voler intraprendere la carriera sportiva dopo la scuola, perché era una professione impegnativa che però durava pochi anni. Tuttavia, per far far risaltare la Capitana, tutta la squadra doveva giocare al meglio.
Beatrix però non ebbe modo di rispondere, perché Augustus MacDivus si sedette proprio di fronte a loro, in fianco a Edmund.
«Allora, voi siete le due stelle del Quidditch dei Raloi?» esclamò l'uomo, con una voce squillante e un gran sorriso.
Beatrix lanciò uno sguardo eccitato a Mairead, poi si presentò.
«Connery? Allora sei tu la sorella di Lucius e Leonard?» domandò MacDivus, in tono cordiale e sorpreso insieme, anche se, a parere di Mairead, aveva proprio l'aria di aver già riconosciuto Beatrix da un pezzo. «Sarai sicuramente un'ottima giocatrice» aggiunse poi, facendole l'occhiolino.
«Ci provo» mormorò la capitana, con il velato intento di mascherare il suo compiacimento; nemmeno troppo velato, in realtà.
«E tu, invece, sei la Punta?» domandò MacDivus, rivolgendo il suo luminoso sorriso verso Mairead.
«Mairead Boenisolius» rispose la ragazza, cercando di ignorare il campanello di allarme che le suonava in testa: non sapeva dire perché, ma quel tipo proprio non le piaceva.
MacDivus fece una stana smorfia nel sentire il suo nome, ma riuscì a ricomporsi abbastanza alla svelta. «Boenisolius? Quindi tuo padre è...» cominciò a dire, ma si interruppe perché non ricordava il nome del suo antico avversario. Dopotutto l'aveva sempre chiamato con il soprannome che gli aveva affibbiato i primi giorni di scuola: Aisteach, strambo in irlandese.
«Reammon» concluse Mairead. «Lo conosce?»
Il sorriso di MacDivus si restrinse di un paio di molari. «Be'... abbiamo la stessa età, eravamo compagni di scuola» spiegò poi, con un tono che lo faceva sembrare quasi a disagio. «Strano che sua figlia giochi a Quidditch».
Mairead stava per rispondere che il talento per il gioco non l'aveva certo ereditato dal padre, quando Edmund si intromise nella conversazione. «Non correva buon sangue tra di voi, vero?» domandò a bruciapelo, chiudendo di scatto il libro che aveva poggiato sulle ginocchia.
MacDivus parve un accusato sotto processo, impaurito dalla possibilità che i giudici votassero a favore della sua condanna. «Io... come...?»
Le labbra di Edmund si aprirono in un sorriso, ma i suoi occhi azzurri restarono freddi e perfidi. «Andiamo, lei era un campione di Quidditch osannato dai compagni e abituato a stare tra la folla, mentre Reammon... be', scusa Mairead, ma temo che non fosse molto popolare a scuola, con quei suoi strani gusti per l'archeologia e l'antiquariato e con un amico della casa rivale. Eravate nati per essere avversari» spiegò con tranquillità, poi aggiunse: «E la sua faccia imbarazzata è segno che ho perfettamente ragione».
MacDivus cercò una scappatoia con gli occhi, ma quando non la trovò, si limitò ad un sorrisetto di circostanza.
«Oh, guarda chi si vede. Augustus MacDivus» commentò proprio in quel momento una voce roca alle spalle delle ragazze. Era monocorde e per nulla affabile.
«Professor Saiminiu» salutò Edmund, mentre un'espressione beffarda si disegnava sul suo volto.
L'insegnante era più nero e torvo del solito. Il che era tutto dire.
Ovvio che, come migliore amico di Reammon ai tempi della scuola, il professor Saiminiu non doveva essere in ottimi rapporti con l'attuale Direttore dell'Ufficio per i Giochi e i Divertimenti Magici. Rivederlo non doveva certo fargli piacere.
«Ehi, Saiminiu» tentò MacDivus, ormai visibilmente imbarazzato. Visto che l'altro non faceva cenno a rispondere, il campione di Quidditch si alzò rapidamente da tavola e, adducendo una scusa qualsiasi, si affettò a squagliarsela.
«Una ignobile fuga degna di una squallida persona» commentò il professor Saiminiu in tono piatto, prima di allontanarsi in uno svolazzo di mantello nero.
Edmund stava ancora gongolando per essere riuscito ad allontanare il pomposo campione di Quidditch (doveva odiare a prescindere la categoria) quando Beatrix lo richiamò con i piedi per terra: «Si può sapere che diavolo ti aveva fatto MacDivus?»
«L'hai fatto scappare a gambe levate» rincarò la dose Mairead anche se, a essere sinceri, la cosa non le dispiaceva affatto.
«Non sopportavo il modo in cui ti metteva gli occhi addosso» rispose Edmund in tono accigliato, rivolto all'amica. «Sembrava che tu fossi un prezioso premio che voleva accaparrarsi».
«Non esagerare» ridacchiò Mairead, anche se da qualche parte in fondo alla sua coscienza si sentì lusingata dall'istinto protettivo dell'amico.
Edmund fece una smorfia di disappunto, poi ficcò in bocca l'ultimo morso di torta. «Passo in biblioteca, ci vediamo alla partita» annunciò, alzandosi dal tavolo.
Solo quando Edmund fu uscito dalla Sala Mor, Beatrix si concesse un risolino. «Vuoi sapere la mia opinione?» chiese in tono risaputo, ma non attese risposta. «Edmund aveva tanto l'aria di un leone che vuole marcare il suo territorio».
«Marcare il suo territorio?» le fece eco Mairead; ma la ragazza non ottenne spiegazione e non ebbe nemmeno il tempo di meditare su quelle parole sibilline, perché Beatrix si alzò di scatto e richiamò la squadra all'ordine.
I giocatori si avviarono verso gli spogliatoi, dove ricevettero una serie infinita di raccomandazioni dalla loro capitana. Mairead fu anche investita del ruolo di vice-capitana, con il compito di decidere gli schemi tattici per i Cacciatori. Si sentì molto importante per quell'incarico e decise che l'avrebbe svolto al meglio perché, maledizione, erano i tre Cacciatori migliori di tutta la scuola e si sarebbero fatti valere!
«Sei emozionata?» domandò a Lily, mentre si preparavano ad entrare in campo.
La ragazzina cercò di assumere un'aria spaccona, ma si vedeva che stava tremando come una foglia.
«Non ti preoccupare» tentò di rassicurarla Mairead, godendo della nuova sensazione di essere lei la grande della situazione. «Anche io ero terrorizzata alla mia prima patita, ma quando sei lì fuori, a cavallo della tua scopa, il vento tra i capelli e l'adrenalina del gioco ti fanno dimenticare tutto».
Lily le rivolse un tirato sorriso di ringraziamento, poi le due squadre si riversarono in campo.
«Ed ecco i Raloi: la capitana Connery, seguita da Boenisolius, Weaving, la nuova Cacciatrice Sharpaty, McKonnit, il nuovo Battitore Wook e la new entry come Portiere: Thein» annunciò la voce del professor Ballerinus, mentre la curva verde accoglieva i suoi giocatori con urli e schiamazzi.
«Questa invece la squadra dei Nagard, a cui era rimasto solo l'attuale Punta e Capitano Brandebelli e il Cercatore Nott. Questi i nuovi giocatori: i Battitori O'Murton e James Boldwin, i Cacciatori Best e Katleen Boldwin, e il Portiere Finn» esclamò il professore, quando sette frecce rosse entrarono in campo.
«Squadre in posizione!» ordinò l'arbitro, posizionando la Pluffa e liberando le altre palle. Poi, al fischio di mister Timberlen i giocatori partirono in sella alle proprie scope.
«I Raloi in possesso di palla, si avviano veloci verso gli anelli avversari!»
Dieci minuti dopo erano già in vantaggio di venti punti. Il nuovo portiere dei Nagard, un certo Murphy Finn del terzo anno, non era male, ma i Cacciatori Raloi erano una vera macchina da guerra. Per loro sfortuna, anche Brandebelli era uno che sapeva il fatto suo e il povero Mark, forse a causa dell'emozione per la sua prima partita, si ritrovò in panne dopo neanche venti minuti di gioco.
«Quaranta a venti per i Nagard» annunciò Ballerinus, quando la Boldwin segnò il quarto punto per la sua squadra.
«Sei morta, Boenisolius!» le gridò Brandebelli, sfrecciandole accanto con la sua scopa.
Mairead impose una brusca accelerata alla sua Nimbus per tallonare l'avversario. «Questo è ancora tutto da vedere!»
In quel momento Nott avvistò il Bocciono d'Oro, ma un sapiente colpo di Bolide di Era ruppe il magico incanto e il minuscolo brillio sparì.
«Ottimo tiro della McKonnit! Ora i Raloi sono in possesso di palla».
Gordon riuscì a fare un altro centro, ma dopo altri dieci minuti di partita, il risultato era di nuovo in vantaggio per i Nagard di ben trenta punti: ottanta a cinquanta. Per quanto i Cacciatori Raloi fossero bravi, il loro Portiere era talmente nel panico che non riusciva più a parare neanche una Pluffa.
«Difesa più stretta!» latrò Mairead ai suoi compagni, cercando di rimediare al disastro che aveva provocato Mark. Si voltò per lanciare la Pluffa a Lily e questo le impedì di notare il Bolide che la O'Murton aveva scagliato con forza inaudita contro di lei. Il colpo le arrivò in pieno contro le costole e le mozzò il fiato.
La Pluffa cadde e venne recuperata da Best, ma Mairead nemmeno se ne accorse perché era letteralmente piegata sulla scopa dal dolore.
Il fischio di mister Timberlen arrivò penetrante e salvifico.
«Best ha fatto un avanti: mischia» annunciò l'arbitro.
Come mischia? Era convinta che avesse fischiato per via del fatto che era stata colpita. No, non ce l'avrebbe fatta in quelle condizioni.
«Mairead, te la senti?» domandò premuroso Gordon, vedendo la sua Punta completamente k.o.
La ragazza mugugnò qualcosa e tossì. Il dolore al costato era lancinante, la vista annebbiata e i sensi rallentanti, ma non poteva mollare le sue Ali al momento di una mischia. Si pulì la bocca con il dorso della mano e notò con un certo orrore che aveva sputato sangue. Decise di ignorarlo.
«Tutto ok, ce la faccio» sussurrò con un filo di voce, mettendosi in formazione.
Al fischio dell'arbitro i sei Cacciatori scattarono nel medesimo istante. Mairead cercò di spingere la sua corsa al massimo, ma non riusciva a concentrarsi a dovere per via della botta ricevuta; inoltre sapeva di non giocare contro uno sprovveduto, per cui era pressoché inutile tentare di battere Brandebelli in quelle condizioni. Rallentò la corsa e le sue Ali con lei, come un solo uomo. Lasciò che Brandebelli afferrasse la palla, poi diede l'ordine di desistere. Approfittò dell'apertura della formazione per schizzare esattamente tra la Punta avversaria e la sua Ala destra, intercettando il passaggio tra i due.
Sentì che lo stadio intero tratteneva il fiato e immaginò che da qualche parte sotto di lei i due Cercatori avessero avvistato il Boccino.
Non se ne preoccupò, perché il dolore era tanto forte da intontirla. Tirò la Pluffa verso l'anello di sinistra proprio mentre mister Timberlen fischiava la fine della partita.
Non si curò nemmeno di sapere se la palla aveva centrato il bersaglio, né se era stata Beatrix a prendere il Boccino, perché la vista le si annebbiò completamente e decise che ormai i giochi erano fatti, quindi poteva lasciarsi andare al dolce oblio.
E svenne.

«Connery prende il Boccino! I Raloi vincono la partita per duecentodieci a ottanta!» annunciò il professor Ballerinus, mentre lo stadio esplodeva in un boato.
Edmund fu il primo a capire che c'era qualcosa che non andava: Mairead aveva lanciato la Pluffa poco prima che la Connery prendesse il Boccino d'Oro, ma non sembrava nemmeno essersi accorta che avevano vinto. Quando la vide afflosciarsi sul manico di scopa, aveva già estratto la bacchetta dalla tasca e gliela aveva puntata contro, per rallentare con un incantesimo la sua caduta, che altrimenti sarebbe stata mortale.
E poi corse giù dagli spalti per raggiungerla.
A terra, un piccolo campanello di gente si era radunata attorno a Mairead. Accucciato al fianco della ragazza svenuta stava proprio Augustus MacDivus. «Una Cacciatrice spettacolare! È andata avanti a giocare con due costole rotte pur di non far perdere la sua squadra!» stava esclamando con evidente ammirazione il capo dell'Ufficio per i Giochi e i Divertimenti Magici.
«Stia lontano da lei» gli intimò Edmund, facendosi strada tra la gente.
MacDivus alzò gli occhi su di lui e sembrò riconoscerlo come il ragazzo che quella mattina a colazione l'aveva messo in imbarazzo davanti a tutti. «Andiamo, giovanotto» tentò, ma capì che era il caso di muoversi con i piedi di piombo. «Sono un giocatore di Quidditch, so curare ferite del genere: ne ho viste a migliaia».
«Stia lontano da lei» ripeté Edmund, scandendo le parole con estrema lentezza.
Aveva ancora la bacchetta in mano e, sì, faceva dannatamente paura con quella luce di folle determinazione che gli brillava negli occhi azzurri.
MacDivus si alzò lentamente da terra, con le mani sollevate al cielo come un assassino colto sul fatto. «Ok, ma stai tranquillo» mormorò a stento, nel tentativo di tenere a bada quel pazzo squilibrato.
«Che succede qui?» domandò in quel momento la voce roca e dura di mister Timberlen.
Edmund abbassò la bacchetta come se niente fosse successo. «Mairead deve essere portata in infermeria, signore» spiegò in tutta tranquillità.
«Va bene, Edmund, portala tu» ordinò mister Timberlen, facendo apparire una barella per adagiarci sopra la ragazza ferita.
Mairead era ancora in uno stato di semi incoscienza, ma era abbastanza certa di aver appena assistito ad una scena in cui Edmund aveva allontanato a suon di bacchetta chiunque avesse osato avvicinarsi a lei.
Sì, Beatrix aveva ragione, sembrava un maledetto leone che vuole marcare il suo territorio.
E quel pensiero la fece sorridere.







Ecco qui! La nuova-comparsa-semi-nuova è Augustus MacDivus che ricorderete forse da "Vita da Fuorilegge", per chi l'ha letto: è coetaneo di Reammon e suo più acerrimo nemico, nonché il motivo per cui Reammon odia tanto il Quidditch. Qui l'ho ripescato perché avevo bisogno di un bellimbusto che facesse ingelosire il caro Eddy... non è adorabile nella sua versione gelosa, maniacale e iperprotettiva? ^^
Era un po' che non descrivevo più partite di Quidditch... vi ricordate della cara battitrice Era McKonnit, vero? Una forza della natura! E anche Lily e Gordon se la sono cavata come Cacciatori. Ma tenete d'occhio il caro Cosimo Brandebelli (figlio dell'ambasciatore italiano a Dubh Cliathan, ricordate?) perché tornerà più avanti con un ruolo interessante! ;) QUI, intanto, il disegno di Mairead che passa la palla a Lily e sta per essere colpita dal Bolide; sotto Brandebelli.
Prossimo capitolo: FAONTEROY! Sì, era mancato anche a me! Ma, troppe cose, troppi personaggi... però il piccolo O'Brian avrà un gran ruolo in questo racconto! =D
Ci rivediamo lunedì 14 maggio!
Alla prossima,
Beatrix

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Capitolo 9
*** Sibili di razzismo ***


CAPITOLO 9
Sibili di razzismo






Faonteroy O'Brian non era solo buon nome e rispetto per la famiglia. Era un ragazzo sveglio che sapeva come barcamenarsi nel mondo senza perdere la sua naturale eleganza signorile. Ma non poteva immaginare che nella sua pacifica esistenza di nobile, infervorata solo da sporadiche arringhe a difesa del proprio casato, se mai qualcuno avesse osato infangarlo, sarebbe entrata come un vortice quella pazza, indisciplinata, impulsiva e irrispettosa Raloi che era sua cugina di (ben!) quarto grado: Mairead Boenisolius.
Era allucinato -sì, allucinato era proprio il vocabolo giusto; e non che un O'Brian si lasciasse allucinare facilmente- dalla sua ingombrante eccentricità, dal modo folle che aveva di trascinarlo sempre in assurde peripezie, dalla sua spontaneità che lo investiva come un tornado.
Un O'Brian aveva rispetto per chiunque e affetto per nessuno.
Eppure Faonteroy aveva cominciato a covare uno strano sentimento che avrebbe potuto vagamente definire affetto nei confronti di Mairead. Perché era sua cugina, ovvio, anche se alla lontana, e dunque meritava quel tribale sodalizio che i nobili dovevano ai consanguinei; ma c'era anche qualcosa di più: era una brava ragazza, in fondo, e Faonteroy era certo che gli volesse bene, sebbene avesse un modo tutto suo di dimostrarlo (obbligarlo a partecipare ad una battaglia di neve non rientrava nel suo canone dei modi per manifestare affetto). Un sentimento onesto e puro come quello di Mairead non poteva che essere ricambiato, dopotutto.
Inoltre a Faonteroy piaceva assumente un profilo tendenzialmente passivo, da martire: che lo trascinasse pure nelle sue folli avventure, lui avrebbe comunque saputo mantenersi in piedi di fronte a qualsiasi tempesta. Saldo come una roccia.
E poi, chissà che l'esuberante cugina non potesse trarre vantaggio dal contatto con lui, assimilando qualche comportamento più consono alla sua posizione sociale.
Fu per tutta questa serie di motivazioni che Faonteroy si risolse a ordinare via gufo un mazzo di fiori da portare a Mairead, andando a trovarla in infermeria. Non che avesse subito gravi ferite o che necessitasse in qualche modo del suo conforto, ma era un gesto che riteneva appropriato alla situazione.
Quando arrivò in infermeria, trovò la cugina seduta a letto che leggeva quello che sembrava il libro di testo di Trasfigurazione.
«Ehi, Faonteroy!» esclamò quando lo vide entrare, alzando gli occhi dal volume (che non pareva studiare con molto entusiasmo).
«Ti ho portato questi per augurati una pronta guarigione» disse il ragazzino, posando il mazzo di fiori sul comodino.
«Oh, ma che dolce!» commentò Mairead, buttando da parte il libro e gettando le braccia intorno al collo del ragazzino, in modo del tutto inaspettato.
Faonteroy si irrigidì come uno stoccafisso. Ma dico, non si abbraccia la gente così, senza preavviso! E anche con il preavviso, bisogna comunque andarci cauti.
Quando Mairead mollò la sua presa ferrea sul cugino, si beò di quei dieci secondi di smarrimento totale che sul volto di Faonteroy si esprimevano con esilaranti espressioni di sconcerto. Aveva una minima facciale impressionante, per essere un nobiletto spocchioso abituato a mostrare una maschera di perfetta rispettabilità ovunque andasse.
Passati quei dieci secondi, Faoneroy tornò imperturbabile. «Sono rammaricato delle tue condizioni di salute e mi accingo a togliere il disturbo per lasciarti riposare, in modo da riprendere più velocemente le forze» recitò come un perfetto gentiluomo.
Mairead ridacchiò. «Quando la smetterai di parlare come se avessi ingoiato un vocabolario?» lo stuzzicò, ben sapendo che ogni concessione all'etichetta -com'era stato per Faonteroy quell'improvviso abbraccio- prevedeva una successiva impennata di rigidità.
«Io non parlo come se avessi ingoiato un vocabolario» replicò Faonteroy, piuttosto offeso. E avrebbe anche aggiunto altro, se non fosse stato investito dall'arrivo improvviso dell'intera squadra di Quidditch dei Raloi. Era proprio il caso di mettere in atto una dignitosa fuga. Alzò una mano in segno di saluto con la stessa rispettabilità della regina d'Inghilterra che si ingrazia le folle, poi si affrettò a levare le tende, prima che quelle due biondine con l'ombretto lo travolgessero con la loro folle esuberanza. Ma erano tutti così iperattivi i Raloi?
«Grazie dei fiori, Faonteroy!» gli gridò dietro Mairead, quando il cugino se la svignò.
«Allora, come ti senti?» le chiese Beatrix, sedendosi sul fondo del suo letto.
«Meglio» rispose Mairead, poi si sistemò i cuscini dietro la schiena, per mettersi seduta.
Chiacchierarono un po' di com'era andata la partita, delle azioni più belle e delle strategie della prossima, finché Mairead non notò che c'era un giocatore di troppo. No, non ci vedeva doppio: c'erano davvero due Lily!
«E tu saresti...?» chiese alla fotocopia della sua compagna di squadra.
«Sono Rosalie, la sua gemella» rispose la ragazzina con un tono zuccheroso. Aveva un enorme fiocco rosa tra i capelli che Mairead trovò vagamente rivoltante.
«Oh, il modo in cui McPride ti ha salvata è stato così eroico!» cinguettò Rosalie con un sospiro estasiato.
Mairead stava per chiedere che cavolo c'entrasse McPride, quando realizzò: certo, Edmund. Ora faceva McPride di cognome. «Be'...» fu il suo commento, non molto loquace, in realtà.
«E così... romantico!» continuò Rosalie, con una vocina talmente sdolcinata che faceva venire il diabete solo a sentirla. E Mairead non si sarebbe stupita se gli occhi della ragazzina si fossero trasformati in pulsanti cuoricini rosa.
Lanciò uno sguardo allibito a Beatrix, che ridacchiò, ma almeno parve capirla al volo.
«Ok, squadra, tutti fuori!» ordinò la capitana con tono imperioso. «Mairead ha bisogno di riposare».
I compagni la salutarono uno ad uno, poi lasciarono l'infermeria, ma prima che anche Beatrix scomparisse oltre l'uscio, Mairead la richiamò.
«Gordon mi è sembrato un po' strano» sussurrò, perché gli altri erano già lontani ma non era comunque il caso di rischiare di farsi sentire.
Beatrix sbuffò e si sedette nuovamente sul fondo del suo letto. «È perché mi ha chiesto di uscire e siccome io gli ho detto di no perché sto già con un altro, lui pensa che sia una scusa» spiegò con uno sbuffo.
«Tu stai con un altro? E da quando?» si informò Mairead, che non si reputava la migliore amica di Beatrix, ma era certa che una cosa del genere l'avrebbe saputa.
La ragazza giochicchiò con un filo tirato della coperta azzurra del letto. «Da qualche mese» rivelò vaga, con un certo disagio.
Mairead aprì la bocca e fece per dire qualcosa, ma non le uscì un solo suono.
«Hai presente Titus Judge?» chiese allora Beatrix, riferendosi al Battitore dell'anno scorso dei Llapac, con cui era andata insieme al Ballo di Capodanno. «Ci siamo messi insieme quest'estate, ma non lo sa ancora nessuno».
«Perché?» domandò scioccamente Mairead. Lei proprio non le riusciva a capire quelle cose delle relazioni segrete: se lei avesse avuto un ragazzo, avrebbe fatto in modo che lo sapesse il mondo intero, giusto per mettere in chiaro che lui era di sua esclusiva proprietà.
«Be', sai, Titus sta cercando di sfondare nel Quidditch e il suo agente ha detto che è meglio se si presenta come single: le squadre sportive ti accettano più volentieri, se non ci sono di mezzo fidanzate impiccione che ti distraggono dalla carriera» raccontò la ragazza, con un certo disappunto. Si vedeva che non era per niente convinta della scelta.
Mairead si ritrovò a pensare alla propria burrascosa relazione con Leonard: lei non avrebbe mai accettato di far finta di non esistere solo per agevolare l'ascesa del suo ragazzo. Figuriamoci, aveva odiato anche solo il pensiero che si fosse scordato di lei mentre era a fare la bella vita da campione.
No, realizzò, i giocatori di Quidditch non erano proprio il suo genere.

Quando Mairead lasciò l'infermeria, la sera seguente, si diresse verso la Sala Mor per cenare, ma trovò un certo trambusto in ingresso: c'era un gruppo di studenti radunati a cerchio intorno a qualcuno o qualcosa. Per fortuna la ragazza individuò subito i suoi amici e li raggiunse, chiedendo cosa fosse successo.
«Diablaiocht» sibilò Laughlin in tono risentito.
Alcuni ragazzi del quarto anno si spostarono e Mairead ebbe l'angelica visione della sua avversaria, fiancheggiata come sempre dalla O'Hara e da Best, che distribuiva volantini con un sorriso accattivante.
«Oh, Boenisolius, ne vuoi uno anche tu?» domandò sarcastica la Nagard, mettendole tra le mani un foglio di pergamena.
Mairead gli diede un'occhiata veloce: lesse il nome Étudiants Inclinée vers le Faîte, ma non conoscendo alcuna parola in francese non capì cosa volesse dire.
«Abbiamo costituito un gruppo studentesco di sostegno per lo studio» spiegò Ailionora, sempre con quel suo fastidioso sorrisetto stampato in faccia. «Étudiants Inclinée vers le Faîte, significa Studenti Indirizzati verso la Vetta».
Solo allora Mairead notò che la ragazza aveva appuntata al corpetto rosso della divisa una spilla con disegnata la cima stilizzata di una montagna. Riportando gli occhi sul volantino, vide che erano segnati alcuni punti che in realtà riguardavano lo studio solo superficialmente e avevano molto l'aria di essere un programma politico. In particolare si soffermò sul terzo, che recitava: dobbiamo essere orgogliosi di essere Irlandesi e dobbiamo temere qualsiasi interferenza rovini la cultura del nostro paese. Per questo ci applichiamo nello studio e nella conservazione delle nostre tradizioni.
«Vuoi unirti a noi?» le chiese Ailionora, con un sorriso falso.
Fu allora che Mairead capì il motivo del nome in francese: le lettere maiuscole, messe vicine, formavano la sigla più temuta in Irlanda. «EIF» mormorò con un filo di voce. «Come avete ottenuto il permesso di fondare un gruppo del genere?»
L'altra ragazza ridacchiò deliziata. «Se lo spacci per un gruppo di studio è molto semplice, in realtà» spiegò, senza avere la benché minima intenzione di mascherare sotto belle parole il suo intento razzista. «Basta la firma di un insegnante e noi abbiamo quella del professor Cumhacht».
Mairead accartocciò il volantino senza troppi complimenti: anche ammesso che Cumhacht accettasse di prendere parte a questi stupidi trucchetti xenofobi, lei non era disposta a stare al gioco.
«È inutile che fai l'eroina» le intimò Ailionora, nel vedere il suo gesto di stizza. «Stanno cominciando tempi difficili per voi sasanachfuil...» disse, poi si voltò verso Laughlin e aggiunse: «...e per i traditori del proprio sangue».
«Non ci fai nessuna paura, Diablaiocht» rispose tranquillo Laughlin, infilandosi le mani nelle tasche della giacca con completo disinteresse.
La ragazza fece un passo verso di loro ma, invece di rivolgersi ai due che aveva appena offeso, puntò i suoi occhi scuri in quelli azzurri e distaccati di Edmund. «Oh, ma non sono io che devo farvi paura. È grazie al suo paparino che dovreste stare attenti alle bacchette che avete nel paniere» sussurrò con uno sguardo di sfida.
Edmund non aveva la più pallida idea di che cosa significasse quel modo di dire magico, ma sapeva che non era proprio il caso di tirare in ballo suo padre; non davanti a lui, almeno. «Che c'entra mio padre?» aggredì l'altra.
Ailionora finse una risatina deliziata. «Oh, avanti, il Presidente McPride ci sta aiutando un sacco: è grazie alle leggi redatte dal suo Governo che gente come i vostri genitori dovrebbe stare attenta a dove mette i piedi» spiegò, tornando a rivolgersi a Laughlin e Mairead.
«Mio padre non è un sanguinista. Sta solo cercando di proteggere l'Irlanda» sibilò Edmund, sentendosi chiamato in causa.
Ailionora gli lanciò uno sguardo di sufficienza. Ma, ad essere precisi, non le importava proprio un tubo di ciò che Burke -ops, McPride- pensasse di suo padre: il suo unico scopo era quello di seminare zizzania nel magico trio. Non potevano essere restati indifferenti agli enormi cambiamenti che avevano sconvolto l'Irlanda e le loro vite da ragazzi d'oro. Ora toccava a loro sputare sangue.
E lei sarebbe stata a guardare. Dopo aver buttato la miccia, ovviamente.
E infatti...
«Oh, avanti, Ed, sii un po' realista!» sbottò Mairead, leggermente alterata. «Certe leggi sono visibilmente razziste!»
«Razziste? Mio padre sta solo facendo il suo lavoro!» replicò il ragazzo e dal tono che usò, si stava riscaldando anche lui. A volte i Raloi erano proprio delle teste calde.
«Da quando in qua il lavoro del Presidente della Repubblica comporta il varare norme contro chiunque abbia un solo grammo di sangue inglese o sia anche lontanamente in rapporto con l'Inghilterra?» esclamò Mairead, senza minimamente preoccuparsi del fatto che stavano dando spettacolo.
«Non è colpa mia se tuo padre ha sposato un'Inglese e il suo è un Inglesofilo dichiarato!» esplose Edmund. Si pentì subito dopo averlo detto. Nel vedere come i suoi amici reagirono alle sue parole, si accorse di aver fatto un'immane idiozia, ma era troppo tardi per rimediare al danno.
La rabbia di Mairead si sgonfiò tutta d'un colpo, per lasciar posto ad un'amara delusione. «Hai accusato i nostri genitori per difendere un uomo che fino a ieri odiavi con tutto te stesso e che ora hai il coraggio di chiamare padre?» mormorò con un filo di voce carico di rancore. «Mi fai schifo, Edmund McPride».
E con quelle parole se ne andò, accompagnata da uno scandalizzato coro di “oooh” proveniente dal pubblico che aveva assistito alla scena.
Nel vedere la schiena della sua amica che si allontanava da lui, Edmund si sentì svuotato e un peso immane gli piombò addosso, schiacciandolo.
«Edmund» mormorò Laughlin e si sentì che lo stava facendo con una certa fatica.
Il ragazzo si voltò lentamente verso di lui: sentì come una spada che gli trafisse il cuore quando vide la rabbia repressa nello sguardo dell'amico. Luaghlin deglutì e cercò di controllarsi. «Valle dietro e implora il suo perdono» gli ordinò, ignorando la sua Malvagia Coscienza Nagard che gli urlava di scagliare una maledizione contro Edmund per deturpare quel bel faccino che si ritrovava.
«Io... ma tu...» balbettò il Raloi, avendo perso completamente la capacità di parola.
E sì che prima aveva dimostrato di avere una lingua bella affilata.
«Io ti perdono dall'alto della mia magnanimità, perché so che non era tua intenzione dire quelle parole, ma eri alterato dalla rabbia che obnubilava la tua capacità di pensiero, dato che sei uno stupido e impulsivo Raloi» mormorò Laughlin a denti stretti. «E ora vattene, prima che cambi idea e ti spedisca contro un qualche orribile incantesimo di cui potrei pentirmi».
Edmund colse al volo il consiglio e si affrettò a defilarsela, inseguendo Mairead verso la sala comune dei Raloi.
Ailionora si concesse un risolino deliziato.
Fu allora che Laughlin si voltò verso di lei con il peggior sguardo che un Maleficium era capace di fare. E, ad essere sinceri, faceva un tantino paura.
«Taci, vipera, o potrei sfogare su di te la mia rabbia» le intimò con astio e la ragazza ebbe il buon gusto di non replicare.

Quando bussarono alla porta della stanza, Mairead era certa che fosse Edmund, perché né Paig né Ailis (le sue due compagne di stanza) sembravano tipe inclini a consolare gli altri animi afflitti. E comunque non bussavano quando dovevano entrare.
«Posso parlarti?» mormorò Edmund, apparendo sull'uscio e trovando l'amica distesa a pancia in su sul suo letto.
«Vattene, non ho nulla da dirti» rispose in tono duro, mettendosi a sedere, con la netta impressione di aver già vissuto quella scena, solo al contrario: l'anno scorso, quando Edmund aveva smesso di parlarle per via della sua relazione con Connery. Quella volta era stata lei ad implorarlo di chiarire, ora i ruoli si erano ribaltati.
«Senti, Mairead, non volevo dire quelle cose su tuo padre» tentò di scusarsi Edmund, ignorando il muro di indifferenza contro cui andava a sbattere.
«Sta di fatto che le hai dette» sibilò in risposta Mairead.
Edmund si avvicinò di qualche passo, ma evitò di guardare l'amica in faccia, perché non riusciva a sopportare la limpidezza dei suoi occhi verdi. «Lo so che McPride non ti va a genio, ma per me è importante, ora che ho imparato a conoscerlo» cominciò a dire, in tono serio. «Lui mi ha dato una casa, una famiglia, e ha dato un senso al mio essere Edmund, accogliendomi nella sua vita. Io non ho mai avuto tutto questo e ora che ce l'ho non voglio perderlo».
Mairead distolse gli occhi dall'amico, perché si sentì terribilmente colpevole: fintanto che Edmund era l'orfanello brillante e senza passato, lei e Laughlin rappresentavano per lui le persone più importanti, erano la sua vita. Ma ora lui era un McPride: aveva qualcos'altro, oltre alla loro amicizia. Era stata egoista, perché lo voleva tutto per sé.
«Prova almeno ad essere felice per me» sussurrò Edmund, sedendosi al suo fianco sul letto.
Mairead si voltò a guardarlo e i loro occhi si incrociarono. «Ci proverò» mormorò con un mezzo sorriso. «Io non parlo male di tuo padre, tu non parli male del mio» propose, come se fosse un patto di stato.
Edmund rispose al sorriso, incredibilmente più sollevato. «Non potrei mai davvero parlare male di Reammon: è un'ottima persona».
«Un po' sbadato, ma sì...» concesse Mairead, con una scrollata di spalle. E poi abbracciò di getto Edmund, perché era il suo migliore amico e avrebbe fatto di tutto per non perderlo.







Ebbene sì, era OVVIO che prima o poi Mairead e Edmund avrebbero litigato. Per fortuna sono stupidi e impulsivi, ma si vogliono troppo bene per tenersi il broncio a vicenda troppo a lungo. La loro riappacificazione è costruita sul modello di questa, quando Mairead cercava di convincere Ed a sopportare la sua relazione con Leonard.
Laughlin, comunque, resta sempre il migliore: "Io ti perdono dall'alto della mia magnanimità" è una frase che solo uno come lui poteva pronunciare!
Quanto all'EIF, per favore apprezzate il mio sforzo per creare una sigla in una lingua di cui conosco 4 parole in croce. Però che sia in fncese ha senso perché mi immagino che questa lingua faccia parte del bagaglio di ogni buon nobile purosangue (Finan Best è nobile e Ailionora aspira ad esserlo); ovviamente l'uso del francese è una copertura per nascondere la sigla.
Tornando indietro, Mairead ha finalmente realizzato che NON le piacciono i giocatori di Quidditch. Magari presto o tardi realizzerà che le piacciono i morettini tenebrosi con gli occhi azzurri... ;)
Infine, quanto mi era mancato Faonteroy! *-* E' adorabile un tredicenne che si atteggia da vecchio lord imbacuccato! XD
Nel prossimo capitolo, tireremo ancora un po' in giro Eddy... ormai sta diventando un piacevole passatempo! E poi, nuove lezioni! Ci vediamo mercoledì 23 maggio!
A presto,
Beatrix

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Capitolo 10
*** Lezioni di Materializzazione ***


CAPITOLO 10
Lezioni di Materializzazione






Edmund non era mai stato particolarmente orgoglioso, ma anche fosse, era convinto che Laughlin si meritasse tutte le scuse del caso. Dopotutto, aveva insultato anche suo padre in modo piuttosto squallido, visto che Eoin si era sempre dimostrato gentile e premuroso nei suoi confronti. Inoltre Edmund sapeva quanto Laughlin fosse affezionato a suo padre ed era stato un vero colpo basso toccarlo proprio in quel campo. Si vedeva che aveva trattenuto a stento la rabbia.
Così la mattina dopo si recò verso la Sala Mor pieno di buoni propositi. Nei corridoi incontrò Moira, che si stava recando come lui verso la sala per la colazione.
«Ciao, Edmund» lo salutò la ragazza con un gran sorriso.
«Ehi, Moira, è un po' che volevo chiedertelo» cominciò a dire Edmund. «Hai tolto l'apparecchio?»
Moria parve deliziata che qualcuno se ne fosse accorto e sfoggiò la sua nuova dentatura finalmente libera da imbarazzanti ferretti. «Sì, hai visto?» gongolò soddisfatta.
«Stai benissimo, hai un sorriso stupendo» si complimentò Edmund, facendo ricorso ai consigli della sua Laughlin-coscienza, che suggeriva sempre di fare gentili apprezzamenti alle ragazze. Peccato che con Mairead non ci riusciva mai.
Le parole di Edmund ebbero comunque l'effetto desiderato, perché Moira parve decisamente compiaciuta. «Grazie» mormorò allegra. In quel momento un gruppo di primine dei Raloi (tra le quali Edmund riconobbe, con un certo orrore, Rosalie Sharpaty) passò loro accanto, lanciando occhiatine sognanti nella direzione del giovane figlio del Presidente.
Moira ridacchiò. «Sai, ho sentito una ragazzina dei Llapac del secondo anno che voleva fondare un fan club in tuo onore» spiegò divertita, arricciandosi una ciocca di capelli rossi intorno al dito. «Fossi in te starei attento al succo d'arancia, la mattina».
Edmund digrignò i denti come un animale rabbioso, stufo di essere al centro delle attenzioni di tutto l'universo femminile della scuola. Ma poi, osservando la sua amica Moira, gli venne un puro lampo di genio. «Ehi, mi è venuta un'idea stupenda per farle smettere!» esclamò entusiasta, come se avesse appena vinto un prestigioso premio. «Potremmo fingere di stare assieme!»
Moira lo guardò con una divertita aria di compatimento. «Non credo che funzionerebbe, Ed. Anzi, è probabile che comincino ad attentare alla mia vita» rispose, piuttosto preoccupata per la sua incolumità: mai mettersi tra le fans e il loro divo. «E poi io voglio chiedere a Henry di uscire» aggiunse poco dopo, arrossendo sulle guance.
«Davvero? Oh, è un ragazzo fortunato» la incoraggiò Edmund con un sorriso, quando ormai erano arrivati allo scalone d'ingresso.
In quel momento vennero raggiunti da Laughlin e Dominique, appena usciti dalla loro sala comune.
Edmund si stropicciò le mani, leggermente a disagio, ma alla fine pensò che la miglior tattica restava ancora l'onesta. «Ehi, Laugh, scusa per ieri» mormorò a mezza voce.
Laughlin rispose con un'amichevole pacca sulla spalla: pareva che avesse sbollito la rabbia. «Non fa niente, Ed, tutto passato» assicurò con un sorriso.
Edmund si sentì sollevato, anche se era comunque certo che Laughlin non fosse quel tipo di persona che resta sulle sue a lungo: si riteneva troppo superiore agli altri per preoccuparsi di tenere il muso con qualcuno. Sapeva lasciarsi scivolare addosso gli insulti con una destrezza notevole.
In quella, furono sorpassati da un gruppetto di vocianti ragazzine che rivolsero loro ridolini deliziati, strappando a Dominique e Laughlin alcuni ghignetti divertiti.
Edmund era sul punto di lanciare grida esasperate, quando fu colto da una nuova e più efficace illuminazione. «Aspetta, ho un altro piano: potrei mettere in giro la voce che sono gay!» esclamò, soddisfatto del suo piano audace.
«Sei gay, da quando?» si informò distrattamente Laughlin, che non era a conoscenza dei pallidi tentativi dell'amico di liberarsi delle sue agguerritissime fans.
«Senza offesa, ma l'ho sempre sospettato, amico» intervenne Dominique, con la stessa tranquillità. «Voglio dire, le tue sopracciglia sono così sottili!»
Edmund aprì la bocca, indignato, ma non trovò alcuna rispostaccia da rifilare al Nagard. Anche perché, ad essere sinceri, non aveva la più pallida idea di come fossero le sue sopracciglia.
«Tu misuri l'orientamento sessuale delle persone in base allo spessore delle loro sopracciglia?» si informò Laughlin, piuttosto divertito dalla cosa.
Dominique annuì. «Sì, è un metodo assolutamente infallibile» spiegò, come se si trattasse di qualcosa di davvero scientifico.
Ormai giunti in ingresso, Moira richiamò la loro attenzione indicando un gruppo di studenti. «A giudicare dalla gente, ci deve essere un avviso in bacheca» disse, avvicinandosi per capire di cosa si trattasse.
«Basta che non sia un'altra trovata della Diablaiocht, o giuro che sta volta la brucio viva» mormorò a denti stretti Laughlin.
Quando finalmente alcuni studenti si spostarono, i ragazzi poterono avvicinarsi alla bacheca e leggere l'avviso che portava il titolo “Lezioni di Materializzazione”.

Tutti gli studenti che compiono 17 anni tra il 1 agosto 1995 e il 31 gennaio 1996, possono frequentare -previa iscrizione presso il proprio direttore di casa- le lezioni di Materializzazione tenute dal dottor Amadeus Doris, Ufficiale Patentato del Dipartimento per i Trasporti Magici. Seguirà esame di idoneità e Patente di Materializzazione rilasciata dal Ministero.

Sotto erano elencate date degli incontri, che si sarebbero svolti in Sala Mor.
«Ehi, io ci sono dentro!» esclamò Edmund, eccitato dalla prospettiva di imparare qualcosa di nuovo. E poi la Materializzazione era un modo tremendamente figo di viaggiare.
«Anch'io» commentò Moira con un sorriso.
«Ottimo, così faremo le lezioni assieme» replicò il ragazzo, contento di aver trovato qualcuno con cui condividere le ore di incontro. «Ehi, che succede di bello?» domandò Bearach, apparendo alle spalle di Dominique proprio in quel momento.
«Niente che freghi a te, pulce» rispose sgraziato Laughlin, frustrato dal fatto di essere escluso dalle lezioni, visto che lui avrebbe raggiunto la maggiore età ad agosto dell'anno prossimo.
«Sei un brutto babbuino Babbano!» lo insultò Bearach, corredando il tutto con una sonora pernacchia.
«E tu sei una piaga sociale» replicò l'altro con una nonchalance di stampo tipicamente Maleficium.
Bearach sbuffò e si diresse verso i suoi compagni Nagard, perché sapeva che non ci sarebbe stato verso di condurre una conversazione civile con quell'antipatico di suo fratello. Insieme agli altri ragazzi di prima raggiunse l'aula di Trasfigurazione al secondo piano, dove, a loro, si unirono i Raloi e i Llapac per seguire la lezione del professor Cumhacht.
Bearach si scelse un banco a caso verso il fondo, senza preoccuparsi di chi gli si sedette accanto. Il problema era che non aveva stretto grandi rapporti di amicizia con nessuno: era disponibile e chiacchierava con tutti senza problemi, ma non aveva trovato quell'amico con cui condividere tutto. Qualcuno come Ed e Mairead per Laughlin, qualcuno che assecondasse la sua esplosiva energia e la sua voglia di avventura. Qualcuno, per esempio, con cui chiacchierare durante le noiosissime lezioni del professor Cumhacht.
Quel giorno non ci fu verso di trasfigurare il suo scarafaggio in un bottone. Non c'era niente da fare, non era portato per quella materia; né lui né la sua bacchetta di corniolo, ad essere sinceri, che era piuttosto capricciosa e refrattaria alle magie serie.
«Oggi vi darò un voto sulle vostre trasfigurazioni» annunciò il professor Cumhacht, verso la fine della lezione.
Bearach, atterrito dalla prospettiva di prendere una Q, agguantò il suo scarafaggio, che zampettava placido per il banco e gli lanciò dietro tante di quelle maledizioni che il poveretto ci restò secco. Ma sarebbe stato impossibile farlo passare per un bottone anche con un troll di montagna ubriaco di sidro di mele.
Si mise le mani nel capelli e attese l'inevitabile.
«Maleficium, dov'è il tuo compito?» domandò implacabile il professor Cumhacht. Sembrava che quasi ci godesse a cogliere gli studenti in fallo.
«Eccolo, signore, gli era caduto» mormorò un'altra voce.
Bearach alzò gli occhi sulla compagna che sedeva al tavolo davanti al suo e la vide chinarsi per raccogliere qualcosa da terra e posare sul suo banco un bottone perfettamente trasfigurato. Nel compiere quel semplice gesto, spazzò via nel contempo il cadavere del suo fu scarafaggio e gli fece l'occhiolino.
Bearach rimase stranito: Lily Sharpaty stava facendo una favore a lui?
Cumhacht sembrò captare puzza di imbroglio, ma quando agitò la bacchetta per ripetere al contrario la magia, un insetto perfettamente sano comparve sul tavolo dell'alunno. Lo stavano imbrogliando, ma non aveva le prove per dimostrarlo. Era ancora il professore, comunque, e non avrebbe dato una S a Maleficium senza che questi se la meritasse. «Mi sento buono, oggi, e non vi darò il voto. La lezione è finita» annunciò alla classe.
Nel fastidioso strascicare di sedie sul pavimento in cocciopesto, Bearach trovò il tempo di sibilare un grazie a Lily. La ragazzina gli rivolse un sorriso complice che aveva un che di malandrino.
E Bearach ne fu certo: aveva trovato qualcuno con cui condividere le sue avventure.

Edmund e Moira si presentarono alla prima lezione di Materializzazione pieni di curiosità e buoni propositi. Notarono che, oltre a loro, del quinto anno c'era solo Sergey Balosky dei Nagard: tutti gli altri erano del sesto.
Dopo qualche minuto di eccitata attesa, arrivò la professoressa O'Connel accompagnata da un giovane uomo di aspetto piacente. Aveva qualcosa di molto poco irlandese, per via del suo sorriso sgargiante, del fisico atletico e della carnagione abbronzata (era contro le leggi della fisica abbronzarsi in Irlanda, visto quanto spesso pioveva; era più semplice che ti crescessero le branchie).
«Buongiorno a tutti, ragazzi! Io sono Amadeus Doris» salutò gli studenti, allargando le braccia come se volesse abbracciarli in un sol colpo.
«Ha l'accento americano» sussurrò Edmund a Moira.
«Irlandese di nascita, ho vissuto tantissimi anni in America e ho studiato per specializzarmi nel settore della Materializzazione» spiegò infatti Doris, con quel suo modo di fare così yankee. «Lì sono avanti anni luce con le ricerche, ragazzi!»
Gli occhi di Edmund si illuminarono per la sete di conoscenza.
Doris cominciò a passeggiare avanti e indietro lungo la Sala Mor. «I metodi anglosassoni sono decisamente superati, ormai. Vi mettono lì delle vecchie carampane, con la santa pace del caro Wilkie Twycross, fissate con le loro inutili tre D: Destinazione, Determinazione e Decisione» spiegò, sempre senza perdere quel sorriso che a Edmund ricordava tanto quello di un presentatore televisivo. «Ma non vi spiegano nulla di come funziona. Mentre io vi aprirò gli occhi!» continuò Doris.
Tutta la classe pendeva dalla sua bocca, se non per vero interesse per le sue parole, certo almeno per la sua straordinaria capacità di accattivarsi il pubblico.
«Vedete, nella Materializzazione le nostre potenzialità magiche entrano in reazione con le Forze di Spazio e Tempo, per chi ne sa un po' di Filosofia» cominciò a spiegare Doris, affascinando i ragazzi. «Ciò che accade quando noi ci materializziamo, è che queste due Forze risucchiano il nostro corpo e lo spostano in un altro luogo, anche distantissimo, in una frazione di tempo minima. È per questo che compiamo un gesto rotatorio, per permettere a queste Forze di entrare in reazione con la nostra magia».
Edmund stava bevendo con avidità ogni parola. Doris aveva una incredibile abilità espressiva: gesticolava e modulava la voce come se stesse recitando, rendendo anche più accattivante un argomento che era già di per sé molto interessante.
«In realtà, però, per noi è come se facessimo un solo passo. Piroetta, passo...» con quelle parole roteò su se stesso e scomparve.
Gli alunni trattennero il fiato, come se non avessero mai visto nessuno materializzarsi.
«...e Materializzazione!» esclamò Doris, comparendo alle loro spalle una frazione di secondo dopo.
Gli studenti scoppiarono in un applauso che Doris accolse con un inchino.
«Ora, tutti attenti!» esclamò, come se avesse davvero bisogno di richiamare l'interesse dei ragazzi. «Questa era la parte teorica. Vediamo come metterla in pratica: per materializzarvi dovete avere ben in mente il luogo dove volete arrivare e immaginare di poterlo raggiungere con un sol passo. La vostra concentrazione deve essere massima, perché dovete al contempo lasciar fluire la magia fuori di voi e avere una perfetta coscienza del vostro intero corpo, altrimenti rischiate di Spaccarvi. E non è una bella esperienza» spiegò Doris, accompagnando con un occhiolino l'ultima frase. «Ora siete pronti? Perché tocca a voi!»
«Normalmente non ci si può Materializzare o Smaterializzare nei territori della scuola, ma l'incantesimo è stato sospeso per un'ora per la Sala Mor, in modo che possiate esercitarvi» intervenne la professoressa O'Connel.
Doris, per nulla infastidito dall'interruzione, rivolse alla donna un sorriso smagliante. «Ottimo, ragazzi. Avete sentito la vostra insegnante? Mettetevi tutti in fila!» ordinò agli studenti.
Ci fu un accalcarsi disordinato, perché tutti volevano essere primi. Quando finalmente riuscirono a mettersi in ordine, Doris li fece provare uno ad uno a materializzarsi dentro un cerchio che aveva disegnato in terra con la magia.
Edmund osservò con eccitazione crescente la fila che si accorciava e i compagni che piroettavano e cadevano a terra senza riuscire nel compito. Non appena toccò a lui cercò di concentrarsi sulle parole incoraggianti di Doris.
«Avanti, punta tutta la tua volontà nel raggiungimento dell'obiettivo, resta saldo nel tuo proposito e pensa che è solo come fare un passo» gli suggerì l'uomo con un sorriso.
Ce la faccio, ce la faccio! si disse Edmund, pensando che tutti gli dicevano sempre che aveva delle ottime capacità: tanto valeva dimostrarlo, no?
Chiuse gli occhi, girò su se stesso e...
Si sentì premere da tutte le parti, come se qualcuno l'avesse pressato a forza dentro un tubo di gomma. I polmoni, schiacciati dentro la cassa toracica, insieme a tutti gli altri organi interni, sembravano voler fuoriuscire dalla sua bocca.
Poi inghiottì un enorme sorsata d'aria e barcollò a terra. Ci impiegò parecchi secondi per capire che il fragoroso rumore che frastornava i suoi timpani era un applauso.
Ce l'aveva fatta!
Si guardò intorno, ancora frastornato, e notò che si trovava nel centro esatto del cerchio, cinque metri più avanti di dov'era partito. Si era materializzato!
«Bravo, ragazzo mio!» esclamò Doris, dandogli una pacca sulla spalla. Edmund trattenne a stento un conato di vomito, dato che il suo stomaco era accartocciato e risalito più o meno all'altezza della gola.
«Come ti chiami?»
«Edmund McPride» biascicò a malapena.
Doris gli prese la mano e la alzò al cielo in segno di vittoria, noncurante del fatto che il ragazzo aveva un aspetto cadaverico (il che era tutto dire, visto che era già pallido di suo). «Edmund ce l'ha fatta al primo colpo, ragazzi! Visto che non era difficile?»
In realtà, nessun altro riuscì nell'impresa, ma Edmund non se ne curò affatto, perché passò il resto dell'ora a concentrarsi per evitare di rimettere il pasto di quel giorno e anche dei tre giorni precedenti.
«La Materializzazione non è il mio modo preferito di viaggiare» confessò a Moria, alla fine della lezione. Stava finalmente cominciando a riacquistare un po' di colore.
Moira si strinse nelle spalle. «Credo sia questione di abitudine. Dubito che i tutti i maghi che la usano passino la giornata a vomitare» commentò in tono saggio.
«Ehi, McPride» chiamò in quel momento una voce femminile.
Edmund si voltò, per trovarsi di fronte una ragazza del sesto anno dei Nagard: era certo di averla già vista. L'occhio gli cadde sulla coccarda rossa che indossava: capì che era la dictator della sua casa e per questo gli pareva che avesse un'aria familiare. Ma non aveva la più pallida idea di come si chiamasse.
«Dimmi» tentò con un approccio neutro.
La ragazza prese un profondo respiro, poi mormorò tutto d'un fiato: «Mi chiedevo se ti andava di uscire come me».
«Dove dobbiamo uscire?» domandò con aria piuttosto rimbambita il diretto interessato.
La ragazza si stropicciò le mani con fare nervoso. «Ehm, uscire, nel senso... un appuntamento».
«Io e te?» indagò Edmund, chiedendosi perché mai avrebbe dovuto avere un appuntamento con una ragazza di cui non sapeva nemmeno il nome. «Sì» rispose speranzosa l'altra.
Edmund aprì la bocca, colto alla sprovvista, ma non ne uscì alcun suono. Che diavolo avrebbe dovuto dire per declinare l'offerta con gentilezza? Sentì Moria al suo fianco che tratteneva a stento una risatina. Dove diavolo era la sua Laughlin-coscienza quando serviva? «No» fu la stupida, grezza risposta che gli uscì.
La ragazza resse piuttosto bene il colpo: si limitò ad annuire affranta, ma Edmund si sentì comunque un viscido verme quando la vide allontanarsi a grandi passi in direzione del bagno. Sembrava proprio che stesse trattenendo a stento le lacrime.
Per evitare queste scenate devo decisamente mettere in giro la voce che sono gay. si disse con una certa fermezza.
Poi notò che c'era un ragazzo del sesto anno dei Raloi che gli stava rivolgendo un sorriso ammiccante. Ma sorrideva a lui? Si voltò e vide che non c'era nessuno alle sue spalle. Rabbrividì.
O forse no.







Eccomi qui, reduce dalla laurea del mio fratellone, pronta per aggiornare con il nuovo capitolo!
Ve l'avevo detto che avrei maltrattato Eddy ancora un po', no? Dai, nemmeno troppo! Io adoro i Nagard e adoro Dom e Laugh quando tirano fuori il loro lato peggiore: prendere in giro Ed è così semplice a volte! ;)
QUI l'immagine di Edmund che è riuscito nella sua prima materializzazione: notate che è ridotto ad uno straccio, povero! Ah, per il riferimento alle tre DDD della Gran Bretagna, andatevi a rileggere le lezioni di Materializzazione che deve sorbettarsi Harry nel sesto libro! Doris ha ragione: nessuno spiega mai a questi ragazzi cosa diavolo succede quando fanno magie!
Quanto a Bearach, finalmente ha trovato una compagna di avventure! Dopotutto, Lily è una Raloi, di quelle che se ne fregano delle regole e dell'autorità costituita... una teppistella bionda, in sostanza! Adorabile!
Prossimo capitolo: Faonteroy aiuterà Eddy a capire certe cose della vita... dimmi te se deve farsi spiegare tutto da un tredicenne spocchioso! XD Ci vedamo giovedì 31 maggio!
Grazie a tutti,
Beatrix

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Capitolo 11
*** La rivelazione ***


CAPITOLO 11
La rivelazione






Quando finalmente arrivarono le vacanze di Natale, Edmund non vedeva l'ora di andarsene dal Trinity. Non era mai successo che desiderasse fuggire dal quell'unico posto che aveva considerato come una casa per tutti gli ultimi anni, ma la situazione stava cominciando a diventare insostenibile.
Da un lato c'era la Diablaiocht e le sue risatine sarcastiche, con appuntata alla camicetta della divisa quella maledetta spilla del suo gruppo studentesco, che (Edmund l'aveva scoperto solo più tardi) era stata appositamente incantata per roteare e trasformarsi nella Croce Celtica dell'EIF non appena i professori sparivano dalla circolazione.
E tutte le volte che la conversazione virava sull'operato del Ministero per affrontare la crisi, lui era pericolosamente vicino a litigare di nuovo con Mairead. Il loro rapporto era in equilibrio sull'orlo di un precipizio.
Dall'altro lato c'era la sua maledetta popolarità, per cui dovunque andasse c'era gente che si voltava a guardarlo, di volta in volta con occhi sognanti, ammirati o invidiosi. Più di una ragazza gli aveva chiesto di uscire, come già aveva fatto la dictator dei Nagard; qualcuna addirittura si era presentata a lui con una scatola di cioccolatini. E non sapeva dire se gli desse più fastidio la situazione in sé o il fatto che Laughlin se la ridesse sguaiatamente alle sue spalle. Nemmeno troppo alle sue spalle, a dire la verità: gli rideva in faccia senza alcun ritegno.
Per non parlare poi del fatto che evitava accuratamente di fermarsi nella sala comune dei Raloi quando c'era quel tizio del Sesto anno che gli sorrideva sempre.
Ehi, aspetta, avrebbe potuto farsi crescere le sopracciglia con la magia! Così magari quello la piantava, visto che, a detta di Dominique, le sue sopracciglia erano inequivocabilmente sottili.
Fu un pessimo tentativo. La Trasfigurazione umana era ancora fuori dalla sua portata, sebbene il professor Cumhacht avesse cominciato a spiegarne i presupposti teorici a lezione. Il risultato fu che si fece crescere un enorme monosopracciglio che arrivava fino all'attaccatura dei capelli: immaginandosi incapace di spiegare la situazione ad uno scettico professor Cumhacht, preferì rifugiarsi in infermeria. Per fortuna l'infermiera Flanders non fece domande inopportune e si limitò a sistemare l'indicente con un contro-incantesimo.
Quando Edmund abbandonò l'infermeria, aveva l'umore decisamente sotto terra. Era inutile che continuasse a mentire a se stesso: la sua disperata ricerca di autodeterminazione lo stava portando a sbattere contro il muro di infiniti vicoli ciechi. Credeva che assumere il cognome McPride potesse finalmente rivelargli chi era ma, in realtà, nemmeno quella gli pareva essere la sua vera identità. Non gli piaceva quel mondo fatto di apparenze, quello stare continuamente al centro dell'attenzione, quel ricevere continue occhiate di apprezzamento solo per via del cognome che portava.
Ma se non era Edmund McPride, chi era?
«Buon pomeriggio, Edmund» lo salutò una voce pacata e apparentemente atona.
Il ragazzo si voltò verso Faonteroy e gli rivolse un sorrisetto tirato.
«Non è affatto un buon pomeriggio, arguisco» commentò il Nagard, sistemandosi con noncuranza gli alamari del mantello. «No, infatti» confermò Edmund, scendendo le scale insieme al ragazzino per raggiungere il piano terra. «Odio stare al centro dell'attenzione di tutto l'universo femminile della scuola. E non solo...» borbottò sconsolato.
Faonteroy lo guardò di sottecchi, poi se ne uscì con una domanda del tutto inaspettata: «Ti va di fare due passi per il portico?» Edmund fu colto di sorpresa, ma non aveva motivo di rifiutare. Si strinse nelle spalle in segno di assenso e si lasciò condurre dal ragazzino verso il cortile porticato.
«Sai...» cominciò a dire Faonteroy, passeggiando con le mani dietro la schiena. «Un modo per evitare tutto questo ci sarebbe: un fidanzamento ufficiale» spiegò in tono serio. Anche se, ad essere sinceri, Edmund non lo aveva mai sentito usare un tono diverso, nemmeno per cose che serie non lo erano affatto.
«Ci avevo già pensato, ma Moira non vuole perché a lei piace Henry» spiegò il Raloi, scuotendo la testa rassegnato.
«Oh, sei interessato alla O'Callaghan?» si informò discretamente Faonteroy. Non sembrava convinto nemmeno lui della questione, però. «Be', non è un cattivo partito. Suo nonno è Elios MacGaril, sai, lo zio di mia madre. Ma credo che sia stato diseredato dalla famiglia per via del suo matrimonio con una Babbana» cominciò a spiegare.
Edmund lo fermò prima che cominciasse a recitare a memoria tutto l'albero genealogico dei MacGaril. «Non mi interessa Moira, era solo una cosa di copertura» rivelò sottovoce.
«Oh» fu l'unico commento di Faonteroy. «Io parlavo di un fidanzamento ufficiale, uno vero» spiegò, guardandolo dritto negli occhi e fermandosi in mezzo al portico. «Senti, Edmund, forse parlerò contro i miei interessi, visto che dovrei preoccuparmi di mantenere la purezza del sangue della mia famiglia, mentre delle tue origini non si sa nulla; però io pensavo a mia cugina» gli disse, sempre con quel suo tono mortalmente serio.
Edmund rimase completamente spiazzato. «Ma no... non potrei mai! Voglio dire... Mairead è mia amica» farfugliò con imbarazzo. Era la situazione più assurda in cui si fosse mai trovato: stava discutendo di fidanzarsi con la sua migliore amica insieme al lontano cugino tredicenne di lei.
«Molti credono che io sia solo un imbacuccato Nobile Purosangue, ma sono più sveglio di quanto non si pensi» asserì Faonteroy, e sembrava insieme angustiato e compiaciuto. Poi prese a fissare Edmund con i suoi incredibili occhi verdi. Aveva l'aria di uno che sta per fare un'importante rivelazione di stato. «E una cosa l'ho capita» disse con solennità. «Tu sei innamorato di mia cugina».
A quelle parole, Edmund rimase spiazzato.
Non è vero! cercò di protestare la sua parte razionale, ma fu subito messa a tacere. Il cervello si svuotò, per far posto ad un'unica, vivida immagine: lui che afferrava Mairead per la vita e la baciava.
Un'inebriante sensazione di gioia folle lo aggredì tanto che fu costretto a sedersi sul muretto e aggrapparsi alla colonna del portico per non stramazzare a terra.
Era quello che voleva, era quello che voleva da sempre.
Era per questo motivo che aveva tanto odiato Leonard, che aveva scacciato MacDivus e che si sentiva in fiamme tutte le volte che lei anche solo lo sfiorava con la mano. Era perché ne era innamorato.
Realizzarlo fu come liberarsi di un enorme peso che gli opprimeva lo stomaco.
Ma durò poco. Subito una serie di ansie e interrogativi si affollarono nella sua mente: che cosa avrebbe dovuto fare? Glielo avrebbe detto? E se lei non ricambiava? Avrebbe rovinato la loro amicizia? Ma sarebbe stato in grado di sopportare l'idea di vederla insieme ad un altro? No, questo mai.
Ma allora... e se...?
Beato Merlino, stava impazzendo! Doveva dirglielo assolutamente!
«Grazie, Faonteroy!» esclamò dando un'amichevole pacca sulla spalla al ragazzino. E poi schizzò via in direzione della sala comune. Vi arrivò trafelato e con il cuore in gola. Non era affatto sicuro di quello che stava facendo, ma se c'era un vantaggio nell'essere un Raloi era che la dea Impulsività che governava le sue azioni gli impediva di ragionarci davvero sopra. Perché, se fosse stato lucido, non avrebbe mai tentato quella follia.
«Mairead!» gridò, entrando come un fulmine nella sala comune.
Le trovò seduta sul divanetto davanti al fuoco, con i piedi scalzi appoggiati al caminetto. La trovò, e in parte a lei era seduto Gordon Weaving. Stavano chiacchierando. Erano seduti vicini.
Mairead lo guardò perplessa, in attesa che parlasse.
Edmund rimase bloccato, incapace di dire una sola parola. Si era dimenticato del fatto che a Mairead piacevano i giocatori di Quidditch. I campioni, quelli che facevano valere i loro talenti a cavallo di una scopa. Mentre lui non aveva mai nemmeno imparato a volare.
Rimase imbambolato come un ebete, senza riuscire ad inventare una buona scusa per quella sua poco aggraziata entrata in scena. «Io... ecco...» balbettò. «Niente» decretò infine, girando sui tacchi e svignandosela dalla sala comune.
«Ma che gli è preso?» domandò Gordon, sorseggiando con calma la sua cioccolata calda. Odiava essere costretto a discutere degli schemi tattici con la sua Punta: per fortuna non avevano ancora iniziato perché dovevano aspettare Lily, che non era ancora rientrata dalla lezione.
Mairead si strinse nelle spalle. «Sinceramente, proprio non lo so».

Ritrovarsi sul treno in partenza per tornare alla stazione di Dublino fu una vera liberazione per Edmund. Stare al Trinity era diventato come essere rinchiusi dentro una gabbia perché, oltre a tutti i suoi problemi, se n'era aggiunto un altro: Mairead.
Da quando aveva realizzato i suoi sentimenti per lei, non aveva la più pallida idea di come avrebbe dovuto comportarsi. Avrebbe dovuto rivelarle tutto oppure no? Un momento, parlarle sinceramente gli sembrava l'idea migliore, il minuto dopo gli pareva una follia. Ogni volta che si risolveva per una delle due soluzioni, non era in grado di mantenere la sua decisione salda per più di qualche ora. Per non parlare del fatto che la sola presenza di Mairead gli annodava lo stomaco, gli faceva sudare le mani e battere il cuore come un ragazzino alla sua prima cotta. In effetti, era la prima volta che provava tutto quel caotico insieme di sentimenti che la gente normalmente chiamava amore, ma era sicuro che non si trattasse di una cosetta da niente. Perché non era possibile che una semplice cotta avesse il potere di mozzargli il fiato, annodargli la lingua e rivoltargli lo stomaco; ma non erano sensazioni spiacevoli. Non del tutto, almeno, perché si accompagnavano alla visione paradisiaca di Mairead.
Si ritrovò a passare le sue giornate a cercarla con lo sguardo, per poi contemplarla in silenzio come si ammira un'opera d'arte. «Edmund, mi stai fissando da dieci minuti» gli fece notare proprio in quel momento Mairead.
Un scossone del treno riportò il ragazzo con i piedi per terra. «Io... ehm, scusa. Mi ero incantato» farfugliò Edmund, mordendosi la lingua. «Falla tu la mossa se sei tanto più bravo» sbottò Mairead, con uno sbuffo esasperato.
Mossa? Oh, già, stavano giocando a scacchi.
Sogghignò. Mairead odiava gli scacchi.
«Cavallo in E-5» ordinò al pezzo, che eseguì il suo comando senza troppa convinzione.
Laughlin esultò. «Ah! Regina in D-9... scacco matto!» disse con un gran sorriso di vittoria stampato in faccia.
«Edmund!» protestò Mairead. Lei non sapeva giocare bene, ma almeno aveva retto fino a quel punto, al contrario di Edmund che aveva fatto una sola mossa ed era riuscito a farla perdere.
«Io...» balbettò il ragazzo, senza avere il coraggio di ammettere che aveva tirato a caso la casella in cui spostare il cavallo, perché non aveva seguito nulla della partita.
«Non c'è niente da fare, McPride ce l'ha proprio rincretinito» sospirò Laughlin, fingendo un'aria risaputa.
«Ehi, buongiorno» esclamò in quel momento Dominique, affacciandosi nello scompartimento del treno. «Posso?» domandò entrando. Era seguito da Cosimo Brandebelli, Punta e Capitano della squadra dei Nagard.
Edmund lo odiò all'istante.
«Prego» rispose Laughlin, indicando loro i posti vuoti.
«Quest'anno non ha ancora nevicato» commentò Dominique sovrappensiero, guardando fuori dal finestrino.
Edmund sentì Laughlin rispondere qualcosa, ma non seguì il suo discorso: aveva puntato lo sguardo contro Brandebelli e si chiedeva che cosa diavolo ci facesse lì. Certo, era coetaneo di Dominique, nonché suo compagno di casa, ma con loro tre non aveva un grande rapporto. Perché era venuto con Dom al loro scompartimento? Qual era il suo secondo fine?
Perché doveva esserci un secondo fine. I Nagard avevano sempre un secondo fine.
La neutra conversazione sul tempo si trasferì pericolosamente sull'argomento vacanze. Cosimo pareva particolarmente interessato a quello che diceva Mairead, perché la osservava con attenzione e sembrava aspettare il momento adatto per agire. Ma quale azione doveva compiere? «E tu, Ed?» lo interpellò Dominique.
Edmund smise di fissare con astio Brandebelli e ripiombò sulla terra, abbandonando le sue congetture. Si accorse di non saper rispondere a quella domanda, perché non aveva seguito l'evolversi del discorso.
«Ehm...» farfugliò, alla ricerca di un appiglio.
«Lascia perdere, Dom» intervenne bonario Laughlin. «Ultimamente Eddy si è rincretinito in toto».
«Non mi sono rincretinito!» protestò offeso il diretto interessato.
Laughlin gli rivolse un sorriso compassionevole, ma i suoi occhi brillavano di una luce maliziosa e sarcastica. «Io credo che diventare lo sciupafemmine della scuola ti abbia dato alla testa» sghignazzò divertito, strappando qualche risata anche agli altri.
Edmund si imbronciò: non gli interessava proprio niente di essere l'idolo delle ragazzine; lui ne voleva solo una, che aveva un nome e cognome preciso: Mairead Boenisolius. Ma, a quanto pareva, lei era attratta dal fascino dello sportivo.
«Non ti imbronciare!» lo prese in giro Laughlin, dandogli uno spintone sulla spalla. «Approfittane, invece!»
Edmund lo guardò perplesso. «Approfittarne?» si informò cauto. Non era certo di voler sapere come continuava il discorso dell'amico. Laughlin assunse un'aria da amante vissuto. «Voglio dire, hai un intero branco di femmine ai tuoi piedi: hai presente quante persone vorrebbero essere al tuo posto?» gli domandò, accavallando le gambe come un perfetto dandy.
«Quanto sei idiota, Laugh» lo rimproverò Mairead, ma con un tono bonario.
Laughlin sorrise. «Ehi, sono un adolescente maschio di razza pura. È scientificamente provato che sono portato a dominare» spiegò, fingendosi un esperto del settore. Tutti risero, tranne Edmund che era troppo impegnato a fare l'offeso.
«Sei della peggior specie: maschilista e con tendenze alla poligamia» lo prese in giro Mairead, che si riteneva in dovere di difendere il suo genere, sebbene sapesse che Laughlin parlava solo per dare aria alla bocca e non pensava davvero quelle cose.
Il ragazzo scrollò le spalle con disinteresse. «Non è vero, sto solo aspettando quella giusta» rispose.
Mairead sogghignò. «Aspetterai a lungo, se queste sono le tue premesse» concluse, tirandogli la carta della Cioccorana che aveva appena mangiato.
«Io non voglio dominare nessuno. E a me ne basta una di ragazza» intervenne Edmund a mezza voce.
Mairead rivolse un sorriso soddisfatto a Laughlin. «Visto che esistono anche degli adolescenti maschi che non ragionano come dei trogloditi?» lo provocò.
Laughlin accettò la sfida. «Non sono io troglodita, è Edmund che non è abbastanza furbo!» replicò con sagacia.
«Fate pure come se non fossi presente, eh...» borbottò il diretto interessato che, invece, non trovava per nulla divertente discutere su quelle questioni.
«Povero Eddy, ce l'hanno tutti con te» tentò di consolarlo Dominique, con un sorriso bonario, ma Edmund si limitò ad uno sbuffo spazientito. «Io la penso come lui» intervenne Cosimo, in tono serio.
Normalmente Edmund avrebbe ringraziato chiunque gli avesse offerto il suo appoggio in quel modo, ma era certo di avere un preciso motivo per cui avrebbe dovuto odiare Brandebelli.
«Meno male» mormorò invece Mairead, sempre con l'intento di stuzzicare Laughlin. «E siamo già a due».
«Ehi, io sono un ragazzo perbene» spiegò Cosimo, con quell'odioso sorrisetto strafottente che sapevano fare solo i Nagard. «Se vuoi te lo posso provare, Mairead: ti va di uscire con me?»
Uno strano silenzio scese nello scompartimento.
La mano di Edmund saettò in automatico verso la tasca dei pantaloni dove teneva la bacchetta. Eccolo il motivo per cui avrebbe dovuto odiare Brandebelli: stava cercando di soffiargli la ragazza. Irrigidì i pugni e contrasse la mascella in uno spasmo involontario. I suoi occhi azzurri si puntarono su Brandebelli, il suo corpo teso, pronto a scattare e lanciargli una bella fattura, se necessario.
Se ne accorse solo Laughlin ma, da buon amico, evitò di farglielo notare. Anche perché lui aveva capito da seeeeecoli che al caro Eddy piaceva Mairead. A volte erano proprio dei trogloditi, loro due che non se ne accorgevano, non lui che improvvisava scherzosi discorsi misogini, ma era avanti anni luce in certe cose.
«No, grazie, Cosimo» rispose infine Mairead, leggermente a disagio per quell'uscita improvvisa. Si accorse solo allora di essere l'unica ragazza in uno scompartimento con quattro maschi, nessuno dei quali aveva l'intuito femminile necessario per sostenerla in un momento tanto delicato. Aveva assolutamente bisogno di un'amica femmina.
Prese un profondo respiro, conscia di doversela cavare da sola, poi aggiunse: «I giocatori di Quidditch non sono proprio il mio genere». Edmund spalancò la bocca in una “O” perfetta. Fu come se un intera secchiata d'acqua gli fosse stata rovesciata addosso. In un'afosa giornata d'estate.
Fu la notizia più piacevole che le sue orecchie avessero mai ricevuto. Una rivelazione.
Un sogno.
Ah, al diavolo i campioni di Quidditch! Beccatevi questo Troy e Bellimbusto Connery!
Pensando a quelle parole, Edmund sentì una sinfonia di cori angelici riempire lo scompartimento e ebbe l'irrefrenabile stimolo di scattare in piedi per intonare il Gloria in excelsis Deo, ma riuscì a trattenersi e si limitò ad un sorriso beato.
Perché essere un Raloi voleva dire essere stupidamente impulsivi. Ma fino ad un certo punto..







Credo che spetterebbe a noi intonare il Gloria, visto che Eddy ha FINALMENTE realizzato che è innamorato di Mairead! Dimmi te se deve farglielo capire un nobiletto impomatato come Faonteroy! XD
QUI l'immagine in cui Edmund riceve la rivelazione divina. E' disegnata a mano perché non so... avevo voglia di farla così! Mi sono divertita a fare la prospettiva, anche se non sono del tutto convinta che sia corretta! ^^
Ve l'avevo detto che Cosimo sarebbe tornato alla ribalta... giusto per fare ingelosire un po' Eddy e per far dichiarare a Mairead che non è interessata ai campioni di Quidditch.
Infine, avevo promesso a qualcuno di voi che Ed avrebbe fatto delle cose davvero stupide: bene, farsi crescere uno monosopracciglio è una di queste! XD Prossimo capitolo: villa McPride e una grossa sorpresa! ;) Ci vediamo domenica 10 giugno!
Grazie a tutti,
Beatrix

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Capitolo 12
*** La scoperta dei giochi ***


CAPITOLO 12
La scoperta dei giochi






Ritornare a villa McPride fu strano e piacevole allo stesso tempo: piacevole perché l'immensa villa, con quel tocco rustico e raffinato insieme, profumava di casa; strano perché mai avrebbe pensato di poter definire casa lo stesso tetto sotto cui viveva anche Adolphus McPride.
Riteneva di essere stato davvero stupido ad odiare quell'uomo per così tanto tempo: non era malvagio, era solo quel tipo di persona che sa quello che vuole e sa come ottenerlo. Anche lui avrebbe voluto essere forte e determinato come suo padre; lo ammirava.
Ogni tanto gli venivano in mente le discussioni con Mairead sull'operato del Governo e gli veniva da pensare che, forse, la sua amica aveva in parte ragione. Si ventilava l'ipotesi di una legge che impedisse contatti di qualsiasi genere con l'Inghilterra, da complessi rapporti commerciali a semplici vacanze nelle Highlands scozzesi. Come se tutto ciò che veniva dalla Gran Bretagna fosse in rapporto con i Mangiamorte e con Voldemort. Anche Edmund lo riteneva un provvedimento un tantino eccessivo.
«Finirà che mi sbatteranno in carcere perché ho una corrispondenza con il mio padrino Arthur!» aveva esclamato risentita Mairead.
Edmund non aveva saputo cosa rispondere a quella provocazione e si era limitato a borbottare qualcosa di incomprensibile. Il Governo stava davvero presentando al Parlamento leggi che avevano il sapore di velato razzismo.
Ma non doveva affatto pensarci: suo padre era un uomo d'onore e stava solo facendo il meglio per l'Irlanda.
Già, ma che cosa è il meglio, secondo lui? domandò una voce nella sua testa. E non aveva niente a che fare con il suo Laughlin-coscienza (quello si occupava di interazioni sociali): era la voce puntigliosa e inviperita di Mairead. Edmund la mise a tacere con un gesto stizzito del capo.
Quel pomeriggio aveva deciso di andare a Dubh Cliathan per comprare i regali di Natale a Mairead e Laughlin. Suo padre gli aveva aperto una camera blindata personale alla Gringott, sulla quale aveva riversato un bel po' di eire. Era la prima volta che Edmund si trovava nella condizione di poter disporre liberamente di un gruzzolo di soldi tutti suoi: di solito il Trinity gli forniva un budget per comprare il materiale scolastico, che era costretto ad acquistare di seconda mano, ma non gli avanzavano mai abbastanza soldi per soddisfare qualche piccolo piacere. L'anno scorso non era nemmeno riuscito a comprarsi un abito da cerimonia decente per il Ballo di Capodanno, tanto che il preside Captatio era stato costretto a prestargli uno dei suoi.
Ripensare al Preside gli diede una strana fitta allo stomaco, come se si sentisse in colpa per qualcosa. Non parlava con lui dalla fine dell'anno precedente, quando si erano incontrati nel suo studio al termine del Torneo Trecolonie; aveva come la sensazione di averlo tradito in qualche modo. Ma non aveva fatto nulla di male, no? Scacciò anche quella fastidiosa percezione e prese ad osservare le vetrine dei negozi di Dubh Cliathan.
Voleva comprare un regalo a Mairead e Laughlin, visto che finalmente disponeva di un po' di liquidità. Era la prima volta che aveva i soldi per fare loro il regalo a Natale e voleva prendere qualcosa di carino ad entrambi. Solo che non sapeva dove sbattere la testa.
E aveva bisogno di nuova carta da lettere per scrivere a Moria, che gli aveva mandato un gufo piena di entusiasmo per il suo primo appuntamento con Henry, in cui gli chiedeva una miriade di consigli. Sinceramente, Edmund non si sentiva affatto la persona adatta a dare quel tipo di suggerimenti, ma era certo che Moira avesse bisogno di una bella lettera incoraggiante da parte di un amico e si sentiva onorato del fatto che avesse scelto proprio lui.
Mentre era perso nei propri pensieri, intento a guardare la vetrina degli accessori da Quidditch alla ricerca di un regalo per Mairead (senza capire quale utilità potesse avere un kit per la manutenzione del manico di scopa), qualcuno alle sue spalle lo salutò: «Buonasera, Edmund».
Il ragazzo si voltò, per trovarsi di fronte una giovane signora bionda dall'aspetto gradevole che era certo di aver già visto da qualche parte, ma non ricordava dove.
La strega, forse notando il suo smarrimento, si affrettò a rinfrescargli la memoria: «Sono Sarah Mowe, ci siamo visti alla festa di compleanno di Laughlin. Mio marito Wollace MacLuan è cugino di Eoin».
Edmund riportò alla mente vestiti bianchi e un'enorme torta ricoperta di panna montata. «Mi scusi, non l'avevo riconosciuta» si giustificò, stringendo la mano alla donna con fare garbato. Laughlin sarebbe stato fiero del suo comportamento da perfetto gentiluomo.
«Ciao, Ed!» lo salutò allegra una bambina di circa dieci anni che stava mano nella mano con la donna. Aveva gli occhi vispi e quello stesso sorriso da furbetta che Edmund aveva visto tante volte sulle labbra dell'amico Laughlin.
«Ciao. Tu sei Eileen, giusto?» rispose il ragazzo, ricordando all'improvviso il nome della cuginetta dei Maleficium.
«Già» replicò la bambina, compiaciuta del fatto che l'altro di ricordasse come si chiamava.
«Questo è mio fratello Rodanus» intervenne la signora MacLuan, presentandogli un mago piuttosto alto che indossava un completo dall'improbabile colore violetto che faceva a pugni con i suoi capelli biondi striati di grigio.
«L'Onorevole Rodanus Mowe?» le fece eco Edmund, stringendo la mano dell'uomo. Non l'aveva mai visto di persona, ma sapeva benissimo chi fosse: era il Segretario Generale del partito di opposizione, il Pairti na Daonlathas. Se il mondo fosse stato diviso in bianco e nero, Edmund avrebbe detto che quell'uomo era l'avversario di suo padre. Politicamente parlando, almeno. Certo non sapeva che i Mowe fossero una delle famiglie nobili dell'Irlanda magica: così Rodanus Mowe militava nel Partito della Democrazia ma faceva parte dell'élite aristocratica irlandese, al contrario di suo padre che era il capo del Partito della Tradizione ma proveniva da una famiglia povera. Buffo il modo in cui andavano le cose, a volte.
«Zio Rod mi ha promesso un enorme regalo di Natale!» esclamò deliziata Eileen, rivolgendo un sorriso luminoso allo zio.
L'uomo le scompigliò i capelli con un gesto affettuoso. «Cosa non si fa per le nipotine» commentò con un sorriso.
Edmund pensò che avrebbe dovuto trovarlo antipatico, anche solo per il fatto che era l'avversario politico di suo padre, ma non ci riuscì. Anche Mowe, come McPride, sembrava emanare una sorta di fascino dovuto al carisma della sua forte personalità; giocava a suo favore anche l'aspetto fisico autorevole: era giovane, alto, con le spalle larghe, i capelli biondi spruzzati di grigio e grandi mani gentili.
Edmund ebbe l'impressione di ritrovarsi di fronte alla reincarnazione di Giulio Cesare: aveva letto di lui, in un libro di storia Babbana, che, pur discendendo dalla gens Iulia (una delle più importanti dell'Antica Roma), si era schierato dalla parte dei populares e aveva irretito intere legioni di soldati con il suo indubbio carisma. Rodanus Mowe sembrava in grado di affascinare, conquistare e legiferare con la stessa determinata energia che aveva caratterizzato Giulio Cesare.
«Vuoi venire a vedere che regalo di Natale mi comprerà lo zio?» chiese allegra Eileen, rivolgendo quello stesso sorriso luminoso anche a Edmund.
La signora MacLuan diede un buffetto alla figlia. «Edmund avrà le sue compere da fare, adesso; lasciamolo in pace» disse, per evitare al ragazzo di farsi trascinare da Eileen in qualche estenuante giro di negozi.
«Buona serata e buon Natale» salutò Edmund, sfoderando tutto il suo animo garbato.
«Porga i miei saluti a suo padre» si raccomandò Rodanus Mowe. «Dov'è, a proposito?»
«A casa, aveva una riunione di lavoro» spiegò Edmund, chiedendosi se i saluti che gli erano stati affidati e l'interessamento fossero solo di circostanza o nascondessero una sincera sollecitudine.
«La Vigilia di Natale?» domandò Mowe e pareva sinceramente sorpreso.
Edmund non seppe cosa rispondere. Ascoltò quasi distrattamente i saluti di Eileen e della signora MacLuan, perso com'era nella considerazione delle parole di Mowe: cosa stava insinuando? Che suo padre gli aveva mentito e che non aveva nessuna riunione di lavoro?
Eppure era stato proprio lui a consigliargli di andare a Dubh Cliathan a comprare i regali di Natale mentre lui incontrava i Capi dei Dipartimenti. In effetti, però, era strano che non si trovassero al Palazzo del Governo, ma a casa sua; e per di più la Vigilia di Natale. Edmund fu assalito da orribili dubbi. Perché suo padre avrebbe dovuto mentirgli?
Improvvisamente dimentico del suo proposito di cercare i regali per i suoi amici, si diresse verso il primo Metrombino libero e ci si buttò dentro per tornare subito a casa.
In ingresso lo accolse Nelly, prodigandosi infiniti inchini. «Il padroncino ha trovato quello che cercava?» domandò la piccola elfa, prendendogli il mantello per appenderlo al suo posto.
«Nelly, dov'è mio padre?» le chiese invece Edmund, glissando sulla domanda.
«È nella sala riunioni al piano di sopra» squittì l'elfa, con gli occhioni sgranati per chissà quale paura. «Ma ha detto che non vuole essere disturbato».
Edmund la ignorò. Prese a salire le scale con l'unico chiodo fisso di verificare che suo padre non gli avesse mentito.
Bussò alla porta, ma nessuno rispose. Bussò di nuovo: gli fece eco solo un cupo silenzio. Possibile che non ci fosse nessuno? Eppure Nelly aveva detto che erano nella sala riunioni.
«Padre?» domandò allora, socchiudendo la porta e sgusciando nel salone.
C'era davvero silenzio, ma la stanza non era affatto vuota: almeno una dozzina di persone erano sedute attorno ad un tavolo, come ad una riunione. Edmund ci impiegò parecchi secondi a distinguere i lineamenti dei loro volti, perché erano tutti avvolti dalla penombra. C'era una donna con lunghi capelli scuri e occhi simili a profondi pozzi neri, un mago biondo dall'aria sprezzante che lo guardò dall'alto in basso, una manciata di giovani tanto simili da non poter essere che fratelli.
Di fronte a lui, a capotavola, stava seduto un uomo austero, che a Edmund fece venire in mente subito una di quelle statue di santi che ornavano la chiesa gotica di San Patrizio, -nella Dublino Babbana- imperturbabili, nella loro trascendente distanza dal mondo terreno, ma insieme aspri condannatori dei deboli peccatori umani.
Gli sembrava di averlo già visto da qualche parte, eppure non riusciva a farsi venire in mente chi fosse, né chi gli ricordasse quel viso tagliente.
Edmund non riconobbe nessuna di quelle persone: ma non doveva essere una riunione di lavoro di suo padre? Nessuno di quei maghi era uno dei Capi dei Dipartimenti del Ministero. A parte...
Scipio Diablaiocht. Non l'aveva notato subito, perché era nascosto dalla figura imponente del mago biondo. Con quel suo naso adunco, l'aria di superiorità e il sorrisetto irriverente era perfettamente riconoscibile: pareva che una colica deturpasse i lineamenti del suo volto (già non troppo aggraziati) ogni volta che i loro sguardi si incrociavano.
«Edmund» sussurrò con un sorriso tanto falso da essere irritante a livello di urticaria.
L'uomo a capotavola che gli dava le spalle si voltò di scatto: il volto di suo padre Adolphus McPride fu attraversato da una sfumatura di panico. Sgranò gli occhi nella sua direzione e rimase pietrificato al suo posto.
«Padre, che cosa...?» mormorò Edmund, sorpreso. Poi la sua mente si mise in moto e fece velocemente due conti: Scipio Diablaiocht, una riunione segreta di maghi, la penombra, suo padre spaventato dall'idea di essere scoperto... e l'uomo austero a capotavola non poteva che essere il Conte Meccorin Deamundi (assomigliava molto a Eibhean, ora che ci pensava).
E alla fine realizzò: «L'EIF!»
«Edmund» lo chiamò McPride, in un tono che suonava molto come un avvertimento.
«TU! Fai parte dell'EIF!» gridò il ragazzo, suscitando occhiate perplesse e derisorie da parte degli adulti presenti in sala.
McPride si alzò dal tavolo e uscì dal salone, spingendo fuori anche Edmund e chiudendosi la porta alle spalle. «Per favore, non essere così melodrammatico» commentò, apparentemente tranquillo. «Non faccio parte dell'EIF, sto solo cercando di tenermeli buoni».
«Tenerli buoni? Oh, questo sì che mi tranquillizza!» replicò sarcastico Edmund. «Non fai parte di un gruppo di assassini, ti stai solo alleando con loro!» gridò indignato.
«Per favore, abbassa la voce» sibilò McPride, afferrandolo per un braccio e facendolo allontanare dalla porta.
«Abbassare la voce?» gli fece eco il ragazzo, fumante di rabbia. Si sentiva come se qualcuno avesse tramutato il suo sangue in pura lava. «Quelli sono pazzi psicopatici con la fissa del sangue puro! L'anno scorso hanno tentato di uccidere la mia migliore amica! E tu ti allei con loro!»
«Cerca di ragionare, Edmund» gli sussurrò McPride all'orecchio, con un tono duro e tagliente. «Io fingo di stare dalla loro parte, gli faccio piccole concessioni e loro se ne stanno tranquilli. Non hai mai sentito il detto “tieniti vicini gli amici e più vicini i nemici”?» Edmund si liberò con uno strattone dalla presa del patrigno e si scansò da lui, disgustato da quel discorso. McPride era un politico, era il Presidente della Repubblica! Avrebbe dovuto battersi per il bene della sua nazione, ricercare e arrestare chiunque la minacciasse nella sua integrità, non allearsi con i suoi nemici per tentare di controllarli e mettere a tacere la loro sete di sangue.
E poi gli vennero in mente le parole che Captatio gli aveva rivelato più di un anno fa: anche lui aveva usato quello stesso detto a proposito del motivo per cui McPride aveva richiesto di adottarlo. Edmund, allora, si era chiesto il motivo per cui McPride avrebbe dovuto vedere in lui un nemico, ma ora era tutto molto più chiaro: lo temeva come avversario, perché sapeva fin da subito che a lui era stato riservato un destino di grandezza e non voleva che militassero in parti opposte.
«Hai fatto lo stesso anche con me, non è vero?» gridò, allontanandosi ulteriormente da lui, come se quella distanza fisica potesse sancire un distacco affettivo. «Mi hai voluto al tuo fianco solo per evitare di avermi contro! E io che mi ero illuso che ti importasse qualcosa di me!»
Detto questo, prese a marciare in direzione della sua stanza, per andare a recuperare il suo baule: non sarebbe rimasto in quella casa un minuto di più.
McPride prese qualche profondo respiro per frenare la rabbia che gli stava montando dentro e continuare a comportarsi in modo adulto e civile; almeno uno dei due doveva farlo. Quando raggiunse il figlioccio, lo trovò in corridoio che trascinava il suo baule di scuola. «Edmund, per favore, perché non torni in camera tua e discutiamo della questione più tardi, quando ti sarai calmato?» tentò di dirgli, usando la tattica della gentilezza.
«Non ci sarà nessun più tardi!» gridò in risposta Edmund. «Io me ne vado adesso!»
«Non comportarti da bambino!» sbottò McPrde, incapace di trattenersi oltre. «Che cosa c'è che non ti ho dato?»
Edmund si fermò di botto in mezzo al corridoio. «Io non volevo una casa lussuosa, costosi vestiti di sartoria e uno stupido conto alla Gringott» mormorò, voltandosi lentamente verso il suo patrigno. «Io volevo solo un po' di affetto, una famiglia... e sono le uniche cose che non sei stato capace di darmi».
Distolse gli occhi dal volto di McPride, perché non voleva leggervi un espressione tagliente che gli confermasse che aveva ragione. «Vedi...» sussurrò con un groppo alla gola. «Non hai nemmeno il coraggio di smentire le mie parole».
Fece un profondo respiro e, infine, prese a trascinare il suo baule giù dalle scale, deciso ad abbandonare quel posto illusorio e pieno di menzogna per non tornarvi mai più. Aveva riposto la sua fiducia in un uomo che non aveva fatto altro che ingannarlo e sfruttarlo: si sentiva tradito, deriso e umiliato. Aveva ceduto, era caduto nella sua trappola, messo in ginocchio dai suoi sorrisi gentili, dai suoi modi cortesi e dalla sua meravigliosa casa. Si era lasciato imbrogliare e per tanto tempo si era consolato nell'illusione che stesse accadendo per davvero. Nell'illusione di essere Edmund McPride, di avere una famiglia, un padre.
Lo odiava come non aveva mai odiato nessun altro in tutta la sua vita. Si era preso gioco di lui, facendo leva sulla parte di lui che era più sensibile e facilmente ingannabile: quella che desiderava avere un nome e essere qualcuno. Essere di qualcuno e per qualcuno.
L'aveva tradito.
L'aveva tradito.
Il ragazzo non si fermò finché non giunse al confine della proprietà, oltre il quale non erano più attivi gli incantesimi di protezione della casa.
«Edmund, per favore» mormorò McPride, quando lo raggiunse. Aveva le mani alzate, in un blando tentativo di avere un approccio pacifico. «È la Vigilia di Natale: dove pensi di andare? Perché non resti e ne parliamo con calma domani mattina?»
Il ragazzo scosse la testa e si avvicinò al confine.
«Non fare una cosa così stupida» lo ammonì McPride, con un tono tranquillo e severo, che tuttavia non riusciva a nascondere il suo stato d'allarme.
Edmund fece un ultimo passo fuori dal perimetro della villa. Era determinato come non lo era mai stato in tutta la sua vita. «C'è un aspetto di me di cui non hai mai tenuto conto nei tuoi piani» gli rispose tagliente. «Io sono un Raloi. Io faccio cose stupide».
E con quelle parole girò su se stesso e si smaterializzò.







Lo so, scusatemi, perdonatemi, chiedo venia... dovevo aggiornare domenica, ma non ce l'ho fatta, poi l'ho fatto qualche giorno fa ma non si è caricato, poi internet non andava, poi la tesi... comunque, ecco il nuovo capitolo!
Quanti di voi si erano lasciati incantare da McPride come Edmund? Avanti, ho giurato e spergiurato che non era un mago malvagio e che non faceva uso di arti oscure, ma non ho mai detto che fosse buono! E' un maledetto politico, dopotutto! ;)
Quanto ai Mowe-MacLuan, mamma e figlia Eileen sono comparse per la prima volta al compleanno di Laughlin (QUI il capitolo); Rodanus Mowe è stato nominato qualche volta come avversario politico di McPride: per la sua figura, mi sono ispirata a Giulio Cesare, mentre fisicamente me lo sono sempre immaginata come il nuotatore Massimiliano Rosolino (QUI una foto), giusto un po' meno belloccio!
Ora, ho da fare un avviso importante:causa ultimi esami e tesi, ho bisogno di una pausa. Riprenderò ad aggiornare fra un mesetto, esattamente giovedì 12 luglio.
Grazie per la vostra comprensione,
Beatrix

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Capitolo 13
*** La magia del Natale ***


CAPITOLO 13
La magia del Natale






Edmund atterrò in malo modo su un terreno duro e umido. Gli venne da vomitare e non sapeva se era colpa della Materializzazione a cui non era ancora del tutto abituato o per il fatto che aveva appena scoperto di essere stato ingannato dall'uomo in cui aveva riposto tutta la sua fiducia.
Pioveva in quella zona dell'Irlanda, una pioggia fitta e senza pietà che lo ridusse in poco tempo in un fagotto di abiti bagnati. I contorni del paesaggio erano resi sfuocati dallo scrosciare dell'acqua, per cui Edmund non riusciva a distinguere bene dove fosse arrivato, ma fu immediatamente certo che quello non era il pittoresco paesino di Boyle: l'oscurità avvolgeva quella che sembrava la costa frastagliata di un lago, mentre alle sue spalle gli alberi longilinei di una foresta di conifere tendevano i loro rami spogli al cielo plumbeo.
Poteva ipotizzare di essersi materializzato nei pressi di Lough Key, il lago vicino a Boyle, che aveva visitato qualche volta quando aveva passato l'estate a casa di Mairead, però non ne aveva l'assoluta certezza. Un conto era materializzarsi dentro la Sala Mor, un altro era attraversare tutta l'Irlanda per raggiungere la casa della sua amica.
Che poi, quanto era stato stupido a pensare che Mairead l'avrebbe accolto a braccia aperte! Era appena scappato da un uomo che aveva chiamato padre per tutti quei mesi, mentre lui tramava alle sue spalle per lasciare l'Irlanda nelle mani di un gruppo di fanatici assassini; e Mairead aveva sempre avuto ragione su tutto.
Come avrebbe potuto presentarsi a casa sua come se niente fosse? E la Vigilia di Natale, per di più.
Magari lei nemmeno c'era: avrebbe potuto essere a festeggiare dai nonni oppure, semplicemente, poteva voler passare il Natale con suo padre, senza intrusi. Tanto meno se si trattava di un traditore come lui, che si era schierato con McPride e, implicitamente, con i maghi che avevano fatto uccidere sua madre. E che l'anno scorso avevano tentato di uccidere lei.
Per la prima volta in vita sua, Edmund ebbe una gran voglia di piangere. Seduto sul suo baule, bagnato fradicio, senza sapere dove fosse né dove andare, tradito dall'uomo in cui aveva riposto la sua fiducia e a sua volta traditore dei suoi amici, si sentiva come se tutta la sua vita fosse appena andata in pezzi. Si prese la testa tra le mani e pensò che piangere fino a morire di stenti poteva essere un buon modo per espiare le sue colpe, quando una voce alle sue spalle lo fece trasalire.
«Ehi, giovanotto, che succede?»
Edmund si voltò, la mano che schizzava veloce verso la tasca del mantello dove teneva la bacchetta. Alle sue spalle era comparsa una donna con una allegra faccia tonda cosparsa di efelidi, un grembiule a fiori e un abito lungo; aveva una massa di capelli rossi che, in un qualche modo, terminavano in una treccia. Era l'incarnazione di tutti i cliché a proposito delle donne irlandesi.
A pelle, Edmund credeva di potersi fidare di quella sconosciuta, per cui rilassò la presa intorno alla bacchetta. «Io... nulla» mormorò sconsolato.
«Che ci fai qui sotto l'acqua tutto solo?» chiese ancora la donna, premurosa come solo una madre poteva essere.
«Sono scappato di casa» cedette alla fine Edmund. Era stato un gesto davvero stupido, a pensarci. Ora la donna l'avrebbe tempestato di domande e avrebbe fatto in modo di riportarlo da McPride.
«Be', non si può stare soli la Vigilia di Natale» se ne uscì invece quella, con un gran sorriso. «Vieni, entra» lo invitò poi, indicando alle sue spalle un carro chiuso a forma di botte, che prima non c'era.
Edmund rimase immobile per secondo: il buon senso gli diceva che non era una brillante idea fidarsi del primo sconosciuto che ti invita da qualche parte ma, in fondo, era solo e disperato, per cui pensò che peggio di così non potesse andare. Così seguì la donna dentro il carro. La prima cosa che percepì fu la luce: troppa e troppo forte; e poi il chiacchiericcio diffuso, il pianto di un neonato e rumori di stoviglie. Quando i suoi occhi si abituarono alla luminosità, si accorse di essere entrato in un salotto decisamente più ampio di quanto ci si sarebbe aspettati osservando il carro da fuori: le pareti gialle erano conche, per seguire l'andamento del carrozzone; in un angolo, era stato piazzato un enorme albero di Natale, che sembrava sul punto di far esplodere la stanza, ai piedi del quale, oltre a mille pacchetti regalo di tutte le dimensioni, si trovava un tavolino con un presepio in cui le statuine si muovevano come se fossero state vive. Al centro del salotto, reso soffocante dalla quantità di mobili che vi si trovavano, c'era una enorme tavolo rotondo, attorno al quale era seduta una famiglia allargata.
«Ecco, gente, questo è...» cominciò la donna, ma si interruppe, perché non sapeva il suo nome.
«Edmund» completò il ragazzo, sentendosi totalmente fuori posto.
La signora, invece, sorrise come se fosse la cosa più naturale del mondo invitare alla cena della Vigilia un perfetto sconosciuto. «Io sono Rosemary» si presentò, poi si voltò verso la tavolata. «Questo è mio marito Gearoid, mio figlio Joshua con sua moglie Juliette e il figlioletto...» cominciò a dire, indicando di volta in volta le persone di cui diceva il nome.
Accennando con il capo ad un signore dall'aria arcigna, che fumava la pipa come se da quel gesto dipendesse la sua sessa vita, Rosemary disse: «Quello è mio fratello Archie, il cugino Erbert -e questa volta presentò un giovanotto pallido e allampanato, con due profonde occhiaie violacee e l'aria smorta- la nonna, la mia piccola Yaiveinee e mio figlio Rohiall».
Nel momento stesso in cui Rosemary citava i familiari, Edmund aveva già dimenticato i loro nomi. Oltre ad essere fortemente in imbarazzo per la situazione in cui si era cacciato, si sentì scombussolato dalla caotica presenza della strana famiglia: gli parve di essere appena stato buttato in una vasca per i piranha senza alcuna protezione.
Non solo Rosemary, ma anche tutti i presenti sembravano la rappresentazione folcloristica di ogni cliché sugli Irlandesi, fatta per compiacere qualche turista: capelli rossi, lentiggini, bonaria allegria, abiti decisamente fuori moda e tanto whisky.
Molto whisky.
Almeno sei bottiglie; e il ragazzino di nome Rohiall se n'era appena versato un po' nel bicchiere.
«Siediti pure con noi, Edmund» lo invitò quello che doveva essere il padrone di casa, di cui ovviamente non ricordava il nome. Garrot? Gary? Mah...
L'uomo, comunque, fece comparire una sedia con un veloce movimento della bacchetta e la posizionò a tavola con perfetta tranquillità. «Io... ehm...» borbottò il ragazzo, contemplando i suoi abiti fradici e poi tornando a guardare la tavolata con un certo imbarazzo. «Ma sei tutto bagnato!» esclamò allora la bambina dal lunghissimo nome impronunciabile, indicando con il suo dito paffuto i vestiti di Edmund.
«Ehm...» fu l'unica cosa che riuscì a dire il ragazzo.
«Oh, giustocielo!» se ne venne fuori Rosemary, battendo le mani come se avesse appena avuto una grande rivelazione. «Rohiall, aiuta Edmund a portare di là il baule e dagli degli abiti asciutti» ordinò poi, rivolta al figlio.
Quello, un ragazzino con i capelli rossicci e l'aria allegra, si alzò da tavola con un gran sorriso e lo condusse attraverso un minuscolo corridoio in un'altra stanza piccola e soffocante, dove ci entravano per miracolo tre letti. «Vieni» lo invitò, aprendo una cassapanca ed estraendone una camicia di lino e un paio di pantaloncini irlandesi.
«Ehm... grazie» borbottò Edmund, accettando gli abiti con un certo imbarazzo. Si sfilò i suoi con estrema lentezza, sentendosi un idiota per il disagio che gli causava spogliarsi di fronte ad un altra persona, per di più totalmente sconosciuta: l'aveva sempre odiato anche quando stava all'orfanotrofio.
Per fortuna Rohiall era tutto intento a cercare chissà cosa nella cassapanca. «Comunque, non ti devi spaventare per il caos che c'è di là» borbottò, la testa infilata sotto il coperchio. «Ti ci abituerai presto: io è quindici anni che ci convivo!»
Edmund, che poco si preoccupava del blando tentativo di offrire conforto, fu invece colpito dall'informazione finale. «Scusa, ma quanti anni hai?» gli chiese, per conferma.
«Quindici» rispose Rohiall, rivolgendogli un sorriso da sotto il coperchio della cassapanca.
«Ma non frequenti il Trinity?» domandò ancora: non che Edmund pretendesse di ricordarsi tutte le facce della scuola, ma l'altro avrebbe dovuto sapere almeno vagamente chi era lui. Insomma, il nome Edmund McPride era sulle labbra di tutti, un giorno sì e l'altro pure. Rohiall scosse la testa. «Oh, no. Io vengo istruito a casa».
Edmund registrò l'ultima informazione e mise in moto il suo cervello: tratti folcloristici esasperati, famiglia allargata, vivevano in un carro e educavano i figli a casa. «Siete Lucht Siuil!» realizzò soddisfatto.
Rohiall sí interruppe, lo guardò e poi scoppiò a ridere.
Per i primi secondi, Edmund si chiese se avesse detto una grossa cavolata, o se avesse appena fatto una qualche figura barbina. Eppure la sua analisi gli pareva corretta. Per quel poco che avevano studiato a Magicologia Irlandese, i Lucht Siuil erano nomadi irlandesi di cui esistevano sia comunità Babbane sia magiche; queste ultime si rifecevano ancora alle antiche tradizioni druidiche, tanto che i ragazzini non ricevevano la bacchetta magica fino alla maggiore età, quando loro stessi se la costruivano.
Non appena Rohiall si riprese dalla risata, lo guardò come se avesse appena visto un ufo. «Sì, siamo Lucht Siuil» confermò con un cenno del capo. «Ora vorrai squagliartela, immagino».
«Oh, no affatto!» si affrettò a rispondere Edmund. «Mi è sempre piaciuto imparare nuove tradizioni».
Rohaill gli rivolse un gran sorriso. Era buffo come riuscisse a sorridere e mostrare tutti i trentasei denti con una totale naturalezza; gli si mettevano in risalto le guance cosparse di efelidi, mentre gli occhi si trasformavano in gioiose falci di luna. Era l'incarnazione dell'allegria.
«Comunque, sul marasma che c'è di là, ti posso dare qualche dritta» commentò il ragazzino, in tono risaputo.
Edmund fece un cenno d'assenso con il capo, allora Rohiall cominciò a spiegare: «Non contraddire mai zio Archie, perché è convinto di essere l'unico possessore di una verità rivelata, per cui lui ha sempre ragione. E non ti preoccupare se ti guarda con sospetto: lui guarda così chiunque. Stai lontano dalla nonna, perché con gli anni si è un po' rimbecillita ed è convinta che il mattarello sia la sua bacchetta, perciò quando vede che non funziona per fare magie si arrabbia; ma non è grave finché stai fuori dalla portata del suo braccio» e con quelle parole mimò il gesto di qualcuno che dà un bastone in testa ad un altro.
«Non assecondare la mia sorellina Yaiveinee nei suoi giochi, perché altrimenti non ti molla più, e non dare troppa confidenza neanche al cugino Erbert» riprese a dire; poi si fermò meditabondo e aggiunse: «Che poi non è davvero mio cugino e sospetto che sia un vampiro... Comunque! Mamma ha un po' troppo la mania del comandare, mentre papà è a posto. Il figlio di mio fratello Joshua piange tutto il giorno, ma per il resto lui e sua moglie sono tipi tranquilli. Questo è quanto».
A quella serie infinita di istruzioni, Edmund non poté evitare di ridacchiare.
Anche Rohiall sorrise divertito, poi tornò improvvisamente serio e riprese a frugare nella cassapanca alla ricerca di chissà cosa. «Eccoli!» esclamò quando riuscì nell'impresa. «Sono puliti, eh!» confermò, lanciando due calzini appallottolati a Edmund.
Il ragazzo li osservò con occhio critico, poi commentò: «Ma... sono corti».
Rohiall rimase un attimo perplesso, poi notò la lunghezza dei calzettoni bianchi dell'altro e le sue raffinate scarpine nere disegnate su misura, e scoppiò a ridere. Quando si fu ripreso, spiegò: «Noi Lucht Siuil non indossiamo quella roba. Noi portiamo gli stivali» e con quella tirò su il piede sinistro per mostrare quanto aveva detto. Per poco non cadde a terra, a causa di quella complicata operazione, ma quando si rimise in piedi sfoderò uno dei suoi sorrisi stellari. Dopodiché lanciò a Edmund un paio di stivali perché li indossasse. «Questi erano di mio fratello Josha: dovrebbero andarti bene» stimò, valutando a grandi linee la sua altezza.
Edmund si infilò le calzature che gli aveva prestato Rohiall e gettò una veloce occhiata al suo riflesso sullo specchio: si trovò di fronte un bel ragazzo alto, con una camicia di lino, un paio di pantaloncini marroni e degli stivali vagamente pirateschi. Quello non era più Edmund McPride: era Edmund e basta, Edmund il Lucht Siuil, pronto a festeggiare il Natale con la famiglia più caotica che avesse mai conosciuto.
Il cenone della Vigilia fu totalmente assurdo per gli standard di Edmund: tutti parlavano, raccontavano qualcosa, mangiavano i piatti succulenti preparati da Rosemay, bevenao whisky e intonavano canti di Natale. Era impossibile aveva una conversazione normale con uno dei commensali, perché qualcuno interveniva sempre per dire la sua, oppure si veniva interrotti da un vassoio di stinchi che ti volava davanti al naso, o ancora una delle fatine vive che erano state messe a decorazione dell'albero di Natale ti piombava nel piatto.
Edmund non aveva mai passato una cena come quella: all'orfanotrofio era tutto un pianto e urla di marmocchi, al Trinity o chiacchierava con Mairead oppure si ingozzava alla svelta per andare in biblioteca e quelle con suo padre... con McPride, si corresse mentalmente, assomigliavano più a cene di lavoro tra due dirigenti d'azienda. Mentre sulla piccola roulotte gialla sembrava di essere catapultati in una nuova dimensione in cui ogni gesto era una festa, ogni parola gioiosa, ogni sorriso un raggio di sole. Edmund si ritrovò a pensare che, se mai avesse avuto una famiglia propria, avrebbe voluto fosse come quella di Rosemary: allegra e caotica.
Al termine della cena, quando ormai mancava poco a mezzanotte, la padrona di casa fece alzare tutti da tavola e li fece riunire davanti al presepio. Poi, con un sorriso materno, mise in mano alla figlia la statuetta di un neonato. «Il più piccolo della casa è ancora troppo piccolo, quindi tocca a te far nascere Gesù bambino» mormorò, indicando con un cenno del capo la capanna del presepe.
La piccola Yaiveinee sgranò gli occhi e osservò la statuetta con un sospiro reverenziale. Poi, tutta emozionata per il compito che le era stato affidato, depositò il Gesù nella mangiatoia e si mise a mani giunte per una preghierina. Sembrava tanto uno di quegli angioletti che si vedono disegnati sulle cartoline di auguri di Natale.
«Caro Gesù bambino, proteggi tutta la mia famiglia, perché gli voglio tanto bene» recitò la bambina. Poi lanciò un'occhiata fugace alle sue spalle e aggiunse: «E proteggi anche Eddy, che voglio bene anche a lui».
Edmund si sentì avvampare come se fosse stato buttato nel fuoco, senza un incantesimo Freddafiamma a proteggerlo. L'innocenza di Yaiveinee l'aveva messo in imbarazzo: sebbene sapesse che era solo una bambina, e di solito i bambini non si fanno molti scrupoli a dire quello che pensano, era la prima volta che si sentiva accettato senza che qualcuno gli facesse domande sulla sua origine familiare, sui suoi voti a scuola o su qualsiasi altra cosa. Semplicemente, l'avevano accolto così come era.
E poi era una strana sensazione sapere che qualcuno pregava per lui: era qualcosa di molto intimo, eppure di una potenza ancestrale. Lo faceva sentire bene.
Pensò che avrebbe potuto passare tutto il resto della sua vita in quella roulotte gialla insieme alla caotica famiglia di Rosemary. Forse era un po' una fuga, ma non voleva tornare nel mondo reale per affrontare i suoi demoni: McPride che l'aveva tradito, l'EIF, il ritorno di Voldemort e la sua stupida cotta per Mairead. Tra i Lucht Siuil, invece, non c'era nessuno di quei problemi, perché era come vivere in un'altra dimensione, dove la tragica realtà non poteva insinuare i suoi tentacoli.
Era il suo personale paradiso e non sarebbe mai andato via.







Lo so, è a dir poco scandaloso. Avevo promesso questo capitolo quasi un mese fa, ma ho avuto una serie di problemi di diversa natura che si sono accumulati. Chiedo umilmente venia a tutti coloro che hanno aspettato l'aggiornamento per tutto questo tempo!
Comunque, eccoci qui tra gli Irish Travellers o Lucht Siuil che dir si voglia (QUI la pagina di wikipedia a loro dedicata): questo episodio era programmato da secoli, e non per niente ho disseminato le storie di indizi sui Lucht Siuil; QUI l'immagine che rappresenta la famiglia di Rosemary, con Rohiall al centro.
Nel prossimo capitolo (che pubblicherò, salvo intoppi, entro il 15 agosto), vedrete Eddy in versione spaccone... be', insomma, vedrete! ;)
Grazie per la vostra pazienza,
a presto!
Beatrix

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Capitolo 14
*** Pazzie di Capodanno ***


CAPITOLO 14
Pazzie di Capodanno






Edmund scoprì che quella sera avrebbe dormito nella stanza con tre letti, insieme a Rohiall e Yaiveinee. In teoria, occupava il posto di Erbert ma, a quanto pareva, lui non aveva intenzione di dormire: si era preso un libro e si era accoccolato su una poltrona del salotto a leggere a lume di candela.
«Erbert sta lì tutta la sera?» sussurrò Edmund a Rohiall, in tono piuttosto perplesso.
Il ragazzino si strinse nelle spalle. «Di solito sì» rispose con un grosso sbadiglio. «Te l'ho detto che secondo me è un vampiro» aggiunse poi, corredando le parole con un'aria risaputa parecchio esplicita.
Edmund lanciò un'ultima occhiata a Erbert, ma preferì non indagare oltre sulla faccenda: non voleva sapere il motivo per cui Rosemary avrebbe dovuto accogliere un vampiro nella sua famiglia. Era proprio il caso di non farsi certe domande. Con una definitiva scrollata di spalle, si affrettò a seguire Rohiall in camera.
Quando entrò in stanza, Yaiveinee era già affondata in un mare di coperte da cui sbucava solo la sua treccia di capelli rossi. «Buonanotte, fratellone!» esclamò con la sua voce squillante, anche se leggermente soffocata. «Buonanotte, Eddy!»
«Buonanotte» risposero in coro Rohiall e Edmund, infilandosi nei rispettivi letti.
Edmund tese l'orecchio per ascoltare il rassicurante rumore della pioggia che investiva il bosco in cui sostava la carrozza: si sentiva finalmente in pace, come se fuori si stesse scatenando una tempesta ma lui fosse al sicuro. McPride era la sua tempesta, la famiglia di Rosemary il suo rifugio. E con questi pensieri rassicuranti si addormentò.
Passò i giorni successivi imparando a vivere come un Lucht Siuil. Era gente semplice, che si accontentava di barattare i propri manufatti con prodotti della terra, perché il cibo era una delle cinque Principali Eccezioni della Legge di Gamp sulla Trasfigurazione degli Elementi e dunque era impossibile farlo apparire dal nulla. Per il resto, Edmund scoprì che Gearoid era un ottimo pozionista e che preparava intrugli vari per maghi indaffarati che non avevano tempo di farli per sé o per streghe poco dotate nel campo delle pozioni.
Rohiall, invece, era il custode del Bordone Magico, ovvero un bastone che apparteneva alla sua famiglia da secoli e con il quale poteva compiere piccole magie o rituali ripresi dalla sapienza druidica. Una volta raggiunta la maggiore età, avrebbe utilizzato il legno di quel bastone per costruirsi con le sue mani la propria bacchetta.
Edmund imparò dei Lucht Siuil molte più cose in quei pochi giorni in cui poté convivere con loro che in un mese di spiegazioni da parte del professor Saiminiu.
Solo il giorno di Capodanno ritornò per un attimo alla realtà, quando gli venne in mente che, prima che cominciassero le vacanze, Laughlin aveva invitato lui e Mairead a casa sua per attendere insieme l'inizio del nuovo anno. Si sentì in colpa, visto che non si era più fatto vivo con nessuno di loro per più di una settimana. Anzi, visto che si era praticamente dimenticato di loro.
Il problema era che li considerava parte della sua vita passata, della vita di cui voleva disfarsi. Non avrebbe mai volontariamente rinunciato a Laughlin o Mairead, ma in quel momento non voleva pensare a quel mondo, con tutti i problemi che comportava. Anche se gli mancavano in modo terribile. L'allegria e la superbia di Laughlin, il coraggio e il sorriso di Mairead... il suo volto, il profumo della sua pelle, le sue mani delicate...
Non voleva pensarci, basta.
Aveva deciso di lasciare quel mondo.
«Ehi, Ed!» lo chiamò proprio in quel momento Rohiall. Aveva un modo fantastico di sorridere alla vita, Rohiall. Nessun problema era un vero problema, diceva lui, se avevi la forza sufficiente per affrontarlo sorridendo. Una gran filosofia da un quindicenne col berretto viola. «Ehi...» rispose Edmund con poca convinzione, raggiungendolo al centro della piccola radura in cui si erano fermati con il carro. Vagavano sempre nei boschi intorno al Lough Key, in quel periodo dell'anno, come il ragazzo ebbe modo di scoprire qualche giorno prima. Lough Key, pericolosamente vicino a Boyle. A Mairead.
Non pensarci.
Rohiall era seduto su un tronco d'albero caduto a terra e stava trafficando con quello che sembrava tabacco e con una lunga pipa. «Hai mai provato l'Erbamolla?» domandò, pigiando per bene l'erba nel fornello.
«Ehm...» borbottò Edmund che non solo non aveva mai fumato in vita sua, ma non aveva nemmeno idea di cosa fosse la pianta citata dal ragazzo. O meglio, l'aveva sentita nominare da Weaving, il Cacciatore di Ala dei Raloi, ma non era certo dei suoi effetti. A Erbologia non l'avevano mai studiata e non era neanche un componente per pozioni.
Rohiall sorrise della sua indecisione e lo invitò a sedersi accanto a lui, mentre tirava la prima lunga boccata dalla pipa. Quando, dopo averlo assaporato per bene, risputò fuori il fumo, esso si compose in tante figure diverse: c'erano quelle che sembravano ballerine, un galeone pirata e un serpente, tutte intrecciate tra loro a formare un assurdo quadro futuristico.
«Wooh» commentò Edmund, estasiato.
Rohiall gli rivolse su sorriso compiaciuto. «Anni di esperienza, mio caro» gli rispose, passandogli la pipa perché potesse tirare una boccata anche lui.
Edmund la prese con un po' di titubanza, poi tentò un tiro.
«Ti avverto...» cominciò a dire Rohiall, osservando la sua reazione. «L'Erbamolla ha un effetto... particolare, di solito».
Non fece a tempo a terminare la frase che Edmund sentì i polmoni invasi di fumo e fu costretto a tossire convulsamente. E poi ebbe la netta impressione che la sua testa si stesse gonfiando come un palloncino, quindi cominciò a sbattere le palpebre sempre più velocemente per tentare di scacciare quella sensazione.
Rohiall, intanto, se la rideva di gusto. Gli strappò la pipa di mano e tirò un'altra boccata, ma questa volta Edmund non era abbastanza lucido da vedere che tipo di figure era riuscito a creare con il fumo. «Dai, prova di nuovo» lo invitò Rohiall, con un sorriso.
Edmund avrebbe rifiutato volentieri, ma qualcosa lo indusse a ritentare: non era solo orgoglio per non voler fallire, c'era anche l'assurdo desiderio di voler inspirare di nuovo quel fumo. Questa volta fu più accorto: tirò una boccata piccola ed espirò quasi subito. Non si formò nessuna figura, ma almeno evitò di tossire come un deficiente. Sorrise a Rohiall, poi ispirò nuovamente dalla pipa, cominciando a prenderci gusto. Sentì le guance bollenti, la testa leggera e una gran voglia di ridere.
«Dai, bevi un po', prima di stramazzare a terra» ridacchiò Rohiall, rubandogli la pipa e mettendogli in mano un boccale.
Edmund ringraziò con un cenno del capo e bevve senza troppo preoccuparsi. Il primo avido sorso gli bruciò la gola a tal punto che fu costretto a sputare a terra quanto bevuto. «Ma che è?» riuscì a biascicare a malapena.
Rohiall parve allucinato dall'idea che l'altro avesse risputato un liquido tanto prezioso. «Quello è Whisky Incendiario Irlandese, il migliore sul mercato! Non si spreca così!» gli rispose, strappandogli il boccale di mano onde evitare un ulteriore sperpero. Lo sorseggiò con molta più grazia, prima di passarlo nuovamente a Edmund, ammonendolo: «Bevi piano».
Il ragazzo fece tesoro del prezioso consiglio e riuscì a berne un sorso senza star male. Quando riemerse dal boccale, osservò Rohiall di sottecchi. «Hai un berretto viola» osservò ridacchiando.
Rohiall gli restituì uno sguardo perplesso, come a chiedere “e allora? Te ne sei accorto adesso?”.
«Fa a pugni con il colore dei tuoi capelli» si sentì in dovere di spiegare Edmund, assumendo un'aria seria, per quanto avesse una gran voglia di ridere.
Quando Rohiall scoppiò in una fragorosa risata per le sue parole, Edmund non riuscì più a trattenersi e si mise a ridere anche lui. Stettero lì come due scemi a sghignazzare di una totale scemenza. Edmund tirò anche qualche altra boccata alla pipa e più aspirava lo strano fumo dell'Erbamolla, più aveva voglia di ridere.
Ad un certo punto, Rohiall ritenne doveroso proporre un'idea assolutamente cretina: «Andiamo a fare magie davanti ai Babbani, per far loro credere che siamo dei maghi!».
Edmund rise sempre più forte, ma poi un barlume di lucidità lo fece tornare in sé. «È contro lo Statuto Internazionale di Segretezza» borbottò serio.
Rohiall gli rispose con uno sguardo allucinato. «I Lucht Siuil non l'hanno mica sottoscritto, sai» rivelò in tono risaputo.
«E io?» chiese Edmund.
Rohiall sfoderò uno dei suoi sorrisi stellari. «Tu ormai sei un Lucht Siuil» esclamò, per trarlo d'impiccio.
Edmund rimase molto soddisfatto da come si erano messe le cose, ma poi un moto di coscienza lo fermò di nuovo. «Be', ma sta di fatto che io non posso fare magie» mormorò sconsolato.
Rohiall strabuzzò gli occhi. «Vuoi scherzare? Sei un mago e non puoi far magie? Ma che ci vai a fare a scuola, allora?»
«È per via della Traccia: finché sono maggiorenne le mie magie sono rintracciabili» rispose, stupendo se stesso per essere ancora in grado di formulare frasi compiute con termini complessi. Ma ciò che lo stupì maggiormente fu la reazione di Rohiall: scoppiò a ridere come se avesse fatto una battuta.
«Con tutti i maghi che ci sono in giro a far magie, vuoi che rintraccino proprio te?» gli chiese quando si fu ripreso dalla risata, non avendo ben capito come funzionava quella cosa della Traccia, visto che lui, come Lucht Siuil, non l'aveva.
Ehi, aveva ragione!
Edmund rivolse all'amico un sorriso ebete che voleva essere una conferma al suo genialissimo piano. Fu così che i due ragazzi presero al volo delle scope e si diressero verso il primo villaggio Babbano che incontrarono.
«L'ho già fatto tante volte con mio fratello Joshua, sai» rivelò Rohiall quando giunsero in una piazzetta graziosa. «È pazzesco: tu metti lì il berretto e i Babbani ci mettono dentro dei soldi!» spiegò, levandosi il cappello e stropicciandoselo in mano con autentico stupore per quella strana abitudine.
«E poi che te ne fai dei soldi Babbani?» chiese Edmund, osservando l'amico che poggiava in terra il suo berretto viola, rivolto all'insù. Rohiall gli rivolse un sorriso enorme. «Ci compro delle cassette di musica Babbana per il mio walkman!» rispose con l'entusiasmo che solo un mago poteva avere di fronte a oggetti Babbani di uso quotidiano.
Dopodiché, Rohiall si guardò in giro e cominciò a chiamare la folla a gran voce: «Venite, gente, venite a vedere un vero spettacolo di magia!»
Edmund si sentì immediatamente un idiota patentato, ma il whisky mescolato con l'Erbamolla e l'incredibile afflusso di persone riuscirono a diminuire l'imbarazzo. Ci prese quasi gusto ad osservare Rohiall che si faceva prestare una sciarpa da una bambina e usava il suo bordone per fare un piccolo incantesimo di levitazione con cui divertire gli spettatori. I Babbani, ovviamente, ne rimasero abbagliati, anche perché Rohiall sapeva come intrattenere il pubblico; così, dopo poco tempo, il cappellino viola era già pieno di sterline irlandesi. «E tu che magie fai?» domandò una ragazzina rivolta a Edmund.
Lui sgranò gli occhi e arretrò di un passo. «No... io non...»
«Dai, Eddy, fagli vedere che sai fare!» lo incitò Rohiall.
Ripensando in tempi successivi a quel momento, Edmund fu certo che non l'avrebbe mai fatto se fosse stato sobrio. Ma lì, in quella piazza, la folla pendeva dalle sue labbra, tutti sembravano convinti che potesse compiere chissà quale grande magia... e l'entusiasmo del pubblico lo catturò.
Si levò il mantello di lana con un gesto teatrale, appoggiò il piede destro su uno dei piloncini di cemento della piazza e sfoderò il migliore dei suoi sorrisi seducenti. Indossava solo una camicia di lino dal taglio un po' gitano, ma non aveva freddo: si sentiva il re dei maghi.
«Io sono il Dottor Fenice» decantò, suggestionato un po' da Carmen, un po' dal fatto di essere rinato dalle sue ceneri proprio grazie ai Lucht Siuil. Sì, era decisamente alticcio.
«Sono il mago del fuoco!» recitò con enfasi, estraendo la bacchetta dalla tasca. Gli bastò un semplice incantesimo per creare un fuoco portatile. Una robetta da primo anno, però fece il suo effetto.
Perché stava tenendo in mano un fuoco senza scottarsi.
Ed era blu.
La folla esplose in un boato di applausi: erano tutti per lui, tanto che Edmund sentì un'ebrezza formidabile invadergli il corpo. Si inchinò per ricevere le meritate ovazioni e il cappellino fu di nuovo pieno di sterline.
Utilizzarono i soldi per comprare delle cassette di orribile musica Babbana, perfino una di un gruppo di ragazze di nome Spice Girls che Edmund trovava rivoltante. In realtà, però, era talmente su di giri da essere disposto anche a sopportare i discutibili gusti musicali del suo amico. Gli sembrava di avere il mondo intero ai suoi piedi, per cui non esisteva canzone in tutto l'universo in grado di cancellare la sua ebete euforia.
«Sto una favola» si lasciò sfuggire con un sorriso.
Rohiall assunse l'aria di uno che la sa lunga; molto lunga. «E vedrai stasera».
Lo “stasera” di Rohiall coincideva con l'aspettare insieme mezzanotte per farsi gli auguri; e fin qui, tutto normale. Ma tra i Lucht Siuil nulla di ciò che sembrava normale lo era realmente, per cui la serata prevedeva, oltre allo scoppio di intere casse di fuochi d'artificio del Dottor Filibuster (grazie ai quali per poco Edmund non si fece saltare due dita), una quantità di Whisky Irlandese che perfino il direttore di una distilleria avrebbe definito improponibile per una sola occasione. Lo zio Archie passò tutta la sera a scrutare Edmund con quella sua aria arcigna, tanto che il ragazzo fu sicuro che disapprovasse completamente tutto quel bere. Invece, quando era passata da poco la mezzanotte, lo sentì commentare con sua sorella Rosemary: «Il ragazzo beve due dita di whisky ed è già ciucco: non c'è più la gioventù di una volta!»
Gioventù o meno, Edmund si sentiva già parecchio euforico, perciò preferì non spingersi oltre, anche perché iniziava a nutrire dubbi sul fatto che un albero di Natale potesse cantare carole natalizie (ma era in una roulotte magica, no? Tutto poteva accadere!).
Quando arrivò finalmente l'ora di andare a coricarsi, il ragazzo era certo che all'orizzonte stesse già albeggiando. E chissà perché fu proprio la voce puntigliosa e scandalizzata di Faonteroy a sottolineare nella sua testa che stava andando a letto ad un'ora indecente della mattina. Ridacchiò.
«Buonanotte, Faonteroy» mugugnò, infilandosi sotto le coperte.
«Chi è Faonteroy?» chiese Rohiall con uno sbadiglio; per quanto fosse più giovane di lui di un paio d'anni, aveva retto l'alcol molto meglio ed era ancora in grado di formulare pensieri di senso compiuto.
«Mah...» biascicò Edmund. «Il cugino della ragazza di cui sono innamorato cotto» rivelò in un moto di sincerità causato dal whisky. E poi si addormentò senza nemmeno ricordare di aver detto quella frase.
Si svegliò di soprassalto con la sensazione di non aver dormito più di qualche ora. Si sentiva la testa come se un porcospino ci rotolasse dentro, perciò raccapezzare le idee gli costò una certa fatica: tentò di far mente locale su quale giorno e che ora fosse; era il primo dell'anno, si disse, e il sole non doveva essere sorto da molto, a giudicare dal filetto di luce che entrava dallo spiraglio della finestra. La testa doleva da morire.
Yaivainee e Rohiall stavano ancora dormendo, per cui Edmund non capì che cosa lo avesse svegliato così presto. Non lo capì, finché... «Hai un buon profumo» sibilò qualcuno al suo orecchio.
Ci mancò poco che Edmund non si ribaltò giù dal letto per lo spavento. Quel pazzo psicopatico di Erbert era letteralmente accucciato sulla mensola sopra il suo letto, con la testa all'ingiù e le gambe rannicchiate.
«Erbert, che diavolo...» biascicò nell'alzarsi, cercando di ignorare il rimbombo che sentiva nella testa. «Mi hai fatto prendere un colpo». «Il tuo sangue è puro?» domandò invece Erbert, senza alcuna connessione logica.
Edmund si allontanò da lui e lo guadò con aria perplessa, mentre l'altro si infilava sotto le coperte e si sistemava nella stessa posizione di una mummia egizia.
Beato Merlino, è proprio un vampiro! pensò il ragazzo, scuotendo la testa incredulo.
Erbert chiuse gli occhi e si addormentò in meno di un secondo, lasciandolo lì in piedi più stanco e dolorante di quando era andato a letto. Fu allora che Edmund prese la drastica decisione di andare a dormire sul divano: non si stava particolarmente comodi, ma almeno avrebbe guadagnato qualche altra ora di sonno.
In realtà non dormì molto a lungo perché, per la seconda volta nella stessa giornata, fu svegliato in modo violento.
«Razza di nipote degenere! Dormire sul divano!» gracchiò una voce, che lo colpì in testa con una bastonata.
No, non era una voce: era una persona in carne e ossa. E faceva piuttosto male.
Edmund cadde dal divano e si ritrovò in terra bocconi, sovrastato dalla nonna che lo picchiava con il mattarello. «Signora, la prego. Non sono suo nipote» cercò di difendersi.
«Ah no?» domandò la vecchina in tono critico, con il braccio sospeso a mezz'aria.
«No, sono Edmund, signora» rispose il ragazzo, alzandosi lentamente da terra con le mani alzate in segno di resa.
«Be', sei degenere lo stesso!» decretò la nonna, tirandogli un altro colpo sullo stomaco.
«Mamma, lascia in pace Edmund» intervenne bonaria Rosemary, appena apparsa nella stanza principale della carrozza. «Vieni, è pronta la tua colazione».
La nonna mugugnò qualcosa in risposta, ma alla fine si lasciò convincere. Una volta seduta al tavolo, però, non smise di lasciare occhiatacce in direzione di Edmund.
Nel frattempo Rosemary aveva cominciato a preparare la colazione per tutti, come faceva ogni mattina. «Dormito bene, Eddy caro?» domandò, mentre friggeva le uova dentro un padellino con più burro di una latteria.
«Mi ha svegliato Erbert» rispose Edmund, senza specificare che no, aveva dormito da schifo. E si sentiva uno straccio.
«Ah, povero caro» commentò comprensiva Rosemary. «Sai, Erbert è un tipo un po' particolare».
Edmund pensò che l'aggettivo “particolare” fosse decisamente riduttivo per qualificare il comportamento di Erbert. Dopo una manciata di secondi, non riuscì più a trattenersi e, ignorando le regole di buon costume, fece la domanda che gli premeva da tempo: «Ma... è un vampiro?»
«Oh, non lo so» rispose di slancio Rosemary. Prima che Edmund, allibito, potesse commentare la cosa, la donna continuò: «Ma l'ho trovato una sera che gironzolava tutto solo per il bosco e mi ha fatto tanta pena; così gli ho proposto di venire a stare con noi».
Edmund fece per ribattere, quando qualcosa lo bloccò: in fin dei conti, non era esattamente la stessa cosa che Rosemary aveva fatto con lui? Senza sapere chi fosse o se si potesse fidare, né cosa ci facesse da solo sotto l'acqua la sera della Vigilia di Natale l'aveva accolto in casa sua.
La conversazione morì lì perché anche gli altri componenti della famiglia cominciarono a risorgere dai loro letti, per cui non ci fu più modo di discutere. La colazione di quella mattina fu piuttosto tranquilla, in realtà, rispetto al solito, probabilmente perché tutti erano ancora intontiti dalla sera prima.
Fu un grido a sconvolgere la quiete della colazione. «Edmund McPride! Vieni fuori di lì» sbraitò qualcuno fuori dalla roulotte. Qualcuno che aveva la voce di Adolphus McPride.
Edmund impietrì.
Come diavolo aveva fatto a rintracciarlo? E ora che cosa voleva da lui? Non sarebbe tornato a casa con McPride, di questo era certo. Ma non poteva nemmeno restare lì ad ignorarlo, tanto più che tutti gli altri si erano voltati a squadrarlo con gli occhi sgranati.
«McPride?» domandò infatti incredulo Rohiall. «Vuoi dire che il Presidente della Repubblica è tuo padre
«Adottivo» specificò Edmund con un certo astio, senza muoversi dal suo posto.
Tutti fissavano ora lui, ora la porta della roulotte, come se si aspettassero che McPride la sfondasse da un momento all'altro. Al secondo richiamo da parte del Presidente, Gearoid si avvicinò alla finestra e scostò la tendina per spiare fuori. «Siamo circondati da Tiratori Scelti» mormorò, sbiancando in volto.
Edmund si voltò impercettibilmente verso Rosemary, sicuro che la donna si stesse pentendo di aver dato asilo al primo trovatello senza nemmeno preoccuparsi di chi avesse preso in casa, invece lei sembrava solo addolorata. Per lui, non a causa sua.
«Non sei costretto ad uscire, se non vuoi» gli sussurrò proprio in quel momento, come se volesse rassicurarlo.
Fu allora che Edmund capì di non poter sfuggire per sempre ai propri demoni. Stare tra i Lucht Siuil era stato fantastico, ma non era per lui. Significava solo nascondersi dal mondo e dai suoi problemi. Mentre lui era un maledetto Raloi, che i problemi li affronta a testa bassa come un toro.
Sorrise, annuì e uscì per far fronte al suo patrigno McPride.







Eccoci qui!
Benvenuti tra gli allegri Lucht Siuil! Sì, se ve lo state chiedendo L'Erbamolla me la sono immaginata un po' come la Marijuana e Eddy non la regge molto bene! ;) Quanto alla bravata di andare a fare magie in mezzo ai Babbani, mi è venuto in mente un po' pensando ai gitani che facevano i giocolieri nel medioevo (e i Lucht Siuil sono i fratelli irlandesi dei gitani), un po' ricordandomi dei gemelli Weasley che, non so in quale libro, vanno a fare la corte alle ragazze Babbane del villaggio vicino alla Tana e fanno dei giochi di prestigio con le carte.
Comunque non temente, non abbiamo abbandonato per sempre i Lucht Siuil: torneranno e soprattutto tornerà Rohiall. Dopotutto, McPride è più furbo che bello, come si suol dire, e vedrete nel prossimo capitolo come ha fatto a rintracciare Edmund. ;)
Ora, un po' di immagini:
QUI una foto di un carro tondo tipico dei Lucht Siuil;
QUI un allegro bambinello irlandese che ho trovato sul sito di Boyle che mi ricordava tanto Rohiall!
QUI un disegno di Edmund, Mairead e Laughlin realizzato da Shan;
QUI l'immagine del capitolo, con quello scemo di Edmund che fa Dottor Fenice!

Grazie a tutti voi per sopportare i miei vaneggiamenti!
Ci rivediamo esattamente fra un mese, ovvero sabato 15 settembre!
E intanto, buon Ferragosto!
Beatrix

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Capitolo 15
*** Il F.I.E. ***


CAPITOLO 15
Il F.I.E.






Laughlin era assolutamente certo di avere un'autostima spropositata per ciò che effettivamente era; però era anche certo che un po' di superbia non facesse male a nessuno. In fondo, era più semplice vivere la vita essendo totalmente sicuri di riuscire in qualsiasi impresa si dovesse cimentare, anche a costo di sbagliarsi, piuttosto che essere pessimisti in partenza.
Per questo motivo, all'inizio del nuovo anno, Laughlin era pieno di entusiasmo e aspettativa: avrebbe passato un grandioso trimestre, avrebbe dato la P.R.O.B.A.T.I.O. con ottimi risultati e sarebbe stato tutto magnifico come sempre. Ottimismo, l'ottimismo era il segreto del suo fantastico modo di vivere.
«Ehi, Laugh, io e Lily possiamo venire in scompartimento con voi?» domandò proprio in quel momento Bearach.
«No. Sparisci» gli intimò senza mezzi termini. Non era mica arrivato a metà del quinto anno per sopportarsi quella piattola del fratellino con la sua amichetta bionda in paillettes. Ignorando la rispostaccia di Bearach, Laughlin si fece largo tra gli studenti pigiati nel corridoio del treno per raggiungere lo scompartimento dove lo aspettavano i suoi amici.
Ci voleva una frase ad effetto per entrare, però.
Ci meditò un attimo, poi spalancò la porta esclamando: «La mia magnifica presenza riempirà di gioia i vostri cuori abbandonati nell'ombra della disperazione!»
Si guardò in giro per studiare le reazioni dei suoi amici: Mairead gli lanciò uno sguardo a metà tra il disappunto e la commiserazione, Edmund gli rivolse un'occhiata apatica. Perfetto, l'espressione di Mairead era quella prevista, mentre la faccia di Edmund no. Ma proprio per niente.
Gli si sedette di fronte e domandò: «Per la bava di Merlino, Ed, hai un Gramo che ti perseguita?»
Il ragazzo alzò gli occhi su di lui e gli riservò uno sguardo indecifrabile: pareva che dentro i suoi occhi azzurri si fosse scatenata una tempesta. «Avevate ragione» mormorò a denti stretti, facendo capire quanto gli costava quell'ammissione.
«Su cosa?» domandò Laughlin, frugandosi nelle tasche alla ricerca di qualche Cioccorana dispersa.
Edmund tirò un lungo respiro. «Su McPride» spiegò infine, con una faccia che non avrebbe stonato ad un funerale. «È solo un egoista che pensa al proprio guadagno e basta; si stava prendendo gioco di me».
Il gelido silenzio calato nello scompartimento fu interrotto dal gracidare di una rana. Mairead si voltò verso Laughlin con uno sguardo di fuoco: la sua espressione gridava qualcosa come “quanto sei indelicato”, ma il ragazzo non si fece intimorire troppo. Prese al volo la sua Cioccorana, prima che spiccasse un salto, e se la infilò in bocca. «Pvuoi la pfigurina di Psilente?» fu il suo pallido tentativo di risollevare il morale all'amico, sventolandogli davanti agli occhi la figurina che aveva appena trovato.
Edmund non rise nemmeno per il cioccolato che impediva a Laughlin di parlare in modo comprensibile. Gli rivolse un sorrisetto di circostanza e si voltò a guardare la pioggia che batteva violenta contro il finestrino. Ripensò a McPride che, quando l'aveva adottato, si era presentato all'Ufficio di Controllo dei Maghi Minorenni e aveva reso la sua Traccia nominale, in modo da poterlo scovare nel caso in cui fosse scappato e avesse compiuto una magia. Precauzione necessaria, l'aveva chiamata lui. Ennesima prova del fatto che non aveva mai voluto altro che sfruttarlo, aveva pensato Edmund.
Tuttavia, ormai era sciocco rimuginare sui suoi errori passati: fra pochi giorni sarebbe diventato maggiorenne, libero dalla Traccia e libero da McPride. Ma non gli bastava: doveva fargliela pagare, per quello che aveva fatto a lui e per quello che aveva fatto ai Lucht Siuil.
Per fortuna, la famiglia di Rosemary non aveva subito ripercussioni per averlo ospitato, ma McPride si era affrettato a proporre al Parlamento una legge in cui si limitavano le libertà delle comunità magiche di Lucht Siuil. Per la sicurezza della nazione, aveva detto. Per vendetta, era più corretto.
«Dobbiamo fare qualcosa» decretò Edmund, con una tale decisione da lasciare stupiti persino i suoi amici.
«Che genere di cosa?» si informò Laughlin, piuttosto scettico, ben sapendo che non bisognava mai dare troppa corda alle idee strampalate dei Raloi.
Edmund si guardò in giro, come se cercasse la risposta scritta sui muri del vagone. «Non lo so...» mormorò alla fine. «Qualcosa per far capire che noi non ci stiamo, che non ci piace la piega che sta prendendo il Governo».
Rimasero in silenzio per qualche minuto, Laughlin preoccupato e diffidente, i due Raloi intenti a trovare un'idea brillante per far emergere la loro voce di dissidenza senza rischiare di subire ritorsioni.
Alla fine fu Mairead ad avere l'illuminazione. «Creiamo un'associazione studentesca!» propose entusiasta.
«Contraria e opposta all'EIF della Diablaiocht!» asserì Edmund, ritrovando finalmente l'entusiasmo.
«Ci vuole un professore che firmi l'autorizzazione» puntualizzò Laughlin, per nulla convinto.
Mairead sfoderò uno dei suoi migliori sorrisi da furbetta. «So già a chi chiedere» rispose all'amico, pensando a quel caro, vecchio professore che non avrebbe avuto altra scelta che dire di sì.
«Io chiederò a Moira di venire con il suo ragazzo Henry» propose Edmund, ormai totalmente coinvolto dalla faccenda.
Mairead applaudì entusiasta, poi si rivolse a Laughlin: «Tu potresti invitare tuo fratello Bearach, e poi anche Dom, mentre io trascinerò Faonteroy e lo proporrò ai ragazzi del Quidditch»
Laughlin sbuffò sonoramente. «Va bene» concesse alla fine, alzando gli occhi al cielo. «Ma io voglio essere il Presidente».

Il professor Saiminiu osservò il foglio per l'autorizzazione con aria perplessa. Aveva appena concluso la prima lezione di Latino e Irlandese del nuovo trimestre con quelli del quinto anno, quand'ecco che Mairead e i suoi amici si erano avvicinati con un permesso da firmare. Per costituire un'associazione studentesca di aiuto allo studio.
Non ci voleva un Ordine di Merlino per capire che volevano opporsi all'Étudiants Inclinée vers le Faîte della Diablaiocht.
«Suvvia, professor Saiminiu!» lo incentivò Mairead, con un sorriso sbarazzino tanto simile a quello del padre Reammon. «Chi meglio di lei può capire la necessità di noi studenti di aggregarci in gruppi di amici che si sostengono? Si tratta solo di studio, ovviamente».
Gli occhi verdi di Mairead volevano essere due pozzi di innocenza, ma il professor Saiminiu vi leggeva la stessa malcelata furbizia che si nascondeva in quelli di Reammon, quando progettava qualche mascalzonata. Scosse la testa e sospirò: «Non credi di stare approfittando troppo della tua posizione, Mairead?»
Era ovvio che la ragazza avesse chiesto proprio a lui perché sperava di far leva sull'amicizia che aveva con suo padre.
«Professore, non ci permetteremmo mai di approfittare così vilmente della situazione!» intervenne indignato Laughlin, come se mettere in discussione la sua onestà fosse un reato criminale punibile con Azkaban.
Saiminiu sbuffò. «Va bene, ma voglio che mi portiate l'elenco completo di chi ne fa parte, quando l'associazione sarà costituita» concesse alla fine, osservando le faccette speranzose dei suoi tre studenti.
Mairead si sciolse in un sorriso. «Ci può anche lasciare la sua aula per gli incontri? Ovviamente quando non c'è lezione!» domandò nel passargli il modulo.
Il professor Saiminiu sbuffò un cenno di assenso, poi prese il foglio dell'autorizzazione e lo firmò con la sua calligrafia minuta; ma, nel restituirlo a Mairead, la guardò dritto negli occhi e le ordinò: «Non combinate guai».
Fu Edmund a rispondere, con un sorriso beffardo da far rabbrividire anche il più impavido: «Noi ci sguazziamo, nei guai».

Avevano scelto di sfruttare l'aula di Magicologia Irlandese perché, essendo al secondo piano, era più luminosa di quella di Latino e Irlandese. Dalle ampie finestre a bifora entravano fiotti di luce, nonostante il tempo minacciasse temporale.
Laughlin sbirciò fuori dalla finestra e osservò per qualche tempo il panorama. «Sembra che voglia venir giù il cielo» fu il suo sconsolato commento.
«Ma no, guarda...» intervenne Mairead, indicando un punto dell'orizzonte. «Là in fondo c'è azzurro!»
«Sì, ma qui sopra è tutto nero!» la rimbeccò Laughlin, imbronciato.
Edmund si sedette sulla cattedra e cominciò a giochicchiare con la cinghia della sua borsa a tracolla. «Dov'è finito il tuo ottimismo, Laugh?» domandò all'amico. «Dopo un temporale, torna sempre il sole».
Laughlin si voltò verso di lui, sollevando un solo sopracciglio in un'espressione di totale disappunto. «Da quando fai il filosofo?»
Ma Edmund non ebbe tempo di rispondere, perché proprio in quel momento entrò in aula Moira, seguita da altri due ragazzi dei Llapac. Uno era grassottello, con il volto morbido e simpatico come quello di un bignè: Henry Alabacor, fidanzato di Moira nonché incubo perenne di tutti i professori del Trinity per la sua cronica imbranataggine. L'altro era l'ultima persona sulla faccia della terra che Laughlin avrebbe voluto vedere in un'associazione studentesca di cui lui era il presidente: quello squilibrato di Dedalus Consolatus. Dedalus aveva un paio di grossi difetti: primo, citava il padre Babbano, che insegnava fisica all'università, ogni qual volta volesse dire qualcosa con una parvenza di autorevolezza; e, in quelle rare occasioni, poteva anche sembrare credibile. Secondo, tutte le altre sante volte che parlava, diceva assurdità tali che nemmeno il più credulone degli uomini avrebbe potuto ritenerle vere.
«Ehilà, è qui che si combatte il crimine?» domandò entrando in aula, con un sorriso gioviale stampato sulle labbra carnose.
«Cos'è che dovremmo fare?» replicò Laughlin, più scontroso del solito.
La risposta di Dedalus fu soffocata dall'esuberante ingresso in aula dei giocatori di Quidditch dei Raloi: Beatrix Connery, Gordon Weaving, Era McKonnit e Lily Sharpaty.
«Hai invitato tutta la squadra di Quidditch?» sibilò astioso Edmund che, nonostante tutto, non aveva smesso di provare una certa ostilità nei confronti degli atleti.
Mairead si avvicinò ai compagni con aria baldanzosa. «No, solo i migliori» rispose, allungando la mano per farsi battere il cinque. I ragazzi si scambiarono un qualche gesto di saluto fatto di pacche e mani battute una sull'altra, suscitando in Edmund un acido commento sibilato a mezza voce: «Riti tribali».
Subito dopo Lily entrò Bearach, accompagnato dall'altra Sharpaty che, ovviamente, non aveva rinunciato alla sua dose di ombretto sbarluccicoso e alla farfalla di paillette tra i capelli. La ragazzina sbatté le sue lunghissime ciglia in direzione di Edmund, nella speranza di farsi notare. Furono in molti ad avere l'impressione che Rosalie Sharpaty si fosse presentata a quella riunione solo perché Edmund era tra gli organizzatori. E furono in molti ad avere perfettamente ragione.
Poco dopo arrivò anche Dominique, scusandosi per il ritardo: era dovuto passare da padre Rafael Majestis per chiedere un consiglio su alcuni libri.
«Bene, ci siamo tutti?» domandò Laughlin, sentendosi già investito dei suoi poteri di presidente.
«Veramente...» mormorò Mairead, guardandosi in giro. «Mancherebbe Faonteroy».
Quasi come se il solo pronunciare il suo nome potesse invocarne la presenza, il giovane O'Brian fece la sua apparizione sulla porta. Guardò con occhio preoccupato quella masnada di facinorosi e, tentando di non dimenticare le buone maniere che si confacevano ad un lord del suo rango, domandò: «Non finiremo nei guai per tutto questo, vero?»
Sua cugina gli rivolse un sorriso che non lo rassicurò per nulla.
«I guai? Saremo noi a provocarli agli altri!» fu la sua beffarda risposta. E Faonteroy non ne fu affatto rincuorato.
«Bene, sedetevi tutti» ordinò allora Laughlin, per tentare di mettere un po' di ordine. «Se siete venuti qui è perché...»
«...mi ci hanno costretto» completò Faonteroy per lui, in un mugugno immusonito.
Mairead incenerì il cugino con lo sguardo, poi continuò il discorso di Laughlin: «Se siete qui è perché vi siete accorti che così non può andare avanti. Non possiamo accettare che tutti questi sconvolgimenti accadano sotto i nostri occhi senza dire la nostra. Non ci piace una società dove chiunque è diverso è un nemico, solo per la paura che l'ombra di Voi-Sapete-Chi si proietti anche in Irlanda».
«Ma non era un gruppo di sostegno allo studio?» si intromise Faonteroy, con aria sospettosa.
Fu incenerito da almeno una decina di sguardi.
«Dobbiamo darci un nome!» esclamò entusiasta Dedalus, suscitando un mormorio generale di assenso.
Gordon sventolò la sua mano in aria come se fosse a lezione e dovesse chiedere la parola. «Io propongo “Il Governo è deficiente”!» disse poi, senza aspettare che qualcuno gli concedesse di parlare.
Mairead lanciò un'occhiata perplessa ai suoi amici, poi commentò: «Pensavamo qualcosa che facesse capire meno le nostre vere intenzioni». «Perché?» si intromise Era, in tono piuttosto aggressivo. «La Diablaiocht e i suoi amichetti non sembrano essersi posti lo stesso problema: praticamente si sono chiamati EIF!»
Le parole della ragazza provocarono un vivo chiacchiericcio di protesta.
«Era ha ragione» mormorò Dominique, dapprima debolmente. «Era ha ragione» ripeté poi, con maggiore convinzione. Calò il silenzio e tutti si voltarono a guardarlo, in attesa. Era gli scoccò un'occhiata non particolarmente dolce, forse perché non si erano lasciati molto bene dopo che erano stati insieme qualche mese dal Ballo di Capodanno dell'anno scorso. Lui tentò di ignorarla e proseguì: «Perché non ci chiamiamo qualcosa come FIE?»
Gli altri ragazzi si scambiarono occhiate di approvazione.
«Potrebbe essere la sigla di... fidem... iustitiamque... exereamus» propose ancora Dominique, facendo mentalmente passare il vocabolario latino che si era stampato in testa.
«Fedeltà e giustizia! E sia!» decretò Laughlin, fiero del suo ruolo di presidente, mentre gli altri approvavano la scelta con un applauso. «Ci vorrebbe anche un simbolo» aggiunse Beatrix, quando gli animi si furono calmati.
«Un giglio bianco» propose prontamente Lily.
La parte maschile del gruppo non parve molto soddisfatta dell'idea, ma l'unica a lamentarsene, in realtà, fu Rosalie. «L'hai detto solo perché tu ti chiami Lily. Perché non una rosa, allora?» brontolò, facendo tintinnare i suoi orecchini di paillette.
Lily le scoccò uno sguardo di sufficienza. «No, l'ho detto perché il giglio è sinonimo di purezza» spiegò in tono risaputo.
«A me piace l'idea» approvò Dominique, ripensando al significato che aveva quel fiore nella Chiesa. Una leggenda diceva che Maria avesse scelto come suo sposo Giuseppe proprio perché l'aveva visto con un giglio in mano.
Ovviamente ci fu qualche sommesso brontolio da parte dei ragazzi, ma alla fine la proposta fu messa ai voti e l'idea passò, perché gli unici che votarono contro furono Laughlin, Bearach e Gordon. Faonteroy si astenne dalla votazione.
«Che ve ne pare?» domandò Dedalus, sventolando un foglio su cui aveva fatto uno schizzo dello stemma. Al centro un giglio bianco stilizzato, sotto la scritta Fidem iustitiamque exerceamus e a coronare il tutto un ramo di quello che sembrava essere ulivo.
«Quella è una pagina del libro di Trasfigurazione?» indagò perplesso Edmund, riconoscendo il foglio strappato su cui il Llapac aveva disegnato. Nessuno si curò di rimarcare ulteriormente l'evidenza.
«Io direi che è perfetto» sentenziò invece Laughlin soddisfatto come se fosse tutto merito suo. Anche gli altri espressero le loro approvazioni.
E fu così che nacque il FIE.







Buongiorno a voi!
Ecco il nuovo capitolo!
Lo so, sono in ritardo e sono terribilmente in ritardo anche con il rispondere alle vostre recensioni e recensire le vostre storie. Perdonatemi, ma quest'estate mi ha portato via ogni minuto libero! Ora che riprende il ritmo lavorativo autunnale, mi rimetto in carreggiata con tutto, promesso! Abbiate fede!
Il prossimo capitolo lo pubblicherò di nuovo fra un mese, poi dovrei riprendere l'aggiornamento ogni 2 settimane. Ci rivediamo lunedì 15 ottobre!
Intanto, gustatevi un paio di immagini:
QUI il simbolo del FIE disegnato da Dedalus;
QUI una cosa molto trash: le foto dei vari membri del FIE! ;)
Grazie per la vostra pazienza,
a presto!
Beatrix B.

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Capitolo 16
*** L'orologio d'oro ***


CAPITOLO 16
L'orologio d'oro






C'era qualcosa di rumoroso e pesante nel suo sogno. Era come se ci fosse un terremoto e la terra gli mancasse sotto i piedi.
Si svegliò di soprassalto, senza ricordare cosa stesse sognando; gli rimase solo una strana sensazione di angoscia, ma nulla di più. «Auguri, dormiglione!» gridò qualcuno.
Una voce femminile. Ragazza, nel dormitorio maschile. C'era qualcosa che non quadrava.
Edmund si mise a sedere e cercò di raccapezzare le idee. «Che giorno è oggi?» borbottò, più che altro a se stesso.
«Il 13 gennaio!» gli rispose qualcuno che sembrava proprio essere Bearach.
«È il tuo compleanno, idiota!» e questa era senza dubbio la voce di Laughlin.
Edmund si stropicciò gli occhi, finché non riuscì a tenerli aperti a sufficienza per abituarsi alla semioscurità della stanza. Quando finalmente fu in grado di vedere anche al buio, notò che attorno al suo letto era radunata una piccola folla. «Che cosa...?» provò a domandare, mentre i volti delle persone cominciavano piano piano a delinearsi.
«Be', tanti auguri, comunque» sbuffò Laughlin, lanciandogli un pacchetto regalo. «Da parte mia e di Mairead».
Edmund riuscì a prenderlo al volo solo perché, praticamente, glielo aveva lanciato in pancia. In realtà, però, non prestò molta attenzione al regalo perché era ancora troppo scombussolato dalla presenza di tutta quella gente. Anche perché parecchi di loro non erano Raloi, quindi non erano autorizzati a stare nel dormitorio. In teoria. Per non parlare delle ragazze.
«Come siete entrati?» domandò sospettoso.
«Li ho fatti entrare io» rispose prontamente Mairead, con un sorriso che voleva essere innocente.
«Piantala di rompere e scarta 'sto regalo!» gli ordinò Laughlin, sbuffando di impazienza.
Edmund non se lo fece ripetere due volte: sebbene fosse ancora assonnato, strappò la carta rossa e trovò un piccolo bauletto in legno. Lo aprì con una certa emozione, avendo finalmente realizzato che era un regalo per la sua maggiore età, ma non capì che cosa contenesse: adagiati su un cuscino rosso stavano tre anonimi quadratini di un grigio metallico. «Ehm...» borbottò, indeciso se ringraziare per qualcosa che non sapeva cosa fosse o se chiedere spiegazioni, a costo di fare la figura dell'idiota davanti a tutti.
Per fortuna Laughlin capì al volo. «Beato Merlino, sono Specchi Comunicanti!» esclamò, prendendone uno e mostrandogli come funzionasse: lo aprì con uno scatto secco e quello si rivelò essere in tutto e per tutto identico ad uno specchietto da trucco per signore. Senonché, quando Laughlin pronunciò il nome di Edmund, lo specchio al centro, ancora posato sul cuscino rosso, prese a fremere e a illuminarsi di una magica luce rossiccia.
Edmund lo prese in mano e lo aprì come aveva fatto l'amico: sullo specchio comparve a faccia di Laughlin, come se una telecamera vi stesse trasmettendo sopra ciò che riprendeva.
«Mi senti, Eddy?» domandò il ragazzo e la sua voce venne magicamente trasmessa anche dallo specchietto che teneva in mano Edmund. Il festeggiato sorrise, affascinato dalla magia, mentre Bearach commentava: «Sono una figata pazzesca!»
«Oh, be', roba rara, eh...» precisò Laughlin, come se volesse far intendere che non si trattava di un regalo di poco conto, poi passò il terzo specchietto a Mairead.
«Grazie, ragazzi» mormorò Edmund, pieno di ammirazione.
«Ora apri gli altri!» esclamò allegra Moira, mettendogli tra le mani un nuovo pacchetto.
Edmund scartò più regali di quanti avesse mai ricevuto in vita sua: Moira, Henry e Dedalus gli avevano preso un kit di manutenzione per la bacchetta, comprendente un panno magico per pulirla e una serie di strumenti per valutarne l'efficacia. Dominique gli aveva regalato un libro dal sapore filosofico intitolato “Fenomenologia della Magia”, Faonteroy una spilla d'oro con il triskell, che Edmund si affrettò ad appuntare alla giacca della divisa, mentre Bearach e le gemelle Sharpaty avevano comprato per lui una penna d'oca con il pennino d'oro. Ma anche Reammon gli inviò un pacchettino via gufo, contenente una moneta magica di epoca romana, così come i signori Maleficium gli regalarono un magnifico completo da mago color turchese.
«L'ha disegnato mamma apposta per te» spiegò Laughlin, tutto soddisfatto. «Sai, lei fa la stilista: ha pensato che questo colore si intonasse all'azzurro dei tuoi occhi».
Con sommo dispiacere di Edmund, perfino McPride gli inviò un regalo: era un orologio d'oro da taschino, com'era tradizione regalare ai maghi che diventavano maggiorenni.
«Ehi, c'è anche questo!» si intromise Henry, sventolando un anonimo pacchettino che era rimasto nascosto dagli altri regali.
«Chi te lo manda?» si informò curioso Bearach.
Edmund osservò la scatolina di cartone che gli aveva passato il Llapac, ma non c'era nessun biglietto né tanto meno qualche indicazione che suggerisse il mittente. Lo aprì con interesse crescente, ma la delusione si dipinse sul suo volto quando scoprì cosa conteneva: un banalissimo orologio da taschino, che aveva l'aria di essere piuttosto vecchiotto. Lo tirò fuori e lo sventolò davanti agli amici curiosi. «Segna mezzogiorno e dieci. Un po' fuori orario» fu il commento arguto di Laughlin. Sembrava piuttosto soddisfatto di aver fatto notare la cosa.
Edmund tentò di girare i pomoli per regolarlo, ma non ci fu verso di cambiare l'ora: sembrava che qualcosa di magico avesse inchiodato le lancette perché segnassero perennemente mezzogiorno e dieci.
«È pure graffiato sul vetro» commentò Bearach, con un certo disappunto, indicando i graffi che solcavano la lente.
Faonteroy scosse la testa. «Mi pare un regalo di pessimo gusto, un orologio vecchio, ammaccato e nemmeno funzionante. E chiunque te l'abbia mandato, non ha nemmeno avuto il coraggio di allegare un biglietto» commentò, esprimendo ad alta voce l'opinione di tutti.
«Comunque sia, è meglio se ci muoviamo» intervenne invece Dominique, con più senso pratico degli altri. «Non credo che i professori sospendano le lezioni solo perché è il compleanno di Eddy».

Edmund non seppe dire cosa fosse cambiato, ora che lui era maggiorenne. Se quelle che seguirono al suo compleanno furono settimane piacevoli, non fu certo grazie al suoi diciassette anni, bensì per l'appoggio degli amici del FIE. Si trovavano una volta alla settimana nell'aula di Magicologia Irlandese, per discutere di nuove iniziative per contrastare il potere della Diablaiocht e del Governo. Dedalus, che aveva rivelato un'insospettabile capacità artistica, aveva preparato per tutti loro delle spille, con disegnato lo stemma del gruppo. Ci volle un'intensa opera di persuasione da parte di Mairead per convincere Faonteroy a portarla. Se le minacce possono essere definite “persuasione”.
Dopo uno spiacevole episodio in cui alcuni Raloi filo-governativi avevano minacciato Faonteroy per via della spilla con il giglio, Edmund vi applicò un Incantesimo Proteus in modo che, se qualche membro del FIE avesse toccato la sua spilla con la bacchetta, tutte quelle degli altri avrebbero cominciato a scottare. Con questo meccanismo, sarebbero stati al sicuro da qualsiasi aggressione.
Ormai in tutta la scuola, infatti, chiunque portasse il segno del giglio era riconosciuto a vista come un dissidente, un sovversivo e un rivoluzionario. Erano in molti a ritenere che le misure di sicurezza del Governo McPride fossero non solo necessarie ma anche giuste per poter arginare il potere dei Mangiamorte. Era facile che la nazione si unisse, di fronte alla minaccia di un nemico esterno. Forse nessuno avrebbe approvato le decisioni del Governo, se si fosse saputo quali alleati si era scelto McPride per combattere quella guerra, ma era indubbio che il Presidente appariva ai maghi irlandesi come l'uomo forte di cui c'era bisogno in tempi come quelli.
E chiunque gli andasse contro era un sovversivo filo-inglese, magari anche gregario di Tu-sai-chi. Per quello il marchio del giglio non era per niente ben visto, nemmeno a scuola.
Edmund aveva pensato spesso di rivelare il segreto del suo patrigno, ma non aveva ancora trovato il coraggio. Parlarne con Mairead e Laughlin l'avrebbe fatto apparire uno sciocco, perché significava ammettere che l'uomo in cui aveva riposto tutta la sua fiducia non solo era un egoista che pensava solo al suo profitto, ma era anche alleato con il più terribile gruppo di folli assassini dell'isola. Avrebbe voluto discuterne con Captatio ma, dopo che lo aveva ignorato per mesi, tutto preso com'era dal suo nuovo mentore, gli pareva un insulto nei suoi confronti strisciare ai suo piedi solo perché aveva bisogno di aiuto. Infine, chiunque altro al di fuori del suo ristretto gruppo di conoscenti, avrebbe pensato che si stesse inventando qualche menzogna per mettere in cattiva luce il Presidente.
Dopotutto, molti pensavano che fosse un lurido voltagabbana e uno schifoso ingrato visto che, dopo averlo ammirato per tutti quei mesi, aveva pugnalato alle spalle il suo patrigno per una stupida spilla con un giglio. Alcuni studenti (soprattutto di sesso femminile) erano ancora ammaliati dal suo fascino e sembravano disposti a perdonargli qualsiasi errore, ma la maggior parte lo vedeva come un ipocrita traditore.
Erano ben in pochi quelli che ammiravano il lavoro del FIE e, di certo, nessuno dimostrava un aperto sostegno.
In realtà, i ragazzi del FIE non avevano fatto nulla di così strano. Principalmente distribuivano volantini con spiegate le proposte di legge promosse dal Governo e quello che era certo è che difendevano a parole e nei fatti l'innocenza dei Nati Inglesi. Una volta avevano perfino tentato di organizzare una conferenza sui valori della Carta Costituzionale (idea geniale di Dominique, purtroppo fallita per la decisa opposizione di alcuni professori, tra cui Cumhacht).
La verità era che agli studenti non gliene fregava proprio un bel niente di quello che succedeva là fuori, fin tanto che se ne stavano al sicuro tra le mura del Trinity. E, soprattutto, fin tanto che a rassicurarli c'era la figura paterna e insieme autoritaria del Presidente Adolphus McPride. Quel suo sorriso sicuro di sé faceva credere a chiunque che l'Irlanda sarebbe stata al sicuro dai Mangiamorte finché lui fosse stato Presidente. E chissene importa se per farlo avrebbe dovuto spremere un po' di Nati Inglesi. Nessuno si scandalizzava.
«È uno scandalo!» fu invece quello che tuonò Mairead quando, una piovosa sera di inizio febbraio, Dominique annunciò di aver scoperto il nuovo progetto di legge che il Governo voleva far passare in Parlamento.
«Rispiegaci bene di che si tratta» gli chiese Henry, che se ne stava con la penna d'oca in mano e un foglio di pergamena sul tavolo, come se fosse a lezione e dovesse prendere appunti.
Dominique aprì con un gesto teatrale il numero della Gazzetta Ufficiale che recava il testo della proposta di legge. «In sintesi, vogliono far passare un censimento dei Nati Inglesi» spiegò loro, dando una rapida occhiata all'articolo di giornale.
«È anticostituzionale» decretò Faonteroy, perché lui si era, tipo, imparato a memori tutti gli articoli principali della costituzione. Diceva che in Parlamento c'era sempre un O'Brian, come suo nonno Childerich, o lo zio di suo nonno, Galwayn, per cui anche lui doveva essere preparato all'eventualità di un'elezione. Nessuno aveva il cuore di fargli notare che a quindici anni era praticamente impossibile diventare parlamentari.
«Vado a documentarmi in biblioteca!» fu la tempestiva proposta di Edmund. «Sicuramente qualcuno ha già tentato di far passare una legge del genere, ma deve essere stata bloccata perché anticostituzionale» spiegò alle facce sbigottite dei suoi amici. «E se c'è un precedente, possiamo appellarci a quello!»
Mentre Edmund usciva dall'aula pieno di ottimismo, fu seguito da una manciata di sguardi di puro disappunto. Come poteva, in momenti come quelli, pensare alla biblioteca?
Ma Edmund non ci badò nemmeno: per lui andare a cercare la soluzione a problemi impossibili tra le scansie di legno massiccio che racchiudevano tutto lo scibile era naturale come bere un bicchier d'acqua. Trovò tre o quattro volumi interessanti ma, poiché era ormai vicino l'orario di chiusura della biblioteca, fu costretto a prenderli a prestito. Se li ficcò malamente nella borsa e, quando notò che non ci stava dentro più nulla, decise che era proprio il caso di applicare l'Incantesimo Estensivo Irriconoscibile. Era tutto affaccendato nella ricerca della bacchetta (che era senza dubbio rotolata in fondo alla borsa), quando per poco non andò a sbattere contro qualcuno. Le scuse che tentò di mormorare gli si bloccarono in gola, quando vide contro chi era andato a sbattere: Ailionora Diablaiocht, come sempre spalleggiata dalla O'Hara e da Best.
«Diablaiocht» fu il suo gelido commento.
La ragazza sfoderò un sorrisetto irritante. «Dove vai con tutti quei libri, McPride?» gli chiese in tono provocatorio.
«Non sono affari tuoi» sibilò in risposta Edmund. «Fammi passare».
Ailionora stropicciò il naso, come se stesse soppesando l'idea di farsi da parte per lasciar passare l'altro. «E se non volessi spostarmi?» gli domandò, fingendo innocenza, ma la sua mano indugiava sulla tasca dove teneva la bacchetta.
Edmund non avrebbe avuto problemi, anche se avesse dovuto affrontarli tutti e tre: il guaio era che la sua bacchetta si trovava sul fondo della borsa.
La Diablaiocht sembrò accorgersi delle difficoltà tecniche del suo avversario e sfoderò il suo miglior sorriso sarcastico.
I secondi si dilatarono nell'attesa, finché...
«Lascialo stare!» gli intimò una vocetta acuta ma decisa.
La Diablaiocht si girò verso chi aveva parlato e non poté fare a meno di scoppiare a ridere: la minaccia proveniva da una marmocchietta con vaporosi capelli biondi e una molletta floreale tra i capelli. «Perché?» le chiese con la voce grondante di sarcasmo.
La ragazzina aveva un cipiglio deciso, bisognava riconoscerlo, ma era piuttosto ridicola l'idea che volesse fronteggiare tre ragazzi del quinto anno da sola.
«Perché te lo dico io!» replicò aggressiva.
Erano tutti troppo divertiti dalla faccenda, ma a Edmund non sfuggì il rapido movimento grazie al quale Lily sfiorò la spilla del FIE con la sua bacchetta.
Si fronteggiarono per alcuni momenti, poi Ailionora domandò: «E dimmi, fiorellino, dovrei avere paura di te?»
Lily sfoderò un sorriso beffardo, vero marchio Raloi. Il rimbombare di alcuni passi riempì il corridoio.
«Di me no» sussurrò divertita.
In una frazione di secondo, tutto il FIE fu schierato dietro di lei, la bacchetta spianata.
«Di loro sì» completò Lily, evidentemente compiaciuta.
La Diablaiocht irrigidì la mascella. Ci fu un terribile attimo in cui il tempo parve congelarsi, tanto era ghiacciata l'aria che si respirava. Infine Ailionora fece un cenno ai suoi compagni. «Stavamo solo andando in biblioteca» mormorò in tono dimesso, ma piantò i suoi occhi scuri in ognuno dei membri del FIE, come a promettere che l'avrebbero pagata cara.
Nel varcare la porta della biblioteca, la Diablaiocht diede di proposito una spallata a Edmund. Il ragazzo non fu abbastanza rapido nello scansarsi: Ailionora urtò la borsa che, già sottoposta a dure prove per il peso eccessivo dei libri, cedette definitivamente e rovinò a terra. Si sentì un orribile rumore di vetro infranto e una macchia blu si allargò sul fondo della tracolla.
«Maledizione!» imprecò Edmund, affrettandosi a togliere i libri dalla borsa perché non si sporcassero. Ma alcuni avevano già gli angoli impregnati di inchiostro, tanto che Edmund si ritrovò con le mani tinte di blu.
Mairead gli passò un fazzoletto per pulirsi, mentre Laughlin lo aiutò a svuotare la borsa, quando una scatolina di cartone ne rotolò fuori: era anch'essa zuppa di inchiostro.
Per una frazione di secondo Edmund non la riconobbe, poi si ricordò del regalo senza mittente e la aprì per controllare lo stato dell'orologio. Lo ripulì del più grosso con il fazzoletto che gli aveva dato Mairead, ma non ci fu verso di eliminare l'inchiostro che si era insinuato nelle minuscole striature che graffiavano la lente, sottile e invisibile come il mercurio dei termometri. Fu allora che Edmund notò quanto fossero dritte quelle linee e quanto fosse perfetto quel cerchio. Non erano affatto graffi scomposti causati dall'usura: era un disegno.
Qualcuno aveva inciso un disegno sulla lente dell'orologio e gliel'aveva inviato.







Buongiorno a tutti!
Finalmente cominciano i misteri! Un orologio d'oro inviato da nessuno con dei misteriosi disegni... mhuahahahah! C'entra con il passato di Edmund, sì, certo... ma vedrete! Ho creato un codice IMPOSSIBILE da decifrare! ;)
Simpatici quelli del FIE? Li rivedremo ancora molto spesso tutti assieme... mi piacciono un sacco!
Intanto, godetevi qualche disegno:
QUI un'immagine della biblioteca del Trinity... non so, forse l'avevo già messa, ma mi piace un sacco!
QUI la spilla che Faonteroy regala a Edmund;
ora, una serie di immagini idiote che mi sono divertita a mettere assieme per fare una specie di storia illustrata dei personaggi: QUI quella di Edmund, QUI quella di Mairead, QUI quella di Laughlin e QUI quella di Faonteroy (Faonteroy, sì, perché è un personaggio adorabile!).
QUI, invece, la galleria fotografica dei volti dei personaggi di tutta la saga. Anche questa cosa è molto trash, ma mi sono divertita un mondo! ^^
Grazie della vostra attenzione! Ci rivediamo fra quindici giorni, lunedì 29 ottobre.
A presto,
Beatrix B.

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Capitolo 17
*** La Setta degli Interventisti ***


CAPITOLO 17
La Setta degli Interventisti






Edmund decise che avrebbe impiegato ogni attimo di tempo libero per tentare di decifrare il disegno. Ormai si riteneva un esperto in questioni misteriose, quindi aveva un approccio al problema decisamente metodico: aveva copiato il disegno su un foglio di pergamena e aveva cominciato ad analizzarlo sotto qualsiasi punto di vista, senza scartare alcuna ipotesi.
Per iniziare, tentò di delinearne le forme essenziali: un cerchio, una specie di croce con il braccio verticale molto lungo e tre linee che si intrecciavano con la croce. Poiché a prima vista non gli ricordava assolutamente nulla, cercò di capire se i tre elementi potessero avere un significato separato, o se rappresentavano i pezzi di un rebus. Fece ricerche in biblioteca, analizzò il problema da diversi punti di vista, ma non ne riuscì a venire a capo.
Provò allora a rivalutare l'idea che si trattasse di un disegno unico, ma anche in questo caso le sue indagini si rivelarono inutili. Immaginò che potesse trattarsi di un antico modo di scrittura e che i segni rappresentassero delle lettere.
Niente. Non c'era verso di capire cosa significasse quel simbolo.
Ricominciò a chiudersi in biblioteca ogni volta che aveva un attimo di tempo libero, tanto che Mairead prese a lamentarsi del suo comportamento.
«Vedi misteri dappertutto!» si lagnò la ragazza, un sabato mattina di fine febbraio, mentre si dirigevano verso l'aula di Magicologia Irlandese per l'incontro del FIE.
«Mairead, qualcuno mi ha inviato, il giorno del mio diciassettesimo compleanno, un orologio anonimo con inciso sopra un disegno!» esclamò scandalizzato Edmund. «Non sono io che vedo misteri dappertutto: questo è un mistero!»
La ragazza sbuffò sonoramente per mostrare tutta la sua disapprovazione.
«Di che ti lamenti, Mairead?» domandò invece Laughlin, con il suo solito sorrisetto irriverente, quando ormai avevano raggiunto gli altri, davanti alla porta dell'aula. «Ci siamo finalmente liberati di Bellimbusto McPride, per riavere il nostro caro vecchio Eddy, tutto studio, misteri e biblioteca».
Edmund si imbronciò, soprattutto perché l'amico gli rivolse uno sguardo di pura derisione.
«Suvvia, il mondo è bello, il sole splende e noi siamo imbattibili!» esclamò allegro Laughlin. Ma quando aprì la porta per entrare in aula, si bloccò di colpo.
«Che succ...?» provò a domandare Mairead, ma si interruppe pure lei di fronte a quello scempio.
Anche gli altri membri del FIE si accalcarono sull'uscio per vedere cosa fosse accaduto. E quando lo videro, rabbrividirono.
L'aula di Magicologia Irlandese era completamente distrutta. Sedie rovesciate, banchi fatti a pezzi, pareti imbrattate, la lavagna fracassata... e una scritta sul muro, fatta con qualcosa che sembrava molto sangue: “vae vobis”.
«Vae vobis...» lesse tremante Henry.
«Cosa vuol dire?» chiese invece Lily.
Fu Edmund a rispondere, scuro in volto: «È latino: significa “guai a voi”».
«È opera dell'EIF!» tuonò Era, suscitando mormorii di protesta e indignazione da parte di tutti.
«Dovremmo avvertire il professor Saiminiu» fu invece il commento di Dominique che, come al solito, dimostrava di avere più buon senso di tutti gli altri.
«Non credo ci sia bisogno di andarlo a chiamare» commentò Moira, indicando le scale con un cenno del capo.
Il professor Saiminiu, pallido in volto più del solito, apparve sulla sommità della scalinata. Sembrava il cadavere di se stesso. E già di solito non aveva un aspetto così sano.
«La mia aula di Latino e Irlandese...» fu quello che riuscì a mormorare, prima di sgranare gli occhi di fronte allo stesso scempio che regnava nell'aula di Magicologia Irlandese.
«Preferisce che troviamo un altro posto per riunirci?» suggerì debolmente Mairead. Si sentiva in colpa per aver trascinato il professore in quel guaio. Se lui avesse negato loro il permesso di riunirsi, forse avrebbero potuto usare il covo segreto degli Extraiures, anche se era un po' piccolo per tutti loro.
Ma Septimius Saiminiu si voltò a guardarla con un'espressione che nessuno gli aveva mai visto dipinta in volto: era risolutezza, certo, eppure sembrava quasi più spaventosa delle minacce perpetuate dall'EIF della Diablaiocht. «No» decretò. «Non ho intenzione di farmi mettere i piedi in testa da un gruppo di marmocchi che giocano a fare i grandi».
Il professor Saiminiu non era mai stato quel genere di uomo che compie azioni eroiche in nome dei grandi valori cavallereschi, anzi: preferiva la quieta vita dello studioso, immerso nelle proprie indagini cattedratiche e spesso fine a se stesse. Ma era pur sempre l'ultimo discendente dei Saiminiu di Mes Gergra e aveva il suo onore da difendere. Nessuno poteva permettersi di prendersi gioco di lui a quel modo. Nessuno.
«Per oggi potete riunirvi nell'aula di Filosofia della Magia, mentre io sistemo qui» propose ai ragazzi del FIE. «Sono certo che padre Rafael non avrà alcun problema ad ospitarvi» spiegò, ripensando a come il vecchio amico fosse sempre stato pronto a battersi con qualcuno, quand'era giovane; di certo non avrebbe rifiutato di ospitare dei piccoli ribelli in lotta contro il mondo intero.
«E poi?» osò sussurrare Henry, più spaventato di chiunque altro per quella faccenda.
«E poi...» cominciò a dire il professor Saiminiu, il tono duro come pietra. «Faremo in modo che non si ripetano altri spiacevoli episodi». Nessuno ebbe il coraggio di chiedergli in che modo avrebbe tenuto lontano dalla sua aula i vandali, ma quando il gruppo di ragazzi si fu allontanato, Edmund suggerì che probabilmente il professore avrebbe applicato alla stanza un Incantesimo Sensore Segreto.
«Dite che il professor Majestis ci accetterà?» domandò Gordon, che non aveva mai nemmeno scambiato due parole con il cappellano del Trinity.
«Oh, sì, padre Rafael è molto disponibile» rispose prontamente Dominique, che invece andava a messa tutte le domeniche e a ogni festa comandata.
«Ma si tratta di esporsi: non so se il sacerdote è il tipo da mettersi contro dei pazzi assassini» commentò Era in tono puntiglioso. La focosa Raloi sembrava considerare un piacevole passatempo la possibilità di contraddire il suo ex fidanzato Dominique ogni volta che questo apriva bocca.
Il ragazzo boccheggiò, non tanto perché non avesse una risposta a quella provocazione, quanto perché si sentiva sempre a disagio quando c'erano di mezzo gli aspri commenti di Era.
«Non vi preoccupate» intervenne Edmund, con un mezzo sorriso. «Padre Rafael è più il tipo da prenderli a calci nel didietro, i pazzi assassini».
«Calci? Che cosa da barbari Babbani» commentò con ribrezzo Faonteroy, quando ormai erano arrivati davanti alla cripta del castello. Mairead sogghignò, senza avere il cuore di far notare al cugino che l'ultima volta che padre Rafael aveva preso a calci nel didietro qualcuno era stato quando aveva malmenato suo padre Teudilascius. Di certo l'orgoglioso O'Brian se l'era più che meritato: anche Mairead avrebbe preso volentieri a calci Faonteroy, di tanto in tanto.
Dominique ignorò l'ultimo commento del compagno ed entrò nella cappella alla ricerca del sacerdote: lo trovò in sagrestia e gli chiese la disponibilità per poter utilizzare la sua aula. Padre Rafael si fece condurre dagli altri ragazzi e domandò loro come mai non si riunissero in una delle aule del professor Saiminiu.
Calò un silenzio teso, finché Mairead non prese coraggio e spiegò quello che era successo.
Padre Rafael li scrutò uno ad uno con volto serio, dopodiché aprì loro la porta della sua aula. Le sue labbra carnose di piegarono in un sorriso ammirato e divertito insieme. «Nella mia lunga carriera scolastica, ho incontrato ben pochi ragazzi pronti a battersi per i propri ideali come fate voi» li elogiò, mentre teneva aperta la porta per farli entrare. Quando gli passò davanti Mairead, aggiunse in un sussurro: «E tuo padre era uno di quelli».
Mairead gli rivolse un gran sorriso, poi afferrò la mano di suo cugino Faonteroy, piuttosto restio ad entrare, e lo trascinò nell'aula. Quando si furono accomodati tutti intorno alla cattedra, Era, bellicosa come sempre, prese la parola: «Io dico che dobbiamo fargliela pagare a quelli dell'EIF!»
La sua proposta fu accolta da un'ovazione generale. Solo Moira e Dominique non sembravano del tutto convinti. «Io non credo sia una buona idea» commentò infatti la ragazza, non appena gli spiriti bollenti si furono raffreddati.
«È perché hai paura?» domandò Rosalie con una certa stizza, sempre pronta a far notare che lei era bella, bionda e coraggiosa, mentre la Llapac aveva ben poco di grazioso.
«No» rispose Moira, comunque tranquilla nonostante la velata accusa di codardia. «Semplicemente, credo che vendicarci porterebbe solo ad un'infinita concatenazione di ripicche; al contrario, dovremmo continuare a fare quello che abbiamo sempre fatto, dimostrando così che le loro stupide bambinate non ci tangono».
«Cosa vuol dire “non ci tangono”?» domandò Bearach, non del tutto sicuro di aver capito cosa intendesse Moira.
Laughlin sbuffò. «Vuol dire che non ce ne frega niente di quello che ci fanno» spiegò al fratellino, con un tono di scocciata superiorità.
Bearach incrociò le braccia al petto. «Be', a me un po' mi frega» borbottò infastidito dall'aria saccente del fratello.
«Il punto non è se ci frega o meno» intervenne Dominique. «Il punto è che, se ci vendichiamo, passiamo dalla parte del torto, proprio come loro. Se invece gli dimostriamo che non abbiamo paura delle loro minacce, vinciamo noi».
«Sì, ma come facciamo a dimostrargli che non abbiamo paura?» domandò Henry, che invece sembrava piuttosto spaventato.
Tutti rimasero in silenzio per qualche secondo, rimuginando sulla questione.
«Una bella fattura...» borbottò Era a denti stretti, ancora convinta di dover compiere una sanuinosa strage, per dar loro una lezione.
Ma fu Dedalus a dare una risposta a voce alta: «Riddikulus!» esclamò allegro, come se avesse trovato la soluzione al problema della fame nel mondo.
Tutti lo guardarono come se fosse appena ammattito: Dedalus era famoso per il suo tirar fuori cose strane nei momenti meno opportuni, ma quella era davvero strana.
«Che c'entra il Molliccio, adesso?» domandò Edmund, piuttosto perplesso.
Dedalus sorrise e cominciò a spiegare: «Ma è molto semplice! l'EIF della Diablaiocht è come un Molliccio: si trasforma in ciò che ci fa più paura, l'EIF quello vero, ma in realtà non è altro che uno stupido esserino che vive nell'ombra. E ciò che davvero sconfigge i Mollicci sono le risate!»
«Continuo a non capire» puntualizzò Laughlin, allibito dalle follie del Llapac.
«Noi potremmo farci una fascia con su scritto Riddikulus, da mettere legata alle cartelle, o al braccio... e tutte le volte che incontriamo qualcuno dell'EIF, la tocchiamo e ci mettiamo a ridere» spiegò Dedalus, sempre più eccitato. «Loro non capiranno e questo li farà imbestialire sempre di più. Se invece dovessero arrivarci, be', tanto meglio! Facciamo passare il messaggio che per noi non sono altro che sciocchi Mollicci!»
Dedalus era famoso perché diceva sempre cose piuttosto strane ma, in un certo modo, se lo ascoltavi davvero, quelle cose avevano anche un senso. Questa era la proposta più assurda che avessero mai sentito. Ma forse, proprio per questo, avrebbe potuto funzionare.
Conclusero la riunione restando d'accordo sul fatto che Moira, Henry e Dedalus avrebbero preparato le fasce per tutti, entro la prossima volta in cui si sarebbero incontrati. Dopo essersi salutati, ognuno tornò alle proprie faccende.
«Non vedo l'ora di fare anche io Filosofia della Magia» mormorò Dominique rivolto a Edmund, quando uscirono dall'aula del professor Majestis. «Padre Rafael sa davvero un sacco di cose, sai? Ha studiato a Filosofia a Lipsia e Teologia a Roma».
«Davvero?» commentò colpito Edmund.
«Bisognerà dire al prof che abbiamo finito» intervenne Laughlin, chiudendo la porta dell'aula.
«Vado io!» esclamò prontamente Edmund, colto da un'ispirazione improvvisa. Dopodiché si catapultò verso la cappella del Trinity, lasciando lì i suoi amici con l'aria imbambolata.
La cappella era tetra e silenziosa proprio come la prima volta che Edmund vi era entrato. Una serie di tremule candele illuminavano le pallide colonne che dividevano in tre navate la cripta, completamente vuota. I banchi di legno scuro erano rovinati, l'altare di pietra addobbato con l'essenziale: il tutto dava un'immagine un po' decadente, ma certo piena di fascino. Si sentiva solo i lieve raschiare di un pennino su un foglio di pergamena, proveniente dalla sacrestia. Edmund vi si diresse senza esitazione.
«Professore, posso?» domandò, socchiudendo la porta.
Padre Rafael alzò lo sguardo dal foglio su cui stava scrivendo e gli sorrise. «Certo, Edmund, entra pure» lo invitò, spingendo con l'indice gli occhiali che gli erano scivolati giù dal naso. «Avete finito?»
«Sì, grazie, professore» rispose Edmund, frugando nella sua borsa alla ricerca del fatidico foglio su cui aveva riprodotto il disegno dell'orologio. «Vorrei chiederle una cosa, se posso» mormorò incerto.
«Dimmi pure» lo incoraggiò padre Rafael, sfoderando un altro dei suoi sorrisi sinceri.
«Io... ecco... non so se lei lo conosce, ma non so proprio dove sbattere la testa» spiegò Edmund, allungando il foglio verso di lui. «Per caso, ha mai visto questo simbolo?»
Il sacerdote prese la pergamena e osservò il disegno per parecchio tempo. Girò il foglio, lo scrutò con occhio critico come se stesse cercando di ricordare qualcosa, ci meditò sopra, ma alla fine scosse la testa.
Edmund sentì lo sconforto piombargli addosso. Per un momento, aveva davvero sperato che il professor Majestis potesse aiutarlo visto che, a detta di Dominique, sapeva più di tanti altri che si spacciavano per profondi conoscitori dello scibile magico. Invece nemmeno lui aveva la più pallida idea di che significasse quel simbolo: un altro buco nell'acqua.
«Così non significa niente» mormorò infatti padre Rafael, allungandosi sulla scrivania per prendere una matita dal portapenne che aveva in un angolo. Dopodiché, aggiunse due linee al disegno che Edmund aveva vergato con penna e inchiostro. «Ma così sì» commentò con un sorriso, restituendogli la pergamena.
Il ragazzo contemplò il foglio con attenzione e poi estrasse dalla tasca l'orologio per confrontarli a fondo; ma certo, che stupido che era stato! Le lancette, posizionate sulle 12.10, facevano parte del disegno.
«Che cosa rappresenta?» sussurrò eccitato.
«È il simbolo di una setta nata alla fine del Seicento in Scozia» spiegò padre Rafael. Anche se usava un tono pacato, il suo volto esprimeva un totale disappunto. «La croce è una spada stilizzata, questa specie di triangolo rappresenta la fiamma, il fuoco e quindi il potere, mentre il cerchio è il simbolo della vita» illustrò, segnando man mano con il dito i vari elementi.
Edmund non riusciva a capire il senso di quello strano marchio. «Che significato ha?» domandò, cercando di mettere a tacere il suo stomaco affamato di curiosità.
Padre Rafael assunse un'espressione rassegnata. «La setta si era data il nome di “Setta degli Interventisti”: i maghi che ne facevano parte erano convinti di poter utilizzare un vincente connubio di magia, alchimia e scienza Babbana per poter, appunto, intervenire sui feti e modificare le loro capacità, con l'idea di creare una razza perfetta e superiore» cominciò a spiegare, suscitando brividi di orrore nel suo giovane ascoltatore.
«Ma non è contro la prima legge della magia di Incant?» sussurrò Edmund, ricordando la prima lezione di Filosofia della Magia. Razionalmente era disgustato da quella faccenda ma, nel profondo del suo animo, una parte di lui era eccitato dall'oscura prospettiva di poter manipolare la nascita di bambini perfetti. Era un potere al di sopra di ogni altro, era il potere della vita, che spettava solo a Dio. Padre Rafael sospirò. «In realtà no, perché gli Interventisti stavano attenti a tenersi sempre all'interno di ciò che era lecito, anche se spesso stavano sul confine».
«E che cosa successe loro?» chiese ancora Edmund, visto che il professore ne parlava al passato. Eppure lui aveva tra le mani un orologio con il loro simbolo inciso sopra.
Padre Rafael riprese a spiegare: «Il Patriarcato di Roma non vedeva di buon occhio i loro esperimenti, per quanto nulla potesse fare, fin tanto che si tenevano nel campo di ciò che è lecito. Poi, nel 1796 riuscirono a manipolare con successo il grembo di una giovane strega irlandese, che aveva venduto suo figlio per fame. Ne nacque un bambino con straordinarie doti magiche, di aspetto gradevole, senza alcuna malformazione genetica e immune praticamente a tutte le malattie. Lo chiamarono Adam, come l'Adamo biblico, perché era stato creato perfetto. L'esperimento suscitò grande interesse nell'opinione pubblica mondiale e molte donne contattarono gli Interventisti perché i loro figli nascessero sani e belli».
«Ma qualcosa andò storto, vero?» mormorò Edmund, completamente rapito da quel racconto.
Padre Rafael annuì. «Già. Adam morì a tredici anni, senza che nessuno riuscisse a capirne il motivo: semplicemente, le sue funzioni vitali si spensero, come un anziano che muore di vecchiaia. L'opinione pubblica si indignò e il Patriarcato approfittò della situazione per dichiarare eretici gli Interventisti e sciogliere quella setta che, ai suoi occhi, si era arrogata le prerogative di Dio.
«La stagione di grande splendore degli Interventisti, durata più di un secolo, morì con quel decreto, ma la setta continuò a sopravvivere clandestinamente. Si ritrovavano di nascosto e continuavano con i loro efferati esperimenti sui feti e sulla vita umana, ancora con il chiodo fisso di creare una stirpe di eletti. In questi ultimi anni, si sono pressoché spenti: pochi adepti ancora sopravvivono e l'esperienza degli Interventisti è stata dimenticata anche da coloro che si occupano di memorie storiche, perché rappresenta una pagina buia della nostra storia di maghi».
Edmund ebbe la netta sensazione che quel passato facesse in qualche modo parte del suo passato. Sovrappensiero, si rigirò l'orologio tra le mani e poi lo lasciò scivolare nuovamente in tasca. Quando tornò a guardare padre Rafael, una nuova domanda affiorò alle sue labbra: «Come hanno fatto a nascondersi alle autorità per più di un secolo?»
«Non furono mai scovati, perché avevano un metodo infallibile per far sapere agli adepti dove incontrarsi; tutti possedevano un orologio: solo il Gran Maestro poteva spostare le lancette al suo, e a sua volta esse si modificavano su quelli di tutti gli altri, grazie ad un Incantesimo Proteus. In base all'orario indicato, gli adepti sapevano in che luogo ritrovarsi. Molti esperti cercarono di decifrare il codice che sottostava a tale meccanismo, ma nessuno mai ci riuscì» gli spiegò il professore.
Edmund trattenne il fiato, poi sussurrò: «Dall'ora traevano il nome di un luogo?»
Padre Rafael annuì.
Fu allora che Edmund ne ebbe la certezza: qualcuno gli aveva inviato l'orologio d'oro del Gran Maestro. Era per quello che le lancette erano ferme a segnare sempre lo stesso orario: mezzogiorno e dieci doveva sottintendere il nome di un posto. Un posto in cui il misterioso qualcuno che glielo aveva inviato gli stava dando appuntamento.







Buongiorno a voi!
Il mistero si infittisce, il FIE è sempre più nei guai e Dedalus è sballato come pochi! Benvenuti al Trinity! ahahah!
Scherzi a parte, la battuta di Laughlin è detta a ragion veduta: abbiamo ritrovato il nostro caro vecchio Eddy, re dei misteri! E le cose cominciano a complicarsi... entro qualche capitolo prometto sconcertanti rivelazioni, e poi caos, tempi oscuri e grandi battaglie! ;)
Intanto, godetevi qualche immagine:
QUI una foto di come mi immagino la cappella del Trinity: aggiungete vecchi banchi, un altare di pietra e un po' di candele! Si tratta della cripta di san Filastrio, sotto il Duomo Vecchio della mia città (ps. non c'entra un tubo, ma cercate qualche immagine del duomo vecchio di brescia, perché è troppo bello!).
QUI, invece, l'immagine del capitolo: il foglio di Eddy e il misterioso orologio che gli è stato inviato.
Allora, chi ha qualche ipotesi sul codice segreto? Un'ora, un luogo... idee? ^^
Tanto non ci riuscirete mai a decifrarlo... mhuuahahahahah!
Ci rivediamo lunedì 12 novembre!
Buon Halloween a tutti,
Beatrix

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Capitolo 18
*** Codici segreti ***


CAPITOLO 18
Codici segreti






Laughlin rimase immobile, con la bocca semiaperta e l'aria allibita. «Ti prego, Dedalus, non in testa» lo supplicò desolato.
Il ragazzo sorrise allegro. «Perché no?» chiese, legando la fascia con un nodo sulla nuca. «È il posto più visibile, e poi mi fa sentire un po' come Rambo!» esclamò, alzandosi in piedi ed assumendo una posa da atleta greco.
Laughlin alzò gli occhi al cielo e sbuffò, ma non si prese la briga di continuare le sue recriminazioni, anche perché non aveva la più pallida idea di chi fosse questo Strambo. Dopotutto, meno aveva a che fare con quello squilibrato di Dedalus, meglio era. Non era affar suo se l'altro aveva deciso di legarsi in testa la fascia con scritto “Riddikulus”; lui l'aveva appesa alla borsa. Banale, forse, ma meno eccentrico.
«Allora ci vediamo la settimana prossima!» esclamò Mairead, quando tutto ebbero ricevuto la propria fascia. I ragazzi del FIE si salutarono, soddisfatti della nuova idea per rispondere al vandalismo dell'EIF.
Non appena gli altri se ne furono andati, Laughlin chiese ai suoi amici: «Voi che fate, adesso?»
Mairead si sistemò la borsa sulle spalle. «Avverto Saiminiu che abbiamo finito, poi ho gli allenamenti di Quidditch» rispose incamminandosi verso le scale.
«Io ho il colloquio di orientamento con il professor Ballerinus» spiegò invece Edmund. «E poi vado in biblioteca».
«Che noia!» sbuffò Laughlin, stufo di essere abbandonato dai suoi amici.
«Dovresti andarci anche tu in biblioteca, con la P.R.O.B.A.T.I.O. che si avvicina» gli rispose acido Edmund, anche se lui vi si recava perché aveva bisogno di fare le ricerche per decifrare il codice dell'orologio, più che per prepararsi agli esami finali.
«Siamo a marzo!» gli ricordò Laughlin, esasperato. «Ci sono secoli prima della P.R.O.B.A.T.I.O.!»
«A te che ha detto la professoressa O'Connel?» gli chiese invece Mairead, per interrompere la discussione tra i suoi amici prima che degenerasse. Tutti i ragazzi del Quinto anno dovevano sostenere un colloquio di orientamento con il direttore della propria casa per scegliere le materie avanzate dell'ultimo anno e poi ipotizzare una carriera post-scolastica.
Laughlin finse uno sbadiglio annoiato. «Niente che non sapessi già» commentò. «Mi ha detto che sono ambizioso e orgoglioso e che dovrei tentare una carriera al Ministero».
«E tu che le hai detto?» chiese l'amica.
Laughlin si strinse nelle spalle. «Che l'unica materia che desta più o meno il mio interesse è Cura delle Creature Magiche, quindi potrei tentare di entrare nell'Ufficio Controllo Creature Magiche, facente parte del Dipartimento della Segretezza Magica» rispose, come se avesse già programmato tutto il suo futuro.
«E tu, Mairead?» intervenne Edmund.
«Io non so bene che cosa farò dopo il Tinity» replicò la ragazza, con una scrollata di spalle. «Però con il professor Ballerinus ho scelto le materie avanzate in base a quelle che mi ispiravano di più».
«Io vedrò» fu il commento finale di Edmund: anche a lui il suo futuro appariva piuttosto nebuloso.
Quando arrivò all'ufficio del professor Ballerinus, l'uomo lo fece accomodare sulla sedia davanti alla scrivania.
«Allora, Edmund, qualche idea per il tuo futuro?» gli domandò l'insegnante, con un sorriso d'incoraggiamento.
«Ehm...» borbottò il ragazzo, incerto. In realtà, l'unica cosa che avrebbe voluto fare dopo il Trinity sarebbe stato studiare ancora. Possibile che non esistesse qualcosa di simile all'università Babbana anche nel mondo magico?
«Nulla che ti piacerebbe fare?» lo incoraggiò il professore.
«Studiare?» propose titubante Edmund.
Ballerinus scoppiò allegramente a ridere.
«Non esistono delle scuole di alta formazione?» domandò speranzoso il ragazzo.
«Certo» asserì il professore. «Ma è comunque strano che un giovanotto mi chieda di studiare ancora» spiegò; dopodiché si alzò dalla scrivania per prendere alcune brochure informative. «Esistono le Scuole di Praticantato, una per ogni nazione, che durano quattro anni e sono accompagnate da numerosi tirocini pratici. Si tratta della Scuola di Legge Magica, dell'Accademia Auror e della Scuola dei Guaritori. Ovviamente le scegli solo se sei interessato alla professione a cui abilitano» spiegò l'insegnante, indicandogli alcuni opuscoli.
Edmund scosse la testa: Magiavvocato, Tiratore Scelto o Auror e Guaritore non erano carriere di suo interesse.
«Altrimenti ci sono le Scuole di Specializzazione, che durano tre anni e riguardano uno specifico settore teorico. C'è l'Accademia delle Belle Arti di Firenze, la Scuola Superiore di Studi Latini di Roma, l'Accademia di Scienze Politiche di Parigi, la Scuola di Astronomia di Greenwich, la Scuola di Studi Storici di Monaco di Baviera, l'Accademia Magica di Arte Drammatica di Barcellona, l'Accademia di Filosofia di Lipsia e il Dottorato in Teologia di Roma» spiegò ancora il professor Ballerinus, mettendogli sotto il naso una brochure per ogni scola che nominava.
Alcune di quelle erano interessanti, ma a Edmund pareva che fossero troppo specializzate su un unico settore.
«Infine» continuò l'insegnante. «Esistono al mondo solo due Scuole d'Ateneo, che rappresentano l'eccellenza della formazione teorica e filosofica. Dopo i primi due anni di studio di ogni aspetto della magia, si sceglie una delle quattro materie principali in cui specializzarsi: Trasfigurazione, Incantesimi, Pozioni e Arti Oscure».
Immediatamente Edmund capì che quello era ciò che avrebbe voluto fare. Trasfigurazione, oppure anche Arti Oscure. Gli si illuminarono gli occhi. «E queste scuole dove si trovano?» domandò eccitato.
«La Kaiserliche Akademie der Zauberei -l'accademia imperiale di magia- si trova in Germania e qui, per facilitare l'ingresso dei migliori studenti di tutto il mondo, le lezioni si tengono in latino. L'altra si trova in America e si chiama Massachussets Istitute of Magic, abbreviato in M.I.M.» rispose il professore.
Edmund, ormai convinto che lui avrebbe dovuto frequentare la K.A.Z., concluse il colloquio di orientamento scegliendo insieme al professore le materie propedeutiche ad affrontare prima il test d'ingresso dell'accademia e poi gli studi stessi.
Se ne uscì dallo studio estremamente soddisfatto, ma dopo l'eccitazione iniziale realizzò che la K.A.Z. era l'ultimo dei suoi problemi, in quel momento. Ormai scoprire il codice segreto degli Interventisti era diventato il suo chiodo fisso, non solo perché era si intestardito a voler risolvere qualsiasi mistero, come insinuava Mairead, ma soprattutto perché era convinto che chiunque gli avesse inviato quell'orologio il giorno del suo diciassettesimo compleanno gli stesse dando appuntamento nel luogo indicato dalle lancette. Il guaio era che stavano raggiungendo la metà del mese di marzo, per cui erano passati ben due mesi dal suo compleanno. E se la persona che lo stava aspettando avesse desistito?
Doveva risolvere in fretta quel rebus fatto di lancette e codici segreti.
Pensò che il modo migliore per tentare di scoprire il meccanismo, fosse quello di documentarsi meglio sulla setta in questione. Purtroppo, proprio come gli aveva accennato padre Rafael, gli Interventisti rappresentavano un punto oscuro della storia, che era stato condannato ad una sorta di damnatio memoriae, quasi come se ci si vergognasse di aver assecondato una setta all'apparenza così invitante ma potenzialmente così pericolosa. Dopotutto, chi non avrebbe voluto il potere di controllare le nascite e creare una stirpe superiore? E chi, dopo aver assistito al misero fallimento del sogno Interventista, avrebbe ammesso di essere stato un suo fervente sostenitore?
Tutto ciò che trovò in biblioteca furono un paio di libri striminziti, uno dedicato al cosiddetto credo degli Interventisti, l'altro invece prodotto dall'opposizione, se così si poteva chiamare, che gettava scredito sul lavoro di quei maghi eretici.
Edmund non trovò alcuna indicazione interessante per avere un punto di partenza da cui decifrare il codice, se non qualche sporadica notizia a proposito di idee tipicamente legate alla setta. Per esempio, il fatto che il loro credo fosse basato su una sorta di triade, in netta opposizione alla trinità, secondo l'infervorato autore del libro Interventisti: eretici che si credono meglio di Dio, che prevedeva Magia, Alchimia e Scienza. Era proprio attraverso il connubio di queste tre arti che questi maghi si prefiggevano l'obiettivo di migliorare la specie.
Tuttavia, il principale obiettivo di Edmund era quello di decifrare il codice, per cui fu in tale impresa che investì ogni sua energia. La prima e più banale idea che gli venne in mente fu che i due numeri indicassero le coordinate di un luogo, così si recò in biblioteca a prendere un atlante geografico. Scoprì, in realtà, che la geografia dei maghi era molto approssimativa, perché le uniche mappe che trovò tra gli scaffali della biblioteca furono vecchie pergamene risalenti al XVIII-XIX secolo, in cui il profilo dei continenti era molto poco realistico. Fu parecchio difficile utilizzare le coordinate per individuare punti sul planisfero; inoltre, provò tutte le otto combinazioni tra i due numeri (12° nord, 10° est; 12° nord, 10° ovest; eccetera), ma ogni volta si ritrovava o in mezzo al golfo di Guinea o in un punto non meglio precisato dell'Africa. Un buco nell'acqua, nel vero senso della parola.
In realtà, non ci sperava davvero nemmeno lui: l'idea che i numeri indicassero delle coordinate era fin troppo banale, tanto più che gli Interventisti non sembravano affatto degli sciocchi.
Immaginò allora che i due numeri potessero intendere delle lettere, ma non sapeva attraverso quale sistema di riferimento potesse scioglierle. Cercò in biblioteca numerosi volumi che parlassero di codici segreti, per quanto fosse conscio che non si trattava di un argomento che avrebbe trovato facilmente in una biblioteca scolastica. Infatti, non riuscì ad individuare nessun testo che gli potesse essere realmente utile.
Tentò allora di improvvisarsi crittografo, ma qualsiasi idea gli venisse in mente si rivelava sbagliata: gli risultarono parole insensate come “bcba” o “Vuvz”, oppure luoghi troppo vaghi come “Ceca”. Certo, “Ceca” poteva significare la Repubblica Ceca, ma quale luogo preciso? E poi, oggettivamente, gli Interventisti si sarebbero radunati solo in posti formati al massimo da quattro lettere?
Provò a rileggere daccapo i due libri sulla setta che aveva preso in prestito, alla ricerca di qualche indizio su come decifrare il codice, ma non trovò nulla. Forse era davvero un oceano troppo grande: continuare a nuotare l'avrebbe solo portato ad affogare.
«Edmund, non per sminuire la tua intelligenza, ma è un codice impossibile!» gli disse Mairead, una sera di metà marzo. Era tornata tardi dall'allenamento di Quidditch (si stavano preparando all'ultima partita della stagione, Raloi contro Llapac, dopo che questi ultimi avevano ricevuto una sonora sconfitta dai Nagard), quando l'aveva trovato in Sala Comune, addormentato con la testa su un pesante volume della biblioteca.
Edmund si stropicciò gli occhi gonfi di sonno e represse uno sbadiglio. Non si era nemmeno reso conto che ormai la Sala Comune era deserta. «Devo decifrarlo, Mairead» biascicò, ancora assonnato.
La sua amica gli diede una botta in testa con il manico della sua Nimbus, nel tentativo di farlo rinsavire.
«Ahi!» si lamentò il ragazzo massaggiandosi il punto colpito.
«Edmund!» lo richiamò invece all'ordine Mairead. «Non puoi spendere tutto il tuo tempo libero dietro a questa storia! Che magari non c'è nemmeno un codice!»
Il ragazzo fece per dire qualcosa ma si bloccò all'improvviso con la bocca semiaperta. «Cosa... cosa hai detto?» mormorò estasiato.
«Io?» chiese Mairead, spaesata dall'improvviso cambio di umore dell'amico.
«Non c'è nessun codice...» sussurrò Edmund, colto da un'illuminazione. «Ma certo, Mairead! Non c'è nessun codice!»
La ragazzina lo guardò con scarsa convinzione. «Va bene, Edmund» lo tranquillizzò con accondiscendenza. Dopodiché si avviò verso le scale a chiocciola che portavano verso i dormitori femminili. «Io vado a dormire, Ed. Quando l'avrai piantata con questa fissazione assurda, mandami un gufo» lo salutò con uno sbadiglio, ma il ragazzo nemmeno se ne accorse, preso com'era dalla sua nuova intuizione.
L'idea che gli era venuta in mente consisteva in un principio molto semplice: non si riusciva a vedere la chiave di lettura del codice, perché questa era nascosta da un incantesimo. Estrasse la bacchetta e sussurrò: «Apparecium».
Non accadde nulla.
«Finitus incantatem» riprovò.
Niente nemmeno questa volta.
Tentò con tutti gli incantesimi che gli vennero in mente, ma non ci fu nulla da fare: l'orologio non si modificò di una virgola. Colto da un improvviso spasimo di frustrazione, Edmund lanciò un grido e scagliò la cipolla contro il muro. Dopodiché si lasciò cadere su una delle poltroncine verdi della Sala Comune.
Non seppe per quanto tempo restò lì immobile -probabile, anzi, che si fosse addormentato- ma quando riaprì gli occhi e posò lo sguardo sull'orologio, vide che era praticamente intatto. Con uno sbuffo rassegnato, si alzò dalla poltrona per andare a recuperarlo da terra. Lo osservò attentamente, cercando di trovare eventuali graffi o ammaccature, ma non ne trovò: era chiaro che l'apparecchio era protetto dagli urti attraverso qualche incantesimo.
Fu grazie a quell'attenta analisi che Edmund notò una cosa a cui prima non aveva mai badato: c'era anche la lancetta dei secondi. Questo significava che... i numeri non erano due, ma tre!
Il preciso orario indicato dalle lancette era mezzogiorno e dieci e ventidue secondi. Dodici, dieci e ventidue. Doveva rivedere tutto! Nonostante la stanchezza, quella scoperta diede a Edmund nuove energie per continuare a lavorare. Passò tutta la notte in bianco, tentando di decifrare il nuovo codice a tre numeri.
Non ci fu verso da cavarne una sola parola sensata.
La mattina dopo si recò alla prima lezione della giornata, Artimanzia, talmente sconsolato, abbattuto e assonnato da sembrare un morto vivente. Passò tutta l'ora con la testa appoggiata sul banco, a prendere vaghi appunti su quanto stava dicendo la professoressa Sidera O'Elan.
Fu solo quando ormai era finita la lezione e Edmund si stava apprestando a mettere tutta la sua roba in borsa che venne colpito da un'illuminazione: tre numeri del codice segreto, come i tre numeri che caratterizzavano l'Artimanzia, il numero del carattere, il numero del cuore e il numero sociale. Perché diavolo non ci aveva pensato prima? Poteva utilizzare la formula inversa, che avevano imparato all'inizio dell'anno, per ricavare dai tre numeri il nome a cui si riverivano.
Tutto preso da quella nuova idea, si dimenticò completamente della lezione successiva, Pozioni, e si rintanò in biblioteca per sperimentare quella teoria. Tuttavia, il primo tentativo fu un altro fallimento. Pensò allora che i tre numeri potessero non corrispondere in fila al numero del carattere, del cuore e sociale: provò tutte le sei combinazioni possibili, ma non riuscì mai a ricavare una parola di senso compiuto.
Ormai distrutto, stanco e sfiduciato, temette che Mairead avesse avuto ragione: forse lui non era in grado di decifrare quel codice. Come ultimo, disperato tentativo, decise di chiedere alla professoressa O'Elan se esistesse un altro modo di ricavare il nome dai tre numeri dell'Artimanzia.
Si trascinò fino allo studio dell'insegnante che era ormai ora di pranzo.
«Avanti, Edmund, accomodati» lo invitò la professoressa. Chissà perché, tutti i docenti del Trinity erano sempre molto gentili con lui, sebbene non facesse altro che importunarli con domande e richieste. Forse a loro faceva piacere il suo interessamento alla loro materia. Edmund si sedette sulla sedia davanti alla scrivania della professoressa e se ne uscì con un diretto: «Esiste un modo per decifrare codici?»
La donna lo guardò un po' sorpresa, poi si lasciò sfuggire un sorriso.
Edmund allora si accorse di aver posto una domanda tanto generica da suonare quasi assurda e si affrettò a rimediare: «Mi scusi, volevo dire... se io ho tre numeri e da questi tre numeri devo ricavare un nome, come posso fare?»
Ora che la sua richiesta aveva un senso più specifico, l'insegnante si affrettò a rispondere: «Con la formula inversa che abbiamo imparato all'inizio dell'anno».
Edmund scosse la testa. «Non funziona» mormorò affranto. «Io mi chiedo: esiste un altro modo per ricavare un nome da tre numeri?»
La professoressa O'Elan sorrise complice. «Forse ho qualcosa per te» gli disse, alzandosi dalla scrivania e dirigendosi verso la libreria che aveva alle spalle, da dove scelse un paio di libri dalla copertina scura. Non avevano niente a che fare con i vecchi e pesanti volumi della biblioteca scolastica: erano banali, rilegati in cartone, e sembravano quasi libri Babbani.
In effetti, quando la professoressa li passò a Edmund, il ragazzo notò che la foto sulla copertina era immobile: rappresentava un giovane uomo con i capelli rigidamente pettinati di lato, le orecchie un po' a sventola e il volto rettangolare.
«Alan Turing» lo presentò la professoressa. «Il più grande crittografo dell'epoca moderna».
«È Babbano» commentò Edmund, stupito dal trovarsi tra le mani un libro Babbano in un posto come il Trinity, che lui considerava praticamente un tempio della magia.
La professoressa si concesse un sorriso. «Sì, ma le menti geniali non hanno nazione né razza. Non dovremmo affatto disprezzare i Babbani: sanno supplire alla mancanza di magia in modo davvero eccellente».
«Io sono cresciuto tra i Babbani» si affrettò a dire Edmund, temendo di essere apparso indelicato.
«Allora avrai sentito parlare di quella macchina che i Babbani chiamano computer» commentò la O'Elan, e più che una domanda sembrava un'affermazione.
In effetti, Edmund ne aveva visto uno qualche anno fa, alla biblioteca comunale di Dublino, di cui aveva la tessera praticamente da anni. Non si era mai interessato troppo di informatica, ma era cresciuto tra Babbani, quindi aveva una sufficiente dimestichezza con la tecnologia da capire quello che diceva l'insegnante.
«Il computer è tutto basato su un meccanismo binario» spiegò la professoressa O'Elan.
«Binario?» domandò Edmund, perplesso.
L'insegnante gli indicò il secondo libro, anch'esso Babbano, che aveva sulla copertina degli strani simboli matematici. «Leggilo, sono sicura che ti può interessare: parla della matematica negli stati più avanzati, quando diventa pura speculazione e si avvicina alla filosofia. Magari puoi saltare le parti più difficili, ma alcuni capitoli sono davvero interessanti» gli spiegò, mentre il ragazzo sbirciava l'indice: la proporzione aurea, teorie pitagoriche, la base binaria e ternaria erano solo alcuni dei titoli dei capitoletti.
«E Alan Turing che c'entra?» chiese ancora Edmund, notando che il primo libro era praticamente una biografia del personaggio.
La professoressa O'Elan sorrise. «Turing è considerato il padre dell'informatica. Durante la Seconda Guerra Mondiale Babbana, inventò una serie di macchine molto interessanti; passò la vita a decifrare codici e a crearne di nuovi sempre più complessi» spiegò.
«Decifrazione e creazione di codici...» ripeté Edmund in un sussurro, completamente estasiato.
La professoressa gli rivolse un sorriso sincero. «Alla fine, è lo stesso concetto di chi studia Artimanzia: basare tutto sull'idea che il mondo sia un grande libro aperto, scritto in un codice che si può decifrare solo con linguaggi matematici».







Buongiorno a voi!
Edmund le ha provate proprio tutte, ah? Ma adesso ha avuto una bella imboccata dalla professoressa O'Elan. Qualcuno ha qualche idea? Alan Turing è sì un Babbano, ma chi meglio di lui potrebbe aiutare il nostro protagonista a risolvere il dilemma del codice? QUI l'immagine che c'è sulla copertina della sua biografia, QUI la pagina di Wikipedia a lui dedicata. Ah, la storia è ambientata nel 1996, quindi immaginate che computer potrebbe aver visto Eddy in biblioteca a Dublino! ;)
QUI, invece, il planisfero che Ed trova in biblioteca al Trinity e su cui legge le coordinate. I maghi sono un po' indietro con la geografia, poveri... anche perché a scuola elementare non ci vanno e a Hogwarts/Trinity non gliela insegna nessuno! ^^
QUI passiamo a cose più allegre: l'immagine del capitolo, ovvero la scena di Dedalus con la fascia in testa e la scena di Mairead e Edmund in Sala Comune, entrambe in versione fumetto!
Infine, spero che vi sia piaciuto il piccolo excursus sulle scuole post-D.I.M.I.S.S.I.O.; insomma, mi sembrava assurdo che la formzione dei maghi terminasse a 18 anni e tanti saluti. Va be' che i maghi sembrano essere rimasti al Medioevo in certe cose ma, se vogliamo essere precisi, le prime università nascono proprio nel Medioevo, quindi non hanno scuse!
Per completezza, infine, vi metto qui le materie scelte dai tre protagonisti; non volevo appesantire la lettura con questi elenchi, ma mi sembra carino che sappiate cos'hanno scelto.
Edmund: Latino e Irlandese Applicati, Difesa contro la Magia Oscura, Incantesimi Avanzati, Magicologia Irlandese Ulterior, Trasfigurazione Avanzata, Artimanzia Avanzata, Epigrafia di Antiche Rune e Pozioni Avanzate (oltre a continuare Filosofia della Magia).
Laughlin: Difesa contro la Magia Oscura, Difesa contro le Creature Oscure, Magicologia Irlandese Ulterior, Addestramento delle Creature Magiche, Incantesimi Avanzati, Trasfigurazione Avanzata, Pozioni Avanzate.
Mairead: Storia della Politica Magica, Storia Sociale ed Economica, Difesa contro la Magia Oscura, Difesa contro le Creature Oscure, Magicologia Irlandese Ulterior, Trasfigurazione Avanzata, Incantesimi Avanzati.
Grazie a tutti!
Ci rivediamo lunedì 26 novembre!
A presto,
Beatrix

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Capitolo 19
*** Il laboratorio di Lerwick ***


CAPITOLO 19
Il laboratorio di Lerwick






Mairead guardò il cugino con accondiscendenza. «Che cosa hai fatto, Faonteroy?»
«Io... nulla, giuro!» singhiozzò il ragazzino, affondando la faccia nel suo fazzoletto di seta con ricamate le iniziali.
«Se la O'Connel ti ha messo in punizione, qualcosa devi aver fatto» commentò Edmund con un ghigno, lui che invece era sempre stato piuttosto fiero della sua fedina penale da teppista.
Mairead lo fulminò con lo sguardo. Non sei d'aiuto dicevano i suoi occhi verdi.
Edmund scrollò le spalle e si astenne dall'intervenire ancora.
«Che cosa è successo?» chiese di nuovo Mairead, con un cenno d'incoraggiamento rivolto al cugino in lacrime.
«Non mi eleggeranno mai in Parlamento con la carriera scolastica macchiata da una punizione!» ululò Faonteroy.
Laughlin lanciò uno sguardo allarmato all'amica. «Sta scherzando, vero?» le sussurrò all'orecchio, non del tutto convinto della sanità mentale del giovane O'Brian.
Tutto ciò che sapevano sulla vicenda si limitava a questo: Faonteroy era stato messo in punizione insieme alla Diablaiocht per aver inscenato un duello in mezzo al corridoio. Il che non era molto, se volevano tentare di aiutarlo. Inoltre, era più probabile che la pioggia salisse dalla terra al cielo, piuttosto che Faonteroy O'Brian attaccasse briga fuori dalle aule.
«Cugino, perché non ci racconti per bene quello che è accaduto?» tentò nuovamente Mairead, in tono dolce e incoraggiante.
Faonteroy tirò su con il naso, poi prese a raccontare: «Sono uscito dalla biblioteca e ho incontrato la Diablaiocht. Allora ho toccato la mia fascia con scritto Riddikulus e mi sono messo a ridere, ma lei non l'ha presa per niente bene, oh no! Mi ha detto che era stufa di questa pantomima, che stavo infangando il buon nome dei Nagard e della mia famiglia nel fare comunella con voi traditori del vostro sangue, e poi ha tirato fuori la bacchetta». Dopodiché il suo tono si fece improvvisamente duro: «Nessuno insulta e minaccia un O'Brian a quel modo senza subire le dovute conseguenze! Allora ho tirato fuori anch'io la mia bacchetta... solo che dalla biblioteca è uscita anche la professoressa O'Connel che si è arrabbiata e ci ha messi in punizione entrambi».
Mairead, Laughlin e Edmund si scambiarono un'occhiata. Laughlin sbuffò, ma alla fine si lasciò convincere dalle occhiate insistenti dell'amica. «Andrò a parlare io con la professoressa O'Connel e vedrai che sistemeremo tutto» gli promise con un sospiro.
In realtà non ci fu verso di convincere l'anziana e rigida insegnante a cancellare la punizione di Faonteroy, però accettò di ascoltare la sua versione dei fatti e di parlare con lui per fargli capire che non sarebbe stato quel piccolo incidente a stroncare la sua carriera politica.
L'idea della fascia con scritto Riddikulus si stava rivelando un ottimo modo per dimostrare all'EIF che non avevano paura di loro, ma quando ormai i ragazzi del FIE erano certi di aver in tasca quella vittoria, arrivò qualcos'altro a stroncare le loro speranze: un sabato mattina di fine marzo Dominique aprì la riunione dicendo che il Dipartimento dell'Istruzione aveva emanato un decreto per sciogliere tutti i gruppi studenteschi.
«Che cosa?» strillò indignata Era.
«È uno scandalo!»
«Un'ingiustizia!»
«Inammissibile!»
Seguirono una serie di improperi rivolti al Governo, un vociferare convulso, qualche maledizione sussurrata a mezza voce, finché Edmund non comparve sulla porta dell'aula ed esclamò: «È logico».
«Come, scusa?» lo aggredì Era.
Edmund si avvicinò in tutta calma e si sedette al tavolo. «È logico» ripeté. «Il Governo non può accettare che ci siano divisioni in un momento come questo e, con la scusa che alcuni gruppi studenteschi si stanno praticamente muovendo guerra all'interno del Trinity, giustifica la sua pesante interferenza nella sfera della scuola».
«Stai dicendo che è colpa delle nostre risposte alle aggressioni che riceviamo se il Governo scioglie i gruppi?» indagò indignata Lily. «No» rispose tranquillo Edmund. «Sto dicendo che noi non potevamo agire altrimenti, ma nemmeno il Governo poteva ignorare quello che sta accadendo tra le mura del Trinity».
«Il FIE è morto» sussurrò sommessamente Henry. «Non possiamo metterci contro il Governo».
Un brusio disilluso attraversò l'aula: Henry aveva ragione, non potevano andare contro un decreto del Governo.
«Va bene!» gridò Mairead, per sovrastare le voci. Si alzò dal tavolo e richiamò l'attenzione su di sé. «Va bene, ci avranno tolto le riunioni, bloccato le nostre iniziative, impedito di chiamarci FIE... ma non ci hanno annientati! Né esiste alcun regolamento scolastico o governativo che ci impedisca di portare addosso dei simboli».
«Portare addosso dei simboli?» chiese Gordon, senza capire il discorso.
«Un giglio» rispose Lily con un sorriso furbo, dal momento che aveva colto dove Mairead volesse andare a parare.
«Di stoffa, cucito sulla borsa o sulla giacca!» intuì Dedalus, eccitato. «Me ne occuperò io!»
Si trattava senza dubbio di una ben misera rivincita, ma serviva a dimostrare che i ragazzi non si davano per vinti. Si misero d'accordo che Dedalus avrebbe preparato i gigli per tutti e poi si salutarono, incredibilmente speranzosi nonostante la situazione.
Quando tutti furono usciti dall'aula, Edmund si avvicinò ai suoi amici con un sorriso eccitato stampato sulle labbra: sembrava che non vedesse l'ora di dire loro qualcosa.
«Che c'è, Eddy?» domandò Laughlin, sicuro che fosse proprio la richiesta che l'amico volesse sentirsi rivolgere.
«HO DECIFRATO IL CODICE!» annunciò estasiato, gli occhi che brillavano per l'euforia. Estrasse dalla borsa un paio di libri Babbani e una serie infinita di foglietti e pergamene scarabocchiate. «Non è stato poi così difficile» annunciò loro, spargendo la sua roba sul tavolo. Mairead evitò di fargli notare che ci aveva messo più di un mese e che per buona parte del tempo fosse stato chiuso in biblioteca a frugare tra enormi volumi, lagnandosi di quanto fosse complicato. «Come hai fatto?» gli chiese invece, cercando di mostrarsi interessata.
Edmund mostrò uno dei due libri Babbani e prese a spiegare: «Dopo aver letto quello che mi ha consigliato la professoressa O'Elan, ho immaginato che i tre numeri fossero scritti in una base diversa dalla base 10. Noi contiamo in base 10, sapete?»
Mairead e Laughlin si scambiarono un'occhiata perplessa. «Va' avanti» gli ordinò Laughlin con uno sbuffo.
«Be', esistono tantissimi altri modi per contare» spiegò comunque Edmund, poi riprese tutto d'un fiato: «Sono partito dal sistema binario perché era quello su cui Turing aveva ideato la sua macchina, ma ho scartato subito quest'ipotesi perché il binario ha solo i numeri 0 e 1, mentre i miei tre numeri erano 12, 10 e 22. Allora ho provato con la base sette, perché sette è il numero magico più potente, ma non funzionava neanche così. Perciò ho pensato al credo Interventista, che si basa sulla triade Magia, Alchimia e Scienza e ho trasformato i numeri in base tre, ottenendo 5, 3 e 8. Ho usato la formula inversa dell'Artimanzia, ma per un momento mi sono sentito spaesato perché non funzionava. Ma non mi sono perso d'animo! Ho provato ad invertire i numeri e ho scoperto che erano al contrario: 8 era il numero del carattere, 3 il numero del cuore e 5 il numero sociale. Così ho applicato la formula e mi è venuto fuori un luogo preciso!»
Calò un silenzio imbarazzato dopo quella lunga spiegazione, perché né Laughlin né Mairead erano riusciti a capire di cosa avesse parlato il loro amico.
«E quale sarebbe questo luogo?» domandò infine Laughlin, piuttosto scettico.
Edmund prese un lungo respiro e annunciò: «Lerwick, capitale delle isole Shetland!»
«Wow» commentò Laughlin in tono piatto. «E quindi?»
«E quindi ci andiamo immediatamente, razza di troll!» gli rispose Edmund, frustrato dallo scarso entusiasmo mostrato dai suoi amici per la sua scoperta.
«Perché cavolo dovremmo andarci?» replicò indispettito Laughlin che, tra l'altro, non aveva la più pallida idea di dove fossero le isole Shetland.
«Perché chiunque mi abbia mandato l'orologio mi sta dando appuntamento nel covo segreto degli Interventisti!» spiegò Edmund, come se avesse davanti un bambino di pochi anni.
«Ed, ci saranno almeno centocinquanta chilometri tra qui e le isole Shetland!» protestò Mairead che, avendo frequentato la scuola elementare Babbana, di geografia ne sapeva un pochino di più rispetto ai suoi coetanei maghi. «Come diavolo pensi di arrivarci?»
Il ragazzo sfoderò il suo più terribile sorriso beffardo, quello che di solito portava guai. «Chi ha passato a febbraio l'Esame di Materializzazione?» domandò retorico.
Laughlin gli piantò gli occhi addosso. «Spero tu stia scherzando» scandì con durezza.
Edmund gli rispose con un sorriso. «Prendi su il mantello di lana» gli raccomandò. «Fa freddo nelle isole Shetland».

«Che maledetto freddo fa in questo postaccio?» si lagnò Laughlin, stringendosi nel mantello. La temperatura doveva rasentare gli zero gradi, sebbene fosse fine marzo. Avevano usato il passaggio segreto che conduceva fuori dal Trinity, poi con una Materializzazione congiunta Edmund li aveva trasportati su una piccola altura vicino a Lerwick, nelle isole Shetland, un maledetto sputo di arcipelago a nord della Scozia. «Che luogo infame!» borbottò immusonito, reso ancora più acido dal fatto di aver appena vomitato per la sua prima Materializzazione.
«Che pensavi, che avrebbero costruito un covo segreto alle Maldive?» lo rimbeccò Mairead, scoprendo la bocca dallo spesso strato di sciarpa che si era avvolta intorno al viso.
«E ora?» chiese Laughlin, ignorando totalmente il commento acido di Mairead.
Edmund indicò con un cenno del capo la cittadina che si estendeva sotto il loro sguardo. «Cerchiamo qualche indizio sugli Interventisti» disse in tono solenne.
Laughlin si limitò ad una smorfia. «Scommetto che ci hanno lasciato un grosso cartello con scritto “covo segreto da questa parte”» ironizzò. «Oppure c'è una bella scia di scintille rosse luminose che ci indica la strada».
«La pianti?» gli intimò Mairead, lanciandogli un'occhiataccia.
Laughlin si strinse nelle spalle, per niente intimorito. «Stavo solo facendo notare che il tipo che ha dato appuntamento a Ed poteva lasciarci indicazioni un po' più precise» replicò pacato, usando quel tono pratico che era caratteristico di Dominique.
«Non poteva» rispose invece Edmund, perso a scrutare la cittadina che si estendeva sotto i loro occhi. «Perché voleva essere certo che io e soltanto io trovassi il covo segreto».
«Geniale» borbottò Laughlin. E c'era da giurare che poco c'entrasse il freddo con il tono glaciale che utilizzò.
Ci impiegarono quasi un'ora a scendere lungo il pendio della collina e raggiungere il centro di Lerwick, passando per la grande zona del porto. In realtà, per essere la capitale delle Isole Shetland, Lerwick non era niente di più che una tipica cittadina dei paesi nordici, con le casette colorate dai tetti a punta e piccole piazze circondate da pub e pescivendoli.
Tutti gli abitanti che incontrarono, affaccendati nei loro mestieri quotidiani, erano inequivocabilmente Babbani.
«E ora che facciamo?» domandò Laughlin piuttosto perplesso, non appena arrivarono a quella che pareva essere la piazza più importante del centro città: aveva un lampione al centro, da cui partivano dei festoni colorati, rimasuglio di chissà quale festività cittadina. Edmund cominciò a guardarsi in giro con aria nervosa. Era stato uno sbaglio venire a Lerwick: che cosa sperava di trovare? Laughlin aveva ragione nell'insinuare che, chiunque gli avesse mandato quell'orologio, avrebbe dovuto allegare delle indicazioni più precise su come trovarlo.
Era perso in quei pensieri, quando un urlo alle loro spalle li fece trasalire.
«Ragazzo dagli occhi azzurri!» gridò la voce roca, costringendoli a voltarsi indietro. «Ragazzo dagli occhi azzurri!»
Un uomo caracollava nella loro direzione: aveva tutta l'aria di essere un barbone, per via del pastrano marrone consunto e rovinato che indossava e per quella sua aria sfatta di chi vive per strada e dorme sotto un cartone. Aveva lo sguardo appannato e un po' folle.
Edmund si irrigidì nel vederlo avanzare verso di loro, soprattutto quando quello ripeté l'assurda cantilena sul ragazzo dagli occhi azzurri; ma solamente quando il barbone fu abbastanza vicino, fu chiaro che i suoi occhi non erano vitrei a causa dell'alcol.
«È sotto Imperio» sussurrò Mairead all'orecchio di Edmund, come se fosse davvero necessario farlo notare.
Edmund sfoderò lentamente la bacchetta, pronto a scagliare un qualsiasi incantesimo nel caso in cui l'uomo l'avesse attaccato. Ma quello si limitò ad osservarlo come se lo stesse adorando, come se lui fosse una qualche divinità di cui non aspettava altro che la rivelazione; dopodiché cominciò a fargli una serie di segni concitati per indicargli di seguirlo.
«Non credo sia il caso di fidarci: sembra proprio una trappola» borbottò Laughlin, piuttosto perplesso. Anche la sua mano serpeggiò in direzione della bacchetta, sebbene paresse che il barbone non fosse armato.
Edmund prese un lungo respiro. «Non abbiamo altra scelta» mormorò infine, e con quelle parole prese a seguire l'uomo.
Camminarono per più di un'ora, attraverso le strette viuzze di Lerwick, in direzione sud, verso la grande baia racchiusa in un abbraccio da due lingue di terra. Camminarono tanto a lungo che uscirono dalla zona abitata, per ritrovarsi in mezzo a pascoli e prati umidi di pioggia. Fu un viaggio silenzioso, interrotto solamente da striduli e cantilenanti “Vieni, vieni” e “Segui, segui” ripetuti a intervalli regolari dal barbone.
Edmund teneva sempre la bacchetta stretta in mano, pronto a intervenire in caso di pericolo. In realtà, però, la sua ansia era data più dalla sensazione di essere ad un passo dallo scoprire qualcosa di fondamentale per la sua vita, che dal senso di allarme.
Dopo un tempo incalcolabile, il barbone si fermò in un prato verde poco distante da una bassa scogliera, che non aveva proprio nulla di diverso dalla miriade di campi che avevano attraversato fino a quel momento.
«Tieni, tieni, ragazzo dagli occhi azzurri!» esclamò l'uomo, porgendo a Edmund un vecchio foglio di pergamena tutto strapazzato.
Il ragazzo lo aprì con cautela. Una grafia precisa e spigolosa aveva scritto: Il laboratorio segreto degli Interventisti si può trovare sulla scogliera a sud di Lerwick.
Laughlin sbirciò il foglio da sopra la sua spalla. «Cosa...?» cominciò a dire, ma si interruppe perché, nel momento stesso in cui Edmund lesse il messaggio ad alta voce, il terreno cominciò a tremare.
I ragazzi retrocessero di qualche passo, spaventati, mentre una casetta dal tetto di paglia sbucava dall'erba come un germoglio in primavera.
«Che cosa diavolo sarebbe?» scandì Laughlin, lanciando uno sguardo allucinato ai suoi amici.
Prima che qualcuno potesse rispondere, il barbone cacciò un urlo acuto e poi, ormai portato a termine il compito per il quale era stato messo sotto Imperio, scappò via come un indemoniato.
I tre ragazzi lo osservarono mentre si allontanava, finché Edmund non richiamò l'attenzione di tutti verso la casa che era comparsa dal terreno. «Credo che dovremmo entrare» disse con un tono perentorio.
Laughlin scrollò le spalle. «A me sa tanto di trappola, ma ormai siamo giunti fin qui...» sospirò, arrogandosi la pretesa di essere la mente razionale del gruppo.
«Entriamo» decretò invece Mairead, sguainando la bacchetta.
Quando socchiusero la porta d'ingresso, capirono subito che quel luogo era abbandonato da tempo: un tanfo di umido e chiuso li aggredì non appena misero piede nell'ampia stanza di ingresso. «Lumus» sussurrò Edmund, subito imitato dai suoi amici. Ciò che videro confermò i loro sospetti sullo stato di abbandono del luogo: polvere dappertutto e ragnatele enormi. Edmund alzò la bacchetta nel tentativo di illuminare tutta la stanza: era un salone su cui si aprivano tre porte, con al centro un tavolaccio di legno con degli sgabelli malandati, una libreria sul lato dell'ingresso e un basso armadio che fungeva anche da ripiano.
«Qualcuno è stato qui a cercare qualcosa» fece notare Laughlin. In effetti, molti libri erano stati tirati giù dagli scaffali della biblioteca, i cassetti dell'armadio aperti e le carte sparse sul tavolo. Alle spalle del tavolo notarono delle mensole che prima non avevano visto, su cui facevano bella mostra una serie di provette, calderoni e alambicchi, che non avrebbero stonato nel laboratorio del dottor Frankestein, anch'essi malridotti o distrutti. Infine, sopra il ripiano dell'armadio stavano quelle che dovevano essere state delle bocce di vetro, ormai ridotte in frantumi.
«Bleah!» esclamò Laughlin, quando passò un dito sul ripiano e lo trovò appiccicaticcio e vischioso. «Che diavolo ci facevano qui dentro?»
«Non sono sicura di volerlo sapere» sussurrò Mairead, spaventata e a disagio. Lei e Laughlin provarono ad aprire le altre porte, per vedere quali ambienti celasse quel luogo, ma non trovarono altro che una piccola cucina, un bagno dall'aspetto disgustoso e una stanzetta con tre giacigli e una vecchia cassapanca vuota.
«Non c'è nient'altro» annunciò Laughlin, quando tornarono dalla loro breve missione esplorativa. Ma non fece in tempo ad aggiungere nulla, perché notò che Edmund era bloccato dietro alla scrivania, intento a fissare qualcosa. «Che c'è?» gli chiese avvicinandosi.
Sul tavolo era stato fatto uno spazio vuoto, su cui era appoggiata una fiaschetta contenente un liquido argenteo e fumoso, una bacinella in pietra e un foglio di pergamena.
«È per me» mormorò Edmund atono.
Laughlin prese in mano il biglietto e lo sbirciò: nella stessa calligrafia ordinata e precisa del foglietto che aveva dato loro il barbone c'era scritto un nuovo messaggio:
Al ragazzo dagli occhi azzurri,
guardali: è arrivata l'ora che tu sappia.
Mi dispiace,
S. McF.

Laughlin staccò gli occhi dal foglio e lo passò a Mairead perché lo leggesse anche lei.
«È arrivata l'ora che tu sappia» sussurrò Edmund, ancora con quel tono innaturale. «Che cosa dovrei guardare?»
Mairead pese in mano la fiaschetta con il liquido argenteo. «Questi, Edmund» gli disse, stappandola e versando il suo contenuto fumoso nella bacinella di pietra. «Sono ricordi» gli spiegò.
Alcune immagini sfuocate aleggiarono per poco sulla superficie del liquido, per poi scomparire e lasciare posto ad una cupa oscurità.
«Immergici il volto» continuò con dolcezza Mairead, cercando di nascondere la sua preoccupazione per tutta quella faccenda.
Edmund esitò solo per un attimo, infine fece quanto gli era stato detto e venne risucchiato nel ricordo..







Tattadadaaaaaaà!
Ebbene sì, il prossimo capitolo è IL capitolo, quello dove si scopre il misterioso passato di Edmund! Che cosa accadeva in questo laboratorio? E chi è S. McF., l'uomo che ha inviato il barbone e ha lasciato i ricordi per Edmund? mhuahahahhaha! Saprete tutto nel porssimo capitolo!
Ah, ovviamente il foglietto con l'indicazione del luogo viene dalla stessa misteriosa persona che è il Custode Segreto del labortorio (per corretteza, andate a vedere cosa aveva scritto Silente per rivelare a Harry dove si trovava il quartiere generale dell'Ordine della Fenice!).
Passiamo a cose più pratiche: vi serve qualche chiarimento sul modo in cui Edmund decifra il codice? Base 2, base 3... non sto parlando arabo, vero? Be', se non si capisce qualcosa, chiedete pure!
Comunque, un po' di link e immagini: QUI il link della pagina di wikipedia dedicata alla magnifica cittadina di Lerwick; QUI l'immagine che segna la distanza tra il Trinity e Lerwick, QUI una mappa di Lerwick con in blu la freccia dove si materializzano e in giallo la freccia dove più o meno si trova il laboratorio; QUI lo stesso di prima, solo su una fotografia della città; QUI, infine, una fotografia del laboratorio (ps. la stessa immagine c'è nella striscia di storia dedicata a Edmund, per chi se la ricorda! ^^).
QUI, invece, l'immagine del capitolo!
Basta, ho finito con le note! Il capitolone sarà pubblicato lunedì 17 dicembre!
Grazie a tutti, a presto,
Beatrix

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Capitolo 20
*** L'esperimento ***


Nota dell'Autrice: il seguente capitolo ha dei contenuti un po' forti, per questo il rating si alza all'arancione.



CAPITOLO 20
L'esperimento






Un brullo paesaggio si delineò sotto gli occhi di Edmund. Sembrava brughiera, forse era in Scozia. Poco distante, su una spiaggia sassosa che dava direttamente sull'oceano, si trovava un uomo chino a raccogliere chissà cosa. Doveva appartenere a lui il ricordo, perché non c'era nessun altro in vista.
Edmund si avvicinò lentamente, osservando meglio l'uomo: non era tanto alto e pareva avere un'età indefinibile tra i quaranta e i sessant'anni. Cominciava ad avere una fronte spaziosa causa calvizie, ma dei buffi ciuffi grigi gli decoravano le tempie, come se indossasse una sorta di corona di alloro, ma fatta di capelli. Portava un paio di occhialetti tondi poggiati sul naso e indossava un completo da mago, con le maniche tirate su e l'orlo del mantello sporco. Avvicinandosi, Edmund notò che stava raccogliendo dei sassi dalla spiaggia, a prima vista senza un criterio logico, per riporli in un tascapane che portava a tracolla.
Quando una donna urlò qualcosa dalla porta di un cottage poco lontano, l'uomo si alzò dalla posizione china e Edmund notò che era effettivamente più basso di lui di quasi dieci centimetri. Lo seguì mentre risaliva il fianco della collina, diretto verso quella che doveva essere la sua casa. Niente di pretenzioso, una villetta carina a due piani, con il tetto di paglia, le travi in legno a vista e un piccolo pozzo nel giardino.
Appeso allo stipite della porta d'ingresso, Edmund notò una piccola stele di terracotta con inciso il simbolo degli Interventisti. L'uomo, nel passarci davanti, si baciò la mano e toccò la stele. A Edmund ricordò terribilmente quel segno di devozione che aveva visto fare agli Ebrei ogni volta che entravano in casa, quando all'orfanotrofio gli avevano propinato una cassetta sulla Shoah.
Ma non appena l'uomo mise piede nella stanza d'ingresso, capì subito che c'era qualcosa che non andava; perfino Edmund, che non aveva mai visto quel posto prima di allora, lo percepì. L'aria era tesa, silenziosa.
«Luana?» mormorò l'uomo, probabilmente alla ricerca della donna che lo aveva chiamato. Forse era la moglie.
Quando nessuno rispose a quel primo appello, il mago appoggiò la borsa con i sassi in ingresso e estrasse di tasca la bacchetta. «Melita? Opale?» chiamò ancora, guardandosi intorno con aria circospetta.
Edmund lo seguì in cucina, dove erano stati richiamati entrambi dal rumore dell'acqua che scorreva: il rubinetto del lavandino era stato abbandonato aperto, segno evidente che c'era qualcosa che non andava. L'uomo si avvicinò e girò la manopola per fermare il flusso dell'acqua. Dopodiché, sempre con la bacchetta ben puntata davanti a sé, proseguì verso il salotto.
La stanza era buia, se non per una candela poggiata sul tavolo. Qualcuno doveva aver tirato tutte le tende.
«Luana, cosa diavolo...?»
«Giù la bacchetta!» gli intimò una voce fredda e strisciante. Non si vedeva il volto dell'uomo che aveva parlato, ma il mago incappucciato che puntava la sua arma al collo di una donna atterrita era un invito più che esplicito a deporre qualsiasi intento bellicoso.
Edmund lo riconobbe subito: un Mangiamorte, come quelli che aveva visto alla Coppa del Mondo di Quidditch. E ora che i suoi occhi si stavano abituando alla penombra, ne individuò anche altri: due stavano vicino alla finestra oscurata, uno teneva stretta per le braccia una bimbetta che poteva avere sì e no sei anni e un altro stava quasi soffocando quella che doveva essere la sorellina più giovane. Entrambe le piccole singhiozzavano in silenzio, terrorizzate.
L'uomo, arrendendosi all'evidenza dei fatti, appoggiò lentamente la sua bacchetta a terra. «Chi siete e che cosa volete?» domandò con calma, alzando le braccia per mostrare che era disarmato.
«Non arrivano le notizie, qui nell'alta Scozia?» chiese la stessa voce fredda di prima, in tono sarcastico. Sebbene sapesse che era solo un ricordo, Edmund si sentì gelare la schiena.
Il mago che aveva parlato si fece avanti, finché non fu illuminato dalla luce della candela. Nel vedere il suo volto serpentesco e quegli occhi rossi iniettati di sangue, Edmund ingoiò a stento un urlo. Quella creatura mostruosa... che cos'era?
L'essere -perché uomo non si poteva definire- sorrise, un sorriso spaventoso e vampiresco.
«Lord Voldemort» sussurrò lo scozzese, trattenendo il respiro.
Edmund scrutò con gli occhi sbarrati il mago oscuro più potente di tutti i tempi. Quello era Voldemort? Non era possibile... lui l'aveva sempre immaginato come un mago imponente, di bell'aspetto, con un volto malvagio, sì, ma umano. Invece, qualcosa di terribilmente oscuro e potente doveva averlo deformato in quel modo, rendendo il suo volto più simile a quello di un serpente che a quello di un uomo.
Ma già un altro pensiero aveva fatto capolino nella mente di Edmund: quello pareva essere un Voldemort al pieno dei suoi poteri e visto che il Signore Oscuro era stato sconfitto nel 1981, quando aveva tentato di uccidere Harry Potter, significava che quei ricordi dovevano essere ambientati negli anni Settanta. Che cosa centrava tutto quello con lui e con il suo passato?
«Sigmund McFarren» commentò Lord Voldemort, allargando il suo spaventoso sorriso. «L'ultimo Gran Maestro degli Interventisti. E il più potente, a quello che mi dicono».
«Che cosa vuoi?» domandò McFarren, con la voce rotta dall'ansia.
«Chi ti dice che io voglia qualcosa da te?»
McFarren deglutì. «Altrimenti mi avresti già ucciso» rispose, cercando di sembrare logico.
Lord Voldemort scoppiò a ridere. La sua risata squillante riempì il piccolo salotto, ma invece di portare allegria, fece gelare il sangue nelle vene. «Ma bravo il mio McFarren. Eri un maledetto Corvonero a Hogwarts, non è vero?»
La domanda restò senza risposta, così Voldemort riprese: «Ho un patto da proporti. Anche se, forse, “patto” non è il vocabolo adatto, visto che io ci guadagno parecchio, mentre tu, se mi servi bene, ci guadagni solo il tuo restare in vita».
La donna, ancora con la bacchetta del Mangiamorte puntata al collo, emise un singhiozzo soffocato. Lo sguardo di McFarren saettò per qualche secondo sulla moglie, poi tornò a concentrarsi su Voldemort. Edmund notò alcune gocce di sudore freddo che colavano ai lati del suo volto teso, ma, nonostante tutto, ammirò la sua lucidità.
«Allora, McFarren. Voi Interventisti fate tutti i vostri giochetti per modificare e creare la vita, no?» cominciò a dire Voldemort, prendendo a girare intorno al tavolo.
Lo scozzese mugugnò qualcosa. Edmund sapeva che il suo orgoglio di Interventista ribolliva nel sentir disprezzare in quel modo il suo lavoro, tanto più perché le informazioni di Voldemort erano inesatte: non si poteva creare la vita, esattamente come recitava la Prima Legge Fondamentale della Magia.
«Bene. Io voglio un esercito, il più potente che sia mai stato creato. Tu lo dovrai creare, a mia immagine e somiglianza, e che obbedisca completamente ai miei comandi e alla mia voce» sentenziò Lord Voldemort, con gli occhi rossi che brillavano di folle bramosia. «È impossibile una cosa del genere» piagnucolò McFarren, terrorizzato dal compito che il mago gli chiedeva e che sapeva di non poter portare a termine.
«Nulla è impossibile a Lord Voldemort!» gridò il mago, sbattendo le mani sul tavolo. Tutti trasalirono, perfino i suoi Mangiamorte. «Ma forse hai ragione, ti serve un piccolo incentivo».
Edmund ebbe la netta sensazione di sapere che cosa sarebbe accaduto adesso, ma non chiuse gli occhi in tempo: la maledizione scagliata da Voldemort, il lampo di luce verde e il grido di McFarren avvennero tutti nello stesso, tragico istante.
E la moglie dell'uomo si ritrovò a terra. Morta.
Edmund distolse lo sguardo da quegli occhi vuoti e fissi, rivolti al soffitto, incapace di sopportare la vista della morte. Un peso opprimente gli schiacciò il cuore e le gambe cominciarono a tremargli, perché aveva l'orribile percezione di sapere che cosa avesse a che fare con lui tutta quella storia.
«Basta!» gridò, anche se sapeva che nessuno poteva udirlo, quando sentì il pianto straziante delle due bambine appena rimaste orfane e i singhiozzi soffocati di McFarren che, inginocchiato a terra, stringeva al petto la moglie.
«Sai quello che voglio, McFarren. Non deludermi» sibilò la voce strisciante di Voldemort.
E poi il ricordo si dissolse in nuvole di fumo nero.
Quando un nuovo ambiente si disegnò sotto i suoi occhi, Edmund credette di trovarsi di nuovo nel vecchio laboratorio di Lerwick, ma era troppo pulito e ordinato per essere... e poi capì: quello era il laboratorio, ma all'epoca in cui era stato funzionante e usato. Era un altro ricordo.
La stanza emanava tranquillità, illuminata com'era dalla luce calda che filtrava attraverso le tede bianche appese alle finestre. Era così lontano dal luogo umido e tenebroso in cui Edmund aveva trovato la fiaschetta di ricordi.
Ci impiegò qualche tempo ad individuare la figura di McFarren perché l'uomo era chino a terra dietro il tavolo. Seduta su uno sgabello girevole stava una delle due figlie, forse la più piccola.
Edmund si avvicinò cauto e osservò meglio la bambina: poteva avere quattro o cinque anni e, sebbene lui non fosse esperto di marmocchi, era certo di poterla definire bella come un angioletto. Aveva due enormi occhi di un azzurro così intenso da parere luminosi zaffiri e una manciata di lentiggini che le sporcava le guanciotte piene e arrossate. A coronare il tutto, dei lunghi capelli scuri come una notte senza luna.
«Ahi» mormorò la piccina, quando il padre le bucò un dito con uno spillo. Una minuscola gocciolina di sangue cadde nella provetta che McFarren aveva preparato e l'uomo la sigillò con un colpo di bacchetta.
«Adesso passa tutto, vedrai» rassicurò la figliola, premendo delicatamente un fazzoletto bianco sulla ferita.
«Che cosa ci fai con quello, papà?» domandò la bambina, accennando alla provetta contenente il suo sangue.
«Do loro i tuoi occhi azzurri, angioletto» rispose McFarren in tono dolce, avvicinandosi a uno dei calderoni alle sue spalle. Edmund ebbe come l'impressione che, sebbene scosso dall'assassinio della moglie e preoccupato per la difficoltà del compito che gli era stato assegnato, l'Interventista fosse eccitato dall'idea di cimentarsi in quella prova, superando i propri limiti.
Ecco dove porta una sete di conoscenza fine a se stessa.
«A chi dai i miei occhi?» in informò la bimba sospettosa, come se temesse che le sarebbe stato rubato qualcosa.
Il padre le diede un buffetto sulla guancia con un dito, poi si infilò dei guanti di pelle di drago. «Alle persone che sto creando per lui, Melita» spiegò con un sospiro, come se la figlia potesse capire. «Vedi» aggiunse poi, sollevando un'altra provetta contenente uno strano liquido bianchiccio e filamentoso. «Lui mi ha dato il suo sangue per estrarre il patrimonio genetico e creare degli individui a sua immagine e somiglianza» lo scimmiottò, storcendo il naso. «Non creerò degli altri piccoli Voldemort, nossignore, non con quei suoi orribili occhi neri come la pece».
La piccola Melita non aveva capito molto in realtà, ma Edmund sentì un'orribile sensazione alla bocca dello stomaco, come se una mano invisibile gli contorcesse le viscere. Lui sì che aveva capito dove lo stava portando tutta quella storia.
Solo, voleva far finta che non fosse vero.
«Ma se tu crei degli altri Voldemort, lui potrà stare in più posti contemporaneamente?» domandò Melita, con un incredibile acutezza per una bambina così piccola. Non era spaventata dalla situazione perché era troppo incosciente per realizzare davvero cosa stesse succedendo: per lei era poco più che un gioco.
«No, Melita, certo che no. Io non creo degli altri Voldemort, ma delle persone distinte, che avranno le sue stesse capacità magiche, il suo stesso patrimonio genetico e un fisico molto simile al suo. Ma saranno persone diverse» spiegò ancora McFarren. Stava scommettendo sulla vita di altri bambini, con una naturalezza e un distacco impressionante: forse anche per lui non era molto più di un gioco.
Edmund represse un brivido.
«Un po' come se fossero fratelli?» indagò Melita. «Anche io e Opale ci assomigliamo tanto, ma non siamo uguali».
Era decisamente sveglia per la sua età.
«Esatto, un po' come se fossero fratelli» acconsentì il padre, con un sorriso rivolto alla piccina «E saranno anche un po' fratelli tuoi, sai?»
«Davvero?» esclamò la bambina con aria deliziata. Forse pensava che avrebbe avuto tanti bei bambolotti tutti per sé.
«Be', avranno i tuoi occhi» rispose McFarren. Dopodiché si voltò verso uno dei calderoni e cominciò a trafficare con gli stessi strani strumenti che Edmund aveva visto nel laboratorio reale che aveva appena lasciato.
«E spero anche il tuo cuore» aggiunse McFarren in un sussurro, prima che il ricordo fosse avvolto da denso fumo nero.
Edmund non ci impiegò molto tempo a capire che si trovava in un nuovo ricordo, perché era scomparsa quella spensieratezza che aleggiava prima nella stanza. Ora un cupo e opprimente senso di angoscia rendeva pensante perfino l'aria che si respirava. Si sentiva provenire da fuori l'insistente scroscio di un temporale, intervallato da lampi di luce che illuminavano a giorno il laboratorio e fragorosi tuoni che sconquassavano i vetri delle finestre.
Ma il silenzio che regnava dentro era quasi innaturale. Non appena gli occhi di Edmund si abituarono alla penombra, riconobbe la sagoma di McFarren, che aveva le mani appoggiate sul tavolo e il capo chino, quasi spezzato da un pesante fardello. Sul ripiano dell'armadio si trovavano le stesse bocce di vetro che aveva visto prima di entrare nei ricordo, ma queste erano integre e ricolme di uno strano liquido dall'aspetto viscoso e appiccicaticcio. Appoggiato sul tavolo, proprio sotto lo sguardo di McFarren stava uno strano essere rachitico. Un neonato, realizzò Edmund con orrore.
Morto e con il ventre squarciato da un taglio troppo preciso per non essere stato fatto da una mano umana. Sezionato post mortem, per capire le cause del decesso.
Edmund arretrò di un passo, disgustato. Era certo che avrebbe vomitato, se solo non si fosse trovato dentro un ricordo. Era uno di quelli, uno dei bambini che McFarren avrebbe dovuto creare a immagine e somiglianza di Voldemort. Ma qualcosa doveva essere andato storto.
Proprio in quel momento qualcuno irruppe nella stanza. McFarren nemmeno alzò gli occhi dal tavolo, come se si aspettasse di ricevere quella visita. Neppure Edmund, in realtà, fu tanto sorpreso nel ritrovarsi lì Voldemort e alcuni suoi Mangiamorte, che tenevano in ostaggio le due figlie.
«A Lord Voldemort non piace essere deluso» si introdusse il mago, in un tono falsamente gentile. Strano, ma faceva addirittura più paura. «Hai fallito, non è così?» chiese, avvicinandosi al tavolo.
McFarren accennò un debole sì con il capo. «Sono nati morti, o sono deceduti poche ore dopo la nascita» sospirò infine, lo sguardo ancora fisso sul piccolo corpicino straziato. «Io... non capisco perché».
«Forse non ti sei impegnato abbastanza. Forse hai preso tutto come un giochetto per sperimentare le tue abilità» suggerì Voldemort. «Forse hai bisogno di un altro incentivo».
«Io... ce ne sono ancora tre che si stanno sviluppando, signore» mormorò McFarren, improvvisamente terrorizzato dalla piega che avevano preso gli eventi.
Voldemort alzò gli occhi e Edmund con lui: solo allora si accorse che tre bocce contenevano dei feti in diverse fasi di sviluppo. Un brivido gelato gli attraversò la schiena, unito alla consapevolezza che quell'orrore non era solo un ricordo di un estraneo, ma faceva parte della sua vita.
«Come posso assicurarmi che questa volta non fallirai, Sigmund?» domandò Voldemort, distogliendo lo sguardo dalle creature nelle ampolle di vetro.
«Non fallirò di nuovo» tentò di rassicurarlo McFarren, anche se la voce gli tremava. Edmund notò che sembrava aver perso tutto il suo freddo autocontrollo: il compito richiesto si era rivelato più difficile di quanto si fosse aspettato e doveva avergli risucchiato ogni luminoso ottimismo nel potere degli Interventisti.
«Voglio assicurarmene» replicò Voldemort, con quella sua orribile voce strisciante.
Accadde tutto in una frazione di secondo: il mago puntò la sua bacchetta verso la bambina più piccola, ma l'altra si liberò con uno strattone dalla presa del Mangiamorte e si gettò tra la sorella e il mago. Il lampo di luce verde la colpì in pieno petto, facendola stramazzare al suolo.
Bellissima, nella sua fissità mortale, Opale McFarren rimase immobile a terra, ai piedi della sorella.
Edmund chiuse gli occhi e si prese la testa tra le mani ma non poté evitare che le grida strazianti di McFarren e di Melita gli riempissero la testa. Restò in quella posizione finché le grida non furono sostituite dal pianto disperato di un neonato.
Solo allora osò aprire gli occhi: la scena poteva essere identica a quella precedente, solo che fuori il temporale era cessato per lasciar posto ad una candida nevicata. I vagiti di un bambino riempivano la stanza.
Edmund ebbe la precisa, netta sensazione che quelli fossero i suoi vagiti.
Si avvicinò di qualche passo al tavolo del laboratorio: McFarren stava contemplando un neonato che si dimenava e agitava i pugnetti verso il cielo, come se volesse ribellarsi ad un destino che sapeva non poteva essere che tragico, in un mondo in cui la Natura era matrigna per le sue creature. Edmund capì di star guardando se stesso, perché un qualche strano ancestrale potere gli permise di riconoscersi in quel neonato sventurato.
E nel momento stesso in cui realizzò com'era nato, preferì essere morto.







Ebbene sì, dopo esattamente 3 anni e 2 mesi dalla pubblicazione del primo capitolo di questa saga, siamo giunti alla rivelazione del motivo per cui tutto è stato scritto: il misterioso passato di Edmund.
In effetti, avevo sparso un po' di inzidi: le indubbie somiglianze tra Edmund e il piccolo Tom Riddle (entrambi orfani brillanti, il serpentese, la mancanza di amici), il suo molliccio che diventa un se stesso cattivo, la sua reazione alla comparsa del marchio nero alla coppa del mondo di Quidditch... prove indiziare, ma qualcosa c'era.
Comunque, all'epoca in cui progettai questa saga, questa mi pareva un'idea brillante e originale... dopo anni che bazzico nel fandom, mi sono resa conto di non essere poi così innovativa; ho cercato lo stesso di giustificare il tutto con una trama sensata.
Inoltre, vorrei lasciarvi alcune suggestioni e riflessioni più mature che mi hanno spinta a ritenere ancora valida questa originaria idea sulla nascita di Edmund:
-suggestioni di carattere storico-cinematografico: immagino che abbiate tutti presente la leggenda metropolitana della clonazione di Hitler; insomma, quando si trova un leader che sembra avere solo caratteristiche positive, risulta naturale volerlo "riprodurre" nel modo più fedele possibile; e perché non fare allora un esercito di cloni (come accade in una galassia lontana lontana) perfetti e potentissimi?
-suggestioni rowlingane: perché però Voldemort dovrebbe volersi clonare? Di solito i super cattivoni si vantano della loro unicità; tuttavia la Rowling fa notare più volte che Voldemort ama solo se stesso e chiunque altro, per quanto possa rivelarsi un ottimo seguace, si trova al di sotto di lui; quindi credo che sia possibile immaginare un Voldemort che vede in se stesso il proprio unico, vero compagno e seguace.
-suggestioni filosofiche: infine, qualcosa di più filosoficamente elevato. Allo stato più primitivo dell'evoluzione, l'uomo vede nel figlio un modo per raggiungere l'immortalità: attraverso un essere che da me deriva e a me assomiglia, qualcosa di me sopravvive oltre la mia morte. Sappiamo tutti quanto Voldemort sia ossessionato dall'immortalità; si può quindi pensare che, a livello inconscio, la possibilità di "riprodursi", di generare qualcosa che devivi da lui stesso, sia vista come un superamento della morte.
Infine, come sarà ribadito a Edmund più volte, lui NON è Voldemort. C'è tra loro una sostanziale differenza, come immagino abbiate capito; il film "Mouline Rouge" si apre con questa frase: "la cosa più bella che tu possa imparare è amare e lasciarti amare". L'amore (in senso lato) è qualcosa che Voldemort non capirà mai, mentre Edmund lo sta sperimentando e imparando pian piano.

Per passare invece a qualcosa di più allegro, vi lascio QUI un'immagine buffa che ho disegnato tempo fa seguendo le mie folli pare mentali. Credo che si commenti da sola... lasciate che vi presenti: Lysagh, Edmonda e Mairtin! ^^
Ora invece una nota pratica: da calendario il prossimo capitolo dovrebbe essere pubblicato lunedì 31 dicembre ma per evidenti ragioni (e anche perché ho bisogno di andare in università ad aggiornare perché a casa internet fa schifo) ci rivediamo lunedì 7 gennaio 2013.
Perciò, se non avessimo altre occasioni per sentirci, lasciate che vi auguri un buon Natale e un nuovo anno pieno di felicità!
Un abbraccio a tutti,
Beatrix

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Capitolo 21
*** La salvezza dell'innocenza ***


Nota dell'Autrice: il seguente capitolo ha dei contenuti un po' forti, per questo il rating si alza all'arancione.



CAPITOLO 21
La salvezza dell'innocenza






Orrore, un terribile orrore gli riempì la testa.
Era certo che sarebbe venuto meno, che sarebbe morto lì, se solo non si fosse trovato in un ricordo.
Non era... non riusciva nemmeno a pensarci.
Lui, niente più che un esperimento di alchimia e scienza.
Non era umano. Non aveva una madre che lo avesse portato in grembo per nove mesi, ma solo un'ampolla di vetro in cui era stato contenuto. Non un padre che lo avesse concepito, ma solo una serie di sterili provette. Non aveva una volontà, perché sarebbe diventato schiavo di Voldemort ad un suo cenno. Non aveva una personalità, perché era una mera copia di un altro uomo. E non un uomo qualsiasi, bensì un mago oscuro, crudele e folle. Sarebbe diventato malvagio anche lui?
Nemmeno i suoi occhi azzurri erano davvero suoi... li aveva rubati ad una bambina.
Si accasciò a terra per un improvviso mancamento, mentre il suo io neonato continuava a strillare e piangere.
Troppo, era troppo per la sua misera coscienza: non poteva reggere una rivelazione del genere, non poteva accettare di essere niente più che un'arma creata per il capriccio di un mago troppo potente.
Perché?
Perché McFarren non l'aveva ucciso il giorno stesso in cui era venuto al mondo? Quale assurda crudeltà era lasciare in vita una creatura del genere?
«Papà!» gridò la voce di una bambina.
Sia il McFarren del ricordo sia Edmund si voltarono verso la piccola Melita. La bimba aveva un sorriso enorme che allargava le sue labbra rosee e carnose, come se fosse appena arrivato Babbo Natale. «È nato il mio fratellino?» domandò estasiata, aggrappandosi al tavolo per tentare di vedere il neonato. «Possiamo scegliergli un nome?»
Edmund si alzò lentamente da terra e si avvicinò a Melita, colmo di gratitudine per la piccolina che gli mostrava tanto affetto e insieme angosciato da ciò che sarebbe accaduto. Perché lui sapeva -glielo avevano detto all'orfanotrofio-, sapeva che era stato abbandonato a poche ore dalla nascita, senza nemmeno un nome.
Forse... Voldemort? Era tornato e aveva ucciso anche Melita?
Edmund represse un brivido, ma percepiva un'ansia sempre crescente. Qualcosa doveva essere andato storto nei piani di McFarren. Qualcosa...
«Possiamo chiamarlo Ewan, come il nonno?» trillò la piccola, tendendo le braccia verso il neonato, come se volesse prenderlo in braccio.
«Non è un bambolotto!» tuonò invece McFarren, facendo trasalire sia la figlia sia Edmund. Il volto dell'uomo era scavato e madido di sudore: pareva che un'immensa sofferenza gli stesse rosicchiando l'anima, come un tarlo con del legno tenero. «Non è un bambolotto» sussurrò di nuovo, abbassando gli occhi sul neonato. «È un mostro».
Ci fu una frazione di secondo in cui la bimba osservò il padre con occhi sgranati e impauriti, poi quest'ultimo estrasse la sua bacchetta di tasca con un movimento tanto fulmineo da far spaventare non solo la piccola Melita, ma anche Edmund, che stava assistendo alla scena. «Non lo avrà, lui non lo avrà mai!» esclamò di getto McFarren, gli occhi illuminati da una strana luce di follia. «Non troverà nemmeno il corpo!» esclamò, dirigendosi verso il comò ed estraendo un telo bianco da uno dei cassetti. Stava per tornare alla scrivania, quando il suo sguardo cadde sui tre feti ancora in incubazione. «Oh, non avrà neanche loro...» borbottò, più a se stesso che ad altri.
Accadde tutto in un secondo: il rumore di vetro infranto, i tre lampi di luce verde, la piccola Melita che scoppiava in lacrime. E i feti non furono altro che piccoli cadaveri senza vita.
Edmund sentì che il suo stomaco si stava contorcendo come se volesse vomitare le sue intere viscere. Barcollò, ma rimase in piedi.
«Recido» sussurrò McFarren, dividendo il telo in due parti. Con una freddezza inconcepibile, dettata dalla lucida follia che comandava le sue azioni come un burattinaio, l'uomo avvolse i tre corpicini in una delle metà del lenzuolo e bloccò il tutto con un nodo, mentre il liquido amniotico si spandeva come una macchia d'olio viscoso sul ripiano e poi colava in terra.
Dopodiché McFarren si voltò verso il neonato che ancora strillava, abbandonato sul nudo tavolo di legno.
Il cuore di Edmund saltò qualche battito.
«Papi...» sussurrò Melita, ancora scossa dai singhiozzi.
L'azione sembrò bloccarsi. Avrebbe ucciso anche lui?
Invece McFarren semplicemente avvolse il neonato che urlava a pieni polmoni nell'altra metà di telo e lo prese in mano.
«Resta qui» intimò alla figlia, con un tono di voce innaturale, mentre recuperava anche l'altro fagotto e si dirigeva verso la porta. Edmund lo seguì fuori, attraverso la neve candida che ricopriva il terreno, rendendo il mondo innaturalmente piatto e calmo. I suoni ovattati, i fiocchi che vorticavano in aria e il cielo lattiginoso facevano sembrare il posto un'enorme palla di vetro natalizia. Ma il clima di tensione non poteva essere più diverso dalla calda gioia del Natale.
McFarren si avvicinò alla scogliera e, senza un minimo di esitazione, gettò il primo fagotto in mare.
Edmund non ebbe nemmeno il tempo di reagire, di assimilare la cosa: i tre corpicini semplicemente caddero nel vuoto e infine vennero inghiottiti dalla spuma delle onde che si infrangevano contro gli scogli.
Dopodiché McFarren sollevò al cielo il neonato urlante, come la grottesca caricatura di una richiesta benedizione per il bambino.
L'avrebbe buttato? Avrebbe buttato anche lui?
Edmund sentì che sarebbe morto, quando invece...
«Papi, non lo fare» pigolò la vocina sottile di Melita.
McFarren si bloccò con il braccio in alto.
«Ti prego, papi» continuò Melita, aggrappandosi alla mano del padre. «Lui è così piccolo».
L'uomo ingoiò un singhiozzo, mentre una singola lacrima gli attraversò il volto scavato dalla disperazione. Ritirò il braccio e strinse il neonato a sé, incapace di uccidere una creatura tanto piccola e innocente. Il bambino, finalmente nel caldo di un abbraccio, si acquietò e scivolò nel sonno.
Ma proprio in quel momento delle figure nere comparvero in mezzo alla neve. Si stavano dirigendo verso il laboratorio, quando individuarono l'Interventista e la bambina sul bordo della scogliera.
«McFarren!» gridò uno di loro, e partirono anche degli incantesimi, ma McFarren fu più veloce: afferrò sua figlia, roteò su se stesso e si smaterializzò.
Edmund ci mise un po' ad abituare i suoi occhi al nuovo ambiente; solo dopo una manciata di secondi, si rese conto che si erano materializzati in una strada inequivocabilmente Babbana: fiochi lampioni, automobili parcheggiate sui lati e qualche passante svogliato, imbacuccato in cappotto e sciarpa. Pioveva.
E, alla fine, riconobbe dove si trovavano: era la via di Dublino dove si trovava il suo orfanotrofio.
«Dove siamo, papà?» domandò Melita, ancora aggrappata al braccio dell'uomo.
«In un posto dove non lo verrebbero mai a cercare» rispose McFarren, gli occhi fissi un un punto lontano dell'orizzonte. «Spero» aggiunse poi in un sussurro.
Edmund era certo di sapere il motivo per cui i Mangiamorte non erano riusciti a trovarlo fino ad allora: due anni dopo la sua nascita, Voldemort aveva perso tutti i suoi poteri nel tentativo di attaccare Harry Potter. Era stato al sicuro grazie alla caduta di Voldemort, non certo grazie al nascondiglio trovato per lui da McFarren.
Perché non lo aveva lasciato in un posto più sicuro? In un posto dove non sarebbe stato raggiunto da tutto quell'orrore?
O, meglio ancora, perché non l'aveva tenuto con sé?
«Non può restare con noi?» pigolò proprio in quel momento Melita, come se avesse letto i suoi pensieri. La pioggia le aveva incollato i capelli al viso, come una cornice sui suoi occhioni azzurri.
McFarren diede un buffetto sbrigativo alla figlia. «Proprio no, piccolina mia» le rispose, gli occhi che saettavano in giro per controllare che nessuno li avesse seguiti. Quando appurò che tutto fosse a posto, prese la bimba per mano e la strattonò lungo la strada con quel passo sicuro di chi sa dove vuole arrivare.
«Perché non può restare con noi?» chiese ancora Melita, con la testardaggine tipica dei bambini.
Finalmente McFarren si voltò verso la figlia e le sorrise guardandola negli occhi. «Perché è pericoloso per lui e per noi» le spiegò, quando ormai erano giunti davanti ad un cancello fin troppo familiare per Edmund: quello dell'orfanotrofio St. Jeremy di Dublino.
Melita si sciolse dalla presa del padre e allungò le mani verso il fagotto. «Posso almeno salutarlo?» domandò, mentre due grossi lacrimoni si mescolavano con le gocce di pioggia che le bagnavano il viso.
McFarren si addolcì e, chinatosi verso la figlia, le depositò il neonato in grembo. Il piccolo, come se si fosse reso conto di essere finito tra le braccia incerte e infantili di una bambina, si svegliò ma non riprese a piangere.
Per quanto sapesse che un neonato di poche ore non poteva vedere nulla, Edmund ebbe come l'impressione che il piccolo se stesso avesse preso ad osservare il volto di Melita. Allungò un pugnetto minuscolo verso di lei, come volesse accarezzarla, e la bambina ricambiò con un bacio delicato sulla guancia.
Edmund sentì un incolmabile senso di vuoto nel cuore, perché immaginò che crescere con una sorellina come Melita avrebbe potuto alleviare il terribile orrore che provava per la vita.
«Addio, Ewan» lo salutò la bambina, trattenendo a stento i singhiozzi.
Dopodiché, ad un cenno del padre, lo depositò a terra davanti al cancello dell'orfanotrofio, mentre McFarren suonava il campanello.
Edmund, troppo occupato ad osservare il se stesso neonato che scoppiava a piangere, vide solo con la coda dell'occhio che i due si erano allontanati in fretta, in modo da portarsi fuori dalla visuale di chiunque fosse venuto a prendere il bambino.
Ma proprio mentre si guardava urlare sul marciapiede, Edmund si dimenticò di tutto il resto. Doveva aver freddo, e fame; e forse paura. Non ricordava di aver provato tutte quelle sensazioni. Si inginocchiò a terra in una grottesca caricatura di un pastore inginocchiato davanti alla mangiatoia di Gesù Bambino.
Perché era nato? Perché doveva esserci una tale tragicità in un evento in realtà così naturale e gioioso?
Si rispose da solo: perché non c'era stata gioia nel suo concepimento, ma sterili provette e i deliri di onnipotenza di un mago; né c'era stato qualcosa di naturale nel modo in cui era venuto al mondo. Lui era una creatura, uno strumento, un'arma. Nulla di più.
Fu in quel preciso momento che cominciò ad odiare se stesso. Un mostro senz'anima né cuore, una mera copia di un altro mago, e nemmeno uno qualunque: lord Voldemort, il più crudele, folle e potente mago oscuro di tutti i tempi.
Potente.
Lui... lui era potente. Potente come Voldemort. Era in grado di far calare sul mondo un'oscurità senza fine, una notte senza più alba. Un brivido di delirio gli attraversò il corpo e fu costretto a prendersi la testa tra le mani. Che cosa gli stava venendo in mente? E se Voldemort era malvagio, lui avrebbe seguito il suo stesso destino? Sarebbe diventato a sua volta... malvagio?
Per fortuna, quando un'inserviente grassoccia venne ad aprire il cancello, Edmund venne strappato dai suoi oscuri pensieri.
«Oh, buon Gesù!» esclamò accorata, quando vide il neonato avvolto negli stracci abbandonato sul marciapiede. Si leggeva nei suoi occhi acquosi tutta la pietà che provava per quella creaturina. Si chinò e la prese in braccio, stringendola al suo petto. «Con tutto questo freddo...! E nemmeno dalla placenta ti hanno ripulito, povero piccino» commentò, passandogli lo straccio sul viso per pulirlo del più grosso. Dopodiché si guardò intorno, per tentare di capire chi l'avesse abbandonato o per vedere se qualcuno si sarebbe fatto avanti. Non doveva essere poi così insolito che le donne lasciassero i bambini appena partoriti sulla soglia dell'orfanotrofio, perché erano incapaci di mantenerli o per chissà quali altri motivi; ma Edmund sapeva che per lui non sarebbe venuto nessuno, perché non c'era nessuno. McFarren e la piccola Melita osservavano la situazione da lontano, per controllare che il neonato venisse accolto, ma non c'era una madre che l'avesse partorito o un padre che l'avesse abbandonato.
Nessuno.
«Sei solo al mondo, piccino?» gli domandò l'inserviente, come cogliendo i suoi pensieri. Poi gli sorrise con dolcezza e si voltò verso l'orfanotrofio. «Qui ci sarà sempre un posto per te» sussurrò, cullando il neonato tra le sue enormi braccia.
«Ti ci vorrà un nome. Che cosa ne pensi di... vediamo...» la sentì mormorare Edmund, mentre quella si incamminava lungo il vialetto, verso la porta d'ingresso. Non udì le ultime parole, perché la donna era ormai troppo lontana e la sua voce fu sovrastata dai rumori della notte. Ma sapeva benissimo il nome che la patriottica inserviente aveva proposto al bambino: il suo nome.
Edmund Burke.

Edmund si ritrovò catapultato di nuovo nell'umido e cupo laboratorio di Lerwick. Ci impiegò parecchi secondi a capire dove si trovasse, ma poi le immagini dei ricordi che aveva appena visto gli trapassarono la testa tutte assieme. E per poco non si accasciò a terra.
Indietreggiò dalla bacinella di qualche passo, disgustato e scosso da violenti tremiti. Probabilmente qualcuno lo chiamò, ma la sua mente era ancora occupata dalle visioni dell'orrore a cui aveva assistito. Sentiva l'odore del sangue penetrargli le narici, sangue innocente di creature che non avevano nemmeno avuto il tempo di aprire gli occhi al mondo.
Si guardò intorno, e quel luogo così nauseabondo che aveva accolto nel suo grembo tutto quell'orrore, sembrava perfino sorridere del suo smarrimento. Era come se gli dicesse "sei come loro".
Gli girava la testa, vorticosamente, all'infinito.
Si aggrappò ad uno scaffale della biblioteca, instabile, barcollando come un ubriaco. Sentiva perfino il sangue viscido colare sulle sue mani, sulle sue braccia, come se lui avesse fatto scempio di quei piccoli corpi. Gli sembrava di essere ancora avvolto nella placenta, di dover rompere il liquido amniotico per poter respirare, ma anche l'aria odorava di massacro.
E poi vomitò.
Lo stomaco gli si contraeva ad un ritmo innaturale, frenetico, convulso. La gola divenne un canale di fuoco, come se sputasse fiamme dalla bocca. L'odore del vomito si mescolò a quello del sangue e le sue viscere si contorsero nuovamente.
Vomitò l'anima, se era previsto che una creatura come lui ne avesse una.
L'ultima cosa che sentì fu una mano delicata che gli si posava sulla spalla.
E una voce: «Ed, andiamo via di qui».







Buongiorno a tutti!
La conclusione della storia di Edmund era nella mia mente da tantissimo tempo: avevo deciso che a salvarlo sarebbe stata Melita; e vedrete anche come questa cosa influirà in futuro. Tuttavia, devo ammettere di non essere del tutto soddisfatta di come sia uscito questo capitolo... volevo rendere lo stato d'animo confusionario e intriso d'orrore di Edmund, ma non sono certa di esserci riuscita... be', mi direte voi!
L'immagine ci sarebbe, ma problemi tecnologici mi hanno impedito di ultimarla... la pubblicherò più avanti con un edit a questo capitolo, oppure la inserirò nel prossimo. Vedrò come risolvere la cosa!
Per darvi un po' l'idea di dove siamo, mancano 6-7 capitoli alla fine, più l'epilogo. Ci vorranno un paio di mesi circa per finire questo quinto racconto. Poi, vi annuncio già che avrò bisogno di un bel periodo di pausa perché sesto e settimo racconto sono ben lontani dall'essere pronti per una pubblicazione! ^^
Prossimo capitolo: 21 gennaio 2013!
A presto e grazie a tutti,
Beatrix

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Capitolo 22
*** La forza dell'amicizia ***


CAPITOLO 22
La forza dell'amicizia






Moira non si riteneva una ragazza dalle mille qualità, ma era certa di possedere un dono: l'empatia verso gli altri. Forse era proprio perché capiva gli stati d'animo altrui e agiva di conseguenza che tanti le dicevano che era una buona persona.
Tuttavia, bastava essere empatici anche solo come una panca di legno, per capire che qualcosa non andava in Edmund. Erano giorni che non si sedeva più tra i suoi amici, standosene in disparte tutto il tempo. Non si faceva vedere in Sala Mor e, anche quando si presentava, praticamente non mangiava nulla. Era torvo, cupo e perfino a lezione non faceva più i suoi interventi brillanti che tanta ammirazione gli meritavano da parte dei professori.
Non era di cattivo umore: era di umore catastrofico.
Fu per quel motivo che un sabato mattina a colazione Moira intercettò Mairead che usciva dalla Sala Mor e la seguì per scambiare due chiacchiere con lei. «Mairead... posso parlarti?» le chiese in tono gentile.
Mairead indicò la divisa da Quidditch che indossava e fece notare: «Fra poco c'è l'ultima partita della stagione... e starei andando verso lo stadio...»
Tuttavia, visto che i Raloi avrebbero affrontato i Llapac sul campo da Quidditch, Moira era informata sui fatti e sapeva che il “poco” di Mairead significava in realtà “fra un paio d'ore”; quindi pareva più che altro che la ragazza non avesse voglia di confidarsi con lei. «È di Edmund che ti voglio parlare» aggiunse allora, nella speranza di chiarire la questione.
Mairead distolse lo sguardo per qualche secondo e quando tornò a guardare l'altra, aveva gli occhi lucidi e velati. «Non è affare mio se ha deciso di comportarsi da idiota» replicò con un astio marcato, nel tentativo di nascondere la sua sofferenza.
Moira le regalò un sorriso sincero, un modo gentile per offrirle il suo conforto. «Che cosa gli è successo?» domandò, sperando di fare un po' di chiarezza.
«Diavolo ne so!» esplose Mairead, visibilmente irritata. Tuttavia, visto che Moira non sembrava voler abbandonare l'argomento, continuò: «Ha smesso di rivolgerci la parola, così, di punto in bianco».
«Di punto in bianco?» insistette Moira, ben consapevole che Mairead avesse bisogno di sfogarsi con qualcuno.
La ragazza si stropicciò il mantello della divisa di Quidditch, mentre con gli occhi saettava attraverso la sala d'ingresso, come per controllare se qualcuno le stesse guardando. «Ti va di fare due passi fuori?» chiese poi, accennando con il capo all'immenso parco, dove avrebbero sicuramente trovato un posto per parlare più tranquillamente.
Moira fece un segno di assenso con il capo e insieme si incamminarono fuori dal castello, attraverso il ponte e poi nel prato solitario e umido in riva al lago. Per tutto il tragitto restarono in silenzio, entrambe immerse nei propri pensieri. Solo quando furono sufficientemente lontane da occhi indiscreti, Mairead raccontò di quanto era successo a Lerwick, nel laboratorio dove Edmund aveva trovato i ricordi e dai quali era uscito totalmente sconvolto. Dopo che il ragazzo aveva praticamente tirato su l'anima, lei e Laughlin l'avevano trascinato a forza fuori dal laboratorio e avevano cercato di capire cosa fosse successo. Ma non c'era stato verso: nonostante le loro insistenze per tentare di aiutarlo, Edmund aveva smesso improvvisamente di disperarsi ed era diventato come di pietra.
«Il suo volto era una maschera innaturale» raccontò Mairead, la voce ridotta ad un flebile sussurro. «Mi faceva paura. Abbiamo cercato di farlo parlare, ma lui ha detto una sola parola: “andiamo”».
Mairead si interruppe, ancora scossa e arrabbiata al solo ricordo. «Ti giuro che credevo ci saremmo spaccati! Edmund non era per niente nelle condizioni di fare una Materializzazione Congiunta!» raccontò esasperata.
«E invece?» chiese Moira, anche se era ovvio che non poteva essere successo nulla, dal momento che tutti e tre erano ancora sani e salvi.
«E invece ci siamo materializzati vivi e nel posto giusto» rispose Mairead, con un certo disappunto, in realtà, come se le dispiacesse essere stata contraddetta dalla buona riuscita dell'impresa. «Per miracolo, io credo» aggiunse infatti, poco dopo. «Comunque da allora non ci rivolge più la parola».
E dal tono stizzito con cui lo disse, c'era da scommetterci che avrebbe scuoiato vivo Edmund se solo se lo fosse ritrovato davanti.
Moira lasciò passare una manciata di secondi, nella speranza che i bollenti spiriti di Mairead si acquietassero un poco. Vana speranza, in realtà, visto che sapeva benissimo di avere a che fare con una Raloi. «Vuoi che provi a parlarci io?» chiese alla fine, spiando di sottecchi l'amica per sondare la sua reazione.
Mairead emise uno sbuffo stizzito. «Non otterrai molto, temo» fu la sua secca risposta.
Moira allora sfoderò un sorrisetto sbieco. «Posso sempre provarci» cercò di convincere l'altra dei suoi buoni propositi.
Ma Mairead scosse la testa. «Se ci tieni tu a rovinarti la giornata per quell'idiota. Perché sappi che ti tratterà da schifo» la avvertì, con un tono forse troppo acido, come se avesse sperimentato sulla sua pelle quanto aveva descritto. «Ora scusami, ma vado al campo di Quidditch» concluse, dirigendosi a passo svelto verso lo stadio.
Moira sospirò. Sapeva benissimo che affrontare Edmund sarebbe stato tutt'altro che facile, ma per un amico valeva almeno la pena provarci. Tutta presa dai pensieri su come avrebbe potuto sciogliere la freddezza superficiale di Edmund e invitarlo ad aprirsi, si incamminò di nuovo verso il castello. Quasi non si accorse che stava andando in senso contrario agli altri studenti, che si recavano al campo di Quidditch per l'ultima partita del campionato scolastico.
«Ehi, Moira, non vieni a sostenere la squadra?» le domandò una ragazza della sua casa.
Forse era Liadan D'Arcy, ma Moira era troppo presa dai suoi pensieri e non si accorse di chi avesse parlato. «Ora... no, ho da fare» borbottò, rivolta a chiunque fosse stato a chiamarla. In fondo, non era mai stata una vera appassionata del Quidditch e, non per essere catastrofica, ma era difficile che i Llapac potessero battere gli aggressivi Raloi, già in testa alla classifica e perfino campioni in carica. Almeno non da quando Cecelia Allen non era più la Capitana della squadra. Certo che, pensò Moira, c'erano persone che avevano tutte le fortune: Cecelia Allen era bella, gentile, brava a Quidditch, intelligente e gli Allen dovevano essere pure una delle nobili famiglie d'Irlanda.
Be', anche suo nonno Elios era nobile, si disse. E poi, sicuramente lei doveva aver ricevuto delle altre doti. Sapeva stare vicina agli amici anche nei momenti di difficoltà, per esempio: non tutti ne erano capaci.
E Edmund in quel momento aveva bisogno di lei: doveva aver scoperto qualcosa del suo passato, qualcosa di doloroso, ovviamente; qualcosa che non era stato in grado di rivelare a Mairead e Laughllin, forse per paura di scoprire come i suoi amici avrebbero accolto la notizia. Ma lei non gli era così legata, per cui Edmund non avrebbe dovuto temere il suo giudizio, e al contempo non era nemmeno un'estranea. Sarebbe stata il suo sostegno per aprirsi e rivelarle il terribile segreto che lo stava divorando dall'interno.
Non ebbe nemmeno il minimo dubbio su dove l'avrebbe trovato: si diresse senza esitazione in biblioteca e lo individuò chino su un libro, nel salone deserto. «Ciao, Edmund» lo salutò in tutta tranquillità.
Il ragazzo reagì come se un asteroide gli fosse piombato davanti. «Moira» fu il suo gelidissimo saluto.
«Come stai?» gli domandò lei, tentando di ignorare la sua freddezza.
Edmund la scrutò per una manciata di secondi, come se volesse analizzarla ai raggi X, infine rispose con un'altra domanda: «Perché non sei alla partita?»
Moira tentò di sfoderare un sorriso gentile e rassicurante. «Perché volevo approfittare della calma per fare due chiacchiere con te» gli spiegò, sperando di riuscire a penetrare la sua corazza.
Edmund fece una smorfia e tornò chino sul libro che stava leggendo. «Non ho niente di cui discutere» borbottò poco dopo, in tono arcigno.
Moira prese un lungo respiro per mantenere la calma. «Credo invece che tu abbia proprio bisogno di chiacchierare con qualcuno» gli suggerì, cercando di essere convincente.
«E se anche fosse, perché quel qualcuno dovresti essere tu?» la provocò Edmund, chiudendo di scatto il libro che stava leggendo. «Io non ho niente da dire, né a te né a nessun altro» concluse, poi si alzò in piedi e fece per andarsene.
«Ed, aspetta!» lo supplicò Moira, rincorrendolo lungo la biblioteca. Lui non si fermò, non si voltò, non le prestò minimamente ascolto. Moira lo raggiunse quando ormai si trovavano nel corridoio dove si affacciavano sia la porta della biblioteca sia l'ingresso della sala comune dei Llapac. «Perché non vuoi essere aiutato?» gli gridò contro, afferrandolo per un braccio nel tentativo di impedirgli di scappare.
«Chi ti dice che io abbia bisogno di aiuto?» rispose Edmund e cercò, senza successo, di liberarsi dalla presa di lei.
Fu in quell'istante che Moira gli piantò addosso i suoi occhi con un determinazione che non credeva di avere e gli sussurrò: «Basta guardarti».
«E allora non mi guardare!» replicò piuttosto scioccamente Edmund, come un bambino testardo.
Moira alzò gli occhi al cielo. «Che cosa stupida da dire!» sbottò esasperata. «Ed, tutti ci siamo resi conto che ti è successo qualcosa: non mangi nulla, non sorridi mai, non ci rivolgi più la parola. Perché non vuoi dirci che cosa ti è successo?» gli domandò, cercando di farlo ragionare. In quel momento qualcuno uscì dalla sala comune dei Llapac, ma Moira non vi prestò minimamente attenzione, presa com'era dal tentativo di far ragionare Edmund. «È ora di uscire allo scoperto, basta con i segreti!» fu il suo ultimo, disperato appello.
Ma Edmund si liberò dalla sua presa con uno strattone improvviso e si allontanò di un passo da lei, come se volesse rimarcare l'incolmabile distanza tra loro. «Sono stufo di questa pantomima: dillo pure a tutti gli altri!» furono le sue ultime parole, facendo intendere che a nulla sarebbero serviti altri tentativi di persuaderlo a parlare. E poi se ne andò, piantandola lì in mezzo al corridoio.
Calò il silenzio. Moira, totalmente concentrata sul suo respiro ritmico, cosa che avrebbe dovuto aiutarla a far sbollire la rabbia accumulata a causa del caratteraccio di Edmund, si dimenticò totalmente del Llapac che era uscito dalla sala comune, finché questi non le mise una mano sulla spalla, facendola trasalire.
«Tutto a posto?» le chiese in tono gentile.
Moira si voltò verso Cael Trimble, il suo collega console, nonché amico di Henry. «A posto, grazie» finse, dal momento che non aveva voglia di confidarsi con lui.
«Non vieni alla partita?» le domandò, forse sperando che un diversivo del genere potesse aiutarla a superare il brutto litigio. Tuttavia, l'ennesimo riferimento alla partita di Quidditch ottenne solo di irritare ancora di più Moira. «No, grazie» rispose, forse un po' troppo seccata. Dopodiché decise che era proprio il caso di andare a prendere una boccata d'aria, per sbollire la frustrazione.
Passò tutta la mattinata seduta nel prato del chiostro, con un libro sulle gambe. Attese il ritorno dei tifosi dallo stadio, finché non incrociò gli occhi dell'unica persona che avrebbe potuto risollevarle il morale: il suo ragazzo Henry Alabacor.
«Ciao, amore» lo salutò serena, facendogli segno di sedersi sull'erba, ma Henry si limitò a mugugnare qualcosa in risposta e si lasciò cadere al suo fianco. Moira si morse il labbro per evitare di scagliarsi contro il suo ragazzo: lui non ne aveva colpa, ma l'ultima cosa di cui avesse bisogno in quel momento era un'altra persona di pessimo umore. «Che c'è, abbiamo perso?» chiese comunque, cercando di essere gentile.
«Sì, com'era prevedibile» fu la secca risposta di Henry. Ma c'era da giurare che non fosse la sconfitta il suo problema principale. «Perché non sei venuta alla partita?» chiese infatti, dopo qualche minuto di silenzio, con tono indagatore.
«Avevo da fare» rispose esasperata Moira. Com'era che tutti si preoccupavano del suo scarso interesse verso la squadra di Quidditch?
Un altro mugugno.
No, quella non era affatto una buona giornata. Moira fece appello a tutto il suo autocontrollo per evitare di scagliare una fattura contro Henry. «Che c'è, amore?» gli chiese invece, anche se con un tono piuttosto seccato.
Lui la guardò dritto negli occhi, poi rispose con una domanda a bruciapelo: «Da quanto va avanti?»
«Cosa?» replicò Moira, che non aveva la più pallida idea di che cosa stesse parlando il suo ragazzo.
Henry si tormentò per qualche secondo un asola della giacca, infine tornò a guardare Moira e sussurrò: «La tua relazione segreta con Edmund».
Fu allora che Moira scoppiò in una risata liberatoria, come se qualcuno le avesse levato un peso di dosso. Il suo ragazzo la fissò perplesso per parecchi minuti, ma solo quando si fu completamente ripresa dall'attacco di ridarella tentò di chiarire la situazione, rispondendo che non aveva alcuna relazione segreta con Edmund.
Henry non sembrava per nulla convinto. «E allora perché Cael vi ha visti uscire dalla biblioteca che parlavate di dirlo a tutti e di uscire allo scoperto?» domandò sospetto.
Moira si lasciò sfuggire un sospiro. Avrebbe dovuto fare due chiacchiere anche con il suo esimio collega Cael Trimble, per fargli presente che non aveva alcun diritto di andarsene in giro a mettere la pulce nell'orecchio al suo ragazzo. Era assurdo che per una sciocca incomprensione si fosse messo in piedi un pandemonio come quello. «Noi stavamo solo...» tentò di spiegare.
«Senti...» la interruppe invece Henry, in tono doloroso ma deciso. «Lo so che Edmund è bello, intelligente, ricco e famoso ed è sicuramente meglio di me... per cui se scegli lui, io lo capisco, però dimmelo. Non... tradirmi, ecco».
Il volto di Henry si trasformò in una maschera di sofferenza: quelle poche parole dovevano essergli costate un immenso sforzo.
Moira si addolcì, intenerita dal sacrificio che il suo ragazzo sarebbe stato disposto a fare per lei. Gli posò una mano sulla guancia e lo guardò dritto negli occhi, per sussurrargli: «Edmund sarà anche bello, intelligente, ricco e famoso ma ha un difetto fondamentale: non è te. Io amo solamente te ed è con te che voglio passare il resto della mia vita».
Henry deglutì, sentendosi improvvisamente uno sciocco per aver dubitato di lei, ma alla fine sorrise timido. E rispose: «Anche io ti amo».

Odio profondo. Odio profondo era l'unica cosa che venisse in mente a Laughlin riguardo a Edmund Burke. O McPride, o come diavolo facesse di cognome.
Laughlin si riteneva una persona comprensiva, magnanima e misericordiosa, ma perfino il Padre Eterno avrebbe avuto serie difficoltà a tollerare l'atteggiamento di Edmund. Semplicemente, aveva smesso di rivolgere loro la parola. Non aveva detto nulla di quello che aveva visto, di ciò che aveva scoperto, né aveva fornito alcun motivo per cui avrebbe dovuto avercela a morte con loro. Eppure, fingeva che loro non esistessero, che non fossero i suoi migliori amici, con i quali aveva condiviso tutto fino a quel momento.
Che cosa c'era da fare se non spedirgli contro una bella fattura gambemolli?
Fu con quella convinzione che si diresse verso la sala dei camini, una vecchia aula al primo piano a cui erano stati aggiunti una serie di camini che comunicavano con l'esterno, attraverso i quali i ragazzi potessero contattare casa. Laughlin aspettò con impazienza che quel primino pisciasotto dei Llapac la piantasse di ciarlare con sua madre, poi buttò nel fuoco una manciata di Polvere Volante e osservò le fiamme diventare verdi. Dopodiché si inginocchiò sul cuscino predisposto apposta sul pavimento e infilò la testa nel camino.
Sotto i suoi occhi si delineò l'elegante salotto di Villa Maleficium. Sua madre, seduta su una delle poltroncine davanti al fuoco, era intenta a disegnare un modellino di abito. «Ma'» la chiamò Laughlin, in tono svogliato.
La signora Maleficium alzò gli occhi dal suo lavoro e sorrise al figlio. «Buongiorno, tesoro» lo salutò affabile. «Tutto bene?»
Laughlin rispose con un muggito. «C'è papà?» chiese invece: doveva domandare a suo padre alcune informazioni sull'accordatura della sua arpa celtica.
«Sta tenendo una lezione in sala della musica» lo informò sua madre, dispiaciuta.
Laughlin sbuffò. «Va be', torno più tardi» commentò e stava per ritirare la testa dal camino, quando la signora Maleficium lo fermò: abbandonò il modellino di abito sulla poltroncina e si avvicinò al fuoco, sedendosi a gambe incrociate sul pavimento.
«C'è qualcosa che non va?» gli chiese, anche se sapeva benissimo che c'era qualcosa che non andava, grazie ai suoi “super sensori da mamma”.
Era probabile che si sviluppassero naturalmente alle donne quando restavano incinte, pensò Laughlin. E poi si ricordò anche che non c'era modo di sfuggire alla rete malefica di domande incalzanti, una volta che i sensori avevano colto qualcosa che non andava. Così fu costretto a rispondere: «È per via di Edmund: si comporta da idiota».
«Peggio di te?»
«Mamma!» fu la protesta di Laughlin, ma quel commento riuscì a strappargli un sorriso. «Comunque sì, ben peggio di me» aggiunse poco dopo; e poi le raccontò quello che era successo.
Daire Maleficium ascoltò con pazienza tutto quello che il figlio aveva da dirle, ma alla fine gli fece un'unica, semplice domanda: «Laughlin, tu vuoi bene a Edmund?»
Laughlin strabuzzò gli occhi. Che cosa stupida da chiedere! Era una robaccia sdolcinata: le ragazzine si volevano bene. Ma loro erano due maschi, di quelli duri, che facevano volentieri a meno di stupidi sentimenti da femminuccia. Edmund era il suo migliore amico, ecco tutto. Però...
Sbuffò.
«Sì, gli voglio bene» borbottò infine, anche se contro voglia. Dopotutto, se era il suo migliore amico, significava che gli voleva bene, no? La signora Maleficium sorrise soddisfatta. «Allora devi stargli vicino, sempre e comunque» gli rivelò.
«Ma lui è un caprone! Non vuole nessuno vicino, ci evita, ci scaccia e...» tentò di lamentarsi Laughlin, improvvisamente furente.
«Non ha importanza» lo interruppe sua madre, dolce ma decisa. «L'amore non ammette condizioni: gli devi stare vicino perché in questo momento lui ha bisogno di te, anche se tenta di evitarti, anche se ti tratta male, anche se non ti vuole».
Laughlin distolse gli occhi da lei, frustrato. Avrebbe voluto urlarle che era difficile, pressoché impossibile sopportare il catastrofico cattivo umore di Edmund, ma tanto sapeva già quello che lei avrebbe risposto: “non ha importanza, sopportalo”.
«Laugh» lo richiamò sua madre e lui fu costretto ad alzare nuovamente lo sguardo su di lei. «Lo so che è difficile» continuò Daire, come se gli avesse letto nel pensiero. «Credi che non ci siano stati momenti in cui avrei voluto lanciare una bella fattura contro tuo padre? O contro te e Bearach?»
Quella domanda strappò a Laughlin un sorriso, perché anche lui avrebbe affatturato volentieri Edmund in quel preciso istante. Forse lui e sua madre non erano poi così diversi. «E perché non l'hai fatto?» le chiese, dal momento che non riusciva proprio a trovare un buon motivo per non spedire Edmund direttamente in infermeria.
Sua madre sorrise. «Perché vi voglio bene» fu la sua spontanea risposta. «Se tu ci tieni davvero alla tua amicizia con Edmund, allora devi farti forza, ignorare il suo caratteraccio e stargli vicino più che puoi».
Era una sentenza definitiva, Laughlin se ne rese subito conto. Niente appello, niente ricorsi. Non gli restava che dare il suo assenso: «Va bene, ma'. Ci proverò».
«Bravo il mio ragazzo» approvò la signora Maleficium.
Tuttavia, mentre si salutavano, Laughlin fu fulminato da un'altra idea: lui non era l'unico migliore amico di Edmund. Oh, no.
Sorrise soddisfatto, mentre un altro ragazzo prendeva posto davanti al camino che aveva appena lasciato. Avrebbe messo sotto anche Mairead, con quella storia di stare vicini a Edmund. Non si sarebbe sobbarcato tutto il lavoro da solo, proprio no.
Anzi, avrebbe messo sotto tutto il FIE. Turni regolari di sopportazione.
Le conseguenze possibili sarebbero state due: o Edmund si lasciava finalmente andare e la piantava di comportarsi da imbecille, oppure gli sarebbe venuto un attacco isterico e avrebbe ucciso tutti loro.
In qualsiasi caso, Laughlin avrebbe condiviso la pena con qualcuno. Mal comune, mezzo gaudio, dicevano.
Il suo sorriso si allargò ancora di più.
Sono un maledetto genio. si disse. Edmund, preparati a vivere il peggiore dei tuoi incubi!







Buongiorno a tutti!
Perdonatemi, lo so di essere in ritardo, ma ho avuto qualche problema familiare: sono riuscita a preparare il capitolo e ad andare in università per aggiornare solo oggi.
Comunque, il fantastico personaggio di Moira si meritava un po' di spazio. Questa prima parte del capitolo si è praticamente scritta da sola! La scena con Laughlin e sua madre, invece, era nella mia testa da parecchio tempo: Laughlin da solo non ci sarebbe mai arrivato, per cui aveva bisogno di un tocco femminile per capire che avrebbe dovuto sopportare Edmund e il suo caratteraccio, pur di aiutarlo. Se qualcuno di voi, come me, è costretto a sopportare amici e/o fratelli lunatici, sa benissimo di cosa sto parlando! ;)
Intanto, QUI l'immagine del capitolo: Mairead e Moira! Era secoli che avevo voglia di colorare la divisa dei Llapac! ^^
Devo anche avvertirvi che, in linea di massima, il prossimo capitolo sarà lunedì 11 febbraio, ma sempre in virtù dei miei guai casalinghi, non vi assicuro puntualità. Spero possiate comprendere!
Grazie a tutti voi, un abbraccio
Beatrix

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Capitolo 23
*** Fuga dalla realtà ***


CAPITOLO 23
Fuga dalla realtà






Edmund cercò di scollarsi di dosso quella piattola di Dedalus, con una lunga e ostile occhiataccia: la trasfigurazione umana era già abbastanza complicata senza che ci si mettesse anche lui.
«Lo sai che esistono dei vermi indiani che hanno una peluria su tutto il corpo di questo stesso colore?» gli chiese Dedalus, ignorando totalmente la reazione dell'altro e facendo strane facce alla sua immagine riflessa allo specchio: seguendo le istruzioni del professor Cumhacht, si era trasfigurato le sopracciglia di un acidissimo color verde.
Edmund, dal canto suo, visto che aveva avuto già in passato una brutta esperienza con le sopracciglia, non aveva ancora tentato l'impresa. Né aveva alcuna voglia di sopportare le folli declamazioni di Dedalus su vermi indiani, ma il Llapac gli si era incollato dall'inizio della lezione e non voleva saperne di lasciarlo in pace. A dire la verità, era da una settimana a quella parte che i membri del FIE parevano essersi messi d'accordo per pedinarlo durante tutta la giornata e non lasciarlo mai solo. Il peggio era stato quando Lily Sharpaty, stupida e testarda come solo una Raloi poteva essere, l'aveva seguito persino in bagno, suscitando numerose proteste da parte degli altri ragazzi che già si trovavano ai servizi.
«Allora, McPride?» lo richiamò proprio in quel momento il professor Cumhacht. «Abbiamo intenzione di lavorare o siamo qui a fare tutù per Mollicci?»
«No, signore» borbottò Edmund, contrariato per essere stato ripreso. Si osservò allo specchio, si concentrò e tentò la trasfigurazione. Tentò, perché non successe un bel niente. Tutta la classe si fermò a guardarlo, perché era una novità che non riuscisse in qualcosa al primo colpo. Tentò di nuovo, frustrato, e poi un'altra volta ancora.
Non successe nulla.
Edmund cominciò a sudare, messo in agitazione dal suo insuccesso davanti a tutti; si sentì come se non fosse più capace di fare nulla, come se fosse un'inutile nullità. Agitato come non mai, certo che, di nuovo, non ce l'avrebbe fatta, provò la trasfigurazione per l'ultima volta. E proprio per quel suo gesto frustrato e impotente, la bacchetta gli schizzò via dalla mano, come se avesse una volontà propria e si rifiutasse di sottostare agli ordini di un padrone così incapace.
Qualcuno trattenne il fiato, altri si lasciarono sfuggire “oooh” sbigottite; il professor Cumhacht lo squadrò con un misto di delusione e scherno ma ciò che davvero salvò Edmund fu la fine della lezione: l'orologio batté i colpi per segnare l'ora e il ragazzo ne approfittò per ficcare la sua roba in borsa, raccogliere la bacchetta rotolata lontano e squagliarsela alla svelta, seguito dagli sguardi increduli dei compagni.
Ancora scosso per quello che era successo, non si accorse di essere pedinato finché il suo inseguitore non gli fu affianco.
«Ehilà, Ed!» lo salutò allegro Bearach, facendolo trasalire. «Come ti butta?»
«Lasciami in pace» fu la sua gelida risposta, per quanto sapesse benissimo che non sarebbe bastata quella a demolire l'incrollabile spirito d'iniziativa di Bearach.
«Che avete fatto di bello oggi a lezione?» domandò infatti quello, sfoggiando un sorriso a trentadue denti.
«Lasciami in pace» ripeté Edmund, usando il tono più sgarbato che conoscesse.
Non fu affatto a sufficienza. «Eddai, Ed!» ci scherzò su Bearach, dandogli un finto spintone sulla spalla. «Non fare il brontolone!» Fu allora che Edmund estrasse la sua bacchetta fedifraga e gliela puntò contro. Vide Bearach sgranare i suoi occhi nocciola e, da qualche parte in fondo allo stomaco, la sua coscienza si ribellò, facendo nascere in lui uno sgradevole senso di colpa, ma decise di ignorarlo. «Si può sapere cosa diavolo vuoi?» sbraitò furibondo.
Bearach alzò le mani in segno di innocenza. «Volevo solo fare due chiacchiere con te» si giustificò, tentando di apparire naturale. Ma, forse a causa della bacchetta puntata contro di lui, la voce gli uscì simile ad uno squittio spaventato.
Edmund non gli avrebbe mai fatto del male, certo, ma in quel momento... era furioso. Furioso e stufo di essere pedinato: voleva capire cosa avessero in mente quei disgraziati e perché non lo lasciassero in pace. Lui li trattava tutti da schifo, pur di restare solo: per quale motivo si ostinavano ad essere gentili con lui e a stargli vicino?
«Non mi mentire, Bearach!» intimò al ragazzino, stringendo la presa sulla bacchetta. «Che cosa state progettando?»
Bearach scosse la testa, improvvisamente impaurito dalla reazione folle di Edmund. Tentò di negare, di mugugnare qualcosa, ma alla fine cedette, perché non era uno stupido Raloi coraggioso. «È un'idea di Laughlin» rivelò sottovoce. «Ci ha ordinato, letteralmente, di stare con il naso incollato al sedere di Eddy» ripeté la frase del fratello, poi specificò: «Il tuo sedere, insomma».
La rabbia di Edmund si sgonfiò come un palloncino: per quanto fosse assurdamente furibondo, gli venne da ridere, perché quella era proprio il genere di cosa che avrebbe potuto dire Laughlin. Ma subito l'ilarità fu sostituita da una fitta di nostalgia per i suoi amici: non parlava con loro da settimane e, per quanto volesse fingere il contrario, gli mancavano terribilmente. Avrebbe voluto confidarsi con loro, ma come avrebbero reagito quando avesse confessato loro tutta la verità? Quando avesse ammesso di non essere altro che il malvagio esperimento voluto dal capriccio di un mago oscuro? Un clone di Voldemort, un'arma nelle sue mani, una volta che lo avesse trovato.
No, per il loro bene avrebbero fatto meglio a stargli lontani. Lui era una minaccia per chiunque gli si avvicinasse e non poteva coinvolgerli in quella storia: voleva loro troppo bene per rischiare di metterli in pericolo. Doveva allontanarli da sé, a ogni costo.
Bearach era ancora lì a guardarlo, spaventato e insieme preoccupato.
«Di' agli altri di lasciarmi in pace» mormorò stancamente Edmund, improvvisamente piegato da tutto l'orrore che aveva intorno. Non riusciva più nemmeno ad essere arrabbiato.
Finalmente Bearach capì che non era proprio il caso di insistere oltre e lo lasciò andare via abbattuto.
Edmund si diresse verso la torre dei Raloi, verso il suo dormitorio, alla ricerca del kit di manutenzione delle bacchette magiche che Moira e gli altri gli avevano regalato per il suo compleanno. Ignorando completamente le altre lezioni della giornata, cercò di capire cosa ci fosse che non andava nella sua bacchetta. Non gli era mai successo che questa non rispondesse ai suoi comandi.
Si sentiva stanco, inutile, provato. Non si ricordava quando fosse stata l'ultima volta che aveva fatto un pasto completo, o quando avesse riposato sereno per tutta la notte. Da un mese a quella parte incubi terribili sconvolgevano il suo sonno, facendolo svegliare in un bagno di sudore senza che ricordasse nulla di quanto aveva sognato. Non riusciva più a stare attento a lezione, non riusciva più a studiare e ora anche la sua bacchetta si rifiutava di obbedirgli.
Aveva pensato più volte di non meritare nemmeno di vivere. Un mostro come lui non sarebbe dovuto esistere. Non era altro che il clone di un altro uomo, un'arma creata per rispondere ciecamente ai suoi capricci. E se anche fosse riuscito a sfuggire a Voldemort (cosa che dubitava fortemente) il suo destino era segnato: era la sua copia genetica, sarebbe diventato malvagio come lui.
E tuttavia non aveva davvero la forza di porre fine alla sua vita. Un brivido orribile di puro gelo gli attraversava il corpo tutte le volte che ci pensava.
No, non poteva morire, non ancora. Voleva delle risposte da McFarren, voleva sapere. L'interventista doveva essere ancora vivo, da qualche parte, altrimenti non avrebbe potuto inviargli l'orologio del Gran Maestro e lasciargli le istruzioni per trovare il laboratorio di Lerwick. E Edmund aveva anche trovato il modo di contattarlo: inviare alla ricerca dell'uomo un Patronus che potesse portare il suo messaggio. Il problema era che in quelle condizioni non riusciva nemmeno ad evocare una timida nebbiolina argentea, figuriamoci un Patronus corporeo.
Per di più, ora si era aggiunto il problema della sua stramaledetta bacchetta magica. Che cosa le era preso? Perché si rifiutava di obbedire?
Secondo il kit di manutenzione non aveva nulla che non andava, per cui immaginò che non sarebbe bastata una ricerca in biblioteca per capire cosa le fosse accaduto: aveva bisogno di farla vedere ad un esperto.
Gli venne immediatamente in mente il signor Olivander: era il miglior fabbricante di bacchette del mondo, a quanto si diceva. Sapeva anche come raggiungerlo, dato che aveva letto un libro sui luoghi magici dell'Europa e quindi sapeva tutto di Diagon Alley. Gli sarebbe bastato usare il passaggio segreto per uscire dal Trinity, approfittando del fatto che tutti gli altri studenti erano a lezione, materializzarsi a Londra, raggiungere il Paiolo Magico e trovare il negozio di Olivander.
Fu più facile a dirsi che a farsi, soprattutto per via della Materializzazione: non aveva considerato che tentare quella magia nelle sue condizioni sarebbe stato un azzardo. Per fortuna non successe nulla di grave, senonché arrivò in un vicolo di Londra e si accasciò a terra pronto a vomitarsi l'anima. In realtà non fece altro che rivoltarsi lo stomaco, dal momento che non aveva nulla dentro da poter vomitare. Attraversò le strade di Londra prima e di Diagon Alley poi in uno stato febbricitante: era pallido e sudato, allo stremo delle forze, ma non ebbe intenzione di fermarsi. Doveva assolutamente capire cosa fosse successo alla sua bacchetta.
Non prestò alcuna attenzione ai manifesti affissi alle vetrine e ai muri, che indicavano Silente come nemico latitante e segnalavano una serie di maghi fuggiti dalle prigioni di Azkaban al seguito di un certo Sirius Black. Semplicemente, si diresse senza esitazione verso le vetrine di Olivander, sporche e disordinate.
Entrò titubante nel negozio. Era piccolo e angusto, quasi soffocante, con tutte quelle scatole ordinate di bacchette che si inerpicavano sulle alte pareti. Uno scampanellio delicato avvertì del suo ingresso e poco dopo comparve dal retrobottega il signor Olivander. Era anziano e inquietante proprio come Edmund se lo ricordava, con quei suoi due occhi argentei scoloriti e spalancati.
«Buongiorno, signor Burke» lo salutò, e se anche dovesse essere sorpreso di ritrovarselo in negozio, non lo diede affatto a vedere.
A Edmund invece fece uno strano effetto sentirsi chiamare con il suo vecchio cognome. Dopo essersi abituato ad usare quello del suo padre adottivo, provava un'insolita sensazione di nostalgia nel ricordare che Burke era stato il suo cognome di orfano. Ovviamente il signor Olivander non poteva conoscere gli ultimi avvenimenti dell'Irlanda né sapere che lui ora era diventato Edmund McPride. Ma lo era diventato davvero?
Scacciò quei pensieri dalla testa ed estrasse la sua bacchetta. «Non funziona più bene» disse semplicemente, mostrandola al fabbricante. «Oh, ricordo» mormorò Olivander. «Un lavoro di O'Tunnel, vero?» chiese e poi si fece passare la bacchetta: prese a osservarla per qualche secondo, infine sospirò.
«Cos'ha che non va, signore?» domandò Edmund, preoccupato.
Olivander scosse la testa, sospirò nuovamente e solo alla fine si decise a rispondere: «La sua bacchetta non ha nulla che non va, signor Burke».
«Ma... com'è possibile?» sbottò Edmund. «Non obbedisce più ai miei comandi!»
L'anziano mago se la rigirò tra le mani, come fosse sovrappensiero, poi sospirò: «Tredici pollici, legno di abete e crine di Kelpie, rigida».
«Conosco le proprietà della mia bacchetta, signore» precisò Edmund, con un certo disappunto; gli avevano detto che nessuno conosceva l'arte delle bacchette magiche meglio di Olvander, tuttavia sembrava proprio che l'uomo non sapesse soddisfare i suoi dubbi.
«A quanto pare, non le conosce abbastanza» fu la replica del mago. «Vede, l mio esimio nonno, Gerbold Octavius Olivander, ha sempre definito quella di abete “la bacchetta del sopravvissuto”, perché l'aveva venduta a tre maghi che, in seguito, avevano superato indenni un pericolo mortale».
Edmund chiuse e riaprì la mano destra con fare irritato. «Questo cosa c'entra con me?» sbuffò innervosito.
«È la bacchetta a scegliere il mago, glielo hanno mai detto?» chiese Olivander, invece di rispondere alla sua domanda.
Edmund sbuffò: non gli interessava una lezione sull'argomento, perché l'unico scopo di quella visita era capire cosa fosse successo alla sua. «L'ho letto da qualche parte» rispose alla fine, visto che l'anziano mago non sembrava intenzionato a soddisfare il suo quesito.
Olivander sorrise, quel suo sorriso senza allegria che lasciava gli occhi freddi e incolori. «Ha letto giusto. Vede, questa bacchetta la scelse perché vide in lei l'unico mago in grado di dominarla» spiegò tranquillo.
«Dominarla?»
«La sua è una bacchetta molto potente, signor Burke» lo informò l'anziano fabbricante. «Il legno di abete, provenendo dall'albero più resistente in assoluto, crea bacchette che richiedono ai loro legittimi proprietari un potere stabile e propositi fermi. Allo stesso tempo, il Kelpie è un animale ingannevole e infido, per cui il suo crine produce bacchette molto potenti ma volubili. L'avevo avvertita l'anno scorso, al torneo Trecolonie: la sua bacchetta predilige un padrone dal comportamento deciso, determinato e, di quando in quando, intimidatorio». Fece una pausa, come per sottolineare l'ultima parola, poi concluse: «Si rivela invece uno strumento scarso nelle mani di una persona indecisa e incostante».
«Io non sono una persona indecisa e incostante» protestò Edmund, offeso da quell'ipotesi quanto mai presuntuosa.
Eppure Olivander sorrise in modo ambiguo e fastidioso. «Non le è successo nulla in questo periodo, signor Burke, che abbia sconvolto il suo mondo, che l'abbia turbata, rendendola... incerta e indecisa?» domandò, come se conoscesse già la risposta.
Edmund scrutò a fondo l'anziano mago: possibile che sapesse qualcosa? Che avesse avuto modo di informarsi su quanto era accaduto a Lerwick? Il ragazzo rimase ad osservare l'altro per parecchi secondi, alla ricerca di qualche segno di bluff. No, non era possibile che conoscesse quella storia: il segreto degli Interventisti sulla sua nascita era al sicuro. Fu allora che Edmund arrischiò una provocazione: «Cosa ne sa, lei?»
Il sorriso di Olivander svanì leggero, sostituito da quell'espressione compiaciuta di chi sa di aver indovinato. «Io so solo quello che leggo nella sua bacchetta» rispose tranquillo, allungando le braccia per restituirgliela.
Edmund gliela strappò di mano quasi con violenza. Si voltò di scatto, con sdegno, ma il pavimento sotto i suoi piedi cominciò ad ondeggiare e fu costretto ad aggrapparsi al bancone. Sentì come se una qualche creatura mostruosa gli risucchiasse via le forze, mentre il mondo intorno a lui oscillava sinuoso.
Fu in quel momento che vide (o si immaginò?) un bambinetto moro entrare in quello stesso negozio per comprare la sua prima bacchetta magica. Era alto per la sua età, vestito alla Babbana. Aveva lo sguardo torvo e gli occhi... gli occhi erano rossi. Gli assomigliava.
Era lui da giovane o era un lord Voldemort bambino?
«Signor Burke, si sente bene?» domandò una voce lontana.
Il bambino scomparve nel nulla.
Da qualche parte dentro di sé, Edmund trovò la forza sufficiente per biascicare un: «Sì, grazie» e uscire dal negozio.
Fu per strada - dopo pochi metri o aveva camminato molto di più? Non sapeva dirlo... - fu per strada che intravide un uomo dai capelli rossi che gli sembrava di conoscere. L'aveva già visto, ma non sapeva dire dove. Allungò una mano verso di lui (e la tizia vicino aveva davvero i capelli viola o era uno scherzo della stanchezza?). Fra le tante cose che poteva dire, gliene uscì solo una: «Silente, devo vedere Silente».
E poi si accasciò a terra privo di forze.

«Siete per caso impazziti?»
«Ti ho detto che lo conosco! E poi non potevamo abbandonarlo lì svenuto».
«E allora? Questo è il Quartier Generale dell'Ordine, non il San Mungo!»
Erano voci fastidiose, che tuonavano nella sua testa, rombavano, rimbombavano, risuonavano. E non aveva la più pallida idea di dove si trovasse. Né di come ci fosse arrivato.
«Aveva chiesto di Silente». La voce di prima.
E poi quell'altra, raschiante e dura: «Fastastico, Arthur! Perché non porti qui anche il Ministero, allora? Anche loro chiedono di Silente!»
Edmund aprì lentamente gli occhi, ma il mondo parve appannato come se qualcuno avesse calato un vetro sporco davanti al suo viso. Doveva essere sdraiato, perché sulla sua testa penzolava un lampadario cigolante che odorava di cera.
«Non è uno del Ministero: è l'amico irlandese della mia figlioccia» disse di nuovo la voce di prima.
Edmund si voltò di fianco, lentamente, incerto nei suoi movimenti come un bambino appena rimesso da un'influenza quasi letale. Qualcuno gli aveva tolto la giacca della divisa e gli aveva slacciato i primi bottoni della camicia e la salopette, che ora penzolava sulle gambe. Realizzò di essere steso su un vecchio divano, puzzolente di muffa e di chiuso: il tessuto era liso, con piccole macchie di bruciatura, il legno delle gambe e dei braccioli eroso dalle tarme. Considerando che il vecchio divano non si meritava tutta questa attenta analisi, Edmund spostò gli occhi sugli occupanti del vecchio salotto: c'era la bizzarra ragazza con i capelli viola, il padrino di Mairead (Arthur! Era lui che si chiamava Arthur, no?) e un terzo figuro dall'aspetto inquietante. Indossava un ampio mantello nero, che però non nascondeva la gamba di legno; i lunghi capelli brizzolati incorniciavano un volto crudo, distorto, come scolpito da uno scultore inesperto, attraversato da cicatrici vecchie e nuove; gli mancava un abbondante pezzo di naso e la bocca non sembrava altro che una cicatrice più grossa e più scura delle altre. Ma gli occhi... gli occhi avevano qualcosa di innaturale: il destro era scuro e penetrante, il sinistro era grosso, di un blu elettrico, e pareva muoversi in totale autonomia rispetto all'altro.
Edmund si sentì attraversare da un brivido di gelo, ma non aveva forze a sufficienza per alzarsi dal divano. Intanto, l'uomo di nome Arthur e il tipo inquietante continuavano a discutere.
«Potrebbe aver bevuto una Polisucco!» protestò il mago con l'occhio blu elettrico.
«Certo!» esclamò Arthur. «Un Mangiamorte è andato appositamente in Irlanda per prendere un capello all'amico della mia figlioccia, ingannarmi e farsi portare dentro il Quartier Generale!»
«Potrebbe essere, sì!»
«Forse stai un po' esagerando, Malocchio» intervenne la ragazza dai capelli viola.
«Esagerare, io?» sbottò l'altro, che veniva chiamato Malocchio. «Vedrete che mi ringrazierete quando salverò le vostre sprovvedute chiappe dai Mangiamorte!»
Edmund decise che era giunto il momento di interrompere quell'assurda sceneggiata: raschiando il fondo per recuperare quel briciolo di energie che gli restavano, si tirò in piedi e fece un passo avanti, la mano sollevata per chiedere la parola.
Il tizio di nome Malocchio, con una rapidità incredibile per un uomo non più nel fiore degli anni, estrasse la bacchetta di tasca e gliela puntò contro, mentre Arthur alzava le braccia verso di lui, come per invitarlo a risedersi sul divano dal quale si era alzato.
«Non sono un Mangiamorte» spiegò Edmund, tentando di usare un tono calmo e sicuro, nonostante la bacchetta puntata contro di lui. «Sono Edmund... - esitò - ...Burke. E devo parlare con il professor Silente».
«Tu non parli proprio con nessuno!» tuonò il mago con l'occhio blu. «E te ne stai lì seduto finché non decidiamo che fare di te».
Edmund racimolò l'ultimo briciolo di forze per estrarre di tasca la bacchetta con una velocità sufficiente a impedire di essere disarmato come uno scolaretto alle prime armi. «Devo parlare con il professor Silente» ripeté, anche se non aveva la più pallida idea di che cosa avrebbe dovuto dirgli.
Malocchio lo guardò con sufficienza e disprezzo. «Non essere sciocco, ragazzino» gli consigliò. «Hai di fronte il miglior Auror del Regno Unito: non hai chance».
«E lei ha di fronte l'uomo più disperato del Regno Unito» replicò Edmund, senza abbassare la bacchetta. «E non sa quanto può essere forte la disperazione» aggiunse, cercando di essere convincente. In realtà, sapeva benissimo di non avere alcuna chance: in un duello ad armi pari, forse avrebbe anche potuto sperare di battere l'Auror di nome Malocchio, che dalla sua aveva l'esperienza ma non certo la freschezza degli anni; tuttavia, in quelle condizioni, allo stremo delle forze e con una bacchetta che non rispondeva ai suoi comandi, sarebbe crollato al primo assalto. Eppure, non aveva alcuna intenzione di subire un Incantesimo di Memoria ed essere rispedito al Tinirty senza aver concluso nulla.
«Edmund, sono Arthur Weasley, il padrino di Mairead» intervenne l'uomo dai capelli rossi, in un banale tentativo di conciliare le parti. «Ti ricordi di me, vero?» chiese e solo quando l'altro accennò ad un debole sì con la testa si azzardò a riprendere: «Bene, ora metti via la bacchetta e torna a sederti, così discutiamo con più calma».
Edmund soppesò la proposta per una manciata di secondi: ritenne che Arthur dovesse essere un uomo di cui ci si poteva fidare, così abbassò il braccio e chiese: «Mi promettete di farmi parlare con Silente?»
«Nessuno sa dove sia» intervenne la ragazza dai capelli viola e sembrava quasi dispiaciuta.
Edmund si sentì svuotato. Non sapeva che cosa avrebbe detto al mago, una volta che si fosse trovato faccia a faccia con lui, ma era certo di aver bisogno di confrontarsi con lui. Ma se nessuno sapeva dove fosse...
«Sono qui» si presentò una voce calma e pacata. Apparteneva ad un mago alto, con lunghi capelli argentei e una barba fiorente degna dei migliori racconti cavallereschi. Sul naso adunco portava un paio di occhialetti a mezzaluna, che non nascondevano del tutto la brillantezza dei suoi occhi azzurri. Albus Silente in persona.
«Metti pure via la bacchetta, Alastor» disse il mago, con voce tranquilla che tuttavia trasudava fermezza.
L'anziano Auror mugugnò qualcosa, ma accettò di eseguire l'ordine.
Il professor Silente, allora, si voltò a guardare Edmund, con quei suoi perforanti e indagatori occhi azzurro cielo. «Lasciateci pure soli: io e Edmund dobbiamo fare due chiacchiere» commentò, accennando ad un mezzo sorriso. Quando Malocchio, o Alastor o come diavolo si chiamasse, fece per dire qualcosa, Silente gli mise una mano sulla spalla; non ci furono bisogno di parole: l'altro borbottò scontento ma alla fine cedette.
Non appena furono rimasti soli, Silente si avvicinò a Edmund con un sorriso affabile. «Ti consiglio di sederti sul divano: hai un aspetto orribile».
Il ragazzo si lasciò cadere come un peso morto e si prese la testa tra le mani. Adesso che Silente era lì, non sapeva cosa dirgli. Perché aveva voluto vederlo a tutti i costi?
La sua mente ritornò a quel pomeriggio a Diagon Alley: poco prima di svenire aveva chiesto di incontrarsi con Silente. Ma perché?
Poi si ricordò: stava pensando a lui, in quegli istanti prima di accasciarsi sul marciapiede. Aveva immaginato di vedere un bambino entrare nel negozio di Olivander, un'allucinazione dovuta senza dubbio alla stanchezza. Non sapeva ancora dire se il bambino fosse lui da giovane o fosse un piccolo Voldemort, ma quella visione aveva scatenato una reazione a catena: si era chiesto come fosse stato Voldemort alla sua età, come fosse stato da bambino. Era come tutti gli altri o aveva già in sé qualcosa di malvagio? Aveva avuto una famiglia, fratelli o sorelle? Doveva aver frequentato Hogwarts: forse Silente avrebbe potuto dirgli qualcosa di lui.
Ma ciò che più lo preoccupava era di scoprire delle somiglianze tra se stesso e il giovane Voldemort, perché, se lui era praticamente un suo clone, che cosa gli avrebbe impedito di diventare malvagio a sua volta?
Mentre si struggeva in questi pensieri, Silente aveva fatto apparire una poltrona azzurra e si era seduto di fronte a lui.
Edmund alzò gli occhi sull'anziano mago e domandò con un filo disperato di voce: «Com'era lui da giovane?»
Fu certo di non aver alcun bisogno di specificare chi intendesse con quel “lui” perché, se davvero Silente l'aveva incontrato da ragazzo, non poteva non notare le somiglianze fisiche tra di loro.
L'uomo gli rivolse un sorriso tranquillo, ma che non riusciva a nascondere del tutto un certo distacco. «Che cosa ti preoccupa?» gli domandò.
E non ci fu bisogno di usare mezzi termini. «Di essere come lui» rispose immediato Edmund.
Silente gli riservò un sorriso più sincero e caloroso del precedente. «Tu non sei come lui» lo rassicurò.
«Com'era da giovane?» insistette Edmund, con un'urgenza tanto devastante da essere quasi dolorosa.
«Si chiamava Tom Orvoloson Riddle» cedette infine Silente. E cominciò a raccontare di quando l'aveva incontrato per la prima volta, a undici anni, di come si comportava il giovane Riddle a scuola, della sua disperata ricerca delle sue origini e della scoperta di essere figlio di un Babbano e al contempo discendente di Salazar Serpeverde attraverso la famiglia Gaunt. E infine di come avesse usato il suo immenso potenziale per il male.
Edmund si sentì male quando considerò tutte le somiglianze tra di loro: entrambi cresciuti in un orfanotrofio, senza sapere nulla dei propri genitori, entrambi estremamente dotati, entrambi apprezzati dai professori. L'ovvia conseguenza era solo una: il male e l'oscurità lo attendevano.
«Tu non sei come lui» fu l'assurda e incongruente conclusione del professor Silente.
«Le somiglianze... sono troppe!» replicò Edmund, ormai sull'orlo della disperazione. Se anche Voldemort non lo avesse mai trovato, se anche l'orrida maledizione che McFarren gli aveva imposto (quella di diventare un burattino senza volontà nelle mani del mago oscuro peggiore di tutti i tempi) non si fosse avverata, il suo destino era comunque segnato: il male era la sua attrazione fatale.
«Non consideri le differenze» gli suggerì Silente.
Edmund, stupidamente, pensò ai suoi occhi azzurri. Quelli non erano di Tom Riddle.. Erano di Melita e quando McFarren glieli aveva donati, si era augurato che Edmund ereditasse dalla bambina anche il cuore. Aveva davvero il cuore puro e innocente di Melita?
Fu Silente a rispondergli, commentando: «Tom Riddle non ha mai avuto amici: non conosceva l'amore».
Edmund si sentì improvvisamente invadere da un senso di calore e insieme di nostalgia. Pensò a Laughlin e Mairead, pensò ai ragazzi del FIE che, nonostante il suo tentativo di allontanarli trattandoli come stracci, non avevano smesso di stargli vicino. Lui aveva cercato di scacciarli, ma i suoi amici non l'avevano abbandonato. Si sentì uno schifo per come li aveva trattati, tuttavia non poté fare a meno di pensare che erano proprio loro a rendere la sua vita sopportabile: quando, quella mattina, aveva ripensato a Laughlin e Mairead si era sentito stranamente più tranquillo, nonostante l'orrore che aveva intorno.
Era davvero quello, era l'affetto che provava nei confronti dei suoi amici a renderlo tanto diverso da Tom Riddle?
Il professor Silente notò che le sue parole avevano instillato il dubbio in Edmund e ne approfittò per rivelargli il suo ultimo segreto: «Sono le scelte che facciamo che dimostrano quel che siamo veramente, molto più delle nostre capacità».
Fu in quel momento che Edmund si rivide sulla riva del lago del Trinity, a dodici anni, ad osservare Mairead che veniva trascinata a fondo dalle alghe carnivore. Si ricordava di essersi sentito onnipotente, perché la vita di Mairead stava nelle sue mani: avrebbe potuto salvarla o continuare a pensare solamente a se stesso e voltarle le spalle. Aveva deciso di aiutarla, perché gli era tornata in mente la frase del filosofo che portava il suo stesso nome: perché il male trionfi, è sufficiente che i buoni rinuncino all'azione.
Ma lui aveva scelto e aveva agito. Aveva preso una decisione che Tom Riddle non avrebbe mai preso e da quella decisione era nata la sua amicizia con Mairead e Laughlin.
Ora aveva capito qual era la differenza tra di loro: lui era Edmund Burke e sapeva scegliere il bene perché conosceva l'amore.
E Edmund fu certo che, quella sera, la sua bacchetta di abete avrebbe risposto perfettamente ai comandi e lui sarebbe stato in grado di fare un ottimo Patronus.







Welcome back Edmund Burke!
Lo so di essere in ritardo di qualche giorno ma, come poteve vedere, questo è un capitolo bello farcito. Eddy finalmente sta prendendo in considerazione l'idea di non essere proprio un mostro malvagio... alla buon ora, direte voi!
Avevo bisogno che Edmund incontrasse Silente perché solo lui sapeva di Tom Riddle e volevo che Edmund conscesse il segreto del giovane Voldemort; al tempo stesso, avevo bisogno di mostrare come la bacchetta di Ed ha bisogno di propositi fermi, perché un punto debole glielo devo pur trovare a questo fanciullo, altrimenti che gusto c'è? Tronerà questa storia della bacchetta, fra un bel po' di tempo, ma mi serviva di introdurla già adesso. Ovviamente, le proprietà del legno di abete sono prese da Pottermore.
Infine, cominciano i contatto con il mondo anglosassone: e questo è solo l'inizio!
Prometto anche che nei prossimi capitoli ci sarà un po' di azione... un bel po' di azione, a dire la verità! Ma anche tante risate, perché il FIE (quasi) al completo scenderà in campo. Spasso assicurato con Faonteroy e Dedalus, promesso! ;)
Avrei tante cose da dire ma ho poco tempo per dirle, quindi lascio la parola ai vostri commenti... suvvia, non siamo mica qui a fare tutù per Mollicci! ^^
Nel frattempo, godetevi qualche immagine:
QUI una visione dell'allegro salotto di Grimmauld Place, con la sua adorabile tappezzeria;
QUI un'immagine di Tom Riddle (a 11 e a 16 anni) e di Edmund (a 12 e a 17 anni)... giusto per apprezzare un po' somiglianze e differenze!
QUI, infine, l'immagine del capitolo: Edmund (conciato un po' male) a Grimmauld Place con Malocchio, Arthur e Tonks.
Grazie a tutti voi per l'appoggio e l'affetto dimostratomi!
Ci vediamo, se tutto va bene, lunedì 11 marzo, nel pomeriggio con un altro super capitolo.
A presto,
Beatrix B.

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Capitolo 24
*** Missione di salvataggio ***


CAPITOLO 24
Missione di Salvataggio






Mairead stava sognando di volare su una scopa meravigliosa, una Firebolt di ultimo modello. Però non era davvero lei: era una bambina mora con i codini e insieme a lei volavano i suoi fratelli. Uno, piuttosto incapace a cavallo della sua scopa, era la copia sputata di Edmund, ma aveva gli occhi verdi degli O'Brian.
Nemmeno si accorse di essersi svegliata, finché non sentì una strana melodia che riempiva il dormitorio femminile del quinto anno. Stava pensando a Edmund, non sapeva nemmeno il motivo. Durante l'ultima settimana si era comportato in modo meno scontroso: un giorno non si era presentato alle lezioni del pomeriggio e, quando era ricomparso la sera in Sala Mor, si era seduto di sua spontanea volontà vicino a lei e Lily. Non che, durante la cena, si fosse dimostrato particolarmente loquace, ma almeno aveva evitato di sfogare la sua ira repressa contro il mondo intero. Un gran passo avanti, visto come si era comportato nell'ultimo mese.
Mairead si ritrovò nel buio a fissare quelle che dovevano essere le tende verdi del suo letto a baldacchino. La melodia che sentiva e che le aveva fatto venire in mente Edmund non apparteneva al suo sogno: era reale.
Improvvisamente lucida, si catapultò giù dal letto e corse ad affacciarsi alla finestra, con la netta sensazione che lì avrebbe trovato un significato a quel canto. Non le ci volle molto per individuare nel cielo la sagoma di un uccello aggraziato, reso ancora più maestoso dalla lunga coda di piume infuocate.
Carmen, la fenice di Edmund.
Il suo canto parlava direttamente al cuore, sussurrava parole, come fosse una voce angelica. E, per quanto Mairead non sapesse nulla di musica, era assolutamente certa del significato di quella melodia: era una richiesta d'aiuto. Non sapeva cosa la rendesse così sicura, tuttavia era chiaro che Edmund doveva trovarsi in qualche guaio.
Carmen pareva quasi umana, con il suo canto d'allarme e insieme di urgenza.
Mairead si sentì d'improvviso lucidissima e piena di coraggio. Infilò una vestaglia leggera sopra il pigiama e si affrettò verso il dormitorio maschile del quinto anno, sebbene fosse più che certa che non vi avrebbe trovato Edmund beatamente addormentato. Infatti, tre ragazzi russavano tranquilli nei rispettivi letti, ma il quarto era intatto. O Edmund non era nemmeno andato a dormire oppure, quando si era alzato per andarsene, aveva avuto tempo a sufficienza per risistemare il suo letto. Il che significava che se n'era andato consapevolmente e di sua spontanea volontà.
Ma per recarsi dove?
Mairead tornò a passo svelto nel dormitorio femminile, frugò nel baule ed estrasse il suo specchio comunicante che Laughlin aveva regalato a loro tre per il diciassettesimo compleanno di Edmund. Tentò di chiamare l'amico, ma non rispose nessuno: probabilmente Edmund non l'aveva preso dietro, oppure non aveva intenzione di farsi rintracciare.
Bene. Era decisamente arrivato il momento di piantarla con quella storia.
«Laughlin!» abbaiò verso lo specchietto, mentre si levava il pigiama per indossare la sua divisa verde. «Laughlin!»
Una voce impastata biascicò qualcosa quando un Laughlin parecchio assonnato apparve sullo schermo di Mairead. Il borbottio indistinto che seguì l'apparizione fece capire alla ragazza che l'amico era ancora tra le braccia di Morfeo.
«Svegliati!» tuonò, infilandosi le scarpe e scivolando fuori dal dormitorio femminile del quinto anno.
«Che c'è?» borbottò Laughlin, infastidito e per nulla lucido.
«Edmund è scomparso!» fu la doccia fredda che gli buttò addosso Mairead, senza troppi complimenti.
Per poco Laughlin non si ribaltò dal letto. «Chi... cosa... Ed scomparso?» tentò di articolare, senza molto successo.
«Scomparso! Non senti il canto della sua fenice?» gli fece notare Mairead.
Ci fu un qualche attimo di assoluto silenzio, poi la voce di Laughlin suonò sicura: «Tra cinque minuti in ingresso».
Fu di parola: cinque minuti dopo si presentò in ingresso con indosso la divisa e perfettamente sveglio. Poco importava se aveva infilato la giacca al contrario: Mairead non ebbe il cuore di farglielo notare.
«Per prima cosa perlustriamo palmo a palmo il castello» propose Laughlin, con cipiglio da capo. «Sarebbe assurdo dare l'allarme e poi, magari, quel cretino si è solo addormentato in biblioteca».
Mairead sbuffò, ricordandosi di quando, al secondo anno, credeva che Edmund fosse stato aggredito dalla setta degli Eletti e invece si era solo assopito in biblioteca. «Ci impiegheremo una vita, però» fu il suo commento.
Laughlin annuì pensieroso; restò qualche secondo in silenzio, poi propose: «Io vado a svegliare Dominique e mi faccio aiutare ad evocare sir Percivall, tu intanto cominci le ricerche».
Mairead annuì convinta, poi si diresse a passo svelto verso la biblioteca, sicura che quello sarebbe dovuto essere il primo posto in cui frugare. La serratura era ovviamente chiusa, ma bastò un tocco di bacchetta perché le porte si aprissero con sinistri cigolii. Tentando di fare meno rumore possibile, la ragazza fece passare tutte le zone senza successo: di Edmund non c'era traccia.
Uscendo dalla porta principale, per poco non le venne un infarto quando si scontrò con qualcuno.
«Che cosa...?»
«Chi è?»
«Moira?» indagò Mairead, riconoscendo la voce.
«Lumus» sussurrò la ragazza, illuminando se stessa, Henry e Dedalus, tutti con indosso la divisa e con le facce preoccupate. «Che fate in giro?» chiese Mairead, scuotendo la testa.
Dedalus mostrò la spilla del FIE. «Qualcuno ha usato la bacchetta per chiamarci...» spiegò annuendo.
«...e doveva essere successo qualcosa di grave per svegliarci in piena notte» completò la frase Henry, sfregandosi gli occhi per il sonno.
Mairead annuì, vedendoci finalmente chiaro: era probabile che fosse stato Dominique a suggerire l'idea di chiamare il FIE con le spille, visto che il ragazzo aveva sempre un senso pratico molto spiccato per risolvere le situazioni problematiche. A quel punto, tanto valeva farsi aiutare nelle ricerche. «Edmund è scomparso» rivelò ai tre Llapac in tono tetro.
Calò un silenzio carico di tensione, finché Moira non giunse alla stessa conclusione di Laughlin: «Perlustriamo prima il castello, poi vedremo il da farsi».
Scuri in volto, i quattro ragazzi annuirono, si divisero le zone in cui cercare e si diedero appuntamento in ingresso dopo un'ora esatta. «State attenti a non farvi beccare» fu l'ammonimento finale di Mairead. «L'ultima cosa di cui abbiamo bisogno adesso è che i professori scoprano l'accaduto».
Dopodiché la ragazza si avviò a passo svelto verso l'ingresso della sala comune dei Nagard, con la speranza di incrociare Laughlin e Dominique. E per poco non si fece venire un secondo infarto quando, invece di incontrare i due ragazzi, quasi si schiantò contro un tornado dai capelli biondi. «Lily?» esclamò stupefatta, non appena riconobbe la compagna di squadra. «E tu che ci fai in giro?»
«Potrei farti la stessa domanda» fu la risposta sospettosa di Lily.
Le due ragazze si fissarono con astio malcelato per una manciata di secondi, finché Mairead non cedette: «Sei stata svegliata dalla spilla del FIE?»
«Come fai a saperlo?» indagò Lily, ora più preoccupata che ostile.
«Credo sia stata un'idea di Dominique» suppose Mairead.
«Dominique? No, non ha senso...» borbottò incerta Lily.
Mairead scrutò la compagna con occhio critico, certa che quella avesse un bel delitto da confessare.
Lily, infatti, sbuffò un paio di volte, ma alla fine cedette. «Io e Bearach usiamo le spille dell'EIF per contattarci e andare in giro la notte per esplorare il castello» raccontò, sfuggendo con gli occhi allo sguardo dell'altra. «Credevo mi avesse chiamato lui».
Come a confermare quelle parole, in quel momento comparve proprio Bearach, che si bloccò in mezzo al corridoio quando notò che c'era un intruso. «Ehi...» fu il suo saluto imbarazzato.
«Ormai siete svegli: datemi una mano a cercare Edmund, va'» commentò Mairead, scuotendo la testa rassegnata: sarebbe stato un miracolo se fossero riusciti a muoversi senza farsi beccare, vista tutta la gente che c'era in giro per quell'assurda missione di salvataggio.
Inutile dire che non trovarono Edmund da nessuna parte: controllarono in Sala Mor, nelle aule studio dei vari piani, nei bagni, nelle classi, in infermeria, nella sala trofei, in gufiera, nella cripta e nei sotterranei. Sir Percivall fu incaricato di perlustrare il bosco e la zona delle scogliere, ma se ne tornò al castello a mani vuote. Mairead, nel frattempo, andò a cercare nel covo segreto degli Extraiures e nella stanza dove la setta degli Eletti aveva tenuto prigioniero il dottor Cox, al secondo anno.
Nulla da fare.
«Edmund è uscito dal perimetro della scuola» fu l'ovvia conclusione che trasse Laughlin, quando si ritrovarono tutti assieme in ingresso, un'ora dopo.
«Già» asserì Dominique. «Il problema è: dov'è andato?»
«E come facciamo a raggiungerlo?» borbottò Henry.
Calò un silenzio rassegnato, interrotto dopo qualche attimo da un commento perplesso di Lily: «Laughlin, indossi la giacca al contrario?»
Il diretto interessato si osservò come se si vedesse per la prima volta, ma non riuscì a rispondere per l'improvvisa apparizione di una nona persona.
«Eccomi, scusatemi. Che mi sono perso?» esclamò la voce di Faonteroy, sopraggiunto proprio in quel momento.
«Che ci fai qui?» indagò Bearach, piuttosto perplesso.
Faonteroy sgranò gli occhi nella più pura espressione di sconcerto. «Mi avete chiamato» rispose con tutta la naturalezza del mondo, indicando la spilla del FIE che portava appuntata al corpetto.
«Un'ora fa» puntualizzò Lily.
Faonteroy sembrava scandalizzato. «Ma dovevo prepararmi» fu la sua ovvia risposta.
Incredibilmente, solo allora tutti notarono che il ragazzino era l'unico a non indossare la divisa scolastica, bensì un bizzarro abito da paggetto ottocentesco, con tanto di merletti di seta bianca sul collo e sulle maniche.
«Ma... che diavolo ti sei messo?» sputò fuori Laughlin, indeciso se essere disgustato o scoppiare a ridere.
Faonteroy si lisciò le pieghe dell'abito con aria altezzosa. «Quello che si conviene ad un nobile purosangue del mio rango. Dovresti indossare qualcosa di simile anche tu, Laughlin» commentò in risposta alle facce perplesse dei suoi amici.
Laughlin si ritrasse da lui, disgustato. «Non credo che mi vedrai mai andare in giro con tutti quei pizzi imbarazzanti» concluse scuotendo la testa.
Faonteroy preferì ignorare la provocazione. «Tu piuttosto indossi la giacca al contrario» commentò invece, con aria di superiorità.
«Non siamo qui per parlare di vestiti» tagliò corto Mairead, prima che i due cominciassero a litigare. «Dobbiamo trovare il modo di raggiungere Edmund. Qualcuno ha idee?»
Ci fu un lungo momento di silenzio, in cui ognuno frugò nella propria memoria, alla ricerca di qualcosa che li potesse aiutare.
Mairead sperò tanto che Dominique proponesse qualcosa di geniale perché, dopo Edmund, era lui ad avere le idee più brillanti. Invece, quando lei incrociò il suo sguardo, il Nagard scosse la testa dispiaciuto.
«Ci vorrebbero dei Lucht Siuil» se ne uscì alla fine Dedalus.
«Che cosa?» chiese Bearach, non ancora del tutto abituato alle stranezze del Llapac.
Dedalus sorrise allegro, come se avesse appena trovato la soluzione al problema della scomparsa di Edmund. «I Lucht Siuil, gli Irish Travellers» ripeté pieno di entusiasmo. «Tra le magie druidiche più interessanti che conoscono, ce n'è una che ti materializza vicino alla persona che stai cercando».
Laughlin sbuffò senza ritegno. «E questa dove l'hai letta? In “Aneddoti assurdi che nessuno vuole sentire”?»
Dedalus non si fece minimamente scoraggiare. «No, l'ha detta il professor Saiminiu a Magicologia Irlandese» rispose tranquillo.
«Non l'ha detta a lezione» fu il commento di Laughlin; tuttavia, visto che nessuno sembrava condividere la sua opinione, lui si sentì in dovere di ripetere: «Non l'ha detta a lezione».
Qualcuno borbottò qualcosa, ma non sembrava esserci nessuna persona preoccupata quanto lui per il fatto che con le idiozie sparate da Dedalus ci avrebbero potuto riempire la biblioteca del Trinity. «Non l'ha detta a lezione!» fu il suo ultimo, frustrato tentativo di mettere in chiaro le cose.
Mairead gli si avvicinò cauta, come per far restare la discussione solo tra loro due. «E se Dedalus avesse ragione?» azzardò in un sussurro.
«Non ha ragione» la liquidò senza mezzi termini. «E comunque anche se l'avesse, non conosciamo nessun Lucht Siuil».
«Noi no, ma Edmund sì» fu la replica di Mairead. Lo guardava con studiata intensità: sembrava volergli trasmettere il piano che aveva in mente senza che gli altri lo venissero a sapere.
Tuttavia, la cocciuta opposizione di Laughlin a qualsiasi idea giungesse da Dedalus non gli fece cogliere i taciti segnali lanciati dalla sua amica. «Però Edmund non c'è, ricordi? È lui che stiamo cercando» commentò con un certo sarcasmo.
La risposta di Laughlin irritò non poco Mairead. Gli si parò davanti con sguardo bellicoso e gli fece notare: «Laugh, potrebbe essere la nostra unica speranza, quindi metti da parte i tuoi commentini acidi, grazie».
Il ragazzo tentò di tenere a freno la lingua, ma non riuscì ad sottrarsi dal chiedere: «Ma come lo troviamo? Non sappiamo nulla di lui, se non che si chiama Rohiall e dorme con un vampiro!»
«Sappiamo anche che, di solito, la sua famiglia si accampa vicino al lago Key» sussurrò Mairead, tornando alla carica con il suo piano.
Laughlin fece una smorfia. «È un'indicazione un po' vaga».
Mairead ignorò il suo commento e gli bisbigliò quanto aveva progettato: «Usiamo il passaggio segreto per uscire dalla scuola, sfruttiamo il metrombino di Doolin per raggiungere Boyle e perlustriamo il lago a cavallo di scopa».
Laughlin, questa volta, non riuscì a evitare di commentare sarcastico: «Mi sembra un piano piuttosto labile».
«È l'unico che abbiamo» replicò Mairead, intransigente. «E poi speriamo in una botta di fortuna» completò, questa volta a voce più alta.
Lily scosse i vaporosi capelli biondi. «Audentes fortuna iuvat» fu il suo dotto commento. E c'era un che di spaventosamente Raloi nel suo sguardo.
«Qualsiasi cosa stiate progettando, veniamo anche noi!» intervenne prontamente Bearach. E, per quanto fosse quel genere di cosa che diceva sempre, non aveva affatto l'aria del moccioso esagitato che vuole unirsi ai giochi del fratello maggiore: sembrava molto più maturo del solito e completamente consapevole dei rischi che stava per correre. Lily si aggrappò al suo braccio e annuì con altrettanta convinzione.
«No, andremo solo io e Mairead» rispose Laughlin, improvvisamente spaventato dall'idea di mettere in pericolo il suo fratellino. Anche se Bearach pareva tutto tranne che un bambino spaventato.
«Non potete impedirci di venire con voi» intervenne Moira, in tono tranquillo ma deciso. «Edmund è anche nostro amico».
«Ben detto!» aggiunse Dominique, estraendo la sua bacchetta. Dedalus e Henry annuirono a loro volta.
Faonteroy, in compenso, mugugnò qualcosa di incomprensibile. «Io posso restare qui... a fare la guardia, per quando tornate» propose in tono incerto, sperando che il suo sorrisetto fiducioso li convincesse a lasciarlo indietro.
«Zitto, Faonteroy» gli intimò invece sua cugina, massaggiandosi le tempie. Stava pensando in fretta e a Faonteroy non piacque per niente il suo sguardo. Dopotutto, era chiaro a tutti che delle bacchette in più avrebbero fatto comodo per una missione verso l'ignoto; e questo sembrava capirlo benissimo anche Mairead.
«Va bene» mormorò infine la ragazza. «Andiamo tutti».

Faceva ancora freddo, la notte, per essere una serata di inizio maggio. Mairead, a cavallo della sua Nimbus, si maledisse per non aver preso con sé il mantello di lana. Stava perlustrando la zona intorno al lago Key insieme a Lily, l'unica che sapesse volare bene quanto lei e che, di conseguenza, riuscisse a starle dietro.
«Non la troveremo mai!» gridò la ragazzina, per sovrastare il vento che frustava loro la faccia.
Mairead aveva riferito a tutti che stavano cercando una carrozza rotonda di colore giallo ma, dopo un'ora di ricerche, stava cominciando a temere che il suo piano fosse davvero troppo labile per poter funzionare. La zona intorno al lago era immensa da perlustrare, avvolta dall'oscurità della notte e da una fastidiosa nebbiolina che saliva dalle acque. Mairead conosceva abbastanza bene la topografia del luogo, visto che Boyle non si trovava molto distante dal lago e spesso vi era si recata d'estate con suo padre. Sapeva dove si collocava il Forest Park Babbano, dal momento che l'aveva visitato almeno una volta all'anno, quando frequentava la scuola elementare di Boyle; si ricordava bene anche del castello sull'isola, che tante volte l'aveva affascinata da bambina; era inoltre a conoscenza del fatto che sulle rive del lago si trovasse uno dei più rinomati pub magici di tutta l'Irlanda. Ma tutte queste informazioni non la aiutavano per nulla ad individuare un maledetto carrozzone giallo di Irish Travellers.
Completamente scoraggiata, Mairead fece segno a Lily di scendere a terra. Le due ragazze planarono in una piccola radura, sufficientemente nascosta da occhi indiscreti. Solo quando furono scese dalle scope, Lily osò porre la domanda: «E ora?»
«E ora non lo so» replicò sconsolata Mairead. «Forse faremmo meglio a tornare al Trinity».
In realtà, non riuscì a terminare la frase che un'ombra scura si stagliò alle sue spalle.
«Cosa...» provò ad avvertire Lily.
«Profumi di buono» sussurrò una voce roca all'orecchio di Mairead.
La ragazza cacciò un urlo e si scansò in una frazione di secondo. Lily estrasse la bacchetta e la puntò dritta davanti a sé. «Stai lontano da noi» gli intimò, la voce che tremava appena, ma lo sguardo ghiacciato.
Anche Mairead estrasse la sua bacchetta per puntarla contro lo sconosciuto, il quale, tuttavia, non sembrava essere armato né pareva aver l'intenzione di attaccarle. La ragazza, per prudenza, decise di non abbassare la guardia, ma si azzardò a chiedere: «Cosa vuoi?»
L'uomo avanzò di qualche passo verso di loro, finché non uscì dall'ombra proiettata dalle fronde degli alberi e non fu illuminato dalla luce della luna. Allora le due ragazze poterono notare la sua pelle bianca come quella di un cadavere, le profonde occhiaie scure e quella bocca rossa come il sangue da cui sbucavano due canini affilati.
«Un vampiro...» sussurrò la voce tremolante di Lily. Perché, un conto era fare la coraggiosa tra le rassicuranti mura del Trinity, un altro era trovarsi faccia a faccia con una creatura del genere.
Anche Mairead, per una frazione di secondo, pensò che la cosa migliore sarebbe stata tornare a cavallo delle loro scope e squagliarsela il più in fretta possibile, senonché le balenò in mente una frase di Laughlin.
...dorme con un vampiro.
«Rohiall!» esclamò Mairead, afferrando il braccio di Lily per trattenerla, prima che quella schizzasse via sulla sua scopa.
Il vampiro fece un segno d'assenso con il capo. «Lo conosco» asserì.
«Dove possiamo trovarlo?» chiese Mairead, ignorando le proteste sussurrate di Lily, che stava cercando di farle capire che conversare con un vampiro non doveva essere una buona idea.
La creatura, come niente fosse, si girò e disse: «Lì».
Nessuno seppe dire se il carrozzone giallo fosse comparso in quel luogo per le parole del vampiro o se si fosse già trovato lì ma fosse stato invisibile agli occhi di chi non sapeva dove cercarlo. Una sola cosa era certa: avevano trovato i Lucht Siuil.
Mairead si lasciò sfuggire un sorriso. «Eddy, stiamo arrivando».







Perdono! Perdono! Perdono! Perdono!
Lo so, sono in terribile ritardo! Scusatemi davvero, ho avuto una serie di contrattempi accumulati uno sull'altro. E il prossimo periodo non sarà tanto migliore, ma prometto di aggiornare con più regolarità.
Comunque, avevo promesso a tutti che il FIE sarebbe sceso in campo, no? Eccoli qui, belli come il sole! XD Avanti, non sono divertentissimi insieme?
Avevo anche promesso un po' di azione, no? Ci saranno incantesimi alla grande, nel prossimo capitolo, anche perché andremo a recuperare quel cretinetto di Eddy... che ovviamente è andato a cacciarsi nei guai! Se no che gusto c'è? Dove è finito? Lo vedrete...! ;)
Intanto, godetevi qualche link:
QUI il sito del
Lough Key Forest Park, il parco forestale a sud del lago Key;
QUI una foto del castello sull'isola in mezzo al lago, molto suggestivo;
QUI la google maps del lago, così potete anche divertirvi a trovare Boyle;
QUI, infine, un disegno fatto da me, che non è proprio prioprio il disegno del capitolo, ma erano tanto carini! *-* Sono i ragazzi del FIE, in tutto il loro splendore! XD
Grazie a tutti per la vostra pazienza! Se tutto va bene, ci rivediamo fra un mese, lunedì 6 maggio.
A presto,
Beatrix

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Capitolo 25
*** Nelle grotte di Petra ***


CAPITOLO 25
Nelle grotte di Petra






Silenzio. Si udiva solo il lontano ululato del vento, che attraversava la gola e soffiava contro le pareti di roccia. Per il resto, nient'altro che un buio silenzio.
Nemmeno i suoi passi riecheggiavano in quell'incavo scavato nella roccia, come attutiti dallo spesso strato di sabbia umida che ricopriva il terreno. A destra e a sinistra, solo muri neri nella notte, attraversati da sfumature rossastre. E là, in alto, timide stelle, trapuntate nel blu del cielo, si affacciavano sulla gola.
Edmund seguiva cauto un Patronus a forma di volpe, che procedeva tranquillo qualche metro avanti a lui. La fioca luce emanata dalla creatura argentea era l'unica fonte luminosa, dal momento che il ragazzo non aveva osato scagliare un Lumus, per non disturbare quella strana quiete mistica che aleggiava nell'aria.
Avanzando nel canalone, si chiese quale fosse la meta. Si sentì improvvisamente vulnerabile e sciocco. Aveva seguito senza esitazione il Patronus che pensava essere quello di McFarren: si era materializzato dove la volpe gli aveva detto e ora la pedinava senza farsi domande. I cattivi non sanno produrre Patronus, si disse, nel tentativo di sembrare ragionevole. Eppure, pensandoci a mente lucida, avrebbe potuto indagare, prima di buttarsi a capofitto nell'impresa. A volte era stupidamente impulsivo.
Ma ormai era fatta. Alzò la bacchetta davanti a sé, attento a qualsiasi rumore che non fosse l'ululato del vento, in modo da non farsi cogliere di sorpresa.
Seguì la volpe finché il canalone non si aprì in uno spiazzo. Davanti ai suoi occhi, illuminato dalla luce debole della luna, si stagliò uno spettacolo meraviglioso: la facciata monumentale di un palazzo, con un'architettura perfettamente simmetrica, era stata intagliata nella viva roccia rossiccia della gola. Edmund si sentì un minuscolo granellino di polvere, di fronte all'imponenza di quella grandiosa costruzione: non poteva essere opera di Babbani. C'era la magia di mezzo.
Tuttavia le sue riflessioni furono interrotte dalla volpe argentea, che sgattaiolò dentro l'edificio senza dargli il tempo di ammirarlo a lungo. Edmund fu costretto a seguirla nel buio. Avanzò cauto, a causa dell'oscurità, e non riuscì a capire quali stanze stessero attraversando, ma dopo qualche minuto, giunsero ad un arco che dava sull'esterno.
Un'immensa vallata si aprì sotto i suoi occhi: illuminate dalla luce della luna, si ergevano rovine antiche, testimonianza della grandezza di un tempo, ormai tramontata. Edmund seguì il Patronus a forma di volpe lungo un sentiero ghiaioso che attraversava la vallata, finché questa non entrò in un altro edificio dalla facciata monumentale scavata nella roccia. Il ragazzo entrò a sua volta e, guidato dalla luce argentea dell'animale, attraversò cunicoli bui e sempre più stretti, fino a che non giunsero in un vicolo cieco. La volpe finalmente si fermò per girarsi a guardare Edmund, ma dopo qualche secondo, attraversò il muro davanti a sé e scomparve.
«Ehi!» protestò il ragazzo. Si avvicinò alla parete di roccia per studiarla e capire se ci fosse un qualche passaggio segreto. Dopo alcuni minuti di attenta analisi, si arrese all'evidenza dei fatti: non era altro che nuda pietra. «Ehi, che scherzo è questo?» gridò, battendo i pugni contro la parete. Non fece a tempo a ripetere la domanda che sentì dei passi ovattati provenire dall'altra parte. Improvvisamente meno gagliardo, si appiattì contro il muro laterale, nella speranza di non essere notato grazie al buio. Prima di ipotizzare qualsiasi piano, era meglio capire chi stava venendo a prenderlo.
Attese solo qualche secondo, poi una voce femminile sussurrò qualcosa e la parete di roccia svanì. Al suo posto, apparve una ragazza con un lungo vestito azzurro e la bacchetta puntata in avanti, illuminata da una fiaccola appesa alla parete. Ma non fu quello ad attirare l'attenzione di Edmund, quanto il suo aspetto fisico: nonostante la situazione critica, il giovane ebbe l'impressione che un angelo gli fosse apparso davanti. I lunghi capelli neri, la pelle chiarissima e quei due enormi occhi di un azzurro tanto intenso da essere quasi inguardabili rendevano la fanciulla simile ad una antica divinità greca.
«Chi sei? Fatti vedere!» gridò la ragazza, pronta a scattare a qualsiasi movimento.
Edmund si perse a fissare quegli occhi così simili ai suoi e finalmente capì. «Melita McFarren» sussurrò, uscendo dal suo nascondiglio.
La ragazza si irrigidì e scrutò nell'ombra per vedere chi fosse l'uomo che l'aveva riconosciuta. «Chi sei?» ripeté sibilando.
«Sono Edmund Burke» si presentò lui, abbassando la bacchetta per dimostrare le sue buone intenzioni.
«Sei l'esperimento?» domandò, con una freddezza quasi innaturale.
Edmund si sentì ghiacciare, come se qualcuno gli avesse rovesciato addosso un secchio di acqua gelida. Il “sì” che gli uscì dalle labbra fu più debole di un sospiro di vento. Che fine aveva fatto la bambina amorevole che gli aveva salvato la vita?
Melita fece un secco segno con il capo, ma non accennò ad abbassare la bacchetta. «Vieni, mio padre ti stava aspettando» fu il suo asciutto commento. Dopodiché si incamminò lungo il cunicolo senza nemmeno degnarlo di uno sguardo.
Edmund chinò il capo e la seguì silenzioso. Aveva immaginato in un modo tutto diverso il suo primo incontro con Melita: si era figurato una ragazza dai grandi occhi azzurri che gli correva incontro, lo stringeva in un abbraccio e lo chiamava “fratellino”, scoppiando in lacrime per averlo ritrovato dopo tanti anni. Invece, la donna ormai adulta che gli si era presentata davanti era stata gelida e inaspettata come una nevicata d'estate, i suoi occhi due schegge di ghiaccio. Che cosa le era successo?
Melita si fermò davanti ad una porta di legno gonfia di umidità. «Padre?» disse, bussando con energia. Dopo una manciata di secondi, visto che nessuno rispondeva dall'interno, Melita spalancò la porta senza troppi riguardi. La stanza che si aprì sotto i loro occhi era in realtà una piccola grotta puzzolente di cera e di umido, traboccante di libri e pergamene. Dietro una scrivania disordinata stava seduto un vecchietto raggrinzito, con il capo reclinato sulla poltrona, che al loro ingresso trasalì come se si fosse svegliato di colpo.
Edmund faticò parecchio a riconoscere in quella ragnatela di rughe i tratti di Sigmund McFarren: erano passati solo diciassette anni dal ricordo che aveva visto a Lerwick, eppure l'uomo che aveva davanti pareva un novantenne incapace di reggersi in piedi. Sarebbe stato in grado di dargli le risposte che cercava?
Edmund scosse la testa, ma decise comunque di avvicinarsi alla scrivania e presentarsi: «Sono Edmund Burke, signor McFarren. Sono...»
«...vivo» lo interruppe McFarren. I suoi occhi persero quella patina di vecchiaia che prima li rendeva offuscati, tornando vivi e pieni di luce.
«Sì, signore» replicò Edmund, perplesso e sorpreso. Certo che era vivo. Come avrebbe dovuto essere?
Morto. gli ricordò una vocina fastidiosa dentro la sua testa. Morto come Adam, il primo bambino modificato dagli Interventisti, che non aveva superato l'adolescenza.
«Incredibile, sei sopravvissuto fino ad adesso. Fatti guardare...» commentò proprio in quel momento McFarren, alzandosi dalla sedia dietro la scrivania e avvicinandosi a lui per esaminarlo come un medico con il suo paziente. «Sei sano, perfetto» constatò, spingendosi meglio gli occhialetti tondi sul naso e scrutandolo con attenzione. E solo quando gli fu di fronte, esclamò: «Guarda, Melita, ha i tuoi occhi!»
La ragazza si limitò ad uno sbuffo disinteressato, così Edmund decise che era ora di interrompere i convenevoli per fare la domanda che gli premeva di più: «Signore, cosa sono io? Sono un clone di Voldemort?»
Per un attimo, McFarren sembrava ringiovanito di fronte alla scoperta che il suo esperimento aveva funzionato, ma subito una ruga attraversò la sua fronte e un'ombra cupa scese su di lui. «Povero, povero ragazzo» borbottò sconsolato, scuotendo la testa. Si diresse verso la libreria alle sue spalle e cominciò a frugare tra i libri, alla ricerca di chissà cosa.
«Signore?» lo incalzò Edmund, incapace di attendere oltre.
McFarren si voltò verso di lui, il volto una maschera di rughe, ognuna delle quali rappresentava un attimo di sofferenza. «Ho commesso un peccato orribile, un abominio. Ho infranto le regole e ora devo trovare il modo di rimediare...» la sua voce si spense in un sussurro.
«Quali regole, signore?» domandò Edmund, senza capire le farneticazioni dell'uomo.
McFarren indicò una pergamena appesa al muro, che recitava tre norme in latino:

1. solus Deus creat, Interveniens intervenit;
2. vita non creatur, sed fingitur;
3. fingere intervenire cum coscientia in ente innaturo est, ut ingenium et mores amplificentur antequam funditus creatus sit.*

Edmund operò una veloce traduzione e capì cosa McFarren intendesse nel dire che aveva infranto le regole: lui non si era limitato ad intervenire sul feto, lui ne aveva creato uno dal nulla, modificando il patrimonio genetico di Voldemort.
«Non avrei mai dovuto accettare» mormorò sconsolato McFarren. «Ho creato ciò che voleva... non avrei mai dovuto accettare.»
«No!» gridò Edmund, colto da una foga improvvisa. «Non ha creato ciò che voleva Voldemort, perché io non sarò mai come lui! Io sono capace di amare! Non seguirò mai la sua strada e, se anche mi trovasse, morirei piuttosto che unirmi a lui!» sentenziò con decisione, ricordando il discorso che gli aveva rivolto il professor Silente.
McFarren lo guardò con compassione, come si guarda una bestiola in gabbia che cerca ostinatamente di liberarsi dalla sua prigionia. «Non è così semplice, ragazzo» mormorò sconsolato l'uomo.
Edmund rimase interdetto: certo che era semplice! Bastava non farsi trovare da Voldemort, bastava sfuggire ai suoi gregari; e, se anche l'avessero preso, sarebbe morto piuttosto che unirsi a lui. «Cosa c'è di complicato?» domandò, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
McFarren era il ritratto del più puro pentimento. Sospirò afflitto, poi cominciò a narrare: «Lui voleva un esercito che non solo fosse a sua immagine, ma anche obbedisse ai suoi comandi, come forse ricorderai. Per questo, nel creare i feti, ho imposto loro una maledizione terribile: quando udirai la sua voce pronunciare le parole: “surgat servus, periat homo”, la tua volontà si annullerà e non sarai altro che un burattino nelle sue mani, come tu fossi sotto un Imperio talmente potente dal quale non si può sfuggire.»
...un Imperio talmente potente dal quale non si può sfuggire.
Le ultime parole restarono sospese nell'aria, pesanti e oscure.
Edmund impiegò qualche secondo a realizzare quanto aveva udito e, nel farlo, rimase pietrificato. Le gambe cedettero, sentì il calore abbandonare il suo corpo, ormai scosso dai tremiti, minuscole gocce di sudore freddo gli imperlarono la fronte.
Una maledizione.
Una sola frase pronunciata da Voldemort. E sarebbe stato null'altro che un'arma nelle sue mani.
Che senso aveva avuto farsi convincere che lui non era come Tom Riddle? Che lui sapeva amare, che non sarebbe diventato malvagio...
Nulla poteva contro la maledizione impostagli quando non era altro che un ammasso di cellule in una provetta. Non poteva resistergli. Un crampo gli perforò la parete dello stomaco, come se una lancia arroventata l'avesse passato da parte a parte. Si accasciò a terra. Urlò, ma non se ne rese nemmeno conto. Voleva solo dissolversi e restare inglobato in quel pavimento di pietra grezza per il resto dell'eternità. Cessare di esistere, cessare di soffrire.
E salvare così la vita a tutti coloro che gli stavano attorno.
Qualcuno (forse Melita? Ma era forte per essere una ragazza) lo aiutò a sollevarsi e lo fece sedere sulla sedia che stava dietro la scrivania.
«Ragazzo.» La voce era lontana e soffocata.
«Ragazzo.» Insisteva. «Edmund.»
«Burke!»
Il grido di Melita lo scosse. Finalmente il suo respiro ritornò regolare, il tremito si attenuò e Edmund poté riaprire gli occhi, che nemmeno si era accordo di aver serrato. La testa girava, ma era abbastanza cosciente da riconoscere McFarren ad un soffio dal suo volto. «Non tutto è perduto» gli sussurrò il vecchio, con un sorriso semi sdentato che voleva essere incoraggiante.
Edmund scosse la testa, convinto che si trattasse solo di un banale tentativo di rinfrancarlo.
«Non disperare, c'è ancora una possibilità.» L'insistenza di McFarren era quasi commuovente, ma malgrado tutto Edmund si costrinse da ascoltarlo.
«Io mi sentivo terribilmente in colpa per quello che avevo fatto, così ho iniziato a fare delle ricerche cercare.» Mentre l'uomo spiegava, si era allontanato da lui e aveva cominciato a frugare tra i suoi libri e i gli appunti sparsi. «Non siamo qui a Petra per caso, sai? Hai mai sentito parlare dell'epopea di Gilgamesh? L'uomo mortale che ricerca l'immortalità...»
Gilgamesh? Chi diavolo era? Quel vecchio stava farneticando. Le sue parole non avevano senso.
«La ricerca dell'immortalità è un filone che attraversa la nostra storia fin dalle origini.» McFarren, preso da una frenetica eccitazione, gli metteva sotto il naso varie pergamene che avevano l'aria di essere parecchio antiche, scritte in alfabeti e linguaggi lontani nel tempo e nello spazio. «Gilgamesh però non riuscì a raggiungere il suo obiettivo e io so perché: cercava la Mela d'Oro nel posto sbagliato! Non era più qui: dall'Eden, era già stata trasportata nel giardino delle Esperidi... sempre che non si tratti dello stesso luogo. Quello non lo so, non sono ancora riuscito a capirlo.»
Edmund era decisamente frastornato: non riusciva a seguire il filo del discorso dell'uomo. Sempre che ce l'avesse, un filo. «Mela d'oro? Eden? Cosa significa?» domandò incerto.
McFarren sorrise soddisfatto, come se avesse appena fatto una scoperta sensazionale per il destino dell'umanità. «”Mela d'Oro” è il nome che io ho dato a questo manufatto mitico che riappare nelle varie epoche, proprio come la Bacchetta di Sambuco. E ha sempre lo stesso valore: dona l'immortalità e la vita.» La spiegazione di McFarren non accese nessuna luce nella mente nebulosa di Edmund, e lui dovette leggerglielo in faccia, perché esclamò con voce pregna di pathos: «Non capisci, ragazzo? La Mela d'Oro può spezzare la tua maledizione!»
Finalmente Edmund si illuminò: nonostante tutto c'era ancora una speranza! Avrebbe potuto rompere l'incantesimo e salvarsi da quell'incubo in cui era precipitato. Anche lui contagiato dall'eccitazione di McFarren, domandò pieno di aspettative: «Dove la posso trovare?»
Ogni possibile risposta del vecchio Interventista, fu bloccata da un rumore di esplosione che li colse tutti di sorpresa. Improvvisamente immobili, tesero le orecchie per captare qualche altro suono indesiderato.
E quello si fece sentire: voci soffocate, una qualche maledizione e un altro botto.
Fu Melita a riprendersi più alla svelta. «Ci hanno trovati!» fu la sua ovvia esclamazione, ma servì a riportare gli altri con i piedi per terra.
«I miei appunti! Aiutemi, sono troppo importanti!» supplicò McFarren, cominciando a buttare a caso pergamene e libri dentro una cassa. Da qualche parte nel corridoio i rumori si fecero più vicini. Edmund estrasse la bacchetta, il cuore che scoppiava nel petto: chiunque fosse che dava la caccia a McFarren e a sua figlia, non doveva essere gente amichevole.
«Padre, non c'è tempo!» esclamò infatti la ragazza, estraendo a sua volta la bacchetta e agguantando il vecchio per un braccio. Fece per uscire, ma poi parve accorgersi del disorientamento di Edmund; così, per quanto all'inizio non fosse sembrata minimamente interessata ad aiutarlo, gli piantò addosso quei suoi enormi occhi azzurri e gli intimò: «Seguimi.»
Il ragazzo non se lo fece ripetere una seconda volta: sempre con la bacchetta sguainata, rincorse Melita fuori dallo studio di McFarren, lungo un corridoio buio e umido.
Ma, per quanto cercassero di scappare, i rumori e le voci si facevano sempre più vicine, perché il loro procedere era troppo lento a causa della camminata inferma di McFarren. «Ci raggiungeranno» constatò Edmund, mentre avanzava alla cieca nel cuore della montagna.
«Troveranno pane per i loro denti» sibilò in risposta Melita, da qualche parte davanti a lui.
Ad un certo punto il corridoio che stavano percorrendo si aprì in un salone molto più ampio, illuminato da fiaccole che si accesero magicamente al loro passaggio. Una tomba, siamo in una tomba! constatò Edmund, notando che nelle due pareti più lunghe erano state ricavate una serie di nicchie che ospitavano ciascuna un sarcofago in pietra. Tuttavia, non riuscì a capire chi vi fosse sepolto perché, quando erano giunti a nemmeno metà del salone, i loro inseguitori li raggiunsero e cominciarono a scagliare maledizioni.
Edmund si voltò appena in tempo per schivarne una indirizzata alla sua schiena e fu così che poté vedere in faccia chi li aveva aggrediti. O meglio, poté vedere le maschere bianche di sei Mangiamorte incappucciati che li stavano attaccando.
Sei contro tre. Forse avrebbero potuto farcela, se solo McFarren fosse stato in grado di battersi. Ma in quelle condizioni...
Edmund non si arrese: cominciò a rispondere colpo su colpo, di nuovo padrone di sé e della propria bacchetta. Melita cercò di proteggere il padre dal fuoco incrociato di incantesimi, ma non era in grado di contrattaccare i Mangiamorte. Per poco una maledizione non la centrò in pieno petto. Fu così che scintille verdastre andarono ad infrangersi sulla parete di roccia viva sopra le loro teste e un boato rimbombò nella tomba, tanto potente da risvegliare i morti che lì riposavano; e poi una pioggia di pietre franò alle loro spalle, assordando tutti con il suo inaudito fragore.
Edmund, attaccato da entrambi i lati, fu costretto ad abbandonare il combattimento con i Mangiamorte per creare una barriera protettiva contro le macerie che rovinavano al suolo, ma McFarren non fu altrettanto scaltro: la bacchetta in mano, inutile come fosse un bastoncino di legno qualunque, osservò con occhi sgranati gli enormi massi che si staccavano dal soffitto.
E vi rimase schiacciato sotto.
«Padre!» gridò Melita, assistendo alla scena, impotente. «Padre!»
Non appena la frana cessò, un silenzio innaturale calò nella tomba. Piccoli sbuffi di polvere si alzavano dal suolo, creando un paesaggio di un altro mondo.
«Padre?» fu il sussurro disperato di Melita.
Infine la nebbia si diradò, lasciando intravedere tutto ciò che restava dell'ultimo Gran Maestro degli Interventisti: un braccio scheletrico che sbucava da sotto una roccia, la mano aperta e la bacchetta rotolata lontano.
Melita corse incontro a quel macabro spettacolo e si accasciò in ginocchio davanti alla frana, come se volesse raggiungere suo padre, ma i Mangiamorte non sembravano per nulla preoccupati di dover rispettare il suo dolore. Avanzarono minacciosi, forse con dei ghigni soddisfatti nascosti dalle loro maschere.
Edmund si preparò in posizione d'attacco, bacchetta levata e sguardo di ghiaccio, ma sentiva il cuore che gli scoppiava nel petto. La sua via di fuga era stata bloccata dalla frana ed era certo che non sarebbe mai riuscito a batterli tutti da solo.
Era spacciato. Le mani sudate, le gambe tremanti, attendeva il prossimo passo dei suoi avversari.
Ma d'improvviso, senza che nessuno si fosse mosso, Edmund venne circondato da un cerchio di luce che si levò da terra fino al cielo, accecandolo per parecchi istanti.
«Cosa diavolo...?» borbottò, coprendosi il viso con il braccio sinistro.
«Edmund!» esclamò la voce di... Mairead?
«Ganzo, ha funzionato!» esultò quello che pareva proprio essere Bearach.
«Ve l'avevo detto» confermò Dedalus.
Edmund cercò di riaprire gli occhi abbagliati dalla luce per capire cosa stesse succedendo, ma prima che potesse percepire qualsiasi cosa, udì gridare: «Siamo sotto attacco!» E quello era un inconfondibile squittio di Faonteroy.
Scoppiò il finimondo. I Mangiamorte sembrarono riprendersi più velocemente dallo shock e presero ad attaccare i nuovi arrivati i quali, a loro volta, non risparmiarono i colpi. Edmund, al contrario, rimase intontito per qualche minuto, non solo perché la luce l'aveva accecato, ma soprattutto perché si stava chiedendo come avessero fatto i suoi amici a comparire dal nulla proprio intorno a lui. C'erano ovviamente Mairead e Laughlin, poi Moira, Henry e Dedalus, Bearach con Lily, Dominique e persino Faonteroy; infine, cosa ancora più assurda, li accompagnava Rohiall. E tutti stavano duellando contro i Mangiamorte.
Perfino Melita alzò i suoi bellissimi occhi azzurri ricolmi di lacrime, per osservare quello spettacolo bizzarro. «Chi è tutta questa gente?» mormorò esterrefatta, rivolgendosi a Edmund.
Il ragazzo ci impiegò una manciata di secondi prima di rispondere. Ma alla fine ammise: «Sono i miei amici.»
«Già!» asserì con una certa ironia Laughlin che, essendo il più vicino, aveva assistito allo scambio di battute. «E siamo venuti a salvarti il culo. Ora, perché non la pianti di fare la donzella in pericolo e vieni a darci una mano?»
Furono le battute mordaci di Laughlin a risvegliarlo: il suo sarcasmo gli era mancato. I suoi pensieri corsero veloci come la luce: Laughlin, Mairead, i suoi amici, tutti gli erano mancati; e ora, non sapeva bene come, erano comparsi dal nulla per aiutarlo. Non poteva restarsene lì con le mani in mano!
Strinse la bacchetta con maggiore forza e si lanciò nella battaglia. Superò Faonteroy, Bearach e Lily che scagliavano maledizioni contro il medesimo Mangiamorte senza troppo successo: gli bastò un incantesimo silente per cogliere il mago alla sprovvista e spedirlo svenuto contro la parete alle sue spalle.
Da qualche parte dietro di lui, sentì Lily che mormorava sognante: «Quanto è forte!», ma preferì ignorarla e lanciarsi in duello con il Mangiamorte successivo. Un incantesimo, un passo in avanti e il nemico un passo indietro; poi un altro, e un altro e un altro ancora, finché l'uomo non si ritrovò con le spalle al muro. Un colpo di frusta, la bacchetta che si mosse velocissima e anche il secondo Mangiamorte si accasciò a terra ancor prima di potersene accorgere.
Voldemort avrebbe avuto una pessima sorpresa quando i suoi scagnozzi fossero tornati da lui: sei uomini per uccidere un vecchio e una ragazza erano fin troppi, ma era stato sciocco da parte sua non mettere in conto la possibilità di trovare qualcun altro pronto a dar battaglia. Non era una mossa molto lungimirante quella di sottovalutare il nemico: Edmund aveva intenzione di impartirgli una bella lezione di tattica.
Mairead, Laughlin e Dominique, duellando in tre contro uno, riuscivano a tenere testa al terzo Mangiamorte, così Edmund si scagliò contro quello che stava mettendo in difficoltà Moira e Henry. Ma si rese conto che non c'era tempo da perdere, perché il primo nemico che aveva colpito con un incantesimo stordente si stava già riprendendo: non sarebbero riusciti a metterli fuori gioco tutti e scappare senza che qualcuno di loro si facesse seriamente male. Doveva pensare ad un piano. E alla svelta.
Proprio quando una qualche maledizione gli passò ad un soffio dall'orecchio, gli venne in mente il modo per raggiungere l'uscita che stava alle spalle dei Magiamorte.
«Moira!» chiamò l'amica e le fece segno con la testa verso Melita, ancora accasciata a fianco di ciò che restava di suo padre. La ragazza annuì per dire che aveva capito di doversi occupare di lei, poi si disimpegnò dal combattimento e corse in suo aiuto.
Fu allora che Edmund gridò un semplice comando in irlandese: «Dunaigi suile!»
Chiudete gli occhi.
Sperò che i suoi amici avessero studiato abbastanza il corso del professor Saiminiu da poter eseguire i suoi ordini, ma non ebbe tempo di accertarsene perché subito dopo lanciò l'incantesimo: «Lux solis!»
Una luce abbacinante si sprigionò dalla sua bacchetta, invadendo l'intera sala. Edmund non riuscì a vedere cosa stesse accadendo, ma immaginò di aver centrato il suo obiettivo quando sentì le urla di dolore dei Mangiamorte accecati dalla sua magia. Solo quando interruppe il fascio di luce osò riaprire gli occhi: i nemici, momentaneamente abbagliati, barcollavano in mezzo alla sala.
«Ora! Via!» gridò allora Edmund, lanciandosi di corsa verso la porta.
I suoi amici, che evidentemente avevano seguito il suo primo ordine, si affrettarono ad eseguire anche il secondo. Qualche incantesimo volò alla cieca, ma i Mangiamorte non riuscirono a fermarli.
Edmund condusse gli altri a ritroso lungo il corridoio che aveva percorso con Melita, fino alla porta dello studio di McFarren, e poi al muro magico che celava l'ingresso del nascondiglio ed era stato distrutto dai Mangiamorte. Corse a perdifiato, seguito dagli amici, finché non gli giunse una boccata d'aria fresca. «Siamo fuori» sussurrò con il fiato mozzo, quando il cielo ormai azzurro ricoprì la sua visuale. A est, le nuvole tinte di rosa annunciavano l'imminente arrivo del sole mattutino.
«Dobbiamo filarcela alla svelta» constatò Dominique, quando tutti si furono radunati fuori. Le loro facce stanche e provate mostravano che non sarebbero stati in grado di affrontare di nuovo i Mangiamorte.
«Come siete arrivati qui?» domandò allora Edmund, non solo per curiosità ma anche perché sperava che potessero utilizzare lo stesso mezzo per tornare in Irlanda.
Tutti i ragazzi si voltarono in contemporanea verso Rohiall, come se lui avesse una soluzione nascosta dietro la schiena. E, in effetti, qualcosa dietro la schiena ce l'aveva, ma non era per nulla una soluzione: era un problema. «Si è rotto» rivelò sconsolato, mostrando le due estremità del suo Bordone Magico spezzato. «È stato colpito da un incantesimo di quei tipi mascherati.»
Tutti trattennero il fiato, sconvolti dalla notizia: niente Bordone, niente cerchio magico che li avrebbe materializzati in Irlanda. «Non vi posso riportare indietro» fu la conferma di Rohiall ai loro taciti sospetti. «E mamma mi ucciderà» aggiunse poco dopo, con un mugugno doloroso.
Edmund chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie. «Ok, riflettiamo.»
Si udirono dei rumori provenire dal cunicolo dal quale erano appena usciti e Bearach fece notare: «Non c'è tutto questo tempo per riflettere.»
Edmund lo ignorò e continuò a borbottare i suoi pensieri: «La Materializzazione no, siamo in troppi. Una Passaporta non so come attivarla...»
«Che ne dite di un tappeto volante?» propose in quel momento Dedalus.
«Dedalus, non è proprio il mom...» cominciò Laughlin, ma si interruppe perché scorse anche lui ciò che aveva attirato l'attenzione del Llapac. «Un tappeto volante!» esclamò, indicando la sagoma che sfrecciava nel cielo.
Edmund parve illuminarsi non appena individuò l'aggeggio che sfrecciava nella loro direzione, guidato da un mago con il turbante degno delle iconografie più folcloristiche del luogo. Sorrise, alzò la bacchetta e gridò: «Accio tappeto!»
L'omino con il turbante non ebbe tempo di impedire l'Incantesimo di Appello, ma riuscì ad estrarre la bacchetta per contrattaccare. Senonché Mairead fu più rapida: «Pietrificus totalus!» gridò e lo sfortunato mago si ritrovò stecchito sul suo tappeto.
«Scusami, amico» commentò Laughlin, quando l'improvvisato mezzo di trasporto fu abbastanza vicino. «È per una buona causa» si giustificò nell'usare un Incantesimo di Levitazione per depositare il mago pietrificato a terra.
«Prego, tutti a bordo!» esclamò allegro Dedalus, come fosse una specie di allegra gita in barca.
Tutti si affrettarono ad eseguire l'ordine, proprio mentre i Mangiamorte sbucavano dall'uscita. Ci fu un rapido scambio di incantesimi, ma Mairead, improvvisatasi guidatrice del tappeto volante, riuscì a portare gli amici fuori gittata.
«È stato divertente!» fu l'ilare commento di Dedalus, non appena furono sufficientemente lontani da non essere più in pericolo.
«Abbiamo rischiato la vita» replicò straniato Faonteroy. «Scusa, ma io ho tutt'altro concetto di divertimento.»
E, strano ma vero, per una volta tutti si trovarono d'accordo con l'altezzoso Purosangue.





* Traduzione: 1. solo Dio crea, l'Interventista interviene; 2. la vita non si crea, si modella; 3. modellare è intervenire con coscienza su un ente in formazione per migliorare le caratteristiche prima che sia totalmente creato.



Carissimi amici,
sono tornata. Vi prego di perdonarmi per questo lunghissimo periodo di assenza, ma ho avuto un brutto momento. Problemi vari hanno acuito la mia già scarsa ispirazione e per quasi tutta l'estate non ho scritto una singola riga delle mie storie. Ora va un po' meglio, grazie allo slancio che mi ha dato Julia Weasley con il suo racconto.
Non posso garantirvi che non riaccadrà, ma di una cosa state certi: non abbandonerò MAI la saga e i miei personaggi, lasciandovi così a bocca asciutta. Di questo potete esserne sicuri!

Comunque, finito il momento serio, torniamo a noi (o meglio, a loro, gli eroi del FIE!).
Edmund è un po' un cretino, potete anche dirglielo, se volete. Ma se non si cacciasse un po' nei guai non sarebbe un buon Raloi (né un buon protagonista!). Per fortuna ci sono i suoi amici! ;)
Se vi state chiedendo che fine ha fatto la dolce bambina Melita e chi sia questo pezzettino di ghiaccio, lo saprete nel prossimo capitolo.
Comunque, le rivelazioni super-sconcertanti sul conto di Edmund sono finite: ora sapete tutto. Compatitelo un po', poverino, dai!
Domande sulla Mela d'Oro e sulle folli farneticazioni di McFarren, non fatemene, tanto non vi rispondo. Voglio dire, saranno oggetto di tutto il prossimo racconto! =)
Ah, e McFarren era destinato alla morte (alla tenera età di manco 70 anni, ma la fuga costante e il rimorso l'hanno invecchiato più del necessario), perché altrimenti avrebbe rivelato tutto a Edmund e io non avrei materiale per scrivere il sesto racconto!
Ora, come piccolo segno di scusa, vi lascio una marea di link e disegni!
QUI una foto del canyon di Petra;
QUI una foto del Tesoro, ovvero l'ingresso a Petra;
QUI una foto della facciata esterna della Tomba del Palazzo, dove sono rifugiati McFarrne e figlia;
QUI una foto di come mi sono immaginata l'interno della tomba dove finiscono a combattere contro i Mangiamorte;
QUI un vecchio disegno di Melita, così come appare a Edmund;
QUI un ancor più vecchio disegno di Edmund, nel vestito regalatogli da Daire Maleficium per i 17 anni, in atteggiamento aggressivo verso i Mangiamorte;
QUI, invece, la foto di Melita (ovvero, Eva Green ne "Le Crociate");
QUI, infine, una cosa che non c'entra un tubo, ma volevo farvi vedere: è l'interno della biblioteca Queriniana di Brescia (dove abito)... non vi sentireste un po' a Hogwarts, se poteste studiare qui dentro? *-*

Grazie a tutti voi per la pazienza che dimostrate nei miei confronti.
Il prossimo capitolo è quasi pronto, ma voglio prendermi comunque un po' di tempo per portarmi avanti (siamo ormai alla fine di questo quinto racconto). Per cui, ci rivediamo fra tre settimane, domenica 22 settembre.
A presto,
Beatrix

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Capitolo 26
*** Una nuova alba ***


CAPITOLO 26
Una nuova alba






Nessuno dei ragazzi aveva mai volato su un tappeto magico. Faonteroy informò loro che per forza nessuno ci aveva mai volato, perché in buona parte dell'Europa erano stati dichiarati illegali per il fatto che mettevano a rischio la segretezza del mondo magico. Se un Babbano della Siria o dell'Egitto avesse visto un tappeto volante, probabilmente avrebbe attribuito il fatto ad un'allucinazione causata dal caldo del deserto. Ma difficilmente un Babbano della Svezia avrebbe pensato la stessa scusa.
In realtà, il saccente sfoggio di cultura di Faonteroy era il suo modo di rispondere al pericolo appena scampato, per cui nessuno gli diede troppo ascolto. Erano tutti troppo impegnati a ringraziare il cielo di essere ancora vivi, o a lagnarsi di quanto sarebbero stati sgridati dalla madre per via del Bordone Magico spezzato, o a guidare il tappeto volante senza investire qualche uccello, o a indicare eccitati il panorama che scorreva sotto i loro occhi. Dal momento che Mairead aveva puntato verso nord-ovest, seguendo un po' le indicazioni di Dominique (che sembrava quello più presente alla situazione), un po' il suo innato senso dell'orientamento, erano giunti vicino ad una spiaggia e ora stavano attraversando un immenso prato di acqua. E Dominique sperava vivamente fosse il Mediterraneo. Il tappeto volante viaggiava ad una velocità incredibile, se veniva spinto al massimo; tuttavia doveva avere un qualche incantesimo di protezione dal vento, perché i ragazzi non sentivano altro che una leggera brezza che accarezzava loro il volto.
Solo due viaggiatori se ne restavano taciturni sul fondo dell'improvvisato mezzo di trasporto: Melita, silenziosa, con gli occhi arrossati di pianto e le mani strette a pugno; e Edmund, troppo turbato da tutto ciò che era accaduto quella notte per prestare attenzione all'incredibile viaggio.
Fu Melita a interrompere il silenzio. «Edmund.» Era la prima volta che lo chiamava per nome. «Non ha senso che venga con voi.»
Edmund trattenne il respiro. «Ma, i Mangiamorte...»
«Non tornerò a Petra, ma non ha nemmeno senso che venga con voi.» Melita scosse la testa come per far capire che il discorso era concluso. Edmund sospirò, ma chiese gentilmente a Mairead di atterrare, non appena ne avesse avuto la possibilità. Lei gli lanciò uno sguardo a metà tra lo scocciato e il perplesso, ma alla fine annuì.
Nonostante la loro velocità, ci volle quasi un'ora per raggiungere la terraferma, da un lato perché il mare che avevano attraversato sembrava non finire più, dall'altro perché Mairead aveva incontrato una corrente d'aria che l'aveva obbligata a puntare prima verso ovest e poi verso nord. Quando finalmente trovò un punto lontano dai Babbani dove poter atterrare con sicurezza, non aveva la più pallida idea di dove fossero. L'unica loro fortuna era stata che, avendo viaggiato verso ovest, dovunque fosse il posto dov'erano giunti, lì il sole stava ancora sorgendo.
Melita scese per prima, seguita dagli occhi di tutti i ragazzi del Trinity, che si chiedevano chi fosse e che cosa avesse a che fare con Edmund. Quest'ultimo la seguì a ruota, sentendosi a sua volta un po' osservato. Cercando di ignorare le tacite domande dei suoi amici, raggiunse Melita, che si era fermata a fianco di un ulivo e osservava i primi raggi del sole che bucavano l'orizzonte.
Edmund si sentì in dovere di dire qualcosa. «Mi dispiace per tuo padre» gli uscì spontaneo, nel tentativo di consolarla.
Melita indurì la mascella e lo sguardo. «Tu non puoi capire. Non hai mai avuto un padre.» Nonostante la tiepida aria mattutina, scese un velo di ghiaccio tra loro, spesso e impenetrabile.
Anche Edmund si irrigidì. «Non per mia scelta» fu la sua secca risposta. Cosa era successo alla dolce bambina Melita che aveva visto nel ricordo? Che motivo aveva per essere tanto glaciale con lui?
Melita si voltò di scatto a guardarlo, gli occhi azzurri due schegge di ghiaccio. «Nessuno nasce per sua scelta. Ma tu... una scelta mio padre ce l'aveva: mi sono chiesta mille volte perché non ti abbia ucciso il giorno in cui sei venuto al mondo.»
Edmund ricevette come un pungo sul costato, proprio all'altezza del cuore. Sentì perfino il fiato mozzarglisi in gola. La sua bocca si aprì, per gridare che era stata lei a salvarlo, ma le parole non vollero sapere di uscirgli. Rimase lì a boccheggiare come un idiota, gli occhi rivolti a terra, mentre Melita irrigidiva il volto, le mani, lo sguardo.
Ho ragione, sembrava voler dire. Saresti dovuto morire quel giorno.
Anche Edmund aveva pensato che sarebbe stato meglio morire il giorno stesso in cui era venuto al mondo. Ma ora non lo pensava più. Perché c'era stato qualcosa di buono, nella sua vita, che la rendeva degna di essere vissuta: i suoi amici, tanto per cominciare, che erano venuti fino a Petra per salvarlo; e il Trinity, il poter imparare tante cose, la sua biblioteca, i professori. Perfino il sole che stava sorgendo in quel momento era qualcosa per cui valeva la pena vivere.
Inoltre, McFarren gli aveva come affidato una missione prima di morire: continuare i suoi studi sulla Mela d'Oro, scoprire dove fosse e recuperarla per spezzare la sua maledizione. Poteva farcela. Ce l'avrebbe fatta.
Edmund rialzò gli occhi su di lei, sereno. Sorrise. «Tuo padre non mi ha ucciso perché tu gli hai chiesto di non farlo.»
Melita sgranò gli occhi, come se d'improvviso avesse ricordato un episodio appartenuto ad un passato lontano. Sotto i suoi occhi si disegnò una scena, come una vecchia pellicola sbiadita: una bambina che supplicava il padre di non gettare un fagotto frignante giù da una scogliera.
E d'improvviso Melita nascose il volto tra le mani e scoppiò a piangere.
Edmund non seppe come comportarsi, perché non aveva avuto alcuna intenzione di ferirla. Ma, per fortuna, dopo qualche secondo lei si riprese e tornò a fissarlo con intensità. Ora i suoi occhi arrossati erano vivi, pieni di mille emozioni e nuovamente espressivi come quelli della bambina Melita.
«Mi dispiace di tutto» sussurrò piena di rimorso. «Ho passato la mia vita ad odiarti. Ero convinta che per colpa tua avessi perso una madre e una sorella, fossi costretta a vagare con un padre sempre più instabile, mai fermi per più di un mese nello stesso luogo. Ti ho sempre immaginato come un mostro terribile, un demonio fatto di crudeltà e orrore.» Rivelare quei sentimenti direttamente all'oggetto del suo odio fu difficile, eppure insieme liberatorio. «Invece sei solo un ragazzo. Un normale ragazzo. E non hai chiesto nulla di tutto ciò.» Edmund le rivolse un mezzo sorriso, come per farle capire che non c'era nulla di cui scusarsi. «Nemmeno tu l'hai chiesto. A volte dobbiamo portare fardelli che non meriteremmo» le rivelò e subito pensò ai suoi amici, che avevano fatto tanta strada solo per venire a salvarlo. Si sentì il cuore caldo. «Avere qualcuno con cui condividerli, però, rende tutto più facile.» Sorrise; e poi quell'appellativo gli sfuggì involontario: «Sorellina.»
I due ragazzi si abbracciarono d'istinto, consapevoli che a renderli fratelli erano più le comuni sventure, che non il patrimonio genetico. «Vieni via con noi» le sussurrò Edmund, quando si sciolsero dall'abbraccio.
Melita scosse la testa. «Ora non posso: devo rimettere assieme i cocci della mia vita» sospirò, guardando verso est, dove nel cielo tinto di rosa cominciavano a comparire il disco dorato del sole.
Edmund annuì, consapevole di che cosa volesse dire Melita: anche lui aveva avuto bisogno di alcuni mesi per rimettere insieme i cocci della sua vita. Ma ora aveva capito molte più cose.
«Quando vorrai, sai dove trovarmi» fu il suo ultimo saluto, prima che lei si smaterializzasse.

Mairead fissava la ragazza mora con gli occhi ridotti a due fessure. Chi era? E perché Edmund aveva fatto tanta strada solo per andare da lei?
A pelle, sentiva che non le piaceva. Aveva un atteggiamento scontroso, come se si ritenesse una gran principessa e tutti loro fossero indegni della sua attenzione. Ma chi si credeva di essere?
Forse era anche un po' gelosa, dopotutto. In fondo, l'altra aveva una massa di capelli mossi e scuri come la pece, occhi azzurri e un bel fisico. Però, al di là delle qualità oggettive, non riluceva come avrebbe dovuto: sembrava fredda, irreale, quasi di un altro mondo. Non aveva il calore di un sorriso, volto capace di espressione, personalità radiosa. Mairead avrebbe preferito passare mille giorni in compagnia di Moira che una sola ora con quella sconosciuta.
Va bene, stava esagerando, era bella. Molto bella. E le dava fastidio che stesse in compagnia di Edmund. Però era innegabile che fosse un poco freddina.
Quando finalmente si smaterializzò, Mairead tirò un sospiro di sollievo. Non le piaceva, ecco.
«Mairead» la chiamò Moira, la voce poco più che un sussurro. Guardava in direzione di Edmund, che se ne stava appoggiato ad un ulivo ad osservare l'alba. «Credo che tu e Laughlin dovreste andare a parlargli.»
Anche Mairead guardò l'amico e capì subito quello che Moira intendeva dire. Aveva sempre un'empatia straordinaria, quella ragazza. Mairead annuì come segno di ringraziamento poi, senza troppi complimenti, afferrò Laughlin per un braccio e lo trascinò giù dal tappeto volante. Edmund non si accorse della loro presenza finché Mairead non si annunciò con un “ehi” poco convinto. Lui rispose con un sorrisetto tirato che non aveva nulla di gioioso. Mairead si sentì in dovere di cominciare la conversazione su toni neutri, ma quello che le uscì non aveva nulla di neutro. «Tutto bene con...?» Non sapeva il nome della ragazza mora.
«Melita» completò Edmund, senza smettere di guadare il sole nascente.
Melita. Che razza di nome era?
Ma poi Edmund se ne uscì con una cosa del tutto inaspettata: «Era mia sorella». Fece quella rivelazione spiazzante come se avesse dato qualche banale previsione sul tempo. «In un certo senso, almeno.»
Mairead e Laughlin si scambiarono uno sguardo perplesso. Tuttavia, nessuno dei due disse nulla, aspettando rispettosamente che fosse l'amico a decidere quando cominciare a parlare.
Edmund tirò un lungo respiro, ma alla fine si rese conto che non poteva più tenersi dentro tutto quanto. Così cominciò a narrare, un fiume in piena di parole che gli sgorgavano dalla bocca. Parlò con una sincerità tale che non aveva mai dimostrato a nessuno, neanche a se stesso: non nascose nulla, nemmeno ciò che gli faceva più paura ammettere.
Raccontò di McPride, di come l'aveva ingannato, tentando di tirarlo dalla sua parte e di convincerlo che allearsi con l'EIF fosse l'unico modo per controllare quel gruppo di assassini; raccontò degli Interventisti, di Adam e della dichiarazione di eresia, di McFarren, l'ultimo Gran Maestro. Narrò ciò che aveva visto nei ricordi del laboratorio di Lerwick, di Voldemort, della morte della signora McFarren e della piccola Opale; narrò come era stato creato, mischiando il patrimonio genetico di Voldemort e di Melita. Poi prese a raccontare di come era stato salvato dalla bambina e successivamente abbandonato all'orfanotrofio; descrisse la sua visita da Olivander, a Diagon Alley e la sua chiacchierata con Silente al Quartier Generale dell'Ordine della Fenice. Infine, rivelò quanto aveva scoperto riguardo alla maledizione impostagli da McFarren e sulla Mela d'Oro che avrebbe potuto salvarlo.
Quando concluse il racconto, aveva la bocca secca e impastata. Solo nel momento in cui sentì una goccia salata inumidirgli l'angolo delle labbra, si accorse di aver pianto. Di star piangendo ancora. Non si ricordava nemmeno quando fosse stata l'ultima volta in cui l'aveva fatto, ma sentì che aveva il bisogno di liberarsi dalle sue angosce. E lasciò che le lacrime gli inondassero il viso.
Mairead fissò lo sguardo in quegli occhi azzurri, resi simili a un lucido mare, il contorno arrossato, minuscole goccioline come diamanti sulle lunghe ciglia nere. Non si era mai accorta di quanto fosse bello il suo amico. Adesso capiva perché le ragazzine gli sbavassero dietro: i capelli scuri gli attorniavano il volto pallido, insieme affascinante e tenebroso. E quegli occhi... due porzioni di cielo.
Mairead agì d'impulso. Non c'erano parole per confortare Edmund in quel momento, per cui semplicemente fece scivolare le mani sotto le braccia del ragazzo e lo strinse a sé. Restarono abbracciati a lungo, in silenzio, mentre Edmund dava sfogo a tutte le sue lacrime.
Mairead sentiva il torace dell'amico fremere a ritmo con il pianto, alzarsi e poi ridiscendere; avrebbe voluto scacciare tutte le sue ansie, tranquillizzare il suo respiro, per regalargli un attimo di pace. Ma non poteva fare tutto ciò, poteva solo abbracciarlo. Rimase con l'orecchio incollato al suo petto ad ascoltare il battito del cuore, cercando di infondergli quella serenità cui tanto anelava.
Quando finalmente si sciolsero dall'abbraccio, Edmund sembrava più tranquillo. Si asciugò il viso con il dorso della mano e tentò un sorriso stirato come ringraziamento. Guardava i suoi amici di sottecchi, come per sondare le loro reazioni.
«È tutto ok, Edmund» mormorò Laughlin, posandogli una mano sulla spalla. Non era un gran predicare, ma Laughlin era convinto che a volte bastassero poche parole, purché fossero quelle giuste. «Noi saremo sempre al tuo fianco. Perché siamo tuoi amici e ti vogliamo bene» asserì con sicurezza, facendo tesoro di quanto gli aveva detto sua madre qualche settimana fa. Non ne era mai stato così convinto come in quel momento. In fin dei conti, erano andati fin nel deserto per recuperarlo.
Ma Laughlin non era un tipo a cui piacesse stare serio troppo a lungo, così soggiunse: «Guarda, è venuto persino Faonteroy. Ce l'abbiamo un po' trascinato, a dirla tutta, però è qui... anche lui ti vuole bene!»
A Edmund sfuggì un singhiozzo tra le lacrime. Una specie di risata strangolata.

«Sei un totale idiota!» Lily strillava imbestialita. Non che fosse una cosa rara di per sé, ma questa volta, almeno, ne aveva tutto il diritto.
«Non l'ho fatto apposta» mormorò imbarazzato Bearach. E che il ragazzetto, di solito così agitato ed estroverso, fosse imbarazzato, questa sì che era una cosa rara.
Lily strabuzzò gli occhi. «E ci mancherebbe anche che l'hai fatto apposta!»
Fu allora che Moira capì che era giunta l'ora di intervenire. «Lily, è meglio se ti calmi» tentò di farla ragionare. «Siamo tutti stanchi e nervosi, ma troveremo una soluzione.»
«Che fine ha fatto il tappeto volante?» Laughlin non era il tipo che si preoccupava troppo, ma quando, avvicinandosi agli altri che erano rimasti in disparte, notò che il loro mezzo di trasporto era scomparso, decise che era il caso di interessarsi alla questione.
«Chiedilo a quel genio di tuo fratello!» L'intervento sarcastico di Lily aiutò a far capire quanto grave fosse la situazione.
Nessuno badò agli occhi arrossati dal pianto di Edmund, un po' per garbo, un po' perché il tappeto volante scomparso era già un bel grattacapo a cui pensare.
«Mi è sfuggito» si giustificò Bearach, a disagio. «Sono sceso per ultimo e... è schizzato via con la velocità di un fulmine.»
«Ci sarà stato un qualche incantesimo per riportarlo al proprietario in caso di smarrimento» commentò Dominique, ragionevole come sempre.
«E ora come ci arriviamo in Irlanda?» La domanda espressa ad alta voce da Henry, rimbalzò tra di loro in un silenzio imbarazzato.
Intervenne Dominique, cercando di essere il più pacato possibile, visto che la mente geniale del gruppo, al momento, era totalmente in panne. «Ai piedi della collina c'è un paese.» Indicò la direzione, nel caso in cui a qualcuno fosse sfuggito. «Raggiungiamolo e cerchiamo aiuto.»
Fu solo allora che Mairead concesse una lunga occhiata al paese indicato da Dominique: una decina di torri dall'aspetto medievale si innalzavano tra i tetti di tegole rosse come dei fiori dal gambo lungo. Quel posto le ricordava qualcosa, ma non sapeva dire cosa. E poi... «Ehi, io so dove siamo!» esclamò soddisfatta. «Siamo in Italia!»
«Italia?» le fece eco Moira, perplessa.
«Sì.» Mairead ne era più che convinta. «In quel paese abita un archeologo amico di mio papà!»
«Ottimo!» esclamò Laughlin, battendo le mani. «Così potremo sfruttare il suo camino.»
In realtà, fu ben più complicato di quanto potesse sembrare: innanzitutto, per raggiungere il paese a piedi, ci impiegarono quasi un'ora; in secondo luogo, una volta arrivati, Mairead non aveva la più pallida idea di dove andare.
«Hai detto che conoscevi il posto!» si lagnò Faonteroy, guardandosi intorno come se sperasse di veder comparire qualcuno che non fosse inequivocabilmente Babbano. Era stanco, sfibrato, con le scarpine di vernice infangate e i piedi gonfi. Era sul punto di avere una crisi di nervi.
«Ci sono stata solo una volta e più di dieci anni fa!» Mairead si voltò prima a destra e poi a sinistra, ma quelle case costruite con mattoni rossicci erano davvero tutte uguali.
«Forse dovremmo chiedere a qualcuno» propose Moira, ragionevole.
Sembrò a tutti l'idea migliore, senonché Dominique chiese: «Già, ma chi di noi parla italiano?»
Stavano per disperare quando si sentirono rivolgere delle parole nella loro lingua madre. «Oh, siete dei turisti?» esclamò gentile una giovane donna vestita alla Babbana. «Inglesi, immagino!»
Fu la scintilla che fece esplodere Faonteroy. «No, siamo Irlandesi! Irlandesi, capisci? Lo so che per voi rozzi continentali è la stessa cosa, ma noi siamo Irlandesi, Irlandesi! Dell'Irlanda!» stillò, diventando paonazzo per la foga.
La donna sgranò gli occhi spaventata da quel demonio mascherato da paggetto. «Ok» fu l'unica cosa che riuscì a dire, prima di defilarsela. Tutti si voltarono verso Faonteroy con l'aria di volerlo uccidere.
«Che c'è?» domandò il ragazzino, come se non ci trovasse nulla di sbagliato in quella scenata.
«Faonteroy, aggredire l'unica persona che parla decentemente la nostra lingua in questo stramaledetto paese, non è stato d'aiuto» gli disse Laughlin, tenendo a freno l'ira a stento.
Il ragazzino sembrava scandalizzato. «Ma ci aveva dato degli Inglesi, aveva dato dell'Inglese a me, Faonteroy O'Brian della nobile schiatta di Mael Duib!» protestò, ficcandosi le unghie nelle guance con aria disperata. Aveva una mimica facciale davvero impressionante.
«Ma chi se l'è portata dietro questa piattola?» domandò Laughlin, scuotendo la testa rassegnato.
Mairead gli diede un pugno scherzoso sulla spalla. «Ehi, non trattare male mio cugino» gli intimò, prendendo il povero Faonteroy per le spalle.
A onor del vero, lui sarebbe restato volentieri anche al Trinity, ma evitò di farlo notare agli altri. Non aveva voglia di farsi strapazzare ulteriormente.
«Ok, muoviamoci da qua» ordinò Edmund, entrando per la prima volta in scena e rivestendo il ruolo di capo che gli era così naturale. «Indirizziamoci verso il centro e speriamo di trovare un luogo che Mairead riconosca.»
Ci volle un'altra buona mezzora prima di giungere ad una piazza con un pozzo al centro che a Mairead parve vagamente familiare. «Questo posto mi ricorda qualcosa» borbottò a mezza voce, soffermando lo sguardo in particolare su una panetteria all'angolo della piazza. Il signor Lorenzo, l'archeologo amico di suo padre, le aveva offerto una pizza per merenda, in quella forneria, più di dieci anni fa. Poi lei si era seduta sul bordo del pozzo e aveva guardato il buio profondo che inghiottiva la monetina che aveva buttato giù, mentre Lorenzo le raccontava qualche buffo aneddoto che non ricordava. E poi...
«Di là, attraverso l'arco!» esclamò ad alta voce, ricordando d'improvviso la strada. Sbagliò solo un paio di volte, ma alla fine riuscì a condurre i suoi amici davanti alla porta di casa dell'archeologo italiano.
«Lorenzo e Marina Olivieri» lesse dubbioso Faonteroy, come se temesse che anche il campanello volesse prendersi gioco di lui.
«Suona» lo esortò Dominique.
Passarono alcuni minuti carichi di attesa, finché una donnina simile ad un bignè, in camicia da notte e pantofole, non venne ad aprire la porta. Li osservò perplessa per una manciata di secondi, borbottò qualcosa in italiano e poi chiamò: «Loreeeeeenzo!»
Un uomo corpulento, con due enormi baffoni da fare invidia persino a Babbo Natale e una zazzera di capelli castani pesantemente striati di grigio, apparve sulla porta, infagottato in una vestaglia scozzese.
Mairead si fece avanti, nella speranza che l'uomo che aveva davanti potesse riconoscere nei suoi tratti di ragazza la bambina di un tempo. «Signor Lorenzo, sono...»
«...la figlia di Reammon!» completò lui, illuminandosi. Ma poi strabuzzò gli occhi, notando quanta gente l'accompagnasse. E per sottolineare il suo sbigottimento aggiunse, in un inglese un po' arrugginito: «Ma sono le sette e mezza del mattino!»
«Siamo nei guai» spiegò Mairead, senza troppi giri di parole.
«Guai?»
Mairead annuì. «Dobbiamo trovare il modo di tornare in Irlanda al più presto.»
«Irlanda, eh?» Lorenzo si accarezzò i baffoni con fare pensieroso. «Vi farebbe comodo una Passaporta.»
«Può procurarcela?» intervenne Dominique, speranzoso.
«Posso farmi dare una multa, per questo» replicò l'uomo, ricordando a se stesso che già una volta aveva ceduto alle moire di quel bischero del suo amico irlandese e per il suo aiuto si era meritato una Multa per Creazione di Passaporta non Autorizzata dal Ministero della Magia italiano. Eppure quei ragazzi avevano proprio l'aria disperata. «Ah, bischeri, almeno entrate a far colazione con una fetta della torta di mele di mia moglie: avete l'aria di averne passate delle belle, stanotte» cedette alla fine, spostandosi dall'uscio per far entrare i ragazzi. E, giusto per sottolineare le sue parole, quando Laughlin gli passò davanti, aggiunse: «Questo qui ha perfino la giacca al contrario!» E corredò le parole con un sonoro scappellotto alla nuca di Laughlin.






Eccomi qui!
Tanto per la cronaca, uno scappellotto Laughlin se lo meritava proprio! E non per la giacca al contrario (se guardate il capitolo 24, c'è un quintale di gente che glielo fa notare), ma così, perché se lo merita! ;)
Comunque, finalmente Edmund si sfoga un po'! È guarito, dai, è tornato il solito secchione fissato con i misteri: e McFarren gliene ha fornito uno bello bello con cui dilettarsi tutto l'anno prossimo! =)
Ho anche tentato di spiegare cosa fosse successo a Melita: non ha avuto una vita particolarmente piacevole e ha sfogato tutta la sua rabbia su Edmund. Ma, non temete, la rivedremo presto. Per la scena di Mairead gelosa di Melita, si veda Han Solo geloso di Luke, e Leila che salta fuori a dire "ma no, Luke è mio fratello!", proprio come Eddy che rivela "Melita è mia sorella"! Parentele insospettabili...
Ebbene sì, comunque, Mairead è gelosa! Intanto ha cominciato a rendersi conto che Eddy è proprio un bel ragazzo, poi vedremo gli sviluppi! Abbiate mooooolta pazienza!
Intanto, vi lascio un po' di cose con cui dilettarvi:
QUI un'immagine di San Gimignano (con le colline sullo sfondo dove sono atterrati i ragazzi del FIE con il tappeto volante); e QUI un'immagine della piazza.
QUI la cartina del viaggio fatto con il tappeto volante e poi con la passaporta.
QUI un vecchio disegno di Lorenzo a circa 40 anni (nella scena del capitolo dovrebbe averne una sessantina).
QUI l'immagine del capitolo: l'abbraccio tra Edmund e Mairead.

Infine, se lo sfollo di Faonteroy vi è piaciuto (l'avevo scritto mesi e mesi fa!), aspettate con ansia il prossimo e -ahimè!- ultimo capitolo del racconto per vedere ancora il rampollo degli O'Brian in tutto il suo splendore! XD
Ci vediamo domenica 13 ottobre!
A presto,
Beatrix

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Capitolo 27
*** Ritorno a casa ***


CAPITOLO 27
Ritorno a casa






Il sole, sorto da forse un'ora, illuminava il profilo del castello con i suoi raggi pallidi simili a lunghi tentacoli. Il cielo era lattiginoso e l'aria mattutina ancora fresca, nonostante la primavera stesse lasciando posto all'estate. Visti da lontano, il lago e l'isola su cui sorgeva il Trinity, avvolti da una leggera nebbia e illuminati dai primi raggi di luce, già stanchi per quanto fosse ancora mattino, sembravano appartenere ancora a quei vividi sogni che si fanno appena prima di svegliarsi.
«Non è un sogno, siamo davvero a casa» sussurrò ammaliato Edmund. Era passata solo una notte, eppure gli pareva di essere stato lontano dal Trinity per un'intera vita. Forse era tutta colpa del fatto che aveva trascorso quell'anno come vivendo la storia di un'altra persona: prima era stato McPride, figlio adottivo del Presidente della Magia, poi era stato un incubo che cammina, nient'altro che l'esperimento creato da McFarren per Voldemort. Ora, invece, si sentiva di nuovo Edmund Burke, si sentiva come il ragazzino orfano che era arrivato al Trinity tanti anni prima, pieno di curiosità e aspettative e che, per nulla previsto, aveva scoperto qualcosa per cui valeva la pena vivere.
«Siamo a casa.» Mairead gli sorrise, stringendo la mano intorno al suo braccio.
Edmund annuì e rispose al sorriso, finalmente sereno.
I ragazzi del FIE salutarono Rohiall, che si buttò nel metrombino di Doolin, direzione Boyle, per ricongiungersi alla sua famiglia. Dopodiché sfruttarono il passaggio segreto per rientrare al castello. L'adrenalina e l'eccitazione per l'avventura notturna stava scemando, per lasciare posto a sonno e stanchezza. Pregustando un adorabile sabato mattina tra le coperte dei loro letti a baldacchino, durante il percorso sotto terra, chiacchieravano di quello che avevano passato quella notte.
«Laughlin, hai proprio intenzione di lanciare una moda» lo prese in giro Lily, accennando alla giacca.
«Che ha che non va?» si lagnò Laughlin.
«È al contrario» gli suggerì Dedalus, che era talmente alto da essere costretto ad avanzare con la testa china per non sbatterla contro il soffitto del tunnel.
Laughlin sbuffò, ripulendosi delle briciole di torta che gli erano rimaste sul bavero. «Non do peso a queste piccolezze, io.»
«Muoviamoci, che non vedo l'ora di buttarmi a letto» tagliò corto Dominique, con un grosso sbadiglio.
Con l'innocenza che solo un gruppo di adolescenti può avere di fronte ad un pericolo di morte appena scampato, i ragazzi attraversarono l'uscita dal passaggio segreto e si ritrovarono sotto il ponte. Nella fresca aria mattutina, risalirono lungo la sponda del lago, sbadigliando e chiacchierando spensierati.
E sarebbero andati avanti ancora a lungo, senonché si ritrovarono la strada del ponte sbarrata da tre figure: il preside Captatio, in mezzo al professor Cumhacht e al professor Saiminiu. Quest'ultimo sembrava quasi in imbarazzo, come se fosse stato lui ad essere scoperto fuori dal dormitorio ad un'ora proibita. Il professor Cumhacht, al contrario, aveva stampato in faccia un sorriso di trionfo: senza dubbio si aspettava che venissero tutti ampiamente puniti.
Il preside Captatio, invece, sorrideva bonario. «Sarei un pessimo preside se dieci dei miei studenti sparissero dal castello senza che io me ne accorga» li accolse, pacato come sempre.
I ragazzi si scambiarono occhiate preoccupate: che genere di punizione si erano meritati? Dopotutto, avevano infranto ben più di qualche regolina nell'uscire dal perimetro del castello di nascosto.
«Siamo nei guai, vero?» domandò infine Dominique.
«Sì, temo di sì» asserì il preside. Cumhacht gongolò soddisfatto, i ragazzi rabbrividirono.
«Quanto nei guai?» Edmund si sentì responsabile più di ogni altro. In fin dei conti, era per lui che gli altri si erano cacciati in quel casino.
«Non abbastanza da essere espulsi, ma a sufficienza da meritarvi una punizione, che durerà fino alla fine della scuola» rispose Captatio, che poteva avere un occhio di riguardo nei confronti di una situazione senz'altro delicata, ma doveva comunque essere giusto e non poteva lasciar passare liscia un'effrazione del genere.
Il sorriso di Cumhacht, se possibile, si allargò ancora di più. «E manderemo una lettera ai vostri genitori» aggiunse con una certa soddisfazione.
Fu allora che Faonteroy, stanco e scoraggiato, fu preso da un attacco isterico. «Non potete, non potete farmi questo!» piagnucolò disperato. «Io sono un O'Brian, l'ultimo della mia famiglia, ho un nome da difendere, una linea dinastica da portare avanti, ho un compito, virtù...»
«Faonteroy, calmati, non è la fine del mondo!» cercò di consolarlo Mairead, l'unica che provasse davvero un po' di pietà di fronte alle lagne del ragazzino.
«Calmarmi?» strillò Faonteroy, gli occhi verdi sgranati. «Come posso calmarmi? La mia carriera è rovinata, i miei giorni da bravo studente finiti... i miei genitori penseranno che io sia uno scavezzacollo!»
«Io non credo» intervenne il professor Saiminiu, con un tono stranamente comprensivo per lui. «Anche tuo padre finì in punizione una volta, sai?»
Faonteroy smise di lamentarsi e fissò incredulo il professore. «Come?»
Saiminiu tornò ad essere lievemente imbarazzato. «Dovresti chiederlo a lui... non ricordo le circostanze precise...» farfugliò, ma dal sogghigno di Captatio, Edmund fu certo che le “circostanze precise” coinvolgessero gli Extraiures o padre Rafael, se non addirittura entrambi.
Comunque, la notizia lasciò Faonteroy parecchio perplesso, ma almeno servì a calmarlo.
Questo diede il tempo a Bearach di fare un'altra domanda spinosa: «E i punti?»
«Punti?» gli fece eco Captatio, senza capire cosa volesse chiedere.
Bearach alzò le spalle, depresso. «Be', immagino che ci toglierà dei punti.»
Il preside sembrò illuminarsi. Tuttavia, per quanto i ragazzi temessero di aver appena sottratto alle rispettive case più punti di quanti ne avessero guadagnati in tutto l'anno, Captatio diede una risposta quanto mai inaspettata: «Bearach, le punizioni servono a correggere gli errori, non a buttarvi in pasto ai vostri compagni di squadra imbizzarriti. Inoltre, qui sono rappresentate tutte e tre le case perciò, sebbene ciò sia una bellissima dimostrazione che l'amicizia supera ogni cosa, se togliessi dei punti a tutte le case, in nulla muterebbe lo scenario attuale della classifica.»
Logico, pensò Edmund. Ma forse anche un po' di parte, perché pareva proprio che Captatio stesse cercando di non aggravare la loro già mal messa situazione.
«Ora, forza tornate nei vostri dormitori a recuperare le ore di sonno.» Nessun consiglio da parte del preside era stato accolto dai suoi studenti con tanto favore. I ragazzi annuirono rinfrancati e si affrettarono a eseguire l'ultimo suggerimento.
Edmund, invece, rallentò il passo, sciogliendosi dagli altri. Captatio capì le sue intenzioni e si fermò sul ponte, come se fosse stato improvvisamente attirato da qualcosa che si muoveva nell'acqua.
Edmund intrecciò le dita nel suo mantello azzurro, prima di trovare il coraggio di parlare. Infine, buttò fuori tutto d'un colpo: «Signore, è colpa mia, non punisca anche loro. Sono usciti dal perimetro del castello per venire a salvare me.»
Captatio si voltò verso di lui con un sorriso sereno. «Questo dovrebbe farti pensare, Edmund.»
«A cosa?»
«Al fatto che nove ragazzi sono andati incontro al pericolo senza nessuna esitazione per salvare te» rispose il preside, con una sincerità disarmante. «Mai sottovalutare la forza dell'amicizia.»
«Grazie, signore» mormorò Edmund a testa bassa. Lo ringraziò mentalmente anche per non aver voluto sapere dove fossero stati quella notte: probabilmente aveva intuito che fosse qualcosa riguardante il suo passato, ma non insistette per conoscere la verità. Un giorno gliela avrebbe detta, si ripromise, perché il professor Captatio era stato il suo mentore per tutti quegli anni. Ma non quella mattina. Quella mattina aveva solo voglia di dormire e di pensare al succulento pranzetto che avrebbe trovato al suo risveglio. Chissà di cosa si sarebbe lamentato Faonteroy quel giorno. O quale stupida battuta avrebbe tirato fuori Dedalus, facendo sicuramente arrabbiare Laughlin. Con quei rincuoranti pensieri si diresse verso il suo dormitorio.

«Posso anche aver affrontato dei maghi mascherati all'interno di una tomba nel deserto ed essere ancora vivo per poterlo raccontare» si stava lamentando Henry, gli occhi fissi sul suo libro di testo. «Ma non posso, davvero, non posso riuscire a passare l'esame di Trasfigurazione.»
«Non essere pessimista ancora prima di iniziare la P.R.O.B.A.T.I.O.» gli consigliò Dedalus, mentre morsicchiava la gomma posta in cima alla sua matita Babbana.
«Non è questione di essere pessimisti» replicò Henry, la faccia nascosta tra le mani. «Sono solo obiettivo.» Fece scorrere l'indice sul programma dei vari esami, che Moira aveva accuratamente scritto per tutti loro su una pergamena. «Storia ok, è solo studio, Pozioni e Erbologia me la cavo, Difesa posso farcela, Incantesimi è già più complicato, per Latino e Irlandese non ho speranze e con Trasfigurazione nemmeno ci provo» riassunse velocemente, con aria sconsolata. «Mi ritroverò due materie da recuperare l'anno prossimo e non riuscirò a dare la D.I.M.I.S.S.I.O.»
«Ti prego, Henry, stai facendo venire l'ansia a me» intervenne Moira che, per quanto non fosse ai livelli disastrosi del suo ragazzo, non era mai stata la prima della classe nemmeno lei. Inoltre era già sufficientemente terrorizzata all'idea di affrontare gli esami, senza che arrivasse Henry con le sue previsioni catastrofiche.
«Ci servirebbe tanto una mano» sospirò Dedalus.
«Ci servirebbe un miracolo» corresse Henry.
«Per i miracoli mi sto attrezzando» intervenne Edmund con un sorriso, scaricando sul tavolo della sala studio una pila di libri. «Ma una mano posso darvela.»
«Ciao, ragazzi» salutò Moira, quando Mairead, Laughlin e Edmund si unirono a loro.
Edmund guardò le facce disperate dei suoi compagni di corso e capì che avevano bisogno del suo aiuto. Era o non era il migliore del loro anno?
«Credo che dovremmo fare un gruppo di studio» propose in tono ragionevole.
«Ce l'abbiamo già» ricordò Dedalus, battendosi la mano sulla spilla del FIE che portava ostinatamente appuntata al petto, nonostante l'ordinanza governativa che aveva sciolto tutte le associazioni studentesche.
«Non come quello.» Edmund srotolò la pergamena con il suo piano di studi. «Uno vero.»
«Dici che dovremmo studiare insieme?» indagò Moira, che a quella notizia sentì rinascere la speranza di passare gli esami.
«Perché no?» Edmund stava sorridendo con fare incoraggiante. «Insieme evitiamo di annoiarci, ci stimoliamo a vicenda e impariamo molto di più in meno tempo.»
«Ti ringrazio della proposta, ma tanto non c'è verso che il venga promosso in Trasfigurazione» borbottò sommessamente Henry. «Ti aiuterò io.» Il tono di Edmund era così sicuro che quasi ci credette anche Henry. «Non ti lascerò nemmeno il tempo di respirare, ti perseguiterò finché non saprai alla perfezione ogni definizione, ti spremerò finché la tua bacchetta non si butterà nel lago per la disperazione.»
Henry accennò un sorriso a mo' di ringraziamento.
«Ci farà bene studiare assieme» concluse Edmund, soddisfatto. In realtà, era certo che per lui quella proposta fosse tutt'altro che vantaggiosa: se l'era sempre cavata piuttosto bene a scuola, perché aveva buona memoria e mente brillante, per cui gli bastava leggere le cose un paio di volte per ricordarsele. Sicuramente studiare con qualcuno come Henry l'avrebbe rallentato, ma era convito che loro avessero bisogno del suo aiuto. Lui li avrebbe stimolati, punzecchiati finché non avessero raggiunto un livello sufficiente per affrontare gli esami in tranquillità.
Era poca cosa, rispetto a quello che loro avevano fatto per lui, ma al momento era l'unica carta con cui potesse ripagarli. Aveva capito che i suoi amici erano la cosa più preziosa che avesse, per cui avrebbe fatto di tutto per non allontanarli mai più da sé.
Edmund si prese l'incarico di stendere un programma di studio per tutti loro, in modo che nulla restasse escluso dal ripasso. Attese in grazia che la vicepreside O'Connel, all'ultima lezione di maggio, consegnasse loro la tabella degli esami, così da potersi organizzare meglio. Prima avrebbero dovuto affrontare, lo stesso giorno, Pozioni e Erbologia, che avevano solo la parte pratica, poi, il giorno successivo, Storia della magia e Latino e Irlandese, che invece avevano solo lo scritto. Infine, avrebbero sostenuto in tre giorni diversi i tre esami che avevano sia la parte teorica (che avrebbero svolto la mattina) sia quella pratica: in ordine, Difesa contro le Arti Oscure, Incantesimi e Trasfigurazione. Una settimana, la terza di giugno, e sarebbe tutto finito.
Giravano voci, sicuramente messe in giro dagli studenti del sesto per terrorizzare quelli del quinto, a proposito degli esaminatori del Ministero che avrebbero accompagnato i loro professori quali giudici esterni. Si diceva che uno dei due esaminatori dovesse obbligatoriamente essere il vice-capo del Dipartimento dell'Istruzione e che quella attuale fosse una strega decrepita, con pochi denti e ancor meno udito. Tale strega aveva il vizio di urlare quando parlava e al contempo di chiedere di ripetere almeno dieci volte qualsiasi cosa. Non contenta, pretendeva dagli studenti magie impossibili perché, avendone esaminati troppi e per troppi anni, si era stufata di vedere sempre le stesse cosette.
«Fandonie» sentenziò Edmund, quando erano ormai giunti alla vigilia degli esami e stavano facendo l'ultimo ripasso di domenica sera. Aveva bisogno che i suoi amici restassero concentrati, per poter dare il meglio di loro, senza dare credito a stupide dicerie di corridoio. «Il novanta percento delle voci sono messe in giro da gente che, non avendo passato gli esami, si vendica su quelli che ancora li devono fare» decretò con sicurezza.
«E sono tanti?» si informò Henry, per precauzione.
«Chi?»
«Quelli che non hanno passato gli esami.»
Laughlin gli diede uno spintone. «Che ci importa? Noi certo non saremo tra quelli!»
La brillante sicurezza di Laughlin li accompagnò nelle ultime ore di ripasso e anche il giorno successivo, quando intravidero gli esaminatori a colazione. Donna O'Marsy, vice capo del Dipartimento dell'Istruzione, era sicuramente la maga più vecchia che avessero mai visto, piccola e avvizzita, con un cappello a punta e un abito grigio da far invidia alle streghe delle favole, ma non sembrava per nulla cattiva.
«Ve l'avevo detto che non c'era da preoccuparsi» ricordò Laughlin, dispensando in giro i suoi sorrisi incoraggianti.
«Anche la nonnina di Hänsel e Gretel è tutta zuccherini e marzapane, poi tenta di mangiarseli» se ne venne fuori Dedalus, lasciando gli amici piuttosto disorientati.
Laughlin gli riservò la solita occhiata a metà tra il compassionevole e il perplesso che gli rivolgeva ogni qual volta lui se ne veniva fuori con robe strane. «Chi?»
«Fiaba Babbana» liquidò la questione Edmund, che ricordava fin troppo bene quanto avesse odiato le favole della buona notte, ai tempi dell'orfanotrofio. «Sta di fatto che Laughlin ha ragione: non dobbiamo scoraggiarci perché abbiamo studiato sodo e ce la faremo.»
E, proprio come aveva promesso Edmund, ce la fecero. Gli esami non si rivelarono poi così impossibili, se non per qualche domanda un po' difficile come quella di Storia della Magia a proposito degli elementi di contatto tra la seconda Lotta dei Folletti e la stesura della Carta Costituzionale irlandese. Nemmeno Edmund seppe rispondere; e questo era il metro per misurare le domande davvero infattibili.
In realtà, l'esame più temuto di tutti fu Trasfigurazione. Trattandosi dell'ultimo giorno, i ragazzi del quinto anno erano stanchi e affaticati, ma non era questo il vero problema: il problema era il professor Cumhacht, che sembrava godere della sua aurea di terrore. Lo scritto della mattina si rivelò complesso, ma per affrontare quello bastava aver studiato con attenzione, cosa che i ragazzi del FIE non si erano risparmiati di fare. La vera difficoltà era riuscire a fare gli incantesimi richiesti dal professore, mentre lui se ne stava lì a squadrarti con tutta la disapprovazione di cui era capace. Perfino il più impavido avrebbe provato un po' di soggezione.
Henry era letteralmente in preda ad un attacco di panico. «Sono morto, sono morto» ripeteva sommessamente, lo sguardo fisso davanti alla porta dell'aula di Trasfigurazione. Visto il suo cognome, sarebbe stato esaminato per primo e sicuramente sarebbe finito tra le grinfie di Cumhacht.
«Cerca di stare tranquillo» gli consigliò premurosa Moira, ma in quel frangente le parole servivano ormai a poco.
Il professor Cumhacht, infatti, spalancò la porta della sua aula e, con un ghigno malefico stampato in faccia, chiamò: «Alabacor Henry.»
Il ragazzo impallidì e prese a tremare, ma prima che potesse fare qualsiasi cosa, Edmund si era alzato in piedi. «Signore, vorrei essere esaminato per primo, e da lei in particolare» esclamò di getto, proprio mentre la vice-capo O'Marsy compariva sull'uscio.
Cumhacht digrignò i denti, ma fu costretto ad ingoiare la sua rispostaccia quando la O'Marsy squittì: «Sì, non fa differenza.» Fece un cenno d'incoraggiamento verso Henry. «Venga, signor Alabacor, la interrogo io, mentre il professore fa l'altro ragazzo.»
Henry si sentì sciogliere come un cubetto di ghiaccio buttato nell'acqua bollente. Rivolse un cenno di gratitudine all'amico, poi si avviò incredibilmente leggero verso la sua esaminatrice.
Il professore Cumhacht, al contrario, squadrava Edmund come se volesse sbranarlo. Di certo lo avrebbe massacrato, chiedendogli tutte le trasfigurazioni più difficili che avessero affrontato quell'anno.
Edmund sorrise, stringendo la presa sulla sua bacchetta di abete. Nessun problema.

La mattina dell'ultimo giorno di scuola si rivelò nuvolosa e fredda come un giorno d'autunno. L'aria era gonfia di umidità, i prati scintillavano di rugiada.
I ragazzi del quinto anno si erano alzati presto, perché la vicepreside aveva appeso in bacheca i risultati della P.R.O.B.A.T.I.O. e tutti non aspettavano altro che controllare gli esiti degli esami.
Henry cacciò un urlo quando scoprì di essere stato promosso in tutte le materie, essendo riuscito a strappare una M (che stava per mediocris, la soglia della sufficienza) perfino in Trasfigurazione.
Edmund, dal canto suo, fu piuttosto soddisfatto dei suoi cinque ME (mirandum est, il voto della perfezione, che i professori erano piuttosto restii a dare). Certo, la S in Erbologia se l'era aspettata, perché non era mai stata la sua materia preferita, ma quella di Storia della Magia gli bruciò un po', perché era tutta colpa di quella domanda assurda a cui non era riuscito a rispondere.
Laughlin gli aveva intimato di piantarla di lamentarsi, se non voleva ritrovarsi con ogni possibile orifizio intasato da funghi velenosi. Per carità, non che lui fosse scontento dei suoi voti (erano nella media, con risultati migliori in Incantesimi e Difesa contro le Arti Oscure), ma sentire quel cretino del suo amico che si lagnava era quanto meno irritante.
Dopo colazione, gli studenti si riversarono fuori dal castello, per raggiungere le carrozze che li avrebbero portati alla stazione di Doolin.
«È stato un anno strepitoso!» esclamò Bearach, quando lui e Lily raggiunsero i ragazzi del quinto. «Spero che sia così anche il prossimo!»
«Francamente spero di non rischiare la morte, l'anno prossimo» intervenne Dominique, sopraggiunto anche lui in quel momento.
«Francamente spero di non finire in punizione, l'anno prossimo» commentò invece Faonteroy, aggiustandosi il colletto di pizzo della sua giacca. «Non di nuovo.»
«Quanto sei lagnoso!» lo schernì Mairead, prendendolo per le spalle. Aveva assolutamente intenzione di coinvolgerlo in altre mille pazzie che l'avrebbero condannato a passare il resto della sua vita scolastica in punizione. Se no dove stava il divertimento?
«Ehi, perché non ci facciamo una foto?» propose allora Dedalus, estraendo la sua macchinetta fotografica e sventolandola sotto il naso degli amici.
«È Babbana» gli fece notare Laughlin, con disappunto. Non che, in generale, approvasse qualsiasi cosa avesse a che fare con Dedalus, ma almeno questa volta ne aveva un buon motivo.
Dedalus, al contrario, sorrise allegro. «Lo so! È perché quelle magiche non fanno l'autoscatto! Ma il rullino è magico.» Tutto soddisfatto del suo incrocio Babbano-magico, estrasse dalla tasca dei jeans un cavalletto alto un metro e mezzo, esclamando qualcosa a proposito della borsetta di una certa signora Mary Poppins. Dopodiché fece schierare i suoi amici in fila davanti al castello e si mise gli occhiali da sole (il suo immancabile accessorio Babbano) sulla testa, in modo da essere libero di mettere a fuoco.
«Sorridete!» ordinò loro, mentre correva a mettersi dietro Henry prima che partisse il conto alla rovescia.
Edmund si voltò una frazione di secondo a guardare la scuola alle sue spalle.
La sua casa.
Pochi mesi e ci sarebbe tornato, per l'ultima volta.
Ma i suoi amici, quelli, non li avrebbe mai più persi.
E strinse la mano di Laughlin, poggiata sulla sua spalla, proprio un momento prima che scattasse il flash.







Ebbene, eccoci giunti all'ultimo capitolo di questo quinto racconto! Non succede molto in questo capitolo, lo ammetto, ma avevo un po' di questioni da risolvere, a proposito degli esami. Non mi sono dilungata a descriverli per non annoiarvi e anche perché l'anno prossimo ci sarà la D.I.M.I.S.S.I.O., che vorrei approfondire meglio.
Comunque, siamo giunti alla fine! Seguirà un epilogo (piuttosto corposo, in realtà) e poi ci dedicheremo al prossimo racconto, che è già in fase di progettazione. =)
Nel frattempo, godetevi la foto scattata da Dedalus: QUI i ragazzi del FIE in tutto il loro splendore!
Ci vediamo domenica 27 ottobre per l'epilogo!
A presto
Beatrix

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Capitolo 28
*** Epilogo ***


EPILOGO






Edmund osservava la nebbia che decorava le colline come un diadema ancestrale, immaginando figure di cavalieri fantasma che si erigevano dalla foschia. Pareva un'uggiosa giornata di novembre, più che l'inizio dell'estate.
Lo scompartimento del treno era caldo e affollato, tanto che sui finestrini si era formata la condensa. Edmund non era sicuro che fosse permesso, ma aveva usato una magia per rendere lo scompartimento più grande, altrimenti in dieci non sarebbero riusciti a starci.
«Vi spedirò una copia della foto» garantì Dedalus, proprio in quel momento, mentre stava osservando la sua macchina fotografica. Mairead protestò: «Non ce ne sarà bisogno! Ci incontreremo almeno una volta quest'estate o no?»
«Ovvio!» intervenne Laughlin, sfoderando il suo miglior sorriso da latin lover. «C'è la mia festa per i diciassette anni, ad agosto.» Si alzò dal sedile entusiasta. «Sarà una figata pazzesca!»
«Io temo che ci incontreremo per cose più serie.» Dominique smorzò tutto l'entusiasmo del suo amico. Accennò con la testa al titolo di un articolo del Corriere del Mago che stava sfogliando. «Il Ministro della Magia britannico ha confermato che Voi-sapete-chi è tornato.» Calò uno strano silenzio nello scompartimento. Persino Lily smise di mettersi lo smalto.
«Be', ma noi lo sapevamo già, no?» domandò Bearach, senza riuscire ad afferrare cosa fosse cambiato.
Dominique scosse la testa. «Erano solo voci» spiegò. «Silente diceva fosse tornato, Captatio gli credeva, ma il governo britannico ha sempre negato tutto. Ora invece è certo.»
Mairead storse il naso. «Questo darà il via libera a leggi anti-inglesi» considerò con disappunto.
«Ci hanno già pensato.» Dominique sfogliò un altro paio di pagine, fino all'articolo che gli interessava. «Guarda, il Parlamento sta discutendo l'approvazione della legge sul Censimento dei Nati Inglesi.»
Mairead si fece prestare il giornale per leggere l'articolo: man mano che i suoi occhi scorrevano tra le righe, la sua espressione si faceva sempre più crucciata. «Vogliono registrare le nostre bacchette?» proruppe alla fine, indignata.
«Già» asserì Dominique. «Dovunque tu sia, qualsiasi magia tu faccia, il Ministero lo verrà a sapere.»
«È indecente!» esclamò Lily.
«È follia!» rincarò la dose Bearach.
«È anticostituzionale» decretò Faonteroy. E il tono definitivo che usò, servì a dimostrare quanto la proposta di legge fosse inaccettabile.
«Protestiamo» propose allora Dedalus, portando avanti un'idea che, per una volta, venne condivisa da tutti. «Un corteo, a Dubh Cliathan, per far capire che il FIE non ci sta.»
«Sì!» Mairead accettò con entusiasmo il suggerimento. «Arriviamo fin davanti al Palazzo del Parlamento e facciamo sentire la nostra voce, sostenendo l'anticostituzionalità della legge!»
La proposta piacque immediatamente a tutti. Già Dedalus si era lanciato in idee assurde per rendere grandioso e rumoroso il corteo, quando Mairead richiamò l'attenzione, esclamando: «Faonteroy!»
Il cugino nobile per poco non trasalì nell'essere chiamato in causa per organizzare manifestazioni sovversive.
«Tu terrai il discorso finale sulla Costituzione!» propose Mairead, con un sorriso entusiasta.
«Io?»
«Gli O'Brian non sono in Parlamento da generazioni?» lo stuzzicò la ragazza, sicura di far leva sui punti giusti. «Chi meglio di un O'Brian potrebbe farlo?»
Faonteroy gonfiò il petto pieno di orgoglio, cadendo in pieno nella trappola della cugina. Questi nobili erano tutti uguali, quando si trattava di difendere l'onore della propria famiglia: si lasciavano convincere facilmente.
«Allora è deciso!» Bearach batté le mani soddisfatto, come se stessero preparando un allegro pic-nick in campagna.
«Sì, sì, tutto grandioso» smorzò i toni Laughlin. «Però non dimenticatevi del mio compleanno.»
«Laugh!» esclamò Mairead esasperata, mentre gli altri sogghignavano.
«Ehi, Ed» intervenne allora Moira, visto che il ragazzo non aveva ancora aperto bocca. «Come farai con McPride?»
Prima che quello potesse rispondere, si fece avanti Laughlin: «Verrai a stare da noi, che domande!»
«No, grazie.» Nel declinare l'offerta, Edmund si sentì addosso gli occhi di tutti. Come spiegare che non voleva approfittare ulteriormente della disponibilità dei suoi amici? Sorrise imbarazzato. «Io tornerò in orfanotrofio» spiegò pacato.
«McPride non te lo permetterà mai» osservò Dominique, in tono serio.
Edmund non si fece smuovere. «Sono maggiorenne. Non può obbligarmi a stare a casa con lui.»
«Ma come la metti con i Babbani?» chiese Laughlin, che non aveva mai capito molto di quelle cose.
«Per il mondo Babbano sono ancora minorenne quindi ho tutto il diritto di tornare in orfanotrofio se il mio padre adottivo è morto» disse Edmund con semplicità.
«Morto?» gli fece eco Bearach, piuttosto perplesso: nessuno l'aveva avvertito che il Presidente della Repubblica fosse morto.
Edmund sfoderò il suo miglior sorriso lupesco ed estrasse dalla tasca quello che era un inconfondibile paipear ban, ovvero un foglio bianco sul quale i Babbani vedevano scritto il documento che volevi vedessero.
«Non hai fatto la coda all'Ufficio del Dipartimento dei Rapporti con i Babbani per ottenere quello» commentò Mairead con un tono di assoluta ovvietà.
Il sorriso di Edmund si allargò di un paio di molari, restando comunque incredibilmente naturale e affascinante. «No, ma non hai idea di quante cose possano mandare per posta delle solerti impiegate quando scoprono che sei il figlio adottivo del Presidente della Repubblica.»
E, appoggiandosi tranquillo allo schienale del sedile, pregustò lo sdegno di McPride, non appena questi avesse scoperto il suo piano, e la faccia incredula ed esasperata della signorina Quinn, la sua assistente sociale, quando l'avesse visto tornare all'orfanotrofio. Si prospettava un'estate interessante.

****



Un uomo dal naso aquilino, una donna vestita di nero e un uomo biondo che fumava il sigaro. Questi i suoi alleati.
L'odore del fumo non gli era mai piaciuto, forse perché gli ricordava sempre le lunghe pipe che si fumava suo padre. Aveva vaghi ricordi di Cassian Deamundi, decimo Conte di Con Cetchthach, non tanto perché fosse morto giovane, quanto perché aveva un'unica maschera che mostrava al mondo intero: quella del decoro, del rispetto e dell'onore. Non l'aveva mai visto deporre quella maschera per mostrare qualche incertezza, debolezza o dubbio. Forse non ne aveva mai avuti, forse era un uomo tutto d'un pezzo. O forse non era proprio umano.
Meccorin Deamundi, undicesimo Conte di Con Cetchthach, era invece pieno di dubbi. Oh, non dubitava affatto delle sue scelte, né della correttezza dei suoi ideali. Aveva un compito preciso da portare avanti, in quanto membro di spicco della comunità magica celtica, emblema della nobiltà e baluardo della difesa del sangue puro.
Eppure provava un senso indefinibile di ribrezzo nei confronti degli alleati che era stato costretto a scegliere. Possibile che fossero rimasti solo languidi arrivisti e pazzi assetati di sangue a difendere l'orgoglio dei celti? Dov'erano finiti la vera nobiltà, l'onore e la fierezza degli Irlandesi? Poteva davvero mettere la salvezza del sangue puro nelle mani di questi mentecatti?
Un tempo l'Irlanda era unita contro gli invasori, ora li accoglieva a piene mani.
Ribrezzo, gli faceva solo ribrezzo la società in cui era costretto a vivere.
«Conte Deamundi, non capisco il motivo di questa convocazione» fu l'inopportuna intromissione dell'uomo biondo che stava fumando il sigaro.
Meccorin ebbe l'impulso di spegnergli il sigaro in fronte, ma si trattenne: quell'idiota borioso di Giustinianus MacGaril era una pedina essenziale per i suoi piani. «Vi ho convocati, fratelli» mormorò invece, usando il suo miglior tono gentile. «Perché ho delle importanti missioni per tutti voi.»
«Qualsiasi cosa per la grandezza del sangue puro» snocciolò tranquillamente la donna in nero, come un mantra che avesse imparato a sfoderare nei momenti migliori.
Bastava affidare un compito, a quelle sciocche scimmiette ammaestrate, che si sentivano subito importanti. Mettersi nelle loro mani gli provocava orribili moti di ripugnanza e avrebbe senza dubbio fatto tutto da solo, se avesse potuto, ma non era quello il suo ruolo. Lui era la mente, e la mente non si sporca le mani.
«Fratello Giustinianus» interpellò l'uomo biondo. E nel dirlo pensò quanto fosse ridicolo quell'appellativo “fratello”: prima di tutto non erano affatto sullo stesso piano, perché lui era il Conte di Con Cetchthach e tutti gli altri erano sotto; in secondo luogo, la storia era piena di esempi di come l'amore fraterno fosse tutto tranne che amorevole.
Giustinianus MacGaril, tuttavia, era un uomo troppo pieno di sé, con un ego troppo ingombrante per poter prestare davvero attenzione a chi gli stava intorno. Era facilmente manovrabile: bastava solo lusingarlo quanto necessario.
«Cosa posso fare per la gloria dell'Irlanda?» domandò l'uomo, accondiscendente.
Il conte Deamundi si versò un calice di vino rosso, il suo unico vizio. Lo fece roteare e ne gustò il profumo, infine ci posò le labbra. «Mi è giunta notizia che vostro nipote abbia cominciato a frequentare delle amicizie...» Meccorin si interruppe e bevve un sorso. «Come dire? ...sconvenienti per il suo rango.»
«Sconvenienti?» fece eco MacGaril, fingendo di non capire.
Meccorin trattenne l'impulso di versargli il vino in faccia. Sorrise. «Traditori del proprio sangue, figli di Babbani, sasanachfuil» snocciolò, godendo della vista dell'altro che inorridiva. «Speravo di poter portare gli O'Brian dalla nostra parte.»
«Gli O'Brian sono un'antica famiglia: staranno sicuramente dalla nostra parte» intervenne l'uomo dal naso aquilino, convinto com'era che tutti i nobili dovessero per forza essere seguaci della loro causa, già solo per il fatto di essere nobili. Stupido ottuso. La nobiltà era una questione di carattere, non di blasoni attaccati alle pareti di un castello.
«Purtroppo non è così» fu costretto ad ammettere Meccorin, con un sorriso amaro. «Per quanto la mia famiglia e quella degli O'Brian siano legate da matrimoni dinastici, ultimamente si stanno allontanando dalla retta via, come pecorelle smarrite.»
Il Conte si concesse il lusso di una citazione evangelica, ma nutriva il serio dubbio che i suoi ospiti non fossero in grado di coglierne la raffinatezza. Rozzi. Lasciò che le sue labbra si increspassero in un sorriso forzato, prima di continuare: «Il rampollo degli O'Brian, a differenza di tuo figlio, è troppo giovane per proporre un matrimonio strategico con mia figlia Andalysia.» Meccorin era certo che quell'avido di MacGaril non si sarebbe lasciato sfuggire il messaggio implicito che aveva saggiamente nascosto tra le righe. Gli dispiaceva dare in sposa la sua piccola Andalysia, la sua stella di fuoco, a quel ritardato mentale di Belisar MacGaril, ma a ognuno era chiesto di portare le proprie croci.
«Cosa suggerite, allora?» domandò MacGaril che, alla sola ipotesi di accaparrarsi un tale favorevole matrimonio per il suo erede, si era fatto improvvisamente più interessato alla questione.
«Ospita il piccolo Faonteroy al tuo castello per le vacanze estive, in modo che possa essere sottoposto al tuo costante influsso.» Meccorin fissò negli occhi il suo interlocutore, per fargli capire ciò che era sottinteso a quell'ordine: controllalo e convincilo, se serve anche con la forza.
MacGaril annuì per far intendere che aveva capito.
«Fratello Scipio.» Meccorin si rivolse all'uomo dal naso aquilino, probabilmente dei suoi tre ospiti quello che lo ripugnava di più. Languido arrivista, capace solo di far da zerbino a chiunque potesse permettergli un avanzamento di grado, sociale o lavorativo che fosse. Al momento, il Conte aveva bisogno di quel viscido accaparratore, ma avrebbe fatto volentieri a meno di appoggiarsi a lui.
«Cosa posso fare per la nostra causa?» domandò Diablaiocht, untuoso come sempre.
Meccorin declinò una sola parola: «Autarchia.»
Intelligenti pauca, dicevano i latini, ma a giudicare dallo sguardo interrogativo di Diablaiocht, era necessario qualche chiarimento in più. Meccorin si concesse un sorriso. «Fratello Scipio, sfrutta la tua posizione più che puoi: quale Capo del Dipartimento Affari Esteri, sono sicuro tu possa far approvare dazi di dogana che proteggano la nostra produzione e ci rendano indipendenti da qualsiasi rapporto con altre nazioni.»
Diablaiocht parve bonariamente sorpreso. «Conte Deamundi, l'Irlanda non può sperare di giungere all'autarchia» gli spiegò tranquillo, come se volesse sorridere dei suoi tentativi di intervenire anche sul piano economico.
Meccorin batté il pugno sul tavolo con una tale violenza da far trasalire perfino gli occupanti dei dipinti appesi alle pareti. «Vuoi insinuare che noi fieri Irlandesi non abbiamo la forza di renderci indipendenti dal nemico straniero?» tuonò.
Calò il silenzio.
Meccorin sapeva di aver fatto leva sulla sua autorità, sulla stessa nobiltà che lo circondava, sul peso che ogni sua parola aveva nei confronti dei suoi inferiori. Ma lui era l'undicesimo Conte di Con Cetchthach e nessuno poteva permettersi di contraddirlo.
«Farò il possibile» acconsentì alla fine Diablaiocht, sottomesso.
«Servi bene la tua patria» recitò allora Meccorin, in tono nuovamente calmo. Si versò un altro goccio di vino e lo sorseggiò con tutta calma, decidendo lui quali ritmi dare alla conversazione. Solo quando si ritenne soddisfatto del silenzio riverente che gli riservarono, si rivolse alla sua ultima ospite. «Sorella Daireen.»
Quella si illuminò nell'attesa di sapere quale compito fosse riservato a lei.
«L'anziana Donna O'Marsy andrà finalmente in pensione quest'estate» annunciò loro Meccorin.
«La vice-capo del Dipartimento dell'Istruzione?» si informò Diablaiocht, costernato di non aver scoperto prima quella notizia sulla sua collega del Ministero.
«Proprio lei. E mi è stato assicurato che uno di noi potrà avere il suo posto» confermò Meccorin. Poi si voltò a guardare negli occhi Daireen Cumhacht. «Sarai tu.»
La donna parve sorpresa. «E il mio vecchio compito?»
«Lascialo perdere» rispose subito Meccorin, ponendo autorità nella sua voce. «Mi è stato garantito che presto Captatio verrà messo fuori gioco e allora tu, in qualità di vice-capo, sarai chiamata ad essere Preside ad interim.»
«E cosa volete che faccia?» domandò la Cumhacht, nascondendo a stento il suo furore.
Meccorin cercò di ignorare quell'affronto: nessuno doveva avere il diritto di contestare le sue decisioni. «Ho scelto te perché puoi contare sull'appoggio di tuo fratello che, se non ricordo male, insegna al Tinity: tu sarai così nella posizione migliore per poter influire sulle decisioni della scuola» spiegò, nel tentativo di farle capire l'importanza di quel compito. «Chiunque abbia il controllo della scuola, controlla le future generazioni di cittadini e può influenzare le loro menti.»
La donna annuì, ma non pareva per nulla soddisfatta.
Meccorin si appoggiò stancamente allo schienale della poltrona. «Siete congedati» dichiarò, facendo capire che lui era il capo. «Glan na fuil...»
«...tri bas na sasanachfuil» risposero i suoi tre ospiti in coro. Dopodiché si alzarono dal tavolo e con i soliti convenevoli lasciarono la stanza.
Mentre il Conte si avviava verso l'armadio dei liquori per riporre la bottiglia di vino rosso, notò con la coda dell'occhio che Daireen si era fermata ad osservare qualcosa nella vetrina alle sue spalle, come per prendere tempo. Trattenne uno sbuffo spazientito e si voltò verso di lei. «Sorella Daireen?»
Lei ignorò di colpo ciò che stava guardando e gli rivolse un sorriso finto tanto quanto la sua precedente distrazione. «Mi chiedevo, conte Meccorin, fin quando andrete avanti a proteggerla.» L'insinuazione della donna non scalfì minimamente il suo sorriso.
Mecorin non lasciò trapelare nessuna emozione, ma la vena sulla tempia destra cominciò a pulsare e minuscole rughe comparvero intorno agli occhi. Nessuno si era mai permesso di parlare in quel modo al conte Deamundi. Non c'era più rispetto per la nobiltà. Meccorin contrasse i pugni e poi li riaprì, ma alla fine prevalsero i suoi modi rispettosi. «Di chi stiamo parlando, sorella Daireen?»
La donna si fece d'improvviso mortalmente seria. «Di quella piccola, lurida sasanachfuil di Mairead Boenisolius.»
Meccorin si pietrificò.
«Prima mi ordinaste di ucciderla» continuò imperterrita Daireen. «Poi cambiaste idea, perché diceste che con il ritorno di Voi-sapete-chi avevamo altre preoccupazioni. Ora mi volete infiltrata nel Dipartimento per l'Istruzione, in modo da sostituire quel rammollito di Captatio, appena ce ne sarà modo.» Daireen si avvicinò di un passo, febbrile di follia. «Quando sarò Preside, avrò un'occasione d'oro per eliminarla. Lasciatemela uccidere!»
«No.» Meccorin rispose d'impulso, senza nemmeno rendersene conto. Ma poi raddrizzò il tiro. «Non sarai lì per quello: non puoi rischiare di mettere a repentaglio la tua missione principale.»
Daireen gli riservò un'occhiata lunga e penetrante. Sembrava sapere che non era l'unica motivazione di quel rifiuto, ma non poteva discutere gli ordini del Conte. Per quanto si chiamassero “fratelli” e “sorelle”, all'interno dell'EIF, era da sempre il conte Deamundi che aveva le redini del gioco. Lui dava gli ordini e gli altri eseguivano. «Come comandate, signor Conte» rispose infine, obbligata a cedere. «Ma ricordatevi che anche l'acqua più pura, quando viene contaminata dal fango, diventa imbevibile.» E con quelle parole, lasciò la stanza.
Meccorin, rimasto solo, si voltò a scrutare la notte che stendeva il suo manto sulla terra. In realtà, non sapeva nemmeno lui che cosa lo spingesse a proteggere la figlia di suo cugino.
È solo una bambina, si era detto, quando aveva ordinato l'assassinio della madre inglese. E i bambini non andavano toccati, si era sempre ripromesso. Molti altri non si facevano scrupoli nemmeno con degli infanti, ma lui aveva sette figli, li aveva visti nascere, e sapeva che i bambini erano inviolabili. D'altronde, lui non era un assassino: stava solo compiendo il suo dovere di protettore dell'Irlanda celtica. Ma poi la bambina Mairead era cresciuta e lui aveva effettivamente ordinato di eliminarla, perché si stava rivelando uno scomodo intralcio a molti piani dell'EIF. In fin dei conti, il suo sangue era per la metà inglese, eppure...
per l'altra metà era una O'Brian fatta e finita. Come lo era stata sua madre Evangeline, quand'era giovane. Come lo era adesso sua figlia Andalysia, l'unica Deamundi che avesse ereditato i capelli rossi e gli occhi verdi degli O'Brian.
C'era del carattere, in quella ragazza.
Il vero problema era che militava dalla parte sbagliata, come suo padre, e come sua nonna prima di loro. Se solo avesse aperto gli occhi e avesse visto la giustizia in quello che lui stava facendo! Stava ridando l'Irlanda agli Irlandesi!
Non piacevano nemmeno a lui i metodi che era costretto ad utilizzare, né le persone su cui doveva fare affidamento per portare a termine il proprio obiettivo, ma la meta era più importante del percorso. La meta era un'Irlanda libera.
Sospirò. Sorseggiando il suo vino, si voltò nuovamente verso la sala ma, alzando di poco gli occhi, si ritrovò addosso lo sguardo accusatore di sua madre. Lo scrutava dall'alto della sua cornice, ormai inattaccabile nella sua serenità di morte: da lassù, poteva rimproverarlo quanto voleva.
«Non guardarmi in quel modo, madre» le intimò Meccorin, come se ancora potesse incuterle paura. «Non sarò ricordato come il Deamundi che ha dovuto soccombere all'invasione britannica!» gridò, agitando verso di lei il calice che aveva in mano. Ma tutto quello che ottenne come risposta, fu il leggero incrinarsi delle labbra di lei in un sorriso di sufficienza.
Seguì un rumore di vetri infranti e il vino rosso che colava sulla tela del quadro, come macabre scie di sangue.

****



Avevano fallito e lui li aveva puniti, sia per dare l'esempio, sia per placare la sua ira. Ma ora che la rabbia era stata sfogata, un nuovo pensiero gli tartassava la mente: chi era l'altro ragazzo?
Era sempre stato convinto che McFarren avesse ucciso tutti gli esperimenti prima di scappare. Possibile che uno fosse sopravvissuto? Che McFarren l'avesse tenuto con sé?
Se era vero, il vecchio si era rivelato uno stupido. Pensava davvero di potergli sfuggire? Avrebbe cercato quel marmocchio dovunque, l'avrebbe stanato e allora sarebbe stato invincibile. Un'arma nelle sue mani, con capacità magiche straordinarie e nessuna coscienza, nessun pensiero, nessuna ribellione.
Doveva trovarlo. Doveva essere suo.
Lord Voldemort sorrise. Ogni cosa stava andando al posto giusto, finalmente.
Gli restava solo da recuperare la profezia e uccidere Potter una volta per tutte.
Allungò una mano per accarezzare il dorso del suo serpente, adagiato ai piedi della sua poltrona. «Presto polverizzeremo ogni nostro nemico, Nagini» promise. «Presto.»







Carissimi,
siamo giunti alla fine del quinto racconto. Spero che vi siate divertiti a leggere almeno quanto io mi sono divertita a scrivere. Grazie a tutti quelli che hanno seguito le avventure del Trinity, in particolare a Good Old Charlie Brown, Julia Weasley, Shan, ella18 e Vodia, che non hanno mai mancato di farmi sapere il loro parere.
Nell'epilogo avete potuto godere ancora una volta dei nostri ragazzi del FIE, uniti contro i pregiudizi del Governo. Spero che ognuno di loro, con le proprie peculiarità, vi stia a cuore, perché io sono affezionata a tutti.
Ho anche cercato di dare un po' di spazio ai "cattivi", e in particolare al mio adorato conte Deamundi. La famiglia Deamundi è un tassello importante nell'architettura della storia, per cui non voglio affatto che la loro psicologia risulti banale. Tanto più che mi piacciono un sacco!
Non ho una vera e propria immagine per questo capitolo, ma vi lascio le foto dei protagonisti dell'EIF (credo che visualizzarli aiuti a capire la loro personalità!):
QUI il conte Meccorin Deamundi; QUI Scipio Diablaiocht; QUI Giustinianus MacGaril; QUI Daireen Cumhacht; infine, QUI il sorrisetto adorabile che Evangeline Deamundi rivolge al figlio.

Infine, sì, cari miei, l'anno prossimo si prospettano un sacco di guai, con il ritorno ufficiale di Voldemor! Che cosa è stato progettato per mettere fuori gioco il preside Captatio? Come finirà con le leggi anti-inglesi? Cosa comporterà il ritorno di Voldemort? E come finirà con la storia della mela d'oro?
Le risposte a tutto questo e molto altro ancora, nel prossimo racconto, LA FUGA DEI CONTI, in pubblicazione a partire da domenica 8 dicembre!
Grazie a tutti, a presto!
Beatrix Bonnie

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