Hunger Games - Per non dimenticare

di skippingstone
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** - ***
Capitolo 2: *** Possa la luce essere sempre a vostro favore ***
Capitolo 3: *** La lama affilata del falcetto ***
Capitolo 4: *** Una sete di sangue che non disseta mai ***
Capitolo 5: *** Costretto a non restare nel mio angolo ***
Capitolo 6: *** Il tributo sfacciato ***
Capitolo 7: *** Appoggiarsi al primo scoglio prima di buttarsi, di nuovo, in acqua ***
Capitolo 8: *** Lunga vita ai Giochi, corta vita a me? ***
Capitolo 9: *** Brillerete, costi quel che costi ***
Capitolo 10: *** La luce ***
Capitolo 11: *** In questo mo(n)do ***
Capitolo 12: *** Un buon motivo per combattere ***
Capitolo 13: *** Ho abbassato le mie difese e mi hai attaccato ***
Capitolo 14: *** Le margherite sono salve ***
Capitolo 15: *** Sii ***
Capitolo 16: *** Niente è troppo poco ***
Capitolo 17: *** Mi ripetono e ripeto: corri! ***
Capitolo 18: *** Il bagno di sangue ***
Capitolo 19: *** Un mondo perfetto (la luna) ***
Capitolo 20: *** Un classico litigio tra femmine ***
Capitolo 21: *** Siamo come petali... ***
Capitolo 22: *** ...di una rosa bianca ***
Capitolo 23: *** Prometti di non dimenticarti mai di me ***
Capitolo 24: *** Come se volesse lasciarsi morire ***
Capitolo 25: *** La bomba ***
Capitolo 26: *** L'Arena ***
Capitolo 27: *** La legge della natura ***
Capitolo 28: *** Il punto debole ***
Capitolo 29: *** Parole ***
Capitolo 30: *** Vittime del macello ***
Capitolo 31: *** L'aiuto ***
Capitolo 32: *** Attenti ***
Capitolo 33: *** Inevitabile ***
Capitolo 34: *** Rappresentare il distretto 2 ***
Capitolo 35: *** Un volto da non dimenticare ***
Capitolo 36: *** Allo specchio ***
Capitolo 37: *** Cosa ha lei che io non ho? ***
Capitolo 38: *** Ora, non dopo ***
Capitolo 39: *** Possa la fortuna essere sempre a vostro favore ***



Capitolo 1
*** - ***


Tutte le cose veramente cattive nascono dall'innocenza.
Ernest Hemingway.

 

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Capitolo 2
*** Possa la luce essere sempre a vostro favore ***


1. Possa la luce essere sempre a vostro favore
 
È come in quei filmati che ci fanno vedere di continuo: tutti messi ordinatamente di fronte ad un muro. I soldati hanno dei fucili in mano e controllano ogni persona. Urlano di star fermi, di non fiatare e che non bisogna opporsi. Più ci si muove, più si ha la possibilità di non vedere i cari, mai più. 
In quei video troppa gente si muove e, infatti, troppa gente muore.

«Vedrai, non accadrà a te. Tu sei nativo di Capitol City, perché dovrebbero chiamare te?»
«Livius, davvero credi non toccherà a me? Sono quattro anni che non pescano il mio nome e nessuno sa quale nome potrebbe apparire da un momento all'altro. Da quando sei diventato il veggente di tutta Panem?»
Sembra di essere in una barca con troppa gente sopra. Stiamo stretti, ci spingiamo, ci agitiamo e non riusciamo a star zitti: non tutti riescono ad accettare il destino che ci aspetta, soprattutto i più piccoli che sono nuovi in questo campo. Livius, anche se più piccolo di me di due anni, è il mio unico migliore amico. Unico perché nessuno ha mai avuto il piacere di stare con me. Non sono mai stato molto popolare, non sono il tipico ragazzo che tutti vorrebbero accanto, soprattutto in un distretto come quello in cui vivo io. Il distretto 2. 
I miei genitori si trasferirono una decina di anni dopo i Giorni Bui perché proprio il presidente Morse aveva chiesto loro di andare. "Ci sono grandi piani per il distretto 2. Diventerà il distretto più forte di tutta Panem. Sapete perché? Perché mi è stato il più fedele!" Allora prendemmo il treno e arrivammo dritti qua, in questo distretto dove non c'era altro che miniere, miniere e miniere. Sembrava di essere caduti nel distretto 12 invece del 2. Sin dall'inizio non ho avuto un'infanzia facile. I bambini della mia stessa età non volevano giocare con me: avevo vestiti strani, strani capelli, occhi troppo chiari perfino per loro che hanno la carnagione molto chiara e denti troppo bianchi. "Tutta gelosia: questo era il pregio di vivere a Capitol City..." - diceva mio padre quando gli raccontavo del fatto che mi avevano usato come palla da tennis - "...abbiamo più comfort degli altri". Io, sinceramente, non sapevo se fossero comfort o penalità visto che passavo il tempo a parlare da solo. Ero la vittima preferita degli scherzi, della burle altrui. Quando nessuno sapeva cosa fare, la soluzione ero io. Una volta mi passarono una lametta e mi dissero di dovermi tagliare le vene: la mia presenza era inutile, non avrei mai potuto aiutare nelle miniere con il mio corpo esile e la mia salute cagionevole. La cosa che mi rendeva più triste era che mio fratello faceva parte del gruppo dei bulli, lui stesso rideva alle battute contro di me, lui stesso mi aveva passato la lametta.
Un giorno inciampai, nel vero senso della parola, in Livius. Era disteso a terra e io non mi accorsi della sua presenza così caddi a terra. Lui fece finta di niente, si volse e mi disse sorridendo: «Guarda, sta crescendo una rosa bianca.»
La mia condizione di vittima mutò proprio quando incontrai questo strano ragazzo che amava veder crescere le rose bianche. Era diventato lui il passatempo preferito degli altri e io reagii. Colpii a lungo un ragazzo e non smisi fin quando non gli vidi uscire il sangue dal naso. Da allora mi chiamano il Sanguinario. Ovviamente i genitori detestarono, e detestano tutt'ora, il mio volto, così i ragazzi, così le ragazze tranne colui di cui presi le difese.
Da allora io e Livius non smettemmo di essere amici, neanche per un secondo.  Continuiamo ad essere amici anche in questo istante dove tutti noi siamo le prede di Capitol City, carne prelibata.
Qualcuno di noi, infatti, è destinato a diventare il nuovo volto del distretto negli Hunger Games. Posso solo sperare di non diventare il loro nuovo giocattolo, il nuovo volto del distretto 2.
«Livius, e se chiamassero me?»
«No, se chiamassero me? Insomma, tu sei più carino di me, più alto e più secco. Io puzzo ancora di latte, non so leggere bene e non posso accattivarmi il pubblico come faresti tu. E, poi, tu sei di Capitol City.»
«Ancora con questa storia? Io faccio parte del distretto 2 proprio come ne fai parte tu.»
Sul palco c'è già lui, colui che ogni anno annuncia i nuovi tributi, che li accompagna fino al fulcro dei giochi. Lui, Victor Vict.
Dietro la figura di quell'uomo muscoloso, occhi verdi e capelli arancioni si nasconde un abile giocatore. Lui, infatti, è il primo vincitore del distretto 2, vinse la quarta edizione quando aveva 18 anni. Se io fossi un vincitore degli Hunger Games, non parteciperei mai a qualcosa che riguardi, poi, quegli stessi giochi. Anzi, andrei il più lontano possibile. Però, a quanto si poteva vedere, gli Hunger Games non ti lasciano mai libero.
«Miei cari concittadini, possa la luce essere sempre a vostro favore!»
Il motto del distretto 2: possa la luce essere sempre a vostro favore. La luce perché rappresenta la vittoria, la salvezza e i diamanti, ciò per cui è famoso il distretto.
«Prima di passare all'estrazione dei biglietti, il presidente di Capitol City vorrebbe parlarvi.»
Partono le scene di un distretto 13 distrutto, la scena di qualche edizione degli Hunger Games e il saluto del Presidente Morse. Niente di nuovo, niente di insolito, niente di sconvolgente fin quando non appare una nuova sequenza, una scena mai vista nei video precedenti.
«Ritenetevi fortunati! State facendo la storia, miei cari ragazzi: la storia degli Hunger Games. Guardatevi, guardatevi attentamente.»
In realtà nessuno segue il consiglio del Presidente perché siamo tutti impegnati a guardare i suoi occhi viola e le sue mani che accarezzano il gatto, anch'esso viola.
«Voi siete i giocatori della 25° edizione degli Hunger Games, la prima edizione della memoria. Me - mo - ria.» - il Presidente scandisce bene l'ultima parola per renderci chiaro il concetto della parola appena pronunciata. Lo fa quasi sempre. Non gli importa della divisione in sillabe, del rispetto della lingua o del giusto modo di dire una parola, lui si diverte a dividere le varie parti di una parola e dirle ad alta voce con una certa enfasi.
«Vi chiederete cosa bisogna ricordare, vero? Bisogna ricordare i morti e il rispetto. Il ris - pe - tto! Quindi, per ricordare ai ribelli che i loro figli sono morti a causa loro... Sì, cari genitori a cui batte il cuore perché vedete i vostri cucciolotti ammassati qua davanti, è solo colpa vostra se esistono gli Hunger Games, il vostro programma preferito. D'altronde vedete solo quello in televisione, vero?» - il Presidente ride divertito. Si diverte perché quella che ha appena fatto è una battuta, di cattivo gusto aggiungerei. Dice che gli Hunger Games sono il programma più visto da tutti perché, in effetti, lo sono davvero: sono l'unica cosa che si può vedere in televisione, l'unico programma. Quando non ci sono gli Hunger Games in onda, ci sono le repliche.
 «E, allora, abbiamo pensato: perché non far partecipare in modo attivo gli spettatori? Dunque, ho preso questa decisione sia per, come dicevo prima, rendervi più partecipi sia per farvi capire che le vostre azioni non restano impunite o dimenticate.»
Il Presidente si ricompone e fa scivolare il suo gatto viola dalle gambe. Si dà due colpetti sul petto e aggiusta il papillon viola con i pois blu elettrico.
«Per ricordare ai ribelli che i loro figli sono morti a causa loro, i tributi saranno eletti dal distretto stesso. Buona edizione della Memoria, buona visione e ricordate che Capitol City vi controlla sempre, sem - pre.»
Si spegne lo schermo gigante e immediatamente si sentono le urla di una madre disperata. Tutti noi ci giriamo verso la donna.
Subito mi immedesimo nei video che abbiamo visto fino allo svenimento: noi siamo quei ribelli che erano ordinati lungo il muro. Questa volta, però, le armi ce l'hanno il panettiere, il signore che mi aveva donato un frammento di diamante appena arrivai, il mio vicino, il maestro che mi ha insegnato a leggere e a scrivere, il bullo che mi ha tormentato sin da subito, la madre del ragazzo che ho picchiato, l'anziana signora che racconta sempre dei Giorni Bui, l'ubriacone che parla sempre male di me, la signora che ci porta il latte, l'amica di mia madre, il padre del mio migliore amico, mio fratello, mia madre, mio padre. 
Stranamente sento di essere quello che si muove più degli altri, quello che sta per ricevere un proiettile in faccia.

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Capitolo 3
*** La lama affilata del falcetto ***


2. La lama affilata del falcetto

«Livius, sai cos'è la mietitura, vero?»
«Sì, è quello che succede prima degli Hunger Games, quando chiamano il nome del tributo scelto.»
«No, Livius. La vera mietitura. Sai cos'è?»
«Esiste un'altra mietitura? Cosa mi dici mai?»
Sorrido, l'ingenuità di Livius mi ha sempre divertito.
«La mietitura è un processo che si usa nell'agricoltura. Il distretto 11, ad esempio, si occupa di agricoltura e compie la mietitura quando bisogna raccogliere i cereali che sono diventati maturi e pronti per diventare cibo.»
«Come fanno a tagliare i cereali?»
«Usano il falcetto.»
«Noi siamo cereali?»
«No, ma loro, quelli di Capitol City credono di sì. Vengono con il falcetto, ci tagliano e ci portano direttamente nel grande forno che è l'Arena.»
«Io non sono pronto per andare nel forno.» - Livius mi confida quella cosa mentre gioca con i petali di una rosa bianca appassita.
«Io non sono pronto ad essere proprio tagliato.»
Più guardo Livius, più penso al nostro probabile destino. Riesco a pensare solo ad una cosa: nessuno è padrone della propria vita. Là fuori troveremo, sempre, qualcuno che ci butti in un forno senza domandarsi se quello sia il momento giusto per farlo. 
Bisogna diventare maturi prima dei tempi richiesti!

Livius mi sta stringendo la mano. Forse non se ne accorge nemmeno. 
Io non guardo più gli occhi indiscreti di tutte quelle persone, sto guardando gli occhi del mio migliore amico. Dentro ci leggo paura, disperazione e sento che lui sta pensando solo ad una cosa: alla sua morte.
«Livius, va tut..» - cerco di rincuorarlo, ma mi interrompe mentre guarda un punto indefinito.
«Lo sai? Mi sei sempre stato simpatico. È tutta colpa dei tuoi capelli. Sono troppo chiari. Anche i tuoi occhi. Sembri essere gelido come il ghiaccio ma dentro c'è un cuore liquido. Sei come una rosa bianca.»
«Livius, sembra tu mi stia dando un addio.»
«Perché lo sto facendo. Prima o poi, tutti dobbiamo incontrare la morte, no? Gli Hunger Games affretteranno il mio incontro.»
Abbassa il capo dopo aver detto quelle parole così dure. Allora slego la mia mano dalla sua e gli alzo il volto. Con sorpresa scopro che sta piangendo.
«Livius, asciugati il volto, ora!» - egli segue i miei ordini. - «Smettila di piangere, non tocca a te.»
«Tu chi sei? Il veggente di Panem?» - lui sorride tra un singhiozzo silenzioso e un altro. Sorrido anche io perché ha ripetuto la battuta che gli avevo fatto io precedentemente. Da una parte sono sollevato nello scoprire che Livius riesca ancora ad essere ironico ma, dentro, il mio cuore batte come un pazzo. So che forse ha ragione: io e lui non siamo ricordati con amore dai cittadini del distretto. Molti ci definiscono strani perché i figli ci chiamano così. Insomma chi ci avrebbe risparmiato? Nessuno. Avrebbero preferito fare il nostro nome, invece di nominare qualcun altro di più preparato, se sia possibile esserlo per una cosa del genere. 
I soldati iniziano a prendere tutti noi ragazzi e ci dispongono, uno accanto all'altro, con le spalle al muro. Ad ognuno di noi viene dato un pezzo di spago a cui è attaccato un cartello con un numero. Ci cingono la vita con quello spago come se fosse una cintura. Ora non siamo più persone, siamo numeri. Poi saremmo diventati burattini nelle mani dei strateghi. Io sono il numero 428. 
A Livius, che è vicino a me, è toccato il numero 427. Davanti a noi un tavolino, tanti fogli di carta e ogni persona che si accomoda al banco deve scrivere un numero, deve dire chi vuole mandare nell'Arena. C'è gente che ci guarda minacciosamente, altri che guardano i figli pensando al loro futuro, altri che piangono mentre scrivono il numero di qualcuno.
È il turno di mio fratello; ci guardiamo per pochi istanti e sorride. Lascia il foglio bianco. Lo capiamo tutti perché il soldato che gli sta alle spalle gli dà un colpo alla testa con la parte inferiore del fucile.
«Dovete scrivere un numero. Chi non scrive un numero che corrisponda ad uno dei ragazzi verrà ucciso, davvero.»
Il soldato urla queste parole a tutti gli adulti che sembrano essere confusi, sbalorditi e, poi, torna a parlare con quel ragazzo che condivideva con me la stanza.
«Inteso, bastardo?»
Mio fratello prende la penna e scrive un numero, piega il foglio e lo butta nell'anfora. Tra me e lui nessun contatto visivo, nessun saluto anche se mi regala una scena memorabile. 
Alzandosi, infatti, dice ad alta voce: «Il bastardo ha inteso le parole che gli ha detto un altro bastardo.»
Con il suo solito modo di fare da ragazzo che vuol sembrare più forte di quello che è, sorride al soldato che gli sta per sferrare un pugno. Con molta eleganza, lo scansa e va via senza pensare che tutto questo potrebbe avere delle serie conseguenze. 
Proprio per questo ho perdonato mio fratello: dal ragazzo che mi aveva passato la lametta, al ragazzo che mi difende davanti un'autorità di cui tutti hanno paura. 
Continuano le selezioni. Nel frattempo si sono formati dei gruppetti e molti stanno decidendo chi far andare in Arena. La maggior parte dei gruppi guarda nella mia direzione. 
«Livius, posso essere sincero con te?»
«Sempre!»
«Credo stiano usando il falcetto contro di me.»
«Perché lo pensi?»
«Tutti guardano me.»
Il mio amico inizia a guardare chi ci sta di fronte e inizia a sudare freddo, si rende conto della realtà dei fatti: lui si sarebbe salvato, io sarei morto.
«Se scelgono te, io cosa farò?» - Livius bisbiglia queste parole come se fossero la dimostrazione di una debolezza, come se avesse paura di dirle, ma io la vedo come la più bella confessione di bene che io abbia mai ricevuto da una persona.
«Andrai avanti, Livius.»
Cade il silenzio. È finita la sezione maschile, ora tocca alla sezione femminile. Stesso procedimento che hanno usato con noi. Gli adulti, di nuovo, devono scegliere chi mandare in una guerra che non avrà mai fine.
Controllo le loro reazioni e ne rimango sorpreso perché tutti cercano di mantenere la calma. Non riesco a capire come facciano! Come possono minimamente pensare di scrivere un numero su quei foglietti? Come continueranno a vivere pensando che loro stanno implicitamente uccidendo un ragazzino? Io non sarei potuto sopravvivere a tutto questo, io sarei morto all'istante. 
Mi accorgo anche di un'altra cosa. La scelta delle ragazze è molto più lenta rispetto alla nostra. Forse, per quanto riguardava i maschi, sapevano già chi voler mandare via ma per le femmine, invece, sembra che non abbiano idea. Un altro particolare è che il tempo non passa. Quanto ancora devo aspettare prima di esser certo di dover morire? Ne voglio la conferma perché è sempre diverso sentirsela dire una cosa invece di immaginarsela semplicemente.

Siamo tutti di nuovo in piazza, senza preoccuparci dell'ordine, dei soldati, dei genitori. Finalmente è arrivato il fatidico momento. Victor Vict sta prendendo il primo biglietto dall'anfora.
Tocca prima alle ragazze. Victor pesca, uno ad uno, tutti i foglietti e annuncia i numeri. Per ogni numero pronunciato appare una X sul grande schermo. Alla fine, quella con più X è una ragazza di nome Level Rose. È una ragazza di diciotto anni, occhi azzurri, capelli neri, labbra carnose. Lei sorride come se quella fosse stata la cosa più ovvia e più bella che le sia mia capitata nella vita.
«Io non sorriderò così quando chiameranno il mio nome.»
Livius non mi ascolta, forse si sta proiettando su quella ragazza. Starà immaginando sé stesso o me che percorriamo quel corridoio, sotto gli occhi di tutti. Le ragazze, intanto, tirano un sospiro che, a mio avviso, è un gesto davvero poco carino. Capisco la sensazione di liberazione ma vedo anche l'assenza di tatto e la poca empatia che tutti hanno con la ragazza sfortunata. In realtà non si tratta neanche più di fortuna. Era fortuna quando i nomi venivano pescati per caso ma ora che, invece, bisogna essere scelti non è fortuna. È una presa per il culo perché tutti ti sacrificano come se fossi un agnello. È sbagliato, dannatamente sbagliato!
Ora tocca a noi maschi e sento il cuore martellare nel petto. Anche se so come andrà a finire, vengo rapito dall'ansia del momento. Come presumevo, il mio numero è già il primo pescato. Proprio come aveva fatto Level Rose, io sorrido divertito. 
«Non avevi detto che non avresti sorriso?»
Livius cerca di distrarmi ma rimane di sasso e irrigidisce i muscoli perché, ora, è stato chiamato il suo di numero. Più si va avanti e più X accompagnano il mio numero e quello di Livius.
«Cosa abbiamo fatto per farci odiare così tanto?» - mi chiede Livius.
«Vallo a chiedere a loro!»
Iniziano a spuntare altri numeri e l'anfora diventa meno piena. Anche se ne appaiono di nuovi e, perciò, nuovi probabili "guerrieri", io e Livius siamo quelli con più X.
«L'ultimo numero!» - Victor ci avverte - «Prima di scoprire l'ultimo numero quale sia, ricontrolliamo i dati. Il numero 356 ha sette X, il numero 409 ha quarantasei X, il numero 413 ne ha due, così il numero 423, il numero 427 ne ha centotrentadue, il numero 487 ne ha cinquantanove, il numero 492 ne ha sette.»
Ascolto i numeri e mi chiedo perché non abbia detto quante X abbia io.
«L'ultimo è il numero 428 che ha centotrentadue X. Proprio come il numero 427.»
Deglutisco. Io e Livius abbiamo lo stesso numero di X e non so cosa fare. Siamo pari. Se quel bigliettino avesse il mio numero? Se ci fosse il suo di numero? Se non ci fosse nessun numero? Potremmo finire noi due nell'Arena e sarebbe strano, diverso… ma almeno staremmo insieme, come sempre, fin quando uno dei due non dovrà uccidere l'altro.
Mi vengono i brividi solo perché ho pensato a questa stupidata. Io non potrei uccidere Livius e nemmeno lui potrebbe uccidere me.
«L'ultimo numero è...»
Sembra passare un'eternità, sembra che Victor non sappia aprire in modo veloce un maledetto stupido bigliettino.
«Il numero...»
Ci guarda, guarda me e Livius. Ci squadra da capo a piedi.
«427!»
Livius è il tributo del distretto 2 e io mi sento morire.

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Capitolo 4
*** Una sete di sangue che non disseta mai ***


3. Una sete di sangue che non disseta mai

Livius è immobile, credo non gli stia circolando più il sangue nelle vene. Sta facendo respiri profondi ma non compie il minimo movimento. Immagino cosa stia passando nella sua testa: starà ascoltando la voce di Victor che chiama, per l'ultima volta, il numero 427 o starà sentendo le risa, le urla, gli schiamazzi che questi insensibili del distretto 2 stanno facendo? Starà guardando Level pensando che passerà le sue ultime ore con lei, una completa sconosciuta? Starà pensando al modo in cui morirà? Cosa starà pensando?
Vorrei fare qualcosa, vorrei zittire i suoi pensieri e sostituirli con immagini spensierate, divertenti e dai colori rassicuranti. Vorrei fosse felice. Vorrei dirgli che andrà tutto bene ma so che non andrà così. Conosco il suo cuore, conosco la sua mente ed egli non ama combattere. Ma ora è chiamato a farlo, è chiamato a vincere per la sua stessa vita e io non posso aiutarlo. 
Sposto la mano sulla sua spalla per fargli capire che io gli sono accanto, ma lui sembra non accorgersene.
Victor lo chiama sul palco, lui continua a restare fermo. Io stringo ancora più forte la sua spalla per non farlo andare via, non voglio lasciarlo andare. Se morisse? Io cosa farei senza il mio migliore amico?
Lui, come se si stesse svegliando da un lungo sonno, rinsanisce e mi guarda sorridendo.
«Beh, mi hanno tagliato e mi stanno buttando nel forno.»
Livius inizia a camminare verso il palco e la mia mano cade in basso come se fosse quella di un morto.
Egoisticamente sento nel mio cuore un peso in meno, mi sento sollevato. Subito dopo sento di dover vomitare perché provo disgusto nei miei confronti. Come ho potuto pensare di essere un po' sollevato nel vedere il mio migliore amico in pasto ai lupi? Sono una persona orribile, meriterei io quel posto, dovrei essere io là sopra e non Livius, un ragazzo di quattordici anni.
«Livius, allora? Sei felice di rappresentare il distretto 2 negli Hunger Games?» - Victor imposta la cosa come se fosse una cosa bella. Essere tributo sarebbe un onore? Per me, per tutti, è una disgrazia.
«Io...»
Livius mantiene lo sguardo su di me come se stesse immortalando i suoi ultimi momenti da persona libera. Io sposto il capo come per fargli capire che ci sono per lui, gli sono accanto, che non ho potere e non so che fare. Continuo a sentirmi una persona orribile, in colpa, arrabbiato. Mille sentimenti stanno colpendo il mio essere e io non so come sopportare tutto, come sopravvivere a questa nuova onda che mi sta portando giù.
So che, ora come ora, non dovrei pensare a me ma solo a Livius. Quando penso a lui, però, penso a me perché io e lui siamo come fratelli, come una persona sola. Lui è il mio migliore amico e non riesco a non pensare alle strade del distretto 2 senza lui che cerca rose bianche, non riesco a non pensare a Livius che cerca di buttare sassi alla finestra della signora Romanov, non riesco a non pensare a me e lui che cerchiamo di intrufolarci nelle miniere di diamante. Non riesco a non pensare ad una vita senza di lui. Posso davvero essere solo io? Posso davvero vivere senza di lui al mio fianco? A chi dirò i miei segreti, il mio piano per conquistare il mondo, il mio probabile futuro?
Mi sembra tutto surreale, forse è un sogno. Mi inizio a pizzicare sul braccio. Sono così forti i miei pizzichi che si fanno immediatamente delle chiazze viola sulla pelle. Ma io non mi sveglio perché non sto dormendo affatto. 
Perdendomi tra le mie idee, le mie teorie, i miei pensieri, non mi accorgo di quello che sul palco sta accadendo. Lo schermo grande si oscura.
Livius ha fatto cadere a terra il microfono e, velocemente, ha strappato dalle mani di un Pacificatore il fucile. Se lo punta alla tempia e, bum, preme il grilletto.
Il sangue schizza su tutto il palco, il fucile cade a terra e io vedo chiaramente delle lacrime cadere dagli occhi del mio migliore amico che sorridendo muore. Il corpo cede e va giù. Tutti ammutoliscono.
Sono sorpreso. Finora ridevano ed erano lieti di vedere Livius sul palco, ora tutti senza parole. Immediatamente penso che questa è una punizione divina: devono sentirsi in colpa, devono sentirsi raggelare il sangue e devono essere tristi perché è colpa loro. Come avevano potuto scegliere un ragazzino di quattordici anni? Sorrido perché sono soddisfatto di quel che ha fatto Livius: gliela sta facendo pagare. 
Di nuovo mi sento male. Capisco i miei pensieri e li faccio sparire. Non posso essere felice perché, oh cazzo, Livius si è ucciso. 
Mi rendo davvero conto di quello che accade e corro, corro verso il palco, salgo velocemente gli scalini e mi piombo sul corpo che giace a terra. I suoi occhi sono bagnati e sorridenti, la sua bocca è larga in un sorriso, il suo cuore fermo. Urlo, urlo il suo nome. Istintivamente metto la mia mano sulla tempia spappolata, voglio fermare la fuoriuscita del sangue, voglio bloccare la sua morte ma è tardi, è troppo tardi perché lui ha deciso di buttarsi un proiettile nel cervello.
Tutti restano a guardare la scena. Livius ha donato loro uno spettacolo ancora prima di diventare un concorrente dei giochi. Io urlo ancora il suo nome come se potessi farlo ritornare dal regno dei morti chiamandolo. Il mio urlo dà il via ad un casino generale. La madre e il padre di Livus superano le guardie, le transenne e vengono verso di me, verso il corpo del figlio. Sobbalzo quando sento la mano del padre sul mio capo: è come se volesse dare un po' di forza a me. D'altronde suo padre e sua madre sono come una seconda famiglia per me e ho sempre pensato di poter essere il loro secondo figlio mai avuto. I miei genitori erano troppo occupati nelle loro faccende per essere presenti davvero nella mia vita. Una volta capitò che io chiesi un consiglio al padre di Livius invece che al mio. Da lì capii che potevo fidarmi di quell'uomo, potevo davvero farlo. Lui, a differenza di mio padre, era presente. 
La madre di Livius si butta sul corpo del figlio e respira a fondo il profumo del suo ragazzo. Il padre, invece, guarda me e sottovoce mi dice che non devo fare anche io quello che ha fatto lui. Non mi devo permettere. Io lo guardo senza capire: cosa vuole intendere con quelle parole? Lui mi guarda con occhi seri, poi sposta la sua attenzione sulla moglie. 
Provo a seguire il senso di quelle parole ma non riesco a pensare con lucidità. La mia camicia azzurra è sporca di rosso, le mie ginocchia poggiate su un lago sporco di sangue, le mie mani tremano mentre gocce di sangue scorrono lungo le braccia come se fossero gocce d'acqua. Poi comprendo. Non basterà Livius a fermare la sete di sangue che Panem ha.
Dopo aver visto morire il tributo del distretto numero 2, gli Hunger Games pretendono un nuovo tributo e quel tributo sono io. 
 

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Capitolo 5
*** Costretto a non restare nel mio angolo ***


4. Costretto a non restare nel mio angolo

«Ti hanno mai detto che pensare troppo fa male?» 
«Anche non pensare fa male, no?»
Il maestro Leon sta mettendo della legna nel camino, vuole mostrarmi come accendere un fuoco.
«Sì, ma dovresti evitare di pensare più del dovuto. Sei un ragazzino di solo dieci anni e hai questo vizio di chiedere, domandare, vuoi sapere tutto e subito ma devi capire che non tutto si può capire semplicemente. Ci sono cose che, per essere comprese a pieno, hanno bisogno di tempo, giusta riflessione e di persone che ti accompagnino, mano nella mano, alla soluzione.»
«Perché, maestro? Perché devo sempre aspettare gli altri?»
Il signor Leon mi passa della carta.
«Perché da soli non si può vivere sulla terra.»
«Ma nemmeno devo vivere aspettando qualcuno che mi faccia vivere.»
«La verità è che le persone hanno un potere nelle loro mani che nemmeno loro sanno di avere. Basta uno sguardo, una parola, una scelta e tutto cambia.»
Inevitabilmente.


Ripenso, ora che ho sedici anni, a quella chiacchierata con il maestro Leon e capisco che queste persone hanno avuto il potere di uccidere il mio amico e mandare a morte me.
Dovevo capirlo sin da subito che io ero un bambino strano e che questo mi avrebbe causato solo guai.
Livius continua a restare a terra, io continuo a restare sulla terra con i miei vivi dilemmi. Mille pensieri che combattono tra loro, si scontrano e litigano.
Penso a cosa devo fare ora che mi stanno buttando nel forno, penso all'Arena, penso a me come tributo del distretto 2, penso a come il padre di Livius sia arrivato a questa conclusione, penso che, per assurdo, sospenderanno i giochi dopo questo evento, penso a come Livius si sia tolto la vita, penso a quanto odio il distretto 2, penso a quanto odio gli Hunger Games. Se fossi stato il Presidente di Panem, avrei abolito subito questa razza di gioco che di giocoso non ha niente. 
Mi avvicino al viso di Livius, la madre è ancora accasciata sul corpo del figlio. 
Inizio a sentire un qualcosa di nuovo nei confronti del mio amico: odio. Odio Livius. Con quale coraggio ha potuto schiacciare quel grilletto? Ha trovato il coraggio di togliersi la vita invece di combattere. Si è arreso, come ha potuto farlo? Non ha pensato a noi, la sua famiglia? Eppure me lo aveva detto qualche ora prima. Gli Hunger Games avrebbero affrettato il suo incontro con la morte, "tutti dobbiamo morire prima o poi". Lui aveva deciso di voler morire prima. 
Questa non poteva essere altro che una decisione sbagliata. O forse no?
Devo seguire le stesse orme di Livius, devo muovermi in fretta. Devo prendere il fucile di un Pacificatore e puntarmelo alla tempia destra, premere il grilletto e salutare la vita. Non saluterò il distretto 2. D'altronde loro hanno fatto morire il mio migliore amico e hanno acconsentito alla strage degli Hunger Games. I giochi della fame. Questi sono davvero i giochi della fame, una fame che non trova mai fine.
Non so quanti minuti siano passati dal momento in cui Livius ha deciso di spararsi ma, ora, i soldati ci stanno alzando con una forza spaventosa. La madre oppone più resistenza di me, io non rispondo a nessuna imposizione. Inizio a perdere il controllo di tutto, lo avevo già perso quando Livius è salito sul palco.
Più soldati prendono il corpo del mio amico e lo portano via da tutti noi. Cosa sarebbe successo ora? Victor Vict è scosso, sta parlando con coloro che registrano e, tornando sul palco, mi guarda e mi ordina di star fermo lì. Arriva una donna che mi ripulisce il viso, mi trucca rapidamente e mi infila una giacca alzando, infine, la zip. I pantaloni restano insanguinati. Victor, invece, mi toglie il laccio che ho alla vita e me ne mette uno nuovo sul petto. Sul cartello che è attaccato allo spago c'è scritto un numero diverso dal mio. C'è scritto il numero 427, il numero di Livius. 
Rimango paralizzato.
Si riaccende lo schermo e Victor urla come se nulla fosse successo. Ma qualcosa è successo e lui ne è ben consapevole perché trema, non riesce a tener fermo il microfono.
«Il tributo numero 427 è il tributo del distretto 2. Come ti chiami ragazzo?»
Mi si puntano in faccia i riflettori, il microfono, lo sguardo incredulo degli assassini del distretto. Sì, quelle non sono più persone, sono assassini.
«È serio?»
Quella è la mia unica risposta.
Victor allontana il microfono, lo copre con la sua mano e inizia a parlarmi sottovoce.
«Ora tocca a te far parte del gioco. Se non fai finta di niente, se fai scoprire a tutta Panem quello che è successo e qualcuno inizia ad insorgere, tutto il distretto 2 verrà distrutto dopo il gesto sconclusionato del tuo amico.» 
«Per me il distretto 2 può andare al rogo!»
«Anche i genitori del tuo amico? Anche gli altri distretti che non hanno nulla a che fare con questa storia? Siamo in onda, la soluzione più semplice è prendere in giro il pubblico e far credere che sia tu il numero 427. E poi sarebbe toccato lo stesso a te.»
«Tutti i distretti stanno mandando nell'Arena qualcuno dei loro ragazzi, sono tutti assassini.»
«No, non sono assassini, cercano di mantenere la pace. Sono costretti, come lo sei tu in questo preciso istante, come lo siamo tutti. Devi dire solo il tuo nome!»
Gli Hunger Games sarebbero il prezzo da pagare per avere la pace? Penso che questo sia uno dei contratti più brutti che l'uomo abbia mai creato.
Mi sbatte, di nuovo, il microfono in faccia e io non so cosa fare. Smascherare tutto o acconsentire? 
«Io...»
Riesco solo a dire questo. Qualcuno, tra la folla, urla il mio nome. Rimango interdetto nello scoprire che laggiù mi stanno tradendo, nuovamente.
«Bene, il tributo maschio del distretto 2 è Coriolanus Snow!»
La mia vista diventa offuscata. Tutte quelle teste diventano dei semplici puntini non ben definiti perché non riesco più a distinguere tutti loro. È come se io fossi in mezzo ad una mandria inferocita di tori. Loro, i tori e io sono vestito di rosso, un rosso acceso che fa impazzire quegli animali che vogliono un pezzo di me. Domani avranno un altro uomo vestito di rosso ma, oggi, quell'uomo sono io. 
Nessuno verrà a salvarmi. Se voglio vivere, devo contare solo su di me.
Sento il mio nome ripetuto più volte e poi quella frase: possa la luce essere sempre a vostro favore.
Il mio amico ha scelto le tenebre invece di un piccolo fascio di luce perciò niente è a favore di nessuno. 
Tutte le telecamere cessano di registrare, le luci si spengono e la gente inizia a tacere. Un Pacificatore ordina al pubblico di tornare a casa ma nessuno gli dà retta. Forse vogliono vedere cosa succederà e se uno dei due tributi si ribellerà a causa di quel che è successo ma non accade niente. Io resto fermo a guardare un punto oltre la folla.
Un colpo di pistola rimbomba nell'aria. Ci abbassiamo tutti, me compreso.
«Tornate a casa!»
Tutti si guardano impauriti e, come tanti bambini che escono da scuola, rapidamente iniziano a spingersi uno contro l'altro per andare via. Qualcosa dentro di me urla, mi dice che devo fermarli, che non posso farli andare via così.
«Ehi!»
Urlo per farmi sentire anche dalla persona più lontana, devono sentire quello che ha da dire la persona che dovrà rappresentare il distretto 2 di merda.
Immediatamente si riaccendono le luci, le telecamere e io rubo il microfono dalle mani di Victor.
«Siete contenti?»
Tutti si voltano.
«Andrete a dormire tranquilli stasera? Mangerete e aspetterete che parleremo bene di voi durante le interviste? Riuscirete a guardarvi allo specchio e tornare a lavorare come se non fosse successo niente oggi? Per me siete dei mostri! Parlate male dei Giochi eppure non fate niente per fermarli! Dite che non è giusto, non è bello vedere i ragazzini di ogni distretto morire e, poi, siete voi stessi a scegliere due tributi. Livius è morto e, anche se non avete le mani sporche del suo sangue come ce le ho io, voi siete più sporchi di me.» 
Mostro a loro le mie mani insanguinate. Non mi importa della pace apparente che bisogna essere mantenuta, voglio giustizia, vendetta, voglio che il gesto di Livius resti nella loro testa fino a farli uscire pazzi. Sono, dunque, ancora più determinato nel dire quanto debbano sentirsi male, quanto facciano pena come persone e come popolo.
Non posso, però. continuare perché qualcuno mi dà un colpo alla testa e perdo i sensi.

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Capitolo 6
*** Il tributo sfacciato ***


5. Il tributo sfacciato

Mi risveglio in una stanza.
È tutto tetro e buio. Non c'è nessuna finestra, nessuno spazio dove possa filtrare la luce del sole e immagino, di conseguenza, che sia notte fonda. 
Arrivo, però, ad una conclusione, immediatamente: questa non è casa mia, casa mia ha tante finestre grandi. Mi tiro su ma inizia a girarmi la testa. Che questo sia l'inferno? Che questa sia l'Arena? Sbarro gli occhi pensando che quest'ultima opzione sia la più probabile e veritiera. Se sono nell'Arena, sono una persona già morta. Non ho fatto allenamenti, interviste, la sfilata. Come possono gli sponsor conoscermi e, quindi, aiutarmi? Il cuore batte forte e sento mancarmi l'aria in questo spazio chiuso e male odorante. 
Improvvisamente si apre una porta grandissima e io mi nascondo dietro la spalliera del divano su cui sono seduto. Se questa è l'Arena, qualcuno starà cercando un tributo da ammazzare e qui ci sono solo io.
«Sta' tranquillo Snow, sono Victor Vict.»
Penso che questa sia la scusa perfetta per farmi uscire allo scoperto e perciò continuo a nascondermi. Sarò debole, ma non stupido. 
Sento i passi della persona che è nella stanza con me più vicini e cerco una specie di arma, anche un semplice bastone per potermi difendere. Quando lo sento ancora più vicino, decido di buttarmici addosso creando un effetto sorpresa per disorientare l'avversario ma la sorpresa la ricevo io quando scopro che son andato contro al vero Victor.
Per un attimo rimango spaesato, poi mi rialzo e mi appoggio al divano.
«Perché lo ha fatto?» - mi chiede l’uomo. Non so cosa rispondere. Mi gira ancora la testa e non ho chiaro quello che mi sta attorno.
Victor, dopo essersi rialzato, si aggiusta la camicia azzurra, la rimette nei pantaloni e fa entrare della luce nella stanza spostando le tende.
«Sono passate due ore da quando sei svenuto.»
«Uno non resta svenuto per due ore, sarei potuto sembrare un morto.»
Un tonfo allo stomaco mi ricorda che non dovrei ironizzare sulla morte visto che è morto Livius.
«Ora siamo solo io e te.»
Lui mi passa un bicchiere d'acqua e io bevo.
«Vedi quello che hai fatto ora? Non lo fare mai più!»
Dopo aver buttato giù tutto il liquido, guardo il bicchiere e, poi, colui che mi è di fronte.
«L'Arena non è un gioco. Non tutta l'acqua sarà sana e pulita, non tutto il cibo sarà buono. Insomma non tutto quello che vedrai sarà quello che credi che sia.»
Poggio il bicchiere sul tavolino e porto la mano alla fronte. Troppe informazioni in una volta mi mandano in black-out.
«Ho appena aperto gli occhi e tu mi dai questo buongiorno?»
«Il buongiorno te lo hanno dato appena sei stato scelto per diventare un tributo. Non avrai tempo per risvegliarti e trovare la colazione a letto. Qui conti solo tu!» - il suo tono non è duro, anzi, lui sta provando a consolarmi e darmi forza.
Resto ancora abbastanza intontito ma ritorno a vedere con lucidità e la voce di Victor diventa più chiara e comprensiva.
«Tu sei il tributo del distretto 2.»
«Ma va... Dimmi una cosa che ancora non so.» - rispondo acidamente.
«Una cosa che non sai? Sei sfacciato!»
«Questo lo sapevo prima di te.»
«No, tu sei più sfacciato degli altri.»
«Perché?»
«Il presidente Morse vuole parlar con te!»

Sono seduto su una sedia sontuosa rivestita di pelle color marrone. Il Presidente Morse è seduto su una sedia più grande e spaziosa della mia. Che questo sia segno della sua grandezza o una pura coincidenza? Ha delle scarpe spigolose e pelose di color viola. Indossa un pantalone nero lucido, una cintura borchiata e una camicia. Il tessuto della camicia sembra essere di velluto ed è bucato in più parti. Il collo viene decorato da un papillon, anch'esso viola. Quello che mi inquieta di più è, oltre al suo stile, il gatto viola portato a spasso con un guinzaglio d'oro. Quel gatto ha, paradossalmente, più valore di me. Il gatto mi guarda in cagnesco. Forse quello non è davvero un felino, sarà qualche strana creatura, qualche strano esperimento di Capitol City. 
Più guardo quel gatto, più capisco che c'è dell'altro.
«Si chiama Mohr. Puoi accarezzarlo, se vuoi.»
Io guardo il gatto, lui guarda me e io non ho voglia di toccarlo. Il suo pelo è ben curato, lucido e pulito ma quello sguardo e quel suo corpo mi inquietano. Perciò no, non lo tocco e non lo accarezzo, non mi avvicino neanche per farlo giocare con i lacci della mia scarpa destra. Pensandoci meglio, sono i gatti normali che amano giocare con i lacci, chissà questo essere indefinito cosa farebbe ai miei poveri lacci o, addirittura, al mio piede.
«Passiamo alla conclusione in cui lei mi dice perché sono qua?»
«Dritto al punto signorino Snow?»
«Non vorrei farle perdere tempo, e non vorrei perderlo.»
Il Presidente chiude gli occhi e respira a fondo inebriandosi di un profumo che sente solo lui.
«Amo l'adolescenza, il vostro essere così schietti e non curanti delle conseguenze. A tratti siete infantili, a tratti adulti.» 
Riapre in uno scatto gli occhi. Il gatto strano inizia ad annusare.
«Tu puzzi. Pu - zzi.»
Sbarro gli occhi e mi annuso sotto le ascelle.
«Non penso di puzzare, anz...»
«Puzzi di latte. D'altronde il tuo amico, quel Livius, ha detto così. La cosa che non sapeva è che lui non è l'unico a puzzare.»
Ripercorro tra i vari nastri della mia memoria la scena in cui Livius diceva di puzzare ancora di latte. Mi chiedo, riflettendoci bene, come il Presidente faccia ad avere questa informazione.
«Con questo dove vuole arrivare?»
«Beh, tirando le somme, quel ragazzino è stato molto mol - to co-ra- ggio- ssssssso! Perché ci vuole un atto di coraggio a prendere un fucile e spararsi ad una tempia. Un coraggio che non ho mai visto durante ventiquattro Hunger Games.» 
Inizialmente non riesco a capire fino a fondo il suo discorso. Vuole portarmi ad un ragionamento, secondo lui, esatto e io gli lascio il terreno spianato: voglio capire fin dove vuole arrivare.
«È un vero peccato, mi sarebbe piaciuto scoprire il suo coraggio nell'Arena. Quello che intendo signorino Snow... È che non possiamo permetterci un altro atto di coraggio ora. Sarebbe superfluo perché, ormai, il dado è tratto.»
Inarco le sopracciglia per fargli intendere che il suo discorso non mi è chiaro ma, invece, inizia a diventare limpido, cristallino. Lui non vuole la morte di un altro tributo se non nell'Arena. 
«Signorino Snow, lei è il tributo del distretto 2 e deve restarci tale fino alla fine dei giochi.» 
«E se non volessi?
«Tu lo farai.»
«È una minaccia?»
«Mi crede capace di cotanta viltà? Lo prenda più come un consiglio. Tu, Coriolanus, hai anche dei motivi validi per ambire alla vittoria.»
«Mi chiami Snow, tutti mi chiamano così… e tutti hanno dei motivi validi, la vita stessa è un motivo più che valido.»
«Certo, ma lei ha ben due motivi in più per odiare il distretto 2: sia perché, se non fosse stato Livius, sarebbe stato lei la prima scelta sia perché Livius è morto per colpa loro.»
«I motivi che lei mi ha appena detto sono motivi per odiare il distretto 2, non per ambire alla vittoria. Dovrei morire, dovrei portare in svantaggio il mio distretto e non fargli avere l'onore di avere un vincitore nel distretto.»
«E qui sbagli. Lei, si - gno - rino, facendo così, sarebbe solo un'altra effimera persona, non riuscirebbe a smuovere di una virgola l'ego di quelle persone. Per far sentire la sua voce, per non farsi dimenticare, per colpirli davvero, deve vincere. Lei può combattere per Livius e farla pagare al distretto 2 muovendo il loro senso di col - pa.»
Rimango a pensare a lungo. Inoltre mi infastidisce questo suo cambiare persona usando sia il “tu” sia “lei”. Deve essere un modo tutto particolare di parlare il suo.
«In che modo riuscirei a farlo sentire in colpa?»
«Perché ora può dire a tutta Panem la verità: sono tutti mostri! Non capiranno il loro vero essere se qualcuno non glielo sbatte in faccia. Lei può essere quel qualcuno.»
Lungo la schiena dei brividi. Rimango scosso dall'affermazione che ha appena fatto.
«Se facessi aprire gli occhi a loro sa che potrebbe esserci una rivolta? Se loro capissero che sono diventati quello che sono per colpa degli Hunger Games?»
So che questa è un'affermazione che potrebbe cacciarmi in un mare di guai ma, ormai, sono già una persona sfacciata. Lui sorride e batte la mani. Si aprono le porte e arriva una signora vestita da cameriera. Ho un attimo di esitazione quando scopro che la cameriera non è altro che la madre di Livius. Lei mi sorride anche se ha uno sguardo triste, consumato. Chi può biasimarla? Il Presidente Morse mi guarda con particolare attenzione.
«Rivolta? La pagherebbero cara e nessuno vorrebbe pagare più di quel che già sta pagando, giusto?»
Il gatto emette una specie di ringhio, simile a quello di una pantera e diventano visibili i canini molto allungati.
«E poi, fidati, gli occhi di coloro che guardano gli Hunger Games sono fin troppo aperti. Non agiscono per non averli chiusi. Hanno paura di reagire perché son tutti egoisti, tutti affezionati ai loro averi  e non abbastanza ai loro cari. Comprendi, Snow, com - pre - ndi. Il tuo nemico non sono io, non sono i giochi, sono loro: il distretto 2!» 
Negli occhi del Presidente scatta una scintilla, una luce che lo fa sentire vincitore. Batte le mani sulle gambe e fa degli strani versi per chiamare il gatto. Questo, con un balzo, si poggia sul padrone.
«Bello il mio Mohr, chi è il più cucciolo?»
Il gatto inizia a far le fusa e si lascia accarezzare dalle mani calde del padrone.
«Hai qualche domanda da fare signorino?»
Lo guardo, cerco di studiarlo, analizzarlo ma non riesco. Mi sembra di essere a casa del maestro Leon dove mi spiega la differenza tra la lettera "p" e la lettera "q".
«Perché avete scelto me? Perché questo discorso lo state facendo proprio a me?» 
Il gatto mi guarda e sposta, come in una danza di serpente acquatico del distretto 4, il collo. 
«Vedo delle potenzialità in te e tu sei quello che odia, tanto quanto me, questo popolo. Coriolanus Snow, sii il vincitore degli Hunger Games e fa' comprendere a tutti la cattiveria di questo mondo. Io ti sto già aiutando nel mio piccolo.»
Mi fa un sorriso dolce e tranquillo. La sua calma mi smuove dentro e non so se la sua sia una promessa sincera o una stupida chiacchiera. 
Tacitamente mi fa capire che lui è un mio alleato e vuole far parte della mia nuova squadra.
Dovrei accettare il suo aiuto o dovrei voltarmi e fare di testa mia? Nell'arena lui non ci sarà, durante l''intervista lui non mi suggerirà le risposte giuste da dare, non potrà aiutarmi ma dovrei permettergli di farlo ora che può? La mia testa sta scoppiando molto più di prima. Di tutte quelle parole, di tutte quelle sue idee, riesco solo a percepire che lui guida un popolo che effettivamente odia. Vuole usare la mia figura per avere una piccola rivincita. Che io sia il mezzo giusto per aumentare il volume della voce della giustizia?
«E' arrivato il tempo di andare, segui il mio consiglio. Va e torna, se non come unico vincitore.»
Lui ride e fa scendere la bestiolina viola dalle sue gambe. Scopro che, oltre a dividere parole e alzare il tono di voce con determinate lettere, ama davvero fare battute subdole. Infatti, se tornassi dall'Arena, potrei farlo solo essendo il vincitore. Si alza, allarga gli estremi del papillon e ordina alla madre di Livius, ora sua cameriera, di aprire le porte.
«Signor...»
Il Presidente si gira e sorride, ancora.
«Non serve ringraziarmi, almeno su questo sei stato ben educato.»
Sorrido di ricambio ma indico la madre di Livius.
«No, io volevo parlare con lei.»
Il Presidente volta il capo verso la sua cameriera e contemporaneamente il gatto, che mi mostrava il suo sedere viola, gira la testa verso di me per fulminarmi con quello sguardo ossessivo. Stessa procedura di prima, si gira uno e si volta l'altro, sempre ridendo.
«Non puoi, o meglio, lei non può parlare.»
Senza congedarmi e senza concedermi un minuto con la madre del mio migliore amico morto, lui va via e io sono più confuso di prima.
Per almeno una decina di minuti resto solo, sdraiato sul divano. Penso di avere lo stesso sguardo di Livius perché ora cerco di attaccare alla mia mente tutte le immagini di questa stanza, cerco di lasciare qualcosa del distretto 2 perché questo luogo occupa, comunque, uno spazio nel mio cuore. È qui che sono cresciuto ed è la gente che abita questo spazio che lo distrugge. 
Si aprono le porte e, questa volta, non è più il Presidente ma il mio mentore.
«Allora che ti ha detto?»
«Niente di speciale.»
«Niente di speciale? Io non ho mai ricevuto una sua visita quando è stato pescato il mio nome.»
«La tua non era la prima edizione della memoria.»
Victor mi guarda con disappunto, sa che non gli risponderò ma non molla.
«Allora perché non ha parlato con Level?»
Alzo le spalle e non rispondo, non mi va di iniziare a creare una storia e nemmeno mi va di dirgli come le cose sono andate veramente. Victor appare deluso da questo comportamento.
«Spero cadrà al più presto questo muro tra me e te, in quanto dobbiamo collaborare! Ora vieni con me, spostiamoci nella sala del saluto.»
La sala del saluto.
Già il nome conserva un qualcosa di macabro, di mai più ritorno. Come può un tributo convivere con quest'ansia? Io sollevo solo un po' il capo e gli chiedo se è necessario: non voglio salutare nessuno. Penso questo per più motivi: non ho voglia di salutare i miei genitori e mio fratello. Sia perché mio fratello mi ha già salutato quando ha fatto intendere di voler salvare sia me sia Livius alla scelta dei tributi, sia perché la mancanza dei miei genitori non la sentirò molto (i miei ricordi felici con loro son davvero pochi e rari). Un altro motivo è che io non voglio nemmeno dire addio al distretto. L'ho capito ora, ora che vedevo la tappezzeria argentata del solaio, il cielo limpido della mia parte di mondo. Quest'ultimo motivo è quello che mi sorprende di più. 
Mi alzo rassegnato all'idea di dover dare l'ultimo saluto alla normalità, la fuori mi aspetta un mondo governato dalla fama, dalla fame.
Nella sala del saluto trovo mio padre e mia madre, com'è giusto che sia. Se non fossero stati presenti nemmeno in questo momento, sarebbe stato davvero surreale. Mi abbracciano ed è strano. Non ricordo l'ultima volta in cui ci siamo abbracciati.
Chiedo di mio fratello e loro mi rispondono che lui è tornato a casa, voleva vedermi ma non è potuto venire dopo la sua bravata. Ovviamente so che è una menzogna, lui è voluto restare a casa per non vedermi così, per lasciare "felice" il nostro ultimo scambio di battute, sguardi e lo apprezzo.
I miei parlano molto velocemente, è come se sentissero il tempo scorrere sotto le loro dita e cercano di afferrarlo senza riuscirci. Mi dicono di non mollare, di non provare ad uccidermi senza combattere, di combattere con tutte le forza, di essere l'onore della famiglia e del distretto che rappresento. 
«Dovrei vincere per il distretto?»
Mia madre risponde con un secco sì. Mio padre anche.
«Dove eravate voi mentre loro sceglievano Livius e poi me? Dove eravate mentre Livius si sparava per non andare nell'Arena?»
Mio padre risponde dandomi uno schiaffo sonoro.
«Rifletti prima di puntate il dito, Snow. Ti ho forse insegnato questo?» 
Mi prende per il colletto e mi tira a sé. Occhi contro occhi, riesco a vedere le sfumature di verde che rendono particolari i suoi occhi. Sento il suo profumo e il suo fiato contro il mio viso.
«Se non fossi stato tu, sarebbe stato un altro. Non frignare, non incolpare nessuno. Non buttare merda sul tuo popolo! Sii l'onore del distretto 2.»
Guardo mio padre, sento ancora del calore sulla guancia che sta pulsando e penso solo che, ora, mio padre aveva detto la parola "merda". Una parola che può descrivere il modo in cui mi sento.

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Capitolo 7
*** Appoggiarsi al primo scoglio prima di buttarsi, di nuovo, in acqua ***


6. Appoggiarsi al primo scoglio prima di buttarsi, di nuovo, in acqua

Il saluto dei genitori mi aveva destabilizzato ma confermava ciò che ho sempre pensato: viene prima la società, il distretto 2, Capitol City e poi io, sangue del loro sangue. Stare nel treno che mi porta a Capitol City, inoltre, non aiuta a bloccare i flussi di parole che mi ossessionano. Il treno è il luogo meno adatto per non pensare. Col fisico ti allontani da qualcosa, ma la mente resta sempre là.
Il sole sta tramontando e colpisce i miei occhi. Guardo la vegetazione, i vari cartelli e, in sottofondo, immagino una canzone malinconica. Questo è il mio vero addio al distretto 2.

Ormai è sera. Nel treno fa freddo, tremo. Sento prudermi i capelli, ho mal di pancia e il cuore non vuole calmarsi. Ho un malessere interiore e dovrò conviverci per tutta la durata dei Giochi perché credo che non andrà mai via.
Di fronte a me c'è Level e io la contemplo. Sta provando le stesse cosa che provo io? Lo sente anche lei quel dolore? Vorrebbe anche lei rompere il vetro dei finestrini del treno e scappare? Se faccio queste domande al mio cervello, non riceverò mai una risposta da lei. Quindi decido di chiederglielo.
«Tu non lo senti questo bisogno di scappare, di andare via, di voler mandare a fanculo tutto e tutti?»
Level, finalmente, smette di guardare fuori e muove leggermente la testa, l'ho fatta tornare alla realtà.
«Io.. non so cosa sento.»
Non mi aspettavo quella risposta da lei. Mi aspettavo una risposta del tutto negativa, credevo mi avrebbe detto che era tranquilla perché così mi era parso di vederla durante il suo cammino verso il palco.
«Allora perché hai sorriso quando hanno chiamato il tuo numero?»
Lei alza le spalle e si stringe nella coperta.
«Questo era il mio ultimo anno. Sono scampata all’estrazione tutte le volte e, ora, che stava per finire l’incubo Hunger Games, è diventato realtà. Il gioco si è preso gioco di me... ma non sarà così facile.»
Lei cerca un contatto con me, cerca di capire se comprendo quello che dico.
«Scusa per il gioco di parole con la parola gioco.» - le spunta un lieve sorriso quando capisce che si sta ingarbugliando con quella parola.
«L'ho fatto di nuovo, scusa.»
«Non preoccuparti.»
«Tu, vorresti scappare?»
Anche io la imito e alzo le spalle. Attualmente vorrei tante cose e nemmeno capisco cosa siano tutte queste cose.
«So solo che vorrei che finisse tutto.»
Level abbassa lo sguardo e si guarda le scarpe. Le guardo anche io e rimango senza fiato per un minuto.  Tremano le sue gambe, e non è per il freddo. Le sue scarpe sono macchiate ancora di sangue.
«Mi dispiace per Livius, il tuo amico.»
Apro leggermente la bocca, la gola è secca e non riesco più a sentire il rumore delle rotaie. Mi alzo in apparente stato confusionale e vado a nascondermi in qualche vagone. 
Non posso far altro che continuare a credere di essere una persona orrenda: oggi è morto il mio migliore amico e io l'ho quasi dimenticato, non ho sentito il forte dolore che avrei dovuto sentire, non ho pianto, non ho rivolto un pensiero a lui se non pensando prima a me. Mi accovaccio a terra e stringo le gambe al petto. 
«Livius non c'è più.»
Me lo dico una volta, due volte poi tre fino a quando non scoppio. Inizio a piangere e, come un bambino che non trova la sua copertina, inizio a fare i capricci. Dov'è finita la mia coperta preferita? Dove sono mamma e papà? Dov'è Livius?
Ritorno a dirmi che è uno scherzo ma, sulla pelle, rivedo le chiazze viola che mi sono procurato da solo quando mi ero pizzicato per vedere se ero sveglio o meno.
Continua a non essere uno scherzo, ma le sue promesse lo sono state. Aveva promesso che ci sarebbe stato per me, sempre. Ci eravamo detti che non avremmo fatto stronzate per gli Hunger Games e lui, invece, ha ben deciso di fare la stronzata più grande. Con la lingua mi bagno le labbra mentre le lacrime scendono lungo il viso. Essendo i miei occhi umidi, non riesco a capire se quelle cose nere che ho davanti siano scarpe o topi. Quando riesco a distinguere meglio le cose, scopro che quelle sono delle scarpe di qualcuno. Mi asciugo immediatamente le lacrime con il dorso della manica e mi alzo da terra.
«In tutto questo, non ti ho detto che mi dispiace.»
Victor mi ha trovato nel mio angolo e, nelle sue parole, sento un po' di Livius, un po' di mio fratello, un po' del mio maestro preferito. Io non muovo nessun muscolo, non faccio nessun passo, non ringrazio. Rimango in silenzio sperando che lui vada via, che mi lasci solo e che non mi veda piangere perché sento che verserò lacrime ancora per un po'. Lui, però, mi abbraccia. Rimango impacciato perché non mi aspettavo un'azione del genere. 
Io ricambio l'abbraccio. Non ho più nessuno a cui aggrapparmi e penso che lui sia lo scoglio giusto su cui riposare e riprendere fiato perché non ce la faccio più a nuotare senza il compagno che era in acqua con me.
«Io...»
Victor mi chiede di non parlare, non devo dirgli niente solo perché sento che sia giusto farlo, posso restare in silenzio. Io evito le sue direttive e mi apro ancora di più.
«Ho detto addio a quel distretto di merda e non ho detto addio a lui. Non sono un amico, sono un mostro.»
Lui mi stringe più forte.
«I mostri sono altri, Snow. Non hai detto addio a Livius perché non sei pronto, non vuoi dirglielo.»
«Non tutti abbiamo quello che vogliamo, no? Non voglio dirgli addio ma devo: lui ha scelto per entrambi.»

Erano passate tre ore ed io e Victor avevamo parlato un po' del distretto 2, della miniera di diamanti nascosta, del cibo, della spazzatura. Avevamo parlato del distretto ma non dei giochi, non di Livius, non di me, non di lui.
«Posso chiederti una cosa?»
«Dimmi!»
«Perché avete scambiato il mio numero sul palco?»
Ecco una domanda a cui non riuscivo a trovare risposta. Victor prende un gran respiro ed inizia a raccontarmi.
«Immagina di essere un telespettatore di qualsiasi distretto. Assisti alla Mietitura e un ragazzino decide di uccidersi perché è stato scelto lui come tributo. Quel ragazzino potrebbe essere un figlio, un fratello, un amico, un conoscente e, allora, scoppi. Non puoi sopportare tutto questo e ti ribelli ma, sai, le rivolte non sono quello che dobbiamo e che vogliamo fare adesso. Livius avrebbe potuto essere la goccia che faceva traboccare il vaso, ma il vaso deve restare intatto. Se nessuno si ribella ci sarà un perché. I Giorni Bui non sarebbero solo un video, sarebbero la realtà. Perciò abbiamo smesso di registrare appena abbiamo visto Livius andare contro il Pacificatore ma, essendo tutto in diretta, Panem voleva il tributo del distretto 2 e tu eri l'unica soluzione sotto tutti i punti di vista: eri la seconda scelta, eri quello più vicino a noi e dovevamo dare un tributo. Abbiamo cercato di rimuovere al più presto le tracce di sangue, di morte e non abbiamo ripreso gli altri ma solo me e te.»
Io gioco con le mie unghia ascoltando la versione dei fatti del mio mentore. Provo ad immedesimarmi nei signori che mi hanno condannato e sento un po' di rimorso. Non possono reagire o non vogliono reagire? Io ho sempre pensato che la risposta giusta fosse la seconda ma se fosse la prima? Se Victor avesse ragione? Non avevo mai creduto che i Giorni Bui potessero diventare il presente se ci fossimo fatti sentire. Ma, anche se si volesse giustificare quel comportamento, non posso accettarlo. Non possono continuare a nascondersi dietro ad un dito mentre si buttano ragazzi in Arene inimmaginabili.
«...poi, però, è successa una cosa inaspettata.»
Smetto di tormentare le unghia e voglio sapere cosa sia questa cosa inaspettata. 
«Le immagini di Livius sono uscite in televisione, il tuo discorso al distretto 2 è diventato di dominio pubblico. Ora tutta Panem è concentrata su di te: vuole capire chi tu sia, cosa tu voglia fare e sono divisi. Chi tifa per te, lo fa perché ha visto dei valori in te e nella tua amicizia verso Livius, vede il cambiamento, il segno della rivolta; chi non tifa per te, invece, ti odia senza pudore.»
«Perché?» - chiedo confuso. La cosa non mi entusiasma molto ma non mi delude nemmeno. Essendo abituato ad essere la pecora nera nella vera vita, sono abituato ad esserlo anche nei giochi.
«Perché hai criticato il distretto 2. Ma ciò che ha fatto il distretto 2 lo ha fatto anche l'1, il 3, il 4, il 5, il 6, il 7, l'8, il 9, il 10, l'11 e il 12. È come se tu avessi detto a tutta Panem che loro sono mostri e, ovviamente, non hanno apprezzato il gesto.»
«Scusa, ma... queste immagini come sono uscite fuori?»
Già ho una mezza idea ma voglio, pretendo una risposta detta da qualcuno che non sia il mio cervello.
«Non sappiamo chi sia stato.»
Io ci vedo, senz'ombra di dubbio, il marchio di Morse. Aveva detto che mi avrebbe aiutato. Se questo era il famoso aiuto, il miracoloso soccorso che mi stava offrendo, aveva sbagliato di gran lunga. Farmi odiare da tutti non era un aiuto, ma una condanna a morte sicura.

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Capitolo 8
*** Lunga vita ai Giochi, corta vita a me? ***


7. Lunga vita ai Giochi, corta vita a me?
 
Livius sta accarezzando i petali di rose bianche. Accanto a lui ci sono molti vasi che contengono altri fiori: petunie, orchidee, mimose, edere velenose, minuscole piante carnivore. 
Siamo nella sua stanza e la scrivania è diventata il suo piccolo laboratorio speciale. Sta mischiando del polline e un fango fatto con acqua e terre della vecchia caverna del distretto. Io sto sfogliando il suo libro che tratta di veleni.
«Snow, un giorno creerò delle medicine che chiamerò con il nostro nome. La medicina Livius che serve a curare ferite di scottatura e la pozione Corolianus che serve a far ricrescere un arto.»
Sorrido. La passione di Livius mi ha sempre affascinato, colpito.
«No, Livius, il mio nome lo devi dare a un veleno.»
Livius sbuffa e continua a girare con un cucchiaio di legno rubato in cucina.
«Snow, io non creerò mai veleni.»
«Livius, è scritto anche qua: non tutti i veleni sono cattivi. Anche se il mio preferito è il silenziudile.»
Livius lascia stare gli attrezzi e si volta.
«Divertente. Tu, che sei la persona aggressiva che resta in silenzio solo per trovare parole migliori per insultare, ami un veleno letale che ha, nel nome, la parola silenzio?»
«A volte bisogna solo star zitti... e far zittire.»

È notte fonda. Io sono rimasto con Victor nel vagone in cui mi ero nascosto per piangere. Inevitabilmente abbiamo parlato di Livius, della nostra amicizia, dei ricordi. Il treno si ferma e ci alziamo.
«È arrivata l'ora di andare, Snow.»
Sospiro. Mi affaccio al finestrino e, con sorpresa, una folla sta aspettando la mia uscita dal treno.
Controllo le loro teste e scorgo, per ognuno di loro, dei cappelli che si illuminano intonati al colore dei vestiti. Level scende senza di noi e, subito, la lodano, le urlano parole di gioia, la salutano. 
Io mi chiedo come facciano ad avere la forza e l'energia di celebrare noi tributi visto che, solitamente, si dorme a quest'ora. Victor mi tira per un braccio e mi intima a scendere ma io vorrei restare qua, per sempre.
Prendo un altro gran respiro, chiudo gli occhi e mi dico che andrà tutto bene: la parte peggiore ancora deve arrivare.
Riapro gli occhi e anche le porte di quest'altro vagone si sono aperte. Il popolo di Capitol City mi guarda e non parla. Nessuno mi festeggia, nessuno chiama il mio nome, nessuno mi saluta. Inizio a scendere e metto piede sul suolo della capitale. Cammino lentamente perché i miei occhi studiano i loro. Ho paura che mi vedano come io vedevo il gatto del Presidente Morse.
Comunque anni di bullismo mi hanno fortificato e, infatti, loro sembrano i coetanei che non mi accettavano. Neanche questi adulti hanno intenzione di accettarmi, e, di conseguenza, io mi chiudo in un muro di mattoni stabili. Avrò molto tempo per pensare a cosa fare: se attaccarli (come vorrebbe il mio "soccorritore" Morse) o cercare di comprarmeli (come vorrebbe il mio mentore Victor).
Il mio camminare lento e il loro guardarmi in modo indiscreto si interrompono perché siamo tutti catturati da ciò che appare su degli schermi giganti situati sulla cima di due grattacieli. Dapprima un rumore acuto e, poi, l'inizio di un filmato. Tutti possono riconoscere la mia figura di schiena. È un fatto accaduto durante la mietitura perché riconosco i panni che indossavo. La scena si allarga e si vede Livius sul palco. Lui mi guarda e, colpo di scena, la mia testa fa uno strano movimento prima che Livius prenda il fucile dalle mani del soldato e si spari. La camera restringe su di me e poi fa una leggera curva per riprendere il mio viso in primo piano: io sto quasi sorridendo. 
Lo schermo diventa nero e una scritta a caratteri cubitali di color argento illumina tutto: "E se fosse stata un'architettura?" Questa prima scritta scorre verso il basso e ne arriva una nuova dall'alto: "Se Livius e Snow avessero deciso tutto solo per poter colpire Voi, cittadini di Panem?"
Scompare questa, ne arriva un'altra: "Se loro fossero nemici della capitale? Se volessero distruggere i Giochi solo per poter sembrare buoni e, poi, salire al potere?" Va via la frase ed ecco una mia foto. "Lunga vita ai Giochi, lunga vita a Panem, lunga vita a Morse! Corta vita a Snow?" Quest'altro testo sovrasta la mia foto che, dopo un po', prende fuoco e diventa cenere. 
Cerco di ricordare la realtà, di pensare bene a quello che ho fatto durante quel giorno, quell'ora, quel minuto e sono il primo ad ammettere che, forse, è davvero andata così. Ma non è come dice questo video, non sorridevo perché il nostro piano era andato a gonfie vele in quanto non esisteva nessun piano. La morte del mio migliore amico era arrivata come un fulmine a ciel sereno. 
Un altro rumore acuto: questa volta sono le urla di dissenso. 
Io decido di restare zitto, anche se vorrei far zittire loro.
Victor mi spinge facendo accelerare il mio passo, entro nel palazzo e tutti si allontano dalla mia persona, prendono le dovute distanze. Victor continua a spingermi e chiama Level.
Arriviamo in una stanza e il nostro mentore parla ma io non riesco ad ascoltarlo perché continuo a pensare a quel mio sorriso e a quell'architettura creata da chissà chi. La mia mente incolpa una sola persona, l'unica persona che poteva avere questi video e il potere di farli andare in diretta su mille schermi.
Victor accende la tv per scoprire la reazione generale. Stanno trasmettendo quello che mi è capitato prima. Ora stanno intervistando quegli stessi signori di Capitol City che mi analizzavano. Molti, quando viene chiesto loro chi sia il tributo per cui tifano, rispondono Tacito.
Victor ci dice che egli è il tributo del distretto 1, perciò uno dei Favoriti. Infatti il distretto 1 è quello che ha più vincitori nella storia degli Hunger Games. 
Sempre nella mini-intervista, quando viene chiesto chi sia invece il tributo più odiato, rispondono il nome di Snow e non serve che Victor dica chi sia questo Snow. 
«Siamo fottuti.» - Level spegne la televisione e commenta l'accaduto - «Mai come quest'anno noi siamo fottuti!» 
Io la guardo senza capire come io possa intaccare il suo percorso, come io possa essere un "noi".
«Perché siamo? La folla urlava contro di me mentre tu eri acclamata come se fossi una regina del paese di chi cazzo si ricorda il nome.»
«Non c'entra niente, re del chi cazzo si ricorda il tuo di nome! Io e te siamo il distretto 2. Se tu affondi, io affondo.»
Al sentire questa affermazione, io rido e lei mi guarda in modo infastidito.
«Cosa c'è da ridere?»
La ragazza caccia gli artigli. Tutta quella dolcezza dimostrata nella piccola conversazione avuta sul treno va a farsi benedire per dare spazio ad una giocatrice che pensa sia già spacciata.
«Non vedo come la gente possa considerare me e te nello stesso modo. Io sono una persona, tu un'altra. Ciò che farai nell'Arena sarà completamente diverso da quello che farò io. Noi non siamo né alleati né amici né una sola persona perché veniamo dallo stesso posto.»
Le dico quello che davvero penso e lei si offende. Forse era partita con un'idea e, ora, se la trova stravolta a causa mia, ma poco importa. Meglio chiarire da subito che io e lei abbiamo poco in comune se non il fatto che siamo due tributi. Per le altre cose io non ho intenzione di creare alleanze con nessuno, nemmeno con Morse che mi ha incastrato.
«Bene, allora è così. Ognuno per la sua strada e se ci incontreremo, beh, sarà fortunato quello che avrà in mano un'arma.»
Mando all'aria, sin da subito, la mia prima probabile alleanza utile e Victor non ne rimane stupefatto. 
«Chi sono quei due?»
Level indica i due ragazzi che sono seduti su un divano arancione. 
«Per un attimo ho creduto di essere un fantasma.» - tra i due è la ragazza che parla.
Lei si mette in mostra sia per il suo abbigliamento appariscente sia per il suo carattere che, da subito, appare forte e deciso già dai suoi movimenti. I suoi capelli sono raccolti in mille ciocche di dreads di color corvino e verde elettrico. Indossa un vestito che le arriva fino al ginocchio, anch'esso nero con dei richiami verdi elettrico.
Si alza e ci saluta con un cenno della mano.
«Questo conflitto mi ha ispirato così tanto che ho cambiato idea su tutto quello che avevo in mente per voi. Siete stati come l'orgasmo che mi fa provare nuove sensazione.»
Victor socchiude gli occhi mostrando il completo dissenso nelle parole della ragazza ancora sconosciuta.
«Oh, Victor, ti prego. Secondo te loro due non sanno cosa sia un orgasmo? Sai quante notti passate a trastullarsi con le loro cose personali? Soprattutto lei.»
Indica Level ed è palese che la stia spogliando con la fantasia. Starà, perfino, immaginando l'intimo scivolare giù.
«Io sono Cosima, Cosima Flickerman e lui è mio fratello Caesar. Insieme saremo i vostri stilisti.»
Anche il ragazzo si alza. Indossa una parrucca blu elettrico, i suoi vestiti hanno lo stesso colore dei capelli sintetici.
«Vogliamo iniziare dalla ragazza?»

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Capitolo 9
*** Brillerete, costi quel che costi ***


8. Brillerete, costi quel che costi
 
«Allora, questa è un'ascia.»
Guardo l'arma come se fosse qualcosa di magico: che possa riuscire a far qualcosa di incredibile? Cosa nasconde questo oggetto così affascinante e freddo?
«Papà, posso provare?»
«Snow, non scherzare. Hai le stesse ossa graciline di tua madre...»
Guardo mio padre. Anche se ho solo otto anni, questo non vuol dire che le mie ossa siano deboli e fragili come vetro.
«Papà, voglio provare.»
«Voglio?» - ricevo uno schiaffo dalla mano libera di mio padre - «Voglio? Cos'è questo tono da principino? Non ti ho insegnato questo.»
Mi son sempre chiesto cosa, in realtà, mio padre ha cercato di insegnarmi. Io non ricordo nessuna sua vera lezione, nessuna sua voglia di intraprendere un discorso, nessun percorso e nessun qualcosa di importante con me.
«Ma io...»
«Ancora che parli, Snow? Silenzio. Tuo fratello deve allenarsi, lui potrebbe finire nell'...»
Stringe forte il manico di metallo dell'ascia e immerge la lama in un mezzo tronco. Io rimango a guardare la scena impietrito, quasi come se mi aspettassi, da un momento all'altro, di diventare io stesso quel mezzo tronco. Mio fratello, invece, cade a terra spaventato più di me, se è possibile esserlo. In lui, però, c'è anche paura, paura di dover impugnare e attaccare qualcuno nello stesso modo con cui mio padre sta sfogando una rabbia che raramente prende il sopravvento in questo modo.
«Tuo fratello potrebbe morire. Tu, invece, vivi ancora!»
Gli occhi di mio padre si fanno lucidi, non riesce ad accettare l'idea di vedere il suo primogenito come tributo per gli Hunger Games. 
Io semplicemente ammutolisco perché mio padre ha ragione: mio fratello deve essere pronto per vincere semmai andrà nell'Arena. Io non sono ancora prossimo alla morte. 
Quasi insensibilmente, però, provo invidia. Voglio essere grande, voglio essere il figlio per cui mio padre versi lacrime. Mi calmo solo quando capisco che sarebbe arrivato anche il mio momento! Anche io sarei diventato un giocatore della fame e, allora, avrei avuto tanto tempo per allenarmi, tanto tempo per stare con mio padre, tanto altro tempo per scoprire come usare un'arma e vedere, infine, gli occhi lucidi di mio padre. 
Peccato che nessuno mi avesse avvertito sul fatto che quelle scene erano destinate solo a mio fratello, a me toccava sempre e solo una misera frase di rimprovero ed uno schiaffo. 

Uscito dalla sala, girovago per il palazzo. Le vetrate colorate, su cui scorre dell'acqua a mo’ di cascata, rendono l'ambiente confortevole e rilassante. L'arredamento, invece, è un pugno negli occhi: colori decisi, tappeti immensi, specchi che cambiano colore in base all'umore della persona che si ferma a vedere il proprio riflesso, statue di ibridi o di persone che vengono trafitte da pugnali. È tutto strano qui. Certo, in questo stile, riconosco un po' quello di mia madre e, anche se i miei genitori mi avevano raccontato di Capitol City e della loro stramberia, non mi aspettavo delle cose del genere. 
Senza farlo apposta, il mio pensiero va a loro. Cosa staranno facendo? Mi staranno seguendo in tv? Staranno scommettendo sulla mia morte o sulla mia vita? Forse staranno mangiando carne di vitello come se niente fosse. 
Lo specchio, che assume sfumature di colore nero, mostra i miei lati presi da loro. I miei colori chiari rubati da mio padre, il taglio degli occhi di mia madre. Ho mille cose di loro eppure queste cose non riescono a rendermi la persona che loro desiderano. Io non sono quello che vogliono: non sarò mai l'onore del distretto 2, non sarò mai il figlio che li renderà Vincitori e più vicini al Presidente Morse. Forse non sono nemmeno figlio loro a questo punto e, sinceramente, non voglio neanche esserlo. Voglio essere orfano! Mio padre davvero non mi ha insegnato niente, nemmeno a tenere in mano una stupida ascia.
«Cosa fai qua, guardando nello specchio?»
Perché tutti quelli che incontro mi chiedono spiegazioni su tutto quello che faccio e dico?
«Niente, volevo vedere come sono i palazzi di Capitol City.»
«E cosa ne pensi?»
Guardo stranamente Caesar. Cosa siamo, ad un corso di architettura in cui bisogna rispondere se la porta è messa al punto giusto o è storta?
«Penso che sia un palazzo alquanto stravagante.»
«E se tu fossi stato nei panni degli art designer, cosa avresti cambiato? Con quali colori avresti voluto osare?»
Caesar mi spaventa. Lo fa e non lo sa. 
«Davvero sono così le conversazioni di Capitol City? Oltre a parlare degli Hunger Games, amate parlare dei colori della tappezzeria?»
«Dai, sto scherzando. Potremmo davvero parlare di questo?» - Caesar scoppia a ridere e mi cinge le spalle con il braccio iniziando a camminare. - «Snow, mi ispiri fiducia, davvero tanta. Non posso nasconderti l'emozione che ho provato durante il tuo discorso alla Mietitura. Hai delle doti innate per i discorsi. Non impiego molta fatica a fantasticare su di te come Presidente di Panem.» 
Rabbrividisco e manifesto il mio disgusto per tutto quello che abbia a che fare con il Presidente. Velocemente mi immagino con gli stessi vestiti del Presidente Morse, con il gatto Mohr che mi viene a svegliare leccandomi l'alluce, con i capelli all'insù mentre progetto un nuovo modo per sentirmi la persona che ha in pugno tutto un mondo. No, non è proprio il futuro che mi aspetta.
«Non potrei mai essere il Presidente di questo paese, neanche voglio esserlo e non ci ho mai pensato... e poi non riuscirò mai a sopravvivere ai Giochi, mai.»
Caesar fa un sorriso a 36 denti e mi dà una pacca forte sul sedere come si fa con i cavalli.
«Come ti sottovaluti! Nel frattempo, iniziamo a renderti il tributo più bello di tutta Panem: sarai il nostro stallone..» - io sorrido evidentemente imbarazzato. Probabilmente arrossisco perché si accorge del mio apparente sentirmi inadeguato.
«Scusa, i nostri modi di fare a Capitol City sono molto invadenti ed eccentrici, lo riconosco.» 
All'improvviso, senza un perché comprensibile, inizio ad immaginare Caesar nei panni del Presidente Morse e, in ogni ipotesi e vestito, Caesar è più simpatico di quell'uomo strano con la faccia di plastica.
«Caesar, e se diventassi proprio tu il Presidente di Panem?»
«Beh, non ti nascondo che amerei avere tutti gli occhi e le telecamere su di me… ma la mia vera aspirazione è quella di diventare come Caligula. Vorrei intervistare i tributi, seguirli nella loro avventura e poter intrattenere il pubblico della capitale.»
«Un giorno ci riuscirai, Caesar.» 
È l'unica cosa che posso dirgli visto che penso ancora alla sua mano che schiaffeggia il mio sedere. Lui, con leggera soddisfazione, mi ringrazia per il dolce pensiero.
«Grazie, Snow. Tu riuscirai, sicuramente, a non morire facilmente in quell'Arena.»
Quando ritorniamo nella stanza, Cosima si avvicina a me e inizia a toccarmi il petto, poi le braccia.
«Non hai un corpo possente, muscoloso. Forse sei potente qua...»
Lei abbassa la mano fino al cavallo dei pantaloni e io respingo le sue mani. La sua unica reazione è una risata divertita. 
«Che c'è? Almeno vedo se posso farvi indossare tutine attillate per far vedere a tutta Panem quanto grande ce l'hai.»
Io rimango scioccato, Caesar è divertito da tutto questo, Victor e Level rimangono a guardare senza parlare. Chissà cosa avranno toccato a lei.
«Comunque, scherzi a parte, ho un'idea per voi. Questa è l'Edizione della Memoria, e quale sarebbe il miglior modo per rendere viva la Memoria?»
Nessuno ha il tempo di poter pensare a quale sia questo modo per onorare la Memoria perché Caesar risponde al posto nostro.
«Ricordare i Morti!»
Cosima batte le mani eccitata e guarda noi tributi.
«Ragazzi, brillerete. Brilleremo!»

Andiamo a dormire col sole che sorge e mi risveglio verso le cinque del pomeriggio. Pranzo o cena, non so che pasto sia quello che sto compiendo. Davanti a me c'è un tavolo lungo almeno cinque metri pieno di roba da mangiare. Insieme a me sta mangiando una ragazza che riconosco dai video passati in tv: è la ragazza del distretto 3. Oltre a chiedermi di passare una fetta di pane e marmellata e un bicchiere di cioccolata bianca calda, non mi dice altro. 
Rimaniamo, allora, ognuno nel nostro silenzio, senza ostacolarci o darci fastidio. Gli unici rumori che ascoltiamo sono quelli della nostra bocca che sgranocchia biscotti, carote e zuccheri non identificabili. La mia "abbuffata" appena cominciata ha fine perché Victor viene a rubarmi per il grande evento della serata: la Sfilata, che è un ulteriore rito di iniziazione. 
Mi mettono su una pedana e iniziano a vestirmi come se fossi il manichino di un negozio.
«Il segreto è sorridere.» - Caesar allarga le estremità delle labbra di Level con l'indice.
«Col cazzo, non sorridete!» - Cosima, infatti, scansa la mano di Caesar dal volto della ragazza - «Soprattutto tu, Snow! Nessuno si aspetta che tu sorrida sennò sarebbe una presa per il culo e noi non vogliamo prendere nessuno per il culo! Sembra tu li abbia presi per il culo abbastanza con quel video sul tuo piano killer.»
La mia stilista, come sta facendo da quando ci siamo conosciuti, mi pizzica il sedere provando immenso piacere e divertimento mentre Caesar ritorna ad elencare quello che dobbiamo fare.
«Non guardate mai in camera!»
«Ma dai, guardate! Anche il pubblico a casa deve sentirsi partecipe. Guardate l'obbiettivo. Snow, guardalo, ok? Il contatto visivo è molto importante!»
«Se dovete farlo, non guardatelo sempre.»
«Fratello, su questo ti do ragione.»
I due fratelli Flickerman battono il cinque e sorridono. Il viso dei due ragazzi è identico. I loro occhi cambiano solo di colore, anche se credo sia l'effetto di probabili lenti a contatto. Infatti Cosima ha occhi che si avvicinano a sfumature rosee mentre Caesar ha occhi di un rosso acceso. I loro vestiti, come sempre, sono di tinta uniforme e concordante col colore dei capelli e degli occhi. Questa volta Cosima ha treccine di color nero ma, al posto del verde elettrico, è comparso un rosa pallido. Il suo vestito, fatto completamente in lattice, stringe le sue curve e le ingrandisce il seno. Caesar dice che lei indossa questi vestiti solo per sembrare più formosa visto che il seno è sempre stato piccolo. 
Lui, invece, indossa una parrucca corta di color bianco. Dunque anche il suo vestito è di color bianco, ma che prende un po' di colore grazie ad alcuni ghirigori di color rosso fuoco sulla giacca. Ci dice di aver scelto quel colore perché ha sempre amato ciò che richiamava il fuoco.
Cosima mi aggiusta il colletto, Caesar ridefinisce il trucco di Level.
«Non vi grattate le parti basse.»
«Ah, certo! Gran consiglio da dare a questi ragazzi, sorella! Prima vorresti portarteli a letto contemporaneamente e poi cerchi di bloccare la loro libido o semplicemente il loro prurito.»
Anche se siamo da poco diventati questa specie di "team", mi sono abituato al loro essere così disinvolti in fatto di sesso. Anche Level sembra esserlo.
«Fratello, ma chiudi quel servizio igienico che ti ritrovi per bocca!»
«Sorella, tu abbassa quel vestito. Mezza Capitol City ha già visto quel che porti dentro il tuo intimo inesistente.»
«Caesar, zittisci! Qui c'è Snow, eh!»
«Da quando ti preoccupi dell'ingenuità di Snow?»
«Ma quale ingenuità? Ma se gli dici che non ho l'intimo, potrebbe eccitarsi. Lo so che si eccita pensando a me... perciò non farlo, Snow, ok? Non eccitarti così non dovrai mettere le tue mani davanti al cavallo dei pantaloni.» - la ragazza mi sorride e mi pizzica la guancia come se fossi un bambino di tre anni. - «Aspetta! Sarebbe fantastico se ti eccitassi! Sai quante ragazzine cadrebbero ai tuoi piedi?» 
La mia Stilista guarda il fratello. I due, continuando a guardarsi intensamente negli occhi, si dicono parole a bassa voce e poi si allontanano contemporaneamente da noi. Ci guardano come se fossimo le loro opere d'arte appena finite.
«Ehi...» - la voce di Cosima è più dolce del solito - «...li vedi? I nostri cuccioli stanno crescendo!»
Caesar fa cenno di sì con la testa e caccia un fazzolettino dalla tasca della giacca per asciugarsi gli occhi.
«Hai proprio ragione. Sembrava ieri quando arrivarono da noi, con quei vestiti presi nel peggior mercato delle pulci e con quella puzza sotto al naso. Ora, invece, sono cresciuti e li abbiamo resi fantastici.»
I due fratelli si abbracciano e noi restiamo sorpresi da quel discorso. Era proprio ieri il giorno in cui ci hanno visti per la prima volta: come potevamo essere cresciuti in meno di ventiquattro ore? 
Io scoppio a ridere. La loro reazione esagerata mi diverte, e non poco. Quando ritornano a guardarci, smetto di ridere perché hanno assunto un'espressione facciale dura e seria.
«Lasciando stare i convenevoli, preparatevi!»
Level non risponde e io, invece, chiedo cosa succederà.
«Non importa, Snow. Ricordate solo una cosa: noi siamo qui per farvi brillare, e brillerete, costi quel che costi!»

Il palmo delle mani è scivoloso.
Sono troppo in ansia perché la Sfilata sembra non concludersi mai. Infatti, visto che questa è la prima edizione della Memoria e quindi è un'edizione speciale, hanno cambiato un po' di regole. Di solito, durante la Sfilata, sfilano dei carri: il primo a partire è quello del distretto 1. Questa volta parte, per primo, il carro del distretto 12 e così via. Noi siamo i penultimi. 
Mentre ci posizioniamo sul carro, penso a cosa potrebbe succedere da ora in poi. La Sfilata è semplicemente una camminata su questo carro trainato da cavalli. Però, quando saremo disposti in maniera circolare davanti al balcone del Presidente Morse, lui cosa farà? Farà finta di non conoscermi? Appariranno nuovi video che potrebbero incriminarmi di cose mai fatte? Potrei rendermi ancora più odioso di quello che già appaio agli occhi di tutti? Certo, l'abbigliamento scelto dai nostri stilisti, in questa occasione, è perfetto. Non è spettacolare ma manda un messaggio ben preciso a tutti quelli che ci guarderanno: noi non dimentichiamo. Infatti indossiamo le tutine che i tributi dello scorso anno avevano nell'Arena. Grazie allo schermo televisivo trovo la distrazione per i miei pensieri. Proprio come è successo nelle precedenti edizioni, ci mostrano il video dei Giorni Bui. Concluso il video, una veloce presentazione fotografica dei tributi. Quando appare il mio volto, il pubblico inizia a fischiare e a chiamarmi "criminale".
Dopo questo, partono i carri. Ogni carro trasporta i due tributi che vestono particolari abiti che ricordano la specialità del distretto da cui provengono.
I ragazzi del distretto 12 hanno, come sempre, tute nere e visi sporchi che rappresentano il carbone. Quelli del distretto 11 hanno strane tute turchesi che scopriamo essere commestibili. Infatti i due, arrivati a metà pista, iniziano a mangiare uno il vestito dell'altro. Vedendo quella messa in scena mi stupisco: è un'azione insolita ma il pubblico apprezza. I tributi del distretto 10 sono vestiti solo di carne animale e hanno il capo coperto dalla testa dell'animale stesso. Il ragazzo ha la testa del toro, la ragazza indossa la testa della volpe. Il distretto 9 è arricchito da tute create con semi di frumento. I due del distretto 8 sono quelli che indossano i vestiti più belli di tutti quelli che, finora, hanno sfilato. Lei sembra una principessa mentre lui sembra un cavaliere. D'altronde, se non sono loro quelli con i vestiti migliori (visto che il loro distretto ha un sacco di industrie tessili), chi potevano esserlo? Dopo di loro, arriva il carro del distretto 7 che trasporta ragazzi vestiti da alberi. Due dei vestiti più brutti che potessero esserci stasera. Il distretto 6, invece, si differenzia da tutti quelli che sono usciti e che usciranno, sicuramente. I due tributi, infatti, trasportano i carri e i loro vestiti hanno la funzione di sembrare locomotive in movimento: effetto che riesce in maniera spettacolare. Il carro del distretto 5, invece, non è un carro vero e proprio ma una pedana che vola. I vestiti dei due ragazzi sembrano essere i telecomandi che decidono le varie direzioni da prendere. Sul carro del distretto 4 si assiste ad una mini commedia. All'inizio, c'è solo il ragazzo che indossa una specie di vestito creato con molte reti per pescare. All'improvviso se le strappa di dosso mostrando i propri muscoli e butta giù una delle reti che lo coprivano. Tirando su la maglia/rete, appare la ragazza che, al posto dei piedi, ha le pinne di una sirenetta. Dopo il carro-teatro, arriva quello del distretto 3 a cui non presto grande attenzione perché inizio a pensare a me. Sta partendo il carro del distretto 2, il carro mio e di Level. 
Arriviamo sotto gli occhi di tutti che iniziano a fischiare solo vedendo il mio viso e la mia tuta. Non tutti capiscono che quelle tute le hanno viste per un sacco di tempo l'anno precedente, ma molti se ne accorgono e restano impressionati da ciò. Più si va avanti, più continuano gli schiamazzi del popolo. Da una parte, credo che Level abbia ragione: la sto svantaggiando. Da un'altra parte non mi importa: se devo sentirmi attaccare per quello che davvero penso, che mi attacchino pure. Non ho, di certo, paura di loro. Infatti mi attaccano, davvero. Un proiettile. 
Qualcuno mi ha sparato in pieno petto. 
Il carro continua ad andare avanti fino al balcone del Presidente. Non capisco chi mi stia facendo questo ma vedo il Presidente Morse che si gusta lo spettacolo. Mi starà facendo sparare lui da qualcuno?
Un altro proiettile mi colpisce ed io sento il respiro mancare.
Un altro colpo ancora.

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Capitolo 10
*** La luce ***


9. La luce

Forse è la maledizione destinata al distretto 2: noi tributi dobbiamo morire prima ancora di iniziare sul serio i Giochi. 
Tutto questo non può essere minimamente immaginabile. Non è possibile che, dopo Livius, tocchi a noi.
Mi continuano a colpire. Non si fermano neanche con Level. Ci sentiamo male e non siamo pronti ad accettare la realtà.
Il colore di questa sera è un blu intenso. Sono felice di pensare che questa sia l'ultima immagine della mia vita. Mi lascerò andare a questo buio, in questo velo.
Il senso dell'udito, però, sovrasta su ciò che vedo. Sento i versi di sorpresa del pubblico e mi chiedo cosa ci sia di sorprendente. Tutto quello che sta capitando è orribile, non sorprendente. L'unica sorpresa è una luce. 
Allora, è vero. Quando si muore, ti avvicini alla luce e, ora, è arrivato il momento di andare via e lasciare il mio corpo a questi avvoltoi. Almeno non avranno la mia anima!
Vedo altri spiragli di luce e alcuni visi illuminati. Che siano angeli? Poggio la mano al petto e, con sorpresa, il cuore continua ancora a battere. Mi guardo attorno e... sono ancora vivo. 
Come promesso da Cosima e Caesar, io e Level stiamo brillando nel buio tetro della sala. Brilliamo di luce propria, una luce che riflette i volti del pubblico stupito dalla bellezza dei costumi, del tessuto, della particolarità di quei vestiti. Neanche io mi aspettavo un effetto del genere quando avevo visto la tutina nera che mi toccava indossare. Il nero, quindi, ha iniziato a rompersi come se io e Level stessimo ricevendo colpi di pistola per dar spazio a questa tuta formata da piccoli diamanti sintetici. Tutti ne restano affascinati e sorpresi, soprattutto io che credevo di star per morire.
I miei stilisti ce l'hanno fatta: hanno fatto dimenticare me per far ricordare qualcosa di meglio. Infatti questo vestito ha tanti significanti e io sono fiero di indossarlo: la tuta dei vecchi tributi per poter onorare le loro ingiuste morti; i colpi di pistola per indicare sia la produzione di armi del distretto 2 sia per far capire quale cruda realtà aspetta a noi tributi; infine questa tuta che rappresenta la miniera di diamanti del distretto 2 e, come una specie di metafora, rappresenta il lato nascosto di ognuno di noi, quello che si potrebbe scoprire se non fossimo vittime dei Giochi.
Level ed io stiamo sorridendo come bambini felici. Dietro di noi, il carro del distretto 1 non viene proprio considerato. I cavalli, come se fossero monitorati da qualcuno, si fermano. Mentre aspettiamo l'arrivo dell'ultimo carro, io controllo il Presidente Morse. Lui mi guarda e mi sorride come per congratularsi del mio ottimo lavoro. Subito, poi, distoglie lo sguardo e prende parola per augurare buona fortuna a tutti noi.
«Ventiquattro tributi, dodici distretti, un solo vin-ci-to-re. Sono ventiquattro edizioni che vedo volti freschi, con brama di gloria e vittoria ma in voi…» - guarda decisamente me, sia lui sia il gatto - «…vedo di più, tan-to, tanto di più. Direi che vinca il migliore, ma lo sanno tutti: anche il migliore di voi, a volte, non lo è abbastanza.»
Il Presidente Morse alza in aria il suo gatto e lo sporge al di fuori del balcone, tutti applaudono. Gli applausi, però, cessano quando il Presidente lascia cadere il gatto, Mohr. Tutti trattengono il fiato, guardano la discesa rapida della bestiolina che inizia a miagolare, quasi ruggire. Sembra dire delle parole, in realtà, ma sicuramente è una mia impressione dettata dai pregiudizi che ho.
Il gatto arriva al suolo, stecchito. La coda non si muove, la testa resta giù, i suoi occhi viola diventano immediatamente di un azzurro chiaro come il colore dei miei occhi.
Lo ha ucciso, ha lasciato morire il suo animale da compagnia che sostituiva un figlio. 
Ma inizia a muoversi una zampa, poi un'altra e il gatto, agitandosi, lascia a terra il pelo viola per rialzarsi con un nuovo colore. Mohr è diventato di colore giallo canarino.
«È davvero un peccato!» - il Presidente non ha assistito alla rinascita del suo ibrido e parla al suo popolo mentre io continuo ad osservare le azioni dell'ibrido (perché sì, non ho più alcun dubbio riguardo la vera natura di quell'essere) con un misto di disgusto e ammirazione.
Alzo il capo per poter vedere le movenze di Morse.
«È un pecca-to che voi non abbiate la stessa capacità di ritornare in vita come il mio grazioso Mohr.»
Il gatto, arrampicandosi e strisciando un po', arriva immediatamente accanto al proprio padrone.
«Non è grazioso?»
Lo prende in braccio, lo bacia sulla bocca e, poi, lo accarezza sorridendo come un bambino che ha appena visto il suo dolce preferito.
«Lunga vita ai Giochi, lunga vita a Panem. Felici Hunger Games!»
Rimbomba nell'area il colpo sparato da un cannone e si aprono le porte del Centro di Addestramento dove siamo diretti. Uno ad uno, i carri entrano. Quando passo sotto il balcone del Presidente, mi aspetto qualcosa. Non so bene cosa, ma aspetto con molta preoccupazione qualcosa, un segno ma c'è calma piatta. Dopo Morse, penso a me. Che sia arrivato il momento di imparare ad usare l'ascia che mio padre non mi ha mai fatto usare?
Si chiudono le porte e possiamo scendere dai carri.
Accanto a me ci sono Caesar, Cosima e Victor. Anche i due stilisti indossando vestiti come i nostri. Victor porta una mano davanti gli occhi.
«Cavolo, dovevate per forza brillare tutti? Questa luce dà alla testa.»
Penso al motto del distretto (possa la luce essere sempre a vostro favore) e, in questo determinato caso, è proprio vero: la luce è con me.
«Lo so, sono stata la stilista più cazzuta e figa di tutti gli Hunger Games. Non serve che mi lodiate.»
Caesar, da dietro, tossisce e guarda la sorella.
«Ovviamente, anche Caesar ha fatto il suo sporco lavoro. Ha dovuto spararvi!»
Come se non riuscisse a contenere la felicità, viene verso di me e mi abbraccia forte.
«Dovevamo puntare sulla tutina che faceva vedere il pacco ma questa è decisamente più stratosferica!»
Sorrido nel sentire quelle parole. Vedo in Cosima una persona anti convenzionale, eccentrica, fuori dalle righe e pervertita, ma anche un'ottima alleata. Quasi come Level che ho subito allontanato.
Victor è estraneo ai nostri festeggiamenti, si guarda sempre intorno e, anche se apprezzo davvero tanto quello che hanno fatto i due fratelli, mi interessa di più il parere del mio Mentore. Così lo imito, cerco di capire cosa stia succedendo in quella stanza e mi accorgo del caos più totale. I due ragazzi del distretto 1 hanno buttato a terra ciò che era la loro maglia. Tacito, il tributo maschio, la calpesta. La bambina del distretto 7, quella vestita da albero, sta bagnando con le lacrime i propri rami. Vari stilisti parlano tra di loro a bassa voce. Tutti gli altri tributi o restano in silenzio o si lamentano. L'unica particolarità che accomuna tutti loro è che guardano noi.
«Cosa succede, Victor?»
«Succede che loro sono i vostri nemici e, questo round, l'avete vinto voi. Anzi, loro non sono proprio stati vostri avversari perché tutti hanno pensato solo a voi, hanno guardato solo voi dal momento in cui siete usciti per sfilare al momento in cui siete entrati qua.»
Level si intromette dicendo che non guardavano noi.
«Guardavano solo lui!»  

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Capitolo 11
*** In questo mo(n)do ***


10. In questo mo(n)do
 
Un altro litigio a casa, un'altra volta la colpa a me, un altro schiaffo, un'altra volta che si sfilaccia la corda che dovrebbe tenere uniti me e mio padre, la mia famiglia.
Non importa quello che mi dirà: io non ci ritorno più in quella casa, non ritorno a parlare con quell'uomo che dovrei chiamare papà. Io lo odio.
Vorrei restare qua, per sempre. 
Vorrei restare a casa di Livius dove i genitori sono davvero genitori, dove loro ti sono accanto sempre e comunque, dove loro ragionano con il figlio invece di picchiarlo, dove c'è colazione ogni mattina, dove puoi vedere con loro l'edizione passata degli Hunger Games, dove loro ti amano per quello che sei. Voglio essere parte della famiglia di Livius perché lui non mi ha mai chiesto di tagliarmi le vene come ha fatto mio fratello. 
«Snow, tutto ok?»
Io gli faccio cenno di sì.
«Snow, sei sicuro? A cosa stai pensando?»
«A niente!»
«Puoi parlare con me perché io sono un tuo amico, io ci sono a prescindere da tutto. Sto qua. Non andrò mai via, neanche se fossi costretto!»
«E ti ringrazio per questo.»
«Allora perché non mi rendi partecipe dei tuoi pensieri?» 
«Livius...» - mi fa, per un attimo, dimenticare l'odio che provo - «...ma è assurdo quello che dici... non sto pensando a niente.»
«No, è assurdo che tu faccia finta di niente.»
Alzando le spalle, Livius fischia e, per sbaglio, sputa anche un po' di barretta di cereali che sta mangiando prodotta nel distretto 9.

Sono le 4 di mattina. 
Non riesco a dormire. Non è colpa dell'ansia che mi affligge (o forse sì) ma è colpa, soprattutto, del fatto che non riesco a smettere di pensare.
Prendo una giacca che Capitol City ha "gentilmente" offerto a tutti i tributi ed esco fuori. Anche se sono fuori dalla mia stanza che è grande quanto una casa ricca del distretto 2, non posso andare lontano. Infatti, se mi allontanassi dal perimetro del Centro Di Addestramento, scatterebbe un allarme. Questi che organizzano gli Hunger Games, gli Strateghi, hanno pensato davvero a tutto.
Dopo aver preso l'ascensore per scendere al piano terra, mi stringo nella giacca e giro lungo l'unico spazio aperto che ho a disposizione. Tocco la corteccia degli alberi, calpesto fiori ed erba, immergo le mani nell'acqua delle fontane e, infine, mi fermo a guardare quello che c'è di fronte a me: una struttura grande, fatta di vetro, a forma di piramide. È dove, tra qualche ora, dovrò allenarmi. 
«E così tu saresti il luogo che mi aiuterà...»
Mi abbasso per prendere delle piccole pietre che sono lungo il bordo di una piccola fontana. Prendo tutte quelle che posso con la mano sinistra e poi mi rialzo.
«Tu dovresti insegnarmi a tirare con l'arco, a mimetizzarmi, ad accendere del fuoco, ad avere il sangue freddo...»
Con la mano destra prendo un sassolino e lo butto contro una vetrata.
«Tu dovresti farmi diventare il tributo vincitore...»
Butto un altro sassolino e inizio ad avvicinarmi sempre di più alla struttura.
«Dovresti prendere il posto di mio padre che diceva che, prima o poi, mi avrebbe insegnato ad usare un'ascia...»
Più mi avvicino, più allungo i passi acquistando velocità.
«Tu non sei questo! Tu non mi aiuterai a sopravvivere. Tu mi aiuterai solo a farmi uccidere con più difficoltà.» 
Prendo un altro sassolino e lo butto ad un altro vetro. Poi un altro sasso e poi, invece di prenderne un altro ancora, lancio tutti quelli che mi sono rimasti.
«Vaffanculo tutti e tutto! Vaffanculo centro di addestramento, vaffanculo papà, vaffanculo giochi, vaff...»
«Snow!»
Sobbalzo quando mi sento chiamare. Sono ancora più fottuto di quello che già sono.

Sto davanti ad una tazza di thè fumante al gusto di fragola ed estratto di cioccolata bianca. Continuo a girare il liquido che ha un colore non ben definito e un odore non molto gradevole con un cucchiaino dorato e ornato da perle azzurre. Victor lo beve con gusto quell'intruglio. 
Tornando al dormitorio, siamo rimasti in silenzio e lo siamo ancora tuttora.
I suoi occhi si perdono nella superficie del tavolo. Soffia delicatamente il suo thè caldo mentre tiene il bordo della tazza lungo il labbro inferiore e resta nei suoi pensieri per interminabili secondi. 
In questo momento, come un lampo che appare d'improvviso in una notte chiara, si presenta il ricordo di Livius, quando mi chiedeva di fargli capire perché mi estraniassi il più delle volte. Ricordo quelle conversazioni in cui mi chiedeva di parlare invece di tenere tutto per me. Se avessi capito che lui non ci sarebbe stato ancora al mio fianco, se avessi capito che sarebbe arrivato, inaspettatamente, il momento del suo addio, gli avrei parlato di più, gli avrei spiegato di più, gli avrei raccontato di più, gli avrei fatto conoscere meglio il me di cui mi vergogno, di cui ho paura, di cui odio tutto. Se Livius fosse vivo, ora, gli direi che essere un tributo è davvero complicato, è più difficile ed estenuante. Non è solo quello che ci fanno vedere in tv ma tanto altro. Anzi, se fosse vivo, non gliele avrei dovute dire io queste cose perché le avrebbe vissute lui stesso. Avrebbe conosciuto Victor, Cosima e Caesar e, in questo preciso istante, avrebbe chiesto a questo Victor silenzioso: a cosa stai pensando? 
«Non so se ricordi la mia edizione ma credo tu non possa perché eri troppo piccolo. Non so se te l'hanno raccontata, ma voglio parlartene lo stesso. Ho una premessa da fare: non sono mai stato bravo con le storie, non so raccontarle e non so neanche come funzionano quei maledetti verbi perciò non fare tutto il precisino se ti accorgi di qualche errore.»
Rido delicatamente e il Mentore mi rivolge un sorriso sincero. Ora manda giù un sorso di thè e, dopo aver chiuso gli occhi e preso un bel respiro, mi racconta della sua edizione, della sua vittoria, della sua storia.
«Avevo solo 15 anni. Quando l'ascensore mi trasportò su per entrare nell'Arena, non sentivo più il respiro. L'unica cosa che sentivo era il cuore e avrei preferito non sentirlo affatto. Aprendosi le porte...» - con le mani mima il movimento delle porte che si aprono - «...davanti a me, c'era un pianoforte. Accanto a questo c'erano armi, cibo, zaino. Quella era la nostra Cornucopia. Ci insegnano che la Cornucopia sia un palazzo e, invece, era un misero pianoforte. Al rimbombo del cannone che dà il via ai Giochi, la metà dei tributi stava gareggiando per arrivare prima degli altri alle armi che desideravano. Io scappai il più lontano da quel luogo. Dopo qualche minuto sentimmo il rintocco di 14 cannoni: erano morti ben 14 ragazzi. 
Ho impiegato molto tempo, non so dirti con precisione quanto perché era sempre notte, per capire che l'Arena non era altro che una nave. La nave aveva 15 piani. Se salivi al quinto piano, ad esempio, potevi sentire incessantemente le urla di una donna; al sesto piano, sentivi il pianto di bambini; al decimo piano, dei fischi; al dodicesimo piano si sentivano degli stridii insopportabili...» - prende il cucchiaino e riproduce quello stesso rumore - «...ecco, proprio questo; al quindicesimo piano potevi, invece, ascoltare il rumore delle onde. Era il piano preferito da tutti. Infatti la maggior parte dei tributi è morta lassù per mano di altri. In quel periodo, in quel momento della mia vita, mi sentivo un prigioniero, l'ostaggio di un pirata. Avevo la sensazione di essere braccato, inseguito. Dovevo prestare attenzione a tutto perché la nave, anche se grande, era il luogo più pericoloso e più piccolo in cui mi sia mai trovato. Decisi, allora, di nascondermi. Trovai posto sotto il tavolo di una sala ristorante del quinto piano. Sarò rimasto là sotto per molto tempo. Non riuscivo a dormire perché le urla della donna mi sfinivano ma, almeno, nascondevano il rumore dei miei respiri. Uscivo da sotto il tavolo solo per rubare i resti di cibo dalle cucine e fare pipì in qualche bicchiere di vetro. Eravamo rimasti in tre quando mi trovarono. Loro due, il ragazzo del distretto 1 e la ragazza del distretto 4, si erano alleati ed io ero il nemico comune. Per far smuovere le acque...» - sorride divertito - «...tra tanti termini proprio questo ho usato...» - beve un altro sorso di thè - «...gli Strateghi ebbero la brillante idea di far muovere quella benedetta nave agitando il mare. Eravamo tutti e tre spaventati perché capimmo che la nave stava affondando. Infatti, in neanche due secondi, metà della nave salì verso il cielo, l'altra metà era in procinto di sprofondare in acqua.»
Io non sto bevendo affatto il thè. Sto seguendo, parola per parola, la storia di Victor. Mi sento male perché mi sto immedesimando in lui. Anzi, sono lui. Tra poco sarò io quel tributo che dovrà preoccuparsi, che dovrà cercare un riparo, che dovrà uccidere.
«Tutte le porte si aprirono violentemente, le finestre si frantumarono in mille pezzetti e gli oggetti venivano inghiottiti dall'acqua delle onde che entrava nella sala come se fosse impaziente di farlo. A causa del movimento brusco della nave, scivolammo. Io riuscii ad aggrapparmi ad un palo, così anche la ragazza. Il ragazzo del distretto 1, però, riuscì a malapena ad afferrare la gamba della ragazza del distretto 4.» - Victor si blocca un attimo nel ricordare quella scena che mi sta regalando dei brividi freddi - «Lei, per liberarsi di quel peso in più, per ucciderlo, colpì la mano del ragazzo con la suola delle scarpe e lui, non riuscendo ad essere talmente forte da sopportare il dolore, lasciò, cadde.»
Anche se prende delle pause, chiude gli occhi e tentenna, Victor mantiene la calma che lo ha sempre contraddistinto. So, però, che, dentro di lui, non c'è niente di calmo. Lui è irrequieto, e lo sono anche io.
«La nave scendeva ancora verso il basso, le onde continuavano a sbattere contro i nostri corpi. L'acqua mi accecava e io provavo a boccheggiare per prendere dei grandi respiri ma l'unica cosa che riuscivo a fare era bere acqua, tanta acqua. Non facendocela più, ho lasciato la presa, son caduto giù ma, invece di finire in acqua, sono rimasto incastrato in una rete o in una serie di fili che mi stringeva la caviglia. Non sapevo chi ringraziare, chi dover baciare per quel salvataggio immediato e non richiesto. Quella specie di rete stringeva in modo alquanto violento la mia caviglia ma non me ne fregava del dolore se, grazie a quello, io continuavo ad essere un giocatore ancora in vita. All'improvviso sentii tirarmi dalla manica del braccio. La ragazza del distretto 4 credevo fosse scivolata ma, dai video che vidi dopo, scoprii che si era buttata e cercava di uccidermi. Sfortunatamente, lei non aveva trovato niente che la poteva salvare se non il tessuto della mia tuta che ha mollato dopo qualche secondo... Un'abile nuotatrice che muore travolta da un'onda anomala. Io sono stato preso dall'hovercraft prima che la nave fosse affondata del tutto.»
Lui mi guarda ora. Accenna un minimo sorriso solo per consolarmi, per dirmi che potrebbe andare bene ma la sua mente, la sua vita è ormai segnata da quegli eventi.
«Io sono uno dei pochi tributi ad aver vinto senza uccidere qualcuno, stranamente. Eppure mi sembra di averli uccisi tutti io, uno ad uno.»
«Sai che non è colpa tua, Victor, vero?»
Lui beve un altro sorso di thè e fa cenno di sì con la testa ma non è convinto di quello che gli ho detto.
«Snow, ti ho spiegato questo per farti capire che, se ce l'ho fatta io, ce la puoi fare anche tu!»
Io sbotto violentemente a questa sua affermazione.
«Ma io non devo farcela. Uccidere per vivere non è una cosa da chiedere ad un ragazzino come me. Io non voglio farcela in questo modo, in questo mondo.»
«Allora, se non vuoi combattere per la tua vita, perché sei qua ancora vivo? Perché non fai come ha fatto Livius? Sarebbe tutto più semplice.»
«Non mi piacciono le cose semplici.»
«Non ti piace neanche vivere.»
«Perché, quella che stai facendo tu, è una vita degna di essere vissuta?»
«È pur sempre una vita. Molti sono morti per poterne avere un altro briciolo.»
Sicuramente starà parlando della ragazza del distretto 4 e di tutti gli altri tributi ma la mia domanda resta sempre senza risposta: perché dobbiamo combattere per vivere? Davvero devono esistere questi Giochi che decidono se farci vivere o meno?
«Livius non ha cercato di avere le briciole.»
«E guarda ora cosa è successo: tutti si son dimenticati di lui.»
Si blocca per un attimo il cuore quando sento questa storia. È vero. L'azione di Livius è passata in secondo piano perché in primo piano ci sono io.
«Perché non bevi il thè?»
Assaggio quel thè e, quando cerco di mandarne giù un piccolo sorso, lo sputo in faccia a Victor.
«Ma cos'è 'sta roba?»

Dopo aver bevuto quella strana bevanda, ritorno nella mia stanza e mi addormento sentendo tutto il peso di Panem sulle mie spalle. Mi sveglio qualche ora dopo tutto sudato e, dopo una doccia, mi preparo per la prima giornata di Addestramento. Scendo nel cortile e vado dritto al Centro. Apro la porta di vetro e l'interno è diverso da quello che mi aspettavo di vedere. Lo spazio a disposizione è enorme. Ci sono molti punti di raccolta, ognuno con una specialità da poter osservare e imparare. Alla mia destra, inoltre, un lungo corridoio coperto da altri vetri. All'interno c'è scritto "esame di combattimento". Attualmente non si può ancora usare, mi dicono che si può usare solo durante il terzo, cioè ultimo, giorno. 
Inizio, allora, a controllare i vari punti, gli spazi dedicati alle attività per i Giochi. C'è lo spazio per imparare a fare nodi, nuotare e riconoscere erbe, per capire come usare armi da fuoco, per comprendere come vivere nella foresta e molti altri. C'è davvero l'imbarazzo della scelta e non so proprio cosa fare. Tutto mi sembra utile e, allo stesso tempo, stupido. 
Qualche ragazzo è già qua. Tacito, il Preferito del distretto 1, è allo stand dedicato al combattimento. Level è allo stand per imparare a riconoscere le erbe.
Controllo un po' la situazione e si avvicina a me la ragazza del distretto 10.
«Davvero credono che fare nodi ci possa salvare la vita?»
Mi volto solo un po', giusto per vederla, e non commento. Non sono qui per fare amicizie e per parlare di quanto sia bella la giornata. Sono qui, controvoglia, e tutte queste persone, che condividono il mio stesso destino, potrebbero essere il mio assassino. Potrei essere io il loro assassino.
«Wow, non rispondere. Potrebbe caderti la lingua...»
La ragazza si sposta e va ad occupare lo spazio dedicato al mimetismo.
Arriva anche la ragazza, bambina più che altro, del distretto 7 che, come me, non sa cosa scegliere. Va a mettersi vicino alla ragazza del distretto 10 e inizia a seguire i consigli del tutor. 
Continuano ad entrare altre persone. Molti mi evitano, due mi vengono addosso e cercano di intimorirmi, qualcun altro continua a parlare della Sfilata. Io resto impassibile e li guardo tutti. Sto sprecando tempo prezioso, lo so, ma non so proprio cosa scegliere.
«Sei strano.»
«Grazie per il complimento.»
La ragazza del distretto 10 ritorna al mio fianco, sembra voler proprio instaurare una conversazione con me.
«Vedi? La lingua ti è rimasta in bocca.» 
Accenno un semplice sorriso per la battuta infelice che ha fatto.
«Mamma mia: simpatia, portami via? Cos'è? Sei indisposto? Ciclo con perdite abbondanti?»
Alzo un sopracciglio e, questa volta, non mi concentro proprio a sorridere.
«Se resti qua, a vedere quanto bello sia il mondo, col cavolo che uscirai dall'Arena. Perché hai intenzione di uscirci, no?»
Non la rispondo. La risposta mi sembra ovvia. Mi sembra ancora più ovvia dopo la chiacchierata notturna con Victor che mi ha fatto capire cosa davvero voglio.
«Ho una proposta per te, distretto 2. Io e te, alleanza. Quando rimarremo in pochi, ognuno farà il suo gioco ma, all'inizio, essere soli sarebbe un suicidio. Voglio una possibilità e tu sei questa possibilità che devo prendere al volo.»
«E perché io sarei questa possibilità?»
«Beh, sei la gallina dalle uova d'oro di quest'anno e, sicuramente, gli Sponsor punteranno su di te.»
«Forse non lo sai ma io ho la capacità di farmi odiare da tutti. Mi odiano per il discorso che ho fatto al mio distretto, perché mi credono un killer che vuole regnare su Panem e, anche voi tributi, mi odiate.»
«Beh, dopo la Sfilata, molti hanno cambiato idea su di te. Non sei più il killer della nazione ma stai diventando un Favorito. Stai conquistando Capitol City e anche i distretti vista la tua storia. E non credere, io non sono una ragazza dolce. Anche io odio il mio distretto. Vorrei aver urlato a coloro che mi hanno buttato qua dentro che devono fare la mia stessa fine. Comunque, distretto 2 cercami quando hai una risposta alla mia offerta: io sono Søren.»
«Io non...»
«Distretto 2, ti ho detto di pensarci. Fa' con calma... non voglio una risposta di fretta. Mi dispiacerebbe se poi dovresti pentirtene.»
«Ma io conosco già la risposta che ti darò ora, dopo, domani e tra qualche altro giorno ancora. Io non voglio creare un'alleanza con te, non voglio allearmi con nessuno!»
«Ehi, non ti sto chiedendo di sposarmi e amarmi e onorarmi finché morte non ci separi.»
«No, stai facendo di peggio. Mi stai affidando la tua vita!»

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Capitolo 12
*** Un buon motivo per combattere ***


11. Un buon motivo per combattere

Sai, Livius, qui senza di te è difficile. Non è sostenibile una cosa del genere. Se tu fossi vivo, avrei almeno un buon motivo per poter tornare a casa, ma tu non ci sei e non ci sono nemmeno altri veri buoni motivi per farlo. 
Non riesco a prender sonno perché, come già sai, ho una stupida malattia: sono sempre vittima dei miei pensieri. Anche oggi, di fatti, questi non smettono di essere i miei criminali. A giorni sarò io stesso un criminale. 
Non riesco a pensare alla vita di coloro che sono usciti "indenni" da quest'Arena, di coloro che sono i vincitori del Gioco. 
No, Livius, nessuno esce senza ferite! Lo leggo negli occhi di Victor che qualcosa non va mai bene. Il suo modo di porsi verso le cose è complicato: si guarda sempre accanto, è sulla difensiva ogni qual volta succeda qualcosa, si estranea dagli eventi per poter controllare tutto. Lui indossa sempre questa corazza perché, appena qualcuno vede delle debolezze, crede lo attaccheranno.  Io conosco un po' il peso di questa corazza dura. La indosso anche io e tu lo sai.
Però poi ho visto, in un solo attimo, un po' di te: Victor, infatti, si preoccupa per me, cerca di aiutarmi sempre. Credo lo faccia non solo perché è suo obbligo farlo ma perché... perché c'è qualcosa che ci rende uguali. È come se lui riesca a capirmi completamente ed è strano. O forse si comporta così perché sa cosa sto passando.
D'altronde lui non ha mai lasciato davvero quell'Arena, crede che tutta Panem sia l'Arena. E mica ha torto? 
Riflettendoci bene: ha ragione Morse (anche se lo odio come quelli del distretto). Il nemico principale non è lui ma tutti questi distretti, tutto il popolo. Perché non muovono un dito? Perché non fanno qualcosa per combattere questo sistema che non va? Aspettano noi, ragazzi dagli 11 ai 18 anni, per salvare questo mondo? Io non riesco a salvarlo da solo.
Nessuno si salva da solo. Me lo hai sempre detto tu. Nessuno si salva da solo. Eppure l'unica persona che potrebbe salvarmi ora sono io. 
Non sono sicuro di potermi salvare, ancora.
Però mi vendicherò Livius, ad ogni costo. 
Anche se ho detto che il Presidente ha ragione, anche se ti ho detto che odio il nostro distretto, ho riflettuto. Il mio nemico non è solo il Presidente Morse o il distretto 2. I miei nemici sono il distretto 2 e il Presidente Morse perché il primo ti ha mandato a morire e il secondo ha creato questi giochi che sarebbero esistenti se non ci fosse lui a mandarli avanti. La mia vendetta sarà atroce.
Sarò l'artefice dei miei Giochi. Io giocherò usando solo il mio cervello, il mio cuore senza pensare alle varie strategie consigliatemi da Morse o chi altro.
Mi vendicherò, Livius, lo farò... secondo le mie di regole.
Per ora conto solo su Victor. Spero che almeno lui non scelga di suicidarsi, come hai fatto tu.
Ps. Solo ora mi accorgo di un'altra differenza tra me e te. Io ho reagito quando mi hanno detto di provare a tagliarmi. Tu hai dovuto affrontare l'Arena, ma hai avuto la brillante idea di non farlo perché hai sempre odiato batterti, hai sempre lasciato passare.
Io, però, non ti riesco a far passare.
Tuo, C. Snow
Ti regalo, nei miei pensieri, una rosa bianca.


Lascio andare la penna.
È tardi anche questa sera. Invece di sfogarmi uscendo fuori, decido di scrivere una lettera al mio amico morto, a colui che mi sta dando il motivo per poter vincere. Ripenso all'Addestramento di oggi.
Durante la prima parte, sono rimasto lì, fermo a guardare tutti. Cercavo di guardarli tutti per apprendere il loro modo di battersi, le loro specialità, le loro abilità. Più li vedevo combattere, più mi scoraggiavo quando pensavo a un combattimento corpo a corpo con uno di loro.
Poi è arrivata ora di pranzo e Victor, sapendo da Level che ho fatto lo stoccafisso guardando gli altri, mi ha rimproverato. Devo sfruttare questo tempo quando le acque sono calme.
Ritornato nella piramide, ho recuperato il tempo perso fermandomi a ben tre spazi. Prima ho provato a tirare con l'arco, ma ho fatto pena; poi ho provato a ricordare come accendere un fuoco (io l'ho imparato grazie a Livius così come ho imparato a riconoscere dell'acqua pulita o delle piante velenose); infine, ho seguito il corso di combattimento. C'è stata, poi, la cena. 
Ora sono uscito dalla mia stanza, sono diretto da Victor. Busso delicatamente alla sua porta cercando di non farmi vedere da nessuno. Lui mi apre ed entro.
«Tu proprio non riesci a dormire, eh?»
Sorrido pensando che è vero: ho dormito davvero poco in questo periodo e la stessa cosa sta facendo lui a causa mia.
«Dormirò quando sarò morto... Tra cent'anni.»
«Cos'è, la notte porta consiglio?»
«No, Victor porta consiglio.»
«Vieni, ho del thè.»

Mi risveglio.
La sala attorno a me gira del tutto. Ho gli stessi sintomi di quando ho avuto la botta alla testa durante la Mietitura.
Apro la bocca e ne esce un liquido rosso: il mio sangue. Macchio di rosso il parquet. 
Mi sposto un po', voglio sollevarmi ma vado a terra perché le mie gambe non si muovono. Non riesco ad alzarmi per provare a scappare, a capire dove sono. Cerco di fare forza sulle braccia ma la mano scivola sul mio stesso sangue e sbatto con la testa sul pavimento.
È come sentirsi colpire più volte alla testa perché sento il ripetersi di forti rumori. Riprovo di nuovo ad alzarmi ma non riesco a fare niente: proprio le forze mancano. Chiudo gli occhi, anche loro non hanno la forza di restare aperti. All'improvviso sento delle mani toccarmi il viso. Apro più volte gli occhi, con grande fatica, ma non riesco a distinguere il viso di chi mi è accanto. Riesco perfettamente a sentire delle dita toccarmi all'interno della bocca. Riesco a percepire perfettamente dei tagli che bruciano maledettamente. Chiudo, dunque, violentemente la bocca perché non voglio provare questo dolore e mordo quelle dita che cercano di uscire fuori. Con grande forza, mi riaprono la bocca e ci buttano qualcosa dentro, qualcosa di liquido. Ha un sapore orribile e provo a sputarlo ma mi richiede troppa fatica. Butto, allora, giù ciò che, mischiatosi con il mio sangue, è rimasto in bocca.
Le poche forze che ho vengono meno.

Mi risveglio sobbalzando come un pazzo.
Mi tocco le gambe, le braccia, la fronte e tutto funziona. Vedo in modo chiaro quello che mi è accanto e so di essere nella stanza di Victor. Deve essere stato un brutto sogno, un incubo. Mi tranquillizzo.
Mi alzo e, anche se all'inizio sento uno strano torpore in tutto il mio corpo, cammino. Mi sento pieno di energie, carismatico.
«Victor.»
Lo chiamo, lo cerco nella stanza da letto, nel bagno e nel salotto ma lui non c'è. Sarà andato da qualche parte.
Controllo l'orario per capire cosa debba fare in questa nuova giornata e mi vien da sbadigliare. È mio solito sbadigliare a bocca chiusa ma, quando sono solo, spalanco la bocca. Così faccio anche adesso, ma qualcosa si apre dentro la bocca e sento mille dolori. Subito corro in bagno e inizio a sputare sangue. 
Forse il mio non è stato un incubo. Sento la porta aprirsi e, poi, chiudersi. Mi sciacquo la bocca, ma sento ancora dolore. Sputo e decido di non provare a risciacquare la bocca perché non riesco a sopportare tutto questo.
Corro nell'altra stanza mentre mi pulisco con la manica della maglia.
«Victor! Cosa cavolo mi sta succedendo?»
«Snow, vieni a sederti.»
Voglio sapere cosa mi sta succedendo e quel suo essere così tranquillo mi fa credere che lui sappia qualcosa.
«Io non mi siedo! Voglio sapere cosa mi è successo.»

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Capitolo 13
*** Ho abbassato le mie difese e mi hai attaccato ***


12. Ho abbassato le mie difese e mi hai attaccato

«Tu sei pazzo! Devi aver sbattuto la testa da qualche parte per fare una cosa del genere.»
Victor prova ad avvicinarsi a me, ma io continuo ad indietreggiare. Non voglio essere toccato da colui che doveva proteggermi.
Come ho potuto credere alle sue parole? Come potevo pensare che lui fosse l'unica persona che mi capiva e che mi aiutava? È spregevole, peggio del Presidente Morse. L'ho anche paragonato a Livius ma lui non ha nemmeno un minimo del suo carattere.
«Dovevo restare vivo, eh? Dovevo vincere perché...»
Smetto di parlare e provo a collegare le varie vicende. Se Victor non fosse altro che un leccaculo del Presidente? Se lui ha ricevuto il compito di dovermi ingannare e uccidere?
«Snow, tu devi vincere!»
Finalmente cessa di essere il finto calmo che interpreta sempre e inizia ad agitarsi. Almeno, in questo caso, ha la decenza di mostrare il suo vero io. 
Di solito leggevo insicurezza, paura e timore nei suoi occhi ma anche una forza a cui potevo far fede. Ora capisco cosa erano tutti quei comportamenti strani: guardarsi sempre attorno, cercare di capire cosa faceva e diceva il Presidente, non indossare i vestiti creati da Cosima e Caesar perché lui non fa parte del team. Lui vuole distruggere il team, vuole distruggere me.
«Snow, fermati, cazzo!»
Urla troppo forte e io mi spavento perché, così, ritorno alla realtà. Una realtà che non voglio accettare. Perché devo essere sempre io quello preso in giro? Perché devo essere sempre io quello ingannato? Cosa spinge gli altri a farmi diventare il loro giocattolo? Ho scritto in faccia "prendetemi per il culo"? 
Mi sento quasi come la madre di Livius: impotente contro gli eventi. Fortunatamente ho imparato a stringere i denti e, all'occorrenza, mordere.
«E devo fermarmi solo perché me lo dici tu? Chissà se è vera tutta quella messinscena che mi hai raccontato: i tuoi Hunger Games. Secondo me, fai bene a sentirti in colpa! Non mi stupirei se sapessi che li hai uccisi tutti tu i tributi, uno ad uno.»
Lui si blocca, le mie parole lo hanno colpito. Aveva avuto sempre ragione il mio maestro Leon: le parole sono armi più potenti della migliore spada.
«Spero che, in sogno, ti appiano tutti i volti dei tributi morti. Spero vengano, sempre, a farti compagnia.» - continuo ad inveire contro di lui.
Victor lascia cadere un flacone di qualcosa a terra e mi guarda come per dire che ormai è finita, che ho esagerato.
Senza neanche dire una parola, va via.

Nella mia testa frullano troppe cose e non so quale sia il tasto giusto per fermare tutto questo. L'unica cosa che so è che devo sfogarmi, sfogarmi davvero.
Decido, allora, di addestrarmi all'uso di armi da taglio. Seguo la spiegazione sulla sicurezza e su come portare un arma senza ferirsi. Poi arriva, finalmente, il momento di scegliere l'arma per la parte pratica e io prendo l'ascia. L'addestratore mi consiglia di usare dei pugnali perché questa è la prima volta che uso delle armi del genere ma io non gli do retta.
Reggo il manico di legno in maniera forte e decisa, la lama è verso il basso ed entro nella sala di simulazione. Si abbassano dei sacchi dal soffitto: il mio compito è distruggere tutto in un minuto. 
Scatta una campanella e sento lo scorrere delle lancette del tempo. Alzo la lama e inizio a tagliare, con difficoltà, la corda che tiene appeso il primo sacco. È più pesante del previsto sollevare l'ascia. Passo ad un altro sacco e non riesco a buttarlo giù se non dopo tre colpi. Passo avanti e mi sento ancora più stanco. Alle spalle vengo colpito da un sacco e cado. Fortunatamente ho allontanato l'ascia in tempo sennò avrei avuto anche il viso sfregiato. Mi rialzo e prendo l'arma. Stufo di questi insuccessi, dentro di me sento riscaldarsi qualcosa: è come quella volta in cui smisi di essere la vittima dei bulli del distretto.
Urlo incazzato come una bestia e butto giù un sacco, un altro ancora e mi soffermo su quelli buttati a terra. Non mi fermo neanche un attimo perché non voglio: quei sacchi devono diventare polvere, devono scomparire dalla mia vista così come tutti quelli che odio. Conficcando, però, la lama in uno dei tessuti, questa si blocca e non riesco più a tirarla su. Allora scelgo di liberare l'ascia prendendola dalla lama. Inizio a battere la parte del legno sui sacchi, l'acciaio penetra la mia cute. 
La campanella trilla e io continuo ad attaccare un altro sacco. Mi devono fermare per poter farmi smettere. Alzando lo sguardo, vedo i vari tributi che mi guardano.
«Cosa avete da guardare voi?»
Li attacco già ora. Saranno miei nemici tra pochi giorni, perché non combatterli già adesso?
Mi strappano, violentemente, l'ascia da mano e inizia a scorrere sangue dalle mani, gocce rosse cadono lentamente sul pavimento. All'improvviso un flashback: le mie mani quando hanno toccato il corpo insanguinato di Livius. Mi agito ancora di più e mi dimeno come un uomo che vuole liberarsi dalla camicia di forza.
«Lasciatemi! Lasciatemi!»
Mentre mi portano via, mando a fanculo coloro che non hanno creduto in me. Chiedo anche a mio padre se ho ancora le ossa graciline come quelle di mia madre.

Mi hanno medicato le mani e bendato. Per maggiore sicurezza mi hanno anche ammanettato. Hanno chiamato il mio mentore, Cosima e Caesar per farmi calmare. Peccato che uno di loro non può calmarmi ma farmi agitare ancora di più.
Vanno via i Pacificatori e vengo bombardato dalle opinioni dei due fratelli.
«Snow, porca ghiandaia chiacchierona. Tanta la rabbia che hai, che ti stanno pulsando le vene. Sembri uno tosto, un duro. Ogni giorno che passa avrei voglia di prenderti, spogliarti tutto e sco...»
«Snow, c'è un limite sottile tra rabbia e pazzia. Tu stai oltrepassando quel limite dalla parte della pazzia. Basta, dovresti calmarti.»
Come sempre, Cosima è quella che vuole solo soddisfare i propri bisogni, Caesar è quello che si preoccupa delle apparenze. E, ancora "come sempre", Victor resta nel suo angolino, non commenta e non fa niente. Sta semplicemente in questa stanza ma è come se non ci fosse. Preferirei, oltre alla sua assenza psicologica, anche quella fisica.
«E tu, Victor?» - decido di stuzzicarlo - «Non mi dici niente? Non vuoi farmi la paternale?»
Lui mi guarda e mi risponde mantenendo la sua posa composta. 
«Questa volta vorresti ascoltare o fare come tuo solito?» 
«Illuminami: qual è il mio solito?»
Lui fa un leggero ghigno e si avvicina di più a me.
«Ti fai entrare le cose da una parte e, subito dopo, te le fai uscire da un'altra perché vuoi fare  di testa tua. Non tutti sono tuoi nemici, sai?»
«No, non tutti. Ma la maggior parte lo sono.»
Vorrei dirgli che, in questa maggior parte, è incluso anche lui ma questo pezzo lo tengo per me.
Cosima si intromette nel discorso.
«Snow, noi non siamo tuoi nemici. Noi siamo qui per aiutarti, per darti mille possibilità.»
Vorrei dire a tutti che, sì, Victor mi ha offerto mille possibilità per morire.
«Scusate, ora vorrei tornare ad addestrarmi.»
Io sto uscendo dalla porta ma Caesar mi stringe per un braccio e mi ferma.
«Non fare stupidaggini.»
«Mai fatte.»
Lascio andare la sua presa con uno spintone e ritorno al Centro. Subito Søren viene a parlarmi.
«Uó, hai ucciso un gatto o ti hanno ammanettato perché hai fatto l'assassino di sacchi?»
Non la rispondo, anzi la guardo in modo infastidito come per dirle che è meglio se va via. Lei, però, non si allontana ma crede che le stia dando il permesso di parlarmi ancora.
«Ieri non sei venuto a cercarmi. Perché? Eri alla ricerca di un calmante per il tuo carattere intrattabile?» «Perché avrei dovuto cercarti?»
«Vedo che non hai preso zucchero questa mattina, solo sacchi contro la schiena e mani ammanettate.»
«Vedo che non hai capito che io e te non saremo mai alleati.»
«Distretto 2, il mio è un piano perfetto. Dovresti pensarci e non arrivare a queste conclusioni affrettate.»
«Fidati, non è una scelta affrettata questa.»
«Io credo di sì. Vabbè, vado ad allenarmi con la tua ascia distruttrice. Vieni con me? Oh, non puoi: hai le manette che ti impediscono di continuare l'allenamento.»
«No, mi fermerò da qualche altra parte.»
Lei va a destra e io continuo ad andare dritto. Mi fermo per addestrarmi con armi da fuoco. Ai Pacificatori chiedo se mi levano le manette e loro lo fanno senza fare troppe domande. Vado verso il banco dove trovo una pistola bianca. Con me c'è il tributo del distretto 3 che gioca con dei pezzi di qualcosa. Io, posizionandomi al tavolo da tiro, sparo i manichini computerizzati con i proiettili di laser.
«Devi mantenere la pistola con due mani per una mira migliore.»
Il tributo del distretto 3 mi dà un consiglio su come sparare. All'inizio non lo seguo e lui scoppia a ridere. Allora scelgo, dopo questo ennesimo fallimento, di fare come mi dice lui e, infatti, già migliora qualcosa.
Ringrazio il ragazzo e lui mi sorride. Continuo a sparare ma mi distraggo più volte perché l'altro tributo tira su con il naso in modo molto rumoroso.
«Tutto bene?»
«Perché non dovrebbe?» - mi sorride e continua a giocare con i pezzi che ha sul tavolo.
«Che hai là?»
«La pistola.»
Lo guardo un po' incuriosito. Quella che ho io è una pistola, quella che ha lui non lo è. Poi capisco che, in realtà, lui l'ha scomposta facendola in mille pezzi. 

Mi asciugo le gocce di sudore sul collo con un asciugamano. Il tributo del distretto 3, che ho scoperto chiamarsi Falloppio, mi saluta. Ricambio anche io. Esco fuori e, mentre imbocco il corridoio per entrare nella mia stanza, incontro Victor.
«Snow, dobbiamo parlare.»
«Io non credo dobbiamo. Non ne sento la necessità. Se, invece, la senti tu è un altro conto.»
«Snow, smettila di fare il bambino. Vuoi conoscere la verità o no?»
«La verità? La conosco e mi fa schifo, tu mi fai schifo!»
«Se smetti di urlare e me ne dai l'occasione, ti spiego.»
«Non voglio sentire spiegazioni!»
Litigare con qualcuno mi ha sempre destabilizzato. Mi sono sempre sentito una persona che si fa prendere dagli eventi, dalle persone e, anche questa volta, mi è capitato inevitabilmente. 
«Snow... davvero vogliamo continuare così?»
«No! Torniamo a prima quando io credevo che fossi una persona di cui fidarmi ma tu cercavi di uccidermi.»
Non voglio più ascoltare e cerco di andare via ma lui mi insegue iniziando a correre. 
«Snow, porca miseria, stammi ad ascoltare.»
Con violenza mi prende e mi incastra contro il muro. Cerco di ribellarmi ma la sua presa è forte, davvero resistente. Le sue gambe bloccano le mie, le sue mani bloccano le mie braccia.
«Beh, non ho molta scelta.»
«Bene, allora ti spiego. Tutto quello che ho fatto, l'ho fatto per difenderti.»
Gli rido in faccia.
«Oddio, davvero stai dicendo questa stronzata? Mi sembra la confessione di un ragazzino.»
«Mi lasci parlare e poi fai che cazzo vuoi?»
Tutta questa sua rabbia mi sembra immotivata. Dovrei essere io quello arrabbiato come una bestia, non lui.
«Lasciarti parlare? Non voglio ascoltarti. Non voglio vedere la tua faccia nemmeno da lontano, il tuo odore mi disgusta, il tuo tocco mi fa rabbrividire, la tua voce mi fa venir voglia di diventare sordo. Voglio che tu... voglio che tu sia al mio posto perché meriti di ritornare nell'Arena e vivere incubi per l'eternità.»
«Ora che ti sei sfogato, posso parlare?»
«Ma ti ascolti? Le mie parole non ti colpiscono neanche.»
«Non mi colpiscono perché quello che ho fatto, te lo ripeto, l'ho fatto per un giusto motivo!»
«Non esiste nessun buon motivo, non esistono scuse. Tu non puoi credere che sia un bene avvelenare tutti quei thè schifosi che mi facevi bere. Se fai così con tutti i tuoi amici, allora sono strani anche loro. Veleno... ancora non posso crederci!»
«Non è come sembra.»
«E come sembra, allora?»

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Capitolo 14
*** Le margherite sono salve ***


13. Le margherite sono salve
 
Livius, hai mai immaginato la vita che eri destinato a vivere? Ammetto che, a volte, ho pensato al futuro anche io. Mi ha spaventato fino a farmi addormentare con ancora l'inquietudine negli occhi.
Quando pensavo al futuro, mi ritrovavo a percorrere un labirinto dove mi perdevo. Qualsiasi strada prendessi sembrava essere quella sbagliata. Ora, invece, sembra che non abbia più bisogno di trovarne una perché ci sono mille cartelli stradali che mi guidano in un solo luogo: l'Arena. Mi comprendi, vero? Tu spiegami come hai fatto a trovare la tua di strada. Ricordo quando ci siamo trovati. Io ero sull'ennesima strada sbagliata e tu, fortunatamente, eri sulla stessa. Destino? Qualcuno aveva previsto che io e te dovessimo incontrarci in quel secondo, in quel minuto, in quell'ora, in quel giorno, in quella strada?
Non ringrazio altro giorno al di fuori di quello. Se, per tutte le altre volte che mi sono smarrito, avessi trovato un altro regalo come quello avuto quel giorno, mi sarei perso più volte volontariamente. Il treno, però, passa una sola volta, eh? Come quello che mi ha portato qui, a Capitol City. Per me quel treno passerà una sola volta perché non prenderò quello che mi riporterà a casa. Già, non lo prenderò quel treno.
Tu verrai a prendermi? Verrai davanti all'Arena e mi porterai con te da qualsiasi parte? So che restando solo mi perderò su qualche altra strada. Se non verrai, io e te ci incontreremo al bivio. D'altronde mi stai aspettando: almeno questo me lo devi.
Non importa quanto tempo ci metterò, con quante cicatrici arriverò, con quanta forza compirò il viaggio, tu mi stai aspettando. Arriverò, tu aspettami. Arriverò e potremmo percorrere, di nuovo, quella strada che ci ha fatto incontrare. Sarà la volta buona che troverò la strada giusta da percorrere con te.
Aspettami.
- Tuo, C. Snow.
Ti regalo, nei miei pensieri, una rosa bianca. Ne colgo altre per quando arriverò da te.

Sono sotto la doccia.
Una mano tecnologica mi gratta il capo e un'altra mi spalma del bagnoschiuma profumato sulla schiena. Nel frattempo, sulle ante, viene trasmesso un video che staranno vedendo i cittadini in televisione. Si vedono varie battaglie, allenamenti, tributi che si parlano, si sputtanano, si odiano. Partono, dopo un po', i commenti. Decido di cambiare canale perché non ho voglia di riempire la mia testa con le chiacchiere degli altri. Scorro con il dito sul vetro e parte l'inno di Panem.
«Wow, di bene in meglio!»
Smetto di farmi la doccia e imposto la modalità "asciuga". Da dove scorreva l'acqua, adesso esce un fumo che mi sta asciugando completamente, anche i capelli.
Dopo essere uscito, mi vesto e mi guardo allo specchio. Anche questa è una notte burrascosa. Fuori sta piovendo, dentro di me sta piovendo.
La pioggia mi ha sempre agitato.
Decido di volermi distrarre e faccio quello che ho fatto tutte le notti: lascio la mia stanza. Questa volta non andrò a rifugiarmi da Victor, col cavolo che vado da lui. Vago, dunque, nel Palazzo senza una meta precisa. Quasi mi spaventa l'assenza di rumori in questi corridoi. Non sento degli spifferi, delle voci, dei rumori, dei lamenti, dei pianti. Come fanno tutti gli altri a dormire? Non la sentono anche loro quest'ansia nel cuore? Siamo dei condannati alla morte!
Avrei dovuto soddisfare i miei bisogni, vivere all'estremo, godermi quello che mi veniva offerto e che mi sarei dovuto prendere, ridere di più e non farmi mettere i piedi in testa da nessuno. Avrei dovuto fare tante altre cose. Io, però, non ho osato. Ho lasciato che decidessero per me, che mi dicessero cosa fare e chi essere. Non dovevo, non devo!
Da lontano scorgo tre figure che subito riconosco: il Favorito, Tacito, la ragazza del distretto 11 e, stranamente, Level.
«Cosa cavolo sta facendo?»
Impulsivamente mi nascondo dietro un pilastro e spio l'allegra combriccola. Vorrei capire perché Level stia parlando con Tacito. Lo abbiamo classificato come un nemico indistruttibile e lei ci sta avendo addirittura una conversazione? Improvvisamente gli specchi cambiano colore: infatti diventano di color viola. Inizialmente non mi preoccupo ma lo faccio quando vedo che i tre ragazzi fanno caso a questa particolarità.
«Cavolo, gli specchi stanno interpretando il mio stato d'animo!»
Inizio ad agitarmi perché sono stato scoperto per una stupidaggine. Tacito si guarda intorno e la ragazza del distretto 11 resta immobile. Io prego che non mi vedano. Chiudo gli occhi e, come un bambino in preda al panico, spero di diventare invisibile. Dopo un po' non sento più le voci dei tre ragazzi ed esco lentamente allo scoperto.
Sono andati via.

Stamattina la piramide di vetro ha un nuovo colore. È tutta rossa. La tecnologia di Capitol City è spaventosa: riescono a trasformare mille cose in un secondo. Anche se non c'è molto da meravigliarsi: se riescono a trasformare 24 ragazzini in piccoli finti gladiatori, quale grande fatica sarà per loro cambiare d'abito ad un palazzo?
Prima di entrare nella sala principale, guardo il mio riflesso nello specchio e mi chiedo se quello sono davvero io. Oltre ad accorgermi dell'assurda quantità di specchi che vi sono in questi Palazzi, mi soffermo completamente su di me. I segni della stanchezza sono visibili da lontano e lo sono anche quelli della lotta interiore ed esteriore.
Come sempre fatto, raccolgo i miei pezzi rotti e provo ad attaccarli per poter combattere questa nuova giornata: l'ultimo giorno d'addestramento. Riflettendoci, cosa ho imparato finora? Poco e niente. Tre giorni sicuramente non bastano per poter diventare un guerriero. Se lo sei già da prima dei Giochi, potresti essere il Vincitore. Se non lo sei da prima, parti svantaggiato. Io sono un mezzo e mezzo.
Oggi ci concedono la possibilità di batterci uno contro l'altro. È come se dovessimo sondare il territorio prima di entrare in quella strana e ancora sconosciuta Arena che ci ospiterà.
Io, in realtà, non ho proprio le forze di volermi mettere a combattere, a dare cazzotti e pugni o mordere qualcuno che potrà uccidermi.
Appena entro nella sala vedo che è Søren che sta sperimentando le sue abilità contro Ermen, la Favorita del distretto 1. Io non mi concentro affatto a controllare l'esito della simulazione. Più che altro controllo Level. Dopo averla vista la sera precedente con Tacito, vorrei capire quello che sta facendo. La vedo controllare i movimenti di Søren, si sofferma proprio su di lei.
Vengo distratto da Ermen che scatta come una molla e si aggrappa violentemente a Søren.
Mi basta vedere quella scena per capire che la ragazza del distretto 1 è poco paziente e desiderosa di vittoria.

Altri stupidi spettacolini e inutili battaglie. A che serve dimenarsi come pazzi scatenati in questa sala di simulazione quando, tra qualche giorno (per l'esattezza due), dovremo far vedere davvero in cosa consistono le nostre abilità nell'Arena?
È il turno di un altro ragazzo: questa volta si tratta di Tacito che sceglie di sfidare, tra ventitré tributi, me.
Lui mi guarda come se fossi la sua preda, il cervo che presto sarà sulla sua brace. Io lo guardo con la consapevolezza che lui sia il mio cacciatore, quello che centrerà l'obiettivo, quello che, con un solo proiettile in canna, riuscirà a colpirmi il cervello e stendermi a terra. Sono il suo pasto, non aspetto altro che essere cotto e salato al punto giusto.
Non ci tocchiamo, non ci colpiamo, non ci sfioriamo se non con lo sguardo che sa essere più importante di ogni pugno. Riesce a inquietarmi, a rendermi teso. Quindi, proprio come farebbe il cacciatore schiacciando il grilletto, lui crede che questo sia il momento giusto per attaccarmi e scatta verso di me. Corre con poca grazia, lo si potrebbe paragonare a una bestia. Arrivatomi di fronte mi sferra un pugno dritto in faccia. Sento le urla degli altri e io sono fermo a pensare che questo stronzo mi ha dato davvero un pugno in faccia.
«Sai che è una simulazione e non l'Arena?»
Non so con quale coraggio riesco a dire questa frase ma a lui poco importa. Mi sorride e mi dà un altro pugno.
«E tu lo sai che sei già un morto che cammina?!»
Cerca di darmene un altro ma lo evito e lui fa tre passi in avanti, come se stesse per cadere visto che ha mancato il colpo.
«Almeno cammino ancora... Tu, invece, hai dimenticato come si cammina? Ti muovi come se fossi un animale.»
«Meglio essere animali che uno debole come te!»
«Beh, io non ho specificato a quale animale somigli.»
Ora sorrido io. Mi è sempre piaciuto vincere con le parole: ho attestato ciò anche dopo il litigio con Victor. Tacito, nel respirare in modo forte, perde delle cose dal naso, si morde la lingua e stringe le mani in due pugni fino a farsi entrare le unghia nella pelle.
«Ti ammazzo, nome da rincoglionito.»
«Per questo tutti mi chiamano Snow, è più diretto.»
«Come il mio calcio nelle palle che sto per darti.»
«Prendimi, se ci riesci.»
Così io inizio a correre e lui vuole raggiungermi ad ogni costo. Peccato che non mi bastino neanche tre secondi di vantaggio perché cado in una trappola. Infatti nella sala di simulazione vi sono anche degli ostacoli, proprio come se fosse l'Arena vera. Tacito rallenta, sicuro di avermi già preso.
«Non è stato poi così difficile raggiungerti.» - ed ecco che mi dà un calcio in faccia. - «I testicoli me li conservo per quando ti ucciderò nell'Arena.»

Mi tocco il naso, mi fa un male atroce. La medicina di Capitol City ha reso presentabile il mio volto pieno di lividi e sangue ma, anche se sembrano essere guarite le ferite, non riesco a mantenere la testa poggiata sul cuscino. Non credo, però, che sia un il viso a impedirmi una buona dormita ma il mio solito problema: questa stanza, di notte, è la peggiore Arena che io debba affrontare. Tanto per cambiare, esco e corro verso l'ascensore per andare da qualche altra parte. In neanche dieci secondi sono davanti ad una mia probabile via di fuga. Appoggio una mano sulla superficie della porta. In momenti come questi penso a quanto io sia uno sciocco. Si può fare così? Si può cercare di essere indifferente verso una persone e poi presentarsi davanti alla sua porta? So che non si può fare così, ma la notte arrivano i demoni a farmi visita nella stanza e, quando succede, io vorrei non essere lì. Poggio anche l'orecchio come se volessi ascoltare ciò che succede dentro. Poi, però, la porta si apre.
Indietreggio di due passi perché resto sorpreso dal fatto che la porta si sia aperta. Aspetto che succeda qualcosa, che qualcuno mi sbrani o che qualcuno mi chieda perché origliassi ma non succede niente di tutto ciò. Allora decido di spingere la porta ed entro nella stanza.
Come tutte le stanze, la luce splende in ogni singola stanza. Come nella mia, ci sono quadri del Presidente Morse, delle Arene, dei Tributi Vincitori. Oltrepasso il corridoio e trovo Søren completamente nuda, in bagno, che sta provando a infliggersi ferite alla gamba. In mano ha una specie di bisturi che avrà sicuramente rubato nel Centro di Addestramento. Sulla gamba già vi sono alcuni segni di sangue.
Io e lei ci guardiamo sconvolti.
«Cosa stai combinando?» - parlo a bassa voce per paura che faccia qualcosa di sconclusionato. Con le mani si copre il seno e il taglio sulla gamba. È arrossita, il suo respiro è lento, gli occhi lucidi.
«Cosa cazzo ci fai nella mia stanza?»
Subito si trasforma nella ragazza dura e pungente che, quindi, finge di essere quando sta con tutti gli altri. Cerco qualcosa che possa indossare e gliela passo. Lei mi indica di girarmi e io lo faccio.
 «La porta doveva essere socchiusa e si è aperta.»
«E perché tu eri davanti la mia porta?»
Non so cosa risponderle. Le potrei dire che ho sfiorato casualmente la sua porta perché curioso di capire come mai ci fosse una porta aperta.
«Avevo bisogno di uscire.» - opto per una mezza verità.
«Però non sei uscito, sei entrato in un'altra stanza.»
«Intendevo dire...»
«Intendevi dire...?»
«Intendevo dire che avevo bisogno di uscire dalla mia di stanza. Tu perché stavi facen...?»
«Da quando siamo amici e io devo dirti quel che faccio? Mi sei sembrato chiaro sin dall'inizio: non vuoi alleati, non vuoi amici, non esiste nessuno se non tu.»
Mi giro. Lei ha ancora quel bisturi in mano ma almeno è coperta.
«Io non ho mai detto che esisto solo io!»
«Distretto 2, cosa vuoi?»
«Quella che non vuole alleati e amici sei proprio tu. Per non affezionarti a nessuno, ci chiami tutti Distretto e non per nome.»
«Dovrei chiamarti Snow che non è neanche il tuo nome?»
«Beh, differenziati e chiamami per nome ma non dire a qualcuno cosa fare e non fare se tu sei la prima che non sa niente.»
«Fatto sta che io, almeno, agisco, faccio qualcosa per sopravvivere. Tu sei solo parole.»
«Sopravvivere? Ma se stavi per tentare il suicidio o chissà cosa e, poi, solo perché uso le parole sarei debole? Le parole sono armi più forti di quello schifo che hai in mano. Mi spieghi cosa stavi facendo?»
«Io non ti spiego un bel niente.»
In effetti chi sono io per obbligarla a parlare e, addirittura, perché devo stare fermo a fissare un'altra persona che decide di andarsene via? Sono stufo di vedere persone che vanno via.
Sono io ad andare via questa volta. Non le dico neanche che sto per uscire dalla sua porta perché non avrebbe senso farlo. Vado via, basta. Sto aprendo la porta quando lei inizia a parlarmi.
«Aspetta! Forse questo è un segno del destino.»
«Scusa?»
«Sai cos'è il destino, vero?»
«Certo che lo so, mi hai preso per uno stupido?» - mi volto.
«No, ti ho preso per uno che entra nelle stanze degli altri e niente più.»
«Io non entro nelle stanze delle persone così, tanto per. Avevo bisogno di evadere dalla mia stanza, dai miei demoni e... lascia stare, non puoi capire e io sono uno stupi...»
«Anche io ho i miei demoni!»
Passa un momento di silenzio che basta per farci capire che, in realtà, io e lei possiamo comprenderci, aiutarci a vicenda.
«Ogni sera sogno un campo di capitoline. Hai presente quei fiori bianchi con lo stelo corto?»
Faccio cenno di sì e sorrido: provo una strana e assurda felicità nello scoprire che, egoisticamente, qualcuno prova un dolore simile al mio.
«Bene, ogni sera sento il profumo di capitoline. Sono gli unici fiori che mi donano allegria, che sanno farmi scoppiare di vita. Mia zia mi raccontava che, quando era piccola, le avevano insegnato a fare un gioco con i petali. Si chiamava "m'ama, non m'ama". Questo gioco consiste nello strappare uno ad uno i petali. Se, strappando l'ultimo petalo, hai detto "m'ama", lui allora ti ama. Se, invece, è rimasto "non m'ama", lui non ti ama. Stupido come gioco, vero? Lasciare che il tuo destino lo scelga un petalo è la cosa più assurda che io abbia mai sentito.»
Io sono ancora fermo sulla soglia ma lei mi prende per mano e mi accompagna nella stanza. La sua mano è soffice, delicata. Le dita sono così piccole che le mie sovrastano le sue.
«Io, prima della Mietitura, ho colto venticinque capitoline, tante quante le edizioni dei Giochi, e ho fatto questo gioco come se fossi una stupida bambina. Strappavo i petali e dicevo: "sarò pescata, non sarò pescata". L'esito della prima capitolina era negativo, il mio nome non sarebbe stato preso. Oltre ad altre sei, l'esito delle altre diciassette si rivelò disastroso perché ognuna di loro mi confermava che io sarei stata una giocatrice a tutti gli effetti. Sinceramente? Mi spaventai. Con l'ultima capitolina rimasta, chiesi: "vinco, non vinco".»
Si blocca e una lacrima le riga il viso.
«Coriolanus, » - mi chiama per nome - «cosa ti ha fatto cambiare? Che ci fai qui, vicino a me?»
«Te l'ho già detto: scappavo dai miei demoni.»
«I miei di demoni, ieri notte, sono entrati nei sogni e hanno distrutto tutte le capitoline.»
«Ehi, lo hai detto stesso tu, non puoi lasciare che il tuo destino lo scelga un fiore... figuriamoci un sogno. Sarà stato un caso quello che è successo prima della Mietitura. Non era, però, un caso che tu avessi quel coltellino in mano. Perché stavi provando a fare quel che facevi?»
Le asciugo la lacrima con la manica della mia camicia e lei si attacca a quel contatto, stringe forte la mia mano come se si stesse cullando con quel tocco umano. Io lascio stringermi. Come lei, anche io ho bisogno di un qualcosa che mi ricordi la bontà di questo mondo, che non sono solo, che qualcuno ha ancora un cuore che batte e non una mente per scommettere e due occhi per stare a guardare.
«Ho pensato che, tagliandomi una gamba, avrei potuto evitare l'Arena. Stupida, eh? Io, poi, non ho sentito più niente: le capitoline erano inodori. Deve essere un segno della mia fine.»
«Prima di tutto, temo che con quel coso non ti saresti tagliata nemmeno metà gamba...» - cerco di sdrammatizzare questo attimo pieno di tensione e lei accenna una risata tra un singhiozzo silenzioso e l'altro - «... e solo perché non senti l'odore dei fiori non vuol dire che...»
«Coriolanus, sai perché mi piacciono così tanto le capitoline? Per la loro storia. Leggenda vuole che le capitoline siano quei pochi fiori che nascono dalla terra senza l'aiuto della tecnologia di Panem. Esistevano già mille anni fa, mi sembra che le chiamassero margherite.»
Ricordo questo nome. Inizio a ricordare anche i colori di questi fiori e i loro petali. Era stato, ovviamente, Livius che mi aveva fatto vedere le margherite, le capitoline sui suoi libri.
«Io vorrei essere una capitolina. Anzi, meglio, vorrei essere una margherita perché, se dico capitolina, sembro ancora così legata a Capitol City. Le margherite si salvano, sempre. Anche se il vento le sbatte qua e là, la gente le coglie, le strappa alla terra e i miei demoni le distruggono, le margherite si salvano. Io sarò salva? Potrò essere autonoma e libera da tutta Panem? Sarò, anche con tutto questo disastro attorno a me, ancora salva?»

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Capitolo 15
*** Sii ***


14. Sii

«Snow, allora, mantieni la calma e prova a rilassarti. L'ansia e lo stress non ti aiuteranno di certo.»
Caesar mi aggiusta la tuta. Si lecca la mano e l'avvicina al mio capo. Io mi scanso di fretta per non essere toccato dalla sua saliva che, anche se fosse oro colato, mi farebbe ribrezzo. Cosima, da dietro, sta mettendo in scena una pantomima. Infatti fa finta d'impiccarsi perché non ne può più di tutte le parole di conforto che Caesar mi sta dando.
È da quando sono arrivati che lui mi dice cosa fare e cosa non fare. Mi vuole perfetto, ma io non posso esserlo. Questo lavoro dovrebbero farlo con Level che continua a tenere nascosto, almeno a me, il suo incontro notturno (e chissà quanti altri ne avrà avuti). Dovrebbero davvero puntare più su di lei che su di me. Io cosa posso offrire? Solo una storia strappalacrime. Level può donare adrenalina, segreti e storie da infarto. Lei non è quella che sembra, nessuno di noi lo è.
«Insomma, mi ascolti?» - Caesar sbuffa - «Ha ragione Victor.»
Appena sento quel nome mi crolla il pavimento sotto i piedi. Anche se non l'ho visto per tutta una giornata, Victor è diventato uno dei miei semi-demoni a causa di quello che è stato, per me, un tradimento.
«Allora, Snow, ascolta me, Cosima "sono una gran figa" Flickerman, conosciuta anche come la donna più brava a letto, e non Caesar "non so godermi nemmeno una serata del cazzo" Flickerman. Sii stronzo, sii forte, sii distruttivo, sii pessimo, sii stravolgente, sii brutale, sii sadomaso, sii tu alla massima potenza. Ti voglio senza zucchero, ti voglio divampante, ti voglio tossico, ti voglio. Quindi, come se fossi eccitato perché davanti a te c'è una che vuole prosciugarti, distruggi il guinzaglio che tiene a bada la bestia che è in te e vai, attacca! Non c'è niente da guadagnare e niente da perdere: c'è solo da vivere! Ok?»
Cosima si aggiusta gli occhiali da vista che oggi indossa, mi carezza la guancia e lentamente fa scendere la sua mano sul cavallo dei miei pantaloni. Di solito mi sposterei ma questa volta non lo faccio perché voglio seguire il consiglio di Cosima. Finora mi sono lamentato del fatto che non ho vissuto a pieno, allora perché non iniziare a farlo? Voglio essere tutto ciò che ha detto Cosima, voglio essere come un fuoco che incendia le stanze più buie di una casa disabitata, voglio lasciare solo cenere tanto lo stupore che causerò.
Il primo stupore, infatti, nasce in Cosima che sorride divertita perché, passati qualche secondi, sta abbassando la zip della mia tuta. Si avvicina di più a me e mi sussurra parole all'orecchio.
«Questo è il mio porta fortuna per te. Ti ricorderai di me ogni volta che penserai alla tua prima vera e forte erezione. Insomma, chi non si ecciterebbe se una come me gli stesse toccando l'amico e gli stesse dicendo che deve essere un grande?»
Caesar si copre gli occhi esterrefatto e borbotta qualcosa tra sé e sé. Non gli sono mai piaciuti i modi della sorella. Cosima, alla fine, si ferma e mi spinge in avanti mostrando una faccia ancora più sorpresa di quella di prima.
«Ragazzi, io faccio la porca ma neanche lui scherza. Voleva davvero che gli facessi qualche servizietto davanti a voi. Che sfrontato questo Snow!»
Tutti scoppiano a ridere e io registro il viso di Cosima nella mia memoria. Voglio lasciare intatto il ricordo di questa donna che, a differenza di tutte le altre persone, è l'unica che sembra mantenere la sua personalità sempre e comunque. Con lei è tutto più semplice, facile. Lei sa giocare, lei sa farti ridere, lei sa cosa vuol dire farti dimenticare il peggio. Dovrebbero esistere più persone del genere su questo mondo e, preferibilmente, non essere uccise da qualcuno. Che senso ha creare persone fantastiche se poi devono morire?

Siamo in una sala, uno spazio dedicato al distretto 2. Qui vi è uno schermo gigante che trasmette una scaletta con i nomi di ogni tributo, il distretto di provenienza e una nostra foto. Sullo schermo possiamo, inoltre, vedere un cronometro che parte da dodici minuti. Infatti ognuno di noi ha dodici minuti di tempo per stupire questa giuria che dovrebbe darci un punteggio che va da 1 a 12. Tutto ciò solo per accaparrarmi degli Sponsor. In questa storia io ci vedo solo la doppia beffa: oltre a dover morire prossimamente sui migliori schermi, devo essere anche giudicato. Insomma loro hanno in mano una penna magica che dice se moriremo prima o dopo. Che penna di merda! Per favore, evitiamo di dare dei fogli a questi malati.
Il tempo che scorre mi mangia. Anche se volessi essere tossico, divampante e tutto quel che Cosima vuole, io sto perdendo tutta l'adrenalina e l'energia per dare spazio a gambe che tremano, mani che sudano, voce che diventa debole.
Level sta parlando con Victor che deve stare obbligatoriamente con noi, io mi tengo a debita distanza. I due potrebbero, in effetti, essere grandi amici visto che entrambi sono una specie di traditori. Dovrebbero creare uno stand nell'Addestramento per il tradimento, ormai è una moda che non passa indifferente.
Lo schermo di fronte a noi diventa del tutto blu e appare la foto di Level. Una voce computerizzata la informa del fatto che è il suo turno. Victor le fa un cenno e lei ci guarda per cercare sostegno o per qualcos'altro che sinceramente non so. Rimasti da soli, io e il mio mentore ci ignoriamo. Io tamburello le dita sul tavolo, gioco con le unghia, faccio grandi bei respiri per far passare un po' quel dolore alla pancia. Lui, a braccia conserte, si guarda intorno, fischietta, si morde il labbro. È assurdo: siamo così vicini e mai stati così distanti.
Una volta lì dentro, dovrei sorridere e leccare culi? Immagino di essere diventato, in modo alquanto triste, un prodotto di Capitol City (come un detersivo o un nuovo dispositivo cellulare della Peach, l'industria di tecnologia più avanzata del distretto 3) che ha bisogno di pubblicità per essere venduto meglio.
Passati i famosi dodici minuti, arriva il mio turno: devo riuscire a farcela.
Prendo un gran bell'ultimo respiro, mi alzo e mi avvio verso la stanza dell'esame finale.
«Snow...» - Victor mi chiama e io, dopo tutto, mi fermo - ...ricorda le parole di Cosima!»
Mi vien quasi da piangere. Una sua parola ha saputo dare un colpo sordo a tutto il mio essere. Una persona così debole, quale io sono, può essere davvero una furia, una distruzione?
Non mi volto, non tanto per cattiveria ma perché non voglio fargli capire che lui ha ancora un potere su di me, e vado avanti. Entrando nella stanza, già da lontano, scorgo molte diavolerie: armi, corde, massi e altre cose che riconoscerò solo quando mi sarò avvicinato.
«Tributo del distretto 2, hai solo 12 minuti per poter mostrare le tue capacità. Può usare tutto ciò che è nella stanza. Cominci!»
La giuria mi guarda per un attimo e iniziano a parlare. Non so di cosa stiano parlando ma questo atteggiamento mi dà fastidio: io sono qui, mandato a morire, e voi non mi degnate neanche della vostra attenzione?
«Tributo del distretto 2, ha capito le regole? Devo ripetergliele?»
Mi guardo attorno. Capisco che c'è qualche telecamera nascosta che spia questo incontro perché, se non sono loro a parlare, lo è qualcun altro dietro a un microfono che io non posso vedere.
Ora la giuria mi analizza. Qualcuno strizza gli occhi, qualcuno ride, qualcuno sbuffa anche. Allora uno dei dodici si alza e schiocca le dita proprio di fronte al mio naso.
«Stai dormendo?»
Decido di non muovermi. Resto impassibile e chiudo le palpebre per fargli credere che io stia dormendo come lui ha detto.
Non so cosa faccia in seguito il signore ma lo sento parlare.
«Ma dove lo hanno preso questo? Non avevo mai visto un Tributo così. Questo è davvero stupido, sarà il primo a morire.»
In quel momento, apro di scatto gli occhi e gli urlo addosso.
Lui sobbalza e mi guarda sconvolto. Ora tocca a me, davvero. Ho colto la loro attenzione e io posso diventare quel fuoco che si accende, divampa e distrugge. Do uno schiaffo sul tavolo di acciaio e un tonfo si propaga per tutta la stanza. Continuo a urlare e butto a terra tutto ciò che è sospeso in aria o si trova sui tavoli. Dei secchi, cadendo, si aprono macchiando il pavimento di variopinti colori. Decido, quindi, di macchiarmi le mani con la tempera rossa. Dopo li guardo e sorrido.
«Bum!»
Come fa un pazzo squilibrato, sbarro gli occhi, sorrido, mostro loro i miei denti e inizio a toccarmi tutto iniziando a somigliare a qualcuno che sta morendo dissanguato. Metto le mani sul mio collo come se mi stessi strozzando, poi salgo sulle guance, sugli occhi e tiro all'indietro i miei capelli. Ora punto ognuno di loro con l'indice e porto, prima, le mani agli occhi.
«Non vedete.»
Le porto alle orecchie.
«Non sentite.»
Infine mi copro la bocca.
«Non giocate!»
Rido a crepapelle pensando che quello che sto facendo è così insensato e surreale che potrebbero chiudermi in un Palazzo d'Isolamento e lasciarmi marcire in una prigione. Perciò, o la va o la spacca. Ritorno a macchiarmi le mani con la tempera e mi avvicino a loro. Sento la voce di Caesar, di Cosima, di Victor, di Livius e agisco senza pensarci troppe volte. Inizio a scrivere delle cose sulle maglie della mia giuria. Uno degli undici che sono seduti mi blocca, ma quello restato in piedi che mi ha preso in giro qualche secondo fa (colui che mi piace chiamare "il dodicesimo") dice loro di lasciarmi fare.
Mi allontano da loro quando finisco la mia opera d'arte e mi avvicino all'ultimo immacolato del gruppo, al dodicesimo. Su di lui, un semplice punto esclamativo.
«Cosa ha scritto il tributo?» - chiede uno dei giudici.
«Per ognuno di noi una lettera...» - afferma il dodicesimo - «...ha scritto una B, la A su di te, una S, quella è una T, un'altra A, una M, una O, una R, una S segnata da una bella X, una T e una E. Su di me cosa ha scritto?»
«Ha disegnato un semplice punto esclamativo.»
«Cosa vuol dire Basta Morste?» - chiede l'unica donna del gruppo.
«Non ci vuole di certo un robot. Basta Morse, o meglio, basta morte!» - il dodicesimo sorride, divertito da tutta la situazione che sembra averlo colpito dolcemente.
Gli altri, invece, mi guardano chi in modo indignato, chi in modo stupito, chi in modo confuso.
Ritorna a parlare la voce elettronica che ha spiato tutto: mi dice che il tempo è finito. Io son felice di averlo usato al meglio!
«Ah, miei cari, felici Hunger Games! Possa la fame essere sempre a vostro favore.»
Sto diventando sempre più bravo a fare le grandi uscite.

«Una tazza di thè, Snow?»
«No grazie!!!»
Da quando ho scoperto che Victor mi avvelenava i vari bicchieri di thè, ho smesso di berne. Poco importa se me lo offre Victor o, come in questo caso, Caesar, io ho ormai paura di tutto ciò che non è un liquido trasparente.
«E allora? Volete raccontarci ciò che è successo o volete farci morire? Sarebbe più emozionante scaccolarsi guardando due zaranne che girano intorno alla stanza invece di stare a parlare con voi.»
«Cos'è una zaranna?»
«Ma dove vivete? Nel distretto 13 inesistente?» - Cosima batte le mani e rivolge lo sguardo verso il cielo. - «Bando alle storiacce, cosa è successo là dentro? Cosa dobbiamo aspettarci?»
Level, dopo aver inserito un po' di succo di limone nel suo thè, inizia a raccontare il suo incontro con i fantastici dodici. Ha optato di sorprenderli sparando ai manichini. Io guardo altrove pensando che ha scelto il modo peggiore per farsi conoscere. Insomma, chi di noi tributi ormai non sa come si spara? Forse solo la più piccolina, ma tutti gli altri hanno usato nell'Addestramento, almeno una volta, il fucile o la pistola. Inoltre dice di aver centrato, per tutti i manichini, il cuore.
Son sicuro che la mia faccia abbia un'espressione che spiega tutto il mio rammarico nel sentire queste cose. Davvero Level crede di aver dato il meglio di sé così? O ci nasconde qualcosa (tanto per cambiare) o davvero ha fatto questa cosa. Preferisco la prima soluzione. Anzi, no. Ho una folgorazione: ha usato la pistola perché il suo amichetto Tacito le ha insegnato ad usarla. Quale pistola, poi?
All'improvviso guardo Cosima e resto quasi paralizzato perché capisco che sto iniziando a pensare come lei facendomi film mentali porno.
«Cos'hai persona che voleva farmi giocare con i suoi gioielli di famiglia prima di entrare a far vedere chi sei?» - mi chiede Cosima.
«Niente, persona che vede anche un ago in mezzo ad un labirinto.»
«Non parlarmi di labirinti, per favore. Sono ancora scioccata dall'ultima volta che ci sono stata.»
«Perché sei stata in un labirinto?»
«Beh, vuoi conoscere la versione vietata ai minori o quella censurata?»
«Credo che io voglia ascoltare... nessuna della due!»
«Non sei per niente divertente, peggio di Caesar.» - Cosima sbuffa per poi aggiustarsi gli occhiali. - «Tu cosa hai fatto là dentro? Li hai stupiti?»
«Peggio, li ho fatti pensare, quasi bruciare!»
«Oddio, ti posso chiamare il ragazzo di fuoco, ora?»
«Per favore! Sono stato divampante, ho dato loro fuoco ma il fuoco si spegne... prima o poi.»
«Tu avrai difficoltà a spegnerti!»
Ormai io e Cosima abbiamo monopolizzato la conversazione, la stanza. Siamo noi i protagonisti di tutto e tutti, la mia storia lo è.
«Allora, Snow...» - Caesar riesce a intrufolarsi - «...spiegaci cosa hai fatto. Dopo dovrà accendersi automaticamente lo schermo perché ci comunicheranno il punteggio che voi due avete ottenuto e, infine, dovremo prepararci per l'intervista di domani.»
Un punteggio, poi l'intervista. Mi sento del tutto spersonalizzato. Prima di essere, infatti, una persona, sono un numero, poi una storia, poi un agnello per il sacrificio. Insomma, non dovrei più considerarmi una persona, ma un giocattolo difettoso che sarà buttato nel dimenticatoio.
«Io ho...»
Non ho neanche il tempo d'iniziare a raccontare ciò che ho combinato che si accende lo schermo. Appare il viso, il faccione di Caligula Collosso che dà il buonasera a tutti noi di Panem. Dopo essersi vantato degli abiti che indossa, dei capelli che ha e delle donne che ha avuto nel letto la sera precedente, inizia finalmente a parlare di ciò che davvero è importante: i punteggi. Sceglie di partire da colui che ha il punteggio più alto fino a scendere in basso. Nessuno di noi prende 12 punti perché si parte da Ermen e Tacito che ne prendono 11, poi ci sono i ragazzi che hanno preso 10 punti, Søren e Level hanno preso 9, Falloppio ha preso 8 e Loto, la più piccola, ha preso 7. Continuano a scorrere immagini e nomi ma io sembro essere invisibile, innominabile. Sembra essere finita la lista e del mio nome neanche l'eco. Guardo Cosima e inizio a rendermi conto di aver combinato una grande cazzata. Ho fatto il pazzo e ne sto pagando le conseguenze.
Infatti eccomi là, sullo schermo. Accanto a me un solo numero: 1.
Sorrido, imbarazzato al massimo. Io sono quello che ha preso il punteggio più basso, quello che gli Strateghi definirebbero "un tributo morto in partenza" e Cosima, capendo quel che provo, lascia la stanza. Così la inseguo. Mi aspettavo da lei una battuta, una pacca sulla spalla o qualche carezza per poi iniziare una chiacchierata spinta.
La chiamo più volte e lei non si volta. Continua a correre, a fuggire dalla mia voce, dai miei occhi, da me fin quando non si accascia in un angolo.
«Cosima, che c'è?»
Alza lo sguardo e ha gli occhi rossi.
«Non voglio che tu muoia.»
Vorrei tanto dirle che non succederà, che io resterò accanto a lei perché lo voglio davvero, ma non posso farle una promessa del genere: mai fare promesse che sai di non poter mantenere.

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Capitolo 16
*** Niente è troppo poco ***


15. Niente è troppo poco
 
L'ultimo giorno.
Mi sono sempre chiesto: come fa una persona a vivere come se fosse tutto normale quando sa di dover morire in un determinato giorno? Lo so, questo non è il mio ultimo giorno da vivo ma, in qualche senso, lo è. Domani entrerò nell'Arena, sarò lì e non posso fare niente per evitarlo.
Siamo tutti e ventiquattro i tributi qui, nello studio, per poter essere intervistati da Caligula e le nostre reazioni sono completamente diverse l'una dalle altre.
Riuscirò a sorridere una volta davanti la telecamera? Riuscirò a rispondere alle domande che Caligula mi farà? Riuscirò ad interpretare il ruolo del bravo tributo del distretto 2? Mi preoccupo così tanto di quello che dovrei fare che quasi non mi interessa veramente della realtà che mi circonda.
Mi soffermo, poi, a ricordare quello che ho fatto in questa data memorabile.
Stamattina stare nel letto sembrava essere più una tortura che un momento di relax e spensieratezza. Quindi mi sono alzato, ho lasciato che uno dei miei camerieri mi vestisse (anche se sembra così disumana come cosa) e sono uscito fuori da quella stanza/prigione. Io e Cosima non abbiamo parlato molto. Da quando è successo quello strano episodio dopo l'intervista, è diventata più taciturna. Il rapporto con Victor continua ad essere inesistente. Per non parlare di Level. L'unica persona che ha cercato di parlare con me è stato Caesar che preparava noi tributi per l'intervista di stasera. Così anche il pomeriggio.
Ora stanno intervistando Tacito. Ha mostrato i suoi muscoli quando è arrivato sul palco e delle ragazzine hanno invaso il palco, una ha cercato anche di rubargli la maglietta. È stato uno spettacolo pietoso, come lui. Mentre parla, mi aggiusto la tuta. Ci hanno fatto indossare, di nuovo, quelle che abbiamo indossato alla Sfilata. Questa volta, però, ho potuto scegliere se indossare la tuta che hanno indossato i tributi l'anno scorso (il primo tipo del nostro abito), quella con gli spari (il secondo tipo) o quella che brilla (l'ultimo tipo). Io ho scelto d'indossare la tuta con i proiettili incastonati che, in alcune parti, è bucata mentre Level ha addosso quella che brilla.
Ecco il mio turno, devo andare io! Cosima mi massaggia le spalle, Caesar mi aggiusta i capelli e sono pronto ad andare, ma mi bloccano perché c'è una piccola interruzione. Sul palco, infatti, Caligula annuncia che la mia intervista sarà speciale in quanto un personaggio importante ha scelto di voler intervistare uno dei tributi. Quel tributo, ovviamente, sarei io e il personaggio importante non è altro che... il Presidente Morse, ancora.
Siamo tutti sorpresi e, quando il Presidente mi chiama, qualcuno mi spinge sul palco.
«Il tributo del distretto 2!» - tutti applaudono e mi sembra così assurdo. - «Quanto onorato, o - no - ra - ti - sssssimo sei di svolgere la tua intervistuccia con me?»
Il Presidente Morse sfoggia un sorriso gigante, quasi allarmante. Come fa ad allargare così tanto quella bocca mi chiedo.
«Siediti, forza. Ti starai chiedendo perché io, il Pre - si - dente, abbia scelto d'intervistare te, vero?»
Non faccio nessun cenno o altro. Io non voglio, in effetti, sapere niente. Voglio solo che questa intervista finisca al più presto. Lui mi ha urtato già abbastanza. Basta vedere i suoi vestiti: indossa un frac rosso, nella tasca della giacca una rosa rossa, ai piedi ha delle scarpe di velluto.
«Beh, è semplicissimo: mi hai colpito sin dall'inizio. Poi ho saputo ciò che hai fatto al tuo esame con la Giuria e volevo capirti meglio. Allora, dimmi, sei pronto per i Giochi?»
Non rispondo perché sono catturato da tutto questo spettacolino. Tocco il contorno di uno dei proiettili impressi nel vestito con l'indice per sentire qualche strana sicurezza insensata, per potermi dire guerriero.
«Che c'è?» - fa una strana risatina - «Il gatto ti ha morso la lingua?»
Non lo nomina nemmeno che eccolo che sfreccia come se fosse una delle macchine più veloci progettata qui a Capitol City. Mohr, anch'esso di colore rosso, si posa proprio sui piedi del padrone, come se la stoffa delle scarpe non fosse altro che il suo cuscino, la sua culla.
«Io...»
«Tu?»
Mi ritrovo con la gola secca, nessuna parola da dire, nessun movimento da fare. Sono paralizzato e non capisco bene il perché. Odio così tanto questo uomo e questo ibrido che mi blocco.
«Io avrei un video per te, signorino. Voi che dite, mio adoratissimo popolo? Dobbiamo o non dobbiamo dare un premio di con - so - lazione a questo ragazzino che ha ricevuto solo un punto?»
Il pubblico urla di dovermi far vedere questo video, di darmi quest'unica cosa che posso avere. Parte il video!
«Chi è Snow?» - una voce fuoricampo chiede chi io sia.
«Un grande.»
«Ancora troppo piccolo.»
«Un criminale.»
«Un coglione.»
«Uno stronzo.»
«Uno debole.»
«Un duro?»
«Non mi esprimo.»
«Chi cazzo è Snow?»
«Un traditore.»
Più voci, a me sconosciute, danno una risposta alla domanda posta. Ecco, poi, delle immagini: il distretto 2 mentre scrive i nomi di noi ragazzi sui foglietti alla Mietitura, Livius che si spara, io che vengo proclamato tributo da Victor, il mio ingresso a Capitol City con annesso video in cui vengo incolpato per essere nemico della Capitale, la Sfilata, un mio allenamento, la prova con i sacchi e l'ascia, il combattimento con Tacito e, infine, io che auguro alla Giuria che la fame sia sempre con loro. Poi compare un'immagine del distretto 2: le montagne, il verde, le industrie e, alla fine, tutto il popolo che urla che è con me.
Il video si conclude e io scoppio a ridere. So che tutti mi stanno guardando, ma non riesco a trattenere le risate.
«Cosa c'è che ti fa ridere?»
Vorrei dirgli che mi fa ridere la messinscena a cui ho assistito. È esilarante sia lui che vuole apparire un santo quando, invece, mi vorrebbe uccidere con le sue stesse mani sia il popolo che, prima mi condanna a morte certa e, poi, dice di tifare per me.
«Niente.»
«Niente è troppo poco!»
«Penso che, allora, rido per troppo poco.»
Il gatto fa uno strano rumore e il Presidente lo invita a sedersi sulla gamba sinistra. Dopo punta me con l'indice e mi invita, come ha fatto con Mohr, a sedermi sulla sua gamba destra. Vorrei dirgli che io non sono un suo gatto, un suo giocattolo, una sua proprietà.
«No, grazie, peso.»
«Fidati: riesco a sopportare grandi pesi.»
Rimango seduto sulla poltrona ma lui, con incredibile potenza, mi prende il polso e mi tira verso di sé. Mi siedo automaticamente sulla sua gamba e lui inizia a passare le sue dita sulla mia schiena lentamente. Il gatto mi guarda in cagnesco, proprio così, e inizia a fare dei lamenti come se fosse geloso di quello che il suo padrone sta facendo a me e non a lui.
La situazione diventa ancora più inquietante quando sento le labbra del Presidente che si avvicinano al mio collo.
«Ho un'altra sorpresa per te, Snow.»
Arriva una donna sul palco. Sta portando uno di quei piatti coperti da un coperchio d'oro su un carrello e lei sorride. Voltandosi vedo che non è altro che la madre di Livius. L'ultima volta che la vidi emanava disperazione da tutti i pori. Ora sembra un'altra donna tranquilla e rilassata, sembra quasi che non mi riconosca.
«Prego, apra pure.»
La madre di Livius solleva il coperchio e io mi alzo da quella gamba scheletrica. Qualcuno del pubblico ha urlato ma regna il silenzio. Vedere la testa del mio migliore amico con un buco in fronte dove posso vederci attraverso è una delle cose più brutte e disturbanti che io abbia mai visto. Sto per vomitare e piangere allo stesso tempo.
«Credevo ti avesse fatto piacere rivedere il tuo amico. D'altronde questo è per ricordarti una cosa: bas - ta mor- te, bas - ta Mor - se, no? È quello che hai scritto.»
Il Presidente mi riprende di nuovo per il polso e mi tira a sé. Mi fa di nuovo sedere sulla sua gamba e mi stinge.
«Sei la mia scommessa più grande, il tributo su cui ho scommesso tutto! Il mio affetto per te... è pa - ri a quello dedicato al mio unico vero grande ami - co: il mio gatto, Mohr.» - mi dà un bacio sulla guancia come un padre fa con un figlio e mi accarezza. - «Qui nessuno ti è nemico. Siamo tutti con te, soprattutto io!»
Il popolo non potrebbe capire, ma io capisco tutto anche se la mia testa è su tutti altri orizzonti: lui vuole continuare a farmi credere che sia il distretto 2, Panem, tutti loro il mio nemico. Perché continua su questa strada?
Mentre io continuo a guardare, in lacrime, il viso del mio migliore amico, Morse ha fatto alzare me e il gatto e ha tolto la giacca facendo scoprire una camicia tutta bianca che ha delle macchie di rosso. Quelle macchie sono le impronte di mani. Il gatto vede quella camicia e inizia a miagolare ancora di più, come se la odiasse tanto quanto odia me. Poi faccio un'addizione e capisco che quel bianco non è altro che la neve del mio cognome e il rosso non è che il sangue che dovrò versare.
«Snow, per te non sono finite le sorprese. Sfortunatamente ho una notizia scioccante per te.»
Continua ad esserci silenzio se non fosse per i miei singhiozzi un po' soffocati e i vari rumori di Mohr che, attualmente, ha assunto una strana posizione, quasi gobba. Non capisco cosa voglia fare ma credo che quell'ibrido capisca fin troppe cose.
«Tuo fratello è venuto a mancare. Il giorno dopo la Mietitura.»
Ecco, mi crolla il mondo sotto i piedi. Non c'è mai fine alle torture, mai. Anzi, forse questo è davvero solo l'inizio.
«Venuto a mancare o fatto mancare?» - con una freddezza che a stento riconosco rispondo al Presidente. So che questo potrebbe costarmi una morte dura e atroce, ma cosa importa? Continuo a guardare il viso inespressivo e roseo di Livius. Qualcuno deve averlo truccato perché i morti non hanno quel colorito, non quelle labbra rosse, non quegli occhi azzurri così vivaci, vivi. Gli manca solo una mela in bocca e posso dire che il mio migliore amico non è altro che un pezzo di nulla per questi stronzi.
«È questo che amo di te.» - amare, credo che il Presidente abbia un concetto del tutto diverso dal mio di amore. - «Tu insinui, metti il dubbio dappertutto, non ti fidi di ciò che ti dicono fin quando non è il tuo occhio a vedere, la tua mano a toccare, il tuo cuore a sentire. Perché hai questa chiusura interiore? Cosa c'è che non va in te?»
«In me? Niente non va.»
C'è questa insana, fredda e contro naturale ragione che mi spinge a rispondere. Dovrei essere distrutto, dovrei voler scappare da tutto questo, ma c'è qualcosa che mi ferma, che mi dice di non poter far niente se non continuare a restare in gioco, seppure arrancando. In questo preciso istante, mi sento Victor e lo sento vicino a me più di chiunque altro.
«Un po' presuntuoso...»
«Un po' come lei. Avere tutti i suoi quadri nelle stanze è da narcisisti.»
«So che ami la mia figura, la amano tutti.»
«O fanno finta di amarla.»
«Fingere non è un'opzione.»
«Ah sì? Lei è il Presidente.» - della finzione, aggiungerei. - «Per questo tutti sono pronti a leccare, leccare e leccare.»
Sono questi detto-non detto che continuano a tenere alta la tensione tra me e lui. Percepisco che vorrebbe schiacciarmi e rendermi nulla, ma vorrebbe vedere anche fino a che punto può spingermi, se posso davvero essere l'alleato perfetto.
«E mai ce n'è stato uno migliore di me! Sfido a trovarne uno migliore.»
È vero: non ce ne sarà mai uno migliore di lui! Pazzi instabili con una mente distorta ne nascono uno ogni millennio.
«Sfortunatamente il nostro tempo è arrivato alla conclusione. Fa' che non lo sia, però, il tuo!»
Il Presidente Morse si inchina e mi augura una buona fortuna mentre la madre di Livius si porta via il capo del figlio. In tutto ciò, ricordo mio fratello che mi ha difeso durante la Mietitura.
Ecco cosa succede quando ti opponi al sistema: fanno concludere il tuo tempo.

Non ti ho mai scritto una lettera, non ti ho mai scritto niente in effetti. Non ricordo di essermi seduto da qualche parte, aver preso una penna e iniziato a scrivere pensando a te. Ora, però, lo faccio perché sento di volerlo fare.
Ne abbiamo passate tante e io solo ora me ne accorgo. È strano: è quando una persona va via definitivamente che inizi a scoprirne tutti i pregi, che la desideri al tuo fianco. Infatti tu non ci sei e io, mai come in questo momento, desidero un tuo abbraccio, un tuo schiaffo. Mi basta semplicemente una tua parola o un tuo respiro.
Riflettendoci a fondo, non ti ho mai neanche detto i miei sentimenti. Ho sempre pensato che tu ne avresti riso. Temevo così tanto che tu potessi prendermi in giro che preferivo restare in silenzio. Qualche volta ho anche desiderato che tu morissi e me ne vergogno troppo adesso. Lo so, sembra una stupidata, ma adesso capisco che non avrei mai dovuto desiderare una cosa così brutta. 
Però, per te, io ci ho pianto.
Non so se hai mai sentito, davvero, quello che avevo da dirti. A volte te lo dicevo in silenzio e pregavo tu potessi capirmi, ma non lo facevi. Non facevi niente per prendermi dal fango e darmi una ripulita. Così ho imparato da solo. Sulla tua persona, io ho creato le mie difese.
Quindi, facendo un resoconto del nostro rapporto: io ti ho invidiato, ti ho odiato, ti ho pregato e ti ho amato come un fratello potrebbe fare.
Mi è mancato il respiro quando, insieme ai tuoi amici, mi prendevi in giro. Mi si è spaccato un dente quando mi hai dato un pugno in faccia tornando a scuola. Mi si è distrutto il cuore quando, passandomi una lametta, mi hai detto che dovevo tagliarmi le vene perché era meglio per tutti.
Mi sono chiesto per tanto tempo il motivo del tuo comportamento ed ora l'ho capito: tra me e te il più piccolo sei tu. Hai sempre avuto questa mania di volerti sentire accettato, di voler essere quello che la gente apprezzava. Credevi che, prendendomi in giro come facevano gli altri, saresti stato uno del gruppo e lo sei stato. Ti è mai interessato, però, sentirti accettato da me? Ti è mai passato per la mente che io volessi far parte del tuo gruppo?
Probabilmente anche adesso sto sbagliando. Mi sa che dovrò continuare a farmi mille interrogativi senza trovare risposte vere perché tu non puoi darmene. Tu non ci sei più...
Te lo scrivo qui che ti voglio bene perché so che non riderai, che non mi prenderai in giro. Anche perché non puoi, ma dovevo farlo. Io dovevo dirtelo sennò sarei potuto scoppiare.
Grazie per avermi difeso alla Mietitura però, proprio questa volta, io non avevo chiesto un tuo aiuto.
Ed ecco cosa ti è costato darmi una mano: la morte. Forse anche per questo, allora, non hai mai preso le mie difese. Sapevi che non saresti stato accettato come non lo sono mai stato io.
Ti voglio bene, fratello.
Mi manchi.
- Tuo, sempre, C. Snow.

Se non riuscivo a dormire durante le nottate "tranquille", in questa non riesco proprio a chiudere occhio. Evado e qualcosa mi spinge ad andare a bussare, a chiedere il permesso di entrare all'unica persona che potrebbe comprendermi.
A volte non importa quanto dolore tu abbia ricevuto da una persona se questa è l'unica che, davvero, può dirti come andare avanti, come rassicurarti, come farti sentire vivo almeno per un secondo.
Allora lo faccio, busso alla porta di Victor. Lui mi apre e, tra un misto di sorpresa e incomprensione, mi lascia entrare. Capisce che io ho bisogno di un rifugio e lui sembra essere il mio unico scoglio a cui possa appoggiarmi prima di essere buttato, ancora e ancora, in acqua.

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Capitolo 17
*** Mi ripetono e ripeto: corri! ***


16. Mi ripetono e ripeto: corri!
 
Questa è l'ultima lettera che ti scriverò Livius. Non perché non voglia scrivertene altre, ma perché credo che, nell'Arena, non ci siano né carta né penna e né tempo da utilizzare per farlo.
Ci pensi? Se fossimo in un universo parallelo, adesso tu staresti al mio posto. Se tu non avessi deciso di spararti il cervello, tu saresti il tributo del distretto 2. Anche tu avresti dovuto sopportare tutto quello che sto sopportando io? Anche tu avresti avuto uno strano rapporto con il Presidente? Anche tu avresti bevuto veleno? Anche tu avresti deciso di giocare da solo, secondo le tue regole o avresti cercato degli alleati?
Io, poi, cosa starei facendo? Starei fermo, davanti alla televisione, a cercare sempre te? Starei morendo dentro? Starei, forse, facendo solo il codardo nel guardarti senza muovere un dito. 
Starei facendo tante cose senza di te.
Peccato che, anche nella realtà, io stia facendo tante cose... comunque senza di te.
Perché volevo scriverti questa lettera? Non lo so neanche io adesso.
Vabbè, meglio lasciar stare. In questo momento non riesco neanche a pensare lucidamente.
Nella speranza di poter cogliere qualche rosa bianca nell'Arena, ti saluto.
Controllami da lassù o da quaggiù, ovunque tu sia.
Tuo, C. Snow.

«Quindi questo è un addio?»
«Temo di sì.»
Guardo Cosima. Abbiamo entrambi gli occhi lucidi ma siamo troppo orgogliosi e presuntuosi per lasciare che le lacrime scorrano. Caesar, invece, ci guarda con aria fiera. Victor, in un angolo, guarda la scena.
Ormai anche Cosima si è rassegnata all'idea che non sopravvivrò e che, quindi, non ci saranno altri discorsi, altre risate, altre stramberie, altre strane dimostrazioni d'affetto.
Ci abbracciamo e lascio che Caesar mi saluti. Lo fa come quando ci siamo incontrati il primo giorno: mi dà una pacca sul culo e io sorrido questa volta.
«Caesar, come farò senza i tuoi consigli?»
«Ti ho detto tutto quel che sapevo. Mi raccomando, non fare stupidaggini e...» - l'uomo si blocca: cosa potrebbe dirmi? Non può augurarmi la vittoria perché lui stesso lo sa. Sa fin troppo bene che io non tornerò vincitore. Quindi cosa può fare se non augurarmi una morte felice?
«Caesar, grazie.»
Lo abbraccio e questo è abbastanza per dirci addio. Lui passa da Level e ritorna Cosima da me.
«Sai che puoi vincere, vero?» - il membro più strano, ma a cui voglio bene di più, della famiglia Flickerman sorride e cerca di darmi forza.
«Sai che è impossibile, vero?»
«Se parti con questo presupposto...»
«Cosima, non parliamo di vittorie o meno. La realtà è una sola e la conosciamo entrambi. Perciò lascia che io ti dica addio nel modo giusto. Vorrei dirti che tu sei una delle donne più belle e simpatiche che io abbia mai conosciuto. E... vorrei farti sapere che, senza di te, tutta questa realtà mi avrebbe ucciso prima del tempo. Avevo bisogno di aria fresca, di qualcuno che mi facesse sorridere, di distrazioni, speranze e tu, per me, sei stato tutto questo. Avrei voluto incontrarti in giorni migliori, in situazioni felici e, se ti avessi incontrato in passato, sento che tu saresti stata per me un faro nella notte. Lo sei stata qua, il mio faro. Spero che, una volta arrivato nell'Arena, riesca ad essere quel fuoco divampante, quella bestia libera, quel veleno tossico. Tu sii sempre la stessa e non lasciare che la vita ti scalfisca: colpiscila come tu hai fatto con me.»
«Ti odio, brutto stronzo.»
Mi abbraccia e mi bacia sulle labbra. Inizialmente sbarro gli occhi scoprendomi sorpreso dalla sua reazione. Non mi sarei mai aspettato una cosa del genere. Mi aspettavo di ricevere una carezza sul pacco oppure una palpata sul sedere, ma mai un bacio sulle labbra. Poco importa quanto, però, sia così non-Cosima questo gesto, chiudo gli occhi e assaporo il suo gusto che sa di lampone. 
«Ecco, il mio ultimo portafortuna per te.»
Victor, sottovoce, annuncia che è arrivato il tempo di andare per me e Level. I fratelli Flickerman si allontanano lentamente quando, improvvisamente, Cosima corre verso di me e mi pizzica.
«Hai detto tutte quelle cose ma non hai detto che, se ci fossimo incontrati prima, avremmo scopato. Guarda... dispiace anche me che perché avrei potuto farti godere in una maniera che tu non puoi immaginare.»
Scoppio a ridere, avevo davvero bisogno di questa spassosa Cosima che non mi abbandonerà mai. Nessuno di loro lo farà. Quando delle persone fantastiche occupano uno spazio, seppure minimo, nel tuo cuore, queste non andranno mai via facilmente da là.
Ora vanno via definitivamente e siamo rimasti in tre. Victor ci spiega come funziona: tra poco partirà un timer. Quando questo partirà, lui uscirà e io dovrò entrare nell'ascensore di destra mentre Level dovrà entrare nell'altro. Questi due ascensori ci porteranno nell'Arena.
«E poi succederà quel che succederà.»
Cade un silenzio imbarazzante tra noi perché dobbiamo dirci addio. Non mi hanno mai insegnato a dire addio, a far andare via definitivamente una persona e, ora che devo farlo, mi sembra essere la cosa peggiore da fare.
Così gli vado incontro e lo abbraccio. Lui è sorpreso più di me di quel gesto, proprio come la sera precedente quando mi sono presentato alla sua porta.
«Grazie.» - solo questo riesco a dirgli, lui mi stringe più forte.
Ecco che parte quello che assomiglia più ad un allarme. È ora di andare, di dover entrare nell'Arena. Devo staccarmi, lasciare quel legame e non vorrei farlo per nessun motivo. Lo faccio, però, perché è così che deve andare.
Un saluto sbrigativo tra il Mentore e Level ed eccoci entrare negli ascensori.
Si chiudono le porte alle mie spalle e penso di essere diventato, per la prima volta in vita mia, claustrofobico perché sento che l'ossigeno sta scomparendo dall'abitacolo.
Dopo essersi sigillate del tutto le porte alle mie spalle, si aprono due porticine sopra la mia testa. Sento un rumore, quasi uno strano lamento e, alzando lo sguardo, vedo qualcosa cadere giù. Questa mi colpisce in testa e, quando finisce sul pavimento, sobbalzo perché capisco cosa sia. È Mohr. A terra, c'è il gatto/ibrido del Presidente Morse. Il suo pelo è bianco e, a terra, si sta allargando una chiazza rossa di sangue. Mi ricorda la camicia che il Presidente indossava durante l'intervista: un chiaro messaggio della mia morte futura. 
Evidentemente devo aver fatto tanto rumore perché Victor si avvicina alle porte e bussa violentemente per vedere cosa stia succedendo là dentro. Io lo guardo e mi sposto leggermente per fargli vedere il gatto. Lui sbarra gli occhi e mi fa capire, gesticolando, di guardare nella bocca dell'animale. Lentamente mi avvicino al gatto, tentenno nell'aprirgli la bocca perché ho paura che si svegli da un momento all'altro ma non lo fa, resta morto. Allora estrapolo ciò che ha in bocca: è un bigliettino. Lo apro e leggo cosa c'è scritto dentro: Ricorda chi è il vero nemico!
Sbatto il foglio sul vetro per far vedere a Victor cosa c'è scritto e l'ascensore inizia a salire.
Vorrei riuscire a capire cosa sta succedendo, il senso del gatto morto e che divertimento ci sia in questo gioco malsano. Non riesco, però, a pensarci lucidamente perché una luce mi sta accecando. Scivolo a terra e sposto il defunto più in là. Come è mia abitudine, mi sporco le mani di sangue (ormai non vivo più pulito da tempo) e mi sento morire. È come se il cuore volesse uscire dal petto, vorrebbe evitare di continuare a battere, vorrebbe smetterla perché è troppo tutto quello che deve sopportare.
Un cerchio alla testa mi stringe così forte che sento anche il cervello che vuole uscire, non essere costretto a registrare, elaborare tutto.
Ogni singola parte del mio essere vorrebbe lasciare questo corpo e impossessarsi di un altro, di una persona che non ha ansie, tormenti, preoccupazioni.
Perché sono costretto a giocare? Perché mi è toccato avere questo carattere di merda? Perché, per ogni passo, devo preoccuparmi del seguito dell'ombra? Perché, per ogni battito, mi devo preoccupare del prossimo? Perché, per ogni secondo, devo preoccuparmi del prossimo minuto? Perché, per ogni singola puttanata, devo preoccuparmi? 
E ora che sono anche davanti a questa porta di vetro che non vuole aprirsi, io sento ancora di più l'ansia cibarsi di ogni mio angolo.
È questa vita? È possibile continuare così? Conosco già la risposta: è no, non posso continuare a vivere così.
Eppure è l'unico modo che conosco per vivere!
Tremo come una foglia che è vittima del vento autunnale mentre le porte dell'ascensore, finalmente, si aprono.
È alto il sole, gli uccelli cinguettano e un leggero vento primaverile soffia delicatamente. A gattoni mi sporgo fuori e vedo un paradiso, un luogo fantastico, un posto che non suggerisca morte. Può davvero essere questa l'Arena?
Noi tributi siamo su una base rotonda che è divisa in dodici corridoi, ognuna di loro ci porta al centro della Cornucopia che è una struttura simile ad un proiettile gigante. È dorato, maestoso, a tratti spaventoso. Non riesco a scorgere quello che è dietro gli ascensori, mi toccherà scoprirlo nel vivo dei Giochi.
I corridoi sono tutti particolari. Infatti ogni corridoio, al di sotto di una lastra di vetro, ha qualcosa che rispecchi il distretto a cui appartengono i tributi. Ad esempio, il corridoio del distretto 12 è fatto di carbone, quello del'11 è fatto di mille fiori variopinti, quello dell'10 di carne che macchia il vetro da sotto, quello dell'1 è dorato proprio come la Cornucopia, quello del 3 emana strani ronzii e a causa dei vari fasci di elettricità che viaggiano indisturbati, quello del 4 è fatto di acqua. Il mio corridoio è fatto di polvere da sparo. Sfortunatamente non riesco a vedere i restanti.
«Benvenuti alla venticinquesima edizione degli Hunger Games, che i giochi abbiano inizio!» 
Scatta il cupo suono di un cannone in seguito alla voce che ha dato il via ai Giochi e il proiettile dorato si apre. Le mura della Cornucopia dorata si abbassano scoprendo una base piena di armi e tante altre cose utili per noi. I primi a correre verso la Cornucopia sono i tributi del distretto 1, Tacito non può che voler essere il migliore. Inizia a scendere anche Level. Ovviamente deve raggiungere il suo grande amore.
Allora mi alzo, mi faccio forza, ed entro definitivamente nell'Arena lasciando il gatto morto nell'ascensore. Corro per riuscire a prendere più armi possibili.
È una corsa contro il tempo, contro i tributi, contro la morte. Più riusciamo a prendere, più abbiamo possibilità di sopravvivere. Devo riuscire a farcela. Arrivo sulla base della Cornucopia e riesco a prendere uno zaino. Lo afferro, ma mi muovo in fretta per paura dell'attacco di qualcuno. Vorrei riuscire a prendere qualche arma, ma è difficilissimo in quanto c'è tanta confusione. Tutti cercano di accaparrarsi tutto, alcuni già stanno lottando per poter afferrare spade, frecce, pugnali, medicinali. Resto inerme a guardare quel che sta succedendo mentre tutti gli altri corrono. Mi riprendo quando si avvicina a me Tacito con fare aggressivo. Sta sventolando una spada con un'agilità da invidiare. Allora inizio a scappare: non voglio morire. Mi sono lamentato finora di questa vita di merda ma sento di voler almeno combattere, vendicare mio fratello, Livius, i tributi morti e distruggere i miei veri nemici.
«Ti prendo, morto che macchina!» - lui urla perché mi vuole vedere morto. Sono il suo principale obiettivo. Continuo a correre ma guardo indietro per poter vedere quanto vantaggio ho su di lui. All'improvviso colpisco qualcuno. È il tributo del distretto 8. Lui è impaurito più di me. Ha delle armi in mano ma è spaesato, immobile. Glielo leggo negli occhi che ha terrore e non reagisce. Io continuo a correre, però, perché devo difendermi.
Quando mi giro per poter guardare a pieno la scena, Tacito sta infilando la spada nel tributo del distretto 8. Mi blocco e mi destabilizza quella scena. È morto. Quel tributo, bloccato da tutta questa realtà, è stato già ucciso. Per averne maggiore conferma, il rombo di un cannone si estende nell'Arena.
«Corri, Snow!» - qualcuno mi urla e obbedisco al comando.
Mi ripeto più volte, ad alta voce, di correre. Perciò mi addentro al centro della base e controllo quello che è rimasto. Ogni scaffale, tavolo è vuoto. Mi avvicino, allora, al tributo morto del distretto 8 e prendo quello che lui aveva: due capsule, una rossa e una verde, di non so cosa e un pugnale con la lama seghettata.
Mi sollevo da terra e ritorno a correre ma la ragazza del distretto 6, per scansarmi, mi spinge e cado a terra.
Sento un dolore fortissimo ed urlo.
Lascio andare tutto ciò che ho in mano e cerco di rialzarmi, ma è come se mille aghi mi pungessero in ogni parte del corpo. In effetti non riesco proprio ad alzarmi da terra perché non trovo nessuna base solida su cui poter fare forza ma solo altri aghi. Infatti sono caduto in una vasca piena di siringhe. Poi un'intuizione: questo era il corridoio del distretto 5.
Tutte le lastre di vetro che ci hanno consentito di arrivare alla Cornucopia sono scomparse. Ora, per passare dall'altra parte e sfuggire ai tributi, bisogna trovare il corridoio più innocuo.
La fortuna ha voluto che io cadessi in uno dei corridoi peggiori.

Raffigurazione grafica dell'entrata nell'Arena, la Cornucopia (siate clementi, ho sempre odiato il disegno tecnico):

 

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Capitolo 18
*** Il bagno di sangue ***


17. Il bagno di sangue
 
Urlo.
Più mi muovo, più gli aghi penetrano l'epidermide: è insopportabile tutto questo dolore perché mi sento trafiggere più volte. Per peggiorare la situazione, si para davanti a me Tacito che ride divertito.
«Qualcuno è in trappola... come sempre, d'altronde.»
Lui si gode lo spettacolo indisturbato perché sa che nessuno oserebbe attaccarlo: chiunque provi a colpirlo sarebbe uomo morto come me.
«Vediamo un po'. Lasciarti qua e farti morire di morte lenta... o conficcarti una spada nel cuore?»
Si sentono due colpi di cannone: altri due tributi morti. Sicuramente tra poco si sentirà un altro colpo a causa della mia di morte.
«Io credo che ucciderti sarebbe la cosa più semplice da fare.»
Io non lo rispondo, mi manca il respiro tanto il dolore lancinante che provo.
«Perciò credo che... io... ti lasc...» - si blocca nel tormentarmi perché viene colpito, di striscio, da una freccia. Si volta per cercare il pazzo che lo ha colpito e lo individua in qualcuno. Allora inizia ad inseguirlo lasciandomi solo in questa vasca di siringhe.
Non riesco ad essere sollevato perché, in effetti, lui era solo un pensiero in più: sono ancora in questi mille aghi. Si avvicina a me Falloppio, il tributo del distretto 3, e mi porge la sua mano.
«Forza, Snow, afferra la mia mano!»
Mi muovo e sento alcuni aghi cadere giù ma altri conficcarsi lungo le gambe.
«Lasciami qua!»
Lo imploro di andare via perché non riuscirò ad alzarmi, non ci riuscirò proprio.
«Muoviti, non abbiamo tempo!»
Lui si spinge più in avanti e afferra la mia mano. Si avvicina anche Søren che aiuta Falloppio ad alzarmi da là e, in effetti, ci riescono. Mi sollevano da quella trappola mortale e, facendo forza sul bordo del corridoio, riesco ad appoggiarmi a loro. Cercano di trattenermi e mettermi dritto ma, spesso e volentieri, le ginocchia cedono perché sento venire meno le forze. Velocemente iniziano a estrarre alcune siringhe ed io urlo.
«Attenzione!» - la bambina del distretto 7 ci urla di stare attenti perché Tacito sta tornando da noi. Søren, allora, gli va contro e lo attira al centro della Cornucopia, lungo i bordi del proiettile d’oro. Tra loro inizia una lotta e Falloppio continua a levarmi più siringe possibili. Anche la ragazzina, Loto, inizia a togliermi le siringhe. Io mi mordo le labbra per stare zitto.
«Dobbiamo trovare un corridoio per uscire.» - Falloppio riflette ad alta voce.
«Il mio corridoio è fatto di legna, non credo sia molto semplice attraversarlo.» - Loto cerca di spiegare l'Arena che non riuscivo a vedere io. - «Ho visto che quello del distretto 11 è fatto di fiori. Forse quello è il più semplice da attraversare. Quello del 12 è pieno di carbone ardente, sta uscendo un sacco di fumo da là.»
Nel frattempo si avvicinano i tributi del distretto 4 che si tuffano nel loro corridoio fatto di acqua. Iniziano a nuotare e, quindi, loro sono i primi che vedo sfuggire dalla Cornucopia. Vorrei suggerire di fare come hanno fatto loro ma io stesso non sono in grado di nuotare.
Un altro colpo di cannone. Sentiamo delle urla allucinanti ed io capisco chi è. Infatti, dietro i ragazzi tuffatisi in acqua, c'è il tributo femmina del distretto 5 che, seguendo i tributi del distretto 4, è caduta nel corridoio precedente, in quello del distretto 3 che è fatto di elettricità. Ora il suo corpo è una moltitudine di scintille, fasci di luce azzurra e piccole fiamme lungo i capelli.
Provo a parlare, ma non ho voce: è come se fosse andata via a causa del dolore che sento mentre loro continuano a togliermi siringhe.
«Attento!» - Loto, che sembra avere più occhi di noi, urla verso Falloppio.
Lui, strappandomi una siringa dalla spalla, la infila nel petto del tributo maschio del distretto 10 e gli inietta ciò che vi è dentro. Rimango stupito dalla calma e dalla disinvoltura con cui Falloppio compie quel gesto. Subito il ragazzo cade a terra agitandosi. Gli sta uscendo della schiuma nera dalla bocca e continua a dimenarsi come se avesse delle compulsioni.
Ecco un altro cannone invisibile esploso nell'aria. Io spalanco gli occhi ancora più sconvolto da quel che sta succedendo. Se loro non stanno attenti, e se volessero, potrebbero uccidermi senza che io me ne accorga.
Quindi mi devo solo fidare, sperare che loro non vogliano rendermi un altro colpo di cannone. Però, se avessero voluto vedermi morto, mi avrebbero lasciato in quella trappola, o no? Loro, comunque, mi tolgono le altre siringhe.
Søren e Tacito continuano a battersi e rimango sorpreso dalla bravura della ragazza con la spada. Nell'ultimo giorno di Addestramento, quando fece la battaglia simulata con Ermen, sembrava debole e, invece, è bravissima. Sarà stata sicuramente una strategia!
«Questa dovrà alleviare il dolore.» - Falloppio mi abbassa la zip della tutta e, lasciandomi a torso nudo, inizia a spalmarmi sulla schiena una crema che mi rinfresca mentre Loto sta cercando di trovare il corridoio più semplice da attraversare. - «Snow, devi mettere la crema anche sulle gambe. Tieni! Io vado ad aiutare Søren!»
Fallopio mi lascia la crema e, prendendo la lancia, va verso il centro. Io mi spalmo la crema, prima sui glutei e poi sulle gambe. Tutto ciò lo faccio cercando di non togliere il pantalone.
Sentendo di meno il dolore, afferro lo zaino che è caduto tra le mille siringhe. Vorrei provare a prendere anche il pugnale e le due capsule ma non ci riesco: sono troppo distanti. Allora mi rialzo e, zoppicando ma in modo veloce, cerco di trovare qualcosa. Sento due nuovi colpi di cannone, un colpo segue l'altro ma non riesco a capire chi sia morto. Ritorno, allora, a cercare qualcosa. Trovo l'ascia di uno dei tributi morti e una cavigliera accessoriata che subito slaccio dalla caviglia della ragazza del distretto 11 e che lego alla mia.
Loto si ferma accanto a me e mi spiega ciò che ha visto: «Sono morti i ragazzi del distretto 9. Lui si è buttato nel corridoio d'oro ed è come diventato melma, quasi incandescente. Lei, invece, si è buttata in quello del distretto 11, quello pieno di fiori, ma è morta lo stesso.»
Prendo un sospiro, mi guardo attorno e cerco di ricapitolare i vari corridoi con Loto.
«Pensiamo! Se passassimo il corridoio 1, ci fluidificheremmo; il 2 è pieno di polvere da sparo; il 3 sarebbe fatale; il 4 lo può passare solo chi sa nuotare; il 5...» - ricordo la sensazione delle siringhe che penetrano la mia pelle - «...decisamente no; il 6 è fatto di binari; il 7 è pieno di legna tagliata e, quindi, sarebbe difficilissimo da attraversare; I corridoi del distretto 8, 9 e 10 non li conosco; il corridoio dell’11 deve essere, a questo punto, composto da fiori velenosi e, infine, quello del 12 è pieno di carbone ardente.»
«Quello del 10 è pieno di carne sanguinante, quello del 9 è pieno di cereali di frumento e quello dell'8 è pieno di batuffoli di lana.»
«Bene. Allora… se stessi scappando senza pensare e senza preoccuparmi, mi butterei decisamente nel corridoio dell'8, dell'11 e forse in quello dell'1. Tutti quelli che si sono buttati là, però, sono morti. Ho capito!» - urlo tutto felice - «I corridoi più complicati da attraversare sono quelli che non ti uccidono. Io dico di buttarci nel corridoio del 10!»
La bambina sbarra gli occhi: «Dovremmo buttarci in un posto pieno di sangue e carne? E poi il corridoio del distretto 4 è stupido da attraversare per quelli del distretto stesso. Non dovevano morire se funzionava così quest’Arena?»
«Cazzo, hai ragione.» - non mi importa di aver usato una parola poco consona per l'udito di una bambina: stiamo cercando di salvarci il culo perciò poco mi frega di quel che dico.
«I ragazzi del distretto 4...» - faccio, lentamente, un giro a 360 gradi per poter capire bene come sfuggire da questo luogo maledetto, ma non trovo soluzione. Tutto è così complicato e la mia testa sta scoppiando.
Ma, poi, ripenso. Ritorno a sentire l'odore nauseante dei capelli bruciati della ragazza caduta nel corridoio del distretto 3, ritorno a vedere i ragazzi nuotare nel loro corridoio, penso a coloro che sono morti negli altri di corridoi e, all'improvviso, tutto diventa chiaro!
«Per uscire da qua ognuno deve attraversare il proprio di corridoio! I ragazzi del quattro sono usciti dal loro corridoio. Io, distretto 2, devo uscire dal mio! È una cosa così stupida che, cavolo... come cazzo non ho fatto ad arrivarci prima?»
Mi sento più intelligente del solito!
«Dobbiamo trovare il modo, ora, di uscire tutti e quattro da qua.» - Loto mi fa ripiombare alla realtà, e non è piacevole.
Guardiamo verso il centro della Cornucopia, Tacito riesce a tenere testa sia a Søren sia a Falloppio. Si trascinano lungo il bordo del proiettile dorato e vanno sempre più avanti.
«Ehi!» – spostandoci, io e Loto urliamo cercando di attirare l'attenzione dei nostri (ormai siamo una squadra, a quanto sembra) - «Venite qua!»
Tacito, sfruttando quel momento di disattenzione, scavalca i due e corre verso di noi. Rapidamente scansa Loto, spingendola. Sta per cadere nel corridoio pieno di batuffoli di lana, il corridoio non suo ma io l'afferro. Afferro la sua mano e la tiro a me. Tirandola a me, però, non le evito morte.
Un colpo di cannone. Il rumore rimbomba nella mia testa. Lo sento mille e mille volte. Proprio come il rumore, rivedo mille e mille volte Loto che viene trafitta dalla spada di Tacito. Spada che era destinata a me.
Per non farci mancare nulla, viene anche colpita da un proiettile. Non so chi sta sparando e neanche lo voglio capire perché, ora, la mia testa sta cercando di capire come io abbia fatto a inserire la lama della mia ascia nella testa di Tacito. Un altro colpo di cannone.
Sento una mano afferrarmi il braccio e mi dice di correre. I rumori che prima erano ovattati diventano più nitidi, così anche i colori. Dall'altro lato (forse sicuro) dell'Arena riesco a vedere la ragazza del distretto 1, Ermen, i ragazzi del distretto 4, Medusa e Steno, il ragazzo del distretto 5, Chimio, e lei, Level. Dall'altra parte dell'Arena, quindi, ci sono tutti i sopravvissuti al bagno di sangue. Forse gli unici rimasti siamo noi quattro... tre. Siamo solo tre.
«Falloppio hai trovato il corridoio?»
«Non lo so!»
«Cosa vuol dire non lo so?»
Li sento agitarsi. Søren, d'istinto, si getta nel corridoio pieno di carne e sangue, il suo corridoio.
«Ferma!» - urlo.
«Che c'è?» - Søren lascia la presa e mi guarda con occhi sbarrati.
«I.. i... corridoi. Funzionano in modo diverso.»
Søren ritorna indietro e i due mi guardano aspettandosi una spiegazione.
«Ognuno attraversa il suo di corridoio.»
«Cosa?»
«Io, distretto 2, attraverso il corridoio del distretto 2. Falloppio, distretto 3, attraversa il corridoio del distretto 3. Søren, distretto 10, attraversa il corridoio del distretto 10. Loto, distretto 7, attraversa il corridoio del distretto 7.»
Tra la confusione e il loro chiedersi se credermi o meno, un altro proiettile viene sparato dal gruppo dei Favoriti ma, di nuovo, ci mancano. Guardo chi ci sta sparando: la persona che ha in mano la pistola è Level.
Level, la ragazza del mio distretto, sta cercando di spararmi e ha sparato Loto, una persona di cui mi ero fidato pochi minuti fa.
«Non possiamo dividerci, ora. Quelli stanno là ad aspettarci!» - Søren retrocede ritornando sulla Cornucopia.
In tutto ciò io aggiungo il viso di Loto al mio album di persone che meritano un riscatto.
«Restiamo qua.» - propone Falloppio.
«Non credo sia un’ottima idea.» - anche Søren sta cercando una soluzione efficace.
L'unico essere inutile, qua in mezzo, sono io.
«Allontaniamoci da loro, per ora.»
Ritorniamo a correre. Si alza il vento e, attraversando il corridoio del distretto 12, tutto il fumo ci finisce negli occhi. Quindi chiudo gli occhi e provo ad andare avanti. Fatto divertente, però, è che, riaprendoli e fermandomi davanti al mio di corridoio, la polvere da sparo finisce, anch'essa, nei nostri occhi.
«E che diamine!» - mentre cerco di ripulirmi gli occhi, qualcuno mi spinge nel mio corridoio.
«Snow, corri! Esci.»
Riesco a vedere i loro volti e non capisco perché vogliano farmi fuggire mentre loro resteranno qua.
«Corri e fermati nella casa rossa. Ci incontreremo là!»
«Ma... se non arriverete?»
«Corri!»
Inizio a correre e, con mio piacere, scopro che avevo ragione. Funzionava così questa merda di ingresso nell'Arena. Ad ognuno il suo corridoio. Non riesco, però, a chiedermi che fine faranno Søren e Falloppio. Strano a dirsi ma non vorrei vederli morti. Già con la morte di Loto mi sono sentito privato di qualcosa.
Proprio come previsto dai ragazzi, sono arrivato indisturbato dall'altro lato. Nessuno mi sta aspettando per uccidermi, nessuno cerca di spararmi. Continuo, però, a correre e ad entrare in quella casa rossa. Finalmente apro la porta e, dopo averla chiusa, svengo.
Prima di svenire, però, riesco a sentire un altro colpo di cannone.

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Capitolo 19
*** Un mondo perfetto (la luna) ***


18. Un mondo perfetto (la luna)
 
«Snow, ti sei mai chiesto se, al di fuori di Panem, ci sia dell’altro?»
È sera, distesi sul prato di una primavera quasi conclusa, io e Livius guardiamo la luna.
«Mi stai chiedendo se, secondo me, esistano altri posti dove poter vivere?»
«Sì, sai… altre montagne, altri mari, altre case, altre persone.»
«Altri giochi.» – lo dico sottovoce questo ma Livius mi avrà sicuramente sentito.
«Sì, esatto. Altri giochi, altra libertà.»
Guardo Livius e penso al tributo del distretto 2 che è morto questa mattina. È strano: noi lo abbiamo visto sugli schermi ma quel ragazzo, di solito, lo vedevamo sempre in strada. Io lo vedevo anche in qualche mio incubo.
Il suo nome era Venice. Che nome insolito. Quando pensavo al suo nome, immaginavo sempre qualcosa di carino, delicato. Quando ebbi, però, l’onore di "conoscerlo", scoprii che tutto lui era tranne che carino e delicato… soprattutto quella volta che mi rubò le scarpe.
Non lo avevo mai infastidito, non gli avevo mai parlato, non gli avevo mai neanche chiesto il nome. Evidentemente, i guai non si cercano ma sono loro cercano te. I guai arrivano e basta: forse per noia di qualcuno, forse per ingiustizia, forse per cattiveria. Spesso e volentieri i guai si creano senza che tu lo voglia.
Stavo tornando a casa quando lui m’intrappolò in un angolo. Era molto più grosso di me. Mi chiese, non gentilmente, le scarpe ed io non gliele diedi.
Tornai scalzo a casa, con un occhio livido e i capelli tutti scompigliati. Mio fratello rise ma poi smise, mia madre mi rimproverò perché non avevo più le scarpe e mio padre mi picchiò perché mi ero comportato da vera femminuccia.
«Se non sai difendere un paio di scarpe, figurati là fuori. Nell’Arena. Prega di non essere mai sorteggiato sennò moriresti già il primo giorno.»
Quella sera non fece altro che dire queste cose. Mugugnava che io ero uno stupido mentre mangiava quei maledetti broccoletti.
«Non posso pensarci. Ha avuto anche il coraggio di chiedermi di usare un’ascia. Se non sa sferrare un pugno, come può usare un’ascia? Questa è colpa tua…» – indicò mia madre – «…perché ha preso le tue stesse ossa graciline. La tua famiglia è sempre stata deboluccia.»
Conservavo, quindi, solo questo ricordo pessimo di Venice. Lui fu uno dei primi ad avermi fatto sentire debole, stupido, innocuo e odiato da mio padre.
Quella sera, nel mio letto, pensai che, se lui non mi avesse rubato le scarpe, mio padre non avrebbe mai detto quelle cose di me.
Crescendo, poi, ho capito che mio padre avrebbe sempre e comunque detto quelle cose cattive su di me.
«Si è meritato di morire così, si è meritato di restare scalzo.» – sorrido perché, paradossalmente, il tributo del distretto 10, dopo aver strangolato Venice, gli ha rubato le scarpe. In un certo senso è come se fossi felice che lui sia morto: ha ricevuto la punizione che meritava.
Guardo le mie scarpe e so che Livius mi starà comprendendo. Lui riesce a capirmi già solo guardandomi.
«Lassù non ci sarebbero problemi, Snow.» – Livius indica quella palla luminosa che resta lì, immobile e alta, nel cielo – «Sulla luna ci sarebbe tanta libertà.»
«Sulla luna nessuno mi ruberebbe le scarpe e potremmo giocare come vogliamo noi. Saremmo solo tu ed io.»
«Un mondo perfetto, non trovi?»
 
Come se avessi ricevuto una secchiata d’acqua fredda addosso, mi sveglio ansimante e sudato. Mi alzo di fretta e cerco di difendermi da non so bene cosa o chi. Immediatamente, però, chiudo gli occhi e stringo i denti per sopportare il mal di testa che provo.
Dopo aver capito che non c’è niente e nessuno che mi sta attaccando e il mal di testa diventa più lieve, mi affaccio alla finestra cautamente. Sposto le tende che sono strappate e che, dunque, coprono a malapena la finestra. Vedo una fantastica luna piena che splende maestosa nel cielo scuro.
Riesco a vedere la Cornucopia da qua: si è richiusa in sé stessa. Posso solo vedere il grande proiettile d’oro e qualche fascio di elettricità che proviene dal corridoio del distretto 3.
Qua dentro io sono solo, ma al sicuro.
Mi sento sollevato. Poso, sul tavolo, lo zaino che avevo ancora in spalla e inizio a perlustrare la casa rossa. Mobili sottosopra, cassetti aperti e svuotati, roba sul pavimento. Apro gli armadietti e trovo del cibo ammuffito e rosicchiato da qualche roditore. Poco mi importa che un topolino abbia toccato il formaggio, lo mangio lo stesso perché ho fame.
Mi siedo a terra e, mantenendo con una mano il pezzo di formaggio e un tozzo di pane duro con l’altra, inizio a mangiare. Cerco di mordere il pane con i molari che riescono a frantumarlo. Il formaggio, invece, è più soffice, anche se duro all’esterno.
Zittisco, così, lo stomaco che poco fa brontolava e ritorno a cercare del cibo. Trovo pacchetti vuoti, frutta marcia, un sacchettino di sale, una bottiglietta d’acqua, farina di grano e medicinali scaduti.
Prendo la bottiglietta, il sale e li metto sul tavolo.
Continuo la ricerca di cose che potrebbero tornarmi utili, ma trovo solo fotografie di bambini che sorridono.
Lascio questa stanza ed entro nel bagno. Vedo il wc e il mio corpo manda dei segnali chiari e precisi. Mi abbasso il pantalone della tuta e, dopo aver pulito la porcellana con la mano, mi ci siedo sopra e faccio quel che devo fare.
Davanti a me c’è uno specchio. È inquietante: chi abitava in questa casa si divertiva a vedersi mentre faceva cacca?
Sposto la mia attenzione su altro e guardo la stanza per quel che si può. Riesco a vedere le ombre e alcune cose senza scoprire i vari particolari perché non posso accendere nessuna luce. Farlo significherebbe mettersi addosso una di quelle tute luminose di Capitol City, ballare e urlare: «ehi, sono qua.»
Nel bagno c’è un lavatoio, delle saponette consumate, degli asciugamani gettati sul pavimento.
Mi alzo e cerco di lavarmi nel lavatoio. Prendo un asciugamano da terra e mi asciugo. Mi sciacquo anche il capo, mi bagno i capelli e mi sento meglio.
Prendo le saponette e le poso sopra il tavolo.
Ora entro in un’altra stanza, deve essere la camera da letto ma il letto è distrutto. Del materasso rimane solo un tessuto squarciato e della lana che fuoriesce. Gli armadi sono vuoti. Anche i cassetti lo sono.
Esco da questa stanza che non può aiutarmi in nessun modo ed entro in un’altra. Questa è diversa da tutte le altre. Non ha finestre e, quindi, è buia del tutto. Allora ritorno nella cucina.
Quello che ho ritenuto utile per il mio gioco sono, quindi, solo del sale, due saponette consumate e una bottiglietta d’acqua.
«Bene, sono fottuto.»
Svuoto lo zaino: ci trovo un pugnale, della carne essiccata, una bottiglia d’acqua e una crema. Vedo anche gli strumenti della cavigliera: un ago lungo almeno due dita, una piccola torcia e del cotone.
Penso di avere un bottino utile per una sola nottata: morirò presto.
Mi alzo dalla sedia e avrei voglia di sbattere tutto all’aria perché mi sono già scocciato di questa merda di Giochi, ma il mal di testa prende il sopravvento su di me, ancora.
Ritorno a sedermi e, poggiando la testa sul tavolo, guardo fuori.
Sembrano già lontani i tempi in cui guardavo la luna con il mio migliore amico, con Livius.
«Un mondo perfetto, non trovi?» – ripeto la frase che mi disse quando progettammo di scappare da qua, di arrivare sulla luna. Se solo l’avessimo potuto fare… ma il mondo non è perfetto. Sulla luna non ci si può arrivare ed io non vincerò i Giochi. Certo, ora nessuno mi ruba più le scarpe perché so difendermi, ma non ho saputo difendere gli altri. In un mondo perfetto non ci sarebbe nemmeno il bisogno di difendersi e dover difendere... ma qui è tutto imperfetto!
Livius? Morto. Loto? Morta. Falloppio e Søren?
«Falloppio e Søren!»
Mi rialzo di nuovo, scattando. I ragazzi! Dove sono finiti? Qualcosa mi consiglia di uscire e andare a cercarli, qualcos’altro mi consiglia di restare rinserrato in questa casa nell’attesa di un loro arrivo.
Il mal di testa, però, si fa ancora più atroce ed io torno a sedermi.
«Se andassi a cercarli e loro tornassero? D’altronde ci siamo dati incontro nella casa rossa. Se io la abbandonassi per andare a cercarli e loro arrivassero qua, potrebbero non trovarmi e pensare che io sia morto.»
Parlare tra me e me fa sembrare la situazione più chiara. Chiaro come sta diventando il ricordo del rombo del cannone che ho sentito prima di svenire. Se uno dei due fosse morto? E se, dopo esser svenuto, sia scoppiato un altro cannone e Søren o Falloppio siano definitivamente morti?
«No, io esco! Loro lo farebbero per me. Mi hanno difeso, è il minimo.»
Con fretta scaravento tutto quello che sta sul tavolo nel mio zaino. Lo indosso e scopro “con molto piacere” che è più pesante di quanto lo ricordassi, giustamente. Questa volta mi alzo lentamente perché ho capito che farlo con violenza mi procura odiosi mal di testa e mi avvio verso la porta.
Conto fino a tre, prendo un gran respiro e apro la porta. Guardo a destra e sinistra e capisco che non c’è nessuno fuori. Chiudo la porta alle mie spalle e inizio a camminare lungo i bordi delle case dove c’è più ombra. Così dovrei passare più inosservato.
Perlustro attentamente l’Arena, tento di ascoltare ogni minimo rumore e scruto la strada. Improvvisamente un suono acuto, poi l’inno di Panem. È arrivata l’ora di scoprire i morti della prima giornata. Io mi siedo e guardo il cielo per ricapitolare il tutto.
Tacito, tributo del distretto 1 – la morte è causa mia.
La ragazza del distretto 3 – non conosco il motivo della sua morte.
La ragazza del distretto 5 – morta perché caduta nel corridoio sbagliato.
Il ragazzo del distretto 6 – morto chissà in quale modo.
Loto, tributo del distretto 7 – uccisa da Tacito.
Il ragazzo del distretto 8 – ucciso da Tacito.
Il ragazzo del distretto 9 – caduto nel corridoio sbagliato.
La ragazza del distretto 9 – stessa sorte del suo conterraneo.
Il ragazzo del distretto 10 – avvelenato da Falloppio.
La ragazza del distretto 11 – morta chissà come.
Dieci morti. Abbiamo iniziato questi Giochi in ventiquattro e già siamo quattordici. Søren e Falloppio sono vivi! Li devo trovare, a qualunque costo.
Conviene non perdere altro tempo prezioso. Ritorno a percorrere la strada davanti a me ma qualcuno, da dietro, mi colpisce.
Un altro mal di testa e cado a terra.
 
Fischietta.
Cerca di non attirare l’attenzione di qualcuno ma solo quella del soggetto prestabilito. D’altronde l’hanno scelto insieme il loro segnale.
Qualcuno si muove tra i cespugli.
«Bene, sei qui!»
«Te l’avevo detto che sarei arrivata.»
Falloppio esce dai cespugli e si avvicina a Søren.
«Il gruppo dei Favoriti non so che fine abbia fatto. Quando abbiamo lasciato andare Snow hanno seguito noi e non lui, come da piano, ma poi sono scomparsi.»
«Non so ch…»
Si sentono dei passi da lontano, qualcuno calpesta pezzi di vetro e sposta in modo rumoroso le mattonelle che sono sulla strada.
«Chimio, sei stupido? Perché ci siamo portati appresso questo demente? Spiegatemelo!» – Ermen lo colpisce sulla testa.
«Volete abbassare questa voce? Non sopravvivreste nemmeno un attimo nel nostro distretto.» – Medusa parla a bassa voce - «La pesca richiede calma, pazienza e silenzio. Cosa che non avete voi, a quanto sento.»
«Infatti, già odio la voce di tutti.» – Steno segue il discorso della ragazza del suo stesso distretto.
Dietro c’è qualcun altro che sbuffa.
«Tu cos’hai che non va?» – Steno si ferma, così fan tutti gli altri.
«Non so se lo avete notato, ma io sto trasportando un corpo. Anche se è piccolo, ‘sto stronzetto pesa.» – Level lascia le mani del corpo che sta trascinando e si avvicina agli altri quattro. – «Credo sia ora di fare un cambio.»
Ermen colpisce con il piede il sedere di Chimio: «muoviti, cervelloide. Trasporta il ragazzo!»
«Ma…» - Chimio guarda il corpo che giace a terra, con la testa poggiata tra le mattonelle rotte.
«Nessun ma. Muoviti. Pensavi che bastasse essere intelligenti nell’Arena? Beh, notizie per il cervellone: non serve a un cazzo sapere come accendere un fuoco in mezzo alle macerie di questa merda di città.»
«In realtà, sì. Serve sapere come accedere un fuoco tra le macerie perch…» - Chimio cerca di spiegarsi, ma Ermen gli blocca le labbra con la mano.
«Non me ne fotte niente del tuo fuoco, del tuo cervello e delle tue ragioni. Trasporta il corpo di quella merda e muoviti, cervelloide!»
Chimio, cercando di mantenere le lacrime, si avvicina al corpo del tributo e, facendo uno sforzo enorme, inizia a trascinarlo.
«Non vedo l’ora di uccidere Snow!» – Level fa un bel sospiro e segue i ragazzi del gruppo che si sono incamminati.
«Falloppio, se quello è Snow?» – Søren sussurra quelle parole al compagno che cerca di tranquillizzarla.
«Credo ci sia qualcuno tra i cespugli!» – Chimio sposta lo sguardo verso i cespugli bui e si ferma.
«Certo, e tu pretendi che noi ti crediamo?! Facciamo la fine di prima. Stavamo seguendo quei due e tu ci hai portato da tutt’altra parte. Fortunatamente abbiamo trovato questo pezzo di merda che… tu trasporterai! Muoviti, cervelloide.» – Ermen torna indietro verso il ragazzo e lo pizzica sul braccio per fargli capire chi comanda.
«Ti giuro, vorrei fossero tutti muti.» – Steno sbuffa, socchiude gli occhi e continua a camminare.

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Capitolo 20
*** Un classico litigio tra femmine ***


19. Un classico litigio tra femmine
 
«Non sapete proprio come funzionano le regole dell’Arena!» – Ermen ride sicura di sé.
«Non esistono regole nell’Arena.» – precisa Chimio che si sta massaggiando le dita.
«Sta’ zitto, cervelloide! Parli sempre così tanto?» – Ermen coglie l’occasione per dargli uno schiaffo in testa.
«Lui?» – Steno sorride divertito perché coglie l’ironia della cosa.
«Che cosa vorresti insinuare uomo pesce?» – Ermen si avvicina a Steno e, subito, Medusa si mette tra i due.
«Non credo ti convenga metterti contro di noi. Non mi serve essere una del distretto 5 come lui…» - Medusa indica Chimio - «…per capire che due contro uno non sia vantaggioso… per te che sei l’uno.»
Ermen indietreggia alzando le mani e se la ride, come per prendere in giro l'altra ragazza: «Ritira i tentacoli.»
 
«Fermati, non oltrepassiamo quest’albero.»
Falloppio mantiene Søren con il braccio e si abbassano. Cercano di spiare il gruppo dei Favoriti e vedere dove sia Snow.
«Perché non lo hanno ancora ucciso?»
«Non lo so, Falloppio, non lo so. Chissà cosa passa nella mente di quei ragazzi. Uno più pazzo dell’altro.»
«O siamo noi i pazzi? Salvare un ragazzo che potrebbe ucciderci, prima o poi…»
«Falloppio.»
«No, Søren, pensaci. Arriverà il momento in cui dovremo ucciderci. Cosa faremo? Non ci uccideremo? Il vincitore è solo uno!»
«Allora perché sei qui? Con me? Per salvare Snow?»
«Lo sai il perché.»
«Beh, no, non lo so davvero. Non è una semplice forma di protesta la nostra, ora. È qualcosa di più.»
«Si, lo so. Ma, se l’avessimo fatto? Se avessimo ucciso Snow?»
«Non avremmo avuto un bel niente. Anzi, ti sarebbe piaciuto vincere sporco? Così?»
«Mi piacerebbe non giocare proprio a questi Giochi.»
«Beh, anche a me piacerebbe, ma ora stiamo giocando ed io gioco a modo mio.»
Søren sta guardando Falloppio per fargli capire che deve scegliere da che parte stare. L’Arena è grande, lui può anche andare via.
«Dico solo che...»
«Lo so cosa dici, non sono sorda. Però, se devo morire domani, vorrei pensare che l’ho fatto con la coscienza pulita.»
«A volte una coscienza pulita non basta. Anzi, con una coscienza pulita, ti avvicini di più alla morte.»
«Moriremo comunque.»
«Come mai la fai così semplice?»
«Falloppio… perché è semplice! Io non voglio avere a che fare con i miei demoni anche mentre sto morendo. Voglio morire libera, non con un’anima sporca, corrotta e venduta.»
«Fare grandi discorsi mentre ci si nasconde dietro un cespuglio non è, di certo, una grande idea!» – Level sorride dall’alto vedendo due cuccioli indifesi a terra.
Søren cerca subito di estrarre la spada dalla fodera ma qualcuno la blocca.
«Mi piace quando il mare si agita, a voi altri no?» – Steno sorride, finalmente può divertirsi come preferisce.
 
«L’avevo detto che c’era qualcuno nei cespugli!» – Chimio subito si pente di aver detto ciò e inizia a mangiarsi le unghia.
«Cosa vuoi ora, cervelloide? Un applauso?» – Ermen applaude. – «O un bacino della buonanotte?» – Si avvicina a Chimio e lo colpisce in testa.
«Cosa pensavate di fare seguendoci?» – Level accarezza il viso di Søren.
«Niente.»
«Ho sentito dire che niente è troppo poco!» – Level afferra una ciocca di capelli di Søren e, alzandole il viso e avvicinando le labbra al suo orecchio, le ordina di parlare.
«Allora vi abbiamo seguito per troppo poco.» – Søren risponde con tono di sfida: non si lascerà intimidire da questa banda.
Level sbuffa, lascia la presa e si rialza. Controlla i nodi fatti da Steno con la corda che tiene legate le mani della prigioniera: «Sono nodi forti.»
«Noi del distretto 4 siamo i migliori a fare nodi.» – Steno si vanta delle proprie capacità e Level ne rimane quasi attratta. Si vede ad occhio nudo quella scintilla che prende i due, che li unisce, che li eccita. Entrambi vogliono semplicemente giocare, che siano i Giochi della Fame o altri tipi di giochi.
«Davvero?» – Søren si intromette nella conversazione silenziosa tra i due. – «È questione di vita o di morte qui e voi pensate a fare sesso?»
Medusa che sta legando Falloppio sposta lo sguardo sui due Favoriti e cerca di decifrare il comportamento di Level.
«Vado a bere!» – Level si allontana dal gruppo.
«Davvero ci stavi provando con quella, Steno?»
Medusa aspetta una risposta da parte di Steno. Lo si sente già dal tono della sua voce che quell’accoppiata non le piace neanche un po’.
Falloppio, sfruttando la disattenzione di Medusa che non ha concluso di fare il nodo, si slega velocemente e colpisce, con un pugno, la ragazza. Søren, seduta, si gira e colpisce, con entrambi i piedi, il seno della ragazza che si getta a terra.
«Steno!» – Medusa lo chiama mentre, rialzandosi, si mantiene il naso che sanguina.
Falloppio, scaltro e rapido, acchiappa l’arco e le frecce che sono a terra. Punta una freccia contro Steno che, sorridendo, si getta su Søren.
«Arciere, colpiscimi e lei muore.» – il ragazzo circonda il collo della ragazza con il braccio e le annusa i capelli. - «Cavolo, mi hai fatto arrapare in cinque secondi.»
«Goditi questi altri cinque secondi!» – Søren gli dà una testata da dietro e, alzandosi da terra, gli dà un calcio nei testicoli mentre Falloppio colpisce nuovamente Medusa.
«Fai ancora il duro, distretto 4?»
«Io vi faccio un culo duro!» – Level guarda la scena. Due Favoriti messi KO da due dilettanti: non è di certo la situazione che aveva previsto. Estrae velocemente la pistola, ma Falloppio le si butta addosso. Cadono a terra, cade la pistola che, istantaneamente, Søren calcia lontano. Falloppio, allora, conficca una freccia nella mano di Level. Quest’ultima urla. La mano colpita dalla freccia è incastrata al suolo e le inizia a tremare.
«L’avevo detto che non conoscevate le regole dell’Arena.» - Ermen, sentendo le urla della ragazza, si avvicina per combattere - «Non possiamo lasciare i tributi vivi. Ora vi ammaz...»
Chimio colpisce con un masso il capo di Ermen che cade a terra.
«Ho sempre odiato quando mi davano colpi alla testa!»
Con la punta della freccia, Falloppio taglia la corda che tiene legata Søren ma i due vengono aggrediti da Medusa.
«Non toccare Steno, puttana!»
Tra le urla continue di Level, Steno che si massaggia i testicoli, Ermen che è svenuta, Chimio che non sa cosa fare e Medusa che si è buttata addosso a Søren, Falloppio ferisce la ragazza del distretto 4 con un’altra freccia.
«Ora li ammazzo!»
«Falloppio, dobbiamo salvare Snow, non pensare a loro.» – Søren prende di fretta la sua spada.
«Søren!»
La ragazza già non lo ascolta perché corre per andare a sciogliere le corde che tengono legata la persona che volevano salvare.
Falloppio guarda i quattro Favoriti che sono usciti feriti dalla situazione: «No, non troveremo più una situazione migliore di questa.» - prende una freccia e, quando la sta per scoccare contro il corpo di Medusa, Steno lo spinge.
Chimio che cerca di colpire Ermen sobbalza quando quest’ultima apre gli occhi.
«Cervelloide, scappa che è meglio!»
Søren sta correndo verso il corpo di Snow che ancora giace a terra. Non è scoppiato nessun cannone quindi sarà ancora vivo. Lo trova là e lo slega.
«Ce l’abbiamo fatta!»
Quando lo gira, però, scopre con sorpresa che quello non è Snow, ma il tributo del distretto 7.
Ora un colpo di cannone.
Søren si alza, pensando già al peggio, ma scorge Falloppio correre. Insieme a lui c’è Chimio.
«Scappa!»
I tre corrono, inseguiti da un’Ermen che urla come una matta ma che, dopo un po’, cade a terra.
«Cosa è successo?» – Søren cerca di capire perché corrono.
«Steno si era ripreso, Level aveva preso la pistola ed Ermen stava quasi uccidendo Chimio.»
«E chi è morto?»
«Medusa.»
«Perché?»
«Level ha sparato alla persona sbagliata!»
«Snow?»
«Non era lui.»
«Cosa?»
«Era un altro tributo... che non sono riuscita a salvare.»
 
«È stata la cosa più vergognosa che ci sia mai capitata!» – Ermen tiene sulla testa una busta di ghiaccio che avrà trovato in qualche kit preso alla Cornucopia.
«Non capisco come cazzo abbiamo fatto a farci sfuggire quei tre!» – Level tiene premuto, sulla mano destra, un panno ricavato dal tessuto della maglietta di Medusa.
«Quello stronzo del cervelloide.»
«Si, signorina diamo-la-colpa-di-tutto-a-Chimio ma come merda si fa? Noi eravamo di più.»
«Li abbiamo sottovalutati.» – Ermen non riesce a perdonarsi questo grave errore. – «Basta! Non li lasciamo più vivi. Ora si fa come dice io: li ammazziamo, subito!»
Ermen lascia cadere il sacchetto a terra, impugna la pistola di Level e spara al ragazzo del distretto 7. Un colpo di cannone rimbomba.
«No, non dobbiamo fare così!» – Level si riprende la pistola con la mano “buona”.
«Ora come ora, l’importante è distruggere i nostri nemici.» – Steno concorda con il pensiero di Ermen, attesta che questa è la cosa migliore di fare. – «Eravamo cinque, ora già siamo tre. Più il gruppo si decima, meno possibilità avremo di vincere.»
 «Siamo tre perché siamo stati stupidi, non perché li abbiamo lasciati vivi. E poi, conveniva a tutti sapere che fine aveva fatto Snow! Sbaglio o era il nostro obiettivo comune?» – Level si morde le labbra dall’interno perché sente un dolore fortissimo alla mano destra, quella trafitta dalla freccia.
«Le regole son cambiate: ognuno uccide il primo che passa! Non possiamo lasciare vivi gli altri solo per sapere delle informazioni su Snow. Questi sono i Giochi della fame, non il gioco “troviamo Snow”.»
«Tu eri la prima che voleva sapere dov’era.» - Level sputa a terra e guarda in modo schifato l’altra ragazza del gruppo.
«I giochi sono diversi, adesso. Uccidiamo, non lasciamo vivo nessuno!»
 
Riapro gli occhi.
Una leggera brezza mi accarezza, mi fa stare bene anche se il mio viso è immerso in una pozza d’acqua sporca. Sollevo lo sguardo per capire dove mi trovo e mi rendo conto di essere sempre al punto in cui mi trovavo prima. Sono a terra, illuminato dai primi fasci dell’alba.
Ricordo solo l’inno di Panem e il volto della ragazza del distretto 11, l’ultima morta della prima giornata. Dopo il nulla.
«Lo faccio io!»
«Perché devi farlo tu? Merito anch’io la possibilità di ucciderlo.»
«Già, ma lo uccido io.»
«Perché? Non è giusto!»
«Decidi: lui o lo zaino.»
«Non sono stupida, so che avrei più possibilità di vittoria se uccido lui. Quindi, mi prendo lui.»
«No, lui è mio.»
«È anche mio!»
«Si, non ti permetterò di prendermelo.»
Due persone, chiaramente due ragazze, stanno discutendo. Sembra un classico litigio tra femmine ma chi è il soggetto conteso tra le due?
Provo ad alzarmi ma, proprio come quando ero nella casa rossa, la testa inizia a farmi male. La riappoggio a terra, nella pozza di acqua sporca e chiudo gli occhi cercando di riposare. So che non mi conviene restare a terra ma non sarei capace di fare nulla con questo mal di testa che ha deciso di non abbandonarmi.
«E se lo uccidessimo entrambe? Snow, lo uccidiamo insieme.»
Spalanco gli occhi. L’oggetto conteso tra le due sono io e, sicuramente, questo non è un classico litigio tra femmine.
Lo fosse.

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Capitolo 21
*** Siamo come petali... ***


20. Siamo come petali...
 
«La sai la storia di “Amanda, qua la zampa”?» – Livius ha in mano un mazzo di rose bianche che non sono del tutto schiuse.
«Chi?»
«Dai, “Amanda, qua la zampa”. La conosco tutti nel distretto.»
«Io no.» – mi sento quasi a disagio nel non conoscere questa ragazza.
«Allora ti dico io chi è.»
Ci sediamo lungo il bordo del marciapiede e, mentre Livius si diverte ad aprire delicatamente i petali, mi racconta di questa ragazza.
«“Amanda, qua la zampa” è una ragazza del distretto. Tutti i ragazzi grandi vogliono stare con lei perché tutti dicono che lei sia molto gentile. Mio cugino ha detto che è stata molto gentile anche con lui ma, adesso, nessuno vuole stare con lei perché ha un bambino.»
«Ok… ma non capisco cosa ci sia di divertente.»
«Niente. Ho per caso detto che volevo dirti qualcosa di divertente?»
«E allora perché mi racconti questa storia?» – non capisco perché mi stia parlando di questa Amanda che io non conosco.
«Perché voglio raccontare una storia al mio migliore amico.» – Livius risponde con una spensieratezza unica: sembra che raccontarmi qualsiasi cosa (inutile e non) sia fondamentale per lui.
«E cosa vuol dire “Amanda, qua la zampa”?»
«Ah non lo so. Mio cugino ha detto che tutti le hanno dato la zampa.»
«La zampa? Noi non abbiamo le zampe. Non siamo animali.» - voglio sapere dove abbiamo questa zampa, ho 10 anni e credo che sia arrivata l'ora di sapere se ho una zampa o no, giusto?
«Lo so. Comunque la storia non è finita. Amanda, ora che ha il bambino e che nessuno vuole stare con lei, non esce più da casa. È uscita, però, l’altra sera e ha iniziato a urlare in strada. Urlava e diceva che nessuno poteva giudicarla. Dovevano giudicare l’uomo che l’aveva abbandonata.»
Io ci provo, cerco di capire cosa abbia di interessante questa storia ma proprio non lo capisco.
«Siamo come petali.» - mi dice Livius.
 
«E se lo uccidessimo entrambe?» – a proporre quest’idea è una ragazza con la voce stridula, frivola, quasi infantile. La ricordo dall’addestramento. Lei è bionda, bassina, viziata, con l’idea che tutto le sia dovuto. Azzarderei dicendo che potrebbe tranquillamente rappresentare lo stereotipo della ragazza stupida che si aspettava una grande casa, un marito perfetto, una vita facile.
«Non mi convince per niente quest’idea. Se dopo nessuna delle due riceve quello che le spetta?» – quest’altra ragazza ha una voce diversa, più decisa, forte e capisco che lei è la ragazza del distretto 8. Anche lei è bionda, ha occhi verdi e un carattere un po’ più adatto alla mentalità dei Giochi.
«Ma no, vedrai. Un patto è un patto.»
Le due iniziano a ridere, felici di aver trovato una soluzione al loro problema. Loro sono felici, lo sarei anch’io se mi alzassi da qui, trovassi Falloppio e Søren e, inoltre, capissi di quale patto stanno parlando le due.
«Pensiamo… io gli ficco la spada nel cervello e tu il pugnale nel cuore così siam sicure che muore.» - la ragazza che dice questa frase saltella e applaude sentendosi una dea scesa in terra quando, invece, non è altro che una stronza che cerca di voler rendere la mia morte più atroce.
«Aspetta ho un’idea!» – la più tosta sbotta con questa nuova cosa ed io mi preoccupo seriamente. - «Lo scorso anno un ragazzo ha ucciso uno dei tributi in modo artistico e, dopo, ha ricevuto un paracadute dagli sponsor. Se rendessimo la sua morte artistica, potremmo ricevere qualcosa di più!»
L’altra ragazza cerca di capire ciò che lei dice perché restano entrambe in silenzio per un po’ di secondi.
«Non ho capito.»
«Cosa non hai capito?»
«Tutto.»
Cavolo, lei dovrebbe essere un tributo? Intelligenza pari a quella di una bambola di pezza. Questo suo essere così “appena scesa dalla terra” conferma sempre di più la mia idea: potrebbe tranquillamente rappresentare lo stereotipo della ragazza stupida.
«Dai, te lo rispiego. Allora…»
Mentre l’altra ragazza ritorna a dire il suo “fantastico” piano con parole comprensibili anche al più imbecille degli imbecilli, io provo a strisciare nel fango. Voglio allontanarmi da quelle depravate con evidenti danni cerebrali e poi scappare, andare a cercare i miei due compagni. Mi sento come un verme che va avanti a fatica. Sono costretto a proseguire molto lentamente per non far vedere loro che mi sto spostando. Riflettendoci, se andassi più veloce, credo che non lo noterebbero. Allora cerco di rendere rapido il mio strisciare.
«…e, quindi, adesso dobbiamo pensare a un metodo migliore per ammazzarlo.»
«Che ne dici se lo tagliamo a fettine?» – la stupida del club inizia a proporre le sue idee per rendere la mia morta più artistica.
«Come se fosse il fegato di un animale?»
«Il fegato? Oh mamma, no.» – nella sua voce percepisco perfettamente una nota di disgusto misto al dispiacere. Inoltre pensa ad un animale morto ed è triste, pensa di uccidere me ed è felice? Ma in che mondo viviamo?
«Ma lui non è un fegato, è una persona.»
«Questo vuol dire che ha più sangue?»
«Già.» – io continuo a strisciare ma non posso fare a meno di fermarmi e restare stupefatto dalla conversazione delle due.
«Però, dopo, mi sentirei triste.» – come volevasi dimostrare, la mia teoria sulla stupida del club si dimostra vera.
«Non puoi permetterti di essere triste qua dentro, lo sai? Potremmo morire.»
«Lo so, non sono stupida.» – sto quasi per ridere quando sento quest’affermazione, ma mi concentro per non farlo.
«Avrei qualche dubbio a riguardo.»
«Come, scusa?»
«No, niente.»
«Guarda che ti ho capito. Mi hai detto che sono stupida, mi hai dato della stupida.»
«Ho detto: “ehi, sei una stupida?” No, non mi sembra.»
«Lo hai alluso.»
«Sai davvero cosa voglia dire alludere? Wow, mi stai impressionando.»
«Vedi? Lo hai fatto di nuovo. Io non ti permetto di farlo.»
«Cosa? Chiamarti stupida? Io non ho bisogno del permesso di nessuno, tantomeno del tuo e, poi, non ho detto che sei stupida.»
«Ma non hai il permesso di chiamarmi stupida!»
«E tu non hai il permesso di vietarmi di chiamarti stupida. L’avessi fatto, poi…»
«Lo hai alluso.»
«Ancora? Adesso vorrai dire questo fino alla fine dei tuoi giorni?»
«No, non sono stupida che dico sempre la stessa cosa.»
«Beh, non sembra.»
«Ancora che alludi al fatto che io fossi stupida?»
«Sia, che io sia stupida… non fossi. Guarda, me le tiri da bocca le cose. Io non voglio dirti che sei stupida ma il problema è questo.»
«Quale?»
«Che tu lo sei! Sei stupida!»
«Smettila di dirmi che sono stupida.»
«Guarda, smettila tu! Già ho accettato la tua stupida idea di ucciderlo insieme il ragazzo.»
«A cosa alludi dicendo questo?»
«Intendo, sinonimo di alludere, che la tua idea è stupida. Come te!»
«Smettila di dirmi che sono stupida.»
«Altrimenti?»
Una delle due urla. Sento un tonfo, un rumore pesante. Poi il rumore di foglie che si spostano, pietre che vengono colpite.
Mi volto e scopro che c’è, a terra, il corpo di una delle ragazze. Non capisco bene chi delle due sia perché riesco a vedere solo la chioma bionda.
«Io non sono stupida!» – dopo quest’affermazione capisco chi è la ragazza che giace a terra. 
Guardo inorridito la scena. La ragazza del distretto 6 è ferma, guarda morire l'altra. 
Ecco il colpo di cannone.
«Tu credi che io fossi stupida?» 
La domanda, obbligatoriamente, deve essere rivolta a me: sono l’unico qua, insieme a lei.
«Lei non si è nemmeno accorta del fatto che ti stai muovendo da un bel po’. Io me ne sono accorta, invece.»
La ragazza mi afferra per i piedi e mi tira come si fa con i sacchi di patate. Mi trascina. Cerco di aggrapparmi a qualcosa, di far forza a quel tirarmi in modo famelico ma ottengo solo della terra che si incastra tra le unghia.
«Sai,» - ci fermiamo - «a me non va nemmeno di ucciderti.»
 

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Capitolo 22
*** ...di una rosa bianca ***


21. …di una rosa bianca
 
«Siamo come petali. Non pensi che siamo come queste rose?» – Livius mi fa vedere la rosa bianca che si è leggermente aperta  - «Amanda era così gentile e, ora, è così strana. È come questa rosa, fatta da mille petali. Ha perso quelli gentili, quelli che, toccandoli, sono soffici e delicati. Io non voglio diventare “Amanda, qua la zampa”, voglio restare una rosa bianca.»
«Dovresti smetterla di sentire queste strane storie, Livius. Ti rendono un po’ come “Amanda, qua la zampa”.»
Rido e lo fa anche lui ma, dopo, ritorna a guardare la sua rosa. La analizza, la studia, la ama. Vorrei guardare anch’io, in quello stesso modo, la rosa ma non ne sono capace. Tra me e lui, quello che ha occhi sempre lucenti, vispi e desiderosi del tutto è lui, non io.
 
«Sai,» - ci fermiamo - «a me non va nemmeno di ucciderti.»
La ragazza stanca ed evidentemente scossa si accascia al suolo. Inizia a toccarsi la tuta piena di sangue.
Flashback: Livius è a terra, io lo stringo a me e lui continua a sanguinare, a morire. Ricordo questo episodio nel vedere la ragazza scossa dall’aver ucciso un altro essere umano.
«Io non sono questo! Io non sono stupida e non sono una che uccide.»
Una lacrima le riga il viso. Io la guardo e mi stupisco di quel che sta accadendo. Un minuto fa la bionda stava progettando di uccidermi e, ora, sta piangendo perché ha ucciso non me, fortunatamente, ma un’altra ragazza.
«Tu, uccideresti?» - mi spara questa domanda come un proiettile improvviso.
«Io ho già ucciso.» – le rispondo e inorridisco perché io ho ucciso una persona, proprio come lei. La cosa più tragica, più brutta è che io non ho avuto rimpianti. Certo, ho ucciso uno stronzo ma era pur sempre un qualcuno, una persona che aveva una famiglia che lo aspettava, un essere dotato di un cervello, di un cuore. Il mio dov’è finito? Che sia diventato un pezzo di pietra?
«E non ti sei sentito così? Sporco?»
Flashback: io che urlo al distretto 2 che loro sono quelli sporchi del sangue di Livius, sono loro che hanno ucciso il mio migliore amico, è tutta colpa loro. Rabbrividisco perché sento la voce del Presidente Morse che mi sussurra di ricordare chi è il vero nemico. Gli occhi azzurri, lucidi della ragazza che mi è di fronte, però, non mi ricordano un nemico seppure, in questo contesto, lei lo è. Dovrei, dunque, ucciderla? 
«Non siamo noi quelli sporchi. Lo sono quelli che ci hanno buttato qua dentro. Noi eravamo puliti.»
«Io voglio essere pulita.»
Mi sento quasi in colpa per aver pensato in modo cattivo di questa ragazza. Dimentico che lei aveva intenzione di uccidermi e mi vien voglia di abbracciarla, di dirle che noi possiamo sempre pulirci da tutta questa merda. Così lo faccio. Mi sollevo da terra in modo molto cauto, mi avvicino a lei gattonando e le accarezzo il ginocchio.
Vedo, in lei, una rosa bianca. Lentamente i suoi petali si stanno schiudendo per mostrare il cuore del fiore. Questi Giochi, stranamente, mi fanno capire sempre di più che tutti noi non siamo ciò che sembriamo. Penso a Søren e le sue margherite, a Livius e le sue rose, a Loto, a mio fratello, a Morse (perché sì, anche lui ha mille petali) e non posso che sentirmi un qualcosa di enigmatico anch’io. Non posso che capire, ora, la storia di “Amanda, qua la zampa”. Riesco pienamente a vedere il mondo come lo vedeva Livius.
«Non diventeremo sporchi come loro.» – la particolarità di alcuni di noi, però, è che non siamo fatti da petali di un fiore qualunque. Noi vogliamo essere fatti di petali candidi, puliti, bianchi.
«Davvero?»
«Si. Non saremo sporchi tanto quanto loro e nemmeno più di loro. Se sarà necessario, ci puliremo e li puliremo.» – ecco cosa noi vogliamo essere: petali di rosa bianca.
«Scusa.»
«Di cosa?»
«Stavo per ucciderti prima.»
«Non preoccuparti di questo, ora.»
«Invece me ne preoccupo. È assurdo come questi Giochi ci rendessero…» – sbaglia a coniugare verbo ma non la blocco perché quel che dice è giusto - «…disumani, quasi bestie che, chiuse in uno spazio stretto e piccolo, si odorano e si divorano.»
Già solo dicendo queste parole, la sua voce assume nuovi colori. Non c’è più quella voce stridula e frivola che stonava all’udito, ma c’è una voce che infonde speranza.
«Ora andiamo a trovare un rifugio, va bene?»
La ragazza annuisce e, asciugandosi le lacrime, si alza.
«Grazie per non avermi ucci…» - una freccia colpisce il collo della ragazza che spalanca gli occhi, si strozza la voce e inizia a sputare sangue. Mi guarda e capisco che mi sta chiedendo un aiuto, che mi sta chiedendo come sia possibile una cosa del genere. Un’altra freccia la colpisce e, assumendo uno sguardo assente, cade. Provo a spostarmi ma è vana la cosa perché, oltre a tornare in modo insistente il mal di testa, lei mi crolla addosso.
«Snow!»
Delle voci soffocate si mischiano al fischio acuto che sento e che mi tormenta. Il fischio, poi, viene sostituito dal ripetersi del rombo del cannone che è appena scoppiato. Dopo aver spostato il peso che mi stava addosso, vengo girato e, con sorpresa, c’è Søren.
Mi agito e urlo: «So… Søren! Dobbiamo scappare da qui perché…» - Søren mi guarda e mi blocca.
«È morta.» - me lo dice con un tono tranquillo.
«È morta! Qualcuno l’ha uccisa, uccideranno anche noi… e lei…» - io le dico ciò con un tono agitatissimo.
«Snow, è tutto ok. Siamo solo noi.»
Mi alzo da terra con l’aiuto della ragazza, anche se molto lentamente. Sono felice di vedere Søren e Falloppio vivi ma… la ragazza del distretto 6 è morta. I ragazzi, invece, sorridono: saranno felici di scoprirmi vivo. Insieme a loro c’è anche un altro ragazzo, mi sembra sia il ragazzo del distretto 5. Mi giro e resto a guardare il corpo della ragazza morta.
«Dobbiamo andare via perché qualcuno l’ha uccis…»
«Snow, siamo stati noi.» – Falloppio mi mostra l’arco e le frecce.
«Perché l’avete uccisa?»
«Perché lei voleva ucciderti.» – risponde Falloppio.
«Non è vero!»
«Non lo è?» – mi chiede Søren.
«Già. Lei…» - sto per dire che lei è come una rosa bianca, ma mi fermo.
«Lei?»
«Lei voleva aiutarmi.» - mi volto per guardare quel corpo steso a terra.
I tre si guardano con fare basito.
«Snow, è impossibile.»
«Perché ne siete così certi?» – ritorno a guardare loro e sembrano così sicuri di questa loro teoria che mi fanno quasi arrabbiare. Perché non mi credono? In più c’è il ragazzo del distretto 5 che mi fissa, sta guardando dritto nelle mie pupille e parla a bassa voce tra sé e sé. - «E tu sei…?»
«Chimio, distretto 5, non abbiamo mai parlato insieme.»
«Ora lo stiamo facendo.»
«In te c’è qualcosa che non va.»
Aggrotto le sopracciglia chiedendomi cosa voglia intendere dicendo questa cosa: «In che senso?»
«Le tue pupille sono dilatate, hai un respiro non regolare e…» - mi prende per il polso - «…il battito del tuo cuore è molto accelerato.»
Tutti noi restiamo folgorati dall’abilità di Chimio e quasi ce ne spaventiamo.
«Snow, che ne dici se ci spostiamo da qua?»
 
È pomeriggio.
Finora non abbiamo ricevuto nessun attacco e la cosa mi sembra molto strana. I flashback ed il mal di testa si son calmati. Søren e Falloppio sono davanti. Parlano tra di loro a bassa voce, si girano qualche volta e decidono dove andare. Questo rapporto tra i due, stranamente, mi infastidisce un po’. Quando sono diventati così amici? Se, durante l’Addestramento, Søren perdeva tempo convincendomi di diventare suo alleato e Falloppio si divertiva a smontare le cose, quando si sono conosciuti così tanto da diventare amici?
«Come sei scappato?» – cerco di distrarmi parlando con Chimio.
«Grazie a loro due. Erano venuti per salvare te perché è successo tutto un casino, una storia lunga.»
«Ehi, abbiamo, per caso, poco tempo?»
«Beh, ero uscito sano e salvo dalla Cornucopia. Io mi son ritrovato nel gruppo dei Favoriti grazie a Medusa e Steno. Ermen mi chiama cervelloide…» – nel dirmi questo il suo sguardo diventa lucido - «…e stavamo seguendo Søren e Falloppio ma io ho sentito dei rumori. Suggerisco, così, di seguire quei rumori credendo che fossi tu ma, invece, era Carso, il tributo del distretto 7. Lo abbiamo catturato perché credevamo sapesse dove ti eri nascosto, ma non ci rispondeva. Così Level ha proposto di tormentarlo, di rendergli la vita impossibile per ricevere delle risposte. Arrivati in quella che forse era una grande fontana, ci siamo accampati e lì ho sentito altri rumori tra i cespugli: erano Søren e Falloppio. Loro erano lì perché credevano che tu fossi il nostro prigioniero.» – sorrido perché penso al coraggio e alla forza di quei due ragazzi che hanno rischiato la loro vita per poter difendere me. - «Loro stessi sono stati fatti prigionieri ma Medusa e Steno hanno perso il controllo della situazione ed è iniziata una battaglia. Era da cardiopalma quella situazione. Ti giuro, sembrava essere uno di quei video delle vecchie edizioni. Søren era scappata per salvare te. Alcuni di loro erano feriti ma Level ha cercato di sparare contro Falloppio senza riuscirci. Così è morta Medusa mentre Falloppio ed io siamo scappati.»
«Come mai sei scappato con Falloppio?»
«Ermen è cattiva. Cattiva davvero. Io ho aiutato Falloppio, io l’ho colpita.»
«L’ha colpita anche bene!» – Falloppio si intromette nella conversazione e sorride, fiero e orgoglioso di Chimio.
Si gira anche Søren che sorride, il suo è un sorriso triste.
«Che c’è Søren?» – le chiedo.
«Sono successe molte cose da quando siamo qui e… abbiamo perso Loto, Carso e…»
«E… stiamo uccidendo.» – è questa la mia affermazione che smuove le acque. – «Io ho ucciso Tacito, Falloppio ha ucciso quella ragazza e io sto ancora aspettando una vostra risposta! Perché, prima, eravate così sicuri che lei volesse uccidermi?»
«Perché sapevamo che non era una tua alleata.» – Falloppio risponde.
«E perché…»
«Søren! Avevamo deciso che glielo avremmo detto più tardi!» – Falloppio cerca di bloccare la ragazza ed io, ora, sono più curioso di scoprire cosa abbia da dirmi.
«Di cosa parlate voi due?» – i due si guardano, evitano il contatto con i miei occhi.
«Tu sai cosa sta succedendo, Chimio?» – anche lui evita il mio sguardo.
Søren si avvicina a me e, guardandomi negli occhi, sputa il rospo: «Al diavolo! Glielo devo dire. La sera dell’intervista, dopo lo spettacolo, tutti noi siamo stati convocati da Morse in persona.»
«Io non c’ero.» – ripenso a quella sera, io ero da Victor.
«Già. Tu non c’eri perché Morse…» - si blocca, prende un respiro e ritorna a parlare. – «…non so neanche come dirtelo. Vedi, Snow, Morse ha promesso dei vantaggi alla persona che ti avrebbe ucciso!»
Al sentire la notizia rido. È una cosa assurda da fare, no? Che senso ha mettere una “taglia” sulla mia testa?
«State scherzando? È troppo insana come cosa.»
Le facce dei tre ragazzi, però, sono fin troppo serie. Mi guardano come se fossero dispiaciuti per me perché sanno che tutti hanno un motivo in più per volermi morto.
«È di Morse che stiamo parlando, Snow. Non è già insano mettere in atto questi Giochi?»
Smetto di ridere. Divento serio e, pensandoci bene, tutto si fa chiaro. Capisco perché le due ragazze volevano uccidermi ad ogni costo, capisco perché Chimio ha dirottato il gruppo dei Favoriti verso il ragazzo che credevano essere me invece di seguire Falloppio e Søren.
Capisco di essere fottuto!

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Capitolo 23
*** Prometti di non dimenticarti mai di me ***


22. Prometti di non dimenticarti mai di me
 
«Lumaca.»
«Ti prendo!»
«Come sei lento!»
«Lento, io? Aspetta.»
«Sei troppo lento, lumaca!»
«Io sono una lumaca ma tu?»
«Io sono velocissimo, non mi prendi!»
Io e mio fratello stiamo correndo tra i prati del distretto 2. Sto cercando di prenderlo ma non ci riesco, è davvero più veloce di me. Non m’importa vincere, però. M’importa semplicemente passare del tempo con lui perché è sempre bello stare con il mio fratellone.
«Ehi, Snow!»
Mi giro, ma non sono io lo Snow che stanno chiamando. È da quando siamo venuti nel distretto 2 che non veniamo più chiamati con i nostri nomi perché ritenuti troppo “pesanti”, troppo diversi. Qui, nei distretti, non amano molto le particolarità che Capitol City, invece, ama.
«Ehi!»
«Che cosa stai facendo con il bamboccio, qua?»
«Lui è mio fratello.»
«Appunto. Cosa ci fai con il bamboccio, qua? Dai, vieni con noi.»
«Ma io…»
«Snow, preferisci stare con il moccioso invece che venire a stare con noi?»
Mio fratello li guarda e non risponde. Allora il ragazzo più grande (deve essere il capo del gruppo) sorride: «Ragazzi, andiamo, la mammina ha da fare.»
Tutti scoppiano a ridere.
«Aspettate!»
Mio fratello mi guarda e, senza dirmi niente, va via con loro.
 
«E voi? Perché non mi uccidete? Avreste dei vantaggi!»
Søren mi guarda e mi fa capire che è la domanda più stupida che io le abbia mai fatto.
«Snow, la verità è che, per ora, stiamo meglio insieme. Poi si vedrà.» – Falloppio è sincero. Io temo, inoltre, che egli è qui per un’altra ragione di nome Søren.
«Io…» – Chimio parla a bassa voce, quasi impaurito di parlare - «…non ce la farei da solo, qua dentro. Ed Ermen… e…»
Capisco di aver esagerato. Dovrei mostrare gratitudine verso questi ragazzi e, invece, non faccio altro che attaccarli perché non sono abituato ad avere difese a cui aggrapparmi, di cui fidarmi. L’unica persona di cui mi sono fidato ciecamente è stato Livius.
«Scusate, ma… questi Giochi mi… io, scusate.»
Loro sorridono e Søren mi dice che non fa niente, è normale avere delle preoccupazioni, farsi delle domande.
Torniamo, quindi, a camminare. Io ho dei continui flash di cui il protagonista è Morse. Vedo, come se fossero video, i suoi discorsi, i suoi modi, i suoi sorrisi, i suoi occhi, il suo gatto.
«Voi avete capito cos’è l’Arena?» – Chimio distrugge la visione dei miei flash riportandomi alla realtà. - «È il secondo giorno che stiamo in quest’Arena e non sappiamo ancora dove ci troviamo.»
Io, ovviamente, sono quello che ha visto di meno. Loro sono stati più svegli di me, nel vero senso della parola. Io sono svenuto almeno due volte in un giorno, ho dovuto anche far finta di esserlo e sono stato molto tempo nella casa rossa.
«L’anno scorso qual era l’Arena?» – chiede Falloppio.
«Mi sembra fosse un’isola vulcanica. L’ultimo giorno il vulcano ha eruttato.» – risponde, subito, Søren.
«Qua c’è un fiume, qualche stagno ma niente mare e niente vulcano.» – Chimio si lecca il dito e lo alza in aria. Io lo ammiro. Non posso che rimanere affascinato da questo nuovo personaggio entrato a far parte del gruppo. Sa così tante cose: il mio cervello, molto probabilmente, vale un quarto del suo. Forse, però, dovrei smetterla di avere una particolare simpatia per i tributi perché questi o muoiono o sono strani o mi rendono geloso. No, geloso no. Non sono un tipo geloso. Di cosa dovrei essere geloso? Di Søren e Falloppio che continuano a fare gruppetto? No, non ho motivo di essere geloso.
«Il vento proviene da quella parte.» – indica la destra - «Credo che là ci sia qualcosa che lo crei questo vento.»
Guardo Chimio e resto sconvolto: ma da dov’è uscito questo ragazzo? Io non avrei mai potuto pensare a questa cosa. Poi c’è qualcosa nei suoi occhi, nel suo essere che mi spingono a volerlo conoscere a fondo.
«Cosa suggerisci?» – chiedo a Chimio.
«Lo stai chiedendo a me?» – il ragazzo sembra sorpreso.
«Si.»
«Io…» - sembra che lo abbia preso un po’ alla sprovvista, non si aspettava una domanda del genere.
«Andiamo verso il vento?» – propone Falloppio.
Chimio fa cenno di no: «No, meglio proseguire dritto. Abbiamo bisogno di una difesa.»
«La casa rossa!» – esclamo.
«La casa rossa?» – Chimio è un po’ scettico. – «Non credo che una casa sia un’ottima difesa. Le case, d’altronde, le hanno messe gli Strateghi. Potrebbero esserci mille trappole.»
«Io, quando sono uscito dalla Cornucopia, sono entrato in quella casa, ho trovato del cibo che ho mangiato e non mi è successo niente.»
«Allora andiamo nella casa rossa.» – Søren si anima di forza e coraggio, sorride e s’incammina verso la strada opposta a quella che stavamo facendo finora.
«E se andassimo in un’altra casa?» – chiedo – «Così cerchiamo del cibo.»
«Cavolo, ho davvero fame!» – esclama Falloppio.
«Allora andiamo alla ricerca di un’altra casa.» – Søren sembra acconsentire a qualsiasi idea.
«Non mi fido di queste case.» – Chimio continua ad essere scettico.
«Allora proponici tu un luogo in cui nasconderci e trovare del cibo.» – Falloppio cerca di strappargli qualcosa e fa anche bene.
«Nascondiamoci nella foresta!» – Chimio, girandosi, la indica col dito.
 
Continuiamo a camminare. È ormai vicino l’imbrunire, e anche la foresta.
Io mi guardo attorno: ci sono case disabitate, porte che sbattono a causa del vento, finestre con vetri rotti, strade distrutte, ma anche altre mantenute bene. Da lontano posso ancora vedere la punta di proiettile della Cornucopia. Alcune strutture dovevano essere negozi e ci sono molti laboratori di alcuni dottori. Non so a cosa possono essere stati utili questi dottori, soprattutto in un paese deserto. L’Arena può davvero essere una cosa così insulsa? Insomma, la cosa più pericolosa era la Cornucopia. Può davvero essere tutto così semplice da affrontare?
«Ehi, distretto 2.» – Søren ha deciso, stranamente, di abbandonare Falloppio e inizia ad avere una conversazione con me.
«Non avevamo smesso di chiamarci così già da tanto tempo?» – ricordo, con molto piacere, quella sera passata con lei.
«Però è sempre bello tornare alle vecchie abitudini.» – sorride ed io, istintivamente, la imito. È una cosa che va da sé.
«Beh, dipende…»
«Certo, se devo tornare a parlare con il ragazzo che aveva perennemente il ciclo, allora no. Lasciamo che le vecchie abitudini restino vecchie.»
Ridiamo, mi fa bene ridere in questo clima distopico.
«Come stai?» – le chiedo seriamente.
«Bene.» – mi risponde mentendo.
«Ok, riformulo la domanda: come stai?»
«Male.»
Questa scena mi ricorda una conversazione avuta tra me e Livius. Lui mi chiedeva di renderlo partecipe dei miei pensieri e mi rimproverava, in modo sempre affettuoso, di essere assurdo perché facevo sempre finta di niente. Ricordo ancora lui mangiare quella barretta di cereali.
«E tu come stai?»
«Male.» – non provo nemmeno a fingere, non ho proprio voglia.
«Beh, potremmo farci compagnia stando male, insieme.»
La guardo. Se solo questa ragazza l’avessi incontrata prima… Avremmo potuto fare un bel trio: io, lei e Livius. Se ci fosse stata anche Cosima, sarebbe stato perfetto. E Victor, e Caesar, e Loto, e Falloppio, e Chimio. Cazzo, perché devo incontrare persone fantastiche quando, ormai, non posso godermele a fondo?
«Sarebbe una cosa bella, avere qualcuno.»
«Snow, hai me!»
A quest’esclamazione resto di stucco. Mi blocco, divento quasi come pietra perché questa è, inevitabilmente, una di quelle cose a cui ti aggrappi con tutto te stesso. Dire una cosa del genere è come promettere di restare per sempre. Io sento di aver bisogno proprio di questo.
«E… Søren, promettimi che, se resterò indietro, tu non mi insulterai, non mi lascerai dietro. Promettimi che non mi lascerai solo perché io non sono chi dovrei essere. Promettimi che tu mi resterai accanto, non mi abbandonerai per stare con qualcun altro. Prometti di non dimenticarti mai di me?»
«A pensare che tu eri quello che non voleva allearsi con me…» – Søren prende un gran sospiro, le trema il labbro inferiore e sta guardando il cielo. - «…e, ora, mi affidi la tua vita.» – ride. – «Anzi, lo ricordi? Mi avevi detto esplicitamente che non volevi allearti con me perché, così, ti stavo affidando la mia vita. Non è passata una vita da quel momento, ma solo qualche giorno. Ci cambiano davvero questi Giochi, eh?»
«No, ci cambia il mondo, ci cambiano le persone. Non diamo tanto potere a questi Giochi!»
«Giusto, il potere lo abbiamo noi!»
«Già, noi non siamo sporchi.»
«Eccoci!» – Chimio urla verso di noi.
Søren si avvia verso i due ragazzi ma si ferma e si volta verso di me: «Lo sai che è ovvio, vero?»
«Cosa?» – le chiedo.
«Non ti ho risposto prima ma è ovvio che non ti abbandono, che non mi dimentico di te. Tu, con una sola parola, sei riuscito a far scappare i demoni miei. Vorrei fare lo stesso io con te, ma non ne sono in grado. L’unica cosa che so far…»
«Fidati,» - la interrompo - «riesci a fare lo stesso anche tu, riesci a farmi sentire vivo seppure siamo in una gabbia di morte.»
Sorridiamo, ci scambiamo uno sguardo d’intesa che dice tanto, forse tutto, e ci avviciniamo al gruppo. La foresta e quest’altra parte dell’Arena sono divise da un’alta serie di fili spinati. Cerco di oltrepassarli ma qualcosa mi punge e ricevo una scossa elettrica. Istintivamente indietreggio e metto l’indice in bocca per calmare il dolore.
«Ho preso una scossa.»
«Cosa?» – Søren mi guarda.
«Ho preso una scossa, come se ci fosse della corrente.»
«Corrente elettrica, come nei distretti.» – Chimio si avvicina a un filo e lo analizza.
«Anche nel distretto 3 abbiamo i confini delimitati da fili elettrici.» – Falloppio controlla l’ambiente circostante.
«Se stessero ricostruendo i distretti, qua dentro?» – Søren suggerisce una probabile Arena.
«Ma questa è l’Arena. Che senso avrebbe creare un’Arena uguale ai distretti?» – Falloppio si gratta il capo.
«Si, ok… bravi tutti, ma comunque c’è la corrente elettrica.» – rispondo in modo quasi infastidito perché ora non importa dove siamo. Il problema attuale è che non possiamo andare avanti.
«Però, se…» - ritorno davanti alla “barriera” e tento di oltrepassarla non toccando i fili. Di fatti vi trovo alcuni spazi, tra i fili, molto larghi. Questi spazi mi danno l’impressione che qualcuno abbia forzato i fili per poterci passare attraverso e scappare.
Faccio attenzione a non farmi colpire da niente, a non toccare il ferro, a non ricevere nessuna scossa e ci riesco.
Sorrido soddisfatto del mio lavoro: «Ce l’ho fatta!»
«Snow…» - Chimio mi chiama a bassa voce e, con le mani, m’indica di star calmo. - «Stai fermo.»
«Che c’è?» – mi giro e, davanti a me, c’è una barriera umana di Pacificatori.
«Cosa non capisci di “stai fermo”? Parliamo due lingue diverse?» – mi chiede Chimio.
«Oh, ca…!»
Non faccio neanche in tempo di dire quella parola che i Pacificatori puntano i fucili verso di me e iniziano a sparare contro i miei piedi.
 
È la prima volta che dormo lontano di casa. È così strano non dormire nel proprio letto, non sentire i rumori che, ormai, sei abituato ad ascoltare e sentirne di nuovi. Dovrei sentirmi, forse, terrorizzato dall’essere, nel cuore della notte, in una casa che non è mia? Ma non è così che mi sento, niente affatto. Mi sento sereno, tranquillo e felice di essere qui.
Guardo fuori la finestra e contemplo la luna. La sua luce illumina il distretto 2 rendendolo un ambiente simile a quello che si vede nei quadri. Mi piace questa sensazione, questa calma, questa casa.
«Sei in grado di mantenere una promessa, non tradirla?» – credevo dormisse e, invece, è ancora sveglio.
«Non sono mai stato bravo con le promesse.» – è la pura verità: io e le promesse non siamo mai stati ottimi compagni.
«Ma, per me, lo diventeresti? Tenteresti di essere bravo con le promesse?»
«Ho paura che, se ti dicessi sì e mandassi, poi, tutto a quel paese, ti deluda.»
«Beh, tu prova a non mandare tutto a quel paese.»
«Ci proverò…» – sorrido e faccio cenno di sì. - «…e la promessa qual è?»
«Prometti di non dimenticarti mai di me.»
«E come potrei, Livius? Anche se provassi a farlo di proposito, rimarresti un ricordo vivo. Sei il mio migliore amico.»
 
 
 

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Capitolo 24
*** Come se volesse lasciarsi morire ***


23. Come se volesse lasciarsi morire

Non ho dormito tutta la notte.
Gli occhi sono rimasti costantemente aperti. Ho ascoltato tutti i rumori, i passi dei Pacificatori, i rumori di coloro che stanno costruendo il palcoscenico, la voce di Victor Vict che passa davanti le nostre case.
Ora che è mattina sento il cuore battermi in gola. Ho paura. Non credevo mi sarei sentito così ma… cavolo, mi sento così. Sto scoppiando, l’ansia mi assale e non posso star tranquillo.
Mio padre sta parlando con mio fratello, prima o poi parlerà anche con me. È il mio primo anno: vorrà dire qualcosa anche a me. L’ho pregato così tanto, in questi giorni, di addestrarmi ad usare l’ascia ma, come sempre, ha solo lavorato con mio fratello. Di me è come se si dimenticasse ma non questa volta. No, questa volta sa che tocca anche a me, che anche il mio nome è in una delle due ampolle in cui ci sono tanti bigliettini quanti siamo noi ragazzini dai 12 ai 18 anni del distretto 2.
Questo è il mio primo anno. Ho paura ma, al tempo stesso, sono emozionato ora. Mio padre mi dirà qualcosa. Me la dovrà dire.
Ma suona la campana, è il momento di uscire di casa e andare in piazza.
Mio padre sta piangendo e abbraccia mio fratello. Lo stringe così forte che temo possa morire soffocato. Abbraccerà anche me.
«Tu non hai paura, Snow?»
Siamo tutti in piazza. Livius, tra poco, mi lascerà perché non è ancora il suo turno, ancora non c’è il suo nome in una delle ampolle.
«Snow, hai paura?»
«Livius, puoi abbracciarmi? Almeno tu, puoi abbracciarmi?»
Lui mi abbraccia ed io sento che solo di lui posso fidarmi, con tutto me stesso. È l’unico abbraccio che ho ricevuto oggi e, ora, non ne desidero altro.
«Tieni, una rosa bianca per te.»
«Non ti sopporto più con queste rose bianche!»
Lui ride, io sono anche un po’ serio ma rido insieme a lui perché… perché non lo so. Quando vuoi bene ad una persona, fai cose senza motivo.
 
«Spostati!»
Schizzano in aria pezzi di terra. Cento proiettili colpiscono il suolo. Non smette il suono dei colpi delle mitraglie. Alcuni proiettili rimbalzano sulle mie scarpe senza farmi del male.
«Non avevi detto che non avresti sorriso?»
Io sto fermo.
«Io non sono pronto per andare nel forno.»
Sento qualcuno parlare ma non capisco bene ciò che questa persona dice perché il rumore dei colpi è forte. Spostarmi, poi, è completamente impossibile. Non riesco a trovare una porzione di terreno libero dai loro spari, una zona sicura: solo dietro la barriera di fili elettrici si è certi di non essere colpiti.
«Allora perché non mi rendi partecipe dei tuoi pensieri?»
Sento a stento questa frase. Io, nel frattempo, cerco di fare un passo all’indietro per evitare di morire quest’oggi. Non succede niente: sono ancora vivo, ho ancora tutti e due i piedi intatti.
«Lo sai? Mi sei sempre stato simpatico. È tutta colpa dei tuoi capelli. Sono troppo chiari. Anche i tuoi occhi. Sembri essere gelido come il ghiaccio ma dentro c'è un cuore liquido.»
Qualcuno parla tra la confusione ma non capisco chi. Io mi sbrigo a fare un altro passo all’indietro.
«Puoi parlare con me perché io sono un tuo amico, io ci sono a prescindere da tutto. Sto qua. Non andrò mai via, neanche se fossi costretto!»
Ho un colpo al cuore. In mezzo ai Pacificatori vedo Livius. È un attimo ma lo vedo, è chiaramente lui. Anche la voce che finora ha parlato è la sua.
«Snow!»
«Odio quando fa così!» – urla Søren.
«Così come?» – chiede Chimio.
«Così come uno stupido, come se la vita che avesse fosse indistruttibile, come se volesse lasciarsi morire.»
Io li sento parlare di me, ma non faccio niente. Là in mezzo c’era Livius e… io devo riuscire a prenderlo, a vedere se è davvero lui, a scoprire se quella voce è davvero la sua.
«Cosa abbiamo fatto per farci odiare così tanto?»
Cammino in avanti. Contro ogni previsione e ogni criterio di ragione, io faccio il mio primo passo avanti verso i Pacificatori, verso i colpi di mitraglia. I proiettili scavano nell’erba. I miei piedi sono circondati da colpi che hanno l’intento di bloccarmi ma io non ne ho la minima intenzione. Devo andare da Livius.
«Snow, un giorno creerò delle medicine che chiamerò con il nostro nome. La medicina Livius che serve a curare ferite di scottatura e la pozione Corolianus che serve a far ricrescere un arto.»
Eccolo lì! È nascosto dietro il corpo di un Pacificatore che sta caricando l’arma.
«Livius!» – urlo, devo riuscire a catturare la sua attenzione, deve capire che lo sto cercando, che lo vedo.
Continuo ad andare avanti, questa volta più velocemente e, insieme a me, vengono avanti i Pacificatori. Alcuni hanno smesso di sparare per corrermi incontro. Uno mi sta saltando addosso, ma una freccia di Falloppio lo colpisce.
«Livius, fermati!» – urlo più forte di prima.
«Voglio raccontare una storia al mio migliore amico.» - Livius inizia a correre. Sta ridendo. Ha un vestito tutto bianco, immacolato ed è felice. Vorrei essere felice con lui.
«Liv…!»
Una mano mi afferra la tuta e mi tira all’indietro. Io mi oppongo e, liberatomi, continuo ad andare avanti perché Livius si è fermato, si è inginocchiato per prendere una rosa.
«Guarda, sta crescendo una rosa bianca.» - sta prendendo una rosa bianca, le sue preferite.
«Livius, sono qui!»
Lui continua a parlare. Ripete cose che già mi ha detto in passato ma le dice senza guardarmi negli occhi. Io cerco di raggiungerlo ma, di nuovo, una mano mi afferra e mi costringe a girarmi: è Søren.
«Aggrappati a me, non a Livius: lui non esiste!»
«Ma lui è…»
«Prometti di non dimenticarti mai di me.» – Livius, quest’ultima cosa, la dice quasi lamentandosi, quasi piangendo.
Io e Søren siamo circondati dagli spari. Ci stiamo guardando, anche se io non voglio guardare lei.
«No, lui è morto, Snow! Ora hai me! Te l’ho promesso anche io: non mi dimenticherò di te. Ma tu… Quello è…»
Søren si blocca, sta mirando qualcosa oltre le mie spalle.
«Papà.» – sussurra la ragazza.
«Papà?» – mi volto, un Pacificatore si è tolto il casco. È un uomo: capelli scuri, un gran sorriso che è identico a quello di Søren. Lui tiene per mano Livius e si avvicinano entrambi a noi iniziando a parlare.
«Beh, mi hanno tagliato e mi stanno buttando nel forno. Un mondo perfetto, non trovi?»
«Livius!» – lo richiamo mentre inizia a dire cose senza senso sebbene siano sue vere parole.
«Guarda, sta crescendo una rosa bianca.» - mi punta, sono io la sua rosa bianca. - «Siamo come petali.»
Con l’indice mi tocca il viso e quel contatto sembra essere così vero, vivo. Falloppio, però, ci divide e mi tira fuori da questa situazione così surreale. Chimio, invece, sta portando via Søren.
«Ma, per me, lo diventeresti? Tenteresti di essere bravo con le promesse?» - Livius mi tende le braccia.
Sia io sia Søren cerchiamo di resistere ai nostri due compagni. Noi vogliamo restare da questo lato dell’Arena, vogliamo restare con Livius e papà. Do, quindi, una gomitata a Falloppio e mi libero di lui. I Pacificatori non hanno smesso di sparare contro i miei piedi ma, ancora, non mi feriscono.
Falloppio ritorna a prendermi e, dopo aver urlato qualcosa contro Chimio, mi spinge all’indietro scaraventandomi contro la barriera di fili elettrici. La stessa cosa fa Chimio con Søren. Il ferro mi punge il collo e le scosse viaggiano indisturbate lungo la mia schiena. M’inginocchio perché il dolore è interminabile. Mentre soffro, m’immobilizzo a guardare Livius che, pian piano, sta scomparendo. La sua figura nitida e vera diventa progressivamente più trasparente fino a sparire del tutto.
«Livius!» – lo sto chiamando ma la voce è assente, non emetto alcun suono e lui, no, neanche questa volta resterà. Di nuovo, lo vedo morire ed io sono impotente.
 
«Sbrighiamoci!»
Sento Falloppio. È agitato, tantissimo. Io sono steso sull’erba e, aprendo gli occhi, vedo che è sera. Non sento più i Pacificatori sparare ma il mal di testa è tornato a far visita.
Mi stanno spalmando una crema addosso. Stanno facendo tutto in modo frettoloso, così tanto che cade il barattolo a terra e la crema si spappola tutta sulla terra. Così Falloppio e Chimio sono costretti a usare la crema, ormai, sporca. La stanno spalmando lungo le ferite causate dalle scosse elettriche.
Nessuno dei due si è accorto che ho aperto gli occhi ma, quando lo fanno, sorridono sollevati.
«Si è svegliato!»
«Snow! Sei sveglio!»
Chimio prende una delle bottiglie d’acqua che ho nello zaino e mi fa bere un sorso d’acqua. Falloppio, invece, corre a spalmare altra crema sulle ferite di Søren.
Siamo dall’altra parte dell’Arena, quella sicura, e dei Pacificatori non c’è segno. Nemmeno di Livius e del papà di Søren.
«Svegliati, svegliati, svegliati!» - Falloppio ripete più volte quella parola. Io sposto la bottiglia da cui stavo bevendo e, gattonando, mi avvicino al corpo della ragazza.
«No, ti prego, non mi morire anche tu!»

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Capitolo 25
*** La bomba ***


24. La bomba
 
«Svegliati!» Sia io sia Falloppio continuiamo ad agitare il corpo immobile di Søren, speriamo che si svegli da un momento o l’altro, ma lei non lo fa. Lei resta con gli occhi chiusi e non intende aprirli.
«Spostatevi!» – Falloppio, subito, si sposta lasciando piena fiducia a Chimio che dà l’impressione di sapere quello che fa. Io lo guardo e mi affido alla lucentezza di quegli occhi ma non mi sposto.
«Non è morta ancora. Avremmo sentito il cannone.» - Chimio si inginocchia e abbassa la zip della tuta di Søren.
«La spoglio perché… faccio così per la posizione delle mani e per aver contatto con il torace.» – Chimio arrossisce e si giustifica con noi che stiamo penando per lei.
«Chimio, fa quel che vuoi. Solo… sbrigati!» – urlo.
«Ok, contate tre secondi ogni volta che compio una compressione.» - Chimio intreccia le dita delle mani mantenendole leggermente sollevate e inizia a fare pressione sul torace. Si muove, su e giù, con braccia rigidamente dritte. Io e Falloppio contiamo ad alta voce e, allo scadere dei tre secondi, Chimio ritorna a fare pressione. Anch'egli, però, conta. Conta ad alta voce quante compressioni compie. Dopo un po’ tappa il naso di Søren con una mano mentre con l’altra le tiene aperta la bocca. Così inizia a soffiare. Velocemente ritorna al torace e riposiziona le mani nel modo in cui le teneva prima. Io ritorno a contare i secondi e Chimio le compressioni.
«Ragazzi!» – Falloppio ci urla contro per farci notare che, finalmente, Søren ha aperto gli occhi.
La guardo e mi sento leggero, sollevato, felice.
«Chimio…» – lo guardo. - «…l’hai salvata!»
«Io…» - lui, come sempre, sembra essere sorpreso dalle sue stesse abilità.
«Soren!» – lei è spaesata ma, almeno, ha gli occhi aperti.
«Ha bisogno di riposo… e dovrebbe mangiare e bere.»
«Se non ci fossi stato, io non so come avremmo fatto.» - Chimio arrossisce, di nuovo, ma è la verità. Subito, dal mio zaino, caccio una delle due bottigliette d’acqua e la carne essiccata presa dalla casa rossa. Ci preoccupiamo di far mangiare prima lei e, poi, mangiamo e beviamo un po’ anche noi altri.
«Hai bisogno di riposo anche te.» – mi dice Chimio. - «Resteremo di guardia io e Falloppio.»
«Ma… non ne ho bisogno.»
«Invece si! Vai, Snow!» – Falloppio sorride e, allora, mi sdraio accanto a Søren.
Lei, sentendo qualcuno vicino, apre subito gli occhi ma, quando vede che sono io, si tranquillizza e sorride.
 
Mi risveglio che è mattina. Non mi ha svegliato neanche l’inno di Panem.
«Ciao.»
«Buongiorno, Snow!» – Chimio sorride.
«Ora andate a dormire voi.» – ordino loro.
«Ma…»
«No, ne avete bisogno.»
Falloppio mi vuole dare arco e frecce ma non le so usare e, quindi, gliele lascio. Io impugno il pugnale che ho nello zaino: sarà questa la mia difesa. Si risveglia anche Søren. Ci mettiamo, così, a fare da guardia mentre gli altri due dormono.
«Snow?»
«Si…»
«Secondo te, era vero?» – Søren sta guardando verso la foresta.
«Sei tu che mi hai detto che non era vero.»
«Lo so… ma… lui mi ha toccato e la sua mano era forte, calda, vera.»
«Anche Livius era… vivo.»
«Ma non è possibile, giusto?»
«È l’Arena.»
« Dove cavolo ci troviamo?» – Chiede Søren guardandosi attorno. - «Non posso credere che questo sia un distretto. Nei nostri distretti, o almeno nel mio, i morti restano morti.»
«Anche nel distretto 2 i morti non tornano a parlare e respirare.»
«Allora che gioco è questo?»
Vorrei rispondere, ma non ho una vera risposta da dare. Quest’Arena è davvero strana. Oltre la recinzione elettrica, c’è questa foresta in cui vi sono i morti e appaiono Pacificatori. A me, inoltre, non sembra di ricordare esseri umani, che non siano i tributi, nell’Arena. Questi Pacificatori cosa fanno qua? Oltre a questi pericoli, ci sono case di color grigio, porte rosse o gialle, i tetti sono tutti di un nero lucido. Alcune finestre si aprono e si chiudono. Le strade sono composte di altro materiale lucido. Sui rami degli alberi c’è una moltitudine di foglie rosse, gialle e marroni. L’unica cosa carina è che questi alberi si ripetono come se fossimo in un viale autunnale che invita le persone a passeggiare. Strano fatto, però, è che gli alberi della foresta sono tutti verdi.
«Siamo finiti in qualche città del futuro?» – azzarda Søren.
«Non credo che il futuro sia così. In verità non ne ho la più pallida idea.» - nella mia testa iniziano a susseguirsi più immagini con una caratteristica predominante: la morte. - «So solo che questo è l’inferno!»
«Non mi piace l’inferno.» – Søren cerca di riscaldarsi stringendosi.
«Hai freddo?»
«Già… non credevo che, di mattina, facesse così freddo nell’Arena.»
«Sono contento che tu sia viva.»
«Anch’io sono contenta di essere viva. Insomma, voglio assistere al grande disastro finale dell’Arena.»
«Non scherzare su queste cose, Søren. Mi sono sentito strano, preoccupato per te mentre eri a terra, svenuta. Ho già perso una persona importantissima nella mia vita e, stranamente, sento di perderne altre mille, anche se non ne conosco. Tu brilli tra queste mille e…»
«Ricordi la promessa? Io sì. Sono rimasta per combattere al tuo fianco.»
Sorrido e m’illudo che quella sia la verità. È sempre gratificante credere alle belle cose, no?
Ma non c’è tempo. Non c’è tempo di riposare, di chiudere occhio, di poggiarsi sugli allori che, subito, un rumore si propaga per tutta l’Arena. Vediamo un pezzo di terra alzarsi fino a toccare quasi il cielo. Esce qualcosa da quel polverone alzatosi.
«Cosa merda ci fa un aereo qua dentro?»
Falloppio e Chimio si svegliano improvvisamente e balzano in piedi cercando di capire cosa cavolo stia succedendo.
«Per i nemici di Panem! Panem oggi, Panem domani, Panem per sempre!» - una voce computerizzata urla dall’alto queste parole e, aprendosi un portellone, cade qualcosa dal cielo.
«È una bomba, cazzo!»
Iniziamo a correre. Fortunatamente abbiamo mangiato, riposato (almeno io e Søren) sennò sarebbe stata la fine per me, noi tutti. La paura mi assale ma, al tempo stesso, mi regala l’energia e l’adrenalina per correre in modo più veloce del solito. Devo evitare la bomba, scansarla, allontanarmi il più possibile. Lo stesso devono fare i miei compagni.
«Dove andiamo?» – urla Søren. Io non so proprio cosa risponderle e sento la bomba sempre più vicina al suolo. Tocca suolo, però, anche Chimio. È inciampato. Lo vedo, mi dice di correre, di procedere e lasciarlo là ma sto già correndo verso di lui. Sta imprecando perché mi vede arrivare da lui, ma io non posso lasciarlo a terra, solo.  Quando sono proprio accanto a lui, gli porgo la mano ma lui scivola mentre si rialza. La bomba non è più un puntino nel cielo ed io faccio una sola cosa. Mi piombo sul suo corpo e, con le mani, cerco di coprirgli il capo. Tra me e lui, quello più utile al gruppo è lui.
Al cadere dell’esplosivo, la terra trema come se dovesse, da un momento o l’altro, aprirsi e spaccarsi in mille pezzi. Della polvere invade i miei occhi e si mischia all’ossigeno che, paurosamente, respiro. Chiudo gli occhi.
Quando li riapro, tra la nube di polvere e le piccole pietre che ritornano a schiantarsi a terra, qualcuno si avvicina a me, combatte l’Arena.
 «Dovresti capirlo da te. È per questo che mi sei sempre piaciuto: sei così inadatto in questo mondo che non ci provi nemmeno ad adattarti. Non lasci che i panni si adattino al tuo corpo ma corri, corri e corri. Te lo dico anche adesso: inizia a correre, è l’unica cosa che potrebbe farti sopravvivere!»
Livius, inginocchiandosi, mi sta spostando una ciocca di capelli e mi sorride.
«Non fate docce nell’Arena?» – ride. - «Ti sei fatto dei nuovi amici, vedo. Mi sta simpatica la ragazza, anche i ragazzi. Hai scelto una bella squadra. Peccato per lui che stia andando via.»
Io non riesco a parlare, anzi. Nella bocca c’è qualcosa. Con la lingua capisco che ho della terra. Questa, a causa del sangue che fuoriesce dalle ferite che ho all’interno della bocca stessa, si mischia, appunto, con il sangue. Il tutto diventa un disgustoso impasto umido. Come se non bastasse, la testa torna a essere fonte di attrazione per dolori lancinanti. Chiudo gli occhi e mi stringo le tempie come se avessi paura che la testa, da un momento o l’altro, possa scappare.
«Allora, resti a terra o inizi a correre? Perché temo che da lassù…» – Livius indica il cielo. – «…possa cadere altro!»
Con un po’ di razionalità penso di essere stato scaraventato, di nuovo, nella foresta, oltre la recinzione. Solo così posso spiegarmi l’arrivo del mio migliore amico. O forse no. So solo che mi sento malissimo, soprattutto quando la figura di Livius scompare per dar spazio a quella di Søren. Sono anche bloccato dal dolore. Sotto di me c’è Chimio e non so se è vivo o morto. Temo, però, sia morto a causa delle parole di Livius, o del suo fantasma, o dell’ibrido creato da Capitol City per potermi tormentare.
Non ci capisco un cazzo. So solo che la situazione è assurda, assurda davvero.
Come se fossi un sacco, Søren mi rialza da terra ma mi sento pesante. Mentre mi inginocchio al fianco dei due, un filo di sangue scende lungo il mio viso. Subito, poi, lei si avvicina a Chimio. Il ragazzo ha le pupille dilatate, respira in modo veloce e balbetta qualcosa.
Nella mia testa iniziano a scorrere immagini vivide, con colori accessi e toni forti: è la morte di Livius. Ricordo e rivivo il sangue che schizza dalle sue tempie, i suoi occhi senza vita.
Mi guardo le mani: sono sporche del sangue di Livius. No, adesso no. Adesso non c’è il sangue di Livius sulle mie di mani ma c’è quello di qualcun altro.
Chimio non si muove da terra sebbene Søren lo stia spronando ad alzarsi. Lui resta là. Sta guardando la punta dei suoi piedi.
Altro flashback che sembra realtà: Søren, la sera prima, che sta morendo. Ecco, poi, gli occhi inespressivi di Loto che mi guardano ma, mentre sta cadendo Loto, appare la ragazza bionda del distretto 8. Mi dice qualcosa ma poi si accascia al suolo. Qui scompare lei e c’è la ragazza del distretto 6. Anche i suoi occhi sono spenti, assenti. Tutti gli occhi dei morti sono inespressivi.
Chimio trema, ansima. Comincia a urlare. Le sue urla aumentano il mio dolore. Chiudo gli occhi, stringo i denti e desidero essere sordo. Søren, stranamente, lo abbraccia. Ha preso Chimio e lo abbraccia come una madre farebbe con un figlio dopo essersi chiuso nella stanza a piangere. Mia madre, figurarsi mio padre, non lo avrebbe mai fatto con me. Questa, però, è altra storia.  

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Capitolo 26
*** L'Arena ***


25. L’Arena
 
È la prima volta che seguo davvero gli Hunger Games in televisione. I tributi sono in un deserto. È il secondo giorno che sono lì e il tributo femmina del distretto 11 sta diventando pazzo. Ha le allucinazioni, cammina senza grandi risultati, non è in forma.
«Quella potrebbe essere la fine di mio figlio.» – mio padre guarda lo schermo. In mano ha un bicchiere di vino rosso.
«Povera ragazza.» – mia madre è seduta sul divano accanto a mio padre.
Grazie al nuovo modo interattivo di vedere i Giochi, da questa edizione, si può scegliere quali tributi seguire in tv. Quelli del distretto 2 sono morti nel Bagno di sangue. Così mio padre ha scelto di seguire la ragazza del distretto 11. Si chiama Lora. Ha 15 anni, la stessa età di mio fratello.
Mia madre sobbalza quando, dalla sabbia, sbucano strani esseri deformi. Sono un ammasso di ossa ingiallite e denti dorati: sono schifosi! Uno di questi “cosi” aggrappa la caviglia della ragazza che inizia a ridere e ballare. Lei non li vede come minacce, ma come suoi amici.
«Ha perso il senno, povera cara.» - io guardo mia madre che sta quasi per scoppiare in lacrime. Mio padre, invece, è così inorridito dalla scena che lancia il bicchiere di vino contro il televisore che si spegne.
«Non potevo vedere quella scena.»
«Perché papà?» – gli chiedo curioso di sapere cosa sarebbe successo dopo.
«Sto pensando a tuo fratello… se lui fosse lì… io…»
C’è anche mio fratello nella stanza con noi. Lui non ha parlato proprio. È semplicemente lì a guardare mio padre.
«Papà, io resto qua.» – glielo dico davvero, seriamente.
«Non è la stessa cosa.» – mi dice dopo avermi guardato a lungo. – «Tu non sei lui!»
Ecco che, da sola, si riaccende la televisione, in tempo per vedere gli ibridi che banchettano con il corpo della ragazza del distretto 11.
 
Un altro aereo vola nel cielo. Søren abbraccia Chimio, non vuole lasciarlo per nulla. Avvicinandosi sempre di più, capisco che quello non è un aereo ma un hovercraft pronto a prendersi uno dei tributi morti. Si avvicina molto a noi ma non ci supera, anzi sembra fermarsi proprio su di noi. Io alzo lo sguardo, anche se mi sembra la cosa più complicata da fare e, seguendo con lo sguardo la gabbia/bara che scende dall’hovercraft, scopro che il morto è Falloppio (o almeno quel che resta di lui).
Chimio urla, si dimena come un pazzo. Søren cerca dolcemente di zittirlo, di coccolarlo ma non riesce nel suo intento. Chimio si porta le ginocchia al petto, si tappa le orecchie e chiude gli occhi.
Io, invece, riesco a capire cosa diceva Livius e perché Chimio è così scosso. Il sangue sulle mie mani è di Falloppio. Aveva ragione Livius: è davvero morto qualcuno. Io pensavo di essere quello rimasto dietro con Chimio e, invece, Falloppio era più indietro di noi. Io non l’ho visto. Io non ci ho fatto caso e lui è morto.
Chimio riapre gli occhi e combatte per liberarsi di Søren. Lui urla, urla con il massimo delle sue forze perché sta vedendo andare via, per sempre, Falloppio. Quello è il suo addio. Io non so che fare, come dire addio.  Il mal di testa, inoltre, peggiora e mi “regala” nuovi flashback intensi. Davanti a me passa un Falloppio che smonta una pistola e mi sorride, poi Falloppio che parla con Søren, Falloppio che mi toglie le siringhe da dosso con Loto, Falloppio che mi dice di riposare. Anche lui, ora, sta riposando. Non nel modo in cui dovrebbe.
«Chimio…» - Søren, appena pronuncia parola, inizia a piangere.
Ma la tortura dell’Arena sembra non essere finita perché, adesso, sta davvero arrivando un altro aereo.
«Un altro aereo!» – mi asciugo velocemente una lacrima e credo di sporcarmi ancora di più il viso. Sì, sono un misto di sangue, sudore e polvere. Noi, però, non ci muoviamo. Chimio resta a guardare l’hovercraft e Søren continua a dondolarsi per far calmare Chimio. L’aereo passa sulle nostre teste, si sentono le stesse parole dell’aereo precedente ma non cade niente. L’aereo ci oltrepassa. Lo seguo con lo sguardo e, a distanza di chilometri, lascia cadere un’altra bomba. Il rumore della bomba si mischia con un nuovo colpo del cannone. Un altro tributo è morto. È sottile la differenza tra un suono e l’altro: forse, proprio per questo, prima non ho sentito il colpo di cannone che annunciava la morte del mio alleato, del mio amico, di Falloppio.
«Dobbiamo andare! Qui non siamo più sicuri.» – Søren cerca di far ragionare Chimio. Io vorrei tanto dire loro che non siamo sicuri da nessuna parte. Chimio si rialza molto lentamente.
«Dobbiamo ripulirci!» – Søren continua a dirci cosa fare. Dei tre è quella più lucida, o meglio, quella più forte.
«Dobbiamo…» - apro bocca e le ferite che sono in bocca ritornano a sanguinare. Così sputo, sputo sangue.
«Snow!» – Søren mi guarda spaventata ma io, passando una mano sulla bocca (che non mi ripulisce tanto visto che anche la mano è sporca), le faccio capire di star tranquilla.
«Dobbiamo…» - ritorno a parlare. – «…trovare un luogo in cui nasconderci per questa giornata. Trovare da mangiare.»
«Allora andiamo in una delle case di quest’Arena. Hai detto che hai trovato acqua e carne essiccata.» – Søren propone il nuovo piano. Chimio guarda a terra, ha lo sguardo vuoto, perso. Chissà se ha mai visto un morto in vita sua.
«Ok!»
Iniziamo a incamminarci senza saper bene dove andare. Non riusciamo a orientarci perché tutto è molto confuso, non si riesce a vedere nulla. Riusciamo solamente a capire che ci stiamo allontanando dalla parte “abitata” perché sentiamo il rumore della corrente della recinzione. Quindi ci voltiamo e andiamo verso la direzione opposta. Durante il cammino, Chimio non dice nulla. A volte si fa scappare qualche strano lamento.
All’improvviso ci fermiamo. Ci guardiamo attorno per capire bene dove siamo, ma, con orrore, scopriamo che l’Arena che finora abbiamo visto non esiste più. Siamo, infatti, vicini alla Cornucopia e la casa rossa è rasa al suolo. Al suo posto vi sono solo macerie. La città è completamente distrutta. Le uniche cose rimaste intatte sono, appunto, la Cornucopia, che è sempre rinchiusa in quel proiettile d’oro, e la grande fabbrica/palazzo della Giustizia o che sia lui.
«Ragazzi, se prima era l’inferno, ora non so che sia.»
 
Il piano è cambiato: cerchiamo rifugio in quell’unico posto rimasto intatto e ancora inesplorato da noi tre. Camminiamo insieme. Io, che sto a destra, controllo la mia destra, Søren, che sta a sinistra, controlla la sua sinistra e Chimio cerca (nel pieno delle sue possibilità) di controllare la visuale centrale che, bene o male, controlliamo anche noi altri due. Chimio è ancora evidentemente scosso dallo scoppio della bomba.
«Sta arrivando qualcuno!» – Søren, che ha lo sguardo rivolto dove, prima, c’era la strada principale dell’Arena, ci avverte dell’arrivo di qualcuno. Immediatamente ci nascondiamo dietro le macerie che occupano più spazio e che, quindi, ci donano più riparo. Cerco di spiare e vedere chi sia là fuori e, stranamente, ci sono dei Pacificatori che stanno marciando. Guardano dritto e camminano indisturbati.
«Questi Pacificatori sono come quelli dietro la barriera.» – affermo.
«Sono gli stessi?»
«Non lo so, ma non sono qui per ucciderci. Forse vogliono solo impedirci di andare avanti.» – infatti, proprio come quei Pacificatori che sparavano contro i nostri piedi senza colpirci, questi altri Pacificatori non sembrano interessarsi di noi tributi.
Dopo il passaggio dell’ultimo Pacificatore, noi, con estrema cautela, procediamo verso quel grande palazzo. Appena ci avviciniamo, le porte di vetro si aprono scorrendo una da un lato e una dall’altro.
«Pensi che qualcuno ci stia guardando?» – chiede Søren ma, poi, si fa scappare una risata. – «C’è sempre qualcuno che ci sta guardando. Siamo sempre registrati. Siamo le loro cavie da laboratorio, il loro esperimento.»
«I loro giocatori, il loro spettacolo.» – aggiungo.
Entriamo e una specie di cane ci abbaia contro. È piccolo e cerca di impaurirci saltellando. Addosso ha mille bolle rosse che, quando vuole, si gratta con le zampette. Ci guarda per un po’ ma, poi, decide di lasciarci perdere per poter giocare con un pupazzo a forma di gallina spennacchiata.
«Cosa si fa?» – Søren parla ma, subito, il cane ritorna ad abbaiare.
«Varicella!» – Chimio, dopo tempo, ritorna a parlare. Io e Søren lo guardiamo e ci chiediamo cosa voglia dire con quella parola.
«Spiegati meglio!»
«Non avviciniamoci al cane. Soffre di varicella.»
Con tutto la compassione e la pietà di questo mondo, io vorrei capire quel che dice Chimio ma non ci riesco proprio. Vorrei chiedergli, con molta calma, di dirmi cosa sia la “varicella” ma è proprio la calma che ho perso.
«Chimio, sono sporco di sangue e terra, mi fa male la testa e ci troviamo in un luogo dimenticato da tutti. Quindi, per favore, spiegati meglio. Cosa cazzo è questa varicella?»
Søren mi guarda come per dire “ma sei scemo?” ma non ho neanche la forza di rispondere a quella comunicazione non verbale. Chimio, allora, ci afferra per i polsi e ci invita a indietreggiare. Facciamo ciò con passo lento e silenzioso affinché il cane non ci possa vedere andare dietro e seguirci.
Usciamo da lì e Chimio inizia a spiegarci tutto: «La varicella è una malattia infettiva. Se entri in contatto con qualcuno che soffre di varicella, hai la probabilità che si mischi anche a te.»
«E questa malattia cosa fa?» – chiede interessata Søren.
«Oltre ad avere quelle pustole di color rosso sul corpo, provi prurito e, quindi, hai una gran voglia di grattarti.» – inizia una conversazione tra i due.
«E si può morire per questa malattia?»
«Che io sappia no.»
«Allora perché ci spaventiamo di quel cane? Andiamo dentro. Insomma, se devo morire, voglio farlo con lo stomaco pieno. Non mi spaventa un po’ di prurito.»
«Ci dobbiamo fidare di quest’Arena?» – chiede Chimio ironico. – «Mi sembra che ci riservi fin troppe sorprese.»
«Perché mi sembra di aver già sentito parlare della varicella?» – chiedo interrompendo i due.
«Bene, Snow: non sei ignorante! Hai una nuova parola da aggiungere al tuo vocabolario. Ascolta come fare: “tu, Snow, sei per me come varicella: mi provochi prurito!”»  – Søren mi prende in giro.
«Simpatica come la varicella.» – le rispondo stando al gioco.
«Il distretto 13 fu il primo distretto a riscontrare la varicella.» – mi dice Chimio.
È come un flash, un’illuminazione improvvisa quando, finalmente, capisco che cosa sia l’Arena.
«Ragazzi, l’Arena è il distretto 13! Siamo finiti nel distretto 13!»
Søren mi guarda sconvolta, Chimio anche lo fa, ma riesco a capire che anch’egli, come me, sta componendo tutti i pezzi del puzzle che sembrava essere incomponibile.
«Questi sono i Giorni Bui della rivolta!»
La barriera esiste perché ogni distretto di Panem ha una barriera che delimita i confini, i Pacificatori di Capitol City sono i guerrieri che hanno combattuto contro il popolo, gli aerei che sganciavano le bombe contro il nemico erano gli aerei che hanno distrutto il distretto 13, le case dei dottori sono proprio quelle che ospitavano le persone che curavano gli infettati dai raggi nucleari e dalla varicella, la foresta è la famosa foresta di conifere del distretto 13.
«Il distretto 13!!»
Sorrido. Ora posso dare un nome a questo inferno.

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Capitolo 27
*** La legge della natura ***


26. La legge della natura
 
La strada di casa è più oscura del solito. Mi fa male la guancia, maledettamente.
Mi chiedo cosa ho fatto di male per meritarmi questo. Davvero, cosa ho fatto?
«Mamma, torniamo a Capitol City! Ti prego.» – è questo che ho detto a mia madre, per l’ennesima volta. La risposta, però, è sempre la stessa: «Bisogna restare qui, siamo più utili nel distretto 2 che nella capitale, questo è il nostro posto!»
No, questo non è il mio posto e non devo restare qui. Non ho amici, non ho persone con cui giocare, parlare, ridere. Mio fratello, da quando siamo qui, è un’altra persona. Ha cambiato pettinatura, indossa i vestiti del distretto 2, si diverte con gli altri e non con me. Che cosa ho fatto a lui? Perché non vuole stare un po’ con me?
«Non piangere Snow, non piangere!» – mi dico sottovoce queste parole. Cerco di distrarmi parlando con me stesso. Se mi distraggo, se faccio così, mi concentrerò sulle parole e non sulle lacrime che vogliono scoppiare dagli occhi. Quest’ultime stanno combattendo contro il mio volere. Loro vogliono disperatamente uscire ma io trattengo tutto e, così, le lacrime restano incastrate. Proprio per questo, visto che non riesco a vedere in modo chiaro, cado a terra.
Penso immediatamente che, per oggi, non sia finita qui. Non è bastato picchiarmi, insultarmi, adesso i bulletti del distretto 2 mi fanno anche cadere a terra. Mi alzo e… vorrei difendermi, ma non so farlo. Mio padre insegna a mio fratello come difendersi, non a me. Ma, quando mi guardo attorno, non ci sono i ragazzi del distretto 2, i bulli. Loro non sono qua. A terra c’è solo un ragazzino. È estraneo dal mondo, non sembra neanche essersi accorto di me. Solo dopo un po’ di secondi alza il capo e mi dice, come se niente fosse: «Guarda, sta crescendo una rosa bianca.»
Guardo la sua rosa bianca, lui e… non so, ma la guancia non fa più male.
 
Sorridiamo. Era così evidente la cosa, così palese, così elementare che non avevamo neanche pensato a una cosa del genere.
«Il distretto 13. Nel creare questi Giochi, bisogna darne atto, sono proprio bravi.» - Chimio sembra essere quello più sorpreso.
«Strateghi, sempre con una strategia pronta.» – commenta Søren.
«Ora che noi conosciamo la loro strategia, quale sarà la nostra?» – chiedo. – «Abbiamo capito dove ci troviamo, ma gli altri? Se non lo sanno, abbiamo un vantaggio su di loro. Bisogna sfruttare questa cosa!»
Provo a ricordare ciò che conosco del distretto 13, degli eventi della rivolta, della storia di Panem. Tutto quello che riesco a elaborare, però, non mi è utile. Del distretto 13 so che è stato distrutto da Capitol City, che è stato il primo distretto ad aver iniziato la rivolta e che produceva armi nucleari.
«Chimio…» – lo chiamo con tono implorante. – «…attiva il cervello e pensa: io non trovo vantaggi e nulla.»
«Ehi!» – Søren mi colpisce – «A me non lo dici? Credi che non lo abbia un cervello?»
Scoppio a ridere: «Davvero hai un cervello? Non riesco a crederci.»
L’unica ragazza del gruppo imita una risatina, sta continuando a prendermi in giro.
Se non ci fosse lei, la situazione sarebbe insostenibile.
 
Siamo seduti sulle macerie, ancora davanti al Palazzo della Giustizia del distretto 13.
Chimio, con il mio pugnale, sta scavando terra e polvere cercando di scrivere e rendere chiare le idee, la nostra strategia. Sta facendo come quando, sulla sabbia, si scrive qualcosa. Ha messo nero su bianco già molte cose e ha cura di cancellare il numero 13 ogni qualvolta lo scrive. Fa così perché ha pensato che, se dovessimo scappare, almeno gli altri non possono comprendere ciò che sta scritto nella polvere.
Il mio stomaco, invece, brontola. Ho fame o devo fare cacca. Non so bene cosa succede al mio organismo.
Søren sta lanciando dei sassolini contro le pareti del Palazzo. Si diverte a lanciare i sassi contro le porte scorrevoli che si aprano grazie ai sensori. A volte riusciamo a sentire anche il cane che abbaia contro le porte. Probabilmente lo fa perché aspetta che appari qualcuno, ma non vede nessuno. Noi ci divertiamo immaginando la scena. Che tristezza, però: questa è la nostra unica forma di divertimento al momento.
«Ragazzi…» - Chimio si ferma, smette di scrivere e si alza da terra lentamente. Io e Søren lasciamo stare i sassi, il cane e il mio stomaco. Ci guardiamo attorno perché temiamo che Chimio abbia visto qualcuno ma lui, poi, dice di non preoccuparci.
«Allora perché ci hai chiamato?» – chiedo.
«Forse ho trovato qualcosa.» – dice Chimio con voce bassa. Passano un po’ di secondi.
«Allora?!» – Søren è impaziente, lo sono anch’io.
«Ricordate i video della presentazione degli Hunger Games? Oppure i servizi che mandano sempre in onda? C’è quella donna…» - Chimio schiocca le dita cercando di ricordare la donna di cui parla. - «…ce l’ho sulla punta della lingua…»
«Sì, lei… comunque… va’ avanti!» – Søren batte le mani cercando di spostare l’attenzione di Chimio sulle cose importanti.
«Comunque, nei video il Palazzo della Giustizia è solo cenere. Nei servizi che fanno in diretta, il Palazzo della Giustizia non esiste, è raso al suolo...» – Chimio si gira e, con le mani, ci mostra il palazzo. - «…ma, qua, esiste ancora!»
«Fantastico!» – sorrido. - «Sappiamo che, da un momento o l’altro, questo Palazzo scomparirà. Ora dobbiamo riuscire a creare una strategia con questa conoscenza. Bravo Chimio!»
Da quando siamo insieme a Chimio, non ho mai smesso di congratularmi con lui. Lo faccio perché non mi stanco mai di vedere quella luce nei suoi occhi, quella gratitudine che mostra restando in silenzio. Chimio non ha conosciuto la gentilezza che merita. Lui è come me: non ha mai avuto gli abbracci che ricevevano gli altri, abbracci che lui desiderava silenziosamente. Io provo ad abbracciarlo così.
«Dovremmo convincere i nostri avversari a venire qua dentro?» – chiede Søren.
«Sarebbe tecnicamente impossibile!» – afferma Chimio. – «Oppure dovremmo attirarli e lasciarli là dentro.»
«Il fatto è che, poi, noi dovremmo distruggere il Palazzo della Giustizia. Ma come si fa?»
«Suppongo che gli Strateghi lo distruggeranno.»
«Potremmo entrare e capirci qualcosa.»
«E se scoppia o succede qualsiasi cosa con noi lì dentro? È troppo pericoloso.»
«Giusto!»
«Dobbiamo, inoltre, allontanarci da qua.»
«Già, sennò diventiamo cenere anche noi e io non voglio decisamente diventare cenere.»
«Quindi…» – m’intrometto tra i due. - «…da quel che ho capito, non possiamo sfruttare quest’occasione. La loro strategia resta la loro strategia.»
«Temo di sì!» – dice Søren.
«Ma voi parlate sempre?» – dal nulla appare Steno che, con la mano destra, imita il movimento di una bocca che si apre e si chiude ripetutamente. – «Non vi scoccia?»
«Credo che il chiacchierone sia cervelloide, qui!» – Ermen trova subito il pretesto per insultare Chimio.
«Beh, è arrivata l’ora di zittire tutti, allora!» – eccola qui, Level mantiene la pistola tra le mani.
«Sapete cosa ho imparato?» – Ermen si sta affilando l’unghia del medio sinistro con una piccola lama. – «Di non perderci in chiacchiere. Così si spreca tempo e, per noi, il tempo non torna mai indietro, non va sprecato e non va sottovalutato!»
«Io, invece, amo vedere il tempo che cambia, da bravo pescatore di anime.» – Steno sorride, un sorriso inquietante. Si lecca le labbra e si massaggia il pacco mentre spoglia, con gli occhi, Søren.
Io e Level restiamo a guardarci. Tra noi c’è tensione, tanta. Presumo sia ancora valida la legge che “chi uccide Snow, riceverà aiuto”.
Iniziano le danze! I tre Favoriti sembrano avere già chiaro il quadro: chi dover attaccare, prendere, ammazzare. Ermen si getta su Chimio, Steno agguanta Søren ed io e Level restiamo fermi, in silenzio. Nei suoi occhi c’è qualcosa che non va, come la mano destra che le trema.
Dobbiamo salvarci, è il mio unico pensiero. Come riuscire a farlo? Desidererei tanto che tutto avesse fine. Vorrei che uno di loro smettesse di combattere. Questa, però, è solo un’utopia. Non succederà mai perché sembra che ci sia bisogno di dimostrare che almeno uno di noi ha il diritto di poter vivere. Vorrei, inoltre, sapere come se la stanno passando i miei due alleati. Che sta succedendo a Chimio? E a Søren? In realtà non è lei che mi preoccupa, ma lui. Così, con sangue freddo che non è mio, mi butto nelle danze.
Mi fiondo su Level. Mi abbasso per sfuggire dal mirino della pistola e, con tutto il peso possibile, colpisco il corpo esile di Level. Colpisco la sua pancia con la mia spalla per farla cadere a terra. Perde la pistola, non ha abbastanza forza da poterla trattenere. Sono su di lei. Con la mano premo su una costola, per infliggerle dolore, e cerco di sovrastarla per afferrare quella pistola di merda. Per farle più male, non mi alzo normalmente, no. Per farle più male, la scalo come si fa con una montagna. Le poggio un ginocchio sul seno mentre con la mano mi appendo ai suoi capelli. Mi sento un animale e forse è proprio così che deve essere. Le devo mostrare che sono io il leone, non lei. Non esistono altre leggi qua se non quella della natura: vince il più forte.
Riesco ad afferrare la pistola mentre colpisco il capo di Level con il piede.  La prendo e la stringo: non voglio perderla com’è capitato a lei. Mi alzo subito e mi allontano il più possibile dalla ragazza per andare ad aiutare Chimio. So che, tra Chimio e Søren, è proprio lui quello che ha più bisogno di difese. Lui non ha mai dovuto imparare a difendere sé stesso (fortunatamente o sfortunatamente?) e, dunque, non sa farlo. Ha bisogno di qualcuno, di me. Quando, però, riesco a vedere i miei amici, rimango immobile. Entrambi hanno bisogno di un mio aiuto!
Steno sta strangolando Søren. Sento la sua voce venire meno, il suo corpo che richiede disperatamente ossigeno. Lei cerca di liberarsi da quella presa fatale con le mani ma non ha neanche più la forza di muoverle, tenderle verso l’alto per fare qualcosa.
Ermen sta colpendo Chimio con una pietra ma smette per potergli dire che non ci si comporta così, che i cervelloidi devono essere schiavi, sono schiavi.
«Cosa stai aspettando?» – è la voce di Livius che mi porta alla realtà e tutto succede così velocemente. Sollevo la pistola, chiudo un occhio mentre cerco di prendere la mira e sparo. Il rinculo della pistola è così forte che lascio cadere a terra l’arma.
Il cannone.

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Capitolo 28
*** Il punto debole ***


27. Il punto debole
 
Sto andando da Livius. Lungo la strada ci sono dei ragazzi che formano un cerchio. Non si vede chi c’è all’interno. Alcuni urlano, altri stanno guardando, altri ancora sorridono mentre altri sono indecisi sul da farsi. So solo che si stanno divertendo così. Sarà sicuramente qualche scherzo. Io stesso sono stato (a volte ancora sono) vittima di scherzi immeritati e poco simpatici. La cosa è che, ormai, ho imparato ad abituarmi a queste cose. Non mi sorprende più essere preso di mira, essere colpito alle spalle, essere preso in giro. Già, ormai non ci faccio nemmeno più caso.
«Cosa c’è?»
«Dai, dimmi cosa succede.»
«Vuoi piangere?»
«Andiamo a chiamare la mamma!»
«Ragazzi… il marmocchio s’è pisciato addosso!»
Dopo quest’ultima affermazione, tutti scoppiano a ridere. Si sentono mille risa forti e crudeli. A me non è mai capitato di farmi pipì addosso ma so cosa si prova a essere vittima di queste cattiverie. Invisibilmente mi sono pisciato addosso anch’io.
“Cosa cazzo fai?” mi chiedo. Io sono come il popolo dei distretti, quei bulli sono i Giochi e il malcapitato di turno è il tributo. Anche questi Giochi non mi piacciano, per niente. Allora, stupidamente, decido di avvicinarmi per poter, poi, consolare il ragazzo che stanno pestando e insultando.
«Cosa dici, scusa? Non ti sento! E questa cos’è?» – quel maledetto biondino odioso e schifoso ruba una cosa dalla tasca del ragazzo che è a terra.
«Ma che cazzo è? Una rosa bianca?»
Bianco. È così che vedo anch’io, ora.
 
Il corpo di Steno, colpito dal mio proiettile, cade su quello di una Søren terrorizzata e che rumorosamente respira. Lo sento a distanza il suo respiro e credo sia il rumore più bello che io abbia mai sentito in vita mia. Sì, il suo respiro mi dona sollievo, felicità. Mi cattura l’immagine di quella ragazza, di quella margherita. Sì, lei è una margherita e il mio compito è salvarla, sempre. Lo decido adesso, in questo momento. È una promessa che faccio a me stesso, una promessa che devo mantenere ad ogni costo. Rimango incantato da quelle dita che iniziano a muoversi come ali di un uccello che prende il volo, da quelle labbra che si aprono per prendere più ossigeno possibile.
«Snow!»
Søren si volta, mi sta guardando. Prova a urlare il mio nome ma la sua voce viene a mancare. Sembra stia strozzandosi per chiamarmi. Il corpo di Steno è ancora su di lei. Anche da morto, quel ragazzo ripugnante ha un viso da prendere a pugni.
«Snow!»
Questa volta la sento più forte. Lei, ancora distesa, vuole farmi ricordare di qualcosa e le sento dire il nome di Chimio. Mi sento tremendamente in colpa: mi sono dimenticato di lui.
Ermen continua a star seduta su Chimio. Ha ancora, stretto nella mano, un masso con del sangue. Gli occhi della ragazza sono aperti, apertissimi. Credo di non aver mai visto due occhi del genere. Ha uno sguardo da pazza.
Mi abbasso per riprendere la pistola, sono deciso a uccidere quella puttana. Non mi pentirò di questo, niente affatto. La pistola, però, non c’è. Non è più ai miei piedi.
«Cerchi, forse, questa?» – mi volto e Level sta facendo ballare la pistola che ha in mano. – «Dovresti essere più attento, caro Snow.»
La mano di Level continua a tremare. Lei non ha il controllo di sé stessa, è debole. Ermen è sicuramente più temibile.
«E tu? Sei abbastanza attenta?» – le rispondo con tono provocatorio.
«Davvero vuoi iniziare, ora, una conversazione epica? Il tuo amico lì ha bisogno d’aiuto.»
«Forse sei tu ad aver bisogno di aiuto.» – con l’indice, punto la sua mano tremolante e sorrido.
«Oh, ti riferisci forse alla mia mano? Bisogna vederla da vari punti di vista. Tu credi sia un punto debole. Io credo sia il mio punto forte.»
«Forse non sai cosa sia un punto forte.»
«Forse tu non sai cosa sia un punto debole.»
«Per favore, illuminami, Level.»
«Voltati.»
«Così mi uccidi?»
Level lancia lontano la sua pistola.
«Voltati.»
«Così mi uccidi?» – non è che, senza pistola, sia impossibile uccidermi.
«Bisogna vederla da vari punti di vista.»
«Quanti punti di vista hai?»
«Io? Solo uno e questo mi sussurra che, se ti voltassi, capiresti qual è il tuo punto debole.»
Qualcosa mi dice che lei davvero non mi ucciderà, non mi colpirà alle spalle. Lo so, è la cosa più insensata da fare in questi casi: non si fa quel che ti consiglia il nemico, ma lo faccio. Mi volto. L’unica cosa che vedo è Ermen. Lei sta godendo nel ferire Chimio. Sta godendo maledettamente. Sta ridendo di soddisfazione. Il ragazzo nasconde il viso dietro le mani e, ad ogni colpo, segue una specie di lamento. Lo sento chiamare Falloppio quando riesce. Lei, con forza, gli sposta le mani dal viso e continua a colpirlo. Level, allora, diventa l’ultimo dei miei problemi (non me ne fotte più niente di lei) e corro verso Chimio.
Il cannone.
Mi blocco. Sento il rumore del cannone e smetto di correre.
Una risata diabolica prende il possesso di quella stronza di Ermen. Sventola quel masso come se fosse oro. Alcune gocce di sangue le cadono sul volto e lei, con la lingua, si ripulisce il viso. Chiude gli occhi e si gusta il sangue di Chimio.
«E, ora, stupido cervelloide, dimmi chi è più intelligente tra me e te.»
Ermen lascia cadere il masso proprio sul naso di Chimio e, spostandosi i capelli, si protrae con l’orecchio sulle labbra di Chimio.
«Come dici?» - la ragazza strofina la sua guancia sulle labbra del mio amico. – «Non parli più?»
Bianco. Vedo bianco. Adesso flashback: Chimio che mi racconta di come Falloppio lo abbia salvato, Chimio che mi spiega cosa sia la varicella, Chimio che salva Søren, Chimio che s’imbarazza perché gli dico che è stato bravo, Chimio che mi fa compagnia durante il cammino, Livius che muore sul palco.
«Livius!» – urlo a squarciagola. Torno a correre verso quella stronza e mi getto su di lei. Ora sono io sopra di lei. Deve provare quel che ha fatto patire a Livius… a Chimio!
Così prendo il masso sporco di sangue e inizio a colpire le tempie di Ermen. Mi adagio su di lei per immobilizzarla. Lei, infatti, oppone resistenza ma le blocco i gomiti con le mie ginocchia, il mio cavallo lungo il suo collo. Colpisco ripetutamente.
«Lurida puttana!» – la colpisco ancora. Non mi stanco di colpirla neanche quando il cannone scoppia in aria. Si è aperta la cute e qualcosa, ogni volta che colpisco sempre più forte, esce da quel foro creato dal masso.
«Smettila!» – è Søren che, da dietro, mi blocca. Sta stringendo la mia mano, quella con cui mantengo il masso, e con l’altra mi cinge il petto.
«È morta Snow, è morta.» – me lo dice come se fosse una ninna nanna, come se volesse calmarmi. Ci riesce, in realtà. Io resto a guardare quegli occhi viscidi e penso che anche il suo volto faccia schifo. Così faccio quello che non ho fatto con gli altri ma che desideravo tanto fare. La sputo in faccia.
«Smettila, Snow! » – Søren, questa volta, urla. Dopo di ciò, mi alzo da terra e lascio che Ermen giaci a terra. Mi avvicino a Chimio e lo abbraccio, gli chiedo scusa per non averlo difeso.
 
Aspettiamo l’hovercraft. È calato il silenzio. Questo è uno di quei silenzi di cui io, sinceramente, non so che farmene. Ci sarebbero così tante cose da dire, così tante lacrime da versare e così tanto odio da esternare, ma tutto cade in un misero e banalissimo silenzio.
L’hovercraft arriva e ruba i corpi dei tre morti.
Quando viene estratto il corpo di Chimio, sento il vuoto. È una sensazione che non riesco a spiegare. Quando, invece, vedo il corpo di Ermen sollevarsi da terra per entrare in quella bara voltante, mi sento un po’ meglio. Perché? Semplice: la morte di Chimio non è rimasta impunita.
 
Sovrasto tutti questi stronzetti che assistono allo spettacolo e afferro la camicia del bulletto, il bastardo che ha rovinato la rosa bianca del mio migliore amico. Lo tiro all’indietro, verso di me. Lo faccio cascare a terra incastrando il mio piede tra le sue due gambe. È scomparso il sorriso beffardo dal suo volto.
«Adesso anche le pulci hanno voce?» – dice come se fosse la battuta di un misero tributo in cerca di attenzioni e acclamazioni.
«Adesso anche gli stronzi hanno diritto di vivere?» – mi fiondo su di lui e lo colpisco in faccia con un pugno. Lì iniziano tutti gli altri ad afferrarmi, cercano di bloccarmi ma mi dimeno come un pazzo. Le mani, pesanti e forti, colpiscono velocemente nasi, volti, occhi. Con i piedi colpisco le gambe di quello a terra. Ho perso le staffe, me ne rendo conto, ma non faccio niente per fermare tutta questa mia agitazione, rabbia. Sono stufo dei continui soprusi contro me e Livius. Mi hanno detto di tagliarmi con una lametta? Ok, faccio finta di niente ma Livius, lui non si tocca.
Ora colpisco, con delle gomitate, lo stomaco di due, tre leccaculo e torno a buttarmi sullo schifoso capo della banda dei “senzapalle”. Lo colpisco con tutta la rabbia di questo mondo perché è quello che si merita. Lo colpisco ancora e ancora. Tutti gli altri non mi bloccano più, no.
Quando Livius, rialzatosi da terra, viene a fermarmi bloccandomi la mano, smetto di colpire il viso di quella merda vivente.
«Snow, fermati.»
Il viso del ragazzo è gonfio, pieno di sangue. Penso di avergli rotto il naso e anche un dente. Quando mi alzo da terra, posso vedere la reazione di tutti: mi guardano terrorizzati, hanno timore, provano paura ed io sono soddisfatto di questo.
Più che felice.

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Capitolo 29
*** Parole ***


28. Parole
 
«Vogliamo restare così per tutta la durata degli Hunger Games?»
«Così come?»
«Zitti, muti.»
«No…»
«Dì la verità, hai paura.»
«Paura? Di cosa?»
«Di me.»
«Di te, Snow? Perché dovrei aver paura di te?»
«Perché sono un mostro.»
«Tu non sei un mostro.»
«Allora guardami.»
«Cosa?»
«Guardami negli occhi e dimmi che non è vero, che non sono un mostro.»
«Non sei un mostro.»
«Non mi stai guardando negli occhi.»
«Che cosa stupida da dire e da fare! Se ti dovessi mentire, lo farei anche guardandoti dritto negli occhi. Non capisco questa fissa del contatto visivo. Dovrebbero tutti smetterla di credere a questa cazzata.»
 
«Non hai fame?»
«Si!»
«Credo di non stare bene.»
«Abbiamo sete e fame. Stiamo camminando da tempo, è normale…»
«Non intendo fisicamente.»
«E, allora, cosa intendevi Snow?»
«La mia testa è come quest’Arena.»
«Anche la mia, non preoccuparti.»
«Perché fai così?»
«Così come?»
«Sminuisci il mio problema, lo fai sembrare normale. Io non sono normale.»
«No, Snow, non attaccare di nuovo con la storia che sei un mostro. Non riuscirei a sopportarti!»
«Vedi? Lo stai ammettendo. Stai dicendo palesemente che sono un mostro.»
«No, Snow! Non lo sto dicendo. Perché pensi una cosa del genere?»
«Perché è la verità. Lo vedo dal modo in cui mi guardi.»
«Il modo in cui ti guardo non è cambiato da come ti guardavo ieri.»
«Invece sì, non mentirmi!»
«Credi quel che vuoi!»
«Forse è questo il tuo problema, Søren.»
«Ah, certo! Adesso sono io quella ad avere un problema, un problema tutto mio!»
«Già.»
«E quale sarebbe? Analizzami, ti prego.»
«Eviti la verità come se fosse… come se fosse la varicella.»
«Oh, per favore! Sono stata io la prima a dire che un po’ di varicella non avrebbe fatto paura a nessuno, di certo non a me.»
«Non cambiare discorso così.»
«Non sto cambiando discorso. Dico solo che stai usando un esempio sbagliato per farmi capire il “mio problema”.»
«Tu sei in una costante ricerca del bene. Vuoi credere alle farfalline, alle belle storie, a un mondo migliore di questo, alla luna, alla pace, agli uccellini che cinguettano e ai bambini che giocano allegramente su un prato. Svegliati! Non è questa la realtà! Il mondo è governato dal male.»
«Io non voglio crederla così.»
«E, per questo, cosa farai? Non farai del male perché credi nel bene assoluto?»
«Credo tu conosca già la risposta.»
«Oh, mi avete scocciato con queste cose e le vostre storie dei fiori: tu e le tue margherite, Livius e le sue rose bianche. I fiori sono fiori e basta. E, per rimanere in tema “fiori” che vi piacciono tanto, qualcuno vi pesterà un giorno!»
«Oppure qualcuno ci coglierà.»
«Cogliervi vuol dire uccidervi!»
«È qui che sbagli! Se il mio problema è vedere farfalline e lune, il tuo è quello di vedere tutti gatti morti e distretti 13 distrutti. Il mondo non è solo bene e non è solo male. Se a cogliermi fosse un figlio che mi regala a sua madre o un marito che mi dà a sua moglie per festeggiarla, quello sarebbe un gesto vero! Non sarei, dunque, morta, no! Sarei viva!»
 
«Perché non dormi?»
«Non riesco. Il sole sta tramontando ed io… preferisco restare sveglio. Riposa tu.»
«Non riuscirei neanch’io. Mi vengo a distendere con te.»
«Søren, sai una cosa?»
«Se me la dici, la so.»
«Io ammiro il tuo punto di vista, il tuo essere così diversa e ottimista ma proprio non ti comprendo.»
«Perché?»
«Perché il mio migliore amico è morto. Lui non doveva morire. Lui si è ucciso, come se niente fosse, e ha deciso lasciarmi qua. Lui, così diverso e ottimista come te, che decide di spararsi. Ora, dimmi, il suo bene che fine ha fatto in questo regno di male?»
«Lui ha mosso le acque.»
«Quali acque se siamo ancora chiusi in quest’Arena?»
 
«Le stelle hanno dei nomi.»
«Non li ricorderei mai.»
«Livius amava leggere di queste cose.»
«Beh, capisco perché ti era simpatico Livius. Sicuramente era più acculturato di te.»
«Molto simpatica, moltissimo.»
«Lo so, è un pregio che non tutti hanno. Vedi te, per esempio. La simpatia? Non sai neanche cosa sia.»
«Guarda, io sono simpatico abbastanza. Sai chi altro era simpatico?»
«Chi?»
«Chimio.»
«Anche Falloppio lo era.»
«E Loto?»
«Loto non era simpatica, di più. Forse è la dolcezza che emana… emanava, la tranquillità, l’ingenuità dei suoi anni che la rendevano così bella, così felice.»
«Così viva.»
«Ed è morta. Credo che sia inevitabile: tutti moriamo, prima o poi.»
«Beh, questo non vuol dire niente. Dovremmo forse, solo per questo, ucciderci subito per toglierci il pensiero?»
«Ehi, non ho detto che bisogna ucciderci già appena nati ma io sono anche la ragazza che ha cercato di ferirsi per non entrare nell’Arena.»
«Che vuol dire?»
«Beh… io, ancora prima di iniziare la vita nell’Arena, stavo decidendo di uccidermi. È come uccidersi appena nati per evitare tutte le sofferenze che comporta la vita.»
«Ma no, è diverso!»
«E perché mai?»
«Partiamo dal presupposto che l’Arena è il luogo della morte.»
«Questo lo dici tu. Io, fuori dall’Arena, non ho mai conosciuto uno come te.»
«Hmm…»
«Insomma, se non fossi arrivata qui, mi sarei persa te.»
 
«In questi giorni ho pensato molto a te.»
«Davvero? Dai, non mi dire così… mi fai arrossire.»
«Smettila di fare la stupida, sono serio.»
«E anche io lo sono! È bello scoprire che non sei l’algido ragazzo con il palo in culo ma che, invece, sei anche un ragazzo romantico e pieno di sentimenti.»
«Così mi rendi una femminuccia.»
«Forse perché lo sei!»
«Stupida!»
«A me stupida? Bello, abbassa i toni o ti faccio vedere io chi è la stupida! Ho una spada, potrei trafiggerti.»
«Tu sei tutta matta!»
«Lo so, e ti diverto per questo!»
«Posso essere sincero con te?»
«E me lo chiedi pure?»
«Però… non prendermi in giro.»
«No, non lo farò. Sta tranquillo.»
«Mentre Steno ti stava strangolando, io ho sentito il mio respiro venir meno. Ero intrappolato, con te, come te. Lì ho promesso a me stesso che ti avrei difeso perché meriti di essere difesa. Quando ho ucciso Steno ed Ermen, ho provato soddisfazione, piacere. Loro non sono buoni e non meritavano bontà. Loro volevano ucciderci e… ho provato la stessa cosa quando ho ucciso Tacito.»
«E se anche Steno avesse una storia triste alle spalle? Se l’avesse anche Ermen?»
«Non vuol dire niente Søren! Se avessero una storia triste alle spalle, non avrebbero agito così.»
«Forse volevano dimostrare di essere meritevoli di tornare a casa.»
«Se meriti di tornare a casa uccidendo persone, poi meriti anche di vedere demoni allo specchio. Io ho ucciso per salvarci, non per divertimento.»
«Non dire queste cose. Ognuno ha i suoi demoni da combattere…»
«Allora sappi che i miei demoni, in questi tre giorni, si chiamavano tributi. I demoni più temibili? Tacito, Ermen, Steno e Level.»
«Però, posso farti riflettere su una cosa?»
«Sì…»
«Anche loro sono stati catapultati in quest’Arena come ci siamo finiti noi. Siamo stati condannati dai nostri stessi cittadini, dalle persone con cui abbiamo condiviso il pane. Se loro erano e sono qui, ci sarà un perché. Meritavano, dunque, un’occasione? Forse avevano bisogno di uno Snow che dicesse loro di essere bravi. Potevi essere, per loro, ciò che sei stato per Chimio e che sei per me.»
«Hmmm… no! Level non è Chimio, neanche lontanamente. Non tutti riceviamo la bontà che meritiamo e non tutti ricevono le punizione che dovrebbero penare.»
«Snow...»
«No, Søren, scusami ma non riesco a pensarla come te! Certo, hanno una storia, ma anch’io ho una storia e anche tu! Tutti noi abbiamo una storia ma, poi, possiamo fare qualcosa per cambiarla, per renderci migliori. Io voglio essere migliore e giusto. Ognuno merita quel che merita.»
«Io preferisco dare un’opportunità a tutti.»
«Oh, ma attenta. Una va bene, due già son troppe.»
«Con te non mi sono fermata a due. Dimmi se ho sbagliato a farlo.» 

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Capitolo 30
*** Vittime del macello ***


29. Vittime del macello
 
«Livius, devi stare tranquillo. È il mio terzo anno e, se non sbaglio, sono ancora qua!»
Livius è in ansia, non riesce a star fermo, il suo piede è un ballerino, ha mani sudate e occhi inquieti. Sono pochissime le volte in cui si comporta così. Perfino quando viene da me, dopo che l’hanno insultato, non ha questi atteggiamenti. No, Livius è sempre felice e spensierato: riflette ma non si lascia mangiare dalle emozioni, dall’ambiente circostante. Adesso che, però, gli Hunger Games non sono più dei Giochi da seguire in tv ma realtà da vivere e sopportare, lui non è più lo stesso. Forse è anche ovvio che sia così.
«Potrei impazzire.» – mi confessa vergognandosi dei suoi stessi sentimenti e timori.
«È normale.» – provo a tranquillizzarlo.
«Anche tu credevi di star per morire?» – Livius guarda un punto fisso, lo schermo.
«Beh, qui ci condannano a morte.» - ricordo la mia prima Mietitura.
«Come mi hai detto tu una volta, ci stanno buttando nel forno.»
«Già.»
Victor Vict inserisce la mano nell’ampolla di vetro per estrarre un nome. Questo momento è interminabile e inspiegabile.
Proprio perché ricordo la prima Mietitura, mi torna in mente quell’abbraccio che Livius mi ha dato prima dell’estrazione. Faccio, allora, così: abbraccio forte il mio amico. In verità, ho anche paura di dovergli dire addio oggi.
Fortunatamente, non è il nome di Livius a essere estratto e nemmeno il mio.
 
La luna è più grande del solito. Chissà se, nei Giorni Bui, ci sia mai stata una luna del genere! Forse no perché, sennò, perché chiamarli Giorni Bui?
Il mio stomaco brontola ancora. Io e Søren abbiamo solo bevuto ma, ovviamente, non abbiamo finito tutta l’acqua che ci era rimasta nell’unica bottiglietta piena che abbiamo. Questo, però, non vuol dire che non abbia fame, sonno e un bisogno disperato di lavarmi.
Adesso faccio da guardia e Søren dorme. Le sposto una ciocca di capelli e, senza accorgermene, sono qui a carezzarle la fronte. Spero che questo sia un gesto che la possa spingere a dormire in modo tranquillo e sicuro. Merita, anche lei, di sentirsi protetta come fa lei con me.
Suona l’inno di Panem. È notte inoltrata ed anche questo terzo giorno nell’Arena è arrivato a una fine. Sono arrivati a una fine, però, anche delle persone… e non persone qualunque, ma miei alleati, miei amici.
Nel cielo appaiono i volti dei tributi caduti: Ermen, Falloppio, Steno, Chimio e la ragazza del distretto 12.
Sono tutti andati via, puff, come se niente fosse. Davvero funziona così? Veniamo al mondo piangendo e moriamo in silenzio? Ce ne torniamo in qualche posto indefinito che nessuno conosce?  Chissà dove sono Chimio, Falloppio, Loto, la ragazza bionda del distretto 8, Livius. Spero che quest’ultimo sia finito sulla luna, il nostro mondo perfetto.
Dopo aver visto quei volti, frullano un sacco di pensieri nella mia testa. In realtà i pensieri hanno preso possesso di me già dopo aver parlato con Søren. È come se lei mi avesse aperto con tutte le parole scambiateci questa sera e, ora, mi tocca affrontare ciò che avevo dentro. C’è una guerra in me, questo è sicuro. Sto davvero impazzendo. Mi calma il pensiero che non sono solo.
 
Mi sveglio.
Mi sono uscite delle bolle all’interno della bocca ma questo è niente confronto a tutto quello che sto passando nell’Arena.
Apro gli occhi, Søren dorme ancora. Mi sono addormentato accanto a lei. Sobbalzo, mi alzo velocemente e mi guardo attorno.
«Ma sono stupido? Cosa sono? Come ho potuto addormentarmi? Se avessero attaccato me e Søren, cosa avrei potuto fare? Nulla, perché mi sono addormentato come un coglione.» – cammino seguendo un cerchio invisibile e mi punisco per l’errore commesso.
Si sveglia anche Søren. Perfino nel risvegliarsi, somiglia a una ragazza forte e determinata. È assurdo pensare una cosa del genere di una persona che si sta svegliando, eppure credo di vedere la sua forza proprio in questo momento. Vorrei affrontare il risveglio, la giornata, la vita come fa lei, ma non ne sarei in grado. Lei non è me ed io non sono lei. Almeno, però, sono “con” lei. Credo sia abbastanza, può bastarmi avere la sua presenza al mio fianco.
«Cosa succede?»
«Niente!»
«Ti ho sognato.»
«Davvero?»
«Già, mi perseguiti anche nei sogni.» – sorride.
«Non riesco a starti lontana.»
«Oh, ritorna la femminuccia Snow.»
«E il maschiaccio Søren?»
«Vuoi dire che sono poco femminile?»
«Beh, hai russato per un po’ di tempo.»
«Scemo!»
«Non credermi, ma è la verità.»
«Ho sognato che eri nel mio distretto e che eri il tributo maschio del distretto 10. Ti chiedevo che cosa avevi fatto per farti odiare da tutti, ma non mi rispondevi. Ora che sono sveglia, posso chiedertelo. Come mai sei qui, Snow? Cosa hai fatto nel distretto 2? Cioè… so che non eri tu il tributo…» - dopo aver nominato Livius, si blocca, pensa a cosa dire.
«Ho una storia contorta nel distretto 2.» – cerco di aiutarla tagliando il discorso così.
«Ti andrebbe di parlarmene?»
«Sì, a patto che tu mi dica la tua di storia.»
«La mia non è interessante.»
«Dai! Qual è la tua storia, Søren?» - mi siedo accanto a lei.
La ragazza si stiracchia, allunga le braccia verso l’alto e, prendendo lo zaino, sfila la bottiglietta che è all’interno. Beve un sorso dell’acqua.
«Sì, però non ti avvicinare troppo perché ora mi son svegliata e il mio alito non è dei migliori.»
Rido.
«Sai, non sono mai stata la ragazza perfetta.» – riprende Søren - «Non sono la tipica ragazza che, uscendo da casa, saluta tutti, sorride e si ferma a parlare con ogni tizio che incontra. Io, poi, ho sempre preferito nascondermi nelle stalle, con gli animali mentre tutte le persone del mio distretto amano uccidere gli animali per un bene più grande. D’altronde siamo famosi per questo!»
In quelle parole, credo di riconoscere ulteriormente Søren. Lei, la ragazza che vuole uscire da questi Giochi con una morale ancora intatta, è cristallina anche nella sua realtà. In un distretto di macellai, non puoi permetterti di difendere gli animali e lei, invece, decide perfino di accudirli.
«Ti racconto un aneddoto. Si dice che, quando ammazzi un maiale, non bisogna piangere.»
«Perché?»
«Perché, se i maiali ti sentono piangere, loro si attaccheranno al tuo pianto e moriranno più difficilmente. È come se sperassero che tu, che stai piangendo, li salvassi dalla morte. Ripeto, è una credenza, ma nel distretto sono molti a crederci. Comunque, una mattina, andai con mio padre a vedere come li uccidevano. Non so se tu abbia mai visto dei maiali e, se li hai visti, avrai pensato che sono un po’ bruttini e, in effetti, lo sono. Puzzano anche! C’era, però, questo maialino di un rosa candido con delle macchioline nere… bellissimo, un cucciolo.»  - Søren mi passa la bottiglietta e bevo anch’io.
«Appena iniziò a lamentarsi,» - continua. - «scoppiai a piangere. Tutti i macellai mi guardarono inferociti. Se avessero potuto, avrebbero ucciso me e non il maialino. Mi allontanarono con la forza e il maialino scappò perché voleva stare con me.» – ridiamo come matti: immagino questo piccolo animaletto rosa e nero che fugge mentre tutti cercano di prenderlo.
«Cosa è successo dopo?»
«È successo che mio padre non mi ha portato mai più con sé e il maialino è venuto a casa con me. Una settimana dopo, però, sono venuti a prenderselo… mentre dormivo. L’hanno ucciso ma ha sofferto di meno non vedendomi piangere. Sarà stata questa la mia penalità. Durante la Mietitura le persone erano interessate a salvare i propri cari e i propri interessi. Il mio distretto, da bravi macellai da cui è formato, si è rivelato essere un vero macello: non importa se puoi vivere ancora, basta che loro non piangano, afferrino la mannaia e taglino la testa. A me hanno tagliato la testa e nessuno ha pianto.»
«Se può consolarti, anche per me non piangerà nessuno.»
«Per questo sei qui?»
«Forse sì. È un po’ come te: io non appartengo al mio distretto. Sai, tra la folla, io ero solo. L’unica persona che capiva era Livius ma, ora, non c’è.»
«Mi dispiace per Livius.»
«Non preoccuparti, sono abituato alle persone che vanno via, che sia in modo definitivo o momentaneo.» – effettivamente Livius non è stato il primo ad avermi lasciato. Ho perso mio fratello, mio padre, mia madre, casa mia, il maestro Leon, i miei compagni (sì, a Capitol City c’era qualcuno disposto a essermi amico).
«Stanotte, però, mi sono sentito meno solo.» - le confido.
«Lo so, sono un’ottima compagna d’avventura.»
Lei ci scherza su ma io non sono mai stato così serio. Se lei non mi avesse fermato con Ermen, ad esempio, chissà cosa avrei potuto combinare.
 
Stiamo, ancora, vagando in questo cumulo di macerie. L’ambientazione è desolante. Camminiamo senza avere una meta precisa. Tutto questo è una completa perdita di tempo ed energia. Cosa stiamo cercando? Nessuno dei due lo sa. Viviamo, però, con l’illusione che ci sia qualcosa di positivo qui per noi.
«Guarda lì!»
Søren mi blocca. Ci sono due tributi di fronte a noi. Subito cerchiamo di nasconderci dietro le macerie di alcune case distrutte. Li spiamo. Sono solo loro due, sono in ginocchio e hanno le mani congiunte. Strizzo gli occhi per guardare più a fondo, mettere a fuoco. Dicono qualcosa, ma a bassissima voce.
«Cosa credi stiano facendo?» – chiedo a Søren.
«Non ne ho la più pallida idea.»
«Andiamo lontano da qui.»
«Sì!»
Io e Søren, lentamente, ci spostiamo. Non possiamo stare qua e farci scoprire. Ormai i Giochi stanno arrivando a una conclusione: sarebbe stupido cercare degli alleati in due tributi che dobbiamo uccidere.
Quando siamo abbastanza lontani, ci voltiamo e corriamo per allontanarci il più possibile.
«Ora possiamo fermarci!» – dopo pochi secondi, riprendiamo fiato.
«Secondo te… stavano male?» – ancora non mi capacito delle azioni di quei due.
«No, non credo.»
«Ma… li hai visti bene?»
«Sì, non sono cieca.»
«Lo so, ma era strano quel che stavano facendo e, poi, non è il momento di mettersi in ginocchio, a mani strette e parlare.»
«Snow, non so proprio che dir…»
Dall’alto si propaga un suono. È una dolce sinfonia, qualcosa di armonico e delicato. Sembra il suono di una sveglia impostata per svegliare l’addormentato in modo rilassante. Søren alza immediatamente lo sguardo: le si illuminano gli occhi.
«Non posso crederci!» – sorride.
«Cosa?» – alzo anch’io gli occhi e lo vedo cadere dall’alto. Søren sembra una bambina fin troppo allegra. Somiglia a una persona che, per la prima volta, vede cadere la neve.
«Søren...»
«Scusa, ma… non ci posso credere!»
Il paracadute argentato danza nell’aria e passa indisturbato tra me e lei, posandosi accanto ai nostri piedi. Quando Søren vede, sul tessuto della calotta, il numero del distretto che indica a quale tributo è indirizzato il paracadute, perde un po’ di quell’allegria che aveva.
«Snow, è per te!»
Søren si china per prendere il paracadute, sfila il bigliettino e me lo passa. Slego il filo che lo tiene chiuso e leggo cosa c’è scritto.
«Allora, cosa c’è scritto?»
Tentenno. Come glielo posso spiegare?

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Capitolo 31
*** L'aiuto ***


30. L’aiuto
 
Sono arrabbiato. Non è la prima volta che succede. Livius è stato picchiato, di nuovo. M’infastidisce un sacco questa cosa. Credo che ognuno si incazzerebbe, se sapesse che il loro migliore amico è vittima di bullismo. Che divertimento c’è in una cosa del genere? Picchiare una persona che non ti ha fatto niente, insultarlo, denigrarlo, che senso ha? Ognuno segue la propria strada, soprattutto Livius ed io, ma questi ragazzini hanno la spasmodica voglia di intralciare il nostro cammino.
«Sono stufo! Noi non siamo le loro vittime!» – sbotto. - «Tu dici che non devo preoccuparmi, ma stanno esagerando.»
«A me non hanno mai chiesto di tagliarmi le vene.» – esordisce con quella frase insensata, stupida. Adesso m’innervosisce più lui che i bulletti.
«Ma da che parte stai, scusa?» – gli chiedo seccato.
«La nostra.»
«E allora perché non vuoi che ti aiuti?»
«Perché non ti ho chiesto un aiuto. Loro sono solo piccoli pallini. Sono come api che vengono a prendersi il mio polline. Credi che io non ne abbia altro? Ne ho tantissimo! Quando avrò bisogno di te, urlerò disperatamente il tuo nome ma, ora, non c’è bisogno di preoccuparsi.»
Mi sorride.
Se solo avesse davvero urlato il mio nome disperatamente quando aveva bisogno di me…
 
Quando si entra nell’Arena, tutti i tributi sperano di ricevere un paracadute argentato. Perché? Perché è sinonimo di aiuto. Già, questo piccolo oggetto argentato è l’aiuto necessario per sopravvivere.
«Allora cosa c’è scritto?»
Søren è curiosa, vuole sapere cosa c’è in questo paracadute che può esserci utile.
«C’è scritto…»
Guardo il bigliettino, non so come dirglielo.
«Snow? Tutto bene?»
«C’è scritto che è solo per me.»
Søren è delusa, lo vedo perfettamente. Se non lo era prima, quando ha capito che era per me il paracadute, adesso lo è di sicuro. Vorrei far tornare quel paracadute in cielo e mandarlo lontano. Io non ho mai chiesto un paracadute e neanche lo voglio. Come detto, però, è necessario per la mia sopravvivenza.
«Noi siamo una squadra…» - me lo dice come una bambina a cui hai appena tolto un giocattolo.
«Io…» - sono in imbarazzo. Non so che dire o che fare. Søren subito mi dà il paracadute e sorride.
«Ma è per te. Lo capisco, tranquillo.» – lei continua a sorridere ma è un sorriso di circostanza, fatto solo per far tacere i sensi di colpa che mi divorano.
«Scusa, Søren…»
«E scusa di cosa?» – lei è ancora gentile, fin troppo.
 
Ho solo rubato un sorso del contenuto del paracadute, poi ho subito avvitato il tappo. Non so perché, ma mi sentivo sporco: usare un aiuto mentre Søren guardava me. Ora mantengo in mano il paracadute come se fosse un ordigno pronto a esplodere. Lo tengo stretto mentre cammino con Søren che guarda in avanti. Non ci rivolgiamo la parola da quando le ho detto cosa c’è scritto sul messaggio attaccato al paracadute. Nella mia testa rimbombano le sue parole: “noi siamo una squadra.” Quale squadra non condivide le cose? Io dovrei davvero farlo con lei, condividere le cose perché lei merita più di quel che merito io. Sono, però, costretto a non poterle dare il contenuto del paracadute.
«Penso tu debba usare quel che c’è là dentro, prima che diventi inutile.»
«Ehm…» - non riesco a parlarle di quest’argomento.
«Non so cosa ci sia ma, se ti han detto di usarlo solo tu, allora dovresti farlo. Purché non sia un’arma e…»
«Søren! Credi mi abbiano mandato un’arma per ucciderti?» – la interrompo: come può credere una cosa del genere?
«No, non credo questo.»
«E, allora, cosa credi?»
«Ti hanno dato una bomba?»
«E cosa dovrei farci io con una bomba?»
Søren si ferma: «Davanti al Palazzo della Giustizia, abbiamo detto che avremmo dovuto trovare il modo di far esplodere il Palazzo con i tributi dentro.»
«E se fosse una cosa del genere, credi non ne avrei parlato con te?»
«Sinceramente? Non lo so. Siamo rimasti in cinque e il vincitore è solo uno.»
Sentire queste parole mi pugnala il cuore.
«Dopo tutto quello che abbiamo passato, credi che io possa ucciderti così?»
«Allora perché non mi dici del paracadute?»
«Perché… non posso.»
«Oh, non puoi? Questa è la scusa dei bambini. Tu sei un bambino, Snow?»
«No, ma non posso dirti cosa c’è qui. Posso, però, dirti che non è per ferire te. Anzi, mi dà fastidio solo che tu possa pensare questo! È assurdo.»
«No, è assurdo che tu non possa fidarti di me!»
Flashback: queste parole mi ricordano Livius che si arrabbia con me perché non mi apro con lui. La testa inizia a farmi male maledettamente. Chiudo gli occhi, lascio cadere il paracadute a terra per potermi stringere le tempie.
«Snow, guarda che se è un modo per evitare la conversazione…»
Svengo.
 
Riapro gli occhi.
La luce del sole prende il possesso della mia visuale.
Li richiudo e vedo il volto di Søren preoccupato. Lei mi stringe la mano.
«Snow!» – ripete più volte il mio nome. È in lacrime.
«Mi hai spaventato! Credevo che stessi morendo…»
Flashback: io che dico a Søren di non morire, di non lasciarmi. Presumo che lei si sia sentita come me.
Non la rispondo, non ce la faccio. Devo un attimo riprendermi. Mi giro e… il tappo della parte inferiore del paracadute è stato svitato.
Richiudo gli occhi ma, pensando che il paracadute è stato aperto, li riapro. Mi alzo velocemente. La testa scoppia. Non provavo un dolore così intenso da quando mi sono risvegliato nella casa rossa. In realtà, anche dopo la bomba, mi sono sentito frastornato come adesso.
«Il…» - indico il paracadute argentato.
«L’ho usato io.»
Sbarro gli occhi. Cos’ha combinato? Spalanco la bocca e le ferite che vi sono all’interno tornano ad aprirsi. Sputo sangue. Søren si spaventa.
«Ma che…!»
Svengo, di nuovo.
 
Quando mi risveglio, nella mia bocca c’è una specie di fazzoletto. Riaprendo gli occhi, vedo due nuovi volti. Cerco velocemente Søren. Dov’è? Cosa le hanno fatto? Dove mi trovo? Che ci fanno loro qua? Le pupille viaggiano alla velocità della luce perché sono spaventato. Non sono sicuro del fatto del paracadute ma, ora, son sicuro del fatto che Søren non è qui, accanto a me. Ci sono solo questi due ragazzi. Guardo a destra, lei non c’è. Guardo a sinistra, lei non c’è. Quando, però, rivolgo lo sguardo all’indietro, la trovo. Vedo Søren, sospiro e mi tranquillizzo. Mi sta accarezzando i capelli.
«Si sta svegliando!» – dice il ragazzo del distretto 11.
Il ragazzo del distretto 12 mi sfila il fazzoletto dalla bocca delicatamente, prova a non farmi del male sollevando il fazzoletto pregno del mio sangue. Mi controlla le ferite che non sanguinano più.
«Deve riposare. Tutto qua.»
«Resto io con lui.» – afferma Søren. I due fanno un cenno con la testa, sorridono, si alzano e si allontanano. Io torno a chiudere gli occhi e, sottovoce, chiedo alla mia vera alleata perché ci sono quei due qua. Lei, però, non mi sente. Mi chiede di ripetere.
«Cosa ci fanno loro qui?» – compio una fatica immane per parlare.
«Mi hanno aiutato. Non sapevo cosa fare con te. Sono abituata al sangue, ho visto animali sgozzati dalla nascita, ma non so cosa fare quando è un umano a sanguinare, dalla bocca poi. Io non sono Chimio.»
«Ma…»
«Ci hanno trovato grazie al tuo paracadute. Credendo fosse per loro, l’hanno cercato e mi hanno trovato.»
Anche da mezzo rimbambito, sento che questa storia fa acqua da tutti i pori.
«Hanno del cibo che vogliono condividere con noi.» – continua Søren. – «Ti abbiamo fatto bere della minestra di verdure. Ho mangiato anch’io.»
Ricordo del paracadute argentato e lo cerco con lo sguardo. Spero che quello che ho visto prima sia solo una bugia, un’illusione della mia mente.
«Il paracadute non era per loro e, quando sono arrivati qui, ormai avevo già usato il paracadute su di te.» - Søren conferma che il paracadute era aperto.
«Co…»
«Quello che c’era là dentro l’ho dato a te. Non aveva un ottimo odore ma, se era solo per te, ci sarà un perché. Siamo una squadra e ti sostengo.»
Ritorna quella frase che la mia testa ripete all’infinito. Sono ancora stordito.
«Mi senti?» – Søren mi sussurra all’orecchio.
Faccio cenno di no con la testa.
«Come puoi dirmi no, se non senti? Vuol dire che ci senti eccome!»
Accenno un sorriso divertito.
«Ma…»
«Ora, riposa.»
«Dimmi che…» – respiro. - «Possiamo fidarci… di loro.» – con le poche forze che ho, afferro la mano di Søren.
«Non posso dirtelo perché non possiamo fidarci di loro.»
Mi basta questo per non chiudere più occhio.
 

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Capitolo 32
*** Attenti ***


31. Attenti
 
Sono passate delle ore, è sera.
Søren mi è stata accanto tutto il tempo. Mi sento meglio, anche se ancora un po’ stordito. Ora, però, non devo addormentarmi! Non devo farlo perché non voglio lasciare Søren in compagnia di questi due tributi di cui non possiamo fidarci minimamente. Sono degli sconosciuti e, se non ci si può fidare dei conoscenti, figuriamoci di loro.
Lo stomaco non brontola più, quella minestra mi avrà fatto del bene.
«Søren, riposa tu.»
«Non ti lascio sveglio e mezzo rincoglionito con loro due vigili e attenti.»
Parliamo a bassa voce mentre i due stanno provando ad accendere un fuoco.
«Non credete sia pericoloso?» – chiedo ai ragazzi quando capisco il loro intento.
«Perché dovrebbe esserlo?»
«C’è ancora un tributo là fuori che vuole ucciderci.» - rispondo.
Loro ridono.
«E non pensi che ci avrebbe già ammazzato, se voleva?»
Inarco le sopracciglia e tento di capire cosa passa nella mente di questi due strani ragazzi: perché Level avrebbe dovuto attaccarci se noi siamo, ora, quattro?
«Quattro contro uno? Non c’è molta probabilità di vittoria per l’uno.» – Søren ha pensato e detto quel che pensavo anch’io.
«Lei ha una pistola.» – risponde il ragazzo del distretto 12.
«E una mano ferita.» – rispondo di getto.
«Oh, interessante.» – il ragazzo del distretto 11, al sentire questa notizia, riprende a strofinare il ramoscello di legno contro i piccoli rametti che sono a terra.
«Proprio perché siamo quattro contro uno, lei non verrà. Siamo forti, non ci attaccherà.» – riprende il ragazzo del distretto 12. Non ha senso quello che ha detto, per niente. Anzi, ha ripetuto i nostri pensieri per avvalere la propria tesi.
A prima vista, capisco che il leader tra i due è proprio il ragazzo del distretto 12 mentre il ragazzo del distretto 11 è colui che obbedisce e che, però, pensa. Credo siano anche loro una squadra, come me e Søren.
Il fuoco prende vita.
«Ci sono riuscito!» – dice il ragazzo del distretto 11 al suo alleato.
«Avevi qualche dubbio?» – risponde l’altro.
Sono una squadra eccome e c’è qualcosa tra questi due ragazzi che mi spinge a volerne entrare a far parte.
«Abbiamo mangiato, bevuto… ora dovremmo dormire.»
«Concordo con te, Andro.»
«Non volete dormire voi?» – il ragazzo del distretto 11, Andro, domanda a noi altri due.
«No…»
«Oh… allora, ne approfittiamo noi?» – chiede gentilmente il ragazzo del distretto 12, Potas.
«Ok!» – rispondo deciso. I due si adagiano sul terreno, il loro cuscino sono le mani. Io e Søren, lontani da loro, ci sediamo a terra.
«Perché si fidano di noi?» – tutta questa situazione mi sembra surreale.
«Non lo so.»
«Cosa sappiamo di loro?» – tutte le informazioni su di loro potrebbero aiutarci a capire con chi abbiamo a che fare.
«Il ragazzo del distretto 11 si chiama Androceo, quello del distretto 12 è Potas.»
«Mi ricordo di loro durante gli Addestramenti.»
«Androceo è bravissimo con il cibo e tutto ciò che riguarda la natura.»
«Perché mi ricordano Chimio e Falloppio?» – sì, i due ragazzi mi ricordano i nostri amici morti. Questa è la cosa che più mi fa riflettere.
 
Io e Søren ci siamo interrogati molto su quei due ragazzi che hanno dormito come ghiri. Abbiamo provato a dare una spiegazione ai loro comportamenti ma, ahimè, non abbiamo trovato nulla di convincente. La cosa più semplice sarebbe chiedere a loro come mai sono voluti restare con noi.
«Sapete di cosa ho davvero bisogno ora?» – dice Potas, il ragazzo del distretto 12.
«Cosa?» – dice Søren.
Stiamo camminando per le macerie, è notte inoltrata ormai. Saranno le tre.
«So che non si dice davanti a una ragazza ma, ehi, è roba naturale.»
A me viene già da ridere perché credo di aver capito a cosa si riferisca Potas.
«Non preoccuparti per me, non mi scandalizzo facilmente!» – Søren gli fa l’occhiolino.
«Bene, perché ho proprio bisogno di fare cacca! Una cacca di quelle grandi, una di quelle con cui sporchi tutto il water e ti spremi finch…»
«Ok, ho detto che non mi scandalizzavo facilmente ma immaginare un water tutto sporco della tua merda non è una cosa facile da digerire.»
«Forse perché la cacca non è da digerire.» – aggiungo io prendendo in giro Søren.
«Søren, tirami il dito.» – Potas allunga il dito verso di Søren.
«Oh no, ti consiglio di non farlo!» – risponde prontamente Androceo.
«Dai, Andro. Non faccio nulla di male!»
Androceo, o Andro come lo chiama Potas, pone le mani davanti gli occhi e, poi, si tappa il naso. Søren fa come gli ha detto Potas ed egli scorreggia.
«Oh cavolo, ma da quando non scorreggi?» – sventolando le mani cerco di allontanare l’odore pestilenziale che proviene dal culo di Potas ma, poi, ci rido su. È divertentissimo!
«Io ho fatto cacca la prima sera.» – ammetto.
«Cosa? La prima sera in cui tutti stavamo per morire… tu hai fatto cacca?» – mi chiede sconvolto Andro.
«Ehi, quando la natura chiama…»
«Ti capisco, io l’ho fatta nella miniera, una volta.» – con molta nonchalance, Potas ci rivela questo segreto.
«Io non l’ho mai fatta all’aria aperta come se fossi un animaletto.» – commenta Søren.
«Ehi, ma io l’ho fatta in un bagno!» – credono che l’abbia fatta per strada, nell’Arena?
«Dove?» – Andro è curioso di scoprire dove ho depositato le mie feci.
«In una delle case dell’Arena.»
«Chissà cosa sia quest’Arena!» – dice Andro sospirando.
Io e Søren ci guardiamo con fare complice ma, al tempo stesso, indeciso. Diciamo ai due ragazzi che l’Arena è il distretto 13 o restiamo semplicemente in silenzio?
«Io un’idea ce l’ho.» – esordisce Potas.
«Non uscirtene con quella cosa…» - sussurra Andros, anche se lo sentiamo tutti.
«Perché? Qual è la tua idea?» – chiede Søren.
«Beh, Andro dice che non è così ma, a me, piace credere che l’Arena sia un posto lontano da Panem. Nella realtà, però, intendo.»
«Tu credi ci sia un altro posto che non sia Panem?» – Søren lo guarda incredulo e Andro sembra essere perplesso tanto quanto la ragazza.
«Io credo ci sia dell’altro oltre questo pezzo di terra che noi chiamiamo Panem e che, dopo la morte, non sia finita qui.»
Mi sembra di ascoltare Livius che credeva esistesse qualcosa oltre Panem, Capitol City e gli Hunger Games: non a caso abbiamo deciso che la luna sia il nostro mondo.
«Penso che tutto nascondi un senso…» – continua Potas. – «…e che, dunque, non bisogna arrendersi e fermarci. Lassù…» – indica il cielo. – «c’è qualcuno, qualcosa più grande di noi.»
Questo è un discorso che potrebbe sicuramente colpire Søren. È la prima persona qua dentro che, credo, veda il mondo rosa e fiori come lei.
«Dimmi di più.» – ok, l’attenzione di Søren è stata catturata: l’ho decisamente persa. Io non ho intenzione di restare a sentire questi discorsi filosofici e pieni di speranza, amore e fratellanza. No, dopo la morte non c’è niente. Davvero niente. Se ci fosse qualcosa, allora dove sono Livius, mio fratello, Loto, Chimio, Falloppio, i tributi e tutta la gente morta?
«E tu, Androceo, cosa credi?» – chiedo interessato di conoscere il parere dell’altro ragazzo.
«Io non so cosa credere. Insomma, non mi ha mai sfiorato il pensiero che ci fosse qualcuno a guardarci, a vegliarci.»
«Anche perché, se ci fosse, sarebbe un cattivo vegliatore visto che siamo qui dentro, costretti ad ammazzarci.» - rispondo sinceramente.
Androceo mi rivolge un piccolo sorriso, sembra essere d’accordo con me. Potas, invece, fa finta di non aver sentito quello che ho detto.
 
La luna sta andando in riposo e, lentamente, cede il suo posto al sole.
Oggi è stata una giornata particolarmente calma… se non conto il paracadute, i miei due svenimenti e l’arrivo di Potas e Andro.
Ok, ho detto una stronzata! Nell’Arena non esistono né giorni calmi né la calma in sé.
«Ragazzi!» – Andro è felicissimo. - «C’è un laghetto, dell’acqua!»
Comprendo a pieno la sua felicità. Anche io ho bisogno di un bagno, di lavarmi, di sentirmi pulito. Ho bisogno di levarmi di dosso questa sporcizia fatta di polvere, sangue, detriti.
«Ma…» - Potas cerca di farci ragionare. - «…se ci fosse qualcosa lì dentro? Se l’acqua fosse avvelenata e…»
Potas non ha torto. Bisogna stare attenti. Ripenso alla storia di Victor e alla sua edizione: il quindicesimo piano, quello più bello e rilassante della nave, era la trappola mortale dell’Arena. Se anche questo lago lo fosse?
All’improvviso uno sparo. Un altro ancora. Cade a terra il corpo di Potas.
Qualcuno ci sta spiando, questo è sicuro. So anche chi è. Siamo rimasti in cinque, anzi quattro, e l’unica ad avere una pistola nell’Arena è proprio Level.

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Capitolo 33
*** Inevitabile ***


32. Inevitabile
 
«Siete fieri di un figlio del genere? È un abominio!»
Questa è la terza donna del distretto 2, oggi, che viene a lamentarsi con mia madre. Stanno parlando di me. Nella mattinata è passata la madre del bulletto, quello che ho picchiato per difendere il mio migliore amico. Durante il pranzo, un’altra donna è venuta a dire ai miei genitori che sono pazzo. Ora quest’altra afferma che sono un mostro, che sono il figlio che nessuna madre desidererebbe. I miei, in effetti, non mi hanno mai voluto. Perciò non dice loro niente di nuovo.
Si mischiano altre voci di donne a quelle di questa signora. Probabilmente ci sono più persone davanti alla mia porta e tutte sono qui per dire cattiverie sul mio conto. Esco dalla mia stanza. Mio fratello è seduto sulle scale. Guarda quelle donne urlare ed è spaventato. Lui non ha mai avuto un carattere freddo e pronto, deciso. No, mio fratello è sempre stato un po’ debole, si lascia trasportare facilmente dalla corrente. Basti pensare al fatto che ha detto a me, suo fratello, di tagliarmi le vene solo per farsi accettare dal suo gruppetto. Non gliene faccio, però, una colpa. Se io ho preso le ossa graciline di mia madre, lui ha preso il carattere duttile e malleabile di mio padre.
Sento dei rumori, qualcosa sbatte contro i vetri delle finestre. È un rumore terrificante. Mia madre urla. Decido di scendere giù: queste donne ignoranti sono qui per vedere me e, allora, le accontento.
«Buongiorno.» – dico come se nulla fosse. Alcune mi guardano con occhi sbarrati credendo di vedere una bestia alata scesa in terra, altre hanno un’espressione incredula, come per chiedersi se io possa aver mai fatto tanto male ad un ragazzino più grande di me.
«Hai anche il coraggio di dirmi buongiorno.» – afferma la donna che è proprio davanti alla porta di casa. Sarà la leader di queste donnacce.
«Dovrei, forse, non salutarla? I miei genitori almeno un po’ di educazione me l’hanno insegnata.» – tutta questa forza spavalda nasce spontanea. Sarà, probabilmente, anche Livius che mi sta aiutando. Infatti, finora, è sempre stato dietro di me a guardare la scena.
«Educazione? Tu hai fatto del male ai miei figli. Per non parlare dell’altro povero ragazzo… tu sei un Sanguinario!» - la donna supera l’uscio, scansa mia madre e siamo faccia a faccia. Fa il gesto di volermi dare uno schiaffo ma io le blocco la mano.
«Prima di tutto, lei è una grande scostumata perché bisogna chiedere permesso prima di entrare in casa di sconosciuti. Seconda cosa, questo trambusto qua è poco signorile ma è da vere cafone quale voi siete.» – alcune mugugnano qualcosa, altre iniziano a spaventarsi. – «E, ultima cosa ma non meno importante, i suoi figli e quel povero ragazzino meritavano e meritano tutto quello che hanno ricevuto. Anzi, le dirò di più: quello è poco.»
La donna bionda è spazientita. È venuta qua perché voleva punirmi. Vuole darmi quello schiaffo ma continuo a stringerle il polso. Ci prova, allora, con l’altra mano, ma blocco anche l’altra.
«I suoi due figli, una volta, mi hanno dato fuoco i quaderni, lo sa questo? Quel povero ragazzo di cui parla tanto con amore mi ha picchiato, lo sapeva questo?» – sposto lo sguardo verso le altre donne che restano impietrite sulla soglia di casa.
«Anche i vostri figli mi hanno picchiato. Vostro figlio mi ha rubato le scarpe una sera.» – dico alla madre di Venice, il tributo degli Hunger Games. - «Hanno picchiato anche il mio migliore amico. Nessuno faceva nulla per proteggerlo e lui non fa male ad una mosca. I vostri figli attaccano i più deboli per fare i forti, i carini. Andate a fare la vostra paternale a loro che, evidentemente, non hanno modelli comportamentali da seguire. Quello che ho fatto? Lo farei ancora, ancora ed ancora. Perciò uscite da casa mia e non mettete più piede qua dentro.» –ho mantenuto il controllo e ho cercato, più volte, di trattenere l’amarezza, la tristezza, ma questo non mi ha vietato di avere la voce alta, ferma, prepotente.
«Chiaro?» – urlo.
Lascio la presa sui polsi della signora costringendola, con violenza, ad abbassarli. Ella mi guarda. Vorrebbe dirmi qualcosa ma fa solo una cosa: esce di casa massaggiandosi i polsi doloranti. Tutte mi guardano, dalla prima all’ultima.
Fanno bene ad avere paura di me, hanno ragione a dire che sono Sanguinario.
 
Il colpo del cannone non tarda ad arrivare.
«Dobbiamo fuggire!» – esclama Søren.
Androceo sembra non voler lasciare Potas lì ma lo deve fare, assolutamente. Cosa vorrebbe fare? Portarsi addosso il corpo di un morto?
«Potas!» – richiamo la sua attenzione ma non ascolta. Questo mi fa capire che ha voglia di restare qui, ma io non mi faccio ammazzare perché a lui non va di scappare.
«Non possiamo restare qua!» – dice Søren allarmata.
«Søren, andiamocene!» - le urlo.
Søren afferra la mano di Andro ed egli la stringe, davvero forte. Lei lo tira a sé per farlo venire via ma egli oppone resistenza. Anzi, più che resistenza sembra fare la stessa cosa. Lui sta tirando lei. No, ora fa anche di peggio: le dà una testata.
«Ma che…» - dopo aver visto questa scena rimango esterrefatto. Siamo disorientati, lei più di me perché, ovviamente, è stata appena colpita in testa dalla testa di un altro. Sfilo immediatamente il pugnale dalla cavigliera. Non dovevamo fidarci di questo stronzo! Mentre Søren estrae la spada, Andro la stordisce con un teaser elettrico che ha cacciato dalla tasca del pantalone. Lei sente un sacco di dolore (lo capisco dell’espressione del suo viso) e lui la stringe a sé per poterle infliggere più dolore. Stringo il manico del pugnale, prendo la mira. Voglio provare a colpirlo.
«Fermo, o la ammazzo!» - mi dice Andro. Søren ha perso i sensi.
«Oh, non credo proprio!» - Level, finalmente, si mostra. Ha la pistola in mano e, bloccandomi il passaggio, la punta alla mia fronte.
«Ci incontriamo, di nuovo.» – Level sorride: non aspettava altro.
«Era inevitabile, presumo.» – le rispondo.
«Inevitabile. Mi piace molto questa parola.» – ormai deve andare così: quando io e lei ci incontriamo, dobbiamo prima scontrarci verbalmente. Entrambi abbiamo alte le difese. Lei ha la sua pistola, io il mio pugnale.
«Come mai il tuo alleato è questo pezzo di merda?» – chiedo a Level.
«Pezzo di merda a chi?» – mi rimprovera il traditore del gruppo.
«Vogliamo tutti vincere e lui ha capito con chi avrebbe avuto più possibilità di vittoria.» – mi spiega Level.
Ma questi piani stupidi a chi sono venuti in mente? Creare alleanze, così, dal nulla, è la cosa più irrazionale che si possa fare. Se, infatti, ci si allea senza pensare alle probabili conseguenze, si hanno gli stessi risultati che abbiamo ottenuto io e Søren quando ci siamo fidati di Andro e Potas.
«Mi ero stufato di essere la pecora di quello stupido del distretto 12.» – sbarro gli occhi dopo questa rivelazione. - «Ha detto anche che dovevamo pregare perché lassù c’è qualcuno che ci sta guardando, che opera per un bene superiore. Dimmi, ora dov’è questo grande essere?» – Andro getta Søren a terra come se fosse un sacco.
«Cosa ce ne facciamo di loro?» – Andro chiede alla sua nuova migliore amica.
«Non sono affari tuoi.» – Level è particolarmente infastidita dal ragazzino.
«Non sono arrivato fino a questo punto per farmi comandare da te.» – Andro si svela presuntuoso ed esigente. Dava l’impressione di essere un agnellino, uno indifeso e, invece, è un abominio. Come ho potuto paragonarlo a Chimio?
«Non sono arrivata fin qui per farmi distruggere i piani da uno come te.» – Level ha subito la risposta pronta.
«Sai che ti dico? Ora la uccido!» - Andro ancora con il teaser elettrico in mano, si abbassa. - «Gli accordi erano altri!»
Sto diventando impaziente. Lui non la deve neanche sfiorare con un dito.
«Non ci provare nemmeno.» - rimango sorpreso da quest’ultima affermazione di Level.
«O cosa mi fai, Level? Non mi fai paura!» – è anche sfacciato il ragazzino. Andro preme il pulsante del teaser elettrico e strisce di corrente elettrica viaggiano da un estremità all’altra. Lentamente lo avvicina alla cute di Søren.
«Oh, deficiente!» – gli urlo. Lui mi guarda con un’espressione divertita.
«Che c’è? Ti infastidisce tutto questo?» – lui getta il teaser, si distende sul corpo di Søren e la accarezza.
«Che c’è? Snow, il sanguinario… giusto? Che nome del cazzo che ti hanno dato!» - ride, afferra una ciocca di capelli di Søren e, tirando su il capo, lo spinge, poi, contro un masso. La ragazza riapre gli occhi urlando.
Vedo bianco, ancora.
Poche volte ho visto bianco e sono conscio di ciò che accadrà. Spingo Level a terra non curandomi della pistola e corro da quello. Mi ci butto addosso. Lo uso come scudo per la caduta e lo pugnalo al petto. Cadiamo su altri massi e imito ciò che ha fatto lui con Søren. Afferro i suoi capelli, sollevo il capo e sbatto la sua testa contro i massi, ripetutamente. Per un attimo credo di colpire Ermen, poi ritorna quel viso sporco di Andro il traditore. Non mi fermo perché non c’è pianto, non c’è lotta. Lui non reagisce. Nessun cannone, però, è esploso: lui è ancora vivo e questo non mi consola affatto. Continuo a colpire la sua testa contro i massi e, con l’altra mano libera, premo il pugnale per farlo andare più a fondo. Una pozza di sangue inizia a scender giù dalla testa. Sta morendo, lo so. Ma questo non basta. Non merita una morte così semplice. Ha preso anche in giro Potas, un ragazzo che si era fidato di lui. Ha preso in giro me e Søren. Questa non è una cosa da poco.
Sputo sulla faccia di quest’altro tributo e, alzandomi da terra, calcio il corpo affinché cada nell’acqua del lago.
Mi basta sentire solo il rumore di quel corpo che cade, poi corro subito da Søren. Mi siedo accanto a lei, le sollevo dolcemente il capo e lo adagio sulle mie gambe. Le accarezzo la fronte, gliela bacio e la stringo a me.
«L’ho ucciso. Non ti darà più fastidio.»
Søren mi sorride, allunga la mano sulla mia fronte e mi confessa una cosa bellissima.
«Grazie per avermi fatto vivere nel luogo della morte. Non importa cosa tu abbia fatto, distretto 2, tu non sei un mostro. Io piangerei per te.»
Io le sorrido. I miei occhi diventano lucidi.
«Anche nei momenti meno opportuni, ci diciamo queste cose?»
«Perché, se non adesso, quando dovrei dirtele queste cose?»
«Dopo.»
«Non c’è un dopo per noi.»
Il cannone si propaga nell’Arena. Alzo lo sguardo spaventato ma, poi, sorrido perché questo deve essere il cannone di Andro.
«Perché non c’è un do…?»
Quando ritorno a guardare Søren, però, i suoi occhi non brillano come prima e le labbra sono livide, le pupille immobili, il suo corpo è diventato, d’un tratto, più pesante e non sento il suo respiro. Il petto non fa alcun movimento, la bocca non esala un respiro.
Adesso mi manca davvero il respiro perché il mio era sincronizzato al suo. Ora che non ho un respiro da seguire, cosa ne farò dei miei? Sono sconvolto, senza parole e solo. L’Arena si sta restringendo, i massi mi stanno aggredendo, la terra si sta sgretolando.
Mi piego sul corpo morto di Søren (quel cannone era per lei) e, in lacrime, mi rimprovero perché non ho mantenuto la promessa: dovevo difenderla.
«Sono un mostro.» – non riesco neanche a dire queste tre parole mentre le lacrime rigano il mio volto. Perché lei?
Perché non sono morto io?
Chiudo gli occhi, la stringo più forte a me per non lasciarla andare. Non voglio che anche lei muoia. Sono stufo di queste morti.
Perché non sono morto io?
Almeno avrei evitato questo ennesimo dolore.
Perché non sono morto io?
Se le margherite sono sempre salve, allora perché quest’ultima margherita, la più bella nel campo, sta appassendo?
Perché non sono morto io?
Sento qualcosa che mi punge la spalla, un dolore alla testa e non ci penso più.

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Capitolo 34
*** Rappresentare il distretto 2 ***


33. Rappresentare il distretto 2
 
«Livius, allora? Sei felice di rappresentare il distretto 2 negli Hunger Games?»
Victor pone questa domanda a Livius e lui guarda me.
«Io...»
Si spegne lo schermo gigante. Livius ha fatto cadere il microfono e ora si sta sparando. Sangue dappertutto, il corpo cade giù e il casino, che c’era finora, tace. Io corro verso il palco e mi piombo sul corpo del mio migliore amico. Inginocchiato, lo tengo stretto a me, lo chiamo perché si deve svegliare… e lui si rialza.
«Mi fa un po’ male la testa.»
Livius apre gli occhi e si tocca la ferita che ha alla tempia. Sta inserendo l’indice nel foro che cresce a dismisura. Adesso la mano entra nella testa, sta toccando il proprio cervello.
«Snow, ho il cervello fuori posto?» – scoppia a ridere.
Guardo il pubblico e tutti loro miagolano, non un normale miagolio. Miagolano come faceva Mohr, il gatto del Presidente. I Pacificatori, però, iniziano a sparare ogni spettatore. Dopo un po’, si avvicinano a me.
Io indietreggio, ancora inginocchiato, ma qualcuno mi blocca. I Pacificatori continuano ad avanzare verso la mia direzione. Io alzo lo sguardo e scopro che a bloccarmi è Victor. Mi aggrappo ai suoi pantaloni e lui mi abbraccia.
«Calmati, Snow. Vieni, ho del thè.»
Victor mi porge la sua mano per farmi alzare mentre arriva la mamma di Livius con un carrello. Sopra c’è un piatto che contiene la testa di Livius. Victor prende il capo, lo capovolge e, come se la testa di Livius fosse un recipiente, Victor inizia a vomitarci dentro.
«Il gusto del thè è: veleno, sangue e vomito. Il tuo preferito, giusto?»
Lui mi porge la tazza-testa sorridendo. Sorrido anch’io, ma questa mia reazione è irreale: non so che fare. Ma dove cazzo sto? Mi giro e provo a scappare dal palco. Dall’altra parte, però, mi stanno aspettando tre Pacificatori che si stanno levando il casco protettivo: tutti e tre hanno il volto di mio fratello. Loro mi passano una lametta e ridono: «Che ne dici di tagliarti le vene?»
Non faccio in tempo a fuggire da questi tre che loro mi colpiscono con le lamette. Mi lasciano a terra sanguinante finché non chiudo gli occhi.
 
«Livius, allora? Sei felice di rappresentare il distretto 2 negli Hunger Games?»
Victor pone questa domanda a Livius e lui guarda me.
«Io...»
Livius si spara, mi tocco i polsi ma non ci sono tracce di tagli. Mi precipito sul palco ma, dal cielo, iniziano a cadere dei crateri. Mi apro un varco tra il pubblico e scappo per non essere colpito dai corpi che cadono come pioggia. Uno mi cade proprio avanti i piedi.
Come un uovo che sta per schiudersi, il cratere si frantuma in mille pezzi ed esce Tacito che sorride e inizia a chiamarmi “papà”. Scappo, ma un altro se ne apre e questa volta è Loto che esce come un pulcino. Lei mi chiama “mamma”.
Scavalco il “cratere Loto” e corro. Mi stanno tutti inseguendo: ventitré crateri per ventitré tributi che mi chiamano “mamma”, “papà”.
«Andate via!»
Riesco a entrare nella casa rossa, quella in cui mi sono chiuso quando sono entrato nell’Arena, e chiudo a chiave la porta.
I ventitré tributi-uccelli battono con i becchi (che si ritrovano al posto del naso) contro la porta. Sento anche dei rumori all’interno della casa: che qualcuno di loro sia riuscito ad entrare? Sento i rumori dal bagno, quello in cui c’era lo specchio davanti al wc. Mi avvicino alla porta cautamente ed essa viene aperta da qualcuno che si trova dall’altro lato.
Sono Cosima e Caesar. Loro mi sembrano gli unici normali.
«Che succede Snow?» – mi chiede Cosima.
«Là fuori! Io... non ci capisco niente!» – sono agitato, lo ammetto. – «Un attimo ero alla Mietitura, ora nell’Arena e Livius… Victor ha vomitato nella sua testa e tutti erano Mohr.»
I due fratelli si guardano negli occhi e ridono.
«Snow, hai bisogno di riposare.» – Cosima prende la mia mano destra e Caesar prende la sinistra. Mi accompagnano nella stanza senza finestre e, chiudendo la porta alle loro spalle, iniziano ad accarezzarmi.
«Basta. Tutti mi dite che devo riposare ma so cosa ho visto! Non sono pazzo!»
«Ora lascia fare a noi.» – dicono all’unisono.
Nel buio completo, uno dei due mi abbassa i pantaloni della tuta, quella usata durante i Giochi. L’altro, invece, mi accarezza il viso e, dopo un po’, mi bacia. Capisco che è Cosima dal suo profumo e dalle labbra delicate e carnose. Io la lascio fare, sento di averlo desiderato da tanto un altro bacio del genere. Mentre mi bacia, l’altro mi inizia a levare la tuta e io non protesto.
Sono rimasto con addosso i boxer e la mano di Cosima sta giocando con il bordo.
Caesar, nel frattempo, inizia a baciarmi la schiena ed io riapro gli occhi. Sento la sua barba pungere la mia pelle e mi dà un fastidio incredibile. Mi crea disagio anche pensare che lui mi stia baciando.
Cosima ride divertita e mi dice che ne aveva proprio bisogno, non aspettava altro. Ora la mano di uno e la mano dell’altro mi accarezzano il petto e scendono delicatamente fino al boxer che mi abbassano. Sono nudo, senza difese, senza niente.
Sono nudo, sono me e, poi, mi pugnalano. Stanno ridendo mentre continuano a colpirmi.
 
«Livius, allora? Sei felice di rappresentare il distretto 2 negli Hunger Games?»
Victor pone questa domanda a Livius e lui guarda me.
«Io...»
Mi tocco: sono vestito e vivo. Lo schermo diventa nero, Livius sta prendendo il fucile dal Pacificatore. Questa volta non aspetto che si spari. Corro, vado velocissimo ma non riesco ad evitare niente perché si è già sparato. Salgo sul palco ma qualcuno, da dietro, mi afferra per i capelli.
È Andro. Cado a terra. Lui continua a tirarmi i capelli ma, dopo due secondi, scompare. Mi sollevo e, come una pazza, Ermen si fionda su di me. Vuole colpirmi con un sasso ma, poi, un ragazzo la butta giù dal palco.
«Dammi le tue scarpe!» - è Venice, il tributo del distretto 2 della 23° edizione, quello che mi rubò le scarpe. Lui mi tira i capelli e torna anche Andro a farlo. I due sono seduti sul mio corpo e si divertono a torturarmi. Sento i miei capelli staccarsi dal cranio. Dopo mille sforzi, i due si alzano dal mio corpo e iniziano a ballare felici mentre sventolano all’aria i miei capelli con cute annessa. Approfitto di questo attimo per fuggire da questi due, ma mi blocca mio padre. Lo abbraccio perché mi sto sentendo male. Non capisco cosa succede. Che sia l’Arena che mi fa queste cose? Che siano i Giochi? Che sia la realtà? Ma, se fosse la realtà, non dovrei sentire un dolore atroce perché mi sono stati strappati dei capelli?
Mi sciolgo dall’abbraccio e mio padre porta le sue mani alla mia gola. Le stringe.
«Perché cazzo sei finito nell’Arena? Non potevi farti i cazzi tuoi? Solo perché sei il tributo degli Hunger Games, tuo fratello mi ha lasciato. E poi… che figura ci faccio con te là dentro? Non dovevi essere l’onore del tuo distretto?»
Mio padre mi alza da terra con una forza non sua e continua a strangolarmi finché non muoio.
 
«Livius, allora? Sei felice di rappresentare il distretto 2 negli Hunger Games?»
Victor pone questa domanda a Livius e lui guarda me.
Prendo un respiro, finalmente respiro. Le mani di mio padre non stringono più il mio collo. Sono, però, di nuovo in questo scenario. Provo una nuova cosa.
«Mi offro come volontario!» - urlo dalla folla. Eviterò il suicidio di Livius così. Lui mi guarda chiedendosi se sto bene o meno.
«No, sono io il tributo.» - Livius rifiuta la mia offerta e lo guardo basito. Cosa cavolo sta facendo? - «Snow, sono stato scelto io, non tu! Hai sempre voluto rubarmi tutto! Vuoi avere i miei genitori, vuoi sapere tutto quello che so io, vuoi un veleno che abbia il tuo nome, vuoi essere me ma non lo sei.»
Livius scende le scale e mi viene incontro.
«Tu non sei nessuno, Snow.»
«Chi cazzo è Snow?» – una voce fuoricampo si propaga in piazza.
«Fattene una ragione.» – Livius mi punta il dito contro. - «Non ti vuole bene nessuno, non ti crede nessuno, non ti aiuterà nessuno. Tu sei nessuno.»
Livius caccia da dietro la schiena un fucile e mi spara.
«Ho sempre desiderato farlo! Com’era? “A volte bisogna solo star zitti... e far zittire.” Cazzo, inizia a star zitto un po’ tu!»
 
«Livius, allora? Sei felice di rappresentare il distretto 2 negli Hunger Games?»
Victor pone questa domanda a Livius e lui guarda me.
«Io...»
Questo continuo deja vù è insostenibile. Il replay di questi strani eventi mi sta sfinendo, facendo uscire pazzo. In realtà sono più scosso perché, prima, è stato proprio Livius ad uccidermi. Mi ha anche detto che io non valgo nulla, che sono zero.
Voglio mettere fine a questa storia ma non conosco alternative: le ho provate tutte e tutte finiscono con me morto. Allora mi siedo a terra, lascio che tutto vada avanti senza il mio intervento.
Anche questo, però, non sembra funzionare perché mi stanno calpestando tutti i ragazzi del distretto 2 che scappano da qua.
Ma ecco che una ragazza senza volto mi porge la sua mano per farmi alzare da terra.
Mi dice: «Non starli a sentire, sono stupidi.»
Prendo la sua mano ma, poi, mi spara.
 
«Livius, allora? Sei felice di rappresentare il distretto 2 negli Hunger Games?»
Victor pone questa domanda a Livius e lui guarda me.
«Io...»
La ragazza senza volto è scomparsa e sono, ancora, qui. Cosa cavolo devo fare per uscire da questo incubo continuo? La folla, questa volta, si inginocchia. Sul palco Livius non c’è più, c’è Potas. Egli inizia a dire parole incomprensibili e, volgendo lo sguardo al cielo, chiede di avere misericordia per noi cittadini di Panem. Io non sono in ginocchio, guardo la scena. Dove è finito Livius?
«La nostra storia non finisce con la morte. La morte è solo una nuova nascita.»
Potas inizia a cantare e tutti gli altri lo seguono. Il canto di Potas, però, viene interrotto da Steno e Medusa. Lo ammazzano con due tridenti. I due esibiscono le loro armi a noi pubblico e il cielo si riempie di fulmini che colpiscono i vari schermi, le telecamere, i microfoni.
Tutti hanno paura e Potas, alzandosi da terra, informa tutti che chi è lassù è arrabbiato: non ne può più di queste morti ingiuste e crudeli.
Come ha fatto ad alzarsi, se lo hanno ucciso?
Vengo colpito da un fulmine.
 
«Livius, allora? Sei felice di rappresentare il distretto 2 negli Hunger Games?»
Victor pone questa domanda a Livius e lui guarda me.
«Io...»
Livius si spara e io, questa volta, non mi avvicino al palco. Mi allontano dalla folla. Scavalco la recinsione di filo spinato che serviva a contenere noi ragazzi per la Mietitura e mi ritrovo nella Foresta di Conifere dell’Arena, il distretto 13. C’è Falloppio seduto su un ramo d’albero. Quando mi vede, scende giù tutto contento. In mano ha una pistola. La sta smontando, proprio come fece quando ci incontrammo la prima volta.
«Snow, hai imparato come si spara? Devi tenere con due mani questa che è la guancetta…» – stringe quella che io ho sempre pensato si chiamasse manico della pistola -  «…e poi premi il grilletto.»
Su un altro albero c’è Chimio. Lo vedo, lo saluto ma lui non scende. Ha vergogna di me.
«Perché non scende?» - chiedo a Falloppio.
«Preferisce stare con me che con te.» - lui non mi dice questa cosa con cattiveria, anzi ne è dispiaciuto. – «Crede che solo io possa salvarlo. Infatti, dopo la mia morte, nessuno più lo ha difeso.»
Le parole del mio compagno mi feriscono perché, effettivamente, è la verità. Non sono riuscito a salvare Chimio mentre Falloppio, anche quando era in pericolo, è riuscito ad uccidere un tributo, ferire la mano di Level e salvare Chimio. Lui è un vero eroe, non io.
Forse neanche io scenderei da quell’albero.
«Snow, non fartene una colpa. Non sei riuscito a difenderlo perché non sai usare una pistola. Ti faccio vedere come si usa.»
Falloppio chiude un occhio, mantiene la pistola con tutte e due le mani e, mirando verso di me, spara.
 
«Livius, allora? Sei felice di rappresentare il distretto 2 negli Hunger Games?»
Victor pone questa domanda a Livius e lui guarda me.
«Io...»
«Livius, non spararti, cazzo!»
Gli urlo da quaggiù. Sto provando mille metodi per uscire vivo da questa storia ma non so cosa fare più: qualsiasi cosa faccia, mi trovo morto e, di nuovo, qua. Scompare il palco questa volta. Non c’è nulla accanto a me. Sento solo la voce di una ragazza.
Seguo questa voce ma trovo solo tante ghiandaie imitatrici. Alcune mi ronzano attorno e si posano sul mio viso, una mi entra in bocca e la sputo fuori. Voglio liberarmi di tutti questi animaletti. Mi rannicchio a terra, chiudo gli occhi e ascolto la voce che le ghiandaie imitano. Dopo un po’ il silenzio. Riapro gli occhi. Adesso siamo nell’Arena, prima che diventasse il nulla. Mohr e il cane con la varicella stanno a cuccia, distesi al sole.
«Hai visto? Così non devo partecipare ai Giochi.»
Mi volto. Søren gira su sé stessa.
«L’ho amputata… la gamba.» - mi sorride e, dandomi le spalle, inizia a parlare con delle ombre nere alte quanto gli alberi accanto a noi.
«Dai, Snow, vieni anche tu a giocare con i demoni.»
«Io… Søren!»
«Sai che non è colpa tua, vero?»
«Cosa?»
«La mia morte. Non è colpa tua, non sei un mostro. Io e te: una squadra.»
«Ti avevo promesso di difenderti…»
«Ma tu mi hai difeso. Snow, mantieni l’unica vera promessa che ci siamo fatti: non dimenticarti mai di me.»
«Non potrei...»
«Neanche io.» – lei mi sorride. I demoni, le ombre nere sono scomparse. Saltellando su una sola gamba, Søren mi raggiunge, mi prende le mani e, guardandomi negli occhi, ci scambiamo un bacio.
«Ho sempre voluto farlo.» – mi rivela lei. 

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Capitolo 35
*** Un volto da non dimenticare ***


34. Un volto da non dimenticare
 
Sono pronto a dover ripercorrere, ancora ed ancora, la tragedia che finisce con la mia morte.
Apro gli occhi con la consapevolezza che dovrò rivedere il mio migliore amico morire, quel palco e qualche persona nuova che mi ucciderà.
È tutto sfocato. Stranamente non sono più in piazza, non c’è Livius su un palco, non c’è nessuno. Sono tutto sudato, ho la tachicardia. Credo di aver perso sangue perché sento del liquido vicino la mia guancia.
Probabilmente sono uscito fuori da quel continuo susseguirsi degli eventi. Questa deve essere la realtà.
Sono chiuso in qualche strano posto. Forse è il Palazzo della Giustizia del distretto 13… non ho mai visto un posto del genere e, poi, gli ultimi edifici dell’Arena rimasti intatti erano proprio la Cornucopia e il Palazzo della Giustizia.
Provo a muovermi, ma sono bloccato. Mani e caviglie sono legate con un panno. Non sono né seduto né disteso, per questo mi sento già stanco.
Richiudo gli occhi e respiro in modo affannato. Andro sarà ancora vivo? Sì, per forza. C’è stato il rimbombo di un solo cannone, non due. Quindi mi avranno legato Level e Andro. Cosa hanno intenzione di farmi? Ma, cosa ancora più importante, perché sono ancora vivo?
Mi buttano dell’acqua fredda addosso. Level è davanti a me. Con un panno mi sta pulendo il viso. Sta usando anche una delle saponette che ho rubato nella casa rossa.
«Scusa se mi son permessa di mettere le mani nel tuo zaino.» – Level, delicatamente, passa questo straccio bagnato sulle mie guance. Si sofferma soprattutto sul bordo delle labbra.
«Eri tutto sporco. Ho pensato ti avrebbe fatto bene ripulirti un po’.» – tutta questa gentilezza ha il sapore di falsità. Non è Level. C’è qualcosa sotto, ne sono sicuro. È un gioco, forse un’illusione. Sì, sicuramente.
«Aspetta… anche qui.» – mi alza la maglia, nei limiti in cui può farlo visto che mi hanno legato come se fossi un salame.
Sposto lo sguardo di lato sperando di vedere Søren al mio fianco, ma lei non c’è. Lei è morta. Mi ha baciato, ma non era la realtà quella.
Level inizia a pulirmi la pancia, poi il petto. Provo dei brividi. Il corpo trae piacere in questa strana perversione, ma la mia mente ha voglia di fuggire per la scena pietosa.
Non so neanche se sia notte o giorno, ho perso la cognizione del tempo. In questo luogo chiuso ma ben illuminato da lampade, non trovo finestre o porte in cui poter vedere cosa c’è fuori.
Level sta continuando a toccare il mio petto. Lentamente avvicina le sue labbra dove batte il mio cuore. Le strofina su quella porzione del petto. Lascia un bacio delicato e soffice sul petto e, poi, mi aggiusta la maglietta.
«Mi è sempre piaciuto quando mi baciavano il petto così.» - dopo che mi ha detto questo, mi vien da vomitare. Anche a me piacerebbe, se non fosse lei a farlo!
Getta il panno sporco in un secchio pieno d’acqua e, levandomi da bocca la pezza che mi impedisce di parlare, prova a cibarmi.
«Cosa stai facendo?» – le chiedo incapace di comprendere.
«Mi prendo cura di te.» – mi risponde innocentemente.
«Cosa?»
«Mangia!» – inserisce a forza il cucchiaio nella mia bocca ma io non voglio mangiare. Lei, con la mano, vuole costringermi a mandare giù quel brodino ma io lo faccio cadere lungo le estremità delle labbra.
«Cazzo, Snow. Mangia! Non è niente di pericoloso!» – Level immerge il cucchiaio in quella poltiglia marrone e ne manda giù un boccone. Questo, secondo lei, dovrebbe tranquillizzarmi?
«Non mangio nello stesso piatto in cui mangi tu.» – le dico e mi molla un ceffone.
«Dove siamo?» - riprendo con le domande.
«Non lo so.» – mi risponde.
«Mi prendi in giro?»
«No, davvero non so dove siamo.»
«Vorresti farmi credere questa stronzata?»
«Snow, quando parlo con te, sono sincera.»
«Ah si?»
«Si! Non so cosa sia quest’Arena.» – un’altra persona che non sa dove siamo. Mi diverte ciò.
«L’inferno.» - le rispondo sinceramente. - «Sai cos’è l’inferno, vero?»
«Se qualcuno mi chiedesse la definizione d'inferno…» - inizia un monologo mentre gira il cucchiaio nella zuppa.- «…io risponderei che non serve dare una definizione, basta guardarsi attorno. Se qualcuno mi dicesse che l'inferno è un regno sotterraneo in cui finiranno le anime crudeli, io riderei affermando che l'inferno lo stiamo già vivendo. Quel regno ultraterreno è, ormai, un luogo pieno: non c'è più posto per le anime cattive lì, ecco perché sono tutte ferme qua, sulla terra.»
«Tu sei una persona cattiva. Dovevi stare nell’inferno, ma è pieno, come dici tu. Ecco perché sei qui, allora.»
«Anche la cattiveria bisogna vederla da vari punti di vista.»
«Non ricominciare con questa cazzata dei punti di vista! Una persona buona non si comporta come te! Sul treno mi dici che ti dispiace per il mio migliore amico e, poi, a Capitol City ti allei con Tacito ed Ermen. Sei ambigua, forse debole ed insicura.»
Si lascia scappare una piccola risatina.
«No, mio caro, non sono io quella debole ed insicura. Quello legato sei tu e non io, questo dovrebbe farti capire chi, tra i due, è il più debole. Inoltre banalizzi il tutto con le tue teorie. Io non sono cattiva, né debole, né insicura. Tu hai la convinzione che tutto sia semplice.»
«Io sono convinto che tutto sia semplice? Su quale base dici ciò?»
«Mandi avanti questo faccino indifeso e debole quando, invece, il tuo viso nasconde muscoli ed ossa che funzionano per essere meschini, subdoli. Sei un finto buono, sei un finto ferito, sei finto. Io sono qui per ricordartelo, sono qui per ricordare che non esiste giustizia su questo mondo. Ti sembra giusto che io, ultimo anno e poi addio Giochi di merda, sia stata pescata tra mille nomi? Ti sembra giusto che tu, predicatore di stronzate e bugiardo fino al midollo, sia il modello da seguire di tutta Panem? Grazie a te, grazie a questi Giochi ho capito il mio compito: dare un volto alla giustizia, il mio.»
«Vorrei ricordarti che il tuo nome non è stato pescato. Tu sei stata scelta, proprio come me, ad essere un tributo. Inizio a credere che tu stia davvero male.» – sì, dopo questo discorso insensato, capisco che lei ha qualche rotella fuori posto.
«No, sto semplicemente dicendo la verità e la verità fa male, lo so questo.»
«Tu stai davvero male! Io non voglio essere il volto della giustizia, non sono un predicatore, non sono un modello da seguire.»
«Ehi, bello, anch’io provengo dal distretto 2. Io c’ero quando hai fatto quel discorso sul palco, durante la Mietitura. Io so quello che hai detto alle madri dei quei deficienti del distretto.»
«Mi fa piacere… ma cosa c’entra questo con me?»
«Tu vuoi fare il superiore!»
«Tu vuoi essere superiore, invece. E, notizia dell’ultimo momento che forse non hai sentito mentre te la ripetevo due secondi fa, ma tu sei qui, con me, per colpa del distretto 2. Vuoi essere il volto della giustizia? Fai pure, non me ne frega niente di te e dei tuoi ideali, ma non dire palle sul mio conto. E poi fai tanto la paladina della giustizia ma tu, Level Rose, cosa avrai fatto per finire qui dentro?»
«Cosa ho fatto io? Tanto. Ho vissuto come volevo io e gli altri mi hanno punito per questo.»
«Ah, certo! Adesso si dice così? Per invidia sei finita qua?»
«Tu non mi conosci.»
«Neanche tu, Level, neanche tu.»
«Non posso crederci.» – le scivola il piatto a terra. Sobbalzo, credo che ora mi ucciderà. Il brodino si sparge sul suolo, il piatto è rotto. Lei, però, non fa nulla: resta seduta sulla sua sedia.
«Cosa non puoi credere, Level?»
«Non ti ricordi proprio di me, eh?» – mi chiede lei.
«No!»
«Proprio nulla?»
«Perché dovrei? In effetti, dovrebbe restarmi impresso il viso di una persona come te ma, mi dispiace, non sei così speciale come credi!»
«Aspetterò che tu lo faccia.» – mi risponde a bassa voce. - «E mi prenderò cura di te nel frattempo.»
«Uccidimi, invece di fare la dispiaciuta.» - ho perso la pazienza. - «Se mi uccidi, avrai anche dei vantaggi o Morse non te lo ha detto?»
«Sì che me lo ha detto.»
«E, allora, cosa aspetti? Uccidimi!»
«Non voglio ucciderti!»
«So che stai mentendo.» – rido, ma poi diventa tutto chiaro. - «Ah, ho capito! Adesso stai creando una copertura perché sai di essere la vincitrice e devi farti amare dal distretto quando tornerai. Ora fai sembrare me quello cattivo creando una storia inventata sul mio conto! Bella strategia, davvero.»
«Non voglio ucciderti!»
«E cosa vorresti farmi, allora?»
«Te l’ho detto: prendermi cura di te.»
Inizio a dimenarmi, voglio liberarmi da questi stracci che mi incatenano. Mi spaventa questa ragazza. Non è normale, è pazza.
Lei resta seduta. Mi calmo. Provo con tutto me stesso a ricordarmi di lei, ma proprio non riesco. Non ho mai incontrato Level, non l’ho mai nemmeno intravista. Non mi ricordo di lei nel distretto 2. Certo, è strano, ma davvero non so chi sia. Io non ho mai avuto a che fare con lei.
«Dov’è il tuo amichetto?» - meglio cambiare discorso.
«Quello? Oh, è morto. Lo hai ucciso tu. Il cannone c’è stato dopo la morte di Søren.»
Rimango incredulo, non so neanche se crederle.
«Distretto 13, Level. Siamo nel distretto 13.» – glielo dico, ma non so neanche il perché.
 
Siamo rimasti in silenzio.
Inizialmente, comoda sulla sua sedia, mi contemplava come se fossi una cosa da scoprire. Forse credeva che, così, mi sarei ricordato di lei? Dopo molti minuti, ha pulito lo schifo che stava a terra. Poi ha continuato a pulirmi con degli stracci puliti e la saponetta. Per un attimo mi ha provocato toccandomi il pene, io mi sono agitato e lei ha tolto subito la mano ridendo.
«Distretto 13, dunque.» – o riflette tra sé e sé o sta provando, ancora, ad avere un dialogo con me. - «Non avevo mai pensato a quest’ipotesi. Interessante.»
Ora è seduta a terra e si sta aggiustando i capelli. Fa finta che, davanti a lei, ci sia uno specchio dove guardarsi.
«Sono carina?» – mi chiede mentre la guardo.
«Non tanto.»
Questa risposta la delude, lo capisco da me.
«Che cosa hanno loro che io non ho? Che cosa aveva Søren che io non ho? Dimmelo Snow, dimmelo.»

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Capitolo 36
*** Allo specchio ***


«Allo stesso tempo amo e non amo, e allo stesso tempo sono pazzo e non lo sono.»
(Anacreonte)
 
*** 
 
35. Allo specchio
 
Allo specchio c’è una bambina di 9 anni che non è più quella di una volta.
Al posto di due gran begli occhi, vi sono occhi lividi, rossi, gonfi; le labbra sono accentuate più del solito perché maltrattate dai denti; le guance rigate da lacrime invisibili.
Nella stanza dei genitori c’è stata una nuova lotta. Ancora una volta sembra che a perdere sia lei invece dei due adulti in guerra. Sì, perde proprio lei. Le urla la fanno tremare, la spaventano.
Davanti allo specchio fa finta di essere felice. A volte, ingenuamente, dice che la vera Lei è quella che è dietro quello specchio. Quella là è felice, gioca con il padre e cucina con la madre. Lei che è da quest’altra parte, quella peggiore, è solo il riflesso di quella ragazza felice.
Il padre esce dalla stanza sbattendo violentemente la porta. Trascina con sé una valigia. Lei spia da uno spiraglio della porta e, quando vede il padre scendere le scale, si precipita da lui.
«No, papà, non te ne andare.»
Afferra la manica del padre e tira per farlo salire su, ma il padre è più forte di lei.
«Lasciami andare!»
«Papà, ti prego…»
La piccola sta per piangere. Non potrà vivere senza il suo punto saldo. Come si può vivere quando la cosa più cara che hai al mondo scompare?
«Non andare via. Se vai via, portami con te.» - è la supplichevole richiesta di una bambina disperata.
Riuscire a dire no a una bambina come lei è impossibile, in questa situazione è ancora più difficile. Il padre, però, si rivela essere più forte della figlia, non solo fisicamente.
«Non posso.»
«Voglio stare con te. Non voglio restare qui!»
«Ma devi.»
«E tu? Tu non devi?»
 
Nello specchio c’è un’adolescente di 12 anni.
Lei si aggiusta i capelli, adagia il seno in due coppe e dà una rifinitura migliore al lucidalabbra che ricopre le labbra rosa.
«Vorresti uscire vestita così?»
«Non faccio niente di male, mamma.»
«Conciata in questo modo, potresti diventare l’amante di un porco trentenne. Gli uomini sono tutti così: non riescono a contenersi davanti a due tette e un faccino come il tuo.»
«Mamma…» – la ragazzina è infastidita da questo discorso che sente ripetere ogni benedetta mattina. Lei si veste così perché è grande.
In realtà, è ancora all’oscuro del mondo che c’è fuori.
«Mamma, non vado a cercare uomini.»
«Lo so. Cosa credi? Non ti ho mica educato per adescare uomini? Non ho cresciuto una mangiauomini.»
Da quando il padre è andato via, la mamma crede che tutte le persone dotate di pene e due testicoli siano traditori e infedeli.
«Non mi auguri buona fortuna?»
«Per cosa?»
«Mamma, oggi c’è l’estrazione dei nomi… per gli Hunger Games.»
«Che peccato che non esista un’edizione per gli adulti: godrei nel vedere uomini morire.»
«Mamma…»
«Cosa c’è? Vorresti dire che non ti piacerebbe vedere tuo padre evirato? Io mi divertirei un sacco.»
«Ma…»
«Hai sempre da ridire tu! Vai a preparare qualcosa per Merziano.» - le ordina la madre contrariata.
«Non è il mio ragazzo.»
«Nemmeno il mio.»
«Beh, quella che ci va a letto sei tu, non io!»
Uno schiaffo, solo uno. Sonoro, forte, che sa essere tangibile.
 
Allo specchio c’è una ragazza di 14 anni che può vivere ancora, per un altro anno. Già, anche questa volta non è stato pescato il suo nome da quell’ampolla.
«Ehi, ragazzina. Com’è andata là fuori?» – Crizio è fermo sulla soglia della porta. Non indossa la maglietta, goccioline d’acqua scivolano sul petto, alla vita un solo asciugamano. Lui la guarda come se fosse un tesoro da trovare e tenere per sé, per sempre.
«Bene, sono ancora qui.» – la ragazza sorride felice, al tempo stesso imbarazzata. È abituata a vedere uomini seminudi, se non nudi del tutto, ma Crizio le fa un certo effetto. Egli entra definitivamente nella stanza, la abbraccia, la stringe fin troppo a sé. La stringe così forte che Level sente l’allegria sotto l’asciugamano.
«Crizio…» - lui è più grande di lei di soli sette anni (ha ventun anni), ma ella lo vede già uomo; per la madre, invece, lui è solo un ragazzino con cui giocare.
«Che c’è?»
«Non dovremmo…» - lei si svincola da quel legame.
«Non c’è niente di sbagliato in un abbraccio.»
«Tu e mia madre…»
«Guarda che sono un gioco per lei e questo non mi vieta di stare con te.»
«Dipende tu cosa intendi per “stare con te”.»
«Io? Non vedi il mio viso? Sono un tipo innocente.» - le dice scherzando.
«Io tutto capisco tranne che sei innocente.» - gli dice sinceramente.
«Ehi, dipende da vari punti di vista! Non c’è niente di male, se tu non vuoi che ci sia.»
Lei non sa come comportarsi in queste situazioni: l’unico esempio che ha di approccio con il sesso maschile è sua madre e lei non è di certo un ottimo modello da seguire. La ragazza cerca di dare ascolto al buon senso e si avvicina allo specchio. Spera che lui esca dalla stanza.
«Non serve che ti fai bella allo specchio, sei bella così. Lo sai, vero?»
«Grazie.» – continua ad essere impacciata. È ancora piccola, non sa come accettare un complimento e cerca, in ogni modo possibile e immaginabile, di evitare lo sguardo di quell’uomo, di non invaghirsi di quel sorriso. Eppure lei spia dallo specchio il riflesso di quel corpo scolpito.
«Lo sai, vero? Sai di essere bella? Perché, se non lo sai, lo devi sapere.»
«Ok.»
«Tu sei la cosa più bella che io abbia mai visto.» - la mano di lui si posa sulla spalla della ragazza.
«Va bene.»
Quella mano scende sinuosamente sulla schiena. Lui crede di essere sensuale, passionale e lei sente che, in realtà, lui lo è davvero… e non le importa che lui sia l’ennesimo uomo di sua madre. Così, da donna vissuta che non è, manda tutto a quel paese, si volta e lo cattura con un bacio. Infila la lingua tra le sue labbra: gli vuole far capire che è lei a comandare, è lei che desidera questo, è lei che glielo permette. Lei è il frutto del peccato e si lascia mordere.
«Dimmi che mi vuoi!» - gli sussurra a fior di labbra.
Lui è eccitato, lo è troppo, e se lo fa scappare. Le dice che la vuole. Lei non lo sa ancora ma questo sarà, sempre, il suo punto debole.
 
Allo specchio, ormai, c’è una donna, una vera donna di 17 anni.
Quello che per lei è un uomo, nel cuore della notte, è tornato a possederla, a farla sua. Lei si è lasciata andare a quel contatto umano che, da tre anni, la riscalda. Quando, chiusi in camera, lui le bacia il seno, lei si sente sicura, protetta, amata. Si sente viva tra le lenzuola e il profumo d’uomo che non sentiva da quando il padre è andato via. Certo, in casa sua sono passati uomini di ogni tipo: mori, biondi, muscolosi, esibizionisti, grassi, alti, romantici, bassi, bellissimi, orrendi, sdentati, alcolizzati, vecchi, timidi, puliti e tutti invaghiti di sua madre. L’unico uomo che si è interessato, da subito, a lei è stato Crizio.
Crizio, per lei, è l’uomo più bello che ci sia. Non desidera altro che lui. Proprio questa notte, dopo essersi truccata con un rossetto rosso accesso e la matita marcata sugli occhi, lui l’ha fatta sentire al di sopra del mondo. Le ha ripetuto che la ama, che lui non se andrà mai. Lei, quando ascolta quelle parole, è la persona più felice del mondo. Il suo cuore, gelido e impenetrabile, si scoglie, si anima, batte intensamente. Lui è il motivo di tutto questo maremoto. Lui l’ha resa donna. Sì, dopo il suo arrivo, quando lei si specchia, vede una donna. Non c’è più la ragazzina che, abituata a vedere uomini entrare e uscire dal letto della madre, deve sopportare i soprusi di quelli che pretendono di essere chiamati “papà”. Non c’è più la bambina che, con occhi pieni di lacrime, ha detto al vero papà di non andare via. Con Crizio è rinata. Lui l’ha resa la bellissima donna di oggi: lei ne è convinta.
Al tempo stesso, però, ha paura di essere sincera con lui. Teme, ogni volta, di perderlo. Soprattutto ora. Ma, fin quando allo specchio non si noterà la pancia che, pian piano, cresce, aspetterà a dirglielo.
 
Lo specchio è di nuovo testimone di tristezza.
Crizio è andato via. Lui non è più qui ad abbracciarla, a baciarle il collo, a sussurrarle parole dolci, ad accarezzarle il seno. No, Crizio non c’è.
«Hai sentito di quel porco?»
«Tale madre, tale figlia.»
«Poche di buono, eh?»
«Poche di buono è un eufemismo.»
«E lui, poi, cosa ci trovava in quella ragazzina? Dai, lei ha diciassette anni e lui ventiquattro.»
«Ma avete sentito l’ultima? La ragazza è incinta.»
«Ma cosa dici mai?»
«Lui, poi, stava sia con la madre sia con la figlia.»
La gente parla, mente e ingigantisce le storie. Loro non sanno la realtà. Era amore, vero amore. Sette anni di differenza erano nulla, se messi a confronto con il loro amore giovane ma maturo, fresco ma intenso. Lui riusciva a essere ciò che lei ancora non poteva essere, lei riusciva a donargli la linfa che sembrava essere sopita. Era uno scambio reciproco. Si completavano come nessuno mai. Questo pensava lei.
«Hai visto? Fa’ come me: il cuore gettalo in una botola perché, se lo dai a qualcuno, sei fottuta.»
«Mamma, lasciami stare.»
«Non chiamarmi mamma, per favore. Mi fai ribrezzo. Sei la puttana del distretto! Peggio di quell’Amanda!»
La figlia guarda il riflesso della madre nello specchio. Lei è seduta, la madre in piedi. È sempre stato così: la madre non si è mai preoccupata di sedersi accanto alla figlia, era troppo occupata a scaldare un letto matrimoniale che di matrimoniale non aveva più nulla.
«Ormai tutti sanno di te e lui. Una volta è stato mio. Cosa penserà la gente?»
«Ti preoccupi di cosa penserà la gente? La gente parla già da tempo, e non di me.»
«Credevi che avremmo festeggiato il tuo fidanzamento con quello? Credevi forse questo? Io non ti voglio in casa mia! Scompari, proprio come tuo padre! Sei solo una mangiauomini!»
«Dove posso andare mai?»
«Va’ da Crizio e vedi se ti prende, come se fossi una cagna. Bau, bau! Vedi se diventa il tuo padrone. D’altronde lo è già stato, no?»
 
Questo piccolo specchio non conosce la storia di questa ragazza. No, non la conosce minimamente.
Alla fine l’ha fatto: ha bussato alla sua porta e si è fatta trovare accovacciata sullo zerbino, proprio come una cagna. Lui l’ha accolta solo perché non se la sentiva di dirle no. Dopo tempo, si è concessa il lusso di una doccia, di profumare, di sentirsi pulita e, al tempo stesso, sporca e vuota fino al midollo. Ha pianto nella vasca, l’ha fatto silenziosamente mentre Crizio litigava con una donna, quella che ha preso il suo posto.
«Mi hai mai amato davvero?» - gli ha chiesto dopo essersi asciugata e aver indossato dei panni da donna non suoi.
«Level…»
«No, rispondimi.» - Level prova a essere forte. Aspetta di sentirsi dire che quella storia, anche solo per un attimo, è stata vera. Ma, se lui non si è fiondato a dire sì, allora è solo fiato sprecato. Tutti gli uomini agiscono così: se, durante una conversazione seria dicono prima il nome della donna che hanno di fronte, si mette male per il cuore di lei.
«Level…»
«So come mi chiamo, non serve che tu ripeta il mio nome.» - alzandosi da quel divano e uscendo dalla porta, dice addio a quella storia. Forse lei non è una creatura destinata a essere amata. L’unica cosa che le riesce meglio è farli scappare tutti.
 
C’è uno specchio sporco nell’edificio in cui lavora.
Qui, seppur difficilmente, Level riesce a guardare i suoi occhi stanchi. Il lavoro la strema, la rende meno ragazza e più fiacca. Non sembra avere 18 anni. Si guarda attorno: le ragazze in piazza sembrano più giovani di lei. Potrebbe dire di avere 20 anni, le crederebbero. Invece no, ha 18 anni ed è in mezzo a queste ragazzine ma, almeno, è l’ultima volta che dovrà sopportare tutto questo. Già, l’ultima Mietitura. Non crede neanche lei a questa cosa. È così strano provare un pizzico di felicità in questa vita. Non è abituata a immaginarsi in un futuro luminoso, ad avere un cuore diverso da quello infranto. Sorride, è fiduciosa nella libertà.
Dovrebbe, però, averlo capito che la sua è una vita fatta di grandi ostacoli.
 
Gli specchi di Capitol City cambiano di colore in base all’umore di chi si specchia. Quando è lei a guardarsi nello specchio, questo diventa di colore porpora.
Level pensa ancora al sangue sulle scarpe, al ragazzo che si è sparato sul palco. Si chiede perché non lo abbia fatto anche lei: che motivo ha per vivere?
Probabilmente un motivo c’è: rendere trasparente il colore di questo specchio e vivere serenamente. Sì, avrà un futuro radioso: non importa come, ma lo avrà. Vuole sbandierare in faccia a tutti che lei, nonostante tutto, ce l’ha fatta a sopravvivere; vuole dimostrare a sua madre che lei, sua figlia, non è la più grande puttana di tutte le donne; vuole dimostrare a Crizio che, dopo la vittoria, arriverà qualcuno che l’amerà davvero e che si prenderà cura di un figlio che non ha più avuto; vuole dimostrare al distretto che “tale madre, tale figlia” un corno; vuole dimostrare a suo padre che lei è migliore di lui: lei combatte, vuole guadagnarsi la felicità che le spetta.
 
***
 

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Capitolo 37
*** Cosa ha lei che io non ho? ***


36. Cosa ha lei che io non ho?
 
«Che cosa hanno loro che io non ho? Che cosa aveva Søren che io non ho? Dimmelo Snow, dimmelo.»
«Lei non è te.» - le dico sinceramente.
Lei si alza da terra e caccia qualcosa dal mio zaino. È una siringa. La riconosco subito perché io sono stato punto da mille di quelle cose: sono le siringhe che si trovavano nella Cornucopia, precisamente nel corridoio del distretto 5. Quelle sono anche le siringhe che, con il loro contenuto, hanno ucciso il ragazzo del distretto 10: Falloppio lo colpì e gliene iniettò una portandolo alla morte. Forse con questa siringa mi ha colpito Level mentre piangevo la morte di Søren. Sì, deve essere stato il veleno della siringa che mi ha trascinato in quella trappola invivibile dove ero costretto a ripetere la Mietitura fino a morire.
Allora mi agito ma Level mi blocca e mi dice di star tranquillo: ne avrò una minima dose. Mi apre la bocca e vi getta il liquido dentro.
 
«Livius, allora? Sei felice di rappresentare il distretto 2 negli Hunger Games?»
Victor pone questa domanda a Livius e lui guarda me.
«Io...»
Livius si spara. Io corro sul palco, costretto da una forza invisibile. Il padre e la madre di Livius arrivano sul palco. Il padre mi dice che il prossimo tributo sono io. Mi cambiano il numero, mi puliscono. Io faccio quel discorso che feci davvero durante la Mietitura. Tento di tapparmi la bocca con le mani ma non ci riesco. Il mio corpo è una statua di pietra. Un Pacificatore mi colpisce alla testa. Svengo. Sono disteso in una stanza buia. Arriva Victor e mi dice che il Presidente Morse vuole parlare con me e che sono un tributo sfacciato. Vado nell’altra stanza. Ancora provo a resistere a tutta questa storia, ma non riesco a fare nulla. Sono obbligato a fare quello che davvero ho fatto durante questi eventi. Mi siedo sulla sedia suntuosa che è più piccola di quella su cui è seduta il Presidente. C’è anche Mohr, vivo.
«Si chiama Mohr. Puoi accarezzarlo, se vuoi.» - mi dice il Presidente.
«Passiamo alla conclusione in cui lei mi dice perché sono qua?»
«Dritto al punto, signorino Snow?»
Dal cielo cadono specchi che ricoprono tutte le pareti della stanza. Sono gli specchi che cambiano colore a seconda dell’umore, gli specchi di Capitol City. Appena toccano suolo, però, si frantumano in mille pezzi. Da questo momento in poi, sono libero di parlare ma non di muovermi. Sembra che il mio sedere sia attaccato alla sedia.
«Non te lo sei ricordato.» – il Presidente Morse accarezza il pelo del gatto. Ha cambiato abbigliamento improvvisamente. Ha un giaccone nero lunghissimo che tocca pavimento. Scorgo di poco le scarpe che sono di forma esagonale e di color giallo fluo.
«Cosa?»
«Non ti sei ricordato chi fosse il vero nemico.» – sul giaccone iniziano a scorrere le riprese di un film. Guardando meglio, capisco che le persone che sono in quel video sono i cittadini del distretto 2. Sì, riconosco mia madre, mio padre, Livius, mio fratello, la madre del bulletto che ha picchiato Livius, Victor Vict, Venice, Level, i genitori di Livius e altri uomini.
«Forse lo sei tu!»
«No, Snow. Il tuo peggior nemico è Ta - Er - Le - Fa - St - Me - Ch - Lo - Sø - An - Po - Bum!!» – sul giaccone appaiono i tributi della venticinquesima edizione degli Hunger Games.
«Cosa?» – appena chiedo delle delucidazioni su ciò che ha detto, il gatto mi mostra i denti e mi ringhia contro.
«Scherzetto! Il tuo peggior nemico… so – no i - o!» – ride. Sul giaccone ci sono mille volti, tutti suoi. I frammenti degli specchi, che riflettono anch’essi il volto di Morse, si alzano da terra e vibrano, sospesi, nell’aria. Lui applaude, il gatto mi lecca le caviglie. Voglio scappare e dare un calcio al muso dell’ibrido.
«Non dici nulla, Snow?» – il Presidente si siede su di me e mi sbottona la camicia che, ora, mi ritrovo ad indossare. Mi bacia il petto. Per un attimo il suo volto è diventato quello di Level, poi è tornato Morse.
«Tu mi appartieni, Snow. Tu sei il mio vero ibrido, il mio vero cucciolo, il mio vero ani – ma - le da com - pa – gni - a.»
Credo che morirò su questa sedia, con il Presidente sulle mia gambe che mi ama come fa un amante. Mille pensieri si scontrano nella mia testa che inizia a far male come non mai. Cosa mi succede? Cosa sta facendo? E perché il gatto non la smette di leccarmi? Temo che, a breve, il Presidente mi strappi il cuore del petto e se lo mangi.
Inizio a fare come faceva Potas: alzo lo sguardo al cielo e prego che tutto questo finisca all’istante.
Mi avevano detto che pensare troppo fa male, mi avevano detto che sarebbe passato tutto eppure la testa mi scoppia, gli occhi bruciano e respirare sembra la cosa più difficile da fare.
«Ho fatto di tutto affinché ti uccidessero ma, evidentemente, sei destinato a restare con me, per sem – pre.»
Rifletto sulla mia probabile morte e sorrido. Quale essere più grande di noi? Qua bisogna combattere per sé stessi e provare a vincere ogni cosa. Se morirò oggi, almeno potremmo stare vicino, potrei rivedere Søren, mio fratello, Loto, Falloppio, Chimio. Posso affermare di aver combattuto per tutti quelli che non sono riusciti a farlo: ho combattuto anche per te, Livius.
«Che sia tu il vin – ci – to – re?» – il Presidente mi lecca il capezzolo, sale su con la lingua seguendo un percorso tutto suo e mi lascia un segno sul collo, un succhiotto. Io non posso essere il vincitore. Morirò e, se, invece, riuscirò ad uscire da quest’Arena, non sarò più lo stesso: tutte le cicatrici si stanno aprendo nell’interno della mia bocca lasciando un retrogusto di sangue e troppe sono nel cuore. Anche se uscissi da quest’Arena, non ne uscirei vincitore. Ho già perso tutto.
«Impossibile. Che vincitore potresti essere? Tutti quelli che amavi son morti, mor – ti e, poi, sono le cose che amiamo di più che ci distruggono. Vedi? Tu volevi del bene a Livius e lui si è ucciso, lasciando che tu diventassi il Sanguinario che, ora, sei. Tu volevi del bene a Livius, lui ne voleva a te?» – nello sguardo del Presidente una scintilla di vittoria: crede di avermi abbindolato con queste parole, ma mi ha solo rafforzato. Sì, ho già perso tutto. Tutto tranne una cosa: la voglia di vendetta.
Possa la luce essere, ora, a mio favore!
 
Apro gli occhi di scatto mentre la mia bocca è sporca del tutto. Sono immerso nel mio vomito. Sono tutto sporco, più di quanto lo fossi prima.
«Ma che…» - non riesco a finire la frase perché vomito di nuovo. Sto cacciando fuori la zuppa e roba nerastra. Non sono più legato. Mi sollevo e, mettendomi a gattoni, continuo a vomitare. Gli occhi sono lucidi e Level mi mantiene la fronte. Esce anche del sangue nel vomito.
«Credevo fossi morto!» – mi dice Level allarmata. Mi passa un panno pulito sulla bocca. Mi giro, mi distendo a terra e prendo fiato. Mi cola il naso e lei continua a pulirmi.
«Credevo stessi morendo e ho dovuto farti vomitare tutto.» – mi spiega. Respiro a pieni polmoni. Mi allontano da quello schifo e mi fiondo a terra. Guardo il soffitto e provo a riprendermi dopo aver vomitato anche l’anima. Level mi guarda distrutta.
«Non mi guardare come se ti dispiacesse.»
«A me dispiace.» – mi dice urlando Level. - «Io davvero voglio prendermi cura di te, ma tu non me lo lasci fare. Io non sono cattiva, non lo sono davvero! Tu potresti essere l’unico che può capirmi. All’inizio volevo ucciderti perché, davvero… non te ne accorgi, ma mi hai ferito. Quando ti vedo, però, credo tu possa davvero aiutarmi.»
Tra poco potrebbe scoppiare a piangere.
«Tu non stai bene! Sei sempre stata così o l’Arena ti ha reso il mostro che sei?»
«Io non sono un mostro!» – urla e si getta su di me per potermi riattaccare alla parete.
«Allora, dimostralo.»
La ragazza mi guarda sorpresa. Si solleva restando, però, seduta su di me.
«Se non sei un mostro, smettila di fare quel che stai facendo.»
«E come?»
«Sei migliore di questo, giusto? Vuoi prenderti cura di me…»
«Sì. Non voglio ucciderti, io e te potremmo essere una squadra.»
«Già, potremmo essere una squadra.» – con la mano destra le accarezzo la schiena e la faccio distendere su di me. Le cingo la vita per farla sentire sicura.
«Ti ricordi di me, Snow?» – mi chiede.
«Si, ora mi ricordo di te, Level.» – lei solleva il capo, sorride. - «Mi è dispiaciuto davvero per te…»
Allungo il braccio sinistro sulla sua schiena e le inietto il veleno della siringa che sono riuscito a prendere dallo zaino. Cambio mano per poter afferrare un’altra siringa con la mano sinistra e la trafiggo con un altro ago. Levo la siringa vuota e la getto. Inietto quest’altro veleno e, passando la siringa da un mano all’altra, riesco a prendere altre siringhe.
«Cosa stai facendo?» – mi guarda negli occhi. È triste e il veleno già sta facendo effetto perché non si muove più.
«Non sarai il volto della giustizia, mi dispiace.» – afferro un’altra siringa e inietto. Questa è la quarta siringa ma non è sicuramente l’ultima.
«E non mi ricordo di te!»
Continuo con una quinta, una sesta, una settima. Mi sputa del sangue in faccia. Il cannone esplode nell’aria.
«E avevo già una squadra!»
 
***
 
Nello specchio, a 14 anni, puoi vedere speranze, sogni chiusi in un cassetto, occhi accessi e sorrisi infiniti.
Level prova a essere questo, ad essere normale, ma non lo è. Puoi essere, a 14 anni, innamorata di un uomo che condivide il letto con tua madre? Puoi, a 14 anni, aspettare ancora il ritorno di tuo padre? Level, in realtà, non ha più 14 anni: è cresciuta già da tempo. Crescere in fretta, però, non ha cambiato alcune cose. Ha ancora un disperato bisogno di sentirsi dire che qualcuno le vuole bene davvero, di vedere chiudere una porta perché qualcuno è intenzionato a entrare e restare, non a uscire e non tornare. Accetta, però, la condizione che la sua vita sia questa e che nessuno possa capire il suo dolore. Già, qualcuno può avere vita peggiore della sua?
Girando l'angolo, è lì che vede una scena raccapricciante. Alcuni ragazzi stanno prendendo in giro un ragazzino. I ragazzi lo picchiano. Uno di loro, dalla tasca, caccia una lametta, la passa a un altro. Quest’ultimo gli dice di tagliarsi perché lui, Snow, è inutile, non serve a niente. Gliela lanciano addosso e se ne vanno via ridendo. Level, allora, si avvicina al ragazzo, lo guarda e crede di aver trovato qualcuno che possa capirla. Si abbassa, prende la lametta e la getta in un secchio della spazzatura.
«Non starli a sentire, sono stupidi.»
Lui non risponde, è immobile. Lei sorride, gli porge la mano per farlo alzare ma lui non accetta il suo aiuto, non fa nulla.
 
È bastato un attimo, uno sguardo e Level sente il cuore finirle in gola. Lo riconosce in fretta e ne ha la conferma quando sente il suo nome: Snow. Lui è il ragazzo della lametta. È un po' scosso: a quanto sembra, il suo migliore amico si è suicidato. Ora è lui il tributo maschio del distretto 2.
Lui potrebbe essere un perfetto alleato. Sì, Level ne è certa: lui si ricorderà di lei, si confideranno e lei troverà, finalmente, qualcuno disposta a combattere con lei, per lei. Sì, questo desidera. Lei prova a dirgli che le dispiace per il suo amico e, sul treno, aspetta che lui dica: «ehi, mi ricordo di te.» Peccato che lui non si ricorda di lei, no, e una volta a Capitol City le cose peggiorano. Lui non è un Favorito e lei potrebbe morire già in partenza con lui al suo fianco. Level pensa, però, che non importi, no. Insieme potrebbero farcela: entrambi hanno affrontato grandi difficoltà e lui, prima o poi, dovrà ricordarsi di lei. Snow, però, continua a non ricordarsi di lei. Anzi, dice di voler stare solo, non vuole nessuno.
Nessuno, e poi si allea con Søren, Falloppio, Chimio, Loto.
«Che cosa hanno loro che io non ho? Che cosa aveva Søren che io non ho? Dimmelo Snow, dimmelo.»
 

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Capitolo 38
*** Ora, non dopo ***


37. Ora, non dopo
 
«Livius, che hai là?»
Livius nasconde qualcosa che non vuole far vedere a me. Proprio a me.
«Livius, fammi vedere!»
«Snow, non è niente.»
«Livius!»
Afferro il polso del mio migliore amico e vedo chiaramente un livido, un gran livido, nascosto sotto la maglietta.
«Cosa ti è successo?»
«Niente.»
«Livus!»
«Non è successo niente!»
«Livius, parla! Tanto sai che verrò a saperlo, prima o poi.»
«Non…»
«Chi è stato a farti questo?»
«I rag…»
Al sentire solo questa mezza parola, mi sento male. Non ci sarà mai fine ai tormenti miei e di Livius?
«Mi sono stancato di loro. Quando la smetteranno di prenderci in giro?»
«Beh, cresceremo. Io creerò veleni, diventeremo famosi e li vedremo strisciare ai nostri piedi.»
«Meritano una punizione ora, non dopo.»
 
Sono un nuovo Snow.
Non ho una ferita, un livido e sono pulito. Profumo di limone e zinco. Finalmente è andato via quel fango sporco, quel sangue incrostato, il vomito sulle guance. La piazza di Capitol City è completamente diversa da quella dei distretti. Nei nostri distretti, la piazza è un pezzo di terra asfaltato su cui si erige il Palazzo Della Giustizia. Qui la piazza non è un pezzo di terra asfaltato. L’asfalto è dorato. Al centro della piazza vi è una fontana. L’acqua viene cacciata da una statua che rappresenta una donna. Questa donna ha in mano una spada e una bilancia. La chiamano “Giustizia” perché la giustizia è giusta e punisce chi sbaglia.
Level aveva intenzione di fare questo? Punire chi doveva esserlo? Non credo.
Il Presidente Morse indossa una pelliccia dorata senza avere una maglietta sotto. Posso vedere il petto curato. Il pantalone è di un nero lucido, aderentissimo. Le scarpe, che somigliano a pinne, sono di color oro e hanno dei ghirigori neri.
Siamo su un palco dedicato a me.
«Felici Hunger Games, miei cari cittadini!» – il Presidente Morse alza le braccia verso il pubblico che inneggia esageratamente. Alcuni piangono addirittura. Sono così felici della mia vittoria che mi spaventa tutta questa commozione. Non è normale una cosa del genere. Sono entrato a far parte degli Hunger Games perché il popolo mi odiava. Guardali ora: mi amano. Io non faccio altro che pensare a quell’hovercraft che, distruggendo il solaio del posto in cui mi trovavo, mi ha cacciato dall’Arena. Appena messo piede a Capitol City, ho chiesto di non voler vedere nessuno. Ho interagito solo con i dottori e sono rimasto in silenzio. Hanno pensato che fossi diventato muto ma, quando ho detto loro di lasciarmi stare, hanno pensato che fosse una mia reazione alla vittoria. Secondo loro, sto processando, digerendo il tutto.
Accanto a Morse c’è un nuovo animale. Mi manca Mohr, lo ammetto, e pensare che l’ultimo ad averlo visto sono proprio io! Mi “diceva” di ricordare chi fosse il nemico. L’ibrido Morsiano, adesso, è una specie di serpente. È dorato anch’egli e, al posto degli occhi, ha due perle nere. Mi inquieta anche quest’altro animale.
«Applaudite e amate il vincitore della venticinquesima edizione degli Hunger Games: Coriolanus Snow!»
Il pubblico urla, acclama, mi adora. Alcuni superano anche i Pacificatori cercando di toccarmi mentre passo tra di loro con il carro del Presidente. Tra il pubblico ci sono anche i miei genitori. Mi guardano, fieri per la prima volta di me. Rimango basito nel vedere, al loro fianco, il ragazzo che picchiai quando Livius si pisciò addosso. Lui sorride, è felice, dice agli altri di conoscermi. Io evito il loro sguardo, guardo dritto: è davvero semplice amarmi adesso!
La falsità regna sovrana! Su questo carro, inoltre, la falsità ha perfino un volto e un nome: Morse.
 
Sarà lunga almeno due metri questa tavola. Sopra vi sono un sacco di leccornie. Al centro c’è il corpo intero di un maiale cotto, nella bocca trattiene una mela. Che banalità! Ad un’estremità del tavolo c’è, ovviamente, Morse, all’altra son seduto io. Sul capo ho una corona dorata, datami dal Presidente in persona. Mentre ci fotografavano, mi ha anche baciato la guancia.
«Sono fiero di te, Snow.» – siamo distanti, ma abbiamo entrambi un microfono che ci permette di parlare tranquillamente e farci capire. Credo che ci stiano registrando e che tutta Panem possa vedere questo banchetto in tv.
«Grazie.» – sorrido. - «Mohr? Dov’è? Vorrei accarezzarlo.» – gli chiedo sfacciatamente.
Appena pronuncio il nome del gatto, fa finta di emozionarsi. Il serpente, invece, striscia attorno al piatto del suo padrone, come per marcare il territorio.
«Mohr…» - si avvicinano dei Senza Voce che, con un tovagliolo su cui è impresso il volto del Presidente, gli asciugano le lacrime invisibili e lo accarezzano.
«Siamo qui per festeggiare te, Snow. Fe – ste – ggi – amo – ti.» – come sempre, parla eseguendo una pessima divisione in sillabe.
Si aprono le porte laterali del salone. Da ogni parte esce qualcuno del mio team: Victor, Cosima e Caesar. Mi alzo e vado ad abbracciarli. Senza di loro, non avrei potuto fare niente. Questo è ovvio.
Caesar mi palpeggia il sedere e, sottovoce, mi dice che l’Arena mi ha fatto indurire le natiche. Cosima mi dice che sono più carino e che, ora, quella tutina aderente che voleva farmi indossare alla Sfilata (dove si sarebbe visto il mio pene in modo chiaro e limpido) mi starebbe d’incanto. Victor mi abbraccia, non mi dice niente. Il suo sguardo, però, mi dice tante fantastiche cose. Lui è commosso di vedermi là, vivo.
A tavola sembriamo essere compagni di vecchia data che, dopo tempo, si ritrovano per stare insieme.
 
«Ora, possiamo parlare io e lei.» – chiudo la porta alle mia spalle. Siamo soli, io e il Presidente Morse.
«Da quanto tempo avevi voglia di farlo?» – il Presidente sorride. Sta guardando un quadro che lo ritrae nudo, su un divanetto. Si sbottona la pelliccia che butta su un divanetto e si accarezzo il petto nudo.
«Non aspettavo altro.»
«Lo so, sono un tipo che si fa desiderare.» – si volta, mi guarda. - «Aveva ragione la ragazza: l’Arena ti ha reso più bello. Dovresti ringraziarmi.»
«Per…?»
«Per averti fatto vincere. Era ovvio che avresti vinto tu!»
Rido, questa è bella. Ora dovrei anche ringraziarlo se sono vivo.
«E… come avrebbe fatto a farmi vincere?»
«Svegliati, Snow. Sve – gli – a – ti! I Giochi li comando io. Sono io il creatore, io il distruttore.»
«E io la pedina.»
«No!» – avanza velocemente verso di me. – «Tu non sei una pedina.»
«Allora può spiegarmi quella ricompensa che volevate dare a chi mi avrebbe ucciso?»
Lui corruga la fronte e con la bocca fa uno strano rumore.
«Caro Snow, ne hai di cose da imparare. Questi Giochi sono tutto per me! Amo gli Hunger Games, non mi stanco mai di vederli, di crearli. Questa volta, però, non era una normale edizione. No, era la Prima edizione della Memoria.» – con l’indice tamburella sulle mie labbra.
«Io sono l’unico Stratega, l’unico vero Creatore di questi Giochi e la venticinquesima edizione, questi Hunger Games dovevano essere memorabili. Cazzo, se non lo sono stati! Nessuno si dimenticherà di te, ne – ssu – no! Quando hai ucciso Tacito, mi hai fatto sentire tutta la rabbia che hai provato. Quando hai ucciso Ermen? Mi hai fatto accapponare la pelle. Quando hai ucciso Level?» - chiude gli occhi, respira profondamente e afferra la mia mano. - «Lì mi sono eccitato! I Miei Giochi sono stati fantastici e questo grazie a te!»
Ritiro la mano.
«Lei… ha reso gli Hunger Games indimenticabili, cercando di distruggere me!» – gli urlo.
«No, non volevo distruggerti. Volevo solo che questi Hunger Games fossero memorabili! Tu non c’entri niente, nie – nte! Non girava attorno a te l’edizione. L’ho solo resa grande, più grande!»
Ci rimango di merda ascoltando queste parole. Lui ha messo una taglia su di me solo per velocizzare la pressione, l’adrenalina. Le bombe cadute dal cielo, che dicevano di essere per il nemico, non erano per me, ma per tutti.
Mentre ero là dentro, ho pensato che Morse ce l’avesse con me. Lui, invece, se ne fotteva. Lui voleva solo creare Giochi più pericolosi, più avvincenti, più “memorabili”.
«L’importante è che abbia vinto io, no?»
«Esatto.» – lui sorride.
«Posso offrirle qualcosa da bere?» – abbasso il capo.
«Prendi qualcosa sul banco dei drink e portamela.» – dice commosso.
Prendo due bicchieri, li riempio di una strana sostanza rossastra e aggiungo, in entrambi i bicchieri, un liquido che mi son portato dietro.
«Cosa stai aggiungendo, Snow?» – mi chiede interessato il Presidente.
«Un ingrediente segreto.» – sorrido.
«Prima di darmi il drink,» - aggiunge il Presidente – «prendi un sorso da entrambi i bicchieri.»
«Crede che voglia avvelenarla?»
«Bevi.»
Alzo le spalle, sollevo entrambi i bicchieri e prendo un sorso, prima da uno e poi da un altro.
«Ecco!» – mi avvicino al Presidente e gli faccio scegliere quale bicchiere avere. Ne prende uno.
«Ai suoi Giochi!» – propongo questo brindisi e facciamo “cin cin”. In un sorso ci scoliamo i bicchieri.
«Per la cronaca, non ho mai dimenticato chi fosse il mio nemico.»
Lui mi guarda stranito, si massaggia l’epiglottide.
«Cosa hai fatto?» – mi chiede tossendo.
«Oh, quello che credeva volessi fare: l’ho avvelenata! Av - ve – le – na – ta!» – imito il suo modo di dire le cose per prendermi gioco di lui (e compio anche un’ottima divisione in sillabe).
«Tu…» - tossisce di nuovo e caccia del sangue dalla bocca.
«BUM!» – questo è il mio cannone creato apposta per lui che, ora, muore. – «Il mio nemico merita una punizione ora, non dopo.»

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Capitolo 39
*** Possa la fortuna essere sempre a vostro favore ***


38. Possa la fortuna essere sempre a vostro favore
 
«So che è tardi ma...»
«Snow, tranquillo. Ricordo la notte prima dei Giochi come se fosse ieri e...»
«...anche tu sentivi che tutto questo è assurdo?» - rido incredulo.
«Ancora oggi credo che tutto questo sia assurdo. Ho visto troppe persone morire.»
«E perché tu mi volevi uccidere con quel veleno?»
«Possiamo parlarne? Con calma.»
«Non posso restare calmo, se penso a te.»
«Perché?»
«Perché mi ero fidato di te.»
«Ho fatto quello che ho fatto proprio perché anche io mi fido di te.»
«Hai un concetto tutto strano di fiducia.»
«Se solo mi lasciassi spiegare.»
Victor Vict mi guarda come se fossi la sua scommessa più grande. Già in qualche litigio precedente ha cercato di affrontarmi sulla questione veleno, ma io gli ho augurato tutto il male di questo mondo. Non credevo di aver esagerato, in quel momento.
«Spero che, in sogno, ti appaino tutti i volti dei tributi morti. Spero vengano, sempre, a farti compagnia.» - questo gli avevo detto in un momento di rabbia. Come può biasimarmi? Mi son svegliato, una mattina, nella sua stanza perdendo sangue dalla bocca. Avevo perso la sensibilità agli arti e un casino indescrivibile si era impossessato della mia testa che, da quel momento, non ha smesso più di tacere.
«Io posso capirti, Snow. Posso davvero. Certo, i nostri percorsi sono diversi, ma so quel che stai provando dentro e, per quanto tu voglia, non troverai mai riposo. Mai. Questo, però, non deve impedirti di vincere. Sono stanco di vedere ragazzini, doverli allenare e assistere alla loro morte. Per quanto tu possa essere speciale (perché sei speciale Snow) hai bisogno di qualcosa contro Capitol City. Soprattutto se il Presidente sta costruendo i Giochi su di te. Allora devi essere un passo avanti a loro. Nell'Arena ci saranno trappole, mille trappole di cui non sei neanche a conoscenza. L'Arena sarà piena di veleni e... se tu iniziassi a "giocare" con il veleno, potresti diventarne immune, almeno in parte. Gli effetti che il veleno potrebbe avere sugli altri non lo avrà su di te. Per questo ti ho fatto bere thè dall'inizio. Ho semplicemente esagerato l'altra sera. Non volevo succedesse quel che è successo, ma fidati quando dico che l'ho fatto per il tuo bene. Voglio che tu vinca, voglio tu possa riuscire a cambiare le cose.»
«Non sono così speciale.»
«Siamo tutti un po’ speciali. Sei speciale, davvero. C’è una luce in te. Tu non te ne accorgi, ma c’è. Chiediti perché il Presidente sta facendo di tutto per metterti Panem contro, chieditelo. Sei il Tributo a cui Capitol City si sta affezionando. Tutti sono interessati a te, anche i tuoi nemici.»
«E se io... morissi?»
«Facciamo di tutto affinché questo non avvenga.»
 
Busso alla porta di Victor.
Lui apre, mi abbraccia e mi lascia entrare.
«L’ho fatto!» – glielo dico subito, senza perdermi in chiacchiere.
«Cosa?»
«L’ho ucciso!»
Victor mi guarda incredulo, si chiede chi abbia ucciso.
«Ho ucciso il Presidente Morse!» – sorrido soddisfatto.
«Snow…» - lui, però, non sembra felice. Mi guarda come se stesse vedendo una persona pazza. Mi guarda come io guardavo Level.
«Che c’è? Me lo hai detto tu! Sono speciale, destinato a grandi cose. Tu mi hai salvato dall’Arena, il piano del veleno. Ero, in parte, indistruttibile. Quando, poi, mi hai inviato il thè con il veleno. Là ho trovato difficoltà con…» - non riesco a dire il nome di Søren e, infatti, evito di dirlo. – «…ma sono riuscito a portare a termine la nostra missione! Ho ucciso Morse!»
«Snow, la nostra missione non era uccidere Morse.»
Dov’è finito l’entusiasmo che mi ha mostrato quando mi avvelenava? Dov’è finito il mio Mentore?
«Ma l’ho fatto! Ho punito colui che se lo meritava! L’ho ucciso, e lo farei un milione di volte ancora! E, poi, qual era la nostra missione?»
«Vivere, salvarci! Questa era la missione. Andare via da questo mondo. Snow, credo tu debba riposare…»
«Scusa?» – perché, tutto d’un tratto, si comporta in modo così freddo e distaccato con me?
«Snow, hai ucciso il Presidente! Questo avrà delle cause e… lui è il Presidente. Ti sei abbassato ai suoi livelli, in un modo incredibilmente stupido.»
«Non se divento il prossimo Presidente di Panem!» – gli dico in modo risoluto.
«Snow…» - Lui sbarra gli occhi.
«Che c’è Victor?» – sto iniziando a credere che non sia più dalla mia parte.
«Perché non riposi un po’? Ne parliamo dopo un bel riposo.»
Ha qualcosa in mano che cerca di nascondere. Conosco Victor e i suoi modi di fare. Questa volta, però, non mi farò cogliere alla sprovvista.
«Credi che sia tu, Victor, ad aver bisogno di riposare!»
 
Cosima e Caesar mi vengono incontro.
«Snow!» – ci abbracciamo, ci salutiamo. I due mi accarezzano. Ho un flash: mi ricordo gli alter-ego dei due fratelli quando Level mi ha avvelenato nell’Arena.
«Hai visto Victor?» – mi chiede Caesar. Cerco di nascondere la mano sporca di sangue nella tasca dei pantaloni.
«No, non so che fine abbia fatto!»
 
Manca poco, davvero poco.
Il mio cuore batte, ma so che questo è solo l’inizio.
Indosso un vestito azzurro creatomi apposta dalla donna che sposerò tra una settimana, Cosima. Mio cognato, Caesar, ha avverato il suo sogno più grande: è entrato a far parte del mondo della tv, grazie a me.
Ora è il momento, invece, che si realizzino i miei di sogni. Sto prendendo la vendetta più grande che ci sia verso il nemico più grande che ci sia. Finora ho distrutto chi ha intralciato il mio cammino e quello dei miei alleati, ma ancora non hanno pagato coloro che hanno portato Livius al suicidio.
Già, io non ho dimenticato che, oltre i tributi e Morse, il nemico fosse anche il distretto 2. Dovrebbero pagare anche gli altri distretti. Dovrebbero pagarla tutti!
Si aprono le tende e mi affaccio al balcone. Alzo le mani al cielo e tutti fanno uno strano rumore. Si aspettavano, forse, di vedere il Presidente Morse? Ops!
«Miei cari cittadini, diamo il benvenuto al vostro caro Presidente.» – mio padre è qui ad annunciarmi. Peccato che, tra poco, perderà quella lingua che si ritrova. Non mi mancherà affatto il tono di rimprovero di quest’uomo.
«Panem, è il momento di risplendere. Una volta sono stato anch’io come voi. Sì, ero lì ad ascoltare le parole di chi mi ha preceduto.» – guardo il mio popolo e penso che, probabilmente, dovrei avere anch’io un ibrido terrificante. Devo pensarci!
«Oggi è un nuovo inizio. Oggi vedrò Giustizia. Una volta chiesi: come faceva la gente a guardarsi allo specchio sapendo che, ogni anno, dodici tributi maschi e dodici tributi femmine diventavano giocatori di un gioco spietato chiamato “Hunger Games”? Come tutti sapete, io sono uscito vivo da lì. Gli Hunger Games mi hanno reso quello che sono ora.»
Anche se ho ordinato a tutti i miei “sudditi” (posso chiamarli così?) di bruciare tutti i nastri della venticinquesima edizione, non posso dimenticare di essere stato un giocatore. Questo, inoltre, mi ha permesso di diventare un qualcuno diverso da quello del distretto 2. Una volta non avrei potuto cambiare il mondo, ora posso! Lo voglio cambiare davvero il mondo, ma loro non meritano questo. Sono tutti macellai e nessuno di loro ha pianto mentre ci vedevano buttati (e buttavano) in un forno.
«Affinché possiate ricordare i caduti dei Giorni Bui e dei Giochi della Fame, lascerò che i Giochi stessi continuino ad esistere. Per questo esistono i Giochi: per non dimenticare. D’altronde non vi siete mai lamentati di questa forma di intrattenimento, o erro in qualcosa?»
Una cittadina di Capitol City dice qualcosa ma, subito, ci pensa un Pacificatore a risolvere quel piccolo problema.
Respiro intensamente e sorrido: questa è la giustizia.
Dopo aver detto questo, mostro a tutti una rosa bianca e, tagliandone con la mano il gambo, la poso nel taschino della mia giacca azzurra. Tutto questo, ora, è per lui.
«Oh, e basta con la luce, la forza e le illusioni in cui ci hanno voluto far credere finora. Si tratterà sempre e solo di fortuna. Quindi… possa la fortuna essere sempre a vostro favore.»
Gli Hunger Games sono, ora, la mia spada e la mia bilancia. Io sono il volto della Giustizia, non quella Level. Il ragazzino a cui hanno detto di uccidersi con una lametta ha regalato a tutti loro una lametta personale.
Io ho vinto!
 
***
 
Allo specchio c’è una donna.
Si sta pettinando i capelli. In questa nuova dimora, c’è qualcosa di stravagante a confortante. La vita, qui, sembra essere diversa. Ha assistito al servizio in diretta dove il Presidente Snow inaugurava la nuova edizione degli Hunger Games.
Come cambiano le cose!
È cambiata anche lei. Ricorda perfettamente quelle notti passate con il suo mentore a bere thè, quando lui le diceva che tutti sono speciali al mondo. Ora lei non ne beve più di thè, non è facile trovare dei veleni.
Ricorda, come se fosse ieri, quando si è svegliata nuda su una bara di acciaio.
Adesso che è nel distretto 13, ha avuto più tempo per pensare a sé e alle possibilità concesse alle persone. Si interroga ancora sul rapporto complicato che ha avuto con gli uomini della sua vita, soprattutto con l’ultimo. Lei ha creduto davvero in lui e lui cosa fa? La uccide con del veleno.
Risvegliarsi, dalla morte, comunque, è qualcosa di eccitante, un nuovo inizio. Arrivare, poi, nel distretto 13 e scoprire che l’Arena dei venticinquesimi Hunger Games fosse realtà è stato destabilizzante. Qui ha trovato i passaggi sotterranei che, proprio perché percorsi nell’Arena, conosceva a memoria.
Non è stato difficile scoprire questo nuovo mondo. Da qui inizia una nuova vita per una nuova persona. Già, lei non è più Level Rose. Level Rose è morta, per sempre.
«Signora…» - un ragazzo entra nella stanza della donna. Lei smette di pettinarsi.
«Oh, non chiamarmi signora.» – dice al riflesso del ragazzo.
«E come devo chiamarla?» – lui arrossisce.
«Oh, chiamami pure Alma, Alma Coin.»

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