Il destino di Qayin

di VandasGirls
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo primo ***
Capitolo 3: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 4: *** Capitolo terzo ***
Capitolo 5: *** Capitolo quarto ***
Capitolo 6: *** Capitolo quinto ***
Capitolo 7: *** Capitolo sesto ***
Capitolo 8: *** Capitolo settimo ***
Capitolo 9: *** Capitolo ottavo ***
Capitolo 10: *** Capitolo nono ***
Capitolo 11: *** Capitolo decimo ***
Capitolo 12: *** Capitolo undicesimo ***
Capitolo 13: *** Capitolo dodicesimo ***
Capitolo 14: *** Capitolo tredicesimo ***
Capitolo 15: *** Capitolo quattordicesimo ***
Capitolo 16: *** Capitolo quindicesimo ***
Capitolo 17: *** Capitolo sedicesimo ***
Capitolo 18: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


polverenera

Per iniziare


Sssssalve.
Nuovo progetto, nuovo fandom, nuovo tutto.

Che dire?

Innanzitutto che dietro allo schermo siamo in due. A-ah! Non ve lo aspettavate, eh?

Invece sì. Chemical Lady e Lechatvert, due balde studentesse che, non avendo niente da fare all'università (esami? Quando mai!) scrivono assieme nel dopocena notturno.
Questo corposo esperimento è il frutto di un lungo pomeriggio al sapore di muffin e ciambelle rosa passato al tavolo del nostro coffee bar preferito.

Ci è piaciuto abbastanza com'è venuto fuori e speriamo che l'evolversi della trama possa dare maggiore spazio a ogni nostra idea.
Per ora, lasciamo tutto nelle vostre mani! ♥

Un abbraccio,
    Chemical Lady & Lechatvert
    In arte: VandasGirls






Il destino di Qayin

Prologo







Un singolo istante può cambiare il corso di una vita intera.
Aveva appena finito di appuntare quella frase sul bordo di una pagina stropicciata, quando la carrozza su cui sonnecchiava arrestò improvvisamente la sua corsa.
Stropicciando gli occhi, Marcello Donà si alzò dal sedile su cui riposava e lasciò il suo posto, affacciandosi alla strada sterrata che lo circondava.
L’odore salmastre del mare gli riempì le narici e, per un secondo, quasi credette di trovarsi ancora a casa.
Da Venezia a Roma la strada era lunga, lo sapeva, eppure non gli sembrava che, una volta lasciata la laguna, si dovesse incontrare nuovamente la costa.
Invece il mare era lì da qualche parte, con il suo odore pungente e la sua umidità.
Marcello sospirò, abbandonando definitivamente la carrozza per andare a chiedere spiegazioni agli unici due mercenari che suo padre era stato disposto ad assumere per il viaggio.
Non con sua enorme sorpresa, quando raggiunse il sedile del cocchiere, lo scoprì completamente deserto. La sua magra scorta, così come il ridicolo stipendio che aveva concordato, erano spariti per sempre.
Inveendo, Marcello si ripromise di contrattare meno con i mercenari, in futuro, e soprattutto di spezzare il pagamento in una prima, minima parte, e un’ultima a lavoro compiuto.
Guardò i cavalli ancora imbrigliati alla carrozza.
Se non altro, nella fuga la sua scorta aveva avuto il buon cuore di lasciargli un mezzo per raggiungere un qualunque centro civilizzato senza che dovesse per forza distruggersi gli stivali a forza di camminare.
Sbuffò, cominciando a trafficare con i nodi delle briglie.
Non era decisamente un bravo cavallerizzo – in effetti vi era un motivo ben preciso se per compiere una strada come quella che separava Venezia da Roma aveva rifiutato di cavalcare egli stesso – ma poteva riuscire, in qualche modo, ad arrivare in città sano e salvo. Dopodiché, contava su qualcuno in grado di riconoscere il buon nome dei Donà, modesta famiglia di mercanti di spezie ed erbe officinali in tutto l’Adriatico.
Schioccò la lingua un paio di volte, facendo lavorare le mani sugli ultimi nodi, poi alzò le spalle con un sorriso soddisfatto e girò sui tacchi per prendere la sua borsa all’interno della carrozza e partire alla volta della salvezza.
Non arrivò a toccare i suoi averi neanche con la punta delle dita, visto che si trovò faccia a faccia con la lama sguainata di una spada.
Un uomo, circondato da almeno dieci soldati, gliela puntava alla gola, soffocando appena una risatina divertita.
«Il figlio più giovane di quel maiale di Donà, immagino», esordì, sputando a terra.
Marcello spostò il piede, controllando che la saliva dello sconosciuto non gli fosse finita sullo stivale.
«Immaginate bene», rispose, scrollando le spalle. «Con chi ho il piacere di conversare?»
«Federico Cimaglia, Conte di Ladispoli. Avrete di certo sentito il mio nome tra le mura della vostra insulsa famiglia.»
«In realtà, no, ma vedo che sapete molte cose veritiere circa mio padre e la mia famiglia, quindi vi credo sulla parola.»
Mostrò al conte un ampio sorriso, scostandosi quel poco che lo spazio ridotto gli permetteva per non avere la lama puntata alla giugulare.
«Qual buon vento, quindi?», chiese, scuotendo appena i suoi riccioli castani.
L’altro grugnì, senza scomporsi troppo dinanzi all’atteggiamento pacifico del ragazzo. Che Marcello Donà fosse un ottimo arciere lo sapevano in molti, a Venezia. Che la sua passione per le frecce si limitava a centrare un pagliericcio nel cortile di casa, bé, era un particolare che di certo la sua famiglia non usava per vantarsi.
«Vostro padre ha con noi un debito più grande della sua pancia!», gli disse, spavaldo, scoppiando in una grassa risata. «Voi sarete il pegno che lo costringerà a risarcirci.»
Marcello si lasciò scappare un sospiro mortificato.
«Allora temo che marciremo assieme, Conte», rispose. «Persino i bottoni del panciotto di mio padre, occupano un posto migliore di me nella sua scala di importanza. Dovevate provare con mio fratello Andrea. Lui sì, che si è attirato le grazie di tutta la famiglia!»
Ed era vero.
Suo padre aveva provato così tanto a lungo a sbarazzarsi di lui che ormai stava andando a farsi prete a Roma, ben lontano dall’attività di famiglia. Non era un cattivo mercante, in fondo, ma aveva interessi ben diversi dal duro lavoro e aveva sempre finito col fruttare ai Donà la metà dei suoi fratelli.
Sospirando, guardò il conte, posandogli una mano sulla spalla.
«Mi dispiace per il vostro buco nell’acqua», gli disse, chinando il capo. «Ma sono sicuro che dietro un buon compenso nessuno a Roma verrà a sapere di questo spiacevole incontro. Credo di aver sentito che rapimento e ricatto siano puniti in maniera esemplare, laggiù.»
Sorrise appena, osservando il suo aggressore attraverso i suoi occhi color miele.
Gli bastò uno sguardo per capire che non era il caso di intrattenersi in ulteriori discussioni.
Arrivò a malapena ad accucciarsi che la lama del conte si conficcò nella carrozza.
«Cane!», gli urlò lui, liberando l’arma dal legno dove fino a un istante prima c’era la sua faccia. «Tu, tuo padre e la tua famiglia!»
Rapido, Marcello si buttò a terra su una spalla, rotolando sotto la carrozza fino all’altro lato della strada. Si rimise in piedi e abbandonò ogni idea di tornare a riprendersi la sua borsa, lanciandosi nella corsa più veloce che avesse mai fatto attraverso il rado bosco che si apriva sulla pianura.
Non aveva la minima idea di dove stesse andando, né di dove si trovasse, ma di certo non aveva voglia di fermarsi ad indagare.
Così si obbligò ad accelerare ulteriormente il passo, mentre alle sue spalle udiva l’inveire del conte e le voci dei suoi uomini farsi più vicine.
Scavalcò massi, si tagliò il viso con i rami appuntiti degli alberi più bassi, inciampò, un paio di volte, su delle radici sporgenti coperte dalle foglie autunnali.
Quando realizzò che i suoi inseguitori gli erano praticamente addosso, si buttò addosso al tronco di un grosso pino, cercando di guadagnare in altezza appendendosi ai rami.
Tra i nomi delle tante cose che non era, spiccava anche quello dell’ottimo arrampicatore e difatti gli ci volle più di un tentativo per trovare il ramo giusto che non si spezzasse sotto il suo peso.
Si arrampicò a memoria, seguendo i movimenti che aveva visto fare a suo fratello nel cortile di casa e in qualche modo, tra un ramo in faccia e una manciata di aghi secchi negli occhi, arrivò fino quasi in cima.
Da quel momento, si impose che la regola sarebbe stata “non guardare di sotto”.
Anche se sentiva i suoi inseguitore fare il suo nome, anche se la curiosità di scoprire a quale altezza si trovava era enorme, non voleva cadere nell’errore di scoprirsi terrorizzato dall’altezza.
Si concentrò quindi sul paesaggio che lo circondava.
Oltre le punte degli alberi, si estendeva la pianura, chiara e coperte dalle nubi basse del mattino. Dietro di lui, i gabbiani cantavano alla vista del mare. Per quanto si sforzasse di aguzzare la vista, però, non riusciva a individuare neanche una misera casupola.
Si drizzò sulle spalle, cercando di passare da una punta all’altra attraverso i rami più robusti.
Nessuno gli aveva insegnato che, in prossimità della cima, la robustezza è l’ultima delle caratteristiche attribuibili ai rami.
Non appena il suo piede toccò il punto d’appoggio, un gemito sommesso uscì dalla bocca di Marcello, e l’unica cosa che venne prima della caduta fu il sonoro spezzarsi del legno.
In un istante, si ritrovò il vuoto sotto i piedi e piombò verso terra, impigliandosi in ogni singola frasca.
Quando la sua schiena arrivò a scontrarsi con il terreno umido del sottobosco, aveva foglie secche persino nei pantaloni e il sapore del sangue nella sua bocca era così forte che per un istante credette di essersi trafitto con un ramo.
Soltanto quando il Conte di Ladispoli lo afferrò per la camicia, alzandolo da terra per potergli sputacchiare in faccia le sue offese da osteria, Marcello si rese conto con sollievo di essersi soltanto tagliato il labbro.
«I cani non volano!», gli gridò il conte, agitandolo avanti e indietro nella ferrea stretta della sua mano.
Marcello si concesse la scortesia di non rispondere. Gli faceva un gran male la testa e tutto aveva preso a girare vorticosamente intorno al suo braccio.
Quando il conte si decise a caricarselo in spalla, aveva già perso conoscenza.










«Fermate quella cagna!»
Le ombre delle torri che si innalzavano verso il cielo sopra di lei non erano altro che un ulteriore riparo agli occhi del fornaio che la stava cercando, brandendo in mano un vecchio coltellaccio.
Riuscì a sgusciare tra le persone che si accalcavano lungo la via principale, evitando di urtarle al meglio delle sue possibilità, arrivando in fine al quartiere povero di Bologna, delimitato dai torrioni principali della Signoria.
Si schiacciò con la schiena contro il basamento della Garisenda, stringendo al petto una pagnotta avvolta da uno straccio color sabbia quasi fosse il suo bambino.
«Quella maledetta ladra! Fermatela e consentitemi di tagliarle io stesso le mani!»
Oh, l’avrebbe di certo fatto, se mai l’avesse catturata.
Sfortuna voleva che Violante degli Antoni fosse ben nota nella cittadina per le ottime doti atletiche, oltre che per le mani leggere come piume, in grado di levare il borsello anche al più temuto capitano di ventura.
Attese in quel nascondiglio di fortuna per qualche minuto, osservando sospettosa e con le orecchie ben tese i passanti. Poi, sempre stringendo a sé il pane, tirò un sospiro di sollievo e si avviò verso casa.
Sempre che una vecchia mansarda polverosa potesse davvero chiamarsi casa.
Grazie a Madonna Pandora e a suo marito Ignazio poteva, quanto meno, dormire in un luogo asciutto e caldo, grazie al camino che dal piano di sotto riusciva a scaldare ogni ambiente.
Nonostante questo, però, Violante continuava a sentire freddo dentro al petto. La sua vita non era mai stata semplice. Era la figlia bastarda di un uomo dalla figura tutt’altro che esemplare, di cui sapeva poco o nulla. Aveva sempre vissuto sola con sua madre, passando da un alloggio di fortuna all’altro e rubando quel poco di pane che riusciva a sgraffignare sotto al naso del fornaio, quando i pochi ducati che lei e sua madre guadagnavano conciando la lana non bastavano per aspettare una nuova commissione. Aveva sempre vissuto ai margini della società, crescendo da sola con poche passioni.
Quando suo padre era morto, le aveva lasciato un baule chiuso a chiave e la promessa che un giorno avrebbe provveduto a lei.
Perché si sa, i morti hanno parecchio potere sul destino dei vivi … ’
Tutto quel sarcasmo non era poi così immotivato; era sopravvissuta diciannove anni grazie ad esso e non mancava giorno che non ringraziasse l’Iddio di averla fatta nascere libera, seppur senza null’altro che la sua tenacia.
Arrivata sotto alla palazzina pendente e dall’intonacatura scrostata nella quale viveva, si accorse di qualcosa di sospetto. Un paio di bei cavalli, bardati d’azzurro e argento, facevano sfoggio di loro insieme ad un gruppetto di almeno sei mercenari recanti i colori della Serenissima.
Attenta a non mostrarsi a loro, Violante strisciò contro la parete fino a un’entrata secondaria, posta sul fianco del palazzo. Quando entrò, lasciò un piccolo barile vuoto tra il pesante portone e il muro, al fine di lasciarsi una pratica via di fuga.
Non poteva sapere cosa avrebbe trovato lì dentro.
Con sua grande sorpresa, vide che nessun signore veneziano entra andato a far visita a Madonna Porciani, mentre un chiacchiericcio diffuso sembrava irradiarsi dalla mansarda misera nella quale doveva trovarsi sua madre.
Avanzò su per la scalinata di legno con passo leggero, riuscendo a non far scricchiolare le assi vecchie che la componevano. Si affacciò in via del tutto sperimentale, notando subito sua madre, seduta alla loro vecchia tavolaccia bucherellata insieme a un uomo e a una donna.
Mentre ella era piccola e dalle forme prosperose, egli era alto e ben piazzato, con due grandi spalle larghe e uno spadone da duello alla vita. Viola si premurò di avere ben assicurato il suo pugnale sotto alla blusa, prima di avanzare con passo volutamente più pesante, attirando così le attenzioni di tutti i presenti su di sé.
«Oh, Violante!»
Sua madre scattò in piedi, avanzando con un gran sorriso verso di lei. Pareva rilassata e a suo agio in compagnia di quelli che, per la giovane, erano due volti sconosciuti.
Anche l’uomo si alzò, ruggendo una sorta di risata che gli partì fragorosa dal petto.
«Così questa è la figlia di Enrico? Signore, sono passati solo tre inverni dall’ultima volta che t’ho vista! Eri poco più alta di un canestro per mele!»
«Madonna Marcelli, avete cresciuto una splendida fanciulla.»
All’intromissione della donna, Violante decise con garbo di domandare spiegazioni.
«Madre, chi sono costoro?», sussurrò, ma venne comunque captata dallo sconosciuto.
«Sapevo che non mi avresti riconosciuto: io sono Bartolomeo d’Alviano e questa è mia moglie, Pantasilea.» Fece una pausa, appoggiando una mano sulla spalla della moglie e guardandola con una certa dose d’orgoglio, prima di rivolgersi nuovamente a Violante. «Ero un caro amico di tuo padre.»
A quelle parole, tutta l’attenzione di Viola si concentrò sul condottiero veneziano.
«Mio padre?», chiese, quasi trepidante, domandandosi se quello sarebbe stato il giorno in cui sarebbe finalmente riuscita a scoprire qualcosa in più su suo padre. Non ricordava molto di lui, era morto che era solo una bambina, ma quelle poche memorie che aveva le custodiva gelosamente in un cassetto della sua memoria. Al collo portava ancora un piccolo pendente con un ciondolo in pietra d’agata, unico regalo che le aveva portato da Roma molti anni prima.
Che essa ti protegga dai mali, sia fisici che dell’animo’.
Sapeva di essergli stata cara e, in un certo senso, lui lo era stato a lei anche se non lo conosceva.
Bartolomeo asserì con un singolo cenno del capo.
«Tuo padre, Enrico degli Antoni. Sono qui in sua vece.» Si godette l’espressione confusa della giovane «Molti anni fa, ho promesso a tuo padre di venire a prenderti con me, quando saresti stata grande abbastanza da essere pronta. Tua madre, in una lettera, mi ha detto che sei molto brava a scappare da un tetto all’altro e che sei maestra nell’arte di renderti invisibile, se lo desideri.»
«Mia madre mi idolatra troppo», rispose la ragazza, prima di voltarsi verso Madonna Marcelli. «Cosa significa che quest’uomo è qui per prendermi con sé?»
La donna indugiò, prima di andare verso la vetrina di sambuco e aprirne due scomparti. Da essi, prese un baule di medie dimensioni che, un po’ a fatica, appoggiò sul tavolo. Su di esso vi era uno strano simbolo, inciso a fuoco. Violante l’aveva già visto su uno degli avambracci di cuoio che suo padre indossava sempre.
«Ti ho tenuto nascoste molte cose, bambina mia», disse addolorata Lucia Marcelli, portandosi una mano al viso. «Ma ora è giusto che tu abbia una vita migliore. Questa è l’eredità di tuo padre.»
«Io sto bene qui.»
Violante guardò la chiave che sua madre le stava porgendo, senza far nulla per afferrarla. Tutto stava avvenendo troppo rapidamente, senza preavviso alcuno; si sentiva spaventata, stranita. Non voleva saperne nulla.
«Non andrò con Messer d’Alviano da nessuna parte.»
«Io credo che dovresti ascoltare tua madre», le fece presente quest’ultimo, prendendo la chiave e sorridendo a monna Lucia. «Fallo per tuo padre.»
«Mio padre non ha mai fatto nulla per me, perché io dovrei fare qualcosa per lui?»
Bartolomeo scoppiò a ridere, girando la chiave nella toppa.
«Sei proprio uguale a lui! Fossi in te darei un’occhiata a questo baule; a dopo le domande.»
Viola si avvicinò cauta, lanciando una lunga occhiata sospettosa al veneziano, prima di aprire con lentezza il baule. Al suo interno vi trovò due spade corte, di ottima fattura, con l’elsa in cuoio e argento e la lama scintillante. Le passò a sua madre che le appoggiò con timore riverenziale sul ripiano della tavola, prima di sporgersi a guardare con gli occhi umidi ciò che Violante reggeva tra le mani: una blusa grande, maschile, di un bianco tendente all’argento e bordata di rosso; un ampio cappuccio faceva bella mostra di sé e lei lo accarezzò dopo averla appoggiata al tavolo.
«Questo era di mio padre …», sussurrò, piano, tenendo gli occhi sgranati su quell’armatura strana, unica.
«Con ago e filo potrebbe essere tua», tentò monna Lucia, sorridendo incoraggiante.
«Ancora non capisco …», sussurrò la giovane ragazza, con una confusione in capo così forte da farle venire il mal di testa.
«Siediti e ti sarà spiegato tutto», la invitò Bartolomeo, prendendo posto a sua volta.
Violante annuì piano, guardando sua madre che correva verso un piccolo angolo della stanza per versarle una tisana. Fu in quel momento che le cadde l’occhio sul fondo del baule, che credeva vuoto.
Così non era, però.
Abbandonato a se stesso, quasi del tutto nascosto in un angolo, vi era un bigliettino. Lo aveva scritto suo padre, avrebbe riconosciuto ovunque quella scrittura che aveva letto e riletto sulle poche lettera che Enrico le aveva spedito.
Quelle parole, incise con una piuma su una pergamena ingiallita dagli anni, le parvero acquisire senso con lentezza esasperante.
Non lo sapeva ancora, ma esse erano vere quando quelle di un testo sacro.
Un singolo istante può cambiare il corso di una vita intera’.



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Capitolo 2
*** Capitolo primo ***


polverenera

Il destino di Qayin

Capitolo primo







Le porte di Roma le si aprirono dinanzi che il sole era già alto nel cielo.
Lasciandosi scappare un sospiro carico di soddisfazione, Chiara Filippi sgusciò tra la folla di mercanti che si accalcava dinanzi all’entrata della città, superando goffamente un paio di guardie cittadine per immettersi infine sulla strada che seguiva il corso delle mura.
Dal cappuccio verde scuro che portava sul capo, soltanto un ricciolo dorato sbucava, dondolandole sulla spalla a ogni suo passo.
Alternava la sua andatura con qualche giravolta mirata a scrutare i palazzi che le si stagliavano intorno, mentre i suoi occhi scuri passavano da un balcone all’altro, da un viso sporto dalla finestra a uno nascosto dietro a una tenda.
Quella era la prima volta che metteva piede a Roma e già poteva dirsene soddisfatta. Rimpiangeva il fatto di non aver voluto che suo padre l’accompagnasse, eppure era felice di non avere nessun altro con cui condividere la sua scoperta. Poteva tenere per sé ogni sensazione, ogni profumo, ogni sguardo che la gente le riservava.
Era la sua avventura.
Balzando sul muro di una vecchia casa, liberò i capelli biondi dal cappuccio, rovesciando il capo all’indietro quando raggiunse la sommità del tetto.
Di certo non sapeva orientarsi in una città immensa come Roma, ma era alla ricerca di un luogo ben preciso, certamente visibile da una prospettiva sufficientemente alta.
Il corso del Tevere, in fondo, non doveva poi essere tanto difficile da individuare.
Raccolse la gonna tra le mani, saltando da un tetto all’altro fino a che non individuò il ponte dei Quattro Capi tagliare l’ansa del fiume.
Sorrise, allora, e accelerò il passo, saltando sulle tegole con composta grazia. Senza dubbio, i tetti di Roma erano di fattura assai più raffinata di quelli di Firenze. Il laterizio non si sbriciolava sotto i suoi lievi saltelli e la pendenza era minore, il che le dava maggior stabilità.
Arrivò in prossimità del ponte in un tempo così breve che ella stessa se ne stupì.
Appollaiata sulla torretta del palazzo che vi si stagliava di fronte, si concesse qualche istante per osservare la folla.
Non aveva amicizie a Roma, né persone che poteva esserle utile visitare, ma agli artisti che suo padre frequentava piaceva viaggiare, e non si poteva mai sapere il luogo da dove sarebbero sbucati, né tantomeno il momento.
Fu per questo che non si stupì affatto quando, proprio sul ponte, notò un cappello di raso rosso muoversi cauto tra la folla, accompagnato dal mantello del medesimo colore che il suo padrone portava sulla schiena. Capelli grigi lunghi fino alle spalle, qualche strano gingillo fissato alla cinta. A Chiara non ci volle poi molto per riconoscerlo.
Si tuffò tra la gente, atterrando ben dritta su uno dei pilastri del ponte, e si buttò all’inseguimento dell’uomo.
«Messer Leonardo!», chiamò, nonostante la sua vocina così flebile fu presto mangiata da quella ben più potente della folla. Scattò in avanti, afferrando un lembo del mantello color sangue che aveva avvistato dalla sua postazione. «Leonardo da Vinci!»
Lui si voltò, probabilmente stranito dal sentirsi chiamare per nome da una voce così giovane, e rimase in silenzio a guardare Chiara.
Lei scioccò la lingua, senza lasciare la sua presa.
«Sono Chiara!», esclamò, sorridendo. «La figlia di Mastro Filippi!»
L’uomo le buttò addosso un’occhiata che la esaminò da capo a piedi, dopodiché si sciolse in un sorriso, chinandosi su di lei per abbracciarla.
«Chiara Filippi! Ma certo!», esclamò, battendole entrambe le mani sulle spalle. «Quanto tempo è passato! Guarda come ti sei fatta grande, sempre più simile a tuo padre! Quanti anni hai?»
Chiara arrossì appena, inevitabilmente imbarazzata dal paragone con Mastro Filippi. Succedeva sempre, quando la gente faceva notare quanto si somigliassero.
«Ho compiuto quindici anni la scorsa estate», balbettò, cercando di non scomporsi.
Leonardo da Vinci annuì, riprendendo a camminare lungo il ponte, diretto verso l’Isola Tiberina.
«Devo dedurre che Matteo è nei paraggi?», le chiese, senza mascherare un certo tono allegro.
Chiara scosse il capo.
«No, sono sola», rispose, soddisfatta di sé. «Messer Machiavelli ha mandato un messo alla bottega a pregare mio padre di mandarmi a Roma al più presto. Dice che è arrivato il momento anche per me.»
«Ezio ti vuole tra le sue reclute?»
«Così pare.»
Camminarono in silenzio per qualche istante, raggiungendo l’isola dietro un piccolo gruppo di persone che si affrettavano ad attraversarla.
Chiara era così piena di pensieri che, per un istante, si dimenticò persino di parlare.
«In realtà, speravo proprio di incontrarvi, Messer Leonardo», disse dopo un po’, nascondendo di nuovo il viso sotto il cappuccio. «Io e mio padre abbiamo messo a punto un’arma che potrebbe tornare utile. Funziona, tuttavia vi sono alcuni dettagli che non siamo stati in grado di sistemare.»
L’uomo le lanciò un mezzo sorriso.
«Sempre più simile a Matteo, non c’è che dire. Progettare un’arma non è lavoro da recluta, Chiara, ma le darò volentieri un’occhiata.»
La ragazzina sorrise, stringendosi nel mantello e allontanandosi da Leonardo.
Quando lui la guardò con aria interrogativa, lei rispose ampliando il suo sorriso.
«Non mi aspettano prima di domani!», esclamò, buttandosi tra la folla con una mano alzata in segno di saluto. «Farò un giro nei dintorni!»
Girò sui tacchi e non rimase ad ascoltare la risposta dell’uomo, sgusciando a piccoli balzi tra la gente di Roma. Aveva intenzione di godersi il più possibile quelle ore di libertà che le rimanevano e un’esplorazione di ciò che la circondava le sembrava il metodo più adatto per sfruttare al meglio quell’occasione.
Si buttò quindi addosso al pilastro del secondo ponte che lasciava l’isola e cominciò a camminare verso il fiume, stavolta più lentamente, attratta dalla modesta folla che si era radunata attorno a una lite sulla riva.
Un ragazzo basso, ben piazzato e armato di un bastone da passeggio saltava addosso a una ragazza di gran lunga più minuta di lui. La attaccava fendendo l’aria, mentre ella evitava con sveltezza ogni fendente, scostandosi quel poco che le bastava per mandare il colpo a vuoto.
La gente, intorno, incitava i due alla lotta.
Chiara rimase seduta lungo il parapetto del ponte, osservando la scena da una discreta distanza.
Di certo non aveva intenzione di finirci in mezzo.
«Prendete quella puttana!», gridò d’un tratto il ragazzo, puntando il bastone verso la sua avversaria. «Mi ha rubato il borsello!»
La ragazza rise di rimando, scostandosi i capelli dietro le spalle, e non lo degnò nemmeno di una risposta, balzando in alto e sparendo sui tetti di Roma nello stesso tempo che Chiara impiegò a battere le palpebre.
Il ragazzo con il bastone da passeggio rimase immobile per strada, mostrando il viso irato di chi ha appena fatto una pessima figura dinanzi a un gran numero di persone. Inveì un paio di volte, battendo i piedi a terra, e andò a prendersela con uno degli spettatori più vicini. Scelse un ragazzo molto più alto di lui, meno massiccio ma decisamente meglio proporzionato.
Aveva un viso pallido senza alcuna espressione a incresparlo. Gli occhi color cobalto, spenti sulla punta degli stivali, non si alzarono nemmeno quando vennero attaccati dal bastone.
Il ragazzo dal viso pallido si limitò a chinarsi in avanti, mostrando alla folla la balestra che portava a tracolla sulla schiena.
Era un’arma di ottima fattura, intagliata in un legno scuro cerato, e montava delle frecce più corte del normale dal piumaggio bianco che il loro proprietario portava in una sacca legata al fianco.
Rapita dalla scena, Chiara si strinse le ginocchia al petto, cercando nella borsa il fazzoletto in cui, quella mattina, aveva raccolto qualche fragola di bosco.
«L’hai vista, quella puttana di tua sorella!», tuonò il ragazzo col bastone, avvicinandosi minaccioso a quello dal viso pallido. «E non hai fatto niente per prenderla! Schifosi milanesi! Non siete altro che cani al servizio dei Borgia!»
Il ragazzo dal viso pallido si alzò e, sospirando rumorosamente, si scrocchiò le dita.
«Spallaci, non scocciarmi», rispose, atono, senza dare un accenno di cambiamento all’espressione vuota del suo viso.
«Bengiamino Lorenzetti, torna tra i tuoi simili!», ribatté Spallaci, indicando con il capo un paio di polli che in quel momento affollavano la strada.
Dalla folla radunata attorno al ponte si levò un lieve sghignazzo.
Chiara sorrise, spingendosi in bocca la fragola che teneva appoggiata alle labbra con un dito. Il sapore aspro le fece arricciare il naso, ma non arrivò a distrarla dalla lite in atto.
Bengiamino Lorenzetti alzò le spalle, concedendosi di alzare lo sguardo verso il cielo prima di rimettere nella faretra la freccia che stringeva nella mano sinistra.
«Non ne vale la pena», commentò, più rivolto a se stesso che ai presenti.
Si sistemò il laccio della balestra sul petto e prese a camminare verso l’Isola Tiberina, saltando da un piede all’altro per poi buttarsi tra la folla.
«Che fai, Lorenzetti! Fuggi da me?», ruggì Spallaci, mollando a terra il bastone con un gesto di stizza. «Coniglio!»
La voce di Bengiamino arrivò pacata e distante.
«Fuggo dalla tua ignoranza, Spallaci!»
Tra le grida irate di Spallaci e gli sghignazzi dei presenti, Chiara non poté fare a meno di soffocare una grossa risata con una fragola.
Sistemandosi il vestito, sì alzò. Era intenzionata a seguire Bengiamino Lorenzetti, ma si bloccò quando il suo sguardo scuro captò qualcosa di bianco nascosto tra la folla.
Lontano da lei, con la schiena appoggiata contro il muro di una casa, l’anonima figura di Ezio Auditore osservava la scena. L’unica cosa lasciata trapelare dalla sua tunica immacolata, era un sorriso divertito.
Chiara l’aveva visto qualche volta, a Firenze, soprattutto in compagnia di Leonardo e di suo padre. Sapeva chi fosse e sapeva cosa aveva fatto per la Repubblica Fiorentina; lei e il suo fratellino erano stati istruiti a dovere sul mondo degli Assassini ancor prima che imparassero a leggere e a scrivere con una buona dose di racconti che poi avevano finito per diventare leggende.
Si voltò quindi per salutarlo, convinta che lui l’avrebbe in qualche modo riconosciuta.
Quando arrivò a raggiungere il punto in cui l’aveva intravisto, però, lui era già sparito senza lasciare traccia di sé.











Violante arrivò a vedere in lontananza la Città Eterna nell’esatto momento in cui il sole prese a scendere oltre le mura di cinta, lasciando spazio ad una fresca sera di inizio autunno. Non era mai stata in un posto simile nemmeno nei suoi sogni, tant’è che rimase del tutto senza parole innanzi a ciò che l’Urbe aveva da offrirle anche a quell’ora. I negozi stavano chiudendo, i bambini rincasavano rincorrendosi e per le vie vi erano volti smagriti dalla fame o rallegrati dal vino.
Sentì parlare in almeno sei lingue differenti nel tragitto che la portò al Covo.
Smise addirittura di parlare con Bartolomeo d’Alviano, che per tutto quel viaggio non aveva fatto altro che discutere con lei riguardo l’Ordine e chi lo componeva, seppur in modo abbastanza superficiale.
A sentir lui, Viola avrebbe avuto le risposte alle sue domande direttamente dal grande Mentore.
Chi fosse quest’uomo le era sconosciuto, ma aveva acquisito una certa fiducia nel condottiero che l’aveva accompagnata durante tutto quel viaggio.
Discesero lungo il Tevere sino all’Isola Tiberina, di cui Violante non aveva mai nemmeno sentito parlare, e lì si separarono. Le fu detto solo di lasciare il cavallo alla stalla che avrebbe trovato in fondo alla via.
Scorgere l’entrata al Covo richiese una buona dose di pazienza. Vagò stordita per alcuni minuti prima di incontrare un ragazzo che le disse di chiamarsi Ettore de Angelis e che le fece strada, scalando la facciata del palazzo prima di lei.
Violante si sentì incredibilmente fuori forma e pesante rispetto a quello che doveva essere senza ombra di dubbio un Assassino fatto e finito. Una volta sul tetto lui la aiutò a sollevarsi dal bordo, per poi aprirle la porta.
Le loro strade si separarono all’ingresso e Viola venne spedita lungo un ampio corridoio che sbucava in un altro ambiente.
La stanza era immensa e illuminata dalla luce fioca di molte candele, con drappeggi rossi che cadevano armoniosi dall’alto sino al soffitto tra le pieghe vermiglie recanti il simbolo della congrega.
Violante lasciò che il suo sguardo vagasse per ogni angolo di quell’enorme salone, ignorando per un istante la presenza di almeno una dozzina di giovani come lei.
Di fattor comune sembravano portare sul viso la medesima espressione di pura confusione ed eccitante aspettativa, seppur con qualche eccezione.
Violante si guardò alle spalle mentre, con un gesto esitante, si abbassava il cappuccio. Si sedette accanto ad un ragazzo biondo dall’aria annoiata, stringendo tra le mani la treccia castana che aveva acconciato quella stessa mattina, poco prima della partenza da Bologna. Le pareva ancora strano trovarsi lì, in una Roma avvolta dal quieto torpore notturno, in mezzo a persone dall’aspetto così interessante.
Si chiese dove fosse finito d’Alviano, prima di iniziare a studiare quella che per lei era più una concorrenza che un gruppo che, a sentire il veneziano, sarebbe dovuto divenire al pari di una famiglia.
All’improvviso, dal centro della sala si levò un sonoro brusio, mentre qualche ragazzo si accostava alle colonne come a creare una specie di cerchio attorno a qualcuno intento a dare mostra di sé.
Al centro di tutto c’era un giovane piuttosto massiccio, sebbene non troppo alto, vestito di tutto punto e brandente un bastone intagliato. Portava piuttosto solennemente la casacca recante lo stemma della sua famiglia e non dava certo cenno di essere intimorito dall’ambiente che lo circondava, né tantomeno dalla situazione.
«Sono Augusto Spallaci, figlio di Filippo Spallaci!», tuonò, puntando la sua arma contro il naso di un ragazzo di poco più piccolo. «Impara il mio nome, stupido verme. La mia famiglia prendeva a calci in culo quei cani dei Borgia che la tua ancora spellava galline!»
Una lieve risata si alzò dai due suoi compari che lo spalleggiavano. Anche loro come lui, non parevano affatto intenzionati a una pacifica convivenza. Se ne stavano lì, dietro la schiena di Augusto, a sghignazzare sugli altri presenti mentre lui se la prendeva con il primo malcapitato che lo aveva urtato.
Viola si alzò in piedi, salendo l’ultimo gradino per poter guardare il volto dell’idiota da cui avrebbe dovuto guardarsi le spalle sino alla fine dell’addestramento.
Con sua grande sorpresa, il ragazzo seduto accanto a lei levò una risata fragorosa e forzata, quasi come se il suo intento fosse quello di farsi notare da tutti.
Ci riuscì, poiché l’intero gruppetto si aprì, consentendo a Spallaci di guardare il volto parzialmente nascosto dal cappuccio nero e argento a punta, circondato da morbidi ricci dorati che sbucavano da sotto la stoffa.
«Ma sentitelo, come se ne va tronfio del suo casato. Se io fossi un lacchè degli Orsini starei bene attento a non farlo sapere in giro, visto che la loro propensione a cambiare continuamente bandiera porta molti nemici.»
Per risposta, Spallaci tolse il bastone dal viso della sua prima vittima, voltandosi bene a guardare il ragazzo che si era azzardato a controbattere.
«Divertente», commentò, non mancando di soffocare forzatamente una risata. «Tu saresti?»
Appariva estremamente intrattenuto dalla situazione, quasi quel luogo così tetro lo rendesse solare. Faceva la voce grossa, ma in realtà era ben lontano dall’apparire temibile o particolarmente pericoloso.
Il biondo si alzò, abbassando al contempo il cappuccio della casacca per poter farsi vedere per bene, quasi a voler evitare così ogni fraintendimento.
«Cristiano Pagni, da Ferrara», disse, peccando a sua volta di un certo orgoglio.
L’intera sala fu pervasa da un leggero brusio, mentre Cristiano camminava lentamente verso Augusto, sovrastandolo in altezza.
«Tuo padre deve dei soldi al mio, così come mezza Roma, grazie a Papa Borgia. Ma siete fortunati, Frate Savonarola ha ridotto i Medici ad un gruppo di debosciati esiliati. Siete in debito solo con la Romagna, così.»
Augusto Spallaci gli rise in faccia. Fece roteare il bastone sopra la sua testa un paio di volte, dopodiché lo lanciò in aria, riprendendolo prontamente per puntarglielo contro.
«Sei qui a regolare i conti in banca, fratello?», sibilò, mostrando una fila di denti bianchissimi. «Non sia mai che io mi tiri indietro.» Fece una pausa, guardandosi attorno, probabilmente alla ricerca di uno spazio sufficientemente largo dove poter passare all’attacco. «Vediamo chi è il più bravo, Pagni.»
Per risposta, Cristiano alzò lentamente un sopracciglio, poi si voltò verso Violante e fece per rivolgersi a lei.
«Non sono così maleducato da battermi laddove non è casa mia, Madonna. Vi sono uomini, o mezzi uomini, che non hanno il minimo senso della decenza.»
Un coro di risatine si levò dal gruppetto, mentre Viola osservava silenziosa la scena.
Era sempre stata molto meditativa e non aveva mai peccato di impulsività, salvandosi sempre la vita. Non avrebbe commesso l’errore di schierarsi apertamente contro nessuno; non voleva nemici.
Cristiano non parve comunque notarlo, visto che tornò a rivolgersi ad Augusto con tono vago.
«Non vorrei che vi sporcaste questa bella blusa. Ditemi, esistono anche i capi maschili, di questa meravigliosa stoffa?»
In parte zittito dall’affermazione di Cristiano, Augusto parve perdere una punta di quel suo fare tanto sprezzante. La recuperò subito, però, gonfiando il petto fin quasi a scoppiare e tendendo pericolosamente la stoffa di quella sua camicia così raffinata.
«Caro Pagni, l’abito non fa di certo il monaco», rispose, dondolando appena il capo e alzando il suo bastone sui capelli biondi di Cristiano. «Se così fosse, che si faccia il nome del poco astuto che ha assoldato una ragazzina dai boccoli d’oro nella sua gilda di assassini!»
Non si accorse di aver perso il bastone sino a che non si voltò e vide Cristiano avvicinarsi ad uno degli ampi drappeggi con tra le mani, l’oggetto di sua proprietà. Non lo aveva sentito rubarglielo e quasi non l’aveva visto superarlo per proseguire nella direzione opposta.
Il biondo si accostò alla parete, appoggiandosi alla spalla quel ninnolo da riccastro e sorridendo sornione.
«Bé, la ragazzina con i boccoli ti ha dimostrato che, tra tutti noi, sei tu la scelta sbagliata, Serpe
Augusto digrignò appena i denti, stringendo nei pugni le sue grosse mani, ma tuttavia non si scompose. Mostrò l’ennesimo sorriso, sbuffando e alzando un poco le spalle, dopodiché scoccò a Cristiano un’occhiata divertita.
«Di certo sei veloce», considerò, mostrandosi sempre allegro sebbene fosse palese provasse sentimenti del tutto differenti. «Tuttavia non basta saper scappare, là fuori». Si piegò un poco sulle ginocchia, leccandosi le labbra. «Aspetta di arrivare a un vero combattimento, e vediamo chi la spunta.»
Parve abbandonare il suo tanto amato bastone, e si allontanò dal centro della sala a passo spedito, seguito dai suoi due compagni, per buttarsi in un angolo con la schiena contro il muro e le braccia conserte.
La scena si sarebbe di certo potuta coronare di risa di scherno e battute sull’onore di Spallaci, ma il suono di un applauso ben scandito rimbombò da una parete all’altra, causando un forte eco.
Tutti si voltarono verso la fonte di tale rumore, notando che due figure si erano unite a loro senza farsi notare.
Violante si ritrovò accanto un uomo sulla quarantina, bardato d’un armatura bianca e rossa di mirabile fattura. Dietro di lui, di due o tre passi al massimo, vi era invece un uomo dall’aria più anziana, anche se non di molto.
«Interessante scena, davvero», proruppe il primo uomo in tono gioviale, prima di aggiungere, sarcastico: «Speravo davvero che socializzaste così tanto.»
«Chiedo perdono per il mio comportamento, Mentore», disse Cristiano, staccandosi dal muro e lanciando il bastone in direzione di Augusto. «Ma ogni tanto va insegnata l’educazione.»
«Sei modesto quanto tuo padre, Cristiano», rispose l’uomo, incrociando le braccia sul petto con aria affabile. «Credi di poter impartire tu le lezioni? Audace.»
Il biondo chinò il capo, totalmente sottomesso.
«Vi chiedo perdono nuovamente, Mentore. Non l’ho mai pensato, invero.»
Spallaci rimase in silenzio, senza osare nemmeno muovere un muscolo per chinarsi a raccogliere il suo bastone finito a terra con un tonfo sordo. Tutta la sua spavalderia e la sua solarità erano improvvisamente sparite così come il suo sorriso sornione. Restò lì fermo, con le spalle contro il muro e gli occhi sgranati sulla figura del Mentore, quasi non avesse visto nulla di più spaventoso e possente in vita sua.
L’intera sala si chiuse in un silenzio ammirato, mentre Ezio Auditore si mostrava per la prima volta alle sue nuove reclute.
Si schiarì la voce, passando gli occhi da un volto all’altro per memorizzare le fattezze dei suoi allievi.
«La liberazione di Roma e del mondo dalla minaccia dei templari ha inizio e voi ne sarete gli artefici. Quanto meno, quelli che fra voi saranno in grado di distinguersi in abilità e scaltrezza. Al termine di un periodo di addestramento verranno scelti cinque di voi, che diventeranno i miei occhi e le mie orecchie per tutta la Penisola.» Fece una pausa, soffermandosi un istante prima su Violante e poi su un ragazzo dall’aria pacata che si era a sua volta avvicinato a braccia conserte. Se la ragazza mostrava sul viso la confusione tipica di chi non sa chi si trova d’innanzi, il giovane sembrava invece ammirato e al tempo stesso determinato a dimostrare qualcosa al Mentore. «Voi siete il futuro dell’Ordine, non voglio pentirmi di avervi selezionati. Dovete dare il meglio di voi di giorno in giorno.»
Il ragazzo dall’aria pacata, che qualche sussurro nella sala riconobbe essere tale Bengiamino Lorenzetti, asserì con un grande sospiro, chinando poi il viso per affondarlo nella sciarpa che gli circondava il collo.
Durante tutta la scena che aveva visto protagonisti Augusto e Cristiano, non aveva proferito parola, restandosene in un angolo a sbucciare la mela che poi si era affrettato a ingurgitare con l’arrivo di Ezio Auditore.
Dinanzi a lui non aprì bocca, restando in quel silenzio che lo aveva avvolto sino a quel momento e limitandosi a un’occhiata tra l’ammirazione e la circospezione. Di certo non appariva spavaldo come i due giovani che prima avevano dato spettacolo, ma indubbiamente possedeva un’aura tutta sua, che non lo faceva passare per uno sprovveduto.
Rimase lì in piedi per tutto il tempo, senza staccare lo sguardo dall’Assassino, quasi in quella stanza non vi fossero che loro due.
Prese la parola l’altro uomo, quello dal volto più scarno e i capelli tenuti cortissimi sul capo. Portò le mani dietro alla schiena, mostrando in tutta la sua bellezza ed eleganza la blusa che indossava.
«Io sono Niccolò Machiavelli e, nella vostra permanenza all’Isola Tiberina, dovrete far rapporto a me di ogni vostra decisione o spostamento. Vi seguirò insieme ad Ezio e sappiate che sarò impietoso verso di voi. Non tutti hanno la stoffa dell’Assassino e l’Ordine non ha bisogno di accollarsi incompetenti. Ora potete ritirarvi nei dormitori. Lì vi verrà portato qualcosa da mangiare prima di coricarvi.»
Violante notò solo in quel momento che su venti, venticinque giovani, solamente cinque erano ragazze. Scambiò uno sguardo con quella più vicino a lei, una giovane alta dalla chioma ramata, prima di riportare la sua attenzione su Machiavelli.
A quanto pare non aveva terminato.
«Sappiate che questo non è un gioco; non garantiremo per la vostra incolumità.»
E detto l’uomo ciò si ritirò, passando per una piccola porta alle sue spalle.
Ezio Auditore sorrise appena, abbassando il viso e celandolo così sotto al cappuccio, prima di seguirlo senza aggiungere nulla.
Per un istante, la sala rimase avvolta in uno strano silenzio. C’era chi si guardava attorno attonito, chi era restato immobile a fissare il punto esatto in cui poco prima parlavano gli Assassini, c’era persino chi vagava per l’ambiente con gli occhi, alla ricerca di un contatto in grado di rassicurarlo. Era una situazione sospesa, fragile, e toccò ad Augusto Spallaci romperla definitivamente, brandendo nuovamente il bastone e smantellando quel silenzio con un sonoro sciocco di lingua.
«Se lo scordano, di farmi dormire in questa topaia!», esclamò, partendo verso l’uscita con il suo piccolo gruppo al seguito. «Preferisco stare in strada, che condividere la stanza con questa feccia!»
Passò accanto ai ragazzi addossati al muro e li urtò uno a uno, guardandoli con aria minacciosa mentre si allontanava.
Accanto a Violante, Bengiamino Lorenzetti commentò con l’ennesimo sospiro, chiudendo gli occhi come per sforzarsi di mantenere la calma.
La bolognese scambiò un sorrisetto teso con lui, prima di cercare con lo sguardo il ragazzo biondo che aveva tenuto testa a Spallaci precedentemente.
Si aspettò si vederlo sogghignare, ma così non fu; fissava l’araldo che pendeva sopra alla sua testa, appeso alla parete innanzi a lui. Con il volto serio, concentrato, sembrava immerso in chissà quale gravoso pensiero.
Viola si chiese se fosse il caso di andare a parlargli, ma una ragazzina più giovane di lei si aggrappò con sincero entusiasmo al suo braccio, trascinando con sue una mora dall’aria ispanica.
«Io sono Chiara!», disse semplicemente, con tono solare ed entusiasta.
Non mostrava più di quindici anni, tutti racchiusi in una graziosa pettinatura ornata da fiori e un sorriso più innocente di quello di un infante. Aveva i capelli biondi che le coronavano morbidamente il viso tondo e un paio di occhi scuri, per niente specchio di cattive intenzioni, che brillavano alla fioca luce delle candele.
«Lei è Maria», continuò, indicando con un gesto della mano la sua compagna, la quale salutò con un vago cenno del capo. «Ho pensato che, visto che siamo così poche, dovremmo essere amiche!» Sorrideva con sincerità, saltellando da un piede all’altro a causa dell’emozione. Anche lei, era ben lontana dall’arroganza di Spallaci. «Ho sentito che vieni da Bologna. È vero che ci sono solo torri, da voi?», commentò poi, avvicinandosi appena. «Come ti chiami?» Solo in un secondo momento, si accorse del suo bombardare Violante di domande e allora parve spegnersi, assumendo un’espressione mortificata. «Oh, mi dispiace», mormorò, chinando il capo. «Non volevo essere invadente!»
Violante, però, non parve per nulla turbata dalle tante domande di Chiara. Scrollò piano il capo, muovendo le lunghe onde morbide dei capelli color ebano, mentre rispondeva
«Io sono Violante e sì, vengo da Bologna. Effettivamente è una città conosciuta a causa delle molte torri, ma posso assicurarti che, se hai i denari necessari, è la cucina, la vera protagonista.»
Anche la rossa al suo fianco si presentò. «Io sono Paola Gregorio, del Regno di Napoli», annunciò senza troppa presunzione. «Tu da dove vieni, Chiara?»
«Firenze», rispose la ragazzina, dondolando appena il capo. «Dalla bottega di Mastro Filippi.»
Si voltò verso la sua amica mora, aspettandosi da parte sua un qualche tentativo di entrare nella conversazione, ma non venne accontentata.
Maria rimase impassibile, ferma a guardare la sala, quasi le ragazze dinanzi a lei non meritassero di essere calcolate.
Chiara sospirò, parlando per lei senza troppi problemi.
«E lei viene da Modena, anche se è a Roma da qualche anno», disse, allegra. Si voltò verso Violante, sbattendo le palpebre. «Tu e lei siete vicine di casa, in un certo senso!» Si guardò un po’ intorno, scattando all’ultimo per andare a catturare l’ultima ragazza in fondo alla sala, prendendola per il polso e trascinandola dalle altre. «E questa è Laura, di Milano!», trillò, battendo le mani con fare estasiato. «Ci siamo presentate stamattina.» Fece una pausa, passando il suo sguardo scuro su tutte le ragazze, esaminandole una ad una senza insistenza, sempre con il sorriso sulle labbra. «Sono sicura che diventeremo grandi amiche!», commentò, infine, senza cattiveria.
Sembrava davvero convinta che, in un ambiente come quello, potesse nascere qualcosa di anche lontanamente simile a un vero sentimento di simpatia.
Violante non era certa che quella fosse una vera e propria competizione, ma nell’aria c’era l’odore della sfida e, per quanto le potesse far piacere avere un paio di amiche in più, decise di asserire, più che altro per tenere buona Chiara.
Si concesse anche un sorriso incoraggiante, prima di andare a recuperare la sacca con dentro quelle poche cose che si era porta da casa.
Aveva già avuto il piacere di notare le prime teste calde e di certo non aveva voglia di inimicarsi né loro né nessun altro.



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Capitolo 3
*** Capitolo secondo ***


polverenera

Il destino di Qayin

Capitolo secondo






Una folata di vento improvvisa lo costrinse ad assottigliare gli occhi di acquamarina, mentre il cappuccio si spostava all’indietro.
Con una mano lo ricondusse sulla fronte, sistemando la punta perfettamente in linea con il naso, prima di portare il braccio piegato contro la facciata del palazzo per tenersi in equilibrio.
Bengiamino Lorenzetti era nato nella Milano sforzesca quasi due decadi prima e suo padre adorava ricordargli come fosse diventato bravo a scalare le facciate delle cattedrali prima ancora di iniziare a parlare per bene. Non era quindi un problema, per lui, rimanere in perfetto equilibrio su di una trave sospesa sopra le acquee turbolente del Tevere, con la sola luce della luna a indicargli la differenza tra un piolo a cui aggrapparsi e una caduta rovinosa.
Si sporse appena in avanti, allungando il collo per poter spiare la finestra davanti a lui.
Istintivamente, si strinse nell’armatura blu notte e nel mantello scuro, timoroso di farsi vedere.
Se le ragazze si fossero affacciate e l’avessero colto lì a spiarle, avrebbe di certo fatto una figura peregrina.
Sicuramente non era lì per fini licenziosi, visto che nell’esatto istante in cui le giovani avevano preso a spogliarsi al fine di cambiarsi per la notte, lui aveva dato le spalle alla finestra come la più pudica delle vergini.
Piuttosto, pareva alquanto interessato ad una di loro.
Di lei sapeva poco o nulla, solamente il nome e dove ella fosse nata.
Chiara, da Firenze.
Così aveva detto a Laura, sua sorella minore, quando si era avvicinata a loro all’arrivo all’Isola Tiberina e si era presentata tutta raggiante, avvolta da un mantello dei colori del bosco che la faceva sembrare più una pastorella sperduta che un’Assassina.
Bengiamino aveva sentito un richiamo verso di lei, ma, essendo quasi del tutto impossibilitato a parlarle senza passare da idiota o inetto, aveva deciso di osservarla un poco prima di coricarsi, con discrezione.
Chiara era bella, elegante e fine.
In mezzo a tutte le altre si distingueva, un po’ perché pareva davvero fuori posto e un po’ perché era così giovane e fragile da sembrare, agli occhi di Bengiamino, un fiore delicato.
La guardò stendersi nella branda più vicina alla finestra e volgere gli occhi già assonnati alla luna, prima di sbadigliare a causa della stanchezza.
Lui si schiacciò di più contro la facciata del palazzo, ma lei non lo notò. Chiuse gli occhi e cadde addormentata, lasciando alla ragazza dai corti capelli neri l’onere di spegnere la luce.
Bengiamino si concesse un sorrisino intenerito, quando la vide nascondere il naso sottile sotto al tessuto ruvido del lenzuolo di flanella.
«Nemmeno io sono mai stato in grado di resistere al fascino femminile.»
Quando una voce maschile e profonda arrivò alle sue orecchie, per poco Bengiamino non perse l’equilibrio, riuscendo all'ultimo a recuperare addossandosi quasi del tutto alla parete.
Si voltò di scatto trovando, comodamente seduto sulla trave dietro alla sua, Ezio Auditore. Sentì il volto andargli in fiamme, mentre il Mentore scoppiava a ridere seriamente divertito.
«Coraggio, Lorenzetti, siamo stati tutti dei giovinastri! So bene cosa possono fare due bei seni alla testa di un uomo! O preferisci forse due occhi?»
«Io … Io …»
Nemmeno con l’aiuto di un maestro di dialettica sarebbe riuscito a dire nulla.
Bengiamino deglutì una, due, dieci vote, riprovando senza successo a scusarsi per quel comportamento poco consono.
«Io …»
Ezio mosse una mano nell’aria, come per scacciare un pensiero tedioso.
«Nessun problema, mio buon amico, cerca solo di non perdere di vista l’obiettivo: sei qui prima per allenarti, poi per divertirti.»
Lo guardò sempre più divertito mentre il giovane si impanicava fino all’inverosimile, poi cacciò una così risata fragorosa che Lorenzetti pensò avrebbe svegliato l’intera città.
«Va' a dormire, birbante! E attento al polso, domani potrebbe servirti!»
Dopo quelle insinuazioni, l’uomo si alzò sulla trave con un’eleganza e una sicurezza tale che parve essersi levato in piedi su un campo di margherite, più che su una sottile striscia di legno sospesa sul Tevere. Non attese una buona notte, semplicemente fece un piccolo salto, afferrandosi ad un piolo sopra alla sua testa e poi al cornicione del palazzo, per rientrare dalla porta principale, sul tetto.
Lorenzetti non attese oltre.
Saltò sulla trave dove prima sostava il Mentore e poi, dandosi uno slancio deciso, si appoggiò con la mano all’angolo della palazzina strisciando sull’altro lato.
Si infilò nella stanza dei suoi compagni con troppa foga, atterrando a qualche metro dalla finestra con una capriola.
Dritto davanti agli stivali lucidi di Machiavelli.
L’Assassino lo guardò con un sopracciglio inarcato, prima di prendere un pennino imbevuto di inchiostro.
«Nome, prego.»
«Bengiamino Lorenzetti da Milano.»
Il ragazzo lo guardò annotarsi qualcosa, ma non riuscì a leggere perché, una volta fatto, Machiavelli riportò al petto la pergamena agitata su di un’asse sottile. Poi si rivolse alle reclute, con voce tonante.
«Che non capiti più che qualcuno osi anche solo lamentarsi della sua permanenza qui», disse, riprendendo l’argomento che aveva accantonato prima e fulminando con lo sguardo Spallaci, che insieme ad altri due ragazzi lo fissava scontento dalle brande in un angolo. «Che siate di Roma o di Ostia, dovete rimanere qui e considerarvi dei privilegiati. Ora tutti nelle brande, candele spente tra cinque minuti. Domani dovrete levarvi al canto del gallo e iniziare a dimostrarmi che Ezio non ha avuto un’idea pessima nel selezionarvi».
Uscì chiudendo, con poca grazia, l’uscio dietro di sé.
Un sottile chiacchiericcio si diffuse nella stanza, ma tutti si apprestarono con evidente rispetto verso l’Assassino ad eseguire quell’ordine, nonostante sembrasse più una punizione ad un gruppo di bambini capricciosi che a degli allievi.
Bengiamino si accostò ad Alessandro Corella di Forlì, che aveva la fama di essere il fratello di Michelotto de Corella, il famoso sicario di Cesare Borgia. Michelotto aveva di fatto tradito l’Ordine e il più giovane si era offerto di servire Auditore per rimediare ad una tale vergogna per la sua famiglia.
Lui e Bengiamino avevano parlato, durante quel giorno, e ora si ritrovavano a dividere le brande, una sovrapposta all’altra.
Il milanese lanciò il mantello sul letto, prima di chinarsi a guardare l’amico già steso.
«Che è accaduto prima del mio ritorno?»
«Mentre prendevi una boccata d’aria, Spallaci ha fatto il diavolo a quattro», sussurrò, per non farsi sentire, il forlivese. «Ha minacciato di chiamare l’esercito privato degli Orsini, se non avesse avuto la licenza di tornare nel suo palazzo in Trastevere. Poi è arrivato il Signor Machiavelli che l’ha rimesso in riga e cito: ‘Se non ti attieni alle nostre regole, sarà mia premura annegarti nel fiume’. Dopotutto, non possono permettersi che qualcuno se ne vada in giro stizzito, facendo la spia sui piani dell’Ordine.»
«Che bambinesca ripicca», commentò semplicemente Bengiamino, appoggiando la blusa dell’armatura blu sul baule che aveva trovato ai lati del letto. Al suo interno aveva riposto le sue poche cose, ad eccezione di un sacchetto di velluto bruno che si trovava sotto al suo cuscino.
Con un salto deciso fece leva sulle braccia, salendo al suo posto e stendendosi sul materasso, sopra alle coperte, senza nemmeno sfilarsi gli stivalacci.
Se conosceva almeno in parte Ezio, soprattutto da ciò che gli era parso di capire dai racconti di suo padre, sarebbe anche stato in grado di farli alzare nel cuore della notte per affidare loro una missione.
Le candele si spensero una ad una e finalmente il silenzio tornò a regnare sovrano, ad eccezione di qualche sporadico colpo di tosse o di qualche ragazzo che sembrava incline al russare.
Dal suo letto accanto alla finestra, Bengiamino poteva sentire tutto e, soprattutto, vedere attorno a sé grazie alla luce della luna piena. Ciò lo rassicurò al punto tale da estrarre quel sacchettino di velluto e aprirlo.
Al suo interno trovò quattro pietre, di colori e consistenze diverse, donategli dalla madre per buon auspicio.
Sorrise, accarezzando uno ad uno quegli oggetti a lui tanto cari, prima di concentrarsi su un piccolo rotolo di pergamena.
Sii sempre integro moralmente e giudizioso, guardati dai malvagi e proteggi i puri d’animo. Fa' si che il nome dei Lorenzetti rimanga immacolato e controlla tua sorella. Papà
Passò un dito su quelle parole incise sulla pergamena, non riuscendo a non sorridere ancora di più.
Sarebbe stato falso, nel dire che casa non gli mancava.
Era preoccupato per le sorti di sua madre e dei suoi fratelli e sorelle minori da quando suo padre aveva definitivamente perso la vista, ma sentiva che, nonostante tutto, Roma era il suo posto.
Sistemò di nuovo tutto nel sacchetto, prima di poggiarlo sotto al cuscino, come se fosse il più caro dei suoi tesori. In parte lo era, dopotutto era la sola connessione che aveva con Milano.
Incrociando le mani sul petto decise che avrebbe dato tutto, più del suo massimo. Sarebbe diventato il migliore e avrebbe fatto di tutto per portare a casa ogni onore. Lo avrebbe ottenuto di certo, rispettando le parole di suo padre e rimanendo una persona onesta.
Chiuse gli occhi, concedendosi qualche ora di sonno, seppur tenendo ben aperte le orecchie.












Si svegliò con un lieve mal di stomaco, ben intontito dalla testa che prese a girargli nell’esatto istante in cui si azzardò ad aprire gli occhi.
Attorno a lui, oltre un mucchio di fieno e un giaciglio improvvisato da un vecchio lenzuolo sul pavimento, non c’era che odore di piscio e vomito.
Gli ci volle un istante per realizzare dove si trovasse, ma poi la consapevolezza prese il sopravvento così come i dolori di una caduta da tre metri d’altezza.
Era in trappola, gettato in chissà quale cella di chissà quale lugubre maniero, e per di più aveva il fondoschiena spaccato in due da un volo degno di un falco in picchiata.
Marcello sospirò, affondando il viso nei palmi delle mani sporche.
Da dove iniziare a piangersi addosso?
Si tirò in piedi, appoggiandosi alle sbarre della cella in cui era rinchiuso.
Quell’ambiente sapeva di chiuso. Di chiuso e anche di trasandato. Nemmeno le cantine della sua dimora a Venezia emanavano quell’odore di maniero diroccato e dimenticato da Dio.
Era una stanza tutto sommato piccola e senza finestre, illuminata da un piccolo lucernario situato dalla parte opposta rispetto alla cella, accanto a una vecchia scrivania di legno mangiata dai tarli.
In fondo, addossata a un muro di sassi, c’era una minuscola porticina.
Dovevano trovarsi in una torre, altro che cantina!
Questo rendeva più complicata una fuga, anche se Marcello aveva già scartato l’opzione di prendere una qualunque iniziativa per suo conto nel momento esatto in cui era precipitato dall’albero.
Dondolò appena il capo, accertandosi che si fosse fatto più leggero da quando si era svegliato. Forse i rami avevano attutito la caduta e non gli restava che un grande bernoccolo di cui occuparsi. Si augurò di non dover trovare qualche ferita più grave, sotto alla camicia.
Alzò gli occhi sul soffitto: un ammasso di assi di legno volte a sostenere qualche vecchia tegola che lasciava trasparire una porzione di cielo.
Altra nota negativa da aggiungere alla lista: in caso di pioggia, si sarebbe fatto un delizioso bagno al freddo.
Si ributtò sul pagliericcio, coprendosi gli occhi con le mani.
Suo padre sarebbe mai venuto a prenderlo? Ne dubitava molto.
Francesco Donà non era un uomo cattivo, ma non era neanche coraggioso, né particolarmente avventuroso. Ammesso che fosse ancora vivo, non avrebbe mai rischiato di compromettere l’incolumità di sua moglie e dei suoi altri figli per Marcello, che in teoria era grande abbastanza per cavarsela da solo.
In teoria, in pratica sapeva a stento maneggiare un coltello per sbucciarsi una mela.
Come avrebbe fatto a uscire vivo di lì?
Lì dove, poi.
Se il suo rapitore si era presentato con il suo vero nome, Ladispoli non era poi lontana da Roma ed era sul mare, come Venezia.
Venezia.
Sarebbe mai riuscito a vedere di nuovo la barche navigare il Gran Canale? E San Marco, avrebbe udito di nuovo i rintocchi delle sue campane?
Sospirò, decidendo di chiudere gli occhi e di concentrarsi sulla sua situazione.
Poteva, forse, trovare una via di fuga.
Mandare una lettera a suo fratello Andrea e costringerlo a scendere a Roma con qualche mercenario, per esempio. Suonava come un’idea brillante.
Certo, gli serviva un messo. E anche qualcuno, in quelle prigioni, abbastanza scemo da farsi corrompere con una promessa di pagamento visto che di denari non ne aveva neanche mezzo.
Sbuffò, buttandosi su un lato per provare a chiudere gli occhi e dormire un altro po’.
Quella era la sua prima notte a Roma e, impensabilmente, aveva già gli occhi lucidi dalla nostalgia di casa.



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Capitolo 4
*** Capitolo terzo ***


polverenera

Il destino di Qayin

Capitolo terzo




La sveglia arrivò presto, quella mattina, molto prima di qualunque canto del gallo a cui Machiavelli potesse aver mai fatto cenno.
Di fatti, quando Ezio Auditore li mandò a chiamare, il sole era ben lontano dal sorgere e l’aria fredda della notte si insinuava nella stanza con ben poca discrezione, passando attraverso i vecchi infissi di legno.
Augusto Spallaci arricciò il naso, crogiolandosi un poco nel sonno pesante in cui era caduto non appena le candele erano state smorzate. Durante la notte, si era svegliato un paio di volte a causa di qualche deficiente che russava come un orso in letargo. Deficiente che era stato naturalmente colpito da una raffica di quattro o cinque stivali e messo a tacere in maniera più o meno brusca.
Non aveva nessuna intenzione di alzarsi, Augusto, ma venne ugualmente scaraventato giù dal suo cumulo di lenzuola immacolate quando il suono di un vecchio campanaccio da mucche ruppe definitivamente il silenzio della stanza.
Il ragazzo aprì gli occhi di scatto, rovesciandosi pericolosamente verso il pavimento, e riuscì a riprendere l’equilibro sulla sua branda che ormai la fonte del rumore si era spostata dal suo giaciglio a quello di un altro paio di ragazzi.
Assottigliando lo sguardo impastato dal sonno, il ragazzo vide un Assassino vestito di ocra e marrone sgusciare tra uno zaino e l’altro, ben contento di essersi guadagnato il compito della sveglia.
E dire che non era neanche l’unico.
Dal corridoio, il vocione dell’uomo che qualcuno non tardò a identificare come Bartolomeo d’Alviano sbraitava ordini uno dopo l’altro, alternando le grida a delle fragorose risate che, parola di Augusto Spallaci, facevano letteralmente tremare i muri.
«Sveglia, sveglia!», urlava, mentre l’Assassino con il campanaccio ricominciava il suo giro. «Altrimenti Volpe finirà per farvi sanguinare le orecchie!»
E ancora, una chiassosa risata rimbombò nel corridoio.
Augusto rotolò sul fianco, scrollandosi di dosso le lenzuola immacolate che si era portato da casa per evitare di attaccarsi le pulci. Scese dal letto imprecando sottovoce, senza badare al ragazzo che dormiva nella branda sotto alla sua, e finendo per pestargli un piede. Aprì la bocca per insultarlo, ma questi sembrò troppo addormentato per dargli ascolto, allontanandosi con fare assopito verso la sua camicia appallottolata sul baule.
«Avete avuto il vostro riposo, è tempo di cominciare l’allenamento», tuonò all’improvviso la voce di Niccolò Machiavelli, il quale comparve sul ciglio della porta mentre, con lentezza, l’intera camera si destava. «Tutti pronti senza armatura e senza armi nel cortile, prima dell’alba. Avrete tempo di fare colazione dopo che vi avranno divisi nei vostri gruppi di appartenenza.»
Detto questo, senza sbilanciarsi in saluti o inutili auguri, l’Assassino girò sui tacchi e sparì nel buio del corridoio, seguito dalla Volpe e dal suo stramaledetto strumento infernale.
Mentalmente, Augusto si augurò che quella non fosse la norma, da quelle parti. Poteva anche sopportare una leva mattutina, ma una sveglia così chiassosa avrebbe fatto a brandelli la pazienza di chiunque.
Per un momento, nella stanza ci fu il silenzio, dopodiché brusii e commenti sommessi cominciarono a rendere quel brusco risveglio qualcosa di più reale, ricordando ad Augusto di essersi dovuto alzare nel bel mezzo della notte per andare a scoprire qualche inutile nome di qualche inutile compagno di squadra.
«Tu lo sapevi, che ci avrebbero divisi?», chiese un ragazzo, rivolto a Bengiamino Lorenzetti, già vestito e in piedi al centro della stanza con un’espressione stanca ma composta.
Il milanese scrollò le spalle.
«Di certo non si possono tenere d’occhio venticinque persone tutte assieme», rispose, dando un sospiro.
Non aggiunse altro.
Augusto sbuffò, sfilandosi la camicia da notte e rovistando tra il suo groviglio di coperte alla ricerca dei pantaloni. La sera prima non si era disturbato a mettere tutto in ordine nello zaino e ora tutti suoi averi erano intrappolati sotto quel cumulo di lenzuola che sua madre aveva insistito lui prendesse con sé.
Recuperati i calzoni e la camicia, decise che una giacca sarebbe stata superflua. Fuori cominciava a fare freddo, ma dopotutto stavano per allenarsi e di certo un ulteriore capo addosso lo avrebbe soltanto impacciato.
Guardò il suo bastone da passeggio, facendosi dubbioso.
Machiavelli aveva detto niente armi.
Per sicurezza, estrasse comunque un coltello dallo zaino e se lo legò alla cintura, nascondendolo sotto le pieghe della blusa.
Raggiunse i suoi due compagni dall’altra parte della camera, scrutandoli con attenzione.
Pio e Geranio erano di poco più giovani di lui, ma lo superavano comunque in altezza. Non erano particolarmente svegli, ma sapevano comunque distinguersi da quella marmaglia di ragazzine che Ezio Auditore aveva raccattato chissà dove.
Sistemandosi i bracciali di cuoio attorno agli avambracci, Augusto li salutò entrambi con un cenno del capo e si avviò verso il piazzale dove erano stati chiamati senza iniziare alcuna conversazione.
Non aveva alcuna voglia di perdersi a discorrere, non a quell’ora del mattino.
Arrivarono nel cortile in gruppo, tutti ammassati nel piccolo spazio che si apriva tra il ponte e la chiesa, in tempo per notare come tutte e cinque le ragazze si fossero già disposte in ordine davanti alla scalinata.
Augusto strinse i pugni, osservandole una a una. Di certo non avrebbe tollerato di essere messo in squadra con una di loro. Una donna lo avrebbe soltanto rallentato, non gli avrebbe permesso di brillare come invece avrebbe potuto fare se avesse lavorato da solo.
Non avevano l’aria eccessivamente stupida, comunque. Forse c’era una ragione, se Ezio Auditore le aveva volute lì.
Si costrinse a stare buono dietro ai suoi compagni, aspettando l’arrivo del Mentore.
Prima di iniziare a protestare su quelli che sarebbero stati i componenti della sua squadra, voleva almeno ascoltare cosa Ezio avesse da dire a riguardo.
Il lavoro, comunque, lo avrebbe svolto da solo. Non aveva intenzione di scendere a compromessi su quello.
Augusto Spallaci agiva da solo, che agli Assassini piacesse o meno.










Il Mentore non si fece vedere per quasi un’ora.
Il sole fece in tempo ad affacciarsi oltre le cime delle case e degli alberi, tingendo il cielo e il Tevere di un rosa pallido.
Al suo arrivo, tutti sospirarono sollevati, dai ragazzi che si erano messi a sedere scomposti sulle scalinate della chiesa, alle ragazze che si erano come richiuse su loro stesse per formare un piccolo gruppetto a parte.
«Che visi svegli», fu il primo commento ironico di Ezio, seppur non molto apprezzato. «Badate bene, vi capiterà spesso di interrompere il sonno nel cuore della notte per impugnare la spada con ancora gli occhi chiusi. Dovete farci l’abitudine, alla levataccia!»
Sorrise, prima di appoggiare le mani chiuse a pugno sui fianchi, passando in rassegna i suoi collaboratori.
«Vedo che avete già conosciuto Bartolomeo d’Alviano e il mio buon amico Gilberto, detto la Volpe. Spero che non siano stati eccessivamente bruschi nell’aiutare Machiavelli a destarvi.»
Dalla folla di ragazzi si levò un lieve brusio di confusione. Qualcuno ripeté confusamente il nome della Volpe, qualcuno parve illuminare i suoi compagni con una qualche spiegazione. Ci fu qualcuno, tra cui brillava Spallaci, che azzardò persino una lamentela soffusa a tutta quell’attesa.
In effetti ora, oltre che stanchi, i venticinque ragazzi radunati nel piazzale della chiesa erano anche infreddoliti e affamati.
Si erano già formati dei gruppi, tra i quali più distintivo era quello delle ragazze, strette tra di loro quasi ad evitare ogni contatto con i loro coetanei. Ad ogni modo difficilmente sarebbero rimaste così tanto attaccate alla loro esclusiva compagnia: le intenzioni del Mentore parevano andare a braccetto con l’idea di dividerle.
«Non voglio rubarvi ulteriore tempo, immagino che bramiate una tazza di latte appena munto tanto quanto me.»
Ezio sorrise, facendo un cenno al ragazzo dietro di lui di farsi avanti. Questi era alto, aveva le spalle larghe e il sorriso tranquillo e rassicurante.
Violante lo riconobbe come il giovane che l’aveva aiutata a trovare l’ingresso del Covo il giorno precedente.
«Lui è Ettore, per me è come un fratello e quindi, per voi, un secondo padre. Dovete sempre stare ad ascoltare ciò che vi dice e prenderà spesso le mie veci. Machiavelli, invece, che avete già avuto il piacere di conoscere, sarà colui che terrà monitorati i vostri cambiamenti e miglioramenti. Niccolò, ti prego, introduci gli obiettivi che i ragazzi dovranno superare.»
Il consigliere si fece avanti, brandendo la pergamena recante i nomi dei ragazzi come se fosse chissà quale bolla papale.
«Studierò ogni vostra mossa, ogni vostro respiro o parola. Dovrete raggiungere un livello che ora nemmeno potete immaginare nei vostri sogni più reconditi.»
Ezio lo interruppe, dando una piccola gomitata ad Ettore e scambiando con lui un sorrisetto furbo.
«So che hai diviso le squadre, perché non ci dici il criterio scelto?»
Machiavelli gonfiò il petto, fiero della sua opera certamente impeccabile.
«Ho cercato di studiarvi almeno in parte, ieri sera. A livello fisico e mentale, ho suddiviso in modo equo ogni squadra, così che vi sia parità. Starà a voi creare l’unità necessaria a portare a termine ogni missione al meglio.»
Fece una breve pausa, concedendosi un sospiro durante il quale scoccò un’occhiata carica di severità verso Spallaci.
«Prima che qualcuno me lo chieda, non sono concessi cambiamenti», disse, limpido. «Il mio giudizio, in questo caso e nei prossimi, è indiscutibile e definitivo.»
Infilò la mano sotto al mantello, estraendo, da una delle tasche, un foglio accuratamente piegato che venne aperto con esasperante lentezza, quasi contenesse la più grande verità del mondo.
I nomi della prima squadra vennero pronunciati rapidamente, senza particolari riguardi o commenti nei confronti dei componenti.
Machiavelli si tirò un po’ su, schiarendosi la voce, e li chiamò uno a uno, in ordine alfabetico, quasi senza respirare tra un nome e l’altro.
«Augusto Spallaci da Roma, Bengiamino e Laura Lorenzetti da Milano, Chiara Filippi da Firenze e Pierpaolo Maffei da Faenza.»
Attese che i cinque si staccassero dai loro gruppi e che si avvicinassero in prossimità della scalinata. Li squadrò per bene uno a uno, assicurandosi di non aver commesso errori nel riunirli, e li congedò con un cenno del capo.
Ezio colse quell’istante di distrazione per strappargli il foglio di mano, strappandone persino un angolo.
«Accelererei le cose, se per te va bene, Niccolò.»
L’uomo lo guardò con puro risentimento, ma non disse nulla.
Il Mentore lo prese come un fatto positivo, visto che sorrise leggendo la seconda squadra.
«Alessandro Corella il forlivese, Cristiano Pagni de’ la bella Ferrara, Paola Gregorio del Regno napoletano, Virgilio Trevisan della Serenissima Repubblica e Violante degli Antoni della città dalle alte torri!»
Viola sembrò ridestarsi in quel momento, avvicinandosi con passo spedito a Ezio insieme a Paola. Guardò i membri della sua squadra, ringraziando il cielo di non aver nessuna testa calda a cui badare.
Cristiano, privato dell’opprimente presenza di Spallaci, non pareva così male. Anzi, prima di dormire Paola aveva molto parlato della sua grande abilità da Assassino; era figlio di Eugenio Pagni, nome che alla bolognese non diceva nulla ma che, a sentire le altre ragazze, era molto noto all’Ordine.
I nomi delle altre tre squadre vennero elencati rapidamente, senza alcun particolare accento sui loro componenti.
Maria, che la sera prima avevano scoperto essere al Covo già da qualche anno, fu l’unica a venir sistemata in un gruppo senza un’altra compagnia femminile: le vennero affibbiati Cesco Ventimiglia, conte di chissà quale terra nei dintorni di Genova, Nicolino Cervi di Verona e due giovanissimi gemelli di Firenze con un cognome che Violante non riuscì a capire.
La cosa non si protrasse oltre e tutti vennero spediti senza troppi complimenti a fare colazione nella sala che la sera prima li aveva accolti.
Quella mattina, vi era stata sistemata una grande tavolata, parzialmente occupata da un gruppo di Assassini presi da un’accesa discussione circa la strada per Milano, e avvolta in un invitante odore di latte caldo.
Una donna che sul volto portava i segni di molti anni passati, versò loro del latte e, aiutata da una giovane che le rassomigliava molto, distribuì delle pagnotte di pane, raccolte in un canestro.
Appena Ezio le vide, si alzò, cingendole entrambe per i fianchi.
«Codeste meravigliose Madonne sono mia madre, Maria, e mia sorella minore, Claudia. Badate molto bene a come vi rivolgete a loro, sono assai geloso della mia famiglia, o di ciò che ne resta!»
«Quindi sarai geloso anche di questi ragazzi?», domandò la Volpe, affabile. «In cortile ti sei praticamente proclamato loro padre!»
«In vero, amico mio, già lo sono!»
La Volpe si limitò a sogghignare, ma il versetto soffuso che produsse venne del tutto coperto dalla fragorosa risata di Bartolomeo d’Alviano, appoggiato con la schiena contro il muro della sala.
Nessuno dei ragazzi rise. Erano tutti troppo stanchi o troppo confusi per permettersi il lusso di avere un po’ di umorismo, così si limitarono a prendere posto alla tavolata, ben rispettando i gruppi imposti da Machiavelli.
Con quella mossa, la compagnia delle ragazze venne definitivamente divisa.
Mentre Maria si allontanò dalla sua squadra per sedersi tra Ezio e la Volpe quasi fosse un'amica di vecchia data, Violante prese posto assieme a Paola di fronte ad Alessandro Corella e insieme attesero l’arrivo di Cristiano e dell’altro ragazzo, prima di cominciare a buttare nello stomaco quel poco che avevano per colazione.
Virgilio Trevisan era un ragazzetto piuttosto ben piazzato, alto quanto basta a un buon soldato per impugnare una lancia anche se non particolarmente forzuto. Ingurgitò il suo latte nel più completo silenzio, addentando anche una pagnotta calda, guardandosi bene attorno con quel paio di spilli verdi che si ritrovava al posto degli occhi.
Mentre Claudia passava con un piccolo pentolino pieno di miele, i ragazzi iniziarono a svegliarsi e il tono delle loro voci si alzò progressivamente.
Ezio, incoraggiato dai toni spigliati e gli occhi decisamente meno appannati, si alzò nuovamente, appoggiando una mano sulla spalla di Machiavelli che stava bevendo una strana tisana che faceva storcere il naso persino a lui.
Sospirando, riprese la parola.
«Il prima possibile, dovrete comunicare a Niccolò il nome di un caposquadra, così da poter identificare ciascun gruppo con un solo di voi. Ora, passiamo alla prima missione.»
Prese da sopra al tavolo un foglietto, leggendolo un istante a mente prima di sogghignare.
Ettore si portò una mano al viso, vergognandosi prima ancora che Ezio potesse fornire alcuna informazione.
«Entro sera, dovrete procurarvi tutti una pagnotta di pane a testa, della carne, qualsivoglia tubero o cereale. Ciò che poterete sarà la cena della squadra.»
Alessandro sbatté incredulo le palpebre e fu il primo a parlare.
«Dobbiamo … comprare la cena?»
Volpe scrollò il capo.
«Non vi verrà dato un ducato. Dovrete rubare senza farvi scoprire.»
«E se qualcuno viene preso, dovrete liberarlo», aggiunse Ezio, per poi concludere: «E il tutto senza toccare terra. Dovete raggiungere mercati e botteghe camminando per i tetti ed evitando gli arcieri. Per i romani sarà più semplice, mentre per chi viene da fuori una vera sfida: la prima cosa che un Assassino deve imparare è a sopravvivere in luoghi mai visti, in quanto viaggiare sarà vostra prerogativa, nella vita.»
Il brusio nella sala calò notevolmente, mentre le prime menti cominciavano già a ragionare e qualcuno si dichiarava a gran voce pronto alla sfida.
Come già Machiavelli aveva preannunciato, non vi era bisogno né di armature né tantomeno di spada o coltello. Le loro mani sarebbero dovute bastare, anche se non era ancora chiaro come.
Di certo vi era chi, come Violante, era abile nel borseggio, ma non era difficile notare come la maggior parte dei ragazzi provenisse da famiglie benestanti, che di certo non avevano avuto la necessità di insegnare ai loro figli come allungare le mani sugli averi del prossimo.
Ma se quello non era un gioco, citando ancora Machiavelli, non era certo problema degli Assassini provvedere ad ogni singolo bisogno dei loro nuovi adepti. Dopotutto erano lì per imparare e da qualche parte, sebbene un po’ più di delicatezza sarebbe stata gradita, bisognava pur cominciare.
Laura Lorenzetti si alzò in piedi, titubante, chiedendo così di poter parlare al Mentore.
Quando ricevette un cenno di assenso, domandò, con voce tremolante: «E nel caso in cui una squadra non riuscisse a trovare cibo a sufficienza per tutti?»
Ezio le sorrise, allegro.
«Bé, in quel caso dovete sperare nella benevolenza degli altri gruppi e nel loro desiderio di condivisione. In caso contrario, mancare un rancio non ha mai ucciso nessuno.»
Machiavelli si alzò in piedi a sua volta.
«Avete tempo fino al tramonto, in seguito dovrete tornare qui e portare alle cucine ciò che avete raccolto. Chi arriverà in ritardo non mangerà affatto.»
Ci fu un veloce scambio di sguardi tra i ragazzi, dopodiché tutti si chiusero nel loro gruppo alla ricerca della strategia vincente.
Sopra tutte, si levò la voce di Spallaci.
«Non vedo dove stia il problema!», tuonò, battendosi un pugno sul petto. «Un paio di mercanti debosciati, che vuoi che sia! Possiamo stenderli anche a mani nude!»
Bengiamino gli scoccò un’occhiata esasperata, ma non si scompose.
«Temo ti sia sfuggito un ‘senza farsi scoprire’», commentò Alessandro Corella.
A quel punto, la sala tacque.
Qualcuno soffocò una lieve risata, ma fu tutto.
Saggiamente, le reclute decisero di concentrarsi su quella che per loro era una ragione quasi vitale: procurarsi del cibo commestibile per non morire di fame con solo una mela e un pezzo di pane nello stomaco.
Paola si voltò con un sorriso verso Violante, portando una mano sul suo braccio.
«Abbiamo un gran vantaggio, visto che tra noi abbiamo la figlia di Enrico degli Antoni!»
Cristiano guardò la bolognese, stupito.
«Sei la figlia di Enrico?», chiese, alzando le sopracciglia. «Era un grande amico di mio padre.»
«E mio.»
Viola si voltò di scatto, trovando Volpe alle sue spalle che la guardava con un sorriso strano, carico di mistero e nostalgia.
«Era il mio braccio destro, un uomo d’onore. Ci manca, qui all’Ordine.»
La ragazza avrebbe voluto aggiungere che mancava anche a casa, anche a lei, ma le risate di scherno di Spallaci la distrassero.
Lo fulminò con lo sguardo.
«C’è qualcosa di divertente?», chiese, stringendo i pugni sotto alla tovaglia.
Non lo sopportava, avrebbe tanto voluto spaccargli quel muso strafottente.
Augusto Spallaci si alzò, quasi rispondendo meccanicamente a quella frecciatina, e buttò fuori la sua immancabile provocazione.
«Niente», sibilò, mostrando, con un sorriso, una fila di denti bianchissimi. «Ho soltanto capito che non sarò io a vincere la sfida, quest’oggi. Non ho speranze contro la figlia di un ladraccio come Enrico degli Antoni. Scommetto che il suo sporco sangue di tagliaborse ti scorre nelle vene!»
Si avvicinò un poco, accostandosi al tavolo per poi incrociare le braccia sul petto.
Negli occhi, gli brillava la fiamma della sfida.
Violante scattò sua volta in piedi, mentre Bartolomeo d’Alviano si avvicinò per minacciare Spallaci di chiudere la bocca. Volpe però glielo impedì, portando un braccio davanti al suo busto.
«Aspetta. Vediamo.»
La bolognese scacciò l’ira dagli occhi, assottigliando le labbra in un sorriso tirato.
«Detto da un individuo che si nasconde dietro al suo nome per far sputar sentenze su tutti, non mi tocca per nulla. La sola cosa che mi rende tanto felice è il pensiero che dimostrerete di certo quanto poco valete a fatti.»
Cristiano sorrise a sua volta, voltando il busto per guardare Augusto in viso.
«Mettiti avanti con le incombenze odierne, Spallaci, o stasera mangerai il tuo ego! Quanto meno, ti sfamerai.»
«Stanne fuori, Pagni», gli rispose Augusto. «La Ladra sa di certo difendersi molto meglio di quanto tu potresti fare.» Si leccò appena le labbra, piegandosi in avanti sulle ginocchia. «Di certo sarete voi a mostrarci il vostro grande talento, Madonna degli Antoni», continuò, schernendo la ragazza. «Non dubito che vostro padre vi abbia insegnato per bene dove mettere quelle graziosa manine.»
Il rumore della panca che stridette sul marmo della sala al suo spostarsi, mise fine a ogni ulteriore discussione.
Laura e Bengiamino si alzarono in contemporanea, camminando velocemente uno verso Augusto, l’altra verso Violante senza lasciare spazio ad alcun commento.
Bengiamino si piazzò per bene di fronte al ragazzo, posandogli una mano sulla spalla e guardandolo dall’alto della sua statura da colosso.
«Abbastanza, Spallaci», gli disse, pacato, senza accennare ad alcuna espressione.
Laura, invece, prese Violante per le spalle, trascinandola indietro di almeno due passi mentre le passava un braccio dietro la schiena.
«Non ascoltarlo», mormorò, lanciando ai ragazzi un’occhiata preoccupata. «Non tutti quelli che hanno una bocca sono dotati dell’intelligenza necessaria per farle pronunciare parole sensate.»
Violante doveva decidersi se seguire il suo buonsenso e dar retta a Laura, o accontentare la sua testa, nella quale cantilenava una lenta litania che per ritornello le proponeva: ‘spaccagli la panca in testa, spaccagli la panca in testa’.
Alla fine, il buon senso vinse.
Scrollò le spalle, guardando uno ad uno i suoi compagni di squadra. Dovevano organizzare al meglio la giornata, magari dividendosi in un paio di gruppetti per fare prima e trovare tutto il necessario. Dopotutto, fra loro non vi era nessun romano.
«Sarà meglio andare, il tanfo del respiro di Spallaci mi sta facendo passare la voglia di saltare da un tetto all’altro.»
Alessandro Corella si alzò a sua volta, raggiungendo le due ragazze mentre Cristiano e Virgilio si attardavano attorno ad Augusto, come se attendessero una mossa falsa per attaccar briga.
Viola ringraziò Laura con un sorriso sincero, prima di seguire il forlivese e Paola fuori dalla stanza, fino all’ingresso sul tetto.
Laura si fiondò verso il fratello, raggiungendolo appena in tempo per caricare Spallaci con un’ulteriore occhiata fiammeggiate d’astio.
«Avanti!», esclamò, cacciando via Cristiano e Virgilio con un gesto veloce della mano. «Fate i cavalieri e aiutate Violante! Qui ce la sbrighiamo da soli!»
Volse uno sguardo carico di sicurezza a Bengiamino, prima di tornare a fissare Spallaci.
«Spero tu voglia almeno chiederle scusa!», obiettò, portandosi le mani ai fianchi con tono severo.
Lui la guardò di sottecchi, tirando su col naso un paio di volte prima di ficcare le mani in tasca per avviarsi verso l’uscita.
«Non fare tanto la matrona, Lorenzetti numero due», disse, camminando da solo.
Dietro di lui, si avviarono piano Chiara e Pierpaolo, lasciandosi alle spalle i due fratelli milanesi. Non sembravano molto convinti della scelta del loro capo, ma, evidentemente, avevano optato per la via che avrebbe causato meno litigi.


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Capitolo 5
*** Capitolo quarto ***


polverenera

Il destino di Qayin

Capitolo quarto




Guardando il suo riflesso in una pozzanghera, Chiara sospirò, soffiando una ciocca di capelli color della paglia lontana dal viso.
Si strinse a quelle quattro mele che era riuscita a rubare con l’aiuto di Laura, e si lasciò scappare un grande sospiro di autocommiserazione.
Di quel passo, non sarebbero riusciti a mettere da parte neanche un pezzo di pane.
Avevano trascorso la mattina ad osservare il mercato dall’alto dei tetti, a valutare quale banco fosse più facile da borseggiare, a preparare con cura un piano d’azione. Purtroppo, però, eccezione fatta per Laura e Bengiamino, che saltavano da un mattone all’altro con la stessa agilità di un camoscio, nessuno, nel gruppo, era in grado di muoversi abbastanza rapidamente da non farsi notare.
Sembrava tutto così facile, al Covo, e invece quella si era rivelata essere una vera e propria sfida contro i loro stomaci, che ormai cominciavano a protestare.
Afflitta, lanciò un’occhiata carica di disperazione a Laura, la quale camminava alla sua destra, ben attenta a ciò che la circondava.
«Credi riusciremo a mangiare qualcosa, questa sera?», le chiese, sottovoce, sperando con tutto il cuore di non essere udita dai tre ragazzi che aprivano la fila.
Laura le rispose con un gran sorriso carico d’incoraggiamento.
«Ne sono certa», rispose, ottimista. «Roma è grande. Ci sarà qualcosa da mangiare anche per noi.»
Si sporse un poco in avanti, balzando verso Bengiamino per afferrargli una spalla.
Per nulla sorpreso da quel contatto, il ragazzo le passò una mano attorno alla schiena, cingendole i fianchi mentre lei gli indicava un panettiere intento a sistemare la sua merce a pochi passi da loro.
Chiara distolse lo sguardo.
Non le dava fastidio, tutta quella confidenza che Laura si prendeva con lui, in fondo li aveva appena conosciuti entrambi, ciò nonostante la metteva non poco a disagio. Dopotutto, anche lei desiderava potersi prendere certe libertà con i suoi compagni, ma sapeva di essere troppo introversa per permettersi certe effusioni.
Abbassò il capo, quindi, e si sciolse nell’ennesimo sospiro.
«Bengiamino!», sentì dire a Laura, poco più avanti di lei. «Voi il pane, noi quelle patate. Ci ritroviamo sul tetto di quella chiesa a lavoro finito.»
Chiara si sforzò di tornare a guardare i suoi compagni.
Per un istante, si perse sul volto del milanese, serioso, come al solito, nei suoi vestiti scuri.
Spallaci parve non dar loro la minima importanza, troppo impegnato a riflettere su come rubare un grosso coniglio, già spellato e appeso a testa in giù in una bancarella.
«Quello pare perfetto», sussurrò, più a sé stesso che al resto della squadra. «Sapete che arrosto agli odori verrebbe fuori? Una leccornia che tutti ci invidierebbero.»
Bengiamino scambiò uno sguardo con Maffei, prima di schiarirsi la voce.
«Non credo che lo scopo sia quello di far vedere che abbiamo un palato raffinato, da ambasciatore o re, ma di dimostrare che siano in grado di sopravvivere.»
«Senza contare», aggiunse Maffei. «Che è il banco è troppo vicino a quel fabbro e ci sono tre templari che stanno mercanteggiando per un paio di spade di buona fattura.»
Come se avessero parlato all’aria, Spallaci li ignorò, avvicinandosi tutto impettito alla bancarella senza dare il minimo peso, né al mercante, né alle guardie.
Chiara non ebbe il tempo di protestare, che Laura la tirò per il cappuccio del mantello fino in mezzo alla piazza.
Non capì bene cosa accadde ma, quando riuscì a mettere a fuoco la vista, si ritrovò con la faccia piantata sulla cotta di ferro di uno dei templari.
Si scostò appena in tempo per sentirsi agguantata mentre, con la coda dell’occhio, scorgeva Maffei e Spallaci sgattaiolare accanto al tanto ambito coniglio con tutta l’intenzione di appropriarsene.
«Sta’ lontana da mio marito!», l’aggredì all’improvviso la voce di Laura, alle sue spalle.
Il templare che ancora le teneva sollevata da terra la scosse un poco, buttandola a terra in malo modo e facendola ruzzolare fino ai piedi di Bengiamino.
«C’è qualche problema?», chiese, avvicinandosi di un passo.
Laura, avvinghiata al braccio di Bengiamino, fece scioccare la lingua.
«Questa puttana ci sta importunando», dichiarò, senza togliere dalla sua voce una punta di acidità.
Chiara sbatté più volte le palpebre, guardando prima Laura, poi Bengiamino, infine il piccolo gruppo di guardie che si era avvicinato con fare minaccioso.
In un primo momento, gli occhi le si riempirono di lacrime e un senso di tradimento la pervase, poi capì. La sua amica era riuscita a trovare una maniera poco discreta per togliere l’attenzione dal banco della carne, attirando, tra l’altro una discreta folla.
Dolorante per la caduta, Chiara si alzò, allora, lisciandosi le pieghe dell’abito.
«Le mie scuse, Madonna», cinguettò, inchinandosi appena. «Non avevo capito che vostro marito fosse accompagnato.»
Si pettinò un poco i capelli, cominciando a camminare nella direzione opposta e lanciando un occhio verso il punto in cui Spallaci aveva avvistato la sua preda.
Ora, sul banco della carne, non c’erano né lui né il coniglio.
Sorrise, tirandosi il cappuccio sul capo e confondendosi tra la folla.
In lontananza, udì la risata cristallina di Laura, accompagnata da un commento delle guardie.
 «Così giovane e già si ritrova a fare quel mestiere. Buon proseguo, signori!»
Forse, alla fine, erano riusciti a scamparla.
Sorridendo, raggiunse Spallaci e Maffei sulla cima di un palazzo, abbracciandoli entrambi quando questi le mostrarono la loro preda con fare soddisfatto.
Quella sera non avrebbero di certo dato prova delle loro grandi abilità culinarie ma, se non altro, ora avevano qualcosa da mettere sotto ai denti.
Come chiamato dal cielo, Alessandro Corella si affacciò dal palazzo accanto, scambiando uno sguardo con Chiara per poi salutarla. Fece un salto elegante, atterrando con una piccola capriola in avanti e alzandosi subito in piedi, scrollandosi i vestiti di buona fattura mentre si faceva vicino.
«Ben trovati, amici miei!»
Spallaci gli rise in faccia.
«Se sei qui per rubarci questo bel coniglio, allora ti conviene tornare da dove sei venuto, Corella! Sono pronto a difenderlo con la vita.»
Senza attendere oltre, il ragazzo della squadra avversaria scoppio a ridere.
«Oh, no, non credo ne avremo bisogno.»
Portando due dita alla bocca e fischiò, riempiendo i polmoni.
Da dietro un comignolo del tetto vicino, apparvero Cristiano e Virgilio, entrambi con due grandi sacchi di iuta sulla schiena. Sembravano belli pieni. Con loro c’era anche Paola, che ridacchiava solare, felice per la buona riuscita della giornata. Violante invece arrivò da un altro tetto ancora, muovendosi da un pergolato all’altro quasi come una fata, toccando a malapena la superficie. In mano, aveva tre polli spellati e dall’aria pasciuta.
Alessandro sorrise contento ad un Augusto spaesato, mostrandogli anche i denti.
«Magari siete voi ad aver bisogno di qualcosa …»
Bengiamino e Laura giunsero proprio in quel momento, entrambi con una goccia di sudore a rigare le loro fronti, ma tutto sommato soddisfatti della tragedia appena scampata.
Chiara li guardò a lungo, senza mascherare una certa preoccupazione. Sperava che non si fossero fatti male, che le guardie non si fossero fatte sospettose, alla fine, che non fossero stati scoperti …
La voce dura di Bengiamino le tolse ogni dubbio.
«Non ti ci mettere anche tu, Alessandro», borbottò il milanese, soffocando uno sbadiglio. «Lo sai che Spallaci reagisce male, smettila di provocarlo.»
All’erta nel sentire il suo nome, Augusto Spallaci scattò come una molla.
«Non reagisco male proprio per niente, Lorenzetti!», ruggì, mostrandogli un pugno. «Tieni a freno la lingua!»
Bengiamino sospirò, alzando gli occhi al cielo.
«Appunto».
Cristiano li raggiunse in quel momento, lasciando i sacchi a Virgilio e a Paola che invece avevano deciso di spostarsi sul tetto accanto, più piano. Rise, guardando divertito Lorenzetti.
«Che il cielo non me ne voglia, ma pari la copia sputata di Machiavelli! Rilassati, qui non c’è nulla di cui preoccuparsi!»
«Nulla, eccetto la calura che farà marcire la mezza mucca che tu e Trevisan avete voluto rubare al mattatoio ad ogni costo!»
Violante gli passò i polli, prima di pulirsi le mani nella casacca marrone. Si voltò quindi verso Chiara.
«Voi, come procede? »
Grata di poter finalmente contare su un’ulteriore presenza amica, Chiara mosse un passo verso Violante, sorridendo per prepararsi a rispondere.
«Noi …», incominciò, ma non poté finire, poiché la figura scura di Bengiamino le sfrecciò sotto al naso a una velocità tale che persino l’aria non fece in tempo a muoversi.
In un istante, il milanese fu addosso a Cristiano, buttandolo a terra e sovrastandolo con un piede sulla sua gola.
«Adesso basta», sibilò, parendo quasi adirato. «Non possiamo continuare a darci contro in questo modo; siamo fratelli. Il prossimo che lancia una provocazione, finisce nel Tevere.»
Peccato che Spallaci avesse del tutto frainteso quella presa di posizione, traducendola, nella sua testa, come un invito all’attacco.
Con un grido, si buttò su Corella, colpendolo con un pugno sul mento, seguito da Maffei che corse verso Violante, pronto alla battaglia.
La bolognese si spostò di un paio di centimetri, chinandosi appena e scartando Pierpaolo, che scivolò cadendo in covone di paglia sotto al palazzo. In un paio di balzi arrivò fino a Chiara, portandole un braccio attorno al collo e il pugnale vicino all’occhio.
«Scusa», sussurrò dispiaciuta, prima di attirare l’attenzione di Bengiamino.
«Lascia andare Cristiano! Immediatamente.»
Il biondo sogghignò appena, guardando prima la punta dello stivale di Lorenzetti, poi il suo viso.
Corella, accarezzandosi la mascella, sbuffò: «Branco di fessi.»
La presa di Viola si fece forte su Chiara.
«Ho detto di lasciarlo andare», ribadì, dandole uno strattone quando lei tentò di liberarsi con una gomitata. «Non lo ripeterò nuovamente. Una gola per una gola».
Chiara piagnucolò, attaccandosi al braccio di Violante.
«Non ho fatto niente!», protestò, mentre gli occhi le si riempivano per la seconda volta di lacrime. Decisamente, aveva passato giornate migliori. E lei che pensava di aver trovato qualche amico!
Si sporse quel poco che la stretta di Violante le permetteva, allungando il braccio verso i suoi compagni.
«Bengiamino!», chiamò, ma la voce le morì in gola.
Stava per scoppiare a piangere, quando Laura si mise in mezzo ai litiganti, alzando le braccia in segno di resa.
«Calmatevi!», esclamò. «Siamo tutti tesi, ma il Mentore non vuole che questa sia una sfida. Vuole che collaboriamo, non che ci prendiamo a pugni sui tetti!»
Si voltò verso Corella, alla ricerca di approvazione.
Lui la liquidò con un cenno del capo, accettando di buon grado l’aiuto che Paola gli prestò per alzarsi.
«Bengiamino, lascia andare Cristiano», disse allora Laura, accennando un sorriso nervoso. «E Violante, lascia Chiara.»
Chiara sentì la presa sul suo collo ammorbidirsi appena, prima che Spallaci emettesse un urlo che suonò più acuto del grido di un’aquila.
Spiazzati, i ragazzi lo videro balzare addosso a Cristiano e piazzargli un pugno in faccia, mentre Bengiamino, allarmato, indietreggiava.
«Prendi questo, bastardo!», urlava il romano.
Violante, che pareva non essersi accorta dell’abbraccio forte che Chiara le stava dando, la scostò da sé con gentilezza, prima di dirigersi a passo di marcia verso Augusto.
«Recuperiamo le cose, dobbiamo andarcene.», sussurrò nel frattempo Alessandro a Paola, i quali annuirono rapidamente, balzando sul tetto dove avevano lasciato le provviste.
Si metteva davvero male.
Ancora di spalle, chino a beffeggiare Cristiano, Spallaci non si accorse dell’arrivo della mora.
Laura portò le mani alla bocca, fremendo di aspettativa.
Quando arrivò alle spalle del ragazzo, la bolognese lo afferrò con entrambe le mani per le spalle.
«Rinfrescati le idee, Spallaci!», gridò, prima di far forza e spingere di lato il giovane.
Colto alla sprovvista, Augusto seguì la linea in cui lei lo stava spostando, arrancando due passi storti prima di volare – insieme al coniglio- dentro al Tevere.
Viola porse la mano a Cristiano che la afferrò, sporgendosi poi con lei ad osservare la scena.
«Potevo arrangiarmi», disse con tono basso, portando via il sangue dal naso.
«Lo so che potevi», rispose Viola, guardandolo divertita.
«Ragazzi! Dai andiamo via!» Corella prese a chiamarli a gran voce, mentre Paola e Trevisan già erano spariti con i due sacchi pieni di refurtiva. «Prima che quello stronzo riemerga!»
Chiara rimase in piedi a guardare il gruppo allontanarsi, incerta se abbandonarsi definitivamente al pianto oppure darsi un minimo di contegno.
Scelse di agire per il meglio e ricacciò indietro le lacrime, raggiungendo a saltelli il resto della sua compagnia.
Bengiamino era impalato dove Spallaci lo aveva spinto, con lo sguardo color del mare perso nel vuoto e la bocca ancora aperta dallo stupore. Aveva le mani aperte lungo i fianchi e fremeva leggermente, spiazzato dall’azione di poco prima.
Laura gli si avvicinò con cautela.
«Coraggio», esordì, passandogli il braccio attorno alle spalle. «Il coniglio è andato, ma almeno Spallaci bisogna recuperarlo.»
Bengiamino si risvegliò con lentezza, raggiungendo il bordo del tetto per poi accomodarsi con le gambe a penzoloni nel vuoto. Fece segno ai suoi compagni di avvicinarsi.
«No», disse, soffocando a stento una risatina isterica. «Aspettiamolo qui. Sono certo che saprà cavarsela.»
A quella magra ripicca, Chiara non poté che ridere di gusto.










«Tienigli indietro la testa, forza.»
Maria spalancò la porta del Covo con un calcio, sentendo un paio di gocce di sudore scenderle lungo tutta la schiena.
Trasportare una persona, un peso quasi morto, lungo tutta la facciata di un palazzo con solo l’aiuto di Prosperi l’aveva sfiancata.
Il ragazzo fece quello che lei aveva detto, portando la mano libera sulla fronte del Conte Cesco Ventimiglia e spingendola indietro. Gli altri due membri della squadra corsero immediatamente in cerca di un medico o di Claudia Auditore, lasciandola Maria sola con Nicolino a sistemare l’infortunato su un divanetto.
A quanto pareva, il Conte non era un gran che a calcolare le distanze tra un palazzo e l’altro. In un salto alquanto azzardato aveva mancato il bordo del tetto ed era scivolato su una tegola instabile, sbattendo il viso contro un comignolo.
Inutile dire che aveva perso più sangue dal naso di quanto Maria potesse aspettarsi e ciò lo aveva atterrato definitivamente.
Braccia conserte sul petto, respiro pesante, la donna fece due rapidi giri della sala, calciando una panca su cui un paio di Assassini sonnecchiavano. Sbuffando indispettita, li guardò allontanarsi con la coda tra le gambe.
«Auditore, scendi e vieni a vedere cosa combinano i tuoi deficienti!», urlò, battendo i piedi a terra. Scrocchiò le dita serrate a pugno, salendo in piedi sul tavolo. «Allora?!»
Stava per gridare di nuovo, quando una porta al piano superiore si chiuse con un tonfo.
Tirando su col naso, Maria restò in attesa.
Passi pesanti scesero le scale, passi che a tutti potevano appartenere fuorché al Mentore dell’Ordine.
Difatti, quando la figura arrivò a palesarsi, nessuno si stupì di veder arrivare Niccolò Machiavelli, impettito in un mantello scuro e con un’espressione del tutto soddisfatta stampata sul viso.
«Io l’avevo detto, che avreste portato soltanto scocciature», commentò, superando Maria con una serie di ampie falcate. «Che diavolo avete combinato?»
«Te lo spiego io, Niccolò», sbottò imbufalita la modenese, seguendolo e ammirando come Prosperi stesse cercando, con scarsi risultati, di levare il sangue dal mento di Ventimiglia. «Non sanno nemmeno tenere il passo per i tetti! La prima cosa che ogni buon Assassino impara a fare in vita! Non dovremmo nemmeno insegnarlo!»
«Certo, questa è la sopravvivenza», sottolineò accondiscendente il consigliere, inclinando il capo per osservare meglio il viso del Conte. «Secondo voi è vivo?»
«Purtroppo si!», battendo un piede sul tavolo, Maria tornò verso le scale. «Ezio! Dannazione, vieni a vedere!»
«Andiamo, mia cara, calmati!»
Le mani del Mentore le cinsero le spalle solo per un istante, allontanandosi veloci prima che lei potesse anche solo pensare di voltarsi con il pugno pronto per colpire.
Balzando con grazia verso quello che pareva essere il capezzale del povero Conte Ventimiglia, Ezio Auditore si chinò appena sul malcapitato, esaminandolo con sguardo preoccupato ma non esageratamente angosciato.
«Non è così grave», considerò, infine, battendo la mano sulla spalla di Machiavelli. «Sono sopravvissuto a cose peggiori. Portatelo da un dottore e vedrete che si riprenderà.»
Fece per allontanarsi, ma Maria lo bloccò balzando giù dal tavolo e atterrandogli dinanzi.
«Cosa diavolo vuol dire, “si riprenderà”?!», ruggì, puntandogli il dito contro. «Avevi detto, anzi, avevi promesso, un gruppo di reclute quantomeno capaci di impugnare una spada, non un branco di inetti che non sanno neanche camminare con le proprie gambe!»
«Ti ho affidato al gruppo meno ... maturo», disse cauto il Mentore, tenendo le mani in avanti some se si aspettasse di vedere Maria saltargli alla gola. «Tu, dopotutto, hai più esperienza rispetto a loro; conto sulle tue grandi abilità per addestrarli.»
Si portò dalla parte opposta del tavolo, facendo per uscire dalla stanza, ma le parole di Machiavelli lo inchiodarono lì dove stava.
«Sapevo che questa idea ballerina ti si sarebbe ritorta contro, e questo è solo l’inizio.» Con un gesto ampio della mano, Niccolò indicò il malcapitato ferito. «Lui è solo il primo a finire disteso, chissà cos’altro potrebbe capitare.»
«Dopotutto noi facciamo un lavoro senza rischi, vero Niccolò?», ironizzò Ezio, appoggiandosi con le schiena al muro e incrociando le braccia sul petto. Evidentemente stufo di tutte quelle lamentele, decise di tagliare una volta per tutta il discorso. «Non siamo panettieri, il solo rischio che corriamo non è bruciarci con un forno. Noi siamo Assassini, per definizione facciamo un lavoro pericoloso. Più feriti ci sono ora, meno ce ne saranno quando arriverà il momento.»
Sbottando, Maria raccolse a sé tutta la bontà di cui disponeva per evitare di saltargli al collo.
Si conoscevano da anni, avevano lavorato tante volte schiena contro schiena e, quando lui l’aveva chiamata a Roma, si era precipitata laggiù senza ripensamenti, eppure … eppure a volte lo avrebbe volentieri consegnato personalmente a Cesare Borgia e sarebbe stata a guardare ogni singola tortura infertagli.
Volpe le aveva detto più di una volta che era peculiarità degli Auditore, quella di essere più cocciuti di un mulo, ma Maria aveva accoppato asini per molto meno e star dietro a Ezio richiedeva talvolta una dose di pazienza di cui, a parer suo, neanche un Santo avrebbe potuto disporre.
Guardò per terra, seccata, e si impose con ferrea disciplina di tenere le mani a posto.
«Credi davvero che gli altri torneranno con qualcosa di più sostanzioso di una misera pagnotta rubata a qualche massaia?», chiese. «Faranno tutti la fame, stasera. E domani. E dopodomani. La faranno fino a che tu non capirai che un minimo di  selezione sarebbe stata gradita, quando hai scelto di arruolare l’imbecille che ha sbattuto su un camino e il grassone che è andato a cercare il dottore!»
E sì, si era volontariamente tirata fuori da quella prospettiva di digiuno forzato perché non aveva assolutamente intenzione di rimetterci la cena.
Il viso del Mentore si fece più duro, mentre staccava le scapole dalla parete.
«Attenta a come parli, Ferrari. Hai forse dimenticato cosa siamo?» Voltò il capo verso uno dei tanti stendardi appesi alle pareti, guardandolo per un istante prima di riportare gli occhi sulla donna. «Noi siamo un Ordine. Siamo una famiglia. Se hai solo da parlar male di coloro che ne fanno parte, sta bene. Ma ti invito a prender le tue cose e tornartene a Modena. Non ho bisogno di questa negatività, qui.»
Anche volendo, Maria non avrebbe avuto la possibilità di ribattere, poiché gran baccano arrivò dall’esterno.
Il primo ad entrare fu Corella, rischiando di inciampare in un gradino, tanto grande era il sacco che teneva tra le braccia.
Di seguito, insieme ad un invitante odore di pane ancora caldo, entrarono Violante e Paola, anche loro piene di sacchetti e bisacce. Nemmeno Cristiano e Virgilio avevano le mani vuote.
Vedendoli tornare così, trionfanti e con tanto cibo quanto bastava per sfamare più o meno un trentina di persone, Ezio gonfiò il petto. Guardò prima Machiavelli e poi Maria con espressione piena di orgoglio mista a vittoria, per poi superarli con entusiasmo, battendo una mano sulla schiena di Corella sino a farlo sbilanciare.
«Questo è ciò che intendevo!» I suoi occhi si fermarono in quelli di Violante. «Ottimo lavoro.»
Maria incrociò nuovamente le braccia sul petto, roteando gli occhi a tutte quelle idolatrie che, per una volta, non erano rivolte a lei ma a qualcuno di nuovo nell’Ordine.
Sbuffò seccata, avviandosi verso le scale mentre evitava accuratamente di guardare negli occhi qualcuno dei presenti.
«D’accordo, Auditore. L’hai vinta tu!», gridò, indicando con un cenno del capo il Conte ancora disteso. «Occupatene tu, dell’imbecille. Io vado a farmi un bagno caldo e ad allenarmi, cosa che consiglio caldamente ai tuoi pupilli di fare, se non vogliono combattere i Borgia a suon di mortadelle.»
Lanciò una rapida occhiata al gruppo di Violante e piegò le labbra, irrigidendosi. Dire che non le piaceva come Ezio avesse notato la bolognese sopra tutti gli altri sarebbe stato un eufemismo.
«Buonanotte, Messer Auditore, e va’ al diavolo, quando hai tempo!»
Mentre si allontanava sulle scale, sentì Ezio fare il suo nome con qualcosa simile all’ira nella voce profonda, ma non vi badò.
Si fiondò nella sua stanza con tutta l’intenzione di evitare la sala comune fin quando tutto quel polverone non si fosse calmato.
Recuperò l’ascia e se la legò al fianco, prendendosi un momento per respirare a fondo e scacciare tutto il nervosismo di quella conversazione, dopodiché spalancò la finestra, balzò sull’asse sporgente che dava sul mucchio di fieno addossato al muro della chiesa, e saltò.
 



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Capitolo 6
*** Capitolo quinto ***


polverenera

Il destino di Qayin

Capitolo quinto




L’odore ricco del maiale in arrosto si diffuse per tutta la stanza, richiamando senza bisogno di parole tutti coloro che dimoravano al Covo attorno alla tavolata di legno.
Claudia prese il vassoio dalle mani di sua madre, mentre Spallaci si vantava di come fosse riuscito a rubare da solo quel maiale da dentro un piccolo recinto, a pochi metri dal Circo Massimo, riuscendo poi a portarlo vivo sino alla destinazione.
Bengiamino, che si era preso tre o quattro calci in faccia dalla povera bestia mentre aiutava il romano a trasportarla, storse appena la bocca, prendendo un sorso dal boccale davanti a lui.
Eccetto per quel suino e per qualche porro trovato dalla squadra di de Ferris, tutto il cibo presente sulla tavola l’avevano procurato Cristiano e i suoi.
Inutile dire che ne era avanzato parecchio.
Corella staccò un grosso pezzo di pane, prima di passare la pagnotta a Machiavelli, che guardò tutti con cipiglio severo.
«Questo non vuole comunque dire nulla», esordì, parlando con Bartolomeo d’Alviano. «Anche il più onesto degli uomini, quando ha fame, sa rubare. Non sono Assassini, non ancora per lo meno.»
D’Alviano si fece versare un po’ di vino da  Virgilio, dicendo poi al giovine di congratularsi con Violante per l’ottimo gusto mostrato quando aveva scelto quel particolare tipo.
«Parli troppo, Niccolò. Non vorrei ti scappasse il cibo che i tuoi adepti hanno procacciato dalla bocca.»
Maria, seduta tra Machiavelli e la Volpe, non poté fare a meno di buttare giù l’ennesimo bicchiere di vino. Nonostante tutto quello che si era scolata, però, non pareva affatto brilla.
«Parli troppo anche tu, Bartolomeo!», esclamò, strizzandogli l’occhio con fare beffardo. «Vorrei proprio vederli avere a che fare con gli eserciti che butti giù assieme a Bianca! Lì sì, che farebbero la fine del maiale che ci stiamo mangiando!»
Guardò Machiavelli e Machiavelli la guardò di rimando, annuendo vigorosamente.
«Precisamente», commentò, servendosi del vino.
Maria ridacchiò, sistemandosi una ciocca di capelli scurissimi dietro le orecchie. Lasciò che lo sguardo vagasse sulla sala, in attesa di veder sbucare il viso di Ezio da qualche parte.
Doveva veramente aspettarsi delle gran scuse da lui perché, quando il Mentore scese dalla scala principale con in mano nient’altro che un mazzolino di margherite, si impettì non poco, poggiando la mano sul braccio di Machiavelli con un sorriso vittorioso stampato in faccia.
Peccato che Ezio non si avvicinò nemmeno al suo solito posto, a capotavola. Si diresse invece quasi alla fine di essa e, con un sorriso rilassato ma deciso, batté un paio di volte sulla spalla di Augusto.
«Visto che il tuo maiale è la portata principale, per stasera ti cedo il mio posto a capotavola», disse, indicando la seduta.
Spallaci lo guardò senza comprendere, ancora preso dalla conversazione – dal litigio – con Violante e Cristiano.
«Non credo di capire, Mentore.»
«Suvvia, Spallaci, è una cosa così semplice che anche tu puoi recepirla!», buttò lì Auditore. «Devi solo alzarti e, mettendo un piede innanzi all’altro, sederti laggiù. Su, forza, ho fame.»
Di nuovo, Spallaci parve non capire. Si appellò con lo sguardo a Cristiano, per una volta più sbigottito di lui, e aprì la bocca per commentare ulteriormente.
«Avanti», ripeté la voce pacata del Mentore.
Stavolta fu obbligato ad alzarsi e ad allontanarsi, seppur di malavoglia, raggiungendo il posto di capotavola sotto lo sguardo stranito di chi doveva stargli vicino.
Guardò Machiavelli e la sua bocca storta in una smorfia carica di disappunto e alzò le spalle, prima di sedersi e riprendere a mangiare.
Ezio si accomodò sulla panca, sorridendo a Chiara che sedeva davanti a lui e a Maffei, prima di darle praticamente le spalle, girandosi del tutto verso Violante.
«Sei stata molto brava oggi, la migliore», disse, porgendole le margherite. «Meriti un premio, per tanta destrezza.»
Se nella sala era calato una sorta di silenzio stupito, la più sconvolta era senza ombra di dubbio la bolognese. Si pulì la mano in un tovagliolo per levare almeno in parte l’unto, prima di prendere quel mazzolino titubante.
«Grazie, Mentore.»
«Ezio, chiamami Ezio.»
Senza curarsi affatto degli sguardi di tutti e del fatto che quelle stoviglie le stesse usando fino a qualche istante prima Spallaci, Auditore prese a mangiare.
Lentamente, tutta la sala distolse l’attenzione da quella scena.
Quasi tutta.
Cristiano, allontanato dal suo posto da una serie di occhiate da parte di Ezio, raggiunse Spallaci a capotavola, cercando con un finto sorriso un’ulteriore panca dove continuare il suo pasto.
Si fermò a guardare Maria, la quale aveva praticamente impiantato la forchetta nel tavolo di legno e si stava alzando rumorosamente, facendo stridere la sedia sul pavimento di marmo.
«Vieni pure, Pagni», gli disse, quando percepì lo sguardo del biondo su di sé. «A me è passata la fame.»
Salutò in malo modo gli uomini con i quali stava consumando il maiale arrosto, dopodiché si allontanò rapidamente verso l’uscita principale, sbattendo con violenza la porta dietro di sé.
Cristiano restò per un istante a fissare la sala ammutolita da quell’ennesima scenata, incerto se accettare l’invito oppure andare a piazzarsi ben lontano da quel posto.
Fu la voce di Augusto, a riportarlo alla realtà.
«Che scena, eh?», rise divertito il romano, facendogli cenno di accomodarsi accanto a lui. «Mi hanno detto che ha fatto una sfuriata, ieri …»
Cristiano prese posto, salutando Volpe che sedeva alla sua sinistra con un gioviale sorriso e un cenno del capo.
«A quella donna servono uccelli, non maiale arrostito», disse, prendendone una porzione. «Troppo nervosa.»
«L’ho sempre creduto anche io», lo appoggiò Bartolomeo d’Alviano, mentre Machiavelli pareva chiedersi se fosse il caso di terminare il pasto nel suo studio.
Il biondo lanciò uno sguardo ad Ezio, che sembrava essersi lanciato fin troppo in un abbordaggio. A giudicare dagli occhi di Violante, sarebbe riuscito tranquillamente nel suo intento.
«Tutto ciò è ingiusto. Sfruttare la posizione per soffiarmi la donna sotto al naso è a dir poco abietto.»
Spallaci scoppiò a ridere, battendo il pugno sul tavolo e facendo traballare le stoviglie.
Di nuovo, Machiavelli parve considerare seriamente la possibilità di lasciare la sala e seguire Maria ovunque se ne fosse andata.
«Quanto sei divertente, Pagni!», gridò il romano, passandosi una mano nei capelli castani. Poi, abbassando un poco i toni: «Neanche per sbaglio quella inciamperebbe su di te e il tuo affare avvolto nei merletti!» Gonfiò il petto, mostrandosi tutto tronfio di chissà cosa. «Se il Mentore ha soffiato qualcosa a qualcuno, quello sono io!»
A quelle parole, Cristiano lo guardò stranito.
«Mi stai per caso dicendo che tu …» Più metabolizzava l’informazione, più essa lo divertiva. Trattenendo le risate, ma non un ghigno, proseguì. «Provi interesse per Viola? Andiamo, lei ti odia.» Si versò altro vino, afferrando più un pezzo di pane e sventolandolo sotto al naso di Spallaci, mentre lo indicava. «Ti dirò di più: tutti ti odiano!»
Spallaci rise a sua volta, alzando il bicchiere affinché Cristiano glielo riempisse con la caraffa di vino che aveva tra le mani fino a poco prima.
«Mio caro Pagni, tra amore e odio vi è una linea molto sottile», rispose, vantando una conoscenza che persino un cieco avrebbe visto che non possedeva. «E di certo lei non mi pare il tipo di donna che sta impalata a farsi salvare, come spesso tu la tratti.»
«Io e lei ci supportiamo e ci aiutiamo. Mi capisce senza bisogno che io parli, e così faccio io con lei», insistette Cristiano.
Machiavelli si pulì la bocca nel tovagliolo.
«Questo è troppo. Basta scempiaggini, per oggi», disse, alzandosi. Quasi nessuno lo notò.
Cristiano, seppur perplesso da quell’uscita, proseguì nel suo petrarchesco monologo.
«L’amore è un sentimento di totale abbandono, Augusto», spiegò, versandogli il vino con educazione. «Si prova solamente in modo rado, quello che tu provi è l’appetito del tuo uccello.»
Augusto scoppiò a ridere di nuovo.
«Forse hai ragione!», acconsentì, alzandosi dopo aver svuotato il suo bicchiere di vino. «E allora buon innamoramento, amico mio! Quando avrai trovato il modo di sposarti senza che il Mentore ti faccia sembrare un cervo fammelo sapere, che ti faccio da testimone!»
E detto questo se ne andò, ridacchiando di tanto in tanto mentre attraversava la sala.
Il biondo lo guardò andarsene via, mordendosi il labbro per evitare di inveire ulteriormente contro quel grezzo romano.
Volpe gli batté una mano sulla spalla.
«In bocca al lupo, amico.»
All’inizio, Cristiano non capì il perché di quelle parole, ma voltando il capo ci arrivò.
I piatti di Violante ed Ezio erano vuoti, così come i loro posti.








Si era allontanato dalla sala di sua volontà, dopo aver dato a quello stupido maiale un solo boccone più obbligato da Laura che veramente affamato.
La vittoria schiacciante del gruppo di Pagni non gli dava pace.
Aveva promesso che sarebbe divenuto il migliore la sera stessa in cui era arrivato a Roma, eppure non era riuscito a combinare nulla di buono, in quel pomeriggio passato a cercare approvvigionamenti. Non era stato un buon capo, non era stato un buon ladro, non era stato niente e la cosa gli bruciava sul viso come il più violento degli schiaffi.
Così, assentatosi dalla sala, aveva preso la sua balestra e aveva iniziato a tirare frecce nel paglione.
Inutile dire che, con tutto quel nervosismo che aveva addosso, fare centro gli era impossibile.
Lui, che a Milano stupiva tutti per la sua mira infallibile.
In quel momento, si sentiva una nullità e incolpava soltanto se stesso. Era imperdonabile.
Caricò un altro dardo sulla sua balestra, puntando l’arma verso il paglione. Sperò, per quel poco di morale che ancora gli restava, di riuscire a fare centro.
Quando l’ennesimo colpo andò a vuoto, provocando un tintinnio laddove la freccia impattò il marmo della chiesa innanzi a lui, un ringhio uscì dalle sua labbra.
Lasciò cadere a terra la balestra, portando le mani aperte sul cappuccio nero e blu a becco d’aquila e cacciandolo il più possibile sopra agli occhi.
«Maledizione, che mai ho fatto di male per essere così stupido?», domandò al cielo, allargando le braccia verso di esso.
«Sicuramente sei solo troppo nervoso. Se le mani tremano, la balestra vibra.»
Una voce dietro di lui lo fece voltare di colpo, ma il suo corpo rilassò i muscoli tesi quando vide la figura di Chiara fare capolino da dietro la siepe.
Arrossendo vistosamente, si chinò per riprendere la balestra. Cercò di mascherare il suo imbarazzo ricaricando l’arma.
Chiara lo guardò e trattenne a stento un risolino, coprendosi con grazia le labbra rosee piegate in un sorriso.
«Scusami, non era mia intenzione importunarti», gli disse, avvicinandosi a piccoli passi. «Ero uscita a cercare Maria e ti ho visto qui tutto solo, perciò ho pensato che potessi volere un po’ di compagnia.» Arrossì appena, affondando il viso nella sciarpa che le avvolgeva morbidamente il collo e i riccioli biondi. «Ma se ti do fastidio me ne vado.»
E fece per partire di nuovo verso la chiesa, persa in chissà quale pensiero.
Bengiamino si schiarì la voce per attirare la sua attenzione, ma ancora non parlò. Scrollò le spalle, mugugnando qualcosa che sembrava tanto un ‘no, figurati, non vedo la ragione per cui dovresti disturbarmi’, prima di tornare a dedicarsi al suo bersaglio.
O almeno, a provarci.
Fissò attentamente il punto da colpire e prese la mira per bene, scoccando il colpo ma colpendo il pagliericcio solo per un eccesso di fortuna. Sul bordo, per la precisione, e piuttosto in basso.
Un risultato nemmeno lontanamente accettabile.
Chiara gli si avvicinò, sorprendendolo nuovamente alle spalle.
«Io non ho mai tirato con una balestra», commentò, guardando con curiosità la sua arma in ogni sua intagliatura. «Però so come funziona.» Fece una pausa, chinando il capo per esaminarla al meglio. Un ricciolo biondo le penzolò sulla spalla. «Alla perfezione.»
Tornò dritta e sorrise, arrossendo appena sulle guance rese pallide dal freddo.
Bengiamino alzò un sopracciglio, mentre la ascoltava con attenzione. Con un gesto secco, incoccò un altro dardo, prima di passare la pesante balestra alla ragazza, sperando con tutto il cuore che non si facesse male. Si fece quindi da parte, studiandola silente e cercando di non indugiare sul viso bello e delicato e sugli occhi vispi. Né sul suo corpo piccolo ma perfettamente proporzionato, dentro all’armatura da Assassina che alla fine poteva essere riassunta in una camicia bianca che …
Si concentrò. Ci provò, più che altro.
Guardò con attenzione Chiara tentare di tenere la balestra ben dritta. Era palesemente troppo pesante, per lei, tuttavia la ragazzina riuscì in qualche modo a imbracciarla, puntandola con sorprendente determinazione al paglione.
Chiuse un occhio e poi l’altro, scrollò le spalle, dopodiché scoccò la freccia.
Doveva aver avuto una stretta troppo indulgente, poiché il colpo finì nei cieli di Roma e Chiara con la schiena a terra nel fango del cortile.
Mugugnò debolmente, affrettandosi a risistemarsi il cappuccio sul capo, e scoppiò in una risata lieve, cristallina, mentre con il polso correva di nuovo a coprirsi la bocca.
La freccia le ricadde accanto al volto, interrompendo la risata.
Bengiamino fu subito su di lei, preoccupato.
«Ti  sei ferita?», domandò, controllandole le braccia e spostando con gesto secco la balestra dallo stomaco della ragazza.
Quando si rese conto che non si era fatta nulla sospirò, rialzandosi in piedi e offrendole la mano per rimetterla in piedi.
Chiara accettò di buon grado l’invito, prendendo la mano di Bengiamino con un sussulto e usando la quella libera per lisciarsi per bene il mantello. Si diede una rapida controllata alla veste, assicurandosi che tutto fosse al suo posto, dopodiché concluse quella delicata operazione con uno sbuffo soddisfatto.
Si voltò verso Bengiamino e arrossì.
Si era appena accorta che, per tutto quel suo rituale, non gli aveva ancora lasciato la mano.
Anche lui se ne accorse in quel frangente, lasciandola andare come se quella stretta avesse il potere di ustionarlo.
Fece un passo indietro, recuperando le sue armi e riprendendo l’allenamento. Non prima, però, di mormorare in tono basso ma lo stesso leggermente rude: «Dovresti tornare. Potresti ferirti e credo che, dopo l’incidente di Cesco, Machiavelli potrebbe dar di matto.»
Alle sue spalle, Chiara si imbronciò un poco, tirandosi il cappuccio sul capo con fare rassegnato.
«Va bene», mormorò, girando sui tacchi per poi incamminarsi verso la porta. «Buonanotte, Bengiamino.»
Lui non si voltò a guardarla, ma le sue orecchie seguirono ogni singolo passo e, quando ella fu sparita di nuovo sotto al tetto sicuro del Covo, le sue braccia si abbassarono fiocamente.
Improvvisamente, la stanchezza di quella giornata si era abbattuta su di lui.
Certo che non avrebbe ottenuto risultati, decise di ritirarsi, sperando di non mancare anche il letto nel momento in cui si sarebbe infine coricato.










Il vino era troppo e decisamente dolce.
Le mani di Ezio erano calde, ma non troppo indiscrete. Quanto meno, non lo erano nonostante continuassero a sfiorarla. La sua spalla, il braccio, le gote accaldate dal tanto bere, i capelli liberi dalla solita treccia … Sembravano instancabili, desiderose di saggiarla per conoscerla meglio e più in fretta.
A Violante non dispiacevano quelle attenzioni, seppure non fosse per natura una ragazza espansiva o amante del contatto fisico.
Seduti sui gradini dell’enorme salone ormai vuoto, erano tornati da un’uscita serale nel dopocena, divertiti dalla corsa a perdifiato sui tetti e dall’aver eluso così bene la sorveglianza di un ricco signore fiorentino dalla cui villa romana avevano trafugato il prezioso vino.
«Devo ammettere che è stato alquanto inusuale», disse la giovane, appoggiando il calice e passando la mano sul petto del Mentore, coperto dall’armatura bianca. «Di solito, quando un uomo si approccia a me non lo fa spaccando il collo ad una vedetta notturna sul campanile del Laterano.»
Ezio ridacchiò con una voce più acuta del solito, probabilmente dovuta a tutto il vino che si era scolato da quando avevano fatto ritorno al Covo.
«Di solito, quando mi approccio a una donna questa non mi chiede di derubare le cantine di un palazzo.» Si fermò un istante a pensare, poggiando a sua volta il calice sul pavimento. «Oh, sì, è capitato. Però una volta soltanto.»
Si sporse appena su Violante, scostandole una ciocca castana dalla fronte con una lentezza quasi esasperante. Condusse quel ciuffo di capelli lungo tutta la nuca della ragazza, attorcigliandolo tra le dita per poi sistemarlo dietro l’orecchio.
«Tuttavia», riprese dopo un po’, lasciando che i suoi occhi scuri scivolassero sul viso di Violante. «Il fatto che sia stato inusuale non significa che non sia stato piacevole.»
Lei lo guardò divertita, appoggiando la mano che prima aveva saggiato il petto dell’uomo sul suo ginocchio. Si sporse di poco avanti, come a sfidarlo a baciarla, poggiando il viso contro il palmo aperto della sua mano.
«Ammetto di essermi divertita, Mentore», disse, civettuola. L’ebbrezza la rendeva più disponibile di quanto non lo sarebbe stata in una situazione normale.
Ezio Auditore l’aveva incuriosita e interessata dal loro primo incontro, al punto tale da rendere più che visibile il desiderio della bolognese di approfondire la loro conoscenza.
A quanto pare, ci stava riuscendo egregiamente.
«Posso divertirti ancora», le mormorò lui all’orecchio, prendendole la mano che lei aveva appoggiato sul suo ginocchio.
Teneva lo sguardo piantato sui suoi occhi, le labbra schiuse in una smorfia allegra a causa del vino, la schiena appena inarcata verso di lei. Si piegò quel poco che bastava per annullare ogni distanza tra loro che Violante neanche se ne accorse, tanto fulmineo fu in quel movimento.
Il bacio fu parecchio sconclusionato per i primi istanti, almeno sino a che non trovarono il ritmo giusto. Le braccia di Violante si legarono dietro al collo del Mentore, mentre lui la spingeva con la schiena sulla pavimentazione fredda.
Si mise su di lei, senza impedire alle loro lingue di cercarsi e accarezzarsi, e sbottonò di un solo passante la casacca della giovane.
Maledetti corsetti.
Violante stava per staccarsi e proporre di spostarsi entrambi nei suoi alloggi, ma Machiavelli glielo impedì con il suo tempestivo arrivo.
«Dobbiamo parlare. Adesso, Ezio», decretò, guardando i due senza interesse, al contrario di Maria che, al suo fianco, sembrava sul punto di estrarre la spada. Sospirò pesantemente, rivolgendosi a Violante. «Tu vattene a letto, domani mattina vi aspettano altri divertenti quanto inutili furti.»
Ezio si ricompose quasi immediatamente, scattando in piedi e allungando una mano in direzione di Violante per aiutarla ad alzarsi.
«Non è un po’ tardi, per i rimproveri?», azzardò, guardando in viso prima Machiavelli, poi Maria.
Accompagnò Violante fino allo scalone, augurandole la buonanotte con un bacio sul dorso della mano ancora chiusa nella sua.
Lei rispose con un sorriso, prima di avviarsi alle stanze. Cambiò però idea all’ultimo momento, quando si accorse che la voce di Machiavelli arrivava chiara fin lì. Complice l’ora tarda e il palazzo vuoto, era facilissimo origliare.
«Abbiamo un problema di dimensioni non soprassedibili, Ezio», gli disse Machiavelli, con voce bassa.
Poi si intromise Maria.
«Ho sentito parlare due guardie Templari, fuori dalla porta a ovest della città. Sanno cosa stiamo facendo,  sanno che stiamo allenando degli Assassini e sanno anche che ne sceglieremo solo cinque, ponendoli contro Cesare Borgia.»
La risposta di Ezio tardò un istante ad arrivare.
«Avete già dei sospetti?», chiese.
«Qualcuno entrato di recente nell’Ordine, che sappia essere eloquente a sufficienza per non passare inosservato coi i suoi silenzi», rispose prontamente Machiavelli.
La voce di Maria zittì ciò che ebbe da aggiungere dopo.
«Come i tuoi adepti.»   
Ezio rispose con una punta di risentimento nella voce.
«Anche tu sei una dei miei adepti, Maria.»
Violante strinse il pugno, iniziando a provare una seria antipatia per la modenese. Chi si credeva di essere? Erano praticamente sullo stesso piano e, dopo quella sera, forse Violante era addirittura tenuta più in considerazione di lei.
Avrebbe tanto voluto irrompere nuovamente nella stanza, accusandola di tradimento. Dopotutto, era stata lei a riportare quel fatto all’attenzione di Ezio. Perché non sospettare che l’infiltrata fosse proprio lei?
«Io non credo che dovremmo puntare il dito così presto», decretò Machiavelli. «Però dovremmo tenere occhi e orecchie aperti. Sospettiamo di tutti, ma non incolpiamo nessuno sino a che non ne saremo certi.»
«E non diciamolo nemmeno», aggiunse Ezio. «Non voglio che vengano a crearsi problemi, visto quanto già è fragile l’equilibrio.»
«Conviene parlare con Volpe», propose Maria. «Di certo è più ferrato di noi tre nel scovare traditori.»
«Buona idea», convenne Ezio. «Gli parlerò io stesso al più presto. Per ora, restiamo con gli occhi ben aperti.»
«Dormirei sonni più tranquilli se vi fosse una pattuglia sui tetti», commentò Machiavelli. La sua affermazione venne accolta dal silenzio. «Vedete di organizzare dei turni di guardia entro domani sera. Io mi ritiro. Buonanotte.»
Viola corse a nascondersi nel corridoio adiacente, evitando per un soffio di farsi vedere.
Pensò e ripensò a quelle parole, con un solo pensiero fisso in testa: non poteva essere nessuno di loro.
Alcuni non li conosceva bene, ma erano tutti più o meno smarriti e ignari di tutto allo stesso modo.
Maria sbagliava e Violante sperava solo che se ne accorgesse presto.
Udì il rumore dei passi di Ezio avvicinarsi, seguiti da quelli decisamente più pesanti di Maria.
«Un’ultima cosa, Ezio.»
«Sì?»
«Non togliere nessuno dai tuoi sospetti. Anche se io e Machiavelli pensiamo si tratti di uno dei ragazzi, se tu reputi giusto indagare anche tra di noi non avere rimorsi di coscienza nel farlo.» Fece un grosso sospiro, prima di avviarsi verso l’alloggio che era stato predisposto per le ragazze. «Sebbene non appoggi i tuoi metodi, siamo qui per l’Ordine prima di tutto. Buonanotte.»
Aprì la porta della stanza e la richiuse silenziosamente alle sue spalle, senza dare ad Ezio il tempo di rispondere.
Violante attese un istante, zittendo la sua mente piena di domande prima di avviarsi a sua volta alle scale.
Dover star zitta sapendo ciò che aveva udito sarebbe stato difficile, ma doveva farlo.
Non poteva destare sospetti su di sé, per quanto essi si sarebbero poi rivelati infondati.
Non avrebbe dato nessun pretesto a Maria per metterla fuori gioco.



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Capitolo 7
*** Capitolo sesto ***


polverenera

Il destino di Qayin

Capitolo sesto




Una leggera brezza mattutina filtrò dalla finestra socchiusa, accarezzando come una mano fredda la spalla nuda di Violante.
La ragazza si destò, tirando il lenzuolo sino al mento e ruotando il capo verso la fonte di quel fastidio, notando che il sole stava giusto facendo capolino oltre la linea dell’orizzonte, oltre il Colle Palatino.
Si trattenne dal mugolare infastidita, sentendo nel corridoio i passi veloci di Machiavelli che scendevano le scale ed, infine, la sua voce che chiamava i giovani apprendisti a rapporto.
Tornò ad appoggiare la guancia sul petto nudo di Ezio, ancora totalmente immerso nel mondo dei sogni, richiudendo gli occhi e godendosi quegli ultimi attimi di pace prima di un’ennesima giornata di fatiche.
Si ridestò qualche minuto più tardi, quando le dita del Mentore le pizzicarono con delicatezza la spalla nel tentativo di svegliarla.
«Buongiorno», la salutò lui con voce profonda, tirandosi appena sui gomiti per appoggiare la schiena al cuscino e poterla guardare in viso.
Piegò più volte il collo, facendolo scrocchiare con una smorfia. I suoi capelli castani, liberi dalla coda in cui erano solitamente legati, gli ricaddero sulle spalle con sinuosità.
Anche lei si sollevò, mettendosi seduta e lasciando le lenzuola scivolassero lungo il suo corpo, lasciandole scoperto il petto.
«Buongiorno a te», rispose, portando indietro i lunghi capelli mossi e guardandolo con un sorrisetto.
Ormai erano passate un paio di settimane da quella loro prima notte e, ormai ad intervalli regolari, si ritrovavano a tenersi compagnia.
«Dovremmo alzarci», decretò la bolognese, scendendo dal letto e sfilando davanti a lui, sino alla tinozza di acqua che teneva su un comò. Si lavò il viso sbrigativa, andando poi a recuperare la camicia a merletti della sua divisa. «Oggi cosa ci aspetta, Mentore? Basta furti, spero. Ormai sono passati quindici giorni.»
Ezio la seguì con lo sguardo lungo tutta la sua camminata, lasciando che un sorrisetto malizioso si dipingesse sul suo volto mentre la bolognese si rivestiva.
«Machiavelli ha voluto la sua vendetta», ridacchiò, strizzandole l’occhio. «Perciò oggi no, niente furti. L’ultima volta farfugliava di farvi fare una bella corsa in città.» Volse lo sguardo alla finestra, assottigliando gli occhi castani con fare ancora più divertito di quanto già non fosse. «E diluvia, per giunta! Sono sicuro che vi divertirete.»
Violante non parve della stessa opinione, visto che gli lanciò uno stivale, colpendolo al centro del petto.
«Ridi pure, Ezio, finche ti è concesso!»
Si infilò dentro ai calzoni marroni, prima di recuperare la casacca. Sperò sinceramente che quel bel cappuccio a becco d’aquila impedisse alla pioggia di entrarle negli occhi, ma non ci avrebbe giurato. Tornò verso il letto, sedendosi su di esso e infilando uno stivale, strappando poi alla presa del Mentore l’altro.
Come al solito, legò i capelli in una stretta treccia.
«Immagino che tu te ne starai qui a letto e lascerai che Niccolò ci accompagni, vero?»
Ezio sogghignò, sempre più divertito.
«Non esattamente», rispose, stiracchiandosi tra le coperte. «Alcune incombenze chiamano la mia presenza altrove. È per questo, che ho deciso di affidarvi a Machiavelli.» Fece una pausa, portandosi seduto sul materasso. «Niccolò sa essere un valido insegnante, quando vuole. Quando invece si impegna a mettervi i bastoni tra le ruote, bé, prendetela come esperienza!»
Assicurata la treccia con un laccetto di cuoio, la giovane si alzò dal letto, appoggiandosi con entrambe le mani alle spalle larghe del Mentore.
«Oggi piove così tanto …», disse pensierosa, guardando fuori dalla finestra. «Immagino che le tegole dei tetti siano davvero scivolose. In pochi sopravvivranno e sicuramente per Machiavelli sarà solo un’occasione di selezione tra i candidati.»
Con una mano, Viola spostò i capelli di Ezio dal suo viso, guardandolo negli occhi color nocciola, molto simili ai suoi.
«Se dovesse scivolare anche lui, in modo assolutamente accidentale, sarebbe una gran sciagura. Non credi, Auditore?»
«Confido che qualcuno di voi giovani abbia riflessi sufficientemente attenti per allungare una mano e afferrarlo prima che una tale tragedia colpisca il nostro Ordine», le rispose lui, ormai sull’orlo di una fragorosa risata.
Le prese il viso tra le mani e la baciò con fermezza, accompagnandola con delicatezza mentre la spingeva sotto di lui.
Lei si lasciò stendere sul materasso, ridacchiando.
«Mi farai fare tardi …», mormorò senza convinzione, passando una mano sul viso dell’uomo, crespo per via della barba.
Lasciò che tra loro vi fosse quel momento di intimità, in cui si scambiarono diversi baci e sospiri a fior di labbra, poi si tirò su, quasi di scatto.
«L’altro giorno Chiara stava per scoprirci. Se vogliamo tenerlo per noi, dobbiamo essere cauti e io devo scendere a mangiare.»
Gli concesse un ultimo bacio, prima di avviarsi alla porta.
Si bloccò su di essa.
«Vuoi dirmi qualcos’altro?»
Ezio le sorrise sornione.
«Se dovessi vedere l’arcobaleno, fermati a guardarlo anche da parte mia!», trillò, e detto questo si ributtò tra le coperte ficcando la testa sotto il cuscino.


*



Violante si pentì di non essersi detta indisposta nell’esatto istante in cui scese a fare colazione.
Seduta, come sempre, tra Cristiano e Augusto, aveva ascoltato i deliri senza senso di Machiavelli riguardo altre due importanti abilità che ogni buon Assassino doveva avere: la resistenza e la velocità.
Quella che di fatto era solo una staffetta che attraversava tutta l’Urbe, Niccolò la mascherò in modo da renderla un incarico a dir poco essenziale.
«Quindi dobbiamo correre da una parte all’altra di Roma, passandoci una lettera che dovrà tornare intatta e leggibile qui?», chiese Corella. «Ma là fuori diluvia! Non arriverà nemmeno la cera lacca, al Covo!»
Niccolò Machiavelli lo guardò con un ghigno colmo di perfidia dipinto sul volto.
«Come ha detto Ezio, il lavoro di Assassini non vi porrà come unico pericolo quello di scottarvi con un forno da panettiere. Un vero Assassino lavora giorno e notte, con la calura di luglio o la neve di dicembre. Il fatto che oggi il cielo vi abbia imposto un’ulteriore sfida, non mi tocca particolarmente. Sono certo che troverete il modo.» Fece una pausa, utilizzandola per sbuffare con un tono più che soddisfatto, dopodiché lasciò Corella per rivolgersi alla sala intera. «Andate, adesso! Se le missive saranno sulla mia scrivania entro mezzogiorno, potrete considerarvi liberi per l’intera giornata.»
E detto questo se ne andò, senza preoccuparsi che qualcuno non avesse afferrato gli ordini che aveva impartito prima che Corella lo interrompesse.
Cristiano si alzò per primo, guardando tutta la sua squadra.
«Io prendo un cavallo e corro alla porta Est della città per recuperare la lettera. Attraverserò tutto il Vaticano sino a Castel Sant’Angelo. Lì la passerò a Virgilio, che dovrà fare una bella corsa tra le guardie mentre io le tengo impegnate. Corella, attendilo alla fine del ponte e poi separatevi in due direzioni opposte. Una volta fatto questo, sarai tu a portare la lettera a Paola, che ti attenderà accanto alle colonne del Pantheon.»
Nominata, la rossa si fece avanti.
«Dove dovrò portarla, io?»
«Al Colosseo. Piazza Navona è troppo pericolosa, ci sono troppe possibilità di incappare in guardie. Lì ti attenderà Violante che poi passerà tra i Fori per potare la missiva a Machiavelli. Tutto chiaro?»
«Bel piano, Principe», disse Spallaci, passando accanto a loro assieme alla sua squadra. «Speriamo fili tutto liscio.»
«Speriamo che tu non scivoli di nuovo nel Tevere, Serpe.»
Si scambiarono una lunga occhiata, poi Augusto tornò dai suoi. Non prima, però, di essersi rivolto a Violante.
«Ci vediamo davanti all’Ara Caesaris allora.»
Si separarono, partendo ciascuno verso la propria direzione.
Gli altri gruppi avevano scelto più o meno un itinerario simile, nonostante vi fosse qualcuno intestardito a passare per Piazza Navona e qualche pazzo che invece si era deciso a varcare frontalmente le porte del Vaticano.
Come aveva detto Ezio, fuori diluviava.
Non solo la pioggia cadeva battente sulle strade rese fangose e interrotte da piccoli torrentelli, ma la vista era annebbiata dalla pesante umidità che c’era nell’aria e il vento soffiava impetuoso, quasi ogni fattore fosse stato sapientemente disposto da Machiavelli per rendere impossibile quell’impresa.
L’unica nota positiva era che, con quel maltempo, per le strade non c’era quasi nessuno. Poca folla significava pochi sorveglianti, di solito, il che rendeva un po’ meno ostica la prospettiva di quella corsa.
Cristiano riuscì a prendere la lettera con facilità, dovendo però cedere il cavallo in quanto si sarebbe rivelato contro le regole tenerlo anche solo per un breve percorso.
Fece a gara con Bengiamino sino ad un certo punto. Quando venne il momento di avvicinarsi a Castel Sant’Angelo, il milanese cambiò strada, deciso ad aggirare la fortezza scendendo verso un altro dei molti ponti sul Tevere.
Ponte Sisto era di certo più sicuro, ma allungava di parecchio la corsa.
Machiavelli era stato chiaro: dovevano essere anche veloci.
Lo scambio con Virgilio e Corella avvenne più liscio del previsto, visto che il veneziano si trovò contro solo quattro poveracci posti davanti alle porte dell’enorme castello.
Corella raggiunse quindi Paola, porgendole la lettera che si era solo leggermente inumidita.
La rossa corse il suo tragitto più veloce che poté, nonostante la rapidità non spiccasse certo tra le sue doti.
Chiara Filippi la superò con facilità, balzando leggiadra sui tetti più bassi e piani. Scattante, ma senza esagerare nella velocità che le avrebbe di certo fatto perdere l’equilibro, sparì nella lieve nebbia che era calata sulla città con un sorriso soddisfatto a illuminarle il viso incappucciato.
Affaticata, Paola arrivò nei pressi del foro romano che Spallaci era già partito da tempo. Passò la missiva a Violante e si scusò per il ritardo, ritirandosi poi al coperto del vecchio acquedotto.
«Lo posso battere», la rassicurò la bolognese, sollevando il cappuccio sul capo e mettendo la lettera al sicuro dentro alla casacca. Partì quindi di buona lena, non avendo tetti da scalare, lungo la pavimentazione scivolosa del lastricato romano.
Sfruttando il poco attrito, Violante recuperò un po’ di terreno, superando egregiamente Maria.
Solo per quello si sentì vittoriosa.
Saltò su un antico colonnato romano, scendendo di livello in livello ad ogni balzo. Quando intravide Spallaci erano arrivati ormai al Palatino.
Salirono quasi fianco a fianco la salita, arrivando sino alla villa di Domiziano.
«Abituata a scappare da quelli che derubi, Ladra?», la punzecchiò Spallaci, balzando in avanti e scartandola di qualche passo. «Attenta a non restare indietro! Se Maria ti prende, non torni a casa viva!»
Scoppiò in una delle sue grasse e odiose risate e saltò sul tetto vicino, atterrando con una capriola che per poco non gli costò una rovinosa caduta nel fango della strada. Riprese l’equilibrio in un lampo, però, prendendo a scalare un muro dinanzi a sé.
«Andiamo!», la sfidò, facendole cenno di seguirlo. «Vedo già quella strega con l’ascia sguainata!»
Viola represse a sua volta una risata, decisa a concentrarsi su ciò che stava facendo. Portò le mani su un muretto basso, saltandolo con entrambe le gambe e scendendo di un piano.
Quando fu di nuovo accanto all’altro Assassino, rispose seppur con un poco di fiatone: «Nonostante la tua descrizione di Madonna Frigida sia assai adeguata, non la temo affatto.» Si tuffò in avanti, passando sotto ad un arco prima di Augusto e rialzandosi con una capriola. Voltò il capo verso di lui, che era rimasto indietro, e sogghignando disse: «Avrà già tre decadi, non può di certo sperare di prendermi!»
Quella distrazione le fu quasi fatale.
Prese con la punta di piede un mattone e inciampò in avanti, con la faccia nel vuoto. Non era solo una casa, dalla quale poteva cadere rompendosi qualche osso.
Era arrivata al limitare del colle.
Cadde in avanti, ma non arrivò a staccare i piedi dal terreno, poiché le braccia forti di Spallaci la presero per il cappuccio, tirandola verso la discesa che l’aveva condotta fin lì con un mezzo grido allarmato.
Ruzzolarono entrambi giù per il colle, fermandosi quando le loro schiene si scontrarono con le mura in mattoni di una vecchia casa.
Spallaci imprecò tirando pugni all’aria, massaggiandosi poi il capo con il palmo della mano aperta.
«Stai bene?», chiese, un po’ preoccupato. «Se non ti prendevo io finivi a fare quella schifosa confettura che Madonna Auditore ci rifila per colazione!»
Violante, che rotolando si era ritrovata a testa in giù contro al muretto, si rimise diritta sulle ginocchia, massaggiandosi il collo dolorante.
«Sì, sto bene», rispose, levando il fango dal viso e rialzandosi in piedi. Le ginocchia le tremavano appena. «Dovremmo ripartire, non voglio che Maria mi superi davvero», azzardò poi con un mezzo sorriso.
Porse la mano al ragazzo, invitandolo ad alzarsi.
Spallaci balzò sulle ginocchia senza accettare alcun aiuto, scoppiando però in una lieve risata quando le indicò la via per tornare al Covo.
«Donne!», commentò, scuotendo il capo con aria divertita mentre insieme riprendevano a correre. «Ma non eri tu, quella che bisogna collaborare ad ogni costo?»
Alzò il braccio verso una scala di mattoni che scendeva verso il ponte, ultimo scatto prima dell’Isola Tiberina.
Se non fossero in qualche modo precipitati nel Tevere, sarebbero riusciti ad arrivare sani e salvi.
Chissà, forse erano addirittura i primi.
Violante lo seguì, tendendosi vicina ma senza provare in alcun modo a superarlo. La sfida con Augusto era finita nel momento in cui le aveva salvato la vita.
«Vero», confermò, rimettendo piede sull’Isola in mezzo al fiume e preparandosi a scalare fino alla cima in palazzo che ospitava il Covo. «Ma quella … ci guarda con superiorità perché conosce Ezio da più tempo. Se fosse così brava lui non le avrebbe fatto riprendere l’addestramento da capo, no?»
Salirono sulla torretta fianco a fianco e, quando furono in cima, lei lo bloccò.
Dopo una giornata passata sotto l’acqua battente e il freddo bramava solo una cosa, ma prima doveva dire qualcosa a Spallaci.
Appoggiò una mano sulla sua spalla e gli sorrise, prima di sussurrare un piccolo ‘Grazie’, seguito da pallido bacio sulla sua guancia ruvida.
Fatto questo, varcò per prima la porta.









Quando uscirono per il loro prima turno di guardia assieme, aveva smesso di piovere da tempo.
Avevano passato tutto il pomeriggio nella sala comune a leggere, mentre Corella e Spallaci si passavano una pallina di pelle facendola rimbalzare sul muro, e non c’era nulla che Chiara bramasse di più, quella sera, che passare qualche istante all’aria aperta.
Il fatto che con lei ci fosse anche Bengiamino Lorenzetti, poi, allietava ancor di più la prospettiva del turno di guardia introdotto da Machiavelli.
Si erano incontrati in piazza, decidendo di iniziare un giro dell’isola di tetto in tetto, approfittando della scomparsa della nebbia per dare un’occhiata ai dintorni.
Era tutto così silenzioso, così quieto … l’unico rumore che Chiara poteva sentire, nel momento in cui spiccava un balzo per raggiungere le tegole della casa accanto, era il respiro di Bengiamino farsi più lieve dell’aria stessa.
Non pareva esserci nessuno nei dintorni, ma la prudenza non era mai troppa.
Scesero in strada, camminando sul ponte fianco a fianco, mentre il freddo vento autunnale non dava loro tregua. Passeggiarono sino a tornare sulla via per il Lungo Tevere, lasciandosi alle spalle l’isola e addentrandosi di nuovo nei dintorni cittadini. De Ferris e Tonari pattugliavano la sponda orientale, quindi a loro toccò la zona più pericolosa della città e il ghetto ebraico.
Bengiamino non parlò quasi per nulla, mentre Chiara, come al solito, non gli risparmiava discorsi eccitati alternati a qualche piccolo allarmismo.
Quando si trovarono nei pressi del ghetto, onde evitare complicazioni, scelsero di salire di nuovo sui tetti. Anche lì le strade erano deserte, ma Bengiamino preferì tenere d’occhio la situazione dall’alto, senza rischiare di perdersi per quel groviglio di vicoli che era il quartiere in cui gli ebrei erano stati proscritti.
Seguirono quindi il perimetro del ghetto dall’esterno, saltando di comignolo in comignolo fino a che non si trovarono dinanzi a un complesso di case meno trasandate ma comunque destinate al ceto più basso. Dall’angolo della strada, provenivano degli schiamazzi.
Storcendo il naso, Chiara ne dedusse che dovevano trovarsi vicino alla locanda dove Spallaci di solito andava a bere con i suoi due amici, Pio e Geranio.
Bengiamino si affacciò giusto per dare un’occhiata anche a quella zona, ma si ritrovò a fissare confuso qualcuno.
Non era saggio uscire la notte senza avvisare nessuno e, a quanto ricordava, Alessandro Corella aveva detto di essere stanco e pronto a coricarsi subito dopo la cena.
Eppure eccolo là, con la sua divisa delle sfumature del grigio forlivese, mentre camminava rapido di angolo in angolo, senza farsi vedere.
Senza avvisare Chiara, Lorenzetti si lanciò, afferrandosi a una corda per il bucato e atterrando su un altro palazzo per poter seguire rapidamente l’amico.
Il comportamento sospetto di Corella non gliela raccontava giusta.
Chiara lo raggiunse balzando goffamente su un pergolato poco distante. Non fece il suo nome, afferrando al volo che quel cambiamento di itinerario improvviso doveva essere di certo dovuto a qualcosa in grado di attirare la sua attenzione.
Curiosa, si avvicinò a Bengiamino, aggrappandosi alle sue spalle per alzarsi e spiare oltre la sua stazza.
A vedere Corella, i suoi occhi color nocciola si sbarrarono di colpo.
«Ma quello non è … », mormorò, sbigottita.
Si accovacciarono contro la facciata del palazzo poco prima che lui si voltasse a controllare, prima di sparire in un vicolo.
Scalarono allora del tutto il palazzo e, quando furono in cima, il milanese la aiutò a tirarsi su del tutto. Camminarono lungo in tetto per poter vedere la fine del vicolo e ciò che si trovarono dinanzi bloccò loro il fiato in gola.
Insieme a Corella c’era un uomo, circa alto come lui.
I due si stavano abbracciando in modo molto fraterno e subito Bengiamino ne capì il motivo. Osservando quello sconosciuto dalla mantella rossa che teneva sulle spalle recante uno stemma con un toro, sino alla maschera nera di cuoio che gli celava metà il viso, indovinò subito di chi si trattava.
«Non va bene», sussurrò con un filo di voce, guardando un po’ allarmato Chiara.
Lei si lasciò scappare un gemito affranto.
«Chi è?», chiese, spaesata. «E perché Alessandro parla con un emissario dei Borgia?»
Spostava freneticamente lo sguardo da Bengiamino a Corella, in strada, ancora in compagnia dell’uomo.
Quando i due si allontanarono, Chiara riprese a parlare con voce più alta.
«Dimmelo, Bengiamino!»
Lui le coprì la bocca, spingendola al centro del tetto e guardandola duramente.
«Vuoi che ci scopra? Così che ci troveremo costretti a far rapporto al Mentore?» Non riuscì a distendere il viso, continuando a parlare come se si sentisse arrabbiato con lei anziché frustrato per la situazione. «Quello è Michelotto Corella, il braccio destro di Cesare Borgia», sputò, come se quel titolo fosse un insulto. «Il fratello di Alessandro.» Lasciò passare qualche secondo di vuoto, prima di scuotere il capo «Andiamo via, fingiamo di non aver visto.»
Chiara mugugnò qualche lamento sommesso, tirandosi in piedi sulle tegole addosso a cui Bengiamino l’aveva spinta.
«Non ci credo», disse, affondando le dita sottili nella stoffa del mantello del suo compagno. «È sempre stato così bendisposto verso tutti noi! Siete amici, tu e lui! Ci deve essere senz’altro un motivo per quello che abbiamo visto.»
«La vuoi smettere di urlare come un’ochetta, Chiara?», sbottò infastidito il milanese, mordendosi poi le labbra pentito. «Scusa. Ma fai troppo chiasso», disse sottomesso, prima di sospirare e portare le mani al viso.
Non potevano fare nulla per molti motivi e lui ora doveva spiegarlo a lei. Non sarebbe stato facile, ma doveva farlo.
Alessandro era suo amico e, senza sapere il vero motivo di quell’incontro, non avrebbe mai permesso che gli sarebbe successo qualcosa.
«Se ora ne parliamo con lui, potrebbe scappare. Machiavelli si domanderebbe perché, verrebbe a sapere qualcosa e lo farebbe uccidere. Se ne parliamo con Ezio, sarebbe comunque condannato. Ora come ora, possiamo solo fingere di non aver visto nulla.»
Al culmine della frustrazione, diede le spalle a Chiara, camminando verso il tetto davanti a loro.
Lei rimase a osservarlo allontanarsi, mentre per l’ennesima volte le lacrime premevano presuntuose per scorrerle sulle guance.
In uno sprizzo di determinazione, decise che non era il momento di abbandonarsi a certe infantilità. Non era più una bambina, lo aveva dimostrato quando aveva lasciato la bottega a Firenze per raggiungere gli Assassini. Doveva cominciare a comportarsi come una di loro.
Raggiunse Bengiamino con un paio di balzi, tirandolo per il mantello per attirare l’attenzione, dopodiché riprese a camminare al suo fianco.
Di quella serata, cominciata così bene ma finita a dir poco in tragedia, voleva al più presto dimenticare ogni memoria.


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Capitolo 8
*** Capitolo settimo ***


polverenera

Il destino di Qayin

Capitolo settimo





La notte era scesa in fretta, quel giorno, un po’ per l’inverno che si intestardiva ad accorciare le ore di luce, un po’ per il maltempo che copriva il cielo con la sua coltre di nubi grigie.
Marcello sospirò, stringendosi la cintura in vita e seguendo con lo sguardo insolitamente attento i passi del miliziano che pattugliava i corridoi. Attese che l’uomo tonasse sullo scalone principale, dopodiché balzò in piedi nel fieno del suo giaciglio.
Quella era l’ultima notte che avrebbe passato da prigioniero.
Si affacciò alla stretta finestra che dava sul Tevere, l’unico rettangolo di luce che aveva su quella che era la realtà al di fuori del corridoio delle carceri. Un varco tra la prigionia e la libertà decisamente troppo stretto per un uomo normale, ma Marcello era di costituzione minuta e in quei mesi aveva perso parecchio peso. Dopo una settimana passata a rifiutare il rancio, poi, gli si contavano le costole.
Aveva tanta fame da poter sbranare un’intera mucca, ma si era ripromesso di non toccare cibo se non una volta libero.
Quanto più silenzioso poteva, si infilò attraverso il rettangolo di mattoni, sporgendosi sul vuoto della torre quanto bastava per dirsi ufficialmente evaso.
Ebbe un capogiro quando si azzardò a guardare in basso, ma si obbligò ad appiattirsi contro il muro tenendo i piedi ben fissi sul cornicione. Strisciò lungo la parete della torre, scendendo con estrema cautela verso un’asse sporgente che dava sul battifredo più basso. Da lì, con una buona dose di coraggio, si lasciò cadere sul tetto della costruzione, su cui atterrò di fondoschiena.
Dolorante, si ritirò in piedi.
Nessuno pareva averlo notato.
Si chiese se il miliziano che percorreva il corridoio si fosse già accorto della sua scomparsa, ma preferì non indagare oltre.
Diede le spalle al complesso della torre e dei suoi battifredi che per mesi lo aveva tenuto prigioniero e si tuffò nelle acque gelide del Tevere, vantando quantomeno un buon talento nel nuoto. Di certo non si era mai tuffato nei canali veneziani, ma suo padre si era assicurato di dare a tutta la sua prole un minimo di capacità di sopravvivenza, insegnando loro a sguazzare nella laguna. Se fossero caduti dall’imbarcazione mercantile dei Donà, sarebbero quantomeno rimasti a galla.
Compiaciuto al pensiero dell’unica cosa che Francesco Donà era stato in grado di insegnargli, Marcello nuotò più o meno rapidamente fino alla sponda più vicina.
Una volta tornato con i piedi sulla terra ferma, si liberò della casacca fradicia e prese a correre, sperando vivamente che la lurida camicia che gli restava addosso non facesse gola a qualche brigante con i suoi bottoni d’oro cuciti sui polsini. Dopotutto, quei ninnoli erano l’unico denaro che aveva.
Non riuscì a capire per quanto tempo corse, ma dalla campagna riuscì ad addentrarsi in un nodo di strade insolitamente vive, animate dalla folla che le occupava tra chiacchiericci e grida di gioia.
Era sera inoltrata ormai, ma lì doveva esserci una festa.
Le vie erano illuminate a giorno da delle lanterne, le case decorate con nastri e fiocchi. I bambini si rincorrevano tra i cesti di tuberi, mentre le massaie ridevano ai lati della strada.
Stranito, Marcello allungò il braccio per fermare un uomo.
«Che giorno è, questo?», chiese, supponendo di essere già intorno alla data del Carnevale.
Il passante gli sorrise.
«Uno di festa!», rispose, cordiale. «Il secondo dei festeggiamenti per il compleanno del Papa!»
Marcello sospirò sollevato. Dunque, era ancora in tempo per fare ritorno a Venezia e non perdersi i giochi di Febbraio. Dopo tutto quel tempo passato ad oziare con la paglia della prigione, il solo pensiero di poter assistere al Carnevale gli mise addosso una grande felicità.
Ringraziò quindi il buonuomo, riprendendo a camminare con passo più rilassato per le vie di Roma. Si prefissò la partenza per Venezia il giorno dopo, concedendosi una serata di festa e una notte degna di tale nome in qualche locanda, su un letto vero con delle coperte che non sapessero di vomito.
Il solo immaginarlo gli fece toccare il cielo con un dito.
Perse qualche ora a vagare tra la folla, incerto sul dove andare ma ormai sicuro che le guardie non lo stessero seguendo.
Leggiadro, salutava i bambini, parlava con i passanti, si fermava dinanzi agli spettacoli itineranti degli artisti di strada per ammirarne la bravura.
Era ancora estasiato da quell’atmosfera di festa, quando le notò.
In fondo alla piazza, un gruppo di quattro ragazze gridava divertito agli schizzi d’acqua che un ragazzo un poco più vecchio buttava loro addosso da una fontana. Qualche passo più distanti, altri tre ragazzi osservavano la scena con un sorriso divertito dipinto sul viso.
«Alessandro! Basta!», strillava una delle fanciulle, avvolta in un grazioso abito azzurro che faceva danzare i suoi capelli rossi lasciati liberi sulle spalle. «Fa freddo!»
Una ragazza castana si staccò dal gruppo, prendendo a camminare in senso opposto a quello di Marcello.
«Andiamo, dovremmo già essere all’Isola!», esclamò, indicando la strada. «Se torniamo dopo il coprifuoco, Machiavelli darà di matto di nuovo!»
Assieme alle ragazze, anche i ragazzi più lontani presero a seguirla.
«Corella, muoviti!», gridò uno di loro a quello ancora alla fontana. «Piantala di provarci con Paola! Sei ubriaco!»
Marcello rimase impalato a guardare il gruppo allontanarsi. Gli ricordava terribilmente casa, quando Andrea si prendeva cura di lui, Margherita e Pietro all’uscita dalla Messa pasquale. Quanto gli mancavano, quei momenti spesi a giocare sui canali assieme ai suoi fratelli! Si chiese come stessero, se Andrea fosse poi partito per l’Oriente, se Margherita si fosse maritata. Non gli mancava poi molto per scoprirlo. L’indomani a quell’ora sarebbe di certo stato tra le lenzuola calde del suo palazzo sul Canal Grande.
Scrollando le spalle, imboccò una via laterale.
Dopo tutte le emozioni della sua scalata, del tuffo e della corsa a perdifiato per le campagne si sentiva stanco e fradicio. L’aria invernale gli pungeva la schiena e gli faceva venire voglia di buttarsi su un materasso, magari dinanzi a un bel caminetto acceso.
Si fermò quindi davanti al portone della prima locanda che gli capitò a tiro; una vecchia stalla adibita a osteria e qualche camera messa a disposizione per i viaggiatori senza troppe pretese.
Reduce dalla prigione, Marcello poteva accontentarsi di qualunque trattamento gli avesse permesso di dormire al caldo.
Spinse il portone, inspirando a fondo l’aria tiepida che sapeva di arrosto e vino bollito. Pregustava già il sapore di quelle deliziose pietanze nel suo stomaco che troppo a lungo era rimasto asciutto. Varcò la soglia, quindi, chiudendo gli occhi per permettere al suo naso di guidarlo fino alla cucina. Mosse il primo passo e andò a sbattere contro il petto di un uomo.
«Donà?!»
Quella voce per poco non gli causò un mancamento.
Ridonando alla vista il suo giusto ruolo, si obbligò ad aprire gli occhi.
In un momento realizzò la sua sventura.
Non era soltanto un uomo, quello contro cui era andato a sbattere.
Era il Conte di Ladispoli, il Capitano, un tirapiedi dei Borgia e – cosa che dovette realizzare nell’effimero istante che passò da quando l’uomo gridò il suo nome e i suoi soldati gli furono addosso – il suo carceriere.
Di nuovo.








I suoi passi scattanti sulle scale rimbombarono nel silenzio del salone, così veloci e furiosi che per una volta parvero quasi dimenticarsi di tutta la discrezione alla quale erano tanto dediti di solito.
Cristiano Pagni si buttò sul corridoio, imponendo al suo fiato di farsi più leggero. Tese l’orecchio in cerca di un suono, di una risata.
Niente.
«Viola!», chiamò, incrociando le braccia sul petto mentre riprendeva a correre per tutto il piano. «Laura!»
Quelle maledette ladruncole gli avevano sfilato il borsello dalla cinta, giocando per un po’ a passarselo quasi fosse una palla per poi fuggire a nascondersi chissà dove.
Bel modo, di passare quell’unico pomeriggio che Machiavelli aveva lasciato loro libero. Davvero divertente.
Si augurò quanto meno che quelle due ragazze si stessero godendo il loro scherzo, perché a lui tutta quella storia cominciava a dare noia. Si era prefissato di scendere a Roma e farsi confezionare una casacca nuova ma ora, senza pecunia, gli era praticamente impossibile persino lasciare il Covo.
«Viola!», gridò di nuovo, iniziando ad aprire le porte delle stanze che si affacciavano sul corridoio. «Viola, Laura, andiamo!»
Aprì la porta del bagno, entrando con aria circospetta.
Quando un odore poco gradevole lo colpì – insieme ad una visuale di Ezio Auditore concentrato sulla latrina – sbuffò. Si appoggiò con aria stanca e afflitta allo stipite della porta, guardando scoraggiato l’impegnato Mentore.
«Hai visto Violante e Laura? Mi hanno fatto un brutto tiro, stavolta.»
Ezio lo guardò scocciato, non particolarmente propenso al dialogo.
«Nemmeno al bagno, posso starmene da solo con i miei pensieri?»
«Più che con i pensieri, a me sembra che tu stia cercando intimità con la cena di ieri  sera», commentò il biondo, storcendo il naso. «Dovresti aprire la finestra.»
Il Mentore gli scoccò un’occhiata seccata, sospirando rumorosamente mentre spostava lo sguardo sul corridoio.
«Mi sembra ovvio che qui non ci siano né Violante né Laura», rispose, alzando appena la voce. «Sono brave a nascondersi; prendilo come un addestramento e va’ a cercarle di tuo pugno.»
Cristiano esitò un istante, aggrottando la fronte. Istante che fu sufficiente ad Ezio per incalzare nuovamente: «Su, va’!»
Il ricciolo uscì, chiudendo la porta con enfasi prima di riprendere la sua missione personale.
Bell’allenamento, in effetti, visto che Violante e Laura parevano essersi dissolte nel nulla. Ovviamente  non erano al dormitorio, né nella sala grande. Non erano nelle cucine, né sul tetto.
Cristiano aveva rovesciato l’Isola Tiberina come un calzino per localizzarle, ma le due ragazze sembravano essersi dissolte come fumo.
Improvvisamente, qualcosa attirò la sua attenzione.
Una risata femminile, proveniente dallo studio di Machiavelli.
Sorrise vittorioso, camminando leggero sino alla porta e appoggiando la mano sul pomello. Non aveva pensato di controllare anche lì.
Violante e Laura avevano davvero scelto il luogo perfetto dove ritirarsi. Chi mai sarebbe andato a controllare lì dentro?
Fece scattare la serratura e spinse la porta quel poco che bastava per permettergli di spiare all’interno. Intendeva innanzitutto accertarsi che Machiavelli non fosse nello studio, magari pronto a colpirlo con una delle sue fantasiose punizioni. Nel caso la stanza fosse stata deserta, si sarebbe concesso la licenza di dare un’occhiata agli armadi per scovare finalmente quelle due ladre.
Ormai, invitato dalla persistente risatina leggiadra, dava per scontato di avere la vittoria in pugno.
Si accorse che la voce tanto divertita non apparteneva a Violante né tantomeno a Laura quando si trovò di fronte alla chioma ramata di Paola.
Sgranò gli occhi, osservando la ragazza slacciarsi con grazia i cappi della camicia, lasciando libero il suo seno florido prima di chinarsi su Machiavelli per strappargli un bacio sulle labbra.
Era seduta sulle sue gambe, gli occhi socchiusi, le dita ferme sulle spalle dell’Assassino che ricambiava i suoi baci accarezzandole avidamente la schiena nuda.
Cristiano non riuscì a vedere altro.
In preda al panico, si guardò bene dal fare rumore e chiuse immediatamente la porta, voltandosi di colpo per dimenticare l’accaduto.
Sentiva le guance in fiamme e la mente offuscata. La visione che aveva appena avuto era più che degna del peggiore dei suoi incubi.
Tornò rapido sui suoi passi, chiudendosi nel bagno insieme al Mentore, che parve quasi sollevato nel vederlo lì di nuovo.
«Pagni, per fortuna», biascicò infatti, passandosi una mano sulla fronte. «Mi sono accorto di non aver nulla con cui pulirmi.»
«Machiavelli», disse solamente il biondo, guardandolo spiazzato. «Lui è … Cristo, non pensavo fosse un vero uomo!»
Ezio ridacchiò, grattandosi fiacco una guancia.
«Ogni tanto può sembrare uscito da un sonetto dantesco, tanto è cencioso e preciso, ma è fatto anche lui di carne e ossa. Che ha combinato, ora?»
«Si sbatte Paola, suppongo.»
Il Mentore lo guardò, perplesso.
«Tutto qui?», chiese.
Cristiano sbuffò.
«Tutto qui.»
Ezio scoppiò a ridere.
«Se la sta portando a letto da settimane!», esclamò, colpendosi la fronte con il palmo aperto della mano quasi avesse appena ascoltato niente più che una barzelletta da osteria. «Lo sanno tutti, ormai!»
Cristiano mantenne lo stesso sguardo ed espressione, prima di alzare gli occhi al cielo ed imprecare.
Uscì di gran carriera dal  bagno, lasciando il Mentore a disperarsi per la mancanza di qualcosa con cui pulirsi, deciso a parlarne con qualcuno che potesse davvero comprendere il suo sconforto.
«Corella! Lorenzetti!»
Trovò i due ragazzi intenti a lucidare un paio di stivali lerci dal fango di quella mattina.
Corella, decisamente brillo e con un calice di vino rosso tra le mani, raccontava al suo compare di come fosse rovinosamente caduto addosso a un paio di massaie durante la corsa. Lorenzetti ascoltava in silenzio, tutto preso a mettere in sesto le sue calzature di pelle.
Quando udirono la voce di Cristiano, entrambi si voltarono verso le scale.
«Ah!», trillò Corella, alzando il calice verso il biondo. «Il Principe innamorato! Spallaci mi ha detto ogni cosa! Vieni qui, vieni qui. Non abbiamo avuto modo di parlare per bene ultimamente, uhm?»
Cristiano sentì le gote calde, sintomo che dovevano essersi arrossate, ma decise di non darvi peso. Si sedette fra i due quasi di prepotenza, sfilando il calice dalle mani dell’amico e tracannandone il contenuto.
«Non è il momento, Corella. Ci sono cose più allarmanti di cui discutere.» Rimase un attimo in silenzio, creando così maggior tensione, prima di sospirare e buttar fuori: «Ho appena visto i seni di Paola.»
Bengiamino alzò un sopracciglio.
«Quindi?»
«Vi era la faccia di Machiavelli, fra di essi.»
Corella impallidì, Bengiamino … bé, difficile dirlo, visto il suo abituale colorito biancastro.
«Tu hai visto cosa?!», gridò il forlivese, scattando in piedi come una molla. «Ma … dove? Quando?»
Bengiamino lo zittì prendendolo per la spalla e rimettendolo seduto sulla panca.
«Sta’ calmo», si raccomandò.
«Non capisci!», gli rimandò contro Corella. «Ha visto i seni di … Paola! E c’era la faccia di Machiavelli in mezzo!»
Cristiano annuì energicamente.
«E pareva molto felice.»
«Chi non lo sarebbe?», ribadì Alessandro, grugnendo sconfortato quando si prese il volto fra i palmi delle mani. «Dovrei esserci io, in mezzo a quel ben di Dio, non Machiavelli! Lui non è sposato?!»
Lorenzetti riprese a strigliare gli stivali, scuotendo piano il capo.
Pagni, invece, guardò perplesso verso l’amico forlivese.
«Da quando questo è un limite?»
«Da quando dovrebbe lasciare spazio a noi giovani, ecco da quando!», ribatté Corella, ormai distrutto dalla notizia. Si tirò debolmente fino al tavolo e si versò dell’altro vino, buttandolo giù tutto d’un fiato. «Capisco molte cose, amici miei», considerò allora. «In effetti Paola  non è mai stata troppo in nostra compagnia, ultimamente.»
Bengiamino sbuffò.
«Questo perché le fissavi continuamente i seni e la mettevi a disagio.»
Il forlivese annuì.
«O, più semplicemente», ribatté. «Perché aveva da fare con Machiavelli!»
«Bel partito però, questo dobbiamo concederglielo», disse Cristiano, inclinando il capo. «Si è garantita un posto nei meravigliosi cinque, così. Chi direbbe mai di no a Machiavelli?»
«Sembra una storia già sentita», infierì Corella, sogghignando. «Anche una certa bolognese si è infilata tra le lenzuola di qualcuno che sta in alto, se non erro.»
Bastarono quelle parole a far passare il buon umore a Pagni.
Si alzò di scatto, mormorando qualcosa riguardo il troppo vino che rende stupidi, prima di ritirarsi dentro al Covo.
Corella rise.
«Suscettibile, uhm? L’amore rende più stupidi del vino.»




«Guardate quanto è bella Roma!»
Il fracasso delle grida di Corella copriva gli scoppi fragorosi dei fuochi che, come ogni anno, venivano sparti in cielo per celebrare il compleanno del Pontefice.
«Ci penserà la Farnese, a festeggiarlo. Potevano risparmiarsi tutto questo trambusto!»,  decretò Laura, seduta accanto a suo fratello.
A pochi metri dal gruppo, Violante la guardò, trovandosi pienamente d’accordo, prima di riabbassare gli occhi sotto di sé. Con le gambe a ciondoloni nel vuoto, seduta sull’ultimo anello del Colosseo insieme agli altri, la bolognese non si sentiva affatto in vena di controbattere in alcun modo.
Erano saliti fin lassù per festeggiare la serata libera e si erano ritrovati in mezzo alla celebrazione per il Pontefice. Tanto valeva bere e godersi ugualmente la vista.
Di tutto il gruppo che quella sera si era presentato a cena, soltanto lei, Chiara, Laura, Bengiamino, Cristiano e Corella avevano voluto uscire per festeggiare.
A dirla tutta lei stessa se ne sarebbe stata volentieri a recuperare ore di sonno, ma Chiara aveva insistito tanto ed era stato praticamente impossibile dirle di no.
Per cui, erano arrivati fin lì carichi del vino che era rimasto nelle cantine e si erano trovati un posto in prima fila per lo spettacolo del Pontefice. Fuochi artificiali provenienti dalla Cina, a giudicare dai colori sgargianti che illuminavano a giorno il cielo scuro della città.
«Mi chiedo perché gli altri non siano voluti venire», considerò d’un tratto Chiara, stringendosi nel mantello verde che si era portata per ripararsi dal freddo pungente.
«Semplice!», trillò Corella, già palesemente ubriaco. «Spallaci aveva da accudire il suo piccolo …»
«Fiore di Maggio», suggerì prontamente Laura.
«Fiore di Maggio!», ripeté il forlivese. Si alzò in piedi e prese a muovere il bacino, scolandosi anche l’ultimo sorso di vino che aveva nel bicchiere. «Fiore di Maggio, ma dico io! Che nome, per un cavallo!»
Cristiano rischiò di soffocare con il vino, facendone uscire un po’ addirittura dal naso.
«Menti!», gridò, quando fu in grado di parlare di nuovo. «Quale depravato chiamerebbe così una povera bestia?»
«Te l’ho detto: Spallaci!», insistette Corella, barcollando verso di lui sorretto solo da buone intenzioni. Si appoggiò alla sua spalla, parlando con tono cospiratorio. «Scommetti che l’ha chiamato così sua madre? Dopotutto, quella donna gli regge anche l’uccello quando piscia, secondo me!»
Risero tutti, cosa che diede a Corella la forza per rimettersi ben dritto sulle gambe.
«E Paola!», esclamò, sposandosi di nuovo verso Bengiamino. «Paola che pensa ai bisogni di Vossignoria Machiavelli anziché a quelli dei suoi baldi compagni!»
Si sporse un po’ troppo in avanti, ma Lorenzetti lo afferrò in tempo per un lembo della blusa, riportandolo a sedere sui sassi del Colosseo prima che precipitasse nel vuoto.
«Non ci credo!», strillò Laura, portando le braccia sulle spalle di suo fratello. «Con Machiavelli?!»
«Esattamente», confermò Corella, facendosi improvvisamente triste. Buttò il bicchiere nel vuoto dinanzi a sé, fermandosi ad ascoltare il rumore del vetro andare in frantumi quando raggiunse il terreno. «E con me, si chiude tragicamente anche la seconda storia d’amore della nostra combriccola! Dico bene, Cristiano?»
«Tu non hai mai avuto una storia d’amore, Corella», ribatté il biondo, impegnato nel tentativo di distrarre l’attenzione da sé. Ci riuscì quando tutti presero a ridacchiare. «O devo per caso ricordarti Paola non t’ha mai guardato?»
Laura scostò lo sguardo mentre Bengiamino sospirava, rassegnato.
«Di chi è la prima storia d’amore?», domandò stranita Chiara, riportando l’attenzione laddove Pagni pareva non volerla.
Corella rise a gran voce, buttandosi contro Bengiamino per sporgersi verso la più giovane del gruppo.
«Ma del nostro bel Principe e della signorina bolognese che stasera se ne sta in disparte!», trillò, alzando un braccio nella direzione di Violante. Sorrise beffardo e rubò il bicchiere di vino a Chiara, tracannandolo senza pietà fino all’ultima goccia per poi sollevarlo. «Un brindisi agli innamorati che non si sentono ricambiati!»
E si ributtò addosso a Bengiamino, mentre questi si limitava a sospirare con fare sempre più rassegnato.
Violante scrollò il capo, guardando verso il cielo romano con un sorrisetto colmo di imbarazzo e divertimento.
Tra le attenzioni del Mentore, di Cristiano e di Spallaci, ormai non aveva tempo di far altro se non guardarsi le spalle da loro. Mentre le prime erano molto benaccette e le ultime alquanto sgradite, per Cristiano era diverso. Viola si era sempre sentita molto in sintonia verso di lui e non sapeva come atteggiarsi al fine di non incrinare i loro rapporti.
Vincevano quasi sempre grazie al loro grande affiatamento, sarebbe stato un crimine rovinare le cose.
«A parte questo», riprese in un istante Corella, alzandosi di nuovo in piedi con fare annoiato. «Il vino è finito. Per le strade c’è festa, chissà, magari assieme a una damigiana decente troverò anche qualche fanciulla disposta a farmi dimenticare Paola!»
Si posizionò dove meglio poté e spiccò un salto nel vuoto, atterrando nell’unico covone di fieno che c’era sotto di loro.
Laura scattò in piedi, trascinando suo fratello con sé.
«Veniamo anche noi!», esclamò, a metà tra il preoccupato e l’ansioso.
Dopo che i fratelli Lorenzetti si furono esibiti a loro volta in un elegante salto, a Chiara non restò che fare lo stesso, raccogliendo l’ampio mantello nei pugni minuti prima di lasciarsi cadere e implorare i suoi compagni di aspettarla.
Violante li guardò sfilare via, divertita e allo stesso tempo rassegnata.
Corella non sarebbe mai cresciuto.
Sentì i passi leggeri di Cristiano alle sue spalle, insieme agli occhi del giovane sulla sua nuca e fu come se, per un istante, lui non si volesse staccare da lei. Una visione da Amor Cortese, insomma.
Per fortuna, Cristiano tenne ogni commento per sé.
«Tu non vai?», domandò invece, sedendosi poi accanto a lei.
«Qui c’è pace, perché rovinarmi la serata?»
«Non sembravi molto in vena di festeggiamenti».
Il biondo dondolò in piedi nel vuoto, scrutando a sua volta i cieli di Roma.
Mille domande parvero passargli per la testa in quel momento, ma nessuna trovò il coraggio di uscire dalla sua bocca sottile, appena arricciata dall’odore di vino che tutte le bottiglie che Corella aveva portato fin lassù.
«Ti trovo strana, ultimamente. Come se qualcosa ti stesse togliendo il sonno», le confidò. Tirò su col naso un paio di volte, ma non osò voltarsi a guardarla. «Che cos’hai, Viola?»
Lei, per un attimo, prese in considerazione l’idea di parlargli di ciò che aveva udito, ma poi ci ripensò. Senza dar nulla a vedere sul viso, sorrise appena, voltandosi verso di lui.
«Con tutti i pensieri che abbiamo per il capo, tu dormi sereno? Non sappiamo del nostro destino, né di cosa ci riserva il domani. Semplicemente, sento molto la competizione di questo periodo.»
 Non era del tutto errato; Machiavelli sembrava nato per metterli sotto pressione.
«Non avrai problemi ad essere scelta», le rispose Cristiano, alzando le spalle con fare pacato. «Sei di certo più in gamba della maggior parte di noi e il Mentore ti guarda con occhio di riguardo.» Sospirò, congiungendo le mani in grembo. «Non dovresti sentirti in competizione proprio per nulla, Viola. Non è questo che Ezio si aspetta da noi. Se davvero vogliamo provare a essere una famiglia, dovremmo dirci tutto e fidarci l’uno dell’altro, non trovi?» Si prese un momento per pensare a ciò che stava per dire, alzando lo sguardo sugli ultimi fuochi artificiali che, oltre il Tevere, illuminavano il cielo di Roma. «Avete tutti i vostri segreti, qui, le vostre piccole confidenze che chissà perché non volete condividere con gli altri. Questo non è essere una famiglia.»
«Perché, tu non hai segreti, Cristiano?», la ragazza si voltò di scatto, piccata. «Cosa so di te, in fondo? Che sei di Ferrara. Il tuo cognome. Ami le mele e il vino toscano. Altro non mi è dato sapere visto che tu sei il primo a guardarsi bene dal parlare!»
Solo al culmine di quella sfuriata, la giovane si rese conto della grinta che aveva usato.
Si morse le labbra, prima di abbassare gli occhi sotto di sé, adocchiando un covone di paglia. Poteva semplicemente andarsene, stanca di sentirsi fare la morale da tutti.
Però qualcosa la fece rimanere.
«Ho sentito qualcosa, un paio di settimane fa. Non credo però che ad Ezio farebbe piacere sapere che la voce si è sparsa.»
Cristiano si fece improvvisamente più serio, alzando la mano per poggiarla sopra quella di Violante.
La guardò con tanta tenacia che i suoi occhi color del cielo parvero fiammeggiare, per un istante.
«Che cosa hai sentito?», le chiese, preoccupato. «Parlamene; deve essere senz’altro una notizia struggente. Posso vedere come ti sta logorando, Viola.»
Lei prese un respiro profondo, decisa a dirglielo. Attese ancora qualche istante, valutando i pro e i contro di quella decisione, prima di afferrare Cristiano per il colletto della camicia con fare minaccioso.
«Che rimanga tra noi due e il Colosseo, chiaro?» Fissò i suoi occhi sino a che no percepì che poteva del tutto fidarsi. Lo lasciò quindi andare, abbassando nuovamente lo sguardo.  «Maria ha detto ad Ezio che ha sentito due Templari parlare fra loro. Tra di noi, al Covo, vi è una spia. Che sia un apprendista o un Assassino, non lo sa nemmeno il Mentore.»
«Se al Covo ci fosse una spia, Volpe l’avrebbe già scovata e le avrebbe tagliato la gola davanti a tutti», rispose Cristiano, alzando le spalle con fare indifferente. «Andiamo, Maria avrà anche le sue buone referenze, ma non è del tutto sana di mente. Avrà inventato la cosa per attirare l’attenzione su di sé.»
Pareva crederci davvero, con tutta quella noncuranza che aveva messo nella sua frase, ma di colpo la sua espressione disinteressata si tramutò in un sorriso di scherno.
«O forse è gelosa di te e sta progettando di incolparti!»
Violante parve fin troppo stupita da quel ragionamento. Guardò Cristiano alzando le sopracciglia, prima di farsi appena sospettosa.
«Perché dici questo?»,  domandò, spostando la mano da quella del ragazzo. «Maria potrà anche essere gelosa, ma ama l’Ordine più di qualsiasi altra cosa. Sicuramente più dell’attenzione di Ezio. Non lo metterebbe di certo a rischio per una bravata del genere!»
Cristiano scoppiò in una risata prorompente, dondolando sul muro dov’era seduto.
«Andiamo, Viola! Ti sto solo prendendo in giro!», esclamò, portandosi una mano al viso per asciugarsi con fare teatrale quella che poteva essere una lacrima dovuta alle troppe risate. «Accidenti, sei così nervosa!»
Calmò il suo divertimento, ricomponendosi con rapidità mentre la osservava sbuffare. Silenzioso, le passò il braccio attorno alle spalle.
«Cerca di non pensarci, va bene?», mormorò, guardandola negli occhi. «Non è affar nostro, metterci a cercare le spie. Se Ezio non ci ha informati, di certo non la reputa una cosa così grave.»
Questo la bolognese doveva concederglielo; non c’era poi molto da spifferare, visto che il reclutamento di adepti era come l’addestramento dei soldati romani: un dato di fatto.
Si appoggiò appena contro Cristiano, contrastando la brezza serale che le faceva accapponare la pelle del viso e del collo.
«Forse hai ragione, ma se la cosa peggiorerà dovremo vederci chiaro.»
«Se la cosa peggiorerà, ci penseremo quando verrà il momento.»
Cristiano la strinse a sé, schioccandole un bacio sui capelli castani lasciati liberi dal cappuccio. Le sorrise, pizzicandole appena la spalla.
«Non ti crucciare più, d’accordo?»
Lei rispose al sorriso, ammorbidendo l’espressione e rasserenandosi.
Aveva ragione Cristiano: non aveva senso crucciarsi così tanto per nulla.
Appoggiò il capo alla spalla del ferrarese, guardando verso il cielo romano, finalmente libero da luci e fuochi. La città stava per scivolare nuovamente nel sonno, lasciando la strada libera a loro due per poter tornare al Covo senza venir visti da alcuno.
Rimasero a lungo in quella posizione, fermi a fissare Roma addormentarsi dopo una serata di festa, immobili anche quando i loro compagni passarono per la strada sottostante cantando a squarciagola chissà quale ballata.
Cristiano si scostò all’improvviso ma con dolcezza, lasciando che Violante potesse alzarsi prima che lui facesse lo stesso.
«Credo sia ora di rientrare», biascicò, tenendo lo sguardo puntato su di lei.
Non le lasciò esattamente il tempo di rispondere, né di scostarsi quando mosse un passo avanti.
Con un movimento fluido ma elegante, le strinse il polso, avvicinandosi quel che bastava per farle sentire addosso il suo respiro lieve. Schiuse appena le labbra, mentre le goti gli si arrossavano leggermente nel buio della notte.
Poi, con lentezza e raffinatezza, perse ogni indugio e si chinò sul viso di Violante.
La giovane rimase in un primo momento spiazzata, raggelata nell’imbarazzo. Poi, sentendo un poco di audacia crescerle nel petto, chiuse gli occhi ricambiando il bacio del biondo e lasciando che le sue dita affondassero tra quei ricci morbidi e chiari.
Sentì lo stomaco capovolgersi dentro di lei mentre il cuore aumentava inspiegabilmente di un battito. Smise di pensare e si lasciò guidare, ma Cristiano non si spinse oltre.
Si staccò dalle sue labbra con imbarazzo, indugiando un poco per guardarla negli occhi e sorriderle timidamente prima di sciogliere definitivamente ogni abbraccio.
«Andiamo», mormorò, arrossendo sotto il suo sguardo.
Si avvicinò al punto da cui qualche ora prima Corella si era lanciato e le tese la mano.
Assieme, saltarono nel vuoto.



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Capitolo 9
*** Capitolo ottavo ***


polverenera

Il destino di Qayin

Capitolo ottavo




Quella mattina, reduce dalla visita a casa della sera prima, Augusto si era svegliato al canto del gallo.
Machiavelli doveva davvero averli abituati alla levataccia perché, nonostante stessero attraversando un periodo di pausa da quelle orribili incursioni mattutine ad opera di Volpe, quasi tutti avevano preso ad alzarsi con il sorgere del sole.
Non quel giorno, comunque.
Aveva iniziato a piovere a dirotto nel cuore della notte, giusto dopo che Bengiamino e gli altri erano tornati dalla festa in città, e il temporale aveva lasciato dietro di sé una lieve foschia.
Così, quando Spallaci vide arrivare Cristiano e Violante dal ponte di Tiberio, non si sorprese di trovarli zuppi e infreddoliti, tremanti sotto i mantelli di raso che assai poco dovevano averli protetti dalla pioggia battente.
Lasciò il suo cavallo nella stalla quando si fu assicurato che Cristiano si fosse già allontanato scalando con la sua insopportabile eleganza la facciata principale del palazzo, e si avvicinò con fare stizzito a Violante, che per qualche motivo si era trattenuta nel cortile.
«Buongiorno», la salutò, ghignando sotto a un sorriso tirato dal sonno. «Passato una bella nottata, Ladra?»
La giovane – che probabilmente sperava di approfittare dei bagni del pianterreno per scaldarsi nell’acqua calda dei bagni – vide ogni suo progetto sfumare. Smise di soffiare dentro alle mani infreddolite, guardando Augusto con un sopracciglio alzato.
«Buongiorno a te», rispose educata, prima di portare una mano al collo indolenzito. «Normale notte di ronda. Qualcuno deve pur tenere controllate le strade per evitare che dei brutti ceffi facciano del male al tuo Fiore di Maggio, non credi, Serpe?»
«Strano, non ricordavo ti avessero affibbiato i turni con Pagni», rispose prontamente Augusto, incrociando le braccia sul petto con fare severo.  Si appoggiò con le spalle contro il muro, impedendo a Violante di filarsela sui tetti con la sua stazza che se non altro poteva vantare un paio di spalle sufficientemente larghe per l’intento. «Che vai combinando, degli Antoni?», le chiese, schietto. «Le lenzuola del Mentore non sono abbastanza profumate?»
«Non tutti vantano una madre che fa recapitare al Covo indumenti e coperte puliti e profumati di lavanda ogni settimana, contraddicendo così il regolamento», lo incalzò lei, guardandolo storto. «Non devo giustificarmi con te, Spallaci, ma avevo il turno con Corella che era troppo ubriaco di vino per camminare, così Cristiano ha fatto scambio con lui.»
Augusto alzò le mani in segno di resa, facendo spallucce con un’espressione a metà tra il divertito e il seccato a scurirgli il viso.
«Sta bene», rispose, tirando su col naso. «Se vuoi prendermi per i fondelli, fa’ pure. Ma, se me ne sono accorto io, se ne accorgeranno presto anche gli altri. E non fare tanto la santarellina; tu e la tua amica napoletana dovete proprio divertirvi, mentre noi dormiamo ammassati come i maiali in quelle brande pulciose.»
A quelle parole, Violante perse del tutto la calma.
Aveva appena trascorso la notte sotto alla pioggia battente, rincorrendo Cristiano che sembrava su di giri, di tetto in tetto, rischiando anche di cadere. Non avrebbe accettato la stupidità di Spallaci, non in quel momento.
«Stammi bene a sentire, gigantesco sacco di sterco bovino.» Lo prese per il mantello, tirandolo verso di sé. «C’è un grosso motivo, se tutti ti odiano: sei una zecca. Sei qui, educato dagli Assassini migliori della penisola, e passi il tuo tempo a vantarti e a fare battute idiote che non fanno ridere nessuno, invece di imparare davvero. Quanto ti ficcheranno il pennone di una bandiera dei Borgia nello stomaco, nessuno ti piangerà. Forse il tuo stupido cavallo cotonato!» Si scansò, andando verso l’altra facciata del palazzo. Fece per arrampicarsi, ma poi ci ripensò. Guardò dritta in viso Spallaci. «Sempre che non sia tu, a sventolare quella bandiera nel nome di Cesare.»
«Non lo starai insinuando davvero!», protestò Augusto, raggiungendola verso il muro. «La mia famiglia sputava sulle tombe di quei maledetti prima ancora che tu potessi anche immaginare di poter uscire da quel cumulo di merda in cui vivevi a Bologna!» Avanzò di qualche passo, schiacciandola contro la facciata del palazzo con il suo corpo. «Se ti sto dicendo di non ficcarti nei guai con Pagni è null’altro che per il tuo bene. Sei brava, ma nulla che l’Ordine non possa sostituire. Credi di essere l’unica a saper infilare le mani in un borsello senza farsi beccare?» Fece una pausa, furioso, leccandosi le labbra in preda al nervosismo. «Fa’ arrabbiare qualcuno e ti sbattono fuori. E allora sì che ci torni, a Bologna! In una cassa da morto con un mazzetto di margherite in mano!»
Con un gesto lesto, la ragazza cacciò dalla cinta lo stiletto, premendolo così tanto sulla gola di Spallaci da far uscire un piccolo rivolo di sangue.
Fu nel vedere quella stilla rossa, che la ragazza parve quietarsi.
«Non vali nulla, figurarsi la pena di ammazzarti e lanciarti nel Tevere.»  Si scostò da lui, rinfoderando l’arma. «Io saprò fare solo quello, ma qualcosa lo so fare. Tu non sei niente.»
Con un balzo salì sulla facciata del palazzo, sentendo i nervi a fior di pelle e sperando che non la seguisse.











Quella breve pausa concessa dal Mentore fu, di fatto, davvero molto, molto breve.
«Una delle molte abilità a cui deve ricorrere un buon Assassino è, naturalmente, un’agilità sopra alle righe. Dovete essere silenziosi ed eleganti nei vostri movimenti, o sveglierete la città rotolando sui tetti e scivolando sulle tegole.»
Ezio appoggiò le mani ai fianchi, assottigliando gli occhi a causa della luce irradiata da quello scorcio di sole di fine novembre.
«Violante? Inizia tu.»
La ragazza si avvicinò, ignorando lo sguardo di sfida lanciatole da Spallaci e osservando invece il Mentore, che reggeva in mano un bicchiere di ceramica.
«È pieno di olio bollente», le disse lui, passandoglielo. «Devi salire sulla chiesa e poi scendere senza versarne una goccia, o sarai tu a pagarne le conseguenze!»
Da dietro le sue spalle, la ragazza sentì il levarsi dei commenti soffusi di tutti i suoi compagni.
«Io non lo faccio», mormorava qualcuno.
«Io sono ancora ubriaco», commentava qualcun altro, qualcuno che Violante riconobbe come Corella.
La voce di Laura le giunse più chiara delle altre.
«Io sono capace», diceva, probabilmente rivolta ai membri del suo gruppo. «Papà ce lo faceva sempre fare con le uova.»
«Le uova non bruciano», commentò con sagacia Alessandro, meritandosi così una pacca sulla spalla da parte di Bengiamino.
Nonostante qualche esitazione, Violante portò a termine il percorso egregiamente, versando solo una piccola goccia di liquido caldo sul suo polso.
Ezio annuì compiaciuto.
«Molto bene. Un solo appunto: quanto giri su te stessa, non usare le braccia per bilanciarti, ma il bacino.» Si chinò in avanti, mentre lei restituiva il bicchiere, sussurrandole piano all’orecchio: «So che sai usarlo assai bene.»
«Allora perché correggermi?», lo incalzò divertita, tornando verso gli altri mentre il Mentore rideva di sottecchi.
«Corella, vieni qui! Via il dente, via il dolore!»
Il forlivese si avvicinò con passo indugiante, tirando su col naso mentre gli altri gli facevano spazio.
«Credo di aver alzato troppo il gomito, ieri», biascicò, grattandosi il capo con fare imbarazzato. «Sono scusato?»
Gli bastò un’occhiata di Machiavelli, in piedi alle spalle di Ezio, per afferrare il bicchiere e avvicinarsi al muro della chiesa.
Fu una scalata buffa per chi fece da spettatore, ma molto istruttiva. Corella arrivò in cima al pinnacolo senza che una sola goccia d’olio cadesse dal suo contenitore.
Aizzatosi sulla croce, sollevò il bicchiere in aria e finse di berlo, rovesciandolo alle sue spalle.
Atterrò con un balzo in un covone di fieno nei pressi del gruppo di Spallaci.
Tutti si divertirono a guardarlo, ma il Mentore fu quello che rise maggiormente.
«Sei scusato solo perché, ormai, il tuo bisogno di bere è più forte della voglia di topa!», esclamò, battendogli una mano sulle spalle mentre il forlivese emergeva dal covone per passargli il bicchiere vuoto.
Ezio lo riempì nuovamente, facendo un cenno verso Bengiamino.
 «Avanti! So che saprai incantarci con le tue movenze, Lorenzetti.»
Bengiamino non se lo fece ripetere due volte. Prese tra le mani il bicchiere, osservandolo a lungo prima di incastrarlo con cura laddove le due cinghie che portava sul petto si incrociavano, dopodiché iniziò la sua scalata.
Se, quasi un mese prima, la madre di Violante aveva affermato che sua figlia volava sui tetti, per Bengiamino il termine più corretto sarebbe stato danzare.
Piroettò letteralmente da un colonnato all’altro, appendendosi con grazia alle più piccole sporgenze, assicurandosi dalla caduta afferrando le minuscole dita delle statue.
Arrivò in cima seguendo una musica che soltanto lui pareva avere in testa e nello stesso modo ridiscese, fiducioso che la preziosa coppa non avrebbe versato neanche una goccia del liquido bollente.
«Non vi sembra una delle prostitute che danza ubriaca al Palatino?», domandò sfrontato Spallaci, ricevendo solo una zittita da Laura.
Chiara non riusciva a staccare gli occhi dal moro, il quale discese nuovamente, passando al Mentore il bicchiere senza proferire parola.
Ezio lo guardò con un sorrisetto.
«Non credo ci sia nulla da correggere, eccetto che il bicchiere andava tenuto in mano.»
Bengiamino annuì, cauto.
«Preferisco arrampicarmi con due mani», rispose, atono, dopodiché ritornò al suo posto accanto alla sorella.
Ezio ridacchiò.
«Vediamo invece che progressi ha fatto Ventimiglia!»
Sentendosi chiamare, il Conte si ritrasse dietro le spalle di Maria. Aveva ancora il viso aperto dalla ferita che si era procurato saltando da un tetto all’altro e di certo non pareva avere intenzione di aggravare il suo aspetto, se non che la modenese se lo scrollò di dosso con un gesto secco, incrociando poi le braccia sul petto.
Il ragazzo si avvicinò quindi al Mentore, tremando come una foglia. Più che un Assassino, pareva un bambino che ha perso la madre.
«Mi fa pena», sussurrò a voce bassissima Paola, direttamente nell’orecchio di Violante. Sia la castana che Cristiano si voltarono a guardarla, annuendo alle sue parole. «Non lo vede, Ezio, che è terrorizzato?»
Contrariamente ad ogni possibile previsione, il caro Conte arrivò a toccare la croce sulla chiesa senza versare l’olio, mostrando tanto abile nella scalata quanto nel mantenere l’equilibrio sulle minuscole sporgenze della facciata.
Fu allora che successe qualcosa di strano.
Tutti presero ad applaudire, mentre un paio di ragazzi cominciavano persino ad incitarlo.
Cesco sorrise, all’inizio timidamente e poi sempre di più con il passare dei secondi, alzando verso il cielo il braccio con il bicchiere.
Che fosse stato il cielo a volerlo o una mera sfortuna, un piccione decise di planare proprio in quell’istante, colpendo il bicchiere e permettendo così ad una cascata bollente e nera di cadere sul collo, sulla spalla e sul braccio del Conte, mancando di un pelo il viso.
Dal basso della piazza, l’intero gruppo rimase pietrificato.
Era stata una scena talmente surreale, quella appena successa, che di primo acchito nessuno riuscì a credere di avervi appena assistito.
Cesco Ventimiglia barcollò, piegato sotto il dolore dell’olio bollente versato sulla carne scoperta, e si sporse pericolosamente verso il vuoto.
Fu allora che Maria si buttò in avanti, scansando Bengiamino con una poco elegante gomitata.
«Ezio!», gridò, indicando la chiesa con un braccio alzato.
Il Conte stava già precipitando verso terra. Con  la sfortuna riservata solamente ad uno scomunicato, mancò il covone di paglia per un soffio, cadendo però per metà dentro ad una siepe ed evitando così di morire per un impatto fin troppo violento.
In un attimo, Maria, Ezio e Machiavelli gli furono sopra.    
Lo portarono velocemente verso il Covo, lasciando i giovani apprendisti da soli a girarsi i pollici o a riprendersi da quella scena.
«… È successo davvero?», chiese stravolto Corella, battendo velocemente le palpebre.
Bengiamino smise di seguire con lo sguardo i tre e il ferito, tornando a concentrarsi sulla realtà della piazza ancora gremita dei giovani.
«Dite che … è morto?», balbettò Chiara, con gli occhi scuri improvvisamente lucidi.
Lui scosse il capo.
«Non credo.»
Si voltò verso Violante e Paola, cercando di radunare il gruppo quantomeno con lo sguardo.
«Torniamo dentro», sentenziò, avvicinandosi alle due ragazze.
Laura lo seguì, prendendolo a braccetto con sguardo preoccupato.
«Già», convenne. «Non credo che ci saranno altre prove, per oggi.»
«Quanto meno, sicuramente non è lui la spia», disse divertito Cristiano, attirando così lo sguardo di quattro persone su di sé.
In particolare, Bengiamino, si voltò così di scatto da fare arretrare il biondo di un passo.
«Cos’hai detto?», chiese stranito, scambiando uno sguardo veloce con Chiara, la quale pareva aver formulato il suo stesso pensiero.
Violante si decise a rimediare a quella situazione disastrosa.
«Credo fosse una battuta», disse semplicemente, scrollando le velocemente spalle. «Avanti, torniamo dentro.»
Laura si fermò accanto a Bengiamino, mentre questi allungava la mano verso la spalla di Cristiano.
«Hai parlato di una spia», mormorò, sbigottita, mentre attorno a lei gli altri si accingevano a tornare nella sala comune.
«Da quand’è che abbiamo a che fare con delle spie?», proseguì Bengiamino. «Il Mentore non ne ha mai fatto parola.»
Corella li superò proprio in quell’istante, fermandosi con il suo solito fare curioso ad ascoltare il discorso.
«Spie?», chiese, arricciando il naso. «Che vai farneticando, Principe?»
Cristiano si morse il labbro, attendendo di rimanere solo con i Lorenzetti, Alessandro e Chiara.
La stessa Paola, complice la preoccupazione, pareva aver deciso che era meglio non sapere e aveva seguito il resto del gruppo all’interno.
 «Violante ha sentito Maria dire ad Ezio che c’è una spia, fra di noi.»
La bruna incrociò le braccia sul petto, guardandolo irata.
«Violante ha fatto molto male a fidarsi di te, Cristiano Pagni.»
«Meglio che lo sappiano anche loro», rispose il biondo, cercando di prenderla per le spalle, ma le si scostò, brusca, andandosene di lì.
Bengiamino guardò Violante allontanarsi, senza far nulla per fermarla.
Ci pensò Laura, la quale accelerò il passo e raggiunse la bolognese, prendendole il polso per riportarla indietro.
«Parlacene», le disse semplicemente, prima di fare ritorno verso il gruppo.
Tra gli altri, era già calato il silenzio.
«Ezio ha già qualche sospetto?», chiese d’un tratto Bengiamino, dando un grosso sospiro.
Guardò Corella, poi Pagni, infine piantò gli occhi cobalto su sua sorella e su Violante.
La bolognese non pareva incline a voler parlare, ma un ennesimo sguardo del milanese le fece passare la voglia di tacere.
Scrollò il capo, alzando un istante gli occhi verso il cielo prima di iniziare.
«Non ne ho idea. Tutto ciò che so è quello che ho detto a Cristiano: Maria ha detto ad Ezio e Machiavelli che ha sentito chiaramente due Templari parlare di affari che non dovevano conoscere. Non dovrei nemmeno saperlo io. Non ne ho mai parlato con il Mentore.»
«Una bella gatta da pelare», commentò Corella, serio come mai prima. Si grattò dietro all’orecchio prima di sorridere di nuovo con leggerezza. «Non credo dovremmo immischiarci.»
Per un istante, qualcosa guizzò nello sguardo scuro di Bengiamino, ma fu soltanto una scintilla, un effimero cambiamento nei suoi occhi perennemente concentrati su chissà cosa. Il suo corpo si rilassò, i pugni che fino a quel momento aveva tenuto chiusi si aprirono lungo i fianchi.
«Già», commentò, semplicemente, senza staccare gli occhi da Corella. «Lo credo anche io.»
Nuovamente, calò il silenzio.
Rimasero tutti a fissare il terreno per qualche istante, senza ben sapere come uscire da quella situazione allontanare, almeno per il momento, la tensione della notizia.
«A qualcuno va un tè?», propose d’un tratto Chiara, aggrappandosi al braccio di Laura.
Bengiamino scosse il capo.
«Io faccio qualche tiro», rispose e s’incamminò verso il cortile coi paglioni.
Corella ridacchiò.
«Io vi seguo volentieri per un po’ di vino!»
Cristiano attese di vederli incamminarsi, prima di avvicinarsi timoroso a Violante. Si passò una mano tra i capelli, scostandoli dalla fronte con un gesto veloce, prima di provare a parlare.
«Mi dispiace. Sono stato stupido …»
Di nuovo, lei si scostò prima che lui potesse toccarla o prenderle la mano.
Lo guardò semplicemente, senza celare in modo alcuno la delusione nei suoi occhi.
«Sì, lo sei stato.»
Girò sui tacchi, tornando verso la stanza delle ragazze, senza protrarre oltre quella discussione.










Ezio le mandò a chiamare nel cuore della notte, quando ormai si erano coricate dopo il turbamento della giornata di prove.
Laura dormiva profondamente, completamente avvolta nella coperta di lana con cui si ripara dal freddo dell’inverno, quando una mano la destò, scrollandola con delicatezza.
Aprì gli occhi nel buio della stanza e assottigliò lo sguardo, accecata dalla fiamma di una candela.
Dietro al lume, c’era il viso di Maria.
«Alzati e vestiti», le disse, prima di voltarle le spalle e avvicinarsi al giaciglio di Chiara. «Ezio ci vuole di sotto il prima possibile.»
Lasciarono la stanza tutte e cinque assieme.
Paola, con i capelli ramati sciolti sulle spalle, non aveva  nemmeno badato a vestirsi, coprendo la camicia da notte con uno scialle sufficientemente pesante per il freddo di novembre. Chiara era il volto della preoccupazione: gli occhi sbarrati, scurissimi, e le dita affondate nella veste turchese. Maria e Violante parevano vestite per andare alla guerra: scure in viso, con l’armatura addosso e il coltello legato alla vita.
Guardandole scendere le scale, Laura si chiese se conoscessero il motivo di quella convocazione.
La sala era calda, illuminata dal fuoco che scoppiettava nel camino e ravvivata dal sommesso parlottare dei ragazzi già seduti sulle panche.
Augusto, Alessandro, Cristiano e Bengiamino discutevano a voce bassa, in cerchio attorno alla tavola centrale.
Laura li raggiunse senza esitazione, prendendo posto accanto a suo fratello.
«Dove sono gli altri?», chiese, guardando in volto tutti i ragazzi.
Machiavelli entrò in quell’istante, guardandoli con gli occhi pesantemente assonati prima di girare sui tacchi e sparire, iniziando ad urlare nella camera dei ragazzi, per far sì che s’affrettassero.
«Non l’ho mai visto così stanco», sussurrò Chiara, sedendosi sulle gambe di Corella quando questi la invitò a farlo con un cenno. «Forse siamo alla fine dell’addestramento.»
«Impossibile», disse Cristiano, pensieroso. «Abbiamo praticamente appena iniziato.»
Violante passò il peso da un piede all’altro, guardando verso il Mentore che parlava fitto con d’Alviano e Volpe, senza degnarli di uno sguardo.
Sembrava davvero la fine.
Laura puntò i gomiti sul tavolo, affondando  il viso nei palmi delle mani. Aveva appena ricevuto il risveglio più gentile da quando era arrivata a Roma ma il sonno continuava a farsi sentire, appesantendole le palpebre e implorandola di tornare tra le coperte.
«Scommetto che parleranno della spia», sussurrò Paola, sedendosi accanto a lei.
Lo sguardo arzillo di Corella si spostò dal viso di Bengiamino alla camicia da notte della ragazza, ben attirato dalla trasparenza del tessuto.
Laura sospirò, affondando ancora di più nelle sue mani.
Avrebbe dato qualunque cosa per tornarsene a letto.
Gli altri li raggiunsero proprio mentre Ezio si voltava verso di loro con una pergamena in mano. Li guardò con un sorriso bonario e assurdamente riposato, prima di scambiare uno sguardo con Niccolò.
«Oh, sbrigati!», sbottò il consigliere, stizzito come poche altre volte, «Tanto hai preso – come sempre – le decisioni più stupide. Tanto vale che io me ne torni a riposare sino a domani pomeriggio!»
A quelle parole, tutti rimasero sconvolti.
Doveva essere grave, se ciò levava a Machiavelli la voglia di torturarli con gli allenamenti.
Auditore, per risposta, se la rise sotto ai baffi. Poi si rivolse verso i ragazzi.
«Vi abbiamo convocati perché, per cause che purtroppo non sono dipendenti da nessuno di noi o di voi, dobbiamo affrettare la procedura. Abbiamo davanti ancora solo due mesi di addestramenti e voi siete troppi per potervi seguire tutti.»
Fece una pausa, mentre un mormorio diffuso si propagava fra i giovani.
«Solamente dieci rimarranno qui, mentre gli altri verranno spostati al Covo di Venezia, dove il mio amico Alvise da Vilandino sarà felice di curarsi di voi per tutto il tempo che riterrete necessario.»
Laura si mise composta, scambiando un’occhiata stranita con suo fratello e leggendo nei suoi occhi la sua stessa, identica paura: e se li avessero separati? Non si erano mai persi di vista nemmeno per un istante, da quando erano venuti al mondo. Non era pronta a lasciarlo così.
Sentì la mano di Bengiamino stringerle la spalla.
«Farò i nomi di chi resterà con noi», proseguì d’un tratto il Mentore, incrociando le braccia dietro la schiena. «Gli altri, possono andare a impacchettare i loro averi. Prima partiranno, meno probabilità avranno di essere intercettati dai Borgia.»
Corella si piegò in avanti, coprendo la bocca con la mano.
«Dunque è per la spia, che ci separano?», chiese. «Vogliono forse mettere in salvo chi non ritengono sospetto?»
Laura aprì la bocca per rispondere, ma di nuovo la voce di Ezio rimbombò nella sala.
«Lorenzetti, Corella, Spallaci e Pagni», chiamò, serio. «E Ventimiglia, che per ovvie ragioni non può viaggiare.»
L’intero gruppo rimase in silenzio, mentre i primi ragazzi cominciavano ad allontanarsi sulle scale.
Corella spalancò la bocca, guardando in viso Bengiamino, poi Chiara, infine Paola.
Laura sbuffò, tornando a guardare nella direzione di Ezio.
Ne mancavano ancora cinque.
«Per quanto riguarda le ragazze, nessuna si allontanerà da Roma. È poco prudente, farvi lasciare la città.»
Mentre anche i rimanenti tornavano verso il dormitorio, Laura guardò Violante e Maria avvicinarsi.
Era lieta di non doversi staccare da suo fratello, ma quel riguardo che il Mentore aveva avuto nei loro confronti la innervosiva.
«Che vuol dire, “è poco prudente”?», sbottò, mentre Violante le si sedeva di fronte. «L’ha detto lui stesso, che siamo Assassini e non panettieri!»
Trevisan, fermo sulle scale, si voltò di scatto.
«Tener qui sei persone perché è poco saggio farle viaggiare mi pare una follia! Io sono molto più preparato della fiorentina o del Conte Ventimiglia!»
Anche Maffei colse l’occasione per dire la sua, portandosi davanti ad Ezio.
«Tieni qui Corella? Oh, andiamo! Non ha mai fatto nulla di sensato! Tutto ciò è ridicolo!»
«Una farsa!», disse qualche altra voce. «Ingiustizie ovunque!»
«Silenzio!»  La voce di Machiavelli si impose su tutte le altre, riportando il silenzio. Sembrava così irato che nessuno si arrischiò a dir nulla. «Per quanto io stesso trovi queste scelte a dir poco ridicole, Ezio ha motivato ogni singolo prescelto e ha dato una spiegazione esauriente sul perché mantenerlo. Accettate la vostra sorte e andate a prepararvi.»
Maffei lo guardò, ironico, ridendogli in faccia.
«Già, chissà come è stata motivata Paola. Soprattutto chi l’ha motivata.»
E senza attendere risposta abbandonò la stanza, seguito da Trevisan.
Bengiamino sospirò, scuotendo appena il capo.
«Quantomeno abbiamo tagliato i rami scansafatiche dell’albero», commentò.
Corella fece schioccare la lingua.
«Ci manca solo di buttar fuori Spallaci e faremo crescere un delizioso ciliegio dai fiori rosa!», rispose, scoppiando una risatina resa acuta dall’ebbrezza.
Laura sospirò.
«Però avevano ragione», fece notare. «Maffei è un ottimo spadaccino, persino più bravo di Machiavelli, e Trevisan è il miglior stratega che Ezio potesse sperare di trovare.»
Chiara si fece presente dando un piccolo colpo di tosse.
«Non ci ha scelti in base all’abilità.»
Corella diede una risata nervosa.
«Fiore di Maggio, questo lo avevamo capito!»
«Voglio dire», precisò la fiorentina. «Che ognuno di noi ha qualcosa in cui brilla. Io e Paola non siamo brave con le armi, ma siamo più utili di Maffei o Trevisan come spie. Spallaci non è intelligente, ma è un ariete da sfondamento. Capite ciò che intendo?»
Laura sospirò.
«Spero solo che non ci faccia ammazzare tutti, con questa tattica.»
Violante sbuffò.
«Che stupidità. Un Assassino deve essere completo a trecentosessanta gradi. Deve saper spiare, combattere e scappare al momento opportuno. Maffei e Trevisan avevano tutte e tre queste caratteristiche. Le strategie tanto non le facciamo noi, ma il Mentore.»
«Sono d’accordo», si intromise Cristiano, incrociando le braccia sul petto.
«Lo dite perché voi due sareste stati comunque scelti», ricalcò Corella, senza cattiveria nella voce, ma con tono ovvio. «Voi due, Maffei, Trevisan, i due Lorenzetti, Prosperi e forse anche Tonari. Probabilmente i migliori nelle tre abilità che la cara Viola ha elencato.»
«Non credo proprio», si intromise Spallaci. «Passino la Ladra e il Principe. Forse anche i due milanesi e Trevisan, ma sicuramente io sono più abile di Maffei, Prosperi e Tonari sommati!»
Machiavelli si voltò verso Ezio, interrompendo per un istante la lite in atto.
«Mettere venticinque persone l’una contro l’altra nel tempo di due frasi. Bel colpo, complimenti.»
Il Mentore batté le mani due volte, per attirare l’attenzione generale.
«Litigherete dopo fra voi, ora gradirei sentire i vostri pareri. Scelte mie, mia la responsabilità.»
«A me sta bene», trillò Chiara, pettinandosi con infantilità i capelli dietro le spalle. «Avete scelto i migliori in ogni campo; sarà più facile imparare l’uno dall’altro, così.»
Bengiamino annuì, composto.
«Lo penso anche io», commentò.
Corella dondolò il capo.
«Avrei comunque preferito Trevisan a Spallaci, ma ci si può adattare!»
Dalla cima della sala, Ezio annuì con serietà, non mancando comunque di scoccare un’occhiata soddisfatta a Machiavelli.
«Molto bene», disse. Fece vagare lo sguardo sulla stanza, fermandosi un istante sulla figura di Maria. Le sorrise, ma il suo ghigno si spense quando non ricevette che un’occhiataccia di rimando. «Maria?», incalzò.
Lei alzò le spalle.
«Troppo facile, pulirti la coscienza così», commentò con un sorriso beffardo. «Aspetta di dire loro la grandiosa idea di Niccolò!»
«Quale grandiosa idea?», domandò Cristiano, mentre alla sua sinistra, Violante pareva trattenersi dall’insultare Ezio.
Laura la capiva e, più o meno, credeva di condividere il suo punto di vista.
Tutta quella selezione improvvisa non andava bene. Non aveva nulla contro Chiara, né Paola o Cesco, ma loro tre non meritavano di stare lì. Se potevano chiudere tutti un occhio su Corella – che in fin dei conti era solo sempre troppo ubriaco – loro tre erano inaccettabili.
Machiavelli fece un passo avanti, guardandoli finalmente compiaciuto.
«Verrete divisi in due squadre», disse composto, portando le braccia dietro alla schiena con fare solenne. «Vi ho divisi in modo da bilanciare le vostre abilità. Pagni e degli Antoni insieme erano troppo bravi, così come Francesco e Nicolino erano troppo pessimi. Chiara è troppo attaccata a Bengiamino e mi dà fastidio tutto questo morboso aggrapparsi costantemente a lui. Così come sono stufo di vedere Corella bighellonare attorno al Covo imbottito di vino. Da oggi, con effetto immediato, Spallaci farà capo a degli Antoni, Bengiamino Lorenzetti, Paola e Corella. Pagni, invece, farà capo a Maria, Filippi, Laura Lorenzetti e, non appena si sarà ripreso, Ventimiglia. Durante gli allenamenti, vi sarà permesso di stare esclusivamente con la vostra squadra. Meno contatti avrete tra di voi, meglio sarà. Dovete concentrarvi su voi stessi e sul vostro gruppo per crescere come Assassini. E il vino è ufficialmente dichiarato al bando: chi berrà durante la giornata e nelle sere di ronda verrà spedito a calci a Venezia.»
Laura guardò Bengiamino e lui la guardò di rimando. Non potevano allenarsi assieme, ma se non altro non si sarebbero persi di vista. Quantomeno, Ezio aveva risparmiato loro il dolore di doversi separare.
«Io con quegli scemi non ci sto!», obiettò Spallaci, avvicinandosi al gruppo seduto attorno al tavolo. «Passi degli Antoni, ma con Corella e Gregorio non voglio avere niente a che fare! Lorenzetti, per quanto mi riguarda, può anche andarsene al diavolo!»
Bengiamino alzò le spalle, insofferente.
«Prova ad indovinare quanto mi importa del tuo punto di vista, Augusto», replicò acidamente Niccolò, alzando un dito verso la faccia di Spallaci. «Tu eri uno di quelli che io avrei mandato a casa, e di corsa! Il tuo temperamento è solo un intralcio! Non sarai mai un Assassino decente se non imparerai a controllarti!»
A quelle parole, Augusto rimase zitto.
Cristiano ridacchiò, scambiandosi uno sguardo con Corella.
Machiavelli li vide e partì, deciso a rovinare la nottata a tutti.
«Voi due non siete di certo meglio», disse, guardandoli come se si trovasse davanti due bambini particolarmente stupidi. «Tu, Corella, non riesci mai a camminare diritto e tu, Pagni, se non impari a comprendere i tuoi limiti sarai il primo a morire. Vale per tutti questo discorso, chiaro Signorina Violante?» Fronteggiò la bolognese, che non fece una piega, fissando con apatia il volto del consigliere. «Bengiamino, Laura, Paola e Maria sono i soli che avrei tenuto, fra voi. Non esiste peggior stupido di chi si sopravvaluta. Non me ne faccio nulla di eroi che agiscono prima di pensare, o che credono di avere la verità in mano. E per l’amor di Dio, Filippi, piantala di piangere!»
Maria sospirò a lungo, prima di portare una mano alla fronte. Guardò Paola abbracciare la piccola fiorentina, scossa dallo sconforto, prima di aprir bocca: «Solo una cosa, Niccolò: seguiremo ancora l’allenamento predisposto?»
«No», rispose il consigliere. «Ezio ha scelto le persone e la prossima … chiamiamola missione. L’allenamento, però, lo curerò io. Farò di voi degli Assassini o creperò nel tentativo.»
«O creperemo noi», sussurrò Corella, beccandosi uno sguardo compassionevole di Ezio.
Maria dondolò il capo, alzando gli occhi al soffitto con aria stralunata.
«Basta scenate, per stasera», propose. «Ezio, spiegaci cos’hai in mente.» Si fermò un istante a guardare in viso tutte le ragazze, così giovani che avrebbero tranquillamente potuto essere le sue figlie, e diede l’ennesimo sospiro.
Laura trattenne a fatica uno sbadiglio. Di nuovo, il sonno cominciava a farsi prepotente.
«Chi dobbiamo derubare, stavolta?», chiese, appoggiando il capo sulla spalla di Bengiamino, il quale le coprì le spalle con il proprio mantello.
«O per quanto dobbiamo correre?», aggiunse Corella.
«A dire il vero, dovete andare ad una festa», disse il Mentore, continuando a sorridere divertito nonostante la scenata di Machiavelli.
Cristiano aggrottò la fronte, guardandolo pensieroso.
«Ma ci è appena stato negato il vino, non puoi dirci che ci mandi ad una festa! Non trovo il filo logico in tutto questo.»
«Non credo ci sia», confermò Ezio. «Ma ho scoperto stamani che gli Orsini terranno una festa in onore dei Borgia. Ci saranno tutti, forse persino sua Santità il Papa. Voi dovrete entrare e dimostrarmi che, fra le vostre abilità, vi è anche quella di carpire più informazioni possibili.»
«Su che argomento?», domandò Chiara, asciugandosi gli occhi con risolutezza. Pareva determinata a dimostrare a tutti di non essere solo un peso attaccato al braccio di Lorenzetti.
«Qualsiasi argomento», rispose Volpe. «Tutto torna utile, alla fine.»
«Strategie militari, armamenti, sommosse, famiglie pro e contro i Borgia … Matrimoni combinati», Ezio elencò tutto sulle dita. «Tutto fa brodo!»
Laura sospirò.
«Sono mesi che non andiamo a una festa», commentò, guardando Bengiamino. «Tu ce l’hai, l’abito da cerimonia?»
Era una cosa stupida a cui pensare, ma quando aveva fatto i bagagli a Milano non aveva minimamente preso in considerazione l’evenienza di dover partecipare a un evento mondano.
«Pensa piuttosto a come faremo a entrare», la corresse subito Cristiano. «Ho visto gli ingressi di Palazzo Orsini, durante la corsa. Credo che entrare alla corte di Francia sarebbe più facile!»
«Un modo dovrà pur esserci», assicurò Chiara, sorridendo appena. «Nessun luogo può essere tanto sorvegliato.»
Corella scoppiò a ridere.
«Massì!», esclamò. «Sarà la volta buona che mi troverò moglie!»
«Ora, tutti a letto», abbaiò Machiavelli. «Basta cianciare, vi voglio in piedi all’alba. Farete cento volte l’Isola di corsa.»
E sfilò risoluto fra di loro, allontanandosi dalla sala.
«Qualcuno stanotte non dormirà», commentò Cristiano, guardandolo andare via.
Spallaci fu il primo a dileguarsi, ancora ferito nell’orgoglio.
Chiara si lasciò sfuggire un sospiro rassegnato.
«Ci toccheranno davvero cento giri di corsa?», chiese, aggrappandosi alla camicia di Maria.
La modenese la guardò, seccata.
«Spero ve ne tocchino il doppio, se devo essere onesta», rispose, avviandosi verso il dormitorio. «O quando alla festa sarete costretti a scappare dalle guardie dei Borgia, non arriverete neanche a muovere un passo che sarete già stecchiti con una spada nel cranio.»
Si portò una mano al collo, facendolo scrocchiare e si allontanò a passo spedito, seguita da Laura che non vedeva l’ora di ributtarsi sotto le coperte e lasciarsi tutti quei battibecchi alle spalle.




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Capitolo 10
*** Capitolo nono ***


polverenera

Il destino di Qayin

Capitolo nono




Contrariamente alle aspettative più pessimistiche di Corella, la sera della festa il cielo di Roma fu clemente.
Le stelle brillavano, libere dall’oppressione di qualsivoglia nube, insieme a una grande luna piena.
Avevano passato quasi due settimane di allenamenti estenuanti al limite dell’assurdo che ogni sera permettevano loro giusto di divorare la cena prima di crollare miseramente fra le coperte, spesso senza nemmeno levarsi la divisa infangata.
Machiavelli aveva concesso loro solo il giorno stesso di quell’evento per recuperare le energie e procurarsi gli abiti per entrare alla festa degli Orsini, disponendo che tre di loro non avrebbero preso parte al piano di Ezio ma sarebbero rimasti sui tetti e per le vie, nel caso in cui le cose si fossero messe male.
Ovviamente uno di loro era Corella, che rischiava di incappare nel fratello Michelotto, e insieme a lui anche Cesco da poco redivivo e una Laura a dir poco irata.
«Escluderci così! Non lo trovo affatto giusto», commentò, affranta, mentre con Cristiano a Violante percorreva le ultime vie prima del palazzo. «Sia io che Corella potevamo essere utili, là dentro!»
Cristiano sospirò.
«A proposito di Corella», disse. «Lui dov’è finito?»
Laura alzò le spalle.
«Senza più una goccia di vino e senza il seno di Paola non gli resta molto per cui vivere. È da qualche parte sui tetti a crogiolarsi nel dolore.»
«Fa’ in modo che sia sveglio, quando sarà il momento di agire.»
«Sta’ tranquillo.»
Camminarono fianco a fianco ancora per un istante, dopodiché Laura li salutò entrambi, arrampicandosi su di una vecchia impalcatura per raggiungere Corella sui tetti.
In men che non si dica, Cristiano si ritrovò solo con Violante. Solo e senza una minima idea su come entrare alla festa.
La ragazza – che, dopo averglielo fatto pesare parecchio, pareva aver dimenticato ogni screzio fra loro – infilò  le mani nelle pieghe della toga bianca che indossava.
«Non saprei», disse di punto in bianco, mentre il biondo sbuffava scontento. «Non sembrano esserci molte vie di ingresso. Se uccidiamo una guardia ne attireremo cento e in più gli arcieri pattugliano i tetti.»
Si appoggiò all’impalcatura che li nascondeva da occhi indiscreti, scuotendo piano il capo.
«Idee?»
Cristiano scosse il capo.
Ci voleva un miracolo o, quanto meno, un’intuizione geniale.
«Neanche mezza», rispose, incrociando le braccia sul petto. «Ma so che Ezio si è intrufolato altre volte là dentro, perciò non deve essere poi inespugnabile, quel palazzo.»
Rimasero in silenzio alcuni minuti, entrambi alla ricerca di un possibile piano per arrivare alla festa. Erano i primi a presentarsi dinanzi alle porte, visto che gli altri se l’erano presa con calma ed erano rimasti al Covo a prepararsi. Forse, se avessero avuto la pazienza di aspettare, avrebbero trovato un modo per fare squadra e aprirsi una via.
Un rumore di zoccoli distolse Cristiano da qualunque pensiero.
Spallaci arrivò al trotto di Fiore di Maggio – il solo essere al mondo che pareva essere più stupido di lui – tutto impettito nel suo costume per la festa. Con addosso l’armatura e l’elmo dorato di Marte, assicurato da scudo e spada legati al suo fianco, il ragazzo si fermò proprio vicino a loro, scendendo da cavallo con fare stranamente elegante.
«La mia famiglia mi ha gentilmente ceduto il suo invito alla festa», esordì, senza mancare di vantarsi. «Ma venendo qui mi sono detto che non posso di certo arrivare senza un’accompagnatrice; sarebbe di magra figura per gli Spallaci.» Fece una pausa, sorridendo con fare velenoso a Cristiano, prima di rivolgersi a Violante. Le porse il braccio e le fece l’occhiolino. «Vogliamo andare?»
Lei lo guardò combattuta, prima di afferrare il braccio del ragazzo con poca convinzione.
Cristiano rimase senza parole. Anzi, in mente ne aveva fin troppe.
«Andiamo, mi prendi in giro?!»
«Se almeno uno di noi due non entra, rimaniamo fuori entrambi», rispose ovvia la ragazza, cercando di non guardare la faccia soddisfatta di Spallaci. «Ti verrò a prendere presto, rimani nei pressi del ponte.»
Salì quindi a cavallo con il romano, lasciandosi condurre alla festa con riluttanza.
Cristiano sospirò, scuotendo il capo.
A quanto pareva, essere un’allieva di Auditore aveva un prezzo.












«Entrare non sarà facile.»
Chiara guardò Bengiamino sbuffare, avvolto in una cappa se possibile ancor più scura del solito nel suo costume da Dio degli Inferi. A proporgli quel personaggio, Ezio aveva decisamente avuto un’idea brillante. 
«Forse ho un’idea», gli disse, mentre a passo rilassato prendevano a camminare sul ponte.
Rimasero in silenzio lungo tutta la traversata, senza osare staccare gli occhi dal gruppo di guardie che all’ingresso fermavano ogni passante, e raggiunsero la fine dell’attraversamento che ormai la folla era praticamente sparita.
Quando un miliziano li fermò con un cenno, Chiara sentì il braccio di Bengiamino irrigidirsi.
«Nome, prego.»
La ragazzina si sforzò di tirare fuori il suo sorriso migliore, anche se le parve di risultare fin troppo tirata.
«Mancini», rispose, pensando a uno dei cognomi romani dei clienti di suo padre.
La guardia controllò velocemente l’elenco che aveva in mano.
«Madonna Claudia», confermò, annuendo piano.
Chiara annuì, stringendo la mano attorno al braccio di Bengiamino.
«E questo è … »
Bella domanda.
Sospirando, si sforzò di sorridere.
«Mio marito.»
Il suo cuore quasi si fermò quando vide il miliziano riprendere a scorrere l’elenco.
«Messer Paolo Mancini, sì. Di Corcolle», confermò poco dopo, aprendo loro la via. «Buona serata, signori.»
Superando la fila di guardia, Chiara non poté che soffocare una risata soddisfatta.
Sentiva le gambe molli, il respiro pesante e il cuore che chiedeva disperatamente di uscire dal petto, ma poteva dirsi felice.
Bengiamino, invece, non riuscì a trattenere un’espressione a dir poco sconvolta.
«Ha funzionato», disse con un filo di voce, afferrando il primo calice di vino che si ritrovò per le mani quando furono all’interno. Si guardò attorno circospetto, cercando di non sembrare uno scemo ancor troppo meravigliato per le prodezze di Chiara. «Violante si sbagliava di grosso», le disse, prendendole una mano e portandola alle labbra per poterla baciare. «Una buona mente è più importante di ogni fuga!»










Cristiano afferrò un calice di vino, lanciando un’occhiata nervosa a Machiavelli prima di buttarlo giù tutto d’un fiato.
Era riuscito a entrare alla festa solo grazie all’abilità di ladra di Violante, che aveva approfittato di un bacio strappatole da Spallaci per rubargli l’invito dalla sacca.
L’aveva raggiunto all’esterno e insieme erano rientrati, eludendo le guardie con quel pezzo di carta ma venendo subito divisi quando Augusto era arrivato a riprendersi la sua accompagnatrice.
In quella situazione, solo a una festa di sconosciuti a fissare il romano approfittarne dell’invito per trattare Viola come la sua fidanzata, Cristiano non vedeva altra soluzione che il vino.
Si avvicinò a Machiavelli, fermandosi al fianco di Paola, e rubò dal tavolo l’ennesimo bicchiere.
«Buonasera», salutò, elegante.
Il consigliere gli lanciò un’occhiata seccata.
«E tu? Come saresti entrato?», chiese, acido.
Cristiano alzò le spalle.
«Spallaci aveva l’invito.»
Maria, che decise di palesarsi in quel frangente, guardò attentamente Cristiano, rubandogli poi il bicchiere per prendere un sorso .
«Un invito, uhm? Sospetto.»
«La sua famiglia fa parte di una cricca di nobiltà che appoggia gli Orsini, gli organizzatori della festa», replicò Paola, sistemandosi il vestito piuttosto corto da Venere e sorridendo ad una nobildonna che la guardava sprezzante. «Dopotutto, anche Niccolò ha avuto l’invito.»
«Tu come sei entrata, piuttosto?», chiese Pagni alla modenese.
Lei lo guardò come se le avesse appena chiesto la più stupida delle ovvietà.
«Dai tetti», rispose ovvia, prima di fare qualche passo verso il parapetto delle mura.
Il biondo roteò gli occhi.   
«Ovvio, ma che stupido a non averci pensato», disse sarcasticamente, prima di prendere un altro bicchiere e bere alla salute di Machiavelli.












«E questa bella signorina chi è, Augusto?»
Una nobildonna romana le toccò con disinvoltura la spalla, accarezzandola con fare amichevole.
«Madonna Sartori, di Chioggia», rispose Spallaci, mentre stringeva la mano di Violante tra le sue. «La mia fidanzata.»
«Non sapevo tuo padre avesse già pensato a trovarti moglie!»
«Non l’ha fatto. Io e Violante ci conosciamo da anni, invero. E poi … »
Anche aggruppando tutte le buffonate che Spallaci aveva detto nei mesi passati al Covo, non si sarebbe comunque raggiunta neanche la metà di quelle che stava sputando in quel momento. Erano tutte ciarlatanate, una dopo l’altra, quasi il romano provasse gusto ad inventare i più ridicoli particolari della loro infanzia passata assieme.
Violante iniziava a non poterne più, soprattutto perché non riusciva ad aprire bocca. Ogni volta che le veniva rivolta una domanda, Augusto rispondeva celere al suo posto, quasi come se temesse un passo falso.
Era così abile a mentire che Viola si insospettiva sempre di più di persona in persona con cui era costretta a parlare. O quantomeno a provarci.
Quando si staccarono da quella nobildonna che puzzava di stantio, gli scoccò un’occhiata in cagnesco.
«Stai passando il limite, Augusto.»
«Rilassati, degli Antoni», la prese in giro lui, afferrando due calici di vino prima di porgergliene uno. «Tu non ci sei abituata ma è così che va, a questo genere di eventi. Sta’ buona e fammi un bel sorriso. Forse qualche notizia riusciamo a farcela dire.» Le cinse i fianchi, prendendo un sorso della bevanda. «E divertiti, mi raccomando!»
Appena il braccio del romano le cinse i fianchi, a Viola si chiuse la vena.
Fece per mollargli uno schiaffo, ma poi decise di intraprendere una via più infima e sicuramente divertente.
Augusto voleva stare al centro dell’attenzione? Gliene avrebbe dato motivo.
Si staccò con uno strattone, guardandolo sconvolta.
«Quella puttana ti passato il Mal Francese?», sbottò inorridita, facendo voltare tutti i presenti. Gli versò il calice in faccia, prima di lasciarlo cadere a terra e arretrare . «Il fidanzamento è sciolto!», replicò perentoria, prima di dargli le spalle e allontanarsi, lasciandolo a levarsi il vino dagli occhi.
Tra tutte le facce sconvolte della serata, compresa quella di Machiavelli che per poco non mancò il bicchiere che gli stava venendo porto, le uniche risatine provennero dal gruppo in fondo alla sala.
Bengiamino, Chiara e Cristiano si coprirono la bocca a vicenda, evitando così la magra figura di scoppiare nella risata più fragorosa che si fosse mai udita.
Non arrivarono a coprire anche quella di Ezio, in piedi assieme a Maria dall’altra parte del banchetto, poiché la sua voce risuonò così profonda e tonante che per poco non si spaventarono.
Quando il gruppo di dame di fronte a lui si voltò per rimproverarlo con un’occhiataccia, la modenese alzò gli occhi al cielo.
«Che ho mai fatto di male?», commentò, allontanandosi mentre scuoteva il capo.
Violante adocchiò il Mentore quando fu ormai solo e lo affiancò.
«Sembri davvero compiaciuta», le disse lui, portando un braccio attorno alle sue spalle e prendendole il mento tra pollice e indice. «Una vera serpe. Dopotutto, però, sei vestita da Ninfa Dafne e non puoi innamorarti di un Marte … no.» Lanciò uno sguardo veloce a Cristiano, che ancora ridacchiava insieme a Chiara. «Il tuo Apollo è laggiù. Che aspetti, a lanciarti su di lui?»
«L’ho spacciato per un figlio illegittimo del duca di Urbino, sarebbe sospetto se andassi da lui dopo questa scenata», disse Viola, guardando attentamente Ezio. «Tu sei Bacco?»
«Sì, era il costume di Corella ma è rimasto fuori», rispose prontamente il Mentore.
«Quindi la gonna così corta non è voluta, uhm?»
«La scelta cadeva tra Corella e Ventimiglia, che non mi arriva neanche a metà petto. Tu che dici?»
Ridacchiarono, bevendo assieme dopo aver recuperato un paio di calici colmi dell’ottimo vino che stava venendo servito.
Per quasi un’ora, parlarono del più e del meno come due semplici conoscenti, guardandosi bene dal passare accanto a Machiavelli mentre passeggiavano.
La festa era tutto sommato piacevole, il vino dolce, la mano di Ezio rigorosamente appoggiata sul suo fianco … sarebbe tranquillamente potuta andare a finire come la prima volta, non fosse stato per la folla che d’un tratto ammutolì, aprendosi dinanzi all’ingresso per lasciar entrare qualche personalità di spicco.
Quasi fosse entrato il Re di Francia in persona, anche Ezio si irrigidì, lasciando a metà la frase che stava pronunciando.
Violante non capì subito cosa stesse succedendo, ma arrivò chiaramente al motivo di tutto quello stupore quando intravide coloro che avevano fatto il loro ingresso.
Un uomo e una donna che si tenevano per mano. Se non fosse stato per i molti drappeggi e cappe recanti il toro dei Borgia che li accompagnavano, non si sarebbero mai detti essere fratello e sorella.
Lui alto, con capelli neri come la notte e occhi azzurri come il ghiaccio più puro, con spalle ampie e un’armatura scintillante da vero soldato. Lei bionda, magra e sottile come lo stelo di una rosa, con grandi occhi verdi brillanti di malizia.
Cesare e Lucrezia Borgia avevano appena onorato gli Orsini con la loro presenza.
Ezio diede con discrezione le spalle alla folla, appoggiando le mani sulle spalle di Viola e guardandola diritta negli occhi.
Cesare conosceva bene il suo volto, non poteva farsi vedere o il Valentino avrebbe vendicato la morte del fratello in quello stesso istante, scatenando il panico.











Tutto quel bere le stava dando alla testa. Non era abituata al troppo vino, ma d’altronde Bengiamino aveva continuato a passarle calici su calici senza battere ciglio e lei non aveva avuto modo di rifiutare.
La testa le girava leggermente, i piedi non erano più stabili sul terreno.
Si buttò contro Bengiamino, anch’egli brillo e preso a discutere vivacemente con Cristiano, e gli schioccò un bacio sulla guancia, ridacchiando con fare civettuolo mentre lui le passava la mano intorno alle spalle. Si voltò verso il banchetto per farsi versare dell’altro vino e ne approfittò per appropriarsi anche di un grappolo d’uva, che divise ben volentieri con i due ragazzi.
Parlavano di Roma, di viaggi, di libri. Fuori dal contesto perennemente teso del Covo e delle prove offerte da Machiavelli, erano entrambi due ragazzi più che piacevoli.
Ridacchiando, Chiara dondolò il suo calice.
«Non credo sarebbe una buona idea», commentò, quando Cristiano propose di avvicinarsi a un gruppo di nobili che parevano superare di poco la loro età. «Non ci ha mai visti nessuno, qui in giro. Saremo solo sospetti!»
Rise di nuovo, alzando le braccia per liberarle dallo scialle che le copriva. Con tutto quel bere, cominciava a sentire caldo.
«Chiara!», la chiamò d’un tratto la voce allegra di Paola.
Lei si voltò senza neanche pensarci.
Volteggiò rapida sui sandali con le braccia ancora alzate e il bicchiere si inclinò praticamente da solo, complice la sua ubriachezza che la faceva barcollare di continuo.
Con una smorfia di disappunto e di terrore, Chiara guardò il vino lasciare il suo calice e librarsi verso il vuoto dinanzi a sé.
Sarebbe andato tutto bene, se solo non vi fosse stata quella dama alle sue spalle.
La dama sul cui petto, senza riguardo e senza preannuncio alcuno, andò a versarsi l’intero contenuto del suo bicchiere.
In un istante, l’intera festa raggelò. Fu come per Violante e Augusto, in un certo senso, ma molto, molto peggio.
Persino l’arpista smise di suonare melodie dall’aria classica, portando le mani alla bocca con espressione a dir poco inorridita.
Chiara alzò gli occhi in quelli verdi della Madonna che ancora stava immobile come pietrificata innanzi a lei.
«Sono mortificata», mormorò, prendendo il fazzoletto che Cristiano stava porgendole con espressione angosciata. «Io … mi scuso ancora!»
La bionda le strappò di mano l’oggetto guardandola con odio, ma ci pensò qualcun altro a parlare al suo posto.
«Stupida sgualdrina!»
Il tono profondo e crudele utilizzato dall’uomo che stava in piedi accanto alla vittima della sbadataggine di Chiara, la fece sobbalzare. Fece un passo verso di lei, alzando una mano come per colpirla con uno schiaffo.
«Stai attenta a quel che fai!»
Chiara chiuse gli occhi, pronta ad avvertire la sberla sulla guancia, ma ciò non avvenne. Quando li riaprì, parato davanti a lei, c’era Bengiamino che teneva per il polso quell’uomo sempre più incollerito.
Peccato che lui e la dama del vino non fossero due ospiti normali, tutt’altro.
Quelli erano precisamente Cesare e Lucrezia Borgia.
Ovviamente.
Rapido, Cesare Borgia si scostò dalla presa di Bengiamino, muovendo un passo indietro per poi mettere la mano alla spada. La sguainò tanto rapidamente che il rumore del metallo riuscì a propagarsi solo quando l’arma su in alto, pronta per essere scagliata sulla gola del milanese.
Chiara gridò, ma non fece in tempo a raggiungere il suo compagno.
Cristiano la scansò, balzando in avanti e interponendosi tra Bengiamino e Cesare. Braccia alzate e sguardo impaurito, parve bloccare la realtà.
«No!», gridò, completamente disarmato davanti a colui che era il peggior nemico dell’Ordine.
Per un istante, la lama di Cesare Borgia parve abbassarsi, innocua.
Poi tornò a colpire.






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Capitolo 11
*** Capitolo decimo ***


polverenera

Il destino di Qayin

Capitolo decimo




Portando le mani infreddolite sotto le pieghe dell’ampio mantello, Laura diede un singhiozzo rassegnato. 
Avrebbe dato davvero qualunque cosa, in quel momento, per essere alla festa assieme a suo fratello. Invece le toccava stare a sorvegliare i tetti al freddo, nel buio della sera senza neanche la decenza di una candela e con la sola compagnia di Corella che, da sobrio, parlava ancora meno di Bengiamino.
Affranta, si sedette sul cornicione di un palazzo, lasciando le gambe a penzolare nel vuoto, e prese a sistemare la treccia in cui aveva raccolto i capelli prima di lasciare il Covo.
Da quella posizione, poteva perfettamente tenere d’occhio la festa. La festa e Bengiamino che, vestito com’era, spiccava nel suo mantello nero in mezzo a una danza di tuniche bianche.
«Sembra un corvo.»
 La voce lievemente roca di Corella la colse di sorpresa.
«Le somiglianze con Machiavelli aumentano sempre di più; fossi in te, mi preoccuperei.»
Le sorrise, riportando poi gli occhi color cenere sull’entrata e sul continuo via vai di persone, come se queste non smettessero mai di arrivare o andar via.
Pareva invidiare un po’ tutti anche lui ma, al contrario di Laura, il suo allontanamento dalla festa era più che giustificato.
Sebbene fosse il braccio destro di Cesare Borgia, suo fratello Michelotto non lo avrebbe mai denunciato apertamente ai Templari; ciò nonostante, non si poteva rischiare che uno di loro notasse qualcosa.
Anche se l’idea di Cristiano di far indossare a Corella una maschera appariscente sembrava meno brutta di quando era stata proposta.
«Ho paura che Bengiamino si cacci nei guai», sospirò Laura, piegando una gamba contro il petto e stringendo con le braccia il suo stesso ginocchio. «Non è mai stato in grado di reggere le feste.»
Ridacchiò lievemente, ricordando quanti balli aveva mandato a monte, da ragazzino, per quel suo intimidire gli ospiti con il silenzio. Aveva sempre fatto così: non una parola in tutta la sera; si limitava a fissare le persone intorno a lui e a seguirle con lo sguardo.
Se non altro, a Roma pareva determinato a brillare e la cosa, forse, lo avrebbe smosso dal suo mortorio.
«E tu?», disse all’improvviso, poggiando il mento sul ginocchio mentre con lo sguardo seguiva Bengiamino nel cortile. «Non hai paura che tuo fratello possa farsi del male?»
Corella sbuffò una risatina, scuotendo il capo lentamente.
«Ho più possibilità di farmi male io qui, su questo tetto, avvolto dal torpore delle stelle che Michelotto al centro di un’enorme battaglia.»
Che il maggiore dei Corella fosse quasi invulnerabile a tutto, era una sorta di dato di fatto.
Alessandro aveva ammesso più volte che non ricordava una sola volta in cui il fratello si fosse ferito in qualsivoglia modo. A detta sua, Michelotto possedeva la logica fredda di un assassino e l’abilità con la spada di un maestro d’arme. Era una delle menti più brillanti alla corte dei  Borgia e non faceva mai domande. Eseguiva e basta. Per questo, Cesare se lo teneva stretto.
«L’ho sempre invidiato. Il suo modo di farsi notare non facendosi mai notare è pura arte.»
«Tu ti fai notare in altri modi», lo schernì Laura. «Ma sei sempre capace di spiccare sopra gli altri. Magari è un’abilità di famiglia!»
Rise sottovoce, coprendosi la bocca con la manica della tunica. Con un gesto limpido del braccio, invitò Corella a sedersi accanto a lei sul cornicione.
Lui eseguì, staccandosi dal comignolo a cui si era appoggiato. Si buttò a sedere, tendendo le gambe nel vuoto, prima di lanciarle un lungo sguardo divertito.
«Vero, ma per i motivi sbagliati, temo! Michelotto ha gli onori, io le risate dei miei compagni. Non che esse valgano meno per me, ma una medaglia dei Borgia è più bella da sfoggiare di un insulto di Machiavelli!»
Laura scosse velocemente il capo, allontanando con vigore quel lieve rossore che le aveva illuminato le goti quando aveva ricevuto lo sguardo di Alessandro.
Incrociò le gambe dinanzi a sé, mettendosi più comoda sulle tegole ancora umide della precedente pioggia.
«Gli insulti di Machiavelli sono sempre ben studiati, però!», obiettò, senza più cercare di contenere la sua risata. «Quantomeno, puoi vantare un premio in originalità!»
«Poco ma sicuro, Signorina Lorenzetti», sottolineò Corella, alzando una gamba e appoggiando un piede sul tetto. Portò indietro il corpo, stendendosi e incrociando le braccia dietro al capo.
Il suo fiato si condensava diventando fumo davanti al suo viso.
«Ci vorrebbe un bel bicchiere di vino …»
Laura starnutì.
«Ci vorrebbe una coperta, piuttosto», commentò, tremando lievemente sotto il freddissimo venticello che si era alzato sui colli.
Sebbene fosse avvolta nel mantello di lana che aveva avuto l’accortezza di portarsi dal Covo, non riusciva a smettere di provare una sensazione di gelo sotto la pelle ad ogni soffio che saliva dalla strada.
Alzò le spalle, chiudendosi su se stessa per soffiare un po’ di fiato caldo sulle mani scoperte.
Non aveva pensato ai guanti.
Corella si accorse del lieve tremolio che percorreva le spalle della ragazza, così si mise di nuovo seduto, sfilandosi la cappa e avvolgendovi la giovane.
«Non preoccuparti per me», le disse, prima che lei potesse parlare. «Non ho freddo, anzi. Credo che, con tutto il vino che ho bevuto in ventitré anni di vita, starò bene per sempre!»
Ridacchiò appena, guardandola negli occhi.
Non si era reso conto di quanto fossero vicini.   
In un istante, Laura sentì le guance andarle in fiamme. Provò a deglutire un paio di volte, passandosi la lingua sulle labbra per inumidirle.
Non pensò neanche per un momento alla risposta da dare al ragazzo, poiché la voglia di prendergli il viso tra le mani e annullare ogni distanza tra loro fu così forte da non lasciare spazio ad altre considerazioni.
Non aveva la minima idea di cosa stesse facendo, quando gli affondò le dita tra i capelli mori per assaggiare quelle labbra sottili che senza sorpresa sapevano di vino.
Quella era la prima volta che si trovava così vicina a qualcuno.
Si baciarono per istanti infiniti, mentre le mani di Corella le accarezzavano il braccio e lei continuava a stringere i suoi capelli fra le dita.
Non si sarebbero staccati facilmente, se non fosse stato per il silenzio. Troppo, per una festa del genere.
Alessandro si staccò di colpo con un piccolo schiocco, affacciandosi al palazzo e notando qualcosa che lo confuse  prima di farlo sbiancare.
«Bengiamino sta puntando l’arco contro Borgia?!»
«Cosa?»
Laura si alzò di scatto, saltando con uno slancio ben ponderato sul tetto del palazzo di fronte.
Sarebbe stata imbarazzata, in un’altra occasione. Se ne avesse avuto il tempo, si sarebbe persino data della stupida per aver agito come la più gracchiante delle oche.
Ma non era quello il momento, non con Bengiamino che si stava praticamente facendo ammazzare.
Senza aspettare che Corella le fosse alle spalle, si appollaiò su un comignolo e incoccò la prima freccia nell’arco.
Con un colpo solo, perforò il cranio del balestriere che puntava la sua arma al petto di Bengiamino.
Alessandro le fu accanto in due balzi.
«Io scendo in strada, apro la via e aspetto che escano gli altri. Sicuramente Machiavelli urlerà il tana libera tutti, ora.» Le appoggiò una mano sulla spalla, serio come poche altre volte. «Tu liberati di alcuni di loro e occhio agli arcieri sui tetti. Raggiungimi appena vedi Bengiamino correre fuori.»
Senza attendere risposta, scese aggrappandosi ad una grondaia.
Non andava bene. Non andava bene per nulla.













Cesare doveva essere parecchio infuriato, visto che mancò Cristiano per ben due volte prima di graffiarlo con la punta della spada.
Subito, il biondo portò una mano sulla pancia, saggiando con i polpastrelli il taglio, pronto a schivare un altro fendente.
Non ce ne fu bisogno.
Bengiamino aveva recuperato dalla faretra che componeva il costume di Artemide di Chiara un arco e una freccia, che ora puntava contro il rampollo dei Borgia.
«Una passo e di voi non rimarrà che una testa infilzata e amari ricordi», disse, prendendo bene la mira.
Lucrezia Borgia si fece avanti.
«Sai cosa stai facendo, straccione? Vi daremo la caccia per tutta la vita solo per l’insulto subito! Scocca quella freccia e non uscirai vivo da questo giardino!»
Bengiamino non perse la calma.
Senza distogliere la freccia dal suo bersaglio, si guardò attorno. I fanti armati di spada si erano fatti più vicini, ma di certo non avrebbero attaccato finché il loro padrone sarebbe stato a uno scocco dalla morte.
Ciò che lo preoccupavano erano i balestrieri. Durante la festa ne aveva contati sette in tutto, ma di certo qualcuno doveva essergli sfuggito.
Socchiudendo le palpebre, si diede il tempo di tre respiri prima di veder arrivare le frecce nemiche.
Tre respiri per togliere lui e Cristiano da quella situazione.
Piegò le ginocchia, scoccando la sua freccia.
In metà del tempo che Bengiamino si era prefissato, il dardo passò letteralmente a un soffio dalla guancia di Cesare, conficcandosi sul tavolo dove erano stati adagiati i calici di vino in attesa di essere riempiti.
Nel pandemonio causato dall’infrangersi di almeno un centinaio di bicchieri, si voltò per recuperare Chiara.
«Via di qui!», gridò, mentre con lo sguardo cercava Machiavelli.
La biondina venne letteralmente lanciata verso l’uscita, dove tutta la carca stava correndo nella speranza della salvezza. Ci pensò Paola a lei, tirandola via prima che qualcuno potesse farla cadere. Andarono via insieme, mentre Cristiano recuperava un bastone e stendeva un fante solo per portagli via la spada. Dal nulla arrivò anche Maria, che prese a combattere con ferocia contro due delle guardie papali.
Bengiamino, però, non era ancora salvo.
Stava per raggiungere Machiavelli quando Cesare lo afferrò per la tunica nera, colpendolo con un pugno in pieno viso che lo fece cadere al suolo.
Il ragazzo si volto appena in tempo per vedere la lama del Valentino puntata tra i suoi occhi e, quando Borgia la alzò, chiuse d’istinto gli occhi, mettendosi in pace con il Creatore.
Un suono metallico e la voce di Ezio furono la degna sostituzione alle trombe dell’arcangelo Gabriele.
«Va’ via, presto!»,  gli intimò il Mentore, tendendo sollevata la lama di Cesare e incastrandola fra le sue lame celate.
Bengiamino non se lo fece ripetere due volte.
Raccolse arco e frecce, incoccando quello che sarebbe stato il suo prossimo colpo, e si diede alla corsa sui tetti, incerto sulla via da intraprendere. Di Roma, conosceva ancora poco e nulla.
Scese con un balzo da un vecchio muro quando vide Violante alle prese con un paio di fanti. Uno di loro venne scaraventato contro un’impalcatura, mentre il secondo fu Bengiamino stesso a freddarlo, piantandogli nel cranio una delle sue frecce.
«Violante!», chiamò, avvicinandosi a passò spedito e senza nascondere un certo allarmismo. «Cristiano non era con te?»
Dallo sguardo che la ragazza gli rivolse, capì di aver sbagliato ogni previsione.
«Cosa?», domandò senza fiato lei, guardandosi attorno disorientata. «Io credevo che fosse con te!», gli rispose, prima di guardare verso l’ingresso della festa a qualche metro da loro. Appoggiò una mano sulla spalla di Bengiamino. «Ho visto Chiara scappare con Corella, mentre Paola cercava tua sorella. Sono tornati al Covo ed è meglio se tu le raggiungi. Ci penso io a Cristiano!»
Bengiamino la guardò, in silenzio, senza rispondere subito.
Se Chiara era al sicuro e Laura poteva contare sull’aiuto di qualcuno, allora gli restava ben poco da fare, in quel luogo.
Senza la sua balestra, poi, poteva dirsi praticamente disarmato.
Poggiò quindi a sua volta la mano sulla spalla di Violante, annuendo lentamente.
«Sta’ attenta», si raccomandò, prima di scattare verso il ponte.
Sperava soltanto di aver preso la scelta giusta.











Se Bengiamino pareva avere dei dubbi, Violante era del tutto certa che quella fosse la scelta migliore.
Afferrò saldamente una lancia con la mano sinistra e la spada con la destra, tornando indietro e combattendo contro la marea di persone che ancora stava uscendo dal palazzo.
Trovare Cristiano fu facile, visto che il ragazzo se ne stava in piedi in mezzo al cortile a fissare con aria combattuta Ezio e Cesare fronteggiarsi.
Violante lo afferrò per un braccio, strattonandolo.
«Ma dov’eri? Machiavelli ha detto che dobbiamo scappare! Non possiamo rischiare che riconoscano i nostri visi!»
Cristiano si voltò a guardarla.
 «Che facciamo? Lo lasciamo da solo?»
A malincuore, la bolognese ammise qualcosa che le fece male.
«C’è Maria», soffiò. «E poi, star qui a fissarlo e basta non lo aiuterà!»
Come risvegliato da un incantesimo, Cristiano si drizzò sulle spalle, voltandosi finalmente a guardare Violante.
«Hai ragione», concordò, buttando a terra una delle due spade che teneva tra le mani. «Andiamocene da qui.»
Prese a correre verso l’uscita, facendo strada per la via che ormai si poteva dire deserta. Eccezione fatta per le guardie che parevano decise a tagliare loro ogni strada di fuga, non era rimasto più nessuno.
«I tetti, forza!», urlò Violante, abbattendo un paio di miliziani, i primi ad essere accorsi, mentre Cristiano stava tagliando la gola ad un arciere. «Ti copro io!»  Ne atterrò due in un solo colpo, lanciando poi la spada e colpendo in pieno uno dei capi delle guardie, che cadde a terra con la lama conficcata al centro del petto.
La scalata fu dura e solo per miracolo nessuno li colpì con una freccia o un sasso. Arrivati in cima, presero a correre verso la sola direzione possibile: il Vaticano. Non aveva senso ma, superati i torrioni di Castel Sant’Angelo, forse avrebbero trovato la salvezza.
Cristiano arrestò la sua corsa quando furono arrivati dinanzi alla Basilica di San Pietro. Ormai esausto e senza fiato per la fuga, si appoggiò al monumento della Pigna, tirando un grosso respiro per recuperare i battiti persi.
«Che facciamo?», chiese, piegandosi sulle ginocchia.
Aveva ancora tra le mani la spada, unica arma che era rimasta loro nel caso le guardie li avessero attaccati di nuovo.
«Da che parte è l’Isola?», aggiunse poi, guardandosi intorno con espressione smarrita.
Mai, nei mesi che avevano trascorso al Covo, si era mostrato così sperduto.
Viola si fermò accanto a lui, chinandosi in avanti e riprendendo il fiato, appoggiando le mani alle ginocchia. Si guardò attorno, capendo che erano finiti in un brutto posto.
«Dobbiamo andarcene di qui», decretò, asciugandosi il sudore con il polso prima di rialzarsi. «Da sud, lungo il Trastevere. Se ci seguiranno, riusciremo a depistarli facendoci una nuotata.»












Arrivò al Covo per primo, seguito da Laura e da Paola che, insieme, erano riuscite a superare le guardie confondendosi tra la folla in fuga.
Per tutto il tragitto aveva stretto a sé Chiara, rotta nel pianto silenzioso di chi sa di aver fallito la propria missione. Da quando si erano scontrati sul ponte e lei gli aveva detto di scappare, non aveva più proferito parola.
Sospirando preoccupato, Alessandro la depose a terra nell’ampio salone che si apriva dopo il corridoio d’entrata. Si accertò che non avesse ferite gravi, constatando che l’unica era nel suo animo affranto, e si buttò sul tavolo alla ricerca di un bicchiere di vino.
«Qualcuno ha visto Machiavelli?», chiese dopo aver buttato giù un paio di sorsi per calmare i nervi.
Paola si avvicinò. Aveva ancora i capelli rossicci raccolti nella preziosa pettinatura del suo costume per la festa e il vestito bianco della Dea Venere raccolto sopra le ginocchia e stretto in pugno.
«Non potrà fare ritorno qui fino a che le acque non si saranno calmate», disse, guardandosi attorno con nervosismo. «Potremmo non vederlo arrivare prima di domattina».
«Senza contare che non è ancora tornato nemmeno Bengiamino», aggiunse Laura, passandosi una mano tra i capelli con fare nervoso. Pareva parecchio in pena per suo fratello, anche se lui sapeva benissimo cavarsela da sé.
«Violante, Cristiano, Spallaci … nemmeno Maria ed Ezio», contò Corella, prima di tirare una testata al tavolo. «Mi volete dire che è successo?», domandò poi disperato. «Siamo nei guai?»
La porta si aprì cigolando, sbattendo subito dopo che Bengiamino ebbe fatto la sua comparsa nella sala. Avvolto nel suo mantello scuro, il milanese camminò svelto fino a Chiara, senza degnare di uno sguardo i presenti, e la prese tra le braccia stringendola al suo petto e accarezzandole i capelli con dolcezza.
Per risposta, la fiorentina prese a singhiozzare sommessamente, aggrappandosi alla casacca del ragazzo per accoccolarsi contro il suo petto.
«Io sto bene!», gracchiò d’improvviso Laura, incrociando le braccia sul petto con disappunto. «Vi ho appena visti scampare alla morte in quell’inferno, ma davvero: sto bene. Grazie dell’apprensione, Bengiamino. Grazie, grazie tante.»
Corella sospirò.
Se non altro, anche Bengiamino aveva fatto ritorno sano e salvo.
«Che diavolo è successo?», ritentò, stavolta alzando di poco il tono di voce.
Il milanese, per risposta, lasciò andare lentamente Chiara e fece qualche passo verso di lui.
«Nulla di rilevante. Ho apertamente insultato Cesare Borgia e sua sorella, che ora mi detesta», raccontò con tono pacato e privo di interesse.
Corella lo fissò a bocca aperta, così come Laura, mentre Paola mugolava sconfortata.
«Diavolo, pensa se invece era rilevante!», sdrammatizzò il forlivese, versando altro vino per sé e per l’amico, che intanto aveva preso posto davanti a lui. «Hai visto gli altri?»
«Violante era uscita, ma è tornata indietro per Cristiano. Di Spallaci nemmeno l’ombra e Maria sicuramente tornerà con Ezio», disse Bengiamino, buttando giù il bicchiere, voltandosi poi verso le ragazze. «Machiavelli invece credo se ne sia andato con un ambasciatore o qualcosa del genere: non poteva permettersi di rivelarsi immischiato con noi.»
Laura portò le mani ai fianchi.
«Forse dovremmo uscire a cercarli», commentò, senza prendere posto alla tavolata. «Il Mentore saprà anche cavarsela da solo … ma gli altri? Sono preoccupata.»
Fece per sospirare e raggiungere Corella attorno a quell’unica caraffa di vino che qualcuno aveva lasciato sul tavolo, ma la porta del Covo sbatté di nuovo e stavolta con forza, lasciando che il silenzio della sala venisse rotto dai passi zoppicanti di un paio di persone.
Maria sbucò dal buio del corridoio con una smorfia affaticata a scurirle il viso, mentre con la spalla destra sorreggeva Ezio nella camminata. Arrivò a malapena a farlo sedere su una panca, che tutti gli furono addosso.
Aveva un bel taglio sul fianco che perdeva parecchio sangue e imbrattava l’abito bianco latte, ma non sembrava profondo. Un paio di punti e sarebbe tornato tutto intero.
Mentre tutti lo tempestavano di domande, lui si limitò ad alzare una mano per zittirli. Li guardò uno ad uno, prima di voltarsi allarmato verso Bengiamino.
«Dove sono Violante, Cristiano e Augusto?»
Il milanese scrollò le spalle.
«Non lo sappiamo», si limitò a dire.
«Ce lo stavamo chiedendo anche noi», aggiunse Corella, passandosi una mano sul viso, mentre Laura correva a chiamare il guaritore.
Le porte si riaprirono e a fare il suo ingresso, sudato e sporco di polvere, fu Spallaci.
«Là fuori pare di trovarsi all’Inferno!», disse, guardando il Mentore negli occhi per poi lasciar scorrere lo sguardo sulla ferita che intanto Maria stava tamponando. «Ho fatto il giro lungo, passando dietro ai Fori e per il Palatino, seminando tre guardie. Non credevo che sarei tornato, mi stavano alle costole.»
«Strano», ribatté Corella con voce carica di sarcasmo. «E dire che sono stati così carini, con noi. Non solo ci hanno lasciato passare, ma ci hanno addirittura offerto da bere per scusarsi del trambusto!»
Bengiamino lo zittì con un’occhiata severa, tirando su col naso mentre si inginocchiava accanto a Ezio.
«Mancano ancora Violante e Cristiano», esordì, poggiando la mano sulla panca.
Il Mentore tentò di alzarsi in piedi, puntando le mani sul tavolo di legno.
«Bisogna andare a cercarli», impose, tremando dal dolore.
«Ottima idea», commentò Maria, voltandosi verso Corella e Bengiamino. «Andate a recuperarli, io mi occupo di Ezio.»
«Cosa ne sai tu di cure?», le soffiò contro lui, risedendosi sulla panca. Nonostante la fissasse con ostilità, si lasciò aprire la blusa come il più docile degli animali.
Maria storse il naso di fronte al taglio ancora aperto.
«Molto più di te, questo è sicuro», borbottò, mentre con uno straccio cercava di fermare la fuoriuscita del sangue. «E voi su, andate!»
Corella non si era ancora allacciato il mantello, quando finalmente Violante e Cristiano fecero ritorno.
Non erano soli, però. Dietro di loro, con espressione torva e rancorosa, si ergeva in tutta la sua autorità Niccolò Machiavelli. Sembrava un corvo, un uccello del malaugurio pronto a colpirli tutti quanti.
Corella deglutì piano.
«Ben tornati …», sussurrò, prima di scostarsi. Incrociò per errore lo sguardo furibondo di Machiavelli, prima che l’uomo lo superasse senza degnarlo di una risposta. Terrorizzato, si avvicinò a Bengiamino. «Credevo che Paola avesse detto che non avrebbe fatto ritorno prima di domani mattina», bisbigliò, pregando ogni divinità affinché l’Assassino non udisse quelle parole. Poi, senza osare respirare, si voltò verso Violante e Cristiano. «State bene?»
Cristiano lo guardò con espressione spiritata, prima di far cenno verso Machiavelli.
«Per ora sì, ma non so cosa ci succederà.»
«Ha detto che prenderà provvedimenti seri, questa volta», sussurrò Violante, sfilando i fiori che qualche ora prima Chiara le aveva incastrato nella treccia. «E credo che per noi non sarà piacevole.»
«Quando mai lo è», ribatté Alessandro, guardando con la coda dell’occhio Machiavelli chino su Ezio. Quando il medico portò il Mentore nella sua stanza per poterlo ricucire, il consigliere guardò un ad uno tutti gli assassini.
«Andate nella camerata maschile. Vi raggiungerò subito e vi chiarirò un paio di punti. Maria, tu aspetta qui.»
Con riluttanza, Corella dovette far strada a tutti gli altri.
Per tutta la salita delle scale, sentì i piedi farsi più pesanti a ogni passo.
Non poteva dirlo con certezza, ma sentiva gli occhi del consigliere piantati sulla sua schiena e su quella dei suoi compagni.
«Credo farò i bagagli prima che Machiavelli arrivi quassù», commentò, mentre un brivido freddo gli percorreva la schiena.
Spallaci schioccò la lingua.
«Scappi a Forlì, Corella?», ridacchiò.
Lui scosse il capo.
Se mai ne avesse avuto il modo – e ne dubitava assai molto – sarebbe scappato molto, molto più lontano.




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Capitolo 12
*** Capitolo undicesimo ***


polverenera

Il destino di Qayin

Capitolo undicesimo




Nella camerata maschile, l’aria risultava più pesante del solito. Chi se ne stava seduto sui letti, chi girava per la stanza, chi parlava concitato con un altro. Nessuno dei ragazzi, però, poteva dirsi tranquillo. L’avevano combinata grossa e se, come diceva sempre Ezio, dovevano operare come una squadra, allora non erano solo Bengiamino e Chiara, ad essere nei guai.
«Far fare a due ragazzini il lavoro di un uomo, ecco la causa», disse Spallaci, sbracciandosi per la stanza. «Perché diavolo ti hanno tenuta qui, fiorentina? Non sei nemmeno capace di allacciarti le scarpe!»
Violante si sporse dalla finestra, guardando il Tevere sotto di sé e trovandolo attraente. Forse poteva lanciarsi ed evitare di sentire ancora Spallaci dare addosso ad un suo compagno, o Machiavelli sbraitare. Per giusta misura si tirò indietro, appoggiandosi con i fianchi al muro, accanto a Cristiano.
Il biondo la guardò, senza scostarsi dalla sua posizione che lo vedeva addossato a una sbarra del letto con le braccia conserte.
«Non ti crucciare», commentò, sottovoce. «Era ovvio, che prima o poi uno sgarro sarebbe capitato.» Fece per aggiungere qualcos’altro, ma la porta della camerata si aprì di scatto.
Machiavelli entrò con passo deciso, seguito con più riluttanza da Maria che, per una volta, in faccia non aveva un’espressione di rabbia ma di preoccupazione.
Chissà di che avevano parlato.
«Il guaritore se ne sta andando», annunciò la donna, facendosi avanti fino a raggiungere il centro della stanza. «Se qualcuno ha da farsi ricucire qualche ferita, è questo il momento di andare.» Aspettò una manciata di secondi per dare il tempo a chi di dovere di alzarsi. «Nessuno?», incalzò dopo un istante. «Molto bene.»
Camminò spedita fino a Bengiamino, in piedi accanto a una delle finestre, e si fermò un istante a guardarlo negli occhi.
Il rumore dello schiaffo che gli piazzò su una guancia risuonò talmente secco che, per un istante, fu l’unico suono a rompere il silenzio della stanza.
Poi Chiara si alzò.
«Non fargli del male!», protestò, raggiungendo il suo compagno a passo spedito. «È stata tutta colpa mia!»
Maria si voltò, furibonda.
«Oh, ma lo so bene!», commentò. Lo schiaffo che riservò alla fiorentina fu così forte da voltarle la faccia. «Io ho finito», riprese poi, tornando accanto a Machiavelli mentre si tastava il palmo aperto della mano. «Lascio a te le parole, Niccolò.»
Per la prima volta, Violante si trovò in completo accordo con la modenese.
Quei due avevano rovinato tutto, con quella scenata. Se non si fosse messo in mezzo Bengiamino, sicuramente Chiara avrebbe comunque preso uno schiaffo, ma l’intera operazione si sarebbe salvata. Ora i Templari conoscevano i volti della maggior parte di loro.
«Siete in assoluto la cricca di idioti più grande con cui io abbia mai avuto il dispiacere di avere a che fare», decretò a denti stretti Machiavelli, quasi ringhiando quelle parole di puro disprezzo. «Siete riusciti non solo a farvi scoprire, ma anche a scatenare le ire dei Borgia.» Il suo sguardo si soffermò su Chiara. «Spero che vi trovino, a questo punto. Saprebbero punirvi meglio di me e io mi libererei di pesi morti.»
Nessuno si azzardò a fiatare.
Erano tutti talmente intimoriti che nemmeno Chiara osò lasciarsi sfuggire un singhiozzo, nonostante i suoi occhi scuri fossero rossi e pieni di lacrime.
«Ezio sarà costretto a letto per almeno una settimana», continuò Machiavelli, portandosi una mano alla fronte per massaggiarsi le tempie. «E spero vivamente che ognuno di voi si senta sollevato dalla cosa. Se quel fendente non fosse arrivato a lui, di certo a quest’ora avremmo avuto un Assassino in meno. Sempre che voi possiate essere chiamati tali.» Prese un grosso respiro, ritornando composto con le braccia dietro la schiena. «Per tutto il tempo in cui il vostro Mentore sarà a riposo, consideratevi sollevati da ogni incarico. Le acque devono calmarsi e le guardie devono dimenticare i volti di chi di voi è stato così stupido da affrontarle senza ucciderle. Non voglio vedere nessuno, e sottolineo, nessuno azzardarsi a lasciare il Covo sotto mia specifica approvazione. Nessun allenamento fuori dai confini dell’Isola, nessuna serata in quella lurida topaia dove Corella vi ha insegnato ad ubriacarvi e soprattutto nessuna stupida sfida che vi faccia sembrare gli inetti debosciati che siete. Sono stato chiaro?»
Ci furono solo mormorii di assenso.
Maria sospirò a lungo, prima di prendere la parola per un istante.
«Chiederò a Bartolomeo d’Alviano di insegnarvi qualcosa con la spada, così da non rendere del tutto futili questi giorni di fermo obbligato. Magari lui e Volpe riusciranno a farvi entrare qualcosa in testa.»
«Mi sembra un’idea saggia», ne convenne il consigliere, prima di riprendere parola. «Ora, prima di spedirvi a calci a letto senza desinare – cosa che non vi siete meritati – dobbiamo affrontare una questione che troppo a lungo si è rimandata. Qui, fra noi, vi è una spia.» L’assenza di reazione parve indispettirlo ulteriormente. «Ma voi, ovviamente, lo sapete già!»
Spallaci scoppiò a ridere.
«E ve ne accorgete adesso?», gridò, puntando il dito contro Corella. «Mai notato che lui e il sicario di quel cane di Borgia portano lo stesso cognome? No? Forse non siamo noi gli idioti, qui.»
Il forlivese scattò in piedi, alzando le braccia in segno di resa.
«Non ho niente a che fare con le scelte di mio fratello», si difese, pacato. «Io e Michelotto ci incontriamo una volta al mese e ceniamo assieme, è vero, ma mai per i fini di cui mi accusate. Ci guardiamo bene dal nominare i nostri Ordini.» Si voltò verso Machiavelli, tirando su col naso. «Michelotto non è santo, ma resta mio fratello. E non c’è fazione che possa farmi dimenticare questo fatto.»
Maria parve appoggiarlo. Annuì vistosamente, guardando con la cosa dell’occhio Machiavelli, prima di prendere parola.
«Credo che le parole di Corella siano giuste e piene di sentimento; non possiamo di certo impedirgli di vedere la sua famiglia.»
«Non possiamo però escludere che qualche informazione trapeli, da questi incontri», disse Machiavelli, mentre Spallaci sorrideva vittorioso. «Che sia per stupidità o intenzione, dobbiamo arginare la cosa. Spedire Corella a Venezia forse è una soluzione …»
Alessandro impallidì, ma ci pensò Cristiano appoggiato da Bengiamino a far cambiare idea a Machiavelli.
«Non possiamo rinunciare a nessuno, ormai siamo rimasti in dieci. Se parte anche lui, sarà una grossa perdita.»
«Senza contare che non va punito chi stasera ha eseguito gli ordini alla lettera.»
Corella sorrise, grato, mentre Spallaci si sedeva scontento accanto a Paola.
Fu lei a prendere la parola.
«Come fate a dire che sia uno di noi e non qualcuno che è partito per la Serenissima?»
«Cesare ha fatto i nomi di alcuni di voi», rispose prontamente Machiavelli. «Perciò, il traditore è ancora tra noi. In questa stanza, ad essere esatti.»
Una serie di sguardi diffidenti prese a girare tra i ragazzi.
Ormai, chiunque poteva dirsi nemico di chiunque.
Maria alzò gli occhi al cielo, muovendo un passo avanti.
«Quello che Niccolò sta cercando di dire», precisò, sospirando. «È che ora più che mai abbiamo bisogno di fare gioco di squadra. Non possiamo più permetterci di stare l’uno contro l’altro. Da questo comportamento immaturo, la spia trarrà soltanto vantaggi.»
«Resta il fatto che potrebbe essere chiunque», puntualizzò Laura, affranta. «Io, Bengiamino, persino Violante! Non abbiamo alibi per toglierci dalla lista dei sospetti.»
«Nessuno ha scusanti», la appoggiò la bolognese, incrociando le braccia sotto al seno. «Per tenere monitorati gli spostamenti, dovremmo sempre dire precisamente dove stiamo andando e perché. Si dovrebbe tenere un registro, con gli orari e il giorno, così da definire chi sa cosa e quando.»
«Sembra un buon piano», acconsentì Corella. «Ma chiunque può dire qualsiasi cosa e in mille differenti modi. Secondo me, noi non dovremmo sapere più nulla di nulla. Addestramenti e basta, non deve importarci di altro.»
«Io non voglio venir tagliato fuori», si infuriò Spallaci. «Non sono un maratoneta da far allenare; io sono un Assassino!»
«Chi poteva sollevare obiezioni se non tu, Augusto?», domandò affabile Cristiano, non cogliendo lo sguardo sospettoso di Bengiamino.
Spallaci fulminò il ferrare con lo sguardo.
«Insinui qualcosa, Principe?», rispose.
Machiavelli sospirò pesantemente.
«Basta così», sentenziò, alzando la voce quel poco che bastava per farsi udire sopra i toni accesi dei ragazzi. «Farete ciò che vi verrà detto e lo farete in silenzio. Nel caso non vi fosse ancora chiaro, un Assassino sa anche eseguire gli ordini senza mettere becco nelle decisioni di chi gli è superiore di grado.» Fece una breve pausa, voltando le spalle alla stanza per poi avvicinarsi alla porta. «E adesso tutti a dormire. Ragazze nella vostra camerata entro due minuti. E lo rendo chiaro fin da ora: se stanotte sentirò ruotare il pomello di una delle vostre porte, sarà mia premura darvi personalmente in pasto alle guardie dei Borgia.»
E detto questo se ne andò, lasciando dietro di sé una fila di borbottii incomprensibili.
Maria lo seguì subito dopo, premurandosi prima di lanciare uno sguardo infastidito a Bengiamino e Chiara, come a sottolineare la sua indisposizione verso di loro ancora una volta.
«Direi che è andata bene», commentò sarcasticamente Corella, ricevendo, come ricompensa, uno schiaffo sulla nuca da parte di Laura.
La milanese si alzò in piedi, seguendo con lo sguardo Paola e Chiara che uscivano a testa bassa dalla stanza.
«Poteva davvero andare peggio», si ritrovò ad asserire, prima di chinarsi per lasciare un bacio sulla fronte di suo fratello. «Riposa, anche se domani non abbiamo nulla da fare sarà meglio scendere a tirare un po’ con l’arco. Hai mancato Borgia.»
«Buonanotte», la salutò lui, non commentando.
Era lampante come quell’errore lo tormentasse più dello schiaffo di Maria.













Intitolò la sua prima raccolta “Sonetti per un cavaliere”, ispirandosi forse un po’ troppo al San Gimignano che aveva studiato presso il precetto.
Con la sua fuga, avvenuta solo una settimana prima, Marcello aveva guadagnato qualcosa di prezioso. Oltre a una ventina di frustate che l’avevo letteralmente piegato in due, il Conte di Ladispoli aveva provveduto a fornire alla torre una guardia più anziana, più armata ma decisamente meno incline al sopportare le lamentele del prigioniero.
A Marcello era bastato lagnarsi per un giorno o due ed ecco che aveva visto carta e calamaio sbucare dallo scrittoio sul corridoio.
Nella noia della sua reclusione, si era improvvisato poeta.
“Sonetti per un cavaliere” venne così scritto di getto in pochi giorni, quando la luce che filtrava dai lucernari era sufficiente per permettergli di rileggere il suo elaborato. Avrebbe di certo continuato la produzione anche di notte, quando l’insonnia lo costringeva a rannicchiarsi in un angolo del suo giaciglio, ma non disponeva né di candele né di lumi. Su quel punto, la guardia era stata irremovibile.
Così, di nuovo prigioniero ma ora dotato di vena artistica, Marcello Donà trascorreva le ore nel nulla più buio, camminando quei pochi passi che la sua stretta cella gli permetteva di fare e rigirandosi di continuo nel pagliericcio che gli era rimasto come letto.
Il Conte gli faceva visita sempre più di rado e, con ogni giorno che passava, si faceva sempre più irascibile. Parlottava con il suo secondo in comando e malediceva un colpo Cesare Borgia, un colpo la nobiltà romana, un colpo l’Assassino di non si era ben capito dove. Alla risposta di Francesco Donà alla richiesta di riscatto, comunque, non faceva mai menzione.
Ormai, Marcello cominciava seriamente a dubitare che sarebbe mai arrivata, la missiva che avrebbe concordato la sua liberazione.
Dopotutto a Venezia avevano fatto così tanto, per spedirlo a Roma, che di certo non si sarebbero scomodati per farlo tornare.
Non suo padre, quanto meno.
Sua madre avrebbe di certo mosso mari e monti per riabbracciarlo, ma non aveva modo di accedere alla corrispondenza ufficiale, perciò come poteva sapere?
Marcello aveva provato così tante volte a corrompere una guardia per fare da messo che ormai aveva perso le speranze.
E allora se ne stava lì, solo nel suo pagliericcio, a scrivere stupidi sonetti ispirati dagli spifferi gelidi della torre.
Mentre la voglia di riprendere in mano la sua vita cominciava ad abbandonarlo lentamente, Marcello aspettava una giornata abbastanza fredda per ammalarsi, un rancio avvelenato o una guardia sufficientemente violenta da picchiarlo a morte al primo insulto.
Piangeva nel sonno, di giorno non si azzardava a fare altro che restare disteso a terra, attaccando – senza troppo successo – bottone con la nuova guardia.
Arrivò presto al punto in cui l’unica convinzione che gli era rimasta era che c’era un solo modo per abbandonare quelle celle: in una cassa da morto. Poco importava, come ci sarebbe entrato; l’unica via per lasciarsi alle spalle la torre era quella verso il Creatore.
Realizzarlo lo distrusse, lo lasciò senza la speranza che fino a quel momento l’aveva fatto tirare avanti.
All’improvviso, non riuscì più tenere il conto dei giorni che passavano.
Era tutto un estenuante susseguirsi di passi, di lamentele gridate dal corridoio, di ranci improponibili e della guardia che glieli ficcava in bocca a forza per non farlo morire di fame.
Raggiunse il limite durante una notte di tempesta, quando l’acqua che gocciolava dal soffitto gli colpì per l’ennesima volta la fronte lasciata scoperta dai riccioli castani.
Quasi senza rendersene conto, perse completamente il controllo.
Sporco, fradicio e infreddolito, buttò quelle poche energie che gli erano rimaste in un pianto disperato che scoppiò all’improvviso, come un temporale in una giornata di sole, e che obbligò la guardia ad avvicinarsi alla cella per dare quantomeno un’occhiata.
Sarebbe stato così facile, strattonarla sulle sbarre e tramortirla con un colpo ben assestato, ma Marcello non aveva più la forza neanche per pensare a un tentativo di fuga.
Tutto ciò che voleva era mettere fine a quell’esistenza che da triste era diventata a dir poco insostenibile.
«Voglio andare a casa!», gridò, quando il gendarme si piegò sulle ginocchia con fare preoccupato. «Uccidetemi adesso e date il mio cadavere ai cani! Non ce la faccio più!»
L’uomo dall’altra parte delle sbarre sospirò. Mentre Marcello piangeva, sfilò dalla cinta un coltellaccio da macellaio dall’aria usurata e lo depose tra il fieno della cella.
«Questo apparteneva a un  ragazzino in vena di scherzi», spiegò, atono. Nonostante tutto, però, Marcello udì nella sua voce un po’ di commiserazione. «Nessuno finirà dei guai, se dovessero trovartelo addosso.»
Lo stivale della guardia spinse il coltello sotto le sbarre, lasciandolo dinanzi ai piedi di Marcello.
Lui abbassò lo sguardo, sconfortato.
«Credevo sareste stato voi, ad uccidermi», commentò.
La guardia rise.
«Non mi azzarderei mai a far fuori uno dei prigionieri Cimaglia!», rispose a voce alta. «Quando gli salterà in testa di toglierti di mezzo, proverà il più immenso dei godimenti, nel farlo. Di certo non voglio essere la causa del suo dispiacere quando ti troverà morto!»
Marcello corrugò la fronte, ma non controbatté.
«Ah, e poi», continuò l’uomo sul corridoio. «Se fossi così gentile da aspettare il cambio della guardia, te ne sarei davvero grato. Un favore per averti procurato il coltello.» E gli sorrise con disinvoltura, allontanandosi rapidamente per tornare alla scrivania.
Marcello sospirò mestamente, raccogliendo l’arma tra le mani.
Al contatto con la lama gelida, un brivido gli percorse le braccia e gli fu chiaro come il sole il fatto che non sarebbe mai riuscito a suicidarsi.
Forse era pronto per accettare la morte, ma conficcarsi un coltello nel petto era tutto un altro paio di maniche.
Abbattuto, buttò l’arma a terra, lasciandosi scivolare sul pavimento mentre gli occhi gli si riempivano delle lacrime che l’arrivo della guardia aveva scacciato.
Non se ne sarebbe mai andato.
Affondando il viso nella paglia lercia della cella, non poté far altro che abbandonarsi al pianto.






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Capitolo 13
*** Capitolo dodicesimo ***


polverenera

Il destino di Qayin

Capitolo dodicesimo




Il mattino seguente, una volta riuniti per colazione nella sala comune, fu lampante come nessuno di loro avesse metabolizzato gli avvenimenti della sera precedente.
Dopo Augusto – che quella notte non aveva dormito affatto e aveva aspettato le prime luci dell’alba per lasciare il dormitorio in cerca di qualcosa da mettere sotto i denti –, Corella fu il primo a sedersi al tavolo. Avvenimento che aveva dello straordinario, visto che tirare giù dal letto un ubriaco pareva impresa già abbastanza ostica, figurarsi farlo alzare di sua spontanea volontà.
Augusto lo interpretò come segno di una tempesta imminente, nel caso quella della sera precedente non fosse bastata a tirar loro le orecchie.
Arrivarono anche Lorenzetti e Pagni, prima che le ragazze si facessero vedere.
Anche tra loro, non c’era alcun segno di tranquillità.
«Buongiorno», mormorò Laura, sedendosi accanto a suo fratello con un unico pezzo di pane tra le mani.
Bengiamino la salutò con una carezza affettuosa sul capo.
«Non fai colazione?», le chiese.
Lei alzò le spalle.
«Non ho fame.»
Subito dopo, in una rigorosa e silenziosa fila, sopraggiunsero anche Violante, Chiara e Paola. Una dall’aria più affranta dell’altra.
«Niccolò non ha finito», annunciò la rossa, prendendo posto accanto ad Augusto. «L’ho visto andare nella stanza del Mentore.»
Dando un colpo di tosse per buttare giù un morso di pane secco, Spallaci ridacchiò spavaldo.
«E con questo?», chiese.
Paola storse il naso.
«Dalla sua espressione, dubito fosse una visita di cortesia.»
«Dobbiamo quindi aspettarci un’altra serie di urla?», domandò con espressione da cane bastonato Corella, appoggiandosi con il mento alla superficie del tavolo. «Io non so se posso sopportare un’altra strigliata. Non ho nemmeno fatto nulla, stavolta.»
«Punisce tutti o non punisce nessuno, questa è la filosofia di vita di Machiavelli», commentò semplicemente Paola, versandosi un poco di latte per poi lasciar cadere nella tazza anche un filo di miele.
«Fortuna che non applica questa cosa anche per le scopate, o eravamo perduti!», commentò alacremente Spallaci, strappando un sorrisetto ad Alessandro e uno sbuffo a Cristiano.
«Sarà per via della spia.»
La voce di Violante arrivò più roca del previsto, costringendola a schiarirsi la gola prima di proseguire, mentre Corella le versava una bicchiere d’acqua.
«Scommetto che vorrà vederci chiaro, ora. Non mi ha convinto il discorso di stanotte. Sembrava fin troppo accondiscendente.»
«Vedrete che ce la farà pagare, in un modo o nell’altro», l’appoggiò mogia Laura. «E stavolta i cento giri dell’Isola di corsa saranno una mano dal Cielo!»
Si accasciò sulla spalla di Bengiamino, il quale commentò l’intero discorso con un’alzata di spalle dall’aria insofferente.
Spallaci aprì al bocca per riprenderlo su quel poco interesse nei confronti di tutti loro, ma il rumore di una porta che si richiudeva cigolando gli mozzò il fiato.
Lo mozzò a tutti.
Passi leggeri si affrettarono sulle scale, ma non fu Machiavelli a comparire nella sala, bensì il Conte Cesco Ventimiglia, stretto nella sua tunica bianca e con la mano destra ancora fasciata a seguito dell’ustione.
Salutò con un timido cenno del capo e si andò a sedere in fondo al tavolo, lontano da tutti.
«È sempre da solo», commentò Paola, sporgendosi per osservarlo meglio.
Cristiano assottigliò gli occhi, guardandolo intensamente mentre si passava una mano sul mento, ma non commentò.
Si limitò a bere un sorso generoso di latte, attendendo il momento in cui …
A fare gli onori di casa fu Augusto.
«Sicuramente la spia è lui.»
Il biondo alzò le sopracciglia, continuando a non commentare, mentre il romano dava il meglio di sé.
«Sta sempre solo, non parla mai … Maria è la sola persona che ha a che vedere con lui.»
«E guarda caso è lei che ha avvertito Ezio della spia», aggiunse Laura, scambiando uno sguardo con Violante. «Tutti gli indizi portano al caro Conte, quindi!»
Bengiamino si rifece presente con una scrollata di capo che gli fece schioccare tutte le ossa del collo.
«Non credo.»
«Già», convenne Chiara. «Non parla con nessuno! Dove le prenderebbe, le informazioni?»
Laura la scrollò lievemente.
«Da Maria, appunto!», le rispose.
«Maria non mi pare il tipo di persona che si lascia sfuggire quel genere di cose», commentò di nuovo Bengiamino.
«Potrebbe avergliele chieste, no? Sono sempre insieme! E poi, se lei si fida di lui …»
«Io non chiederei mai informazioni a Maria», si lasciò scappare Corella in un impeto di schiettezza. Parve pensarci un secondo, poi aggiunse: «In effetti, io non le chiederei niente di niente.»
«Se Ventimiglia scalda il suo letto, forse Maria si è lasciata coinvolgere», suggerì Cristiano, seppur con tono assai cauto. «Oppure potrebbe essere che sia lei  stessa la spia, anche se pare improbabile.»
«Perché usare Cesco, allora?» domandò senza capire Paola.
«Perché così avrà qualcuno dietro al quale pararsi nel momento in cui verrà scoperta», rispose semplicemente il ferrarese, con un cenno del capo. Incrociando le braccia sul petto, li guardò tutti seriamente. «Dopotutto, il Conte non brilla in astuzia. Maria, invece, è la dea della perfidia.»
Almeno su questo, parvero tutti d’accordo.
Dal piano superiore, arrivò di nuovo il cigolio di una porta che si apriva sul corridoio.
Nel silenzio in cui la sala parve improvvisamente piombare, si udirono alcuni bisbigli, dopodiché vi fu il sonoro richiudersi dell’uscio e il rumore di un paio di stivali prese a scendere le scale.
Accompagnato dallo stridere della suola sul marmo, Machiavelli fece il suo ingresso nella sala.
A differenza della sera prima, quando l’ira gli illuminava il viso e gli assottigliava le labbra, quella mattina si presentò emaciato, visibilmente nervoso e con le occhiaie di chi ha quasi sicuramente passato la nottata in bianco.
Nascosto dalle ampie spalle di Bengiamino, Spallaci sogghignò.
«Bel colpo, Paola», sussurrò.
La rossa rispose con una gomitata.
«Guarda che io non c’entro», sibilò. «È stato tutta la notte a confabulare con il Mentore.»
«Ancora peggio allora», ne convenne il povero Corella, prendendo un sorso di vino nonostante si fosse appena destato. Ci voleva qualcosa di forte. «Se non ha calmato i nervi in modo alcuno, ci spaccherà le gambe.»
Cristiano si mise diritto sulla sedia, sporgendosi poi verso Violante.
«Scappiamo.»
Per risposta, la castana sbuffò.
«Ci seguirebbe sino ai cancelli dell’Ade per riprenderci e portarci qui, tirandoci per le orecchie. Sentiamo che ha da dire.»
Perfettamente coordinato, l’intero gruppo si voltò verso Machiavelli, ancora fermo sulle scale con le braccia conserte dietro la schiena.
Seguì un lungo attimo fatto di sguardi preoccupati e silenzi tesi ma, alla fine, il consigliere di decise a muovere quei pochi passi che lo separavano dalla sala e a riprendere il discorso della sera prima.
«Buongiorno», esordì, senza staccare gli occhi dai ragazzi.
Non guardava nessuno in particolare, eppure Augusto si sentì come se il suo sguardo lo stesse trapassando da parte a parte.
«Ho delle nuove da comunicarvi.»
Nessuno osò fiatare.
«Come ben saprete, Ezio è costretto a letto e almeno per i prossimi giorni non gli sarà possibile fare altro se non riposare. Ciononostante, abbiamo entrambi convenuto di non aver tempo da perdere.» Fece una pausa, avvicinandosi di un passo. «Nella giornata di oggi verrete interrogati; vi sarà chiesto ogni dettaglio del vostro viaggio per Roma, sarà letta ogni missiva mandata o ricevuta nell’arco di tempo che avete passato qui. Se avete qualcosa da nascondere, vi conviene vuotare il sacco seduta stante o finirete dritti a far compagnia ai pesci del Tevere.»
Cristiano fu il primo ad alzarsi in piedi.
«Voglio porre fine a questa farsa. Devo parlare prima con voi, Niccolò?»
Il consigliere storse il naso, non nascondendo il fastidio che la voce di Pagni pareva procurargli.
«No, per carità no», disse, prima di indicare con un cenno le scale che davano al piano superiore. «Con te, parlerà Ezio. Io non voglio perdere tempo e punterò direttamente ai più sospetti.» I suoi occhi si calamitarono a quelli di Spallaci, che deglutì piano. «Fuori tutti gli altri.»
Non se lo fece ripetere nessuno.
Mentre Cristiano saliva da Ezio, le ragazze insieme a Corella e Cesco lasciarono la stanza in fila. Bengiamino, prima di andarsene, diede una piccola pacca sulla spalla del romano.
Non fu chiaro se quel gesto fosse dettato da una sana fratellanza o da puro sarcasmo.
Deglutendo di nuovo, Augusto seguì con lo sguardo i suoi compagni allontanarsi.
Attese che Machiavelli prendesse posto dinanzi a lui e poi, cauto, allontanò da sé la tazza di latte caldo che stava bevendo per colazione.
«Faccio visita a mia madre», confessò a testa bassa, ancor prima che il consigliere potesse proferire parola. «Ma è solo una volta a settimana e giuro che non parliamo d’altro che dei pidocchi sui cuscini della camerata.» Tirò su col naso, sempre più nervoso. «Ho dei testimoni, se lo riterrete necessario.»
Machiavelli assottigliò lo sguardo, mentre lo ascoltava scuro in viso. Portò le mani sotto al mento, inclinando il volto quel tanto che bastava per scrutare quello abbassato dell’altro.
Secondo Corella, il consigliere aveva una sorta di dono, un qualcosa di riconducibile solo alla stregoneria: percepiva chi mentiva a leghe di distanza, smontando così ogni minima possibilità di protrarre illazioni fasulle all’infinito.
Augusto sperò vivamente che quel famigerato intuito non decidesse di tradirlo proprio quel giorno.
«Capisco, Spallaci. La famiglia è importante, ma da oggi gradirei che nelle tue visite portassi almeno due dei tuoi compagni. Tu ricambierai il favore con loro. Ed esigo che le tue missive vengano lette prima da uno di noi e poi da te.»
Augusto arricciò il naso. Non gradiva particolarmente chi metteva il naso nelle sue faccende ma, a parte una buona dose di insulti rivolti a quegli inetti dei suoi compagni, non aveva nulla da nascondere.
«Certo», rispose, quindi, stringendosi ai polsini della camicia. «Fate ciò che ritenete giusto.»












Tre tiri, tre centri.
Bengiamino prese un’altra freccia dalla faretra, incoccandola nell’arco e mandandola di nuovo a segno.
Allenarsi lo aiutava a distrarsi dai mille pensieri che gli ottenebravano la mente; in modo particolare, lo aiutava ad allontanare quel sospetto che covava da giorni verso un paio di compagni.
Non avendo prove a sostegno delle sue teorie, preferiva starsene in disparte e condurre una vita solitaria, lontana dai pettegolezzi degli altri e dalle loro accuse reciproche.
Sapeva a cosa portavano quelle cose e non sarebbe stato nulla di divertente.
Alzò l’arco sul paglione, prendendo la mira per la quarta volta.
Tirò la corda, trattenne il respiro.
Il rumore della freccia che si conficcava nel centro del paglione gli strappò un ghigno divertito.
«Allora sorridi, di tanto in tanto!»
Come la prima volta in cui l’aveva colto in fragrante ad osservare le ragazze, la voce di Ezio per poco non gli fece perdere l’equilibrio sui suoi stessi piedi.
Voltandosi di scatto verso il Mentore, Bengiamino abbassò l’arco, infilandolo a tracolla sulla spalla.
«Credevo ti avessero costretto a letto», commentò, atono. Un’occhiata dell’uomo gli fece intendere che la sua uscita pomeridiana doveva essere in via del tutto straordinaria. «Capisco.»
Ezio camminò lentamente verso di lui, zoppicando appena. Si teneva il fianco, segno che doveva in qualche modo provare dolore.
Al Covo l’avevano visto cadere, ferirsi, bruciarsi e infilzarsi con diverse cose e sempre senza battere ciglio. Lo scontro con Cesare Borgia, invece, lo aveva lasciato più menomato di quanto tutti si aspettassero.
Ciò dimostrava che Cesare non era un tipo con cui si poteva scherzare.
«Avevo bisogno di un po’ di aria fresca», gli confidò il Mentore, andando a staccare le frecce dal bersaglio. «E devo interrogare anche te, nonostante sia uno spreco di tempo bello e buono. Se qualcuno di voi è così bravo da far la spia ai Borgia senza dare nell’occhio, non saranno tre domande  a tradirlo. Ma facciamolo per il povero Niccolò.»
Bengiamino annuì, seguendolo con lo sguardo mentre tornava verso di lui per riconsegnargli le frecce. Ne raccolse una dalla mano aperta, incoccandola nell’arco che era scivolato dalla spalla per finirgli inevitabilmente in pugno.
«Chiedimi ciò che vuoi», mormorò, prendendo velocemente la mira prima di scoccare l’ennesimo centro.
Il ricordo del dardo che a Cesare Borgia non aveva fatto che un graffio gli bruciava ancora nel petto.
Se mai avesse avuto di nuovo la possibilità di puntargli addosso una freccia, non avrebbe di certo mancato il bersaglio.
Ezio ci pensò per qualche istante, prima di schiarirsi la voce.
«Sospetti per caso di qualcuno?»
Non gli aveva domandato se avesse rivelato qualcosa in un’audace missiva, o se si fosse aperto con un templare in cambio di soldi o rassicurazioni.
Aveva domandato a lui chi, secondo il suo giudizio, potesse essersi macchiato di un tale crimine.
Semplicemente perché, evidentemente, Ezio sapeva perfettamente di chi poteva o voleva fidarsi.
Il milanese ammutolì, bloccando per un istante la mano che era corsa a recuperare la seconda freccia dalle mani del Mentore.
Lo guardò negli occhi, incerto se vuotare il sacco o meno.
Non disse nulla, né di ciò che aveva visto assieme a Chiara né dei sospetti che si era fatto in quelle settimane, ma si assicurò che l’occhiata che gli lanciò fosse il più eloquente possibile.
«Non abbastanza per puntargli il dito contro», disse, infine, recuperando un’altra freccia e incoccandola.
Ezio comprese e non domandò altro. Era lampante che, in caso di prove, Bengiamino sarebbe corso da lui a parlare.
«Apprezzo il tuo silenzio, se non ne sei certo. Non mi piace chi si accusa a vicenda.»
Il Mentore fissò il paglione, mentre Bengiamino mancava di pochissimo il centro.
Il milanese lo sentì sospirare.
«Rilassa le spalle. Sai, Cristiano ha le idee molto chiare, o almeno così sembra.» Girò attorno al morettino, spingendogli le spalle verso il  basso e irrigidendosi un attimo per il male al fianco. «Mi ha detto che mentre parlavate fra voi è uscito il nome di Maria e, onestamente, la sua teoria va più diritta delle tue frecce.»
Bengiamino storse il naso.
«Ultimamente, molte cose vanno più dritte delle mie frecce», mormorò.
Tutto quel perenne nervosismo a cui lo sottoponeva l’Ordine non gli dava pace. Non era abituato a tirare senza concentrazione e, a Roma, la sua concentrazione era in perenne lotta con l’opprimente presenza dei suoi rumorosi compagni.
«Ma Pagni dovrebbe far lavorare meno la testa. Le sue teorie sono fin troppo macchinose.» Continuò, scoccando l’ennesimo colpo. «Maria è perennemente accanto a te. Se non è con te, è con Machiavelli. E pranza seduta tra Bartolomeo d’Alviano e Volpe.» Si fermò un istante a fissare il paglione. «Un’ottima infiltrazione in teoria; in pratica credo farebbe cilecca. Un solo passo falso e sareste in quattro a saltarle alla gola. Francamente, non mi pare una persona così cauta da potersi permettere un approccio del genere.»
Ezio sospirò, incrociando le braccia sul petto, ma continuando a far ruotare la freccia nella mano.
«Sono d’accordo, ma non voglio rifiutare nessuna pista. So che Cristiano lo fa solamente perché è preoccupato per noi. Di tutti, è forse quello che maggiormente potrebbe soffrirne: suo padre ha quasi perso la vita, a causa di una spia.» Fece una pausa, alzando gli occhi verso il cielo sopra di loro, prima di sbuffare, stanco. «Torno al mio letto, prima che Maria venga a prendermi per la gola!» Gli rese la freccia. «Mi raccomando, spalle rilassate.»
Bengiamino sospirò, imbronciandosi un poco prima di voltarsi verso il paglione con l’ultima freccia in mano.
Spalle rilassate.
Si concesse un momento per scacciare i pensieri e provò a focalizzarsi su qualcosa di piacevole.
L’immagine del cortile interno della sua casa a Milano lo accolse con serenità, circondandolo con i suoi colori tenui e l’aria che sapeva di fiori.
Mentre lui tirava al paglione, sotto ai portici Laura insegnava alle loro sorelle come ricamare un fazzoletto.
Bengiamino sorrise, puntando la freccia verso il suo bersaglio. Quasi non la sentì sfiorargli le dita per sgusciare nell’aria come il più veloce dei fulmini.
Quando si avvicinò al paglione per recuperarla, constatò soddisfatto il suo ennesimo centro.













Per riappacificare gli animi, quella sera Corella avanzò la proposta di andare tutti a bere alla solita osteria, ovviamente di nascosto da Machiavelli.
Ciò che non sapeva, ma che scoprì una volta recatosi a chiamare le ragazze nella loro camerata, era che Machiavelli aveva già lasciato il Covo, deciso a non salutare nessuno, alla volta della bella Fiorenza.
«Fortuna che doveva allenarci strenuamente o morire nel tentativo!», commentò Spallaci, mentre recuperava una cappa marrone da indossare sulla giubba color panna.
«Sicuramente ha lasciato indicazioni a qualcuno», aggiunse Cristiano, mentre Violante gli aggiustava il colletto della camicia. «Non staremo senza soffrire, in sua assenza.»
«Così eleganti per bere?», domandò ironica Paola, mascherando un certo malcontento.
Machiavelli non aveva detto nulla nemmeno a lei e, anche se non si aspettava nulla dal consigliere, era lampante come ci fosse comunque rimasta male.
«C’è da festeggiare», commentò Laura, stringendosi al braccio di suo fratello maggiore. «Machiavelli ha lasciato Roma e siamo ancora tutti vivi!»
Corella ridacchiò, alzando il calice di vino che aveva immediatamente ripreso a portarsi dietro ovunque andasse.
«E con l’assenza del nostro caro compare Niccolò, torniamo al dolce nettare degli dei!», trillò, sistemandosi il mantello sulle spalle. «Faccio strada, amici miei!», gridò, buttandosi sul corridoio e tirandosi dietro Violante e Chiara. «Di stasera non serberemo alcun ricordo!»
Non arrivarono che alle scale, interrotti dal vociare di Bartolomeo d’Alviano tutto preso a raccontare l’ultimo aneddoto sulla sua caserma di mercenari.
Diretti verso il piano delle camerate, lui a Maria camminavano fianco a fianco, entrambi avvolti nei pesanti mantelli di lana per coprirsi dal freddo.
«Questa è bella», sbottò la donna, incrociando le braccia sul petto con fare stizzito non appena i suoi occhi incontrarono quelli di Corella. «Credevo che Machiavelli fosse stato chiaro, circa la libera uscita!»
«Lo era stato, ma ora lui non è qui e il Mentore ha espressamente detto che possiamo andare a rilassarci un poco», rispose pronto Alessandro, guardandola con una sfida divertita negli occhi. «Ora, se permetti, noi abbiamo da festeggiare la libertà. Ti inviteremmo, ma vogliamo divertirci!»
La superò con due saltelli, seguito da Laura e Spallaci, mentre Cristiano a Violante si tenevano in fondo alla fila.
Quando passò la giovane, Maria la trattenne.
«Il Mentore intende parlarti ora, sempre che abbia tenuto un po’ di serietà.»
Senza attendere oltre, con passo stizzito, Maria si dileguò, seguita da un Bartolomeo molto divertito.
Viola sospirò.
«Vorrà parlarmi della spia …»
Arrivarono dinanzi alla porta di Ezio che Maria aveva già preso a bussare. Quando ottennero il permesso di entrare, scoprirono che non c’era soltanto il Mentore, ad attenderli.
Volpe era in piedi accanto alla finestra socchiusa, intento ad accendere una candela con il fuoco del caminetto in cui scoppiettava un fuoco caldo.
Ezio, seduto tra le coperte, li salutò con un cenno della mano aperta.
«Bene, ci siamo tutti», commentò, quando vide d’Alviano prendere posto sulla poltrona dinanzi al caminetto. «Sedetevi, ci vorrà un po’.»
Nello spazio ristretto della stanza, Violante e Maria sedettero sul materasso, mentre Volpe rimase con la schiena appoggiata contro il muro.  
La bolognese non capiva.
Gli altri, a quanto ne sapeva, erano stati interrogati singolarmente.
Machiavelli, Ezio e in un solo caso Volpe avevano posto qualche domanda, osservato le reazioni più che le risposte e poi avevano girato i tacchi tornandosene per i fatti loro.
Senza mostrare nervosismo o paura, Viola guardò Ezio direttamente negli occhi.
«Sono nei guai, per caso?»
La risposta non tardò ad arrivare.
«No», disse il Mentore, sfoggiando un sorriso che più che rassicurante pareva soltanto stanco. «Ma abbiamo bisogno di un quadro generale visto dall’interno. So che parlate molto tra di voi e ciò naturalmente comporta a puntare il dito contro qualcuno.» Fece una pausa, accompagnando quelle parole con un sorriso ancora meno incoraggiante del primo. «Abbiamo bisogno di sapere chi pensa cosa di chi.»
«Quindi io mi ritrovo davanti a tutta la Santa Inquisizione perché sono più affidabile?», domandò senza capire, prima di arrendersi.
Ezio operava per vie misteriose.
Appoggiò le mani in grembo.
«Io ho un’idea molto chiara della visione dell’interno, Mentore.» Guardò ognuno degli altri Assassini presenti, che parevano pendere dalle sue labbra. «La spia non è tra noi, e sono pronta anche a spiegare perché lo penso.»
Ezio si prese un istante per rispondere.
Seppur perplesso, passò lo sguardo sul viso di tutti i presenti, come a chiedere conferma di qualcosa. Solo alla fine tornò su quello di Violante, asserendo con formalità alla sua proposta.
«Siamo tutt’orecchi», disse con voce profonda, incrociando le braccia sul petto e fremendo leggermente quando il gomito gli urtò debolmente la ferita. «Va’ pure avanti.»
«Una spia deve avere dalla sua parte tre fattori: deve essere credibile, deve avere accesso alle informazioni e deve essere furba.»  Si interruppe, passando gli occhi di nuovo da uno all’altro. «Se manca anche una sola di queste tre abilità, allora è impossibile agire.»
«Tu sei sia furba che credibile», fece presente Maria, con un tono ovvio che irritò moltissimo Violante.
La bolognese, mantenne la calma.
«Certamente, ma non ho accesso ai piani che  voi escogitate in questa stanza giorno dopo giorno», la corresse, sorridendole falsamente prima di tornare seria. «Ezio non mi ha mai detto nulla, in nessuna occasione.»
«Nemmeno agli altri», commento il Mentore. «Però non sappiamo di per certo quanto sappiano i Templari. Potrebbero anche solo conoscere la corazza del nostro progetto di addestramento, non lo scheletro.»
Viola annuì.
«Certamente, ma passiamo allora alla furbizia e alla credibilità: Corella e Chiara non sono credibili quando mentono e Spallaci, Ventimiglia e Paola non sono furbi. Si fanno scoprire sempre e subito qualsiasi cosa facciano. Io, Laura, Bengiamino e Cristiano potremmo farla franca, certo, ma non abbiamo le informazioni necessarie. Un Templare, a sentirsi dire ogni giorno le stesse due storie, taglierebbe la gola a chiunque. Che io sappia, solo una persona conosce tutte le informazioni, è furba ed è anche credibile.»
Terminò, puntando gli occhi in quelli di Maria.
La modenese sbuffò divertita.
«Credevo che avessi detto che non pensavi fosse uno di noi.»
«Infatti», commentò Viola con pacatezza. «Noi non ti consideriamo parte del nostro gruppo.»
Maria alzò le mani in segno di resa.
«Che sfortuna», commentò, sarcastica. Si passò le mani tra i capelli scuri, scrollando le spalle. «Bambina, hai dimenticato un particolare: non tutti siamo qui perché d’Alviano è piovuto dal cielo mentre tornavamo a casa dal mercato.» Sospirò, voltandosi appena per lanciare all’uomo un’occhiata fugace. «Non combattiamo i Borgia perché ci disgusta l’idea di zappare la terra. A qualcuno, qui dentro, quel cane di Cesare ha tolto tutto.» Parve rilassarsi per un istante, sbuffando con tono leggero mentre indicava Ezio con un cenno della mano. «La mia unica difesa è che non c’è oro che possa ripagare ciò che Cesare Borgia mi ha preso in passato. E non c’è mano più fervente della mia all’idea di impalare la sua testa di fronte all’uscio di casa.»
Ezio parve crederle, ma la risatina di Violante gli impedì di parlare.
Il fatto che il Mentore pareva molto più interessato a cosa avesse da dire lei piuttosto che Maria, non faceva altro che far salire il clima di tensione.
«Hai ragione, nonnina», la schernì Violante, guardandola con uno sguardo di puro odio. «Infatti certe persone, qui, non dovrebbero esserci. Tutti temiamo Machiavelli e la sua autorità, ma portiamo rispetto e non lo odiamo. Tu invece non hai né rispetto né autorità. Ti alleni con noi, sei come noi. Non sei niente di più di una presuntuosa.»
Volpe scioccò la lingua contro il palato.
«Calma, signore.»
Ezio, però, alzò la mano.
«Violante ha il diritto di dire la sua. Mi fido ciecamente di lei, quasi più del resto delle persone che albergano questo covo. Quindi, per cortesia, rispettate ciò che pensa e tu, Maria, abbassa i toni. Non sei la delegata di Machiavelli, non detti legge.» Detto questo si sistemò sul materasso. «Ora tutti fuori, tranne Viola. Abbiamo qualcosa da dirci in privato, onde evitare problemi.»
Sospirando pesantemente, Maria si alzò dal materasso e si diresse verso l’uscita scuotendo il capo.
«Stai perdendo ogni capacità di giudizio, Ezio», commentò, amareggiata, dopodiché precedette Bartolomeo e Volpe sul corridoio, lasciando a loro l’onere di richiudere l’uscio.
«La detesto», soffiò Violante, facendo ridacchiare il Mentore.
«Non preoccuparti, non se n’è accorto ancora nessuno!»
Le fece segno di farsi più vicino e, alzandosi, Violante si premurò di sistemargli il cuscino sotto alla schiena. Lasciò scivolare gli occhi sul petto nudo di Ezio fino alle bende, alzandole appena per controllare la ferita.
«Lascia, sto bene.»
«Pare infetta», commentò lei, andando verso lo scrittoio e prendendo delle foglie mediche che il cerusico aveva lasciato la sera prima. Aiutò l’uomo a disfarsi delle bende, iniziando poi a curarlo. «Non male per una che zappa la terra, no?»
«Non ascoltarla, in questo caso ha parlato la gelosia», disse lui, storcendo il naso per il fastidio. «Maria è una brava donna, ma non sa controllarsi e risulta insopportabile ai più.»
«A tutti.»
«A tutti voi di certo.» A quelle parole, Ezio parve ricordarsi il discorso che aveva in testa quando aveva fatto uscire Maria, Bartolomeo e Volpe. «A proposito degli altri, ascolta bene ciò che ho da dirti perché sarà un segreto fra noi due.»
Viola alzò gli occhi nei suoi, annuendo poi a quelle parole.
«Non uscirà nulla da questa stanza.»
«Molto bene.»
A fatica, Ezio si tirò sui gomiti.
«Ora che Machiavelli è tornato a Firenze, sei l’unica di cui posso fidarmi, qui dentro.» Il suo tono uscì grave, pesante come mai prima d’ora. Tanto tagliente da far accapponare la pelle. «Sei la sola a essere nata al di fuori di quest’Ordine, la sola a cui i Borgia non hanno mai torto un capello. Loro non hanno interesse in te come tu non ce l’hai in loro, mi capisci?» Attese che la bolognese annuisse per proseguire. «Per questo sei l’unica che mi sento di escludere completamente dai miei sospetti. Ogni persona presente questa sera, per quanto mi sia amica e cara, potrebbe potenzialmente averci traditi. Da oggi in poi avrai un compito: sarai le mie orecchie tra i tuoi compagni. Annoterai ogni comportamento sospetto, ogni frase che si sbilancerà dalla neutralità. Nessuna eccezione, sono stato chiaro?»
Viola annuì lentamente, sorridendo amara.
«Quindi, infine, sono una spia?»
Ezio le prese il meno tra pollice e indice, sorridendole.
«La mia spia; lo fai solo a fin di bene. In mezzo a noi c’è un traditore che mette in pericolo tutti. Devi impegnarti a tenere al sicuro chi è intelligente.»
«Va bene», rispose lei, molto più risoluta. «Sarà fatto.»
«Bravissima. Ora ti conviene andare, o perderai la festa dell’Oste Corella!»
Viola finì di applicare le foglie sulla ferita di Ezio, prendendo poi delle bende lavate e appoggiando in un catino quelle appena rimosse. Tornò verso di lui, sistemandogli la fasciatura per bene.
«Non ho molta voglia, in realtà. Potrei tenerti compagnia qualche ora, così da capire appieno questa mia nuova mansione.»
«E Cristiano?»
«Cristiano non saprà nemmeno come si chiama, tra poco.»
Si scambiarono un sorrisetto, poi calò fra loro calò un leggero silenzio.
Da quel bacio sul Colosseo, Violante non era più tornata a scaldare le lenzuola di Ezio, il quale non aveva mosso alcuna obiezione o posto domande impertinenti.
Tra loro, però, non era mai venuta a mancare la sincerità.
«Posso farti una domanda?», chiese la bolognese, e lui asserì. «Cosa intendeva prima Maria? Cosa le ha portato via Borgia?»
L’espressione di Ezio mutò improvvisamente.
Se prima c’era un sorriso caldo a illuminargli il volto, di colpo una smorfia incupita gli aveva tolto ogni calore.
Abbassò lo sguardo sulla ferita un paio di volte, prima di rispondere.
Una volta schiuse le labbra, rimase comunque un istante a ponderare le parole.
«Non mettere troppo accanimento, nella tua crociata contro Maria», rispose, sforzandosi di tornare a sorridere per apparire divertito. Non ci riuscì molto, poiché i lineamenti duri del viso lo tradirono in un’espressione assai tirata. «A suo modo, vuole bene a ciascuno di voi. Cercate di convivere, quantomeno per mantenere la pace comune. Avete tante cose da imparare, l’una dall’altra.»
Violante sospirò, convinta che non avrebbe ricevuto una risposta. Si lasciò cadere all’indietro, stendendosi sulle gambe di Ezio e appoggiandovi la schiena.
Con gli occhi fissi contro il soffitto, la sua mente prese a vagare da sola.
Quando ritornò in sé, non sapeva nemmeno se si fosse assopita o meno.
Ezio sembrava preso dalla lettura di una lettera, che appoggiò accanto a sé quando notò che lei lo guardava.
«Cosa ti turba?»
«Tu dici sempre che tutto si risolverà e che tutto andrà bene», disse sottovoce la bolognese, mentre il Mentore prendeva una sua ciocca castana fra le dita. «Ma se non dovessimo capire chi è la spia? Se rivelasse una parola di troppo? Se ci assaltassero domani?»
Ezio, solitamente abituato a dispensare sorrisi di incoraggiamento e parole ricche di positività, non disse nulla di vagamente simile. Rimase in silenzio per istanti infiniti poi, con il cuore in mano e tutta la sincerità di cui disponeva, sussurrò piano tre semplici parole.
«Non lo so.»









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Capitolo 14
*** Capitolo tredicesimo ***


polverenera

Il destino di Qayin

Capitolo tredicesimo




Bengiamino e Chiara avevano lasciato la festa dopo qualche bicchiere di vino, stufi di avere intorno soltanto gente ubriaca che intonava coretti stupidi e che rendeva una tranquilla serata tra amici un autentico incubo. Avevano svicolato ogni tavolo, uscendo in perfetto silenzio, senza però evitare di sgraffignare una bottiglia di vino da bere in pace. Seduti sul Pantheon, più precisamente sul retro della struttura, si erano presi del tempo per rinfrescarsi le idee.
Erano successe così tante cose, nell’Ordine, da riempire interi annali.
Con i piedi a ciondoloni in quei pochi metri di vuoto che li separavano dalla strada, Chiara dondolò il capo più volte, aspettando che Bengiamino le passasse la bottiglia di vino per prenderne un sorso a sua volta.
«Credo ne avranno fino a domani mattina», commentò, divertita, mentre con le dita stringeva il collo di vetro del recipiente. «Corella e Cristiano si sono davvero scatenati. Non pensavo sarebbero arrivati a bere tanto!»
Alzò le spalle, felice di trovarsi lontana dal trambusto dell’osteria. Lontana dal trambusto e in ottima compagnia, per di più.
Da quando Machiavelli li aveva divisi, raramente riusciva a trovare del tempo da passare da sola con Bengiamino e avrebbe mentito negando che non le fossero mancate, le loro nottate passate sui tetti a fare il turno di ronda.
«Credi che domattina riusciranno a tirarsi in piedi?», chiese ingenuamente, prendendo un altro sorso di vino, senza accennare a passare la bottiglia al suo compagno. «Voglio dire, Corella forse è abituato, ma Cristiano mi pareva alquanto distrutto, quando ha cantato quella ballata in piedi sul tavolo.»
Senza attendere più, Bengiamino le sfilò il vino dalle mani, prendendo un sorso più generoso di quelli precedenti.
Passò il dorso della mano sulle labbra, così da eliminare ogni goccia prima di rispondere.
«Cristiano sopravvivrà, promesso», disse con tono divertito. Arrischiò addirittura un sorriso verso la ragazza, complice il vino che l’aveva sciolto e l’intimità creatasi fra loro. «Mi preoccupa di più Spallaci. Zitto zitto in un angolino, ha seccato ben tre bottiglie di lambrusco. Non so se domani mattina sarà in grado di intendere e di volere.»
«Oh, poverino!»
Chiara chinò il capo in avanti, forse un po’ troppo dispiaciuta per l’amico romano. Non si erano mai voluti bene, ma lei non lo odiava di certo e non avrebbe mai augurato del male a un suo compagno.
Sospirò, scrollando appena i riccioli biondi che le cadevano liberi sulle spalle e sull’abito lilla che aveva indossato. Quando poteva togliersi di dosso la divisa, era più che felice di tornare ai suoi vestiti di morbida stoffa che sua madre le aveva confezionato prima della partenza. Odoravano di casa e della pittura che occupava il laboratorio di suo padre.
Persa a ricordare Firenze, si rese conto troppo tardi di essersi fatta improvvisamente taciturna, cosa che sapeva benissimo non essere da lei.
Si attaccò quindi al braccio di Bengiamino, mostrandogli un sorriso felice come a rassicurarlo di tutto quel silenzio, e disse: «Restiamo qui tutta la notte?»
«Possiamo fare ciò che desideri», rispose lui pacato, passandole la bottiglia di vino prima di riportare gli occhi sul cielo nuvoloso della notte.
La luna non riusciva ad affacciarsi bene oltre le nubi ma, stranamente per quella stagione, non faceva freddo. Forse il vino contribuiva a scaldarli, ma quello sembrava più un clima marzolino che di fine novembre.
Il ragazzo si passò una mano sul collo, dondolando appena le gambe.
«Possiamo anche andare a fare un giro, o possiamo tornare al Covo. A te la scelta.»
«Voglio stare qui.»
La risposta le uscì dalla bocca così velocemente che Chiara non poté fare a meno di arrossire per la risolutezza con cui pronunciò quella parole.
Imbarazzata, lasciò la presa attorno al braccio di Bengiamino, correndo a sistemare una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Sempre che ti vada, naturalmente», aggiunse, timida.
Attese quel poco che le bastò per comprendere che non sarebbe arrivata alcuna risposta e si mise a frugare nella borsa che portava a tracolla su un fianco.
«Ho una cosa per te», farfugliò, mentre le sue mani viaggiavano nella sacca alla ricerca del suo obiettivo.
Bengiamino, che con il suo silenzio pareva solo sottolineare che andava davvero bene qualsiasi cosa, la guardò frugare freneticamente nella piccola sacca. Si sporse, curioso, alternando lo sguardo dal viso della ragazza fino alle sue mani che si muovevano così veloci da apparire quasi invisibili.
Chiara trovò quel che stava cercando dopo innumerevoli tentativi che la portarono ad estrarre pennelli, vecchi fogli da disegno e qualche mozzicone di matita.
«Eccola!», disse, porgendo al suo compagno un sacchetto nero. «L’ho disegnata per te. Mi sono fatta aiutare dal Mentore e da Messer Leonardo per assemblare i pezzi … spero funzioni.»
Attese composta che Bengiamino liberasse il sacchetto dal nastro scuro che lo chiudeva e che facesse scivolare tra le sue mani la lama appena forgiata che Chiara vi aveva risposto qualche ora prima, dopodiché passò alle spiegazioni.
«Funziona come le lame celate del Mentore», disse, sorridendo estasiata dal suo stesso meccanismo. «Ma è da applicare al piede, così avrai le mani libere per usare la balestra. Si aggancia al polpaccio e la si fa scattare con una corda. Purtroppo non sono riuscita a perfezionare la chiusura, ma prometto di lavorarci sopra, quando questo allenamento sarà finito.»
Il moro rimase senza parole.
«Oh, cavolo.»
Ciò che aveva tra le mani, sembrava qualcosa di estremamente complesso e incredibilmente unico.
«Dovrebbero prenderti come ingegnere bellico, più che come Assassina», le disse con un sorriso, realizzando troppo tardi l’ambiguità di quelle parole. «Voglio dire, sei un’ottima Assassina, ma in questo ti superi!»
Chiara arrossì, distogliendo lo sguardo dalle mani di Bengiamino per farlo vagare libero sul cielo notturno di Roma.
«Mi piace inventare le cose», confessò con una smorfia poco convinta. «Le immagino, le disegno … le costruisco, a volte. Le persone come te mi danno ispirazione.»
Si voltò verso di lui, stavolta schiudendo le labbra un sorriso più sincero, più felice. Si pettinò i capelli dietro le orecchie, congiungendo poi le mani in grembo.
«Consideralo un piccolo ringraziamento per tutte le volte che mi sei stato vicino», cinguettò. «Se non fosse stato per te, avrei chiesto io stessa di essere rispedita a Firenze molto tempo fa.»
«Chiara, non so davvero cosa dire.»
Bengiamino si rigirò l’arma fra le mani, prima di provare ad assicurarla allo scarpone. Fece un paio di tentativi, notando che, pigiandola a terra, la lama rientrava alla perfezione.
Provò a fare uno scatto, saltò sulla cupola del monumento e poi tornò da Chiara, sedendosi con un piccolo tonfo accanto a lei.
Poi fece qualcosa che mai e poi mai aveva fatto prima: la strinse in un abbraccio che di forzato non aveva nulla.
Estasiata dalla grazia con cui il ragazzo era balzato da una parte all’altra del Pantheon senza muovere null’altro che l’aria attorno a sé, Chiara si lasciò stringere contro l’armatura scura di Bengiamino, appoggiando la guancia sul metallo lucido degli spallacci.
Ridacchiò nervosamente, allungando appena le mani per tentare di ricambiare quell’abbraccio ma trovando le spalle del suo compagno inaspettatamente troppo alte per la sua statura minuta. Si accontentò così di accoccolarsi contro di lui per aspettare che l’abbraccio si sciogliesse da sé.
«Voglio tornare a lavorare con te», piagnucolò, non appena la presa di Bengiamino si allentò quel poco che bastava per farla tornare diritta. «Non sono a mio agio, con gli altri.»
«Siete una bella squadra, però. Io mi divertirei, al tuo posto.» Il ragazzo arrischiò un sorriso, sollevando una gamba e poggiando il piede sul bordo, mentre l’altro rimaneva a penzolare nel vuoto. «Dopotutto siamo sempre insieme, no?»
«Sono stanca», sbottò sottovoce Chiara, premendo le ginocchia contro il petto e raccogliendosi su se stessa. «Non vedo l’ora che questo allenamento finisca e che il Mentore allenti la presa.»
Sospirò, spostandosi l’ennesima ciocca bionda dal viso.
Sentiva improvvisamente addosso il peso di tutte quelle settimane perse a maneggiare la spada e a saltare da un tetto all’altro senza neanche il tempo di riprendere fiato. Non faceva per lei, quel ritmo frenetico. La sera arrivava nella camerata talmente stravolta che crollava senza neanche rendersene conto sul materasso ed erano le altre, a doverle rimboccare le coperte.
«Quando Ezio ti sceglierà, rimarrò da sola», mormorò, imbronciandosi appena.
Era stata così dura, farsi un amico tra tutte le persone del Covo. Non le andava di ricominciare tutto da capo.
Lui la guardò negli occhi, prima di farsi più vicino e portarle un braccio attorno alle spalle.
«Chi ti dice che non sceglierà anche te? Ti stai impegnando molto e hai idee brillanti. Un Assassino non si basa solo sulla rapidità o sulla forza, ma anche sul modo che ha di aggirare gli ostacoli. Non dovresti abbatterti prima del tempo.»
 Chiara sorrise, arrossendo un poco quando gli occhi di Bengiamino indugiarono nei suoi. Scosse appena il capo, congiungendo le mani in grembo e stringendole con fare nervoso.
Non riuscì a trovare nulla da dire, restando con le labbra socchiuse in un mezzo sorriso mentre pensava e ripensava a qualcosa di intelligente con cui commentare le affermazioni del ragazzo.
Poi, abbandonando di colpo ogni intelletto, mosse il viso in avanti e gli schioccò un bacio fugace sulle labbra, ritraendosi immediatamente con un verso di sorda vergogna.
Si sentì avvampare.
«Io …», farfugliò, coprendosi il viso con le mani e distogliendo lo sguardo. «Bengiamino, scusami. Non so che mi è preso.»
Lui, però, parve molto più tranquillo di lei.
Abbozzò un sorrisetto intenerito, mentre le scostava i capelli dal viso.
Poi, senza aggiungere una parola, si chinò su di lei e la baciò.
Fu un bacio di partenza, molto dolce. Le loro labbra si sfiorarono appena e fu come un tuono. Poi lui si fece più vicino, portando una mano tra la chioma bionda della ragazza, mentre l’altra scendeva per afferrarle il fianco.
Chiara si lasciò stringere in un altro abbraccio, stavolta più caldo e più gagliardo, e portò entrambe le mani sul viso di Bengiamino, accarezzandolo piano mentre accettava di buon grado ogni singolo bacio che lui le riservava. Indugiò appena sulla barba sottile, sui lineamenti spigolosi del volto, sul naso che premeva contro la sua guancia morbida.
Si staccò dopo un istante, poggiando i palmi aperti sul petto di Bengiamino e restando immobile a osservare le sua espressione, estasiata.
Fronte contro fronte, rimasero a guardarsi.









«Avanti, Alessandro. Manca ancora una rampa di scale.»
Era incredibile come quel ragazzo divenisse più pesante a ogni passo che compivano verso la camerata.
L’aveva trovato ubriaco all’osteria, completamente abbandonato dai suoi compagni che probabilmente erano più sbronzi di lui e, dopo una buona dose di fatica per tirarlo in piedi, l’aveva letteralmente trascinato fino al Covo.
Durante tutto il tragitto, Corella non aveva fatto che canticchiare motivetti dal dubbio gusto circa le cosce delle prostitute di Roma, alternando quelle canzoncine a qualche apprezzamento sulle forme di Laura.
Mai come in quella notte, la milanese era stata tentata di lasciarlo da solo a vagare per le strade dell’Eterna.
Nonostante tutto, comunque, era riuscita a spingerlo fino al Covo, a farlo entrare dalla porta sul retro e a fargli salire il primo gradino di quella che sarebbe stata la scalinata più lunga della sua vita.
«Andiamo, gli altri saranno già tutti nei loro letti!», lo rimproverò, affranta.
L’ultima cosa di cui aveva voglia era una lavata di capo per qualcosa di cui, peraltro, non aveva colpa.
Neanche a dirlo, Corella non pareva dello stesso avviso. Con una botta improvvisa di pazzia, si afferrò ad entrambi i corrimani e prese a correre in modo disordinato fino all’ultimo piano, superando così quello dei dormitori. Scivolò non appena finiti i gradini, rotolando per il salone e continuando a sbraitare frasi senza alcun senso logico.
Grazie a Dio, Machiavelli non c’era e sicuramente Ezio non avrebbe detto nulla, abituato com’era alle stranezze di Alessandro.
Laura sospirò, alzando la veste quel che bastava per percorrere gli ultimi gradini e raggiungere Corella nel salone.
«Alessandro!», lo chiamò, chinandosi su di lui e afferrandolo per i baveri della camicia. Rimase un istante a guardarlo, preoccupata, accertandosi che non si fosse fatto del male. «Andiamo», sospirò, poi, offrendogli la mano per farlo rialzare. «Non dovremmo neanche essere qui.»
Avrebbero dovuto essere da un pezzo nei loro letti, già addormentati e pronti alla levata mattutina che sarebbe seguita. Con tutto quel sonno che il ragazzo le stava facendo perdere, l’indomani non l’avrebbero svegliata neanche gridando alla guerra.
Lui le prese la mano, ma solo per approfittare dell’effetto sorpresa e trascinarla su di sé. Prese ad accarezzarle la schiena, le gambe, sollevando la gonna e cercando in ogni modo di baciarla.
«Andiamo, Laura, non fare la riottosa», sibilò, facendole venire il voltastomaco.
Il suo alito era vino puro.
Se avesse vomitato, avrebbero potuto riempire damigiane per giorni e giorni.
Cercò di tenerla stretta a sé in ogni modo, rivelandosi parecchio sveglio, per uno sbronzo.
Laura si trattenne dal colpirlo con quanta forza aveva nelle braccia per il solo fatto che picchiare un ubriaco sarebbe stato disdicevole persino in quella situazione. Gli piantò quindi le mani sul viso, spingendolo quel tanto che bastava perché i loro visi tornassero a una distanza accettabile.
«Finiscila!», gridò, buttandosi all’indietro per allontanarsi definitivamente da lui. «Sei davvero uno stupido, Alessandro!»
Con le mani finalmente libere, si risistemò la gonna, asciugandosi quell’unica lacrima di stizza che le solcava la guancia. Nella foga, un ciuffo di capelli scuri si era staccato dalla treccia che portava legata sulla nuca e ora penzolava disordinato sulla sua spalla.
Corella la guardò con un piccolo broncio infantile, come se con quel rifiuto lei l’avesse in qualche modo ferito. Si mise seduto, sospirando affranto prima di recuperare le energie e barcollare fino all’ufficio di Machiavelli.
La porta era chiusa a chiave, una piccola precauzione presa dal consigliere per tenere gli Assassini lontani dai suoi affari, ma quella premura non servì a nulla.
Alessandro scardinò l’uscio con una spallata, entrando dentro e buttandosi letteralmente sullo scrittoio, facendo cadere libri e carte dall’aria importante.
Al solo vedere quella scena, Laura impallidì.
Su qualche bisticcio sul corridoio Ezio poteva anche chiudere un occhio, ma su quello … forse non sarebbe stato il Mentore, ad arrabbiarsi, ma di certo ci avrebbe pensato Machiavelli.
Rapida come non mai, scattò verso lo studio del consigliere, chiudendosi la porta alle spalle come meglio poté.
L’indomani, avrebbe chiesto a Bengiamino di aiutarla a ripararla.
Gemendo dinanzi al macello che Corella aveva combinato buttandosi sullo scrittoio, prese a raccogliere i documenti sparsi sul pavimento, raggruppandoli come meglio poteva e sperando vivamente che Machiavelli non li avesse disposti con un preciso ordine. Speranza vana, se lo sentiva.
Ma Alessandro non pareva ancora soddisfatto.
Calciò via gli stivali che volarono in tutte le direzioni possibili, prima di barcollare fino ad una seconda porta, che dava sull’alloggio privato di Machiavelli.
Quella, che non era chiusa a chiave, si aprì immediatamente, facendolo volare in terra per la seconda volta nel giro di dieci minuti.
Arrancò fino al letto, spogliandosi da ancora steso e quindi ottenendo un pessimo risultato.
Per l’ennesima volta in quella serata, Laura si diede della stupida per aver aiutato un compagno a tornare a casa da una festa in osteria. Si ripromise di non farlo mai più.
«Alessandro», chiamò, sempre più spazientita, raggiungendolo nella camera da letto. «Non avrai intenzione di metterti a –»
Le parole le morirono in gola lo vide sfilarsi goffamente i calzoni.
Senza poter far niente per impedirlo, le sue guance si accaldarono, mentre il pudore la obbligava a distogliere lo sguardo dalla visione di Alessandro che rotolava su un fianco per liberarsi anche della blusa.
«Vieni», biascicò, avvicinandosi ma tenendo lo sguardo sempre ben piazzato sul pavimento. «Dobbiamo andarcene da qui, prima che ci scoprano.»
«Prima che ci scopano?», domandò stranito il ragazzo. Poi sembrò realizzare qualcosa che solamente la sua mente poteva comprendere. I suoi occhi presero a scintillare di pura malizia, mentre si appoggiava a Laura con i calzoni alle caviglie e la camicia aperta sul petto. Le prese il mento tra le dita, ammiccate. «So cosa potremmo fare qui, mia cara. Paola trova questo letto comodo, visto tutto il tempo che ci passa. Vogliamo provarlo?»
A quel contatto, Laura rabbrividì. Rabbrividì non perché Corella la spaventasse, o perché quella situazione sapeva di surreale, ma perché il tocco delle dita del ragazzo sulla sua pelle era ciò che aveva sognato segretamente nelle ultime settimane. Da quando lui si era avvicinato a Bengiamino, il bisogno che Laura sentiva di stargli accanto non aveva fatto che crescere.
E lei, con il bacio alla festa, aveva detto addio a ogni suo freno.
«Tieni i tuoi squilibri per te!», balbettò, allontanandosi da lui seppur di malavoglia. «Se Machiavelli ti vedesse nudo sul suo letto ti strapperebbe le viscere seduta stante!»
«Andiamo Lauretta!» Un po’ a fatica, Corella scalciò via i pantaloni, seguendo poi la giovane per la stanza. «Machiavelli è a Firenze e non tornerà mai più! Ci odia!» Rischiò di sbilanciarsi all’indietro un paio di volte, ma alla fine la raggiunse. «Ti prego, vieni a letto con me. Dalla festa dei Borgia non faccio altro che pensarti! Ormai non guardo nemmeno più come una volta il seno di Paola! Dovrà pur valere qualcosa!»
Quelle parole la bloccarono nel mezzo della stanza, togliendole la forza per continuare a camminare fino all’uscio.
Alessandro la pensava.
Per poco il suo cuore non mancò un battito.
Mentre Laura si voltava, la sua espressione si addolcì un poco, sebbene il suo sguardo rimase sempre fisso sulla punta delle scarpe.
Timidamente, lasciò che le dita di Corella si intrecciassero con le sue.
«Prometti di non saltarmi addosso?», mormorò, ancora rossa in viso.
Lui le sorrise con dolcezza, tirandola piano verso il letto, prima di sospirare rassicurante.
«No, non prometto niente.»
Furono le sue ultime parole, prima di cadere sul materasso con una risatina, tirandola su di sé.
Laura non seppe mai cosa scattò in lei.
Arrivò a sfiorare con i gomiti il materasso che già le sue mani stringevano il viso di Corella, mentre le sue labbra gli baciavano la bocca con una passione ben diversa da quella che aveva sperimentato sui tetti qualche sera prima.
Per la prima volta, si ritrovava a provare del vero desiderio nei confronti di qualcuno.
Non arrivò a realizzarlo appieno, poiché sotto una lieve spinta di Corella si ritrovò con la schiena sul materasso e con lui a cavalcioni sui suoi fianchi.
Anche se avesse voluto, in quell’istante le sue labbra non si sarebbero scattate da quelle del ragazzo per niente al mondo. Neanche per rimproverarlo del fatto che, se li avessero scoperti, a Venezia ce li avrebbero spediti a piedi.













Cristiano rotolò tra le lenzuola, affondando il viso nell’unico cuscino della branda quando i primi raggi del sole provarono a destarlo.
Era tornato tutto solo nel cuore della notte, in fin dei conti neanche troppo ubriaco, e la prima cosa che aveva fatto era stata addormentarsi sulla panca quando si era seduto per sfilarsi gli stivali sporchi di fango.
Alla ricerca di una tazza di latte da bere prima di coricarsi definitivamente, Violante aveva raccolto ciò che era rimasto di lui e lo aveva portato nel dormitorio deserto, arrivando persino a rimboccargli le coperte prima di metterlo a letto.
Il resto, poi, lo aveva fatto la notte.
Senza svegliarsi, Cristiano si mosse ancora sotto le coperte, avvicinando il capo a quello di Violante.
La bolognese non percepì subito quel gesto leggero. Reduce com’era da una notte quasi insonne passata a parlare con il Mentore, pareva più propensa a continuare a dormire piuttosto che a destarsi.
Peccato che qualcosa – o meglio, qualcuno – la pensasse assai differentemente.
La porta si spalancò, sbattendo contro al muro con un tonfo sordo.
Violante scattò seduta, guardando con gli occhi sbarrati Maria che quasi ansimava per la rabbia.
Gli occhi della modenese erano passati da un letto all’altro, trovandoli tutti vuoti così come quelli delle ragazze. Violante sapeva che, ad eccezione di Paola, nessuna di loro aveva fatto ritorno, così come i loro colleghi.
«Chiunque sia ancora vivo, morirà per mano mia!», disse risoluta Maria, ringhiando per la rabbia, prima di uscire sbattendo la porta di nuovo.
Non li aveva degnati di uno sguardo.
Con lo sbattere della porta, Cristiano si svegliò di soprassalto, balzando a sedere quasi Machiavelli stesse urlando il suo nome. Si guardò attorno ai limiti dello spavento, stropicciando con foga gli occhi azzurri prima di sistemare almeno in parte la nuvola di riccioli biondi che gli coprivano disordinatamente la vista.
Si voltò poi verso Violante, ancora più stranito di prima.
«Che è successo?», borbottò, scivolando di nuovo sotto le coperte.
Di certo non era nella sua forma migliore, no.
Allargò le braccia, invitando Violante a raggiungerlo accanto a sé. Evidentemente, non aveva idea del fatto che il sole fosse ormai sorto. O, più semplicemente, non voleva curarsene.
Viola accettò di buon grado l’invito, appoggiandosi con la guancia alla sua spalla e richiudendo gli occhi, coccolata dal profumo del ragazzo.
«Maria ha notato che ieri sera sei tornato solamente tu.»
La sua risposta non fu nulla più di un mormorio assonnato, come se la ragazza stesse disperatamente cercando di riprendere sonno.
Non era da lei, visto quanto fosse genericamente mattutina. L’idea però di farsi vezzeggiare così da Cristiano era più allettante di qualsiasi altra cosa.
«Sono tutti dispersi …»
Sentì il cuore di Cristiano perdere un battito.
«Oh», commentò poi il ragazzo, mordendosi nervosamente le labbra. «Ora che ci penso abbiamo lasciato Corella all’osteria che non si reggeva in piedi e reclamava piangendo il seno di Paola. Chissà poi dov’è finito Spallaci.» Ridacchiò lievemente, tirandosi sui gomiti per abbracciare più comodamente le spalle di Violante. Nello spostarsi, non mancò di baciarle i capelli castani. «Piuttosto. Ieri sera ci siamo chiesti dove fossi scomparsa.» 
«Corella è sempre così monotematico», fu il solo commento di Viola, mentre il biondo si sistemava al meglio. Si riaccoccolò contro di lui, appoggiandogli il mento alla spalla e fissando la federa del cuscino. «Ho parlato con Ezio della spia, poi sono rimasta qui. Non mi andava di venire con voi a bere, mi sentivo stanca e, onestamente, le urla di Machiavelli mi assordavano ancora le orecchie. Non hai idea di dove sia Chiara? Con Bengiamino, immagino, ma dove? Nella nostra camerata hanno dormito Paola, Maria e Cesco.» Sicuramente il Conte aveva cambiato stanza per non disturbare lei e Cristiano, ma su questo sorvolò. «Manca anche Spallaci all’appello, ma lui sarà a casa da sua madre.»
«Lo penso anche io», ridacchiò Cristiano, prendendo a giocherellare con una ciocca della ragazza. Arricciava i capelli sulle dita e poi li lasciava andare, seguendo il loro percorso sulla schiena nuda di Violante. «Mancano anche Corella e Laura, allora», rispose, poi. «Bengiamino e Chiara se ne sono andati sul più bello. Dubito si siano cacciati nei guai.» Sospirò, appoggiando il mento sulla testa della ragazza. «Ma che ci importa, in fondo?», disse poi, senza nascondere una nota di malizia nella sua voce. «Ci siamo io e te; non dobbiamo preoccuparci per loro.»
Per risposta, lei si tirò la coperta fino al mento, arricciando le labbra e mostrando così come non si trovasse assolutamente d’accordo con lui.
«Se fossero in pericolo? Ci hai pensato? Forse li hanno presi i Templari. Il repertorio di canzoni che Corella canta da ubriaco è tutto fuorché discreto …»
Fece per alzarsi, ma Cristiano la trattenne.
Una marea di brividi prese a risalirle la schiena, quando lui le morse piano la spalla.
«Cristiano, andiamo. Potrebbero essere davvero nei guai», disse, facendo una modesta resistenza.
«Se fossero nei guai», le rispose pacato il biondo, baciandole piano la pelle della schiena. «Potrebbero contare su una squadra di Assassini più cocciuti di un ariete.» Portò le mani sui fianchi della ragazza, risalendoli lentamente prima di arrivare ad accarezzarle il seno. «Sono in una botte di ferro.»
Passò il naso sulla schiena di Violante come a invitarla a voltarsi verso di lui, mentre il suo respiro si alterava un poco, appesantendosi con le sue mani che continuavano ad accarezzarla.
Si scambiarono un lungo e voluttuoso bacio, mentre lui la faceva distendere sotto di sé e iniziava a scendere con il capo, accarezzandole con le labbra il collo e le spalle, sino al petto che si alzava e abbassava velocemente a causa del respiro accelerato.
Violante si lasciò del tutto andare, sospirando, fino a che la porta non si aprì nuovamente.
Maria li fece rivestire in fretta e furia.
Gli altri andavano trovati, e alla svelta.


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Capitolo 15
*** Capitolo quattordicesimo ***


polverenera

Il destino di Qayin

Capitolo quattordicesimo




La stanza da bagno era calda, così come l’acqua della vasca nella quale riposavano in compagnia dopo un intero pomeriggio passato a dare la caccia a un corriere dei Borgia sui tetti del ghetto. Caccia finita male, tra l’altro, cosa che lo frustava più del fatto stesso di trovarsi a dover condividere il momento del bagno con altre tre persone.
Corella, ormai tornato al vecchio vizio di portarsi ovunque il bicchiere colmo di vino, canticchiava una canzone da osteria al fianco di Cristiano, il quale pareva assai più interessato a insaponare i suoi boccoli biondi che a fare da coro al forlivese. Spallaci, invece, se ne stava da parte e raccontava di quanto gli ci era voluto per ammazzare due arcieri particolarmente agili.
Distante da tutto quel vociare, Bengiamino sospirò.
Ci aveva pensato e ripensato per almeno due settimane, insonne tra le coperte della camerata, ed era arrivato alla conclusione che, vista la sua totale e riconosciuta ignoranza in fatto di relazioni umane, un consiglio non potesse che giovargli.
«Corella», esordì, quindi. Con una bracciata attraversò a nuoto la vasca, portandosi accanto all’amico. «Devo chiederti un parere circa una faccenda.»
«Devi essere particolarmente disperato se chiedi consiglio ad Alessandro», disse divertito Cristiano, strappando il sorriso dalla bocca del povero Corella, il quale pareva estasiato all’idea di poter essere d’aiuto. «Di che si tratta? Un discorso circa l’invecchiamento dei vini?», proseguì imperterrito il biondo, ricevendo una spruzzata d’acqua in pieno volto.
«Insaponati bene, tu, che sul biondo lo sporco risalta ancor di più», borbottò Corella, prima di voltarsi verso Lorenzetti, appoggiandogli una mano sulla spalla nuda. «Di qualsiasi cosa si tratti, io sono la persona giusta per te.»
«Sei sicuro di quello che vai cincischiando, vero?», si intromise Spallaci, grattandosi con falsa indifferenza l’interno dell’orecchio. «Questa me la voglio proprio godere: Lorenzetti che chiede aiuto a qualcuno per qualcosa!»
Bengiamino sospirò rumorosamente, lasciandosi affondare un poco nell’acqua calda della vasca.
Forse, anzi, con buona probabilità, stava commettendo l’errore più grosso della sua intera esistenza.
«C’è una … persona», disse, soppesando con minuzia ogni singola parola. «Due settimane fa, quando siamo usciti …» Si prese una pausa per pensare. «Potrei essermi esposto un po’ troppo. Non che sia stato respinto, ma non ci parliamo da allora.»
Sospirò nuovamente, scivolando sul fondo fino a che l’acqua non arrivò a bagnargli le labbra.
Non si era mai vergognato tanto in vita sua, ma il fatto che Chiara avesse accuratamente evitato di parlargli per tutto quel tempo lo stava distruggendo.
Sorprendentemente, comunque, quelle parole riscossero uno strano successo.
All’inizio vi fu solo un lungo, brutto silenzio e sei paia di occhi che lo fissavano fuori dalle orbite.
Poi iniziò la cagnara vera e propria.
Corella si alzò in piedi, cercando di correre per la vasca mentre starnazzava qualcosa riguardo alla perdita della virtù di Bengiamino.
Cristiano si portò le mani ai capelli bagnati, tirandoli appena, mentre Spallaci prendeva ad applaudire, gridando al miracolo come un profeta.
In toto, sembravano impazziti di colpo.
«Dobbiamo festeggiare! A me il vino!», urlò Corella, senza smettere di correre.
Basito, Bengiamino spalancò la bocca. Rimase a guardare il forlivese prendere il volo sul pavimento allagato del bagno, per poi cadere di faccia sulle piastrelle.
Quel poco di silenzio che il rovinoso capitombolo di Corella riuscì a riportare, Bengiamino lo utilizzò per dare le dovute delucidazioni.
«Non c’è stato niente del genere», farfugliò, riemergendo appena dalla vergogna che lo aveva trascinato sul fondo. «L’ho soltanto baciata, tutto qui.»
Piantò lo sguardo sull’acqua che aveva dinanzi, quasi nelle sue parole vi fosse davvero qualcosa per cui provare imbarazzo, e restò in attesa della reazione dei suoi compagni.  
«Di chi si parla?», domandò Spallaci, staccando Pagni dalla bottiglia di vino che si era portato dietro solo per potersi attaccare a sua volta.
«Che domanda idiota, solo dalla tua bocca poteva provenire!», lo riprese subito Alessandro, ributtandosi in acqua e aggrappandosi alle spalle di Lorenzetti. Gli prese il volto tra le mani. «Chiara Filippi da Firenze, chi altre?! Dimmi, bacia bene?»
«Non è questo, il punto!», protestò Bengiamino, roteando gli occhi senza però scostarsi da Corella. «Ti vanti sempre di essere esperto, in questo genere di cose, perciò dimmi come posso attirare la sua attenzione.»
Sputato il nocciolo della questione, il milanese si sentì più tranquillo. Si rilassò un poco, staccando lo sguardo dal vuoto per portarlo sui suoi compagni.
Dopotutto, che Cristiano e Corella fossero due rubacuori era faccenda ben nota; Spallaci, invece, nei mesi che avevano trascorso assieme aveva speso più soldi in bordelli che in vino.
Incredibilmente, tutti e tre presero molto seriamente la situazione.
«Non c’è un protocollo scritto che valga per ogni donna», iniziò Cristiano. «Ognuna ha un modo diverso di venir conquistata.»
«Il punto focale è questo: far sì che apra la gambe.» L’esordio di Corella fece perdere un poco la fiducia del milanese nei suoi amici, visto che anche gli altri due annuirono convinti. «Chiara è la più piccola, è giovane e innocente. Ci vorrà un po’, per cogliere il suo fiorellino.»
«Però è anche vero che è persa di te», si intromise il ferrarese. «Cerca di essere romantico, ma con discrezione o la imbarazzerai. Falle complimenti, regalale qualche fiore e in men che non si dica te la troverai sotto ad ansimare.»
Bengiamino sospirò.
Avrebbe dovuto capire nell’esatto istante in cui aveva scelto di confidarsi che quella non sarebbe stata una buona idea.
«Grazie tante», sbuffò, quindi, sguazzando fino alla porta per poi abbandonare la vasca. «Credo andrò a chiedere consiglio a Laura.»
Laura che probabilmente ne sapeva ancor meno di lui, in fatto di conquiste romantiche, ma che sicuramente avrebbe quantomeno usato la testa per aiutarlo. Dopotutto, lei e Chiara erano amiche.
Passò senza salutare dalla stanza della vasca a quella dove un’ora prima si erano spogliati, allungando svogliatamente la mano verso la parete alla ricerca della sua casacca.
Quando la sua pelle entrò in contatto con la superficie fredda del vetro, qualcosa lo costrinse a realizzare che, nella stanza, non erano rimasti che i suoi stivali.
I suoi stivali e quegli degli altri, certamente, ma nessuna traccia di bluse, cinture e mantelli.
Spariti, volatilizzati, scomparsi.
Trattenendo il fiato, Bengiamino tornò sui suoi passi.
«C’è un problema», decretò, immergendosi nella vasca per stare al caldo. «Qualcuno ha preso i nostri abiti.»
Cristiano non assimilò subito quelle parole, ma fu il solo ad udirle visto che gli altri due sembravano chiusi in un discorso senza sbocco riguardo ai seni delle donne.
«Che cosa intendi  dire?», domandò, ingenuo, uscendo a sua volta e raggiungendolo alla porta.
Si affacciò, per poi sbiancare. Tornò quasi di corsa alla vasca a si lanciò dentro.
«Ci hanno preso i vestiti!», sbottò in faccia a Spallaci e Corella, sperando così di farli desistere dai loro discorsi.
Corella si scostò quel poco che bastava per non trovarsi i capelli di Cristiano in bocca, poi si voltò  verso Bengiamino.
«E chi avrebbe dovuto prenderci i vestiti?», chiese, corrugando la fronte con fare perplesso.
Spallaci lo superò come un fulmine, tirandosi dietro Cristiano per uscire di nuovo dalla vasca.
«Ma quelle oche, è ovvio!», sbraitò. «Forza! Andiamo a riprenderceli!»
Bengiamino gli scoccò un’occhiata sconvolta. Senza almeno qualcosa da mettersi addosso, da lì non sarebbe mai uscito.
Alessandro non si fece problemi di sorta. Uscì dalla vasca con passo tronfio, esibendo così tutte le sue glorie insieme a Spallaci lungo le scale del Covo.
Si udirono un paio di urla, tra cui uno ‘Scostumati!’ proveniente dalla madre di Auditore.
Cristiano attese ancora qualche secondo, prima di sospirare e seguirli.
«Forza, Bengiamino, non possiamo marcire qui dentro.»
Bengiamino roteò gli occhi.
Nel mentre Pagni lasciava la stanza, vagò con la mente per le sale del Covo, focalizzando il corridoio che collegava il bagno alla sala centrale. Il corridoio decorato con le bandiere recanti il simbolo della fratellanza.
Raggiungerlo e spiccare un balzo verso una di esse per sistemarsela attorno alla vita e coprire quantomeno bacino e gambe fu più facile del previsto, tanto che, una volta resosi vagamente presentabile con quello stendardo allacciato sotto l’ombelico, Bengiamino non poté fare a meno di sentirsi soddisfatto.
Partì quindi alla ricerca di Chiara, più nervoso che veramente adirato per quel brutto tiro, senza mancare di porgere i suoi saluti a Madonna Auditore quando la incrociò nel salone.
Non trovò Chiara, ma Laura tartassata dai tre ragazzi.
Se ne stava zitta con gli occhi fissi su di un libro, non molto interessata ad esso quando al voler evitare di guardare i tre ragazzi nudi che stavano sbraitando attorno a lei.
«I nostri bauli sono vuoti, hanno portato via tutto eccetto le bandane», disse disperato Corella, guardando poi come si era coperto Bengiamino. «Oh, intelligente!»
«Stupida femmina, dicci dove sono i  nostri vestiti!», sbraitò Spallaci, ottenendo come risposta uno sbadiglio della milanese.
«Non ho idea di dove le altre abbiano nascosto le vostre cose», gli rispose dopo un istante, voltando la pagina del libro che stava leggendo per coprire una risatina imbarazzata. «Ma, Alessandro: fossi in te mi procurerei una vanga e qualcosa con cui coprirmi. Ha ripreso a piovere, fuori.»
E detto questo si alzò, salutando educatamente con un cenno del capo e prendendo la scalinata che conduceva alle camerate. Si fermò un istante a pochi passi da Bengiamino, prendendogli il braccio e sussurrandogli qualche parola di scusa all’orecchio.
Peccato che non paresse affatto pentita.
«Fuori?!» Corella si sporse dalla finestra, notando poi qualcosa di strano. «Ehi, Cristiano, quella su quell’albero non è la tua divisa?»
Il biondo mugugnò, sporgendosi a guardare.
Pareva proprio lei.    
Mentre cercava un modo per far soffrire Violante senza ucciderla, notò qualcosa. Anzi, due cose.
Piantata nel terreno c’era una bottiglia di vino rovesciata, vuota ovviamente, e sotto di essa solo terra smossa.
Senza dimenticare quello che pareva uno dei fazzoletti ricamati di Spallaci, arrotolato sulla porta della chiesa.
«Credo di sapere dove possiamo trovare le nostre cose, miseriaccia.»
Mentre i tre partivano di buon passo per uscire all’aperto, Bengiamino restò a guardarli allontanarsi.
Non pensò neanche per un istante di cercare tra la terra smossa o su un albero; Chiara non avrebbe potuto essere così banale neanche per sbaglio. Sebbene l’idea di costringere Spallaci ad affrontare le suore di San Bartolomeo non era poi così mediocre.
Trovare la ladra delle sue vesti, ad ogni modo, restava l’unica possibilità di recuperare camicia e calzoni.
Fissandosi la bandiera alla vita per assicurarsi che quella trovata non finisse per tradirlo, Bengiamino prese la via di sua sorella, salendo le scale verso le camerate.
Se Chiara si fosse rifugiata nella stanza designata alle ragazze, non si sarebbe di certo fatto problemi a fare irruzione. Dopotutto, ormai era difficile immaginarsi più miserabile che errante per il Covo coperto soltanto di un lembo di stoffa.
Come da previsione, trovò tutte le ragazze affollate alla finestra a ridersela sotto ai baffi. Anzi, a ridere platealmente quando qualcuno fuori riuscì a cadere sul fango.
Ovviamente si trattava di Corella.
Bengiamino si mise dietro di loro con le braccia incrociate, osservandole con un sopracciglio alzato.
«Guardate Cristiano!», Viola si portò una mano alle labbra, indicando verso la piazza e il campo adiacente. «Si farà malissimo se scivola e struscia sulla corteccia.»
«Puoi giurarci», ricalcò Laura con un sorrisetto malevolo. «Anche se Spallaci è quello che rischia.»
Seccato, Bengiamino diede un colpo di tosse per annunciare la sua presenza nella camerata.
Le ragazze si voltarono tutte di scatto, dapprima con espressione di sorpresa preoccupazione, poi con un lieve risolino a spiegare le loro labbra.
Arrossendo appena, Bengiamino realizzò di essere appena entrato in una camerata di sole ragazze vestito con nient’altro che una bandiera attorno alla vita. Bandiera che non gli era parsa neanche così coprente, ma preferì non indagare. Non in quel frangente.
«I miei vestiti», ordinò, portando le braccia dietro la schiena. Inspirò un paio di volte, imponendosi tutto il contegno che suo padre aveva insegnato a lui e ai suoi fratelli e che Laura pareva aver interamente gettato al vento. «Per favore.»
Laura fu la prima a lasciare la stanza, tirandosi dietro Paola. Entrambe ridacchiavano come due ragazzine.
Violante abbassò lo sguardo su Chiara, la quale fissava il pavimento rossa in viso.
«Di lui ti devi occupare tu, secondo spartizione», le disse, facendola arrossire ancora di più.
Anche la bolognese lasciò la stanza, sussurrando un ‘complimenti’ a Bengiamino e dandogli una pacca sulla spalla.
Sembrava un apprezzamento, ma il milanese decise di non sindacare nemmeno su quello.
Fulmineo, scattò verso Chiara, bloccandola nell’angolo tra il letto e il muro senza lasciarle neanche il tempo di protestare.
«I vestiti», sospirò, accigliandosi appena. Allo scuotere la testa della fiorentina, portò la mano a bavero della bandiera attorno ai suoi fianchi. «Chiara», chiamò, fermo, mentre con il braccio spingeva la stoffa ad abbassarsi. «I vestiti. Ora.»
Chiara, dall’alto della sua innocenza, non comprese subito cosa stava per accadere. Balbettò qualcosa, portando le mani al viso, prima di scuotere nuovamente il capo.
«Ho promesso alle ragazze che sarei rimasta zittina!», confermò, tenendo le mani sugli occhi.
La non-risposta di Bengiamino la mise in allarme. Riuscì a resistere sì e no due secondi, prima di togliere le mani nell’esatto istante in cui il drappeggio scivolava lungo le gambe magre di Lorenzetti, lasciandolo del tutto nudo.
Bengiamino dovette richiamare a sé tutta la buona volontà di cui disponeva per non perdere il controllo e correre a coprirsi come la più pudica delle vergini. Non si era mai mostrato senza vesti dinanzi a una donna, neanche a sua sorella.
«Se non mi dici dove hai nascosto i miei vestiti», esordì, dapprima impacciato per poi guadagnare sicurezza man mano che procedeva nell’illustrare il suo piano. «Uscirò da quella porta e andrò a chiederlo alle altre senza coprirmi in alcun modo.»
Tirò su col naso, un po’ per l’imbarazzo e un po’ per il freddo, ma non staccò gli occhi seri da quelli spalancati di Chiara.
Alla biondina parve bastare.
Il suo labbro tremò appena, mentre non riusciva proprio a staccare gli occhi dal corpo perfetto di Bengiamino. Allungò una delle mani, accarezzandogli appena lo stomaco, riportando gli occhi nei suoi e facendosi più determinata di quanto lui avesse calcolato. Si alzò sulle punte, attenta a non sfiorare il corpo nudo del ragazzo, ma riuscendo al contempo a sfiorare le sue labbra con un  bacio appena accennato.
Poi tornò in sé e con un paio di passetti si allontanò, dandogli le spalle.
«Sotto al letto del Mentore. Non volevo rovinarli, portandoli sotto alla pioggia.»
Bengiamino sospirò, più intenerito da quel bacio che dalla mera soddisfazione di potersi finalmente rivestire. Si chinò a raccogliere la bandiera per poi rimetterla al suo posto attorno ai fianchi e si lasciò sfuggire uno sbuffo soddisfatto.
Quando si voltò per ringraziare Chiara, lei era già sparita sul corridoio.
Di gran carriera, perciò, Bengiamino si decise ad abbandonare la camerata delle ragazze per percorrere l’ultima scalinata che lo separava dalla sua armatura.
Bussare alla porta del Mentore gli richiese più tempo del previsto.
Pensò più e più volte a come esordire, a come spiegare, covando la speranza che Ezio fosse sgattaiolato via contro gli ordini del guaritore.
Alla fine, optò per la via più giusta: la verità.
«Mentore», disse, quindi, bussando alla porta di legno con compostezza. «Sono Bengiamino. Sto cercando i miei vestiti.»
Dall’interno arrivarono due risate, una maschile e una femminile, che gli fecero alzare gli occhi al soffitto.
Entrò, quindi, senza attendere il permesso, ed evitò accuratamente di guardare sia Ezio che Viola, mentre si chinava per raccogliere le sue cose sotto al letto. Sembrava esserci tutto.
«Voglio partecipare anche io, a queste cose», stava dicendo il Mentore, così divertito dalla situazione da rendere impossibile ogni suo tentativo di nascondere l’ilarità.
«La prossima volta verrai avvertito, promesso», lo rassicurò la bolognese, rimanendo appoggiata alla finestra con le braccia incrociate.
Con l’armatura ancora in mano, Bengiamino assottigliò lo sguardo su Violante.
«Paola ti cercava», le disse, tentando di coprire la sua menzogna con un cenno del capo colmo di disinteresse. «Pare che Spallaci si sia vendicato dello scherzo.»
Ricambiò vago l’occhiata preoccupata che la bolognese gli lanciò, prima di seguirla con il capo per tutta la stanza fino a che non sparì dietro la porta che dava sul corridoio.
Sentiti i suoi passi scattanti scendere le scale, Bengiamino si liberò della bandiera, prendendo a rivestirsi.
«Hai detto che vuoi partecipare a questo genere di cose», disse, allacciandosi gli spallacci sulle spalle.
Ezio ricambiò il suo tono serio con una risatina lieve.
Bengiamino non si scompose.
«Ebbene», continuò, mentre con immenso sollievo si stringeva la cintura in vita. «Stanotte ci servirà il tuo aiuto.»









Maria, che si era intrattenuta per affari personali fuori da Roma per qualche giorno, decise di tornare proprio nel momento meno opportuno.
Dopo aver aiutato un ignudo Cristiano a scendere da un albero e un altrettanto scostumato Corella a recuperare tutti i suoi vestiti coperti dal fango, si era vista costretta a salvare la vita a Spallaci, inseguito da un intero ordine di suore munite di crocifissi e scope.
Quando le donne le avevano detto di aver beccato il ragazzo a frugare sotto alle panche totalmente nudo, lei aveva quasi perso il nume della ragione.
Grazie al cielo, avevano reso le vesti al romano, anche se Maria stava ponderando l’idea di mandarlo a casa dalla madre completamente spoglio di ogni cosa. Dignità compresa.
Prima della cena aveva fatto una bella ramanzina a tutti, ma come sempre era bastata una parola di Ezio per invalidare tutto.
Come se poi l’avessero ascoltata …
Li aveva fatti ritirare a letto molto prima del solito, promettendo giri di corsa a non finire la mattina successiva, ma certa che la loro obbedienza non fosse per paura ma solo perché pioveva ancora fortissimo e quindi non aveva senso uscire dal Covo, nemmeno per andare a bere.
Il solo temerario era stato Corella, ma nessuno degli altri era sembrato incline ad accompagnarlo, così anche il forlivese aveva desistito.
«Hai una brutta cera, Laura.» Maria poggiò una mano sul viso della milanese, sentendolo bagnato di sudore freddo. «Non ti senti bene?»
«Crampi all’addome, nulla di che», la rassicurò Laura, stendendosi piano sul letto per paura di rimettere la cena. «Passeranno presto, forse oggi ho riso davvero troppo.»
Maria assottigliò lo sguardo.
«Domani manderò a chiamare il guaritore», rispose, allontanandosi verso il suo giaciglio dove – finalmente – riuscì a togliersi il mantello dopo un giorno intero passato in viaggio. «Dirò a Ezio di lasciarti dormire.»
Frugò un po’ nella sacca, estraendo una lettera imbustata da una calligrafia tanto pomposa quanto elegante, e la porse a Paola.
«Da Niccolò», spiegò.
Chiara fece capolino dal suo cumulo di coperte.
«Sei stata a Firenze?», chiese.
Maria annuì.
«Di passaggio, giusto ieri.»
«E Machiavelli?», chiese preoccupata Laura.
«Sua moglie è riuscita a calmarlo. Ancora qualche tempo e potreste vederlo tornare a Roma, chissà.»
«Festeggiamo», disse ironica Violante. «Anche se devo ammettere che senza Machiavelli non si respira la stessa aria. Sarà anche un po’ sadico, ma è l’essenza di questo posto.»
Maria parve quasi impressionata dalle parole della bolognese, tanto che non aggiunse altro.
Violante aveva centrato il punto: senza Niccolò non sembrava nemmeno di star preparando un addestramento serio.
Forse perché, in effetti, non c’era serietà.  Di nessun tipo.
Ezio era un grande Assassino e un buon mentore; stava insegnando molto ai ragazzi, ma tendeva ad essere eccessivamente permissivo con loro.
«Paola, leggi la missiva e poi lumi spenti», disse Maria, rimanendo con addosso solo i calzoni e una camicia sformata.
Si lasciò cadere con il capo sul cuscino, certa che si sarebbe addormentata in un baleno, aiutata dallo scrosciare armonico della pioggia.
«Com’era Firenze?»
La fastidiosa voce di Chiara le fece aprire gli occhi e sollevare un poco il capo verso il giaciglio della ragazzina, la quale se ne stava lì, con il viso rotondo tra i palmi delle mani, così contenta di sentir nominare la sua città da apparire quasi emozionata.
«Come Ezio Auditore quando non se ne va in giro zoppicando», le rispose Maria, scrollando le spalle mentre si tirava la coperta sul mento. «Frivola, scapestrata e piena di buone intenzioni.» Fece una pausa, rendendosi improvvisamente conto che Ezio e Firenze avevano addirittura lo stesso odore, ma si costrinse a scacciare immediatamente quei pensieri. «E ora su, spegnete le candele!»
Si voltò su un fianco, chiudendo gli occhi e concedendosi al sonno. Tutti i discorsi che Machiavelli le aveva fatto prima di lasciarla partire alla volta di Roma le rimbombavano in testa come raccomandazioni inutili.
Si concesse un lungo sospiro rilassato, lieta di trovarsi tra le lenzuola fresche di bucato, mentre fuori imperversava l’inferno tra lampi e acqua. Stava prendendo sonno, quando sentì un piccolo singhiozzo dal letto di Chiara.
Nonostante tutto, quella notte non era la sola a sentire un po’ la mancanza di casa.


*



Dormivano tutte profondamente, quando lo scricchiolare delle assi sotto i passi leggeri di qualche insonne destò Maria dal sonno profondo in cui era caduta non appena i lumi erano stati spenti.
Allarmata, la donna si tirò a sedere sul materasso, allungando la mano sotto al cuscino per afferrare il coltello che le assicurava un riposo tranquillo.
Qualcuno, nel buio della camerata, si muoveva più furtivo del solito.
Stava per alzarsi e andare a controllare i letti, quando una risatina sul corridoio la tranquillizzò.
Ezio.
Con la mente offuscata dal sonno, Maria non poté far altro che associarlo a Violante.
Si buttò sdraiata, coprendosi con le coperte e aspettando che la porta si richiudesse con grazia, dopodiché chiuse gli occhi, tornando a dormire.
Non riuscì neanche ad assopirsi.
La voce di Ezio arrivò così profonda e agitata che per poco le pareti della stanza non presero a tremare.
«I Templari!», urlava dal corridoio, mentre i passi veloci degli  altri Assassini si affrettavano a raggiungerlo. «Attaccano il Covo!»
Nell’esatto istante in cui Maria scattò in piedi, le urla delle altre ragazze la colsero di sorpresa.
«Mi hanno presa per i capelli!», gridò con voce strozzata Chiara, mentre la modenese cercava di accendere una candela con l’aiuto di alcuni fiammiferi.
Quando finalmente ci riuscì, si trovò davanti uno spettacolo a dir poco assurdo: tutte e quattro le altre giovani erano attaccate per i capelli alle testate dei letti. Nel senso vero e proprio della cosa.
Fu allora che capì.
Si sedette di peso sul letto, senza aiutarle, mentre i ragazzi facevano irruzione insieme al Mentore ridendo come pazzi.
Maria glielo concesse, ancora troppo stordita dalla paura che le aveva attanagliato le viscere, ascoltando quello che stavano dicendo.
«Ben vi sta!», chiocciava Corella, saltellando soddisfatto intorno al gruppetto dei ragazzi. «Avete avuto ciò che meritavate!»
«Guardatele!», gli fece eco Spallaci. «Spaventate come le oche che sono!»
Di tutte le risate che accompagnavano quello scherzo, però, la più fragorosa era quella di Ezio, il quale se ne stava in disparte, in fondo alla stanza con le spalle appoggiate al muro.
Improvvisamente colma d’ira, Maria si alzò, lasciando che il coltello che ancora stringeva in pugno cadesse sul materasso. Mosse un passo in avanti, dopodiché superò i ragazzi con uno scatto, buttandosi contro Ezio e prendendolo per la collottola.
«Adesso dammi una buona ragione per cui non dovrei  prenderti a schiaffi fino all’alba», soffiò, spingendolo contro il muro con i pugni chiusi attorno al colletto della camicia.
Ezio la guardò stranito, prima di prenderle i polsi e staccarsela di dosso.   
«Smettila di fare sempre la rompiscatole, Maria», le disse, con tono un po’ scocciato. «I ragazzi meritavano la loro vendetta.»
«Ci mancherebbe!», disse con tono alto Spallaci, mentre Bengiamino appoggiava la fronte alla sua spalla, colto da un eccesso di risate. Fu il primo a cercare di ricomporsi, sedendosi sul letto di Chiara e iniziando a liberarle i boccoli chiari. «Sono stato picchiato da un branco di suore pazze, per colpa di questa ragazzine!»
Corella fece lo stesso con Laura, mentre Cristiano aiutava Violante, ma il forlivese sembrava in difficoltà.
«Dopotutto, è un gioco. Che mai potrebbe esserci di male!»
Maria alzò gli occhi al cielo.
«Non dovresti essere tu a supportare queste ripicche infantili!», puntualizzò, dando un ultimo strattone a Ezio prima di lasciarlo andare. «Mi avevi promesso la testa del Valentino, non un’orda di ragazzini!»
Si scostò scuotendo il capo e andò a raggiungere Laura al suo giaciglio, spingendo via Corella con una manata in faccia.
«Che succede?»
Il tono spezzato della milanese la fece sussultare.
Con tutti i ricci che quella ragazza si ritrovava in testa, era un miracolo che Corella fosse riuscito a scioglierne quasi due ciocche dalla testiera del letto.
Recuperando un coltello dalla cintura di Bengiamino, Maria sospirò.
«Bisogna tagliarli», decretò.
Calò il silenzio.
Laura portò una mano alla bocca, ma Corella fermò il braccio di Maria.
«Stavo riuscendo a scioglierli, lasciami fare!»
La modenese lo fulminò con lo sguardo.
«Rimarrebbero dei nodi impossibili da sciogliere. Levati, ragazzino, lascia fare a chi capisce qualcosa.»
Fu davanti al dono così duro della donna che l’ultima persona che tutti pensavano potesse perdere la testa, si fece avanti.
«Ma chi ti credi di essere?» Cristiano la guardò con aria di sfida. «Sei solo una poveraccia che viene messa insieme al ‘branco di ragazzini’ invece che dietro a missioni che valgono.»
«Soprattutto, non sei nostra madre», concluse Spallaci. «Se vuoi dei figli, fattene uno e levati dai piedi.»
Per la seconda volta, nella stanza calò il silenzio.
Maria rimase un istante con lo sguardo perso nel vuoto, prima di scostare il coltello dal capo di Laura.
«Hai ragione», mormorò, guardando Spallaci con pochezza.
Sentiva gli occhi lucidi e il respiro farsi pesante, ma non avrebbe dato dimostrazione della sua debolezza lì davanti a tutti.
Si voltò verso Ezio, il quale era rimasto impietrito con la schiena addossata al muro.
«Prenditi i tuoi Assassini e vattene al diavolo», sibilò, scoccandogli un’occhiata di puro rancore.
Lui aprì la bocca per ribattere, ma subito la richiuse. Fece cenno ai ragazzi di lasciare la stanza, guardandoli sfilare sul corridoio uno dopo l’altro con tutte le lamentele dovute al caso. Si trattenne un istante in più, lanciando un ultimo sguardo nella direzione di Maria, per poi allontanarsi chiudendo l’uscio dietro di sé.
Con lo sbattere della porta, la donna scosse il capo, passandosi la manica della camicia sugli occhi umidi prima di recuperare il coltello.
«Mi dispiace», mormorò, rivolgendosi a Laura. «Non c’è altra soluzione.»
Laura annuì lievemente.
Si sentì un taglio e, quando la milanese si mise seduta, metà dei sui capelli cadevano ancora fino a metà schiena, mentre l’altra metà si fermava alle spalle.
Con determinazione, Maria glieli pareggiò, lasciando poi cadere le ciocche scure sul materasso.
Si buttò di nuovo sul suo letto, mentre anche Paola veniva liberata da Violante, e lasciò cadere lacrime amare sul cuscino.
Chiara fu la prima ad avvicinarsi, incapace di realizzare la situazione.
Si sedette sul letto accanto a lei, accarezzandole una spalla.
«I capelli di Laura ricresceranno», le disse con un sorriso benevolo.
Paola roteò occhi, mentre Viola faceva un passo verso di loro.
«Non sta di certo piangendo per i capelli. Dio, Chiara, perché sei così stupida?»
Mugolando qualche sommessa parola di scusa, la fiorentina si ritrasse nel suo letto.
Cacciando via quelle poche lacrime che erano riuscite a scapparle, Maria si stese sul fianco, rivolgendo lo sguardo sulle ragazze.
«Tornate a dormire», disse loro, mordendosi un labbro per la poca convinzione con cui quelle parole risuonarono nella stanza «Domattina occorre alzarsi prima del solito.»
Finalmente libera dalle attenzioni di Paola, Laura si alzò in piedi, strattonando la rossa per il braccio fino al letto di Maria, sul quale si sedette con grazia.
«Le parole di Augusto ti hanno ferita», disse dolcemente.
Viola si inginocchiò davanti al materasso, appoggiando il viso sulle braccia in attesa di un racconto.
Chiara stessa sembrava curiosa e dispiaciuta per la modenese, e non si ritirò di certo nonostante le avessero appena dato della stupida. Di nuovo.
Paola fu la sola, però, che parve smuovere qualcosa in Maria. Le sorrise benevola, accavallando le gambe con eleganza dopo essersi seduta accanto a lei.
«Spallaci è un idiota, e sbaglia. Tu per noi sei una mamma e dovremmo essere tutti grati delle tue cure.»
Maria le sorrise mestamente.
«Sono stata madre, molto tempo fa», confessò, tirando quel sorriso in una smorfia addolorata dai ricordi. «Un ragazzino tale e quale a voi, con la stessa voglia di rompersi l’osso del collo ogni volta che metteva piede fuori di casa. Dovrebbe esserci lui, qui, anziché io.»
Chiara si sporse in avanti, appoggiando una mano sulla spalla di Violante per mantenersi in equilibrio.
«Dov’è ora?»
Paola le scoccò un’occhiata che fu sufficiente a zittirla.
«L’Emilia non è sempre stata sotto il dominio dei Borgia», rispose Maria, scrollando le spalle. «Quando il Valentino iniziò a mettere le mani sul ducato, il popolo si ribellò alla guardia. Io e Giovanni eravamo in prima fila, alle porte di Modena in tempo per vedere Cesare Borgia entrare in città.» Fece una pausa, stringendo i pugni per contrastare la disperazione che i ricordi portavano con sé. «Quando Giovanni lo vide a cavallo, fu troppo veloce ad attaccarlo perché io potessi fermarlo. A Cesare bastò un colpo di spada per ucciderlo. Impalò la sua testa dinanzi alle mura, così come fece per tutti i ribelli.»
A quelle parole, tutte e quattro le ragazze rimasero impietrite.
All’improvviso, compresero molti dei comportamenti di Maria.
«Per questo ti sei attaccata tanto a Cesco?», si attentò Viola, con tatto.
«Assomiglia molto a Giovanni», confermò Maria, cercando di sorridere mentre le lacrime tornavano a far capolino dalle sue ciglia. «La stessa voglia di mostrare chi è e mettersi in gioco, nonostante la poca esperienza.»
Laura tirò su col naso, asciugandosi un paio di lacrime che le solcavano le guancie con il palmo aperto della mano.
«Scusate», balbettò, rimettendosi composta nonostante non riuscisse a smettere di singhiozzare. «Non so che mi prende.» Ridacchiò, asciugandosi l’ennesima lacrima mentre Chiara andava ad abbracciarla.
«Siamo tutte esauste», disse Maria, sforzandosi di apparire più composta di quanto fosse in realtà. «Per oggi andate a dormire; abbiamo bisogno di riposo.»
Contrariamente ad ogni aspettativa, Violante fu quella che ebbe l’ultima parola.
Lei e Maria non erano mai andate d’accordo, non si sopportavano visto che entrambe smaniavano per le attenzioni di quel Mentore che aveva raccolto entrambe dalla strada.
Mentre tutte si infilavano sotto alle coperte, la bolognese chiamò Maria, sorridendole sinceramente.
«Noi siamo una famiglia», disse, ricevendo l’appoggio di tutte e una soffiata di naso da parte di Laura. «Come tale, non permetteremo che tu possa mai rimanere sola. Niente ti ridarà indietro Giovanni, ma ora hai nove figli a cui tirare le orecchie.»
Maria ricambiò riconoscente il sorriso, prima di sporgersi per spegnere la candela.
«Non chiedo di meglio.»




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Capitolo 16
*** Capitolo quindicesimo ***


polverenera

Il destino di Qayin

Capitolo quindicesimo




Dopo settimane di pioggia e palate di sudicio fango, quel giorno Roma degnò la sua popolazione di una giornata fredda ma soleggiata.
Cesare Borgia aveva annunciato da tempo la sua partenza per la campagna militare a nord e, sebbene gli Assassini fossero lungi dall’essere benvoluti alla parata che la guardia aveva organizzato per le vie della città, al Covo tutti non facevano che parlare d’altro da giorni.
Si preannunciava un evento in grande stile, paragonabile soltanto allo spettacolo pirografico organizzato per il compleanno del Papa.
Proprio per questo, Alessandro non stava più nella pelle. Non aveva toccato vino se non a colazione e da ore ormai si aggirava per il Covo per assoldare quante più persone possibili e recarsi alla cittadella. Aveva persino ottenuto la benedizione di Ezio, il quale si era aggiunto al gruppo più che volentieri, e quella di Maria, che invece si era lasciata trascinare in mancanza di una scusa per starsene rinchiusa da qualche parte a leggere.
Quando arrivò a bussare alla porta delle camerata femminile, perciò, Alessandro era più che sicuro che convincere Laura fosse già una battaglia vinta.
Entrò nella stanza senza attendere che la ragazza lo invitasse, fiondandosi al letto sul quale ella riposava con i saltelli più gioiosi di cui era capace.
«Lauretta!», strillò, prendendole il viso tra le mani per schioccarle un bacio sulle labbra. «Che ci fai ancora a letto? Roma intera sta festeggiando!»
La ragazza rispose a quella dose di affetto trattenendo un conato di vomito.
Dopo che i crampi allo stomaco e il mal di schiena erano cessati, a tutti quanti era sembrata come rinata. Aveva ripreso l’addestramento con Bengiamino e le ronde notturne con Corella, eppure, quella mattina, aveva detto di essersi destata con addosso un forte malessere. Aveva rimesso tutto ciò che aveva nello stomaco più di una volta e sentiva il capo scoppiarle.
Nel pomeriggio sarebbe passato il cerusico a visitarla, ma fino ad allora Maria le aveva ordinato di non alzarsi per nessuna ragione.
«Alessandro …», biascicò, sollevandosi appena. «Non mi sento in forze. Credo che mi sia tornata la febbre che m’ha colto due settimane fa. Va’ e divertiti, quando tornerai voglio un racconto esaustivo.»
Lui la guardò con un piccolo broncio a increspargli le labbra, ma non insistette oltre.
Le passò una mano sulla fronte, baciandole la punta del naso.
«Tornerò da te prima di sera», promise, scostandosi dal letto per incamminarsi verso la porta. «Dovessi perdermi la serata in osteria!»
Rivolse a Laura un ultimo sorriso colmo di quell’euforia che la sera prima l’aveva praticamente tenuto sveglio a immaginare la parata e si buttò sul corridoio, scendendo le scale a balzi per raggiungere gli altri più rapidamente.
«Non si sente bene», annunciò, prendendo a braccetto da un lato Paola e dall’altro Chiara. «Ma poco male! Vorrà dire che ci sarà più vino per me!»
Violante si stava sistemando un paio di pugnali sotto alla gonna lunga dell’abito marrone, mentre invece Bengiamino ostentava la sua balestra sulla schiena senza paura alcuna, seppure avesse acconsentito a portare un cappello. Ezio sosteneva che quello sarebbe bastato per non farsi riconoscere da Cesare e, vista la sua convinzione, nessuno aveva osato controbattere.
Ad ogni modo, sia lui e Chiara sarebbero poi rimasti accanto al Mentore e a Maria per evitare qualsivoglia incidente.
«Siamo pronti? Allora andiamo!», trillò allegro il Mentore, mostrandosi a loro per la prima volta con abiti comuni.
Ci rimasero quasi male.
«Io non ho intenzione di starmene qui con voi straccioni!», dichiarò Spallaci, gonfiando il petto accanto a Cristiano. «Me ne vado con la mia famiglia!»
«Chi ti ferma!», lo ribeccò il ferrarese, smagliante nella sua casacca più elegante.
Tra lui e Augusto, era difficile scegliere chi fosse vestito più riccamente.
Entrambi con addosso abiti di tessuti raffinati, entrambi decorati con gli stemmi della loro famiglia e con la loro spada più bella legata al fianco. Parevano due principi provenienti da chissà quale reame lontano.
«Ho sentito dire che Cesare partirà con i cavalli più belli della penisola!», esclamò Paola, ancora a braccetto con Corella.
«Davvero?» Il forlivese scoppiò a ridere. «Povero sciocco! Cosa spera di fare, senza Fiore di Maggio?»
La folla che si era radunata lungo tutta l’Aurelia era impressionante. Da ogni dove, contadini e signori dividevano lo spazio per poter osservare la partenza del loro condottiero.
Che fosse o meno un uomo retto, non importava a nessuno.
Paola prese per mano Violante, scivolando tra le persone fino ad accaparrarsi un paio di posti davanti, mentre Ezio trascinava Chiara e Bengiamino di lato, appoggiati all’architrave di una chiesa. Maria portò con sé Cesco in cima ad una piccola scalinata e cacciando così il padrone di casa.
Corella, riluttante, seguì Spallaci e Cristiano in mezzo alla calca ma, tutto sommato, in un buon posto.
«Sei ancora qui?», chiese il biondo, rivolto verso il romano. «Non dovevi cercare la tua mammina?»
Lui sbuffò.
«In mezzo a questa folla? Sgualcirei solo la giacca.»
Corella trattenne una risata.
«Sia mai, o appena ti vede ti riprende subito!»
Augusto lo guardò scuro in volto, voltandosi di tre quarti nella sua direzione.
«Sai Oste, a volte sei davvero un palo in culo.»
Quelle parole scatenarono un’autentica ovazione da parte di Corella e Pagni.
I due si portarono la mano alla bocca, fingendosi altamente offesi, prima di cacciarsi a ridere come dei veri asini. Si appoggiarono entrambi alle spalle di Augusto, ancora presi dalle risa.
«Oh, Dio, grazie per avermi consentito di vivere così tanto da poter udire parole tanto soavi dalla bocca di Spallaci», sussurrò Alessandro, alzando gli occhi al cielo e fingendosi puramente commosso.
«Chiudi quella fogna», lo zittì Augusto, usando tutta la sua stazza per prenderlo per una spalla e metterlo dinanzi a sé in prima fila sulla strada.
Alessandro aprì la bocca per controbattere, ma il tono entusiasta di Cristiano lo interruppe sul nascere.
«Guardate! Sta arrivando!»
Tutti e tre si piegarono appena in avanti per ammirare la magnificenza delle bestie che Cesare Borgia e le prime guardie papali stavano cavalcando. Tutti animali di pura razza, con il manto lucido e la criniera libera sul dorso.
Corella fischiò, dando una gomitata a Spallaci.
«Ritiro tutto quello che ho detto su Fiore di Maggio», commentò. «A questi il tuo stupido cavallo può solo leccare gli zoccoli.»
Augusto gli diede una sonora sberla sul collo che riecheggiò tra loro e attirò un paio di sguardi scocciati.
«State dando spettacolo», fece notare Cristiano con tono divertito, prima di puntare gli occhi su Cesare Borgia. «Tra poco passerà così vicino … che opportunità sprecata di poterlo far fuori.»
Corella annuì lievemente, ancora intento a massaggiarsi la nuca.
«Potevano pensarci prima.»
Lo stridere di due lame fece voltare entrambi i ragazzi verso Augusto.
«Facciamolo noi», propose il romano, facendo roteare i coltelli che stringeva tra le mani.
Ghignò, leccandosi un labbro prima di allungare il braccio verso Cristiano. Gli porse la lama, scoccandogli al contempo un’occhiata divertita.
«Facciamo chi arriva prima al collo di Borgia?»
Corella strabuzzò gli occhi.
«Non credo che sia una buona idea», fece presente, per quanto la sua opinione potesse valere. In mezzo alla competizione di Augusto, neanche un ordine diretto del Signore avrebbe avuto efficacia.
Cristiano attese un istante, giusto il tempo che Corella impiegò a voltarsi per cercare gli occhi di Ezio e poi, senza farsi notare, annuì deciso.
In una frazione di secondo, Spallaci aveva già spinto cinque persone, liberandosi la via.
Cristiano scambiò uno sguardo pietrificato con Alessandro, prima di gridare: «No, fermati, folle!» e lanciarsi al suo inseguimento.
Il cavallo di Cesare si impennò di colpo davanti a Spallaci, che non mancò di trascinare al suolo il condottiero con un balzo. Questi però non cadde, aggrappandosi al suo aggressore e spingendolo via con un pugno in pieno viso. Quando Augusto stramazzò al suolo, Cristiano si ritrovò di fronte al Valentino.
Alzò lentamente il pugnale, storcendo il naso mentre si fissavano negli occhi.
«Questo te lo manda Ezio Auditore!», urlò in mezzo al silenzio assordante che era venuto a crearsi.
Ciò che avvenne poi, Corella l’avrebbe ricordato per sempre come la sacra rappresentazione dell’apocalisse.
Cristiano scattò in avanti con il coltello alzato sul viso di Cesare. Mancò il bersaglio quando quest’ultimo rotolò sul fianco e scattò in piedi con la mano alla spada, ciò nonostante riuscì ad abbattere una guardia accorsa al salvataggio del suo comandante. Quando tentò di darsi alla fuga tra la folla, due miliziani gli si pararono di fronte.
Armato nient’altro che del pugnale di Spallaci, Cristiano estrasse la spada che portava legata al fianco, ma non fece in tempo ad impugnarla saldamente che due frecce mandarono al suolo i suoi aggressori.
Da qualche parte sui tetti, Bengiamino copriva loro le spalle.
Corella corse ad aiutare Spallaci che però si rimise in piedi spingendolo di lato.
«Difenditi, stupido!», disse, rivolto al forlivese, il quale reggeva già la spada in mano.
«Sicuro di farcela?», gli chiese di rimando Alessandro, mentre Spallaci si puliva il sangue che colava a fiumi dal naso. Gli bastò un cenno di assenso, prima di correre verso Pagni per aiutarlo.
Anche le ragazze si buttarono nella mischia.
Violante ci mise poco a strappare la gonna, riducendola in lunghezza tanto che le arrivava sopra al ginocchio, prima di iniziare a combattere con l’aiuto di Paola.
«Va’ da Augusto!», le urlò. «E tornate a casa! Io recupero i due cretini là in mezzo!»
Senza rispondere, Paola si buttò tra la folla, sfilando dalla cintura qualche coltello da lancio. Raggiunse Augusto in tempo per vedergli trapassare il busto di una guardia, la quale ricadde a terra senza dare un lamento.
Difendendosi da un attacco con un lancio preciso che atterrò un uomo armato di ascia, la ragazza scivolò in fretta alle spalle di Augusto, afferrandolo per la casacca senza lasciargli il tempo di voltarsi.
«Andiamo!», gridò.
Il ragazzo si voltò con un affondo della bella spada che quella mattina portava fieramente legata al fianco.
Con il rumore della veste che si squarciava, Paola avvertì un bruciore al ventre, mentre le mani correvano a coprirlo. Cadde in ginocchio dinanzi a Spallaci, incapace persino di chiedere aiuto.
Mentre lui la fissava strabuzzando gli occhi, lei si guardò le mani, trovandole imbrattate del sangue che sgorgava dal taglio che le apriva lo stomaco.
«Paola!»
La voce di Augusto le giunse lontana, mentre lui si chinava per soccorrerla.
Alessandro stava ancora cercando di tenere buone le guardie di Cesare, quando si voltò verso di loro. Tutto ciò che vide fu solamente Augusto chino su Paola e tanto, troppo sangue sulla veste azzurrina della fanciulla.
Sentì il sangue ghiacciarsi nelle vene e solamente grazie a Violante non venne trafitto.
«Presta attenzione!», gli urlò in faccia la ragazza, prima di voltarsi a sua volta verso ciò che aveva così tanto catturato l’attenzione del forlivese. « … No.»
Un sussurro, nulla più di un soffio.
Corse verso di loro, buttandosi a terra e prendendo fra le mani in viso dell’amica.
Paola stava perdendo colore e i suoi occhi non brillavano più.
«Portala al Covo», disse Violante verso Spallaci, mentre anche Corella si avvicinava, portando una mano alla bocca. Non ottenendo risposta, la bolognese scrollò il braccio di Augusto. «Adesso! O morirà!»









Spallaci non se lo fece ripetere due volte. Rinfoderò la spada e prese in braccio l’amica, iniziando a correre tra la folla.
Non corse mai così veloce come in quell’istante.
Con il silenzioso aiuto di Bengiamino che sorvegliava la situazione dall’alto, riuscì ad aprirsi un varco tra la folla urlante e le guardie che cadevano colpite dai dardi del milanese.
Sfrecciò sul Lungo Tevere, aggirando con goffaggine i ponti più affollati ed evitando come meglio poteva i passanti che, ormai lontani dall’inferno della via Aurelia, si affrettavano a tornare a casa. Nella foga, ruzzolò a terra un paio di volte, sempre tenendo stretta a sé Paola.
A ogni passo che compiva verso il Covo, sentiva il respiro della ragazza farsi più lieve, la presa delle sue braccia attorno al suo collo sempre più debole.
«Paola!», la chiamava, stringendola a sé nel disperato tentativo di sentirla riprendersi. «Ci siamo quasi, ci siamo quasi!»
Attraversò Ponte Sisto che il corpo della ragazza era immobile. Nessun respiro a scostarle i capelli rossicci dal viso, nessuna contrazione dovuta al dolore a farle sanguinare la ferita.
Scivolò in un vicolo, adagiandola a terra mentre le lacrime iniziavano a rigargli il viso contratto in una smorfia disperatamente arrabbiata.
«No, Paola, devi resistere. Non puoi morire ora!»
Si mise in ginocchio accanto al corpo della giovane, appoggiando la fronte contro quella della rossa e lasciandosi scappare un singhiozzo, mentre la attirava a sé stringendola tra le braccia.
«È colpa mia.»
Le sussurrò in viso, scuotendo il capo diverse volte, prima di lasciarsi andare al pianto, consapevole che ciò che aveva fatto l’avrebbe ricordato per il resto dei suoi giorni.









«È grave?»
Storcendo il naso sotto l’odore acre del vino, Laura incrociò le braccia sul petto. Osservò il guaritore dondolare sopra la sua testa la ciotola di vetro in cui aveva diluito la bevanda con la sua urina e sospirò, affranta. Aveva già visto i medici farlo con sua madre a Milano e sapeva che quella mistura non portava a nulla di buono.
Guardò nella direzione del guaritore, soffermandosi un istante sulla sua maschera bianca, e si diede all’ennesimo sospiro.
«Non direi», le disse lui, cogliendola di sorpresa proprio nell’istante in cui aveva rinunciato all’idea di ricevere una risposta. «Siete soltanto gravida.»
Laura sbatté più volte le palpebre.
«Come?»
«Gravida. Aspettate un figlio. Maschio, se la luna era crescente il giorno del concepimento.»
A ciò, la ragazza non osò controbattere. Rimase immobile a fissare il vuoto, ascoltando con disinteresse i passi del cerusico che si allontanava sul corridoio, mentre con una mano si accarezzava la pancia.
Per un istante, fu come se tutto ciò che c’era attorno a lei non fosse mai esistito.
Vide sfumare tutto ciò per cui stava lavorando: la corsa per essere una dei cinque migliori, la voglia di combattere l’oppressione dei Borgia, un’intera esistenza di viaggi andata, finita in una manciata di istanti.
Portò l’altra mano alla bocca, soffocando un urlo di pura frustrazione mentre si lasciava cadere sul letto.
Aveva davanti una giornata intera per piangere ogni sua lacrima, dopotutto.
O almeno, così credeva.
Sentì una porta sbattere violentemente contro il muro e la voce di Bengiamino che riecheggiava nella sala.
«Paola! Spallaci!»
Si mise ritta, giusto in tempo per vedere Maria affacciarsi alla camerata, con occhi sbarrati dal terrore.
«Dov’è Paola?!», domandò la donna, senza nascondere il fiatone.
Laura la guardò per un istante, confusa. Poi comprese che qualcosa, alla parata, non era andato per il verso giusto.
«Credevo fosse con voi!», esclamò, alzandosi in piedi per raggiungere Maria all’uscio.
La sua espressione di puro panico, Bengiamino nel salone che si scostava dal suo tono pacato … Laura cominciò a temere il peggio.
«Che è successo?», chiese, mentre Maria faceva strada sullo scalone.
«Hanno ferito Paola!», le urlò di rimando la donna, senza fermarsi. «Lei e Augusto dovrebbero già essere qui!»
Impaurita, Laura accelerò il passo fino al piano sottostante, fiondandosi nelle braccia di suo fratello non appena se lo ritrovò di fronte con gli occhi sbarrati e il respiro affannato di chi ha corso a perdifiato per leghe intere.
«Stai bene?», gli chiese, prendendogli il viso tra le mani.
Lui annuì, silenzioso, e la strinse a sé.
Chiara, in un angolo, tremava stringendo la mano di Cesco.
Il ragazzo era pallido come un cencio e sembrava sul punto di svenire. Poi, lentamente, aprì la bocca e disse la prima cosa sensata che parve passargli per la testa.
«Forse ha trovato un cerusico per la via e ha deciso di farla curare a lui.»
Maria, al suono di quelle parole, annuì lentamente.
«Si può sapere cosa diavolo è accaduto? Non dovevate andare ad una parata festosa?», chiese la giovane Lorenzetti, senza trattenere più l’ansia.
Bengiamino continuò a stringerla a sé, recuperando piano il fiato.
«Sì, gran bella festa. È finita in un massacro.»
«Spallaci si è fatto saltare la mosca al naso e ha attaccato Cesare», disse in un soffio Cesco, mentre aiutava Chiara a sedersi, reggendola nel suo stato di trauma.
Con uno scatto sorpreso, Laura si scostò da Bengiamino.
«Spallaci ha fatto cosa?!», gridò, mentre lui la guardava con severità. «Ma … davvero?»
Maria annuì.
«E da vicino, così da farsi vedere bene in viso. Dovrà ritenersi fortunato se la sua famiglia sopravvivrà la notte.»
Chiara singhiozzò, affondando il viso nelle maniche del vestito e, preso alla sprovvista, Cesco non seppe far altro che abbracciarla.
«Gli altri dove sono?», azzardò Laura, sebbene la risposta fosse più che lampante. «E Alessandro?»
Bengiamino alzò un sopracciglio.
«Con gli altri, a salvarsi la pelle.»
«Con lui c’è Ezio», la tranquillizzò Maria, sporgendosi dalla finestra, sperando di notare qualcosa. Non aggiunse altro, limitandosi ad appoggiare il capo al vetro.
Nessuno lo notò.
«Ma l’avete visto? È vivo?», chiese in pena Laura.
Aspettava suo figlio, non poteva pensare di crescere un piccolo bastardo senza padre, da sola. Il cuore rischiava di spaccarsi nel suo petto quando sentirono dei passi alle loro spalle.
«Alessandro!», urlò la milanese, voltandosi di scatto verso le scale.
Ciò che vide la lasciò del tutto senza forze, tanto che scivolò contro il muro, fino a terra.
Spallaci saliva ogni gradino con lentezza, gli occhi vuoti e il corpo di Paola esanime fra le braccia. Il suo petto era ricoperto di sangue rappreso, così come la veste della giovane, squarciata sul ventre.
Superò Laura senza dire nulla, entrando nella sala in silenzio e appoggiando Paola sulla tavola che Bengiamino aveva sparecchiato impulsivamente con il braccio.
«Paola!»
Con gli occhi colmi di lacrime, Chiara lasciò il suo posto sulla panca, portandosi attorno al corpo senza vita della napoletana.
«Che le è successo, Augusto?», chiese, disperata.
Il ragazzo dovette passarsi la blusa sugli occhi un paio di volte, prima di scacciare i singhiozzi e spiegare l’accaduto.
«Un Templare l’ha attaccata», balbettò, mentre le lacrime riaffioravano sulle ciglia. «Non sono riuscito a raggiungerla in tempo. È morta mentre la portavo qui.»
Maria lasciò la sua postazione alla finestra, avvicinandosi per prendere il viso di Paola tra le mani.
«Perché ci hai messo tanto?», chiese, senza però mettere tra le sue parole un tono di accusa.
Augusto divenne paonazzo.
«Ho corso quanto più veloce ho potuto!», esclamò, con la voce impastata dal pianto e dalla disperazione. «La folla, le guardie da evitare … ho dovuto fare una strada più lunga.»
Bengiamino alzò il lembo della veste, guardando la ferita.
«Nemmeno facendo quella più breve l’avresti salvata», disse con tono spento, prima di voltarsi, tirando un pugno al muro. Alzò il viso verso il soffitto, mordendosi con forza le labbra mentre entrambe le mani andavano dietro alla sua stessa nuca.
Laura li raggiunse tremante, singhiozzando a sua volta. Si mise vicino a Chiara, tenendole una mano mentre l’altra andava a stringere quella di Paola.
«Come è potuto succedere?», domandò sconvolta. «Era agile. È scampata al peggio tante volte, cosa c’era di diverso oggi?»
«Non lo so!», ribatté rabbioso Spallaci, portando entrambe le mani tra i capelli scuri. «Diavolo, Laura, se lo sapessi l’avrei salvata!»
Si sfilò la casacca sporca di sangue, buttandola a terra con stizza prima di prendere la via per le camerate.
Quando fu ormai sparito al piano superiore, di lui arrivò soltanto un grido: «Maledizione!»
Laura si voltò verso Bengiamino, studiandone l’espressione crucciata. Non sapeva cosa dire, se mai c’era qualcosa da dire. Fece il segno della croce, asciugandosi una lacrima e stringendosi a Chiara.
Rimasero in rispettoso silenzio per almeno un’ora.
Laura sistemò i capelli di Paola, mentre Chiara continuava a recitare a bassa voce il rosario.
Bengiamino aveva misurato così tante volte la stanza a grandi passi da rischiare di consumare le suole, mentre Maria stringeva in un abbraccio Cesco accarezzandogli i capelli su una delle panche dalla tavolata, lontani da Paola.
Si accorsero dell’arrivo degli altri quando udirono la fragorosa risata di Corella, mista a quella di Ezio, in fondo alle scale.
«Hai visto quello grassottello, che volo ha fatto?», stava dicendo euforico Cristiano, in sottofondo. «Ha sfondato il carretto con una schienata!»
Viola fu la prima a raggiungerli, dopo una breve corsetta per le scale. Sicuramente si aspettava di trovare Paola con un cerusico, attorniata da tutti …
Forse fu per quello che ciò che trovò la spiazzò del tutto.
Rimase immobile sulle scale, fissando il tavolo con espressione devastata.
Corella la urtò, visto che stava praticamente salendo all’indietro per poter ridacchiare con gli altri.
«Ma che … Oh, no.»
Il forlivese avanzò verso il tavolo a piccoli passi, prima di allungarli per poter abbracciare Laura, che si era lanciata verso di lui. La strinse forte, mentre le lacrime iniziavano a cadere dai suoi occhi azzurri.
Infine, anche Ezio e Cristiano li raggiunsero, e il silenzio calò di nuovo.
Tutti guardarono tutti per almeno un minuto, lasciando che l’assenza di parole divenisse così pesante da schiacciarli con la sua presenza.
«Spallaci ha provato a salvarla», singhiozzò infine Chiara, strizzando gli occhi mentre si premeva le ginocchia sul petto. «Ma non ce l’ha fatta.»
«Quando è arrivato era già morta», continuò Laura, scostandosi dall’abbraccio di Alessandro per tornare a prendere posto accanto alla fiorentina.
Bengiamino si limitò a scuotere il capo.
«Voi state bene?»
Violante accarezzò una guancia di Paola, prima di chinarsi a baciarle la fronte. Cristiano le fu subito accanto, stringendosi a lei e accarezzandole un braccio, senza staccare gli occhi dalla napoletana.
«Sì. Abbiamo fatto il possibile per portare le guardie di Cesare lontane dal Covo. Per questo abbiamo perso tanto tempo.»
Alessandro portò via le lacrime dal viso, ma esse non volevano smettere di cadervi copiosamente. «Questa è tutta colpa mia», disse, distrutto.
«Non dire sciocchezze», lo rimproverò sottovoce Bengiamino, ma questo non fermò il forlivese.
«Io ho proposto di andare a quella maledetta parata! Potevamo rimanere qui a bere e Paola non sarebbe morta!»
Era isterico.
Bengiamino lo attirò a sé e subito Alessandro affondò il viso nel suo petto, buttando fuori ogni lacrima.
Ezio non aveva ancora aperto bocca, non aveva mosso un muscolo. Quando arrivò ad avvertire su di sé lo sguardo preoccupato di tutti i presenti, strinse i pugni chiusi fino a che i polpastrelli non furono bianchi e lasciò la stanza a passo deciso, senza degnare alcuno di un’occhiata.
Il rumore dei suoi stivali a contatto con il legno cigolante del piano superire risuonarono fino a che non incontrò la porta, dopodiché lo sbattere dell’uscio diede nuova vita a un ennesimo momento di silenzio.
L’unico suono che per un istante alleviò la sofferenza di quel vuoto, fu un mugolio affranto di Corella.
«È furioso», mormorò Laura, usando la lamentela di Alessandro per tornare a parlare.
«È distrutto», la corresse Maria, alzandosi con un sospiro per avvicinarsi alle scale. Mise il piede sul primo gradino, restando a guardare il piano superiore con le braccia incrociate sul petto. «Si sente responsabile per ciascuno di noi.»
Cristiano si staccò da Violante, che lo guardò senza capire.
«Dovresti andare da lui, lo sai?», disse, accarezzandole i capelli.
La bolognese scrollò appena il capo.
«Ora il mio posto è qui con voi», rispose, appoggiandogli una mano sul petto.
Nel silenzio della stanza, si udì distintamente il nitrire di un cavallo provenire dalla finestra aperta.
Cesco si avvicinò ad essa, guardando attentamente verso il basso, poi sbiancò. Si diresse a passi veloci verso Maria, sussurrandole nell’orecchio qualcosa.
Anche lei perse il poco colore che le era rimasto.
«Niccolò è tornato», disse con tono freddo.
Violante si diresse alle scale.
«Ripensandoci, il Mentore ha bisogno di me», decretò, superando la modenese e sparendo al piano di sopra.
Corella si asciugò le lacrime velocemente, mentre Bengiamino prendeva una coperta da sopra la panca.
«Cosa fai?», chiese Laura, senza capire.
«Non possiamo permettere che la veda così.»
«Vedere cosa?»
La voce di Machiavelli risuonò nella stanza quando egli fece il suo ingresso, sfilandosi i guanti di cuoio.
Nessuno emise più un fiato.




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Capitolo 17
*** Capitolo sedicesimo ***


polverenera

Il destino di Qayin

Capitolo sedicesimo




Silenzio e oscurità.
Tra quelle pareti che un tempo erano state calde e accoglienti, in quel momento non c’era nient’altro.
Senza osare proferire parola, Violante si strinse le ginocchia sul petto. Si sforzò di non distogliere lo sguardo da Ezio, seduto allo scrittoio con gli occhi persi nel vuoto.
Non aveva detto una parola da quando si era chiusa la porta alle spalle e lei non aveva di certo rotto il silenzio, anzi. Si era guardata bene persino dall’avvicinarsi e avrebbe volentieri continuato a sopportare tutta la frustrazione di quella situazione, pur di non udire le grida furibonde provenienti dal piano di sotto.
A giudicare dai rumori che giungevano dalla sala, Machiavelli non stava lasciando il tempo ad alcuna spiegazione.
Fu il Mentore a trovare il coraggio di spezzare quella tensione.
Si alzò, allungando una mano verso Viola, la quale la prese subito.
Quando lei si fu rimessa in piedi, si abbracciarono a lungo, stringendosi forte e cercando di sopperire a tutto quel dolore e quella frustrazione.
Nulla sarebbe servito, però. La ferita era ancora aperta e sanguinava.
«Andiamo a salvarli», le sussurrò lui fra i capelli, prima di prenderle in viso tra le mani e poggiarle un casto bacio sulle labbra.
Scesero le scale insieme, con la ragazza che stringeva il braccio di Ezio.
Violante non aveva mai avuto paura di Machiavelli eppure, in quel frangente, il consigliere pareva una bestia ferita e braccata. Le sue urla erano ringhi; i suoi occhi, fiamme.
Se ne stava appollaiato sul tavolo con il corpo di Paola stretto fra le braccia e l’ira che fuoriusciva da ogni fibra del suo essere.
Sembrava implacabile e inconsolabile.
Laura e Chiara si erano allontanate dal tavolo di almeno tre passi e si erano addossate contro il muro con Bengiamino a difenderle dinanzi a loro.
Ben poche volte il milanese si era tradito mostrando agli altri le sue emozioni; quella era una di quelle volte. Negli occhi cobalto non gli si leggeva altro che terrore, pentimento e rassegnazione alla morte imminente. Muoveva appena le labbra, quasi stesse recitando un rosario per mettersi in pace col Creatore.
Corella era rannicchiato in un angolino e pareva un cane bastonato, tale e quale a Cesco, dall’altra parte della stanza, che fissava il vuoto tutto tremante.
Maria era addossata alla ringhiera della scalinata, pallida come mai prima d’ora, e non osava spostare gli occhi sgranati da Machiavelli e la sua ira.
Ezio lasciò andare Violante, posizionandosi al fianco di Cristiano, il solo che stava fronteggiando apertamente il consigliere.
«Questo è stato uno stramaledetto incidente!», stava ripentendo per la millesima volta il ferrarese, con i ricci biondi spettinati, probabilmente, dalle urla dello stesso Machiavelli.
«Tu sei stato un incidente, Pagni! La morte di Paola è una punizione per me! Perché non ho impedito a questo imbecille di arruolarvi!» Il consigliere lanciò un lungo sguardo carico di odio ad Ezio, il quale non parve smuoversi. «Io te lo avevo detto, Auditore, che ci avrebbero rimesso loro! Ci ha rimesso lei!»
«Come dice Cristiano, è stato un incidente», rispose pacato il Mentore. «Sono mortificato per la sua morte, ma è un rischio che ogni Assassino corre ogni giorno. Quanti di noi si sacrificano per la causa?»
Machiavelli gonfiò il petto.
«Per la causa che ci vede impegnati a reprimere i Borgia o per quella che ti vede troppo occupato a giocare stupide partite a pallone con questi debosciati per fare qualcosa di concreto?», incalzò, furibondo. «Maledizione al giorno in cui ho anche solo pensato a te come al futuro di quest’Ordine, che per quanto mi riguarda è caduto in rovina nell’esatto istante in cui questi deficienti sono stati portati qui a non far altro che bere e peggiorare le cose!»
Corella si alzò di scatto, distrutto dal pianto e dalla ramanzina che si era appena sorbito.
«Abbiamo fatto tutto il possibile!», puntualizzò con la voce resa acuta dall’isteria. «È stato un incidente!»
Machiavelli lo fissò duramente, prima di appoggiare con delicatezza il corpo dell’amata sul tavolo.
In quel momento, Paola questo sembrava: un’amata, non un’amante.
Il consigliere mosse un paio di passi verso Corella.
«Saresti dovuto morire tu, Alessandro», disse con tono basso. «Tu, portandoti dietro le tue maledette idee e la tua assoluta inutilità. La tua stessa vita è uno spreco di tempo.»
«Ora basta!» Laura si pose tra Corella e Machiavelli, fissando astiosa l’uomo. «Siete diventato stupido o sordo per caso: gli incidenti capitano, siamo Assassini, non fornai. Paola ha dato la sua vita perché credeva nello stesso ordine che ora voi state denigrando! Dovreste vergognarvi, siete voi che ci portate alla rovina, non il Mentore! Che uomo siete, a sfogarvi sugli altri invece che piangere sul corpo ancora caldo di Paola?!»
Sotto lo sguardo irato di Machiavelli, la milanese strabuzzò gli occhi, voltandosi di scatto verso Bengiamino, il quale pareva quasi più sconvolto di lei per quella coraggiosa uscita. Prima che Machiavelli potesse anche solo pensare di alzare le mani, si rifugiò dietro le spalle di suo fratello, aggrappandosi al suo mantello con un sorriso forzato ma nondimeno soddisfatto.
Ma il consigliere aveva di certo qualcosa da ridire e l’avrebbe persino detto, se non fosse stato per i passi che, dal piano superiore, scesero nel salone con una lentezza quasi disarmante.
«È colpa mia.»
Augusto fece il suo ingresso a testa bassa, ponendosi di fronte a Machiavelli senza osare guardarlo in faccia.
«Io e Cristiano abbiamo fatto a gara per uccidere Cesare Borgia, ma la situazione mi è sfuggita di mano e Paola è stata ferita mentre fronteggiavamo le guardie.»
Quasi non terminò il discorso.
Il secondo pugno della giornata lo colpì sul naso, facendolo arretrare barcollando.
Subito, Bengiamino, Cristiano ed Ezio si portarono su Machiavelli, spingendolo indietro mentre questi sgomitava ed inveiva contro Spallaci.
«Siete peggio delle cortigiane! Vi eccitate con le idiozie!»
Il panico si scatenò.
Violante corse da Cesco che stava ventilando, aiutandolo a prendere aria alla finestra, mentre Maria li raggiungeva massaggiando la schiena del ragazzo.
Corella tirò fuori un fazzoletto e prese a tamponare il naso di Augusto, gridando improperi contro il suo tempismo.
Chiara si rifugiò piangendo disperatamente nell’abbraccio di Laura, la quale fissava allibita la scena.
Se non fosse poi stato per Cristiano, Ezio e Bengiamino, Spallaci ci avrebbe di certo rimesso la vita.
I tre riuscirono a sfilare la spada a Machiavelli un istante prima che la sua mano potesse in qualche modo abbassarsi sino all’elsa.
Per la seconda volta in quella giornata, Laura prese coraggio.
Aveva gli occhi pieni di lacrime e il respiro mozzato, ciononostante fronteggiò con grande dignità non soltanto Machiavelli, ma anche i tre che lo tenevano fermo.
«Insomma!», esclamò, asciugandosi qualche lacrima con la manica della camicia da notte che non aveva ancora avuto il tempo di sfilarsi. «Portate rispetto a Paola! Azzuffarvi davanti alla sua salma, come i più rozzi dei barbari!»
Cesco si riprese per un istante, tossicchiando un po’ prima di prendere la parola.
«Forse, converrebbe che ognuno stesse per conto suo», propose.
«Soprattutto tu, Niccolò.»
Ezio lo lasciò andare e subito il consigliere si aggiustò la giacca, guardandoli tutti con odio.
«Fuori, immediatamente. Sparite tutti dalla mia vista.»
Di nuovo, Violante non si fece ripetere una possibilità di fuga. Prese per mano Cristiano, tirandolo via di lì prima che iniziasse lui stesso a prendere a pugni Machiavelli.
La seguì Bengiamino, ma non prima di aver preso in braccio Chiara, ormai al limite.
«Andiamo, su.»
Maria aiutò Cesco a staccarsi dalla finestra, sorreggendolo per pochi passi prima che lui si rimettesse del tutto nelle condizioni di camminare senza ansimare per l’agitazione.
Laura li guardò allontanarsi sulla scala. Mosse un passo per seguirli, ma un capogiro la fece cadere a terra, immobile mentre sia Corella che Spallaci si fiondavano a soccorrerla.
«Ti aiuto a tornare a letto», le disse Alessandro, prendendola in braccio a fatica.
Tutti e tre, salirono al piano superiore senza accennare un saluto né invitare il Mentore a seguirli.
Sapevano che quella non era che una tregua e, in vista del momento in cui Machiavelli sarebbe tornato a impugnare la spada, non desideravano altro che allontanarsi il più possibile.









Il frusciare delle carte da gioco sul tavolo venne coperto da un lieve sospiro di Cristiano, mentre Bengiamino allungava cauto la mano sul mazzo per recuperare gli scarti.
Alessandro tirò su col naso, accarezzandosi una guancia con fare svogliato. Controllò che la regina fosse ancora in tavola, dopodiché azzardò un colpo con una coppia di re.
Laura bloccò ogni suo intento con un asso di picche.
«È ridicolo», commentò allora sottovoce, voltandosi a guardare verso l’entrata della sala dalla quale Machiavelli li aveva malamente cacciati. «Dovremmo essere di là a porgere l’ultimo saluto a Paola.»
Cristiano annuì, mogio.
«Lo faremo non appena Machiavelli ci darà il permesso di avvicinarci senza tentare di ucciderci», rispose Bengiamino.
Laura gli scoccò un’occhiata spossata.
«Qualcuno ha visto Augusto?», chiese.
Seduta all’altro tavolo, Chiara si lasciò scappare un mugolio triste.
«Sul tetto», disse. «Abbiamo provato a chiamarlo, ma non ne vuole sapere. Forse dovremmo stare tutti insieme, ora», azzardò timidamente, come se si aspettasse insulti in risposta.
All’unisono, tutti si alzarono.
Violante, che sta ne stava in piedi alla finestra, fu la prima a salire le scale che portavano al tetto.
Uscirono nell’aria gelida della notte, senza nulla a coprirli eccetto le loro casacche.
In quel momento, il freddo pareva l’ultimo dei loro pensieri. Ricordava loro che erano ancora vivi, mentre Paola no.
Cristiano e Corella si misero ai lati di Spallaci, che teneva le gambe nel vuoto fissando il Tevere scorrere sotto il suo sguardo.
Il biondo gli appoggiò una mano sulla spalla, scambiando con il romano un lungo sguardo.
Augusto non disse nulla.
Nessuna frecciatina, nessun insulto. Ma nemmeno un sorriso.
Laura e Violante avanzarono assieme, prendendo posto una accanto a Corella e l’altra al fianco di Cristiano, entrambe ossequiando lo spinoso silenzio dei loro compagni.
Chiara e Bengiamino rimasero a guardare le spalle di quel gruppetto, forse troppo tristi o troppo scossi per essere i primi a commentare.
Tutti insieme, i sette ragazzi si ritrovarono a contemplare il vuoto che li separava dalle acque gelide del Tevere, ad ascoltare lo scrosciare della sua acqua scorrere sotto ai loro piedi.
Sembravano passate ore, se non giorni interi, quando la porta si riaprì.
Cesco li raggiunse armato di coperte, porgendone una ciascuno prima di avvolgersene una sulle spalle a sua volta.
«Maria ha pensato che potevate avere freddo, qui fuori», commentò, accompagnando il gesto con un sorriso imbarazzato. «Aveva ragione: si gela.»
Violante coprì le sue gambe e quelle di Cristiano, mentre lui la fece appoggiare al suo petto per avvolgerla con un’unica coperta.
Augusto sbuffò, buttandosi la trapunta fin sopra al capo.
«Non fa poi così freddo», decretò, forse credendo di non stare battendo i denti.
Corella sorrise.
«Allora là sotto ci sei ancora, Serpe», disse, battendogli una mano sulla spalla.
Quando il silenzio parve tornare con prepotenza, a sorpresa fu Bengiamino ad interromperlo. Con un sorrisetto in volto, tenendo la coperta sulle spalle che poggiavano contro la parete accanto alla porta, alzò gli occhi al cielo, guardando le stelle.
«La prima volta che ho parlato con Paola mi ha fatto un complimento sugli occhi. Ha detto che non ne aveva mai visti di così limpidi. Aveva sempre una parola buona per tutti, non credete? Ora sta a noi spenderne qualcuna per lei.»
Corella dondolò il capo.
«A me piacevano le sue –»
«Alessandro!», lo rimproverò Laura, battendogli una mano sul collo.
«Maniere gentili! Volevo dire le sue maniere gentili!», si difese il forlivese, mentre con il braccio parava un secondo colpo.
Tutti risero, seppur sottovoce.
Chiara si coprì le labbra un angolo della coperta, sorridendo a Bengiamino prima di farsi avanti.
«A me ha insegnato a ricamare», disse, sedendosi accanto a Laura per mostrarle le sue iniziali goffamente cucite su un lembo dell’abito scuro.
«A me ha fatto capire che avevo competizione per la carica di donna più forte del Covo», disse Violante, scoccando uno sguardo a Laura.
«Pensa che casualità», ripose pronta la milanese. «Anche per me è stato così.»
Le due ridacchiarono piano, poi Laura tornò ad incupirsi.
«Non è giusto però, lei era così brillante; aveva davanti un futuro radioso.»
«Come ha detto anche Ezio, il nostro è un lavoro duro», puntualizzò Alessandro, passandole un braccio attorno alle spalle e baciandole la tempia, mentre le mani di Bengiamino si poggiavano sulle sue spalle per aiutarsi a mettersi in ginocchio dietro all’amico. «La sola cosa che ora possiamo fare è impegnarci il doppio e farlo per lei.»
«Ha dovuto lasciarci una compagna, perché iniziassimo a essere una famiglia», commentò con un sospiro Laura.
Bengiamino annuì.
«Vediamo di mantenere questo andamento.»
Annuirono all’unisono, chi più convinto chi meno di quelle parole.
Cristiano tirò su col naso, stringendosi a Viola nella coperta che gli riparava le spalle dal vento che saliva dal letto del Tevere.
«Propongo di continuare a fare la famiglia davanti al camino», commentò, alzandosi in piedi per poi porgere la mano alla bolognese per aiutarla ad alzarsi. «Andiamo, vecchio, pomposo Spallaci. Un fratello congelato non serve a nessuno.»
Augusto si alzò, facendo scricchiolare le ginocchia come se fossero di legno. Era rimasto più degli altri lì da solo e aveva preso più freddo.
Tornarono al piano inferiore insieme e lì trovarono Maria ad aspettarli.
«Potete salutare Paola, ora. Ezio la manderà a Napoli stanotte», disse loro, tenendo gli occhi bassi e tristi.
Cesco andò ad abbracciarla stretta e lei trattenne a stento le lacrime.
Chiara fu la prima ad andare da Paola, trovandola con addosso un abito nuovo, rosa pallido.
«Dovremmo truccarle di rosso le labbra e metterle i fiori nei capelli», decretò, facendo annuire sia Laura che Viola.
Paola non usciva mai senza aver curato per bene il suo aspetto.
Così, mentre le ragazze trafficavano con le tinture e i nastri che di solito si sistemavano sulle trecce prima di scendere a colazione, Cristiano e gli altri si riunirono in religioso silenzio attorno al letto in cui Paola avrebbe riposato nella sua ultima notte al Covo.
Cesco e Cristiano recitarono una preghiera a testa, mentre Bengiamino si limitava a osservare il viso della fanciulla senza proferire parola.
Alessandro mormorò un Padre Nostro, impensierendosi quando lo sguardo gli cadde sulla cura che le ragazze stavano mettendo nel far bella la loro compagna.
Così sistemata, con i capelli raccolti sopra il capo e impreziositi dai fiori, con le guance color pesca e le labbra tinte di rosso, Paola sembrava veramente soltanto addormentata tra delle lenzuola pulite.
«È fine persino in questo momento», commentò Cristiano, una volta che lo ebbe raggiunto a qualche passo di distanza dal capezzale.
Alessandro annuì, prima di accostarsi a lui.
«Adorava quando facevo apprezzamenti sul suo seno, per intenderci», sussurrò, mentre il biondo si portava una mano alla bocca per non scoppiare a ridere, colto alla sprovvista. «Diceva che i miei modi rozzi le mettevano allegria. Dovreste capirlo tutti, che lo faccio per voi, quando mi impegno a fare il somaro.»
Detto questo lasciò la stanza, andando diritto verso le cucine e prendendo la caraffa del vino. Doveva bere o si sarebbe sentito troppo sopraffatto.
Sentì dei passi alle sue spalle e immaginò che fosse Cristiano.
«Vuoi un bicchiere, amico mio? Bere non la farà tornare, ma ci farà stare meno male.»
«In verità, credo che stavolta mi unirò a te, Corella.»
La voce di Machiavelli per poco non gli fece cadere tutto dalle mani.
Si voltò, spiritato, guardando il consigliere come avrebbe guardato solo un fantasma, prima di versargli un bicchiere generoso.
Machiavelli lo prese in mano, svuotandolo in un paio di sorsi, prima di rivolgergli un cenno chiedendone ancora.
Corella gli lanciò un’occhiata ancor più allucinata della precedente, ma non mancò di versare un altro bicchiere, prima di bere un sorso da canna per mandare giù quella visione.
«Le ragazze la stanno preparando per il viaggio», disse, più per evitare di cadere nell’ennesimo, rovinoso silenzio che per intrattenere una reale conversazione. «Le hanno messo i fiori nei capelli.»
Machiavelli allungò nuovamente il bicchiere vuoto e Corella lo riempì senza aggiungere altro, con le mani tremanti per il timore di non uscire vivo dalle cucine. Annuì piano, senza lasciar trapelare nessuna emozione dal viso, seppur i suoi occhi fossero pieni di dolore.
«Meglio così. La madre teneva molto a lei, era la sola femmina che ha avuto. I suoi quattro fratelli maschi non hanno accettato il richiamo dell’Ordine, ma lei sì. Ci crederesti?»
Corella annuì, strabuzzando gli occhi nel vuoto mentre in silenzio prendeva un altro, più che generoso, sorso di vino.
Non disse una parola, versando altra di quella bevanda nel bicchiere di Machiavelli senza nemmeno attendere che lui glielo chiedesse.
«Che succederà, ora?», azzardò.
Il dolore era stato talmente tanto che nessuno di loro aveva ancora avuto modo di domandarselo.
Il consigliere appoggiò il bicchiere sul ripiano, prima di alzare finalmente gli occhi in quelli celesti dell’apprendista.
«Non lo so, domandalo al tuo Mentore», disse con un sospiro basso, prima di lasciare la stanza, andando a sua volta a salutare Paola un’ultima volta.









Sollevandosi piano la camicia da notte, Laura si accarezzò nervosamente il ventre appena rigonfio, voltandosi per rimirare la pelle tirata nel riflesso dello specchio appeso alla parete.
Sospirò, arricciando il naso quando realizzò che quella rotondità sarebbe presto cominciata a essere un po’ troppa per essere nascosta sotto le pieghe ampie dell’armatura.
Era passata una settimana dalla morte di Paola; una settimana di riposo, per fortuna. Nessuno aveva le forze per fare alcunché e il Mentore si era mostrato ben disposto a lasciare a ognuno il tempo che occorreva per digerire il lutto.
Per sette giorni, dunque, Laura aveva avuto modo di starsene da sola con il dolore della perdita di un’amica e quello dei crampi che la svegliavano nel cuore della notte.
«Non devi dirlo a nessuno», mormorò, guardando Violante seduta sul letto di fronte con gli occhi sbarrati colmi di stupore. «Se lo venisse a sapere qualcuno, mi rimanderebbero immediatamente a Milano.»
La bolognese si alzò, raggiungendola e sospirando, per poi scostarle i capelli dal collo bagnato di sudore. Prese a sussurrare pianissimo, per non farsi sentire dalle altre due che ancora dormivano.
«Dovresti dirlo. Se venissi scelta? Non poi rischiare né la tua vita né quella del bambino.»
Da quando l’aveva scoperta, qualche giorno prima, a vomitare copiosamente la colazione che aveva ingurgitato a forza, Violante aveva preteso di sapere tutto in cambio del suo silenzio.
Laura si era liberata di un bel peso, certo, ma parlarne con qualcuno non aveva comunque risolto nulla.
Sapeva che Viola aveva ragione, ma non voleva perdere la possibilità di dare prova di sé nell’Ordine.
Sospirò, prendendo a scartare nella sua testa ogni possibile figura di autorità a cui potersi confidare.
Sarebbe morta di vergogna piuttosto che dire una cosa del genere al Mentore, mentre invece Machiavelli l’avrebbe strangolata seduta stante per poi passare con gioia ad Alessandro.
«Bengiamino mi ammazzerà», sospirò, affranta, sfilandosi del tutto la camicia da notte per prendere a vestirsi. «Ma posso combattere, quando lo stomaco mi lascia in pace. Posso ancora essere utile all’Ordine.»
«Sì, ma se venissi ferita? O peggio ancora? Non puoi rischiare così tanto, devi farlo per lui.»
«Per lui, chi?»
Cristiano entrò nella stanza già vestito, facendole sussultare.
Laura gli diede le spalle imbarazzata, infilando una camicia per nascondere il seno scoperto.
«Bussare non è più in uso?»
«Scusami», replicò rammaricato il biondo. «Ma Ezio ha urgenza di parlarci. O non ci avrebbe svegliati prima dell’alba.»
Laura prese il braccio di Violante.
«Va’ pure», le disse, sorridendole con quel poco buonumore che le era rimasto. «Ci penso io, alle altre.»
Salutò Cristiano con un cenno del capo, guardando i due chiudersi la porta alle spalle prima di riprendere a rivestirsi in fretta.
Indossò le vesti più larghe delle quali disponeva, prendendo l’accortezza di stringere al massimo la cintura per nascondere del tutto la pancia prima di indossare l’armatura.
Nessuno sarebbe venuto a conoscenza di niente, non finché non avesse trovato una soluzione a tutto quel danno.
Imponendosi la calma, si avvicinò ai giacigli di Chiara e Maria, scrollandole piano per dare loro il buongiorno.
Maria pareva aver perso del tutto la voglia di battersi. Dopo la morte di Paola, non si era più levata all’alba per andare a correre, non aveva più tirato al paglione o ripreso nessuno. Si occupava solo di Cesco e della sua incolumità.
Nonostante tutto, però, si alzò, vestendosi velocemente e scendendo insieme a Chiara e Laura.
«Anche stamane sei molto pallida», disse alla milanese, mentre si sedevano alla tavola della colazione, ancora vuota.
Laura sorrise, cercando di essere credibile.
«Eppure sto bene», la tranquillizzò, notando che Cristiano era il solo dei ragazzi ad essersi presentato.
A dirla tutta, mancava persino Ezio e Machiavelli non mancò di farlo notare.
«Ci fa alzare e poi non si presenta. Bel modo di iniziare la giornata», disse, scuotendo il capo.
«So che senza di me non vivi, Niccolò, ma un po’ di fiducia ogni tanto non gusterebbe. Gli ottimisti invecchiano più lentamente.»
Il Mentore entrò nello stanzone seguito da Leonardo da Vinci che, tra le mani, reggeva una sorta di scatola di legno.
L’artista salutò tutti, sorridendo maggiormente a Chiara, prima di guardare verso Ezio, in attesa.
Il fischio acuto che Corella lanciò dalle scale fece sobbalzare tutti i presenti, da Vinci e Machiavelli compresi, mentre il resto della comitiva scendeva nella sala.
«Al fine il giorno è giunto!», strillò il forlivese, prendendo a saltellare così vivacemente che per poco non finì tra le braccia di Bengiamino.
Assieme agli altri, prese posto sulle panche del salone, tamburellando nervosamente le dita sul legno consumato della tavolata.
«Davvero siamo già giunti al momento?», chiese sorpresa Chiara, rintanandosi tra le braccia di Bengiamino non appena il milanese le si sedette a fianco.
Spallaci sbottò.
«Era anche ora!», commentò, versandosi un bicchiere di vino prima che Corella arrivasse a strappargli la caraffa dalle mani.
In quella settimana, entrambi parevano aver ritrovato il buonumore.
Corella gli batté una mano sulla schiena.
«Punto tutti i miei fiorini su Fiore di Maggio!», gridò, dando così il definitivo risveglio a chi ancora pareva assopito. «O Fiore o niente! O Fiore o niente!»
«Di cosa stanno parlando?», chiese Cesco a Maria, mentre questa gli stava sistemando una ciocca ribelle dietro l’orecchio.
«Oggi il Mentore decreterà i cinque migliori di voi, che verranno mandati a compiere delle missioni in tutta Italia a suo nome.»
Avevano lavorato, sudato e sofferto per quel giorno. C’era chi aveva puntato addirittura dei soldi. Compreso Volpe, che entrò in quel momento insieme a d’Alviano.
«Coloro che verranno scelti dovranno andare con Volpe e Bartolomeo. Partiranno domattina e non vedranno nessuno fino alla fine di un addestramento speciale che inizierà nella caserma di d’Alviano e finirà ad Orvieto», disse Ezio, lasciando tutti senza parole. «Gli altri rimarranno qui con me.»
Quella era, di fatto l’ultima volta che potevano stare tutti insieme.
Chiara si strinse di più a Bengiamino, tristemente.
«Abbiamo condiviso sei mesi della nostra esistenza», cominciò il Mentore, parlando con tono grave sebbene la sua espressione lasciasse traspirare tutt’altro. «Sei mesi in cui vi ho visti crescere, come Assassini e come persone, in cui ho preso nota di ogni vostro singolo miglioramento. Se siamo qui oggi, riuniti attorno a questa tavolata, è grazie al contributo che ciascuno di voi ha dato all’Ordine.»
Corella scalciò sotto la panca, buttandosi platealmente all’indietro per addossarsi a Cristiano.
«L’attesa mi uccide!», piagnucolò, portandosi una mano alla fronte.
Chiara e Laura presero a sghignazzare.
«Fa’ presto, Mentore!», esclamò Spallaci, reggendo il gioco al forlivese con un tono platealmente preoccupato. «O all’Oste si spezzerà il cuore!»
Tutti ridacchiarono allegramente, mentre gli occhi di Ezio scintillavano. In un certo senso, erano come tanti figli suoi. Ma quello non era di certo un addio, anzi.
«Sto per elevare i cinque migliori, che ho scelto in questa settimana meditando davvero molto e soppesando ogni cosa.»
Machiavelli si schiarì la voce.
«Da solo. Hai scelto da solo.»
Tutti iniziarono a sperare. Senza il giudizio severo del consigliere, chiunque poteva venir scelto.
«Vorrei chiamare per primo colui che fra tutti si è distinto per le sue doti non solo da Assassino, ma anche da essere umano dotato di gran morale. Ha sempre fatto tutto come doveva esser fatto, eccetto quando Cesare Borgia l’ha quasi ammazzato.» Guardandolo con un sorriso quasi commosso, Ezio fece cenno a Bengiamino di alzarsi.
Questi lo fece, mentre tutti applaudivano verso di lui.
«Sei stato il migliore fra tutti. Il più retto e capace. Eri un Assassino prima di entrare tra queste mura; adesso lo sei più che mai.»
Si fece raggiungere e subito Machiavelli gli passò le pinze. Da un piccolo focolare, Ezio prese un anello metallico incandescente, che schiacciò contro il dito anulare destro del ragazzo.
Bengiamino storse il naso, ma non mosse un muscolo.
«Hai accettato il marchio?», gli chiese.
«Sì, mio Mentore.»
«Allora va’, cammina nel buio e porta la luce.»
Aprì la scatola di Leonardo e da essa prese un bracciale di cuoio.
Non un semplice ornamento.
«La lama celata», pigolò Corella, mentre guardava Bengiamino che veniva investito di un tale onore. «La voglio, misericordia!»
Laura sospirò, affondando il viso nei palmi aperti delle mani dopo che ebbe puntato i gomiti al tavolo.
«Entro due giorni arriveranno i vezzeggiamenti da parte di tutta la famiglia», commentò, roteando gli occhi.
Bengiamino era sempre stato il preferito di loro padre, seppur non il primogenito; l’orgoglio di tutti i Lorenzetti di Milano. Persino la loro matrigna lo trattava con occhio di riguardo. Per non parlare del precetto che non faceva altro che lodare le grandi doti che il suo allievo aveva nel far di conto.
Laura, per quanto dotata e intelligente, era sempre arrivata dopo. Era stata la prima soltanto nel ricamo, ma poi era nata la loro sorella più giovane, che tesseva e cuciva come una vera sarta e aveva finito per batterla anche in quel campo.
Nonostante tutto, però, Laura non poté che sentirsi orgogliosa del suo più caro fratello maggiore. Orgogliosa e commossa.
Bengiamino aveva sudato e sofferto come una bestia, per arrivare fin lì. Quella posizione era più che meritata.
Ezio si fregò le mani, mentre il primo iniziato tornava a sedersi accanto a Chiara, la quale appoggiò amorevolmente uno straccio bagnato sul suo dito.
«La prossima persona che ho scelto non credo sia una sorpresa per nessuno», riprese il Mentore. «Così come Bengiamino, si è sempre distinta ed è, in assoluto, colei di cui più mi fido.»
All’unisono, tutti si voltarono verso Violante.
«… nelle cui mani metterei la mia stessa vita. Vieni qui, Madonna degli Antoni.»
La bolognese lo raggiunse con un gran sorriso, abbracciandolo stretto, mentre gli altri applaudivano come avevano fatto con Lorenzetti.
«Grazie», sussurrò, mentre si separavano.
Ezio riprese le pinze metalliche alzando un sopracciglio.
«Tra poco mi ringrazierai meno.»
L’odore di carne bruciata e un mugolino di Violante fecero capire a tutti che anche lei aveva accettato l’anello della fratellanza.
Ezio la aiutò ad assicurare la lama celata al braccio, prima di prenderle il viso tra le mani, baciandole la fronte.
«Ora vai, e agisci seguendo i precetti del Credo. Non importa cosa potrà avvenire, se crederai ciecamente in essi non ti pentirai mai di nulla.»
«Sì, bella cosa», sbuffò Corella, tirando su col naso mentre, al suo fianco, Spallaci sghignazzava. «Le avessi avute io, due tette nella camicia!»
«Non ti crucciare», commentò Cristiano, accarezzandogli la spalla con tono falsamente preoccupato. «Consolati pensando che Alessandro è assai più bel nome di Alessandra.»
Chiara ridacchiò, imbevendo nella caraffa d’acqua il suo fazzoletto per poi passarlo a Violante.
«Cristiano, sei il prossimo», cinguettò, tanto limpida da apparire fin troppo sicura di sé.
Il ferrarese alzò le spalle.
«Sarà meglio», commentò Spallaci. «Ci ho scommesso il borsello con Volpe!» 
«Chiara», disse Ezio, stupendoli tutti quanti. «Il prossimo nome non è quello di Cristiano, ma il tuo.»
La bionda rimase assolutamente senza parole, così come il resto della comitiva. Eccetto Machiavelli che commentò con un paio di imprecazioni sottovoce.
«Deve esserci un errore, Mentore», rispose piano la fiorentina, alzandosi in piedi quando lo stesso da Vinci fece il giro del tavolo, porgendole la mano.
Lei la afferrò, incerta.
«Io non ho le capacità.»
«Le hai, invece. Devi solo convincertene», disse l’artista, lasciandola davanti ad Ezio come un padre passa la figlia ad uno sposo, all’altare.
Chiara rimase immobile esattamente dove Leonardo la abbandonò, incapace persino di porgere la mano al Mentore. Sbatté più volte le palpebre, ancora incredula, e alzò lo sguardo al soffitto, alla ricerca di chissà quale segno divino.
Toccò a Ezio prenderle il polso quasi di forza, imprimendole sulla pelle liscia e pallida il simbolo che provava a tutti gli effetti la sua appartenenza alla confraternita degli Assassini.
Un onore immenso, per la famiglia di Chiara, che venne però del tutto schermato dal dolore del ferro rovente sulla carne.
Trattenendo a stento un grido, la ragazzina sgusciò alla presa del Mentore, rifugiandosi tra le braccia di Bengiamino per farsi inumidire la pelle bruciata. Quando Leonardo le corse incontro per tenderle la lama celata, lei parve rendersi conto della magra figura che aveva fatto dinanzi a tutti i suoi compagni.
«Io …»
Riluttante, si alzò in piedi, rincuorata dallo sguardo fiducioso di Bengiamino.
«Io accetto il marchio!»
Per risposta, Corella sospirò.
«E un altro posto è andato.»
«Ora vorrei rendere onore a qualcuno che lavora con me da molti anni e che ha fatto uno splendido lavoro.» Mentre tornava verso il suo posto, Ezio appoggiò le mani sulle spalle di Maria che subito gonfiò il petto, fiera. «Mia carissima amica, ti ringrazio davvero tanto per tutto ciò che hai fatto. Per questo ho deciso di nominare il tuo allievo Francesco uno dei cinque migliori.»
«Chi?», domandò Spallaci, mentre il Conte Ventimiglia si alzava traballante dalla panca, rischiando di inciampare mentre raggiungeva il Mentore a capotavola.
«Spero di essere ancora ubriaco», commentò Corella, con tono offeso.
Machiavelli alzò un sopracciglio.    
«Anche io, Alessandro», replicò, mentre Ezio imprimeva il marchio e dava la lama anche al poverino, il quale tornò mezzo scioccato al suo posto, accanto a Maria.
La donna sembrava un po’ delusa dal non essere stata scelta, ma ciò nonostante molto fiera del suo allievo.
«Ben fatto, ragazzino», gli disse, accarezzandogli amorevolmente il braccio e schioccandogli un bacio sulla nuca.
«Manca un posto», fece presente Ezio, guardandoli divertito.
I suoi allievi che tanto lo avevano amato si stavano divertendo meno, ma non era un fattore di rilievo, per lui.
«Secondo voi, chi ho scelto? E perché?»
Spallaci scoppiò a ridere.
«Ma non è logico?!», esclamò, tronfio. «A questo punto resto solo io. Per quanto mi dispiaccia per Pagni e i miei soldi.»
Bengiamino scosse il capo.
«Deve essere Pagni», commentò.
Laura alzò le spalle.
«Pagni, di certo.»
Corella annuì.
«Mi aggrego: Pagni.»
Anche Chiara parve appoggiare l’idea, seppur poco convinta.
«Pagni, sì.»
Cristiano sorrise a tutti, alzandosi in piedi.
Ezio però rise, il che la diceva lunga sulla sua scelta.
«Mi duole dirtelo, Cristiano, ma non sei tu la mia scelta», disse, mentre Corella lanciava in aria il tovagliolo. «Sei stato bravo, molto bravo, ma non hai il discernimento necessario. Ti manca ancora qualcosa e voglio continuare a seguirti. Stessa cosa per Laura e Corella. Quindi posso affermare che, per la prima volta, sono d’accordo con Spallaci: tu sei il quinto Assassino.»
«Calma, calma, calma!», gridò Corella, mentre Cristiano si rimetteva seduto, guardando sconvolto Violante. «Quindi noi siamo incompleti mentre Augusto Spallaci, che ha un cazzo di cavallo di nome Fiore di Maggio e non riesce a tenersi i pugni in tasca per dieci minuti … sì?»
Ezio lo guardò dispiaciuto.
«Mi rincresce che tu sia così deluso, ma sì. Spallaci ha qualcosa in più, ovvero una determinazione e una voglia di mettersi in gioco che a voi manca.»
«Che però ha Cesco. O Chiara», commentò acidamente Laura.
«Laura», la rimproverò subito Bengiamino, chinando il capo di lato con un’espressione sorpresa.
Lei ricambiò lo sguardo con una smorfia stizzita.
«Sei soltanto invidiosa!», la schernì Spallaci, tronfio della sua nuova posizione. «Perché noi cinque siamo stati scelti e tu sei rimasta indietro, come al solito!»
«Sta’ zitto, Augusto!», lo ribeccò Cristiano, scrollando i suoi riccioli biondi.
«Questa è la nostra ultima giornata assieme», fece notare Chiara, alzando di poco la sua vocina di solito timida e contenuta. «Non dovremmo passarla a litigare.»
Improvvisamente, tutti parvero realizzare l’imminente partenza di chi era stato scelto.
Cristiano si incupì di colpo, ma si riprese nel tempo che gli richiese scrollare le spalle.
«Finalmente un’idea intelligente», commentò, tirando fuori un sorriso che, seppur poco convinto, ridestò un po’ gli animi. «Propongo una visita all’osteria!»
«Bell’idea! Bere fa dimenticare!», lo appoggiò Corella.
Laura alzò un sopracciglio.
«Ma il sole non è ancora sorto!»
«Motivazione ancor più valida per andare subito», Alessandro si alzò, prendendo a braccetto Cristiano e aprendo strada con lui. «Rimaniamo soli, vecchio mio. Consoliamoci: mentre loro si ammazzano di lavoro, noi potremo continuare a non far nulla!»
Laura si alzò a sua volta, diretta verso le camerate.
Chiara provò a fermarla, chiamandola per nome.
«La nostra ultima giornata insieme, non essere triste», le disse con un sorriso.
La milanese quasi le rise in faccia.
«Chiara, sei stata scelta ma sei solo una bambina. Non è l’ultima per sempre, solo per adesso.»
E detto ciò si chiuse nelle stanze delle ragazze.
Violante sospirò, portando un braccio attorno alle spalle di Chiara. Dietro di lei, Augusto si lasciò scappare un urletto in seguito al marchio.
«Vieni, andiamo. Possiamo divertirci anche senza di lei.»




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Capitolo 18
*** Epilogo ***


polverenera

Per concludere

Nove mesi dopo aver bevuto quel fatidico cappuccino al bar dopo una lezione di religione, con orgoglio chiudiamo la prima parte di questa storia. E' stato un percorso divertente, talvolta difficile, che però ci ha fatte affezionare ai personaggi e ci ha accompagnate durante quest'anno accademico (cosa da non sottovalutare sotto le sessioni d'esame P:)

Un grazie a tutti quelli che hanno letto, che hanno trovato il tempo di lasciare un commento o che ci hanno soltanto pensato. Grazie di cuore a chiunque si sia fermato qui; per noi, vuol dire davvero molto. ♪

Chiudiamo queste brevi note finali con la speranza di ritrovarvi tutti nella seconda e ultima parte della storia: "Le lacrime di Hevel", che pubblicheremo tra qualche settimana :D  

Un bacio a tutti,
Chemical Lady & Lechatvert






Il destino di Qayin

Epilogo






Le unghie di Violante affondate nella carne delle sue spalle gli fecero emettere un gemito più forte degli altri, inducendolo ad aumentare il ritmo con cui muoveva il bacino mentre con le mani cercava di liberarsi del lenzuolo che lo accaldava.
Prese Violante per i fianchi e la costrinse a rimanere nell’esatta posizione in cui era, sdraiata sotto di lui, prigioniera dei suoi baci e delle sue carezze. Si fermò per un istante a guardarla in viso, seguendo i lineamenti del suo volto affannato e scomposto, per poi riprendere da dove aveva interrotto, baciandola con tutta la passione di era capace.
Raggiunse il piacere dentro di lei, accoccolandosi poi sul suo petto con l’orecchio teso a catturare i battiti del suo cuore.
Era la terza volta che facevano l’amore, quella notte, ma Cristiano ancora non riusciva a dirsi soddisfatto.
Sotto di lui, la ragazza si lasciò sfuggire un mugolio mentre passava la mano tra le sue ciocche bionde e umide.
«Qualcuno qui è davvero deciso a non farmi partire. Se continui così, non riuscirò a camminare, figurarsi a saltare di tetto in tetto.»
«Non ti priverei mai e poi mai dell’onore che il tuo Mentore ti ha concesso», le rispose Cristiano, alzandosi e ricoprendole il collo di baci.
Viola rise.
«Mio? Non anche il tuo?»
«Io e Alessandro abbiamo deciso di disconoscerlo», dichiarò il ferrarese, passando una mano dal fianco ai seni della giovane. «Lo abbiamo anche messo per iscritto. Bengiamino e Chiara hanno fatto da testimoni.»
«Quindi è ufficiale?»
«A dir poco.» Cristiano scrollò le spalle, stendendosi al fianco di Violante nel mentre le rubava l'ennesimo bacio. «Consegneremo al più presto i documenti necessari a Machiavelli», asserì fingendosi quanto più serio gli fosse possibile. «Entro stasera, saremo figli liberi e assolutamente autorizzati a lasciare il Covo per raggiungerti ovunque tu andrai.» Le sorrise, accarezzandole piano il viso. «Non voglio vederti partire. Non hai bisogno di alcun allenamento aggiuntivo.»
Lei sospirò, accarezzandogli a sua volta la guancia.
«Tutto questo non ha senso. Tu vali dieci volte di più di Chiara, Cesco e soprattutto Augusto. Sei il migliore fra noi, a pari merito con Bengiamino. Non riesco davvero a capire come abbia potuto lasciarti fuori.» Prese la sua mano, portandola alle labbra per baciarne il dorso, prima di appoggiarsi al suo petto e lasciarsi stringere forte. «Mi prometti che mi aspetterai?»
Cristiano la guardò rattristarsi e la strinse contro il suo petto con tutta la forza che la notte gli aveva lasciato. Le baciò i capelli sulla fronte e la accarezzò il ventre, ridacchiando piano.
«Spero che tu sia incinta», mormorò, affondando il viso nell'incavo tra collo e spalla della ragazza. La sentì irrigidirsi al solo sentire quelle parole, perciò si affrettò a darle una spiegazione. «Se lo fossi, non saresti costretta a vagare per la penisola rischiando la vita in ogni bettola di città.» Sospirò, alzando gli occhi azzurri al soffitto della stanza quasi stesse vivendo un sogno, anziché la realtà. «Ci potremmo sposare, potremmo stare lontani da questo luogo ... vivere a Bologna, per esempio.»
«Non devo necessariamente sfornare pargoli, per poter stare insieme a te», si sbrigò a dire la bolognese, con tono leggermente ironico.
Il biondo si alzò, appoggiando un gomito al materasso e guardandola con una strana luce negli occhi.
«Dici sul serio? Saresti mia, se te lo chiedessi?», le domandò, tra il confuso e il felice.
Violante non sembrava il tipo di donna che meditava di accasarsi, anzi. La sua indipendenza, che tanto piaceva al Principe, si sarebbe compromessa.
Lei, però, annuì senza nessuna remora, così lui si decise.
Da sopra il comodino di legno grezzo, prese uno dei suoi anelli, quello con una grande pietra verde incastonata nell’oro bianco, e afferrò gentilmente la mano di Viola.
«Vorresti sposarmi, una volta tornata da queste missioni?»
La giovane sorrise, allargando le dita.
«Sarebbe un piacere farti questo onore, Pagni.»
Questi sorrise a sua volta, infilando l’anello nel dito della ragazza.
Con rammarico, lei constatò come il gioiello fosse fin troppo largo. L’avrebbe appeso ad una catenella d’argento, che mai si sarebbe levata. Sarebbe stata la sua ancora.
Felici per quel fidanzamento, si scambiarono un lungo bacio, prima di tornare ad amarsi nuovamente.









Passi lontani sul corridoio della torre lo svegliarono nel cuore della notte, facendolo sobbalzare in quell’unica coperta che una guardia gli aveva passato per pietà nel vederlo tremare.
Sotto la luce lunare che filtrava dalle travi del tetto, Marcello stropicciò gli occhi color del miele e trattenne a stento uno starnuto mentre, silenzioso, si metteva a carponi sul pavimento accanto alle sbarre.
Aveva passato gli ultimi sei mesi in quella cella e, se aveva afferrato sufficientemente bene le regole del luogo, le visite notturne alle guardie non erano contemplate, anzi, erano punite con esemplare severità dal Conte di Ladispoli in persona.
Di solito si trattava di prostitute raccattate per la strada e condotte fino ai pagliericci nelle celle per soddisfare le guardie in turno.
Non che fossero affari di Marcello, naturalmente, ma civettare sulle scappatelle degli uomini di Cimaglia era l’unico passatempo sufficientemente interessante che gli desse la possibilità di perderci dietro del tempo.
Si acquattò quindi alle sbarre, tendendo l’orecchio in attesa di udire la voce calda e suadente della cortigiana che di solito giaceva con le guardie nella cella adiacente alla sua.
«Di qua», proruppe all’improvviso il tono profondo di Federico Cimaglia. «Troviamo un luogo consono alla nostra chiacchierata.»
Quando lo strusciare dell’armatura del Conte cessò, rimasero solamente dei passi molto leggeri che forse, in un’altra occasione, Marcello non avrebbe nemmeno udito.
Il ragazzo stava letteralmente trattenendo il respiro per cogliere qualsiasi cosa quei due uomini stessero trattando. Doveva trattarsi di un fatto importante, se Cimaglia si era spinto sino alla sommità della torre per parlarne.
«Conto sulla vostra discrezione, Federico. Dovrete riportare a Cesare Borgia ogni singola parola con lo stesso scrupolo di un amanuense che lavora su una Bibbia.»
La voce che si rivolse al carceriere era quella di un ragazzo, probabilmente non più vecchio dello stesso Marcello. Non aveva un timbro poi molto particolare, anzi, era alquanto comune.
«Naturalmente.»
Aggrottando la fronte, Marcello decise di rimanere in ascolto.
«Come procedono i piani?», incalzò di lì a poco Cimaglia, fermandosi sul corridoio dinanzi alle celle.
«Non sanno più dove battere la testa per dare la caccia alla spia», commentò il suo interlocutore. «Continuano a incolparsi a vicenda senza riuscire a cavarne un ragno dal buco.»
I passi ripresero a risuonare sul corridoio, mentre la voce di Cimaglia riecheggiava cupa tra le celle.
«Auditore ha scelto i suoi cinque prediletti, dunque?»
Un ratto si avvicinò a Marcello con fare arrogante, cominciando a rosicchiare il cadavere di un suo simile in putrefazione tra la paglia.
Disgustato da quella visione, il ragazzo si decise ad alzarsi in piedi e ad appiattire il viso contro le sbarre.
L’oscurità giocava a suo favore, dopotutto: senza una misera luce a illuminare loro la via, non c’era pericolo che i due sul corridoio lo scoprissero.
Cercò di concentrarsi di nuovo, riprendendo ad origliare quel discorso che pareva non essere andato avanti.
L’interlocutore misterioso rise cupamente.
«Diciamo che la sua smania di voler dimostrare che Machiavelli ha torto offusca fin troppo il suo giudizio», commentò, mettendosi in un punto del corridoio poco distante da Marcello.
Il veneziano non riuscì a distinguere poi molto, da quella posizione, ma vide che lo sconosciuto indossava un mantello nero con un cappuccio ampio. Stava di spalle rispetto a lui, quindi non poteva vedergli il viso.
Cimaglia ridacchiò.
«Una situazione compromettente, per il Mentore dell’Ordine. Voi, invece? Siete stato scelto?»
Ciò che il giovane disse dopo fece rizzare i peli sulla schiena a Marcello. Non per le parole, quanto più per il tono utilizzato.
«Sono esattamente dove Cesare mi ha chiesto di essere, Federico. Come ogni volta.» Il ragazzo si schiarì la voce, prendendo qualcosa da sotto al mantello e passandolo al Conte. Una lettera. «Quelli sono i nomi dei cinque prescelti e qualche informazione su di loro e la loro famiglia: Bengiamino Lorenzetti, Chiara Filippi, Francesco Ventimiglia, Augusto Spallaci e Violante degli Antoni.»
Marcello prese nota mentale di quell’ultimo nome.
Estrapolato da quel contesto, era a dir poco incantevole. Aveva un suono armonioso e il ragazzo immaginò subito dovesse appartenere a una dama bellissima.
Lo sconosciuto schioccò la lingua contro al palato, prima di proseguire.
«Sotto ci sono anche i nomi di chi è rimasto al Covo dell’Isola Tiberina. Alessandro Corella, Cristiano Pagni, Maria Ferrari e Laura Lorenzetti. Insieme a Machiavelli e Auditore, ovviamente.»
Il Conte grugnì qualcosa, prima di ridere.
«Non avete usato il vostro vero nome, vedo.»
«Sono una persona astuta. Come potevo sperare di entrare nella cerchia ristretta di Auditore senza suscitare sospetti, se non prendendo il posto di uno dei suoi adepti?»
Cimaglia intascò la lettera con poca cura, prima di accostare una mano all’elsa della spada, usando l’arma come appoggio.
«Che fine ha fatto, il poveretto di cui hai preso le spoglie?»
«L’ho ucciso e buttato in un pozzo. Ormai, di lui sarà rimasto poco o nulla.»
Marcello si portò una mano alla bocca, mozzando anche quel flebile respiro che gli impediva di non svenire.
Forse, decidere di origliare non era stata un’idea poi così brillante.
Si appiattì contro il muro della sua cella ormai con le lacrime agli occhi, pregando tutti i Santi del Paradiso affinché i due non si accorgessero della sua presenza.
Lo sconosciuto riprese il suo discorso con una risatina.
«Siete stato immensamente fortunato, Federico. Liberarsi delle scelte di Auditore sarà più facile del previsto, se vi atterrete alle mie direttive.»
«Farò come chiedete», acconsentì Cimaglia, mentre lo sconosciuto si accingeva a seguirlo. «Ora non ci resta che aspettare un loro attacco. Saremo pronti a respingerli con tutti i mezzi necessari.»
«Sarà mia premura mettervi al corrente di ogni operazione, non appena Auditore comunicherà le sue intenzioni. Per ora, restate in attesa.»
Con i passi dei due che si apprestavano a lasciare l’ultimo piano della torre, Marcello rimase nuovamente solo.
Confuso, smarrito e sconvolto più che mai, si arrotolò per bene dentro la sua coperta, fremendo leggermente per il freddo prima di chiudere gli occhi e provare a dormire un altro po’.
Pregò per quei nomi a lui del tutto nuovi e per la loro ingenuità che li faceva sedere alla stessa tavola di una carogna come quella che aveva appena fatto visita a Cimaglia, augurandosi che riuscissero a incastrare il traditore prima che lui incastrasse loro.
Benché non passasse giorno in cui non piangesse la sua solitudine, vedere qualcun altro marcire nella sua stessa cella lo avrebbe distrutto




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