Sunspots

di 13Sonne
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Excursus ***
Capitolo 2: *** Capitolo Uno: Isaac ***
Capitolo 3: *** Capitolo Due: Katana? ***
Capitolo 4: *** Capitolo Tre: Somnium ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quattro: Felix ***
Capitolo 6: *** Capitolo Cinque: Sfortuna ***
Capitolo 7: *** Capitolo Sei: Denial ***
Capitolo 8: *** Capitolo Sette: Bargaining ***
Capitolo 9: *** Capitolo Otto: Anger ***
Capitolo 10: *** Capitolo Nove: Depression ***



Capitolo 1
*** Prologo: Excursus ***


Facility1

Questo è solo il prologo: il deludente e scadente prologo. La vera storia comincerà nel prossimo capitolo 
che, vi prometto, sarà senz'altro migliore.
Ringrazio il forum Gdr 'L'Armata del Drago' per avermi ispirato circa il 'cataclisma', anche
se quello da me descritto è decisamente meno distruttivo.
Ringrazio Chibi per avermi aiutato a decidere che valeva la pena spedire questa storia.
Infine ringrazio me stesso, senza la cui mente brillante questa fiction non poteva esistere.

-*/-'o'-*/-

Il mondo si stava dirigendo verso un disastro naturale quando gli scienziati di una nazione – nessuno ricorda più quale fosse – trovarono una forma di energia pulita ed ecologica. Le multinazionali scartarono subito l’idea, sapendo che sarebbe stata controproducente per loro, e bollarono quella nuova forma d’energia come troppo instabile e quindi pericolosa; intanto, però, l’aria diveniva sempre più tossica e il cielo era coperto da nuvole nere di smog.
Gli scienziati si chiusero in un laboratorio protetto, lontano da tutto e tutti, cercando di trovare un modo per stabilizzare l’Energia e renderla così accessibile al mondo. In poco tempo giunsero ad una svolta radicale: gli scienziati erano riusciti, infatti, a concentrare l’Energia in un unico reattore, stabilizzandola.
Le società compresero che quello era un pericolo per loro e in segreto decisero che era necessario eliminare il laboratorio in cui gli scienziati si erano rinchiusi prima che la notizia della nuova energia potesse spargersi. Il giorno seguente l’area fu presa d’attacco da dei terroristi e gli scienziati furono uccisi dal primo all’ultimo.
Le esplosioni avevano distrutto il reattore, riportando l’Energia ad una forma instabile. Quando, per sicurezza, i ‘terroristi’ fecero l’ultimo attacco diedero inizio ad una reazione a catena che si concluse con una potente esplosione.
L’energia liberata depurava l’aria e la terra, mutava la forma dei continenti e al contatto con gli uomini eliminava qualsiasi traccia di tossine e radiazioni presenti nel loro corpo: era un procedimento lungo e doloroso che portò alla morte di molte persone, troppo deboli o troppo ‘infetti’ per riuscire a sopportarlo.
Quello stato durò un anno, alla fine del quale la geografia dei luoghi era completamente mutata. L’aria, la terra, tutto era privo d’inquinamento e la natura sembrava essere rifiorita. Gli uomini sopravvissuti al cataclisma erano privi di deformazioni o malattie, purificati: in molti credettero che l’esplosione fosse stata un intervento divino, una sorta d’Apocalisse, e tutti definirono quello ‘anno zero’, sicuri che quello fosse l’inizio di una nuova era.
I sopravvissuti ricostruirono le città, ed il primo passo dei nuovi governi fu quello di dichiarare una pace assoluta, dando i fondi per la guerra alla scienza.
Ben presto furono fatte nuove importanti scoperte, che spaziavano dalla medicina all’ambiente: queste scoperte fecero diventare le multinazionali sempre più ricche e potenti, tanto che ben presto i governi divennero semplici fantocci.

Per mantenere questo stato di potere le società avevano bisogno di soldi, e i soldi arrivavano da nuovi prodotti da vendere: gli scienziati venivano così trattati con tutti gli onori, aiutati in qualsiasi modo. Lecito od illecito.
A poco a poco, in segreto, gli scienziati cominciarono a praticare esperimenti sugli esseri umani. Spesso le cavie erano prese da prigioni o manicomi, oppure erano persone di cui le mafie del luogo tentavano di disfarsi.

Nessuno si rendeva conto di come stavano realmente le cose.
Le persone continuavano a votare per un nuovo governo, senza sapere che era solo una facciata, nessuno comprendeva il reale potere delle multinazionali e raramente si rendevano conto degli esperimenti che si svolgevano in segreto: poche volte era denunciata una scomparsa, perché raramente a qualcuno interessava.
Tutti continuavano a comprare, a spendere, a vivere una vita tranquilla resa più lunga dalle sempre migliori cure scoperte ogni giorno.
Nessuno di quelli che sapeva agiva: chi perché sarebbe andato contro ai propri interessi, chi per quieto vivere, chi perché era convinto che fosse la cosa migliore.

C’era ordine, c’era pace, tutti – la maggior parte – erano felici. Perché cambiare le cose?

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Capitolo 2
*** Capitolo Uno: Isaac ***


Isaac
Ringrazio Chibi per avermi rincuorato mentre scrivevo questo capitolo.
Ringrazio The Man Who Sold Peace per aver messo la storia fra i suoi preferiti.
E... uh, spero che questo capitolo sia meglio. Yay.

*/*-/**



La società più potente, 356 anni dopo l’inizio della nuova era, si chiamava Coma F.cor. Doveva il suo nome alle prime invenzioni che aveva messo in commercio, tutte di utilizzo medico.
Nel corso degli anni aveva aperto i propri orizzonti, arrivando a vendere le più varie attrezzature per lavoro: il punto forte rimaneva comunque la medicina, tanto che tutte le nuove scoperte in campo medico erano state create e vendute dalla Coma F.cor.
Grazie alle sempre maggiori entrate la società aveva finanziato in molti orfanotrofi il ‘programma di recupero giovanile ’: tale programma si prefissava di istruire il ragazzo a ciò a cui era più portato e, al raggiungimento della maggiore età, di trovargli un posto di lavoro. Negli otto anni – il periodo dell’adolescenza – in cui i ragazzi ne facevano parte questi ricevevano istruzione scolastica e universitaria, senza doversi preoccupare di rette che, in assenza di genitori o tutori, sarebbero state proibitive.
Dagli orfanotrofi finanziati dalla Coma F.cor uscivano alcuni dei più capaci dipendenti dell’azienda stessa, oltre che alcuni dei più conosciuti professionisti al mondo.

*-*/-*

Isaac Dee aspettava il proprio turno, cercando di ignorare gli altri presenti nella sala d’aspetto- in tutto una decina di persone che non aveva mai visto prima e due suoi colleghi di lavoro, che tentavano in tutti i modi di renderlo partecipe dei loro discorsi.
Erano stati chiamati in quel luogo per una semplice intervista: si cercava di capire come avesse influito il programma su chi vi aveva partecipato, così da placare quelle voci che insistevano nel dire che gli orfani erano stati sottoposti a dei “lavaggi del cervello”. Anche se Isaac sapeva che quelle voci erano ridicole mai gli era venuta la voglia di confutare quelle storie: erano stati i suoi colleghi – Nora e Andrè – a portarlo con loro quel giorno.
Nora era finita in orfanotrofio a tre anni. A tredici anni aveva dimostrato uno spiccato interesse per l’informatica e la meccanica, ed al raggiungimento della maggiore età era divenuta un ingegnere meccanico per conto del Coma F.cor.
Andrè era invece stato il rampollo di una famiglia benestante che, ai suoi diciotto anni, gli aveva pagato l’università di Biotecnologia, da cui era uscito come valente ingegnere genetico. Non essendo orfano e non avendo partecipato al programma, Isaac non riusciva a capire cosa ci facesse Andrè con loro: questo aveva però risposto con un breve ma esauriente “mi annoiavo” che gli aveva fatto perdere qualsiasi voglia di discutere.
Nora ed Andrè erano sicuramente due valenti scienziati, ma avevano un carattere allegro e gioviale che li rendeva, agli occhi di Isaac, completamente inaffidabili. Reputava, in un certo senso, un bene che i due fossero li con lui invece che al lavoro.
Isaac non tentò di nascondere l’ennesimo sbuffo mentre i suoi due colleghi continuavano a parlare accanto a lui. Non amava perdere tempo, come non amava il contatto prolungato con altre persone: avrebbe di gran lunga preferito essere al lavoro piuttosto che seduto in quella sala d’aspetto a fissare fuori da una finestra.
Distolse lo sguardo e cominciò a massaggiarsi delicatamente le tempie, con un gemito. Quando non riusciva a concentrarsi su qualcosa, a distrarsi, la testa cominciava a pulsargli dolorosamente: in quei momenti avere vicino i due gioviali colleghi gli era, se possibile, ancora più odioso.
Sapeva che il suo turno di lavoro doveva essere finito da un pezzo: non aveva un orologio e non aveva voglia di chiedere a Nora o ad Andrè, ma doveva essere sera inoltrata. Cercò di distrarsi con quel pensiero: di pensare a cosa avrebbe fatto se fosse stato a casa. Nulla di speciale, probabilmente avrebbe letto un libro, forse avrebbe mangiato qualcosa, sicuramente avrebbe preso qualche sonnifero e poi sarebbe andato a dormire. Una routine faticosamente costruita giorno dopo giorno su cui si basava il suo fragile equilibrio psico-fisico.
Trovava irritante essere in quel luogo e non a casa sua, come trovava irritante essere circondato da persone che non conosceva: e per quanto i due colleghi avessero tentato più volte di distrarlo parlando di qualcosa, Isaac non riusciva a non trovare irritante anche loro due.
Si riscosse dai suoi pensieri quando la porta dell’ufficio si aprì, lasciando uscire un tipetto nervoso che tentava di non guardare nessuno dei presenti in faccia. Isaac non poté fare a meno di alzare gli occhi al cielo quando Nora e Andrè, in uno dei più classici esempi di deformazione professionale, cominciarono a scommettere su che cosa stesse rendendo il tipo così tanto nervoso: era uno scompenso ormonale oppure l’effetto collaterale di qualcosa che prendeva?

“Isaac Dee.”

Isaac alzò gli occhi verso la donna che lo aveva chiamato, osservandola per qualche secondo. Voce fredda, capelli neri legati in una rigida treccia che scendeva fino all’altezza dei fianchi, occhiali con spessa montatura nera, deprimente tailleur grigio: quella donna sapeva da assistente sociale.
Senza perdersi in inutile chiacchiere con i due colleghi Isaac si alzò in piedi, seguendo la donna all’interno dell’ufficio. Squadrò rapidamente il nuovo ambiente in cui si trovava, quindi si sedette sulla sedia libera, di fronte a tre uomini all’apparenza decisamente stanchi. 

“Lei è Isaac Dee, giusto?”

A parlare era stato l’uomo, fra i tre, più a sinistra: occhi leggermente arrossati, sorriso tirato e voce impastata, probabilmente in quei giorni aveva lavorato parecchio.
Isaac annuì, come al solito parco di parole. La donna che poco prima l’aveva chiamato nell’ufficio cominciò a scrivere qualcosa, ma Isaac decise di ignorarla, concentrandosi nell’aspetto fisico dell’uomo: la fede al dito, segno che era sposato, la stanchezza, segno che aveva lavorato per molto tempo, insieme significavano forse che il suo matrimonio era in crisi? Oppure, molto più romanticamente, la moglie era morta e lui si stava buttando nel lavoro?

“Dalle informazioni da noi raccolte, lei entrò in un orfanotrofio controllato dal Coma F.cor a dieci anni. Frequentò il programma di recupero giovanile e divenne biologo del terzo livello. Esatto?”

Isaac annuì nuovamente, aspettando pazientemente una nuova domanda.
La donna si schiarì la gola, attirando l’attenzione di Isaac che, come aveva già fatto con l’uomo assonnato – come lo aveva ribattezzato fra se e se – , cercò di analizzarla e trovare quanti più particolari possibili: la conclusione di questa sua piccola indagine si limitò a confermare ciò che aveva pensato fino a prima, ovvero che lei era un assistente sociale e che il tailleur grigio che stava indossando era quanto di più triste fosse stato creato.

“Nella sua scheda è stato riportato che ha sofferto di depressione.”

La voce non aggiungeva altri particolari degni di nota al quadro che Isaac si era fatto: un’assistente sociale, probabilmente una che lavorava da più di dieci anni in quel campo. Seduta in modo rigido, uno sguardo freddo, un continuo scribacchiare- sicuramente preferiva il lavoro d’ufficio a quello a contatto con la gente.
E la gente ricambia
, pensò Isaac guardandola negli occhi.

“Allora ero un adolescente.” Biascicò Isaac, tenendo la voce bassa. “Gli adolescenti sono depressi.”

Quella frase lasciò i tre uomini decisamente perplessi, ma la donna continuò a scrivere, imperturbabile.

“Nella sua scheda è riportato anche che a quei tempi soffriva di una malattia grave.”

Isaac piegò leggermente la testa d’un lato, socchiudendo gli occhi, quasi a cercare di vedere cosa si celasse all’interno della mente di quella donna: stava cercando di vedere se il programma funzionava o voleva screditarlo di fronte a testimoni?

“Studiavo fino a tardi, cosa che mi portò ad una grave forma di insonnia. Colpa mia. Dubito che il programma traesse giovamento da un mio crollo nervoso.”

La donna lo guardò negli occhi: sembrava stesse cercando qualcosa nella mente dello scienziato, qualcosa che fosse fuori posto e che potesse diventare un punto a suo favore. Ma l’ispezione non durò che pochi secondi, alla fine dei quali tornò a scrivere sulla sua cartella.
Uno dei tre uomini – quello al centro, a destra del tizio stanco – si schiarì la voce, tentando di attirare l’attenzione di Isaac. 

“La scheda afferma che lei è uno scienziato del livello Gamma. Può spiegarci cosa significa?”

La voce dell’uomo era controllata, tentava di nascondere la stanchezza e di darsi un contegno. Gli abiti erano puliti e senza pieghe, impeccabilmente stirati, eppure non aveva alcuna fede al dito.
A quanto pareva, quello era un uomo sposato al suo lavoro.

“L’azienda divide gli scienziati in tre categorie. Nella sezione Alpha vi sono i nuovi arrivati, hanno lavori di poca importanza e sono, per così dire, la base della piramide. Prendono ordini dalla sezione Beta, in cui fanno parte gli scienziati più esperti. Nella sezione Gamma ci sono i migliori dipendenti, che lavorano ai progetti più importanti. È solo questione di tempo perché un dipendente del livello Alpha passi al Beta, ma non è detto che dal livello Beta si passi al Gamma: ci vuole un talento particolare e un discreto attaccamento all’azienda.”

Isaac aspettò pazientemente che avessero finito di scrivere tutto ciò che aveva detto. Non era abituato a fare discorsi così lunghi e le corde vocali stavano formicolando fastidiosamente: tuttavia non aveva intenzione di massaggiarsi la gola, almeno non davanti a quattro persone che sembravano analizzare tutti i suoi movimenti alla ricerca di un segno di squilibrio mentale.
L’uomo sposato al suo lavoro sembrava notevolmente interessato a quel discorso, o almeno così sembrava da com’era cambiato il suo sguardo.

“Se al livello Alpha lavorano su prodotti semplici e nella sezione Beta su cose più complicate, perché c’è anche la sezione Gamma?”

Isaac stette in silenzio per qualche attimo, cercando di pensare a cosa rispondere senza però tradire i suoi datori di lavoro: cosa poteva rivelare e cosa no? Cosa poteva essere sfruttato contro l’azienda?

“Gli scienziati al livello Beta non hanno abbastanza esperienza per entrare nella sezione Gamma, ma sono più capaci di un dipendente della sezione Alpha. Questione d'ordine.”

L’uomo sembrava soddisfatto dalla spiegazione generica che aveva offerto Isaac, e lo scienziato trattenne a malapena un sospiro di sollievo: si era tenuto sull’ovvio, in modo che la frase fosse esauriente e non tradisse nulla di importante, e straordinariamente il risultato era stato il più roseo fra quelli che aveva immaginato.
Appena prima che Isaac potesse realmente cominciare a rilassarsi, però, il terzo uomo, quello all’estrema destra, si sporse in avanti per chiedere qualcosa.
Lo scienziato non riuscì a controllare la sua personale deformazione e, come aveva già fatto con gli altri tre, cominciò ad analizzarlo: le occhiaie erano un ovvio segno di sonno arretrato, il colletto sbottonato indicava nervosismo.
Assieme, quei due segni dovevano significare qualcosa, ma Isaac si stupì nel constatare che il suo brillante cervello non riusciva a comprendere cosa.

“Ma di cosa trattate, specificatamente?”

La voce era normale. Non riusciva a cogliere nessuna sfumatura particolare.
Isaac si trattenne dal portare una mano alla tempia: la fronte aveva ripreso a pulsare dolorosamente, come se stesse andando in sovraccarico. Era come se stesse osservando un rebus e la soluzione fosse li, evidente, ma i suoi occhi non riuscissero a decifrarla.
La domanda. Pensa alla domanda.
Isaac inspirò profondamente, cercando di concentrarsi sulla domanda che l’uomo gli aveva appena posto. Il mal di testa continuava ad aumentare e le sue capacità dialettiche cominciavano a risentirne: le parole, che di solito sarebbero venute dopo pochi istanti, in quel momento apparivano a rilento, facendosi strada nella fitta nube di dolore che era ormai diventata la sua mente.

“Questo- non posso dirlo.”

La risposta era troppo breve, troppo vaga perché i tre non facessero altre domande per indagare. Isaac si sforzò di pensare a qualcosa da aggiungere, ma la mente sembrava essersi ribellata al suo controllo, troppo occupata a cercare nell'aspetto dell'uomo qualche indizio circa il suo carattere: qualsiasi particolare veniva analizzato, dal movimento delle mani a come stava spostando il peso sulla sedia- persino se le pupille si stavano dilatando.
Isaac sentì il cuore perdere un colpo mentre registrava quell’informazione: l’uomo aveva le pupille a spillo.
Di colpo la sua mente si raffreddò, finalmente giunta al logico risultato che tanto cercava: le occhiaie, il nervosismo appena accennato, la miosi, tutti erano possibili sintomi d’astinenza. 

“I nostri prodotti sono ancora in via strettamente sperimentale e in quanto tali segreti. Potrebbero divenire accessibili fra qualche mese così come fra un paio d’anni.”

 Isaac aveva capito da tempo che il modo migliore per interrompere un discorso era non dire niente come se stesse effettivamente rivelando qualcosa, evitando di mentire: in quel modo le due parti in causa si ritiravano soddisfatte, una garbatamente presa in giro, l’altra al sicuro perché ciò che aveva detto era vero.
Quella semplice regola funzionò pure quel giorno: l’uomo tornò ad appoggiare la schiena sulla sedia, soddisfatto, e Isaac cominciò finalmente a rilassarsi.
Così facendo si ricordò di quanto reputasse seccante essere in quel luogo, di quanto avrebbe preferito essere al lavoro e di come trovasse irritante dover parlare con qualcuno per più di cinque minuti: finalmente si ricordò che non ne poteva più d’essere li, e quando vide che la donna si stava preparando a fare una nuova domanda Isaac decise che n’aveva avuto abbastanza.
 
“Lei-”
“Vi pagano ad ore, per caso?”

 Gli occhi della donna si sgranarono leggermente quando udì la domanda che Isaac aveva posto con voce calma e compassata. Sbatté le palpebre, come a convincersi che non era stato frutto della sua immaginazione, quindi serrò le labbra, cercando di nascondere la sua evidente irritazione con la maschera d’indifferenza che aveva mantenuto fino a poco prima.

“Siamo noi che poniamo le domande, mister-”
“Certo, certo. È solo che voi continuate a chiedermi cose che non centrano con il Programma, quindi era logico presupporre che volevate soltanto perdere tempo con domande inutili per gonfiare la vostra busta paga.”

Per quanto Isaac si fosse mantenuto su un tono cortese, i tre uomini capirono subito che quello era un avvertimento: dovevano smettere di fargli perdere tempo.
La donna, invece, sembrava sorda alla minaccia, tanto che ricominciò a scrivere nella scheda che aveva sotto mano: il continuo muoversi della penna in un qualche modo disturbava Isaac, che si convinceva ogni momento di più che doveva andarsene.

“Per tornare al discorso originale, il Programma mi ha dato un’istruzione e un lavoro che adoro: che dalla sapiente analisi della… dell’assistente sociale qui presente venga fuori che io sono sbagliato, quello è un altro conto. Arrivederci.”
 
Detto ciò Isaac si alzò in piedi, facendo un leggero cenno con la testa a mo di saluto, e s’incamminò verso la porta. Sapeva che aveva ancora pochi attimi, prima che uno dei quattro si riprendesse dallo stupore e dicesse qualcosa, ed Isaac preferiva sfruttarli per scappare ed evitare qualsiasi ulteriore spreco di tempo: voleva solo tornare a casa e dormire.

“Io sono una psicologa.”

Isaac aveva già sposato la mano sulla maniglia quando la donna disse quella frase. Si fermò, lasciando che ogni sillaba gli rimbombasse nella mente e perdesse qualsiasi significato logico, quindi si voltò verso di lei. Di nuovo analizzò tutti i particolari di quella donna, inarcando un sopracciglio in segno di sorpresa quando, per la seconda volta, giunse alla conclusione che doveva sicuramente essere un’assistente sociale.
Poi scrollò le spalle, disinteressandosi alla faccenda.

“Capita.”

Prima che la donna potesse dire qualcos’altro Isaac era uscito dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle.

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Capitolo 3
*** Capitolo Due: Katana? ***


Shamelos

Ringrazio Chibi, come al solito, per aver letto questo capitolo.
Ringrazio i Rammstein, Nirvana, Gorillaz e i The Cure per aver creato delle così belle canzoni.
La mia creatività vi è debitrice.
E... ringrazio chi ha letto questa storia, anche se
non la considera degna di una recensione.
ç_ç

(_/-*+è_é+*-_)

Nel corso degli anni le città erano cambiate. Si tentava di risparmiare quanto più spazio possibile per mantenere intatto la maggior parte dell’ecosistema: gli edifici erano quindi sviluppati in altezza, tanto che il cielo era spesso ridotto ad essere soltanto un piccolo quadrato azzurro sopra le teste delle persone.
Le piante che erano state salvate in quel modo sarebbero però sicuramente morte perché perennemente all’ombra- o almeno, avrebbero rischiato, se le strade non fossero state realizzate in una strana materia scoperta dalla Sehen inc. qualcosa come duecento anni prima.
La materia sembrava liquida, ma in realtà diveniva compatta dopo due ore di contatto con l’aria: facile da lavorare e notevolmente leggera, era rialzata rispetto il livello del terreno grazie a dei sostegni ai lati. Caratteristica più importante era che assorbiva luce solare e la liberava a poco a poco: così facendo dava alle piante il nutrimento necessario e allo stesso tempo emetteva una luce costante, il cui colore poteva variare dall’azzurrino all’arancio vivo.
Perché ciò fosse possibile la sostanza, nelle prime fasi di lavorazione, veniva costantemente tenuta sotto il sole: la carica non era però eterna, così quando la luce cominciava ad affievolirsi – solitamente dopo un anno – la materia doveva essere presa e riportata in un luogo assolato.

 ---*---

Per quanto non avesse particolari preferenze in fatto di colori, ad Isaac piaceva la luce azzurrina che emanava la strada.
L’azzurro era un colore non troppo forte, che non gli dava fitte alla testa, ed in un qualche modo gli ispirava calma: senza contare che, con gli effetti che creava la luce sui muri degli edifici, dava l’illusione di essere sott’acqua.
Forse fu per quello che si bloccò per qualche secondo quando si rese conto di avere i capelli bagnati: per pochi attimi prese seriamente in considerazione la possibilità di trovarsi sott’acqua, ma ben presto la sua mente logica riprese il controllo e realizzò che stava semplicemente piovendo.
Lo scienziato si strinse nel cappotto, cercando di ricordare perché non aveva portato l’ombrello quando sapeva che in quella stagione la sera non faceva altro che piovere, soltanto per ricordarsi che il motivo erano stati i suoi due colleghi: il pomeriggio gli avevano promesso che l'intervista sarebbe stata questione di cinque minuti, cosa che ovviamente non era stata. Isaac borbottò fra se e se, ficcando le mani in tasca nel vano tentativo di scaldarle: quando Nora ed Andrè l’avevano detto lui se l’era sentito che non avrebbe dovuto fidarsi di loro, ma si era lasciato ingannare dal fatto che nel pomeriggio c’era la telenovela preferita dei due e che per nulla al mondo se la sarebbero persa- almeno, così pensava.
Cominciò a camminare, tentando di ignorare che il suo cappotto era ormai diventato una spugna pregna d’acqua. Non aveva nemmeno la macchina perché a portarlo era stato Andrè. 
L'idea di aspettare i due colleghi per farsi accompagnare a casa stuzzicò Isaac per qualcosa come una frazione di secondo, alla fine del quale optò per camminare quanto più velocemente possibile verso casa. Lui sapeva che i due sarebbero stati lieti di accompagnarlo a casa, ma era riuscito a nascondere ai colleghi il proprio indirizzo e avrebbe preferito continuare in quel modo- senza contare che prima di poter rivedere l’ascensore del grattacielo in cui abitava l’avrebbero sicuramente costretto a fare un giro per qualsiasi locale ancora aperto.

“Non avete inventato qualcosa per coprirvi dalla pioggia, voi del Coma?”

Per pochi attimi la sua mente registrò quella voce – maschile, decisamente ironica e a lui sconosciuta – come qualcosa di normale, nulla di più dello scrosciare della pioggia in quella spossante serata: fu solo dopo che si rese conto di avere vicino qualcuno che non conosceva.
Isaac si fermò, sgranando gli occhi prima di girare la testa verso lo sconosciuto. Colto alla sprovvista, tentava di mostrare meno panico di quanto ne provasse in realtà: se stava però mantenendo un buon controllo sul suo fisico, lo stesso non si poteva dire sulla sua mente. Non riusciva a trovare una logica risposta circa il perché una persona che non conosceva gli stesse parlando, ma in compenso stava analizzando qualsiasi suo particolare.
I vestiti, troppo di classe per essere indossati in una sera di pioggia, la cicatrice che tagliava la guancia, ovvio segno di una lotta finita male, i guanti di pelle nera e quel fazzoletto viola (un orrendo pugno in un occhio), tutto portava ad una sola logica conclusione.
Isaac emise un gemito, portandosi le mani alla fronte.

“Voi- avete di nuovo setacciato casa mia?!”

Isaac non riuscì a controllare il proprio tono di voce nel dire quella frase, che era quindi uscita stridula: se in un altro momento però lo scienziato si sarebbe disgustato di se stesso, in quel preciso istante non poteva fare altro che provare un brivido lungo la schiena nel rendersi conto che l’uomo aveva ristretto il sorriso d’alcuni denti.

“Lavori troppo, scienziato. Sei diventato paranoico.”

Il panico faceva agire Isaac in un modo strano: ad esempio non registrava minimamente il tono seccato nella voce dell’uomo perchè faceva troppa fatica nel tentare di nascondere qualsiasi prova fosse effettivamente in ansia- cosa che lo portava a scoppiare su cose da niente.
Fu forse per quello che non decise di fare la cosa più logica, in altre parole lasciar correre, ma preferì invece rispondere.

“Io vi ho visti! Eravate nel mio salotto!”

L’uomo sgranò gli occhi, colto alla sprovvista, e Isaac recuperò abbastanza autocontrollo da trattenersi dall’aggiungere che il disordine che avevano lasciato non li aveva aiutati a passare in incognito- un particolare inutile che sapeva sarebbe stato solo dannoso nominare.
Esaurito quindi qualsiasi altro argomento di conversazione Isaac semplicemente s’irrigidì, tornando ad analizzare qualsiasi movimento dell’uomo nel tentativo di capire se e quando era meglio scappare: l’aprire e il chiudere la bocca a mo di pesce era, ad esempio, segno che stava pensando a qualcosa da dire, ma la mano stringeva troppo forte l’asta dell’ombrello- il che non faceva sentire particolarmente a suo agio Isaac.
Alla fine, però, l’uomo si limitò ad uno sbuffo e ad una scrollata di spalle, come a dire che era solo una seccatura di poco conto.

“D’accordo. Non fa niente.” L’uomo borbottò qualcosa sottovoce, scuro in volto, poi riprese a parlare. “Voi scienziati avete fatto un errore nell’ultimo carico.”

Isaac ripercorse mentalmente il lavoro degli ultimi mesi, cercando qualcosa che fosse effettivamente fuori posto nelle cavie che avevano ricevuto: per quanto ricordava – e non era granché, contando che non gli importava di conoscere la vita personale di chi aveva attorno – erano per la maggior parte soggetti provenienti dalla prigione, solitamente degli assassini. La mafia non aveva portato nessuno.
E a parte il rientrare a casa una sera e trovarsi cinque uomini con passamontagna che setacciavano il salotto, non era successo molto altro.

“Voi credete che i miei datori di lavoro abbiano commesso un errore…” Isaac stava ancora cercando di ricordare se era successo qualcosa di strano quando, con tono scettico, aveva cominciato a parlare. “…E cercate a casa mia?”

L’uomo serrò la mascella, riducendo gli occhi a due fessure, in un’espressione che fece capire ad Isaac che era meglio lasciar perdere: tuttavia più ci pensava e meno capiva quale fosse il fantomatico errore.
Qualcuno avrebbe dovuto parlare di una misteriosa scomparsa, se davvero qualcosa non fosse andata come doveva. Isaac ripassò mentalmente qualsiasi discussione aveva sentito negli ultimi tempi, cercando di ricordare se gli era sfuggita una ‘scomparsa’ in cui poteva centrare la Coma, senza però nessun risultato.

“No, nessun errore. Voi non ci avete inviato nulla ed il resto è andato secondo le regole.”

Per quanto fosse ovvio che la risposta non facesse per niente piacere all’uomo – si poteva notare da quanta forza ci stesse mettendo nello stringere l’ombrello – parlare del proprio lavoro rendeva Isaac più calmo. Non era più spaventato, o, se lo era, almeno lo nascondeva molto meglio di prima.
Ben presto si tranquillizzò abbastanza da tornare a ragionare normalmente: subito cercò nuovamente nella propria memoria se nell’agitazione non avesse magari saltato qualcosa, dimenticato un discorso che potesse provare che alla Coma avevano fatto un errore, ma di nuovo non gli venne in mente niente.

Ascoltami bene.” L’uomo era riuscito, in un qualche modo, a suonare minaccioso con solo due parole, assicurandosi la totale attenzione dello scienziato. “La mia non era una domanda. Voi macellai avete preso qualcuno che non dovevate prendere e ora dovete ridarcelo.”

Isaac non poté evitare di fare una smorfia quando si sentì paragonato ad un macellaio.

“Forse è semplicemente scomparso. Forse siete voi gangster amanti di quelle... spade lo scienziato si fermò per un secondo, sottolineando, senza volere, il disgusto che aveva messo nell’ultima parola. “ad aver sbagliato.”

Pochi secondi dopo aver detto ciò Isaac si ritrovò contro un muro con una spada premuta sulla gola senza avere la minima idea di cosa fosse successo in quel brevissimo lasso di tempo.

“Si chiamano katane.”

Troppo confuso per tentare di scappare, con la schiena che urlava di dolore per il violento impatto contro il muro e una lama pericolosamente vicina al suo pomo d’Adamo, Isaac non riusciva a fare nient’altro che fissare l’uomo che, continuando a reggere l’ombrello, teneva in mano la spada: la rabbia lo aveva fatto diventare rigido come una statua, ad eccezione del braccio che, per via della forza con cui stava stringendo l’elsa, aveva cominciato a tremare impercettibilmente.
Era ovvio che fosse infuriato, ma Isaac si stupì di se stesso quando comprese che la cosa non lo impauriva: quando poi capì che non era turbato perché stava pensando all’informazione – il nome di quella ridicola spada- che l’uomo gli aveva appena dato cominciò persino ad essere impaurito da se stesso.
Alla fine, però, scrollò semplicemente le spalle. 

“Capita.”

L’uomo aggrottò la fronte, sorpreso dalla reazione di Isaac, e sembrò ammorbidirsi leggermente: rinfoderò la katana e prima che lo scienziato potesse tirare un respiro di sollievo lo afferrò per un braccio. Isaac fece appena in tempo ad emettere un gemito per il dolore che subito l’altro cominciò a camminare, trascinandolo con se.

“Forse sono stato un po’ troppo duro con te.” Isaac fece per rispondere, ma l’uomo lo fermò con uno strattone prima di continuare. “Continuiamo la discussione al caldo, d’accordo? Perfetto.”

Isaac aprì e richiuse la bocca, cercando qualcosa da dire: alla fine decise di rimanere in silenzio.
Socchiuse gli occhi, portando la mano libera – ormai gelida per colpa della pioggia – alla fronte e cominciando a massaggiarsi le tempie nel tentativo di placare il mal di testa che, se lo sentiva, tutta quella situazione gli stava provocando.
Mai come quel momento avrebbe preferito essere a casa sua.

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Capitolo 4
*** Capitolo Tre: Somnium ***


Incubus

Ringrazio Zerby per aver commentato. La mia prima recensione! Yay! *_*

Sono felice che la storia ti piaccia. Seriamente, sul secondo capitolo ci ho lavorato così tanto
che ho cominciato a detestarlo...
Uh, bhè. Questo capitolino è molto breve, ma, bhè, servirà in futuro. Almeno, spero.
Se non altro mi è servito a scrivere qualcosa che non mi costringesse a rimanere seduto davanti ad un computer
per due settimane- ti SODDISFA così tanto una cosa del genere! *__*
Grazie ai Kaizers Orchestra, che sono stati la colonna sonora di questo capitolino. Yay!

+*+-(*_*)-+*+

Isaac P.O.V.


È una valle in una foresta. I colori sono allegri, sembra quasi che tutto sia stato colorato con i pastelli. Ci sono degli animali, al centro, sembra che stiano giocando.

Sono spinto verso di loro. Mi guardano, sembrano felici: mi tirano a terra, facendomi sedere, e poi ricominciano a giocare. Penso stiano dicendo qualcosa, ma non riesco a capire cosa- c’è come una musica di sottofondo, qualcosa che non riesco a decifrare
Poi l’atmosfera cambia. I colori diventano grigi, soffocanti, ma le mie mani, per un qualche motivo, sono rosse. Riconosco subito quel tipo di rosso come sangue.
Quando alzo gli occhi capisco che il sangue è di uno degli animali. Ora è a terra, con uno squarcio alla schiena, e dietro di lui ci sono… io.
Cioè, non sono io. È una persona uguale a me. Ha delle profonde occhiaie, eppure non sembra stanco. Mi sorride.
Impugna un bisturi insanguinato, ma le sue mani sono pulite, candide. Lui ha ucciso l’animale, allora perché sono io ad avere le mani coperte di sangue?
La musica diventa più forte, e ora riconosco lo strumento che la suona: è un piano. Lui dice qualcosa, ma io non riesco a sentire cosa: allora indica me e poi se stesso.

-*-_-*-

Quando apro gli occhi mi ritrovo a fissare la luce che filtra dalla finestra. È ancora notte, in ogni caso non ora di andare al lavoro.
Sono le quattro. Erano anni che non mi svegliavo alle quattro, com’erano anni che non mi addormentavo senza l’aiuto di un sonnifero: d’altronde questa giornata è stata così stressante che non potevo non tornare a casa distrutto.
La cosa buona dei sonniferi è che non sogni. Non fai stupidi sogni a colori pastellosi con animali felici. Sinceramente, che razza d’incubo è?
Probabilmente, comunque, un senso c’era. I sogni sono rielaborazioni di ciò che ti è successo- anche se non riesco a capire cosa, precisamente, sia divenuto ‘bosco felice dove gli animali ridono e scherzano’.
Tasto il comodino alla ricerca di una scatola di sonniferi. Ho dormito quattro ore, ovvero tre in meno del solito, il che significa che devo tentare di recuperare prima che mi venga mal di testa.
Non ho mai realmente superato il problema dell’insonnia. Nove volte su dieci se mi devo mettere a letto dormirò solo cinque minuti. L’unico modo per tenere sotto controllo il problema è fare largo uso di medicinali: non so quanto il mio fegato sia contento, ma per lo meno quando sono in ufficio non mi metto a strillare perché convinto di essere in un incubo. Il vero problema è che, dopo dieci anni d’uso continuo, sono diventato resistente alla maggior parte dei sonniferi in commercio: in poche parole se volessi suicidarmi dovrei ingoiarne tre scatole.
Quando finalmente prendo la maledettissima scatola di sonniferi mi accorgo che è pericolosamente leggera: mi basta agitarla per capire che dentro non è rimasta una sola pillola.
Fantastico.
Lancio la stupida scatola in un punto a caso della camera: qualcosa cade a terra e si rompe.
La megera del piano di sopra comincia a battere sul pavimento, gridando qualcosa contro di me. È incredibile, quella donna non dorme mai: aspetta che io faccia un qualsiasi rumore – anche solo spostare una sedia trascinandola per terra – per poter strillare e battere sul pavimento. Probabilmente la sua vita consiste nel rendere la mia silenziosa.
Bel modo di cominciare una nuova giornata.

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Capitolo 5
*** Capitolo Quattro: Felix ***


Felix

Nessuno ha letto questo capitolo, quindi spero che sia decente. Ditemi cosa ne pensate.
Seriamente, ditemelo. Se mi dite che è terrificante lo riscrivo- fidatevi, lo faccio. Non so perchè, ma non riesco a convincermi neanche io di questo capitolo.
Poi, bisogna anche pensare che io sono l'essere umano senza autostima per definizione.
Rammstein, grazie per la vostra musica... e si, grazie anche ai Jack Off Jill.

(-_*.-*-.*_+_*.-*-.*_-)

La Yakuza era una famiglia mafiosa nata circa 50 anni dopo l’inizio della nuova era: a fondarla era stato Hideki Fukazaki. Fukazaki era uno straniero e parlava una lingua ormai estinta per colpa dell’incidente dell’Energia: da quella lingua proveniva il nome 'Yakuza'.
Hideki aveva formato una gang prendendo delle persone dalla strada e cominciando a muoversi nel mondo degli affari sotterranei: in quei tempi confusi la maggior parte del corpo della polizia era occupato nel ricostruire le città, così la gang agiva più o meno indisturbata.
Ci volle poco perché il gruppo diventasse sempre più ricco e potente. Fukazaki trasformò quella semplice gang in una vera e propria ‘famiglia’, imponendo ranghi e regole precise che dovevano essere rigidamente osservate: Hideki divenne il primo Oyabun della Yakuza e grazie ai suoi tre sottoposti (Carlyle, Jackson e Valera, rispettivamente nei ranghi di Wakagashira, Shateigashira e Saiko-komon) consolidò nei primi venti anni di operato il suo potere sul distretto sud-est della città.
La gerarchia era molto rigida: l’Oyabun era il boss, il capo assoluto, e sotto di lui vi era la triade, di vitale importanza per gli affari della famiglia. Il Wakagashira governava con i suoi uomini metà del distretto, mentre lo Shateigashira governava l’altra metà: il Saiko-komon, invece, era il consigliere del boss e responsabile della parte legale della famiglia.
Quando moriva l’Oyabun la triade aveva il compito di sceglierne uno nuovo e, nel breve lasso di tempo in cui la famiglia rimaneva senza un boss, dovevano governare al suo posto.
In quegli anni la legge era chiara: solo i discendenti di Fukazaki, Jackson, Carlyle e Valera potevano diventare membri del concilio o boss della Yakuza.
Nel 135, però, McMillan divenne un membro della triade e in seguito l’Oyabun, sfidando così le leggi stilate da Hideki.
Alcune regole cambiarono: da quell’anno in poi i Kyodai (uomini sotto il diretto controllo del Wakagashira e dello Shateigashira) potevano diventare membri della triade, mentre per essere nominati Oyabun bisognava far parte del concilio- il tutto senza guardare minimamente la famiglia d’origine.

*-.*.-*

 

Felix Carlyle, quando era piccolo, aveva riversato tutto il suo odio e la sua frustrazione su quella data.
Nella sua mente di bambino di sette anni era convinto che fosse colpa del 135 se doveva spendere tutti i suoi pomeriggi ad allenarsi invece che a giocare.
Agitava la spada – katana – imitando i movimenti che il maestro gli diceva di compiere, ripeteva ogni giorno gli stessi identici kata, sparava ai bersagli cercando di ignorare il dolore alle braccia o il peso della pistola, e intanto pensava a quanto odiava quella stupida data.
Non potendo però vendicarsi di una data ogni volta che combatteva contro un avversario – sempre qualcuno più grande - si sfogava su di lui: forse era per questo che, alla fine, era Felix quello che vinceva più spesso.

Quando, a tredici anni, si ritrovava alle quattro del mattino sopra i libri di scuola, non poteva fare a meno di strappare le pagine in cui si narrava la storia della scalata al potere di McMillan.
Aveva a malapena la forza di sorridere, quando i suoi compagni di classe, vedendo gli eccellenti voti che puntualmente prendeva, lo chiamavano genio. Non riusciva a capire come nessuno avesse mai notato le terribili e profonde occhiaie che aveva ogni mattina, o come il suo sguardo diventasse sempre più vuoto a mano a mano che l’ora procedeva: sapeva solo che gli allenamenti e lo studio lo distruggevano abbastanza da farlo collassare sul letto ogni volta che aveva cinque minuti liberi.
E certo, sapeva che non era colpa di McMillan se lui doveva studiare e allenarsi: d’altronde, se Felix fosse stato veramente un genio, allora non avrebbe dovuto passare una notte insonne sui libri, mentre se fosse stato veramente un talento naturale nella lotta non avrebbe dovuto allenarsi così tanto. Tuttavia, ogni volta che sul suo libro di storia arrivava al capitolo dieci e leggeva ‘McMillan’, Felix non poteva fare altro che sotterrare il nome sotto litri di inchiostro.

A diciannove anni aveva ragionato sul fatto che, prima del 135, tutto era molto più semplice: ad esempio, prima del 135, il solo essere un Carlyle gli dava il diritto di essere un membro della triade. Appena fatto quel pensiero gli venne voglia di bruciare il libro dei codici della Yakuza.
Un giorno i suoi genitori lo avevano chiamato per parlargli. La madre gli aveva ricordato che, sì, i voti e l’allenamento erano importanti, ma che contava anche il patrimonio personale: quindi doveva lavorare sodo e prendere una borsa di studio per salvare l’immenso patrimonio di famiglia.
Da quel giorno fino all’esame di maturità le ore di sonno di Felix si ridussero al minimo: c’erano giorni in cui tornava a casa dall’allenamento, si chiudeva in camera a studiare e ne usciva per andare a scuola, senza un solo minuto di riposo.
Quando finalmente ottenne la borsa di studio Felix si chiuse in camera e dormì per tre giorni- al diavolo l’allenamento, pensava, era la prima volta in dodici anni che saltava una lezione, poteva permetterselo.

Due anni dopo Felix era ammesso nella triade come Saiko-komon. Non avrebbero potuto scegliere un periodo peggiore: se rimanere sveglio fino a tardi per studiare al liceo funzionava, all’università era semplicemente una perdita di tempo. Non riusciva a stare al passo con le lezioni e sapeva che ci sarebbe voluto poco perché i suoi voti scendessero abbastanza da non renderlo degno della borsa di studio.
Non si scoraggiò: si diede da fare, si mise d’accordo per copiare qualche test e riuscì a finire l’università con dei voti sopra la media- anche se questo gli costò la perdita di qualsiasi vita sociale.

Quando si fu ripreso erano passati ormai quattro mesi.
Senza il problema della scuola le cose erano notevolmente migliorate: aveva un ragionevole orario di sonno e molto più tempo libero. Fu in quel periodo che cominciò a parlare davvero con la sorella e, bhè, con il resto del mondo.
Era da quando aveva sei anni che non aveva più avuto il tempo o la lucidità mentale di parlare con qualcuno e si stupì nel constatare quanto il contatto umano gli era mancato: amava stare con le persone, gli piaceva scoprire nuovi particolari su chi gli stava attorno ed adorava vedere le reazioni che i discorsi scatenavano in ognuno.
Sua sorella, poi, lo sorprendeva; aveva sempre pensato fosse solo una ragazzina irritante e scorbutica, mai che fosse un genio spietato e calcolativo. Lo divertiva scoprire quanto era ostinata se convinta di essere nel giusto, o ambiziosa nel parlare della Yakuza.
Fu solo qualche giorno dopo, mentre compilava una lista di testimoni da eliminare – suo padre aveva deciso che quello era un lavoro da Saiko-komon e Felix non volle obiettare – , che si rese conto che Emily era nata per quel lavoro: lei meritava di essere il consigliere, non lui.

 
A ventisei anni la sua ‘carriera’ politica subì una svolta grazie all’assassinio di suo padre e del Wakagashira: i colpevoli erano stati due poliziotti dal grilletto facile, la cui vita dopo l’incidente fu considerevolmente breve.
Felix si concentrò sul problema che la morte del Wakagashira e del padre avevano causato.
Già la morte di un Oyabun era una questione da risolvere in fretta: di solito causava dei disordini nelle schiere dei Kyodai che, se non controllati, avrebbero potuto portare a guai seri- ma se insieme al boss era morto anche uno della triade l’affare diventava terribilmente serio.
La triade era incompleta e quindi incapace di nominare un Oyabun, senza contare che una parte del distretto era rimasta senza controllo: come primo passo dovevano, quindi, trovare il nuovo Wakagashira.
La scelta era ricaduta su Curtis Jackson: era un amico di Felix e un discendente di una delle famiglie nobili – particolare che rimaneva pur sempre importante, anche se non più essenziale -, ma soprattutto Curtis era uno dei migliori combattenti della famiglia.
C’erano dei preparativi da fare per la cerimonia che avrebbe consacrato Jackson il Wakagashira della Yakuza, ma richiedeva dei giorni per i preparativi e non c’era abbastanza tempo: alcuni dei Kyodai si erano staccati dalla famiglia ed avevano preso il comando di alcuni gruppi di Shatei – ovvero uomini di rango inferiore –. In fretta e furia, quindi, il consiglio si riunì per nominare il nuovo Oyabun. La scelta fu ovvia.
I migliori voti, il migliore combattente, dotato di un vasto patrimonio e discendente dei Carlyle, Felix venne nominato boss ed Emily divenne la Saiko-komon non ufficiale.
Ristabilite le gerarchie, Felix poté finalmente concentrarsi su un piano per riportare l’ordine nella Yakuza.

 
Prima di tutto doveva essere sicuro di avere le giuste conoscenze: giudici, poliziotti, politici e presidenti di multinazionali. Non fu un problema: già da Saiko-komon aveva allacciato tutti i rapporti necessari.
Bisognava poi proteggere i guadagni della Yakuza – principalmente punti scommessa, ma non solo – ed evitare che finissero nelle mani dei ribelli. Non dovevano ottenere denaro e, quindi, potere. Di questo si occuparono Kyodai rimasti fedeli.

La triade poté così concentrarsi sui gruppi di ribelli. Alcuni di questi erano rimasti in proprio, nel vano tentativo di formare delle famiglie loro: non avevano alcuna protezione ed erano senza un campo preciso in cui investire, quindi potevano essere attaccati senza problemi.
Jackson si occupò di loro, per dimostrare le sue abilità come Wakagashira. Felix rimase piacevolmente sorpreso quando constatò la rapidità con cui si era mosso: era sempre stato convinto che Jackson era un uomo capace, ma non aveva mai pensato avesse un simile talento.

 
Nessun Kyodai cercò protezione nelle altre famiglie. C’era un trattato di pace, e nessuna mafia avrebbe voluto rischiare una guerra solo per un gruppo d’uomini del rango più basso della piramide.
Molti Kyodai si fecero però assumere come mercenari dalle corporazioni: quelli erano i più difficili da combattere in quanto bisognava calibrare ogni singolo attacco. Era vero che nessuna azienda si sarebbe mai preoccupata di difendere dei mercenari, ma se si rischiava di danneggiare la corporazione in un qualche modo, allora queste avrebbero usato il loro potere contro la Yakuza: un solo comportamento che poteva creare danno all’azienda e Felix sarebbe stato costretto a lavorare sul fronte dei mercenari e su quello politico. Non poteva permetterselo.

I piani procedevano abbastanza bene: certo, Jackson ed Emily non erano ancora ufficialmente Wakagashira e Saiko-komon, quindi Felix non era veramente Oyabun, ma mancava poco perché nella Yakuza tornasse l’ordine.
 

Purtroppo le cose non continuarono ad andare bene a lungo.
Felix stava tornando a casa dagli allenamenti quando una katana perforò il tettuccio della sua macchina: la sua prima reazione fu quella di inchiodare, cosa che fece volare l’assassino sulla strada.
Felix rimase per qualche secondo in estatica contemplazione dell’uomo con passamontagna sdraiato a pochi metri di distanza da lui, ma si risvegliò quando sentì il rumore di qualcosa che atterrava sopra la sua testa, sopra il tetto della macchina. Reagì di nuovo d’istinto: accelerò di colpo e svoltò nella prima strada che vide- poi perse i sensi.

--- 

Quando Felix si risvegliò capì di aver fatto un incidente. Doveva aver preso la curva troppo stretta, sbattendo contro il muro di un grattacielo: quello gli aveva fatto perdere il controllo della macchina che era così andata in testacoda.

Prima che potesse capire dove fosse finito il sicario qualcuno gli afferrò il braccio e lo strattonò fuori dalla macchina, gridando qualcosa che Felix non riuscì a comprendere- qualcosa che c’entrava con una bambina, se non si sbagliava.
Solo dopo essere stato ammanettato Felix capì di trovarsi d’innanzi a due agenti della polizia: aprì la bocca per protestare ma i due lo interruppero spingendolo nella loro macchina.

Fu quando si trovò seduto in prigione, con un polso gonfio e un dolore incessante al collo, che Felix comprese cosa avevano detto i due- e, per la prima volta nella sua carriera di mafioso, si ritrovò davvero nel panico.

"Una bambina! Hai investito una bambina, bastardo!”

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Capitolo 6
*** Capitolo Cinque: Sfortuna ***


Yakuza

Di nuovo, nessuno ha letto o corretto questo capitolo. Quindi, di nuovo, se è terribile ditemelo: posso modificarlo, cambiarlo, riscriverlo completamente.
Sempre se qualcuno legge o commenta questo capitolo, comunque. Uff.
Oh bhè. Ringrazio i Rammstein e i Kaizers Orchestra per avermi dato la musica. Inniettatemela direttamente nelle VENE! OçO

*-_).(_-*

In molti non reputavano importante il Saiko-komon. Mentre il Wakagashira e lo Shateigashira avevano il controllo del distretto, il Saiko-komon era un semplice consigliere che controllava la parte amministrativa della famiglia: alle sue dipendenze c’erano quindi i contabili e un consigliere legale, nominati rispettivamente Kaikei e Shingiin, ed infine gli avvocati.
Quello che in molti non sapevano era che spesso era lui quello che andava a stringere le giuste alleanze o che discuteva gli accordi con le famiglie nemiche- o che convinceva alcuni pezzi grossi a fare uno strappo alla regola per i protetti della Yakuza. Se questi accordi non andavano a buon fine allora il Saiko-komon si ritirava di buon grado dalla scena, dando le informazioni più importanti al boss e al resto della triade, e aspettava pazientemente che l’Oyabun agisse: quando poi i pezzi grossi telefonavano, impauriti o infuriati, per dire che accettavano l’accordo che veniva loro offerto, era il consigliere che li informava educatamente di quanto fossero felici di quel curioso cambio di piani.
Inoltre era al Saiko-komon che molti uomini della Yakuza dovevano le pene così brevi che ricevevano quando catturati dalla polizia: infatti, fra i vari dirigenti, politici e magistrati con cui era in accordo, c’era sicuramente un giudice disposto a chiudere un occhio.
Sfortunatamente per Felix era lui quello che aveva tutte le giuste alleanze.

*-_-* 

Quando sua sorella, il giorno dopo, venne a parlargli, lui sapeva cosa stava per dire. Emily era Saiko-komon da poco tempo, troppo poco per aver stretto un solo accordo utile: quello voleva dire che Felix era costretto ad aspettare un giusto processo e che doveva scontare una giusta condanna.
La sorella però lo tranquillizzò: il consigliere legale aveva assicurato che il suo era un semplice caso d’omicidio colposo, quindi la pena era, di per se, breve. Era poi un punto a suo favore il fatto che non fosse fuggito. Complessivamente non sarebbe dovuto rimanere in prigione per più di tre mesi: se poi si contava la bravura dell’avvocato della famiglia, allora la pena calava ulteriormente.

Il processo si svolse tre giorni dopo: il giudice ascoltò con calma i vari testimoni, guardò le prove che gli venivano affidate ed annuì nel sentire l’arringa dell’avvocato di Felix. Tutto sembrava andare secondo il meglio, insomma, almeno finché non rilesse il rapporto della polizia.
“Carlyle?” chiese il giudice, scrutando Felix con circospezione. “Lei si chiama Carlyle?”

Felix fu sicuro di aver visto un sorriso sul volto del magistrato quando questo disse, con voce forte e chiara, che era stato condannato a due anni di reclusione.
Vi fu un brusio nella sala: persino il procuratore non poteva credere ad una pena così esagerata. Dal canto suo, Felix non ebbe la forza di dire nulla quando due agenti di polizia lo scortarono di nuovo in prigione.

 -._.- 

“Due anni! Due anni!” Emily quasi gridava da quanto era infuriata. “Cosa diavolo è successo?! Che cosa gli è preso a quel giudice?!”

Felix sospirò, arrotolandosi una ciocca di capelli attorno ad un dito. “Quando ha letto il mio cognome deve aver capito che faccio parte della società e… e ha cercato di punirmi.”

“Ha capito che- ugh!” Emily affondò il viso fra le mani, per evitare di strillare. Quando riemerse sembrò aver ripreso il controllo. “Già il semplice fatto che fosse uno di quelle dieci persone nella città che crede nell’esistenza della società è incredibile- ma che sapesse persino il nome delle famiglie nobili ti dà da pensare, uh? Sei la sfortuna per antonomasia.”

“Favoloso, ho finalmente un soprannome!” esclamò Felix con esagerata allegria.

La ragazza alzò gli occhi al cielo, sospirando. “Già. Comunque non ti preoccupare: tempo due settimane e allaccerò le alleanze necessarie per farti uscire. Due anni! Dimmi il suo nome e, credimi, quel giudice avrà le ore contate.”

Felix scosse la testa. “No. Non abbiamo bisogno di attirare così tanta attenzione. Pensa solo a farmi uscire di qui- poi ci penserò io a rovinargli la reputazione.”

Emily portò le mani dietro la testa, schioccando la lingua, prima di dire “Come preferisci.”

*-_-.-_-* 

 

“Sarei potuta diventare una poliziotta. Intendo dire, starei benissimo con la divisa…”

Una settimana dopo Felix fu svegliato da quelle parole.
Nel corridoio della prigione due persone, un maschio e una femmina, stavano esaminando le celle una ad una, scrivendo qualcosa su delle cartelle, mentre parlavano del più e del meno mangiando gelatine. 

“E poi io con chi avrei diviso le mie ciambelle? Andiamo, Nora, devi ammetterlo: sei stata fortunata.” 

Felix cercò di capire chi potevano essere quei due. Non li aveva mai visti da quando era lì, il che, visto che era in prigione da poco più di una settimana, non voleva dire granché.
Non erano poliziotti, quello era sicuro: ma se non lo erano allora cosa ci facevano li? 

“No, tu sei stato fortunato: senza di me non avresti mai scoperto Sogni d’Amore. Lo sa persino Isaac che Andrè senza Sogni d’Amore è un Andrè triste e sconsolato.” 

Probabilmente erano due idioti, ma a maggior ragione: cosa ci facevano lì due idioti?
Felix si sdraiò su un lato, in modo da poter vedere i due sconosciuti mentre continuavano ad avanzare. Non indossavano una divisa, erano in abiti civili- cosa che, ovviamente, non diede nessun aiuto a capire che lavoro facessero.
Non riusciva a capire chi diavolo erano: non erano due poliziotti e non potevano essere della Yakuza, ma di sicuro non erano due persone normali che stavano facendo un giro. 

“Oh, siamo stati tutti e due fortunati, d’accordo? D’altronde, ciò che preferisco di Sogni d’Amore, è poter scherzarci sopra con te.” 

Nora ridacchiò alla frase di Andrè. “Ooh, che tenero! Quindi, se per una volta guardassimo un film invece che quella fiction…” 

“Ne morirei.” Completò Andrè, prendendo un’altra gelatina dal suo pacchetto. “Ormai non posso più farne a meno: Sarah riuscirà a dire a Ryan che Marion è sua madre, prima che lui le chieda di sposarlo? Jason non era morto? Qualcuno scoprirà mai che è stato Cippi il canarino ad ucciderlo?” 

Il duo si fermò di fronte alla cella di Felix, leggendo la cartella che avevano in mano. 

“Carlyle…” Felix s’irrigidì sentendo la ragazza pronunciare il suo nome. “Questo nome mi è familiare! Potrebbe essere…” 

“Colui che ci firma gli assegni ogni mese!” Esclamò Andrè, allegramente. 

Felix aggrottò la fronte: quelli erano due della Yakuza? Impossibile.
Si, ovviamente era impossibile. Lo stipendio, nella Yakuza, era sempre dato in contanti, mai in assegni. 

“Forte! Pensi che sia un cattivo momento per chiedergli un aumento?” Felix avrebbe voluto dire qualcosa alla ragazza, ma si ricordò appena in tempo che stava facendo a finta di dormire: quindi chiuse la bocca e si morse il labbro inferiore, tornando a pregare perché i due se ne andassero. 

“Ne avremo tutto il tempo dopo: siamo qui per lui.” 

Appena sentì la porta della sua cella aprirsi Felix ebbe un tuffo al cuore. Subito cominciò a pensare a cosa poteva fare: non sarebbe stato un problema stenderli, quello era sicuro, ma poi? Rimaneva comunque chiuso in prigione, e i poliziotti l’avrebbero ripreso subito.
Ma allora-

“Felix?” appena la ragazza lo sfiorò lui si alzò di scatto, spaventato dal contatto. “Ehi. Io mi chiamo Nora, mentre lui è Andrè.”

Felix non riuscì ad aprire bocca.

“Ti trasferiamo, Felix! Spenderai la tua pena fuori questa deprimente cella.” Andrè sorrise dicendo questo, prima di porgergli il pacchetto di gelatine. “Vuoi una?”

Scosse la testa, confuso. Lo trasferivano- voleva forse dire che c’entrava sua sorella? Se così era, bisognava ammettere che aveva fatto davvero in fretta ad entrare in contatto con i giudici.

___

Fu solo dopo, quando ormai erano di fronte all’entrata, che Felix chiese, finalmente, chi diavolo fossero i due.
Nora sorrise.

“Siamo due dipendenti della Coma F.cor.”

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Capitolo 7
*** Capitolo Sei: Denial ***


Denial

Felix era troppo confuso per capire in che guaio fosse finito. Sapeva delle cavie umane (era stato il Saiko-komon, era stato lui a spedire alcune persone alle multinazionali) ma non poteva essere possibile che lui fosse finito nella lista.
Quindi aveva accettato il cambiamento: non poteva essere nei guai, quindi quei due scienziati (quello avevano detto di essere) erano davvero venuti a prenderlo solo per fargli cambiare aria, e tutte le iniezioni che gli facevano erano davvero per calmarlo. Non poteva essere troppo illogico.
Andava bene. Nel perenne stato di stordimento in cui si trovava, Felix non sapeva dire quanti giorni erano passati da quando lo avevano portato lì. Non gli importava: la sua attenzione era tutta per gli incubi a cui era soggetto.
Sognava che degli scienziati facessero degli esperimenti su di lui. Sognava i più strani macchinari. Sognava il sangue- un mare di sangue. Ma in particolare sognava uno scienziato: alto e magro, indossava una mascherina che lasciava trasparire solo un paio di occhi azzurri.
Quegli occhi- la maggior parte delle volte erano stanchi. Ma ciò che più lo spaventava era quella scintilla di sadico divertimento che riusciva a intravedere dietro l'apparente freddezza.
Fare un lavoro simile era una cosa: divertirsi a farlo era tutt’altra faccenda.
Ma quello non era un suo problema, perché era ovviamente un sogno, ed era un sogno perchè Felix non poteva essere una cavia da laboratorio. Semplice.

-*/-*-

 

“Sick?” 

Isaac non sopportava quel soprannome. Era il terrificante ricordo di una nonmeno terrificante insegnante che aveva avuto la sfortuna di avere durante la sua adolescenza.
L’aveva ripetuto più volte che non sopportava essere chiamato in quel modo, eppure nessuno sembrava mai ascoltarlo. Ogni volta che qualcuno pronunciava il nome 'Sick', Isaac non poteva fare a meno di ricordare la sua professoressa mentre, con espressione acida, diceva che non c'era un soprannome più adatto. 

“Intendevo dire- Isaac. Colpa di Nora. Lei non fa altro che chiamarti così e-”
“Ehi!”

Isaac sbuffò, attirando nuovamente a se l’attenzione dei due colleghi.
Non amava le interruzioni durante il lavoro, ed odiava che a fargli perdere tempo fossero Nora ed Andrè: anche se bravi e capaci scienziati, i due davano sempre l’impressione di voler parlare di qualcosa di completamente inutile- cosa che lo irritava terribilmente.

“Uh… bhè, ieri sera avevamo deciso di fare un giro per la città, così, tanto per rilassarci dal lavoro…” 

A quella frase Isaac si degnò di girarsi verso i colleghi e di guardarli negli occhi, senza nemmeno cercare di nascondere lo scetticismo nel suo sguardo.

“Mi sfugge la parte del contratto in cui mangiare, ascoltare musica e spendere ore di lavoro a guardare una telenovela viene definito ‘lavorare’.”

Andrè, incomprensibilmente, si sciolse in un sorriso- come se, invece di una critica, Isaac avesse fatto loro dei complimenti. 

“Sai,” cominciò Andrè, battendo le mani una contro l’altra in un moto di allegria, “dovresti venire con noi qualche volta!”

Nora annuì con convinzione, attorcigliando una ciocca di capelli attorno all’indice. “Oh si! Secondo me ti scioglierebbe un po’. E poi potrebbe essere buono per la tua insonnia.” 

Isaac si trattenne dallo sbuffare una seconda volta, non osando chiedere cosa potesse far pensare ai due scienziati che andare in giro fino a notte tarda potesse riuscire a farlo dormire, e tentò di chiudere il discorso in fretta. “Si può sapere che volevate?” 

Andrè sembrò cascare dalle nuvole: spese qualche secondo a squadrarlo con sguardo perplesso, tentando di capire di cosa stesse parlando, prima che un minimo di consapevolezza riattraversasse il suo cervello. 

“Ah si! Bhè, ieri sera due tizi della Yakuza hanno cominciato a fare domande circa una cavia.”
“Dicevano che avevamo confuso in un carico.”
 

La sorpresa di Isaac era più perché i due colleghi l’avevano interrotto per qualcosa che era effettivamente importante piuttosto che per la notizia in se, ma decise di non rivelare quel piccolo particolare e piuttosto di concentrarsi sui fatti.
Sbuffò, appoggiando la testa sul dorso della mano sinistra. Trovava irritante che la mafia insistesse nel dire che loro avevano fatto un errore, e di sicuro non aveva la minima intenzione di ritornare un’altra volta a casa e trovarsi di fronte a cinque uomini con passamontagna e katana.
Tuttavia, doveva ammetterlo, la faccenda aveva qualcosa di interessante. Da quando alla Yakuza importava qualcosa di chi utilizzavano come cavia?
Da inutile seccatura poteva divenire, se ben sfruttata, un'opportunità per l’azienda. 

“Hm. I mafiosi sono un po’ strani ultimamente ma non sono così stupidi da tentare di fare del male ad uno di noi. E non abbiamo fatto alcun errore, circa le cavie.”

Nora ed Andrè annuirono e rimasero in attesa di un qualche ordine.
Isaac sospirò di nuovo, esasperato. Non amava avere più di una persona attorno a se per un tempo maggiore di trenta secondi ed i due colleghi non sembravano avere la minima intenzione di lasciarlo in pace. 

“Non avete del lavoro da fare?” chiese infine, cercando di far capire ai due che era il caso di andarsene.

I due non colsero il sottile suggerimento: al contrario, Nora prese il sacchetto di caramelle che aveva tenuto fino a quel momento nelle tasche del camice da lavoro e glielo porse, allegramente.

“Vuoi una?”

/*/-_-* 

A poco a poco, giorno dopo giorno, i farmaci cominciavano a fare sempre meno effetto. I momenti di lucidità si allungavano e diventavano ore: lunghe ore in cui Felix non faceva altro che guardare il vuoto, senza muoversi ne parlare, perchè, d’altronde, quello era un sogno, quindi non valeva la pena muoversi.
Non reagiva quando gli prendevano il braccio e gli iniettavano qualcosa nelle vene, non reagiva nemmeno quando i due strani scienziati entravano nella sua cella parlando di qualcosa di strano: era un sogno, solo un sogno, quindi l’unica cosa che doveva fare era aspettare il momento in cui qualcuno l’avrebbe svegliato.

“Felix?”

Non reagì. Non valeva la pena reagire. Probabilmente era solo l’ennesimo tentativo di capire se fosse morto oppure no. 

“Felix!” 

La voce era diversa dalle solite. Non era nessuno della Yakuza, ne era certo, eppure non era nemmeno uno degli scienziati che sognava in quegli ultimi tempi.
La voce- sembrava quella di una bambina. Cosa ci faceva una bambina in un suo sogno? 

“Feeeeliiiix!” 

Se si girava verso di lei probabilmente avrebbe smesso di chiamarlo.
Girò la testa verso la voce, appoggiando la guancia sul letto, e sgranò gli occhi alla vista della bambina.
Quella era sicuramente la prova che stava sognando. Ovviamente.
Il petto era schiacciato, il braccio destro piegato in modo innaturale, era completamente coperta dal sangue che le usciva dalle orecchie e dagli occhi- eppure sorrideva, come se in realtà stesse benissimo.

“Ti sei svegliato, finalmente!” 

Felix non si mosse. Quello era solo un sogno, un incubo, ovviamente non era reale e sicuramente sarebbe scomparsa presto. Sarebbe scomparsa presto.
Lei sorrise amabilmente, chinandosi verso di lui. 

“Alla prossima!”

La porta della cella si aprì e la bambina scomparve, come se non fosse mai esistita.
Felix corresse quel suo piccolo lapsus- la bambina non era mai esistita. Non era stata altro che un allucinazione. 

“Uh, Felix? C’è qualcosa che non va?” 

Un sogno. Anche la scienziata che lo guardava con quell’espressione preoccupata sul volto e una siringa in mano, anche lei era un sogno.

“…C’era una bambina.” 

Felix rimase interdetto dalla propria voce: roca, quasi arrugginita dal lungo periodo di riposo. Anche quello era solo il frutto della sua mente.
Era solo un sogno e l’unica cosa che poteva fare era aspettare il risveglio: quindi portò di nuovo la testa alla sua posizione originaria, tornando a guardare il soffitto della cella con sguardo spento.

 

*_--_* 

“Il 143-70 ha le allucinazioni.”

Andrè inarcò le sopracciglia, bloccandosi poco prima di portare alla bocca una ciambella per girarsi verso Nora e cercare di capire di cosa stesse parlando.
Lei gli indicò una cartella che aveva in mano, tentando di fargli riprendere la memoria, per poi sbuffare di fronte allo sguardo vuoto del collega. “Capelli castano-rossiccio, lunghi fino alla schiena, stato di catatonia apparente, sempre a guardare il soffitto…”

Qualcosa nello sguardo di Andrè sembrò illuminarsi, tanto che si sciolse in un sorriso e appoggiò la ciambella al tavolo. “Occhietti ambra!” esclamò, soddisfatto di se stesso e della sua memoria.
Nora annuì, mimando con la mano libera una riverenza. 

“Come fai a dire che ha le allucinazioni?” chiese infine Andrè, smettendo per pochi secondi di darsi delle arie.

Nora, come spesso faceva quando stava per dire qualcosa che reputava importante, schioccò rumorosamente la lingua. “Quando sono entrata aveva un espressione terrorizzata. Gli ho chiesto cos'era successo e lui mi ha detto che c’era una bambina.”

Andrè arretrò sulla sedia, sgranando gli occhi, sorpreso dalla notizia che la cavia avesse parlato: infatti quando andava a prelevarlo o gli iniettava qualcosa il ragazzo non si era mai mostrato particolarmente comunicativo, tanto che ignorava perfino le sue offerte di dolci- il che, per carità, non era un male contando che così ne aveva di più per se, ma era piuttosto strano. Di solito qualcuno strillava qualcosa in risposta.
Scosse la testa, tentando di concentrarsi su ciò che contava: perchè una cavia che non aveva mai accennato a voler comunicare con il mondo esterno decideva, improvvisamente, di nominare una bambina? 

“Potrebbe essere una reazione delle nanomacchine ai tranquillanti.” Disse Andrè prendendo di nuovo la ciambella e addentandone un pezzo.

Nora controllò la cartella del paziente e, nello stesso momento, allungò una mano per ricordare al collega il loro muto accordo di dividere i dolci. “Oppure potrebbero avergliele installate male.”

Andrè le mise una ciambella in mano, facendo un sorriso ironico. “In poche parole Sick avrebbe fatto un errore.”

Nora dischiuse le labbra per dire qualcosa ma rimase in silenzio, guardando l’amico con uno sguardo sorpreso. Non sapeva che fosse stato lui ad installare le nanomacchine nel corpo del paziente, ma se era davvero chi Andrè aveva detto che era allora era sicuro che non poteva esserci stato nessun errore nell’operazione. Sapevano tutti che Isaac non sbagliava mai.

“Potrebbe essere che le nanomacchine siano difettose. O che reagiscono male al paziente.”

Andrè rispose semplicemente alzando le spalle, segno che erano probabilità da prendere in considerazione ma che nessuna sembrava più giusta delle altre. 

“Propongo di eliminare i tranquillanti e osservarlo per qualche giorno. Se le allucinazioni continuano sarà evidente che il problema sono le nanomacchine- e saranno guai.”

Nora non poté fare altro che annuire grevemente, convenendo con l’amico. “Per cambiare le dosi dobbiamo chiedere un permesso, giusto?” 

Andrè si strinse le spalle, affondando comodamente nella sedia imbottita della sala ristoro. “Chiedi a Sick. Se Sick è d’accordo nessuno ci chiederà permessi.” 

Lei sbuffò, massaggiandosi il collo. Isaac aveva il privilegio di poter fare quello che voleva, con le sue cavie: l’azienda era sicura che non avrebbe mai fatto qualcosa che poteva andare contro i loro interessi ed era certa che i risultati sarebbero arrivati. Quello era anche il motivo per cui poteva essere considerato il capo, anche se, a fatti, era uno scienziato del terzo livello come tutti gli altri.
Nora si sedette nella sedia accanto a quella di Andrè, decidendo di avere il diritto di poter riposare, e prese il telecomando della televisione, accendendolo.
Andrè fece un sorriso a trentadue denti, come un bambino al suo settimo compleanno che riceve una nuova bicicletta.

“Sogni d’Amore!”         

-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-

Nota d'Autore: aye! Come al solito, nessuno ha commentato. Oh bhè.
Ad ogni modo, per chi legge: mi dispiace essere in ritardo, ma ho avuto diversi problemi. Ora sono di nuovo qui. Yay! Evviva. Yee.

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Capitolo 8
*** Capitolo Sette: Bargaining ***


Abaign

I tranquillanti non sembravano fare più alcun effetto.

Era ormai da giorni che Felix si sentiva normale: le sue palpebre non erano pesanti e non faceva fatica a pensare.
Bisognava però dire che in quei giorni Felix pensava soltanto alle mattonelle del soffitto, ormai ultima cosa che vedeva prima di cadere in uno stato di angosciosa confusione e la prima quando riprendeva conoscenza.
Non reagiva quando gli facevano le consuete iniezioni, come non reagiva agli insistenti tentativi della bambina (che non si  mostrava più orribilmente ferita) di farlo parlare con lei.
Felix continuava a ripetersi che era un sogno. Quando lei ridacchiava, quando giocava con la palla (dove diavolo l’aveva trovata?), persino quando rimaneva ferma a fissarlo per ore, lui continuava a ripetersi che era solo un’allucinazione, che era solo un tentativo di farlo impazzire e che doveva ignorarla. 

Non sussultò nemmeno quando la porta della cella si aprì per la prima volta nella giornata. O serata- non che Felix sapesse davvero se era mattina o sera o che altro.
Il rumore di patatine che scricchiolano l’una contro l’altra all’interno di un sacchetto gli fece capire, senza neanche doversi girare, che quello era uno dei primi due scienziati che aveva sognato: probabilmente il maschio, visto che di solito la ragazza si limitava a tenere dei biscotti nelle tasche.

“Ciao, occhietti d’ambra!” 

La voce era sicuramente maschile e quell’allegro saluto poteva appartenere solo al tizio con gli occhiali che mangiava ciambelle. Qualsiasi fosse il suo nome.

“Come vanno le piaghe da decubito?” 

Felix poté sentire la bambina, in un angolo della stanza, ridacchiare alla battutina dello scienziato: probabilmente ciò che l’aveva fatta ridere era il tono scherzoso dell’uomo, piuttosto che le parole in se.

“Andrebbero meglio se tu mi dessi una ciambella!” 

Quando la bambina sentì lo scienziato imitare la voce di Felix (con risultati piuttosto scadenti, a dire il vero) non poté trattenersi dallo scoppiare a ridere, probabilmente presa alla sprovvista per darsi un minimo di autocontrollo- o forse perché, alla fine, non le importava. Lo scienziato non la vedeva ne la sentiva: quella era un’allucinazione solo sua, a quanto pareva.

“Aww, vuoi ciambella piccolino? Ishi? Ishi? Gnammy gnammy!” 

Felix trovò in un qualche modo consolante constatare che persino in un sogno dove vedeva bambine fantasma c’era sempre qualcuno più pazzo di lui.

Lo scienziato sospirò, decidendo di smettere con il suo siparietto e di prendere, con la mano libera, una siringa dal camice. “Sai, occhietti d’ambra, dovresti ridere di più. E, bhè, dovresti mangiare.” 

Era sorprendente come lo scienziato sentisse il bisogno di parlare di qualcosa ogni volta che entrava nella sua cella- come d’altronde era sorprendente la sua costanza nel mangiare cibo spazzatura. Era probabile che fosse qualcosa che faceva con tutti gli altri pazienti, vista l’allegria che aveva dimostrato con la collega il giorno in cui erano venuti a prenderlo.

Come si poteva fare un lavoro del genere ed essere di buon umore?

“Non che mi lamenti, ma almeno non rischieresti la disidratazione. Andiamo, non è meglio bere acqua piuttosto della flebo?” 

Lo scienziato scosse leggermente la testa, fra se e se, quindi riprese il solito sorriso e si sedette accanto al letto, poggiando il sacchettino di dolci a terra per poi prendere il braccio di Felix. “Comunque, per adesso stai bene. Tristezza e apatia a parte. La siringa contiene glucosio: è accaduto un piccolo incidente che ci ha messo leggermente a corto di flebo, ma tutto si risolverà per domani.”

Non che quel fiume di parole avessero davvero un senso, per Felix. Per quanto i suoi voti dimostrassero il contrario, non aveva mai capito nulla di chimica e non aveva la minima idea di cosa fosse il glucosio: per quello che ne sapeva poteva essere anche una droga confezionata. 

“Felix.”

Felix s’irrigidì, preso alla sprovvista dalla voce della bambina: non solo non si aspettava che parlasse, almeno in quel momento, ma anche quel suo tono di voce. Era come se fosse in allarme per qualcosa.
Lo scienziato diede dei leggeri colpetti alla siringa, cercando di far fuoriuscire l’aria. “Rilassati, occhietti d’ambra. Non fa male.”

“Felix, non ascoltarlo!” La bambina stava gridando. Felix aggrottò la fronte, perplesso: la bambina non aveva mai gridato prima. “Ti vuole avvelenare! Lui e l’uomo alto, loro ti stanno avvelenando!” 

L’ago entrò nella carne del braccio: di solito Felix l’avrebbe appena notato, ma in quel momento il dolore gli sembrava persino insostenibile.
Lo stavano avvelenando? No, impossibile. Non era possibile che lui, un Carlyle, potesse credere anche solo per un secondo ad una allucinazione.
Di che uomo alto parlava?

“Felix,” la bambina saltò sul letto di Felix, alzando poi un pugnetto in aria in un disperato tentativo di farsi ascoltare, “fermalo!!” 

Lei abbassò il pugno quanto più violentemente le era possibile e Felix strillò, portando istintivamente la braccia alla testa, senza ragionare nemmeno un momento sul fatto che la bambina era solo un’allucinazione, che quello era un sogno, e che comunque il pugno di una ragazzina di neanche dieci anni non poteva fare troppo male.

A riportarlo alla realtà fu un secondo grido. Quando Felix, ancora leggermente spaventato, si fidò ed abbassò le braccia, si trovò di fronte allo scienziato che lo fissava con un’espressione terrorizzata, massaggiandosi spasmodicamente il cuore.
Felix aprì e richiuse la bocca, senza sapere cosa dire. 

“L-l’ago ha f-fatto m-male?” chiese infine lo scienziato, dicendo la prima cosa che gli semrbava vagamente sensata.

Felix, con gli occhi spalancati e senza sapere cosa fare, si limitò a fare la prima cosa che gli veniva in mente: annuire, non troppo convinto.
Lo scienziato accettò tale risposta senza fare ulteriori domande.

“O… Ok. Uh, tenterò di, uh, essere meno-” cominciò lo scienziato, fermandosi appena l’occhio gli cadde sulla siringa che teneva in mano: l’ago era ridotto ad un quarto della sua normale lunghezza e la punta era fin troppo irregolare. Si voltò di nuovo verso Felix, con una mezza idea di chiedergli se sapesse se il modello di base era progettato in quel modo, ma le parole gli morirono nuovamente in gola, mentre il suo volto veniva trasfigurato da una smorfia di orrore.
“Eeew!” fu tutto ciò che riuscì a dire. 

Felix abbassò lo sguardo verso il suo braccio, comprendendo perché lo scienziato fosse così disgustato: li dove prima aveva tentato di iniettargli… qualcosa era conficcato ciò che rimaneva dell’ago. Senza pensarci troppo lo tolse, maledicendosi subito dopo per il dolore.
Si bloccò, comprendendo in quel momento che stava sentendo dolore. 

Era un incubo. Si era ripetuto per… non sapeva neanche quanto tempo che era un incubo. Com’era possibile che sentisse dolore?

“Ngh… ok.” Lo scienziato inspirò profondamente, evitando accuratamente di fissare l’ago. “Prendo un’altra siringa. Torno subito. Vuoi qualcosa da mangiare…?”
 
Tentò di sorridere, riuscendo a fare solo una debole smorfia: era evidente che non avesse ancora superato lo spavento. Felix scosse la testa e lo scienziato non aggiunse altro, prendendo la porta di fretta.

“Blocca la porta prima che si chiuda, Felix.” 

Felix si voltò verso la bambina, spaventato: per un qualche motivo era convinto che fosse scomparsa, dopo il suo strillo.

“La porta, Felix!” 

La porta si stava per chiudere, si. Che importanza aveva? Non doveva essere un sogno quello? Eppure il dolore, riusciva a sentire il dolore- che cosa significava? Non poteva essere.
Non poteva essere.
Ma se fosse stato…?

“Blocca la porta!” 

Il grido lo riportò in se, facendolo scattare verso la porta, fermandola appena in tempo.
La aprì leggermente, spiando il corridoio, cercando se ci fosse qualcuno. Nessuno: lo scienziato doveva essersene andato, anche se probabilmente sarebbe tornato presto.
Quello era un buon momento per cercare di fuggire, ma Felix preferì fissare il corridoio per qualche altro secondo. Forse non doveva fuggire. Forse faceva meglio a rimanere nella stanza e chiudere la porta. Se l’avessero ripreso? Le cose sarebbero sicuramente andate peggio e- 

“Ehi!” esclamò Felix appena si rese conto che la bambina era scivolata fuori dalla stanza e che stava correndo per i corridoi, schiamazzando allegramente.

Uscì dalla camera per andare a prenderla e prima che se ne potesse accorgere la porta si era chiusa alle sue spalle: in quel momento non gli importava. La bambina faceva troppo rumore, avrebbe potuto richiamare l’attenzione di qualcuno e- e allora cosa avrebbe fatto?
La rincorse, sorprendendosi nel constatare che non aveva problemi a fare simili sforzi dopo tutto quel tempo che non si muoveva e non mangiava- quanto tempo? Tre giorni? Una settimana? Due mesi? 

Si maledì per l’ennesima volta, inseguendo la ragazzina in quel dedalo di corridoi. Gli sarebbe bastato fermarsi, rimanere in camera ed aspettare che sua sorella lo venisse a prendere.
Quante possibilità aveva di fuggire in un edificio pieno di gente? Senza neanche sapere a che piano era? 

Il suo flusso di pensieri fu interrotto da un improvviso, insolito rumore- un qualcosa come un ‘beep beep’ meccanico. Felix si morse il labbro inferiore, tentando di pensare ad un piano: perché se c’era un rumore, allora dovevano per forza esserci delle persone.

La prima cosa che gli venne in mente fu di nascondersi. Il posto ideale era quello che sembrava una specie di sgabuzzino: non ne era sicuro, ma la porta era sicuramente meno massiccia di quelle degli altri prigionieri (Dannazione, c’è n’erano persino degli altri) e meno elegante di quella delle altre stanze che aveva notato durante la corsa.
Deciso che quello era il migliore, nonché unico, piano, Felix scattò in avanti prendendo la bambina con una mano (lei strillò come se qualcuno volesse ucciderla: se avesse potuto, Felix avrebbe volentieri ragionato su quell’ipotesi tanto era il fastidio che tale urlo gli procurò) e si catapultò all’interno dello sgabuzzino.

Nello stanzino la ragazzina sembrò calmarsi. Felix fu grato di quella breve pace e si mise in ascolto dei rumori che provenivano dal corridoio.
Dapprima nulla. Felix non si tranquillizzava, rimaneva immobile contro la porta.
Poi dei passi. Due persone, forse tre. Parlottavano fra loro, ma non riusciva a sentire che poche sillabe.
Infine, di nuovo, il silenzio. Il rumore dei passi si era affievolito fino a scomparire, quel suono meccanico cessato. 

Felix si ricordò finalmente di respirare e buttò fuori l’aria, facendo poi cadere la testa contro il petto, mollemente. Quello era vero. Era inutile pensare che fosse un incubo, inutile sperare: non poteva risvegliarsi.
Eppure tentare di scappare sembrava ancora un suicidio. Sua sorella stava sicuramente lavorando per recuperarlo, ed entro poco lo scienziato strano avrebbe scoperto che era uscito e avrebbe dato l’allarme. Quante speranze aveva?
Senza armi non poteva sperare molto. Poteva stenderne qualcuno, certo: poteva pure minacciare di prendere qualcuno in ostaggio. Ma non sapeva dove si trovava, non sapeva dove fosse l’uscita. E poi era da solo contro quanti?
Non poteva fuggire. Non poteva fare nulla. Forse, se tornava indietro, non l’avrebbero ucciso.
Sospirò, portando le mani alla testa. Doveva tentare di scappare… anche se non c’era alcuna possibilità di vittoria. 
Alzò lo sguardo, ricordandosi in quel momento della bambina che, seduta sul pavimento, in quel momento stava cantando qualcosa. Felix gemette al pensiero che qualcuno nel corridoio potesse sentirla e trovarlo.
Lei era un altro problema. Lei era un elemento di disturbo. Lei-

“Bambina?”

Lei alzò il viso, sorridendogli. “Ciao, Felix!” 

Felix la guardò, rendendosi improvvisamente conto che la bambina sapeva il suo nome. Come faceva a saperlo?
Bhè, era una sua allucinazione, era ovvio che sapesse il suo nome.
Però... però prima l’aveva trascinata nello sgabuzzino: le sue mani avevano davvero sentito il calore della sua pelle, aveva davvero affondato la presa nella carne del suo collo. Che razza di allucinazione faceva provare simili sensazioni? 

“Cosa… Chi sei tu?” chiese infine Felix, tentando di convincersi che la sua voce stava tremando perché non la usava più da tempo e non per la paura.

La bambina batté le mani l’una contro l’altra, ridacchiando. “Non ti ricordi di me? Herzeleid Thompson?” 

Lui aggrottò la fronte, perplesso. Quel nome era familiare. Lo aveva già sentito da qualche parte, lo sapeva, ma dove?

Herzeleid si mise in piedi, sporgendosi verso di lui con un’espressione di disappunto esageratamente marcata sul viso. “Non ti ricordi di me, Felix?” 

Felix digrignò i denti, cercando nella sua memoria. Non aveva mai conosciuto nessuno con quel nome durante la sua adolescenza, quello era certo. Era troppo piccola per essere della mafia.
Quante volte nella sua vita era entrato in contatto con una bambina? Mai. Ne era sicuro, non aveva mai incontrato prima una bambina.
O forse… 

Lo stomaco gli si rivoltò al solo pensiero. Ma certo che era entrato in contatto con una bambina…

Lei fece un sorriso da un orecchio all’altro, mutando improvvisamente nella forma che aveva la prima volta che si era mostrata. “Lo sapevo che ti ricordavi di me, Felix!” 

Ciò che avvenne dopo fu così veloce da non arrivare nemmeno ad un minuto.
Felix era rimasto scioccato. Non poteva essere stato lui a fare del male in quel modo a quella bambina. Quella bambina non poteva essere un fantasma. Erano cose che non capitavano nella vita reale, e non potevano essere capitate a lui.
Herzeleid provò ad avvicinarsi, ridacchiando, e la reazione istintiva di Felix fu quella di avere paura: d’altronde che altro poteva volere da lui, oltre che ucciderlo?
Impugnò la prima arma che gli capitò sotto mano, presa da uno degli scaffali accanto alla porta: il momento dopo stava scavando nella carne della bambina, accoltellandola più e più volte, fin troppo terrorizzato per pensare seriamente a cosa stesse facendo.

Stava accoltellando solo una poltiglia informe di carne e ossa quando decise finalmente di fermarsi.
Tentò di rallentare il battito del proprio cuore, continuando a stringere spasmodicamente il bisturi. Respirava affannosamente, eppure non si sentiva male: non gli mancava ossigeno, non era stanco.
C’era qualcosa di strano, ne era certo. Ma prima che potesse seriamente pensare a cosa questo fosse, la porta dello sgabuzzino si aprì, facendo girare Felix di scatto. 

La stanza doveva essere un disastro. Gli schizzi di sangue della bambina dovevano aver raggiunto il soffitto.
Eppure lo scienziato - era ovvio lo fosse, visto il camice - non sembrava particolarmente colpito. Fissava Felix, con un occhio socchiuso e l’altro aperto, in un espressione perplessa: non era spaventato, solo sconcertato.
Sebbene molto alto (doveva superarlo di dieci centimetri come minimo) dava l’impressione di non essere forte: pallido, gracile e magrolino, Felix avrebbe potuto stenderlo benissimo se solo non fosse così terrorizzato dall’idea di essere stato scoperto.
Aveva i capelli biondo chiaro (una rarità, di quei tempi), corti, e gli occhi azzurri.
L’attenzione di Felix andò interamente sugli occhi dello scienziato. Dove li aveva già visti?

“Bisturi. Per favore.” Disse lo scienziato, interrompendo il filo di pensieri di Felix. 

Ci mise un po’ per capire che lo scienziato non aveva detto una parola a caso ma stava attualmente chiedendo di passargli un bisturi: non si fermò quindi a pensare che, forse, avrebbe dovuto semplicemente eliminarlo ed evitare il rischio, ma bensì, in un moto istintivo, gli passò l’arma che aveva usato con Herzeleid pochi secondi prima.
Lo scienziato prese il bisturi, facendo un cenno con la testa che Felix prese per un ‘grazie’, poi richiuse la porta.

Erano strani i pensieri che quella situazione altamente ridicola creavano. La cosa ancora più strana era che Felix li prendeva come seri. 

Forse, se rimaneva lì dentro, avrebbe potuto sopravvivere.
Forse, se non si muoveva, non l’avrebbero ucciso.
Forse avrebbe potuto rimanere lì.
Forse

Il suono di una sirena fendette l’aria, propagandosi con forza per tutto l’edificio.         

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Capitolo 9
*** Capitolo Otto: Anger ***


Anger

Nora raramente aveva visto il collega in quello stato.

Pochi minuti prima, mentre lei era sdraiata sul divano della sala relax a guardare una replica di Sogni d’Amore, Andrè era entrato nella stanza strillando che una cavia era fuggita. C’erano voluti alcuni minuti perché questo smettesse di gridare ed ingozzarsi di ciambelle.
Aveva tentato di rassicurarlo, di dirgli che lo avrebbero trovato, e per tranquillizzarlo aveva cominciato a cercare il fuggitivo. Lo sapeva benissimo che non potevano esserci molte speranze di trovare la cavia, senza contare che, seriamente, come potevano anche solo pensare di sopravvivere contro una persona a cui erano state piantate delle nanomacchine?
Tuttavia doveva fargli fare qualcosa. Andrè tendeva ad andare nel panico quando era in compagnia di qualcuno e non poteva fare nulla: un comportamento incomprensibile, visto che, in simili situazioni, quando era da solo riusciva sempre a ragionare a mente lucida.
Così lo aveva spinto in un ascensore e gli aveva detto che avrebbero cominciato a guardare dal piano in cui la cavia era stata rinchiusa. Il pensiero aveva contribuito a calmare il povero scienziato, tanto che aveva cominciato a lamentarsi dando un minimo di senso logico alle proprie parole.

“Sarò licenziato.” Andrè proruppe in una breve risata nervosa, abbandonandosi ad una delle pareti dell’ascensore. “Sono… così licenziato.” 

Nora scosse la testa, sospirando. “No non lo sei. Sei un eccellente scienziato. La nostra ricerca ha fatto passi da gigante grazie anche a te.” Sorrise, arruffando i capelli neri del collega. “L’azienda sa che sei un ottimo ingegnere genetico.”

Andrè fece un sorriso, ma si rabbuio subito dopo. “Sick mi ucciderà. Mi… mi asporterà qualcosa.” Alzò lo sguardo verso la ragazza, disperato. “Sick mi ucciderà!” 

“Non… non lo farà, Andrè.”

“Si che lo farà!” gridò Andrè, disperato. “Lui lo farà,” ripeté poi, portando una mano alla fronte e chiudendo gli occhi, colto da nausea improvvisa. “Ti ricordi cosa ha fatto a… al chimico.” 

Le faceva male vedere l’amico in quelle condizioni, eppure non poteva fare a finta che quell’ipotesi fosse ridicola. Isaac era conosciuto quasi più per i suoi ‘scatti d’ira’ nei giorni in cui era colpito da insonnia che per l’essere un genio.
Nora trattenne un sospiro. Aveva già visto Andrè piagnucolare in quel modo, anche se per cose molto meno importanti – o almeno, meno importanti per delle persone normali - , e sapeva che quello era il segnale che ci mancava davvero poco perché sopraggiungesse un attacco di panico. 

“Andrè,” cominciò lei, fermandosi quando le porte dell’ascensore si aprirono. Spinse l’amico fuori dall’abitacolo, assicurandosi che non vi fossero orecchie indiscrete, quindi riprese a parlare, abbassando la voce. “Non lo farà. Lo sai che in quel periodo non riusciva a dormire.”

“Io… si. Lo so. Ma forse-” 

“No, Andrè.” Nora continuò a guardarsi attorno, stringendo con una mano il braccio dell’amico e tirandolo in avanti, camminando il più velocemente possibile. Non sarebbe stata un’ottima cosa incappare in un altro scienziato, senza contare che Isaac, da quello che le risultava, stava lavorando. Nulla di più facile quindi incontrarlo e Nora non era granché brava ad inventare scuse: la mente creativa era Andrè, e sfortunatamente in quel momento stava meditando il suicidio. “Forse Sick non è il massimo, in quanto rapporti umani, ma deve essere davvero nervoso, stanco ed esasperato per fare una cosa del genere.”

Andrè deglutì un groppo di saliva. La nausea lo stava ancora assillando, e non era che l’ansia e il continuo tirare dell’amica lo stesse aiutando particolarmente, in quel senso. “Ma allora cosa mi succederà?”

“Prego?”

Aprì la bocca per dire qualcosa, ma per la seconda volta non uscì altro che una risatina isterica. “Non… non è possibile che io la passi liscia,” balbettò appena riuscì a riprendere il controllo delle proprie corde vocali. “La Coma potrebbe… potrebbe degradarmi. Ed io non voglio rifare la sezione Beta o… o peggio, la Alpha.” Gli sfuggì un singhiozzo, “n-non hai idea quanto ho lavorato p-per arrivare fin qui, Nora, non ne hai idea…” 

La ragazza si morse il labbro inferiore, sentendosi leggermente in colpa. Effettivamente no, non ne aveva idea: lei aveva fatto parte del programma, non aveva dovuto fare degli anni di gavetta “Non lo faranno, Andrè. Non possono mettere un dipendente come te in una sezione inferiore.”

“Potrebbero licenziarmi,” continuò Andrè. Nora non osò voltarsi verso di lui: il tono di voce dell’uomo ricordava tremendamente un bambino che sta per scoppiare a piangere. “N-non voglio essere licenziato, v-voglio rimanere con te e-e Isaac e… e il c-chimico strano e… e S-Sunny…” 

“Stai tranquillo, Andrè.”

“E… e se verrò licenziato,” lo scienziato aveva ripreso a tremare, “n-non c’è nessuna possibilità che Sick mi l-lasci andare. S-so troppe cose, potrei p-parlare, e a-allora l-lui mi…” 

Prima che Andrè si potesse rendere conto che l’amica si era fermata, Nora aveva appoggiato le mani sulle sue spalle e lo teneva fermo, costringendolo a guardarla negli occhi.
“Andrè, tu non verrai ne licenziato ne degradato. D’accordo?”

In quel momento risuonò una sirena nell’aria.

-

-:.:-+-:.:-

-

Quando Isaac aprì la porta dello sgabuzzino rimase ragionevolmente sorpreso nel constatare che dentro vi era nascosta una persona.
Per quanto fosse arrivato troppo tardi per sapere realmente cosa stesse facendo, era convinto che avesse appena accennato ad accoltellare qualcosa: cosa, visto che nello sgabuzzino c’erano solo loro due, allo scienziato non era dato sapere.

Chiunque fosse il tizio, non aveva un bell’aspetto: i capelli lunghi erano arruffati, i vestiti erano spiegazzati e emanavano un odore strano- un misto fra sudore e stantio, se qualcosa del genere poteva esistere.
Era ovvio che fosse una cavia. Non aveva l’aria di essere un dipendente, e la possibilità che un civile fosse riuscito a superare i piani del secondo livello erano nulle.

L’uomo sembrò essersi reso conto della sua presenza: si voltò, guardandolo con terrore, troppo sorpreso, probabilmente, per rendersi conto di essere armato.
Isaac calcolò velocemente quanto vantaggio poteva avere. La sorpresa avrebbe reso il tizio innocuo ancora per qualche secondo. Fare un gesto inconsulto quale tentare di disarmarlo era una pazzia: Isaac sapeva di essere troppo debole, ed era ovvio che una simile azione avrebbe messo in moto l’istinto di sopravvivenza del tizio… o l’avrebbe risvegliato completamente dall’estatica contemplazione- qualcosa da evitare, viste le povere capacità fisiche dello scienziato. Per lo stesso motivo non era una buonissima idea fuggire: oltre al fatto che non era molto veloce, se quello era un paziente a cui erano state piantate nanomacchine allora era semplicemente impossibile che riuscisse a scappare.
C’era un’unica cosa che rimaneva da fare. 

“Bisturi.” Disse Isaac, quasi fosse la cosa più naturale del mondo. Poi, resosi conto della propria maleducazione, si corresse: “per favore.”

Il tizio lo guardò con rinnovata sorpresa prima di passargli il bisturi con gesto meccanico.
Isaac chinò leggermente la testa per ringraziarlo, poi fece un passo indietro e chiuse la porta dello sgabuzzino.
Si girò a sinistra, percorrendo con calma parte del corridoio.

Dapprima il sollievo: lo soppresse subito. Non c’era nulla per cui essere sollevato.
Poi l’agitazione: e se il tizio stesse per accoltellarlo alle spalle?
Infine la rabbia. Di chi era la colpa? Chi aveva lasciato che una delle cavie fuggisse? Chi aveva messo in potenziale pericolo l’azienda?
Alzò il pugno destro e lo sbatté contro il pulsante per dare l’allarme, scaricando la propria furia in quell’unico gesto.

-

.:-+-:.*.:-+-

Nora ed Andrè furono i primi ad accorrere sul posto. Isaac li accolse facendo un lieve cenno con la testa, cercando di ignorare il fatto che Andrè era letteralmente sbiancato quando lo aveva visto.
I due sembravano essere più sorpresi dal fatto che fosse stato Isaac a dare l’allarme che dall’allarme in se: non c’era altro modo di spiegare l’espressione atterrita di Andrè, o lo sguardo vagamente idiota che Nora gli stava rivolgendo.
Alla fine fu però quest’ultima a ritornare per prima alla vita. “Qual è il problema?”
Isaac scrollò le spalle, accennando allo sgabuzzino in fondo al corridoio. “Cavia in fuga.”
Nora sgranò gli occhi, stupita, stringendo istintivamente il braccio di Andrè che stava, se possibile, diventando persino più cinereo.
Isaac socchiuse gli occhi, incuriosito dal comportamento dei due sottoposti: aprì la bocca per dire qualcosa ma Nora lo batté sul tempo. “Siamo in tre, no? Prendiamolo.” 

“No,” sussurrò Andrè. Isaac spostò lo sguardo verso di lui, sorpreso, quasi lo sentisse parlare per la prima volta in cinque anni. Lo scienziato abbassò lo sguardo prima di continuare. “Gli sono state installate delle nanomacchine particolari. Riuscirebbe a batterci senza sforzo.”

Subito dopo Andrè si rese conto di quale incredibile errore avesse appena fatto.
Isaac socchiuse gli occhi, assumendo un’espressione che già da sola bastava a far venire voglia al poveruomo di gridare aiuto, e Nora fu certa di aver visto un cupo scintillio nel bisturi che lo scienziato stava stringendo con così tanta forza. 

Le guardie arrivarono in quel momento, tranquillizzando in parte Andrè, ormai sull’orlo dell’infarto.

“Sgabuzzino,” biascicò Isaac, indicando la porta in fondo al corridoio. Le guardie annuirono, prima di imbracciare le pistole e scattare verso la direzione indicata. 

“Quindi, Andrè,” continuò lo scienziato con fredda cortesia, “potresti farci il favore di rivelarci chi è il fuggitivo?”

Andrè arrossì, abbassando lo sguardo. “Occhietti d’ambra,” sussurrò poi, stringendosi le spalle.
Si poté vedere, negli occhi di Isaac, un guizzo di puro e feroce odio.

“Oh, è il 143-70,” disse la ragazza, tentando con tutti i suoi sforzi di salvare l’amico. 

Un minimo di consapevolezza sembrò farsi strada nel cervello di Isaac, che infatti annuì fra se e se, pensoso. “Ah. Mutante.”

Nora sgranò gli occhi. “M-mutante?” balbettò lei, portandosi una mano alla bocca.
Isaac si sentì morire dentro. Quando la ragazza balbettava e tentava di nascondersi in un qualche modo non era perché stupita, o impaurita: no, era perché sapeva di aver fatto qualcosa di estremamente stupido.

“Si, Nora. Era scritto nella cartella.” Isaac scandì ogni lettera, facendo risuonare le sue parole nella mente della sempre più impaurita ragazza. “Su quelle nanomacchine abbiamo lavorato io e il tuo caro amico. Ne dovreste aver parlato, fra una soap opera e l’ennesima pausa dolci.” 

“E… è che, uh, per un qualche… curioso scherzo del destino,” Nora ridacchiò, fermandosi appena vide lo sguardo di Isaac assottigliarsi, “ero convinta che fossero solo le… sai, le nanomacchine base. Q-quindi…”

Si voltò verso Andrè, che la guardava senza capire. Lei sospirò. “Gli ho… uh… installato dei giocattolini e delle… specie di, uhm, ali.” 

Lo sguardo di Isaac si ridusse ad una fessura. “Hai installato delle ali su una cavia.”

“Ali… ovviamente, ehm, retrattili,” aggiunse lei, tentando di sorridere. 

La tattica non funziono. “Tu,” esclamò Isaac, riprendendo subito parte del proprio autocontrollo. Porto una mano alla tempia, cominciando a massaggiarsi la testa, fece un respiro profondo, e poi tornò a parlare, con tono più calmo. “Perché hai fatto una cosa del genere?”

Nora arrossì, facendo un istintivo passo indietro. “Perché… mi sembrava… ca… rino…” 

“Ungh!!” Il pugno, chiuso attorno al bisturi, prese a tremare violentemente. “Sono anche completamente inutili! Cosa diavolo pensi possa fare, volare?!”

“Uh…” lei si voltò verso Andrè, alla disperata ricerca di una risposta. Questo scosse la testa, veementemente. “…si?” 

“No!” sbottò Isaac. Andrè, con la bocca spalancata e gli occhi sgranati, rimase a fissare la ragazza, incredulo.

“Non lo sapevo!” esclamò Nora in risposta, tentando di disperatamente di difendersi. 

“Potevi chiederlo ad un biologo,” e Isaac si indicò con la mano libera, “che ti avrebbe risposto che la sola idea è ridicola perché gli esseri umani non sono aerodinamici e non hanno una coda!”

Lei alzò una mano, timidamente. “Ecco, approposito di code…” 

La scienziata fu interrotta da uno schianto in fondo al corridoio, dove la cavia aveva appena lanciato la porta dello sgabuzzino contro tre delle cinque guardie.

Il fuggitivo si voltò verso di loro, prima di colpire gli agenti rimanenti con delle mosse che, Nora ed Andrè ne erano quasi sicuri, sembravano essere prese da un film di lotta: persino il modo di correre verso di loro, piegandosi in avanti per prendere velocità, con le braccia leggermente sporte ai lati e gli artigli pronti ad attaccare, assomigliava ad una scena presa da un film di samurai.
I due aggrottarono la fronte, perplessi- artigli? 

Mimando un arco che partiva da sinistra, questo colpì Isaac con il braccio destro facendolo sbattere contro il muro: lo scienziato emise a malapena un gemito, prima di accasciarsi a terra.
Peggio andò ad Andrè: la cavia gli fece volare via gli occhiali e gli graffiò l’occhio sinistro, con un movimento che doveva sembrare uno schiaffo. Cadde a terra, gridando, mentre con la mano destra tentava di fermare il sangue.
Nora scivolò al suolo e il fuggitivo la sorpassò con un salto, atterrando a quattro zampe a pochi metri dietro di lei. 

Questo si alzò, squadrando i tre scienziati: Nora era troppo scioccata per fare qualcosa, Andrè continuava a tenersi l’occhio, tremando, ed Isaac era a terra che tossiva, probabilmente per il colpo preso al petto. La cavia si concentrò su Andrè saltandogli subito addosso, con una delle due mani artigliate in aria pronta a colpirlo una seconda volta.

Uno strano dolore alla gamba lo bloccò, facendolo gridare.
Abbassò lo sguardo: Isaac gli aveva piantato una siringa in un polpaccio, iniettandogli qualcosa. Infuriato, il fuggitivo gli diede un calcio, facendogli sbattere la nuca contro il muro. 

Approffittando di quel momento gli agenti, ripresosi, cominciarono a sparargli contro, distraendolo dai suoi propositi di vendetta: ringhiò, ricordando un animale inferocito, per poi scattare verso una delle porte in fondo al corridoio inseguito a ruota da tre guardie.

“A-Andrè?” balbettò Nora, non osando sporgersi in avanti. “Isaac?” 

Quest’ultimo tentò di tirarsi su usando le proprie braccia, riuscendo soltanto a farle tremare come gelatine. Ringhiò fra se e se, appoggiandosi contro il muro, prima di tossire un’ennesima volta.

Due guardie corsero accanto ai feriti, aiutandoli ad alzarsi: Nora, passato il momento di terrore, riuscì finalmente a rilassarsi, sentendo in risposta ogni muscolo del suo corpo gridare di dolore- riuscì ad alzarsi da sola, comunque, al contrario dei due colleghi. 

Isaac non sapeva cosa fare: se mettersi una mano sulla bocca per beneducazione, tentare di calmare il male alla nuca, massaggiarsi le tempie per sedare il terrificante mal di testa che aveva preso a tormentarlo più che mai o se battersi il petto nel tentativo di placare la tosse. Così decise di non fare nulla, rimanendo con un braccio bloccato dalla stretta della guardia, che tentava di aiutarlo a tenersi in piedi, e l’altra mano che frugava nel proprio camice. 

“I miei occhiali. Dove sono?” mormorò Andrè, lasciando la guardia e appoggiandosi al muro. Non che non riuscisse a stare in piedi con le proprie forze, ma non sapeva se potersi fidare di quel poco che riusciva a vedere in quel momento.
Alzò lo sguardo, cercando Isaac: non gli fu difficile capire chi era, contando che era l’unico biondo. 

“Grazie,” balbettò Andrè, facendo un sorriso.

Isaac prese una siringa dal camice e lo colpì con quella, iniettandogli il sedativo: Andrè ebbe a malapena il tempo di gridare per lo spavento prima di accasciarsi al suolo. 

Nora si lanciò verso l’amico ma si bloccò appena vide lo sguardo che Isaac le stava rivolgendo.

“Appena il tuo amico si risveglia, Nora,” mormorò questo con tono così freddo da farla rabbrividire, “digli che se la cavia riuscirà a fuggire, lui prenderà il suo posto. Chiaro?” 

Lei annuì, deglutendo a fatica.

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X inuziku_rukiaXP: Grazie per il tuo commento ^O^ Quanto ai Rammstein, non ti preoccupare: è da quattro ore che sto ascoltando Keine Lust a ripetizione ._. Forse posso cantare a memoria *_*

X Vitani: Stai tentando di farmi morire? No, sul serio. Stai tentando di farmi morire PER L'IMMENSA GIOIA CHE MI STAI PROCURANDO? *__*
Cioè, già una recensione all'ultimo capitolo mi fa morire di gioia ma... Una recensione ogni tre? Per farmi capire come vado? Io ho talento? Questo è... questo è... YAY!
E... e vogliamo parlare del fatto che HAI RECENSITO ANCHE ALTRE MIE STORIE? Cioè, io sono O_O e *__* e OçO e =ç=
Mi stai facendo sentire come una Mary Sue... con un espressione timida ma entusiasta ma imbarazzata però prostrata. Com'è una espressione prostrata? Non lo so. Però... =ç="

Mi dispiace per questo capitolo. Ditemi errori o quant'altro. By the way, scusa, Vitani, ma non so se riesco a rendere i precedenti capitoli meno impersonali ç_ç cioè... momentaneamente, non so se ci riuscirei ç_ç un giorno li migliorerò, ma non questo mese. Scusa ç_ç

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Capitolo 10
*** Capitolo Nove: Depression ***


Depression

Blaze Sunshine, il medico dello stabilimento, era pazzo. Non pazzo della serie ‘un po’ eccentrico’: era proprio un pazzo piromane.
Anni prima era uscito dall’università di medicina ed era divenuto un dottore. Dicevano che, più che essere bravo, tenesse molto alle persone.
Un giorno scoppiò un incendio nell’ambulatorio: Blaze, tentando di salvare i pazienti, rimase intrappolato e subì delle ustioni di secondo grado. Dopo pochi mesi si riprese.
Poi, un anno dopo, uccise la sua ex-fidanzata. La ragazza era stata legata e Blaze si era portato da casa l’arma del delitto, un coltello: la pena fu ovviamente l’omicidio premeditato, ovvero l’ergastolo.
Tuttavia già allora c’era qualcosa che non andava, nel comportamento di Blaze. Sorrideva, come se fosse felice. Continuava a dire che quella sera era andato dalla ragazza per sposarsi- ed effettivamente la scientifica aveva trovato un anello, al dito di lei.
Allo psicologo della prigione che visitò Blaze bastò una seduta per chiedere che fosse trasferito ad un manicomio criminale: ciò che mosse davvero i giudici, comunque, fu l’incendio che Blaze fece scoppiare nella mensa della prigione.
Il medico venne in seguito prelevato dalla Coma, ma quando poi vennero a sapere del precedente lavoro decisero di sfruttarlo in altra maniera- dopo, ovviamente, aver capito quanti problemi potesse dare. 

Così Blaze era tornato ad esercitare, allegro come non mai. Veniva seguito da uno psicologo che faceva in modo prendesse le sue medicine e, non contenti, gli avevano messo un collare che liberava una scossa elettrica se tentava di fare del male a qualcuno.
Erano in molti a pensare che una cosa del genere fosse esageratamente crudele, ma Blaze sembrava adorare quel collare e d’altronde non c’era mai stato il bisogno di azionarlo. 

Isaac non aveva mai avuto problemi a trattare con il medico. Si limitava a presentarsi per chiedere le ricette di alcune medicine e ad andarsene dopo poco, ringraziando.
Tuttavia c’era qualcosa che lo inquietava e quella era la passione di Blaze per il fuoco. Non che avesse paura che questo potesse, un giorno, decidere di far scoppiare un incendio all’intero stabilimento- semplicemente reputava seccante doversi difendere da un medico che vedeva nella cauterizzazione la risposta ad ogni male.
Senza contare che reputava il dover fare una visita medica incredibilmente seccante. Non che avesse mai desiderato evitarle, ma ai dottori bastava guardarlo di sfuggita per trovare milioni di problemi. Carenza di calcio, valori sballati, anemia- era piuttosto irritante, contando che in tutti gli anni che si portava dietro tali problemi non gli era mai successo nulla. Era come se i medici, vedendolo, volessero salvarlo da un male che non l’aveva mai disturbato. 

Quel giorno Blaze fece solo un breve accenno a quanto pallido fosse Isaac, poi lo fece sdraiare e si dedicò ad Andrè, che ancora non si era ripreso dalla siringa di tranquillante che gli era stata iniettata.

“Fredde, immobili, insensibili siringhe. Fuoco, Isaac! Il fuoco può risolvere molte cose- malattie, cicatrici, legami.” 

Nora tentò di mantenere il suo sorriso, ma non riuscì a nascondere una smorfia.
A lei e ad Andrè Sunny piaceva. Era folle, sì, ma c’era qualcosa, nella sua personalità, che attirava le persone. Era ciò che rimaneva di un fascino ormai sepolto sotto la pazzia, la prova di quale magnifico medico doveva essere stato.
Quello però non voleva dire che Blaze non riuscisse a farli rabbrividire.

“Per quanto io sia solamente un biologo, Blaze, devo farti notare che il fuoco non gli curerà l’occhio.” 

Isaac, al contrario, non aveva mai nessun problema. Sunny poteva dargli il nervoso, a volte, ma non lo spaventava. Non sembrava mai colpito dalle parole del medico.

Nora scostò lo sguardo pensando che, a dire il vero, Isaac non sembrava mai colpito da niente.

Blaze ridacchiò con quella sua risatina malata che non voleva dire nulla, scostando una ciocca di capelli dal volto. “Il fuoco cura tutto, Isaac!” 

Con la coda dell’occhio Nora poté vedere Sick mentre, scrollando le spalle, si lasciava cadere sul lettino, decidendo che il suo mal di testa aveva più importanza del delirio del medico.
A volte le dispiaceva davvero per Isaac. Le sue emicranie dovevano essere davvero forti, visto il modo in cui, a volte, sembrava dimenticare di essere una persona fredda e lasciava trasparire una smorfia di dolore.
Ma in quel momento non riusciva ad interessarsi a Sick.

Lui aveva iniettato qualcosa ad Andrè e lo aveva fatto mentre questo lo stava ringraziando perché gli aveva salvato la vita. Non contento, poi l’aveva anche minacciato.
Non riusciva a capirlo. Ci provava, ma davvero, Nora non riusciva a capirlo. Avevano sempre cercato di fargli capire che lo consideravano un amico, tentavano sempre di essere gentili- e lui continuava a comportarsi in quel modo.

“Nora?”

Sentendo pronunciare il suo nome lei si voltò verso l'amico, sorpresa. Andrè aveva ripreso un minimo di conoscienza e la fissava con un occhio socchiuso, ancora troppo assonnato per riuscire a spalancare completamente le palpebre.

“Mhmnhhmostro…?”  biascicò lui con fatica.  

Nora inarcò un sopracciglio, tentando di capire il perché di quella offesa gratuita alla sua persona- poi si rese conto che, probabilmente, stava parlando della cavia.
Scosse le spalle. Non aveva il cuore di dirgli che la cavia, dopo due ore, ancora non era stata trovata: Andrè aveva già avuto una reazione penosa quando le aveva detto che era scappata, non voleva fargli ripetere l’esperienza mentre era ancora in stato di veglia. 

“Occhio…?” 

Andrè portò una mano alla benda, accarezzandola con la leggerezza che solo una dose di tranquillante riusciva a dare.
Nora sorrise. “Dovremmo fare qualcosa per quell’antiestetica cicatrice.”

Qualcosa, dietro la spessa coltre di sonno nell’occhio di Andrè, sembrò illuminarsi di quella gioia quasi infantile che tanto lo animava mentre faceva esperimenti. 

“Adoro... cicatrici. Sono... fantastiche.”

Come la testa si posò sul cuscino, Andrè tornò a dormire.
Nora portò una mano alla bocca, soffocando a malapena una risata. Una persona normale avrebbe quantomeno ragionato sul fatto di avere una cicatrice sul volto, ma lui era solamente contento.
A volte il comportamento dell’amico era disarmante. 

“Il fuoco lo curerebbe.”

Dovette metterci alcuni secondi per capire che sì, Blaze aveva parlato e sì, per un qualche strano motivo sembrava avesse voluto rispondere al suo pensiero.
Nora lo fissò, confusa. “Eh?”

Blaze sorrise, poi girò su se stesso, apparentemente solo per il piacere di vedere il suo camice gonfiarsi. 

“Uh… di cosa stavi parlando?”

“Il tuo amico!” Blaze si fermò, tenendo le mani dietro la schiena e chinandosi verso di lei, la testa leggermente inclinata verso sinistra in quello che sembrava persino uno sguardo affettuoso. “Il fuoco cura tutto, mia cara. Il fuoco brucerebbe le stranezze di Andrè e lo purificherebbe nel processo!” 

Nora aprì e richiuse la bocca, tentando di capire quale delle diverse cose che il medico aveva appena detto fosse più inquietante.
Era abituata al fatto che Blaze considerasse il fuoco la cura definitiva. Era agghiacciante, comunque, notare che aveva praticamente proposto di portare al rogo il suo migliore amico.
Il tutto, comunque, scompariva di fronte al fatto che Blaze era riuscito, in un qualche modo, a leggerle il pensiero.
Si sforzò di sorridere, tentando di ragionare.

“Ho… ho pensato ad alta voce, uh?” 

Ridacchiò, tranquillizzandosi: sì, era ovvio che avesse pensato ad alta voce. Non doveva essere troppo strano.
Blaze scosse la testa, divertito.

“No, l’ho letto sopra.” 

Nora distese la fronte, comprensiva. Qualsiasi cosa intendesse dire Blaze era meglio non contraddirlo.
Un brivido le corse lungo la spina dorsale mentre ragionava sul fatto che Andrè e Isaac erano sotto la tutela del medico per un giorno intero. Blaze era simpatico e affascinante, certo, ma a volte Nora non riusciva a non inquietarsi di fronte alla scintilla di follia che sembrava illuminargli lo sguardo.
Doveva andarsene e portare con se i due colleghi.

“Oh, per me puoi portare via Andrè quando vuoi, ma Isaac purtroppo deve rimanere qui.” 

Eppure Nora non poteva non rimanere affascinata. Assieme alla follia Sunny sembrava aver sviluppato un qualche tipo di telepatia. Se solo quello fosse stato il suo ambito, Nora avrebbe speso del tempo a fare ricerche su Blaze.
Era assolutamente affascinante. Agghiacciante, certo, ma veramente affascinante.
Isaac non sembrò notare quel lato della situazione mentre si sedeva sul letto, appoggiandosi faticosamente sui gomiti. Un comportamento curioso: di solito la priorità dello scienziato era quella di analizzare le cose e notare ciò che poteva essere interessante. A quanto pareva, l’istinto di sopravvivenza aveva la meglio anche sulle menti più fredde.

“Cosa? Blaze, questo è- io sto bene. Dammi qualcosa contro il mal di testa e starò anche meglio. Non ho bisogno di rimanere qui.” 

Il medico continuò a sorridere, imperturbabile. “Hai subito un trauma cranico. E se il mal di testa fosse solo un sintomo di qualcosa? Devo tenerti sotto osservazione per questa notte: domani potrai andare.”

Isaac scosse la testa, gli occhi sbarrati in un espressione che sembrava persino spaventata. Nora sbatté più volte gli occhi, tentando di convincersi che era sveglia e che davvero il suo collega, il suo capo non ufficiale, stava mostrando un’emozione che andava al di là della semplice rabbia. 

“Blaze, il mal di testa lo avevo da prima. Io… Blaze…”

Nora strabuzzò gli occhi, incredula. Aveva sentito bene? Aveva visto bene?
Isaac aveva davvero quell’espressione sconfortata sul volto? Era davvero apprensione quella che Nora riusciva ad intravedere nel suo sguardo?
E quell’inflessione nella sua voce- stava davvero supplicando il medico?
Non era possibile. Si stava ovviamente sbagliando, quello non era possibile. 

Blaze inclinò la testa verso un lato, le mani congiunte dietro la schiena e il sorriso mutato in una smorfia totalmente folle.

“Potrei metterti la testa nel fuoco e far evaporare gli accumuli di sangue che possono essersi formati nel tuo cervello.” 

Isaac crollò sul letto, soffocando a malapena un gemito frustrato.
Non ne poteva più. Blaze voleva bruciarlo mentre dormiva? Facesse pure.
In quel momento era solo stanco e sì, la giornata non era ancora finita, sì, probabilmente c’era di peggio… ma fin dal mattino il destino sembrava aver agito con il solo scopo di farlo crollare e Isaac non ne poteva più. Andava bene, quindi, si arrendeva: accettava di buon grado la sconfitta e chiedeva solamente di essere lasciato in pace.

Un minimo di pace che avrebbe usato, ovviamente, per ragionare su come avesse tradito la fiducia della Coma lasciandosi sfuggire una cavia. 


*

-:-*-*-:-

*

Rabbia. Quella era stata l’unica cosa che aveva provato, prima.
Le sue risibili speranze andate in frantumi, attaccato da gente che non conosceva, la sua prima reazione era stata quella della furia.
Era stato incredibilmente facile colpirli. Sembrava quasi che l’ira avesse migliorato le sue capacità: chi colpiva andava a terra, senza nessuna esclusione.
Poi si era voltato e aveva visto i tre scienziati e la rabbia aveva distrutto quella poca logica che gli era rimasta. Non cercava un piano, non voleva più fuggire: voleva ucciderli.
Uccidere quei due idioti che non facevano altro che mangiare e scherzare e torturarlo, uccidere quel tizio alto dagli occhi azzurri che lo aveva avvelenato e l’aveva tradito.
Le grida del primo erano sembrate una musica celestiale, il sangue che si era ritrovato sulla mano una specie di dono divino. Avrebbe voluto fermarsi, affondare le mani – artigli? – nella sua carne, colpire il suo cuore fino a che non fosse ridotto ad una poltiglia informe, ma l’aveva sorpassato. Non solo lui doveva soffrire.
Ma poi qualcosa l’aveva colpito e quel dolore – una cosa risibile, davvero – l’aveva distratto, aveva spostato l’oggetto della sua furia. Non più quell’idiota che gemeva e singhiozzava, ma l’altro- il biondino. Quel biondino che lo guardava con quello sguardo freddo. Quello sguardo freddo che gli ricordava qualcosa- cosa?
Non lo sapeva. L’aveva colpito, deciso a sfondargli la cassa toracica a suon di calci- poi era fuggito. 

Si era nascosto in un condotto d’aria. Faceva freddo ed era stretto e buio e non faceva altro che scivolare, grattando le unghie sul metallo. La furia era scomparsa e al suo posto era rimasta la più totale disperazione.
Frammenti di immagini continuavano a tormentarlo, rendendo i suoi pensieri persino più confusi di quanto già non fossero.

Di chi era la colpa? Chi lo aveva portato lì? Perché? 

Avanzava, strisciando e intanto la sua mente veniva invasa da un turbinio di ricordi, da parole senza senso, da volti che ricordava a malapena. La mafia, la sorella, i genitori: quelle persone, quei nomi che in quel momento erano solamente dei concetti senza senso, cos’erano? Era ciò che aveva perso o la risposta a quelle tre domande che lo tormentavano?
Era da solo, nel buio, al freddo e non riusciva a capire. Non riusciva a riflettere. Quelle tre domande erano l’unico barlume di sanità che gli rimaneva e lui non riusciva a rispondere coerentemente.
La mafia. Non c’era, non era ancora venuta a salvarlo. Gli scienziati. Gli avevano fatto qualcosa. La bambina…
Odio, paura, disperazione, sensi di colpa. Turbinavano, si mescolavano, rendevano caotico ciò che già in principio non era ordinato e creavano qualcosa. Crampi di coscienza.
Dolorosi, fastidiosi, insopportabili crampi di coscienza che non lo mollavano. 

Di chi era la colpa? Chi lo aveva portato lì?

“Lui e l’uomo alto ti stanno avvelenando” aveva detto.
Quel tizio con i capelli biondi che lo aveva guardato con quell’espressione strana. Non spaventato, solo sconcertato.
Quel tizio così alto che gli aveva dato un minimo di speranza e poi gliel’aveva strappata via.
Quel tizio che gli aveva iniettato qualcosa al polpaccio. Che lo aveva distratto.
Quegli occhi azzurri che lo squadravano. Freddi, stanchi, eppure con una scintilla di sadico divertimento.
“L’uomo alto ti sta avvelenando”, aveva detto.


*
*.-*-.*
*

Era sera. Doveva esserlo, visto che c’era la replica di Sogni d’Amore alla televisione.
Andrè mangiucchiava una ciambella, assaporando la glassa che la circondava. Aveva una benda che gli copriva l’occhio, quasi non gli era sembrato vero all’inizio.
Aveva rimirato la propria immagine allo specchio per cinque minuti buoni, eccitato come un bambino. Una benda all’occhio, continuava a ripetere, era così forte.
Poi Nora l’aveva portato via. Diceva che era per il suo bene e lui non aveva capito, all’inizio. Decise che probabilmente centrava Blaze, così l’aveva seguita senza tante storie.
La giornata di lavoro era ben lungi dall’essere terminata, così si erano rintanati nella sala relax. Nora aveva portato i dolci, aveva coperto i turni ed aveva portato delle riviste. Non era una cosa troppo strana, probabilmente Nora si comportava così gentilmente perché era rimasto ferito. Quello zelo era comprensibile, in fondo.
Eppure c’era qualcosa nel modo in cui la collega scherzava che lo faceva sentire strano. Era come se stesse fingendo di essere così allegra.
All’inizio non capiva perché. Nora gli stava nascondendo qualcosa, era ovvio: la ragazza semplicemente non riusciva a mentire. Eppure non riusciva a capire cosa stesse tentando di nascondergli.
Poi aveva notato che non gli aveva mai accennato della cavia e Andrè, finalmente, aveva capito. 

Andrè si pulì le dita con un fazzoletto, ingoiando a fatica la ciambella. Nora non era più riuscita a continuare e alla fine si era zittita, fingendo di essere stata ipnotizzata dalla televisione.

“Come l’ha presa Sick?” 

Nessuna risposta. Nora non diede nemmeno segno di averlo sentito.
Per pochi attimi Andrè si chiese se quella domanda non l’avesse solo pensata. Poteva essere logico, dopotutto, anche se non esattamente normale.
Poi lei abbassò lo sguardo, giocherellando distrattamente con una ciocca di capelli e Andrè capì. 

“Sarò fortunato se morirò, giusto?” 

Nora rabbrividì ma non rispose. Non sarebbe riuscita a mentire e, anche se ci fosse riuscita, non sarebbe riuscita a convincerlo.

“Verrò degradato. Verrò licenziato. Verrò…” La voce gli mancò all’ultimo momento. Chiuse gli occhi, colto da un’improvvisa vertigine.
Il suo lavoro, i suoi amici, la sua stessa vita, tutto gli stava inesorabilmente sfuggendo dalle mani e non poteva fare nulla per evitarlo.
Non voleva fare nulla per evitarlo.

Aveva la nausea. Aveva lavorato così tanto, aveva fatto così tanto- e per cosa? Un errore e il castello di carte gli crollava attorno. Era un fallimento così catastrofico che qualsiasi tentativo di fermarlo era ridicolo, destinato alla sconfitta dall’inizio- troppo faticoso per essere pensabile. 

Sarebbe stato degradato. Sarebbe stato licenziato. Sarebbe stato torturato. Gli interessava e non gli interessava- non lo sapeva. Non lo capiva.

“Mi viene da vomitare.” 

Nora sospirò, alzando un braccio nel tentativo di afferrare Andrè prima che scappasse: si trovò solo ad agitare una mano nel vuoto, il collega ormai uscito dalla stanza.
Il braccio le ricadde sul divano e lei si lasciò sfuggire un secondo sospiro, frustrata. Aveva davvero cercato di essere gentile, di distrarlo e le cose stavano andando così bene fino a quando- cos’era successo? Era diventato di nuovo triste e patetico ed aveva la sgradevole sensazione che fosse stata colpa sua.

Il cercapersone trillò.
Chiunque sapeva di poterla trovare in sala relax, motivo per cui nessuno usava mai quel- coso per chiamarla: ormai si era persino dimenticata di possederlo.
Prese il cercapersone, portandolo all’altezza degli occhi. 

Infermeria’'











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Vorrei ringraziare Vitani per aver commentato l'ultimo capitolo. Ti adoro così tanto!
Vorrei inoltre scusarmi per l'immenso ritardo. Il computer si è formattato, la scuola è cominciata e io non riuscivo più a scrivere nulla. Non mi piace per niente l'inizio e la fine non mi entusiasma ma... santo Cielo, adoro la parte in cui parlo di Felix.
Ad ogni modo, mi dispiace. Sono in ritardo per molte cose e... mi dispiace. Prima o poi... non lo so. Mi dispiace veramente tanto...

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