For We Are Many - Prima Stagione

di Dzoro
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Passaggio a Nord-Est ***
Capitolo 2: *** Paracetamolo ***
Capitolo 3: *** Babilonia ***
Capitolo 4: *** A letto con il mio capo ***
Capitolo 5: *** Colazione da Gianna ***
Capitolo 6: *** I maiali e la santa trinità ***
Capitolo 7: *** Branzino in umido ***
Capitolo 8: *** La capanna dello zio Charlie ***
Capitolo 9: *** La sorgente del Lete ***



Capitolo 1
*** Passaggio a Nord-Est ***


For We Are Many

Stagione 1

Capitolo 1: Passaggio a Nord-Est

 

Giovedì 20 ottobre, 18:00

Questa storia inizia con me che corro nudo nella foresta. Non è una cosa faccio tutti i giorni, non per piacere perlomeno. Correvo perché sapevo che, se non avessi corso, l’uomo maiale mi avrebbe raggiunto. L’uomo maiale era enorme, grasso, peloso e nudo, e non vedeva l’ora di raggiungermi e farmi le feste, il che includeva probabilmente stupro e semembramento. L’uomo maiale non era una bella persona.

Il terreno sotto i miei piedi era una distesa di terriccio umido e fangoso, ricolmo di sassolini, aghi e rametti appuntiti, una gioia per le piante dei piedi. Ogni passo era un tripudio di punture e graffi, ma non potevo fermarmi. Non potevo fermarmi, ma non sapevo perché. Mi ero già dimenticato di cosa mi stava inseguendo. Poi lo sentì grugnire, ricordai, e ripresi a correre ancora più veloce.

La foresta iniziò a diradarsi. Mi trovai di nuovo nella radura in cui i due coniglietti prendevano il tè. Erano seduti ad un tavolino da giardino in ferro battuto verniciato di bianco, e sorbivano silenziosi da tazzine di ceramica rosa, impassibili nei loro completini neri. Sul tavolino si trovava una teiera più grossa di loro, nera, ricoperta da un groviglio di arabeschi bianchi. Accanto ad essa giacevano sparpagliati siringhe e sacchetti di polvere bianca.

“Vaffanculo conigli”, dissi, “con che coraggio vi bevete il tè con un uomo maiale peloso che mi insegue?” Ero francamente costernato. Il fatto di essere tornato per l’ennesima volta nella radura avrebbe dovuto scoraggiarmi, ma in quel momento l’ingiustificabile comportamento dei coniglietti era la cosa che mi infastidiva di più.

“Che vi vada una carota di traverso, roditori di merda! Traditori! Troditori!”

Non capivo come mai fossi così sicuro di essere già stato lì. Mi ricordavo dei conigli, ma il ricordo di quando li avevo visti la prima volta era un pensiero sfuocato come un filmato porno su internet a fine anni novanta. Improvvisamente successe una cosa inaspettata: le cose smisero di sembrarmi normali. Insomma, quante persone si trovano in mezzo ad una foresta inseguiti da un maiale stupratore, in compagnia di conigli con una passione per il te e la cocaina? Il pensiero mi fece ricordare un'altra cosa, che io di come ci ero finito in quella foresta non me lo ricordava per nulla. Tutti pensieri potenzialmente angoscianti, ma io riuscivo solo a pensare che quegli stronzi di coniglietti si stavano bevendo il te mentre io rischiavo la possibilità di fare cacca solida per il resto della mia vita. Sempre che il mio inseguitore mi avesse lasciato in vita. Troppo tardi in ogni caso, l’uomo maiale era arrivato. Lo sentivo ansimare alle mie spalle. Provai a muovere le gambe, ma c’era qualcosa che mi teneva fermo. Pensai che dovevano essere i rametti per terra. Fu allora che mandai tutto al diavolo, e mi sdraiai sulla superficie irregolare di muschio, legno e pietra sotto i miei piedi. Avevo sonno, ed ero stufo di correre. Sentì una mano che mi si appoggiava sulla spalla, e capii di essere spacciato. Iniziai ad urlare.

 

Mi alzai di scatto, facendo uscire dalla gola tutto il fiato che avevo nei polmoni. Era un urlo corposo, di quelli che salgono dolorosamente dalla trachea, graffiandola, come se stessi vomitando un gatto idrofobo. La ragazza delle pulizie urlò di rimando, cadendo all’indietro con il sedere per terra, e rincattucciandosi nell’angolo di moquette più lontano dal mio letto. Non mi accorsi subito che non ero più nella foresta, e che lei era in effetti la ragazza delle pulizie dell’albergo Girasole, quindi urlare più forte mi sembrò la cosa più naturale del mondo da fare. Anche lei continuò ad urlare, portandosi le mani davanti alla faccia, come per proteggersi dal gatto idrofobo che le stavo vomitando addosso. Urlammo insieme ancora qualche secondo, finché non iniziò a mancarmi il fiato, e iniziai a intuire l’intrinseca imbecillità di quello che stavo facendo. Quindi smisi. Lei credo sentisse ancora un po’ il bisogno di urlare, io la lasciai fare, fissandola con in faccia l’espressione da risveglio improvviso più comica e spaventosa della mia vita. La mia bocca si apriva e chiudeva come quella di un pesce rosso spastico, e il collo sembrava non riuscire a reggere il peso della testa. Mentre le urla della donna delle pulizie mi facevano una sessione di agopuntura con chiodi arrugginiti al cervello, iniziai a visualizzare con l’acquolina in bocca l’immagine di un'aspirina grossa come una torta di matrimonio. La ragazza emise un gemito, e sempre tenendo le sue mani davanti alla faccia, mi guardò con due occhioni dilatati e umidi. Alla fine gli unici suoni che rimasero, sospesi nel silenzio, furono il rumore dei nostri respiri affannati e, in sottofondo, lo scroscio dell’acqua da dietro la porta del bagno, che lasciava uscire nella penombra della mia camera d’albergo un filo di luce elettrica. Dopo ancora un attimo, le dissi:

“Mi hai spaventato.”

 

Aprii le persiane semichiuse e andai in bagno.

“Stamattina avevamo visto la porta chiusa, e dato che non hai riconsegnato le chiavi alla reception abbiamo pensato che stessi ancora dormendo. Poi ho visto che non uscivi più, e ho pensato che fossi uscito fuori con le chiavi, e allora sono venuta a mettere a posto…” si giustificava la ragazza, con voce rotta dal batticuore. La doccia stava andando ancora, non l’avevo spenta l’ultima volta che l’avevo usata. E quando cercai di ricordare quando fosse stata quest’ultima volta, il cervello mi si rivoltò contro, trafiggendomi le tempie con un emicrania grossa e appuntita come un paletto da tenda. Mi rassegnai a non ricordare. La chiusi, e notai sul fondo della doccia tracce di terriccio nero. Buttai un occhio indietro alla camera: non c’era traccia dei miei vestiti, non erano sulla sedia dove li accartocciavo di solito prima di andare a dormire. Iniziai a sperare di aver avuto il giorno prima la migliore notte di baldoria della mia vita, perché era l’unica cosa che avrebbe giustificato, e reso leggermente più accettabili la nausea e l’emicrania. Non ricordavo nulla. Buttai per terra le lenzuola in cui mi ero avvolto per evitare denunce di molestie da parte della ragazza (data la successione di avvenimenti degli ultimi minuti ne era in pieno diritto) e mi misi un asciugamano intorno alla vita. La differenza non era molta, ma c’è qualcosa di ridicolo nell’andare in giro con una toga fatta di lenzuoli se non sei in un film di John Belushi. Tornai dalla ragazza: era una tipa sui vent’anni, occhi carini, trucco eccessivo, vestita con una tuta color topo che sperai per lei indossasse solo sul lavoro.

“Scusa, ora mi metto dei vestiti veri. Puoi tornare tra mezz’oretta per le pulizie?” le feci, sperando, in barba a quello che avevo appena detto, che non tornasse mai più: Dio solo sapeva quanto volevo dormire.

“Ma stai bene?” Mi fece lei, dandomi subito del tu. Lo facevano tutti in quel paesino, se davi del lei ti guardavano come avrebbero guardato la regina d’Inghilterra, ed iniziavano a rivolgersi alternando il lei e, per qualche strano motivo, il voi.

“Solo un po’ di mal di testa. Magari scendo e mi compro un'aspirina.”

“La farmacia sarà chiusa a quest’ora.” Mi fece notare lei.

“Perché, è già ora di pranzo?”

“Di cena più che altro. Sono le sei passate.”

“Allora vado a cercare un accetta ed un ceppo, non credo di poter sopravvivere un attimo di più con la testa in queste condizioni. Dio!” mi stropicciai la tempia destra con l’attaccatura della mano, inondandomi la testa di un breve sollievo illusorio.

“Non capisco dove tu ti sia potuto ridurti così a Fondale.” Disse lei, lasciando trasparire da sotto il nervosismo un pallido sorriso, ed immaginandosi probabilmente tutta la notte di bagordi che io avrei voluto tanto ricordare.

“Vorrei tanto saperlo.” Le risposi, sedendomi sul letto. “Sto cercando di riordinare le idee, ma per ora tutto è sfuocato come…” mi vennero alla mente i pixel rosa di Jenna Jameson che si strusciavano contro quelli rosso scuro di Rocco Siffredi “Molto sfuocato. Quanto hai detto che sono rimasto qua dentro?”

Lei su prese una piccola pausa per pensare, poi disse:

“Penso tu sia tornato stanotte.”

“Cosa? Aspetta, che giorno è oggi?”

“Venti ottobre.”

Mi gettai sul comodino, dove trovai la sagoma scura e familiare del mio libretto per gli appunti. Lo aprii: le ultime note risalivano al diciannove. La mia calligrafia incerta aveva tracciato due singole lettere, h e p. Non scrivevo mai frasi troppo lunghe su quel libretto, in modo che se qualcuno ci avesse messo le mani addosso, non avrebbe capito che aveva a che fare con un detective privato. Non avevo mai pensato che quello stratagemma, che si appoggiava su quella che ritenevo essere una memoria infallibile, si sarebbe rivelato un arma a doppio taglio. Quelle due lettere avrebbero potuto significare qualsiasi cosa. In quel momento il mio cervello era un’utilitaria accartocciata contro un paracarro, ferma da giorni, alla quale improvvisamente riparte l’autoradio. Le lettere erano un indizio sul caso, questo era certo. Stavo seguendo un caso. Giovanna Carta. Stavo cercando Giovanna Carta. Scomparsa durante una festa in un ristorante in una zona isolata in provincia di Vicenza, il dieci ottobre. Il danaroso papà si era arreso all’ottusità della polizia, che insisteva che si trattasse di una fuga e non di un rapimento. Rivolgersi all’Agenzia era stato il passo successivo. Il capo mi aveva chiamato e mi aveva detto “Zeni, il caso è tuo”, con il tono di voce di un sergente di colore in un film dell’ispettore Callaghan. Il capo aveva un certo gusto per il melodrammatico. Il ricordo seguente era Fondale. Ero arrivato a Fondale, simbolo se non della dimenticanza di Dio, perlomeno di un certo suo senso dell’umorismo. Fondale era un buco incastrato in fondo alla valle più remota del Trentino. Il Trentino è la regione con meno autostima d’Italia, se ci arrivi in autostrada l’unica indicazione utile per raggiungere Trento è il cartello per il passo del Brennero, che porta in Austria. Come dire ti vuoi fermare in Trentino? Che stronzo. Eppure quel posto non era male, un animo più sensibile del mio l’avrebbe addirittura giudicato bello. Ma proprio non era possibile scacciare quella sensazione di trovarsi in un paese di frontiera, lontano dai MacDonald, i supermercati e i negozi di videogiochi, che nel mio immaginario personale erano i simboli dello sviluppo della civiltà occidentale.

Il posto era carino per passarci un fine settimana, ma a me erano bastate appena quarantott'ore ore per frullarmi le palle. Mi ero chiesto a più riprese come fosse possibile viverci.

L’inseguimento Giovanna Carta mi aveva portato a Fondale. Il resto l’ho già raccontato. L’albergo Girasole era l’unico nella zona, gestito dalla signora Gianna, un’ottuagenaria dallo splendido sorriso sdentato, gentilissima e sorda come un sasso. Ero diventato suo figlio dal momento in cui avevo afferrato il portachiavi a forma di ceppo con sopra intagliato il centodue della mia camera.

“Se ti torna in mente, dimmelo!” mi fece la ragazza, ridendo. Io la guardai perplesso, senza capire cosa intendesse.

“Il posto in cui sei stato a divertirti stanotte. Ci vado anch’io, devo passarci altri due mesi qui. A volte sono così annoiata che mi sembra di uscire di testa!”

“So di che parli.” Le risposi io, scrutando il libretto degli appunti, senza riuscire a ricordare altro. “Senti, non è che torni domani per le pulizie? Prometto che non mi metterò a urlare la prossima volta.”

Lei rise di nuovo, con quella nota greve che aveva l’accento di quelle parti.

“Okay, immagino tu abbia ancora bisogno di riposarti. Ciao!” Chiuse la porta dietro di se. Sul lato della porta che fino a quel momento era rimasto coperto contro la parete, c’erano due fogli attaccati con lo scotch. Due fotografie in bianco e nero, stampate su cartoncino da stampante. Erano i volti di due uomini, e iniziai a chiedermi se li conoscessi, anche se la sensazione era di non averli mai visti prima. Mi tornarono in mente i cartoni animati in cui gatto Silvestro prende una botta in testa, e non ricorda più nulla finché non glie ne danno un'altra. Fui tentato di sbatterla contro il muro in effetti, ma ritenni più utile andare a vedere di cosa si trattava. La prima foto era di un uomo sulla cinquantina, naso prominente, testa calva e rugosa. Sotto si trovava un nome stampato: Saverio Coletti. La seconda mostrava un uomo più giovane, più grasso, con la fronte coperta da una massa spettinata di capelli, e le labbra da dei folti baffi. Il suo nome era Francesco Nasolini. Su entrambi i fogli, scritte di traverso, si trovavano poche parole tracciate con una biro nera: stanno per morire. Le lettere erano tremolanti e incerte, ma non abbastanza da non farmi capire chi le avesse scritte. Era la mia calligrafia.

“Porco cane.” Mormorai io, capendo di aver davvero bisogno di un'aspirina.

 

All’elenco delle sorprese se ne aggiunsero ancora alcune. Prima di tutto, il mio iPhone mancava all’appello, insieme a dei jeans, una camicia, un maglione e i miei scarponi. Anche la bomboletta di spray anti aggressione era scomparsa nel nulla, in quel lungo buio che precedeva il mio risveglio. Indossai in fretta un altro paio di jeans, e uno dei maglioni rimastomi. Chiusi la porta dietro di me, incastrando tra quest’ultima e lo stipite un pezzetto di carta all’altezza della serratura, poi scesi le scale. La signora Gianna stava guardando un televisore appoggiato su un tavolino dietro il bancone della reception, un muretto di marmo e assi di legno laccato, dietro al quale si trovava la selva di chiavi di tutte le camere sfitte. Era sorvegliato da una legione di uccelli impagliati, che guardavano contemporaneamente ogni angolo della stanza, come un'icona bizantina. Lo schermo inondava il suo volto grinzoso di una luce bianca e baluginante, e conferiva alla sua espressione svanita un'aura quasi sacrale. Per strada era già buio, l’inverno era alle porte.

“Buonasera”.

“Giancarlo, buonasera!” Ovviamente non mi ero registrato alla reception con il mio vero nome, ma con uno dei molti pseudonimi che usavo per quelle occasioni. Che però era Fabrizio Scafoni.

“Buonasera Gianna! So che potrebbe essere una domanda difficile.” mentre parlavo, i miei occhi vagarono sulla fisionomia ancestrale della vecchia, sulle sue labbra serrate e sottili, evidenziate da un rossetto del secolo scorso, e sugli occhiali che ingrandivano all’inverosimile un paio di occhi azzurri e sbiaditi. Ebbi la sensazione che gran parte delle mie parole si sarebbero perse nel nulla. “Si ricorda quando sono passato di qui l’ultima volta?”

Lei sorrise, come se le avessi detto una galanteria.

“Oh, grazie!” fece, atteggiandosi con la vezzosità di una ragazzina che ha appena ricevuto un complimento. Io la guardai un attimo, strinsi i denti, e mi preparai a ripetere la domanda. Poi, la risposta arrivò, in ritardo come un motore avviatosi dopo molti tentativi:

“Ma certo, c’è solo lei in albergo! Si sente solo?” Aggiunse con malizia. “Non si preoccupi, presto avrà compagnia! Lo sa che sta mettendo giù un sacco di neve sulle cime? Presto arriveranno un sacco di sciatori, e apriremo anche la dependance!”

“Straordinario, signora Gianna” tagliai corto “quindi quando mi ha visto l’ultima volta?”

“Ma che domande, ieri pomeriggio! È passato qui davanti, me lo ricordo! Ho una memoria di ferro, ricordo ancora tutti i nomi delle montagne qua attorno.”

Il pomeriggio prima. Quindi nel bel mezzo di quella che avevo preso a chiamare come la zona di buio. A quando si fermavano i miei ricordi? Ricordavo di essere arrivato lì due giorni prima, di aver preso la camera, di aver iniziato ad indagare, ma poi nulla. Mi mancavano ventiquattro ore, forse di più.

Shock emotivo, trauma cranico, droga, medicinali assunti insieme a bevande alcoliche. La mia mente passò in rassegna tutti i motivi che potevano causare un’amnesia, e mi accorsi con sconforto che le possibilità erano infinite.

“Sta bene, Giancarlo?” mi chiese Gianna, turbata dalla mia evidente confusione. Dissi di sì, e immagino che questo la tranquillizzò.

“Era molto di fretta, non ho nemmeno fatto in tempo a salutarla quando se ne è andato. Cosa aveva da fare, ha trovato un cliente?” Mi stupì di come si ricordasse che Fabrizio Scafoni era un rappresentante di una ditta di aspirapolvere ad acqua. Le avevo promesso subito una dimostrazione il giorno prima della mia partenza, ossia abbastanza tardi per poter non mantenere la promessa.

“Sì, qualcosa.” Mentii velocemente, prima di domandare quello che mi interessava veramente.

“Quindi lei non si ricorda di quando sono tornato, stanotte?”

“Figlio mio, dormivo stanotte! Ma la porta dell’albergo era aperta, che qui ci fidiamo tutti di tutti! È un paese piccolo, so il nome di ogni abitante! Ho una memoria di ferro, gliel’ho mai detto? Pensi, ricordo il nome di ogni montagna…” mentre Gianna iniziava ad elencare tutti i nomi delle montagne dei dintorni, capì che in quell’albergo chiunque sarebbe potuto penetrare nella mia stanza e attaccare le foto. Perfino io, a giudicare dalla scritta sopra di esse.

“Beh, grazie allora.” Dissi ad alta voce, interrompendo le chiacchiere della vecchia.

“Di nulla, di nulla! Se esce si metta il suo giubbotto, che c’è un freddo…” interruppe la frase così, riposizionando la faccia sotto la luce intermittente della televisione. Io mi spostai poco distante, su uno dei tavolini del bar nella stanza attigua. Il Bar era chiuso, alla signora Gianna evidentemente non sembrava il caso di tenerlo aperto con un solo ospite nell’albergo. Dalle pareti di assi di legno mi fissavano foto in bianco e nero di sciatori e alpinisti, e una vecchia pubblicità del Fernet Branca. Mi sedetti, e accesi lo smartphone rimastomi, il mio amato Samsung, e andai subito su Google. Saverio Coletti. A quanto pare il mio nuovo amico era il proprietario di una vetreria in Brianza. Dopo qualche scarna pagina di social network, scorsi un articolo in cui si celebrava un appalto con un oligarca russo per la costruzione della sua villa, poi un altro in cui Coletti visitava un’università per parlare con gli studenti e svelandogli i segreti del mondo del lavoro. Nasolini invece compariva soltanto in una pagina di Facebook, ma la foto profilo non faceva capire se fosse lui o un omonimo. Preferii quindi tornare al sito della vetreria Coletti, e cercare un numero di telefono. Lo trovai.

Mentre il telefono squillava, mi chiesi quale sarebbe stata la mia prima domanda. Buongiorno, vorrei sapere se il signor Coletti è ancora vivo. No, perché qui sulla mia porta c’è un foglio che dice che sta per morire.

“Buongiorno, mi dica.” La voce acuta della segretaria dall’altro capo si introdusse di violenza nel flusso dei miei pensieri.

“Buongiorno, è possibile parlare con il signor Coletti?”

Fatto, era stato semplice.

“Il signor Coletti non è in ufficio, al momento non penso di poterlo raggiungere. Mi dice il suo nome?”

“Giancarlo Giannini, chiamo per conto del signor Rublovskij. Posso lasciarle il mio indirizzo e-mail?”

“Se vuole la posso richiamare.”

“Sarò all’estero nei prossimi giorni, sarebbe meglio se mi contattasse via mail.”

“Capisco, mi dica.”

Le dettai un indirizzo che avrei creato subito dopo la telefonata. Non potevo lasciare in giro il mio numero, e avevo regolato le impostazioni del telefono in modo che nessuno potesse risalirvi. Mi congedai dalla segretaria, e mentre rimettevo il Samsung in tasca, mi scoprii consolato dal fatto che non fosse morto nessuno. Ora sarei tornato in camera per farmi una solenne dormita. La testa non accennava a smettere di farmi male.

Salii le scale tenendomi ben aggrappato al corrimano, e sbadigliando sonoramente. Arrivai alla porta della camera, infilai le chiavi, e la spinsi in avanti. E contemporaneamente mi diedi cento volte dello stronzo, perché a cosa serve mettere il pezzettino di carta nella porta se poi non controlli che sia ancora lì? Era a terra.

Mentre mi chiedevo chi fosse stato, sentì un dolore lancinante prendermi al petto. Caddi sul pavimento, emettendo un urlo che subito si trasformò in un gorgoglio acuto. Non sentivo più il mio corpo, non riuscivo a muoverlo. La nausea invase la mia testa, mentre sentivo delle mani afferrare le mie caviglie, e la porta chiudersi alle mie spalle.

Immagino che nei minuti di semi-coscienza che seguirono successero diverse cose. Ricordo di aver vomitato, e di aver visto una scarpa ricoperta di una poltiglia giallastra, e di aver pensato “potevi lavartele prima di entrarmi in camera.” Poi ricordo un pugno in faccia, e finalmente il sonno che volevo tanto farmi.

 

Ero molto innervosito, perché nonostante sul tavolo ci fosse una zuccheriera enorme, io non avevo un cucchiaino per mescolare il mio tè.

“Datemi un cucchiaino, conigli di merda!” I conigli non sembrarono notare la mia rabbia, e continuavano a bere dalle loro tazzine.

“Mio caro,” mi disse uno di loro, “quello non è zucchero”.

“E quello che hai in mano non è tè”, continuò un altro. Io guardai nella mia tazza, e la scoprii piena di siringhe. La appoggiai sul tavolo, mentre i conigli continuavano a sorbire il tè in silenzio. La foresta era silenziosa, buia e fredda. Soprattutto fredda, non mi era rimasto più un solo vestito addosso.

“Scusate, non mi ero accorto di essere nudo”, mi giustificai imbarazzato ai miei ospiti.

“Oh, ma che ti scusi a fare, manco avessi una carota infilata nel naso!” Disse uno dei conigli, e scoppiammo tutti a ridere. Però io non l’avevo capita.

“Dove siamo?” Chiesi.

“Sei all’inferno, mio caro”, rispose subito uno dei conigli, e sulla sua faccia da roditore comparve una smorfia che io, in un qualche modo, capii essere un sorriso.

“L’inferno? Siete dei diavoli?”

“No, ma l’uomo maiale è un demone con gli attributi. Se capisci di cosa parlo.”

“Già, è una fortuna che ora non ci sia. Ma penso tornerà davvero presto e… beh, il resto lo sai. Sarà delizioso, da quand’è che non vediamo l’uomo maiale all’opera?”chiese un coniglio.

“Da almeno domenica scorsa. Ricordo quella circostanza con molto piacere, a proposito.” Rispose l’altro coniglio.

“Ehi, fermi, aspettate,” mi intromisi, per nulla contento del tono che la conversazione stava prendendo, “se sono all’inferno vuol dire che sono morto?”

Improvvisamente, venni attraversato da un moto di terrore.

“Morto, vivo, la differenza è poca. Ora però non sei all’inferno, sei in uno degli inferni possibili.”

“Ora sei nella camera 302. Ce ne sono altre, e ognuna con la sua specialità. Con il suo demone.”

Io ascoltai il discorso del coniglio, e mi chiesi se non stesse mentendo.

“Allora il diavolo esiste?” Chiesi.

“Se esiste? Amico, ne hai uno alle tue spalle.”

Io raggelai. Improvvisamente, non riuscii più a muovere il mio corpo. Ero bloccato, a guardare i conigli mentre bevevano il te. Sentivo solo il suo respiro, e i suoi grugniti, alle mie spalle.

 

Aprii gli occhi di scatto. Vedevo una luce accecante in mezzo ad uno spazio bianco ai miei piedi, e uno spazio verde sopra la mia testa. Era moquette. Chi è l’idiota che metterebbe della moquette sul soffitto?

Oh.

Ero a testa in giù. Sentivo delle cinghie tenermi ferme le gambe e le braccia, e sotto la schiena delle molle di ferro. Qualcuno mi aveva appena colpito con un Taser, legato alla rete del letto con delle cinghie di cuoio e mi aveva annodato intorno ai testicoli un laccio di gomma. Davanti a me si trovavano due uomini, uno in giacca, uno con la camicia rimboccata sui gomiti, guanti di gomma e un coltello a serramanico aperto in mano. Entrambi avevano il volto coperto da maschere di cuoio nere, una specie di versione sadomaso di un lottatore di wrestling messicano.

“Buongiorno” mi disse quello con la giacca.

“Ciao” gli risposi io, leccandomi del sangue secco dal labbro. Mi ricordai del pugno.

“Sai chi siamo?”

“Così su due piedi, due imbecilli. Potevate bendarmi invece che coprirvi la faccia.”

I due si guardarono tra di loro. Quello in camicia spostò lo sguardo su di me, e mi mollò un calcio in mezzo alla pancia, mozzandomi il fiato.

“Abbiamo legato un laccio emostatico intorno alle tue palle. Sai cosa significa? “

“Ditemelo.” Mugolai io, stringendo i denti.

“Dicci dov’è la ragazza. L’hai portata con te?”

“E’ nell’armadio, prima mensola a destra.”

Quello in camicia si chinò su di me. Appoggiò la punta del coltello sul mio petto, e la fece scivolare fino dentro al mio naso. La sentii rotare dentro alla narice.

“Cosa preferisci che ti tagliamo per primo? Le palle o l’uccello?”

Ci pensai un attimo. Ero abbastanza sicuro che un pene non potesse più funzionare senza i testicoli attaccati. D’altro canto, non ne potevo avere la conferma. Quindi risposi:

“Le palle.”

I due si guardarono di nuovo tra loro per qualche secondo. Io dissi:

“Beh, se mi dite che risposta vi aspettavate…”

Il taser mi aveva così stordito che controllavo appena le mie parole. Se i due si fossero spogliati e si fossero messi a limonarmi davanti mi sarei limitato a guardarli con un sorriso ebete, troppo intontito per una reazione. Ma avevo paura, avevo paura di morire senza sapere nemmeno il motivo, in un albergo a Fondale. La signora Gianna probabilmente ci avrebbe messo giorni prima di capire che non stavo dormendo.

“Zitto, puttana.” Quello con la camicia mi mollò uno schiaffo. La pelle bruciò sotto la gomma del guanto, ma visto quanto era successo fino a quel momento non lo potei certo giudicare un peggioramento della situazione.

“ Hai tre secondi. Uno.” Sentì la lama strisciare lungo il mio petto. Mi avevano aperto la camicia, non me ne ero ancora accorto. Ero talmente partito che mi dava più fastidio che un uomo mi avesse spogliato nel sonno, piuttosto che lo stesso stesse per asportarmi una delle parti del corpo alle quali ero più affezionato.

“La domanda era dov’è la ragazza, giusto?” tentai di domandare.

“Due.”

Qualcuno bussò alla porta.

“Signor Giancarlo!” fece la voce chioccia della signora Gianna da dietro la porta. I due uomini si immobilizzarono.

“Dille di andarsene.” Mi sibilò contro quello con la camicia. Io sospirai.

“Mi dica.” Gridai.

“Va tutto bene? Ho sentito un rumore strano!” si riferiva probabilmente a me che gorgogliavo come un tacchino quando il taser mi aveva colpito.

“Tutto bene. Sono legato ad un letto con due uomini che vogliono asportarmi i testicoli. Stiamo facendo conversazione.” Il mio aguzzino sussultò, e mi cacciò il coltello in gola. Lo fermò un attimo prima di tagliare. Sentì il bisogno irrefrenabile di farmelo addosso, ma il pensiero che mi sarebbe tutto finito in faccia fu sufficiente per bloccarmi.

“Che cazzo fai?” disse, prima che Gianna rispondesse:

“Ho capito, bene! Buona notte.” Sentimmo i suoi passi, accompagnati dalla costernazione generale, allontanarsi.

“Continua.” Mi intimò quello con la giacca.

Poi, sentii una musica. Era un valzer, che mi era più facile associare ad una sala d’attesa di un dentista che ad un compositore. La musica era ovattata e lontana. Quello con la camicia si voltò verso il compagno, dandomi le spalle.

“È il tuo, no?”

Vidi quello con la giacca frugarsi in tasca. Tirò fuori un cellulare, e rispose.

“Sì. Sì. No, nessun problema. Ascolta… eh? Davvero? Ma noi… no. Sì. Sì, hai ragione. Non hai paura che… no, vero. Meglio di no. Quindi basta? E poi? Sì. Non preoccuparti, grazie per il consiglio. Allora va bene.” Riattaccò. “Andiamocene.” Disse.

“Eh? Tutto qui?” disse quello con la camicia, e mi aveva tolto le parole di bocca.

“Ti spiego per strada. Ora muoviamoci, non c’è più tempo.” Si diressero entrambi verso la porta. Quello con la camicia chiuse la lama del coltello, e se lo infilò in tasca.

“È il tuo giorno fortunato, Giancarlo.” Mi disse prima di uscire dalla porta, dopo aver spento la luce. La porta si chiuse. Mi domandai che fare. Forse aspettare un attimo e poi urlare come un matto sarebbe stata una buona idea. Stavo per iniziare, quando la porta si riaprì. Era uno dei due, con in mano qualcosa. Quando sentii il cervello che si scagliava contro il mio setto nasale, e l’intestino annodarsi intorno allo stomaco, capii che si trattava di nuovo del taser. Persi di nuovo i sensi.

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Capitolo 2
*** Paracetamolo ***


For We Are Many

Stagione 1

Capitolo 2: Paracetamolo

Venerdì ventuno ottobre, 10.00

La ragazza delle pulizie entrò mentre tentavo di slacciare il laccio emostatico dal mio pene. I nostri sguardi si incontrarono, e rimasero immobili. Poi dissi l’unica cosa che fu in grado di venirmi in mente:

“Dobbiamo smetterla di incontrarci così.”

La porta si chiuse di scatto, e sentii la ragazza fuggire di corsa nel corridoio dall’altra parte. Capì che era giunto il momento di cercarmi un altro albergo.

Ero rimasto addormentato fino all’alba, prima di accorgermi che il mio peso avevano allentato i lacci che mi tenevano legato alla rete. Avevo passato un paio d’ore a dimenarmi, finché non ero riuscito a tirare fuori un braccio. Il resto era stato relativamente facile, a patto di ignorare il formicolio pungente nella mia testa che traboccava di sangue, e l’emicrania che sembrava non voler andarsene più via. Una volta che ebbi staccato il laccio di gomma (il che, per inciso, fu una sensazione paradisiaca), esaminai le cinghie: sembravano delle cinture, ma erano troppo lunghe perché qualcuno le avesse effettivamente usate per reggersi i pantaloni. Nessuna marca, nessun segno di produzione, una cosa fatta in casa probabilmente. Nessun indizio su chi fossero quei due, o la ragazza che stavano cercando. Giovanna? Forse. Voleva dire che l’avevo trovata. Voleva dire che in quel momento avrei dovuto sapere dove si trovava. Forse. O forse no. O forse era arrivato il momento di ingoiare una confezione di aspirina per intero, tutto insieme con l’involucro e le avvertenze.

 

Scesi in reception, e trovai la ragazza delle pulizie che stava strillando davanti a Gianna, probabilmente raccontandogli dei miei passatempi onanisti. Non sembrava però riuscire in nessun modo a togliere il suo sorriso o la sua serenità da Buddha dalla faccia dell’anziana signora. Piegando le ginocchia e camminando come un membro delle forze speciali, passai inosservato e silenzioso fino all’uscita, e mi diressi in paese.

L’albergo era circondato da un cancelletto di ferro battuto e un giardino trascurato, qualche albero e una panchina a dondolo dipinta di vernice bianca scostata. Dava sulla strada principale di Fondale, nonché l’unica asfaltata, che conduceva fino a una barriera di paracarri bianchi che delimitavano uno spiazzo in porfido, intorno al quale sorgevano gli edifici del centro, che apparivano molto più recenti di quello che erano in effetti grazie ad un intonacatura fresca, probabilmente rifatta da poco. Era tutto ordinato e pulito da quelle parti, si sentiva la vicinanza con l’Austria. La croce verde della farmacia comparve all’orizzonte come il pinnacolo di un santuario, mi ci catapultai, anzi, mi ci catafottei. Catafottersi nel mio vocabolario assumeva insieme alle parole porco cane, bang e boom, un posto di riguardo. Il significato è lo stesso di catapultarsi, ma il verbo fottere gli conferisce una violenza maggiore, che alcune situazioni richiedono. Evitare che la mia testa esplodesse era una di quelle situazioni.

Oltrepassai due vecchiette con il fazzoletto in testa, intabarrate in cappotti sbiaditi, a quanto pare le uniche frequentatrici della piazza a parte me. E un carabiniere. Il carabiniere era appoggiato al muro della farmacia, e si grattava rabbiosamente la testa. Ci avrebbe potuto scavare dentro un buco, dal quale pensai, suggestionato dalla faccia poco sveglia dell’uomo e da qualche strana logica da barzelletta, probabilmente sarebbe uscita una nuvola di polvere. Smisi di pensarci, i pensieri si muovevano sulla superficie del mio cervello in preda all’emicrania come un gomitolo di filo spinato.

Entrai ed uscii dalla farmacia nel giro di trenta secondi, con sotto braccio il mio ricco bottino, consistente in una scatola di moment e una di aspirina. Adocchiai un alimentari, che mi attendeva dall’altra parte della piazza, colorato e invitante come un frutto tropicale per una scimmia. Mi ci catafottei.

Superate le porte scorrevoli, in mezzo alla frutta e alla verdura scorsi le forme squadrate e sexy di un cartone da un litro di succo d’Ananas. Sono tuo, mi vuoi, mi diceva lo svergognato. E aveva ragione. Lo afferrai e corsi lungo il corridoio dei detersivi, e svoltato l’angolo, trovai tre carabinieri, ognuno con un sacchettino di pane ed uno di affettati, in fila alla cassa. Silenziosi, mi fissarono. Io sorrisi, alzando il cartone come se stessi facendo un brindisi in loro onore. Fortunatamente trovarono il gesto abbastanza imbecille per smettere di guardarmi. Vicino a loro, attesi in vano che iniziassero a chiacchierare in un qualche dialetto del sud Italia, mentre rimasero silenti. Le loro facce erano stanche, le loro occhiaie profonde e scure. La cassiera, una ragazza biondo finto dal mento sfuggente, batté i loro panini, loro pagarono con monete e scomparirono oltre le porte scorrevoli.

“Buongiorno.” Dissi io, appoggiando il cartone sul nastro. Le labbra della cassiera si mossero come per articolare un saluto di risposta, ma quando mi vide esclamò:

“Oddio, lei è il maniaco sessuale dell’albergo!”

“Sì, ma che resti tra noi. Sono tre euro, giusto?”

Uscii dal negozio, con la nuova consapevolezza che i pettegolezzi di una comunità di mille abitanti possono essere più efficaci di un agenzia investigativa. Ero sicuro che non fosse passata più di un ora dal mio risveglio. Decisi di non preoccuparmene.

Nel giro di pochi minuti il mal di testa venne sostituito da quel piacevole intontimento che solo sei pastiglie di paracetamolo affogate in mezzo litro di succo possono concedere. La realtà iniziò di nuovo a sembrarmi un luogo ospitale.

Mentre sorseggiavo dal cartone, seduto su uno dei paracarri della piazza, un rumore ovattato inizio a farsi sempre più udibile. Era il suono cadenzato della pale di un elicottero. Alzai il viso, e lo vidi in lontananza, una macchia blu scuro contro il cielo blu chiaro di montagna. Gli elicotteri di soccorso alpino sono di colori chiari, di solito giallo. Il che significava altri carabinieri. Sorseggiai il succo chiedendomi come Fondale si potesse essere trasformata in sbirropoli nel giro di ventiquattrore. Ventiquattrore di cui io non ricordavo nulla, tra l’altro. Quando entrai nell’unico bar della città, non mi stupii poi troppo nel trovarlo pieno di carabinieri, intenti a concedersi un cappuccino.

“Che a me il filino mi fa anche un po’ schifo, e lo tolgo con uno stuzzicadente. Poi metti pangrattato un po’ doppio, prezzemolo, olio, in forno, e mangi da Dio!” Erano in sei, seduti intorno a due tavolini. Uno di loro, tarchiato e con un ciuffo di peli che gli spuntava sulla nuca da sotto il colletto della divisa, stava tenendo un comizio ad un tavolino, portando un raggio di sole partenopeo nella foschia del trentino. Io andai al bancone, facendo scricchiolare le assi di legno del pavimento, e attirando inevitabilmente l’attenzione dei presenti. Presi un macchiato. La barista era probabilmente la sorella della cassiera al supermercato, le assomigliava troppo, stesso mento sfuggente, stessi occhioni da cerbiatto. Un attimo di riflessione mi fece ricordare che gli occhioni da cerbiatto erano quelli che avevano visto il mio pene annodato da un laccio di gomma quella mattina. La cameriera assomigliava alla cassiera che assomigliava alla ragazza delle pulizie. Lo realizzai nel momento in cui il macchiato arrivò strisciando contro di me sulla superficie di marmo del bancone, mentre la terza sorella mi chiese:

“Ma che gusto c’è nel legarsi lì con un laccio di gomma?”

“Dici così perché non hai provato.” Risposi io, agguantando la tazzina e nascondendomi nel tavolino più lontano. Un ora e cinque minuti, e già ero diventato il pervertito del villaggio. Non male.

Seduto, un rumore come di un motore che si avvia fece voltare il mio sguardo verso un angolo del bar. Era una pastore tedesco, immobile, grosso e terribile come una gargolla medievale, che ringhiava sommessamente e ininterrottamente, fissandomi con i suoi occhi gialli. Vicino a lui si trovava un vecchio, che sedeva con entrambe le mani appoggiate sul manico di un ombrello. Sulla testa era calcato un cappellino con visiera, che gli nascondeva gli occhi e comprimeva la sua faccia in un gomitolo di rughe, che si agitavano intorno ad una bocca intenta a contorcersi in un’ininterrotta masticazione. Indossava un giubbotto imbottito blu scuro, che stonava terribilmente con i pantaloni a coste da anziano che gli coprivano le gambe. Era un giubbotto enorme, non che gli stesse largo, ma l’imbottitura era assolutamente eccessiva, e lo rendeva simile ad una versione decrepita e inquietante dell’omino michelin. La visiera del cappello era rivolta verso di me, immaginai mi stesse guardando. Si alzò. Il cane smise di ringhiare, lanciò uno sguardo prima al padrone, poi a me. Il vecchio mi venne incontro, trafiggendo rumorosamente il pavimento di legno con la punta dell’ombrello. Notai, quando fu vicino, che il manico dell’ombrello era a forma di testa di cane lupo.

“Tornatene a casa tua.” Mi sputacchiò addosso, con una voce che ricordava da vicino quella del suo cane.

“Posso finire il caffè prima?”

“Ma varda ti se devono venire qui ‘sti furesti. A disturbare la gente onesta. Furesti di merda.” disse lui. I suoi denti non si muovevano mentre parlava: strisciavano tra di loro.

“Ha ragione, sono terribilmente, terribilmente dispiaciuto. Lei perché non torna a finire la sua sambuca mentre io torno dai miei amici furesti?”

“A disturbare la gente onesta che dorme. Babilonia! Babilonia!” sbottò ancora. Ebbi l’impressione che non stesse più parlando a me, ma che le sue parole avessero improvvisamente assunto una valenza universale. Si trascinò indietro fino al suo tavolo, prese il cane per il collare, e uscì dal bar. I carabinieri mi stavano fissando. Feci finta di bere il caffè, succhiando dalla tazzina ormai vuota. Uno di loro si alzò, toccando quasi il soffitto. Era enorme, avrebbe fatto passare la voglia di raccontare barzellette a chiunque. Incedette come un rinoceronte fino al mio tavolo, e mi tese una mano massiccia e nodosa come una sequoia, coperta da una peluria lanosa. Il suo volto era squadrato, coperto da una barba brizzolata, e dotato di due occhi azzurro ghiaccio.

“Caporale Amerigo Furlani.” Tuonò con una voce senza accento.

“Fabrizio Scafo.” Dissi, troncando a metà il mio cognome finto a causa della tenaglia che mi aveva appena stritolato la mano. Il caporale si sedette, facendo scricchiolare la sua sedia.

“Posso farle alcune domande?”

“Ne ha appena fatta una.” Risposi sommessamente, mentre portavo la mano sotto il tavolo e me la massaggiavo per assicurarmi fosse ancora intera. Lui evidentemente percepì nel mio mugugnare un segno di approvazione, e continuò:

“Lei non è di queste parti, vero?”

“No, sono qui qualche giorno per affari. Vendo aspirapolveri.”

“Qui? A Fondale?”

Per un attimo visualizzai la mia carriera di venditore. Mi vidi davanti ad una porta, con una vecchina che la apriva lasciando attaccato il catenaccio, mi scrutava con sospetto e poi, senza dire una parola, me la sbatteva in faccia. In effetti non era molto credibile, ma grazie a Dio sono sempre stato un bugiardo patologico. E poi immaginavo che Furlani fosse il classico tutto muscoli e niente cervello.

“La polvere è dappertutto.” Risposi sorridendo.

Lui grugnì, immaginai in segno di assenso.

“Stiamo facendo alcune indagini. C’è stato un omicidio qui nei paraggi.”

Avete presente quella sensazione di un nodo alle budella?

“A Fondale?” chiesi.

“Gli stronzi sono come la polvere.” Fece lui.

“Quando è stato?” chiesi, mentre il sorriso mi colava via un po’ alla volta dalla faccia.

“Ieri notte.”

Iniziai a sperare ardentemente di non aver commesso il primo omicidio della mia vita subito prima della prima amnesia della mia vita. Iniziai a sperare che la mia faccia non si fosse ridotta ad un lenzuolo bianco.

“Chi è stato ucciso?”

“Questo non posso dirglielo, è riservato.” Tagliò corto il caporale. Non voleva dirmi altro. Voleva solo vedere la mia reazione alla parola omicidio, capire se io c’entrassi qualcosa. E temevo che la mia reazione fosse stata pessima. Un bel furbo, quel Furlani. Tutto muscoli e tutto cervello.

“Da non credere, vero? In un paese così piccolo. Mi hanno svegliano alle quattro di mattina per venire. Immagini la gioia.” In effetti mi chiesi come avessero avuto il coraggio di chiederglielo senza paura di essere mangiati.

Dato che ero in ballo, decisi di ballare. Dissi:

“E’ un bel dispiegamento di forze per un solo omicidio.” Mentre pensavo avanti, dimmi qualcosa, un indizio. Che cavolo è successo? Un trucco di noi detective. Manda avanti la conversazione, e il pollo si tradirà prima o poi.

Furlani non rispose. Non a parole, almeno. La mia frase fece scattare nel suo volto uno di quei movimenti involontari impossibili da fermare, quando un emozione improvvisa ci attraversa il cervello. Un movimento che sul volto di cemento armato di Furlani era impossibile non notare. In un secondo ripensai ad ogni parola che avevo detto, cercando di capire che cosa fosse stato.

“Sì, ma ci serve ogni singolo uomo. È un’operazione di una certa entità. Anche se alcuni dei miei colleghi a quanto pare sono più interessati al loro pranzo.” Fece un cenno in direzione degli altri carabinieri.

“A tutti piace mangiarsi qualcosa di buono. Ha provato il ristorante qui in piazza?” non l’avevo provato nemmeno io, stavo soltanto dando fiato alla bocca.

“No.” E rimase zitto. Era un mastino, Furlani, i miei trucchi affabulatori da quattro soldi funzionavano su di lui come un coltello di pongo su una bistecca. Strinsi i denti, cercando di accumulare qualche parola generica per dar corpo a qualche chiacchiera generica.

“Pensavo che questo fosse un posto tranquillo. Non avevo idea.” Farfugliai infine.

“Lo pensavamo tutti, signor Scafo. Se ha qualche informazione da darci, non esiti a chiamarci.” Si alzò, e la sedia lanciò uno scricchiolio di sollievo.

“Senza dubbio. Arrivederci.”

Lui grugnì di nuovo, immaginai in segno di saluto, e si riunì ai suoi compagni. Si sedette di nuovo, non prima di avermi trafitto con un ultima occhiata inquisitoria. Contai fino a cento, poi mi catapultai dalla mia sedia, e mi catafottei dal locale alla velocità della luce, intenzionato a dare il bacio d’addio a Fondale il prima possibile.

In piazza, iniziai a pensare. A pensare a quella strana reazione nel volto di Furlani.

E’ un bel dispiegamento di forze, ripetei tra me, per un solo… Un solo omicidio. Era chiaro che c’erano molti carabinieri. Era chiaro che c’era stato un omicidio. Un solo omicidio. Uno solo. Non era uno solo. Erano morte persone. Tante persone. Molte vittime, uguale molti sbirri.

Bang.

Il macchiato mi si agitò in corpo. C’era stata una strage, uno a dieci ne ero in qualche modo coinvolto, e non me lo ricordavo.

 

Arrivato nella reception, trovai la Gianna in piedi vicino al bancone, mentre spruzzava delle piantine appassite terminali con un flacone di detersivo per vetri pieno d’acqua.

“Buongiorno, Giancarlo!” mi fece, assumendo una posa da diva anni trenta.

“Buongiorno Gianna, sono in partenza, passo tra poco a saldare il conto.”

“Ma come fate voi giovani ad andare in giro con questo freddo? Si metta il giubbotto!” Mi fece un occhiolino. Quella ragazzaccia.

“Sto bene in maglione. Mi scusi.” La oltrepassai, sperando avesse compreso la mia intenzione di andarmene. Corsi su perle scale, feci una breve preghiera che nessun sicario misterioso mi stesse attendendo in camera per torturarmi, poi agguantai il mio portachiavi ceppo e aprii la porta della centodue. La trovai gradevolmente vuota, e mi avventai sulle mie valige.

Mentre ricomponevo i pochi averi rimastimi, la mia mente annebbiata dagli effluvi dell’aspirina era lanciata a cento chilometri orari in un attività tanto frenetica da risultare dolorosa.

“Foresti de merda.” Dissi tra me, imitando la voce del vecchio “Che la gente onesta vuole dormire. Foresti de merda.” Mi chiesi quale foresto avesse potuto disturbare il sonno del vecchio. Mi chiesi se piuttosto, in quanto vecchio e stupido, non si fosse inventato tutto. Un pensiero improvviso mi immobilizzò, mentre stavo cacciando in valigia la mia collezione di calzini spaiati. Mi chiesi se non fossi proprio stato io, in quelle ventiquattro ore di buio, a disturbarlo.

Bang.

La scoperta della ruota, del fuoco, della relatività. Eureka. Improvvisamente, le parole della Gianna iniziarono a riempirsi di significato.

“Se esce si metta il suo giubbotto, che c’è un freddo…” il mio giubbotto, il mio giubbotto che non avevo mai avuto, il mo giubbotto che avevo indossato il giorno prima, mentre disturbavo il sonno di un vecchio scorbutico e il suo mastino infernale. Il vecchio indossava un giubbotto, un giubbotto nuovo insieme ad un vecchio cappello e dei vecchi pantaloni. Boom.

Mi catapultai in reception.

“Di che colore è il mio cappotto?” urlai addosso alla Gianna. Lei distolse lo sguardo dalla televisione, e mi fissò perplessa. Mi chiesi se una vecchia al confine dell’alzheimer potesse ricordarsi un particolare del genere.

“Blu scuro con interno bordò.” Mi rispose lei, come se le avessi domandato l’ora. Così, senza fare domande.

Boom.

Realizzai di avere un paio di domande da fare al signore col cane.

 

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Capitolo 3
*** Babilonia ***


For We Are Many

Stagione 1

Capitolo 3: Babilonia

Venerdì ventuno ottobre, 19.30

 

Ebbi fortuna, il vecchio era ancora intento a bere sambuca e borbottare al bar quando lo trovai. Non mi feci vedere, comprai un giornale e mi appostai dall’altra parte della piazza. Lo vidi uscire dal bar verso le sei e mezzo, e lo seguii fino ad un parcheggio poco fuori dal centro, in uno spiazzo sterrato, dove entrò in un vecchio pick-up, con il rimorchio carico di taniche vuote. Il lupo si accucciò in mezzo ad esse, mentre il padrone metteva in moto. Fine del pedinamento. Mi diedi più volte dell’idiota per non aver tenuto pronta la macchina. D’altro canto, non sarei potuto entrare con quella in piazza. Però avevo visto la direzione in cui andava, e un vecchio a quell’età non si allontana troppo da casa. Avrei dovuto cercare comunque informazioni su di lui, capire chi era, dove abitava ma soprattutto, come si era procurato il giubbotto. Facevo ancora fatica a pensare fosse mio. Anzi, non ne ero nemmeno sicuro, ma era un indizio, gli indizi lasciano tracce, e le tracce si seguono.

Tornai all’albergo. La faccia avvizzita della Gianna riluceva estasiata alla replica di Un Posto al Sole, decisi quindi di lasciarla stare per il momento. Avevo bisogno che qualcuno mi dicesse chi fosse il vecchio, lei e il suo alzheimer galoppante erano l’ultima spiaggia. Ma almeno si sarebbe dimenticata subito della domanda, mentre in paese una domanda avrebbe attirato curiosità. Mi diressi al bar dell’hotel. Il mio status di figlio adottivo mi garantiva il libero accesso alla bottiglia di Johnny Walker, che non tardai a vuotare in un bicchiere da birra piccola. Mentre mi imbottivo di alcool, il mio pensiero tornò ai due volti inchiodati alla mia porta, e a quel messaggio. Stavo per chiamare di nuovo Coletti, quando una porta che si apriva e delle voci conosciute attirarono la mia attenzione in direzione della reception.

“E lui mi risponde dici così perché non hai mai provato.”

“Oddio!”

“Che schifo, ma davvero ce l’aveva annodato lì?”

“Ma l’hai chiamata la polizia? Potevi approfittarne, mai visti tanti carabinieri come oggi!”

Tre voci femminili, giovani. In quel momento in reception si trovava la santa trinità di donna delle pulizie, cassiera e barista. Le tre sorelle avevano appena oltrepassato l’ingresso dell’hotel, e stavano venendo nella mia direzione. Capii che quello sarebbe stato il momento migliore per presentarmi, spiegare che era tutto un malinteso, che non annodavo lacci di gomma intorno al pennacchio per scopi ricreativi, e che non avevano nulla da temere da me. Capii che dovevo trovare un modo per dirglielo.

Mi nascosi dietro al bancone, sperando se ne andassero via al più presto.

Di lì a poco le mie speranze vennero frustrate dai rumori di sedie che si spostavano e di lattine di birra che venivano appoggiate su un tavolo, e un secondo dopo stappate.

“Questo non mi era mai capitato. Al massimo c’era stato quel milanese che mi aveva toccato il sedere.”

“È vero! Che poi ci aveva provato con me al bar!”

“Ma non ha fatto niente di strano lì da te?”

“Lui nulla, ma appena è entrato, c’è il Franco che si è messo a urlargli contro!”

Scoppiarono a ridere. Io, sorseggiando il mio whisky mi ritenni soddisfatto.

“Il Franco? Il vecchio col cane?”

“Coi cani! Ne avrà comprati centinaia, non lo sai che è pericoloso salire al vigneto, è pieno di quei cani randagi. Si sono moltiplicati come conigli, ora vivono lì nei dintorni.”

“Ma perché ne ha comprati così tanti?”

“È pazzo, non c’è un perché.”

“Sì che c’è! È impazzito quando è morta la moglie! Ha lasciato che il vigneto andasse in malora e ha iniziato a comprare i cani per fare la guardia, perché non si fidava più di nessuno.”

“E cosa ha fatto il nostro maniaco per farlo arrabbiare?”

“Boh. Un proposta indecente?”

Mentre le tre ridevano, e fantasticavano su un mio possibile rapporto omoerotico con l’allevatore di mastini Infernali, capii che la fortuna non aiuta solo gli audaci, ma anche i codardi nascosti dietro ad un bancone da bar. Diedi un altro sorso al mio whisky, iniziando a pianificare il mio piano d’attacco. Andare a chiedere il giubbotto per favore? No, non avrebbe funzionato. Non con il vecchio, pazzo Franco.

 

Fermai la mia Polo a mezzo chilometro dal vigneto, e smontai insieme ad un catino da bucato riempito di cibo per cani. Lavorare come detective mi aveva dato modo di approfondire il mio rapporto con i cani, soprattutto in sede di una missione di pedinamento o spionaggio. Il trucco del mangime di solito bastava per rendermi tranquillo. L’importante era non lasciare tracce, e sperare che il padrone pedinato non si accorgesse che le sue bestie fossero vergognosamente ingrassate durante la notte. Però lì parlavamo di una muta di cani selvatici, sperai caldamente che le ragazze esagerassero quando parlavano di centinaia di cani. Avevo con me, infilato nei pantaloni, il coltello più affilato che avessi trovato nella cucina dell’Hotel Girasole. Non ero sicuro avrei avuto il fegato per usarlo contro un cane, tanto meno contro un essere umano, immagino me lo fossi portato dietro più come una specie di talismano protettivo.

Il vigneto era delimitato da un muro di pietra, che sarebbe potuto sembrare a secco se solo non fosse stato così incredibilmente alto. Si interrompeva solo per lasciare il posto ad un cancello di ferro nero avvolto d’edera, dietro al quale si scorgeva un viale ciottolato che conduceva fino ad una sagoma scura in lontananza, confusa nella notte. Issandomi sulle punte dei piedi riuscii ad appoggiare il catino in cima al muro, e con qualche difficoltà in più, a scavalcarlo io stesso. Gli appigli non mancavano, le pietre sporgevano dal muro appuntite e irregolari.

Come avevo intuito, la vigna era stata lasciata per anni nella più totale incuranza. I rami si attorcigliavano morti e dissecchi intorno alle intelaiature di fil di ferro e cemento, illuminati appena dalla luce della luna, che spuntava intermittente dietro a stormi di nubi vaganti. Procedetti con cautela, dosando il mio respiro. Non sembrava esserci anima viva, umana o canina.

Una volta avevo letto un racconto di Lovecraft, che parla di un vecchio, la cui casa di notte viene assediato da alieni malevoli. Per difendersi, di giorno compra un sacco di cani, che vengono regolarmente uccisi dai mostri. La cosa che mi aveva sempre colpito in quel racconto era come gli alieni fossero, appunto, alieni. Strani, non umani, di una forma che probabilmente l’autore si era immaginato sotto acidi, una specie di gamberetto gigante armato di pistole laser. In quella notte, in quel vigneto, mi sembrava di essere circondato da alieni. Li vedevo in ogni ramo, in ogni gomitolo di fil di ferro, in ogni tanica abbandonata per terra. Se quegli oggetti avessero iniziato a muoversi, non me ne sarei stupito. Probabilmente sarei pure scappato strillando come una scolaretta, ma questa è un’altra storia. Procedetti in mezzo agli alieni, e i miei sensi acuiti dalla tensione mi fecero sentire le loro voci sibilanti.

Ero davanti all’ingresso della casa. Nessuna traccia di un solo cane. Appoggiai la tinozza per terra. La casa era probabilmente stata edificata una trentina d’anni prima, e i suoi mattoni intonacati stonavano non poco con l’atmosfera generale, ma perlomeno smisero di farmi pensare agli alieni. La porta era di legno, serratura standard. Immaginai che dall’altra parte si trovassero però una selva di chiavistelli aggiuntivi. Optai per una finestra, poco distante, chiusa da una persiana. Usai il coltello per alzare il fermo, infilandolo dentro la fessura tra le due imposte e facendolo scorrere verso l’alto. Mi trovai davanti ai vetri della finestra chiusa. Dietro c’era una cucina, col tavolo ricoperto da scatolette vuote di tonno, fagioli e cibo per cani. Non dovetti scassinarla, era solo accostata. La cucina era in uno stato perfino peggiore di quello che dava a vedere da fuori. Il lavello era pieno di piatti, e le scatolette vuote dovevano essere lì da giorni. Settimane, mi suggerii il ronzio dei moscerini. Entrai dalla finestra, e uscì in fretta dalla stanza, arrivando in quello che doveva essere l’ingresso. Era un locale spoglio, le pareti erano ingiallite, l’unico elemento decorativo erano uno sproposito di ombrelli, infilati a decine in un minuscolo portaombrelli. Nessun appendiabiti nelle vicinanze. Nessun cappotto.

Di fronte all’ingresso si trovava un breve corridoio, che terminava in una porta semi-aperta. Della luce di lampadina filtrava da essa. Procedetti lentamente, con il parquet che scricchiolava debolmente sotto le punte dei miei piedi. La porta dava su una scala che andava verso il basso, illuminata da una lampadina che spuntava con un filo dalla parete. La scesi, arrivando in un sottoscala riempito all’inverosimile di bottiglie di vino artigianale tappate con tappi di latta, allineate su scaffali, abbandonate per terra, ficcate in disordine dentro una enorme tinozza di legno. La mia attenzione venne però ben presto attirata da qualcos’altro. Da una porta, l’unica in quel sottoscala, provenivano dei suoni. Una voce umana, femminile, ovattata dalla porta chiusa. Mi avvicinai, e vi appoggiai sopra l’orecchio. Era davvero una voce femminile. Gemeva, sembrava si lamentasse. Sentivo anche, in sottofondo, il borbottio di una voce maschile, che sembrava articolare qualche parola. Il vecchio pazzo Franco. Il vecchio rapitore, stupratore, assassino seriale Franco. E io ero nella sua cantina, nella tana del lupo. Strinsi il coltello più forte che potevo, e misi una mano sulla porta, pronto ad entrare.

Un urlo della donna, più forte di ogni altro verso sentito prima, interruppe le mie fantasie e mi fece staccare dalla porta.

“Scopami, scopami!”

Ero perplesso. Iniziai ad elaborare uno scenario verosimile: un vecchio allevatore di mastini infernali ed una ragazza che hanno un coito nello scantinato del suddetto. Oppure.

Aprii leggermente la porta. Subito fu udibile anche una scarna melodia jazz. Nella stanza che si apriva davanti a me le pareti erano ricoperte da cianfrusaglie accatastate, casse di cartone, rastrelli, taniche, ceste di vimini. Ma in fondo si trovava un divano che mi dava le spalle, e davanti a lui un televisore acceso. Mi avvicinai di soppiatto, e iniziai a sentire un lento e profondo russare. Il vecchio Franco si era addormentato con i pantaloni calati, proprio sul più bello, mentre Moana Pozzi cavalcava un pelosissimo Ron Jeremy. Ah, gli anni settanta, era tutto così naturale negli anni settanta.

Dopo aver rinfoderato il coltello, procedetti fino al divano. Feci un passo avanti verso il vecchio, facendo attenzione a non calpestare una qualche sorpresina vischiosa per terra. Accanto alla tivù si trovava uno scaffale, pieno di videocassette. I miei occhi si spalancarono, e mi venne un po’ da chinare il capo davanti a quella Mecca dell’intrattenimento per adulti. Nel primo ripiano, in un ordine terrificante paragonato agli standard di quella casa, si trovavano grandi classici come Moana la scandalosa, Super vogliose due, Carne bollente e Banane al cioccolato. Il secondo erano videocassette di importazione, tedesche feticiste, giapponesi con tentacoli in copertina, americane amatoriali. Ma era l’ultima mensola che mi fece mancare il fiato. Conteneva cose che fino ad un attimo prima pensavo fossero leggende. C’era Tutto in famiglia, con Jackie Chan in uno dei suoi primissimi ruoli prima di darsi alle arti marziali, poi Giarrettiera tutta matta, con Adam West, impegnato in un’imbarazzatissima scena di sesso orale fuori camera. Anche lui sarebbe in seguito diventato famoso come il Batman del telefilm, quello con gli attori in pigiama. Due cassette senza copertina concludevano la fila, entrambe contrassegnate con un pezzo di scotch di carta con sopra una scritta in pennarello nero: Cicciolina in parlamento e Carrie e Giabba. Quella era roba che poteva valere milioni, il modo in cui fosse finita in quella cantina è tutt’ora il più grande mistero non risolto della mia carriera. Fui tentato per lunghissimi minuti di intascarmele, ma sapevo di non poterlo fare: io, quella notte, non ero mai stato in quel luogo. Continuai però a far vagare gli occhi tra i titoli, ad ammirare quella che era probabilmente una delle più esaustive collezioni di film porno che esistesse in Italia, destinata all’oblio, in uno scantinato di Fondale.

Scossi la testa e mi voltai di nuovo verso il vecchio: era tempo di concludere quella storia. Cercando di far evitare al mio sguardo le parti intime dell’anziano, notai che se i pantaloni a coste giacevano afflosciati intorno alle sue caviglie, il giubbotto gli era ancora indosso, seppur con la cerniera aperta. Mi misi alle sue spalle, mentre la musica di sottofondo lasciava lo spazio ad un assolo di Sax, e Moana si esibiva in una delle sue indimenticabili battute.

“Su e giù, su e giù!”

“Zitta che mi distrai.” mormorai io. Afferrai il giubbotto per i polsi. Lo tirai delicatamente verso l’alto, lentamente. Il vecchio continuava a russare. Iniziai a sfilarglielo dalle braccia.

“Ti piace lì, eh?” diceva Jeremy in sottofondo.

“Insomma.” feci io. Il giubbotto era quasi uscito. Il vecchio smise di russare. Io mi immobilizzai. La paura acuì il mio udito. Il sottofondo jazz di serie zeta diventò minaccioso e potente come i tamburi di una tribù africana che sta per andare in guerra. La bocca del vecchio si mosse, masticò qualcosa, schioccò. E poi riprese a russare.

Io sfilai del tutto il giubbotto, e lo allontanai dalla poltrona con un movimento secco. Dalla tasca uscì una raffica di monetine da due centesimi, che si sfracellò sul pavimento, risuonando nella mia immaginazione terrorizzata come un esplosione. Il vecchio sussultò.

Capii che era arrivato il momento di catafottersi via da lì. Mi lanciai a tutta velocità verso l’uscita, stringendo il giubbotto più che potevo. Sentì alle mie spalle tuonare un urlo, poi un tonfo secco. Mi girai, e vidi il vecchio annaspare nei suoi pantaloni.

“Furesti di merda! Ladri! Assassini!” gridava. Constatato che fosse ancora vivo, continuai nella mia fuga precipitosa.

“Babilonia! Babilonia-a-a!” lo sentii uralre, mentre salivo le scale. Arrivai di corsa alla porta di ingresso. Purtroppo, la mia intuizione di poco prima era corretta: davanti a me si trovava la più intricata selva di catenelle e lucchetti che avessi mai visto. Iniziai ad aprirli, ma le mie dite tremavano per la tensione, umide e molli come anguille, e scivolavano incapaci di sbloccarne uno. Sentì dei passi alle mie spalle, e mi voltai: Franco stava davanti a me, in mutande, con in mano il suo ombrello con la testa di cane. Sfilò il manico dal corpo dell’ombrello, e in un attimo impugnava uno stiletto lungo due spanne, affilatissimo. Mi si avventò contro urlando, e io mi buttai in cucina in una corsa goffa. Finii sul tavolo, e vi ruzzolai sopra scagliando lattine in tutte le direzioni. Sentì lo stiletto conficcarsi nel legno della tavola, a mezzo metro da me. Mi tuffai contro la finestra, ritrovandomi un attimo dopo accasciato per terra nel giardino. Me la diedi a gambe. Passando vicino all’ingresso, vidi il cane con la testa affondata fino alle orecchie nel mio catino di leccornie. Vado matto per i piani ben riusciti, pensai, immaginandomi con un grosso sigaro in bocca.

“Babilonia-a-a!” sentii urlare di nuovo alle mie spalle. Ma non ero più dell’umore di voltarmi. Arrivai al muro, e lo scalai con un agilità di cui non mi sarei mai ritenuto capace. Era fatta, corsi fino alla macchina e, con il cuore in gola e in testa le urla di piacere di Moana Pozzi, tornai in albergo. Ogni tanto lanciavo delle occhiate al mio compagno di viaggio, adagiato sul sedile davanti accanto a me. Blu, con interno bordò, e dall’imbottitura a dir poco eccessiva. Il mio giubbotto. Sperai solo non si fosse sporcato, nello scantinato.

 

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Capitolo 4
*** A letto con il mio capo ***


For We Are Many

Stagione 1

Capitolo 4: a letto con il mio capo

 

Venerdì ventidue ottobre, 03:24

L’alieno mi lanciò addosso un urlo sibilante, modulato da almeno due sistemi di corde vocali, facendo ondeggiare i barbigli che spuntavano da quella immaginai essere la sua bocca, in cima al suo corpo da gamberetto color rosa pallido. Le ali sulla sua schiena si mossero, in segno di minaccia.

“Buono…” Gli dissi, spostando leggermente la mia sedia lontano da lui. Anche lui era seduto, stranamente composto, al tavolo da tè.

“Ma l’avete invitato voi?”

I coniglietti erano anche loro seduti al tavolo, in mezzo alla radura. Uno di loro si alzò, con infilata in una narice una banconota arrotolata. L’altro, sorbendo il suo te, rispose:

“Non so, forse l’ha invitato mia suocera!” e tutti, compreso l’alieno, scoppiammo a ridere in modo incontenibile. Al momento mi sembrava di aver sentito la battuta del secolo.

“Siamo ancora nella camera 302?” domandai, asciugandomi le lacrime.

“Non so, tu che dici?”

“Sono nudo. Non è che avete dei vestiti?”

“C’è un giubbotto di sopra, ma ora lo sta indossando il signor serpente.”

“Ma è il mio giubbotto! E chi cavolo sarebbe il signor serpente?” chiesi, basito.

“L’inferno è pieno di gente strana, mio caro. Però le nostre teste esplodono facilmente.” Disse un coniglio, facendomi un ammiccante occhiolino.

Io ascoltavo rapito. Mi accorsi che mi era venuta un erezione. L’alieno si avvicinò, e iniziò ad annusarmela con i suoi barbigli.

“Stai fermo, che schifo!”

“Ma lascialo fare! Non sai che prima di finire all’inferno era Moana Pozzi?”

“Lo trovo improbabile.” Dissi io.

“Infatti, me lo sono inventato.” E giù di nuovo a ridere.

L’alieno mi urlò di nuovo contro, io mi alzai dal tavolo.

“Basta, vado dal serpente a riprendermi il giubbotto. Avete detto che è di sopra?”

“Non puoi andare di sopra, non c’è nessun sopra.”

Immagino sia legato al fatto che ci troviamo in mezzo ad una foresta?

“No. Prima devi uccidere l’uomo maiale. Poi noi.” L’alieno iniziò a strisciarmi contro, con i suoi barbigli che si contorcevano minacciosi in direzione del mio basso ventre.

“E sta buono!” Urlai, mollandogli un calcio. Lui fece un volo di due metri, e si sfracellò sul tavolino. Lì si spaccò a metà, rivelando un interno viscido ma, per una logica che non capivo, molto appetitoso.

“Le lasagne!” urlarono all’unisono i conigli, e prese due forchette, iniziarono a strapparne enormi pezzi e a ficcarseli in bocca.

“Ragazzi, che schifo!”

Ma non mi ascoltarono, erano troppo impegnati a sporcarsi il muso di succo d’alieno rossastro. In quel momento, la terra iniziò a tremare. Mi voltai, e vidi in lontananza gli alberi iniziare a cadere, e sentii un grugnito lacerare la calma della radura. Stava arrivando.

 

Il Samsung mi vibrò a tutta forza a una spanna dall’orecchio, sul comodino. Ero nella mia stanza. Appena vi ero entrato, di ritorno dal mio raid notturno a casa del vecchio Franco, avevo sentito le forze abbandonarmi. Ero riuscito appena a trascinarmi in doccia, poi mi ero addormentato. E avevo dormito esattamente un ora, a giudicare dalla cifra sull’orologio sul comodino. Risposi al telefono.

“Che c’è?” dissi, con voce oltretombale.

“Brutto idiota, hai idea di quanto è passato dal tuo ultimo rapporto?”

“Ciao Diana, anche tu mi manchi. Lo sai che sono le tre di notte?”

“Le tre e venticinque minuti. Idiota.” Precisò con la sua voce priva di intonazione e sentimenti il mio capo. In effetti era ormai da più di tre giorni che non facevo rapporto, gli eventi mi avevano spiazzato.

“Hai trovato la ragazza?” mi incalzò.

“Sto cercando le parole.”

“Trovale in fretta, nell’altra stanza si trova un pedofilo. Sto per torturarlo facendogli credere di essere stato rapito dalla mafia albanese.”

“Grazie per avermi tolto il sonno per una settimana. Allora, Giovanna Carta, ricordi?”

“Mi stai facendo rapporto o stiamo giocando a Trivial pursuit?”

“Stupido io a chiederlo. Dopo il rapimento ho condotto delle ricerche incrociate su Facebook, foto della festa soprattutto. Ho rintracciato diversi dei presenti, gli ho interrogati separatamente fino a che sono stato sicuro che la ragazza si era appartata in una macchina, una bmw grigia, con un uomo sulla trentina. Ho subito pensato a un rapimento per inserirla in un circuito di prostituzione, il che voleva dire che la macchina era rubata o a noleggio. Era a noleggio, l’ho trovata in un autonoleggio in trentino, data via esattamente nella data della festa. Ho iniziato ad indagare se nessuno avesse visto un uomo e una ragazza in abito da sera in qui giorni, finché ho avuto riscontro positivo da un benzinaio della zona. Addormentata sul sedile di dietro di una Panda. Il benzinaio mi ha fornito i numeri di altre stazioni di servizio locali fuori dalle autostrade, era improbabile che prendessero l’autostrada con una ragazza rapita. Così ho scoperto che era stata avvistata un’altra macchina con due ragazze addormentate. Immaginavo di aver trovato un traffico umano di dimensioni notevoli. Seguendo questa pista, sono arrivato a Fondale.”

“Cos’è Fondale?”

“Un paese. Le macchine erano dirette lì. Qui, anzi. È dove mi trovo adesso.”

“E poi?”

“Poi non ho idea di cosa sia successo nelle ultime 24 ore. Scusa.”

Dall’altra parte si udì solo il silenzio. Poi un:

“Sei diventato deficiente?”

“Immagino di sì. Vuoto completo, mi sono svegliato in camera senza ricordare nulla di quello che era successo la notte prima.” Le raccontai brevemente degli avvenimenti.

“Quindi ho recuperato il mio cappotto, che non ricordo di avere mai indossato. Poi mi hai chiamato te e hai iniziato a insultarmi, ma ti amo così come sei.”

“Vuoi dire che non ricordi nulla della notte tra il 19 e il 20?” Disse quelle parole con una sfumatura di preoccupazione. Da parte di Diana cuore di ghiaccio era praticamente una manifestazione d’affetto. Mi sentii onorato.

“Sì, i miei ricordi si fermano al 19. Contando che mi sono svegliato alle sei del giorno dopo, posso dire di avere un vuoto di 24 ore esatte.”

“È una storia priva di senso. Ma immagino non ci sia motivo che tu te la sia inventata.”

“Immagino di no.” Afferrai il giubbotto. Lo avevo appoggiato la sera prima su di una sedia vicino al mio letto. Più guardavo la spessa imbottitura, più ero perplesso: certo doveva tenere un bel caldo, ma al prezzo di trasformarmi in un grottesco uomo salsiccia. Non avevo idea di dove, con che criterio, o perché me lo fossi procurato. Iniziai a esplorare le tasche con la mano libera, mentre Diana mi parlava dal telefono:

“Cerca di rimetterti in sesto e ricordarti cosa sta succedendo. Non ti pago per ubriacarti fino all’amnesia.” Diana con quest’ultima frase tornò ad essere la solita, e non nego che la cosa mi rimise a mio agio. Non volevo avere a che fare con un caso talmente strano da inquietare Diana, sarebbe stato un chiaro segnale che mi trovavo in mezzo ad una colossale tempesta di merda.

“E trova Giovanna Carta, te la ricordi la regola dei tre giorni?” Continuò lei. Nel nostro ambiente, diciamo che dopo tre giorni non si cerca più una persona, ma un cadavere.

“In tal caso mi sa che è già troppo tardi.” La mia mano trovò una tasca interna del giubbotto. Era chiusa da una lampo, probabilmente incastrata. Sotto la tela lucida bordò, si trovava qualcosa, un piccolo oggetto duro e freddo. Le dita esplorarono oltre, e trovarono una scatola, grossa all’incirca come una scatola di fiammiferi.

“Aspetta un secondo.”

“No, aspetta tu. Io devo andare. Voglio un rapporto dettagliato domani mattina, metti insieme i pezzi e dimmi che cavolo sta succedendo. Ora vado, ho un mostro da evirare.”

“È sempre un piacere parlare con te, Diana. Ciao.”

Riattaccò. Riappoggiai il cellulare sul comodino, e iniziai a lavorare con entrambe le mani sulla cerniera. Con una mano tendevo le due file di denti, con l’altra tentavo di smuovere la lampo. Non voleva saperne di aprirsi, era incastrata di brutto. Andai in bagno, e presi la forbicina per le unghie: un momento dopo, stavo sventrando il mio giubbotto. Dalla apertura nel tessuto fuoriuscì una scatolina. Era ricoperta da scritte in cinese, semplici scritte nere su cartoncino bianco. Era aperta, all’interno si trovava qualcosa. Ne tirai fuori quello che all’inizio scambiai per un preservativo, ma una volta srotolato si rivelò essere un guanto, fatto di un materiale simile al lattice, ma più sottile. Mi ci volle un po’ per srotolarlo completamente, ancora di più per infilarmelo. Il risultato fu sorprendente: la mia mano sembrava nuda, se non fosse stato per la leggera opacità del lattice. Provai a muoverla, e non provai il senso di impacciataggine che di solito si prova indossando un guanto, le mie dita avevano una sensibilità praticamente perfetta. Senza togliermi il guanto, andai a prendere il secondo oggetto nella tasca. Era una chiave. Una piccola chiave dalle forme squadrate.

Guardando la scatola con i guanti (ce n’erano dentro ancora almeno tre), capii che non avrei trovato impronte su quella chiave. Smisi di domandarmi se e come ne fossi entrato in possesso, durante quel giorno che non ricordavo. Semplicemente non avevo una risposta.

Non riuscivo a prendere sonno, iniziai a giocherellare con il telefono. Controllai un paio di volte la posta, ma a quanto pare il mondo esterno sembrava volermi abbandonare a Fondale.

“Aspetta un attimo.” Lo dissi a voce altissima, un idea mi aveva attraversato la testa in modo talmente veloce e improvviso da far rumore. Mi collegai all’indirizzo di Giancarlo Giannini che avevo dato alla segretaria di Coletti. Una lettera non letta. Mi avevano scritto.

“Egregio signor Giannini, per problemi interni all’azienda, siamo costretti a spostare la trattativa di un paio di settimane. Ci scusiamo per il disagio.”

Ottimo, una delle uniche strade che mi si era aperta davanti non si sarebbe sbloccata prima di due settimane. Forse avrei dovuto abbandonare Fondale, e cercare informazioni su Nasolini, il secondo volto sulla mia porta. Trovare una connessione tra i due. A Milano sono sicuro che avrei potuto trovare qualcosa.

Giovanna Carta? Morta in un fosso, probabilmente. O Dio solo sa dove poteva essere a quest’ora. Il pensiero che io stesso forse lo sapevo, ma non ricordavo nulla, era il più grosso sasso nella scarpa della mia carriera di curioso a pagamento.

“Spostare la trattativa.”

Quale trattativa? Gli avevo chiesto solo se potevo parlare con Coletti. Sembrava una lettera scritta per più persone, alla quale solo in seguito era stato messo il nome del mio alter ego. Quale problema interno al personale avrebbe portato tanto scompiglio da annullare più di una trattativa? Un problema grave. E poi, la vaghezza che concludeva la lettere, un paio di settimane. Quante segretarie avrebbero scritto una cosa del genere in situazioni normali?

Il mio sguardo saltò sui fogli, ancora appesi alla porta. “Stanno per morire”. Accessi internet, e feci di nuovo la stessa ricerca del giorno prima. Coletti. Stessi risultati. Tutto normale. Mi riaddormentai pochi minuti più tardi.

________________________________________________________________

Grazie a tutti i fighi che stanno leggendo! Non vedo ancora recensioni, quindi lasciatene una, guadagnerete un fottio di punti e mi renderete felice! Anche negative. Anzi, soprattutto negative, sono così soddisfatto di come ho scritto questa storia che avrei bisogno di qualcuno che mi sgonfiasse un po' :P besos,
Dzoro

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Capitolo 5
*** Colazione da Gianna ***


For We Are Many

Stagione 1

Capitolo 5: Colazione da Gianna


 

Sabato ventidue ottobre, 10:10

Per ovvi motivi, non fui stupito quando nessuno venne a farmi le pulizie. Non che la cosa mi offendesse in modo particolare, il mio unico pensiero quella mattina era andarmene da quel paese al più presto. Accartocciai tutto il mio guardaroba in valigia, partendo dai calzini e le mutande e finendo con il pantaloni, e ricordandomi solo allora che avrei dovuto fare il contrario. Mi sedetti sulla valigia e tirai la cerniera. Avevo una valigetta in cui tenevo il mio portatile, vi ficcai dentro le foto trovate sulla porta, la chiave e i guanti. Assicuratomi di non aver lasciato nulla, mi lanciai verso la reception. Il banco era stranamente vuoto, gli animali impagliati sembravano perfino un po’ tristi. Mi appoggiai sopra e iniziai a far ticchettare le punte delle dita contro il legno. Poi, dietro di me, sentii il parquet che scricchiolava. Il sole mattutino che entrava dall’ingresso proietto su di me un’ombra lunga e scura, che si avvicinava mentre lo scricchiolio iniziava ad andare all’unisono con dei passi pesanti come quelli di un bisonte. Mi voltai. Il caporale Amerigo Furlani mi fissava con i suoi occhi da troll delle nevi, oscurando il sole.
“Fabrizio Scafo, eh?”
“Sì.”  Risposi io, prima di accorgermi che quel tono di voce all’apparenza privo di qualsiasi sentimento, celava una impercettibile ironia.
“Sì?” Ripeté lui.
“No?” Domandai io.
“Lo sa che dare un’identità falsa ad un ufficiale potrebbe portarla in galera, signor Pietro Zeni?”
Bang. Sgamato. Uno dei maggiori problemi che noi detective abbiamo con la polizia, è che un agente abbastanza in gamba non ha problemi a identificarci. I nostri dati sono in bella vista in tutti i database sbirreschi del mondo. Ero pronto a buttarmi ai suoi piedi e pulirgli gli stivali con la lingua, scongiurandolo di perdonarmi e di non mangiarmi, quando accanto a noi, dal nulla, comparve la Gianna.
“Maresciallo! Ma che piacere vederla! Cosa ci fa in paese?” belò gioiosa.
“Passavo a salutare, Gianna. Mi chiedevo se non potessi avere uno dei tuoi ottimi caffè e una fetta della tua leggendaria crostata.” Furlani le rispose senza degnarla di uno sguardo. Continuava a fissare me, ed ero sicuro che se lo avesse fatto ancora per qualche secondo la mia testa sarebbe esplosa come un palloncino.
“Oh, il caffè qui non è nulla di speciale.” Si schernì la Gianna, imbarazzata e lusingata. Ignoravo come avesse fatto a capire ogni parola dell’uomo, evidentemente riusciva a capirlo molto meglio di quanto capiva me.
“No, avete un ottimo caffè qui a Fondale, e un ottima crostata. E io e il mio amico non vediamo l’ora di mangiarcene una fetta, vero signor Zeni?”
“Sicuro. Sicurissimo.” Dissi io, mentre sentivo tutto il sangue defluirmi dalla faccia.
Ci sedemmo su un tavolo del bar, dove la Gianna ci servì del caffè d’orzo dall’aroma bruciacchiato e una fetta di torta chiaramente confezionata, e a giudicare dalla consistenza anche un po’ stantia.
“Le piace?” mi chiese Furlani, interrompendo il lungo silenzio che aveva seguito la fine della conversazione alla reception.
“Buona.” mentii io.
“È orrenda, idiota. Ora, so chi è lei, so che è un investigatore privato. Questo spiega perché mi ha mentito. Ma non lo giustifica. Ha cinque minuti per spiegarmi che diavolo ci fa a Fondale, e a convincermi a non arrestarla.”
“Oddio, non so da dove cominciare.”
“Sono passati almeno dieci secondi. E non creda che non sto contando. Ora. La verità.”
 Mi aprii come un bimbo bugiardo davanti alla mamma arrabbiata. Raccontai dell’indagine, di Giovanna, e della pista che avevo seguito fino a Fondale. Tralasciai il vuoto di memoria, così come l’impresa della notte prima. Feci intendere che l’indagine si era arenata, il che per quello che ne sapevo non era troppo lontano dalla verità. Lui mi ascoltava glaciale, ebbi l’impressione che per tutto il tempo non avesse nemmeno sbattuto le palpebre.
“…e quindi stavo per tornare a Milano. Fine della storia.”
“Sa cosa sono le due cose che odio di più al mondo?”
“Beh, se il mio intuito non mi inganna, immagino che la seconda siano i detective privati.”
“La prima sono i bugiardi.” Era amore. Per un attimo temetti che si riferisse al racconto che gli avevo appena detto, ma mi resi conto che era solo uno strascico di rabbia di quando gli avevo dato la mia identità finta.
“Mi scusi, non volevo compromettere l’indagine.” Tentai di giustificarmi. Tentai di giustificarmi per aver mentito al robocop dell’Arma. No, sul serio, a che cavolo stavo pensando?
“Lei ha ostacolato un indagine di polizia, e preso in giro un ufficiale!” mi urlò addosso. Il suo collo si gonfiò di vene rosse. Io mi miniaturizzai.
“Si vergogni! Ringrazi il cielo che ho cose più importanti da fare che portare in galera voialtri guardoni prezzolati!” Guardoni prezzolati. Questa era oggettivamente originale, l’avrei riutilizzata.
Si alzò, lasciando lì metà della sua colazione.
“Addio, signor Zeni, e preghi il cielo che non ci incontriamo di nuovo.” Detto ciò, voltò i tacchi e si diresse verso l’uscita.
“Sarà fatto. Mi scusi.” lo chiamai. Si girò di nuovo nella mia direzione, con gli occhi fuori dalle orbite.
“Che c’è?” mi abbaiò contro.
“La scomparsa di Giovanna Carta è collegata alla vostra indagine?”
Il suo volto si rilassò. Una reazione involontaria, di nuovo. Ora non avevo bisogno di una risposta, capii di aver fatto centro, il collegamento c’era.
“Non la riguarda.” Si voltò di nuovo, e se ne andò. Io sorseggiai il mio caffè, ritenendomi tutto sommato soddisfatto.
Tornai alla reception, e trovai la Gianna che leggeva il Corriere.
“Gianna, me ne sto andando. Posso saldare il conto?”
“Oh, Giancarlo!” sospirò lei “L’albergo sarà una tale noia senza di lei!” Appoggiò il giornale sul tavolo, e mi abbracciò, cogliendomi totalmente di sorpresa. Io le diedi un paio di colpetti sulla spalla.
“Su su.” Dissi.
“Vado a prendere il registro.” Mi disse, staccandosi, e trottò dentro alla porta dietro al bancone. Rimasi solo, con la mia valigia, e la consapevolezza che stavo per andarmene. E la cosa, non lo nego, mi faceva gongolare. Salutare Fondale sarebbe stato il distacco meno drammatico della mia vita.
I miei occhi caddero sulla copertina del Corriere. Lo aprii, e andai dritto fino alla pagina dello sport. Passai subito dopo a quella della tivù. Quella sera avrebbero dato Non si sevizia un paperino, un film che detestavo ma che il titolo geniale mi obbligava a vedere ogni volta. Sperai di tornare a casa in tempo. Passai alle previsioni del tempo. Mentre la guardavo, un’idea mi trafisse il cervello.
Stanno per morire.
 Girai ancora un paio di pagine, e arrivai ai necrologi. Li lessi tutti, dall’inizio alla fine. Tirai un sospiro di sollievo. Per sicurezza, li rilessi una seconda volta, magari me ne era sfuggito uno. Sentii le gambe diventare di gelatina. Ero un idiota.
Saverio Coletti. Eccolo là, in mezzo alla pagina, in bella vista. Stecchito.
____________

Ora possiamo dare anche un nome al protagonista, bello no?
Il mio obbiettivo scrivendo questa storia, era che non ci fosse una pagina in cui non accadesse qualcosa di stupefacente. Spero di averci preso. Ma fatemelo sapere voi, ditemi i vostri personaggi preferiti (non che per ora ce ne siano molti, ma aspettate e vedrete;), critiche e suggerimenti, cose che vorreste vedere nella storia. Cose così.
Grazie a tutti i recensori e lettori, anche a quelli ora convinti che sono un pericoloso tossicomane. Ciao!
Dzoro

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Capitolo 6
*** I maiali e la santa trinità ***


For We Are Many

Stagione 1

Capitolo 6: I maiali e la santa trinità





Sabato 22 ottobre, 11.00

Una volta il mio pesce rosso si è suicidato. Avevo otto anni, mi ero alzato verso le sette per andare a scuola, e mentre stavo divorando i Cheereos dalla mia tazza di Batman, con un rivoletto di latte che scivolava giù dal mio mento paffutello, me ne ero accorto. Sardino era lì, immobile sulle piastrelle screziate della cucina, con negli occhi un espressione troppo ottusa, perfino per gli standard dei pesci rossi, in mezzo ad una pozzangherina appiccicosa, con uno stronzetto bianco che gli usciva dal sedere. Una settimana prima avevo visto Free Willy alla televisione, mi sentì un sacco in colpa pensando che magari Sardino aveva visto la scena in cui l’orca assassina saltava la scogliera, e in un folle tentativo di emulazione ci aveva lasciato le pinne. Quello rimane nella mia memoria il lutto più grave della mia vita. Almeno fino al momento della morte di Coletti.

Saverio Coletti era morto. Saverio Coletti era un tizio che io manco conoscevo, se il mio me stesso ubriaco, drogato o chissà in quale altro stato confusionale non avesse deciso per un motivo noto ormai solo a lui di attaccarlo sulla porta della mia camera. E la cosa non era poi così terribile, se non che il me stesso di cui sopra sapeva che sarebbe morto.

Le mie dita si muovevano come in preda alle convulsioni sullo schermo del Samsung, schiacciando infinite volte il pulsante sbagliato, scrivendo la parola sbagliata, finché Google non riuscì a portarmi sul sito de Il Giorno, dove a quanto pare la fama di Coletti gli aveva fatto guadagnare un articoletto. La prima cosa che vidi, fu una foto che non capì subito essere una scala. I gradini erano di vetro, lastre di vetro sostenute da un intelaiatura di metallo. Ce n’erano solo tre ancora intere, le altre si erano frantumate in mille pezzettini. Il fotografo del giornale aveva modificato la foto, trasformando in macchie nere il sangue che inondava quello scenario. I miei occhi passarono freneticamente al setaccio l’articolo, cogliendo parole qua e la. Caduta, rottura, lastra non temprata. Rilessi, più di una volta. È proprio vero che la figlia del calzolaio ha le scarpe rotte. La tempra del vetro è un processo che fa rompere il vetro, in caso di rottura, in frammenti regolari e smussati. Ogni tanto una lastra, per errore, può sfuggire al processo. Coletti temprava il vetro di professione, e aveva le scarpe rotte. Ma la figlia del calzolaio almeno non rischia di cadere su una lastra di vetro non temprata, frantumandola e trovandosi una scheggia lunga venti centimetri infilata nella carotide. Metà quello e metà la caduta di tre metri: l’addizione il cui il risultato era stata la morte di Coletti.

“Il motivo per cui l’imprenditore sia scivolato e caduto sulla scala resta ignoto, si pensa ad un malore. Questa tragedia ci ricorda come gli incidenti in casa possono essere letali come quelli in auto.” Concludeva il giornalista, a quanto pare desideroso di trarre una morale dalla vicenda. Io cercai di trarre la mia.

C’è un modo molto efficace per predire la morte di un uomo: ucciderlo. Questo avrebbe spiegato tutto. Voleva dire che durante il mio black-out mnemonico dell’altra notte avevo scoperto del piano di uccidere quei due uomini, e me l’ero segnato. Stampando due foto e scrivendoci sopra per non dimenticarmelo. Però era ridicolo, non riuscivo ad immaginare uno scenario in cui avessi fatto una cosa del genere. E poi, chi desidera uccidere due uomini in nessun modo collegati tra loro, e lo dice ad un investigatore privato ubriaco? Sempre che io fossi stato ubriaco. E sempre che non ci fosse effettivamente nessun collegamento tra i due, cosa che andava verificata.

“Giancarlo?” mi chiamò la Gianna. Era tornata, reggendo un registro per le presenze più grande di lei.

“Gianna, lascia stare. Resto ancora un giorno.”

 

Il telefono squillò diverse volte, prima che Carlo alzasse la cornetta.

“Pronto!”mi urlò nell’orecchio.

“Ciao Carletto, sono Pietro. Zeni.”

“Patacca!” strillò Carlo, dall’altra parte. Potevo già sentire tutta l’abbronzatura da tamarro riminese in quella sola parola. Era una combinazione di accento e tono che non lasciava nulla all’immaginazione. La voce di un uomo formatosi a piadina e turiste tedesche. La voce di Carlo.

“Zeni, ma dove cacchio ti sei cacciato? È una vita che non ci si sente!”

“Sai com’è, lavoro. Tu come sei messo?”

“Eh caro mio, una noia! È un periodo un po’ fiacco qui in agenzia, ho appena inchiodato un vecchietto con una passione tutta speciale per l’est Europa, ma a parte quello… tu che fai?”

“Sono in Trentino.”

“A sciare? È in vacanza, il nostro Zeni?” cercai le parole, mentre pregavo silenziosamente che non pronunciasse più il mio cognome. Il modo in cui pronunciava la zeta mi faceva uscire di testa.

“In realtà ho un caso tra le mani.”

“Roba grossa?”

“Spero piccola. Ma complicata.”

“Un casino, insomma.”

“Sì, direi di sì. Puoi darmi una mano?”

Avevamo lavorato insieme in un operazione congiunta, un anno prima. Un imprenditore Bolognese sposato e con figli che stava buttando via tutti i suoi soldi per un’amante. L’avevamo incastrato insieme, ma lui era stato assunto dalla moglie dell’imprenditore, io dall’imprenditore che aveva l’impressione di essere seguito. Alla fine lui mi aveva licenziato, convinto che io non sapessi fare il mio lavoro, e io mi ero preso una piccola soddisfazione. Però nulla me ne era venuto in tasca, mentre Carlo si era potuto pagare il Lambrusco per un bel po’ di tempo. Me ne doveva una, e lo sapeva.

“Ma Zeni, per te questo e altro! Allora, di che si tratta?”

“Conosci un certo Francesco Nasolini?”/p>

“Eh, come no, il re dei maiali!”

Quello che Carletto aveva appena detto non era un insulto, ma un titolo a tutti gli effetti. Nasolini, lo sceicco del prosciutto, dai suoi maiali arrivava metà della carne consumata in Romagna. rintracciare chi fosse il secondo uomo sul muro non era stato facile. Le pagine bianche su internet erano state un buon inizio, ma ci avevo messo una vita prima di trovare una foto che corrispondesse a quella trovata sulla mia porta d’albergo. Nasolini aveva alle spalle una storia ventennale nel campo dell’allevamento di suini. Nonostante internet tacesse su di lui, scoprii ben presto che era una celebrità locale, e confermai la sua identità grazie ad un filmato su youtube in cui cantava Evviva il sangiovese in un programma di liscio e mazurke su un canale locale. Così continuava a comparire nella mia mente, grasso, paonazzo, che si asciugava la faccia con un fazzoletto bianco mentre si sgolava sul palco.

“Lui.” Confermai. “Ho paura che presto sarà in pericolo. Puoi guardare se ci sono movimenti sospetti intorno a lui in questi giorni?”

“Un pedinamento, eh?” la mia mente predisposta allo stereotipo mi fece capire piadinamento. Gli stavo chiedendo molto, era un lavoro che lo avrebbe impegnato diversi giorni. Ma me ne doveva una.

“Ma te lo pedino io il Nasolini! Quando devo iniziare?”

Dopo aver dato a Carletto qualche dettaglio in più, lui mi diede un ultima volta del patacca e ci lasciammo così. Mentre riponevo il Samsung iniziai a pensare a cosa potevo fare io nel frattempo. Seduto sul letto, presi la borsa del computer, e vi frugai dentro. Trovai subito la chiave, quella che avevo trovato nel giubbotto. Ora dovevo trovare una serratura.

La esaminai. Solitamente una chiave ha una sola fila dentellata, le chiavi di casa di solito ne hanno due. Quella ne aveva tre e formava quindi una specie di piramide schiacciata. Una serratura a tre file di pistoni, praticamente impossibile da scassinare a meno di disporre di tre paia di braccia. Iniziai a googlare. Serrature del genere erano vendute solo su siti specializzati, arrivai anche alla conclusione che la mia doveva essere di produzione svedese. Non era una porta di casa, comunque. Apriva un lucchetto, probabilmente il lucchetto più colossale che io avessi mai visto. Era composto da due sbarre di metallo lucido, unite tra loro da dei cubi di metallo nero. A prova di scasso. Se quella chiave era mia, avevo fatto un ottimo acquisto. Arrivare alla domanda seguente non richiese molto tempo: come trovare il lucchetto?

 

Era sera, quando mi trovai seduto al tavolo del bar insieme alle ragazze. La barista, la ragazza delle pulizie e la cassiera mi guardarono con occhi sgranati, mentre mi sedevo al loro tavolo, senza dire una parola. Avevo interrotto il loro rituale della birra serale, che a quanto pare facevano tutti i giorni.

“Salve ragazze. Ora, ho pensato a lungo come affrontare questa faccenda senza sembrare un maniaco o un mitomane, e sono arrivato alla conclusione che la cosa migliore è raccontarvi tuta la verità.” Mi feci serio, e mi appoggiai con i gomiti sul tavolo.

“Sono malato. Soffro di una malattia molto grave al sistema circolatorio. Il laccio che hai visto… è l’unico modo per me per non svegliarmi annaspando nel mio sangue. È una situazione tremenda e mortificante. Scusatemi se non ve l’ho rivelata subito. Mi scuso se vi ho spaventato e dato una cattiva impressione di me.” Presi una pausa, copiata e incollata da un monologo di Robin Williams, stringendo le labbra ed espirando dal naso. “Scusate.” Poi le fissai con gli occhi dell’innocenza. Loro rispondevano al mio sguardo, serie. L’avevano bevuta.

“Sei un detective, vero?” disse la ragazza delle pulizie.

Se in quel momento avessi bevuto un bicchiere d’acqua, l’avrei spruzzata fino oltre il confine con l’Austria. Arrossendo oltre i limiti del rosso provai a dire una parola, ma l’unica che mi uscì di bocca fu:

“Oh.”

“Lo sei davvero!” esclamò la cassiera, mentre le altre partecipavano alla sua sorpresa con un gridolino.

“Non ci posso credere, a Fondale? Sto male!” le fece eco la barista, portandosi le mani alla faccia.

“Ehi… ehi!” mi ripresi io “Non ho detto di esserlo!”

“Ma hai una pistola? E un distintivo?” la ragazza delle pulizie si era sporta verso di me, con occhi pieni di curiosità.

“Hai mai ucciso qualcuno?”

“Stai lavorando con i carabinieri?”

Era chiaro che ormai negare era impossibile. Perlomeno non erano più convinte che fossi un pervertito. Forse.

“Okay, aspettate un attimo. Innanzitutto, abbassiamo la voce. Poi, come diavolo l’avete scoperto?”

“L’ho scoperto io!” sorrise la ragazza delle pulizie. “Ho visto l’altro giorno che parlavi con quel carabiniere. Ero qua dietro, ho sentito tutto!” ecco fatto, grazie mille colonnello Furlani. Sospirai.

“Sì, sono un detective. Ho il porto d’armi scaduto, e non ho un distintivo, lavoro per un agenzia privata. Non sto lavorando con i carabinieri, sto seguendo un caso… complicato.” E spero di non aver ammazzato nessuno pensai, senza dirlo.

“Non ci credo, non ci credo!”

“È la cosa più fuori di testa che sia mai successa a Fondale!”

“Quale caso? Cosa è successo.”

“Okay,” radunai le idee, mi sentii come se stessi prendendo la rincorsa per saltare un crepaccio “Sto indagando sul rapimento di una ragazza, potrebbe essere qui a Fondale. Però è da qualche giorno che sono bloccato nelle indagini.” Non potevo parlargli dell’amnesia, meglio restare sul vago. “La sera prima che tu mi hai trovato… beh, hai capito come, degli uomini si sono introdotti in camera mia. Mi stavano torturando.”

Le tre emisero contemporaneamente un gemito.

“Torturando?”

“Mi avevano legato al letto, mi minacciavano di farmi del male se non gli dicevo quello che volevano.”

Altri gemiti.

“Dio mio!”

“Ma chi è stato?”

“Vorrei tanto saperlo. È quello che sto tentando di scoprire.” In realtà l’identità dei miei due torturatori era solo un mistero tra i tanti, ce ne erano molti prima che dovevano essere risolti.

“Forse l’ha rapita il vecchio Franco! L’altro giorno al bar si è fermato un corriere che gli doveva portare un pacco, e ha detto di aver sentito dei rumori molto strani provenire dalla cantina.” Disse la barista, con aria da dottor Watson.

“No, ho già esaminato quella pista.” risposi io, arrossendo e deviando il discorso. “Adesso non voglio spaventarvi, ma è probabile che qui si tratti di un grosso giro di rapimenti. Voi siete al sicuro, se è un’organizzazione criminale, non hanno interesse a creare scompiglio in prossimità della base delle loro operazioni.”

“Cavolo!” esclamò la cassiera “ma allora era per quello che i carabinieri erano qui?”

“Forse, ho provato a capirlo, ma non ho conferme.”

“Ma… a Fondale?” disse la cassiera. Una domanda che mi ero posto un’infinità di volte, ma alla quale ormai non avevo più timore di rispondere con un:

“Sì. Per quanto strano possa sembrare.”

“Hai qualche indizio da seguire?” mi chiese la ragazza delle pulizie, pronunciando la parola indizio come faceva chiunque al di fuori del giro. Un indizio per una persona che non è mai stato detective è un oggetto del regno dei film e dei romanzi, un po’ come un astronave o una pistola. Eppure sì, io di indizi ne avevo. Estrassi il mio libretto degli appunti.

“Credo che l’organizzazione sia in un qualche modo collegata alle lettere H e P. Ma non so di più. Poi ci sarebbe questo.” Estrassi il Samsung, e glielo mostrai “Un lucchetto. Penso sia in un qualche modo collegato al caso, e ho con me la chiave che lo apre. Vi sarei grato, se sapete nulla che possa aiutarmi, di dirmelo.” Ecco fatto, ero arrivato al punto che mi interessava. Approfittare della più efficace agenzia investigativa presente a Fondale.

“Oddio, non ci posso credere! Ci stai chiedendo di aiutarti?”

“Sì. Per favore.”

“No-o-o, che film! Appena scopro qualcosa te lo dico!” disse la barista.

“Anche io!” le fece eco la cassiera. Solo la ragazza delle pulizie rimase silenziosa. Poi, seria, mi chiese:

“Chi sono le due persone sulla tua porta? Le foto.”

Bang, pugno nello stomaco. Le aveva viste. Era la donna delle pulizie, era entrata in camera mia e le aveva viste. Probabilmente aveva letto anche la scritta. Frugai rapidamente nella sacca delle bugie.

“Fa parte delle indagini, non posso rivelarti di più. Perché me lo chiedi?”

Lei rimase zitta. Si mise una mano in tasca, ed estrasse un portafoglio. Lo aprì, e tirò fuori un foglio bianco da in mezzo alle banconote. Era piegato, lei lo aprì.

“L’ho trovato ieri mentre facevo un giro in montagna, qui sopra a Fondale.”

Me lo porse, e io lo presi, vedendo finalmente di cosa si trattava. Si era bagnato e asciugato, era pressoché illeggibile. Ma riuscivo a vedere che si trattava di un volto. Un volto stampato su un foglio di carta. E un nome. Fabio Corallo. No, Fabio Cavallo. Porco cane.
____________
Sono sorpreso dalla quantità di persone che sta leggendo questa storia! Certo non sono ricoperto di recensioni come una fanfiction slash sugli One Direction, però il contatore visite mi dice che siete tantissimi a leggere, e come direbbe un papà ai suoi figlioli in un film americano, sono orgoglioso di voi!

A tale proposito, sapete che il capitolo "A letto con il mio capo" ha un numero di visite doppio rispetto ad ogni altro? Non immaginavo che mettere un accenno erotico raddoppiasse i clic. Ma ora che lo so, ho deciso il nome anche per i prossimi capitoli, eccoveli in anteprima: Sesso con il mio capo, Cunilingus e flompini, Dolci amplessi a Fondale, e il climax si raggiungerà con il capitolo finale, Il fuoco ardente dell'amore cocente. Tenetevi forte.
   
Se siete in vena di stranezze e non volete aspettare un altra settimana, vi consiglio di leggere questa mia storia. Non è un noir, è più che altro uno science-fantasy buttato in caciare, ma è folle almeno quando FWAM. Se volete del noir forse avete già notato quest'altra mia storia, decisamente meno folle di FWAM, è una storia americana hard boiled, il mio primo romanzo breve.


Continuate a scrivermi se volete darmi suggerimenti e critiche! Alla prossima!
Dzoro

 
 

 

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Capitolo 7
*** Branzino in umido ***


For We Are Many

Stagione 1

Capitolo 7: Branzino in umido



Domenica 23 ottobre, 06:00

 

Vi ricordate di quando stavo correndo nella foresta con l’uomo maiale? Ecco, stessa cosa. Eppure non mi resi subito conto subito che quella era già una storia vecchia. Che in quella foresta avevo già corso un infinità di volte, e Dio solo sa quante altre volte l’avrei dovuto fare.

Arrivai nella radura. Qualcuno aveva innalzato due tribune di legno, sulle quali sedevano decine di alieni gamberetto, tutti intenti a fischiare ed urlare. Guardandoli, ebbi l’impressione che stessero litigando. In mezzo alle tribune si trovava il tavolino: i due conigli erano vestiti di due toghe nere, e il te e le siringhe avevano lasciato il posto ad un martelletto da giudice. Passai in mezzo alle tribune, e mi sedetti su quella che sapevo essere la mia sedia. Ce n’era un'altra, e sopra era seduta un'altra persona. Era una ragazza, del tutto nuda, tranne un sacchetto di stoffa che le copriva la testa. Era immobile, se non per i suoi piccoli seni che si alzavano ritmicamente, animati da un debole respiro. Mi ritrovai seduto, e uno dei conigli si alzò.

“Signori giurati, siamo riuniti quest’oggi per giudicare Pietro Zeni, accusato di molestie sessuali nei confronti dell’uomo maiale e dell’omicidio di Giovanna Carta!”

“Ehi, un momento, io non ho ucciso nessuno!” obiettai.

“No? E allora chi è stato? Chi ha ucciso Moana Pozzi, le lasagne e il dottor Watson?” mi chiese uno dei conigli, alzandosi dalla sedia e additandomi infervorato.

“L’uomo maiale! È stato di sicuro lui! È lui che mi molesta sessualmente, non credetegli!”

“Bugiardo! Ora Giovanna si trova con il serpente, ed è tutta colpa tua!”

“Quante altre persone moriranno? Quante altre verranno prese dal serpente?” mi incalzò l’altro coniglio.

“Basta, per favore, voglio tornare a casa!” dissi io.

“A casa? Non puoi tornare a casa, puttana! Sei all’inferno.” Disse un coniglio, sogghignando. Gli Alieni, sulle tribune, urlavano come indemoniati, ormai i loro gridi formavano un sottofondo costante, che mi lancinava le orecchie. Me le tappai.

“L’imputato è condannato a morte per taglio dei genitali. Al patibolo!”

Gli alieni uscirono dalle tribune, e mi saltarono addosso. Avevano con loro degli ombrelli appuntiti, che usavano per pungolarmi e spingermi. Non potevo resistere. In poco tempo, mi trascinarono fuori dalla raduna, ai piedi di un altissimo patibolo, collegato a terra da una scala a pioli. Vicino alla scala, si trovava un cartello, con una freccia che indicava verso l’altro, e un numero. Trecentodue. In cima, mi attendeva una sagoma nera ed enorme. Sapevo che era l’uomo maiale. Iniziai a salire, così almeno gli alieni avrebbero smesso di pungolarmi con i loro ombrelli. Salii, un gradino dopo l’altro. Ero a metà, e già non vedevo più bene cosa si trovava sotto di me. Ero stanco. Mi lasciai andare, e caddi.

 

Sentii la mia schiena colpire il materasso. Un altro incubo, l’ennesimo. Mi alzai, e andai in bagno a sciacquarmi la faccia. Mentre le mie mani affondavano nell’acqua fredda mi domandai perché quelle immagini assurde fossero talmente persistenti. Cosa le aveva generate? Freud dice che i sogni sono sempre un simbolo di qualcos’altro, immagini che la nostra mente usa per nasconderci la verità. I nostri desideri più sordidi, i nostri ricordi più terribili. Eppure, per me non era mai stato così: avevo sognato di baciare la ragazza del liceo che mi piaceva, avevo sognato di volare dopo un viaggio in aereo. Avevo sognato cose che conoscevo. Per la prima volta dall’inizio di quella storia, un pensiero nuovo affiorò nella mia mente: la convinzione che quelle immagini confuse che vedevo ogni notte non fossero solo un parto di un’immaginazione malata. Un immaginazione, lo dice la parola, è fatta di immagini. E da qualche parte, quelle immagini dovevo averle viste.

Guardai l’ora: erano le sei di mattina. Mi ero svegliato giusto in tempo per andare a fare una passeggiata nel luogo in cui la ragazza aveva trovato il terzo foglio. Mi vestii.

 

Parcheggiai la Polo in uno spiazzo sterrato lungo la strada asfaltata, che divideva a metà un fitto bosco di latifoglie, ingiallite dall’autunno inoltrato. Secondo le informazioni datemi dalla ragazza, poco distante avrei trovato un sentiero. Iniziai a camminare. L’aria della mattina era gelida e silenziosa, se non fosse stato per il cinguettio degli uccellini, che partiva fioco, esplodeva in un coro frastornante e poi di nuovo si acquietava. Doveva essercene un intero stormo appollaiato da quelle parti. Faceva freddo, la Gianna aveva ragione, sarebbe stato meglio portarmi con me il giubbotto. Ma non credo sarei stato mai capace di indossarlo, se non per i misteri che simboleggiava, almeno per il fatto di averlo ritrovato indossato da un vecchio appassionato di film per adulti.

Il sentiero non tardò a comparire, era una striscia nera di terra e foglie cadute in mezzo agli alberi. Lo imboccai, e lo seguì per dieci minuti, inoltrandomi nel bosco. Terminò in un declivio erboso, delimitato dal bosco e da uno sperone di roccia davanti a me, che sovrastava e proiettava la sua ombra sul bosco, e che annunciava l’inizio delle montagne. Esse svettavano, già coperte di neve sulle cime, poco più in la.

Era qui, nel prato, che la ragazza aveva trovato la foto. Ma non ne vedevo altre, ne tantomeno riuscivo a scorgere il mio lucchetto. Mezz’ora dopo, dopo aver esaminato ogni filo d’erba nei dintorni, mi resi conto che la pista si era esaurita. Mi servivano dei vestiti pesanti e degli scarponi, avrei dovuto spingermi fino alle montagne. Mentre mi davo dell’idiota per non averci pensato subito, ritornai alla macchina.

La camminata, all’indietro, sembrò alle mie molli gambe di città più faticosa, non mi ero accorto prima che il sentiero era leggermente inclinato. I sassolini per terra perforavano le suole delle mie scarpe da ginnastica, ricordandomi quanto amassi il mare, e quanto volessi andarmene da Fondale. Arrivato sulla strada, vidi che vicino alla mia macchina ne era stata parcheggiata un'altra, grigia. Una Volvo con una decina d’anni sul groppone, posizionata dietro alla Zeni-mobile. Il bosco in cui mi trovavo era oggettivamente molto bello, non mi stupii ci fossero altri gitanti. Mi avvicinai, e non vedendo nessuno pensai che i suoi occupanti dovessero essersene andati ormai da tempo. E fu l’ultimo errore che commisi, prima che una voce mi intimasse alle spalle:

“Non voltarti, ho una pistola.” Era un uomo, non più giovane e non ancora vecchio, che parlava con un fortissimo accento meridionale.

“Sto fermo.” dissi, soffocando un brivido. Sentì dei passi avvicinarsi, e mi resi conto che insieme all’uomo con la pistola ce n’era un altro. Si erano nascosti, mi stavano aspettando. E io, tanto per cambiare, c’ero cascato. Cercai di frugare in quei ricordi confusi e deliranti di quando ero legato a testa in giù al mio letto, ma ero praticamente sicuro che nessuno dei due parlasse in dialetto meridionale. Ma in fondo in quella situazione ero stato troppo impegnato a preoccuparmi che nessuno mi evirasse, non potevo esserne sicuro. Erano alle mie spalle, io rimasi immobile.

“Fermo.” disse ancora il meridionale. Sentì un elastico stringersi intorno alla mia testa, poi il buio. Mi avevano messo una mascherina, come quelle che si mettono per dormire in aereo. Poi delle mani iniziarono a tastarmi le tasche, e mi tolsero cellulare e portafoglio.

“Ora non dire una parola, e fa quello che ti dico. Nel bagagliaio. Davanti a te.” mi pungolò sulla schiena con un oggetto metallico. Evidentemente non stava bluffando, quando parlava della pistola. Camminai in avanti, finché lui, con una mano sulla spalla, mi fece bloccare.

“Aspetta.” Sentì lo sportello di un bagagliaio aprirsi. Poi, la mano che si staccava dalla mia spalla, e che mi spingeva.

“Dentro, e non provare a levarti la maschera.”

“Tranquillo, volevo giusto farmi una dormita.”

“Sta zitto, non parlare se non te lo diciamo.”

“Sennò mi sparate?”

“Sì. Ti spariamo. Dentro.”

Rimisi in tasca l’arroganza, e soffocai l’impulso a farmela addosso. Non ero mai stato sequestrato due volte da gente intenzionata ad uccidermi in un così breve lasso di tempo. Anzi, non ero mai stato sequestrato prima. Ero un pesce piccolo, un detective da quattro soldi, la cosa più rischiosa che avevo mai fatto in vita mia era stato fingermi un testimone di Geova in casa di uno spacciatore. Anche lui aveva una pistola. Provi sempre la stessa sensazione, quando compare una pistola. Quella sensazione come di un ghiacciolo puntato contro il metacarpio, che ti suggerisce che da un momento all’altro, entro un lasso di tempo troppo breve, la tua vita potrebbe spezzarsi e non ricomporsi mai più.

Lo sportello si richiuse, seguito dalle portiere della macchina.

“Quindi lo fai a pezzetti, e poi?” disse una voce nuova, anche quella con una cadenza campana. Io rabbrividii.

“Ma lo sai come si fa? Se non gli stacchi la testa e togli le budella prima, va tutto a puttane.

“Sì che lo so, non è la prima volta che lo faccio. Cioè, di solito lo fa mia moglie, ma me la cavo.”

“Non si tratta di cavarsela, è un arte. Niente pezzetti, pezzi grossi! Non puoi sbriciolare il pesce, che perde la consistenza!”

Tirai un sospiro di sollievo.

“Grossi dici?”

“Ma sì, che sennò non sa di nulla! Poi pomodorini a metà cottura, basilico, soffritto d’aglio, e mangi da Dio!”

Provai il più bizzarro e fuori luogo attacco di fame che avessi mai avuto. In effetti in quella cadenza meridionale c’era qualcosa di così appetitoso da sorpassare la mia paura. Come quando avevo sentito quel carabiniere che parlava al bar.

Oh. Oh no. Quello era il carabiniere. Ero appena stato rapito da due carabinieri. E non capivo se la cosa avrebbe dovuto rassicurarmi, o se era il segno che ero finito in uno degli affari più torbidi in cui avessi mai ficcato il mio naso da guardone prezzolato.

“Però prendilo fresco, che tutta quella roba congelata non sa di niente, non sa.”

Continuavano a parlare di cucina, a voce alta. Come se non gli importasse che io ero lì ad ascoltarli. Come se non gli importasse compromettersi. Rabbrividii di nuovo.

 

La macchina si fermò venti minuti e quattro ricette dopo. Giurai a me stesso che se mai fossi uscito da quel bagagliaio, non avrei più mangiato una parmigiana senza che le melanzane non fossero state fritte in olio di oliva extravergine, che se le friggi in olio di semi pesantissime sono, e poi di niente sanno! La macchina si fermò, e le portiere si aprirono. Poco dopo, sentì il bagagliaio lasciar entrare dentro la brezza fresca del mattino. Mani forti e noncuranti mi afferrarono, e mi trascinarono fuori dal mio giaciglio. Finì con la faccia nel fango. Un piede mi si appoggiò sul collo, spingendomi a terra.

“Bravi, sbattetemi a terra, picchiatemi. Sono sicuro che otterrete tutto quello che volete.” Sibilai tra i denti. Non mi risposero. Sentì il rumore di un otturatore che viene fatto slittare. Aveva tolto la sicura alla pistola.

“Fermo!” disse una delle due voci.

“Wow, grazie, grazie.” mugolai io.

“Che, non gli spariamo?”

“Non so se è il caso. Non è che la cippatrice si inceppa con un proiettile dentro?”

Cippatrice. Avevo già sentito quella parola. Una macchina per lavorare il legno, mi pareva.

“Non lo so, è la prima volta che lo faccio. Sicuro che non c’è nessuno?”

“No, sono tutti a casa. Ci siamo solo noi.”

Porco cane. Mi ricordai che una cippatrice serve per tritare il legno. Per tritare qualsiasi cosa.

“Senti, non spariamogli, tagliamolo direttamente. Via la testa, poi tagliamo anche il resto, e lo tritiamo un pezzo alla volta.”

E questa volta non stavano parlando di un branzino.

“Va bene, prendi la sega elettrica.”

Avevo sentito abbastanza. Il piede sul mio collo non pesava più come quando me lo aveva messo lì. Non c’era tempo di pensare, non c’era tempo di escogitare altri piani. Rotolai di lato, e l’urlo che sentì subito dopo mi fece capire che era stato abbastanza per far cadere quello sopra di me. Mi alzai, e corsi via. Una mano mi afferrò per la collottola del maglione.

“Dove vai, dove vai? Giù!” mi urlò contro. Mollai un pugno alla cieca, la presa mi lasciò andare. Ma mi sbilancia e caddi di nuovo a terra.

“Ma dove vai?” ripeté la stessa voce. Poi, mi sparò.

I miei denti si strinsero, sentì il dolore propagarsi dal fondo della schiena. Portai subito una mano alla pancia, dove pensavo il proiettile mi avesse colpito. Ma non c’era nessuna ferita. E non c’era nemmeno nessun dolore, a parte quello della caduta. Ipotesi uno, mi aveva mancato. Ipotesi due, era un colpo di avvertimento. L’ipotesi tre giunse di lì a poco, sotto forma di un urlo. Uno dei due carabinieri stava urlando.

“Chi cazzo è stato?” urlò l’altra voce. Io mi tolsi subito la mascherina. Davanti a me si trovavano i miei due rapitori. Uno era tozzo, vestito in tuta, aperta su un petto peloso. L’altro era più giovane, dinoccolato, pomo d’Adamo pronunciato, orecchino. Mi ricordai di loro, gli avevo visti al bar. Quello con l’orecchino si teneva una mano sulla gamba, mentre il sangue gocciolava sull’asfalto sotto di lui. Capì quello che era successo un attimo dopo. Un secondo sparo venne esploso, da qualche parte, mentre il carabiniere basso si buttava a terra. Io mi alzai, e me la diedi a gambe mentre, stringendo i denti, quello con l’orecchino svuotava il suo caricatore in una direzione opposta a quello in cui stavo scappando io. Ero in una segheria. La Volvo era stata parcheggiata in un enorme parcheggio asfaltato, occupato da cataste di tronchi, delimitato da un recinto di rete metallica, oltre il quale si trovava la foresta ingiallita dall’autunno. Davanti a me vidi un capannone, un prefabbricato grigio del quale riuscivo a vedere l’interno attraverso un portone abbastanza grande per far passare un auto, aperto. Pensai potesse essere un buon nascondiglio. Sentì alle mie spalle altri spari, poi il rumore di un motore che si avviava. Mi voltai un secondo: la Volvo si stava dirigendo nella mia direzione. Mi mancavano ancora un centinaio di metri prima di arrivare al capannone, e corsi più veloce di quanto avessi mai fatto. Sentivo la macchina prendere velocità dietro di me. Correndo, mi guardai indietro. Era sempre più vicina, voleva tirarmi sotto. Davanti a me, ancora pochi metri, si trovava l’entrata del capannone. Mi scaraventai contro l’estremità destra dell’entrata, e annaspando mi trovai all’interno. La macchina sbatté contro lo stipite. Un fanale anteriore si infranse in una nube di schegge, mentre l’accelerazione fece sbandare verso sinistra la parte posteriore, che andò a fracassarsi contro lo stipite sinistro. La macchina si trovò così di traverso, bloccando l’entrata. Dentro il capannone si trovava una decina di macchinari per la lavorazione del legno, compresa quella che riconobbi essere la cippatrice. Guardai per un attimo la macchina, ferma, con il clacson che continuava a suonare, evidentemente bloccatosi nell’impatto. Poi la portiera anteriore si aprì. Dietro c’era il carabiniere con l’orecchino. Aveva in mano la pistola. Mi buttai dietro una delle macchine.

“Vieni qua, bastardo!” urlò il carabiniere, sbattendo la portiera in un impeto di rabbia. Zoppicava, potevo sentirlo dai suoi passi. Mi spostai, girando l’angolo della macchina dietro alla quale ero nascosto. Sentì uno sparo, e il proiettile che mi sibilava vicino. Mi buttai in direzione di un altro macchinario, e partì un altro sparo. Mi voltai: il carabiniere magro era davanti a me. Con una mano si teneva la ferita sulla gamba, mentre respirava affannosamente. Mi fissava. Mi odiava. Voleva uccidermi. Puntò la pistola contro di me, e io dissi addio Pietro, è stato bello. Il grilletto scattò. Clic. Proiettili finiti. Il carabiniere sbuffò, soffiò come un predatore. Poi mi lanciò la pistola contro, e iniziò ad urlare. Dall’orecchio gli uscì qualcosa. Uno spruzzo di liquido nero e denso. Poi si accasciò a terra, come uno straccio lasciato cadere. Non avevo mai visto un uomo morire, prima di allora. Gli avevano sparato. Da dietro l’angolo di un macchinario, la luce che entrava dall’ingresso proiettava un ombra colossale. L’ombra avanzò, fino a rivelare il suo padrone.

“Caporale?” dissi io, timidamente.

“Sei al sicuro, Zeni. È morto anche l’altro.” Disse con la sua voce da automa Furlani. Il fucile da caccia che teneva in mano lasciava uscire dalla canna un filo di fumo denso e grigio.

 

Lo aiutai a caricare i cadaveri sulla Volvo, dopo averla spostata dall’ingresso, e dopo essere riusciti a spegnere il clacson. Trovai il mio cellulare e il portafoglio in tasca a quello tarchiato. Vomitai tre volte, nel processo. Per tutto quel tempo, Furlani non disse una parola. Li teneva da sotto le ascelle, con le sue mani grosse come badili strette a tenaglia. Io tentai di non toccarli, di sollevarli per i lembi dei pantaloni, ma così la tuta di quello tarchiato scivolò via, mettendo in mostra due mutande ingiallite ricoperte di pelucchi umani. Furlani mi guardò con rimprovero, e io lo afferrai per le caviglie. Mi sembrarono viscide al tatto.

I cadaveri erano pesanti, caldi e umidi di sudore. Quando furono caricati nel bagagliaio (lo stesso in cui ero stato io qualche minuto prima, pensai rabbrividendo), Furlani tirò un sospiro. Poi si voltò verso di me.

“Vattene, butta via i vestiti che hai addosso e scappa da Fondale. Tieni un basso profilo, per un po’ di tempo, e sarai al sicuro.”

Non era un consiglio da buttare via. Per qualche secondo, formulai qualcosa da rispondergli. Poi, per qualche motivo, che io stesso non capivo, dissi:

“Volevano farmi a pezzi con una motosega.”

“E poi tritarti con la cippatrice.” Concluse lui, freddo come metà dicembre.

“Sì.” Asserii io, non sapendo cosa aggiungere. “Ma… perché?”

“Non farmi perdere tempo, Zeni, tu conosci tutta questa storia meglio di me. Sai cos’è successo, e sai perché non vogliono che tu resti in vita.”

“No che non lo so, accidenti!” sbottai io.

“Allora sei un imbecille, oltre che il più grande sfigato d’Italia. Sei finito nel posto sbagliato al momento sbagliato. Hai fatto la cosa giusta, certo, ma ora ne paghi le conseguenze.”

“Caporale, ascolti. Io non ricordo nulla!” Sbottai. “Non so di cosa sta parlando. Ero a fare due passi nel bosco, e questi due saltano fuori e mi vogliono fare fuori! E non solo, è da giorni che continuano a succedermi cosa assurde, e non ho assolutamente idea di cosa sia successo! La prego, mi dica tutto quello che sa, qui sto uscendo di testa!”

“Calmati.” Rispose, glaciale come al solito. “Non so a che gioco stai giocando. Tu sei in mezzo a questa merda, e sai perfettamente cosa è successo.”

“No, non lo…”

“Se non lo sai, meglio. Dimenticati di tutto, nasconditi, e aspetta che la tempesta passi.” Detto ciò, salì al posto di guida. “Vado a buttare questa giù da un crepaccio. E tu fa quello che ti ho detto di fare, chiaro?”

Io mi gettai contro la portiera, appoggiando le mani sul finestrino aperto:

“Caporale, ascolti. Questo… ha a che fare con la stanza trecentodue?”

Lui mi guardò silenzioso. Stava pensando.

“Sì.”

Bang. Quello che volevo sentire e quello che non avrei mai voluto sentire. Ora, mi restava soltanto una domanda, che riuscisse a tradurre tutto il pandemonio di immagini che mi si agitava in testa ogni notte, mentre dormivo. Ma tradurre una cosa del genere non era semplice. Non era semplice, se volevo continuare a sembrare un essere umano dotato di un briciolo di senno. Non era semplice, e fu per quel motivo che, senza più girarci intorno, chiesi l’unica altra cosa che mi interessasse veramente.

“La stanza trecentodue è…” esitai “…è l’inferno?”

Una domanda che io stesso non riuscivo a capire, eppure alla quale mi serviva una risposta. Appena l’ebbi posta, mi sentii uno stupido. Immaginai che Furlani mi avrebbe guardato come si guarda un pazzo, sarebbe scoppiato a ridere. E invece rimase serio.

“Il paradiso, piuttosto. Ma a pensarci bene, forse era davvero l’inferno.”

Le sue parole mi si piantarono in testa come chiodi. Provai a dire di più, ma le parole non uscivano dalla bocca. Le mie labbra si mossero, senza che un suono ne uscisse. Furlani, senza smettere di guardarmi, chiuse il finestrino. Poi se ne andò, lasciandomi lì. Vomitati un ultima volta, poi pensai a come tornare all’albergo.

 

Dopo tre ore di cammino, riuscì a raggiungere la mia macchina. Vorrei poter dire che dai movimenti dell’auto, nel bagagliaio, avevo capito la strada fatta e l’avevo ripercorsa all’incontrario, ma immagino di non essere quel tipo di detective. Invece vagai senza la più pallida idea di dove fossi diretto finché non trovai un incrocio in cui mi ricordavo di essere stato, e riuscii a tornare alla strada in mezzo alla foresta. Quando arrivai alla Polo, le forze che mi erano rimaste furono sufficienti per accasciarmi sulla portiera, seduto per strada. Poi, il cellulare squillò, e io risposi:

“Pronto?”

“Ehi, patacca, come va la vita?” chiese Carletto.

Pensai almeno cinque secondi a cosa rispondere. Poi dissi:

“Alla grande. Tu?” in sottofondo sentii il rumore di acqua che scorreva. Poi, quello di uno sciacquone.

“Sei in bagno?”

“Sono in un ristorante, con alcuni dei lavoratori dell’allevamento Nasolini! Abbiamo fatto amicizia!” Grande Carletto, Dio benedica la tua faccia di bronzo.

“Fantastico! Hai novità?”

“Beh, per ora non mi pare che nessuno voglia ammazzare il tuo compare. Però ho scoperto qualcosa di interessante: Nasolini ultimamente soffre di insonnia. Intorno alla due di notte, è facile trovarlo all’allevamento, mentre controlla che le bestioline stiano tutte bene.”

“Dici che potrebbe essere in qualche modo collegato al fatto che vogliono farlo fuori? Tipo, è a conoscenza della cosa e non riesce a dormire?”

“Questo non lo so ancora, Sherlock, ma so che ho appena bevuto due litri di vino insieme al tipo che farà turni di notte a partire da domani, e quindi avrò modo di scambiare due parole con il Nasolini in persona molto presto. E non dire che non ti voglio bene!” sentì le forze ritornarmi. Era un progresso, seppur minimo.

“Ti devo una birra! Appena scopri altro, dimmelo subito!”

“Mi devi una birreria, merdaccia! Sarà fatto Zeni! Ti racconterei altro, ma non posso restare nel cesso in eterno, meglio tornare dai miei nuovi migliori amici.”

“Vai, a presto.”

Carletto riattaccò, lasciandomi solo con la mia portiera. Mi trovai a guardare lo spiazzo in cui era parcheggiata la Volvo, neanche sei ore prima. Rabbrividii.
____________
Manca poco alla fine della prima stagione, però è ora di prendersi una pausa. Dato che in questi giorni sarò troppo impegnato a mangiare, bere e dormire, (e mi auguro che lo stiate facendo anche voi), riprenderò con gli aggiornamenti in gennaio. Se volete farmi un regalo per natale, segnalate e recensite, è il modo migliore per sostenere la storia e farla andare avanti! grazie a tutti, a presto!
Dzoro

 

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Capitolo 8
*** La capanna dello zio Charlie ***


For We Are Many

Stagione 1

Capitolo 8: la capanna dello zio Charlie

Lunedì 24 ottobre, 08:00

 
20 ore dopo circa, mi trovai di nuovo sulla strada nella foresta, vicino alla mia Polo. Ma ora avevo degli scarponi, una giacca a vento e tutte le intenzioni a scoprire qualcosa di più sul tornado di assurdità che aveva travolto la mia vita neanche una settimana prima. Mi aspettavo di tutto, tranne un jamaicano nudo che compare in mezzo ad una bufera di neve. Ma andiamo con ordine.
Ripercorsi il sentiero fino al prato, e lì trovai un indicazione per un altro sentiero, che mi avrebbe portato un po’ alla volta in quota. Iniziai a camminare, ricordandomi troppo tardi che la mia ultima gita in montagna era stata in seconda media. I polpacci erano tesi e rigidi come se dovessero scoppiarmi da un momento all’altro, e il fiato iniziò a mancarmi. E stavo camminando da solo mezz’ora. Guardai l’orologio: da venti minuti. Inghiottii un groppo di saliva, e riprese a scarpinare sul sentiero ricoperto di ghiaia. Mi accorsi ben presto che, con un modesto allenamento fisico, quel tratto sarebbe stato la proverbiale passeggiata. Il sentiero saliva dolcemente lungo un fianco della montagna, regalandomi nel giro di un ora anche un discreto panorama. Da lì era visibile il prato vicino al bosco dove avevo parcheggiato, e mi fermai anche un attimo a controllare che dall’alto non si vedesse nulla di interessante, invisibile da valle. Intorno ai sassolini del sentiero, si era accumulata una discreta quantità di neve sporca. Fu in quel momento che ricordai il mio capo reparto degli scout che mi istruiva su quanto fosse pericoloso imbarcarsi in escursioni in autunno inoltrato, dato che questo è il periodo in cui iniziano le prime nevicate. Mentre me ne ricordavo, iniziò a nevicare. La cosa non mi spaventò, era neve sottile e ghiacciata, il classico fuoco di paglia, probabilmente il sole sarebbe tornato da un momento all’altro. Proseguii per il sentiero, che venti minuti dopo mi lasciò scorgere una forcella, un passo montano chiuso tra due picchi. Capii che stavo andando in quella direzione.
Quaranta minuti dopo, i miei scarponi stavano sprofondando in trenta centimetri di neve, soffice e gelida, mentre ero circondato da fiocchi grandi e pesanti come palle da bowling. Cercai di farmi forza fischiettando la colonna sonora de Il signore degli anelli, ma subito dopo iniziò addirittura a fischiare un vento gelido e denso, che sembrava volermi strappare di dosso i vestiti. Mi misi in testa il cappuccio e strinsi il cordino della giacca a vento più che potevo.
“Tu non puoi passare!” dissi tra me e me, cercando di interpretare il freddo ululato che mi avvolgeva, e sembrava volermi respingere a valle. Da uno spuntone di roccia sopra la mia testa calò un cumulo di neve fresca, aggiungendo un'altra analogia tra quello che mi stava succedendo e la compagnia dell’Anello. Era il momento di andare nelle miniere di Moria, che per me corrispondevano alla hall dell’Hotel Girasole. Feci dietrofront, frustrato e nervoso, e ripresi la strada che avevo fatto per arrivare fin lì. Camminai un attimo, ma mi voltai subito: la forcella non distava molto. Un quarto d’ora, al massimo. Strinsi i denti.
“Avanti, brutto culo molle, un piccolo sforzo per diventare il re della montagna.”
Ripresi a salire, con il vento che mi investiva come un fiume in piena. Iniziai a guardare solo per terra, in modo da appoggiare sempre il piede dove non potevo scivolare. Un passo dopo l’altro.
Mi accorsi di aver raggiunto la forcella solo quando le ombre nere dei due picchi fecero sparire la mia ombra già sbiadita dalla tormenta. Guardai l’orologio: era passata un ora, altro che quindici minuti. Dio benedica la mia scarsa capacità di pianificazione, mi dissi, non ci avrei mai provato se avessi saputo che ci avrei messo tanto tempo. Feci ancora qualche passo, mentre la breve esaltazione conferitami dal raggiungimento della meta iniziava a scemare, lasciando il posto alla consapevolezza che i miei testicoli si stavano tramutando in un semifreddo di dna. Oltre la forcella, c’era un sentiero sassoso, che scendeva ripidamente fino ad un pianoro. Una casa. C’era una casa laggiù, un rifugio. Forse era solo la tormenta a farmelo pensare, a confondere le immagini, ma mi sembrava che le assi che la andavano a comporre fossero storte e sbilenche, come la prima costruzione di lego di un bambino di quattro anni. Sperai ardentemente che fosse aperta. O perlomeno, chiusa dal lucchetto di cui possedevo la chiave. Scesi a precipizio giù per il declivio, rischiando di inciampare almeno dieci volte. La tormenta ora era densissima, mi sembrava di nuotare nella panna montata più fredda della mia vita. Con un braccio davanti agli occhi, mi spinsi fino al rifugio. Fu allora che dalla tempesta comparvero come due gemme d’ebano le natiche del nero. La sua comparsa mi fece immobilizzare, perlomeno per darmi il tempo di chiedermi se non fossi in realtà svenuto dal freddo, e in preda al delirio. Ma lui era davvero lì, con la sua pelle nera e raggrinzita esposta alla bufera. Teneva le braccia alzate verso il cielo, e appena fui abbastanza vicino, mi accorsi che stava sorridendo con i suoi denti giallastri e storti, nascosti da una barba riccioluta e grigia che gli arrivava fino al petto. Si voltò verso di me, e mi guardò.
- Man, devi essere bello picchiato per farti una passeggiata con questo tempo!- mi disse, in un italiano impeccabile.
- Sei nudo.- gli feci notare.
- Sì.- fece lui. Mi accorsi che non c’era da aspettarsi una risposta diversa.
- Sto morendo di freddo, non è che posso entrare nella tua capanna?-
- Coola, man!-
- Cosa vuol dire?-
- Vuol dire che la casa di Zio Charlie è la casa di tutti! Entriamo, ho assorbito abbastanza vibrazioni per oggi.-
Il nero andò fino alla porta del capanno, la aprì, e mi fece segno di entrare. Non me lo feci dire due volte.
 
La casa di Zio Charlie sembrava uscita da una vacanza in Jamaica di Salvador Dalì. Sulla parete davanti a me si trovavano una selva di crocifissi e rosari, appesi a chiodi, che attorniavano un enorme poster che raffigurava un leone, con sotto la scritta Bad Brains. Il pavimento era coperto da vestiti, asciugamani e tappeti, illuminati da un soffitto dal quale pendeva una selva di lampadine, alcune delle quali colorate. Le pareti ondeggiavano per il vento, e le lampadine di conseguenza si esibivano in una psichedelica luminosa, chiazze colorate oscillavano per la stanza, dando quella sensazione che si ha quando ci si trova nei pressi di un grosso acquario. In un angolo giacevano uno scafandro e degli attrezzi di metallo, simili a pinze per il caminetto. Vicino, si trovava un fornelletto elettrico, e un piccolo frigorifero.
- Siediti man, che Zio Charlie prende qualche cosa per scaldarci!- disse il nero, avviandosi verso il frigo. Mentre lo apriva e vi frugava dentro, notai che era pieno esclusivamente di barattoli di metallo, privi di etichetta. Dei barattoli simili, ma vuoti, si trovavano anche in un sacchetto verde chiaro accanto al frigo.
- Grazie.- dissi io – Hai anche un bagno per caso?-
- In fondo a destra.- rispose lui automaticamente, mentre sembrava aver trovato il barattolo che voleva. In effetti, in un angolo si trovava una porta, dietro alla quale brillava un intensa luce elettrica. Mi avvicinai e la aprii, accorgendomi che non era fissata a nessun cardine. La spostai sul muro lì vicino, ed entrai nel bagno. Ai miei piedi si trovava un pavimento piastrellato sporco di terra, in mezzo al quale spiccava una turca, la più lurida che avessi mai visto. Di fianco, si trovava una vasca da bagno sollevata da terra da quattro piedini di metallo arrugginito. All’interno si trovava una selva di piante di Marijuana, che crescevano in uno strato di terriccio adagiato sul fondo della vasca, formando un unico impenetrabile cespuglio. Erano illuminate da due lampade sul soffitto grandi come i fari di una locomotiva, che mi costrinsero a chiudere gli occhi e a spargere diverse gocce della mia pipì sui miei bei scarponi nuovi. Appena ebbi sgocciolato l’annaffiatoio, mi catafottei fuori: la dentro faceva un caldo infernale. Zio Charlie era chino sul fornelletto acceso, intento a rimestare quello che sembrava spezzatino. Si era infilato una lunga camicia, che lo copriva fino alle ginocchia. Mi sedetti vicino a lui.
- Ti sei sistemato bene.- dissi.
- Si tira avanti man, finché il cuore di questo vecchio pianeta continuerà a battere gli uomini vivranno liberi, e lo Zio Charlie vivrà felice.-
- È da tanto che sei qui?-
- Almeno duemila barattoli.-
- Oh.- decisi di smettere di fare domande.
- Grazie ancora, si gela la fuori.-
- Lo so bene, non hai visto che ero la fuori con il culo all’aria?-
- Sì, pensavo lo facessi per… piacere?-
- Lo faccio per sopravvivere. Ci sono ottime vibrazioni qui, nel terreno. Ti entrano nelle palme dei piedi, e risalgono su per le gambe come una famiglia di scoiattoli risalirebbe una sequoia. Poi, senti questa energia incredibile nel basso ventre, roba che potresti sparare raggi laser dall’ombelico. Sono le cose per le quali va la pena vivere, man.-
- Devo provare.-
- Certo che devi. Allora, quanta te ne serve?-
Una domanda molto vaga, abbastanza per far tentennare perfino il mio moderato intuito da segugio. Poi la mia mente tornò alle piante nel bagno, e capii a cosa si riferiva.
- No, non sono qui per comprare. Stavo semplicemente passeggiando, quando è iniziato a nevicare.-
- Man, io prima scherzavo, ma tu hai davvero il mumbo jumbo nel cervello!-
- Immagino di sì.-
- Meglio così d’altronde. Mi rimaneva solo la mia riserva personale. Quindi vuoi dire che sei arrivato al capanno del vecchio Charlie per pura coincidenza?-
- È una storia così assurda?-
- Coola man, la vita è assurda. Pensa, tremila barattoli fa insegnavo fisica in un università.-
- Beh, direi che è abbastanza assurdo.-
- Ma è vero.-
- Eri un professore universitario?-
- A contratto. Ma poi hanno scoperto cosa stavano coltivando dietro ai gerani vicino al campo da football, e lo sai che negli states sono dei moralisti da far paura.-
- E quindi sei venuto qua?-
- Oddio, non subito. Sudamerica, Africa, Sud est asiatico… bisogna muoversi, man, se ti fermi muori. Sono qui da un annetto, ormai.-
Il cambiare la sua unità di misura temporale da barattoli a anni mi fece sperare di aver fatto spostare la conversazione su toni amichevoli.
- Quasi tutte le persone hanno una storia assurda alle spalle, talmente assurda che non la raccontano a nessuno per paura di essere presi per fessi. Pensi che io sia un fesso?- mi interrogò Zio Charlie all’improvviso.
- No, certo che no.-
- Tu invece lo sei parecchio. Andare in gita a ottobre inoltrato. Tieni.-
Zio Charlie versò il contenuto del pentolino nei due barattoli di latta vuoti dal quale l’aveva in precedenza estratto, e ci infilò dentro dei cucchiai di plastica.
- Grazie, che cos’è?-
- Stufato di manzo di Kobe in birra doppio malto di abbazia.- Le parole del jamaicano mi lasciarono basito. Non pensavo nemmeno facessero del cibo così costoso in scatola.
- Tutto bene? Non ti piace?- fece Zio Charlie, notando la mia perplessità.
- No, è perfetto…-
- Ho anche della crema di patate e tartufo bianco, se preferisci.-
- Va benissimo, adoro lo spezzatino.-
- Coola man.- fece quindi lui, prima di avventarsi sulla sua porzione con straordinaria ferocia. Anche io ci diedi dentro, e tutto il mio colpo venne pervaso da una sensazione di calda, densa delizia. Sarei quasi potuto tornare a camminare nella bufera.
- Buonissimo.- dissi.
Zio Charlie, finita la sua porzione, buttò la scatoletta dietro la schiena, ruttò sonoramente e si distese per terra. Iniziò a battere sul pavimento, finché non trovò un asse che suonava a vuoto. La alzò, svelando un piccolo vano. Dentro si trovava una scatola di plastica trasparente, di quelle per alimenti, con un coperchio azzurro. Era, ovviamente, piena di ganja.
- Ne vuoi un po’? Prima che la tormenta passi ci vorrà qualche ora. E sono un conversatore incredibilmente noioso senza fumare qualcosa.- Con una destrezza impressionante, prese dalla tasca della camicia una cartina, e la imbottì e arrotolò in un battito di ciglia, non avevo nemmeno visto la lingua uscirgli di bocca.
- Beh, se insisti…- dissi. Zio Charlie mi porse la canna insieme ad un accendino, anche quello tirato fuori dalla tasca della camicia. Avevo intenzione di tirare solo qualche boccata, per cortesia. Mi infilai la canna in bocca, la accesi, ed aspirai a pieni polmoni. Un’ondata di fumo caldo e denso mi invase le vie respiratorie: quella era il Mike Tyson della ganja, non avevo mai provato nulla di così potente. Trattenni a fatica la tosse, e ripassai la canna a Zio Charlie.
- Buona, eh?-
- Favolosa!- risposi con voce da malato di cancro ai polmoni.
- Merito del clima. Basta illuminarle a dovere, e crescono dei gambi spessi come la caviglia di un neonato. Non ti parlo poi delle foglie.- Inalò, e lasciò uscire il fumo da naso e bocca. Poi mi ripassò. Il secondo tiro fu meno traumatico, e perfino piacevole. Non era l’erba puzzolente delle feste al liceo, quella con un odore a metà strada tra il mestruo acido e una foresta che va a fuoco. Quella era roba di prima classe.
- Pensavo che il clima di montagna ostacolasse la crescita delle piante, non il contrario.-
- Man, il clima di montagna è tremendo per le mie piantine. Ma lo Zio ha il pollice verde, e sa come fare. Ho creato dei semi hardcore grossi come nocciole, germoglierebbero anche nel culo di un rinoceronte.-
- Semi hardcore?-
- Giuro man, gli x-men dei semi di ganja. Sono così grossi che a natale li ho caramellati e ci ho fatto del croccante.-
- Era buono?-
- Terribile man, terribile! Ma vedessi che autostrade cosmiche mi si sono srotolate davanti dopo!-  
Mentre riporgevo lo spinello al mio compagno di fumata, iniziai a sentire un piacevole formicolio lungo tutta la spina dorsale, seguito da una sensazione di rilassamento profonda e invadente. I miei muscoli si stavano ammollando come cachi maturi.
- Sono un caco.- dissi ridacchiando.
- Sì, non è la prima volta che lo sento dire.- rispose Zio Charlie.
- Come sto bene, posso restare qui?- mi ridiede la canna, e io mi ci attaccai come ai capezzoli di mamma.
- Coola man, tutta la vita.-
- Non mi caccerai fuori, vero?- sentì le lacrime uscirmi dagli occhi. Improvvisamente, ero diventato tristissimo.
- Credo di no, è una domanda difficile… tu che dici, cosa dovrei fare?-
- Credo che non dovresti farlo.- gli ridiedi la canna.
- Mah, ci penso. Quindi tu cosa fai nella vita?-
- Vendo aspirapolveri per corrispondenza.- Il volto di Zio Charlie si ricoprì di fumo, ebbi persino l’impressione che gli stesse uscendo da ogni foro, orecchie comprese.
- Man, questo si che è lavoro hardcore! Come fai a spedire un aspirapolvere per posta?-
- No, non lo so, li vendo e basta…-
- Non pensarci, bene così.- mi ridiede la canna. Io aspirai, poi mi lasciai cadere per terra. Prima che la schiena toccasse terra, mi sembrò che fossero passati secoli. Vidi intorno a me sfrecciare gli universi e le stelle, e i mondi nascere e morire. Ma forse era solo la polvere alzata dalla mia schiena che si abbatteva a tutta potenza contro le assi di legno.
- Tutto coola, man?-
- Una favola.- risposi, restituendo la torcia.
- Non ti sei fatto male?-
- Vuoi farmi del male?- fu quello che capii.
- Chi vuole farci del male?-
- Non voglio morire.- piagnucolai. I miei sensi si erano fatti potentissimi. Improvvisamente quel luogo era diventato una sinfonia di scricchiolii, provenienti da ogni direzione, dal soffitto, dal pavimento, dalla porta. Mi concentrai su quest’ultima.
- Qualcuno sta tentando di entrare…- mormorai. Zio Charlie scattò in piedi.
- Chi? Chi è?-
- Sst, fai piano! Potrebbe sentirci!- Zio Charlie si chinò su di me e, sottovoce, chiese:
- Chi vuole entrare?-
- Non lo so. Ho paura che mi abbiano seguito fino a qui.-
- Chi?-
- Gli alieni gamberetto. Vogliono farmi l’amore controvoglia.- non so perché mi ero espresso in quel modo, ma lo trovai immensamente divertente. Scoppiai a ridere. Zio Charlie si sedette.
- Oh, man, è terribile! Come possiamo fare?-
- Fare cosa?-
- A difenderci!-
- Perché difenderci?-
- Man, l’hai detto appena te dai… cosi.-
- Non ricordo.-
Zio Charlie si grattò la testa, e rifletté qualche secondo, cercando nel vuoto davanti a se una risposta.
- Nemmeno io. Un altro tiro?- afferrai la torcia, e la aspirai finché non sentii caldo alle labbra. Volte di fumo avevano invaso tutta la stanza. Improvvisamente, gli scricchiolii si guadagnarono di nuovo la mia attenzione.
- Zitto! Li senti?-
Zio Charlie si guardò intorno:
- Man, se li sento! Sono dappertutto!-
Mi alzai in piedi di scatto, barcollai, e una volta di nuovo fisso sui piedi, osservai la stanza: era piena di fumo. Rabbrividii.
- Stanno facendo entrare del gas! Vogliono ucciderci asfissiati!-
- Maledetti, sapevo lo avrebbero fatto prima o poi!-
- Chi?- chiesi.
- Loro!- mi urlò in faccia.
- Ah, giusto, scusa.-
- Dobbiamo fare qualcosa!-
- Potremmo sparargli con le vibrazio-o-oni!- proposi, ponendo una strana enfasi sull’ultima parola.
- Sì, è l’unica soluzione. Presto, togliti tutti i vestiti.-
Obbedii subito all’ordine, senza chiedere nemmeno il perché. Nel giro di un minuto, eravamo entrambi nudi come vermi, vicino alla porta, io bianco latte e cicciotto, lui color ebano e scheletrico.
- Okay man, al tre saltiamo fuori e iniziamo a friggergli il culo con la nostra energia cosmica!-
- Va bene! Ma io non ho mai assorbito energia, come faccio?-
- Man, è da quando sei nato che assorbi energia! Quando sarà il momento capirai e… sarà bellissimo.- Charlie, piangendo, mi abbracciò, per qualche lunghissimo secondo.
- Adesso basta, andiamo.- disse infine.
- Sì!-
Aprimmo la porta, e ci catapultammo fuori, urlando come ossessi.
- Fatevi sotto!- gridò Zio Charlie.
- Vi ammazzo-o-o…- dissi io, prolungando la “o”, ma arrivando alla fine dell’urlo a bassa voce. Ero perplesso.
- Charlie! Ma in che lingua parleranno? Non è che non ci capiscono?-
Zio Charlie si voltò di scatto verso di me:
- Hai ragione! Hai detto che sono gamberetti?-
- Sì.-
- Beh, allora parleranno… giapponese. Come la tempura.-
- Dio, è vero! Banzai!- urlai io al cielo, con tutto il fiato che avevo nei polmoni.
- Ikebana-a-a-a!- si sgolò Zio Charlie.
- Esseri della terra, datemi la vostra energia!- dissi io, alzando le mani verso il cielo.
- Riempiteci di figate cosmiche, esseri!- mi fece eco Charlie, imitandomi.
Sentii le mie mani formicolare.
- Ecco, la sento! La grande sfera di energia è pronta!-
- Friggiamo questi gamberetti figli di una geisha!-
- Dove sono?-
Zio Charlie rimase un attimo sconcertato. Poi, si voltò verso la forcella.
- Oh mio Dio…- mormorò. Mi voltai anch’io, sempre tenendo le braccia tese verso il cielo, non volevo che tutta l’energia donatami dagli esseri viventi si disperdesse.
Era davanti a noi. Era un unico, enorme alieno gamberetto, appollaiato sulla cima della montagna. Potevo vedere la sua ombra scura, confusa tra le nubi.
- È il momento! Colpiamolo! Uno…- urlai
- Due!- mi fece eco Zio Charlie.
- Tre-e-e-e-e!- urlammo insieme, puntando i palmi delle mani verso la sagoma scura. Continuammo a gridare, mentre sentivamo l’energia che si riversava contro l’odioso nemico.
- Perché non muore?- chiesi, angosciato.
- Perché è giapponese!- rispose Zio Charlie.
- Musogiallo di merda!-
- Sporco cagariso!-
- Urliamo più forte!-
- Sì!-
Insieme, urlammo come ossessi. L’ombra nera, dopo un po’ scomparve. L’avevamo ucciso. Ci ritrovammo ansimanti, l’uno di fianco all’altro.
- Man, mi si sta gelando il culo qui fuori. Andiamo a farci dello stufato?-
- Sì, ho una fame nera!-
 
Dopo aver svuotato due scatolette di stufato da venti euro a testa, fredde di frigo, ci buttammo per terra esausti.
- Zio Charlie, perché siamo nudi?- feci ad un tratto io.
- Ma che cazzo ne so, sono strafatto come una scimmia scozzese.-
La mia mente si stava schiarendo. Iniziai a rivivere gli ultimi attimi passati in brevi flash. Era strano come tutto mi sembrasse ancora perfettamente logico e coerente. Sentii un conato assalirmi.
- Devo vomitare.- dissi.
- Bagno.- mi rispose Zio Charlie, mentre cercava di infilare la testa nella manica della sua camicia. Barcollai fino al bagno, e iniziai subito a dialogare con la turca. Il vomito più costoso della mia vita scivolò lungo la ceramica, e fece plof quando il grosso di esso cadde nell’acqua, poi fece ciak ciak ciak gocciolando dal buco. Mi alzai, senza le forze per muovermi. La mia attenzione venne di nuovo attirata dalla vasca da bagno. Le foglie di marijuana erano grasse e lucide come quelle di un ficus beniamino. Non riuscivo quasi a credere fosse possibile essiccarle e fumarle, nonostante io in quel momento ero la prova vivente del contrario.
Avrei voluto sciacquarmi la bocca, ma non c’era un rubinetto. Sputacchiai qualche grumo rimastomi in bocca, e tornai nella stanza principale. Zio Charlie era finalmente riuscito a infilarsi la camicia, e stava seduto per terra, a gambe incrociate. In mano aveva qualcosa, lo teneva vicino all’orecchio. Era il mio samsung. Stava chiamando con il mio telefono.
- Ehi, che fai?- gli chiesi.
Lui non rispose. Chiuse la chiamata, e appoggiò il telefono per terra. Poi mi guardò e disse:
- Nasolini è stato mangiato dai maiali.-
- Eh?- feci io. Poi le gambe cedettero, e caddi disteso per terra. Mi addormentai all’istante.
____________
Siamo quasi alla fine della prima stagione, il prossimo capitolo sarà l'ultimo, e sarà puntualmente online domenica prossima. Al momento mi sto concentrando su un altro progetto, che forse avrete scorto sempre nella sezione noir, che si sta rivelando piuttosto impegnativo: per un po' pubblicherò solo quello, sento il bisogno di scrivere qualcosa di più serio. Grazie a tutti per il supporto, e che ci crediate o no non sono mai arrivato alla fine di una canna in vita mia, anche se adoro vederne gli effetti sulle persone. Saludos!
Dzoro

 

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Capitolo 9
*** La sorgente del Lete ***


For We Are Many

Stagione 1

Capitolo 9: La sorgente del Lete



Martedì 25 ottobre, 4:00

Non ricordavo di quando ero diventato un coniglio. La cosa però non pareva darmi fastidio, non tanto quanto il fatto che non trovavo più la mia tana. Correvo per la foresta, in cerca della porta con il lucchetto, che ero sicuro portasse alla mia dispensa di carote. Per qualche strano motivo, le foglie delle carote erano, nella mia immaginazione, quelle della marijuana. Dagli alberi pendevano enormi grappoli di gamberetti maturi, ogni tanto mi capitava di calpestarne uno, spiaccicandolo irrimediabilmente, con un rumore viscido e crocchiante. Arrivai al tavolino di ferro battuto, ma non c’era nessuno. Solo la teiera, e una tazza di te fumante. Mi sedetti, e mi accorsi che era per me impossibile bere, data l’assenza di pollice opponibile sulla mia mano. E poi quello non era te, ma spezzatino. Vicino a me,  c’era un manzo con una fascia con sopra la bandiera giapponese.

“Quello è mio cugino!” strillò, indicando con la mano ungulata la tazza.
“Zitto, i manzi non parlano!” gli disse il coniglio. Che stupido, non me ne ero accorto mica che non ero io il coniglio: il roditore era già seduto al tavolo, intento a sorseggiare il suo spezzatino. Continuai a cercare la tana, avevo una voglia fottuta di carote.
“Dunque è questa la potenza dello spezzatino.” Diceva intanto il manzo, esaminando la tazza fumante. “Cugino-sama… diventerò più forte!”
Trovai il lucchetto per terra. Chiudeva una porta di metallo, che mi ci volle un po’ per riconoscere per quello che era: un bagagliaio di una volvo sotterrata. Avevo la chiave in mano: aprii il lucchetto. Dietro al bagagliaio, si trovava un cunicolo, che scendeva tanto in profondità che non riuscivo a scorgerne il fondo. Io mi ci infilai, e lo percorsi, scendendo sempre più in profondità. Arrivai in una caverna, con le pareti ricoperte da carta da parati sgualcita. In un angolo, un enorme figura pelosa dormiva, russando sonoramente. Mi sentì raggelare: ero finito nella tana dell’uomo maiale. Nonostante la paura, ero tanto stanco. Mi sdraiai vicino a lui.
 
Mi svegliai che fuori era ancora buio. Avevo la faccia spiaccicata contro il pavimento di legno, e un filo di bava che usciva dalla mia bocca aperta. Alzandomi, staccai a fatica la guancia dal legno, e passandoci una mano sopra la scoprii piena delle righine orizzontali della superficie del pavimento. Per qualche strano motivo, ero riposatissimo, e non mi faceva male da nessuna parte. L’unica cosa sgradevole era il mio alito: riuscivo a sentirlo io, doveva essere pestilenziale. Zio Charlie era impegnato a cucinare qualcosa, che dall’odore immaginai essere uova. Mi avvicinai.
“Buongiorno.”
“Salve a te, pellegrino. Dormito bene?”
“Non male, considerato che sono svenuto su un pavimento.”
“L’erbetta di Zio Charlie tende a fare questo effetto, la prima volta.”
“Cosa cucini?”
“È… cioè, sono… beh, non ne ho idea.” Rispose lui, rimestando quelle che sembravano delle uova strapazzate.
Grattandomi, lanciai un occhiata in cerca dei miei vestiti. Già, ero ancora nudo. Il mio samsung giaceva ancora per terra, vicino ai miei jeans. La sua comparsa nel mio campo visivo esplose in faccia come un fulmine  a ciel sereno. Subito saltai addosso a Zio Charlie.
“Chi mi ha chiamato ieri sera? Perché hai risposto?” gli urlai in faccia, ricordandomi di tutto, di quella frase, pronunciata dal jamaicano con in mano il mio cellulare, che solo il più fenomenale spinello della mia vita avrebbe potuto farmi dimenticare.
“Coola man, eri in bagno, il cellulare non smetteva di suonare. Era piuttosto agitato il tuo amico, sai? Non smetteva di urlare. Puoi rivestirti, per favore? Mi metti a disagio.”
“Oh mio…” mi gettai contro il cellulare. Come sospettavo, nel registro delle chiamate ricevuto l’ultima era di Carlo. Ventitre e trenta, mentre ora erano le quattro. C’erano anche almeno una decina di chiamate senza risposta, per tutta la notte. Non le avevo sentite nemmeno per sbaglio. Mi resi conto solo allora che quella ganja mi aveva ridotto veramente male, non avevo idea fosse passato tanto tempo. Aveva fatto effetto per quasi dodici ore, il che significava che la mia percezione del tempo si era completamente sfasata, da quando ero entrato nella baita. Lo chiamai, prima di rendermi effettivamente conto che erano le quattro di mattina, e che forse lui si trovava a letto. Ma lui rispose lo stesso.
“Zeni, ma dove eri scomparso?” fu la prima cosa che mi disse. La sua voce era isterica.
“Lascia stare, ho avuto una nottata da dimenticare.” O da ricordare. “È successo qualcosa a Nasolini?”
“Ma non eri te ieri sera? Chi mi ha risposto?”
Lanciai un occhiata verso Zio Charlie: stava pulendo la padella dalle uova, con un grosso pezzo di pane, masticando rumorosamente.
“Sono con un amico, non avevo il cellulare a portata di mano, ha risposto lui. Ma che ti succede sembri…” hai una voce strana. Sei spaventato, Carletto. Ti trema la voce.
“Stammi a sentire, avevi ragione. Avevi ragione, ma non è stato un omicidio!”
“Cosa? Cosa vuoi dire? È..?”
“Morto, morto e sepolto! Ero riuscito ad entrare nell’allevamento di notte, e il guardiano mi aveva detto che avremmo potuto parlarci non appena finiva il suo giro per i porcili. Alle undici, Nasolini ancora non si vede, e i maiali stanno facendo un baccano incredibile, così lo andiamo a cercare, e…” la voce di Carletto si spense. Me lo immaginai, dall’altra parte, quei novanta chili di romagnolità, impallidire e tremare.
“Cosa?”
“Lo stavano mangiando. È svenuto in un porcile, e i maiali li sono saltati addosso e… Porco demonio, Zeni, gli stavano mangiando la pancia, le budella! Non sapevo nemmeno che un maiale potesse mangiare un essere umano, ma ho letto su wikipedia che possono farlo, si cono diversi precedenti. E, cazzarola Zeni, ho visto che lo facevano!”
Prima di sentire i testicoli che si ritiravano nel perineo dalla strizza, mi parve di sentire la musica di Superquark in sottofondo, probabilmente evocata da quell’ultima frase, così fuori luogo e così coerente con lo stato di paura nel quale si trovava Carletto. Terribile, ma in un qualche modo istruttivo.
“Era già morto, le sue urla devono essere state coperte da quelle dei maiali. Dio, Zeni, sembrava una bolgia infernale. Sono in piedi da ore, non riesco a chiudere occhio!”
L’ultima frase fu esattamente quello che ci voleva per gettarmi definitivamente nella paranoia più completa. L’inferno pareva non volermi più lasciare solo.
 
Al sorgere del sole, uscii dalla baita. La tempesta era cessata, ora tutto era avvolto dalla neve.
“Grazie per l’ospitalità Zio Charlie.”
“Coola man, se non ci si aiuta tra noi poveri Cristi… Torna se hai voglia di un po’ di maggiorana.”
 Mi rendevo conto che probabilmente dietro a quel Jamaicano ex professore di fisica autoreclusosi in eremitaggio a coltivare marijuana mutante su di una montagna in Trentino si trovava la più interessante delle storie. Ma non ero venuto lì per quello, e quindi, quando fu il momento di fare un ultima domanda, chiesi:
- Comunque, non ti ho detto una cosa. Il motivo per cui sono venuto qui, è per cercare…- Mi interruppi. In effetti, cosa stavo cercando? L’uomo che aveva stampato le fotografie? Il motivo, il come facesse a sapere il nome e il volto di due uomini che stavano per morire in un incidente, e forse perfino di un terzo? Oppure…
-… per cercare un posto in cui sono già stato.- anche quella era una possibilità. Non mi ricordavo nulla di ventiquattrore, nelle quali sarebbe potuto succedere qualsiasi cosa. Nelle quali era successo qualcosa, a giudicare da tutto quello che mi stava accadendo.
- Cosa intendi man? Sei già stato qui?- mi chiese Zio Charlie. La domanda mi tramutò in pietra. L’erba di Zio Charlie mi aveva gettato nel più selvaggio degli stati allucinatori. Una nuova ipotesi si fece largo nella mia testa:
- Charlie…- degluttii – Non è che io sono già venuto in casa tua? A fumare?-
Non è normale che una persona accolga così benevolmente qualcuno in casa sua. Con una tale famigliarità. Come se lo conoscesse già. Le persone normali non fanno così.
- No man, prima volta che ti vedo in vita mia.- tutto sommato, Zio Charlie non era una persona normale.
- Ma non mi hai mai visto? Andare e venire qua attorno.-
- Man, di che cavolo parli?-
- Avevo un giubbotto blu! Enorme… come l’omino Michelin!- dissi tutto di un fiato. Zio Charlie mi guardò storto. Scosse la testa. Poi, la scosse più forte, come per riprendersi dal torpore. Poi mi fissò, sgranando gli occhi:
- Eri tu?-
- Chi?- gridai, avventandomi come un pazzo addosso al poveretto davanti a me.
- Beh… tu, immagino.- rispose lui imbarazzato.
- No, aspetta, dove? Quando? Dove mi hai visto?-
- Qui vicino, man. C’è un pianoro, ci si arriva percorrendo il letto asciutto del torrente. Superi il sottobosco e sei subito arriv… ehi, aspetta, perché cavolo mi stai chiedendo come arrivare in un posto dove sei già stato?-
- Zio Charlie – lo aggredì di nuovo, ignorando la sua domanda – esistono droghe in grado di causare amnesia?-
Lui non si offese per la mia irruenza, ma solo perché la mia domanda doveva averlo parecchio intrigato.
- C’è l’imbarazzo della scelta, Man. Droga dello stupro, oppure maria tagliata con eroina… ma più o meno, ogni droga somministrata nel modo giusto può causare amnesie.-
Mi disse quello che sapevo già. Cioè che non sapevo un accidente, se non che avevo finalmente trovato il luogo dove mi trovavo quella notte, nelle mie 24 ore di buio. Immediatamente non riuscii più a stare fermo, dovevo andare: era il momento di scoprire ogni cosa.
- Devo andare, grazie di tutto!- feci, allontanandomi.
- Tranquillo man, prego. Fai il bravo.-
Charlie fece per chiudere la porta. Io lo bloccai:
- Non mi sono nemmeno presentato.- dissi imbarazzato.
- Non te l’ho chiesto.- rispose lui con nonchalance.
- Non ti interessa?-
- Coola man! I nomi sono sopravvalutati.-
- Tu mi hai detto il tuo.-
- L’ho fatto?- fece Zio Charlie, sogghignando. Poi, sparì dietro la porta.
 
Il letto del fiume era una via impervia, ricoperta di pietre. La percorsi con difficoltà, ma nel giro di mezz’ora, mi trovai davanti ad una parete rocciosa levigata dall’acqua, che probabilmente con il disgelo si sarebbe tramutata in una cascata. Alla mia destra si trovava un pendio coperto di piccoli arbusti e rocce. Lo scalai, arrancando sulle mani e i piedi. C’era un edificio in cima, un rifugio costruito in metallo. Avevo già visto costruzioni del genere, sono prefabbricati fatti per essere posizionate su superfici rocciose, come lo era quella. Un lattina extra-large di metallo opaco, squadrata e ricoperta di bulloni esposti, ammaccata dalle intemperie, fissata per terra con cavi d’acciaio e chiodi. Ero su di un pianoro roccioso, dal quale si godeva una visuale eccezionale sulla valle sotto di me. Riuscivo a vedere la segheria, il prato dove la ragazza aveva trovato la terza foto. Ce l’avevo in tasca, quella foto. Era lui il terzo che sarebbe dovuto morire.
Mi avvicinai al rifugio, e misi la mano sulla maniglia della porta, una barra di ferro piegata attaccata con delle grosse viti alla superficie dell’ingresso. Chiusa. Era chiusa da un lucchetto, e io quel lucchetto lo avevo già visto. Tirai fuori di tasca la chiave, e la infilai nel piccolo foro dentro il colossale lucchetto svedese. Clik. Boom. Girava. Ero tornato nel luogo dove era iniziata ogni cosa. La porta si aprì scricchiolando su di una stanza completamente buia: non c’erano finestre. Solo due brandine arrugginite coperte da ruvide trapunte, un tavolino di legno e una lampadina esposta, spenta. Mi dissi:
“Pensa Zeni. Pensa. Qui tu ci sei già stato, con indosso un ridicolo giubbotto bombato, dei guanti per non lasciare impronte digitali e…” ci pensai. Le foto. Le avevo con me? Perché avevo portato con me la terza, e l’avevo lasciata lì vicino?
 Entrai, e il mio sguardo fu subito catturato da un oggetto, appoggiato sul tavolo. Era argentato, affusolato, delle dimensioni di una scatola di scarpe. Era una stampante, una delle più piccole che avessi mai visto, probabilmente pensata per essere portata in giro. Mi ci chinai sopra: non era collegata alla corrente, non c’erano nemmeno prese, la dentro. Ma una fioca luce rossa, su di una spia sul davanti, era un segno chiaro che era accesa, collegata ad una batteria interna. Una sottile risma di fogli era appoggiata accanto. Uno di essi era infilato in una sottile fessura sopra la macchina. Una seconda fessura, posizionata a livello del tavolo, avrebbe fatto uscire i fogli stampati. Un cavetto per iPod pendeva da una presa usb.
“Porco cane.”
La stampante era una HP. Le due lettere spiccavano in bella vista in mezzo alla schiena argentata della stampante. Acca pi, come avevo scritto sul mio quaderno degli appunti: la marca di una stampante. Il rasoio di Okham mi trafisse e mi lasciò a sanguinare sulla mia stupidità. Era tutto così semplice.
“Ho stampato qui quelle foto. Ma perché? A cosa mi serviva?”
Osservai quella stampante, la studiai, avrei potuto descriverla a memoria in ogni dettaglio. Ma lì non c’era altro che potesse spiegarmi che diavolo stesse succedendo. Andai ai letti: rifatti, puliti.
“Non ho lasciato molti indizi, eh?”
Mi sedetti. Mi presi la testa tra le mani, me la grattai, tentando di scacciare  l’attacco di sonno che mi stava aggredendo. Mi sdraiai.
“Porco cane.”
Il soffitto, idiota, il soffitto. Era ricoperto di foto. Nove foto, con sopra nove volti di persone che non avevo mai visto. Ma che sapevo sarebbero morte. 

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