Opposites Attract

di SunlitDays
(/viewuser.php?uid=122686)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Primo ***
Capitolo 3: *** Capitolo Secondo ***
Capitolo 4: *** Capitolo Terzo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Titolo: Opposites Attract
Autrice: SunlitDays
Rating: Arancione
Genere: Alternative Universe, All Human, romantico, a tratti comico, a tratti angst
Pairing: Percy/Annabeth
Sinossi: Annabeth Chase si era messa comoda sulla sedia al centro dell'aula, nella prima fila, ed era impegnata nel posizionare ordinatamente un quaderno con varie matite colorate sul banco. Gli fece segno con la mano di sedersi al suo fianco. Percy si sedette con un un piccolo salto all'indietro sulla cattedra del professore di latino.
Lei alzò gli occhi al cielo.
Lui sorrise scioccamente.
E così cominciò quella che da lì a poco sarebbe diventata una scontrosa amicizia tra due individui completamente opposti.
Note: Heilà! Vi ricordate di me? *palla di fieno rotolante* Oh! Beh... sono quella tizia che un paio di anni fa pubblicò due fanfiction sul fandom di PJO. Immagino di esservi mancata :P
Senza perdermi in lunghe chiacchiere, lasciate solo che vi dica due parole su questa storia: a) è la prima long che scrivo, quindi vi prego di perdonarmi se gli aggiornamenti non saranno velocissimi e di segnalarmi se trovate delle discrepanze; b) è una PERCABETH; c) in questa fic non ci sono dei né eroi, ma solo adolescenti tanto confusi; d) se cercate una storia in cui Percy e Annabeth si innamorino subito, questa storia non fa per voi; e) so che la trama non è originalissima, ma date a questa fic una possibilità. Questa non sarà solo una storia di amore, ma anche di amicizia e, soprattutto, di due ragazzi problematici che hanno bisogno di trovare risposte e stabilità; f) le due parole sono diventate mille e voi mi avete già odiata; g) enjoy!


EDIT 17/11/13: la magnifica _Littles_ ha creato un banner fantastico per questa fanfic e io non saprò mai come ringraziarla. Lo terrò solo sul prologo perché mi piace pensare che sia la copertina della mia storia.

 


Art+Art+Art edit by _Littles_
Clicca qui per vedere l'immagine grande

 

Prologo

 

Dato che la giornata sembrava non poter andare peggio, cominciò a piovere.

Percy imprecò mentre arrancava nel cortile della Goode High School verso l'aula del professor Brunner, la borsa che minacciava di scivolargli dalla spalla, il caffè bollente che gli scottava i polpastrelli e la testa bassa per ripararsi dalla pioggia. Si maledisse per non aver indossato una giacca, ma considerando come era cominciata quella giornata, Percy era già grato di essere riuscito ad allacciarsi le consunte Converse.

Era in ritardo tremendo, ed era tutta colpa di suo padre, davvero. Erano ormai anni che Percy aveva perfezionato l'arte dello svegliarsi dieci minuti dopo l'orario della sveglia, fare colazione e vestirsi in tempo di record, e arrivare a scuola solo cinque minuti dopo il suono della campanella, ma quella mattina sua madre, dopo avergli dato un bacio sulla guancia, invece del suo solito “passa una buona giornata, e fai il bravo”, gli aveva detto: “c'è una cartolina per te da parte di tuo padre”. Percy stava proprio per uscire quando il suo cervello iperattivo aveva sentito la curiosità improvvisa di leggerla subito.

Suo padre, Poseidone, gli inviava spesso cartoline con le foto di tutti i posti esotici che aveva visitato. Percy non aveva bisogno di combattere la sua dislessia per sapere cosa dicessero. Usualmente erano accompagnate da frasi scritte con una grafia spigolosa e disordinata (che non assomigliava per niente a quella di Percy, a differenza di ciò che sua madre affermava), del tipo: “Mi manchi. Vorrei che fossi qui”. Per Percy questo era il modo di suo padre di dire: “guarda un po' quanto mi godo la vita. Se solo tu e tutti i tuoi fratelli sparsi per il mondo poteste vedermi”.

Quella mattina, la cartolina raffigurava un bel sedere abbronzato con lo sfondo di una spiaggia bianca e la scritta “Prova ad acCHIAPPArmi. I ♥ U, Grecia”. Poseidone sembrava dell'idea che a Percy piacesse strumentalizzare il corpo femminile. Il tutto era cominciato quando Percy aveva compiuto quattordici anni e suo padre gli aveva inviato un pacco pieno di giornaletti dall'aria sospetta e una lettera dove aveva scritto: “Materiale di studio. La dislessia non ti impedirà di imparare i misteri della vita”. E così anche Percy Jackson, figlio bastardo, aveva avuto quello che i suoi coetanei chiamavano “il discorso sulle api e i fiori” da suo padre. Chi l'avrebbe mai immaginato. Da quel momento in poi, c'erano state una sfilza di cartoline sconce una dopo l'altra.

Ma non era stato quel sedere sodo a distrarlo, quel giorno.

Sul retro, Poseidone gli augurava un buon diciassettesimo compleanno (tre settimane in ritardo), ma invece del solito messaggio, gli aveva scritto qualcosa che aveva reso quella mattinata una delle peggiori della giovane vita di Percy.

Quando si era finalmente reso conto dell'ora, era corso fino allo Starbucks dietro l'angolo per scroccare un caffè dai fratelli Stoll, e per poco non aveva perso l'autobus.

Facendo attenzione a non inciampare sul solito gradino scheggiato, Percy entrò nel padiglione che ospitava l'aula di latino e... andò a sbattere col naso su un muro.

“Ow! Ma porc— Oh! Oh! Brucia! Mer—.” Alzò la testa con tutta l'intenzione di dare un calcio al muro maledetto che era comparso all'improvviso, ma si ritrovò davanti una mano.

“Non ti hanno insegnato a guardare dove vai?” disse la voce a cui la mano apparteneva.

“Io stavo guardando dove andavo. Tu cosa cavolo ci facevi con la mano alzata? Ti diverti a rompere il naso della gente di passaggio?” chiese. Si staccò la t-shirt bagnata di caffè dal petto con espressione rassegnata e poi alzò lo sguardo. In quel momento il suo disturbo dell'attenzione doveva avergli fatto visita, perché la bellissima bionda dagli occhi d'argento gli sventolò la mano davanti al volto, come per attirare la sua attenzione.

“Cosa?” chiese, ancora abbagliato da quella visione.

Lei sospirò e alzò gli occhi al cielo. “Ho detto: ti avevo visto avvicinarti trafelato, con un caffè in mano e la testa bassa. Non mi ci è voluto molto a calcolare che mi saresti venuto addosso nel giro di circa tre secondi rovesciandomi il bicchiere sulla mia nuova giacca a vento. Ho fatto solo quello che qualsiasi persona sana di mente avrebbe fatto.”

Percy batté la palpebre due volte, cercando di contestualizzare quelle parole prima di rispondere. “Qualsiasi persona sana di mente si sarebbe spostata per evitare di sbattermi contro.”

“Questo è quello che avrebbe fatto una persona sana di mente istintivamente, ma tenendo conto della velocità costante con cui la distanza fra noi si stava accorciando e lo spazio direttamente propor— Hei!” Esclamò, ma Percy si stava già allontanando. Non aveva bisogno di altre distrazioni.

Entrò nell'aula di latino senza bussare, fece due passi all'interno prima di ricordarsi dell'educazione. Quindi uscì di nuovo, bussò e solo dopo aver udito il sospiro e il permesso del suo professore entrò.

“Buongiorno, prof. Ecco il suo caffè,” disse, ma sbatté il bicchiere sulla cattedra un po' troppo forte e quel poco di caffè rimasto si rovesciò.

“Buongiorno, Percy. Grazie per il caffè, magari un giorno riuscirò a berlo tutto. Ma è il pensiero che conta, no? Dal tuo aspetto deduco che questa è una di quelle giornate?” chiese, mentre puliva la cattedra con il fazzoletto di stoffa che portava sempre in tasca.

Percy valutò se parlargli della cartolina di suo padre che quella mattina l'aveva lasciato per dieci minuti di troppo imbambolato (metà dei quali utilizzati ad aspettare che le lettere la smettessero di spostarsi da sole), ma alla fine decise di no e gli rispose con un'alzata di spalle.

Il professor Brunner lo osservò in silenzio per qualche secondo, quanto bastava perché Percy cominciasse a giocherellare con la sua t-shirt bagnata, prima di schiarirsi la gola.

“Bene,” disse. “Parliamo del motivo per cui ti ho chiesto di venire. Come sai, il signor Beckendorff si è diplomato l'anno scorso e quindi tu ora hai bisogno di un nuovo tutor. Ho già chiesto a una nuova studentessa. È una persona molto precisa e preparata e ha bisogno di crediti per essere ammessa a un facoltoso college, quindi ha accettato volentieri di aiutarti. Dovrebbe essere qui a momenti.” E come se fosse stata dietro la porta ad origliare aspettando il momento giusto per fare il suo ingresso, la persona in questione entrò.

Era la ragazza con cui si era scontrato solo pochi minuti prima. Percy notò che non aveva neanche una piccola macchia di caffè e poi si voltò velocemente prima di perdere la concentrazione e ritrovarsi a fissarle il petto.

“Ah, bene!” Esclamò il professor Brunner. “Entra, bambina. Ti presento Percy Jackson. Percy, lei è Annabeth Chase, e quest'anno ti farà da tutor. Mi aspetto che le darai ascolto e non le complicherai le cose.” Aggiunse, con un occhiata severa.

“Sissignore!” Rispose Percy, facendo il saluto militare, e, anche se non stava guardando verso la sua direzione, notò che la ragazza – Annabeth – alzò gli occhi al cielo. Percy sorrise, questo sarebbe stato un anno interessante.

“Molto bene. Potete usare la mia aula nel frattempo per mettervi d'accordo sui vostri orari e i luoghi d'incontro. Io vado a cercarmi un caffè intatto.” E così dicendo, voltò la sua sedia a rotelle ed uscì dall'aula.

Percy era impegnato a osservarsi il disegno che la macchia di caffè aveva creato sulla sua t-shirt. Sembrava un cane a tre teste, com'era che si chiamava? Ah! Cerbero. Il signor Brunner aveva detto...

Un tonfo lo distolse dai suoi pensieri. Si voltò e vide che Annabeth Chase si era messa comoda sulla sedia al centro dell'aula, nella prima fila, ed era impegnata nel posizionare ordinatamente un quaderno con varie matite colorate sul banco. Gli fece segno con la mano di sedersi al suo fianco. Percy si sedette con un un piccolo salto all'indietro sulla cattedra del professore di latino.

Lei alzò gli occhi al cielo.

Lui sorrise scioccamente.

E così cominciò quella che da lì a poco sarebbe diventata una scontrosa amicizia tra due individui completamente opposti.
 


N/A: rieccomi a rompere. Ma tanto le note dell'autore non le legge nessuno. Comunque, spero di avervi incuriositi con questo prologo. Il primo capitolo non dovrebbe farsi attendere molto. Fatemi sapere cosa ne pensate. 
 
 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo Primo ***


Capitolo Primo

 

“Ti dico che è un mostro! Uno di quei cosi che combattevano gli eroi nell'antica Grecia, forse. O magari un mago illusionista. Mi hanno sempre spaventato i maghi illusionisti. Ti ho mai raccontato di quella volta, al mio quinto compleanno? C'era questo mago che tirò una colomba bianca dal cilindro. Almeno credo fosse bianca. Era piena di gomme da masticare appiccicate sulle piume e--.”

“C'ero anch'io alla tua festa di compleanno, amico. E la professoressa Dodds non è un mostro, né un mago illusionista. È solo una vecchia zitella che odia gli adolescenti e probabilmente li mangia a cena con le patate al forno” disse Percy, che stava guardando un'anziana signora che con difficoltà si teneva stretta alle maniglie dell'autobus per non cadere.

Grover rabbrividì. “Ricordami di non accettare mai un invito a cena dalla professoressa Dodds e di non ingaggiare mai più maghi alle mie feste di compleanno.”

“Mi preoccuperei se al tuo diciottesimo compleanno ingaggiassi un mago, sinceramente” replicò Percy, mentre si alzava a faceva segno alla vecchietta di prendere il suo posto.

Dopo il suo incontro con la signorina Annabeth-So-Tutto-Io-Chase, la giornata non era migliorata. L'insegnante di inglese, il professor Stockfis (Stoccafisso, per gli alunni), lo aveva beccato impreparato (niente di nuovo qui) e poi lo aveva guardato con quello sguardo deluso e comprensivo che sembrava dirti: ‘sei proprio stupido, Percy, ma non è colpa tua’. Durante l’ora di studi sociali, non era riuscito a tenere la bocca chiusa e fare battute sarcastiche, e il professore gli aveva ordinato di uscire e prendere una boccata d’aria (“e una bella detenzione per oggi pomeriggio, Jackson”). Così aveva dovuto saltare gli allenamenti di basket. Non che facesse alcuna differenza, dato che la signorina Annabeth-Sono-Migliore-Di-Te-Chase aveva programmato le lezioni nei giorni e nelle ore che facevano comodo a lei, senza tener conto che forse, e dico forse, anche Percy poteva avere una vita, e grazie tante. Percy adesso aveva due alternative: fregarsene altamente e non presentarsi alle lezioni – e vai al diavolo, signorina Annabeth-Ho-La-Puzza-Sotto-Il-Naso-Chase mandando all'aria ogni possibilità di diplomarsi e deludendo sua madre e il professor Brunner, o lasciare la squadra di basket, e quindi l'unica cosa in cui fosse bravo e lo facesse star bene. Cercò di consolarsi col pensiero che c'era sempre la squadra di nuoto, i cui allenamenti non si accavallavano con le lezioni di recupero, ma poi ricordò che suo padre era stato capitano della squadra di nuoto e mandò al diavolo anche quell’idea.

Arrivato alla sua fermata, salutò Grover e si diresse verso casa. Sua madre non era ancora tornata da lavoro, quindi, gettato lo zaino in angolo della sua camera e le scarpe in un altro, si diresse in cucina per uno snack. Trovò qualche biscotto blu, e sopirò felice pensando che, anche quando la giornata sembrava sprofondare sempre più in basso, potevi sempre contare sui biscotti di sua madre per risollevarti il morale.

Si gettò di peso sul divano in salotto, con tutta l'intenzione di oziare davanti alla TV e non pensare alla montagna di compiti che lo aspettava, quando vide la cartolina di suo padre sul tavolino, dove quella mattina, in un gesto di stizza, Percy l'aveva gettata sperando si disintegrasse con la forza del suo pensiero.

Deciso ad ignorarla, cominciò a fare zapping col telecomando, ma per quanto si sforzasse, il suo disturbo dell'attenzione e iperattività non voleva fargli dimenticare quell'insignificante – e di poco gusto – pezzo di carta.

Un'ora dopo, sua madre lo trovò con una freccetta in mano mentre prendeva la mira per centrare il sedere greco e abbronzato che aveva attaccato al muro.

“Problemi con qualche ragazza?” gli chiese sua madre con un sorriso, il che non fece che ricordargli di Annabeth-Sono-Un-Genio-E-Tu-No-Chase.

Percy scrollò le spalle.

Sally Jackson andò a sedersi al suo fianco e l'abbracciò. Odorava di dolci e crema antirughe, e Percy sprofondò con la faccia nella sua spalla.

“Sapevi che papà ha deciso di tornare?” chiese, con la voce soffocata dalla divisa da lavoro di sua madre, anche se sapeva che “tornare” non era il termine adatto. Per “tornare”, prima bisognava “andare via”, ma Poseidone non se n'era mai andato, era solo venuto di passaggio più di diciassette anni prima. Il tempo necessario di girare un documentario sulla flora marina di Montauk e inseminare un'innocente giovane donna di nemmeno vent'anni.

“Sì,” rispose Sally. “Mi aveva informata qualche giorno fa per e-mail.”

Percy non capiva perché sua madre mantenesse una corrispondenza costante – almeno negli ultimi anni, con internet alla portata di tutti – con suo padre. Sapeva che i loro discorsi non si allontanavano mai dai soliti ‘Percy ha preso un’altra insufficienza?’ e ‘ti arrivato l’assegno di settembre?’ (non è che Percy fosse andato a sbirciare, eh, è che sua madre non faceva mai il logout), ma temeva che, sotto sotto, Sally provasse ancora qualcosa per quell'uomo che l'aveva usata e poi gettata via.

Sua madre era una donna bellissima e dolce, ma non era mai stata fortunata con gli uomini. Compreso se stesso: un ragazzo problematico affetto da disturbo da deficit dell'attenzione ed iperattività e dislessia, un'accoppiata vincente che gli rendeva la vita a scuola un inferno e l'aveva cacciato in troppe risse. A volte Percy si odiava. Voleva essere più grande, trovare un lavoro che pagasse bene così che sua madre potesse diventare una scrittrice come aveva sempre sognato e smetterla di preoccuparsi di bollette e affitto. Se c'era qualcuno che meritasse la felicità, era proprio Sally Jackson.

“Perché non me lo hai detto?” le chiese.

Sally guardò la cartolina attaccata al muro con un sopracciglio alzato. “Perché sapevo quale sarebbe stata la tua reazione. E perché... beh...”

“Avevi paura che alla fine non sarebbe venuto e io ci sarei rimasto male?” suggerì Percy, con uno sguardo che sperava indicasse che non era certo uno di quei ragazzini che ancora aspettavano il loro papà alle partite di baseball.

Sua madre sorrise un po' triste e gli baciò la fronte. “Su,” disse. “Prepariamo dei nuovi biscotti. E poi voglio sapere cos'altro è successo oggi che ti ha innervosito.”

 


Il martedì era senza ombra di dubbio il giorno peggiore della settimana. Era troppo vicino al lunedì e troppo lontano dal venerdì. Il lunedì era parente alla domenica, e, in quanto tale, Percy era convinto di avere il diritto di svegliarsi più tardi e saltare qualche corso scolastico. Era per lui un giorno indefinito: un prolungamento della domenica e il presagio che la settimana era cominciata. Il mercoledì e giovedì la sua iperattività andava in sovraccarico, e il venerdì i suoi occhi non riuscivano a concentrarsi su nulla che non fosse un orologio.

Ma il martedì... le cose peggiori capitavano sempre di martedì.

Come ad esempio il fatto che a pranzo offrivano una strana poltiglia non meglio identificata di colore verde, o che al corso di Arte e Design c'era una certa Juniper per la quale Grover aveva una cotta pazzesca che lo metteva costantemente in imbarazzo.

“Ehm... Amico, cos'è quella?”

“È un regalo per Juniper. Un'acacia. Simbolizza un amore segreto. Perfetto per noi.”

Considerando quanto fosse poco segreto quell'amore segreto, Percy pensò non fosse molto adatto. Ma non ebbe il tempo di dirlo che Grover si era già piazzato davanti il banco che Juniper e le sue amiche occupavano.

“Oh, Juniper mio fiore, accetta questa acacia direttamente dal mio cuore e... ehm...” Grover arrossì e si voltò verso Percy con espressione di supplica. “Dimmi qualcosa che faccia rima con acacia” sussurrò.

“Associa?” suggerì Percy, ma ormai era troppo tardi. Tutta la classe di Arte e Design stava ridendo di Grover. Juniper, notò Percy, aveva gli occhi abbassati e uno strano rossore alle orecchie.

“Sei proprio una pappamolla, ragazzo-capra,” lo canzonò Clarisse, una ragazza grossa e tozza a cui piaceva compensare della sua mancanza di bellezza con la forza.

Prima che Percy potesse aprire bocca e difendere il suo amico, Juniper replicò: “Che succede, Clarisse? Non hai ricevuto il tuo mazzo di carciofi, stamattina? Oh, no, dimenticavo! A te neanche quello regalano, vero?” Al che tutta la classe ammutolì. Quel tipo di risposta non era certo da Juniper. L'arrivo della professoressa di Arte e Design impedì a Clarisse di controbattere. Tutti i ragazzi corsero ai propri posti. Grover aveva un'espressione così stordita che per poco non mancò la sua sedia.

Percy non era esattamente sicuro del motivo per cui avesse scelto di seguire il corso di Arte e Design, dato che non era bravo né in Arte né in Design. Ma era uno dei più semplici, dove non si richiedevano letture o calcoli complicati, quindi non si lamentava.

Mentre si accomodava davanti al computer con l'intenzione di passare l'ora facendo un solitario, notò con la coda dell'occhio una chioma dorata. Frugò nello zaino alla ricerca di un pezzo di carta e una penna, e scribacchiò un messaggio velocemente.

Ti sei dimenticata di togliere la stampela dalla camicia. P.
 

Lanciò il pezzetto di carta arrotolato con discrezione, e quello colpì il naso di Annabeth Chase per poi cadere sul suo banco. Lei, che era impegnata in qualcosa pieno di linee e angoli sul suo computer, fece un salto. Si guardò intorno con sospetto, poi vide il sorriso di Percy e aggrottò la fronte come per chiedergli ‘che vuoi?’. Lui indicò col mento la pallina di carta. Lei sbuffò e tornò a concentrarsi sul suo progetto. Percy, che non era un tipo che si lasciasse ignorare facilmente, dette un calcio alla sua sedia. Lei si voltò con stizza e aprì la bocca per parlare. Sembrò ripensarci, e, con una smorfia, aprì il pezzetto di carta.

Percy sogghignò e cominciò la sua partita al solitario quando qualcosa lo colpì alle tempie.

???? A.

(StampeLLA – con due L)

 
Scusa. Hai la schiena così dritta che pensavo avevi ancora la stampeLLa attaccata. P.

(pignola)

 

Almeno io non sto stravaccata sulla sedia come un camionista in sovrappeso. A.

(Ignorante. Lo conosci il congiuntivo?)



Si chiama “stare comodi”. P.

(No. Me lo presenti?)

 

Si chiama “essere sciattoni”. A.

(Temo sia un tipo troppo raffinato per te)

 

“Ah! Stai preparando un scultura con della carta riciclata, Jackson? Bene, bene.” Al suono della voce della professoressa, Percy saltò.

“Ehm,” balbettò. “Sì.”

“Mi fa piacere che tu abbia deciso di impegnarti. Ben fatto, Jackson” replicò lei. Dalla destra di Percy provenne uno sbuffo irritato.

L'ora di Arte e Design era finita e lui nemmeno se n'era accorto. Improvvisamente Juniper si avvicinò al banco che Percy condivideva con Grover, e con un sorriso timido disse al suo amico: “Aciacia fa rima con bacia.” E gli dette un bacio sulla guancia per poi scappare con le sue amiche, le quali sembravano essere affette da un attacco di risatine.

Grover si girò verso di lui con un sorriso sognante. “Mi ha baciato?” disse. Non ne sembrava molto sicuro.

“Sì, amico,” rispose Percy. “Penso che tu abbia fatto segno, stavolta.”

 


Con un grosso sbadiglio, Percy entrò nell’aula di musica, il posto designato da Annabeth-Fa’-Come-Ti-Dico-Io-Chase per le lezioni di recupero. Lei era intenta a fare qualcosa sul suo portatile, il viso a pochi centimetri dal monitor.

“Cos’è che stai facendo?” domandò Percy, chinandosi sulla sua spalla. Lei per poco non gli dava una testata sul mento per lo spavento. Fortuna che l’iperattività di Percy gli avesse donato degli ottimi riflessi.

Lei lo guardò con disapprovazione, come se Percy si fosse infilato il dito nel naso e avesse attaccato una caccola sotto il banco.

“Sei in ritardo di sei minuti” disse.

“Perché indossi un orologio da polso?” chiese lui.

“Che domanda sarebbe? Lo indosso per vedere l’ora, no?”

“Uhm,” Percy aggrottò la fronte. “No? Insomma, un orologio da polso, sul serio? Non hai un cellulare per vedere che ore sono?”

“I cellulari servono a telefonare, e non posso certo cercare il mio telefono nella borsa ogni volta che ho bisogno di sapere l’ora” ribadì lei. Percy pensò che in effetti avesse senso, ma, sul serio, un orologio da polso? Era così uncool.

“Ogni volta? Perché, quante volte al giorno hai bisogno di controllare l’ora?” domandò lui, seriamente curioso.

“Forse non te ne sei mai reso conto, ma il tempo va avanti costantemente, e a proposito di tempo,” aggiunse, dando un’altra occhiata al suo orologio da polso. “Abbiamo appena perso altri tre minuti in chiacchiere vane. Siediti!”

Percy era così divertito che decise di accontentarla, così si accomodò sul banco.

Annabeth lo osservò per qualche secondo con la testa piegata. “Hai difficoltà a fare come ti viene detto, o ti piace stare in una posizione alta così da credere di poter intimidire le donne?” chiese lei di punto in bianco.

La risata di Percy fu così improvvisa che la matita rossa di Annabeth con cui stava giocando fece un salto di due metri. “Cos--,” tentò di dire tra le risate. “Cosa… cosa vuol dire? Ho fatto come mi avevi detto, no? Mi sono seduto. Oppure,” aggiunse con un ghigno divertito verso le spalle di Annabeth, che si era alzata con un scatto per recuperare il suo pastello. “Oppure sei tu che ti senti intimidita? Ti senti minacciata dal sesso maschile, signorina Annabeth-Sono-Una-Tipa-Tosta-Chase?”

“Come mi hai ch-- Minacciata! Dovrei sentirmi minacciata da te, Testa D’Alghe?” Era così infuriata che batté con forza il piede a terra e il fermaglio che teneva in ordine i suoi capelli si sciolse.

“Oh! Oh! Stai perdendo la compostezza, Sapientona. Attenta!” la cantilenò Percy.

“Tu… stupido… ebete… AH!” esclamò. “Senti, piccolo idiota dal cervello di un fuco, non ho alcuna intenzione di farmi prendere in giro da te. Sono qui perché il professor Brunner ritiene che la tua testa sia troppo piena di segatura per poter passare l’anno, ma se hai solo intenzione di--”

“Hei, hei! Calmati, Sapientona, stavo solo scherzando, ok? Chi è che adesso sta insultando? E poi sei tu che te ne sei uscita con quel commento sull’intimidire le donne. Io… Aspetta!” esclamò, quando vide che lei stava mettendo tutto in borsa per andarsene. “Senti,” disse, alzando le mani per trasmettere il proverbiale messaggio del ‘vengo in pace’. “Abbiamo cominciato col piede sbagliato, ok? O forse la mano. È colpa tua se ieri mi sono versato il caffè addosso. Non è stata una bella prima impressione, quella--”

“Hai intenzione di arrivare al punto, o preferisci gettarmi altre accuse?” domandò lei con le braccia incrociate.

“Sì. Ecco,” disse, allungando la mano destra. “Ciao, mi chiamo Percy Jackson, mi piacciono le ciambelle e il suono delle campanelle che si mettono sulle porte. Non seguo lo sport, ma mi piace praticarlo. La domenica mattina non mi sveglio mai prima di mezzogiorno e faccio sempre colazione con pancakes blu ricoperti da un chilo di sciroppo d’acero. E tu sei?”

Annabeth non rispose, il suo sguardo si spostava dalla mano di Percy al suo viso in continuazione. Alla fine lo sorpassò senza dire una parola e andò a sedersi.

“Allora?” disse infine Annabeth. “Che fai lì impalato? Siediti! Sulla sedia. E cominciamo.” Era comunque una piccola vittoria, si disse Percy, e poi, avrebbe giurato di aver visto l’ombra di un sorriso sul viso della ragazza.

Passarono il resto dell’ora studiando. Percy scoprì che, quando evitava di usare paroloni difficili e di fare quella smorfia con la bocca che lo distraeva continuamente, Annabeth era davvero una brava insegnante. La matematica ebbe improvvisamente senso, e la letteratura non era poi tanto difficile se era qualcun altro a leggere per te.

Mentre s’incamminava verso la fermata dell’autobus, pensò che in fondo quel martedì non era stato tanto male. Finché non tornò a casa e sua madre gli informò che il giorno dopo l’aereo di Poseidone sarebbe atterrato a New York.


N/A: vi avevo promesso che il primo capitolo sarebbe arrivato presto, e ho forse mentito? Solo un giorno! E la buona notizia è che sono a buon punto col secondo. Il problema non è scriverlo, è l'editing -.-"
Voglio approfittare di questo piccolo spazio per ringraziare tutte le persone che hanno recensito, chi ha inserito la storia tra le preferite/seguite/ricordate e anche chi ha solo letto. Siete fantastici, ragazzi! La mia fic è stata ricevuta con grande entusiasmo e questo mi spinge a scrivere con più voracità. Grazie grazie grazie! Spero che questo capitolo sia all'altezza delle vostre aspettative.


Nel Prossimo Capitolo: Poseidone sbarca a New York con una "piccola" sorpresa a seguito; Percy mostra il suo lato più petulante, e anche un po' emo, forse; Percabeth fa mezzo passo avanti, e due indietro; Grover è follemente innamorato e non si vergogna a dimostrarlo.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo Secondo ***


Capitolo Secondo

“Non avrebbe potuto prendere un taxi?”

“Andiamo, tesoro, non fare il difficile. Sarebbe stato scortese non offrirgli di venirlo a prenderlo all’aeroporto.”

“Ma mamma!” esclamò Percy petulante. “Sono le sette di mattina. Abbiamo dovuto noleggiare un’auto. E io non ho avuto la mia dose di pancakes giornaliera. È ingiusto!”

Sally sorrise con un’esasperazione affettuosa. “Sei identico a tuo padre quando metti il broncio. Oh! Eccolo che arriva!”

“Io non metto il broncio” replicò lui, ma sua madre si era già incamminata verso Poseidone, documentarista extraordinaire e incurabile fannullone. Con passi strascicati e le mani intasca, Percy si avvicinò a loro preparando nella sua testa possibili risposte, tipo: ‘mi dispiace, paparino, ma non posso proprio portartela, la valigia. Mi fa così male la spalla.’

“... sempre splendida” stava dicendo il cascamorto, e sua madre arrossì fino alla punta dei suoi capelli castani.

“Non essere sciocco” replicò Sally, con un gesto della mano e un sorriso che gli ricordò Silena Beauregard ai tempi in cui faceva il filo a Beckendorff.

Poseidone si voltò verso di lui e sorrise raggiante. “Perseus!” esclamò.

“Percy” si limitò a replicare lui.

“Ah, capisco,” disse Poseidone con un sorriso affascinante e la tipica posa che assumeva nei suoi documentari quando voleva trasmettere al pubblico che sì, lui di pesci ne capiva, e non era un gran fico? “Sei ancora nella fase ‘ho bisogno di trovare me stesso’.”

Percy alzò un sopracciglio. “Ancora?” domandò retorico, perché, davvero, cosa mai ne poteva sapere Poseidone delle sue fasi?

“Sally, Percy,” enfatizzò l’altro. “Voglio presentarvi il piccolo Tyson: mio figlio.” E con un gesto teatrale indicò a un ragazzone di farsi avanti. Gli mise il braccio sulla spalla e sorrise loro come aspettandosi un applauso.

Ci furono un paio di secondi di imbarazzante silenzio.

“Oh!” esclamò Sally, sempre la diplomatica dei due. “Piacere di conoscerti, Tyson.”

“Ciao, signora Jackson” rispose il ragazzone. Il termine ‘ragazzone’ era proprio azzeccato. Tyson era un tipo alto quanto Percy (che negli ultimi anni era cresciuto non poco, grazie tante) e grosso il doppio. Aveva folti capelli neri e due spazzolini da denti al posto delle sopracciglia. Solo il suo viso paffutello e la sua espressione di ingenua meraviglia tradiva la sua età. Non doveva avere più di otto anni.

Tyson si voltò verso di lui e rise come se Percy avesse detto una battuta. “Tu sei il mio fratellone!” esclamò con voce squillante e fanciullesca, la quale aveva un effetto strano abbinata al suo aspetto.

“Fratellastro” si sentì in dovere di replicare Percy, ma Tyson lo stringeva così forte che dubitò gli fosse uscito un suono coerente.

“Tyson non vedeva l’ora di conoscerti, Percy. Durante tutto il viaggio non ha fatto che farmi domande su di te. Sono certo che andrete d’accordo. Magari potrai portarlo in giro e fargli conoscere le meraviglie di New York, eh?” disse Poseidone, mentre metteva un braccio sulle spalle di sua madre e la dirigeva verso l’uscita.

“Seee” strascicò Percy, perché aveva colto il messaggio: toglietevi dai piedi mentre io e tua madre rivanghiamo i bei tempi andati.

Tyson, nel frattempo, si mise in spalla un borsone con la facilità di un wrestler e si mise al seguito di Percy parlando senza prendere fiato: “papà ha detto…”, “papà ha fatto…” Ma Percy lo ascoltava con un orecchio solo, tutta la sua concentrazione era sui suoi genitori, che pareva si stessero divertendo un mondo.

Il viaggio in macchina fu uno strazio. Poseidone insisté per guidare (come se sua madre non ne fosse capace) e flirtò con Sally per tutto il tempo. Nonostante non venisse a New York da ormai dieci anni, Percy notò che non chiese indicazioni nemmeno una volta, cosa che, per qualche motivo, lo irritò.

Per canto suo, Tyson non la smetteva di guardare fuori al finestrino e a puntare posti e cose chiedendo ‘Quellocosè? Eqquellocosè?’ con una rapidità tale da non lasciare a Percy il tempo di rispondere; semmai avesse voluto farlo, chiaro.

Forse, si chiese, l’iperattività è un tratto ereditario trasmesso da Poseidone.

Si ritrovò a osservare il ragazzo seduto al suo fianco, cercando di trovare una somiglianza con il padre che condividevano, ma non ne vide nessuna. Tyson aveva gli occhi castani un po’ troppo vicini al naso, molto diversi dai verdi a forma di mandorla che Percy aveva ereditato da Poseidone. Si chiese distrattamente dove fosse la madre.

Venti minuti dopo (“ce ne avremmo messi il doppio se avessi guidato tu, Sally tesoro, non ho dimenticato quanto tu fossi cauta alla guida, sai?”), Percy si scoprì per la prima volta in vita sua contento di essere arrivato a scuola e con un saluto frettoloso uscì dalla macchina.

Era in anticipo di mezzora. Non aveva mai visto il cortile della Goode High School deserto fino a quel momento. L’asfalto era ancora umido dalla pioggia che era caduta quella notte e il solito chiacchiericcio dei suoi compagni di scuola era assente. Il parcheggio riservato agli studenti era vuoto salvo una Toyota. Decise di sedersi sulle scale dell’ingresso dove avrebbe avuto una buona visuale del cortile. La giornata era più fredda del solito e Percy si strinse nella sua giacca, con la testa bassa e le spalle curve, sentendosi come un adolescente emo che godeva nel crogiolarsi nell’autocommiserazione.

Avrei dovuto immaginarlo, pensò, che Annabeth-Il-Tempo-È-Denaro-Chase sarebbe stata l’unica ad essere già qui. Era seduta sull’ultimo gradino, il naso a pochi centimetri dal libro che stava leggendo e i capelli coperti da un berretto degli Yankees.

“Quest’anno vanno forti gli Yankees” disse. Lei saltò, come lui si aspettava, e alzò lo sguardo di scatto. Il berretto le scivolò dalla testa e venne spazzato via dal vento. Percy lo afferrò al volo con un salto e poi andò a sedersi al suo fianco.

“Grazie” disse lei rigida senza guardarlo, e allungò la mano per riprendersi il cappello. Percy se lo infilò in testa. Gli stava stretto. “Adesso dovrò buttarlo” aggiunse lei.

“Perché?” chiese lui distrattamente, mentre cercava di allargare la cinghia.

“Perché adesso è pieno dei tuoi pidocchi.”

“Ah ah ah! Dove hai preso lezioni di umorismo? Alla Saint Annabeth School Per Ragazzine Che Non Si Sprecano Mai In Un Sorriso?”

“Di certo non alla Saint Percy School Per Ragazzi Idioti Che Non Conoscono La Definizione Di Invadenza,” replicò Annabeth, poi aggiunse: “Da’ qua. Così lo rompi.” Gli strappò il berretto dalle mani, allargò la cinghia con un paio di movimenti decisi e, per la sorpresa di Percy, glielo ficcò in testa con un gesto secco. Dopodiché tornò al suo libro come se un attimo prima non si fossero trovati a pochi centimetri di distanza.

Percy si schiarì la gola. “Allora,” disse, perché se c’era una cosa che non riusciva a sopportare erano i silenzi. “Tifi per gli Yankees, eh?”

“No.”

“No. Ok. Uhm… e allora perché hai un berretto degli Yankees?”

“È un regalo di mia madre” rispose monotona.

Percy cominciò a battere ritmicamente il piede a terra e fece per toccarsi il berretto, ma si bloccò. Non voleva spostarlo nemmeno di un millimetro. Cercò nello zaino la sua pallina di gomma — la portava sempre con sé per i momenti in cui le sue mani avevano bisogno di fare qualcosa — e cominciò a giocarci lanciandola sul muro opposto e ritorno.

Evidentemente dovette infastidirla — e questa volta Percy non l’aveva fatto apposta, giuro! — perché dopo un paio di minuti lei sbuffò e chiuse il libro con un tonfo secco.

“Hai finito gli esercizi di matematica che ti avevo detto di fare?” chiese.

“Uhm… no.” Fu la risposta ovvia di Percy.

Lei annuì, come se non si aspettasse di meglio da lui. “Bene. Allora occupa il tempo che ci rimane per farli e non scocciarmi, ok?”

Percy la osservò a lungo in silenzio — o almeno più di quanto fosse socialmente accettabile prima di ricevere uno schiaffo — riflettendo sul mistero che era Annabeth Chase, il suo essere scostante.

“Perché questa fissa col tempo?”

“Pardon?” rispose lei distrattamente.

“Hai la fissa col tempo. Arrivi a scuola in anticipo, guardi continuamente quel tuo maledettissimo orologio da polso, stai sempre a fare cose… come dire… costruttive, non te ne stai mai con lo sguardo nel vuoto o a fare cose che… chessò! Cose stupide, cose che non hanno senso o non richiedano il bisogno di pensare. Sei sempre così tesa” disse Percy, e poi ammutolì perché dallo sguardo di Annabeth sapeva di aver varcato un qualche confine invisibile creato da lei.

La ragazza esitò. Sembrava costarle molta fatica non rispondergli in modo tagliente. “Non posso permettermi frivolezze,” disse infine, il tono lento e cauto. “Ho bisogno di studiare tanto per poter entrare nel college che ho scelto. E diventare ciò che devo diventare in futuro.”

“Ciò che devi diventare?” domandò Percy.

“Ciò che voglio diventare. Un avvocato” rispose lei, annuendo e fissando intensamente una gomma da masticare lasciata a seccare sul gradino dove erano seduti.

Percy era molto lontano dall’essere un genio, eppure era alquanto sicuro che quella risposta non rispondesse alla verità. “Ok,” disse cauto, perché quella era la prima volta che lui e Annabeth parlavano senza tentare di mangiarsi a vicenda e non voleva irritarla di nuovo. “Sono certo che ci riuscirai. Se è ciò che vuoi…”

“È ciò che voglio” affermò lei.

“Ok. Vuoi sapere qual è il mio sogno?” le domandò.

“Non particolarmente.”

“Voglio cambiare il mondo. No, no, veramente,” aggiunse, vedendo l’espressione scettica di Annabeth. “Voglio fare qualcosa di importante, qualcosa che lasci il segno. Non ho idea di cosa farò esattamente, ma so che un giorno, da qualche parte del mondo, ci sarà qualcuno che vivrà felice grazie alle mie azioni.” Alzò le spalle, improvvisamente a disagio. Annabeth lo stava fissando intensamente, le sopracciglia leggermente aggrottate fino a formare una piccola ruga al centro della fronte.

“Io… Percy—” cominciò, ma un tornado dai capelli rossi la interruppe.

“Ofh! Rachel!” esclamò Percy, perché Rachel Elizabeth Dare si era appena seduta sulle sue gambe con tutto il peso. Sfilò la mano che era rimasta incastrata tra la sua coscia e il sedere dell’amica e poi rimase con le braccia alzate, non sapendo esattamente dove fosse accettabile poggiarle.

“Dunque vediamo,” disse Rachel, assolutamente ignara, o forse semplicemente incurante, di aver interrotto un momento che avrebbe potuto rivelarsi importante per qualche ragione che Percy non sapeva spiegarsi. “‘Leone: cambiamenti in vista. Siete sotto l’influenza di Marte e quindi propensi alla rabbia. Prendetevi un attimo di pausa per pensare e rivalutare la vostra vita. Venere tornerà a farvi visita, resisterle risulterà vano. Nell’ambito lavorativo questa settimana sarà alquanto dura; un nuovo incentivo vi aiuterà ad impegnarvi di più. I vostri numeri fortunati sono: sette, quattordici, quarantasei e sessanta.”

“Uhm… Rachel,” cominciò Percy imbarazzato. Non sapeva mai come comportarsi con lei quando faceva cose tipo sederglisi in braccio. L’anno prima avevano avuto un’intensa e breve relazione, fatta di pomeriggi passati in camera della ragazza impegnati in attività che non erano i compiti, di bagni al mare di notte e spettacoli di arte di strada. Poi un giorno Rachel l’aveva portato del bagno delle femmine, gli aveva abbassato i pantaloni e poi aveva detto: “forse è meglio se restiamo amici, Percy. Mi sa che tra noi non funziona.” Inutile dire che Percy non si era mai sentito più umiliato in vita sua.

Sapeva però che lei aveva ragione. Non c’era chimica tra loro. Erano ottimi amici, insieme si divertivano un sacco, avevano molti interessi in comune, e sì, a letto non era male, ma in fin dei conti tra loro non c’era passione. Rachel si divertiva nel dire che Percy era il suo alter ego maschio. La loro era un’amicizia particolare. Mentre Grover era il suo migliore amico, il più vecchio, quello che lo conosceva meglio, Rachel era la persona che lo capiva meglio.

“Brutto idiota!” esclamò Rachel, sbattendogli il giornale con l’oroscopo sulla fronte. “Dove diavolo sei stato in questi giorni, eh? Ho una verruca sul piede, vuoi vedere?” E proseguì togliendosi scarpa e calzino.

“Rachel…” provò di nuovo a dire, ma questa volta fu interrotto da Annabeth che si era alzata, borsa in spalla, e li guardò dall’alto in basso. Percy provò ad immaginare come dovevano sembrare, lui e Rachel, ai suoi occhi in quel momento.

“La campanella sta per suonare. Sarebbe meglio che ti prepari. Ci vediamo oggi pomeriggio, Testa D’Alghe.” E, ignorando completamente l’altra ragazza, se ne andò.

“Simpatica” commentò Rachel. Percy sospirò rassegnato.

 


 

“Vecchia bacucca!” esclamò Percy con rabbia. Per tutta la mattina era stato distratto e irritabile. Grover era andato a sedersi di fianco a Juniper nell’ora di Scienze, l’aveva ignorato per tutto il tempo e quando finalmente si erano trovati da soli in corridoio, avevano parlato ancora di Juniper. Condivideva e capiva la felicità del suo amico, per carità, ma aveva bisogno di fare qualcosa. Il suo Disturbo dell’Attenzione e Iperattività era a potenza mille e starsene lì ad ascoltare di come Juniper gli aveva preso la mano, di come pareva che quel giorno fosse un filino truccata in più ed è possibile che l’abbia fatto per Grover? dopo un po’ diventava seccante.

Non era assolutamente dell’umore adatto per un’interrogazione di matematica (non lo era mai, ma soprattutto quel giorno) e quando la professoressa Dodds gli aveva chiesto: “allora, tesoro, non sai dirmi nemmeno che figura è questa?”, l’irriverente risposta di Percy era stata: “questa è chiaramente una figura di merda, prof.”

“Brutta stronza! Esci immediatamente dall’aula, tesoro” cantilenò, con un’imitazione molto fedele del tono zuccheroso e basso della professoressa di matematica, i piedi che battevano sul pavimento del corridoio scolastico. “Esco, esco. Come se volessi starmene in quell’aula asfissiante a—”

“Percy!”

“Uhm… salve, professor Stockfis” rispose Percy cupo.

“Vai da qualche parte?”

“Mi è stato consigliato di schiarirmi le idee” replicò con un’alzata di spalle.

Il professor Stockfis sorrise con quella sua solita aria da ‘sono stato anch’io un adolescente una volta, so come ti senti e no, quel brufolo non andrà via per molto tempo’.

“Perché non vieni con me? Ho una scorta di lattine di Coca nel mio ufficio” disse il professore facendo l’occhiolino, come se si aspettasse che Percy si mettesse a saltellare e a urlare ‘lattine di Coca? Lei proprio figo, prof!’ e invece il ragazzo pensò a tutte quelle volte che sua madre gli aveva raccomandato di non accettare caramelle dagli sconosciuti. Ma forse con la Coca Cola non valeva.

“Ok.”

“Salute!” disse il professor Stockfis, quando si erano finalmente accomodati, due boccali di birra pieni di Coca tra loro. Il professore si era seduto di fianco a Percy invece della comoda poltrona che era al di là della scrivania, e il ragazzo si sentì a disagio. O Stockfis aveva intenzione di dirgli, nella sua maniera pacata e comprensiva, che non avrebbe passato l’anno (ed era appena cominciato) o era semplicemente un pervertito a cui piaceva adescare giovani e innocenti studenti con boccali di Coca Cola. Percy allontanò di qualche centimetro la sedia.

Tintinnarono i bicchieri l'uno contro l'altro e presero entrambi un grosso sorso.

“Dimmi, Percy,” cominciò Stockfis. “Come ti fanno le cose?”

“Bene.”

“Uhm... e... uhm.” Il professore sembrava nervoso, per qualche ragione. Prese un altro sorso di Coca per se avesse bisogno di un po' di coraggio liquido e Percy si chiese se non l'avesse allungata con dell'alcool. “Ah!” esclamò, come colto da un'improvvisa ispirazione. “Ti piacciono i Ramones, eh? Anche io li ascoltavo alla tua età.”

Percy lo guardò con aria interrogativa finché non notò che il professore stava guardando la sua t-shirt. Era grigia con un cerchio bianco e la scritta 'Ramones' al centro. “L'ho pagata tre dollari al mercato” rispose.

“Già... sì. Immagino che non siano esattamente in voga oggigiorno, eh?”

“Voleva dirmi qualcosa, prof?” Si fermò giusto in tempo dall'aggiungere: e no, non penso che andrò con lei al ballo di fine anno.

Stockfis si schiarì la gola, si inclinò sullo schienale della sedia e, guardando un punto imprecisato sul muro rispose: “Vedi, Percy, a volte le persone che dovrebbero proteggerci sono quelle che ci fanno più male. E sono anche quelle che più difficili da perdonare. Ma... ecco... quello che voglio dire—“

“Non mi piacciono i ragazzi” lo interruppe Percy. Perché, davvero, non aveva niente contro le persone gay, anzi, era relativamente sicuro che il fratellino di Bianca, Nico, avesse una cotta per lui e, a parte l'imbarazzo di non sapere bene cosa dire quando lo guardava con quei suoi occhi neri pieni di adorazione, non aveva di certo cambiato l'opinione che aveva di lui — e cioè che era un ragazzino un po' inquietante con quei suoi vestiti neri e quell'aria da 'io sono il re dei morti'. Ma lui preferiva le ragazze e il professor Stockfis doveva avere tipo il doppio dei suoi anni e... era il suo professore, per gli dei!

“Come? No, non era di questo che—Oh! Oh! No! Percy, non volevo dire—Cavolo! Non rendi le cose molto semplici, eh?” Stockfis rise di gusto e sembrò finalmente rilassarsi. “Percy,” ricominciò, questa volta guardandolo negli occhi. “So che tuo padre è venuto a farvi visita.”

Percy si irrigidì. Cercò di ricordare se qualche giornale ne avesse parlato, ma lui cercava in tutti i modi di evitare di imbarcarsi in Discovery Channel per non dover vedere la faccia di suo padre in TV e di certo non li leggeva, i giornali. E per quanto ne sapeva, Poseidone non aveva mai detto di aver un figlio illegittimo in nessuna intervista. Di sicuro non voleva rovinare la sua immagine.

“Come lo sa?” chiese.

“È stata tua madre a dirmelo.”

“Mia madre? Quando avrebbe parlato con mia madre?”

“Beh... ecco. Al corso di scrittura creativa, ovviamente.” Stockfis sembrò di nuovo imbarazzato.

“Oh!” esclamò Percy, chiedendosi perché sua madre non gli avesse mai detto che al corso che frequentava ci fosse anche il suo professore di inglese.

“E quindi... volevo solo dirti che se mai avessi bisogno di parlare—“ continuò il professore.

“Grazie” rispose Percy, sentendosi sotto i riflettori. Era stata sua madre a chiedere a Stockfis di parlargli? Poseidone aveva improvvisamente deciso di venire a fargli visita, sì, e allora? Non era 'sta gran cosa. Percy non aveva bisogno di parlare con nessuno. Forse avere un padre che aveva abbandonato tua madre quando era incita di te e averlo visto solo due volte di persona e un centinaio di volte in TV — quando il dito gli scivolava sul telecomando — poteva essere considerato un problema dal punto di vista di un adulto. Ma Percy ci era abituato. Non avrebbe scritto poemi angoscianti a riguardo, né avrebbe cominciato a drogarsi o tagliarsi o a fare tutte quelle cose che facevano gli adolescenti problematici — era già un ragazzo problematico di suo, non aveva bisogno di attaccarsi un cartello in fronte con su scritto 'La Mia Vita Fa Schifo, Prego, Per i Teschi Da Questa Parte”.

“Percy—“

“Semmai avessi bisogno di parlare verrò da lei. Adesso devo andare a lezione. Arrivederci.” Ed uscì dall'ufficio lasciando il professor Stockfis da solo come un... beh... come uno stoccafisso.


N/A: eccoci qua. Ragazzi, questo capitolo non voleva proprio finire. Avrei voluto aggiungerci un po' di Grover/Juniper (come avevo promesso nel capitolo precedente) e un'altra lezione con Annabeth, ma ho preferito far entrare in scena due dei miei personaggi preferiti: Rachel e Paul. Li vedremo ancora in futuro. Un piccolo appunto per i Percabeth shipper. Non ci sarà alcun Rachel Bashing in questa storia. Adoro Rachel e da me sarà sempre dipinta come un personaggio positivo.
Ancora una volta ringrazio chi ha recensito e/o inserito la storia tra le preferite/seguite/ricordate. YOU GUYS ROCK! Oh! E complimenti a giugiu8 per aver indovinato la sorpresa di Poseidone :D


Nel prossimo capitolo: Percy impara un paio di cosette su Tyson, Poseidone è sempre insopportabile (secondo Percy), Sally è un po' troppo girly (secondo Percy) e Annabeth è sempre una So-Tutto-Io (secondo Percy).

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo Terzo ***


Capitolo Terzo


“Stai scherzando, vero?” gridò Percy.

“Shh! Abbassa la voce.” bisbigliò sua madre.

“Ma—“

“Ascolta. Vedila come un'ottima occasione per conoscere meglio tuo padre, ok? È solo per un paio di settimane.” Sua madre aveva quel suo solito sguardo da ‘ti prego, fallo per me, e se non vuoi farlo per me, fallo almeno per i biscotti al burro blu che ti preparerò come premio di consolazione’.

“Non vedo come dargli la mia camera possa aiutar— Sì, ok. Va bene. Ma sarà meglio per lui che non mi appesti la camera col suo dopobarba. Mi fa venire il voltastomaco.”

Sua madre sorrise orgogliosa, come se Percy avesse annunciato che Poseidone poteva usare anche il suo spazzolino. “Grazie, tesoro. Mi aiuti ad apparecchiare la tavola?”

Stavano decisamente stretti tutti in cucina. Casa Jackson era progettata per due persone. Due camere da letto, due sedie, due bicchieri, un divano per due... Il fatto è che a Percy piaceva così. Era perfetta per lui e sua madre. Si erano sempre arrangiati con quel poco che avevano perché era abbastanza.

Durante la cena, Poseidone fece quel che gli riusciva meglio, lo showman, divertendo sua madre con aneddoti sui suoi lunghi viaggi, le persone che aveva conosciuto durante le riprese dei vari documentari che aveva girato, tutto con la naturalezza di qualcuno che era abituato a stare al centro dell'attenzione.

Tyson spesso contribuiva con commenti innocenti che intenerivano Sally, e Percy ogni volta provava una stretta allo stomaco che dubitò fosse dovuta allo stufato. Nella maggior parte delle volte, però, Tyson non parlava; si limitare ad ascoltare suo padre con rapita attenzione, come se fosse la prima volta che ascoltava di come Poseidone era caduto dalla barca mentre tentava di domare un tigerfish.

Mentre si rigirava nel suo letto di fortuna fatto di varie coperte poste sul pavimento, Percy valutò se usare la scusa del mal di schiena per saltare la scuola il dopo dopo. Magari avrebbe potuto far sentire in colpa Poseidone, anche se dubitava che suo padre avesse una coscienza. E poi sarebbe stato costretto a starsene a casa ad ascoltare altre sciocchezze sui fondali marini.

La voce di Tyson gli giunse ovattata. “Il nostro è il papà migliore del mondo.”

Percy considerò l’idea di fingersi addormentato, ma emise un grugnito in risposta, perché, per quanto si sforzasse, non riusciva proprio ad essere scortese e antipatico col bambino. Decantava le lodi di Poseidone ad ogni occasione, e Percy non sapeva come dirgli che era molto probabile che l’avrebbe scaricato alla prima occasione, che, per il loro fantomatico padre, il mare era molto più importante del suo stesso sangue.

“Vuole tanto bene a te,” continuò, nella voce un tono che Percy non riuscì a definire. Tyson era disteso di pancia, a meno di un metro da Percy, la coperta che gli nascondeva la testa. Solo le mani erano visibili, mentre costruiva qualcosa con bastoncini di gelato e carte di caramelle. “Parla sempre di te. Fa vedere a tutti le tue foto. Dice sempre che siete tali e quali. Voglio essere anch’io come te, ma io sono stato solo pescato.” Dalle coperte che si alzarono e abbassarono, Percy dedusse che Tyson avesse alzato le spalle con noncuranza, come se quelle parole non l’avessero lasciato con la mente che ronzava inquieta, insicura su quale pensiero soffermarsi per prima.

“Pescato?” chiese, e si domandò se tutto quel vivere tra i pesci avesse cotto il cervello del suo fratellastro a bagnomaria.

“Sissì,” confermò Tyson. “Io stavo affogando, perché il mio papà è cattivo e la mia mamma è morta e papà Poseidone mi ha pescato dal mare e mi ha salvato. E poi ha detto che potevo stare con lui, che adesso potevo avere un papà buono e lui mi dava pure un fratello. Papà mantiene sempre le promesse.”

“Oh!” esclamò Percy, costernato da quella notizia e stranamente senza parole.

Seppur chiusa, dalla finestra provenivano i suoni di una New York che non dormiva mai, le luci dei fari delle auto si riflettevano a intermittenza sul fagotto di coperte che era Tyson. Sua madre diceva spesso che avrebbero dovuto comprare degli infissi insonorizzati quando avessero trovato i soldi necessari. Ma a Percy non dispiaceva. Il traffico, le voci dei ragazzi nottambuli, la musica del disco bar dietro l’angolo… era suoni confortanti e familiari che attutivano i suoi pensieri e le sue emozioni contrastanti.

Mentre finalmente la magia di Ipno aveva effetto su di lui, capì cosa gli ricordasse il tono di voce che aveva usato Tyson: la gelosia.


“Sono blu questi pancakes?”

Il primo pensiero di Percy quella mattina fu: ho di nuovo lasciato la TV accesa? Poi aprì gli occhi e vide il set fotografico di se stesso che raccontava tutti i suoi cambiamenti fisici, da poppante a teenager. Era in salotto e la voce di Poseidone non proveniva dalla TV, ma dalla cucina.

“Sì,” rispose la voce di sua madre. “È per Percy, sai. Un modo per insegnargli che tutto è possibile: il cibo può essere blu e lui può finire la scuola.”

Percy si mise seduto con difficoltà. La sua schiena indolenzita gli indicò che aveva dormito malissimo quella notte. Tyson era ancora nel mondo dei sogni, un sorriso beato in volto. Decise che la presenza di Poseidone non gli avrebbe privato per la seconda mattina di seguito dei suoi pancakes, così si alzò e andò in cucina.

Sally e Poseidone erano in piedi, lei badava ai pancakes che cuocevano in padella, lui si rendeva utile immergendo il dito nell’impasto blu e leccandolo. Percy si fermò sulla soglia della cucina ad osservare quel momento così domestico, e decise che era troppo presto per provare emozioni, quindi biascicò un buongiorno, si sedette e cominciò a mangiare pancakes con una porzione extra di sciroppo d’acero, perché era una di quelle giornate.

Non badò alle loro chiacchiere, le risate e le piccole spinte col bacino che si davano come se preparare la colazione insieme fosse un’usanza tradizionale per loro. Mangiò e si preparò velocemente, e quella mattina fu lui a dover aspettare l’arrivo di Grover sotto la fermata dell’autobus.

Si rese conto improvvisamente che era passata già mezza mattinata quando il professore di Educazione Fisica gli disse che sarebbe stato uno dei capitani della partita a basket. Era stato distratto tutto il tempo, e si era spostato da una classe all’altra seguendo passivamente la corrente di studenti. Grover non si accorse di nulla; non aveva smesso di parlare del suo appuntamento con Juniper per un minuto.

Vide Annabeth-Ho-La-Luna-Storta-Chase varie volte, tra un cambio dell’ora e l’altro, ma lei non lo degnò di uno sguardo. Quel giorno non avevano lezione e Percy non sapeva se sentirsi sollevato o deluso da ciò. Decise che quella giornata non sarebbe finita mai troppo presto.


“... e poi ha detto che nessun ragazzo le aveva mai regalato dei fiori e che a lei piacciono molto. Pensi sia troppo presto per regalarle delle rose?”

“Fa’ come ti senti di fare, amico.”

“Forse le regalerò delle rose bianche. Rosse no, decisamente troppo presto. E se poi dovesse pensare che io abbia chissà che intenzioni?”

Percy annuiva di tanto in tanto alle parole di Grover, perché c’era un limite alle risposte che poteva dare a una domanda ripetuta dieci volte in un giorno. Si sentiva fiacco e apatico, i piedi che si trascinavano stancamente sull’asfalto del cortile della scuola. Non aveva voglia di andare a casa e soprattutto non aveva voglia di passare tutto il viaggio in autobus ad ascoltare quanto profumasse di jasmine Juniper. Si sentì il peggiore degli amici, ma il suo umore non poteva essere più lontano da quello di Grover e la felicità del suo amico non faceva che accentuare la sua amarezza.

Con la coda dell’occhio notò una chioma bionda dirigersi verso una Toyota e si fermò di colpo. Grover fece un altro paio di passi prima di accorgersi che Percy non era più al suo fianco.

“Se non ci muoviamo perdiamo l’autobus” disse e quella era la prima frase che avesse pronunciato quel giorno che non comprendeva le parole ‘Juniper’ e ‘fiori’.

“Tu va’ avanti. Io… non credo prenderò l’autobus oggi” rispose Percy, guardando Annabeth che lottava per aprire la macchina cercando di non far cadere i libri che portava.

“Ah!” esclamò Grover, quando notò dove era posato lo sguardo dell’amico. “È quella nuova, vero? Tipa strana, sta sempre per i fatti suoi. Piper ha provato a parlarle l’altro giorno, ma lei l’ha snobbata. Non credo ne valga la pena, Percy. È una che ha la puzza sotto il naso.”

“Valga la pena di cosa? Voglio solo punzecchiarla un po’” rispose Percy un po’ troppo sulla difensiva.

“Se lo dici tu…” ribatté Grover scettico, poi gli ricomparve sul viso quel sorriso stralunato che aveva avuto negli ultimi giorni. “Vorrei tanto avere una macchina per accompagnare Juniper a scuola. Chissà se papà me la presta per un paio di giorni.” E si avviò verso la fermata, continuando a parlare da solo.

Prima che il coraggio gli venisse meno, Percy si avvicinò ad Annabeth.

"Stupido! Vecchio! Ferro rotto! Apriti!” Accompagnò ogni parola con un calcio alla portiera dell'auto e Percy si mise a ridere.

“Forse se sfondi il vetro puoi aprirla da dentro.” Al suono della sua voce lei si voltò di scatto.

“È una tua abitudine arrivare silenziosamente dietro le persone ignare?”

“Mi sono stati attribuiti molti aggettivi, ma 'silenzioso' mai. Forse se tu non fossi troppo occupata a fingere che non esista nessun altro a parte te e a litigare con le portiere...”

“Oh... non ho proprio voglia di starti a sentire, guarda.” E tornò a litigare con la chiave che non voleva scattare.

Percy la spinse leggermente di lato, prese la chiave e, con un po' di pressione, aprì la portiera. “Prego, milady” disse con un gesto teatrale.

Lei sbuffò ed entrò in macchina senza nemmeno un grazie. Percy ridacchiò e, prima che lei chiudesse le sicure, corse fino all'altro lato dell'auto e si accomodò nel posto passeggero.

“Che cazzo fai? Esci immediatamente!”

“Hai detto cazzo.”

“Io... Sì, ho detto cazzo, e allora? Adesso esci dalla mia macchina o chiamo la polizia.”

“Perché?”

“Perché è la mia macchina e tu non puoi intrufolarti senza invito, Testa D'Alghe.”

“Va bene, allora invitami.”

“Ti invito ad andare all'inferno.”

Percy si mise a ridere, battendo la mano sul cruscotto e la testa sul sedile. “Ok,” disse. “Ma mi ci accompagni tu. Quando esci dal parcheggio svolta a sinistra. C'è una Starbucks vicino casa mia che fa il miglior frappè al mondo. Anche il caffè, mi dicono. Ma non l'ho mai assaggiato. Non mi piace. Tu, invece, sei una tipa da caffè, vero?”

Annabeth per un attimo sembrò confusa. Batté le palpebre varie volte con espressione stralunata, prima di riprendere la ragione. “Sei scemo? Io con te non vado da nessuna parte.”

“Andiamo, Annabeth, tanto lo so che non hai meglio da fare.”

“Cosa cavolo ne sai tu delle cose che ho da fare, eh?”

“So che studi troppo per poter avere una vita sociale e so che non hai amici, qui alla Goode. E so, dato il tuo accento, che non sei una newyorkese — californiana, forse? — perciò, mia cara Cervellona, oggi io ti farò da cicerone. Cominciando dal miglior Starbucks di New York. Potrai dirmi grazie dopo aver aver assaggiato il Chocolate Smoothies

Lei lo guardò per svariati secondi prima di parlare. “Guarda che esistono anche a San Francisco gli Starbucks, sai?” disse, ma mise in moto la macchina senza altre lamentele.

Per la maggior parte del viaggio in macchina parlò solo Percy, mentre le indicava i posti migliori per fare skateboard, i negozi più economici e le diceva di prendere varie scorciatoie così da evitare il traffico del pomeriggio.

“Certo che come cicerone sei una frana. Skateboard, davvero? Siamo passati davanti al Metropolitan Museum of Art e al Rockefeller Center e non ne hai fatto parola.”

“Beh... immagino siano interessanti per dei turisti, comunque c'è un posto vicino al Metropolitan Museum of Art che fa delle ciambelle buonissime” rispose Percy e — udite, udite! — Annabeth rise.

Lo Starbucks era come al solito affollato di gente. Annabeth di mise in fila per ordinare, ma Percy le prese la mano e la tirò verso una porta con un cartello enorme che diceva “Personal Only”.

“Dove andiamo, Testa D'Alghe. Non ci è permesso entrare qui” obiettò Annabeth.

“Vuoi forse fare la fila?” rispose Percy e infilò la testa nell'uscio della porta. “Hei, Travis! Connor!”

Fece capolino un ragazzo dai capelli castani e gli occhi azzurri. “Oh! Guarda, Connor, c'è Percy. Non abbiamo proprio sentito la sua mancanza, vero?”

“Infatti, no, fratellino. Siamo stati benissimo senza di lui. È proprio bello vederti, Percy.” Aggiunse un altro ragazzo, infilando la testa sotto quella di suo fratello.

“Ma chi altro abbiamo qui?” domandò Travis, alzando le sopracciglia.

“Sembra proprio che Percy si sia fatta la ragazza, Travis” ribatté il fratello con un sorriso felino.

“Non fate gli scemi, ragazzi. Questa è Annabeth, un'amica.” rispose Percy lasciando la mano della ragazza.

I fratelli Stoll erano praticamente identici, non soltanto in termini fisionomici, ma anche caratteriali. Facevano tutto insieme, anche prendere in giro Percy, che sembrava il loro passatempo preferito. Percy li adorava.

“Due Double Chocolaty Chip Frappuccino, ragazzi. E non ci mettete dentro niente o dico al vostro capo chi è stato a graffiargli la macchina il mese scorso” disse loro Percy.

“Sissignore!”

“Tutto per il nostro cliente preferito.”

“Andiamo a trovarci un posto,” disse Percy ad Annabeth, quando i fratelli Stoll ebbero portato loro le ordinazioni.

“Ma... non dobbiamo pagare?” obiettò Annabeth.

“Naaa!” rispose Percy. “I fratelli Stoll sono in debito con me per tutte le volte che li ho coperti a scuola. Adesso si sono diplomati, ma i piaceri che ho fatto loro sono abbastanza da abbuffarmi di ordinazioni gratis fino alla pensione.”

Riuscirono a trovare un tavolo in un angolo, dove qualcuno aveva lasciato bicchieri vuoti e fazzoletti sporchi. Nessuno sceglieva mai quei tavoli, di conseguenza Percy, che non era schizzinoso, usciva sempre dallo Starbucks con le maniche appiccicose di caffè.

“Che schifo!” esclamò Annabeth, che evidentemente era schizzinosa.

Percy si stava godendo il suo Frappuccino, cercando di non guardare troppo la ragazza che gli sedeva di fronte. Ancora non credeva che era riuscito a convincerla a venire a bere qualcosa con lui.

“Ci sai fare con la gente, vero?” disse improvvisamente Annabeth.

“In che senso?” le chiese Percy.

“Nel senso...” lei fece un gesto col braccio verso la porta 'Personal Only'. “Hai molti amici. Sai come comportarti con le persone.” Giocherellò col dito sulla macchia di umido creata dal suo bicchiere di Frappuccino, un'espressione un po' triste. “Ti invidio un po' per questo,” continuò, formando delle lettere con del cacao in polvere che macchiava il tavolo. “Io non so mai cosa dire alle persone. Cioè... so cosa dire, ma in genere le mie parole vengono sempre interpretate in modo negativo.” Alzò lo sguardo e, dalla sua espressione, Percy dedusse che si era pentita di essersi aperta così.

“Forse potresti evitare di correggere le persone continuamente” le disse Percy, guardandola intensamente.

Lei sbuffò. “Non è che lo faccio a posta. È che... la gente a volte è così stupida. Non arrivano nemmeno a formulare i processi mentali più semplici. E—“

“Hai mai pensato che forse sei tu ad essere troppo intelligente?” la interruppe Percy.

Lei sospirò. “Sì, lo so. Ma è frustrante a volte, sai? Non riuscire mai ad avere una conversazione con una ragazza della mia età che non comprenda vestiti e trucco sarebbe carino ogni tanto.”

Percy rise. “Le ragazze non parlano solo di trucco e vestiti” disse.

“Sì, invece.”

“Dovresti avere una conversazione con Rachel, allora. Ti ricrederai.”

“Rachel? La tipa rossa? Chi è, la tua ragazza?” chiese Annabeth, facendo a pezzetti un fazzoletto di carta.

“Uhm... no. È solo una cara amica. Ma Annabeth,” aggiunse. “Non è difficile relazionarsi agli altri, sai? Anche se ti sembrano stupidi, anche se sono molto diversi da te... se ti fermi due minuti a pensare, potrai trovare qualcosa in comune con ognuno di loro.”

Annabeth sorrise guardandolo negli occhi e sorseggiò il suo Frappuccino. “Già. Tu per esempio non sei tanto male, Testa D'Alghe. Cavolo! È davvero buona 'sta roba.”

“Te l'avevo detto” disse Percy.

Passarono qualche minuto in amichevole silenzio, beandosi delle loro bevande, circondati dal chiacchiericcio degli altri clienti.

“Allora,” disse Percy dopo un po'. “Perché sei venuta a New York?”

Lei si pulì la bocca sporca di cioccolato in modo molto educato prima di rispondere. “Sono venuta a vivere da mia madre. Finora ho vissuto con mio padre e la sua famiglia a San Francisco, ma dato che sarei dovuta venire qui comunque l'anno prossimo per frequentare l'Università di New York, mia madre ha deciso che mi avrebbe fatto bene abituarmi alla città.” C'era un tono di amarezza nella sua voce.

“E tu non volevi?” chiese Percy.

“Certo che lo volevo. Perché me lo chiedi?”

“È solo... hai detto che è stata una decisione di tua madre.”

Un angolo delle labbra di Annabeth si curvò. “Non sei stupido come sembri, eh? No, non ho avuto molta voce in capitolo, in effetti. Mia madre è... un po' dispotica su certi aspetti. Molti aspetti. Ma non è che me ne lamenti. Sono contenta di non vivere più con mio padre e la sua famigliola.”

“Non stavi bene con loro?” Percy sapeva di star esagerando con le domande, ma c'erano tante di quelle cose che avrebbe voluto sapere di Annabeth Chase e ne avrebbe approfittato finché lei si sentiva dell'umore di parlare.

“Beh...” disse lei, finendo di disintegrare il povero fazzoletto. “Non c'era molto spazio per la figlia che aveva reso la vita di Frederick Chase un inferno. Soprattutto con altri due pargoli per casa. Almeno adesso ho più libertà. Mia madre non è mai in casa. Sempre nel suo studio legale a lavorare. Non ci sono bambini pestiferi a distrarmi, nessuna matrigna che mi guarda come fossi un'intrusa. Sto meglio qui.”

Percy non riusciva nemmeno a immaginare come fosse tornare in una casa vuota, senza il sorriso di sua madre ad accoglierlo, o il profumo della cena che lo attendeva.

Annabeth sembrò decidere di aver parlato abbastanza di sé perché spostò l'argomento sulla scuola e le altre materie che Percy doveva ripassare durante le loro lezioni. Poi i loro Frappuccini finirono e lei annunciò di dover tornare a casa.

“E la prossima volta decido da sola cosa ordinare, Testa D'Alghe.”

Percy era troppo contento del fatto che ci sarebbe stata una 'prossima volta' per replicare.
 


N/A: Aaaah! Finalmente! Questo capitolo l'ho letteralmente partorito, nel senso che è stata una faticaccia. Percy ha scoperto qualcosa su Poseidone, Tyson e Annabeth (come avevo promesso, Poseidone non è completamente stronzo) e finalmente si è visto un po' di Percabeth. 
Ci ho messo un po' più di tempo a scrivere questo capitolo perché credo sia importante e non volevo rovinare tutto. E poi sono stata impegnata su un'altra shottina sul mio adorato Paul. 
Ah! Dato che sono un'idiota cronica, mi sono scordata di dire che la maglietta dei Ramones di Percy del capitolo scorso è un riferimento a una fanart meravigliosa di Viria. Dovrei cominciare a prendere nota delle note che devo scrivere :D
Come sempre ringrazio tutte quelle meravigliose persone che hanno recensito e inserito la storia tra le preferite/seguite/ricordate. Se non ci foste voi, ragazzi...

 


Nel prossimo capitolo: Percy e Poseidone fanno una chiacchierata, Annabeth si rilassa un po' (ed era ora), Tyson è un tenerone.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2259398