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Mi
pare di essere seduto su questa panca da un’eternità, anche se sono consapevole
che non sarà passata più di mezz’ora. Le persone prima di me sono lentamente
diminuite, sono entrate dentro quella stanza e sono uscite con un’espressione
che può essere definita soddisfatta, ma che in verità non penso sia tale.
«Che cos’è?» mi chiede all’improvviso la
ragazza seduta accanto a me, la prossima che avrebbe dovuto attraversare quella
porta, l’ultima che lo avrebbe fatto prima del sottoscritto.
Ha
continuato a battere in terra con il piede per tutto il tempo successivo al mio
arrivo, mentre con le sue mani curate rigirava la busta bianca che regge ancora,
bianca proprio come la mia.
Abbasso
gli occhi sulle mie mani, su quello che custodiscono, tremano leggermente e
smascherano il mio stato d’animo preoccupato. Lei, ancora in attesa di una
risposta continua ad osservarmi con uno strano sorriso e gli occhi spenti.
Non
le rispondo, non so cosa dirle, non so neanche come si possa spiegare il
contenuto della mia lettera, racchiuso in una firma sulla carta bianca candita
che la busta stessa sta proteggendo.
«Ho capito.» riprende parola lei dopo
poco: «È la tua prima volta, vero? Allora dev’essere qualcosa di veramente
bello. La mia prima volta mi diedero un sacco di oro, scommetto che sarà così
anche per te.»
Dalla
porta esce, finalmente, qualcuno e lei si alza, salutandomi. L’uomo appena
uscito si allontana esaminando il valore di ciò che ha venduto. Lo capisco
perché sento le monete tintinnare fra loro, in un suono che, in questo momento,
mi procura solo orrore.
La
ragazza scompare dietro la porta, che le viene richiusa alle spalle e il suono
rimbomba per tutto il corridoio, alto, lungo e tetro.
Chiamano
questo posto il Banco dei Sogni,
perché è proprio questo che fa, compra sogni.
Le
persone qui vendono ciò che hanno di più evanescente, ma anche di più profondo.
Racchiudono la loro speranza all’interno della loro firma, la scrivono su un
foglio bianco candido, lo ripongono in una busta e vengono fin qui per farsela
valutare, farsi valutare il prezzo della propria anima, come diceva mio padre.
Alla
fine ho ceduto anche io, avevo bisogni di soldi, i pochi che guadagno con il
mio lavoro non bastano quasi mai, ma più passa il tempo meno mi sento sicuro
della scelta che ho fatto. Mi sento terrorizzato dall’idea di diventare come
tutti gli altri, perché mi sembra che chi, prima di me, ha venduto i propri
sogni abbia completamente perso la propria personalità.
Ma
quasi ci si sente costretti a venderli, perché il nostro mondo si nutre di essi.
Lo aiutano a crescere verde e rigoglioso dicono, ma io, di posti verdi e
rigogliosi, non ne ho mai visti. Vedo solo città, grigie e cupe, il sole
illumina fiocamente tutto ciò che tocca perché è nascosto da una coltre di nubi
perenni che sembrano sempre intenzionate ad ucciderlo, il vento non soffia
quasi mai perché non riesce a passare attraverso le pareti degli alti palazzi
eretti ovunque.
Eppure
io vorrei tanto poter vedere un’alba, una vera alba. Vedere il sole che sorge
timido, per poi prendere sicurezza della sua bellezza ed elevarsi in tutta la
sua maestosità, colorando ogni singolo angolo del mondo. È questo il sogno che
custodisce la mia busta, la speranza di vedere le cose cambiare.
La
porta si apre e quel rumore mi fa sussultare. La ragazza di prima esce
scuotendo un piccolo sacchetto in cui sento risuonare le monete d’oro che le
hanno dato in cambio di un altro piccolo brandello della sua anima.
Mi
alzo perché tocca a me, ma devo respirare a fondo un paio di volte prima di
riuscire effettivamente ad avviarmi. Quando varco la soglia mi pento
immediatamente di essere venuto fin qui, non avrei dovuto farlo, non avrei
dovuto rinchiudere il mio sogno nella mia maledetta firma.
Due
uomini alti e possenti chiudono la porta alle mie spalle senza fare alcun
rumore, l’unico che si sente è quello dell’enorme uscio che taglia ogni mia via
di fuga. I due tornano composti ad osservare la stanza, silenziosi nei loro
abiti, in cui si celano sicuramente un’ innumerevole quantità di armi.
Io
mi avvio a passi insicuri verso il bancone dietro il quale mi attende colui che
valuterà il prezzo del mio sogno. È un individuo non tanto alto, vestito con un
completo elegante e scuro, su cui niente di rassicurante spicca. L’unica cosa
che noto in lui sono i suoi occhi, talmente chiari da essere freddi e così
imperscrutabili da lasciarmi interdetto. Sorride e mi sento in soggezione.
«Benvenuto al Banco dei Sogni, signore. Ha con sé la merce?» mi chiede.
La
sua voce è bassa, flebile, ma si insinua fin nel più profondo del mio cervello
a risvegliare sensazioni spiacevoli che erano stranamente rimaste assopite. Il
modo in cui chiama il mio sogno, la merce,
mi fa provare una fastidiosa sensazione e mi fa domandare, nuovamente, per
quale motivo io abbia deciso di venire fin qui a vendere una parte di me.
Ma
il mio corpo pare muoversi automaticamente al primo cenno dell’uomo che ho di
fronte. Gli tendo la busta e lui l’afferra con le sue mani nodose che mi fanno
capire che probabilmente è più anziano di quanto appaia.
Apre
la lettera con calma infinita, estrae il foglio, lo spiega, lo analizza
attentamente e sul suo volto si disegna un’espressione che non può che
inquietarmi ulteriormente. È un ghigno, distorto e vittorioso, mette
semplicemente i brividi e probabilmente lo nota appena posa gli occhi su di me,
subito dopo.
«È un sogno davvero molto ingombrante.»
dice, senza cancellare quel suo sorriso.
Nuovamente
non reagisco in alcun modo, non una parola, non un’azione e lui riprende a
parlare:
«Immagino che non sia mai venuto qui da
noi prima d’ora. Questo spiegherebbe per quale motivo il suo sogno ha tutto
questo valore.»
L’uomo
mi guarda sorpreso per qualche istante, poi risponde come se fosse una domanda
che gli viene posta spesso:
«È presto detto. Vede, quello che è
racchiuso in questo foglio è qualcosa di molto, molto profondo. Nel suo sogno c’è
qualcosa di impalpabile e, forse, irraggiungibile. Una di quelle cose che si
incontrano solo una volta nell’arco della proprio vita, quando ancora si pensa
che tutto sia possibile, quando niente ha ancora avuto modo di allontanarci
dalle nostre convinzioni. Mi creda, ha fatto davvero bene a portarlo qui. Il
suo sogno nutrirà a dovere il nostro mondo e lei sarà ripagato con parecchio
oro. Come si suol dire: vincono tutti.»
Abbasso
lo sguardo, rabbrividendo al suo ennesimo sorriso.
«Molto bene.» lo sento dire subito dopo
e quando alzo gli occhi su di lui vedo che sta posizionando uno strano
flaconcino in vetro sotto il foglio con impressa la mia firma.
Improvvisamente,
da un angolo della carta, una fiamma argentata comincia a propagarsi, bruciando
lentamente il foglio e aumentando d’intensità e di lucentezza.
La
cenere si depone ordinata all’interno della boccetta in vetro e brilla come la
luna.
«Un sogno meraviglioso.» commenta, concentrato
a guardare la carta bruciare mentre io, ogni istante che passa, mi sento sempre
più impotente, le braccia abbandonate lungo i fianchi, lo sguardo perso nel
fuoco che sta divorando il mio unico sogno.
La
fiamma si spegne e della carta rimane soltanto un piccolo lembo, lo stesso che
era protetto dalla mano dell’uomo mentre la reggeva.
«Le prendo immediatamente il suo oro.»
scompare in fretta, dietro una tenda color porpora, senza aspettare alcun tipo
di risposta da parte mia.
Rimango
immobile ad osservare la cenere argentata e il pezzetto del mio foglio, in cui
si legge ancora, anche se poco, la prima lettera del mio nome. Alzo gli occhi
sulla scritta dipinta alla parete, che prima non avevo notato a causa della
presenza dell’uomo, una frase in oro con caratteri affilati e taglienti, quella
che può essere definita come il motto del Banco
dei Sogni:
Ti hanno detto che è stato scritto nelle stelle,
ma non hai mai avuto la possibilità di guardare così
lontano.
Credo
che nessuno sappia perché hanno scelto una frase del genere, io di certo non lo
so. Ma è come se volessero convincerti, con quelle parole, che un sogno è
troppo ingombrante da inseguire e che venderlo è la soluzione migliore. Almeno
credo si possa intendere così, perché non saprei come altro definire tale
concetto. Eppure trovo che sia una frase troppo profonda e troppo bella per
essere collegata ad un posto come questo, che sicuramente le attribuisce un
significato diverso e più crudele di quello che potrei attribuirle io.
Rimanere
in questa stanza mi fa provare un senso di disagio come mai prima d’ora, essere
lasciato solo con i miei pensieri quasi mi logora dentro. Mai sono stati tanto
pesanti, tanto profondi da farmi stare male, sento un peso all’altezza del
cuore, una strana morsa che quasi mi costringe ad ansimare. Il pensiero di aver
agito troppo impulsivamente mi perseguita ed è così che realizzo di aver fatto
il più grande sbaglio della mia vita. La verità è che non volevo vendere il mio
sogno, non volevo farlo. Mi sono illuso che i soldi mi servissero più di ogni
altra cosa a questo mondo ma ho capito che non è così, altrimenti non saprei
come altro spiegarmi la sensazione di impotenza e inutilità che sento ora, che
mi sono reso conto che insieme a quel foglio, apparentemente inutile, se n’è
andata una parte di me.
Forse
è vero che il nostro mondo si nutre dei nostri sogni, chi può dirlo, ma è pur
sempre vero che io faccio parte di questo mondo e il mio sogno serve prima di
tutto a nutrire me.
Tuttavia
temo sia troppo tardi, perché mi sento sofferente, ma soprattutto svuotato.
Alzo
gli occhi quando sento l’uomo ricomparire davanti a me, posa sul banco un sacco
in cui sento risuonare le monete d’oro e mi guarda:
«Questo è il valore del suo sogno, non
male, le pare?» sembra stia ammiccando.
«Per
quale motivo quel punto non si è bruciato?» chiedo, senza soffermare lo sguardo
più del dovuto sull’oro, indicando con un cenno il piccolo pezzo di carta
rimasto integro.
«Oh, quello è
semplicemente dovuto al fatto che finché lei non accetta il denaro il sogno
continua a rimanere suo.» risponde alzando le spalle, con visibile noncuranza.
«Quindi mi sta dicendo che se io
volessi, potrei riprenderlo?»
Il
suo volto disteso assume un’espressione contrariata:
«Per quale motivo dovrebbe farlo? Ha
visto il suo valore? Se non era intenzionato a venderlo poteva benissimo non
scomodarsi a venire fin qui.» la sua voce flebile ora pare un sibilo.
Lancio
un’altra occhiata all’oro e capisco che non è ciò che voglio, non è ciò che mi
serve. A me serve continuare a credere che qualcosa, un giorno, cambierà, a me
serve avere il mio sogno.
Rapidamente
afferrò il pezzo di carta rimasto immobile sul banco e subito la cenere
argentata si dissolve in una nube scomposta, svuotando totalmente la boccetta
in cui si trovava, scomparendo per sempre.
L’uomo,
ora serio, quasi minaccioso, alza il tono della sua voce, quel tanto che basta
perché rimbombi in maniera spaventosa all’interno della stanza altissima:
«Faccia come crede, ma sappia che non è
più il benvenuto al Banco dei Sogni.»
Gli
volto le spalle e mi avvio alla porta, i due energumeni l’aprono dopo avermi
lanciato un’occhiata poco rassicurante. Esco dall’edificio a grandi passi e
solo quando sono fuori mi sento leggermente
più tranquillo, ma anche parecchio confuso. Indubbiamente del denaro mi avrebbe
fatto comodo, ma tutto quell’oro non valeva il sacrificio che mi era stato
chiesto, perché per me vendere il mio sogno era proprio quello: un sacrificio.
Mi
incammino preparandomi a tornare alla consueta vita monotona e grigia di tutti
i giorni, gli occhi bassi sul pezzo di carta, unico brandello superstite, quando
un colpo di vento mi strappa il lembo dalle mani e lo sospinge lontano. Erano
anni che non sentivo una brezza, mi ha colto così alla sprovvista che ci metto
più tempo del dovuto a rendermi conto che mi ha rubato una cosa tanto
importante. Raggiungo il frammento di carta che si è adagiato con noncuranza su
un punto qualunque della nera strada asfaltata e, subito, rimango sbalordito da
quello che vedo. Lentamente, un pezzetto alla volta, quello scompare,
sostituito da teneri fili di erba e fragili germogli. Uno di questi cresce più
in fretta degli altri, alla stessa velocità con cui il mio lembo di carta sta
scomparendo. Cresce fino a sbocciare, diventando un iris bianco, una delle cose
più belle che mi sia mai capitato di vedere.
Del
mio pezzo di carta non rimane più niente, è diventato nutrimento per il mondo, proprio
come ci hanno sempre raccontato, ora almeno so che le cose vanno realmente
così.
Eppure
dentro di me comincio a sentire il calore che prima, in quell’edificio così
freddo e spietato, avevo completamente perso. È come se il mondo si fosse
nutrito del mio sogno per poi restituirmelo e renderlo più concreto di prima,
come se volesse farmi capire che posso aiutarlo a crescere rigoglioso per poi
ricevere in cambio la speranza che io ripongo ogni giorno in lui.
Mi
basterebbe solo scrivere infinite volte il mio nome su infiniti fogli, in modo
da far sbocciare infiniti fiori.
Non
so da quanto sono fermo immobile ad osservare ciò che è appena nato ai miei
piedi, calcolare il tempo in cui i miei occhi si perdono in tanta bellezza non
è nemmeno nei miei piani, ma devo essere fermo ormai da diversi minuti. Le
persone intorno a me sfilano silenziose come anime smarrite, gli occhi persi su
qualunque cosa li possa distrarre, sono solo anche se circondato da decine di
passanti, ma non mi importa in questo momento, ho appena aiutato il mondo e lui
ha aiutato me.
«Che
cosa meravigliosa.»
La
voce proviene alle mie spalle, mi fa sussultare, immediatamente mi volto e, di
riflesso, tento di nascondere l’iris sbocciato con il mio corpo, ma è
impossibile non notare i fili d’erba verdi che hanno timidamente raggiunto i
miei piedi e che contrastano fortemente con il nero dell’asfalto.
Davanti
mi trovo una ragazza, forse mia coetanea, forse più giovane, non riesco a
distinguerlo bene. I lunghi boccoli neri le incorniciano il viso, elegante, sul
quale aleggia un sorriso dolce e amichevole. Tuttavia i suoi occhi sembrano
appannati, spenti, mi ricordano inevitabilmente quelli della ragazza seduta in
fila accanto a me al Banco dei Sogni.
Lei si sporge di poco, quel tanto che basta per notare la trasformazione del
mio sogno:
«Lo
hai fatto apposta?» mi domanda.
Io
mi sento ancora confuso per tutto quello che è successo nell’arco della
giornata, una giornata che sarebbe dovuta andare diversamente.
«Non
capisco.» le dico ed è vero, non ho idea di ciò a cui si sta riferendo.
«Il
fiore, lo hai fatto sbocciare qui apposta?» chiede nuovamente, superandomi e
chinandosi accanto all’iris bianco.
«No.
È stato…il vento.»
Non
mi crederà mai, nessuno crede al vento, perché qui non soffia più da interi
anni. Addirittura alcuni dicono che si sia estinto.
Ma
lei sorride, sinceramente, si alza in piedi e si avvicina a guardarmi. Scoprire
di non essermi sbagliato, scoprire che i suoi occhi castani sono realmente
spenti, però, mi rattrista.
«Dici
davvero? Il vento?»
Annuisco.
«Stupendo.»
esclama e torna a concentrarsi sul fiore.
Mi
sento più spaesato di prima, il che significa che non ho idea di che pesci
pigliare:
«Aspetta,
ma tu mi credi?» le domando avvicinandomi a lei, che subito alza gli occhi e
risponde:
«Perché
non dovrei? Guarda che cosa meravigliosa hai fatto nascere.»
Indica
l’iris e io lo guardo. Effettivamente è meraviglioso e pensare che è nato da
quel piccolo pezzetto di carta che non ho avuto la forza di vendere mi fa pensare
a cosa sarebbe potuto succedere se il vento mi avesse strappato dalle mani
l’intero foglio in cui avevo rinchiuso il mio sogno. Chissà, magari sarebbe
potuta crescere un’intera foresta.
«Come
ti chiami?» mi chiede all’improvviso.
«Steve.»
In
realtà il mio nome è Stephen, Espoir, ma a nessuno
importa veramente sapere il nome dell’altro, non completo, non in questa città
e, forse, nemmeno in questo mondo.
La
ragazza mi tende la mano:
«Io
sono Jocelyn.»
Appena
le nostre mani si toccano lei sorride per la terza volta in poco tempo:
«Sono
felice di averti incontrato.» dice e subito dopo continua:
«Tu
hai ancora il tuo sogno, Steve.»
Sgrano
gli occhi, profondamente sorpreso da ciò che ha appena detto. Come ha fatto,
come è riuscita a capire che il mio sogno si è salvato, che il mondo me lo ha
restituito?
«Come
lo sai?» domando immediatamente, affamato di risposte.
Lei
indica il fiore con un cenno della mano:
«L’iris,
è nato dal tuo sogno, no? Questo vuol dire che il mondo se lo è preso, se n’è
nutrito e te lo ha restituito, è così che funziona, da sempre.»
«Tu
come fai a esserne sicura?»
«Me
lo hanno insegnato.»
Rimango
immobile a fissarla, inebetito. Mi sento stupido e confuso, ma proprio non so
come reagire. Chiunque sia questa ragazza è la prima persona che incontro che
mi tende la mano sorridendomi e presentandosi senza sembrare infastidita dal
fatto di doverlo fare. Ma la cosa che più mi sorprende in lei è che sa cosa
lega il nostro mondo ai nostri sogni e io non avevo mai incontrato nessuno,
prima, informato su questo.
«Posso
chiederti chi te lo ha insegnato?» riesco a domandarle infine.
Lei
alza leggermente le spalle e sorride ancora. Nel suo sorriso c’è tutta la luce
che i suoi occhi hanno perso.
«Un
amico. Tempo fa mi ha aiutata e mi ha illustrato tutto quello che c’è da sapere
sul legame che abbiamo con il nostro mondo, cose che ormai nessuno spiega più,
nemmeno ai bambini.»
«E
dove lo hai incontrato?»
«Lui
ha incontrato me. Se vuoi, posso presentartelo.»
Abbasso
lo sguardo, per pensare, e quello si posa immediatamente sul fiore. C’è davvero
un legame, misterioso, magico, che ci unisce al nostro mondo attraverso i
nostri sogni, una cosa di una potenza inimmaginabile che nessuno sa spiegare
realmente o dimostrare. Tuttavia lei sembra davvero sapere ciò di cui sta
parlando, forse è per questo che non si è stupita minimamente nel vedere l’iris
bianco e l’erba al posto del bitume nero.
«Ma
lui, cosa può insegnarmi?» le chiedo dopo essermi preso tempo a sufficienza per
pensare.
«Quello
che vuoi. Può aiutarti ad aprire gli occhi su quello che fanno al Banco dei Sogni, può aiutarti a
ritrovare la speranza anche una volta venduto il tuo sogno.»
Una
risata di scherno esce spontanea dalla mia bocca. Jocelyn assume un’espressione
sorpresa e pare rattristarsi.
«Mi
stai dicendo che è una specie di guida spirituale?» le chiedo.
Non
voglio essere offensivo nei suoi confronti, ma vedere l’infinità di persone che
ci circondano, persone che hanno venduto ciò che avevano di più profondo, di
più personale, mi fa chiedere come possa, un solo uomo, aiutare veramente
qualcuno a tenersi stretto qualcosa che, a quanto pare, non aveva per loro tanto
valore quanto può averlo per me.
Ma
lei subito risponde, con fermezza:
«No,
non è niente del genere. È solo un amico, una persona che ascolta veramente ciò
che qualcuno può avere da dire. Lui mi è stato accanto e mi ha davvero aiutata
a non cadere nel baratro dopo che ho venduto il mio sogno.»
La
sua notizia mi coglie alla sprovvista. Ecco perché i suoi occhi mi sono parsi
tanto spenti, proprio come quelli della ragazza al Banco dei Sogni: ha venduto il suo sogno.
Nonostante
tutto lei la forza di sorridere ancora ce l’ha, riesce a capire quanto bello
possa essere un semplice fiore sbocciato dal nulla, cosa che il resto delle
persone pare non notare neanche, perché continuano a passarci accanto fingendo
di non vederci.
«Scusami.»
sussurro, sentendomi uno stupido.
«Non
preoccuparti. Piuttosto, sei sicuro di non voler incontrare Vinny? Può esserti
d’aiuto veramente.»
«Ma
come può aiutarmi? Voglio dire, io non ho venduto il mio sogno, l’ho riavuto
indietro e al Banco non vogliono più
vedermi, di cosa avrei bisogno in più? Il mio sogno è salvo.»
«Davvero
sei felice, solo per questo?»
La
sua voce accarezza il mio udito, le sue parole risuonano come un monito nella
mia mente e mi costringono a pormi delle domande.
Sono
felice? Davvero felice? È difficile da capire, è difficile trovare la risposta
anche per me. La verità è che mi sento smarrito e sempre più confuso. Fino a
ieri la mia vita era la monotonia più assoluta, ma ancora avevo la forza di
alzarmi e sorridere a qualcuno, ridere per qualcosa, sperare. Ma il solo gesto
di aver scritto il mio nome su quel foglio bianco, rinchiudendo il mio sogno,
il solo fatto di aver provato a venderlo, mi fa capire che in realtà non sono
abbastanza forte. Ho tentato di omologarmi al resto della massa per paura di
vivere nella mia solitudine, perché sempre più persone smettono di avere a che
fare con me, si allontanano, incluso Mark, il mio migliore amico, che
nell’ultimo periodo è sempre più chiuso e assente.
Il
mio silenzio dura da troppo tempo, Jocelyn mi viene incontro rivolgendosi a me
con la sua piacevole voce:
«Fidati
di me, Steve. Conoscerai persone che sanno quello che provi, qualcuno con cui
condividere le tue giornate. Avrai modo di distrarti da questa città grigia,
tornare a dare un valore diverso al tuo tempo.»
Alzo
lo sguardo sui suoi occhi e vederli lì, assenti, nonostante la vitalità che mi
ha mostrato fin da subito, è una spiacevole sensazione. Per quale motivo si è
fatta questo?
«Perché
vuoi aiutarmi?» le chiedo.
La
domanda mi esce spontanea non appena realizzo che è proprio questo che lei sta
tentando di fare.
«Perché
so come ti senti, so che infondo quello che vuoi è trovare qualcuno che possa
esserti d’aiuto. So che ti senti in trappola.» Abbassa lo sguardo: «Proprio
come me.» mormora infine e non sono neanche sicuro di aver afferrato le parole
esatte.
Ma
in fin dei conti capisco che ha ragione. Non potrei sopportare di continuare a
vivere le stesse cose ogni giorno, vedere i medesimi posti, le solite persone,
non potrei riuscirci ancora. Sono semplicemente stanco della mia vita e le cose
non cambierebbero con del semplice oro in più, mi serve aiuto.
«Davvero
questo Vinny si farebbe carico anche dei miei problemi?»
Lei
sorride:
«Lui
non si fa carico dei problemi di nessuno. Semplicemente ti spiega che continuare
a credere nel tuo sogno è la cura per tutto, per il nostro mondo e per te. E, fidati,
non serve sapere altro.»
Non
capisco dove vuole arrivare, ma mi ha incuriosito. Forse, posso distruggere la
monotonia della mia vita conoscendo persone nuove, persone come me. Forse posso
rendere più interessanti le mie giornate, consapevole che da qualche parte c’è
qualcuno che ha voglia di ascoltarmi, ascoltare il mio modo di vedere il mondo.
«Dove
posso incontrarlo?» chiedo a Jocelyn, deciso a vedere fin dove gli avvenimenti
hanno intenzione di condurmi, dopo l’inaspettata piega assunta.
Lei
fruga nella sua borsa, che non avevo notato fino a questo momento. Estrae una
penna e un piccolo cartoncino, scarabocchia in fretta qualcosa e mi allunga il
tutto.
«È
qui che ci riuniamo, di solito. Fino a domani Vinny non torna, è andato fuori
città, da Jason. Ma domani potrai venire qui e parlare con lui e, credimi, sarà
veramente felice di conoscere una persona come te, Steve.»
Leggo
l’indirizzo segnato sul pezzetto di carta e un brivido mi attraversa da parte a
parte, al pensiero che l’ultima cosa scritta su una base bianca che ho tenuto
in mano è stato il mio sogno.
Non
appena alzo gli occhi verso la ragazza, lei mi saluta:
«A
domani.»
Si
allontana subito, prestando particolare attenzione a non pestare alcuno dei
piccoli fili d’erba o dei germogli nati precedentemente insieme all’iris
bianco.
Io
faccio scivolare nuovamente i miei occhi sulle lettere eleganti e frettolose
scritte da Jocelyn, domandandomi come possa essersi sentita vedendo il fuoco
argentato bruciare lentamente il suo nome e, con esso, anche il suo sogno.
Tutto
ciò che è successo nell’arco della giornata mi ha confuso ancora più di prima.
Non so cos’è successo, non so cosa pensare, non so nemmeno come sentirmi.
Eppure, nel mio profondo, sento una piccola scintilla, una piccola speranza.
La
mia nuova giornata lavorativa si conclude come la precedente, le ore mi
scivolano di dosso lente, come per liberarsi di un parassita ma prendendosi il
tempo necessario per farlo bene. In ufficio si sono alternate le stesse
persone, gli stessi volti, gli stessi finti sorrisi, le stesse frasi sussurrate
alle spalle. Tutto come sempre. Per questo quando esco in strada mi sento un
peso in meno, una sensazione di libertà effimera mi riempie, come il giorno prima
e quello prima ancora, una piccola libertà che dura non più di sedici ore ma
che è comunque sufficiente.
L’aria
fredda di quest’oggi mi entra fino in profondità. È ferma e pesante, ma gelida.
Ogni respiro mi si condensa davanti alle labbra, mi stringo nelle spalle nel
vano tentativo di scaldarmi con il giaccone, la mia mano destra continua a
rigirare fra le dita il cartoncino con la calligrafia di Jocelyn.
È
là che sto andando, in quel posto di cui lei mi ha parlato, dove forse riuscirò
davvero ad incontrare qualcuno in grado di aiutarmi, in grado di farmi sentire
meglio e distrarmi dalla piega presa dalla mia vita.
L’ultima
via in cui svolto, quella giusta, è più silenziosa e deserta di quanto mi fossi
aspettato. Non c’è nessuno per tutta la sua lunghezza, le uniche persone che si
vedono sono quelle che passano frettolosamente sulla via principale con cui
questa si interseca e niente di più. Raggiungo il numero civico sette e alzo
gli occhi verso la porta d’ingresso. Nessuno potrebbe sognarsi di venire fin
qui da solo, per il fatto che non sembra altro che una casa, una normalissima
casa. Non si sentono rumori, musica, risate, non si sente niente che possa far
sospettare che qui dentro, forse, le persone si sentono un filino meglio che
nella vita di tutti i giorni. Forse ho sbagliato strada o forse Jocelyn ha
voluto semplicemente sbarazzarsi di me mostrandomi come vanno realmente le
cose: la gente inganna ed è tutto normale.
Quando
abbasso la testa per tornare ad osservare le lettere frettolose della ragazza
qualche ciocca scura mi copre la visuale e le ricaccio indietro sospirando.
Tornerò
a casa, a fare quello che faccio tutti i giorni, ossia nulla.
«Steve.»
Mi
volto e vedo Jocelyn venire verso di me, accelera il passo e appena mi è
accanto posa una mano sul mio braccio, rimasto inutilmente sollevato a
mezz’aria. Il suo cappotto rosso contrasta con il nero della mia giacca, lei
spicca come un fiore fra questi palazzi grigi.
«Sapevo
che saresti venuto.» mi sorride.
«Già.»
mormoro io, non sapendo esattamente come comportarmi.
Continua
a sembrarmi strana la mia presenza qui, per tutta una serie di motivi che non
so neanche indicare.
«Vieni,
entriamo.»
Mi
fa cenno di seguirla e lo faccio. Superiamo l’ingresso e saliamo la prima rampa
di scale, il ritrovo non è altro che un appartamento, forse la casa di questo
Vincent, o Vinny, come lo chiamano.
Entriamo
nella porta di sinistra e un mormorio di voci ci accoglie. Le stanze sono
spaziose e luminose quanto il grigiume della città può consentire, le persone
parlano avvicinandosi l’un l’altra, si guardano negli occhi, ma noto sguardi
persi, a tratti. Ci saranno all’incirca quindici persone in queste stanze,
formano gruppetti grandi o piccoli, a seconda dei discorsi, solo uno di loro se
ne sta in disparte. È seduto su una sedia, addossata alla parete, in grembo
tiene una chitarra acustica di cui pizzica distrattamente le corde; alza lo
sguardo su di me non appena gli passo accanto, i suoi occhi verde acqua
sembrano andare alla deriva e capisco perché si comporta così. Probabilmente anche
lui ha venduto tutto, ma quello che mi sorprende è il fatto che già nella sua
giovane età si sia accorto dell’errore che ha compiuto.
«Che
posto è questo?» domando infine, dopo essermi affiancato a Jocelyn.
«Un
ritrovo, un rifugio, attribuiscili tu il termine che preferisci. È soltanto un
posto in cui le persone possono incontrarsi e parlare di un mondo che esiste
veramente ma che gli altri paiono non vedere. Nessuno dei qui presenti crede
più a quello che dicono le figure al Banco
dei Sogni. Per un motivo o per l’altro tutti hanno smesso di credere alla
felicità portata solo dall’oro, alla felicità comprata a costo della propria
anima. Tutta questa gente, Steve, sa cosa si prova a vendere i propri sogni, li
hanno venduti o, se non loro, i loro parenti, gli amici, gli amati. Qualcuno è
stato ad un passo da scivolare nel nulla, diventare come tutti gli altri,
smettendo di credere in qualcosa. Ma, per fortuna, sono riusciti ad aprire gli
occhi prima.»
«È
il merito è di Vincent?»
«Non
sempre, ma spesso. Lui sa cosa si prova a vedere qualcuno allontanarsi, suo
fratello maggiore vendette il suo sogno, anni fa. Le cose presero la piega
sbagliata e il fratello di Vinny arrivò ad un passo dalla follia. I sensi di
colpa, il rimorso, tutto quello che provi quando ti rendi conto dell’errore che
hai fatto ti trascina sempre più in basso.»
«È
davvero terribile…» il mio è un pensiero, pronunciato a voce bassa, ma lei se
ne accorge.
«Lo
so. Ma un giorno si sistemerà tutto, vedrai.»
La
guardo e Jocelyn mi sorride. Ripenso a ciò che mi ha appena detto e mi chiedo
dove abbia trovato la forza di ricominciare a credere in qualcosa anche dopo
aver lasciato il Banco dei Sogni
svuotata di una pare di sé.
«Vado
a dire a Vinny che sei arrivato.»
Scompare
prima che possa dire qualcosa. Mi guardo intorno aspettando il suo ritorno e
qualcuno mi lancia un breve cenno, come per darmi il benvenuto. Il ragazzo con
la sua chitarra ha ancora gli occhi bassi.
Jocelyn
ricompare e mi fa entrare nella stanza:
«Entra
pure.» mi sospinge appena con la mano e mi chiude la porta alle spalle: saremo
solo io e Vincent.
Il
mio cervello fa collegamenti veloci, ma in verità si sta solo ponendo domande.
Perché
sono venuto fin qui? Perché l’ho fatto? Temo di non saperlo, ma la verità è che
volevo soltanto trovare qualcuno come me, qualcuno stanco delle solite
giornate, qualcuno con cui poter parlare di ciò che c’è fuori da questa città,
sempre se là fuori c’è veramente qualcosa. Non so cosa potrei chiedere a questo
Vinny e non so neanche cosa lui potrebbe chiedere a me.
Ma
l’uomo che ho di fronte mi sorride e porta le sue mani sulle mie spalle:
«Sono
davvero felice di incontrarti, Steve.»
Il
viso fresco di rasatura si illumina quando punta il suo sguardo sul mio, i suoi
occhi azzurri sono luminosi e pieni di vita, resi ancora più brillanti dai
capelli chiari. Lui è come me, lui il suo sogno lo ha ancora.
Mi
fa cenno di sedermi e io eseguo in silenzio, lui si accomoda nella poltrona
difronte al mio divano e continua ad osservarmi. Mi sento incredibilmente a
disagio e non so su che punto della stanza lasciar cadere lo sguardo.
«Immagino
che tu sia confuso.» esordisce infine lui, sorridendomi.
La
sua cordialità riesce a tranquillizzarmi:
«Non
sai quanto.» mi esce.
Ridacchia,
come se fosse tornato indietro alla sua infanzia:
«Non
preoccuparti, posso capire. Tutto quello che ti sta succedendo è diverso dal
solito, vero?»
Marca
la parola diverso, la pronuncia come
se fosse la chiave di tutto ciò che vuole dirmi.
Annuisco
con la testa:
«Abbastanza,
in effetti.»
«Jocelyn
mi ha raccontato di quando ti ha incontrato, del tuo sogno divenuto un fiore.»
Nuovamente
faccio cenno di sì con la testa, senza sapere cosa dire.
«Cos’è
che vuoi sapere, Steve? So che sei pieno di domande, te lo si legge in faccia.»
Respiro
a fondo sentendomi colto in flagrante:
«Lo
sono, è vero. Solo che non so da dove cominciare, non so cosa chiederti e non
so che risposte aspettarmi.»
«Tu
provaci, altrimenti non otterrai mai niente.»
Ha
ragione, cerco di fare ordine nella mia testa e di dare una priorità a ciò che
voglio scoprire:
«D’accordo,
allora… parlami del legame che unisce i nostri sogni al mondo, perché io
proprio non lo capisco.»
Sorride:
«Non
posso spiegartelo, perché non so come funziona.»
«Ma…»
attacco, ma mi ferma con una mano alzata.
«Nessuno
sa cosa sia questo legame, si sa solamente che il mondo si nutre dei sogni
degli esseri che lo abitano, tutto qui. Essi racchiudono un’incredibile energia
che permette alla vita di continuare. Pazzesco, non ti pare?»
«Direi
quasi fantascientifico…»
«Ma
è tutto vero, credimi.»
Certo
che gli credo, io l’ho visto con i miei occhi.
«Perciò,
io potrei continuare a dare il mio sogno al mondo per aiutarlo a crescere?
Intendo dire, come è successo ieri? …non so se mi sono spiegato.»
«Ho
capito cosa intendi, ma non puoi.»
«Come
sarebbe no? Ieri non ho venduto il mio sogno al Banco dei Sogni ma è diventato un iris, perché non potrei rifarlo?»
Vinny
appoggia i gomiti alle ginocchia e mi guarda attentamente:
«Perché
non è così che funziona. È vero che potresti farlo, ed è vero che faresti
nascere qualcosa di nuovo, forse qualcosa di molto più importante di un fiore,
la prossima volta, ma è anche vero che il mondo non ti restituirebbe più il tuo
sogno se dovessi cominciare a donarglielo con troppa frequenza.»
Se
prima credevo di essere vicino a capirci qualcosa, ora sono più confuso che
mai. Lui se ne accorge e cerca di chiarirmi i concetti:
«Vedi,
ieri tu ti sei privato del tuo sogno per darlo al mondo, lui se n’è nutrito e
te lo ha restituito. Questo perché era solo un piccolo frammento, una parte
infinitesimale. Se invece tu donassi tutto
il tuo sogno al mondo, prima che egli possa restituirtelo ci vorrà molto, molto
più tempo.»
«E
questo perché?»
Alza
le spalle e capisco che non sa approfondire ulteriormente l’argomento, tuttavia
sono già informazioni utili quelle che mi ha dato.
«Perciò
è per questo che quando credevo di averlo venduto al Banco dei Sogni mi sentivo così svuotato?»
Pare
rifletterci su, ma per poco:
«No,
credo fosse solo perché ti eri accorto dell’enorme sbaglio che stavi facendo.
La tua anima cercava di avvertirti.» sorride e provo a fare lo stesso, ma
rimango confuso.
«So
che è difficile, non pretendo che tutto ti sia chiaro fin da subito, ma sappi
solo questo: il mondo si nutre dell’energia dei sogni delle persone, continua a
credere nel tuo sogno e aiuterai il mondo.»
Trovo
le sue parole bellissime, quasi mi scaldano dentro. Scoprire di non essere il
solo a non aver ancora compreso cosa ci lega al nostro mondo mi dà la
possibilità di iniziare questa ricerca contando sull’aiuto di qualcuno. Non so
che tipo di ricerca potrei voler svolgere, non so che risposte potrei voler
cercare e dubito fortemente che potrei riuscire in alcun modo a trovarne
qualcuna, ma non si può sapere. Avrò modo di constatare se Vinny ha ragione su
ciò che mi ha detto, ma per il momento credo ad ogni singola parola uscita
dalla sua bocca, perché lui e Jocelyn sono gli unici ad avermi parlato
apertamente fin da subito.
Mentre
penso a che altro potrei chiedergli la mia mente fa un paio di collegamenti e
mi propone una teoria che voglio verificare:
«Ma,
quindi, il Banco compra i sogni delle
persone per servirsene e basta? Là non aiutano il mondo?»
L’uomo
scuote la testa, amaramente:
«Li
usano per i loro affari, per continuare a costruire palazzi su palazzi, per
continuare ad uccidere questa città già morta e chi ci abita. Tutto quello che
vedi intorno a te è opera loro, tutto il grigio, il silenzio, la solitudine che
ti circonda. Comprando i sogni della gente la privano di una parte fondamentale
di esse: la loro anima, è questo che si prendono, con il tempo, ciò che
distingue l’uomo dall’automa. Ti basta osservarti intorno, ti basta guardare il
modo in cui gli altri si muovono, il modo in cui guardano il mondo con i loro
occhi spenti.»
A
quelle parole il volto di Jocelyn mi compare davanti, il suo sguardo assente e
perso, ciò che mi ha fatto porre le prime domande su cosa stessi cercando.
«A
proposito di questo.» comincio, sperando di non sbagliarmi, ma tutti quegli
sguardi smarriti che ho visto nell’ultimo periodo mi fanno sospettare di avere
realmente ragione:
«Per
quale motivo tante persone hanno quello sguardo così vacuo? C’entra anche qui
il fatto di vendere il proprio sogno?»
Vinny
assume un’espressione più seria di quanto mi fossi aspettato:
«Gli
occhi sono lo specchio dell’anima.» recita.
Capisco
a cosa si sta riferendo, ora mi è chiaro. Lo guardo in quelle sue iridi celesti
ancora brillanti e lucenti. Tuttavia non mi sfugge quel velo di tristezza,
delicato, appena percepibile, sicuramente dovuto al suo passato, a suo
fratello. Vinny lo ha visto perdere parte di sé, arrivare ad un passo dalla
pazzia dopo aver venduto il proprio sogno. È per questo che sa come posso
sentirmi io, o Jocelyn, o chiunque delle persone che ha intorno. Sono sicuro
che lui vuole aiutare tutta questa gente per salvarle dal dolore che lui ha
provato su di sé, il suo coraggio è invidiabile.
«Quindi
è per questo che Jocelyn…» comincio.
Completa
la frase per me:
«Sì,
è per questo. Lei vendette il suo sogno, tempo fa. Io la incontrai per caso,
era sconvolta, distrutta. Le offrii un caffè e qualcuno con cui parlare. Si era
pentita subito di ciò che aveva fatto, ma la paura le aveva impedito di
riprendersi ciò che era suo prima che fosse tardi e ora, a mesi di distanza,
lei ancora non ricorda quale fosse quel suo sogno. Nella sua stessa situazione
ci sono tanti altri, ma non tutti riescono ad affrontare la cosa, molti si
lasciano solo andare, scivolano in una felicità fittizia portata dall’oro.»
Sapere
che ha ragione mi riempie di tristezza. È vero, tutto vero. Nei miei ventisette
anni di esistenza ho visto questa città diventare sempre più grigia, più sola,
più spenta. Ho visto le persone vendere i propri sogni con frequenza maggiore,
senza neanche darsi il tempo di farne sbocciare uno vero e profondo, solo per
il bisogno di oro che, ogni giorno, diventa sempre più impellente per vivere
una vita che si possa definire normale.
Tutto è partito dal Banco dei Sogni,
tutto è cominciato dopo che hanno iniziato a dare valore ai nostri sogni, a
tentare di convincerci che loro sono il tramite giusto, e l’unico, per nutrire
il mondo.
Vendendo
il sogno a loro lo darai al mondo, ti fanno credere, ma non funziona così e
questa è la realtà.
«Fortunatamente.»
riprende parola Vinny: «Qualcuno che ha aperto gli occhi c’è e siamo sempre di
più. Le cose cambieranno.»
Sorride,
veramente convinto delle sue parole. Io non so se dargli ragione, spero solo
che sia così.
Ma
un’altra domanda comincia a balenarmi in testa, lo fa non appena assimilo
interamente le parole dette dall’uomo in precedenza:
«Posso
chiederti una cosa?» esordisco.
Lui
annuisce e mi lascia parola con un gesto:
«Se
Jocelyn si è pentita di quello che ha fatto, per quale motivo non ricorda più
il suo sogno?»
«Perché
purtroppo è così che funziona.»
«Ma
io mi ricordo del mio, quello che stavo per vendere, quello di cui si è nutrito
il mondo.»
«Proprio
per questo lo ricordi. Tu non lo hai venduto, Steve, lei sì. Se lo vendi al Banco lo dimentichi e quando riesci ad
avere un nuovo sogno, non saprai mai se è lo stesso che hai venduto la volta
prima o no. Dipende tutto dalle persone, molte di esse, infatti, vanno a
vendere appena hanno il più piccolo sogno per avere altro oro. Ci vuole troppo
tempo per elaborare un sogno profondo come il tuo o come quello che aveva
Jocelyn e il più della gente non è disposta ad aspettare, tanti, oltretutto,
non sarebbero nemmeno in grado di elaborare tale profondità.»
Ancora
mi torna in mente la ragazza che mi aveva rivolto la parola al Banco. Chissà qual’ era il suo primo,
vero, sogno, chissà perché ha cominciato a considerare l’oro come la cosa più
importante.
Qualcuno
bussa alla porta e il discorso fra me e Vincent viene interrotto, nella stanza
entra Jocelyn che guarda prima il suo amico poi me, infine sorride posando sul
tavolino accanto a noi un vassoio con un paio di tazze fumanti.
«Spero
ti piaccia il the.» mi dice.
«Grazie.»
La
voce di Vinny mi fa eco:
«Grazie
infinite, Jocelyn. Fermati a prenderlo con noi.»
Lei
si siede accanto a me e Vinny le allunga una delle due tazze, lasciandomi
l’altra.
Nessuno
dice nulla, io per primo perché non so che cosa poter dire, non so che parole
potrebbero uscire dalla mia bocca dopo la conversazione appena conclusa. Almeno
ora credo di aver capito che cosa devo proteggere nella mia vita, cosa è
realmente importante per me, credo di averlo capito davvero.
«Tornerai
anche domani?» domanda improvvisamente la ragazza.
Mi
volto verso di lei e noto che si sta rivolgendo a me, la tazza a mezz’aria, il
fumo argentato che disegna forme inimmaginabili.
«Posso?»
pronuncio confusamente.
«Puoi
venire tutte le volte che vuoi.» risponde Jocelyn.
Alla
fine, annuisco. Tornerò, perché voglio farlo. Mi è bastato un semplice incontro
con queste due anime per capire che ci sono altre persone simili a me sotto
molti aspetti, che c’è qualcun altro che vede le cose con i miei stessi occhi. Mi
è bastata poco più di un’ora per vedere che le cose possono cambiare, che
possono cambiare nel momento in cui temevo di non poter avere niente. Non so
cosa succederà prossimamente e la consapevolezza di ciò è una gioia per la mia
mente, perché significa che, forse, la monotonia sta per finire.
Le
tazze sono rimaste abbandonate sul tavolino accanto a me da almeno mezz’ora,
forse di più. Ho perso il passare del tempo, ho perso il conto dei minuti
trascorsi da quando Jocelyn ha abbandonato la stanza lasciandomi solo con Vinny
per la seconda volta. Abbiamo passato il resto di quel tempo che non ho contato
continuando a parlare di questa città, di quello che sta succedendo e forse
anche di quello che potrà accadere un giorno, abbiamo discusso della verità che
ruota attorno al Banco dei Sogni, della
paura delle persone che hanno raggiunto l’uomo in questa casa e di altre cose
ancora che forse, a pensarci, sono troppe perché possano essere passati solo
trenta minuti. Scruto nella stanza alla ricerca di un orologio, uno qualsiasi,
per rendermi effettivamente conto dell’ora che si è fatta, Vincent non c’è, è
uscito un momento per rispondere ad una chiamata. Jason ha detto quando ha portato il telefonino all’orecchio, la
cosa mi ha lasciato supporre che si trattasse dello stesso Jason nominato ieri
da Jocelyn, un’altra figura che forse avrò modo di incontrare in futuro.
L’orologio
segna le 17.44, i numeri rossi sono immobili e i miei occhi vi si abbandonano
stupidamente sopra. Improvvisamente il quattro si trasforma in un cinque e mi
ricorda che sono vivo.
Mi
sento strano. Nell’arco della giornata ho provato un’infinità di sensazioni
contrastanti, alcune talmente positive da stordirmi. Per me non è semplice
essere felice, anche solo pensare di poterlo essere mi fa uno strano effetto.
Sono cresciuto in una città che non mi appartiene, a cui neanche io appartengo,
ho continuato invano a fantasticare su un mondo che, sono certo, esiste ma che
non ho mai avuto la forza di andare a cercare. Ho paura del futuro e sono
insicuro, lo sono talmente tanto che fino a poco fa continuavo a ripetermi
dentro che avevo commesso un grave errore decidendo di venire qui e incontrare
Vinny. Tuttavia ora so di aver fatto la scelta giusta e, se tornassi indietro,
rifarei tutto daccapo.
Qui
dentro, su questo divano, ho avuto modo di riuscire a capire cosa succede
realmente là fuori, di capire cosa ci lega a questo mondo a tal punto da
avergli impedito di liberarsi di noi. Ho capito perché devo continuare a
lottare per il mio sogno, ho capito perché tanta bellezza, come quell’iris
sbocciato ieri, possa nascere anche da uno come me. Ci vorrà ancora molto tempo
prima che possa capire davvero tutto e con molta probabilità non ci riuscirò
mai, ma almeno ora so di aver incontrato qualcuno con cui cercare le risposte
alle mie assurde domande. Come ho promesso a Jocelyn tornerò anche domani e il
giorno dopo, voglio tornare sempre per dare un senso alla mia esistenza.
La
porta si apre e mi volto per vedere Vinny comparire sulla soglia, mi sorride e
io mi alzo per andare verso di lui. Non saprei che altro chiedergli ed è meglio
che vada, altrimenti potrei correre il rischio di non voler mai più tornare
alla realtà che, ora, si sta riproponendo più evidente e grigia di quanto mi
fossi ricordato nelle ultime, brevi, ore.
«Se
ora vai, spero vivamente di vederti anche domani.» mi dice lui, sorridendomi
ancora una volta con quel suo sorriso sincero e portando le mani sulle mie
spalle come, intuisco, gli piace fare.
Acconsento
con un cenno della testa e prendo parola:
«Tornerò
senz’altro.»
Le
mie stesse parole non mi bastano e riprendo a parlare subito:
«Volevo
ringraziarti per tutto. Ringraziarti per la tua ospitalità, per quello che mi
hai detto, per le risposte che mi hai dato.»
«Sono
io che ringrazio te, Steve. Sono contento di sapere di esserti stato d’aiuto,
se mai dovessi avere bisogno di qualcosa, anche solo di parlare, io e tutti gli
altri ci siamo.»
«Grazie.»
mormoro appena.
Mi
sento un peso ogni volta che ricevo inviti del genere, anche se, pensandoci,
forse un tale invito non mi era mai stato fatto prima.
Vinny
mi accompagna alla porta della sua stanza e mi saluta un’ultima volta.
Mentre
mi avvio verso l’uscita, sistemandomi la giacca, sento la voce, ormai
famigliare, di Jocelyn chiamarmi. Mi volto verso di lei, ferma all’altro lato
della stanza in compagnia di un’altra ragazza:
«Torni anche domani?» mi chiede.
Annuisco con la testa, incapace di esprimermi
a parole, il mio gesto è debole ma lei se ne accorge ugualmente, mi regala un
nuovo sorriso pieno di luce e mi saluta.
Appena sono in strada ripenso a quando sono
arrivato qui convinto di aver sbagliato posto. Se Jocelyn non mi avesse visto
me ne sarei sicuramente andato e nulla sarebbe potuto cambiare. Fortunatamente
non è andata così e ora non mi rimane che imboccare la nuova via che ho trovato
davanti a me, da sempre rimasta nascosta nel grigio di questa città.
***
Le ultime due settimane sono trascorse
diversamente da quanto sarebbe potuto succedere un tempo. Le giornate in
ufficio hanno continuato ad essere lunghe e interminabili, ma la consapevolezza
di poter trascorrere il resto del mio pomeriggio in un luogo diverso le faceva
scivolare via in modo meno doloroso. Mancano dieci minuti prima della fine del
mio turno, sto già pensando a cosa potrebbe succedermi quest’oggi, una cosa che
non facevo più da anni talmente mi ero rassegnato alla più totale monotonia.
Vedere la mia vita prendere una piega diversa e inaspettata, vedere che perfino
le pagine bianche che tocco tutti i giorni per delle fotocopie hanno delle
sfumature celesti o violacee che mai avevo notato, mi fa sentire fiducioso in
quello che potrebbe accadermi nel prossimo futuro. Volevo vedere le cose
cambiare e forse stavolta succederà veramente, devo solo continuare a credere e
non lasciarmi andare, per nessuna ragione.
Quando il quadrante dell’orologio dell’ufficio
segna le quattordici esatte abbandono ogni foglio con cui sto lavorando e afferro
la mia giacca, infilandola lungo le scale. Voglio fare una deviazione stavolta,
voglio andare nel punto in cui tutto è iniziato, nel posto in cui un piccolo
lembo di carta si è trasformato in un fiore ridandomi parte dalla speranza che
avevo perduto.
Cammino rapidamente in mezzo alla folla, le
persone intorno a me osservano solo il punto in cui i loro piedi appoggiano
sull’asfalto, senza prestare attenzione a ciò che le circonda, alcuni parlano
fra loro, a coppie, in piccoli gruppi, i loro discorsi sembrano melodie
monotonali e senza la più minima variazione. Appena raggiungo il luogo esatto
in cui il vento mi ha strappato dalle mani il mio pezzetto di carta accelero
ulteriormente, per poi fermarmi di colpo, sconvolto.
Non c’è più. Il mio fiore, l’iris, è
scomparso. Nel punto in cui avrebbe dovuto trovarsi con la poca erba nata
insieme a lui non c’è niente, tutto è tornato nuovamente nero e spento: lo
hanno tagliato.
Per quale motivo in questa città la bellezza
non è contemplata?
I miei occhi scorrono ripetutamente quel pezzo
di strada, lo fanno con fretta e insicurezza, finché noto un particolare
minuscolo e quasi invisibile: un filo d’erba. Un piccolo germoglio verde
intenso, che pare quasi spaventato da ciò che ha intorno. Istintivamente mi
chino verso di lui e rimango ad osservare il timido superstite, che è tutto ciò
che è rimasto della trasformazione del mio sogno.
Mi ritrovo a pensare che quell’iris non sia
altro che la metafora della mia vita; i germogli sono cresciuti fino a
sbocciare, proprio come nella mia infanzia, in cui ero in grado di immaginare
cose incredibili nella mia piccola anima di sognatore. Poi sono scomparso,
proprio come il fiore, sono stato atterrato dal grigio, azzerato da questa
città e dal nulla che porta con sé. Ma questo germoglio, piccolo e coraggioso,
non posso fare a meno di immedesimarlo con il me di ora, cioè quello che ha
avuto la possibilità di ricominciare a credere, di rinascere. Entrambi siamo
due sopravvissuti.
Lo sfioro appena con un dito e rimango ad
osservarlo per non so quanto tempo:
«Tieni duro, d’accordo?» mormoro.
Infine mi alzo e riprendo a camminare, diretto
alla casa di Vinny. Quando la raggiungo entro subito dall’ingresso lasciato
sempre aperto, salgo le scale e, appena davanti alla porta, incontro subito
Vinny. Solleva gli occhi dai bottoni del suo cappotto, dietro di lui la porta
chiusa dalla quale provengono deboli rumori.
«Oh,
Steve.» mi sorride, come è sua abitudine fare.
«Ciao.»
Termina di abbottonarsi prima di riprendere a
parlare, sospira leggermente e mi guarda:
«Sono contento di averti incontrato prima di
andarmene.»
«Cosa? Te ne vai?» chiedo sorpreso, forse
troppo, ma la notizia mi ha colto impreparato.
Che significa che se ne va?
Ma lui si mette a ridere:
«Aspetta, mi hai frainteso, vado via per un
paio di giorni, raggiungo Jason fuori città.»
«Ah,
scusami, avevo capito male.»
«Nessun problema.»
Si avvicina ancora di più a me e, come solito,
porta le sue mani sulle mie spalle:
«Ti chiedo solo un favore, amico mio.»
Acconsento con la testa e rimango in ascolto,
lui riprende parola senza abbandonare mai i miei occhi con i suoi:
«Stai accanto a Jocelyn e a tutti gli altri,
parla con loro e lascia che loro parlino a te. Ho visto che nell’ultimo periodo
sei riuscito a fare amicizia e ne sono contento, per questo te lo sto
chiedendo. Quelle persone hanno bisogno di aiuto.»
«Lo so e ne ho bisogno anche io.»
Vinny annuisce e mi sorride, sa che farò come
mi ha detto. Quasi sospetto che abbia temporeggiato più del dovuto per potermi
incontrare prima di andare via.
Mi abbraccia con affetto fraterno e torna a
guardarmi:
«Mancherò solo un paio di giorni.»
«Non preoccuparti.» sono io a sorridere,
questa volta.
Vincent mi saluta e si allontana, mentre io
apro la porta d’ingresso ed entro, salutando le prime persone che incontro. Mi
svesto della giacca, sistemo il mio maglione e rimango fermo a respirare a
fondo un paio di volte. Tutti i giorni ci metto almeno una decina di minuti
prima di rilassarmi totalmente; in questo posto mi sento come a casa, anzi, mi
sento addirittura più accettato che in casa mia, tuttavia ho sempre paura di
dire o fare la cosa sbagliata, di risvegliare ricordi dolorosi nelle persone,
di farle soffrire ulteriormente.
Appena mi sento più tranquillo mi volto e
subito incontro il viso di Jocelyn, mi sorride salutandomi e io tento di
rispondere allo stesso modo. Lei torna a conversare con le persone che ha
intorno e io cerco un posto dove poter andare. Una leggera nota stridula
proviene dalla mia destra, mi giro in quella direzione e noto il ragazzo con la
sua chitarra, seduto nello stesso posto in cui lo vidi la prima volta, a fare
la stessa cosa che stava facendo allora. La sedia accanto a lui è vuota,
fiocamente illuminata dalla luce diurna, decido di sedermici e provare a
parlare con quel ragazzo.
«Posso?» gli chiedo appena lo raggiungo,
indicando la sedia con un dito.
Solleva lo sguardo e mi osserva, trovo i suoi
occhi un po’ più luminosi rispetto alla prima volta che li ho visti, mi pare di
notare un leggero turbinio blu in quel verdemare: un buon segnale.
«Certo, siediti pure.»
Lo ringrazio e mi accomodo, lui impugna la sua
chitarra e si volta a guardarmi.
Faccio per parlare ma mi precede subito:
«Come ti chiami?»
«Steve.»
«Steve…»
mormora, distendendo le dita sulla chitarra: «Direi che fa rima con questo.»
Suona un unico accordo, la nota rimbomba
appena nella stanza, fondendosi alle voci dei presenti.
Lui torna a guardarmi e ride:
«Sì, proprio questo.»
Gli sorrido, sorpreso dalla positività
mostratami in meno di trenta secondi da una persona tanto giovane:
«E tu, come ti chiami?»
«Io sono Gabriel.»
Gli tendo la mano e lui me la stringe,
continuando ad avere quel suo sorriso da ragazzetto sul volto.
«Vuoi sapere che ci faccio qui, vero?» mi
chiede subito dopo aver mollato la presa, prendendomi alla sprovvista.
«Non sei costretto a parlarmene, lo sai questo?»
gli dico.
Lui annuisce con il capo, un gesto veloce e
sciolto:
«È parlandone con la gente che sto riacquistando
fiducia.»
È questo ciò a cui si riferiva Vinny prima,
parlare con lui aiuterà entrambi:
«Andiamo per gradi allora. Sei un musicista?»
Alza le spalle e abbassa gli occhi sulla sua
chitarra acustica, prendendo ad accarezzarla.
«Una specie.» attacca: «Lei è tutto quello che
mi è rimasto. So di non essere bravissimo come musicista, ma amo troppo suonare
per rinunciarci.»
Le corde stridono debolmente mentre lui vi fa
scorrere sopra le dita, come se lo strumento stesse parlando con il ragazzo,
come se lo stesse ringraziando per non essere mai stato abbandonato da lui.
Cerco le parole più adatte dentro di me per
porgli la fatidica domanda, chiedergli cosa l’abbia spinto ad andare al Banco dei Sogni, cosa gli abbia impedito
di fermarsi prima che fosse tardi.
«Perché lo hai fatto?» domando, la voce bassa.
Lui torna a guardarmi e alza le spalle:
«Non avevo scelta.» nel suo tono c’è una
pacata rassegnazione.
«Sì che l’avevi.» mi esce, spontaneamente.
Mi pento subito di averlo detto, convinto di
aver così ferito i sentimenti di Gabriel. Ma lui mi lancia un nuovo sorriso:
«No, non io. Mia madre e le mie sorelle si
sono trasferite fuori città. Qui la vita costava troppo per noi e così se ne
sono dovute andare, ma anche trovare i soldi per farlo non è stato facile e io
non potevo permettere che sacrificassero i loro sogni per questo, così l’ho
fatto io. Non ricordo quale fosse il mio, di sogno, ma non doveva essere
granché perché mi hanno dato davvero poco oro.»
Rimango immobile a guardarlo, sorpreso. Un
ragazzo tanto giovane che ha agito per aiutare qualcun altro, per aiutare delle
persone a cui tiene veramente. Coraggioso, testardo e impulsivo come tutti i
giovani della sua età, ma forse lui lo è più degli altri.
«Hai avuto davvero fegato a farlo.»
«Lo avrebbe fatto chiunque, credimi.»
Forse, non ne sono così convinto, non so
realmente quante persone, cresciute in questa città, sarebbero in grado di
compiere il suo stesso gesto, cioè sacrificarsi.
«Quanti anni hai detto di avere?»
Sorride:
«Non te l’ho detto. Ma sono ventuno, i tuoi?»
«Ventisette.»
«Ne dimostri meno, sai?»
Non dico niente e lui riprende subito parola,
senza perdere quella nota effervescente tipica della sua giovane età:
«Potrei scrivere una canzone su di te. Su
quello che hai fatto, sul tuo fiore. Qui dentro la sanno tutti la storia del
tuo iris.»
«Non c’è più.» sussurro appena,
immediatamente.
Il mio pensiero torna a quel pezzo nero di
asfalto dove solo quel piccolo filo d’erba sopravvive, quel minuscolo
superstite che crescerà sempre sfiorato dal nulla.
Gabriel abbassa il viso verso di me, per
guardarmi negli occhi. Non mi sono sbagliato, c’è davvero un vortice di blu in
quel mare verde, se ciò che Vinny mi ha detto è vero, significa che lui sta
lentamente ricostruendo il suo sogno.
«Vorrà dire che tornerà.» dice semplicemente:
«Dentro di te ci sono tutti gli iris che vuoi, Steve.»
Suona nuovamente quell’accordo, quello che
dice fare rima con il mio nome.
«Come fai a esserne sicuro?» gli domando.
Lui alza ancora una volta le spalle, un gesto
che mi fa capire che non sa la risposta, ma la sente.
Suona qualcosa di sconosciuto sulla sua
chitarra, una melodia leggera e orecchiabile, quel linguaggio che può essere
capito anche all’altro capo del mondo, che può essere compreso e amato da
tutti.
Lo osservo dall’inizio alla fine, mentre fa
scorrere le sue dita lungo le corde e la sua chitarra canta per lui.
«Perché non sei andato via insieme a tua madre
e alle tue sorelle se ne hai avuto la possibilità?» gli chiedo appena smette di
suonare, quando la musica scompare e torna l’avvolgente mormorio tipico di
questa casa. Abbassa gli occhi sulla sua compagna di avventure e prende ad
accarezzarla:
«Non saprei. Per quanto possa sembrare assurdo
non me la sento di abbandonare questa città, anche se non ha molto da offrirmi
credo che le mie uniche possibilità per farcela siano proprio qui. Se voglio
riuscire un giorno a vivere di musica allora non c’è altro posto in cui devo
andare.»
Annuisco con un cenno:
«Sei un tipo ottimista.» gli dico,
sorridendogli.
Lui risponde con lo stesso cenno:
«Direi più speranzoso, ma grazie.»
Un leggero silenzio cala fra di noi, Gabriel
si guarda intorno senza mai staccare le dita dalle corde della sua chitarra.
«Da quanto tempo sono partite?» gli chiedo
poi, per provare a ricostruire un po’ della sua vita.
Capisce subito che mi sto riferendo a sua
madre e alle sorelle, mi guarda negli occhi quando risponde:
«Tre settimane.»
«Stanno bene?»
Scuote debolmente la testa, un sorriso insicuro
si fa largo sul suo viso:
«Non lo so.» si limita a rispondermi.
Rimango sorpreso da quell’affermazione:
«Come non lo sai?»
Annuisce:
«Già, non lo so. Loro non hanno un telefono a
cui possa telefonare e io non ho un indirizzo a cui loro possano scrivere. Ma
sono certo che stiano bene, me lo sento.»
Rimango in silenzio ad osservarlo. Un’enorme
quantità di domande mi compaio in testa, prima fra tutte come riesca un ragazzo
tanto giovane ad avere tutta la forza interiore che ha lui. Non è solo dovuto
alla sua età, semplicemente lui ha continuato imperterrito a credere in un
futuro migliore. Non si è ancora arreso, non si è mai lasciato andare, cosa che
invece ho fatto io.
«Sicuramente un giorno le rivedrò.» pronuncia
a voce bassa, posando nuovamente gli occhi sulla chitarra.
Gli do un colpetto sulla spalla, un gesto
incoraggiante tipico dei ventenni:
«Il mondo è un posto piccolo.» gli dico.
Lui mi sorride e impugna il suo strumento:
«Ti dispiace se suono qualcosa?» mi chiede.
«Affatto.» rispondo senza la minima
esitazione.
Gabriel imbraccia la chitarra e comincia a
suonare senza pensarci due volte, nella stanza le voci si mescolano alla sua
melodia in un suono dannatamente vivo. Osservo le persone intorno a me, alcuni
si voltano un momento verso il ragazzo che suona e sorridono, come soddisfatti
di vedere che finalmente il giovane ha cominciato a fare ciò che sa fare
meglio. Nei giorni trascorsi qui dentro non ho mai visto nessuno rivolgere la
parola a Gabriel, così come non l’ho mai sentito suonare, eppure in questo
momento mi rendo conto di essermi sbagliato su tutto. Le persone qui dentro non
vengono lasciate sole con i proprio fantasmi, non vengono dimenticate le loro
storie, non vengono accantonate per nessuna ragione. Tutti si conoscono fra
loro, chi più chi meno, ma tutti. Chiunque ha sicuramente avuto la possibilità
di parlare con ciascuno dei presenti almeno una volta, quel tanto che basta da
sentire una storia simile alla propria e da sentirsi meno soli. Vinny ha
ragione anche questa volta.
Lascio
la casa di Vinny prima del solito, scendo le scale a grandi passi e quando sono
in strada devo ancora finire di sistemare la mia giacca. Mi sembra ci sia meno
freddo del solito, sembra quasi che le giornate siano più lunghe e meno grigie
della norma, ma sono certo che appaiono così solo a me. Mentre cammino sono
l’unico ad alzare gli occhi al cielo, quel tanto che basta per cercare un
piccolo quadrato di mondo libero dai grattacieli, un piccolo pezzetto di
qualcosa in cui, forse, potrei imbattermi in altre creature. Come sempre il
silenzio regna ovunque; è il silenzio della gente, quasi nessuno parla e, se lo
fa, è solo a voce bassa. Le automobili riempiono i vuoti con i loro rombi meccanici,
rendendo il tutto quasi un insieme robotico. Stranamente, però, questa volta
non mi infastidisce. Dentro di me c’è una musica leggera e armoniosa, una
canzone che continua ad accompagnarmi da quando ho lasciato il ritrovo.
Sono
note di infinita dolcezza uscite dalla chitarra di Gabriel dopo un altro
pomeriggio passato a parlare insieme.
Fra
una cosa e l’altra mi ha ricordato il valore dell’amicizia in questa città, in
mezzo a questo nulla, mi ha ricordato di quanto sia importante aiutarsi l’un
l’latro sempre, per questo l’ho ringraziato e sono uscito di fretta: voglio
andare da Mark. È da quando sono andato al Banco
dei Sogni credendo di cambiare le cose che non ho più avuto a che fare con
lui, anzi, è da prima ancora. Lui è sempre stato talmente vitale che il suo
allontanamento da me non può che essere dovuto al mio gesto e a tutta la
perdita di identità che lo ha preceduto. Voglio andare a fargli vedere che
posso riuscire a superare anche questo momento.
Eppure
nei luoghi che è solito frequentare non c’è, le persone a cui ho chiesto
informazioni mi hanno dirottato alla sua casa, il che è strano, perché lui a
casa non dovrebbe esserci fino a sera.
Arrivo
al suo palazzo, trovo l’ingesso principale aperto, così decido di raggiungere
la sua porta di casa e suonare lì il campanello. È proprio quello che faccio, ma
subito non ottengo risposta.
Trovo
tutto davvero strano e ci riprovo, avvicino il viso all’ingresso e dico:
«Mark,
sono Steve.» rimanendo in ascolto.
Sento
un leggero rumore provenire dall’altra parte, ho la conferma che lui è in casa
e aspetto.
La
porta si apre dopo interi minuti di attesa, Mark si fa da parte senza neanche
darmi in tempo di guardarlo.
«Ciao.»
lo saluto, varcando la soglia.
Non
risponde, o se lo fa non lo sento. Chiude la porta alle sue spalle e io inizio
a parlare senza tanti preamboli. Lui è l’unico con cui posso farlo,
raccontargli la piega presa dalla mia vita in quest’ultimo periodo,
raccontargli che, finalmente, ho dato un valore diverso al mio tempo. Io e Mark
ci conosciamo da anni interi, siamo cresciuti insieme e siamo come fratelli, il
fratello che nessuno dei due ha mai avuto.
So
che mi sta ascoltando, ne sono certo, ma continua a non rispondere, sembra non
provare il più minimo interesse per la sensazione frizzante che provo e che
credo sia felicità. Mi volto e lo guardo, è ancora immobile accanto alla porta
chiusa, le braccia mollemente abbandonate, il viso inespressivo. Una strana
sensazione mi attanaglia le viscere, un orrendo sospetto che vorrei non dover
approfondire. Lui è sempre stato più alto di me di almeno dieci centimetri,
devo avvicinarmici per vederlo bene negli occhi. Tuttavia, scoprire di avere
ragione è la cosa peggiore che possa succedermi. Non c’è luce, le sfumature
ambra sempre presenti nei suoi occhi sono scomparse, le sue iridi sono
diventate talmente scure da sembrare nere e pare quasi che stiano sprofondando
nel nulla. Mi sfila accanto e va a sedersi su una sedia del piccolo soggiorno,
seguo i suoi movimenti e mi soffermo ad osservarlo, cosa che lui non fa.
«Mark.»
lo chiamo.
La
voce mi esce bassa e incerta, la nota di gioia di poco fa è scomparsa.
«Che
cosa hai fatto?» sussurro.
Mi
avvicino a lui che si ostina a non guardarmi.
«Dimmi
che non è vero.» riprendo. «Lo hai fatto? Hai venduto il tuo sogno?»
Scuote
debolmente la testa, dall’alto verso il basso, fissando il nulla.
No.
No, ti prego, tutti ma non lui, non il mio migliore amico!
Scatto
verso Mark e lo afferro per le spalle, costringendolo a guardarmi:
«Perché?»
gli chiedo.
Non
risponde, sembra chiudersi in se stesso sempre più, non tiene i suoi occhi sui
miei per più di pochi secondi. Non
riesco a capacitarmi di quello che gli sta succedendo, non riesco a capire
perché lo abbia fatto. Ha venduto il suo sogno, il suo, che era persino più bello del mio, quel sogno che ruotava
attorno alla donna che ama e al suo futuro con lei.
Non
resisto, non posso vederlo così:
«Mark,
guardami, sono io, Steve! Dimmi perché lo hai fatto, dimmi perché, ti prego.»
Il
suo sguardo si posa spento sul mio e io quasi non riesco a trovarlo.
«L’ho
fatto per Ellen.» mormora, la voce impastata.
«Come?»
La
sua risposta è preceduta da un lungo silenzio, un’autentica tortura per me.
«Era
malata. Aveva bisogno di essere operata e costava troppo. Ho dovuto farlo… per
lei.»
Nuovamente
abbassa lo sguardo.
Lo
ha fatto per lei. Ha venduto il suo sogno per aiutare la sua fidanzata, un
gesto folle che prova quanto lui ci tenga.
Ma
allora perché si sta comportando così? Perché si è allontanato tanto da me e da
tutti?
Capisco
che il suo distacco non era dovuto al mio stato d’animo, ma al suo. Mi tornano
in mente le parole di Jocelyn sul rimorso e l’ossessione che portano ad un
passo dalla pazzia, ma Mark, in fin dei conti, ha fatto tutto per una giusta
causa, può far nascere un nuovo sogno insieme ad Ellen, magari proprio lo
stesso che ha venduto.
«Dici
davvero?» gli chiedo.
«Sì…»
È
sempre perso e assente e continuo a non capirne il motivo:
«Ma,
se lo hai fatto per lei… voglio dire, Mark, cosa c’è che non va?»
Niente.
«Ora
che lei sta bene potrai avere un altro sogno, solo non devi lasciarti andare
così.»
Il
suo silenzio prolungato mi fa rabbrividire:
«Ehi,
amico mio, dimmi cosa ti sta succedendo, per favore…»
«Se
n’è andata.»
Gli
esce in un sussurro, un filo di voce basso, appena percepibile, ma carico di
tristezza e orrore: è disperazione.
«Come?»
gli chiedo, le mie dita si stringono ancora di più intorno alle sue spalle,
sotto i miei indici percepisco le sue ossa. Alza lo sguardo, quei suoi occhi
spenti, così estranei:
«Se
n’è andata, Steve. Mi ha lasciato.»
Mollo
la presa, come se mi fossi scottato, apro la bocca per parlare ma non esce
alcun suono.
«Come
sarebbe?» riesco a pronunciare infine.
Mark
abbassa gli occhi e annuisce con la testa, mi aspetto di vedere comparire delle
lacrime, di vedere il suo corpo scosso dai singhiozzi, ma niente. È totalmente
assente, perso nel vuoto, smarrito.
«Mark…
Mark, guardami!» lo incito.
Torna
a guardarmi e io quasi non riconosco il volto della persona che ho davanti.
Perché,
perché sta succedendo?
«Non
puoi continuare così.»
Riprendo
a scuoterlo debolmente per le spalle, nella speranza che il suo corpo si decida
a reagire, seguito dalla sua mente.
«Devi
uscire di qui. Devi fare qualcosa, qualunque cosa, ma non puoi continuare così.
Cosa ti sta succedendo, si può sapere?»
Quasi
urlo davanti a lui, ma il dolore che provo a vederlo lì, immobile a fissare il
nulla, lui che da quando lo conosco è sempre stato energico e attivo nonostante
tutto, mi distrugge dentro.
«Se
n’è andata.» Ripete: «Non mi è rimasto più niente.» i suoi occhi appannati si
spengono sempre più.
Gli
serve aiuto.
«Ti
serve aiuto.»
Ma
lui non accenna a muoversi, continua a tenere lo sguardo basso e il suo corpo
pare afflosciarsi sotto il suo peso. Non avrei mai pensato di trovarmi in una
situazione come questa, neanche lontanamente, neanche nelle mie fantasie più
negative. È come se i ruoli si fossero invertiti, ora sono io che devo fare qualcosa
per impedire al mio amico di scomparire, anche se non ho la più pallida idea
del dolore che sta provando. Da solo non potrei mai farcela, temo di non essere
abbastanza forte da aiutare qualcuno, solo Vinny e tutti gli altri possono fare
qualcosa, ma devo convincere Mark a seguirmi.
«Devi
venire con me.» gli dico.
Non
mi dà alcun segno, non si muove, non mi guarda.
«Mark,
andiamo, non puoi restare qui, te l’ho già detto.»
Scuote
debolmente la testa, ripetutamente, le sue labbra si muovono appena in un
sussurro di cui percepisco a stento la parola niente; dentro di me il dolore continua a crescere.
«Ora
smettila, non ci riesco a vederti così, non ce la faccio! Non è vero che non ti
è rimasto niente, ci sono ancora io, io!
Sono il tuo migliore amico e finché sarà così non permetterò che ti succeda
nulla.»
Solleva
i suoi occhi su di me, rimane in silenzio a guardarmi, il viso che si distende
in un’espressione di incredula consapevolezza.
«Devi
venire con me.» concludo, ripetendo la stessa frase di prima, senza sapere che
altro aggiungere, sapendo che non avrei altro modo per indurlo a seguirmi.
Mark
continua ad osservarmi, il respiro debole sembra sul punto di fermarsi da un
momento all’altro. Infine si alza, costringendomi ad allontanarmi per
lasciargli lo spazio di manovra, si sposta nell’altra stanza lasciandomi solo.
È
quando mi convinco che non sarebbe mai venuto con me che lui ricompare nel
soggiorno, si infila il cappotto aggrappandosi letteralmente alla stoffa
dell’indumento, poi si ferma aspettando un mio gesto. Un’ombra di sorriso
aleggia sul mio volto, sapendo che forse riuscirò ad aiutarlo, ma scompare
immediatamente non appena incontro i suoi occhi, quei baratri di disperazione.
Ci
avviamo verso casa di Vinny, cammino rapidamente per la fretta, per l’ansia,
l’agitazione, per tutto; voglio raggiungere il ritrovo di Vincent il più in
fretta possibile, voglio poter sapere se posso aiutare il mio amico in qualche
modo, sapere se un giorno tornerà il Mark di sempre.
Lui
mi sta dietro di almeno tre, quattro passi; a tratti mi volto appena per vedere
se continua a seguirmi, cammina silenzioso guardando distrattamente in terra,
una fitta al cuore mi dice che lui è diventato come tutti gli altri, un’anima
nera che cammina smarrita in questa città, una figura a cui è rimasto davvero
poco. Mark ha compiuto lo stesso, coraggioso, gesto di Gabriel, ma alui le cose sono andate per il verso sbagliato,
sono andate nel peggiore dei modi.
E
io che credevo di essere solo, di non avere uno scopo in questa città; solo ora
mi rendo conto dei miei sbagli.
«Siamo
arrivati.» dico fermandomi davanti al civico sette.
La
luce è lentamente calata nel frattempo, mi fa capire che la notte si sta avvicinando,
l’aria comincia a diventare sempre più fredda, qualche luce comincia ad
accendersi.
Il
mio amico non dice una parola e mi segue lungo le scale, davanti alla porta
dell’appartamento di Vinny busso, restando in attesa.
Sulla
soglia compare Jocelyn e mi sorride:
«Steve,
sei tornato. Hai dimenticato qualcosa?»
Contemporaneamente
apre la porta, notando Mark. Lei sofferma i suoi occhi su di me, sulla mia
espressione che non può che essere il ritratto dell’orrore.
Non
serve dire niente perché capisca:
«Venite.»
dice soltanto, lasciandoci entrare.
Nella
casa il numero delle persone è decisamente calato rispetto a prima, il silenzio
è aumentato ma la leggera musica di Gabriel continua a provenire dallo stesso
punto sotto alle finestre.
Eppure
si interrompe appena il giovane vede me e la ragazza, seguiti da un Mark che
non è altro che l’ombra di se stesso, andare a grandi passi verso la stanza di
Vincent. Mi dispiace assalire quest’ultimo con dei problemi già al suo ritorno
in città, dopo l’assenza di due giorni da Jason, ma non so a chi altro potermi
rivolgere.
Jocelyn
mi accarezza leggermente il braccio, lanciandomi un sorriso incoraggiante, a
cui cerco di rispondere senza risultati, prima di allontanarsi. Busso e aspetto
una risposta, che arriva immediata:
«Avanti.»
è la voce di Vincent.
Apro
la porta e appena l’uomo mi vede si alza per salutarmi:
«Ciao.
A cosa devo la tua seconda visita in breve tempo?» sorride radioso, come
sempre.
Tuttavia
lo vedo diventare serio nel momento esatto in cui nota Mark, che per via della
sua statura è ben visibile alle mie spalle.
«Ho
bisogno del tuo aiuto.» dico, sentendo la mia voce rompersi leggermente.
Vinny
acconsente con un cenno del capo e ci fa segno di entrare.
High hopes, whenyouletit go, go out and start
again
High hopes, whenitallcomes to an end
But the world keeps spinning around
Lancio
un’ultima occhiata dentro la stanza, incontrando gli occhi celesti di Vinny,
seri, occhi di chi sa quello che sta facendo e chiudo l’uscio alle mie spalle.
Il rumore della serratura che scatta è un tonfo sordo nelle mie orecchie, un
suono che rimbomba fino in fondo dentro di me, dentro il vuoto che sono ora.
Rimango immobile davanti alla porta, a fissare distrattamente intorno.
Non
riesco a togliermi l’immagine del volto di Mark, non riesco a cancellare la
visione dei suoi occhi neri persi nel nulla. Mi avvio verso il divano che ho
difronte, rimasto vuoto dopo che la gente ha cominciato ad andarsene per via
dell’ora; mentre attraverso la stanza nessuna delle poche persone presenti mi
rivolge la parola: sanno che voglio restare solo.
Appena
mi siedo appoggio i gomiti sulle ginocchia e, quasi istintivamente, adagio la
fronte sulle mani. Le dita si infilano fra i capelli folti e scuri, vi si
aggrappano e tirano, ricordandomi che ciò che sto vivendo non è un orrendo
incubo, è la realtà. Non so cosa fare, non so cosa pensare, non so cosa
sperare. Vorrei tornare in quella stanza e dire a Mark che so esattamente come
aiutarlo, che so come restituirgli tutto quello che ha perso; vorrei andare da
lui e dirgli che ho trovato un modo per far tornare tutto come prima, ma non
posso. Non posso farlo perché non so come aiutare il mio amico, non so neppure
da che parte cominciare. Averlo portato qui, da Vinny, è già qualcosa, ma non
credo sia abbastanza, non visto lo stato d’animo in cui l’ho trovato. Mark era
atterrato, distrutto, nel suo sguardo c’era una tristezza infinita, nel suo
viso emaciato c’era la disperazione e temo che tutto ciò ci sia ancora.
Se
gli fossi stato accanto forse tutto questo non sarebbe successo, se mi fossi
preoccupato più di lui e meno di me forse le cose sarebbero andate
diversamente.
Con
questi pensieri stringo ancora di più i miei capelli e una fitta di dolore mi
attraversa lungo tutta la spina dorsale. Sento dei passi avvicinarsi e subito
riconosco le scarpe e la chitarra di Gabriel:
«Posso?»
chiede, indicando il posto libero che ho accanto.
Alzo
lo sguardo su di lui e annuisco, tentando di abbozzare un sorriso, ma non ci
riesco. Tutte le mie emozioni vengono deviate dalla tristezza che sto provando,
trasformandosi nelle smorfie di una persona sola.
Il
giovane mi si siede accanto lentamente, in modo quasi titubante posa la
chitarra in grembo e prende ad accarezzarla, probabilmente nel tentativo di
trovare le parole giuste per pormi la domanda che, so, è intenzionato a pormi.
Lo
sento prendere fiato e mi metto in ascolto:
«Lui
è tuo fratello?» mi chiede, indicando con il mento la porta dietro cui si trova
Mark.
Non
era esattamente questa la domanda che avevo in mente io, ma forse vuole
raggiungerla per vie traverse.
«No.»
rispondo, senza trovare la forza o la determinazione per aggiungere
qualcos’altro.
Gabriel
rimane in silenzio, forse soppesando accuratamente ogni lettera di ciò che
vuole chiedermi.
Apre
bocca dopo aver respirato a fondo ancora una volta, sfiorando le corde della
sua chitarra che, in risposta, suonano debolmente:
«E
cosa gli è successo?»
Una
fitta improvvisa mi stringe il cuore. Anche se ero preparato a questa domanda
riceverla mi mette a disagio; i sensi di colpa riaffiorano, la tristezza si fa
più persistente, quasi violenta, e credo che, sotto sotto, dentro di me stia
nascendo il terrore.
Mi
faccio forza, voltandomi verso il ragazzo, anche se apro bocca la mia voce ci
mette più tempo del dovuto ad uscire:
«Ha
fatto esattamente come te.»
Temporeggio:
«Ma a lui le cose non sono andate per il verso giusto, al contrario.»
Poso
gli occhi sull’ingresso della stanza di Vinny nel momento esatto in cui Jocelyn
abbassa la maniglia per entrare e scomparire dietro alla porta.
«A
lui le cose sono andate nel peggiore dei modi…» mormoro, per concludere la mia
risposta, ma riconosco a stento la mia stessa voce, tale è il mio stato
d’animo.
Lui
non risponde, rimane in silenzio, continuando ad accarezzare il suo strumento;
non so dove stia guardando, i miei occhi sono bassi e fissi sulle mie mani
congiunte, che vedo tremare debolmente, sicuramente per la tensione.
Jocelyn
non esce dalla stanza e una serie di pensieri negativi si fa largo nella mia
mente, di qualunque entità, ma la vera domanda a cui vorrei trovare risposta in
verità è una sola.
Perché
Mark non mi ha detto niente?
Avrei
potuto fare qualcosa, aiutarlo come mi era possibile, anche solo standogli
accanto o, almeno, provandoci. Invece no, non mi ha avvertito di quello che era
intenzionato a compiere e non so perché si sia rifiutato di farlo; non so
nemmeno dove abbia trovato tutto quel coraggio per riuscirci da solo.
Gabriel
tossisce debolmente, risvegliandomi dai miei pensieri, riportandomi alla realtà
così orrenda che sto vivendo. Il mio corpo intero viene pervaso da un forte
senso di angoscia, un dolore talmente profondo che non so neanche descrivere.
Forse
è per liberarmene che decido di affrontare l’argomento, cercando risposte da
qualcuno che deve aver ragionato come Mark.
«Io
non capisco come ci siate riusciti, dove abbiate trovato la forza per farlo.»
Il
mio tono è basso, la mia voce si rompe quando termino la frase. Gabriel è un
ragazzo sveglio, sa esattamente a cosa mi sto riferendo, sa che gli sto
chiedendo di aiutarmi a capire come lui e Mark siano riusciti a vendere i
proprio sogni.
Lo
vedo voltarsi verso di me, il sorriso rassegnato che già più volte è comparso
sul suo volto quando si è affrontato l’argomento:
«Ci
saresti riuscito anche tu se fossi stato nella nostra situazione, se lo avessi
dovuto fare per qualcuno che ami.»
Percepisco
in ritardo le sue parole, soppesandole accuratamente e tentando di rapportarle
alla mia vita, ma senza risultati soddisfacenti.
Istintivamente
scuoto la testa, amareggiato:
«Non…
non credo ci sarei riuscito, neanche in un caso simile.»
Prendo
fiato e guardo fisso davanti a me prima di parlare ed ammettere la verità:
«Gabriel,
il motivo per cui io non ho venduto il mio sogno, quel giorno, è stato perché ho
avuto paura. Io ho avuto paura e sono scappato.»
Il
ragazzo smette di accarezzare la sua chitarra, il rumore delle corde lievemente
sfiorate cessa e lo sento sospirare, per poi calare nuovamente nel silenzio.
Temo
mi stia giudicando, temo stia perdendo la stima che forse, un po’, prova per
me, ma non saprei assolutamente come dargli torto.
«Non
credere che per me sia stato facile.» comincia e io mi volto a guardarlo, a
questa ammissione.
«Ho
avuto paura anche io, Steve, perché sapevo esattamente a cosa andavo incontro e
ne ero terrorizzato. Ma ho voluto farlo ugualmente perché era necessario se
volevo aiutare le persone alle quali voglio più bene. Sono certo che lo stesso
vale anche per il tuo amico.»
Ci
guardiamo un momento negli occhi, i suoi, verdi, che stanno riacquistando
lucentezza, brillano di tutta la determinazione di cui il ragazzo è capace,
quasi lo invidio per il suo essere così convinto delle sue scelte, mentre io,
nelle ultime ore, mi sono rivelato solo un dubbio continuo.
«Grazie.»
gli dico e lui risponde con un sorriso e un cenno del capo.
Ma
dalla stanza di Vinny continua a non uscire nessuno e io torno a guardare
distrattamente il pavimento in preda all’ansia. Sento Gabriel posarmi una mano
sulla spalla:
«Andrà
tutto bene.» mi dice.
Vorrei
credergli, vorrei veramente farlo perché i suoi occhi sono sicuri delle sue
parole, ma non ci riesco. Lui non conosce Mark come lo conosco io, lui non può
capire cos’abbia significato per me vederlo in quello stato.
Prende
parola subito, come se mi avesse letto nella mente:
«Senti,
io non conosco il tuo amico, ma se ti stai preoccupando così significa che lui
per te è veramente importante. Inoltre vedere la tua preoccupazione mi fa
capire che non avresti mai pensato di poterlo vedere in quello stato e quindi
che, in verità, lui è un uomo forte. Fidati di me, Steve, se è davvero forte
come sospetto tornerà presto quello di un tempo.» conclude sorridendomi ancora
una volta e cala il silenzio.
Annuisco
con la testa, dando mentalmente ragione alle sue parole e sperando anche che
non si sia sbagliato minimamente sull’ultima parte, ma faccio fatica. Sento
l’angoscia riaffiorare, il desiderio di tornare indietro per evitare tutta
questa situazione si fa impellente, quasi vitale. Mi alzo di scatto,
spaventando Gabriel che, di riflesso, sposta il suo strumento per proteggerlo
da tutto ciò che può fargli del male e alza lo sguardo su di me.
«Se
puoi scusarmi…» gli dico, in fretta, la stessa fretta che uso per scendere le
scale stringendominella giacca che non
mi sono mai tolto, come se fossi inseguito dai miei più orribili fantasmi.
Appena
sono in strada mi fermo, di colpo. Il freddo mi arriva fino al cervello, il
respiro si condensa in fretta e accelera quando mi rendo conto di non riuscire
a stare fermo. Intorno a me solo buio e silenzio, il lampione che ho a destra
fa brillare la mia ombra nella sua luce arancione, poi la fa scivolare lenta
nel nero. Sento l’agitazione crescermi dentro, terrorizzato all’idea di
rimanere immobile cammino inutilmente avanti e indietro davanti al civico
sette, con il cuore che pompa più sangue di quanto ne abbia bisogno e lo
stomaco stretto in una morsa che lo sta lentamente dilaniando.
Sono
grato a Gabriel, sono davvero felice che lui si sia preoccupato per me, ma
avrei preferito restare da solo. Ha detto che secondo lui Mark tornerà quello
di un tempo, che secondo lui è un tipo forte abbastanza da riuscirci e spero
fortemente sia così. Ma se invece si sbagliasse?
Il
pensiero che le cose possano andare per il verso sbagliato mi perseguita, si fa
sempre più insistente e mi fa sentire morire. Mark è tutto ciò che mi è
rimasto, è l’unica persona che ha continuato a starmi accanto nel corso del
tempo, giorno dopo giorno. Lui è l’unico con cui ho continuato ad avere un
rapporto vero, sincero; la nostra amicizia ha superato il passare degli anni e
pensare che rischia di interrompersi ora, perché io non mi sonopreoccupato abbastanza di lui, è un’agonia.
Devono
essere trascorsi almeno dieci minuti da quando sono uscito di fretta dal
palazzo, ma proprio non riesco a calmarmi; tento invano di respirare a fondo un
paio di volte, ma l’ansia che provo continua a pesarmi dentro come un macigno,
facendomi sentire totalmente impotente.
«Steve.»
Mi
blocco, voltandomi appena vedo Jocelyn venire verso di me, indossa il suo
cappotto rosso che la fa risaltare meravigliosamente anche nel buio della sera,
la sua espressione preoccupata mi fa agitare ulteriormente.
«Gabriel
mi ha detto che sei uscito di fretta.»
«Avevo…
solo bisogno di prendere un po’ d’aria, tutto qui, non volevo spaventarlo.»
Lei
mi guarda, seria, preoccupata, io so perfettamente che il mio comportamento è
assurdo, che non devo farla io la parte di quello che ha bisogno di essere
aiutato, non ora, ma non ci riesco, non riesco a trovare la forza per
affrontare la cosa.
«Cosa
c’è che non va?» mi chiede, il respiro argentato che diventa visibile appena
arriva alle sue labbra.
Rimango
immobile a guardarla negli occhi e quasi mi pare di notare un leggero bagliore
renderli meno appannati, ma forse mi sbaglio perché per il resto Jocelyn è la
stessa di sempre. Espiro a pieni polmoni, sentendomi teso come non mai e vengo
pervaso da un forte senso di inquietudine: sono terrorizzato, non so come altro
definire il modo in cui mi sento ora; sono terrorizzato che tutto possa andare
per il verso sbagliato.
Sorpresa
dal mio silenzio, la donna prende parola:
«So
che è per Mark, so che sei preoccupato per lui, ma ha solo bisogno di tempo,
come ne hai avuto bisogno tu e tutte le altre persone che hai conosciuto qui.» indica
l’edificio dietro di sé con un cenno.
Mi
passo una mano fra i capelli, un nodo alla gola mi blocca il respiro e, proprio
per questo, quasi prendo ad ansimare.
«Tu
sai cosa ha fatto?» le chiedo, nella speranza che possa aiutarmi a trovare un
modo per stare accanto al mio amico, un modo qualunque. Io non ho la minima
idea di quello che lui sta attraversando e se voglio poterlo aiutare prima devo
farmene una.
Lei
annuisce, lentamente:
«Sì,
quando sono entrata da Vinny lui ne stava parlando e mi ha permesso di sentire
la sua storia.»
Abbasso
lo sguardo, non riuscendo a reggere oltre. Mi sento sul punto di scoppiare,
vorrei poter gridare per liberarmi di tutta la frustrazione che sento in corpo
ma non ci riesco, sono atterrato.
Mi
copro il viso con le mani, sospirando, sento la mano di Jocelyn appoggiarsi al
mio braccio:
«Steve…»
«È
colpa mia…» mormoro appena, tornando a guardarla.
Lei
mi osserva sorpresa, il respiro che continua a condensarsi.
«Se
gli fossi stato accanto tutto questo non sarebbe successo. Se solo lo avessi
saputo… Avrei fatto il possibile per aiutarlo, avrei fatto qualunque cosa, ma
non sapevo niente. Non ero al corrente delle sue intenzioni, non ero nemmeno al
corrente del fatto che la sua ragazza fosse malata.»
«E
come potevi saperlo? Lui non te l’ha detto perché non voleva dirtelo.»
interviene lei, lasciandomi sconvolto.
«Cosa?»
sussurro.
Fa
cenno di sì con la testa, abbassando lo sguardo per poi riportarlo sul mio più
sicura che mai:
«Mark
non credeva che le cose sarebbero andate così, credeva che si sarebbero risolte
in fretta e non voleva che tu ti preoccupassi più del dovuto per lui. Non lo
aveva calcolato Steve, non avrebbe potuto immaginare che tutto sarebbe andato
per il verso sbagliato.»
Assimilo
le sue parole, le analizzo singolarmente, attentamente; questa verità è quasi
peggiore di ciò che mi sarei aspettato.
«Perché
si è comportato così? Avrei potuto aiutarlo…»
La
risposta di Jocelyn, ancora una volta, è pronta:
«Con
che coraggio sarebbe venuto da te per dirti che aveva preso una decisione
simile? Sapeva che avrebbe ferito i tuoi sentimenti tanto quanto sapeva che tu
lo avresti capito, ma non ce l’ha comunque fatta.»
Distolgo
lo sguardo, pensando. Mark si è sempre preoccupato troppo per me, ha sempre
fatto la parte del fratello maggiore, fin dalle scuole elementari e scoprire
una cosa del genere non mi sorprende più di tanto, in fin dei conti.
Ma
continuo ad essere in ansia per la sua sorte, continuo ad avere paura che le
cose non si sistemino a dovere, per questo il mio stato d’animo non accenna a
migliorare. Se nemmeno lui aveva calcolato che le cose sarebbero potute andare
per il verso sbagliato significa che il colpo subito è stato infinitamente più
forte di quanto chiunque possa immaginare.
E
questo pensiero mi uccide.
«Tornerà
quello di un tempo, vero?» chiedo alla ragazza, sentendo la mia voce
incrinarsi.
Jocelyn
si avvicina ancora di più a me e sorride, con dolcezza:
«Si
sistemerà tutto, soprattutto se accanto a lui c’è una persona come te.»
Vorrei
che lei avesse ragione, lo vorrei veramente, ma quando sto per esprimere a
parole questo pensiero, non ci riesco.
Lei,
infatti, si avvicina ulteriormente e mi abbraccia. Sento le sue mani scorrere
fino alla mia schiena, il viso posarsi sulla mia spalla, i morbidi boccoli neri
hanno lo stesso profumo del vento, il vento che ricordo.
Il
suo gesto mi dà tutta la sicurezza di cui sento di aver bisogno; il mio respiro
si regolarizza, diventando sempre più lento e profondo, il nodo che ho in gola
si scioglie, liberandomi dalla sua sensazione opprimente e i pensieri più
negativi si annebbiano leggermente.
«Andrà
tutto bene.» la sento dire mentre la stringo a me.
Spero
davvero che abbia ragione, lo spero con tutto me stesso perché al momento non
so che altro poter fare. Prima Gabriel e poi Jocelyn, entrambi mi hanno
mostrato cosa vuol dire avere qualcuno vicino nei momenti peggiori, cosa vuol
dire avere un amico ed è ciò che ho intenzione di far vedere anche a Mark, gli
starò accanto, sempre.
And I wait, and I wait for a change to come around.
Nell’ultimo
periodo quasi nulla è cambiato, la città è rimasta grigia e silenziosa come lo
è da sempre, il mio tempo continua a dividersi fra il lavoro, unico mezzo per
campare, e gli incontri a casa di Vinny, ma dopo le novità delle settimane
scorse la mia esistenza è entrata in una nuova e costante routine, anche se pur
sempre più appassionante della precedente. In totale onestà non so cosa mi ero
aspettato al termine del primo incontro con Vincent, non so cosa mi ero illuso
di trovare; è inevitabile che un cambiamento ne generi un altro e poi un altro
di conseguenza, ma dobbiamo essere noi a continuare questo processo, non
possiamo attendere che tutto ci si stravolga intorno rendendo la nostra vita la
più bella da vivere. L’unica certezza che ho è che io non ho fatto niente per
assecondare il piccolo cambiamento che ha tentato timidamente di farsi strada intorno
a me, non l’ho assolutamente spronato a crescere, a diventare qualcosa di così
incredibile da portarmi la felicità.
Per
tutto il mese sono rimasto accanto a Mark, l’ho fatto in silenzio, dandogli il
mio sostegno quando ancora non si azzardava a sentire il suono della sua voce;
ho parlato con lui quando ha cominciato a chiedermi le prime e banali cose, gli
ho risposto come ho sempre fatto per ricordargli che fra di noi nulla è
cambiato e ho riacquistato fiducia quando l’ho visto sorridere e passarsi il
dorso della mano sulle labbra, in quel gesto che fa da quando è un ragazzino,
facendomi capire che, sotto, lui è rimasto lo stesso. Ultimamente le cose per lui
stanno lentamente tornando quelle di un tempo, più o meno, ma è ancora troppo
presto per dire che tutto si è sistemato: il passato ci mette un solo secondo a
riaffiorare e tantissimo tempo a tornare nel più profondo della nostra anima e
la sofferenza che ci provoca in quel frangente è quasi più intensa di quella
provata la prima volta. È per questo che prima di tornare a concentrarmi su di
me, sulla mia vita, sulle mie paure, voglio finire di aiutare il mio migliore
amico, vorrei davvero che Mark tornasse quello di sempre, perché se non dovesse
succedere so già che ne soffrirei.
Le
quattrodici sono passate da pochi minuti e appena esco dal palazzo in cui
lavoro ad attendermi fuori, come succede ormai da due settimane, c’è Mark
appoggiato al consueto palo e intento a fumare l’abituale sigaretta, l’unica
che si concede in un giorno. Mi saluta con un cenno e mi si affianca mentre ci
avviamo verso casa di Vinny.
È
tutto così diverso rispetto al giorno in cui lo portai là la prima volta; quel
giorno mi camminava dietro, distratto e silenzioso, ora, invece, anche se
continua a non parlare molto, mi sta accanto e si osserva intorno, osserva la
città che lo circonda, anche se è la cosa più brutta che possa esserci da
ammirare.
«Com’è
andata?» mi chiede all’improvviso, voltandosi verso di me senza rallentare il
passo.
Alzo
le spalle, pensando alla mia giornata lavorativa. In quell’ufficio mi sento un
estraneo, eseguo gli incarichi, annuisco agli ordini, rispetto le regole, ma
non faccio altro. Non mi intrattengo con i miei colleghi, non socializzo perché
loro non me lo permettono, a malapena mi rivolgono la parola. Mi chiedo sempre
dove sia la cosa sbagliata in me, o meglio, me lo chiedevo prima di incontrare
Vincent, Jocelyn e Gabriel, ora quasi non mi importa saperlo.
«Le
solite cose.» rispondo.
Annuisce
con la testa, quel suo gesto semplice e sbrigativo che mi fa capire che non
vuole sapere altro, perché sa già tutto.
Procediamo
in silenzio per un po’, lui ha il tempo di finire la sigaretta e gettare il
mozzicone lontano, riuscendo a vederlo un solo istante prima che la ruota di
un’auto lo schiacci.
Un
uomo ci viene incontro guardando in terra, è talmente assente che urta con la
spalla il mio amico. In quel solo attimo riconosco il famigliare suono delle
monete d’oro che tintinnano fra loro e, quando mi volto per osservarlo
allontanarsi senza che proferisca alcuna parola,capisco dove è appena stato, capisco perché è
così.
Alla
mente mi torna il giorno in cui io ho corso il rischio di diventare come lui,
il giorno in cui mi sono seduto in fila al Banco
dei Sogni in attesa di essere svuotato.
Fortunatamente
queste spiacevoli sensazioni vengono zittite da Mark:
«Tzè, stupidi
pedoni.»
Scoppio
a ridere praticamente subito. La sua frase, pronunciata con quel tono, è
l’esempio migliore che possa cercare per convincermi che il mio amico è vicino
a tornare quello che ho sempre conosciuto.
Mi
erano mancate le sue uscite, quelle frasi quasi mormorate fra sé, quei pensieri
pronunciati ad alta voce che non sono altro che una critica su ciò che lo
circonda.
«Niente,
solo mi erano mancate queste cose.» rispondo, riprendendo il controllo di me.
Lui
torna a guardare avanti e fra di noi scende nuovamente il silenzio. Tuttavia,
stavolta, ho davvero la certezza che le cose si sistemeranno a breve e non
riesco a trattenere un sorriso.
Arrivati
al civico sette Mark mi precede lungo le scale, appena varca la soglia
dell’appartamento le voci lo invadono con un coro di saluti, che si sposta su
di me appena compaio dietro di lui nella stanza. Si ferma subito a fare
conversazione con qualcuno, più cha altro a raccontare loro della sua ricerca
di un nuovo lavoro, dopo essere stato licenziato dal precedente poiché non
usciva più di casa. Mentre l’osservo, felice nel vedere che, giorno dopo
giorno, lui continua a fare conoscenza con gli altri sempre di più, quasi provo
un leggero lampo d’invidia. Mark è sempre stato più bravo di me nel trovare
nuovi amici, nel conoscere nuove persone; ha l’incredibile capacità di essere
simpatico a chiunque e di riuscire a dire la cosa giusta al momento giusto ogni
volta.
«Ehi Steve.»
L’ormai
famigliare Gabriel mi risveglia dai miei pensieri, lo fa suonando quell’accordo
che dice essere il mio.
Mi
volto e lo saluto con un cenno:
«Come
va?» chiedo, mentre mi accomodo sulla sedia sempre vuota ormai riservata a me.
Alza
le spalle e sorride, riprendendo a guardarsi intorno e soffermando maggiormente
gli occhi su Mark.
«Allora,
come sta?» omette il soggetto ma so perfettamente di chi parla.
«Meglio.»
«Ne
sono contento. Vuoi dire che il mio presentimento era giusto?»
Sorrido,
fra me. Il mese scorso non avrei pensato di dover ammettere che, sì, aveva
ragione, ma ora non posso far altro che annuire.
Lo
sento fare un veloce verso di approvazione per poi tornare a dedicarsi alla sua
chitarra, cominciando a suonare qualcosa di nuovo sulle sue sei corde.
Io
riprendo ad osservare il mio amico, quasi difronte a me. Parla con Jocelyn e
con un’altra ragazza, anche con le donne ci ha sempre saputo fare meglio del
sottoscritto, il fatto che stia ricominciando a rapportarsi con il sesso
opposto credo sia positivo.
«Sembri
un innamorato.» mi risveglia nuovamente il giovane dai miei pensieri.
«No
è che… stavo solo pensando… Senti, ma secondo te è positivo che abbia ripreso a
parlare con delle donne?» domando, in cerca di una conferma.
Lui
rimane sorpreso un secondo prima di rispondermi:
«Oh, ma tu parli di Mark. Io credevo
stessi guardando Jocelyn.»
Ora
sono io a rimanere sorpreso, alzo gli occhi e li punto sulla donna, cominciando
seriamente a chiedermi chi, fra lei e il mio amico, stessi osservando poco prima.
Qualcuno suona il campanello e lei si avvia immediatamente verso l’ingresso,
seguita dal mio sguardo. La vedo incupirsi non appena apre la porta e fa cenno
di entrare a chiunque si sia presentato.
Entrano
due persone, un ragazzo seguito da una ragazza, probabilmente poco più giovane
di lui; camminano rapidamente seguendo Jocelyn verso l’ingresso della stanza di
Vinny. Forse, quella sera, anche io e Mark siamo apparsi così alle persone che
già erano presenti qui, forse abbiamo scatenato negli altri le stesse
spiacevoli sensazioni che quei due giovani stanno scatenando in me ora.
Fermi
ad aspettare che Jocelyn li lasci incontrare Vinny i due si guardano intorno e
a Gabriel sfugge un leggero accordo che porta la ragazza a voltarsi verso di
noi. Come ormai ho imparato a fare riesco a leggere l’ultima parte della sua
storia in un solo attimo, riesco a vedere, nei suoi occhi spenti, l’ultimo
folle gesto compiuto che l’ha portata fin qui. Lei distoglie immediatamente lo
sguardo dal mio e mi sembra quasi di vederla arrossire: chissà se ci si ricorda
del significato delle emozioni quando si esce dal Banco dei Sogni.
Entrano
nella stanza e si richiudono la porta alle spalle, Gabriel riprende a suonare
dopo un sospiro e io ricomincio a guardarmi intorno, notando, solo ora, che il
posto è più affollato di quanto ricordassi.
«Sbaglio
e c’è più gente del solito?» chiedo rivolto al ragazzo al mio fianco.
Lui
smette di suonare e si guarda in giro:
«In
che senso?»
«Nel
senso vero e proprio del termine. C’è più gente di quanta ricordassi.»
Lo
penso davvero e penso davvero di avere ragione. Ogni posto a sedere è occupato,
i gruppi di persone che parlano sono sempre più vicini e numerosi, anche quelli
che stanno in piedi a conversare sono di più.
Il
giovane alza le spalle, rassegnato, ricominciando ancora una volta l’ennesima e
differente canzone:
«Che
ci vuoi fare? Ultimamente il costo della vita è aumentato ancora, temo che
molti dei nuovi che dici di vedere siano solo persone che hanno dovuto trovare
il modo di ottenere oro per continuare a vivere.»
Il
tono con cui pronuncia quelle parole è una pugnalata al cuore, la realtà è una
pugnalata al cuore.
«Dici
che è per questo?» domando, continuando ad osservare i volti nuovi che non
avevo mai notato prima.
«Sicuramente.
Scommetto che alcuni di loro sono stati portati qui dai propri amici, o dai
propri famigliari, come hai fatto tu con Mark. Ma penso di avere ragione,
scommetto che alcuni di loro non avevano altra scelta.»
La
sua chitarra si zittisce nuovamente sotto ordine del suo padrone, Gabriel si
volta verso di me, in attesa di una mia reazione qualunque.
«Se
tu avessi ragione, però, non sarebbe giusto. Insomma, perché una persona
dovrebbe vendere il proprio sogno anche se non volesse farlo?»
Lui
sospira: «Non lo so.» mormora e non lo so neanche io.
«Però.»
Riprende a parlare quasi subito: «Se proprio vogliamo trovare una minuscola
nota positiva in tutto questo, è aumentato anche il numero delle persone che viene
qui in cerca di aiuto, no?»
Tento
invano di sorridere, ma finisco per scuotere la testa:
«Per
ogni persona che entra qui dentro almeno dieci rimangono là fuori a scomparire,
ad ingrigire. Vinny non potrà mai risolvere la situazione, purtroppo. Sono
sicuro che lo sa.»
«Sì
che lo sa, ma non si arrende.»
«E
ha tutta la mia stima per questo. Io gli devo molto.» concludo puntando lo
sguardo su Mark.
«Bè, Steve, comunque sia un pochino lo
stai aiutando. Insomma, parli con le persone che ci sono qui, ascolti le loro
storie, tenti di farli sentire meglio.»
«Forse
potrei fare anche di più…»
Una
piccola e stramba idea si affaccia all’improvviso nella mia mente, un lumino piccolo
che, secondo dopo secondo, mi prega di lasciarlo diventare una fiamma.
«Di
più tipo cosa?» mi chiede Gabriel, il tono di chi non sa cosa aspettarsi.
«Tu
hai sempre detto che la musica serve ad unire le persone, giusto? Che è il
linguaggio universale per risvegliare qualsiasi sentimento.»
«Sì,
lo dico spesso. E allora?»
«E
se noi due andassimo a suonare davanti al Banco
dei Sogni?»
Inarca
un sopracciglio, confuso.
«Dubito
che quelli del Banco ce lo
permetteranno.»
«Perché
non dovrebbero? Suoniamo davanti, non
dentro. Fuori è terreno pubblico e siamo liberi di fare quello che vogliamo.»
Gabriel
sembra ancora profondamente confuso dalla mia trovata, tuttavia sono certo che l’idea
di portare la sua bellissima musica in giro con la speranza di aiutare qualcuno,
è una tentazione a cui non riuscirebbe mai a resistere.
«Ok,
fin qui ti seguo. Ma a cosa servirebbe? Insomma, io non credo che la gente
rinuncerebbe a vendere il proprio sogno solo perché davanti all’ingresso di
quel posto ci sono due deficienti che suonano.»
«Sì,
hai sicuramente ragione. Ma forse, con la tua musica, potremmo riuscire a
ricordare a qualcuno, qualcuno che non vorrebbe fare ciò che sta per fare, che
intorno a noi c’è anche tanta bellezza. Credimi, Gabriel, è stata la bellezza
del mio iris ad impedirmi di sprofondare nel baratro che io stesso mi sono
scavato, ed ora eccomi qui.»
Il
giovane rimane a fissarmi, serio, sempre con quel suo sopracciglio inarcato.
Infine
il suo volto si distende in un sorriso:
«Tu
sei pazzo. Ci sto. Non credo servirà a qualcosa ma, nel caso, sentirò di aver
fatto del bene, una volta tanto.»
Gli
sorrido e lui fa lo stesso, ricominciando a far scorrere le sue dita lungo le
corde della chitarra, intonando nuove canzoni, riempiendo di musica la stanza
sovraccarica di voci.
Rimango
insieme a lui almeno un altro paio di ore, decidiamo di mettere in atto la mia
idea il giorno successivo e poi lui mi saluta per andare a trovare una persona
che non vede da tempo. Io non so chi sia, non me l’ha detto e io non gliel’ho
chiesto, ma gli faccio un cenno quando si alza e afferra la chitarra,
lanciandomi uno sbrigativo:
«A
domani.»
Passa
pochissimo tempo dopo l’uscita di Gabriel perché si riapra finalmente la porta
della stanza di Vinny, dentro la quale i due giovani comparsi nel pomeriggio
erano ancora chiusi.
La
ragazza è la prima ad uscire, osserva timidamente le persone che la circondano
e rimane in attesa. Il suo amico, o forse il suo ragazzo, o magari suo
fratello, chi può dirlo, le posa una mano sulla schiena e le sussurra qualcosa
all’orecchio, puntando poi un dito nel vuoto accanto a me su cui, poco prima,
sedeva Gabriel, infine torna a parlare con Vincent, comparso sulla soglia dopo
di loro.
Lei
si avvicina, titubante, mi pare alquanto spaventata e non può che farmi tenerezza,
indica la sedia che ho accanto e con un filo di voce chiede:
«Posso?»
«Certo,
siediti pure.» le rispondo, sorridendole.
Lei
si sistema e comincia a tormentarsi le mani, osservando esclusivamente ciò che
fa.
Apro
bocca per parlare, per cercare di fare conversazione con lei, tentare di
aiutarla, ma mi precede:
«Non…
non c’è più quel ragazzo che suonava la chitarra?» chiede.
«No,
è dovuto andare via prima del solito oggi.»
«Oh, peccato. È… è bravo.»
La
guardo un momento mentre lei non smette di maltrattare le sue mani.
Inevitabilmente comincio a domandarmi cosa l’abbia spinta ad andare al Banco dei Sogni, cosa l’abbia portata a
privarsi della sua parte più profonda; mi chiedo che forza l’abbia spronata o,
peggio, quale insicurezza l’abbia guidata. Non sembra una persona sola, forse
solo incerta e, ora, sicuramente confusa. Ma ha cercato la bellezza, ha cercato
la chitarra di Gabriel, le sue note, ha cercato qualcosa che potesse in un
qualche modo ricordarle delle sensazioni che sa di aver vissuto e che, forse,
erano legate al suo sogno.
La
mia idea non è sbagliata, in fin dei conti, dobbiamo provare a portare la
musica di Gabriel fuori da qui, provare a far in modo che essa aiuti qualcun
altro oltre al ragazzo, a me e chi ci sta vicino.
Forse
possiamo riuscirci davvero.
«Come
ti chiami?»
La
ragazza sussulta leggermente al suono della mia voce e si volta verso di me, le
sue gote si fanno più rosee mentre le sorrido.
«Megan.»
risponde, senza aggiungere altro.
«Io
sono Steve.»
Le
tendo la mano e lei la stringe dopo averla osservata attentamente, come per
accertarsi che io non abbia nessuna cattiva intenzione. Infine si rilassa, mi
sorride e mi permette di ascoltare la sua storia.
We go out on ourown, it's
a big bad world outside,
Carryingourdreams and allthattheymean
Trying to makeitallworthwhile.
È
passato del tempo dall’ultima volta che ho percorso questa strada, dall’ultima
volta che ho camminato lungo questo viale nella stessa direzione. Mi sono
allontanato da qui, l’ho fatto con l’intenzione di non tornare mai più su
questi passi che reputo sbagliati, ed invece ora eccomi. Sto davvero tornando
verso il Banco dei Sogni, mi sto
davvero dirigendo verso quel luogo in cui ho rischiato di uccidere me stesso.
Tuttavia
sto andando là con un’intenzione differente. Non stringo più una busta bianca
fra le mani, non sento più i miei piedi insicuri e malfermi e l’ansia che ho
dentro è infinitamente minore di quella che provavo allora. Oltretutto non sono
solo, questa volta, accanto a me c’è Gabriel, con la sua chitarra acustica in
mano, che osserva i suoi passi e pare quasi contarli: lui, a quanto pare, è
agitato.
«Sei
preoccupato?» gli chiedo, dopo troppo silenzio da parte di entrambi.
Si
volta verso di me, devo averlo risvegliato dai suoi pensieri perché mi guarda
come se non ricordasse più dove si trova.
«Come?»
«Ti
ho chiesto se sei preoccupato.» ripeto, con calma.
Si
passa una mano fra i capelli chiari, freschi di rasatura, un gesto che spesso
identifico con l’agitazione.
«Un
filino. Non so perché ma ho una strana sensazione.»
«Credo
sia inevitabile visto dove stiamo andando.»
Annuisce
e torna a guardare il pavimento davanti a sé.
Lo
osservo un momento prima di fermarmi, lui se ne accorge alcuni metri dopo e si
immobilizza:
«Che
stai facendo?» mi domanda sorpreso.
«Senti,
se per caso ci hai ripensato, se non volessi farlo più, lo capirei. Vuoi che ce
ne andiamo? Torniamo da Vinny?»
Aspetto
la sua reazione, la sua risposta. Mi dispiace aver capito soltanto ora lo
sforzo che gli ho chiesto usando la sua musica come pretesto. Gabriel è un
ragazzo giovane, ha solo ventuno anni, riportarlo nel posto che gli ha fatto
provare tante spiacevoli sensazioni è un gesto orribile e mi sorprende
accorgermi di essere stato io a chiedergli di farlo.
Lui
si fa serio, mi guarda dritto negli occhi e il turbinio blu che essi
possiedono, più vibrante e lucente che mai, pare scrutarmi fino in fondo.
«Muoviti,
Steve. Non credere che torni indietro proprio ora che siamo praticamente
arrivati.»
Gli
sorrido e lo raggiungo, lui riprende parola:
«Sono
solo un po’ nervoso, credo sia normale, no? È che… non lo so, l’idea di tornare
davanti a quel posto mi agita, tutto qui.»
«Agita
anche me.»
Si
gira e mi guarda, sorpreso:
«Allora
siamo davvero due deficienti.» sentenzia, mettendosi a ridere.
Gli
do ragione e riprendiamo a camminare in silenzio, tentando di ricacciare via i
fantasmi del nostro passato al Banco.
Ma
quando lo raggiungiamo una spiacevole sensazione si appropria ugualmente di me.
Lo fa restituendomi i gravosi ricordi che ero appena riuscito a nascondere.
Rivedere l’edificio, così alto e tetro con i mattoni scuri e le guglie a punta,
mi riporta indietro e quasi mi sembra di vedermi mentre entro dall’ingresso
credendo, stupidamente, di cambiare la mia vita con il loro aiuto.
Anche
per Gabriel deve fare uno strano effetto essere arrivato fin qui, eppure pare
riprendersi prima di me, perché si siede sul muretto che si trova esattamente
davanti all’entrata della costruzione e impugna subito la sua chitarra.
Mi
sistemo accanto a lui e lo guardo mentre pizzica le corde del suo strumento, le
sue mani non tremano, non l’hanno mai fatto quando cominciano a suonare.
«Hai
qualche richiesta in particolare?» mi chiede.
Scuoto
la testa e sorrido, lasciandogli il via libera, mentre comincio a guardare in
giro.
Le
note iniziano a farsi strada superandoci, andando a riempire l’aria che ci
circonda, regalano a questa mattina grigia una sfumatura più dolce e tentano di
avvicinarsi a chi hanno intorno, ma sembra tutto inutile. Le persone continuano
a passarci ininterrottamente davanti, nessuno ci lancia un’occhiata, sembra che
per loro la nostra esistenza non ci sia, anche quando Gabriel inizia a cantare,
unendo alla sua musica un sussurro che parla di vita e di amore.
Ma
poi fortunatamente la noto, una giovane donna ferma accanto all’ingresso del Banco dei Sogni, ad osservarci. Stringe
al petto una busta bianca, ma non si muove. Mi pare incantata dalla musica e dalla
voce di Gabriel e continua a far scorrere i suoi occhi su di noi; sono occhi
azzurri, bellissimi, e l’idea che essi rischino di spegnersi a breve, mi
rattrista. Nonostante tutto le sorrido e lei fa lo stesso, rimanendo ferma a
fissarci ancora un po’. Tuttavia, alla fine, entra nell’edificio.
Sospiro.
«C’eravamo
quasi.» mi dice Gabriel, traducendo in parole il mio pensiero.
«Già.»
gli do conferma con un mormorio, carico di tutta la delusione che questo primo
fallimento mi ha dato.
Le
ore passano con lentezza infinita. Il ragazzo non smette un solo momento di
suonare, ogni tanto si perde in chiacchiere con me ma senza mai staccare le
dita dalle corde della chitarra; qualche passante addirittura ci lancia una,
massimo due monete d’oro, più per disprezzo che per compassione.
La
stessa scena vissuta con la ragazza di prima si ripete un paio di volte, sempre
con gente giovane, sempre con persone che probabilmente mettono piede al Banco per la prima volta, persone che
credono ancora in qualcosa, o meglio, che credevano.
La
luce aumenta ancora la sua intensità, il numero della gente diminuisce sulle
strade e sui marciapiedi, deve essere circa l’una del pomeriggio a giudicare da
tutti questi fattori. Ed è quando Gabriel allontana le dita dalla sua chitarra per
riposarle un po’ che sulla soglia compaiono tre figure, due alte e massicce, la
terza più bassa ed esile, ma tutte vestite con un elegante completo scuro.
Appena
incontro gli occhi della figura più minuta, appena incrocio quello sguardo
freddo e glaciale che non ho mai potuto dimenticare, l’angoscia e il disgusto
si impossessano violentemente di me.
È
l’uomo a cui ho dato il mio sogno, quell’uomo poco rassicurante che mi ha
lasciato interdetto la prima volta che l’ho visto e che mi sta facendo sentire
nella stessa maniera anche ora.
I
tre si avvicinano, accanto a me il ragazzo si alza, stringendo la sua chitarra.
Sollevo lo sguardo per osservarlo e noto che è completamente sbiancato in volto:
«Gabriel…»
sussurro alzandomi a mia volta, incredulo nel vederlo così.
«Lui
è quello che compra i sogni delle persone.» dice, la voce bassa e tremula.
«Lo
so.»
Ritorno
a fissare serio le tre figure anche se sono preoccupato e ora, vedendo Gabriel
così, comincio veramente a credere di aver avuto la peggiore idea immaginabile.
«Si
può sapere che cosa succede?» domanda infine l’uomo, dopo essersi fermato, con
quella sua voce flebile che anche questa volta risveglia le mie sensazioni
peggiori.
Solleva
le sopracciglia appena mi riconosce:
«Oh, Signor Espoir,
mi sorprende rivederla qui.»
Gabriel
si volta verso di me, sbalordito e spaventato.
«Lei
come sa il mio nome?» gli chiedo sorpreso, ricordandomi perfettamente di non
averglielo mai detto.
Sorride,
quel suo ghigno distorto e vittorioso:
«Ho
tenuto in mano il suo sogno. Mi creda, è più che sufficiente per sapere tutto
di qualcuno, a cominciare proprio dal nome.»
Rabbrividisco
al solo pensiero. L’unica persona a cui non avrei mai raccontato niente di me,
nemmeno le cose più basilari, più stupide, è anche l’unica che conosce la mia
paura più profonda e la mia speranza più grande: è un insulto.
L’uomo
posa un momento lo sguardo su Gabriel, che abbassa immediatamente il suo, per
poi tornare a puntarlo su di me. Sono maledettamente preoccupato da ciò che può
succedere a breve, ma non abbiamo fatto niente di sbagliato, non siamo neanche
riusciti nell’intento che ci eravamo prefissati; non possono farci niente.
«Dunque,
si può sapere cosa state facendo?» domanda nuovamente lui.
«Niente
di strano, solo suonando.» mi limito a rispondere.
Assume
una strana espressione, come se la parola suonando
fosse nuova per lui.
«Per
quale motivo?»
Non
rispondo, lo guardo solamente.
Sospira:
«Lei
sa, vero, che non è autorizzata musica qui al Banco dei Sogni?»
Annuisco,
fingendo di saperlo perfettamente:
«Ma
noi non siamo al Banco dei Sogni,
questo è suolo pubblico e siamo liberi di fare ciò che crediamo giusto.» c’è
una nota di sfida nelle mia voce, che sorprende Gabriel ma sorprende anche me.
L’uomo
congiunge le dita e sospira nuovamente:
«Avete
perfettamente ragione. Tuttavia noi siamo bravi cittadini e, come tali, ci
teniamo a tenere pulito il suolo pubblico posto davanti al nostro edificio.»
La
sua voce diventa quasi un sibilo, proprio come quel giorno, in cui l’ho sfidato
e mi sono ripreso il mio sogno. Non credo di piacergli, anzi, ne sono certo;
sospetto che il motivo per cui è qui ora sia semplicemente dovuto al fatto che
ci sono io, che si tratti di me.
A
un suo semplicissimo cenno i due uomini che ha affianco si muovono verso di
noi, imperscrutabili come statue. Il primo raggiunge me, afferrandomi per i
polsi; il secondo si avventa su Gabriel e gli strappa di mano la chitarra,
spintonando indietro il ragazzo che inciampa contro il muretto e cade a terra.
«Che
diavolo state facendo?» esclamo, liberandomi dalla presa e soccorrendo il mio
amico.
«Gliel’ho
detto, teniamo pulito il suolo pubblico davanti al nostro edificio.»
Mi
parla come se si stesse rivolgendo ad un bambino, come se quello che i suoi
uomini stanno facendo sia motivato e di facile comprensione. Lo capisco
perfettamente ciò che stanno facendo, ma non è motivato, è semplicemente
ingiusto.
«La
mia chitarra…» sussurra Gabriel mentre lo aiuto a rialzarsi.
Una
fitta mi attraversa il cuore. “Lei è tutto
quello che mi è rimasto.” aveva detto il giorno in cui ci siamo conosciuti;
sta succedendo tutto per colpa mia, se il ragazzo dovesse perdere la sua
chitarra non me lo perdonerei mai.
Scatto
verso l’uomo con in mano lo strumento del giovane, è più alto di me ma riesco
comunque ad afferrarlo per il bavero della camicia, proprio in corrispondenza
del nodo della cravatta.
Lui
non reagisce, allontana dalla mia presa la chitarra, si protegge con il braccio
libero e si volta appena verso il suo superiore, rimasto immobile dietro di
lui.
Che
cosa avrà intenzione di fare adesso?
«Quello
che lei sta facendo è reato.» sento sibilare l’ometto, con quella voce da far
rabbrividire.
Preso
dall’esasperazione mi volto verso di lui:
«E
io le ripeto che questo è suolo pubblico, se suonare nel suo schifosissimo Banco dei Sogni è un crimine non lo è
qui! Ora dica al suo gorilla di restituirmi la chitarra!»
Lui
non fa una piega, rimane fermo a fissarmi con i suoi occhi freddi, e per la prima
volta noto l’odio, nel suo sguardo, noto la crudeltà; se ha ancora un’anima non
può che essere nera e fredda.
Riprende
a parlare dopo un cenno appena percepibile all’altra delle sue guardie, rimasta
fuori dalla situazione dopo che sono riuscito a liberarmi poco prima.
«Sì,
è vero. Tuttavia lei ha appena aggredito un pubblico ufficiale. Questo è il reato.»
Lo
guardo stupito da ciò che ha appena detto, preso alla sprovvista dalla sua
ultima affermazione.
Tutto
accade in una sola frazione di secondo.
L’incertezza
mi pervade, alle mie spalle sento Gabriel urlare il mio nome, la voce rotta
dalla paura, un forte dolore si appropria di me, lo fa salendo dal collo e
arrivando in ogni parte del mio corpo come veleno. La mia mano allenta
involontariamente la presa dal colletto dell’uomo, le mie ginocchia cedono
sotto il mio peso e infine il nero avvolge ogni cosa che ho intorno.
Itwouldn'thave to be this way (In a perfect world)
In a perfect, a perfect world.
Musica.
Quella che sento è musica, è un accordo che ho conosciuto lo stesso giorno in
cui ho conosciuto Gabriel. È il mio accordo, quello del mio nome, questa musica
dev’essere per me.
Apro
gli occhi, la penombra è debole, ma grigia, la luce non può che essere quella
del tardo pomeriggio.
Sono
in ritardo, per caso?
Mi
guardo appena intorno, non riconoscendo niente se non il suono della chitarra
che sento alla mia destra. Mi volto ed ecco Gabriel.
Smette
di suonare e il suo viso si distende:
«Steve,
meno male.»
Cerco
di mettermi a sedere, ma il mio corpo è intorpidito e il gesto, per quanto
semplice, richiede un grande sforzo. Mi porto una mano alla nuca, sentendola
dolorante, un dolore che si arrampica fino alla testa, avvolgendola totalmente.
Il ragazzo continua a guardarmi, l’espressione dispiaciuta di chi ha compiuto
un grave errore.
«Dove
siamo?» chiedo, dopo essermi massaggiato a sufficienza le tempie, notando di
non riconoscere il posto in cui ci troviamo.
«É
casa di Mark.»
Lancio
una nuova occhiata alla stanza, sorpreso di non essermi accorto di essere nella
camera del mio migliore amico, ma la cosa passa in secondo piano quando mi
rendo conto di non sapere per quale motivo mi trovo qui.
«Cos’è
successo?»
Gabriel
apre bocca, ma non accenna a parlare. Mentre aspetto che trovi le parole giuste
cerco di sistemarmi meglio sul letto, togliendo le lenzuola che mi coprono, ma
ogni movimento che compio fa aumentare il mio dolore alla testa che si fa via
via più intenso e persistente.
«Non
te lo ricordi?» riesce a chiedermi infine, la voce bassa e dal tono incerto.
Provo
a pensarci, tento di ricordarecosa
posso aver fatto per ritrovarmi qui, in queste condizioni, cosa mi è successo
per farmi finire nel letto del mio amico con la testa dolorante e la memoria
appannata, e alla fine trovo la risposta. Porto una mano alla fronte quando i
ricordi affiorano, quando mi torna in mente la mattina davanti al Banco dei Sogni, quelle ore in cui io e
il ragazzo abbiamo cercato inutilmente di allontanare qualche giovane anima da
un futuro scontato. Ci abbiamo provato, la sua chitarra ha continuato a suonare
ininterrottamente fino all’arrivo di quelle tre persone, quelle tre figure che
non hanno esitato ad aggredirci, forse sentendosi minacciate. Ma tutto si
interrompe lì, allo sguardo spietato dell’ometto che lavora al Banco, alla voce di Gabriel piena di
paura, al dolore che mi ha pervaso mentre tutto diventava nero. Sì mi ricordo,
ma cosa?
«Che
cosa mi hanno fatto?» alzo gli occhi sul ragazzo, che non ha ancora perso
quell’espressione colpevole.
«Mi
dispiace, Steve. È colpa mia.» dice immediatamente, abbassando lo sguardo sul
suo strumento musicale, ubbidiente e silenzioso.
«Cosa?
E perché sarebbe colpa tua?»
«Perché
sì. Ti hanno colpito alla testa, ecco cos’hanno fatto. E lo hanno fatto mentre
eri di spalle, mentre cercavi di riprendere la mia chitarra. È colpa mia, avrei
dovuto fare qualcosa ma ero troppo spaventato. Dovrei esserci io su quel letto...
» si porta le mani alla testa, raggomitolandosi sulla sedia per proteggere sé e
il suo prezioso strumento.
«Ehi, andiamo, Gabriel. Non è colpa tua,
d’accordo? Di chi è stata l’idea? Chi è stato l’idiota che ha cominciato?» gli
chiedo, costringendolo a guardarmi e sorridendogli.
Lui
non risponde, si limita a sorridermi a sua volta, un sorriso timido e pieno di
rimorso.
«Smettila
di preoccuparti, ok? L’importante è che tu abbia riavuto la tua chitarra.»
Il
dolore alla testa non accenna a diminuire, cala leggermente di tanto in tanto
per poi ripresentarsi più intenso di prima.
«Con
cosa mi hanno colpito?» chiedo, nella speranza di dare un volto al mio dolore.
«Credo
fosse un manganello, non lo so, mi dispiace, ma è successo tutto così in
fretta…»
Annuisco
e il giovane riprende parola:
«Non
capisco neanche per quale motivo lo abbiano fatto!»
«In
che senso?»
Lui
mi guarda, sorpreso. È ancora scioccato, lo capisco dal modo in cui si muove,
gesticola e respira.
«Quel
tipo, il tizio inquietante che compra i sogni delle persone… ha continuato a
dire che stavi facendo un reato, che stavi aggredendo un pubblico ufficiale, ma
poi ti ha fatto tramortire e se n’è andato.»
«Se
n’è andato?» chiedo, perplesso.
Il
giovane annuisce confusamente con il capo:
«Sì,
se ne sono andati, tutti e tre. Ti hanno lasciato lì sul marciapiede come fossi
immondizia. Nessun passante si è fermato ad aiutarmi e io ero terrorizzato;
avevo paura che fossi morto! Non sapevo che altro fare così ho chiamato Vinny e
ti abbiamo portato qui. Ti ha visitato un medico e ha detto che, tutto sommato,
stavi bene, così mi sono seduto su questa sedia e ho aspettato che ti
risvegliassi, suonando. …mi dispiace.»
Assimilo
le cose lentamente, unisco i vari tasselli e ricostruisco ciò che mi è
successo.
Gabriel
è davvero agitato, ripensare a quello che è successo sole poche ore fa lo deve
sconvolgere tutt’ora; continua a tormentarsi i capelli chiari e troppo corti,
guardando convulsamente intorno a sé.
Respiro
a fondo cercando le parole appropriate prima di aprire bocca:
«Ho
capito.»
Anche
il giovane fa per parlare, ma lo interrompo:
«Smettila
di sentirti in colpa, tu non c’entri niente. Anzi, devo ringraziarti per avermi
aiutato, per aver fatto in modo che io arrivassi fin qui. A parte il dolore
alla testa sono vivo ed è merito tuo, quindi basta preoccuparsi, d’accordo?»
Annuisce
con la testa e mi sorride, ma c’è ancora
tanta insicurezza nei suoi gesti.
Spero
solo che le cose non prendano una piega ancora peggiore dopo ciò che è successo,
ma non riesco ad ignorare una brutta sensazione che sta affiorando dalle mie
viscere.
Tuttavia
non mi ci concentro più del dovuto, perché l’ingresso nella stanza di tre
persone conosciute mi distrae da tutto ciò: sono Vincent, Jocelyn e Mark.
«Mi
era sembrato di sentire qualcuno parlare.» esordisce Vinny, lanciandomi uno dei
suoi sorrisi più radiosi.
«Come
stai?» mi chiede Jocelyn, avvicinandosi a Gabriel e posandogli le mani sulle
spalle, come se fosse il fratello minore di cui si è sempre presa cura.
«Come
va la testa? Gabriel ci ha raccontato quello che è successo.» continua Vincent.
«Fa
ancora un po’ male, ma passerà. Mi dispiace molto avervi fatto preoccupare.»
«Non
dirlo neanche. Avete avuto coraggio a fare una cosa del genere e avete tutta la
mia stima. È un peccato che le cose si siano concluse in maniera negativa, ma
risolveremo tutto.»
Le
parole di Vinny riescono sempre a darmi fiducia, anche ora che sento che la mia
idea non è stata così buona come avevo sperato prima di metterla in atto. Tutto
sarebbe potuto andare per il verso sbagliato, credo di aver avuto fortuna a
ritrovarmi disteso in un letto e non in qualcos’altro. E ora che penso a questo
la strana sensazione comparsa poco fa, che si è solo assopita dopo l’ingresso
dei miei tre amici, si risveglia dentro di me.
Ho
un brutto presentimento.
«Vuoi
qualcosa? Qualcosa di caldo, intendo.»
Alzo
gli occhi su Jocelyn. Il suo sorriso continua ad essere luminoso e
incoraggiante, come lo è sempre stato già dal nostro primo incontro. Nei suoi
occhi sono sicuro di vedere più luce e mi auguro vivamente di avere ragione,
spero proprio che lei stia riacquistando il suo sogno, o che ne stia facendo
sbocciare uno nuovo.
«Sì,
grazie.» le sorrido.
Lei
si rivolge al più giovane:
«Vieni
Gabriel, andiamo a preparare qualcosa per questi tre uomini.»
Il
ragazzo si alza e mi lancia un cenno, tutti e due escono dalla stanza,
lasciandomi solo con Vincent e Mark, che da quando è entrato non ha ancora
proferito parola e si è limitato ad osservarmi con un’espressione indecifrabile
in volto.
«Non
vi ho messo nei guai, vero?» chiedo rivolto a Vinny, che alza le spalle.
«Non vedo perché. Io non reputo assolutamente il
gesto che avete compiuto tu e Gabriel una follia, ma un atto di coraggio. Tempo
fa ti chiesi di aiutarmi ad aiutare gli altri, ricordi?»
Annuisco.
«Ebbene, è quello che hai fatto. A modo tuo,
ma lo hai fatto.»
Alzo un sopracciglio, perplesso:
«No che non l’ho fatto, nessuno si è fermato
da noi, nessuno è tornato sui suoi passi. Temo proprio di aver preso un
abbaglio stavolta.»
Vinny sorride, il volto che si illumina e i
suoi occhi azzurri che brillano più vivaci del solito:
«Oh beh,
non puoi sperare che i risultati positivi arrivino immediatamente. Ci vuole
sempre del tempo, per ottenerne. Ma, fidati, voi avete portato la musica nel
cuore delle persone, questa mattina. Chi più chi meno tutti sono stati toccati
dalle note di Gabriel. Anche se oggi hanno venduto il loro sogno un giorno si
ricorderanno di quella musica che li ha accompagnati prima di perdere tutto, di
quelle note che sono state l’ultimo appiglio che non hanno potuto afferrare
prima di cadere. Un giorno la cercheranno, credimi, e chi cerca la musica cerca
la vita.»
Rimango letteralmente colpito dalle sue parole
e lo stesso deve accadere a Mark perché si volta verso l’uomo e lo guarda
attentamente. Ormai posso dire di conoscere Vincent, di sapere il modo in cui
riesce a vedere il mondo, perché ho passato già parecchi giorni in sua
compagnia e anche Mark lo conosce, perché anche lui è stato aiutato dalle sue
parole; tuttavia è sempre in grado di sorprendermi con il suo modo di
rapportarsi alla vita nonostante tutto il dolore che ha provato in passato.
Vinny vede il lato positivo in tutto, trova sempre la speranza nel domani e
sono le caratteristiche principali che servono ad una guida in questa città.
«Spero che tu abbia ragione.» gli dico,
sorridendogli e ripensando alle sue parole.
Lui
risponde al mio sorriso accompagnando il suo con un cenno del capo e subito
dopo Jocelyn compare sulla soglia:
«Mark,
hai del the?» chiede, scusandosi per averci interrotto.
L’uomo
si avvia verso di lei ma Vincent lo ferma:
«Lascia,
lascia. Ci penso io.»
Lui
e la ragazza escono dalla stanza, mentre la voce di Mark li raggiunge dicendo:
«È
nel mobile accanto alla finestra.»
Nella
camera cala il silenzio, il mio amico si siede nel posto occupato prima da
Gabriel, lo fa dopo aver adagiato accuratamente a terra la chitarra del ragazzo.
Appoggia i gomiti alle ginocchia e congiunge le mani, fermandosi a guardami.
«Non
avevo capito che fosse casa tua.» gli dico dopo un po’, cercando un pretesto
qualunque per fare conversazione.
L’espressione
con cui lui è entrato nella stanza mi ha lasciato perplesso e ho paura che sia
arrabbiato con me per quello che ho fatto.
«Già,
non ti ho mai portato in camera mia.» taglia corto.
Il
silenzio riprende e io abbasso gli occhi sulle mie mani, senza sapere cosa dire.
Finalmente,
dopo alcuni minuti, sento Mark prendere fiato e parlare:
«Tu
mi hai salvato la vita, lo sai questo, vero? Se non fosse stato per te io ora
non sarei qui, ne sono sicuro. Ma devi stare attento a ciò che fai, perché se
dovesse succederti qualcosa allora sì che non mi rimarrebbe più niente.
Tuttavia ammetto di essere rimasto colpito da quello che hai fatto, significa
che il mio amico Stephen Espoir è ancora vivo.»
Lo
guardo sorpreso da quell’affermazione. La sua espressione è seria e risoluta,
vorrei poter decifrare a fondo quello che ha appena detto, capirlo attraverso i
suoi occhi che ho sempre saputo leggere. Ma non è semplice intravedere l’anima
del mio amico dietro a quello sguardo spento, dietro quei suoi occhi ancora
così scuri e assenti.
Ma
quando mi sorride capisco che è solamente felice di vedere che sto bene, che le
cose non sono andate poi così male.
«Non
mi credevi capace di farlo?» gli chiedo, scherzando.
Lui
alza le spalle e asseconda il mio tono:
«Al
contrario, so che sei capace di fare le più grandi assurdità di questo mondo.»
Ma
poi la sua voce si fa nuovamente seria:
«È
che troppo volte ti lasci frenare dalle tue paure.»
Annuisco,
consapevole che si tratta della verità. In fin dei conti il mio interlocutore è
Mark, ha avuto più di vent’anni a disposizione per conoscermi a fondo e lui mi
conosce davvero.
Qualcuno
suona il campanello, Mark ne rimane sorpreso e si alza per raggiungere
l’ingresso. Tuttavia la voce di Jocelyn si fa largo dal soggiorno:
«Vado
io.»
Il
mio amico si rimette a sedere e mi guarda:
«Allora
quanto ha fatto male?» domanda portando una mano sulla mia nuca.
Nonostante
il suo tocco sia leggero una pulsazione di dolore parte ugualmente, come una
scarica:
«Abbastanza,
credo.»
«Credi?»
«Già,
non è che mi ricordi molto di quel momento, ma se ha fatto male quanto me ne fa
ora è già abbastanza.»
La
nostra conversazione, però, viene interrotta dalle voci provenienti dall’altra
stanza. Sono quelle di Vincent, Jocelyn e di un altro uomo che non conosco.
Nemmeno Mark pare riconoscere quella voce, perché assume un’espressione
diffidente e si alza nuovamente in piedi. Rimaniamo in ascolto, senza riuscire
a carpire molte parti del dialogo, sentiamo solo qualche sporadico passaggio.
La voce di Vinny che dice “Questo è un oltraggio”, quella dello sconosciuto che
continua a ripetere che non sono affari loro.
Il
mio amico si avvia verso il soggiorno:
«Aspetta.»
lo chiamo.
Lui
si volta verso di me:
«Vengo
anche io.» faccio per alzarmi ma il dolore alla testa aumenta.
Quando
riesco a mettermi in piedi una vertigine mi fa barcollare in avanti e Mark mi
ferma tenendomi per la spalla:
«Ci
sei?» mi chiede, parendo preoccupato.
«Sì,
ce la faccio.»
Mentre
entriamo nell’altra stanza la spiacevole sensazione che mi ha assalito ormai
diversi minuti prima si fa sempre più intensa e si unisce ad un senso di nausea
che cresce ad ogni passo che compio.
Appena
riesco a vedere ciò che sta succedendo mi sento più confuso di quanto già non
sia. Gabriel è rimasto in disparte, l’espressione terribilmente agitata, mi
guarda appena e poi abbassa immediatamente gli occhi sulle sue scarpe, il
respiro accelerato di chi non sa cosa fare.
Jocelyn
e Vincent sono sulla soglia, coprono la figura che sta parlando con loro ma
riesco comunque ad intravedere il completo elegante scuro e la busta bianca che
tiene in mano. Le loro voci si mescolano in un caos confuso che percepisco in
maniera distorta, la mia nausea cresce ancora e devo appoggiarmi con una mano
al muro per evitare di cadere quando tutto comincia a girare.
«Che
sta succedendo?»
La
voce di Mark sovrasta le altre che si ammutoliscono quasi subito. Vinny
riprende a parlare immediatamente:
«Quest’uomo
se ne deve andare. Ha detto solo un sacco di idiozie e…»
Ma
l’uomo in questione lo interrompe:
«Lei
non ha il diritto di mandarmi via, sto svolgendo il mio lavoro.»
«Che
sarebbe?» chiede Mark scettico, il tono freddo.
«Lei
è Stephen Espoir?» domanda l’altro, senza accennare a
rispondere alla domanda.
«No.»
Alzo
la testa sentendo pronunciare il mio nome, tutto
il mio nome:
«Sono
io.»
Non
so neanche perché l’ho detto, ho la testa completamente annebbiata, il dolore e
le sensazioni peggiori si amalgamano dentro di me in qualcosa di orribile:
vorrei solo che finisse.
Tutti
si voltano verso di me, Vinny sospira, rassegnato, Jocelyn si porta una mano
alla bocca e le loro reazioni mi lasciano incerto.
L’uomo
supera i miei tre amici e mi raggiunge, porgendomi la busta che tiene in mano.
Aspetta
che io l’afferri prima di parlarmi:
«Questa
mattina lei ha aggredito un pubblico ufficiale di servizio alla compagnia del Banco dei Sogni e per tale reato verrà
processato.»
Prende
fiato, continuando a guardarmi serio:
«Ci
vediamo fra tre settimane in tribunale.»
Detto
ciò mi dà le spalle ed esce dalla casa.
Il
silenzio cala nella stanza. Abbasso gli occhi sulla busta notando le mie mani
tremare, sento le mie forze venire meno e appoggiarmi alla parete stavolta non
basta: temo di essere sul punto di svenire.
Il
mio migliore amico se ne accorge, perché scatta verso di me:
«Merda.» l’imprecazione gli esce fra i
denti mentre mi afferra.
Mi
circonda con il braccio, portandomi quasi di peso verso la camera; lungo il
tragitto la busta scivola alla mia presa e cade chissà dove.
Quando
mi distendo nel letto Mark mi afferra per le spalle e mi guarda dritto negli
occhi:
«Non
ci provare, ok?»
Non
so a cosa si stia riferendo, proprio non riesco a capirlo, so solo che è
preoccupato, davvero preoccupato questa volta.
Torna
in soggiorno e lo sento rivolgersi agli altri, anche se tiene la voce bassa
riesco a udirlo ugualmente.
«Dev’essere
sotto shock.» dice ad un certo punto.
«Tutto
questo è assurdo. Che cosa possiamo fare?» riconosco la voce di Jocelyn, ma poi
nessuno le risponde, c’è solo silenzio.
Mi
copro il volto con le mani, senza sapere cosa pensare. Mi sento totalmente
svuotato, totalmente atterrato; mi sembra di non avere più forze dentro di me,
nemmeno la forza di gridare o piangere. Ho solo dolore, fisico e mentale. Non
doveva finire così, non doveva andare in questo modo.
Feeling kind of sadwhen
the times are bad, the times are gettingbad
L’uomo
si schiarisce la voce dopo aver raggiunto il suo posto, richiama il silenzio
tenendo in mano un foglio candido che poi adagia sul piano che ha davanti,
rialzato e in legno. La persona accanto a me si muove nervosamente sulla sedia,
sistemandosi il nodo della cravatta con più foga di quanta ne serva. È il mio
avvocato, un uomo anziano, dai radi capelli grigi e dagli occhiali tondi,
l’unica persona che ha tentato di aiutarmi a risolvere il casino in cui io
stesso mi sono cacciato, ma senza risultati. Una persona come lui, innocua, per
quanto preparata, non può sperare di aiutarmi, non qui dentro.
La
grande aula del tribunale è quasi vuota, sono presenti solo i miei amici,
qualche figura del Banco deiSogni, incluse le tre che sono la causa
della mia presenza qui, e altri personaggi che non ho mai visto, rimasti ai
margini a scrivere rapidamente su taccuini.
Questo
processo sta durando troppo, l’attesa sta durando troppo. So già l’esito di
questa giornata, cosa c’è scritto su quel foglio; lo sapevo prima ancora di
entrare che il mio destino era segnato.
Non
sarebbe potuto andare diversamente, non qui, un luogo in cui tutto è di
proprietà del Banco deiSogni e del loro oro. Loro è il legno
che riveste le pareti, loro sono i vestiti dei giudici, degli avvocati e delle
guardie che lavorano qui dentro, loro è la carta su cui la mia sentenza è stata
scritta e perfino la sedia su cui sono seduto io.
Questo
giorno è arrivato troppo in fretta. L’ho aspettato in silenzio, tormentandomi
di notte in preda all’ansia, senza parlare con nessuno per giorni, sentendomi
infinitamente in colpa in presenza di Vincent, Mark, Jocelyn e anche di
Gabriel. E ora che sono qui questi ultimi minuti non accennano a terminare,
questa tortura non ne vuole sapere di concludersi.
Il
giudice solleva nuovamente il foglio appena ottiene silenzio:
«Ebbene,
la corte ha deliberato.»
Se
possibile il silenzio pare farsi più intenso di prima.
«Signor
Espoir.» continua, guardandomi per un solo momento.
Rispondo
al suo sguardo ma non mi ci concentro più del dovuto, ho delle spiacevoli
sensazioni dentro di me. Da quando ha ripreso a parlare mi sembra tutto
distante, estraneo; è come se fossi improvvisamente stato rinchiuso in una
bolla da cui percepisco tutto in maniera ovattata.
«La
corte la condanna al pagamento di una multa a beneficio della compagnia del Banco dei Sogni, della somma complessiva
di centosessantaduemila monete d’oro.» la sua voce è
neutra, distaccata e fredda, come la lama di un coltello.
Tutto
ciò che ho intorno si allontana ulteriormente, i miei occhi ora sono puntati
nel vuoto.
Ionon ho tutto quest’oro, nessuno lo ha. Anche
se ero preparato alla sentenza non lo ero a questo
tipo di sentenza. In questa città nessuno è mai stato costretto a pagare per un
reato come il mio, le pene sono sempre state tutte di tipo differente, al
massimo si può venire reclusi per un mese.
Perché
per me dev’essere diverso?
«La
seduta è sciolta.»
Detto
ciò un mormorio comincia nella sala, soprattutto dietro di me, voci sommesse,
sconvolte quanto lo sono io. Ora posso andarmene, posso uscire da qui, tornare
a casa. Sono libero, ma ancora intrappolato.
Non
troverò mai una somma del genere, non ho speranze. Vorrei solo potermi
svegliare e rendermi conto che si è trattato soltanto di un orrendo incubo. Non
so cosa pensare.
«Questo
non è giusto!»
La
voce proviene alle mie spalle, carica di risentimento: è Jocelyn. Mi volto a
guardarla, è in piedi, seria come non l’ho mai vista, le braccia abbandonate
sui fianchi, le mani strette a pugno, tutto il corpo debolmente scosso dalla
rabbia. Sta fissando oltre me, verso il giudice e tutti i membri della giuria:
«Con
che coraggio potete chiedere ad un solo uomo una cifra tanto grande. Nessuno
può avere tutto quell’oro. Siete patetici!»
Vinny
si alza e la circonda con un braccio, costringendola a voltarsi verso di lui:
«Ora
calmati, finirai per mettere Steve ancora più nei guai.» lo sento dirle.
Come
ho fatto ad arrivare a questo? Non riesco a capacitarmi di come sia potuto
succedere, di cosa esattamente io sia colpevole. Torno a voltarmi, appoggiando
i gomiti al tavolo e portandomi le mani fra i capelli. Negli ultimi giorni non
mi sono assolutamente preso cura di me, ho vissuto come un reietto,
maltrattando me stesso. Non ho quasi mai aperto bocca, convinto che sentendo il
suono della mia voce la poca forza interiore che mi era rimasta si potesse
distruggere; mi sono sentito un peso, soltanto un peso per Vinny e tutti gli
altri, che hanno ugualmente tentato di aiutarmi.
Ma
ora, anche insieme, che cosa possiamo fare?
Qualcuno
mi posa una mano sulla spalla, sollevo appena lo sguardo per vedere il volto
del vecchio che ho accanto:
«Mi
dispiace, ragazzo.» mormora.
Recupera
le sue cose e si allontana, fermandosi a parlare con Vincent e Jocelyn. Scuote
la testa ripetutamente e abbassa il tono, impedendomi di sentire. Mi alzo senza
sapere che altro fare, incontro lo sguardo di Mark ma abbasso il mio
immediatamente. Non potrei biasimarlo se ora lui se ne andasse.
«Signor
Espoir.»
Mi
volto sentendo il mio nome e subito, davanti, mi trovo l’uomo che lavora al Banco, colui che compra i sogni della
gente e che è anche la causa della mia presenza qui. Provo solo odio e disgusto
per quest’uomo, ma quando incontro i suoi occhi l’inquietudine prende il
sopravvento su tutto.
«Un
esito imprevisto, non le pare?» mi chiede, posando una mano sul mio braccio.
Anche
attraverso la stoffa della camicia riesco a percepire il suo tatto gelido, è
una cosa che mi fa rabbrividire.
«Mi
permetta di dirle solo una cosa. So che la cifra richiesta è davvero, davvero
alta per uno come lei, ma è giusta.»
Stringe
la presa attorno al mio braccio. La sua voce si fa bassa, un sibilo:
«Tuttavia,
le posso garantire che se lei vendesse il suo sogno avrebbe ora a sufficienza.»
Detto
ciò allenta la presa e si allontana dopo avermi augurato una buona giornata.
Istintivamente
porto la mano nel punto del braccio entrato in contatto con l’uomo, cercando di
ridargli calore. Noto Jocelyn che mi osserva, preoccupata. Io distolgo lo
sguardo cominciando a sentirmi confuso, confuso e in trappola. Mi è stato
spiegato in che modo ottenere tutte le monete che mi servono per saldare il mio
debito, per riavere la mia libertà fittizia, ma il prezzo è troppo alto e non
mi riferisco al pagamento che devo fare, ma a quello che devo fare per ottenere
tutto l’oro necessario.
«Stephen.»
sentire nuovamente il mio nome mi risveglia dai miei pensieri.
Mi
giro verso colui che mi ha chiamato, notando sorpreso che si tratta del giudice
che ha appena letto la mia sentenza. Mi fa cenno di raggiungerlo, quasi in
maniera furtiva.
Quando
sono da lui si osserva intorno prima di cominciare a parlare e quando lo fa
tiene il tono basso:
«Mi
creda, sono molto dispiaciuto per quello che le è successo.» dice e io non so
se dargli ascolto o meno.
Non
rispondo, limitandomi a guardarlo. Lui riprende a parlare, sempre tenendo la
voce bassa:
«Se
può servirle a qualcosa saperlo, c’è un’alternativa al pagamento della multa. È
una cifra molto alta e quando viene data una multa superiore alle
centocinquantamila monete d’oro, per legge, l’imputato ha due possibilità.»
Rimango
sorpreso da questa sua affermazione. Forse posso riuscire a salvarmi.
«Sono
anni che non viene più data una sanzione del genere, presumo che anche il suo
avvocato si sia dimenticato di questa alternativa, altrimenti glielo avrebbe
detto.»
Continuo
ad ascoltarlo, rendendomi conto che ora non mi importa sapere niente che non
sia questa nuova chance:
«In
cosa consiste?» chiedo, sentendo nuovamente la mia voce dopo giorni.
Lui
sospira, guardandomi dritto negli occhi, noto che è molto più giovane di quanto
appaia, ma il suo viso è già quello di una persona stanca:
«L’espulsione.»
dice.
Assimilo
quella parola, quell’unica parola. Non mi ero aspettato una cosa del genere,
non l’avrei mai potuta neanche sospettare un’alternativa simile.
Per
ottenere l’oro necessario affinché tutto questo possa finire non mi resta che
vendere il mio sogno, altrimenti l’unica cosa che posso fare è andarmene da
questa città, presumo per sempre.
«Espulsione?»
la parola ha un suono strano quando esce dalla mia bocca.
Lui
annuisce stancamente con la testa:
«Sì.
So che è una soluzione dolorosa, ma almeno lei non dovrebbe darsi pena per
cercare una cifra alta quanto quella che le è stata chiesta.»
Ha
perfettamente ragione, su tutto.
«E
se io non accettassi nessuna delle due opzioni?» chiedo, con una nota di sfida che
mi esce spontanea per colpa della frustrazione che ho in corpo.
Alza
le spalle:
«In
tal caso verrebbe arrestato e le posso garantire che la sua reclusione non sarà
né breve né piacevole.»
Rimango
in silenzio per qualche secondo appena smette di parlare.
Quello
che mi dà da pensare maggiormente non è tanto il modo di risolvere la
situazione, anche se ora è comparsa questa nuova possibilità, ma cercare di
capire come sia potuto succedere tutto, come io abbia fatto a trovarmi ad un
bivio complicato come questo. Voglio provare a capire perché a me è stato destinato
un simile trattamento nonostante il mio reato non sia stato più raro e spietato
di altri.
«So
perfettamente che la pena che mi è stata inflitta oggi non è consueta per il
tipo di reato che dicono io abbia commesso. I ragazzini che si divertono ad
aggredire i poliziotti al massimo vengono arrestati, oppure mandati a fare qualche
lavoretto per la comunità.»
So
di aver ragione, mi sono informato prima del mio processo, nella speranza di
farmi un’idea di ciò che mi sarebbe accaduto una volta entrato qui dentro.
Quello che mi è stato fatto non è mai capitato prima.
Anche
l’uomo pare essere d’accordo. Scuote la testa dall’alto verso il basso, infine
mi osserva e prende parola:
«Senta,
purtroppo, in questa città, non è vero che la legge è uguale per tutti. Lei ha
perfettamente ragione e voglio che sappia che trovo ingiusto ciò che le è stato
fatto. Ci siamo letteralmente accaniti su di lei perché ci è stato detto di
farlo.»
Sospira,
pare rassegnato alla sua esistenza:
«Vorrei
poter lasciare quest’aula di tribunale con la coscienza a posto almeno per una
volta.»
Mettersi
contro il Banco dei Sogni, l’autorità
in questa città, è il suo modo per redimersi, ecco perché ha voluto parlare con
me.
Abbassa
lo sguardo un solo istante, poi torna a guardarmi:
«Arrivederci.»
conclude.
Lo
guardo allontanarsi senza sapere che altro pensare. Lui è il perfetto esempio
di una persona che, alla fine, si è arresa. È esattamente ciò che ero io prima
di incontrare Jocelyn, ciò che ero prima di vedere sbocciare il mio iris. Io ho
provato a cambiare le cose ma non ho fatto altro che peggiorarle, mettendo
nuovamente a rischio il mio sogno e la mia anima. Ma ora quell’uomo mi ha detto
che c’è una via di fuga, mi ha detto cosa devo fare se voglio ancora sperare di
vedere il mio sogno realizzarsi un giorno. Tuttavia significherebbe dovermi
allontanare da tutti in via definitiva.
È
una scelta troppo difficile da prendere e temo di non avere molto tempo a disposizione
per pensarci.
Qualcuno
mi raggiunge, fermandomisi proprio accanto:
«Cosa
ti ha detto?»
È
Mark. Con un cenno mi fa capire che si sta riferendo al giudice.
«Frasi
di circostanza.» rispondo.
Non
credo sia ancora il momento di dire a lui e agli altri l’alternativa che mi è
stata spiegata. Non lo dirò a nessuno almeno finché non l’avrò seriamente presa
in considerazione io stesso.
«Steve,
andiamocene da qui.»
Lo
seguo dagli altri, in silenzio, continuando a pensare.
Raggiungiamo
il mio appartamento, siamo solo io, Mark, Vinny e Jocelyn. Lungo il tragitto il
mio migliore amico mi rimane accanto, dietro di noi gli altri due, nessuno dice
niente. La città pare più grigia del solito, ma tutti continuano a fare ciò che
hanno sempre fatto: il totale stravolgimento di una sola vita non può fermare
il continuo moto di tutte le altre.
Faccio
strada lungo le scale, appena apro la porta di casa ai miei piedi trovo una
lettera per me, fatta scivolare sotto l’ingresso. Mi guardo intorno un momento
prima di invitare gli altri ad entrare, ricordandomi che negli ultimi giorni
non mi sono neanche preoccupato di tenere ordinata la mia casa.
«Scusate
la confusione.» dico mentre chiudo la porta alle spalle dei miei amici.
Il
caos che regna sorprende anche Mark, da sempre più disordinato di me.
Gli
oggetti più disparati sono sparpagliati ovunque, il lavandino è pieno di
piatti, che si sono ammassati ugualmente nonostante abbia mangiato poco nelle
ultime settimane, giusto quello che era sufficiente per non perdere totalmente
le energie. Ho passato più tempo a bere nella speranza di dimenticarmi di
tutto, ma senza risultati, lo dimostrano le bottiglie lasciate a metà in giro
per la casa. Non mi sono neanche preoccupato dei miei abiti, ammassati su sedie
e divano.
In
fin dei conti come potevo prendermi cura del mio appartamento se non mi sono
neanche preso cura di me stesso?
Non
mi faccio più la barba da giorni e ora, quando mi guardo allo specchio, quasi
non riconosco il volto che ho davanti; anche per via dei miei occhi ormai
spenti, non perché abbia venduto il mio sogno, ma perché non so più in cosa
credere.
«Vita
da single, eh?»
Mark
cerca di sdrammatizzare, ma senza risultati: nessuno di noi è in vena di
umorismo in questo momento.
Mi
siedo sul divano dopo aver spostato alcune maglie e apro la busta. Vinny prende
una sedia e si sistema vicino a me.
«Guarda
qui che caos. Meglio dare una sistemata.» dice Jocelyn, dirigendosi al
lavandino.
«No,
ehi, non serve. Siediti.» le
rispondo.
Lei
non accenna a darmi ascolto e comincia a riordinare le stoviglie. Mark,
appoggiato al bancone della cucina, mi fa segno di lasciarla fare, facendomi
capire che le può servire per distrarsi.
Comincio
a leggera la lettera, deciso ad aiutare Jocelyn una volta finito, ma verso la
metà dello scritto il mio cuore pare perdere colpi. Istintivamente aumento la
presa sul foglio, stropicciando la carta in corrispondenza delle mie dita.
Vinny
lo nota:
«Cosa
succede?» mi chiede, il tono serio e il volto più preoccupato che mai.
Respiro
a fondo un paio di volte, cercando di riacquistare il controllo di me:
«Niente,
solo altre brutte notizie.» rispondo, la voce che cala sul finire della mia
frase.
Gli
occhi di tutti si puntano su di me, mentre io allento un po’ la presa dalla
carta, da quella lettera proveniente direttamente dall’ufficio del mio datore
di lavoro.
Non
sono sorpreso, sospettavo sarebbe successo, ma non che sarebbe avvenuto così
presto.
Il
più totale silenzio mi accompagna mentre tengo lo sguardo puntato su un’unica
parola, quella parola: licenziato.
Nessuno
ha più aperto bocca da un po’, nessuno. Vinny ha continuato a scrivere e
annotare su un pezzo di carta, recuperato insieme ad una penna nel casino del
mio soggiorno. Mark ha messo sottosopra l’unico pezzo della cucina rimasto
stranamente in ordine, cercando distrattamente qualcosa e Jocelyn ha riordinato
qua e là per la casa evitando accuratamente di guardarmi negli occhi. Almeno
così credo, perché i miei sono rimasti fissi sulla lettera che ancora tengo in
mano, in cui la carta è sempre stropicciata per colpa dello shock che mi ha
fatto scoprire che i miei sospetti, alla fine, erano fondati. La mia intera
esistenza ha preso una piega opposta nel giro di poco meno di un mese,
stravolgendosi totalmente e lasciandomi impotente. Non ho più un lavoro, ora,
che per quanto mi desse poche soddisfazioni era comunque qualcosa che mi
concedeva oro a sufficienza per continuare a campare. Oro che non ho per poter
pagare la multa che mi è stata data per la mia apparente aggressione ad una
delle guardie del Banco dei Sogni.
Perciò, cosa mi è rimasto?
Solo
una casa, degli amici per cui mi sento un peso e un’alternativa al pagamento
che vorrebbe dire allontanarsi da tutto questo. Sono tremendamente confuso.
Sollevo
gli occhi sull’alta figura di Mark, tiene in mano una tazza che mi allunga,
lasciandomela al posto della lettera.
«Bevi,
non è the, in casa tua non c’è.» mi dice.
Infatti
si tratta di caffè, nero e bollente come sa che mi piace. Lo ringrazio e
afferro la tazza, lui si china appena e raccoglie una bottiglia di rhum
abbandonata accanto al divano; è una di quelle che mi hanno fatto compagnia
nelle tre settimane precedenti, una di quelle da cui bevevo prima di crollare da
qualche parte svuotato di tutto.
Mark
apre il tappo della bottiglia, ne annusa il contenuto, ne beve un sorso e vuota
il resto nel lavandino, l’espressione indecifrabile ma seria.
Il
silenzio riprende a regnare sovrano, Jocelyn mi guarda appena e si avvicina al
mio amico, comincia a parlare con lui tenendo la voce bassa: qualunque cosa gli
stia dicendo non riesco a sentirli.
I
primi rumori veramente udibili provengono da Vincent, vicino a me, che posa con
foga la biro sul tavolo e si porta le mani fra i capelli:
«Niente
da fare.» dice.
Tutti
ci voltiamo a guardarlo mentre continua a scuotere la testa.
«Che
cosa?» gli chiede Mark.
L’altro
lo guarda impedendomi di vedere la sua espressione, infine si volta verso di
me:
«Mi
dispiace, Steve, ma anche unendo le nostre forze non riusciremmo a trovare
l’oro necessario per pagare la tua multa.» il suo tono è rassegnato e veramente
dispiaciuto.
Quello
che non capisco io è di che oro stia parlando. Non voglio essere aiutato così
tanto da lui e da tutti gli altri, non potrei sopportare di sentirmi
ulteriormente in debito; mi sento già sufficientemente debitore nei confronti
di Vinny per tutto quello che ha sempre fatto per me, dal primo giorno in cui
ci siamo incontrati. Infondo le alternative fra cui posso scegliere sono
svariate: accettare di essere espulso, scappare, venire arrestato, uccidermi,
vendere il mio sogno.
«Quante
monete mancherebbero?» domanda Jocelyn.
«Troppe.»
Vinny
scuote nuovamente la testa e il silenzio torna a scendere nella stanza. Non so
a cosa stiano pensando tutti gli altri, ho una serie di sospetti che spero
siano infondati; non voglio nessun sacrificio da parte loro, non più. Sono io
il problema, spetta a me venire fuori da questa situazione.
Il
caffè quasi mi brucia dentro mentre scende fino al mio stomaco. Sospiro a pieni
polmoni prima di iniziare a parlare:
«Posso
vendere il mio sogno, vale oro a sufficienza.»
La
mia voce è bassa, gli altri devono prestare attenzione alle mie parole per
capire esattamente ciò che ho detto. La reazione di Vinny è immediata:
«No!
Questo non lo permetterò.»
Apro
bocca per ribattere ma Jocelyn mi precede:
«È
stato lui, vero? Te l’ha detto quell’uomo?» la sua voce è debole e incerta.
Capisco
a cosa si sta riferendo, mi ricordo che lei mi aveva visto mentre l’uomo che
compra i sogni delle persone mi ricordava il valore del mio. Istintivamente mi
tocco il punto del braccio su cui lui aveva posato la mano, sentendomelo freddo
anche ora.
«Quale
uomo?» interviene Vincent, voltandosi alternatamente verso di me e verso la
donna.
È
lei a rispondere alla sua domanda:
«Quello che lavora al Banco dei Sogni,
l’ho visto parlare con Steve appena terminato il processo.»
Abbasso
lo sguardo, senza rispondere a quello di nessuno di loro. Vinny sospira,
annuendo con il capo alle parole di lei:
«Ebbene.»
comincia, rivolgendosi chiaramente a me.
Alzo
la testa per guardarlo nei suoi occhi celesti:
«Questo
motivo è più che sufficiente per impedirti di vendere il tuo sogno. Loro lo
vogliono, Steve, vogliono il tuo sogno perché è unico e prezioso. È vero che
uno come te potrà ottenerne uno nuovo e speciale quanto il precedente, ma poi
loro troverebbero un modo per prendersi anche quello.»
Riprende
a scuotere la testa, sembra infinitamente più amareggiato di me e io non posso
che sentire una fitta allo stomaco quando termino di assimilare le sue parole.
«Io
non lo posso permettere, non posso. Mi ero prefissato di aiutarti dopo che
avevi bussato alla mia porta la prima volta ed è quello che ho intenzione di fare.
Troveremo un’alternativa.»
Nessuno
dice niente, è Jocelyn a interrompere il silenzio:
«Quindi
che cosa hai intenzione di fare, adesso?» domanda, rivolgendosi a Vinny.
Lui
torna a puntare i suoi occhi su quel foglietto di carta scarabocchiato
abbandonato sul tavolo e si fa serio. So perché, semplicemente perché non sa
cosa fare dato che non c’è niente che
lui possa fare. Sta a me uscire dal casino in cui mi sono cacciato, sta a me
tornare sui miei passi, prendere in mano la situazione e trovare il modo
migliore per rifarmi una vita. Ed è nel silenzio surreale del mio appartamento
che l’alternativa più valida al pagamento della mia multa si presenta come
l’unica che avevo accantonato dal principio: l’espulsione. Se io me ne andassi
nessuno si vedrebbe più costretto a preoccuparsi per me, a dover mettere a
rischio se stesso per aiutare uno come il sottoscritto; se me ne andassi tutto
si risolverebbe. Ma prendere seriamente in considerazione questo, un
cambiamento enorme senza il tempo di prepararmi adeguatamente a tutto, mi spaventa.
Tuttavia non c’è altro che io possa fare se voglio continuare ad essere libero,
se non voglio deludere i miei amici e se voglio continuare a tenermi stretta la
parte più profonda di me.
Respiro
a fondo prima di riprendere parola, tutti si voltano verso di me ma evito
accuratamente ogni loro sguardo:
«In
realtà, una soluzione ci sarebbe.»
Nessuno
reagisce, o almeno non lo fanno finché non sollevo lo sguardo. Come sospettavo
il primo a parlare è Vinny:
«Cosa
intendi dire?»
Mi
alzo in piedi, sperando che così facendo l’ossigeno possa andare più facilmente
in circolo. Mi sento mancare l’aria, sento la mia testa farsi pesante e la gola
secca ora che devo affrontare realmente l’argomento. Mi sto rendendo conto che
quello che mi spaventa maggiormente di questa storia non è l’espulsione in sé,
con tutto quello che ne consegue, ma il doverlo dire ai miei amici. Con che
coraggio posso affrontarli e dire loro che, dopo tutto quello che hanno fatto,
dopo tutto il tempo che hanno speso per aiutarmi, ora io me ne vado lasciandoli
soli? Mi fa sentire vile.
Vincent
mi imita, alzandosi dalla sedia. Mi raggiunge, mi posa una mano sulla spalla
costringendomi a guardarlo:
«Steve,
cosa sai?»
Non
rispondo, sentendomi sempre più in preda all’ansia. È nuovamente lui a parlare:
«Tu
sai cosa possiamo fare, vero? Vuoi dire che abbiamo un’alternativa? Una che sia
concreta?»
Annuisco:
«Sì,
c’è. Mi è stato spiegato oggi, al termine del mio processo.»
Sento
la mia voce distante, incerta, come se non fossi io a parlare. Vorrei non dover
essere io a farlo, non dover essere io a rispondere a Vinny quando mi chiede:
«Di
cosa si tratta?»
Mi
faccio forza per guardare l’uomo negli occhi, cercando dentro le parole giuste
per potergli spiegare tutto. Il mio silenzio dura da troppo, ma gli occhi di
Vincent riescono a darmi la forza per aprire bocca, finalmente:
«Mi
hanno detto che per una multa come la mia, così alta, ho due possibilità. O il pagamento,
oppure l’espulsione.» dico tutto d’un fiato, come se volessi buttare fuori ogni
residuo d’aria rimasto in corpo. Alcuni rumori provengono dal punto in cui si
trovano Mark e Jocelyn ma non mi volto verso di loro, non ne ho la forza.
«L’espulsione?»
domanda Vinny. Lo fa guardandomi negli occhi, come se stesse cercando di
leggermi dentro per vedere quanto c’è di vero in quello che gli ho detto e, in
tal caso, quanto è profonda la mia convinzione nell’ accettare tale scelta.
«Dovresti
lasciare la città?» la voce di Jocelyn mi costringe a voltarmi verso di lei.
Ha
fatto qualche passo avanti, allontanandosi dal mio amico ma fermandosi distante
anche da me, la sua espressione è indecifrabile e sconvolta.
Non
le rispondo, non so cosa dirle, vederla così è un colpo al cuore.
«Évero?» chiede conferma Vinny alle mie parole.
Annuisco,
lui si copre il viso con le mani e sospira, se ne porta una fra i capelli,
tornando a guardarmi:
«Non
sei obbligato ad andartene, troveremo un modo, vedrai.»
È
da quando siamo usciti dal tribunale che continua a ripeterlo, che tenta invano
di convincersi che riusciremo ad uscirne senza troppi problemi, ma stavolta si
sbaglia. Non esiste una via di fuga semplice, non esiste un metodo indolore per
risolvere la mia situazione. Dato che il problema sono io, io sarò anche
l’unico a dover soffrire per i miei sbagli.
«No.
Avete già fatto anche troppo per me, non voglio più essere un peso per voi.»
Vinny
torna a posare la sua mano sulla mia spalla e sorride, con incertezza ma anche
con dolcezza:
«Tu
non sei mai stato un peso per noi, Steve.»
«È
qui che ti sbagli.» mormoro, forse Mark e Jocelyn non hanno udito le mie
parole, ma la mia risposta era solo per l’uomo che ho davanti. Alzo il tono
quando ricomincio a parlare:
«Non
credo ci sia qualcos’altro che possiamo fare, non questa volta. Non voglio
sacrifici da parte di nessuno di voi. É l’unica soluzione, credimi.»
Continua
a guardarmi negli occhi, senza sapere come ribattere. L’idea di andarmene mi
spaventa, ma almeno questa volta potrei provare seriamente a cambiare il corso
della mia vita, potrei davvero realizzare quella trasformazione che non ho mai
assecondato in questa città e per la prima volta non mi sentirei debitore nei
confronti di nessuno, o quasi.
«Hai
ancora un po’ di tempo per pensarci, è una scelta molto importante, non puoi
esserne già così sicuro.» mi dice Vinny, dopo un po’.
«Ci
ho già pensato, non faccio altro da quando siamo usciti dal tribunale. Ho preso
la mia scelta. Allontanarmi non mi spaventa, l’unico problema è che non saprei
dove andare.» dico.
Mi
faccio forza reggendo allo sguardo dell’uomo, c’è bisogno di tutto il mio
spirito per evitare che si accorga che non sono stato sincero fino in fondo.
Porta
anche l’altra mano sulla mia spalla, in quel gesto che ha sempre fatto e che è
sempre riuscito a darmi sicurezza:
«Potresti
andare da Jason.» lo dice con un tono rassegnato, ma il tono rassegnato di chi
vuole aiutare per l’ultima volta.
«Vincent!»
Jocelyn lo richiama, ma nessuno dei due si volta verso di lei.
Io
non posso farlo, perché ora che ho deciso di accettare l’espulsione, non potrei
riuscire a guardare veramente negli occhi né lei né tantomeno il mio migliore
amico, rimasto sempre zitto negli ultimi minuti.
«E
questo Jason potrebbe ospitarmi per un po’?»
Vinny
fa segno di sì con la testa:
«Abita
fuori città, a qualche ora di treno da qui. Là possiede qualche piccolo
appartamento per le persone in fuga, o in cerca di una vita diversa, un po’
come lo diventerai tu.»
Sorride:
«Sono
certo che sarà disposto ad affittarti uno di questi appartamenti a poco prezzo
e ad aiutarti a trovare un lavoretto. Il suo paese è immerso nel verde, ti
piacerà sicuramente. In fin dei conti, potrebbe essere un nuovo inizio, quello
che stavi cercando. Tuttavia, Steve, dovrai andare da solo.»
Il
modo in cui descrive tutto ciò mi rassicura, verrò aiutato un’altra volta, ma
sarà l’ultima, sarà un nuovo inizio, proprio come ha detto lui, anche se non ci
sarà nessuno di loro insieme a me.
«Vado
io con lui.»
Ci
voltiamo entrambi verso Mark, colui che ha appena parlato. Il mio amico mi
guarda, le mani in tasca e l’espressione risoluta che nei momenti più
importanti lo ha sempre caratterizzato; Jocelyn, ferma fra di noi, non sa su
chi posare lo sguardo.
«Andiamo,
Steve, se tu te ne vai io cosa rimango a fare qui?» mi chiede.
Poi
nota gli altri due e alza le spalle:
«Senza
offesa ragazzi, niente di personale, voi mi piacete.»
Riprende
a parlare immediatamente, senza lasciarmi il tempo di replicare:
«Ti
ricordi quando eravamo bambini? I giochi assurdi che facevamo? Ci eravamo
promessi che avremmo lasciato questa città insieme, un giorno, e ora tu vorresti
andartene senza di me?»
Sorrido,
sentendo i ricordi riaffiorare. Ha ragione, quando eravamo piccoli la nostra
fantasia ci aveva fatto scappare infinite volte da qui, ci faceva crescere quel
tanto che bastava per salire su un’auto e cominciare a viaggiare. Mark era il
mio capitano, io il suo cercatore, viaggiavamo per il mondo fino a trovare
l’oro, liberi come nessun altro. Ma crescendo non abbiamo tenuto fede alle
nostre promesse, o almeno, io non l’ho fatto. Ora, però, posso avere il modo di
redimermi.
«Questo
Jason sarebbe disposto ad ospitare anche me?» domanda Mark, stavolta
rivolgendosi a Vinny.
Quest’ultimo
risponde con un cenno del capo e sorride.
«Allora
è deciso?» chiede, cercando conferma negli occhi miei e in quelli di Mark. Lo
sguardo del mio migliore amico, però, incrocia prima il mio e Mark si stringe
nelle spalle, sollevando le sopracciglia, come a dire che lui, un piano del
genere, lo aveva in mente da un po’ ma che stava solo aspettando l’occasione
buona per arruolare anche me. L’idea di dover affrontare tutto quello che mi
attende con il lui al mio fianco non mi spaventa più, al contrario. Ora il
fatto di andarmene, di dover lasciare questa città, un luogo in cui non sono
mai riuscito a trovare la felicità, quasi mi eccita; per questo quando faccio
un segno con la testa a Vincent, per confermargli che ho preso la mia scelta
definitivamente, mi sento tranquillo. A Mark è sempre bastato poco, davvero
poco, per farmi stare meglio, per farmi vedere i colori laddove io trovo solo
nero.
«Vado
a chiamare Jason.»
Con
queste parole Vinny si allontana, riportandomi alla realtà: se me ne vado dovrò
per forza lasciare qualcuno e io, negli addii, non sono mai stato bravo.
«Davvero
non c’era altro modo?»
Jocelyn
si avvicina a me pronunciando queste parole, l’espressione profondamente
dispiaciuta.
«No,
non questa volta.» le rispondo.
Mark,
vicino a noi, si schiarisce la gola e raggiunge Vinny nell’altra stanza,
lasciandoci soli.
La
donna mi guarda negli occhi appena si ferma e io mi predo letteralmente nei
suoi. Dopo mesi riesco a vederli per quello che sono: maestosi. Le sue iridi
color cioccolato non sono più né appannate né spente, ora appaiono luminose e
ricche di pagliuzze rame che le rendono
più chiare e ammalianti. Il sogno di Jocelyn è tornato, che sia lo stesso di un
tempo o uno totalmente nuovo, finalmente lei ha qualcosa in cui credere. La sua
voce torna ad attirare la mia attenzione:
«Secondo
me invece un modo potevamo trovarlo. Hai agito troppo impulsivamente questa
volta; dovevi analizzare a fondo ogni possibilità.»
«Quali
possibilità? Dove potevamo trovare tutto quell’oro, Jocelyn?»
«Io
potevo aiutarti. Io posso aiutarti!»
esclama.
Sto
per ribattere ma mi blocco appena comprendo appieno le sue intenzioni, appena
capisco esattamente ciò che ha in mente. Lei sarebbe disposta a sacrificarsi,
sarebbe capace di tornare a soffrire solo per salvarmi.
«Io
non potrei mai sopportare di vederti vendere il tuo sogno per me.»
Rimane
stupita quando si rende conto che ho afferrato le sue intenzioni.
«Non
potrei sopportare anche solo sapere che hai venduto il tuo sogno.»
Abbassa
lo sguardo, senza rispondermi. L’afferro per le spalle chinandomi leggermente
per poterla guardare negli occhi, in quegli occhi da cui ora non vorrei più
staccarmi.
«È
la parte più profonda di te, rappresenta ciò che sei realmente. Me lo hai insegnato
tu, tu insieme a Vinny.» le dico, sperando di farle capire che ho creduto
profondamente nelle sue parole da sempre e che ora non potrei sopportare di
scoprirla in grado di tradirle.
«Lo
so. È solo che… mi mancherai tanto.» mormora.
Allento
un po’ la presa dal suo corpo, arrivando a provare dentro di me tutta una serie
di emozioni contrastanti.
«Già.»
sussurro, senza sapere più cos’altro aggiungere.
È
in situazioni come questa, quando i miei sentimenti mi travolgono come un fiume
in piena, che non so mai che cosa fare. E ancora una volta è Jocelyn a fare la
mossa successiva, a darmi la risposta, come il giorno in cui io ero totalmente
in ansia per Mark. Come quella sera lei si avvicina a me e mi abbraccia e,
proprio come quella sera, i suoi capelli hanno lo stesso profumo del vento.
Non
ero mai venuto alla stazione prima d’ora; non sono mai dovuto venire fin qui
per accogliere parenti provenienti da lontano, per incontrare amici di penna
distanti chilometri e chilometri, né tantomeno per salire su un treno ed
andarmene. La stazione dei treni non ha niente che possa ricondurmi a qualcosa
che già conosco; non assomiglia a quelle che propongono i film, non ci sono
abbracci appassionati, saluti continui o altro che possa far pensare ad un
nuovo inizio o ad un incontro atteso. La gente è di fretta, si fa spazio con
poca grazia fra le persone e praticamente nessuno di loro apre bocca: temo che
se non fosse per il rumore dei treni, per gli annunci e per il suono delle
scarpe che sfregano sul pavimento, qui, non si sentirebbe nulla.
Mi
fa uno strano effetto pensare che questo è l’ultimo posto che vedrò della città
in cui sono nato e cresciuto, mi agita abbastanza notare che i binari che si
staccano da qui proseguono verso l’orizzonte, infilandosi in un mare di grigio
di cui non si intravede nulla. Sono i miei ultimi minuti in questo posto,
secondo le disposizioni del giudice dalle quindici di questo pomeriggio non
sarò più un cittadino e non mi sarà permesso rientrare in città. La cosa mi
impensierisce un po’, ma non più del dovuto. Ora so dove andare e so anche con
chi andarci. Mark verrà con me, insieme raggiungeremo Jason, avremo una casa e
potremo decidere se fermarci là o considerare tutto solo l’inizio per qualcosa
di nuovo e più grande, l’inizio di un viaggio che fin da bambini ci eravamo prefissati
di intraprendere, ma che era rimasto solo un sogno per me, il mio sogno.
Tuttavia l’idea mi spaventa ancora e continua, davvero, a farmi sentire strano
e insicuro, cosa che il mio amico non è. Non che sia semplice capire il suo
stato d’animo dietro i suoi occhi, che non hanno ancora ripreso la loro vecchia
luce nonostante si siano schiariti, ma si capisce ugualmente attraverso i gesti
del suo corpo che, in fondo, sa esattamente ciò che sta facendo.Non so se ha deciso di venire con me per non
lasciarmi solo o per realizzare davvero il progetto che ci eravamo immaginati
da bambini, ma sono contento che lui abbia deciso di intraprendere questo
viaggio, io non sarei riuscito ad andare molto lontano.
Vincent
si ferma davanti ad un treno, un mezzo provvisto di poche carrozze su cui non
sale quasi nessuno. Si ferma anche Mark, posa il borsone in terra e analizza la
locomotiva che dovrebbe portarci lontano. Istintivamente porto lo sguardo sulla
mia valigia: ventisette anni di vita
stipati in un piccolo trolley mi fanno capire che, in verità, nella mia
esistenza ho vissuto ben poco.
«Sarebbe
questo?» chiede Mark rivolgendosi a Vinny, che annuisce con la testa e sorride.
Oltre
a lui sono venuti anche Gabriel e Jocelyn, solo le amicizie più strette si sono
unite a noi per l’ultimo saluto, per dirci definitivamente addio.
«Non
farti ingannare, è piccolo ma va lontano.» risponde l’uomo al mio amico, che di
rimando alza le spalle come a dire che non ne dubitava poi così tanto.
Il
silenzio cala fra noi, nemmeno lo sbuffare della locomotiva riesce a farlo
sembrare meno spietato di quanto sia, mi sembra quasi di riuscire a percepire i
pensieri dei miei amici, di sentirli mentre cercano le parole giuste per
salutare me e Mark, mentre io ho la
mente annebbiata da frasi che hanno il solo scopo di mascherare la mia
insicurezza.
«Come
vi sentite?» domanda improvvisamente Vinny, rivolgendosi ad entrambi ma
soffermando maggiormente lo sguardo su di me. Sono io quello realmente
preoccupato, lo sa.
Sospiro
mentre lui si avvicina a me, mi posa entrambe le mani sulle spalle e prende a
guardarmi.
«Nervoso.»
mi esce, quando mi rendo conto che è l’unica parola con cui posso descrivere il
tutto.
Siamo
solo io e lui, ora. Mark prende a parlare con Jocelyn e Gabriel di qualcosa che
non riesco a capire, mentre Vincent si concentra su di me, utilizzando alcune
delle sue parole migliori per darmi forza un’ultima volta:
«Puoi
ancora ripensarci.»
Scuoto
la testa e sorrido:
«Non
credo. Dalle quindici di oggi non sarò più cittadino qui, diventerò un… non lo
so, un ricercato?»
Scoppia
a ridere:
«Non
mi risulta.»
Aspetto
che smetta prima di riprendere a parlare e quando lo faccio sono così serio da
riuscire a convincere anche me:
«Non
voglio tornare indietro, ho deciso. Avete fatto tantissimo per me e ve ne sono
grato, sono grato soprattutto a te, Vinny.»
Sorride:
«Anche
io devo ringraziarti, amico mio.»
«E
per cosa? Non ho fatto niente di speciale, niente di importante.»
«Questo
non è vero. Guarda solo Jocelyn, Mark e Gabriel. Loro sono solo un esempio di
quello che sei riuscito a fare per le persone che erano venute a cercare aiuto
da me. Tu sei stato loro vicino e li hai ascoltati, hai condiviso con loro la
tua storia e le tue speranze. Hai fatto tanto, devi credermi.»
Mi
volto un momento verso i miei tre amici, per vedere se sono in grado di notare
i cambiamenti di cui Vincent parla.
«E
non solo, so che non leggi i giornali, ma ultimamente hanno parlato di te, del
tuo processo.»
«Di
me?» chiedo, realmente sorpreso.
Com’è
possibile? Come sono venuti a sapere del mio processo e di ciò che mi è
successo? Non c’era nessuno a parte i miei amici e quelli del Banco dei Sogni, nessuno che potesse in
alcun modo venire a conoscenza di quello che mi stavano facendo.
Improvvisamente, però, la risposta mi appare chiara; c’erano degli uomini, delle
persone che sono rimaste ai margini per tutto il tempo della seduta, figure che
hanno continuato a scrivere qualcosa. Che siano stati loro a parlare di me? Ma
poi, perché farlo?
Vinny
mi distrae dai miei pensieri, ricordandomi della sua presenza davanti a me:
«Proprio
così. Non chiedermi il motivo, io non lo so, ma è successo. Le persone
cominciano ad avere i primi dubbi sul Banco
dei Sogni, Steve. Cominciano a domandarsi per quale ragione ti sia stato
dedicato un simile trattamento, perché costringere qualcuno a lasciare la città
come è successo a te.»
«Dici
davvero?»
Sorride,
il suo volto si illumina e i suoi occhi brillano di una luce più intensa del
solito:
«Sì.
Se la gente comincia a porsi delle domande inizierà anche a cercare delle
risposte e questa volta le risposte potranno solo aiutarli. Le cose
cambieranno.»
Si
fa serio e mi guarda attentamente:
«Mi
dispiace solo che si sia dovuti arrivare al tuo allontanamento prima di
cominciare a chiedersi cosa ci sia di sbagliato in questa città.»
Dispiace
anche a me, ma non glielo dico. Guardo un momento verso Mark che non sembra
minimamente preoccupato del fatto di doversene andare; al contrario sembra non
vedere l’ora di partire. Avrei avuto bisogno del suo coraggio o della sua
testardaggine parecchio tempo fa per decidermi a compiere il grande passo, per
decidermi ad intraprendere il viaggio che ho sempre voluto fare. Il mio
processo è stato semplicemente ciò che mi serviva per fare questo primo balzo,
per convincermi a cambiare la mia vita. Lasciare i miei nuovi amici è ciò che
mi fa sentire peggio, anzi, doverli lasciare sapendo di non poter essere io a
venire a cercarli. Non potrò più rientrare in città, non potrò più venire qui
per sentire come stanno, per vederli di nuovo: è solo questo che fa male.
Non
voglio dirlo a Vincent, non voglio dirlo a nessuno. Voglio che i miei ultimi
ricordi lasciati qui siano felici, sereni.
«Beh, mi fa uno strano effetto sentirlo
dire ma in un certo senso la cosa mi fa piacere, ho fatto un’ultima buona
azione, in fondo. Mi dispiace non poterti più essere d’aiuto.»
«Questo
non è vero, ricordi cosa ti dissi? Credi fortemente nel tuo sogno e aiuterai il
mondo. La distanza non conta, potrai comunque continuare a fare qualcosa.»
Ha
ragione, ricordo ancora queste sue parole, perfettamente. Sono state proprio
loro a darmi la forza di continuare a proteggere il mio sogno, di insistere
imperterrito a credere in lui giorno dopo giorno. Mi piace pensare che sia
stato tutto questo ad aver permesso a quel piccolo filo d’erba, unico
superstite là dov’era sorto il mio iris, a resistere a tutto e continuare a
crescere. E sono state le parole di Vincent a risanare i miei dubbi, le mie
incertezze e tutte le paure che avevo prima di incontrare un’anima come la sua.
Il suo modo di vedere la vita e il futuro, le sue convinzioni e le sue
azzeccate supposizioni lo rendono uno degli uomini migliori che abbia mai
incontrato.
«Vorrei
riuscire ad essere ottimista come te.» gli dico, dopo essermi fermato a
osservare il cielo racchiuso nei suoi occhi.
Lui
sorride e si avvicina a me, abbassa la voce come se quello che sta per dirmi
fosse un segreto:
«Oh, ma io non sono ottimista, sono un
sognatore.»
Sorrido
a quelle parole, dannatamente vere.
«Grazie.»
non serve aggiungere altro e lo sappiamo entrambi.
Vinny
mi abbraccia come se fossi il fratello che deve partire al fronte, sussurra un stammi bene mentre io annuisco, poi,
dopo un ultimo sguardo, si dirige da Mark.
Non
ho neanche il tempo di assimilare il discorso appena concluso che davanti a me
trovo Gabriel, la testa bassa, lo sguardo serio e colpevole. Continua a
sentirsi responsabile di quello che mi è accaduto, io non so neanche più cosa
dirgli per cercare di fargli capire che non è così e che la scelta finale
spettava solo a me:
«Ehi, guarda che so che pensi ancora sia
colpa tua.»
Alza
gli occhi:
«Perché?
Non lo è?» c’è amarezza nella sua voce.
«No.»
rispondo, serio, il tono di chi non ammette repliche.
Non
potrei sopportare di sapere che il
ragazzo si sentirà in colpa per me dopo la mia partenza, la cosa mi farebbe
sentire un peso anche a distanza di chilometri.
«Mi
dispiace, Steve, continuo a sentirmi responsabile.»
Poso
una mano sulla sua spalla:
«E
io continuo a ripeterti che devi smetterla. Tu non c’entri e io non ti reputo
assolutamente il colpevole di quello che sto per fare.»
«Davvero?»
«Davvero.»
Sorride,
ritornando dritto con la schiena, gli occhi verdi e vivi di chi ha ripreso a
credere in qualcosa:
«Mi
mancherai amico. Non credo sarà più lo stesso senza di te, mi sei sempre stato
accanto.»
«Ce
la farai. Non è che ti abbia aiutato poi così tanto.»
Scuote
la testa:
«Questo
non è vero.»
Torna
ad abbassare lo sguardo sulle sue scarpe, presumo non sappia che altro
aggiungere, così riprendo io la parola, devo dirgli un’altra cosa prima di
andare.
«Ti
ricordi quando mi sono seduto accanto a te per la prima volta?»
Alza
gli occhi e assume un’espressione confusa, credo non abbia assolutamente idea di
dove voglio arrivare:
«Mi
avevi detto che tua madre e le tue sorelle se ne erano andate, che secondo te
stavano bene ma non potevi saperlo perché non avevano un indirizzo a cui
scrivere.»
Annuisce,
l’espressione sempre più confusa. Gli faccio segno di aprire la mano e lui
esegue, porgendo il palmo verso l’alto, in modo che io possa posarvi sopra le
chiavi del mio appartamento, il mio, ormai, inutile appartamento. Lui le guarda
incerto, senza sapere che cosa dire, apre bocca ma rimane zitto e sono nuovamente
io a parlare:
«Ora
ce l’hanno. Io qui non posso più tornarci, quindi tanto vale dare una casa a
qualcuno a cui possa servire. Le carte le ha tutte Vinny.»
«Steve,
è… è uno scherzo, vero?» chiede, apparendo seriamente in confusione.
Di
tutta risposta scuoto la testa e lui fa lo stesso, con un enorme sorriso
stampato sul volto:
«Io…
davvero, non so come ringraziarti.»
«Non
smettere di suonare, mai. La tua musica mi ha aiutato e non sai quanto.» sono
convinto delle mie parole.
Gabriel
è giovane, ha ancora tutta una vita davanti a sé e non dubito che un giorno
riesca ad ottenere realmente ciò che vuole. Sono certo che la sua musica
riuscirà ad aiutare ancora innumerevoli persone a farsi forza, a continuare, e
lui ha la determinazione giusta per riuscire totalmente in questo intento.
Il
ragazzo stringe nel pugno le chiavi e si fa serio:
«Non
sarà facile se non ci sei tu, voglio dire, con chi altri potrei suonare?»
«Con
Megan, secondo me le piaci.» sorrido.
Lui
alza le spalle:
«Macché,
quella ha un debole per te, credimi.»
«Ne
dubito.»
Entrambi
scoppiamo a ridere e infine il silenzio torna prepotente fra noi. A Gabriel non
piacciono gli addii e nemmeno a me, per questo stiamo facendo più fatica di tanti
altri.
«Mi
mancherai.» azzarda il giovane all’improvviso.
«Non
vado lontano. Puoi venire a trovarci da Jason quando vuoi.»
«Lo
sai che non è carino invitare la gente a casa degli altri?»
Un
sorriso mi esce spontaneo per via del tono ironico usato da lui:
«Fai
come credi, ma sai dove trovarci.»
«E
vi fermerete là per sempre?»
Alzo
le spalle, senza sapere esattamente cosa rispondere, non mi sono ancora deciso,
non ho ancora idea di quello che faremo io e Mark una volta lasciato questo
posto. Credo che decideremo poi, sul momento.
«Chi
può dirlo.» rispondo.
Sorride
nuovamente e ci abbracciamo quando ci rendiamo conto che nessuno dei due non sa
che altro aggiungere.
«Stammi
bene, ok?» gli faccio promettere.
Lui
assume quell’espressione fiduciosa e determinata che ha sempre avuto nei
momenti opportuni:
«Certo.»
dice.
Si
allontana, tornando da Mark, lasciandomi solo; ma so che non lo resterò a
lungo, manca ancora una persona da salutare e lei arriva immediatamente. La
mano di Jocelyn si posa sul mio braccio e io mi volto per vederla in volto.
Sorride dolcemente e i suoi occhi, tornati quelli di un tempo, le donano una
luce meravigliosa.
«Allora
hai deciso?» domanda.
Annuisco
con la testa, cercando la forza che mi serve per separarmi da lei. Non voglio
che soffra perché me ne vado e non è semplice ottenere la determinazione necessaria
per essere forte a sufficienza per entrambi.
«Già,
ho deciso.»
«Mark
è piuttosto eccitato all’idea.» dice e tutti e due ci voltiamo a guardare il
nostro amico.
Scoppio
a ridere ma mi ricompongo in fretta:
«Mark
è pazzo.» le rispondo e anche lei si mette a ridere.
Ma,
proprio come me, si ricompone subito:
«Mi
mancherai moltissimo, ma questo già lo sai.»
«Anche
tu.»
«Mi
piacerebbe molto poter venire con voi, ma non posso lasciare Vinny, sono ancora
in debito con lui.»
Abbassa
un momento il suo sguardo sulla mano che tiene ancora appoggiata al mio
braccio, la voce si abbassa leggermente sull’ultima parte della sua ammissione.
Vorrei
anche io che venisse insieme a me, ma posso capire cosa prova. Proprio come lei
mi sento ancora debitore verso Vincent e vorrei poter continuare ad aiutarlo.
Lui non sarebbe d’accordo, non si considera creditore di niente nei confronti
di nessuno, ma parliamo di Jocelyn e lei farà il possibile per sentirsi in pace
con se stessa. Quindi so cosa la ferma e nonostante vorrei che lasciasse ogni
cosa, so già perché non lo può fare.
«Ti
capisco, rimanigli accanto. E rimani vicino anche a Gabriel, per favore.»
Lei
annuisce:
«Te
lo prometto.»
Raggiunge
le mie mani con le sue; mi sento leggermente a disagio, ma il calore che esse
emanano mi tranquillizza subito.
Ci
guardiamo per un momento che pare non finire più:
«I
tuoi occhi… sono davvero bellissimi.» mi esce, in modo spontaneo quando mi
rendo conto di essermi perso nuovamente in quel suo sguardo.
Lei
sorride:
«Dico,
ma ti sei mai fermato ad osservare i tuoi? Quei riflessi, quei riflessi verdi
che hanno paiono fatti di smeraldo.»
Sono
io a sorridere, stavolta:
«Non
ci ho mai badato.»
Adagia
una mano sul mio viso, per colpa della barba folta che ho ora percepisco a
stento il suo tatto delicato:
«Tieniti
stretto il tuo sogno, ok? Hanno già cercato troppe volte di portartelo via.»
«Sto
andando a viverlo il mio sogno. Questa volta sei tu che devi tenerti stretto il
tuo, ora che finalmente è tornato.»
«Io
lo sto già vivendo.» mormora, allontanando entrambe le sue mani.
Abbassa
un solo istante il suo sguardo per poi puntarlo nuovamente su di me:
«Vuoi
sapere qual è?» mi chiede, apparendo una ragazzina viva e frizzante.
«Meglio
di no, porta male raccontare i propri sogni.» le rispondo con un sorriso.
Lei
si mette a ridere:
«Quello
vale solo per quelli che si fanno di notte, non è la stessa cosa.»
«È
uguale, secondo me. Allora continua a viverlo, fino in fondo.»
«Tu
farai lo stesso?»
Faccio
segno di sì con la testa e lei si fa seria. Non è rimasto più tempo, la voce di
Mark mi raggiunge ricordandomi che perso il treno non ne avremo altri e che
quindi mi conviene muovermi a salire. Guardo Jocelyn un’ultima volta e
l’abbraccio: ora sono io ad abbracciare lei. La sento stringersi al mio corpo
senza dire niente e quando ci separiamo il nostro ultimo saluto è fatto con un
sorriso.
Raggiungo
Mark che lancia un cenno agli altri e sale sulla carrozza, cerco di imitarlo
anche io ma non sono altrettanto bravo nell’intento, forse perché non so come
sentirmi. Sto lasciando un posto per raggiungerne uno totalmente nuovo, per
ricominciare daccapo insieme al mio migliore amico, il mio fratello acquisito.
Dovrei essere felice di tutto questo, finalmente posso fare ciò che ho sempre
voluto fare, eppure lasciare i miei nuovi amici è complicato, molto più del
previsto.
Per
questo quando la porta del mezzo si chiude proprio dietro di me e mi volto per
guardare tutti loro negli occhi un’ultima volta prima che il treno parta, il
nodo che ho alla gola è più stretto che mai.
Lo
sferragliare delle ruote del treno e il suo costante oscillare dovrebbero
rendere tutto più monotono. Di fronte a me Mark perde la concentrazione, a
tratti i suoi occhi si chiudono e la testa ciondola debolmente, quasi sul punto
di cadere; ma non dura mai a lungo, si sveglia in fretta e torna a puntare il
suo sguardo, ancora spento, fuori dal vetro. È vero che il treno oscilla, che
il suo rumore è monotono, ma io non riesco ad annoiarmi, no di certo. È da
quando ci siamo allontanati dalla città che tutto è cambiato; da quando abbiamo
raggiunto l’orizzonte e lo abbiamo superato niente è più come l’ho sempre
visto. Il grigio si è fatto più debole e incerto, sovrastato dalla magnificenza
dell’azzurro del cielo, che lo ha lentamente consumato fino a farlo scomparire.
E il verde, quello è ovunque, nei prati , sulle fragili gemme che cominciano ad
affiorare sugli alberi, in chiazze caotiche dislocate in mezzo ai boschi che
non rimarranno solo chiazze a lungo. Quel verde è dappertutto, con la sua
brillantezza domina incontrastato ogni angolo che i miei occhi incuriositi
vanno a cercare.
Non
avrei mai pensato di assistere un giorno a tutto questo, di vedere che tutte le
cose che immaginavo insieme a Mark quando ero poco più di un bambino in realtà
sono vere. Crescendo in una città come quella in cui siamo cresciuti noi mi
sono abituato al grigio più totale, ovunque; mi sono abituato a non riuscire a
intravedere niente di più libero di un ratto che passa di fretta per strada,
niente di più selvaticodi un arbusto
infragilito. Ma per mia fortuna il mondo non è così, è ricco di bellezza e io
ne sto sicuramente ammirando solo una minuscola parte; mi pento di non aver mai
trovato il coraggio sufficiente per partire tempo fa e incontrare tutto questo.
Le
rotaie si arrampicano sulle colline, le scalano portandoci lontano; più il
tempo passa più i chilometri aumentano, ci allontaniamo dalla città
immergendoci sempre più in qualcosa di unico, in cui uomo e mondo convivono
perfettamente, prendendosi reciprocamente cura l’uno dell’altro.
Le
ore scorrono, una dopo l’altra, diventano quattro ma quasi non me ne rendo
conto, perché per quanto silenzio regni nella carrozza in cui sono seduto,
fuori c’è tutta la vita che ho sempre cercato e questo mi basta a far passare
piacevolmente il tempo. La mia mente si libera, i miei pensieri si trasformano
in fantasie, in voglia di vedere un posto piuttosto che un altro, si evolvono
in ricordi che spero di ottenere un giorno, in memorie che custodisco nel più
profondo, in sentimenti di dolcezza verso quello che ho lasciato dietro di me.
Tutto mi si amalgama dentro, tutto va ad accrescere me, il mio sogno e la mia
anima, facendomi sentire più vivo che mai.
Quando
la voce del capotreno annuncia che la prossima è la stazione a cui dovremo
scendere, ci prepariamo. Mi sembra di essermi allontanato tantissimo dal luogo
in cui vivevo prima, guardando fuori dal finestrino niente è come un tempo,
assolutamente niente, ed è una cosa dannatamente eccitante. Finalmente avrò
nuovi luoghi da scoprire, nuove persone da conoscere; potrò alzarmi la mattina
rendendomi effettivamente conto che sceglierò io dove andare e cosa fare,
consapevole che, una volta voltato un angolo, non mi troverò davanti l’ennesimo
grattacielo grigio, ma qualcosa che non ho mai visto.
Il
treno rallenta sempre più, fino ad arrestare la sua corsa. Né io né Mark
sappiamo esattamente cosa stiamo per incontrare in questa minuscola stazione
immersa nel verde, per questo nessuno dei due dice niente. Quando le porte si
aprono ci guardiamo e basta, lui si carica in spalla il borsone e mi precede
scendendo dal mezzo. Lo seguo e, appena poso piede sulla banchina, subito vengo
accolto da una brezza e dal suo profumo. È come se il vento fosse venuto ad
accoglierci, come se volesse dirmi che, finalmente, dopo tanto ci riamo
rincontrati.
Insieme
a me e al mio amico sono scese dal treno solo poche altre persone, queste si
allontanano senza fretta, dirigendosi verso la loro vita. Solo una figura
rimane immobile, si guarda intorno fino a notarci e poi si avvicina. È un
ragazzo giovane, avrà al massimo ventiquattro anni, i curati baffi rossicci si
incurvano ulteriormente quando ci sorride, mentre gli spettinati capelli
sfumati di rame ondeggiano nel vento.
«Voi
dovete essere Steve e Mark.» dice, con un tono che ricorda tanto Vincent,
guardando prima Mark poi me.
«Steve
è lui.» precisa il mio amico.
Il
ragazzo sorridenuovamente:
«Ah, ma certo.»
Prende
fiato:
«Ben
arrivati. Io sono Jason.»
Stringe
la mano ad entrambi e rimane fermo a guardarci, i suoi luminosi occhi nocciola
paiono intenti a sorriderci.
«Immagino
che Vinny ti abbia già detto tutto quello che c’è da sapere su di noi.»
Mark
rompe il silenzio con questa frase, che appare più come un’affermazione che
altro.
Jason
annuisce:
«Naturalmente.
Avremo modo di parlare della vostra storia, vorrei che un giorno poteste
raccontarmela.»
Posa
lo sguardo su di me e io acconsento con un debole cenno del capo.
Riprende
subito parola:
«Bene,
vogliamo andare?»
Ci
da le spalle e si incammina, ma un paio di passi dopo si ferma, voltandosi
nuovamente:
«Spero
non vi dispiaccia camminare un po’.» dice.
Io
e Mark ci guardiamo, quasi scoppiamo a ridere all’espressione fortemente
dispiaciuta del giovane. È un ragazzo sicuramente vivace e chiaramente
premuroso.
«No.»
rispondiamo infine, all’unisono.
Jason
sorride e riprende a camminare, noi gli rimaniamo dietro, ma con l’intenzione
di farlo solo per poco. Mark si china verso di me e sussurra:
«È
un Vincent in miniatura.»
Un
sorriso si fa largo spontaneo sul mio volto; effettivamente è vero, per tanti
versi il primo incontro con questo ragazzo ricorda molto quello avuto con Vinny
e questo non può che essere positivo per me. Conoscere Vincent mi è stato
d’aiuto e sono certo che anche con Jason le cose non andranno diversamente.
Il
tragitto si dimostra alquanto lungo, ma non è importante; lungo la strada Jason
parla di qualunque cosa gli passi per la mente, ci racconta di Vinny, del
perché lo raggiunge di tanto in tanto fin qui e ci indica dove posare lo
sguardo per ammirare i primi e più coraggiosi fiori primaverili. Ancora stento
a capacitarmi di tutta la bellezza presente intorno a noi, più passi compio più
mi sento vivo. Non mi era mai successo, mai
mi sarebbe potuto accadere in quella città, dove tutto e tutti non hanno fatto
altro che schiacciare il pezzo di mondo su cui hanno avuto la fortuna di
trovarsi.
Cosa
può averli spinti ad uccidere così tanta vita? Cosa? Proprio non riesco a
capirlo.
La
strada che stiamo percorrendo svolta improvvisamente e, fra le fronde, compare
un paese, una piccola città dove si sentono le voce delle persone e il suono
della loro esistenza. È un luogo rustico che ricorda tanto le illustrazioni dei
libri di avventure. Continuiamo a camminare fino ad una casa di due piani,
chiaramente suddivisa in piccoli appartamenti.
Jason
si volta verso di noi:
«Eccoci
arrivati, seguitemi.»
Ci
fa strada lungo le scale, fino ad un ingresso. Gira con calma la chiave nella
serratura e ci fa spazio, lasciandoci entrare per primi nel piccolo, ma
accogliente, appartamento. Mi osservo rapidamente intorno e una cosa attrae
immediatamente la mia attenzione: la finestra. Mi avvicino e guardo fuori,
incredulo. Al di là del vetro è come se ci fosse tutto il mondo, ci sono prati,
colli e foreste, che presto saranno un amalgama incredibile dei più bei verdi
che possa immaginare e il cielo incornicia tutto con il suo azzurro, talmente
splendente da risultare accecante.
«Spero
sia di vostro gradimento.» sento dire a Jason, dietro di me.
Sto
per rispondergli ma vengo preceduto da Mark, che utilizza le stesse parole che
avrei usato io, come se mi avesse letto nel pensiero:
«È
perfetto.»
Mi
volto in tempo per vedere entrambi sorridermi. Il più giovane allora prende a
mostrarci il resto della casa, senza utilizzare più parole di quelle necessarie
per descriverci le stanze, o almeno non le utilizza finché non raggiungiamo una
delle camere da letto. Si ferma sulla soglia, parendo un filo imbarazzato:
«Purtroppo
non ho avuto tempo di spostare uno dei due letti nell’altra stanza.»
«Non
c’è problema, ci penseremo noi domani.» rispondo.
Lui
annuisce e si incammina verso l’ingresso:
«Vi
lascio disfare i vostri bagagli, ok? Fate pure con calma, noi ci vediamo dopo.»
Mark
acconsente e si dirige nella camera con il borsone in spalla. Io temporeggio
più del dovuto prima di fermare Jason, proprio sulla soglia:
«Posso chiederti una cosa?»
Il
ragazzo si volta:
«Certamente.»
Lo
lascio in attesa per qualche secondo, cercando le parole giuste per evitare di
far apparire la mia richiesta assurda o ridicola:
«Vedi,
mi piacerebbe molto poter andare a vedere l’alba domani. Sai… sai se c’è un
posto da cui si riesce a vedere bene?»
Lui
sorride, un sorriso dolce e cordiale:
«Eccome.
È un po’ distante da qui, però. Devi arrivare fino alla valle, è rivolta
proprio a est e da lì vedrai sicuramente una bellissima alba. Posso prestarti
la mia bicicletta per arrivare fin là.»
«Grazie.»
Sorride
nuovamente e mi rendo conto di non sapere esattamente come sentirmi. Mi sta
aiutando anche lui, c’è un’altra persona per cui mi sto probabilmente rendendo
un peso, qualcun altro per cui non farò tanto quanto vorrei, proprio come
quando ero in città, proprio come per Vinny, Jocelyn, Gabriel e Mark.
Jason
deve notare la mia espressione assente, il mio silenzio deve sicuramente averlo
reso dubbioso, perché quasi subito mi chiede:
«C’è
qualcosa che ti turba?»
Alzo
gli occhi su di lui:
«No, è solo che… stavo pensando a Vincent e a tutti gli altri. Mi fa uno strano
effetto sapere che loro sono ancora là mentre io no.»
È
la verità, mi fa sentire in colpa l’averli abbandonati così. Io ora ho un nuovo
orizzonte da poter guardare tutti i giorni, loro, invece, hanno sempre lo
stesso.
Il
ragazzo respira a fondo prima di prendere parola, lo fa con un tono pacato che
ricorda Vinny stesso:
«Posso
capire.Ma hai dovuto affrontare una
scelta difficile e non avevi alternativa.»
Scuoto
la testa:
«Invece
l’avevo. Credo solo di aver scelto la via più semplice. Avrei dovuto rimanere
insieme a loro, continuare ad aiutarli. Invece sono scappato.»
«Steve,
io so cos’è successo e conosco le persone di cui stai parlando molto bene. Se
tu fossi rimasto avresti sofferto e basta e avresti fatto soffrire anche loro.
C’è ancora tanto che puoi fare, anche se decidessi di non rimanere qui per
sempre. Se conosci Vinny allora sai a cosa mi riferisco.»
Soppeso
le sue parole rimanendo in silenzio, lui lo rispetta per svariati secondi prima
di ricominciare a parlare, come per darmi il tempo di assimilare perfettamente
quanto mi ha appena detto:
«Tu
non sei scappato. Non lo hai fatto, credimi.»
Gli
sorrido, decidendo di credere alle sue parole, così simili in tutto e per tutto
a quelle che potrebbero uscire dalla bocca di Vincent. Forse entrambi hanno
ragione, forse posso riuscire a fare qualcosa un giorno. So solo che non voglio
deludere nessuno e farò in modo di mantenere la mia promessa: proteggerò e
vivrò fino alla fine il mio sogno.
***
La
sveglia trilla per parecchio tempo prima che riesca a spegnerla; sento Mark
muoversi nel letto accanto al mio ma non fare altro, io mi alzo pensando che
sto per affrontare il primo giorno di una vita completamente nuova. Quando
scendo dal letto rimango immobile un momento osservando il bozzolo di coperte
dentro il quale è rinchiuso il mio migliore amico, indeciso se proporgli o meno
di unirsi a me per la mattinata. Alla fine, decido di farlo.
«Mark…
Ehi.»
Si
muove appena, mugugnando qualcosa di indecifrabile.
«Mark
andiamo, svegliati.» ci riprovo.
Solleva
la testa, i capelli castani spettinati, gli occhi socchiusi:
«Che
c’è?» domanda, la sua voce è bassa e impastata.
«Vado
a vedere l’alba, vuoi venire?»
Si
passa una mano sugli occhi, voltandosi verso l’orologio:
«Ma
che ore sono?» domanda.
«Le
cinque.»
Pare
pensarci, ma forse non così tanto:
«Sorgerà
anche domani il sole, vero?»
Alzo
le spalle, ma lui non può vederlo:
«Direi
di sì.»
«Allora
vengo domani.»
Detto
ciò torna ad avvolgersi nelle coperte, strappandomi un sorriso; vorrà dire che
andrò da solo.
Prima
di uscire di casa passo dal bagno, mi rado accuratamente il viso, riscoprendolo
totalmente dopo l’ultimo periodo in cui la mia barba, fin troppo folta, lo
aveva nascosto. Mentre mi asciugo la faccia, quasi involontariamente, incontro
i miei occhi nello specchio; noto le sfumature verdi di cui parlava Jocelyn,
che non sono molto intense per via della luce elettrica ma che esistono
veramente. Effettivamente non le avevo mai notate e mi chiedo se ci siano
sempre state, in mezzo al grigio acquoso dei miei occhi, o se siano comparse
solo in un secondo momento, quando ho avuto modo di tornare a credere in
qualcosa.
Esco
dall’appartamento cercando di fare meno rumore possibile, in modo da non disturbare
Mark. Giù, all’inizio del vialetto, trovo una bicicletta rossa parcheggiata e
un biglietto indirizzato a me da parte di Jason, su cui scrive il modo per
arrivare al posto di cui mi parlava ieri, augurandosi che vada tutto per il
meglio. Dopo un lungo sospiro monto il sella e mi avvio; lungo la strada l’aria
mi sferza il viso e la bici corre veloce e silenziosa per le vie, come se
conoscesse esattamente ogni buca e ogni passaggio, come se fosse lei a guidarmi
verso dove devo andare. Una volta raggiunto il punto indicatomi dal ragazzo,
una possente quercia ormai centenaria che si erge maestosa, continuo a piedi,
parcheggiando la bicicletta ai piedi del grande albero e pregandolo di
sorvegliare il mezzo prestatomi. Proseguo salendo sempre più su lungo il colle,
calpestando l’erba tenera che si piega sotto il mio peso, per poi rialzarsi
quando il mio passo si è allontanato. Continuò così, mentre il cielo lentamente
si schiarisce, il blu si dirada e i primi bagliori rosati preannunciano
l’imminente arrivo del sole. Raggiungo il punto più alto della collina di terra
e verde su cui cammino e rimango immobile ad osservare la bellezza che ho
davanti. Mi sembra di avere il mondo sotto di me, di vederlo in tutto il suo
splendore; si estende in ogni direzione, fino all’orizzonte, un orizzonte che
sembra chiamarmi, invitandomi a scavalcarlo per poi iniziare ad inseguirne uno
nuovo. Alle mie spalle rimane l’esatto punto in cui si trova la città, quella
da cui sento di essere scappato, quella che mi sono lasciato dietro, proprio
come adesso. È ad ovest, nell’esatto luogo in cui il sole va a morire; è quando
si avvicina a quella città che esso, ogni giorno, viene ucciso. Ma non ora, ora
lui sta per sorgere e non voglio perdermi questi momenti. Mi siedo sul prato,
accarezzando l’erba fresca di rugiada, decidendo di fare anche un’altra cosa
che mi ero prefissato. “Dentro di te ci
sono tutti gli iris che vuoi” aveva detto Gabriel quel giorno; ora so che
ha ragione e voglio farne sbocciare uno nuovo, voglio ringraziare il mondo per
la nuova possibilità che mi ha dato. Dalla tasca dei jeans estraggo la penna e
il pezzetto di carta che mi sono portato dietro, un lembo non tanto più grande
di quello da cui tutto ha avuto inizio là al Banco dei Sogni. Vi scrivo sopra il mio nome, Steve, caricando le cinque lettere di tutta la profondità, la
speranza e il desiderio che ho dentro di me. Infine adagio il foglio sul prato
e rimango ad osservarlo mentre scompare piano, sostituito da uno stelo su cui sboccia,
nuovamente, il mio iris bianco.
E
anche ora sento un forte senso di quiete rinascermi dentro, un calore
impalpabile che mi riempie totalmente, facendomi sentire in pace con me stesso.
È una sensazione che ho avuto modo di provare solo pochissime volte nell’arco
della mia esistenza, quando ero piccolo e ancora ignoravo tutto il dolore che
avrei patito in futuro e quando ho capito il legame che ci unisce a tutto ciò
che ci circonda, quel legame forte, un misto di magia e follia che nessuno ha
ancora saputo spiegare, ma che esiste veramente e me lo ha appena dimostrato
per la seconda volta.
Ad
est la prima fetta di sole si sta affacciando timida e più rossa che mai,
intorno ad essa il cielo rosato sfuma fino al viola per poi divenire celeste.
Infilo le mani nelle tasche del cappotto, ma con l’indice destro tocco
qualcosa; sorpreso estraggo questo dalla giacca. È un piccolo cartoncino
scritto a mano da una persona a me nota. Le sottili e frettolose lettere
eleganti compongono una frase che i miei occhi scorrono una volta sola, sufficiente
ad assaporarne tutta la dolcezza.
Il mio sogno è amare qualcuno.
Jocelyn
Sorrido,
ripensando alla donna; il suo, sì, che è un bel sogno, forse è per questo
motivo che i suoi occhi sono tanto sorprendenti. Vorrei farle sapere che la
penso, che penso a lei anche ora che sono finalmente libero. La risposta mi
appare in un lampo, mentre il sole continua a sorgere diventando sempre più
lucente. Quando il mio iris è sbocciato io ho sentito la speranza tornare
dentro di me, sento che se il fiore di Jocelyn sbocciasse lei allora potrebbe
sentire l’amore dentro di sé.
Poso
il cartoncino con la sua confessione accanto al mio iris e rimango ad
osservarne la trasformazione. Un sottile e fragile stelo cresce sempre di più,
arrampicandosi e attorcigliandosi sul gambo del mio fiore fino a sbocciare in
un azzurro myosotis , quello che la gente comunemente chiama “non ti scordar di
me”. Per quanto piccolo e fragile, il suo fiore è anche coraggioso e
bellissimo, esattamente come Jocelyn. Mi dispiace non averla qui ora, accanto a
me, mi dispiace averla lasciata ad ovest insieme agli altri, ma ho dovuto
prendere una scelta, per quanto dolorosa, e Jason ha ragione: se fossi rimasto
avremmo sofferto tutti molto di più. Le cose si sistemeranno, un giorno, non
vedo perché non credere che tutto questo sia possibile; ma fino a quel momento
io continuerò imperterrito a proteggere il mio sogno, il sogno che ora sto
vivendo. Perché se punto gli occhi davanti a me, su quel cielo, mi rendo conto
che tutto quello che desideravo da una vita intera sono finalmente riuscito a
trovarlo.
Ebbene,
è finita.
Sono
riuscita a concludere un’altra storia a più capitoli e spero di averlo fatto in
un modo decente.
Non
sono il tipo di persona che chiede agli altri di leggere e recensire assolutamente qualcosa e non lo vorrei
diventare in questa circostanza, tuttavia ammetto che mi piacerebbe sapere il
vostro parere, positivo o negativo che sia, anche brevemente.
Mi
sono impegnata molto per scrivere questa storia, l’ho voluta caricare di un
sacco di sentimenti (frustrazione, rabbia, tristezza, desiderio, speranza,
amore) che ognuno prova sulla propria pelle nell’arco della propria vita. Ho
voluto far diventare Steve una persona riconducibile a tante altre, o almeno ci
ho voluto provare.
Spero
vivamente di essere riuscita a trasmettere qualcosa con questo racconto, spero
di essere riuscita a comunicare ciò che provavo mentre scrivevo, mentre
confrontavo il mondo vero con il mio e con quello di Steve e tutti gli altri.
Un
paio di righe vanno utilizzate per parlare dei titoli e di tutte le frasi che
introducevano i capitoli. Sono tutte canzoni dei Kodaline
(eccetto Gabriel, cover eseguita da
loro). Le ho utilizzate perché questa storia la devo proprio alle loro canzoni.
Ogni brano si sposava a meraviglia con quello che volevo scrivere nel capitolo,
anche se è meglio dire il contrario, ossia che ogni capitolo trovava la
perfetta colonna sonora in una loro canzone.
Ultimo
appunto, per quanto riguarda la scelta dei fiori sbocciati da Steve e Jocelyn.
Nel caso del primo, l’iris bianco, l’ho scelto perché la sua simbologia è
quella della speranza, ciò che Steve cerca di proteggere dal primo all’ultimo
capitolo. La scelta del myosotis per Jocelyn invece è dovuta al fatto che quel
fiore simboleggia l’amore vero e credo non serva aggiungere altro.
Concludo
ringraziando tutti voi che avete letto ancora una volta.
E
ringrazio Federica, Rigmarole, a cui ho dedicato
questa storia, per il suo sostegno, il suo supporto e per aver letto ogni
singolo capitolo convincendomi, infine, a pubblicare questa long.