La cosa giusta

di Charlotte McGonagall
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La cosa giusta ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** La cosa giusta ***


NdA: Questa è la mia prima ff su OUAT e non potevo non esordire nel fandom col mio OTP (sì, lo so. Ho gusti strani). Comunque - per quanto ne so - questa è la prima ff con questo pairing mai scritta (io non ne ho mai trovata una su nessun sito, almeno, ma forse su tumblr potrebbe esserci qualcosa), il che mi sembra strano, visto che Archie è stato accoppiato un po' con tutti e la Fata Turchina mi sembrerebbe la scelta più ovvia.
Non sono presenti spoiler della terza stagione, mentre è necessario aver visto la seconda.
Comunque, la storia è raccontata dal punto di vista della Fata turchina/Madre superiora. Spero che vi piaccia.

La cosa giusta

La mia vita non è stata affatto semplice come molti potrebbero pensare. È stata piena di fatica, pericoli e preoccupazioni. La magia ha sempre un prezzo: il mio è stato la rinuncia a ogni genere di emozioni, a ogni legame che non fosse la compassione verso chi mi chiedeva aiuto e quello del mentore nei confronti delle mie allieve.
Avere a cuore il benessere delle persone e delle fate era il mio dovere, ma per farlo dovevo proteggere me stessa: ho conosciuto la comprensione, il rispetto, l'empatia, il senso di protezione, ma ho sempre cercato di tenermi lontana dall'amicizia e dall'affetto. Non che questo mi impedisse di provare tenerezza per le fate a me affidate, ma era proprio questo legame ad impormi il distacco. Sapevo cosa succede ad una fata quando smette di pensare con lucidità, quando si lascia sconvolgere dai sentimenti: la rovina. Lo avevo visto accadere a molte fate, che avevano perso le ali per il capriccio di un momento, per una simpatia o un'inimicizia.
Io sapevo che le fate non sono fatte per mescolarsi al mondo, che non sono fatte per il vero amore; il loro vero amore può essere solo la dedizione al lavoro.
Se sono stata severa con le più giovani, se io stessa ho dovuto privare alcune delle ali, è stato solo per proteggere loro e gli altri. Una creatura dotata di magia che si lasci trasportare dall'istinto è un potenziale pericolo per chiunque.

Avevo impiegato secoli a cancellare dal mio animo ogni possibile pulsione e ogni interferenza emotiva dal mio operato. Poi venne la maledizione e divenni umana. Per mia fortuna, il destino volle che fossi una donna dedita alla preghiera e alla contemplazione, a contatto coi problemi terreni, ma non assillata da essi.
Tuttavia, allo spezzarsi della maledizione, le barriere che avevo faticosamente costruito in entrambe le mie vite crollarono miseramente, lasciandomi vulnerabile, come in un limbo: né fata né suora, né creatura magica né persona comune.
Mi sentii improvvisamente smarrita, senza identità.

Fu allora che lo rincontrai. Mai avrei sospettato che quell'uomo potesse diventare così importante per me.
Quando lo conobbi, non era altro che una delle tante anime disperate che si rivolgono a me per esaudire il loro desiderio. Era solo, disgustato da se stesso, così infinitamente triste... Ne ebbi pietà e cercai di aiutarlo. Pensavo che non l'avrei mai più rivisto. Invece ci incontrammo più volte, in seguito, dapprima occupandoci di Pinocchio, poi come consiglieri presso la corte di Biancaneve.

Ormai erano trascorsi anni e lui era molto diverso dal nostro primo incontro: era più sicuro di sé, felice di rendersi utile in ogni modo possibile, cercando di essere saggio e buono come avrebbe sempre voluto essere. Allora, la pena che avevo provato per lui divenne stima e collaborazione.

Ora che la maledizione è stata spezzata e l'ho ritrovato, in lui rivedo l'ombra dell'uomo tormentato e spaventato scontrarsi con l'uomo ideale che vorrebbe essere. Tuttavia, è ancora dolce e buono, desideroso di rendersi utile, anche se spesso sembra solo un bambino impacciato e impaurito, bisognoso di protezione.

Ricominciai a provare pena per lui, ma in un modo differente: stavolta sentivo di provare un dolore affine. Sentivo di aver perso me stessa e sentivo che lui mi capiva.
Divenimmo confidenti, amici persino, come può accadere solo a due persone che si sono conosciute per anni, ed io - scioccamente - non me ne preoccupai finché non era già troppo tardi.

Non ero abituata alle emozioni di un corpo pienamente umano, alla forza che possono raggiungere, e ne fui spiazzata. Non mi spiegavo il lieve tremore alle mani, né il battito del mio cuore quando ero con lui. Non capivo perché sentissi un tale desiderio di sorridergli, perché - se inavvertitamente mi sfiorava - il mio stomaco si contorcesse e il respiro si facesse irregolare.
Sapevo cosa significasse l'innamoramento, ma non mi aspettavo nulla di tutto questo, non credevo che le sensazioni sarebbero state così nitide.

Cercai di allontanarmi da lui, di prendere le distanze, ma semplicemente non volevo, una parte di me desiderava solo averlo accanto.
Avrei voluto strapparmi il cuore dal petto pur di interrompere quella tortura, quella lotta interiore tra il desiderio e la ragione.

Finii per convincermi che ciò che provavo fosse solo attrazione fisica, uno scherzo della mia parte umana, ma mi sbagliavo.
In poco tempo sperimentai un'altra verità della natura umana: non si apprezza mai appieno ciò che si ha, finché non lo si perde.
Dopo la notizia della morte di Archie, piansi per giorni, anche se era da secoli che non piangevo.
Compresi cosa significasse l'espressione "avere il cuore spezzato": il dolore era reale, fisico, come una lama sottile conficcata nel petto, come se il mio cuore stesse implodendo, accartocciandosi come una foglia morta, inutile.

La notte lo sognavo e mi svegliavo in lacrime, perché il pensiero che non lo avrei più rivisto, che non avrei più udito la sua voce e non avrei mai avuto l'occasione di toccarlo mi distruggeva. Sentivo di avere bisogno di lui come non avevo mai avuto bisogno di nessuno, come non avevo mai voluto averne.
Ne ero innamorata, ormai non potevo più negarlo, e dubitavo che avrei mai smesso. Se può essere possibile accantonare i sentimenti per un vivo, un defunto è capace di legarti a sé per sempre, con la forza che solo la fatalità sa aggiungere alle passioni umane.

Se fosse vivo - mi ripetevo - potrei sistemare tutto; se potessi parlargli ancora, chiarirei ogni cosa, non lascerei nulla di non detto.
Tuttavia, quando scoprii che era vivo, non feci nulla di ciò che avevo immaginato. Quando lo rividi ero così felice, mi sentivo improvvisamente invulnerabile, come se nulla di brutto potesse mai più accedere ora che lui era tornato da me. Lo abbracciai, persino, e lui non mi respinse. Allora ebbi paura, ma non so se temessi di cedere ai sentimenti più di quanto temessi di perderlo. Dunque, non dissi nulla e lasciai che il nostro abbraccio si sciogliesse, lasciai che l'occasione di prendere una decisione mi scivolasse tra le dita.

*

Avevo detto alle mie consorelle che erano libere di andare, di trascorrere gli ultimi minuti della loro vita come desideravano, ma nessuna se ne andò. Rimasero tutte sedute nella cappella del convento, a pregare e confortarsi a vicenda. È questo che facciamo noi fate: restare unite, legate da uno spiccato senso di appartenenza alla comunità. Nel momento del bisogno, è alle altre fate che istintivamente ci rivolgiamo e a loro sono dedicati gli ultimi pensieri e gli ultimi momenti prima della morte.
Allora perché io stavo pensando ad Archie?
Perché avrei voluto correre per le strade a cercarlo, per poter morire accanto a lui? Era inconsueto, era folle, era sbagliato.
Io, la Fata Turchina, che ero stata la fata più potente, venerata per secoli con mille nomi diversi, sarei morta rimpiangendo la compagnia di un uomo. Se avessi avuto ancora le mie ali, me le sarei strappate io stessa per la vergogna.
Eppure, mentre Storybrooke veniva distrutta, io pensavo a lui e sentii di essere stata una sciocca a non avergli detto la verità quando ne avevo avuto l'occasione.

Una mano si posò sulla mia spalla. Era Nova: la dolce, goffa e ingenua Nova, alla quale avevo insegnato che, per diventare una buona fata, avrebbe dovuto dimenticare l'amore, alla quale avevo fatto spezzare il cuore cercando di fare la cosa giusta; Nova, che non mi aveva mai serbato rancore nonostante questo.
Chissà se i suoi ultimi pensieri erano rivolti a quel nano come i miei ad Archie?
Se solo avesse saputo... Di certo, non avrebbe mai potuto immaginare che proprio io mi sarei innamorata esattamente come era successo a lei. Nemmeno io avrei mai potuto. Mi sentii improvvisamente in colpa: se quella notte avessi saputo che presto il sortilegio avrebbe cambiato le nostre vite, che avremmo trascorso ventotto anni nell'oblio, per poi morire poco dopo la fine della maledizione, forse avrei lasciato partire Nova, avrei lasciato che sperimentasse brevemente le gioie della vita umana, invece di pianificare per lei un futuro che non avrebbe mai potuto vivere.
"Turchina, mi senti?".
Ero così assorta nei miei pensieri che non mi ero accorta che Nova mi avesse parlato.
"Il dottor Hopper vuole parlarti".
In quel momento lo vidi: giocherellava nervosamente con la sciarpa, sulla soglia della cappella, come a disagio.
"Grazie, Nova," dissi, cercando di nascondere la gioia che avevo provato nel vederlo. Tuttavia, quel momento di felicità si trasformò immediatamente in una profonda tristezza; è qui per dirmi addio - pensai - è l'ultima volta che lo vedrò.

Mi avvicinai e lui mi invitò a seguirlo fuori dalla cappella con un cenno.
Lo superai e percorsi il corridoio fino a svoltare al primo angolo.
"Sono contenta di vederti," dissi.
Lui sorrise.
"Era giusto che venissi," disse lui. "Dovevo...".
Si bloccò, come se ciò che avrebbe dovuto fare fosse un mistero anche per lui stesso.
Non saprei dire chi fu il primo ad avvicinarsi, ma, prima che me ne accorgessi, eravamo stretti in un abbraccio.
"Mi dispiace," mi disse, accarezzandomi la schiena. "Non avrebbe dovuto finire così".
"Non è colpa tua," gli dissi, "era destino".
"Invece sì," rispose, con voce rotta. "Avrei potuto lasciare che usassimo il fagiolo magico, ma ho voluto fare la cosa giusta e ho detto ad Emma che avrebbero dovuto tentare di salvare Regina".
Lo fissai incredula e lui mi raccontò trai singhiozzi ciò che era appena accaduto: il ritrovamento di un ultimo fagiolo magico, la decisione di Regina di sacrificarsi e l'estremo tentativo di salvarla.
"Mi dispiace," ripeté. "Forse, se non avessi detto nulla, a quest'ora saremmo tutti tornati nella Foresta Incantata, saremmo salvi; e tu avresti di nuovo le tue ali, so quanto ti manca la tua vecchia vita".
Lo strinsi a me con maggiore forza.
"Archie," gli dissi, con dolcezza, "non devi scusarti di nulla, non devi scusarti per avere detto la cosa giusta. Non mi importa delle ali, non voglio riaverle abbandonando Regina, che ha dimostrato di avere ancora un cuore. Non devi vergognarti di aver preso questa decisione, Archie: dimostra solo che sei una brava persona".
"Sono egoista, invece! Io non voglio...".
"Nessuno vuole morire, Archie, non c'è niente di cui vergognarsi".
"È te che non voglio perdere, Turchina," disse, quasi in un sussurro. "È orribile da dire, ma riesco solo a pensare che non ti parlerò mai più. Sento già la tua mancanza".
Nel mio animo vibrarono emozioni contrastanti: tristezza, innanzitutto, così profonda che la sentivo scavare solchi nel mio petto; poi un sentimento di struggente tenerezza per l'uomo che mi teneva fra le braccia; e infine un subdolo orgoglio, perché, in punto di morte, aveva pensato a me come io a lui.
Lo amavo - ora lo percepivo in modo nuovo, più consapevole e più disperato - e provai un senso di trasporto e urgenza.
Lacrime silenziose mi colarono lungo le guance e si mescolarono alle sue.
Mi passò una mano sulla nuca e trai capelli e non lo fermai. Non lo feci neppure quando mi prese il viso tra le mani e mi baciò.
Fu un bacio breve e incerto, come trattenuto. Si ritrasse per studiare le mie reazioni. Ero innamorata e disperata, stavo per morire e non avevo nulla da perdere, così lo baciai a mia volta.
Non avevo mai provato nulla di simile; le mie emozioni erano così intense che credevo avrei perso i sensi. Improvvisamente, nulla esisteva all'infuori di noi dei nostri baci disperati.

*

"Archie, non c'è bisogno di spiegare nulla, davvero. Credevamo che saremmo morti, abbiamo agito entrambi in modo avventato. Possiamo fingere che non sia mai successo".
"Quindi per te non significava nulla?".
Sospirai, stringendomi nelle spalle, a disagio. Quando lo avevo baciato, non avevo contemplato la possibilità che saremmo sopravvissuti. Invece, era accaduto e - dopo i primi momenti di confusione - sapevo che Archie avrebbe cercato di parlare del nostro incontro. Nessuna delle fate che avevano scelto di rinunciare ai loro poterei per vivere come umane era stata felice a lungo, ma erano divenute insoddisfatte e avevano reso infelici anche le loro famiglie, perciò decisi di fare l'unica cosa che mi apparve giusta in quel momento: spezzargli il cuore.
"Io ti considero mio amico, Archie," dissi, combattendo coi miei sentimenti ad ogni parola, "e ti voglio bene, ma sono una fata e le fate non si innamorano".
Non c'era rabbia sul suo volto, solo una profonda delusione. Avrei preferito che mi avesse urlato contro, perché quell'espressione ferita era più dolorosa di una coltellata. Non poteva immaginarlo, ma lo stavo facendo anche per lui, per evitare che ci rendessimo infelici a vicenda.
"Mi dispiace," aggiunsi, con sincerità, abbassando lo sguardo.
Lui si allontanò senza una parola.

Appena fui sola nella mia stanza, piansi a lungo.
Lo amavo? Sì, assolutamente e non nutrivo dubbi neppure sulla sincerità dei sentimenti di Archie.
Desideravo stare con lui? Con tutta me stessa, ma non dovevo lasciare che l'istinto offuscasse il mio giudizio.
Aveva fatto la cosa giusta, anche se entrambi stavamo soffrendo.
Ma ero sicura che fosse la cosa giusta?

NdA: Vi è piaciuta questa storia? Vi è sembrata orribile? In ogni caso, sarò felice di saperlo. Critiche e suggerimenti sono sempre apprezzati. La storia non è stata betata, quindi, se avete trovato degli errori di battitura che mi sono sfuggiti, comunicatemeli e provvederò a correggerli.
Vi aspettavate che alla fine si sarebbero messi insieme? Eh, no, troppo facile! Anche se non attribuisco alla Fata Turchina la crudeltà che le attribuisce buona parte del fandom, sarebbe stato troppo pretendere che dopo due baci fosse pronta a lasciarsi andare. Sta a voi decidere se il povero Archie un giorno riuscirà ad uscire dalla friendzone. XD
Comunque l'idea di questa storia nasce guardando la 3x07 (se non avete visto la puntata NON leggete oltre). Ricordate il finale della seconda stagione? Archie e i nani sono da Granny, ma poi tutti lasciano il locale. Nella 3x07, ad andare da Belle, sono Archie, i nani, e la Fata Turchina, che in qualche punto del missing moment tra le due puntate si è aggiunta al gruppo. Da questa constatazione sommata al fatto che lei e Archie si sono scambiati sguardi per tutta la puntata, nasce questo trip mentale. Il momento in cui Archie la affronta per parlare del bacio si colloca circa dopo aver lanciato l'incantesimo di protezione.

EDIT: Questa storia avrebbe dovuto essere una OS, ma mi è stato chiesto di scrivere un seguito, quindi un secondo capitolo potrebbe essere aggiunto presto.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Nda: ecco, finalmente, il secondo capitolo! Spero vi piacerà. In ogni caso, come sempre, sarò comunque lieta di avere il vostro parere. Anche stavolta, il capitolo non è betato, quindi mi scuso per eventuali errori di battitura e vi prego di indicarmeli (ovviamente l'ho riletto più volte, ma il rischio di lasciarseli sfuggire è sempre in agguato!). Questo secondo capitolo è stato scritto dal punto di vista di Archie, il che all'inizio mi ha causato non poche difficoltà. Ho scoperto che caratterizzarlo non è così facile come credevo. Spero di non essere andata OOC.
Comunque ci sarà anche un terzo capitolo, che dovrebbe essere l'ultimo.
Da questo momento, la storia diventa una what if? in quanto gli sviluppi della 3x10 e della 3x11 mi impedivano di usare questo plot bunny che avevo plottato da un po'. Inizialmente avrebbe dovuto essere una storia a parte, ma l'ho integrato alla trama di questa ff.
Il capitolo è dedicato a Manu, che voleva tanto questo sequel!

Step one: you say, 'we need to talk'
He walks, you say, 'sit down it's just a talk'
He smiles politely back at you
You stare politely right on through
Some sort of window to your right
As he goes left and you stay right
Between the lines of fear and blame
You begin to wonder why you came

Where did I go wrong? I lost a friend
Somewhere along in the bitterness
And I would have stayed up with you all night
Had I known how to save a life
[The fray, How to save a life]

La sala da pranzo - seppur piccola e modesta - evocava un senso di cura e calore familiare. Per un momento, quasi mi sembrò di essere tornato nella Foresta Incantata, all'epoca in cui vivevo nella bottega di Geppetto, assieme a lui e Pinocchio. Quello era stato probabilmente il periodo più felice della mia vita: sentivo di aver pagato il mio debito, di aver compiuto il mio dovere, di avere trovato in Geppetto e Pinocchio la famiglia amorevole che non avevo mai avuto. Mi ero illuso di essermi finalmente meritato un lieto fine. Tuttavia, ancora prima di essere scagliato, il sortilegio di Regina aveva sconvolto le nostre vite, portando alla luce la fragilità del mio piccolo mondo: Geppetto non mi aveva mai perdonato e le sue parole dure avevano riaperto le ferite del mio passato. In verità, ero stato uno stolto a credere che avrebbe mai potuto perdonare ciò che avevo fatto ai suoi genitori. Io avevo distrutto la sua famiglia, era già incredibile che mi tenesse ancora con sé.

Paradossalmente, con me la maledizioni non era stata crudele: Archie Hopper era una persona benvoluta, con un lavoro che amava e, soprattutto, nonostante tutti i dubbi, i pentimenti e le insicurezze, lui non era un assassino.
Recuperare la memoria era stato devastante. Ero di nuovo me stesso, ma avevo sperimentato un'altra vita, una vita libera da quell'opprimente senso di colpa, che ora gravava ancora più pesante su di me.
Avevo cercato di distrarmi, dedicandomi al lavoro e cercando in ogni modo di rendermi utile, ma - appena restavo solo - ero torturato dai ricordi.
Turchina era l'unica persona con la quale ne avevo parlato. Lei mi ascoltava, sembrava capirmi, non mi giudicava, aveva sempre una parola gentile e io facevo la medesima cosa con lei.
La osservai con la coda dell'occhio. Era seduta accanto a me, ma avevamo evitato di guardarci per tutta la serata e riuscivamo a stento a rivolgerci la parola. Fortunatamente, Geppetto era troppo allegro per notare la nostra ostilità reciproca; sarebbe stato ingiusto se i nostri problemi avessero rovinato la serata che aveva organizzato con tanta cura.
Da quando aveva ritrovato Pinocchio, aveva promesso di invitarci entrambi a cena e ora aveva mantenuto la parola.
Padre e figlio erano il ritratto della felicità e - benché anch'io gioissi per il loro lieto fine - ero consapevole di non esserne parte. Ora loro erano davvero una famiglia, mentre io ero rimasto solo. La verità era che Geppetto non aveva più bisogno di me; nessuno aveva davvero bisogno di me, nemmeno la donna che amavo, la donna che - per alcuni, folli, meravigliosi minuti - avevo creduto ricambiasse i miei sentimenti.
Era la prima volta da quando mi aveva rifiutato che mi trovavo così vicino a lei e questo riusciva solo ad aumentare la mia sofferenza. Per giorni avevo cercato di superare l'accaduto, ma rincontrarla aveva reso evidente che avevo fallito.

*

Uscimmo insieme dall'appartamento e io stavo per avviarmi rapidamente verso casa quando la sentii chiamare il mio nome.
Mi voltai e la guardai con più rabbia di quanta avrei voluto. Fui felice di vedere che aveva abbassato lo sguardo.
"Archie, mi dispiace, davvero," disse, visibilmente imbarazzata. "Non intendevo ferirti, volevo che lo sapessi. Mi piacerebbe ricominciare, dimenticare l'accaduto e magari... rimanere amici".
"Forse dovevi pensarci prima di illudermi," risposi seccamente.
"Lo so e mi dispiace. È stato un mio errore, ma credevo che saremmo morti e...".
"E hai pensato che avresti anche potuto usarmi, tanto non avrei mai saputo che non provavi niente per me," sbottai. Lei mi guardava come se non mi riconoscesse. Forse credeva che sarei stato gentile e accomodante mentre cercava di giustificarsi? Che avrebbe potuto sistemare le cose con due parole gentili? La rabbia non era un sentimento che manifestavo spesso, non era nella mia natura, ma questo non significava che non potessi essere furioso con lei.
La osservavo - la postura rigida e la mantella blu che si confondeva nel buio della sera - e sentivo di odiarla tanto quanto la amavo.
"Questo non è vero: se non provassi nulla non ti avrei mai baciato e ora non sarei qui a cercare di sistemare le cose". Il tono di Turchina era così ferito che la mia rabbia si placò in parte. Strinsi con forza il manico dell'ombrello.
"Dunque provi qualcosa per me?", chiesi, con voce più calma.
"In un certo senso".
"Avere da te una risposta chiara sarebbe chiedere troppo?", dissi, questa volta con più freddezza.
Lei esitò un istante.
"Io ti voglio bene, Archie, ma tra di noi non funzionerebbe. Finiremmo per essere infelici".
"Come puoi dirlo?", ribattei.
"Te l'ho detto: sono una fata," rispose, la voce carica di una cupa stanchezza. "Le fate non sono capaci di vero amore, non è nella nostra natura. Ho conosciuto fate che sono fuggite con un umano e non è mai finita bene. Ti renderei solo infelice".
"Mi hai spezzato il cuore: sono già infelice," protestai. "Qui non siamo più nella Foresta Incantata; il vero amore non nasce dal nulla, non è un attributo predestinato, il vero amore si può creare, va costruito con impegno, giorno per giorno, è qualcosa per cui lottare. E io voglio lottare per te. Non voglio rinunciare senza aver provato".
"Non è così semplice," sospirò. Per un attimo mi sembrò che la sua voce stesse per incrinarsi per la commozione, ma il suo viso si ricompose immediatamente. "Tu non avresti nulla da perdere, ma io sì; per stare con te dovrei diventare completamente umana. Essere una fata è la mia vita, è tutto quello che ho".
"Non è così," dissi, cercando di trattenere le emozioni contrastanti che provavo, "hai me".
Lei abbassò lo sguardo e non rispose.
"Ma non sono abbastanza, vero?," sospirai, più deluso che arrabbiato.
"Non metto in dubbio la purezza dei tuoi sentimenti, ma non siamo destinati a stare insieme," rispose, in tono neutro.
Mentre il dolore si affievoliva, il risentimento prese nuovamente il sopravvento.
"È la magia, vero? Sei come Regina e Tremotino, in fondo. Non sapete rinunciare alla magia, è come una droga per voi," sibilai.
A quelle parole, Turchina sgranò gli occhi e - per la prima volta quella sera - vidi la collera sul suo volto.
"Non paragonarmi a loro e non paragonare la mia magia alla magia oscura. Tu non sai niente di magia e non sai niente di me!", esclamò, il volto irrigidito dalla rabbia.
"Già, me ne sono accorto," commentai, in tono amareggiato.
"Sai, avevi ragione: sei proprio un egoista," continuò, pronunciando l'ultima parola con astio. "E sei anche ipocrita. Ti atteggi a coscienza, ma sei ancora lo stesso codardo che ho incontrato tanti anni fa. Rimani lo stesso bambino troppo cresciuto che aspetta che io rimetta ordine nella sua vita. È ora che tu diventi adulto, Jiminy!".
Detto questo, si allontanò. I tacchi bassi delle scarpe di vernice che battevano con forza sul marciapiede.

*

Quella notte riuscii a stento a dormire. Ero esausto e allo stesso tempo in uno stato di agitazione. Non riuscivo a smettere di ripensare all'accaduto. Ero ancora furioso con lei, ma continuavo a considerare la tristezza che ero riuscito a cogliere nella sua voce, a quell'accenno di commozione che aveva cercato di nascondere. Soprattutto, ero pentito di averla paragonata a Regina e Tremotino; avevo parlato senza riflettere e non avevo pensato a quanto l'avrei ferita; e, a dire la verità, dovevo ammettere che in quel momento l'idea di ferirla non mi dispiaceva.
Inoltre, su una cosa aveva ragione: ero stato egoista; dopotutto, lei non era certo obbligata a stare con me e io non avevo il diritto di pretendere nulla da lei. Lei mi aveva salvato da me stesso ed era stata l'unica a preoccuparsi davvero per me da quando il sortilegio era stato spezzato.
Era stata sempre gentile e premurosa, in un modo che contrastava con l'atteggiamento freddo e distaccato che aveva avuto dopo il bacio; che aveva con quasi chiunque altro, a dire il vero.
Quella donna per me era un mistero. Era altruista e generosa, ma era anche rigida e distante. Solo quella notte realizzai quanto rari fossero i suoi veri sorrisi. Sorrideva spesso, in realtà, ma raramente anche i suoi occhi si illuminavano. Tuttavia, quando lo facevano, il suo diventava il più bello e dolce dei sorrisi.

La sognai, in quella lunga notte: la vedevo tornare al suo aspetto originario e spiccare il volo, mentre io la chiamavo e cercavo invano di raggiungerla. D'un tratto, mentre la vedevo allontanarsi sempre di più, gli alberi attorno a me si fecero improvvisamente più alti e il cielo più lontano. Fu quando, invece di correre, iniziai a saltare, che capii che mi ero ritrasformato in un grillo.
Mi svegliai madido di sudore e mi fissai a lungo le mani tremanti e le gambe, come per accertarmi di essere completamente umano.

*

La mattina successiva, ero esausto e avevo un terribile mal di testa.
Lanciai un'occhiata a Pongo, che, come sempre, preferiva il mio letto alla sua cuccia.
"Immagino tu sia quanto di più vicino ad una fidanzata riuscirò mai a trovare," sospirai all'indirizzo del cane. Lui mi fissò per un momento poi mi leccò l'orecchio.
"Lo prendo come un sì," dissi, prima di scendere dal letto.

Dopo una tazza di caffè bollente e un'aspirina, mi sentivo meglio, ma il mio tumulto interiore non era cessato. Mentre camminavo per le strade di Storybrooke con Pongo al guinzaglio, durante la nostra passeggiata mattutina, continuavo a rimuginare sul litigio della sera precedente.
Sei ancora lo stesso codardo che ho incontrato tanti anni fa. Rimani lo stesso bambino troppo cresciuto che aspetta che io rimetta ordine nella sua vita. È ora che tu diventi adulto, Jiminy!
Pensava davvero quello che mi aveva detto? Perché l'ombra del mio passato continuava a perseguitarmi? Aveva persino usato il nome Jiminy, anche se sapeva che preferivo essere chiamato Archie. Quel nome non faceva che richiamare ricordi sgradevoli.

"Archie?".
Nel vedere l'oggetto dei miei pensieri sotto casa mia, quasi credetti di soffrire di allucinazioni. Invece, Turchina mi stava davvero venendo incontro a pochi passi dal palazzo in cui si trovava il mio appartamento.
Sospirai e la raggiunsi. Mi stavo mentalmente preparando ad un nuovo scontro, quando vidi il suo viso: teso e pallido, gli occhi arrossati e lucidi. Non l'avevo mai vista in uno stato simile.
"Posso rubarti un minuto?".
"Entra," le risposi semplicemente, invitandola con un gesto a seguirmi.
"Non è necessario," protestò, "sarò breve".
"Io invece penso che lo sia," ribattei, guardandola negli occhi.

Dopo diverse proteste e dopo averle assicurato che quel giorno non avevo pazienti da ricevere, riuscii a farla accomodare sul divano e a portarle una tazza di tè. Io mi sedetti sulla poltrona con una seconda tazza.
Forse era solo una mia suggestione, ma mi sembrò che le sue mani tremassero leggermente.
La invitai a parlare.
"Volevo chiederti scusa," disse, "ancora una volta... per tutto... soprattutto per ciò che ho detto ieri sera: erano cose che non pensavo davvero e me ne sono pentita immediatamente. E voglio dirti ancora una volta che mi dispiace per il dolore che ti ho causato. Ti prego di credermi quando dico che non ho mai avuto la minima intenzione di ferirti".
"Lo so," dissi ed era vero: avevo sempre saputo che non voleva ferirmi, ma provare rancore era molto più semplice.
Dopotutto, l'unico mistero di quella donna che - fino alla sera precedente - mi era parsa così impenetrabile era che non vi era alcun mistero, infondo. Era sempre stata sincera. Il quadro di insieme mi era improvvisamente più chiaro e ora capivo quel contrasto tra rigore e dolcezza che mi aveva sempre stupito. Pensai alla sua lunga vita: secoli dedicati alla causa in cui credeva, ad aiutare gli altri, secoli trascorsi ad esaudire i desideri altrui senza che nessuno le chiedesse mai cosa desiderasse per sé. Immaginai tutto: la dedizione completa alla sua vocazione; il peso della responsabilità e del potere; il prezzo della magia, come lo avrebbe definito Tremotino.
Quello della sua esistenza doveva essere un equilibrio molto fragile. Ero stato uno sciocco a non capirlo prima, troppo impegnato a pensare ai miei sentimenti per ragionare lucidamente.
"So che non sono l'unico a soffrire," aggiunsi. "So che stai solo cercando di fare la cosa giusta, come sempre".
Alle mie parole, il suo viso si distese, come se fosse stata liberata da un peso.
"Grazie," sussurrò.
"Vuoi parlarne?", chiesi.
Lei increspò le labbra.
"Di cosa?".
"Di come ti senti," risposi, "del motivo per cui hai pianto prima di venire qui".
Lei sgranò gli occhi.
"Si nota così tanto?".
Io annuii.
Lei sospirò e bevve un sorso di tè.
"Lei quale pensa che sia il motivo, dottore?", mi chiese, con tono lievemente ironico.
"Penso," esordii, "che tu stia vivendo una lotta interiore. Pensi che cedere ai sentimenti sia sbagliato, ma non puoi negare quello che provi, anche se ti senti in colpa. Hai dei canoni morali molto rigidi e non vuoi infrangerli, anche se questo ti provoca dolore. Freud direbbe che il tuo superego è in conflitto con le tue pulsioni; oppure possiamo dire che stai sperimentando la discrepanza tra sé reale e sé imperativo. In ogni caso, a lungo andare, questo conflitto può farti molto più male di quello che immagini. Io... sono preoccupato per te".
Lei abbassò lo sguardo e rimase in silenzio.
"Allora, ho ragione?", chiesi.
"Il punto è," disse lei, quasi in un sussurro, "che finirò per farmi male in ogni caso, tanto vale che faccia ciò che è giusto e cerchi di andare avanti".
"Sei davvero certa che non potremmo essere felici, quindi?", chiesi.
Lei non rispose.
"Vorrei poterti convincere a darmi una possibilità," continuai. "Non c'è bisogno di farlo sapere. Possiamo provare a stare insieme in segreto, senza rendere la cosa troppo seria... Possiamo fare con calma e vedere se...".
"Mi stai chiedendo di aggirare le stesse regole che devo far rispettare? Archie, non posso credere che tu lo stia suggerendo!", esclamò lei, visibilmente indignata.
"Perdonami," dissi. "Stavo solo cercando di trovare una soluzione. Se non vuoi infrangere le tue regole, potresti cambiarle?".
"Non è possibile," rispose, fissandomi come se avessi appena detto la cosa più assurda che avesse mai sentito.
"Non hai l'autorità per cambiarle?", chiesi, stupito.
"Certo che sì, ma queste regole esistono per una ragione!", ribatté lei. "Magia e sentimenti non vanno d'accordo".
"Perché no?".
Lei mi fissò come un'insegnante delusa dalla risposta di un alunno.
"Perché i sentimenti alterano il giudizio! Per amore, si è disposti a fare di tutto e, per una fata, il concetto di tutto è molto più ampio di quello di una persona comune. Avere dei legami significa anche avere la tentazione di usare la magia per i propri cari, quindi per scopi personali, mentre la nostra magia deve essere a servizio degli altri," spiegò.
"Fare del bene anche alla propria famiglia è così diverso da farlo nei confronti degli altri?", dissi, cercando un'argomentazione che mi permettesse di portare l'esito della discussione a mio favore.
"Non si tratta semplicemente di fare del bene," rispose immediatamente lei, come se si fosse preparata quel discorso da tempo e non aspettasse altro che ripeterlo. "Tremotino ha fatto esiliare un intero regno per ritrovare suo figlio. Si può dire che abbia cercato di fare il bene di Baelfire, ma ha causato immenso dolore per raggiungere i suoi scopi. Ora immagina una fata con una famiglia umana. Noi siamo immortali e immuni a tutte le vostre malattie. Non credi che sarebbe tentata di risparmiare ai suoi figli ogni dolore? Che impedirebbe al suo consorte di invecchiare? Che li preserverebbe ad ogni costo dall'unica cosa che non siamo autorizzate a fermare: la morte naturale? È triste, ma ogni creatura deve morire al momento giusto. La magia può anche giocare con le leggi della natura, ma ci sono cose che dovrebbero rimanere inalterate".
Parlava con tono appassionato, che rendeva lampante quanto fermamente credesse in quello che diceva. Dovetti ammettere che aveva ragione, ma provai ugualmente a giocare la mia ultima carta.
"Io non ti chiederei mai l'immortalità".
"Lo so," rispose, "ma questo non cambia nulla. Come credi che sarebbe per me vederti invecchiare e morire, mentre io avrei davanti l'eternità? Come sarebbe vivere guardando i miei discendenti morire generazione dopo generazione?".
La sua voce era carica di emozione e io ne fui commosso.
"Dici davvero?", le chiesi.
"Ho già pianto la tua morte una volta, Archie," disse. "Se mai staremo insieme sarà da umani, da mortali, come è giusto che sia".
Sospirai, sentendo le lacrime affiorarmi agli occhi.
"La decisione è tua, dunque," dissi.
"Sai che ho già deciso," ribatté lei, con una sfumatura di amarezza nella voce.
Mi strinsi la radice del naso tra il pollice e l'indice, cercando di placare il mal di testa che aveva ripreso a tormentarmi.
"Lo so," risposi infine, la voce rotta, "ma continuerò a sperare che un giorno cambierai idea e, fino a quel giorno, ti aspetterò".
"No, non lo farai," mi rimproverò lei, "incontrerai una donna, la sposerai e avrai dei figli, come deve essere".
"No," ribattei, "mai".
Malgrado i miei sforzi per trattenere il pianto, una lacrima mi solcò la guancia. "Odio vederti piangere," sussurrò lei.
"Sono un debole, mi dispiace," dissi, pieno di vergogna, asciugandomi gli occhi col dorso della mano.
"Non lo sei, Archie; e non scusarti," protestò lei. Vi fu una pausa. "È solo che odio avere il potere di farti piangere".
Non sapendo cosa rispondere, feci per portare le tazze in cucina, ma, appena mi alzai, la mia testa divenne improvvisamente pesante e, per alcuni istanti, non riuscii a vedere nulla. Udii un suono di ceramica infranta e capii che avevo lasciato cadere la tazza. Le mie gambe cedettero e mi appoggiai al bracciolo della poltrona, per poi ricadere pesantemente su di essa, col respiro affannoso e un dolore pulsante alle tempie.
Sentii Turchina chiamare il mio nome con voce sempre più alta.
Riaprii appena gli occhi e la vidi china accanto alla poltrona.
"Archie? Ti senti male? Cosa ti è successo?".
"Solo un capogiro," risposi, cercando di raddrizzarmi. "Devo essermi alzato troppo velocemente".
Lei appoggiò la mano sulla mia fronte e io rabbrividii.
"Hai le mani gelide," mi lamentai, cercando di sottrarmi al suo tocco.
"No, sei tu che hai la febbre," ribatté lei. "Avresti dovuto dirmi che non ti sentivi bene".
"Avevo solo mal di testa," protestai.
"È meglio che ti lasci riposare," disse lei, rialzandosi.
"Ed è meglio che io pulisca questo disastro," sospirai, accennando ai cocci sparsi sul pavimento.
"No," mi rimproverò lei, "non se ne parla! Penserò io a riordinare, tu devi metterti a letto immediatamente!".

Ogni protesta da parte mia fu inutile e non ebbi altra scelta se non trasferirmi dallo studio alla camera da letto, indossare il pigiama e lasciarmi scivolare sotto le coperte; non che la cosa mi dispiacesse.
La testa continuava a girarmi lievemente, tremavo e avevo la nausea.
A quanto pare, non avevo già abbastanza problemi senza l'influenza - pensai, mentre mi tiravo la coperta fino al mento.
Turchina bussò alla porta ed entrò porgendomi un bicchiere d'acqua.

Fu subito evidente che si era autonominata mia infermiera.
Tentai di protestare, ma Turchina non era il tipo che accetta un no come risposta, e io smisi presto di contrastare il suo zelo, da un lato perché mi sentivo sempre più stanco e, dall'altro, perché era pur sempre una scusa per ricevere le sue attenzioni. Era ironico che fossi così felice di averla accanto, ora, mentre quella stessa mattina non desideravo altro che restarle lontano.

In non più di un quarto d'ora, Turchina mi aveva misurato la temperatura e procurato una coperta più pesante, aveva perquisito la casa in cerca di ogni medicina di cui avessi potuto necessitare e si era offerta di prepararmi il pranzo e di portare fuori Pongo.
Per una donna che voleva che la dimenticassi, non mi stava certo rendendo le cose facili. Perché doveva essere così dolce e gentile? Perché - dalla conversazione di poco prima - non riuscivo più a provare il minimo risentimento nei suoi confronti? Perché, benché mi avesse rifiutato, riusciva a farmi innamorare sempre più di lei?

Chiusi gli occhi e, mentre mi abbandonavo alla stanchezza, sentii nuovamente la sua mano sulla mia fronte.

*

Quando mi svegliai, due mani stavano stringendo la mia.
Le luci erano forti, troppo forti,
Mentre i miei occhi si adattavano alla luce, riuscii a mettere a fuoco la sagoma di Turchina accanto al mio letto e le nostre mani intrecciate sulla coperta bianca. Il mio letto, però, non aveva alcuna coperta bianca.
In quel momento, notai l'odore pungente del disinfettante e vidi l'ago di una flebo nel mio braccio.
Perché ero in una stanza di ospedale?

Nda: Spero che questo capitolo vi sia piaciuto.
Innanzitutto, auguro buon 2014 a tutti voi lettori attraverso questa ff che è contemporaneamente la prima del 2014 e l'ultima del 2013.
Ora alcune annotazioni:
- quando Archie parla di contrasto tra sé reale e sé imperativo, fa riferimento alla teoria della discrepanza del sé di Higgins. Sì, preparare gli esami di psicologia e scrivere ff contemporaneamente può avere i suoi vantaggi;
- Nel caso non fosse chiaro, in questa ff Archie vive nello stesso appartamento in cui si trova lo studio. Nel telefilm non ci è mai stato mostrato se viva davvero lì o altrove, ma dal momento che diversi personaggi lo hanno trovato nello studio anche a tarda sera, ho immaginato che vivesse lì.
- La canzone che ho citato all'apertura del capitolo, mi ha accompagnato durante la sua stesura. Se vi va, vi consiglio di ascoltarla integralmente, anche perché è stupenda. Il resto della mia colonna sonora durante la stesura di questa storia ha incluso anche Clarity di Zedd e diverse canzoni degli Evanescence;
- il principale responsabile del secondo dialogo tra Archie e Turchina è stato l'angst assoluto della seconda serie di Doctor Who. Ero quasi stata tentata di inserire la frase "Tu puoi stare con me per tutta la tua vita, ma io non posso stare con te per tutta la mia". I fan di Doctor Who capiranno...

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