Quasi per caso

di afterhour
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Due cugini invadenti ***
Capitolo 2: *** In una gabbia ***
Capitolo 3: *** L'euforia di un momento ***
Capitolo 4: *** Conclusione ***



Capitolo 1
*** Due cugini invadenti ***







Il titolo è messo un po' alla c... come sempre direte voi, e l'introduzione non è da meno.
E' un'AU, per cui non aspettatevi un'enorme aderenza al manga e ai suoi personaggi, quello che mi importa è che i miei abbiano una loro 'anima'.

In questa storia ci sono diversi temi che ho buttato spesso qua e là (chi mi segue li riconoscerà), ma ora li ho finalmente sviluppati in un’unica storia (credo), spero così di togliermeli dalla testa definitivamente e passare ad altro.
Per cambiare, questa volta è Sakura la riccona.


QUASI PER CASO


1.
Due cugini invadenti.




 - Sono in ritardo… i soliti sfacciati e maleducati…tua zia Kushina li ha cresciuti come dei selvaggi, era da immaginare – borbottava sua madre tamburellando con le dita sul tavolo.

Sakura la ascoltava distrattamente mentre sbocconcellava un po’ di pane, pensierosa.

 - Saranno stanchi per il viaggio – rispose meccanicamente.

  – Smettila di mangiucchiare prima di pranzo – la rimproverò l’altra – E poi non capisco perché non sono andati in albergo, non si rendono conto di disturbare? – continuava, ipocritamente dato che si era offerta di ospitarli (lei sospettava che questo improvviso riavvicinamento alla sorella ed ancora più inconsueto interesse per i nipoti fosse dovuto al fatto che Minato, il marito di sua sorella, stesse iniziando a diventare piuttosto famoso, e influente, in politica).

Quando era andata a prenderli in aeroporto quella mattina era anche lei prevenuta, ma doveva dire che Naruto e Karin non le erano sembrati così odiosi come ricordava, o meglio, non erano esattamente il tipo di gente con cui si sarebbe presentata ad un ricevimento, ma suo cugino era a modo suo davvero simpatico, mentre Karin sembrava ancora piuttosto odiosa, tuttavia al momento era disposta a concederle il beneficio del dubbio.
Avevano fatto le medie assieme loro tre, prima che la famiglia Namikaze si trasferisse lontano da lì (grazie al cielo, aveva sospirato sua madre), e all’epoca li considerava stupidi e invadenti, ma forse non ricordava bene, forse era stato il continuo parlarne male di sua madre, che non sopportava la sorella, sua zia, ed a furia di ripeterle tutti i suoi difetti l’aveva influenzata, o forse era lei, che in quel periodo era scontrosa e cambiava umore per un nonnulla.
O magari erano semplicemente cresciuti tutti.

Suo cugino ora era alto e robusto ma non era cambiato di molto, stessi capelli biondi e occhi azzurri pieni di allegria, stessa aria invadente e stesso orrendo colore di maglietta, nonché stesso sorriso spensierato, e perfino lo stesso abbraccio con cui l’aveva semi triturata, incurante dello sporco che quel troglodita doveva avere accumulato nel lungo viaggio.

Sua cugina Karin, be’, lei sì era cambiata: a parte la minigonna invisibile (l’ultima cosa che una persona sana indosserebbe per viaggiare) e le lunghe gambe nude, a parte che doveva portare lenti a contatto perché se la ricordava cieca come una talpa, teneva i capelli rossi raccolti, ed era alta, slanciata e truccatissima.
Era bella, appariscente e chiassosa ma bella, e in qualche antro recondito della sua mente una piccola parte di lei, quella scontrosa e insicura della sua prima giovinezza che ancora si annidava da qualche parte, aveva provato l’istinto di nascondersi, pervasa da un disagio che non aveva motivo di esistere.

Karin, secondo Naruto di pessimo umore perché odiava viaggiare in aereo, aveva commentato caustica ogni cosa, dalla macchina con autista ( Naruto che lo salutava cordialmente, neanche fosse un amico), al fatto che avrebbero alloggiato nella dependance in giardino “Ben nascosti, eh?! Tipo cuccia del cane”.

Suo cugino invece era sempre inguaribilmente di buon umore ed aveva continuato a chiacchierare del più e del meno per l’intero tragitto, chiedendole dei vecchi compagni di classe di cui lei ricordava a stento il nome, a parte uno.

 - C’è anche Sas’ke in città, l’ho sentito ieri! Ti ricordi di lui, vero? Era quello… -

 - Si ricorda, si ricorda – lo interruppe Karin, ridacchiando.

Sì, si ricordava.
Sasuke Uchiha era difficile da dimenticare, se non altro perché all’epoca le ragazze erano tutte un po’ innamorate di lui, lei compresa.
 Non che avesse fatto qualcosa di diverso dallo sbirciarlo di nascosto, un po’ perché lui la intimidiva con quell’aria distante, un po’ perché i suoi erano scandalizzati solo per il fatto che fossero in classe insieme (erano andati perfino a protestare dal preside e per un po’ avevano considerato l’idea di farle cambiare scuola), e averci a che fare era impensabile.
La famiglia di Sasuke era malvista in città, senza un vero motivo (ma questo l’aveva capito solo più tardi) erano considerati loschi e pericolosi, forse solo perché se ne stavano in disparte, isolati dagli altri, e quando i genitori di lui erano morti in un incidente d’auto erano nate le teorie più strampalate, le illazioni più assurde, ridicole a pensarci ora, eppure lei ci aveva creduto ed aveva immaginato pericolose organizzazioni criminali, agguati improbabili e faide di sangue che a quel che sentiva seguivano inevitabilmente ‘quella’ famiglia.
Ricordava di avere avuto paura per Sasuke, ed anche per se stessa, per il semplice fatto di condividere la stessa aula.
Nonostante le ragazzine affascinate c’era poca gente allora che osava frequentarlo, ed ancora meno erano quelli che lui permetteva di avvicinarsi: uno di questi era Naruto.

Dopo le medie non aveva più rivisto Sasuke, ma anche senza volerlo le erano giunte notizie di lui: aveva saputo che suo fratello maggiore era stato ricoverato in una clinica a causa di una forte depressione, anche se alcuni sostenevano soffrisse di schizofrenia, e sapeva che adesso lui faceva il fotografo ed era piuttosto richiesto, e che viaggiava spesso per lavoro.
Forse per quello non si erano più incontrati, a parte il fatto che frequentavano due mondi così diversi.

In realtà non era neppure esatto che non lo aveva più rivisto: lo aveva incontrato una volta, non molto tempo fa, per caso, mentre camminava veloce verso la macchina: lo aveva notato fuori da un bar (era sicura che fosse lui, sapeva che era lui) mentre parlava animatamente al telefono, una sigaretta in bocca.
Era rimasta un momento ferma ad ammirarlo (sì, non c’era altro termine per definire la cosa), ad ammirare quel ragazzo alto e snello, con gli stessi capelli corvini che ricordava, lo stesso volto pallido dai lineamenti perfetti, solo più maturo, ancora più bello se possibile, ma gli occhi, ecco, quando lui aveva sollevato la testa e l’aveva vista, erano sì gli stessi occhi scuri che avevano ammaliato le ragazzine, allora, eppure diversi, ancora più intensi, occhi che parevano scavarle dentro e vederla, vederla veramente, vedere lei.
Aveva proseguito in fretta ed aveva cacciato quell’immagine, quella sensazione, ma in un angolino della mente aveva incasellato quella figura, quel volto, quegli occhi, come pericolosi, come se avesse avuto sempre ragione sua madre.

 - Siete rimasti in contatto? – chiese a Naruto.

 - Io e Sas’ke? Ovvio! –

In quel momento aveva sbirciato Karin che stava messaggiando al cellulare ignorandoli ostentatamente: si diceva che avesse avuto una relazione con Sasuke, e che fosse stata lei a lasciarlo.

- Papà ha chiamato? – chiese a sua madre tornando al presente.

 - Sì, ha detto di non aspettarlo, che mangiava qualcosa in ufficio –

Come sempre.
Quel giorno, se non fosse stato per i suoi cugini, sarebbe rimasta al lavoro anche lei, pensò con un nodo allo stomaco.

Guardò sua madre.
Sapeva che soffriva della continua assenza del marito, e si ritrovò a fissare il piatto infastidita da quel sorriso falso, da quella voce affettata, come se dovesse mantenere la facciata anche con lei, sua figlia.

Quando i cugini entrarono dalla porta punzecchiandosi, così chiassosi e invadenti, un’ondata di allegria che seguiva Naruto come un’ombra, involontariamente sorrise.
Mangiò con il sorriso sulle labbra mentre ascoltava sua madre fare domande indiscrete ed imbarazzanti, cui gli altri due rispondevano senza alcun imbarazzo, ed era come un vento nuovo che invadeva il loro piccolo mondo asfittico, un vento che scompigliava i gesti artificiosi e le pose manierate, le parole che significavano tutt’altro e quelle sussurrate alle spalle.
Per una frazione di secondo pensò che era contenta di averli lì.

_______________


Si recò al lavoro subito dopo pranzo.

Era un giorno importante quello, suo padre doveva scegliere un progetto per la riconversione di una delle loro industrie, ora in perdita, e doveva comunicare la sua decisione durante l’assemblea che si teneva quel pomeriggio: lei aveva lavorato per settimane a quello stramaledetto progetto e ne era piuttosto fiera, o credeva di esserlo.

Tornò a casa la sera, stanca, delusa, demotivata.
Alla fine non era stato scelto il suo progetto, come sempre, e questa volta era stato come un pugno in faccia, perché il suo era il migliore, ne era sicura, non era così?
O c’era qualcosa che non andava e non se ne era accorta? Magari l’altro aveva più possibilità di successo, ma lei non riusciva a vederlo, accecata dal proprio interesse?
No, non ci credeva.

Era uscita dalla sala riunioni senza salutare, troppo arrabbiata per provare a protestare, gli occhi asciutti, le lacrime di rabbia che rimanevano all’interno, bloccate.

Stronzo, non riuscì a fare a meno di pensare, stronzostronzostronzo.

Cos’era che non andava bene, che non era mai abbastanza per suo padre?
Era troppo giovane? Era una donna? Era sua figlia e temeva di fare favoritismi?
O era solo che la credeva un’incapace?

Perché era sempre stato così con lei, sempre a notare quello che mancava, quello che poteva essere modificato, mai quello che c’era, e probabilmente nemmeno le considerava, le sue proposte.

Mentre apriva la porta di casa (abitava in un’ala separata della grande villa, con ingresso autonomo, ma comunque lì, a portata di mano, sotto controllo) provava solo un’enorme amarezza, e sentiva un nodo in gola che assomigliava a un grumo di lacrime e rimaneva lì, ad impedirle di respirare a pieni polmoni, perché non piangeva mai lei, suo padre l’aveva sempre guardata con disprezzo quando scoppiava a piangere da bambina, e non voleva, non poteva dargli quella soddisfazione, dimostrargli che davvero non valeva niente.
 
Non appena dentro provò a chiamare Kakashi, uno dei collaboratori con cui da qualche tempo aveva una specie di relazione: non avevano potuto scambiarsi neppure una parola dopo l’assemblea, le aveva solo dato una pacca sulla spalla mentre si allontanava, come se fosse sufficiente, come se potesse farsi scivolare addosso tutto come faceva lui.

Non rispondeva ma la richiamò lui poco dopo, quando era lì che si struccava davanti allo specchio: le chiese come stava e si accontentò del suo tiepido ‘Bene ora’.
Poi lo ascoltò in silenzio mentre le comunicava che doveva andare fuori città per un improbabile impegno improvviso e non potevano vedersi il giorno dopo.
Stronzo.
Erano rimasti d’accordo che quel sabato lo avrebbero passato insieme, ma sapeva di non poterci far conto, con lui non si sapeva mai, e non poteva pretendere niente da quella relazione semiclandestina, superficiale, che aveva iniziato non sapeva neppure perché, forse solo perché si sentiva sola, e aveva bisogno di qualcuno.
Sapeva che Kakashi preferiva condurre un’esistenza defilata, di retroguardia, senza esporsi davvero, per questo non capiva perché si sentisse così delusa.

Avrebbe dovuto mangiare qualcosa ora, e poi andare a letto, ed invece si lavò, si cambiò in qualcosa di più comodo, e dopo essersi sistemata i capelli in una crocchia ed essersi truccata di nuovo con cura (erano solo i suoi cugini, ma non voleva mostrarsi trasandata neppure con loro, con nessuno se era per quello, come se uscire senza trucco, senza un’apparenza impeccabile, fosse un’apertura fatale, un rischio imponderabile), si incamminò verso la dependance, dove i cugini avevano detto che l’aspettavano per festeggiare il loro arrivo.

Aveva optato per non portare la bottiglia di champagne (era sprecato per loro ), e dopo aver bussato, dopo che Naruto aveva esclamato ‘Avanti!’ a gran voce, entrò a mani vuote pensando che almeno loro non si sarebbero offesi per questa mancanza di etichetta.

Avvertì immediatamente lo sgradevole odore di fumo.

Perlomeno era solo fumo di sigaretta, si disse mentre si chiedeva chi fosse dei due a fumare (Karin probabilmente) e intanto mandava a zittire la vocetta interna che assomigliava incredibilmente a quella di sua madre e le diceva che era da maleducati fumare in casa d’altri.
Seguì il rumore delle risate e li trovò in sala, seduti attorno al basso tavolino, sui cuscinoni che avevano estratto dai divani: avevano una bottiglia di liquore che dovevano aver trovato lì in casa e Karin stava bevendo a canna, ma la cosa sconvolgente non era quella, era il fatto che non erano soli, che c’era Sasuke Uchiha seduto tra loro, che la guardava con la sigaretta in bocca.
Una scarica di eccitazione spazzò via immediatamente la stanchezza.


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La storia è breve eh?! 3 o 4 capitoli, perchè non ho ancora voglia di faticare troppo.
Il prossimo è assai più lungo ed è dal punto di vista di Sasuke.

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Capitolo 2
*** In una gabbia ***


Ecco qua il secondo capitolo.
La settimana prossima sono via, per cui salto, ci sentiamo per quella successiva!



2.
In una gabbia.



Sasuke aveva imparato a sue spese che dire di no a Naruto equivaleva ad un enorme  spreco di fiato ed energie, per cui quando quella sera l’idiota gli aveva chiesto (imposto) di portargli del ramen perché stava morendo di fame (avrebbe poi scoperto che aveva pranzato e cenato abbondantemente, e che il suo frigo era pieno) dopo un paio di no che erano puro proforma aveva acconsentito.

Per farlo entrare in quella specie di fortezza Naruto aveva manomesso alcune telecamere e si era inventato che voleva uscire dal cancello a perlustrare i dintorni, e con l’enorme casino che come sempre lo accompagnava era riuscito a distrarre tutti abbastanza dal permettergli di sgusciare all’interno inosservato ( per gli Haruno era persona non grata e se fossero venuti a conoscenza della sua presenza lì dentro probabilmente avrebbero chiamato la polizia, se non sparavano a vista).

Naruto lo aveva trascinato ghignando fino alla dependance, che era tre volte il suo appartamento, con un arredamento freddo che seguiva le ultime tendenze, senza un tocco personale, e ben si adattava ai suoi proprietari, persone per cui la facciata era tutto.

 - Dopo forse viene anche Sakura, mia cugina, te la ricordi vero? – bofonchiò il coglione mentre si ingozzava con le due porzioni di ramen che gli aveva portato.

Sì, si ricordava di Sakura.
L’aveva rivista di recente, di sfuggita, e l’aveva riconosciuta subito: alle medie era una ragazzina timida, diversa dalle altre, ma era diventata esattamente come aveva immaginato, come aveva temuto: bella, elegante e snob… una semplice facciata.

 - Non è che mi fa sbattere fuori? – domandò aprendo un pacchetto di sigarette ancora sigillato.

 - Ma va! – replicò l’altro sputacchiandogli nel contempo sulla maglietta – sei mio ospite! –

Lui guardò il cellulare per controllare se lì c’era campo e poi si accese la sigaretta che aveva tirato fuori.
Inalò lentamente il fumo prima di farlo uscire.

 - Come va? – chiese l’altro un po’ più serio – Notizie? –

 - Non ancora –

Karin li aveva raggiunti in quel momento sventolando una bottiglia di liquore tutta orgogliosa.

 - Trovato! – esclamò piazzandosi sulle sue ginocchia.

 - Prenditi una sedia – le fece spingendola via.

Era da quando era arrivato che gli stava appiccicata addosso e la cosa iniziava a seccargli: la loro relazione era stata uno sbaglio fin dall’inizio, era finita male, ed aveva rischiato di compromettere anche la sua amicizia con Naruto; non sapeva esattamente cosa avesse in mente Karin, se cercava solo un po’ di sesso o qualcosa in più, ma qualunque cosa fosse, era meglio evitarla.

Lei non si scompose di molto, come suo fratello non si scomponeva mai (quasi mai, ricordò), invece si alzò con la bottiglia in mano e se andò di là.

  - Finisci quello stupido ramen, vi aspetto di qua! – urlò dall’altra stanza.

Si erano già spostati tutti in salotto quando era arrivata la padrona di casa.
Indossava un semplice paio di jeans e una maglietta, ma c’era qualcosa di sofisticato nel suo modo di tenere i capelli raccolti, nella posa un po’ altera e in quegli enormi occhi verdi che lo fissavano sbalorditi, ed era se non altro curioso vedere miss perfezione presa alla sprovvista.
Rimase ad osservarla divertito mentre se ne stava in piedi, senza sapere che fare o dire, un po’ irrigidita, con l’aria di voler uscire di lì il prima possibile.   

 - Siediti qui! – esclamò Naruto spostandosi per farle posto tra loro due – Hai visto come è cambiata? – gli fece.

Sasuke la guardò ancora ed incrociò un momento i suoi occhi prima che lei distogliesse in fretta lo sguardo e si sistemasse vicino a suo cugino, il più distante possibile da lui, neanche fosse una specie di pericoloso criminale.

Notò che il fumo della sigaretta le irritava gli occhi e si sollevò.

 - Esco, devo telefonare – spiegò mentre usciva dalla porta.

Una volta all’aperto provò a chiamare suo fratello.
Niente, non rispondeva ancora.
Rimase ugualmente fuori, sotto il portico, col cellulare in mano ed una sigaretta in bocca, a fissare le ombre tra gli alberi e la leggera pioggia intermittente che non faceva rumore; a intervalli gli arrivava all’orecchio la risata allegra di Naruto, o l’eco della voce squillante di Karin.
Si stava bene lì, e una volta finita la sigaretta se ne accese un'altra; ogni tanto tentava di chiamare, ma quel disgraziato non rispondeva ancora, e si chiese cosa stesse facendo in quel momento, cosa provasse, cosa volesse, e per l’ennesima volta si domandò quale era stato il momento, il punto preciso in cui qualcosa si era spezzato e suo fratello aveva deciso di passare il confine.
Era così facile?

Rabbrividì e rientrò proprio mentre quell’idiota stava raccontando, di nuovo, di quando si era tuffato in alto mare anche se non sapeva nuotare, convinto che bastasse muovere le gambe e le braccia per rimanere a galla.
Lo aveva recuperato tirandolo su per i capelli.

Rimase un momento sulla soglia a guardare Naruto che rideva di quella sua risata contagiosa, Karin (sembrava già brilla) che dopo aver preso un’altra sorsata passava la bottiglia a Sakura, e quest’ultima che se ne stava seduta rigida sul cuscino mentre prendeva la bottiglia e provava a bere a sua volta (con l’aria impacciata di chi non era abituato a bere a canna), appena un piccolo sorso, notò.
Si sedette tra Sakura e Naruto nel vano tentativo di evitare Karin, chiedendosi come cazzo faceva ad andarsene di lì senza farsi sparare dietro da una guardia privata, perché era un modo davvero di merda di morire quello, ucciso perché Naruto voleva la sua dose giornaliera di ramen.

Nell’ora successiva uscì un altro paio di volte, per fumare e provare a rintracciare Itachi, maledicendo il telefono che suonava a vuoto.

Nel frattempo Naruto continuava a ricordare episodi imbarazzanti di cui purtroppo faceva sempre parte anche lui, Karin era proprio andata, bisticciava con suo fratello per qualsiasi sciocchezza e si aggrappava a lui senza più pudore, incurante del fatto che se la scrollasse di dosso ogni volta, mentre Sakura…Teneva bene l’alcool, doveva ammetterlo, se ne rimaneva lì seduta a guardarli con un sorriso falso come era lei, ed evitava di parlargli, evitava perfino di incrociare i suoi occhi.
Non che gliene fregasse qualcosa, si disse dopo aver preso la bottiglia che Naruto gli passava ed avere bevuto un sorso.
Subito dopo incrociò lo sguardo che doveva essere ammiccante di Karin e si alzò di scatto per uscire un’altra volta.

Quando era rientrato Sakura si era voltata a fissarlo per la prima volta quella sera, e nessuno dei due aveva distolto lo sguardo per diversi, interminabili secondi.

Per il resto della serata si era voltata a guardarlo spesso, e se dapprima si girava in fretta quando lui coglieva i suoi occhi su di sè, poi aveva continuato a studiarlo sfacciatamente, incurante di essere scoperta, fino a quando non era rimasta per lunghi minuti a fissarlo, a studiargli perfino le mani, le braccia, il collo, ogni centimetro di lui, con interesse, come si guardava un curioso oggetto raro.
Vaffanculo.

Una volta, dopo che era uscito per l’ennesima volta (stava finendo le sigarette), la trovò da sola: Naruto era in cucina a cercare qualcosa da mangiare, e Karin presumibilmente si era barricata in bagno.
La guardò muoversi un momento a disagio mentre le si sedeva accanto.

 - Naruto mi ha detto che fai il fotografo – mormorò poco dopo.

 - Sì –

 - E che viaggi molto –

Non le rispose neppure e si voltò a scrutarla, a scrutare quel sorriso finto, quella falsa cordialità, disgustato da quell’abbozzo di conversazione casuale che non aveva senso, quando erano tutti e due seduti a terra che bevevano whisky pregiato direttamente dalla bottiglia.
Non sopportava quel sorriso, ed in un certo senso fu un piacere vederla ritornare seria e voltarsi dall’altra parte.

 - Fai servizi fotografici con splendide modelle in isolette esotiche? – gli domandò ancora mentre si toglieva un inesistente capello dai jeans, con una nota di esasperazione che forse era dovuta all’alcool, ma almeno era reale.
 
 - Solo quando ho bisogno di soldi – le rispose, perfettamente cosciente di trattarla con sufficienza.

 - Pensavo fosse una specie di punto di arrivo per voi – gli replicò voltandosi a guardarlo stizzita – o non sono abbastanza artistiche per te? –

Lui l’aveva fissata apertamente per alcuni secondi chiedendosi se pensava di offenderlo con quella frase, e considerando che in fondo scorgere qualcosa di diverso in quello sguardo, fosse anche fastidio, era davvero un piacere.

 - Mi annoia – le spiegò – volti di plastica, espressioni di plastica, pose di plastica –

Riuscì a distinguere perfettamente la punta di rabbia che le accendeva gli occhi, come se avesse giudicato lei e il suo sorriso di plastica, prima che distogliesse in fretta lo sguardo.

Non gli aveva più rivolto la parola, ma dopo un poco aveva ripreso a guardarlo, e man mano che il tempo passava (e continuavano a bere), gli si era avvicinata sempre più.

La serata finì ingloriosamente con Karin che vomitava in bagno, Naruto tramortito sui cuscini, e Sakura che in qualche modo gli era scivolata addosso e gli si avvinghiava contro probabilmente senza neppure accorgersene, e ad un certo punto, aveva il naso piantato sul suo collo, aveva alzato gli occhi a guardarlo come se volesse baciarlo.

 - Avanti – le fece seccato non sapeva bene per cosa, dopo essere riuscito a sollevarla – ti porto fino a casa –

La trascinò fino alla porta, e lì l’aria fresca della notte l’aveva un poco risvegliata e si era raddrizzata in fretta, imbarazzata.

 - Posso fare da sola, grazie – mormorò scostandosi, senza guardarlo.

Si fermò e la lasciò andare, ma restò a guardarla camminare, composta come se fosse sobria, lungo il vialetto illuminato, fino a quando non la vide scomparire al di là degli alberi, e intanto si chiedeva perché Sakura Haruno lo irritasse così tanto.

Si accese un’ultima sigaretta prima di rientrare, e poi, dato che era impossibile uscire dalla proprietà a quell’ora senza dare nell’occhio, si sistemò in una camera che gli pareva libera e si buttò sopra il letto tentando di dormire.

Si addormentò davvero e dormiva profondamente quando il ronzio della vibrazione lo aveva svegliato (un suono che lo faceva sempre reagire, forse per le troppe volte in cui lo aveva atteso con ansia).

Una luce grigia entrava dalle tapparelle abbassate, doveva essere l’alba.

 - Itachi – rispose, perfettamente sveglio.

 - Ciao fratellino

 - Dove sei? Perché non mi hai mai risposto? –

 - Avevo da fare

Riconosceva quel tono sarcastico.

 - Dove sei? – provò ancora.

 - Eh, fratellino, questi non sono fatti tuoi…ti ho chiamato per dirti che non ci sono più soldi nel mio conto, puoi provvedere per favore? –

Sospirò.

 - Va bene –

 - Penso che dobbiamo rivedere quell’accordo, ne parleremo quando torno –

Non ci pensava nemmeno, Itachi non era in grado di gestire il denaro.

 - Possiamo parlarne ora se mi dici dove sei – buttò comunque lì – posso venire da te e... –

 - Ne parliamo quando torno – lo interruppe l’altro, e poteva quasi immaginare il leggero sorriso sulle labbra, perché Itachi sorrideva raramente, quasi mai, solo quando stava bene, troppo bene, in un’euforia innaturale e pericolosa – Allora buona giornata fratellino, aspetto il versamento...cospicuo –

 - Aspetta, stai prendendo le medicine? Sei sicuro che non hai bisogno… - ma suo fratello aveva già riagganciato.

Ricadde sul cuscino e cercò di pensare al da farsi, anche se non era possibile fare qualcosa: poteva solo aspettare, Itachi lo avrebbe richiamato prima o poi, presto, supponeva, sperava solo che andasse tutto bene.

Dato che a quel punto non sarebbe più riuscito a dormire per quanto fosse stanco, si rialzò a fatica, per fortuna non aveva bevuto tanto la sera prima (non poteva, doveva rimanere sempre lucido).
C’era un bagno vicino alla sua stanza, e dopo essersi fatto una doccia trovò uno spazzolino e perfino un rasoio usa e getta ancora imballati, dovevano essere lì per gli ospiti, e tecnicamente anche lui era un ospite, benché sgradito.
Uscì all’aperto sgranocchiando una mela, ed anche se aveva bisogno di almeno un altro paio di caffè stava molto meglio, doveva solo capire come uscire di lì dato che Naruto e Karin sarebbero rimasti ko per un bel po’.
La giornata si prospettava grigia, piovosa, e si incamminò all’interno del parco, lontano dalle abitazioni. Seguì il vialetto che portava ad una specie di gazebo e non si fermò quando si accorse che c’era qualcun altro lì, era Sakura, aveva riconosciuto i capelli rosa da lontano, una caratteristica che ben si adattava a quell’aria un po’ leziosa.

Man mano che si avvicinava notò il volto struccato, nudo allo sguardo, l’espressione stanca, le labbra piegate in una piega amara, triste, e nel vederla così, viva, palpitante, senza maschere, si accorse di quanto fosse bella in quel momento, di una bellezza cruda, intensa.

Non aveva la macchina fotografica con sé, ma prese il cellulare e le fece una fotografia, d’istinto, per fermare quel momento, quell’espressione, quel volto.

 Lei si voltò a guardarlo con un’espressione prima confusa  e imbarazzata, poi nervosa, fino a quando la maschera, quella sembianza finta, di plastica, non aveva preso naturalmente posto nel suo volto.

 - Non hai fatto una fotografia a me, vero? Sono orribile così e… -

 - No, avevi un’espressione intensa invece, mi piacevi – le fece, e le porse il cellulare per mostrarle quel volto vero, pulito, bello, per mostrarle com’era lei davvero, al di sotto.

Lei prese il telefono e guardò per un momento.

 - Sono io? – mormorò  - non…non sembro neanche io – spiegò impacciata – non…non mi piace, non sono venuta bene, puoi cancellarla? –

Lui prese il telefono e cancellò la foto, senza una parola.

 - Grazie –

 – Cosa non ti piaceva? –

 – Niente, non ero sistemata – gli spiegò in fretta.

  – E’ sempre solo una questione di facciata? – le chiese con un leggero sorriso.

Per una frazione di secondo lo guardò indispettita – E’ così divertente fare lo sgarbato con me? – gli replicò frustrata, distogliendo lo sguardo.

Sì, era divertente.
 
 - Abbastanza – confermò – Puoi farmi uscire di qui? – cambiò argomento, e notò come la maschera riprendeva immediatamente il suo posto, quel sorriso di plastica perfettamente formato.

 - Certo, hai la macchina parcheggiata fuori? –

 - No, ho preso un taxi, Naruto sosteneva che era sospetto lasciare una macchina parcheggiata fuori –

 - Ah –

  - E’ un idiota – le spiegò, e la vide sorridere un  momento, davvero sorridere, prima di riprendere la consueta espressione composta – però non è così assurdo pensare che se mi avessero visto i tuoi avrebbero chiamato la polizia –

 - Bastava comunicarglielo – iniziò a giustificarsi lei – perché è chiaro che se trovano un estraneo in casa si spaventano…comunque se vuoi ti dò un passaggio io, in macchina –

Supponeva che la cosa le seccasse, ma non intendeva rifiutare l’offerta per mostrarsi educato, così aspettò che lei entrasse in casa a prendere la borsa (quando uscì era pettinata e truccata, notò), la seguì fino al garage e salì nell’automobile che lei aveva aperto, una delle meno appariscenti lì dentro.

 - Stai bene adesso? – le chiese, in fondo non molte ore prima gli si strusciava addosso, e dubitava lo avrebbe fatto se fosse stata sobria.

 - Ho vomitato tutto, poi ho mangiato, e bevuto acqua, ed una tonnellata di caffè, e ho preso una pastiglia…sto bene, credo, tu? –

 - Non avevo bevuto molto –

Non le chiese perché non era a letto a dormire, o a cosa era dovuto quello sguardo triste, non erano fatti suoi, ed uscirono in silenzio dal grande parco, al di là del cancello sorvegliato elettronicamente, per proseguire sempre in silenzio lungo la strada che portava in città.

 - Non ti piaccio, vero? –

Si voltò a guardarla incuriosito, si aspettava qualche frase di circostanza, formale, non un approccio così diretto, non gli pareva da lei.

 - Non particolarmente – le rispose, ma mentre pronunciava quelle parole e notava il leggero rossore che le saliva alle guance, sapeva che non era esattamente così.

Non gli piaceva la facciata, ma in realtà non sapeva cosa ci fosse dietro, lo immaginava solo.
Notò che lei stringeva convulsamente le mani sul volante e si chiese perché la cosa l’avesse colpita così tanto – Non quanto ti sto sulle balle io – aggiunse, ma sapeva che anche quello non era esatto.

 – Non fai niente per renderti simpatico – sbottò lei, e lui si chiese divertito quanto avrebbe dovuto spingere per crepare definitivamente quella maschera.
 
 - Io non sono simpatico – spiegò con un mezzo sorriso – ma almeno non vendo aria –

 - Cosa vuoi dire? – gli chiese con un tono di voce più acuto.

 - Che il niente è niente e tutti i vestiti firmati del mondo, tutte le parrucchiere, estetisti e trucchi del mondo non  possono nasconderlo –

Lei inchiodò di colpo (fortunatamente non c’era nessuno in giro a quell’ora), e si voltò a fissarlo furiosa, lo sguardo acceso, gli enormi occhi davvero magnifici carichi com’erano di quell’emozione forte, intensa.

 - Che ne sai di me! – gli urlò veemente.

 - Niente – le replicò – dimmi, chi sei tu, c’è qualcuno dietro quel sorriso falso, sotto quella perfezione? –

 - Non sono falsa! Non sai niente, niente di me! – continuò vibrante di passione, così diversa dalla sua figura composta, così vera – Non sono di plastica! Soffro anch’io e… e… –

Si bloccò e distolse lo sguardo, la mano sinistra che stringeva con forza il volante, l’altra che giaceva in grembo, stretta a pugno.

  - Lo fai apposta? – mormorò, e suonava quasi disperata ora – Ti divertente così tanto farmi arrabbiare? –

Una lacrima solitaria le era scesa sulla guancia e lui sollevò una mano per girarle il volto ed asciugargliela con il pollice, non credeva fosse così facile farla crollare, ma non aveva pensato alla stanchezza, e al dopo sbronza.

 - Scusa – le fece mentre lei si scostava bruscamente – ti ho provocata, ma non volevo farti piangere –

 - Non piango – replicò allungandosi per prendere la borsa nel sedile dietro e mettersi a frugare all’interno.

 - Tieni – le fece tirando fuori un pacchetto di fazzoletti dalla tasca.

 - Grazie – gli mormorò prendendolo.

E poi rimase immobile, così, senza più lacrime, il fazzoletto stretto in mano, lo sguardo quasi vitreo, come se tentasse di controllarsi, di ricomporre la maschera, di non piangere.

 - Non sono certo perfetta – mormorò – e non… - si voltò ancora a guardarlo – lascia stare -

Lo fissava con due occhi grandi, tristi, bellissimi.

 - Cosa c’è – le chiese con una strana tenerezza.

 - Non…non ti senti mai come se fossi in gabbia? –

 - Sì. Sempre –

E non sapeva cos’avrebbe fatto se lei continuava a guardarlo con quegli occhi, forse l’avrebbe baciata, ma il cellulare aveva iniziato a vibrare, e quel suono familiare, opprimente, lo ripiombò nella realtà.
Lo controllò, era Itachi.

 - Devo prendere una telefonata – spiegò, spezzando definitivamente l’incanto.

Subito dopo scese per rispondere, e lei accostò la macchina che era ancora in mezzo alla carreggiata.

 - Itachi? –

 - Ciao fratellino, hai fatto quello che ti ho chiesto? –

 - Le banche sono ancora chiuse a quest’ora –

 - Ah già, be’, fallo presto –

 - Dove sei Itachi? –

  - E tu? Dove sei? Sei tu quello che è sempre in giro per il mondo…da cosa credi di scappare…da me? –

Si passò una mano tra i capelli e tentò di capire cosa gli conveniva dire: Itachi viveva fuori dal mondo ma aveva un’intelligenza di molto al di sopra della media, e quando era così provava qualcosa di molto simile ad un delirio di onnipotenza ed era quasi impossibile comunicare.

 - Ascolta – iniziò – adesso ti sembra di stare bene ma sai che se non prendi le medicine poi starai male, e non… -

 - Non provare a dirmi quello che devo fare, fratellino

 - No…va bene, ma stai attento, e quando cominci a stare male chiamami, ti vengo a prendere –

 - Come sempre, sciocco fratellino, lo sai che non puoi scappare, no?!

Sì, lo sapeva.
L’altro aveva chiuso la telefonata e lui tirò fuori una sigaretta, era l’ultima, e mentre se l’accendeva, la preoccupazione che si mescolava alla rabbia, pensò che tutto sommato preferiva suo fratello così, sull’onda alta dell’euforia, arrogante e crudele, piuttosto dell’Itachi desolato, senza più speranza, che gli diceva che gli voleva bene e gli spezzava il cuore.

Mentre fumava l’ultima sigaretta guardava quella ragazza che lo aspettava in macchina, e lei incrociò il suo sguardo un momento dietro il vetro, e gli sorrise appena, non uno di quei suoi sorrisi, ma un sorriso un po’ triste e quasi timido, come avesse paura di disturbare, e si chiese se non era ora di ammettere con se stesso quello che aveva capito subito, fin da quando si era accorto di quella figurina ombrosa e silenziosa che lo sbirciava appena, a scuola: che sotto sotto non erano così dissimili, loro due, due anime sole e ferite che tentavano di sopravvivere in qualche modo.

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Non so se avete già letto l'ultimo capitolo del manga, è appena uscito: sono ancora qui con un sorrisone che non se ne vuole andare, eh!

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Capitolo 3
*** L'euforia di un momento ***


Eccomi qua!
Non ho riletto (sono tutta presa da un'altra storia che ho in mente), per cui se c'è qualche errore, o qualche punto poco chiaro, ditemelo!




3.
L’euforia di un momento.



Sakura si era fermata a lato della strada, di fianco ad alcune case, ed era rimasta ad aspettare.
Quando lo aveva chiesto, la sera prima, Naruto le aveva spiegato che Sasuke tentava di mettersi in contatto con suo fratello che al momento era irreperibile (come doveva essere vivere così, con l’ombra di un fratello malato e senza la protezione di una famiglia?), e Karin aveva aggiunto che lo aveva odiato, suo fratello, quando erano insieme.
Le aveva anche confermato che lo aveva lasciato lei.

 - …ma non significa che non fossi più innamorata di lui –

 - E allora perché? –

 - Perché…faceva troppo male – spiegò l’altra passando la bottiglia a Naruto.

E c’era quella parte di lei, quella che aveva voglia di piangere, che la capiva benissimo.

Si riscosse e tentò invano di sistemarsi un po’ meglio i capelli, perché non aveva fatto in tempo a truccarsi accuratamente e si vergognava di mostrarsi così imperfetta, così orribile, proprio con lui, tra tutti, che la irritava incredibilmente e un poco la terrorizzava, ma le piaceva da morire, inutile negarlo (ricordava vagamente il profumo della sua pelle, quando si era lasciata andare e si era adagiata su di lui).

Il trucco era impercettibilmente sbavato e ricordò le sue dita che le asciugavano la lacrima.
Era tanto che sentiva quel groppo in gola, quel grumo di lacrime mai versate, e lui era così bravo a scuoterla, come se sapesse perfettamente come fare, come se la conoscesse davvero, come se…la vedesse.
Una sola lacrima…
Era talmente tanto che non piangeva che quella lacrima le pareva il principio di qualcosa, o forse la fine.

Magari avrebbe dovuto odiarlo per quello, sì, avrebbe dovuto, invece…invece mentre lo guardava avvertiva uno strano calore, quasi fosse vicino a una fiamma, e aveva voglia di avvicinarsi, toccare quella fiamma, come una falena attratta dal fuoco voleva farsene avvolgere fino a bruciarsi.

Stupida, si riscosse finalmente, era Sasuke Uchiha quello, i suoi avrebbero fatto un colpo se fossero venuti a sapere che era lì con lui, e non avevano tutti i torti perché era duro, caustico, e non c’era gentilezza in lui, né cortesia, e probabilmente nemmeno un codice morale, non corrispondente al suo almeno…e comunque, in ogni caso, era una persona senza radici e senza legami, cui lei non piaceva neppure, e non faceva niente per nasconderlo.  

Rimase a guardarlo mentre si accendeva una sigaretta, illuminato dalla luce grigia del primo mattino, ed in quel momento pareva una splendida figura tragica.

 - Era tuo fratello? – fece uscire senza pensare quando lui si era seduto accanto a lei.

Aveva sentito lo sguardo di lui anche senza vederlo, dato che si ostinava a fissare dritto davanti a sé.

 – Sì – le rispose.

 - Ho chiesto a Naruto a chi telefonavi – chiarì, per un irrazionale bisogno di spiegarsi.

 - Va bene -

 - E’…– si interruppe – se vuoi un mio parere ti fa onore preoccuparti così per lui – continuò di getto, perché ormai non le importava di esporsi ulteriormente, non aveva molto da perdere – voglio dire…è tuo fratello, è importante per te…gli vuoi bene –
 
 - Non mi fa così tanto onore – mormorò lui – a volte lo odio -

Per una frazione di secondo rimase senza parole, colpita da quella confidenza improvvisa.

 - Sì, capisco - gli fece poi, un rossore immotivato e stupido, così stupido, che le colorava le guance – ma in un certo senso ti fa ancora più onore –

 - Scusa, puoi fermarti di nuovo? - le fece poco dopo.

E lei accostò ancora una volta, parcheggiò, ed aspettò mentre lui rispondeva ad un’altra chiamata.

Poco dopo lui aveva aperto la portiera e l’aveva guardata senza salire.

 – Non abito tanto lontano e qui vicino c’è un distributore di sigarette – le fece – proseguo a piedi, hai fatto anche troppo ed ho voglia di camminare  –

Annuì e si mise ad armeggiare con la borsa senza guardarlo, per non mostrargli quanto si sentiva delusa, anche se non ne aveva motivo, e quando trovò il cellulare lo tirò fuori per inventarsi qualcosa da fare.
Avrebbe voluto avere ancora un po’ di tempo da trascorrere con lui, fosse anche una manciata di minuti, perché sapeva che non si sarebbero mai più incontrati loro due, ed anche se era stato stronzo con lei, era stato…onesto…e lei aveva un disperato bisogno di onestà, di verità, di un punto fermo, e in quel momento le pareva che il resto, che tutta la sua vita, fosse solo una parata di forma che ricopriva un vuoto.
O forse era semplicemente il fatto che solo come la guardava le faceva rimescolare il sangue.

Lui era ancora lì, come se fosse indeciso, e Sakura alzò finalmente la testa a guardarlo.

  - Fai due passi con me? –

 - Sì – rispose in fretta, e non riusciva a non sorridere, ma sorrideva anche lui, per cui andava bene.

Mentre scendeva dalla macchina si rese conto che si sentiva lo stomaco in gola, che il cuore le batteva all’impazzata e le mani le sudavano, e forse era per lui, non lo sapeva, era la prima volta che si sentiva così agitata per un uomo, a parte suo  padre, ma era così diverso ora, era una sensazione paurosa e nel contempo esaltante, che la rendeva instabile, come se potesse (se volesse)rivoltarsi al rovescio da un momento all’altro, per la prima volta in vita sua, con tutte le emozioni più intime al di fuori.
Così rischioso.

Camminarono in silenzio dopo avere svoltato in una stradina laterale, e girarono ancora, su una strada un po' più larga, lei che guardava davanti a sé: ora riconosceva la strada, se non sbagliava lì in fondo c'era un ponte.
Guardò Sasuke al suo fianco, incerta.
Le pareva quasi irreale ora.
E a pensarci tutto era irreale, lei, le sue reazioni, i suoi discorsi, e lui, soprattutto lui.
 
- Sai, per la foto che hai scattato – mormorò seguendo il filo dei suoi pensieri – non so perché mi abbia dato così fastidio…è che...non mi riconoscevo –

 - Era solo una foto al cellulare – alzò le spalle lui.

 - Sì ma sembravo così…amara – continuò – sembro…sembro davvero così dal di fuori? –

 – Non ti sentivi amara in quel momento? –

Sì, si sentiva amara.

 - Mio padre ha rifiutato per l’ennesima volta un mio progetto, sì che mi sentivo amara – confessò di getto.

 - Sei una stupida – le sorrise – i parenti sono dei pessimi datori di lavoro, dovresti andartene da lì –
 
Continuarono a camminare in silenzio e lei pensava che non poteva, che lui non capiva, che non aveva senso andare altrove, a fare qualcosa che aveva intrapreso solo per compiacere suo padre.

 - Non farti intrappolare in quel mondo angusto, tu puoi essere diversa da loro, migliore –

 - Non è così facile – mormorò, il cuore che batteva forte, forte, perché lui non usava riguardi, mezze parole, andava dritto al punto, senza pietà, e quello che aveva detto pareva niente, e invece era un punto cruciale, mai espresso, mai neppure pensato apertamente.

 - Non ho detto che fosse facile, non c’è niente di facile, e i miei consigli valgono zero, non sono un gran esempio –

Meglio di me, pensò, il grumo di lacrime che premeva, premeva per uscire.

Erano quasi arrivati al ponte, adesso iniziava a sentire il rumore della città che si svegliava, qualche serranda che si alzava, qualcuno che camminava svelto, un paio di macchine che passavano.  

Lui attraversò la strada e si fermò ad un distributore automatico di sigarette (le piaceva perfino il suo modo di camminare, naturalmente elegante), poi proseguirono fino al piccolo ponte e si fermarono in cima a guardare l'acqua, a non guardare niente, mentre Sasuke apriva il nuovo pacchetto e si accendeva l'ennesima sigaretta.

Sakura si appoggiò al parapetto e fermò lo sguardo sull’acqua grigiastra che scorreva silenziosa sotto di lei: sembrava senza fondo e misteriosa, e un poco minacciosa.
Si voltò a guardare dall’altra parte del fiume, dove la strada proseguiva, e per un tratto seguì con gli occhi una coppia che camminava abbracciata, che dava loro le spalle e rideva, e chissà dove andavano insieme di primo mattino.
Sembravano felici, sembravano padroni della loro vita.

Il fumo della sigaretta le arrivò alle narici, fastidioso, e quando si voltò a guardarlo lui la guardò a sua volta: i suoi occhi scuri riflettevano la luce grigia del cielo plumbeo ed in un qualche modo apparivano senza fondo e misteriosi come l’acqua del fiume, e altrettanto minacciosi.
Cadeva qualche goccia di pioggia ora, e rimasero per alcuni secondi così, a studiarsi, lei che non riusciva a distogliere lo sguardo e si chiedeva se lui sapesse l’effetto che facevano i suoi occhi, e se si divertisse a mettere in imbarazzo le persone.
Ad agitare lei.

 - Mi piace quando mi guardi così – le fece.

 E lei distolse lo sguardo, le guance in fiamme, senza sapere cosa dire.

Si staccarono contemporaneamente dal parapetto e si avviarono in silenzio lungo la strada.
Piovigginava appena, quasi niente, e poi non importava, e lui aveva finito la sigaretta ed aveva buttato il mozzicone a terra.
Non si dovrebbe, pensò una parte di lei, quella che assomigliava a sua madre, e non dovrebbe fumare così tanto, gli farà male, non voglio che stia male, pensava un’altra Sakura che se ne stava seppellita dentro di lei da così tanti anni.

 - Non conosco nessuno che fumi così tanto (troppo)  – ruppe il silenzio.

 - E’ rilassante…non come una scopata –

 - Almeno quelle sono più salutari – replicò in fretta guardando a terra, un poco imbarazzata.

 - E’ una proposta? –

  - Non credo tu abbia problemi a trovarti una donna, scommetto che hai un paio di ragazze che ti aspettano, in giro per il mondo – rispose di getto, in difesa, più agitata di quel che avrebbe dovuto.   

- No, non ho mai relazioni molto lunghe - le fece accendendosi un'altra stramaledetta sigaretta.

 - Perché? -

 Lui aveva esitato un momento – Le persone non sono disposte ad accontentarti del secondo posto –

Fu il suo turno ora di rimanere in silenzio per qualche secondo, lui aveva parlato con un tono neutro, quasi duro, eppure lei sapeva che non aveva casa, che non aveva famiglia, e che doveva sentirsi solo, senza un punto fermo.
Si chiese se si riferisse ad una situazione particolare, ad una donna in particolare. A Karin magari.

Cacciò la fitta di gelosia che non aveva motivo di esistere e pensò che suonava troppo come una scusa quella, e non si riferiva solo a lui, si riferiva anche a se stessa.
Non era un modo per dirsi che non valeva la pena di provare?
Per non provarci nemmeno?

 - O magari questa è solo la tua scusa per non impegnarti – mormorò.

Lui non aveva risposto, ma aveva sorriso appena prima di alzare la testa e guardare la strada davanti a sé, in lontananza.
Continuò a sbirciarlo cosciente del suo corpo che camminava, del vento sulla pelle, di quella strana sensazione che avvertiva di cui lui era la causa.

 - E' un po' più complicato di così - le rispose poco dopo – Itachi è un pensiero costante, fisso...è un peso che non mi fa dormire, o rilassare...anche in questo momento, non so dov’è e cosa sta facendo, e so che non sta prendendo i farmaci e che prima o poi si sentirà male –

Lei ascoltò in silenzio, sforzandosi di capire, protesa verso di lui.

- Non è possibile rintracciarlo in qualche modo? – gli chiese poi – la polizia non può fare qualcosa? –

 - E’ un adulto, può fare quello che vuole, perché la polizia dovrebbe rintracciarlo -

 - Ma se è malato -

 - E’ libero di fare quello che vuole, non l’ho fatto interdire – le fece bruscamente – forse ho sbagliato ma non me la sono sentita, lui sarebbe venuto a saperlo, e non volevo  –

 - Sì, capisco - sussurrò lei trattenendo la tentazione di sfiorargli le dita con le sue.

Sei anche tu in una gabbia, pensò.

Continuarono a camminare in silenzio, e ormai non era più nemmeno consapevole delle strade che percorreva meccanicamente, della pioggerellina sottile che cadeva, troppo tesa, troppo cosciente di essere accanto a lui, di non avere più tempo.
Quando erano arrivati di fronte ad un edificio che le aveva indicato come casa sua, lei si era fermata a guardarlo, tesissima, e sapeva di avere scritte in volto mille emozioni che avrebbe dovuto controllare, che non si dovevano mostrare, ma non importava ora, e poi era la sua ultima occasione di vederlo.
Pioveva un po’ di più, ora, ed iniziava a bagnarsi i capelli, ma non le importava.

 - Ehi – le fece lui, e come al solito non distoglieva lo sguardo, si divertiva a tenerla prigioniera in quel fuoco nero.

 - Sei bello – mormorò.

Lui si era abbassato appena e le aveva sfiorato le labbra con le sue per un brevissimo momento. Troppo breve.

 - Anche tu –

Restò a fissarlo paralizzata mentre lui inclinava la testa di lato e appoggiava ancora le labbra sulle sue, e senza rendersene conto allungò le braccia ed appoggiò una mano sulla spalla di lui, e l’altra sul suo collo, a toccargli i capelli.

Improvvisamente  la testa le girava e si sentiva folle, e euforica, e la sensazione delle sue labbra era così perfetta che aveva subito schiuso le sue e aveva assaporato la lingua di lui che sapeva di fumo, e avrebbe dovuto infastidirla teoricamente, invece le piaceva da impazzire.
Quando lui la strinse a sua volta si sentì mancare il respiro, una strana vertigine che le impediva di pensare, di capire, e la faceva affondare in quella sensazione fisica, carnale, che era il sapore di lui, l’odore di lui, il calore di lui.

Quando si erano staccati erano ambedue bagnati di pioggia ed il cuore le batteva all’impazzata, pareva sul punto di scoppiare.

 - Vieni – le fece prendendole una mano.

Lo guardò esitante.

 - Che c’è – le chiese accarezzandole la guancia, e lei non riusciva a ragionare lucidamente – c’è qualcuno? –

 - Circa… - ammise imbarazzata, aveva completamente scordato Kakashi.
 
 - Non sembri molto convinta. E’ importante? –

 - No -

 - E allora vieni –

Lo seguì all’interno dell’edificio, e tremava come un’adolescente al suo primo appuntamento, e nell’ascensore, mentre lui la baciava, e le sue mani le scorrevano sulla schiena fino ai glutei, lei che gli si aggrappava quasi disperata, la testa che girava, e girava,  pensò che probabilmente era così agitata che non si sarebbe neppure divertita così tanto.

 - Cosa c’è – le sussurrò all’orecchio.

 - ...hai un preservativo? – gli rispose col cuore che batteva ancora all’impazzata, perché se non lo aveva non si faceva niente, su questo era irremovibile e...

 - Sì, li ho presi prima –

Pensò che allora non era solo un distributore di sigarette quello, non ci aveva fatto caso, e allora voleva dire che già in quel momento…
La baciò ancora, interrompendo i suoi pensieri, ogni pensiero.
I suoi baci le mandavano un fremito di eccitazione lungo l’intero corpo, e sapeva che anche se per l’agitazione non fosse riuscita a raggiungere l’orgasmo, comunque questa giornata se la sarebbe ricordata per sempre.

Entrarono nell’appartamento abbracciati e baciandosi arrivarono in qualche modo in camera; le tapparelle erano ancora abbassate e lui aveva acceso la lampada sul comodino prima di farla sedere sul letto.
Lo guardò togliersi la maglietta e fece scorrere gli occhi sul suo corpo. Meccanicamente alzò il braccio e passò le dita sulla sua pelle, incantata.

Lo aiutò a toglierle a sua volta la camicetta improvvisamente vergognosa, consapevole di tutti i suoi difetti, orribilmente insicura perché tutto questo era assurdo.
Cosa voleva da lei, proprio da lei?
Lei che non gli piaceva neppure.
Ma forse questa era solo una bugia, e forse la sua era solo paura.

Allungò comunque la mano e la posò sul suo collo attirandolo a sé, sul letto, perché aveva voglia di lasciarsi andare e non pensare a niente.

 - Sas’ke – mormorò, e doveva piacerle il suono del suo nome perché lo ripeté ancora, e ancora mentre lui le baciava il collo, e il seno, e le slacciava i jeans impaziente.

Avvertì ancora un senso di vertigine mentre lo guardava spogliarsi a sua volta, i particolari del corpo di lui che le si stampavano nella memoria troppo nitidi per essere un sogno, o un parto della sua immaginazione.

 - Sas’ke –

 - Non devi ripetere il mio nome – l’ammonì lui – o rischi di fartelo scappare con il tuo uomo –

Rimase per qualche secondo completamente immobile, quasi umiliata, smontata da quelle parole così crude, che sicuramente erano vere e la riportavano alla squallida realtà di quello che stavano facendo.
Non era niente lei, per lui?
Solo un modo per rilassarsi?

 - Va bene – mormorò improvvisamente triste.

Lui sorrise e le accarezzò appena la guancia.

 - Sakura – le sussurrò, così seducente, così pericoloso.

E ancora una volta era rimasta prigioniera sotto il suo sguardo intenso, dimentica di tutto il resto, l’eccitazione che come un formicolio la faceva tremare leggermente, un’impellente ondata di desiderio in mezzo alle gambe che le pareva intollerabile.

Si abbandonò alle mani di lui, al calore del suo corpo, delle sue labbra, della sua lingua dicendosi che doveva vivere, non sviscerare tutto.

Era stato il suo ultimo pensiero coerente, perché fare l’amore con lui era stato come non essere più padrona di se stessa, e per quanto toccasse, si muovesse, baciasse, era come se fosse solo lui a decidere come e quando doveva provare piacere lei, come se fosse lui a decidere come il suo corpo doveva reagire, come se il suo corpo dovesse obbedire a lui, non a lei.
Dapprima era stato un piacere che cresceva lento, una dolcissima tortura, poi, quando era entrato in lei con più forza, era esploso in un orgasmo quasi violento, brutale, che l’aveva lasciata senza più un briciolo di energia.
Karin la sera prima le aveva detto che più bravi erano a letto più erano bastardi, e si chiese con una punta di tristezza se si riferiva proprio a lui.
__

Il suo corpo spossato se ne stava languido accanto a quello di lui, e gli occhi lo guardavano ancora lucidi di piacere, e stanchezza.

  - Cosa c’è -  

 - Ti guardo – gli spiegò pigramente – non riesco a trovare difetti nel tuo corpo – la cosa era assurda se ci pensava.

 - Perché li cerchi? -

- Perché tutti li abbiamo, io ne ho, e tu invece...-

 - Il tuo corpo non ha difetti – la interruppe facendo scorrere una mano sul suo seno - I corpi non hanno difetti, hanno caratteristiche fisiche…tutti i corpi possono essere perfetti, e il tuo mi piace tantissimo -

Si era sollevato a guardarla, a guardare il suo corpo mentre lo tracciava con le dita, e lei era improvvisamente arrossita sotto il suo sguardo attento, il che era ridicolo se pensava a quello che avevano fatto fino a quel momento.

 - Aspetta – le fece, e lei rimase a studiarselo mentre si alzava nudo e prendeva una macchina fotografica dal comò – queste foto ti piaceranno di più – le spiegò sedendosi sul bordo del letto.

 Lo fissò improvvisamente imbarazzata, perché chissà dove finiva quella foto e...

 - Solo il viso, non le mostro a nessuno –

E forse era solo ingenua, forse se ne sarebbe pentita, ma gli credeva, e rimase a guardarlo di nuovo rilassata, di nuovo totalmente fiduciosa come era stata prima, tra le sue braccia.
Aspettò paziente per un poco mentre lui scattava le fotografie, e dopo allungò il piede e si mise a sfregargli lentamente la coscia, fino a quando lui non appoggiò la macchina fotografica e non l’attirò a sé.
Era possibile avere bisogno di qualcuno che si era appena conosciuto?
Perché mentre facevano ancora l’amore le pareva di non poterne più fare a meno.

Dopo continuò a toccarlo, e guardarlo, e guardarlo, e non capiva perché, ma sentiva le lacrime che premevano, premevano, per uscire, e sapeva di avere gli occhi lucidi, probabilmente rossi.

- Non so cosa mi prende – mormorò sulla sua pelle, perché si vergognava di mostrarsi così fragile, vicina al crollo, e non sapeva cosa potesse pensare lui.
 
 Lui non aveva commentato, e Sakura continuò a stringerlo, e stringerlo, e non voleva staccarsi da lui.

Rimasero abbracciati per alcuni minuti, così poco, troppo poco, Sasuke che l’accarezzava piano, e fu lui a staccarsi per primo.

 - Devo andare in banca prima che chiuda – le spiegò.

- Che ora è? – chiese incerta, e si spostò per prendere l’orologio che si era tolta (le dava fastidio, o meglio, dava fastidio a lui) – così tardi! – esclamò sorpresa – mia madre mi starà aspettando per pranzo – e non aveva alcuna voglia di andare da lei, di tornare lì.

Sasuke si sollevò sul letto scostandole la mano che ancora indugiava sulla sua pelle e prese il cellulare che aveva lasciato sul comodino, per una volta abbandonato.

 - Devo andare  – le spiegò mentre lo controllava.

 - Sì, anch’io –  mormorò lei alzandosi a sua volta.

Si erano rivestiti in silenzio.

 - Se vuoi ti accompagno alla macchina –

 - Non occorre che ti disturbi, è qui vicino –

Lui non aveva insistito e per qualche assurdo motivo si era sentita un po’ morire.

 - Allora vado – mormorò, e lo guardò ancora un momento, l’ultimo – Non sparire, ti prego – aggiunse, ma non sapeva se lui aveva sentito.

In ogni caso non aveva detto niente, si accendeva una nuova sigaretta e neppure la guardava.

Sakura aveva preso la sua borsa ed era scappata fuori di lì, da quella giornata irreale, da quella stanza irreale con quella persona irreale, perché tra poco doveva rientrare nella realtà, nella sua realtà fatta di persone reali, di lavoro che non soddisfaceva e di legami asfissianti, o di relazioni ambigue, meno intense, un po’ banali, ma prevedibili, manovrabili.

Non pioveva più, notò.

Le prime lacrime iniziarono a scendere poco dopo.
Camminò a testa bassa, tentando di non farsi notare, perché mentre procedeva verso la macchina non riusciva a fermare le lacrime che le riempivano gli occhi e iniziavano a rigarle il viso.
Era una sensazione inconsueta, quasi bizzarra, come se quelle gocce scendessero meccanicamente, senza un motivo, senza alcuno stimolo, com’era possibile?

Iniziò a ridere tra le lacrime e dopo aver frugato in borsa si asciugò le guance, invano, ormai singhiozzante, incapace di arrestare quel fiume di emozioni, di pianto che la devastava dall’interno.

Finalmente si chiuse in macchina, al sicuro, e continuò a piangere per quelle che le parevano ore; quando smise si sentiva completamente svuotata, e quel grumo amaro che da sempre le occupava la gola era come sciolto.

Il giorno dopo Naruto le spiegò che Sasuke era dovuto scappare via, che suo fratello lo aveva chiamato e gli aveva chiesto di andare a prenderlo da qualche parte, e che lui era subito corso, svanendo dalla sua vita per andarsene nella vita di qualcun altro, qualcuno di irreale quanto lui.

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Ecco…per me la storia potrebbe anche  finire qui, ma sarò generosa e aggiungerò un altro capitolo, eh eh.

E lo so, in un modo nell’altro li faccio sempre finire nello stesso letto, ma mi pare sempre che Sakura faccia bene a cogliere l’attimo, o forse, diciamocelo, sono solo molto perversa, eh!
Comunque credo che un rating arancione possa essere sufficiente, se mi sbaglio ditemelo (forse è che mi sono abituata a scrivere ‘ben di peggio’:D).

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Capitolo 4
*** Conclusione ***




Scusate! Ho soltanto sistemato un problema, non è un capitolo nuovo!




Ecco qui l'epilogo, breve, niente di speciale.


Ho riletto distrattamente, sono sempre presa dalla nuova storia (è dura resistere e non farvela leggere subito), con cui però sono ancora in alto male (circa a metà), e dal momento che sto diventando sempre più pigra non faccio pronostici.
Avrei anche in progetto una lemon simile all'ultima, ovvero scritta senza nessun altro scopo che soddisfare i nostri (miei?) bassi istinti, ho già in mente una trama (se si può chiamare trama):D, mi manca solo l’ispirazione del momento. 




CONCLUSIONE

Qualche mese più tardi.



Sakura finì di bere il caffè e seguì le indicazioni per gli arrivi: l’aereo era atterrato da pochi minuti e scommetteva che Naruto aveva solo il bagaglio a mano, conoscendolo.

Perché ormai poteva dire di conoscerlo, ed era strano come fossero cambiate le cose nel giro di così poco tempo, e se ci pensava tutto era iniziato da quando era andata a prendere per la prima volta i suoi cugini, proprio lì.

Naruto uscì in quel momento e la vide.

 - Ciao cugina! – esclamò mentre la stritolava come al solito – scusa se ti è toccato venire a prendermi, ma Hinata non poteva! –

Le cose non erano cambiate solo per lei, Naruto si era innamorato, ed anche per lui tutto era iniziato proprio quella volta in cui era stato ospite loro.

 - Non preoccuparti, così ho l’occasione di vederti. Come sta Karin? –

 - Benissimo! Ti saluta tanto! E’ tutta dolce da quando ha Suigetsu, cioè, si sfoga con lui credo –

Già, perfino Karin aveva trovato qualcuno, era solo lei quella che non trovava nessuno, non che ne avesse il tempo adesso, anzi, non aveva nemmeno un po’ di tempo per se stessa, tanto che rimanersene a guardare la tv con un panino in mano le pareva un lusso ed un privilegio.

E poi anche se avesse avuto tempo non poteva: si rendeva conto di avere bisogno di rimanere da sola in quel periodo, in modo da mantenere la lucidità necessaria per ricostruirsi una vita, e costruire contemporaneamente se stessa.
Anche per questo non rimpiangeva nemmeno un poco Kakashi, anzi, a volte si chiedeva come avesse potuto trascinare avanti quella storia per mesi, aveva così tanta paura di rimanere sola?

Quando ci ripensava lo faceva con un po’ di stupore, e una velata vergogna. 

Era finita subito dopo ‘quella volta’, come chiamava il breve incontro con Sasuke nella sua mente, quel lunedì in cui ancora si muoveva sospesa, e pensava, pensava, pensava.

- Ciao Sakura - 

Si voltò sorpresa a guardare Kakashi, in quei giorni si era completamente dimenticata di lui, ed anche se era ridicolo, le pareva quasi impossibile che per lui non fosse lo stesso.

 - Ci vediamo una di queste sere? –

 - Sì, certo – mentì senza neppure intenderlo, ma sapeva che non aveva proprio voglia di vederlo.
 
La terza volta che lui le aveva chiesto quando era libera si era decisa e gli aveva spiegato seria che aveva bisogno di stare un po’ da sola, guardandolo nell’unico occhio visibile, che avrebbe avuto bisogno di una blefaroplastica, ma insomma, in fondo lui aveva la sua età, era comprensibile.

Lui aveva cercato di chiamarla più volte le sere successive (ignorali e cominciano a correrti dietro, si era detta spassionatamente), ed aveva continuato a mandarle messaggi per diversi giorni, di solito alla mattina e alla sera, alcuni anche carini (messaggi cui lei non aveva mai risposto e aveva cancellato subito), ed alla fine sembrava avere capito.

Era finita senza grandi sofferenze, con appena un po’ di imbarazzo iniziale presto superato, senza grandi emozioni, così come era cominciato ed aveva continuato per quasi un anno. 
Come avesse potuto non stancarsi prima era un mistero incomprensibile con il senno di poi.

Ma ora aveva altro cui pensare.

 - Niente autista, eh?! – la riportò al presente Naruto quando arrivarono alla macchina – scommetto che ti senti libera –

Libera…che strana parola, così ambigua in fondo.

 - A proposito – continuò lui – riesci a liberarti domani sera e venire a cena con gli altri? –

 - Me l’ha chiesto anche Rock Lee, non so se ci riesco, davvero – spiegò mentre apriva la portiera – mio padre mi sta massacrando –

 - Resisti ancora per poco! – ridacchiò l’altro – però pensaci, Rock Lee è un bravo ragazzo – aggiunse ammiccante sedendosi al suo fianco.

Sì, sicuramente era un bravo ragazzo.

Forse era la vicinanza di Naruto, ma ripensò a Sasuke.
Non lo aveva più rivisto.

Lo sapeva già in fondo, era stato solo l’incontro di una notte (o di un mattino), e a volte non le pareva neppure reale, le pareva di aver vissuto una specie di sogno.
Uno strano sogno nebuloso in cui neppure si riconosceva e che la faceva riflettere: chi era lei, Sakura Haruno, e soprattutto cosa voleva? 
Come voleva vivere la sua vita?

Eppure un po’ ci aveva sperato, che lui non sparisse.
Una volta aveva chiesto a suo cugino che fine avesse fatto, e nonostante all’apparenza fosse stata una domanda casuale, dentro si sentiva rimescolare lo stomaco e le pareva di respirare a fatica.

 - Ah, suo fratello sta meglio in questo periodo così è in giro per il mondo…non mi ricordo neanche dove. Lontano però – 

 Lontano.

A volte ci pensava e si chiedeva dove fosse ora: lo immaginava in qualche posto esotico, fuori dal mondo, solo, perché non le piaceva pensarlo con un’altra donna, una donna che si faceva ammaliare da due occhi intensi, per quel che durava.

Mentre metteva in moto si disse che avrebbe voluto almeno ringraziarlo, in fondo era per lui che era cambiata, lo sapeva, era grazie a lui, se la sua vita era cambiata, anche se non capiva ancora come le fosse venuto il coraggio di ribaltarla così: era stato un momento, un giorno si era addormentata sentendosi come sempre, e il giorno dopo si era alzata ed era diversa.
Ma sapeva che tutto era partito da lui.

Avrebbe iniziato un nuovo lavoro a breve, era stato Naruto a trovarglielo, nella ditta in espansione di un suo amico, Shikamaru Nara (un genio a quel che pareva), con cui collaborava anche lui, al momento come esterno, fintanto che non si trasferiva definitivamente in città (dove guarda caso abitava anche Hinata, la sua ragazza).

Si era presentata al colloquio su insistenza dei suoi due pazzi cugini, decisa a non aspettarsi niente, ed aveva subito amato l’atmosfera elettrizzante che si respirava, la voglia di cambiare, di rinnovare, di sperimentare.
Shika pareva convinto che da loro ci fosse bisogno di una come lei, una che aveva esperienza eppure aveva voglia di crescere, e nell’onda dell’entusiasmo lei aveva accettato il posto senza pensare alle conseguenze.
Un azzardo.

Ora trascorreva lì tutto il tempo libero che riusciva a racimolare, per iniziare ad ambientarsi, ed aveva conosciuto persone nuove (era lì che aveva conosciuto Rock Lee), persone che sembravano disponibili ad un tipo di rapporto schietto e sincero che andava oltre le convenzioni, oltre il frequentare lo stesso posto, un tipo di amicizia che non aveva mai sperimentato e l’attirava: non vedeva l’ora di iniziare veramente la sua nuova vita.  

I suoi, prevedibilmente, si erano arrabbiati, sua madre non le parlava neppure in quei giorni, offesa, e suo padre… suo padre le aveva fatto una scenata terribile, le aveva detto parole terribili, che l’avrebbero distrutta fino a poco tempo prima, ma in quel periodo viveva sulla scia dell’entusiasmo e del rinnovamento, e in qualche modo era riuscita a sopportarle senza battere ciglio.
Gli sarebbe passata.

Ma intanto, come conseguenza, doveva trovare un posto in cui stare, un posto abbastanza economico in cui stare visto che suo padre le aveva tolto i viveri e la nuova paga sarebbe stata di molto inferiore a quella che recepiva prima.

La cosa non le importava per niente, anzi, quasi era una carica in più al momento, e a volte si chiedeva spaventata quando si sarebbe risvegliata da quel sogno per ritornare ad essere la vecchia Sakura, quella che ancora viveva dentro di lei. E si chiedeva anche se non era inevitabile pagare tutta quell’euforia con un periodo di depressione, un giorno: la vita non era una continua onda cui ai momenti più alti corrispondevano quelli più bassi?

 - Ah, Sakura, prima che mi dimentichi – esclamò Naruto, riportandola ancora una volta al presente – Sas’ke è qui tra un paio di giorni, ha detto che si ferma un po’ –

 - Ah sì? – 

Perché stava improvvisamente sudando?

 - Sì, e… - si interruppe, e sembrava un po’ imbarazzato – ho una cosa da darti, me l’ha mandata una ventina di giorni fa, ma avevo in mente Hinata, scusa, mi sono dimenticato e… –

Dallo zaino tirò fuori un plico che poi lasciò sopra il cruscotto, senza aggiungere altro, e lei non capiva bene.
Chi aveva spedito quel plico? Sasuke? Per lei?
Perché si sentiva completamente nel pallone?

Lasciò Naruto davanti all’albergo, dato che si era giocato il diritto di alloggiare in casa Haruno già quando i suoi avevano scoperto le due telecamere rotte, e lui aveva ammesso candidamente di essere il colpevole (anche se si trattava solo di un pretesto).

Ora era tardi, doveva ritornare al lavoro (sempre quello vecchio, per poco, ma intanto suo padre era ancora più puntiglioso e severo con lei, non le perdonava neppure un minuto di ritardo ) e ripartì agitatissima, l’occhio che continuava a cadere su quel maledetto plico.
Al semaforo finalmente lo aprì, non ne poteva più: dentro c’erano tre fotografie, tre primi piani del suo viso.
Le studiò attentamente: era spettinata ed aveva l’aria stanca, ma in qualche modo sembrava radiosa.
E bellissima.
Mentre le rimetteva dentro la busta si accorse che dietro ad una c’erano alcune righe scritte.

Il semaforo era diventato verde e ripartì con la foto in mano, tentando di leggere e guidare contemporaneamente, il cuore in gola.

“Spero che ti piacciano e che tu mi abbia perdonato per essere sparito. Mi piacerebbe rivederti, ti ho pensata spesso” seguito da una firma quasi illeggibile.

Sotto c’erano un numero di telefono e un indirizzo mail, e si ritrovò a sorridere mentre parcheggiava a lato della strada e prendeva il cellulare.
 
In altre circostanze, in altri momenti della sua vita, avrebbe preso quelle foto, quel messaggio, e li avrebbe stracciati con sdegno, oppure nascosti da qualche parte, insicura, senza sapere cosa pensare, ma in quel momento, sotto l’apparente arroganza di quelle poche parole, le pareva di leggere un messaggio chiaro, la prova che non era stato solo un sogno, che anche per lui era stato qualcosa di più di un incontro occasionale.

Si guardò un istante allo specchietto, neanche lui potesse vederla (ci teneva ad essere sempre perfetta, una vecchia abitudine che faticava a togliere e forse non avrebbe tolto mai) e digitò il numero in fretta, prima di farsi prendere troppo dall’agitazione e perdere il coraggio.
Continuò a sorridere come un’idiota quando lui rispose.

 - Sasuke? – mormorò – Sono Sakura –

 - Pensavo che non mi chiamassi più – e poteva immaginare il suo, di sorriso.

 - Naruto mi ha dato il plico solo oggi –

 - Idiota…ascolta – le fece con quella sua voce suadente, che avrebbe ascoltato per ore – tra un paio di giorni sono lì, e…se ti va di vedermi… -

Rimase ad ascoltare ancora, e poi a raccontargli di lei, un’enorme aspettativa che subentrava all’agitazione, e non le importava di arrivare al lavoro in ritardo, perché era come se quello fosse il suo posto, come se fosse proprio lì, al telefono con lui, che doveva essere.

Non vedeva l’ora di rivederlo, sentiva che era l’inizio di qualcosa di importante, qualunque cosa fosse, in qualunque modo finisse.

In cuor suo sapeva che lui le avrebbe spezzato il cuore, lo sapeva, ma forse non era vero, forse era solo la sua paura, e comunque non importava, aveva voglia di correre il rischio.
Aveva voglia di vivere.


FINE

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