Quasi per caso di afterhour (/viewuser.php?uid=56789)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Due cugini invadenti ***
Capitolo 2: *** In una gabbia ***
Capitolo 3: *** L'euforia di un momento ***
Capitolo 4: *** Conclusione ***
Capitolo 1 *** Due cugini invadenti ***
Il titolo è messo un po' alla c... come sempre direte voi, e l'introduzione non è da meno.
E' un'AU, per cui non aspettatevi un'enorme aderenza al manga e ai suoi
personaggi, quello che mi importa è che i miei abbiano una
loro 'anima'.
In questa storia ci sono diversi temi che ho buttato spesso qua e
là (chi mi segue li riconoscerà), ma ora li ho
finalmente sviluppati in un’unica storia (credo), spero
così di togliermeli dalla testa definitivamente e passare ad
altro.
Per cambiare, questa volta è Sakura la riccona.
QUASI PER CASO
1.
Due cugini invadenti.
- Sono in ritardo… i soliti sfacciati e
maleducati…tua zia Kushina li ha cresciuti come dei
selvaggi, era da immaginare – borbottava sua madre
tamburellando con le dita sul tavolo.
Sakura la ascoltava distrattamente mentre sbocconcellava un
po’ di pane, pensierosa.
- Saranno stanchi per il viaggio – rispose
meccanicamente.
– Smettila di mangiucchiare prima di pranzo
– la rimproverò l’altra – E
poi non capisco perché non sono andati in albergo, non si
rendono conto di disturbare? – continuava, ipocritamente dato
che si era offerta di ospitarli (lei sospettava che questo improvviso
riavvicinamento alla sorella ed ancora più inconsueto
interesse per i nipoti fosse dovuto al fatto che Minato, il marito di
sua sorella, stesse iniziando a diventare piuttosto famoso, e
influente, in politica).
Quando era andata a prenderli in aeroporto quella mattina era anche lei
prevenuta, ma doveva dire che Naruto e Karin non le erano sembrati
così odiosi come ricordava, o meglio, non erano esattamente
il tipo di gente con cui si sarebbe presentata ad un ricevimento, ma
suo cugino era a modo suo davvero simpatico, mentre Karin sembrava
ancora piuttosto odiosa, tuttavia al momento era disposta a concederle
il beneficio del dubbio.
Avevano fatto le medie assieme loro tre, prima che la famiglia Namikaze
si trasferisse lontano da lì (grazie al cielo, aveva
sospirato sua madre), e all’epoca li considerava stupidi e
invadenti, ma forse non ricordava bene, forse era stato il continuo
parlarne male di sua madre, che non sopportava la sorella, sua zia, ed
a furia di ripeterle tutti i suoi difetti l’aveva
influenzata, o forse era lei, che in quel periodo era scontrosa e
cambiava umore per un nonnulla.
O magari erano semplicemente cresciuti tutti.
Suo cugino ora era alto e robusto ma non era cambiato di molto, stessi
capelli biondi e occhi azzurri pieni di allegria, stessa aria invadente
e stesso orrendo colore di maglietta, nonché stesso sorriso
spensierato, e perfino lo stesso abbraccio con cui l’aveva
semi triturata, incurante dello sporco che quel troglodita doveva avere
accumulato nel lungo viaggio.
Sua cugina Karin, be’, lei sì era cambiata: a
parte la minigonna invisibile (l’ultima cosa che una persona
sana indosserebbe per viaggiare) e le lunghe gambe nude, a parte che
doveva portare lenti a contatto perché se la ricordava cieca
come una talpa, teneva i capelli rossi raccolti, ed era alta, slanciata
e truccatissima.
Era bella, appariscente e chiassosa ma bella, e in qualche antro
recondito della sua mente una piccola parte di lei, quella scontrosa e
insicura della sua prima giovinezza che ancora si annidava da qualche
parte, aveva provato l’istinto di nascondersi, pervasa da un
disagio che non aveva motivo di esistere.
Karin, secondo Naruto di pessimo umore perché odiava
viaggiare in aereo, aveva commentato caustica ogni cosa, dalla macchina
con autista ( Naruto che lo salutava cordialmente, neanche fosse un
amico), al fatto che avrebbero alloggiato nella dependance in giardino
“Ben nascosti, eh?! Tipo cuccia del cane”.
Suo cugino invece era sempre inguaribilmente di buon umore ed aveva
continuato a chiacchierare del più e del meno per
l’intero tragitto, chiedendole dei vecchi compagni di classe
di cui lei ricordava a stento il nome, a parte uno.
-
C’è anche Sas’ke in città,
l’ho sentito ieri! Ti ricordi di lui, vero? Era
quello… -
- Si ricorda,
si ricorda – lo interruppe Karin, ridacchiando.
Sì, si ricordava.
Sasuke Uchiha era difficile da dimenticare, se non altro
perché all’epoca le ragazze erano tutte un
po’ innamorate di lui, lei compresa.
Non che avesse fatto qualcosa di diverso dallo sbirciarlo di
nascosto, un po’ perché lui la intimidiva con
quell’aria distante, un po’ perché i
suoi erano scandalizzati solo per il fatto che fossero in classe
insieme (erano andati perfino a protestare dal preside e per un
po’ avevano considerato l’idea di farle cambiare
scuola), e averci a che fare era impensabile.
La famiglia di Sasuke era malvista in città, senza un vero
motivo (ma questo l’aveva capito solo più tardi)
erano considerati loschi e pericolosi, forse solo perché se
ne stavano in disparte, isolati dagli altri, e quando i genitori di lui
erano morti in un incidente d’auto erano nate le teorie
più strampalate, le illazioni più assurde,
ridicole a pensarci ora, eppure lei ci aveva creduto ed aveva
immaginato pericolose organizzazioni criminali, agguati improbabili e
faide di sangue che a quel che sentiva seguivano inevitabilmente
‘quella’ famiglia.
Ricordava di avere avuto paura per Sasuke, ed anche per se stessa, per
il semplice fatto di condividere la stessa aula.
Nonostante le ragazzine affascinate c’era poca gente allora
che osava frequentarlo, ed ancora meno erano quelli che lui permetteva
di avvicinarsi: uno di questi era Naruto.
Dopo le medie non aveva più rivisto Sasuke, ma anche senza
volerlo le erano giunte notizie di lui: aveva saputo che suo fratello
maggiore era stato ricoverato in una clinica a causa di una forte
depressione, anche se alcuni sostenevano soffrisse di schizofrenia, e
sapeva che adesso lui faceva il fotografo ed era piuttosto richiesto, e
che viaggiava spesso per lavoro.
Forse per quello non si erano più incontrati, a parte il
fatto che frequentavano due mondi così diversi.
In realtà non era neppure esatto che non lo aveva
più rivisto: lo aveva incontrato una volta, non molto tempo
fa, per caso, mentre camminava veloce verso la macchina: lo aveva
notato fuori da un bar (era sicura che fosse lui, sapeva che era lui)
mentre parlava animatamente al telefono, una sigaretta in bocca.
Era rimasta un momento ferma ad ammirarlo (sì, non
c’era altro termine per definire la cosa), ad ammirare quel
ragazzo alto e snello, con gli stessi capelli corvini che ricordava, lo
stesso volto pallido dai lineamenti perfetti, solo più
maturo, ancora più bello se possibile, ma gli occhi, ecco,
quando lui aveva sollevato la testa e l’aveva vista, erano
sì gli stessi occhi scuri che avevano ammaliato le
ragazzine, allora, eppure diversi, ancora più intensi, occhi
che parevano scavarle dentro e vederla, vederla veramente, vedere lei.
Aveva proseguito in fretta ed aveva cacciato quell’immagine,
quella sensazione, ma in un angolino della mente aveva incasellato
quella figura, quel volto, quegli occhi, come pericolosi, come se
avesse avuto sempre ragione sua madre.
- Siete
rimasti in contatto? – chiese a Naruto.
- Io e
Sas’ke? Ovvio! –
In quel momento aveva sbirciato Karin che stava messaggiando al
cellulare ignorandoli ostentatamente: si diceva che avesse avuto una
relazione con Sasuke, e che fosse stata lei a lasciarlo.
- Papà ha chiamato? – chiese a sua madre tornando
al presente.
- Sì, ha detto di non aspettarlo, che mangiava
qualcosa in ufficio –
Come sempre.
Quel giorno, se non fosse stato per i suoi cugini, sarebbe rimasta al
lavoro anche lei, pensò con un nodo allo stomaco.
Guardò sua madre.
Sapeva che soffriva della continua assenza del marito, e si
ritrovò a fissare il piatto infastidita da quel sorriso
falso, da quella voce affettata, come se dovesse mantenere la facciata
anche con lei, sua figlia.
Quando i cugini entrarono dalla porta punzecchiandosi, così
chiassosi e invadenti, un’ondata di allegria che seguiva
Naruto come un’ombra, involontariamente sorrise.
Mangiò con il sorriso sulle labbra mentre ascoltava sua
madre fare domande indiscrete ed imbarazzanti, cui gli altri due
rispondevano senza alcun imbarazzo, ed era come un vento nuovo che
invadeva il loro piccolo mondo asfittico, un vento che scompigliava i
gesti artificiosi e le pose manierate, le parole che significavano
tutt’altro e quelle sussurrate alle spalle.
Per una frazione di secondo pensò che era contenta di averli
lì.
_______________
Si recò al lavoro subito dopo pranzo.
Era un giorno importante quello, suo padre doveva scegliere un progetto
per la riconversione di una delle loro industrie, ora in perdita, e
doveva comunicare la sua decisione durante l’assemblea che si
teneva quel pomeriggio: lei aveva lavorato per settimane a quello
stramaledetto progetto e ne era piuttosto fiera, o credeva di esserlo.
Tornò a casa la sera, stanca, delusa, demotivata.
Alla fine non era stato scelto il suo progetto, come sempre, e questa
volta era stato come un pugno in faccia, perché il suo era
il migliore, ne era sicura, non era così?
O c’era qualcosa che non andava e non se ne era accorta?
Magari l’altro aveva più possibilità di
successo, ma lei non riusciva a vederlo, accecata dal proprio interesse?
No, non ci credeva.
Era uscita dalla sala riunioni senza salutare, troppo arrabbiata per
provare a protestare, gli occhi asciutti, le lacrime di rabbia che
rimanevano all’interno, bloccate.
Stronzo, non riuscì a fare a meno di pensare,
stronzostronzostronzo.
Cos’era che non andava bene, che non era mai abbastanza per
suo padre?
Era troppo giovane? Era una donna? Era sua figlia e temeva di fare
favoritismi?
O era solo che la credeva un’incapace?
Perché era sempre stato così con lei, sempre a
notare quello che mancava, quello che poteva essere modificato, mai
quello che c’era, e probabilmente nemmeno le considerava, le
sue proposte.
Mentre apriva la porta di casa (abitava in un’ala separata
della grande villa, con ingresso autonomo, ma comunque lì, a
portata di mano, sotto controllo) provava solo un’enorme
amarezza, e sentiva un nodo in gola che assomigliava a un grumo di
lacrime e rimaneva lì, ad impedirle di respirare a pieni
polmoni, perché non piangeva mai lei, suo padre
l’aveva sempre guardata con disprezzo quando scoppiava a
piangere da bambina, e non voleva, non poteva dargli quella
soddisfazione, dimostrargli che davvero non valeva niente.
Non appena dentro provò a chiamare Kakashi, uno dei
collaboratori con cui da qualche tempo aveva una specie di relazione:
non avevano potuto scambiarsi neppure una parola dopo
l’assemblea, le aveva solo dato una pacca sulla spalla mentre
si allontanava, come se fosse sufficiente, come se potesse farsi
scivolare addosso tutto come faceva lui.
Non rispondeva ma la richiamò lui poco dopo, quando era
lì che si struccava davanti allo specchio: le chiese come
stava e si accontentò del suo tiepido ‘Bene
ora’.
Poi lo ascoltò in silenzio mentre le comunicava che doveva
andare fuori città per un improbabile impegno improvviso e
non potevano vedersi il giorno dopo.
Stronzo.
Erano rimasti d’accordo che quel sabato lo avrebbero passato
insieme, ma sapeva di non poterci far conto, con lui non si sapeva mai,
e non poteva pretendere niente da quella relazione semiclandestina,
superficiale, che aveva iniziato non sapeva neppure perché,
forse solo perché si sentiva sola, e aveva bisogno di
qualcuno.
Sapeva che Kakashi preferiva condurre un’esistenza defilata,
di retroguardia, senza esporsi davvero, per questo non capiva
perché si sentisse così delusa.
Avrebbe dovuto mangiare qualcosa ora, e poi andare a letto, ed invece
si lavò, si cambiò in qualcosa di più
comodo, e dopo essersi sistemata i capelli in una crocchia ed essersi
truccata di nuovo con cura (erano solo i suoi cugini, ma non voleva
mostrarsi trasandata neppure con loro, con nessuno se era per quello,
come se uscire senza trucco, senza un’apparenza impeccabile,
fosse un’apertura fatale, un rischio imponderabile), si
incamminò verso la dependance, dove i cugini avevano detto
che l’aspettavano per festeggiare il loro arrivo.
Aveva optato per non portare la bottiglia di champagne (era sprecato
per loro ), e dopo aver bussato, dopo che Naruto aveva esclamato
‘Avanti!’ a gran voce, entrò a mani
vuote pensando che almeno loro non si sarebbero offesi per questa
mancanza di etichetta.
Avvertì immediatamente lo sgradevole odore di fumo.
Perlomeno era solo fumo di sigaretta, si disse mentre si chiedeva chi
fosse dei due a fumare (Karin probabilmente) e intanto mandava a
zittire la vocetta interna che assomigliava incredibilmente a quella di
sua madre e le diceva che era da maleducati fumare in casa
d’altri.
Seguì il rumore delle risate e li trovò in sala,
seduti attorno al basso tavolino, sui cuscinoni che avevano estratto
dai divani: avevano una bottiglia di liquore che dovevano aver trovato
lì in casa e Karin stava bevendo a canna, ma la cosa
sconvolgente non era quella, era il fatto che non erano soli, che
c’era Sasuke Uchiha seduto tra loro, che la guardava con la
sigaretta in bocca.
Una scarica di eccitazione spazzò via immediatamente la
stanchezza.
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La storia è breve eh?! 3 o 4 capitoli, perchè non
ho ancora voglia di faticare troppo.
Il prossimo è assai più lungo ed è dal
punto di vista di Sasuke.
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Capitolo 2 *** In una gabbia ***
Ecco qua il secondo
capitolo.
La settimana prossima sono via, per cui salto, ci sentiamo per quella
successiva!
2.
In una gabbia.
Sasuke aveva imparato a sue spese che dire di no a Naruto equivaleva ad
un enorme spreco di fiato ed energie, per cui quando quella
sera l’idiota gli aveva chiesto (imposto) di portargli del
ramen perché stava morendo di fame (avrebbe poi scoperto che
aveva pranzato e cenato abbondantemente, e che il suo frigo era pieno)
dopo un paio di no che erano puro proforma aveva acconsentito.
Per farlo entrare in quella specie di fortezza Naruto aveva manomesso
alcune telecamere e si era inventato che voleva uscire dal cancello a
perlustrare i dintorni, e con l’enorme casino che come sempre
lo accompagnava era riuscito a distrarre tutti abbastanza dal
permettergli di sgusciare all’interno inosservato ( per gli
Haruno era persona non
grata e se fossero venuti a conoscenza della sua presenza
lì dentro probabilmente avrebbero chiamato la polizia, se
non sparavano a vista).
Naruto lo aveva trascinato ghignando fino alla dependance, che era tre
volte il suo appartamento, con un arredamento freddo che seguiva le
ultime tendenze, senza un tocco personale, e ben si adattava ai suoi
proprietari, persone per cui la facciata era tutto.
- Dopo forse viene anche Sakura, mia cugina, te la ricordi
vero? – bofonchiò il coglione mentre si ingozzava
con le due porzioni di ramen che gli aveva portato.
Sì, si ricordava di Sakura.
L’aveva rivista di recente, di sfuggita, e l’aveva
riconosciuta subito: alle medie era una ragazzina timida, diversa dalle
altre, ma era diventata esattamente come aveva immaginato, come aveva
temuto: bella, elegante e snob… una semplice facciata.
- Non è che mi fa sbattere fuori? –
domandò aprendo un pacchetto di sigarette ancora sigillato.
- Ma va! – replicò l’altro
sputacchiandogli nel contempo sulla maglietta – sei mio
ospite! –
Lui guardò il cellulare per controllare se lì
c’era campo e poi si accese la sigaretta che aveva tirato
fuori.
Inalò lentamente il fumo prima di farlo uscire.
- Come va? – chiese l’altro un
po’ più serio – Notizie? –
- Non ancora –
Karin li aveva raggiunti in quel momento sventolando una bottiglia di
liquore tutta orgogliosa.
- Trovato! – esclamò piazzandosi sulle
sue ginocchia.
- Prenditi una sedia – le fece spingendola via.
Era da quando era arrivato che gli stava appiccicata addosso e la cosa
iniziava a seccargli: la loro relazione era stata uno sbaglio fin
dall’inizio, era finita male, ed aveva rischiato di
compromettere anche la sua amicizia con Naruto; non sapeva esattamente
cosa avesse in mente Karin, se cercava solo un po’ di sesso o
qualcosa in più, ma qualunque cosa fosse, era meglio
evitarla.
Lei non si scompose di molto, come suo fratello non si scomponeva mai
(quasi mai, ricordò), invece si alzò con la
bottiglia in mano e se andò di là.
- Finisci quello stupido ramen, vi aspetto di qua!
– urlò dall’altra stanza.
Si erano già spostati tutti in salotto quando era arrivata
la padrona di casa.
Indossava un semplice paio di jeans e una maglietta, ma c’era
qualcosa di sofisticato nel suo modo di tenere i capelli raccolti,
nella posa un po’ altera e in quegli enormi occhi verdi che
lo fissavano sbalorditi, ed era se non altro curioso vedere miss
perfezione presa alla sprovvista.
Rimase ad osservarla divertito mentre se ne stava in piedi, senza
sapere che fare o dire, un po’ irrigidita, con
l’aria di voler uscire di lì il prima
possibile.
- Siediti qui! – esclamò Naruto
spostandosi per farle posto tra loro due – Hai visto come
è cambiata? – gli fece.
Sasuke la guardò ancora ed incrociò un momento i
suoi occhi prima che lei distogliesse in fretta lo sguardo e si
sistemasse vicino a suo cugino, il più distante possibile da
lui, neanche fosse una specie di pericoloso criminale.
Notò che il fumo della sigaretta le irritava gli occhi e si
sollevò.
- Esco, devo telefonare – spiegò mentre
usciva dalla porta.
Una volta all’aperto provò a chiamare suo
fratello.
Niente, non rispondeva ancora.
Rimase ugualmente fuori, sotto il portico, col cellulare in mano ed una
sigaretta in bocca, a fissare le ombre tra gli alberi e la leggera
pioggia intermittente che non faceva rumore; a intervalli gli arrivava
all’orecchio la risata allegra di Naruto, o l’eco
della voce squillante di Karin.
Si stava bene lì, e una volta finita la sigaretta se ne
accese un'altra; ogni tanto tentava di chiamare, ma quel disgraziato
non rispondeva ancora, e si chiese cosa stesse facendo in quel momento,
cosa provasse, cosa volesse, e per l’ennesima volta si
domandò quale era stato il momento, il punto preciso in cui
qualcosa si era spezzato e suo fratello aveva deciso di passare il
confine.
Era così facile?
Rabbrividì e rientrò proprio mentre
quell’idiota stava raccontando, di nuovo, di quando si era
tuffato in alto mare anche se non sapeva nuotare, convinto che bastasse
muovere le gambe e le braccia per rimanere a galla.
Lo aveva recuperato tirandolo su per i capelli.
Rimase un momento sulla soglia a guardare Naruto che rideva di quella
sua risata contagiosa, Karin (sembrava già brilla) che dopo
aver preso un’altra sorsata passava la bottiglia a Sakura, e
quest’ultima che se ne stava seduta rigida sul cuscino mentre
prendeva la bottiglia e provava a bere a sua volta (con
l’aria impacciata di chi non era abituato a bere a canna),
appena un piccolo sorso, notò.
Si sedette tra Sakura e Naruto nel vano tentativo di evitare Karin,
chiedendosi come cazzo faceva ad andarsene di lì senza farsi
sparare dietro da una guardia privata, perché era un modo
davvero di merda di morire quello, ucciso perché Naruto
voleva la sua dose giornaliera di ramen.
Nell’ora successiva uscì un altro paio di volte,
per fumare e provare a rintracciare Itachi, maledicendo il telefono che
suonava a vuoto.
Nel frattempo Naruto continuava a ricordare episodi imbarazzanti di cui
purtroppo faceva sempre parte anche lui, Karin era proprio andata,
bisticciava con suo fratello per qualsiasi sciocchezza e si aggrappava
a lui senza più pudore, incurante del fatto che se la
scrollasse di dosso ogni volta, mentre Sakura…Teneva bene
l’alcool, doveva ammetterlo, se ne rimaneva lì
seduta a guardarli con un sorriso falso come era lei, ed evitava di
parlargli, evitava perfino di incrociare i suoi occhi.
Non che gliene fregasse qualcosa, si disse dopo aver preso la bottiglia
che Naruto gli passava ed avere bevuto un sorso.
Subito dopo incrociò lo sguardo che doveva essere ammiccante
di Karin e si alzò di scatto per uscire un’altra
volta.
Quando era rientrato Sakura si era voltata a fissarlo per la prima
volta quella sera, e nessuno dei due aveva distolto lo sguardo per
diversi, interminabili secondi.
Per il resto della serata si era voltata a guardarlo spesso, e se
dapprima si girava in fretta quando lui coglieva i suoi occhi su di
sè, poi aveva continuato a studiarlo sfacciatamente,
incurante di essere scoperta, fino a quando non era rimasta per lunghi
minuti a fissarlo, a studiargli perfino le mani, le braccia, il collo,
ogni centimetro di lui, con interesse, come si guardava un curioso
oggetto raro.
Vaffanculo.
Una volta, dopo che era uscito per l’ennesima volta (stava
finendo le sigarette), la trovò da sola: Naruto era in
cucina a cercare qualcosa da mangiare, e Karin presumibilmente si era
barricata in bagno.
La guardò muoversi un momento a disagio mentre le si sedeva
accanto.
- Naruto mi ha detto che fai il fotografo –
mormorò poco dopo.
- Sì –
- E che viaggi molto –
Non le rispose neppure e si voltò a scrutarla, a scrutare
quel sorriso finto, quella falsa cordialità, disgustato da
quell’abbozzo di conversazione casuale che non aveva senso,
quando erano tutti e due seduti a terra che bevevano whisky pregiato
direttamente dalla bottiglia.
Non sopportava quel sorriso, ed in un certo senso fu un piacere vederla
ritornare seria e voltarsi dall’altra parte.
- Fai servizi fotografici con splendide modelle in isolette
esotiche? – gli domandò ancora mentre si toglieva
un inesistente capello dai jeans, con una nota di esasperazione che
forse era dovuta all’alcool, ma almeno era reale.
- Solo quando ho bisogno di soldi – le rispose,
perfettamente cosciente di trattarla con sufficienza.
- Pensavo fosse una specie di punto di arrivo per voi
– gli replicò voltandosi a guardarlo stizzita
– o non sono abbastanza artistiche per te? –
Lui l’aveva fissata apertamente per alcuni secondi
chiedendosi se pensava di offenderlo con quella frase, e considerando
che in fondo scorgere qualcosa di diverso in quello sguardo, fosse
anche fastidio, era davvero un piacere.
- Mi annoia – le spiegò –
volti di plastica, espressioni di plastica, pose di plastica –
Riuscì a distinguere perfettamente la punta di rabbia che le
accendeva gli occhi, come se avesse giudicato lei e il suo sorriso di
plastica, prima che distogliesse in fretta lo sguardo.
Non gli aveva più rivolto la parola, ma dopo un poco aveva
ripreso a guardarlo, e man mano che il tempo passava (e continuavano a
bere), gli si era avvicinata sempre più.
La serata finì ingloriosamente con Karin che vomitava in
bagno, Naruto tramortito sui cuscini, e Sakura che in qualche modo gli
era scivolata addosso e gli si avvinghiava contro probabilmente senza
neppure accorgersene, e ad un certo punto, aveva il naso piantato sul
suo collo, aveva alzato gli occhi a guardarlo come se volesse baciarlo.
- Avanti – le fece seccato non sapeva bene per
cosa, dopo essere riuscito a sollevarla – ti porto fino a
casa –
La trascinò fino alla porta, e lì
l’aria fresca della notte l’aveva un poco
risvegliata e si era raddrizzata in fretta, imbarazzata.
- Posso fare da sola, grazie – mormorò
scostandosi, senza guardarlo.
Si fermò e la lasciò andare, ma restò
a guardarla camminare, composta come se fosse sobria, lungo il vialetto
illuminato, fino a quando non la vide scomparire al di là
degli alberi, e intanto si chiedeva perché Sakura Haruno lo
irritasse così tanto.
Si accese un’ultima sigaretta prima di rientrare, e poi, dato
che era impossibile uscire dalla proprietà a
quell’ora senza dare nell’occhio, si
sistemò in una camera che gli pareva libera e si
buttò sopra il letto tentando di dormire.
Si addormentò davvero e dormiva profondamente quando il
ronzio della vibrazione lo aveva svegliato (un suono che lo faceva
sempre reagire, forse per le troppe volte in cui lo aveva atteso con
ansia).
Una luce grigia entrava dalle tapparelle abbassate, doveva essere
l’alba.
- Itachi – rispose, perfettamente sveglio.
- Ciao
fratellino –
- Dove sei? Perché non mi hai mai risposto?
–
- Avevo da fare
–
Riconosceva quel tono sarcastico.
- Dove sei? – provò ancora.
- Eh,
fratellino, questi non sono fatti tuoi…ti ho chiamato per
dirti che non ci sono più soldi nel mio conto, puoi
provvedere per favore? –
Sospirò.
- Va bene –
- Penso che
dobbiamo rivedere quell’accordo, ne parleremo quando torno
–
Non ci pensava nemmeno, Itachi non era in grado di gestire il denaro.
- Possiamo parlarne ora se mi dici dove sei –
buttò comunque lì – posso venire da te
e... –
- Ne parliamo
quando torno – lo interruppe l’altro,
e poteva quasi immaginare il leggero sorriso sulle labbra,
perché Itachi sorrideva raramente, quasi mai, solo quando
stava bene, troppo bene, in un’euforia innaturale e
pericolosa – Allora
buona giornata fratellino, aspetto il versamento...cospicuo –
- Aspetta, stai prendendo le medicine? Sei sicuro che non hai
bisogno… - ma suo fratello aveva già riagganciato.
Ricadde sul cuscino e cercò di pensare al da farsi, anche se
non era possibile fare qualcosa: poteva solo aspettare, Itachi lo
avrebbe richiamato prima o poi, presto, supponeva, sperava solo che
andasse tutto bene.
Dato che a quel punto non sarebbe più riuscito a dormire per
quanto fosse stanco, si rialzò a fatica, per fortuna non
aveva bevuto tanto la sera prima (non poteva, doveva rimanere sempre
lucido).
C’era un bagno vicino alla sua stanza, e dopo essersi fatto
una doccia trovò uno spazzolino e perfino un rasoio usa e
getta ancora imballati, dovevano essere lì per gli ospiti, e
tecnicamente anche lui era un ospite, benché sgradito.
Uscì all’aperto sgranocchiando una mela, ed anche
se aveva bisogno di almeno un altro paio di caffè stava
molto meglio, doveva solo capire come uscire di lì dato che
Naruto e Karin sarebbero rimasti ko per un bel po’.
La giornata si prospettava grigia, piovosa, e si incamminò
all’interno del parco, lontano dalle abitazioni.
Seguì il vialetto che portava ad una specie di gazebo e non
si fermò quando si accorse che c’era qualcun altro
lì, era Sakura, aveva riconosciuto i capelli rosa da
lontano, una caratteristica che ben si adattava a quell’aria
un po’ leziosa.
Man mano che si avvicinava notò il volto struccato, nudo
allo sguardo, l’espressione stanca, le labbra piegate in una
piega amara, triste, e nel vederla così, viva, palpitante,
senza maschere, si accorse di quanto fosse bella in quel momento, di
una bellezza cruda, intensa.
Non aveva la macchina fotografica con sé, ma prese il
cellulare e le fece una fotografia, d’istinto, per fermare
quel momento, quell’espressione, quel volto.
Lei si voltò a guardarlo con
un’espressione prima confusa e imbarazzata, poi
nervosa, fino a quando la maschera, quella sembianza finta, di
plastica, non aveva preso naturalmente posto nel suo volto.
- Non hai fatto una fotografia a me, vero? Sono orribile
così e… -
- No, avevi un’espressione intensa invece, mi
piacevi – le fece, e le porse il cellulare per mostrarle quel
volto vero, pulito, bello, per mostrarle com’era lei davvero,
al di sotto.
Lei prese il telefono e guardò per un momento.
- Sono io? – mormorò -
non…non sembro neanche io – spiegò
impacciata – non…non mi piace, non sono venuta
bene, puoi cancellarla? –
Lui prese il telefono e cancellò la foto, senza una parola.
- Grazie –
– Cosa non ti piaceva? –
– Niente, non ero sistemata – gli
spiegò in fretta.
– E’ sempre solo una questione di
facciata? – le chiese con un leggero sorriso.
Per una frazione di secondo lo guardò indispettita
– E’ così divertente fare lo sgarbato
con me? – gli replicò frustrata, distogliendo lo
sguardo.
Sì, era divertente.
- Abbastanza – confermò – Puoi
farmi uscire di qui? – cambiò argomento, e
notò come la maschera riprendeva immediatamente il suo
posto, quel sorriso di plastica perfettamente formato.
- Certo, hai la macchina parcheggiata fuori? –
- No, ho preso un taxi, Naruto sosteneva che era sospetto
lasciare una macchina parcheggiata fuori –
- Ah –
- E’ un idiota – le spiegò, e
la vide sorridere un momento, davvero sorridere, prima di
riprendere la consueta espressione composta – però
non è così assurdo pensare che se mi avessero
visto i tuoi avrebbero chiamato la polizia –
- Bastava comunicarglielo – iniziò a
giustificarsi lei – perché è chiaro che
se trovano un estraneo in casa si spaventano…comunque se
vuoi ti dò un passaggio io, in macchina –
Supponeva che la cosa le seccasse, ma non intendeva rifiutare
l’offerta per mostrarsi educato, così
aspettò che lei entrasse in casa a prendere la borsa (quando
uscì era pettinata e truccata, notò), la
seguì fino al garage e salì
nell’automobile che lei aveva aperto, una delle meno
appariscenti lì dentro.
- Stai bene adesso? – le chiese, in fondo non molte
ore prima gli si strusciava addosso, e dubitava lo avrebbe fatto se
fosse stata sobria.
- Ho vomitato tutto, poi ho mangiato, e bevuto acqua, ed una
tonnellata di caffè, e ho preso una pastiglia…sto
bene, credo, tu? –
- Non avevo bevuto molto –
Non le chiese perché non era a letto a dormire, o a cosa era
dovuto quello sguardo triste, non erano fatti suoi, ed uscirono in
silenzio dal grande parco, al di là del cancello sorvegliato
elettronicamente, per proseguire sempre in silenzio lungo la strada che
portava in città.
- Non ti piaccio, vero? –
Si voltò a guardarla incuriosito, si aspettava qualche frase
di circostanza, formale, non un approccio così diretto, non
gli pareva da lei.
- Non particolarmente – le rispose, ma mentre
pronunciava quelle parole e notava il leggero rossore che le saliva
alle guance, sapeva che non era esattamente così.
Non gli piaceva la facciata, ma in realtà non sapeva cosa ci
fosse dietro, lo immaginava solo.
Notò che lei stringeva convulsamente le mani sul volante e
si chiese perché la cosa l’avesse colpita
così tanto – Non quanto ti sto sulle balle io
– aggiunse, ma sapeva che anche quello non era esatto.
– Non fai niente per renderti simpatico –
sbottò lei, e lui si chiese divertito quanto avrebbe dovuto
spingere per crepare definitivamente quella maschera.
- Io non sono
simpatico – spiegò con un mezzo sorriso
– ma almeno non vendo aria –
- Cosa vuoi dire? – gli chiese con un tono di voce
più acuto.
- Che il niente è niente e tutti i vestiti firmati
del mondo, tutte le parrucchiere, estetisti e trucchi del mondo
non possono nasconderlo –
Lei inchiodò di colpo (fortunatamente non c’era
nessuno in giro a quell’ora), e si voltò a
fissarlo furiosa, lo sguardo acceso, gli enormi occhi davvero magnifici
carichi com’erano di quell’emozione forte, intensa.
- Che ne sai di me! – gli urlò veemente.
- Niente – le replicò – dimmi,
chi sei tu, c’è qualcuno dietro quel sorriso
falso, sotto quella perfezione? –
- Non sono falsa! Non sai niente, niente di me! –
continuò vibrante di passione, così diversa dalla
sua figura composta, così vera – Non sono di plastica! Soffro
anch’io e… e… –
Si bloccò e distolse lo sguardo, la mano sinistra che
stringeva con forza il volante, l’altra che giaceva in
grembo, stretta a pugno.
- Lo fai apposta? – mormorò, e suonava
quasi disperata ora – Ti divertente così tanto
farmi arrabbiare? –
Una lacrima solitaria le era scesa sulla guancia e lui
sollevò una mano per girarle il volto ed asciugargliela con
il pollice, non credeva fosse così facile farla crollare, ma
non aveva pensato alla stanchezza, e al dopo sbronza.
- Scusa – le fece mentre lei si scostava
bruscamente – ti ho provocata, ma non volevo farti piangere
–
- Non piango – replicò allungandosi per
prendere la borsa nel sedile dietro e mettersi a frugare
all’interno.
- Tieni – le fece tirando fuori un pacchetto di
fazzoletti dalla tasca.
- Grazie – gli mormorò prendendolo.
E poi rimase immobile, così, senza più lacrime,
il fazzoletto stretto in mano, lo sguardo quasi vitreo, come se
tentasse di controllarsi, di ricomporre la maschera, di non piangere.
- Non sono certo perfetta – mormorò
– e non… - si voltò ancora a guardarlo
– lascia stare -
Lo fissava con due occhi grandi, tristi, bellissimi.
- Cosa c’è – le chiese con una
strana tenerezza.
- Non…non ti senti mai come se fossi in gabbia?
–
- Sì. Sempre –
E non sapeva cos’avrebbe fatto se lei continuava a guardarlo
con quegli occhi, forse l’avrebbe baciata, ma il cellulare
aveva iniziato a vibrare, e quel suono familiare, opprimente, lo
ripiombò nella realtà.
Lo controllò, era Itachi.
- Devo prendere una telefonata – spiegò,
spezzando definitivamente l’incanto.
Subito dopo scese per rispondere, e lei accostò la macchina
che era ancora in mezzo alla carreggiata.
- Itachi? –
- Ciao
fratellino, hai fatto quello che ti ho chiesto? –
- Le banche sono ancora chiuse a quest’ora
–
- Ah
già, be’, fallo presto –
- Dove sei Itachi? –
- E tu? Dove
sei? Sei tu quello che è sempre in giro per il
mondo…da cosa credi di scappare…da me? –
Si passò una mano tra i capelli e tentò di capire
cosa gli conveniva dire: Itachi viveva fuori dal mondo ma aveva
un’intelligenza di molto al di sopra della media, e quando
era così provava qualcosa di molto simile ad un delirio di
onnipotenza ed era quasi impossibile comunicare.
- Ascolta – iniziò – adesso ti
sembra di stare bene ma sai che se non prendi le medicine poi starai
male, e non… -
- Non provare
a dirmi quello che devo fare, fratellino –
- No…va bene, ma stai attento, e quando cominci a
stare male chiamami, ti vengo a prendere –
- Come sempre,
sciocco fratellino, lo sai che non puoi scappare, no?! –
Sì, lo sapeva.
L’altro aveva chiuso la telefonata e lui tirò
fuori una sigaretta, era l’ultima, e mentre se
l’accendeva, la preoccupazione che si mescolava alla rabbia,
pensò che tutto sommato preferiva suo fratello
così, sull’onda alta dell’euforia,
arrogante e crudele, piuttosto dell’Itachi desolato, senza
più speranza, che gli diceva che gli voleva bene e gli
spezzava il cuore.
Mentre fumava l’ultima sigaretta guardava quella ragazza che
lo aspettava in macchina, e lei incrociò il suo sguardo un
momento dietro il vetro, e gli sorrise appena, non uno di quei suoi
sorrisi, ma un sorriso un po’ triste e quasi timido, come
avesse paura di disturbare, e si chiese se non era ora di ammettere con
se stesso quello che aveva capito subito, fin da quando si era accorto
di quella figurina ombrosa e silenziosa che lo sbirciava appena, a
scuola: che sotto sotto non erano così dissimili, loro due,
due anime sole e ferite che tentavano di sopravvivere in qualche modo.
_________________________________________________________________________________________________________________________________-
Non so se avete già letto l'ultimo capitolo del manga, è appena uscito: sono ancora qui con un sorrisone che non se ne vuole andare, eh! |
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Capitolo 3 *** L'euforia di un momento ***
Eccomi qua!
Non ho riletto (sono tutta presa da un'altra storia che ho in mente),
per cui se c'è qualche errore, o qualche punto poco chiaro,
ditemelo!
3.
L’euforia di
un momento.
Sakura si era fermata a lato della strada, di fianco ad alcune case, ed
era rimasta ad aspettare.
Quando lo aveva chiesto, la sera prima, Naruto le aveva spiegato che
Sasuke tentava di mettersi in contatto con suo fratello che al momento
era irreperibile (come doveva essere vivere così, con
l’ombra di un fratello malato e senza la protezione di una
famiglia?), e Karin aveva aggiunto che lo aveva odiato, suo fratello,
quando erano insieme.
Le aveva anche confermato che lo aveva lasciato lei.
-
…ma non significa che non fossi più innamorata di
lui –
- E allora
perché? –
-
Perché…faceva troppo male –
spiegò l’altra passando la bottiglia a Naruto.
E c’era quella parte di lei, quella che aveva voglia di
piangere, che la capiva benissimo.
Si riscosse e tentò invano di sistemarsi un po’
meglio i capelli, perché non aveva fatto in tempo a
truccarsi accuratamente e si vergognava di mostrarsi così
imperfetta, così orribile, proprio con lui, tra tutti, che
la irritava incredibilmente e un poco la terrorizzava, ma le piaceva da
morire, inutile negarlo (ricordava vagamente il profumo della sua
pelle, quando si era lasciata andare e si era adagiata su di lui).
Il trucco era impercettibilmente sbavato e ricordò le sue
dita che le asciugavano la lacrima.
Era tanto che sentiva quel groppo in gola, quel grumo di lacrime mai
versate, e lui era così bravo a scuoterla, come se sapesse
perfettamente come fare, come se la conoscesse davvero, come
se…la vedesse.
Una sola lacrima…
Era talmente tanto che non piangeva che quella lacrima le pareva il
principio di qualcosa, o forse la fine.
Magari avrebbe dovuto odiarlo per quello, sì, avrebbe
dovuto, invece…invece mentre lo guardava avvertiva uno
strano calore, quasi fosse vicino a una fiamma, e aveva voglia di
avvicinarsi, toccare quella fiamma, come una falena attratta dal fuoco
voleva farsene avvolgere fino a bruciarsi.
Stupida, si riscosse finalmente, era Sasuke Uchiha quello, i suoi
avrebbero fatto un colpo se fossero venuti a sapere che era
lì con lui, e non avevano tutti i torti perché
era duro, caustico, e non c’era gentilezza in lui,
né cortesia, e probabilmente nemmeno un codice morale, non
corrispondente al suo almeno…e comunque, in ogni caso, era
una persona senza radici e senza legami, cui lei non piaceva neppure, e
non faceva niente per nasconderlo.
Rimase a guardarlo mentre si accendeva una sigaretta, illuminato dalla
luce grigia del primo mattino, ed in quel momento pareva una splendida
figura tragica.
- Era tuo fratello? – fece uscire senza pensare
quando lui si era seduto accanto a lei.
Aveva sentito lo sguardo di lui anche senza vederlo, dato che si
ostinava a fissare dritto davanti a sé.
– Sì – le rispose.
- Ho chiesto a Naruto a chi telefonavi –
chiarì, per un irrazionale bisogno di spiegarsi.
- Va bene -
- E’…– si interruppe
– se vuoi un mio parere ti fa onore preoccuparti
così per lui – continuò di getto,
perché ormai non le importava di esporsi ulteriormente, non
aveva molto da perdere – voglio dire…è
tuo fratello, è importante per te…gli vuoi bene
–
- Non mi fa così tanto onore –
mormorò lui – a volte lo odio -
Per una frazione di secondo rimase senza parole, colpita da quella
confidenza improvvisa.
- Sì, capisco - gli fece poi, un rossore
immotivato e stupido, così stupido, che le colorava le
guance – ma in un certo senso ti fa ancora più
onore –
- Scusa, puoi fermarti di nuovo? - le fece poco dopo.
E lei accostò ancora una volta, parcheggiò, ed
aspettò mentre lui rispondeva ad un’altra
chiamata.
Poco dopo lui aveva aperto la portiera e l’aveva guardata
senza salire.
– Non abito tanto lontano e qui vicino
c’è un distributore di sigarette – le
fece – proseguo a piedi, hai fatto anche troppo ed ho voglia
di camminare –
Annuì e si mise ad armeggiare con la borsa senza guardarlo,
per non mostrargli quanto si sentiva delusa, anche se non ne aveva
motivo, e quando trovò il cellulare lo tirò fuori
per inventarsi qualcosa da fare.
Avrebbe voluto avere ancora un po’ di tempo da trascorrere
con lui, fosse anche una manciata di minuti, perché sapeva
che non si sarebbero mai più incontrati loro due, ed anche
se era stato stronzo con lei, era stato…onesto…e
lei aveva un disperato bisogno di onestà, di
verità, di un punto fermo, e in quel momento le pareva che
il resto, che tutta la sua vita, fosse solo una parata di forma che
ricopriva un vuoto.
O forse era semplicemente il fatto che solo come la guardava le faceva
rimescolare il sangue.
Lui era ancora lì, come se fosse indeciso, e Sakura
alzò finalmente la testa a guardarlo.
- Fai due passi con me? –
- Sì – rispose in fretta, e non riusciva
a non sorridere, ma sorrideva anche lui, per cui andava bene.
Mentre scendeva dalla macchina si rese conto che si sentiva lo stomaco
in gola, che il cuore le batteva all’impazzata e le mani le
sudavano, e forse era per lui, non lo sapeva, era la prima volta che si
sentiva così agitata per un uomo, a parte suo
padre, ma era così diverso ora, era una sensazione paurosa e
nel contempo esaltante, che la rendeva instabile, come se potesse (se
volesse)rivoltarsi al rovescio da un momento all’altro, per
la prima volta in vita sua, con tutte le emozioni più intime
al di fuori.
Così rischioso.
Camminarono in silenzio dopo avere svoltato in una stradina laterale, e
girarono ancora, su una strada un po' più larga, lei che
guardava davanti a sé: ora riconosceva la strada, se non
sbagliava lì in fondo c'era un ponte.
Guardò Sasuke al suo fianco, incerta.
Le pareva quasi irreale ora.
E a pensarci tutto era irreale, lei, le sue reazioni, i suoi discorsi,
e lui, soprattutto lui.
- Sai, per la foto che hai scattato – mormorò
seguendo il filo dei suoi pensieri – non so perché
mi abbia dato così fastidio…è
che...non mi riconoscevo –
- Era solo una foto al cellulare – alzò
le spalle lui.
- Sì ma sembravo così…amara
– continuò – sembro…sembro
davvero così dal di fuori? –
– Non ti sentivi amara in quel momento? –
Sì, si sentiva amara.
- Mio padre ha rifiutato per l’ennesima volta un
mio progetto, sì che mi sentivo amara –
confessò di getto.
- Sei una stupida – le sorrise – i
parenti sono dei pessimi datori di lavoro, dovresti andartene da
lì –
Continuarono a camminare in silenzio e lei pensava che non poteva, che
lui non capiva, che non aveva senso andare altrove, a fare qualcosa che
aveva intrapreso solo per compiacere suo padre.
- Non farti intrappolare in quel mondo angusto, tu puoi
essere diversa da loro, migliore –
- Non è così facile –
mormorò, il cuore che batteva forte, forte,
perché lui non usava riguardi, mezze parole, andava dritto
al punto, senza pietà, e quello che aveva detto pareva
niente, e invece era un punto cruciale, mai espresso, mai neppure
pensato apertamente.
- Non ho detto che fosse facile, non c’è
niente di facile, e i miei consigli valgono zero, non sono un gran
esempio –
Meglio di me, pensò, il grumo di lacrime che premeva,
premeva per uscire.
Erano quasi arrivati al ponte, adesso iniziava a sentire il rumore
della città che si svegliava, qualche serranda che si
alzava, qualcuno che camminava svelto, un paio di macchine che
passavano.
Lui attraversò la strada e si fermò ad un
distributore automatico di sigarette (le piaceva perfino il suo modo di
camminare, naturalmente elegante), poi proseguirono fino al piccolo
ponte e si fermarono in cima a guardare l'acqua, a non guardare niente,
mentre Sasuke apriva il nuovo pacchetto e si accendeva l'ennesima
sigaretta.
Sakura si appoggiò al parapetto e fermò lo
sguardo sull’acqua grigiastra che scorreva silenziosa sotto
di lei: sembrava senza fondo e misteriosa, e un poco minacciosa.
Si voltò a guardare dall’altra parte del fiume,
dove la strada proseguiva, e per un tratto seguì con gli
occhi una coppia che camminava abbracciata, che dava loro le spalle e
rideva, e chissà dove andavano insieme di primo mattino.
Sembravano felici, sembravano padroni della loro vita.
Il fumo della sigaretta le arrivò alle narici, fastidioso, e
quando si voltò a guardarlo lui la guardò a sua
volta: i suoi occhi scuri riflettevano la luce grigia del cielo plumbeo
ed in un qualche modo apparivano senza fondo e misteriosi come
l’acqua del fiume, e altrettanto minacciosi.
Cadeva qualche goccia di pioggia ora, e rimasero per alcuni secondi
così, a studiarsi, lei che non riusciva a distogliere lo
sguardo e si chiedeva se lui sapesse l’effetto che facevano i
suoi occhi, e se si divertisse a mettere in imbarazzo le persone.
Ad agitare lei.
- Mi piace quando mi guardi così – le
fece.
E lei distolse lo sguardo, le guance in fiamme, senza sapere
cosa dire.
Si staccarono contemporaneamente dal parapetto e si avviarono in
silenzio lungo la strada.
Piovigginava appena, quasi niente, e poi non importava, e lui aveva
finito la sigaretta ed aveva buttato il mozzicone a terra.
Non si dovrebbe, pensò una parte di lei, quella che
assomigliava a sua madre, e non dovrebbe fumare così tanto,
gli farà male, non voglio che stia male, pensava
un’altra Sakura che se ne stava seppellita dentro di lei da
così tanti anni.
- Non conosco nessuno che fumi così tanto
(troppo) – ruppe il silenzio.
- E’ rilassante…non come una scopata
–
- Almeno quelle sono più salutari –
replicò in fretta guardando a terra, un poco imbarazzata.
- E’ una proposta? –
- Non credo tu abbia problemi a trovarti una donna,
scommetto che hai un paio di ragazze che ti aspettano, in giro per il
mondo – rispose di getto, in difesa, più agitata
di quel che avrebbe dovuto.
- No, non ho mai relazioni molto lunghe - le fece accendendosi un'altra
stramaledetta sigaretta.
- Perché? -
Lui aveva esitato un momento – Le persone non sono
disposte ad accontentarti del secondo posto –
Fu il suo turno ora di rimanere in silenzio per qualche secondo, lui
aveva parlato con un tono neutro, quasi duro, eppure lei sapeva che non
aveva casa, che non aveva famiglia, e che doveva sentirsi solo, senza
un punto fermo.
Si chiese se si riferisse ad una situazione particolare, ad una donna
in particolare. A Karin magari.
Cacciò la fitta di gelosia che non aveva motivo di esistere
e pensò che suonava troppo come una scusa quella, e non si
riferiva solo a lui, si riferiva anche a se stessa.
Non era un modo per dirsi che non valeva la pena di provare?
Per non provarci nemmeno?
- O magari questa è solo la tua scusa per non
impegnarti – mormorò.
Lui non aveva risposto, ma aveva sorriso appena prima di alzare la
testa e guardare la strada davanti a sé, in lontananza.
Continuò a sbirciarlo cosciente del suo corpo che camminava,
del vento sulla pelle, di quella strana sensazione che avvertiva di cui
lui era la causa.
- E' un po' più complicato di così - le
rispose poco dopo – Itachi è un pensiero costante,
fisso...è un peso che non mi fa dormire, o rilassare...anche
in questo momento, non so dov’è e cosa sta
facendo, e so che non sta prendendo i farmaci e che prima o poi si
sentirà male –
Lei ascoltò in silenzio, sforzandosi di capire, protesa
verso di lui.
- Non è possibile rintracciarlo in qualche modo? –
gli chiese poi – la polizia non può fare qualcosa?
–
- E’ un adulto, può fare quello che
vuole, perché la polizia dovrebbe rintracciarlo -
- Ma se è malato -
- E’ libero di fare quello che vuole, non
l’ho fatto interdire – le fece bruscamente
– forse ho sbagliato ma non me la sono sentita, lui sarebbe
venuto a saperlo, e non volevo –
- Sì, capisco - sussurrò lei
trattenendo la tentazione di sfiorargli le dita con le sue.
Sei anche tu in una gabbia, pensò.
Continuarono a camminare in silenzio, e ormai non era più
nemmeno consapevole delle strade che percorreva meccanicamente, della
pioggerellina sottile che cadeva, troppo tesa, troppo cosciente di
essere accanto a lui, di non avere più tempo.
Quando erano arrivati di fronte ad un edificio che le aveva indicato
come casa sua, lei si era fermata a guardarlo, tesissima, e sapeva di
avere scritte in volto mille emozioni che avrebbe dovuto controllare,
che non si dovevano mostrare, ma non importava ora, e poi era la sua
ultima occasione di vederlo.
Pioveva un po’ di più, ora, ed iniziava a bagnarsi
i capelli, ma non le importava.
- Ehi – le fece lui, e come al solito non
distoglieva lo sguardo, si divertiva a tenerla prigioniera in quel
fuoco nero.
- Sei bello – mormorò.
Lui si era abbassato appena e le aveva sfiorato le labbra con le sue
per un brevissimo momento. Troppo breve.
- Anche tu –
Restò a fissarlo paralizzata mentre lui inclinava la testa
di lato e appoggiava ancora le labbra sulle sue, e senza rendersene
conto allungò le braccia ed appoggiò una mano
sulla spalla di lui, e l’altra sul suo collo, a toccargli i
capelli.
Improvvisamente la testa le girava e si sentiva folle, e
euforica, e la sensazione delle sue labbra era così perfetta
che aveva subito schiuso le sue e aveva assaporato la lingua di lui che
sapeva di fumo, e avrebbe dovuto infastidirla teoricamente, invece le
piaceva da impazzire.
Quando lui la strinse a sua volta si sentì mancare il
respiro, una strana vertigine che le impediva di pensare, di capire, e
la faceva affondare in quella sensazione fisica, carnale, che era il
sapore di lui, l’odore di lui, il calore di lui.
Quando si erano staccati erano ambedue bagnati di pioggia ed il cuore
le batteva all’impazzata, pareva sul punto di scoppiare.
- Vieni – le fece prendendole una mano.
Lo guardò esitante.
- Che c’è – le chiese
accarezzandole la guancia, e lei non riusciva a ragionare lucidamente
– c’è qualcuno? –
- Circa… - ammise imbarazzata, aveva completamente
scordato Kakashi.
- Non sembri molto convinta. E’ importante?
–
- No -
- E allora vieni –
Lo seguì all’interno dell’edificio, e
tremava come un’adolescente al suo primo appuntamento, e
nell’ascensore, mentre lui la baciava, e le sue mani le
scorrevano sulla schiena fino ai glutei, lei che gli si aggrappava
quasi disperata, la testa che girava, e girava,
pensò che probabilmente era così agitata che non
si sarebbe neppure divertita così tanto.
- Cosa c’è – le
sussurrò all’orecchio.
- ...hai un preservativo? – gli rispose col cuore
che batteva ancora all’impazzata, perché se non lo
aveva non si faceva niente, su questo era irremovibile e...
- Sì, li ho presi prima –
Pensò che allora non era solo un distributore di sigarette
quello, non ci aveva fatto caso, e allora voleva dire che
già in quel momento…
La baciò ancora, interrompendo i suoi pensieri, ogni
pensiero.
I suoi baci le mandavano un fremito di eccitazione lungo
l’intero corpo, e sapeva che anche se per
l’agitazione non fosse riuscita a raggiungere
l’orgasmo, comunque questa giornata se la sarebbe ricordata
per sempre.
Entrarono nell’appartamento abbracciati e baciandosi
arrivarono in qualche modo in camera; le tapparelle erano ancora
abbassate e lui aveva acceso la lampada sul comodino prima di farla
sedere sul letto.
Lo guardò togliersi la maglietta e fece scorrere gli occhi
sul suo corpo. Meccanicamente alzò il braccio e
passò le dita sulla sua pelle, incantata.
Lo aiutò a toglierle a sua volta la camicetta
improvvisamente vergognosa, consapevole di tutti i suoi difetti,
orribilmente insicura perché tutto questo era assurdo.
Cosa voleva da lei, proprio da lei?
Lei che non gli piaceva neppure.
Ma forse questa era solo una bugia, e forse la sua era solo paura.
Allungò comunque la mano e la posò sul suo collo
attirandolo a sé, sul letto, perché aveva voglia
di lasciarsi andare e non pensare a niente.
- Sas’ke – mormorò, e doveva
piacerle il suono del suo nome perché lo ripeté
ancora, e ancora mentre lui le baciava il collo, e il seno, e le
slacciava i jeans impaziente.
Avvertì ancora un senso di vertigine mentre lo guardava
spogliarsi a sua volta, i particolari del corpo di lui che le si
stampavano nella memoria troppo nitidi per essere un sogno, o un parto
della sua immaginazione.
- Sas’ke –
- Non devi ripetere il mio nome –
l’ammonì lui – o rischi di fartelo
scappare con il tuo uomo –
Rimase per qualche secondo completamente immobile, quasi umiliata,
smontata da quelle parole così crude, che sicuramente erano
vere e la riportavano alla squallida realtà di quello che
stavano facendo.
Non era niente lei, per lui?
Solo un modo per rilassarsi?
- Va bene – mormorò improvvisamente
triste.
Lui sorrise e le accarezzò appena la guancia.
- Sakura – le sussurrò, così
seducente, così pericoloso.
E ancora una volta era rimasta prigioniera sotto il suo sguardo
intenso, dimentica di tutto il resto, l’eccitazione che come
un formicolio la faceva tremare leggermente, un’impellente
ondata di desiderio in mezzo alle gambe che le pareva intollerabile.
Si abbandonò alle mani di lui, al calore del suo corpo,
delle sue labbra, della sua lingua dicendosi che doveva vivere, non
sviscerare tutto.
Era stato il suo ultimo pensiero coerente, perché fare
l’amore con lui era stato come non essere più
padrona di se stessa, e per quanto toccasse, si muovesse, baciasse, era
come se fosse solo lui a decidere come e quando doveva provare piacere
lei, come se fosse lui a decidere come il suo corpo doveva reagire,
come se il suo corpo dovesse obbedire a lui, non a lei.
Dapprima era stato un piacere che cresceva lento, una dolcissima
tortura, poi, quando era entrato in lei con più forza, era
esploso in un orgasmo quasi violento, brutale, che l’aveva
lasciata senza più un briciolo di energia.
Karin la sera prima le aveva detto che più bravi erano a
letto più erano bastardi, e si chiese con una punta di
tristezza se si riferiva proprio a lui.
__
Il suo corpo spossato se ne stava languido accanto a quello di lui, e
gli occhi lo guardavano ancora lucidi di piacere, e stanchezza.
- Cosa c’è -
- Ti guardo – gli spiegò pigramente
– non riesco a trovare difetti nel tuo corpo – la
cosa era assurda se ci pensava.
- Perché li cerchi? -
- Perché tutti li abbiamo, io ne ho, e tu invece...-
- Il tuo corpo non ha difetti – la interruppe
facendo scorrere una mano sul suo seno - I corpi non hanno difetti,
hanno caratteristiche fisiche…tutti i corpi possono essere
perfetti, e il tuo mi piace tantissimo -
Si era sollevato a guardarla, a guardare il suo corpo mentre lo
tracciava con le dita, e lei era improvvisamente arrossita sotto il suo
sguardo attento, il che era ridicolo se pensava a quello che avevano
fatto fino a quel momento.
- Aspetta – le fece, e lei rimase a studiarselo
mentre si alzava nudo e prendeva una macchina fotografica dal
comò – queste foto ti piaceranno di più
– le spiegò sedendosi sul bordo del letto.
Lo fissò improvvisamente imbarazzata,
perché chissà dove finiva quella foto e...
- Solo il viso, non le mostro a nessuno –
E forse era solo ingenua, forse se ne sarebbe pentita, ma gli credeva,
e rimase a guardarlo di nuovo rilassata, di nuovo totalmente fiduciosa
come era stata prima, tra le sue braccia.
Aspettò paziente per un poco mentre lui scattava le
fotografie, e dopo allungò il piede e si mise a sfregargli
lentamente la coscia, fino a quando lui non appoggiò la
macchina fotografica e non l’attirò a
sé.
Era possibile avere bisogno di qualcuno che si era appena conosciuto?
Perché mentre facevano ancora l’amore le pareva di
non poterne più fare a meno.
Dopo continuò a toccarlo, e guardarlo, e guardarlo, e non
capiva perché, ma sentiva le lacrime che premevano,
premevano, per uscire, e sapeva di avere gli occhi lucidi,
probabilmente rossi.
- Non so cosa mi prende – mormorò sulla sua pelle,
perché si vergognava di mostrarsi così fragile,
vicina al crollo, e non sapeva cosa potesse pensare lui.
Lui non aveva commentato, e Sakura continuò a
stringerlo, e stringerlo, e non voleva staccarsi da lui.
Rimasero abbracciati per alcuni minuti, così poco, troppo
poco, Sasuke che l’accarezzava piano, e fu lui a staccarsi
per primo.
- Devo andare in banca prima che chiuda – le
spiegò.
- Che ora è? – chiese incerta, e si
spostò per prendere l’orologio che si era tolta
(le dava fastidio, o meglio, dava fastidio a lui) –
così tardi! – esclamò sorpresa
– mia madre mi starà aspettando per pranzo
– e non aveva alcuna voglia di andare da lei, di tornare
lì.
Sasuke si sollevò sul letto scostandole la mano che ancora
indugiava sulla sua pelle e prese il cellulare che aveva lasciato sul
comodino, per una volta abbandonato.
- Devo andare – le spiegò
mentre lo controllava.
- Sì, anch’io –
mormorò lei alzandosi a sua volta.
Si erano rivestiti in silenzio.
- Se vuoi ti accompagno alla macchina –
- Non occorre che ti disturbi, è qui vicino
–
Lui non aveva insistito e per qualche assurdo motivo si era sentita un
po’ morire.
- Allora vado – mormorò, e lo
guardò ancora un momento, l’ultimo – Non
sparire, ti prego – aggiunse, ma non sapeva se lui aveva
sentito.
In ogni caso non aveva detto niente, si accendeva una nuova sigaretta e
neppure la guardava.
Sakura aveva preso la sua borsa ed era scappata fuori di lì,
da quella giornata irreale, da quella stanza irreale con quella persona
irreale, perché tra poco doveva rientrare nella
realtà, nella sua realtà fatta di persone reali,
di lavoro che non soddisfaceva e di legami asfissianti, o di relazioni
ambigue, meno intense, un po’ banali, ma prevedibili,
manovrabili.
Non pioveva più, notò.
Le prime lacrime iniziarono a scendere poco dopo.
Camminò a testa bassa, tentando di non farsi notare,
perché mentre procedeva verso la macchina non riusciva a
fermare le lacrime che le riempivano gli occhi e iniziavano a rigarle
il viso.
Era una sensazione inconsueta, quasi bizzarra, come se quelle gocce
scendessero meccanicamente, senza un motivo, senza alcuno stimolo,
com’era possibile?
Iniziò a ridere tra le lacrime e dopo aver frugato in borsa
si asciugò le guance, invano, ormai singhiozzante, incapace
di arrestare quel fiume di emozioni, di pianto che la devastava
dall’interno.
Finalmente si chiuse in macchina, al sicuro, e continuò a
piangere per quelle che le parevano ore; quando smise si sentiva
completamente svuotata, e quel grumo amaro che da sempre le occupava la
gola era come sciolto.
Il giorno dopo Naruto le spiegò che Sasuke era dovuto
scappare via, che suo fratello lo aveva chiamato e gli aveva chiesto di
andare a prenderlo da qualche parte, e che lui era subito corso,
svanendo dalla sua vita per andarsene nella vita di qualcun altro,
qualcuno di irreale quanto lui.
_____________________________________________________________________________________________________________________________
Ecco…per me la storia potrebbe anche finire qui,
ma sarò generosa e aggiungerò un altro capitolo,
eh eh.
E lo so, in un modo nell’altro li faccio sempre finire nello
stesso letto, ma mi pare sempre che Sakura faccia bene a cogliere
l’attimo, o forse, diciamocelo, sono solo molto perversa, eh!
Comunque credo che un rating arancione possa essere sufficiente, se mi
sbaglio ditemelo (forse è che mi sono abituata a scrivere
‘ben di peggio’:D).
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Capitolo 4 *** Conclusione ***
Scusate!
Ho soltanto sistemato un problema, non è un capitolo nuovo!
Ecco
qui l'epilogo, breve, niente di speciale.
Ho
riletto distrattamente, sono sempre presa dalla nuova storia
(è dura resistere e non farvela leggere subito), con cui
però sono ancora in alto male (circa a metà), e
dal momento che sto diventando sempre più pigra non faccio
pronostici.
Avrei
anche in progetto una lemon simile all'ultima, ovvero scritta senza
nessun altro scopo che soddisfare i nostri (miei?) bassi istinti, ho
già in mente una trama (se si può chiamare
trama):D, mi manca solo l’ispirazione del momento.
CONCLUSIONE
Qualche
mese più tardi.
Sakura
finì di bere il caffè e seguì le
indicazioni per gli arrivi: l’aereo era atterrato da pochi
minuti e scommetteva che Naruto aveva solo il bagaglio a mano,
conoscendolo.
Perché
ormai poteva dire di conoscerlo, ed era strano come fossero cambiate le
cose nel giro di così poco tempo, e se ci pensava tutto era
iniziato da quando era andata a prendere per la prima volta i suoi
cugini, proprio lì.
Naruto
uscì in quel momento e la vide.
-
Ciao cugina! – esclamò mentre la stritolava come
al solito – scusa se ti è toccato venire a
prendermi, ma Hinata non poteva! –
Le
cose non erano cambiate solo per lei, Naruto si era innamorato, ed
anche per lui tutto era iniziato proprio quella volta in cui era stato
ospite loro.
-
Non preoccuparti, così ho l’occasione di vederti.
Come sta Karin? –
-
Benissimo! Ti saluta tanto! E’ tutta dolce da quando ha
Suigetsu, cioè, si sfoga con lui credo –
Già,
perfino Karin aveva trovato qualcuno, era solo lei quella che non
trovava nessuno, non che ne avesse il tempo adesso, anzi, non aveva
nemmeno un po’ di tempo per se stessa, tanto che rimanersene
a guardare la tv con un panino in mano le pareva un lusso ed un
privilegio.
E
poi anche se avesse avuto tempo non poteva: si rendeva conto di avere
bisogno di rimanere da sola in quel periodo, in modo da mantenere la
lucidità necessaria per ricostruirsi una vita, e costruire
contemporaneamente se stessa.
Anche
per questo non rimpiangeva nemmeno un poco Kakashi, anzi, a volte si
chiedeva come avesse potuto trascinare avanti quella storia per mesi,
aveva così tanta paura di rimanere sola?
Quando
ci ripensava lo faceva con un po’ di stupore, e una velata
vergogna.
Era
finita subito dopo ‘quella volta’, come chiamava il
breve incontro con Sasuke nella sua mente, quel lunedì in
cui ancora si muoveva sospesa, e pensava, pensava, pensava.
-
Ciao Sakura -
Si
voltò sorpresa a guardare Kakashi, in quei giorni si era
completamente dimenticata di lui, ed anche se era ridicolo, le pareva
quasi impossibile che per lui non fosse lo stesso.
-
Ci vediamo una di queste sere? –
-
Sì, certo – mentì senza neppure
intenderlo, ma sapeva che non aveva proprio voglia di vederlo.
La
terza volta che lui le aveva chiesto quando era libera si era decisa e
gli aveva spiegato seria che aveva bisogno di stare un po’ da
sola, guardandolo nell’unico occhio visibile, che avrebbe
avuto bisogno di una blefaroplastica, ma insomma, in fondo lui aveva la
sua età, era comprensibile.
Lui
aveva cercato di chiamarla più volte le sere successive
(ignorali e cominciano a correrti dietro, si era detta
spassionatamente), ed aveva continuato a mandarle messaggi per diversi
giorni, di solito alla mattina e alla sera, alcuni anche carini
(messaggi cui lei non aveva mai risposto e aveva cancellato subito), ed
alla fine sembrava avere capito.
Era
finita senza grandi sofferenze, con appena un po’ di
imbarazzo iniziale presto superato, senza grandi emozioni,
così come era cominciato ed aveva continuato per quasi un
anno.
Come
avesse potuto non stancarsi prima era un mistero incomprensibile con il
senno di poi.
Ma
ora aveva altro cui pensare.
-
Niente autista, eh?! – la riportò al presente
Naruto quando arrivarono alla macchina – scommetto che ti
senti libera –
Libera…che
strana parola, così ambigua in fondo.
-
A proposito – continuò lui – riesci a
liberarti domani sera e venire a cena con gli altri? –
-
Me l’ha chiesto anche Rock Lee, non so se ci riesco, davvero
– spiegò mentre apriva la portiera – mio
padre mi sta massacrando –
-
Resisti ancora per poco! – ridacchiò
l’altro – però pensaci, Rock Lee
è un bravo ragazzo – aggiunse ammiccante sedendosi
al suo fianco.
Sì,
sicuramente era un bravo ragazzo.
Forse
era la vicinanza di Naruto, ma ripensò a Sasuke.
Non
lo aveva più rivisto.
Lo
sapeva già in fondo, era stato solo l’incontro di
una notte (o di un mattino), e a volte non le pareva neppure reale, le
pareva di aver vissuto una specie di sogno.
Uno
strano sogno nebuloso in cui neppure si riconosceva e che la faceva
riflettere: chi era lei, Sakura Haruno, e soprattutto cosa voleva?
Come
voleva vivere la sua vita?
Eppure
un po’ ci aveva sperato, che lui non sparisse.
Una
volta aveva chiesto a suo cugino che fine avesse fatto, e nonostante
all’apparenza fosse stata una domanda casuale, dentro si
sentiva rimescolare lo stomaco e le pareva di respirare a fatica.
-
Ah, suo fratello sta meglio in questo periodo così
è in giro per il mondo…non mi ricordo neanche
dove. Lontano però –
Lontano.
A
volte ci pensava e si chiedeva dove fosse ora: lo immaginava in qualche
posto esotico, fuori dal mondo, solo, perché non le piaceva
pensarlo con un’altra donna, una donna che si faceva
ammaliare da due occhi intensi, per quel che durava.
Mentre
metteva in moto si disse che avrebbe voluto almeno ringraziarlo, in
fondo era per lui che era cambiata, lo sapeva, era grazie a lui, se la
sua vita era cambiata, anche se non capiva ancora come le fosse venuto
il coraggio di ribaltarla così: era stato un momento, un
giorno si era addormentata sentendosi come sempre, e il giorno dopo si
era alzata ed era diversa.
Ma
sapeva che tutto era partito da lui.
Avrebbe
iniziato un nuovo lavoro a breve, era stato Naruto a trovarglielo,
nella ditta in espansione di un suo amico, Shikamaru Nara (un genio a
quel che pareva), con cui collaborava anche lui, al momento come
esterno, fintanto che non si trasferiva definitivamente in
città (dove guarda caso abitava anche Hinata, la sua
ragazza).
Si
era presentata al colloquio su insistenza dei suoi due pazzi cugini,
decisa a non aspettarsi niente, ed aveva subito amato
l’atmosfera elettrizzante che si respirava, la voglia di
cambiare, di rinnovare, di sperimentare.
Shika
pareva convinto che da loro ci fosse bisogno di una come lei, una che
aveva esperienza eppure aveva voglia di crescere, e nell’onda
dell’entusiasmo lei aveva accettato il posto senza pensare
alle conseguenze.
Un
azzardo.
Ora
trascorreva lì tutto il tempo libero che riusciva a
racimolare, per iniziare ad ambientarsi, ed aveva conosciuto persone
nuove (era lì che aveva conosciuto Rock Lee), persone che
sembravano disponibili ad un tipo di rapporto schietto e sincero che
andava oltre le convenzioni, oltre il frequentare lo stesso posto, un
tipo di amicizia che non aveva mai sperimentato e l’attirava:
non vedeva l’ora di iniziare veramente la sua nuova vita.
I
suoi, prevedibilmente, si erano arrabbiati, sua madre non le parlava
neppure in quei giorni, offesa, e suo padre… suo padre le
aveva fatto una scenata terribile, le aveva detto parole terribili, che
l’avrebbero distrutta fino a poco tempo prima, ma in quel
periodo viveva sulla scia dell’entusiasmo e del rinnovamento,
e in qualche modo era riuscita a sopportarle senza battere ciglio.
Gli
sarebbe passata.
Ma
intanto, come conseguenza, doveva trovare un posto in cui stare, un
posto abbastanza economico in cui stare visto che suo padre le aveva
tolto i viveri e la nuova paga sarebbe stata di molto inferiore a
quella che recepiva prima.
La
cosa non le importava per niente, anzi, quasi era una carica in
più al momento, e a volte si chiedeva spaventata quando si
sarebbe risvegliata da quel sogno per ritornare ad essere la vecchia
Sakura, quella che ancora viveva dentro di lei. E si chiedeva anche se
non era inevitabile pagare tutta quell’euforia con un periodo
di depressione, un giorno: la vita non era una continua onda cui ai
momenti più alti corrispondevano quelli più bassi?
-
Ah, Sakura, prima che mi dimentichi – esclamò
Naruto, riportandola ancora una volta al presente –
Sas’ke è qui tra un paio di giorni, ha detto che
si ferma un po’ –
-
Ah sì? –
Perché
stava improvvisamente sudando?
-
Sì, e… - si interruppe, e sembrava un
po’ imbarazzato – ho una cosa da darti, me
l’ha mandata una ventina di giorni fa, ma avevo in mente
Hinata, scusa, mi sono dimenticato e… –
Dallo
zaino tirò fuori un plico che poi lasciò sopra il
cruscotto, senza aggiungere altro, e lei non capiva bene.
Chi
aveva spedito quel plico? Sasuke? Per lei?
Perché
si sentiva completamente nel pallone?
Lasciò
Naruto davanti all’albergo, dato che si era giocato il
diritto di alloggiare in casa Haruno già quando i suoi
avevano scoperto le due telecamere rotte, e lui aveva ammesso
candidamente di essere il colpevole (anche se si trattava solo di un
pretesto).
Ora
era tardi, doveva ritornare al lavoro (sempre quello vecchio, per poco,
ma intanto suo padre era ancora più puntiglioso e severo con
lei, non le perdonava neppure un minuto di ritardo ) e
ripartì agitatissima, l’occhio che continuava a
cadere su quel maledetto plico.
Al
semaforo finalmente lo aprì, non ne poteva più:
dentro c’erano tre fotografie, tre primi piani del suo viso.
Le
studiò attentamente: era spettinata ed aveva
l’aria stanca, ma in qualche modo sembrava radiosa.
E
bellissima.
Mentre
le rimetteva dentro la busta si accorse che dietro ad una
c’erano alcune righe scritte.
Il
semaforo era diventato verde e ripartì con la foto in mano,
tentando di leggere e guidare contemporaneamente, il cuore in gola.
“Spero
che ti piacciano e che tu mi abbia perdonato per essere sparito. Mi
piacerebbe rivederti, ti ho pensata spesso” seguito
da una firma quasi illeggibile.
Sotto
c’erano un numero di telefono e un indirizzo mail, e si
ritrovò a sorridere mentre parcheggiava a lato della strada
e prendeva il cellulare.
In
altre circostanze, in altri momenti della sua vita, avrebbe preso
quelle foto, quel messaggio, e li avrebbe stracciati con sdegno, oppure
nascosti da qualche parte, insicura, senza sapere cosa pensare, ma in
quel momento, sotto l’apparente arroganza di quelle poche
parole, le pareva di leggere un messaggio chiaro, la prova che non era
stato solo un sogno, che anche per lui era stato qualcosa di
più di un incontro occasionale.
Si
guardò un istante allo specchietto, neanche lui potesse
vederla (ci teneva ad essere sempre perfetta, una vecchia abitudine che
faticava a togliere e forse non avrebbe tolto mai) e digitò
il numero in fretta, prima di farsi prendere troppo
dall’agitazione e perdere il coraggio.
Continuò
a sorridere come un’idiota quando lui rispose.
-
Sasuke? – mormorò – Sono Sakura
–
- Pensavo
che non mi chiamassi più –
e poteva immaginare il suo, di sorriso.
-
Naruto mi ha dato il plico solo oggi –
- Idiota…ascolta –
le fece con quella sua voce suadente, che avrebbe ascoltato per ore
– tra
un paio di giorni sono lì, e…se ti va di
vedermi… -
Rimase
ad ascoltare ancora, e poi a raccontargli di lei, un’enorme
aspettativa che subentrava all’agitazione, e non le importava
di arrivare al lavoro in ritardo, perché era come se quello
fosse il suo posto, come se fosse proprio lì, al telefono
con lui, che doveva essere.
Non
vedeva l’ora di rivederlo, sentiva che era l’inizio
di qualcosa di importante, qualunque cosa fosse, in qualunque modo
finisse.
In
cuor suo sapeva che lui le avrebbe spezzato il cuore, lo sapeva, ma
forse non era vero, forse era solo la sua paura, e comunque non
importava, aveva voglia di correre il rischio.
Aveva
voglia di vivere.
FINE
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